DISCIPLINE
Come leggere la poesia .5
Giochi illocutivi
Seconda parte
Emilio Manzotti – Luciano Zampese
Prosegue la pubblicazione di «Come leggere la
poesia», una guida all’analisi, alla comprensione,
all’interpretazione del testo poetico. Questa
quinta puntata, assieme alla successiva,
riprende e sviluppa l’esame dei macro-atti
linguistici concentrando l’attenzione su di un
(sotto)tipo particolare d’atto: l’Invito. Si
comincia con un po’ di teoria sull’Invito e le sue
realizzazioni; si passa poi all’analisi di alcuni
esempi poetici novecenteschi, nei quali l’Invito
va in qualche modo ricostruito dal lettore; e si
viene quindi all’esame (concluso nella prossima
puntata) di una particolare applicazione poeticoteatrale dell’Invito in una celebre scena del Don
Giovanni di Da Ponte-Mozart.
3.6. Inviti poetici
messo linguisticamente in opera nel libretto di Da Ponte –
che è pur sempre un (bel) testo poetico in endecasillabi e
settenari, per quanto funzionale e anzi in certo senso di
consumo – un libretto che leggeremo a contrasto sullo sfondo di due antecedenti librettistici anch’essi d’origine veneziana. L’interesse verterà per noi proprio sull’organizzazione illocutiva della scena: sul fatto cioè che nella versione
Da Ponte-Mozart l’invito alla «statua gentilissima» del
Gran Commendatore si presenti in modo molto più elaborato rispetto a quel che avveniva nei testi precedenti, sfruttando a fondo, sul comune fondale di commedia dell’arte,
le possibilità di gioco offerte dalle possibili realizzazioni
del macro-atto in questione. Il macro-atto d’invito apparirà
così articolato in due momenti di diseguale lunghezza. Da
prima, per esteso, un invito, o meglio un quasi-invito, tramite interposta persona (il servitore Leporello), scandito
all’interno da esitazioni, interruzioni e riprese. Quindi
come compatto atto d’invito per bocca del responsabile di
tutto il macro-atto: il “Padrone”, Don Giovanni, che ne
assumerà tragicamente in fine le conseguenze.
1. Per questi si rimanda, nella ricca letteratura critica disponibile, alle pagine pertinenti di M. Mila, Lettura del «Don Giovanni» di Mozart, Einaudi, Torino 1988.
3.6.1. Sommario
Nella quinta e sesta puntata di questa serie, sempre secondo
la nostra prospettiva di poetica linguistica ed astraendo
dagli aspetti musicali pure decisivi1, esamineremo in dettaglio, dopo un’estesa apertura d’inquadramento generale
sugli Inviti e sulla forma linguistica che essi possono assumere, l’organizzazione illocutiva di una scena della più universalmente nota tra le opere liriche: l’invito a cena rivolto
per bravata, per dileggio, alla statua equestre del
Commendatore nel Don Giovanni mozartiano.
L’analisi di questa scena si concentrerà sul gioco d’azioni
Abstract
In this section about the illocutionary structures of poetic texts and
their rhetorical, stylistic and expressive effects, our guide to a
linguistically-based interpretation of poetry focuses on a specific
speech act (or macro-act): the ‘‘Invitation’’ – discussing its
alternative implementation forms and starting with the analysis (to
be concluded in the next issue) of a well-known scene from L. Da
Ponte’s libretto for Mozart’s Don Giovanni.
NUOVA SECONDARIA - N. 9 2010 - ANNO XXVII
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3.6.2. Natura e modi dell’Invito
Gli Inviti, nelle tipologie d’atti linguistici cui accade di farne
menzione2, vengono ascritti alla classe dei Direttivi, degli atti
che cercano di dirigere il comportamento degli interlocutori, ai quali chiedono d’effettuare o non effettuare una certa
azione. In tale classe, più precisamente, gli Inviti figurano,
assieme agli atti limitrofi del Pregare, Sollecitare, Implorare,
ecc., tra le Richieste, in una cioè delle quattro sottoclassi –
Richieste, Divieti, Domande, Ordini – in cui agli studiosi è sembrato ragionevole suddividere la classe.
Il verbo principe per descrivere e per effettuare l’atto è naturalmente il verbo che gli dà nome: invitare, un verbo che
abbiamo visto nella precedente puntata essere illocutivo (in
certe condizioni esso, cioè, realizza l’azione dell’invitare:
“fa” l’invito), ed anzi, come si potrebbe dire, illocutivo-proposizionale, perché racchiude già, o almeno può racchiudere,
nel suo significato la transazione in questione, limitandosi
(Ti invito) a precisare il contraente (mentre ordinare o domandare, che non sono illocutivo-proposizionali, richiedono
sempre che venga in qualche modo menzionata la transazione: Te lo ordino, Te lo chiedo, e non *Ti ordino, *Ti chiedo).
Secondo dizionari autorevoli (dell’italiano, dell’inglese, del
francese e d’altre lingue), il verbo invitare ed i suoi equivalenti possiedono nell’uso transitivo, e prescindendo da
impieghi tecnici, un’accezione centrale, prototipica, e almeno due accezioni che ne estendono il valore verso quello più
generale della richiesta. Invitare può così voler dire:
Chiedere gentilmente o comunque in modo formalmente cortese da parte di qualcuno (l’“invitante”) a qualcun altro
(l’“invitato”) di:
I) partecipare assieme all’invitante ad una attività, o essere
(sempre con l’invitante) in una situazione, un luogo, ecc. che si
presume possa risultare gradevole all’invitato (ad esempio,
tipicamente: invitare ad un concerto, invitare a fare una passeggiata in collina, invitare nella casa al mare);
II) fare (indipendentemente dall’invitante) «qualche cosa che
all’invitato possa essere gradita, utile, ecc.; ed alla quale egli da
solo presumibilmente non saprebbe risolversi (è il caso ad
esempio di invitare a riposarsi, invitare a non preoccuparsi);
III) far qualcosa, con valore al limite anche d’ingiunzione (ad
esempio: invitare ad alzarsi, invitare a far silenzio).
Nel nostro caso – l’atto o il macro-atto d’Invito –
l’accezione pertinente è la prima, prototipica, quella che si
potrebbe definire del “dono di co-agire”, del proporre a
qualcuno di partecipare ad una attività che dovrebbe, che
“deve” procurargli piacere; e la fattispecie sarà poi quella
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dell’invito a cena, del convitare (non per nulla tra i titoli dei
vari Don Giovanni compare con frequenza il Convitato di
pietra). Il che pone l’Invito a metà strada tra la Richiesta e
la Promessa, perché se l’invitato dovrà recarsi chez
l’invitato e accomodarsi di buon grado al suo desco,
l’invitante s’impegna dal canto suo ad accogliere l’ospite,
predisporre un congruo pasto e via dicendo («verrà il buon
vecchio a cena», esclamerà a conclusione della nostra scena
Don Giovanni: «A prepararla andiamo… | partiamo via di
qui!»). Tra le condizioni (v. § 3.2 sopra) evidenti per l’Invito
vi sono quelle relative agli obiettivi generali, propri ad
ogni atto, di comprensione della intenzione interattiva,
della sua accettazione, e naturalmente dell’esecuzione;
l’invitato dovrà infatti:
i) capire che lo si vuole invitare;
ii) essere in grado di accettare l’invito;
iii) decidere di voler agire di conseguenza
– condizioni queste che potranno anche non risultare evidenti (non lo saranno, di certo, per una statua, donde
l’insistenza, nella scena del Don Giovanni e nei libretti alternativi di cui parleremo, sul “potere” come condizione preliminare niente affatto scontata dell’invito3).
Tra le conseguenze di un invito riuscito e portato quindi ad
effetto assume rilievo particolare nelle regole del nostro
galateo sociale (una forma codificata di interazione) un doppio ulteriore impegno: quello, per l’invitato, di restituire
l’invito e, per l’invitante, d’accettare a sua volta il controinvito – un “dovere” su cui effettivamente graviterà la
penultima e risolutiva scena del Don Giovanni:
COMMENDATORE:
Don Giovanni, a cenar teco
tu m’invitasti, e son venuto.
........................................
Tu m’invitasti a cena:
il tuo dovere or sai.
Rispondimi: verrai
tu a cenar meco?
Un Invito nell’accezione di “dono di co-agire” che qui interessa può essere effettuato in molti e vari modi, più o meno
diretti, più o meno caratteristici, più o meno specifici. Modi
che, interattivamente e stilisticamente, non sono per nulla
equivalenti, ognuno veicolando i propri effetti espressivi.
Oltre alle dirette ed esplicite (a volte troppo) formule performative del tipo di «Vi invito», sono disponibili a chi voglia
procedere con maggior cautela le varie domande sul sussistere di uno dei presupposti dell’atto, sulle condizioni di tali
2. v. in particolare K. Allan, Linguistic Meaning, Routledge & Kegan, Londra e New
York 1986, vol. II, pp. 190 sgg.
3. Ricorrono nei libretti le formule condizionali «Parlate, se potete, | verrete a cena?»,
«Meco invitalo a cena, e se può, venga», o ancora, con qualche goffaggine espressiva: «A cena questa sera | v’invita il mio padrone, | se avete permissione | di movervi
di qua».
continua a p. 63
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condizioni4, ecc.: «Potete… | Avete voglia… Vi fa piacere… |
Posso chiedervi se… » – nessuna delle quali menzionerà, si
noti, l’invito in sé5; e in generale è vero che il nome dell’atto
tende ad essere sistematicamente taciuto, preferendosi magari ricorrere, se non ad un elementare imperativo (v. il paragrafo seguente), ad un futuro plurale di condivisione, come
D’Annunzio nell’Alcyone, «Innanzi l’alba», vv. 1-3 e 11-15:
«Coglierai sul nudo lito; | infinito | di notturna melodìa, | il
maritimo narcisso | per le tue nuove corone» e «Andrem pel
lito silenti; | sentiremo la rugiada | lene e pura| piovere
dagli occhi lenti | della notte moritura».
Ma la tavolozza entro cui scegliere per comporre il testo non
si riduce alle varianti di realizzazione dell’atto illocutivo
dell’Invito, ad un insieme cioè di enunciati alternativi identici tra loro, ad opportuno livello, quanto all’illocuzione. Di
regola un invito, come tante altre azioni sociali specifiche,
non si manifesta sotto forma d’un singolo enunciato, quanto come macro-atto (d’Invito), come compagine coerente
d’atti elementari il cui culmine o centro di gravità, l’atto
dominante come di era detto, è appunto lo stesso Invito. In
questa compagine alcuni atti svolgeranno funzioni
d’apertura, altri funzioni preparatorie, altri funzioni collaterali, altri funzioni di chiusura e così via.
3.6.3. Inviti: diretti e attenuati
Si è osservato che un verbo illocutivo (o performativo) come
invitare, oltre a descrivere un atto linguistico, lo può anche
realizzare con chiarezza totale. Dire ad un interlocutore «Ti
invito», è senza ombra di dubbio un Invito, e non altro. Ma
non sempre, e per molte ragioni, risulterà conveniente ricorrere ad una formulazione così esplicita dell’Invito. Spesso si
ripiegherà, come si è visto sopra, su un imperativo (un tipo
di frase, dunque), magari attenuato, che con forza ridotta
veicolerà una generica, sottodeterminata, intenzione direttiva, da interpretare illocutivamente sulla scorta del contenuto proposizionale e del cotesto o contesto.
In assenza dunque di un performativo esplicito, e più in
generale di indicazioni dirette del tipo di atto o macro-atto
che il locutore vuole compiere6, ci si trova sovente di fronte
alla necessità di interpretare illocutivamente il testo, specie
nel caso di testi scritti, in larga misura privi delle indicazioni situazionali dell’oralità, e per di più letterari e poetici, e
dunque ad alto tasso di implicitezza e ambiguità. Vi sono
certo testi poetici che stabiliscono indubitabilmente (ad
esempio nel titolo), il carattere d’invito dell’intero componimento. È così ad esempio nel dannunziano «Invito alla
fedeltà» o ne «L’invito» di Guido Gozzano. Ma si tratta di
eccezioni. Nella maggior parte delle situazioni testuali
occorrerà riconoscere la messa in scena d’un (macro-)atto di
invito attraverso indicazioni indirette, che chiamano in
causa più livelli linguistici. Qui di séguito qualche esempio
di come venga a fissarsi l’interpretazione illocutiva.
Un incipit lirico di una certa notorietà è quello della
segue da p. 58
Dettaglio da La Passeggiata di Aldo Palazzeschi, testo composto a mano con una selezione di caratteri tipografici italiani del
Novecento e stampato a torchio presso la Tipoteca Italiana fondazione di Cornuda (TV), www.tipoteca.it.
Passeggiata di Palazzeschi (1910):
– Andiamo?
– Andiamo pure.
ironicamente poi ripreso, più di mezzo secolo dopo, da
Sandro Sinigaglia in «Andiamo?» della Camena gurgandina:
– Andiamo? –
(Mela crodata raccogliticcia
col nizzo e col baco pure alle volte
è la più dolce dell’annata).
– Certo ma certo andiamo
fortuita zoccoletta! –
In entrambi i casi si ha formalmente una frase interrogativa,
seguìta a contatto o dopo la parentetica da una dichiarativa
(o magari imperativa). Se a tipo di frase corrispondesse tipo
di atto, si avrebbe qui la coppia “Domanda – Asserzione (o
Ordine)”– che tuttavia pare poco plausibile anche a livello
intuitivo.
Per stabilire quale tipo d’atto sia in gioco occorre tener conto
di fattori molteplici; nei due esempi precedenti, specificamente: a) per Palazzeschi, il titolo che individua ciò su cui
insiste la predicazione – un passeggiata, col suo potenziale
carattere di dono; b) la natura dialogica della coppia di
enunciati (due battute o interventi di uno scambio), che esige
una definizione interrelata del loro tipo; c) la presenza nelle
seconde battute di pure, o di Certo ma certo, che assegna loro
4. Soluzioni che non sono necessariamente tutte disponibili per le accezioni II) e III)
dell’invito, come mostrano gli enunciati, certo mal adatti al loro scopo, Posso chiedervi di riposarvi un po’?, e Avete voglia di far silenzio?
5. Avete voglia di venire da noi questo sabato? – ma mai Avete voglia di essere invitati da noi questo sabato? Un dizionario monolingue inglese afferma categoricamente nella voce relativa al verbo invite che «This word is not used when one is actually
inviting someone».
6. Si pensi, ad esempio, ad enunciati di natura metatestuale del tipo di natura metatestuale del tipo Ciò che ti sto dicendo vuole essere un complimento | un ringraziamento | un invito ecc.
NUOVA SECONDARIA - N. 9 2010 - ANNO XXVII
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Di passi d’ombre memori
Entro rossori di mattine nuove.
un valore vagamente concessivo (pure) o asseverativo.
Se ne deduce che la prima battuta non è finalizzata in quanto
domanda a sapere qualcosa, ad ottenere una informazione,
quanto piuttosto a chiedere all’interlocutore di fare qualcosa,
una passeggiata – e forse specificamente ad invitarlo. E poi che,
per coerenza illocutiva, la seconda battuta andrà intesa come
risposta a tale richiesta-invito, come sua accettazione. Perché
proprio e specificamente un Invito? Perché, tenendo come termine di confronto illocutivo l’Esortazione: i) la richiesta
espressa da Andiamo? porta su una attività valutata (dal locutore) come piacevole (vs ad esempio un’attività meramente
utilitaria, oggetto d’Esortazione); ii) nell’attività sono parimenti coinvolti il locutore (normalmente escluso nell’Esortazione)
e l’interlocutore; iii) vi è un’attesa di risposta “linguistica”,
ossia di un atto tipicamente illocutivo di accettazione o rifiuto
della richiesta (vs la semplice esecuzione dell’atto oggetto
d’Esortazione); e iv) in assenza di subordinazione gerarchica
del locutore all’interlocutore (una gerarchia che è spesso funzionale al valore d’Esortazione), viene lasciata all’interlocutore, entro le convenzioni della cortesia e della reciprocità, la
facolta di decidere, di scegliere se accettare o meno.
L’incipit di Palazzeschi, e la sua parodia bassa nella Camena di
Sinigaglia, offrono esempi di realizzazione del macro-atto di
Invito mediante due enunciati elementari correlati: il primo
che veicola l’illocuzione dominante – e che costituisce a rigore l’Invito vero e proprio; il secondo con l’illocuzione subordinata di accettazione. Ma naturalmente ciascuno dei due atti
elementari che qui compongono il macro-atto di invito può
essere realizzato in strutture illocutive più complesse. Un
esempio notevole di simile espansione è in Montale, «Botta e
risposta I», lirica introduttiva di Satura, articolata in due ampi
movimenti; il primo, una dozzina di versi in due strofe, contiene una sorta di “lettera da Asolo” nella quale
un’interlocutrice femminile – probabile icona della Musa ispiratrice o della Poesia – si rivolge al poeta invitandolo a
«sospendere | l’epoché» onde esser di nuovo “secolei”; la
risposta dell’io lirico articola nel secondo movimento per più
di quaranta versi il rifiuto e le sue ragioni.
Più diffuse, per il carattere monologico della scrittura, paiono situazioni in cui l’Invito viene a costituirsi attraverso un
ampio insieme di enunciati che rimane privo di indicazioni
sul suo esito positivo o negativo. Si esamini, per questo, una
lirica di G. Ungaretti, «Dove la luce»:
Come allodola ondosa
Nel vento lieto sui giovani prati,
Le braccia ti sanno leggera, vieni.
Ci scorderemo di quaggiù,
E del mare e del cielo,
E del mio sangue rapido alla guerra,
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5
Dove non muove foglia più la luce,
Sogni e crucci passati ad altre rive,
Dov’è posata sera,
Vieni ti porterò
Alle colline d’oro.
L’ora costante, liberi d’età,
Nel suo perduto nimbo
Sarà nostro lenzuolo.
10
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A sostenere l’atto illocutivo dominante è soprattutto il predicato vieni del v. 12 con le ripetute determinazioni spaziali
(Dove non muove foglia più la luce, e Dov’è posata sera) che
riprendono e determinano il titolo «Dove la luce». Se ci si
limita a vieni, il confine tra invito ed esortazione o richiesta
può apparire tenue: la morfologia imperativa di vieni ammette in effetti un ampio ventaglio di impieghi illocutivi genericamente direttivi, dove la forza e la natura dell’atto vanno
determinati contestualmente. Nel nostro caso è di primaria
rilevanza la coppia verbale, che occupa il v. 12: «Vieni ti porterò»7: sullo sfondo delle proprietà individuate per l’invito
(evidente su tutto la positività della meta), emerge
l’esplicitazione di un diretto coinvolgimento del locutore,
che oltre a proporsi come compagno di viaggio (v. il valore
comitativo di Vieni, che sottintende «con me») offre – e illocutivamente “promette” – di essere guida verso le «colline
d’oro»; si potrebbe cioè vedere in questo atteggiamento una
caratteristica propria all’invitante che, diversamente da chi
esorta o formula una richiesta, tende ad impegnarsi nel compimento dell’oggetto dell’illocuzione. Come si era già osservato (nella precedente puntata) per un più esplicito invito al
viaggio, la rappresentazione della meta occupa notevole spazio all’interno del testo: una ricchezza descrittiva solo in
parte funzionalizzabile all’accettazione. Il fascino del luogo
agisce anche sul locutore con benefici che se da un lato
riguardano il suo passato individuale («Ci scorderemo… del
mio sangue rapido alla guerra»), si manifestano soprattutto
come esperienza nuova di condivisione: «L’ora costante, liberi d’età, | Nel suo perduto nimbo | Sarà nostro lenzuolo»,
dove l’interlocutrice appare necessaria compagna
d’avventura. Ne deriva la cifra particolare di questo invito,
per cui un eventuale rifiuto condurrebbe al probabile esaurirsi del progetto o ad un suo significativo indebolimento.
Ma si ritorni sulla prima occorrenza al v. 3 del predicato vieni,
che si era detto centrale per l’architettura illocutiva del testo.
Come per il nascondi di «Nebbia» (v. la terza puntata), siamo
in presenza anche qui di un’ambiguità morfologica tra indicativo e imperativo. Il parallelismo, nel procedere del testo,
delle due coppie verbali: «… vieni || Ci scorderemo…» e
«Vieni ti porterò» facilita per analogia una lettura imperativa
7. Il confronto con la stesura iniziale: «Ti porterò alle colline d’oro, | Vieni dov’è sera
posata» («L’Italia Letteraria» del 17 agosto 1930), permette di valutare il movimento
chiastico che affianca e rileva in un unico verso i due predicati.
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del verbo iniziale, declinata anch’essa secondo le forme
dell’Invito. In entrambi i casi seguono delle predicazioni al
futuro che con i loro contenuti positivi sembrano destinate a
promuovere l’accettazione. Si noterà semmai il diverso orientamento spazio-temporale evocato nelle due azioni (un quaggiù negativo e condizionato dal passato nel caso di «ci scorderemo», e un “altrove” positivo proiettato nel futuro per «ti
porterò») e il passaggio da una prima persona plurale ad una
prima persona singolare, dove più forte appare l’impegno del
locutore e il valore di “promessa” dell’atto illocutivo.
Più arduo risulta invece individuare i rapporti sintattici del
predicato all’interno della strofa iniziale. Se si vuole mantenere il carattere imperativo di vieni, occorre riconoscergli una
piena autonomia sintattica, che si stacca dalla precedente
sequenza a carattere descrittivo, articolata in una frase iniziale con sintassi nominale seguita in asindeto da una frase predicativa («Le braccia ti sanno leggera»). D’altra parte la forte
affinità sintattico-semantica tra vieni e il sintagma iniziale,
con valore predicativo comparativo «Come allodola ondosa
| Nel vento lieto sui giovani prati», ne facilita la presenza in
ellissi all’interno della struttura nominale in forma di presente indicativo («[Vieni] come allodola…»). La poesia potrebbe
dunque aprirsi con un’immagine di figura femminile che
avanza libera in una primaverile natura senza una precisa
direzione (ondosa) ma sensibile forse ai richiami (v. le «allodole assetate | sul miraggio», v. 1 di «Agonia», da L’Allegria):
una visione da cui l’Io lirico trarrebbe la forza di proporre il
suo invito per un volo straordinario e una meta definitiva.
3.6.4. Don Giovanni “als Gastgeber”
E si venga ora alla scena dell’invito nel libretto mozartiano
di Lorenzo Da Ponte, una scena che può essere vista globalmente come un macro-atto: d’Invito, appunto. Essa
scena discende per lunga filiazione dall’Ur-testo del mito
di Don Giovanni, vale a dire il Burlador de Sevilla y
Convidado de Piedra (1630), “L’Ingannatore di Siviglia e il
Convitato di Pietra” di Tirso de Molina, in cui per contro la
scena, verosimile ed essenziale, si svolgeva in una chiesa, e
non come in Da Ponte in un cimitero. Nel Burlador Don
Giovanni e il suo servitore Catalinón (come a dire in italiano Cacasotto, o con la suffissazione poi vincente Cagarello –
visto che in andaluso catalina stava per molto umane “deiezioni”9) scoprivano il sepolcro di Don Gonzalo di Ulloa,
ucciso in duello dallo stesso Don Giovanni. All’illetterato
Catalinón Don Giovanni leggeva ad alta voce l’iscrizione
sul sepolcro, per poi senza quasi soluzione di continuità
invitare seccamente a cena per la sera don Gonzalo – al
quale pensava bene di proporre anche, a guisa di dessert,
un secondo duello riparatore per quanto ìmpari:
«Stasera vi aspetto a cena
a casa mia. Là potremo
batterci comodamente,
se vi piace la vendetta:
ma ìmpari sarà il duello,
la vostra spada è di pietra»10.
Il Convitato di pietra-Don Gonzalo apparirà la sera stessa
negli appartamenti di Don Giovanni, facendosi promettere
la restituzione della visita, in chiesa, nella sua cappella, la
notte seguente. Nella chiesa una macabra cena infernale a
base di scorpioni, vipere, contorno d’unghie, ecc. si farà dare
la mano – con quel che segue.
Nel Burlador, abbiamo dunque realisticamente un Don
Giovanni che legge ad alta voce per Leporello, come era
nella natura delle cose, ed un Don Giovanni che invita in
prima persona. Ma le modalità dell’invito, e la complessità
della realizzazione, già mutano in un altro grande Don
Giovanni, quello di Molière: Dom Juan, ou le festin de pierre
(1665). Padrone e servitore (uno Sganarello di codardia caricaturale) nella scena V del terzo atto si imbattono nel mausoleo funebre del Commendatore, da cui la statua sembra
lanciare sguardi di fuoco sui due intrusi. Stavolta è a
Sganarello che Don Giovanni impone di fare in vece sua
l’invito, iterando per giunta tre volte la richiesta –
i)
«Chiedigli se vuol venire a cena da me»
ii)
«Chiedigli, ti dico»
iii)
«Fai quel che ti dico»
– prima di vincerne l’estrema riluttanza (Sganarello obietta ad
i) che l’Invitato non ha bisogno di quel che gli si offre (cenare);
e a ii) che del resto non aveva senso rivolgersi ad una statua:
«Vi burlate di me? È cosa da pazzi andare a parlare ad una statua»). Risoltosi ad agire dopo un ultimo commento («Che bizzarria!»), Sganarello principia con un vocativo: «Signor
Commendatore…», s’interrompe a commentare e scusare
l’insensatezza del proprio atto («… rido della mia balordaggine, ma è il mio padrone che me la fa fare»), riprende («Signor
Commendatore») e completa infine l’invito: «Il mio padrone
Don Giovanni vi chiede se gli volete far l’onore di venire a
cena da lui».
La statua accenna di sì col capo, senza parlare, così come
acconsente solo con un cenno, senza parola proferire, all’invito ripetuto sùbito dopo in prima persona da Don Giovanni (al
fine principale per vero dire di persuadere Sganarello di viltà):
«Il Signor Commendatore vorrebbe venire a cena con me?».
Emilio Manzotti – Luciano Zampese
Università di Ginevra
8. Per cui v. F. Angelini, «Il dissoluto punito, o sia Il Don Giovanni» nel vol. II delle
Opere della Letteratura italiana Einaudi, pp. 1213-29.
9. v. l’annotazione su Catalinón in Tirso de Molina, Teatro, Garzanti («I libri della
spiga»), Milano 1991, p. 652.
10. Trad. di R. Paoli, nella citata edizione garzantiana, p. 585.
NUOVA SECONDARIA - N. 9 2010 - ANNO XXVII
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