“Ci sono giorni in cui bisogna esserci.
Ci si emoziona, ci si ricarica, ci si incontra.
Si riscopre il piacere di camminare insieme, di
parlare con una voce sola,
di essere in tanti e diversi.
Si riannodano i tanti fili dell’impegno
quotidiano. Si torna a respirare, a riempire i
polmoni di aria buona. E non solo i polmoni.
A gioire sono anche la testa e il cuore”
don L. Ciotti.
13-16 maggio 2010
Lodi
Assisi
Perugia
Castel Volturno
Lodi
Sento, sentiamo, il rischio delle parole. Delle
parole già dette, ripetute, scontate, di
circostanza. Parole come vuoti a perdere.
E tuttavia sentiamo il dovere della parola.
La parola che chiama “persona” ogni essere
umano. Chiama persona – e non “negro” o
“vu cumprà” – anche l’immigrato.
Di questa parola chiara, inequivocabile,
sentiamo il bisogno, l’urgenza, la verità, per
non cadere nei tranelli dei falsari, nella rete
dei complici.
Bisogna ripartire dal cuore del problema!
Dal significato della persona!
Grazie a... p. Antonio, fr. Filippo, Gianluca, Marco, Viviane e Mary, alla Tavola per la pace
e a donne, bambini, uomini
che ci hanno accolto e ci hanno resi partecipi
di qualche frammento della loro vita
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"Gettàti nel solco"
é una tappa di
oSSERvIVERe - oCCASIONi di prESA DIRETTa
un percorso di ricerca-azione dell’Osservatorio per la Carità della Caritas Lodigiana:
a partire dalle relazioni costruite in caritas, nel lavoro quotidiano del Centro d'Ascolto e
dell'Osservatorio, ci siamo imbattuti in un viottolo con molte curve che non sappiamo
ancora bene dove ci condurrà.
Riportiamo alcune tracce lasciate sul terreno da chi ha partecipato a questo viaggio
che ci ha portato prima a Castel Volturno, quindi alla Perugia-Assisi.
Siamo partiti il 13 maggio 2010 in 18 persone di diversa nazionalità, credo, cultura, ...
Obiettivo era il viaggio stesso, la strada percorsa insieme. Obiettivo era capire
qualcosa di più dell'uomo andando laddove gli immigrati si sentono di casa e noi
"stranieri". Obiettivo era anche partecipare alla Marcia per la Pace con qualcosa di forte
nel cuore, nel cervello ... ed anche con qualcuno con cui ricominciare davvero a
camminare insieme.
Con questo libretto, che é parte del materiale prodotto per la restituzione,
intendiamo ora solo condividere, con chi é interessato, l'incredibile ricchezza degli
incontri avuti.
Vogliamo dare un nostro contributo, di contenuto e di metodo, alla riflessione su
un tema, l'immigrazione, che pare essere diventato dominio di “pochi esperti” o arma per
fomentare paure e scontri ideologici.
Pensiamo che sia argomento di vita quotidiana per tutti, compresi coloro che
pretendono di colorare il mondo, o una sua parte, solo di bianco o solo di nero.
Pensiamo sia utile avere grandi ideali, ed al contempo necessario saper volare
molto bassi: ripartire concretamente dai bisogni essenziali di ogni uomo
(stabilità=documenti, lavoro, casa) per dargli così modo di ascoltare, oltrechè di essere
ascoltato, di confrontarsi, di partecipare alla costruzione della società in cui ora vive...
Occorre fare un passo dopo l’altro, senza fretta ma senza indugiare oltre, senza
cedere alla tentazione di pretendere che sia l’altro a compiere la prossima mossa. Gli
immigrati hanno già camminato tanto per arrivare alle nostre porte. Ora tocca a noi
dimostrare anche a noi stessi che i principi di libertà, fraternità ed uguaglianza non sono
solo belle parole a senso unico...
I partecipanti a questa tappa: Antonio C., Antonio L., Barbara, Chiara, Chiara Augusta,
Christopher, Elga, Elisa, Flavio, Gianni, Giorgio, Idrissou, Issouf, Kenneth, Lorenzo,
Michela, Pito, Tatiana, ... ed anche Antonio B., Filippo, Gianluca, Emiliano, ...
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La sera prima di partire. “ciao ragazzi, ci vediamo la settimana
prossima”. E subito mi sono avviata.
Mentre camminavo uno di loro: “ciao, mi raccomando stai
attenta.” Non mi sono fermata. Non ho risposto. Ho girato l’angolo e
sono sparita. Ma intanto risuonavano quelle parole: “stai attenta”. “Ma
a cosa?” mi chiedevo mentre camminavo verso casa. Forse
all’autostrada. Al viaggio. A qualche immigrato, a un clandestino. A un nero. A qualcuno
che mi avrebbe sbattuto contro un muro? Boh.
La sera, alla casa dei missionari, prima di addormentarmi, un msg … si concludeva
dicendo: “stai attenta”. Anche lui. E ancora “Ma a cosa?” (La giornata era stata una
lezione di vita). Boh.
Su questo riflettevo – forse più al secondo monito che non al primo. Potrebbe
essere stato solo un segno di attenzione nei miei confronti, anzi certamente è stato così,
ma l’affermazione ha aperto una serie di alternative non così scontate. Dietro una banale
affermazione un modo di pensare. Un modo di immaginarsi gli eventi, i contesti, le
persone che li abitano. È bastato che qualcuno sollevasse il problema della mia
“incolumità” per far nascere anche in altri lo stesso timore o semplicemente dargli voce.
Un pensiero, un contagio. Eppure io non sono capace del contrario, dello stesso contagio:
comunicare a chi non c’era le fatiche di quei luoghi e le sofferenze di chi li abita ma anche
la loro forza. Perché? Eppure ho visto tanta gente che combatte per i propri diritti – che
parola … diritti … usata, abusata, svuotata –, loro che sanno ancora cosa significhi non
averne. Forse noi stiamo ancora troppo bene per batterci. Non siamo abbastanza “alla
canna del gas”. Questo è davvero triste. Stiamo pensando solo ed esclusivamente al
nostro benessere, stiamo proponendo un modello alla cui base c’è il benessere
individuale, modello che per altro non invade solo noi ben pensanti ma tutti, migranti
compresi. Non lo sappiamo – o non lo vogliamo sapere – ma noi stiamo educando i nostri
migranti, li stiamo educando a “pensare per loro”, a raggiungere quello che è il loro
benessere, non quello di tutti, non a quello di chi arriverà dopo di loro. Non avranno più
memoria di ciò che sono adesso, come noi non l’abbiamo più rispetto a ciò che eravamo.
Non saranno, perché anche noi non lo siamo, né solidali né fraterni con chi verrà. La
memoria va esercitata nel presente, non è il funerale di ciò che non è più. – Siamo così
simili … e non ce ne accorgiamo nemmeno – . È un messaggio a lungo termine quello che
stiamo inviando. Un messaggio che non gioca a favore della comunità. E quando saremo
noi ad aver bisogno? Che bell’ ipoteca sul futuro.
Dicono che gli italiani tirino fuori il meglio nei momenti più difficili della loro
storia … non è arrivato ancora il momento per dimostrarlo nuovamente? Senza tante
parole. Nei fatti …
Continuo a vedere barricate, paura a riconoscere il minimo così da anticipare ed
evitare che vengano mosse più richieste del dovuto, quel dovuto che noi abbiamo
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stabilito. In questo modo non trattiamo i “nostri ospiti” alla pari, li collochiamo sempre in
una posizione ristretta, di richiesta, di bisogno. Non gli permettiamo di essere come noi o
più di noi.
Mary insegna. Finché le “donne e gli uomini neri” – gli schiavi – li abbiamo scelti
noi tutto ci stava bene, ora che le “donne e gli uomini neri” sono qui, e non li abbiamo
scelti noi, ci va un po’ meno bene.
Come contraddire? Come difendersi? Non si può. Agghiacciante. Mi sono
vergognata.
A questo punto come non pensare al discorso razziale. Non ci piace dire
apertamente “io sono bianco e tu sei nero”. Facciamo finta di essere uguali ma non lo
siamo e non lo crediamo. Facciamo finta che non sia un problema il colore della pelle ma
non è vero. E lo sappiamo tutti. Anche se non sappiamo bene il perché. Perché ci disturba
così tanto?
Una cosa mi ha sorpreso di questi giorni, la libertà e il rispetto con cui parlavamo
di questa evidente differenza. È la prima volta che non ne parlo con imbarazzo. Che
strano … che bello. Che paradosso. Ma c’è anche un po’ di senso di colpa … in fondo non
ho una giustificazione logica a questa differenza che è diventata sostanziale. A volte ho
come l’impressione di essere razzista anche io; è come se il razzismo facesse parte di noi.
Un pensiero che c’è, è lì, non se ne va e non sai perché.
Credo che occasioni come queste servono anche a noi per cercare di eliminare, di
combattere questi piccoli mostri che ci abitano; momenti che mettano a nudo le nostre
difficoltà, anche quelle più nascoste che non abbiamo il coraggio di dirci. Questo può
accadere solo se siamo disposti davvero, con umiltà, a camminare con loro, non per fare i
“fighi” e gli emancipati. Sarebbe solo l’ennesima mancanza di rispetto.
Allora, cosa vuol dire per noi avere amici non-bianchi, amici non-italiani? E i neri
come ci vedono? Cosa vuol dire per loro avere un amico bianco, una donna bianca? O per
gli altri, per cui la differenza è meno evidente, cosa vuol dire avere un amico italiano, una
donna italiana?
Difficile entrare in questi discorsi a livello teorico, forse lo scopriremo in cammino
… E io … che con loro ci lavoro … quali distanze? Dove finisce il ruolo e dove comincia
“tutto il resto”?
Vorrei non farmele queste domande. Ma come posso ignorarle? Forse sarebbe
tutto più facile. O forse no … in fondo quel ruolo mi nasconde. Mi protegge.
Il mio non è un lavoro alla pari, la relazione di aiuto non lo è per definizione ma a
volte mi chiedo se è proprio così … spesso ho come l’impressione che siano loro ad avere
qualcosa da insegnarmi. Smontano la mia sicurezza. Le mie autocensure. Svelano la mia
insicurezza. L’inadeguatezza. Mi mostrano un modo di vivere che io ho dimenticato, anzi,
che, probabilmente, non ho mai avuto: quello sguardo verso l’orizzonte permeato di
profonda fede, nonché di affidamento. Quegli sguardi e quei silenzi che ti inchiodano,
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neanche li capisco a volte, nemmeno li sostengo. Vorrei afferrare i loro pensieri, i loro
ricordi – taciuti – eppure non si può. A volte, a torto o a ragione, non me lo permettono.
Alcuni, prima di fidarsi mi studiano, e spesso non me ne accorgo. È stato buffo scoprire
che Kenneth e Cristopher, imitandomi, “scimmiottavano” le mie solite e abituali mosse,
per me oramai del tutto automatiche. I movimenti, le espressioni, il tono, i gesti. Anche
loro cercano di capire chi siamo, cosa facciamo e che storia abbiamo. Ma non glielo
permettiamo, o almeno, io non glielo permetto. Vengono da storie in cui almeno una
volta sono stati traditi, da amici o dallo Stato – perché mai fidarsi di un Paese e di gente
del tutto sconosciuta?
Al primo incontro a volte “pretendo” di sapere tutta la loro storia, con quale
diritto? Quello di aiutarli forse?
Idrissou introverso ma tenace; Issouf … di una tenerezza incredibile e una
capacità d’ascolto davvero grande; Kenneth … con il suo sorriso che nasconde chissà
quale solitudine e Cristopher …silenzioso; leader a Caserta gettato in un'altra Italia,
nuovamente da scoprire, che sta decidendo e ancora osservando. Una sorpresa.
Rimandano ognuno ad un mondo da scoprire. Ma anche Chiara, Tatiana, Michela, Elga,
Gianni, Flavio, Antonio, Giorgio … eppure tra noi, sembra quasi banale. Perché? Dove sta
la falla? Boh!
La sfida non è stata solo andare a Castel Volturno, la sfida è stare qui e vivere qui
come abbiamo vissuto quei quattro giorni. La condivisione di Castel Volturno come
quotidianità. La sfida è rendere quel piatto appetibile tutti i giorni, fieri di averlo sulla
tavola tutte le sere. Come? Boh!
Antonio Bonato ha ragione: “Spero che Castel Volturno vi abbia marcato e vi
faccia ricordare che è dai poveri che avremo la salvezza perchè ci aiuteranno e ci
stimoleranno a non imborghesirci”.
Ieri sera ad un incontro qualcuno ha definito “Lodi città in coma”; e io che
pensavo che fossimo “semplicemente” annebbiati … beh, posso dire che Castel Volturno
(Centro d’Ascolto compreso) è stato una Grazia, mi potrà salvare tutti i giorni dalla
retorica, mi obbligherà a non abituarmi. E spero che così continui ad essere. Vorrei solo
mi aiutasse a trovare delle vie per non dover più rispondere “Boh!”.
Forse hanno ragione i miei amici … devo stare attenta! …
Chiara Augusta
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Il benvenuto a Castel Volturno non poteva essere più esplicito. Angolo tra
la Domiziana e Via Matilde Serao, il vicolo dove ha sede la parrocchia “ad
personam” dei padri Comboniani... 2 cassonetti strabordanti spazzatura
stanno bruciando: segno lugubre per una tre giorni che faticheremo a
dimenticare .. L’odore acre che intasa i bocchettoni del Wolksvagen
Combi non é proprio quello dell’incenso di parrocchiana memoria... Più
avanti altri cassonetti stanno seguendo la stessa sorte. Un comune diviso in due, come la
peggiore apartheid sudafricana, così ferocemente condannata da noi tutti, quando era in
paesi lontani. Ed ora chi ne parla più ? Solo qualche centinaio di metri prima tutto è
pulito, tranquillo e sotto il controllo di camionette e autoblinde dell’esercito. Da lì in poi é
terra di nessuno: per strada trovi solo facce nere, prostitute e vagabondi: un’aria surreale
ci inonda i sensi, oltra la puzza nauseabonda di monnezza in fumo. Sono finite le case
abitate dagli italiani, più carnefici che vittime di un’invasione, secondo noi “voluta” –
braccia a poco prezzo da scaricare appena fa comodo – e da qualcuno “maledetta” – il
degrado dell’area sarebbe imputabile agli immigrati! Il servizio pubblico non pulisce tutta
la litoranea domitia ma si ferma là dove iniziano gli slums africani...
Il mattino ha l’oro in bocca... uscendo di casa ci guardiamo in faccia un po’ stupiti,
non ancora ben consapevoli su dove i nostri piedi prenderanno terra.
Siamo nell’avamposto d’Africa, provincia di Caserta, in pieno territorio dei
Casalesi, dove da decenni si sta consumando un feroce guerra tra poteri, ma dove sul
campo di battaglia i morti sono solo loro, gli africani di Caserta.
Raggiungiamo un’oasi: é la Casa del Bambino, dove 50 piccoli multicolore se la
prendono con il più giocoso tra noi: Giorgio ci dà dimostrazione di come si tengono a
bada i più piccoli ... o forse il contrario ?
Ma la visita non é finita qui ...
Entrando nella capanna dei Comboniani, ci accolgono le parole ghandiane di
Marco e Laura, Operazione Colomba della Papa Giovanni, gli ideali e la speranza che si
leggono nei loro occhi si infrangono con una realtà che fatica a digerire le parole
“rispetto”, “mediazione dei conflitti”, “interposizione”, ....
Viviane e Mary, nigeriane impegnate nell’asilo dei Comboniani e nella
commissione locale per i richiedenti asilo, ci spiegano la genesi di questa situazione, con
un occhio particolare alla situazione della donna... Mentre parlano con occhi e voce
ferme e risolute, la vergogna di essere uomo e l’indignazione per appartenere al genere
umano monta a livelli di guardia ... troppo brutale, troppo vera per non toccare il fondo
del cuore il racconto di come la violenza e sopraffazione, continue e sistematiche, degli
uomini bianchi sulle donne africane, abbiano costretto queste ultime a scegliere la via
della sopravvivenza, della prostituzione ... l’alternativa era la morte a suon di botte e
infinite violenze...
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Usciamo dalla capanna storti, incapaci di guardarci nelle palle degli occhi, ognuno
assorto con pensieri ed immagini troppo pesanti per non essere vere. Ci rendiamo conto
che, abbiamo ingoiato solo un piccolo assaggio della verità che si nasconde tra pineta,
domitiana e villaggio Coppola... come dire: “non c’é fine alla brutalità del genere umano”,
nè alla capacità di resistenza di chi subisce l’inverosimile.
Un martello tormenta la testa: ma io al posto loro non sarei già impazzito?
Appare chiaro già da queste prime ore di visita che stiamo vivendo un momento
importante della nostra vita: non potrò fare finta di niente. Già da ora e poi, a maggior
ragione al rientro, mi chiedo: come trasmettere tutta questa babele di sensazioni raccolte
ed ancora lì, sparse a terra, in attesa di ordine e senso? Rabbia, impotenza, frustrazione,
voglia di risvegliarsi prima che sia troppo tardi... e non cadere nel melodrammatico, nel
patetico, nel già visto, letto, ascoltato distrattamente dalla TV che tutto ingoia e risputa
omogeneizzato ?
L’attenzione é di far parlare la vita, non la penna o la bocca, che però servono per
dare corpo a tutte queste sensazioni che rischierebbero di rimanere schiacciate in un
ricordo personale, a beneficio di pochi intimi, complici del solco...
Come continuare senza banalizzare ? come non illudere Christopher, Idrissou,
Issuf, Kenneth, noi stessi che abbiamo proposto il viaggio, che la parentesi non potrà
chiudersi così velocemente come l’abbiamo aperta?
Pito
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E’ ancora troppo presto pretendere di affidare al foglio le
conclusioni dell’esperienza fatta a Castel Volturno. Come dicono i
veterani che lì ci son già stati, ci vorranno giorni, settimane e mesi per
poter macinare i quattro giorni intensi appena vissuti.
Ora non posso fare altro che seguire l’istinto, quell’istinto che mi
spinge a scrivere per non dimenticare.
Quando mi è stato chiesto di definire l’esperienza, sintetizzandola, sono riuscita a
trovare due aggettivi: sconvolgente e ricca di speranza.
E’ sconvolgente immergersi in una realtà che ha il sapore di sfruttamento,
violenza e camorra; sconvolgente sentire la storie di vita degli uomini e delle donne che
abitano quegli appartamenti fatiscenti, affittati dagli italiani, gli stessi italiani (i caporali)
che alla mattina alle 4 li caricano sui furgoni per portarli a “lavorare” nei campi, per la
raccolta di pomodori, asparagi, arance, olive… ; gli stessi che difendono la loro italianità
con slogan come “L’Italia agli Italiani!” .
Sconvolgente è ascoltare i racconti dei viaggi di questi uomini e di queste donne,
il tempo trascorso nascosti sul fondo delle navi, senza acqua e senza cibo, o nel deserto, a
camminare per giorni e giorni, costretti a scappare da paesi in cui la guerra non da
tregua, non da speranza, non da futuro.
Sconvolgente è provare vergogna quando senti dire: “Voi europei siete venuti in
Africa, avete preso tutto ciò che c’era di prezioso, ci avete usato, sfruttato e avete
succhiato tutta la nostra linfa vitale. Poi, un giorno, quando non c’era più nulla da
prendere, avete deciso di darci la libertà. Ma cos’è la libertà per noi,ora che non abbiamo
più nulla, ora che le nostre terre sono devastate da guerre in cui siete coinvolti?”
Sconvolgente è non riuscire a dare una risposta, se non ammettere con un sottile
e impercettibile “è la verità ciò che stai dicendo”.
Ma Castel Volturno (come Rosarno) è una città in cui si tocca con mano e si
respira a pieni polmoni la speranza. Finchè c’è vita c’è speranza, dice un nostro detto.
Questo è quanto voleva dire Kenneth quando, tra un sorriso e l’altro, in un italiano “in via
di miglioramento” spiegava “devi vivere tutto quello che la vita ti mette davanti fino a
quando il tuo cuore non si fermerà, ma se il tuo cuore continua a battere, ringrazia Dio di
essere ancora vivo e vai avanti a lottare”.
C’è speranza nelle sue parole, così come c’è speranza e voglia di lottare in tutto
coloro che fan parte del Comitato Immigrati, che si ritrovano ogni mercoledì sera all’ex
canapificio di Caserta per discutere, decidere e capire come muoversi e sopravvivere
nella jungla intricata della giustizia italiana. Castel Volturno è una città di speranza perché
l’unico movimento, riconosciuto dalla Questura stessa, in difesa della giustizia e dei diritti
umani contro la camorra è rappresentato dagli immigrati (irregolari).
E gli italiani dove sono? Mi verrebbe da chiedere!
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Ho sentito un commento che quasi viene recitato come slogan “Gli africani
salveranno l’Italia”. E’ ciò che ho davvero percepito: loro, gli immigrati, hanno una forza,
un coraggio e una determinazione che noi non abbiamo, o che abbiamo perso nel
momento stesso in cui ci siamo messi comodamente a sedere sui nostri divani e abbiamo
ristretto il campo visivo e d’azione a “noi stessi”. C’è speranza nel veder lottare gli
immigrati accanto a qualche italiano, quei pochi che hanno mantenuto una vigilanza e un
attenzione particolare all’altro, come i padri comboniani.
E proprio uno dei padri comboniani, padre Antonio Bonato, ci ha aiutato a
focalizzare il nostro obiettivo, una volta tornati a casa: “A Castel Volturno si vede in
macro ciò che nelle vostre città accade in micro. Non commettete però l’errore di
rimanere inerti, una volta tornati a casa, perché voi siete chiamati a rimboccarvi le
maniche per sistemare anche quel poco che vedete non funzionare! Non abbandonatevi
al sentimentalismo, non aspettatevi di fare grandi guerre, buttatevi nella quotidianità,
nelle piccole battaglie di ogni giorno e aprite gli occhi sulle vostre realtà. C’è tanto da fare
anche lì.”
“Allora vi accorgete che ci siamo” ha commentato Christopher, che a Castel
Volturno era uno dei leader del movimento degli immigrati. “Sbrogliamoci - direbbe
Issouf- perché hanno bisogno di non sentirsi soli”.
Elisa
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Su e giù dai valloni dell'autostrada: frosinone, pontecorvo, cassino,
s.vittore, caianello, capua e kenneth che, seduto fra me e cristopher, fa il
verso ad ogni cartello “si, cassino conosco, anche frosinone, anche
capua!”: la sera è già buia ma più passano i chilometri più sento che sto
tornando a casa!
A Castel Volturno, dove a gennaio, nei giorni immediatamente
successivi ai fatti di rosarno, mi ero trovato a condividere con antonio e filippo da un lato
la violenta insistenza dei media che ci volevano costruire altri scoop da distribuire in
pasto ai clienti buoni e a quelli meno buoni, dall'altro la loro determinazione di
continuare a stare da quella parte della barricata per seminare speranza, per costruire
ponti, per conquistare diritti.
A Castel Volturno dove non sopravvive l'ipocrisia: da una parte i neri, gli immigrati,
i clandestini e quelli che stanno con loro, dall'altra la società civile con le istituzioni,
l'autorità, la forza militare, i bianchi in genere; per gli uni niente cittadinanza, casa,
lavoro, per gli altri il territorio da controllare, gestire, sfruttare, manipolare, organizzare
ognuno a salvaguardia di propri interessi, a tutela del proprio potere, a garanzia di una
immunità perpetua e inattaccabile.
Torno a casa perché qui non puoi nasconderti, non puoi galleggiare a pelo d'acqua,
non puoi dire una cosa e pensarne un'altra, devi stare da una parte o contro , se ci credi
devi pregare non solo con l'anima e il cuore ma anche e soprattutto con le braccia e con
le gambe, in mezzo alla strada e ad alta voce, se hai paura vai via, se hai coraggio ti
schieri.
Qui mi sento a casa.
E qui mi rimetto in discussione: prima di prendere sonno la sera del giovedì mi
sento già traditore se ripenso che mi aveva disturbato e indispettito fare un po' di
chilometri di coda in autostrada abbassando così la media ipotizzata per raggiungere la
nostra meta quando accanto a me sedevano e confabulavano cristopher e kenneth, due
che di contrattempi (si fa per dire) e di ritardi nei loro viaggi dal deserto verso il mare ne
hanno sofferti, patiti e affrontati non pochi! Come è facile affermare che si sta con loro e
al primo canto del gallo dimenticare e tradire!
Qui mi sento a casa.
E qui so ascoltare mary e viviene che ci urlano la genesi della violenza perpetrata
nei secoli ai danni della loro gente e delle loro terre, che ci chiariscono senza pudore
come si diventa prostitute, che ci gridano come vengono “svezzate” le loro bambine da
vecchi italiani bavosi, che ci buttano in faccia una verità cui noi (io sicuramente) non
avevamo mai prestato attenzione: tutti vogliono andare in paradiso ma nessuno vuol
morire!
La loro morte è stata abbandonare le loro terre, i propri cari, sfidare viaggi di
violenze e sofferenze, mendicare pane e materassi in una terra arida di umanità e di
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misericordia, patire la discriminazione, lottare per un'identità riconosciuta e riconoscibile,
difendersi dalla prevaricazione e dalla sopraffazione fisica e morale: e dopo tutto questo
non hanno ancora trovato il paradiso!
Anno del Signore 2010: marco e gli altri dell'operazione “colomba” salgono la
mattina alle 4 sugli autobus della M1 che portano carne da macello e da miniera alle
rotonde di villa literno, giugliano, mondragone dove verrà presa a nolo per una giornata,
forse due, forse cinque a 15, 20, massimo 30 euro al dì; e stravolge l'anima, incendia il
cuore sapere che salgono su quegli autobus per controllare l'attività delle forze
dell'ordine che troppo spesso si riduce all'adozione di provvedimenti punitivi e restrittivi
nei confronti degli immigrati (in parole povere detenzione nei C.I.E. e sequestro dei pochi
loro beni materiali)!
Qui mi interrogo: ma quanto faccio, cosa faccio perché queste verità diventino di
pubblico dominio, siano denunciate nelle nostre comunità civili e religiose? quanto ci
metto del mio per combattere i silenzi? Quanto per fare informazione, per comunicare? E
quanto non faccio per conoscere di più, per approfondire, per stanare le ingiustizie, per
combattere l'illegalità diffusa, per fare comunione e comunità davvero a casa mia, nel
mio quartiere, nella mia città con le tante sorelle e i tanti fratelli immigrati che ci vivono?
Così scrive Isoke (già prostituta, ora scrittrice e fondatrice di una casa d'accoglienza
per ragazze come lei): “Devi pensare a un mondo parallelo. Sommerso, indeterminato,
dove la rabbia è la regola, insieme all'ignoranza. Dove nulla è mai certo, tutto è possibile,
dove tutte sono zie o nipoti o sorelle o cugine di qualcun'altra. E intrallazzano e si
aggiustano e alla fine girano una coi documenti dell'altra, che poi dicono è mia sorella o
mia zia, anche se non è vero; e per quei documenti pagano alla sorella o alla zia un affitto
pari al venti o al trenta per cento dei soldi che guadagnano. Ma è così che gira il mondo.
Parti da Milano e vai a Roma o a Napoli per pagare un qualunque avvocato,
azzeccagarbugli, mediatore, ovviamente italiano, che qualche ragazza ha saputo da
un'altra che forse può farti avere i documenti. Che poi, altrettanto ovviamente, si rivelano
falsi.
Paghi per una passaporto falso dalla Nigeria: quattrocento euro:
Paghi altrettanto per per un certificato di nazionalità che costa al massimo cento
euro, e che dura un anno, e che non serve a niente.
Per non parlare di quando ci sono le sanatorie, e allora è tutto un andare e venire e
un fare business. Paghi il finto datore di lavoro che ti ha fatto un finto contratto di lavoro
per un lavoro che non esiste: due-tremila euro. Paghi il rinnovo del contratto: millemillecinquecento euro. Paghi per quella che ti ha fatto da mediatore e che ti ha
presentato al finto datore di lavoro: dal dieci al venti per cento. Però poi con quel
permesso di soggiorno hai la tua bella fonte di guadagno, lo fotocopi, lo presti, lo affitti.
Lo dai a qualcuno che ci va a lavorare per davvero e poi ti dà fino a un terzo della sua
busta paga.
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Se hai un passaporto valido, regolare, lo affitti a un ragazzo che deve viaggiare.
Se hai un bambino coi documenti in regola presti il documento ad altre madri che
devono mandare il figlio a scuola, o fai avanti e indietro con la Nigeria portando i bambini
delle ragazze del marciapiede. E' tutta una vita così.
....anche chi non spaccia e chi non ruba, anche chi solo si limita a tirare avanti
andando e venendo sul marciapiede, anche quelle ragazze lì, ormai, l'integrazione la
considerano una partita persa.” (a chi interessa si tratta di “Le ragazze di Benin City” editore Melampo)
Ecco, Castel Volturno riassume in sé tutte le disperazioni, le povertà, le tragedie
dell'immigrazione del terzo millennio e lo spaccato così ben fotografato da Isoke nel suo
libro è facilmente localizzabile in tutte le comunità che da Castel Volturno si sono poi
distribuite in tutta la nazione.
Credo, però, che nessuna partita sia persa ripartendo da mary e da vivienne, da
marco e dai suoi compagni, da gianluca, da antonio, da filippo, da noi: sappiamo bene
che la vita è spesso scandita di frasi fatte, con le quali riempiamo i silenzi smarriti della
nostra anima quando ci areniamo senza spiegazioni convincenti; allora arretriamo e
gettiamo l'ancora dove l'acqua è più bassa, così che non abbiamo paura di sprofondare.
Dobbiamo ora, oggi, subito salpare verso il mare in tempesta, raccogliere naufraghi e
marinai, navigare con loro, per loro, verso il porto della giustizia e della umanità.
Lorenzo
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Siamo le vittime, noi, non dimenticarlo. E voi i carnefici.
Anche le donne. Sì. Le italiane che sanno e che chiudono gli occhi
su quello che fanno i loro uomini. Che quando una di voi viene
stuprata finisce sul giornale e succede un casino che non finisce
più. Mentre quando é stuprata una di noi non fa mai notizia.
Pensi: in fondo se l’é andata a cercare.
Ma un’africana stuprata é un’italiana salvata, te l’ho già detto.
Prova un po’ a vedere le cose da questo punto di vista.
Pensa a noi come a una sorta di calmiere sessuale.
L’imbuto in cui finiscono tutte le violenze. Pensa alla rabbia di
migliaia di immigrati che non hanno donne, non hanno lavoro. Pensa a come la sera
escono, e pensa a come si sfogano. Vedi che capisci.
Nelle campagne di Castel Volturno o della Puglia ci sono migliaia di ragazzi che vivono
come noi in condizioni di schiavitù. Africani, romeni, polacchi. Raccolgono i pomodori, e
l’uva, e le mele, il tutto per dodici ore al giorno e per una manciata di euro.
Sono pieni di rabbia e di frustrazione, esattamente come noi. Ma con la differenza che
loro hanno qualcuno a cui farla pagare in qualche modo, l’anello più debole della catena.
Le ragazze. Vorrei almeno risparmiarmi questa parte della storia, ma proprio non si può.
Le ragazze della Domitiana prendono cinque o dieci euro a botta, vivono in catapecchie,
non hanno né acqua nè luce. Iothan diceva, prima di finire ammazzata: è come in Africa,
eppure molto ma molto peggio. Diceva: non c’é legge e non c’é sicurezza. Diceva: ogni
giorno sei fortunata ad arrivare viva al momento in cui vai a dormire. Aveva ragione.
Perché lì le ragazze sono la vittima assoluta e perfetta. Di tutti. Anche dei paesani che le
schifano perché si vendono ai bianchi. Non hanno soldi, se non le pagano, e addirittura le
rapinano nella certezza della totale impunità. Le violentano con ferocia e si vendicano a
questo modo della vita di merda che fanno. Con loro, con noi. Le ragazze di Benin City....
Io dico solo: va bene che ci siano le ragazze di Benin City, sono uno sfogatoio perfetto, un
meraviglioso calmieratore di tensione sociali ed etniche. Le ragazze sono la vittima
designata, l’agnello sacrificale. Chiamale come vuoi ma la sostanza é sempre questa.
Un’africana stuprata é un’italiana salvata. E l’africana stuprata non può parlare perché
non le dà retta nessuno, Non fa notizia e non fa statistica. É perfettamente invisibile. Io
dico a tutte le donne: pensateci. E pagate anche voi il vostro debito.
[tratto da “Le ragazze di Benin City, la tratta delle nuove schiave dalla Nigeria ai marciapiedi d’Italia”,
L. Maragnani, I. Aikpitanyi, pag. 139-141]
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Problemi e soluzioni dell’immmigrazione a Castel Volturno
Ci interesserà conoscere la definizione della parola “emigrazione”.
É semplicemente l’atto di movimento di gente o animali da una regione
a un’altra, o Paese, luogo a un’altro.
“migrazione” e Castel Volturnonon é un’eccezione.
Castel Volturno é attualmente diventato un luogo associato a
un brutto posto e tutti sono interessati a conoscere ciò che succede lì
attorno, ma le domande che rimangono sul terreno da ormai tanti anni sono:
come sono iniziati questi problemi? Chi li ha causati? Come risolverli ?
E fino a quando non si daranno risposte anche amministrative, chiare, Castel
Volturno rimarrà nel suo brodo e nella sua sporcizia.
Castel Volturno é terrore associato a paura e la gente vive senza leggi, sia neri che
bianchi. Ancora più importante, é un’arera conosciuta come discarica per tutti quelli che
sono senza permesso di soggiorno e che riporta la nostra mente alla domanda di
partenza: come sono iniziati questi problemi?
É ovvio che la maggior parte di questi problemi associati a Castel Volturno non
sono invisibili o spirituali ma situazioni concrete causate dall’uomo e che possono essere
risolte dall’uomo, se affrontate con attenzione. Ma quando le piccole cose sono negate,
queste poi diventano grandi e portano a sempre più grandi problemi e sembrano troppo
grossi da risolvere per l’uomo.
Una delle ragioni o cause é la sovrapopolazione.
Quando un’area é sovrapopolata succedono molte cose e gli uffici preposti a
controllare l’immigrazione diventano responsabili di questo perché il fatto é che la
maggior parte di questi immigrati non sono accettati ed a loro viene dato il Foglio di via,
senza nessuna assistenza; essi non hanno altro posto diverso da Napoli “Castel Volturno”.
Per questo motivo molti di loro vagano in strada senza un’occupazione e pensano “il
cuore in ozio é l’ufficio del diavolo”.
Così la migliore soluzione é di creare opportunità di lavoro per tenere il cuore e
l’anima uniti, perché molti di loro hanno capacità e cervello per svolgere molte
professioni che permetterebbero loro di avere un buon permesso di soggiorno. Questo
permetterebbe di ridurre il numero della popolazione residente: almeno il 40% di essi
lascerebbero Castel Volturno per andare altrove.
Chi ha causato questa situazione? Non possiamo dire che “lui” o “lei” sia il
problema, ma ciascuno é il problema a partire dal più grande al più piccolo, perché la
maggior parte delle cose che gli immigrati fanno sono imitazioni di comportamenti che
hanno normalmente i napoletani. Noi diciamo: “Quando sei a Roma tu vivi come i
romani”
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Guidano senza patente, Vendono droga per strada, prostituzione, omicidi,
guerre, furti, oppressione, eccetera ...
Soluzioni al problema Io credo fermamente che la soluzione a questi problemi
non siano difficili da raggiungere.
Prima cosa, il Governo deve prendersi la responsabilità con coraggio e non con
paura: DON’T BE AFRAID!!”
PERMESSI DI SOGGIORNO: Questa é una via che il governo potrebbe usare per
portare pace a CASTEL VOLTURNO, dato che si sa che quando ci saranno i permessi la
popolazione si ridurrà, e quando ciò succederà anche il crimine si ridurrà e sarà più facile
controllarlo.
CREAZIONE DI OCCUPAZIONE: Come ho detto prima, un uomo o donna che
lavora non ha tempo per pensare al diavolo e girare per strada. Così il Governo deve
prendere l’occasione per costruire nuove fabbriche e opportunità di lavoro per i
disoccupati immigrati, per ridurre il crimine come nel resto del Paese e di Europa.
Trasporto: Questo é un altro grosso problema a CASTEL VOLTURNO: molte volte
la gente attende i pullman per 2 o 3 ore prima che questo arrivi, e questa é la ragione per
cui molti guidano le auto senza la patente. Per cui il governo o l’amministrazione
comunale dovrebbero provvedere con un maggior numero di autobus.
ASSISTENZA ALLE FAMIGLIE: Un uomo con moglie e tre figli senza lavoro, farà
qualsiasi cosa per vivere ed avere il sufficiente per sostenere la propria famiglia: e questo
determina anche altra criminalità. Il governo deve inserire questo punto nella sua agenda
per aiutare gli immigrati senza lavoro o permesso di soggiorno.
Sicurezza: Questo é uno dei maggiori strumenti di controllo della criminalità in
tutto il mondo ma per la gente che pensa di essere “sicura” questo diventa una
“maschera”, una barzelletta. Ciò significa che è un problema ancora più grande. Molti
agenti della sicurezza sono trafficanti di droga in uniforme, banditi che derubano gente
immigrata innocente dai loro duri risparmi. Quando essi si rifiutano, i poliziotti li
accusano di vendere droga e li portano in prigione. Così suggerisco al governo di risolvere
questi problemi, perché qualsiasi luogo senza vera e buona sicurezza é allo sbando e
Castel Volturnoha bisogno di vera sicurezza e non di poliziotti che rubano.
L’interesse delle poche persone oneste sarà tutelato e questo sarà sicurezza.
INGIUSTIZIA: In un posto dove non ci sono leggi, l’ingiustizia diventa all’ordine del
giorno e c’é oppressione ovunque. Gli immigrati sono stati maltrattati come animali a
Castel Volturnoe questo spesso li porta a reagire male anche attraverso la lotta e le
uccisioni.
Abbiamo anche sentito che gli mmigrati sono stati colpiti senza ragione e quando
é successo questo e si sono chiamate le forze dell’ordine, la prima cosa che loro hanno
domandato é stato il permesso di soggiorno. Quando questo non c’é gli immigrati
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vengono puniti ancora di più anche se loro sono nella ragione: QUESTO È CIÒ CHE
CHIAMO INGIUSTIZIA”.
In conclusione; penso che ci dovrebbero essere più programmi per fare luce e
insegnare alla popolazione, sia bianca che nera, ciò che succede a Castel Volturnoe in
ogni altro posto per sapere come integrarsi per promuovere pace ed il rispetto dei diritti
umani.
Incoraggio il governo ed la popolazione italiana e tutti gli immigrati a cogliere
questa occasione per assicurare pace a Castel Volturno e dintorni, per un miglior
DOMANI.
Christopher
Ciao a tutti
Volevo essere con voi (a Valera Fratta la sera del 24 maggio, nel
primo incontro di racconto e sintesi del viaggio - ndr) ma purtroppo ho
avuto un impegno. Mi é piaciuto questo viaggio perché è stato
interessante per me, nel senso che ci siamo riavvicinati, abbiamo diviso
tutto insieme, abbiamo parlato di tante cose. Mi é piaciuto anche il
pranzo che abbiamo preso venerdì tutti insieme sulla stessa tavola (mangiando
all’africana, con le mani dalla stessa ciotola – ndr). Non mi é piaciuta la parte di violenza
tra gli africani e la camorra: mi fa molto male che alcuni vengano ammazzati senza
motivo. Mi vergogna (leggi scandalizza) il fatto che i carabinieri sostengano la camorra.
Veramente é stata una grande esperienza per me perché ho scoperto tante cose.
Tengo a ringraziare tutte le persone che hanno fatto molto sforzo per organizzare questo
viaggio. Ringrazio sinceramente il Centro d’Ascolto, Lodi per Mostar e la Casa
d’accoglienza. Vi saluto
Issouf
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POST IT
Ciao a tutti,
per me, vivendo in mezzo a loro tutti i giorni (Christopher, kenneth, Shaib, Konate, e altri
ragazzi della Casa dell'Accoglienza) non ho spazio per fermarmi. E' la mia quotidianità.
[...] A me piacerebbe tantissimo dare concretezza a quanto sto facendo "cone complice nel
solco", non solo nell'ospitare ragazzi , ma poterli anche aiutare in queste loro "tribolazioni".
Penso che questa sia anche un'occasione per tutti noi per dimostrare che non siamo ne
giornalisti e tanto meno visitatori di uno zoo. Mi sembrava questo il monito dei padri
comboniani Antonio e Filippo. A presto!!
Antonio Lago (Casa Accoglienza maschile di Lodi “don L. Savarè”)
Leggo le reazioni al viaggio e confesso che sono felice. Però
adesso è il momento di lasciare decantare e poi cominciare a
rimboccarsi le maniche anche nel lodigiano per creare un movimento
di opinione che lasci lo spazio alle persone più che alle regole e
alla sicurezza. Senza accorgercene lasciamo che altri decidano per
noi limitando la nostra libertà. Spero che Castel Volturno vi
abbia marcato e vi faccia ricordare che è dai poveri che avremo la
salvezza perchè ci aiuteranno e ci stimoleranno a non
imborghesirci. un saluto e un abbraccio
Antonio Bonato (Comboniano di Castel Volturno)
IO... non so cosa scrivere. devo raccontare. Non riesco a tenerlo dentro. Lo sto
raccontando. Non solo con le parole ma anche coi gesti, il tono della voce,
l'emozione che ci metto... Son carico. Di questo son sicuro. Un abbraccio a
tutti. Giorgio (Scout)
Cari amici,
quando ci chiamiamo per nome ci leghiamo all'altro, impariamo a
conoscerlo e dal contatto torniamo cambiati, anche un po' in crisi qualche
volta, ma con una strada nuova che ci si apre davanti.
Anch'io fatico a scrivere e a trovare le parole, ma quello che ho vissuto non
può finire lì. Un abbraccio Michela (Casalpusterlengo)
Anch'io non so cosa scrivere, anch'io devo raccontare
raccontando... Vi abbraccio e ringrazio Chiara B. (Codogno)
e
sto
Ho visto questa mattina Christopher prima che venisse al centro
d’ascolto. Nei nostri rapporti non era lui ad essere cambiato. Ero, sono
io. Gianni (Lodi)
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“Gettàti nel solco” é una tappa nel progetto di ricerca-azione di
oSSERvIVERe
oCCASIONi di prESA DIRETTa
promosso da
Osservatorio diocesano per la carità
e
Centro d’Ascolto “A. Boccalari”
Via San Giacomo, 15 Lodi
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