COMUNE DI PIEVE DI CENTO
Il sipario dipinto nel 1856 da Adeodato Malatesta
Teatro Comunale “Alice Zeppilli”
150º del Teatro di Pieve di Cento
1856 - 2006
Il palazzo Comunale sede del Teatro , in una foto di inizio ‘900
(G. Melloni, dall’archivio comunale)
Presentazione
L’
entusiastico e generale gradimento per il restauro del Teatro Comunale, espresso
in tante circostanze da cittadini, visitatori, attori e musicisti, è l’elemento di ritorno
di maggiore soddisfazione per noi Amministratori che scegliemmo di restituire a
tutti un luogo carico di storia e significati, sicuri di compiere una operazione logica nel
percorso, intrapreso da diversi anni, di tutela e restauro del nostro patrimonio, ma anche
preoccupati se le risorse stanziate e cercate fossero sufficienti e ben spese.
Ricordo con quale apprensione si andava a visitare il cantiere che, in corso d’opera, evidenziava
drammaticamente i guasti del tempo e le complessità del recupero funzionale e delle parti
decorative.
Oggi, con soddisfazione di tutti, possiamo celebrare i 150 anni di vita del Teatro che nell’estate
del 1856 si presentò completamente rinnovato in sostituzione della settecentesca Sala del
Teatro e nelle forme che oggi ammiriamo di nuovo, dopo il restauro terminato nel 2003.
Un lungo percorso iniziato da precedenti Amministrazioni alla fine degli anni Settanta,
interrotto per difficoltà economiche ma mai veramente abbandonato, poiché come altri
monumenti ed opere d’arte, simboli della città, il Teatro era nel cuore dei pievesi.
Così eccolo qui il nostro piccolo gioiello, intitolato nel 2003 al soprano Alice Zeppilli: da
alcuni anni torna a far echeggiare la musica, a proporre una varietà di generi di prosa per
il divertimento o la riflessione, a offrirsi come Museo che custodisce le memorie musicali
del passato, come luogo dove è piacevole trovarsi.
Ritroverà quest’anno il Teatro le note delle opere liriche, che inaugurarono una stagione
che viveva dello straordinario genio di Giuseppe Verdi, e le immagini cinematografiche di
grandi interpreti, per divertirsi poi alla consueta rassegna di musica etnico-folclorica
“MusicaPieve”, e sperimentare l’energia e l’entusiasmo dei giovani musicisti di “Sconfinando”.
Sul palco ospiterà, con “Tracce”, nuove generazioni di attori che propongono un teatro di
tradizione ma anche innovativo e capace di far riflettere su temi sociali; accoglierà bambini
e famiglie nelle “Domeniche a Teatro” e i tenaci e appassionati interpreti della commedia
dilettale, tenaci e appassionati come il pubblico che fedeli li segue “A Teater”.
Tanti lo cercano, tanti lo vogliono. Avrà da lavorare e divertirsi il nostro Teatro: ha più di
40 anni di chiusura da recuperare e 150 da festeggiare.
Gianni Cavicchi
Assessore alla Cultura
Alice Zeppilli in una foto di scena (archivio comunale)
Alice Zeppilli
N
ata nel 1885 a Mentone da Giuseppina Bonfiglio, di famiglia ligure, e dal direttore d’orchestra
Nicola Zeppilli, originario di Fermo, la giovane Alice studiò canto con Raoul Gunsbourg,
Melchiorre Vidal e Elettra Callery-Viviani.
Dopo l’esordio alla Fenice di Venezia nel
dicembre 1902, in Chopin di Orefice, si
trasferì a Parigi per perfezionarsi con Rose
Caron. Iniziò poi una serie di tournée
che la portarono a Bucarest,
Montecarlo (con Caruso),
Buenos Aires, Egitto, Atene,
Messico e finalmente a
New York.
Mela” la Zeppilli ebbe
la fortuna di incontrare
il grande impresario
Oscar Hammerstein,
che aveva da poco
inaugurato il Teatro
dell’Opera di Manhattan
e che la ingaggiò per tutta
la stagione 1906-1907, diretta
dal grande direttore parmigiano
Cleofonte Campanini. Ebbe così iniziò
la prestigiosa carriera americana della Zeppilli, che avrebbe cantato negli States fino
al 1914, per otto anni consecutivi, dividendosi
tra New York, Filadelfia e Chicago, dove divenne una delle star delle grandi stagioni
dirette da Campanini all’imponente teatro
Auditorium. Con Campanini la Zeppilli cantò
nelle maggiori città degli Stati Uniti. Non
mancarono poi grandi esibizioni al Covent
Garden di Londra, a Parigi e a Montecarlo.
Nel 1913 la Zeppilli aveva sposato il pievese
Giuseppe Alberghini, primo violoncello nell’orchestra di Chicago (da lei conosciuto in
Egitto), per seguire il quale, richiamato sotto
le armi, all’inizio del 1915 fece
definitivamente ritorno in Europa.
Al fronte il marito era agli ordini di Gabriele
D’annunzio, che ben presto prese in simpatia
i due coniugi, da lui definiti i suoi
“datori di gioia” (per lui Alice
era “il mio Cherubino”).
Al termine del conflitto,
durante il quale la cantante si era esibita in
Italia, in Francia e
Spagna, i coniugi Alberghini fecero ritorno
in America, stabilendosi
definitivamente a New
York. Lì la Zeppilli, dopo
aver continuato per
qualche anno ad esibirsi in
opere e concerti, si dedicò poi
all’insegnamento del canto, mentre
il marito continuava a suonare nelle più
importanti orchestre americane (ma ritornando quasi tutte le estati nella villa che
avevano acquistato a Pieve).
Qualche anno dopo la morte del marito,
avvenuta a New York alla fine del 1954, la
Zeppilli si stabilì definitivamente nella villa
di Pieve di Cento, dove morì il 14 settembre
1969.
Particolare di un affresco del Teatro (foto archivio IBC 1980)
Isabella Galletti Gianoli
I
sabella Galletti (nome d’arte di Filomena Rustichelli) nacque a Bologna
il 30 novembre 1835 da Maria Galletti
e Antonio Rustichelli, custode della basilica
di S. Petronio. Applicatasi giovanissima allo
studio del pianoforte, fu poi ‘scoperta’ come
talento vocale dall’impresario pievese Luigi
Vedrani (detto “Grillo”), che, presala sotto
la propria tutela, la mandò a proprie spese
a scuola dall’ex baritono Livio Tosini.
Di lì a poco Vedrani fece debuttare la giovane nella
stagione di Carnevale 1852
al Teatro Comunale di
Pieve di Cento, come
Fenena in Nabucodonosor di Verdi, in cui
l’appena sedicenne
cantante “eseguì a meraviglia la sua parte di
comprimaria”. Dopo alcune esibizioni in altri teatri,
Vedrani decise che Filomena
dovesse ancora perfezionarsi e,
sospesane momentaneamente la carriera, la
mandò a perfezionarsi dall’ex tenore Raffaele
Gamberini, sotto la cui guida la giovane fece
enormi progressi.
Il secondo debutto della cantante (sotto il
nome di Isabella Galletti) avvenne a Spoleto
nel dicembre 1855 in Bondelmonte di Pacini, in cui fu “l’ancora che salvò l’impresario
da un totale naufragio”. Iniziò di lì una trionfale e lunga carriera che l’avrebbe portata
sui principali palcoscenici di Italia, Spagna,
Portogallo, Austria, Russia, Inghilterra ed
Egitto.
Affermatasi inizialmente in grandi ruoli sopranili (Norma, Beatrice di Tenda, Leonora
ne Il trovatore e ne La forza del destino,
Lady Macbeth e Anna Bolena), nella seconda parte della carriera la
Galletti affrontò sempre più
ruoli da mezzosoprano
(Leonora ne La favorita
e Azucena ne Il trovatore), portando al
successo sulle principali scene italiane anche un’opera poi caduta nel totale oblìo: il
dramma storico Dolores
del compositore siciliano
Salvatore Auteri-Manzocchi.
Ritiratasi dalle scene nel 1883, si
trasferì da Bologna a Milano per aprirvi
una scuola di canto: anche come maestra
“godette di molta reputazione” e fu apprezzata dallo stesso Verdi, che come cantante
la definì “una vera artista” e come docente
“maestra di vero canto italiano”.
Morì a Milano il 31 agosto del 1901, dopo
inaudite sofferenze causate da un male incurabile.
I Teatri di Pieve
N
ella pur ricca vicenda teatrale
emiliano-romagnola Pieve di Cento
ha saputo ritagliarsi un posto significativo, distinguendosi come il più piccolo
paese della regione che già nel Seicento avesse attivo un vero e proprio teatro
“all’italiana”, aperto ad un pubblico pagante.
Risale infatti alla primavera del 1672 l’inizio
dei lavori per la edificazione della prima
struttura teatrale pievese, situata in un edificio
di via S. Carlo, che l’anno prima era stato
acquistato da sette tra le famiglie più cospicue
del paese, per erigervi “un teatro scenico
allo scopo di esercitare i giovani della Pieve,
insegnare loro azioni virtuose, e allontanarli
dall’ozio”.
Nel teatro, solennemente inaugurato nel Carnevale del 1673 con un’opera in musica
commissionata a Bologna, cominciò subito
ad operare un’Accademia di giovani, la cui
attività continuò fino a oltre la metà del
Il Teatro prima del restauro (foto archivio IBC 1980)
Settecento. Ma il vento illuministico e gli
sconvolgimenti seguiti alla rivoluzione francese portarono, inevitabilmente, alla dissoluzione delle gloriose accademie settecentesche
e ad una rarefazione dell’attività teatrale a
Pieve. E alla fine del secolo il teatro di via
S. Carlo, la cui struttura nel tempo si era
andata vistosamente deteriorando, chiuse
per sempre i suoi battenti.
Molte furono le proteste della gioventù
pievese, che negli ultimi lustri del Settecento
cominciò ad utilizzare saltuariamente, come
luogo di spettacoli, la grande sala del Palazzo
Comunale, che nei primissimi anni dell’Ottocento fu “ridotta ad uso di Teatro”. Come
tante altre sale di spettacolo del tempo, questo
“teatro della sala”, doveva essere formato
da strutture lignee montate secondo una
tipologia elementare, con palcoscenico e
scenari di dimensioni minime e con un unico
ordine di palchetti.
Nel periodo post-napoleonico aumentò la
richiesta di teatro da parte della popolazione
e l’Amministrazione comunale apportò varie
modifiche alla struttura scenica e teatrale:
fu costruito un secondo ordine di palchi ed
accresciuto il numero dei posti della platea.
La vita teatrale pievese si andava, infatti,
sempre più arricchendo: oltre alle tradizionali
feste da ballo ed ai veglioni in maschera del
periodo carnevalesco (con la partecipazione
della orchestra pievese) e alle commedie
recitate da attori dilettanti del paese, negli
anni Trenta si cominciarono a tenere varie
accademie musicali e a rappresentare spettacoli di prosa e di arte varia con compagnie
bolognesi o di giro.
Manifesto originale per l’inaugurazione del Teatro
Una decisa svolta avvenne all’inizio degli anni
Quaranta con la nomina del pievese Enrico
Cavalli a maestro della banda e della cappella
musicale. L’impulso da lui dato alla vita musicale del paese fu ben presto evidente anche
in campo teatrale: già alla fine del 1844, ad
oltre mezzo secolo dall’ultima esperienza di
teatro in musica a Pieve, egli riuscì infatti
ad allestire il melodramma La sonnambula
di Bellini, che ebbe “un incontro decisamente
favorevole”.
Il successo arriso all’iniziativa fece sì che
anche negli anni successivi “le scene di questo Teatro venissero rallegrate per l’opera”,
con allestimenti a cui “nulla mancava di
grandiosità e compimento” e che ebbero
“un esito fortunatissimo”, con una straordinaria partecipazione di pubblico: “ogni sera
il teatro era zeppo di spettatori, di forestieri
accorsi, e più centinaia di persone dovevano
retrocedere per non esservi capienza”.
Era oramai evidente a tutti che la sala comunale, utilizzata da oltre cinquanta anni come
“provvisorio Teatro scenico”, non rispondeva
più alle mutate esigenze sia del pubblico
pievese sia del nuovo melodramma, che, con
l’ampliamento delle masse orchestrali e corali, abbisognava di spazi sempre maggiori
e richiedeva costi sempre più elevati, con la
conseguente necessità di maggiori entrate,
che però la domanda sempre crescente del
pubblico cento- pievese era ampiamente in
grado di garantire. Vi era inoltre una urgente
necessità di costose riparazioni alla struttura
teatrale.
La Municipalità pievese giunse, quindi, alla
conclusione che oramai non fosse più procrastinabile “il progetto di riduzione a miglior
forma di questo Teatro”, affidando l’incarico
di uno studio di fattibilità all’ingegnere cen-
Particolare di un affresco del Teatro (foto archivio IBC 1980)
tese Antonio Giordani, che, dapprima, ipotizzò
l’edificazione ex novo di un edificio autonomo, in cui, seguendo la moda e le esigenze
dei tempi, la sala per gli spettacoli venisse
corredata di diversi ambienti di ritrovo e di
servizio.
Ma l’Amministrazione comunale, esaminato
il preventivo di spesa per un teatro di tal
fatta, fu costretta dalle esigenze di bilancio
“a ripiegare su una soluzione più economica
anche se indubbiamente riduttiva: la sistemazione del «teatro della sala»”, sempre su
progetto di Giordani.
Tale progetto (approvato all’inizio del 1853)
prevedeva un teatro inserito al primo piano
del Municipio, con l’occupazione di due
piani. La tipologia seguita era quella oramai
collaudata del cosiddetto «teatro all’italiana»,
cioè sala a palchetti in più ordini sovrapposti,
raccordati al palco da un arco-scenico
architettonico.
Grazie anche al contributo dei futuri palchettisti, già dall’agosto del 1853 si poté passare
alla fase esecutiva, che durò poco meno di
due anni. A metà del 1855 tutto era pronto
per l’inaugurazione del nuovo Teatro Comu-
nale (che sarebbe dovuta avvenire all’inizio
del mese di settembre con la rappresentazione de Il Trovatore di Verdi), ma la già preannunciata grande apertura fu sospesa a
causa del colera, che stava imperversando
con quella che ne fu l’ultima grande epidemia
nel territorio del Centopievese.
L’evento inaugurale, lungamente atteso da
tutto il paese, fu così rinviato di un anno: il
teatro aprì i battenti la sera del 25 agosto
1856, con la messa in scena de Il trovatore,
cioè la stessa partitura già prevista l’anno
prima. Nulla fu lasciato di intentato perché
lo spettacolo inaugurale fosse veramente
“magnifico ed imponente”: fu scritturato un
cast di eccellenti cantanti (tra cui il grande
tenore Antonio Giuglini) e si formò per l’occasione un’orchestra eccellente, con il concorso di alcune delle migliori prime parti
delle orchestre dei Teatri di Parma e di Modena. Particolare attenzione fu poi prestata
da Enrico Cavalli alla formazione del coro,
che, date le esigue dimensioni del palcoscenico, era obbligato ad essere di formato
ridotto (12 voci maschili e 6 femminili). Si
adornò, inoltre, il teatro con “decorazioni
magnifiche” e con un sipario (opera del
pittore modenese Adeodato Malatesta) che
parve un “vero capolavoro”.
La stagione lirica, che ebbe un grande concorso di forestieri, si concluse con un altro
grande capolavoro verdiano, Viscardello
(alias Rigoletto), superbamente interpretato
dalla stessa “eletta schiera” di cantanti. Ma
i Pievesi ci avevano preso gusto: infatti, ad
appena un mese dal termine di quella trionfale stagione inaugurale, iniziò un corso di
rappresentazioni di un’allora celebre opera
comica dei fratelli Ricci, Crispino e la comare,
che ottenne un “successo splendidissimo”.
Ad un’attività, soprattutto operistica, abba-
Particolare di un affresco del Teatro (foto archivio IBC 1980)
stanza intensa nei primi anni di apertura del
teatro, subentrò un periodo con sporadiche
rappresentazioni. Il fattore determinante nella
riduzione della attività teatrale è da individuarsi soprattutto nelle gravi difficoltà politico-economiche sopravvenute con l’unificazione italiana, difficoltà che si ripercossero
direttamente sulla finanza locale, impoverendone le risorse, proprio quelle risorse che
nel periodo preunitario avevano consentito
di sostenere e tutelare l’istituzione di una
scuola di musica e la costruzione del nuovo
teatro. L’intervento della finanza locale si
fece, così, sempre più debole e meno costante
nel sostegno delle tradizionali stagioni d’opera, il cui onere fu accollato quasi del tutto
all’impresariato privato.
Già nel 1870 la Giunta, “attesa la condizione
povera del paese”, per la prima volta decise
di tenere il teatro chiuso, “essendo sicura
che si reciterebbe alle panche della platea”.
L’anno dopo, anche per le insistenti richieste
dei commercianti e dei filarmonici, il teatro
fu riaperto, ma già nel 1874 i suoi battenti
ritornavano a chiudersi per un anno,
“trovandosi disgraziatamente il Paese in circostanze tanto eccezionali per condizioni
finanziarie che non è possibile concedere il
teatro per qualsiasi spettacolo”. Nel 1881,
dopo una stagione con ben dodici recite
dell’opera Saffo di Pacini, il teatro venne
chiuso perché “non presentava facilità di
sfogo agli spettatori in caso di panico, per
incendio od altra causa”. Fu riaperto solo
nel 1885, dopo gli opportuni lavori, diretti
ancora dall’ingegner Giordani, l’originale
progettista del teatro. Ma, già due anni dopo,
la Commissione di controllo provinciale imponeva nuovi lavori per poter dare il permesso di riapertura del teatro. Seguì una ventina
d’anni con frequenti rappresentazioni operi-
Particolare di un affresco del Teatro (foto archivio IBC 1980)
stiche di vecchi e nuovi spartiti, da La Favorita
di Donizetti a I Puritani di Bellini, da Pipelet
di De Ferrari a Le educande di Sorrento di
Usiglio, da Fra Diavolo di Auber a Mignon
di Thomas, da Il trovatore di Verdi a Cavalleria rusticana di Mascagni e Pagliacci di
Leoncavallo. Nello stesso periodo, con la
nascita delle moderne organizzazioni politiche, il teatro divenne anche un centro per
dibattiti e per conferenze politiche e scientifiche. Nel dicembre del 1907 si iniziò poi,
per la prima volta, a fare in teatro proiezioni
cinematografiche.
Negli anni successivi, “considerate le condizioni attuali del teatro, nonché quelle del
paese”, ci fu un utilizzo saltuario del teatro.
Nel 1914 fu concessa una nuova autorizzazione per adibirlo a cinema, ma subito dopo
il Comune, reputando che i lavori di adatta-
mento avrebbero deturpato la sala, ne ritirò
la concessione.
Allo scoppio della Grande Guerra, come in
quasi tutti i teatri di provincia del Regno,
cessò del tutto l’attività teatrale, che però
non poté essere ripresa, se non saltuariamente, neppure nei primi anni del dopoguerra,
mancando il teatro dell’impianto di luce.
Dopo che nel 1921 fu respinta una nuova
richiesta di trasformazione in cinematografo,
furono eseguiti alcuni lavori, che permisero
la continuazione di una attività teatrale sempre più ridotta, a fronte di una attività politica
sempre più intensa. Infatti, durante il periodo
fascista, il teatro servì per innumerevoli manifestazioni di regime: fra gli inni della patria
e della rivoluzione e una selva di bandiere
tricolori, il fascio locale distribuiva la befana
fascista ai bambini, le signore bene consegnavano i doni agli orfani di guerra, i reduci
delle patrie battaglie tenevano le loro riunioni
ed i piccoli italiani recitavano l'operetta Rompicollo e la fiaba Il Principino.
Il colpo di grazia al teatro oramai fatiscente
fu dato durante gli ultimi mesi dell’ultima
guerra, quando, disgraziatamente, vi si accasermò un battaglione di truppe tedesche, che
devastò tutti gli impianti, compromettendo
il funzionamento del teatro stesso.
Nel 1954 il teatro poté riaprire i suoi battenti
grazie ad un accordo stipulato tra l’Amministrazione comunale ed il “Circolo del
Voltone”, una associazione pievese che si
obbligò a rifare a proprie spese e mettere
in perfetta efficienza il grande salone, in
cambio dell’uso per nove anni del teatro e
delle sale annesse. Ma il teatro venne utilizzato prevalentemente per affollatissimi
Particolare decorativo a stucco del Teatro (foto archivio IBC 1980)
veglioni e feste danzanti (e, a tale scopo, il
piccolo palcoscenico fu sostituito da una
pedana per l’orchestra!…).
Ma le limitazioni imposte negli anni Sessanta
portarono al lento abbandono del teatro,
con conseguente progressivo degrado di tutta
la struttura, e ad una sua definitiva e lunga
chiusura, imposta da ragioni di staticità e di
sicurezza.
Fortunatamente, negli anni Novanta, l’Amministrazione comunale diede inizio a un lento,
ma progressivo recupero della struttura teatrale, che, all’inizio del Terzo Millennio, è
stata finalmente restituita alla città. Come nel
1856 si è potuta così rinnovare nella “Terra
della musica” un’antica tradizione, profondamente radicata nella memoria collettiva,
quella del teatro, luogo deputato allo svago,
agli incontri pubblici, al divertimento ma
anche e soprattutto ‘luogo’ della cultura civile,
una delle strutture più significative ed originali
che la ‘moderna’ cultura europea abbia
espresso.
Adriano Orlandini
Particolare di un affresco del Teatro (foto archivio IBC 1980)
Fondazione
Cassa di Risparmio
di Cento
COMUNE DI PIEVE DI CENTO
Teatro Comunale “Alice Zeppilli”
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