Città Virtuosa 2012
COMUNE di PESCHIERA DEL GARDA
“SAPERE
AUDE”
Conferenze a cura di
Don Gianfranco Salamandra
Martedì ore 18.15
SALA CIVICA
“Dobbiamo laicamente leggere dei testi ed esaminare dei
comportamenti. Il politicamente corretto, il laicismo, lo
scientismo hanno trasformato, in questa ultima ondata della
secolarizzazione, i principi di laicità e di criticità del pensiero in
una sorta di falsa coscienza collettiva, in una cultura che
obbliga, dico obbliga, a pensare per esperimenti, in base ai
criteri della fattibilità. Non a pensare secondo le GRANDI regole
che abbiamo ricevuto dalla GRANDE tradizione culturale
dell'Occidente. Quindi con una misura che per i credenti è Dio,
per i filosofi metafisici è l'Essere e per noi cittadini comuni é una
misura del bene e del male, un'etica. Ma non un'etica privata,
non una ragion pratica che vede la morale dentro l'io. No,
un'etica pubblica e pubblicamente dispiegata”. (Giuliano
Ferrara)
Per provare a comprendere, per continuare ad ascoltare e
farsene una ragione, per discutere, per poter rispondere
all'interrogativo posto da Dio “Dove sei?” (Gen. 3,9), non perché
l'uomo gli faccia conoscere qualcosa che ignora ma per poter
uscire dal nascondimento dell'indifferenza, l'Assessorato alla
Cultura organizza questo 2° ciclo di conferenze tenute da don
Gianfranco Salamandra, parroco della Parrocchia di San
Gaetano in Sega di Cavaion, aperte a tutti i cittadini, credenti e
non.
Municipio, ottobre 2012
Umberto Chincarini, Sindaco
1° incontro (martedì 6 novembre)
Le varie culture ai tempi della Bibbia
Il termine cultura si riferisce a idee, usi e costumi, professioni,
arte, ecc. di un particolare gruppo etnico in un particolare
contesto storico. La cultura della società in cui viviamo viene
instillata in noi fin dall'infanzia, in primo luogo dalla famiglia in
cui siamo nati o che ci ha adottati. Questo processo di
acculturazione continua quindi man mano che veniamo a
contatto con il nostro ambiente, con la scuola, con l'educazione
religiosa, con gli amici o con quelli che sono più anziani di noi; e
questo vale anche se generalmente non ce ne rendiamo conto.
Nella nostra cultura occidentale siamo abituati a mangiare tre
pasti al giorno, a vivere in piccoli nuclei familiari, ad ascoltare
musica negli uffici, nei negozi, in casa e anche in macchina.
Certe parole e azioni le consideriamo sgarbate o offensive,
mentre altre le riteniamo gentili e amichevoli. Una persona che
appartiene ad un'altra cultura, tuttavia, può non conoscere
questi e altri aspetti della nostra cultura che noi troviamo
talmente consueti da non pensarci neppure, o solo raramente.
La gente che viveva ai tempi della Bibbia era influenzata dalla
cultura di allora tanto quanto lo siamo noi dalla nostra, e
ciascun autore biblico ha scritto rispecchiando la propria
prospettiva culturale. Ciò significa che alcuni termini e concetti
della Bibbia possono essere inconsueti per molti di noi a causa
delle lunghe distanze e dei molti secoli che ci separano dai luoghi
e dai tempi della Bibbia. Tuttavia, possiamo in qualche modo
colmare la lacuna e capire più a fondo l'intento degli autori
biblici studiando il modo in cui vivevano e la visione che avevano
del mondo.
Ad esempio, lo studio degli usi e costumi dei patriarchi ci rivela
che per la gente dei tempi della Bibbia era preferibile nascere
maschio che nascere femmina. I ragazzi avevano più privilegi e
libertà delle ragazze, uno stato sociale più alto che continuava
anche quando diventavano adulti. Tenendo presente gli usi e
costumi del tempo, dobbiamo quindi concludere che il modo in
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cui Gesù trattava le donne era rivoluzionario. Cominciamo
allora a capire perché i suoi discepoli si meravigliarono tanto di
vederlo “parlare con una donna” che non era una parente (Gv
4,27), e ancor più che trattasse con lei importanti questioni
spirituali. Saremo in grado di capire anche quale colpo deve
essere stato, in una cultura che non ammetteva la
testimonianza delle donne in tribunale, il fatto che Dio abbia
scelto alcune donne come primi testimoni della resurrezione di
Gesù (Lc 24,1-12; cf At 2,17-18).
Quanto segue è solo un breve riassunto dell'abbondante
materiale disponibile sulla cultura dei tempi della Bibbia.
Infanzia
Ai tempi dell'Antico Testamento l'infanzia era breve. I bambini,
sovente in numero di sette, generalmente crescevano in una
famiglia che li amava teneramente. I più piccoli erano coccolati
in grembo alla madre (cf Is 66,12-13) e si divertivano con diversi
giocattoli, alcuni dei quali sono venuti alla luce negli scavi
archeologici. Anche se non esistevano squadre sportive, i
bambini inventavano i loro giochi e i ragazzi facevano la lotta
libera. A un'età molto precoce veniva assegnato a ogni bambino
un compito speciale, come raccogliere legna (Ger 7,18), attingere
acqua al pozzo, badare al gregge (Gn 29,6) e al bestiame.
Il padre provvedeva al sostentamento della famiglia lavorando
nei campi o in qualche altra professione o occupazione. Uno dei
suoi doveri era quello d'avviare i figli a un lavoro o professione. I
ragazzi andavano con il padre nei campi o nella bottega e
imparavano il mestiere osservandolo. Man mano che il ragazzo
cresceva, aiutava sempre più il padre, fino a imparare
perfettamente il suo lavoro o professione. Analogamente le
ragazze imparavano dalla madre a svolgere i lavori domestici.
L'adolescenza come periodo di passaggio dall'infanzia all'età
adulta era sconosciuta ai tempi della Bibbia. Il bambino
diventava presto un giovane adulto e veniva incoraggiato a
partecipare il più possibile alla vita familiare. In occasione delle
feste religiose, i bambini spesso accompagnavano i genitori al
tempio, come fece Gesù quando aveva 12 anni (Lc 2,42). Le
ragazze non portavano il velo e non vivevano isolate: quando
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avevano finito i compiti loro assegnati, potevano liberamente
incontrarsi con le loro amiche e vicine di casa.
Nel periodo patriarcale antico, il figlio o la figlia potevano essere
condannati a morte per disobbedienza al padre, ma con
l'avvento della legislazione mosaica, al padre fu imposto
l'obbligo di presentare istanza al consiglio degli anziani (Dt
21,18-21). I figli condannati per disobbedienza, ghiottoneria o
ubriachezza potevano essere lapidati a morte. L'autorità del
padre si applicava anche a un figlio sposato che viveva in
famiglia.
Istruzione
L'istruzione ha sempre avuto un rilievo privilegiato presso il
popolo ebraico. Al bambino veniva insegnato a capire ilo
rapporto speciale del suo popolo con Dio e l'importanza di
servire il Signore ( Es 12,26-27; Dt 4,9). Un'importanza speciale
era attribuita alla storia del popolo ebraico; la sua conoscenza
contribuiva a sostenere l'ideale patriottico in periodi di servitù e
di esilio. Come i primi rudimenti venivano impartiti ai bambini
in seno alla famiglia, così la loro fede veniva approfondita nelle
pratiche religiose compiute in famiglia, e particolarmente nei
pasti associati alle feste religiose come la Pasqua. Man mano che
i ragazzi crescevano, il padre aveva cura di rafforzare sempre di
più il loro attaccamento all'eredità religiosa e alle tradizioni.
Educazione
Solo a cominciare dal periodo del Nuovo Testamento in Palestina
l'educazione venne praticata anche fuori dall'ambito familiare. I
ragazzi frequentavano la sinagoga locale per essere istruiti da
un rabbì nelle tradizioni religiose giudaiche, mentre
l'educazione delle ragazze continuava ad essere svolta in casa.
Sappiamo molto poco del modo in cui si svolgeva l'educazione
nell'antico Israele, maleducazione morale e religiosa dei figli era
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vista come una delle principali responsabilità dei genitori,
particolarmente della madre. Il padre doveva per prima cosa
trasmettere le proprie capacità pratiche ai figli maschi della
famiglia, sia che si trattasse di mestieri, agricoltura o arti
marziali!
La famiglia era al centro della trasmissione della fede e delle
pratiche religiose da una generazione all'altra- l'aspetto più
importante dell'educazione.
Il rituale al centro della festa di Pasqua, ad esempio, era tenuto
vivo principalmente in seno alla famiglia; questa festività rimane
a tutt'oggi una celebrazione essenzialmente familiare.
Matrimonio
Il matrimonio, un rapporto che con il cristianesimo è diventato
un sacramento, originariamente era uno scambio di promesse
vincolanti tra lo sposo e la sposa, derivanti da precedenti accordi
tra i rispettivi genitori. La maggior parte degli uomini israeliti
aveva una sola moglie ; alcuni ai tempi dell'Antico Testamento
avevano due mogli (Dt 21,15) oppure una o più concubine.
Davide aveva diverse mogli; Salomone ne aveva 700 (2 Sam
5,13;1 Re 11,3; Ct 6,8-9). Erode il Grande aveva nove mogli.
I matrimoni venivano spesso combinati tra parenti stretti o con
membri dello stesso clan o tribù.
Dato che la sposa doveva diventare un membro della famiglia del
marito, per i genitori dello sposo era importante sapere se essa
era adatta e se si sarebbe integrata con il resto della famiglia. Per
il matrimonio, il consenso dello sposo e della sposa a volte era
richiesto, ma non necessario. Anche se era previsto che il
matrimonio durasse tutta la vita, l'uomo poteva divorziare dalla
donna con una semplice comunicazione; la donna invece non
poteva divorziare dall'uomo. In seguito la legge ebraica impose
l'obbligo di un documento scritto per il divorzio; ma in ogni caso
il divorzio ai tempi dell'antico testamento avveniva raramente.
La promessa di matrimonio, che si faceva circa un anno prima
del matrimonio stesso, era un accordo formale vincolante (Mt
1,18; Lc 1,27; 2,5). Di conseguenza, la promessa sposa
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apparteneva al suo futuro marito, e il promesso sposo era
considerato come genero dai genitori della sposa. Affinché si
potessero stabilire solidi rapporti familiari, per il primo anno
dopo la cerimonia ufficiale del matrimonio l'uomo era esentato
dal servizio militare (Dt 24,5).
Il prezzo da pagare per la sposa è uno dei motivi che spiegano la
prevalenza della monogamia. Pochi uomini infatti potevano
permettersi il lusso di sborsare diverse volte la somma richiesta
dal padre della sposa per compensarlo della perdita del lavoro
della figlia in casa o nei campi. Alle volte il prezzo era pagato
sotto forma di prestazioni di lavoro, come nel caso di Giacobbe
che lavorò 14 anni per Labano per poter avere Lia e Rachele (Gn
29,15-28). Parte della dote veniva spesso data alla sposa,
sovente sotto forma di gioielli che essa indossava in occasione
delle nozze.
Lo sposo si presentava alle nozze riccamente abbigliato con
vestiti lussuosi e profumati e con una ghirlanda di fiori sul capo.
I preparativi per la sposa comprendevano i massaggi per rendere
la pelle lucida, e l'intrecciatura dei capelli, possibilmente con fili
d'oro e perle. Il vestito della sposa era del tessuto più fino
possibile, completo di velo. Adornata in tal modo, la sposa e le
sue damigelle aspettavano nella casa dei genitori l'arrivo della
processione dello sposo. Mentre questa si snodava per le vie del
villaggio o della città, la luce delle torce che accompagnavano la
processione dello sposo e dei suoi amici faceva da cornice alla
musica (Ger 7,34) e ai divertimenti. La processione quindi
ritornava con la sposa e il suo seguito alla casa dello sposo, dove
la festa delle nozze spesso si protraeva per sette giorni, e a volte
anche fino a 14 giorni. Una camera nuziale appositamente
preparata accoglieva la giovane coppia. La sposa sperava di
poter avere subito dei figli.
Intanto doveva assumersi la responsabilità della cucina, della
pulizia, della filatura e della tessitura per tutta la casa, e
occasionalmente di dare una mano nei campi o nella vigna.
Aveva inoltre il dovere di impartire i primi rudimenti di
istruzione ai suoi figli (Prv 1,8; 6,20; 31,10-31).
Tutte le decisioni venivano prese dall'uomo quale capo famiglia.
Anche solo una promessa fatta dalla moglie senza il consenso
del marito era non valida (Nm 30). Tuttavia lo stato sociale della
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moglie era migliore di quello di molte donne arabe che, assieme
ai loro figli, erano considerate come strumento di lavoro. La
moglie e il figlio non potevano essere venduti come schiavi,
mentre ciò era consentito se si trattava di una figlia. Ma fino ai
tempi del nuovo testamento un'intera famiglia poteva essere
venduta per debiti contratti da uno dei suoi componenti (Mt
18,25).
Alla moglie non era consentito di abbandonare il marito; poteva
invece essere costretta a occupare un ruolo subalterno rispetto
a una nuova moglie o a una concubina, e poteva perdere il diritto
all'eredità. Tuttavia, anche in tali circostanze non veniva
segregata, ma poteva partecipare alle feste e alle attività della
famiglia. La moglie godeva dell'affetto e del rispetto dei suoi figli,
specialmente dei maschi. Tuttavia l'elenco dei beni di un uomo
comprendeva sempre la moglie, i servi, gli schiavi e gli animale
(Es 20,17; Dt 5,21). Il ruolo subordinato della moglie è
evidenziato dal fatto che essa stessa chiama il marito suo
signore o padrone (Gn 18,12).
All'interno della famiglia la donna era sempre, almeno in teoria,
sotto la tutela di un maschio: da bambina doveva sottostare al
padre, da sposa al marito, da vedova al parente maschio più
prossimo del marito. Ai tempi della Bibbia, dalla moglie ideale ci
si aspettava che fosse discreta, calma, sensibile e graziosa (Prv
9,13; 11,16.22; 21,9). Doveva inoltre possedere capacità
organizzative e decisionali per la gestione della casa e delle
finanze familiari (Prv 31, 10-31). Le donne forti e dominatrici che
svolgevano un ruolo pubblico, come Debora, Giaele e Giuditta,
erano rare. Ai tempi della dominazione romana tuttavia le donne
erano molto rispettate e spesso aiutavano il marito negli affari.
Nell'era cristiana l'atteggiamento di Gesù nei confronti delle
donne contribuì grandemente al miglioramento del loro stato
sociale. Ai tempi del nuovo testamento ci si aspettava che le
donne fossero amorevoli, caste, rispettose (Tt 2,4;1 Pt 3,2-6).
Edifici
Molti paesi e città erano cinti da spesse mura di difesa. Alcune
città avevano tre ordini di mura concentriche con porte
solidamente fortificate, spesso costruite con sei grandi pilastri.
Dal punto di vista architettonico i fabbricati erano semplici e
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pratici, ma spesso denotavano una ricerca di precisione e una
discreta tecnica costruttiva.
Le abitazioni della gente comune erano ben diverse. Molte erano
costruite in pietra, altre in cannicci e intonaco. L'abitazione
generalmente era costituita da un'unica stanza principale,
anche se alcune erano costruite attorno ad un cortile centrale.
Le case avevano tutte il tetto a terrazza, che poteva essere
coperto con una tenda in modo da costruire luoghi di riposo e di
quiete (At 10,9). La terrazza era fatta con travi di legno che
reggevano uno strato di ramaglie impastate con terra e creta, e
spesso lasciava filtrare l'acqua piovana. Sulla terrazza poteva
anche crescere l'erba e dopo un temporale doveva essere
ripassata e spianata. Le stanze, con il pavimento in terra
battuta, servivano da soggiorno e da camera da letto per la
famiglia e per gli animali che essa possedevano. Alcuni vani
aperti nelle pareti servivano da finestre, che di notte potevano
essere chiuse con graticci. Le finestre tuttavia erano poche e
piccole, per non lasciar penetrare il sole e mantenere la casa
fresca e confortevole durante il giorno. Dopo il tramonto le
opache pareti di creta erano illuminate dalla fiammella
tremolante della lampada a olio.
Politica
La cultura di un popolo- comportamenti sociali, usi e costumi,
vita familiare, tempo libero - è influenzata sia dal contesto
politico che dall'interazione commerciale con le civiltà
confinanti. La politica, cioè le cose che riguardano la città-stato
(dal greco polis, città), necessariamente influenza la vita e le
attività dei cittadini. Le prime città-stato sorsero nella
Mesopotamia meridionale. La loro politica consisteva nel gestire
gli affari della città e nell'evitare di essere conquistati da potenti
stati confinati. La città-stato era normalmente governata da un
re o una regina e comprendeva la città vera e propria e le terre
attorno alle sue mura. Il regnante sceglieva i suoi consiglieri tra i
sacerdoti e i funzionari di corte, e occasionalmente intratteneva
rapporti, mediante ambasciatori, con altre città-stato.
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In Egitto il sovrano spesso proclamava spesso il suo programma
di politica estera in occasione della sua ascesa al trono. Un
faraone poteva decidere, ad esempio, di invadere la Nubia o
conquistare la Palestina o la Siria per stabilirvi il suo dominio. I
re tuttavia non sempre godevano del favore dei sudditi e spesso il
sovrano veniva assassinato da una congiura tra i suoi
funzionari o tra le donne di corte.
In qualche rara occasione, due nazioni in guerra tra loro
rischiano di essere attaccate da una terza potenza. Ciò accade,
ad esempio, nel 853 a.C. Quando Siria e Israele erano in guerra
tra loro e improvvisamente l'Assiria minacciò di distruggere
entrambi gli eserciti. Israele e Siria allora unirono le loro forze
per sconfiggere l'Assiria. Più spesso le nazioni coesistevano
pacificamente, legate da trattati reciproci di tipo politico e
commerciale.
Un popolo conquistatore saccheggiava sempre il paese
conquistato e lo assoggettava al pagamento di un tributo, che
poteva essere pesante e protrarsi per molti anni. In questi casi
veniva nominato un governatore, residente sul posto, per
assicurarsi che i funzionari della città conquistata e i loro
aiutanti raccogliessero il tributo richiesto. Eventuali tentativi di
evasione del tributo in genere venivano severamente puniti. La
nazione ebraica pagò un pesante tributo prima agli Assiri, poi ai
Romani; ed è superfluo dire che gli esattori erano persone odiate
da tutti. La vita politica degli ebrei al tempo di Cristo era resa
difficile dalla presenza del governatore romano, che esercitava
uno stretto controllo sulla loro libertà d'azione e sul pagamento
delle tasse.
Commercio
Anche se era un paese sostanzialmente povero Israele occupava
una posizione strategica all'incrocio delle principali vie
commerciali, particolarmente la via nord sud. L'Egitto esportava
grano e manufatti, come pure Ebla. La Fenicia dava impulso alle
attività manifatturiere e al commercio marittimo. Israele, paese
prevalentemente agricolo, vendeva olio, vino, lana grezza,
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tessuti di lino e articoli di metallo. Il grano era la merce
principale che transitava per la via est ovest che attraversava la
Galilea. L'attività commerciale raggiunse il suo apice sotto i
regni di Davide e Salomone. Quest'ultimo accumulò grandi
ricchezze tassando le carovane commerciali che attraversavano
il suo territorio. Salomone inoltre fece costruire una flotta
mercantile che gli consentì di estendere i suoi interessi
commerciali alla zona del Mar Rosso. In generale, tuttavia,
Israele intratteneva normali rapporti commerciali con la Fenicia
e con l'Egitto e solo occasionalmente esportava merci in Siria.
Nel periodo della dominazione romana era maggiormente
diffuso il commercio a lunga distanza, a vantaggio del popolo
ebraico.
Arti e tempo libero
La letteratura era una forma d'arte molto sviluppata come
attestato delle scritture ebraiche e greche. La mente veniva
esercitata e coltivata anche componendo proverbi e imparandoli
a memoria. Anche se il tempo libero era scarso era molto diffusa
la musica suonata con la lira e con il flauto. La musica, sia
strumentale che vocale, come pure la danza per uomini e per
donne in gruppi separati era parte integrante della vita sociale e
del culto religioso degli Israeliti (Es 15,20; 1 Sam 18,6; 2 Sam
6,14, ecc).
Cibi
Non risulta che nelle famiglie del tempo della Bibbia esistesse
l'abitudine di fare un pasto corrispondente alla nostra colazione.
Se il padre lavorava nei campi, probabilmente consumava un
pranzo leggero come pure i ragazzi che pascolavano il gregge o gli
armamenti. Questo pasto era costituito da focacce o pani, olive,
fichi, ricotta o formaggio ricavato dal latte di capra. I ragazzi più
piccoli aiutavano la madre a preparare la cena, che era il pasto
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principale della giornata. L'ora della cena era un'occasione di
raduno familiare e probabilmente cominciava per tempo in
modo da approfittare della luce del giorno. La conversazione si
protraeva poi nella serata a lume di piccole lampade a olio. Il
pasto serale consisteva in pane o focacce fatte con frumento o
orzo, ricotta o formaggio di latte di capra, verdure quali
lenticchie, fagioli, piselli e porri. Le verdure non erano sempre
disponibili, ma quando c'erano contribuivano a variare la dieta.
Per dare sapore ai pasti si usava sale, aglio e probabilmente
anche aceto. Il vino, spesso abbondantemente innacquato,
veniva bevuto ai pasti.
Il cibo veniva cucinato in olio di oliva, e come dolcificante si
usava il miele. Eccettuate le famiglie benestanti, questi pasti
erano estremamente monotoni, nonostante le capacità culinarie
della cuoca. Tuttavia, i componenti della famiglia, stanchi e
affamati, probabilmente non si interessavano tanto della
varietà, purché ci fosse cibo sulla tavola. La carne si mangiava
raramente, eccetto che in occasione di un sacrificio;
normalmente gli animali erano troppo preziosi per i poveri
perché si pensasse si macellarli per mangiare. I ricchi stavano
meglio e mangiavano carne di agnello o cacciagione (Gn 27,3-33;
2 Sam 12,2-3; Lc 15,29) o un vitello ingrassato per qualche festa
speciale (1 Sam 28,24; Mt 22,4). Si mangiavano anche i fagiani,
tortore, quaglie, piccioni e pernici (Es 16,13; Dt 14, 4-19) ed
erano disponibili diverse specie di pesci.
Vestiario
I mercanti, con il loro carico di sete e di tessuti finemente
lavorati, viaggiavano in carovane, coprendo grandi distanze e
arrivando fino all'India. Il lino più fine era importato dall'Egitto.
In Palestina il vestiario era spesso fatto di lino di produzione
locale. I vestiti di tutti i giorni erano di lino di scarsa qualità; i
sacerdoti invece indossavano vesti di lino di qualità superiore
(Es 39,27). La lana poteva facilmente essere lavorata e tessuta
da popoli seminomadi, mentre la pianta del lino poteva essere
coltivata solo da una comunità sedentaria.
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I poveri spesso indossavano vestiario grossolano, fatto di lana di
capra o di pelo di cammello, ruvido e poco confortevole. Questo
tessuto, detto anche sacco, veniva spesso indossato in segno di
penitenza. Serviva inoltre da coperta per ripararsi dal freddo
della notte. Il cotone era conosciuto in Egitto e anche altrove, e al
tempo della dominazione romana in Palestina si conosceva
anche una specie di seta grezza locale. Sottili fili d'oro
conferivano un tono lussuoso al tessuto, mentre vari colori
erano ricavati da piante e animali: il rosso da un insetto, il giallo
da un fiore, lo zafferano dallo stame del crocco e il porpora dai
murici. La porpora di Tiro (Ez 27,16), rinomata per il suo colore,
divenne un simbolo di regalità e ricchezza.
Capelli e cosmetici
Nell'Antico Testamento la capigliatura lunga di un uomo era
segno di virilità, ma nell'epoca greca romana venne di moda il
taglio dei capelli all'altezza delle spalle o anche più corti. Le
donne erano orgogliose di portare i capelli lunghi, che spesso
venivano intrecciati; ma nella Chiesa primitiva venivano
ammonite di non spendere troppo tempo per le nuove
acconciature elaborate, con masse di riccioli ottenuti usando
ferri per arricciare e unguenti. I capelli grigi attiravano rispetto
dovuto all'età e alla saggezza, ma alcune donne preferivano
tingersi i capelli di rosso e di nero. Sembra che Erode Il Grande
avesse i capelli tinti di alcanna. Gli uomini ebrei generalmente
tenevano la barba lunga, però al tempo dei Romani potevano
tagliarla con il rasoio di acciaio temperato, scoperto da poco
tempo e molto costoso.
Tra i cosmetici più comunemente usati c'era il trucco per gli
occhi (2 Re 9,30), un preparato di antimonio, malachite verde o
stibio mescolato con gomma arabica. Queste sostanze erano
usate sia come cosmetici che come medicinali per la loro azione
antisettica contro le infezioni degli occhi (frequenti in paesi dove
abbondano le mosche). Attorno agli occhi spesso si tracciava un
contorno nero per farli risaltare meglio, e le sopracciglia
venivano scurite con una pasta nera. Alcuni passi della Bibbia
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associano gli occhi truccati alle prostitute e alle donne di facili
costumi (metaforicamente in Ger 4,30 e Ez 23,40). Il rossetto per
le labbra era molto diffuso nell'epoca greca e romana, e si faceva
uso anche di cipria per la faccia, di rossetto e di lacca per le
unghie delle mani e dei piedi. Profumi, oli aromatici e unguenti
erano usati come doni (Sap. 2,7), per uso personale (Ct. 1,13) e
specialmente per le celebrazioni rituali, ai matrimoni e alle feste.
Come si è formata la Bibbia?
Inizialmente molti libri venivano raccontati a viva voce
(tradizione orale). Poi numerosi scrittori, detti scribi, misero per
iscritto gli avvenimenti affinché fossero ricordati in modo
corretto senza fare confusione con le altre culture religiose
pagane particolarmente diffuse in quei tempi. La sapienza della
Bibbia risale quindi ad antiche tradizioni orali progressivamente
messe per iscritto. Abbiamo osservato che la Bibbia è una
raccolta di libri, diversi fra loro per autore, per la loro data di
composizione, e per il loro genere letterario.
La critica moderna ha avanzato l'ipotesi di uno sviluppo
progressivo in circa 3 antiche edizioni risalenti a periodi diversi.
La prima risale al periodo della monarchia dei re Davide e
Salomone (dal 1000-900 a. C.) nel quale si formarono dei circoli
religiosi che avrebbero fissato per iscritto alcune delle tradizioni
orali più antiche del tempo. In quel periodo il nome ebraico per
indicare Dio era Jahwèh.
I primi scritti biblici si riferiscono molto probabilmente alle
antiche norme di legge e potrebbero essere stati alcuni passi del
Deuteronomio (7;18-19) assieme al testo dell'alleanza tra Dio e il
popolo ebraico (Esodo 24; 34). Al genere letterario di tipo storico
si accompagnò quello “sapienziale”, che raccoglieva le
meditazioni degli antichi saggi sui temi della morte, della
sofferenza, del lavoro e del peccato (Proverbi 10-22).
Probabilmente era già stato scritto il codice yahwistico, un
codice legislativo, cultuale e civile (esodo 34,10-26; cfr. Levitico
23).
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Una seconda edizione, che amplia e approfondisce la prima,
potrebbe essere stata quella dei rabbini di Israele (insegnanti
della legge Mosaica) i quali raccolsero le loro tradizioni nel
presunto documento detto elohistico (che deriva da Elohim, un
altro nome ebraico per indicare l'unico Dio Jahweh), parallelo e
concorde con quello Jahwistico. La pericolosa influenza
politeistica provocò la nascita del profetismo che mise per
iscritto gli oracoli di Jahweh e la predicazione. Doveva essere
affidata ai posteri poiché il messaggio profetico fu dai
contemporanei spesso disprezzato e deriso.
La stesura di questi scritti è opera, in massima parte, dei loro
seguaci. Sorsero così le cosiddette scuole dei profeti, attive dal
secolo ottavo al terzo a.C. Nel 722 a.C gli Assiri conquistarono il
Regno del Nord, tutto quanto si poté salvare del patrimonio
religioso venne portato nel Regno del Sud, dando origine a una
nuova edizione.
Questo lavoro si protasse dal secolo ottavo fino al sesto a.C. ed il
risultato fu una terza edizione della Bibbia (dopo quelle
Jahwistica ed elohistica). Fu messa a punto la legislazione
culturale (Esodo 25-31; 35-40; tutto il Levitico e una parte dei
Numeri), fu elaborato l'inizio della Genesi: il famoso primo
capitolo che canta la creazione in sei tempi (“giorni”) e uno di
riposo. Dopo l'esilio babilonese, scribi diedero la forma definitiva
ai libri dei profeti.
L'Antico Testamento, così come lo conosciamo oggi, è la raccolta
riveduta, ampliata ed approfondita di almeno tre edizioni di
epoche diverse, la sistemazione finale risale a circa il quinto
secolo a.C.
Dalla giungla a Cristo
Un primo esempio di lento progresso sociale e religioso
dell'uomo è il passaggio delle tre leggi: da quella primitiva della
giungla a quella di Mosè fino a quella di Gesù spesso
incomprensibile secondo la logica dell'orgoglio umano.
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La legge della giungla è quella del più forte. La ragione è sempre
del più forte ed egli può permettersi ogni diritto sui più deboli.
Ancora oggi vige questa legge primitiva, soprattutto durante le
guerre, ma anche nei rapporti sociali e internazionali e, se
analizziamo bene, anche nelle compagnie di presunti amici, in
modo particolare nei bambini, ma anche nei più grandi in modo
più raffinato e diplomatico (es. il più potente economicamente o
intellettualmente).
Con Mosè si ha un passo in avanti, s'inizia a pensare “occhio per
occhio, dente per dente”: è la dura legge del “taglione” . Chi
commette il male deve riceverlo allo stesso modo, così come l'ha
compiuto. Sembrerebbe una dura legge, in realtà è un grande
passo in avanti. Non più sottomissione al più forte: ognuno ha il
diritto di essere rispettato poiché, se non siamo uguali nella
forza e nel potere, lo siamo nell'importanza di vivere. Siamo tutti
importanti soprattutto quando non arrechiamo danni a
qualcuno. Per la prima volta viene introdotta la persona del
giudice affinché vengano rispettati i diritti del debole. A dire il
vero, leggi molto simili erano già conosciute 500 anni prima
della Bibbia nelle culture popolari vicine, lo testimonia il codice
di Hamurabi, ma quelle introdotte da Mosè hanno l'originalità di
essere legate alla giustizia di Dio.
Infine abbiamo il terzo passaggio che è la legge di Gesù
totalmente incomprensibile secondo i criteri normali della vita
umana. E' la legge che urta il muro della riluttanza. E' quella di
porgere l'altra guancia quando uno ti schiaffeggia. Avete
compreso? Si tratta di porgere l'altra guancia a chi ti
schiaffeggia, di regalare un mantello quando uno ti chiede solo
la tunica, di pregare per i nostri “cari” nemici ed amarli,
soprattutto se ci maltrattano e ci odiano. Tale messaggio è
scritto nei Vangeli e poiché disturba la nostra immaturità
umana di saper amare, merita di essere letto attentamente.
- 14 -
2° incontro ( martedì 13 novembre)
Il diluvio universale
Note di curiosità
Narra la Bibbia che la malvagità degli uomini continuò a
crescere. Il Signore Dio di stancò così tanto che si pentì di aver
plasmato l'uomo dalla terra al punto di arrivare a dire:
“Sterminerò dalla terra l'uomo che ho creato: con l' uomo anche
il bestiame…''. Fra tutti i figli pro-creati dall'uomo vi era un certo
Noè, figlio di Lamech, il quale trovò grazia agli occhi del Signore,
viene infatti descritto come un uomo giusto.
Inizia da questo momento la famosa storia del diluvio universale
che unisce in realtà due antichi racconti: uno appartenente alla
tradizione yahwista (sigla J) e l' altro quello sacerdotale (sigla P).
Molto probabilmente piuttosto che dei diluvi furono in realtà
delle grandi alluvioni che sommersero la Mesopotamia e che
furono particolarmente frequenti in epoche preistoriche.
Alcune di queste alluvioni devono essere state molto
catastrofiche se si conservò il ricordo per secoli al punto da
distinguere la storia in due epoche: prima e dopo il diluvio.
Anche l'antica epopea babilonese di Gilgamesh, sulla tavoletta
numero 2, fa riferimento ad un diluvio. Tale mito è
particolarmente interessante perché presenta numerose
similitudini con la figura di Noè e racconta di un serpente che
ruba l' “albero della vita''. Elementi conosciuti anche nella
Bibbia.
Gilgamesh e il Diluvio biblico
Il mito di Gilgamesh è giunto a noi in frammenti di varia epoca: i
testi più antichi sono del III millennio a.C.
Nell' epopea, Gilgamesh è il re di Uruk, amico di Enkidu, un altro
potente eroe. I due lottano per l'immortalità del loro eroismo. Poi
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Enkidu muore e Gilgamesh, affranto dal dolore, vuole riportarlo
in vita.
Si pone in questo modo il problema dell' immortalità in senso
concreto, ossia della lotta contro la morte stessa.
Gilgamesh si mette alla ricerca dell'unico uomo che abbia
potuto sfuggire alla morte: Utnapishtim.
Tale personaggio è per noi particolarmente interessante perché
è l' unico scampato ad un grande diluvio (secondo la versione
babilonese). Anche qui si parla di un'arca di legno e di una
colomba.
Il rametto di ulivo in bocca alla colomba è un'originalità biblica.
Il confronto va quindi con la figura biblica di Noè.
Nel mito di Gilgamesh tale personaggio fu trovato dopo
avventure di ogni genere e ottiene da lui solo un surrogato
dell'immortalità, una pianta che ha il potere far ringiovanire. Si
potrebbe dire una specie di “albero della vita” conosciuto anche
nella Bibbia.
La vera immortalità è soltanto quella degli dei.
La pianta magica sarà rapita a Gilgamesh da un serpente, un
altro elemento presente nella Bibbia. L'eroe resterà sconfitto
dall'inevitabile morte.
Due alluvioni in un solo racconto
Le diverse forme letterarie sono molto divergenti da far dubitare
che in realtà furono due i diluvi e non uno come spesso si pensa.
Per soddisfare qualche curiosità ricordiamo le differenze dei due
racconti “diluviani'' intrecciati tra di loro in un unico racconto
biblico.
·
I versetti del racconto J presentano il diluvio universale in
40 giorni (cifra tonda per indicare “molti”) e affermano
che la Terra ritorna asciutta dopo 40 più 3x7 giorni.
Secondo i versetti del racconto P le acque salgono per 150
giorni e ne servono altrettanti per defluire.
·
I versetti J fanno apparire il diluvio come un potente
acquazzone; in P addirittura il grande disco terrestre
diventa così permeabile da far rifluire i due oceani
- 16 -
primordiali uno nell' altro. In pratica il grande abisso
d'acqua sotterraneo fa salire l' acqua sulla terra facendo
“scoppiare'' le sue fonti sorgive, mentre dal cielo si aprono
le cateratte. Tale fenomeno sembra ricordare il ritorno del
Caos acquatico prima della creazione.
·
Nei versetti J, Noè accoglie nell' arca sette copie per ogni
specie di animali puri; in P solo una coppia di ogni specie
di animali.
·
J suppone che gli uomini abbiano mangiato carne da
sempre e quindi anche Noè con i suoi figli. In P cibarsi
delle carni non è ancora permesso. (si ricorda che il culto
sacrificale degli animali puri e la loro alimentazione viene
istituito sul monte Sinai.)
·
P presenta Noè che riceve nell'arca un messaggio da Dio
per indicargli quando potrà apparire la porta per uscire
definitivamente. In J Noè viene a saperlo attraverso il suo
buon senso, liberando fuori la colomba fino a quando è
ritornata con un rametto di ulivo.
Il diluvio nelle altre religioni
Nella religione greca il mito del diluvio ha per protagonisti
Deucalione e Pirra, coppia superstite di un diluvio mandato da
Zeus per distruggere gli uomini dell' Età del Bronzo. Anche
Deucalione, come Noè, si salva usando un' “arca” galleggiante
sulle acque.
In India ricordiamo Manu il mitico progenitore dell' umanità
scampato al diluvio su un imbarcazione da lui costruita. Le leggi
di Manu risalenti ai sec. II a.C. – II d. C., hanno come
fondamento religioso elementi cosmogonici cioè sull'origine del
cosmo. Brahma (la divinità postvedica che significa il creatore)
appare il promotore dell'evoluzione cosmica con il titolo di
Narayana, più tardi attribuito anche a Visnu. Gli compare l'idea
dei cicli cosmici della durata di 4.320.000 anni. Ogni ciclo è
messo in relazione a un Manu (“uomo primordiale” o
- 17 -
“prototipico”) particolare. Matsya (pesce) è la prima
incarnazione (avatara) di Visnu, che sottoforma di pesce salvò
Manu dal diluvio universale.
Frequente nel buddismo è l'artistica raffigurazione dell'episodio
in cui il “Re-serpente” dei Naga (mitiche creature acquatiche
venerate in India come divinità secondarie) salva il Buddah dal
diluvio scatenato da Mara, re dei demoni, ripiegando il proprio
corpo in trono la figura del grande maestro.
In Cina, Yù era il mitico sovrano cinese della leggendaria
dinastia Hsia i cui 17 sovrani avrebbero regnato dal 2.205 al
1.766 a.C. Yù era un eroe culturale che avrebbe fatto defluire le
acque di un diluvio. Cacciati i mostri che popolavano le paludi,
sarebbe stato il promotore di una società agricola.
Fra i Maya (America) nel mito del diluvio compare il dio Ek
Chuah come distruttore dell'umanità. Il culto di tale dio era
venerato, oltre che dai mercanti, dai piantatori di cacao che nel
mese di Muan tenevano una cerimonia in suo onore. L'incisione
che simboleggia il suo nome è il famoso occhio cerchiato di nero.
Il primo arcobaleno
Dopo la tempesta furibonda e il grande Diluvio Universale, la
Bibbia presenta il primo arcobaleno. È sorto a squarciare le
nuvole, quelle del buio più fitto dei peccati dell'umanità.
Il cielo si è aperto, le ultime gocce hanno smesso di scendere. Il
vento impetuoso si disperde lentamente fra i fiori dei campi. È
rinata la vita! Speriamo migliore. Finalmente è arrivato un
nuovo mattino, il primo sole, il primo abbraccio di felicità, il
primo arcobaleno. Un raggio di sole ha riempito i cuori di
un'umile famiglia. È la famiglia di Noè che sta ora passeggiando
assorta nel giardino rifiorito del creato. È di nuovo iniziata la
festa. Quell'arca era servita per tenersi aggrappati alle speranze
di una futura vita migliore.
Ora vediamo quell'arca allontanarsi lentamente fra i ricordi del
nostro passato. Da dimenticare o da ricordare?
Su quell' arca eravamo soli, isolati e a sperare, ma Dio non
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dimentica le sue promesse di Salvezza, quelle che liberano
l'uomo affinché sia più felice di amare. L'impegno umano di
continuare a fare festa con il Creato e il suo Creatore è di nuovo
ricominciato. Ce la farà l'uomo a mantenere questo impegno?
Dopo che il diluvio ha “lavato'' le cattiverie umane, che nascono
dall'orgoglio, è tempo di rendere lode a Dio, è tempo di
ringraziamenti.
Noè costruisce un altare e offre sacrifici a Dio con un
ringraziamento per la sua misericordia. Dio promette che mai
più alcun diluvio distruggerà l'umanità intera sulla terra.
Il primo arcobaleno è segno e simbolo di questa nuova alleanza
promessa da Dio. Un arco ponte che unisce il Cielo con la Terra:
Dio e i nuovi esseri viventi; l'immenso con l'uomo fragile,
caduco, effimero, polvere pesante.
Se nel primo capitolo della Genesi la creazione inizia dopo il caos
acquatico ora, dopo il diluvio cosmico, inizia una nuova umanità
purificata con il caos del diluvio. Sem, Cam e Jafet sono i figli di
Noè dai quali si svilupperà la nuova discendenza umana
“purificata”.
È interessante osservare che il nome ebraico dell'arca tebah si
ritroverà nella Bibbia solo nel libro dell'Esodo per indicare la
cesta con la quale Mosè fu salvato dalle acque del Nilo. Mosè è il
famoso personaggio biblico ricordato per aver liberato il popolo
di Israele dalla schiavitù d'Egitto.
Tale liberazione viene descritta come se avesse attraversato il
Mar Rosso:
Un altro “caos” di acque che lava, purifica e libera dalla schiavitù
del peccato.
Molto probabilmente il popolo di Israele attraversò la zona
paludosa chiamata il Mare dei Giunchi vicino ai laghi Amari.
Anche il passaggio del simbolico Mar Rosso è in stretta
all'analogia con i simboli del Diluvio Universale che “lava” e
libera l'umanità.
La torre di Babele
I primi undici capitoli del libro Genesi sono ricchi di simboli e per
comprenderne il messaggio occorre imparare a decifrarli.
- 19 -
Tuttavia per la prima volta nella Bibbia possiamo indicare con
precisione una località nominata nel testo: la città di Babele.
Ognuno di noi potrebbe visitarne i resti archeologici.
Ciò che rimane dell'antica città è un campo di rovine situato a
circa 100 km a sud di Baghdad in Iraq.
Tra i resti di Babele ritroviamo perfino un luogo ove sorgeva una
gigantesca torre su una bassa collina di macerie in mezzo ad un
terreno paludoso.
È stato tuttavia possibile ricostruirne l' aspetto originale: la torre
sorgeva a mo' di piramide a sette gradini costruiti con mattoni d'
argilla, esattamente come ci informa il racconto biblico. I
mattoni furono utilizzati, fino ai giorni nostri, per costruire case
e questa è una delle cause per cui la torre è stata completamente
distrutta. Essa era alta esattamente quando l' ampiezza della
sua base, visibile ancora oggi che misura 91,50 metri;
altrettanto sarebbe stata alta la torre.
Essa comunque non era la più alta del suo tempo.
La torre appena descritta fu portata a termine dal re
Nabucodonosor per il 580 a.C., il racconto biblico sembra
risalire a circa 400 anni prima. È accertato che una torre più
antica sorgeva nello stesso luogo e aveva una forma simile. Le
torri venivano costruite per dar maggior gloria a Dio.
Cosa racconta la Bibbia?
Gli abitanti di Sennaar dissero:”Venite ,costruiamoci una città e
una torre la cui cima tocchi il cielo …”.Avevano iniziato a
costruire una torre altissima affinché fosse il simbolo dell'unità
del loro regno.
Eppure vi è qualcosa che agli occhi di Dio è malvagio ciò che si
sono prefissi sarà loro possibile. Cosa?
Il Dio biblico Jahweh,leggendo il loro cuore la presunzione e la
superbia, li disperse confondendo le loro lingue.
Il racconto della torre di Babele presenterebbe in tal modo la
superbia sociale degli uomini contro Dio e il castigo della
diversità delle lingue.
- 20 -
3° incontro
( martedì 20 novembre )
Abramo e Sara
Proposta indecente
All'inizio della Bibbia si narra un episodio sconcertante,
piuttosto scandaloso e pruriginoso della vita di Abramo. Si
racconta che una volta, in un viaggio che il patriarca fece in
Egitto con la sua sposa Sara, mentì al faraone dicendogli che ella
era sua sorella, e che gli avrebbe permesso di sposarla.
Queste sono le parole del racconto biblico: “Venne una grande
carestia del paese (nella terra promessa, dove Abramo viveva) e
Abramo scese in Egitto per soggiornarvi perché la carestia
gravava sul paese. Ma, quando fu sul punto di entrare in Egitto,
disse alla moglie: <<vedi, io so che tu sei donna di aspetto
avvenente. Quando gli egiziani ti vedranno, penseranno: costei è
sua moglie e mi uccideranno, mentre lasceranno te viva. Dì
dunque che sei mia sorella, perché io sia trattato bene per causa
tua ed io viva per riguardo a te.>>” (Gn 12,10-13).
Effettivamente, quando Abramo entrò in Egitto, gli egiziani si
accorsero che sua moglie Sara era molto bella, cosicché i
funzionari del Regno si recarono dal faraone per rendergli conto
della bellezza della donna. Fu così che essi la condussero al
palazzo reale; grazie a Sara, il faraone trattò con riguardo
Abramo, regalandogli pecore, mucche, asini, schiavi e schiave e
cammelli.
Iahvé si irritò per quello che il faraone e la sua famiglia fecero a
Sara e castigò il Paese infliggendogli grandi piaghe. Allora il
faraone mandò a chiamare Abramo e gli disse: <<”Che mi hai
fatto? Perché non mi hai dichiarato che era tua moglie? Perché
hai detto: E' mia sorella, così che io me la sono presa in moglie? E
ora eccoti tua moglie: prendila e vattene”. Poi il faraone lo affidò
ad alcuni uomini che lo accompagnarono fuori dalla frontiera
insieme con la moglie e tutti i suoi averi>>. (Gn 12, 18-20).
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Osceno come suo padre
Il lettore che s'imbatte in questo episodio rimane piuttosto
sorpreso e perplesso. È lecito domandare: com'è possibile che il
patriarca Abramo, il nostro padre nella fede e uno dei più grandi
esempi di vita che la Bibbia ci propone alla riflessione, abbia
commesso un'azione di siffatta immoralità? Come possiamo
prestare ammirazione nei confronti di un simile impostore? Se
non ci scoraggiamo di fronte a tanto scandalo e continuiamo a
leggere la storia di Abramo, il nostro stupore passerà ogni
misura. Infatti, più oltre l'episodio che abbiamo letto, la Bibbia
racconta come, in occasione di un altro viaggio che il patriarca
fece, questa volta la città di Gerar, egli sia tornato a mentire
riguardo al rapporto parentale con sua moglie, e l'abbia
impudentemente messa tra le mani del re Abimelech (Gn 20,1 –
18).
I tanti cattivi esempi prestati da quest'uomo a chi gli stava
attorno, prima o poi avrebbero finito per influenzare la condotta
morale del figlio. Tant'è che non ci stupisce affatto scoprire che,
poco tempo dopo, Isacco commise lo stesso orrendo peccato del
padre Abramo: ci riferiamo a quell'occasione nella quale il
giovane presentò sua moglie Rebecca al re di Gerar come se fosse
sua sorella consegnandogliela in sposa senza mezzi termini (Gn
26,1 -11).
Valori che prima vigevano
Perché la Bibbia tollera che il patriarca Abramo, modello di tutti
i credenti, esimio esempio di virtù religiosa e il più celebre
antenato del popolo di Israele, abbia mentito in un modo così
svergognato e che Dio nemmeno lo punisca, quanto meno lo
rimproveri? E come è possibile che Libri sacri come quelli che la
Bibbia ci propone alla lettura conservino tradizioni così
indecenti e poco edificanti, che, più che istruire, scandalizzano
anche il più inveterato peccatore?
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Per rispondere a queste due domande dobbiamo innanzitutto
tener conto che, molte cose che a noi oggi risultano sgradevoli o
scabrose, non sortivano lo stesso effetto al tempo in cui
risalgono i fatti narrati nella Bibbia. D'altro canto, ben sappiamo
che ogni nazione vanta un profondo orgoglio verso i propri
antenati e che non nasconde la cura e la devozione nei confronti
delle tradizioni che fanno riferimento ai padri. Se il popolo di
Israele ha confermato nei secoli la sua venerazione nei confronti
di Abramo e di Isacco e ha conservato gelosamente e con cura
meticolosa la memoria orale e scritta di questi episodi, è perché
di certo essi non hanno mai ferito la sensibilità del popolo.
La pesante croce della condizione femminile
Oltre all'usanza della “sposa-sorella” dobbiamo tenere conto di
un secondo elemento della cultura di quei tempi: la donna non
godeva della stessa dignità e della stima che oggi la società le
riconosce senza dubbio in ogni ordine e grado. In quel tempo, la
donna era quanto meno una proprietà del marito, un “oggetto”, o
un bene, come tanti e fra tanti che gli appartenevano, e del quale
egli poteva disporre nella più ampia libertà.
Un esempio di questo principio di regolazione di rapporti tra
marito e moglie si riscontra con una certa facilità nell'elenco dei
dieci comandamenti, tra i quali leggiamo: “Non desiderare la
casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo
prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il
suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” (Es
20,17).
Come a dire che, tra i beni di appartenenza di un uomo, la moglie
era considerata alla stessa stregua degli animali e degli oggetti di
costui. Senza che vi fosse alcunché di riprovevole, un uomo
poteva perciò avere diverse spose, dal momento che queste
servivano per ingrandire il suo podere e il suo patrimonio nella
stessa misura con la quale un gregge poteva assicurare il cibo ed
il mantenimento del clan.
Ci accorgiamo senza ombra di dubbio che il rapporto
matrimoniale di quei tempi è piuttosto lontano dall'espressione
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romantica e delicata che oggi riscontriamo ancora nelle coppie
di fidanzati e di sposi. La Bibbia offre diversi esempi della scarsa
stima che allora si aveva per la donna, soprattutto se ella veniva
posta di fronte ad altri valori, considerati molto più importanti.
Dio capisce le paure
Il risultato di questa revisione fu che gli agiografi scrissero una
nuova versione del racconto, secondo la quale, quando Abramo
si reca in Egitto e presenta sua moglie Sara come sua sorella,
non lo fa per vantarsi del suo elevato rango sociale ma per timore
che lo uccidano per rubargliela. L'atteggiamento di Abramo,
dunque, viene così giustificato dal difficile momento che gli
toccava vivere in un Paese straniero ed ostile, verso cui era stato
costretto a recarsi a motivo della fame e della precaria
condizione in cui il suo clan versava in quel momento della sua
storia.
In questo modo, l'antico racconto del patriarca Abramo, che
inizialmente cercava di spiegare l'importanza della sua
posizione nella scala sociale, acquisì una lettura diversa nel
nuovo racconto rispetto alla precedente: adesso si proponeva di
insegnare che anche quando l'uomo con le sue paure,
negligenze e abbandoni, sembra mettere in pericolo il piano che
Dio ha per l'umanità, Dio veglierà sempre affinché il progetto
trovi compimento e giunga a buon fine.
Perché non dobbiamo avere paura
A causa di una grave siccità, Abramo dovette abbandonare la
sua patria e viaggiare attraverso l'Egitto alla ricerca di una
condizione di vita migliore. Non appena egli giunse nel Paese del
Nilo, il timore invase il suo cuore; si rese conto di essere debole,
piccolo e indifeso, di essere appena il capo di un insignificante
gruppo di pastori, lontano dalla sua terra e dai suoi amici, di
essere solo e indifeso in mezzo a un mondo ostile e troppo
- 24 -
diverso dalla sua cultura. Allora ebbe anche paura di morire,
perciò, spinto dalle circostanze, ideò uno stratagemma che
ritenne il più adeguato (anche se assurdo secondo il nostro
modo di pensare): quello di barattare la sua sposa per trovare
una soluzione alla sua drammatica esperienza di abbandono.
Che cosa fece Dio di fronte a questo espediente che noi riteniamo
meschino e riprovevole? Non fece alcun rimprovero al povero
Abramo: perché Dio ebbe comprensione di quel gesto, e si mosse
a pietà. Sapeva bene che Abramo era spaventato e pieno di
angoscia e per questo non gli rimproverò nulla si scagliò invece
contro il faraone e contro la sua famiglia, contro quel re potente
che aveva ridotto in una situazione così difficile e mendace il
pover'uomo, fino al punto da obbligarlo a consegnare la moglie
oltre ogni ragionevole impedimento morale. Dio mostrò in tal
modo ad Abramo che era accanto a lui come protettore ed amico
nei suoi difficili momenti. Nessun uomo forte poteva avere la
meglio sul suo protetto finché egli fosse stato al suo fianco, per
tutelarne l'integrità allo scopo di garantirgli una posterità senza
precedenti.
Tutti abbiamo le nostre paure quelle che ci minacciano, quelle
che ci angosciano e quelle che talvolta ci mettono persino in
situazioni tanto imbarazzanti, fino al punto da sentirci obbligati
ad agire in modo sconveniente e poco lecito.
Il racconto di Abramo, in verità, è una denuncia contro i
responsabili di queste paure, contro i potenti di questo mondo
che, per mezzo del timore e dell'intimidazione, cercano di
approfittare di quelli che hanno fame in ogni modo, per spogliarli
dei loro beni più intimi e cari. Dio è però sempre presente in
difesa dei deboli, ed avverte i potenti, che usano la vessazione
come arma di ricatto, che egli prende posizione in favore dei
poveri e degli umili, e che i suoi piani non conoscono ostacoli al
compimento e al capovolgimento della storia oltre ogni
aspettativa umana.
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4° incontro ( martedì 27 novembre )
Il Pentateuco
(Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio)
1. Cenni alle tradizioni sacerdotali jahviste ed
elohiste
Chi ha scritto il Pentateuco?
La domanda più impegnativa riguardo al Pentateuco è sempre
stata quella sull' autore e sull' epoca in cui questi cinque libri
sono stati scritti. Gli antichi maestri ebrei, attribuivano la
sistemazione del materiale, che adesso troviamo raccolto nella
Torah, a un sacerdote vissuto alla fine del V sec. a.C. di nome
Esdra dal quale prende il nome anche un libro della Bibbia. Gli
studiosi moderni ritengono che il Pentateuco ricevette la sua
sistemazione attuale per opera di sacerdoti che lavorarono dopo
l' esilio in territorio babilonese, mettendo in ordine testi più
antichi e aggiungendo del materiale loro. L' opera di questi
sacerdoti, che forse iniziò già durante l' esilio babilonese nel VI
sec a.C., viene abitualmente indicata come tradizione
sacerdotale. Che i materiali raccolti siano diversi si vede, per
esempio, dal fatto che abbiamo i primi due capitoli della Genesi
due racconti della creazione: 1,1-2,4a e 2, 4b-25. Il cap. 1
appartiene alla tradizione sacerdotale (indicata con la sigla “P”
da “priest, sacerdote”), il secondo capitolo alla tradizione
jahvista (indicata con la sigla “J” dal nome di Dio, Jhwh). Anche
nel racconto del diluvio troviamo presenti due tradizioni, quella
sacerdotale (P) e quella jahvista (J).
Quando nelle storie dei patriarchi troviamo genealogie o itinerari
sintetici delle tappe di un viaggio, dati sull'età di un personaggio,
oppure testi di tenore giuridico, come il contratto per l' acquisto
della tomba per Sara in Gen 23, possiamo essere certi di leggere
brani della tradizione sacerdotale o (P). Naturalmente i sacerdoti
erano ancor più interessato alle leggi, a quelle sul culto in
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particolare, per cui possiamo dire che quasi tutto il Levitico e
gran parte di Numeri sono testi della tradizione sacerdotale, nei
quali troviamo un gran numero di norme che sono state via via
aggiornate. Quasi tutti i racconti esistevano già e, in genere, gli
autori della tradizione sacerdotale si sono limitati a trascriverli,
con qualche ritocco. Anzi, probabilmente esisteva già da secoli –
qualcuno dice addirittura dai tempi di Salomone, altri da quelli
di Ezechia – una storia organica, cioè una vera e propria opera
letteraria che raccontava le vicende dei patriarchi, di Mosè con l'
epopea dell' esodo dall' Egitto e del deserto fino alle soglie
dell'insediamento nella terra promessa o, secondo alcuni, anche
oltre, fino agli inizi della monarchia. Si tratta della tradizione
jahvista che i redattori della tradizione sacerdotale si sarebbero
limitati a riprodurre interrompendola o modificandola, quando è
necessario, per inserire armonicamente il loro materiale. Gli
autori della tradizione jahvista unificarono le antichissime
memorie su Abramo e Giacobbe inserendo con chiarezza nei
momenti più significativi il richiamo alla promessa divina sia di
una numerosa discendenza sia del futuro dono della terra. La
tradizione jahvista ha una visione molto positiva del cammino
della storia. Conosce la debolezza umana ma è convinta che la
benedizione divina darà sicurezza di vita al popolo e, proprio
grazie a questa sicurezza, la fede si rafforzerà. È necessaria però
una fede incontrollabile nella promessa e non si deve cercare di
anticipare i tempi di Dio, come invece Abramo quando volle un
figlio da Agar. La tradizione jahvista è anche particolarmente
attenta alla psicologia femminile ma il suo interesse per le nozze
e la maternità è soprattutto motivato dalla convinzione che in
questa fase iniziale della storia la benedizione si concretizza
soprattutto nel dono di una discendenza numerosa, forte,
decisamente attaccata alla vita e alle tradizione dei padri.
Probabilmente alla fine del sec. VIII confluisce nel racconto
Jahvista nato nel sud una serie di brani che vengono attribuiti
alla tradizione detta elohvista perché non usa il nome divino
Jhwh prima che esso sia rivelato a Mosè nel roveto (ES 3,14) ma
quello più generico di Elohim, “Dio”. Questo filone sottolinea di
più il dovere della fedeltà interiore al comandamento di Dio. Un
brano significativo è forse quello dove si racconta la prova di
Abramo, chiamato ad offrire a Dio il suo unico figlio Isacco. La
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fede e l'obbedienza sono i grandi valori che le due tradizioni,
quella jahvista e quella elohista continuano a insegnare anche a
noi.
Un discorso a parte merita il libro del Deuteronomio, dove le
tracce della tradizione jahvista, elohista e sacerdotale sono
molto limitate (se non del tutto assenti. Si veda in merito
l'introduzione al libro del Deuteronomio).
2. Il Deuteronomio
Infelicemente intitolato Deuteronomio, “seconda legge”,
dall'antica tradizione greca detta dei Settanta, il quinto libro
della Bibbia – che sigilla il Pentateuco o Torah o legge - sarebbe
meglio definito con il titolo ebraico, Debarim, “parole, discorsi”.
Nonostante la sua connessione con la trama narrativa del
Pentateuco, il Deuteronomio si presenta come un'opera
autonoma, in sé compiuta, costruita su tre grandi discorsi di
Mosè (cap. 1-4; 5-28; 29-30), conclusi da una serie di testi
riguardanti questa celebre guida dell'esodo e la sua morte. Il
libro rivela, infatti, un suo linguaggio particolare, segnato da
una calorosa partecipazione: “Ascolta, Israele… Il Signore
tuo\nostro\vostro Dio (più di 300 volte)… Amare il Signore…
Con tutto il cuore e con tutta l'anima… La Terra in cui entrate
per prenderne possesso… Camminare nelle vie del Signore…
Temere il Signore”. Ma in filigrana si riesce anche a intravedere
un altro schema su cui il Deuteronomio viene ordinato. È quello
dei cosiddetti tratti di alleanza. Si comincia evocando gli atti di
liberazione e di salvezza compiuti dal Signore per il suo popolo
(cap. 1-11); si prosegue con la carta dei doveri di Israele (cap. 1226); si conclude con le benedizioni si e maledizioni in caso di
fedeltà o di ribellione alla legge del Signore (cap. 27-30). Il
vocabolario predilige i termini dell'elezione, dell'amore,
dell'insegnamento divino (in ebraico Torah), del paese donato,
dell'identificazione di Israele come “popolo del Signore” e della
presentazione del Signore come “Dio di Israele”. Un'opera che
tocca il cuore, che celebra la libera scelta della volontà di Dio,
che esalta un Dio vicino a Israele, “il più piccolo di tutti i popoli
della Terra”, ma eletto dal Signore per amore.
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Il Deuteronomio si proponeva un profondo rinnovamento del
popolo all'insegna di un ritorno all'autenticità degli ideali delle
origini. Quest'obiettivo portò gli autori ad assumere e
reinterpretare le antiche tradizioni che apparivano
caratteristiche della storia e della fede di Israele. Il libro fu
probabilmente composto in Giuda, a Gerusalemme. Progettato
forse al tempo del re Ezechia, esso poté essere prolungato solo
durante il regno di Giosia (640-609 a.C.) come espressione
dell'unità di tutto il popolo del Signore nel vincolo dell'alleanza.
Premessa: il Deuteronomio è uno dei cinque libri del Pentateuco;
è una sintesi dell'intera LEGGE che si trova sparsa in tutta la
TORAH.
A.
Contenuto
Il Deuteronomio è il quinto e ultimo libro del Pentateuco.
Rappresenta una specie di ponte tra i primi avvenimenti
dell'esistenza di Israele (e del mondo) e ciò che avviene dopo la
sua entrata nella Terra Promessa di Canaan. In quanto tale, il
libro guarda in due direzioni: ricorda gli eventi passati che
hanno portato Israele fino alla fine delle regione che avrebbe
reclamato come sua eredità, e guarda in avanti alla vita che
Israele dovrà condurre una volta in possesso della regione.
Narra inoltre come Mosè, il grande condottiere, terminò i suoi
giorni di guida del popolo e scomparve dalla scena lasciando le
redini a Giosuè.
Il Deuteronomio è una reiterazione delle leggi e normative che il
popolo aveva già ricevuto nel deserto; la maggior parte del suo
contenuto si trova già negli altri libri del Pentateuco. Le
differenze nella nuova formulazione delle leggi non sono
sostanziali, si limitano a porre un nuovo accento sul genere di
vita che il popolo è chiamato a condurre.
b.
Spunti teologici
Dal punto di vista teologico, nel Deuteronomio spiccano tre
- 29 -
elementi. Primo, viene sottolineata l'importanza del ricordo del
passato. Dobbiamo guardare indietro per ricordarci di dove
siamo venuti e capire meglio dove siamo diretti. Se abbiamo
commesso errori, non dobbiamo ripeterli; se ci siamo comportati
bene, dobbiamo continuare sulla stessa strada. Secondo, viene
posta nuova enfasi sull'importanza della legge di Dio. Queste
norme ci sono state date non perché fossero un peso, ma per
aiutarci. Dio è essenzialmente ordinato e ha predisposto le cose
in modo che anche la nostra vita sia ordinata. Obbedire a Dio è la
cosa migliore: egli sa cos'è meglio per noi e ci ha mostrato come
vivere.
Terzo, viene nuovamente sottolineata l'importanza di conoscere
Dio e di rendergli il culto dovuto. C'è un solo Dio padrone del
cielo e della terra, e deve essere adorato. Il fatto meraviglioso è
che Dio non solo acconsente di essere adorato, ma lo desidera.
L'atto più grande che una persona possa compiere è quello di
prostrarsi in adorazione a Dio. Diretta conseguenza è il servizio
nei confronti del prossimo.
3. Postilla riguardante il Nuovo Testamento
Sette e partiti nella Palestina del Nuovo Testamento:
Religiosi
·
•Farisei:
Era la setta ebraica detentrice del potere religioso
in Palestina ai tempi del ministero di Gesù.
Questi <<separati>> sostenevano che la minuta
precisazione della legge dettata da loro aveva la
stessa autorità della legge mosaica e che la loro
stretta osservanza di queste tradizioni, li rendeva
l'unica categoria di giusti al mondo.
•Sadducei: Setta ebraica costituita principalmente da
sacerdoti. Questi <<giusti>> sostenevano che la
legge mosaica era l'autorità suprema e che
- 30 -
•Esseni:
nessuna legge orale o tradizioni poteva reggere il
confronto con le Scritture. In polemica con i
Farisei, essi negavano la risurrezione e
l'esistenza degli angeli e degli spiriti (At 23,8).
Setta ebraica i cui appartenenti conducevano
una vita analoga alla vita monastica del
Medioevo. Nelle loro comunità isolate questi
<<devoti>> o <<santi>> cercavano la purezza
ideale e la comunione divina praticando la
mortificazione, la temperanza, il lavoro manuale
(agricoltura) e la contemplazione.
Politici
•Erodiani: Setta composta da Ebrei che accettavano la
sottomissione al governo di Roma e alla politica
imperiale. Questi Ebrei erano convinti che Erode
fosse l'ultima speranza per Israele di mantenere
una sembianza di indipendenza e di governo
nazionale.
•Zeloti:
Setta radicalmente nazionalista il cui grido di
battaglia era: <<nessun Signore all'infuori di
Yahvè, nessuna tassa all'infuori di quella del
Tempio, nessun amico all'infuori degli Zeloti>>. I
suoi membri accompagnavano la pratica
religiosa dei Farisei con un odio profondo per
ogni tipo di governo non ebraico.
•Galilei:
Setta i cui membri sostenevano che il controllo
straniero su Israele era contro le Scritture e
perciò si rifiutavano di riconoscere e di
ossequiare governanti stranieri. Data la loro
affinità politica con gli Zeloti, i Galilei finirono per
fondersi con questa setta.
Sociali
•Scribi:
Categoria di uomini incaricati di copiare,
insegnare e spiegare la legge. Essi sostenevano
- 31 -
l'autorità della tradizione orale al pari dei Farisei.
Come maestri della legge, ricoprivano un ruolo
importante nella società ebraica e inoltre
svolgevano la funzione di giudice e di avvocato,
basando i loro verdetti sulla legge di cui erano
maestri.
•Nazirei:
Ebrei che facevano voto di segregazione, per un
periodo limitato o per tutta la vita. Riconoscibili
perché facevano voto di non tagliarsi mai i
capelli, i Nazirei si segregavano dal resto della
popolazione per poter essere più vicini a Dio e per
denunciare la condizione peccaminosa della
nazione.
•Proseliti:
Non-Ebrei convertiti al giudaismo. Essendo stati
circoncisi, i Proseliti erano considerati innestati
nella famiglia di Abramo e come tali erano tenuti
all'osservanza della legge.
•Pubblicani: Ebrei al servizio del governo romano in qualità di
esattori delle tasse. La loro disponibilità a
lavorare per il governo straniero era considerata
una mancanza di lealtà verso Israele e una
propensione alla promiscuità con i Gentili.
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5° incontro ( martedì 4 dicembre )
I Patriarchi
I patriarchi furono i principali antenati degli israeliti. La nazione
d'Israele è nata dai figli di queste “figure paterne”.
Le testimonianze archeologiche di cui disponiamo collocano i
patriarchi di Israele – Abramo, Isacco e Giacobbe – nell'ambiente
culturale della Mesopotamia, all'incirca tra il 2000 e il 1200 a.C.
.Le storie dei patriarchi che si trovano nel libro della Genesi
spesso sono chiamate i racconti patriarcali, perché quei
personaggi hanno costruito il fondamento della storia
successiva della nazione.
Abramo
Gli ebrei considerano Abramo il principale destinatario delle
promesse che Dio ha fatto al suo popolo e questo fa di lui
l'incontrastato “padre della nazione ebraica”. Abramo o Abram,
come si chiamava originariamente, è vissuto nei primi secoli del
secondo millennio a.C. nell'età media del bronzo. Quando Dio lo
chiamò, gli promise una terra con molti discendenti e un grande
nome, e predisse che sarebbe diventato una benedizione per
molta gente.
Abramo e sua moglie Sara erano molto vecchi quando vennero
fatte queste promesse e avevano passato di gran lunga il
normale periodo di fertilità. Ciò nonostante, Sara rimase incinta
e diede alla luce il loro figlio Isacco. Essi hanno attribuito questo
fatto incredibile alla benevolenza e al potere di Dio, ma la prova
suprema della fede di Abramo si ebbe quando Dio gli ordinò di
offrirgli come sacrificio umano suo figlio Isacco. La fiducia e la
convinzione di Abramo che Dio avrebbe provveduto a
presentargli qualcosa di alternativo da sacrificare e avrebbe
- 33 -
risparmiato Isacco ha fatto di lui il più alto esempio di fede e
fiducia in Dio che c'è nella Bibbia.
Isacco
Isacco era il figlio della promessa fatta da Dio ad Abramo ed a
Sara. Il nome significa “egli ride” e si riferisce al fatto che i suoi
genitori si sono messi a ridere quando hanno sentito che
avrebbero avuto un figlio alla loro età. Isacco nell'Antico
Testamento è una figura alquanto in ombra, posta tra Abramo e
Giacobbe. Il rispetto maggiore se l'è guadagnato nei suoi
momenti più passivi: quando stava per essere sacrificato e
quando i suoi genitori gli hanno procurato una moglie.
Giacobbe
Con i suoi dodici figli Giacobbe è diventato il capo stipite delle 12
tribù di Israele, che sono state il fondamento della nazione. Gran
parte della sua vita è stata travagliata da problemi famigliari: ha
ingannato suo fratello Esaù privandolo del diritto di
primogenitura e ha mostrato favoritismi per i suoi due figli più
giovani, Giuseppe e Beniamino. Giacobbe morì in Egitto, ma fu
sepolto nella terra promessa di Canaan a riconoscimento finale
della sua fede in Dio. La promessa fatta da Dio ad Abramo che
egli sarebbe stato il padre di una grande nazione cominciò a
trovare compimento per mezzo di Giacobbe.
Ed ora veniamo alla lettura e alla riflessione di due passi
della s.scrittura concernenti il libro del Deuteronomio.
Faremo alcune applicazioni culturali ne trarremo
insegnamenti
(Deut 6,2-6)
Mosè parlò al popolo dicendo: “Temi il Signore tuo Dio osservando
per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio,
tutte le sue leggi e i suoi comandi che io ti do e così sia lunga la tua
vita.
Ascolta, o Israele, e bada di metterla in pratica; perché tu sia felice
- 34 -
e cresciate molto da numero nel paese dove scorre il latte e il
miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto.
Ascolta, il grande Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno
solo. Tu amerai il signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta
l'anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano
fissi nel cuore”.
(1 Re 17, 10-16)
Elia si alzò e andò a Zarepta. Entrato nella porta della città, ecco
una vedova raccoglieva la legna. La chiamò e le disse: “Prendimi
un po' d'acqua in un vaso perché io possa bere.''
Mentre quella andava a prenderla, le gridò: “Prendimi anche un
pezzo di pane”. Quella rispose: “Per la vita del Signore tuo Dio,
non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un
po' di olio nell'orcio; ora raccolgo due pezzi di legno, dopo andrò a
cuocerla per me e per mio figlio, la mangeremo e poi moriremo”.
Elia le disse: “Non temere; su, fa come hai detto, ma prepara
prima una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne
preparerai per te e per tuo figlio, poiché dice il Signore: La farina
della giara non si esaurirà e l'orcio dell'olio non si svuoterà finche
il Signore non farà piovere sulla Terra”.
Quella andò e fece come aveva detto Elia. Mangiarono essa, lui e il
figlio di lei per diversi giorni.
La farina della giara non venne meno e l'orcio dell'olio non
diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunziata per
meglio di Elia.
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6° incontro ( martedì 11 dicembre )
I Profeti
Come abbiamo fatto in precedenza, scegliamo qualche
passo degli scitti dei profeti, cercando di ricavare
insegnamenti ed applicazioni per noi
Isaia
(Is 40, 1-5.9-11)
“Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio.
Parlate al cuore di Gerusalemme e gridate
che è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità,
perché ha ricevuto dalla mano del Signore
doppio castigo per tutti i suoi peccati”.
Una voce grida:
“Nel deserto preparate la via al Signore,
appianate nella steppa la strada per il nostro Dio.
Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati;
il terreno accidentato si trasformi in piano
e quello scosceso in pianura.
Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà,
poiché la bocca del Signore ha parlato”.
Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion;
alza la voce con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme.
Alza la voce, non temere; annunzia alle città di Giuda:
“Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza,
con il braccio egli detiene il dominio.
Ecco, egli ha con sé il premio e i suoi trofei lo precedono.
Come un pastore egli fa pascolare il gregge
e con il suo braccio lo raduna;
porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore
madri”.
Geremia
(Ger 31,31-34)
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“Ecco verranno giorni ? dice il Signore ? nei quali con la casa di
Israele con la casa di Giuda io concluderò un'alleanza nuova.
Non come l'alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li
presi per mano per fargli uscire dal paese d'Egitto, una alleanza
che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del
Signore.
Questa sarà l'alleanza che io concluderò con la casa di Israele
dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo,
la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio
popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni e gli altri, dicendo:
riconoscete il Signore perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo
al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e
non mi ricorderò più del loro peccato”.
E fra i libri sacri: gli SCRITTI (Ketûbim) meditiamo anche
Daniele
(Dn 7,13 - 14)
Guardando ancora nelle visioni notturne,
ecco apparire, sulle nubi del cielo,
uno, simile a un figlio di uomo;
giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui,
che gli diede potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano;
il suo potere è un potere eterno,
che non tramonta mai, e il suo regno è tale
che non sarà mai distrutto.
(Dn 12,1 - 3)
Or in quel tempo sorgerà Michele, il grande principe, che vigila sui
figli del tuo popolo. Vi sarà un tempo di angoscia, come non c'era
mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel
tempo salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro.
Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si
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risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per
l'infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del
firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia
risplenderanno come le stelle per sempre.
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7° incontro ( martedì 15 gennaio )
I dieci comandamenti
Premessa:
Qualcuno si chiederà perché ho voluto sviluppare una sintetica
riflessione sui dieci comandamenti non partendo dall'Esodo in
cui si narra che Mosè, disceso dal Monte Sinai, ordinò, nel nome
di Jaweh, i dieci comandamenti. La risposta è molto semplice:
leggete quel capitolo (ES 20,1-17) e vi accorgerete che le dieci
“formulette” spesso imparate a memoria nel catechismo, in
realtà sono ricavate da un lungo discorso con ulteriori dettagli
spesso sconosciuti. In realtà, nell'Antico Testamento i dieci
comandamenti appaiono in due versioni: quella dell'Esodo e
quella del Deuteronomio (Cap. 5, 6 – 21). Le due versioni
presentano lievi, ma importanti varianti; ad esempio il
Deuteronomio afferma che il discorso ha avuto luogo nei pressi
del Monte Horeb (Sinai?), e antepone la donna agli animali e alla
casa, mentre l'Esodo la classifica fra questi.
Tralasciamo le lunghe ipotesi esegetiche di tale particolarità
biblica e riflettiamo, invece, su quello che Gesù insegna riguardo
i dieci comandamenti.
L'evangelista Matteo narra che un giovane pose a Gesù una di
quelle domande che potrebbero disturbare: “Come ottenere la
vita eterna?”
Nell'Antico Testamento la vita eterna non è intesa come quella
che si ottiene dopo la morte, ma la vita vera, quella che “dura
sempre” ed è degna di essere vissuta perché rende l'uomo
contento di vivere. Non si parla, quindi, del paradiso “celeste”,
ma di come si può essere felici di vivere soprattutto sulla terra, e
per sempre!
Secondo voi come si può raggiungere la massima felicità
terrena?
Gesù rispose che se vogliamo essere uomini veri, abbiamo già a
disposizione dei comandamenti e proprio su quelli, Gesù, il
Figlio di Dio, ignora i primi, quelli religiosi, quelli che ordinano di
- 39 -
santificare Dio. Il carpentiere Gesù di Nazareth non finisce di
stupire!
La Religione è un'insieme di atti religiosi da fare? È un elenco di
azioni da non fare? Dio ha bisogno di essere solo santificato?
Secondo Gesù, no. La religione non è semplicemente Pater, Ave..
e Gloria, ma un “vieni e seguimi”.
Secondo l'antica legge di Mosè i dieci comandamenti seguivano il
seguente ordine:
1.
amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore…, non
avrai altri dei di fronte a me, non ti farai alcuna
immagine… ;
2.
il nome del Signore è Santo (non bestemmiare);
3.
santifica il Sabato fatto per l'uomo.
Il quarto e i successivi sarebbero stati nel seguente ordine
tradizionale:
4.
onora tuo padre e tua madre;
5.
non uccidere;
6.
non commettere adulterio;
7.
non rubare;
8.
non pronunciare falsa testimonianza;
9.
non desiderare la donna d'altri;
10.
non desiderare tutto quello che appartiene al tuo
prossimo.
I comandamenti di Gesù sono in realtà cinque e il sesto,
completamente nuovo, è quello di amare il prossimo come se
stessi.
1. Non uccidere!
Un giorno incontrai un “vecchio” amico, Dott. Winfried
Schibalski noto psichiatra che ha studiato attentamente per
circa 25 anni i casi più drammatici di criminalità giudiziaria in
alcuni paesi d'Europa: omicidi feroci contro i propri figli, atroci
violenze sessuali con torture…; criminali che la società
istintivamente vorrebbe consegnare subito alla pena di morte e
senza ripensamento.
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Dopo avergli consegnato da leggere in anteprima di stampa
questo libro, mi invitò più volte nella sua villa. Un giorno lo andai
a salutare, la conversazione con lui si fece lunga e molto
interessante, quello che mi colpì maggiormente fu una frase che
vi voglio consegnare per suscitare dibattiti.
“Ho analizzato attentamente migliaia di casi umani orribili e
atroci, ma non ho mai conosciuto dei mostri, solo persone
orribilmente segnate nella loro infanzia o giovinezza
(sottolineando a più riprese solo persone!).
Nessun uomo nasce feroce, cattivo, violento, criminale, lo
diventa a causa delle orribili esperienze nel suo più intimo
gruppo di appartenenza.
Nessuno impara ad amare se non si è mai sentito veramente
amato e benevolmente accanto nell'intimo gruppo in cui
appartiene! “
Di chi è la vera colpa di tante atrocità umane?
Il problema principale sembra essere quello di riuscire ad
imparare ad amare anche se non sempre ci si sente amati
nell'intimo gruppo di appartenenza.
Forse per imparare ad essere innamorati della vita potrebbe
essere necessario valorizzare tutto quello che è essenziale,
imparare a dare un nome ai nostri sentimenti, imparare a
donarli. Ciò che è importante non è la bella immagine esteriore
ma quelle risorse sentimentali che potrebbero essere presenti
nel cuore di ogni uomo “velato” dall'orgoglio. L'origine di tutti i
mali è l'orgoglio.
Secondo questo brano evangelico il primo comandamento in
assoluto, elencato da Gesù è, quindi, non uccidere. Che cosa può
significare?
Non uccidere è come affermare: “ama la vita!”. Se vogliamo
essere uomini veri dovremmo amare tutto ciò che vive (piante,
animali, uomini.. ), dovremmo essere innamorati della vita,
soprattutto della vita degli uomini, non solo di quelli belli,
simpatici, intelligenti, di buona famiglia, religiosi. E gli altri?
Secondo Gesù occorre amare la vita di ogni uomo al di là di ogni
ulteriore distinzione, anche di coloro che consideriamo
moralmente cattivi.
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1 bis. La pena di morte
Le affermazioni riportate nel paragrafo precedente dello
psichiatra Schibalski ci conducono subito a riflettere sulla pena
di morte.
In certe situazioni di atroci criminalità chi sono i veri
responsabili?
L'uomo comune preferisce istintivamente colpire l'omicida
mediante la pena di morte, in altre parole predilige uccidere la
persona fisica senza minimamente preoccuparsi di come
eliminare o “curare” le cause che hanno condotto quella persona
a compiere gravi delitti. Davanti a certi insopportabili desideri di
vendetta la ragione umana non è più controllabile, sembra non
esistere.
Nella Bibbia Caino, davanti alla sua insopportabile gelosia,
preferì uccidere suo fratello Abele; davanti al giudizio di Dio
rispose che non sapeva quello che aveva fatto!
L'uomo è sempre libero di scegliere? Di chi è la vera colpa?
La Bibbia risponde che Dio chiede ad ogni uomo:
“Dov'è tuo fratello?”
Ogni uomo, quindi, secondo la Bibbia, ha la responsabilità di
essere custode di qualsiasi uomo.
Ci si potrebbe chiedere se nel desiderio di vendetta messo in atto
con la pena di morte vi sia nascosto anche il desiderio di cercare
il “capro” espiatorio della società: colui che deve subire e pagare
per tutti le colpe della società (le nostre indifferenze, i nostri
silenzi e non “curanze”).
Se in un palazzo condominiale vi è un appartamento con un
genitore che maltratta orribilmente un figlio, quanti sono gli
abitanti degli appartamenti vicini che si rivolgono al telefono
azzurro o altro? Se quel bambino un giorno da adulto compirà un
atto criminale, quanti saranno i veri colpevoli?
Quanti gli augureranno la pena di morte?
Forse i primi saranno coloro che abitavano vicino al suo
appartamento.
La pena di morte si trova in quasi tutti i codici dell'antichità e del
- 42 -
Medioevo, era applicata in una lunga serie di casi ed era spesso
eseguita in modo crudele ed atroce: rogo, crocifissione,
strangolamento, squarciamento, lapidazione, impiccagione,
ghigliottina, etc. Purtroppo anche alcuni uomini della Chiesa
terrena si sono macchiati, in quel periodo storico, di tale
responsabilità.
Nel ventesimo secolo la pena di morte viene eseguita mediante la
sedia elettrica, la fucilazione, l'iniezione letale o la camera a gas
(ricordiamo l'olocausto degli ebrei per l'intolleranza razziale).
La pena di morte era ritenuta giusta e necessaria per dare
sicurezza alla società, si riteneva che servisse come esempio
capace di distogliere dall'intenzione di commettere gravi delitti.
È proprio così?
2. Non commettere adulterio
Nel nostro organismo abbiamo una preziosa energia che Freud
ha chiamato libidine: le pulsioni sessuali. Essa è positiva perché
è dono di Dio. Originariamente buono ma tale “energia” si può
usarla per fare del male. Quando? Il dibattito è aperto.
Esistono persone che si limitano a vedere solo una parte
dell'uomo, non la sua storia, il suo volto, i suoi sentimenti.
Sembra che alcuni vivono come se esistesse solo il modo
primitivo di vita sessuale: l'orgasmo. Voi che ne pensate? È
proprio vero? Quale significato ha assunto la parola amore nel
linguaggio corrente della pubblicità? Perché?
3. Non rubare
Tale comandamento è l'affermazione del diritto alla proprietà
privata.
Gesù insegna che dovremmo usare tutti i doni ricevuti,
l'intelligenza, la forza, etc… per trasformare il creato.
Come Dio ha creato il mondo anche l'umanità (sua immagine e
somiglianza) dovrebbe continuare a creare e a trasformare il
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mondo.
Il carpentiere Gesù, prima di annunciare chi era e perché è
“venuto” nel mondo, lavorava per guadagnarsi da vivere.
Gesù era il figlio del “Principale” (Dio) eppure non è vissuto di
rendita come i figli della borghesia.
Non rubare significa che bisogna lavorare e meritarsi con le
proprie fatiche il piacere della proprietà privata.
4. Non pronunciare falsa testimonianza
Tale comandamento significa “ama la verità”.
Per essere uomini liberi sembra necessario cercare la verità a
tutti i costi; ciò che la nasconde è spesso nostro orgoglio, la
paura di andare contro corrente e, per tale motivo, di essere
rifiutati dalla società.
Di solito si nasconde qualcosa che riteniamo brutto, vogliamo
nascondere i nostri punti deboli.
Possono esistere problemi che vogliamo assolutamente ignorare
perché ci disturbano. Si preferisce stare con i propri simili, con lo
specchio della nostra immagine, non con coloro che hanno già
vissuto certe esperienze e possono porci delle domande
incalzanti che ci mettono in discussione, ci inquietano.
Non sopportiamo che qualcuno ci indichi le realtà per noi
scomode; vogliamo dimenticare quella persona al più presto
possibile, vogliamo liberarcene. Forse l'esempio che ora riporto
non è elegante, ma dovrebbe dare bene l'idea. Ci comportiamo
come gatti che “la fanno…, la annusano e poi la coprono per non
vedere”.
Questo comandamento considera molto importante essere se
stessi.
5. Onora il padre e la madre
Questo comandamento è quello più fastidioso per i giovani che
desiderano, senza sacrifici, la totale indipendenza, la libertà, o
altro.
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Per alcuni giovani la famiglia può diventare un parcheggio, un
albergo, un luogo per mangiare e dormire, per ottenere cose
terrene: la “mancia”, i quattrini per andare a divertirsi, per
acquistare la moto o l'automobile, o altro. Onorare i genitori
significa fare del proprio meglio per stabilire un dialogo
amichevole e sincero con loro.
Nessuno ha scelto i propri genitori; da essi abbiamo ricevuto il
dono di esistere, anche questo senza averlo scelto.
Quando un genitore ha un carattere molto difficile, superbo,
possessivo, orgoglioso, avaro, che fare? Per un insegnante non è
difficile constatare che purtroppo esistono genitori che vivono
come se non avessero figli e coniuge, oppure come se i figli
fossero una loro proprietà assoluta.
Esistono “padri” che si sentono tali solo perché non fanno
mancare nulla di materiale alla famiglia, ignorando che la gioia
dei familiari potrebbe essere maggiore donando loro beni
“spirituali”: sentimenti e dialoghi amichevoli, non autoritari…
A tale proposito ricordiamo: “i figli si comportano da figli solo
quando i genitori si comportano da genitori e da marito e moglie”.
Voi che cosa ne pensate?
Quando i genitori si comportano realmente da genitori?
Se un figlio nasce da genitori criminali, privi di sentimenti umani
verso i figli, che cosa può significare per lui onorare i genitori?
La parola ebraica onorare è vicina al significato di “curare”,
prendersi cura, fare attenzione; perché i genitori, nonostante i
loro eventuali numerosi difetti, ci hanno dato la possibilità di
esistere e di realizzare un progetto d'amore.
6. Ama il prossimo tuo come te stesso
“Vieni e seguimi”
Infine Gesù usa due verbi imperativi: vieni e seguimi. Se vuoi
essere uomo vero, compiuto e soddisfatto, devi metterti a servizio
di un valore. Non è sufficiente essere felici, ma occorre avere un
motivo per esserlo, non importa quale, politico, culturale,
sociale, artistico, ecologico…, occorre un motivo, poi ti insegno
come.
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Come? Gesù rispose che “se vuoi essere perfetto, va', vendi
quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo.”
Avete compreso cosa disse quel rivoluzionario carpentiere di
Nazareth?
Vendi il tuo motorino, la tua bella macchina, il vestito di marca e
avrai un tesoro nei cieli. Udito questo, il giovane se ne andò
triste, poiché aveva molte ricchezze.
E noi? Come avremo reagito? Cosa penserebbero i figli della
borghesia, quelli che vivono solo di rendita, di questo messaggio?
E quelli che non sono figli della borghesia, ma che vivono come
sognando di esserlo?
Sono realmente i figli della borghesia? Voi che ne pensate?
Il dibattito è aperto.
(Quest'ultimo argomento sarà affrontato nel prossimo corso)
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8° incontro ( martedì 22 gennaio )
Difficoltà psicologiche della religiosità
al giorno d'oggi
Introduzione
Può capitare che certi comportamenti apparentemente molto
religiosi in realtà non siano il frutto di una scelta libera, ma siano
legati a esigenze psicologiche anch'esse importanti nella vita.
Può capitare che una parte della psiche (es. l'affetto), per cause
storico-ambientali e soprattutto familiari, possa essere
disturbata nel suo cammino di crescita e “fissarsi” ad un livello
immaturo.
A volte potrebbe capitare che il cambiamento da una religione a
un'altra sia il bisogno di opporsi alla religione dei genitori.
Alcuni possono trovare nella religione qualche inconsapevole
soluzione ai loro problemi psichici. In un individuo infantilmente
“fissato” su qualcosa vi potrebbe essere il segno di un arresto
nello sviluppo psicoaffettivo.
Anche il comportamento religioso potrebbe dipendere da tali
difficili esperienze affettive.
L'immaturità psicologica potrebbe ostacolare la serena crescita
affettiva verso la maturità religiosa: la gioia di amare Dio anche
nelle persone difficili.
Il Dio del depresso
Un certo grado di malinconia può essere un normale turbamento
dell'umore, che scade nella depressione quando non è più
possibile ripristinare l'equilibrio affettivo di cui ogni persona ha
bisogno per vivere.
- 47 -
Accanto alla tristezza, alla poca stima di sé, al disinteresse e alla
scarsa capacità di iniziativa, sono spesso presenti nel depresso
sentimenti di insicurezza, senso di indegnità, irrequietezza,
ansia; quasi costanti l'insonnia (risvegli precoci), la diminuzione
del desiderio sessuale, l'affaticabilità; frequenti i disturbi come il
mal di testa, le vertigini, il vomito o altre turbe funzionali,
comprese quelle cardiovascolari. Spesso, specie nelle forme più
gravi, si presentano fantasie autolesive che possono sfociare in
tentativi di suicidio.
Insomma il depresso è decisamente una persona che sta molto
male moralmente e fisicamente.
Non si può rimanere indifferenti davanti al suo malessere!
I depressi hanno spesso uno schema molto rigido nel vedere la
realtà.
La psicologia dl comportamento religioso consiglia di stare
attenti a non cadere nella trappola della commiserazione
spirituale .
Il Dio del depresso è spesso quello della croce, un Dio che dona
per poi togliere e che sembra privilegiare sempre e solo gli altri.
L'educatore spirituale dovrebbe avere la capacità di favorire
preghiere di respiro ampio e universale, che non consistano nella
contemplazione delle proprie miserie.
Il Dio delle personalità passive.
I passivi sono quegli individui che aspettano che gli avvenimenti
accadano da se. Sembra che non abbiano una volontà, si
identificano spesso con il gruppo di appartenenza e spesso si
affidano alla volontà altrui. Se si chiede loro che cosa vogliano
dalla vita, restano sorpresi e confusi, oppure danno risposte da
cui si comprende che alla fine sono gli altri a dover agire per loro.
In realtà la felicità dipende dagli altri, ma anche da se stessi.
Nelle persone “passive” Dio è spesso apprezzato come
misericordioso e paterno.
L'amore per Dio e per il prossimo rimane solo un buon
sentimento, senza la voglia di impegnarsi.
Di solito agli educatori spirituali è consigliato, in questi casi, di
far riferimento a un Dio-fuoco, un Dio amore che impegna, un
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Dio molto esigente.
Negli individui passivi possono esservi atteggiamenti di tipo
narcisistico e autodifensivo.
Il Dio dei “dipendenti”
Lo psichiatra Dacquino, professore di “Antropologia Sessuale”
all'Università Pontificia Salesiana di Torino, riflette, se pur a
volte in forma discutibile, sulla religiosità dipendente,
considerandola molto diffusa nelle comunità parrocchiali. È la
religiosità di chi ha difficoltà ad assumersi responsabilità o
nuove iniziative non si muove foglia che il parroco non voglia.
Tutto deve dipendere da lui, e ogni responsabilità è fatta ricadere
su di lui.
La religiosità “dipendente” potrebbe essere quella di certi fedeli
che hanno un forte bisogno di riferirsi passivamente al parroco,
fino a confonderlo quasi con “Dio”. È una religiosità simile alle
aspettative infantili di un bambino verso la madre; potrebbe
nascondere l' esigenza di sentirsi protetti dalla “Mamma” Chiesa,
mentre molti forti (onnipotenti), soprattutto per ottenere
protezione e aiuto.
Tali fedeli, definiti “immaturi” da Dacquino, sono
particolarmente attratti dalla Chiesa “materna” che decide tutto
senza mai sbagliare: per un bambino la mamma è infallibile!
I fedeli “dipendenti” potrebbero nascondere il bisogno di
compensare le proprie insicurezze, appoggiandosi all' istruzione,
al parroco o all' educatore.
Il loro profondo rispetto verso l'autorità religiosa potrebbe essere
non una rinuncia al proprio egoismo, ma la continuazione della
dipendenza infantile e poiché hanno molta paura della propria
libertà delle rispettive responsabilità che essa comporta, si
mantengono bambini dipendenti nei confronti dell'autorità
religiosa e nei confronti di Dio.
Dio, o l'autorità religiosa, diventa la medicina che compensa le
proprie insicurezze.
Scrive lo psichiatra Dacquino che una religione autentica
dovrebbe diffidare di tali presunti fedeli.
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Coloro che trovano sicurezza solo nella sottomissione al parroco,
li affidano molto volentieri tutte le iniziative e tutte le
responsabilità. Immaginate la simpatia e la stima che un parroco
può nutrire per loro.
Non di rado i Parroci approfittano di tali credenti insicuri, ma in
tale modo possono solo aggravare le loro inconsapevoli
insicurezze, non aiutarli.
Non è impossibile che tali devoti fedeli, sempre obbedienti al
parroco trascurino le loro famiglie con tutte le difficili
conseguenze di dialogo, non solo fra i coniugi, ma anche con i
figli. Tali genitori non dovrebbero stupirsi se i loro figli
presentassero odio o rigetto psicologico verso tutto quello che
riguardala religione. Una fede fanatica che non tollera il dubbio,
il confronto e il dialogo è segno di molta insicurezza, ma anche di
molta ignoranza in campo religioso.
Il fanatismo potrebbe rappresentare solo una gratificazione
personale con tendenze narcisistiche. Non di rado tali fedeli,
delusi da qualche parroco che ha messo in dubbio il loro
comportamento non sempre autentico verso la fede,
abbracciano qualche movimento o si inseriscono in altre
associazioni religiose cattoliche o addirittura si rivolgono ai
testimoni di Geova o a qualsiasi altro movimento integralista.
Il Dio del paranoide
Il paranoide percepisce il rifiuto o il dileggio (“la presa in giro”)
anche là dove non esiste; si aspetta di essere tradito da un
momento all' altro. Per capire chi è il paranoide cerchiamo di
rappresentarlo mediante un esempio.
Un girono un gentiluomo salutò un amico con un semplice ciao.
L' amico incominciò a riflettere se avesse detto ciao, oppure
miao!
Continuando nella riflessione disse tra sé che se avesse detto
miao, quello era il verso del gatto, il quale beve il latte. Ma il latte
lo produce una vacca. Dentro di sé continuo a dubitare se quel
miao volesse dire che lui era il figlio di una vacca. Insomma, si
comportava da paranoide a causa di un gesto gentile di saluto, e
continuò a star male per lungo tempo.
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Alcuni credenti che hanno tendenze simili a quelle del paranoide
si contraddistinguono per la scarsa stima di sé.
La paranoia trova spesso origine nella mancanza di fiducia in sé
stessi, favorita da un ambiente familiare,
particolarmente autoritario e talvolta anche molto crudele. Il
figlio è stato costretto a dover lottare contro i suoi sentimenti di
rifiuto, di svalutazione, contro le sue paure e ansie.
Da qui, forse, la difficoltà a credere nella presenza di un Dio
buono, misericordioso e fedele.
Tuttavia i credenti che hanno tendenze paranoiche sono spesso
ricchi di intuizioni e hanno grande sensibilità. Le loro riflessioni
sulla parola di Dio sono spesso molto interessanti e profonde.
In questo ambito la guida dovrebbe favorire gli atteggiamenti
fondamentali della fiducia e dell'abbandono. Sembra che l'
amore sia la migliore terapia per tali persone: hanno bisogno di
essere bene accolti, amate, valorizzate, favorite e apprezzate
(l'opposto dell' esperienza vissuta con i genitori).
Tale terapia dovrebbe essere l'impegno di ogni cristiano nei
confronti di tutti e non solo dei paranoici.
Il Dio del narcisista
Il narcisista è colui che sente un eccessivo compiacimento per le
proprie qualità, per le proprie belle azioni: continua a nutrire la
stima di sé cercando l' approvazione degli altri.
I suoi legami con le altre persone sono tipicamente utilitaristici,
il suo stile di vita è un “usa e getta”. Non è capace di mostrare
sentimenti di tristezza, non riesce a dire qualcuno “ti voglio
bene”. In realtà nel profondo di sé stesso, spesso in modo
consapevole, vive rabbia, gelosia, invidia, competitività,
disprezza ciò che gli altri hanno e lui non ha. Più di tutti cerca di
sfuggire alla realtà ed è totalmente impreparato ad affrontare le
vicende dolorose della vita. Per tale motivo è il più fragile. Tutta la
sua vita è organizzata per evitare di rendersi conto che esistono
anche la morte e i suoi limiti.
Paradossalmente il Dio dei fedeli narcisisti è l' essere
Onnipotente (che può compiere tutto). In Lui possono trovare lo
scopo della vita soprattutto nello soddisfare i proprio desideri, e
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nel proteggersi dai pericoli. È un Dio al proprio servizio. Per i
narcisisti la fede, intesa come esperienza di attesa, di pazienza,
di ascolto, è insopportabile. L' impazienza potrebbe essere vista
come la risposta aggressiva di fronte ad un attacco alla loro
presunta onnipotenza. L'impazienza è la dimostrazione che non
sono poi così onnipotenti.
La guida spirituale è forse per loro l'unica occasione per sentirsi
rivelare la loro limitata realtà.
Il Dio del disorganizzato
Mentre il narcisista è incapace di dipendere da una persona e
dunque sfugge dall'esperienza dell'innamoramento, il
disorganizzato tende a cercare nelle persone la piena dipendenza
in modo insaziabile. Per tale motivo non è disposto nella sua
esperienza di fede ad accettare quei possibili vuoti incolmabili
che nessuna creatura può soddisfare. Non può sopportare Dio
come unico sovrano della solitudine.
Il Dio del disorganizzato è un Dio inattendibile, che potrebbe
lasciarci soli proprio quando si ha più bisogno di Lui.
Di fronte alla paura della solitudine il disorganizzato disposto a
correre dietro a qualsiasi persona, spesso percepita in modo
distorto. Egli è disposto a tutto pur di colmare un vuoto. In realtà
non vi sono amici, ne coniugi che possano saziare interamente i
nostri bisogni. Egli tende a correre dietro falsi amori
rassicuranti.
Più è grande la disorganizzazione maggiore è la paura di
rimanere soli.
E gli atei?
Come esiste una religiosità immatura e una religiosità autentica
e equilibrata sul piano psicologico, così esiste un ateismo
immaturo o nevrotico e un ateismo equilibrato. Gli atei che
possono nascondere inconsapevolmente qualche disturbo
psicologico sono altrettanto numerosi dei credenti immaturi.
L'ateo nevrotico è caratterizzato dal fatto che il suo ateismo è
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irragionevole. Anche negli atei vi può essere la più totale
intolleranza, fino a diventare aggressivi verso qualsiasi
argomento religioso. Spesso si accontentano di idee molto
superficiali sulla religione e evitano di verificare le vere origini del
loro ateismo, anzi ne hanno paura. Anche nell'ateismo si può
nascondere la ribellione verso le autorità sociali; altro non è che
l'inconsapevole proiezione dei sentimenti di ribellione verso i
genitori. Rinnegare Dio può, in diversi casi, equivalere al
rinnegamento del padre terreno. La stessa bestemmia potrebbe
corrispondere ad uno sfogo inconsapevole di aggressività non
superata verso un familiare.
Musatti riuscì a dimostrare che psicologicamente i più violenti
negatori di Dio sono coloro in cui è più vivo il senso della divinità.
Se fossero davvero convinti che Dio non esiste, perché tanto
furore sentimentale?
L'ateismo nevrotico è spesso una reazione di difesa simile a
quella prodotta da una religiosità immatura.
Per concludere questo argomento va sottolineato che le stesse
nevrosi in alcuni credenti possono essere presenti anche negli
atei all'interno del loro movimento circolo o associazione
patristica.
Dal punto di vista sociologico si può osservare che anche
l'ateismo, quando è trasformato in una istituzione, presenta le
stesse caratteristiche di comportamento sociale di una religione.
Osserviamo questo confronto tra gli elementi caratteristici di
una religione e quelli una istituzione che promulga l'ateismo.
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9° incontro ( martedì 29 gennaio )
Cattolici e protestanti
Lutero e S. Francesco
Nel 1517, il 31 ottobre, avvenne qualcosa di strano sul portone
della chiesa di Wittemberg. I fedeli non videro i soliti avvisi
religiosi, ma un manifesto che conteneva 95 tesi preparato da un
monaco agostiniano professore di teologia all'università di quella
città. Quel monaco era Martin Lutero, nato in Germania ad
Eisleben nel 1483
Nel 1511 avevo intrapreso un viaggio a Roma per incarico del suo
convento, e dopo aver osservato l'eccessivo fasto della corte
pontificia e la vita lussuosa di molti nobili ecclesiastici ne ritornò
indignato e scandalizzato. Con le 95 tesi pubblicate nel
manifesto, il monaco si proponeva essenzialmente 2 scopi:
accusare i nobili ecclesiastici che non adempivano il loro dovere
internamente alla Chiesa, rendere pubblico il suo nuovo
pensiero in materia di dottrina religiosa. La sua intenzione
primaria era quella di riportare i fedeli allo spirito delle prime
comunità cristiane. Ma egli esagerò con quelle tesi
completamente contrarie a ciò che la Chiesa Cattolica insegnava
da secoli.
San Francesco d'Assisi con il suo stile di vita povera, condannò
fortemente il lusso della corte pontificia e dei nobili ecclesiastici,
ma non propose una nuova dottrina religiosa in contrasto con
l'insegnamento della tradizione apostolica (forse non era in
grado di farlo?).
S. Francesco volle rimanere nella Chiesa e le sue idee di vita
semplice e povera furono testimoniate dalla sua stessa vita
vissuta nella fede e nella povertà più estrema. Non fu così per il
monaco Lutero il quale, rinunciando la vita monacale, non visse
di certo nella povertà più estrema, e neppure accettò
l'insegnamento dottrinale della tradizione apostolica cristiana.
Papa Leone X fu costretto ad esigere dal monaco ribelle un
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ripensamento sulle sue posizioni chiaramente eretiche e lo invitò
a recarsi a Roma entro 60 giorni. Martin Lutero fece sapere che
non avrebbe mai rinunciato alle sue idee dottrinali che
conquistavano sempre più i fedeli di quella città.
Leone X fu costretto a lanciare contro Lutero la scomunica, vale a
dire che non è possibile considerarlo parte della comunione con
la Chiesa Cattolica distinguibile dai sacramenti. Ben presto il
popolo, anche se non era in grado di comprendere le sue
meditazioni dottrinali contro quelle cattoliche, lo considerò un
monaco coraggioso per essersi ribellato contro gli abusi dei
ricchi ecclesiastici nei confronti dei poveri e, in quel modo,
divenne protettore dei poveri. Neppure l'imperatore Carlo V
riuscì nel 1529 a costringere Lutero ad abbandonare la sua
nuova dottrina religiosa.
Papa Palo III convocò a Trento un Concilio e come per rispondere
ai gravi interrogativi dottrinali posti da Lutero, ma Lutero non vi
partecipò e continuò a predicare la sua dottrina fino al momento
dalla sua morta avvenuta nel 1546. Molto spesso Lutero è noto
solo per la sua protesta contro la gerarchia della Chiesa Cattolica
(Vescovi e Cardinali che investivano i titoli nobiliari di Marchesi,
Duchi, ecc.) desiderosa di potere politico ed economico che
spesso abusava della semplicità e dell'ignoranza dei fedeli.
Fino a questo punto non è detto che Lutero abbia avuto tutti i
torti. Ci provò anche S. Francesco, istituendo un ordine religioso
il quale, come ben si sa, oggi non è certo fra i più
economicamente miserabili nella Chiesa (indipendentemente
che i monaci continuano a vivere in modo semplice). Quello che
invece i cristiani sanno poco è la differenza tra il pensiero
dottrinale di Lutero con quello cattolico.
La nuova dottrina Protestante
Sostanzialmente la si può riassumere in due grossi principi:
1. Non occorrono la Chiesa e i sacerdoti per interpretare le
verità contenute nelle Sacre Scritture. Ogni credente
può interpretarle come gli "piace" liberamente.
2. Non è necessario compiere opere buone e ricevere i
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sacramenti per salvare la propria anima, perché è
sufficiente la solita fede in Dio nelle sole Sacre Scritture.
L'uomo non è in grado di compiere opere buone perché è
totalmente corrotto dal peccato originale. La salvezza avrebbe
pensato solo a Gesù Cristo che, come un "mantello", copre
davanti a Dio le vergogne umane di coloro che hanno fede. Tutti
gli uomini sono resi orribilmente sporchi dall'egoismo, e non
possono avere meriti davanti a Dio perché non sono in grado di
amare sinceramente e perfettamente. Questi due principi
fondamentali della nuova dottrina Protestante comportano
come conseguenza la perdita di ogni autorità per la Chiesa; i
Sacramenti divenivano solo cerimonie senza significato. Oggi i
protestanti, che sono circa 200 milioni sparsi in tutto il mondo, a
differenza dei cattolici non accettano altra guida all'infuori della
Bibbia.
Per tale motivo hanno avuto maggiore difficoltà nel dialogare con
le religioni non cristiane, mentre è stato per loro molto più facile
aprirsi per primi a un dialogo fra le diverse dottrine cristiane
(Protestante, Ortodossa e Cattolica), con le quali hanno in
comune la fede in Cristo Risorto. E' ovvio che non è stato così
facile per i cattolici dialogare con loro, in quanto i cattolici
sottoliano i meriti e l'impegno umano dell'amore vissuto nella
fede. I protestanti non riconoscono nel Papa l'autorità di
successore di Pietro e di vicario di Cristo. Inoltre non
riconoscono il culto dei Santi, delle reliquie, di Maria.
I protestanti non credono nel purgatorio e nelle indulgenze. La
confessione avviene rivolgendosi direttamente a Dio in privato.
Gli unici "sacramenti" riconosciuti sono il battesimo e
l'Eucarestia, ma con presupposti dottrinali molto diversi.
I pastori protestanti hanno la possibilità di sposarsi.
Alcune caratteristiche generali della dottrina
Protestante
1. La salvezza
Si ritiene che l'uomo sia totalmente corrotto dal peccato originale
e per tanto totalmente incapace di salvarsi: la salvezza
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avverrebbe solo per meriti del sacrificio di Cristo, non per quelli
degli uomini.
Per esprimere meglio il pensiero usiamo un esempio figurato:
Cristo, come un "mantello" coprirebbe davanti agli occhi di Dio
Padre tutte le vergogne umane (salvezza esteriore o estrinseca). I
"coperti"(salvati) dai vergognosi peccati sarebbero solo coloro
che hanno fede in Cristo e nelle Sacre Scritture. La salvezza
dell'uomo, quindi, avviene solo mediante la fede in Cristo nelle
sole Sacre Scritture (Bibbia ebraica e Nuovo Testamento), ma
non attraverso le opere.
2. Il pane e il vino
L'ultima cena di Cristo è per i protestanti il fatto storico avvenuto
solo una volta e per sempre; è da ricordare, inoltre la presenza di
Cristo è accanto al pane e al vino. La liturgia dell'ultima cena che
celebrano, quindi, è solo il solenne ricordo, non un sacramento.
L'eucarestia è una consustanziazione: la presenza reale di Cristo
è con il pane e con il vino (accanto, vicino esteriormente, non
interiormente come nella dottrina Cattolica).
3. Il sacerdozio
Lutero approfondì la dottrina del Sacerdozio Universale legata a
quella della libera interpretazione delle Scritture. Un caposaldo
della sua dottrina era l'infallibilità della Bibbia, considerata
come solo fonte di verità.
Lutero arrivò a concludere che non è necessario una cassa
sacerdotale, essendo ciascun cristiano un sacerdote rispetto la
comunità in cui vive. Ogni uomo può predicare la Parola di Dio e
la distinzione fra "clero" e "fedeli laici" viene così eliminata, anche
se non vengono eliminati i Pastori nella comunità,
indispensabili, secondo lui, in una società ben organizzata.
Ma su tali considerazioni, i fatti presero presto una piega
decisamente diversa. Lutero divenne a poco a poco sempre più
dogmatico e intransigente, pretendendo in un certo senso, di
essere dotato di quella "infallibilità" che aveva tanto contestato al
Papa (fu chiamato "il Papa di Wittemberg"). Lutero consegnò ad
alcuni Sovrani di Stato la sua nuova dottrina della Chiesa
Riformata e così nacque la "Chiesa di Stato" che è l'opposto di
quella a cui la Riforma Protestante avrebbe dovuto condurre.
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Alcune caratteristiche della dottrina Cattolica
1. Libro arbitrio
Si ritiene che l'uomo sia libero di scegliere il bene e il male (libero
arbitrio); per tanto può meritarsi il Paradiso, non solo con i meriti
del sacrificio di Cristo. La salvezza non avverrebbe solo mediante
la fede nelle Sacre Scritture, ma anche mediante le piccole e
fragili opere umane d'amore: "i meriti".
La salvezza non è intesa come una "copertura" esterna di Cristo
(es. Mantello), ma come una trasformazione interiore del
cristiano (salvezza intrinseca o interna). L'uomo non sarebbe
solo "coperto", ma purificato interiormente. Dio non solo
"scende" verso l'uomo mediante Cristo. L'uomo "sale" per mezzo
di Cristo, ed è aiutato anche dai sacramenti voluti da Cristo
stesso. L'uomo quindi, può consegnare a Dio i suoi piccoli meriti
umani.
2. L'ultima cena
Ogni volta che si celebra l'ultima cena di Cristo si ripete si
realizza un nuovo sacrificio pasquale: il pane e il vino non sono
solo dei segni per ricordare, ma vi è dentro la misteriosa presenza
reale, non visibile, nel corpo e nel sangue di Cristo. Si verifica
una transustanziazione: la sostanza del pane e del vino, si
trasforma in quella del corpo e del sangue di Cristo, pur
rimanendo immutato l'aspetto esteriore (la forma).
Nell'eucarestia Cristo è colui che consegna all'uomo i doni di Dio,
ma è anche colui che dona a Dio i piccoli meriti dell'uomo. In
altre parole, i piccoli e deboli meriti umani sono sommati,
aggiunti, uniti in tutt'uno con quelli di Cristo. Per il Cattolico i
sacramenti sono importanti strumenti che lo aiutano a crescere
nell'intima comunione con Dio e quindi nell'esperienza
dell'amore che salva e libera l'uomo.
Tutto questo dipende anche dalla libera volontà di crescita dei
cristiani.
3. Il Sacerdozio Universale
Il Concilio Ecumenico Vaticano II nel primo documento
costitutivo ed dogmatico Lumen Gentium (abbreviato LG)
- 58 -
approfondisce e chiarisce la dottrina del Sacerdozio Universale
di Salvezza in tal modo:
·
Tutto il popolo di Dio (solo la Chiesa cattolica?) partecipa
dell'ufficio sacerdotale profetico e regale di Cristo è
"Universale Sacerdozio di Salvezza". Riportiamo
testualmente la seguente interessante affermazione: "il
sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o
gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e
non solo di grado, sono tuttavia ordinati una all'altro,
poiché l'uno e l'altro, ognuno a suo proprio modo,
partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdote
ministeriale (i preti, i vescovi...), con la potestà sacra di cui
è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il
sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a
nome di tutto il popolo; I fedeli, in virtù del loro regale
sacerdozio, concorrono all'offerta dell'eucarestia, ed
esercitano il loro sacerdozio col ricevere i sacramenti, con
la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di
una vita santa, con l'abnegazione e la carità operosa". (LG
10 b).
Secondo la dottrina cattolica si potrebbe affermare che:
o Il sacerdozio comune di ogni battezzato è di
partecipazione,
o mentre quello dei preti e dei vescovi è anche di servizio
ministeriale (dal lat. ministerium, da minister, servo,
ufficio o in carico moralmente elevato, assunto per
vocazione e prestato al servizio della comunità).
o Secondo il Concilio la Chiesa è anche "Universale
Sacramento di Salvezza".
Comunità principali di protestanti
1. Chiesa Luterana. È la comunità più numerosa e segue la
dottrina originale di Lutero. Conta oltre 85 milioni di
fedeli, prevalentemente in Germania.
- 59 -
2. Chiesa Calvinista. Nasce dal riformatore protestante
francese Giovanni Calvino, che si trasferì in Svizzera a
Ginevra per predicare i suoi sermoni (“prediche”). La
teologia di Calvino: Dio si configura come potenza e
sovranità assoluta, che si “autoglorifica” nel mondo.
Calvino è noto per la dottrina degli eletti predestinati da
Dio. Va ricordata la dottrina della “doppia
predestinazione”. L'uomo, una volta eletto da Dio, non
può ricadere (contrariamente all'opinione luterana) nella
perdizione; essere eletto da Dio non coincide con la
perfezione terrena, e l' eletto non è dunque “santo”, bensì
sempre in via sul cammino della propria santificazione.
Infine va ricordata la concezione Calvinista della Santa
Cena, che ammette la presenza reale di Cristo, si
differenzia da quella zwingliana che vede nell' eucarestia
una presenza semplicemente simbolica del Cristo, ma
anche da quella luterana, che vi vede una presenza
spirituale e non corporea del Cristo. La Cena veniva
celebrata a Ginevra quattro volte all'anno, mentre le
componenti del culto erano la predicazione, le preghiere e
il canto dei Salmi.
3. Chiesa Zuinglianista. Nasce da Ulrico Zuinglio (14841531), il quale volle liberare il cristianesimo da una
struttura dottrinale eccessivamente pesante e piena di
dogmi, per riportarlo a un più preciso impegno morale:
elimina quindi tutto ciò che non aveva conferma chiara ed
evidente nella matrimonio dei preti, abolì il culto alla
Vergine e ai santi; proibì il commercio delle immagini;
contestò l' autorità del papa e dei concili: negò alla Messa
il significato del Sacrificio. Zuingli ammetteva la
possibilità di una conoscenza ragionevolmente
percepibile di Dio, mentre Lutero la riferiva solo alla fede;
il peccato originale per Zuingli si riduceva a “un vizio
ereditario”, che non sminuiva la capacità di una buona
condotta morale dell'uomo, mentre in Lutero comportava
l'incapacità dell'uomo a compiere buone azioni. Secondo
Zuingli la salvezza si doveva estendere anche ai pagani
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osservanti la legge naturale; Lutero gli escludeva da ogni
salvezza. Nel 1521 Zuingli s'incontrò con a Marburgo con
Lutero per un colloquio “di religione”: tema specifico fu
l'Eucarestia. Lutero ammetteva la presenza reale del
Cristo vicino ed esternamente al pane e al vino, mentre
Zuingli la limitava a una semplice assistenza spirituale.
L'accordo non fu possibile.
4. Chiesa Anglicana. Fondata nel 1531 dal re d'Inghilterra
Enrico VIII. Da allora il sovrano è anche il capo della
Chiesa e ha la facoltà di nominare i vescovi. La Messa è
ridotta al solo rito della Comunione. La Chiesa è fondata
su 42 articoli della Bibbia e segue quasi tutti i principi di
Calvino. Ci si preoccupa di rifarsi alla più antica Chiesa
cristiana, così che <<la linea Protestante viene inglobata
all'interno di un sistema “Cattolico”>> (G. Bouchard). Le
dogmatizzazioni cattoliche, però, sull'infallibilità papale
proclamata nel Concilio Vaticano I e sull'assunzione
corporea di Maria in cielo (1950) non sono state accolte.
La Chiesa anglicana ha avuto la sua origine dallo scisma
provocato dalla richiesta che il re d'Inghilterra Enrico VIII
(1491-1547) aveva fatto al papa perché fosse annullato il
suo matrimonio con Caterina d'Aragona. Non avendo
avuto la concessione, Enrico decise di fare pronunciare
l'annullamento da un'autorità inglese.
Gli ortodossi
La Chiesa ortodossa rivendica l'eredità del patriarcato di
Costantinopoli, della grecità cristiana e, in essa, della “retta
dottrina” (ortodossia) formulata nei primi sette concili ecumenici
del cristianesimo.
La prima rottura ufficiale con Roma si ebbe sotto il patriarca
Fozio (863-867), seguita da quella definitiva del 1054, sotto la
guida del patriarca Michele Cerulario. Nel contempo si
rendevano indipendenti da Roma chiese (dette autocefale) create
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tra gli Slavi delle missioni bizantine dei Santi Cirillo e Metodio nei
regni di Serbia e Bulgaria. L'occupazione ottomana causò il
distacco del patriarcato di Mosca, mentre il patriarca d'Istanbul
otteneva dal nuovo regime il riconoscimento di capo religioso di
tutte le Chiese greco-ortodosse dei suoi domini.
Caratteristica fondamentale della Chiesa ortodossa è
l'accettazione, come fonte della fede, accanto alla Sacra
Scrittura, della Tradizione, riconoscendo però vincolanti solo i
primi sette concili ecumenici.
In che cosa credono gli ortodossi.
Nel Credo non è accettato il filioque della SS. Trinità: si crede
nella processione (“derivazione”) dello Spirito Santo solo
attraverso il Figlio e non anche attraverso il Padre.
Maria è venerata come la Madre di Dio (theotokos) e
corredentrice.
Nella dottrina, come nella liturgia, si dà molta importanza allo
Spirito Santo, alla “divinizzazione” che esso opera nei fedeli. La
dottrina (teologia) si è fermata al pensiero degli antichi Padri
della Chiesa sotto l'influsso filosofico del platonismo. I sacerdoti,
ma non i vescovi, posso essere sposati.
L'arte religiosa è dominata dal culto delle immagini (icone).
Escludendo i nestoriani e i monofisiti, la Chiesa ortodossa oggi
comprende: il patriarcato di Costantinopoli, la Chiesa sinodale
greca di Atena e quella di Cipro; la melchita (in territorio arabo)
coi patriarcati di Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e del
Sinai; le Chiese slave del patriarcato di Mosca, dell'autocefalia di
Polonia, ex - Iugoslavia, Bulgaria con larga dispersione in varie
parti; le Chiese ortodosse di Romania e della Georgia.
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10° incontro ( martedì 5 febbraio )
Perché San Giuseppe volle,
inizialmente, divorziare da Maria
Un crudele dubbio
Quando racconta l'infanzia di Gesù, l'evangelista Matteo ci
ricorda come San Giuseppe fu sul punto di divorziare dalla sua
sposa Maria, perché seppe che ella era incinta e che il figlio che
attendeva non era suo.
Leggiamo il testo biblico:”Maria, essendo promessa sposa di
Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta
per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, che era giusto
e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre
stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un
angelo del Signore e gli disse:”Giuseppe, figlio di Davide, non
temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è
generato in lei viene dalla Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e
tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi
peccati” (…) Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva
ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa” (Mt
1,18-24).
I Cristiani hanno sempre provato un certo disagio a riflettere sul
drammatico momento che la Sacra Famiglia dovette vivere in
quell'evolversi concitato dei fatti; perciò, ci è lecito domandarci:
Giuseppe dubitò realmente dell'onesta della sua sposa? Pensò
veramente che gli fosse stata infedele con un altro uomo?
Quanto tempo visse torturandosi in silenzio, senza sapere che il
bambino che ella portava in grembo era stato concepito dalla
Spirito Santo, finché un angelo gli raccontò la verità? E perché
Maria non glielo riferì prontamente, dal momento che nessuno le
aveva proibito di farlo, e dal momento che la sua gravidanza
aveva conseguenze sul suo rapporto sponsale con Giuseppe?
Perché Dio annunciò soltanto a lei la gravidanza verginale e non
a Giuseppe? Lo fece soltanto per non modificare il suo amor
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proprio, la sua dignità? E perché Giuseppe volle abbandonare
Maria in segreto?
Matrimonio in due tempi
Possiamo tentare di rispondere a questi interrogativi che
abbiamo testé esposto e che emergono dalla lettura del racconto
del evangelista Matteo.
Per fare ciò dobbiamo tenere conto delle consuetudini di
quell'epoca attinenti al matrimonio. Gli ebrei si sposavano
generalmente piuttosto presto, verso i 18 anni gli uomini e verso i
13 le ragazze. Gli stessi rabbini assicuravano che “Dio maledice
il giovane che a 20 anni non si è ancora sposato “ e, trattandosi di
un'età cosi prematura, rispetto ad un età avanzata, ritenuta più
“saggia” e “posata”, la scelta del partner di ciascuno dei futuri
coniugi era effettuata dai genitori. Per giustificare questa
consuetudine, le cui radici storiche si perdono nella notte dei
tempi, gli Israeliti sostenevano il principio che era Dio stesso, in
cielo, che concretizzava le unioni matrimoniale 40 giorni prima
della nascita di ogni bambini, e che poi comunicava il fatto ai
genitori; vi è tuttavia da ricordare che non erano affatto isolati i
casi in cui erano i giovani, senza l'intervento dei genitori, a
scegliere le loro future spose.
Concretizzata la scelta del partner, veniva realizzata la prima
fase del matrimonio “qidushin” (che significa “consacrazione”).
Era una specie d'impegno formale, con cui la ragazza rimaneva
consacrata per sempre al suo futuro sposo; in realtà, gli sposi
non potevano ancora vivere insieme a causa della giovane età
della ragazza, non ultimo il fatto che entrambi quasi non si
conoscevano.
Il periodo del cosiddetto qidushin durava generalmente un anno,
e i giovani erano considerati già veri e propri sposi al punto che,
se in questo periodo la ragazza si univa carnalmente a un altro
uomo era considerata a tutti gli effetti un'adultera, e se fosse
morta, il ragazzo veniva considerato vedovo.
Trascorso l'anno del qidushin veniva dato corso alla
realizzazione della seconda parte del matrimonio chiamata il
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nissuin, nella quale, dopo una grande festa, che poteva durare
anche diversi giorni, la giovane era condotta in processione alla
casa del suo sposo perché entrambi potessero iniziare la vita di
comunione tra loro.
La notte buia di Giuseppe
Da quanto abbiamo appena riferito, dovette essere stato tra il
qudishin e il nissuin cioè tra la prima e la seconda fase del
matrimonio, il momento in cui Maria rimase incinta per opera
dello Spirito Santo. Matteo ce lo conferma con queste parole:
“Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che
andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito
Santo” (Mt 1,18-19).
Che cosa accadde allora tra questi santi sposi? Non lo sappiamo
e Matteo non lo dice, perciò non ci aiuta affatto. Possiamo
soltanto immaginare il dramma esistenziale che visse Giuseppe,
tormentato dai sospetti d'infedeltà della sua sposa, la cui
angoscia Dio non ebbe la bontà di risparmiare, e non ultimo, la
pena di Maria che vedeva soffrire ingiustamente il suo sposo, ma
rimaneva in silenzio per il timore di non essere compresa
adeguatamente e appieno se gli avesse spiegato un fatto di così
straordinaria attuazione.
Questo periodo della vita di Giuseppe e Maria impressionò tanto
l'animo e l'immaginazione dei cristiani, che alcuni cercarono di
ampliare quei drammatici momenti mediante nuovi racconti,
mediante nuove situazioni che sono entrate a far parte
dell'immaginario della prima comunità ecclesiale di quel tempo.
Il dialogo angoscioso
Uno di questi racconti si trova nel vangelo apocrifo detto
“Protovangelo di Giacomo”. In esso, troviamo il racconto di come
Maria, trovandosi in visita in casa dalla parente Elisabetta,
sentisse il suo ventre crescere giorno dopo giorno. Afflitta per
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questo fatto che l'avrebbe socialmente compromessa, e che
avrebbe compromesso il legame sponsale con Giuseppe, ella
intraprese il viaggio di ritorno verso la sua città, e là si nascose.
Trascorsi circa 7 mesi di gravidanza, Giuseppe ritornò da un
lungo viaggio di lavoro e trovò Maria in stato interessante.
Proviamo dunque ad immaginarci l'evolversi della situazione.
Piangendo con amarezza, Giuseppe dovette sicuramente
rimproverarla: “Perché hai fatto questo? Perché hai macchiato
così la tua anima, tu che sei stata allevata nel tempio di Dio e hai
ricevuto il tuo alimento dalle mani di un angelo?”. Maria, tra le
lacrime, deve avergli risposto, ma senza essere creduta più di
tanto: “Io sono pura, non ho avuto rapporti con alcun uomo”. E
Giuseppe rimbrottandola: “Da dove proviene allora quello che c'è
nel tuo ventre?”. E Maria per fare appello ad un'estrema difesa:
“Ti giuro sulla vita del Signore mio Dio, che non so da dove
provenga questo”.
Le cose, però, si complicarono ancor più per il povero Giuseppe,
perché il giorno seguente un amico dei due venuto a conoscenza
dello stato interessante di Maria, denunciò il falegname al
Sommo Sacerdote riferendogli che “Giuseppe ha violentato la
vergine che doveva custodire e in segreto ha consumato il
matrimonio”.
Le “acque amare”
Il Sommo Sacerdote ordinò che entrambi gli sposi fossero
condotti al tempio ed ivi, con parole dure, li accusò di non aver
mantenuto la loro parola, ma, visto che piangevano e giuravano
su Dio di essere innocenti, decise di sottoporre Maria alla prova
delle cosiddette “acque amare”. Che cose erano mai le acque
amare?
Il libro dei Numeri (5,11-31) ordinava che se un uomo avesse
sospettato della fedeltà della sua sposa, e non ci fosse stato altro
modo per accertare la verità, costui doveva condurre la moglie al
tempio per sottoporla a una prova che consentisse di accertare la
verità senza confutazione. In quel luogo, in presenza di
testimoni, le venivano sciolti i capelli (che ogni donna morigerata
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di Israele portava raccolti) come primo gesto per svergognarla in
pubblico. Il Sommo Sacerdote prendeva poi un bicchiere d'acqua
e mescolava il liquido con polvere raccolta dal suolo, scriveva su
un rotolo di pergamena una serie di maledizioni e giuramenti,
scioglieva poi il rotolo e vi faceva scorrere l'acqua in modo che il
liquido si sporcasse dell'inchiostro usato per la scrittura e infine
raccogliendo un'altra volta il liquido del bicchiere lo porgeva alla
donna perché lo bevesse, dicendo nel contempo: “Se sei stata
infedele a tuo marito, se hai avuto rapporti con un altro uomo e
sei diventata impura, Dio faccia di te un oggetto di maledizione in
mezzo al tuo popolo, facendoti avvizzire i fianchi e gonfiare il
ventre”.
Non vi è dubbio alcuno che la descrizione di questo cerimoniale,
piuttosto barbaro nella sequenza dei fatti, ma soprattutto per la
violenza arrecata alla donna accusata, appartenesse ad una
legislazione e a un contesto culturale di marcata connotazione
maschilista: una messa in scena che, ovviamente, finiva sempre
per dare ragione al marito visto che una simile porcheria di
bevanda, qualunque donna avrebbe finito per intossicarsi, e di lì
a poco trovarsi con il ventre gonfio; ma l'autore apocrifo si guarda
bene di accomunare il destino di Maria a quello di qualunque
adultera perciò riferisce che quando Maria bevve dal bicchiere,
un improvviso splendore avvolse il suo volto e il suo viso si
trasfigurò in modo tale che i testimoni astanti e tutti colore che
l'avevano portata in giudizio, non poteva guardarla. Cosicché
tutti seppero che Maria era innocente.
Le ragioni del giusto Giuseppe
Questo lungo racconto apocrifo ci mostra fino a che punto
l'immaginazione dei primi Cristiani venne stimolata dal
paradossale episodio che descriveva come Giuseppe avesse
dubitato della sua verginale sposa.
E' però necessario che ci dedichiamo ad una riflessione su punto
più oscuro e misterioso di tutto il racconto. Perché mai Giuseppe
decise di allontanare Maria, lasciandola sola ed esposta al
pubblico ludibrio, proprio nel peggiore e più delicato momento
della sua vita?
Matteo spiega che questa circostanza è dovuta al fatto che
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Giuseppe era un cosiddetto “uomo giusto”; ma dobbiamo in
verità domandarci che rapporto esiste tra la giustizia di cui egli
si vantava e l'intenzione di abbandonare quella ragazza che, in
fin dei conti, era a tutti gli effetti la sua sposa. Sono state
proposte due teorie per spiegare la giustizia di Giuseppe:
La prima ci informa che Giuseppe credette che Maria avesse
compiuto un adulterio. La legge di Mosè ordinava che la donna
adultera dovesse essere ripudiata dal marito (Dt 22, 20-21) e
siccome Giuseppe era “giusto” cioè osservava la legge, decise
perciò di ripudiarla (abbandonarla, in buona sostanza), perché
in tal maniera egli osservava completamente la legge. Secondo
questa teoria, essere giusto significava osservare la legge, senza
per altro fare appello a qualunque sentimento di pietà,
benevolenza e di ragione al di là dell'apparato puramente
recitativo della norma legale. Questa ipotesi si scontra con un
inconveniente non trascurabile. La legge ordinava al marito di
ripudiare “pubblicamente la moglie infedele”. Giuseppe decise,
invece, di ripudiarla in segreto: ne consegue che l'uomo giusto
così facendo, non stava affatto osservando la legge di Mosè, anzi,
stava facendo proprio il contrario. Come si può dunque dire che
Giuseppe fosse un uomo che sapeva osservare la legge dei padri
di Israele?
Nella seconda teoria emerge ancora il fatto che Giuseppe
credette che Maria avesse commesso adulterio ma egli sapeva
bene che la legge ordinava la lapidazione delle adultere, finché
esse non avessero trovato la morte sotto quell'inumano
supplizio. Essendo “giusto” e buono, e non volendo che Maria
soffrisse, Giuseppe decise di abbandonarla ma lo avrebbe voluto
fare in segreto, perché quest'atteggiamento gli le avrebbe
consentito di salvare la vita. Secondo questa teoria il termine
“giusto” è sinonimo di “buono” e “misericordioso”.
Anche questa ipotesi presenta notevoli difficoltà. E cioè: se
Giuseppe volle abbandonare in segreto Maria perché era buono,
non lo si sarebbe dovuto chiamare giusto ma soltanto buono.
Perché dunque Matteo riferisce che Matteo era giusto?
La terza teoria
Nessuna delle due teorie spiega dunque soddisfacentemente
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perché Giuseppe abbia voluto abbandonare Maria; per questo
motivo i biblisti hanno proposto una terza teoria che, oltre che
armonizzarsi meglio con il contesto del racconto, ha il merito di
far calare una nuova luce su Giuseppe. Secondo tale teoria,
Giuseppe conosceva da sempre il mistero di Maria. Sin dall'inizio
sapeva che il bambino che la sua sposa portava in grembo era
figlio dello Spirito Santo e perciò non pensò mai che la sua sposa
lo avesse ingannato, né tanto meno tradito.
Deduciamo questa riflessione dal modo con cui Matteo inizia il
suo racconto: “Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua
madre Maria essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che
andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito
Santo”.
Possiamo pertanto vedere che il racconto inizia fornendoci tre
informazioni di primaria importanza:
Maria era fidanzata con Giuseppe;
I due non vivevano insieme;
Maria rimase incinta per l'intervento dello Spirito Santo.
Noi supponiamo solitamente che Giuseppe conoscesse soltanto
due di questi dati: il primo ed il secondo ma non il terzo.
Perché non siamo autorizzati a pensare che Giuseppe
conoscesse anche il terzo? Perché se Matteo elenca insieme, in
successione tra loro, i tre dati, e poi ci presenta Giuseppe mentre
riflette su questo drammatico dilemma, egli dovrebbe
conoscerne soltanto due?
E' dunque logico ritenere che Matteo intenda informarci che
Giuseppe fosse a conoscenza di tutte e 3 le informazioni.
Come seppe Giuseppe della gravidanza verginale di Maria?
A questa domanda Matteo non risponde; non dice neppure come
lo seppe Maria (è Luca a raccontare che l'annunciazione avvenne
tramite un angelo).
E' dunque lecito pensare che, secondo Matteo, entrambi ne
vennero a conoscenza nello stesso momento.
L'avviso era un altro
Resta da risolvere un ultimo problema: perché un angelo avvisa
nel sogno Giuseppe che il figlio che Maria attende è dello Spirito
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Santo, se egli lo sapeva già? In realtà le parole dell'angelo sono
state tradotte male dal testo originale perché solitamente
leggiamo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere
con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene
dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai
Gesù”.
Come affermano molti biblisti, le particelle greche GAR e DE che
appaiono in questa frase, devono essere tradotte non con
l'avverbio perché come troviamo pressoché in tutte le bibbie, ma
con le congiunzioni sebbene o quantunque. Cosicché, il
messaggio dell'angelo a Giuseppe cambia completamente
significato e riemerge in tutta la sua chiarezza e autenticità:
“Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria,
tua sposa, sebbene/quantunque quel che è generato in lei venga
dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai
Gesù”.
Pertanto, l'angelo informa Giuseppe non dell'origine divina del
bambino (cosa di cui egli era già a conoscenza), ma del fatto che
egli deve rimanere con Maria per dare il nome al bambino (cosa
che Giuseppe non conosceva).
Un piano per entrambi
Tenteremo ora di capire il racconto di Matteo alla luce delle
riflessioni che abbiamo appena fatto. Giuseppe e Maria, due
giovani israeliti di circa 18 e 13 anni rispettivamente, erano
fidanzati. Avevano compiuto la prima fase del matrimonio, il
qidushin, e aspettavano di poter presto andare a vivere insieme
una volta terminato il periodo stabilito ma nel frattempo Maria
venne scelta da Dio per essere la madre del suo divino figlio, il
Verbo di Dio che si sarebbe incarnato. Venutone a conoscenza,
Giuseppe si trovò di fronte ad un problema fuori dal consueto:
aveva scelto Maria per sé, perché fosse la sua sposa, la madre dei
suoi figli, la sua compagna di vita, ma doveva prendere atto che
Dio aveva scelto la stessa persona, la stessa donna di Giuseppe,
perché fosse Madre di suo Figlio, e che pertanto tutti i suoi
progetti andavano a monte.
Come competere con Dio per l'amore di una ragazza? Poteva egli
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avere Dio come avversario? Certamente no! Non poteva neppure
fare suo un figlio che non gli apparteneva e che non aveva
generato, ma che veniva addirittura dal cielo. Sarebbe stata
un'ingiustizia vera e propria.
Alla luce di questi eventi la decisione di Giuseppe diventa chiara:
essendo egli giusto, non volendo impossessarsi di un figlio che
apparteneva a Dio e vedendo che Dio aveva scelto la sua stessa
donna, decise di sciogliere la sua donna dall'impegno coniugale
che un tempo avevano contratto e di divorziare in segreto perché
l'evento non suscitasse scandalo.
Aveva già deciso di porre mano a questo progetto, quand'ecco
che, in sogno, gli si presentò un angelo e gli disse di non aver
timore (cioè dubbi) di prendere Maria in sposa (cioè celebrare il
nissuin) perché, sebbene il figlio che ella attendeva provenisse da
Dio, sarebbe stato proprio lui, Giuseppe, ad imporre il nome al
bambino quando Maria lo avrebbe dato alla luce.
Questo fatto, cioè quello di imporre il nome, non è di poco conto
in tutta questa intricata faccenda e riveste un'importanza
capitale. Infatti, così facendo, in quanto padre di quel bimbo,
dinnanzi alla comunità sociale di quel tempo, Giuseppe
esercitava un diritto che competeva alla sua condizione di
genitore. In altre parole, Dio chiese a Giuseppe di rimanere
accanto a Maria perché se ella fu scelta per Dio soltanto, anche
lui lo fu, quantunque con modalità certamente diverse, ma non
per questo motivo meno importanti nel contesto del piano
dell'incarnazione del Figlio Unigenito di Dio. Anche lui era parte
del piano di salvezza.
E quale fu mai la sua missione? Appunto quella di dare
(assegnare) il nome al bambino, cioè di considerarlo come suo a
tutti gli effetti, di assumerlo come proprio, e perché, essendo egli
un discendente della famiglia di Re Davide, se avesse adottato
Gesù come figlio lo avrebbe potuto rendere partecipe della
discendenza davidica: anche Gesù sarebbe diventato “figlio di
Davide”.
Cosicché a scrivere Gesù nella genealogia di Davide si
adempivano le profezie annunciate su suo conto...
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