Diario di bordo
Breve descrizione:
Europa, Europa! Accorrono in tanti nella fantomatica Europa... in Italia, o in Francia, in Spagna, o
in Germania, o in Belgio, e così via... Da dove arrivano? Perché sono arrivati fino a qui?
Vorrebbero rimanere, oppure ripartire, per tornare indietro o per andare altrove? Tante sono le
domande che danno vita al LaboRat, tante le risposte che Sandra Tassi cerca, facendo “due
chiacchiere” con alcuni dei frequentatori di Casa delle Culture
Prime note:
Il laboratorio stenta a decollare. Gli stranieri che conoscono la casa e la frequentano non conoscono
comunque me, e la mediazione di Girolamo non va data per scontata.
SAMBA
Ho avvicinato Samba, nigeriano, casualmente: mentre puliva i vetri dei nostri uffici abbiamo
chiacchierato. Di me, di lui. Soprattutto di lui. Ma io non avevo né registratore né fotocamera, e
certo mancavano le condizioni affinché trascrivessi alla lettera i suoi discorsi. Che, naturalmente, ho
fissato dopo qualche ora, almeno nei concetti chiave.
Girolamo ha chiamato Samba al telefono, qualche giorno dopo, per un appuntamento ufficiale.
Ancora una volta non era una situazione comoda per catturare alcunché attraverso attrezzature
inibitorie. Ho aggiunto appunti ad appunti. In più la sua promessa di parlare del “laboratorio” con
alcuni amici, se già non erano partiti per pellegrinaggi che i musulmani fanno in questo periodo ai
santi patroni delle loro città.
SOUMAIA
Il sorriso di Soumaia mi ha confermato che era possibile fermarsi a fare due chiacchiere. Ho saputo
perché non si era presentata agli appuntamenti: sbagliati gli orari, sbagliato il giorno. Curiosa
soprattutto di leggere, più che di parlare della sua storia “antica”. Eppure, ho fatto tesoro di sue
micro narrazioni a proposito dei figli, e le ho annotate. Soumaia è marocchina, solare, aperta e ….
Ama gli aneddoti.
IDRIS
Idris è latitante, anche lui boicotta gli appuntamenti istituzionali. Così, ogni volta che lo chiamo per
ricordagli un incontro mi chiede “ma poi cos’è che vuoi sapere” e finisce per narrare la sua vita a
puntate. La sua voce viaggia attraverso i fili del telefono, e la sua faccia è quella che ho visto una
volta sola alla Casa. Parla spesso di suo figlio, e quanto dice a proposito delle nuove generazioni
collima con le affermazioni ironiche di Soumaia.
Non riesco a vederli tutti insieme, ma non so nemmeno se vogliono.
Abbiamo fatto due o tre invii di mail, ma pare che quanto più noi crediamo di aggiungere in
chiarezza tanto più loro diventano scettici e riluttanti.
Decido che mi muovo io, vado dove loro si ritrovano e sono tanti: alla CASA, una domenica
mattina.
Le parti si sono ribaltate, ovviamente: ora sono io ad essere intimorita.
Mi mettono davanti tanti PERCHÉ, perché io faccio …., perché loro dovrebbero fare ….
Aggiro l’ostacolo, ma la macchina fotografica è spenta.
Parliamo tanto: sorridono alla mia espressione di leggere dei loro paesi, e di raccontare storie
assieme al libro.
Di alcuni uomini segno il nome, quello delle donne cerco di memorizzarlo.
Gli Africani vengono dal Ghana, dalla Nigeria; poi ci sono arabi che conoscono Tar Ben Jeollun!!!
Decidiamo di prolungare i loro incontri abituali della domenica mattina, e di leggere e parlare.
Mi chiedo QUANDO, COME, e SE potrò mai catturare il suono delle loro voci e i loro bei volti …
Quanto ai bambini non sarebbe un problema: si offrono con insistenza per la registrazione o la
ripresa, ma le mamme sono prontissime a dirti il loro NO con la mano.
Seconde note:
I LIBRI SONO OTTIMI COLLANTI
1. In base ai frammenti delle nostre conversazioni metto in mostra sugli scaffali libri con pagine già
scelte e tanto di post-it.
Siamo in biblioteca, le resistenze sembrano cadere, forse non ricordano nemmeno più cosa ne sarà
dei loro discorsi. Forse, perché di nuovo si negano all’obiettivo e al registrazione: ci troviamo a
parlare tra noi, chi altri deve poi sentire quello che hanno da dire.
Leggiamo, andiamo avanti.
Fingo di imbattermi in un titolo di Carmine Abate (Vivere per addizione), e dico che è un autore che
ci sta bene nella nostra biblioteca, perché ha raccontato in molti suoi libri la propria vita di
emigrante. Giovanissimo, è partito dalla Calabria per la Germania.
Mi soffermo a parlare della vita di questo autore/amico, poi uno chiede se il segnalibro giallo indica
una pagina bella. La leggo con loro, e parliamo.
2. Li prendo in giro. Con Abate mi hanno distratto. Capiscono, invece: la migrazione è stato il tema
comune.
ABEL nota che mi rigiro tra le mani un libretto. Me le ferma per leggere l’autore. Diciamo
all’unisono “Tar Ben Jeollun”, e lui aggiunge lo conosco, è del mio paese. Ne sa abbastanza per
spiegare al gruppo che è uno scrittore marocchino, di Fes – che è anche la mia città. Prosegue, con
una punta d’orgoglio (non so se per la sua sapienza riconosciuta o se è rispetto di chi ha il
riconoscimento di immigrato): è andato anche lui via dal Marocco, subito non viveva bene, credo
che è andato per fare lo scrittore. E per scrivere di quelli che dal Marocco vanno in Francia.
Adesso anche lui è in Francia da tanto tempo.
Trascrivo alla lettera le sue osservazioni dietro alla copertina del libro, in matita.
Forse non ha compreso che la sua lunga frase ha assunto la dignità di citazione.
Attorno al tavolo, leggo qualche pagina da Le pareti della solitudine.
Si tratta della Francia, oggi.
E scrivo, me lo concedono.
3. Ormai lo sanno. Si siedono e sorridono. Ci sono poche defezioni, ma non ci sono donne al tavolo
della lettura: i bambini ora stanno con loro, poi io leggerò con le donne e i papà staranno con i
bambini. Non ho mai sottoscritto un patto del genere, ma pare che a tutti loro fosse chiaro fin dal
principio. Hanno già premesso, invece, che mi lasceranno i bambini, se mi basterà farli giocare e
non parlerò loro di religione.
Dunque mi aspetto che mi interroghino con gli occhi: non sanno da quale scaffale estrarrò il libro
con i post-it gialli.
Li sorprendo di nuovo: questa terza volta l’autore è africano, del Senegal. Forse si aspettavano un
ghanese, o un nigeriano. Glielo domando e la risposta è affermativa; allora aggiungo qualche
annotazione storico-letteraria per far comprendere loro l’importanza di leggere Ousmane Sembene
(La Nera di…).
Torniamo con l’immaginario in Francia,dunque, una nazione europea che sembrano conoscere.
Anticipo che il tema è “al femminile” e questa sarà la prima lettura per il gruppo delle donne: si
tratta di lettere di una ragazza che dall’Africa va a Marsiglia per volere del padre, per contrarre
matrimonio. Ma è imbrogliata.
Ridono, e sono curiosi. Io continuo ad annotare i loro commenti.
Terze note:
III. Ci resto male, male davvero. Questa volta, nell’incontro con le donne, il testo non l’ho
azzeccato.
E’ domenica, entro alla Casa delle Culture “da ospite”. Infatti la Casa è <<abitata>> la domenica
mattina dal gruppo di uomini, donne e bambini, che vanno a scuola per m, e per mantenere viva la
propria lingua madre, e quindi leggere con maggiore competenza il Corano.
Alla fine delle lezioni, come concordato, saliamo in biblioteca.
Presento la lettura di una lettera che viene da Marsiglia, dalla Francia, - aggiungo io aspettandomi
qualche esclamazione - ma loro non restano affascinate nemmeno dalla parola, come se nel loro
immaginario i termini “Francia”, “Marsiglia”, o “Parigi” non corrispondano ad alcuna immagine.
Mentre proseguo nella lettura seguo con la coda dell’occhio l’avvicinarsi delle loro teste variopinte
e differentemente coperte, ma, soprattutto mi preoccupo per un bisbigliare di sottofondo. Al
contrario degli uomini, che, una volta superato il primo imbarazzo parlavano a voce alta, le donne
bisbigliano con toni sussurranti comunicando il proprio pensiero solo al gruppo ristretto delle
vicine. Mi fermo e le invito a dirmi i loro pareri.
Stavano commentando il testo riguardo alle condizioni di vita della protagonista giunta in Francia,
sostengono. Per lo più dicono che per loro è stato lo stesso: stessa miseria, stessa solitudine. Un
paio, più fortunate, raccontano di essere venute in Italia quando già il marito aveva provveduto a
sistemare una casa, comoda e modesta, ma almeno con buone condizioni igieniche.
E che dire di quella “solitudine” di cui soffre l’autrice della lettera? E dell’importanza dei “ricordi?
Cominciano a rimpallarsi la risposta l’una con l’altra: confessano comunque in modo unanime che è
stato molto difficile uscire di casa, soprattutto a causa della lingua. E poi per la gente di qui, che
non sembrava contenta che c’eri e che eri venuta proprio in questa città.
Nell’incontro successivo decido di rilanciare sul tema del “ricordo”, che mi è parso volutamente
ignorato; ri-leggo con maggiore intenzione evocativa la descrizione dei luoghi e del sole che nella
“lettera” Nafi offre con immagini vivide: da qualunque parte provengano, non possono non essere
coinvolte da questi sentimenti di malinconia, mi dico.
Scopro, invece, che dai ricordi si sono protette, col tempo: perché ricordare, molto spesso, fa male
al cuore.
Con un gesto della mano, molto simile a quello che viene spontaneo per cacciare una mosca
molesta o una zanzara che succhia il sangue, capisco che dicono la stessa cosa. La stanza è una
babele di lingue, ora, la malinconia negli occhi è la stessa: lasciamo stare il passato, ciò che è
lontano, quello che abbiamo lasciato. Tutto è volato via, non parliamone oggi, non qui.
Sumaia rallegra gli animi con i suoi dolcetti a mezzaluna.
Avevo sperato di più, che si lasciassero andare alle emozioni rispetto al passo difficile della
partenza dalla loro terra, alle loro aspettative, ai desideri frustrati, anche ai piccoli attimi di felicità
vissuti qui. Più semplicemente, alla “mancanza di casa”. Ma capisco che il gruppo è eterogeneo ed
anch’io sono ancora un’intrusa nelle loro riunioni. E tra l’altro si sono riunite alla domenica mattina
per studiare e approfondire il Corano, dunque la mie sollecitazioni letterarie sono fuori contesto.
Cercheremo nuovi tempi e nuovi spazi.
(Ousmane Sembene, La Nera di …)
IV. Anche oggi ho un libro in mano, ma non lo sventolo subito. Ho pensato di farmi il frizè, i
capelli un po’ crespi, ricci, con la piastra, per attirare la loro attenzione: perché ridano di me, perché
sono maldestra nelle acconciature africane, e si dimentichino che la volta prima ho proposto loro un
libro che le ha deluse. La mossa è vincente. Mi accolgono con calore e, le più espansive, addirittura
con pacche sulle spalle. Mi prendono in giro dicendomi che io non sono africana, che è diverso
rispetto a dire l’Africa mi piace; e che poi lo dico, ma non ci sono mai stata.
Quante verità in quelle espressioni scherzose! Anche il mio immaginario è banale, rispetto ai loro –
tanti –Paesi di provenienza.
E poi non ho neppure messo le perline, e di nuovo disquisiscono di trecce e acconciature sui miei
capelli. Si distraggono, ma so che questo non è tempo perso, anche se “tolto” alla lettura.
Spero che accada presto, e accade: vedono il libro, mi chiamano la professoressa bionda, e mi
domandano questa volta di cosa parla.
Non si tratta di un romanzo, ma di una raccolta di racconti, di storie “vere” scritte da
migranti. Forse questo è interessante, dicono…
Ci eravamo arrestate nel cortile, al mio arrivo; vedendo il libro una di loro - evidentemente
interpretando il pensiero di tutte - dice che è ora di salire in biblioteca. Per fortuna non hanno
rinunciato all’idea della lettura insieme.
Leggo da L. Portis, Storie allo specchio. Racconti migranti, Unicopli
Questa volta devo zittirle, chiedere loro di lasciarmi finire di leggere la frase prima di intervenire, di
parlare una alla volta… Intrecciano le loro vite a quella che io leggo, e la mia voce si perde tra le
loro. Ora mi sento più dentro al gruppo, ma non perché porto le treccine.
V. Bene. I libri ci hanno dato la possibilità di conoscerci.
Ora si tratta di decidere assieme come continuare a vederci, se e come vogliamo approfondire la
nostra amicizia: senza dubbio la via della letteratura è stata una via inaspettata quanto fruttuosa.
Cerco di tirare le somme del nostro cammino, soprattutto ricordando le difficoltà negli approcci, la
loro diffidenza verso il registratore e la telecamera. Siamo tutti insieme, in cortile, ma parlo piano e
mi rivolgo solo ad alcune persone: è una bizzarra strategia per ottenere silenzio e catturare la
curiosità, così da poter buttare lì - quasi per caso - la mia «vecchia fissa» di un filmato.
Guarda caso, se ne stanno tutti zitti quando proprio cerco di far avanzare l’idea che la nostra
esperienza in biblioteca può servire da esempio: sia perché i libri hanno messo in moto i pensieri,
sia perché via via i pensieri hanno recuperato le loro esperienze personali. Queste, soprattutto, le
esperienze personali - dico loro - dovrebbero essere valorizzate, raggiungere altri migranti ed essere
condivise, raggiungere i modenesi ed essere occasione di riflessione sulla nostra società, ormai, di
fatto, multiculturale.
- Leggendo pagine di libri abbiamo sentito, dentro, le voci dei protagonisti – dico, alzando la voce e
lo sguardo - se io leggo i vostri racconti sento, dentro, le vostre voci. E’ la magia della lettura,
questa. Eppure, sentire le vostre voci vive, va oltre questa magia. Non tutti sanno immaginare le
voci dei migranti; alcuni modenesi conoscono delle facce (che per lo più ritengono “brutte facce”),
ma non hanno mai ascoltato la voce, proprio perché hanno cercato di evitare gli stranieri.
Discutiamo. Meccanicamente ci siamo avviati dall’ingresso verso le scale e abbiamo raggiunto la
biblioteca.
Sembra loro un luogo sicuro. E forse è questo, l’atmosfera accogliente di questo luogo che è
divenuto gradatamente nostro, che li fa assentire. Qualcuno si dichiara disposto a raccontare di sé,
ad approfondire i commenti sporadici lasciati cadere, giorni prima, tra le righe di un libro.
Mi segno pochi nomi, quattro o cinque: un paio di appuntamenti, giorno e ora.
Ci ritroveremo al solito posto, naturalmente.
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