Sagra di San Giovanni Battista
Castello di San Giovanni Ilarione
25-26-27 Giugno 2010
32ª
Mostra
Provinciale
delle Ciliegie
Alta Val d’Alpone
Comune
San Giovanni Ilarione
Comune
Vestenanova
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San Giovanni Ilarione
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Sagra di San Giovanni Battista
32a Mostra delle Ciliegie
25-26-27 Giugno 2010
Il saluto dei sindaci
O
ggi come ieri una terra si riconosce da ciò che riesce a produrre.
Basta guardare all’alto livello della produzione cerasicola o vitivinicola che i nostri agricoltori riescono a raggiungere per dire che la nostra
è davvero una terra buona, sulla quale vale
la pena che anche i giovani puntino per il
loro futuro. Ma per avere una buona produzione al giorno d’oggi non basta aver cura
dei campi, bisogna anche sapere valorizzare
i nostri prodotti al momento dell’immissione sul mercato e della commercializzazione.
Bisogna far vedere quanto i nostri prodotti
davvero valgono.
Per questo una Mostra come quella che ormai da 32 anni viene organizzata durante
la Sagra patronale di Castello merita un’attenzione particolare, perché è una vetrina in
cui si rispecchia tutto il nostro paese, una
manifestazione che dà lustro non solo alle
nostre tradizioni, ma ancor più alle capacità
produttive di cui la nostra zona, in campo
cerasicolo, può andare giustamente fiera.
L’Amministrazione comunale di San Giovanni Ilarione, che ho l’onore di rappresentare,
si sente particolarmente vicina agli organizzatori, sapendo cosa rappresenta per il nostro paese una manifestazione come questa.
Un grazie da parte di tutti i cittadini di San
Giovanni a chi da tanti anni organizza la
Mostra e un invito a tutti a rendere questa
antica Sagra come un’occasione di festa e di
incontro per tutti, anche per i tanti ospiti che
visiteranno in questi giorni il nostro paese.
I
n un periodo di crisi economica ormai
generalizzata, la nostra vallata ha nella produzione cerasicola una risorsa
in più. La coltivazione delle ciliegie
nei campi e sulle colline che ci circondano ha espresso in questi ultimi anni un
grado di valore davvero altissimo, tanto che
si assiste ad un graduale ritorno alla terra
anche da parte delle generazioni più giovani, magari portando una nuova e migliorata
conoscenza delle tecniche di coltivazione, di
sfruttamento dei terreni, di conduzione di
un’azienda.
Ormai nulla viene fatto casualmente o seguendo solamente la tradizione: il settore
agricolo ha sempre più bisogno di persone
capaci di adeguarsi ad un mondo in continua evoluzione e competenti non solo nel lavorare i campi, ma anche nell’immettere sul
mercato i prodotti, nel saper fare le scelte
giuste al momento giusto, diventando sempre più imprenditori di sé stessi.
Mostre, rassegne, fiere, manifestazioni promozionali devono diventare ogni anno di più
lo spazio per presentare le credenziali della
nostra terra, che come sappiamo tutti, sono
di altissima qualità.
Un saluto quindi alla 32a Mostra delle ciliegie e a tutti coloro che parteciperanno alla
Sagra, perché oltre alla festa ci sia anche la
volontà di tutti di promuovere i prodotti migliori dei nostri paesi.
Il sindaco di Vestenanova
Maurizio Dal Zovo
Il sindaco di San Giovanni Ilarione
Domenico Dal Cero
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in ricordo...
Don Mario Salgaro
Don Agostino Lovatin
Don Mario Salgaro fra i parenti nel giorno in cui ha festeggiato
il 50° di sacerdozio. Nato a Castello nel 1922, nel 1935 entrò
nella Congregazione della Piccola casa della Provvidenza di San Luigi
Orione, rimanendovi per 67 anni, di cui 55 di sacerdozio.
Scomparso lo scorso 14 marzo, il suo corpo riposa nel cimitero
di San Giovanni Ilarione, paese che tanto ha amato durante i lunghi
anni di lontananza e di apostolato in giro per l’Italia.
Don Agostino Lovatin, classe 1944, era il più giovane
dei quattro fratelli scalabriniani della famiglia
di Massimo e Maria Bacco. Nato in contrada Nogarotto
ed entrato nella Congregazione fondata da
Mons. Scalabrin, era stato ordinato sacerdote
nel 1969 nella chiesa parrocchiale di Castello.
Missionario fra i migranti italiani in Stati Uniti e Canada,
si è spento lo scorso 25 marzo a causa di un infarto.
Castello di San Giovanni Ilarione
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San Giovanni Battista
G
iovanni è l’unico
santo, insieme a
Maria, di cui ricordiamo la nascita e
non solo la morte.
È un gesto di rispetto verso
colui che Gesù stesso definisce il più grande fra i nati
di donna. Giovanni è l’ultimo
dei profeti, ancora debitore
alla mentalità passionale e
minacciosa del Primo Testamento, promette punizioni
divine agli impenitenti, ma
dovrà, lui per primo, perplesSan Giovanni Battista di fronte ad Erode, opera di Lorenzo Giacomelli
(anni
1894-1895)
dal ciclo “Vita del Battista”, chiesa parrocchiale di Castello.
so, mettere in discussione il
suo ruolo e convertire il suo
di vivere e di costruire un modo nuovo
cuore a questo inusuale e
inatteso Messia che stupisce a spiazza diverso di vivere, alla luce del Vangelo.
Guai ad una Chiesa che riceve solo gli
anche i suoi profeti.
Grande Giovanni che hai saputo metter- applausi (interessati) del mondo...
ti in discussione, grande profeta che hai La memoria del più grande martire di
testimoniato col sangue la tua integrità, tutti i tempi ci ricorda che la fede, a volte,
grande fratello che fino all’ultimo, dal costa sacrificio, dono di sé, testimoniancarcere, hai dovuto affrontare il dubbio za suprema. Dei 40 milioni di cristiani
sulla vera identità di Gesù tuo cugino! uccisi nella storia del cristianesimo, ben
Manca la profezia ai nostri litigiosi e me- 18 milioni sono stati uccisi durante il
diocri tempi, manca la profezia, spesso, luminoso ventesimo secolo. Dall’Africa
anche all’interno della comunità. I pro- all’America Latina, dai campi di stermifeti ci sono, certo, ma tacciono, forse nio nazisti ai gulag sovietici, milioni ci
disgustati dalla contrazione di umanità cristiani hanno dato testimonianza della
che stiamo vivendo. Sappiano stanarli i loro fede. Il nostro cristianesimo da polsilenti profeti, là dove vivono, che non ac- trona e pantofole resta spiazzato da tancarezzino le loro parole, ma che piuttosto ta generosità. Invochiamo lo Spirito che
ci scuotano e ci provochino al cambia- ci dia la forza e la passione dei martiri!
mento. E che ciascuno di noi nelle nostre
Il Parroco
comunità, sappia coltivare la profezia nel
Don Angelo Sacchiero
proprio modo di essere, nella possibilità
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il fascino dei luoghi perduti
Q
uest’anno il libretto della Sagra delle ciliegie o, meglio, di
San Giovanni Battista, come
opportunamente ci ricorda il
parroco don Angelo, ha voluto dare uno sguardo intorno: “intorno”
nei luoghi e “intorno” nel tempo, facendo
ridiventare protagonisti due fra gli ambienti più significativi di quello che era
Castello un tempo. A raccontarci piazza
del Costo è Mario Gecchele, che ha vissuto la sua infanzia da “piassarotto” e
che ha messo a disposizione i suoi ricordi così come gli venivano in mente, affidandosi alla memoria e senza la pretesa
di essere esauriente; a raccontarci invece la contrada Lore ci pensa Noemi Micheletto, figura simbolo della contrada e
“nonna” riconosciuta di varie generazioni. A chiudere degnamente il breve per-
corso che dal centro porta verso la zona
più collinare del paese non poteva mancare la figura di padre Ignazio Beschin,
rivisitata da Claudio Beschin, presidente
del Museo civico di Montecchio Maggiore, che con il “quasi beato” francescano
condivide, oltre al cognome, anche la
provenienza della propria famiglia.
Luoghi e persone che hanno fatto la nostra piccola storia e che meritano di essere ricordati.
Con affetto infine diamo l’addio a due religiosi nativi del luogo che, a distanza di
pochi giorni l’uno dall’altro, ci hanno lasciato: Padre Lovatin della Congregazione di Mons. Scalabrin e Don Mario Salgaro della Congregazione di Don Orione.
Dario Bruni
Castello di San Giovanni Ilarione
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vivere in piazza a Costo
ricordi d’infanzia
di Mario Gecchele
Q
uando si è piccoli, tutto quello
che ci sta attorno
ci sembra grande,
molto grande e le
persone con qualche anno in
più, vecchie, molto vecchie.
Si guarda al futuro con fondata speranza e con la quasi
certezza di diventare importanti protagonisti nel cambiamento-miglioramento del
mondo. Crescendo le prospettive cambiano, le misure
Primo carro di carnevale a Castello, anno 1959 o ‘60. Si riconoscono: Giovanni Soprana,
si rimpiccioliscono e la vita,
Mario Soprana, Gino Perazzolo.Vestito da carabiniere Severino Gecchele.
ad una certa età, ti porta a
rivedere il passato con orgonon riguardavano i campi, le bestie, qualglio e con soddisfazione, qualche volta, che vicino, si concentravano su quello che
con rimpianto e delusione, altre volte.
aveva detto il prete (anzi i preti) in chiesa
Anche a me capita, ormai spesso, di ri- e la maestra a dottrina e a scuola.
piegarmi pensoso sulla vita passata in- Un mondo animato da non molte famifantile, chiassosa e spensierata, almeno glie che gravitavano attorno alla angusta
nel ricordo, molto diversa da quella dei piazza, ma agli occhi dei bambini ‘grande’
bambini di oggi, anche se certi sentimen- (oggi un semplice slargo di strade), dove
ti e bisogni sono caratteristici dell’uomo ogni occhio dalla finestra poteva osserdi ogni tempo: amare e sentirsi amato, vare come la vita si svolgeva e controllaapprezzato, protetto, avere dei modelli di re ogni piccolo movimento (in ogni posto
riferimento, che diano sicurezza, contare esiste sempre una o più persone che o
su degli amici con cui confidarti.
perché non sanno cosa fare o per vocaLa mia infanzia si è svolta, almeno fino zione e missione passano il tempo a osai 12 anni, a Castello, o meglio nel Costo servare tutto ciò che si muove attorno!).
e nei luoghi circostanti: d’altra parte la Piazza Costo era il luogo di incontro, sochiesa, le scuole, le botteghe, la casara prattutto dopo le celebrazioni liturgiche,
e numerosi piccoli amici erano a porta- di discussione, di giochi, di sagre: era il
ta di mano. Un micromondo, piuttosto piccolo salotto dove le vite s’incrociavano
chiuso in se stesso, con i tipici pettego- e dove, a differenza di oggi, ogni tanto
lezzi e le invidie dei minuscoli ambienti, transitava qualche macchina o camion o
dove ognuno sapeva tutto (e oggi?) di ogni moto annunciati in lontananza dal loro
altro, dove i discorsi anche in famiglia se inconfondibile rumore.
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il luogo
I
l nome di piazza Costo porta con sé
qualcosa di antico; è un toponimo
molto diffuso, che significa fianco
di un colle o di un monte. Da noi
il nome in ora Costi è testimoniato fin dal Quattrocento ed era il piccolo
borgo a fianco del castello medioevale.
Nel 1928 l’allora podestà aveva avanzato l’idea di cambiare il nome, ritenuto
poco onorifico, e di denominarlo ‘Piazza
Cavour’ ma - meno male! - la Sovrintendenza si oppose.
Non sono molte le case rimaste dell’antico borgo. Se con la mente, dopo aver
chiuso gli occhi per concentrarci, eliminiamo le case aggiunte negli ultimi quaranta anni, vediamo che i vecchi edifici
partono dal capitello di San Giovanni
Battista e terminano sotto la salita delle
‘ariele’. Poche case, di sasso, scrostate
o senza intonaco esterno in gran parte,
fino a non molti anni fa, che abbracciano la piazza, raggiunta e attraversata da
tre strade: verso i Ranfani, verso Villa e
Via Mazzini, che all’altezza del capitello si divide e porta verso Fusa-Vestena
e verso la parte alta della parrocchia e
Chiampo.
Case un tempo alternate a stalle, fienili, portici e arricchite da pollai, stalotti,
forni, da una fontana abbondante d’acqua ed anche dal zugo de le boce di Sesto
Fornaro.
In Collegio dai Salesiani a Bagnolo Cuneo, anno 1966/67: Giovanni
Gecchele, Giuseppe Coffele, Gianfranco Coffele, Mario Perazzolo,
Tiziano Creasi e la piccola Gabriella Perazzolo.
7 giugno 1954: Bruno Perazzolo, Gianfranco Costantini,
Benedetto Gecchele (Nino). Il bambino nel mezzo,
Franchino, è morto cadendo nel 1957 nella valle dei
Camadi a 10 anni; una lapide ai bordi della strada
ricorda ancora la tragica scomparsa.
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la gente
G
li abitanti del Costo non sono
mai stati molto numerosi,
estendendosi la parrocchia
lungo i fianchi della valle e caratterizzandosi per le numerose contrade: nel 1803 erano 85 divisi
in 13 famiglie; nel 1846 erano 99 e le
famiglie 17; nel 1913 le persone 143 e le
famiglie 26; nel 1923 le persone 163 e le
famiglie 35.
I cognomi, oltre quello dei parroco e del
cappellano che naturalmente variavano
nel tempo, erano soprattutto i Soprana,
i Coffele, i Gecchele, i Fattori, i Perazzolo
e poi, in seguito, i Pozza, gli Storti, i Dal
Zovo, i Bruni ed altri.
Una inedita Satira paesana scritta da
Severino Gecchele nel 1928 ci fornisce
il quadro delle famiglie che costituivano
il Costo, quasi tutte conosciute naturalmente per un soprannome, per distinguerle da altre con lo stesso cognome.
La Rosina la ga un goto
li de soto ghè Timoto.
Timoto el fa la minestra
li de soto ghè el Testa.
El Testa ga na bara
de soto ghè l’Angela campanara.
La campanara la ga na soca
de soto ghè la vecia Lota.
La Lota lè superba ma fina
li de soto ghè la Regina.
La Regina la va in granaro
e li de soto ghè el Maiaro.
El Maiaro taia i spini
de soto ghè i Menini.
I Menini beve un quarto
de soto ghè el Carpo.
Carpo el ga na lanterna
li de soto ghè l’Elvira Guerna.
La Guerna la tira on spago
li de soto ghè Bado.
Bado el ga i guanti
li de soto ghè el Bianchi.
El Bianchi el ga on can
li de là ghè Marco Ranfan.
Marco Ranfan le pien de formighe
li de là ghè la Devige.
La Devige la ga on fagotto
li de soto ghè Menego grosso.
Menego grosso vende i reossi
e de qua ghè i Sossi.
I Sossi rùgola i sassi
li de soto ghè la Bassi.
Bassi cata su i sassiti
li de là ghè i Casteliti.
I Casteliti i magna riso
li de là ghè Toni Paradiso.
Toni impasta el pan
li de là ghè Vitorio Marcazan.
Marcazan gira la pana
de soto ghè el Soprana.
Soprana el beve on bicerin
li de soto ghè Toni Tasin.
Tasin spacca le greppe
là incao ghè el prete.
El prete fa el cafè
in fondo ghè Cené.
Cenè l’è on baucco
e desora ghè Romano cuco.
Romano cuco el ga on paiasso
desora ghè Accio.
Accio el va col caro
desora ghè Sesto fornaro.
Sesto fornaro lè on buelo
insima ghè el capitelo.
Signori del Costo pieni de pastasuta
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la gente
ecco che ve la go contà tutta.
Questo lè l’ano bisetile
che tuto se può dire.
Anni dopo alcune famiglie erano emigrate, altre, nuove, si erano sistemate nel
Costo. Partendo, come nella Satira, dalla Rosina detta Stivàla con le nuore e i
nipoti, si trovavano i Perazzolo (Bepi, la
Maria ed i figli), poi la famiglia di Bepi
Den (Giuseppe Soprana), quella di Nani
stradin (Giovanni Zanconato), di Giovanni Costantini (il figlio più piccolo, Franchino, è quello ricordato nella lapide nella valle dei Camadi, morto lì vicino nel
1957 a 10 anni), el falegname Bepi Menin (Giuseppe Fattori), el postin (Gecchele), Toni Gecchele, i Bado, i Dal Zovo (poi
Bordon), i Sossi (Coffele Gelindo e Florindo), i Bassi, la Anna moreta (Vittorio
Fattori Zini con moglie e figlie), i maestri
Soprana, el Tasin (bottega e osteria, in
seguito i Bruni); distaccata la canonica
del prete, fino al 1957 don Giuseppe Dal
Molin con le due sorelle, col cappellano
Bambini della Famiglia Perazzolo e Gecchele a Castello
don Damiano Andriolo e la serva (ricordo
la Dele Gerolina).
Dall’altra parte della piazza si incontra- testa con gli attrezzi del barbiere, dopo
vano le famiglie Panarotto, con Marino che ormai Toni Bulo di Scandolaro aveva
e le maestre (Tilde e Teresina), poi quel- smesso il mestiere.
la delle tre sorelle (Maria, Nina, Agnese,
e del fratello Bepi), poi la famiglia della
casa di Accio, quella di Bassi (poi Storti),
delle Ade (le sorelle del parroco Ada e Lucia), infine Sesto fornaro (poi sostituito
dai Pozza); infine verso il capitello, non
ricordo quando, è arrivato anche Mario Sustre (Lovato) che ci confezionava
i vestiti, li aggiustava e ci sistemava la
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le attività
O
ggi con i mezzi di comunicazione è semplice portarsi in Villa
o in altri paesi e città per fare
acquisti. Negli anni ’50-’60
del Novecento, Castello offriva
delle botteghe che permettevano di non
spostarsi troppo, anche perché muoversi voleva dire camminare, almeno fino
al capoluogo, dove si poteva prendere il
trenino che, in quasi un’ora, ti portava a
Villabella di San Bonifacio. O potevi andare a piedi fino a Chiampo e poi ancora
col trenino locale portarti ad Arzignano,
antica sede del vicario da cui dipese per
secoli il paese di San Giovanni.
Se si voleva acquistare della biancheria,
si poteva entrare dalle Ade che s’affacciavano in via Mazzini, o dalla Anna Moreta, in piazza. Per i generi alimentari
ed altro erano a disposizioni le botteghe
delle Cuche (Panarotto) e del Tasìn (Sordato, così chiamato perché proveniva da
Castel Tesino) ambedue in piazza: lì potevi trovare anche fiammiferi, verderame ed altro per la pompa alle viti: erano
come dei piccoli bazar dove si poteva trovare un po’ di tutto. Niente era avvolto
in sacchetti, tutto in grandi contenitori,
per cui ti pesavano con la sessola il chilo
di zucchero, o l’etto di caffè che macinavano all’istante diffondendo nell’aria il
tipico buon profumo.
Se avevi bisogno di pane, ti rivolgevi a
Sesto fornaro, famoso per le sue cioppe;
ma a certe scadenze il pane veniva impastato e cotto direttamente dalla gente in
alcuni forni presenti anche nel Costo.
Se volevi divertirti a bocce, andavi da Sesto fornaro che disponeva di alcuni ot-
“Piassarotti” del tempo: il terzo da sinistra è Giovanni Battista
Zanconato, noto come “Nani stradin”.
timi campi da gioco, frequentati soprattutto al sabato ed alla domenica fino a
tardi. Se cercavi la riflessione, la pace
spirituale salivi le scalinate sotto el patronato o percorrevi la stradina, di solito
per le donne, e ti portavi alla chiesa, entrando dalla porta degli uomini (a sud)
o delle donne (ovest), dove incontravi
spesso un prete che passeggiando intorno alla chiesa o seduto all’interno leggeva il breviario.
Per il formaggio la gente del Costo si rivolgeva alla casara di Scandolaro, dove
Gino casaro raccoglieva il latte del giorno
e ogni tanto si poteva fare il formaggio,
il burro, la puina e portare anche a casa
quotidianamente la scolaura, una brodaglia rimasta dopo lavorazione del formaggio e molto appetitosa per il maiale.
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32ª
Mostra
Provinciale
delle Ciliegie
Alta Val d’Alpone
NOI ASSOCIAZIONE CIRCOLO SAN GIOVANNI BOSCO
PARROCCHIA DI SAN GIOVANNI BATTISTA - CASTELLO
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32a Mostra delle Ciliegie
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VENERDÌ 25 GIUGNO
• Ore 22.00 Serata Afro con DJ YANO
Specialità della serata: Pizza al forno e panini caldi
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SABATO 26 GIUGNO
• Ore 20.00 Apertura giochi con Maxigonfiabili per bambini e ragazzi
• Ore 21.00 Serata DJ REPINO con la voce di SAMA
Specialità della serata: Pizza al forno e panini caldi
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DOMENICA 27 GIUGNO
• Ore 10.00 Santa Messa
• Ore 11.00 - 14.30 Consegna ciliegie per la 32a Mostra
• Ore 12.00 Apertura chioschi con pranzo delle migliori specialità
del “cogo”
• Ore 15.00 TORNEO SOTTO IL SOLE: Calcio Saponato!
• Ore 16.30 Esibizione della Banda “Giuseppe Verdi” di Montecchia
di Crosara e San Giovanni Ilarione
• Ore 17.00 Apertura al pubblico della 32a Mostra Provinciale
delle Ciliegie
• Ore 18.30 Premiazione Mostra delle Ciliegie
• Ore 21.00 Serata ballo liscio con GIGIO VALENTINO
• Ore 23.00 Meraviglioso spettacolo pirotecnico con l’incendio
del campanile
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Iniziativa a promozione e salvaguardia dei giovani,
delle famiglie e del tempo libero!
Paesi
Zona
Andata
Andata
Andata
Ritorno
Andata
Loc.
Pergola
Ristorante
Alpone
20:45
22:00
23:15
00:50
1:00
Terrossa
di Roncà
Piazza
20:50
22:05
23:20
00:45
1:05
Roncà
Piazza
20:55
22:10
23:25
00:40
1:10
Montecchia
di Crosara
Piazza
21:05
22:20
23:35
00:30
1:20
San
Giovanni
Ilarione
Piazza del
Popolo
21:15
22:30
23:45
00:20
1:30
San
Giovanni
Ilarione
Piazza
Colonna
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Castello
Zona
Sagra
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Solo
Ritorni
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32a Mostra delle Ciliegie
25-26-27 Giugno 2010
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la scuola
L’
istruzione scolastica veniva
data nell’edificio delle scuole
che si stavano costruendo,
le attuali dedicate a Cirillo
Tonin. Un ricordo particolare è legato all’arrivo del camion di Cipri
Rampo con i sassi; per noi ragazzi era un
chiamarsi a vicenda per assistere al ribaltamento del materiale: il camion con
grande sforzo alzava il bancone e con un
fragoroso ed assordante rumore scaricava i sassi sollevando nuvole di densa polvere; a noi ragazzini questo avvenimento
piaceva e contemporaneamente metteva
paura: mi pare ancora di sentirne il frastuono!
Quando si andava nei primi tempi a scuola, non vi era acqua corrente, né toilette;
fuori vi era solo una angusta costruzione
con un buco nel mezzo, ma riservato soprattutto alle ragazze, che all’inizio dell’intervallo facevano un ordinata fila per
il turno. E noi ragazzi? Qualche volta ci
mettevamo in fila verso il monte (est) e
facevamo a gara a chi arrivava, col getto,
più lontano!
I maestri che ricordo di più sono le Panarotto (la Tilde mi ha seguito per cinque
anni) e i Soprana (i fratelli Mario e Gino
con la moglie Clara, maestra anche lei).
Mario ha insegnato per molti anni alle
elementari, anche di Villa, ed era appassionato di musica e canto.
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la vita nella piazza
L
Benedizione in piazza del Costo durante la Festa del Ringraziamento nel 1961
a piazza Costo era il luogo di
passaggio e di transito di molte
persone ed anche di animali.
Alla mattina si fermavano alcune donne che venivano per gli
acquisti: portavano con sé la tipica sporta con dentro il libretto dove si annotavano le spese (i debiti), che sarebbero stati
saldati, almeno così si sperava, con la
successiva vendita di prodotti dei campi;
al posto dei soldi si potevano usare delle
uova, che divenivano merce di scambio.
Una volta al giorno transitavano la varie
vacche (oggi mucche) per abbeverarsi alla
fontana nell’albio ad esse riservato, quello
di destra: alle volte trovavano delle persone
intente a fare il bucato, che velocemente si
dovevano spostare, con la loro merce, per
fare posto a quei bestioni più imponenti.
Oltre alle mucche si poteva incontrare un
piccolo gregge di pecore che andava al pascolo (poteva essere quello di Costantini)
o un gruppo di piccoli animali domestici
(galline, oche ecc.), che qualche donna
cercava di indirizzare verso il pollaio.
La piazza era anche il luogo di passaggio
di tanti bambini che andavano a scuola,
di gente che usciva dalla chiesa. Se transitava una persona che noi bambini non
conoscevamo, ci chiamavamo a vicenda
per vedere el foresto, che magari abitava
nella più vicina contrada, ma per noi rimaneva on foresto, cioè uno sconosciuto.
Verso sera, quando scendevano gli ultimi
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la vita nella piazza
raggi del sole, Nani stradin usciva di casa
e si portava con una grande chiave davanti alla casa di Storti, apriva una porticina ricavata nel muro, e con una mano,
in un gesto usuale e solenne, alzava una
grossa leva e ... all’improvviso, come per
magia, si accendevano le luci della piazza
e di via Mazzini: erano quattro o cinque
lampadine di poche candele che non illuminavano gran ché, ma erano sufficienti
per rendere vivibile la sera in piazza.
Dopo cena infatti erano numerosi i bambini che si ritrovavano in piazza a giocare; si diffondeva nella fresca aria serale
il tipico vivace chiasso dei ragazzi allegri
che si rincorrono, si spingono, discutono ... insomma che vivono pienamente
la loro fanciullezza. Si giocava a ciupa e
scondi (nascondino), soprattutto quando
era più buio per cui era più semplice trovare un nascondiglio in qualche piccolo
anfratto. Oppure un gioco molto gettonato era l’uomo nero o al diavolo: un ragazzo si metteva in mezzo alla piazza e
invitava gli altri concorrenti ad attraversarla, mentre lui eliminava chi riusciva a
toccare. Altro gioco, che di solito veniva
fatto di giorno, era il rincorrersi con un
cerchio di ferro trattenuto e guidato con
un bastone ricurvo, pure di ferro.
E inoltre c’erano il gioco dei quercelletti,
utilizzando i tappi delle birre, delle aranciate e dei chinotti, e quello delle marmore,
cioè delle palline di vetro, le più ricercate,
o di terracotta. Ci si divertiva molto anche a lanciarsi la palla, a tirar sassi dando
prova di buona mira; usando, ma più di
nascosto, la fionda. Un gioco singolare era
quello di partigiani e tedeschi, rimembran-
za, per noi piccoli indiretta, della guerra:
una squadra saliva verso le ariele dalla
parte delle donne, un’altra dalla parte degli uomini (lo scalone) e poi ci si sparava,
facendo con due dita il gesto della pistola.
Naturalmente spesso il tutto finiva in infinite discussioni su chi avesse sparato per
primo o se avesse mirato bene.
I giochi alla sera terminavano quando le
donne del Costo decidevano che era ora
di andare a dormire. Allora sentivi chiamare i vari figli: Giovanni, Mario, Franchino, Enzo, Bruno, ecc. e si doveva tornare
a casa e, dopo qualche preghiera ricordando anche il babbo in miniera in Belgio, andare a letto. Un sonno a volte turbato da sogni poco sereni, costellati come
erano da diavoli, da streghe, da anguane,
da lupi, da orchi che gli adulti, per tradizione, imbastivano ai loro piccoli per far
loro paura e generare in loro uno stato di
(paurosa) tranquillità ed obbedienza. E col
buio la paura aumentava ed era palpabile, accompagnata dal rincorrersi di ratti e
morece in granaio, a volte, meno male, anche dall’arrivo del gatto, che dava, a colui
che stava per addormentarsi, la speranza
di una vittoria e di tranquillità, come avveniva al cinema all’arrivo dei nostri.
Alla mattina seguente la vita ricominciava, con Nani stradin che rifaceva il cammino, apriva lo sportello, abbassava la
grande leva e poneva termine alla magia
della luce, almeno fino a sera. Va tenuto
presente che fino agli anni ’60, la luce
elettrica finiva all’altezza delle scuole
elementari; oltre quel punto le persone
usavano la lanterna per rischiarare, si fa
per dire, la loro vita.
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la domenica
E
ra veramente il giorno del Signore. Nessuno si permetteva di lavorare manualmente:
al massimo, per necessità, si
chiedeva il permesso al prete.
Era il giorno della chiesa. Tre messe alla
mattina: alle 5.30 o 6, poi la principale o parrocchiale, alle 8.30 ed infine la
cosiddetta terza verso le 10.30. Alla prima messa partecipavano in gran parte le
donne, che poi facevano un po’ di spesa
nelle botteghe e tornavano a casa, anche
5-6 chilometri a piedi per preparare il
pranzo. La messa parrocchiale era la più
solenne, frequentata soprattutto dagli
uomini, con predica importante del parroco; alla terza partecipavano soprattutto i bambini e ragazzi, dopo essere stati
alla dottrina cristiana. Tre messe con la
chiesa quasi sempre piena. Al pomeriggio
vi erano le sacre funzioni, l’esposizione
del Santissimo e la benedizione solenne,
a cui partecipavano tante persone: molti
quindi ripartivano dalle lontane contrade e vi ritornavano verso sera.
Nel periodo della caccia si celebrava
un’apposita messa per i cacciatori, prima dell’arrivo della luce: quindi alle 3 e
1⁄2 o 4 di mattina. I cacciatori arrivavano con i fucili che portavano dentro in
chiesa e con i cani e poi, dopo messa,
partivano per la loro particolare guerra.
Quando le prede erano numerose, degne
di essere esibite, si fermavano orgogliosi
7 giugno 1954: si va verso la prima comunione con don Damiano.
Si notino le mura ottocentesche
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la domenica
La vecchia salita alla chiesa in occasione di una comunione.
in piazza e festeggiavano dal Tasìn e da
Sesto con on goto de vin e raccontavano
a lungo ai passanti, interessati e compiacenti, le varie fasi del pingue bottino.
La ‘festa’ era anche il giorno del riposo e
del divertimento: i grandi si attardavano
fino a notte inoltrata al gioco delle bocce
o all’osteria da Sesto e dal Tasin, dove
scorrevano molti litri di durello o di vin
moro. Ad un certo punto sentivi levarsi
al cielo dei canti a più voci, magari con
qualcuno che suonava la fisarmonica; il
tutto poteva durare anche fino alle ore
piccole. Qualcuno domenicalmente era
abituato - ed erano sempre i soliti noti
- ad eccedere nel bere e Bacco lo ricambiava dandogli allegria o molta voglia di
rompere qualcosa o qualcuno.
Ricordo persone ubriache arrivate a casa
il lunedì mattina, o ritrovate in qualche
fosso e le chiacchiere delle donne che
biasimavano il comportamento poco
esemplare di chi non riusciva a trattenersi dal bere e compativano la situazione delle loro povere mogli.
Il pomeriggio festivo era di solito allietato
dai dischi che annunciavano il film nella
sala del cinema, al primo pomeriggio per
i ragazzi e alla sera per gli adulti. Vola,
colomba bianca vola e Vecchio scarpone
erano i due canti più gettonati, almeno nei miei ricordi. I film più ammirati
da noi ragazzi erano quelli di cow boys,
in cui vi erano chiaramente individuati i buoni e i cattivi; questi ultimi, dopo
dei momenti incerti, finivano sempre per
perdere, all’arrivo dei nostri.
Come in Cimena Paradiso del regista TorCastello di San Giovanni Ilarione
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la domenica
natore, anche noi seguivamo le vicende
narrate facendo il tifo per i cow boys, che
alla fine vincevano sugli indiani. L’arrivo dei nostri era vissuto dai presenti con
entusiastica partecipazione, si può dire
che anche noi partecipavamo agli inseguimenti, agli scontri, alle battaglie ed
alla fine uscivamo stanchi ma soddisfatti dalla sala, commentando vivacemente
le sequenze più interessanti. Il film della sera, qualche volta era per gente più
adulta perché poteva esserci nella trama
anche qualche bacio scappato dal taglio
del macchinista di sala; allora si sentivano le grida di compiacimento dei presenti,
rimbrottati dal cappellano che girava con
la pila accesa a smorzare i troppi entusiasmi. Le immagini sullo schermo arrivavano strane, perché rimodellate, passando la proiezione in mezzo alla nebbia del
fumo delle sigarette di chi si divertiva a disegnare delle immagini nell’aria, proprio
dove transitavano le immagini filmiche.
La domenica era anche il giorno di ricorrenze festose spesso caratterizzate
dalla musica cadenzata della banda di
Castello che rallegrava i presenti con le
immancabili marce; poteva avvenire per
una sagra, per un anniversario, o per
l’ingresso di qualche prete novello (molti
sono stati in quegli anni:, i Marcazzan, i
Coffele, i Lovatin, e poi Ciman, Dal Fitto,
Costalunga ed altri).
Una domenica del 1958 abbiamo anche
festeggiato il primo carnevale in pubblico con un carro in piazza, sui cui ci siamo esibiti in scenette che hanno deliziato
e sorpreso i passanti che uscivano dalle
sacre funzioni pomeridiane. In un’altra
circostanza, sempre sotto la regia del giovane cappellano don Gaetano, abbiamo
realizzato un grande pallone sotto il quale
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1960: Gita a Madonna di Campiglio. Benedetto Gecchele,
Enzo Soprana, Gianni Damini, Federico Marcazzan,
Damiano Marcazzan, Mario Gecchele
abbiamo acceso il fuoco, per farlo salire
in cielo (pallone aereostatico): purtroppo
a causa di un improvviso colpo di vento,
il nostro capolavoro si è inclinato ed ha
preso fuoco a terra, fra la delusione nostra e degli spettatori. Non ci siamo persi
d’animo e ci siamo presentati in altra circostanza con un altro pallone: stavolta il
tutto ha funzionato e il pallone è asceso al
cielo fra le nostre fiere grida di giubilo, ma
la notizia che fosse poi atterrato vicino ad
un fienile con ancora il fuoco sotto, fece
tramontare definitivamente la vocazione
cosmonautica di noi tutti.
La piazza era anche il luogo da cui transitavano ogni anno i coscritti, cioè coloro
che partivano per fare il militare, la naia.
A quel tempo non superare la visita di
leva era giudicato in modo negativo e ci
si sentiva degli scartini. Quando allora
si veniva chiamati alla visita di naia, si
teneva una grande festa e si girava per
il paese, su un carro o su un camion,
5 marzo 1960: i fulmini distruggono parte della chiesa di Castello.
cantando, suonando e bevendo: e il solito vino rendeva allegri per alcune ore.
Nella piazza una volta all’anno si celebrava un rito sempre eccezionale, anche
se usuale: la trebbiatura del grano. Pochi
giorni prima dell’arrivo dei macchinari,
si alzavano i cavaioni di frumento e noi
bambini ci sentivamo ‘grandi’ quando
potevano essere issati sopra a osservare
il panorama. Arrivavano poi la trebbia,
il trattore, l’imballatrice della paglia e gli
uomini di servizio.
Ricordo Mainente con gli operai al seguito: si avviava il trattore, si posizionava la lunga corda che girando faceva
funzionare i vari ingranaggi della trebbiatrice: a me impressionava il rumore,
la polvere, il gridare per potersi capire,
i cappelli sulla testa di ognuno col fazzoletto al collo per ripararsi dalla polvere. Miracoloso mi appariva il fatto che
facendo cadere dall’alto nella bocca del
“mostro” il frumento, ne usciva da una
parte frumento e dall’altra paglia; si poteva toccava con le due mani il frumento e si sentivano i commenti, positivi o
meno, degli adulti, i quali, riempito un
sacco, se lo collocavano sulla spalle con
l’aiuto di altri e poi, curvi per il peso, lo
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depositavano su qualche mezzo di trasporto. Mi impressionava l’uomo addetto
a dar da mangiare al mostro, posizionato
in alto nel mezzo della grande trebbiatrice: e poi circolava la voce che una volta
un uomo era caduto insieme al frumento
nella grande bocca e naturalmente era
stata mangiato, cioè stritolato.
Mi colpiva intensamente anche la visione
della grande pala, che si abbassava e si
alzava in modo ritmico e perentorio sulla
paglia che transitava da un altro lato per
schiacciarla e permettere la fuoriuscita
delle balle di paglia. Mi sembrava un
movimento solenne e misterioso, quasi
un percuotere e per castigare la paglia
che non voleva piegarsi e si ribellava a
chi voleva dargli una forma diversa.
Il Costo era questo ed altro. Una piazza,
piccola e grande nello stesso tempo, un
luogo privilegiato di intensa vita, dove
molti hanno trascorso l’infanzia e sono
diventati grandi. Un piccolo mondo antico, chiuso ma accogliente e rassicurante; un luogo di vita che dava sicurezza
e porgeva pochi, ma chiari, modelli di
riferimento, a cui ti dovevi adattare, altrimenti eri un ‘foresto’, un diverso nel
posto sbagliato.
Poi sono arrivati i fulmini sul campanile
nel 1960 e forse, dopo che invano la mamma e tante donne avevano acceso l’ulivo
benedetto e fatte recitare tante Salveregina, la mia infanzia si è chiusa in modo
repentino ed è cominciata un’altra vita di
intenso studio in collegio per prepararmi
al futuro. Al ritorno, il piccolo mondo antico non mi sembrava più lo stesso e tutto
era diverso; anch’io, naturalmente.
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le Lore
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una contrada e la sua gente
di Lorenzo Gecchele
una posizione
panoramica
L
e Lore è una contrada situata a 395 metri
s.l.m. ed è collocata sulla strada che porta da
San Giovanni Ilarione a
Chiampo (VI), in prossimità del
passo Roccolo. Tra le contrade
perimetrali si trovano i Ciampetti e i Potacci posti a Nord rispetto alle Lore, nella zona Sud
sono collocate le contrade dei
Rossetti al Motto e i Colombara.
La contrada presenta una struttura complessa e diversificata, a forma di mezzaluna:
si può quindi dividere, come gli stessi abitanti tendono a sottolineare, nella parte più
alta le Lore di Sopra, dove si configura una
serie di case allineate poste a livelli diversi
e collegate fra loro con una strada esterna
che le affianca; nella parte più bassa le Lore
di Sotto, dove prevale la struttura a corte
chiusa, con abitazioni e porticati disposti
attorno alle corti a cui si accede attraverso
un’apertura posta ad un lato, e la parte centrale le Lore di Centro caratterizzata da case
più moderne e da corti irregolari, poste una
accanto all’altra e collegate da stretti passaggi che si intrecciano tra loro.
Il nome deriva dal latino lura, “apertura di
un sacco”, trasformatosi nella voce di provenienza tedesca lur, a significare “gola di montagna, forra, orrido”; nella voce dialettale lore
sta ad indicare una stretta frattura presente
nella roccia e quindi un inghiottitoio.
È curioso sapere che nella parte est della
zona Lore è presente una grande frana ancor oggi in movimento, che ha cambiato la
geologia della zona creando danni non solo
alle coltivazioni, ma anche eliminando strade, “capessagne” e sentieri utilizzati degli
anni passati come collegamenti alle contra-
8 settembre: tradizionale festa del Capitello delle Lore
de limitrofe della provincia vicentina.
Da sottolineare che la contrada è sistemata
nei pressi del Monte Calvarina, che è sotto
la giurisdizione dei comuni di Montecchia di
Crosara e di Roncà, con un altezza di circa
470 s.l.m.
Su questa serie di colline furono costruite
dopo la seconda guerra mondiale tre basi
Nato, utilizzate come punto d’appoggio anche dagli americani; attualmente sono lasciate in abbandono, ma sono ancora ben
visibile i resti delle costruzioni. Attualmente
non sono più oggetto di interesse militare,
ma semplicemente di ottime passeggiate
all’aria aperta, con l’immancabile appuntamento di Pasquetta, quando migliaia di persone si ritrovano tra i prati per trascorrere
momenti di allegria insieme.
Una delle contrade importanti che confinano
con le Lore è la contrada Potacci, che già nel
1803 contava 6 famiglie con 23 abitanti, più o
meno quelle del 1986 (rispettivamente 6 e 21).
La contrada deve però la sua fama ad un
illustre personaggio, Padre Ignazio Beschin,
che è nato proprio qui il 26 agosto 1880,
uno dei 14 figli di Arcangelo e Zanmichele
Luigia.
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gli abitanti e la loro scuola
N
el 1803 i residenti nella contrada Lore erano 160, suddivisi in 30 famiglie; i cognomi
presenti erano Andriolo, Andriolo Bellen, Rossetto, Micheletto, Beschin, Lovato, Lovato Venturo, Marchetto, Roncolato, Perezzolo.
Nel 1845 gli abitanti erano 74, con 11
famiglie; i cognomi presenti Rossetto,
Sacchiero, Andriolo. Nel 1985 gli abitanti erano 89 (28 Lore di sopra, 25 Lore di
mezzo, 36 Lore di sotto) e le famiglie 28
(9 Lore di sopra, 6 Lore di mezzo, 13 Lore
di sotto); nel 1989 gli abitanti erano 86
(27 Lore di sopra, 20 Lore di mezzo, 39
Lore di sotto) e le famiglie ancora 28.
Dal 1924 fino agli anni ’70 alle Lore funzionò la scuola, un plesso della Scuola
elementare del paese situato in via Guarato, che venne istituito allo scopo di
agevolare l’accesso alla scolarizzazione
da parte delle famiglie che risiedevano
in località lontane dai centro abitati del
fondovalle. Via Guarato infatti è la classica contrada posta al centro di altri agglomerati di case situati nelle vicinanze
e per tale posizionamento venne scelta
quale sede del plesso scolastico. Oggi si
compone di case totalmente ristrutturate o di nuova costruzione.
Gli abitanti raccontano che andarono a
scuola in via Guarato fino alla Terza elementare, la quarta elementare la fecero
a Castello e la Quarta nelle scuole di San
Giovanni Ilarione.
Il monumento a Padre Ignazio Beschin in contrada Potacci
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i capitelli
N
ella contrada sono due i capitelli esistenti: Lore di Sopra dedicato a Sant’Antonio e
Lore dedicato alla Madonna.
Il capitello di Sant’Antonio si
presenta particolarmente simile ad una
capanna: il tetto di copertura è rifinito
con un bordo in rilievo di colore marrone
con alla sommità una piccola croce verde. All’interno della nicchia è custodita
una statua di S. Antonio. Il capitello fu
costruito agli inizi del ‘900. Si racconta
che durante la prima guerra mondiale
tra il 1915 e il 1918 il capitello assieme
a tutta la mura, nella quale è inserito,
crollò: ma la statua fu ritrovata in piedi
su di un sasso e forse per questo motivo
gli abitanti della contrada lo ricostruirono sullo stesso luogo e nel pomeriggio
della domenica 23 ottobre 1949 fu benedetto e inaugurato il restauro nuovo.
Il capitello delle Lore, costruito sul terreno del sig. Eugenio Galiotto, è invece un
sacello a base rettangolare, dedicato alla
Madonna: ciò che balza subito agli occhi
del visitatore è il forte contrasto tra il colore chiaro della statua e il rosso mattone dei profili che evidenziano l’entrata, il
frontone e la copertura. Sopra al tetto si
trova una croce in ferro battuto, mentre
immediatamente sotto il timpano è visibile un cartiglio recante l’iscrizione: “Regina Pacis ora pro nobis”.
La statua, prevalentemente di color azzurro, raffigura la Madonna con in braccio Gesù. Da notare le linee del vestito
che danno l’impressione del movimento
e dello sforzo del braccio per sostenere il
Il cappellano don Luciano fra i contadini durante il periodo dell’aratura.
bambino, posto nella mano aperta sinistra. Il capitello è stato costruito del 1948
per voto di guerra, come ringraziamento
per il ritorno dei giovani che erano partiti come soldati e anche per la contrada
stessa, che non ha subito danni durante
le attività belliche.
Un altro simbolo religioso presente in
contrada è il dono fatto dall’allora Vescovo di Vicenza Pietro Nonis, che il 2 Agosto 1986 donò alla contrada delle Lore
come segno di affetto e di amicizia ai fedeli di questo luogo: a detta dei residenti
Sua Eccellenza, durante la visita degli
ammalati effettuata in occasione della
Visita Pastorale, trovò molto conforto
e simpatia da parte degli abitanti della
contrada, per questo ritornò con il dono
di una immagine in marmo raffigurante
la Madonna in preghiera e lo inaugurò in
sua presenza. Oggi l’elegante immagine
fa bella mostra di sé su un muro esterno della contrada ed è diventato segno di
venerazione per chi passa.
Castello di San Giovanni Ilarione
39
la testimonianza
Q
uella della signora Noemi Micheletto, nata il 29 aprile 1927 alle
Lore, è una testimonianza chiave per capire qual è stata la vita
sociale di questa contrada. Lei
ad esempio ha vissuto con grande apprensione il periodo della seconda guerra mondiale, nascondendosi e osservando quanto stava accadendo attorno. La contrada,
seppur lontana dal paese, era comunque
sotto il controllo delle truppe nazifasciste,
anche se inizialmente - racconta - era difficile capire chi fossero tutte quelle facce
nuove e a chi appartenessero.
Fino all’armistizio del 1943, continua la signora, nessun soldato aveva fatto del male
a nessuno, anzi i soldati tedeschi, di cui
ricorda ancora i nomi, andavano in casa
Marchetto a mangiare in serenità e raccontando anche le loro esperienze; si doveva, invece, aver timore di alcune persone
“nostrane” che per tradimento, o per spia
o per cattiveria informavano qualche ufficiale, a seconda dell’obbiettivo o tedesco o
fascista, e allora partivano gli ordini d’irruzione delle varie contrade, con le relative
conseguenze di sopraffazione e di terrore
sulla popolazione.
Con l’8 settembre tutte le cose cambiano
e anche i nostri paese, come gran parte dell’Italia, entrano in un totale stato
di “caos”. Non ci si poteva più fidare di
nessuno. L’esercito non sapeva cosa fare
e soprattutto per chi lottare, tra la gente
non esisteva più un clima di solidarietà
e le “alleanze” come accadeva negli anni
precedenti, non si sapeva con chi parlare,
sembrava che tutti fossero spie o che tutti
avessero la paura di essere spiati. Tanti si
costruirono tunnel sotterranei, nelle cantine, sotto i forni del pane, ma soprattutto
nel bosco e si vedevano più volte le madri
di famiglia (si tenga conto che a quel tempo le famiglie erano solitamente composte
da 12/13 persone) portare viveri di vario
40
Castello di San Giovanni Ilarione
genere, come salame o formaggio a chi si
era rifugiato nei boschi, ma anche coperte,
lenzuoli ed altro. Tra i tanti, vengono alla
mente Giovanni dei Rossi, che era riuscito a costruire una stanza dietro l’armadio
della camera, o Pietro Beltrame che scavò
un tunnel sotto al proprio forno del pane.
Ma la signora Marchetto quello che ricorda
di più è la vita del proprio fidanzato, che
era stato catturato al fronte durante i combattimenti la guerra e portato nel campo di
concentramento di Dacau, poi in quello di
Mathausen: a casa avevano perfino segnato sul calendario il giorno della sua morte,
quando per fortuna fu liberato. Tornato a
casa, si sposò con Noemi ma le difficoltà, le
torture, il mal nutrimento, gli sforzi e tanto
ancora avevano segnato profondamente il
suo fisico e dopo nemmeno 5 mesi morì,
lasciando la giovane moglie con in grembo
l’unica figlia.
Anche per questa situazione, i periodo post
guerra fu, per Noemi, molto difficile, a causa della mancanza del marito, ma con il sostegno dei propri parenti fu in grado di superare i molti problemi. Tutto sommato la
vita, sebbene senza soldi - racconta Noemi
- non era male e si viveva tranquillamente.
La contrada Lore ha sempre avuto un terreno molto fertile, che garantiva ogni anno
frutta e verdura; ogni famiglia allevava diversi animali da cortile, che le permettevano di avere ogni giorno a tavola formaggi,
salami, cotechini e quanto ancora.
Molto spesso si mangiava polenta con il
latte e lo zucchero, che Noemi ancora oggi
d’inverno si diletta a preparare a ricordo di
quei bei momenti.
Per Noemi la differenza tra oggi e ieri è chiara: oggi si tende ad abitare nel centro, tra
un appartamento e l’altro, magari mini per
non pagare molto l’affitto; a quei tempi invece i “piazzarotti” avevano gran difficoltà di
sfamare i propri figli, avevano pochi campi
e riuscivano a tenere un maiale e una vac-
Sagra di San Giovanni Battista
32a Mostra delle Ciliegie
25-26-27 Giugno 2010
ca con difficoltà. A quei tempi le case erano
piene di persone, la famiglia Marchetto ad
esempio era composta da ben 17 persone,
tanto che si doveva fare continui pentoloni di polenta e sulle brace c’era sempre il
salame. Ogni contrada aveva un forno con
il pane e due giorni alla settimana erano
dedicati alla preparazione.
Forni che erano la “vita” della contrada e
che garantivano pane ogni giorno; oggi se
ne contano ancora 9 (di cui 3 funzionanti).
In quegli anni ogni abitante si chiamava
con il soprannome della famiglia o della
corte in cui abitava; tra i nomi ricordati
dalla signora Noemi compaiono gli Andoli,
i Icii, i Russi, i Lessi, i Ciacci, i Santi, i Cenci, i Selesti, i Tofoli, che successivamente
distinguevano la grande contrada nelle diverse corti o luoghi di residenza.
La vita sociale era molto più unita di adesso e fra i pochi momenti di aggregazione di
cui disponevano allora le persone vi erano la messa e le funzioni della domenica: i
giovani partivano a piedi numerosissimi e
andavano in chiesa a Castello e, cantando,
lungo la via si incontravano con i gruppi
delle altra contrade, tanto che la contrada
dei Giannini aspettava i canti dei giovani
delle Lore per prepararsi e partire assieme
verso la chiesa. Un’altra caratteristica della contrada, che per molte famiglie ha costituito motivo di crescita e di ben vivere,
era la relativa vicinanza con la vallata del
Chiampo. Era un ottimo luogo di scambio
di merci, tanto che si partiva con i buoi,
racconta Noemi, e un carrettino pieno di
frutta, tra cui pere, qualche mela, ma soprattutto uova, pulcini e si ritornava con
qualche soldo o qualche altra merce preziosa come lo zucchero, il sale, il caffè e
altri cibi necessari per campare.
Chiampo non era importante solo per gli
scambi commerciali, ma anche per gli incontri tra giovani: esisteva infatti un sentiero, oggi scomparso a causa delle frane,
che portava direttamente al Cortivo, una
contrada appena al di là del Monte Calvarina, ritenuta l’America dai nostri nonni, perché andare là significava andare in
chissà quale posto.
Proprio in quegli anni, visti il gran numero
di abitanti e la difficoltà di raggiungere i
paesi vicini, la signora Angelina Negretto,
meglio conosciuta come Angelina Del Poldi, nella zona Centro Lore all’interno di una
casetta aprì un’osteria: nulla a che vedere,
naturalmente con le osterie del centro paese ma sufficiente per rendere le serate più
interessanti e il tempo meno noioso. Era
organizzata dentro da una abitazione, praticamente nello spazio di un soggiorno di
adesso e durò per ben 15 anni circa.
La contrada Lore era così una contrada invidiata dalle zone limitrofe, considerata da
tutti economicamente importante e socialmente aperta rispetto ad altre realtà. Oggi
la continua fuga verso il centro del paese
ha svuotato quasi del tutto le abitazioni
esistenti e certe corti, una volta così piene
di vita, oggi sono totalmente disabitate: il
rapporto fra case e abitanti attualmente è
infatti di uno a uno, cioè una casa per ogni
abitante. Uno dei momenti più significativi
per la contrada rimane ancora oggi la festa
del capitello, l’8 settembre di ogni anno,
celebrata con una partecipatissima Santa
Messa a cui fa seguito un rinfresco all’aria
aperta offerto dagli abitanti, a base di pane
casalingo e salame nostrano, e tanta serena compagnia e accoglienza, che rimane
uno dei tratti distintivi delle Lore.
Ringraziando la sig. Noemi Micheletto per
il tempo dedicato e gli abitanti per la loro
disponibilità a raccontare fatti e storie di
altri tempi, concludiamo con un proverbio
che una volta gli abitanti delle Lore spesso
ricordavano e che anche oggi, in qualche
occasione si sente citare, ma che è sempre
più difficile da rispettare: “Alle Lore se nasse, se vive e se more”.
Castello di San Giovanni Ilarione
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i luoghi di Padre Ignazio Beschin
di Claudio Beschin - Presidente del Museo
“G. Zannato” di Montecchio Maggiore
“L
ore” e “Potacci”. Chi non
conosce questi luoghi?
Sono le contrade dominate dalla vetta vulcanica del
Madarosa e incorniciate da
ambienti fortunatamente ancora a dimensione d’uomo, dove il frastuono del
gran mondo giunge appena!
È il paesaggio che fu tanto caro a “Mira”, il
giovinetto dei Potacci la cui storia sta per
diventare quella del beato padre Ignazio
Beschin. Il paese, su questo, ci conta ed
è convinzione di tutti che padre Ignazio
lo avremo presto santo in paradiso.
A ricordo dell’amatissimo frate, nato a
San Giovanni Ilarione il 26 agosto 1880
e spentosi a Chiampo il 29 ottobre 1952,
per volontà dei familiari e degli abitanti
del luogo che gli diede i natali, dal 2004
è stato eretto ai Potacci un significativo
monumento che è quotidianamente meta
di visite e di preghiera. Preghiera anche
per un miracolo che consentirà alla Chiesa di proclamare padre Ignazio beato.
Padre Ignazio è stato un uomo dal cuore eccezionale, di una bontà enorme,
un religioso di soave mitezza di cuore.
Nato da umile famiglia di contadini, a 13
anni entrò nel seminario diocesano di
Chiampo, ricevendo l’ordinazione dieci
anni dopo. Laureato in Teologia morale a
Roma, all’insegnamento affiancò importanti incarichi ecclesiali che disimpegnò
con saggezza, competenza e umiltà.
Per i suoi uffici, viaggiò molto, ma ritornava sempre volentieri quassù. E proprio per questo i familiari, i parenti, la
gente delle contrade Lore e Potacci, hanno voluto consolidare nella roccia calcarea di un monumento il volto di questo
vero servo di Dio che tanto ha onorato la
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Castello di San Giovanni Ilarione
nostra terra, affinché rimanesse ancora
viva ed indelebile in tutti la sua nobile
figura di francescano sapiente ed umile.
Una umiltà che - giova ricordarlo - venne pienamente espressa anche nel corso
della Grande Guerra, che lo vide impegnato nel portare conforto soprattutto ai
soldati in fin di vita o bisognosi di aiuto
e cure mediche particolari.
Padre Ignazio fece suoi alcuni motti: “Lavoro come se non dovessi morire mai e
come se dovessi morire da un momento
all’altro”; “Mi riposerò in cielo”.
Le sue spoglie sono racchiuse nella cripta sotto la cappella di San Giuseppe,
nella Pieve di Chiampo.
L’annuale appuntamento di ricordo e
preghiera nei pressi del monumento a
lui dedicato in contrà Potacci si terrà
sabato 28 agosto, alle ore 17,00. Siamo
tutti invitati.
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Libretto Sagra di San Giovanni Battista 25