Communitas, n. 70 2013
#NoSlot 4. Sulla zona grigia. Dialogo con
Umberto Rapetto
di Marco Dotti
Fondatore e per undici anni direttore del GAT, il Gruppo anticrimine Tecnologico della
Guardia di Finanza, Umberto Rapetto è tra le massime autorità in tema di cybercrime e
guerra informatica. Nel 2012, da una sua indagine è nata la prima, clamorosa sentenza di
condanna da parte delle Corte dei Conti nei confronti di molti amministratori dell’Aams e di dieci
società concessionarie, multate con 2,5 miliardi di euro (la contestazione iniziale, che faceva leva
sui documenti di Rapetto, era però di 98 miliardi di euro) per il danno erariale prodotto dalle slot
machine
“invisibili”
alla
rete
di
controllo.
Lasciata la divisa, Umberto Rapetto oggi è consulente strategico di Telecom, oltre che
docente in numerosi atenei italiani e europei. Lo abbiamo incontrato a Gorizia, dove lo
scorso 22 maggio ha partecipato al Festival “È storia”, con una relazione proprio sulle
truffe
telematiche.
Tra gioco d’azzardo, legalità e vita quotidiana sembra di assistere a un movimento che in
gran parte riproduce quello che complessivamente ha legato economia finanziaria e
economia reale in una stretta che sappiamo potenzialmente mortale, ma da cui è comunque
difficile
affrancarsi…
Il vero problema è che la macchina del gioco produce soldi. Questa produzione di soldi viene
spesso interpretata – e lo è – come “economia”. Il problema è quindi il conflitto che si può
innescare tra economia e etica. Bisogna pertanto cercare di individuare i soggetti che – volenti o,
più spesso, nolenti – sono in condizione di generare questi soldi. O meglio, sono in condizione di
generare un debito per inseguire un sogno. Secondo quelli che ritengono il gioco una sorta di male
necessario, del gioco ne ha bisogno lo Stato ma, soprattutto, ne avrebbe bisogno il cittadino al
quale lo Stato non dovrebbe negare la possibilità di avere un sogno tirando la leva di una slot o
grattando un biglietto. Grattando un biglietto o tirando la leva di una slot il giocatore potrebbe
ottenere tutto quello che ha perso in precedenza e magari capitalizzarlo, ottenendo degli interessi
e poi, finalmente, una vincita.
La tesi del male minore risale agli ultimi anni del XVIII secolo e ci riporta alle polemiche
sulla liceità del gioco del lotto che condussero al ritiro della scomunica dei giocatori da
parte di Clemente XII… Meglio controllare il “male minore” del gioco, si diceva, ma garantire
un introito certo all’Erario, piuttosto che lasciare tutto nella clandestinità…
Quella del gioco è una dinamica illusoria. La capitalizzazione di ciò che è stato perso, il recupero
del debito, la messa a profitto di interessi e la vincita del tutto presunta, non fanno che innescare
questa dinamica. È una dinamica che ha ingenerato da un lato i più fantasiosi sistemi di
intrattenimento per offrire una gamma di soluzioni, sempre diverse e sempre più innovative, e
dall’altro mancanza di educazione. Il fatto che nessuno, fino a tempi recenti, ne abbia mai parlato
ha fatto sì che tutto si tramutasse in una sorta di esca incredibilmente appetibile. Stupisce che i
mezzi di informazione si occupino di questo problema solo dopo che su questo fronte sono stati
compiuti ampi disastri, ignorando non solo la storia passata, ma anche quella recente. Il fenomeno
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attuale affonda le sue radici una ventina di anni fa, quando si è passati da un “gioco d’azzardo
domestico” (pensiamo alla schedina del Totocalcio, pensiamo al Totip, pensiamo a quello che
poteva essere il biglietto della lotteria di Capodanno) a un gioco disponibile h24. Da qui si è
scoperto l’interesse per i cosiddetti “Gratta & Vinci” e, poco alla volta, con i primi giochi che si sono
affacciati nei locali pubblici – pensiamo al videopoker – ci si è resi conto che anche uno strumento
meccanico consentiva “grandi emozioni” capitalizzabili…Esistevano certo delle tabelle che,
secondo il Testo Unico di Pubblica Sicurezza, vietavano il ricorso alla pratica di determinati “giochi,
ma i meccanismi di regolamentazione sono stati molto lenti rispetto a una macchina che garantiva
comunque un introito anche per lo Stato.
Qual
è
la
situazione
in
questo
momento?
Il gioco d’azzardo è diventato un meccanismo diffuso endemicamente, ha prodotto degli effetti di
carattere sociale con delle forme di dipendenza, ha favorito indebitamento e usura – visto che le
persone hanno scommesso anche se non soprattutto soldi che non avevano – ha dato modo al
crimine organizzato di radicarsi. Noi siamo ancora convinti che il crimine organizzato sia quello di
Provenzano chiuso in un ovile. Al contrario… Il crimine organizzato ha il colletto bianco e nessuno
impedisce a una struttura criminale di mettere in piedi una Società per Azioni. Ecco perché
dovremmo avere un’attenzione elevatissima per capire quali possono essere le terminazioni
finanziare del crimine organizzato in quello che è il contesto industriale, economico e commerciale
di tutti i giorni. Teniamo conto che i figli dei mafiosi di un tempo hanno studiato, magari sono stati a
Oxford, sono persone di grandissime capacità. Quello che ci preoccupa non è la loro capacità, ma
che determinate doti vengano indirizzate per un obiettivo che è tutt’altro che “umanitario” o
“sociale”. Lo Stato ha fatto molto poco, mentre l’evoluzione tecnologica ha favorito chi aveva
pessime intenzioni su quel fronte. Lo Stato, ovviamente, ha avuto la sua parte adducendo ragioni
di cassa. Ma tanto valeva – lo dico in via provocatoria – istituire una tassa sulla morte: visto che
tutti moriamo, alla morte di un nostro caro si stabilisce per legge che i suoi beni vadano allo Stato.
È questo il modo di intervenire?
Il cittadino normale, quello che non gioca e non è interessato a giocare, però si chiede
come sia possibile che nessuno intervenga con decisione in questo ambito per capire se
tutto funziona in maniera corretta e secondo le norme, capendo ad esempio se una slot
machine è effettivamente collegata con la rete telematica di controllo…
Non è facile. Grazie alla miniaturizzazione, la tecnologia consente a uno strumento di ridottissimo
ingombro di svolgere la funzione di dieci cose più grandi, tutte esistenti all’interno di un medesimo
contenitore. Questo significa che se all’interno di un dispositivo capace di intrattenere e far
scommettere mettiamo una scheda lecita e omologata, nessuno però impedisce a chi predispone
quell’oggetto – omologato per esemplare unico, non vengono passati al controllo uno a uno – di
inserirvi altro. La macchina non può essere sigillata, perché necessiterà certamente di
manutenzione. Il fatto che siano oggetto di manutenzione, fa sì che se le schede interne
consentono un’espansione funzionale – vale a dire si possono agganciare a altri dispositivi poco
ingombranti, come una pendrive – basta inserire un piccolo dispositivo che con un telecomando
nelle mani del gestore dell’esercizio pubblico, che è l’ultimo anello della catena, fa sì che il
dispositivo può essere “switchato”, ossia girato dal funzionamento lecito al funzionamento illecito.
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Questo
che
cosa
comporta?
Comporta che la scheda originaria continua a dialogare e risulta che la macchina non è impiegata,
eppure sta funzionando e continua a giocare. Nella perversione, se vogliamo e magari non è
lontano dal vero, che ci possa essere la possibilità di regolare la possibilità di vincita…
Questo nel momento in cui la macchina è “girata”, è offline e quindi non mostra i propri
movimenti
alla
rete
di
controllo…
Esatto, perché sta girando su una delle schede parallele che sono state montate. Ovviamente
quasi nessuno sarebbe in grado di fare un controllo che ne determini il funzionamento solo sulla
scheda omologata. Lo sforzo di natura investigativa e di controllo va dunque a confliggere con una
impossibilità di fatto… Ci troviamo di fronte a qualcosa che è più grande delle risorse impiegabili.
Non servono o comunque non bastano deleghe e poteri attribuiti alle polizie locali…
No, perché non è un compito di carattere meramente amministrativo. Non si tratta di controllare se
c’è un bollo, una certificazione, un timbro sul libretto.
Andiamo all’assurdo e immaginiamoci una possibile via di uscita da un sistema che, così
articolato,
non
sembra
offrirne.
Lei
che
cosa
farebbe?
Se proprio non potessimo vietare il tutto, farei in modo che quella macchinette venissero prodotte
dallo Stato. Non solo per responsabilizzare lo Stato rispetto a un processo in cui è comunque parte
in causa, ma anche per offrire garanzie che altrimenti non avremmo. Producendole, lo Stato
offrirebbe maggiore garanzia che, almeno per il primo periodo, quelle macchine hanno la
possibilità di funzionare secondo certi standard. Se lo Stato potesse garantire di avere un vero e
proprio monopolio nella produzione di questi apparecchi avremmo la certezza che sono state
poste tutte le misure di sicurezza e che lo strumento non è modificabile. Questo è un primo livello
di intervento, che ovviamente non vedrebbe d’accordo le imprese del settore che nella produzione
e manutenzione di slot machine hanno una gran parte del proprio business.
Un secondo livello può riguardare interventi per interfacciare sia la manutenzione,
eseguibile da remoto, sia la tracciabilità del denaro giocato, magari attraverso la tessera
sanitaria…
Questo aprirebbe comunque grandi problemi relativamente alla privacy. Si tratta però di
immaginare un percorso di progressiva approssimazione a una posizione etica. Il primo passo
potremmo riassumerlo in uno slogan di Bartali: “qui s’ha tutto da rifare”. Dovremmo acquisire i
progetti, facendo in modo che queste macchine vengano prodotte solo dallo Stato e nel reale
interesse di chi gioca. Finché la macchina viene prodotta da un terzo, rispetto allo Stato, noi
possiamo trovarci di fronte a macchine che fanno tutto ciò che devono, ma fanno anche qualcosa
di più. Bisognerebbe immaginare un sistema di produzione con controlli rigorosissimi e sanzioni
pesantissime e con dei check funzionali che consentano di vedere se quella macchina fa davvero
quello che è chiamata a fare e non qualcosa di più. Il pensiero che il gestore di un locale, nel
momento in cui installa le macchinette – e spesso la sua scelta è coartata – disponga anche di un
telecomando per regolare il gioco su una scheda “visibile” o su un’altra… Ecco, queste sono cose
che quando uno se le sente raccontare fanno accaponare la pelle. Il pensiero che, al di là dell’alea
del gioco, ci sia anche l’incertezza sul fatto che magari qualcuno stia barando è un problema che si
aggiunge al problema.
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La privacy è un problema, certo, ma lo è ancora di più il fatto che se devo depositare denaro
contante in banca la mia privacy viene meno per ragioni di “trasparenza” e antiriciclaggio,
mentre
se
gioco
20.000
euro
tutto
passa
in
secondo
piano…
Qui casca l’asino. Se parliamo di redditometro, perché non inserire nel redditometro quanto una
persona ha giocato durante l’anno? Lo troverei molto più ragionevole che inserire, che ne so, le
spese correnti… La tracciabilità e l’incrocio dei dati tra tessera sanitaria e codice fiscale potrebbe
rivelare molte cose. Potrebbe rivelare, ad esempio, che molta gente gioca soldi che non ha e
quindi ci porterebbe a chiederci come fa a reperire il contante per giocare. Basterebbe chiedere a
chi gioca e scommette più di certe cifre come fa a avere la disponibilità di quelle cifre.
Abbiamo parlato delle slot machine “fisiche”, quelle che vediamo nei bar. Ma dal dicembre
scorso sono state autorizzate anche le slot machine on line, che in pochi mesi hanno
fatturato cifre da capogiro: solo nel mese di marzo la raccolta è stata di 760 milioni di euro,
con una tassazione bassissima e un introito quasi nullo per le casse dell’Erario…
Non solo, oltre al “legale” esiste tutto un alveo di possibilità di bucare il sistema che ha
dell’incredibile. Molti siti sono bloccati perché non autorizzati dall’Aams. Ma i siti bloccati hanno
un’altissima capacità di segnalare ai giocatori – bananalmente, tramite mail – il loro cambio di
ubicazione e indirizzo. Così, accanto a una ridotta aggressività istituzionale nei confronti dei siti on
line si vanno a aggiungere le dinamiche di nomadismo che consentono agli illegali di farla franca.
Non esistono, però, solo i siti, ma anche sistemi di piattaforme che disponendo di certe credenziali
permettono l’accesso solo a alcune persone, come in un club privato. Quindi anche chi vuole
esercitare il controllo si trova di fronte una barriera digitale che non gli consente di sapere cosa
avviene all’interno di quel sito. Ai fini investigativi, però, questo tipo di gioco ha un punto di
riferimento: l’uso delle carte di credito. Qual è il vero problema? Che esistono carte di credito e di
gioco che sono anonime. La moneta legata al gioco d’azzardo e la moneta elettronica legata al
gioco d’azzardo hanno avuto una pervasività incredibile. I flussi monetari sono oramai totalmente
internazionalizzati. Io posso immettere denaro sporco in un Paese, tramutarlo in forme di credito
nei confronti di qualunque organizzazione mi offra un servizio in un altro Paese e poi farlo circolare
su carte di credito aperte all’estero. Denaro che ha provenienza distutibile, una volta immesso nel
sistema diventa denaro a tutti gli effetti e quindi difficilmente riconducibile a attività illecite. È un
problema di flussi. Il fatto che esistono soggetti che aprono conti con documenti falsi, ma anche
carte di credito non riconducibili a conti e persino, entro certi limiti, anonime permettono di aggirare
i controlli tradizionali e cavalcare l’onda di questi flussi, nella finanza e nell’azzardo. Per agire
dobbiamo capire e capire richiede uno sforzo continuo di intelligenza e scaltrezza. Ma non
abbiamo scelte: dobbiamo essere all’altezza della sfida che ci si presenta davanti.
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