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Personaggi
Arcangelo, missionario in patria
di Antonello Mangano
Da bambino era un clandestino, figlio di italiani emigrati in Svizzera. Tornato a
casa ha preso i voti e lotta tutti i giorni per aiutare i lavoratori della
baraccopoli di Rignano Garganico, oltre mille africani sfruttati dai caporali per
la raccolta dei pomodori
(09 settembre 2013)
«Quando suonava il campanello correvo a
nascondermi nell'armadio». Arcangelo Maira è
figlio di emigrati della provincia di
Caltanissetta. La legge svizzera sull'abitabilità
prevedeva una stanza per ciascun figlio. «La
nostra casa invece era piccola. A Basilea sono
cresciuto col timore della polizia, con la
paura che ci cacciassero via», racconta. «Ero
un clandestino».
Oggi padre Arcangelo fa il missionario nella
sua nazione, nella baraccopoli autocostruita
dei raccoglitori di pomodoro. E' il Grand
Ghetto di Rignano Garganico (Foggia), oltre mille africani nel nulla della pianura
coltivata a pomodori. Domenica ha celebrato messa nel quartiere nigeriano del Ghetto.
Una zona con bar, superalcolici, luci stroboscopiche, divani e musica afroamericana che
non si spegne mai. La sera, agli ingressi, donne seminude attirano giovani foggiani alla
ricerca di un rapporto a basso costo.
Arcangelo Maira
«Gesù andava da quelli che gli altri evitavano», dice nell'omelia. I suoi fedeli sono
giovani volontari, qualche nigeriana e un ivoriano appena uscito di prigione che vuole
battezzarsi. «Ho fatto cinque anni per un litigio», racconta. «Mi hanno accusato senza
prove, oggi vivo dai monaci». Nei pressi una ragazza canta «sexy girl». Sul bancone del
bar, un vecchio cartello pubblicitario recita: «Cos'è la felicità?».
La vertenza. Padre Arcangelo ci fa da guida tra le vie polverose. In genere chi arriva per
la prima volta lo chiama «l'inferno». Senza riflettere sulle cause che lo producono. La
prima di queste è lo sfruttamento. «Ho sostenuto la vertenza sindacale di 320
braccianti», racconta il missionario scalabriniano. «A fine stagione, come spesso avviene,
due caporali erano spariti senza pagare. Eppure hanno lavorato per una delle più grosse
aziende della zona. Siamo andati a cercare i lavoratori fino a Rosarno. Moltissimi hanno
firmato la denuncia, ora aspettano che la giustizia faccia il suo corso».
Per evitare che accada di nuovo i volontari stanno stampando e distribuendo il «diario
del lavoratore»: un libretto in cui segnare data, orario, nomi dei compagni e cellulare,
luogo. E soprattutto i soldi ricevuti e quelli da avere. Altrimenti inseguire il caporale
diventa un'avventura.
Nel 2011, durante la raccolta delle angurie, gli africani diedero vita al primo (e unico)
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25/09/2013 17:24
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sciopero dei braccianti in Puglia. Yvan Sagnet ne era il portavoce, oggi fa il sindacalista.
Ci mostra un foglietto in cui sono annotati debiti da saldare per 15mila euro. In quelle
righe ci sono un'intera stagione di raccolta, decine di braccianti senza paga e un caporale
in fuga. Per evitare sorprese, i lavoratori annotano numeri di targa, registrano cellulari. I
caporali affinano le loro tecniche. Per caso leggiamo un sms di un rumeno che si riferisce
al «barbuto»: usa soprannomi anziché nomi propri. Dopo lo sciopero di Nardò il
caporalato è reato penale e una traccia scritta può portare in galera.
I giapponesi. Entriamo in un campo di pomodori nei pressi di Borgo Mezzanone. La
grande macchina per la raccolta automatizzata è guasta. I camionisti campani aspettano
che venga riparata. «Costa 80mila euro», spiegano. Intanto la raccolta non si ferma. Una
squadra è già all'opera. In mezzo un uomo con camicia, penna all'orecchio e foglio di
carta. Il caporale rumeno urla ordini agli africani piegati a testa in giù. «Ho raccolto tre
cassoni», dice un lavoratore. «No, sono due», ribatte lui. La discussione è già finita.
Tutto alla luce del sole, compresi i cassoni marchiati che porteranno il prodotto in
provincia di Salerno. «Il caporalato è il sistema di gestione dei lavoratori più efficiente
per le aziende», spiega Gianluca Nigro, operatore sociale con quindici anni di esperienza
sull'immigrazione in Puglia. «La formazione delle squadre, i pagamenti, il rispetto dei
tempi: tutto è esternalizzato. Quando non occorre, se non è funzionale alla produzione,
il caporalato non c'è ma i salari sono sempre bassi».
La provincia di Foggia produce buona parte del pomodoro italiano, raccolto da circa 15
mila braccianti africani e dell'Est Europa. Il salario è sempre lo stesso: 3,5 euro a
cassone, lo scatolone da 300 chili. Eppure non si tratta solo di un'economia arcaica come
potrebbero suggerire i taglieggiamenti sulle paghe, la fatica di scuotere le piante sotto il
sole di agosto, le urla dei «capi» e le fughe coi soldi. Tutta Europa viene inondata dalla
produzione locale. Il più importante imprenditore della provincia, Russo, l'anno scorso ha
venduto a Princes Italia, una società britannica controllata dalla multinazionale
giapponese Mitsubishi. Pelati, cubetti e concentrati finiranno in Inghilterra, Germania e
Francia. Paradossalmente, il 10% va al mercato africano. Complessivamente l'80% è
destinato all'export, con ricavi per 272 milioni di euro. Ovviamente non tutto il
pomodoro viene raccolto con squadre e caporali. E ogni anello della filiera può dire di
ignorare cosa avviene nel passaggio precedente.
Arcangelo Maira | caporalato | immigrati | Foggia | lavoro | sfruttamento
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