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CARERE DEBET OMNI VITIO
QUI IN ALTERUM DICERE
PARATUS EST.
Elio A. Farina
Vorrei che questa ferita mi
rendesse immortale
Elio A. Farina
Vorrei che questa ferita mi rendesse immortale
Vorrei che questa ferita mi rendesse
immortale
Elio A. Farina
Questo racconto fa parte della raccolta “Dietro a una canzone”. Bells Aimed At All
My Head di Elias M. Waters.
Copyright CC: BY–SA. Some rights reserved.
CARERE DEBET OMNI VITIO
QUI IN ALTERUM DICERE PARATUS EST.
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Versione: brtitis1502 ver 2.1 - 2015/04/18.
deve toglierti i capelli che hai sul viso perché così ti faccia sentire
quanto sei bella. E sempre senza dire nulla, gli fai capire che tu non
lo bacerai mai per prima, anche se sei lì per questo.
E lui ti accoglie sulle sue ginocchia. Toglie da davanti ai tuoi occhi i tuoi capelli bagnati. Si accorge di quanto sei bella. E ti chiederà
scusa, senza dire una parola.
No. Non devi chiedere scusa, gli dici con gli occhi. E lo baci.
Anche tu lei hai sentite le rose cadere, per questo lo fermi con
una mano, mentre cerca di raccogliere. Lo accarezzi sulla guancia,
fai no con la testa, gli fai capire che devono rimanere lì e gli chiedi
così, in silenzio, di continuare a baciarti.
Perché è solo questo che vuoi: che stia zitto e che ti baci.
Ma non dire che ormai non ha più importanza.
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24
E finalmente arrivi. Perché quella forza che pensavi di aver perso
sfogandoti contro l’auto, in realtà, era solo nascosta per servire nel
momento più opportuno.
E lui è lì, solo, sulle scale, che sembra parlare da solo. Con le rose
tenute in mano. Il sedere sul terzo gradino, i piedi sul primo, e la
faccia di colui che ha capito che non è mai troppo tardi per dire a
qualcuno che lo ami, ma che l’ha capito troppo tardi. Lo sai che piove. Lo sai che sarebbe meglio entrare perché i dieci centimetri che
sporgono del tetto non ti stanno riparando per niente. Ma prima
hai bisogno di lavare gli ultimi cattivi pensieri, hai bisogno di ritrovare il fiato, hai bisogno di sentire freddo per poter provare che sei
viva e per far sì che sarà lui poi a scaldarti. E hai bisogno di vederlo
dal vetro del portone ancora una volta, di osservarlo per un attimo
prima di entrare. Hai bisogno di osservare quella idiota tenerezza
di cui tu ti sei innamorata e a cui non eri preparata, prima che il
rumore della chiave che fa scattare il meccanismo elettrico faccia sì
che lui si accorga di te.
E lui si accorge di te, prima che tu possa fare rumore. E non si
alza.
E ancora non riesci a capire perché, ma è il fatto che non si alzi
che ti dice che quello è l’uomo con cui vuoi stare.
Allora sorridi per dirti che sei scema. Apri il portone, e ti avvicini
a lui con piccoli e lenti passi.
Dici di no con la testa, e parte dei capelli bagnati ti cadono davanti.
E con la stessa lentezza ti avvicini a lui, e senza dire una parola
gli fai capire che deve fare spazio sulle sue ginocchia per permetterti
di sederti lì. Lo guardi, e sempre senza dire nulla gli fai capire che
C
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osa sto facendo? Che cosa sto facendo? Che cosa cazzo sto facendo?
Il respiro affannoso di chi ha appena corso, le mani sul tettuccio dell’automobile e le lacrime che vorrebbero scendere
ma che non escono, neanche se ti sforzi. E allora ti raccogli, appoggiando la fronte proprio sopra le tue mani, sperando che
qualcosa succeda: un consiglio dall’alto, una qualche forma di ispirazione, una mano sulla spalla che ti chiede di girarti. Inutile: anche se tu quella mano la senti, non c’è, e non accade nulla. Neanche
il respiro diminuisce di intensità, e tu non stai di certo meglio di
prima. Non ti resta che prendere a pugni la tua auto, per rompere
qualcosa. Per provocare almeno un dolore fisico, qualcosa che puoi
sentire, come mordersi un dito per provare che si è ancora vivi o
darsi i pugni sulle cosce per spostare il dolore da un’altra parte. Per
provocare almeno un rumore per provare che le tue orecchie possono ancora sentire dietro il tonfo ovattato che ti circonda. E lanciare
un grido, prima che sia troppo tardi, prima che esca soffocato, ma
che nessuno potrà sentire.
In sintesi: questa è quella che sei.
È così che ti senti ora. Ed è così che le lacrime sono riuscite a venire fuori, quando pensavi che non sarebbero mai arrivate. E non
appena la prima goccia esce dai tuoi occhi e senti la traccia lasciata
sulla guancia, la forza che pensavi di avere ti accorgi che l’hai sprecata tutta per quella corsa, per quell’unica botta alla carrozzeria, per
quell’unico urlo strozzato e per quell’unica goccia salata che ti ha
fatto sentire ancora più sola. Anche le gambe vengono meno e ti
ritrovi in un attimo seduta per terra con la schiena appoggiata alla
portiera e le mani fra i capelli. Ma non è un pianto che dura a lungo,
perché senti che devi urlare, urlare e basta. Non devi dire nessuna
parola, non devi formulare frasi, non devi trovare una spiegazione
a nulla, perché nulla è più importante ormai. Nulla ha una risposta
che puoi anche solo vagamente pensare di trovare convincente. Tu
non vuoi che funzioni, non vuoi trovare un senso.
Vuoi solo urlare per coprire il rumore assordante dei tuoi muti
pensieri.
Vuoi solo urlare per far capire quanto sei incazzata.
Vuoi solo urlare perché tutti ti sentano.
Vuoi solo urlare perché gli uccelli scappino dagli alberi e le luci
dietro le finestre nere dei palazzi si accendano.
Così che tutti si accorgano finalmente di te. Così che tutti ti guardino come una pazza per potergli rinfacciare che i pazzi sono loro.
Per potergli urlare di rientrare nel buio della loro vita. Che questi
non sono affari loro. Anzi: che questi non sono cazzi loro.
Ma nessun urlo esce.
L’unica cosa che ripeti nella tua testa è che non ha più importanza ormai, non ha più importanza. Lo dici anche una volta, con
le labbra che simulano i movimenti delle lettere e con una intensità che è solo il sibilo di un soffio espirato che suona come un urlo
in una chiesa: non ha più importanza ormai. Non sai da dove siano arrivate quelle parole, ma sai che sono vere. Sono dannatamente
vere.
È troppo tardi adesso.
È troppo tardi.
È troppo.
È.
È quello il problema. Il problema è che è, e non è come avresti
voluto che fosse.
E piangi.
Piangi perché vorresti urlare e non ci riesci.
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e scegli il criterio insieme a lui. Vai, e non lasciare spazi vuoti alla fine
del nastro. Vai, e registra solo canzoni che vorresti ascoltare sempre
senza mandare avanti. E così sarà. E tu finalmente potrai sentirti
veramente bella. Non te lo dirà. Non ti dirà che sei la più bella cosa
che gli sia mai successa. Perché tu non sei una cosa, e sai di essere
bellissima.
Tu volevi quelle rose, cosa importa il quando e il come sono arrivate? Tu volevi quelle rose. Gli altri si comportavano esattamente
come la tua canzone preferita: ti conquistavano per poi buttarti nel
fiume. Ti portavano la rosa perché sapevano che ti sarebbe piaciuto. Lui? Tu lo sai che lui non l’avrebbe mai fatto. Lui lo sai che è il
fiume che ti accoglie dopo che gli altri ti hanno abbandonata. Lui
lo sai che ti aspetta quando fai tardi. Lui lo sai che arriva prima agli
appuntamenti per poterti vedere mentre arrivi da lontano. E così si
è presentato con le rose, ha pensato che era quello che volevi. Mentre ti sei obbligata a scappare da lui, a dimenticarlo, lui si presenta
con le rose, si comporta esattamente come quegli altri che speravi
lui non fosse, dai quali speravi lui ti portasse lontano. E avevi paura
che il terzo giorno ti avrebbe ucciso, come gli altri. Perché ti piace
stare male, ti piace volerti sempre meno bene. Ma non da lui. Tu
volevi che lui ti liberasse da tutto questo e sapevi che avresti potuto
farcela.
Solo ora capisci che non è così, e corri di nuovo. Solo ora capisci
che per lui le rose sono solo una maschera dietro cui nascondere la
paura di perderti, perché lui ti vuole.
Quanto è lungo il parco?
Quanto è distante la luce sopra il portone?
Quanto ancora puoi stare lontana da lui?
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Ti senti debole. Vorresti avere la forza di rompere il finestrino
dell’auto ma la mano con il sasso si ferma prima e lo lascia cadere
sconsolato per terra. Perché il sasso in realtà è a qualche metro da te
e non hai nemmeno la forza di prenderlo.
Piangi perché sei spaventata, e sai che la paura porta soltanto
altra paura.
Ti senti impotente. Vorresti che ti fosse dato quello che chiedi
quando lo chiedi, e non quando le cose devono capitare, programmate senza un minimo trasporto, fredde, razionali: analisi dei segni,
conferme, relazioni e conclusioni. Senza che tu debba condurre il
gioco e permettere che tutto accada, così, come per caso, facendo
credere che il tutto non fosse mai stato pianificato. Almeno una
volta nella vita: è chiedere troppo?
Piangi perché vorresti piangere e non ci riesci.
Ti senti disarmata. Vorresti fosse andata diversamente. Doveva
andare per forza così? Siamo pezzi di carne alla deriva dei nostri sentimenti in un mare di complicazioni. Siamo massa che dovrebbe andare a fondo, adagiarsi pesante sul fondale e trovare la quiete, ma
ci aggrappiamo ostinatamente a tutto ciò che ci tiene a galla, a tutto ciò che ci fa respirare fuori dall’acqua e ci dà ancora la speranza
di vedere la luce del sole. E noi crediamo di poter sopravvivere così,
anche a costo di lasciarci trascinare al largo, anche a costo di non
vedere più la riva, anche a costo di non sapere come tornare e non
averne più le forze.
E tu sei lì, seduta per terra, con le gambe raccolte e tenute abbracciate che cerchi di calmarti. Perché i pensieri che ti passano per
la testa sono troppi e tutti diversi fra loro: tutta un’antitesi, tutti
bravi, con i loro discorsi giusti al momento giusto, immersa in una
stanza con gente che ti suggerisce cosa dire mentre tu sei al telefono
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Cosa ti importa se non è un vero uomo? Cosa ti importa? Davvero?
Davvero è così? Davvero è questo che è così importante?
Ti dà quelle cose che senti? Hai bisogno di un sospiro in più
quando lo vedi? Ti giri per vedere se ti ha seguito quando ti allontani? Tutto quello che dice ti interessa veramente? Vorresti che ti facesse addormentare la sera e che ti svegliasse la mattina? Hai mancato di un battito quando hai aperto la porta? Hai pensato che tutto
si fosse azzerato?
Hai solo pensato che fosse inutile scappare da se stessi e allora
sei scappata correndo, almeno.
E allora seguila questa corrente, e non dire che non sia più importante ormai. Perché è questa la cosa più importante, adesso.
Seguila la corrente, e vai, vai da lui. Vai da lui, non aspettare.
Perdere è più che esitare.
Corri. Corri nella pioggia. Attraversa di nuovo il parco, vai. Perché più corri veloce, meno ti bagni. Più corri veloce, più il nuovo inizio può incominciare prima. Vai a dirgli che è un idiota. Vai a dirgli
che sei stupida. Vai a prendere quello che ti aspetta. Vai e bacialo.
Vai.
E digli che lo ami.
Che lo ami quando ti tiene compagnia alla fine di una serata.
Che lo ami quando ti annoia a raccontarti delle chitarre. Che lo ami
quando non coglie nessun segnale. Che lo ami quando ti guarda
come se tu fossi importante e sai che non potrà mai farti del male
perché non sei tu che gli hai detto che deve guardarti così. Perché
è l’unico che sia mai, veramente, riuscito a farti sentire così. Perché
lui non devi cambiarlo sperando che migliori. Non è un racconto
già scritto, una profezia che si auto avvera: la vostra storia è una
cassetta vergine su cui puoi registrare tutte le canzoni che vuoi. Vai,
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con qualcun altro.
Sono talmente tanti che lentamente si dissolvono dalla tua mente, diventano solo parole sconnesse: sei in mezzo ad una piazza piena, circondata da persone, persone che parlano, e parlano, e parlano, ma dell’insieme riesci a percepirne solo il rumore, anche se sai
che dentro a quel rumore ci sono parole, parole che formano frasi,
frasi che hanno un senso per chi le racconta e per chi le riceve, che
dovrebbero avere un significato anche per te, perché sono solo semplici frasi, formate da parole, ma che per averne uno devi ascoltarle,
bene, e metterle insieme, mentre invece rimbombano vuote, nella
tua testa. Pensare che sei una stupida ti fa sentire quel calore dietro
lo sterno e ti fa capire che nessuno ti può aiutare. Ti accorgi che le
tue braccia tremano di meno e il solo suono che riesci a sentire adesso è il tuo respiro che si fa sempre più lento e controllato, che cerca
di spegnere la fiamma nei polmoni e di far evaporare il fumo dei
cattivi pensieri, che rimangono lì, in sottofondo, come una nenia,
una ninna nanna poco prima di addormentarti per davvero. È solo
adesso che puoi lasciarti andare e far scorrere i piedi, che si allontano nella polvere tracciando la linea su cui poi si poggeranno le tue
gambe.
Silenzio e respiro. Silenzio. Ed inspiri. Silenzio. Ed espiri. Il suono armonico è l’unica cosa che può consigliarti veramente in questo
momento. È l’amica che ti dice quello che è giusto, anche se è cattivo, ma solo lei sa come fare a farti stare meglio senza mentire.
Come sei arrivata qui?
Sono corsa passando attraverso il parco perché l’unica cosa che
mi ricordavo era dove avevo parcheggiato l’auto. Mi ricordo che lui
mi aveva chiamato poco prima di uscire dall’ufficio per chiedermi
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more della pioggia non riesce a coprire le tue risate a singhiozzo,
alzi il volume perché tutto venga sommerso, e la nota, la singola nota martellata del pianoforte nella canzone, che lui ti ha fatto notare
perché tu non te ne eri accorta, si sta sostituendo allo stillicidio, ed
è un debole suono dietro le chitarre distorte che quando ti accorgi
che esiste non puoi smettere di sentire. Ti porti indietro i capelli
bagnati che ti sono scesi sul viso e ti abbandoni di nuovo contro lo
schienale.
Posso seguire la corrente, ma non dire che non sia più importante.
Innamorarsi e disinnamorarsi, qualcosa di dolce da buttare via.
Io voglio qualcosa di buono per cui morire, per rendere più bello
il vivere.
Voglio un nuovo errore, perdere è più che esitare.
Tu ci credi nella tua testa?
Tu, ci credi nella tua testa?
Tu, cazzo, ci credi nella tua testa?
E allora se ci credi nella tua testa, se ci credi veramente, perché
sei ancora nella tua merda di auto ad aspettare ancora una volta che
lui faccia qualcosa?
Tu lo vuoi. Dillo: io lo voglio.
Tu vuoi qualcosa di buono per cui morire. Dillo: voglio quel
qualcosa di buono per cui morire.
Tu vuoi rendere più bello il tuo vivere. Dillo: voglio rendere più
bello il mio vivere.
E allora esci e vai. Perché quel più bello non è lui, è lo stare con
lui. La sensazione che ti dà. Cosa ti importa se non è come gli altri?
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se questa sera sarei rimasta a casa, e che questi minuti di telefonata
mi hanno fatto perdere del tempo, non troppo da lamentarmene,
ma quel poco in ritardo per poter tornare nel traffico e non trovare
un posto libero sotto casa.
È sempre e solo questione di minuti, scelte e coincidenze. Adesso hai capito il perché di quella telefonata, ché era da tanto che non
ti chiamava.
No, intendo dire: come sei arrivata qui? Come sei arrivata a questo momento? Perché le tue gambe sono per terra, nella polvere,
insieme ai tuoi pensieri?
Non puoi rispondere, perché è in quel momento, nell’esatto momento che ti stai dicendo sono una cretina, che ti accorgi che sta piovendo, e sempre più forte. Perché se le chiavi dell’auto per scappare
e il dove l’hai parcheggiata sono le uniche cose che il tuo automatismo è riuscito a focalizzare, la possibilità che potesse piovere non ti
ha avvicinata un istante. Volevi solo correre, correre forte e lontano
da quello che stava accadendo lì, a casa tua, sulla porta di casa tua.
Perché non potevi affrontarlo, l’istinto ti ha detto di fare così e tu
l’hai assecondato, senza pensarci un istante.
Non volevi stare lì, non potevi stare lì. Non volevi dare nessuna
spiegazione, c’era tutto il tempo per poter dare delle spiegazioni. Un
anno di tempo per poter dare delle spiegazioni. E lui non ha fatto
niente per avere spiegazioni, non ha dato nessuna spiegazione, ha
solo fatto passare quel tempo fino a che si dilatasse tale da provocarne una rottura. E non puoi chiudere gli occhi, anche se la pioggia ci
sbatte contro, perché se chiudi gli occhi riesci a vedere soltanto delle
rose e un sorriso idiota dietro, un sorriso troppo tardivo. Un sorriso che ti ha spaventata come un rumore nel buio che non aspetti
altro che accada per convincerti di correre ai ripari e nasconderti. E
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qualcosa, allora quella è la musica perfetta per te. Strano, detto da
uno che commenta qualunque cosa ascolti.
E adesso quella canzone ti piace?
Sì. Adesso mi piace che non riesco a non ascoltarla.
Ti va di mettere su la chiavetta e sentire a quale canzone la memoria della tua autoradio si è fermata?
Metti la chiavetta nell’autoradio, riprendi le chiavi dal sedile del
passeggero, le giri quel quarto per accendere il quadro elettrico, e
l’autoradio si accende da sola. Sporgerti ti ha fatto cadere i capelli
davanti agli occhi.
Where the Wild Roses Grow, la tua canzone preferita. A te piace
Nick Cave, ma solo perché nessuna delle tue amiche lo conosce. E
lui lo sa, e te ne ha messe un paio. E vorresti essere lei che canta con
lui. Il primo giorno lui la vede e si innamora. Il secondo giorno lui le
porta una rosa. Il terzo lui la uccide colpendola con un sasso, perché
tutta la bellezza deve morire. No. Decisamente non è così che deve
andare. Non bisogna associare le rose, la leggenda, la canzone a voi
due: quella che viene lasciata nel fiume con una rosa fra i denti non
devi essere per forza tu. Vorresti essere colpita anche tu, ma vorresti
che la tua ferita ti rendesse immortale.
Vorresti saltare di una posizione. Vorresti mandare avanti il nastro. Ma tu sai perfettamente quale è la canzone che viene dopo e
hai paura ad infrangere le regole della cassetta. Perché sai che dopo
incomincia Go with the Flow, dei Queens of the Stone Age. Sorridi. Ti stavi quasi addormentando alle note della tua canzone che,
anche se macabri, i pensieri si stavano quietando. Ed ecco che vieni
risvegliata dalla potenza di questa. Il caso. La sua canzone preferita.
Forse è questo il criterio che ha usato.
O è il caso, davvero. Go with the Flow, segui la corrente. Il ru-
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così sei corsa via, per poterti mettere in salvo.
Però qui, adesso, la cosa più importante è che bisogna entrare
in auto per ripararsi e ti accorgi che non sei così sicura di aver preso
le chiavi, che sono sempre state lì, nella tua mano sinistra. Allora ti
alzi di fretta e apri la portiera, come se quella velocità ti permettesse
di bagnarti meno di quanto tu non lo sia già.
Una volta entrata in auto un altro respiro profondo, per fermare
i pensieri nuovi che stanno già spingendo per entrare e per ricordarti a che punto sei arrivata. Allora rilasci la testa all’indietro contro
il poggiatesta e la schiena scivola quel che basta fino a portarti sul
bordo del sedile, con i piedi messi alla meglio sotto i pedali e nello
spazio che la parte del guidatore ti può lasciare.
Nel momento in cui chiudi gli occhi ti accorgi che le braccia sono
ancora in tensione, immobili e contratte, e che gli occhi non vogliono stare chiusi. Che se potessi esprimere in qualche modo quella
forza contro qualcosa, o su qualcuno. ..
Ma non puoi. Le tue mani sono ancora chiuse e le chiavi dentro
il pugno iniziano a fare male. Due botte al volante, le chiavi lanciate
sul sedile del passeggero, un piccolo urlo e solo così puoi rilasciare
i muscoli e far cadere le braccia dove vogliono cadere, esauste. Il rumore della pioggia sul tettuccio è l’unica cosa che ora senti, e credi
che sia l’unica cosa che tutti, in questo momento, possano sentire.
Non il tuo respiro, non i tuoi urli soffocati, non le tue domande
sussurrate a mezza bocca: la pioggia. Lo stillicidio che cade dai cornicioni e l’odore di petricore che ti è sempre piaciuto. La pioggia che
fuori sta cancellando le tracce di te seduta per terra, ma che dentro
non riesce a lavare la polvere che hai addosso.
È un calmante che ti permette di chiudere gli occhi e non ti fa
pensare di essere sporca. Non avere paura a farlo, abbandonati, e
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E tu così hai fatto. L’hai ascoltata da sola. Non hai saltato neanche una canzone. Non le hai ascoltate casuali. Lei hai ascoltate tutte
in fila e non hai più tolto la chiavetta dall’autoradio per settimane,
fino a che non hai ascoltato una canzone alla radio, in sottofondo al
lavoro, e ti sei fermata un attimo. E appena finita quella canzone hai
iniziato a canticchiare la canzone successiva prima ancora che avessero messo in onda qualcosa. E quando l’hanno messo, quel qualcosa non era la canzone successiva, perché quella è la radio, non è
la sua chiavetta, ma ti è sembrato strano e innaturale. E hai smesso di lavorare, perché ti sei spaventata a trovarti a pensare a lui. E
allora appena sei salita in auto l’hai tolta, perché volevi smettere di
pensare a lui, e l’hai appoggiata dove di solito tenevi il pacchetto di
sigarette.
Perché tu non volevi essere coinvolta. Volevi altro. Avevi timore
di innamorarti di nuovo ma di una persona così diversa dal tuo solito. Avevi paura che i tuoi sensi questa volta ti stessero ingannando,
come se non ti conoscessero più per davvero.
Non sarebbe stato perfetto invece che tu a quel punto l’avessi
baciato? Che mentre lui ti lasciava la chiavetta nella tua mano tu l’avessi stretto e avvicinato a te? No, vero? Perché tu sei la donna, è lui
che deve baciare te, vero? Così vanno le cose, così devono andare. Come dice la canzone dei C.S.I. che c’è nella chiavetta usb. Ti ricordi
cosa gli hai detto la prima volta che l’hai ascoltata, vero?
Sì, gli ho detto che a me sembrava tutta uguale.
E lui?
Lui ha detto che era bella propria per quello. Che la musica è
scritta per chi la ascolta, non per chi la capisce, e se la ascolti e ti dice
ascoltarla insieme a te.
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crepe e mezza rotta, non voleva dire che la persona non l’aveva tenuta
con cura, anzi, perché le cassette intatte e perfette erano quelle che
mai erano state ascoltate. Ma non lo puoi sapere, perché nessuno ti
ha mai regalato una cassetta.
Per questo mi stai regalando una chiavetta usb?
Beh, una cassetta non te la posso regalare.
Sì, ma la chiavetta usb è peggio di un cd a questo punto.
No. Sì, lo è. Ma no.
Perché no?
Perché ho fatto questa chiavetta pensando che fosse una cassetta.
Mi sono ascoltato tutte le canzoni mentre le sceglievo. Le ho messe
in fila numerando i file. Poi le ho copiate. Questa chiavetta contiene
poco meno di 90 minuti di musica, come una cassetta. E le canzoni
sono in fila, andrebbero ascoltate in fila.
Come una cassetta.
Come una cassetta.
E che criterio hai usato?
Non si dice mai il criterio. La si ascolta e basta. E quando l’avrai
ascoltata così tanto, con le canzoni rigorosamente in fila, e ti capiterà
di ascoltare una di quelle canzoni in un altro contesto, alla radio ad
esempio, ti aspetterai che a seguire mettano la canzone che c’è dopo
su questa chiavetta, perché così sei abituata ad ascoltarle. Ma quella
canzone non ci sarà, perché come sequenza esiste solo qui. E allora
penserai a me.
Dopo quando siamo in auto la ascoltiamo?
No! Devi ascoltarla quando sei sola. È come un regalo che non
va scartato di fronte a chi te l’ha fatto. Anzi, è qualcosa di più. È
una cosa così privata che neanche io, che conosco il contenuto, posso
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E adesso che non hai più pensieri, dimmi: com’è che sei arrivata
qui?
Io stavo insieme a una persona, ma le cose non sono andate come sarebbero dovute andare, o meglio, sono andate come era prevedibile che andassero e allora mi sono avvicinata ad un’altra persona,
sperando che le cose potessero andare come dovevano andare, ma
non sono andate, perché a lui sembrava non interessargli niente di
me.
No, lo so, questo lo so. Complicato, ma lo so. Com’è che sei
arrivata qui?
Non capisco.
Come è possibile che quando l’uomo che avresti voluto al tuo
fianco si presenta con le rose. . . tu scappi?
Non lo so. Non lo so perché tutto questo ormai non ha più importanza. Perché io lo amavo. Perché io pensavo di amarlo e pensavo di essere ricambiata. Ma lui non ricambiava. E non potevo permettermi di essere fragile ancora, di far sì che si prendesse gioco di
me. Non potevo volermi ancora così male, abbassare le mie difese per poter piacere a uno che non si è mai interessato a me sotto
questo punto di vista. E allora ho smesso di amarlo.
Ma si può smettere di amare?
Ho dovuto. Ho dovuto allontanarmi, ho dovuto cercare me stessa e capire cosa volessi veramente. E mi sono detta che non l’avrei
più amato, che l’avrei lasciato in pace, che non l’avrei forzato.
E gli occhi decidono di chiudersi da soli.
ti assicuro che davanti a te non avrai più nessuna immagine e più
nessun pensiero.
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E ci sei riuscita?
Beh, io pensavo di sì. Ma quando l’ho visto con le rose.. . sono
scappata. Sono scappata perché ho pensato che mi stesse prendendo in giro. Non mi ricordo neanche cosa gli ho detto. Se ripenso
agli ultimi minuti riesco a focalizzare solo lui con le rose fuori dalla
mia porta e io seduta per terra nella polvere. È possibile fare tutto
questo per un uomo? È possibile fare tutto questo per amore? È
amore, perdio. È amore.
Avevamo detto che avremmo cercato di calmarci.
Sì, ma dovrebbe essere semplice, no? Dovrebbe essere semplice
dire di sì, o dire di no anche, lo accetto, l’avrei accettato, capire subito che cosa vuoi fare però. Dovrebbe essere semplice poter dire quello che provi. Dovrebbe essere semplice arrivare a una conclusione
che porti a un inizio. Invece no. Perché non poteva essere semplice?
Perché non può essere semplice? Perché ci si dice sempre che bisogna lasciarsi andare alle sensazioni e ai sentimenti, che l’istinto non
sbaglia mai, se poi l’istinto ti fa fare le cose più complicate?
Come comportarti da stupida per attirare l’attenzione, che l’ha
solo spaventato.
O stare le ore a parlare per ultimi al bar, che l’ha solo invitato a
parlare di più.
O stringersi a lui durante un concerto, che l’ha solo invogliato a
raccontare di come i volumi delle chitarre non fossero armonizzati
bene e per questo fosse costretto ad urlare.
Tu avresti voluto soltanto silenzio e che ti urlasse nelle orecchie
ti voglio, ma senza parlare.
Invece nulla di tutto questo. L’istinto ti ha fatto comportare da
stupida e ha spinto lui nell’idiozia. Questo è l’unico pensiero che
adesso ha un senso. E scappare non ha reso più semplici le cose.
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finisse per premere stop, ascoltare che si fosse registrata bene, rimettere il nastro al punto giusto e registrare la successiva. E poi scrivere
i titoli per bene e incollare gli adesivi. Aveva questo sapore, sapore
di una cosa fatta non in cinque minuti, ma pensata e realizzata a
mano apposta per te.
Esagerato, sembra che ci mettessi giorni. ..
No, giorni no. Magari ci pensavi in classe la mattina e la facevi
una volta arrivato a casa il pomeriggio al posto di studiare. Materialmente no, però mentalmente sì, mentalmente è come se ci avessi
messo giorni.
E se poi la cassetta non ti piaceva?
E se il tipo che te la regalava non ti piaceva?
Eh, esatto. Se il tipo non ti piaceva?
Potevi sempre prenderla e non ascoltarla. Oppure potevi prendere
le canzoni che ti piacevano e registrarle su una nuova cassetta. Oppure potevi prendere quella cassetta e usarla per registrarci sopra altra
roba!
E se il tuo lui ti lasciava? Troppi ricordi, non trovi?
Non sai quanto fosse liberatorio prendere il nastro e farlo uscire
tutto tirandolo e strappandolo.
Sembra la storia di come fossero belli i tempi andati.
No, non è così.
Un po’ lo è.
Sì, un po’ lo è. Gli mp3 sono belli, i cd pure, ma la cassetta ti
costringeva a pensare all’altro, che fosse un amico o uno spasimante.
Ti costringeva a pensare al perché, al come, al quando. Ti chiedevi se
sarebbe piaciuta. Speravi che la qualità della registrazione si deteriorasse col tempo perché voleva dire che era stata ascoltata un milione
di volte. E se vedevi che il libretto era sbiadito e la custodia con le
Eppure.
Eppure pensavi che fosse diverso. Che almeno lui potesse capirti.
Che con lui potessi sentirti protetta e rispettata. Proprio perché, lui,
almeno lui, finalmente, era diverso. E tu eri riuscita ad innamorarti
di uno diverso. Di uno a cui tu non eri mai abituata. E questo ti
rendeva ancora più vulnerabile perché non riuscivi ad avere niente
sotto controllo.
Passavi da uno stronzo all’altro, perché quello ti era sempre stato
insegnato: se lui si comporta da stronzo, vuol dire che ci tiene. Se
lui pretende di sapere dove sei ogni cinque minuti non è ansia, non
è insicurezza, non è controllo: è perché lui ti ama e vuole proteggerti. Se esci con le amiche e lui vuole sapere se ci sono anche uomini,
non è per stupida gelosia: è perché sa quanto uscire con le amiche
sia importante per te e non vuole che ci siano uomini che possano
rovinare la serata. Se un giorno non vuole vederti non è perché preferisce qualcosa d’altro a te, ma è perché si sta caricando per darti di
più quando vi vedrete.
Però non sai. Non sai che tutto questo è falso, è costruito, ed è
costruito con il tuo consenso. Non sai che dietro tutto questo c’è
possesso, ansia e gelosia, e a te sta bene così, tu vuoi quella roba lì.
Non sai che lo stronzo è bravo a farti credere il contrario. Che lui in
realtà ti sta controllando, che ha bisogno di controllarti. Che dietro
alla sicurezza che ti mostra, che ti fa sentire indifesa e che solo lui ha
la chiave per proteggerti, si nasconde una insicurezza che non è in
grado di proteggerti, ma di controllarti. E così ti fa credere che quando non ti controlla, tu pensi di non essere amata, così che lui possa
agire indisturbato: è la vittima che si innamora del suo carnefice.
E che tu in fondo lo sai, lo sai bene che è così, ma lo stronzo
ti dà quello che gli altri non ti possono dare. O così almeno credi,
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No. Il bene è che fare una cassetta prendeva tanto tempo, almeno
mentalmente. Non era un semplice copiare e incollare dei file su un
supporto. Non era una cartella piena di mp3 che scegli senza pensarci perché ti piacciono più o meno tutti. Innanzitutto dovevi scegliere
le canzoni giuste: questo richiedeva ore. Poi c’era il metterle in fila: e anche questo richiedeva ore. Perché da come le metti in fila
il tutto cambia. Potevi copiare un intero album. Potevi scegliere le
canzoni migliori di una band prese da più album. Potevi fare una
cassetta romantica. Oppure una cassetta bella tosta. Oppure una in
crescendo. Potevi farne una per una persona in particolare, un amico o uno spasimante. Potevi farne una per una occasione particolare,
un compleanno, una festa, un anniversario. C’è chi aveva regole fisse,
come ad esempio mai due canzoni dello stesso cantante nella stessa
cassetta. Poi ne faceva una con due canzoni e trovava tutte le scuse
per giustificare il fatto che avesse infranto una regola d’oro. Un mio
amico metallaro finiva sempre entrambi i lati con musiche rilassanti,
perché così dopo una mezz’ora di tensione quella ti accompagnava alla fine del nastro: se volevi continuare dovevi mandare avanti veloce
fino alla fine e girare la cassetta, altrimenti ti calmavi e lasciavi che
si spegnesse da sola. Era un buon sistema il suo, perché se non facevi
i calcoli giusti sul minutaggio rischiavi di avere la fine della cassetta
con non abbastanza spazio per poterci inserire una canzone ulteriore,
ma troppo da avere troppi secondi di silenzio, così lui ci metteva queste musiche tranquille che venivano troncate dalla fine del nastro, e
nessuno si sarebbe lamentato del taglio. Una volta che avevi deciso il
criterio, dovevi fisicamente metterti lì, azionare il play della sorgente e il rec della tua cassetta, non troppo presto per non creare troppo
silenzio all’inizio né troppo tardi per evitare di far partire la registrazione a traccia già iniziata. E stavi lì tutta la canzone, aspettare che
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questo è quello che racconti alle amiche che il tuo stronzo non lo
hanno mai amato: solo così sono costrette ad accettarlo. E meno ti
senti capita da loro, più tu credi di essere nel giusto, perché loro non
sanno di cosa tu hai bisogno e credi che lui ti dia tutto quello che
loro non possono sapere. È una finta: lui pesca a caso fino a che non
lo trova o ti ascolta soltanto quando parli delle cose che desideri, e te
le fa trovare, facendoti credere che le ha indovinate da solo. Perché
ci tiene, questo ti dice. E tu ci caschi, perché pensi che lui sia l’unico
ad averti capita davvero.
Balle, e tu lo sai.
Ma tu stai bene così, e questo è quello che conta, ci sguazzi in
quel pantano fatto di illusioni. Perché ti è sempre stato insegnato
che il tuo ruolo è quello della donna stupida che si innamora e il
suo è quello dello stronzo assente che ti regala qualche minuto di
compagnia e ti dice che quelli sono i minuti migliori della sua vita.
E che poi, quando si sono stancati di te, ti fanno male. Tutti. Ti
colpiscono e ti lasciano lì, a soffrire. E stai male, ma è un male che
ti rassicura. È un male che conosci talmente bene che sembra quasi
tu lo voglia.
Ti chiedi cosa ci sia di sbagliato in te, cosa ti porta lontano dalla
felicità, perché non sei in grado di sceglierteli giusti, perché ricaschi
sempre dentro a un tranello che dovresti conoscere bene, perché,
perché, perché. . .
E no. Non capisci che non sei tu quella ad essere sbagliata.
Sono loro. Ma loro sono tanto bravi a farti credere il contrario
per uscirne vincitori, per far sì che tu non li possa più chiamare una
volta che loro non hanno più bisogno di te.
E no. Non capisci che non sei tu quella ad essere sbagliata.
Non capisci che in realtà tu dovresti solo imparare a volerti un
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trovata sotto il sedile e quando la aprivi ti accorgevi che non era quello che volevi o che non conteneva niente. I titoli delle canzoni erano
delle scritte a mano sul cartoncino interno e sprecavi le ore a scrivere
bene tutti i titoli con la migliore calligrafia che avevi e i colori del
tuo pennarello migliore punta fine. Qualcuno ti ha mai regalato una
cassetta?
No. Un cd, mi hanno fatto i cd.
I cd non è la stessa cosa. Intanto perché la cassetta dura di più,
anche.
Ma puoi mettere gli mp3, e ce ne stanno tanti.
Beh, mica da subito. Quando sono arrivati gli mp3 potevi metterci gli mp3, ma all’inizio no.
Ma non è meglio così?
È meglio se quello che ti interessa è conservare tanta musica da
portare in giro. Certamente. Ma la cassetta era un nastro che scorreva.
Certo, me le ricordo le cassette. Erano di mio padre. Non potevo
toccarle perché diceva che gliele avrei cancellate.
Ma nessuno ti ha mai fatto una cassetta.
No.
Ecco. La cassetta ti tocca ascoltarla tutta: è un nastro che scorre.
Puoi andare avanti veloce ma non sai esattamente il punto dove devi
fermarti. Hanno fatto diversi sistemi: i numeri che scorrono o lo
stop automatico quando il sistema si accorge di più di due secondi
di silenzio. Ma nessuno funzionava. Potevi anche ascoltare il nastro
a velocità maggiore per sentire se trovavi il punto, ma rovinavi le
testine di lettura. . .
E questo è bene?
po’ di bene.
Ma no, non puoi. Perché tua madre ti ha insegnato che se pensi a
te stessa sei egoista e che l’egoismo è una brutta cosa. Ti ha insegnato
che sei donna e le donne donano la vita, e che quindi non possono
pensare a se stesse ed essere egoiste per natura. Che la donna è sottomessa, ma che in realtà finge di essere sottomessa ma comanda lei. E
gli uomini sono tanto bravi a dirti che è così, fino a che il giochino
dura e tu non li stressi abbastanza. E quando li hai stressati, loro fanno vedere quanto tu li castravi, ti abbandonano dopo averti rubato
tutto quello di cui avevi più caro. E gli altri, tutti pronti a difenderli
per fare branco.
E così tu sei la vittima che diventa vittimista prima, e carnefice poi. E il vero carnefice diventa vittima, e vincitore. Ha ottenuto
quello che voleva come un bambino viziato a cui è concesso tutto:
sfruttarti, consumarti e sbarazzarsi di te quando il gioco ha stancato.
E gliel’hai concesso tu, seguendo la stupida legge del compromesso, che però solo tu hai deciso di applicare. E allora cosa fai, oltre
a volerti sempre meno bene?
Lo so io cosa fai. Ti rifugi in quello che conosci già: tu vai a cercarne un altro così. Sai che si comporterà come gli altri, ma ti dà
sicurezza stare nel recinto delle cose a cui sei abituata, che ormai
hai reso automatiche, nella convinzione più profonda che almeno
questo, tu, possa cambiarlo. Come tua madre, che comanda in casa
mentre tuo padre va per amanti. E questo si comporterà come gli
altri. E tu gli spiegherai come vorresti che si comportasse per farti
sentire importante, e lui lo farà solo perché a te fa piacere, facendoti
credere che lui ci tiene, così che tu non debba stressarlo oltre il limite. Ma quando non ci sei, smetterà di farlo, perché questa è la sua
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Ti accorgi adesso che per mesi hai detto alle tue amiche che non
era vero, vero?
Sai che è inutile cercare nelle tasche, guardare nel vano portaoggetti, magari ne avessi nascosta qualcuna, magari qualcuno se ne è
dimenticata una nella tua auto.
Che voglia di fumare. Guarda tra le cartacce sotto: cos’è questa?
La chiavetta usb che ti ha fatto lui con le sue canzoni preferite. Ti
ricordi cosa ti ha detto quando te l’ha data?
Certo che me lo ricordo.
E dove eravate?
Eravamo al lago. Abbiamo scherzato sul fatto che sembravamo
una coppietta e ci siamo seduti sulla panchina a guardare i piccioni
reclamare un pezzo di pane ai turisti.
E allora, cosa ti ha detto di preciso?
Mi ha detto che quando andavo al liceo c’erano ancora le cassette. Tu prendevi un vecchio vinile, lo piazzavi sul giradischi, lo pulivi,
puntavi la testina sul solco giusto. Oppure prendevi un cd e selezionavi le tracce che volevi. Aprivi l’imballaggio di plastica intorno alla
custodia rigida trasparente, tiravi fuori il cartoncino per vedere come
era lo spazio per scrivere i titoli e mettevi la cassetta vergine nel suo
lettore per iniziare la registrazione. Se fossimo stati al tempo del liceo
ti avrei fatto una cassetta così potevi ascoltartela in giro. La cassetta
era meglio perché i lettori cd erano costosi e la canzone saltava a ogni
buca. La cassetta la potevi ascoltare anche in auto e avevi l’auto piena di cassette e di custodie, alcune sotto il sedile, nelle tasche laterali,
avevi anche dei porta cassette, in cui potevi metterne tipo venti, o di
più, ma perennemente vuoti, spesso le custodie non contenevano esattamente quello che dicevano di contenere o erano addirittura senza
cassetta: capitava che prendevi una custodia tutto contento di averla
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natura. Ma se questo invece tiene la distanza, va avanti, fa le cose
tutte per bene e riesce a portarti a un nuovo livello, a te non andrà
più bene, perché tu sei abituata a stare con lo stronzo, non con il
tenero orsacchiotto al tuo comando, perché quello che volevi era
sentirti importante, non sentirti compatita, o amata per davvero.
Ma questa volta no, e tu lo sapevi. Con lui, no. Con il lui delle
rose non ti senti importante: sei importante.
Perché non gliel’hai detto prima? Perché non è scattato niente
prima in lui? Sei sicura che non sia scattato niente prima? Sei sicura
che invece è scattato, e ha solo avuto paura di perderti? Di perdere quello che di buono stavate costruendo insieme? Senza ricatti,
senza lezioni, senza stupidi giochini di possesso?
E anche a te era scattato. Perché? Eppure lui non ti chiamava
quando uscivi con le amiche per far finta di sapere come stavi ma
con il vero scopo di sentire se in sottofondo c’erano voci maschili. Lui aspettava che tu lo chiamassi una volta tornata per sapere
veramente come era andata, e tu hai sempre pensato che a lui non
interessasse e che tu lo disturbassi soltanto. E finita la telefonata passavi i minuti a guardare il telefono buttato sul letto, come se quel
telefono avesse potuto dare tutte le risposte a tutti i tuoi perché.
È così? Dimmi che non è così.
Al posto di chiedere direttamente le cose, hai sperato che le cose
accadessero per miracolo, perché pensavi di aver fatto le mosse giuste per far sì che lui facesse qualcosa. Perché sei sempre stata abituata
ad essere presa, e non a prendere. Sei sempre stata abituata a mostrare per attirare, e non a nascondere per incuriosire. E invece con
lui sembra proprio che tutto lavori per dover prendere, nascondere,
respingere, incuriosire. Perché? Perché quel telefono non squillava
quando doveva? Perché quando eri fuori con le amiche eri davvero
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fuori con le amiche? Perché non ti trovava attraente? Hai sbagliato
ad avvicinarti a lui? Hai sbagliato a mostrare il tuo lato debole? Hai
sbagliato ancora e ti sei avventurata in un terreno che non conosci?
Hai sbagliato e l’hai respinto, e adesso lui si presenta con le rose
ed un sorriso, e non ha capito proprio niente di te. E questo ti fa
sentire sporca e nuda. Non vuoi essere un capriccio, un premio di
consolazione, una scommessa per vedere se funziona.
Questo è quello che pensi, vero?
Ma come? Le rose! Dove lo trovi uno che ti porta le rose? Dove
lo trovi uno che si dichiara così? Tu non volevi questo. Non volevi gesti eclatanti. Non volevi azioni da romanzo. Non volevi essere
sorpresa come nei film. Tu volevi che le cose fossero accadute quando sarebbero dovute accadere. Tu volevi essere presa, non sorpresa.
Tu volevi che lui ti baciasse quando gli hai mostrato le tue labbra.
Tu volevi che ti stringesse quando ti sei avvicinata. Tu volevi, volevi, volevi. Volevi, si è spaventato ed è scappato, lasciandoti sola a
pensare di esserti illusa che lui volesse te.
E adesso che hai scoperto che lui non era scappato, era solo andato a prendere le rose e aveva bisogno del suo tempo, tu gli dici
che è troppo tardi, che ormai non è più importante. Tu.
Volevi. Avresti voluto agire. Avresti voluto essere accarezzata e
sentirti dire che tu sei la cosa più importante, anche se l’hai sempre odiato, perché tu non sei una cosa e non hai bisogno di essere
accarezzata per far star bene l’altro. Tu vuoi essere sincera. Tu vuoi
poterti abbandonare. Tu vuoi sentire che quando ti avvicini lui non
ti respinge. Tu vuoi una sigaretta.
Se solo avessi una sigaretta a portata di mano, vero?
Ti senti ancora più stupida adesso sapendo che hai smesso dopo
che ti ha detto che a lui non piace chi fuma, vero?
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