Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 19 dicembre 2012 Testo di riferimento: All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2011, pp. 71-84; Lettera alla Fraternità, 1 novembre 2012. • The Things That I See • Il mistero Gloria Ci eravamo dati come lavoro quello di rintracciare, nell’esperienza che viviamo, alcuni dei tratti di ciò che dice il capitolo sesto de All’origine della pretesa cristiana, perché altrimenti noi non facciamo un’esperienza come quella dei discepoli con Gesù; il risultato non è lo stesso se uno fa un ragionamento o commenti sul testo oppure se fa la stessa esperienza degli apostoli. Una persona con cui parlavo questa settimana mi ha detto: «Io incomincerei a domandare, a partire dalla prima pagina del capitolo: di chi ci siamo scoperti in questo mese domandare: “Chi è costui?”». Tante volte abbiamo letto questa domanda, ma ci siamo mai sorpresi, davanti a qualcuno, a dire spontaneamente: «Chi è costui?»? «Vorrei raccontarti una cosa molto semplice che mi è successa e che mi ha confermato quello che hai detto all’ultima Scuola di comunità rilanciando il lavoro su di essa: “Non cerchiamo di fare commenti sul testo, ma di rilevare situazioni in cui è successo qualcosa di quello che dice il testo, perché se è un’esperienza noi dobbiamo poterla fare adesso, altrimenti non possiamo fare il cammino […] attraverso cui il Mistero ha rivelato veramente la Sua pretesa unica”. Una sera mio figlio mi ha raccontato di come è stato davanti al fatto che la morosa lo ha lasciato. Mentre parlava io avvertivo qualcosa dentro di me per cui – per la maturità, la verità e la corrispondenza con cui parlava con il suo cuore davanti a quella circostanza – era palese che era successo qualcosa. Alla fine, quasi con le lacrime agli occhi guardo mio marito e dico: “Ma chi è questo?”. E all’improvviso mi sono venute in mente le prime cinque righe della Scuola di comunità, quando Giussani dice: “L’eccezionalità del comportamento di Gesù era tale che anche l’evidenza del suo contesto familiare, della sua storia personale non valeva più a definirlo. E così emergeva quella domanda: ‘Chi è mai Costui?’”. Io ho fatto esperienza di questo perché sentendo mio figlio mi dicevo: io lo conosco, so chi è e come è fatto, conosco i suoi limiti e i suoi difetti; ma a un certo punto ho dovuto cedere a una Presenza che in quel momento mi si rendeva presente attraverso di lui. Questo è mio figlio, ma non è più mio figlio. È vero che senza tanti ragionamenti mi è stato evidente riconoscere il Mistero presente, perché in quel momento era la cosa che più corrispondeva, era l’unica risposta che potevo dare a ciò che mi stava succedendo [come dice la Scuola di comunità: «La sua risposta inimmaginabile si addiceva all’evidenza che da Lui emanava»]. Attraverso questo fatto sto anche imparando ad amare la Scuola di comunità, perché ora capisco che è per me, e non sono parole senza senso, ma la chiave che mi permette di aprire le porte per entrare con un’ipotesi positiva dentro la vita». È soltanto se uno fa questa esperienza, attraverso fatti di questo tipo, gesti impliciti e concreti, reali, che può capire: si crea il contesto di comprensione per capire. Quando noi ignoriamo i fatti che allargano sempre di più la ragione, a un certo momento noi non capiamo più, e non perché non abbiamo l’intelligenza per capire o perché siamo diventati di colpo stupidi; no, semplicemente perché non possiamo capire: il metodo descritto dalla Scuola di comunità è così decisivo che senza di esso non è possibile capire in un modo ragionevole quello che don Giussani ci dice. Rimangono frasi di cui uno non ha alcun riscontro nell’esperienza che fa. E per questo avevamo ripetuto che occorreva essere attenti ai fatti, perché è attraverso di essi che uno capisce; infatti, come dice Giussani, «una definizione deve formulare una conquista già avvenuta». Quando qualcuno ci dà una definizione (che è quel che facciamo di solito) cerca di farci capire attraverso una spiegazione. Ora, ciascuno deve fare il paragone tra come si pone lui nella vita e come si pone Gesù con la Sua pedagogia. Noi tante volte partiamo dalla definizione; ma don 2 Giussani dice che se la definizione non è una conquista già avvenuta nella mia esperienza, non la capisco, la riduco e la faccio diventare, come accade in tante occasioni, «l’imposizione di uno schema». Perciò, in questa pedagogia è cruciale essere attenti a tutti i segni attraverso cui Lui si rivela. E per questo la volta scorsa avevamo terminato rileggendo il testo di Guardini: la «rivelazione della divinità [non avviene] attraverso manifestazioni irruenti e con azioni grandiose, ma un continuo, silenzioso trascendere i limiti delle umane possibilità». E vi invitavo a trovare nell’esperienza segni di questo continuo, silenzioso trascendere i limiti delle umane possibilità, perché altrimenti, se di questo non troviamo traccia, allora quella di don Giussani resta soltanto una “lezione” di don Giussani, e il cristianesimo è già relegato nel passato, ma passato passato! Invece, che sia vero quello che afferma Guardini ce lo dicono a volte gli ultimi arrivati, come questa universitaria che, appena incontrati i nostri amici, lo riconosce: «Circa un mese fa la mia vita ha avuto una svolta finalmente. Finalmente dopo giorni e mesi di totale apatia ho incontrato qualcosa di così bello e grande che non potevo più rimanere al punto in cui ero prima. Ma prima dov’ero? Vivevo i giorni sperando che passassero in fretta, senza avere la minima cognizione di quello che stesse capitando attorno a me, ma soprattutto dentro di me. Ho vissuto settembre con ansie e angosce, terrorizzata dall’arrivo in università, non sapendo che mi avrebbe atteso la scoperta più grande, la riscoperta di me, la vera me, che si era assopita e che avevo dimenticato. Grazie a una compagna del liceo, a settembre sono arrivata in università e Qualcuno, ne sono certa, ha voluto farmi un dono, il regalo inaspettato di cui sono grata e che mi ha cambiato la vita: il fatto di aver assistito alla presentazione del mio Corso di Laurea fatta da alcuni universitari il 20 settembre, mi ricordo perfino la data con certezza, e di aver conosciuto subito dopo, nell’atrio, quelle persone mi ha lasciato una sensazione che ancora mi commuove [dentro un limite le era giunto qualcosa che ancora la commuove]. Quelle persone mi avevano già colpito senza sapere nulla di loro, del movimento, di don Giussani, di Carrón, si capiva però che c’era qualcosa di diverso, che quella familiarità fra loro non era scontata [una familiarità; sembrerebbe normale, ma una che arriva coglie la diversità: non era scontata]. Sono tornata a casa contenta dell’esperienza fatta e un po’ più convinta della scelta universitaria. Durante la prima settimana di corsi le mie compagne mi hanno detto: “Noi andiamo alla Scuola di comunità. Vieni con noi?”. Io istintivamente sono andata con loro, spinta dalla curiosità. […] Ho ricordi vivi della Scuola di comunità, ma soprattutto di come mi sono sentita quando è finita: le uniche parole che potevo pronunciare erano “ma che bello! Una cosa così non l’ho mai vista e vissuta!”. La sera mi sono domandata: perché tra tutte le persone che ci sono in università ho incontrato proprio loro del movimento? È solo un caso oppure Qualcuno vuole qualcosa da me? […] A tutti quelli che criticano, agli amici con cui mi sono dovuta confrontare e che all’inizio non capivano (molti tuttora sono scettici) posso dire solo: grazie; grazie, perché se loro non mi avessero opposto le loro ragioni io non avrei trovato le mie, non sarei andata a fondo. La contesa dialettica mi ha costretta a ragionare, a confrontarmi, spiegando a me e a loro quello che ho trovato. […] Questo, a mio avviso, è il segno più tangibile della presenza di Cristo. Non sono tanto le discussioni che si possono fare in merito, ma la bellezza che traspare da tutte le persone che ho incontrato in questo mese». Per questa ragazza quel continuo trascendere i limiti delle umane possibilità era qualcosa di così concreto che non poteva non riconoscerlo. Allo stesso modo mi sono arrivate tantissime testimonianze, nelle quali ciascuno mette a fuoco un punto. Come quando la Scuola di comunità, descrivendo i tratti di questo percorso, si sofferma a rilevare che Gesù aggrava la richiesta. «Mi ha molto colpito che tu abbia sottolineato come Gesù aggravi la richiesta. Ma ciò che mi ha colpito è che questo non abbia una piega negativa (come il termine “aggravare” sembrerebbe sottintendere), ma tutta positiva. Gesù aggrava la richiesta. Perché è ragionevole seguire? Gesù aggrava la richiesta. Per la mia felicità [non è che aggravi la richiesta, come tante volte interpretiamo, per un moralismo; no, aggrava la richiesta per la mia felicità!]. Questo mi era evidente da come tu lo dicevi, la tua certezza mi colpiva, ma questo non mi poteva bastare e mi sono chiesto come potessi io confermare che fosse vero [ecco tutto il lavoro da fare] che Gesù ha aggravato la richiesta per il mio bene [se uno non verifica questo nell’esperienza, come dice Giussani, non potremo resistere nella fede perché tutto dice il contrario, e noi perdiamo la vita pur 3 seguendo]. Ho guardato alla mia vita e mi sono sorpreso a riconoscere che quando il Signore mi ha tolto qualcosa di caro era perché mi legassi di più a Lui. Quante volte dentro la mia vita ci sono stati strappi molto forti, perfino negli affetti più significativi, e dire “sì” al modo con cui Dio mi si è presentato ha significato sempre un “di più”; quel che ho perso ha sempre aperto a un centuplo imprevisto, come con tanti amici persi, con tanti volti che sono andati, e questo rende più acuta la domanda di che cosa mi faccia rimanere. Gesù aggrava la richiesta per farmi gustare la vita [altrimenti non sarebbe ragionevole, perché questo è il paradosso del cristianesimo: che più uno si coinvolge nel rapporto con Lui (che sembra togliere qualcosa) più gusta la vita: “Chi Mi segue avrà il centuplo”]. Oggi non riesco a rispondere in un altro modo se non sorpreso e grato che tutto ciò che ho perso è infinitamente meno rispetto a ciò che ho guadagnato, del gusto che mi è diventato familiare come mai avrei pensato. Che Gesù aggravi la richiesta significa semplicemente che vuole che io mi attacchi a Lui, e questa è l’unica cosa che vale [cioè che Lui tiene alla nostra felicità]». Per questo don Giussani continua il percorso fino a sfidare il nocciolo del centro dell’io nel «a causa Sua». C’è una documentazione quasi elementare di questo, come scrive uno di voi: «Alcuni giorni fa in ufficio un collega parlando di sé ha detto: “Io sono qui in questa città e mi sono trasferita da un’altra a causa di mio marito”. In quel preciso momento l’ho collegato con quanto dice la Scuola di comunità in merito al progressivo rivelarsi di Cristo, quando si pone al centro dell’affettività e della libertà dei suoi discepoli: a causa Sua. È normale che l’uomo nel suo agire e nelle sue scelte affermi un motivo o una causa che lo determinano». La questione è qual è, la persona a causa della quale uno è disponibile a fare questo passaggio. Ma questo è soltanto l’inizio, come scrive un’altra persona: «Ti scrivo un fatto semplicissimo che però per me è stato nuovamente decisivo. La scorsa Scuola di comunità, quando ci hai sfidato a documentare quale fosse la pretesa di Gesù, mi sono davvero sentita toccata sul vivo e più di altre volte, spesso, nella giornata ripensavo a quanto ci avevi detto. L’altra sera mio marito, arrivato dal lavoro tardi, è uscito dopo poco per andare alle prove del coretto. Io sono rimasta di nuovo a casa con le bambine, di cui una con l’influenza e la piccola (nemmeno due mesi) che dalle dieci in avanti ha iniziato a piangere ininterrottamente come solo i neonati sanno fare. All’inizio ho retto, verso le undici e trenta ho iniziato con il dirmi che il coro era una cosa bella e che andava bene così, alle dodici e trenta ero arrabbiata e basta: “Ecco, mio marito non mi considera, non mi guarda, non si accorge.” Quando è arrivato ero addirittura troppo stanca per discutere, per cui ho fatto pesantemente notare l’ora e sono andata a dormire. Il giorno dopo, però, per me la partita non era finita e non mi bastava pensare di aver ragione. Continuavo a pensare che avrei voluto dire di più a mio marito, insomma, ad arrovellarmi e a incastrarmi in mille questioni, non ero soddisfatta. E a un tratto mi sono chiesta: ma se fosse arrivato prima, il mio disagio si sarebbe risolto, la mia impotenza sarebbe stata risolta? E mi sono accorta che neanche mi sarebbe bastato che mio marito fosse arrivato prima; il mio disagio era più grande, il mio grido più grande, la mia impotenza più grande, la mia domanda più grande anche di questo, e così mi sono chiesta: ma di chi è lo sguardo che desideravo ieri sera? Mi basta quello di mio marito? Quando sono veramente felice? Quando respiro? “Gesù si imponeva alla propria persona nel cuore dei sentimenti naturali e si colloca a pieno diritto come la loro radice vera: ‘Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me’ [uno che percorre tutto il cammino umano e vede che non basta questo, comincia a capire che quando Gesù si pone nel cuore degli stessi sentimenti naturali non è per mettere il naso dove nessuno L’ha chiamato, per interferire, proprio lì, nella nostra tana, ma perché è lì, nella profondità dell’io di ciascuno di noi, dove viene fuori qual è il vero bisogno]. No, neppure i miei affetti più cari mi bastano [non è che si collochi lì dove nessuno deve mettere il naso; no, è che nient’altro basta a te stesso o a te stessa!]. Guardarli senza riconoscere prima di tutto il legame con Chi mi fa ora genera solo una pretesa in me e mi sembra di tradirli. Gesù tante volte l’ho toccato con mano: “Solo l’essere Tua è la mia possibilità di essere felice, è il Tuo sguardo che desidero. Tu mi volevi anche ieri sera e adesso mi vuoi così come sono, e mio marito e i figli sono il segno di questo abbraccio, ma non perché sono sempre adeguati, ma perché Tu li fai ora come strada per me” [Solo quando uno accetta di percorrere tutto quel percorso può arrivare a riconoscere la presenza di Cristo non come interferenza, ma come grazia]. In quel 4 momento, in quell’istante, sono cambiata [“sono cambiata”: ecco da che cosa si verifica che la fede è un’esperienza presente, confermata da essa, senza la quale non possiamo resistere in un mondo in cui tutto dice il contrario], ero lieta, tutto mi è stato ridonato, e mi sono vergognata nello scoprire con che pretesa avevo guardato a quei rapporti così cari. Ricado un giorno sì e uno anche, e mi sembra davvero di essere come Pietro, che un attimo prima è tutto di Gesù e uno dopo – dici tu – pensa che Dio si sia distratto ed entra con la sua misura. Ma ora questo mio limite non mi inganna più, perché sto scoprendo piano piano che Lui è irriducibile e continua a chiedere di me e a correggermi nella realtà. E comunque ho visto che il mio desiderio è infinito e che solo Gesù può compierlo. Gesù è Colui di cui ho bisogno adesso, ora. Da qui, che amore e passione per ogni volto, strada e aspetto della strada che devo percorrere!». Percorrere il capitolo della Scuola di comunità dal di dentro dell’esperienza è l’unica cosa che ci può fare capire qual è la promessa che esso ha dentro. È tutto diverso fare commenti sul testo rispetto a rivivere – come vediamo – l’esperienza che un altro fa. Dico il mio percorso. Prima e dopo essere venuta a conoscenza dei fatti che coinvolgono alcuni membri del movimento, mi è capitato di vivere giornate segnate dal dolore e dalla costernazione, cogliendo ancora una volta l’occasione di constatare come l’appartenenza a questo popolo è costitutiva, tocca le fibre profonde del mio essere. Tuttavia come non si potrebbe gustare la bellezza della luce senza la percezione drammatica del buio, allo stesso modo sto maturando la consapevolezza che non potrei sperimentare così pienamente e profondamente quella “febbre di vita” che ci comunica continuamente e instancabilmente il don Gius senza attraversare dentro di me il deserto che è di questo mondo e che non mi è estraneo. Quando sono chiamata ad affrontare questa sofferenza mi accade Gesù che mi chiede di farGli compagnia davanti alla croce. È il Mistero che irrompe secondo una modalità che sfida la mia ragione, che mi consente di non vivere in modo farisaico o borghese la mia fede. Perciò accogliere me stessa coincide con l’accogliere il Mistero e, dunque, accogliere la realtà nella sua verità. Ma tutto questo io non lo avrei scoperto senza seguire la via che il don Gius ci indica. In questo senso, vedendo la Scuola di comunità di oggi, capisco sempre meglio il significato di un avvenimento importantissimo accadutomi durante gli anni dell’università quando l’ho incontrato personalmente. Non è nonostante il niente che sono, ma proprio in virtù e dentro di esso che la mia responsabilità, senza personalismi o “ruolismi”, s’è giocata fino in fondo in opere nate all’interno di questa storia comune, non da ultima la mia famiglia, avendo l’occasione di accorgermi che la mia vita nella fede del Dio vivente è realmente un capolavoro. Grazie. A proposito dei fatti leggo un’altra testimonianza di uno (che è stato scosso e ha fatto un percorso): «Partendo dai fatti accaduti in questi giorni, desidero raccontarti con un esempio come il lavoro di Scuola di comunità mi sta aiutando a stare di fronte a quel che accade, e desidero anche porti una domanda. Alla Scuola di comunità del 31 ottobre mi aveva molto colpito come tu avevi commentato il brano del Vangelo in cui si racconta dell’apostolo che sguainando la spada taglia l’orecchio a una delle guardie che andavano ad arrestare Gesù; avevi concluso dicendo: “Questo è il modo normale con cui noi ci rapportiamo alla realtà”. La cosa mi aveva colpito anche se non capivo dove mi incrociasse questa questione, perché non riuscivo a reperire nella mia esperienza fatti e circostanze riconducibili a questo esempio. Mai mi sarei immaginato quanto fosse invece pertinente a me. E questo me l’hanno svelato i fatti di questi giorni. Era così tanta la rabbia che ho cominciato a inviare mail agli amici per gridare il mio sdegno. Tra le risposte che mi sono arrivate due in particolare mi hanno ulteriormente infastidito: dicevano che è in queste circostanze che si vede chi è il Signore per me. Provavo un grande disagio, tipico di quando si è arroccati a difendere una posizione che in cuor nostro sappiamo bene non essere vera [“in cuor nostro”: quando il cuore funziona – e funziona! – non è che possiamo far finta, non è che possiamo giocare]. Il tarlo di questo fastidio che mi lasciava un grande disagio mi ha fatto tornare alla mente l’episodio dell’orecchio mozzato e improvvisamente ho capito quanto fosse vero quello che avevi detto: stavo brandendo la mia spada anziché guardare alla vera natura di quello che stava accadendo. E qual era 5 la vera natura di quanto stava accadendo? Che il Mistero alza la pretesa nei miei confronti sfidandomi fino al profondo di me stesso, chiedendomi: “Ma tu a cosa tieni veramente? A cosa sei legato? Tieni di più a Me, al fatto che tutti Mi possano incontrare o a una forma costruita da mani di uomo?”. Questa sfida fa tremare i polsi perché il passo successivo è che possono impedirci di fare qualunque cosa, ma allora la mia vita, la mia persona, le nostre persone possono diventare per il mondo intero spettacolo della vittoria di Cristo attraverso un’umanità cambiata. E qui si allaccia la domanda che desidero farti. In questi mesi la mia vita è dominata da due evidenze: da una parte, il prendere atto continuamente del mio essere una somma di limiti ed essere bisognoso di tutto, dell’essere incapace di coerenza (per dirla all’incirca con san Paolo: faccio il male che non voglio e non il bene che vedo e che desidero); dall’altra parte, subisco il fascino e l’attrattiva che suscita l’umanità di persone che appartengono totalmente a Lui. Capisco che lo spazio che c’è tra queste due evidenze è il terreno, il campo da gioco della mia libertà, ma spesso mi ritrovo la sera a vergognarmi per come ho passato la mia giornata nella dimenticanza di Lui. Perché accade così? Perché queste due evidenze che dovrebbero portare nella stessa direzione dell’aderire al bene che vedo non sono sufficienti? Qual è il punto della correzione che mi viene chiesto?». Il punto della correzione che ti viene chiesto è, semplicemente, lasciarsi di nuovo attrarre dal fascino che ci è capitato, perché questo ci consente di riconoscere anche i nostri limiti proprio perché – come abbiamo detto nella lettera dopo il Sinodo – «a nulla fuorché a Gesù il cristiano è attaccato». Proprio per questo fascino possiamo guardare i nostri limiti e possiamo guardare i limiti di quel che facciamo, perché qualsiasi tentativo nostro, pur fatto con tutta la buona volontà, sarà sempre limitato, come ogni tentativo umano, e non perché facciamo le cose in modo sbagliato. Quindi, che cosa c’è di strano in questo? Come se ci sorprendessimo che la fragilità sia fragile e che il tentativo umano sia, appunto, un tentativo umano. Don Giussani usava questa espressione, che mi piace tanto perché definisce benissimo la cosa: il nostro è un tentativo “ironico”, sempre imperfetto, sempre pieno di limiti. Allora il problema non è che non accadano certi fatti, perché vediamo tante persone che davanti a tutto quello che accade maturano, riconoscono ancora di più la grazia che ci è stata data, e quindi crescono in questo fascino, non sono sconfitte dalle loro sconfitte, perché è qui dove si vede la diversità che Cristo genera. E questo ci consente di correggere ciò che occorre correggere eventualmente. Noi dobbiamo essere costantemente disponibili alla modalità con cui ci guida il Mistero che ci affascina, perché possiamo essere spogliati di certe cose, ma nessuno ci può impedire di testimoniare la bellezza di Colui che ci ha incontrato, come il popolo di Israele è stato portato in esilio e quella è diventata l’occasione della testimonianza tra i pagani. Che problema c’è? Come vedete, il Signore alza la pretesa, per noi e per la nostra conversione, per la nostra appartenenza sempre più pura, sempre più limpida a Lui; non perché possiamo dare meno testimonianza, ma affinché possiamo darla in modo più splendente, secondo un disegno che non è il nostro. «Nelle ultime Scuole di comunità locali a cui ho partecipato ho vissuto un certo disagio per come si è parlato di recenti dolorosi fatti che ci hanno coinvolti. Mi è parso dagli interventi che il problema fosse quello di difendere il movimento, ribadendo che nulla è intaccato di esso – e ciò mi è chiarissimo – o sdrammatizzando. Ho sentito frasi del tipo: “Non sono scandalizzato da quanto è successo, noi siamo uguali a tutti gli altri, e come gli altri sbagliamo” o: “Quanto accaduto mi rimette più velocemente sul cammino”. Ho sentito rispondere che questi interventi sono il segno che si sta camminando bene. Io non so come sto camminando, ma ho la percezione dello scandalo e della responsabilità anche nei confronti degli altri che ci guardano. Non ci diciamo sempre che il cristianesimo deve essere visibile sulle nostre facce e nel nostro agire? Io, pur comprendendo alcuni interventi, lontana dal ridurre il mio disagio a un giudizio sulle persone, ho la sensazione che il nostro essere preoccupati di non coinvolgere la nostra esperienza con quanto accade sia un modo di non guardare in faccia ciò fino in fondo, per eludere una domanda che per me è urgente e che rivolgo ora a te: perché, pur educati nella strada del cristianesimo da don Giussani in modo così illuminato e con tale testimonianza, sbagliamo? Qual è il punto in cui e per cui smettiamo di seguire e ci adeguiamo ai criteri del mondo? E ancora: se siamo uguali agli altri in tutto e per tutto – come mi è stato detto – a che vale l’esperienza del movimento?». Sono questioni che, come vedete, 6 oltrepassano i limiti in cui possono trovarsi alcuni, e colpiscono il centro dell’esperienza di ciascuno, perché se non troviamo risposta a queste domande non vediamo la ragionevolezza ultima della fede. A che cosa vale l’esperienza del movimento? O, in altre parole, a che cosa vale essere cristiani? Per questo noi non possiamo sottovalutare la sfida, se non la guardiamo fino in fondo e non la giudichiamo, allora rimaniamo con addosso il virus del sospetto («In fondo, vale veramente la pena?»). Perciò è decisivo questo punto. Il Signore avrebbe potuto risparmiarci questa sfida, ma, come ci siamo detti tante volte, questo è per la nostra maturazione; e matura chi accetta la sfida che viene dal reale, dai fatti, aldilà del fatto di chi abbia ragione o torto. Tutti abbiamo sentito la sfida, anche soltanto per le notizie diffuse. La nostra appartenenza ci consente di guardare i fatti? Che razza di appartenenza è la nostra? Se appartenessimo a un luogo in cui per appartenere dovessimo negare i fatti, non sarebbe umano. Perché? A che cosa siamo stati educati? Riandiamo alla terza premessa de Il senso religioso: amare la verità più di noi stessi. Se noi non siamo educati a guardare la verità più di noi stessi e ad amare la verità più di noi stessi, significa che noi non seguiamo la proposta che ci viene fatta! E così non siamo in grado di stare davanti alla realtà. Soltanto se noi amiamo la verità più di noi stessi, possiamo veramente non soccombere alle opinioni, alle interpretazioni, e possiamo aderire alla realtà così com’è e riconoscere il bene che c’è nelle persone e ciò che ci può essere di sbagliato. Se noi non giudichiamo questo, rimaniamo nella palude. Lo vediamo costantemente in altri aspetti del vivere. Facciamo un esempio eclatante per aiutarci a capire. Vediamo cosa succede nella società quando davanti alla questione dell’aborto si dice: «Cerchiamo di fare leggi che giustifichino l’aborto, affinché ciascuno possa essere legittimato a farlo». Avete conosciuto donne che abbiano abortito? Questo assetto legislativo ha risolto il loro problema del rapporto con se stesse? Il giudice più grande che abbiamo è il nostro cuore (anche se ci illudiamo che sia soggettivo). E come in questo esempio, così succede in tutto. Per questo, se non ci educhiamo a questo riconoscimento sarà difficile darci pace. È esattamente ciò che il Papa ci ha testimoniato in tante occasioni. Perciò aiutarci in questo cammino è fondamentale, come ci testimoniano ancora due contributi con cui concludo. Il primo: «“Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”. Il Signore si serve di tutto, prende tutto e restituisce centuplicato. Io e mio marito [che è morto] non siamo mai rimasti soli, e la Provvidenza mai ci ha fatto mancare il suo amore e la sua compagnia attraverso il volto degli amici che ci hanno sostenuto, a volte portati letteralmente in braccio. Potrei fare qui una marea di esempi. Così non abbiamo mai avuto paura di fronte alla vita e alla morte. Mi son sentita dire: “Tuo marito è sempre stato realista”. In un biglietto della spesa ha scritto: “Stare all’esperienza. Una strada tracciata, basta seguire le orme”. L’ho trovato nel riordinare le cose dopo la sua morte. Ci sono stati momenti duri, ma presi per mano siamo stati accompagnati a guardare quello che stava succedendo. Ho pensato: ma quando ci dici di stare alla realtà che cosa intendi comunicarci? Poi ho capito. Vuol dire stare all’esperienza, cioè stare a ciò che imparo guardando ciò che sta accadendo, perché dentro a quello che mi stava e ci stava accadendo, lì dentro, c’è la presenza del Mistero che fa tutte le cose». E la seconda: «Che terribili e belli sono i tempi per noi! Tutto il bene che c’è stato rimane e nessuno lo può cancellare. Continuavo a ripetermi che il bene ricevuto era un dato oggettivo, che l’esperienza non si cancellava, ma il risultato era che io non mi davo pace. Ero addolorata e incredula [“Non mi davo pace”: il male fa male; sono cose che riguardano tutti; tutti quanti, perché di fronte a certe cose, la cosa più terribile è che se noi non facciamo il cammino per cui diventiamo più certi, un’ombra rimane in noi e poi saremo incapaci di accompagnare gli altri a superare le difficoltà], e in ultima analisi non presente alla realtà, con i miei bambini e in casa. Mi sentivo come i discepoli di Emmaus: triste perché abbandonata. Poi ho riletto il sesto capitolo di All’origine della pretesa cristiana, e mentre leggevo era come se Gesù mi stesse chiedendo, come ai suoi discepoli, se ero disposta a metterLo al centro della mia affettività e libertà anche in questa circostanza, se ero disposta a riconoscerLo, amarLo e seguirLo, perché il bene ricevuto fino a quel momento era il Bene con la lettera maiuscola, cioè Lui. E mi sono detta: ma io, onestamente, posso fare ancora esperienza di questo bene? Sinceramente che cosa può impedire che riaccada? C’è qualcosa o qualcuno che non mi permette di vederLo e dire di ‘sì’? Allora ho ripreso in mano la lettera che ci 7 hai scritto dopo il Sinodo, e ho letto più volte il pezzo di Giussani sulla sequela [perché questa è la strada attraverso cui possiamo venir fuori ancora più certi]: “La sequela è il desiderio di rivivere l’esperienza della persona che ti ha provocato e ti provoca con la sua presenza nella vita della comunità, […] è il desiderio di partecipare alla vita di quella persona nella quale ti è portato qualcosa d’Altro, ed è a questo Altro ciò cui sei devoto, ciò cui aspiri, cui vuoi aderire, dentro questo cammino”. Ma io a cosa sono devota? A cosa aspiro? A cosa voglio aderire? Voglio fare questo cammino? Mi sono guardata intorno e cosa ho visto? Tanti volti: mio marito, i miei figli, amici cambiati, tu, la Scuola di comunità, il Papa con tutto quello che ci dice, e mi sono detta: certo che posso dire di sì, eccome se posso [questa domanda è per ciascuno di noi; eccome se posso, ma questa è una decisione che ciascuno deve prendere, una verifica che ciascuno deve fare, perché senza fare la verifica che vince in continuazione, quel che prevale sarà l’ombra]! E improvvisamente mi sono sentita in pace e tranquilla, rappacificata con tutti. La mente mi si è sgombrata da tutti i pensieri malevoli che la riempivano [i pensieri malevoli ci riempiono la testa, e quindi queste vicende ci riguardano tutti] e ho intuito un po’ più concretamente la questione della contemporaneità di Cristo che ci dicevi agli Esercizi, e perché non funzionasse ripetermi in continuazione che il bene ricevuto rimaneva come giudizio su quello che era accaduto [ma è chiaro, non basta ripetere, occorre fare esperienza: se la sequela non è fare esperienza, quando arriviamo a certi momenti della vita, non ci basta]. Se il bene non è presente ora, non serve, è astratto e, in questa situazione, più che mai inutile. Non serviva a darmi pace, a farmi sentire grata, desiderosa di rimettermi al lavoro su tutto – pensa, persino a fare la mamma! –. Intravedo l’opportunità per me in questa condizione di andare al fondo della mia vocazione, cioè di poter dire “Tu” a Gesù, e ho fatto esperienza che niente me lo può impedire». Questa è la sfida che abbiamo davanti, perché se il Signore non ci ha risparmiato niente è per la nostra maturazione. Ma questo non può essere uno slogan che ci ripetiamo per accontentarci; no, dobbiamo vedere nella nostra esperienza che questo ci fa maturare, ci fa crescere, ci fa venir fuori dalla confusione, senza che rimangano ombre. La sfida è molto più grande di quanto possiamo immaginare: veramente il Mistero aggrava la richiesta! Significa che il Signore vuole cose grandi da noi, che ci sta facendo nuovi se noi accettiamo senza paure la sfida del reale, per poter emergere con una consistenza e con una purità infinitamente più grandi, come ha detto il Papa oggi nell’udienza sulla Madonna, all’interno delle catechesi per l’Anno della Fede: «Il saluto dell’angelo a Maria è quindi un invito alla gioia, ad una gioia profonda, annuncia la fine della tristezza che c’è nel mondo di fronte al limite della vita, alla sofferenza, alla morte, alla cattiveria, al buio del male che sembra oscurare la luce della bontà divina. È un saluto che segna l’inizio del Vangelo, della Buona Novella. […] Incontriamo [sulla strada] momenti di luce, ma incontriamo anche passaggi in cui Dio sembra assente, il suo silenzio pesa nel nostro cuore e la sua volontà non corrisponde alla nostra, a quello che noi vorremmo. Ma quanto più ci apriamo a Dio, accogliamo il dono della fede, poniamo totalmente in Lui la nostra fiducia – come Abramo e come Maria – tanto più Egli ci rende capaci, con la sua presenza, di vivere ogni situazione della vita nella pace e nella certezza della sua fedeltà e del suo amore. Questo però significa uscire da se stessi e dai propri progetti [cioè convertirci]. Come ha potuto vivere Maria questo cammino accanto al Figlio con una fede così salda, anche nelle oscurità, senza perdere la piena fiducia nell’azione di Dio? […] Maria collocava ogni singolo elemento, ogni parola, ogni fatto all’interno del tutto e lo confrontava, lo conservava, riconoscendo che tutto proviene dalla volontà di Dio. Maria non si ferma ad una prima comprensione superficiale di ciò che avviene nella sua vita, ma sa guardare in profondità, si lascia interpellare dagli eventi, li elabora, li discerne [cioè li giudica], e acquisita quella comprensione che solo la fede può garantire». È per questo che Cristo è diventato carne: per poterci accompagnare in questo cammino. Perciò accettare il disegno attraverso cui Lui ci conduce sarà per noi la possibilità di toccare con mano la Sua vittoria; e sarà, forse, qualcosa di diverso da ciò che noi abbiamo in testa, ma sarà comunque una vittoria. 8 Il testo dell’Assemblea nazionale della CdO è stato pubblicato come “Pagina Uno” sul Tracce di questo mese. Invito tutti a leggerlo perché mi sembra possa aiutarci ad aver presente i criteri con cui stare davanti alle sfide della situazione attuale, e a giudicare le iniziative in cui tanti sono mobilitati. La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 30 gennaio alle ore 21.30. Riprenderemo il contenuto degli Esercizi del Clu, che sarà pubblicato con un libretto allegato al Tracce di gennaio. Abbiamo deciso di renderlo disponibile a tutti perché quello che è avvenuto agli Esercizi del Clu ci sembra un contributo a vivere l’Anno della Fede e per mostrare che cosa è la fede. Il contenuto degli Esercizi è stato, infatti, intrecciato di tante domande e di testimonianze che hanno fatto emergere che Cristo è così contemporaneo da riaccadere riaccade attraverso una umanità presente. Il titolo stesso degli Esercizi: «Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora, perché attendiamo?», è una domanda che interpella tutti. Offrire come contributo quanto è emerso agli Esercizi penso sia un bene per tutti. Perciò vi chiediamo di proporlo e diffonderlo anche ai vostri amici e nei vostri ambienti, perché la realtà urge. Veni Sancte Spiritus Buon Natale a tutti, anche a tutti coloro che sono in collegamento video.