John Rector
Il bosco
degli orrori
Traduzione di
Gian Paolo Gasperi
Titolo originale:
The Grove
Copyright © 2010 John Rector
All rights reserved
Originally published in the United States
by Amazon Content Services LLC, 2010.
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Progetto grafico di collana: Yoshihito Furuya
Progetto grafico di copertina: Adria Villa
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© 2012, 2015 Giunti Editore S.p.A.
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Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: luglio 2012
Ristampa
Anno
6 5 4 3 2 1 0
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«Viviamo, così come sogniamo – da soli…»
Joseph Conrad, Cuore di tenebra.
PARTE PRIMA
Domenica
1
Stavo sognando che c’era qualcuno in casa. Poi mi venne il dubbio
che non fosse un sogno e aprii gli occhi.
La luce che proveniva dalla finestra era intensa e mi trafisse la
testa come una lama. Ero a letto, ancora vestito. Avevo addosso le
scarpe, e le lenzuola erano sporche di fango.
Mi tirai su a sedere piano piano, poi sentii un rumore di passi
nel corridoio.
«’Giorno, Dex.»
Greg stava sulla porta, in abiti da lavoro. Sorrisi, non sapendo
bene perché. Ero abituato a vederlo in uniforme, ma quella volta
mi parve che il distintivo avesse un che di strano.
Teneva in mano una tazza e me la porse.
«Già che c’ero ho fatto il caffè. Spero non ti dispiaccia.»
«Perché mai dovrebbe dispiacermi? Non sei mica entrato senza
essere invitato.»
«Sospetta attività criminale» disse. «Se vuoi lunedì puoi sporgere denuncia all’ufficio della contea.»
«Buona idea.» Bevvi un sorso di caffè. Era forte e scottava. «Allora, cosa ti porta qui, sceriffo?»
«Ho solo fatto un salto.»
Non credevo affatto che fosse lì per un saluto, e glielo dissi.
«Be’, forse no.» Greg andò alla finestra e si piegò per guardare
fuori. «Come stai? Va tutto bene?»
11
«Mi controlli?»
Greg emise un borbottio basso e rauco, dopodiché prese a camminare su e giù per la camera.
Appoggiai la tazza sul comodino accanto alla bottiglia vuota
di Johnnie Walker. C’era anche la mia calibro 22, ma il caricatore
era scomparso.
Guardai Greg.
«Lo riavrai, non ti preoccupare.»
«Quando?»
«Non ho ancora deciso.»
Scossi la testa e feci l’atto di alzarmi. Il pavimento si mosse sotto
i piedi. Greg allungò una mano per sorreggermi, ma lo respinsi con
un gesto e gli passai accanto barcollando, diretto verso il bagno in
fondo al corridoio. Chiusi la porta, mi appoggiai al lavabo e fissai
lo specchio.
L’ immagine riflessa mi ricordò mio padre.
Feci scorrere l’acqua fredda e provai a cancellare i cerchi intorno
agli occhi, poi tornai in camera e presi il caffè sul comodino.
Percorsi il corridoio fino alla cucina e trovai Greg seduto al
tavolo con il giornale aperto. Quando mi avvicinai, vidi che guardava una vignetta.
Mi sedetti di fronte a lui, in silenzio.
«Stamattina mi ha telefonato Liz» fece Greg, senza alzare lo
sguardo. «Mi ha detto che ieri sera è passata a prendere alcune
delle sue cose.»
«Esatto.»
«Mi ha raccontato che c’è stato un incidente.»
Bevvi un sorso di caffè.
Greg si appoggiò allo schienale e mi fissò. «Mi ha detto che le
hai fatto prendere una paura del diavolo, Dex.»
Appoggiai la tazza sul tavolo. «Non era mia intenzione.»
12
«Come la racconta lei, le hai sventolato una pistola in faccia
e le hai detto che le uniche donne buone sono le donne morte.»
Era esattamente così che la pensavo, ma stetti zitto.
«E tu non vedi come questo potrebbe averla, diciamo,
sconvolta?»
«Cristo, Greg.»
«Prendi ancora le pillole?»
«Che cavolo c’entra questo?»
«Dimmelo tu. Sono anni che non devo più venire fin qui per
questi motivi, e sappiamo entrambi che è grazie a quelle pillole.
Il fatto che tu abbia smesso di prenderle potrebbe spiegare il tuo
comportamento di ieri sera.»
«Quale comportamento?»
Greg incrociò le braccia sul petto. «Hai un vuoto di memoria?»
Guardai da un’altra parte.
«Che cosa ricordi?»
«Qualcosa.»
La voce mi uscì più dura di quanto volessi, dando l’impressione
che stessi sulla difensiva, e forse era così. Greg cercava di farmi innervosire, e ci stava riuscendo. Aveva sempre saputo quali tasti toccare
per darmi sui nervi. Lo faceva sin da quando eravamo bambini.
Continuò a fissarmi, in silenzio.
«Se hai qualcosa da dire, dillo.»
Indugiò un attimo prima di parlare. «Dov’è il tuo trattore,
Dex?»
Non volevo farlo – perdio, no – ma lo feci lo stesso. Mi alzai,
andai alla finestra e fissai il punto in cui parcheggiavo sempre il
trattore.
Non c’era.
«Liz ha detto che hai minacciato di rivoltare il campo con l’aratro. Te lo ricordi?»
13
Scossi la testa, senza parlare, limitandomi a fissare le chiazze
d’olio scure sulla ghiaia dove il giorno prima si trovava il trattore.
Greg cominciò a dire qualcosa, ma gli passai accanto e uscii
dalla porta sul retro.
A fine estate, quando il granoturco giungeva all’altezza massima, era impossibile vedere l’intero campo da terra. Quella volta
non ci fu bisogno che lo facessi. A una decina di metri dalla casa,
era stato aperto un grande varco tra le file.
Borbottai fra i denti e mi avviai in quella direzione.
Greg mi seguì.
«Sembra che tu sia arrivato quasi fino al boschetto prima di
finire all’indietro nella scarpata. Meno male. Non puoi permetterti
di perdere questo raccolto.»
Mi fermai al margine del campo di granoturco e fissai il grande
squarcio che avevo aperto la sera prima. Il sentiero piegava un po’,
ma mi bastò fare pochi passi per vedere il trattore una cinquantina di metri più giù, la parte anteriore per aria, le ruote posteriori
piantate nella scarpata che costeggiava il boschetto di pioppi neri.
Liz mi aveva rotto le scatole per anni per convincermi ad abbattere quegli alberi, ma io non avevo voluto saperne. Per lei era
terra sprecata, e suppongo che non avesse tutti i torti. Il boschetto
sconfinava nel campo, cosa che dava delle rogne quando era il
momento di mietere il raccolto. Sarebbe stato molto più facile abbattere i pioppi e non pensarci più, ma mi piacevano.
Il campo dietro il boschetto era ben riparato e tranquillo, con
i pioppi da una parte e una bassa linea di colline dall’altra. Da lì
non era possibile vedere la casa né la strada; ma la cosa migliore
era che nessuno poteva vedere te.
Ero stato costretto a cacciare da lì qualche ragazzino di tanto
in tanto, ma non mi ero mai arrabbiato per questo. Crescere in
quell’angolo di mondo era noioso, e il boschetto era un posto ide14
ale per farsi un paio di birre, sballarsi o fare qualunque altra cosa
di nascosto.
Non li biasimavo, ma non volevo neanche che calpestassero il
mio campo o che ci lasciassero lattine di birra e cartacce unte che
attirassero i topi.
Ricordavo ancora cosa significasse essere un ragazzino. Ma non
me ne fregava più niente.
«Vuoi una mano per tirarlo fuori?»
Scossi la testa. «Faccio da solo.»
Mi pentii subito della risposta. C’era del fango laggiù, avrebbe
reso le cose più difficili. E se si fosse messo a piovere, sarebbe stato
impossibile.
«Se cambi idea, dammi un colpo di telefono. Porterò qui il carro
attrezzi. Ho un nuovo argano. Non mi dispiacerebbe provarlo.»
«Grazie. Ti farò sapere.»
Lui annuì e per un po’ restammo lì, a fissare il trattore. Alla fine
Greg ruppe il silenzio.
«Non pensi mai che sia stato meglio? Intendo che se ne sia
andata e tutto il resto?»
Forse vide la mia faccia, perché quando aprì di nuovo bocca
si impappinò.
«Stavo solo pensando a come sono andate le cose da quando…»
Alzò le mani, interrompendosi. «Senti, Dex, voglio solo dire che
avete passato cose che nessuna coppia dovrebbe passare. Magari
un nuovo inizio per voi due sarebbe…»
Me ne andai, piantandolo lì.
Quando tornai in casa, presi una birra dal frigorifero, poi uscii
in veranda e mi sedetti su una delle sedie di vimini che Liz aveva
trovato l’anno prima alla mostra dell’artigianato della contea. Un
minuto dopo, Greg sbucò da dietro la casa e si fermò ai piedi dei
gradini davanti alla veranda. Vide la bottiglia e scosse la testa.
15
«Lo sai che non è nemmeno mezzogiorno?»
«Oggi non ho programmi.»
Parve sul punto di dire qualcosa, ma lo bloccai.
«E il caricatore della mia pistola?»
Greg sorrise. «No, Dex. Non oggi, almeno.»
«E allora quando?»
Si incamminò verso l’auto della polizia sul vialetto d’accesso.
«La riavrai a cena questo fine settimana, se ti va. A Julie piacerebbe
molto rivederti, anche ai ragazzi.»
«Non lo so.»
Infilò la mano in tasca e mostrò il caricatore. «In cambio riavrai
questo.»
«Sono sicuro che quello che stai facendo è illegale, sceriffo.»
Greg rise e, di spalle, fece un cenno con la mano. Salì in macchina, uscì in retromarcia dal vialetto e imboccò la strada. Una
densa scia di polvere si sollevò in aria dietro di lui e scintillò al sole
prima di scivolare sul campo di granoturco e disperdersi al vento.
Rimasi in veranda a guardare l’auto che raggiungeva la cima
della collinetta e scompariva dall’altra parte.
16
2
Aprii il getto della doccia e rimasi sotto l’acqua finché non diventò
fredda. Cominciavo a sentire un dolore sordo alla testa e sapevo
per esperienza che doveva peggiorare prima di sparire. Mi sforzai di ricordare quand’era stata l’ultima volta che avevo mangiato
qualcosa, ma non ci riuscii.
Quando andai in camera da letto a vestirmi, trovai un paio di
pantaloni e una camicia semipulita sul pavimento. Me li infilai,
quindi attraversai la stanza fino all’armadio a muro di Liz e aprii
l’anta. Quasi tutti i suoi vestiti erano ancora appesi all’interno.
Passai la mano sulla fila di abiti, poi feci un passo indietro e mi
sedetti sul letto.
Rimasi lì per un po’, a fissare l’armadio e ad ascoltare i rumori
della casa.
I suoni delle case vuote sono particolari, sembra quasi che le
camere stiano in ascolto. La sensazione di essere osservato era così
reale che non riuscivo a scrollarmela di dosso.
Continuavo a ripensare alle parole di Greg, domandandomi se
Liz e io stessimo davvero meglio separati. Più ci pensavo, più mi
sentivo ribollire il sangue. Sapevo che Greg non lo avrebbe detto
a meno che non pensasse di essermi d’aiuto, ma non riuscivo a
capire cosa diavolo gli fosse passato per la testa.
Liz e io non stavamo meglio. Eravamo ben lungi dallo stare
meglio, e lui lo sapeva.
17
Il mal di testa si fece più acuto e mi costrinsi ad alzarmi per
raggiungere la cucina. Avevo bisogno di mangiare e di snebbiarmi
la mente prima di andare alla scarpata.
Trovai delle fette di prosciutto e un barattolo di formaggio
spalmabile nel frigorifero, e preparai un panino con due croste di
pane. Era tutto ciò che avevo in casa. Se volevo mangiare di nuovo,
dovevo andare in città a fare un po’ di spesa.
L’ idea mi fece passare l’appetito, ma mangiai lo stesso.
Il panino era secco e quando lo finii presi una birra. Bastò a
farmi andare avanti.
Mi appoggiai al piano della cucina e chiusi gli occhi. Il vento che
entrava dalla finestra era lieve come un bacio e piacevole sulla pelle.
Dopo un po’ allungai la mano verso il telefono fissato al muro,
accostai la cornetta all’orecchio e feci il numero della madre di Liz.
Lo lasciai squillare una volta, poi riattaccai.
Che cosa le avrei detto?
Se la versione di Greg era vera, se avevo minacciato di ucciderla,
che cosa avrei potuto dire? Si sarebbe aspettata delle scuse. Molto
probabilmente avrebbe voluto che le chiedessi perdono, e questo
non sarebbe accaduto.
Era lei quella che mi aveva lasciato, quella che aveva fatto le
valigie e se ne era andata dalla sera alla mattina, ma a lei non importava niente, non avrebbe nemmeno voluto parlarne.
No, avrebbe voluto parlare delle mie pillole e dei miei vuoti di
memoria. Non di quello che la riguardava. Non le fregava niente
della nebbia che arrivava con le pillole, o di come ogni cosa sbiadisse, ogni giorno sempre di più.
Niente di tutto questo aveva importanza per lei.
Il fatto che prendessi le pillole era l’unica cosa che voleva sapere.
Non contava nient’altro. Ma non volevo affrontare ancora quel
discorso, soprattutto dopo che se ne era andata.
18
Finii la birra e buttai la bottiglia vuota nel lavello, aprii l’armadietto sopra il frigorifero e tirai giù una bottiglia di Johnnie Walker.
Ruppi il sigillo.
Il mal di testa diminuiva a ogni sorso.
Più pensavo a Liz, più mi domandavo se Greg, dopotutto, avesse
ragione. Anche se fosse tornata, le cose non sarebbero state più
come prima. La sera che se ne era andata mi aveva detto che le
avrei sempre ricordato Clara.
Quella era una cosa contro cui non potevo lottare.
Mandai giù un altro sorso, poi tappai la bottiglia e andai in
camera da letto. Aprii il mio armadio a muro e presi una grande
scatola di cartone dall’ultimo ripiano. Sopra c’era scritto inverno
ed era piena di maglioni. Li rovesciai sul letto, poi aprii l’armadio
di Liz e mi misi a strappare i vestiti dagli appendiabiti e a buttarli
nello scatolone.
Volevo rendere le cose più facili.
A tutti e due.
Avevo vuotato mezzo armadio quando mi fermai a guardare il
vestito che tenevo in mano.
Fu come vedere una foto istantanea.
Lo aveva indossato molte volte nel corso degli anni, ma in quel
momento vidi solo la prima volta. Il 4 luglio. La sera che cuocemmo
sulla griglia gli hamburger, nel cortile sul retro, mangiammo fuori,
sulla veranda, e guardammo i fuochi d’artificio sbocciare come
fiori sopra i campi di granoturco.
Ricordai quando Clara disse che il vestito la snelliva e il modo
in cui Liz rise e sorrise e le rispose che era una ruffiana.
Ricordai quando attraversò la camera da letto e venne da me più
tardi quella sera, il vestito che le sfiorava la pelle come un’ombra,
fluido, morbido e caldo.
Mi sedetti sulla sponda del letto, stringendo l’abito sulle gi19
nocchia. Non piansi, ma rimasi lì, immobile, per molto tempo.
Quando alla fine mi alzai, riappesi tutti i suoi vestiti nell’armadio, uno alla volta. Poi uscii e attraversai il campo fino al trattore,
ancora bloccato nella scarpata.
20
3
Non credevo di avere qualcosa di rotto, ma il sangue non si fermava.
Mi levai la camicia e avvolsi la manica intorno alla mano. Quando mi appoggiai al trattore sentii sotto le pulsazioni. Una macchia
rossa filtrava lentamente dalla manica e il sangue si raccoglieva
nel palmo.
Pensai di tornare a casa per prendere la macchina e andare
all’ospedale, ma non ne vidi lo scopo. Il sangue si sarebbe fermato.
Non avevo bevuto poi tanto e avrei potuto pulirmi la mano dopo
aver tirato fuori il trattore.
Ce l’avevo quasi fatta. Ero riuscito persino a liberare una delle
ruote posteriori ed ero praticamente riuscito a tirare fuori l’altra
quando la tavola che stavo usando per far forza sulla gomma si
era spezzata conficcandosi nella mia mano. Solo dopo aver visto il
sangue colare dal braccio capii quel che era accaduto.
Non avevo sentito nulla.
Scrollai il sangue dal palmo, poi liberai la mano e l’avvolsi
nell’altra manica. L’ emorragia parve rallentare e accantonai con
sollievo l’idea di tornare a casa. La giornata stava già volando via
e non volevo fermarmi per un graffietto.
Con la mano di nuovo ben avvolta, cercai con gli occhi un’altra
tavola o una pietra con cui fare forza sulla gomma piantata nel
fango. Non vidi nulla, così mi arrampicai sulla sponda opposta
della scarpata ed entrai nel bosco di pioppi.
21
Lì l’aria era cinque gradi più fresca. Mi fermai in mezzo agli
alberi e alzai gli occhi allo scintillio delle foglie che mormoravano
alla brezza. Era un suono rasserenante e rimasi lì per un po’, ad
ascoltare, respirare e osservare le prime luci della sera che filtravano tra i rami.
Notai alcune lattine di birra vuote per terra e a calci ne radunai
un paio in un mucchietto, se in seguito avessi deciso di tornare lì
a raccoglierle.
Era un pensiero assurdo. Continuai a cercare.
Qualcosa dall’altra parte del boschetto attirò la mia attenzione.
Sulle prime non capii di cosa si trattasse. Quando mi avvicinai, vidi
che era una borsa da donna, a righe rosa e blu, come un bastoncino
di zucchero candito. La raccolsi. Era pesante e diedi un’occhiata
intorno per vedere se ci fosse qualcuno nei paraggi. Sapevo di essere solo, ma qualcosa mi spinse a controllare.
Esaminai la borsa. Non era griffata e sembrava nuova. La posai
per terra, aprii la chiusura a scatto e frugai all’interno.
La prima cosa che vidi fu una borsa più piccola, della stessa
foggia: conteneva vari cosmetici in tubetto.
Infilai di nuovo dentro la mano ed estrassi alcune penne, un
libretto degli assegni e un portafogli.
Aprii il libretto. Era di una banca locale e stando a quanto era
annotato il conto presentava un saldo di ventisette dollari. Lo misi di
nuovo nella borsa, presi il portafogli e tirai fuori la patente di guida.
La ragazza nella foto aveva i capelli neri, raccolti in una coda
di cavallo. Era giovane e sorrideva. Si chiamava Jessica Cammon.
Lessi la data di nascita e feci un rapido calcolo mentale.
Aveva sedici anni.
Gettai un’occhiata alle lattine di birra sparse qua e là e scossi la
testa. Se avessi scoperto che mia figlia di sedici anni beveva in un
campo isolato di granoturco…
22
Mi fermai.
Dopo un attimo scartabellai nel resto del portafogli. Conteneva
tredici dollari e varie buste paga. Ne tirai fuori una e lessi l’intestazione: Riverside Café.
Ero stato al Riverside Café più d’una volta. Guardai meglio la
foto, domandandomi se l’avessi vista là. Non riconobbi il viso, ma
era passato molto tempo dall’ultima volta che ero stato in quel
locale. Forse era nuova.
Infilai di nuovo la patente nel portafogli e riposi tutto nella
borsa. Considerai l’idea di andare al Riverside Café per colazione
l’indomani. Questo mi avrebbe tenuto alla larga dal supermercato
un altro giorno. E poi sarebbe stato divertente vedere l’espressione
della ragazza una volta messa la sua borsa sul bancone.
Sapevo che avrei dovuto portarla all’indirizzo indicato sulla
patente di guida e consegnarla ai suoi genitori, spiegando dove
l’avevo trovata e lasciando che se ne occupassero loro. Ma non
erano affari miei. Pensai che avrei dovuto limitarmi a trovare la
ragazza e a restituirle la borsa.
I suoi genitori avrebbero potuto fare domande.
Chiusi la borsa di scatto senza esaminare nient’altro. Il sole
cominciava già a calare sull’orizzonte e presto il cielo si sarebbe
riempito di una densa foschia rossa. Se non fossi tornato subito
a occuparmi del trattore, non avrei avuto altra scelta che finire il
lavoro l’indomani. In quel caso, avrei dovuto telefonare a Greg e
chiedergli di portare il carro attrezzi, dopotutto. Ce la saremmo
cavata in venti minuti.
Mi incamminai di nuovo verso la scarpata, lanciando un’ultima occhiata alle mie spalle. In quel momento notai qualcosa che
giaceva nel granoturco poco oltre gli alberi, ma non riuscii a capire
di cosa si trattasse da quella distanza.
Mi incamminai in quella direzione. Il vento si era alzato e quella
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cosa ondeggiava nella brezza. Sembrava una giacca o una maglietta
nera.
Attraversai il boschetto e sbucai in quell’angolo riparato al limitare dei pioppi. Mi avvicinai di qualche passo e mi fermai.
Quel che avevo visto era la divisa da cameriera del Riverside
Café, un vestito nero con una banda dorata che correva lungo l’orlo.
La riconobbi all’istante.
La ragazza che la indossava giaceva su un fianco, rivolta verso
il campo, lontano da dove mi trovavo. I capelli neri erano arruffati e le gambe erano raccolte al petto come se stesse dormendo.
Un braccio era disteso dinanzi a lei e l’altro abbandonato lungo il
fianco, il palmo rivolto al cielo.
Anche senza vederla in volto, capii chi era.
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