STORIA DEL PATTO COL DIAVOLO
Di
Enrico Bernard
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Premessa
La storia tedesca moderna inizia e finisce con un atto di rivolta. All'inizio del '500 Martin
Lutero pose il problema dell'unità della nazione attraverso la ribellione contro la Chiesa di Roma e il
rifiuto del latino, incomprensibile per il popolo germanico, quindi strumento culturale di dominazione
e subordinazione. La questione dell'unità tedesca, a causa della divione tra un nord protestante ed un
sud cattolico, resta aperta – con le tragiche parentesi delle due guerre mondiali - fino alla caduta del
Muro di Berlino nel 1989. Con la riunificazione in epoca recente, la Germania sembra dunque uscire da
un lunghissimo tunnel ideologico e politico, un tunnel che ha via via indotto soluzioni irrazionalistiche
e violente del problema della libertà individuale. Oppure ha dato vita a forme di autoritarismo statle
fino al totalitarismo nazista. Del resto, neppure la fine della seconda guerra mondiale ha comportato
nell'immediato una completa "liberazione", né da un punto di vista politico né dal lato soggettivospirituale. Nel dopoguerra la Germania torna infatti ad essere divisa e sottomessa a due diverse forme
di autoritarismo: lo stato poliziesco della DDR comunista e lo stato democratico. ma con molti aspetti
illiberali - come ad esempio il Berufsverbot, il divieto di lavoro nell’amministrazione pubblica per i
comunisti - della Repubblica Federale, in cui peraltro sopravvissero elementi dell'apparato politico
nazionalsocialista.
All'incirca un trentennio prima della caduta del Muro di Berlino, nei primi anni '70 in reazione
alla dura repressione nella Germania Ovest dei moti studenteschi, Andreas Baader. figlio di un
professore di teologia, teorizzò e praticò la lotta armata sulla base delle istanze libertarie più radicali e
in nome dell'esigenza di "farla finita col passato nazista". La sua ribellione, sia pur con un ideale di
comunismo poco identificabile col socialismo reale della DDR e dell'Unione Sovietica, riportò in
primo piano il problema della ribellione di pochi individui contro uno stato considerato repressivo,
autoritario e illiberale.
Sarà utile una testimonianza personale sulla "liberalità" della Germania occidentale fino al
tempo della riunificazione. Il brano che segue è tratto da una lettera del 1° giugno 1988 di Dieter
Richter dell'Università di Brema:
"Caro Enrico Bernard, poiché sei interessato dei problemi polilitici-culturali in Germania, ti
invio un saggio che ho scritto l'anno scorso per la seconda sessione del "Russell-Tribunal" sui diritti
civili nella Repubblica Federale Tedesca. Il tema era la censura nella RFT"."
La lettera attesta la persistenza fino almeno alla metà degli Anni Ottanta di alcune condizioni
di illiberalità nella Germania occidentale del secondo dopoguerra, condizioni che, come vedremo, sono
state concausa - insieme alla costante individualistica della ideologia tedesca - del terrorismo della Rote
Armeé Fraktion. Ora, questa forma di ribellione "egocentrica", "individualistica" o tutt'al più di un
gruppo terroristico che agisce anche senza il popolo, trova nella cultura tedesca fondamenti filosofici,
escatolgici, storici, psicologici e addirittura religiosi risalenti al tempo della Riforma.
Perché religiosi? In effetti, l'era moderna tedesca trova sintesi nel mito e nella figura
leggendaria del Doctor Faustus, lo scienziato che sfida cielo e terra, autorità temporale e ordine divino
in cambio dell'affermazione del proprio egoismo. Questa forma di affermazione egoistica raffigura
l'evoluzione della società tedesca che fin dalle sue origini, per motivi storici che spiegheremo, persegue
una finalità economica disinteressandosi del cambiamento politico della realtà feudale. Una realtà
storica che, a differenza degli altri paesi europei, resterà ben salda in Germania fino appunto al
nazismo.
Dal momento che il mitico Doctor Faustus incarna lo spirito "luterano" che accompagna lo
sviluppo politico ed ideologico della borghesia nei paesi del nord Europa, va da sé che il termine
"borghese" sarà spesso ripetuto in questa analisi. Dal momento pero' che la cultura del '68 ha per certi
versi "demonizzato" questa espressione attribuendole un valore negativo, bisogna precisare che qui,
invece, il concetto di "borghesia" è inteso in senso storicamente, socialmente "positivo". In effetti, la
borghesia è stata, nel corso della storia moderna dal Rinascimento ad oggi, la classe sociale più aperta
all'arte e alla ricerca scientifica, all'esplorazione del mondo e del cosmo. Dallo spirito borghese sono
nate le idee politiche liberali: nella rivoluzione francese del 1789 la borghesia ha assunto una funzione
rivoluzionaria nei confronti del "vecchio regime".
Naturalmente vi è anche un aspetto, un senso negativo nella sua funzione sociale "di classe".
Quando la borghesia, come è successo in Germania ed in Italia, ripiega su se stessa abbandonando gli
ideali di libertà per tutelare esclusivamente il proprio interesse economico, il proprio orticello "privato"
disinteressandosi dello sviluppo politico generale, trasformandosi insomma da "progressista e\o
conservatrice" in classe "reazionaria", allora essa diventa piccolo-borghese. La mentalità reazionaria
piccolo-borghese non ha naturalmente nulla a che fare con le grandi posizioni politiche "di destra" o "di
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sinistra", progressiste o conservatrici che la borghesia assume nel progettare il futuro della società. Il
piccolo-borghese è invece rappresentato dall'individuo esacerbato e avvilito da una società in cui non
riesce a trovare spazio né economico né morale per la propria emancipazione. Egli assume posizioni e
atteggiamenti che lo rendono paranoico, violento, repressivo nei confronti del prossimo e
assolutamente permissivo nei propri confronti, fino a rivendicare l'uso della violenza come atto di
autoaffermazione personale e sociale.
Come vedremo il mito di Faust, che risale ad oltre mezzo secolo fa, agli albori della società
borghese, racchiude questo contrasto interiore tra lo slancio ideale, il desiderio di allargare il proprio
mondo, e il piccolo interesse economico che restringe l'orizzonte politico e che stringe l'uomo nella
morsa della paura reazionaria di perdere o di non riuscire a conquistare una piccola sfera di autonomia
economica. Questo timore, questa paura è pane per i denti del Diavolo che nella storia moderna, come
il cinema hollywoodiano ha messo bene in risalto, assume l'aspetto di un consulente economico, di un
brooker tra inferno e paradiso finanziario.
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I- Faust e il suo tempo.
La conoscenza e' sinonimo di "bene" o di "male"? Da sempre, la condizione umana e'
caratterizzata dalla diaspora con Dio a causa del frutto proibito morso da Adamo. La seduzione del
diavolo, insinuata dalle grazie di Eva, altro non e' che la sete di conoscenza, il desiderio di percepire
nuove sensazioni ed emozioni, raggiungere l'irraggiungibile: competere col Creatore impadronendosi
delle leggi eterne che governano la natura e svelare i misteri del creato.
La sessualita', il peccato originale da cui discendiamo, peccato che viene lavato col
Battesimo dopo la venuta di Cristo, e' in realta' solo un espediente diabolico per metterci in folle
competizione con la sapienza divina. Scienza e sesso, nella lettura piu' concervatrice delle Scritture,
vengono dunque accomunati al Male e dissimulati dall'attivita' dell'Anticristo. Percio' la conoscenza
e' stata considerata e trattata, nella cultura medioevale, col sospetto della concupiscienza diabolica.
Conservata nei monasteri, divulgata col contagocce, la sapienza e' stata, per tutto il medioevo, oggetto
di indagine teologica, comunque in odore di zolfo satanico.
Il medioevo finisce con l'invenzione della stampa nella cittadina tedesca di Mainz da parte di
Gutemberg (1448 circa). Con la stampa, ha effettivamente inizio l'era moderna caratterizzata dalla
diffusione della conoscenza e delle idee. Contemporaneamente la scoperta delle Americhe del 1492
avvera il sogno rinascimentale di allargare la conoscenza e i confini umani del cosmo e del creato.
Sono del resto gli anni di Leonardo da Vinci e Michelangelo che inseguono il miraggio di dominare la
natura. Le esplorazioni, le invenzioni e i primi progressi scientifici mettono in discussione persino
l'idea geocentrica dei secoli precedenti: la rivoluzione copernicana del 1513, pubblicata nel 1543, rende
dunque possibile una prima spiegazione matematica e razionale dell'origine e destino del cosmo.
Tutto ciò comporta maggiori esigenze di liberta' economiche, politiche (nonostante una
situazione generale complessa, spesso confusa) e religiose dell'Europa che si sottrae con la Riforma
luterana al dominio temporale e spirituale della Chiesa di Roma.
Nel giro di pochi anni, dunque, tra il 1448 e il 1525, in Germania succede un po' di tutto: a
Mainz, Gutemberg inventa la stampa, ad Heilsberg nasce la teoria eliocentrica di Copernico e,
contemporaneamente a questi eventi, prende avvio la Riforma luterana. Senza contare l'invenzione
della polvere da sparo e delle armi da fuoco che rendono possibili nuove tecniche di guerra e di
sterminio di massa. Ma anche altri grandi avvenimenti, come accennato. gettano benzina sul fuoco
della ricerca e dell'indagine scientifica, medica, geografica. Insomma, tra la fine del '400 e la prima
meta' del '500 cambia radicalmente la concezione dell'uomo e del "suo" mondo. Comincia l'era del
progresso tecnologico e scientifico, ma anche del dibattito politico-religioso con la diaspora del
Cristianesimo nei paesi riformati del nordeuropa.
Molti sono i fattori economici e sociali che sostengono e talvolta impongono i cambiamenti
culturali. Fra tante invenzioni e novita', e' proprio la straordinaria innovazione tecnica della stampa a
permettere, nel mondo germanico, la diffusione di una nuova lettura ed interpretazione delle Sacre
Scritture da parte di Martin Lutero (1483-1546). La pubblicazione delle 95 Tesi (1517) di Lutero
segna il primo passo della Riforma protestante, un movimento spirituale e sociale che oltre a portare
alla liberazione dai vincoli della Chiesa romana, rappresenta una affermazione di autonomia della
coscienza cristiana da qualsiasi rimorso e senso di colpa nei confronti dell'accumulazione e del
benessere. La ricchezza personale viene infatti giustificata da Lutero come segno della benevolenza
divina nell'ambito della teoria della predestinazione, teoria che spazza via la pratica e il commercio
delle bolle e delle assoluzioni con cui i ricchi prima della Riforma speravano di acquistarsi un posto in
cielo.
Gli eventi e le novita' dell'inizio dell'era moderna, cioe' la fine del XV secolo, comportano,
comunque, una conseguenza pratica: lo sdoganamento della problematica della conoscenza da un punto
di vista religioso, - anche se la strada sara' ancora lunga attraverso la Controriforma, il Concilio di
Trento (1545-1563) e il secolo dell'Inquisizione. Fatto sta che la ricerca scientifica e l'indagine dei
segreti della natura comincia ad essere percepita, nel tempo della Riforma, come un'impellente
necessita' di emancipazione e di liberta' individuali ed esistenziali. Il nuovo credo nella scienza che,
agli albori dell'era moderna, pretese - con qualche forma di esagerata esaltazione - di potersi sostituire
alla fede senza considerare tutti i limiti umani e tecnologici dell'indagine scientifica, procuro' altresi'
crisi di coscienza, dubbi e depressione di fronte alla difficile intelleggibilità della Natura, che parve
volersi nascondere alla ricerca e alla ragione. Di qui la frustrazione degli uomini di scienza che indusse,
in qualche caso, al tentativo di annullare il gap nei confronti dei segreti del creato col ricorso alle arti
magiche e all'esoterismo.
E' in questa zona d'ombra, di passaggio tra i cosiddetti secoli bui e l'era moderna , in cui la
scienza anche grazie all'Umanesimo e al Rinascimento riprende slancio dopo millenaria stasi, e' in
questa fase transitoria dunque che fa capolino nel mondo tedesco avviato alla Riforma, una figura di
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scienziato insoddisfatto e disposto a tutto pur di penetrare e "possedere" i misteri del creato: il celebre
Doctor Faustus. Infatti, nella penombra del suo studio gotico lo scienziato-alchimista tedesco non
invoca inizialmente il diavolo, bensi' maledice il giorno in cui ha cominciato ad occuparsi di scienza
per non approdare a niente di concreto, sperperando cosi' un'esistenza che avrebbe potuto altrimenti
godere.
Ecco le parole di Faust nel poema di Goethe (Urfaust e Faust-Erster Teil, 1787-1806):
FAUST
Ho studiato tanto filosofia,
giurisprudenza e medicina
e purtroppo pure teologia
per saperne men di prima,
nonostante il grande impegno
non mi sento un bell'esempio!
Ho titolo di Dottore, Professore
addirittura , e sono dieci anni
che non faccio che prendere
per il naso i miei alunni.
Sapere che non e' dato di sapere,
mi sta mangiando dentro il cuore!
Certo, sono piu' capace ed istruito
di qualche altro povero erudito
dottore, professore, scribacchino:
non nutro dubbi ne' alcuno scrupolo,
non temo nemmeno inferno e diavolo ma mi e' passato lo sfizio di cercare,
non m'illudo di poter sapere veramente,
non mi illudo di illuminar la gente.
Mi fossi almeno arricchito nel frattempo,
acquisito onori e gloria del momento;
sono un cane che piscia controvento!
Per questo mi sono dato alla magia,
che' parola e potenza dello spirito
mi svelino qualche arcano della mente
irraggiungibile col sudore della fronte.
(traduzione Enrico Bernard)
E' in questo abisso di impotenza e di disperazione che il diavolo lancia la sua sfida
promettendo al vecchio Doctor Faustus di fargli recuperere tempo e piaceri perduti. Insomma,
un'altra giovinezza e una nuova vita da godersi fino all'apice del godimento dei sensi, visto che il
piacere della conoscenza, il dominio della natura dal punto di vista scientifico, comporta anche un lato
di forte sensualita'erotica, come bene spiega la simbolica mela biblica. E il primo desiderio di Faust,
una volta rigenerato e ringiovanito, sara' proprio quello di possedere sessualmente prima la povera
Margherita e poi, ambiziosamente, addirittura lo spirito di Elena di Troia!
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II - Faust e Lutero
La genesi del mito di Faust e del suo patto col Diavolo risale alla fine del 1400. agli albori
della Riforma e contemporaneamente all'invenzione della stampa. Naturalmente Faust e' una figura
leggendaria, ma bisognerebbe domandarsi se la leggenda abbia qualche attinenza con elementi reali e
persone del periodo in questione. In primo luogo, vanno evidenziate alcune "strane" coincidenze. La
prima e' relativa al nome di Faust. Analizzeremo nel prossimo capitolo l'etimologia del nome, ma e'
sorprendente che il principale collaboratore di Gutemberg nell'invenzione della stampa si chiamasse
Fust, quasi come il leggendario Faust, con una variante che sembra fatta apposta per depistare. Fust e'
del resto un personaggio abbastanza oscuro. Egli lavoro' all'ombra di Gutemberg, provocando
all'inventore della stampa anche qualche spiacevole inconveniente, come una situazione economica
fallimentare che quasi blocco' e comunque ritardo' l'esordio della macchina stampatrice. Ma la
stranezza consiste nel fatto che tra Faust e l'invenzione della stampa c'e' una relazione stretta. Infatti,
nel "Faust -Zweiter Teil" (1808-1812) di Goethe e' proprio Faust a servirsi della stampa per risolvere i
suoi problemi economici ed esistenziali. Come? Inventando e cominciando a stampare carta moneta,
cioe' banconote.
Il Doctor Faustus avrebbe dunque un Doppelgaenger in carne ed ossa nel collaboratore di
Gutemberg, cioe' colui che con la sua invenzione contribui' alla diffusione delle idee di Martin Lutero.
Ma perfino in questo caso si incappa in una curiosa circostanza: anche Martin Lutero viene chiamato
"dottore" e, identicamente al suo collega Doctor Faustus, e' famoso per il caratteraccio. Celebri sono i
suoi accessi di ira dovuti a rabbia, frustrazione ed impotenza causati anche da una tremenda stitichezza
che lo costringeva nelle ore notturne a dolorose sedute con imprecazioni e grugniti degni dell'incipit
del poema goehiano.
Impressionanti sono le somiglianze caratteriali tra i due "dottori" della storia tedesca. Il
leggendario Faust viene sempre descritto come un "musone" animato da eccessiva considerazione
verso se stesso, tanto da illudersi di poter gabbare il diavolo in persona e farla franca con Dio. Martin
Lutero non fu da meno nella presunzione personale, nell'autostima e nella facile e spocchiosa
condanna del prossimo. Tuttavia, oltre a questa forma di megalomania egocentrica, ambedue, Faust e
Lutero, denotano una tendenza psichica maniaco-depressiva. Tendenza che si manifesta sotto forma di
estrema irritabilita', suscettibilita' e, soprattutto, contraddittorieta' nel comportamento e nelle decisioni
che vengono di volta in volta prese ed annullate col rischio della totale inazione:
"Per Lutero non esisteva nulla di deciso... L'istinto principale del suo carattere e' dominato
dall'impulsivita'... Lo studioso delle sue opere inciampa costantemente nelle contraddizioni". (Horst
Hermann, "Martin Luther - eine Biographie", Berlin 2003, p. 15).
Nel poema di Goethe, Faust e' spesso rappresentato come un isterico pronto a tornare sui suoi
passi dopo aver preso una decisione, oppure come un indeciso in depressione per l'incapacita' di agire
che lo rende abulico come nella scena "Alta montagna". Qui Faust e' dapprima in piena prostrazione
psichica e medita addirittura il suicidio ("tutti gli abissi della solitudine mi si aprono sotto i piedi"); ma
poi, con un salto, rivendica l'azione totale e pretende il tutto o niente dal diavolo. Il quale, avendo
precedentemente intuito nello stato d'animo del suo protetto i segni della depressione piu' nera, cerca di
scuoterlo. Senonche' Faust, come uscendo da un sogno, balza in piedi e sbraita come un esaltato:
FAUST: Sciocchezze! Nel mondo intero
c'e' ancora tanto posto per la gloria.
Deve succedere qualcosa, per davvero!
Mi sento in vena di riscrivere la storia.
(trad. Enrico Bernard)
Non finisce qui. La strana serie di concomitanze prosegue dal punto di vista geografico. Nel
1512 Martin Lutero ottiene una cattedra in teologia a Wittemberg. Dal momento che la nascita di Faust
- secondo lo "Spiessische Handbuch" del 1587, prima testimonianza letteraria del mito faustiano viene segnalata "intorno" al 1480 nella citta' di Wittemberg (Wuettemburg?), va da se' che tra Lutero e
Faust vi sono alcune, forse troppe analogie che fanno pensare perché trovano puntuale conferma anche
sul piano biografico dei due personaggi. L'anno di nascita di Lutero e' incerto, databile da alcuni
documenti e testimonianze "intorno" al 1483, eppero':
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"Lutero si e' piu' volte espresso circa la propria eta' e circa l'anno effettivo della sua nascita
che dunque oscilla secondo fonti ufficiali tra il 1482 e il 1484... ma Lutero contestava queste date...
sostenendo che lo si voleva ringiovanire per forza". (Horst Hermann, "Martin Luther - eine
Biographie", cit. p. 13).
Il sospetto e' che l'anno di nascita di Faust e di Lutero coincidano quasi come se nel mito
letterario di Faust entrassero elementi biografici (o autobiografici?, l'interrogativo e' d'obbligo)
disseminati come rimandi e segnali di una vita veramente vissuta: quella del padre della Riforma. Il
quale, nell'elaborare la sua "creatura", Faust, a propria immagine e somiglianza potrebbe averla
battezzata con un nome noto dell'epoca e a lui in qualche modo "vicino": il collaboratore e socio in
affari di Gutemberg, per l'appunto Fust, che Lutero doveva ben conoscere almeno di fama. C'e' un
ulteriore particolare non insignificante: Fust aveva fatto in modo che Gutemberg si indebitasse con lui,
un'operazione di strozzinaggio vera e propria, forse finalizzata allo sfruttamento della macchina
stampatrice. Ora, Lutero discendeva da una famiglia di origine contadina, poi imborghesitasi. Egli
quindi conosceva il problema dell'indebitamento delle campagne tedesche nei confronti degli strozzini
delle citta' durante il periodo della crisi agraria della seconda meta' del '400. Indebitamento che
provoco' non poche conseguenze anche corporali al ceto contadino. Di conseguenza, la scelta del nome
"Fust", probabilmente poi diventato "Faust" nelle trascrizioni, rappresentava uno dei giochi di parole
che il giovane Martin Lutero tanto amava. E' bene allora sapere che Martin Lutero amava la tradizione
orale e la narrativa popolare, i racconti stravagani, i giochi di parole, e i cosiddetti "Tischgespraeche" i
discorsi improvvisati - alla cui arte dedico' anche un'opera filosofica - e le fiabe:
"I suoi primi contatti nell'ambito della vita familiare col patrimonio narrativo della tradizione
popolare lo accompagneranno per tutta la vita. <Adoro le storie stravaganti, - avra' modo di dire lui
stesso, - che ho appreso nella mia dolce infanzia o come esse mi sono successivamente pervenute,
tanto che non me ne priverei per tutto l'oro del mondo>. Le favole del mondo contadino saranno da
lui lodate come veicoli ed esempi di astuzia della ragione, al fine di sputare < la verita' in faccia ai
potenti>. Lutero conosce bene fiabe come Frau Holle o Schlaraffenland, gli indovinelli lo divertono,
cosi' come le canzoni d'amore popolari assumono ai suoi occhi un valore particolar... lo
appassionano quei racconti i cui autori si schierano al fianco del <nobile popolo> esponendo il
sistema feudale ed il clero con le corti nobiliari ad aspre critiche." (H. Hermann, cit. pp.19-20).
Lutero si divertiva un mondo coi giochi di parole, al punto di fare oggetto di rebus e scherzo
linguistico il suo stesso cognome da lui fissato solo nel 1512, cognome derivante da "Eleutherius",
latinizzazione delle forme barbariche Lodder, Lutter, Lauther, Loder ecc. con cui si firmava la
famiglia.
Un altro elemento autobiografico che accomuna la vita di Lutero al mito letterario di Faust e'
rappresentato dal tema del "patto". Lutero infatti stringe un "patto con Dio" - il giuramento
ecclesiastico, - patto che diventa per lui una vera e propria ossessione vissuta con rimpianto, rabbia e
disperazione. Horst Hermann racconta l'episodio della scelta monastica del giovane Lutero che,
sorpreso in una notte del 1505 da una bufera, spaventato da tremendi fulmini, invoca i Santi
promettendo a Dio di farsi monaco pur di avere salva la vita. A quel giuramento Lutero terra' fede ma,
come Faust fa con Mefistofele, cerchera' ripetutamente e inutilmente di dichiararlo nullo perche'
ottenuto con l'inganno celeste. Ecco che il dottore in Giurisprudenza Lutero e il suo collega di
ermellino Faust si giocano la partita dell'anima nel tribunale divino a suon di malintesi e retromarce!
A questo punto, ci sarebbe davvero da chiedersi se l'autore originario del mito faustiano non
sia proprio Martin Lutero che potrebbe aver raccontato una delle terribili visioni che lo
accompagnavano durante le estenuanti sedute notturne, in preda a crisi acute di stitichezza, sulla tazza
del gabinetto. Luogo dove comunque si sa che il padre della Riforma avesse abitudine di sedere a
lungo, in attesa di risolvere la questione intestinale, scrivendo pure le sue "95 Tesi" tra urla tremende ed
imprecazioni per favorire l'evacuazione.
Questa tesi è peraltro insinuate da altri studiosi. Trattando dell'influenza e della trasposizione
del mito faustiano nelle culture nordeuropee, Finlandia e Svezia, Mariannelli Sorvakko-Spratte in una
dissertazione tenuta all'universita' di Flenseburg nel 2007 dal titolo "Il patto col diavolo di Faust nella
letteratura tedesca, finlandese e svedese" centra il nocciolo della questione:
"Una delle differenze piu' evidenti tra la leggenda tedesca e quella finnica di Faust consiste
nel legame tra Faust e Lutero. Queste personalita' tra loro cosi' differenti vengono rappresentate, nella
tradizione scandinava, addirittura come fratellastri. Come si arriva a questo accostamento? In
Germania una simile idea sarebbe quasi sacrilega. Anche se la leggenda di Faust risale al tempo di
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Lutero, in Germania si ritiene che tra loro non vi sia alcuna stretta parentela. In effetti l'unico
collegamento tra Faust e Lutero sta nel fatto che nei "Tischreden" Lutero chiama in causa per ben
due volte Faust. Faust e Lutero condividono il concetto che il Papato debba essere spazzato via dalla
storia. - Ma basta questo a considerarli parenti stretti?"
L'interrogativo della germanista finlandese e' retorico, rappresenta piu' che altro un atto di
cortesia nei confronti della germanistica tedesca - ospitante la dissertazione su citata - che per secoli ha
girato attorno al tema del faustismo di Lutero sminuendone la reale portata per comprensibili motivi di
rispetto religioso. Rudolph Hartmut, ad esempio (in "Das Faustbuch im Kirchengeschichtlichen
Zusammenhang", Berlin s.d. p. 42) se la cava ipotizzando che nella leggenda di Faust potrebbero essere
stati utilizzati pensieri e brani di opere di Lutero. In realta', da numerosi passaggi del poema di Goethe
e dal Faust-Leverkuehn, il "diabolico" musicista che Thomas Mann rappresenta come figlio di un
pastore luterano, sappiamo quale stretta parentela unisca Faust al suo inventore Martin Lutero. Tracce
di questo rapporto si trovano persino nel dramma teatrale "Luther" di Osborne e, piu' recentemente,
della tragedia di Peter Ries "Faust und Luther" andato recentemente in scena allo Schauspielhaus di
Stuttgart.
La germanistica tedesca, per l la verita', ha un po' chiuso gli occhi di fronte a questo problema
filologicamente abbastanza semplice: ha sminuito la portata di un tema - il patto col diavolo nella
tradizione luterana - che e' invece di ampia portata. E cio' indipendentemente dal fatto che sia stato
Lutero, materialmente, ad inventare di sana pianta il mito di Faust, o se invece il padre della Riforma
abbia ripreso alcune storie tardomedioeveali; oppure se, come sostiene Rudolph Hartmuth, sia stata la
tradizione orale faustiana, pervenuta a Spiess dopo la morte di Lutero, ad inserire parole e pensieri del
riformatore tedesco in una vulgata popolare-grottesca. La constatazione che il mito di Faust non abbia
avuto fino ad oggi alcuna significativa prosecuzione nelle letterature francese, italiana e spagnola (con
le eccezioni di un piu' recente "Faust" del portoghese Pessoa e il dramma musicale "La damnation de
Faust" di Gounod), e' indicativa della sfera culturale-religiosa in cui ci muoviamo. Infatti, a partire
dalla letteratura inglese del periodo elisabettiano del '600, col "Faust" di Marlowe, il patto col Diavolo
accompagna la diffusione dello spirito della Riforma nei paesi nordeuropei e in quelli anglosassoni.
Faust rappresenta quindi un problema ed un prodotto del luteranesimo e della mentalita' religiosa del
tempo:
"Il diavolo e Dio erano due facce della stessa medaglia e procedevano in piena sintonia, al
punto che il passaggio da un estremo all'altro non incontrava intoppi. La credenza in un Satana
personale, quale incarnazione del Male nel mondo, con cui si poteva persino stringere un patto per
ottenere benefici, onori e vantaggi... fa parte di un arcaico patrimonio culturale. Martin Lutero non
riuscira' mai a liberarsi da questi retaggi. Al contrario ne sara' sempre condizionato." (H. Herrmann,
cit.. 24).
Hermann non cita mai direttamente Faust. Esistono, tuttavia, alcune significative analogie
tra il mito di Faust e lo spirito della Riforma luterana. In questo caso ci soccorre il noto trattato di Max
Weber "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo" (1922). Riassumendo in grandi linee, Weber
individua nel concetto di "predestinazione" formulato da Lutero, un fondamento etico e spirituale che
giustifica e "salva" l'accumulazione capitalistica e la ricchezza condannata dal cristianesimo. L'uomo
e', nel senso della Riforma, predestinato alla sua condizione sociale: la ricchezza non e' altro che una
manifestazione della benevolenza divina. Secondo Max Weber, insomma, la Riforma rappresenta il
motore ideologico della formazione di una ricca borghesia tedesca, indipendente dalla Chiesa cattolica
e non piu' costretta a comprarsi il paradiso e un posto nell'aldila' per scontare cosi' il peccato
dell'opulenza. Naturalmente il problema della ricchezza e' centrale - come vedremo tra poco - nel mito
faustiano, al punto che, come appena accennato, Goethe attribuisce a Faust. in complicita' con
Mefistofele, l'invenzione della banconota, cioe' del sistema finanziario capitalistico moderno. Al punto
che Faust e Mefistofele compiono la "genialata" di creare un'immensa fortuna di carta basata sul nulla
dell'inganno finanziario. Il loro ragionamento e' semplice: dal momento che si presuppone che il
sottosuolo del regno nasconda immensi giacimenti d'oro, perche' allora non stampare fogli di carta,
anziche' scavare per cercare il metallo prezioso, per un corrispettivo valore in oro che un eventuale
portatore potrebbe sempre richiedere? Nasce, insomma, la truffa del denaro che simula un inesistente
controvalore di un metallo che peraltro non serve a niente. Ecco che l'illusione finanziaria del
capitalismo moderno ha, guardacaso, proprio in Fust (responsabile dei guai economici di Gutemberg e
socio nell'invenzione della stampa) e in Faust (responsabile dell'invenzione del denaro stampato) i due
principali artefici. Mefistofele (Goethe, "Faust-Zweiter Teil", cit.) decanta ironicamente i benefici del
"magico foglietto":
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"Devotamente il prete
lo tiene nel breviario
per andar spedito
piu' dell'ordinario
e bene si nasconde
dentro il reggipetto
alla lettera d'amore
non guasta un bel biglietto!
La questione economica, come parte dell'emancipazione individuale, e' pure una questione
particolarmente "sensibile" per Lutero. Le sue scelte in campo politico ed ideologico sono state
dettate dall'esigenza di "accomodare" la questione della rivolta politica dei contadini capeggiati da
Muenzer, ribellione che partiva, si', da una richiesta di liberta' religiosa, ma finiva per assumere risvolti
sociali ritenuti pericolosi dai Principi sia cattolici che riformati. Questi ultimi, con la mediazione di
Lutero, rinunciarono alla guerra sociale-religiosa mandando al massacro i 30'000 contadini capeggiati
dal rivoluzionario-riformatore Thomas Muenzer. Anziche' sostenere la guerra di liberazione nazionale
contro i potenti Principi cattolici, Lutero appoggio' - per ovvi motivi politici ed anche personali l'inciucio e il pasticcio dell'editto "cuius regio, eius religio". Con questo editto fu proclamata la liberta'
interiore, di coscienza, in cambio dell'obbedienza "esteriore" alla confessione del Principe o del
signorotto locale tedesco. Fu proprio questo passaggio a provocare la distorsione della "ideologia
tedesca", cioe' il "vizio" culturale storico di considerare l'interiorita', il pensiero, come luogo di
avvenimenti reali. Parte da qui la spinta individualistica alla soluzione "personale", attraverso
l'esoterismo o la rivolta individuale al potere delle questioni attinenti la liberta'.
Fatto sta che Lutero strinse un patto politico coi Principi, quindi col sistema feudale, creando
in Germania una commistione di potere politico arretrato e di grandi attese, poi frustrate, individuali di
liberta': Lutero strinse insomma un vero e proprio patto col diavolo della politica, patto che evoca e
ricorda le angosce notturne, le ribellioni, le aspirazioni riformatrici e i desideri repressi di un Faust che
viene apostrofato da Mefistofele nel finale goethiano:
"adesso e' solo per l'inferno
che sogni il progresso eterno
dell'intero genere umano
scavandoti la fossa
con la tua stessa mano
per riporci le tue ossa,
essere inutile ed insano." (trad. Enrico Bernard)
In questo senso, Faust puo' essere considerato il primo ribelle della moderna storia tedesca a
partire dalla Riforma. Infatti la sua ribellione, come si vedra', non e' una semplice, personale rivolta in
nome del piacere edonistico, un volersi scrollare di dosso la noia dello studio e la paura della vecchiaia
dopo un giovinezza non completamente vissuta. La rivolta di Faust rappresenta, altresi', una ribellione
religiosa e sociale, una tragica rivendicazione dell'individualismo borghese ed una soluzione
"capitalistica" della questione della liberta'. Questione che, nel finale del poema goethiano, porta Faust,
come abbiamo letto nelle parole di Mefistofele, a "sognare nuove imprese" confondendo il bene
dell'umanita' col suo portafoglio personale.
Ma al di la' dell'intepretazione di Goethe, di cui tratteremo al momento opportuno, c'e' da
notare una forte consonanza tra la rivolta religiosa di Faust e la ribellione "faustiana" di Lutero che,
con la teoria della predestinazione propria della Riforma, svincola il problema della ricchezza dalla
conquista del Paradiso. Paradiso che, prima di Lutero, come dicevamo, la borghesia tedesca doveva
acquistare direttamente dal produttore, cioe' presso la Chiesa romana a suon di bolle e assoluzioni,
peraltro costose. Come Faust, anche Lutero finisce per invocare il diavolo del compromesso storico coi
Principi, facendo sprofondare il problema della liberta' dal piano sociale all'abisso della coscienza,quel luogo in cui, per dirla con Cartesio, "il sonno della ragione genera mostri". Di queste
concomitanze, similitudini, se ne e' naturalmente accorto Goethe che, nel "prologo in Cielo" del suo
poema, fa che Dio parli di Faust non come un "comune" mortale, ma come un suo paladino e
servitore in terra. Insomma, non come un "dottore" qualunque, ma come il "suo" dottore lasciando
intendere un confluenza di personalita' tra il dottor Faust e il dottor Martin Lutero:
DIO
Conosci Faust?
9
MEFISTOFELE
Il dottore?
DIO Il servitore mio!
MEFISTOFELE Davvero, ha un bel modo di servire!
Non s'accontenta del terren banchetto,
ben altro fermento ha dentro il poveretto
ma della sua follia non ne vuol sentire.
Pretende dal cielo di belle stelle un tetto
e dalla terra pieno di piaceri il letto.
Il vicino e il lontano non riesce a percepire
Non si sente appagato mai nel petto.
DIO
Attualmente ha uno strano modo di servire,
eppure gli occhi gli riusciro' ad aprire:
il giardiniere sa il germoglio far fiorire
cosi' che il polline porti frutti in avvenire.
(traduzione Enrico Benard)
Dio vede l'esito finale del mito di Faust che effettivamente accompagna la storia della
letteratura tedesca dalla Riforma fino al "Doctor Faustus" (1948) di Thomas Mann. Faust diventa
dunque un personaggio-chiave per la lettura dell'illusione idealistica, tipicamente tedesca, di poter
risolvere "spiritualmente" le contraddizioni tra individuo e societa', illudendosi circa le potenzialita'
della liberta' interiore del singolo nei confronti della sua subordinazione sociale al potere.
In questa esposizione del tema del patto col diavolo si tratteggia un percorso nella storia
tedesca che, partendo dalla Riforma e dalla cosiddetta "soluzione interiore" dei problemi politici
dell'individuo, conduce alla "rivoluzione spirituale" del movimento romantico tra la fine del '700 e i
primi '800. La tendenza a considerare "reale" una liberta' puramente interiore, a confondere il "fatto"
col "pensato", a fuggire dalla storia umana e dal progresso per cercare scorciatoie intimistiche (il mito
della capanna e del bosco, il viaggio intorno al mondo, il mito del buon selvaggio) o addirittura
esoteriche (la pietra filosofale, il patto col diavolo), questa tendenza idealistica ed egoistica innesta
all'inizio del XX secolo un avvitamento irrazionalistico della mentalita' tedesca che, se non
direttamente responsabile del nazismo, certo consegna a Hitler - come suggerisce il capolavoro di
Thomas Mann - la carta del patto col diavolo di arcana memoria.
10
III - Faust e il "faustismo".
Il Doktor Faustus nacque, come sostiene la leggenda popolare, intorno al 1480. Luogo di
nascita di questo spregiudicato dotto protagonista del patto col diavolo: incerto, anche se viene indicata
la cittadina di Wittemberg nella regione Wüttemberg. Si sostiene anche che sia in realtà originario di
Knittlingen, piccola località della stessa regione. Faust potrebbe infatti dovere il suo nome alla
tradizione nobiliare di usare il toponimo latinizzato del luogo di orgine al posto del cognome. Di qui
"Faustus", forma latina del termine germanico "Knittel" (clava), la cui radice etimologica si ritrova per
l'appunto nel nome della cittadina di Knittlingen. Faust significa "pugno" nel moderno vocabolario
tedesco, cioé quella parte a forma di pugno che si trova all'estremità di una clava.
Alla leggenda di Faust, che pretendeva di conoscere la magica formula per trasformare il
carbone in oro zecchino - e per questa sua immeritata fama pare che avesse addirittura ricevuto la
visita del re di Francia, in cerca di facili introiti per finanziare le imprese militari del regno, - si ispirò
un libro francofortese del 1587 dal titolo "Spiessische Handbuch", dal nome dello stampatore Spiess.
Un'altra versione della storia di Faust e del suo infernale patto, quella di Widmann del 1599, è
poi di notevole interesse in quanto rappresenta un'anticipazione di ciò che nella versione goethiana
dello "Urfaust" (1778) - prima stesura del "Faust Erster und Zweiter Teil" (1802-1808) - diventerà la
cosiddetta "tragedia di Margherita". Fu infatti Widmann a narrare per primo gli amori di Faust, il quale
si sarebbe appunto invaghito di una giovane popolana inducendola alla rovina.
Da queste prime storie, pubblicate come vere biografie nell'intento di mettere in guardia il
lettore cristiano contro le tentazioni diaboliche della sete di sapienza e del raziocinio (il che rientra,
come abbiamo visto, nel quadro mistico della Riforma), il mito di Faust si trasforma (come sostiene
Schwerte in "Faust und das Faustiche") in un capitolo dell'ideologia tedesca
Nel saggio su Faust che precede l'edizione italiana dello "Spiessische Handbuch" Enrica
D'Agostini scrive:
"E' superfluo ricordare le notissime tappe della fortuna di Faust fino al romanzo di Thomas
Mann. Ma non è inutile ricordare che anche Heine, Bloch, Vischer, Eisler, per citare i più noti, hanno
avvertito la necessità di scrivere anche poche righe su l'empio uomo di scienza (v. anche K. Völker,
"Faust, ein detuscher Mann”, Berlin 1975). Faust fu inoltre protagonista di molte rappresentazioni
del teatro dei burattini nel '600 e nel '700, e fu proprio il Puppentheater ad impedire che la storia del
mago scomparisse nei secoli di passaggio dal '500 a Lessing e Goethe".
Così il mito faustiano ha resistito alla corrosione e alla polvere dei secoli per seguire la storia,
almeno quella tedesca, fino all'epoca attuale. In questa storia anzi sembra proprio che il diavolo ci
abbia messo il suo zampino! Non vogliamo affrontare il controverso, e già fin troppo discusso
argomento del rapporto irrazionalismo-nazismo, nonché la questione dell'aspirazione demoniacofaustiana, esoterica e mistica, dello stesso Hitler. Il riferimento è, piuttosto, alla rivoluzione economica
del capitalismo che ha origine nel '500 con l'invenzione dell'imbroglio della carta moneta che, ad
avviso di Goethe, rappresenta la vera natura del patto col Diavolo. Infatti, è da questa trasformazione
che nasce l'alienazione spirituale dell'uomo determinato solo dal suo "valore finanziario" che ne
mercifica la personalità. Sarebbe fin troppo scontato citare Marx parlando di alienazione, preferiamo
invece vedere in Faust un simbolo letterario evidente del "malessere sociale" dell'uomo considerato
solo come individuo economico e non come "persona". E' questo il significato del patto col Diavolo
come ci viene descritto dallo "Spiessische Handbuch" del 1587 che ne riporta fedelmente il testo:
"Il Dottor Faust fece scorrere il suo sangue in una ciotola, la pose sui carboni ardenti e
scrisse:
Io Johann Faust, dottore, dichiaro e confermo pubblicamente quanto contiene questa mia
lettera autografa: dopo aver intrapreso lo studio degli elementi, con le mie sole doti naturali, quelle
che mi erano state benignamente concesse dall'Alto, non trovando in me stesso tale capacità e non
potendola avere dagli uomini, ho fatto voto di sottomissione allo spirito che ha nome Mefistofele,
suddito del Principe degli Inferi in Oriente, e l'ho scelto affinché mi istruisca e m'insegni tali cose. Lui
a sua volta si è obbligato nei miei confronti ad essermi sottoposto ed ubbidiente in tutto e per tutto. In
cambio io gli prometto e giuro che, una volta trascorsi 24 anni dalla data di questa lettera, egli potrà
fare di me ciò che vorrà a suo piacimento, avrà potere sul corpo e sull'anima, sulla carne e sul sangue
fino all'eternità. Con questo patto io rinuncio a vivere come tutti i miei conterranei, alle forze celesti e
ai miei simili in genere, e così sia. Per rendere definitivo il patto e per dargli maggior forza ho redatto
questo contratto con la mia propria mano avallandolo col mio proprio sangue ed affermo di averlo
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stilato in pieno possesso di tutti i miei sensi. Firmato, Johann Faust, esperto conoscitore degli elementi
naturali e della dottrina teologica".
La modernità ed attualità del mito faustiano sta nel contratto che Faust sostiene di aver stilato
"per renderlo definitivo e dargli maggior credito". Ciò dimostra che ci troviamo al cospetto con un
vero e proprio contratto notarile, - cosa ben strana essendo in gioco il Diavolo e il Regno degli Inferi
che hanno un valore simbolico, per non voler dire spirituale. Si tratta forse di una normale
compravendita "borghese"? Sarebbe lecito domandarsi: che se ne fa lo spirito del male di un attestato
scritto? Potrà mai esibirlo in un tribunale, qualora a Faust saltasse in mente di non rispettarlo?
Insomma, se si tratta di un "patto spirituale", allora a che serve la formula scritta? Il fatto che sia il
Diavolo a costringere Faust a stilare il patto per farlo sentire così obbligato al rispetto delle norme in
esso contenute, non cambia le cose. Anzitutto perché Faust crede che il "patto borghese" valga anche
per il Diavolo e per il suo spirito, come se non fosse nella natura del Principe degli Abissi contraddirsi
e rimangiarsi la parola. Certo è che Mefistofele stesso sembra convinto che, se Faust non sottoscrivesse
il patto, egli non avrebbe alcun potere su di lui. Quindi il contratto non è un semplice espediente, un
deterrente psicologico con cui il Diavolo intende soggiogare Faust, bensì un vero e proprio atto
"commerciale": io ti dò l'anima per sempre in cambio del benessere e dei piaceri per un dato periodo.
Seguiamo l'andamento delle trattative che vede impegnati, sempre nella versione di Spiess, i
due contendenti Faust e Mefistofele:
"Il Dottor Faust pretese dallo Spirito ciò che segue:
Primo, che desiderava ricevere per sé e mantenere le doti, la forma e la sostanza di uno
spirito.
Secondo, la piena obbedienza e disponibilità dello spirito stesso.
Terzo, la sua sottomisione incondizionata come da un servo.
Quarto, l'immediata apparizione nella sua casa ogni qualvolta lo evocasse.
Quinto, l'assoluta invibilità dello spirito che non può manifestarsi ad altri che a lui.
Sesto, ove fosse necessario mostrarsi, Faust avrebbe di volta volta indicato le sembianze da
assumere.
Lo Spirito rispose a Faust di accettare questi sei punti e di eseguire prontamente ogni suo
ordine ed in cambio pretendeva a sua volta il soddisfacimento di alcuni desideri. Le condizioni poste
dallo Spirio furono le seguenti:
Primo, che egli, Faust, giurasse di volergli appartenere in via esclusiva.
Secondo, di samcire questo voto, per dargli maggior valore, con un patto di sangue,
promettendosi così a lui.
Terzo, di dichiararsi nemico giurato di tutti coloro i quali credono in Cristo.
Quarto, di abiurare la fede cristiana.
Per contro lo Spirito concederà a Faust molti anni per realizzare i suoi desideri, ma quando
questi anni saranno trascorsi, Faust dovrà andare via con lui.
L'orgoglio e la superbia del Dottor Faust crebbero a tal punto che, sebbene avvertisse in
parte di aver peccato, non volle riflettere sulla salvezza della sua anima, ma promise al Maligno di
accettare tutte le sue condizioni. Pensò che il Diavolo non fosse così nero come lo si dipingeva e
l'inferno così bollente come si racconta".
Bisogna convenire che Faust non ha tutti i torti a prendere sottogamba Mefistofele,
considerandolo un diavoletto da strapazzo, a considerare quindi la possibilità di svincolarsi
dall'impegno. Un conto è darsi anima e corpo al Diavolo in cambio di inauditi benefici; altro, questo il
punto, mercanteggiare, porre condizioni, puntualizzazioni e distinguo, accettare i "desiderata" della
controparte. E che, un Dottore in giurisprudenza del calibro di Faust, non pensa in questo frangente di
riuscire a rescindere il contratto con qualche cavillo al momento debito? Chi può spaventare ed atterrire
un contratto così "borghesemente" stipulato? E poi, in caso di rottura del contratto, che avrebbe potuto
fare il Diavolo, ricorrere al giudice civile? Protestare la cambiale di sangue? Come vedremo nelle
seguenti pagine, Adelbert von Chamisso avvertì il lato assai poco demoniaco e borghese di simili
"patti col diavolo". Il protagonista del capolavoro di von Chamisso, "La strabiliante storia di Peter
Schlemihl" del 1812, finisce infatti per vendere se stesso come un oggetto, chiaro segno della denuncia
della mercificazione della personalità.
Il XVI secolo, in effetti, segna l'inizio dell'accumulazione capitalistica che dal Rinascimento,
attraverso una progressione strutturale e storica vertiginosa, - all'inizio individualistica, poi
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impersonale (la finanza societaria), quindi virtuale e non più di "persone", il capitalismo "mordi e
fuggi" delle multinazionali,- arriva ai nostri giorni. Faust è un fuscello umano in questo mare che
comincia a farsi tempestoso. Fin dalle origini conquecentesche della sua leggenda, egli è, alla fine, solo
un borghese frustrato che non riesce ad emanciparsi né socialmente né economicamente. Ha studiato
sodo, ma non è ricco e potente come aspirerebbe. Inoltre, desidererebbe essere totalmente libero come
individuo, - il che lo trasforma in un "campione" dello spirito del tempo in cui comincia a porsi il
problema della libertà personale. Faust, però non riesce ad essere né ricco né libero. L'indigenza lo
costringe a cercare di forzare le leggi della natura, a piegare l'alchimia ai suoi scopi egoistici al fine di
tramutare la materia in oro, cosa in cui, contrariamente a quanto sostiene qualche voce, non gli riuscì.
Altrimenti non avrebbe avuto motivo di scendere a patti col Diavolo per fare i suoi "porci" comodi
nella storia dell'umanità.
IV - Faust e Shylock.
Nel corso del '600 la leggenda di Faust si trasferisce armi e bagagli in Inghilterra. Proprio
grazie al successo del poema drammatico (1590 circa) del drammaturgo inglese del periodo
elisabettiano, Christopher Marlowe, Faust sopravvive Oltremanica prima di tornare in Germania, nel
'700, con tutte le sue diaboliche peripezie. Un'eco del tema del patto col diavolo è presente anche nel
"Mercante di Venezia" (1594 circa) di Shakespeare, dove il Male è sicuramente rappresentato dal
mercante giudeo Shylock. A causa della caratterizzazione razziale e religiosa del personaggio di
Shylock, viene da tempo rivolta un'aspra critica a Shakespeare: l'accusa di antisemitismo ha
pregiudicato addirittura l'allestimento dell'opera in Israele. Non è nostra intenzione entrare in questa
polemica, anzi vogliamo scantonarla attribuendo a Shylock anche una caratterizzazione economicosociale, oltre che religiosa e razziale. Nell'opera di Shakespeare, il cui carattere antisemitico è
comunque presente, Shylock è un mercante, quindi rappresenta una particolare classe sociale
veneziana: la borghesia.
I due protagonisti del dramma scespiriano, Antonio e Shylock, stipulano un contratto che ha
delle curiose analogie con il contratto diabolico tra Faust e Mefistofele. Infatti Antonio rappresenta,
col suo voluttuoso attaccamento alle sorti di Bassanio, un interesse più o meno platonico camuffato da
umanistici ideali di amicizia, la contraddittorietà di Faust che si dà nobili scopi per poi, nell'animo,
navigare più basso al livello di istinti sessuali. Shylock, dal canto suo, è sicuramente l'elemento
mefistofelico della vicenda, - la quale non sarebbe poi tanto diabolica se non ci fosse in ballo una libbra
di carne umana. E vedremo che in questo caso il sangue avrà un ruolo principale da un punto di vista
giuridico, proprio come accade per Faust che viene obbligato dal Diavolo a firmare per ben due volte
col sangue il patto.
In entrambe le vicende che vanno oltre ogni regola del mondo civile, è il denaro a farla da
padrone e a sottomettere i protagonisti: 3000 ducati per una libbra di carne umana, ecco ciò che unisce
Faust ad Antonio, Shylock a Mefistofele. Da una parte occorre denaro per il compimento di scopi più
o meno umanistici, la salvezza dell'amato amico, dall'altra la rivendicazione della proprietà dell'uomo
sull'uomo sempre determinata dall'elemento economico. Il fatto che Shylock pretenda dal suo debitore,
caduto in difficoltà finanziarie per il vento della sorte, il pezzo di corpo che gli spetta da contratto,
anziché l'anima, non deve trarre in inganno sulla sua natura diabolica: secondo la concezione ebraica
anima e corpo sono tutt'uno, si fondono nel sangue, nel génos e nella stirpe intesi come unità fisica e
corporea del popolo di Israele. Pretendendo una libbra di carne umana in caso di insolvenza Shylock
punta dunque, così come Mefistofele fa con Faust, all'anima di Antonio.
Possibile che Shakespeare, un secolo dopo la prima comparsa di Faust, avvertisse la natura
diabolica della mercificazione della personalità, tanto da riprendere il tema del "contratto" col diavolo
da un punto di vista così strettamente economico? Bisogna concludere che anche per Shakespeare il
Diavolo non è altri che un mercante che si frega le mani di fronte alle catastrofi e disgrazie del
prossimo ed è pronto ad usare il denaro per ottenere ciò che vuole? Il ruolo del denaro assume un
valore sempre più centrale e simbolico: Faust se ne serve per concupire Margherita, così come Antonio
in cuor suo spera di fare con Bassanio. Al tempo stesso per Mefistofele e per Shylock esso è uno
strumento di dominio.
Antonio si dichiara disposto a prestare tremila ducati all'amico Bassanio, ma non ne ha al
momento disponibilità immediata essendo la sua fortuna legata ad un commercio dall'Oriente.
Commercio che non presenta rischi, a parte il viaggio della nave che pare ormai in rotta sicura per
Venezia. Pensa dunque di potersi far garante per Bassanio nei confronti di Shylock, pur odiando con
tutta l'anima il mercante ebreo per la sua fama di strozzino. Shylock, intimamente offeso dal
trattamento superbo, accetta la garanzia personale offerta da Antonio senza peraltro pretendere interessi
in caso di ritardo od insolvenza. Chiede "solo" una libbra di carne del debitore qualora non gli venisse
restituito il denaro nel tempo dovuto. Una condizione tanto improbabile quanto assurda e,
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apparentemente, inesigibile. Condizione alla quale Antonio non dà appunto alcun valore giuridico.
Sbagliandosi, però, poiché i contratti "borghesi" quantunque diabolici sono, purtroppo per Antonio,
vincolanti, stritolanti. E perché? Perché c'è di mezzo il denaro, l'interesse economico che sottrae ai
rapporti umani l'elemento della natura (e del diritto naturale) e del sentimento, immettendo un fittizio
valore estraneo allo spirito - ma non al portafogli delle persone. Così i rapporti estremamente forti tra i
tre protagonisti del "Mercante" sono al principio puramente naturali: Antonio ama Bassanio e odia
Shylock il quale a sua volta odia la superbia di Antonio. Dal momento che qui tutti i rapporti sono
basati su odio e amore, due sentimenti assolutamente naturali, ecco che è proprio il denaro a compiere
la tragedia rendendo diaboliche le relazioni interpersonali. Il denaro, all'apice della sua potenza
disumanizzante, si trasforma nell'opera di Shakespeare in carne umana: denaro in cambio di carne, ecco
emergere l'aspetto mefistofelico di Shylock che pretende, con ragioni giuridicamente sostenibili, la
riscossione della sua macabra ipoteca.
E qui entra in gioco il sangue, sangue che funge da inchiostro indelebile per Faust causandone
la perdizione, ma che per Antonio invece gioca a favore. Perché Shylock potrà prendersi la libbra di
carne che gli appartiene, così sancisce la legge, ma non dovrà far sgorgare alcuna goccia di sangue, in
quanto il contratto non ne prevede spargimenti. Il Diavolo insomma fa le pentole ma non i coperchi
nell'opera di Shakespeare. Opera che rappresenta, a nostro avviso, più un atto di accusa contro
l'avidità borghese che contro i giudei, visti sprezzantemente nella loro qualità di mercanti e non di
appartenenti ad una fede. Sostenere, insomma, che uno strozzino cattolico è ripugnante in quanto
strozzino, non può certo essere ritenuta un'offesa contro la fede cattolica! E siccome esistono strozzini
ebrei, cattolici, induisti e perfino qualcuno ateo, è ovvio che voler leggere il "Mercante" solo come un
oltraggio razzista e non come una condanna sociale di un particolare sviluppo economico risulta
alquanto riduttivo.
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V - Faust e lo stato di natura.
Tornando a Faust e Mefistofele, ci accorgiamo che essi, prima di autenticare il contratto di
compravendita dell'anima, si trovano in uno stato di natura. Faust tutto sommato non è soddisfatto della
sua condizione umana, si sente limitato e frustrato nelle sue aspirazioni di libertà: il suo primo
desiderio è la ricerca del contatto con la natura, interiore ed esteriore. Infatti. a partire da Marlowe e poi
nella tradizione tedesca (Lessing, von Chamisso), il dialogo è intimo alla coscienza di Faust al quale si
presentano due spiriti, uno del bene e l'altro del male. Spiriti che rappresentano la dialettica della
natura e il conflitto tra istinto e morale. Solo in un secondo tempo compare a Faust il male incarnato da
Mefistofele, apparizione che diverrà la costante fin dall'inizio del "Faust" goethiano. Dicevamo che
Faust aspira solo ad emancipazione umana, alla realizzazione, sia pur egotistica, del suoi bisogni, il che
rientra nel quadro del naturale-umano fissato da Hegel nella "Filosofia del diritto" del 1821, - dove si
parla appunto della "teoria dei bisogni" che sarà oggetto tra breve di più approfondita analisi.
Mefistofele invece, torniamo allo "Spiessische Handbuch" appare a Faust controvoglia, solo
perché tirato in ballo ed evocato: altrimenti che cosa gliene sarebbe importato di un omuncolo come
Faust? In effetti, le prime richieste avanzate da Faust allo Spirito, annoiato da tanta banalità, sono
semplici desideri di soddisfazione dei bisogni naturali primari:
"Quando Faust voleva bere del vino, lo spirito glielo portava nella cantina da lui prescelta...
Ogni giorno disponeva di ottimo cibo... Lo spirito gli portava i piatti più succulenti e raffinati... Faust e
il suo famulo Wagner andavano vestiti in modo vistoso con abiti che il suo spirito si procacciava
acquistandoli o rubandoli di notte... Lo stesse avvenne per le scarpe e le giacche di pelle a scapito di
conciatori e calzolai. Il diavolo promise inoltre che gli avrebbe dato venticinque corone la settimana,
in un anno fanno milletrecento corone, e questa sarebbe stata la sua rendita annuale".
Ecco, dunque, che il vero e proprio maleficio che si instaura tra Faust e Mefistofele riguarda il
denaro: la brama di sapere del celebre dottore si trasforma infatti in una forma di voluttà di possesso.
Più che di conoscere e scoprire, questo Faust ha voglia di soddisfare la pancia e le zone limitrofe. E
naturalmente di riempirsi il portafoglio. Non è infatti casuale che nella leggenda di Faust il denaro sia
una costante praticamente fissa, anzi un chiodo fisso nella sua mente e nella sua carne. Nella seconda
parte del poema goethiano, come abbiamo visto, Faust realizza con l'aiuto di Mefistofele la carta
moneta riuscendo a creare solo un grottesco trambusto nel malcapitato regno. Di pari passo, il denaro,
inteso come elemento di decadenza e corruzione fisica e spirituale, ricorre in un altro celebre contratto
faustiano che vede protagonista un personaggio del XIX secolo, Peter Schlemihl che, nel romanzo di
von Chamisso, vende la propria ombra, cioé la propria personalità, in cambio di un sacchetto che
vomita monete d'oro a volontà.
Denaro, solo denaro, nient'altro che il denaro: è questa la grande tragedia dell'umanità di cui
Faust è la vittima simbolica.
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VI - Il mistero di Faust.
Nel primo paragrafo abbiamo indicato in Martin Lutero un ipotetico autore o, comunque,
estensore della leggenda di Faust. Ricordiamo che Lutero ha fondato la Riforma sulla traduzione delle
Sacre Scritture dal latino in tedesco: ora, il mistero circa l'origine della leggenda di Faust apre in questo
contesto un nuovo fronte di indagine. Le origini del negromante si perdono in effetti nella notte dei
tempi. Maria Enrica D'Agostini nell'introduzione all'edizione italiana dello "Spiessische Handbuch"
(1584) avverte che lo stesso testo di Spiess non è che la rielaborazione a sfondo religioso di una più
antica saga latina ispirata, è probabile, ad intenti didattico-ricreativi:
"E' proprio nella prefazione al lettore cristiano che si cela l'inizio del problema del testo
latino."
Cosa nasconde di tanto importante questa premessa? Riprendiamola da un testo del 1572, il
cosiddetto "Wolfenbüttler Handschrift" che precede l'edizione di Spiess:
"Gentile, caro amico e fratello, questa storia del dottor Faust e del suo empio proposito mi ha
indotto, sulla base delle tue molteplici preghiere e richieste, a tradurla dal latino in tedesco".
Considerando che il "Wolfenbüttler Handschrift" scoperto da Milchsack nel 1892 risale con
certezza al 1572, l'esatta datazione è indicata anche dal Müller in un saggio del 1923, non ci resta che
tener ferme le origini latine di Faust ed indicare in Martin Lutero il probabile esecutore della
traduzione della leggenda in tedesco.
Ciò che in questa sede è importante stabilire è che le origini del mito sono certamente
antichissime, forse irrecuperabili nella loro forma originaria. Tuttavia, è pur vero che la leggenda
faustiana trova ossigeno in un delicato momento della formazione della ideologia borghese, ossia
verso la prima metà del '500. Sono quindi queste radici "borghesi" del patto col Diavolo a dare senso
alla modernità ed attualità del mito.
Abbiamo visto che i guai di Faust derivano essenzialmente dalla sua ossessionante sete di
possesso, quindi di ricchezza. Certo, Faust sembra "anche" incuriosito dai misteri della natura che
Mefistofele potrebbe svelargli. Ma l'interesse di Faust per la natura è secondario, prima viene la
questione della noia esistenziale e poi il raggiugimento del piacere assoluto. Lo stesso Goethe nelle sue
rielaborazioni del mito che lo impegnarono dal 1787 al 1812 spostò progressivamente l'ago della
bussola. Nell'Urfaust infatti il dramma del dottore è quello della perdita del proprio naturale umano: la
sua invocazione dello spirito, ne abbiamo appena parlato, trova giustificazione in un distacco spirituale
con la natura. Così il famoso verso:
"Wo fasse ich dich, unendliche Natur?"
(Come raggiungerti, o natura infinita?)
è la sintesi di tutta la problematicità di una vita solitaria e asociale che non trova ristoro nel mondo e
nel creato. Senonché nella seconda parte del Faust, l'ultima versione goethiana del 1808, troviamo il
dottore alle prese con tutt'altri problemi: quelli concernenti la costituzione della sua proprietà
capitalistica. Lukàcs, come noto, ha definito questa parte del poema come "Il gran mondo borghese di
faust".
Risulterà chiaro il profondo rapporto spirituale e, perché no?, materiale che intercorre tra
Faust e il denaro nel doppio senso, appunto, di arricchimento spirituale e materiale dell'uomo. Infatti,
chi non ha quattrini non può permettersi quella forma di vita contemplativa, teorizzata da Aristotele che
la collegò incondizionatamente alla ricchezza, definita Otium nel mondo latino che pure la considerò
inseparabile dalla consistenza patrimoniale. Pur non volendo risalire alle origini di Faust fino al mondo
greco-latino per dimostrare che la vera causa del Male sta nella "positività" dello spirito,- come Hegel
definì nei suoi scritti teologici giovanili la "privatizzazione" dello spirito da parte del Cristianesimo, va
tuttavia ricordata la leggenda di Simone ed Elena così come la riporta Thomas Mann nel saggio "Sul
faust di Goethe" del 1939:
"Simone ed Elena divennero dunque una coppia di ciurmatori notissima nei primi tempi del
Cristianesimo, e Svetonio ci narra che fu questo Simone a tentare davanti all'imperatore Nerone, ma
con esito nefasto, il primo esperimento di volo che la storia umana ricordi. Il volo! Un motivo
antichissimo comune ad ogni genere di stregoneria e negromanzia. Il passo in cui Faust parla a
Wagner della gioia del volo testimonia il connubio del poeta con la magia... Simone il samarita, per
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tornare a lui, continuò a vivere in un romanzo dei primi tempi del Cristianesimo, intitolato
Recognationes. ... Ma il romanzo racconta anche che Simone fuggendo insieme con Elena assunse il
nome di Faustus".
E' proprio Elena - una cortigiana di facili costumi nella leggenda di Simone, ma l'incarnazione
della bellezza dell'antichità classica nel poema di Goethe - a rappresentare la continuità del mito dal
mondo cristiano-latino fino ai nostri giorni. Ritroviamo infatti Elena nello "Spiessische Handbuch" del
1587, nel "Faust" di Goethe del 1808, fino al "Doctor Faustus" del 1943 di Thomas Mann. Qui Elena
compare, fin dalle prime pagine del romanzo, come la moglie di Serenus Zeitblom, l'Io narrante
dell'opera di Mann.
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VII - Faust e il problema della libertà.
Dopo il bisogno di denaro, il celebre dottor Faust è alle prese con un altro ossessionante
problema che va naturalmente di pari passo con quello della ricchezza: la libertà personale. Non si è
mai visto un ricco che non abbia voglia di fare ciò che gli pare. Questo estremo bisogno di libertà da
parte di Faust introduce ad un altro contraddittorio capitolo della formazione dell'ideologia borghese,
soprattutto in Germania e negli altri paesi interessati dalla Riforma luterana.
Abbiamo
precedentemente posto la questione che ora è bene approfondire.
La Riforma luterana puntò, da un lato, sull'interiorità del soggetto (al quale in tal modo si aprì
un insospettato orizzonte di libertà spirituale). Dall'altro, però, essa impoverì la funzione di questa
indipendenza interiore rendendola socialmente inefficace. Insomma, il motto della Riforma si può
riassumere così: liberi dentro, asserviti fuori. Ne risultò ovviamente una profonda frattura tra il mondo
ideale e spirituale e la realtà fenomenica, storica e sociale. Da qui il vizio della "ideologia tedesca"
criticata da Marx: l'eccesso di idealismo ed individualismo, con la conseguenza pratica dell'egoismo
teorizzato da Max Stirner ne "L'unico e la sua proprietà" del 1848.
Nel divario tra il mondo astratto della libertà interiore e quello reale della necessità, divario
provocato dalla svolta "spirituale" della Riforma, si possono rintracciare i primi sintomi della tendenza
a sopravvalutare le segrete risorse della personalità. Una tendenza che, nel giro di tre secoli a partire dal
tempo di Lutero, ha poi caratterizzato il "vizio idealistico" della rivolta anarchica (Stirner) del piccolo
borghese tedesco represso e frustrato. In tal senso è lecito domandarsi ce Faust possa essere veramente
considerato il prototipo di anarchico piccolo-borghese. Certo è che la sua mania di grandezza (e di
ricchezza) lo inducono non solo a far ricorso alle proprie forze interiori per evocare il Male in persona,
ma anche a ritenere di poter agevolmente soggiogare, proprio grazie alle sue forze spirituale, lo stesso
Diavolo, come del resto viene confermato nello "Spiessische Handbuch":
" L'orgoglio e la superbia del dottor Faust crebbero a tal punto che, sebbene avvertisse in
parte di aver peccato, non volle pensare alla salvezza della sua anima, ma promise al Maligno di
accettare tutte le sue condizioni. Pensò dentro di sé che il Diavolo non fosse così nero come lo si
dipinge e nemmeno l'inferno così caldo come lo si descrive".
L'empietà e la temerarietà insiti nello spirito del patto - nota a questo proposito la D'Agostini sono mitigati dal desiderio di ricerca e di conoscenza che guidano Faust. Lutero, nelle "Tischreden",
prese naturalmente le distanze dalla prepotenza accaparratrice e accumulatrice che anima Faust:
"I seguaci di Epicuro sostengono che il diavolo non sia così nero come lo dipingono i pittori,
né l'inferno così caldo come ammoniscono gli uomini di fede".
Tuttavia, è proprio Lutero a gettare le basi spirituali del problema della libertà dell'individuo.
Problema che sfociò tra fine '700 e primi '800 nei miti romantici di riconquista dell'Io (Novalis, Kleist,
Brentano ecc.). Luterò tentò infatti di mediare, subordinando l'uno all'altro, il concetto di libertà
individuale con quello di una passiva obbedienza a qualsiasi forma di potere istituzionale,
indipendentemente dalla confessione o dalla giustezza di quest'ultimo. Le prime lezioni di Lutero sarà bene ricordare, tenute nella città natale di Faust, Wittenberg - concernono il commento paolino
della "Lettera ai Romani". Ciò dimostra che già nel 1515 il padre della Riforma non avesse alcuna
intenzione di rompere con la tradizione che riguardava il problema della spiritualità umana nei suoi
rapporti con l'autorità temporale. Ecco quanto sostiene a questo proposito Unruh in "Obrigkeit und Amt
bei Luther" ("Potere e dovere in Lutero", Berlino 1975)
"Per Lutero ci sono due regni voluti da Dio: quello terreno che impera con la spada e viene
percepito come esteriore, e quello spirituale non percepibile coi sensi umani".
La sanguinosa sconfitta subita a Frankenhausen nel 1525 dai contadini di Thomas Münzer, che rivendicò il principio di una giustizia divina connessa all'indipendenza morale e all'uguglianza
sociale degli uomini - evidenziò le terribili conseguenze politiche della dicotomia tra libertà interiore e
asservimento politico risolta da Lutero in modo fariseico. Nel 1520 in "Della libertà del cristiano"
Lutero si esprime chiaramente a questo proposito:
"Che giova all'anima che il corpo sia libero e sano, che mangi e viva come vuole? Queste
cose non servono in alcun modo all'anima per renderla libera o schiava, pia o malvagia. Un cristiano
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deve accontentarsi della sua fede ed accrescerla sempre.. e sebbene egli sia del tutto libero,
nuovamente si fa servo per giovare al prossimo suo".
Nelle "Esortazioni alla pace" del 1525, al fine di tenere a bada la rivolta dei contadini, Lutero
tornò ad insistere sul principio della doverosa sottomissione all'autorità costituita in cambio della più
pura ed ampia, benché inutile, libertà spirituale:
"L'essere l'autorità malvagia od ingiusta non giustifica né il brigantaggio né la sedizione,
perché non spetta a chiunque punire il male, ma solo all'autorità temporale che detiene il potere della
spada... Se togliete all'autorità questo potere, le avrete tolto tutto. A nessun cristiano si conviene
disputare e combattere, ma solo soffrire ingiustizia e tollerare il male".
L'insanabilità del contrasto tra libertà interiore e asservimento supino all'autorità, innescò una
tensione nella coscienza individule che, scoprendosi illimitata da un punto di vista spirituale, percepì
drammaticamente l'impotenza nei confronti della realtà politica e sociale. Basti qui ricordare che
Lutero ne "Sull'autorità secolare" del 1523 asserì:
"E' necessario dare saldi fondamenti al diritto secolare e alla spada, sebbene nessuno dubiti
che essa esista nel mondo per volere e disposizione di Dio... Sia dunque sottoposto ciascuno
all'autorità e al potere, poiché non vi è potere se non da Dio e i poteri che sono, sono da Dio disposti.
Siate dunque soggetti ad ogni potere creato dagli uomini, al re come ai principi e ai governatori, come
a persone mandate da Lui".
In questo contesto culturale la ricchezza cui aspira Faust assume una forte valenza spirituale,
oltre che materiale: il denaro è la sola forza capace di realizzare i desideri, i sogni e soddisfare i
bisogni. La prima cosa, allora, è impossessarsi del denaro prima ancora di porsi il problema della
libertà di spenderlo. Ebbene, è ancora Lutero ad aprire a Faust la prospettiva di una soluzione
"spirituale" dei problemi personali "materiali". Se l'Io, almeno nel suo essere più profondo, è
incondizionatamente libero (l'unica condizione è che si tratta di una libertà interiore pur sempre
sorvegliata da Dio e dalla coscienza), non resta che far affidamento su queste illimitate capacità
interiori. Il Male, il Diavolo, si trasforma in questo contesto in una supervalutazione delle risorse
interiori dell'individuo. Risorse in grado, per un processo di fermentazione delle concezioni luterane
circa la libertà interiore, di ottenere l'impossibile. Ossia la libertà totale, sia pur per un tempo limitato.
Ed è certamente chiaro che tale sopravvalutazione del Sé, venga a poco a poco a mancare quella
"sorveglianza dall'alto" che Dio dovrebbe imporre tramite la coscienza. Da ciò scaturisce il Male
rappresentato da un patto, borghese quanto diabolico, col quale l'individuo intende impadronirsi del
mondo. Mefistofele, insomma, fa saltare il limite che ogni cristiano deve imporre al proprio egoismo
personale. Il Male è dunque lo scatenamento dell'Io.
Faust allora finisce per forzare quelle barriere invalicabili che Lutero pone all'emancipazione
dell'individuo: coscienza e società. Abbiamo accennato a come Faust tratti la coscienza: in pratica la
abolisce, la annienta all'ombra del proprio egoismo, del culto di se stesso che lo rende sempre più
capace di tutto, perfino di scendere a patti con le più bestiali pulsioni ed istinti. Tuttavia c'è ancora la
società a tenerlo a bada, a limitarlo. Diventato un capitalista, non si sente ancora libero di godersi i
frutti della propria libertà. Nella concezione luterana la ricchezza è pur sempre un dono divino, e come
tale va usata. E poi Faust continua a sentirsi incastrato dalla formula luterana che alla libertà spirituale
contrappone l'obbedienza politico-sociale.
Ecco allora che il patto col Diavolo di Faust è la sintesi del sentimento politico provato dalla
nascente borghesia tedesca del '500. Essa riuscì in effetti a conquistare una spanna di libertà spirituale,
accompagnata da un certezza dell'origine divina dell'accumulazione vista come testimonianza della
benevolenza del Cielo, senza tuttavia essere veramente libera da un punto di vista sociale, essendo
anch'essa assoggettata all'autorità dei principi e della nobiltà terriera feudale. Autorità che in Germania
è rimasta per secoli pressoché immutata.
E' comprensibile che in questa situazione priva di sbocchi politici concernenti il problema
della libertà personale, situazione politica abbastanza chiara alla nascente borghesia tedesca, l'unica
alternativa fosse rappresentata dalla misteriosa alleanza con le forze oscure. Faust vuole insomma
servirsi di Mefistofele per ottenere la libertà di poter vivere al di fuori di ogni vincolo di coscienza,
oltre ogni barriera sociale limitanti la sua sete di possesso. Il malcapitato Dottore è altresì il campione
di quella nascente borghesia alla quale Lutero lasciò intravedere universi di libertà interiore, senza poi
riuscire né ad elaborare un piano né ad indicare uno strumento per realizzarla. Senonché, alla fantasia
umana non manca l'immaginazione per sopperire a queste mancanze evocando dal nulla qualcosa o
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qualcuno capace di realizzare "nonostante tutto" il desiderio di libertà: il Diavolo appunto, come
suggerisce la D'Agostini:
"In Faust sono presenti le irrisolte problematiche medievali e luterane, ma affiorano anche i
tratti di una nuova sensibilità che, pur parzialmente condizionata dalla superstizione, tende a
proiettarsi nel superamento di queste e delle loro gerarchie di valori: nell'insopprimibile desiderio di
esperire nuove e diverse forme di vita e di conoscenza si intravede il difficile passaggio dal quadro
teologico dell'ordo medievale alla riaffermazione dell'Io perseguita dal Rinascimento".
Possiamo allora concludere che Faust vive le contraddizioni del proprio tempo e della propria
classe sociale (arricchimento e libertà dai vincoli feudali), insomma le "irrisolte problematiche
luterane" delle quali nel brano su citato parla la D'Agostini, risolvendoli a modo suo. Con l'evocazione
del Diavolo in mancanza di una borghesia politicamente capace, in Germania, di rinnovare la società.
Tema, questo della mancanza di una borghesia rinnovatrice, che, come vedremo, avrà lunghe e pesanti
conseguenze nella storia tedesca.
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VIII - Faust e il suo doppio "inglese".
Alla fine del '500 il mito di Faust trova dunque la sua prima ampia audience teatrale in
Inghilterra. Marlowe, pur mantenendo l'ambientazione dell'opera in Germania, mette fin dalle prime
battute in risalto l'aspetto privato del dramma di Faust alle prese col solito problema della ricchezza.
"Non più marciando ai campi del Trasimeno
dove Marte sposò i guerrieri cartaginesi
né gustando i piaceri dell'amore
nelle corti dei re e dei colpi di Stato
né celebrando imprese temerarie...
Oggi dobbiamo, signori, solo render nota
la forma delle fortune di Faust".
E poi Marlowe fa ancora dire al Prologo:
"Diventa medico, Faust, ammucchia oro".
Fare soldi sembra dunque essere il chiodo fisso di Faust, da qualsiasi latitudine lo si voglia
prendere. Siccome poi deve accorgersi che la società del suo tempo, la società non ancora uscita dal
feudalesimo, è troppo restrittiva nei confronti del nuovo spirito borghese che brama libertà (di far
denaro), eccolo inveire - sempre nell'opera di Marlowe - contro le istituzioni del XVI secolo:
"Di questo trattano le istituzioni
e il corpo universale delle leggi.
Ma quest'opera è degna del servo
a caccia di nulla, di gusci vuoti,
per me troppo servile e illiberale."
"Illiberale": è senz'altro l'aggettivo chiave per la comprensione dello spirito borghese che
vuole sfondare ogni barriera fisica e politica, spirito che comincia ad albergare nel petto di faust.
"Tutto ciò che si muove tra i poli fermi
sarà ai miei ordini.
Imperatori e re
sono rispettati solo nei loro domini
né possono alzar venti o squarciar nubi.
Ma chi riesce in questo, il suo dominio
è grande come il pensiero dell'uomo
e un bravo mago è come un semidio."
A che cosa aspira dunque l'animo borghese di Faust? Ad essere più potente di Imperatori e re
i quali "sono obbediti soltanto nelle loro terre". Ben altro è il sogno borghese di faust che rivendica la
proprietà di "tutto ciò che si muove tra i poli". E questa non è, forse, una anticipazione, sia pur
inconscia, dello sviluppo colonialistico che animò dai tempi di Marlowe in poi la borghesia europea, ed inglese, in particolare, nel quadro dei paesi "riformati"?
Mefistofele, il quale in fin dei conti è un buon diavolo poiché gli piace fare le cose all'antica e
poco ci si raccapezza con la "moderna" mentalità, non nasconde a Faust i pericoli delle sue manie di
grandezza. Così è proprio il diavolo a scorgere nelle prospettive "di classe" di Faust il vero problema
dell'umanità:
"Ma è qui l'inferno, non ne sono fuori".
E' sicuramente emblematica la risposta del diavolo alla domanda di Faust che vuol sapere
come e dove sia l'inferno. Questo stesso mondo è infernale, il che non rappresenta solo un'osservazione
più o meno spiritosa da parte del diavolo, né un richiamo ad una certa mistica medievale
"finemondista", né una banalità del genere "il mondo è una valle di lacrime". Si badi bene che
Mefistofele in questi passaggi vuol essere serio e dire tutta la verità a Faust:
"Il Dio che servi è il tuo desiderio".
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Ecco che cosa rinfaccia il Principe del Male al piccolo borghese, represso dalla società feudale
e frustrato nei suoi sogni di ricchezza. Anche in questo "Faust" di Marlowe come in tutta la tradizione
faustiana, Mefistofele non si accontenta di un patto verbale, "inter nos", pretende invece la firma su un
pezzo di carta poiché sa che per il borghese Faust la firma è notarilmente e legalmente più vincolante
della parola e del pensiero, - come se Dio non leggesse nel pensiero e fosse sordo alla parola, oppure
testimone inattendibile, dato il conflitto d'interessi col socio di minoranza Satana!
MEFISTOFELE Posso stare con Faust finché vive
se compra il mio servizio con l'anima.
FAUST
L'ho già perduta per averti.
MEFISTOFELE Ma ora devi farne un lascito formale
e firmare il contratto col tuo sangue.
Lucifero pretende questa garanzia.
In questo breve scambio di battute Mefistofele cerca di adeguarsi finanche nei termini allo
spirito borghese del suo diretto interlocutore: comprare, servizio, lascito formale, firmare il contratto,
garanzia. Qui non siamo alle prese con un Diavolo vero e proprio, ma con una specie di funzionario di
banca che risolve la questione della totalità umana di Faust da un punto di vista esclusivamente
economico.
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IX - Il paradosso di Lessing.
Il successo dell'opera di Marlowe continuato nella tradizione faustiana del teatro delle
marionette e della Commedia dell'Arte, che torna in Germania grazie alle compagnie girovaghe,
rilanciano Faust in patria. Bisogna comunque aspettare la prima metà del '700 per veder riprendere il
tema del patto col Diavolo. E' del 1758 il frammento drammatico di Gotthold Ephraim Lessing che
riaccende la passione tedesca per il mito di Faust. Segue nel 1776 un altro frammento drammatico
"Situation aus Fausts Leben" di Maler Müller. In seguito è Friedrich Maximilian Klinger, conosciuto
per il dramma "Sturm und Drang" del 1776, da cui prese nome il movimento letterario pre-romantico,
a rielaborare le gesta del negromante nel romanzo "Vita, gesta e viaggio all'inferno di Faust" del 1781.
Sarebbe stato importante conoscere la versione di Lessing che ispira questo recupero.
Purtroppo dell'opera, in cui l'illuminismo di Lessing riuscì a mettere in risalto l'aspetto umanistico e
"positivo" delle tensioni faustiane, è andato smarrito. Rimangono solo alcune scene abbozzate e diverse
testimonianze epistolari.
Fin qui abbiamo individuato due pulsioni nell'animo di Faust: denaro e libertà dai vincoli
feudali, due elementi tipici delle aspirazioni borghesi del tempo. Il fatto è che fu proprio Lessing, verso
la metà del '700, a gettare le basi della prima presa di coscienza da parte della borghesia tedesca della
propria funzione politica.
Il bibliotecario Lessing si spense all'alba del 15 febbraio 1781. Tre mesi dopo la sua morte fu
pubblicata la "Critica della ragion pura" di Kant. E tra i due avvenimeni del 1781 c'è una relazione:
fu infatti l'opera di Kant a tirare le somme di quasi mezzo secolo di battaglia illuministica combattuta in
nome di una ragione libera da ogni pregiudizio morale o religioso. L'età di Lessing che va dal 1729 fino
al 1781, gettò insomma le basi di una moderna concezione positivistica, scientifica, partendo dal
presupposto che l'oggetto della conoscenza, al di là di ogni elucubrazione dogmatica, può essere solo
l'oggetto di un'esperienza reale razionalmente e matematicamente spiegabile.
Alla "laicizzazione" della conoscenza proposta dall'Illuminismo, fece eco la sempre più
accentuata critica delle strutture feudali che in Germania, lungi dall'essere residuali, caratterizzano
l'esercizio del potere addirittura fino alla prima guerra mondiale. Lessing riuscì con astuzia a portare
avanti la sua critica all'ancién regime tedesco sotto il naso degli stessi monarchi. Nel quadro di questa
spregiudicata contestazione del corrotto potere dei principi dei piccoli regni tedeschi, vanno dunque
iscritte le più significative opere teatrali di Lessing, sempre pertinenti alla "miseria tedesca", anche se
ambientate in luoghi storici remoti o di fantasia per eludere la censura: "Miss Sara Sampson" del 1755,
"Minna von Barnhelm" del 1763, "Emilia Galotti" del 1772. Riferendosi in particolare a quest'ultima
opera, lo scrittore svizzero Friederich Dürrermatt ha notato che Lessing riuscì a rappresentare
realisticamente il linguaggio del potere che finisce per spegnere e soffocare ogni aspirazione umana.
Bisogna tener sempre presente allora il vero dramma di Faust, che è quello della libertà
individuale di poter far soldi e di poterne disporre senza vincoli. Una problematica dunque comune alla
borghesia europea del tempo, ma che in Germania a causa di un vuoto rivoluzionario - la mancanza di
una rivoluzione borghese come in Inghilterra, Francia e America, - assunse solo caratteri
individualistici e reazionari. Proprio nella "Emilia Galotti" di Lessing trova espressione compiuta il
dilemma faustiano concernente la libertà individuale. Sentiamo come si ribella il conte Appiani
all'intrigante cortigiano Marinelli:
"Ordine del sovrano? Del sovrano? Il nostro sovrano non è propriamente un sovrano che uno
si sceglie liberamente. Ammetto che lei possa essere soggetto ad un'assoluta obbedienza al principe,
ma non io. Giunsi volontariamente alla sua corte. Desideravo avere l'onore di poterlo servire, ma non
certo di diventare uno schiavo!"
Lo stato d'animo del conte Appiani, uno dei protagonisti del dramma di Lessing, è molto
simile a quello di Faust che, nell'opera di Marlowe, si presenta volontariamente alla corte di Carlo V
non certo per servire l'imperatore, ma per iniziare la sua scalata al potere. Situazione che si ritrova
anche nella seconda parte del poema di Goethe.
La coraggiosa battaglia di Lessing contro le catene feudali che impedirono per secoli la
realizzazione degli ideali politici della borghesia non rappresentò, comunque, usando un'espressione di
Marx, "solo una lotta contro le istituzioni politiche che vigevano, bensì una guerra dichiarata contro
ogni metafisica". L'impegno 'laico' di Lessing si rivolse al contempo sia contro i residui feudali che
infestavano la poltica, sia contro la mentalità metafisica che rendeva difficili i ragionamenti scientifici.
E in ciò si ritrova lo spirito faustiano che lotta "contro cielo e terra" in nome solo di se stesso.
E' utile ricorda la concezione di Lessing sulla storicità della religione, quale ultima ragione
d'essere dello stesso sentimento religioso e della fede. Ne "L'educazione del genere umano" del 1777-
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1780, la religione, intesa come espressione storica delle esperienze dell'umanità, non dovrebbe avere
secondo Lessing alcun privilegio rispetto alle altre strutture ideologiche che con uguali diritto e dignità
rappresentano le fasi evolutive del genere umano. Nelle "Riabilitazioni" del 1753 e, ancor di più, in
"Nathan il saggio" del 1779, la questione concernente la religione si connette alla critica del "vecchio
regime", nei confronti del quale Lessing continuò a battere sul tasto della rivendicazione della libertà di
coscienza del singolo individuo.
Ma accanto a queste zone di luce delle istanze spirituali e politiche della borghesia, - che
spinge per liberare il mondo dalle catene feudali, - ecco spuntare l'ombra del Diavolo, ossia il patto tra
la speranza di un rinnovamento umanistico della società e la prospettiva di una realizzazione
esclusivamente economica della personalità umana. Faust è il rappresentante di questo stato d'animo
controverso e contraddittorio della classe media tedesca che, a differenze di quanto avvenne in Francia
ed Inghilterra, si emancipò economicamente ma non politicamente. Lessing non perse mai di vista la
contraddittorietà della "soluzione tedesca" del problema della libertà, cioé il compromesso col corrotto
potere dei principi. Lessing anzi indicò i guasti che avrebbe potuto provocare uno sviluppo capitalistico
privo di una fase di rinnovamento, rivoluzionario o meno, della società feudale. In "Ernst e Falk" del
1778-1780 Lessing si fece portavoce dei drammi individuali causati dal progresso puramente
economico della società tedesca a scapito degli ideali umanistici della borghesia. Ecco quanto sostiene
Falk nel secondo dialogo dell'opera di Lessing:
"Non basta che si smembri e frantumi il genere umano in più popoli e nazioni... no, la società
borghese impone le proprie divisioni all'interno di queste singole parti... e non scomparirà la gran
quantità di mali del mondo derivante da questa diversità delle classi sociali".
Anticipatore del marxismo o meno, Lessing accusa chiaramente il ceto medio tedesco di
tradimento della propria funzione di classe che dovrebbe essere ben capace di stimolare una più
avanzata coscienza nazionale. Uguaglianza, libertà e fratellanza saranno, a meno di un decennio dalla
morte di Lessing, i concetti centrali gli ideali della rivoluzione borghese francese, mentre in Germania
la borghesia stipulò un patto col Diavolo del feudalesimo e col gendarme prussiano. Insomma, Lessing
avvertì l'esigenza di un rinnovamento totale di tutti i settori della vita spirituale e politica. Ne "La
drammaturgia d'Amburgo" del 1767 egli si rese conto del valore secondario dei canoni estetici (unità
ditempo e luogo) rispetto al "fine" che si prefigge l'artista. Un fine che non può essere il rispetto puro e
semplice delle norme, bensì il "miglioramento del pubblico". A questa concezione della funzione
critica della letteratura e del teatro (rimarcata da Thomas Mann nel "Saggio su Lessing" conferenza
del 22 gennaio 1929) si aggiunge ovviamente il rifiuto di ogni tipo di irrazionalismo. Nelle "Favole e
trattazioni sulle favole" del 1759-1777 Lessing infatti si prende gioco della "divinizzazione dell'Io"
anticipando quella che sarà la critica di Marx al romanticismo:
"Io non sono né il primo né l'ultimo che trasforma le proprie idiozie in profezie oracolari
circa una apparizione divina".
La premessa è utile per dare una prima sommaria idea di quali potevano essere i contenuti del
"Faust" di Lessing pervenutoci frammentariamente. Certo è che Lessing aveva intuito l'ambiguità, la
zona d'ombra, la contraddizione tra una slancio libertario ed un ritorno all'irrazionale oscurantista che
costituiscono il dramma del patto col Diavolo in una società che vuole, nonostante tutto, la libertà e il
progresso, - purché la libertà non sia troppo radicale e il progresso non crei troppo fermento sociale.
Eppure, Lessing vede in Faust un personaggio positivamente destabilizzante, dal momento che la sua
aspirazione principale è quella di un sapere libero da tutti i vincoli religiosi, presupposto di ogni
fondamento di libertà. Accanto a questa presa di coscienza illuministica della necessità di aprire le
porte al sapere, alla scienza non più sottomessa al potere religioso e feudale, il "Faust" di Lessing è
tuttavia vittima delle proprie contraddizioni borghesi. Il 19 novembre 1755 Mendelsohn scrive a
Lessing:
"A che punto siete, caro Lessing, con le vostre tragedie borghesi?".
La lettera piuttosto ironica di Moses Mendelsohn rappresenta il primo documento attestante a
Lessing l'autorialità di una versione faustiana. Lo stupore non deriva tanto dal fatto che Lessing si
occupi di Faust secondo la tradizione comico-grottesca della tradizione del '600, quanto piuttosto
dell'attribuzione al mito del patto col Diavolo di una significanza storico-politica. La storia del
frammento faustiano può apportare qualche ulteriore elemento di riflessione.
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La copia originale del "Faust" che giaceva in attesa di essere data alle stampe fu sottratta al
fratello di Lessing, insieme ad altre favole, nel 1775. Sappiamo dalle lettere, dalle testimonianze e dagli
"Scritti teatrali postumi" curati dal fratello Karl, che Lessing si era dedicato per circa un trentennio eguagliato solo da Goethe - al suo progetto faustiano. Karl ci fa innanzitutto sapere che:
"il pubblico attendeva con trepidazione il Faust di mio fratello che però, come so con
certezza, stava lavorando a due diversi progetti".
Diamo per scontato che Lessing possedeva tutte le qualità per risolvere in più breve tempo le
difficoltà drammaturgiche relative al mito faustiano. Dobbiamo invece riflettere che i ritardi con cui
procedeva la sua opera erano dovuti a impasse non certo teatrali, quanto piuttosto filosofiche. Lessing
infatti intuì di avere tra le mani un soggetto talmente complesso da poter abbracciare la problematicità
della vita moderna. Destino che nel giro di due decenni toccò anche a Goethe: famoso è il suo blocco
poetico sul Faust, blocco che Schiller tentò di giustificare all'editore Cotta, in attesa del manoscritto per
la pubblicazione, con le troppe distrazioni femminili del genio di Weimar. La verità è che Lessing si
avvide che Faust non potesse essere raffigurato semplicemente come un uomo di scienza del secolo dei
Lumi in lotta contro l'oscurantismo, ma dovesse rappresentare al contempo la contraddittorietà politica
della borghesia tedesca, disposta a patteggiare con la nobiltà feudale la questione dell'autorità
poliziesca a tutela della proprietà privata.
Una lettera di Denzel alla moglie del Professor Gottsched (si tratta della XII.ma delle "Lettere
concernenti l'introduzione del gusto inglese nel genere drammatico") ci rivela il contenuto di una delle
scene iniziali del "Faust" di Lessing:
"Il vostro amico Lessing ci ha letto una scena del suo Faust... Faust presta giuramento e
pretende uno spirito dal quale essere servito. Ne compare uno e Faust gli chiede: quanto sei veloce?
Come il vento, è la risposta. Faust insoddisfatto ne evoca allora un altro e ripete la domanda: quanto
sei veloce? Come il lampo, è la risposta. Ma anche questo spirito non è abbastanza rapido per il
Dottor Faust e deve sparire come il primo. Ne compare allora un terzo. Quanto sei veloce? E' ancora
la domanda. Come i pensieri degli uomini, è la risposta che questa volta sembra andare a genio a
Faust... Qualunque Faust con un po' di sale in zucca considera il più veloce dei diavoli come il più
utile a lui: deve essere tanto veloce quanto i suoi pensieri affinché possa realizzare tutti i suoi desideri
nell'attimo in cui li pensa. Il diavolo tuttavia ha degli scrupoli, poiché ritiene che i pensieri umani alle
volte non siano molto veloci..."
Trattando dell'opera di Marlowe abbiamo visto che Mefistofele è abbastanza sincero con
Faust nel dirgli la verità, dipingendogli l'inferno per ciò che realmente è, non vuole trarlo insomma in
inganno. Anche in questi brani che avrebbero dovuto costituire il prologo del "Faust" di Lessing,
troviamo un diavolo che si pone lo scrupolo di avvertire il suo interlocutore che vuole tutto e subito,
con la rapidità del pensiero: "I pensieri umani - gli dice - non sono sempre molto veloci". L'allusione è
verosimilmente rivolta agli ideali umani di libertà che sono destinati a realizzarsi politicamente in
maniera molto più complessa e contorta di quanto si possa immaginare. Ecco perché Karl Lessing
parla di una impasse del fratello alle prese con due progetti faustiani: non si tratta propriamente di due
progetti, ma dalla percezione da parte di Lessing di un duplicità faustiana. La duplicità di chi ha un
ideale, la libertà, ma pretende di realizzarlo asservendosi a forze oscure: il Diavolo per Faust e il
sistema feudale per la borghesia tedesca. In tal senso la funzione "critica" dell'opera di Lessing nei
confronti sia del vecchio regime, sia della società borghese, costituisce secondo Thomas Mann il
"prototipo" classico, secondo un concetto goethiano, della moderna letteratura tedesca:
"Età classica significa anche età patriarcale, età mitica, età in cui inizialmente si afferma e si
foggia la vita nazionale".
Il fatto che tale riconoscimento giunga a Lessing da parte di Goethe e Thomas Mann, autori, a
distanza di circa un secolo fra loro, delle più significative interpretazioni del mito faustiano, ci fa
comprendere l'importanza dello spunto drammatico di Lessing in cui poteva e doveva risolversi la
stessa ambiguità della borghesia tedesca. Illuminante è la conclusione di Thomas Mann:
"Contraddizione e dubbio, qui abbiamo non soltanto un carattere del tipo classico fondato da
Lessing... il dubbio è la sua ragione e la sua religione... il dubbio come fede, lo scetticismo come
passione: ecco il paradosso di Lessing".
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X - Il gran mondo borghese di Faust.
Le tre stesure da parte di Goethe ("Urfaust" del 1781, "Faust" del 1802, "Faust Erster und
Zweiter Teil" del 1808) rappresentano il banco di prova del nostro tentativo di interpretare il mito come
un fantasioso paradosso della condizione dell'uomo moderno mosso da due pulsioni: materiale ed
economica la prima, ideale e morale - quindi relativa alla sfera della libertà - la seconda. Il concetto del
"gran mondo borghese di Faust" è stato coniato da Lucàks nel saggio "Goethe e il suo tempo". Pur
non entrando nella polemica attuale pro o contro Lucàks e le sue convinzioni ideologiche, proponiamo
di isolare la discussione sul marxismo dalla valutazione del notevole contributo critico
all'interpretazione del "Faust" goethiano proposta dallo studioso. Quello di Lukàcs è un saggio
illuminante anche sul profondo significato umanistico e religioso, pur se non mistico, del capolavoro
del genio di Weimar.
L'Urfaust parte da un concetto filosofico venuto prepotentemente alla ribalta nella seconda
metà del '700 per trasformarsi nella prima metà del secolo successivo, in Hegel e Marx, nel grande
problema dell'era moderna: l'alienazione - dello spirito in Hegel, dell'uomo nel lavoro in Marx. Nella
prima versione del "Faust" di Goethe siamo naturalmente ancora lontani dalla concezione marxista
dell'alienazione storico-economica, ci troviamo bensì alle prese con le formulazioni dialettiche (Io-Non
Io, Essere-Natura) di carattere epistemologico (Kant). Tuttavia, a questo piano teoretico, si aggiunge
nel sentimento del poeta che descrive il dramma interiore di Faust una concezione dialettica più
avanzata che sembra voler precorrere gli sviluppi della filosofia hegeliana. Faust percepisce, e ne
soffre, il distacco dell'uomo moderno dalle forze della natura. Il suo lamento è rivolto al problema della
conoscenza da parte del dotto che si sente irrimediabilmente scisso dal rapporto con la natura:
FAUST:
"Come arrivare a te, o infinita Natura!?"
In questo verso c'è molto di più del grido di impotenza della scienza a capire i misteri del
creato, oppure dell'uomo appassito tra le carte polverose che ha perso la "sensibilità" (altro tema
centrale del tempo con Feuerbach) naturale. Con questo verso Goethe comincia ad intuire il disagio
umano, la problematica derivante da uno sviluppo economico della società che deve ambiguamente
essere tanto libera da poter garantire non più solo la ricchezza, bensì un nuovo concetto di proprietà
privata che invece di "arricchire" viene a "privare" qualcuno di qualcosa. Su questo argomento è
necessaria una sintesi forzosa per non perdersi in discorsi infiniti: Hegel, come vedremo, ha tentato una
giustificazione "naturale" della proprietà privata fondata sulla teoria dei bisogni. Essendo mio il
bisogno (la fame, ad esempio) secondo Hegel deve essere anche mio l'oggetto per soddisfare il mio
bisogno. Per Marx (hegelismo di sinistra) tutto ciò è solo un gioco di parole, poiché il bisogno, in
realtà, è comune al genere umano e di conseguenza anche l'oggetto del bisogno deve essere condiviso.
Per Max Stirner (hegelismo di destra) invece, ma parleremo successivamente de "L'unico e la sua
proprietà", il discorso di Hegel giustifica il ricorso alla violenza "privata" per impadronirsi
indiscriminatamente degli oggetti che soddisfano i bisogni del privato e singolo individuo.
Naturalmente Goethe è al di fuori di questo dibattito filosofico-ideologico, ma non è estraneo
al suo tempo. Tutt'altro. Egli intuisce le difficoltà dello sviluppo borghese sul continente europeo,
sviluppo che porta in Francia ad una sanguinosissima rivoluzione ed in Germania ad uno stato di
polizia con l'allenza tra borghesia e sistema feudale. Soprattutto nella primissima stesura del 1776, il
"Faust" di Goethe non può che muoversi nell'ambito del rapporto uomo-natura. Ma qui succede un
paradosso che avrà conseguenze serie nell'evoluzione ideologica goethiana e nel destino del suo
poema. Infatti, conoscere la natura significa anche possederla, il che è perfettamente in linea sia col
senso comune (sapere è potere), sia con le tesi idealistiche di Kant ed Hegel, secondo i quali l'Io si
appropria letteralmente dell'oggetto della conoscenza nell'atto stesso della percezione cognitiva.
Accennavamo pocanzi alla "Filosofia del diritto" del 1820 di Hegel in cui si legge che: "gli
oggetti dei miei bisogni sono anche oggetti della mia proprietà", concetto con cui peraltro Marx
concorderebbe in linea astratta se Hegel, col termine "proprietà", non intendesse la proprietà privata in
senso notarile. Secondo Marx bisognerebbe piuttosto parlare della proprietà umana in senso generico. Il
fatto è che tutti, tranne Stirner, sanno bene che la conoscenza non produce proprietà privata, bensì una
facoltà intellettiva, e basta. Il dramma dell'Urfaust concerne allora l'impossibilità da parte del
protagonista di possedere il mondo attraverso la sua conoscenza. Così mentre il piccolo-borghese di
Stirner evoca lo spettro della violenza personale e "privata" al fine di impadronirsi della proprietà che
ritiene propria, con un gioco di parole, ma che il diritto non gli assegna d'ufficio, nell'Urfaust il dottore
evoca lo spirito al quale affida il compito di realizzare il suo naturale-umano, la sua proprietà.
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In questo contesto si inserisce, come si è più volte accennato, la questione del denaro che
rappresenta una costante del mito faustiano e del patto col diavolo fin dalle sue antichissime origini.
Una problematica che ovviamente trova anche nell'opera di Goethe una forte attenzione fino alla
geniale attribuzione al Diavolo dell'invenzione della carta moneta. Lukàcs indica il nocciolo del
problema:
"Oro e sensualità: a questo si riduce la saggezza del Satana di Goethe. Il suo fine - con l'aiuto
della magia e del cinismo di Mefistofele - è l'abbrutimento dell'umanità, la creazione di un regno
animale dello spirito, come dice Hegel".
Anche il giovane, e ancora "liberale" Marx nei "Manoscritti economici filosofici" si richiama
esplicitamente al Faust goethiano citando alcuni il versi:
"Se posso mantenere sei cavalli,
non è forse mia la loro stessa forza?
Corro veloce grazie alla mia borsa
e riesco a scavalcare mille valli." (trad. Enrico Bernard)
E commenta:
"Ciò che per opera del denaro è mio, ciò che io posso pagare cioé comperare col denaro,
ecco, quello sono io, il possessore del denaro stesso. La mia forza è uguale a quella del mio denaro. Le
proprietà del denaro sono proprietà mie. In quanto io posseggo il denaro, sono forze del mio essere.
Ciò che sono e posso non è dunque determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso
comprarmi la più bella donna, quindi non sono brutto in quanto l'effetto della bruttezza, la sua forza
repulsiva è annullata dal denaro... il mio denaro non trasforma dunque ogni incapacità nel suo
contrario".
La conclusione tocca a Lukàcs:
"Se si considerano gli effetti magici di Mefistofele, ci troviamo di fronte al prolungamento del
raggio d'azione dell'uomo per opera del denaro".
Il denaro dunque risolve il primo problema di Faust: quello dei mezzi per ottenere ciò che
vuole, potere e proprietà. Egli infatti sfrutta al meglio l'invenzione diabolica del sistema finanziario
moderno creato dalla Carta Moneta, l'oro virtuale, escogitata da Mefistofele che così fa cadere di fronte
al "nuovo", al borghese Faust, le barriere politiche opposte dalla società feudale. Mefistofele sa bene
che la Carta Moneta cambierà il destino dell'umanità rovesciando troni e sconvolgendo il mondo
millenario:
MEFISTOFELE: L'imperatore si trova in un mare di guai,
Tu lo conosci: dopo aver intraviste
le ricchezze del suo impero ha creduto
di potersi comprare di tutto
gozzovigliando come un farabutto. (trad. Enrico Bernard)
Il Mefistofele di Goethe non solo inventa l'economia moderna, ma in essa inserisce anche
l'elemento destabilizzante: l'inflazione che porta la rovina. Comunque, tolte di mezzo le barriere
feudali, ora Faust è finalmente libero di realizzare il suo sogno borghese, secondo un piano molto
semplice di emancipazione personale: impadronirsi del mondo. E, con l'aiuto del diavolo, ci riesce
senza ripudiare l'antica legge del più forte, magari versando qualche lacrimuccia di coccodrillo quando
bisogna usare le maniere forti e mandare i sicari in qualche spedizione punitiva, ad esempio contro i
due cari vecchi Filemone e Bauci che non intendono cedere la capanna nel bosco al prepotente
capitalista.
Mefistofele, per fare un altro esempio, divenuto compagno inseparabile nella costruzione di
un porto pirata per i loschi traffici del suo padrone, non nasconde al socio Faust la verità circa la natura
dei suoi metodi:
MEFISTOFELE:
Tutto sta in un colpo come si deve:
si pigliano navi come fossero pesci.
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E se nel colpo di mano bene riesci
alla tua flotta tutti insieme si beve
perché nessuno potrà più resistere
a chi avendo la forza ha pure il diritto.
La conclusione del diavolo non necessita di alcun commento:
MEFISTOFELE:
Guerra, commercio e pirateria
sono la Trinità dell'anima mia. (trad. Enrico Bernard)
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XI - Faust e altri tragici eroi goethiani.
Già trattando di Lessing si è parlato di una presa di coscienza dei guasti che una prospettiva
puramente egoistica, economica della società borghese senza una visione politica liberale, avrebbe
provocato nei confronti degli stessi ideali umanistici di quella classe media che, dal Rinascimento alla
Rivoluzione francese, è stata una fonte di progresso. Tuttavia la critica di Lessing, per i limiti
ideologici obiettivi del suo tempo, non potè cogliere la situazione in tutta la drammaticità con cui si
presentò alla generazione successiva di Goethe e Schiller. E non solo nel "Faust" di cui abbiamo sin
qui trattato.
Da questo punto di vista, le tenebre che circondano le tragiche figure del reportorio goethiano
(da Mignon a Guglielmo Meister, dagli amori impossibili di Clavigo e Maria, Werther e Carlotta,
Eduardo e Ottilia, ed anche di Margherita e Faust, amori che sfociano immancabilmente nel sangue e
nella morte), dicevamo, questo mondo di buio non resta nell'opera di Goethe solo a livelo di percezione
inconscia, come avviene nella poetica dello "Sturm und Drang" e del Romanticismo. Goethe, al
contrario, ne dà una spiegazione politica e storica spiegando che i drammi fanno parte dello sviluppo
umano e, in particolare, della società borghese, il cui progresso passa comunque attraverso una serie di
tragedie individuali. Intendiamoci: anche se la concezione della storia come tendenza al progresso è
comune a Goethe e a Marx, ciò accade non perché Goethe è un precursore del marxismo, ma perché
Marx è espressione anche lui del pensiero borghese progressista che trae da Hegel e, appunto da
Goethe, il senso della storia. Storia - ecco cosa accomuna Goethe e Marx - che non è, come in Hegel, il
luogo della pura realizzazione dello Spirito (e dello Stato) Assoluto, bensì molto più concretamente e
umanamente una forma dialettica in cui l'umanità impara dai propri errori, evolvendosi e progredendo.
Per esempio Mignon, ne "Gli anni di noviziato di Guglielmo Meister" del 1796, "deve"
morire per esigenze narrative perché rappresenta un ostacolo insormontabile all'emancipazione
borghese del giovane protagonista che, dopo una necessaria sbornia artistica, è destinato a rientrare
nella società borghese liberandosi delle fantasie circa la vita nel e per il teatro. La zingarella Mignon,
della quale il giovane Meister è platonicamente infatuato, rappresenta infatti un irresistibile quanto
irrazionale richiamo alla vita bohemienne. L'incendio provocato dall'Arpista in cui perisce Mignon
mette a posto le cose nel senso che fa aprire gli occhi al protagonista circa le illusioni della vita.
Le parti si invertono ne "I dolori del giovane Werther" del 1798 dove è il personaggio
maschile a coltivare ambizioni letterarie e a costituire un ostacolo per la vita tranquilla e borghese di
Carlotta che, nonostante tutto il suo amore, non ha la forza di rompere il matrimonio di interesse.
Lukàcs commenta:
"Tutto il Werther è un atto di fede ardente nell'uomo nuovo sorto nel corso della preparazione
della rivoluzione borghese: il suo obiettivo è che sorga un tale uomo e si produca quel risveglio delle
molteplici attività dell'uomo che lo sviluppo della società borghese crea e nello stesso tempo condanna
tragicamente al tramonto".
E un altro grande amore condannato tragicamente al tramonto, nonché ad una orribile fine, è
quello - eccoci di ritorno al nostro argomento - che lega Margherita ad Enrico, cioé il nome fittizio che
si dà Faust per le sue scorribande sessual-sentimentali. La piccolo-borghese Margherita rappresenta un
ostacolo, per via dei suoi legami familiari e della sua ristretta mentalità, all'evoluzione grandiosa delle
aspirazioni faustiane. Per mano di Mefistofele muore la madre di Margherita, poi per mano dello
stesso Faust è ucciso il fratello Velentin. Infine, deve sparire anche la giovane donna affinché Faust
torni ad essere libero.
Il sangue chiama sempre altro sangue; per il borghese Faust, sul punto di impossessarsi del
mondo, non può essere altrimenti. E dopo aver abbandonato la povera Margherita al suo destino, deve
affrontare l'ultimo "ostacolo" alla sua grandezza: due vecchi che si ostinano a non cedere il loro piccolo
mondo idilliaco al predominio e alla prepotenza di Faust, come illustra Lukàcs:
"Faust ottiene infine attraverso il potere magico di Mefistofele un campo d'azione per
sottomettere la natura alla prassi dell'uomo. Qui però Mefistofele diventa il compagno inseparabile dei
nobili intenti di Faust... Faust fa costruire un porto e svolge commerci fiorenti: organo esecutivo ne è
Mefistofele... Eguale aiuto egli presta a Faust quando questi non può arrotondare le sue terre perché
non possiede l'idilliaca piccola proprietà di Filemone e Bauci. Faust vorrebbe riscattare il podere dei
poveri vecchi e trasferirli altrove. Ma essi non accettano e quindi la compravendita forzosa è compiuta
da Mefistofele e dai suoi sicari col ferro e col fuoco."
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Ma quale testimone più attendibile di Faust stesso dell'increscioso episodio dell'incendio
doloso in cui crepano i vecchi che non volevano farsi sloggiare?
FAUST
Questo maledetto scampanio
è come una pugnalata nella schiena
mi rammenta che tutto il regno mio
è come un fiume non in piena
finchè non avrò ottenuto la collina.
E poi, quando la collina va a fuoco, lo sentiamo piangere lacrime di coccodrillo: è troppo tardi
ormai pe ripensarci, anche a me nell'intimo dispiace di essere stato troppo impulsivo... ma poi,
ammesso e non concesso che il bosco vada distrutto, niente mi impedisce di costruire un belvedere in
cima alla collina, da cui i miei sguardi finalmente spazieranno verso l'infinito... potrò persino vedere i
vecchietti felici e contenti nella loro nuova dimora. Senonché i poveri vecchio crepano nell'incendio
appiccato da Mefistofele, al che Faust si dispera ancora:
FAUST Volevo solo barattare la collina
non questa specie di rapina.
Chi si presenta nottetempo, alla fine di questa tremenda scena, se non il Rimorso in persona?
Il fatto è che Faust non ha ancora superato la fase ideologica dell'umanesimo borghese. Vuole tutto,
certo, incondizionatamente, ma la sua aspirazione profonda è in fin dei conti quella di migliorare il
mondo grazie alle invenzioni e alla tecnologia, ed anche alle riforme sociali. Così vecchio e cieco,
ormai sull'orlo del baratro, egli continua a sognare nuve imprese: costruiremo nuove case, daremo un
volto umano alle città. Senonché il Diavolo lo redarguisce: adesso è solo per l'inferno che sogni nuove
opere. La dialettica tra Faust e Mefistofele viene così sintetizzata da Lukàcs:
"Il loro duello morale e spirituale comprende tutti i problemi importanti della vita umana;
negli effetti degli elementi e delle tendenze mefistofeliche sull'anima di Faust esso mostra un alternarsi
di alti e bassi drammaticamente movimentato".
La questione sin qui dibattuta riguarda ovviamente le speranze umanistiche della borghesia
che vuole "veramente" migliorare il mondo e la qualità della vita, ma che poi deve - drammaticamente
- fare il patto col diavolo del potere dell'economia che non sempre accetta o, comunque, non sempre è
in sintonia con quegli stessi ideali da cui prende le mosse. Lessing e, ancor di più, Goethe sono
perfettamente consci della necessità del progresso borghese, ma si fanno al tempo stesso interpreti dei
drammi umani di uno squilibrato sviluppo economico privo di progresso "politico" e sociale. La
speranza goethiana di una realizzazione degli ideali umanistici nonostante la particolare situazione
tedesca, in cui capitalismo e feudalesimo si allearono nello stato autoritario, anziché combattersi, trova
espressione anche nel finale dl poema. Il Coro degli angeli, la salvazione di Faust rappresenta la
speranza del genio di Weimar nello "Streben", quel misto di aspirazione, speranza ed azione che anima
la borghesia del suo tempo. Sarà il "Doctor Faustus" di Thomas Mann, un secolo dopo, a chiudere
l'epopea borghese di Faust ormai al tramonto e alle soglie della distruzione nazista.
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XII - Faust e Peter Schlemihl.
Col passare dei secoli, si rivela sempre di più la natura dialettica di Faust. La sua natura
positiva corrisponde agli ideali umanistici, di progresso scientifico e sociale che hanno ispirato la
società borghese dal Rinascimento. Lo spirito maligno, altresì, rappresenta gli istinti egoistici insiti
nella dimensione economica di questo processo storico che porta la nuova classe sociale alla ribalta. In
Faust, avido di potere e proprietà, ma anche idealista irriducibile, trova posto l'angosciosa
contraddizione in sui si dibatte lo spirito borghese combattuto tra un bene (il progresso e il benessere di
tutti) e un male (la riduzione alla dimensione economica privata). La prima metà del XIX° secolo è il
periodo cruciale di questa problematica faustiana: Lenau, Grabbe e von Chamisso si sono cimentati col
grande protagonista della letteratura tedesca. In particolare ad Adelbert von Chamisso, in una versione
breve ma molto efficace del "Faustus, frammento del 1806" (pubblicato su "Ariel" anno III nr. 1
aprile 1988 pp. 101-120 traduzione, cura e note di Enrico Bernard), riesce l'essenziale sintesi
ideologica del mito.
Il poemetto drammatico di von Chamisso si apre con l'apparizione dei due spiriti, benigno e
maligno, che non si presentano però in carne ed ossa, sono bensì le "voci di dentro" della coscienza di
Faust. Va detto che anche in Marlowe si propone una situazione simile, tranne una fondamentale
differenza: le presenze spirituali in Marlowe sono tre, il Diavolo e i due spiriti "interiori" che si
contendono la coscienza di Faust. Il dialogo tra il fantasma del bene e il suo antagonista, il male,
hanno perciò soltanto il valore di un ragionamento dialettico che Faust fa tra sé e sé circa la profferta di
Satana.
Nel frammento di von Chamisso ci si imbatte in un'intuizione psicologica rilevante: per
l'autore non esiste un male "in sé per sé", il Diavolo è solo una proiezione dei più bassi istinti dell'uomo
quindi deve sparire dall'opera. Un Faust senza il Diavolo! Un patto col Maligno senza il Maligno
stesso! La sfida di von Chamisso è di rappresentare esclusivamente una dimensione interiore dialettica,
non una favoletta religiosa più o meno edificante. Le intuizioni freudiane di questo piccolo capolavoro
della letteratura tedesca, che Thomas Mann ha definito di grande importanza, sono evidenti. I due
spiriti che compaiono a Faust rappresentano le pulsioni inconsce da un lato e il controllo della
coscienza dell'Io. E' interessante notare che il Male, in questa versione del mito, non è qualcosa di
esterno, oggettivo, ma l'inconscio alle cui pulsioni istintuali è la coscienza stessa di Faust ad opporsi
richiamandolo (inutilmente) alla ragione.
SPIRITO MALIGNO Dà pure libero sfogo ai tuoi desideri!
SPIRITO BENIGNO Faust, Faust!
SPIRITO MALIGNO Ora promettimi solennemente di ripagarmi
con l'anima e ti schiuderò i tesori della verità
ciò che l'uomo più desidera a te apparterrà.
SPIRITO BENIGNO Faust, Faust!
Ripudia, ripudia fortuna e imperi terreni!
L'estrema sintesi del poemetto trova più succulento sviluppo nel capolavoro di von Chamisso
"La strabiliante storia di Peter Schlemihl" del 1812, un romanzo fantastico dove, ancora una volta, è
cruciale il tema del patto col diavolo. Anche in questa versione si tratta di un vero e proprio contratto
borghese col male che genera per il protagonista ricchezza. ma pure infelicità. Il Diavolo si presenta
sotto le duplici spoglie di prestigiatore ed astuto mercante di ombre. Che sarà mai, l'ombra?, pensa
ingenuamente Peter che cede la sua in cambio di una borsa da cui sgorgano inesauribilmente monete
d'oro.
Fin dalle prime battute il protagonista Peter è presentato come una persona che ha un grosso
problema nella vita, problema peraltro comune a molti: la mancanza di denaro. Egli giunge infatti da
lontano in una terra straniera, con pochi soldi ed un biglietto di presentazione per cercare di ottenere un
impiego. Si presenta a casa del destinatario per recapitargli la busta con la raccomandazione nella
speranza di ottenere un lavoro, ma capita nel bel mezzo di una festa sontuosa. L'anfitrione lo accoglie
benevolmente, ma certo in modo alquanto curioso se non proprio sospetto: non a caso tra i suoi ospiti
c'è anche il Diavolo di cui sopra. Il discorso, dopo poche battute, cade naturalmente sul tema del
denaro. Il padrone di casa non ha dubbi sul fatto che "chi non possiede almeno un milione è
sicuramente un delinquente". Che cosa può replicare il povero Schlemihl se non un candido: "oh, deve
essere proprio così"?
I giochi sono dunque fatti fin dalla prima pagina, dal momento che il protagonista si è accorto
del suo dramma: la mancanza di denaro che corrisponde alla mancanza di "proprietà". Chi non ha soldi
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non solo non possiede nulla, ma non ha alcuna "proprietà" ossia "qualità" nella vita: la sua stessa
persona non vale nulla. Così, quando il Diavolo con fare sornione propone lo scambio dell'ombra - a
che cosa serve un'ombra? - con una fonte inesauribile di ricchezza, Peter non può che sottoscrivere il
contratto "borghese" che gli appare più come un gioco di società che come un vero impegno. E
quand'anche fosse impegnativo, l'ombra non è che una inutile appendice al nostro essere, se ne può fare
benissimo a meno. Peter si accorgerà ben presto che le cose non stanno proprio così. No, perché a sue
spese si accorgerà di aver ceduto in cambio della ricchezza la sua umanità: infatti la gente, vedendolo
girare alla luce del sole senza proiettare ombra, intuisce di avere a che fare con qualcosa di demoniaco,
nessuno accetta le monete del Diavolo e così la ricchezza non serve a niente: la proprietà "privata"
diventa "privativa" per Peter, cioé priva lui della partecipazione alla vita umana come persona.
Il romanzo di von Chamisso ha dunque un evidente significato storico e politico. Esso
rappresenta il dramma della società borghese che, in cambio della certezza del profitto, tradisce i
propri ideali umanistici, e si disumanizza. Perde, insomma, metaforicamente la propria ombra, ovvero
la capacità di avere una funzione nella formazione della società moderna. La ricchezza esclude Peter
dalla vita civile. Che l'opera in questione sia la cartina di tornasole dell'epoca è dimostrato dal fatto che
ci troviamo in un periodo molto particolare della storia tedesca. Non a caso nella Germania del primo
decennio dell'Ottocento furono avanzati da alcuni circoli intellettuali moderati diversi progetti politici
che proponevano piccoli ambiti di libertà alla borghesia. Queste idee vennero considerate addirittura
rivoluzionare dal vecchio regime: ci riferiamo ad esempio alla proposta costituzionale di Humboldt del
1806, nella quale si ipotizzano minuscole sfere di autonomia per il ceto borghese. Cosicché il problema
principale per Peter Schlemihl, dopo aver risolto la questione patrimoniale, è quello della libertà
personale: la libertà di poter agire liberamente in base alla ricchezza acquisita.
Schlemihl alla fine del romanzo usa i suoi poteri diabolici per fuggire con gli stivali delle sette
leghe dal "mondo borghese", dall'Europa e, in particolare da quella Germania dove la borghesia firmò
il suo mefistofelico patto col vecchio regime feudale in cambio della tutela poliziesca della propria
sfera economica. Tutto ciò buttando a mare gli ideali di progresso e di una nuova società, come
avvenne invece in Francia nel 1789. La fuga risultò allora l'unica via di uscita per lo stesso von
Chamisso che nel 1815 si imbarcò con una spedizione intorno al mondo durata diversi anni. Ma la fuga
dalla " vecchia Europa" non poteva certo comportare una parentesi spirituale, in quanto non è facile
superare le contraddizioni del proprio tempo o, come tentò vanamente il personaggio di Peter
Schlemihl, di scavalcare la propria ombra. Il diario di viaggio di von Chamisso ("Il viaggio intorno al
mondo" del 1815-1818, Napoli 1986, prima edizione italiana, traduzione e note di Enrico Bernard)
parla chiaro a questo proposito. Da una parte infatti von Chamisso si autodefinisce "uomo del
progresso" e, sia pur non dimenticando di essere di origine aristocratica, si dichiara aperto al nuovo
spirito borghese.
"Io credo in un Dio, quindi alla Sua presenza nella storia e di conseguenza al progresso
umano. Sono un uomo aperto al futuro... Su, imparate a scrutare senza timore e con fiducia nel futuro
verso cui ci sospinge la saggezza divina, lasciate perdere il passato, visto che è passato".
Senonché, accanto a questa presa di coscienza della necessità del progresso, si manifesta
nell'animo di von Chamisso non tanto la paura del progresso, quanto il timore che esso si riveli
effimero e addirittura diabolico, qualora dovesse comportare solo lo sviluppo economico e non anche
politico-culturale e liberale della società. Non a caso il "Viaggio intorno al mondo sul brigantino
Rurik" è un atto di accusa contro il colonialismo europeo e contro la morale del profitto che sottomette
e sconvolge la natura. "come se gli animali fossero passati alle dipendenze dell'uomo".
Il dominio della natura per il solo profitto: non è forse proprio questo l'amletico dilemma
faustiano?
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XIII - Faust e Amleto
Il dubbio "amletico" concernente l'azione pratica, l'incapacità di decidersi per il bene o per il
male, si riallaccia alla dialettica tra lo Spirito Buono e lo Spirito Maligno che abbiamo visto nella prima
versione drammatica del mito di Faust, quella di Marlowe. La situazione psicologica si ripete nel
frammento di von Chamisso. Essa corrisponde all'ambiguità dell'uomo moderno, del borghese lacerato
interiormente perché nella sua coscienza morale si agitano due fantasmi: l'ideale umanistico-libertario
di una classe che vuole rinnovare e migliorare il mondo e, dall'altra parte, l'interesse economico che
cerca di sopraffare gli altri e comunque di limitarli.
Faust cade in un'abulia decisionale, una forma di irrisolutezza e di dubbio perenne sul da farsi,
dubbio da cui scaturisce la coscienza del male e del peccato. Per questo il personaggio di Goethe si
salva alla fine dinanzi al tribunale divino solo perché agisce, pur sbagliando, ma aspirando (Streben) a
qualcosa. Al contempo, per von Chamisso la dannazione di Faust dipende dal suo stato di incertezza in
cui l'essere, dubbioso e indeciso su tutto, non può certo risolversi a nulla di buono. Non fare nulla,
questo è l'ammonimento dei drammaturghi che si sono cimentati col mito faustiano, è peggio che
sbagliare.
Definiamo allora "amletico" lo stato di incertezza di Faust. Che c'entra Amleto? In via molto
generica ricordiamo che Marlowe è stato fonte di ispirazione, se proprio non la controfigura in carne ed
ossa di Shakespeare, come proposto da qualche storico. Notiamo però, da un punto di vista meno
biografico e più filologico che Orazio annuncia ad Amleto la comparsa dello spettro del padre poco
dopo il suo arrivo da... Wittemberg. Ma che coincidenza! Non è forse Wittemberg in Germania il paese
di oigine di Faust e di docenza di Lutero? Certo è che il giovane principe, noto per la sua inazione e
perenne incertezza, riassume l'origine del proprio male esistenziale accusando un contrasto interiore tra
due forze: "Il buono e il cattivo dipendono solo dal pensiero che li rende tali".
Non è certo un caso che Amleto ripeta questo concetto "faustiano" con la parabola del verme
che si è nutrito del corpo di un re: se un pesce si nutre di quel verme e viene pescato da un povero, ecco
che il povero si nutre col corpo del re. E' il pensiero e le sue associazioni mentali a rendere malvagio un
fatto naturale. Il rapporto Faust-Amleto consiste nella incapacità di entrambi di distinguere chiaramente
tra bene e male. Bene e male per entrambi non sono altro che costruzioni del pensiero, proprio come i
due Spiriti che nel frammento di von Chamisso si contrastano nell'anima di Faust la cui natura, essendo
a doppia faccia, razionale e istintiva, libertaria (per sé) e liberticida (per gli altri), paradisiaco od
infernale, non sa decidersi tra il doppio nietzschiano di apollineo o dionisiaco, caricando di sensualità
l'attività mentale e razionalizzando le pulsioni istintive: il "Don Giovanni e Faust" del 1829 di
Christian Dietrich Grabbe esprime questa doppiezza in cui anche Kirkegaard legge gli elementi
dell'individualismo moderno. Un individualismo che, nella nostra interpretazione, trova una stretta
connessione con lo sviluppo ideologico della borghesia europea a partire dl '500. Non a caso il Faust
che fa soldi e conquista il mondo borghese della seconda parte del poema di Goethe, è preceduto dal
suo alter ego seduttore e libidinoso, Enrico.
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XIV - Don Giovanni e Faust
Il patto col Diavolo di Faust si unisce dunque nella storia del pensiero borghese all'altro
grande mito dell'era moderna: Don Giovanni. Si tratta di due eroi borghesi, per quanto ribelli. Infatti.
la loro ribellione è individualistica, incentrata esclusivamente sul raggiungimento del piacere fisico
(Don Giovanni e il suo sessismo) e del godimento estetico-morale (Faust e il suo problema della
conoscenza). In entrambi, è presente una forma edonistica di raggiungimento della personalità umana a
livello delle pulsioni e dei pensieri. Possiamo affermare che si tratta di due facce dello stesso animo che
condividono un comune problema: il denaro per fare i propri comodi. Di qui la vita truffaldina di Don
Giovanni, e il patto col Diavolo del potere economico per Faust: gira e rigira si finisce sempre lì, al
contratto borghese e alla problematica della compravendita. Problematica presente anche nel dramma
di Grabbe come risulta dal dialogo tra Faust e il Cavaliere appena evocato, alias il Diavolo che
risponde alla sete di conoscenza infinita del suo intelocutore:
CAVALIERE Che piccola cosa mi chiedi! Che grande piccolissima cosa!
FAUST (a parte) Non capisco il suo gioco! Se è piccola come fa ad essere grande?
CAVALIERE Ti chiedo subito (ormai siamo intimi) poche gocce di sangue per firmare il
contratto. Ecco carta e penna!
FAUST Già pronto? Che organizzazione!
CAVALIERE (a parte) Avrai tutto il tempo di provarla.
FAUST
(si taglia il dito, fa sgorgare il sangue e firma il foglio che subito restituisce al
Cavaliere). Ecco qua! Che formalità inutile!
(C. D. Grabbe, Don Giovanni e Faust, Genova 1986 a cura e Trad. di E. Groppali, p. 38).
Perfino Faust si accorge dell'animo gretto e piccolo-borghese di questo diavoletto che ha
bisogno della firma sul pezzo di carta per concretizzare la transazione diabolica dell'anima in cambio
di... poco o niente poiché quello che viene offerto a Faust dal Demonio è solo un consiglio: fa come
Don Giovanni che si gode la vita. Non c'era bisogno di vendersi l'anima per arrivare a questa forma di
saggezza epicurea!
CAVALIERE Caro dottore, vuoi sapere cos'è la felicità? La felicità è l'umiltà del verme che
spera ardentemente di fermarsi al limite estremo della sua resistenza; felicità è la gioia che prova Don
Giovanni (da cui hai tanto da imparare) quando pensa al piacere senza danneggiare il meccanismo del
suo stomaco. L'infelicità, invece, consiste in quella debolezza spirituale che t'impedisce di digerire cibi
sani in terra e ti spinge a inseguire castelli in aria... (cit. p. 39).
Naturalmente Faust non ci sta e reagisce con ira:
FAUST "Stupido, non mi dici niente di nuovo, conosco queste risposte. Per chi mi hai
preso?".
Alché il Diavolo, costretto suo malgrado a rispettare il patto, non ha niente di meglio da
offrire se non le grazie di una bella fanciulla romana:
CAVALIERE Non ho alcuna difficoltà! Non hai bisogno di volare lontano... se vuoi amare, se
vuoi avere fede, innamorati di Donna Anna, la fanciulla più affascinante di Roma! In questo caso
avresti subito tutto perché chi ama spera e confida, dubita e gioisce!
Naturalmente Faust non è ancora pronto a ridurre ai minimi termini la sua volontà di potenza e
così costringe il Cavaliere a dargli "tutto e subito" anche se questo "tutto e subito", come gli suggerisce
il Signore degli Inferi, non è niente. Infatti, il desiderio di Faust di possesso non sarà facilmente
appagato. Così, mentre Don Giovanni persegue la sua opera di circuire Donna Anna, ritroviamo Faust
in cima al Monte Bianco, un brano che tanto ricorda la scena "Alta Montagna" del poema di Goethe:
"SCENA TERZA. Monte Bianco. Una sala del castello incantato di Faust.
FAUST
(Passeggiando). Io devo ottenere quello che voglio o, in caso contrario,
distruggerlo! Quando desidero qualcosa (sia il cielo o sia l'amore non posso saziarmi, come qualche
povero malato di nostalgia, del solo desiderio, né riesco a precipitare, sereno e calmo, nella dolorosa
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malinconia! No, preferisco il ruolo della tigre, che ruggisce di fame finché non riesce a saziarsi e
attende rabbiosa la preda prima di sorprenderla nell'agguato! Si deve uccidere per trovare la gioia?
Forse sì: fa bene alla digestione. I bocconi sostanziosi sono nocivi: me lo confermano l'anima e lo
stomaco. E allora? Lei... lei, la sola che amo, custodirebbe nel suo cuore il mio rivale, Don Giovanni?"
(cit., p. 78).
Il Diavolo-Cavaliere aveva letto bene nell'animo di Faust: tutta la tua "volontà di potenza" si
riduce ad essere solo una "volontà di possesso". Se non riesci ad ottenere quello che vuoi, sei disposto a
distruggere, uccidere. La morale borghese di Faust si differenzia di poco, nella forma e non nella
sostanza, da quella di Don Giovanni: entrambi devono possedere il corpo (e l'anima) dell'oggetto
concupito, esattamente come fa il Diavolo esattore borghese che necessita addirittura di un atto
formale e di una organizzazione legale. Questo Faust-Don Giovanni si distingue, dicevamo, solo nella
forma e non nei contenuti dal suo rivale Don Giovanni-Faust: come la sensualità sta alla sessualità, ma
entrambi godono soltanto nel possesso fisico e nella sottomissione psicologica della donna, vista
come oggetto della loro libido - parafrasando Hegel - quindi come loro oggetto. Abbiamo visto che
questo passaggio è indispensabile per arrivare alla teorizzazione della violenza del Faust di Stirner,
riconoscibile ne l'Unico, cioé il piccolo-borghese tedesco che si sente umanizzato solo dalla proprietà,
si riconosce nella Sua Proprietà - come l'Essere di Heidegger che sa di essere al mondo perché legge
sugli oggetti della realtà la formuletta magica dell'isterismo borghese: MIO!
Va da sé che la critica di Grabbe è indirizzata al piccolo-borghese Faust che svende gli ideali
di conoscenza e di libertà per gli istinti del basso ventre, mentre Don Giovanni fa del basso ventre - con
l'ammirazione del Diavolo - il luogo della propria intelligenza e della propria ribellione. Non c'è alcun
dubbio che Grabbe. pur ambientando a Roma il suo dramma, molto chiaramente stia passando ai raggi
x l'ideologia tedesca quando fa confessare a Faust la sua natura tipicamente tedesca:
FAUST: ... Solo la terra natale rallegra il nostro cuore, preferirle il suolo straniero è
ignobile! Se non fossi tedesco, non potrei essere Faust! Quando penso a te, Germania, patria adorata,
non riesco a trattenere le lacrime. Non c'è paese che possa eguagliarti in bellezza e nessun popolo è
abile e valoroso come il tuo! Fiero e orgoglioso, incoronato di verdi tralci, il Reno muore tristemente
tra le sabbie olandesi; superbo nella sua folle audacia il Danubio erompe sicuro a Oriente, e tante
vene tedesche ricolme di vita e di coraggio scorrono maestose come i fiumi! (cit. p. 34)
Ma siccome la Germania di Faust e la borghesia tedesca di Grabbe hanno smarrito il senso
ideale del mondo arcaico-barbarico e non hanno saputo rinnovare il senso di libertà agognato in un
serio progetto politico, ecco che Faust è costretto a trasferirsi a Roma individuando in... Martin Lutero
il vero responsabile di questo mancato rinnovamento.
FAUST Qui, dove la cupola di San Pietro si alza al cielo per placare l'anelito dell'uomo
all'infinito, un simbolo incrinato dalla voce di ferro e di tuono che si è propagata, attraverso le Alpi,
dalla mia città di Wittemberg, dalle labbra di Lutero, il più illustre dei miei contemporanei! Ma in
fondo, cos'hai ottenuto, Lutero? Hai annientato l'illusione, come un lampo, l'hai arsa, l'hai ridotta in
cenere e non hai messo niente al suo posto: nessuna verità che ci dia finalmente la pace. Al nostro
sguardo deluso si apre l'abisso senza scampo. Distruggere e, con le macerie, erigere una torre di
rifiuti... O Germania, adorata patria... (cit. p. 34)
Ci penserà, un secolo dopo, Adolf Hitler, l'imbianchino piccolo-borghese represso e frustrato,
a realizzare l'incubo di Faust (e di Max Stirner): distruggere ciò di cui non ci si può appropriare e, con
le macerie della legge morale, erigere una torre di rifiuti fino al cielo stellato del pur incolpevole Kant.
Sarebbe del resto veramente troppo tentare una spiegazione al nazismo, non solo come evoluzione
dell'ideologia del piccolo-borghese tedesco, ma addirittura dell'idealismo kantiano: il sonno della
ragione genera infatti mostri, non il principio razionale dell'Illuminismo borghese.
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XV - Faust e l'Anti-Faust di Tieck.
Prima di passare al "Doctor Faustus" di Thomas Mann, teniamo pero' fermo l'orologio di
Faust al periodo a cavallo tra '700 e '800. Vogliamo infatti parlare di un estimatore e amico di
Grabbe, Ludwig Tieck che a sua volta era amico stimato da un altro autore che abbiamo incontrato
precedentemente: Goethe.
Indipendentemente da una ricostruzione biografica che verrebbe ad intrecciare le vite e le
opere di questi tre grandi autori della letteratura tedesca, possiamo constatare che il mito di Faust
rappresenta, comunque, un termine di paragone, di confronto e di riscontro della nostra tesi sul dramma
"politico-economico" rappresentato dal patto col Diavolo.
Non è possibile iniziare un discorso su Ludwig Tieck senza incappare nel rapporto di amoreodio tra il genio romantico Tieck e l'olimpico Goethe. Va infatti subito sgombrato il campo da un
dubbio che, troppo a lungo, ha condizionato gli studiosi: il Faust goethiano e le due parti de ""Il gatto
con gli stivali" " (la seconda delle quali, appunto "II principe Zerbino", è stata finora ignorata a
vantaggio della prima) sono da considerarsi antitetici anche se, in qualche modo, paralleli. E il
parallelismo sta nella forte critica sociale, nel pessimismo cronico circa il progresso umano e nella
disperata contestazione sia della società feudale che di quella borghese,- in Germania stranamente unite
contro ogni impulso rinnovatore, - che ispirano le due opere, ma diremmo meglio le due più grandi
'operazioni' letterario-teatrali del secolo. Certo, il giovane Tieck, a differenza di Goethe che si trascina
dietro la seconda parte del "Faust" fino alla vecchiaia e alla morte, spara subito le sue cartucce
dissacranti e provocatorie, quasi di getto, con ispirazione ed ironia tipicamente romantiche. Ma il
lavoro di Tieck, certamente meno pensato a tavolino e 'razionalizzato' di quello di Goethe, se da una
parte difetta proprio di mediazioni e filtri che solo il tempo e l'esperienza possono dare, guadagna
enormemente in fantasia, freschezza e invenzione scenica. Al punto che lo stesso Goethe comincia a
vedere nel giovane rivale una specie di alter ego rivolgendogli la stessa attenzione prestata in
precedenza ad un altro suo grande coetaneo, Schiller.
Il rapporto tra Goethe e Tieck è del resto molto chiaro, tenendo presenti le stesse parole del
genio di Weimar, raccolte dal segretario Eckermann nei "Colloqui con Goethe" il 30 marzo 1824:
"Tieck è un vero genio, e nessuno meglio di me è in grado di riconoscere i suoi meriti
straordinarii Ma quando lo si vuoi collocare più in alto che non sia e metterlo alla pari con me, allora
si cade in errore. E' come se io volessi paragonarmi con Shakespeare."
I motivi del risentimento sono spiegati dallo stesso Goethe:
"A Tieck voglio veramente bene, e nel complesso anch'egli ha un'ottima opinione di me.
Tuttavia, nei nostri rapporti è accaduto qualcosa che non doveva accadere... Quando gli Schlegel
cominciarono a salire, io ero troppo incomodo per loro, e per controbilanciarmi cercarono un ingegno
da contrappormi."
Straordinaria, in questo caso, è la preoccupazione dell'ormai vecchio Goethe del giudizio che
di lui ha il più giovane Tieck. Parole di considerazione, di stima, tributate oltretutto da un avversario,
da un monumento da abbattere qual era Goethe nei confronti di Tieck.
Qui non si tratta, dunque, di rivalutare un Autore che ha avuto una certa importanza, ne di tirar
fuori dal dimenticatoio uno scrittore che forse avrebbe meritato, con un po' più di fortuna, maggior
considerazione. Qui si tratta, bensì, di tappare una clamorosissima falla nella storia della letteratura
tedesca, una falla che molti non avrebbero mai sospettato. Che di falla si tratti, è dimostrato
semplicemente dal fatto che "II principe Zerbino", di certo l'opera più complessa ed attuale, come
vedremo, di Tieck, non sia stata mai rappresentata in lingua tedesca. Qui si tratta, insomma, di una
svista che ha dell'incredibile, quanto meno per la Germania, e che non si spiega nemmeno col fatto che
il gigante-Goethe abbia potuto in qualche modo fare ombra al più giovane e troppo 'romantico' Tieck.
Senza poi contare che le edizioni in Germania di questo capolavoro (ne parleremo tra poco)
più che scarse, sono quasi inesistenti.
"Il principe Zerbino" è, prima di tutto, un capolavoro di comicità: Tieck vi rappresenta burlescamente
la società del suo tempo, i generi letterari allora in voga, le mode poetiche e le canzoncine
romanticheggianti, ma mette in discussione principalmente, - accanto al già accennato pessimismo
circa il progresso umano, - la realtà. Sì, Tieck mette in dubbio che la realtà sia reale, non per giungere
alle 'romanticherie' filosofeggianti di Novalis, ma per fare un discorso rivoluzionario sulla pazzia:
pazzo è colui che mette in discussione non la kantiana realtà astratta della filosofia, ma la realtà e i
rapporti sociali; pazzo è colui che vuole sovvertire l'ordine costituito, mettere in discussione l'autorità;
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pazzo è ancora chi non si attiene al 'buon gusto' corrente; pazzo è chi agogna la libertà dello spirito;
pazzo è l'Autore stesso che mette in discussione tutto ciò, e si merita proprio che i suoi personaggi pirandellianamente, due secoli prima di Pirandello - gli si rivolgano contro.
Il meccanismo del teatro-nel-teatro che caratterizzano gli altri capolavori teatrali di Tieck ("II
gatto con gli stivali" e "II mondo alla rovescia") sparisce ne "II principe Zerbino": qui il teatro-nelteatro, anche se rispunta fuori nel finale in maniera però non decisiva, si trasforma in un discorso circa
la realtà-della-realtà che vuole analizzare le possibilità rivoluzionarie, del resto assai scarse, nella
Germania dell'epoca. "Il principe Zerbino" è infatti una grande metafora, all'indomani della
Rivoluzione francese, della rivoluzione 'impossibile' in Germania. Già, perché mentre "II gatto con gli
stivali" verte sulla speranza che una rivoluzione si possa 'comunque' fare (e non è rivoluzionaria forse,
per l'epoca, l'idea che un gatto riesca a far salire sul trono un umile contadino, sovvertendo l'ordine
sociale?) con l'aiuto di forze occulte, cioè l'astuto gatto parlante, che incarna la giustizia naturale
capace di sostituirsi a quella umana.
"Il gatto con gli stivali" è stato definito "una fiaba romantica sul modello del Gozzi". Ma in
questo caso la definizione di fiaba, sia pur drammatica, è fuori luogo. L'intenzione di Tieck, lo si
capisce fin dalle prime battute tra il pubblico sorpreso e scandalizzato, è quella di provocare una
reazione da parte degli spettatori; i quali sono posti di fronte ad un mondo nuovo nato dalla rivoluzione
dello spirito (quella sociale è
impossibile nella Germania del tempo) che trasforma non solo gli spettatori borghesi in protagonisti,
ma anche i contadini in sovrani! Altro che animali parlanti! Il gatto Hinze, che ritroviamo vecchio e
furbescamente 'sistemato' nello "Zerbino" come Consigliere di corte, è un pigro Robespierre tedesco
pronto a fare la sua rivoluzione, per poi tradirla astutamente. Ma la rivoluzione tradita comporta la
follia. Cosa che puntualmente si avvera ne "II principe Zerbino". Qui la rivoluzione è dunque avvenuta,
il contadino è diventato sovrano, ha avuto un erede, la corte si ispira ad ideali apparentemente
umanistici; ma, in realtà, nulla è cambiato, e l'atmosfera politica in Germania induce come sempre, e
sempre più, alla follia. Follia che colpisce il giovane principe, la cui ricerca di umanità e libertà finisce
con un'educazione al buon gusto e alla morale imperante a suon di botte.
Ma "II principe Zerbino", al di là di questa lettura più ideologica è un
pozzo senza fondo di trovate ed invenzioni drammaturgiche, una più esaltante dell'altra. Bastino pochi
esempi: il flash back cinematografico che ripropone alla moviola la scena già vista; la marionettadoppione che sostituisce l'uomo vero in carne ed ossa, tema questo che attraverso Kleist giungerà fino a
Rosso di San Secondo; l'espressionismo e il simbolismo, precursori dei tempi, delle scene in cui si
mettono a parlare non solo i fiori (tema, questo, ripreso subito da Novalis nell' Ofterdingen ) ma anche i
tavoli e le sedie, l'arrosto, il cielo e chi più ne ha più ne inetta, giungendo ad anticipare intuizioni
proprie della letteratura e della pittura della prima metà del '900.
Per quanto riguarda, infine, le vicende storico-critiche de "Il principe Zerbino", c'è
semplicemente da ribadire come esso sia stato dimenticato fino ad oggi per quasi due secoli. Composto
tra il 1797 e il 1798, il testo completo fu pubblicato a Berlino, tranne qualche scena precedentemente
divulgata, solo nel 1828. Una ristampa anastatica dell'edizione del 1828 risale al '54. Successivamente
lo "Zerbino" scompare da una delle edizioni più recenti delle opere di Tieck (München-Winkler '65).
Non esiste quindi alcuna bibliografia critica relativa a questo testo che, tra l'altro, è stato ignorato
persino dal Mittner, - anche se si sa da una recente raccolta di scritti e testimonianze del tempo su
Tieck, curata da Klaus Günzei ("Konig der Romantik", Berlino '81), che le prime scene dello "Zerbino"
lette da Tieck nel 1801 a due spettatori non comuni quali Goethe e Novalis, suscitarono lo stupore e
l'ammirazione di entrambi.
Una curiosa coincidenza, passata anche questa inosservata, è che nel 1801, cioè subito dopo 'la
stesura dello "Zerbino", Tieck scrisse un frammento drammatico che intitolò "Anti-Faust". Si tratta di
un lavoro che non portò a termine poiché, probabilmente, egli si accorse che il suo vero "Anti-Faust"
era, appunto, rappresentato da "Il principe Zerbino". Opera, quest'ultima, che va propriamente
considerata una riscoperta nella letteratura tedesca per l'importanza che ebbe a suo tempo come stimolo
nei confronti di Goethe (che scrisse la seconda parte del Faust dopo aver avuto notizia della seconda
parte de "II gatto con gli stivali", cioè lo "Zerbino", di Tieck) e che assume, per la sua forza un ruolo
cruciale nell'ambito del teatro contemporaneo. E fu proprio Tieck, nel 1829, a promuovere e curare la
prima rappresentazione teatrale della seconda parte del "Faust" in occasione dell'ottantesimo
compleanno di Goethe, quasi a sancire l'incrociato destino faustiano dei due grandi padri della
letteratura moderna tedesca.
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XVI - Faust e Adrian Leverkühn
Faust incarna dunque la duplicità, la doppiezza interiore della coscienza borghese con tutto il
suo carico di disperazione e negatività: due anime di una borghesia in lotta con se stessa perché
incapace - nella Germania dalla Riforma al nazismo - di dar vita ad progetto politico che realizzasse le
aspirazioni di libertà. In questo nostro breve viaggio nel mito faustiano abbiamo costantemente
rintracciato e messo in evidenza il significato "storico", per non dire politico e sociale del patto col
Diavolo. Un Diavolo che si è presentato come notaio, brooker o funzionario di banca dispensando più
trucchi finanziari che iperbole celesti. Il frammento faustiano e, soprattutto, il capolavoro della
letteratura romantica "La strabiliante storia di Peter Schlemihl" di von Chamisso espongono con
grande chiarezza il dramma esistenziale provocato da una società che restringe i propri ideali di libertà,
di emancipazione intellettuale, di cultura alla meschina arte di far denaro. Ma il denaro, privato di una
sua funzione sociale, accumulato in banca, diventa effimero, rende effimera la vita, la priva di
fondamenti concreti, umani, priva l'uomo del piacere di stare con altri uomini, in fin dei conti conduce
alla follia. Una follia dove è sempre possibile, anzi probabile l'agguato del Diavolo.
Thomas Mann non si fa certo sfuggire l'importanza delle opere di von Chamisso e, in un
saggio dedicato all'autore dello "Schlehmihl", scrive:
"Il racconto s'inizia con realismo borghese e l'abilità specificatamente artistica dell'autore sta
nell'aver saputo mantenere fino alla fine il tono verista-borghese... l'ombra nel Peter Schlemihl è
divenuta simbolo di ogni solidità borghese e di ogni relazione sociale"."
Mann è dunque affascinato, - e l'influenza dello "Schlemihl" si sente eccome nel "Doctor
Faustus", - dal tono "borghese" che esprime, sul piano della forma, la "problematica" borghese del
contenuto. Tant'è vero che Mann connette il problema dell'ombra, cioé dell'anima e della personalità, a
quella che lui definisce "rispettabilità dell'individuo". Ed è chiaro che questa rispettabilità individuale
del soggetto, asceso alla ricchezza ed al benessere, si confonda coi valori etici e morali della società
borghese, in quanto ne rappresenta la sua vocazione umanistica e la sua aspirazione ad un mondo
governato da leggi giuste e valide per tutti. Ma quando il Diavolo degli impulsi egoistici - il Demonio
del profitto - irrompe nella coscienza borghese facendo sparire gli ideali umanistici, c'è uno scotto da
pagare: il senso di colpa.
"Il pentimento per il baratto è sconfinato", sostiene Thomas Mann a proposito del
protagonista del capolavoro di von Chamisso. E si potrebbe aggiungere che la stessa espressione
potrebbe valere per il pentimento di Faust, come per il rimorso di Adrian Leverkühn, il Doctor Faustus
di Thomas Mann. Con l'unica differenza che mentre al Faust di Goethe ed anche al Peter Schlemihl di
von Chamisso si apre ancora una speranza di salvezza (la salvazione di Faust con l'intervento degli
angeli in Goethe, gli stivali delle sette leghe in von Chamisso), il protagonista del romanzo di Thomas
Mann è irrimediabilmente condannato alla dannazione eterna. L'avvento del nazismo rese evidente agli
occhi di Mann la definitiva sconfitta degli ideali della borghesia tedesca: l'umanista Settembrini ne "La
montagna incantata" rappresenta il malato terminale di questa tradizione idealistica che trova nell'età
di Goethe il suo momento più alto.
Nel "Saggio sul Faust di Goethe" Thomas Mann individua gli elementi fin qui trattati:
"Qui si tratta di un sentimento umanitario in cui si mescolano in un connubio unico al
mondo... l'elemento demoniaco e l'urbano, l'assoluto e il benevolmente relativo".
Secondo Thomas Mann, dunque, l'intuizione goethiana dei problemi ideologici della
borghesia tedesca, dei drammi esistenziali in cui incappa l'individuo che non trova nella società
borghese del tempo un luogo per realizzare la propria aspirazione di libertà, determina la natura di tanti
suoi personaggi. Al punto che, come sostiene Thomas Mann: " Non passò molto tempo, e la nostra
borghesia sapeva il Faust a memoria". E' chiaro che Mann sta dalla parte degli ideali borghesi, sta con
Goethe e guarda con sospetto gli slanci rivoluzionari e, attualizzando, il socialismo. Ma guarda con
sospetto ed orrore anche l'avanzata del capitalismo tedesco che realizza il sogno del profitto senza
realizzare il sogno più importante: la libertà politica. Ecco infatti come Thomas Mann "bacchetta"
Faust a proposito del sogno-metafora del volo:
"Il sogno si è adempiuto, come sogliono adempiersi i sogni degli uomini. Le macchine
rombanti ne hanno fatto una realtà, ma senza fumi ne sbornie. E' un'esperienza fredda e meccanica... E
quando da un'altezza ben calcolata, bombe incendiarie cadano sulle città degli uomini, dobbiamo
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convenire che Wagner, l'arido pedante, aveva ragione di non condividere il desiderio di Faust: ben
altrimentu ci conducono le gioie spirituali / da libro a libro, di pagina in pagina."
Il "Doctor Faustus" di Thomas Mann non può fare sconti, non può fare eccezioni alla natura
politico-dialettica del mito di Faust. La stessa struttura narrativa dell'opera di Mann è dialettica. L'Io
narrante non è infatti il protagonista del romanzo Adrian Leverkühn - peraltro rappresentato come
figlio di un pastore luterano -, bensì Serenus Zeitblom, un professore liceale, amico di Adrian, animato
a sua volta da sentimenti umanistico-liberali, anche se un po' conservatore, non privo di una certa
retorica moralistica. Quasi un alter-ego dell'autore, Serenus Zeitblom si presenta così al lettore:
"Io sono un uomo perfettamente moderato e, posso ben dire, sano, di temperamento umano,
incline all'armonia e al raziocinio; un erudito (...) sono figlio delle Muse nel senso accademico della
parola e amo considerarmi discendente degli umanisti tedeschi (...) Per quanto non osi negare
l'influsso dei démoni sulla vita umana, li ho sempre sentiti alieni alla mia natura, li ho esclusi
istintivamente dalla mia concezione del mondo..."
Ma di quali "démoni" sta parlando Serenus Zeitblom? Non si tratta ovviamente di credenza
infantile in strambe presenze infernali.
"Per questi miei sentimenti ho affrontato sacrifici, sacrifici ideali e di materiale benessere,
abbandonando senza esitare e prima del tempo la mia cara professione di insegnante quando mi
accorsi che non la potevo conciliare con lo spirito e con le esigenze delle nostre evoluzioni storiche."
Le "evoluzioni storiche", il démone da cui Serenus si ritrae come fece lo stesso Thomas Mann
che emigrò oltreoceano, è il nazismo, cioé "la Germania avvinghiata dai démoni e precipitante di
abisso in abisso", come nota Lavinia Mazzucchetti nell'introduzione all'edizione italiana del "Doctor
Faustus".
L'importanza della dialettica storica nel romanzo faustiano di Mann si evince fin dalle prime
battute. Leverkühn-Faust, come Serenus-Mann, cade in un dilemma angoscioso e, di fronte al démone
nazista, si deresponsabilizza cercando di rimanere estraneo agli eventi storici in corso. Il musicista
Adrian scende a patti col Male al fine di realizzare la propria essenza umana nella musica intesa come
arte al di fuori della storia. Leverkühn e Serenus rappresentano le due anime dialettiche di uno stesso
personaggio che "amleticamente", l'avverbio è brutto ma rende l'idea, non sa risolversi all'azione. Da
una parte c'è dunque l'umanista, l'Io narrante, dall'altra il genio oscuro e malato di Adrian. Altrimenti
non si spiegherebbe il motivo che spinge Serenus a narrare la vicenda dell'amico musicista col quale
condivide la colpa (borghese) dell'inazione: Sereneus ne sconta il fio attraverso l'atto di narrare.
Narrazione che si trasforma indirettamente in un'azione morale-pedagogica rivolta alla società del suo
tempo. E' proprio Serenus Zeitblom a chiarire questo argomento.
"...premetto alcune parole su me stesso e sulle mie condizioni.... M'induce a questo passo
unicamente la supposizione che il lettore, - dirò meglio, il futuro lettore... a meno che per miracolo io
possa lasciare la nostra fortezza europea, -... sentirà il desiderio di sapere approssimativamente
qualche cosa sul conto dello scrivente... non senza timore, beninteso, di spingere così il lettore a
chiedersi se è in buon emani, vale a dire se io, in vista di tutta la mia esistenza, sia veramente uomo da
assumermi un compito al quale mi spinge forse più il cuore che qualsiasi altra affinità giustificatrice".
Serenus, come abbiamo accennato, condivide con Adrian la colpa dell'inazione che
corrisponde ad una forma di deresponsabilizzazione, una disattivazione della coscienza borghese di
fronte al nazismo, considerato un male passeggero, o tutt'al più un "male minore". In realtà, e qui
azzardiamo, Serenus e Adrian sono la stessa persona. In questo senso sono eloquenti le parole di
Serenus a proposito della sua amicizia con Adrian:
"Ma amarmi? Chi avrebbe mai amato quest'uomo? Una volta una donna - forse. Un bambino
alla fine - può darsi. Un giovane... che egli poi, probabilmente appunto perché gli era affezionato,
mandò via - e precisamente alla morte. A chi ha mai aperto il suo cuore? chi ha mai accolto nella sua
vita?... La sua indifferenza era tale che raramente si accorgeva di ciò che accadeva intorno a lui, della
società nella quale si trovava..."
Serenus accusa, insomma, l'amico di essere "indifferente della società in cui si trovava". Già,
ma che dire allora di Serenus stesso che abbandona l'insegnamento per sottrarsi alle "evoluzioni
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storiche"? La verità è che Serenus Zeitblom e Adrian Leverkühn sono la stessa persona, al punto che
oltre ad essere amici collaborano, come riferisce lo stesso Serenus, condividendo insomma un po'
inaspetattamente la passione artistica:
"Mia fu l'elaborazione a libretto d'opera della commedia shakespeariana Pene d'amore
perdute, la capricciosa opera giovanile di Leverkühn, e io ho potuto influire anche sulla preparazione
del testo per la grottesca suite operistica Gesta romanorum..."
Ma Serenus va oltre e tira in ballo il suo stesso autore, cioé Thomas Mann, fondendosi in lui:
"Avevo appena incominciato a scrivere, allorché mi uscì dalla penna una parola che, tra me e
me, mi mise in un certo imbarazzo: la parola geniale adoperata parlando della musicalità dell'amico
defunto. Ora, la parola genio ha certamente un suono, un carattere, nobile, armonico e umanamente
sano, seppur trascendente l'ordinario, e uomini come me, così lontani dalla pretesa di partecipare con
la prpria natura a queste zone elevate e di essere stati mai beneficiati con influssi divini ex alto, non
dovrebbero avere alcun motivo plausibile per ritrarsene spauriti... così pare. Eppure non si può negare
e non si è mai negato che i démoni e l'irrazionale abbiano una parte sconcertante in questa zona
radiosa, che tra essa e il regno degli inferi esista sempre un collegamento capace di suscitare un
leggero brivido..."
Thomas Mann si riconosce insomma in Serenus nella frase "avevo appena cominciato a
scrivere", visto che a scrivere sono due persone: l'Io narrante e il suo autore. La parola "genio" apre
però un ponte con la sponda del personaggio faustiano Adrian Leverkühn. "Anche" Serenus infatti si
sente infatti, sia pur con minor forza, ispirato, toccato dal "genio". Tant'è che, intuendo di essere andato
un po' troppo oltre nella rivendicazione della propria genialità demoniaca, Serenus cerca di aprire il
paracadute per effettuare un atterraggio morbido sul piano della realtà:
"Qui m'interrompo, umiliato di aver commesso un errore e di non aver saputo applicare il
freno all'arte".
Ma a tagliare la testa al toro sull'unità delle tre coscienze narranti del romanzo, ci pensa lo
stesso Thomas Mann in un brano del "Saggio sul Faust di Goethe" precedente all'ultima fase del
"Doctor Faustus":
"Clavigo, Weislingen nel "Goetz" e Faust sono le figure con cui Goethe fece poeticamente
ammenda del suo tradimento d'amore, cercando tuttavia al contempo di difenderlo dialetticamente e
drammaticamente. Si pensi ai discorsi magistrali e nel loro genere irrefutabili, con cui don Carlos
persuade Clavigo della necessità di lasciare Maria. Clavigo e Carlo sono la stessa persona nella
poetica divisione delle parti, così come Tasso e Antonio, Faust e Mefistofele sono spiegazioni
dialettiche della personalità del poeta".
Com'è noto Thomas Mann si considera a buon diritto erede, forse l'epigono della grande
tradizione umanistica di Goethe. Non a caso egli dedica al genio di Weimar un saggio dal titolo
significativo: "Goethe esponente dell'età borghese". Mann deve però prendere atto, a differenza di
Goethe che è ancora convinto di una evoluzione positiva, del fallimento degli ideali del classicismo. Il
"Faust" di Goethe si discosta allora dall'opera di Thomas Mann nell'atto finale dove, nel passaggio dal
XIX al XX secolo, svanisce la possibilià della salvazione di Faust grazie alla sua volontà di fare e
sognare qualcosa (Streben) di positivo, pur nella condizione di aver stretto un patto col Diavolo. Il male
di Leverkühn è quello dell'incapacità ad agire e a reagire al di là del piano estetico-artistico ed
individualistico, incapacità paradigmatica di una società che ha covato il germe del Mefistofele nazista.
Per queste ragioni come sostiene Lavinia Mazzucchetti:
"Lukàcs tenta di scorgere in tutta l'opera di Mann la concreta premessa al Doctor Faustus,
cioé la denuncia di substrati barbarici nella Germania moderna".
Sarà il figlio di Thomas Mann, Klaus, a scrivere prima di suicidarsi, come atto estremo di
ribellione e di libertà individuale, un grande romanzo sul patto tra il diavolo nazista Goering e l'artista
borghese: "Mephisto" del 1936, opera che nella "liberale" e moderna Germania federale ha subito la
censura totale fino al 1980, come accusa Erika Mann, sorella di Klaus, in un appello del 1968 a un
editore italiano:
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"Se nella Germania d'oggi un libro, pur entro certi limiti, prende a modello il pupillo di
Goering, Gründgens, già consigliere di stato nazista e intendente generale dello Staatstheater, per
questo stesso motivo viene proibito, sebbene la costituzione della nuova Germania uscita dal nazismo
garantisca alle arti piena libertà di espressione, ben si comprende in quale situazioni si trovi la nostra
Repubblica federale."
Da questa conclusione risulta, dunque, più comprensibile il passaggio storico e tematico
dallo spirito luterano di Faust, creatura probabilmente dello stesso Lutero, all'educazione luterana del
personaggio di Thomas Mann, Adrian Leverkühn, il compositore vittima della tentazione borghese
dell'individualismo e del solipsismo
Il 12 maggio 1949, nove giorni prima di suicidarsi, Klaus Mann scrive l'ultima, disperata
lettera all'editore Jacobi:
"Egregio signor Jacobi, la Sua lettera del 5 maggio è inestimabile. Pubblicare un romanzo,
lei me lo chiama intraprendere un'operazione. Questa operazione, a Suo parere, sarebbe nel caso di
Mephisto nient'affatto facile e deve essere perciò sospesa. Perché? Perché il signor Gründgens riveste
qui già un ruolo significativo.
Questa sì che è logica! E coraggio civile! E fedeltà ai contratti! Non so quello che mi stupisce
di più, se la bassezza dei Suoi sentimenti o l'ingenuità con cui li confessa. Grüdgens ha successo:
perché si dovrebbe pubblicare un libro che potrebbe apparire diretto contro di lui? Mai rischiare!
sempre con il Potere! Nuotare con la corrente! Si sa dove porta: proprio a quei campi di
concentramento di cui poi si dice di non aver saputo niente..." (Klaus Mann, "Mephisto", Milano 1982
p. 282-283).
Il romanzo di Klaus Mann potrà circolare liberamente in Germania solo nel 1981, otto anni
prima della caduta del muro di Berlino e quattro anni dopo il "suicidio" nel carcere di Stammheim di un
altro ribelle della storia tedesca: Andreas Baader, fondatore e ideologo della Rote Armeé Fraktion.
In conclusione il Patto col Diavolo rappresenta una metafora dell'ideologia tedesca (e della
"miseria", come la definisce Marx alludendo alla mentalità piccolo-borghese violenta e reazionaria),
ideologia che induce il singolo a sopravvalutare la sua "forza interiore e spirituale" spingendolo verso
una realizzazione della libertà personale o col ricorso a forze oscure, esoteriche (il Diavolo) oppure alla
violenza individuale. Una forma di solipsismo che comporta una finalizzazione del Patto col Diavolo o
della violenza quale atto di liberazione egoistica e che è sintomo del “vizio idealistico” della ideologica
tedesca. Un vizio che scaturisce dalla frattura tra ideale e realtà, tra libertà interiore e subordinazione al
potere esterno, provocata dalla Riforma di Martin Lutero: una costante storica di cui Faust è simbolo e
metafora letteraria.
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XVII –Il faustismo di Andreas Baader.
Uno dei passaggi cruciali della teorizzazione della "violenza politica" rispetto all'epoca
contemporanea è l'opera del filosofo tedesco post-hegeliano Max Stirner L'unico e la sua proprietà,
testo che rappresenta la chiave di volta - come ben intuirono Marx ed Engels - per la comprensione
della "Ideologia tedesca". Con questo termine filosofico si intende la propensione psicologica del
tedesco a confondere romanticamente il cambiamento dello stato d'animo con il cambiamento vero e
proprio dello "Stato". Un'illusione provocata dalla scissione tra ideale e realtà risalente a Lutero che,
per diffondere la Riforma, scese a patti coi Principi cattolici e protestanti assicurando che la libertà
religiosa interiore non doveva entrare in contrasto con la religione "ufficiale" del potere politico.Kaspar
Schmidt (vero nome di Max Stirner, parodiato da Marx col nomignolo di San Max) è paradossalmente
il "profeta" dell'ideologia piccolo borghese che fa capo alla teoria dei bisogni e al concetto di
"proprietà" della Filosofia del Diritto (1821) di Hegel, nonché il padre spirituale delle rivolte giovanili
a partire dal '68 e delle radici ideologiche del terrorismo "rosso" in Germania. Lo storico tedesco Hans
Heinz Holz sostiene giustamente in questo senso che:
«Oggi i figli di Stirner preferiscono richiamarsi a Marx piuttosto che al loro vero padre.» (H.
H. Holz, Die abenteuerliche Rebellion, Darmstadt 1977).
Cosa rende tanto attuale la filosofia stirneriana de L'Unico? Sicuramente l'elaborazione della
teoria dei bisogni, di origine accennavo hegeliana, nell'ambito della categoria della "Gewalt", parola
tedesca che sta contemporaneamente per "violenza", "forza", "potere". Tra le tre accezioni del termine,
Stirner scelse proprio quella di violenza: ciò di cui si ha bisogno e non si ha in proprio potere o
possesso si può ottenerlo con la violenza. E anche con il delitto.
Dicevomo
dell'origine
hegeliana di questo concetto apparentemente più pratico che filosofico. Nella Filosofia del diritto
(opera con cui Hegel vuole dimostrare l'origine naturale della proprietà privata e dello stato borghese) il
"bisogno" è l'elemento che che collega l'Io alla Natura, trasformandola in "Natura propria dell'Io", cioè
in proprietà che Hegel passa subito a definire "privata". È dalla critica di questa arbitraria
trasformazione della proprietà naturale, umana e di tutti, in proprietà "privata" che nasce il marxismo.
Marx si chiede infatti: se il mio bisogno è la fame, o come Hegel dice, se la fame è mia essendo la mia
fame, è naturale che l'oggetto per soddisfarla, il pane, in quanto pane della mia fame sia anche il mio
pane. Ma Hegel aggiunge : il pane è mio non solo in qualità di essere umano che ha fame, ma in qualità
di privato cittadino che si appropria del pane facendolo suo in quanto pane della sua fame.Marx critica
aspramente il gioco linguistico su cui è fondato da Hegel il diritto naturale della proprietà privata: "ciò
che è oggetto del mio bisogno, è oggetto della mia Proprietà, dunque è mio". Marx contesta, com'è
noto, il termine "mio" aggiunto surrettiziamente (cioè, da dove salta fuori?) da Hegel correggendolo
con "di tutti": il pane è semplicemente di tutti perché tutti hanno fame.Max Stirner, partendo dallo
stesso concetto hegeliano di "proprietà", invece di criticarlo come fa Marx, lo spinge alle estreme
conseguenze. San Max o Santo Sancho, come lo apostrofa Marx, si mette nei panni pratici e spicci del
piccolo borghese represso e frustrato che non riesce ad essere, nella società borghese, padrone e
proprietario di tutti gli oggetti di cui necessita per soddisfare i propri bisogni. Che fare? Come
accennavo, Stirner va per le spicce: per soddisfare i bisogni l'individuo deve impadronirsi delle "cose"
anche attraverso la violenza e il delitto. Marx ed Engels denunciano questo passaggio pericoloso
dell'ideologia piccolo-borghese:
«Se San Sancho avesse detto semplicemente e onestamente che tutto quanto è oggetto della
sua rappresentazione... in quanto sua rappresentazione di un oggetto, è sua rappresentazione, id est
sua proprietà... avremmo soltanto ammirato la puerile ingenuità dell'uomo che in questa banalità
crede di aver scoperta e acquistata una fortuna. Ma il fatto di sostituire questa proprietà speculativa
con la proprietà pura e semplice doveva naturalmente esercitare un grande effetto magico sugli
ideologi tedeschi morti di fame vera e propria.» (Marx-Engels, L'ideologia tedesca, Roma 1977, p.
278)
Infatti il passo dalla teoria alla pratica banditesca in Stirner è breve, tanto che ne L'Unico e la
sua proprietà si legge:
«Ciò che io posseggo con la violenza (Gewalt) è in mio potere (Gewalt). Cos'è dunque la mia
proprietà? Nient'altro che quello che frutta la mia violenza.»
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A questo proposito H. G. Helms sostiene che:
«La rivolta è così diventata l'occasionale e arbitraria manifestazione, più o meno
conformistica, della decaduta individualità contro l'oppressione statale: è la ribellione privata e
soggettiva contro leggi e regole che limitano l'individuo.» (H.G. Helms, Die Ideologie der anonymen
Gesellschaft, Koeln 1966).
In un altro brano de L'Unico Stirner ribadisce il contenuto qualunquistico ed egotistico
dell'individualismo piccolo borghese:
«L'Io senza freni come appartenente solo a me, non può completarsi e realizzarsi nello stato.
Ognuno è fondamentalmente criminale nei confronti del popolo e dello stato.»
Così si spiega l'ostilità di Stirner alla rivoluzione popolare che, a suo avviso, non può
abbattere le forze che limitano l'individuo, ma sostituisce le vecchie forme di potere oppressivo con
altre che pure continuano a frenare lo sviluppo (economico) della personalità del piccolo borghese che
aspira a divenire grande proprietario borghese o, meglio, "L'Unico" proprietario. La vera fede
rivoluzionaria professata da Stirner va dunque chiamata col suo vero nome piccolo borghese:
insurrezione, rivolta individuale, faida familiare, delitto:
«L'insurrezione - sostiene infatti Stirner - è l'atto di individui che si elevano, che si rialzano...
la rivoluzione aveva in mente un nuovo regime, l'insurrezione ci induce a non lasciarci più reggere... è
col delitto che l'Egoista si è sempre affermato.»
Va da sé che Marx ed Engels colgono la contraddizione "rivoluzione-rivolta anarchica". In un
brano de L'ideologia tedesca si legge:
«La rivoluzione e la rivolta stirneriana si distinguono non in quanto, come crede Stirner,
l'una è un atto politico e sociale e l'altra è un atto egoistico, ma in quanto l'una è un atto e l'altra no...
Nell'atto stirneriano - conclude Marx - ritroviamo la faida... la legge del più forte e la prassi del più
antico sistema di vita.»
La negazione assoluta delle istituzioni in genere, ovvero di qualsiasi forma di Stato, intesi
come limiti alla libertà personale, costituisce secondo Holz il legame ideologico tra la ribellione
anarchica del piccolo borghese tedesco represso e la rivolta egotistica contemporanea. Risalendo alle
radici egoistiche del camusiano Uomo in Rivolta, Holz sostiene che:
«Un ordine sociale non può essere sostituito da un altro migliore, ma solo dalla negazione
dell'ordine stesso, dalla negazione totale. La dialettica della negazione (che rinnega ogni possibile
alternativa positiva) ed il grande rifiuto compaiono fin dall'inizio del pensiero anarchico e della
ribellione.» (H. H. Holz, op. cit.).
Nell'ambito di questa netta contrapposizione tra Stato e Individuo, i problemi circa la
realizzazione della libertà e l'emancipazione si "personalizzano", si trasformano altresì in fatti privati
tra individuo e Stato, o meglio tra i singoli individui e i singoli rappresentanti dello Stato e delle
istituzioni. Non c'è spazio in questa sede per ricordare le reazioni al concetto hegeliano di "Stato
Assoluto" che hanno caratterizzato da Stirner in poi i contenuti della "rivolta egoistica". Basti ricordare
come fa Holz che:
«La protesta dei posthegeliani contro la statolatria di Hegel, la difesa dell'uomo concreto...
dové sfociare in una negazione dello Stato. Sicome questa negazione si riferiva all'individuo isolato
nella sua sfera privata, l'abbattimento dello Stato poté essere pensato soltanto come anarchia d'una
pluralità di individui, e apparire solo come distruzione soggettiva e arbitraria delle istituzioni, oppure
come annientamento dei loro rappresentanti.» (H. H. Holz, op. cit.).
Non deve allora stupire che, in questo quadro di protesta borghese antistatalista, l'elogio
stirneriano dell'attentato dello studente Sand contro il consigliere di Stato Kotzebue, avvenuto il 23
marzo 1819, suoni più come una rivendicazione terroristica dei nostri giorni che non come un
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anarchico proclama ottocentesco. La personalizzazione del problema della conquista della libertà come se all'individuo bastasse uccidere un rappresentante dello Stato per uccidere lo Stato - è la diretta
conseguenza della rigida contrapposizione idealistica (cioè astratta e priva di considerazioni
economico-sociali) tra individuo e Stato. È in tal senso profetica l'affermazione di Marx ne L'Ideologia
tedesca:
«Ciascun rivoltoso nel suo atto egoistico ha di fronte a sé uno speciale esistente, al di sopra
del quale tenta di sollevarsi, senza preoccuparsi della situazione generale. Egli cerca di sbarazzarsi
dell'esistente solo per quel tanto che esso è d'impedimento, e per il resto cerca di appropriarselo.»
Attraverso la violenza teorizzata da Stirner, come strumento della realizzazione egotistica e
del soddisfacimento dei bisogni dell'individuo, si passa dunque ad un altro tema di grande attualità: la
natura sostanzialmente conservatrice della rivolta individuale.
«Una volta privato della sua presunta libertà nella società borghese, il piccolo-borghese ha
indirizzato la propria rivolta individualistica non contro sistemi e strutture, bensì contro ciò che
reprime il singolo individuo. Ha fatto quindi oggetto della sua rabbia i funzionari dello Stato piuttosto
che lo Stato stesso. Il terrorismo individuale si è così trasformato nella caricatura della rivoluzione
che, come lotta di classe condotta dalle masse, si rivolge piuttosto contro le condizioni del sistema che
non contro i suoi rappresentanti.» (H. H. Holz, op. cit.)
Holz si riferisce alla teorizzazione del terrorismo tedesco come atto individualistico rivolto
contro singoli rappresentanti dello Stato:
«Il sistema funziona ed agisce attraverso questi nemici del proletariato. Se si vuole davvero
distruggere il sistema, bisogna eliminare i suoi funzionari. Non c'è altra via d'uscita... Il terrore
rivoluzionario si rivolge esclusivamente contro gli esponenti del sistema dello sfruttamento e contro i
funzionari degli apparati della repressione.» (AA.VV., Ueber den bewaffneten Kampf in Westeuropa,
Berlin 1971).
La "personalizzazione" piccolo borghese della lotta per l'emancipazione del soggetto isolato
sfocia in una rivendicazione immediata e violenta dei diritti del singolo, dell'Unico. Il ribelle perde così
di vista la situazione generale, il popolo, per calarsi in un mondo ideale e narcisistico di male compiuto
in nome del bene, dove il masnadiere di Schiller o il Kohlhaas di Kleist sono gli equivalenti nel
romanticismo tedesco del mito di Robin Hood. Un mondo in cui il ribelle, nella sua qualità aristocratica
di uomo rivolta, si illude di possedere da solo le forze interiori per mutare l'esistente.Lasciando da parte
il concetto più ampio di "rivoluzione", ritorno sulla natura egotistica delle rivolte giovanili
contemporanee . Le affermazioni di Michael "Bommi" Baumann (Come è cominciata, ed. italiana
Milano 1977, la prima autocritica ed il primo pentimento di un giovane che è riuscito ad uscire dal
tunnel del terrorismo), sono molto illuminanti a questo proposito:
«La rivoluzione di fa anche per se stessi. Più la tua rottura è radicale, meglio è. Si è
completamente impregnati dagli schemi di comportamento tradizionali. Essi ci influenzano molto più
di una qualsiasi azione che, per definizione, è una situazione eccezionale. Se ad un certo momento
questa azione sei tu a determinarla, ne esci soddisfatto: per una volta non sei stato dominato e in
qualche modo si esprime la tua natura. Ribellandoti sviluppi un sano narcisismo... prendi insomma
gusto alla tua condizione di ribelle perchè ti piaci.»
Il piacere edonistico prodotto nel soggetto dalla rivolta astratta contro la società sui generis, le
motivazioni egoistiche che animano colui che si ribella per "realizzare se stesso", tornano
costantemente nell'autoanalisi di "Bommi" Baumann:
«La vita come è stata finora ci sembra senza senso, noiosa, vuota e disumana. Cerchiamo di
evadere in qualche modo per vivere le sensazioni di felicità, di tenerezza e di stare insieme che questa
società borghese ci nega. La prospettiva di dover vivere e lavorare per sempre in queste condizioni ci
appare talmente orribile che ce ne distogliamo, ci diamo alla droga ed entriamo in uno stato di apatia
senza più preoccuparci di niente. Ma presto ci accorgiamo che neanche lì il sistema ci lascia in pace...
Questa lurida società di merda è riuscita a sistemare ogni cosa in maniera che ogni individuo sia
costretto a integrarsi o a crepare nelle fogne.»
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Come ben si vede, non siamo di fronte ad un progetto rivoluzionario, bensì ad una chiusura
del soggetto in se stesso (nella droga, nel sesso ecc.), ad un isolamento dalla "lurida società di merda"
che finisce per provocare una risposta violenta, una ribellione liberatoria e però individualistica, quindi
astratta ed incapace di provocare un cambiamento reale. Le considerazioni di Baumann sugli scopi
personali della violenza riconducono, di conseguenza, alla natura egoistica della rivolta dell'individuo
isolato come l'abbiamo conosciuta in Stirner. L'analogia (si noti bene, anche linguistica) tra questo tipo
di rivolta e quella teorizzata da Stirner è stata infatti notata da Helms:
«L'euforia escatologica dell'anarchismo del XIX secolo si ritrova anche nella gioventù in
rivolta dei nostri giorni.» (H.G. Helms, op.cit.)
In effetti, il "grande salto" del ribelle dall'area movimentistica alle strutture terroristiche vere e
proprie non è quasi mai dipeso da una precisa scelta rivoluzionaria, bensì da un fatto personale che può
svariare dal narcisismo alla paura fisica, come è stato nel caso di Baumann. "Bommi" sostiene infatti
che l'assassinio dello studente Ohnesorge (1967) e l'attentato a Rudi Dutschke (1968) determinarono la
sua risposta violenta e individualistica, nonché l'opzione della clandestinità:
«Quelle pallottole erano destinate anche a te, pensavo. Per la prima volta ti hanno sparato
veramente addosso... era chiaro che bisognava reagire, colpire senza remore... Cazzo, quelli volevano
la nostra pelle, dovevamo forse rispondere con delle pernacchie?»
Queste parole sono la conferma che il problema è sempre quello relativo al gran Moloch
dell'egoismo di cui Stirner è, per l'appunto, il primo teorico e il più violento fautore: così i temi della
libertà e della realizzazione della propria persona nella società borghese hanno spesso assunto
caratteristiche che hanno poco a che fare con una, sia pur elementare, prassi rivoluzionaria marxistaleninista.
Kostantin Wecker, il cantautore e poeta del '68 tedesco, ha scritto una canzone, che parla di
rivolta, dal titolo significativo: Doch, mein ego ist mir heilig ("certo che il mio Ego mi è sacro").
Questo non è soltanto il refrain di una canzone, quanto la sintesi dei contenuti egotistici che hanno
caratterizzato il movimento studentesco e la nascita della Rote Armeé Fraktion. La controprova viene
da un discorso di Rudy Dutschke in cui il teorico della rivolta del '68 sostiene - direi quasi
stirnerianamente - che:
«La forza del movimento antiautoritario sta nel fatto che la sua azione critico-pratica
rappresenta la reale espressione degli interessi e dei bisogni degli individui.»
Certo è che la morte solitaria in carcere di Andreas Baader e Ulrike Meinhoff rappresenta,
oltre ad una tragedia umana, anche uno scacco politico, perché la loro rivolta e il loro sacrificio non
sono stati "rivoluzionari", per dirla con Marx, ma espressione del piccolo borghese romantico e
anarcoide che preferisce la morte "bella" e il suicidio (in questo caso politico) sulla scia del goethiano
eroe romantico-borghese Werther:
«Se ci si vende ai fascisti e si crepa per gli sfruttatori del popolo, allora la morte ha un peso
minore di una piuma di cigno.» (Sepp Binder in Terrorismus, Bonn ‘78).
XVIII – Il faustismo della musica tedesca.
Può sembrare paradossale che il capolavoro operistico dedicato al mito di Faust non sia stato
realizzato da un compositore Tedesco, bensì dal francese Charles Gounod. “Faust” è un'opera in
cinque atti su libretto in lingua francese di Barbier e Carrè tratto dal lavoro teatrale “Faust e
Marguerite” di Carrè, a sua volta tratto dal “Faust” di Johann Wolfgang von Goethe. Debuttò al
Théatre-Lyrique di Parigi il 19 marzo del 1859. Questo paradosso può essere anche in parte spiegabile
col “complesso di Faust” che sembra accanirsi sulla mentalità e sull’ideologia tedesca. Dobbiamo
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comunque tenere presente che di questo mancato “matrimonio” tra musica, storia e letteratura tedesche
sul tema faustiano tratta proprio il romanzo di Thomas Mann che abbiamo prima presentato, il
“Doctor Faustus”. Parlando ora della funzione della musica nell’ambito dell’ideologia tedesca, torna
utile riprendere in mano quelle pagine.
Adrian Leverkuehn - il “Faust” di Thomas Mann - che rappresenta la figura rivoluzionaria
del compositore Schoenberg padre della dodecafonia, non si accontenta di comporre musica con le
note. Il suo punto di partenza è bensì, come per Beethoven, la narrazione “a parole” dell’ispirazione da
tradurre in accordi. Questa concezione apre le porte ad una riflessione su quella che si potrebbe
definire la “funzione etica” del linguaggio musicale.
Nel Discorso su Lessing Mann intuisce infatti la caratteristica principale del linguaggio umano
sul quale si basa ogni concezione estetica dell’arte, che è poi soprattutto un fatto sociale, e nel cui
ambito rientra ovviamente anche la musica:
“La distinzione (tra i generi, ndr.) è annullata e cancellata di continui dallo stesso elemento
critico della lingua. Un’arte il cui strumento è la lingua, determinerà sempre una creazione altamente
critica, giacché la lingua stessa è critica della vita” (1)
Siamo alle prese con ciò che Mann chiama “volontà etica del poeta” che finisce per
coinvolgere, nel Doktor Faustus, anche il compositore che crea un linguaggio musicale “altamente
critico” nei confronti della vita (2). Infatti Adrian Leverkuehn, il Faust-musicista in rotta con la società
tedesca dell’epoca, non compone originalmente con le note; ma, come accennato, con l’ausilio delle
parole. E dato che la sua opera musicale aspira ad essere ‘rivoluzionaria’ sia sul piano artistico-estetico,
sia da un punto di vista etico-sociale, ecco che il linguaggio che egli adotta è ipso facto rivoluzionario,
anche se poi sfocia ‘soltanto’ in una creazione musicale e ‘altamente critica’. Non a caso, dunque,
l’amico del compositore Leverkuehn, l’Io narrante del romanzo,
Serenus Zeitblom, scorge in
Leverkuehn proprio l’epigono delle tendenze rivoluzionarie della drammaturgia lirica tedesca.
In un chiarificatore brano del Doktor Faustus Zeitblom spiega il suo punto di vista su
Leverkuehn:
“Egli (Leverkuehn, ndr.) ripudiava la musica a programma; diceva che non era né carne né
pesce, roba da epoche borghesi, un controsenso estetico. La musica e il linguaggio devono andare
uniti, sono in fondo una cosa sola: la lingua è una musica, la musica una lingua, e separatamente
l’una si richiama sempre all’altra, imita l’altra, si serve dei mezzi dell’altra e fa intendere di essere
una sostituzione dell’altra. Come la musica possa essere dapprima parola, possa essere pensata e
progettata in anticipo come parola, egli intendeva dimostrarmi mediante il fatto che Beethoven era
stato osservato mentre componeva a parole… La qual cosa sarebbe una prova della particolare
affinità tra la musica e la lingua. Ed è ovvio che la musica si accenda alla parola e la parola erompa
dalla musica, come avviene verso la fine della Nona Sinfonia. In fondo è pur vero che tutta
l’evoluzione musicale tedesca tende al Wort-Ton-Drama di Wagner e vi trova la sua meta” (3).
Il riferimento alla Nona Sinfonia in cui coincidono la “volontà etica” del Compositore e
l’impegno ideologico del Poeta (Schiller), che proprio nell’Inno alla gioia fa esplodere le aspirazioni
umanistico-rivoluzionarie del tempo, assume nel Doktor Faustus particolare rilievo. Perché il rifiuto di
Leverkuehn della musica fine a se stessa, “roba da epoche borghesi” egli dice, sta a significare come
per lo stesso Mann la musica non rappresenti solo un fenomeno estetico, ma una forma di critica
dell’esistente fondata, al pari di letteratura e poesia, sulla lingua.
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Non è un caso comunque che, almeno nell’ambito della letteratura tedesca, la concezione
manniana della musica si inserisca in un vasto processo storico. Non ci si riferisce soltanto alla ‘lingua
universale’ agognata dai Romantici tedeschi, che pure giunsero ad una prima singolare fusione di
musica e letteratura, bensì al particolare aspetto ‘rivoluzionario’ che il linguaggio musicale assume
nelle opere, ad esempio, si Ludwig Tieck e E.T.A. Hoffmann. Ne Il mondo alla rovescia del 1798 di
Tieck – il titolo la dice certo lunga sulle aspirazioni “sovversive” dell’Autore – Apollo chiama infatti a
raccolta le sue schiere rivoluzionarie al suono della lira, riaccendendo nei cuori, in virtù della ‘musica
divina’, la fiamma dei sentimenti umani oppressi dal piccolo-borghese Scaramuccia. La musica
pervade del resto tutta l’opera, fin dal prologo, che è una specie di sinfonia scritta a parole con tanto di
‘andante’, ‘adagio’, ‘crescendo’, ‘violino primo solo’, ecc.:
“Come? Non è forse lecito ed anche possibile pensare in musica e comporre con parole e
pensieri? Oh, come si metterebbe male per noi poveri artisti! Povera lingua e ancor più povera
musica!” (4)
La geniale intuizione di Tieck del rapporto musica/parola travalica il puro piano formale e
coinvolge direttamente la società umana, proprio perché è rivolta contro le strutture economiche
borghesi del tempo. La società moderna, è questa l’accusa di Tieck, immiserisce la creazione artistica,
spegne l’ispirazione stessa e trasforma la vita disumanizzandola per salvaguardare il profitto. Non a
caso Il mondo alla rovescia si conclude con una cruenta rivoluzione che ristabilisce i valori umani che
rischiavano di andar perduti sotto il dominio del borghese Scaramuccia.
Ma in pochi anni queste speranze rivoluzionarie debbono arrendersi al cospetto
dell’evoluzione economica della Germania in cui lo sviluppo capitalistico non presenta alcun aspetto
‘libeale’. Il dissidio artista/società diviene insanabile e la musica, in questo contesto, assume un valore
di rivolta personale. I racconti musicali di E.T.A. Hoffmann sono, in questo senso, significativi.
Marcuse, a proposito dei Dolori musicali del direttore d’orchestra Giovanni Kreisler, coglie il senso
della rivolta individuale che si realizza grazie allo strumento della musica:
“Dove egli (Kreisler, ndr.) fa la sua apparizione, recando sulla fronte il marchio della
diversità, del suo essere altro, il riso ammutolisce, la tranquillità banale è turbata. Simile a un animale
in catene, egli deve giocare con ciò che ha di più sacro (la musica) nel bel mezzo di questo
affaccendarsi della società, della vita e della routine quotidiana, in questo tramestio che lo disgusta…
solo la musica gli procura un sentimento di liberazione” (5).
Tuttavia la liberazione estetica prodotta dalla musica è soltanto un miraggio in questo mondo.
Così Kreisler si trasforma in un demone ribelle, scapigliato e vagabondo, con una smorfia paurosa sul
volto, un ghigno che fa macabramente il verso all’ironia con cui i Romantici speravano di astrarsi dalla
realtà. Questo ghigno diventa dunque uno sfrontato atteggiamento di aperta ribellione. Un
atteggiamento che non può comunque sfuggire alla consigliera Benzon che così apostrofa il maestro
Kreisler:
“E lei… con la sua fantasia eccessiva e sfrenata, con questa ironia che lacera il cuore, non
farà mai altro che provocare disordine, che seminare inquietudine, che produrre una completa
dissonanza di tutti i rapporti convenzionali attualmente esistenti” (6).
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Questa fantasia che rischia di ‘provocare disordine’ e, addirittura, di ‘far saltare i rapporti
convenzionali attualmente esistenti’, non è altro che la rivolta, resa possibile dalla musica, dell’artista
contro la società. Claudio Magris scrive a questo proposito:
“Kreisler è costretto, per guadagnarsi di che vivere, ad allietare con la musica le serate alla
moda di filistei arricchiti ed insensibili ad ogni valore poetico. Per sopravvivere, deve prostituire la
sua arte, degradarla a merce. Hoffmann, così ammirato da Baudelaire, è uno dei primi ad intuire la
mercificazione della poesia… Con un’intuizione straordinariamente precoce, Hoffmann denuncia la
funzione dell’arte integrata nel meccanismo del sistema, la quale, com’egli dice, serve a ristorare e a
distrarre l’uomo stanco dal lavoro e dagli impegni sociali onde poterlo reinserire nuovamente, attivo e
disteso, nell’ingranaggio produttivo. A quest’orrida disumanità della norma l’arte può porre non
un’alternativa, ma solo una smaniosa e impotente protesta. Essa dunque si riduce a smorfia,
istrioneria e negazione, ribelle alla falsa morale, scade nell’amoralità o nella crudeltà” (7)
Tuttavia Hoffmann lascia aperto nella Kreisleriana uno spiraglio di salvezza:
“Per Kreisler – nota Magris – che nel terzo e mai scritto volume del Gatto Murr avrebbe
dovuto finire pazzo come il musicista Berlinger di Wackenroder, qui c’è ancora possibilità di salvezza.
La musica, si dice verso la fine, è abuso della vita, ma anche riscatto” (8)
Il ‘riscatto’ di cui parla Magris non è altro che il radicale mutamento delle condizioni
esistenti, un rovesciamento che restituisca all’uomo, e in particolare l’artista, la personalità umana. La
condanna ideologica della società borghese che trova espressione nel Peter Schlemihl di Chamisso, in
cui il protagonista vende se stesso in cambio del miraggio del benessere economico(9), viene anticipata
nei racconti kreisleriani di Hoffmann nel brano Ombra adorata (anche qui, come nello Schlemihl,
siamo alle prese con l’ombra). Il brano si conclude infatti con una devastante e decisiva rivoluzione
universale:
“In un trasporto mai provato prima, mi elevo allora di un volo potente sopra le vergogne
della terra; tutte le musiche che nel mio petto ferito il dolore ha irrigidito nel sangue, rivivono e si
muovono e si eccitano e rigurgitano lampeggiando come scintillanti salamandre, ed io l’afferro, le
avvinghio, ne formo un manipolo di fuoco, che diviene poi un’immagine fiammeggiante la quale
illumina e vivifica te e il tuo canto” (10).
La rivoluzione celeste agognata dal musicista Kreisler, sia pur fortemente metafisica, è d’altra
parte anche conscia del proprio ruolo nella realtà. Basti pensare alla rivoluzione celeste del dio Apollo
che, ne Il mondo alla rovescia di Tieck, scaccia a suon di cannonate i filistei borghesi dal tempio
dell’arte. La metafora si traduce insomma in contenuti molto concreti in cui si sente odore di rivolta.
Il direttore d’orchestra Kreisler non è certo un ‘rivoluzionario’ nel senso classico della parola,
né può mettersi a capo di una sommossa come il divino musicista Apollo di Tieck. Hoffmann fa
compiere a Kreisler una più segreta e forse inutile rivolta individuale con l’unico strumento che il
povero maestro ha a sua disposizione: la musica. Così Kreisler propina al suo pubblico
un’interminabile sonata di Bach, al posto delle melodie in voga, a scopo provocatorio. Non solo, ma
prolunga con una serie di variazioni la serata finché non resta solo nel buio della sala vuota. Questa
rivolta trova del resto una conferma nella presa di coscienza da parte di Kreisler della divisione del
mondo in classi:
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“… quasi nessun artista è divenuto tale per libera scelta… tutti son sempre venuti fuori dalla
classe più povera Nati da genitori oscuri e privi di mezzi, e magari da artisti, son divenuti quello che
sono per il bisogno, il caso e la nessuna probabilità di riuscita tra le classi veramente utili” (11).
Poco più avanti Hoffmann mette in bocca a Kreisler un chiaro pronunciamento a favore
dell’impegno politico dell’artista e del musicista. Siamo nei Pensieri sparsi (e spersi):
“Che artista si è occupato prima d’ora degli avvenimenti politici? Si viveva soltanto nell’arte
e solo per essa si attraversava la vita: ma un’epoca tragica e fatale ha afferrato l’uomo col suo pugno
di ferro e il dolore gli strappa accenti che prima gli erano ignoti” (12).
Nel Cavaliere Gluck come ne L’allievo di Tartini e negli altri racconti musicali di Hoffmann
(Il consigliere Krespel, L’automa, ecc.) non facciamo che ritrovare, come nota Giovanni Di Stefano
(13), il topos classico del romanticismo tedesco: l’opposizione arte-società borghese. La musica, in
quanto linguaggio della natura che ripristina la completezza umana, è di conseguenza l’arte che più
delle altre entra in contrasto con la società e, in essa, meno viene capita. Non a caso il giovane
rivoluzionario Wagner ha come punto di riferimento proprio i racconti musicali di Hoffmann nella
stesura degli schizzi e dei saggi di Un musicista tedesco a Parigi.
È dunque significativo che i compositori che più interessano Hoffmann, siano proprio i ‘geni
rivoluzionari’ Mozart e Beethoven: Mozart è infatti fautore di una rivoluzione umanistica (v. Il flauto
magico); Beethoven invece più apertamente appoggia gli ideali della Rivoluzione Francese e (v.
naturalmente l’Eroica) si dichiara ammiratore di Napoleone finché questi non tradisce gli originari
ideali. Nel racconto musicale Don Giovanni Hoffmann coglie del resto il contenuto di ‘rivolta’
dell’opera mozartiana:
“Ormai il possesso delle donne non fu più per lui il soddisfacimento dei propri sensi, ma
l’ironia sacrilega verso la natura e verso il Creatore. Due cose: il sovrumano disprezzo delle comuni
opinioni cui si sentiva superiore, e l’amara irrisione per gli uomini che potevano aspettare ancora
l’attuarsi delle più alte aspirazioni dall’amore tranquillo e dall’unione borghese… Queste due cose lo
spinsero a ribellarsi e ad alzarsi arditamente, come strumento di distruzione, contro l’essere ignoto
padrone del destino” (14).
Anche nel piccolo capolavoro di Moerike, Mozart in viaggio verso Praga, ritroviamo, sia pur
con toni più pacati rispetto a Hoffmann, il dissidio tra musicista e società borghese che si risolve con la
distruzione o dell’uno o dell’altra. Mancano, è vero, gli accenti ‘rivoluzionari’; ma pure in questo caso
la musica rappresenta la realizzazione di un ‘ideale umano’ che non è di questo mondo, né di questa
società. Nel racconto di Moerike, Mozart rischia infatti la galera per il furto di un’arancia colta in un
momento d’ispirazione. In seguito vediamo il Compositore passare a vie di fatto per difendere una
fanciulla dai soprusi della vita.
Passando alla seconda metà del XIX secolo, dobbiamo soffermarci, sia pur brevemente, sul
rapporto Nietzsche-Wagner. Per mancanza di spazio non è il caso di approfondire la questione
complessa. Rimandando il lettore alla vasta bibliografia sull’argomento, bisogna esaminare un brano di
Ecce Homo:
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“… cominciai a respirare liberamente per la prima volta nella vita al mio primo contatto con
Wagner: lo sentii e lo venerai come la terra straniera, come antitesi, come protesta vivente contro tutte
le virtù tedesche. Noi, noi non possiamo essere altro che rivoluzionari, non ammetteremo mai uno stato
delle cose in cui domini il baciapalle… Benissimo! Wagner era un rivoluzionario!” (15)
Ecco dunque che, ancora una volta, musica e ‘linguaggio’ rivoluzionario procedono di pari
passo. Ed è solo quando Wagner cessa di essere rivoluzionario che si viene a creare il dissidio con
Nietzsche:
“Che cosa non ho mai perdonato a Wagner? Che abbia accondisceso ai tedeschi, che sia
diventato cittadino dell’Impero germanico” (16).
La tesi qui proposta trova del resto conferma nell’opera del più giovane dei grandi scrittori
tedeschi. Ci riferiamo naturalmente a Thomas Bernhard e al suo recente romanzo Il soccombente
(1983). Anche in questo caso abbiamo a che fare con un musicista fallito che si accorge che la musica
rappresenta per lui, non tanto un’espressione della propria personalità artistica, bensì uno strumento di
rivolta contro la società del suo tempo. Ecco la confessione dell’Io narrante del romanzo di Bernhard:
“Lo Steinway fu il mio baluardo contro i miei familiari, contro il loro mondo, contro l’ottusità
della mia famiglia e del mondo… Io non ero nato per diventare un virtuoso del pianoforte, ma
semplicemente mi costrinsi a diventarlo… lo feci con la massima spietatezza nei confronti dei miei…
Ero talmente disperato che per oppormi a loro decisi di diventare un artista, la soluzione più ovvia era
che diventassi un virtuoso del pianoforte… ed è sfruttando quest’idea come arma contro di loro che
l’ho portata alla più alta ed eccelsa perfezione” (17)
Già nella pieces teatrale La forza dell’abitudine, Bernhard rappresenta nella musica il punto
focale dello scontro tra aspirazioni individuali e convenzioni sociali. Ne Il soccombente la musica è
però trasformata in un vero e proprio strumento di lotta contro la società moderna. Il romanzo, che si
sviluppa come un vero e proprio componimento musicale anche dal punto di vista linguistico, è un atto
d’accusa contro tutte le istituzioni del nostro tempo: scuole, accademie, conservatori, tribunali, salotti
borghesi, agenzie immobiliari, ministeri, ecc. Ed è proprio l’Io Narrante a spiegare, in conclusione,
come la sua sete di musica e di arte non sia altro che un umanissimo desiderio di rinnovare lo stato di
cose che lo immiserisce come uomo e come musicista.
“Ma il popolo è sciocco, dissi, il popolo è troppo debole per mutare uno stato di cose come
questo e vuole farsi abbindolare proprio da gente rapace e avida di potere come quella che ora ci
governa… E soprattutto gli austriaci si fanno ancora abbindolare dalla parola ‘socialismo’, anche se
non c’è chi non sappia che la parola socialismo ha perso il suo valore. I socialisti non sono più
socialisti, i socialisti di oggi sono i nuovi sfruttatori, gente falsa e bugiarda!” (18)
Naturalmente, l’impossibilità di cambiare il mondo mediante la musica fa sì che l’Io narrante
di Bernhard, pur essendo un valido pianista, abbandoni la propria vocazione artistica, sprechi le proprie
capacità di musicista per diventare ‘filosofo’ e dedicarsi alla scrittura. Una scrittura che ovviamente
rappresenta una forma di critica ‘rivoluzionaria’, per Thomas Mann come per Thomas Bernhard, del
proprio tempo.
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NOTE
(1) T. Mann, Discorso su Lessing, p. 272, sta in Tutte le opere, vol. X, pp. 269-308, a cura di L.
Mazzucchetti, Verona 1953.
(2) v. a questo proposito E. Bernard, Sulla natura infinita dell’opera d’arte, sta in Criterio, anno III, n.
2, pp. 150-153.
(3) T. Mann, Doktor Faustus, pp. 311-312, op. cit., vol. VIII, traduzione di Lavinia Mazzucchetti.
(4) L. Tieck, Die verkehrte Welt, Genova 1984, p. 56, trad. Enrico Bernard.
(5) Marcuse, Il romanzo dell’artista nella letteratura tedesca, p. 162, Torino, 1985.
(6) E.T.A. Hoffmann, Werke X, p. 54 (trad. It. Biografia frammentaria del direttore d’orchestra
Giovanni Kreisler, I, p. 57, Lanciano s.d.)
(7) E.T.A. Hoffmann, Kreisleriana, introduzione di C. Magris, pp. 8-12, Milano 1984.
(8) op. cit.
(9) v. la nota di E. Bernard al Viaggio intorno al mondo di A. von Chamisso, Napoli 1985.
(10) E.T.A. Hoffmann, op. cit., p. 39
(11) E.T.A. Hoffmann, op. cit., p. 42.
(12) ivi, p. 59.
(13) E.T.A. Hoffmann, L’allievo di Tartini, prefazione di G. Di Stefano, p. 20, Firenze 1984.
(14) op. cit. p. 62.
(15) F. Nietzsche, Ecce Homo, p. 46, Milano 1969.
(16) ivi, p. 47.
(17) T. Bernhard, Il soccombente, p. 28, Milano 1985.
(18) op. cit., p. 135.
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STORIA DEL PATTO COL DIAVOLO Di Enrico Bernard