no anche un po’ di fastidio ma grazie a Luciano fui accolto
benissimo e voglio ricordare che ad almeno uno di quegli
incontri redazionali conobbi Barthes, Roland Barthes, di
cui allora ero entusiasta ammiratore, avendo letto un suo
brevissimo acutissimo saggio su Brecht. Venti o trent’anni dopo venne a Roma il teatro giapponese delle Ombre,
presentato in prima europea alla Galleria Nazionale d’Arte
Moderna a Valle Giulia: quello spettacolo mi entusiasmò
e ne scrissi su «Paese Sera» due cartelle vibranti – almeno
secondo me; alcune settimane dopo lo stesso spettacolo fu
rappresentato a Parigi, anche lì con grande successo e Roland Barthes gli dedicò un libro intero: L’impero dei segni,
1970, sulle singolarità del Giappone.
Franco Fortini era sicuramente il più autorevole del
gruppo e apparentemente tra i più aperti. Ho detto apparentemente perché a me capitò ciò che adesso racconto:
metà degli anni Cinquanta, cominciavo a essere stanco delle scuole private, soprattutto perché mi rendevano quattrocento lire all’ora, il che significa che per arrivare a quarantamila lire al mese dovevo fare cento ore di lezioni al mese,
più di venti ore alla settimana ma, tenendo conto dei numerosi giorni di vacanza in un anno scolastico, voleva dire che
in parecchie settimane sfioravo le quaranta ore settimanali:
certo non avevo ancora trent’anni. Ero appunto tra inquietudine e stanchezza quando Luciano mi disse che Fortini
cercava qualcuno che gli facesse delle ricerche in biblioteca,
e Luciano aveva pensato a me e glielo aveva detto, che ne
pensavo io? Io gli dissi che ero molto contento, che mi faceva molto piacere lavorare per/con Franco Fortini. Luciano
fissò per me un appuntamento a casa Fortini dove mi recai
alla data stabilita, e dove mi pare di esservi già stato con
Luciano e altri. Ricordo però che ci andai vestito in maniera
meno scapigliata del mio solito. Appena arrivato, Fortini
mi accolse con calore, dirò così, aveva appena ricevuto una
lettera-cartolina da Pasolini che gli annunciava la nascita di
«Officina» a Bologna, con Leonetti e Roversi, e lo invitava
a collaborarvi. Erano usciti con successo i Ragazzi di vita
e Pasolini cominciava già a porsi come figura centrale delle nuove generazioni letterarie. Anch’io provavo interesse
e ammirazione per la sua opera. Poi si passò a discutere a
lungo delle posizioni di «Ragionamenti» e, a un ritorno del
nome di Pasolini e dell’uscita di «Officina», mi disse che
non solo lui era stato invitato ma era stato anche pregato di
suggerire qualche nome di nuovi collaboratori, preferibilmente giovani e aggiunse precisamente: «Mettiti in contatto
anche tu: aspetta che ti do l’indirizzo» e si mise a ricercare
la cartolina postale ricevuta da Pasolini. Non gli fu semplice
ritrovarla ma a un certo punto, aperto cassetto dopo cassetto, la ritrovò «Eccola. Aspetta che ti do l’indirizzo» e si mise
a fissare molto attentamente, troppo attentamente, troppo
lungamente quella cartolina: «Va bene, ti darò l’indirizzo
un’altra volta» e rificcò la cartolina in un cassetto. Io glielo avevo letto preciso sulla fronte: «Ma perché aprire una
porta gratis a un eventuale concorrente?» L’illustre, poetico inquisitore non sapeva che la cartolina postale con l’annuncio della prossima uscita di «Officina» Pasolini l’aveva
mandata anche a me. Solo che non lo sapevo nemmeno io
perché Pasolini non aveva il mio indirizzo e me l’aveva spedita da Schwarz, l’editore della mia prima raccolta di versi. Eravamo nell’autunno del ’54, come credo di avere già
scritto; quella pubblicazione mi era costata ottantottomila
lire, ottantamila per l’acquisto di duecento copie del libretto e ottomila lire per il costo della stampa dei tre disegni di
Migneco: ed ero ancora debitore di quelle ottomila lire, anche perciò suppongo non bazzicavo Schwarz: saldai il conto
l’estate del ’55 e Schwarz mi consegnò la lettera-cartolina
postale di Pasolini indirizzata a me.
Nessun accenno, in quell’incontro con Fortini, a quel
progetto di collaborazione di cui mi aveva accennato Luciano, e per cui era avvenuto l’incontro. Quindi, da quell’in-
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Più complicati e ipocriti, soprattutto da parte di lui, i
rapporti con Sereni che per fortuna esplosero pubblicamente a un certo punto.
Nel ’54 pubblicai le Cronache, delle quali era apparsa
allora solo una recensione su «l’Unità», di un omonimo,
un Pagliarani che non conoscevo, Gino, che faceva la corte a Giulia Niccolai e una volta che in casa Niccolai le faceva vedere il libretto delle mie Cronache, come mi raccontò
lui stesso, arrivato il papà di Giulia, un ingegnere notoriamente di destra, sposato con un’americana, ingegnere
molto interessato a sapere chi fosse e cosa facesse il ragazzo che andava dietro a sua figlia, gli mostrò le Cronache
che aveva in mano e disse che era lui l’autore: l’ingegnere,
uomo di mondo, sapendo che i poeti non sono pericolosi,
ne fu soddisfatto, d’altra parte Gino non poteva dire che
era uno dei redattori più prestigiosi de «l’Unità». In realtà
di recensioni ce ne furono altre due e di prestigio culturale
maggiore, una di Luciano Erba e una di Renzo Modesti,
ma io ne venni a conoscenza parecchio tempo dopo.
Avevo cominciato a dire dei rapporti con Sereni: un giorno per strada a Milano mi ferma e mi attacca bottone Salvatore Quasimodo, con non poca mia sorpresa, perché non lo
conoscevo e non l’avevo mai incontrato, ma ero redattore
all’«Avanti!» ormai da parecchi mesi, e quindi senza che me
ne rendessi conto ero anch’io a Milano ormai ufficialmente diventato un poeta. Non ero un ammiratore specifico di
Quasimodo ma ricordavo, come ricordo ora, la dolcezza di
quel «Tindari mite ti so», il fuoco di quella «Cavalleria degli
sbarchi» a Messina, subito dopo il terremoto (ho appreso
invece solo pochissimi anni fa che aveva fatto in tempo, giovanissimo, a figurare in qualche raccolta di poeti futuristi).
Ho piuttosto nitido il ricordo di quel primo incontro: per
esempio la tintura dei suoi capelli che scendeva verso il collo
e la sua soddisfazione nel raccontare una verità come pettegolezzo; il pettegolezzo che mi riguardava era il seguente:
che nell’ultima riunione ufficiale della giuria del premio Soave (un premio voluto e organizzato da Sereni con tutti i nomi
più illustri della cultura letteraria facente capo alla Lombardia, cioè Montale, Vittorini, Anceschi, lo stesso Sereni e altri
che non ricordo, premio che in pochi anni raggiunse rapidamente un notevole prestigio ma che altrettanto rapidamente
finì) era stato indicato vincitore il mio libretto Le Cronache,
ma poi quando i giurati si ritrovarono a Soave per la proclamazione del premio, Sereni chiese e ottenne un’ultima riunione di giudici, nella quale riunione attaccò violentemente
le Cronache dicendo che il linguaggio era volgare (come risulta anche dalla pubblicazione einaudiana della corrispondenza di Pasolini; Sereni si difese dicendo, suppongo, che
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contro nessuna novità, da più punti di vista. Però quando
La ragazza Carla uscì sul «Menabò» e Vittorini invitò Fortini a un panorama della poesia più recente, il pezzo che
Fortini ne scrisse risultò di grande impegno e valorizzazione anche del mio lavoro, perciò i buoni rapporti con lui
non li interruppi e indirizzai a lui uno dei primi componimenti della Lezione di fisica, «Proseguendo un finale» cioè
il finale de La ragazza Carla che è finale d’amore mentre
«Proseguendo» tira in ballo «la forza. Senza forza / amore e intelletto nemmeno servono / a definire se stessi, ma
per quant’altro poco sappia della vita / quanto attrito che
brucia, assieme come sono stridenti!» Mandai a Fortini
quel componimento, lui deve essersi sentito in dovere di
rispondermi nello stesso modo come fu di usanza qualche
tempo dopo ma non dev’essere rimasto contento della sua
prova e mi scrisse (io stavo già a Roma, mi pare) pressappoco «Ci ho provato ma non credo in quelle cose lì» e così
finirono i miei rapporti con Fortini.
Sereni. Il premio Soave scippato
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Quasimodo in prosieguo di tempo, frequentandolo,
imparai ad amarlo, se posso dire così, o almeno ad essere compartecipe dei suoi difetti donchisciotteschi, puerili
e generosi: in casa di amici comuni una volta qualcuno
raccontò come Quasimodo avesse ospitato nel suo appartamento in affitto tre mogli (presente, passata, futura) durante gli anni di guerra; alle risate di parecchi una signora
riservatissima osservò «Bisogna avere una grande capacità
d’amore» nello stupore di qualcuno. Un altro ricordo di
Quasimodo, a un premio Viareggio dove io ero come cronista dell’«Avanti!» nell’estate del ’59: lo vidi incontrare e
abbracciare il suo amico Marotta che a un certo punto gli
chiese pressappoco: «E per quella cosa, hai delle novità?»
Risposta, pressappoco: «Sì, buone, è sicuro, sicurissimo...»
Ma a me che credevo di sapere di che cosa stessero parlando, mi parve che non ci fosse poi così tanta convinzione, in
quella sicurezza. Ma, a Dio piacendo, in quello stesso ottobre ebbe il premio Nobel. A me era stata raccontata così, e
forse dallo stesso Quasimodo: che in un’estate precedente,
’57 o ’58, era capitato a Milano l’anziano segretario generale del premio Nobel, che aveva intenzione di tastare il polso all’Italia incontrando i maggiori scrittori italiani: però
in piena estate non trovò nessuno, erano tutti in vacanza,
tranne Quasimodo che diventò immediatamente lo chaperon e l’animatore del soggiorno del segretario del Nobel il
quale dovette sbilanciarsi in promesse, che mantenne. Il
quinto premio Nobel per un italiano (primo Carducci, secondo il pacifista Teodoro Moneta, terza Grazia Deledda,
quarto Pirandello), il quinto premio Nobel a Quasimodo
fu salutato in Italia così: Emilio Cecchi sul «Corriere della
Sera» in un elzeviro su due colonne scrisse un articolo il
cui concetto base è questo: «A caval donato non si guarda in bocca» (come commentò allora qualcuno). E in un
pamphlet Beniamino Dal Fabbro allora volle ricordare (o
inventare) che Eugenio Montale nel «Corriere della Sera»
gridava: «Una colonna, una colonna» intendendo dire che
la notizia del Nobel a Quasimodo non meritava di più. Ma
anche Montale secondo me beneficiò di quella svista del
segretario generale perché si convinse anche lui segretario
di aver fatto un torto alla letteratura italiana e non si diede
pace finché non gli riuscì di ripararlo, quel presunto torto,
sedici anni dopo, nel ’75, col premio Nobel a Montale.
Lo scandalo per il Nobel a Quasimodo fu assolutamente
vergognoso, perché, se si osservano i premi dal punto di vista della giuria del Nobel, si vede che quelli letterari seguono
spesso indicazioni in qualche modo politiche, e/o geografiche, e/o neoclassicheggianti, e/o il grande successo di pubblico, e con Quasimodo si premiava la Sicilia, il traduttore
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col suo volgare non intendeva definire una volgarità ma
piuttosto una colloquialità) e fu proclamato vincitore Angelo Romanò. A me furono spedite tre o sei bottiglie di vino
Soave come premio per l’opera prima ma io non lo sapevo,
la radio aveva dato la sola notizia della vittoria di Romanò
e in quei giorni ero in Romagna, sapevo però che Schwarz
aveva mandato le Cronache, di cui era editore, a quel premio
di cui forse non sapevo nemmeno l’esistenza, così mi arrivarono a metà inverno tre bottiglie gravate di un dazio (c’era
ancora il dazio che sui vini era piuttosto pesante), me le tenni, me le bevetti ma soltanto due o tre anni dopo, e grazie
all’incontro con quel linguacciuto di Quasimodo capii che
venivano dal premio Soave. Penso adesso che l’attenzione e
la simpatia continua che ebbero Vittorini ed Anceschi per il
mio lavoro abbia avuto origine appunto dalle Cronache e da
quel premio Soave che mi fu sottratto all’ultimo momento.
Quasimodo. Le tre mogli. Premio Nobel e reazioni della
stampa. Premio Taormina, gare di veglia con Ungaretti.
L’arrivo della Achmatova
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dei lirici greci e l’antifascista di qualche sinistra. Nessuno
scandalo invece o molto, molto meno quando l’ultimo Nobel a un italiano fu attribuito a un guitto, un grande guitto,
cioè un grande attore comico, indubbiamente, ma sul piano
della letteratura i suoi testi mi sembrano piuttosto penosi.
L’ultimo ricordo che ho di Quasimodo è del ’64: in parecchie centinaia fummo invitati da Giancarlo Vigorelli nella sua qualità di segretario della Comunità Europea degli
Scrittori a Taormina, in occasione del premio Taormina assegnato quell’anno alla Achmatova, Anna Achmatova, pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko. La grande poetessa
tardò parecchio ad arrivare, probabilmente per difficoltà di
passaporto, o insomma di uscita dall’Urss, così noi invitati
ce la spassammo nel magnifico albergo San Domenico per
almeno una settimana; Pasolini, per esempio, dopo due o
tre giorni non potè più attendere perché aveva le riprese di
un film che lo richiamarono a Roma, Montale non c’era non
so perché ma c’erano Ungaretti e Quasimodo, i quali si sentivano in gara fra loro due a chi andasse a letto più tardi:
vinceva quasi sempre Ungaretti perché aveva la risorsa, mi
pare, di potersi addormentare e risvegliare sempre, seduto in poltrona ascoltando o non ascoltando le chiacchiere
degli altri o a tavola (si può anche semplicemente dire che
s’abbioccava molto spesso). Quasimodo non aveva quella
risorsa e rischiava molto perché era handicappato dal grave attacco al cuore subito pochi anni prima e che non gli
lasciò, rispetto a quel ’64, che altri quattro anni di vita. E
il sempre sorridente Ungaretti riusciva a ritirarsi in camera
sua più tardi, molto più tardi di lui. Ungaretti in quell’occasione fece una serrata corte a Ingeborg Bachmann, la quale
cercò di liberarsene facendo a sua volta qualche sorrisetto
di compiacimento e/o di incitamento a qualchedun altro di
noi, ma con scarso successo anche lei. Un simpatico, forse
simpaticissimo poeta irlandese di cui non ricordo il nome
lasciò solo lui un conto liquori al San Domenico di 390.000
lire (me lo disse lui stesso l’ultima volta che lo incontrai una
decina d’anni fa a Bracciano mentre stava dietro a un’anzianotta nobildonna romana). Finalmente la Achmatova arrivò: arrivata in gran segreto una sera, fu previsto l’incontro
ufficiale di quanti erano stati invitati lì per renderle omaggio
per le dieci del mattino. Aspettammo non più di tre/quattro
ore: prima di farsi vedere da noi voleva farsi bella come Dio
comanda: e bella e dolcissima ci apparve quando fummo
ammessi nel salotto della sua suite: solo che c’era troppa folla, i fotografi specialmente con tutte quelle loro macchinone
che costrinsero la grande poetessa a dire che non intendeva
assolutamente farsi fotografare e quindi invitò, anzi ordinò
ai fotografi di andarsene immediatamente dal salotto e quelli
se ne andarono scocciati e scornati, ma tra gli ultimi fotografi
a uscire l’Achmatova ne scorse uno, proprio un bel giovane,
e gli disse qualcosa in russo che significava: «No, tu no, non
devi uscire, tu che sei un bel giovane.» E durante l’incontro
se lo coccolò più volte con lo sguardo. E c’erano Ungaretti,
Quasimodo e Vigorelli, come sappiamo, e poeti e letterati da
tutto il mondo, francesi e americani in abbondanza e a metà
pomeriggio ci furono una o due ore circa di letture dei poeti
presenti, in onore della grande poetessa.
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Luciano Amodio. Rosa Luxemburg. Lelio Basso. Riunioni
di «Ragionamenti». I Guiducci. Tullier. L’editore Schwarz.
Le due collane di poesia. Incontro con Schwarz a Cuba.
Casarotti, i disegni per Inventario privato e la sua
abbuffata di bicchieri. L’incidente. Migneco e le Cronache.
Milli Bortolotti
Luciano si laureò in filosofia con Banfi, tesi, credo la
prima in assoluto, su Gramsci, il primo suo libro su Rosa
Luxemburg. Si capisce subito che odiava ogni ortodossia,
era un marxista un po’ o tanto nicciano, dicevamo, e gran-
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de interesse per la letteratura senza esagerare però né con
Proust né con Mann (sui quali esagerava allora Renato Solmi). Però non molto tempo dopo il suo libro, edito dalle
socialiste edizioni del Gallo, uscì una Luxemburg di Lelio
Basso, da Einaudi, che mise in ombra nella sinistra il lavoro
di Luciano, esclusivamente per ragioni tecniche, cioè l’abbinata Einaudi-Basso, il quale Basso era già fra i più brillanti rivali di Nenni nel partito socialista. In casa di Basso
si tennero per un certo periodo riunioni di giovani intellettuali; almeno una volta, ma forse due ci andai anch’io;
purtroppo forse per mia cattiveria, ne ho soltanto questo
ricordo: a un certo punto su questa tavolata di una dozzina
di persone compare una bottiglia di grappa e bicchierini
minimi da rosolio per tutti quanti, qualcuno non beve super alcolici, ma Sergio Capriolo è propenso a un bis, e fa
per versarselo quando come un fulmine gli arriva sul suo
braccio la mano del padrone di casa che dice pressappoco:
«No, non voglio che si dica che si fanno orge in casa mia.»
Alle riunioni di «Ragionamenti» cui partecipai grazie a
Luciano con la massima assiduità possibile non figurarono
mai, invece, né bottiglie di liquori né di vino; lì si stava
abbastanza tutti quanti su un piede di parità; certo Fortini
era ovviamente per prestigio ed età il primus inter pares ma
Luciano, Roberto Guiducci e sua moglie Armanda non si
facevano certo intimidire da nessuno, e così l’Enrica Pischel e così Gianni Scalia quando capitava da Bologna.
Il mio saggetto Ragione e funzione dei generi del ’57 ci
mise almeno un mese, mi pare, a passare l’esame del comitato di redazione: due o tre redattori tra i quali sicuramente
Fortini e Armanda Guiducci non erano convinti del mio
uso del termine “semantico” che allora non era ancora di
moda. Grazie sempre a Luciano conobbi quel simpatico
impiegato comunale che era il più surrealista poeta italiano di allora, Antonino Tullier e tramite lui, che lo diede a
Luciano per me, ebbi il consiglio di rivolgermi a Schwarz
per la pubblicazione delle Cronache. Schwarz allora si occupava, come sempre, soprattutto di arti visive, ma aveva già
pubblicato Quasimodo in una bellissima edizione e aveva
iniziato una collana di giovani poeti di cui aveva già scritto
Arrigo Cajumi sul «Corriere della Sera». Schwarz mi accolse molto tranquillamente, senza nessun particolare sussiego
e si creò in poco tempo una qualche forma specifica di amicizia con sua moglie, una giovane signora acuta e dolcissima
che se n’è andata molto presto, troppo presto, dalla vita.
Io non sapevo nemmeno che quei giovani poeti pubblicati
da Schwarz erano divisi in due gruppi: quelli facenti parte della collana “Dialogo col poeta” e quelli fuori collana,
semplicemente “Schwarz editore”; probabilmente gli uni e
gli altri parteciparono alle spese editoriali.
L’ultimo ricordo personale che ho di Schwarz (e spero
che non rimanga proprio l’ultimo) è a Cuba, al convegno
culturale de L’Avana indetto da Fidel Castro: inneggiava
eccitatissimo e convintissimo al semplice prolungatissimo
grido «Ho-Chi-Min, Ho-Chi-Min!»
In un primo momento avevo chiesto qualche disegno
da mettere assieme alle Cronache ad Alberto Casarotti che
illustrò, quattro o cinque anni dopo, l’Inventario privato:
Casarotti era un ragazzone grande e grosso di bellissima
anarchia, deceduto parecchi anni fa ormai, ma per fortuna
il lavoro e il suo ricordo sono mantenuti vivi dalla sua compagna Germana e successe che una sera fui invitato a cena
dal Casarotti in un ristorantino di corso Torino, a Milano: in
quella occasione Casarotti si divertì a stupirmi mangiando,
fra pasta e quant’altro, cinque o sei o sette portate e anche
almeno una mezza dozzina di uova sode col guscio e tutto;
non basta: finì la sua cena facendo fuori anche il bicchiere
che gli era servito per le bevande, mordendo, sminuzzando
non so come, il vetro; una cena che per me risultò piuttosto
disgustosa; l’indomani mattina incontrai per strada Germana (abitavamo abbastanza vicino, dalle parti di viale Um-
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bria), che mi disse con aria preoccupata «Alberto è stato
ricoverato all’ospedale» e a me scappò detto: «Per forza!
Con tutto quello che ha mangiato ieri sera!» E lei rispose
concitatamente: «Ma no, è stato investito da una motocicletta mentre camminava su un marciapiede.»
Alberto dovette stare parecchi mesi all’ospedale: era stato per lui un incidente molto serio e io, a un certo punto, mi
diedi da fare a trovare un altro illustratore per le Cronache
e quando seppi che Dodi, una delle tre sorelle Bortolotti di
cui con Luciano Amodio frequentavo la casa, era la compagna di un pittore che non conoscevo di persona, né ebbi mai
l’occasione di conoscere, ma che stimavo molto e mi pareva
particolarmente adatto a interpretare le mie Cronache, cioè
Giuseppe Migneco, le feci avere una copia del dattiloscritto
delle Cronache, e Migneco poi ebbe la carineria di farmi sapere (non ricordo se per lettera, telefono o tramite la Dodi,
come è più probabile) che alcune di quelle poesie lo avevano “caricato”, cioè gli erano state utili effettivamente.
Delle tre sorelle Bortolotti, la Milli era la più giovane e
la più carina e vagamente io e lei ci corteggiavamo: quando
tornavo a Milano, dopo aver passato l’estate a Viserba e incontravo la Milli, mi chiedevo come mai mi fosse rimasta
così impressa; dopo alcune settimane mi ritornava una delle
migliori ragazze su piazza. Risolse il problema un ragazzo
molto deciso, comunista scatenato, con alle spalle la gloria
di essere mandato dal suo partito in Sicilia a fare la grande
campagna elettorale dell’aprile ’48. Era un ragazzo molto
sicuro di sé mentre io allora ero soltanto un sostenitore
dell’Europa unita, di una federazione europea. A un certo
punto lui mi disse brusco: «Veniamo al sodo, nella guerra
fra Russia e America, tu da che parte stai?» e si fidanzò con
la Milli. Ma non si sposarono, la Milli sposò un giornalista
alla mano di qualche riguardo e abita o almeno abitava una
ventina d’anni fa, l’unica volta che l’ho vista a Roma e l’accompagnai a casa, in un bel posto dalle parti della Cassia.
Terza parte
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