Cavalleria rusticana:
una novella, un dramma,
un melodramma
Indice
1 - Contesto storico, caratteristiche ed esponenti del verismo in Italia
1.1 - La crisi postunitaria e il Sud in Italia
1.2 - Il verismo
1.3 - Esponenti del verismo: Luigi Capuana
1.4 - Esponenti del verismo: Federico De Roberto
1.5 - Caratteristiche del verismo verghiano
2 - Giovanni Verga: la biografia e le opere
2.1 - Biografia di Giovanni Verga
2.2 - Le opere di Verga
2.3 - Le novelle: da Nedda alle Rusticane
2.4 - Le novelle da Per le vie a Don Candeloro e C.i
2.5 - Vita dei campi: le edizioni della raccolta
2.6 - Vita dei campi: cenni critici
3 - La poetica di Verga: le novelle e Cavalleria rusticana
3.1 - Cavalleria rusticana: la vicenda redazionale e il legame con I Malavoglia
3.2 - La fabula di Cavalleria rusticana
3.3 - Cavalleria e La Lupa "bozzetti veristici": le diverse opinioni della critica
3.4 - Cavalleria rusticana: altri elementi critici
4 - Cavalleria rusticana: il dramma verghiano
4.1 - Confronto tra le due fabule
4.2 - Disposizione dell’intreccio nel dramma
4.3 - Confronto dei personaggi
4.4 - Il successo del dramma
5 - Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni
5.1 - Biografia di Pietro Mascagni
5.2 - Il verismo letterario e il verismo musicale
5.3 - L’occasione del libretto e i suoi autori
5.4 - Il libretto di Cavalleria rusticana
5.5 - Cavalleria rusticana segna la nascita della "Giovane scuola"
6 - Cavalleria rusticana: elementi di confronto nelle tre versioni
6.1 - Trama dell'opera musicale
6.2 - Novità nella struttura del melodramma
6.3 - Musicalità del linguaggio letterario
6.4 - Elementi del passaggio dal dramma al melodramma
7 - La fortuna di Cavalleria rusticana
7.1 - La fortuna del melodramma
7.2 - Le vicende giudiziarie di Cavalleria rusticana
7.3 - Cavalleria al cinema
7.4 - Cavalleria e il melodramma "plebeo"
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1 - Contesto storico, caratteristiche ed esponenti del verismo in Italia
1.1 - La crisi postunitaria e il Sud in Italia
Il contesto storico in cui nasce e si diffonde il verismo in Italia è quello delineatosi all’indomani
della costituzione dello Stato unitario. Com’è noto, fino al 1860 il paese era sempre stato
governato da casate e poteri eterogenei, che alla vigilia dell’unificazione si erano
fondamentalmente stabilizzati nei tre regni: Sabaudo (governato dai Savoia), Stato Pontificio
(governato dalla Chiesa), Regno delle due Sicilie (retto dai Borboni). Le diverse condizioni
politiche, economiche e culturali, che nel corso dei secoli avevano frazionato l’Italia, non
trovarono però una risoluzione omogenea neppure dopo l’unificazione del Paese, anzi, poiché la
politica generale dello Stato adottò misure profondamente diverse al Nord e al Sud, la
situazione si aggravò decisamente: mentre in alcune zone dell’Italia settentrionale fu
potenziato un progresso industriale ed economico già in atto, nell’Italia meridionale venne
addirittura rafforzato il potere dei latifondisti, che aggravò le condizioni sociali del ceto
contadino.
Contro la politica sociale dello Stato sabaudo nacque al sud d’Italia il fenomeno del
"brigantaggio" (i briganti erano contadini che si ribellavano al potere politico costituito e, non
accettandone le regole, le infrangevano, organizzandosi in vere e proprie bande di fuorilegge).
I briganti ricevevano l’appoggio delle masse contadine che, aggravate dalla pressione fiscale,
guardavano con riluttanza al nuovo Stato (nel 1880 fu istituita, ad esempio, la tassa sul
macinato, il grano, unica risorsa per i contadini del sud).
Nello stesso tempo il potenziamento della rete industriale al Nord, aveva creato la necessità di
manodopera a basso costo:
gli operai italiani erano tra i peggio pagati d’Europa, avevano i più lunghi orari di
lavoro, mancavano di ogni tipo di assistenza ed erano duramente ostacolati nei loro
tentativi di organizzazione. D’altra parte, anche nelle zone più arretrate del paese si
ebbe una ripresa delle lotte contadine, contemporaneamente all’inizio della grande
ondata migratoria, che si venne poi via via ingigantendo fino al 1913. L’ultimo
decennio del secolo fu quindi uno dei periodi più tempestosi e drammatici della
storia italiana (Villari 1977: 297).
1.2 - Il verismo
Il verismo è un movimento letterario e artistico italiano che, ispirandosi al naturalismo
francese, in particolare alle opere di Emile Zola, e al Positivismo, teorizza una rigorosa fedeltà
alla realtà effettiva (al "vero") delle situazioni, dei fatti, degli ambienti, dei personaggi e una
corrispondenza con il sentire e il parlare dei soggetti che vengono rappresentati.
Il movimento, che si sviluppa negli anni successivi all'Unità e prosegue fino al primo decennio
del Novecento, raggiungendo la piena maturità nell'ultimo trentennio dell'Ottocento, tende a
descrivere la vita della gente umile, dei reietti dalla società che si affannano nella lotta per la
sopravvivenza contro la fatalità del destino.
Nato nell'ambito letterario e culturale dell’ambiente milanese, dove erano assai forti gli influssi
della cultura europea, il verismo si allarga poi a tutta l'Italia diffondendosi in alcune regioni più
che in altre: in Sicilia con De Roberto, Capuana e Verga; in Campania con la Serao e Di
Giacomo; in Sardegna con la Deledda; in Piemonte con Giacosa e De Marchi.
La diversa diffusione del verismo dipende dalle diverse condizioni e caratteristiche sociali delle
regioni italiane all’indomani dell’unificazione (si veda 1.1).
Si può affermare dunque che il verismo si traduce anche in regionalismo, in una letteratura
intesa ad esplorare situazioni sociali, psicologiche, culturali, anche economiche delle singole
regioni italiane, o anche di singole parti di regioni, di zone e province che nell’antichissima,
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tradizionale frantumazione del territorio avevano assunto caratteristiche particolari.
Naturalmente il regionalismo maturava all’interno della cultura romantica, sulla quale
crescevano le sopravvenienze della cultura naturalistico-veristica. E in questa situazione di
fondo le differenze tra i singoli scrittori tenderanno ad aumentare e il quadro sarà sempre più
complesso (Scrivano 1988: 237).
1.3 - Esponenti del verismo: Luigi Capuana
Nato il 28 Maggio 1839 a Mineo, cittadina del Catanese,
Capuana si trasferì a Firenze, dove visse tra il 1864 e il 1868
e dove lavorò, in qualità di critico teatrale, per "La Nazione", il
quotidiano di maggior risonanza e diffusione della città (che
era allora la Capitale del Regno). Questo periodo di attività fu
fondamentale per la sua maturazione e per la sua formazione
letteraria.
Nel 1872 Capuana raccolse infatti tutte le cronache teatrali in
un volume, Il teatro italiano contemporaneo, che mostra un
significativo allargamento di orizzonte, soprattutto nei
confronti della letteratura francese contemporanea.
Dopo il 1869 Capuana tornò a Mineo, ma alternò sempre i
suoi soggiorni siciliani con i suoi numerosi viaggi a Roma e a
Milano, dove entrò anche in contatto, e in amicizia, con
Verga.
Luigi Capuana
Nel 1877 pubblicò una raccolta di novelle, Profili di donne; nel
frattempo assiduamente lavorava al suo primo romanzo,
Giacinta (1879).
Successivamente pubblicò altre numerose raccolte di novelle (tra cui Le nuove paesane, del
1898, meglio si distingue per il colore veristico-regionale) e diversi nuovi romanzi, tra cui Il
marchese di Roccaverdina, uscito nel 1901, l’opera narrativa sua più nota e più riuscita, fedele,
nella sostanza, all’istanza naturalistica-veristica della prima maturità.
Capuana si espresse inoltre in una intensa produzione di racconti per l’infanzia e di fiabe,
mostrando un’inventiva straordinaria e soprattutto un’audacia notevole nel presentare temi
psicologici, motivazioni del profondo, penetrazione della psiche. Si misurò infine anche con la
scrittura teatrale, prima volgendo per il teatro Giacinta (1890), poi componendo numerosi
arditi drammi e commedie in siciliano, tra cui Malìa (1895).
Capuana fu anche critico e saggista: resta famoso il suo saggio del 1898, Gli ismi
contemporanei, in cui riconosce valore al verismo.
Circondato da grande fama e carico di onori, morì a Mineo nel 1915.
Capuana fu per un certo tempo l’intellettuale più prossimo e il diffusore più convinto
del Naturalismo francese in Italia. Egli intese questa operazione come uno
svecchiamento, una ventata di novità, una ripresa di contatto con l’Europa di tutta
la letteratura, anzi di tutta la cultura italiana: si può dire che egli operò nel senso di
una primissima "avanguardia". In questo senso fu il maestro dei veristi, che non
ebbero difficoltà a riconoscere in lui questa posizione e funzione, ma d’altronde egli
non ricusò di riconoscere la grandezza di quelli che possono considerarsi suoi
seguaci come Verga e De Roberto. Inoltre egli non rimase chiuso in una formula,
ma fu audacemente curioso di sperimentazioni molteplici, e si trovò così nella
condizione di manifestare condizioni più prossime nell’insieme all’incipiente
Decadentismo […] (Scrivano 1988: 237).
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1.4 - Esponenti del verismo: Federico De Roberto
Nato a Napoli il 16 gennaio 1861 da padre napoletano,
don Ferdinando, ufficiale di Stato Maggiore di Francesco
II e da madre catanese, donna Marianna degli
Asmundo, di piccola ma antica nobiltà, Federico De
Roberto si trasferì a Catania insieme alla sua famiglia
all’età di nove anni e vi restò per il resto della sua vita,
soggiornando per alcuni periodi a Milano, Firenze e
Roma.
Tuttavia Catania, cui De Roberto dedicò una monografia
nel 1907 e nella quale conobbe Paul Bourget,
rappresentò lo sfondo decisivo per la sua formazione e
per i temi che egli vi cercò e vi trovò.
Federico De Roberto
Fu amico di Capuana e di Verga, il quale lo introdusse
negli ambienti letterari milanesi: conobbe giornalisti,
musicisti, uomini di teatro. A Milano, inoltre, lavorò
come critico letterario per il "Corriere della Sera" e
venne a contatto con il movimento degli Scapigliati.
Una spiccata propensione alla critica lo condusse ben
presto
ad
elaborare
saggi
sulla
letteratura
naturalista
e
verista.
S’impegnò
contemporaneamente nella stesura di racconti che conservano l’impronta della lezione
verghiana. Testimonianza di questa attività sono le raccolte dai titoli: La sorte (1887),
Documenti umani (1888), Processi verbali (1890), L’albero della scienza (1890).
L’opera più importante di De Roberto è il romanzo storico I viceré (1894), al centro del quale vi
è l’epopea di una potente dinastia, un’antica famiglia catanese di origine spagnola: gli Uzeda di
Francalzana, di cui è narrata la vicenda genealogica dai primi moti rivoluzionari siciliani fino
agli ultimi decenni del secolo. Il romanzo fa parte del progetto di un ciclo narrativo dedicato
alla famiglia degli Uzeda, così composto: L’illusione (1891), I viceré (1894) e L’imperio (1929,
postumo).
Ancora in veste di critico produsse uno studio sul Leopardi (1898) in chiave positivistica e una
serie di saggi tra cui il Colore del tempo (1900) e L’arte (1901). Importanti sono gli studi
verghiani raccolti postumi e sotto il titolo: Caso Verga e altri saggi verghiani (1964). Pubblicò
anche raccolte di novelle e si cimentò nel teatro con Il rosario (1912), Il cane della favola
(1912) e Tutta la realtà (1921).
Federico De Roberto morì a Catania nel 1927, a poco più di sessantasei anni.
1.5 - Caratteristiche del verismo verghiano
Nella prefazione all’Amante di Gramigna (Verga, L’amante di Gramigna, in Tutte le novelle:
191-198), scritta in forma epistolare al suo amico Farina - una specie di programma del
verismo letterario - Verga definiva la storia raccontata nella novella "un documento umano",
"non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto"; per indicare che riferiva la storia tale e quale
l’aveva sentita "Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi". E poi: "Tu
veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo
fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore", insomma l’opera dovrà sembrare
"essersi fatta da sé" e l’autore dovrà quindi scomparire, essere invisibile, e muovere i fili del
racconto da fuori, illudendo il lettore ch’essi si muovano da se stessi.
Secondo Verga quindi la rappresentazione artistica deve possedere "l'efficacia dell'esser stato"
e in questo senso deve conferire al racconto l'impronta di cosa realmente avvenuta: ecco
perché egli parla di "documento umano".
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Tuttavia non basta che ciò che viene raccontato sia reale e documentato, esso deve anche
essere posto in modo tale che il lettore si trovi faccia a faccia col "fatto nudo e schietto" e non
abbia perciò l'impressione di vederlo attraverso la "lente dello scrittore". Per questo l’autore
deve "eclissarsi", cioè non deve comparire nel narrato con le sue reazioni soggettive e con le
sue riflessioni.
Il narratore deve sparire dietro i suoi personaggi,
che raccontano i fatti e si trasformano essi stessi
in "documenti umani" e deve focalizzare la storia
dal loro punto di vista per vedere le cose con i loro
occhi ed esprimerle con le loro parole. In tal modo
la sua mano "rimarrà assolutamente invisibile"
nell'opera e il lettore avrà l'impressione non di
sentire un racconto di fatti, ma di assistere a fatti
che si svolgono sotto i suoi occhi.
Contadini
Il linguaggio si tradurrà così in uno stile stringato,
una sintassi semplice e disadorna, un vocabolario
continuamente
arricchito
da
espressioni
popolaresche e proverbiali che mettano in luce
l'oggettività della narrazione.
Verga dunque prende in prestito dal naturalismo
francese il principio dell’impersonalità, ma lo ricontestualizza in una poetica nuova, che non si
prefigge di indagare scientificamente, e quindi impersonalmente, i meccanismi che hanno
portato a certe condizioni umane, bensì semplicemente di ritrarre il reale, di fotografarlo (non
si dimentichi che da poco si è scoperta la fotografia, e si ha l’illusione che l’occhio fotografico
sia in grado di riprodurre la realtà fenomenica in modo "fedele", cioè senza la contaminazione
della mano dell’uomo e del suo punto di vista).
Non a caso Verga stesso si dedicò alla fotografia, riprendendo momenti e paesaggi della Sicilia
da lui stesso narrativamente ritratta (Giovanni Verga. Specchio e realtà 1976). La principale
differenza con il realismo francese sta proprio nel fatto che la "scientificità", cui l’autore verista
aspira, non deve consistere nel trasformare la narrazione in esperimento scientifico, volto alla
dimostrazione di una tesi, ma nella tecnica con cui lo scrittore rappresenta, che è simile al
metodo dell'osservazione scientifica.
La scientificità insomma si manifesta solo nella forma artistica, nella maniera con cui l'artista
crea le sue figure e organizza i suoi materiali espressivi.
2 - Giovanni Verga: la biografia e le opere
2.1 - Biografia di Giovanni Verga
Giovanni Verga nasce a Catania il 2 settembre del 1840 in una
famiglia di agiate condizioni economiche e di origine nobiliare.
L'educazione ricevuta è, sul piano politico, patriottica e
risorgimentale e, sul piano letterario, sostanzialmente
romantica.
Si iscrive alla facoltà di Legge ma non termina gli studi. Nel
1861 si arruola nella guardia nazionale di Catania e svolge
un’intensa attività di giornalista.
Giovanni Verga
Dopo la morte del padre, nel 1865 si stabilisce a Firenze dove
frequenta l'ambiente letterario di Francesco Dall'Ongaro,
giornalista e professore di letteratura drammatica. Conosce i
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poeti Giovanni Prati e Aleardo Aleardi e la scrittrice Caterina Percoto, autrice di racconti di
ambiente paesano. Diventa autore di successo dapprima con il romanzo Una peccatrice (1866)
e quindi con Storia di una capinera (1871). Fondamentale, negli anni fiorentini, è l'incontro con
Luigi Capuana, con il quale inizia un rapporto d'amicizia e un sodalizio letterario.
Nel 1872 si trasferisce a Milano, città in cui sono vivacissimi gli scambi letterari: nasce in
quegli anni la Scapigliatura; sono attivi, negli stessi anni, Giuseppe Giacosa e Federico De
Roberto.
Dopo Eva (1873), Tigre reale (1873) ed Eros (1875) inizia la fase più importante della sua
produzione letteraria, si potrebbe dire la "svolta verista" della poetica verghiana, che va da
Nedda (1874) a Mastro-don Gesualdo (si veda 2.2).
Nel 1893 si ritira nella sua Catania, dopo aver vinto una causa contro il musicista Pietro
Mascagni per i diritti d'autore di Cavalleria rusticana (che era divenuta un'opera lirica di grande
successo): la cifra, cospicua, gli permette di ripianare i debiti (si veda 7.2).
Con l'andare degli anni si fa sempre più vivo in lui l'interesse per le vicende politiche: si
definisce un "moderato", ma si dimostra presto avverso al sistema democratico. Più tardi
diverrà infatti sostenitore delle idee di Crispi e della politica colonialista.
Nel 1912 aderisce al partito nazionalista e si dichiara favorevole all'intervento bellico dell'Italia
nella Prima guerra mondiale.
Nonostante nel 1920 venga solennemente festeggiato a Roma e a Catania, in occasione del
suo ottantesimo compleanno (le onoranze hanno il loro coronamento nella nomina a senatore il
3 ottobre), continua a vivere gli ultimi anni della sua vita a Catania in una solitudine sdegnosa
e scontrosa, fino alla sua morte, avvenuta il 27 gennaio 1922.
2.2 - Le opere di Verga
L'attività letteraria di Verga può essere divisa in tre fasi: la narrativa storico-patriottica degli
esordi, i romanzi tardoromantici e la produzione verista.
In Sicilia Verga ebbe una formazione letteraria provinciale (l’ambiente culturale siciliano non
era aperto agli scambi e alle contaminazioni ideologiche e letterarie con le altre realtà europee,
come invece avveniva negli stessi anni a Roma, Firenze e soprattutto a Milano): il genere cui
egli si ispirò per i suoi primi tentativi letterari è quello storico-patriottico, come dimostra in
particolare il romanzo I carbonari della montagna (1861).
Fondamentale nel suo cambiamento di interessi fu l'abbandono dell'isola nel 1865, anno in cui
lo scrittore partì per Firenze. Introdotto dal poeta Francesco Dall'Ongaro nella buona società
cittadina, Verga si dedicò allo studio della vita borghese che aveva davanti agli occhi, con un
particolare interesse per le figure femminili e le vicende sentimentali, e si cimentò nel genere
d’appendice tardo-romantico scrivendo i romanzi Una peccatrice (1866), Eva (1873), Eros
(1875).
Nel 1872 si trasferì a Milano, capitale dell'editoria, e frequentò gli scapigliati Arrigo Boito e
Giuseppe Giacosa, e fu raggiunto dall'amico Luigi Capuana, scrittore e critico letterario teorico
del verismo (si veda 1.3).
La svolta letteraria si può datare al 1874, anno in cui fu pubblicata la novella Nedda, primo
testo verghiano in cui l'ambiente narrato non è più urbano, ma rurale e in cui la storia non è
più ambientata al Nord, ma in Sicilia e i protagonisti sono umili contadini.
Da quel momento in poi la Sicilia contadina diviene il fulcro delle narrazioni della grande
stagione letteraria di Verga, da Vita dei campi alle Novelle rusticane, ai romanzi I Malavoglia e
Mastro-don Gesualdo.
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I due romanzi facevano parte di un progetto ambizioso, il "Ciclo dei vinti" (di cui Verga fa
menzione, con il titolo "La marea", in una lettera del 1878 all’amico catanese Salvatore Paolo
Verdura). Nei cinque romanzi dedicati ai vinti Verga avrebbe voluto esplorare, con metodo
scientifico, l’intera gamma delle classi sociali: il primo romanzo è dedicato infatti all’analisi
delle condizioni di vita di una famiglia di pescatori, nei quattro romanzi successivi avrebbero
dovuto svolgersi vicende esistenziali via via più complesse (il borghese, l’aristocratico, l’uomo
politico, l’intellettuale). Probabilmente per l’insuccesso editoriale di Mastro-don Gesualdo, il
"Ciclo" rimase incompiuto.
2.3 - Le novelle: da Nedda alle Rusticane
Nel 1874, dopo una fase di scoraggiamento e di difficoltà letteraria, Verga, anche per risolvere
alcuni problemi economici, decide di abbandonare momentaneamente la stesura dei grandi
romanzi e di dedicarsi alla collaborazione con riviste e giornali, che richiedevano scritti brevi e
novelle in abbondanza. Così nasce Nedda, pubblicata nella "Rivista italiana di Scienze, Lettere
e Arti" il 15 Giugno 1874, e il cui grande successo provoca richieste di altri racconti da parte
degli editori.
Nell’estate del 1874, tornato in Sicilia, Verga prepara le novelle che formeranno il volume
"Primavera" (che sono: Primavera, La coda del diavolo, X, Certi argomenti, Le storie del
Castello di Trezza) che uscirà presso l’editore Brigola di Milano nell’autunno del 1876.
Tra 1875 e 1880 Verga lavora alla raccolta Vita dei campi (si veda 2.5). Dopo l’agosto del 1880
il programma di lavoro si fa assai intenso: la laboriosa revisione dei Malavoglia, la stesura del
romanzo Il marito di Elena e il primo nucleo delle Novelle rusticane (nascono La roba, Cos’è il
Re, Storia dell’asino di S. Giuseppe, cui poi si aggiungeranno Pane nero, Di là dal mare,
Malaria, Libertà, Il Reverendo, Don Licciu Papa, I galantuomini, Il mistero e Gli orfani).
Con le "Rusticane" il Verga giunge a una vera e propria analisi della realtà storica e
sociale della provincia siciliana nella seconda metà dell’800: il potere religioso,
politico, giudiziario, economico, immutabili strumenti di oppressione, così come la
natura inesorabile poiché distribuisce ciecamente vita e morte (Riccardi 1981:
XXIII).
2.4 - Le novelle da Per le vie a Don Candeloro e C.
Tra il 1882 e il 1883, Verga compone e raccoglie in volume altre novelle, scegliendo dapprima
il titolo Vita d’officina e successivamente adottando Per le vie, più coerente con l’ambientazione
(la grande città, Milano, dove egli si è nel frattempo ritrasferito) e con la tematica, ovvero il
proletariato urbano. Di questa raccolta fanno parte: Il bastione di Manforte, In piazza della
Scala, Al veglione, Il canarino del n. 15, Amore senza benda, Semplice storia, L’osteria dei
"Buoni Amici", Gelosia, Camerati, Via Crucis, Conforti, L’ultima giornata.
La ricerca verghiana non è tuttavia in direzione strettamente sociale: oltre a
studiare i rapporti all’interno del quarto stato cittadino e con le classi borghesi e
aristocratiche, allo scrittore preme evidenziare l’idea del "vagabondaggio", della vita
come "via crucis" o quanto meno itinerario incessante, doloroso o incoerente, che
sarà motivo guida della raccolta successiva (Riccardi 1981: XXXII).
Dopo la grande stagione degli anni 1880-1884, la produzione narrativa verghiana subisce una
battuta d’arresto: il grande successo teatrale ottenuto con Cavalleria rusticana spinge Verga a
continuare sulla nuova strada del teatro. In questa fase, tuttavia, lo scrittore si dedica alla
stesura del Mastro Don Gesualdo.
Al 1887 risale la prima edizione della raccolta Vagabondaggio, concepita in un momento
difficile (anche dal punto di vista economico) della vita dell’autore e concreta testimonianza del
cambiamento di rotta nella direzione, proprio, del Mastro Don Gesualdo. Alla base c’è "l’idea
del 'vagabondaggio' come fuga dal reale o come movimento inarrestabile e negativo della
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vita", motivo, questo, va detto, comunque "presente in tutta la narrativa verghiana" (Riccardi
1981: XXXIX).
Nel 1889 Verga riprende, nelle sue novelle, l’analisi dell’umanità che appartiene alle categorie
sociali più alte, "più nobili", secondo l’idea programmatica del "Ciclo dei Vinti" (si veda 2.2),
che era stata abbandonata dopo l’insuccesso editoriale di Mastro-don Gesualdo. È il tentativo
"di cogliere il drammatico, il ridicolo o il comico in tutte le fisionomie sociali" (Riccardi 1981:
XLII-XLIII). Nasce così la raccolta I ricordi del capitano d’Arce, seguita dall’ultima raccolta,
edita da Treves nel 1894, Don Candeloro e C.i, che "si presenta come una contro raccolta
ovvero una rilettura ironica, in controluce dei motivi e dei personaggi delle grandi novelle"
(Riccardi 1981: XLVII).
2.5 - Vita dei campi: le edizioni della raccolta
Nel 1880 esce, per Treves, la raccolta di novelle Vita dei campi. Il volume si apre con la
sezione omonima che dà il titolo alla silloge e che si compone di otto testi: Fantasticheria, testo
in tutto e per tutto programmatico, Jeli il pastore, Rosso Malpelo, Cavalleria rusticana, La Lupa,
L’amante di Gramigna, Guerra di Santi e Pentolaccia.
Della raccolta fu fatta subito una seconda edizione, uscita nel 1881 (che accolse una nona
novella, Il come, il quando, il perché). Il libro era andato subito esaurito. Una terza edizione
vide le stampe nel 1892, sempre per Treves, ma col nuovo titolo di Cavalleria rusticana ed
altre novelle.
Il cambiamento si dovette senz’altro a ragioni commerciali, che seguirono il grande successo
della versione teatrale prima (1884) e soprattutto musicale poi (1889).
Variò, all’interno del volume del 1892, perfino la disposizione delle novelle: prima Cavalleria,
poi La Lupa, quindi le altre. La situazione testuale rimase però la stessa: la stampa del 1892,
infatti, riproduce fedelmente le novelle, compresi i refusi e l’impaginazione. Pochi anni più tardi
Verga si dedicò alla trasposizione teatrale di un’altra novella della raccolta, lavoro cui pensava
già da tempo, dopo il successo di Cavalleria rusticana: si tratta de La Lupa, che venne
rappresentata per la prima volta a Torino nel 1896.
Della raccolta si ebbe una nuova edizione, di lusso, nel 1897: venne ripristinato il titolo
originario e, questa volta, l’autore intervenne rivedendo i testi e apportando notevoli
trasformazioni stilistiche (furono modificati soprattutto Jeli, Rosso Malpelo, Pentolaccia) e
strutturale (L’amante di Gramigna).
2.6 - Vita dei campi: cenni critici
Le novelle della raccolta Vita dei campi sono otto: Cavalleria rusticana, La Lupa, Fantasticheria,
Jeli il pastore, Rosso Malpelo, Guerra di santi, Pentolaccia, L’amante di Gramigna (Il come, il
quando, il perché fu aggiunta solo nella seconda edizione del 1881).
Fra queste novelle, escludendo Fantasticheria, tutta legata alla futura stesura dei Malavoglia, è
possibile
individuare almeno tre tipi di struttura narrativa, conseguenti a tre modi diversi di
porsi dello scrittore di fronte alle realtà rappresentate. I due, che fra questi tre si
mostrano più ovvi e più facilmente definibili, sono il bozzetto: La Lupa e Cavalleria
rusticana; e la novella veristica: L’amante di Gramigna. […] Il terzo tipo, individuato
in Jeli il pastore e in Rosso Malpelo, non è propriamente tale sotto il profilo della
struttura narrativa e tematica, ma manifesta interne affinità molto profonde, che lo
qualificano in un senso sostanzialmente omogeneo.
[…] Chiamiamo bozzetto veristico quel tipo di struttura narrativa, in cui la ricerca
del colore ambientale predomina sugli interessi di svolgimento del racconto. La
caratterizzazione dei personaggi può nondimeno esservi molto forte (La Lupa); ma
anch’essa risulta, in ultima analisi, funzionale all’intrecciarsi dei motivi che
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costituiscono un ambiente. In questo senso si può dire che il bozzetto rappresenta
in generale uno dei tipi di narrazione più tipici del verismo italiano. L’esigenza di
verità trovava un immediato soddisfacimento in questa ricerca tematica e formale,
che si soffermava di preferenza sugli aspetti più singolari del mondo popolare
subalterno e li ricostruiva in un’immagine complessiva, dai forti sapori e colori: a un
passo, indubbiamente dal folklore, ma non senza molti compiacimenti letterari
(Asor Rosa 1987: 21-23).
3 - La poetica di Verga: le novelle e Cavalleria rusticana
3.1 - Cavalleria rusticana: la vicenda redazionale e il legame con I Malavoglia
Esiste un legame tra il bozzetto per I Malavoglia, scritto da Verga già nel '75, e Cavalleria
rusticana. Il bozzetto infatti racconta la storia di Padron 'Ntoni, e nell’episodio che narra le
vicende amorose del protagonista con la Gna' Peppa o Pudda e con Grazia si può leggere in
trasparenza il germoglio narrativo, che sarà poi sviluppato in Cavalleria rusticana.
La novella, tuttavia, farà la sua prima apparizione solo nel 1880 sul "Fanfulla della Domenica",
per trovare poi subito posto nella silloge.
3.2 - La fabula di Cavalleria rusticana
Dopo aver fatto il soldato come bersagliere, Turiddu Macca
torna a Vizzini, in Sicilia, il suo paese natale. Lì ogni
domenica ama pavoneggiarsi in piazza "coll’uniforme da
bersagliere e il berretto rosso" e "una pipa col re a cavallo".
Dal suo ritorno, però, Turiddu non ha ancora incontrato
Lola, la ragazza alla quale si era legato con promessa
amorosa prima di partire, e viene presto a sapere che lei sta
per andar sposa ad un ricco carrettiere di Licodia, compare
Alfio.
"Dapprima Turiddu come lo seppe, santo diavolone! Voleva
trargli fuori le budella dalla pancia, voleva trargli, a quel di
Licodia!", ma alla fine, rivedendo Lola si rassegna: Alfio
tiene quattro muli nella stalla, mentre Turiddu e sua madre, la Gna’ Nunzia, l’unica mula che
avevano, hanno dovuto venderla. Lola infatti sposa Alfio e ogni domenica si affaccia al suo
balcone "colle mani sul ventre, per far vedere tutti i grossi anelli d’oro che le aveva regalati il
marito" e Turiddu non potendone più dalla rabbia, inizia a corteggiare Santa, la figlia di
massaro Cola, "ricco come un maiale", che abita proprio di rimpetto a Lola.
Vizzini
Turiddu così cattura l’attenzione di Lola, la quale, ingelosita dal corteggiamento a Santa,
essendo spesso sola, perché il marito "era in giro per le fiere con le sue mule", lo attira di
nuovo a sé e di notte lo fa entrare di nascosto in casa sua.
Al ritorno di compare Alfio, alla vigilia di Pasqua, Santa, infuriata per il comportamento di
Turiddu e Lola, gli rivela la tresca tra i due: "Avete ragione di portarle dei regali, gli disse la
vicina Santa, perché mentre voi siete via vostra moglie vi adorna la casa!".
Immediatamente compare Alfio si precipita all’osteria, dove trova Turiddu e lo sfida a duello:
"[…] si scambiarono il bacio di sfida. Turiddu strinse fra i denti l’orecchio del carrettiere, e così
gli fece promessa solenne di non mancare".
La sera Turiddu osserva sua madre ed è colto da compassione: "Datemi un bel bacio come
allora - quando partì soldato -, perché domattina andrò lontano", tanto che al mattino, mentre
si avvia verso il luogo del duello, tra i fichidindia della Canziria, il suo ultimo pensiero è per lei
"[…] quant’è vero Iddio vi ammazzerò come un cane per non far piangere la mia vecchierella".
9
Dopo aver sferrato il primo colpo contro compare Alfio, Turiddu, accecato da una "manata di
polvere" che gli getta negli occhi il suo avversario, cade "come un masso" con un colpo allo
stomaco e uno alla gola "[…] e non poté profferire nemmeno: - Ah! Mamma mia!" (Verga,
Cavalleria rusticana: 179-185).
3.3 - Cavalleria e La Lupa "bozzetti veristici": le diverse opinioni della critica
Sull’idea che Cavalleria rusticana e La Lupa siano novelle catalogabili in cliché, strutturate
quasi in serie su una storia e un contesto "baroccamente" folklorici (si veda 3.4), la critica si
divide.
Scrive Asor Rosa:
Il costume siciliano presentava aspetti capaci di incuriosire lo scrittore: la loro forza,
singolarità, novità potevano di per sé smuovere la stanca vena della sua
osservazione e riparare allo sconsolante spettacolo offerto dalle intime e
irrimediabili debolezze dei suoi protagonisti borghesi. Ma la curiosità e, perfino se si
vuole arrivare a tanto, l’ammirazione non sono ancora interesse vero, profondo,
verso i personaggi e gli ambienti, che si osservano e si rappresentano. […]
L’identificazione con il mondo popolare della "Lupa" e di "Cavalleria rusticana" non
avviene, innanzi tutto perché Verga non ha nessun motivo di riconoscersi nelle
figure che si muovono dentro queste due novelle. Tra loro e lui c’è, prima che il
distacco del canone veristico, il distacco degli atteggiamenti psicologici e dei modi di
sentire. Verga può anche apparire sfiorato dalla forza genuina delle passioni di Alfio,
Turiddu, Santuzza, Nanni, la Lupa, ma non accetterebbe mai di condividerle […]
(Asor Rosa 1987: 21-23).
D’altro avviso Matilde Dillon Wanke:
Per il palato esigente dei nostri critici "La Lupa" e "Cavalleria rusticana" sono i
racconti più folkloristici, bozzetti di maniera, destinati a fissare una volta per tutte
non solo usi e costumi ma anche tipi e cliché. […] Ma in ogni caso, anche gli effetti
opposti di evidenza e di poeticità dei personaggi popolari di Verga, vengono da una
ricostruzione a distanza (Dillon Wanke 1994: 25).
Scrive Verga in una famosa lettera al Capuana del 14 marzo 1879:
Anch’io faccio assegnamento su Padron Ntoni, e avrei voluto, se la disgrazia non mi
avesse perseguitato sì accanitamente e spietatamente, darvi quell’impronta di
fresco e sereno raccoglimento che avrebbe dovuto fare un immenso contrasto con
le passioni turbinose e incessanti delle grandi città, con quei bisogni fittizii, e
quell’altra prospettiva delle idee o direi anche dei sentimenti. Perciò avrei
desiderato andarmi a rintanare in campagna, sulla riva del mare, fra quei pescatori
e coglierli vivi come Dio li ha fatti. Ma forse non sarà male dall’altro canto che io li
consideri da una certa distanza in mezzo all’attività di una città come Milano o
Firenze. Non ti pare che per noi l’aspetto di certe cose non ha risalto che visto sotto
un dato angolo visuale? E che mai riusciremo ad essere tanto schiettamente ed
efficacemente veri che allorquando facciamo un lavoro di ricostruzione intellettuale
e sostituiamo la nostra mente ai nostri occhi? (Verga, Lettere a Luigi Capuana: 113114).
3.4 - Cavalleria rusticana: altri elementi critici
I ritratti a forti tinte, la passionalità, il colore locale, accentuato dai rituali e dalle figure
fortemente caratterizzate, danno vita in Cavalleria rusticana, come abbiamo visto (in 3.2 e
3.3), a diverse interpretazioni.
Da una parte vi si può leggere un interesse dell’autore, dettato dall’esigenza di rinnovamento
dei cliché tardo-romantici, verso temi diversi e soggetti nuovi, sulla scia della tendenza
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all’esotismo del teatro melodrammatico; di contro vi si può riconoscere l’intento naturalista di
osservazione della realtà, con l’occhio distante e impersonale dell’obiettivo fotografico.
Del primo avviso è il critico Asor Rosa che scrive:
In "Cavalleria rusticana" questa disposizione è evidente nell’uso dei particolari
folkloristici, che animano il racconto intorno a scene e figure fortemente
caratterizzate e saporite: basti ricordare l’inizio della novella, tutto imperniato su
quel Turiddu, che sembra un personaggio da carretto siciliano […] che, quando sa
del tradimento di Lola, "santo diavolone! Voleva trargli fuor le budella dalla pancia,
voleva trargli, a quel di Licodia!", ma poi non ne fa nulla, e si sfoga "coll’andare a
cantare tutte le canzoni di sdegno che sapeva sotto le finestre della bella". Dopo
siffatta apertura il dramma si svolge tra personaggi e vicende ad essa
perfettamente intonati: il fiero risentimento di Santuzza, l’odio di Alfio, uno di "quei
carrettieri che portano il berretto sull’orecchio", la singolare cerimonia della sfida
(Turiddu morde l’orecchio del carrettiere), il sanguinoso duello d’onore. Siamo in
un’area di sollecitazioni epidermiche, anche molto forti, intendiamo dire, ma
destinate a restare in superficie, ovvero - ciò che è la stessa cosa - circoscritte in un
ambito estremamente limitato di interessi. L’esito melodrammatico si direbbe
persino necessario (Asor Rosa 1987: 28-30).
Per la Dillon Wanke invece "[…]: le donne con le mani sulla pancia e chiuse nella mantellina o
le mani nei capelli, nelle maschere del dolore; compare Alfio, col berretto sull’orecchio, i
contadini di Malaria, col fazzoletto in testa e la coperta addosso e poi contadini, paesani,
campirei" sono coloro "che Verga, deposta la penna, a partire dal ’90, porrà davanti al suo
obiettivo di fotografo (non avendo mai fotografato prima d’allora)" e che quindi ne attestano il
suo interesse "quasi" scientifico.
"[…] Si tratta di regole semplici e primordiali […] che nell’illustrazione delle immagini tengono
conto del valore della diversità, dell’elemento della violenza, del colore e della simmetria"
(Dillon Wanke 1994: 27).
4 - Cavalleria rusticana: il dramma verghiano
4.1 - Confronto tra le due fabule
Molte sono le differenze che separano la novella dal dramma. Prima di tutto l’azione teatrale
viene ricondotta all’unità di tempo e di luogo che Verga, influenzato dal saggio di Zola Le
naturalisme du Théâtre, riteneva indispensabile (tutta l’azione si svolge sulla piazza del paese
il giorno di Pasqua).
Dal punto di vista della sequenza degli eventi, cioè della disposizione dell’intreccio, innanzitutto
va notato che all’inizio del dramma manca l’esposizione dell’antefatto: la scena si apre con
Santuzza alla ricerca di Turiddu, la quale soltanto in seguito racconterà il suo dramma alla Gna'
Nunzia, quando comunque il pubblico l’avrà già intuito da tutta una serie di indizi.
Nel passaggio dalla novella al dramma, il tema centrale, il motore della storia, non è più il
fattore economico, ma quello passionale, che, con tutte le sue complicazioni, finisce per
stabilire una meccanica tutta nuova di situazioni (come la gelosia e la vendetta). Da qui parte il
mutamento delle tecniche narrative, dei personaggi, dell’ambientazione, delle coordinate
spazio-temporali.
La novella decretava la vittoria della "roba" sull’amore (amore cui Turiddu aveva cercato di
sottomettersi): dunque il corteggiamento di Santa, figlia di uno "ricco come un maiale",
risultava ancor più comprensibile se interpretato proprio in questa chiave. Nella novella inoltre
Santa non viene "sedotta", ma solo abbandonata da Turiddu, dopo un suo breve
corteggiamento volto a far ingelosire Lola.
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Nella novella il duello finale si configurava come la rivolta di Turiddu contro quella "roba" che
vince su tutto. In proposito è opportuno sottolineare che Turiddu, prima del duello, afferma di
voler vincere per la sua "vecchia", cioè per sua madre, "la Gna’ Nunzia che non ha più neppure
una mula perché se le è dovute vendere tutte". Nel dramma Turiddu si batterà invece per
onore e il suo ultimo pensiero sarà per la giovane, sfortunata Santuzza. Nella novella Turiddu
si ribellava al potere della "roba" e ne cadeva vittima: nel dramma invece la vera vittima
diviene Santuzza.
La Gna’ Nunzia nella novella è solo un nome, ma è per lei che Turiddu si batte; nel dramma
invece ella diviene un vero personaggio. L’ultimo pensiero di Turiddu, prima del duello, non
sarà più indirizzato a lei, bensì a Santuzza.
Come è già stato affermato, l’aspetto economico nel dramma rimane solo a livello metaforico,
serve cioè a stabile il rapporto tra Santuzza "poveretta di limosina" e Lola che "va attorno tutta
carica d’oro" (si ricordi che invece nella novella anche Santa è ricca).
Lo spostamento dell’asse tematico su cui si innesta la trama è motivato da quelle che Verga
sapeva essere le aspettative del pubblico. Infatti se nella narrativa verista vi era stata, almeno
in parte, la negazione di un certo patetismo e della "melodrammaticità" delle situazioni
narrate, specie di certa letteratura italiana di fine Ottocento, non così poteva dirsi per il teatro.
Questa impasse era data dal rapporto con un pubblico teatrale che, in quegli anni, si andava
aprendo alla realtà assai più cautamente di quanto stesse facendo il lettore di Zola, di Capuana
o dello stesso Verga.
4.2 - Disposizione dell’intreccio nel dramma
Nella versione teatrale di Cavalleria rusticana l’intreccio si scioglie in un rapido precipitare degli
eventi verso il dramma, ritardato solo dall’intervento del coro, secondo questo schema:
CONFESSIONE
dialogo Santuzza / Gna’ Nunzia
PRESENTAZIONE
dialogo Alfio / Santuzza / Gna’ Nunzia
CONFRONTO
Dialogo Santuzza / Turiddu
INCONTRO
dialogo Santuzza / Turiddu / Lola
SCONTRO
dialogo Santuzza / Turiddu (tensione massima)
CONFESSIONE-DELAZIONE
Dialogo Santuzza / Alfio
CATÀSTROFE
1
sfida e duello finale
Della novella le "scene popolari" conservano il colore locale, l’aspro verismo, il codice d’onore
silenzioso e fiero, i rituali atavici, la calcinante mediterraneità, gli elementi folklorici,
antropologici e di costume in grado di affascinare per il loro esotismo. Verga ambienta l’azione
nella "piazzetta del villaggio" rinnovando la scena italiana affollata d’interni borghesi, la
condensa, accentuandone il motivo liturgico-sacrale, nel solo giorno di Pasqua, rispettando così
le unità aristoteliche di tempo e di luogo proprie della tragedia greca, mette in ombra il motivo
economico motore della novella per esaltare l’eterno motivo passionale e cruento che ha
sempre presa sul pubblico (Zappulla Muscarà: 7).
4.3 - Confronto dei personaggi
Il termine, generalmente riferito alla tragedia greca, indica la soluzione, di solito luttuosa,
della tragedia
1
12
Nella novella i personaggi sono tratteggiati pittoricamente attraverso brevissimi indizi, cenni
dati dall’ambiente (il paese, i popolani, ecc.), tanto minimi da trasformarsi in vere e proprie
sineddoche (figura retorica che verte sul trasferimento di significato da una parola a un’altra,
come la metonimia o la metafora, in base a una relazione di contiguità: può rappresentare
quindi, come in questo caso, la parte per il tutto, come per esempio "vela" per "nave"): chi è
Turiddu? Quel berretto rosso da bersagliere con la nappa dietro. Chi è Alfio? Quel berretto
portato giusto sull’orecchio. Chi è Lola? Quelle mani sul ventre cariche d’oro. I vicini? Quei
menti e quegli occhi ammiccanti vedendo il berretto rosso passare.
Nessun’altra indicazione, e non ce ne sarebbe bisogno, se non una piccola anticipazione
geografica: Lola ha sposato "uno di Licodia"; poco dopo Turiddu dice a Santa: "Eh! Vostra
madre era di Licodia, lo sappiamo! Avete il sangue rissoso! ".
Tutte quelle che per la novella abbiamo chiamato sineddoche trasmigrano a teatro prima di
tutto nei dialoghi e poi nella meticolosità della resa scenica, dei costumi, della gestualità.
Si aggiunge a ciò l’effetto della scenografia, che va inequivocabilmente ad indicare l’ambiente e
le sue coordinate principali: ecco quindi la caserma dei carabinieri, e gli stessi carabinieri che
attraversano tutta la scena proprio dietro ad Alfio, rimanendo però sempre estranei all’azione;
e dal lato opposto la chiesa, che invece attira sempre i movimenti scenici di tutti (tranne
Santuzza) e che suonerà le campane all’esclamazione di Alfio.
Nel testo drammatico le didascalie non lasciano alcuno spazio interpretativo: il contadino deve
canticchiare sotto la tettoia, il carabiniere deve stare affacciato al balcone, Alfio deve battersi
la mano sul petto, Lola deve compiere il gesto plateale di baciare la terra, Turiddu e Alfio
devono dare grande risalto alla scena rusticana (la sfida a duello col morso all’orecchio) che,
data la sua estrema particolarità di "costume", ha bisogno di una battuta esplicativa di zio
Brasi.
Il dramma è composto con andamento corale e centrifugo: come un personaggio tende a
delinearsi, il "coro" degli altri tende a riappropriarsene. Solo al momento della sfida l’azione si
rallenta, emerge la coppia Alfio-Turiddu, rientra Lola sul fondo composto dalle comari tanto da
divenire solo una voce nel flusso delle risposte di Turiddu al tavolo dell’osteria. C’è un continuo
alternarsi di duetti e scene corali e persino il duello stesso è destinato a comporsi come un
episodio che si srotola attraverso la coralità delle impressioni dei personaggi in scena, che lo
comunicheranno al pubblico.
Eppure in questo tessuto corale i personaggi principali vengono focalizzati in modo tale da
assumere caratteristiche precise e immutabili: Santuzza è la passione, Turiddu il maschio
superbo, Alfio il difensore dell’onore, Lola la vanitosa superficiale.
Nel momento in cui questi personaggi, dalle caratteristiche così rigide, entrano in dialogo, si
crea tra loro un’unità che prefigura già la possibilità della trasposizione melodrammatica.
L’interesse in un tale trattamento del personaggio non è l’approfondimento dei sentimenti,
delle emozioni e delle passioni dei personaggi, bensì il rendere visibile e teatrale l’"effetto" dei
sentimenti, delle emozioni e delle passioni.
4.4 - Il successo del dramma
Nel passaggio dalla novella al dramma Verga spostò tutta l’attenzione sulla figura di Santuzza,
e quindi sul personaggio della donna sedotta e abbandonata. Ciò probabilmente fu determinato
dalle esigenze di "mercato" del teatro stesso. La presenza della "primadonna" - l’eroina
drammatica - era la condizione indispensabile per il successo di un dramma. La passionalità e
la pateticità della protagonista che chiama giustizia e che infine impreca vendetta
determineranno la fortuna del testo verghiano.
Cavalleria rusticana venne messa in scena per la prima volta dalla Compagnia di Cesare Rossi
al Teatro Carignano di Torino, il 14 gennaio del 1884, con Eleonora Duse nel ruolo di Santuzza.
13
Da una recensione, firmata da Eugenio Torelli Viollier, sul "Corriere della Sera" del giorno dopo,
si può comprendere lo strepitoso successo della rappresentazione:
Ieri sera il teatro Carignano era affollatissimo. Tutte le sedie occupate. In platea
alle sette e tre quarti non si penetrava più. V’erano studenti in gran numero.
L’attenzione, profonda fino dal principio, continuò sino alla scena fra la Duse e il
Checchi (Santuzza e compar Alfio). A questa scena proruppero applausi fragorosi e
generali, che si rinnovarono di scena in scena sino alla fine. Calato il sipario, gli
applausi e le acclamazioni continuarono insistenti, entusiastici. "Fuori l’autore!" si
gridava, "Viva Verga!". Era vero e proprio entusiasmo (Zappulla Muscarà: 7).
Il successo arrise a Cavalleria rusticana a lungo. La fortuna non si esaurirà nelle numerose
repliche e rappresentazioni, ma andrà molto più lontano: dalle varie versioni
melodrammatiche, di cui naturalmente la più celebre e riuscita resta quella musicata da
Mascagni (si veda l'UD 5), sfocerà nel cinema di inizio secolo, che di primedonne e di drammi a
forti tinte si nutriva accanitamente.
5 - Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni
5.1 - Biografia di Pietro Mascagni
Pietro Mascagni nacque a Livorno nel 1863. Frequentò il Conservatorio a
Milano, ma come molti altri compositori non vi trovò adeguate risposte
alle sue aspettative. Lo abbandonò, dunque, per dedicarsi fattivamente
alla disciplina musicale. Si stabilì così a Cerignola (in provincia di Pisa)
dove fu direttore della Filarmonica, della banda e del teatro municipali.
Nel 1889 l’editore Sonzogno indisse un concorso per un’opera lirica in un
atto. Mascagni vi partecipò componendo per l’occasione l’opera Cavalleria
rusticana, con la quale vinse il primo premio. Il grande successo di
Cavalleria rusticana permise al musicista di lasciare la provincia e di
intraprendere il "mestiere" di compositore con autonomia e giusta
remunerazione.
Pietro Mascagni
Dopo Cavalleria rusticana, seguendo anche le esigenze di un mercato
editoriale che assecondava il gusto del pubblico (alla ricerca di temi e
situazioni sempre nuovi), Mascagni tentò la commedia lirica con L’amico Fritz (1891) e poi
portò a termine un’opera molto difficile, il Guglielmo Ratcliff (1892), tratta da Heine, alla quale
si era già dedicato prima di Cavalleria e di cui musicò la semplice traduzione (non un libretto
scritto ad hoc).
Con un linguaggio più ricercato, venature estetizzanti e temi simbolisti, qualche anno dopo
Mascagni impasta l’opera Iris (1898) e, sempre su un livello piuttosto ricercato, imposta la
commedia lirica giocosa Le maschere (1901). Nel 1905 compone Amica, di cui esiste una
versione filmica del 1916 edita dalla Cines per la regia di Enrico Guazzoni, con Leda Gys come
protagonista; nel 1911 compone Isabeau, e nel 1913 la Parisina, su libretto di D’Annunzio. Per
il cinema compone poi direttamente una sinfonia, la Rapsodia satanica, colonna sonora
dell’omonimo film di Nino Oxilia del 1917 e in merito alla quale Carmine Gallone, il regista che
diresse il maggior numero di film tratti da opere liriche, si sarebbe espresso in questi termini:
[…] se avesse anticipato il suo avvento (la colonna sonora), noi avremmo ancora
oggi il capolavoro che Mascagni compose per Rapsodia satanica, un film muto
diretto dal poeta Nino Oxilia, al quale avevo avuto anch’io l’onore di collaborare
come autore, il cui spartito pare sia andato distrutto o smarrito. Nino Oxilia fu uno
dei primi sostenitori del valore del commento musicale nel film; infatti fu lui ad
insistere che per quell’opera di poesia, che egli finemente diresse, fosse chiamato il
grande Mascagni a comporre il commento. Con questo film, che ricordo benissimo,
io ebbi la precisa sensazione e le rivelazione che la musica poteva assurgere da
protagonista nello spettacolo cinematografico, giacché le immagini sembravano
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proiettate sullo schermo solo per commentare la fluida melodia del Maestro
(Gallone 1959: 103).
Il manoscritto della partitura di Mascagni per il film è stato rinvenuto alla fine degli anni
Ottanta dal musicologo svizzero Carlo Piccardi, che lo ha poi trascritto e fatto eseguire
dall’Orchestra della Svizzera Italiana.
Pietro Mascagni morì a Roma nel 1945.
5.2 - Il verismo letterario e il verismo musicale
Il verismo letterario attinse i propri temi e i propri soggetti soprattutto dalla realtà regionale
italiana di fine secolo XIX; l’opera per musica verista, invece, preferì soggetti storici e luoghi
distanti, non solo nel tempo, ma anche geograficamente.
Il verismo letterario descriveva le province periferiche dell’Italia unita, le regioni
sottosviluppate, a far risaltare il contrasto con le grandi città e con la loro civiltà altamente
differenziata, mentre nulla di analogo si verificava nelle opere musicali veriste, fatta eccezione,
ma un’eccezione di genere puramente esteriore, per Cavalleria rusticana e Pagliacci.
Sarebbe eccessivo definire il verismo letterario letteratura dialettale, ma una tendenza
innegabile in tal senso c’era; le opere musicali veriste, invece, si astenevano quasi
completamente dall’uso del dialetto. La ragione per cui né i libretti delle opere musicali veriste
né la loro drammaturgia concordavano con gli obiettivi e le tendenze del verismo letterario sta
soprattutto nel fatto che essi erano vincolati alla tradizione operistica.
L’opera in musica doveva rappresentare vicende ricche di pathos, i personaggi incarnavano
sentimenti o caratteri fortemente determinati (il coraggio, l’onestà, la forza, la dolcezza,
l’amore), di modo che la veste musicale risultasse più varia e accattivante nei suoi
innumerevoli contrasti di colore. Ma ciò non comportava un’indagine psicologica dei personaggi
e neppure quella positivistico-scientifica dei fatti e degli avvenimenti, accettati come fatali e
ineluttabili.
Mentre la letteratura verista rinunciava alla descrizione particolareggiata del paesaggio e
dell’ambiente, nell’opera musicale verista dominava incontrastato il carattere pittorico della
scena. L’ambiente non contribuiva in nessun modo alla spiegazione e al chiarimento
dell’azione, a differenza di quanto avveniva nella letteratura verista, ma rispondeva
esclusivamente all’esigenza dell’attrattiva esotica: Far West, Giappone, Spagna o Sicilia non
rispondevano ad un’esigenza di approfondimento sociale, bensì giocavano il loro ruolo di
attrattiva folklorica, esotica (anche se in ciò potrebbe pure leggersi una qualche affinità col
verismo letterario).
Mentre il verismo letterario scriveva di poveri e reietti per l’interesse verso la rappresentazione
di tutte le realtà sociali, l’opera verista li utilizzava esclusivamente per arricchire la sua
tavolozza, facendone oggetti dell’opera perché pittoreschi (Voss 1990: 47-55).
5.3 - L’occasione del libretto e i suoi autori
Gli autori del libretto di Cavalleria rusticana furono Giovanni Targioni-Tozzetti (Livorno, 18631934) e Guido Menasci (Livorno, 1867-1925). I due scrissero per Mascagni anche I Rantzau,
Zanetto, poi Silvano, Il piccolo Marat (cui collaborò Fogazzaro), Pinotta e Nerone.
L’idea di trarre il soggetto per il libretto dal dramma di Verga Cavalleria rusticana non fu di
Mascagni, ma di Targioni-Tozzetti: tuttavia il compositore fu subito d’accordo, in quanto era
rimasto impressionato dalla rappresentazione teatrale dell’opera cui aveva assistito a Milano,
nel 1884 (Compagnia Pasta). In quell’occasione, peraltro, Giannino Silvestri, amico sia di
Mascagni sia di Verga, aveva avanzato la proposta di trasporre il dramma in musica.
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Il libretto fu composto in fretta verso la fine del 1888, per essere consegnato a Mascagni, che
vi lavorò tra il gennaio e il maggio del 1889 e che presentò poi l’opera completa al concorso
indetto da Sonzogno. L’opera vinse e fu rappresentata al Teatro Costanzi di Roma nel 1890.
Afferma Luigi Baldacci:
Se non ci fosse stato il dramma portato al trionfo dalla Duse e ci fosse stata solo la
novella, non avremmo avuto la "Cavalleria" di Mascagni. E questo non tanto per
l’ovvia considerazione che il successo di pubblico di cui si giovò il dramma e quello
letterario della novella sono assolutamente imparagonabili e che il dramma, e non
la novella, era il più adatto a stimolare la fantasia di un librettista e di un
compositore, ma anche e soprattutto per un’altra ragione: e cioè che la riduzione
teatrale offre già tutte quelle garanzie per una soluzione di tipo melodrammatico
che nella novella sono assenti (Baldacci 1990: 43).
5.4 - Il libretto di Cavalleria rusticana
Nel dramma verghiano, a differenza che nella novella, emerge come protagonista assoluta
Santuzza (mentre nella novella i veri protagonisti erano Turiddu e Lola). Nel dramma, inoltre, il
personaggio femminile è già fortemente connotato da un’aura di intenso pathos che ne anticipa
la resa melodrammatica.
Santa, che ha rilievo soltanto nella prima parte della novella, è l’opposto del personaggio che
sarà realizzato nel dramma: è una ragazzetta ricca e sventata, che sta al gioco del
corteggiamento di Turiddu. Non ha un vero spessore psicologico ed è estranea ad ogni
dimensione tragica: anzi, la sua rabbia e il suo orgoglio ferito la spingono a rivelare a compare
Alfio il tradimento della moglie, quasi come se si trattasse di un pettegolezzo.
Tutto nel dramma si tinge invece di tragedia e Santuzza ci appare lacrimevole e rassegnata al
suo destino di disgrazia, quale nella novella non era affatto.
Ma se il personaggio di Santuzza migra dal dramma al melodramma quasi intatto nelle sue
caratteristiche drammatiche, anzi ne risulta ravvivato dalla musica, non così si può dire dei
personaggi minori, quelli di secondo piano, che nel libretto vengono tagliati di netto. Il ruolo di
coralità, quasi nel senso classico, che essi conferivano al dramma, nel libretto si perde: i cori di
Cavalleria, a cominciare da quello d’apertura, fuori scena e poi in scena, non sono finalizzati
all’idea di coralità che si diceva, ma servono a introdurre un diaframma d’attesa dilatando i
tempi - serrati e sospinti verso la catàstrofe - che il libretto aveva mutuato dal dramma e a
fornire il giusto colorito folklorico, che altrimenti si sarebbe perso.
Il libretto di Cavalleria non poteva essere tra i più meditati, perché venne elaborato in fretta
per il concorso Sonzogno ed è per questo, probabilmente, che non apportò sostanziali
modifiche al testo verghiano d’origine, né nella sostanza, né nella struttura.
5.5 - Cavalleria rusticana segna la nascita della "Giovane scuola"
Cavalleria rusticana segnò la nascita di quella "Giovane scuola" di cui fecero parte compositori
come Puccini e Leoncavallo, per i quali l’esempio mascagnano funse da vero e proprio
prototipo. I primi capolavori pucciniani, Manon Lescaut e Bohème, dovevano seguire dopo
rispettivamente tre e sei anni. Ruggero Leoncavallo vi si ispirò per scrivere di getto I Pagliacci
(1892), opera con la quale, fin dal 1893, Cavalleria entrò in un celebre connubio, favorito per
altro, oltre che da intrinseche affinità, dalla comune appartenenza alla Casa Musicale
Sonzogno.
L’opera di Mascagni è un lavoro nuovo e originale per il tempo in cui nasce: diverso da ciò che
lo aveva preceduto e precursore di opere che altri avrebbero scritto dopo. Senza Cavalleria i
Pagliacci forse non sarebbero nati, e taluni aspetti delle prime opere di Puccini e di Strauss
sarebbero maturati in modi probabilmente differenti.
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Per esempio, il Preludio è concepito da Mascagni in modo diverso, non come la solita Sinfonia
d’apertura, ma come un’introduzione espositiva disposta intorno a un brano vocale (la celebre
"Siciliana" cantata da Turiddu "entro le scene") che serve a suggerire il colore locale,
l’ambiente sonoro entro il quale si svolgerà la vicenda.
Come nota Roman Vlad, Mascagni apporta delle innovazioni anche sul piano tonale: "I
tradizionali confini della tonalità appaiono vieppiù allargati laddove, come nel tratto finale del
'Coro d’introduzione', Mascagni dischiude una prospettiva armonica davvero inedita" (Vlad
1990: 21).
Un altro esempio di modernità Mascagni lo fornisce nella "Siciliana", con l’uso della poliritmia:
articolazione ternaria del canto (tre volte due ottavi) e binaria dell’accompagnamento (due
volte tre ottavi).
Quest’opera portò un proprio originale, non trascurabile, contributo all’evolversi della musica
europea poco prima dell’esplosione delle avanguardie musicali. Purtroppo Mascagni non riuscì
nei lavori successivi a mantenersi al livello di Cavalleria. Compose parecchie opere ricche di
particolari preziosi e interessanti, ma senza mai riuscire ad eguagliare il suo primo e massimo
capolavoro. Cavalleria rusticana rappresentò un culmine della letteratura operistica che non fu
davvero facile sorpassare, neppure per il suo autore.
6 - Cavalleria rusticana: elementi di confronto nelle tre versioni
6.1 - Trama dell'opera musicale
Unico atto, ambientato in Sicilia alla fine dell'800.
All'alba della domenica di Pasqua, Turiddu (tenore), figlio di Mamma Lucia (contralto) intona
un canto malinconico ("O Lola ch'hai di latti la cammisa") per Lola (mezzo soprano), la ragazza
di cui era innamorato prima di partire militare. Al suo ritorno, Turiddu aveva trovato Lola sposa
del carrettiere Alfio (baritono). Ancora innamorato di lei, aveva cercato di dimenticarla
seducendo Santuzza (soprano). Ma Lola, gelosa di Santuzza, aveva attirato di nuovo a sé
Turiddu, intrattenendo con lui una relazione amorosa, approfittando delle lunghe assenze del
marito.
Nella prima scena Santuzza si reca a casa di Lucia per parlare di Turiddu. Sopraggiunge Alfio,
che prima intona un canto di lode del suo mestiere ("Oh, che bel mestiere fare il carrettiere") e
poi chiede a Mamma Lucia un bicchiere di vino. Lucia dice di non averne e che suo figlio si è
recato nel paese vicino ad acquistarlo. Alfio, allora, afferma di avere visto Turiddu quella
mattina stessa nei pressi di casa sua, ma quando Lucia sta per chiedere ulteriori spiegazioni,
viene fermata da Santuzza. In quel mentre passa la processione dei fedeli che intonano il
canto del "Regina Coeli".
Terminato il coro, la gente entra in chiesa, mentre Santuzza, rimasta sola con Lucia, le confida
("Voi lo sapete, o mamma") che Turiddu, dopo averle tolto l'onore e promesso di sposarla, ha
ricominciato a trescare con Lola. Scossa dalla notizia, mamma Lucia corre in chiesa per
pregare. Giunge intanto Turiddu sulla piazza del paese: egli risponde evasivamente alle
domande di Santuzza tentando invano di calmarla. Il dialogo è interrotto dall'arrivo di Lola che
sta per recarsi in chiesa cantando uno stornello. Santuzza intanto trattiene Turiddu per un
braccio impedendogli di seguire Lola e, piangente, lo implora di non abbandonarla; ma Turiddu
seccato la respinge con violenza ed entra in chiesa. Santuzza lo maledice per avere infranto la
promessa delle nozze ("A te la mala Pasqua! Spergiuro!") e rivela la sua tresca con Lola ad
Alfio, appena sopraggiunto, il quale, dapprima incredulo, si ripromette di vendicarsi entro il
giorno stesso. Santuzza esce di scena e con la piazza vuota si odono le struggenti note
dell’Intermezzo.
Al termine della messa uomini e donne escono dalla chiesa e Turiddu invita gli amici a bere
("Viva il vino spumeggiante"), inneggiando alla festa e alla bellezza di Lola. Sopraggiunge Alfio,
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che, invitato al brindisi, rifiuta sdegnato. Turiddu comprende il gesto di sfida e butta a terra il
vino. Le donne si ritirano spaventate. I rivali si abbracciano e Turiddu, dopo aver morso
l'orecchio di Alfio, segno, nella tradizione siciliana, della sfida a duello, dichiara che lo
raggiungerà presto dietro l'orto. Poi ha un ultimo pensiero di pietà per Santuzza e la
raccomanda alla madre, alla quale poi chiede di essere benedetto. Subito dopo fugge via.
Giunge Santuzza, che abbraccia Mamma Lucia, ignara del duello, ma in preda ad un triste
presentimento. Si ode poco dopo un mormorio lontano e infine il grido delle donne: "Hanno
ammazzato compare Turiddu".
6.2 - Novità nella struttura del melodramma
Mascagni riesce nella difficile impresa di concentrare nel breve spazio dell’atto unico Cavalleria
rusticana tutti gli stilemi musicali e teatrali che compongono un'opera lirica, mantenendo, e
anzi esaltando, le caratteristiche di ogni componente musicale, ma operando in modo del tutto
nuovo, addirittura quasi rivoluzionario.
Il capolavoro di Mascagni è dunque un'opera completa, in cui, se da una parte non mancano
alcune forme tradizionali dell’opera in musica, dall’altra questa è quasi magicamente
concentrata nel tempo: il Preludio, ad esempio, è basato, come di prassi, su temi di momenti
"forti" dell'opera (duetto tra Santuzza e Turiddu), ma inizia con melodie dolci e sinuose che
nascono lentamente e si portano dal "pianissimo" al "fortissimo", dando così
contemporaneamente l'idea dell'alba che nasce nel paese dove si svolge il dramma e del
contrasto tra dolcezza e passione, fede religiosa e odio, che costituisce la cifra principale del
dramma.
Il Preludio sfocia senza soluzione di continuità nella Siciliana, in cui Turiddu si presenta sulla
scena manifestando la sua passione per l'amante Lola. Dalla Siciliana si torna quasi senza
accorgersene ai temi del Preludio, che assume dunque la canonica forma tripartita.
Terminato il composito Preludio, si passa a un grande affresco corale, "Gli aranci olezzano": i
grandi cori non possono mancare in un'opera completa, e qui troviamo dei cori tra i più celebri
dell'intera storia del melodramma italiano.
Un altro esempio di efficace concentrazione si ha tra la sortita di Alfio e l'altro grande momento
corale dell'opera, il celebre Inno pasquale "Inneggiamo, il Signor non è morto", in cui solo due
pagine di recitativo si frappongono tra i due momenti. Questo coro è composto di sezioni
staccate, che coprono in poche battute diversi stili corali: dal coro polifonico "a cappella", in
puro stile sacro, al maestoso inno popolare in cui la polifonia viene sostenuta dall'orchestra.
Anche nel finale si intersecano diversi piani musicali: gli interventi drammatici del coro, la
scura orchestrazione, la sfida tra Turiddu e Alfio. Ancora poche pagine in cui l'orchestra oscilla
tra "fortissimo" e "pianissimo" preparano la tragedia finale: il celebre urlo "Hanno ammazzato
compare Turiddu" porta l'opera al termine tra il clangore degli ottoni ed il furioso precipitare
degli archi.
Assai interessante è notare che la brevità di Cavalleria è dovuta non a una precisa scelta
estetica, bensì ad una necessità esterna, ovvero ai limiti di durata imposti dal bando del
concorso per cui l'opera fu scritta (vedi 5.1). Pertanto fu notevole la capacità di Mascagni di
concentrare in una partitura breve tutti i componenti di un'opera lirica senza ometterne alcuno,
sacrificando invece le parti ridondanti, ripetitive, perorative, esplicative del melodramma.
Proprio quest’abilità di sintesi deve essere riconosciuta al musicista livornese, che ha saputo
creare un'opera non "ridotta" ma "concentrata", pronta per essere gustata in tempi "brevi ma
intensi".
6.3 - Musicalità del linguaggio letterario
Sono molti i critici che vedono già nel dramma verghiano il profilarsi della sua resa
melodrammatica, gli accenni cioè a una musicalità quasi necessaria, ricercata dallo stesso
scrittore siciliano.
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La musicalità può essere riscontrata già nella novella, nei timbri e nei toni musicali di certe
espressioni di Turiddu, oppure nella costante aspirazione allo sfogo lirico dei personaggi del
dramma o nella continua tendenza alla coralità dei personaggi secondari.
Nel passaggio dalla musicalità alla musica elementi avvertibili, e suggestivi, di
siffatta specie lirica sono stati raccolti dal sanguigno melodismo mascagnano,
individuati e svolti da quella popolaresca canorità in una traduzione
melodrammatica di cui si può dire che lo stesso Verga avesse anticipato le linee.
Quando, fin dal 1884, dopo la rappresentazione del dramma, chiedeva all’amico
catanese maestro Giuseppe Perrotta di comporre per l’integrazione musicale di
Cavalleria rusticana "una specie di sinfonia ed epilogo", qualcosa "che sia semplice
soprattutto, chiara ed efficace, intonata al soggetto, senza astruserie né difficoltà,
qualcosa che abbia l’efficacia della semplicità, il colore, il soffio veramente siciliano
e campestre; un canto d’amore che sospiri nella notte, quasi il caldo anelito di
Turiddu che va a lagnarsi sotto le finestre di gna’ Lola ed il lamento di Santuzza che
attende invano. Per la vita del villaggio che si desta, il suono delle campane a festa,
la nota di gelosia e di amore che insiste e forma pedale, le grida dello accorruomo,
lo strido della madre e dell’amante…" (Morini 1987: 17).
6.4 - Elementi del passaggio dal dramma al melodramma
Si è già messo in evidenza che non concorrono molti elementi a marcare il passaggio dal
dramma verghiano al libretto di Menasci e Targioni-Tozzetti per Mascagni, tuttavia si può
ancora porre l’attenzione sul potenziamento drammatico del personaggio di Santuzza
(soprano), la cui presenza in scena sarà quasi sempre accompagnata da tonalità minori; e sulla
forte caratterizzazione popolareggiante di Lola (mezzosoprano), che si presenta in scena
intonando uno stornello: "…fior di giaggiolo / gli angeli belli stanno a mille in cielo, / ma bello
come lui ce n’è uno solo" e che dunque non può che cadere in secondo piano, rispetto alla
potenza melodrammatica della sua rivale.
I personaggi secondari presenti nel dramma (lo Zio Brasi, Comare Camilla, la Zia Filomena,
Pippuzza) spariscono nel libretto, per essere inglobati nel più vasto e anonimo coro di uomini e
donne del paese siciliano. Dunque, coloro che nel dramma erano i singoli rappresentanti di una
certa coralità, diventano nel libretto il concretizzarsi della coralità stessa.
Da notare ancora la semplificazione del linguaggio e l’uso di alcuni versi in particolare come:
quinari, senari, decasillabi, endecasillabi. Su questo versante è interessante notare che tutti i
personaggi mantengono i nomi del dramma, tranne, per ovvie ragioni di musicalità, la Gna’
Nunzia, che diviene nel libretto un musicalissimo quinario: Mamma Lucia.
Eppure nella Cavalleria di Targioni-Tozzetti e Menasci va perduta interamente la
chiave espressiva di Verga. L’ambiente, il colore, il contorno con le sue figurine da
cui il dramma dovrà emergere gradualmente, in altre parole la coralità verghiana,
nel libretto di Cavalleria (che pure si rifà solo al dramma ignorando la novella) non
ci sono più. È costruito all’antica, tutto sui personaggi; ci sono i cori, non la coralità.
Non lasciamoci impressionare da certe frasi trasferite di peso. "Lola v’adorna il tetto
in malo modo": la sostanza linguistica della Cavalleria verghiana, l’animus dialettale
sono scomparsi. Boito aveva dimostrato che cosa dovesse intendersi per un libretto
bello: il recupero della parola del poeta, il procedere per incastonature. Cavalleria
non è un libretto bello; ma è per fortuna un libretto funzionale, è un bel libretto.
Mascagni, che pure aveva in cantiere il Ratcliff, lascia da parte l’espressione
musicale della parola: distende l’onda lunga della sua musica su un graticcio
essenzialissimo. La scelta culturale di Cavalleria era però rimasta un a priori; non si
era trasferita nella fattura del libretto. E questa, lo ripetiamo, fu per allora una
fortuna (Baldacci 1987: 81).
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7 - La fortuna di Cavalleria rusticana
7.1 - La fortuna del melodramma
Cavalleria rusticana di Mascagni ebbe il suo battesimo di gloria al Teatro Costanzi di Roma
(l’attuale Teatro dell’Opera) la sera del 17 maggio 1890. Cantavano tra gli altri, quella sera, il
tenore Roberto Stagno e Gemma Bellincioni, interpreti memorabili, per i quali pubblico e critici,
concordi, tirarono in ballo nientemeno che la coppia più celebre della nostra scena di prosa,
Flavio Andò ed Eleonora Duse. L’opera venne replicata sette volte, suscitando ogni volta
l’entusiasmo del pubblico. L’esito complessivo fu veramente trionfale, e nel giro di un anno o
poco più Cavalleria rusticana veniva applaudita nei maggiori teatri del mondo: all’incirca
trecento, precisano le cronache.
Alla Scala arrivò nel gennaio del 1891, sotto la direzione di Leopoldo Magnone, che già le
aveva fatto da padrino a Roma e a Livorno, la città natale di Pietro Mascagni, e vi fu replicata
per ventidue sere.
A Budapest venne rappresentata per tre mesi consecutivi, direttore Gustav Mahler, che la
portò poi, in tedesco, ad Amburgo. All’opera imperiale di Berlino, dove a dirigerla per primo fu
Karl Muck, toccò in un biennio il centinaio di rappresentazioni; e altrettanto accadde a Dresda,
a Colonia, a Monaco di Baviera. A Vienna suscitò gli entusiasmi di Cajkovskij, ospite della
capitale austriaca, e incuriosì Brahms.
"Una forte sensualità e un temperamento passionale arroventano l’opera, che dall’inizio sino
alla fine avvince ed emoziona: Mascagni ha ereditato da Verdi il gusto della musica che scuote
il sangue", scrisse il critico e saggista Hanslick (Morini 1990: 7).
Anche da noi Alfredo Casella, uno dei protagonisti del rinnovamento musicale novecentesco,
arrivò a riconoscere che Cavalleria aveva rappresentato una luminosa "reazione al
wagnerismo, realizzando con la sua prepotente vitalità di popolo, un perfetto modello di
quell’arte mediterranea invocata profeticamente da Nietzsche" (Morini 1990: 8).
7.2 - Le vicende giudiziarie di Cavalleria rusticana
Contrariamente a quanto si possa pensare, lo straordinario successo di Cavalleria rusticana
non diede vita ad amicizia e stima tra Verga e Mascagni, bensì a complesse e lunghe vicende
giudiziarie.
Dopo il grande e inaspettato successo della Cavalleria di Mascagni, Verga ritenne di citare il
musicista e la sua casa editrice, la Sonzogno, poiché pensava di non aver ricevuto, come
pagamento dei diritti, una cifra adeguata ai ricchi incassi che l’opera lirica aveva poi ottenuto in
tutto il mondo. La causa si concluse in prima istanza nel 1893 con l’accettazione una tantum
da parte di Verga della somma di lire 162.000.
Verga, non contento, continuò a cedere i diritti per musicare la sua opera (non si dimentichi
che prima di Mascagni li aveva già ceduti a Stanislao Gastaldon, un coetaneo torinese di
Mascagni, noto per le sue romanze da camera stile "gusto fine-secolo", che ne aveva tratto
un’opera in tre atti dal titolo Mala Pasqua). Nel 1907 Verga cedette i diritti a un altro musicista,
un certo Domenico Monleone, e a quel punto Mascagni portò i due in giudizio, citandoli per
"contraffazione": la Corte d’appello di Milano diede ragione a Mascagni e vietò così a Verga di
concedere ad altri la musicazione del libretto tratto dalle scene di Cavalleria. Condannò inoltre
sia Verga sia i fratelli Monleone (uno aveva scritto il libretto, l’altro l’aveva musicato) per aver
contraffatto e illecitamente imitato l’opera di Mascagni.
Ma le vicende giudiziarie non terminarono qui: nel frattempo, infatti, Cavalleria aveva catturato
l’interesse delle case di produzione cinematografiche. Nel 1916 la Flegrea Film aveva ricevuto
dal Mascagni e dalla casa editrice Sonzogno la concessione in esclusiva per trarre un film da
Cavalleria rusticana, ma, poiché Verga non aveva preso parte alle trattative, lo scrittore si
accordò separatamente con la casa di produzione cinematografica "Tespi", impegnandosi con
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essa. Infatti, la sera del 12 giugno 1916, fu proiettato al Salone Margherita di Roma il film
della Tespi. Ne nacque un’ulteriore disputa giudiziaria assai controversa, al termine della quale
Verga ebbe la meglio: i giudici riconobbero a Mascagni il diritto sul libretto e sul melodramma,
mentre la proprietà totale dell'opera drammatica e narrativa rimaneva a Verga. Il Tribunale
affermò che nel film non vi era la pretesa contraffazione del libretto, né tanto meno plagio
della musica, poiché risultava che i 18 pezzi musicali che avevano accompagnato il film non
avevano niente a che vedere con la musica di Mascagni.
Il compositore perse così quest’ultimo round, ma il trionfo che la sua opera riscosse in tutto il
mondo lo ripagò ampiamente delle spese sostenute. Perfino Verga se ne accorse, quando, nei
suoi tardi anni, al musicista Giuseppe Mulé che lo esortava a scrivere disse: "Per chi dovrei
scrivere? Di ciò che ho scritto sopravvive soltanto ‘Cavalleria rusticana’ e non per virtù mia, ma
di Pietro Mascagni. Le porto, quelle paginette, come un cappio al collo!" (Celati 1990: 120).
7.3 - Cavalleria al cinema
Come abbiamo visto (in 7.2) Cavalleria Rusticana incontrò assai precocemente il cinema,
sebbene in condizioni di scarsa serenità: nel 1916, infatti, vennero girati due film in
concorrenza tra loro, uno diretto da Ubaldo Maria Del Colle e l'altro da Ugo Falena.
Per queste due diverse versioni cinematografiche le rispettive case di produzione, la Flegrea e
la Tespi, avevano ottenuto la cessione dei diritti sull’opera, ma l’una da Verga e l’altra da
Mascagni: ne nacque naturalmente l’ennesima causa giudiziaria (si veda 7.2).
Pio Fasanelli così commentava i due film, in un articolo su "La Cine-Fono" del 25 Luglio 1916:
[...] La Cavalleria rusticana della Tespi è commentata da scelti brani di musica
ottimamente collegati è vero, ma che non è la suggestiva musica mascagnana. E
poiché l'azione scenica di Cavalleria rusticana non si sa concepire se non
accompagnata dalle carezzevoli e profonde armonie mascagnane, ne risulta che il
film non soddisfa completamente il pubblico che esce dalla sala di proiezione con
l'animo in pena, come se avesse assistito ad un'opera mozza, priva di ogni arte,
povera sotto ogni aspetto. [...] La Cavalleria della Flegrea ha dei quadri
indovinatissimi. La prima notte d'amore di Santuzza, che si svolge in un fienile, è
semplicemente meravigliosa per la messa in scena; e così il duello, reso in modo
geniale, perché il pubblico segue la tragica lotta osservando l'ombra che i duellanti
invisibili proiettano sul terreno inondato di sole, senza assistere alla barbara
schermaglia dei lunghi e acuminati coltelli e alla vibrazione del colpo mortale tirato
da Alfio. A coprire i difetti di questa edizione provvede la musica del Maestro
Mascagni, che accompagna il film dall'inizio col preludio del primo atto, per seguirlo
passo passo, con tutto lo spartito, fino alla fine.
L’opera ha comunque proseguito il suo fortunato percorso cinematografico per tutto il secolo, e
anzi proprio la sua vita sul grande schermo ha contribuito al connubio, se non ideale almeno
formale, delle due versioni (il dramma e il melodramma), in quanto le varie sceneggiature
sono state il risultato del loro rimescolamento e reimpasto per meglio piegarle alle esigenze
filmiche.
Ne sono testimoni, ad esempio, Cavalleria rusticana di Amleto Palermi del 1939 o la celebre
versione di Carmine Gallone del 1953, con Anthony Quinn nel ruolo di Alfio, ambedue a metà
tra l’opera di Verga e il melodramma di Mascagni.
Trasposizioni fedeli, invece, al melodramma, sono rispettivamente quella di Zeffirelli del 1982,
con Placido Domingo (Turiddu) e Renato Bruson (Alfio) e quella per la TV di Liliana Cavani del
1996, con Josè Cura (Turiddu).
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7.4 - Cavalleria e il melodramma "plebeo"
Sulla scia del successo della Cavalleria rusticana di Mascagni si diffuse un genere di
rappresentazione per musica, per lo più di livello scadente, definita "plebea" e strutturata sulla
base delle caratteristiche dell’opera mascagnana.
Per sua definizione, il dramma plebeo doveva svolgersi in ambiente di tipo umile: popolani,
contadini, pescatori, operai; l’intreccio doveva prendere le mosse da una vicenda passionale,
una contesa sessuale, che doveva poi degenerare in tragedia; lo svolgimento della vicenda
doveva avvenire in epoca contemporanea e doveva soprattutto avere una forte connotazione
regionale, per la maggior parte dei casi, meridionale, ottenuta soprattutto con l’uso del dialetto
e attraverso la rappresentazione di usi folkloristici (sul genere del morso all’orecchio di Alfio,
ad esempio).
Altre caratteristiche erano: l’inserimento di scene di massa (partite a carte o morra, zuffe,
brindisi); l’elemento religioso, che talvolta comprende la presentazione di cerimonie di ampia
portata anche spettacolare; l’elemento mafioso.
Queste opere hanno tutte un taglio regionalistico-dialettale, come appare evidente da alcuni
titoli: Mala vita di Giordano, tratto dal dramma di O’voto di Salvatore Di Giacomo; Vendetta
sarda, Fior di Sardegna, Mariedda, Lucania, A basso porto, Nunziella, A Santa Lucia, La bella
D’Alghero.
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Bibliografia
Fonti
Cavalleria rusticana: melodramma verista, libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido
Menasci, musica di Pietro Mascagni, a cura di P. Balboni, Roma, Bonacci, 1995.
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Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla, Guida ai luoghi di Cavalleria rusticana a Vizzini,
Catania, Azienda Provinciale Turismo.
Letture consigliate
Stefano Scardovi (1994), L’opera dei bassifondi: il melodramma plebeo nel verismo musicale
italiano, Lucca, Hermes.
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