Giovanna Rosa La narrativa degli Scapigliati www.liberliber.it Questo e-book è stato realizzato anche grazie al sostegno di: E-text Web design, Editoria, Multimedia http://www.e-text.it/ QUESTO E-BOOK: TITOLO: La narrativa degli Scapigliati AUTORE: Rosa, Giovanna TRADUTTORE: CURATORE: NOTE:Si ringrazia l'autrice e la casa editrice Laterza per aver concesso il permesso di pubblicazione del testo elettronico DIRITTI D'AUTORE: no LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/ TRATTO DA: La narrativa degli Scapigliati / Giovanna Rosa - Roma \etc.! : Laterza, 1997 - VII, 187 p. ; 21 cm. CODICE ISBN: 88-420-5185-3 1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 16 giugno 1999 2a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 8 maggio 2002 INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO: Clelia Mussari, [email protected] REVISIONE: Marina De Stasio, [email protected] PUBBLICAZIONE: Claudio Paganelli, [email protected] Informazioni sul "progetto Manuzio" Il "progetto Manuzio" è una iniziativa dell'associazione culturale Liber Liber. Aperto a chiunque voglia collaborare, si pone come scopo la pubblicazione e la diffusione gratuita di opere letterarie in formato elettronico. Ulteriori informazioni sono disponibili sul sito Internet: http://www.liberliber.it/ Aiuta anche tu il "progetto Manuzio" Se questo "libro elettronico" è stato di tuo gradimento, o se condividi le finalità del "progetto Manuzio", invia una donazione a Liber Liber. Il tuo sostegno ci aiuterà a far crescere ulteriormente la nostra biblioteca. Qui le istruzioni: http://www.liberliber.it/sostieni/ 3 Giovanna Rosa LA NARRATIVA SCAPIGLIATA INDICE Cap-I: L’avvio della modernità letteraria Una generazione di scrittori “crucciosi” Milano, il "microscopico Parigi della Lombardia" Le officine della letteratura I nuovi circuiti editoriali I confini della narrativa scapigliata Cap-II: La Scapigliatura tra romanticismo e positivismo Il rifiuto della tradizione romantico-risorgimentale L'apertura ai modelli europei Contro l'ottimismo positivista Il conflitto arte-scienza Cap-III: Il pubblico degli scapigliati Dal "noi" di Manzoni all'"io sol io" di Dossi La sfida al lettore Il dialogo con la "migliore società" Le provocazioni dei fratelli Boito Il feuilleton sperimentale di Praga Tarchetti: "Io scrivo per me medesimo" Cap-IV: Romanzi brevi e racconti d'effetto La scelta della prosa Dal passato storico al presente "Frammenti di libri" Un appendicismo raffinato Il rinnovamento della novella Il campo del fantastico Cap-V: La narrativa dell'io L'eclisse del narratore onnisciente Gli sfoghi di un autore narcisista I procedimenti dissolventi dell’umorismo Schizzi, acquerelli, gite col lapis La tavolozza dei letterati girovaghi Cap-VI: Ritratti di giovani artisti Protagonisti ventenni e immaturi Solitari egocentrici Senza famiglia La latitanza delle figure d’autorità Le tecniche di sdoppiamento La raffigurazione fisionomica Cap-VII: Il dualismo tematico Tutto è doppio Guerra e pace Conservazione e modernità Città e campagna Maschile e femminile Cap-VIII: Le forme dello stile scapigliato . Una comune scelta antirealistica L'espressionismo risentito di Dossi I riflessi e i ricordi di Bazzero Il giornalismo espressionistico di Faldella L'impressionismo inquieto di Praga La negazione melodrammatica di Tarchetti Gli esperimenti eccentrici di Arrigo; l'eleganza eclettica di Camillo Nota bibliografica Capitolo I L'avvio della modernità letteraria Una generazione di scrittori "crucciosi" Nel giugno del 1861 muore Camillo Benso conte di Cavour: sono passati appena due mesi dalla proclamazione ufficiale dello Stato unitario e dalla designazione di Vittorio Emanuele II al trono di re d'Italia. In questo stesso scorcio di tempo, una tempesta fa affondare il piroscafo "Ercole" su cui era imbarcato Ippolito Nievo, autore del primo e forse unico romanzo risorgimentale che delinei la nascita della nazione, Le Confessioni d'un Italiano. Incomincia, nel nostro paese, un'altra stagione storicopolitica, cui si accompagna una diversa temperie culturale: gli autori della Scapigliatura ne sono fra gli interpreti più autentici. Emilio Praga, Igino Ugo Tarchetti, i fratelli Camillo e Arrigo Boito, Luigi Gualdo, Carlo Dossi, e accanto Giovanni Faldella, Roberto Sacchetti, costituiscono il nucleo forte del movimento che si sviluppa e si consuma nel primo quindicennio unitario: un'epoca caratterizzata dai governi della Destra storica, conclusasi quando, con la cosiddetta rivoluzione parlamentare, Depretis diventa Presidente del Consiglio (marzo 1876). All'avvento al trono di Umberto I (gennaio 1878), il clima intellettuale della penisola è già profondamente mutato: in questo stesso anno Verga pubblica uno dei suoi capolavori veri sti, Rosso Malpelo, alcuni mesi prima Carducci aveva dato alle stampe le Odi barbare. E' ormai iniziata l'età umbertina. La Scapigliatura è l'espressione genuina dello stato di crisi e di sfiducia che colse i letterati all'indomani della formazione della nuova compagine nazionale, così lontana dall'immagine ideale coltivata durante gli anni eroici delle battaglie risorgimentali. Del passaggio "dalla poesia alla prosa", secondo una formula famosa già in voga in quel periodo, la narrativa scapigliata ci offre una testimonianza originale in forme modernamente rinnovatrici. I suoi protagonisti appartengono tutti a quella "generazione crucciosa" (E. Praga-R. Sacchetti, Memorie del presbiterio, p. 122) che, venuta al mondo nel decennio centrale delle lotte per l'indipendenza, raggiunge la piena giovinezza durante gli anni Sessanta. Ecco le date di nascita: 1839 Tarchetti e Praga; 1842 Arrigo Boito, il fratello Camillo era di qualche anno più vecchio, 1836; 1844 Gualdo, 1846 Faldella, 1847 Sacchetti, 1849 Dossi. Ad essi si affiancano, quali compagni d'arte e di vita: i poeti Camerana e Pinchetti (1845) e il giovanissimo Ambrogio Bazzero (1851). Nel delineare il ritratto di quest'ultimo, nell'introduzione all'opera postuma Storia di un'anima (Treves, Milano 1885), Emilio De Marchi ricorda ch'era appartenuto alla "piccola scuola milanese" sviluppatasi in quel tumultuoso periodo che succede alle battaglie dell'indipendenza, quando l'entusiasmo che le ha compiute diventa il primo imbarazzo del vincitore. Tutto è disordine ancora, non si sa quel che si vuole, ma si vuole molto, da tutti. (p. XXVIII) Non dissimile il ritratto generazionale schizzato da Cletto Arrighi, l'inventore del fortunato nome di Scapigliatura: nella Presentazione del romanzo La scapigliatura milanese, pubblicata sull'"Almanacco del Pungolo" per il 1858, la compagnia d'artisti protagonista della narrazione è figlia soprattutto di un'epoca non lontana e fatale; figlia generosa, giacché, chi ha traveduto il cielo, è un imbecille od un santo se si rassegna a vivere di nuovo contento e felice sulla terra. (p. 68) Gli scapigliati non erano certo tali e proprio nella rivolta contro l'assetto del paese uscito dall'"epoca fatale" rinvengono il motivo primo della loro identità esistenziale e letteraria. Tanto più che lo scontro fra poesia e prosa si appalesa in tutta la sua gravità durante la terza guerra d'indipendenza (1866), alle cui campagne partecipano come volontari Emilio Praga, Arrigo Boito, Giulio Pinchetti e Roberto Sacchetti. Nella sequenza centrale di una novella di Praga, dal titolo molto scapigliato Tre storie in una, apparsa sul "Pungolo" nei primi mesi del 1869, le battute del dialogo che si svolge fra due amici poeti rivelano uno stato d'animo molto diffuso: Quindici giorni dopo (...) veniva dichiarata la guerra all'Austria ed io mi arruolavo nelle file dei volontari. Tu pure militasti sotto quella divisa, e sai quanto peso di prosa abbia gettato la realtà di quella vita sull'entusiastica poesia con cui l'avevamo immaginata. (in Racconti lombardi dell'ultimo '800, p. 22) Già nel settembre del '66, in un articolo uscito sul "Politecnico", Pasquale Villari si era chiesto, con lucidità impietosa, Di chi è la colpa? O sia la pace e la guerra: Questa guerra ci ha fatto perdere molte illusioni, ci ha tolto quella fiducia infinita che avevamo in noi stessi. (...) Ci è impossibile pensar di noi quello che avevamo pensato finora.1 Spetta appunto alla generazione "nata a combattere e demolire" (E. Praga, "Figaro", 14 gennaio 1864) dar conto dello sconforto amaro che pervase la stagione post-risorgimentale, illustrando con fervore arrovellato le condizioni di debolezza e di precarietà su cui si reggeva l'"edificio" appena costruito. In questi anni è subito evidente il capovolgimento di ruolo che il letterato era chiamato a sostenere: non c'era più bisogno né di romanzieri storici, capaci di ritrovare nelle cronache del passato le radici della coscienza unitaria, né di infiammatori d'animi che con i versi della "fiorita patriottica" (Mameli, Mercantini, Dall'Ongaro) alimentassero gli empiti ardenti del Quarantotto e P. Villari, Lettere meridionali ed altri scritti nella questione sociale in Italia, a c. di F. Barbagallo, Guanda, Napoli 1979, p. 107. 1 dell'impresa dei Mille; e neppure, infine, di cultori dei dolci affetti familiari, fonte di conforto rassicurante nei momenti di riflusso (Carcano, Carrer, Prati, Aleardi). Altro e diversamente orientato era il compito che il paese unificato sollecitava nei suoi intellettuali più consapevoli: cogliere con sguardo critico ma senza regressioni nostalgiche o avvilimenti nihilistici i conflitti inediti della modernità. Milano offriva l'osservatorio privilegiato per una simile indagine. Milano, il "microscopico Parigi della Lombardia" La connotazione "urbana" è il tratto più pertinente della nostrana Bohème. Nel Prologo alla Scapigliatura e il 6 febbraio (1862), l'edizione in volume del romanzo da cui prende nome il movimento, Cletto Arrighi lo dichiara subito e senza equivoci: In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità d'individui di ambo i sessi, fra i venti e trentacinque anni, non più. (p. 117). La caratterizzazione generazionale è strettamente intrecciata all'individuazione di un preciso spazio cittadino entro cui l'armonia tradizionale della comunità organica viene meno. La successiva contrapposizione fra i giovani "irrequieti, travagliati, turbolenti", che vivono in "maniera eccentrica e disordinata", e "i ricchi contenti, le fanciulle guardate a vista, le donne che amano i mariti" acquista così una specifica valenza storica. Proiettata sull'orizzonte ampio dell'urbanesimo borghese, la stessa dialettica interna che divide la numerosa "casta" di artisti da una parte "il lato simpatico e forte" che "per ogni causa bella, grande, o folle balza d'entusiasmo", dall'altra "un volto smunto, solcato, cadaverico" perde l'alone mitizzante per sostanziarsi di spessore psico-sociale. "Milano..." suona l'incipit dell'opera di Arrighi, nella definitiva edizione dell'80: e lo sfondo del capoluogo lombardo costituì sempre, nelle recriminazioni e nelle ebbrezze, il campo d'azione elettivo sia degli autori sia dei personaggi da loro inventati. Perché, secondo una tautologia tarchettiana, "Milano è Milano. Tu mi capisci." (La fava bianca e la fava nera, to. II, p. 558). Poco importa allora se Arrighi modificò poi nelle varie stesure il testo della Presentazione e del racconto, riducendo il color locale ambrosiano a vantaggio della dimensione nazionale; ciò che conta, come suggerisce Farinelli, è "il primato di Milano come città ideale della Scapigliatura"2. Un primato che non va riaffermato semplicemente per rievocare l'atmosfera nebbiosa dei navigli, cara ai pittori coevi, Cremona, Conconi, Ranzoni, D. Induno, o gli atteggiamenti anticonformisti di chi amava le osterie fuori porta. La supremazia di Milano è tale perché qui i letterati conoscono per la prima volta e in forme angosciose le contraddizioni che l'urbanesimo moderno induce non solo nel loro statuto professionale ma nelle percezioni di realtà, nella scansione discontinua del tempo e dello spazio, nell'articolazione fra le vicende pubbliche e gli affetti privati. E' l'impatto con le norme prosaiche dell'"incivilimento" borghese ad alimentare il confronto polemico diretto con gli ideali eroici della stagione passata. Parigi in tanto è la città di Hugo e Baudelaire, luogo di pellegrinaggi artistici (Praga e Boito), in quanto offre paradigmaticamente il modello urbano cui paragonare i ritmi di vita e il dinamismo mercantile che il capoluogo lombardo si avviava a sperimentare: 2 G. Farinelli, Introduzione a C. Arrighi, La Scapigliatura, p. 65. Le città... le grandi città come Milano! come Parigi! (...) chi ha visto Milano ha visto Parigi... miglia più, miglia meno. Il denaro fugge, scappa, scivola, svapora, svanisce, dilegua... (Memorie del presbiterio, p. 64) Non c'è alcun dubbio che il "microscopico Parigi della Lombardia", per usare l'espressione efficace del solito Arrighi (La Scapigliatura, p. 147), non abbia ancora assunto il volto insidioso della metropoli francese: le strutture del capitalismo economico italiano sono appena entrate nella fase incerta della "giovinezza industriale" ("Il Sole", 21 settembre 1877); e tuttavia in questo quindicennio, il fervore intraprendente della collettività ambrosiana pone le basi di quello sviluppo che renderà Milano la "capitale morale" del paese. Nel 1863 l'inaugurazione del Politecnico garantisce la preparazione meccanica dei futuri ingegneri, mentre, grazie alla perspicacia finanziaria dell'economista Luzzatti, nel 1865 si costituisce la Banca Popolare: il corso forzoso del 1866 funge da riparo indiretto per la produzione delle aziende milanesi prima della definitiva scelta protezionistica (1878). Ad avvalorare i dati dell'inchiesta parlamentare del 1871, in cui Milano risulta la prima città industriale d'Italia, gli imprenditori più giovani si mescolano alle figure già celebri, Binda Richard Salmoiraghi Borghi Gavazzi, e occupano il proscenio: nel 1872 uno dei primi laureati al Politecnico, Gian Battista Pirelli, apre uno stabilimento per il trattamento della "gomma e guttaperca"; nello stesso anno Eugenio Cantoni trasforma l'azienda cotoniera in moderna società per azioni; nel 1875 Ernesto De Angeli compra un'antiquata tintoria per farne una fabbrica all'avanguardia nello stampaggio dei tessuti; infine, i fratelli Bocconi sanzionano il loro dominio commerciale, avviato nel 1865, inaugurando nel 1877 il primo "grande magazzino". Gli scioperi cittadini del 1867, dovuti al carovita, confermano, a contrariis, l'articolazione di classe che tramava ormai il tessuto della società milanese. E' il volto urbanistico della città a testimoniare con evidenza il passaggio d'epoca: la realizzazione del Cimitero Monumentale (1860-66) precede di poco l'abbattimento di un "sudicio baraccone di legno" presso il Castello per sostituirvi la sala del Dal Verme (1870-2), il "più bel teatro di Milano" (F. Fontana); l'annessione definitiva dei Corpi Santi (1873) allarga la cinta daziaria ben oltre i confini tradizionali. Mentre si stanziano i fondi per il progetto grandioso del traforo del San Gottardo, la costruzione della Stazione Centrale (1864) e della stazione di Porta Genova (1865) traduce in realtà il mito per eccellenza del progresso: l'Inno a Satana di Carducci è del 1863, Praga l'aveva anticipato con i versi di Strada ferrata (stesa nel 1860, ma pubblicata in Trasparenze). La ristrutturazione dei quartieri centrali muta l'assetto morfologico del vecchio borgo. Famose le strofe di Case nuove (1866), dove senza alcun rimpianto ma con ironia amara, Boito riconnette le scelte poetiche agli scenari inediti: "Scuri, zappe, arieti,/Smantellate, abbattete e gaia e franca/Suoni l'ode alla calce e al rettifilo!/Piangan pure i poeti". Pochi mesi prima, nel novembre 1865, sulla "Rivista minima" erano cominciate ad apparire le puntate del romanzo di Tarchetti, Paolina (Misteri del Coperto dei Figini): il sottotitolo allude esplicitamente a un "casone", prossimo alla centralissima Piazza del Duomo, che il Municipio aveva deciso di demolire per consentire all'architetto Mengoni di erigere la Galleria. Di lì a poco (1867), infatti, a fianco della cattedrale si innalza il tempio laico della mondanità, "dove si celebra, e si santifica incessantemente con pompa, con magnificenza, al gran Dio della società moderna, al Lavoro." (L. Capuana, In Galleria, in Milano 1881, p. 412) Siamo al vero elemento che caratterizza la fisionomia urbano-borghese del movimento scapigliato: anche per i letterati è giunto il momento di confrontarsi in prima persona con il "gran Dio della società moderna". Privi di strumenti rappresentativi adeguati, fragili ideologicamente, brancolanti "com'uom che sogna" (A.Boito) davanti agli abissi del nuovo, nessuno di loro sarà in grado di delineare entro il testo narrativo la vita intensa e operosa della "città più città d'Italia" (Verga), ma tutti i loro libri testimoniano dell'impatto avvenuto. E' sul terreno elettivo dell'attività professionale che gli artisti della Bohème milanese sperimentano le contraddizioni tipiche di un mercato in fase espansiva e avviato ad assumere i tratti specifici della produttività capitalistica. Per dirla con le parole schiette di uno di loro: "Non si campa coll'arte, si campa col mestiere"3. Le officine della letteratura R. Sacchetti, Emilio Praga, in “Serate Italiane”, n.105, 2 gennaio 1876, citato da G. Zaccaria, Introduzione a E. Praga - R. Sacchetti, Memorie del presbiterio, p. XV. 3 E' lo stesso Sacchetti che, qualche anno dopo, schizza il quadro complessivo della Vita letteraria a Milano. L'inaspettata convivenza delle industrie del ventre con le industrie dello spirito allarga subito il cuore al giovinetto, piovuto, come il Maffei, il Prati, il Tarchetti, sul lastrico della grande città con un grosso manoscritto in tasca. Che gli volevano far credere ch'erano nemiche inconciliabili, se vivono tanto bene insieme? Non già ch'egli non sia agguerrito e corazzato d'ideali, contro gli strapazzi della miseria; ma non gli spiace trovare nella realtà le officine della letteratura fiancheggiate confortevolmente dalle osterie e dalle botteghe dei cervelèe. (Milano 1881, p.429) L'ottica dell'avvocato torinese che aveva scelto il capoluogo lombardo per passare alla professione di giornalista, se pecca di facile ottimismo, coglie tuttavia un dato di realtà irrefutabile. Da queste pagine lontane, che conservano ancor oggi un fascino suggestivo, emerge il ritratto più veritiero dell'universo editorial-letterario d'allora. Come documentano le statistiche del periodo, "erano attive nella provincia di Milano 70 tipografie con 130 torchi a macchina, 178 torchi a mano e 1622 operai" (Inchiesta Ottino, 1875). Di queste "officine" ben sessanta avevano sede entro la cerchia dei navigli, a conferma della mescolanza di "fragranze" caserecce con l'acre "odore oleoso" dell'inchiostro tipografico, di cui parla Sacchetti. Il nucleo storico dell'AIE (Associazione italiana editori) si costituisce, qui, nel 1871 sotto l'etichetta ATLI (Associazione tipografico-libraria italiana). Il ritratto canonico dell'artista bohémien "agguerrito e corazzato d'ideali" acquista tinteggiature ben altrimenti chiaroscurate se proiettato sullo sfondo di un sistema editoriale che prospetta occasioni d'intervento, impegni di lavoro, opportunità di guadagno prima impensabili. Nelle "officine della letteratura", l'arte "si può offrire e mercanteggiare", nella consapevolezza dolorosa e nel contempo esaltante che "di sotto allo strettoio del lavoro utile e obbligatorio scaturisce più copiosa la vena dell'ispirazione" (ibidem). La dimensione dell'economicità ha investito ogni esperienza d'arte, imponendo agli autori funzioni e comportamenti "prosaici", estranei sia all'otium umanistico delle età gentilizie sia alle pose generosamente eroiche delle stagioni di lotta. Ormai Milano è un mercato letterario, dove seguendo la legge della domanda e dell'offerta, si può procacciarsi colla penna una discreta posizione; lo scrivere non è qui, come altrove, una mania solitaria, ma una professione riconosciuta e quasi regolare. (ivi, p. 433) La fisionomia sociale dello scrittore non si ammanta più né del prestigio di casta né dell'aura sacrale della missione civile; si fonda sul riconoscimento laico e borghese del successo: A Milano non si commette la ridicolaggine di chiamare il conte Maffei, il cavaliere Boito, il cavaliere Ponchielli, il cavaliere Verga. Si dice Boito, Verga... e si crede di dir molto. (ivi, p. 437) La reazione sdegnata di Praga e compagni contro "al bottegume ed al borghesume", complici delle "cento nullità letterarie di cui si pasce ogni giorno la curiosità cittadina" (Memorie del presbiterio, p. 17), è tanto più violenta quanto maggiore è il loro coinvolgimento nella "speculazione libraria" (ibidem). Poco anticonformista, o del nulla si recupero comprende della dell'oltranzismo ribellione romantico, dell'eccentricità provocatoria degli Scapigliati se non se ne inquadra l'attività di scrittura entro le strutture portanti di un mercato delle lettere in fase di riorganizzazione profonda. Con coincidenza strepitosa, nello stesso anno in cui viene proclamato il Regno d'Italia, entrano in campo gli uomini che ne gestiranno la produzione culturale per lungo tempo: trasferitosi a Milano da Trieste, Emilio Treves fonda l'omonima casa editrice; Edoardo Sonzogno trasforma il vecchio stabilimento tipografico di famiglia in azienda polifunzionale (dalle cartiere Pella alla Casa Musicale, dalla sede parigina alla proprietà del Teatro Lirico). A sostenere le scelte innovative dei due giovani editori è, ovviamente, un sistema editorial-giornalistico ormai prossimo a superare la misura artigianale, per acquisire l'assetto economico-organizzativo della impresa capitalistica. Ideato nel 1859, il "Pungolo", sotto la direzione di Leone Fortis, era diventato "il padrone incontrastato di Milano", affermandosi come "il più diffuso organo di stampa dell'Italia settentrionale" (S. Merli); nel marzo 1863, in via San Paolo, Attilio Manzoni apre una strana bottega, cellula germinale del circuito inedito delle concessioni pubblicitarie; due anni dopo, nell'agosto, la Camera di Commercio, insieme con le categorie imprenditoriali e finanziarie, promuove l'uscita del primo giornale economico italiano, "Il Sole", destinato, secondo il pronostico azzeccato di Dario Papa, a "un bell'avvenire". Sullo sfondo, intanto, anche grazie ai celebri spettacoli allestiti al Teatro alla Scala, grandeggia il "colosso Ricordi". Bastano pochi mesi perché Tarchetti, giunto dalla sonnolenta provincia piemontese, colga la ricchezza multiforme di "questa nostra città, notevole pel suo sviluppo intellettuale, e il più gran centro del movimento letterario in Italia" (Idee minime sul romanzo, to. II, p. 535). Su questo orizzonte dinamicamente alacre, Treves e Sonzogno assumono un ruolo guida, diventando i protagonisti attivi del rinnovamento editoriale post-risorgimentale: grazie ad una spregiudicatezza spavalda, che opera, con strategia integrata, sulla catena libro-rivista-giornale, i due imprenditori sanciscono il successo di nuovi generi e tipi di fruizione, imponendo l'egemonia della cultura milanese sull'intera penisola. Secondo l'analisi esemplare di Giovanni Ragone, in questi anni tramontano i "codici" tradizionali delle opere di "ricerca" e di "mediazione" intellettuale (biografie, memorie, novelle morali, etc.), e sempre più si consolida il polo funzionale della narrativa borghese di consumo. Dai «tempi difficili per la letteratura» degli inizi unitari si raggiunge in pochi anni un massimo storico (1872). A determinarlo, sempre ragionando di quantità, è soprattutto la grande crescita di produzione di nuovi testi, che triplica tra il 1863 il 1872.4 Il fulcro di tale sviluppo è l'ideazione e diffusione di riviste e periodici, capaci di sostenere e potenziare la lettura dei libri, pubblicati nelle diverse collane "economiche". Nel 1872, a soli sei anni dalla comparsa, "L'Emporio pittoresco" di Sonzogno, un "fenomeno" di giornale a detta dello stesso editore, raggiunge una tiratura media di 25.000 copie, con punte di 60.0005; sempre per i tipi Sonzogno, un altro settimanale, "Il romanziere illustrato", pensato per ospitare unicamente romanzi, interi o "affettati nell'appendice", supera le 10.000 copie. La concorrenza di Treves è agguerrita: "L'Illustrazione popolare", "Il giro del Mondo", "Il giornale popolare dei viaggi" anticipano e preparano il successo dell'"Illustrazione italiana", definita dal solito Dario Papa "senza dubbio il miglior giornale illustrato del paese". Affianca e completa la stampa periodica dei due gruppi, 4 G. Ragone, La letteratura e il consumo: un profilo dei generi e dei modelli nell'editoria italiana (1845-1925), Produzione e consumo, vol. II, LIE, a c. di A. Asor Rosa, Einaudi, Torino 1983, p. 720. 5 F. Nasi, Il peso della carta, Alfa, Bologna 1966, p. 50. la fondazione di nuovi quotidiani. Nel 1866 esce il primo numero del "Secolo", editore Sonzogno. L'accoglienza è stupefacente: in dieci anni sfiora la tiratura di 30.000 copie giornaliere, "secolista" suona sinonimo di giornalaio e "la gente chiamava «un secolo» qualsiasi foglio stampato, sanzionando così, con quella popolaresca espressione, una ascesa senza precedenti"6. La risposta di Treves non si fa attendere: se il tentativo del "Corriere di Milano" non riesce, nel 1876 ecco trovata la formula giusta: "Il Corriere della Sera", affidato alle cure di Eugenio Torelli Viollier. Il quotidiano, che diventa ben presto la voce più autorevole della classe dirigente nazionale, comparve in edicola, come ricorda lo stesso direttore, esattamente "tredici giorni prima della caduta della Destra!" (La stampa e la politica, in Milano 1881, p. 469) a sottolineare la tempestività dell'intuizione politica e culturale da cui germinò il progetto. Con la prospettiva tipicamente "strabica" dell'intellettuale meridionale venuto a cercar fortuna nel capoluogo lombardo, Torelli Viollier, dopo un prezioso tirocinio presso Sonzogno, è in grado di cogliere il dato di maggior rilevanza dell'inedito oriz 6 S. Merli, Il Secolo, in I periodici di Milano. Bibliografia e storia, to. I, Feltrinelli, Milano 1956, p. 12. zonte cittadino: la consistenza matura di una "opinione pubblica", consapevole di sé e del proprio ruolo, a cui il giornalista deve rivolgersi con onesta professionalità: Bisogna tenere a mente che il giornalista non è il padrone del pubblico, ma il suo servitore, e che deve fare il giornale non per servire la propria ambizione, le proprie passioni, le proprie amicizie, i propri interessi, ma per istruzione e divertimento del pubblico. In questo il pubblico ha il fiuto finissimo (...) Il pubblico compra il giornale per essere informato di tutto quel che accade: è dunque un dovere di stretta onestà pel giornalista di non tacergli nulla. (ivi, p. 472) Dal versante letterario, gli fanno eco le parole altrettanto lucide di Sacchetti: Milano è finora la sola città italiana dove ci sia un vero pubblico: la classe colta coi novantamila italiani delle diverse regioni vi formano un tutto omogeneo, armonico, che vibra e risponde tutto insieme, ad un tratto alla stessa commozione, alla stessa provocazione. (La vita letteraria, p. 434) Il compagno d'arte di Praga non ha dubbi: il poter misurarsi col giudizio del pubblico, il potente interrogare dà agli spiriti timidi, agli intelletti schivi una giusta misura della propria capacità, li rinfranca (ivi, p. 435). In questo scenario matura l'esperienza scapigliata: il primo "dualismo" di cui patiscono gli scrittori della "generazione crucciosa" deriva dalla coscienza inquieta di doversi misurare con il giudizio di un pubblico ignoto, potenzialmente ampio, dal quale si pretende fama e ricchezza, nel momento stesso in cui lo si provoca con offerte anticonformiste e spregiudicate. Siamo davvero agli esordi della letteratura borghese moderna, i cui destini futuri si giocheranno tutti entro questa pendolare dialettica. I narratori bohémiens per un verso sfruttano con foga prolifica le possibilità inedite dei nuovi circuiti editoriali, per l'altro vi si contrappongono con proposte orgogliosamente antagonistiche. Esemplare il loro rapporto con stampa periodica, pilastro centrale di quella "repubblica della carta sporca" (Arrighi), popolata da artisti e letterati che cominciano "a meditare sulla necessità di farsi giornalisti" (Tarchetti, Ad un moscone, to. II, p. 502). I nuovi circuiti editoriali Grazie al monumentale studio di Gaetano Mariani, Storia della scapigliatura, e al prezioso regesto della Pubblicistica nel periodo della Scapigliatura, a cura di G. Farinelli, è ormai attestata l'interconnessione fertile fra il gruppo dei nostri autori e le riviste più vivaci del periodo. Non c'è dubbio che la "Cronaca grigia" diretta, fra il 1860 e il 1880, da Cletto Arrighi e la "Rivista minima" di Ghislanzoni abbiano favorito e promosso l'opera in versi e in prosa di Dossi, Boito, Praga e Tarchetti. Sulla prima, oltre alle incoraggianti recensioni della rubrica Libri e giornali (1867-69), apparvero i versi provocatori della boitiana Ballatella (gennaio 1865) e numerosi testi di Praga. La seconda ospitò le più varie sperimentazioni: di Tarchetti, nel 1865, oltre a Paolina e ai racconti d'esordio (Un suicidio all'inglese, Ad un moscone), i componimenti poetici, Canti del cuore, e il saggio Idee minime sul romanzo; poi Schizzi a penna di Praga (febbraio-marzo 1865); le prime Figurine (1873) e La laurea dell'amore (febbraio 1876) di Faldella; Scene campagnuole. Un confronto, Alcuni giorni a Pompei di Sacchetti (1874); Una storia di mare di Gualdo (giugno 1874); infine la famosa Lezione d'anatomia (giugno 1865) e le prime puntate del racconto Il trapezio (1873-74) di Arrigo Boito. Altrettanto certo l'appoggio offerto dal "Gazzettino rosa" di Cavallotti e Achille Bizzoni alle vibranti polemiche condotte dagli scapigliati contro il perbenismo conformista, il moralismo conservatore e l'oscurantismo clericale, che la pubblicazione del Sillabo (1864) aveva alimentato anche presso l'opinione pubblica lombarda. Ma il punto qualificante dell'incontro fra la brigata degli artisti ribelli e la galassia multicolore delle riviste coeve non va rinvenuto in una coerente sintonia ideologica, o addirittura politica, quanto professionale che piuttosto queste nelle sedi modalità di sollecitavano. intervento Nell'inedita organizzazione delle attività di scrittura, la collaborazione periodica modificava nel profondo la modulazione dei tempi (la scansione per puntate) e degli spazi (la misura del singolo "pezzo"), il rapporto economico con il committente (gli anticipi, la puntualità della consegna), le forme del dialogo con i lettori. Lo ricorda, deplorandolo, Dossi nella Rovaniana: oggi il giornalismo ha ammazzato i libri, e questi, se pur aspirano ad esser letti, devono passare attraverso il giornalismo stesso come metallo che solamente sotto conio acquista valore di moneta e circola.7 Tarchetti, redattore del più diffuso settimanale di Sonzogno, "L'Emporio pittoresco", su cui sigla articoli di varia umanità (le serie dei Pensieri e le Conversazioni), sceglie "Il Sole" per denunciare i Drammi della Vita militare. Vincenzo D*** (Una nobile follia), (1866-'67), e conclude la sua breve carriera artistica con le puntate di Fosca, apparse sul "Pungolo" (1869). Per questo giornale, della cui redazione Sacchetti diventerà capo alla fine degli anni Settanta e su cui pubblicò Candaule (1878) e Vecchio guscio (1879), Praga scrive non solo una corrispondenza di guerra, Garibaldi fra i volontari (giugno 1866), ma tutte le sue narrazioni: oltre a Tre storie in una (1869), uno strampalato feuilleton, Due destini (1867-8) e la prima parte delle Memorie del presbiterio. I raffinati autori della Bohème "dorata" non sono da meno: sempre il "Pungolo" 7 Si cita dall'edizione curata da G. Nicodemi, Libreria Vinciana, Milano 1946, pp. 149-50. accoglie la provocazione di Arrigo Boito, A Sua Eccellenza il Ministro della Istruzione Pubblica. Lettera in quattro paragrafi (21 maggio 1868), mentre il "Corriere di Milano" ospita la novella Il pugno chiuso (1870); Camillo, se predilige la prestigiosa rivista fiorentina "Nuova Antologia", cui peraltro collabora con senso di economicità molto ambrosiano, non disdegna l'"Illustrazione popolare" e esordisce anch'egli sul giornale di Leone Fortis con un racconto a puntate di timbro ultrascapigliato (Gite di un artista. Un verso del Petrarca, 1867, che si scinderà poi in due testi, appunto Baciale 'l piede e la man bella e bianca e Tre romei8), e nella scelta dell'editore non ha alcun dubbio: Treves, per entrambe le raccolte delle Storielle vane (1876, 1883). Il parigino Gualdo invia bozzetti alla "Rivista minima" e il "deserto" Bazzero, mentre stampa in edizione privata Lagrime e sorrisi, appresta le Melanconie di un antiquario per il "Pungolo", gli Acquerelli per la "Vita Nuova" e gli "schizzi a penna" per "Il Monitore della moda". Una sua nota diaristica accosta moti di perplessità titubante e sussulti di fierezza speranzosa, in un intreccio in cui molti si sarebbero riconosciuti: 8 cfr. M. Dillon Wanke, Introduzione a C. Boito, Senso e altri racconti, Mondadori, Milano, 1994, pp. X-XI. Ho accettato di scrivere le Appendici artistiche del Pungolo per l'Esposizione. Avrò coraggio di scrivere? E che scriverò?... Uscivo dalla Direzione del Pungolo: mi sentivo contento, superbo (Anima, p. 136). L'unica eccezione è l'"aristocraticissimo" Dossi, come amava definirsi, cui peraltro non sfuggiva affatto l'opportunità della promozione editoriale, se è vero che già per i primi raccontini stila la lista di coloro cui inviare le "copie omaggio". E tuttavia, proprio il coinvolgimento diretto nei meccanismi del mercato rinvigorisce la consapevolezza fiera dell'autonomia del lavoro artistico. L'autore dell'Altrieri ci ricorda l'energia risentita con cui tutti i letterati scapigliati si impegnano a riaffermare la diversità di un "mestiere" che, alieno dalle leggi della domanda e dell'offerta, sprezza il gusto volgare del "pubblicaccio". Ecco allora a controbilanciare i condizionamenti della "speculazione libraria", che costringe "le arti e le lettere" a "prostituirsi per vivere" (Tarchetti, Paolina, to. I, p. 375), l'invenzione di una stampa alternativa, articolata in fogli, rivistine, "palestre" letterarie e musicali, rigorosamente destinate a pochi eletti, cui rivolgersi in contristato dialogo, per propugnare l'"Arte dell'avvenire" (A. Boito) e combattere la "formula" ormai stantia del melodramma verdiano. Sul "Figaro", sotto la direzione di Praga e Boito (7 gennaio-31 marzo 1864), escono la poesia-manifesto Dualismo e gli articoli teorici di maggior impatto (Programma n. 1, Pubblicazioni italiane nn. 23, Polemica letteraria n. 5). La "Palestra musicale" ospita, sia pure incompiuto, il racconto tarchettiano Lorenzo Alviati; "La palestra letteraria" accoglie le prime sconosciute novelline di Bazzero (Un libro buono, I Nobili Antenati, Oh, la guerra, Rimembranze autunnali, 1870); e se "Lo Scapigliato", il giornale diretto nel 1866 da Cesare Tronconi, durò pochi numeri, vita ancor più esile ebbero "Piccolo giornale" e la "Petite Revue", ideate da Tarchetti nell'anno successivo. E' questo abbozzo di doppio circuito editoriale ad avvalorare la sostanza storica del "dualismo" scapigliato, tradizionalmente e univocamente attribuito a penosi dissidi d'indole psicologico-esistenziale. Questi, certo, vi furono e furono gravi: basti ricordare le lacerazioni devastanti di Praga, che, nato in una agiata famiglia d'imprenditori, non seppe reagire al fallimento dell'azienda paterna e al peso delle responsabilità adulte, oppure i turbamenti schizofrenici di Tarchetti, ufficiale di carriera e autore del pamphlet più radicale contro lo spirito militare. Minate da uno senso di disadattamento irriducibile, corrose da vizi e malattie fin troppo canoniche (l'alcool e l'assenzio, la tisi e il tifo) le loro vite furono brevissime: Praga morì a soli 36 anni, Sacchetti a 34, Tarchetti non oltrepassò la trentina. Non dissimile il groviglio nevrotico che abitava gli amici poeti Pinchetti (1845-1870) e Camerana (1845-1905), capaci del gesto estremo di uccidersi, quasi a tradurre in angosciosa realtà l'immagine enfatica di una quartina di Boito: "Torva è la Musa. Per l'Italia nostra/corre levando impetuosi gridi/una pallida giostra/di poeti suicidi" (A Giovanni Camerana, ottobre 1865). La morte per scelta o per consunzione, mentre denuncia l'incapacità individuale di sopportare il tormento di conflitti rovinosi, getta una luce livida su un'intera generazione, composta dai "figli del Dubbio", "i reietti, i fuggiti da Adamo,/dal ciel, dal fango vinti!" (E. Praga, Manzoni, 1873). L'epitaffio demarchiano dedicato a Bazzero, abbattuto dal tifo a trent'anni, dopo una giovinezza dominata dal tormento di "tre grandi illusioni: Dio - La Donna - l'Arte" (Anima, p. 37), vale per molti di loro: "tutti amarono l'arte con geniale sfrenatezza; la vita uccise i migliori" (Introduzione, cit. p. XXVIII). E tuttavia, il dualismo, teorizzato programmaticamente nell'eponima poesia boitiana, in tanto diventa parola-chiave di tutta la Scapigliatura in quanto trapassò dalla dimensione esistenziale alle scelte professionali, ai modelli compositivi, alle opzioni espressive, fino alle "scommesse" narrative lanciate ai lettori. I confini della narrativa scapigliata Questa animazione esaltata e disforica conferma il carattere di frontiera della Bohème milanese, che rimase in bilico fra vecchie consuetudini umanistiche e inusuali scenari editoriali. Ormai estranei alle forme del cenacolo o della consorteria, i nostri scrittori sono ben lontani dal costituire un "gruppo d'avanguardia", come talvolta la critica ha amato tratteggiarli (G. Viazzi, F. Bettini): privi di coerenti coordinate etiche e filosofiche, con scarsa capacità organizzativa, con ancor meno potere d'intervento culturale, questi autori rinvengono una fisionomia unitaria nell'appartenenza spaesata ad una breve ma intensa stagione della nostra civiltà letteraria. Solo questa specifica prospettiva istituzionale, d'altra parte, consente di definire in positivo la narrativa scapigliata come un insieme variegato di testi, affini per scelte strutturali, tematiche e stilistiche. Non, quindi, categoria interpretativa metastorica, capace d'abbracciare tutte le iniziative di sperimentalismo eccentrico che vengono coltivate magari ben oltre la fine del secolo; e nemmeno etichetta generica che privilegia abitudini e costumi stravaganti o condotte di vita disordinate e contestatrici. Troppo diversi erano i comportamenti mondano-sociali di Dossi e di Gualdo rispetto alle pose devianti di Praga o Tarchetti per accomunarli in un'identica rivolta anti-sistema. D'altra parte, i convincimenti ideologici difformi non consentono di individuare un'unica direzione di iniziativa politica: al democraticismo ribelle di Tarchetti e alle provocazioni dissacranti di Praga si oppongono non solo il moderatismo liberale di Sacchetti, il cattolicesimo inquieto di Bazzero o il conservatorismo provinciale di Faldella, ma anche la netta rivendicazione di signorilità alto-borghese avanzata da Dossi e dai fratelli Boito. Altra e propriamente letteraria è la consonanza che li affratella: il comun denominatore risiede nel campo variopinto ma concorde delle scelte compositive che definiscono il percorso accidentato e nient'affatto lineare compiuto dalla civiltà del romanzo nel nostro paese da Manzoni a Verga e De Roberto. Questa ottica, delimitata da precisi confini temporali, posti al di qua della soglia del Decadentismo e della crisi epistemologica di fine secolo, ci aiuta a ritagliare una zona di produzione narrativa non sfilacciata o troppo vaga. Possiamo allora specificare meglio anche il termine a quo e chiarire i motivi di un'esclusione che può apparire clamorosa e di un accantonamento altrettanto sorprendente: nel nostro quadro non rientrano, e non solo per motivi anagrafici, né Giuseppe Rovani (1818-1874) né Cletto Arrighi (1828-1906). A un romanzo di quest'ultimo, La scapigliatura e il 6 febbraio, è vero e lo abbiamo già ricordato, si deve il nome del movimento; ma appunto nel titolo di un'opera, che traduce con termine efficace il francese bohème, risiede la ragione prima e unica dell'appartenenza di Arrighi alla narrativa propriamente scapigliata. Cletto Arrighi, pseudonimo di Carlo Righetti, ebbe meriti indubbi come promotore di cultura: dall'impegno vivace e appassionato della "Cronaca grigia" fino alla fondazione dell'Accademia del Teatro Milanese (1869), la sua attività fece di lui un potente catalizzatore di giovani energie intellettuali. La dedica della Vita di Alberto Pisani è l'omaggio sincero di un di scepolo riconoscente: "A Cletto Arrighi, che primo s'accorse di me" e Dossi coglie nel segno quando, con il consueto narcisismo, afferma "La più bella opera dell'Arrighi fu il Dossi" (N. A., n. 60). Fiancheggiatore e ammiratore dell'Arte nuova, l'autore di Nanà a Milano (1880) non ne partecipò, tuttavia, l'estro inventivo: i suoi libri sono così intrisi di qualunquismo eclettico e dispersivo da offrirsi più come testimonianza di spirito goliardico (Gli sposi non promessi, Gli amori degli imbecilli, Il ventre di Milano, dove la metafora zoliana è, gastronomicamente, presa alla lettera) che di autentica immaginazione romanzesca. Anche quelle opere che meglio restituiscono il clima di un'epoca, Gli ultimi coriandoli (1857) e La canaglia felice (1885), appartengono all'area di un tardoromanticismo estraneo all'arrovellato sperimentalismo postunitario. Come suggerisce un giudizio sintetico di Bigazzi: Arrighi "più che fra gli scapigliati è da inserire nell'ambito risorgimentale degli anni garibaldini"9. Confratello di Arrighi nell'arruffato poliformismo di generi e stili e nella versatile intraprendenza editoriale, è Antonio Ghislanzoni (1824-1893). Anch'egli sodale e "levatrice" di molti scapigliati, primo fra tutti Tarchetti, fu contagiato dal clima bohémien. Ne saccheggiò anche il campionario di situazioni balzane e paradossali (Bizzarrie, Nuove Bizzarrie, Libro Bizzarro, Capricci letterari), ma rimase sempre e solo un fecondo pubblicista, che intuite le 9 R. Bigazzi, I colori del vero, Nistri Lischi, Pisa 1978, p. 132. potenzialità della "repubblica della carta sporca", alle sue leggi seppe adeguarsi con fiuto audace e spavaldo10. Più complesso il discorso critico su Giuseppe Rovani. La maggior parte delle antologie e degli studi dedicati alla Scapigliatura si apre con il suo ritratto. A fondamento della "leggenda" c'è l'ammirazione incondizionata professata da Carlo Dossi, le cui Note azzurre e il progetto della Rovaniana contribuirono non poco a circonfondere l'autore dei Cento anni di fascinosa aura bohémienne. Il brio accattivante delle sue "lezioni all'aria aperta", la facondia oratoria sempre disposta a rievocare gli "aneddoti sconosciutissimi" della cronaca cittadina, il gusto per le provocazioni anti-accademiche, l'inclinazione esibita per il vino e l'assenzio appartengono all'iconografia scapigliata ormai di maniera. Di gran lunga più pertinente al nostro quadro è, semmai, la volontà dichiarata da parte dei giovani artisti di presceglierlo come Padre adottivo da contrapporre a un altro Maestro, ben diversamente compassato e equilibrato: il Manzoni dei Promessi sposi. Già; ma il confronto polemico era efficace perché comune ai due scrittori era il primato concesso al componimento misto di storia e 10 E. Travi, L’operosa dimensione scapigliata di A. Ghislanzoni, in “Otto/Novecento”, n. 5/6, settembre-dicembre 1980. d'invenzione. Le suggestioni narrative che gli scapigliati potevano attingere dalla trama frastagliata dei Cento anni erano molteplici: lo squilibrio fra scenario storico e vicenda privata corroborava l'interesse per l'intimità riposta; l'ordine digressivo dell'intreccio propiziava la tecnica per "frammenti" e "schizzi "; il dialogo fra narratore e lettore impostava un patto narrativo cordialmente straniato; e soprattutto, come ha già ben sottolineato Nardi, "il liberarsi dell'io"11 avvalorava il protagonismo egotistico a cui tutti i giovani artisti volevano dare voce spiegata. E tuttavia questi suggerimenti in tanto possedevano una carica di originalità feconda in quanto deflagravano all'interno di una struttura compositiva regolata dalle norme del romanzo storico: in forza di questa congerie di motivi contraddittori, che corrodono intimamente il tradizionale equilibrio del genere, i Cento anni occupano, insieme con il capolavoro di Nievo, la sezione conclusiva della letteratura romantico-risorgimentale. Fra i cinque tomi rovaniani, usciti fra il 1859 e il 1864, e le "storielle vane" degli scapigliati, l'arco 11 Questo è il titolo del capitolo che apre la Scapigliatura. Da Rovani a C. Dossi, Zanichelli, Bologna, 1924. Già E. Ghidetti, nel suo importante Tarchetti e la Scapigliatura lombarda, Libreria Scientifica, Napoli, 1968, ne contesta l’appartenenza al gruppo. temporale è breve, ma grande è la distanza artistico-intellettuale che li separa. Un'osservazione conclusiva, d'indole geografica, vale a precisare ulteriormente i confini dell'esperienza letteraria della Bohème italiana. Accanto al gruppo compatto degli scrittori attivi sotto le guglie del Duomo, è ormai consuetudine critica affiancare i nomi di autori appartenenti alla "scapigliatura piemontese": Giovanni Faldella, Roberto Sacchetti, il poeta Camerana, e poi Giovanni Cagna e Edoardo Calandra. L'ipotesi, avanzata da Contini nell'introduzione di una celebre antologia, Racconti della Scapigliatura piemontese (Bompiani, Milano 1953, ma il saggio era già apparso nel 1947 su "Letteratura"), ha il merito di non limitare al capoluogo lombardo il panorama dei fermenti innovatori che maturavano nel paese appena unificato. Non c'è dubbio che gli intellettuali raccolti inizialmente intorno alla Società torinese Dante Alighieri (1863) e poi nella redazione della rivista "Serate italiane" (1874-1878) ricavarono stimoli seri e importanti dalla frequentazione degli autori ambrosiani. Se il sodalizio più fertile si sviluppò entro la dimensione poetica grazie ai rapporti fra Praga, Boito e Camerana, anche il campo narrativo mostra interconnessioni significative. Il male dell’arte (1874) di Faldella si affianca, non solo per assonanza di titolo, alla trilogia tarchettiana Amore nell'arte (1869) e i cromatismi espressionistici di certe Figurine (1875) sono foggiati sul modello della prosa dossiana; i racconti di Sacchetti, d'altronde, ben illuminano le modalità di composizione con cui vennero concluse le Memorie del presbiterio che Praga aveva lasciato interrotte. Ma siamo appunto nell'ambito ultra-tradizionale delle affinità amicali e delle corrispondenze intertestuali che l'universo letterario da sempre conosce. La chiave interpretativa di Contini, tutta incentrata sulla cifra espressionistica, si rivela, perciò, di grande acume, preziosa per l'analisi di alcune opere, ma difficilmente utile per dare configurazione unitaria al gruppo dei "cauti e costumati piemontesi". Sacchetti, "orientato", a parer dello stesso critico, "verso l'impassibilità flaubertiana" 12 nei suoi racconti e soprattutto nei romanzi Vecchio guscio e Entusiasmi si muove nella zona, da noi così poco praticata, del realismo critico, affatto estraneo alla cifra oscura del pastiche. D'altra parte, l'attività artistica di Faldella, dopo l’esordio narrativo e i reportages di viaggio, proseguì su cadenze diverse, lontane dalla primitiva "violenza linguistica". La dichiarazione di poetica "modesta" con cui introduce Tota Nerina, "Mi basta di 12 G. Contini, Introduzione a Racconti della Scapigliatura piemontese, p. 10. scrivere in modo decente e passabile cose da me sentite vere, con intenzioni oneste" (Genesi di un romanzo giovanile, 1884) consuona ormai con l'"ufficialità medio borghese" di una goffa età umbertina13. Come spesso capita, le etichette hanno una valenza definitoria da non sottovalutare: ...non è forse un caso che, alla scapigliatura milanese, sia stata poi affiancata una scapigliatura «piemontese». L'accento posto sulla dimensione regionale del fenomeno, anziché su quella propriamente cittadina, non si riferisce solo ai dati anagrafici degli autori (...) Esso tocca, più intrinsecamente, le coordinate di una letteratura che si costituisce, in prevalenza, intorno ai poli di un'attrazione provinciale.14 Se il paradigma narrativo e stilistico della scapigliatura fruttificò anche in altri autori (per esempio il Ghislanzoni dei Racconti incredibili) e in altre zone, dal Cagna "esponente di un 13 A. Briganti, Introduzione a G. Faldella, Tota Nerina, Cappelli, Bologna 1972, p. 8. 14 G. Zaccaria, Il Piemonte e la Lombardia, in Storia e geografia. III L'età contemporanea, LIE, a c. di A. Asor Rosa, Einaudi, Torino 1989, p. 132. espressionismo in rosa"15 al Calandra, i cui romanzi sono ormai prossimi all'atmosfera fin de siècle, fino al genovese Zena, influenzato soprattutto dalla coeva produzione verista, ciò testimonia solo della ricchezza di suggestioni di cui s'era fatto interprete il movimento; non altro. E' così anche per l'ulteriore ampliamento proposto dalla critica, teso a raggruppare sotto le insegne della "scapigliatura democratica" alcuni autori milanesi attivi nell'ultimo ventennio del secolo: anche in questo caso l'etichetta, mentre illumina i legami fra Valera Corio Tronconi Cameroni e la prima generazione bohémienne, tende a privilegiarne la specificità tutta "ideologica". Ma è, innanzitutto, questa connotazione ad essere poco pertinente: non solo il clima degli anni Ottanta è altro rispetto alla stagione immediatamente postrisorgimentale, ma è veramente difficile accostare sotto la stessa bandiera "politica" il socialismo anarchicheggiante del "refrattario" Valera, il moderatismo illuminato di Corio, il ribellismo pseudotrasgressivo del piccolo-borghese Tronconi. In ambito propriamente letterario, poi, poco o nulla accomuna i progetti difformi cui ciascuno di loro diede vita. Se Madri per ridere o Passione maledetta di quest'ultimo appartengono alla produzione melodrammatico-appendicistica che, nell'offesa alla 15 G. Contini, Introduzione, cit., p. 39. morale benpensante, allestisce intrighi scandalosi, le inchieste giornalistiche nei "ventri cittadini" di Corio e Valera sono dettate dallo spirito analitico del positivismo d'impianto documentario e sociologico, alieno dal soggettivismo, fantastico o umoristico, che sorregge la miglior narrativa scapigliata. Persuasive sono, perciò, le conclusioni di Spera quando, al termine del capitolo intitolato Percorsi e confini, afferma: "pare azzardato fare rientrare costoro ancora nella Scapigliatura, pur se ne conservano tratti specifici"16. Ampliare l'area della narrativa scapigliata oltre le opere ideate dagli autori della generazione crucciosa si rivela davvero fuorviante: alle soglie dell'età umbertina, la tensione reattiva alla "prosa" della modernità borghese, fonte originaria delle loro scelte tecnico-stilistiche, si è ormai esaurita; nessuna eccentricità espressiva può recuperare entro il tessuto della scrittura il pathos di uno sperimentalismo che, germinato dai risentimenti etico-culturali della prima stagione unitaria, trovò risonanza autentica nell'orizzonte d'attesa della "città più città d'Italia". 16 F. Spera, La letteratura del disagio: Scapigliatura e dintorni, in AA.VV., Storia della civiltà letteraria italiana, a c. di G. Barberi Squarotti, vol. V, to. I, Utet, Torino 1994, p. 143. Capitolo II La Scapigliatura tra romanticismo e positivismo Il rifiuto della tradizione romantico-risorgimentale Nella lettera che accompagna la Ballatella, indirizzata a Cletto Arrighi, direttore della "Cronaca grigia", Boito si presenta: Noi scapigliati romantici in ira, alle regolari leggi del Bello, prediligiamo i Quasimodi nelle nostre fantasticherie; ecco la causa del mio ritornello. Se vuoi sapere anche lo scopo ti dirò che non è filosofico, né politico, né religioso; ho voluto semplicemente esercitarmi nella scabrosa rima in iccio (1 gennaio 1865). Nella dichiarazione d'intenti si legge l'autoritratto di un gruppo di letterati che rinviene la genesi della propria identità in una appassionata paradossalmente in battaglia nome del anti-romantica principio condotta cardine del Romanticismo: l'autonomia della creazione artistica. Come ricorda Hauser: il Romanticismo che fiorisce dopo la Rivoluzione rispecchia un nuovo senso del mondo e della vita, e matura anzitutto una nuova interpretazione della libertà artistica (...) Ogni espressione individuale è unica, insostituibile e ha in sé le sue leggi e la sua misura17. L'autodefinizione di "scapigliati romantici in ira" vuole innanzitutto rivendicare all'"arte dell'avvenire" quell'indipendenza che il nostro Romanticismo aveva sottomesso ad altri, più impegnativi valori eteronomi. All'indomani del Congresso di Vienna (1815), il grande sforzo di ammodernamento che aveva visto gli uomini del "Conciliatore" schierarsi compatti contro la tradizione ormai sclerotica dei classicisti aveva tratto linfa vitale non dal rifiuto ma dalla consonanza con le idee della cultura illuministica dei Verri e Beccaria. In piena Restaurazione, il progetto del "Caffè", riaggiornato alla luce dello storicismo liberale, si era tradotto in un "sistema" che, secondo una fonte massimamente attendibile, 17 A. Hauser, Storia sociale dell'arte, to. II, Einaudi, Torino 1956, p. 162. era "un complesso d'idee più ragionevole, più ordinato, più generale, che in nessun altro luogo" (A. Manzoni, lettera Sul Romanticismo al Marchese Cesare D'Azeglio). La volontà di entrare in sintonia solidale con le forze vive della società l'"esser coevi al secol suo" di Berchet aveva promosso una letteratura che tendeva a coniugare il rinnovamento delle forme artistiche con la rinascita politico-morale della penisola. Sotto l'oppressione della dominazione austriaca, ben presto "romantico" era diventato "sinonimo di liberale" (S. Pellico). Rifiutate le "follie ultramontane", ricche di suggestioni fantastiche e irrazionali, accantonate le ansie misticheggianti in favore di una religiosità popolarmente attiva, il nostro Romanticismo si era caratterizzato, nelle sue espressioni più feconde, quale cultura dell'impegno. Opposte per orientamento politico, scelte retoriche, opzioni linguistiche appartenenti alla scuola capeggiata dal Manzoni o al gruppo dei mazziniani, secondo la famosa bipartizione desanctisiana tutte, o quasi, le opere in versi, in prosa, in musica della stagione risorgimentale avevano concorso a dare coscienza di sé a un "volgo disperso che nome non ha". E' appunto contro questo complesso di idee "ragionevole, ordinato e generale" che gli scapigliati si dichiarano "romantici in ira". Boito e compagni in tanto proclamano la loro originalità d'artisti moderni, in quanto, rigettata l'accezione "conciliatoristica", di quella cultura vogliono rilanciare i motivi dell'individualismo esacerbato, i timbri misteriosamente perturbanti, le note di maggior bizzarria. Liquidato l'ordine della normativa classicheggiante "le regolari leggi del Bello", la Presentazione della Ballatella esibisce il nome di Quasimodo, l'anti-eroe victorughiano di Notre-Dame de Paris (1831), per alludere subito a un clima e a un gusto in cui dominano il deforme, il macabro, il terrificante: "il Bello sta nell'orrido/nella Beltà è l'Orror" (Pinchetti, Poeta). Ma la vera provocazione, e Boito ne è ben consapevole, risiede nella rivendicazione esplicita dell'autonomia del fare letterario: contro ogni finalità "filosofica, politica, religiosa" e nella terna d'aggettivi ben si sintetizza la produzione dei decenni precedenti l'"Arte reproba" predilige l'esercizio arduo che, esaltando l'abilità tecnico-espressiva di chi la compone, pretende d'essere giudicato iuxta propria principia (la rima in iccio). Per dirla con le parole ancor più schiette di Camillo: l'arte "non è tenuta insomma ad essere altro che arte"18. 18 Citato da M. C. Mazzi, Introduzione a C. Boito, Gite di un artista, p. VIII. Il recupero scapigliato del maledettismo romantico, in opposizione a Verdi e Manzoni, è stato spesso interpretato dalla critica come spia di evasione regressiva: in realtà, denuncia la consapevolezza moderna che il ceto intellettuale umanistico cominciò a maturare della propria funzione all'indomani della proclamazione dello Stato unitario. Relegati in un ruolo subalterno da una classe dirigente intenta ad affrontare i problemi prosaicamente assillanti della compagine nazionale, ancor più emarginati dalle forze imprenditoriali in ascesa, gli artisti della generazione crucciosa si ribellano, come i primi Romantici europei, all'assetto utilitaristico-borghese che la collettività italiana, massime in terra ambrosiana, si avviava ad assumere. Lungi dall'esser "coevi al secol loro", ostentano con orgoglio spavaldo l'inconciliabilità dell'estro creativo con un sistema sociale che svilisce l'attività intellettuale e deprime i valori disinteressati dell'arte. Insomma, per dirla con il vecchio Marx, dopo l'acconsentimento alla formazione dell'identità collettiva del popolo-nazione, ora la letteratura dà voce alle recriminazioni tipiche dell'anticapitalismo romantico e l'io individuale, soprattutto se dotato di fervore immaginoso, s'accampa con le sue inquietudini e ossessioni al centro della scena. La protesta ideologica contro il "borghesume" dei "banchieri" (Praga), contro "la folla dei merciai" (Bazzero, Anima, p. 73) fu tanto più sincera quanto maggiore era il radicamento di ogni ribelle in quell'universo socio-economico da cui si sentiva snobbato e in cui avrebbe voluto svettare. Rampolli di illustri famiglie lombarde (Dossi, Gualdo), alto-borghesi di formazione internazionale (Camillo e Arrigo Boito), figli di imprenditori (Praga), di notabili di paese (Tarchetti, Bazzero) o di esponenti delle nuove professioni liberali (Faldella, Sacchetti); tutti manifestarono risentimenti e moti di estraneità nei confronti della classe d'appartenenza, ormai ben insediata al potere; ma in nessuna delle loro opere è possibile rintracciare un paradigma di valori, certezze, sentimenti autenticamente antagonistico. La rivolta "antiborghese" del gruppo storico degli Scapigliati e l'aggettivo si spreca nei saggi a loro dedicati è tale solo se interpretata alla luce delle pretese d'autonomia e di superiorità rivendicate dalla letteratura moderna contro ogni impegno d'efficacia praticistica e soprattutto contro il presunto involgarimento di gusto che l'espansione dell'area d'utenza "inevitabilmente" induce. L’apertura ai modelli europei Sulla spianata del berchettiano Cenisio davanti al "sorriso interminabile della pianura padana", Cirillo, il protagonista malato d'arte del primo racconto faldelliano, non teme di affermare: "Ebbene io artista a poco a poco per la schiena dei muli, per i sassi, per la muriccia dimenticai la mia patria, l'Italia" (Il male dell’arte, p. 85). Anche la "Musa altera" di Praga, pronta a vantare di non aver mai rivolto "un verso a Bruto o a Cesare" (Alla Musa), può forse rimpiangere "i tempi belli" del passato in cui, accanto al Manzoni, brillava la "falange di sublimi esempi" di "Goethe, Foscolo...Porta" (Manzoni), ma ormai sa che la stagione "olimpica" delle fedi certe e condivise è irrecuperabile. La foga polemica dei "romantici in ira" si scaglia proprio contro chi meglio di altri era riuscito nell'ardua impresa di dialogare, in sintonia fraterna e senza mai rinnegare il patrimonio illustre della tradizione, con il pubblico più ampio. Nell'opposizione a Verdi e Manzoni, il maledettismo scapigliato era reso ancor più esacerbato dalla consapevolezza amara che il prestigio dei due maestri era vincolante ed opprimente perché tutto intorno era vuoto e silenzio. Nel nostro paese, il decennio seguito al fallimento dei moti quarantotteschi e al crollo delle speranze legate all'insurrezione popolare era occupato solo da detriti e macerie. I due romanzi che suggellano la parabola della stagione preunitaria vi alludono con sconforto acre: Carlino Altoviti comincia a scrivere le sue Confessioni "la sera d'una grande sconfitta", fonte di "sgomenti" luttuosi: "la rotta di Novara più che un improvviso scompiglio fu la dolorosa conferma di lunghi timori"; sullo "spettacolo grandioso e insieme angoscioso" della caduta di Venezia si chiudono i Cento anni di Rovani. A questo rovinìo, politico e ideale, gli intellettuali italiani non seppero reagire; il confronto con la coeva letteratura europea mostra un quadro di povertà sconcertante. Entro il dominio della poesia imperversano i languorosi lai di Prati e Aleardi, contro cui ben presto si sarebbe levata la restaurazione del classicismo carducciano. Sullo sfondo, eccelsi si stagliano i Canti di Leopardi; ma il poeta recanatese, seppur talvolta orecchiato (Tarchetti, Camerana, Pinchetti) era troppo lontano, isolato nella sua "poesia senza nome" (F. Brioschi), così intrisa di materialismo illuminista e così radicalmente avversa alla modernità dell'urbanesimo borghese da suscitare nei giovani autori una reverenza ammirata non una consonanza emulativa. Più accessibile, sebbene altrettanto infruttuoso, il campo della produzione in prosa. Gli epigoni della scuola cattolicoliberale, quando non si rifugiavano nell'idillio campestre (Carcano, Carrer, Percoto), si isterilivano, come Tommaseo nel "piagnonismo antilaicista" (C. Muscetta) o, peggio, cadevano nel reazionarismo bigotto alla Cantù, un "letterario ciabattino. Forbice e colla, ecco il suo stile", secondo la perfida definizione di Dossi (N. A., n. 486). Tutte scelte che ben giustificavano lo sprezzo di Praga e Boito: Se un uomo benedetto e privilegiato dalla natura, nacque col misterio della fede nell'anima, e cantò soavemente i più placidi canti, una torma di bertuccie dev'essa forse corrergli dietro, e scimmieggiare ogni giorno colle zanche vellose il suo segno di croce? (Programma, "Figaro", n. 1). La domanda non solo era lecita ma resa ancor più attuale dalla crisi irreversibile che l'atteggiamento antimodernista di Pio IX "fatal pontefice... mitrata putredine" (Praga, Spes unica) aveva aperto nelle schiere del cattolicesimo liberale. Sul versante democratico, d'altronde, il panorama era, se possibile, ancor più desolante: il modello letterario proposto da Guerrazzi non era sopravvissuto alla catastrofe di quella parte politica. Le vite romanzate sanciscono l'esaurimento della narrazione storica, mentre i tentativi di romanzo d'ambiente regionale (Storia d'un moscone, Torre di Nonza) e contemporaneo (Il buco nel muro), lungi dal riaggiornare il filone sterniano, confermano lo scacco immedicabile di una poetica sempre fedele all'antirealismo melodrammatico. Lo sforzo di democratizzazione avviato dalla prima generazione romantica, comunque schierata, si è risolto in un esito complessivamente deludente: mentre il mercato comincia a essere invaso dai feuilletons francesi, Bonghi si chiede Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia (1856). Dieci anni dopo, nel fatidico 1866, il diciassettenne Dossi inizia la sua carriera sintetizzando in poche battute il disincanto acrimonioso dei giovani ribelli: Allontanatevi o venditori di libri futili, o perfidi antiquari, o gente tutta che vivete ingannando, allontanatevi ché vane son vostre parole, inutili vostre offerte. I fortunati hanno spento ogni bernoccolo di manie e di desiderii, Dio?, Patria?, Famiglia? che! entusiasmo? parola vuota di senso. (Letterata e Beghina, in Due Racconti, p. 222) In questo orizzonte culturale, che aveva già imbalsamato Verdi e Manzoni come numi tutelari della nazione e non offriva alcun modello alternativo, ai "nuovi romantici antiromantici" (A. Romanò) non restava che recuperare l'ispirazione iniziale da cui era scaturita, nel lontano 1816, la polemica contro i classicisti: aprirsi all'Europa, guardare agli autori che per primi avevano cercato di reagire, magari varcando la soglia dell'Ignoto e dell'Arcano, alle contraddizioni e ai conflitti della modernità. Nasce da quest'ansia sperimentale, in cui si mescolano motivi di autentico scoramento e spunti di rivolta velleitaria, il culto che gli scrittori della Scapigliatura professano per Hugo, Baudelaire, Nerval, Gautier, Murger, Musset, Richter, Hoffman, Poe. Gli studi meticolosi di Mariani e Ghidetti hanno messo in chiara luce la filigrana variegata delle relazioni che le opere di Tarchetti, Praga, Boito, Dossi intrattengono con la produzione d'oltralpe; tutti i critici, anche i meno benevoli, ascrivono a merito precipuo di questi autori lo slancio costante e generoso con cui si sforzarono di sprovincializzare la nostra cultura, malata di arretratezza e accademismo. Altrettanto unanime è il riconoscimento dello scarto che separa i testi italiani dai grandi modelli stranieri. E' facile esibire pose da maudit, frequentare i paradisi artificiali delle droghe, atteggiarsi a ribelli indomiti; ben più arduo è cogliere la sostanza intellettuale di cui tutto ciò altrove si era nutrito. Non basta contestare i cardini dell'ordine letterario costituito e magari adottare tecniche compositive estrosamente eccentriche, quando poi se ne compensano le spinte corrosive con il rifugio negli affetti domestici, il rimpianto della serenità idillica, il ripiegamento intenerito sul proprio ego. E tuttavia, la sproporzione fra l'encomiabile esterofilia che anima gli Scapigliati e la realizzazione formale dei loro racconti non va imputata, come troppo spesso hanno fatto gli studiosi, unicamente ad insufficienze individuali; questi letterati operavano in un sistema culturale fragile, povero di idee e, soprattutto, interagivano con un orizzonte d'attesa ristretto, in cui la soglia dell'analfabetismo era paurosamente alta. Il censimento del 1861 aveva registrato 14 milioni di analfabeti, pari al 74,7 % della popolazione; a dieci anni di distanza, il tasso era sceso solo di qualche punto, attestandosi al 68,8%. Non si vuole affatto disconoscere che le opere tarchettiane pecchino di ideologismo fumoso, che le polemiche artistiche e musicali condotte sul "Figaro" da Boito e Praga siano arruffate e confuse e che persino le note di riflessione poetica di Dossi difettino di spessore teorico. Questa improvvisazione intellettuale, che lascia segni vistosi entro la tramatura espressiva dei singoli libri, si traduce anche in una congerie disordinata di tentativi e esperimenti che spesso preludono al silenzio creativo. Ma il fallimento e la dispersione, se pertengono alla responsabilità individuale dell'autore, trovano inveramento in un clima culturale asfittico e scialbo, dove i critici lamentavano "l'invasione dei romanzi stranieri" e gli Amici pedanti del Carducci, alle romanticherie malsane dei poeti "nani" e "stracchi", sapevano solo opporre la vigoria solare del Classicismo. Calati pienamente in un'epoca "piena di aspirazione e scoraggiamenti, che vede l'avvenire ma dubita di avere la forza di raggiungerlo" (Gualdo, Il viaggio del duca Giorgio, p. 67), gli artisti ribelli furono le prime vittime della loro irresolutezza: la storia della narrativa scapigliata è intessuta di opere interrotte (Il trapezio di A. Boito; Ugo, scena del secolo X di Bazzero), di testi lasciati a mezzo e terminati dalla penna d'un amico (le praghiane Memorie del presbiterio da Sacchetti, la tarchettiana Fosca da Farina), di scritti pubblicati postumi (Storia di un'anima di Bazzero; Entusiasmi di Sacchetti), di progetti solo abbozzati (gli incipit romanzeschi di Tarchetti, il volume boitiano di novelle intitolato Idee fisse, la serie dei Ritratti umani di Dossi). I segnali di sofferta fedeltà alla tradizione e gli indizi della titubanza innovatrice sono disseminati ovunque. Tarchetti aggiunse a Igino il nome di Ugo, per infatuazione foscoliana; alla morte del "Casto Poeta", Praga stende versi di palinodia (Manzoni) all'irriverente Preludio del 1864; dopo la condanna sprezzante della "formula" melodrammatica italiana, Arrigo Boito diventa il librettista dell'ultime opere di Verdi, Otello (1887) e Falstaff (1893); il fratello Camillo sottomette una vena inventiva, davvero non comune, alla pratica ultraistituzionale di accademico e di critico d'arte ("il pesantissimo masso ch'io mi sento legato ai piedi" 19; Gualdo scrive romanzi direttamente "in francese, per non commettere dice lui de' francesismi" (Sacchetti, La vita letteraria, p. 450); Bazzero alterna freschi Acquerelli impressionistici ai cataloghi eruditi, redatti con gli "occhialoni d'antiquario"; per concludere con il rigoroso Dossi, il quale "poco più che ventenne si sopravvive con sofferenza"20. Nello "stretto orizzonte" della cultura italiana, dove la "povera fede" si misurava con "immensi ideali" (le espressioni sono tratte dalla poesia boitiana A Giovanni 19 Lettera del 16 dicembre 1861 citata da P. Nardi in Vita di Arrigo Boito, Mondadori, Milano, 1942, p. 96. 20 D. Isella, Introduzione a C. Dossi, Note azzurre, p. XII. Camerana) il conflitto del singolo autore s'acuiva fino ad abbracciare lo scenario collettivo. "Ribelli, non rivoluzionari, municipalisti e cosmopoliti, «poeti maledetti» col cuore ansioso di tenerezze, antiborghesi nel rifiuto dello spirito pratico e utilitario, ma borghesissimi nella permanente nostalgia dell'idillio"21, gli scapigliati peccarono per difetto non per eccesso di spregiudicatezza. La sfida al gusto del lettore bempensante fu esplicita e spesso irriverente, mai trasgressiva; il tono provocatorio nascondeva spesso il richiamo alla funzione "etica" della scrittura artistica. Se Tarchetti, nelle Idee minime sul romanzo, esalta "il fine comune delle lettere, che è l'istruire e l'educare allettando" (to. II, p. 522), il pastiche dossiano nasce dal riconoscimento che lo scontro decisivo ormai è fra "due morali", come suona il titolo del libro ideato da Alberto Pisani. In questa modernità perplessa, in questo senso del limite gli intellettuali scapigliati si scoprono in sotterranea sintonia con la classe dirigente lombarda che, da poco salita sul proscenio della storia, proclamava il primato della "capitale morale" in nome non dell'ardimento speculativo o dell'audacia finanziaria 21 V. Spinazzola, Gli scapigliati tra Manzoni e Verga, introduzione ai Racconti della scapigliatura milanese, Club del libro, Milano 1959, p. 7. ma della eticità implicita nel lavoro produttivo. Così, mentre i tecnici Luzzatti e Colombo celebravano la superiorità del modello di sviluppo ambrosiano, fondato sull'equilibrio e il buon senso, il ribelle Tarchetti riconosce Milano "dal lato del benessere sociale la migliore città d'Italia" (lettera alla madre del giugno 1864) e si dice contagiato dal suo spirito di sano pragmatismo: "siamo diventati gente seria, gente positiva" (Conversazioni, "L’Emporio pittoresco", 23-29 febbraio 1868 22 ). Da questo sfondo cittadino, in cui i progetti di espansione economica attivano una dialettica d'antagonismo solidale con i paradigmi intellettuali dell'élite artistica, prende vigore il secondo paradosso culturale della Scapigliatura. Contro l'ottimismo positivista In una novella di Gualdo, lo scrittore Arnoldo D. s'impegna a scrivere un racconto in una notte, mosso da un "eccitamento non artistico" (la prospettiva di vincere la somma 22 I testi delle Conversazioni e dei Pensieri sono stati pubblicati, a cura di F. Contorbia, negli Atti del Convegno di San Salvatore Monferrato 1-3 ottobre 1976, pp. 289-339. di cinquecentomila franchi) e fidando solo su "uno sforzo di volontà". La lettera in cui spiega la ragione dello scacco comincia contestando il cardine ideologico dell'ottimismo positivo che animava i ceti borghesi della capitale morale: "Dicono: volere è potere. E' falso." (Una scommessa, p. 188). Collocato in un punto strategico, prossimo allo scioglimento e affidato alla diretta voce del protagonista, il richiamo alla dottrina di Smiles è il motivo di autentica originalità del testo: non solo conferisce concretezza all'argomentazione tradizionale sulla necessità dell'ispirazione e dell'immedesimazione fra autore e personaggio, ma consente di delineare l'inedita fisionomia del letterato scapigliato e le modalità nuove in cui si svolge la sua pratica di scrittura. Lungi dal ritenere la miseria fonte di felicità e d'estro inventivo, convinto anzi che il suo ingegno "abbisognava per espandersi di esser circondato dal benessere e dall'opulenza" (ibidem), Arnoldo D. crede che il miraggio della ricchezza lo aiuterà a superare ogni ostacolo: in una sola notte il racconto "molto strano e dalla difficoltà poco comune" (p.181) sarà terminato. Ecco perché il fallimento, "quella carta ostinatamente bianca" (p.190), lo sospinge alla follia: Io non ho potuto essere ricco, io che l'ho sempre sognato, io che avrei avuto il genio se avessi avuto il metallo, che avrei trovata la felicità se avessi fatto il racconto (p.188). Ma appunto, come ammette amaramente nella lettera in cui rievoca l'inconcludenza dei "febrili sforzi" notturni (p.189), in arte volere non è potere. La provocazione colpiva al petto i lettori d'allora, affatto persuasi della bontà dell'ideologia volontaristica, messa a fondamento non solo del modello economico ma dell'intero ordinamento sociale e civile. Il libro di Smiles Self-help, apparso nel 1859 e subito tradotto da Treves nella Biblioteca utile (Milano 1865), aveva inaugurato un filone editoriale di grande fortuna, in cui spicca il best-seller di Michele Lessona, intitolato appunto Volere è potere (Barbera, Firenze 1869). La novella di un autore da tutti ritenuto un dandy, alieno da ogni assillo ideologico, appartenente alla cosiddetta "scapigliatura dorata" (P. Nardi, G. Mariani, G. Spagnoletti), coglie in realtà con acutezza il nodo dei problemi in cui si dibattevano i giovani scrittori: "lo sforzo di volontà" (p.182, p.183), che per il pubblico ambrosiano era fonte certa di successo e ricchezza, è affatto inutile, anzi controproducente nel campo della invenzione artistica, che sfugge alle norme regolatrici dell'agire quotidiano. L'esperimento, tale lo considerano i due scommettitori ("ch'io giunga a provarvi", "tentare la prova", "sarà provato che"), fallisce perché sbagliato è il presupposto "positivistico" da cui muove lo scrittore, nella discussione con il conte: seppe quasi provarmi che tutta l'arte non è che un meccanismo, che ogni cosa si può fare con certi elementi e che, purché si faccia uno sforzo di volontà, qualunque momento è buono. (p. 182) Ma se Arnoldo D. perde la sfida, la scommessa che Gualdo propone ai suoi lettori è, invece, vincente. La scrittura narrativa confuta il fulcro dell'ideologia dominante che crede all'onnipotenza della volontà, riducendo ogni ordine di realtà a un "meccanismo", composto di "elementi": la letteratura non rispetta le convenzioni della prassi operativa e tanto meno sottostà alle leggi delle verifiche sperimentali. Grazie alla novella dell'artista più snob del gruppo siamo così giunti al secondo paradosso culturale della produzione scapigliata: il recupero dell'oltranzismo romantico diventa lo strumento privilegiato per declinare in forme irrazionali e antirealistiche le sollecitazioni più moderne che provenivano dalla cultura egemone in Europa: il positivismo, con la sua fede nella scienza e nel divenire progressivo delle sorti umane. L'esaltazione della libera fantasia creativa, l'appello alle risorse irrefrenabili emotivamente dell'ispirazione, sbrigliato, lo l'elogio sfoggio della dell'estro "stranezze" inspiegabili con i criteri del buon senso, sono i Leitmotiv che la narrativa scapigliata si accanisce ad opporre al paradigma rigido della filosofia del progresso organico e positivo, delle classificazioni sistematiche, degli studi anatomici, della psicologia sperimentale, delle ricerche medico-fisiologiche che stavano inondando l'intero continente. Nel contempo, proprio l'apertura alle correnti europee più innovative corrobora il dualismo caro alla poetica scapigliata, che nelle coppie scienzaarte, salute-malattia, ragione-follia, calcolo-immaginazione rinviene moduli inediti di rappresentazione e attinge stimoli per provocazioni irriverenti. All'indomani della vittoria del moto risorgimentale, e tuttavia in presenza di gravi questioni sociali il brigantaggio, l'arretratezza delle regioni meridionali, i primi scioperi operai nel Nord anche l'Italia si lascia contagiare dall'ottimismo operativo della nuova filosofia positivista che, soprattutto in terra lombarda, si intreccia al volontarismo smilesiano per sostenere lo slancio espansivo della classe borghese: la filosofia positiva rinuncia, per ora, alla conoscenza assoluta dell'uomo, anzi a tutte le conoscenze assolute, senza però negare l’esistenza di ciò che ignora. Essa studia solo fatti e leggi sociali e morali (...) Così non si ostina a studiare un uomo astratto, fuori dallo spazio e dal tempo, composto solo di pure categorie, e di vuote forme; ma un uomo vivente e reale, mutabile per mille guise, agitato da mille passioni, limitato per ogni dove, e pure pieno di aspirazioni all’infinito.23 Con questo articolo, pubblicato nel gennaio 1866 sul "Politecnico" e ritenuto il manifesto del positivismo italiano, Pasquale Villari invitava gli intellettuali del paese appena unificato a dividere "i problemi solubili da quelli che per ora sono insolubili", per potersi meglio occupare "solo dei primi". Anche nel campo delle idee era ormai giunto il momento di passare dalla "poesia alla prosa": ma ora, meno che mai, i nostri 23 P. Villari, La filosofia positiva e il metodo storico, in Saggi critici di storia, letteratura, arte, filosofia, a c. di G. Bettelli, to. II, Carabba, Lanciano 1919, pp. 39-40. letterati sono disposti ad acconsentire alla svolta. L'iniziale, immediata reazione del ceto umanistico all'avanzata della cultura pragmatica si declina nelle forme dell'antagonismo e del senso di rivalsa. Boito: "Scienza vattene/co' tuoi conforti!/Ridammi i mondi/del sogno e l'anima!" (Lezione di anatomia); Bazzero: "La scienza è vana" (Anima, p. 26). Solo negli anni Ottanta, quando il positivismo avrà permeato di sé l'intero orizzonte culturale, la letteratura modulerà la propria poetica in connessione stretta con la nuova filosofia: durante la stagione felice del verismo, il dialogo fra arte e scienza è tanto più fecondo quanto maggiore è la tensione emulativa che sorregge gli scrittori nel tentativo d'appropriarsi strumenti d'indagine rigorosamente obiettivi. Ebbene, negli anni Sessanta, al primo arrivo in Italia delle teorie materialistiche e davanti al successo dei libri di fisiologia e medicina, la narrativa scapigliata opera esattamente in senso contrario: scende in armi per opporre il fervore immaginoso al "linguaggio crudele del notomista e del clinico" (Memorie del presbiterio, p. 122); al timbro asettico del narratore-scienziato predilige sempre l'egocentrismo esibito dell'io narrante. Con un'immediata e decisiva conseguenza compositiva: nessuna volontà di rappresentazione realistica sorregge la scrittura dei nostri autori, anzi. Anche e proprio l'articolo programmatico Polemica letteraria, apparso sul "Figaro" nel 1864, letto da alcuni critici come dichiarazione di poetica mimetica, non lascia dubbi sull'orientamento eminentemente protestatario cui si riduce la parola d'ordine del realismo: l'arte nuova "sarà un'arte malata, vaneggiante, al dire di molti, un'arte di decadenza, di barocchismo, di razionalismo, di realismo, ed ecco finalmente la parola sputata". Certamente, la battaglia contro la raffigurazione edulcorata della realtà e contro le convenzioni del sentimentalismo tardo-romantico spinge tutti gli autori bohémiens a avviare un allargamento del repertorio tematico di indubbia rilevanza; per osteggiare la "scuola piagnosa e biliosa del povero cuore che parla di dolori, di disinganni, di aspirazioni colle sdolcinatezze a l'acqua di rosa" (Praga, "Figaro" 14 gennaio), la rudezza scandalosa di immagini bassamente volgari era strumento facile di dissacrazione antiaccademica. Tuttavia il sistema dei moduli tecnico-espressivi non conosce un rinnovamento adeguato nella direzione del criticismo moderno, della rappresentazione seria del "tragico quotidiano". In una recensione pittorica, pubblicata sul "Pungolo", Praga ribadisce: "realismo sì, ma realismo che ci fa battere il cuore, che ci fa pensare, ricordare, sognare", in sintonia con la considerazione del materialismo quale linguaggio capace di sedurre "coll'apparenza di una generosa, eroica ribellione contro l'autorità dell'universo" (Memorie del presbiterio, p. 136). E d'altra parte, proprio nell'incontro-scontro con le certezze positive, con i metodi dell'algida ragione, la narrativa scapigliata rinviene i motivi di originalità autentica. Il conflitto arte-scienza La polemica reazione alla "squallida aritmetica del fatto" (Pinchetti) deriva, innanzitutto, dalla consapevolezza inquieta che i giovani letterati maturano dell'appannamento progressivo del loro ruolo sociale. Già emarginati entro la sfera delle decisioni politiche, spiazzati dalla logica economica del "mercato delle lettere", gli artisti intuiscono che la società borghese in via di sviluppo valorizza innanzitutto le competenze "utili" dei tecnici, scienziati, medici, relegando in un ruolo subalterno i cultori del Bello disinteressato: "il nostro salmo il secolo/delle macchine annoia" (Praga, Spes unica). A galvanizzarne l'empito contestatore è il clima "positivo" che sta sempre più pervadendo la "repubblica della carta sporca", di cui i letterati pretendono di detenere il primato indiscusso. In questi anni, anche gli editori s'adeguano al nuovo orizzonte culturale e puntano con decisione all'ampliamento delle collane nelle aree disciplinari di maggior fortuna: secondo le tabelle di Ragone, nel decennio 1861-1872, la produzione di libri scientifici ha un incremento eccezionale passando da 210 a 956 testi. Treves, per il quale "la scienza è il centro di gravità del nuovo repertorio" 24, lancia con successo le Conversazioni scientifiche (1865-1874); Sonzogno prevede nella "Biblioteca del popolo" (15 centesimi al volume) sezioni dedicate a "anatomia", "chimica e fisica", "fisiologia", "igiene", "scienze esatte". Mentre Hoepli e Vallardi sfruttano la fama già consolidata in campo tecnico per proporre opuscoli e manualetti d'alta divulgazione, anche un editore tradizionale come Brigola rinnova il proprio catalogo, pubblicando L. Büchner Forza e materia, J. Moleschott La circolazione della vita, e soprattutto le opere di un giovane medico, Paolo Mantegazza: Un giorno a Madera esce lo stesso anno, 1868, in cui esordiscono Gualdo con le Novelle, Dossi con L'Altrieri e Tarchetti conosce il periodo di maggior produttività. Il recupero scapigliato del patrimonio di temi e figure caro all'oltranzismo romantico acquista allora timbri di ben più energica attualità: nella rivendicazione dell'autonomia artistica e 24 G. Ragone, op. cit., p. 727. nell'esaltazione della fantasia inventiva, la scrittura letteraria cerca di difendere lo spazio di riflessione e di rappresentazione del mondo contemporaneo che la scienza tende sempre più ad occupare. Cosicché se giustamente "è difficile pensare ad una diretta influenza del Positivismo sulla Scapigliatura"25, ancor più arduo è misconoscere l'impatto della mentalità empiricomaterialistica presso i ribelli della Bohème ambrosiana. I nostri autori forse non conobbero i libri di Comte, Spencer, Darwin, anche se L'origine della specie venne subito tradotta da Canestrini (Modena 1864), ma certo percepirono le sollecitazioni conturbanti di una cultura che stava modificando le gerarchie del sapere e i parametri del senso comune. Manifesta è l'affinità che lega il ritratto dell'artista in delirio, al centro di moltissime opere scapigliate, alla fisionomia dell'uomo eccezionale tracciata da Cesare Lombroso in Genio e follia (Chiusi, Milano 1864) e non stupisce che proprio al medico scienziato il nevrotico Dossi abbia inviato la propria Autodiagnosi quotidiana (ora a c. di L. Barile, Scheiwiller, Milano 1984). Altrettanto palese la trama di risonanze dei nuovi linguaggi scientifici o pseudo-tali che le opere scapigliate fanno 25 R. Tessari, La Scapigliatura. Un'avanguardia artistica nella civiltà preindustriale, Paravia, Torino 1975, p. 38. a gara nell'esibire: dallo spiritismo al magnetismo, dal messmerismo e l'ipnotismo alla patologia diagnostica, le citazioni più o meno sfiziose si sprecano e la recente bibliografia critica (V. Roda, A. M. Cavalli Pasini) ne ha ormai indagato le lontane ascendenze. Tuttavia, più interessante della ricerca delle fonti e delle interconnessioni tematiche, è l'analisi della strategia modellizzante con cui gli scrittori scapigliati declinano materiali e figure tratte dal campo delle materie positive. Per un verso, infatti, essi tendono ad acquisirle alla loro dimensione irrazionale, avvolgendo i personaggi dediti alle nuove discipline entro un alone di sacralità arcana. In Un corpo di C. Boito, l'anatomista Gulz, quando celebra la "figura della Scienza" a cui tutti "dobbiamo inchinarci e adorare", assume "una espressione solenne e mistica", degna di un "sacerdote" (p. 36). Nella Vita di Alberto Pisani il raccontino dedicato al Mago, lo zio del protagonista che dagli studi medici aveva unicamente ricavato una maledetta ipocondria ("E in quella, per paura di morte, morì" p. 163), mostra i procedimenti di trasfigurazione cui è sottoposta la figura dello scienziato Paolo Gorini, a conferma che per Dossi la scienza, lungi dal dare solide certezze, "dubita" (N. A., n. 2739). Anche Tarchetti quanto più ostenta attenzione per l'indagine clinica, tanto più esalta le tensioni fantastico- misteriose, vera fonte del suo estro creativo. Nei racconti, il prologo che sottolinea la "stranezza" del caso, introduce subito il lettore nel clima vaneggiante di una narrazione che, affatto estranea agli "studi analitici" o ai "documenti umani", punta a esplorare l'unica dimensione di realtà davvero autonoma e alla quale ha accesso solo l'intuito eccezionale dell'artista: "il mondo pauroso dell'incomprensibile e del soprannaturale" (I fatali, to. II, p. 18). L'altra tecnica compositiva, grazie a cui i letterati scapigliati riplasmano il conflitto fra arte e scienza, cala direttamente il dualismo entro la trama del racconto, generando un testo che nel parallelismo rinviene il suo criterio privilegiato. Il sistema dei personaggi si divarica: da una parte il rappresentante della scienza esatta, che si affida alla "vista", dall'altro l'uomo della contemplazione, che si perde in remote "visioni" (L’alfier nero). Le strutture spazio-temporali conoscono un'analoga scissione: alle gelide stanze anatomiche si contrappongono le mansarde degli artisti illuminate dai caldi raggi di sole (Un corpo). Questo testo apre l'edizione in volume delle Storielle vane: la scelta di Camillo, incurante dell'ordine cronologico di stesura dei racconti, offre una prima chiave interpretativa del dualismo scapigliato. La novella, apparsa nel '70 sulla "Nuova Antologia", mette in scena lo scontro tra l'io narrante, pittore, e l'anatomista Gulz: la posta in gioco è il corpo splendido della modella Carlotta. L'antagonismo che sorregge la storiella di Boito è rivelatore perché il fulcro della narrazione non è l'ideale freddo della Bellezza parnassiana, ma il fascino seducente di un corpo femminile. Nella raffigurazione del supremo oggetto del desiderio maschile acquista risalto la declinazione particolare che l'opposizione scienza-arte assume nella stagione scapigliata e ci spiega la ragione dell'affollamento di dottori e clinici nella produzione di questo quindicennio: persino i primi Ritratti umani di Dossi nascono dal "calamajo di un medico". Ancora debole il dominio delle macchine e degli strumenti tecnologici, è ad una disciplina di frontiera fra i due campi del sapere che la cultura positivista affida una posizione egemone: la medicina, appunto. Sulla stessa rivista in cui Boito pubblica Un corpo, pochi anni dopo si poteva leggere un articolo a firma dell'autore dei Fondamenti della patologia analitica, Maurizio Bufalini: colla riforma del metodo scientifico si intrinseca pur quella dell'essere morale degli uomini e di tutta la civile convivenza di essi; la direi quasi una vera redenzione dell'umanità dalle secolari sue calamità.26 Dotato da sempre del "prestigio e della funzione sociale" tipica dell'intellettuale tradizionale,27 nell'Italia unita, il medico possiede competenze tecnico-scientifiche decisive per assolvere un ruolo professionale di primo piano: a lui spetta il compito di risolvere "in laboratorio" le gravi questioni aperte dallo sviluppo economico-sociale, senza mai dimenticare che il suo potere abbraccia i poli ultimi dell'esistenza umana, salute e malattia, anima e corpo, eros e thanatos. Come ci ricorda il racconto di Boito, il conflitto fra arte e scienza è tanto più aspro quanto più al centro della contesa è il dominio dell'eros femminile. L'intellettuale per eccellenza della società borghese dovrà non solo debellare i mali terribili indotti dall'urbanesimo industriale ma anche e soprattutto prevenire i contagi che promanano da una sessualità che l'emancipazione femminile rende minacciosa. E tuttavia, nessun clinico potrà mai 26 M. Bufalini, Sul metodo scientifico sperimentale, in "Nuova Antologia", vol. XXV, 1874. Sulla raffigurazione romanzesca delle figure mediche si veda il recente L. Avellini, Il professionista verosimile, in Storia d'Italia. I Professionisti, Annali 10, Einaudi, Torino 1996, pp. 678-685. 27 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a c. di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, to. II, p. 846. comprendere e tanto meno curare l'isteria di Fosca, cogliere la genesi della "macchia grigia" che oscura l'iride del narratore protagonista della storiella vana di C. Boito, trovare nel "sangue" la causa del mutismo che ha colpito il saggio Yao (A. Boito, Il trapezio), o aiutare la sfuggente Rosilde nelle Memorie del presbiterio e la cieca visionaria Krimilth (Sacchetti, Da uno spiraglio). Analogamente, nessun medico saprà aprire il "pugno chiuso" di Paw vivo (A. Boito), spiegare la paranoia che detta la tarchettiana Lettera U, "concepire l'orrenda mutilazione" di un arto (Storia di una gamba), rompere il delirio in cui si è rifugiato Zaverio di Candaule. Solo "la forza della ispirazione" (L'alfier nero) o l'"ebbrezza dell'immaginazione" (Fosca), di cui gli artisti sono i primi e privilegiati detentori, potrà darne conto. Contro la marcia trionfale degli uomini di scienza, si fa avanti, allora, la serie, altrettanto ricca e variegata, dei creatori eccelsi in tutti i campi artistici. Nel timore ansioso del misconoscimento intellettuale e professionale, i nostri autori riaffermano, attraverso l'autorappresentazione di sé e dei propri rovelli espressivi, il prestigio dell'uomo di lettere e compensano la paventata perdita d'aura: ad essi spetta il merito di aver dato avvio, anche nel nostro paese, al sottogenere del Künstlerroman, appunto il "ritratto d'artista". Ai protagonisti tormentati delle loro opere gli scapigliati affidano il compito di ricordare al pubblico della "capitale morale" che nessun primato è possibile se si sviliscono i valori disinteressati della libera fantasia creativa. Capitolo III - Il pubblico degli Scapigliati Dal "noi" di Manzoni all'"io sol io" di Dossi Il noi di Manzoni vale io e il lettore, il noi di Rovani vale io ancor io ché, vale per due l'io di Dossi vale per l'io sol io. (N. A., n. 2271) ovvero: Manzoni dice le cose sue, come il lettore vuole Rovani, come il lettore non vuole Dossi parla per suo conto. (N. A., n. 2305) La filigrana di confronti a tre, che si dipana nel tessuto a pachtwork delle Note azzurre, delinea con brillantezza la parabola compiuta dalla civiltà romanzesca nel nostro paese, dall'impegnato esordio in età romantico-risorgimentale al primo momento di crisi, testimoniato dagli scrittori della "generazione crucciosa". Il dialogo confidenziale che il narratore dei Promessi sposi apriva con la ampia "parte del pubblico, non letterata né illetterata" (Sul Romanticismo) era sfumato, nei Cento anni, in una "schermaglia fra l'autore e i suoi lettori, fatta di botte e risposte, di aggressività e compiacenza, di adesione e rifiuto".28 Ora, nella stagione postunitaria, la sfida abbandona il gusto dell'ammiccamento complice, per acquistare i toni della polemica conflittuale, talvolta della provocazione irridente. Il modello dell'"Hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère", cui sono rivolti Les fleurs du mal, fa scuola pur semplificandosi molto: i versi della poesia maledetta sono "cantati" per un "nemico lettor", "fratello" in pianto (Praga, Preludio). Nel "microscopico Parigi della Lombardia", la ristrutturazione del sistema editoriale, la creazione di una rete di riviste e periodici che affiancano la stampa quotidiana, l'avvio di una politica scolastica tesa a combattere l'analfabetismo diffuso, tutto ciò interagisce con i processi espansivi dell'urbanesimo e dello sviluppo economico per favorire la formazione di una vivace "opinione pubblica", voce della moderna società civile. L'ampliamento delle fasce di utenza e la commercializzazione del prodotto librario, 28 L. Amabilino, Alcune riflessioni sulla tipologia del lettore in Rovani e Dossi, in AA. VV., Scrittore e lettore nella società di massa, Lint, Trieste 1991, p. 258. nondimeno, aprono una frattura fra l'élite intellettuale e la massa dei potenziali fruitori: i "venticinque lettori" del Manzoni sono diventati "un vero pubblico" (Sacchetti) dai lineamenti sfuocati e incerti. Se l'autore di Entusiasmi fu tra i pochi a credere che "il poter misurarsi col giudizio" dei più "preserva dalle divagazioni solitarie, dagli smarrimenti che avviliscono" (La vita letteraria, pp.434-5), la reazione degli altri scapigliati fu improntata a moti di arroccamento difensivo e risentito, simili a quelli che tanta parte dell'intellettualità aveva già manifestato in Europa all'inizio del secolo XIX: romantici e postromantici non si sottomettono più al gusto e alle richieste di alcun gruppo, sempre pronti ad appellarsi contro il giudizio di un foro a un altro foro. C'è una continua tensione, un'eterna polemica fra il pubblico e l'opera loro (...) sì che rimane distrutta ogni continuità di rapporti fra il pubblico e l'arte.29 L'"eroica fatica" di trascrivere dal dilavato manoscritto una "bella storia", cui corrispondeva un'analoga "fatica di leggere" (I promessi sposi), creava un'intesa fra il narratore e i suoi interlocutori fondata su una somma di valori estetici, 29 A. Hauser, op. cit., p. 163. morali e politici largamente condivisi. Come ricorda Camillo Boito, l'arte "dianzi era un bisogno comune, si potrebbe dire politico",30 ora, invece, "l'accordo sincero fra il pubblico e gli artefici è svanito" (C. Boito, La Mostra nazionale di Belle arti, in Gite di un artista, p. 345). Anche la pratica letteraria ha assunto i caratteri della professionalità, economicamente determinata: davanti a un'utenza di cui ignora le articolazioni interne, i gusti culturali, la stessa fisionomia etico-ideologica, l'artista è in bilico fra due strategie comunicative opposte: o sperimentare moduli dialogici volti a soddisfare le attese indifferenziate del pubblico medio, di recente formazione (l'esempio più clamoroso di questi anni fu Salvatore Farina, l'amico di Tarchetti che terminò Fosca) oppure coltivare, nella solitudine narcisistica, l'autonomia di un estro, tanto più autentico quanto meno sottomesso alle richieste del mercato. Dossi, per il quale "il letterato che non scrive pei pochi è letterato di ben poco valore" (N. A., n. 4847), non risparmia condanne feroci contro la "sùbita popolarità" che il "pubblicaccio" decreta a libri stesi con "goffaggine" e senza ingegno. Bazzero, nel ricordo della "riuscita" di Tarchetti si 30 Citato da M. C. Mazzi, Introduzione, cit., p. XII. domanda: "Oh e il pubblico? Il pubblico? Il pubblico che legge l'anima nostra e non la capisce ci sprezza, e fa il pettegolezzo" (Anima, p. 69). Praga, i cui versi non piacciono alla "gente che calcola e che conta" ma a quella "che fantastica e che sente", (Arrighi "Cronaca grigia", 20 gennaio 1867), ne spiega la ragione in un componimento dal titolo esemplare Il poeta alla folla: "io sono il poeta voi siete i merciai!". Ancor più manifestamente classista suona la riprovazione lanciata da Arrigo Boito contro la potenziale fruizione di massa di prodotti d'eccelso valore estetico: che un popolo grasso e materiale debba giungere un giorno a scuoprire i sublimi misteri dell'ultime opere di Beethoven, è tale un'idea da non mi dar pace né tregua. (Cronaca musicale parigina, "Perseveranza" 2 marzo 1862, in Tutti gli scritti, to. II, p. 1071) Più chiari di così non si può essere, e ancor oggi molti sottoscriverebbero. La sola ipotesi che un'opera d'arte raggiunga la cerchia più vasta dei non intenditori spaventa il musicista-poeta, a ulteriore conferma dei connotati di difesa reattiva che il movimento scapigliato esibisce davanti alle prime dinamiche di un sistema culturale in fase espansiva. E tuttavia, lo snobismo aristocratico di Dossi o dei fratelli Boito non solo si scontra con la fiducia ottimistica di Sacchetti o con la pratica di scrittura appendicistica di Tarchetti, ma soprattutto si trova a interagire con i meccanismi del consenso che, attivati dalle "officine della letteratura", caricano lo statuto professionale dell'artista di fertili contraddizioni. Questa Bohème di prìncipi del pensiero, che hanno l'aria di amare l'incognito, ha una grande ansietà, anzi un bisogno assiduo e continuo della pubblica attenzione (Sacchetti, La vita letteraria, p.435) Se Praga confessa ingenuamente "Io bacerei chi mi loda", Tarchetti, dopo aver lamentato "Oh, i letterati fanno cattivi affari davvero!", sfrutta le opportunità del mercato editoriale con disinvolta spregiudicatezza. Non è certo un caso che i protagonisti della trilogia Amore nell'arte, per quanto "artisti maledetti" e prossimi alla follia, conoscano uno strepitoso successo di critica e di pubblico: Lorenzo Alviati, Riccardo Waitzen, Bouvard non raggiungono la felicità, ma sperimentano, tutti, la condizione di "benessere e opulenza" agognata da Arnoldo D., lo scrittore della novella di Gualdo, già ricordata. Persino il piccolo savoiardo, il povero suonatore di gironda, era divenuto un giovane elegante, un artista ricercato, l'elemento morale di quelle grandi riunioni: l'eletta società si contendeva Bouvard come il genio vivente dell'arte (Bouvard, to. I, p. 640). Anche gli autori più propensi a ostentare un disinteresse sovrano nei confronti dei desideri del lettore comune, vengono colti da sussulti di perplessità autocritica. Nel prologo di una figurina, Faldella imputa il rifiuto di pubblicare a "quel miscuglio di orgoglio e di viltà, che ingombra l'animo di coloro, i quali non hanno peranco rotto il ghiaccio con il pubblico." (Galline bianche e galline nere, p. 24); Gualdo, "il romanziere gran signore, che non pensa a ricavar guadagni dal suo lavoro per l'invidiabile ragione che ha da vivere del suo" (Sacchetti, La vita letteraria, p. 450), raffigura in un suo personaggio "la felicità del lavoro compreso e ricompensato, dell'ingegno apprezzato al suo valore" (La gran rivale, p. 43); da parte sua, il "geroglifico" Dossi, in una delle prime Note azzurre, esclama: "O gente che scrivete per non essere capita, non sarebbe assai meglio taceste!" (N. A., n. 17), e nel Preambolo steso per l'epistolario denuncia la propria costante ansia di consenso: Sì lo confesso a voce alta io non scrissi mai una riga, franca dal desiderio o dalla paura che il Pubblico non la vedesse stampata.31 Con consapevolezza lucida, nelle sue rassegne d'arte, Camillo Boito mette a fuoco la nuova contraddittoria dialettica fra domanda e offerta: la scarsità e la gretteria delle allogazioni e degli acquisti, avvilendo l'artefice in una lunga povertà, irritandogli l'animo nella furia dei desideri, delle invidie e delle maldicenze (...) sono causa dall'una parte di questa impotenza, dall'altra di questa prostituzione dell'arte.32 31 Citato da A. Saccone, C. Dossi. La scrittura del margine, Liguori, Napoli 1995, p. 107. 32 Citato da M. C. Mazzi, Introduzione, cit., p. XV. In effetti, all'origine dello sperimentalismo arrovellato dei narratori scapigliati vi è un progetto confuso e talvolta equivoco, ma sorretto da una grande ambizione, estranea al radicalismo trasgressivo. All'indomani di una svolta storico-politica di enorme rilevanza e davanti alla riorganizzazione complessiva dell'orizzonte d'attesa, la funzione primaria che i giovani ribelli assegnano alla letteratura è di galvanizzare la coscienza critica del ceto dirigente, ancora fragile e immatura, fors'anche aiutarne la formazione, in nome dei principi di una moralità spregiudicata e anticonformista, degni di una classe borghese davvero europea. A quella società civile milanese che, pur avendo alimentato i grandi entusiasmi risorgimentali, non si riconosce nella forma istituzionale assunta dallo Stato unitario e si vanta d'essere all'avanguardia del paese, i letterati scapigliati si rivolgono elettivamente, nella speranza di avviare un'ardua inusuale collaborazione. Crollate le certezze "olimpicamente" condivise, occorre impostare una strategia comunicativa duttilmente selettiva: per un verso, le cadenze dell'umorismo straniante e dell'eccentricità fantastica puntano a sintonizzarsi con il pubblico emergente, signorilmente colto e raffinato; per l'altro, l'asprezza dei toni e dei temi serve a prendere le distanze dal perbenismo del "borghesume" ottuso e triviale, raffigurato esemplarmente nel "negoziante di candele arricchito" (Gualdo, La villa d'Ostellio in Racconti lombardi dell'ultimo '800, p. 67). Un simile impegnativo disegno, che intendeva ritagliare all'interno dei ceti medi urbani una utenza ideale composta dalla borghesia illuminata, si rivelerà ben presto velleitario e perdente, ma, nel primo quindicennio unitario, aveva una sua non disprezzabile credibilità: gli intellettuali umanisti vogliono diventare la guida coscienziale di una collettività dominata dai valori del pragmatismo utilitario. L'espressionismo stilistico di Dossi, l'autore più coerente del gruppo, lievita non solo grazie al luddismo antieditoriale che lo spinge a stampare in proprio le poche copie numerate dell'Altrieri e della Vita: più forte e potente c'è l'avvertimento penoso della propria "limitatezza" espressiva a fronte dei modelli impareggiabili del recente passato: Stia certo il lettore che, se di un'oncia soltanto della lìmpida mente e dell'amàbile filosofìa di Alessandro Manzoni o del sicuro ànimo e dell'ampio umorismo di Giuseppe Rovani avessi potuto disporre, non mi sarèi contentato di fare il geroglìfico Dossi. (Màrgine alla «Desinenza in A», p. 680) Sollecitata dal paragone non con la tradizione romantico-risorgimentale ma con il successo delle opere naturaliste, un'osservazione di Camillo Boito riecheggia note non dissimili: La parte del lettore si è andata via via restringendo: è diventato completamente passivo. Il romanzo vi sminuzza, vi trita la verità, in modo che non rimane oramai nulla da aggiungervi di proprio. (...) E la mente del lettore, vedendo il dramma innanzi tutto intero, così ben definito in ogni parte, in ogni minuzia si sente persuasa e convinta, ma affranta (...) il lettore prova una certa inconsapevole compiacenza nel mettere qualcosa di suo in un'opera d'arte: l'opera s'immedesima in lui; finisce per amarla come una parte di sé medesimo (La mostra nazionale, in Gite di un artista, pp. 341-3). Per l'autore di Senso, la narrativa d'orientamento verista, fondata sull'oggettivismo impersonale, punta alla "mortificazione della fantasia del lettore" (ibidem), rinunciando così a quella sfida a tutto campo fra io narrante e io leggente che è il fulcro della miglior letteratura scapigliata. Ed ecco, allora, affiorare dai nostri testi un'altra galleria di figure che affianca e completa la serie dei "ritratti d'artista": sono le immagini del lettore cui ogni singola opera si rivolge, in un dinamico processo di cooperazione critica. La sfida al lettore L'abile gioco rifrangente con cui Carlo Dossi costruisce la Vita di Alberto Pisani lascia emergere una prima preziosa indicazione di lettura: "in un romanzo", chi scrive si apre ingenuamente a ogni frase. Ben sott'inteso, che chi si ha una pàgina innanzi, abbia acùta la vista, legga nell'interlìnee, facoltà di pochissimi. (p.182) Ancora una dichiarazione di poetica aristocraticissima, e insieme di sintonia amicale, visto che subito dopo sono richiamati i "due leggitori" elettivi, Cletto Arrighi e Luigi Perelli. Chiedere di individuare "nelle interlinee" il profilo autentico dell'autore significa, tuttavia, attivare una strategia fruitiva altamente concorrenziale, in cui l'io leggente mette a prova tutte le sue facoltà intellettuali e immaginative. Il tarchettiano Un osso di morto ha un incipit esemplare: Lascio a chi mi legge l'apprezzamento del fatto inesplicabile che sto per raccontare.(to. II, p. 65) Con un analogo invito alla collaborazione fantasmatica si apre L'alfier nero di Arrigo Boito: Chi sa giuocare a scacchi prenda una scacchiera, la disponga in bell'ordine davanti a sé ed immagini ciò che sto per descrivere. Immagini... (p. 397) L'allocuzione diretta rende il lettore partecipe in prima persona del duplice gioco, contemporaneamente la partita a scacchi fra Tom e Anderssen e la finzione letteraria, a cui il narratore si appresta a dare inizio. Il fratello Camillo non è da meno nel coinvolgimento complice: il racconto d'esordio, Baciale 'l piede e la man bella e bianca, esibisce sin dal titolo il gusto delle risonanze intertestuali (da Petrarca a Sterne, da Orazio e Giovenale a Montaigne) su cui si articola la rete fitta di battute fra il protagonista narratore, il lettore competente, il lettore ingenuo. Nel III capitolo, Dove l'autore rivide il suo petrarchino, assistiamo a un dialogo teatralizzato fra l'io narrante, il "pedagogo" erudito "che ha studiato i sinonimi del Tommaseo" (p. 111), e il "lettore meno aguzzo" pronto a "bere grosso" (p. 112). Siamo qui, ovviamente, nell'area scapigliata in cui si espande con maggior forza dissolvente l'"effetto Sterne", come suona il titolo di un libro recente dedicato alla narrativa umoristica italiana.33 Una nota azzurra dossiana, riecheggiando passi famosi del Tristan Shandy, recita: Le idee sottintese fanno sì che il lettore, tutto contento di indovinarlo, pigli interesse al libro e gli paja di averci messo 33 AA. VV., Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello, Nistri Lischi, Pisa 1990. mano egli stesso. Egli lo scrive, per così dire, leggendolo. (N. A., n. 2173) Una simile pratica, d'impianto umoristico, se vale a ridurre i moti d'appassionamento, produce entro la trama compositiva dei testi un "effetto" ben più rilevante: la chiamata in causa del lettore e la messa a fuoco dei meccanismi che regolano l'atto di lettura. Nel momento in cui anche nel nostro paese comincia a costituirsi un pubblico potenzialmente ampio, dai lineamenti anonimi e incerti, gli scrittori tendono a precisare il loro orizzonte d'attesa, abbozzando all'interno delle loro opere l'identità del fruitore elettivo. Con quanta maggior precisione l'autore personalizza la figura dell'io narrante e ne individua i connotati specifici, con altrettanto scrupolo schizza la fisionomia del destinatario cui è diretto il messaggio. Una scommessa di Gualdo, avviata con un fatico "ecco", esemplifica in sommo grado la relazione dialogica fra i due interlocutori modernamente atteggiati: da una parte lo scrittore Arnoldo D., "giovane di straordinario ingegno", dal carattere "vivace e variabile" e con una "vita poco regolare", incline a "affogare le noie nella ubriachezza" (p. 178), dibattuto fra poetica romantica e nuove concezioni d'arte, pronto a misurarsi con i tempi stretti cui deve sottostare ormai anche l'attività letteraria. Dall'altra parte, il conte Sotowski, il committente-destinatario, "favolosamente ricco, affatto indipendente" (p. 176), dotato di buona competenza letteraria ("munito delle sue stesse armi" p. 182), disposto a offrire non solo "parole di incoraggiamento" (p. 180), ma occasioni per ottenere fama e agiatezza. La "segreta e quasi magnetica simpatia" che scocca fra i due poggia su una sotterranea colleganza intellettuale. Come ricorda il conte: Il genio, sotto qualunque forma si mostri, è sempre stato per me un oggetto d'ammirazione e le opere della fantasia altrui hanno sempre potentemente eccitata la mia. (ibidem) Proprio la reciproca eccitazione delle risorse immaginative, pur se diversamente orientate, rende possibile la scommessa; la posta in gioco è alta per entrambi. Per l'autore che accetta la sfida il rischio è massimo: davanti a una pagina "ostinatamente bianca" (p. 190) è in agguato la "perdita della ragione" e, peggio, il silenzio. La drammatizzazione del fallimento creativo, d'altra parte, vincola la responsabilità di colui che ha sollecitato la prova: la generosità mecenatesca, mista a orgoglio narcisista ["gongolava a mia volta (bisogna che lo confessi) all'idea di aver fatto una cosa che certo non si fa tutti i giorni" p. 184], quando viene frustrata, induce "una mestizia mista al rimorso" che richiede l'atto liberatorio del racconto-confessione. Con la novella di Gualdo, davvero ricca di spunti finora ignorati, siamo entrati in quella dimensione del testo, occupata dalla figura del lettore fittizio, il "narratario", secondo la terminologia tecnica offerta dalla narratologia, particolarmente utile nel caso della produzione scapigliata. E' su questo piano, infatti, che possiamo cominciare a misurare il percorso compiuto dalla nostra civiltà romanzesca nel mezzo secolo che separa I promessi sposi dalle Storielle vane. Innanzitutto, al "narratario di gruppo" i "venticinque lettori" del capolavoro manzoniano, i "giovani frementi" dei romanzi storici guerrazziani, ma anche gli "amici lettori" delle Confessioni nieviane gli autori della Bohème sostituiscono la relazione privilegiata con un io leggente individuo, personificazione di un lettore colto e competente. I singoli racconti ben testimoniano il passaggio dal "noi" di Manzoni, proiezione dell'ampio pubblico di cui si voleva forgiare la coscienza nazionale, all'"io sol io" di Dossi, che delimita l'area ristretta degli "addetti ai lavori". Il lettore che "sa giuocare a scacchi", cui è rivolto L’alfier nero, non è molto dissimile dal conte Sotowski della Scommessa o dal "discreto lettore" di Baciale 'l piede. Anche quando il narratore passa dal singolare al plurale "Lettori miei; conterò intanto una storia" (Vita di Alberto Pisani, p. 143); "Io vorrei che la vostra curiosità, lettori" (Memorie del presbiterio, p. 70) le clausole suonano così generiche da vanificare l'individuazione specifica di un gruppo coeso; anzi, la parodia discreta degli stereotipi della scrittura romanzesca avvalora l'ipotesi che quel "narratario" collettivo sia formato sempre e comunque da pochi intenditori: Se adesso poi io vi presento questo Daniele come un marmocchio costruito coi gòmiti, con un viso da tromba, non crediate già che lo faccia per convenzione, per quella brutta ruffiana che t'imbastisce in quattro agugliate un lavoro (Dossi, L'Altrieri, p. 493). ho giudicata la lettera di Cirillo, come si dice, interessante anche per voi, ed ho arbitrato di parteciparvela. Ma ora, riflettendoci su, temo non abbia a farvi effetto, perché voi quegli occhi non li avete visti. Ad ogni modo, poiché l'esordio è fatto, eccovi il pistolone narrativo. (Faldella, Il male dell'arte, p. 59). Insomma, per dirla con le parole sempre illuminanti di Dossi: quando il narratore parla al plurale "allude sempre ai non irosi e non disattenti lettori, cioè ai pochi", perché "l'applauso della moltitudine scompare colle mani che l'hanno prodotto e anche prima" (Màrgine, p.683) e "sogghignano" all'arte gli "uomini d'esperienza panciuti e i giovinetti che hanno la mantenuta e le femmine eleganti che, oltre il francese, sanno leggere l'italiano!" (Bazzero, Anima, p. 70). Anche nei testi di Tarchetti, in cui la tensione dialogante risente maggiormente dei condizionamenti imposti dalla sede di pubblicazione "immaginai (...) l'interesse che ne avrebbe destato la pubblicazione sopra questo periodico" (Un suicidio all'inglese, to. I, pp. 88-9) , è difficile cogliere nel "voi" la raffigurazione di un pubblico omogeneo: l'alternanza fra le particelle pronominali della seconda persona plurale ("Vi voglio raccontare la mia vita", La lettera U, to. I, p. 59; "no, miei lettori (...) io vi esporrò il mio racconto", Re per ventiquattrore, to. I, p. 204) e il pronome indefinito ("A chi mi legge il giudizio", Storia di un ideale, to. II, p. 92) non consente di definire un orizzonte d'attesa preciso. Tutt'al più, l'appello ad una utenza collettiva è connesso alla vis polemica implicita nel pamphlet antimilitarista, Una nobile follia, o nel "romanzo sociale" Paolina. Anche in questo caso, nondimeno, il narratore si premura di delimitare l'area del "voi" al gruppo dei "mansueti, che si appagarono nel fervore delle loro passioni della sola conquista di un cuore", ben diversi dai più "che hanno già messo il piede nell'arena, e vi hanno conquistate molte vittime" (Paolina, to. I, p. 254). Le citazioni si potrebbero moltiplicare, magari allineando le sfumature più diverse delle clausole fatiche ("Cioè, scusatemi (...) Oh non sapete? Bene, ascoltatemi, fanciulle mie", Bazzero, Riflesso azzurro, p. 12, "Vi ricordate? Se sì, voi, miei lettori" Vita di Alberto Pisani, p. 123); ricapitolando la gamma varia delle connotazioni che circoscrivono il ritratto dell'io leggente ("Onesto", "avveduto", C. Boito, Baciale; le "lettrici sensibili e amanti dei colpi di fulmine", Gualdo, La gran rivale; "il lettore discreto", Tarchetti, Un suicidio all'inglese); fino a mettere in luce l'abile disseminazione di artifici convenzionali, tanto più ostentati quanto maggiore è la volontà di ribaltarli: "Quale vi sembra lo scioglimento più probabile?" (Gualdo, Il viaggio del duca Giorgio); "in ciò non s'ha da immischiare il lettore. E' un privilegio che la fortuna accorda esclusivamente ai romanzieri" (Tarchetti, Un suicidio all'inglese). Forse, per tracciare i confini di questo circuito amicale basterebbe fermarsi sulla soglia del racconto, dove la cornice paratestuale dichiara il nome dei diretti destinatari. Le lettere dedicatorie: Memorie del presbiterio a Antonio Galateo; Un suicidio all’inglese a Alessandro Appia; Paolina a Ghislanzoni, lo stesso a cui Praga indirizza Schizzi a penna. Le innumerevoli epigrafi: Dossi, Vita di Alberto Pisani a Cletto Arrighi, La desinenza in A a Tranquillo Cremona; Faldella, Il male dell'arte a Luigi Muggio, cofondatore del "Velocipide", Rovine a Cagna, tutte le dodici Figurine a amici e compagni d'arte, dai più noti, Galateo Camerana Molineri Giacosa Sacchetti Farina, agli sconosciuti L. Egidio Nicetti, "dilettante valente di letteratura" o il Maestro Giuseppe Coggiola "autore di buoni sillabari e primi libri di lettura". Per chiudere al declinar del secolo, con Decadenza (1892) di Gualdo dedicato ad Arrigo Boito. Questo patrimonio di tipologie relazionali costituisce una delle eredità più feconde trasmesse dalla narrativa scapigliata agli scrittori delle generazioni future, dal Verga di Eva al D'Annunzio dell'"ideal libro di prosa moderna" (Trionfo della morte), per giungere alle pirandelliane "premesse quasi filosofiche" del bibliotecario Mattia Pascal o al Prologo a firma Dottor S. del diario sveviano di Zeno Cosini. Grazie alle modulazioni che il patto narrativo assume nelle diverse opere, è possibile tracciare una sorta di parabola ideale della morfologia dialogica esperita dagli autori scapigliati, a conferma non solo della varietà dei progetti, ma anche della ricchezza contraddittoria del movimento. Dalle note rifrangenti dell'aristocraticismo intellettuale, ricco di risentimento etico in Dossi, più mondanamente cosmopolita in Gualdo, giornalisticamente brillante in Faldella, si trapassa ai toni signorili dei fratelli Boito, declinati con ironico eclettismo in Camillo, inclini al funambolismo eccentrico in Arrigo. Più oltre, l'invito partecipativo anticonvenzionale sperimentato nelle "memorie" appendicistiche di Praga si affianca ai timbri tarchettiani dell'appassionamento melodrammatico, per confluire, infine, nelle cadenze dell'oggettivismo realistico di marca flaubertiana care a Sacchetti, che segnano il limite estremo dell'area bohémienne. Il dialogo con la "migliore società" Il ritratto del conte Sotowski ben raffigura il destinatario ideale delle Novelle di Gualdo, il suo libro più propriamente scapigliato. Eccezionalmente benestante, sempre in viaggio (tutti i personaggi gualdiani vorticano per le capitali europee), appartiene alla fascia degli happy few di stendhaliana memoria, usciti "dalla società più alta, o dalla più intelligente, o dalla più divertente (dalla migliore insomma in qualunque senso si voglia prendere la parola)" (Il viaggio del duca Giorgio, p. 63). E' il bel mondo frequentato appunto dalla nobiltà colta, la cui eleganza raffinata è "incomprensibile per qualunque arricchito da ieri" (p. 64), dove si può incontrare l'invidiabile coppia della Gran rivale e ammirare lo splendore fascinoso di Narcisa. Questo lettore collezionista d'arte, in grado di apprezzare i richiami innumerevoli ai capolavori d'ogni epoca, pronto a cogliere le citazioni virgolettate o solo alluse, acquista la sua fisionomia precisa in opposizione al ritratto del marito di Emilia, l'amante del poeta Alberto: O*** era un negoziante di seta, ricco di un millione, generoso, divertente nel suo insieme (...) Rideva di un riso forte, spontaneo, volgare; amava le donne, i cavalli prussianoinglesi e i romanzi di Ponson du Terrail, del resto un buon diavolo (La gran rivale, p.8). Il riferimento esplicito al celebre scrittore d'appendici vale non solo a identificare in negativo la cerchia vasta dell'utenza popolare, ma a precisare le coordinate dell'orizzonte d'attesa delle opere di Gualdo. "Fine e profondo conoscitore del mondo cosmopolita", 34 l'autore di Narcisa già fissa nella tendenza all'uniformità un carattere tipico della società moderna: "le comunicazioni rapide del telegrafo e del vapore hanno tolto ogni marcata individualità di nazione" (Il viaggio del duca Giorgio, p. 77). Se questo processo omologante favorisce la diffusione dei feuilletons, letti con avidità anche dal pubblico italiano, un movimento analogo e contrario percorre il campo della 34 G. Rovetta, Appendice a L. Gualdo, Romanzi e novelle, p. 1232. produzione alta, fruita internazionalmente da tutti i lettori competenti e anticonformisti. Ecco perché è indifferente pubblicare a Milano o a Parigi: anzi, meglio seguire l'esempio dell'amico di Alberto, un giovane letterato, "il cui primo romanzo, scritto in italiano, venne letto da diciassette persone" e che quindi "si decise all'orrendo misfatto di scrivere il secondo in francese" (La gran rivale, p. 42). Esattamente come Gualdo, che dopo il volume di Novelle e il primo romanzo Costanza Girardi (Treves, Milano 1871), pubblica Une ressemblance e Un mariage excentrique direttamente presso un editore d'oltralpe (Lemerre, 1874 e 1879). Parigi non è solo "il paese dove i buoni scrittori possono guadagnare trecentomila franchi con un libro" (ibidem), è la capitale di quella intellighenzia europea che ha sostituito alle barriere geografiche confini precisi di gusto e di classe. La scelta gualdiana di passare alla lingua francese, allora, se certo risentì della frequentazione assidua dei salotti alla moda, con ben più forza fu determinata dal rifiuto della limitata provincia italiana. Come e meglio di altri, l'autore della Gran rivale, riaggiorna, in chiave di aristocraticità laicamente moderna, il profilo cosmopolita che caratterizza, secondo Gramsci, la maggior parte dei nostri intellettuali, prossimi più al gusto dei colleghi stranieri che al sentire comune del cittadino medio. A sorreggere la scrittura di questo pendolare di lusso, tuttavia, non è solo la predilezione snobistica per la sensibilità parnassiana e predecadente; sulle sue narrazioni un po' blasé egli "proietta sempre l'ombra della rovina, il raggio cupo d'una notte di morte e di distruzione"35. L'insicurezza espressiva, tipicamente scapigliata, che lo tormentò per tutta la vita, si rifrange sulle cadenze dialogiche, virandole sui toni dello sconforto amaro: non solo il privilegio di godere delle più eccelse forme d'arte non consente evasioni consolatrici, perché "di bellezza si muore" (Narcisa), ma ogni cedimento al conformismo deve essere combattuto con ironia. La carica umoristica, allora, più che verso i lettori simili al negoziante di seta, signor O***, troppo rozzo per gustare l'arte nuova, va rivolta a chi, interno alla cerchia selezionata degli addetti, assume pose e comportamenti "eccessivi". Mosso da un vivace spirito autocritico, il narratore di Allucinazione si fa gioco dei suoi stessi amici bohémiens: Guglielmo è un musicista "strano" che, diviso fra il "lavoro volgare" di copiatura di spartiti e l'"estasi artistica" del creatore (p. 194), dà letteralmente fuori di 35 M. Guglielminetti, L. Gualdo: uno scrittore senza stile?, in "Sigma", n. 6, giugno 1965. matto. Questa volta però la "monomania" non solo non produce il capolavoro, ("più la sua musica si faceva banale, più egli ne andava orgoglioso" pp. 203-4), ma lo induce a sposare la vicina di casa povera e brutta, "sempre sdegnata". La conclusione suona parodia dei tanti geni scapigliati che cercano l'"amore nell'arte": Guglielmo, calmo, ordinato, curato maternamente dalla povera amante era tranquillo e sereno sebbene sempre allucinato. L'amico, ch'era un po' filosofo, pensò che il migliore augurio che si possa far loro, e il lettore s'associerà certo a lui, è ch'egli abbia a ritrovare il suo ingegno e anche a guarire ma non del tutto. ( p. 206). Non siamo molto lontani dal tono ironico con cui Dossi termina la Vita di Alberto Pisani, dove il suicidio del protagonista "sul desiato corpo" della donna amata replica la morte del tarchettiano Bouvard. Eppure, se per i suoi tratti di snobismo intellettuale e esistenziale il pubblico ideale di Gualdo può essere avvicinato ai pochi lettori "sovrani dell'intelligenza" che omaggiano Dossi, è utile segnalare la distanza profonda che separa i due progetti di scrittura. Spregiatori feroci dell'involgarimento diffuso dalla mentalità affaristico-commerciale, entrambi sognano un interlocutore capace di cogliere, anche nei libri, "non l'eleganza del ricco, ma del signore" (Vita, p. 215). Al pari di Gualdo, anche Dossi percepisce, con apprensione ansiosa, il mutamento epocale avviato dallo sviluppo tecnologico e dalla circolazione larga di merci e di idee: I mercati del mondo (in gergo ufficiale «Stati») gràvitano a fòndersi in uno solo. Si và a tutto vapore, e già può dirsi a tutto elèttrico, verso il comunismo più equo e la più disordinata anarchìa. (Màrgine, p.677) A chi si vanta di essere in arte "«la distilleria della quintessenza»" nulla di più odioso dello "sgabello della mediocrità". E tuttavia, mentre il narratore gualdiano adotta la koiné "anonima" e "salottiera" (G. Spagnoletti, C. Bo) della "conversazione sociale" (M. Guglielminetti), il sofisticato pastiche dossiano germina in terra lombarda e si alimenta dei timbri dell'espressionismo esacerbato. I suoi lettori sono "pochi, uno anche, purché siano degni, a loro volta di lode" (Màrgine), ma quella lode può meritarla solo chi, abitando entro la cerchia dei Navigli, è problematicamente coinvolto nelle dinamiche della cultura cittadina. L'orizzonte d'attesa della "capitale morale" è il vero reagente della prosa dossiana: non solo, come annota Isella, per la fedeltà dello scapigliato alla tradizione letteraria autoctona (da Maggi a Porta, da Manzoni a Rovani), ma anche e soprattutto per l'interconnessione profonda che la sua opera instaura con la mentalità ambrosiana. Come ben suggerisce un erede diretto dell'espressionismo di Dossi: Però, sotto sotto, quel tragico spasimo: quel conflitto implacabile fra le due anime della Lombardia illuminismo cosmopolita e scientificizzante, delirante romanticismo melodrammatico ostinatamente riproposto dal tormentoso Genius Loci in un assordante contesto di «lavurà» e «danè» a ogni successiva generazione letteraria, fino a diventare una costante antropologica milanese.36 36 A. Arbasino, Nota introduttiva, a C. Dossi, Vita di Alberto Pisani, Einaudi, Torino 1976, p. IX. Elemento cardine di questa "costante antropologica milanese", di cui Gadda è l'esponente più alto, è il risentimento acre che muove lo scrittore davanti allo scenario fascinosamente perturbante offerto dai nuovi costumi urbani. Nato dalla "densità di idee", il discorso "avviluppato" vuol essere per l'autore dell'Altrieri, come sarà per Gadda, un segno di rispetto verso chi legge: perocché sempre mi parve atto di letterarietà disonesta quello di véndere al pùbblico, per libri scritti, volumi di carta tinta d'insignificante inchiostro (Màrgine, p. 678). Lo riconosce anche Croce, in un "ritratto" simpatizzante: Ha dunque violato le convenzioni letterarie per non violare sé stesso; e quella violazione non è effetto d'indisciplina e di sciatteria, ma di coscienza: non è libertinaggio ma rigore.37 L'"intreccio fra il mio e l'animo dei lettori" (Màrgine, p. 682) a cui Dossi dichiara di tenere massimamente, si avvia non 37 B. Croce, La letteratura della Nuova Italia, vol. III, Bari Laterza 1943, p. 204. grazie agli strumenti dell'appassionamento ruffiano, ma in forza di un patto narrativo emulativo-concorrenziale: Uno stile che fosse una rotaja inoliata sarebbe la perdizione de' libri mièi. Uno invece a viluppi, ad intoppi a tranelli, obbligando il lettore a procèder guardingo e a sostare di tempo in tempo (...) segnala cose che una lettura veloce nasconderebbe (...) In altre parole, dall'addentellato di una fàbbrica letteraria, egli trae invito e possibilità di appoggiàrvene contro un'altra la sua e, da lettore mutàtosi in collaboratore, è naturalmente condotto ad amar l'òpera altrùi diventata propria. (Màrgine, pp. 680-1) La poetica dossiana postula un io leggente così "scaltrito" da trasformare il processo di lettura in ingegnosa fatica creativa, così competente da sciogliere tutti i "calappi" sottesi al racconto e diventare l'alter-ego dell'io narrante38. L'Altrieri si apre con un'evocazione dei "miei dolci ricordi" che avvalora "l'io sol io" della nota azzurra; il libro, se per un verso è indirizzato ai pochi sodali per i quali è stato 38 G. Rosa, Dal conforto esemplare alla vendetta, in AA. VV., Scrittore e lettore nella società di massa, op. cit., p. 48. pubblicato in edizione numerata, dall'altro si riavvolge su se stesso, recuperando il filo diretto con gli "amati ricordi". Nella prima edizione, l'invito finale suonava ancor più equivoco: Oh i miei amati ricordi, éccovi. Mentre di fuori (...) qui, un mucchio di crepitanti marroni or or spadellati, forma il centro del cìrcolo... Compagni miei, novelliamo (p. 7). Altrettanto sternianamente autoriflessa è la relazione dialogica che sorregge la Vita di Alberto Pisani, dove lo sdoppiamento fra il narratore Carlo Dossi e il personaggio Alberto Pisani rimodella, neanche troppo nascostamente, l'identità completa dell'autore reale, Alberto Carlo Pisani Dossi. Le istruzioni per l'uso offerte dal prologo sono eloquenti: il racconto, iniziando col quarto capitolo, non solo stravolge la linearità dell'intreccio, ma immette il lettore subito in medias res e queste res sono appunto i volumi della biblioteca d'Alberto. Il confronto immediato fra due opposti mondi di carta completa la sua fisionomia: abbandonato "lo studio degli studi", dove "tutto è tarlato ed ammuffito", il giovane ripara nello "studiolo, bellino e luminoso", rallegrato da "pochi" ma "vivissimi" libri (p. 85), fra cui il prediletto, La vita nova. La vicenda del "nostro bimbo-in-cilindro" (p. 219) si svolgerà, allora, tutta all'insegna della più raffinata letterarietà stilnovistica, nel cui omaggio al "cor gentile" si riconoscono i lettori elettivi. A costoro, tuttavia, Alberto non porge né liriche amorose né storie sentimentali, ma un volume dal titolo impegnativo Le due morali. sul teatro del mondo, le morali son due (tutto è doppio del resto). Ed una è l'officiale, in guardinfante e parrucca, a tiro-a-sei, coi battistrada e i lacchè, annunziata da tutti i tamburri e gli zùfoli della città; l'altra è... ma in verità, non tien nome... è una morale pedina, in gonnelluccia di tela, alla quale ben pochi làscian la dritta (...) E la prima ha per sè, tutto quel che di leggi, glosse, trattati, fu fabricato e si fàbrica, fiume a letto incostante, roba in cui sguàzzano i topi e le tarme; l'altra, nudo e puro il buonsenso, eternamente uno. (p. 217) I vari raccontini inseriti, che costituiscono il secondo livello narrativo della Vita, lungi dall'essere solo parodiche sperimentazioni stilistiche, come la critica li ha finora interpretati (D. Isella, F. Spera, F. Tancini), compongono un frammentato ma ben definito sistema di principi etico-civili, improntati a quel "nudo e puro buon senso" che, cardine dei Promessi sposi, era diventato la parola d'ordine della "capitale morale". Va da sé che Dossi lo declina in perfetta coerenza con i dettami propri alla "quintessenza della distilleria" esistenziale. Consegnato alla voce saggia di nonna Giacinta il compito di dare l'addio definitivo sia ai "tempi tristissimi" dell'aristocrazia retriva (Il codino) sia alla stagione violenta della volgare "malattia rivoluzionaria" (Isolina), i capitoli del libro di Alberto propongono le norme "pedine" di una moralità illuministicamente orientata. In consonanza implicita con lo spirito "borghese-utopico" (S. Timpanaro) di cui aveva dato prova l'Holbach nel saggio intitolato appunto al Buon Senso (1772), Dossi invita i pochi lettori "degni di lode" a seguire l'istinto naturale dell'io e ad abbandonarsi alla libera effusione degli affetti senza temere superstiziosamente le "pene infernali". Agli anatemi di un prete bigotto e morboso il narratore risponde con un suggerimento di tutt'altro tono: "O giovinette, peccate!" (p. 175), giacchè "la cosiddetta virtù del pudore" è "virtù cara ai deformi, sempre posticcia, figlia e madre ad un tempo della libìdine" (p. 137). Beninteso una simile morale, laica ("Dio, il sordomuto eterno" p. 229), spregiudicata a tal punto da preferire unioni antistituzionali al matrimonio (La maestrina d'inglese) e da consentire adulteri (Le due morali) e incesti (Odio amoroso), così audace da sbeffeggiare le premure miopi dei genitori (Prima e dopo) e il sacro amor materno (Una fanciulla che muore), non solo privilegia il campo separato delle relazioni private, fuori dai vincoli della collettività sociale e politica, ma presuppone seguaci dotati di quella urbanitas che non si apprende perché si ha in dote cromosomica. Il "buon senso", affatto opposto al senso comune, è la virtù difficile degli anticonformisti che sanno coltivare con signorilità impavida il "coraggio della verità" (Holbach). Estranea all'involgarimento corrotto e corruttore dell'aristocrazia in disfacimento, ben raffigurata nell'"infrollito" marchese Andalò; sprezzante della nomea nobiliare acquistata grazie agli intrallazzi affaristici ("i signori baroni Del-Bue. Non han fatt'altro che trasportare l'insegna dalla bottega al calesso" p. 135), orgogliosamente incurante della grettezza "gnocca" della piccola-borghesia dedita ai commerci (Le caramelle), la cerchia del pubblico elettivo si restringe di molto, forse davvero si limita a quei "pochi, uno soltanto" in grado di apprezzare la provocazione trasgressiva sempre sottesa alla letteratura espressionistica: un'élite, magari capeggiata dagli "scrittori novellini", cui è dedicata la seconda edizione dell'Altrieri (1881). Già, appunto: l'ipotetico lettore di simili opere, "probabilmente ne scrive, non ne legge. Ed ecco la gran ragione degli insuccessi del Dossi" (N. A., n. 4806). In effetti, subito dopo il prezioso dittico "Fanciullo, scrissi d'infanzia e vi offersi L'Altrieri; adolescente, di adolescenza e vi diedi l'Alberto Pisani" (Màrgine, p. 674) la ricchezza inventiva del pastiche comincia a venir meno. Dell'ambizioso progetto dei Ritratti Umani ci resta Dal calamajo di un medico (1873), schizzato con un rancoroso "colore nero", e La Desinenza in A (1878), dove il risentimento morale, degradandosi a livida misoginia, offusca il brio compositivo e stilistico. Se gli Amori (1887) sono un estenuato frutto tardivo, l'esperimento delle opere di palingenesi sociopolitica, Il Regno dei cieli (1873), La Colonia felice - Utopia (1874), stese dal "Dossi buono" (N. A., n. 3502), ha un esito ancor più fallimentare. La Diffida, posta a premessa all'edizione del 1883 definisce il romanzo utopico, "un errore di crosta e di mollica" (p. 529), con un "sapor ràncido" non solo nelle idee ma anche e soprattutto nella forma. Sopravvissuto a se stesso, l'autore dell'Altrieri continuò a centellinare poche "goccie d'inchiostro" questo il titolo esemplare del volume in cui raccolse nel 1880 raccontini e bozzetti sparsi e soprattutto a sfogare il suo estro polemico nella matassa arruffata delle Note azzurre. Nell'attività pratica, quasi per autopunizione, intraprese la carriera diplomatica giusta l'intuizione paterna, evocata in Panche di scuola sotto le insegne conservatrici del nazionalismo crispino. La salita al potere della Sinistra, d'altronde, condanna senza appello l'astrattezza, questa sì davvero utopica, del progetto dossiano teso a costruire un dialogo ravvicinato con una élite altoborghese tanto più civilmente sicura di sé quanto più consapevole dei propri doveri. Nella realtà storica ambrosiana, invece, la maggior parte del ceto colto nutriva, per ammissione dello stesso scrittore, una "fede accadèmica di miserabilità intellettuale" (Màrgine, p. 668) e la buona società che avrebbe dovuto favorire l'incontro fra la classe dirigente e il gruppo degli artisti era composta di "ingegni rachitici" e "animi aggrinziti". Il giudizio perfido questa volta è di Camillo Boito e si riferisce al famoso salotto della contessa Maffei39. Le provocazioni dei fratelli Boito 39 Citato da P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 239. Nella nostra parabola ideale, la coppia dei fratelli Boito occupa un posto vicino a Dossi e Gualdo. Se ad Arrigo quest'ultimo dedicò Decadenza, non fu solo per l'amicizia comune con la divina Duse. L'intreccio fra aristocraticismo snob e penoso senso di inadeguatezza che aveva minato l'esistenza di Gualdo domina anche l'attività artistica del Boito più giovane. L'autore del poemetto Re Orso (1865), che vanta "la nostra penna scriveva per noi singolarmente, e mai per gli altri (...) Il pubblico e il lettore fu sempre le cento miglia lontano dal nostro cervello ("Figaro", 31 marzo 1864), è ossessionato dall'incubo del silenzio. Nelle sue poche novelle, L’alfier nero (1867), Iberia (1867), Il trapezio (1873-74, incompiuta) e Il pugno chiuso (quest'ultima del 1870 é stata ritrovata e pubblicata da R. Ceserani, presso Sellerio nel 1981), la richiesta di collaborazione rivolta al lettore elettivo assume toni pressanti e si configura come un supporto di fiducia, capace di sconfiggere la paralisi: la pratica di scrittura si distende come un work in progress a cui l'io leggente è chiamato a partecipare direttamente. Se nell'Alfier nero è l'immaginazione del lettore ad avviare la partita fra Anderssen e l'Oncle Tom ("Chi sa giuocare a scacchi [...] immagini" p. 397), nel Trapezio il tempo del racconto corre parallelo all'atto fruitivo, in un cortocircuito che avvicina i due interlocutori nel massimo dell'intimità intellettuale. Leggi attento. Incomincio. La storia che ti racconterò è lunga e per te sarebbe più agevole il leggerla da solo quando io l'avessi tutta scritta; ma tu non puoi sapere quanto mi sia di conforto il sentire che tu la cogli calda ancora mentre esce dalla mia mano cifra per cifra. Mi par di parlare. (Il trapezio, p. 441) La sintonia fra scrittore e lettore affidata alle cadenze dell'oralità punta non solo a annullare la lontananza fra i due poli della comunicazione, ma a lenire la paura dell'impotenza espressiva che l'autore reale proietta nel mutismo del protagonista Yao. Anche in questo caso, sia chiaro, nessuna concessione alla narrazione volgarmente "ruffiana": il discorso si modula sulle note del colloquio "caldo" e rassicurante grazie al "rigore" intellettuale con cui si cala nelle "variabili parvenze del simbolo" (p. 439). La disposizione strategica delle formule di raccordo, collocate in apertura e chiusura delle puntate apparse sulla "Rivista minima",40 sottolinea l'attenzione boitiana al rapporto con i destinatari interni e esterni. Il saggio Yao, rivolgendosi al suo discepolo prediletto Meng-Pen, sa che il suo messaggio non cadrà nel vuoto: ricerca "il punto dove i due moti opposti si intersecano perché ivi scoprirai la sintesi dell'uomo e la spiegazione d'ogni sua apparente stranezza" (Il trapezio, p. 439). Dove il "punto", lungi dall'essere il luogo ideale dell'autodominio equilibrato e sereno (P. Nardi), è, al pari della scacchiera in cui si gioca la partita "fatale" tra il bianco e il nero, la dimensione profonda in cui gli antagonismi si convertono l'uno nell'altro. E poco importa se la congiunzione dei contrari sfiori il mistero "alchemico della gnosi" (A. I.Villa, R. Quadrelli) o la legge della reversibilità dei moti interiori: ciò che conta, sempre, è la sfida che la scrittura letteraria lancia alle certezze presuntuose di una cultura convinta di poter comporre ogni antitesi nell'ordine "evidente" e positivo. Nelle novelle di Arrigo Boito, la provocazione ideologica al lettore ambrosiano è tanto più efficace quanto 40 Cfr. I. Crotti, Gli equilibrismi del "Trapezio", in AA. VV., Arrigo Boito, a c. di G. Morelli, Olsckhi, Firenze 1994, p. 125. meno esibita: il racconto ostenta una sfrenatezza ludica che esalta l'estro inventivo lucidamente geometrico, mentre allude a una serie di conflitti gravi che assillano io leggente e io narrante. Abitato da contraddizione immedicabili, l'uomo della civiltà moderna può anche tentare la fuga nelle atmosfere neogotiche (Iberia), nella saggezza orientaleggiante (Il trapezio) o trasferirsi nelle regioni cupe di una misera Polonia (Il pugno chiuso), a patto però di mantenere acuta la percezione del proprio dualismo, a cui solo la misura ironica dell'arte può porre argini mai definitivi. Aveva ragione Camillo: c'erano tutte le ragioni per non piacere alla bempensante società maffeiana. D'altra parte, la sfiducia boitiana nella parola scritta tende a corrodere, al di là dei funambolismi anticonformisti, ogni possibile relazione dialogica. Il trapezio rimase interrotto, Il pugno chiuso abbandonato nelle appendici del "Corriere di Milano", il progetto della silloge di racconti, Idee fisse, mai attuato. Sarà nel rapporto più diretto, "d'ascolto", con il pubblico teatrale che Arrigo Boito scioglierà il suo conflitto di "scapigliato romantico in ira": operare il rinnovamento delle convenzioni melodiche, senza sovvertirne il paradigma tradizionale. Anche in questa prospettiva, la collaborazione feconda con il vecchio Verdi dà conto del tentativo di riorganizzare il sistema delle attese, superando l'appassionata sonorità del melodramma risorgimentale senza vanificarne le vibrazioni più coinvolgenti. Dei due fratelli non c'è dubbio, tuttavia, che sia Camillo il vero maestro della provocazione intelligente, lo scrittore di novelle più curioso del gruppo. Già Cameroni, col suo fiuto critico, ne aveva individuato la "specialità" di "novelliere brillante ed originale" ("Il Sole", 28 luglio 1878). Sin dal titolo dei primi racconti, l'architetto narratore mostra il gusto dell'antifrasi pungente: le storielle sono "vane" non certo perché delimitano "una zona di totale disimpegno" dilettantesco41 e neppure, al contrario, perché suggeriscono con cupezza contristata l'incapacità del discorso letterario di dare un senso al reale42. La "vanità" delle novelle è tale non in rapporto al loro contenuto ma in relazione al giudizio che ne formulerà il lettore ambrosiano. L'edizione in volume presso Treves rinvigorisce la supposizione che le storielle sembreranno futili, di poco spessore, al pubblico a cui quello stesso editore proponeva in vari tomi le ristampe dei romanzi 41 F. Portinari, Narrativa tra idillio e rivolta in Un'idea di realismo, Napoli, Guida 1976, p. 209. 42 E.Scarano, L'anatomia del corpo in una storiella vana di C. Boito, in "Linguistica e letteratura", VI, 1-1981. storici, le traduzioni dei fluviali feuilletons o i nuovi libri "di consumo". Qui niente di tutto ciò: l'iniziale umorismo sterniano (Baciale 'l piede e la man bella e bianca) si stempera e assume forme colloquiali più elusive che invitano il lettore o a riflettersi nel destinatario interno (il medico di Macchia grigia; il nipote del Demonio muto) oppure a collaborare ad una narrazione solo apparentemente oggettiva. Sono soprattutto le Storielle scritte in prima persona, e quindi con ottica parziale, a sollecitare l'intervento critico dell'io leggente. Spetta a lui decidere il valore della sfida fra l'anatomista Gulz e il pittore amante di Carlotta (Un corpo), giudicare l'atteggiamento spregiudicato della marchesa Giulia (Dall'agosto al novembre), ma anche afferrare le motivazioni ambigue del senso di sollievo assaporato dal protagonista di Meno di un giorno alla partenza della donna furtivamente amata. Il gusto di mettere in scena le situazioni scontate della galanteria salottiera, gli inganni fatui dell'adulterio borghese, gli incontri fra il giovane, malato d'amore incestuoso, e la crestaia di dubbia moralità (Notte di Natale) è esibito con la leggerezza amabile di chi invita a cogliere, sotto la patina di vacuità, i timbri e i motivi di un racconto ricco di umori polemici. Se la rappresentazione del processo di industrializzazione avviato nelle campagne trova accenti melodrammatici nella vicenda del pretino, acceso di passione per la femme fatale che accompagna l'affarista speculatore (Vade retro, Satana), Senso, che chiude il volume delle Nuove Storielle vane, edito nel 1883, tocca questioni politiche altrettanto conturbanti per il pubblico dell'Italia unita. La condanna dei comportamenti antinazionali assunti dall'aristocrazia reazionaria del Lombardo-Veneto si fa tanto più acre quanto più distorto è il punto di vista: l'autore, trascrivendo direttamente, senza alcun commento, le pagine dello "scartafaccio segreto" della contessa Livia, lascia al personaggio piena libertà elocutiva e al lettore il compito di vagliarne la spavalderia vendicativa. A vent'anni di distanza dalla proclamazione del Regno d'Italia, la novella non poteva non suscitare scandalo, certamente andando poco "a' versi" di quella società maffeiana "che rappresenta in sé coll'ebetismo della pedanteria la quintessenza delle sue amiche e dei suoi amici quotidiani".43 I salotti della "capitale morale", affatto simili all'ambiente ristretto e pettegolo messo in scena nel tardo Maestro di setticlavio (1891), non compresero l'eleganza della scrittura boitiana. Le Storielle vane dovettero attendere l'apprezzamento 43 Citato da P. Nardi, Vita di A. Boito, cit., p. 239. novecentesco di un altro raffinato rappresentante dell'intellettualità milanese per sottrarsi al giudizio negativo di chi aveva preso quel titolo alla lettera. Solo il successo di Senso, il film diretto da Luchino Visconti nel 1954, cominciò a gettare nuova luce sull'opera del letterato architetto, liberandola finalmente dalle accuse di estetismo galante, evasione parnassiana, dilettantismo predannunziano sotto cui fino allora era stata sommersa. Il feuilleton sperimentale di Praga Anche il protagonista narratore delle Memorie del presbiterio. Scene di provincia non nutre grande fiducia nella "sonnolenta critica del Bel Paese" e dichiara di rivolgersi alle "poche anime appassionate" che già amarono i suoi versi (p. 5). E' qui indicata l'origine di quello "sperimentalismo feuilletonistico" che caratterizza il progetto prosastico di Emilio Praga: calare la tensione inquieta del "mistero", che permea l'esistenza di ognuno, entro le cadenze cordialmente intriganti dell'appendice, in un dialogo serrato con il ristretto pubblico della poesia. Già con Due destini, pubblicato sul "Pungolo" (30 dicembre 1867-18 febbraio 1868), l'autore di Tavolozza aveva tentato di sfruttare le tecniche e i moduli della "letteratura alimentare", ma la vicenda, ambientata nel primo settecento, ben presto perde ritmo e interesse. Come ha mostrato Moestrup, la stessa scansione irregolare delle puntate testimonia lo sforzo di un impegno mal governato 44. Molto più suggestivo invece, è l'esperimento avviato con le Memorie del presbiterio, dove il narratore Emilio intreccia la cifra impressionistica della testimonianza d'artista con le modulazioni coinvolgenti del romanzo a puntate. In queste Scene di provincia, apparse sul "Pungolo" dal giugno al novembre del 1877, l'autore di Penombre pare tradurre entro la compagine narrativa il dissidio che Sacchetti individuava come elemento caratteristico della Bohème: da una parte il rifiuto pregiudiziale del pubblico borghese, "i curvi che incensano l'ara del dio metallo" (Per cominciare, in Tavolozza), qui identificato nella "gente d'affari" (p. 5), e dall'altra, il desiderio ansioso del letterato moderno d'essere letto e omaggiato: ché la lode "è per l'anima di un autore ciò che è pei fiori la pia rugiada 44 J. Moestrup, La Scapigliatura. Un capitolo di storia del Risorgimento, Annali dell’istituto di Romanistica danese, Copenaghen 1966, p. 57. dell'alba" (ibidem). La dicotomia strutturale e stilistica, sottolineata da tutti i critici, più che imputarla all'intervento completivo di Sacchetti (G. Zaccaria) o alle leggi "edonistiche" dell'editoria di consumo (G. Tellini), va raccordata piuttosto alla duplice inclinazione che percorre il libro sin dall'esordio: Praga vuole rivolgersi al pubblico intenditore della poesia, "le poche anime" che si commossero sui suoi versi, invitandolo, nel contempo, a seguire il racconto con l'appassionamento che s'addice a una "lugubre istoria" (p. 103): Io vorrei che la vostra curiosità, lettori, somigliasse, anche solo in diciottesimo, quella che mi faceva immobile sotto la cappa del camino, quando... (p. 70). Nel contempo, proprio perché il fruitore elettivo non appartiene al "borghesume" e "bottegume" (p. 17) che gradisce i "drammi" rappresentati al teatro Fossati (p. 110), il narratore sparge a piene mani le dichiarazioni antiromanzesche e i riferimenti parodici: gli artifici dell'umorismo spiazzante, mentre incrinano la tenuta dell'intrigo esemplare la conduzione del Racconto del sindaco vanificano, altresì, l'assaporamento nostalgico dell'idillio. Grazie ad una scrittura appendicistica che non disdegna, però, gli schizzi pittorici, le suggestioni del chiaroscuro e la tecnica del ritratto "a macchia", il mistero, Leitmotiv dell'intero romanzo, si scioglie, ma nel contempo si acuisce nella trama rapsodica delle "impressioni" e "sensazioni" (p. 25) allineate da un narratore che, poco coinvolto nella vicenda, diventa il portavoce dei racconti degli altri. "Tre storie in una" potrebbe essere il sottotitolo anche di quest'opera praghiana, a conferma che la cifra stilistica del frammento si integra sempre con la struttura a incastro, nella ricerca di uno "sperimentalismo feuilletonistico", degno di interesse anche se di scarsa fortuna: parlare al pubblico della poesia, attraverso le "semplici", ma raffinatissime, Memorie, cadenzandone il ritmo sulla serialità delle puntate del "Pungolo", era impresa davvero ardua. Il tentativo si interruppe; e forse la fine prematura dell'autore non ne fu l'unica causa. Grazie alla consonanza amicale che contraddistingue il gruppo scapigliato, il romanzo venne portato a termine e pubblicato in volume (Casanova, Torino 1881) da Roberto Sacchetti. Ancor oggi, è difficile attribuire con sicurezza le parti del testo alla mano dell'uno e dell'altro. Alle preziose indicazioni offerte da Zaccaria che accerta il momento di sutura all'altezza del XX capitolo e alle numerose osservazioni degli altri commentatori (G. Catalano, L. Baldacci, L. Iachini Bellisarii), si può forse aggiungere una postilla che pertiene l'intonazione del patto narrativo. Nella seconda parte del libro, con l'attenuazione degli ammiccamenti al "narratario", cadono anche le note stranianti dell'ironia: in due luoghi del racconto, anzi, la voce narrante pare quasi recuperare il tono dell'affabilità manzoniana, per appellarsi ai "miei lettori" (p. 210), e interrogarsi sulla presenza confidente dell'"amico lettore" (p. 164). La "modestia smania di realtà" (p. 231), a cui rispondono i comportamenti della bella Rosilde, sembra guidare anche la penna di Sacchetti, lasciando nel testo praghiano uno specifico indizio. Tarchetti: “Io scrivo per me medesimo” Siamo così giunti al termine della nostra parabola, dove, al polo opposto dell'espressionismo aristocratico di Dossi, si colloca il pathos melodrammatico dei racconti tarchettiani. Nel rifiuto dichiarato del dialogo con il lettore, l'autore di Fosca sembra esaltare la strategia comunicativa tipicamente scapigliata, che predilige i timbri del solipsismo narcisistico: Scrivere per noi per rileggere, per ricordare in segreto, per piangere in segreto. Ecco perché scrivo (...) Io scrivo ora per me medesimo. (Fosca, to. II, p. 241) Nel prologo dell'ultimo libro, Tarchetti ostenta di rifarsi ai moduli canonici della narrativa d'impianto romantico per stravolgerne radicalmente il senso. L'innominato "editore", a cui il "manoscritto" di Giorgio è pervenuto per una "strana combinazione", ci rassicura, quasi manzonianamente, di aver espunto "quelle indicazioni che potevano compromettere la fama di persone ancora viventi", ma nutre il timore di non aver giustificazioni alla "colpa" di darlo alla luce. D'altronde, sin dalla prima pagina, l'io narrante si premura subito di cancellare ogni presunzione di storica verità: "Noi sentiamo di non poter essere nel vero" (p. 240). Analogamente viene ripreso e capovolto il modello ultracompassionevole delle foscoliane Ultime lettere: qui la decisione di pubblicare le memorie inedite non solo non è un gesto di gratificazione amicale ma presuppone la noncuranza orogogliosa del protagonista: "rifuggito nella solitudine e nell'egoismo", Giorgio è ora troppo indifferente alle cose del mondo, troppo sicuro di sé, perché abbia a godere dell'elogio o a soffrire del biasimo che può derivargliene. (pp. 237-8) Ad avvalorare il tono provocatorio di un patto narrativo fondato sulla superiorità imperturbabile di chi racconta sono le dichiarazioni d'apertura di un altro testo, dedicato alle vicende di un artista: Scrivo per me stesso, scrivo per dare alle memorie della mia gioventù la durata della mia esistenza (Bouvard, to. I, p. 631) Anche Le leggende del castello nero si avviano con un analogo rifiuto: "Non so se le memorie che sto per scrivere possano avere interesse per altri che per me le scrivo ad ogni modo per me" (to. II, p. 41). Troppo esibito, questo egotismo intransitivo, per non presupporre un'ansia incontenibile di dialogo coinvolgente: l'insistenza sulla omologia fra tempo di vita e attività di scrittura ("Scrivere ciò che abbiamo sofferto e goduto, è dare alle nostre memorie la durata della nostra esistenza" Fosca, to. II, p. 241) getta luce equivoca sulla volontà di mantenere "segrete" le pagine diaristiche; il rigetto spavaldo della comunicazione si ribalta nella ricerca del consenso partecipato. Il "processo di estraneazione dell'io dal tu", lungi dal testimoniare l'"esigenza del realismo ad oltranza",45 si inscrive piuttosto nella strategia del negativo che sorregge l'intera produzione tarchettiana, in un gioco di rimozioni e censure, di ellissi e litoti, rinforzato sempre dalle modulazioni dell'eccesso e dell'iperbole. E' l'altra via della sperimentazione feuilletonistica intrapresa in ambito scapigliato. Tarchetti, che sfrutta con spregiudicatezza i canali distributivi della "letteratura alimentare", che esordisce cimentandosi con il prototipo romanzesco dell'appendice, Paolina (Misteri del Coperto dei Figini), imposta la relazione con il pubblico borghese, 45 saccheggiando il repertorio morfologico M. Garré, Verso i paradigmi del moderno. Dallo scarto negato di Hoffman allo sregolamento di Tarchetti, in "Otto/Novecento", a. X, n. 1, 1986. del dialogismo moderno. Nel ricorso costante sia alle note dell'ammiccamento complice ("non si stupiscano i lettori del titolo d'eccellenza prodigato ad uno scrittoruzzo par mio" Un suicidio all'inglese, to. I, p. 83) sia ai timbri della polemica conflittuale, il dualismo scapigliato deflagra con un'incandescenza al calor bianco. L'autore della Lettera U, mentre s'impegna a contestare i condizionamenti del mercato, corruttori del libero estro inventivo ("procurarsi un successo clamoroso" presuppone "gettare nel fango della pubblicità il segreto" della propria esperienza, Fosca, to. II, p. 241), ricerca poi tutte le forme che assicurino l'interessamento appassionato del lettore. Quanto più nega, disperatamente nega, di scrivere per qualcuno, tanto più accumula dichiarazioni programmatiche, spiegazioni delle elisioni e silenzi, commenti alle proprie "cancellature". L'ultimo romanzo ci offre un campionario sterminato di queste pseudo-omissioni e finti interdetti: "non giova qui riportare", "Non racconterò qui", "rinuncio a descrivere", "impossibile raccontare", "le pagine che ometto": persino la lunga lettera di Fosca, stesa peraltro contro il "divieto" di scrivere, è piena di clausole censorie e reticenti. Le ragioni di una strategia narrativa così contraddittoria si chiarificano alla luce dello specifico orizzonte d'attesa prescelto da Tarchetti: a costituirlo sono le schiere di "giovani frementi", che educati al protagonismo eroico dai libri della stagione passata, patiscono la frustrazione del clima "prosaico" postunitario. Da buon scapigliato, anche il narratore tarchettiano vuole rivolgersi privilegiatamente all'élite colta, ma, in linea con la tradizione del democraticismo risorgimentale, la individua non già nella nuova classe dirigente alto-borghese, sì piuttosto negli intellettuali della "generazione crucciosa", appartenenti alla piccola-borghesia, privi di un adeguato ruolo sociale, ma cultori di buone letture e ricchi soltanto d'esperienza militare, poco importa se maturata nell'esercito ufficiale o fra le fila dei volontari. L'artificio privilegiato del racconto nel racconto gli consente di attivare una strategia al tempo stesso inusuale e massimamente empatica. Comunque sia declinata la comunicazione io-tu confidenze segrete, lettere degli amici, "pallottole di carta" degli amanti, diari abbandonati e ritrovati, confessioni raccolte per strada il lettore reale non fa mai fatica a riconoscersi nel narratario interno. D'altra parte, proprio perché il dialogo con il pubblico elettivo non sfugge le asprezze della rivalità aggressiva, la provocazione tarchettiana assume, in qualche caso, una carica davvero dirompente: non certo, come era nelle intenzioni dell'autore, sul piano delle fedi politiche sì piuttosto nell'ambito dei comportamenti etico-sentimentali. Scrivendo nascostamente al suo amante, Fosca può rinfacciare a chi legge l'ingiustizia di una società che impone alle donne il ruolo di seducenti "oggetti d'amore": Non vivendo che per essere amate, e non potendolo essere che alla condizione di essere avvenenti, l'esistenza di una donna brutta diventa la più terribile, la più angosciosa di tutte le torture. (Fosca, to. II, p. 332) Capitolo IV - Romanzi brevi e racconti d'effetto La scelta della prosa Mia cara nonna. Essendo cotesto giorno quello... del nome tuo, e parendomi, più degli altri, bello... (Vita di Alberto Pisani, p. 102) L'"oda" in onore di nonna Giacinta segna l'esordio della carriera letteraria di Alberto Pisani: "sòlito cominciamento; foggia di esprìmersi la men naturale di tutti, e però la più fàcile" (p. 101). Il giudizio paradossale del narratore della Vita ben sintetizza l'atteggiamento antitradizionale assunto dall'estroso scrittore verso la gerarchia dei generi. Nella sua ansia sperimentale, Dossi non indossò mai "i poètici occhiali" (p. 106), per dedicarsi con coerenza strenua all'elaborazione della prosa moderna, il cui ritmo non si ottiene certo "continuando a tagliuzzare le frasi" (p. 102). In effetti, è l'area della narrativa a illustrare meglio gli elementi di originalità e di debolezza presenti nel movimento scapigliato. Le provocazioni "avveniristiche" delle raccolte poetiche di Praga (Tavolozza, Penombre) e Boito (Re Orso, Il libro dei versi), lo scandalismo macabro-cimiteriale dei componimenti tarchettiani (Disjecta) concentrarono l'interesse dei primi studiosi sulla produzione lirica, condizionando per lungo tempo l'ottica complessiva dell'indagine; tuttavia, oggi non c'è dubbio che nel campo della prosa gli Scapigliati hanno raggiunto i risultati più validi, o almeno più fruttiferi, in quanto sentirono con maggior impegno la gravità e l'urgenza dei problemi che occorreva affrontare, e ne furono spronati ad affilar meglio le armi, a misurare e utilizzare più sapientemente le proprie risorse. 46 Il rinnovamento del sistema editoriale e la ristrutturazione dell'orizzonte d'attesa sollecitano tutti gli autori bohémiens a cimentarsi con le questioni aperte e assillanti della moderna civiltà del romanzo. L'esito finale non era affatto scontato: i pregiudizi contro la produzione narrativa di ampia mole erano ancora forti, se, sul "Pungolo", Nievo faceva 46 V. Spinazzola, op. cit., p. 3. dell'ironia sulla condanna del romanzo, come "genere falso, sintomo di decadimento, figlio aborticcio d'immaginazioni malate" (Ciance letterarie, 3 gennaio 1858). Ma gli anatemi dei critici ufficiali contavano poco ormai davanti alle scelte sicure del pubblico: come pronosticava Rovani nel Preludio ai Cento anni, i romanzi si riproducono, si sparpagliano, penetrano dappertutto, e sono letti persino da chi tuona e sbuffa; persino dalle madri sospettose; persino dagli uomini che si danno importanza; persino da quelli che hanno la missione di far prosperare l'alta filologia e la numismatica e la diplomatica e i concimi e il baco e il gelso. Ecco allora gli "scapigliati romantici in ira" riprendere l'empito polemico degli uomini del "Conciliatore" in difesa del genere "anfibio": adesso, però, oltre le attardate posizioni classiciste, l'obiettivo da colpire era proprio il canone forte della "narrazione mista di storia e d'invenzione", riproposto nelle formule logore degli epigoni manzoniani o riaggiornato in chiave biografica nelle "Vite di Uomini Illustri". L'articolo di Tarchetti dedicato alle Idee minime sul romanzo, pubblicato sulla rivista di Ghislanzoni nel 1865, non ci offre né una trattazione brillante né un nucleo di concetti molto originale, ma la definizione "scapigliata" del genere spicca per chiarezza perspicua: il romanzo, "la perfettissima fra tutte le forme", è la storia del cuore umano e della famiglia, come la storia propriamente detta è il romanzo della società e della vita pubblica (to. II, p. 523). Anche all'interno dell'istituzione letteraria comincia a maturare la consapevolezza di quanto ampia sia la frattura che l'urbanesimo borghese apre fra pubblico e privato, eventi collettivi e vicende individuali, io e mondo. Il rifiuto del modello romantico-risorgimentale, se certo nasce sull'abbrivio delle discussioni esplose negli anni cinquanta intorno all'esaurimento della proposta manzoniana, esprime soprattutto la volontà degli scapigliati di sperimentare altri canoni narrativi più consoni alla modernità. Quando in pieno Novecento, dopo un lungo periodo di latenza, le opere di Dossi e compagni tornano sul mercato, la collana einaudiana che li accoglie s'intitola "Centopagine": nel 1971, Fosca inaugura la serie, seguono L'Altrieri (n. 17), Vita di Alberto Pisani (n. 44), Desinenza in A (n. 66), Memorie del presbiterio (n. 49), cui si affiancano, ripescati in una zona limitrofa, Alpinisti ciabattoni di Cagna (n. 16) e Confessione postuma. Quattro storie dell'altro mondo di Zena (n. 47). Il curatore, Italo Calvino, è guidato dal desiderio di recuperare "testi che appartengono a un genere non meno illustre [dei romanzi di vasto impianto] e nient'affatto minore: il «romanzo breve» o il «racconto lungo»"; il progetto, che vuole "rispondere a un fondamentale bisogno di «materie prime»", punta all'"intensità di una lettura sostanziosa che possa trovare il proprio spazio anche nelle giornate meno distese della nostra vita quotidiana"47. I libri degli scapigliati, ideati, agli esordi della civiltà urbano-borghese, per una lettura concentrata, si offrono davvero come il serbatoio di quelle "materie prime" della narratività moderna, che l'Italia postunitaria cominciava a ricercare e a porgere al nuovo pubblico cittadino. Il rigetto del paradigma romanzesco dei Promessi sposi, reso consunto anche dai melensi imitatori rusticali i 47 I. Calvino, Una nuova collana: i «Centopagine» Einaudi, in Saggi, a c. di M. Barenghi, to. II, Mondadori, Milano 1995, p. 1718. "Carcanini", sbeffeggiati da Dossi (Vita, p. 125) appare motivato secondo orientamenti diversi, talvolta fra loro contraddittori; ma un uguale intento muove gli scrittori di questo periodo: all'avvicinamento al presente, già promosso dai romanzieri della seconda generazione romantica, con in testa Nievo e Rovani, e assecondato dai critici della "Rivista europea" capeggiati da Tenca, deve corrispondere una diversa articolazione delle coordinate spazio-temporali e dei nessi strutturali dell'intreccio, per meglio sollecitare una più agile, intensa lettura. Gli ammirati capolavori stranieri indicavano soluzioni molteplici, esibendo un campionario morfologico di indubbia ricchezza. Abbandonata l'ampia tela del genere storico, i nostri scrittori saggiano, accanto alla misura concentrata del racconto, i canoni inediti del romanzo breve. Nei loro testi, la parabola narrativa perde l'andamento ascendente e compiuto per frangersi in un intreccio unilineare e sincopato, spia di un iniziale crollo di fiducia nel divenire storico e nella dialettica conflittuale delle forze in campo che lo realizzano. L'ambiente cittadino non viene mai delineato con precisione, ma i riferimenti costanti all'età contemporanea e la registrazione delle impressioni intermittenti e distratte del soggetto percipiente ne evocano sfondi e atmosfere. Il sistema dei personaggi si riduce drasticamente alla figura del protagonista, che svetta solitario ed egocentrico, intrattenendo, tutt'al più, ambigui rapporti amicali o fosche relazioni amorose, nell'attesa dell'incontro fatale con la morte. L'onniscienza sovrana del narratore storico, che dall'alto tutto guidava e commentava, lascia il posto alla parzialità della voce narrante interna, incline a affabulare le memorie personali di un prossimo "altrieri". I livelli multipli della narrazione testimoniano il relativismo prospettico con cui la realtà viene osservata. L'interesse del lettore, non più rapito dal groviglio avvincente di trame tortuose, destinate a sciogliersi in un epilogo prevedibilmente catartico, ora si concentra sui ritmi serrati di una vicenda dal finale ricco di suspence spiazzante. L'opzione per le misure del racconto e del romanzo breve, infine, mentre acconsente ai tempi di fruizione veloce del pubblico urbano, sfrutta pienamente i nuovi canali distributivi del sistema editoriale: le appendici dei quotidiani e le pagine della stampa periodica. I nostri autori, occupando con abilità gli spazi messi a disposizione dalla "repubblica della carta sporca", rinnovano la tipologia tradizionale della novella, secondo il doppio schema del "racconto d'effetto" e dello "schizzo" e inaugurano la formula originale dei "centopagine". Nel contempo, la costante infrazione delle norme stereotipe della narratività distesa conforta la polemica agguerrita contro il successo della "letteratura alimentare", la più apprezzata dal "cretinismo italiano" (Dossi), che in quelle stesse sedi trovava il suo luogo d'elezione. Dal passato storico al presente Compiuto il processo unitario, acquisita, anche grazie alle narrazioni storiche, l'identità collettiva di nazione, è giunto il momento di fissare lo sguardo sull'immediato presente. Dossi proclama la "Necessità nell'Arte del Vero Contemporaneo" (N. A., n. 2277), aggiungendo, per chiarire subito la preminenza dell'attributo, di voler "narrare le cose e gli uòmini del tempo mio, non oso più dire come davvero sono, ma quali appàjono ai miei occhi" (Prefazione generale ai "Ritratti Umani", p. 903). Un analogo desiderio d'attualità, tradotto sempre nelle forme della testimonianza soggettiva, alimenta i progetti narrativi dell'intero movimento scapigliato. In quei rari testi in cui lo sfondo ambientale si allontana nel tempo, la scelta, quando non si rivela subito un errore clamoroso (Praga, Due destini), acquista tonalità volutamente straniate, in cui o dominano le note esoterico-fantastiche il medioevo fiabesco dell'Iberia boitiana, l'"epoca assai remota" rivissuta per via onirica dal protagonista tarchettiano delle Leggende del castello nero o prevale il timbro parodico, che mette a confronto mode e costumi di stagioni solo apparentemente contigue, come in Capriccio di Gualdo, dove i salotti settecenteschi della Pompadour accolgono la vicenda ultraromantica del pittore Armando M. Nella stragrande maggioranza dei libri scapigliati, il tempo della storia si situa a una distanza ravvicinata rispetto al tempo di scrittura e il lettore non fatica mai a riconoscere gli scenari della sua quotidianità. Nella disarticolazione delle strutture del romanzo storico, allo spostamento radicale verso la contemporaneità corrisponde un restringimento di campo spaziale altrettanto netto: la dialettica costitutiva della narrazione mista fra collettivo e individuale, orizzonti aperti e luoghi chiusi, si spezza e il racconto si sviluppa nell'intérieur degli appartamenti borghesi. La soffitta del pittore protagonista di Tre storie in una racchiude "un piccolo universo di contemplazioni, di fantasticaggini di pace" (p. 3), rifugio ideale per proibiti incontri amorosi; Anima, il diario di Bazzero, germina dal contrasto tra un "di fuori", "tutto bigio e nebbioso (...) tutto mesto, tutto morto", e un "di dentro tutto santamente allegro e tutto vita" (p. 5); il "letterone" di Cirillo si avvia col riconoscimento che la sua "è pura storia, poco esterna, ma molto interna, come dev'essere la storia di un'anima" (Faldella, Il male dell'arte, p. 60). Infine, se la cornice dell'Altrieri rinserra la vicenda fra le pareti della "più còmoda saletta del mondo" (p. 519), il protagonista della tarchettiana Storia di un ideale coltiva il miraggio di un amore felice solo entro il cerchio protetto di stanze segrete. Nella coppia Domus-mundus, per riprendere il titolo di un poemetto praghiano (Penombre), il primo termine si allarga ad abbracciare il secondo, riassorbendone inquietudini e possibili consolazioni. Esemplari di questa visione introversa e centripeta sono quei racconti, pochi, che alludono a eventi recenti dell'epopea risorgimentale. In un breve passo del Male dell'arte, la spedizione dei Mille diventa "l'affare di Garibaldi" che obbliga il narratore a "scasarsi" dal Napoletano, per rifugiarsi a Roma. Alberto Pisani, per parte sua, "nasce", nel tempo del racconto, fra le pareti di uno "studio bellino" anche per sfuocare, in contrappunto polemico, la nascita vera avvenuta sotto l'eco delle "cannonate infauste" della battaglia di Novara. Tre storie in una di Praga ha come sfondo la terza guerra d'indipendenza: i due protagonisti hanno partecipato all'avventura garibaldina, ma la novella, seppur suggerisce lo sbandamento ideale che serpeggiava fra le schiere dei volontari di basso rango, focalizza lo sguardo sugli intrighi amorosi dei due artisti bohémiens. Anche lo "scartafaccio" della contessa Livia recupera la stagione dell'ultimo conflitto con gli Austriaci, ma nella memoria della narratrice solo conta il tradimento infame del bell'ufficiale Remigio. Insomma, la cancellatura che capovolge il senso della scritta sullo stendardo tricolore, riposto nella canonica di Don Luigi, si riverbera sull'intero panorama letterario, alterandone il sistema di riferimenti politici: "si sarebbe letto un via invece di leggere un viva" (Memorie del presbiterio, p. 31). Sia chiaro: in tutti i testi, la raffigurazione dei casi bellici e la descrizione dei personaggi in essi coinvolti non lasciano dubbi al lettore, anzi gli impongono una decisa assunzione di responsabilità critica. Ma il giudizio complessivo sulla stagione risorgimentale suona tanto più netto quanto più decentrato e tangenziale è il punto di vista di chi la rievoca. Persino il romanzo di Tarchetti Una nobile follia, steso nel 1865, in prossimità dello scoppio della terza guerra d'indipendenza e ambientato durante la seconda, organizza i materiali del testo in funzione dei casi eccezionali di Vincenzo D., subordinando la ricostruzione storica della spedizione in Crimea all'intento ideologico del pamphlet antimilitarista, con la sua ambizione d'universalità. Anche quando il narratore s'impegna nella ricostruzione di un quadro sociale è il caso di Paolina (Misteri del Coperto dei Figini), che sin dal sottotitolo richiama il prototipo dei feuilletons a guidarlo è il desiderio di "lacerare questo velo che ci nasconde" il "segreto della vita intima", giacché la verità "di un dramma domestico" è ben più eloquente "delle grandi tragedie dei popoli" (to. I, pp. 250-1). Così, in quest'opera di denuncia il libro è dedicato "alla santa memoria di Celestina Dolci operaia prostituitasi per fame e morta in una soffitta della via di S. Cristina l'11 gennaio 1863" è arduo trovare l'affresco metropolitano, con i complotti e le "trame" che, nei maestri francesi, animavano l'universo sommerso e ignoto delle "classi lavoratrici e classi pericolose", come suona il titolo di un importante studio di Chevalier sulla Parigi primottocentesca 48. La vicenda familiare di Paolina, al contrario, testimonia l'esilità della nostra letteratura sociale: non solo i "misteri" cittadini sono 48 L. Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale, Laterza, Roma-Bari 1976. pochi e poco romanzeschi,49 ma, in ambito scapigliato, anche la rappresentazione dei "mali della società", nella "loro nudità spaventevole" (to. I, p. 248), rispetta più l'andamento lineare del "romanzo breve" di quanto non segua le volute contorte e digressive del feuilleton. In fondo, come ci suggerisce un altro racconto tarchettiano, i viali di un giardino possono racchiudere un intero microcosmo miniaturizzato (Ad un moscone). In questo panorama, una sola vera grande eccezione va semmai ricordata: i romanzi di Sacchetti. Negli intrecci delle sue opere, l'autore di Entusiasmi inscrive un sistema spaziotemporale che, nell'ancoraggio alla contemporaneità o al recente passato, conferisce spessore storico agli avvenimenti, mentre la struttura pluridimensionale del racconto coordina lo svolgimento dei fatti pubblici con le esperienze private dei protagonisti, a conferma dell'opzione globale per la cifra compositiva del realismo. Ma appunto l'eccezione conferma la regola, e la regola scapigliata decreta il primato assoluto "frammenti" di romanzo. "Frammenti di libri" 49 Cfr. Q. Marini, I misteri d'Italia, Ets, Pisa 1994. conquistato dai E' Carlo Dossi a indicare il motivo di attualità culturale e letteraria che corrobora la battaglia contro il romanzo di grande mole: "Una volta si scrivevano libri, oggi frammenti di libri" (N. A., n. 3519). Non solo perché, nell'età delle conquiste scientifiche, "chi molto dice pensa poco" (N. A., n. 1587), ma soprattutto perché la prosa narrativa degli "artisti davvero", non dei "semplici scrittori" (N. A., n. 1474), distilla poche "goccie d'inchiostro", affatto incompatibili con i "ruffianesmi" della letteratura d'intrattenimento, "primo fra tutti l'intreccio che appassiona e che rapisce" (Màrgine, p. 681). Siamo al secondo obiettivo polemico che acuisce la tensione disgregante della narrativa scapigliata: le convenzioni del romanzo di vasta orditura, quali si erano affermate nella produzione di maggior successo, straniera e italiana, d'appendice e non. La volontà di smontare il modello invalso a campiture larghe e ben scandite è annunciata esplicitamente anche all'interno delle singole opere: io qui non scrivo un romanzo col suo principio, col suo mezzo, col suo fine, colle sue cause, il suo sviluppo e le sue conseguenze, e tutte le belle cose che si leggono nei trattati di estetica; ma bensì raccolgo impressioni di scene e di fatti, sensazioni di luoghi e persone in cui mi sono scontrato (Memorie del presbiterio, p. 25) sappia anzi che il mio racconto è tutto sconclusionato, che non ha né capo né coda, e che non ci voglio impiegare nessuno degli accorgimenti de' narratori (Baciale ‘l piede, p. 92) Tarchetti introduce L'innamorato della montagna, dichiarando esplicitamente: Queste pagine non costituiscono, nello stretto senso della parola un romanzo (...) sono frammmenti di un più gran libro (nota in calce alla prima edizione, citata da E. Ghidetti, to. II, p. 115) Dossi, che ironizza sulla polvere di "Pirlimpimpìna" (Vita, p. 123) per commentare un "trac" sospensivo di capitolo, degno finale di una puntata appendicistica, spiega la differenza fra le due opposte concezioni nel Màrgine alla "Desinenza in A": Non nego che una fàvola concitata, densa di colpi di scena, irritante la curiosità, incalzante la lettura, sia la maggiore fortuna, anzi la dote sine qua non per un romanzo sprovvisto di ogni sapore di stile e d'ogni potenza d'idèa: là è necessario infatti che il leggitore percorra a rotta di collo il volume e precìpiti al fine prima di accòrgersi che l'autore è più di lui soro; inghiotta per così dire il cibo senza aver tempo di rilevarne la insipidità. Nei libri, invece, in cui gli avvenimenti narrati sono un mero pretesto ad esprìmere idèe ed una occasione di suggerirne, deve l'intreccio sì esìstere, ma non troppo apparire (p. 681). Le tecniche e i procedimenti che erano a fondamento del romanzo storico, primo moderno genere "di consumo" in Italia, sono ora trapassati, acquistando in popolarità, nella letteratura "alimentare" dei vari Farina Bersezio Barrili, e fanno bella mostra di sé nei best-sellers d'oltralpe, tradotti e diffusi nelle collane economiche di Treves e Sonzogno: ben comprensibile che gli autori della Bohème, avversi alle "cento nullità letterarie di cui si pasce la curiosità cittadina" (Memorie del presbiterio, p. 17) vi contrappongano narrazioni rapsodiche, frante, nervose, capaci di suscitare, per dirla con Calvino "l'intensità di una lettura sostanziosa". Nella collana einaudiana non avrebbero stonato, infatti, altre opere scapigliate: Riflesso azzurro, il libro d'esordio di Bazzero (Lombardi, Milano 1873, pp. 94) o gli Acquerelli-Schizzi dal mare, raccolti dal De Marchi (pp. 97); la trilogia dell'Amore nell'arte di Tarchetti (Treves, Milano 1869, pp. 159), i racconti lunghi Candaule di Sacchetti e Rovine di Faldella. Nel percorso accidentato compiuto dalla nostra fragile civiltà romanzesca, queste narrazioni costituiscono il primo momento di contestazione interna: sono testi di non eccelso valore, ma ricchi di potenzialità future. Con un'avvertenza importante: il campionario dei canoni compositivi e il repertorio delle "materie prime" sono tanto più fertili quanto meno univocamente declinati: a contrastare la "prostituzione" delle arti e delle lettere a opera del mercato (Paolina, to. I, p. 375), i nostri autori adibiscono una somma di artifici che, impostando strategie diverse, affiancano all'ironia parodica l'eccitazione orrorosa, agli indugi divaganti cari al modello sterniano la suspence del gothic novel, alla fantasmagoria delle trame d'ambiente urbano le "genuine impressioni" di un viaggiatore colto. In questa sperimentazione, estranea al gusto triviale del pubblicaccio, gli scapigliati ci offrono un interessante assortimento morfologico, destinato a fruttificare nelle stagioni successive. In coerenza piena con la poetica dell'umorismo, teorizzata in una larga sezione delle Note azzurre, gli "antiromanzi" dossiani prediligono i moduli narrativi ricavati dai "maestri" dello straniamento, Sterne e Jean Paul. Il recupero dell'"altrieri" non si distende nella trama fluida delle confessioni memoriali, ma si condensa in tre brevi episodi-capitoli, "tre tentativi" (N. A., n. 2382). Lisa, Panche di scuola, La principessa di Pimpirimpara segnano le tappe irrelate di una Bildung che s'arresta alle soglie della giovinezza, ben al di qua di ogni maturazione socio-psicologica. Nella Vita di Alberto Pisani, "la disseminazione dell'intreccio" (A. Saccone), avviata, come abbiamo visto, con l'incipit al IV capitolo, procede con l'inserimento dei raccontini di secondo grado, recitati da nonna Giacinta o tratti dal libro di Alberto che, parodiando i modelli romantici e scapigliati di maggior fortuna, gettano luce fortemente equivoca sull'esperienza artistica e amorosa del "bimbo-in-cilindro". Infine La desinenza in A, frutto di "gioventù" un po' tardivo, s'avvale di un montaggio scenicomelodico, che nell'ibridazione dei generi più disparati "magazzeno di rigattiere-antiquario" la definisce l'autore nega ogni schema romanzesco, ogni congegno narrativo. E tuttavia è opportuno subito chiarire che il progetto letterario di Dossi non punta unicamente, come sostiene la maggior parte dei critici, a mettere a nudo gli artifici e gli stereotipi compositivi, cancellando ogni riferimento di realtà. Soprattutto nell'Altrieri e nella Vita di Alberto Pisani, i "frammenti di libri", pur senza rispettare il tradizionale andamento lineare, organizzano la serie degli episodi intorno a un nodo cruciale: il rapporto conflittuale tra l'io e il "nemico mondaccio". Nel primo testo, la memoria accompagna il piccolo Guido nel suo progressivo percorso di crescita all’interno degli ambiti istituzionali famiglia, scuola, società e la triplice scansione è racchiusa entro una circolarità manifesta: il prologo I miei dolci ricordi! e l'epilogo E qui mi fermo sono collocati entrambi nel tempo presente e nello spazio dell’intimità borghese. Nella Vita, la narrazione sfrangiata si raggruma in blocchi che si rimandano per antitesi o simmetria e i raccontini inseriti sottolineano, oltre al sistema dei valori ideologici, i nuclei semantici forti. Se Il Mago circoscrive il luogo deputato all'attività creativa moderna, i brani tratti dalle Due morali replicano la tematica dominante delle relazioni di coppia. Sul piano della trama principale, alla doppia nascita di Alberto (fra i libri, nell'esordio anticipato, poi, sullo sfondo della battaglia di Novara) seguono i tre capitoli infantili che, in un'unica sequenza analettica, delineano il vuoto apertosi con la morte dei genitori, solo parzialmente colmato dall'autorevolezza bonaria di nonna Giacinta. Il capitolo quinto, in stretto raccordo con il primo, rilancia la narrazione: dopo una riaffermazione marcata di materialismo laico ("il vostro oblio è il mio nulla", p. 126), il ritratto del protagonista chiarisce la sua indole melanconica, misto di narcisismo ferito e di angosciosa paura degli altri, e ne illumina le ideali aspirazioni d'arte e d'amore; al termine, con un'intonazione e un'ottica volutamente incerte, La cassierina ci riporta indietro di dieci anni, all'incontro di Alberto fanciullo con una "tosuccia" dagli "occhioni neri e calamarenti" (p. 132). La connessione con l'intreccio principale è attuata allusivamente nell'episodio che apre il capitolo sesto, dove compare donna Claudia, ed è esibita con rifrangenza luminosa nella scena finale del capitolo tredicesimo, prima della conclusione parodica, quando il richiamo alla "bottiglia spezzata" denuncia l'impossibilità di recuperare il tempo infantile, unico momento in cui la confidenza con la femminilità bambina assume i toni elegiaci dello scambio generoso: così come era stato con Lisa. Ora la constatazione amara, "Più non era stagione di potersi ajutare" (p. 230) sanziona l'esito fallimentare cui approdano i vari tentativi di conciliare "mondo interno" e "mondo esterno". Il progetto del viaggio si riduce alla conta della "valigeria" familiare (p. 233); la decisione di avvicinare la donna amata, mai raffigurata direttamente solo evocata dal coro discorde delle "voci" estranee, s'infrange alla notizia improbabile della sua morte improvvisa. Non c'è dubbio che a reggere i libri dossiani sia il letteratissimo "principio dell'antiletteratura", giusto il titolo di un bel saggio di Spera50, ma la carica di contestazione non si limita a corrodere le norme letterarie convenzionali, investe con energia dissolvente il sistema dei codici di comportamento individuali e collettivi. La scelta dell'espressionismo, cifra che accomuna Dossi al primo Faldella, si rivela, infatti, tanto più coerente quanto più il pastiche stilistico trova rispondenza efficace nell’ordinamento dei materiali romanzeschi. La controprova è offerta dai libri del "Dossi buono" (La Colonia Felice, Il Regno dei Cieli), in cui il progetto utopico è affidato, con esito malcerto, a un paradigma tradizionale che uniforma lingua stile e intreccio. 505 F. Spera, Il principio dell'antiletteratura: Dossi-Faldella-Imbriani, Liguori, Napoli 1976. Così è anche nell'autore piemontese, la cui eversione linguistica rischia di girare a vuoto, quando non s’appoggia allo stravolgimento dei procedimenti narrativi. Nel racconto d’esordio, Il male dell'arte (1874), Faldella sperimenta le tecniche della distorsione prospettica, in una cornice ad incastro che prevede la doppia figura del narratore e del testimoneprotagonista. Nell'affastellamento di motivi fantastici (Quasi dal tedesco, suona il sottotitolo) e di richiami gotici (persino un omicidio), "il pistolone narrativo" di Cirillo (p. 59) allinea la serie fallimentare delle "prove" creative, instaurando con il racconto di primo grado una dialettica duplice: ultraletteraria nel "rifacimento" ironico del ritratto d'artista, ideologica nell'opposizione fra l'esperienza eccezionale del genio e la banalità del lavoro quotidiano (i due narratori si incontrano in un'aula di tribunale durante "una certa causa per la corda di un pozzo" p. 52). La "scelta parodistica dello schema della confessione romantico-scapigliata"51 rivela tutta la sua felicità compositiva nel confronto con Rovine (1879), un racconto biografico in 49 capitoletti, dove l'irrisione del letterato "malato di ideale" si limita alla sfera tematica, senza intaccare la 51 A. Briganti, op. cit., p. 22. compagine strutturale. Al discorso, condotto da una voce esterna e onnisciente, non sono estranei i timbri di quel moralismo che tanto spazio occuperà nelle successive opere faldelliane, ideate ormai fuori dalla temperie scapigliata. Un appendicismo raffinato Calati nella modernità dell'urbanesimo e pienamente coinvolti nella "repubblica della carta sporca", Praga e Tarchetti partecipano con fervore alacre al rinnovamento sprovincializzante che caratterizza l'intero movimento. Nella polemica contro il successo della letteratura di consumo, anch'essi prediligono la misura del romanzo breve, entro cui meglio risaltano i procedimenti di scomposizione, incastonatura, dislocamento prospettico. Tali scelte, tuttavia, non sono riconducibili al canone dissonante dell'umorismo sterniano (F. Portinari, F. Bettini, R. Severi), che i due autori certo ben conobbero e talvolta imitarono, ma senza mai assumerlo a modello incontrastato. Nella costruzione delle loro opere, Praga e Tarchetti danno vita, piuttosto, a una sorta d'appendicismo contratto e anticonvenzionale, in cui suggestioni diverse si intrecciano spesso in equilibrio precario. Nelle ventiquattro puntate di Due destini, pubblicato sul "Pungolo" (30 dicembre 1867-18 febbraio 1868), la vicenda di Teodoro e Ippolito, due giovani amici-nemici, riprende gli stereotipi canonici della narrativa popolare, dall'agnizione all'analessi (Storia anteriore), dallo scontro fra personaggi positivi e geni del Male alle atmosfere cimiteriali, fino alla "catastrofe" che avviene dopo una serie di "complicazioni" e "insuccessi" (secondo i titoli degli ultimi tre capitoli) e così via feuilletonando. Ma lo sfondo storico (primo Settecento tra Valperga e Ginevra), la trama sconclusionata, l'opacità fisionomica dei protagonisti, la commistione di un linguaggio aulico e di una scrittura sciatta, tutto ciò rende l'opera un vero piccolo disastro. Nelle Memorie del presbiterio, invece, la frantumazione dell'intreccio è funzionale al punto di vista di un narratoreartista, intento ad allineare "impressioni di scene e di fatti, sensazioni di luoghi e di persone", che convergeranno ad unità solo "per mero effetto del caso" (p. 25). I racconti di secondo grado, graficamente marcati (Il romanzo del sindaco, Storia di Rosilde, Il romanzo del dottore), valgono a cancellare l'opposizione irriducibile fra buoni e cattivi, mostrando gli struggimenti nascosti che anche l'umanità più semplice patisce. La meta ultima ricercata da Praga, con cui Sacchetti entra in sintonia, è una sorta di sperimentalismo appendicistico, ricco di umori e venature: il gusto irridente per le mode gotiche (l'allucinazione del cappello danzante, pp. 25-7) si intreccia al rifacimento parodico della storia di Renzo e Lucia ma virata in tragedia; il montaggio digressivo le note sul materialismo e la cultura della "generazione crucciosa" corrobora, non deprime, l'intensità delle scene di pathos; le pause di rallentamento, siano panorami naturali o profili ritrattistici, esibiscono l'abilità pittorica di Emilio, senza cedere alle divagazioni funamboliche. Solo in un impasto così eterogeneo, d'altronde, i dichiarati propositi dell'"arte per l'arte" (p. 110) possono non solo lievitare ma addirittura favorire il clima tenebroso in cui svolge la vicenda. Un'ampia descrizione del torrente Strona, collocata all'inizio del capitolo XVIII, ci suggerisce che l'esistenza umana, anche nello sperduto paese di montagna, non scorre "tranquilla come un idillio, monotona come il ciangottare di un ruscello", ma s'ingarbuglia misteriosamente come nei cupi drammi allestiti al Teatro Fossati: le memorie che la rievocano dovranno allora seguire un percorso accidentato, non dissimile dai "balzelloni" compiuti dal torrente. Figuratevi che egli non vuol saperne neppure per un minuto di quella linea retta, di quella misura costante che la convenienza dovrebbe insegnare anche ai torrenti, per trasformarli, se Dio vuole, in quieti rigagnoli, in pingui e onesti canali. Dimentico dei suoi doveri, del grande scopo della creazione che è quello di impinguare le tasche del negoziante di grano e di bestiame, sta asciutto la maggior parte dell'anno; poi, ad un tratto, quando il ghiribizzo gli salta, devasta pascoli e distrugge vigneti, cosa contraria all'economia politica; abbatte baite e casolari, attentato iniquo, come ognun vede, all'ordine e alla sacra prosperità della famiglia. (Memorie, pp. 110-1) Il paragone metanarrativo affastella provocazioni d'ordine estetico e extraestetico in un amalgama davvero balordo e contraddittorio; i diversi livelli di discorso si sovrappongono, creando un reticolo confuso sia sul piano delle idee sia nei riferimenti alle poetiche: ma a mimare un simile groviglio tendevano, appunto, sia l'intreccio appendicistico delle Memorie sia la dissonante scrittura praghiana. Ancor più varia la gamma di strategie narrative messe in atto da Tarchetti, considerato da Spera "una specie di fondatore del romanzo e del racconto italiano moderno".52 A muoverlo è un inesauribile anelito alla sperimentazione, che attinge materiali e moduli contemporaneamente dalle opere di Poe e Hugo, Hoffmann e Dumas, Sue e Gautier, Sterne e Guerrazzi. Nel campo della narrazione, dopo Paolina, esile feuilleton di denuncia sociale, e Una nobile follia, pamphlet antimilitarista con struttura a cannocchiale, la trilogia Amore nell'arte inaugura in Italia il "ritratto d'artista" (Künstlerroman); Fosca, infine, al termine di una breve ma fertile carriera, offre ai lettori la storia di una maledetta "passione d'amore", come suona il titolo del bel film che Ettore Scola trasse dal libro nel 1981. Altrove, la misura del racconto lungo consente a Tarchetti di mettere a frutto la tecnica divagante con intento parodico: Ad un moscone. Viaggio sentimentale nel giardino Balzaretti (1865), L'innamorato della montagna. Impressioni di viaggio (1869). Debitori sin dal titolo di Sterne e Rajberti, i due testi circoscrivono il tempo-spazio entro cui si distende il cammino distratto del moderno flâneur. Anche Un suicidio all'inglese 52 F. Spera, La letteratura del disagio. Scapigliatura e dintorni, cit., p. 145. (1865) si apre sulle cadenze lente del viaggio sentimentale, ricco di pause descrittive e di aneddoti curiosi; poi però l'andamento narrativo muta: grazie al consueto gioco di scambi epistolari, prende il sopravvento, seppur con ritmo poco trascinante, la trama dell'intrigo passionale con tanto di tragico equivoco fra gli amanti, un'avventura esotica, un figlio della colpa e un presunto incesto fra fratelli. Analoga e opposta la commistione di generi e registri che sottostà a In cerca di morte, edito postumo da Farina nel volume Racconti umoristici (1869): qui l'inserimento di alcune lettere sorregge, nel rifacimento ironico, il motivo della quête suicida e prepara il più pacificante degli happy end. Insomma, al di là degli esiti più o meno felici, ciò che colpisce nel ventaglio polimorfo delle tipologie narrative è la fedeltà tarchettiana al genere indicato nel saggio sulle Idee minime: se "il romanzo è la storia del cuore umano e della famiglia", i testi dello scrittore di S. Salvatore Monferrato ce ne danno una rappresentazione in negativo, senza, però, mai abbandonare la linearità di un intreccio che riconduce sempre gli eventi collettivi entro la sfera privata dell'io. Le coordinate spazio-temporali delimitano spesso un universo "separato": il protagonista dell'Elixir dell'immortalità, che pure vive nei secoli più travagliati della storia europea, si sofferma solo sul rapporto amoroso con Ortensia; l'avvenimento cruciale di Storia di una gamba, l'operazione chirurgica, è collocato sullo sfondo della terza guerra d'Indipendenza, ma, come è consuetudine scapigliata, nulla ci viene detto del combattimento del Caffaro, prologo alla vittoria garibaldina di Bezzecca. Al pari delle esplorazioni di Alberto Pisani, le avventure di viaggio del letterato che sfugge ai creditori non superano i giardini o le periferie urbane (Ad un moscone), e, quand'anche si spingono sulle vette "orride" dell'appennino meridionale (L'innamorato della montagna), il resoconto del tragitto avvalora i timbri "sublimi" dell'egocentrismo solitario.53 Tarchetti, cogliendo ed esasperando le suggestioni profonde che permeano il clima culturale post-unitario, pare puntare alla fusione dei due schemi narrativi individuati da Lämmert: "racconto di una vita" e "racconto di una crisi" 54. Nella concentrazione del racconto lungo e del romanzo breve l'intera biografia del protagonista si condensa, acquistando senso, nell'acme di un esito risolutore, per lo più fatale: "si può dire che 53 M. Muscariello, L'umorismo di I. U. Tarchetti, ovvero la passione delle opinioni, in AA. VV., Effetto Sterne, cit., pp. 26061. 54 E. Lämmert, Bauformen des Erzählens, Metzler, Stuttgart 1967. l'ultimo giorno di Bouvard fu il riassunto di tutta la sua vita."(Bouvard, to. I, p. 653) Anche per questa inclinazione alla sintesi abbagliante, Tarchetti è lo scrittore emblematico della temperie scapigliata: i suoi testi illustrano allo stesso tempo il fervore coattivo che dominava il carattere di quei letterati portati a cercare nell'esperienza unica e eccezionale dell'"amore nell’arte" un'intensità emotivo-sentimentale che i tempi prosaici ormai più non consentivano. A dare profondità di campo ad un resoconto romanzesco che delinea il percorso esistenziale con la stringatezza deflagrante dell'eccesso è l'adozione continua, ossessiva della struttura ad incastro. Lungi dal produrre effetti di straniamento e di "pluridiscorsività" (I. Crotti) o, all'inverso, di certificazione pre-naturalistica (E. Ghidetti), l'artificio determina un duplice risultato: per un verso, dinamizza vicende programmaticamente lineari; dall'altro, corrobora il tono melodrammatico di un discorso che non rinuncia mai allo scambio empatico io-tu. Ecco perché a dominare la pagina tarchettiana è sempre il timbro dell'allucinazione visionaria, in una ricerca convulsa d'espressività accesa. La stessa concentrazione d'effetti che fonda lo statuto moderno dell'altro genere prescelto dai narratori scapigliati: il racconto. Il rinnovamento della novella Come annota De Meijer, la "rifondazione" ottocentesca del genere novellistico presuppone il ripudio della cornice esterna che raggruppa i singoli testi55: ebbene, il momento di rottura va collocato proprio nel primo quindicennio unitario, quando Praga Boito Bazzero cominciano a pubblicare storielle, scenette, acquerelli, racconti su giornali e gazzette, senza preliminarmente preoccuparsi di organizzarli entro un ordine macrostrutturale. Da questa ricca e confusa congerie di prose, ancor oggi in parte dispersa,56 prende avvio il racconto moderno, destinato a dare frutti splendidi nella successiva stagione verista e a prolungare la sua fortuna per tutto il corso del Novecento. Ad essere inaugurate sono, da una parte, le misure e i toni del "bozzetto", in chiave di estroso impressionismo linguistico: ed ecco le Figurine di Faldella, gli Schizzi a penna di Praga, gli Acquerelli di Bazzero: tutti, in fondo, raggruppabili, sotto 55 P. De Meijer, La prosa narrativa moderna, in Le forme del testo. La prosa, vol. 3, to. II, LIE, a c. di A. Asor Rosa, Einaudi, Torino 1984, p. 782. 56 E. Paccagnini, Contributo alla bibliografia d'esordio di Tarchetti. Testi dispersi e varianti, in "Otto/ Novecento", marzoaprile 1994. l'etichetta di "briciole letterarie" (N. A., n. 2527), indicata da Dossi per le sue Goccie d'inchiostro (Sommaruga, Roma 1880). In direzione analoga e opposta, si avvia la rifondazione dello schema narrativo della novella, il genere per eccellenza della tradizione italiana. Nella stagione postunitaria, l'«"ascesa" della forma breve» (P. De Meijer) assume un ritmo così strepitoso perché si integra nell'orizzonte d'attesa del pubblico urbano-borghese: quell'intensità fruitiva, a cui accennava Calvino, trova corrispondenza piena nella struttura unitaria e compatta del "racconto d'effetto" (Poe). Come aveva intuito l'autore della Lettera rubata, il "principio della composizione" moderna chiede sintesi e "unità d'impressione": Il racconto propriamente detto, a nostro giudizio, offre indiscutibilmente all'esercizio del talento più elevato il campo migliore che si possa trovare nel più ampio dominio della pura e semplice prosa (...) A tale proposito basti dire soltanto, in questa sede, che nella composizione di quasi tutte le categorie l'unità di effetto o d'impressione è un punto di massima importanza.57 57 E. A. Poe, I "Twice-told-tales" di Hawthorne, in Opere scelte, a c. di G. Manganelli, Mondadori, Milano 1971, pp. 1384-5. La riflessione sul romanzo, che non "potendosi leggere tutto in una sola seduta si priva, naturalmente, dell'immensa forza derivabile dalla totalità", conduce Poe a ribadire che il racconto è "il più vantaggioso banco di prova" per il "genio più sublime". Il confronto canonico fra gli scapigliati e lo scrittore americano (M. Garré, S. Rossi, G. Finzi, C. Apollonio) rivela la sua efficacia interpretativa non tanto sul piano tematicocontenutistico ma sul terreno decisivo delle intenzioni progettuali: l'impianto morfologico della short story indicava a Tarchetti e compagni lo strumento più adatto per scardinare i modelli anacronistici della narratività prevalenti ancora nel nostro sistema letterario: le "novelle morali" alla Soave, intrise di stucchevole conservatorismo didattico-pedagogico; le novelle in versi di Carrer e Prati, sempre più lacrimosamente melense; gli idilli campestri che, sullo sfondo dello sviluppo urbano, la letteratura rusticale aveva rilanciato. La provocazione rivolta al lettore borghese era tanto più irriverente quanto più l'anticonformismo delle situazioni e dei personaggi era calato in un'orditura inedita, retta da specifici procedimenti funzionali: l'"effetto puntuale", illuminato dalla scelta di un caso estremo ed enigmatico; la tensione posta sul finale, spesso marcata dalla bipartizione "chiusa-scioglimento"; il parallelismo comparativo, ideale per esporre dinamicamente il dualismo scapigliato. Alcuni di questi racconti mostrano il canone di genere con nettezza impareggiabile. Nell'Alfier nero, il "pezzo segnato" non lascia dubbi su quale sia il "perno" della partita; le due strategie di gioco sono descritte nel rispetto dell'alternanza dei punti di vista; l'acme conclusiva, fragorosa come il colpo di pistola che abbatte l'Oncle Tom vincitore, e l'epilogo, dislocato in altro tempo e altro spazio, suggellano la reversibilità delle coppie antitetiche ragione-follia, ordine-disordine, malattiasalute. Diversamente orchestrato, ma tipologicamente analogo lo schema narrativo di Una scommessa o di Un corpo. Anche nelle novelle di Gualdo e di Camillo Boito, sia la sfida fra Arnoldo D. e il conte Sotowski sia lo scontro fra il pittore e l'anatomista Gulz esaltano gli artifici binari dell'intreccio: e la posta in gioco (il successo artistico, la bellezza femminile) acquista un valore unico ed assoluto. Se alcuni titoli designano subito l'"effetto centrale" (Poe) su cui poggia il racconto Il pugno chiuso (A. Boito), Macchia grigia (C. Boito), La lettera U, Un osso di morto (Tarchetti) la tessitura delle singole opere esemplifica, di volta in volta, le varie tecniche: ancora la geminazione oppositiva e speculare, I fatali, Storia di un gamba (Tarchetti), Riccardo il tiranno, Scene campagnuole. Un confronto (Sacchetti); l'incorniciamento, Tre storie in una (Praga), Storia di un ideale (Tarchetti), Notte di Natale (C.Boito), Da uno spiraglio (Sacchetti); il gioco parodico di accostamenti seri o dissonanti che si sciolgono nella pointe del finale: Dall'agosto al novembre (C. Boito), Re per ventiquattrore, La fortuna del Capitano Gubart (Tarchetti), Allucinazione (Gualdo). Attingendo dal repertorio vasto della produzione d'oltralpe, gli scrittori scapigliati sperimentano sia tipologie narrative più riconoscibili (fantastico, umoristico, sentimentale) sia schemi non ancora codificati (la novella d'ambiente cittadino, il racconto di costume, il Künstlerroman). La varietà dei moduli non incrina la norma costitutiva del genere a misura breve, anzi la convalida, aiutandoci a cogliere la ragione specifica della sua "rifondazione" nell'orizzonte storico dell'Italia unita. Lukàcs ha studiato il rapporto d'antagonismo fra la forma "singola" della novella e la "totalità degli oggetti" propria della rappresentazione romanzesca, contrastivo e strutturante. individuandone l'elemento La novella non pretende di raffigurare completa la realtà sociale (...) La sua verità deriva dal fatto che un caso singolo per lo più estremo - è possibile in una società determinata, e nella sua mera possibilità è caratteristico di essa. (...) Perciò non ha bisogno di mediazioni, per avviare i fatti, e può rinunciare a prospettive concrete. Questa particolarità della novella, che tuttavia dal Boccaccio a Cechov ammette variazioni interne all'infinito, consente che storicamente essa appaia tanto come anticipatrice quanto come retroguardia delle forme grandi, come espressione artistica del non-ancora o del non-più della totalità rappresentabile.58 L'espressione "non-ancora non-più" è perfetta per indicare il momento di passaggio che il nostro paese conosce nel primo quindicennio unitario: la fase di transizione dalla "poesia" degli ideali risorgimentali alla "prosa" dello Stato nazionale, dalla comunità aristocratico-contadina alla collettività borghesecapitalistica, dal sistema letterario ristretto ed elitario al mercato editoriale del consumo potenzialmente ampio. 58 G. Lukàcs, Solzìnitsyn: "Una giornata di Ivan Denisovic" in Marxismo e politica culturale, il Saggiatore, Milano 1972, pp. 234-5. La narrativa degli scapigliati pare declinare con lucentezza sfolgorante le contraddizioni della stagione del "nonancora non-più". I "racconti d'effetto" e i "frammenti di romanzo" non solo parcellizzano la rappresentazione della società uscita dalle lotte per l'indipendenza, ma, prescegliendo un "caso singolo per lo più estremo", lo collocano all'interno di una struttura narrativa che ne esalta l'unicità sintomatica. Anche per Ejchenbaum "la novella è una forma fondamentale, elementare", "intrinsecamente opposta" alla "forma sincretica" del romanzo: La novella è un problema d'impostazione di un'equazione ad un incognita; il romanzo è un problema su regole diverse, risolvibile con l'aiuto d'un intero sistema di equazioni a più incognite, in cui hanno maggior importanza le costruzioni intermedie che il risultato finale. La novella è un enigma; il romanzo una specie di sciarada o di rebus.59 B. Ejchenbaum, Teoria della prosa in AA. VV, I formalisti russi, a c. di T. Todorov, Einaudi Torino 1968, p. 241. 59 Le "incognite", gli "enigmi" che gli autori della Bohème milanese porgevano al loro pubblico elettivo non erano di facile soluzione, nemmeno sul piano della tecnica letteraria. Anche per questa ragione storico-morfologica, i loro testi non sono capolavori: la sperimentazione delle "materie prime" e dei moduli compositivi della narrativa moderna era ricerca ardua, talvolta destinata a un esito precario se non addirittura al fallimento. E tuttavia non c'è dubbio che alcune delle Storielle vane di C. Boito o dei Racconti fantastici di Tarchetti conservino una ricchezza di suggestioni inedita e mantengano il fascino problematico del prototipo esemplare. Il campo del fantastico Nella "rifondazione" del genere novellistico, la grammatica narrativa del racconto fantastico assolve una funzione di spicco. Imitando le opere dei grandi maestri, Hoffmann Poe Nerval Gautier, gli scrittori scapigliati saggiano l'insieme dei procedimenti più idonei a dare forma alle fantasie maledette e perturbanti che il nostro romanticismo "conciliatoristico" aveva cautelosamente emarginato. L'intérieur borghese si affolla di fantasmi, incubi, allucinazioni: "Rammentò la scena spaventosa. Era sogno, delirio? Era una cosa orribile" (Sacchetti, Da uno spiraglio, p. 289); nei sogni notturni, spettri del passato lanciano oscure premonizioni: "Erano fatti?, od erano visioni?" (Tarchetti, Leggende del castello nero, to. II, p. 41); nelle case avite risuonano melodie strazianti che conducono a morte padri egoisti: Era un'agonia di note. Poi l'ultima vibrò lunga lunga, tetra, triste, soprannaturale, con un accento che una mente umana non può imaginare. Pareva partire dalle viscere della terra e come una freccia volare in cielo. Era il grido supremo, il grido di chi muore d'amore. Al conte sembrò riconoscere in quell'accento l'accento d'Ida. (Gualdo, La canzone di Weber, p. 150) Finalmente esibite, compaiono anche nella nostra letteratura la "carne, la morte e il diavolo", con il corteggio delle sulfuree immagini care all'"agonia romantica" (M. Praz). La fortuna di questo sottogenere nella produzione scapigliata deriva da una doppia motivazione: la volontà battagliera di chiudere definitivamente con il manzonismo dei rusticali e le sdolcinatezze dei novellatori in versi s'innestava nel clima positivista dominato dallo scontro fra spiegazioni razionali, condotte in nome delle nuove discipline scientifiche (magnetismo, messmerismo, ipnotismo), e la fascinazione artistica per i misteri insondabili. L'alternativa è denunciata negli stessi testi: "Avevo dinanzi a me un meraviglioso problema di scienza e fors'anche un fatale argomento di dramma" (Il pugno chiuso, p. 14); al centro di Storia di una gamba c'è "il segreto di un fenomeno strano, di un fenomeno spaventoso", connesso ai "rapporti fra patologia animale colla clinica psicologica", che solo la testimonianza d'arte potrà "afferrare" (to. II, p. 189). E le ricorrenze dei termini "fatale" e "strano" davvero si sprecano. La struttura del racconto fantastico porge, infatti, lo schema migliore per rompere con le norme compositive più antiquate, rispondendo pienamente ai dettami della poetica scapigliata. L'"esitazione di lettura", prima condizione del genere secondo Todorov60, non solo impedisce ogni commento morale o pedagogico, ma impone al fruitore un atteggiamento di dubbio complice: lo scarto irriducibile fra la voce del narratore e la percezione allucinata del personaggio amplifica la "visione ambigua" che nessun finale può chiarire. Concentrando il fuoco 60 T. Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 1977. narrativo sull'enigma da sciogliere, la scrittura esalta l'"effetto puntuale", cardine del racconto; poiché il fantastico si gioca, soprattutto nel secolo XIX, sulla contraddizione fra due livelli di realtà (naturale/soprannaturale, noto/ignoto, certo/possibile, razionale/irrazionale, latente/manifesto)61, gli scapigliati vi calano le innumerevoli polarità del loro conclamato dualismo. Il sistema delle coordinate spazio-temporali è stravolto da moti convulsi di stasi e accelerazione, fissità monomaniacale e euforie demoniache, e il primato del "superlativo e l'eccesso" 62 non solo infrange ogni norma di ragionevole misura e di moderato buon senso, ma ben s'inserisce nella forma narrativa del "non-ancora non-più", fondata sul "caso singolo per lo più estremo". L'incipit del Pugno chiuso non lascia dubbi sul grado parossistico dell'evento narrato: "Non avevo mai visto un caso più spaventoso di plica"(p. 13), mentre nelle novelle tarchettiane, "circostanze singolari e incomprensibili", "fenomeni singolari", "sentimenti inesplicabili" introducono sempre nel "regno inesplorato" della "superstizione e del terrore". Se Il pugno chiuso di Arrigo Boito è "forse la più perfetta «novella fantastica» prodotta in Italia nel secondo Ottocento"63 e 61 Cfr. AA. VV., La narrazione fantastica, Nistri Lischi, Pisa 1983. 62 T.Todorov, op. cit., p. 96. 63 Un corpo del fratello Camillo eleva al quadrato "l'esitazione irrisolta fra spiegazione casuale e spiegazione meravigliosa"64, i Racconti fantastici dell'autore di Fosca ci offrono un campionario ricco e sfaccettato, che la critica più recente ha illustrato nei suoi molteplici risvolti: il tema del "corpo diviso" (V. Roda), l'"intrusione di una possibile illogicità" nell'ordine naturale (M. Colummi Camerino), le ossessioni sessual-religiose (M. Garré), la dimensione di onirismo notturno (G. Tardiola), il motivo dei "mondi eterogenei" (M. Farnetti), il "dispositivo dell'oggetto mediatore" (L.Lugnani), le tecniche dell'equivoco e dell'"errore" (N. Bonifazi). E' impossibile dare una descrizione analitica delle tante novelle in cui gli autori scapigliati riaggiornano, sul modello degli amati Hoffman Poe e Gautier, le suggestioni dell'irrazionalità perturbante. Più utile forse suggerire una distinzione non rigida, ricavata dallo schema todoroviano, che delinea due campi vicini, spesso convergenti, ma non del tutto omologhi: nel primo, Tarchetti, insieme con l'Arrigo del Pugno chiuso, predilige i "temi dell'io"; nel secondo, Camillo Boito, cui R. Ceserani, Una perfetta novella fantastica, postilla a A. Boito, Il pugno chiuso, p. 48. 64 E. Scarano, L'anatomia del corpo in una storiella vana di C.B., cit. s'affianca il sacchettiano Da uno spiraglio, ama l'esplorazione dei "temi del tu". Nei testi tarchettiani più rispettosi del paradigma ambivalente del genere (anche se per tutti Ceserani conia il neologismo di "racconti fantasticizzati"), è la percezione distorta dell'io narrante a guidare il discorso. I protagonisti dei Racconti fantastici sono esseri "fatali" nei quali la dissociazione metamorfica e schizofrenica della personalità altera, in un delirio rovinoso, la ricognizione della dimensione spazio-temporale. Non c'è dubbio che simili impulsi paranoici governino anche i rapporti con la figura femminile, ma ad eccezione dello Spirito in un lampone, risolto peraltro con un poco ortodosso happy end, la narrazione non rende mai la donna soggetto attivo nello scontro fra reale e sovrannaturale. Silvia, Ulrica, la dama del castello nero sono sì coinvolte nella logica fobica del loro compagno, ma costui resta l'unica vittima delle lacerazioni psico-somatiche e il solo portatore della "immaginazione sregolata". Sarà, piuttosto, al di fuori di questo specifico sottogenere che l'erotismo femminile, ricco di pulsioni indomabili, travolgerà ogni barriera e confine (Fosca). Diverso e più curioso il caso delle Storielle vane di Camillo Boito. In questi racconti, in cui il fantastico sfiora il campo dello "strano", i "temi del tu" circoscrivono con limpidezza l'area della sessualità morbosa: l'oggetto del desiderio è davvero al centro del racconto e determina le reazioni sconvolte del protagonista: Carlotta, dalla "sensibilità eccessiva" (Un corpo, p.27), la gitana "empia" del Demonio muto, Teresa di Macchia grigia, la "fanciulla bizzarra" di Santuario. E' vero che le ossessioni in Boito non si traducono mai nelle allucinazioni angoscianti alla Poe: le note equivoche delle Storielle vane sono eminentemente elusive; la "visione ambigua", se pur lambisce l'Unheimliche (la coincidenza "spaventosa" della morte di Carlotta, i denti della merciaia di Notte di Natale, con il facile richiamo a Berenice), lo annebbia con una patina di intelligenza ironica che nell'"esitazione" del genere immette una buona dose di criticismo ludico. E tuttavia gli indizi "maledetti" sono troppi e troppo diffusi per attribuire all'autore "la disposizione distaccata e controllata" (P. Nardi) o la "scettica imperturbabilità dello spettatore" (R. Bigazzi). Sotto l'effigie della "parnassiana bellezza" è, in realtà, sempre sotteso "quel mescolamento di attrazione e repulsione che promana da qualunque esistenza senza possibilità di fuga o di controllo" 65. Forse lo intuirono i cautelosi lettori ambrosiani che, per evitare il 65 L. Strappini, La memoria e la scrittura, "Senso" di Camillo Boito, in "FM Annali", n. 2, 1979. contagio ammaliante dei fantasmi boitiani, preferirono prendere alla lettera il titolo e reputare le Storielle il divertissement di un serioso architetto. Capitolo V La narrativa dell'io L'eclisse del narratore onnisciente Secondo Debenedetti, a metà Ottocento, l'istituzione letteraria europea conosce un sorta di rivolgimento di vasta portata democratica: "Era nato una specie di diritto di voto, a suffragio molto allargato, nel pubblico" 66. Fra le varie numerose conseguenze che il rinnovamento produsse anche nella nostra asfittica repubblica delle lettere, il saggista sottolinea la crisi del "romanzo del «dover essere»", di quelle opere cioè in cui l'autore, poco importa a quale ideologia si ispirasse, "doveva intervenire, con la sua intelligenza e il suo giudizio, per tenere saldi i rapporti fra ciò che raccontava" e l'intero sistema di valori e norme a carattere universale che il lettore era invitato a condividere. In prima linea contro il romanzo del "dover essere" si schiera compatto il gruppo degli artisti scapigliati; e la loro foga iconoclasta s'abbatte, innanzitutto, su chi deteneva il comando assoluto della compagine testuale: il narratore onnisciente. Nelle opere miste di storia e d'invenzione, la voce narrante dispiegava una somma di funzioni ampia e variegata: 66 G. Debenedetti, Verga e il naturalismo, Garzanti, Milano 1976, misurava la sapientemente distanza il fra presente meccanismo e passato, ingarbugliato reggeva dell'intreccio, regolava l'inserimento nella trama principale di digressioni spaziali e analessi temporali, descriveva i fatti che si svolgevano sullo scenario del mondo, indagava i conflitti psicologici in cui si dibattevano protagonisti e comparse e, ovviamente, tutto giudicava in nome, appunto, del "dover essere" pubblico e privato. Negli anni Cinquanta, l'indebolimento dell'onniscienza sovrana del narratore è il primo segnale dell'esaurimento della formula mista: i due libri che con energia fervida testimoniano il momento di svolta scelgono una figura di narratore meno autorevolmente atteggiata. Nelle Confessioni di Nievo la rievocazione memoriale, innestata sul duplice impianto del resoconto storico e del Bildungsroman, esalta l'esperienza individuale dell'italiano ottuagenario Carlino; nei Cento anni di Rovani, il "liberarsi dell'io" (P. Nardi) incrina il dominio del narratore, il quale continua sì a intervenire, ma assumendo i toni un po' pettegoli del cronista cittadino, scettico e svagato. Nei testi degli scapigliati la rottura è ormai consumata: l'avvicinamento al presente e la linearità sfrangiata della trama suggeriscono di affidare il racconto a un narratore che, calato nel flusso delle vicende, non si preoccupa di indirizzarne il corso con criteri certi e inappellabili. La stagione dell'impegno risorgimentale, in cui chi raccontava s'avvaleva di un punto di vista largamente condiviso, è davvero finita. Ora, per Praga e compagni era giunto il momento di distogliere lo sguardo dal mondo, ben più "prosaico" e squallido di quanto le illusioni "poetiche" non l'avessero prospettato, per guardare dentro di sé e sciogliere gli assilli dell'individualità singola. Il narratore onnisciente, di storica memoria o di feuilletonistica invadenza, lascia allora il posto a un io narrante "eccentrico" e parziale. La focalizzazione ristretta è ottenuta grazie a un duplice schema. Da una parte, gli scrittori inventano una figura di narratore interno, verso cui assumono un'inclinazione di maggior o minor sintonia; dall'altra, proiettano la propria soggettività in un io fittizio che affabula ricordi e memorie, visioni e impressioni di viaggio. Nel primo caso, l'autore delega la responsabilità del discorso a un personaggio che, protagonista o testimone, racconta un fatto in cui è stato direttamente o tangenzialmente coinvolto. Nasce da qui l'artificio della narrazione a "scatole cinesi", che caratterizza la produzione di questi anni: il racconto si offre al lettore come riscrittura di confidenze e confessioni orali o come edizione di manoscritti diari taccuini foglietti lettere scartafacci albi testamenti "breviari bruciacchiati" e "carte sparse". Il titolo della novella di Praga, Tre storie in una, potrebbe valere come indicazione generale per l'intero corpus dei libri scapigliati. Le relazioni che i livelli del testo creano fra la prospettiva d'autore e il punto di vista del narratore interno sono molteplici e diversamente modellate: se nei racconti "fantastici", l'abbiamo appena visto, l'alter ego è funzionale ad attivare l'"esitazione di lettura" propria del genere, nelle altre opere la sfasatura favorisce moti proiettivi più o meno marcati. In Una nobile follia la struttura a cannocchiale rifrange, galvanizzando il piglio polemico, l'esperienza militare realmente patita da Tarchetti; nella novella di Praga, come annota Moestrup, Riccardo, il compagno d'armi e d'arte del primo narratore, altri non è che Arrigo Boito67. Per contro, le novelle di quest'ultimo presentano solo qualche superficiale indizio (la Polonia, la competenza scacchistica) utile a identificare la fisionomia del poeta musicista. Al polo opposto dei drammi militari di Vincenzo D., Senso dimostra, invece, come il gioco prospettico sia tanto più 67 J. Moestrup, op. cit., p. 58. efficace quanto maggiore è la distanza che separa l'autore dal narratore fittizio. E tuttavia comune a tutti questi racconti è il privilegio accordato a un'ottica parziale e decentrata, capace di demistificare le verità "olimpiche" della storia recente, contestando, nel contempo, i principi di una collettività positivamente sicura del proprio futuro e già incline ad assestarsi in un bempensantismo miope e ipocrita. Davanti a un narratore inaffidabile poco importa se si tratta di un pazzo ossessionato dalla "lettera U", della vanesia contessa Livia o dello scritturale Cirillo malato d'arte il lettore è invitato a confrontarsi con un punto di vista "altro", che induce un atteggiamento di distacco critico. Chiusi nella gabbia delle loro fobie o mossi da grandi ambizioni, nel pieno della vita o vicini alla morte, vegliardi saggi o giovani artisti ribelli, femmes fatales o donne spaventosamente brutte, tutti i narratori interni operano una distorsione prospettica che, minando il tradizionale ordine romanzesco del "dover essere", apre la via alle soluzioni più tipiche del relativismo novecentesco. Allo stesso esito anti-oggettivistico conduce l'altra tipologia sperimentata dagli scapigliati per insidiare il dominio del narratore demiurgo. Anche in questo caso, il punto di vista è prossimo agli eventi narrati, ma ora l'ottica ristretta non appartiene a un personaggio, portavoce più o meno camuffato dell'autore, sì piuttosto ad una sorta di controfigura, variamente delineata, che affabula storie, memorie e impressioni. Accantonato il ruolo di giudice e ideologo, affievolite le funzioni di regia, incrinata la sintonia col lettore, lo scrittore si ripiega su se stesso e si preoccupa solo delle proprie emozioni. Si avvia così anche in Italia la moderna narrativa dell'io. Ad accamparsi al centro di questi testi è la sensibilità percettiva di un letterato-artista persuaso d'essere unico e diverso fra la folla anonima che popola le città. Sia che esponga i trasalimenti del suo cuore nel ricordo dei tempi passati, sia che divaghi per percorsi umoristici, sia infine che schizzi acquerelli o appunti di viaggio, a risuonare è sempre la "voce" di un intellettuale colto, raffinato, spesso nevroticamente scosso, e che tale si dichiara: i "nervetti" dossiani, "il genio capriccioso, dispettoso, pieno di gusti pazzi e bizzarri" ispiratore di Tarchetti (L'innamorato della montagna, to. II, p. 143), la "voluttuosissima estasi di mesto abbandono" di Bazzero (Riflesso azzurro, p. 79); "le febbrili concitazioni d'istinti" di Emilio nelle Memorie (p. 122); "l'irritabilità delle fibre" dei pittori boitiani (Il colore a Venezia, p. 432); "il subisso di pensamenti" in cui si perde Faldella davanti a un paesaggio scorto "più con la fantasia che con gli occhi" (A Vienna, p. 51 e p. 55) Gli sfoghi di un autore narcisista Dossi, come al solito, è l'interprete più consapevole e acuto della tendenza comune: negli autori moderni, lo scrittore tiene per sé il primo posto (N. A., n. 1976) Una volta i novellieri contavano novelle, oggi contano sè stessi. (N. A. n. 3572). Bazzero, come aveva già capito De Marchi, "trasfonde il suo io in tutto ciò che vede e tutto vivifica di sé" (Introduzione a Storia di un'anima p. XIX); Tarchetti, per parte sua, non nutrì mai alcuna incertezza nel considerarsi il fulcro della narrazione, sempre e dovunque. Gli atteggiamenti proiettivi dei vari autori si modulano, come è ovvio, su cadenze originalmente impostate, ma lo sfondo culturale entro cui si staglia la "narrativa dell'io" è l'orizzonte europeo dell'individualismo borghese. E dal campionario narrativo della prima stagione ottocentesca, gli "scapigliati romantici in ira" recuperano schemi e modelli che meglio confortano l'egocentrismo creativo. L'esibizione narcisistica, tuttavia, rifiuta le note spontanee dell'effusione autobiografica: il cruccioso "dualismo" da cui sono abitati impedisce l'abbandono all'urgenza dei sentimenti. Persino l'"io inquieto di Tarchetti" questo il titolo del capitolo a lui dedicato nel bel volume di Nardi non conosce il conforto di confessioni pacificanti. Nella letteratura postunitaria, il primato assegnato all'ottica soggettiva risponde, infatti, ad un preciso intento innovatore. Rigettate le certezze della cronaca storica, ancora lontana l'impersonalità verista, i nostri scrittori cercano una verità non estrinseca e più intima: solo chi dice "io" può arrogarsi il diritto-dovere di dare credibilità piena all'invenzione letteraria, liberandola dai vincoli eteronomi che nei decenni precedenti l'avevano troppo costretta. Ad essere galvanizzata, allora, è l'estrosità immaginosa che poco cura le norme dell'immediata verisimiglianza: anzi, è proprio la finzione a garantire il timbro non menzognero del racconto. A sostenerlo è il più espansivo degli scapigliati: per Tarchetti, i letterati sono i più famosi simulatori tra i figli d'Adamo, e hanno dato alla finzione tutte le attrattive della realtà, e se ne sono fatti una religione severissima, perché è destino che nel cammino faticoso delle lettere, non si possa giungere alla verità che per la via della finzione. (Un suicidio all'inglese, to. I, p. 94) Cui risponde in eco Dossi, il più vigile a camuffare gli "scampoli" dei propri ricordi: Il romanzo, menzogna lecita e onesta... Gli uomini amano i romanzi per amore delle bugie. Le figure rettoriche sono tutte bugie.- (N. A., n. 2425, cfr. anche n. 5064) Ecco perché ogni lettura tesa a catturare spezzoni di verità esistenziale nelle opere scapigliate, anche le più schiette, rischia di essere fuorviante: persino quando la figura del narratore è manifestamente l'alter ego dell'autore reale, lo spessore d'autenticità è racchiuso negli artifici della scrittura, non nell'esperienza di vita su cui si modella. Troppo moderni erano, o aspiravano ad essere, i letterati bohémiens per credere nella trasparenza limpida della confessione memoriale. Anzi, a caratterizzare la narrativa dell'io in questi anni è il rifiuto dell'autobiografismo disteso che, fra Sette e Ottocento, puntava a ricomporre l'unità intera di un destino, inglobandola, con l"esperienza del poi" entro un "preventivo disegno"68. Esemplare è la torsione che alcuni scrittori imprimono al genere elettivo della prima effusività romantica: la struttura epistolare. Tarchetti, ammiratore di Ortis e Werther, ad essi si richiama nel delineare la fisionomia di tanti suoi eroi-diaristi, dall'inglese suicida al Giorgio di Fosca. Sotto l'influsso dei più vicini D'Azeglio e Rajberti, l'esordiente Sacchetti (Eufrosina. Lettere da Sorrento, 1869) e il Bazzero di Confidenze e Corrispondenze (Dall'Oropa e Sui monti) sfruttano la finzione delle missive amicali per raccogliere appunti di viaggio, sullo sfondo di uno scenario ricco di richiami letterari e di "ghirigori trasparenti". Ma ben presto, in tutti, il codice epistolare si trasforma o cade del tutto. Nell'autore dei Fatali si innesta entro le strutture multiple del racconto fantastico e umoristico, del romanzo saggio, del feuilleton, potenziando l'effetto a "scatole 68 C. Dossi, Preambolo alla Vita di Carlo Dossi scritta da Alberto Pisani, ricordato da A. Saccone, op. cit. p. 106. cinesi". Nei due scapigliati più giovani, le coordinate del genere conoscono un'opposta corrosione: Sacchetti le abbandona subito per imboccare la strada della novella e del romanzo d'impianto realistico; Bazzero, per contro, ne brucia ogni tensione comunicativa, esasperando l'autoriflessività del discorso. In Anima la scelta del giornale intimo giustifica l'esplorazione morbosa dei disincanti acerbi e dei turbamenti ossessivi patiti per la lontananza della donna amata: "Posso scrivere lo stato dell'anima mia?... Eppure voglio sfogarmi" (p. 3), magari per abbattere "la muraglia di ghiaccio che mi separa dall'avvenire" (p. 65). Lo sciorinamento degli "stringigola, groppi, memorie fallite e speranze fallite", cui si lascia andare il "deserto" scrittore, è davvero romanticamente impudico, troppo per chi voleva sentirsi parte della "piccola scuola milanese". Più sottilmente modulata doveva essere la strategia per "tradurre a parola le convulsioni dell'anima, le contorsioni di mano" che l'autore di Schizzi dal mare condivideva con gli amici del gruppo: ecco allora, sul modello dossiano dell'Altrieri, un primo esempio di scrittura "intransitiva", riaggiornata alla luce di un impressionismo melodico-pittorico. Riflesso azzurro (1873), dopo il prologo collocato nel solitario presente, ricama la "danza dei rimpianti e delle speranze" (p. 82) sull'onda delle ricordanze di una stagione lontana, quando il piccolo protagonista giocava con la cuginetta e la tata Teresa: qui, il percorso artificioso della memoria si distende come "un nastro dalle tinte fuggevoli e nebulose" (p. 49) che, nei frammenti di narrazione, allinea sequenze allegre e sconsolate. Al pari di Bazzero, tutti i letterati della "generazione crucciosa" coltivano con struggimento il desiderio di riassaporare le emozioni dell'infanzia, stagione felice dell'io e insieme "età di candida innocenza del mondo"69. La recriminazione pseudoleopardiana sul crollo delle "dolci e dilette illusioni" coltivate nel passato è Leitmotiv di molti racconti tarchettiani: Vi è una sola epoca nell'esistenza nella quale si è felici od osiamo almeno asserire più tardi di esserlo stati. Nella gioventù. Felici? Sì, perché illusi, illusi perché inesperti (Storia di un ideale, to. I, p. 89) Dolci e serene memorie dell'infanzia, voi formate tutto il segreto de' miei affetti, tutto il tesoro delle mie più care predilezioni. Oh potessi, dal sepolcro in cui giacete, evocarvi 69 G. Petronio, Poeti minori dell'Ottocento, Utet, Torino 1959, p. 591. almeno un istante, per riabbellire del vostro sorriso fugace questi miei giorni sconsolati e sofferenti! (Lorenzo Alviati, to. I p. 562) Il tono di rimpianto accorato, su cui si chiude il quarto capitolo del romanzo di Praga "O memorie della mia giovinezza!" (Memorie, p. 20), è preparato dal ritratto iniziale del protagonista: Molti anni, ciò che vuol dire molte sciagure, sono passati dal giorno in cui bussai a quella porta. Compivo i venti, avevo la valigia del pittore sulle spalle, e un buon angelo mi guidava un angelo che adesso chi sa dove è andato a nascondersi. Allora lo vedevo e sentivo; splendore di cielo, verzure di convalli, scroscio di torrenti, belate di mandre, tutto brillava, profumava, cantava per la presenza di lui; e sul nostro passaggio gli atomi della natura si animavano al contatto delle sue ali per parlar meco di arte e di gloria. (p. 7) Ma, appunto, a differenza dell'intenerimento lirico, le Memorie del presbiterio non possono più allineare le parole che ragionano d'arte e di gloria e il narratore si riduce a diventare il raccoglitore delle voci altrui. Egli stesso ostenta la sua "triste prerogativa": ebbi molte volte a ricevere confidenze da gente che mi vedevano per la prima volta. Io sono stato così il depositario di molti dolori (p. 116) I racconti inseriti, riproponendo la sfasatura consueta fra i due livelli di narrazione, incrinano l’atmosfera idillica della presunta Tebaide e attenuano le note del compianto. Sulla sequenza finale cala la luce "avvilente" della attualità squallida: L'estate scorsa era in ferrovia (...) Eppure quella sua gioia tanto naturale mi faceva pena perché mi pareva una irriverenza verso le tristi memorie che il suo incontro mi suscitava nell'animo. (p. 247) Nella narrativa dell'Italia unita, le nostalgiche visioni d'antan, non appena si affacciano, o si velano dell'ombrosa malinconia che accompagna ciò che è irrecuperabile oppure si schermano dietro il filtro ironico che raffrena la piena dei ricordi. Come Dossi sa: La Letteratura Umoristica non dà fuori, che in quelle epoche nelle quali tutte le regole della vita antecedente sembrano andare a fascio. (N. A., n. 1886) Non c'è dubbio che tale appariva l'epoca postrisorgimentale: per dare conto dei dissidi che agitano gli autori moderni, a cui peraltro non è concesso che parlare di sé (N. A, n. 2183), occorre, allora, mettere in scena un io fittizio dalle mille sfaccettature. I procedimenti dissolventi dell'umorismo In preda alle contraddizioni più dirompenti, l'io inquieto di Tarchetti tenta di bilanciare gli spasimi con le tecniche dell'umorismo e dell'ironia, reputandole, da buon lettore di Didimo-Yorick, le migliori "armi dell'attacco culturale e dell'arroccamento soggettivo" (I. Crotti)70. E tuttavia, i procedimenti sterniani di scomposizione e gli artifici del 70 I. Crotti-R. Ricorda, Scapigliatura e dintorni in Storia letteraria d'Italia: L’Ottocento, a c. di A. Balduino, Piccin Vallardi, Padova 1992, p. 8. rovesciamento parodico non presuppongono un piglio "avanguardistico", sovvertitore del sistema sociale e dell'ordine letterario (F. Bettini), corroborano, piuttosto, il "maniacale monocentrismo" (V. Roda) che sempre ispira l'autore di Fosca. Se nelle prose Ad un moscone, L'innamorato delle montagna, Viaggio nelle provincie l'intreccio divagante smarrisce la meta di un autentico percorso sentimentale 71, I racconti umoristici illustrano il gusto scapigliato delle disarmonie e del paradosso ("il ridicolo è forse il sublime del serio" L’innamorato, to. II, p. 163), ma confermano, altresì, la carica ultraromantica del dualismo tarchettiano: "la contraddizione è l'urto, è il moto, è la lotta (...) l'universo non è che un'enorme contraddizione" (In cerca di morte, to. I p. 157). L'epilogo comico di Re per ventiquattrore, mentre neutralizza la valenza "politica" del sogno utopico, sottolinea la giocosità estrosa di un narratore che si era "proposto di destare nell'anima degli altri un'eco delle sensazioni della mia" (to. I, p. 204). Un analogo capovolgimento conclude In cerca di morte: il successo del protagonista, assunto proprio dalla compagnia di Assicurazioni che voleva frodare, stempera la critica alle 71 R. Morabito, Logoramento del viaggio sentimentale da Yorick a Camillo Boito, in "Trimestre", a. VIII, 1973, nn. 1-4. convenzioni della civiltà borghese in un consolatorio risarcimento amicale. Di più: l'happy end ("Alfredo di Rosen è il più esemplare dei padri e dei mariti" to. I, p. 202) getta una luce di moralità molta ambrosiana sulle cause dell'iniziale stato di miseria: il barone si accinge al "pericoloso" tour europeo per ripianare un colossale debito di gioco. Davanti ai tanti "padri e mariti esemplari" che componevano il pragmatico pubblico milanese, al ribelle Tarchetti non restava che esorcizzare i propri fantasmi angoscianti attivando l'esitazione orrorosa del fantastico o inneggiando all'umoristica fede del dubbio: il dubbio è la rivelazione della scienza, essa lo cerca immolandogli ogni fede poiché una sola fede esiste, quella del dubbio. (Riccardo Waitzen, to. I, pp. 604-5) E tuttavia, troppo enfaticamente battagliera è la proclamazione di incredulità scettica per non ribaltarsi in nuovo e ancor più agonistico impegno: "Il dubbio è la lotta le anime deboli si acquetano facilmente nelle convinzioni, le grandi anime lottano" (L'innamorato della montagna, to. II, p. 132). Se per l'autore di Fosca "dubitando si crede", l'"effetto Sterne", pur spesso evocato, si vanifica nel tessuto espressivo del pathos melodrammatico, l'unico tarchettianamente in grado di "decifrare questo enimma spaventoso e incomprensibile di me stesso" (ivi, p. 152). Ben più intellettualmente coerente è il richiamo al pessimismo umorista che lievita le dossiane Note azzurre: "la scienza dubita e così l'umorismo" (N. A., n. 1255). Anche l'autore dell'Altrieri coltiva le certezze dello scetticismo, "la sola spontaneità che ci è rimasta" (N. A., n. 2267); e, ormai consapevole che "la naïveté non è più possibile nell'arte odierna, (N. A., n. 1968), nell'appagare l'"intenso melanconico desiderio per ciò che fu" (L'Altrieri, p. 448), decanta la filatera dei ricordi con il brio dei maestri dell'ironia. La critica, soprattutto recente (F. Tancini, M. Serri, T. Pomilio, A. Saccone, N. Lusuardi), ha registrato con puntigliosità attenta le conseguenze disgreganti che l'imitazione dossiana di Sterne e di Jean Paul produce entro l'orditura complessiva del racconto. Non c'è dubbio che la pratica umoristica, di cui il "libro azzurro" delinea uno sorta di genealogia storica e di mappa geografica, sia il solvente più corrosivo del romanzo del "dover essere". Da questa scelta derivano il privilegio accordato ai "frammenti di libri", la prevalenza nell'intreccio degli "intoppi" e "calappi" spiazzanti, la parodia dei modelli romantico-scapigliati, i procedimenti di "scomposizione coloristica e musicale" (G. Mariani), le mille venature del pastiche espressionistico. E, tuttavia, il dato centrale di una simile poetica non risiede nella somma di artifici che promuove, sì piuttosto nell'implicita tensione ultrasoggettiva da cui s'origina72. L'ironia, musa elettiva dei Romantici d'oltralpe, diventa lo strumento scapigliato di rivolta ultraindividuale -"l'io sol io" della nota azzurra contro la grettezza prosaica del mondo borghese. Ecco il vero "effetto Sterne": Egli spezza consapevolemente l'unità della forma narrativa per creare, mediante arabeschi fantastici, un'unità soggettiva, l'unità dell'intenerimento degli e stati dell'ironia d'animo (...) contrastanti Questo estremo soggettivismo e relativismo di Sterne esprime una caratteristica molto importante e sempre più forte, dell'ideologia borghese: la sua reazione al potere crescente della prosa dell'esistenza73. 72 L. Clerici, Pubblico reale e lettori ideali: l’umorismo di C. D., in AA. VV., Calvino e il comico, a c. di L. Clerici-B. Falcetto, Marcos y Marcos, Milano 1994. 73 G. Lukàcs, Il romanzo come epopea borghese, in G. Lukàcs, M. Bachtin e altri, Problemi di teoria del romanzo, Einaudi, Torino L'Altrieri e la Vita di Alberto Pisani nascono dal rimpianto per la perduta sintonia dell'io con il sé più riposto: Era forse, originariamente, il mio cuore un ùnico specchio, ma, dalla memoria onerato, si spezzò in centomila specchietti. (Màrgine alla "Desinenza in A", p. 678). Le due "quasi-autobiografie" (Prefazione generale ai "Ritratti umani", p. 903) riescono a rifrangere il caleidoscopio degli umori caratteriali più contraddittori anche grazie all'abile gioco dei nomi che "intorno a questo sospiro d'uomo compongono un rebus"74. Alberto Carlo Pisani Dossi incarica Carlo Dossi di narrare la vita di Alberto Pisani, aspirante scrittore che pubblica un libro con lo pseudonimo di Guido Etelredi, protagonista della rievocazione in prima persona dell'Altrieri. La serie delle controfigure costruisce lo schermo difensivo attraverso cui l'individuo esibisce i suoi "geroglifici" sentimenti, prendendo le distanze da sé e nel contempo elevando un argine di signorilità narcisista contro la rozzezza volgare 1976, p. 159. 74 A. Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, Bompiani Milano 1988, p. 301. degli "uòmini inferajolati" (Vita, p. 142). La "popolazione degli Ii, uno diverso dall'altro "(N .A., n. 2369) da cui lo scapigliato si dichiara abitato, calandosi nel "rebus dei nomi", assume timbri espressivi difformi. In Lisa, la melodia elegiaca rammemora l'esperienza del lutto patita dal "frugolo", quando ancora protetto dal nucleo familiare, incontra, per subito perderla, la femminilità oblativamente confidente. Panche di scuola pone in caricatura, con la sequela scoppiettante delle metafore culinarie, il luogo elettivo dell'educazione: il sarcasmo grottesco denuncia l'impatto penoso dell'adolescente, ormai solo entro la comunità scolastica, con la perfidia del "nemico mondaccio" e l'"onnipotenza del dio Mammone" (p. 494). Infine, nel rispetto pieno dell'umorismo straniante, La principessa di Pimpirimpara descrive i riti dell'entrata in società, dove alle "piccole miserie" causate dall'esibizione di pose virili (sigari e alcool), segue, ben più pericolosa, la seduzione erotica del fascino muliebre. L'ultimo episodio dell'Altrieri, prologo al percorso iniziatico di Alberto Pisani, si chiude sulla raffigurazione onirica di Ego che, tornato "collegialinuccio, in tunica azzurra" e rifugiatosi fra le marionette di un teatrino, regredisce ad una innocua sessualità orale. Da questa autorappresentazione ironicamente sdoppiata prende avvio la Vita di Alberto Pisani, in cui la dissociazione fra narratore e personaggio porta a compimento l'ambizioso progetto di delineare un "ritratto d'artista" d'equivoca ambivalenza: la fisionomia del "gotico" protagonista, mentre riflette il "malincònico e verginale erotismo" dell'autore (Màrgine, p. 685), attua nel contempo la demistificazione parodica dei suoi ideali romantico-scapigliati. Nella Desinenza in A, infine, Dossi cerca di oggettivare le ansie dell'io "giòvine" entro una struttura mista che alterna scene, intermezzi e sinfonie. L'"io sol io", tuttavia, è troppo nevroticamente assillante per contentarsi di assumere le vesti di una semplice comparsa (il Nino Fiore del secondo Atto) o di padroneggiare gli "attrezzi" concessi dalla "dramatica teatrale", la quale, peraltro, "non appartiene né alla Letteratura pr. detta" e "neppure all'umorismo, non tenendoci l'autore (dopo l'abolizione del coro) nessuna parte a sé, ma dovendo sminuzzare la propria anima fra differenti personaggi" (N. A., n. 2276). Nella partitura ultrascandita e massimamente sconnessa, a venir meno è il sofferto soggettivismo umoristico che aveva lievitato il pastiche dei due primi piccoli capolavori; né vale a recuperare le note di gaiezza dissacrante il confronto ravvicinato con "pinti romanzi" di Hogart, più volte richiamato dall'autore. Certo, dietro la "linea serpentina" s'affaccia un'altra maschera, quella hogartiana (...) e con la stessa funzione delle altre: di conservare intatta ed amplificare, agli albori del verismo, la propria soggettività d'autore, di cui si teme angosciosamente la disintegrazione75. Ma, appunto, le "scritte pitture" e il "graphice scribere" altro non sono che l'ennesimo artificio per "creare, mediante arabeschi fantastici, un'unità soggettiva"76 da opporre alla volgarità prosaica del mondo, qui raffigurato sub specie femminea. E poiché "il potere della prosa dell'esistenza" si fa sempre più alienante, nell'"estrosa ornamentalità della forma" sterniana che caratterizza la Desinenza in A e i Ritratti umani, il colore dominante è il nero un gran malumore contro gli individui di quella razza alla quale pur io ho il disonore di appartenere. (Prefazione generale ai "Ritratti umani", p. 904) 75 A. Saccone, op. cit., p. 93. 76 G. Lukàcs, op. cit., p. 159. Altra allora è la valenza storico-culturale che occorre attribuire alle stilizzazioni funamboliche che dissolvono la rappresentazione unitaria della realtà. Il "tentativo di trovare alla soggettività umana smarrita un punto d'appoggio dentro di sé" 77 spinge gli scrittori post-risorgimentali a sfruttare ogni risorsa eccentricamente modulata: il raccordo analogico fra il discorso narrativo e l'immaginario figurativo, che vede accomunati molti scapigliati, è un'ulteriore spia dell'inquietudine maturata dagli intellettuali umanisti davanti all'incipiente sviluppo capitalistico. Nella valorizzazione orgogliosa di un ruolo in crisi, la scrittura letteraria ricerca le linee serpentine, le trasparenze indefinite, i ghirigori arabescati, gli acquerelli svaporanti, tutto pur di difendere la sensibilità individuale dell'artista, minacciata dagli strumenti della moderna riproducibilità tecnica. Schizzi, acquerelli, gite col lapis 77 Ibidem. Colpisce, nella produzione di questo quindicennio, una serie di opere in prosa i cui titoli si corrispondono per sinonimia o assonanza "pittorica". A Praga dobbiamo gli Schizzi a penna ("Rivista minima", febbraio-marzo 1865), lo stesso titolo hanno i brani che Bazzero pubblica sul "Monitore della Moda" (dicembre 1873) e sulla "Rivista illustrata di letteratura, belle arti e varietà" (primi mesi 1876). Sempre di questo autore sono gli Schizzi dal mare-Acquerelli; Schizzo dal vero è il sottotitolo di una storiella vana di Boito, Quattr'ore al lido ("Nuova Antologia" 1876), cui si affiancano, nella prima edizione Treves, Pittore bizzarro e Il colore a Venezia. Vanno poi ricordate, sempre di Boito, le Gite di un artista (Hoepli 1884) e i due reportages di Faldella, A Vienna. Gita con il lapis, A Parigi. Viaggio di Geronimo e comp. (entrambi usciti sulla "Gazzetta Piemontese" il primo dal luglio al dicembre 1873, il secondo in cinque puntate nel 1878 poi, in volume, rispettivamente Tipografia C. Favale, Torino 1874, e Triverio, Torino 1887). Ce n'è abbastanza per circoscrivere se non un preciso sottogenere, certo un'area di testi con caratteri compositivi omogenei: brani brevi, inizialmente apparsi su rivista, d'indole descrittiva, in cui paesaggi e figure sono tratteggiati in ossequio alla moda della "macchia" o del colorismo impressionistico. Esile e veloce l'andamento narrativo, appena accennata la silhouette dei personaggi, a risaltare è la sensibilità acuta dell'osservatoreflâneur che trascrive in diretta impressioni divagazioni riflessioni, nate durante le tappe di un percorso itinerante. Gli "sgorbii a casaccio", staccati da un "certo libricciolo che mi fu compagno fedele di viaggio", allineano "impressioni genuine di paesi, d'uomini e di casi" (Praga, Schizzi a penna, pp. 61 e 66). Le varie etichette che accompagnano il tarchettiano Innamorato della montagna ne sottolineano l'ordito frastagliato: Impressioni di viaggio è il sottotitolo definitivo; la nota in calce alla prima edizione suonava "impressioni e memorie di viaggio (...) frammenti di un più gran libro"; i capitoli iniziali ribadiscono: Fantasticherie di viaggio, Altre divagazioni. Le "impressioni calde e varie" raccolte da Camillo per Hoepli sono, per ammissione esplicita, "lo svago di un artista, non la fatica di un erudito", che ha girato in lungo e in largo per mostre e musei d'Europa (Gite di un artista, p. XLIV). Ancora: l'intenzione dell'autore di Schizzi dal mare è "buttar giù qualche poverissimo acquerello" durante una vacanza in riviera; e a meglio chiarirne il timbro evanescente, ecco il ricorso antifrastico alla "carta sciupata", ricca di notazioni dotte, subito messa da parte e sostituita da un "albo sfogliato e due pennelli arruffati" (p. 148). Faldella, per parte sua, in cammino verso l'Esposizione Universale di Vienna del 1873, osserva il paesaggio lombardo attraverso "i piccoli quadrelli dei finestrini" ferroviari, intarsiando richiami colti con curiose divagazioni "a lapis" e ricorda che anche il reportage parigino nasce come un "taccuino di note prese col lapis caldo"78. Insomma, e le citazioni si potrebbero moltiplicare, siamo nell'ambito di appunti di viaggio, stesi su ritmi discontinui e dai contorni indefiniti, in cui confluiscono molteplici inedite suggestioni. Nell'epoca in cui i grands tours dei giovani aristocratici si trasformano nelle escursioni dei turisti borghesi (i parigini "memoriali di touristes", cui ammicca Sacchetti, in Eufrosina, in Il forno della marchesa e altri racconti, p. 21), gli scrittori scapigliati recuperano il modello ormai consolidato del Sentimental journey e dei Reisebilder heiniani (in ambito lombardo il precedente più immediato era Il viaggio di un ignorante di G. Rajberti, 1857) e lo riattualizzano alla luce dei fenomeni "velocità" 78 nuovi dall'indubbio conquistata dalla fascino: ferrovia, l'esperienza la della fantasmagoria Lettera a V. Bersezio, 17 agosto 1878, riportata da L. Surdich nell'Introduzione a G. Faldella, A Parigi. Viaggio di Geronimo e Comp., Costa Nolan, Genova 1983, p. 16. straordinaria degli spettacoli esotici, la magia travolgente delle Esposizioni Universali, colme di gente merci e prodotti d'arte. A favorire lo sgranarsi a trama larga delle note divaganti è l'adozione di un genere descrittivo che sin dalla denominazione esibisce la sua vicinanza con le arti pittoriche: il bozzetto. Il "taglio" agile e breve, inaugurato sui periodici in quegli anni e destinato a rapida diffusione fino alla "bozzettomania" contro cui si scaglierà il verista De Roberto era ideale per ricreare il "color locale", ritrarre "figure a macchia", schizzare scenette campestri en plein air. Sullo sfondo, ricco di stimoli artisticointellettuali, sfolgorava il modello di eleganza saggistica delle baudelairiane recensioni ai Salons parigini. In questa osmosi di scrittura letteraria e codici iconici, alcuni critici (P. Nardi, G. Mariani, G. Scarsi) hanno voluto leggere l'applicazione della tesi rovaniana sulle "mutue rispondenze" fra Le tre Arti (Treves, Milano 1874), a conferma del magistero scapigliato dell'autore dei Cento anni. Non c'è dubbio che il termine "schizzi" alluda alle modalità grafiche del disegno, ben conosciute dal pittore Praga o dall'architetto Boito. E tuttavia, come ha chiarito Baldi79, il saggio di Rovani non addita un'ipotesi di confusa commistione o "affinità", propone 79 G. Baldi, G. Rovani e il problema del romanzo nell’ottocento, Olschki, Firenze 1967. semmai una visione unitaria della pratica artistica che, nel decennio '65-'75, acquista un timbro di polemica attualità. Per comprendere l'assetto originale di queste prose poco giovano gli aneddoti di scapestrata vita in comune o i richiami canonici alla tradizione pittorica e letteraria. Più utile si rivela il confronto con le inclinazioni raffigurative promosse dai nuovi circuiti editoriali, all'interno di quella "repubblica della carta sporca", di cui gli scapigliati erano ospiti assidui. La partecipazione alle riviste di varia umanità, moda e costume, per un verso, li induce a cimentarsi in prove inedite di scrittura "giornalistica": Praga invia gli Schizzi a penna in risposta alle richieste di Ghislanzoni per la "Rivista Minima"; Faldella, "ghermito agli ozi campestri e letterari del suo villaggio e spinto alla batteria elettrica della corrispondenza giornaliera" (Salita a Montecitorio), stende i suoi reportages da Vienna e Parigi per la "Gazzetta Piemontese"; Boito, infine, appresta le sue Gite di un artista accorpando recensioni e articoli usciti sulla "Nuova Antologia". Persino Bazzero comincia a colorare i suoi Acquerelli su incoraggiamento dei redattori della "Vita Nuova". Per altro verso, il caleidoscopio di illustrazioni che dilaga sulle pagine delle riviste eccita l'estro figurativo dei narratori. La proliferazione degli "schizzi a penna", se certo risente degli influssi pittorici delle Esposizioni e del gusto diffuso della moda parnassiana, nasce, anche dalla voglia di contrastare, con forza d'arte, l'"esplosione dell'immagine a tutti i livelli" 80 su cui l'editoria periodica milanese fondava i suoi successi. Ragone ricorda come "L'illustrazione italiana" di Treves sia sede di una collaborazione intensissima, in cui spesso "il letterato si trova a costruire, come semplice portatore di competenza tecnica, il contesto dell'illustrazione"81. Negli autori di più alta consapevolezza, forse di maggior narcisismo, il rapporto con i nuovi codici iconici avviene nelle forme della sfida concorrenziale, mai della subalternità imitativa. Così è per il poeta-pittore Praga, per l'architetto-critico Boito, per il collezionista archeologo Dossi, per l'antiquario d'armi Bazzero. A tutti questi "malati d'arte" da' voce sincera il faldelliano Cirillo: "Io odio i giornali illustrati" (Il male dell'arte, p. 93). La tavolozza dei letterati girovaghi 80 G. Ragone, op. cit., p. 730. 81 Ibidem. Nel boitiano Colore a Venezia, con il suo sottotitolo ironico-esplicativo (Queste annotazioni sono tolte dall'albo di un artista pedante), la descrizione degli splendori della città lagunare è affidata alle "impressioni", alle "sensazioni", alla "sensibilità nervosa" della mente del pittore, "più fortunata della macchina fotografica", perché in grado di "serbare vivo il ricordo dei moti, delle espressioni, delle forme, della luce e delle tinte" (p. 433). Dall'antagonismo conflittuale con gli strumenti della riproducibilità tecnica, l'arte dell'avvenire ricava stimoli inediti per raffinarsi: si capiva bene come egli non intendesse a riprodurre sulla tela ciò che la fotografia porge materialmente e che centinaia di pittori ritrassero prima di lui, bensì volesse dare una sostanza corporea all'immagine tutta ideale, che la piazza San Marco aveva suscitato in date condizioni di luce e in date circostanze sull'animo di lui pittore. (ivi, p. 437) Scandito sulla contrapposizione oggi-allora, un analogo confronto spiega, agli occhi di Bazzero, il "vezzo ribaldo" di schizzare degli acquerelli fuggi-fatica: così e così, quattro pennellate, senza fondo, senza un contorno deciso, magari spropositati di disegno, su un brandello di carta qualunque. (...) Adesso c'è la fotografia. (Schizzi dal mare, p. 221) La prosa dell'impressionismo soggettivista ha ormai la strada spianata e quanto più ciascun autore rispetta le proprie singole percezioni immaginose, tanto più l'acquerello e la figurina acquistano tonalità inconfondibili. L'aveva già dichiarato il solito Cirillo: "Il paesaggio non deve essere né convenzionale, né fotografico, ma deve scaturire dal profondo dell'animo" (Il male dell’arte, p. 71). Nelle Gite di un artista, Boito riserva un'attenzione preziosa agli effetti plastici creati dalle variazioni luminose e, in questa sorta di "taccuino-tavolozza"82, gli scenari di storia e natura si compenetrano in un impasto coloristico intriso di colta ebbrezza melanconica. Se la "campagna fra Villafranca e Custoza" diffonde per l'aria "un'agitazione, lenta, grave, funerea" (L'ossario, p. 5), nel tragitto da Milano a Ulma "la fantasia si smarrisce in vaghe visioni, l'animo si allarga, mentre il corpo 82 P. Pancrazi, Racconti e Novelle dell'Ottocento, Sansoni, Firenze 1939, ora a c. di G. Luti, Le Lettere, Firenze 1988, p. 271. nell'aria sottile si sente più snello e più forte" (La Baviera, p. 198). Pur non abbandonando mai il tono un un po' blasé del letterato cosmopolita, "il pittore vagabondo che gira l'Italia in cerca di cose da dipingere e di donne da amare"83, matura ben presto una "sensibilità nervosa" e irrequieta che trasforma anche le sue passeggiate in coinvolgenti "avventure estetiche" (M. Dillon Wanke). Più mossa e intimamente raffigurativa la tecnica pittorica adottata da Praga negli Schizzi a penna: in queste "poche pagine" strappate dal vecchio albo, predominano i procedimenti di scomposizione screziata delle immagini: "In quel rosso, in quel giallo, in quel lucido, è tutta una gaja e vagabonda vita di artista" (p. 65). Il resoconto di viaggio intreccia alle pennellate cromatiche le linee guizzanti dei profili, in un incastro abile di toni leggendari e squarci realistici, preannuncio di alcune delle pagine più felici delle Memorie: i ritratti della vecchia montanara e di Baccio vicino alla fontana, i paesaggi notturni del villaggio o del presbiterio "immerso in una nebbia diafana" (p. 90). Lo stesso timbro di inquietudine nervosa caratterizza gli Schizzi dal mare di Bazzero, anticipatori secondo Mariani e 83 M. Guglielminetti, Introduzione a C. Boito, Storielle vane, Silva, Roma 1971, p. 16. Gioanola di atmosfere crepuscolari: "facendomi il poeta dei crepuscoli, vorrei coll'anima illanguidita della sera, vorrei pregare la Madonna" (p. 151); "E perché di quei fiorellini io colgo e bacio l'appassito?" (p. 232). Nei brani lievitati da un impossibile desiderio di pienezza vitale, le clausole iterative, già presenti in Riflesso azzurro, intensificano le sfumature raffinate del chiaroscuro; quando l'acquerello riesce a superare le note della leziosità compiaciuta, i toni evanescenti della "carissima tavolozza" (p. 228) preannunciano un languore intenso di marca decadente. Animate da una vena di eccentricità espressionista, si snodano invece le "note con il lapis" di Faldella, inviato speciale all'Esposizione Universale del 1873. La tecnica "a lineole a singhiozzi, senza congiunzioni di grammatica e di pensiero" (A Vienna, p. 92) ben rende L'effetto di vapore su cui si apre il libro e le Venti ore di strada ferrata, altra puntata del reportage, passano come il corso di un nastro a colori svariati (...) Il verde dei prati, è condotto più dolcemente, le curve del suolo molleggiano; festoni di fiori inghirlandano le finestre e le porte delle case; il bianco delle loro cornici vince il bianco delle pareti, e alcune di queste sembrano stuoie granulose (p. 237). Il "Reisebilder italiano", per dirla con le parole di un comune amico scapigliato, assommava Finezze, mezze tinte, miniature, paesaggi, novelline, bizzarrie, rubrica di parole, sapienza di lingua, rivelazioni di estetica.84 E' questo eclettismo erudito a guidare l'ottica complessiva del letterato flâneur in terra mitteleuropea: il pastiche, più che trascrivere i moti umbratili di una sensibilità morbosa, punta a contrastare polemicamente le consuetudini linguistiche e comportamentali dei viaggiatori comuni, la "gente grassa" che, con omaggio al Giusti, viene sbeffeggiata alla fine del capitoletto intitolato Guide. Il corrispondente della "Gazzetta Piemontese" mette subito in guardia i suoi lettori: 84 A. Galateo, citato da M.Dillon Wanke, nell'Introduzione a G. Faldella, A Vienna Gita con il lapis, p. 23. Non isperate che io vi annoii con la descrizione di una cattedrale, ché le cattedrali sono diventate troppo pericolose dopo la pubblicazioni di certi libri descrittivi. (p.101) Poiché "la vera essenza qualitativa di una città consiste in cento nonnulla" (pp. 58-9), Faldella rifiuta la prosa sciatta e grigia dei Baedeker turistici e, indugiando sui singoli dettagli, scopre sfumature incomprensibili ai più, risvolti colti, franto degli dimenticate reminiscenze letterarie. Lontana dall'andamento ritmicamente Acquerelli di Bazzero e dalla trascolorante semplice eleganza degli Schizzi praghiani, qui la scrittura espressionista poggia su una "deformazione osservativa"85 che si traduce eminentemente in un impasto lessicale di purismi, dialettalismi, neologismi di cui lo stesso autore spiega la ricetta al termine del libro nella famosa Autobibliografia. Vocaboli del trecento, del cinquecento, della parlata toscana e piemontesismi; sulle rive del patetico piantato uno sghignazzo da buffone; tormentato il dizionario come un cadavere, con la disperazione di dargli vita mediante il canto, il pianoforte, la elettricità e il reobarbaro (p. 246). 85 G. Contini, Introduzione, cit., p. 14. Anche nell'opera sollecitata dal viaggio a Parigi per l'Esposizione del 1878, la scoppiettante prosa faldelliana trascrive impressioni curiose: Quel ponte è una smisurata gabbia rettangolare da elefante, che gitta nell'abisso le sue proboscidi articolate. (A Parigi, p. 97) L'arrivo a Berna suggerisce l'atmosfera della città svizzera con un’immagine sinteticamente azzeccata: Ai nostri viaggiatori nell'entrare in Berna parve di entrare in una scarpa; imperocché le vie di Berna hanno proprio il liscio, il colore, il tepore freddo, come disse Pino Goldi, e la convessità delle pareti interne di una scarpa. (p. 101) Poi, lo spettacolo rutilante dell'Esposizione travolge i visitatori; la capitale francese non solo riporta la sua "rivincita", ma mette in mostra meraviglie prodigiose: In effetto si avanzava il drago meccanico inaffiatore, quasi scotendo il giogo del lungo tubo elastico, che lo allacciava alla sorgente tromba idraulica; si avanzava saltellando come un capriolo; si torceva e si inserpentiva accusando convulsioni intestine; si inerpicava certe volte, come un cavallo ombroso sulle zampe di dietro, e sputava, vomitava continuamente dai contorcimenti della bocca rabbiosa la più proprizia acqua irrigua. (p. 161) In A Parigi, tuttavia, l'autore abbandona la prospettiva in presa diretta, adottata non solo nella prima Gita con il lapis ma anche nel Viaggio a Roma senza vedere il Papa ("Fanfulla" 1874, poi in volume Perino, Roma 1880), per affidare voce e punto di vista ad una controfigura interna: il "dabben sindaco" Geronimo, cui si affiancano il segretario comunale, Pino Goldi, e le rispettive signore. L'inserimento delle note giornalistiche entro una struttura più compiutamente narrativa complica e appesantisce l'andamento del resoconto, a tutto discapito dell'effervescenza espositiva. Ha ragione, allora, Vassalli a lamentare il rischio che Faldella "si geronimizzi" 86, assuma, cioè, senza 86 il filtro dell'autoironia, l'ottica bempensante S. Vassalli, Prefazione a G. Faldella, A Parigi..., p. 5. del "provinciale" che distorce ogni confronto fra il paesino di Monticella, da cui la compagnia è partita e a cui non vede l'ora di ritornare, e la tentatrice ville lumière. I commenti moralistici sul Mabille, il doppio volto di Parigi di "carta" e vista "dal vero", l'attenzione alle domestiche beghe di coppia falsano il timbro del discorso, frenandone il ritmo con una serie di osservazioni banali. Meglio allora ritornare alla scrittura screziata dell'opera di maggior successo dell'onorevole di Saluggia, quelle Figurine, che sin dal titolo rimandano alla tecnica pittorica. Come già segnalava un critico coevo: "Faldella ha mutato la penna in pennello, il libro in una tavolozza" (F. Cameroni, "il Sole", ottobre 1875). In questa dozzina di "libere rapsodie"87 che, prive di ogni incorniciamento, rompono con le convenzioni tradizionali della narrativa rusticale, la tipologia compositiva trapassa dal quadretto esemplare (High life contadina) alla fiaba boschiva (La figliuola da latte), dalla parodia scapigliata (Gentilina) all'idillio con finale edificante (Carluccio, Lord Spleen). Apparsi sulle "Serate Piemontesi" e sulla "Rivista Minima" 87 88 di Farina88, i "tritoli di racconti", G. Ferrata, Introduzione a G. Faldella, Figurine, p. XXII. Sull'orientamento normalizzatore della collaborazione insiste R. Bigazzi, I colori del vero, cit., pp.276-80. secondo l'autodefinizione faldelliana, non puntano mai a comporre un affresco pluridimensionale o un ritratto dal vero dei costumi paesani, ma cesellano silhouettes, miniano ghiribizzi, ricamano arabeschi che inseguono le giravolte del fumo ora "patito, compassionevole" ora "lussurioso, pettoruto" e rincorrono i giochi di chiaroscuro che gli spruzzi di neve, simili a "virgole di gesso", disegnano nell’aria buia. Bazzero, per indicare i pezzi corti in contrapposizione alle "operone", usa il termine "elzevir" (Anima, pag. 44). Appunto: le Figurine, calandosi a bell'agio nella misura breve promossa dai nuovi circuiti editoriali, inaugurano un genere di prosa che tanta fortuna godrà nella nostra letteratura di fine secolo e soprattutto dei primi decenni del Novecento. Capitolo VI Ritratti di giovani artisti Protagonisti ventenni e immaturi Età: vent'anni; sesso: maschile; estrazione sociale: borghese; professione: artista. Occhi: neri o azzurrissimi, ma sempre "pieni di fuoco esprimenti una strana potenza d'affetto" (Capriccio); segni particolari: aspetto bello e impossibile. Il documento d'identità della stragrande maggioranza dei personaggi scapigliati non si discosta da questo immaginario paradigma. Certo, nella galassia variegata dei comprimari che affollano le opere di Boito e compagni si incontrano anche aristocratici, il barone di Rosen il duca Giorgio molte nobildonne; popolani, la coppia dei promessi sposi Luigi e Paolina (Paolina), Teresa (Macchia grigia), Mansueta e Baccio (Memorie del presbiterio), Carluccio e le "villane" delle Figurine; s'affaccia sul proscenio qualche vegliardo, nonna Giacinta, l'orientale Yao del Trapezio, lo zio prossimo a morte del Demonio muto, oltre a sacerdoti, medici e colonnelli che ormai maturi scoprono di non aver capito molto della vita. E naturalmente, accanto agli eroi, svettano fatali dark ladies o sedicenni fanciulle in fiore. Ma appunto le eccezioni confermano la regola, e molto spesso, autonegandosi, la corroborano ulteriormente: i nobili assumono per lo più comportamenti signorilmente borghesi, le povere madamine si rivelano figlie di marchesi, i vecchi prendono la parola per rievocare la stagione della loro gioventù; le "fosche" e "sensuali" seduttrici sono doppi speculari del protagonista. Ecco perché, alla fine, il lettore di racconti e romanzi scapigliati si convince di essere stato in compagnia di un solo personaggio prototipo dai lineamenti inequivocabili. A rafforzare quest'impressione di lettura è il dato davvero unificante che caratterizza i personaggi della narrativa postrisorgimentale: gli attori delle vicende, sia che si muovano nella contemporaneità sia che agiscano nel passato memorialmente recuperato, sono immancabilmente e dichiaratamente ventenni. Giorgio, dalla "gioventù ricca di molte passioni", si innamora di Clara e Fosca a 23 anni; la stessa età ha Lorenzo Alviati, "dovizioso elegante", "anima nobile e pura"; di un solo anno più vecchi Riccardo Waitzen e l'amante di Carlotta (Un corpo); poco più che ventenne è la contessa Livia quando si invaghisce di Remigio. L'Emilio praghiano, "originale" e "curioso", è un "giovine pittore" di vent'anni, forse lo stesso ventenne che alloggia nello "studio circondato d'olmi" in un "quartiere remoto e tranquillo" di Milano (Tre storie in una), poco distante magari dalla casa del mago dove Alberto Pisani, "di un venti anni e coda" (Vita, p.86), incomincia a scrivere il libro per donna Claudia. L'"autore" di Baciale 'l piede ha "diciotto anni", è coetaneo di Paolo maestro di musica, "ricco soltanto di gioventù e di speranze" (La canzone di Weber, p. 123), di Armando M., "superbamente fatto, bello, nella freschezza dei suoi vent'anni" (Capriccio, p.152), e così via nella lunga galleria di giovani che, in cerca di morte, di gambe o di donne ideali, si atteggiano tutti a controfigure dei loro creatori. Il romanzo di Cletto Arrighi che dà il nome al movimento, La Scapigliatura e il 6 febbraio, deriva la sua esemplarità anche dalla specifica indicazione generazionale: gli "eroi in rivolta" che compongono la Compagnia brusca (cap. I) sono tali perché abitano la dimensione vitale ed emotiva della gioventù, i Flegeljahre, per usare il titolo di un romanzo di Jean Paul, allora di gran moda e che in traduzione italiana suona Anni di scapigliatura giovanile. E' l'età che, secondo "la cultura occidentale moderna racchiude in sé «il senso della vita»", nella agonistica aspirazione alla maturità e nel suo implicito rifiuto 89. Se ricordiamo, sempre con Moretti, che il primato attribuito dal 89 F. Moretti, Il romanzo di formazione, Garzanti, Milano 1986, p. 10. romanzo ottocentesco agli eroi giovani è "connesso ai processi ammalianti e pericolosi della modernità", la narrativa che inaugura la letteratura dell'Italia unita acquista un rilievo storicoideale decisivo. A imprimere il marchio originalmente scapigliato a questa gioventù "inquieta e travagliata" è l'enfasi costante con cui se ne sottolinea la professione creativa: ancora una volta Arrighi aveva colto nel segno quando, schizzandone il ritratto, aveva scelto come suoi rappresentanti poeti commediografi litografisti. Ed ecco infatti avanzare, oltre ai numerosissimi già citati, i letterati viaggiatori degli Schizzi a penna e degli Acquerelli, gli artisti di Gualdo in preda a capricci o a allucinazioni, l'esordiente disegnatore Roberto Marini del racconto giovanile di Dossi (Per me si va tra la perduta gente), il terzetto protagonista del Cesare Mariani, Cirillo del Male dell’arte e Pinotto di Rovine, i musicisti della trilogia tarchettiana Amore nell'arte in compagnia dei pittori boitiani più o meno bizzarri, del bozzettista sacchettiano di Eufrosina. Lettere da Sorrento e di Guido di Entusiasmi. Il Künstlerroman (il romanzo dell'artista) è davvero il modello paradigmatico della narrativa scapigliata, a testimonianza e difesa di quell'"aura" che la società positiva dei traffici tendeva a offuscare. Ma sul binomio "arte e gioventù" ci siamo già soffermati a sufficienza; ora, piuttosto, conviene analizzare come il giovane protagonista, in attesa d'amore e di fama, occupi il centro della scena. Solitari egocentrici In molte opere il personaggio si presenta al lettore sulla soglia del testo e il titolo non lascia dubbi su chi sia il perno della vicenda: Lorenzo Alviati, Riccardo Waitzen, Cesare Mariani, e poi Bouvard, Riccardo il tiranno, Vita di Alberto Pisani, Il viaggio del duca Giorgio. Per le protagoniste femminili, basta il nome proprio: Fosca, Paolina, Narcisa, Tota Nerina, a riprova di una convenzione che, nel nostro paese, conosce poche smentite. A fronte di Eugenie Grandet, Madame Bovary, Effi Briest e Anna Karenina noi continueremo a leggere Eva, Teresa, Arabella, Giacinta. Più curiosamente scapigliata è la consuetudine di indicare, nel corso del racconto, solo l'iniziale del patronimico: il più celebre Vincenzo D. (Una nobile follia) apre la strada a Federico M. (Un osso di morto), Alfredo M. (Storia di un ideale), Eugenio M. e Lorenzo D. (Storia di una gamba), il barone di B. (Uno spirito in un lampone), il marchese di B., con i suoi compari "il conte di F., il barone di C., il cavaliere di Z." (Paolina), Armando M. (Capriccio), Arnoldo D. (Una scommessa), il cav. G... (Da uno spiraglio): quasi che il narratore voglia alludere a un'identità ben nota nella cerchia ristretta del pubblico elettivo. La scelta, cara soprattutto a Tarchetti e Gualdo (se si esclude il vezzo dossiano di autonominarsi D. nelle Note azzurre), suggerisce, d'altronde, la fisionomia eminentemente privata di questi personaggi. A determinare, infatti, il loro destino e il corso degli eventi sono i dati biologici, sesso età, e un mestiere dettato dall'ispirazione più segreta, sciolto, almeno nelle intenzioni di chi lo esercita, da vincoli di anagrafe sociale. La "narrativa dell'io" di marca scapigliata, qualunque siano le coordinate di genere adottate, esalta la solitudine egocentrica del protagonista, ammantandola di connotazioni esistenziali e proiettandola, perciò, ben al di là degli schemi cari alla poetica romantica. A fondamento dell'intreccio non c'è più lo scontro frontale tra l'eroe e la collettività, sancito, al termine, da un'esclusione di morte o da una meritata integrazione nell'ordine comune: qui il conflitto oppone l'io al sé, in una dialettica di indole antropologica che intreccia desideri di possesso e ansie regressive, ambizioni di gloria e istinti masochisti, eros e thanatos insomma. Eccola l'origine endogena del dualismo in cui si dibattono gli eroi maledetti. I due estremi possono indicare polarità divergenti, ma la tensione primaria non oltrepassa quasi mai i confini dell'interiorità: la lotta morale fra fatalità e libero arbitrio è il Leitmotiv ossessivo dei libri di Tarchetti; il "male" di Cirillo s'origina nell'intrico dei suoi "tanti ii"; le antitesi boitiane si dispongono entro lo spazio, simbolicamente chiuso, di una scacchiera o di un trapezio; le "quasi-autobiografie" dossiane mettono in scena sempre e unicamente "l'io sol io"; l'inclinazione comportamentale che Camillo Boito invita ad assumere davanti alla "vanità delle cose mortali" presuppone uno sdoppiamento psichico: "Ciascun individuo ha da contenere due esseri, sinceri entrambi: l'attore e lo spettatore" (Dall'agosto al novembre, pp. 90-1). Anche per questo restringimento di campo narrativo, la Scapigliatura è testimonianza crucciosa del passaggio nodale che il paese conosce nel quindicennio immediatamente successivo all'Unità. Lo sviluppo dell'urbanesimo moderno apre una frattura irriducibile fra pubblico e privato: storia e destino non sono più correlati e la sfera protetta dell'esistenza fronteggia la dimensione competitiva degli scambi sociali. Spetta agli scrittori bohémiens cominciare a dare conto del sopravvento che il "mondo interno" piglia sempre sul "mondo esterno" (Vita di Alberto Pisani, p. 237): la constatazione che in terra lombarda vi siano poche "Educazioni sentimentali" e nessun Bel Ami, ma molte storielle vane e innumerevoli Bouvard rimanda più che a incertezze d'autore, alla debolezza della tradizione romanzesca italiana e ancor più alla fragilità strutturale del nostro assetto borghese. Meglio si comprendono, ora, le ragioni della scarsa rilevanza dei pur copiosi misteri cittadini o della povertà culturale di cui peccano i vari libri d'ispirazione sociale: la narrativa post-unitaria non delinea mai lo scenario della civiltà urbana, quale si andava affermando sotto le guglie del Duomo, anche perché i "tritoli di racconto" e i "frammenti di libri" rifuggono dalla rappresentazione del "sistema delle relazioni" entro cui si organizza la totalità romanzesca. Per nulla coinvolti dai meccanismi dello sviluppo produttivo, gli scapigliati poco s'interessano alle dinamiche connettive fra io e mondo. Ciò non significa che dal tessuto sfrangiato del racconto non emerga un diagramma preciso dei rapporti di forza: anche le figure "strane e fatali" si muovono entro un ambito pubblico capace di condizionarne scelte e comportamenti. Così, la vicenda di Beppe e Gina ripete, sia pur in una sequenza retrospettiva, lo scontro di classe fra la coppia di contadini e il potente locale, (Memorie del presbiterio); la storia di Paolina ne fa il cardine della trama principale, anche se lo subordina alla perfidia dell'intrigo incestuoso. Vade retro, Satana (C. Boito) disegna un brutale conflitto di interessi finanziario-speculativi ma cala il diavolo tentatore nelle vesti sgargianti della donna del capo e la tavolozza di Faldella, incline a miniare le sane Figurine del mondo campagnolo, ne offusca però le condizioni materiali di vita. Più incisivo, semmai, l'affresco di realtà offerto dai quadri d'interni schizzati con snobismo ironico da Dossi e Gualdo. I ritratti dei maggiordomi (Paolino nella Vita, un perfetto Jeeves ante-litteram, Pietro "il vecchio servitore" della Villa d'Ostellio) illustrano esemplarmente l'atteggiamento di deferente superiorità intellettuale e sentimentale assunto dai subalterni verso i padroni, nelle famiglie della nobiltà imborghesita. Con ombreggiature altrettanto sfumate, nella strategia geometrica di una partita a scacchi Boito inscrive un'opposizione di indole sociale: contro Anderssen, proprietario latifondista arricchitosi col gioco, lotta un self made man, degno di comparire nella galleria allestita da Lessona in Volere è potere. L'Oncle Tom, infatti, dopo aver riscattato la sua posizione di schiavo con lo studio, oggi "è uno dei più ricchi possidenti del cantone di Ginevra, ha delle mirabili coltivazioni di tabacco e per un certo suo segreto nella concia della foglia, fabbrica i migliori zigari del paese" (L'alfier nero, p. 398). Se l'antagonismo fra ceti diversi regge, sin dal titolo, le novelle di Sacchetti, Tenda e castello e soprattutto Cascina e castello, nell'opera di Tarchetti il populismo democratico ispira commenti vibranti sul lavoro operaio o sullo squallore delle periferie urbane, mentre il disprezzo per l'inoperosità improduttrice di dandies e zerbini (Riccardo Waitzen, to. I, p. 607) e la condanna senza appello del dissoluto marito di Fosca s'accordano con la mentalità fattiva della capitale morale. Suggella questa veloce carrellata l'ancipite riprovazione classista che accomuna l'intera pattuglia scapigliata: quanto più feroce suona la satira contro l'"infrollita" aristocrazia che riempie i teatri milanesi, senza nulla comprendere d'arte, tanto più irredimibile è l'infamia che marchia il mondo bottegaio dei commercianti, sempre e dovunque rozzi e volgari. Insomma, in una prospettiva d'indagine sociologica, l'analisi minuta e puntuale riesce a individuare nei singoli testi una serie di elementi "tipici", per quanto scorciati della civiltà postunitaria. E tuttavia non il panorama delle forze collettive occupa il centro della narrativa scapigliata, né i conflitti economici sostengono la dinamica dell'intreccio: le singole notazioni particolari rifrangono un clima, allestiscono uno scenario, non costituiscono mai il fulcro del racconto. Altra e più riposta è la dimensione entro cui si sviluppa la rete dei rapporti fra i personaggi: l'aveva già indicata Tarchetti quando, definito il romanzo "la storia del cuore umano e della famiglia", annunciava polemicamente: "Ho desiderato di conoscere l'uomo, l'uomo solo" (Idee minime sul romanzo, to. II, p. 523) Il fuoco della produzione scapigliata è collocato nella sfera dell'intimità privata, ricca di rovelli esistenziali. Ovvio e un po' superfluo ribadire che in questa "narrativa dell'io", postromantica e pre-positivista, prevalgano i deliri morbosi e gli incubi fobici; più interessante anticipare che per lumeggiarli Dossi e compagni ripudino i moduli analitici dell'approfondimento psicologico. Decisivo chiarire subito che la storia della famiglia resta un'ipotesi progettuale, senza rappresentazione alcuna: nel passato e nel futuro dei giovani personaggi il nucleo domestico è per lo più assente o infidamente traballante. Senza famiglia E' stato opportunamente osservato che "il romanzo storico è un romanzo prevalentemente prematrimoniale"90, dove la lontananza forzata degli amanti prelude o a una felice unione o alla separazione definitiva di morte. Altrettanto nota la centralità che assumono le crisi coniugali per adulterio, vero o presunto, nei testi teatrali e narrativi di fine Ottocento. Ebbene gli scapigliati s'inseriscono in una fase di passaggio e illustrano il vuoto che si apre, ai loro occhi, tra il declino del vecchio modello aristocratico-patriarcale e l'affermarsi del nuovo ordine mononucleare. Della famiglia borghese, cellula primaria della società, in cui affetti disinteressati e convenienze economiche si stringono in un unico nodo, non c'è traccia in queste opere: l'arco temporale del racconto pare anzi occupare due zone estreme di latenza. Da una parte, la Vigilia di nozze, secondo il titolo di una bella novella di Sacchetti che allude allo stato d'attesa in cui si consuma la maggior parte delle vicende sentimentali; dall'altra Requiem: così un Acquerello di Bazzero sancisce l'unico esito possibile del legame d'amore. Quando, beninteso, la follia non abbia già condotto alla disintegrazione dell'io e di ogni possibile 90 F. Fiorentino, Luoghi del romanzo storico francese (18201835), in AA. VV., Storie su storie, Neri Pozza, Vicenza 1985, p. 147. convivenza a due. Nel mezzo, un periodo di attrazione fatale che dura, per dirla questa volta con Boito, Meno d'un giorno o, tutt'al più, Dall'agosto al novembre. E' il multiforme campionario narrativo di Tarchetti a offrirci lo spettro esemplare degli innamoramenti destinati allo scacco. La trilogia dedicata ai musicisti, Lorenzo Alviati Bouvard e Riccardo Waitzen, esibisce in modi canonici l'inconciliabilità fra "amore e arte", le due tensioni che governano l'esistenza di tutti i giovani protagonisti. Il conflitto verrà rimodulato da Praga (Tre storie in una), approfondito da Gualdo (La gran rivale), riformulato con accenti positivisti in Un corpo di Boito, proiettato sullo sfondo risorgimentale da Sacchetti (Guido e Dosolina in Entusiasmi), esasperato nel faldelliano Male dell’arte, dove Cirillo giunge addirittura ad ammazzare la moglie modella, messo in parodia da Dossi che allestisce il suicidio di Alberto sul "desiato corpo" di Claudia, ormai cadavere. Il gioco dei sentimenti varia, le cadenze espressive vi si adeguano, trascolorando dal melodrammaticomorboso dell'autore di Fosca alla galanteria mondana di Gualdo, dalla sensualità nevrotica di Boito fino ai poli opposti del realismo sacchettiano e dell'ironia straniante di Dossi e Faldella, ma la composizione finale del quadro non cambia. L'ansia di assoluto non concede compromessi: la dedizione all'attività inventiva impone compiti ardui, indirizzando la creatività verso perfette immagini ideali. Sarà anche vero, come sostiene Cirillo, che "Il genio senza la donna è come il gas illuminante prima che gli si avvicini la fiamma: non si vede, solo se ne sente il fetore" (Il male dell'arte, pp. 76-7), ma il femminile "astro di luce", calato nella realtà, non galvanizza l'ispirazione, la brucia fino all'esaurimento. Anche oltre la cerchia degli artisti, nessun legame conosce la gioia dell'affetto scambievole. Sono ancora le figure tarchettiane a guidare la schiera degli amanti infelici: Giorgio, diviso fra Clara già sposata e Fosca "l'isterismo fatto donna" (to. II, p. 271), alla fine può solo rifugiarsi fra le braccia protettive della madre resuscitata in extremis ("mia madre che perdetti fanciullo" p. 285, "l'arrivo di mia madre" p. 426); sir Robert si butta nel Vesuvio perché si crede tradito dalla fidanzata Maria, che s'accompagna, invece, a un giovane fratello ritrovato dopo molte traversie; il destino di Paolina, già segnato da una nascita irregolare, ripete coattivamente la sorte materna (stessa età, stessa malattia mortale, persino stesso seduttore); l'innamorato della montagna è tale perché quelle balze accolgono la tomba della promessa sposa diciassettenne, il cui ricordo continua a ispirare "antiche melodie"; l'amputazione di una gamba grava di sospetti e risentimenti la passione fra Eugenio e Clemenza; la vicinanza del "fatale" barone di Saternez mina pericolosamente la salute di Silvia, e così via tra smanie e tormenti fino alla morte. Nei testi degli altri narratori, mutano gli schemi, variano gli intrecci, si modifica la fisionomia degli amanti, ma l'epilogo sancisce sempre la vittoria di thanatos su eros: nel primitivo impatto col disagio della civiltà, l'istinto del piacere, per quanto sublimato, si ribalta subito in pulsione di morte. Il racconto scapigliato dell'amore può calarsi nelle note memoriali della melanconia elegiaca (Lisa, La cassierina, Elvira, Riflesso azzurro), velare con l'ironia del pudore il virginale erotismo (Principessa di Pimpirimpara, Vita di Alberto Pisani), modularsi sulle cadenze del rancore o del rimorso (Senso, Macchia grigia, Il demonio muto), riproporre le funeste passioni di età antiche (Candaule), rievocare folli infatuazioni per dame di corte (Capriccio) o incontri dettati da frenesie incestuose (Notte di Natale), avviare un dialogo con l'ombra di un fantasma femminile (Anima), condensarsi persino nell'apologo icastico di Tonio lo scemo del villaggio (Memorie del presbiterio, pp. 12529), ma sarà sempre, tarchettianamente, "storia di un ideale". Quando il desiderio rischia di tradursi in realtà, i timbri della censura rimozione condanna invadono la pagina. Il mistero che aleggia intorno al presbiterio di Praga riguarda una relazione proibita e un'ingannevole attribuzione di paternità; in un'antica Spagna leggendaria, l'"ultima brage" di un cero velenoso brucia il destino di una dinastia regale e il casto amore fra cugini adolescenti (Iberia); tutte le vicende sentimentali delle Storielle vane sono proiettate "sullo sfondo di legami passati e finiti, tanto conclusivi che portano direttamente o alla morte o a sue varianti metaforiche"91. Ancora peggio vanno le cose quando il matrimonio è già stato celebrato. Tenda e castello e Candaule ne sanzionano la fine col sangue, mentre Riccardo il tiranno, dell'omonima novella sacchettiana, aveva tutte le ragioni d'opporsi all'unione dell'amico Giovanni con Bettina. La lettera di Fosca descrive l'inferno della convivenza con il finto conte Lodovico; sulle note della "canzone di Weber", Ida incomincia a lasciarsi morire il giorno stesso delle nozze; la solitaria stanza di Guglielmo si trasforma in "un nido", solo grazie agli effetti dell'"allucinazione". Alfonsina, la moglie modella di Cirillo, passata da "cervelloticheria" a figura reale, non merita che la morte per soffocamento e nei dossiani racconti delle Due morali, 91 L. Strappini, art. cit. un provocatorio happy end premia chi contravviene alla volontà paterna e infrange le regole istituzionali del matrimonio (La maestrina d'inglese). Le poche eccezioni, Vincenzo D. e Teresa (Una nobile follia), Rosen e Emilia (In cerca di morte), Giulio e Maria (Cascina e castello), sono confinate nelle zone marginali del testo, prologo e epilogo. L'unica coppia protagonista di sposi felici "si dissolve", forse rifugiatasi in "qualche rosea regione sconosciuta confinante con la terra" oppure "compenetrata con gli alberi, coi cespugli, e con gli arrampicanti della villa" (La villa d'Ostellio, p. 84). Ma questa novella di Gualdo è appunto una "leggenda popolare" intorno a una dimora vetusta che "acquistò fama d'esser fatata". Nel passato, d'altronde, le vicende di casa non procedevano molto meglio: una ugual legge rovinosa governa la vita domestica nella famiglia d'origine. Figli di padri ammalati, come recitano i versi praghiani, i giovani personaggi scapigliati brancolano nel buio senza guide autorevoli. La stragrande maggioranza dei protagonisti sono orfani. Riccardo Waitzen: "il giovane non aveva né padre, né madre, anzi non li aveva mai conosciuti"(to. I,p. 605); "a dieci anni Bouvard era rimasto solo nel mondo" (to. I, p. 632); il folle Vincenzo D.: "Io non conobbi né mio padre, né mia madre" (Una nobile follia, to. I p. 419). Il vuoto alle loro spalle, tuttavia, non fortifica il senso di responsabilità nelle scelte della stagione adulta, come accadeva a Renzo Tramaglino o a Carlino Altoviti; acuisce semmai lo smarrimento indotto dalla caduta dei valori tradizionali. Per lo più neanche nominati, i genitori, se e quando compaiono in scena, sono immagini larvali: confinate sullo sfondo dell'infanzia le madri; destinati a morte precoce i padri: "Della mia famiglia non conobbi che due moribondi, mio padre e mia madre, e non avrò mai figliuoli." (Candaule, p. 85). E tuttavia, per quanto ombre fugaci e a qualunque ceto appartengano, contadini (Memorie del presbiterio, Il trapezio) aristocratici (La desinenza in A) commercianti arricchiti (Panche di scuola) borghesi d'alte pretese (Fosca), sono per i figli sempre fonte di calamità. Nonna Giacinta può placare i "nervetti" di Alberto con i suoi racconti, ma nessun conforto fabulatorio può risarcire della morte del padre e del suicidio della madre e il "nostro bimbo-incilindro" non uscirà mai dalla condizione di infantilismo psichico. Il male di cui patisce Cirillo comincia dalla vergognosa latitanza delle figure genitoriali, troppo impegnate in feste e ricevimenti ufficiali per curarsi del ragazzino, affidato alle cure leziosamente servili di un prete (Il male dell'arte). Non va meglio a Pinotto, la cui terribile madre lo distrugge psicologicamente, preferendogli nell'attenzione premurosa il cane Glafir (Rovine). I fatali dell'omonimo racconto di Tarchetti attingono il loro potere malefico da un legame familiare occultato e il primo incubo del folle Vincenzo D. tradisce un desolato senso d'abbandono ("Mi svegliai urlando e piangendo: non ho mai più sognato mia madre" Una nobile follia, to. I, p. 423); il povero Ignazio-Aminta è sballottato fra una ragazzamadre deceduta nel darlo alla luce, un genitore naturale di cui per fortuna ignora l'identità e un padre adottivo, a cui è stato fraudolentemente attribuito e che lo tratta con malevolenza perfida (Memorie del presbiterio); nell'"anno della grande carestia" la fame costringe una donna vedova a separarsi dal figlio, che alla fine si scopre "schiavo" dell'uomo cui è stato consegnato (Il trapezio). Bazzero ci offre una variante "familiare" meno esotica ma altrettanto esiziale: se il piccolo Rigo trova rifugio fra le braccia amorose della mammina dolente (Riflesso azzurro), in Anima proprio il confronto implacabile con la madre, modello ideale di femminilità, e con il padre, esempio di virilità operosa, è causa dell'impotenza affettiva e creativa dello scrittore. I genitori delle protagoniste femminili, soprattutto se animati da buone intenzioni, sono anche peggio. Fosca deve patire non solo la cieca stupidità materna (to. II, pp. 332-3), ma la pochezza di carattere di un padre incapace di difenderla dal marito violento e imbroglione; a Livia la famiglia insegna solo cinismo opportunista e insensibilità morale. Il padre di Ida, il quale "non era un uomo senza ingegno, ma ostinatamente aggrappato ai suoi pregiudizi" (La canzone di Weber, p. 120), la sacrifica al blasone nobiliare; dal genitore, che peraltro muore lasciando la casa in miseria, Rosilde eredita l'amore nefasto per il canto e il ballo (Memorie del presbiterio). Chiude degnamente la serie il "padre snaturato e crudele" di Paolina, il cui unico passatempo è insidiare, per scommessa, la virtù delle fanciulle. Ancora una volta l'esemplificazione rischia di suonare prolissa; per tutti può forse valere il ritratto sintetico che Tarchetti traccia all'inizio della vicenda dedicata a Giovanni e Fiordalisa: i due capifamiglia, in gioventù cospiratori, erano Disillusi della vita politica, troppo deboli per perseverare nella lotta, troppo forti per cedere, (L'innamorato della montagna, to. II, p. 163). irresoluti sempre E naturalmente, scoperti e arrestati, "lasciavano la vita sul palco" (p. 170), abbandonando i due ragazzi al loro solitario destino. La latitanza delle figure d'autorità Il fallimento delle figure parentali assurge a emblema della fine di un sistema di valori che, con coerenza amara, nessun altro personaggio di potere e d'autorità riesce a surrogare: anche i padri simbolici sono deboli e latitanti. Nel passaggio "dalla poesia alla prosa" che caratterizza la stagione unitaria, è naturale che i protagonisti politici siano i primi a vacillare: non perché i nostri autori vi si accaniscono contro, come capiterà nei romanzi antistorici di fine secolo, quanto piuttosto per l'offuscamento che involge l'intera res publica. Le poche "notabilità" che compaiono nei testi esemplari le Memorie praghiane sono o macchiette da sbeffeggiare (l'intendente, il segretario) o, peggio, torvi mestatori da evitare (il sindaco De Boni, il consigliere farmacista Bazzetta). Nella riunione del consiglio comunale, su cui "l'insegna dello Stato" vigila "vergognosa" (p. 151), lo "sperpero di preamboli" e la sequela retorica di "attesoché, di considerandi, di ritenuti" avallano "le sciocchezze e le bricconate" dei governanti (p. 153). Nel paesino di Sulzena, come a Torre Orsolina, "la fregola del maggioreggiare nella politica paesana" (Gioberti e Radescki, in Figurine, p. 97) induce comportamenti non riprovevoli ma già tocchi dal "baco" dell'ambizione. Dossi è il più implacabile nella demistificazione dei rappresentanti del potere, ovunque siedano. Privi di dignità espressiva sono silhouettes appena abbozzate: in testa il Re, "muso beatamente intontito dalla lussuria", poi i "Regi Impiegati egoisti fino alla settima pelle", i "bottacciuti pretoni" le cui prediche terroristiche spingono le fanciulle alla consunzione mortale, infine gli "illustri" burbanzosi professori Proverbio, Pignacca e Tamaroglio, voci stentoree capaci solo di "spolverizzare" ogni frase di mitologia e erudizione. Quanto ai militari, protagonisti dell'epopea risorgimentale, sono definitivamente usciti di scena, ormai sconfitti dai traffici del pragmatismo borghese. Ne corrode il prestigio più che l'eco infausta delle cannonate di Novara (Vita di Alberto Pisani) e di Custoza (Tre storie in una) o l'arringa dettata da una "nobile follia", il rito convenzionale di un duello inutile e ridicolo (Fosca). La nuova area del sapere scientifico, d'altronde, non ha ancora maturato figure dotate di autorevolezza sicura e affidabile. Al di là dell'antagonismo fra cultori di discipline positive e adepti del "male dell'arte", proprio la rappresentazione degli atteggiamenti assunti dai medici segna la distanza che separa la Scapigliatura dalla poetica naturalistica. Il dottor De Emma non solo non riesce a salvare Rosilde, ma si fa suo "complice" nell'inganno della paternità (Memorie del presbiterio); anche il chirurgo Lorenzo, pur senza alcuna volontà malevola, è causa della follia dell'amico Eugenio (Storia di una gamba) e il consulto di "celebri" e "famosissimi" clinici europei non vale a aprire la mano rinserrata di Levy (Il pugno chiuso). Di colpe gravi si macchia, invece, il dottore dagli "occhi furbi" di Vade retro, Satana, mentre l'ignoranza maliziosa dei "novelli Esculapi" è causa di terrore per il tramortito Gioacchino (Il collare di Budda); tutti gli altri, con la sola significativa eccezione dei personaggi sacchettiani (Cascina e castello, Vigilia di nozze), se non sono imputabili di viltà o ipocrisie, certo non brillano per sagacia e lungimiranza. Persino l'io narrante del dossiano Calamajo di un medico annega la sua sacrosanta indignazione nel catalogo moraleggiante dei "ritratti umani". Presiede l'intera categoria, quasi a sintetizzarne la cecità ottusa, il dottore-militare di Fosca. Responsabile diretto dell'incontro fra i due amanti, incapace di fronteggiare i guai combinati, contraddittorio nelle diagnosi e nelle terapie, al termine del romanzo è lui ad esporre per lettera il "sugo della storia". Dopo aver comunicato la morte della donna e le dimissioni dall'esercito del cugino colonnello, prospetta a Giorgio, ormai distrutto e "indifferente alle cose del mondo", una facile e serena guarigione: "Viaggiate, divagatevi (...) possiate esser felice" (to. II, pp. 426-7). A sancire la fine di un'epoca e di una civiltà è, conclusivamente, l'erosione che investe l'ordine dei personaggi religiosi. Le figure di sacerdoti che s'affacciano nelle opere scapigliate confermano il senso di abbandono cui allude la morte del padre. Comune a tutti gli "antecristi" è la polemica contro il "Vegliardo" Manzoni, in "sante visioni assorto", e soprattutto contro "la letana dei diaconi, sottodiaconi, chierici e sacrestani" che gli "fan coda" ("Figaro" n. 2, 1864). All'impeto dell'invettiva consegnata ai saggi e agli articoli non corrisponde, però, un analogo impegno di rappresentazione: la gamma timbrica con cui vengono delineati gli ecclesiastici non si discosta dalla convenzionalità caricaturale. Il laico Dossi, sin dall'esordio (Educazione pretina), recupera dalla poesia portiana le note pungenti dell'umorismo parodico, mentre Tarchetti, più prossimo alle idealità romantiche, confessa "le lotte" sostenute dalla ragione contro "la favola religiosa tessuta sì scaltramente e sì ingegnosamente", per poi, nondimeno, ammettere che "essa è nel cuore umano, essa è fatta di pietà e di amore" (L'innamorato della montagna, to. II, pp. 149-50). Sottilmente variato il gioco di cadenze che percorre le Storielle vane: se le tentazioni che affliggono Don Giuseppe chiedono il pathos visionario (Vade retro, Satana), il ritratto del rettore del Santuario invita al sorriso sornione e le placide ammonizioni del curato, "ottimo di cuore, ma un po' beone e mangiatore insaziabile" (Il demonio muto, p. 362), poco incidono sullo "scavo nella coscienza" compiuto dal vecchio zio. Estranee a ogni assillo d'indole religiosa le novelle gualdiane della Gran rivale e i racconti di Arrigo Boito: quest'ultimo ambienta Iberia nella cattolicissima terra spagnola unicamente per l'aura esotica che le sue "sante reliquie" sprigionano e proietta l'orrida vicenda di Paw sullo sfondo delle "feste della Madonna di Czenstokow" (Il pugno chiuso, p. 10) per meglio far risaltare i contagi dell'allucinazione superstiziosa. E' piuttosto l'opera di Praga, cui s'affratella l'inquieto Bazzero, a testimoniare il groviglio di "soffocazioni d'ideali" e "febbrili concitazioni d'istinti" nel quale si dibatte la "schiera di coloro che negano assetati di fede" (Memorie, p. 122). Intorno al presbiterio si muove una folla di figurine che, nelle molteplici citazioni manzoniane, esemplificano le diverse attitudini dei credenti. Fra i laici, al vecchio avaro Deboni, "diventato prodigo per ispeculazione" ("collocava i suoi averi all'interesse nella cassa pensioni del Padre eterno" p. 62) si oppongono i generosi popolani, Mansueta e Baccio e la sventurata Gina; fra gli ecclesiastici, oltre all'abatino Aminta, "creatura pensierosa e malatticcia" (p. 47) in preda delle lusinghe dei sensi, officiano, assieme a Don Luigi, peccatore innocente, Don Gaudenzio, ingordo e miope, e Don Sebastiano, il vice-curato, il cui "ultramontanismo spilorcio e fanatico" (p. 245) nega ogni conforto di carità al disperato Beppe. Su questo sfondo si staglia un solo personaggio in veste talare ricco di vera devozione e d'amor di patria, tanto da assurgere a eroe delle Cinque Giornate milanesi: padre Celestino di Entusiasmi. Ma appunto, ormai lo sappiamo, l'opera di Sacchetti vale come cartina di tornasole contrastiva rispetto alle altre narrazioni bohémiennes. Le tecniche di sdoppiamento La solitudine del protagonista scapigliato, non più romantico eslege ma non ancora dandy decadente, è corroborata dai procedimenti compositivi che organizzano le relazioni fra i vari attori della vicenda. Il rifiuto dello scenario storico, mentre suggerisce la prospettiva ristretta e parziale, riduce il sistema dei personaggi a una rete monocentrica in cui spicca l'eroe, affiancato da figure disposte in coppia amorosa o amicale. Ecco allora che in quasi tutti i racconti, il criterio distributivo ordina le relazioni di complementarità solidale o oppositiva entro uno schema orizzontale, non gerarchicamente regolato. L'assenza dei genitori esalta il confronto con i "pari", d'età condizione sociale scelta professionale, persino di fissazione alienata. L'omonimia dei personaggi di Una nobile follia è spia macroscopica della identità dei diversi; la dissociazione autoriflessiva che sorregge gli antiromanzi di Carlo Dossi ne rappresenta il risvolto ironico. Abbandonata la profondità di campo della narrazione mista, allentate le maglie dei rapporti familiari, concentrato l'interesse sull'io ipertrofico del protagonista, gli autori scapigliati si trovano ad affrontare una questione decisiva: se "il romanzo è la storia del cuore umano" (Tarchetti), come raccontarne i turbamenti e gli assilli, come dar voce al "dualismo" che tutti agita, senza contraddire l'ansia di modernità, connessa al rigetto del realismo manzoniano, e senza restare invischiati nella melassa sentimentale di cui l'"Arcadia romantica" aveva fatto sfoggio? Fede e Bellezza (1840), l'unico romanzo italiano che aveva tentato di penetrare nelle zone oscure della psiche, ritraendo l'erotismo morboso che alterna peccato e penitenza, conteneva numerosi spunti fecondi: resoconto in soggettiva, struttura franta, aperta a squarci lirici e descrittivi, infine, la "lieta e infelice schiera" di figure femminili dal fascino torbido e ammaliante. E tuttavia il libro di Tommaseo era troppo intriso di religiosità espiatoria per non suscitare sospetto negli "antecristi" milanesi, resi ancor più avvertiti dalla stroncatura di Cattaneo, apparsa sull'autorevole "Politecnico". La soluzione esperita dai nostri autori, sulla scorta dei grandi maestri stranieri, è efficacemente semplice: la drammatizzazione dello sdoppiamento, declinata con una varietà sfolgorante di moduli. Per descrivere i "moti elementari e contrari" (Il trapezio, p. 456) cui rispondono sempre le facoltà umane, il narratore mette letteralmente in scena le antitesi: nessun approfondimento psicologico, nessun'indagine introspettiva, piuttosto il ricorso costante al campionario delle tecniche di geminazione. "Tutto è doppio", il motto ispiratore del volume di Alberto Pisani, è il principio genetico dell'intera produzione scapigliata. Entro la dimensione tipologica delle opzioni di genere, i modelli prediletti del fantastico e dell'umoristico valorizzano i procedimenti di scomposizione binaria, corrispondenza simmetrica, rifrangenza anaforica. Come ribatte il primo narratore a Paw che sta per raccontare la doppia storia del fiorino rosso: "«Meglio due che una»" (Il pugno chiuso, p. 17). Nella misura breve della novella, il montaggio "a contrasto" corrobora la specularità delle vicende rappresentate; nei romanzi, l'intreccio sincopato disloca su piani diversi percorsi paralleli (Vita di Alberto Pisani, Memorie del presbiterio) e la struttura a canocchiale li proietta l'uno sull'altro in un gioco caleidoscopico che moltiplica le immagini, senza peraltro creare risonanze polifoniche (Una nobile follia, Fosca). Se l'intera organizzazione dei materiali narrativi denuncia l'ossessione del doppio, è, ovviamente, il sistema dei personaggi a renderla manifesta. Le opere più tipicamente scapigliate collocano il protagonista al centro di una contesa, di fronte a un antagonista uguale e contrario, "il gemello inesorato" evocato in una poesia famosa di Praga (Alla Musa). Quando il poeta-pittore passa alla prosa, il suo primo romanzo s'intitola, appunto, Due destini: in campo Ippolito e Teodoro, "due cuori, due caratteri, due nature diametralmente opposte" (p. 180) innamorati, ovviamente, della stessa donna, Clemenza. In alcuni testi, lo scontro è tematizzato e la posta in gioco diversa ma sempre pericolosamente alta: una enorme somma di denaro (Il pugno chiuso), il successo e la fama (Una scommessa), la vittoria "fatale" in una partita a scacchi (L'alfier nero), il possesso pieno del corpo femminile (Un corpo). In altri, il conflitto impone scelte radicali e il personaggio si dibatte fra i poli ultimi di vita e morte (Fosca, Il trapezio). Ciò che conta, comunque, è la "messa in scena" delle antitesi da cui l'io è lacerato, quasi a tradurre in prosa le indicazioni programmatiche che Arrigo Boito aveva cantato nella prima strofa della sua poesia-manifesto: Son luce ed ombra; angelica farfalla o verme immondo, sono un caduto chèrubo dannato a errar sul mondo, o un demone che sale affaticando l'ale, verso un lontano ciel. (Dualismo) A derivarne è un ritratto dell'individuo modernamente inquieto, scosso da contraddizioni inedite e non riconducibili alla coppia romantica cuore-ragione. Tuttavia la proiezione visibile dell'"agitarsi alterno/fra paradiso e inferno" può solo denunciare l'intensità divaricante del moto pendolare, senza mai offrirne le chiavi interpretative, senza mai sfiorarne la sostanza. Il saggio Yao presume di regolare la propria esistenza secondo le linee convergenti che osserva in una piazza o in un'arena di circo, salvo nulla capire e sprofondare nella "vertigine dell'abisso" (Il trapezio). La fenomenologia dell'io diviso è forse il topos più caratteristico della narrativa postunitaria: come è già stato notato, esso "rende conto in massima economia fantastica del rapporto di identità e differenza dell'io con se stesso, consentendo al soggetto, attraverso i meccanismi di divisione e proiezione, di scaricare le angoscie distruttive in idoli di persecuzione"92. Se l'opera tarchettiana documenta in ogni testo, pressocché in ogni sequenza, esemplare il raccontino sui gemelli che apre la vicenda di Riccardo Waitzen , l'onnipervasiva legge dell'"urto e dell'antitesi" (Fosca, to. II, p. 348), tutti gli altri ne sfruttano a iosa le potenzialità compositive, nel rispetto di quel "dualismo" teorizzato, in versi e in prosa, sin dalle origini del movimento. Spia di uno specifico disagio culturale, anticipatrice di suggestioni poi ampiamente diffuse (basti ricordare, in terra ambrosiana, l'esordio di De Marchi con Due anime e un corpo), l'immagine scapigliata dell'"homo duplex"93, tuttavia, non apre nuovi mondi, non esplora regioni sconosciute. Privi di retroterra filosofico, dilettanti pasticcioni (Tarchetti, Praga), collezionisti nevrastenici (Dossi, Bazzero), studiosi di discipline artistiche affini (C. Boito), magari anche cultori ingordi di materie esoteriche (A. Boito), i narratori della Bohème lombarda non amano gli approfondimenti riflessivi, le 92 E. Gioanola, Scrittura del pathos. Pathos della scrittura nell'esperienza scapigliata, in "Otto/Novecento", a. IV, n. 5-6, sett.-dic. 1980. 93 V. Roda, Homo duplex, il Mulino, Bologna 1991. sistemazioni teoriche. Dietro le composizioni "a specchio" traluce, piuttosto, ancora una volta, la fragilità della nostra tradizione romanzesca. Per marcare la distanza dall'opera manzoniana e nel contempo testimoniare la crisi dell'individualismo eroico primottocentesco, i giovani letterati credono sia sufficiente appropriarsi gli ambigui e schizofrenici personaggi che popolavano la produzione d'oltralpe e riusare le tecniche della raffigurazione dissociata, adattandole, tutt'al più, al clima provinciale della penisola. Ecco, allora, l'esibizione dei moti di "discordanza perenne", del soggetto in "bilico tra l'essere e il non essere" (Tarchetti, Storia di un ideale, to. I, p. 89, Storia di un gamba, to. II, p. 217), dell'"addoppiarsi" esistenziale (Bazzero, Anima, p. 137) o del "raddoppiarsi e sdoppiarsi" (Faldella, Il male dell’arte, p. 94). Certo, nell'episodio della Principessa di Pimpirimpara, la comparsa sulla scena di "Ego" è segno smagliante della spregiudicatezza intellettuale di Dossi, ma proprio "il garbuglio di fantoccini" ammontonati dietro il sipario a conclusione della fantasia onirica, ci aiuta a spiegare la esilità d'implicazioni di cui pecca lo sdoppiamento dell'io nella stragrande maggioranza di queste opere. La "messa in scena" del double, quando non si cala nelle note stranianti dell'ironia, tende, per lo più, a recuperare l'unica grammatica delle emozioni che la nostra tradizione aveva elaborato al di fuori del solco manzoniano: i gesti le pose i dialoghi, tutto condito d'enfasi, della scrittura teatrale, magari d'impianto melodrammatico. Troppi e troppo fragorosi sono i colpi di pistola che suggellano il racconto per non denunciare la platealità del dissidio psichico. La figure in antitesi per lo più non si confrontano davvero né crescono in progressione ma confliggono in uno scoppio finale: una partita a scacchi tra il bianco e il nero (L'alfier nero), il matrimonio del nobile con la zingara (Tenda e castello), l'attrazione sensuale fra due cinici rappresentanti di una civiltà al tramonto (Senso), un duello che non salva l'onore militare ma solo appalesa il contagio morboso fra due amanti (Fosca), persino la Bildung di un giovane artista alla ricerca della donna ideale (Vita di Alberto Pisani); tutte queste vicende si chiudono con una rivoltellata che tronca di netto la parabola narrativa. E l'accoltellamento di Saternez (I fatali), il rantolo di Paw (Il pugno chiuso), il silenzio folle di Arnoldo D. (Una scommessa), la morte in "un ospedale dei pazzi" di Riccardo (Tre storie in una), la consunzione di Lorenzo Alviati, l'apoplessia di Bouvard e di Waitzen sono esiti altrettanto romanticamente risolutori che non concludono una storia, sanciscono un destino. A fondamento di simili epiloghi deflagranti è forse possibile leggere una doppia negazione: il disagio patito dagli intellettuali postunitari davanti alle vicende della dialettica storica si traduce nel rifiuto dei valori della tradizione passata e nel contempo nella riluttanza a prospettare un ipotetico scenario futuro. Orfani, incapaci di diventare a loro volta padri, i protagonisti scapigliati si arrestano sulla soglia della giovinezza, crogiolandosi nella attesa vana della virilità matura e in preda alla nostalgia del tempo infantile e delle franche certezze. La raffigurazione fisionomica La raffigurazione per coppie antinomiche, l'accantonamento di ogni strumento d'indagine psicologica, il privilegio concesso ad una permanente gioventù: tutti questi elementi, immessi entro le strutture unilineari del racconto e del romanzo breve, avvalorano la "piattezza" 94 dei personaggi scapigliati. Fissati, monomaniaci, eternamente ragazzi nessuno di loro muta e si corregge; tutt'al più si riconvertono nei loro 94 E. M. Forster, Aspetti del romanzo, il Saggiatore, Milano 1963. doppi, in attesa dell'incontro ultimo e fatale. A derivarne è, innanzitutto, la riduzione, se non lo svuotamento, degli schemi compositivi di quei generi che si fondano sulla tramatura analitica degli stati emotivo-sentimentali: da una parte la scrittura memoriale, dall'altra il romanzo di formazione. Nel primo caso (Dossi, Bazzero, C. Boito), la dinamica decisiva fra io narrante e io narrato viene subordinata al recupero delle atmosfere impalpabili dell'"altrieri" o al vagheggiamento gratificante dei ricordi lontani. In Lisa e Riflesso azzurro l'assunzione piena dell'ottica infantile colma lo scarto fra passato e presente, fra ingenuità innocente e coscienza adulta; nella Principessa di Pimpirimpara lo sdoppiamento ironico garantisce al protagonista la fuga regressiva: la "farfalloneria" mondana di Guido, al ritorno della festa, si scioglie nella recita di marionette in cui campeggia l'"Ego" bambino. Nella Vita la divaricazione marcata fra Carlo e Alberto apre uno iato fortissimo che vanifica ogni processo di introspezione psicologica: "Osserva il mio amico «tu calchi troppo la penna» Vero; ma quì non sono io che pensa, è Alberto" (p. 117). Molte delle Storielle vane sono costruite sui procedimenti di rievocazione memoriale e la gamma delle soluzioni esperite da Boito gioca su una varietà di intonazioni sempre assolutorie: le "brutte confessioni" di un delirio incestuoso affidate a una governante che, nulla capendo, tutto legittima (Notte di Natale); la lettera testamento di un vegliardo in punto di morte, pronto a sciorinare, con palese narcisismo, le tentazioni del "demonio muto"; la descrizione dei sintomi morbosi patiti da un narratore reso inaffidabile dalla "macchia grigia " di un rimorso pervicacemente negato. Infine, splendida nel rifiuto di ogni consapevolezza e responsabilità, Senso, dove la scrittura della memoria è rispecchiamento "esaltante" e "voluttuoso" nella fascinazione giovanile: la cornice, collocata temporalmente a sedici anni di distanza, sottolinea la permanenza dei moti di civetteria maliarda che già avevano nutrito la folle passione di Livia per Remigio. Anche il romanzo di formazione, nei due autori che sembrano prediligerlo, Dossi e Faldella, si sfrangia nell'annullamento del percorso progressivo che, per statuto, dovrebbe orientarne la trama. Opportunamente Spera rinviene nell'orditura dell'Altrieri e della Vita di Alberto Pisani, del Male dell'arte e di Rovine, una legge sotterranea che sancisce l'"inutilità della psicologia"95. 95 F. Spera, Il principio dell'antiletteratura, cit., pp. 89-91. Il finale enigmatico della Vita, oltre che parodiare la necrofilia di Bouvard, sottolinea il vuoto che si spalanca davanti a chi, proclamata la naturalezza istintiva del "buon senso", è incapace di praticarlo, continuando a vivere nell'universo fittizio dell'immaginazione fantastica. Nella "città in fregola", l'etica "pedina" e nel contempo elitariamente trasgressiva di Alberto non ha modo di esplicarsi e al giovinetto scrittore "stilnovista" non resta che il furto melodrammatico del cadavere della donna amata. In Tarchetti, d'altronde, la preferenza accordata al sottogenere del Künstlerroman, che condensa nel giro di poche pagine la sorte eccentrica del protagonista sottratto ad ogni prova di Bildung, avvalora la statica univocità in cui sono imbozzolati i fatali eroi scapigliati. Se gli amanti esasperano l'ansia di possesso fino al delirio e gli artisti bruciano la vita nell'aspirazione al capolavoro irrealizzabile, tutti i personaggi indistintamente, sono mossi da un'implacabile coazione a ripetere che li conduce a clamorose scelte inconsulte. Strumento di fuga davanti agli impegni di responsabilità, esorcismo dei fantasmi di morte, specchio di narcisismo schizofrenico o voluttuoso, alibi confortante per infrazioni più o meno gravi, pausa di sospensione di un tempo volgare, la scrittura cui si affidano i narratori di secondo grado rifrange i patemi degli autori reali e diventa la dimensione compensativa del loro stato di "piattezza" esistenziale. Ecco perché il lettore di libri scapigliati fatica a mettere a fuoco, nella multiforme e variopinta galleria di personaggi, la singola personalità: certo non dimentica la "timida Gìa", compagna dell'"orgogliosetto" Guido (L'Altrieri), i "due nidi d'occhi" di Cirillo (Il male dell'arte), l'"influenza magnetica" del fatale barone di Saternez, "la bruttezza orrenda" di Fosca e "la pura bellezza di Narcisa". Ma appunto a colpirlo, restando impresso, è un tratto unico, spesso condensato in un sostantivo astratto o in un aggettivo iterato che immobilizza il personaggio: il "deserto" diarista di Anima, il "gotico" Alberto, il "blasé" duca Giorgio, il "folle" Vincenzo D. Di più: come ammoniscono i narratori dei due casi estremi di femminilità, la "magrezza spaventosa" di Fosca è "inconcepibile" e non esistono parole adeguate per rendere l'"orribilità" di quel volto (p. 278); di Narcisa, ugualmente, si può solo enunciare l'ineffabile splendore: "Ella era bella più che sia possibile immaginare" (p. 207). Con sorprendente diffusa consonanza, gli scrittori scapigliati incorniciano ritratti e descrizioni fisionomiche con costanti e ripetute figure di ellissi e preterizione, quasi a manifestare un impaccio effettivo patito da tutti, sebbene diversamente esibito. Così, alle maldestre dichiarazioni di impotenza elocutiva cui sempre Tarchetti s'abbandona, Boito risponde con consapevolezza critica: ci sono delle impressioni che, mentre rimangono vaghe, nella mente, paiono potenti di novità e di forza, e quando si trasmutano in corpo, sia pure in prosa od in verso, diventano cose fiacche e vietissime. (Il colore a Venezia, p. 432) Metaforicamente più fantasioso, l'analogo lamento di Cirillo sull'"inettezza" espressiva: quelle sensazioni che ci parevano così vive e così roventi dentro di noi, una volta travasate e ridotte sulla carta o sulla tela, eccole lì floscie e rigide come cadaveri di bruchi lanciati stramazzoni sulla strada da un temporale. (Il male dell’arte, p. 76) Dossi fa eco con moderno senso del limite: è impossibile di imprigionare salvo che in un rigo di musica certi pensieri che fra loro si giungono, non già per nodi gramaticali ma per sensazioni delicatissime e il cui prestigio sta tutto nella nebulosità dei contorni. (L'Altrieri, p. 67) Anche per questa ricercata "nebulosità di contorni", il volto del personaggio dilegua e persino il sembiante più originale rischia di dissolversi nella galassia composta di eterni adolescenti malati d'arte e d'amore. Foster definisce i personaggi privi di spessore psicologico, che non evolvono nel corso della vicenda, "disegnati" con un profilo a "semplice contorno"96: l'espressione suona efficacemente pertinente per autori che amano buttar giù "scarabocchi abbreviati", "acquerelli", "arzigogoli", "schizzi a penna", ritratti "nero su bianco". Certo, il campo delle tecniche di raffigurazione fisionomica richiederebbe un'analisi puntuale e precisa, capace di cogliere le differenze di tratteggio non solo fra autore e autore, ma, all'interno della singola maniera narrativa, fra protagonisti e comparse, eroi fatali e macchiette comiche, fantasmi dell'"altro" mondo, viaggiatori cosmopoliti, sagome ritagliate sullo sfondo di un paesaggio. Sul piano dei moduli espressivi, d'altra parte, anche il disegno "a stiacciato" conosce, come è naturale, modulazioni policrome: la linea serpentina dell'umorismo dossiano, la tecnica a macchia del pittore Praga, il plasticismo sensuale di Camillo Boito, 96 E. M. Forster, op. cit., pp. 78-83. l'algido rigore teatrale del fratello musicista, infine il risalto melodrammatico delle fattezze tarchettiane contrapposto sia alla tavolozza espressionista dei bozzetti campestri di Faldella sia alle velature evanescenti degli Acquerelli di Bazzero. Comune a tutti, nondimeno, è il rifiuto radicale dei moduli rappresentativi ascrivibili al canone del realismo analitico. In questa zona del testo, la lontananza dalla modellistica descrittiva cara al romanzo storico, in cui ogni ritratto ambiva racchiudere un "tipo" storicosociale, acquista un'evidenza abbagliante. Ripetiamolo: la riluttanza generalizzata a delineare personaggi a tutto tondo nasce da progetti di scrittura diversi che si traducono in scelte stilistiche spesso opposte, cosicché la trasandatezza convenzionale della prosa di Tarchetti ha poco a che spartire con le "smorzature dei toni" proprie alle Storielle di Camillo Boito e con l'allestimento scenico caro ai racconti di Arrigo. Persino nella comune predilezione per gli "schizzi", il pittoricismo di Praga conosce vibrazioni lontane dal colorismo inquieto di Bazzero e dalle spigolature miniate di Faldella. Ma le dissonanze, per quanto marcate, non inficiano la coesione del quadro complessivo. La brillantezza icastica con cui sono sbozzati i caratteri degli attori principali e dei comprimari è sintetizzata con effetto lampante dalla coppia delle amanti di Giorgio, Clara e Fosca; e come quel modello abbia fatto scuola ce lo indica il rifacimento serioso-parodico di Faldella in Madonna di fuoco e Madonna di neve (Brigola, Milano 1888). Apparentemente più mossa è la schiera delle figurine che, delineate con guizzanti pennellate, s'affacciano sul proscenio, e vi restano per qualche sequenza fissate in una posa, imprigionate in una smorfia. Il farmacista di Sulzena: Due occhietti grigi, un naso aquilino, due baffetti ed un pizzo di un colore impossibile fra il biondo e il grigio (Memorie del presbiterio, p. 40). Le sue donne non sono da meno: la moglie Era lunga, lunga, lunga; aveva gli occhi nella nuca e le ciocche dei capelli a un centimetro più innanzi della punta del naso! E che punta e che naso! (p. 87) La figlia era grassa e paffuta come un dindo nutrito da una brava massaia per onorare il Natale. Aveva la pelle tesa, come quella di un tamburo, sicché, malgrado tanta lussuria di muscoli e di polpe, pareva fosse stata fatta con economia. I suoi grandi occhi bovini avean l'aria di voler saltar fuori a ballonzolare sul pavimento (ibidem) Don Severo, precettore di Cirillo: Zazzeruto azzimato, lustro come le sue scarpette perpetue di marocchino, timoroso delle zacchere più che un pavone, egli camminava per la via a brevi saltetti, quasi ogni pagliuzza fosse una pozzanghera da evitare. (Il male dell’arte, p. 62) E così via in una serie di profili bizzarri, di sagome strambe, silhouettes evanescenti: a prevalere di volta in volta è la perizia "fiamminga" (Faldella), la sprezzatura luminosa (Praga), la deformazione alla Hogarth (Dossi), la limpidezza dei contorni (C. Boito). Di tutte ricordiamo un particolare, nessuna di loro diventa un personaggio. Si aggiunga che simili figurine solo raramente hanno autonomia di parola: anche la caratterizzazione "per voce" è, infatti, affidata a poche battute, volte a sottolineare, con gusto espressionistico, tic e vezzi linguistici. Certo, ed è persino superfluo ricordarlo, l'orchestrazione del dialogato conosce modulazioni plurime, variando da autore a autore, da opera a opera. Dossi è il più attento alla contaminazione dei registri pluridiscorsivi: soprattutto nei testi narrati in terza persona, e il culmine è raggiunto nella teatraleggiante Desinenza in A, la componente mimetica del parlato acquista rilevanza espressiva. Nella Vita di Alberto Pisani la saggezza pacatamente ironica di nonna Giacinta, che smonta i primi patemi amorosi del nipote, è prologo al buon senso scanzonato dell'amico Fiorelli, pronto a sbeffeggiare la mania di Alberto di vivere "sempre fra quei tuoi morti libri" (Vita, p. 135). Per contro l'omelia terroristica del sacerdote al funerale di Adelina è una testimonianza sfolgorante dell'anticlericalismo dossiano. Quanto più la parola del personaggio riecheggia note parossisistiche o iperboliche tanto più ne esce rafforzato il tratto fisionomico. La controprova ci è offerta dalle opere meno riuscite: nei racconti giovanili, il frequente dialogato ad alta predominanza mimetica è banalmente convenzionale; nella Colonia Felice l'oratoria enfatica non risparmia né le concioni avvocatesche del Letterato né le invettive brutali, altrettanto declamatorie del Beccajo e del resto del "papagallame". E tuttavia, anche Dossi, il meno monologico del gruppo, conferma che nel rapporto fra voce del narratore e voce dei personaggi domina incontrastato il primo termine. Nella Desinenza in A, dove gli "a solo" e i duetti delle protagoniste valgono a costruire il campionario sfaccettato delle nefandezze femminili, le didascalie registiche, per quanto incastonate e di secondo piano, fungono da reagente ai recitativi e ne distorcono ogni intonazione realistica. Ciò non significa negare che nella produzione scapigliata vi siano timbri dissonanti che si levano dal coro: i diminutivi del farmacista Bazzetta (Memorie del presbiterio), le "sesquipedali baggianate" di cui è infarcita la lezione del Professor Proverbio (L'Altrieri, p. 439) le note indignate che sorreggono, e intralciano, l'orazione dell'ex-capitano Ballotta davanti a nonna Giacinta (Vita di Alberto Pisani), le risposte sguaiate della crestaia in Notte di Natale e, più stupefacenti di tutte, anche perché ignorate dalla critica, le "vociacce" (p. 151) di marinai, vetturali, bagnini che apostrofano in dialetto genovese il malinconico viaggiatore degli Schizzi dal mare. Ma, ancora una volta, è un accento singolo a riecheggiare, confermando che anche le voci discordi non rispondono ad alcun intento documentario, a nessuna volontà di mimesi dialogica: avvalorano solo l'effetto "a stiacciato" con cui sono disegnati tutti i personaggi. Una simile scelta, d'altronde, non deve sorprendere. Nelle narrazioni condotte in prima persona, la parola del narratore riassorbe, per lo più, le battute dei vari interlocutori, cosicché i pochi, brevi dialoghi riportati s'intonano alle cadenze elocutive del discorso principale. Anche laddove vengono inseriti brani di lettere, diari, confessioni e testamenti, nessuno scarto polifonico si apre nella compagine del racconto: anzi, proprio la più tipica composizione a scatole cinesi corrobora l'opacità elocutiva di cui la nostra civiltà romanzesca continua a peccare, e che solo sul discrimine del nuovo secolo comincerà a diradarsi. D'altra parte, la compattezza del sistema dei personaggi non prevede escursioni violente e il tono complessivo del dialogato non conosce modulazioni ampie. Elisenda e Estebano recitano quasi in duetto la loro parte di amanti regali (Iberia); l'Oncle Tom si oppone ad Anderssen più per le sfumature di un sorriso che per le differenze di linguaggio (L'alfier nero). Nelle novelle di Gualdo, le conversazioni fra frequentatori di salotti europei si sviluppano nel rispetto di una koiné elegante e mondana, cui, peraltro, si associano sia la popolana Paquita (Il viaggio del duca Giorgio) sia la favorita del re (Capriccio). Le Storielle vane allineano confronti verbali poco polemici, sempre pervasi da un'ironia corrosiva che ne smorza le note stridenti. Quando poi l'incontro fra due personaggi acquista la vivezza di una sfida amorosa, la retorica melodrammatica è lì in agguato: le confessioni intime di Giorgio e Fosca non sfuggono mai alle insidie del parossismo, pericolosamente vicino al ridicolo involontario. Nelle opere scapigliate, il resoconto del narratore narcisista avviluppa sempre tutti gli altri discorsi, in qualunque tipo di sottogenere si diffonda, su qualunque cadenza espressiva si moduli. I commenti che fungono da prologo ai racconti inseriti nelle Memorie del presbiterio lo dichiarano con sincera conclusiva onestà. Ciò che udii quella sera, nel silenzio opaco e tristo di quella cucina, vorrei potere e saper ripetere colla rozza ed efficace semplicità con cui narrava il dabbene speziale; ma dovrei accennare le interruzioni, citare le osservazioni, ch'egli vi intercalava, senza di che l'effetto sarebbe mancato e il racconto non farebbe che diventar più prolisso. Preferisco quindi riassumere alla meglio e raccontarvi con parole mie DEL SINDACO IL ROMANZO (p. 56) A parte la speciale gravità delle circostanze, il suo racconto era per se stesso molto interessante. E tal sembrerebbe così anche ai miei lettori, se potessi ripeterlo come egli lo espose. Ma sono costretto a riassumere alla meglio DEL DOTTORE (p. 210). IL ROMANZO Capitolo VII Il dualismo tematico Tutto è doppio Non è facile orientarsi nella galassia dei temi e motivi che coesistono nella narrativa scapigliata: la costellazione del fantastique si interseca con i campi semantici propri alla rievocazione memoriale, i topoi del gotico-macabro occhieggiano fra le maglie della divagazione umoristica, le suggestioni ricavate dagli autori europei si innestano sull'immaginario post-risorgimentale e anticipano il décor decadente. E' ben vero che Dualismo di Arrigo Boito sciorina, nell'abile gioco di strofe, la varietà di coppie antitetiche entro cui si dibatte l'"altera" musa bohémienne: arte reproba-arte eterea, virtù-peccato, luce-ombra, bestemmia-orazione, cherubo- demone, farfalla-verme, ideale-reale. Nella sua intenzionalità manifesta, tuttavia, la poesia che apre Il libro dei versi disegna un diagramma di linee in perfetto equilibrio, come se l'"agitarsi alterno/fra paradiso e inferno" si raggelasse in una sorta di oscillazione perpetua, priva di tensione drammatica. Meglio allora prender spunto da un altro testo di Boito, L'alfier nero, dove la dialettica di immagini inverse e simmetriche è meno programmatica, ma più ricca di connotazioni polisemiche. Il racconto, apparso sul "Politecnico" nel '67, è un piccolo gioiello per l'omologia che vige fra la scelta dei materiali e la loro organizzazione narrativa. La partita a scacchi fra Anderssen e Tom mette in scena e il prologo in medias res avvalora il taglio teatrale la sfida all'ultimo sangue fra un bianco e un nero: l'uno latifondista miliardario, l'altro exschiavo diventato un apprezzato self made man. Le due strategie di gioco alludono a una serie di contrasti che abbracciano l'intero orizzonte culturale97. Immediato il primo riferimento all'attualità: i paragoni militari, adottati con pertinenza per spiegare le mosse degli scacchi, rinviano ai conflitti storici in corso: non solo le rivolte coloniali (la rivoluzione di Santo Domingo) ma l'appena conclusa terza guerra d'indipendenza. Le fasi della partita, descritte nell'alternanza del punto di vista ("Mutiamo il campo", p. 405), illustrano con "evidenza" due antitetici comportamenti mentali: all'equilibrio simmetrico del bianco si oppone il disordine confuso "fatto ad arte" del nero, "al giuoco aperto e sano il giuoco nascosto e maniaco" (p. 406). Tradotto in codice scapigliato, sulla "fatale scacchiera" si fronteggiano ragione e 97 G.Gronda, Testo diegetico o testo simbolico? "L’alfier nero" un "pezzo segnato" in più sensi?, in Teoria e analisi del testo, Quaderni del circolo filologico linguistico padovano n. 12, 1981. follia, salute e malattia, calcolo e fantasia, scienza e finzione, "forza dell'ordine" e "potenza dell'ispirazione". L'antagonismo fra "la calma del matematico" esibita da Anderssen e l'"eccitamento allucinato" da cui si lascia condurre l'Oncle Tom permea l'intero tessuto compositivo: dalle scelte lessicali all'articolazione sintattica, dal sistema delle figure retoriche ai procedimenti di focalizzazione, dal campo dell'intertestualità scientifica e iperletteraria alle tecniche della ritrattistica fisionomica, dalla costruzione binaria dell'intreccio fino al doppio epilogo con scioglimento e chiusa. A differenza del testo poetico, però, il racconto vibra di una vivida accensione drammatica. Durante il breve arco di ore in cui si svolge la sfida, la "vista", l'organo per eccellenza dell'indagine positiva, cede alla "visione", carica di richiami emotivi e ideali, e l'americano, dapprima guidato dal metodo "infallibilmente sicuro", subisce il fascino delle acrobazie vertiginose dell'alfier nero, ormai umanizzato in eroico ribelle moribondo. Nel corso della notte, lo sguardo di Anderssen perde il distacco gelido di chi "legge" sulla faccia dell'avversario ogni suo intento, per inoltrarsi nella dimensione profonda dell'interiorità: "Anderssen non lo guardava più, poiché l'oscurità era troppo fitta e perché anch'esso, come attirato dalla stessa elettricità, fissava l'alfier nero" (p. 410). Grazie al processo di concentrazione introspettiva, la rigidità dello schema dualistico viene meno: la disposizione delle pedine testimonia il capovolgimento in atto, i giocatori sono colti ora con immagini sintetiche e la potenza simbolica del "pezzo segnato" li travolge entrambi. Alla fine, il rappresentante della civiltà positiva e razionale è dominato dall'impulso oscuro della follia di morte. Il racconto, pubblicato sulla rivista ufficiale del neonato positivismo, metteva in guardia i lettori della "capitale morale" dall'affidarsi alle presunzioni unilaterali della scienza e, grazie alla limpidezza del "linguaggio figurato e fantasioso", suggeriva l'ipotesi inquietante che ogni antitesi reca in sé un principio di reversibilità. Il dualismo boitiano, sotteso da un grumo di ansia nevrotica, cerca nel rigore geometrico un argine difensivo; ma, come conferma l'incompiuto Trapezio, il rischio della paralisi è sempre in agguato. Il saggio Yao e il discepolo Meng-Pen non solo non raggiungono "la sintesi dell'uomo" nel "punto dove i due moti opposti s'intersecano" (p. 439), ma, durante la narrazione, capiscono che "tutta l'arte della più minuta e più scrupolosa analisi" non basta a preservare dalla catastrofe: tanto più che qui la sfida fra i due fraterni rivali presuppone la presenza sconvolgente di un'altra figura. Yao e Ramar, che "simboleggiavano parecchie profonde antitesi: il calcolo e l'intuizione, l'esattezza e l'audacia, la pazienza e l'impeto, la scienza e l'arte" (p. 463), si contendono il possesso della raggiante Ambra e Il trapezio, lungi dal delineare il percorso che conduce alla saggezza imperturbabile, s'interrompe bruscamente. Pur senza esibire la ricchezza programmatica dei testi boitiani, l'orditura della stragrande maggioranza dei racconti scapigliati denuncia una analoga visione contraddittoria dell'individuo e del mondo: a darne conto è sempre una rappresentazione di situazioni e motivi che si dispongono in coppie antitetiche. Molte le abbiamo già ricordate e commentate: ne ripercorriamo alcune, distribuendole entro uno schema a cerchi concentrici che dall'orizzonte ampio della storia giunge all'intimità riposta dell'io. Guerra e pace Dopo la lettura della Vita di Settembrini, Bazzero si lascia andare al rimpianto di un'epoca eroica, in cui un forte "carattere" alimentava la "fede in Dio" e l'"amore nella sua donna": perché non sono io vissuto nel tempo delle cospirazioni, dei patiboli, delle battaglie? A me che rimane? Lo sconforto! (Anima, p. 97) Al "triplice ideale", evocato anche dal protagonista di Entusiasmi "l'arte, la donna, la patria" (p. 50) , il diarista di Anima aggiunge l'ansia di una fervida religiosità, non turbata dal desiderio colpevole del corpo femminile. In entrambi, il periodo glorioso delle guerre per l'indipendenza coincide con la stagione viva dell'impegno artistico: allora le verità supreme erano a fondamento di un'attività di scrittura nobile e generosa; forse meno elaborata ma più agonistica, come i "decasillabi, dardeggianti e vulcanici" dei verseggiatori antiaustriaci ricordati da Faldella (A Vienna, p. 48). Ora, in tempo di pace, si respira l'"aria grossa della realtà pregna di cose" (E. De Marchi, Introduzione, cit., p. V) che mortifica ogni aspirazione ideale, ogni fantasia creativa. Da questo osservatorio quotidiano, giudicato squallido e mediocre, l'empito animoso dell’immediato passato appare irrimediabilmente consunto: l'età delle "vampe patrie" (Faldella, Il male dell'arte, p. 84) può essere solo proiettata in un'atmosfera vaga e sfumata o tratteggiata di scorcio nella zona conclusiva del testo, dove l'ipotesi di morire sui campi di battaglia porge l'ultimo conforto al lutto amoroso: Sentite disse il giovane in atto di confidargli un mistero; si tenterà fra poco un colpo di mano sulla Sicilia; un nucleo di valorosi guidati da Garibaldi approderà inaspettato a quell'isola; noi ci raduneremo a Quarto, io sono del numero, e se volete seguirmi... E che faremo colà? chiese Luigi. Là si muore rispose il giovane con freddezza. Luigi gli porse la mano, e disse Il nostro patto è sancito. (Paolina, to. I, p. 165) Nei rari casi in cui la vicenda è ambientata in un preciso contesto militare, al centro del racconto è posto un altro dualismo, che per lo più rimodula specularmente il primo: la passione ardente dei volontari a fronte del grigiore ordinato dell'esercito regolare. A fondamento di questa rappresentazione obliqua delle lotte per l'indipendenza vi è la consapevolezza universalmente diffusa che la nascita della Nazione era una necessità ineluttabile, su cui nessun giudizio, per quanto critico, doveva gettare la luce dissolvente del dubbio. Inscritto nel corso fatale della storia, il moto unitario non consente alcuna scomposizione analitica. A derivarne sono due corollari: la cancellazione dello scontro diretto col nemico, anche perché, come ricorda Faldella, "la nostra santa collera [era] non contro le vostre persone, ma contro la vostra oppressura" (A Vienna, p. 49); la predilezione per i toni smorzati, per le situazioni di estenuata stanchezza che seguono il combattimento. Ad eccezione del romanzo postumo di Sacchetti, Entusiasmi, nessun'opera scapigliata sceneggia il conflitto né s'interroga sulle questioni politico-istituzionali, sulle condizioni sociali, sulle ragioni economiche sottese al processo risorgimentale. Il narratore può solo ripercorrerne le tappe col rimpianto di chi ormai si sente ed è fuori dal "tempo delle cospirazioni e delle battaglie". Quando un'occasione di intervento attivo coinvolge la "generazione crucciosa", la condotta disastrosa della guerra ribalta il giovanile fervore in frustrazione cocente: tutto faceva presagire l'inizio, l'avvento di grandi giornate. Ed ecco alle cinque del pomeriggio, la grave, la inattesa e sgomentevole notizia dell'armistizio. C'era stata Lissa il 20.98 Sullo sfondo della terza guerra d'indipendenza, sola si staglia, aureolata di gloria, la figura di Garibaldi. In un articolo inviato al "Pungolo" dal campo dei volontari presso Como, Praga ne schizza il ritratto con pennellate degne dei quadri storici di Gerolamo Induno: D'un tratto, un uomo venne, un uomo vestito di rosso, semplice, calmo e dignitoso; passò in mezzo a noi con un sorriso velato di lacrime (...) Chi è l'uomo ch'è giunto? E' il padre, gridavano i suoi vecchi soldati! è la guerra rispondevano i giovinetti e molti dicevano: è la patria! E Garibaldi li guarda e sembra conoscerli tutti (Garibaldi fra i volontari, ora in Schizzi a penna, pp. 92-94) 98 Biglietto di Arrigo a Camillo, in P. Nardi, Vita di Boito, cit., p. 226. La baldanzosa corrispondenza dal fronte si chiude con la consueta ammissione d'impotenza raffigurativa: "né sillogismo, né strofa, né narrazione verranno a ritrarne lo splendore, a cantarlo, a dirne il senso profondo e sublime" (p. 96). Qui, nondimeno, la triplice negazione vale ad esaltare l'impareggiabile prestigio del Generale e la contrapposizione canonica fra poesia e prosa si affida all'enfasi di una domanda retorica: Perché in mezzo a una folla che vive di prosa, in un tempo fatto di prosa, chiamare col nome di feticismo, di idolatria, un entusiasmo, un delirio ch'essa non può non condannare (...) e che l'illumina di miracolo a poesia? (p. 93) Ben più amare le note con cui la stessa antitesi sarà ripresa e motivata nelle battute di dialogo fra due artisti volontari di guerra nel racconto Tre storie in una: nel frattempo, però, c'erano state le "fortunate catastrofi di Lissa e Custoza", giusto l'efficace ossimoro usato da un letterato amico del gruppo, Salvatore Farina. Il disinganno penoso che seguì l'esito positivo ma umiliante della guerra del 1866 è l'humus da cui germina l'opera scapigliata che con più irruenza accusa le belliche "stragi di sangue": Una nobile follia. Il romanzo tarchettiano, uscito a puntate sul "Sole" a cavaliere fra il 1866 e il '67 con il titolo Drammi della vita militare. Vincenzo D. (Una nobile follia), si scaglia contro l'ottusità crudele che vige nell'organizzazione degli eserciti permanenti, negando valore al loro stesso assetto istituzionale. L'invettiva antimilitarista, sostenuta da spunti di ardita polemica sociale ("La proprietà è l'usurpazione", "L'elemosina! Ah! colui che primo inventò questa parola doveva essere sbranato" to. I, p. 399) raggiunge apici di virulenza che ben meritarono all'autore il titolo di alfiere dell'impegno democratico: sotto questo amore simulato della patria, e questo istinto mendace della grandezza, si nascondono l'egoismo e la crudeltà instillatavi dall'educazione, e quella sete ardente della proprietà che inebbria tutti gli uomini! (ivi, p. 402) E tuttavia non solo la rappresentazione delle battaglie di Inkermann e della Cernaia, condotta sulle note epiche del sublime negativo, capovolge il senso "eretico" dell'antimitologia99, ma la struttura discontinua e digressiva del testo appanna l'intento primo di "far conoscere nei suoi vari aspetti la vita intima e segreta della caserma" (p. 381). La ridondanza oratoria, unico connettivo alle sfilacciature della trama, snerva l'argomentazione ideologica e denuncia la fragilità dell'impianto romanzesco. Il vero conflitto, l'ha ben visto Barberi Squarotti, è tutt'interno al protagonista, meglio alla sua fisionomia bifronte: l'omonimia di Vincenzo D., spia della solita scissione dell'io, rimanda all'opposizione fra l'eroe ortisiano, tragico e fatale, e il personaggio medio del piccolo borghese senza aspirazioni, chiuso nella propria serenità familiare, ottenuta, del resto, grazie al suicidio "nobile" dell'altro. L'intreccio, pur esasperando l'antagonismo fra il tempo di pace (il primo Vincenzo D., pittore e amante ricambiato di Margherita, perde tutto a seguito della chiamata al distretto) e il delirio guerresco (dopo la rievocazione della spedizione in Crimea, ormai pazzo s'uccide all'alba del '66), ne disperde il significato storico-politico e al centro dell'opera s'accampa il consueto schema manicheo delle coppie ideale-reale, salutemalattia, ragione-follia. 99 S. Jacomuzzi, L'epica negativa di Tarchetti: la battaglia della Cernaia, in AA. VV., I. U. Tarchetti, Atti, cit., p. 361. Conservazione e modernità La fase di passaggio fra l'idealismo romanticorisorgimentale e la cultura positivista alimenta, come abbiamo già osservato, la linfa autentica della narrativa scapigliata e ne determina i tratti innovatori: il recupero dell'irrazionalismo primottocentesco in chiave antimanzoniana induce all'esplorazione orrorosa delle regioni buie dell'io; questa ricognizione, d'altronde, acuisce l'urto con le pretese egemoniche del sapere scientifico, galvanizzando la dinamica contrastiva. Ne deriva, per usare una sintetica, incisiva locuzione di Sacchetti, "un singolare contrasto di positivismo provinciale e di un fantastico lugubre e superstizioso" (Candaule, p. 58). La critica ha illustrato i termini della discordia con dovizia analitica. Per Moestrup "i tre racconti di Amore nell'arte danno un'immagine completa del più vero Tarchetti", perché esemplificano le "tre varianti sul tema spirito e materia" 100; "nella fondamentale opposizione di ciò che è «malato» a ciò che è «sano»" Gioanola rinviene il centro dell'esperienza scapigliata, 100 J. Moetrup, op.cit., pp. 93-95. a cui dà voce la moderna "scrittura del pathos" 101. Le interpretazioni di Un corpo (E. Scarano, R. Bertazzoli, M. C. Mazzi) variano nell'attribuire la palma della vittoria al pittore o all'anatomista, ma tutte identificano il fulcro della storiella nel conflitto fra arte e scienza. E così via in una serie ricca di saggi e studi d'indole monografica o complessiva in cui prevalgono, di volta in volta, le coppie ideale-reale (R. Bigazzi), normalitàeccentricità (G. Mariani); idillio-rivolta (F. Portinari), vero naturalista-fantastico decadente (E. Ghidetti); maledettismo-fede religiosa (gli Autori del "Vegliardo" e gli "Antecristi"). Nel recente encomiabile tentativo di dare un quadro sintetico delle polarità in dissidio, Spera ne individua la genesi nello scontro primario fra bene e male: "l'innovazione cruciale della poetica scapigliata" è la "scoperta della letteratura del male"102. Non c'è dubbio che il gusto provocatorio di celebrare gli aspetti orridi, laidi, deformi del mondo sorregga l'opera di molti autori bohémiens; che l'incessante ansia sperimentale li spinga a saccheggiare i repertori "demoniaci", a libare il "veleno di 101 E. Gioanola, art. cit. 102 F. Spera, La letteratura del disagio: Scapigliatura e dintorni, cit. p. 125. malanni col vino e coll'amor" (Praga, La libreria), a entrare negli obitori dove si squarciano i ventri delle vergini incinte (A. Boito, Lezione d'anatomia). Quanto accesa sia stata la battaglia condotta da Tarchetti e compagni contro le sdolcinature aleardiane e il sentimentalismo dei "Carcanini" non c'è più bisogno di ricordarlo. Già nel 1875 Faldella ironizzava su "questo culto del Bello brutto" che aveva fomentato, negli amici scapigliati, il "male dell'arte" (Lettera letteraria a T. M. Il Bello brutto, in "Serate italiane", 17 gennaio 1875). E tuttavia, non solo l'emulazione del modello baudelairiano, a cui l'indicazione di Spera rimanda esplicitamente, rimane un pio desiderio, senza mai tradursi in adeguate scelte espressive, ma soprattutto i ribelli milanesi restano sempre librati "fra un sogno di peccato/e un sogno di virtù" (Dualismo), in una zona limbale in cui raramente spuntano i fiori del male. A occupare il centro dei racconti è sì la dialettica inferno-paradiso, ma confinata entro il dominio cauteloso dell'ethos ambrosiano: quei "sogni", privi di audacia trasgressiva, alludono ai grovigli esistenziali che tanto turbavano la generazione crucciosa. Il titolo del libro di Alberto Pisani, Le due morali, è un'indicazione tematica preziosa, che nessun arabesco stilistico può e deve cancellare. Gli schizzi, le memorie divaganti, i racconti fantastici, per quanto estrosamente provocatori, sottintendono sempre l'assillo di una domanda poco formale: a quale sistema di valori deve ancorarsi l'arte in una società che è passata dalla poesia alla prosa, sospesa nella fase del "non-ancora non-più"? In questo primo quindicennio unitario, la luce delle lotte risorgimentali mantiene un fulgore splendente, troppo tiepido però per rinfocolare slanci generosi; la "giovinezza industriale" alimenta la fede nel progresso, ma non mitiga affatto le miserevoli condizioni d'arretratezza del paese; le teorie scientifiche pronosticano scoperte strabilianti nel momento stesso in cui aprono orizzonti minacciosi. La smania di competere con i "solenni giganti del passato" (A. Boito) esaspera il desiderio di un rinnovamento radicale e d'altronde l'urgenza di rompere con la tradizione rafforza, non lenisce, le perplessità che accompagnano ogni viaggio verso l'"Inconnu". In questo stato di titubanza inquieta, il dialogo con la classe dirigente in formazione assume timbri contristati: come ritagliare entro il nuovo orizzonte d'attesa il pubblico ideale cui rivolgersi in spirito di autonomia matura e consapevole? Se l'élite politica è composta da "notabilità bacate" e l'intellighenzia ufficiale è rappresentata dalla "pigmèa e sparuta (perché cibata di pura crusca) fanterìa de' gramàtici" e dalle schiere di critici che mirano "cogli autori morti a spègnere i vivi" (Dossi, Màrgine, pp. 667, 671), le forze sociali non promettono molto di più: la nobiltà precipita verso la corruzione viziosa, il ceto medio dei bottegai e commercianti pecca di miopia perbenista, se non di grossolanità volgare, il mitizzato popolo dell'epoca risorgimentale si sta scindendo in "canaglia" stracciona e nell'ancor più "pericolosa" classe operaia. Sul piano propriamente professionale, la "carriera della carta sporca" (Dossi, Prefazione generale ai "Ritratti Umani", p. 901) offre agli scrittori occasioni tanto più allettanti, quanto meno svincolate da quelle leggi di mercato che la loro ispirazione ferocemente depreca. Insomma e conclusivamente, dove fermare il pendolo fra bene e male sotto l'urto delle contraddizioni aperte dalla modernità, di cui la capitale morale era la sede elettiva? Se proiettiamo i termini dell'antagonismo sullo sfondo storico entro cui il movimento scapigliato si sviluppa, a prendere vigore è la vera sostanza del dualismo: la dialettica di attrazione e repulsione che governa a tutt'oggi i comportamenti del ceto intellettuale davanti agli sconvolgimenti continui della civiltà dell'urbanesimo borghese: nell'immaginario culturale postunitario il conflitto si articola privilegiatamente nello scontro fra città e campagna, uomo e donna. Città e campagna L'aspirazione a recuperare le zone serene e innocenti dell'idillio trascorre come una corrente carsica entro tutta la produzione scapigliata: sono molti i brani in cui l'io narrante, riecheggiando magari i versi dell'amico poeta (le raccolte di Praga; Nostalgie si intitola il volume di liriche gualdiane), si abbandona al rimpianto per la stagione passata, quando un unico nodo stringeva la felicità dei dolci affetti familiari e il senso di pacificata armonia con la natura. Ai desideri del pittore Emilio "vorrei vivere sempre in alto, in quest'aria pura in mezzo a queste scene sublimi; esse valgono, ve ne assicuro, signor curato, tutti gli svaghi e tutti gli agi delle città" (Memorie del presbiterio, p. 23) risponde l'eco sonora delle invettive di Vincenzo D.: "Tutto è trasformato l'anima dell'umanità non è più l'amore, è la violenza e la forza l'idillio è sparito, abbiamo l'epopea di guerra" (Una nobile follia, to. I, p. 439); al rincrescimento maturo, l'infanzia "è un canto vago, incompreso mentre vibra, che diventa chiaro più tardi nella memoria" (Il trapezio, p. 444) s'intrecciano le note compunte dei musicisti, nelle cui "dolci e serene memorie dell'infanzia" "s'affacciano per le prime queste scene incantevoli della natura, che furono testimoni dei nostri dolori e delle nostre prime confidenze" (Lorenzo Alviati, to. I, p. 563). Quando lo sguardo del narratore si sposta dalle visioni campestri verso orizzonti più vasti, alle cadenze idilliche subentrano i toni alti del romanticismo melodrammatico, ma non diminuisce l'ansia di comunione fra io e macrocosmo. Mentre la vicenda di sir Robert è ambientata sullo sfondo dell'"imponente spettacolo" offerto dalle voragini del Vesuvio (Un suicidio all’inglese, to. I, pp. 847), nell'Innamorato della montagna il racconto si dipana fra "i luoghi più selvaggi e più tristi di quelle provincie; il bello dell'orrido vi è diffuso a profusione" (to. II, p. 115). Al polo opposto degli aspri panorami tarchettiani, gli Schizzi dal mare di Bazzero disegnano la costiera ligure con le cadenze iridiscenti di una malinconia intrisa di venature crepuscolari: l'autore vi trasfonde il sentimento di una perdita dolorosa che coniuga la nostalgia per un'evanescente "fanciulla bionda", capace di cantare "le poesie d'Iddio e dell'amore" (p. 180), con la "cupidità di pace" che solo la distesa marina può oggi placare, nel desiderio regressivo del grembo materno. E tuttavia, proprio dal più "deserto" degli scapigliati ci viene il richiamo imperioso a non dimenticare mai il dualismo connaturato alla poetica del gruppo. Per quante lacrime i narratori versino sul paradiso perduto dell'età infantile e della quiete agreste, il fascino dello scenario urbano li cattura sempre, aprendo nei loro racconti contraddizioni feconde. La raccolta degli Acquerelli, dopo aver percorso l'"insidiosa d'ozi e d'amori, bellissima riviera genovese" (p. 189), giunge a celebrare il fervore alacre del suo capoluogo. Nel primo schizzo dedicato a "Zena", il diarista viaggiatore comprende che, per lumeggiarne il ritratto, deve non solo uscire dalle "morte biblioteche" ma scendere sulle banchine del porto, dove i marinai mettono in fuga ogni poesia: Ho detto la poesia? Ho sbagliato: dovevo dire la Nonna poesia: quella in cuffia, colla tabacchiera e il mazzo di tarocchi lì sul tavolo: è titolata, sfoggia genealogia e stemmi, e nulla fa di bene se non ha le rose dell'aurora (...) cinguetta coi poeti e i professoroni ufficiali, è pettegola e si liscia. Via! di cotesta donna marchesaccia siamo stufi. C'è una bella scapigliata, con grand'occhi acuti, senza rimario sotto le ascelle, senza svolazzetti, la penna d'oca e l'elmo di Minerva, c'è una giovinetta che s'asside anche all'ombra delle vele, viaggia coi marinai, e mangia il pane duro, conta i soldi e canta Dio e il mare. E' la vera poesia (...) Voglio conoscere la potenza di Genova? Vado a gustare la grandiosa poesia del suo Porto. (Poesia, p. 214) Le figure contrapposte della marchesaccia e della giovinetta ricordano le immagini adottate da Alberto Pisani per descrivere metaforicamente le "due morali": una "è l'officiale, in guardinfante e parrucca, a tiro-a-sei, coi battistrada e i lacché", l'altra "è una morale pedina, in gonnelluccia di tela, alla quale ben pochi làscian la dritta." (Vita, p. 217). A chi debba andare la preferenza è facile indovinare; ma il timore che proprio in città la giovinetta in gonnelluccia di tela possa incontrare, ad ogni cantone, il cinico nobile Andalò (Vita di Alberto Pisani) o il bieco marchese di B. (Paolina), impedisce una scelta irrevocabile. Nella rappresentazione scapigliata dello scenario urbano, a far ondeggiare costantemente il pendolo fra bene e male, conservazione e modernità, è l'attenzione univoca che tutti riservano alla sfera privata dei comportamenti sentimentali. Nasce da un'ostinata prospettiva etica, peraltro molto ambrosiana, la paura diffusa che la città, "madre d'inganni e toschi" (Praga, A Enrico Junk), contamini affetti e ideali: l'urto volgare dei traffici rovina non solo le pure fanciulle in fiore, cassierine e operaie prossime a nozze, ma anche gli artisti esordienti, ricchi solo di sogni e ambizioni. La vicenda di Roberto Marini, protagonista del giovanile racconto dossiano, è intessuta di stereotipi così convenzionali da assurgere a modello. Il titolo Per me si va fra la perduta gente non lascia dubbi sull'approdo del cammino che conduce il pittore dal paese di Moncalvo, nella cui "dolce quiete" scorre una "vita laboriosa ed onesta, una vita di famiglia e di pace"(Due racconti, p. 125), alla città di Narpea, "immensa esalazione d'uomini e cose" (p. 136). La descrizione di "una gran piazza lastricata di granito" con al centro un'ardita chiesa (p. 142) scioglie le ambiguità dei riferimenti topografici e rivela che siamo giunti a Milano in mezzo a una "strana folla di gente". Qui Marini, dopo i primi dipinti "senza contorni", sbozzati alla maniera di Cremona con la "bambagia" (p. 190), si integra nei meccanismi del mercato, adeguandosi ai gusti del pubblico tradizionale. "Dieci anni dopo", lo ritroviamo benestante, famoso, sposato con la figlia di un accademico, nominato addirittura Cavaliere: i prezzi pagati sono la rinuncia ad ogni progetto di rinnovamento pittorico e l'abbandono della fedele fidanzata rimasta al paesello natio. E' l'avvio della serie dei giovani intellettuali che, venuti da lontano nella "città più città d'Italia", si prostituiscono in arte e in amore. Il quadro complessivo del tracollo è delineato in un coevo brano tarchettiano. La civiltà è una parola che mi atterrisce, il progresso che ella segna è una via disastrosa, che conduce forse l'umanità ad un abisso. (...) Io rimpiango quei tempi in cui si credeva e si amava, in cui gli uomini si riunivano attorno all'altare della famiglia (...) rimpiango un passato in cui gli uomini non erano sì colti, sì saggi, sì avveduti come adesso, ma erano incontrastabilmente felici (...) L'umanità è malata, l'uomo individuo è malato, soffrono. (L'innamorato della montagna, to. II, pp. 122-3) Ancora una volta, tutto sembra saldarsi nella condanna senza appello della fiumana del progresso che sospinge l'individuo e la collettività sull'orlo dell'abisso. Ma Bazzero ci ha ammonito che per la giovinetta scapigliata il dualismo non è solo facile parola d'ordine, è tensione irrisolta che orienta lo sguardo sul mondo: all'elogio della vita campestre e dell'immemore età fanciullesca si contrappone, allora, una rete di temi e motivi che sorreggono, con ben altra efficacia narrativa, la rappresentazione dello spazio cittadino. L'urbanitas perde l'aspetto negativo per mostrare il suo volto fascinosamente attraente, per ricordare ai lettori della capitale morale che le sorti private e pubbliche si decidono ormai entro un nuovo sistema di valori, estraneo alla presunta armonia del microcosmo bucolico. Esemplare è l'itinerario di Dossi che, dopo il racconto giovanile, per altro mai ripubblicato, nelle sue opere "cattive" cancella letteralmente gli scenari naturali: le pause descrittive d'esterni o si riducono a schizzi espressionistici (il cielo "giojellato di stelle che lappoleggiavano" Lisa, p. 467; i campi di Praverde, simili a una "gran planimetrìa a colori" Vita, p. 89) o sono parodie di stereotipi ("Era la primavera. ¿Vorreste una descrizione? Ne ho mille" La desinenza in A, p. 837). Analogamente, nell'ordine compositivo-tematico, la "trilogia" romanzesca disegna un itinerario diretto "vèr la città" (Vita, p. 95). La cornice dell'Altrieri, collocata nell'oggi di un accogliente salotto borghese, rinserra le tappe di una Bildung che, iniziata in "un pìccol villaggio", si conclude sotto le guglie del Duomo: qui il giovinetto pallido avvia "il completo riversamento nel suo naturale" (p. 509) e, per svezzarsi "dal materno capezzolo" (p.510), s'immerge nella folla seducente delle feste danzanti. Anche il percorso di crescita di Alberto segue un simile tragitto: dopo la partenza da Montalto, luogo di lutti dolorosi, "alla città i suoi nervettini quietàronsi" (Vita, p. 95) e nel "raccolto appartamentino" insorge la passione per la lettura: là non avea mai sentito il bisogno di ricercare oltre i confini del sillabario. Toccàvanlo troppe emozioni dirette per dimandarne in imprestito. Alla città, invece, fu còlto da una vera lupa pei libri; leggeva ogni cosa... (ibidem) E' la stessa motivazione che spinge l'aspirante scrittore a scappare da Silvano, un lillipuziano paesino da cartolina, dove si era rifugiato per stimolare l'estro creativo: "la cristallina aria di lì mettèvagli indosso più voglia di fare che non di scrìver romanzi... alla larga! alla larga!" (p. 159). La vivacità spontanea indotta dall'immediatezza naturale inibisce l'entrata nello "strano regno di spìriti" (L'Altrieri, p. 509) in cui germina la vena di morbosa "malinconia", fonte originale della letteratura moderna. Ormai remoto il moralistico mondo di Narpea, Alberto trasloca, per lavorare, nella "borghessima casa" dello zio mago, situata in contrada San Rocco, all'interno dei Corpi Santi. Siamo in una villetta periferica, gravata di tasse, circondata da un'ortaglia incolta e con vista sul cimitero, un tempo laboratorio di sperimenti macabro-scientifici. Le serate a teatro, le passeggiate all'alba, gli incontri con i passanti "inferajolati" e le velate signore in carrozza forniscono il materiale per stendere il libro che conquisterà donna Claudia. Nella Desinenza in A, infine, il narratore, installato in un osservatorio ultracittadino (la Sinfonìa iniziale s'intitola Sezione di una casa civile a due piani), colpisce con ironia impietosa chi ancora crede in un possibile ritorno all'"idillio": nella scena terza dell'atto secondo campeggia l'ingenuo, innamorato artista Nino Fiore, riparato "a quel covo d'ogni ambizioso fallito, che è la campagna" (p. 779). Malinconici o maledetti, vittime di capricci o in preda alle allucinazioni, pittori poeti musicisti, nobili (Riccardo Waitzen), borghesi (Lorenzo Alviati) o figli di poveri cantastorie (Bouvard), tutti i protagonisti "malati d'arte" si lasciano andare al rimpianto di "ciò che fu": ma, per coltivare la loro "torva" musa, scelgono il dissonante universo urbano. Tanto più amanti della provocazione quanto più desiderosi di plauso e gloria, sanno che a decretare il loro successo sarà il pubblico borghese che affolla teatri e salotti, a Parigi come a Firenze, a Vienna come a Milano. Persino Cirillo spera di ridestare "in sé l'idea dell'artista" suonando per un pubblico mondano, con l'accompagnamento di un frullio di ventagli femminili, simili a un'artificiosa "cosmogonia di farfalle" (Il male dell'arte, p. 91) Nei suoi risvolti metaletterari, il Künstlerroman individua la sede privilegiata della moderna attività creativa nella dimensione cittadina e comincia a suggerirne i possibili percorsi tematici. Sebbene molto più titubanti delle loro controfigure fittizie, gli autori scapigliati sono consapevoli che "le note malinconiche e toccanti del canto di natura" hanno "cessato di parlare al cuore" e nulla possono contro il desiderio di conquistare il "gran mondo sconosciuto" che sta al di là di torrenti, monti e foreste di pini. (Paolina, to. I, p. 284). I testi, costruiti sul confronto ravvicinato fra le due dimensioni, affidano all'andamento dell'intreccio il compito di offuscare il rimpianto delle zone protette dell'idillio: in Paolina i residui di serenità campestre si esauriscono nel corso della vicenda; nelle Memorie del presbiterio, il quadro di un Eden felice la presunta "Tebaide, dove son vive tuttavia le memorie bibliche" (p. 22) è solo un vagheggiamento fugace che i racconti inseriti si incaricano di dissolvere. Le note nostalgiche si affievoliscono e Sulzena appare come "una bolgia", dominata da ipocrisie e violenze (p. 103), in cui le "scene della natura", invocate dai giovani poeti, "sono mute" incapaci di dare risposta alcuna a chi pensieroso le interroga (p. 23). Non resta davvero che seguire le orme dei protagonisti del Künstlerroman e intraprendere il cammino "vèr la città". Qui sarà possibile mettere a fuoco un campionario di immagini che, pur senza mai disegnare l'affresco metropolitano, sempre lo presuppongono: la folla affaccendata o distratta che si agita nelle strade piene di "luce moto allegrezza" (Fosca), il vagabondaggio curioso del flâneur nei quartieri eleganti o periferici, le occasioni mondane dove avvengono incontri fatali, le prime seduzioni della moda, le scommesse del gioco d'azzardo, l'urto della réclame che "spia il luogo più propizio, per colpire l'uomo nell'opportunità dei suoi bisogni e dei suoi dolori" (Faldella, A Parigi, cit., p. 176). Con inedita sensibilità percettiva, i nostri narratori scoprono il "sonno delle vie popolari" avvolte, nelle mattine di quaresima, da una "nebbia torpidiccia" sotto "il cielo d'un colore gesso annacquato" (Malinconie di un antiquario, p. 424) e colgono l'apprensione euforica di chi s'imbatte nell'imprevisto, il sentimento di penosa estraneità avvertito dal singolo nel bailamme della festa o, all'inverso, l'inebriante "piacere di guardarsi l'un l'altro nel bianco degli occhi" (I fatali, to. II p. 10) in pieno veglione mascherato. Gli schizzi e i frammenti cominciano a riecheggiare i rumori degli scalpelli che abbattono vecchi caseggiati per innalzare "case nuove", il vocio confuso del carnevale ambrosiano, "la pagina più vera di questa immensa epopea della vita" (Paolina, to. I, p. 370) o, infine, i sussulti, simili alle "vertigini del volare" (Fosca, to. II, p. 300), che si provano in una carrozza ferroviaria (fra i sedili di un treno si apre Il male dell'arte, si chiudono le Memorie del presbiterio e si svolge il viaggio di Geronimo a Parigi). Una precisazione è d'obbligo. Queste ricognizioni nella civiltà dell'urbanesimo non sono mai condotte con l’ottica positivista dei "palombari sociali" che, immersi nei "ventri" cittadini, ne illustrano gli aspetti oscuri (P. Valera, Milano sconosciuta, Bignami Milano 1880; L. Corio, Abissi plebei, Milano in ombra, Civelli Milano 1885103); né tanto meno replicano gli "choc" della poesia baudelairiana, offrendo magari "visioni epifaniche" di un "altrove" minaccioso (V. Roda). Nella fase del "non-ancora non-più", in cui si sviluppa la narrativa 103 G. Rosa, Il mito della capitale morale. Letteratura e pubblicistica a Milano tra Otto e Novecento, Edizioni di Comunità, Milano 1982. postunitaria, il "microscopico Parigi della Lombardia" (C. Arrighi) racchiude sempre il volto contraddittorio del Milanin Milanon, per dirla questa volta con De Marchi, e le sicurezze del passato continuano a sprigionare un incanto potente. L'attaccamento tenace di Faldella ai valori del mondo agreste ci ammonisce a non sottovalutare le tracce di conservatorismo che sono spesso sottese alle sperimentazioni linguistiche. Le Figurine, volte a celebrare il "galateo dei villani, ossia del buon cuore" (Galline bianche e galline nere, p. 31), eleggono la "vita nell'aja" come modello di virtù, tanto più esemplare quanto più nefasto è l'influsso delle "moderne Babilonie", capaci di diffondere ovunque i virus dei conflitti sociali (Sant'Isidoro) e delle "isterie" nevrasteniche (Madonna di fuoco e Madonna di neve). Semmai, a conferma ultima del permanente dualismo, si può ricordare che dalla schiera dei "cauti e costumati piemontesi" (G. Contini) esce anche Roberto Sacchetti. Al giovane avvocato giornalista, il soggiorno milanese non mostra il volto cinico della corruzione, gli suggerisce, piuttosto, la necessità di uscire dal "vecchio guscio" per "vivere in una grande città dove si lavora, e si pensa, dove ci si agita, ci si fa strada" (Vecchio guscio, p. 96; il romanzo uscì a puntate sul "Pungolo" nel 1879). Il "confronto" fra "scene di campagna" e di città, che nelle novelle d'esordio inclinava faldellianamente a favore del primo termine (Il forno della marchesa e altri racconti), nelle opere successive perde ogni rigidità moralistica e si modula sulle tonalità sfumate della scrittura realistica. Se Entusiasmi privilegia lo sfondo storico della Milano quarantottesca, Vecchio guscio condanna l'immobilismo crudele e soffocante della provincia, replicando, in piena sintonia scapigliata, il giudizio implacabile con cui il narratore di Fosca aveva bollato la grettezza dei piccoli villaggi: Chi ha vissuto un tempo nelle grandi città non può più adattarsi alla vita dei villaggi; non può impicciolire le sue vedute, le sue idee, le sue abitudini fino alle proporzioni meschine, e spesso ridicole, che dà alle proprie la gente delle campagne. Io ho considerato sempre i piccoli villaggi come centri d'ignoranza, di barbarie, spesso anche di corruzione. Sono essi, a mio credere, che arrestano il corso della civiltà (Fosca, to. II, p. 246). Anche per Anna Bossano, la protagonista del romanzo sacchettiano, che nel tentativo di sottrarsi all'accidia maligna del "paesucciaccio" (Vecchio guscio p. 96) ne rimane schiacciata, vale l'osservazione con cui Giorgio ribalta uno dei più logori luoghi comuni dell'idillio: Vicino ai villaggi anche la natura sembra patire, è rozza e pigmea, soffre d'impotenza e di rachitismo. (Fosca, to. II p. 247) Maschile e femminile Con lo stesso sguardo moderno i nostri autori scoprono il fascino meduseo della bellezza femminile: quella specie di beltà cittadina, quasi di beltà malata, che è affatto sconosciuta alle donne della campagna, ma che è pur sempre la più attraente delle beltà, perché è una beltà che lascia trasparire le passioni. (L'innamorato della montagna, to. II, p. 174) Siamo al nucleo tematico forse più ricco e fecondo delle opere scapigliate: l'impatto con la civiltà dell'urbanesimo borghese impone agli scrittori di fare i conti con una figura di donna dinamica, energica, attraente, a cui i panni dell'angelo del focolare vanno decisamente stretti. Nella serie delle coppie oppositive che tramano la narrativa postrisorgimentale, al centro si colloca l'immagine ossimorica dell'io femminile, fonte di vitalità erotica e di contaminazione ferale, ispiratrice sublime dell'arte eterea e origine prima di deliri demoniaci. In questi racconti, l'antitesi fra Eros e Thanatos raggiunge un'incandescenza al calor bianco; l'antagonismo fra il dolce affetto materno, capace di placare tutti gli affanni, e la seduzione peccaminosa della femme fatale non può trovare sintesi pacificatrice. Le ripetute invocazioni alla madre che scandiscono il diario di Bazzero sono debole argine alle visioni, altrettanto ricorrenti, delle "spaventose voluttà della donna" (Anima, p. 117). Tale schizofrenia è insita nella personalità muliebre, perché come spiega, con parole di malcelata mistificazione, un narratore tarchettiano: Tutto ciò che vi è nella donna le sue opere, i suoi pensieri, le sue parole, i suoi atti tutto è seduzione, benché seduzione tacita e delicata. Oh l'uomo è assai più puro! (...) Nella fanciulla si trova sempre la donna l'angelo bisogna cercarlo nella madre. (Lorenzo Alviati, to. I, p. 581) In questo moto ossessivo fra aneliti alla purezza e smanie per gli "amplessi della femmina nuda" (Anima, p. 17), il pendolo conosce oscillazioni ampie e irrefrenabili. Nella raffigurazione del supremo oggetto del desiderio acquistano lucentezza i conflitti di una collettività che, nel momento in cui delegava alle discipline positive il compito di risolvere "in laboratorio" le questioni aperte dall'emancipazione femminile, dall'altra s'affrettava ad acconsentire al dogma papale dell'Immacolata Concezione (1854). Praga: "Bella commedia!...e trassero/ in clinica Maria,/e alle genti bandirono,/ dogmatica utopsia:/ Olà, madama è vergine! " (Spes unica). Partecipi di una svolta storico-culturale di vasta portata, gli artisti ribelli che s'interrogano sulla nuova morale saggiano nella ritrattistica femminile moduli e tecniche di vera provocazione. Tanto più che su questo terreno la polemica con le convenzioni narrative primottocentesche aveva buon gioco e massima forza deflagrante. A capo della schiera delle vergini timorose e pudibonde svettava Lucia Mondella, dietro, molto più scipite, s'affacciavano le Nunziate e le Angiole Marie di Carcano, le Miutte candide e paralitiche della Percoto, le peccatrici pentite di Dall'Ongaro; Pisana, sullo sfondo, era ancora solo un'ombra fugace. Ben comprensibile che per delineare l'"abisso di voluttà" (Riccardo Waitzen, to. I, p. 627), in cui si perdono gli artisti scapigliati, il saccheggio dei modelli d'oltralpe sia avvenuto a man bassa. Splendenti nel loro fulgore inattingibile (Narcisa) o orribili per cumulo di malattie nervose (Fosca), austriacanti (contessa Livia) o, al contrario, ferventi patriote (donna Elodia di Entusiasmi), mature o adolescenti, silhouettes schizzate o protagoniste di primo piano, tutte le eroine in gonnella hanno una fisionomia originalmente marcata. Non è qui possibile, purtroppo, passarle in rassegna analitica: troppe e troppo personalizzate sono le figure che compongono questa galleria policroma, in cui la sorellanza di genere appanna le differenze di classe: dalle più celebri, Fosca Rosilde Narcisa Nerina la contessa Livia, alle meno conosciute ma dal fascino altrettanto prepotente, Ambra del Trapezio, la zingara Luscià (Tenda e castello), la baronessa Vittoria (Candaule), la marchesa di Pallanza il cui amore dura "dall'agosto al novembre", la fulva tentatrice di Don Giuseppe e Irene di "calle delle Zotte", nelle Storielle vane. E poi le giovani vedovelle spregiudicate, Regina "superbamente bella e orgogliosa" che, nella sera del trionfo, attira a sé Lorenzo Alviati o la contessina di Nievo, la prima ad iniziare Alberto Pisani ai riti del corteggiamento; oltre, naturalmente, alla folla variopinta di ballerine, cantanti, modelle, fanciulle ispiratrici dei geni malati d'arte. Insomma, ci vuole davvero la "desinenza in A" per declinare il campo raffigurativo più memorabile della narrativa scapigliata; che il perfido Dossi ce ne abbia offerto la fotografia in negativo testimonia solo dell'effetto dirompente che la "donna nuova" incomincia a produrre nell'immaginario dell'Italia unita. Tutte sono protagoniste attive del loro destino e a loro spetta la funzione di catalizzare la dinamica dell'intreccio: poco importa a quale strumento seduttorio si affidino lettere fluviali, suadenti richiami di voce, gesti imperiosi, occhiate languide, contratti di nozze, somme ingenti di denaro, urla strazianti, offerte oblative d'aiuto, lavacri odorosi "di polvere di riso", apparizioni fantasmatiche o sonnambulismi visionari ciò che conta è il primato d'autonomia assunto nella coppia. Perché, come proclama Fosca, "Tutte le donne scelgono" (Fosca, to. II, p. 334), senza lasciare l'iniziativa ai loro compagni. Costoro, d'altronde, non sono degli inetti (è giunto il momento di rinunciare a un'etichetta interpretativa inflazionata e buona per tutte le stagioni post-romantiche); sono semplicemente uomini normali attratti e atterriti da una figura muliebre non più vittima succube. Recita una poesia di Gualdo: "tra l'acri voluttà misteriose/v'è un senso di speranza e di paura" (Alla sera). La tensione del desiderio pavido s'origina, certo, nell'incontro con gli allettamenti maliardi delle dark ladies, ma è la richiesta pressante e quotidiana di una assunzione piena di responsabilità maschile a innescare nei vari personaggi il meccanismo delle titubanze audaci. Il richiamo alle virtù energiche è tanto più cogente in quanto l'autorevolezza virile, abbandonati i gloriosi campi di battaglia o le imprese di coraggio indomito, deve manifestarsi nell'ordine prosaico della società civile, di cui la famiglia costituisce la cellula germinale: è appunto l'assenza di nuclei domestici armoniosi, come abbiamo già notato, a documentare, nella narrativa secondottocentesca, il declino del modello patriarcale e a denunciare i primi segni della fragilità maschile. D'altra parte, in quella fase storica di transizione, la crisi delle relazioni fra i sessi, lungi dall'aprire prospettive rinnovatrici, acuiva lo stato di disorientamento in cui versava la neonata collettività nazionale. Anche perché, è ancora Fosca ad ammetterlo con sincerità masochistica, le donne prediligono gli uomini autorevoli, per non dire autoritari: Le donne, ancorché non cessino di essere cortesi coi buoni e coi miti, cedono sempre di preferenza agli uomini audaci, prepotenti, pronti all'offesa, disprezzatori degli altri, vanagloriosi di sé; in una parola ai peggiori degli uomini. (Fosca, to. II, pp. 340-1) Gli amanti scapigliati solo raramente sono loschi individui che, simili al finto conte Ludovico, seducono e maltrattano le loro compagne; è vero, però, che pochi sono in grado di tener testa a chi, come Anna Bossano, per uscire dal vecchio guscio di consuetudini arcaiche e paralizzanti, si presenta sulla scena del mondo con ardire temerario: Nulla di languido, di tenero nei suoi atti e nella sua persona, bensì una franchezza provocante. Era una di quelle donne fredde, insensibili, che per una reazione oscura infiammano i sensi inconsciamente, senza volerlo, vi accendono effervescenze strane, dei deliri pazzi e furiosi che esse non comprendono; la loro bellezza superba, originale, esagerata sconvolge in chi ne è colpito l'equilibrio morale, ha delle linee d'acciaio che straziano il cuore. I loro sguardi fieri e imperiosi cacciano innanzi a scudisciate frotte di desideri mostruosi, feroci. Volontà inflessibili, quando si danno, è per prendere tutto il vostro essere, per spremerlo, per stritolarlo; ambizioni che non conoscono il piacere e lo sdegnano, qualche volta lo sfruttano. (Vecchio guscio, pp. 198-9) Era difficile per i lettori milanesi delle appendici del "Pungolo" apprezzare un progetto di vita femminile così ferocemente spavaldo: se poi aggiungiamo che Anna Bossano contesta il primo dovere muliebre "le pareva che la maternità dovesse impacciarla nel suo piano di guerra", "Questo richiamo ai suoi uffici di donna l'umiliava" (ivi, p. 264) meglio forse si comprendono le ragioni del lungo oblio calato sul romanzo sacchettiano. In realtà, Anna non riesce a raggiungere il suo ambizioso traguardo: basta un'accidentale spinta del marito ubriaco a farla precipitare giù dalle scale, dove spira fra le braccia di un servitore fedele. E' il prezzo pagato dalla maggior parte delle eroine scapigliate, sopraffatte dal gioco dualistico di spinte trasgressive e controspinte censorie, che è il vero fulcro dinamico di queste opere: nel momento in cui il racconto le rende protagoniste attive del loro destino, le condanna a subirne tutte le conseguenze. Quasi a tradurre narrativamente l'attrazione sgomentevole che suscita una donna "bella ma terribile", preoccupata unicamente di ottenere "il rispetto di se stessa" (Candaule, p. 92), la progressione dell'intreccio esalta il libero sfogo degli istinti vitali, per poi reprimerli con uno scioglimento catartico che concede ai personaggi maschili il recupero del primato perduto. L'ordine ricomposto in extremis è altamente precario: i finali sono per lo più affrettati, incongrui, talvolta sgangherati, volti solo a decretare la vittoria di un moralismo occhiuto che distrugge chi turba la gerarchia dei valori costituiti, massime nella sfera dei rapporti fra i sessi. In alcuni casi, la lusinga paralizzante delle grazie femminili contagia anche l'autore e la narrazione s'interrompe bruscamente: Il trapezio docet. In altri, supplisce la mano dello scrittore amico: il vuoto che si apre nella compagine di Fosca all'altezza del XLVIII capitolo, la scandalosa notte d'amore, è spia macroscopica della difficoltà tarchettiana di controllare la tensione giunta all'acme. Nella maggior parte dei testi è un esito ferale a sciogliere il nodo. I corpi splendidi consegnati al gelo di morte non si contano: Carlotta, contesa fra un pittore egocentrico e un anatomista pazzo (Un corpo); Rosilde, spirata pochi giorni dopo aver dato alla luce un innocente bastardo (Memorie del presbiterio); Luscià, zingara fuggitiva, uccisa per sbaglio da un marito troppo ben intenzionato (Tenda e castello); Krimilth, delirante visionaria cieca (Da uno spiraglio); Teresa, selvaggia sedicenne sedotta e abbandonata (Macchia grigia); la malinconica Elvira a cui il volo cocciuto di un "minaccioso moscone" apre la via del sonno eterno (Dossi, Elvira, 1872, poi in Goccie d'inchiostro). E così scompaiono, per decesso naturale o fine violenta, le tarchettiane Adalgisa Giulia Anna della trilogia dei musicisti, e Fiordalisa (L'innamorato della montagna); poi ancora Alfonsina, moglie modella di Cirillo, e l'inafferrabile donna Claudia di Alberto Pisani: insomma tutte le donne ispiratrici d'arte e d'amore, dopo aver insufflato vita e creatività nell'animo dei loro compagni, devono lasciare per sempre il proscenio. In questo scapigliato trionfo della morte si può leggere la sanzione ultima dell'incomponibilità di spirito e materia, ideale e reale, angelo e demone, eros e thanatos, e così via geminando nel rispetto del consueto dualismo. Esclama Bouvard a nome di tutti i ribelli romantici: Ecco apparecchiata la mia camera nuziale e la mia tomba a un tempo... la vita e la morte...il gelo del sepolcro, e il fuoco dell'amore sì lungamente represso... (Bouvard, to. I, p. 653) Su un orizzonte culturalmente più aggiornato, a fomentare la dinamica conflittuale sono le suggestioni parnassiane che, provenienti dalla capitale francese, si vanno diffondendo anche nella nostra provinciale repubblica delle lettere. La malia fascinosa che promana da queste creature, sintesi dei più incantevoli ideali estetici (Narcisa), è così raggiante e tentatrice da renderle "degne di morire". Il titolo della Figurina nera di Faldella (1876), che riecheggia la battuta finale della novella gualdiana "E' morta di bellezza" (Narcisa, p.221) e i commenti dossiani all'ingegno buono di Elvira (un "troppo" destinato a "consumarsi tutto in sè stesso" Elvira, p. 421), illumina le connotazioni implicite nella valorizzazione bohémienne dell'immagine archetipica di Narciso: per un verso, solo la morte concede di preservare "nel candore verginale tutte le tumide promesse di una splendida Eva" (Degna di morire, p. 116); per l'altro, gli strumenti d'arte, fissando il fulgore femminile in forme così perfettamente armoniose da vincere la corruzione del tempo e l'involgarimento della "civiltà infracidita" (ibidem), lo svuotano di ogni carica offensiva. Il binomio romantico d'amore e morte trova rinforzo negli influssi parnassiani che, per parte loro, corroborano l'ambiguità equivoca che plasma i ritratti di queste meravigliose belles dames sans merci; tanto più che la sequela dei cadaveri femminili non maschera il sadismo difensivo con cui l’istinto di conservazione virile, talvolta intriso d’inconfessabile omosessualità (F. Spera, V. Roda, E. Gioanola), risponde alle avances della donna-vampiro. Una considerazione conclusiva è comunque d'obbligo: in tutti i testi, a imprimersi nella memoria del lettore non è affatto l'esito ferale che colpevolizza l'intraprendenza seduttiva delle protagoniste, è semmai, al contrario, l'energia spregiudicata che s'irradia dalle "linee d'acciaio" di un carattere che "strazia il cuore". Con un corollario interessante, che apparenta le donne attive sulla scena del mondo e le divine modelle che sfuggono alla furia rapinosa del tempo e del desiderio. Con timbri uguali e contrari, la fantasia creativa si impegna sempre a opporre un argine rassicurante all'erompere di una naturalità che nel corpo femminile ha la sua sede elettiva. Sia chiaro: pur nell'esibizione ostentata delle coppie dualistiche, la narrativa scapigliata non è in grado di elaborare consapevolmente quella dialettica di cultura e natura che tanto spazio occuperà nella tradizione del Novecento; è indubbio, però, che fra mille rimozioni e autocensure, squilibri compromissori ed anche stramberie balorde, per la prima volta nella letteratura italiana moderna, le opere di Boito e compagni danno voce e "senso" alle tensioni conturbanti dell'eros femminile. Non tutte le eroine romantiche, è vero, erano languide fanciulle morenti e qualche dark lady movimentava gli scenari storici; ma appunto le figure guerrazziane, da Veronica Cybo a Beatrice Cenci, agivano in epoche lontane, all'interno di corti principesche depravate e prossime al tracollo. Nei racconti scapigliati, invece, la minaccia della sessualità muliebre deflagra nella dimensione prosaica del quotidiano, incrinando un equilibrio domestico già molto precario. Non a caso, Fosca è diventata un prototipo. La protagonista dell'ultima opera tarchettiana, "l'isterismo fatto donna", raffigura non già la pulsione distruttiva di thanatos, ma piuttosto la forza dirompente del desiderio erotico represso. Negli stessi anni in cui a Parigi illustri medici studiano le crisi isteriche, decretandone l'origine nervosa tipicamente femminile, un maldestro letterato di provincia ci suggerisce che la malattia può essere la risposta dolorosa elaborata dal narcisismo ferito: la voglia di piacere e del piacere, censurata dalle norme di convenienza sociale e dalle autodifese psichiche, esplode in grida e convulsioni strazianti. Gli attacchi morbosi non sono solo gli alibi per difendersi dall'idiozia di un mondo gretto "un paese di Pellirosse" (Fosca, to. II, p. 271) di cui è a capo un cugino colonnello un po' citrullo, ma gli indizi sintomatici attraverso cui una donna brutta e intelligente rivendica la libertà degli istinti primari contro tabù e rimozioni: la potenza del desiderio di Fosca è travolgente, ostinata, irrefrenabile come una patologia di cui si ignora la vera origine e che appunto perciò tanto più si teme. Capitolo VIII Le forme dello stile scapigliato Una comune scelta antirealistica Ammettiamolo subito: l'etichetta di "stile scapigliato" è impropria, forse addirittura azzardata: accostare i "viluppi" dossiani e gli "alambicchi" di Faldella ai timbri melodrammatici di Tarchetti o anche all'eclettismo elegante delle Storielle vane è impresa ardua. Persino nell'area degli schizzi e delle memorie risalta, di volta in volta, la cifra originale delle singole opzioni. E tuttavia, non solo è possibile individuare un minimo comun denominatore in grado di circoscrivere il campo espressivo della prima narrativa postunitaria, ma è opportuno farlo per meglio misurare la portata innovativa che, nella generale propensione allo sperimentalismo, caratterizza i diversi progetti. All'origine del movimento vi è la percezione ancora confusa ma penosamente acuta delle trasformazioni che hanno investito, nel giro di pochi anni, l'orizzonte d'attesa entro cui operano i professionisti della penna. Nel paese appena uscito dalle lotte risorgimentali e alle prese con questioni socioeconomiche di seria gravità, il mutamento del quadro culturale appanna antichi valori e chiede lo sviluppo di un'intellettualità organica alle discipline "positive", mentre la civiltà dell'urbanesimo borghese sollecita una modificazione profonda delle abitudini di vita e dei comportamenti collettivi. Nel capoluogo lombardo, epicentro della spinta propulsiva, chi ha intrapreso la "carriera della carta sporca" patisce in prima persona gli esiti sconvolgenti del passaggio d'epoca: le "officine della letteratura" corrodono le consuetudini di lavoro umanistiche, sottomettendo anche l'attività artistica alle leggi inderogabili del mercato. A fronte dell'articolazione interna del sistema letterario, che comincia a divaricarsi fra produzione "alta" e narrativa "di consumo", gli scrittori aggiustano il tiro, pre-selezionando la cerchia dei lettori cui intendono rivolgersi. La ricchezza di ogni progetto espressivo è a misura della coerenza con cui viene impostato il dialogo; il criterio formale con cui il singolo autore miscela le diverse componenti ne determina il particolare assetto. Il fulcro dello stile scapigliato non è tutto riconducibile a "una violenza linguistica, una varietà di espressionismo", secondo la celebre definizione di Contini104; l'impegno comune a sperimentare i moduli inediti di una prosa narrativa eccentrica assume tonalità difformi: ora autenticamente espressionistiche, 104 G. Contini, Introduzione, cit, p. 4. ora ludico-estrose, ora fantastico-deliranti. Per chi si prefiggeva di oltrepassare le convenzioni care ai "solenni giganti del passato", lo sforzo di rinnovamento era orientato in una duplice direzione: infrangere definitivamente l'aulica compostezza della lingua letteraria italiana e, nel contempo, rispondere alle sollecitazioni dello sviluppo tecnico-editoriale, senza mai sconfessare, anzi inverando, la specificità della scrittura d'arte. La vena più vivace del ribellismo trasgressivo s'alimenta certo dell'opposizione alla soluzione di medietà proposta dai Promessi sposi e dalla scuola degli imitatori "fiorentineggianti", ma a sostenerla è soprattutto il desiderio ansioso di contrastare con gli strumenti di una letterarietà moderna l'espansione del linguaggio giornalistico, dominato dalle funzioni comunicativa e referenziale. Germina da questa bivalente esigenza reattiva la scrittura d'impianto antimimetico che connota l'intera narrativa scapigliata; la sua debolezza complessiva risiede nel paradosso di innescare "una crisi del realismo prima che si affermi il realismo stesso"105. L'espressionismo risentito di Dossi 105 F. Portinari, op. cit., p. 214. In esordio al Màrgine alla Desinenza in A, Dossi elenca con la consueta verve polemica la schiera di coloro che disdegnano le sue opere: i "letterati" tradizionali, il pubblico volgare e rozzo dei bottegai (il "banco di drogherìa"), i "gazzettieri" il cui "stile è «forbice e colla»" (N. A., n. 3607); infine, la critica conservatrice, supina ai dettami del manzonismo pedissequo (il "saccheggio bonghiano"). Proprio contro il gusto pigro e stantio di questi lettori l'autore dell'Altrieri dà vita al suo pastiche e ne chiarisce i motivi genetici con uno sterminio di dichiarazioni programmatiche: "scrivere oggi in stile di jeri, è una vergogna" (N. A., n. 2186); "Guai se il passato avesse più forza dell'avvenire" (Màrgine); "Al giornale si deve la perdita dell'originalità nello stile; e la moderna incolorità della lingua" (N. A., n. 1783); "La sicurezza di stile, è la piena espressione del concetto" (N. A., n. 1692). L'elenco degli aforismi icastici è davvero sconfinato e eterogeneo, sgranato negli appunti del "libro azzurro" o condensato nella scrittura autoriflessiva delle prefazioni, preamboli, diffide, dediche, note a margine: ne sintetizza il nucleo centrale l'obiezione reiterata e risentita contro la banalità mediocre che impronta ormai comportamenti di vita e abitudini elocutive: Ma, ahimè! la uniformità, di giorno in giorno, uggiosamente si accrèdita. La ferrovìa vuol la pianura. Scompàjono i dialetti, le foggie, i misteri; scompàjono le divisioni e le suddivisioni nella filosofìa, scompàjono i confini, e, bastasse il volere, scomparirebbero, anche le stagioni. (Dal calamajo di un médico, p. 614) Coinvolta negli iniziali processi omologanti, anche la lingua letteraria tende ad appiattirsi sul registro medio della comunicazione quotidiana, diventando, nei "semplici scrittori", una "broda completamente sciapa, incolora, inodora" (Màrgine). Non c'è dubbio che la scelta stilistica dossiana maturi nell'antagonismo radicale ai sostenitori della tesi che "fuor di Toscana, anzi di Firenze, anzi di Palazzo Riccardi, non era letteraria salute" (ivi, pp. 668-9); ma il pastiche, che amalgama con elegante "bujezza" cultismi e modi familiari, termini dialettali milanesi e lombardi, neologismi e parole arcaiche, onomatopee e voci dotte di vocabolario, non sprigiona la sua energia solo nell'attrito con la "scròfola fiorentina" e le scolastiche formule bonghiane. A lievitarne l'impasto è la "densità delle idee" alimentata, nell'epoca moderna, sia da una maggior ricchezza intellettuale ("pisciàvasi chiaro perchè non si beveva che aqua, compreso il vino" ivi, p. 677) sia soprattutto dall'acconsentimento alle correnti centrifughe che dinamizzano i rapporti fra l'io e la collettività: "Il Progresso tende a riemancipare l'individuo dalla società tutrice" e, nel nuovo ordine dominato dalla "varietà nella molteplicità" (N. A., n. 2459), la percezione soggettiva si frantuma in "centomila specchietti" (Màrgine). Questa lettura della realtà, in cui s'innerva l'intero filone dell'espressionismo lombardo, è a fondamento di uno stile umoristico che si autodefinisce un "misto di scetticismo e di sentimentalismo" (N. A., n. 2382) e i cui esiti più alti sono individuabili nell'Altrieri e nella Vita di Alberto Pisani. Allo studio filologico e variantistico delle fulgide "alchimie lessicali" dei libretti giovanili è dedicato il saggio pionieristico di Dante Isella La lingua e lo stile di C. Dossi, cui vanno affiancati i testi introduttivi e gli apparati che accompagnano le numerose riedizioni (ora raccolte in Opere, Adelphi, Milano 1995). In seguito, una folta schiera di critici ha analizzato, con acribia puntigliosa, i procedimenti raffinatissimi d'elaborazione formale che puntano alla scomposizione sistematica delle immagini: catene anaforiche, fonosimboliche, rifrangenze corrispondenze coloristiche, semantiche, ripetizioni equivalenze chiastiche e ossimoriche, cataloghi più o meno caotici. E tuttavia l'elemento di maggior originalità non risiede nel caleidoscopico spettro delle scelte lessicali e neppure nella gamma delle figure retoriche che, nel rispetto della poetica umoristica, operano nella direzione univoca dello straniamento e della parodia. Troppo poliedrica e difforme è la visione del mondo esterno che si riflette nei "centomila specchietti" soggettivi per essere rinserrata in un'unica formula linguistica, per quanto pirotecnica essa sia ("un incessante spettacolo di fuochi d'artificio" D. Isella). La pluralità prospettica con cui l'autore osserva gli scenari di realtà e indaga la propria "popolazione di ii" alimenta un andamento ritmico che coniuga la varietà dei registri elocutivi con le vibrazioni di un periodare sincopato e avvolgente. Sul piano propriamente sintattico, il gioco combinatorio di "segmenti testuali lunghi-brevi, lunghissimi-brevissimi, di sequenze a sviluppo lineare, prevalentemente paratattico e sequenze involute, con forte scardinamento della successione normale di parole e proposizioni"106, produce un flusso narrativo 106 F. Caputo, Il filo di Arianna della sintassi nella scrittura di C. D., tesi di dottorato di ricerca in Scienze Letterarie, VI Ciclo, intermittente e nervoso, dove l'emotività si raggruma in nuclei semanticamente isolati. Le modulazioni espressionistiche, che ora mimano lo stupore infantile e gli sbalzi d'umore adolescenziali ora danno sfogo all'indignazione giovanile o all'acredine misogina, scaturiscono dall'"ingegnosa" cesellatura del fraseggio che incrocia la complessità della struttura ipotattica con la sveltezza dello stile nominale. In una pagina che sempre ostenta la "perdita di baricentro", il dettato inciampa nella contorsione dei "viluppi" e "calappi" parentetiche incidentali esclamative interiezioni apposizioni domande retoriche per poi riavviarsi sull'onda delle distensioni polisindetiche, delle cadenze anaforiche, delle riprese a grappolo con "effetto di eco" (F. Caputo). La calibratura delle diverse strategie compositive muta da libro a libro e, se l'enfasi sentenziosa delle opere "utopiche" denuncia il fallimento del Dossi "buono", nell'Altrieri e nella Vita la commistione abilissima di dispositivi centripeti e effetti dissolventi trova un equilibrio delizioso, forse irripetibile. Nella prima operetta sono soprattutto gli attacchi dei paragrafi, ellittici esclamativi o interrogativi, a imprimere alla rievocazione memoriale l'andamento "a sbalzi, ad intervalli" entro cui il "groppo" dei ricordi si lascia catturare. In questo Università di Pavia, a. a. 1994-5. intarsio la brillantezza dei toni ilari si smorza nella "malinconia dolce" dell'elegia (Lisa), il sarcasmo acre colpisce l'"assurdità dell'educazione collegiale", censurando l'arroganza del ricco e di chi "incensa il vitello d'oro" (Panche di scuola), la zigzagante alternanza di autoconsapevolezza ironica e nostalgia regressiva chiarisce la potenziale schizofrenia del protagonista ("Sotto il chiarore del fantastico mondo, le cose del materiale, mi si colorivano al doppio" La principessa di Pimpirimpara, p. 509): sempre la rapsodia espressionistica interrompe la melodia struggente e il più raffinato "stiacciato" congela i moti proiettivi. Nella Vita di Alberto Pisani spetta ai periodi a grappolo, variamente ramificati, rigorosamente scanditi da una punteggiatura "nevrotica", accompagnare il percorso di crescita del "gotico" artista, illustrando il duplice movimento che anima la declinazione propriamente umoristica del pastiche: l'esibizione narcisistica di una soggettività ipertrofica, incline a liberarsi in mille arabeschi evanescenti, cui si oppone un'implacabile autocensura a difesa del pudore per i sentimenti autentici. La combinazione ritmico-sintattica e la varietà dei registri espressivi danno conto dell'oscillazione irrefrenabile in cui vive l'alter ego del narratore, in bilico fra l'ansia assillante di entrare nel "nemico mondaccio" e il desiderio, altrettanto tormentoso, di restarne fuori: la scintilla scocca quando i toni della melanconia fantasticante si fondono con i timbri dell'ironia corrosiva, in un bagliore che accorda narrazione di primo grado e raccontini inseriti. Quel "misto di scetticismo e sentimentalismo", formulazione idiosincratica del dualismo scapigliato e chiave dell'umorismo moderno ("il riso temperato col pianto" N. A., n. 2280), è la fonte genuina del pastiche dossiano che, mai riducibile al gioco parodico delle convenzioni narrative, investe con pathos lucido i meccanismi dell'universo collettivo da cui l'individuo s'industria a isolarsi ma di cui subisce gli assalti. Se il soggettivismo relativistico di Sterne nasceva dalla "reazione al potere crescente della prosa dell'esistenza"107, il geroglifico Dossi ne rimodula le strategie formali con risentita moralità ambrosiana. La straordinaria pagina che descrive Milano in notturna, mentre "il mercato di Priapo affolla" e "Nabucco imbestia" (Vita, p. 141), testimonia quanto la deformazione espressiva, lungi dall'essere esercizio funambolico o svagata pratica metaletteraria, sia confessione di estraneità dolente e, nel contempo, atto di denuncia impietosa. 107 G.Lukàcs, op. cit., p. 159. I riflessi e i ricordi di Bazzero Sulle stesse cadenze di soggettività ferita si distende la scrittura eccentrica di Ambrogio Bazzero. Come mi spaventa il mondo reale, il mondo della prosa, dei bisogni, degli affari. (Anima, p. 48) Contro l'età adulta che impone scelte di vita pratica e assunzioni di responsabilità mature, il "deserto" scrittore, il più giovane del gruppo, esordisce, sulle orme di Dossi, immergendosi nella stagione perduta dell'infanzia protetta. Se i primi racconti, pubblicati nel 1870 sulla "Palestra letteraria", avviano "la fuga nel passato, inteso come «piccola archeologia» di diretta influenza dossiana"108, il modello dell'Altrieri si staglia in controluce dietro lo stile melodicamente franto di Riflesso azzurro (1873). Lina, così s'intitola l'unico ampio capitolo, è sorella in mestizia e morte di Lisa, evocata esplicitamente all'inizio del racconto: "creaturina, degna del bacio della tua Gìa, o Guido di Praverde, e come Gìa...!" (p. 16). Le consonanze con il libro dossiano sono molteplici: sul piano compositivo, al prologo collocato nell'oggi segue il recupero 108 A. Puglisi Allegra, Presagi novecenteschi nelle novelle di A. B., in "Critica letteraria", n. 25, 1979. memoriale dell'epoca passata, prima rallegrata dai giochi bambineschi poi intristita dalla doppia esperienza della separazione (lo studio nel collegio cittadino) e del lutto (la scomparsa di Lina). Il sistema dei personaggi è limitato, oltre ai due protagonisti, alle figurine di contorno, per lo più schizzate con bonarietà caricaturale: la tata Teresa, il maestro Benpoco, i compagni di classe. Entro la dimensione linguistico-espressiva, l'io narrante, assunta pienamente l'ottica fanciullesca, deriva dal pastiche dossiano soprattutto i toni elegiaci e le note di intenerimento comico. Anche nell'elegante operetta di Bazzero, degna di uscire dal silenzio che finora l'ha offuscata, più che l'intarsio lessicale, pur ricco di voci deformate (accrescitivi, diminutivi, dispregiativi affettuosi), neologismi, popolarismi e cultismi, è l'andamento sintattico a sostenere il fiotto discontinuo dei ricordi, districandone il garbuglio di sentimenti: incisi, domande retoriche, apposizioni esplicative, interiezioni, battute di dialogo increspano un periodare che, senza avvolgersi nella bujezza densa dei "calappi", è sempre sbilanciato e privo di baricentro. Cioè, scusatemi, fino ai soldi e soldoni l'affare non va zoppo: poi errata-corrige, di grazia corrige per amore di quel prestigio militare. Oh, non sapete? Bene, ascoltate fanciulle mie. Peppo Valperquattro, vulgo senza paura, un ciuffetto in Boscate che nemmanco al signor curato faceva di cappello, Peppo, vi dico, al mio cospetto, pareva un'alberella, perchè sapeva e chi no? che sempre in mia cintura e sempre nell'arsenale di Teresa e baionette e pistole e scatole di polvere e di granate non aspettavano che carne da ribelle. Dio Marte, alla larga, ve'! (pp. 12-3) Il ritmo saltellante che isola sia i singoli particolari di una descrizione gli scenari naturali, ma anche le croci di un cimitero (p. 43) o i giochi fanciulleschi di guerra (p. 63) sia i nuclei emotivamente intensi è spesso ottenuto grazie all'uso peculiare dei due punti in sequenza: Guarda: il cielo di primavera azzurro e smagliante: il venticello carezzevole: l'acqua tremula e crespa: sui prati una danza di variopinte farfalle: noi carichi di cerchi e di palloni e di fiori. E va, e va.(p. 37) I pensieri morivano l'uno nell'altro, si sfumavano, armonizzavano, si rinnovellavano: il dolore svaniva nella gioia, la gioia nel dolore: melanconica quella, carissimo questo: il misto indistinto che ne risultava un'incertezza speranzosa.(p. 72) A fronteggiare le spinte centrifughe sono adibite con sistematica insistenza le figure di ripetizione che organizzano l'ordine microsintattico il raddoppio di parole o gruppi di parole più o meno ravvicinate e il sistema delle ricorrenze distesamente narrative. Le campiture larghe, segnate da frequenti clausole-ritornello "Ecco" "Eh tu" "L'ora malinconica" , attenuano la nervosità sincopata del discorso e rilanciano la melodia evocativa delle ricordanze lontane: Poi nebbia...Il nastro passava. Eccolo là, rasentava un cassettone inespugnato; Il nastro passava. Ecco rasentava una grande poltrona, arsenale di balocchi; Poi il nastro tremerellava dinanzi a un vetro screziato a rabeschi sinuosi; Poi il nastro serpeggiava tra le sedie; Il nastro passava... (da pag. 50 a pag. 65) Nell'opera d'esordio, la scrittura di Bazzero sembra soprattutto intenta a assecondare il tremore spaurito del bimbo che si sente abbandonato davanti al mistero della morte; tuttavia, l'epicedio elegiaco non solo è raffrenato dai moti di incredulità attonita del fanciullo, a cui sfugge il senso della perdita, ma è pervaso da una sotterranea inquieta morbosità: a differenza di Lisa, la piccola compagna di giochi di Rigo è la sua amata cuginetta. Poi, quando il grumo di rovelli nevrotici balza in primo piano, non trattenuto dagli artifici dissolventi dell'espressionismo, la pagina s'intorbida cedendo ora al pathos ultraromantico (Anima) ora al lamentio vittimistico (Lagrime e sorrisi). Le screziature preziose tornano nei brani delle Melanconie di un antiquario, dove la prosa alterna parole desuete, predilette da chi raccoglie reperti del passato, a neologismi, paradialettalismi e voci alterate in un fraseggiato sempre scandito dalle figure di raddoppiamento. Negli Acquerelli, infine, il soggettivismo perturbato, pur senza alcuna concessione alle tecniche della dissociazione umoristica, si sgrana negli schizzi e nei frammenti dedicati ai paesaggi marini; il dettato assume tonalità opalescenti, care al cromatismo en plein air: verde bavoso (p. 157), lumicini giallosi (p. 161), Tutto azzurreggiava (p. 162), questo crepuscolo infosca ed è silente (pp. 173, 175); tutto è d'un azzurriccio-perla (p. 176); tutto d'un cangiante celestognolo che ai primi raggi si spolverizza d'oro (p. 177); Mare turchino buio, azzuolo, più che azzuolo: tinte ubbriache (p. 182); Il mare finisce con una lista nera di lavagna: l'aere giallo-inaonato al basso si colora d'un riflesso di luci crocee, all'alto si stinge nella dispersione dei cieli (p. 185). Il giornalismo espressionistico di Faldella Nella medesima area espressionistica, ma privo di sfumature masochiste, si colloca il pastiche di Faldella. A differenza del dimenticato Bazzero, l'autore di Figurine ha goduto dell'attenzione lusinghiera di importanti critici, primo fra tutti l'autorevole Contini: "Faldella era un piccolo europeo. E la sua deformazione osservativa è sincronizzata con i classici dell'umorismo inglese e germanico"109. Accomunati quasi sempre ai geroglifici dossiani, gli alambicchi dello scrittore di Saluggia sono stati sottoposti a un'indagine analitica sia in specifici studi linguistici (C. Marazzini, S. Scotti Morgana), sia 109 G. Contini, Introduzione, cit, pp.14-5. nelle ampie prefazioni che accompagnano le edizioni recenti delle singole opere110. Il plurilinguismo faldelliano si costruisce grazie all'amalgama di due tensioni energicamente divergenti: il massimo di "zelo retorico" e "accademico" (G. Contini), che lo induce a saccheggiare il patrimonio lessicale racchiuso nei vocabolari antichi e moderni, si sposa con il gusto esasperato dello straniamento che quella ricchezza semantica altera e stravolge. Ne deriva una scrittura "vivacissima e sorniona, raffinata e graffiante"111, in cui cultismi, arcaismi, termini desueti cozzano con i piemontesismi, tecnicismi, stranierismi; le voci popolareggianti affiancano i lemmi puristici "nella latitudine che 110 Roma Borghese a c. di G. Mariani, Cappelli, Bologna 1957; Madonna di fuoco e Madonna di neve, Introduzione di G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1969; Tota Nerina a c. di A. Briganti, Cappelli, Bologna 1972; Sant'Isidoro. Commentari di guerra rustica a c. di G. Luti, Vallecchi, Firenze 1972; Donna Folgore a c. di G. Catalano, Adelphi, Milano 1974; Nemesi o Donna Folgore a c. di G. Zaccaria-M. Masoero, Fogola, Torino 1974; Una serenata ai morti a c. di B. Mortara Garavelli, Serra e Riva, Milano 1982; A Vienna. Gita con il lapis a c. di M. Dillon Wanke e A Parigi. Viaggio di Geronimo e comp a c. di L. Surdich, Costa Nolan, Genova 1983; Un viaggio a Roma senza vedere il papa a c. di P. M. Prosio, Centro Studi Piemontesi, Torino 1988. 111 M. Corti, Introduzione a Figurine ristampa Bompiani 1983, p. 7. va dagli Autori al toscano attuale"112, mentre le derivazioni suffissali e i neologismi declinati in varie maniere (sostantivi e aggettivi verbali, verbi denominali, ibridismi) imprimono alla pagina un andamento aggressivamente mosso. Anche in questo impasto stilistico dominano i procedimenti retorici volti a scomporre le immagini, snaturandone i contorni: l'accumulazione accrescitiva, le geminazioni per accostamento ravvicinato o a distanza, l'enumerazione caotica, i cataloghi estravaganti. Le connessioni interne sono affidate ai paragoni inusuali ("la fumea di una locomotiva a vapore, che pareva uno strascico lento di lenzuola funebri sopra una distesa geografica", Gentilina, p. 186; il "risolino" di Alfonsina "corto come una lumaca che non dava né dentro né fuori" Il male dell’arte, p. 91) e ai costrutti analogici ("E il sole spinge le sue gambe di ragno per aggrappare l'orizzonte" Dies, p. 17). Il correttivo ironico insidia sia le situazioni di banalità quotidiana, il narratore del Male dell'arte si dichiara "innamorato cotto non della lavandaia, brutta come la notte, ma delle partenze di buon mattino" (p. 52) , sia gli stereotipi letterari: "Scintillarono le volgari stelle che 112 G. Contini, Introduzione, cit., p. 15. fanno sempre da candeliere sopra tutti i balconcini, in cui si becchino due tortore" (Degna di morire, p. 113). Nel racconto di Cirillo e nei reportages di viaggio, il piglio effervescente del letterato girovago s'irradia sui molteplici piani del testo, disarticolando l'ordine del discorso e incrinando le coordinate compositive. Sempre scoppiettante, ma meno corrosivo il risultato delle Figurine: non solo perché la pratica inventiva comincia a sganciarsi dalla elaborazione teorica e dalla ricerca archivistica113, ma per l’ancoraggio alla misura del quadretto campestre che raggela l'"enciclopedismo linguistico". I bozzetti infatti si limitano ad allineare stringhe lessicali bizzarre che non spezzano l''"immobilità contemplativa" (R. Bigazzi) con cui il narratore ammira la naturale e sana rettitudine della comunità contadina, riproponendola come argine alla corruzione delle "moderne Babilonie". Già il Rolfi, nella Prefazione a Una serenata ai morti (Perino, Roma 1888), pur riconoscendo nella prosa faldelliana "una fresca vena di allegria", uno "scattare battagliero" capace di scuotere "i pacifici lettori della «Gazzetta Piemontese»", ne individuava un rischio latente: "quel toscaneggiare che sa molte volte di becerume colto in piazza della Signoria, quel ricamare 113 C. Marazzini, Introduzione a G. Faldella, Zibaldone, Centro Studi Piemontesi, Torino 1980, p. XXVIII. ragnatele sulla punta di un ago, è uno scapricciarsi da Sardanapalo che non può sempre piacere al lettore" 114. L'esibizione narcisistica di chi si abbandona alla furia elencatoria tende sempre più a sommergere i segni vivi del "mondo piccino" sotto la mole erudita dei "libri grossi" (A Vienna, p. 246). La tenuta delle prime opere poggia, infatti, su un equilibrio precario: "tormentato il dizionario cadavere" per ridargli nuova vitalità (ibidem), la torsione espressionistica si cala entro una tramatura sintattica in cui prevalgono i moduli della coordinazione franta e dello stile nominale. Questo "conservatore anarchico", che si riserva "una totale libertà di laboratorio" per forzare soggettivisticamente il tessuto semantico-lessicale, si avvale poi, sul piano del più ampio fraseggiato, dei procedimenti cari alla "rapidità giornalistica" che alleggeriscono e vivacizzano il dettato (tutte le citazioni sono di Contini). L'autore del Male dell'arte non solo evita la "bujezza" dei viluppi dossiani, ma, per lo più, messo in rilievo il perno del discorso, costruisce un ordito a forte prevalenza paratattica, in cui il gioco dei parallelismi giustapposti si integra nel reticolo dei richiami anaforici. 114 Si cita dall'edizione a cura di B. Mortara Garavelli, p.78. Nell'autoraffigurazione di Cirillo, i segmenti frastici si avviano, quasi tutti, con soggetto e verbo reggente: Io sono figliuolo di mio padre, mancomale... Egli fu ... Io sono nato... Son sicuro... (Il male dell'arte, p.60) Se l'evocazione amaramente ironica della figura materna increspa l'ordo naturalis ("Sospetto di averla conosciuta la mia mamma." ibidem), nei ritratti dei personaggi minori è la sintassi nominale a produrre, con l'accumulo dei particolari, la deformazione caricaturale. Esemplare la presentazione di Don Sereno, "uomo dimezzato" nel suo servilismo pretesco, le cui "smorfiette" anticipano i saltelli i guizzi i gesti scorciati e le mosse improvvise, insomma "la divincolazione elastica" (High life contadina, p. 64) delle figurine-marionette che affollano i "tritoli" faldelliani. Ma appunto, la "stranezza ruvida" (L. Capuana), che ricerca le serie aggettivali debordanti, i sintagmi apposizionali, le interruzioni esclamative, le onomatopee, i nomi-maschera, i calembours linguistici, l'interpunzione fitta di pause e puntini di sospensione, vale a dinamizzare la rappresentazione di una realtà colta sempre nei suoi aspetti statici. Ecco perché la "dialettica dell'invenzione", concentrata nello "scrutinio di lista" (G. Contini), privilegia le descrizioni fisionomiche e gli scenari paesaggistici. Faldella proietta la violenza espressionistica verso l'esterno senza mai mettere in discussione l'unità del soggetto percipiente: i "tanti ii", in cui il malato Cirillo si sente sdoppiare, si ricompongono ben presto in "un io solo" (p. 94). Come lo stesso Contini suggerisce, seppur in altra prospettiva: Agitando l'aria intorno al bozzetto, diciamo alla «figurina», alla cosa vista, si legga corrispondenza di giornale, Faldella decompone prismaticamente la visione, fa del pleinairisme, del divisionismo, dell'impressionismo, ma non si muove di dove s'è piantato.115 Ben comprensibile allora che non solo gli sia inibita ogni autentica "carriera di scrittore"116, ma che l'esuberanza inventiva, appannata la carica provocatoria delle prime prove, si converta in eleganza sostenuta in Madonna di fuoco e Madonna di neve o in sentenziosità moraleggiante nel Sant'Isidoro. Difficile, perciò, 115 G. Contini, Pretesto novecentesco sull'ottocentista G. F. (1947) in Varianti e altra linguistica, Einaudi Torino 1979, pp. 582-3. 116 Ibidem. condividere la tesi di chi legge nel pastiche il grimaldello acuminato con cui il narratore rompe lo schema ottimistico dell'idillio rustico, minandone il pacioso "interclassismo un po' arcadico" (G. Petronio). Opinabile, d'altra parte, il giudizio di quei critici che, sulle orme di Croce, attribuiscono l'affiochimento della vena creativa alla pervicacia con cui Faldella si mantenne fedele al mestiere di cronista 117. Proprio da questa moderna condizione professionale, condivisa con l'amico Sacchetti (cfr. La morte di un giornalista, in Roma Borghese), e di cui seppe ben sfruttare le opportunità 118, l'onorevole di Saluggia deriva lo slancio per candidarsi a membro elettivo del cenacolo scapigliato. Al pari dei suoi amici, anche Faldella s'impegna a contrastare la paludata lingua letteraria, la tradizionalissima armonia della narrazione "ben commessa" (ivi, p. 81), ma, a differenza del geroglifico Dossi, nei suoi alambicchi immette gli sprazzi della "rapidità giornalistica", inaugurando un modello di scrittura che ispirerà, di lì a poco, i "corrispondenti" e gli "inviati speciali" dei quotidiani di maggior successo. 117 "troppo lavorò da giornalista" B. Croce, La letteratura della Nuova Italia vol. V, Laterza, Bari 1943, p. 149. 118 F. Imbornone, Teoria sul romanzo in un carteggio inedito di G. F., in "Filologia e critica", maggio-dicembre. 1980. L'impressionismo inquieto di Praga Anche Praga, quando passa dai ritmi poetici all'andatura prosastica, sceglie le appendici dei giornali: Schizzi a penna esce sulla "Rivista minima" (febbraio-marzo 1865); il "Pungolo" ospita Due destini, Tre storie in una, Memorie del presbiterio (rispettivamente 1867-8, 1869 e 1877). La ragione economica è il movente primo che spinge il letterato a collaborare con la "repubblica della carta sporca"; ma, come spesso capita nel movimento bohémien, una decisione obbligata diventa fonte di sperimentazione feconda. Gli Schizzi, che avviano la ricca produzione delle gite d’artista, hanno movenze stilistiche di vivezza inusuale. Nei "quattro foglietti", staccati "a casaccio" dall'album e inviati a Ghislanzoni con una nota di modestia compiaciuta, la varietà delle tipologie compositive esalta le gradazioni della scrittura pittorica: quadri d'interni, ritratti di "vaghe macchiette" che dileguano sullo sfondo di una piazza, atmosfere ovattate in cui appaiono figure leggendarie. "Il risultato sarà una vera e propria modalità di strutturare il testo procedente per accostamenti contrastanti o quanto meno differenti, sia nella prospettiva stilistica sia in quella geografica" 119 . Le altre opere, rispettose della misura breve del racconto e dell'"appendice", conoscono cadenze espressive diversamente intonate: ma non c'è dubbio che siano le Memorie del presbiterio il testo più suggestivo. Dopo una novella tipicamente scapigliata, Tre storie in una, e Due destini, un balordo feuilleton dalla prosa trasandata (la descrizione di un cimitero cade nell'umorismo involontario: "le cartilagini delle spine nasali avevano l'aspetto degli alveari delle vespe... le sinfisi del mento e le branche delle mascelle circondavano la testa a guisa di corona" p. 26; la presentazione della fanciulla che incanterà i due protagonisti si avvia con una scomposta citazione: "Era l'unica donna fatta per il miracolo di destare un senso amoroso" p. 180), Praga mette a punto un paradigma narrativo originalmente duttile, in cui tenta di coniugare il montaggio franto del "racconto a puntate" con la cifra di un impressionismo inquieto. Nel progetto impervio di proporre ai lettori del "Pungolo" un "poetico" romanzo d'appendice, Praga incrocia sequenze dal 119 E.Paccagnini, Introduzione a E. Praga, Schizzi a penna, p. 31. ritmo serrato, spesso affidato alle forme verbali del mondo narrato ("Mi rivolsi al suono dei suoi passi, mi rizzai, e gli mossi incontro. Egli si fermò, mi stese ambe le mani, e, prima ch'io trovassi una parola, mi disse" p. 21), con pause raffigurative in cui la gamma delle screziature cromatiche delinea lo sfondo "misterioso" del racconto. Ad una prima lettura il "periodare può anche parere sciatto (e cioè la pennellata singola disfatta)", ma ben presto la pagina si rivela composta di sovrapposizioni abilmente fuse: "come nell'opera di preparazione d'un quadro moderno avviene una ripetuta stesura coloristica sulla superficie intera di essa, per toni, rilievi e rapporti, così tale tecnica conduce a svolgere su tutto lo sviluppo del racconto un lavoro di stesura psicologico a larghi strati"120. L'inclinazione pittorica risalta nella serie delle descrizioni fisionomiche che alternano l'evidenza icastica del ritratto canonico (il giovane artista, il vecchio curato dagli "occhi limpidi e profondi", gli sventurati Beppe e Gina, il sindaco De Boni "genio malefico"), il gusto della sagoma caricaturale (l'organista, le donne del farmacista, l'intendente, gli avventori della bottega del caffè), la "tecnica della macchia": 120 G. De Blasi, recensione all'edizione di Memorie del presbiterio, a c. di E. Colombo (Garzanti, Milano 1940) in "Giornale storico della letteratura italiana", CXXI, 1943. Veder quella donna che, di femminile, non aveva che la gonna cenciosa, e pensare alle rocce basaltiche tutte a buchi e a crepacci, che si trovano sulle cime, in mezzo al verde, sparpagliate non si sa come e perché era la stessa cosa. (p. 82) A raccordare lo sgranarsi intermittente delle "impressioni di scene e di fatti" (p. 25) è la vibrazione di soffuso turbamento che permea l'intero resoconto narrativo: in questa prosa, che poco concede al "frammentismo lirico-descrittivo" studiata com'è "per essere strutturalmente frammentata"121, gli stilemi dell'analogia deformante ("Piselletti cosputati dalle streghe" p. 19, "un addio secco come un'acciuga" p. 61, "mormorò un «posso?» dolce come una ciliegia bucherellata dai passeri" p. 64) corroborano i procedimenti di scomposizione luminosa: grazie ai giochi avvolgenti di luce e ombra, il giardino del presbiterio mostra, da subito, uno strano "splendore" in cui volteggiano "salme" di fiori "scomposte e sparpagliate" (p. 29). Se l'adozione delle tonalità atmosferiche del plein air avvia "un processo di compenetrazione panteistico di uomini e cose"122, enfatizzato dall'antropomorfizzazione di oggetti e 121 122 F. Portinari, op. cit., p. 178. eventi naturali (la luna illumina "i casti amplessi" di un albero e di una casa "abbracciati" p. 12, il breviario "pareva annoiarsi" p. 17, "i fiorellini cominciavano a sorridere" fra i petali "ansiosi" p. 106), ogni sfumatura coloristica allude, senza però mai decifrarlo, al senso di misteriosa trepidazione che incrina la calma serenità di Sulzena: "si udiva il risveglio della luce nel fruscio sommesso delle foglie" (p. 106). Nella diversa declinazione delle tensioni che scompaginano l'idillio è forse possibile individuare uno dei tratti distintivi che segnano il passaggio di mano fra Praga e Sacchetti. Se la precisione dei vettori temporali, la cordialità del patto narrativo, l'accentuazione dei congegni romanzeschi, il cui perno è la figura di Rosilde, sottolineano la svolta, la panoramica finale sulla presunta Tebaide pare esibire il mutamento di ottica rappresentativa. La vicenda volge al termine e, durante l'ultima passeggiata, Emilio osserva il paesaggio sottostante e commenta: Giravo la gola di Fontanile e vedevo il villaggio rimpetto, un po' sotto a me, indorato dai raggi del sole che cadeva. Distinguevo i più minuti particolari, le siepi, le finestre, coi E. Paccagnini, Introduzione, cit., p. 23. pannilini stesi, le pietre, le spire del fumo che usciva dai bassi comignoli. E' delizioso spettacolo questo di poter in una occhiata riassumere la vita di un intero paese; dà un sentimento di potenza, quasi di superiorità; pare di poter disporre di quel gruzzolo di vite come si fa di un alveare. (p. 193) Nel corso della narrazione, Praga s'avvale del divisionismo impressionistico per imprimere un andamento perturbato alle sequenze descrittive e il ricorso costante alla sineddoche isola i singoli tratti (esemplare il quadro della folla sul sagrato), suggerendo l'impossibilità di ricondurre ad unità gli aspetti contraddittori di un universo cangiante. Sacchetti non cancella il dissidio praghiano, anzi ne appalesa le motivazioni sotterranee, ma nella sua scrittura "i più minuti particolari" si "riassumono" in sintesi e la frequenza delle figure metonimiche indica il percorso privilegiato della maniera realistica, entro un'area ormai di confine della produzione scapigliata. Come riconobbe subito Capuana: "Qui siamo in piena realtà". La negazione melodrammatica di Tarchetti Pur collocandosi al polo opposto dell'espressionismo dossiano, i libri di Tarchetti avvalorano l'orientamento soggettivistico che prevale nella narrativa del primo quindicennio unitario. Non è un paradosso: è solo la spia del confuso empito di ribellione antitradizionalista che anima il gruppo scapigliato. Fra tutti, l'autore di Fosca è quello che con più slancio sfrutta le occasioni offerte dalle "officine della letteratura". La sua breve, disordinata carriera artistica è caratterizzata dalla varietà dei generi adottati: dal pamphlet al feuilleton sociale, dalla novella umoristica al Künstlerroman, dal racconto fantastico alle divagazioni di viaggio. Li riconduce ad unità la sede in cui per la prima volta tutti videro la luce: pagine e appendici di riviste e giornali. Non c'è dubbio che i ritmi accelerati imposti da questo sistema editoriale abbiano condizionato nel profondo le scelte compositive di Tarchetti, a cui è difficile non imputare una complessiva trasandatezza stilistica. A dare un'impressione di incuria formale e di inerzia linguistica è la ricorrenza monotona e inalterabile di opzioni pressocché identiche: una selezione lessicale opaca e spesso convenzionale, in cui stridono clausole aulicizzanti (Fosca: "in tal guisa", "che cale", "ho meco", "menomo") e una tessitura sintattica frettolosa, che ama le subordinate per gerundi modali e temporali e si appoggia ai grappoli enfatici di domande retoriche, agli abbinamenti giustapposti e ai cumuli di aggettivi disposti in tricolon. L'innesto nella trama principale dei racconti di secondo grado, non aprendo mai squarci polifonici o contrappunti pluridiscorsivi, conforta il monologismo urlato che sempre sorregge il dettato tarchettiano. Un ritmo originalmente spiccato scaturisce, semmai, dalla frequenza degli stilemi che esprimono i moti dell'eccitazione "convulsiva", per usare un termine caro a Fosca: la figura dominante dell'iperbole, il parossismo dei climax, gli schemi dell'iterazione esasperata, il gioco accanito delle antitesi e degli ossimori. La fedeltà ai timbri della visionarietà delirante e il ri-uso delle cadenze patetico-grottesche, mai sentimental-ironiche, ricollegano Tarchetti alla tradizione più veemente del romanticismo primottocentesco: dietro le amate opere di Victor Hugo, occhieggiano i libri-battaglie con cui Guerrazzi contrastava, giusta la distinzione desanctisiana, l'egemonia moderata della scuola cattolico-liberale. L'impegno democratico di Tarchetti ha qui la sua prima fonte, da qui deriva il suo antimanzonismo dichiarato. La presenza esibita dell'io narrante, la frenesia pronominale, l'ampio spazio concesso alle digressioni pseudofilosofiche: sono tutti indizi di quel protagonismo d'autore che già informava la prosa dell'Assedio di Firenze e della Beatrice Cenci. In piena sintonia con quella cultura, lo scrittore si lancia in invettive indignate e in profezie solenni, mentre i timbri gotico-macabri alimentano le tensioni orrorose e avvincenti. Persino i moduli della divagazione umoristica sono più prossimi al modello guerrazziano (La serpicina, Il buco nel muro) di quanto non siano debitori dell'oltranzismo del capolavoro immaginoso sterniano. della Erede narrativa diretto romantico- risorgimentale, l'autore della Nobile follia ne riaggiorna le suggestioni prometeiche alla luce del ribellismo contestatore del nuovo orizzonte d'attesa. Ormai estraneo al patrimonio illustre del classicismo nazional-patriottico, lo scrittore scapigliato recupera piuttosto i procedimenti di taglio appendicistico che, nei frementi romanzi storici di parte democratica, corroboravano l'eccezionalità dei destini "fatali": anche nello spazio ristretto del privato, "Le grandi cose sono estreme le grandi anime adorano o odiano" (Fosca, to. II p. 254). Non aveva torto il Faldella di Tota Nerina nell'appellarlo "un Guerrazzi, senza riboboli toscani". Il dato di originalità risiede nella declinazione moderna del pathos melodrammatico: crollato il paradigma aristocratico del tragico-sublime, nella dimensione borghese sono le cadenze dell'eccentrico a dar voce a tutto ciò che, fuori dalla norma, sconfina nell'eccesso: lo sperimentalismo tarchettiano affronta gli incubi di morte, la necrofilia sadica, le allucinazioni patologiche, le fobie ossessive con uno stile che, nel rifiuto di ogni medietas realistica, traduce il groviglio nevrotico da cui è mosso l'individuo "irregolare" nell'impatto con la mediocrità prosaica. Il ventaglio polimorfo dei generi adottati non attenua, ma potenzia la carica di irrazionalismo concitato: ora in chiave fantastica ricorrendo alle figure di "geminazione sineddotica" (V. Roda), ora calandolo negli intrighi dei misteri cittadini, in cui meglio risalta l'antitesi vizio-virtù, ora infine, e con l'esito più felice, ritmandolo sulle note della follia o della schizofrenia morbosa. Se "l'immaginazione melodrammatica" d'età romantica è la risposta ingenua che la cultura letteraria oppone alla crisi dei valori assoluti e alla "perdita del sacro" 123, Tarchetti ne sfrutta "la 123 P. Brooks, L’immaginazione melodrammatica, Pratiche editrice, Parma 1985, pp. 32-34. sublimità pleonastica e ridondante" per meglio contrastare l'avvento del positivismo scientista. In un bel saggio, Barberi Squarotti ha individuato nella opera tarchettiana la presenza sistematica dei procedimenti di preterizione e di elusione124: ciò che colpisce è l'espansione di simili moduli entro il tessuto espressivo. Ben oltre il livello strutturale dell'intreccio, la negazione è la regola costitutiva dell'ordito morfosintattico: il sintagma martellante "non... che" (Fosca: "Non scriverò che di uno solo", "amore non è che una questione di nervi") è perno centrale di descrizioni paesaggistiche, ritratti fisionomici, indicazioni temporali, analisi introspettive, riflessioni saggistiche, battute di dialogo, insomma implacabilmente di ogni segmento narrativo. Impossibile darne un'esemplificazione; basta aprire a caso un testo qualunque per imbattersi in una selva di formulazioni al negativo. Strumento della repressione censoria, la clausola "non che" si capovolge in affermazione al quadrato, diventando l'artificio privilegiato attraverso cui Tarchetti può estrinsecare le pulsioni profonde che, radicate nel suo io, lo accomunano ai lettori più inquieti. Troppo fragile per dar loro assetto di coerenza organica, lo 124 G. Barberi Squarotti, Problemi della narrativa tarchettiana, in Atti, cit. scapigliato si arresta sulla soglia del dicibile e rafforza, con la serie delle false litoti, finte preterizioni, antifrasi mascherate, la retorica dell'eccesso iperbolico. Anche dal campionario di questa moderna morfologia del pathos la letteratura di fine secolo attingerà a piene mani. Gli esperimenti eccentrici di Arrigo; l'eleganza eclettica di Camillo. Le scelte di stile compiute da Arrigo e Camillo Boito confermano l'eterogeneità del gruppo scapigliato: labili le consonanze con l'espressionismo dossiano, arduo ogni confronto fra la raffinatezza dei due fratelli e la convulsa melodrammaticità tarchettiana. Persino tra di loro è difficile rinvenire elementi di comunanza formale, muovendosi l'uno entro un ambito di elegante eclettismo, il più giovane privilegiando la strada dell'eccentricità snobistica. E tuttavia anche le ricerche dei due Boito confortano il tentativo di circoscrivere l'area espressiva della narrativa scapigliata entro i confini di uno sperimentalismo che, teso alla raffigurazione dei conflitti inediti della modernità, si oppone agli accenti cordiali del realismo manzoniano. Nelle poche novelle che ci ha lasciato, Arrigo s'ingegna non solo a trasporre lo schema dualistico entro le coordinate strutturali del racconto, ma a adeguarvi le tramature del tessuto linguistico. In una prosa dall'indubbio tono aristocratico, "il gioco di bizzarrie lessicali"125, carico di tensione allusiva, di divertimento erudito, accosta arcaismi e idiotismi, stranierismi di moda e tecnicismi di varia origine (il gergo degli scacchi nell'Alfier nero, la terminologia medica nel Pugno chiuso, la dottrina confuciana nel Trapezio). Ancor più prezioso l'intarsio di segmenti divergenti entro l'orditura sintattica e retorica. Il movimento del discorso conosce l'alternanza di periodi bilanciati e sequenze centrifughe, costrutti di sapiente ipotassi che si sciolgono in onde di coordinazione anaforica. I moduli iterativi, mentre avvalorano la centralità dell'"idea fissa", valgono a dispiegarne le molteplici sfumature: "Quello squilibrio aveva un perno, quella ribellione aveva un capo, quel vaneggiamento un concetto" (Lalfier nero, p. 406); "Quel paria dei mendicanti, quel patriarca della plica...quell'uomo vilipeso... quel lugubre Paw m'invadeva il pensiero" (Il pugno chiuso, p. 14). Analogamente, il sistema retorico allestisce un reticolo di 125 A. Romanò, La poesia giovanile di A. B., in Il secondo romanticismo lombardo e altri saggi sull'ottocento italiano, Fabbri Editore, Milano 1958, p. 71. antitesi e parallelismi che ora si scompongono in traslucide serie metonimiche ora, al contrario, si raggrumano in forti sintesi metaforiche: "I nodi dello spavento avviticchiavano quei corpi e quelle anime" (Il trapezio, p. 464); "Il pugilato del pensiero non poteva essere più violento: le idee cozzavano l'una contro l'altra; i concetti cadevano strozzati da una parte e dall'altra" (L'alfier nero, p. 411). A derivarne, nei brani più riusciti, è un intreccio di geometrica precisione denotativa e di accesa connotazione simbolica: il prologo, l'epilogo e le prime fasi della partita nell'Alfier nero; i micidiali "calcoli mentali" di Yao sulla nave o le acrobazie della coppia Ramar-Ambra sotto il tendone del circo (Il trapezio); la fascinazione del "fiorino rosso" nel Pugno chiuso. Innervato entro i procedimenti compositivi, senza forzature psicologiche o fughe esoteriche, l'intellettualismo algido di Arrigo genera un ritmo nervosamente martellante che, acconsentendo con il dualismo profondo della struttura di genere, da' voce a inquietudini e perplessità autentiche. Nei casi in cui, invece, prevalgono l'eccentricità gratuita, il compiacimento dell'esibizione erudita, l'ambiziosa pretensione al simbolismo onnicomprensivo, il conflitto fra ethos e pathos, fra rigore angosciato e lucida mania perde sostanza espressiva per ridursi a un gioco astratto e manierista. "Boito Camillo sta a sé": con questo riconoscimento Borlenghi apre uno dei pochi ritratti lusinghieri che la critica ha dedicato al maggiore dei fratelli Boito126. Un sottile studio d'atmosfere e d'ambiente, una costruzione che insinui in quell'ambiente e vi adatti un destino umano, una storia (...) Quindi, un'attenzione anche per la costruzione del racconto, a volte affidata a uno scoperto gioco di piani, ma efficace nel risultato.127 Posto solitamente all'ombra del più celebre Arrigo, Camillo viene elogiato, in campo letterario, solo come studioso e cronista d'arte, e menzionato appena come autore delle Storielle vane. Si direbbe che si continui a prendere alla lettera il titolo delle due raccolte, senza cogliervi l'ombreggiatura dell'ironia sorniona che è, invece, cifra originale della sua scarsa ma 126 A. Borlenghi, Introduzione a Narratori dell'Ottocento e del primo Novecento, to. I Ricciardi, Milano-Napoli 1961, p .XXXIX. 127 ivi, p. 582. interessante produzione. L'atteggiamento di sprezzatura signorile, da cui nascono i racconti e ricava sostanza l'opzione per la narrazione in prima persona, tende a permeare di sé l'intero ordito espressivo, modulandone le cadenze sui registri di un'antimedietas non eccentrica. A sostenere la ricerca linguistica di Camillo Boito era una "fiducia istintiva e nella propria natura d'italiano piuttosto d'elezione che non per una precisa particolare radice regionale, e nella curiosità per colori e valori di paesi diversi, nutrita dall'esercizio dell'arte" 128. Un eclettismo, appunto, che dalle rilevanti opere architettoniche trapassa entro l'andatura della ben più "vana" prosa narrativa. Le Gite di un artista, l'abbiamo già visto, compensano il tono erudito delle osservazioni urbanistiche e museali con pause descrittive in cui il "pittoresco" è reso con screziature ossimoriche, stranierismi colti, sofisticate voci popolari. Un solo esempio tratto dal brano iniziale del viaggio a Cracovia: l'olezzo di unto rancido, di pessimo tabacco e di acquavite accarezza deliziosamente il senso dell'olfatto. Corri alla porta a respirare un soffio d'aria pura, ed ecco che ti vengono appresso e ti si piantano in giro, tirandoti per le falde, i 128 A. Borlenghi, op. cit., p. XL. vetturini sudici e gli ebrei bisunti. Quegli vogliono cacciarti nei loro droschki sconnessi, questi offrono di cangiarti le monete (p. 113). Nelle Storielle d'indole pittorica, in cui l'io narrante ripercorre i "beati anni, in cui le giornate parevano ore, ed i mesi giornate!" (Pittore bizzarro, p. 422), in gara con l'amico a "schiccherare con quattro sgorbii un profilo o una figuretta" (p. 423), prevalgono le note digressive dell'umorismo o gli intermittenti squarci coloristici. E nondimeno, anche nelle maglie sfrangiate delle "bizzarrie" raccontate alla "piccola Claudia" o delle "annotazioni tolte dall'albo" veneziano, il discorso non abbandona mai la sostenutezza limpida del periodare calibrato. Il primato concesso alla resa plastica creata dalle variazioni luminose conferisce allo stile "pittorico" boitiano una velatura speciale. Se i ritratti delle fanciulle veneziane sprizzano sempre lampi di seduzione abbagliante, nello Schizzo dal vero, colpisce la descrizione di una nuotata al Lido, in cui la scrittura pare mimare la sinuosità pacata dei movimenti nell'acqua ("In mare il tempo s'allunga. L'allegria o la tristezza, l'ardire e la paura fermano l'attimo" Quattr' ore al Lido, p. 339). Siamo all'origine di quella intonazione struggentemente sensuale che lievita la scrittura delle migliori "storielle", capaci di racchiudere nel giro breve del racconto quel "vero così singolare e fantastico" che aleggia sulle calli della città lagunare (Il colore a Venezia, p. 436). Squisito "dilettante di sensazioni", come lo definì Pancrazi129, non c'è dubbio che, nella pattuglia scapigliata, Camillo risalti per la disinvolta abilità a tradurre narrativamente la ricchezza cromatica e le venature materiche che l'occhio esperto dell'artista coglie negli scenari naturali o nei profili di donna. Le connotazioni antropomorfiche e le analogie metaforiche immettono moti di dinamismo trepidante nelle numerose sequenze paesaggistiche: "Il bel sereno fuggiva via impaurito, e le gentili nuvolette di fiamma, che danzavano prima nella gaiezza dell'aria, si lasciavano divorare dai nuvoloni furiosi" (Dall’agosto al novembre p.68); l'onda del torrente "scatta in uno sprazzo e via; tal'altra si caccia distrattamente in un laberinto, e gira e rigira e, se vuole uscirne le conviene tornare indietro" (Macchia grigia, p. 287). Nelle prime apparizioni femminili, il taglio scorciato della descrizione svela lineamenti fascinosi: "La ragazza a un tratto si volta con gli 129 P. Pancrazi, op. cit., p. 271. occhi sfavillanti e con le labbra aperte ad un gaio sorriso, che mostrava i denti bianchissimi; poi, accortasi di me, si stringe nelle spalle e via come saetta." (Notte di Natale, p. 153) Cultore della bellezza, prossimo all'ideale parnassiano, lo scrittore-architetto insinua nell'oggetto del desiderio maschile tratti di morbosità conturbante che generano attrazione e repulsione nel contempo: la sagoma della donna di Santuario ha un "aspetto innocente e agghiacciante", lo sguardo di Matilde è "insieme fisso e vago, scrutatore e distratto", mentre l’amante che ne attende l’arrivo è "invaso dall’ardore della passione e insieme da un misterioso senso di paura" (Meno di un giorno, p. 346); gli "abbracciamenti furiosi e disperati" di Teresa suscitano paura e desiderio nel narratore di Macchia grigia; Don Giuseppe, in preda ai sensi di colpa più tormentosi, davanti al crocefisso trasfigurato "sembrava spaventato e nello stesso tempo attratto" (Vade retro, Satana, p. 277); Livia, infine, ammette che, nel "confidarsi unicamente a sé" attraverso gli appunti dello scartafaccio, "nell'umiliarsi si esalta" (Senso, p. 384). Ma la nota distintiva dello stile boitiano non risiede nella resa analitica dei sentimenti contraddittori che, in coerenza con il dualismo scapigliato, abitano i personaggi, quanto piuttosto nell'elaborazione di una prosa sinuosamente introspettiva, che, tuttavia, s'ingegna sempre a "evitare il registro della nostalgia e della denuncia"130. Lontano da ogni forma d'eccesso, ("Non ho né sventure né gioie mie proprie" dichiara il narratore di Dall'agosto al novembre, p. 66), Camillo non ama né gli artifici della deformazione, né il turgore convulso dei timbri melodrammatici; nondimeno, altrettanto ostile alle norme dell'oggettivismo naturalistico, non abbandona l'ottica parziale che coniuga, in un nesso originale, memoria e scrittura (L. Strappini). La sua produzione letteraria delinea, secondo Guglielminetti, una parabola ascendente "dall'evasivo modello sterniano-foscoliano delle prime Storielle verso un modo di responsabilizzazione del compito dello scrittore borghese", capace di “scoprire l'immoralità che si cela dietro il culto altoborghese della bellezza”131. Al tempo stesso, occorre però individuarvi, come filo rosso, una vena di criticismo laico che gli consentì di dar corpo alle inquietudini di un mondo privo di certezze, in cui cominciano a comparire gli strumenti della riproducibilità tecnica e dove la ricerca strenua dell'"aura" è forse già destinata allo scacco: su un tavolo anatomico, sotto il "fosco verde dell'acqua" del Danubio, tra le fiamme di un 130 M.Dillon Wanke, Introduzione, cit., p. XVIII. 131 M. Guglielminetti, Introduzione, cit., p. 43 e p. 44. camino dove brucia una chitarra, nelle note lievi della scrittura letteraria: "L'arte della parola val poco, quella del pennello niente" (Una salita, p. 166). NOTA BIBLIOGRAFICA Per delineare un tracciato sintetico degli studi sulla narrativa scapigliata è opportuno prendere le mosse non dai volumi complessivi dedicati al movimento ma piuttosto da alcune antologie apparse a metà del nostro secolo: Racconti della Scapigliatura, curato da C. Linati-E. Colombo (1942) e Racconti lombardi dell'ultimo '800, a cura di G. Ferrata (1949). Dopo la rievocazione affettuosa di Linati, Colombo avanza al lettore il suo "invito all'ottocento", esordendo con un riconoscimento indicativo: "E' il curioso destino degli Scapigliati prosatori. Di loro si tace". Sulla stessa lunghezza d'onda si muove Ferrata, che, riaggiornando l'impostazione critica di un pregevole saggio apparso su "Primato" nel 1941, Parabola della Scapigliatura, elegge a fulcro della propria raccolta i testi di Dossi e compagni, e ne sottolinea la costante tensione sperimentale: "Narrare per gli scapigliati è un mondo d'esperimenti". Nel decennio successivo escono altre due importanti antologie: Racconti della Scapigliatura piemontese a c. di G. Contini (1953); Racconti della Scapigliatura milanese, a c. di V. Spinazzola (1959). I due curatori non potrebbero essere più diversi, per orientamento critico, metodologie d'analisi, inclinazioni di gusto; ma, grazie alle loro introduzioni, si comincia finalmente a circoscrivere i confini geografici del movimento e a esaminare specificamente le scelte di stile e genere: da una parte, la valorizzazione continiana della cifra espressionistica avvia il ricco filone degli scandagli filologicolinguistici; dall'altra il discorso spinazzoliano illumina la funzione di raccordo assolta dalla narrativa scapigliata, proiettata entro l'orizzonte d'attesa del pubblico ambrosiano, fra il capolavoro manzoniano e l'esperienza verista. Fino a metà Novecento, l'etichetta vaga e imprecisa di Scapigliatura era stata, infatti, per lo più adottata per indicare, tra mille sfumature e distinzioni, un "fenomeno culturale" eccentrico e contraddittorio, dai contorni labili e evanescenti, al cui interno operavano artisti dalle personalità così eterogenee da rendere improduttivi i raffronti testuali. I primi commentatori, fino al termine del secolo scorso, ne sottolineavano i comportamenti estrosi e "maledetti", ricercavano le spigolature aneddotiche di una stagione ormai lontana o infine deprecavano la turbolenza ambigua di polemiche che mescolavano pittura, musica e poesia. Poi, il giudizio si affina e, dopo i medaglioni crociani della Letteratura della Nuova Italia e i "profili" di Russo (I narratori), l'opera fondamentale e pionieristica di Nardi, Scapigliatura. Da Rovani a Dossi (1924), tratteggia la fisionomia letteraria del gruppo, rinvenendone il cemento unitario nel magistero di Rovani e nella sua intuizione sul "simultaneo cammino delle Tre Arti". Nel 1936, La poetica del decadentismo di W. Binni attribuisce ai "ribelli" milanesi una volontà di rottura che anticipa la crisi di fine Ottocento, ma il discorso metodologico insiste soprattutto sulle confuse intenzioni programmatiche che guidavano i poeti. Ormai oltre la metà del secolo XX, in concordanza con i volumi antologici da cui abbiamo preso le mosse, appaiono i saggi di A. Romanò (Il secondo romanticismo lombardo e altri studi sull'Ottocento italiano, 1958) e il volume di J. Moestrup (La Scapigliatura. Un capitolo di storia del Risorgimento, 1966), attenti a chiarire il quadro storico e culturale entro cui si sviluppò il movimento: il critico italiano lo interpreta come seconda, e più autentica, fase della cultura romantica; l'italianista danese vi legge la risposta letteraria al tracollo dell'impegno politico e patriottico. Poi, mentre una mostra alla Permanente di Milano (1966) sollecita Dante Isella a dare "un nome e una definizione" al cenacolo di artisti e letterati, esce la monumentale Storia della Scapigliatura di G. Mariani (1967), nelle cui pagine si dipanano i fili delle discussioni e delle consonanze amicali, i grovigli dei dibattiti sviluppatisi sulle riviste coeve, la varietà dei progetti che affratellano, o separano, le singole personalità. A dominare l'ampio affresco è la rivolta esistenziale e intellettuale che questo gruppo di autori conduceva, in rinnovata sintonia con i maggiori modelli europei, contro l'assetto utilitaristico-borghese raggiunto dalla società italiana e assieme contro i maestri illustri della nostra tradizione più recente. Diversamente articolati, privilegiando ora questo ora quell'autore, tutti questi saggi, pur concedendo attenzione adeguata al fenomeno complessivo, leggono i testi sempre con un ottica "sfasata", alla ricerca del rapporto, antagonistico o solidale, con le due grandi correnti ideali che hanno dominato il sistema letterario del secolo XIX: romanticismo e decadentismo. La Scapigliatura prende, cioè, forma e consistenza non in forza delle proposte tecnico-espressive e tematico-compositive avanzate dai vari scrittori, ma in nome della capacità complessiva del movimento di rilanciare le suggestioni del primo Ottocento o, all'inverso, di anticipare motivi irrazionalistici proto-novecenteschi. Entro questo orizzonte la discussione sulle intenzioni "realistiche" professate e praticate da alcuni scapigliati arricchisce l'indagine, ma non ne sposta il baricentro. E il giudizio critico non conosce ripensamenti significativi: quanto più si esaltano gli empiti ribellistici e la spregiudicatezza sprovincializzante dell'intero gruppo, tanto meno se ne apprezzano gli effettivi risultati d'arte. A corroborare questa interpretazione è un duplice orientamento di studi: da una parte, l'influenza potente del saggio binniano induce a privilegiare l'analisi delle elaborazioni programmatiche, riconnettendole alle sperimentazioni simboliste-crepuscolari (esemplare il libro di L. Anceschi sulle Poetiche del Novecento. Studio di fenomenologia e storia delle poetiche, 1962). Dall'altra parte, si allunga la serie di monografie dedicate, a partire dal secondo dopoguerra, alle diverse personalità, giudicate di volta in volta preminenti rispetto alla composita pattuglia bohémienne e capaci, perciò, di oltrepassarne i confini limitati: dal volume di Dante Isella, Lingua e stile di C. Dossi (1958) all'opera di M. Petrucciani Emilio Praga (1962); dallo studio di E. Ghidetti Tarchetti e la scapigliatura lombarda (1968) alle indagini successive d'indole linguistica riservate a Faldella (S. Scotti Morgana, La lingua di G. F. 1974, i saggi di C. Marazzini.). Le grandi sillogi dei Narratori dell'Ottocento e del primo Novecento, a c. di A. Borlenghi (1961-63) e dei Narratori settentrionali dell'Ottocento, a c. di F. Portinari (1970), avvalorano il taglio scorciato dei ritratti e preparano il terreno per gli affreschi d'insieme tracciati nelle successive ponderose storie letterarie (Garzanti, Laterza, Einaudi, Piccin Vallardi, Utet). A movimentare il quadro, acuendo la brillantezza dei singoli percorsi narrativi, sono, piuttosto, le ricche introduzioni che accompagnano le ristampe recenti delle opere scapigliate. Dopo un periodo di latenza, grazie anche all'impresa calviniana della collana "Centopagine" Einaudi, la riscoperta dell'Ottocento minore immette nel mercato una notevole quantità di edizioni, più o meno sfiziose e non sempre accurate. Favorisce ulteriormente la fortuna degli "eccentrici" il clima culturale alimentato dalle teorizzazioni neoavanguardistiche del Gruppo '63 che, sulla scorta della "funzione Gadda" (G. Contini), rilegge romanzi e racconti del passato in chiave di trasgressione e di violenza linguistica: ne deriva una lettura "strabica" del movimento, volta a marcarne le componenti di denuncia antiborghese o di eversione prenovecentesca (F. Bettini, La critica e gli Scapigliati, 1976). Nel contempo, però, una rinnovata attenzione degli studiosi all'orizzonte storico-culturale dell'Italia unita e la diffusione di aggiornati strumenti d'indagine smorzano le interpretazioni ideologistiche, favorendo l'esame approfondito delle componenti tecniche e dei procedimenti formali che strutturano le varie opere. Soprattutto alcuni saggi dedicati alla produzione in prosa della seconda metà dell'Ottocento, si soffermano sul capitolo scapigliato con osservazioni puntuali e preziose: sul versante delle tendenze realistiche, si collocano R. Bigazzi, I colori del vero (1969) e G. Zaccaria con gli articoli sulla "giovane letteratura torinese" (poi raccolti in Tra storia e ironia, 1981); sul crinale dello sperimentalismo compositivo N. Bonifazi con L'alibi del realismo (1972), F. Spera con Il principio dell'antiletteratura. Dossi Faldella Imbriani (1976), G. Finzi nelle sue varie introduzioni (1965, 1980); più propensi, infine, a proiettare le intuizioni scapigliate verso l'area decadente, ma in antitesi feconda con il clima positivista, A. Cavalli Pasini, La scienza del romanzo. Romanzo e cultura scientifica tra Ottocento e Novecento (1982); i saggi di V. Roda, poi riuniti in Homo duplex (1991). Una serie di agili strumenti di studio, infine, offre una sintesi chiara e precisa del fenomeno, colto nel suo complesso: R. Tessari, La Scapigliatura. Un'avanguardia artistica nella civiltà preindustriale (1975), attento alle dinamiche dello sviluppo economico-sociale e ai suoi riflessi d’arte; E. Gioanola, La Scapigliatura (1975), le cui pagine introduttive schizzano i tratti "maledetti" e "estetizzanti" della Bohème nostrana; G. Carnazzi, La Scapigliatura (1989), frutto di accurate indagini sui legami fra la produzione letteraria, il dibattito ideologico e le tendenze della critica coeva. Due numeri unici della rivista "Otto/Novecento" Sulla Scapigliatura (a. IV settembre-dicembre 1980 e a. V gennaio-febbraio 1981) confermano l’interesse della cultura di orientamento cattolico per l’antitesi del dualismo religioso, già esaminata in due opere miscellanee Novità e tradizione nel secondo Ottocento italiano, (a c. di F. Mattesini, 1974), Il "Vegliardo" e gli "Antecristi", (a c. di R. Negri, 1978). Il panorama odierno è variegato, ricco di sovrapposizioni ma anche di lacune sconcertanti, di indagini puntigliose e di suggestioni indeterminate, di sopravvalutazioni fuori misura e di dimenticanze altrettanto inspiegabili (un caso esemplare è il "deserto" Bazzero, condannato a rimanere tale). L'affinamento degli strumenti interpretativi e la ricognizione di aree tematiche inesplorate alimentano il dibattito critico con ipotesi stimolanti: mentre si precisano i confini della narrativa scapigliata, l'analisi delle opere dei vari prosatori, condotta con metodologie aggiornate (formalistico-strutturalistiche, retorico-stilistiche, antropologico-psiconalitiche, storico-istituzionali), consente di illuminare il ventaglio polimorfo delle soluzioni compositive esperite in quel primo cruciale quindicennio unitario, quando, anche nel nostro paese, il sistema letterario si apre al confronto con i processi e i ritmi della modernità urbano-borghese. Questa bibliografia è specificamente dedicata alla produzione narrativa e ai testi in prosa dei singoli autori; nelle voci relative a ciascuno di essi si omette di citare nuovamente i saggi compresi in volumi già indicati nelle prime tre sezioni. 1. ANTOLOGIE Le più belle pagine di Emilio Praga, Tarchetti e Arrigo Boito scelte da M. Moretti, Treves Milano 1926; Racconti e novelle dell'Ottocento, a c. di P. Pancrazi, Sansoni Firenze 1939 (recentemente ristampata a c. di G. Luti, Le Lettere Firenze 1988); Racconti della scapigliatura, a c. di E. Colombo e C. Linati, Bompiani Milano 1942; Racconti lombardi dell'ultimo '800, a c. di G. Ferrata, Bompiani Milano 1949; Racconti della Scapigliatura piemontese, a c. di G. Contini, Bompiani Milano 1953 (ristampata a c. di D. Isella, Einaudi Torino 1992; il saggio introduttivo si può leggere anche in Varianti e altra linguistica, Einaudi Torino 1970); Racconti della Scapigliatura milanese, a c. di V. Spinazzola, Club del libro Milano 1959; Narratori dell'Ottocento e del primo Novecento, a c. di A. Borlenghi, to. I, II, III, Ricciardi Milano-Napoli 1961, 1962, 1963; Narratori settentrionali dell'Ottocento, a c. di F. Portinari, Utet Torino 1970 (l'introduzione è stata ristampata in Un'idea di realismo, Guida, Napoli 1976); Racconti neri della Scapigliatura, a c. di G. Finzi, Mondadori, Milano 1980. Utili strumenti introduttivi, ricchi di parti antologiche: La Scapigliatura, a c. di E. Gioanola, Marietti Torino 1975; La Scapigliatura. Un'avanguardia artistica nella civiltà preindustriale, a c. di R. Tessari, Paravia Torino 1975; La critica e gli scapigliati, a c. di F. Bettini, Cappelli Bologna 1976. 2. STUDI D'INDOLE COMPLESSIVA B. Croce, La letteratura della nuova Italia, vol. I, III, V, Laterza Bari 1919-40; L. Russo, I Narratori, Leonardo Milano 1923 (3° ediz. Principato Milano-Messina 1958); P. Nardi, Scapigliatura. Da Rovani a Carlo Dossi, Zanichelli Bologna 1924 (2ª ediz. Mondadori Milano 1968); G. Ferrata, Parabola della Scapigliatura in "Primato", 1941 (ora in Prospettiva dell'Otto-Novecento, Editori Riuniti Roma 1978); G. Petrocchi, Scrittori piemontesi del secondo Ottocento, De Silva Torino 1948; A. Romanò, Il secondo romanticismo lombardo e altri saggi sull'Ottocento italiano, Fratelli Fabbri Milano 1958; E. Gennarini, La Scapigliatura milanese, Scalabrini Napoli 1961; G. Finzi, Il fenomeno della Scapigliatura, in "Il Verri", ottobre 1962; J. Moestrup, La Scapigliatura. Un capitolo di storia del Risorgimento, Annali dell'istituto di Romanistica danese Copenaghen 1966; D. Isella, La Scapigliatura letteraria lombarda: un nome, una definizione, in Mostra della Scapigliatura, Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente, Milano 1966 (ora raccolto assieme ad altri studi sulla scapigliatura in I Lombardi in rivolta, Einaudi Torino 1984); G. Mariani, Storia della Scapigliatura, Sciascia Caltanisetta-Roma 1967; G. Cattaneo, Prosatori e critici dalla Scapigliatura al verismo in Storia della Letteratura Italiana, vol. VIII Dall'Ottocento al Novecento, a c. di Cecchi-N. Sapegno, Garzanti Milano 1968; G. Catalano, Momenti e tensioni della Scapigliatura, Editrice universitaria Messina 1969; R. Bigazzi, I colori del vero. Vent'anni di narrativa, Nistri Lischi Pisa 1969, n. ed. 1978; R. Merolla, Storia della critica della Scapigliatura, in "Cultura e Scuola", n. 37, gennaio-marzo 1971; N. Bonifazi, L'alibi del realismo, La Nuova Italia Firenze 1972; AA. VV., Novità e tradizione nel secondo Ottocento italiano, a c. di F. Mattesini, Vita e Pensiero Milano 1974; A. Di Pietro, Per una storia della letteratura italiana postunitaria, Vita e Pensiero Milano 1974; L .Bolzoni, Le tendenze della scapigliatura e la poesia tra tardo-romanticismo e realismo e E. Sormani, Prosatori e narratori dalla Scapigliatura al decadentismo in Letteratura Italiana Laterza, a c. di C. Muscetta, vol. VIII Il secondo Ottocento, Laterza Bari 1975; F. Spera, Il principio dell'antiletteratura, Liguori Napoli 1976; F. Vettori, Recenti studi sulla Scapigliatura, in "Cultura e scuola", nn. 63-64, luglio-dicembre 1977; AA. VV., Il "Vegliardo" e gli "Antecristi", a c. di P. Negri, Vita e Pensiero Milano 1978; G. Scarsi, Scapigliatura e Novecento, Studium Roma 1979; AA. VV., Sulla Scapigliatura, in "Otto/Novecento", n.5/6, settembredicembre 1980 e n.1, gennaio-febbraio 1981; G. Zaccaria, Tra storia e ironia. «Regione» e «Nazione» nella narrativa piemontese postunitaria, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Roma 1981; G. Ragone, La letteratura e il consumo: un profilo dei generi e dei modelli nell'editoria italiana(1845-1925), Produzione e consumo, vol. 2, LIE, a c. di A. Asor Rosa, Einaudi Torino 1983; M. Garré, Il dibattito critico sulla Scapigliatura lombarda: una questione novecentesca, in "Otto/Novecento", n. 2 marzo-aprile 1983; P. De Meijer, La prosa narrativa moderna, in Le forme del testo. La prosa, vol.3, to. II, LIE, a. c. di Asor Rosa, Einaudi Torino 1984; G. Zaccaria, La fabbrica del romanzo (1861-1914), Edition Slatkine GenèveParis 1984; A. Ferrini, Invito a conoscere la Scapigliatura, Mursia Milano 1988; G. Carnazzi, La Scapigliatura, Morano Napoli 1989; G. Zaccaria, Il Piemonte e la Lombardia, in Storia e geografia, I L'età contemporanea, LIE, a c. di A. Asor Rosa, Einaudi Torino 1989; F. Portinari, Milano, ibidem; G. Farinelli, Dal Manzoni alla Scapigliatura, IPL Milano 1991; I. Crotti-R. Ricorda, Scapigliatura e dintorni, in Storia letteraria d’Italia, L'Ottocento, a c. di A. Balduino, Piccin Vallardi Padova 1992; G. Carnazzi, Da Rovani ai "perduti", Led Milano 1992; F. Spera, La letteratura del disagio: Scapigliatura e dintorni, in Storia della civiltà letteraria italiana, Vol. V, to. I, a c. di G. Barberi Squarotti, Utet Torino 1994; F. Spera, La realtà e la differenza. Studi sul secondo Ottocento, Genesi editore Torino 1994. 3.SAGGI SU TEMI E ASPETTI PARTICOLARI S.Rossi, E. A. Poe e la Scapigliatura lombarda in "Studi americani" 1959, n. 5; D. Ascolano, Il racconto psicologico nella Scapigliatura milanese, in "Convivium", 1967, n. 5; N. Bonifazi, Il racconto fantastico da Tarchetti a Buzzati, Argalia Urbino 1971; A. M. Cavalli Pasini, La scienza del romanzo. Romanzo e cultura scientifica tra Otto e Novecento, Patron Bologna 1982; S. Romagnoli, Gli scapigliati e il paesaggio regionale, in Storia d'Italia, Annali 5, Il paesaggio, Einaudi Torino 1982; AA. VV, La narrazione fantastica, Nistri Lischi Pisa 1983; G. Zuccaro, Da angelo a medusa: le donne della Scapigliatura, in AA. VV., La parabola della donna, Adriatica editrice Bari 1983; La pubblicistica nel periodo della Scapigliatura, a c. di G. Farinelli, IPL Milano 1984; G. Bezzola, Il fantastico della Scapigliatura, in "Studi di letteratura francese" XIII, serie I, 1987; M. Farnetti, Il giuoco del maligno. Il racconto fantastico nella letteratura italiana fra Otto e Novecento, Vallecchi, Firenze 1988; AA. VV., Effetto Sterne, La narrazione umoristica da Foscolo a Pirandello, Nistri-Lischi Pisa 1990; V: Moretti, Antiutopie in Scapigliatura e dintorni, in AA. VV., Teoria e storia dei generi letterari. I mondi possibili, Tirrenia, Torino 1990; AA. VV., Nevrosi e follia nella letteratura moderna, a c. di A. Dolfi, Bulzoni Roma 1993; G. Rosa, Il racconto delle battaglie perdute, in AA. VV., Il Mito del Risorgimento nell'Italia Unita, in “Il Risorgimento”, nn. 1/2, 1995; V. Roda, Alle origini del «fantastico» italiano: il motivo del corpo diviso in I fantasmi della ragione, Liguori Napoli 1996. A. BAZZERO Scarsissima la bibliografia critica su B., delle cui opere mancano edizioni novecentesche. Vanno solo ricordate su "Il Convegno", giugno 1922, Pagine dimenticate di A. B., in cui, dopo una breve nota di C. Linati, sono riproposti due brani tratti da Storia di un'anima, Natale in famiglia e Chiaravalle. Oltre i ritratti di Croce, Russo e alcuni cenni nelle opere d'indole complessiva, interessanti suonano le note di commento di Ferrata, Spinazzola e Gioanola nei loro volumi antologici. C. A. Madrignani, Una lettera giovanile di E. De Marchi ad Ambrogio Bazzero, in Ideologia e narrativa dopo l'unificazione, Savelli Roma 1974; E. Gioanola, Scrittura del pathos e pathos della scrittura nell'esperienza scapigliata, in "Otto/Novecento" n.5/6 settembre-dicembre 1980; A. Puglisi Allegra, Presagi novecenteschi nelle novelle di A. B., in "Critica letteraria", n. 25, 1979. A. BOITO Tutti gli scritti, a c. di P. Nardi, Mondadori Milano 1942; L'alfier nero, Il trapezio, Iberia, a c. di A. Seppilli, Cappelli Bologna 1979; Poesie e Racconti, a c. di R. Quadrelli, Mondadori Milano 1981; Il pugno chiuso, a c. di R. Ceserani, Sellerio Palermo 1981; Iberia a c. di I. Donfrancesco, Lucarini Roma 1988. La maggior parte della critica boitiana è dedicata alla produzione poetica e musicale; oltre allo studio fondamentale di P. Nardi, Vita di A. B., Mondadori, Milano 1942, ricordiamo per B. novelliere: V. Marini, A. B. tra scapigliatura e classicismo, Loescher Torino 1968; M. Lavagetto, Introduzione a A. B., Opere, Garzanti Milano 1979; R. Ceserani, Una novella fantastica sinora ignorata di A. B., in "Giornale storico della Letteratura Italiana", fasc. 500, 1980; G. Gronda, Testo diegetico o testo simbolico? "L'alfier nero": un "pezzo segnato" in più sensi, in AA. VV., Teoria e analisi del testo, Quaderni del circolo filologico padovano, n. 12, 1981; P.Paolini, Appunti sulla cultura letteraria di A. B.: la letteratura Italiana, in "Otto/Novecento", n.5-6, settembre-dicembre 1983; P. Paolini, Appunti sulla cultura letteraria di A. B.: le letterature straniere, in AA. VV., Studi di lingua e letteratura lombarda offerti a M. Vitale, Giardini Pisa 1983; G. Rosa, L'arte dell'"Alfier nero", ibidem; A. I. Villa, A. B. massone: gnostico, alchimista, negromante, in "Otto/ Novecento", n.3-4, maggio-agosto 1992; A. I. Villa, A. B. teorico e poeta scapigliato, in "Otto/Novecento", n. 2, marzo-aprile 1994; L. Derla, Estetica e poesia di A. B.,in "Otto/Novecento", n.3-4 maggio-agosto 1994; AA. VV., A. B., Atti del Convegno a c. di G. Morelli, Olschki Firenze 1994 C. BOITO Il maestro di setticlavio, a c. di G. Bassani, Colombo Roma 1945; Senso e altre storielle vane, a c. di P. Nardi, Le Monnier Firenze 1961; Storielle vane. Tutti i racconti, a c. di R.Bigazzi, Vallecchi Firenze 1971; Storielle vane a c. di M.Guglielminetti, Silva Genova 1971, (l'introduzione, con il titolo Il leggendario borghese in C. B., è ristampata in La contestazione del reale, Liguori Napoli 1974); Senso, a c. di E. Siciliano, Rizzoli Milano 1975; Senso. Storielle vane, a c. di R. Bertazzoli, Garzanti Milano 1990; Gite di un artista, a c. di M. C. Mazzi, Roma De Luca 1990; Senso e altri racconti, a c. di M. Dillon Wanke, Mondadori Milano 1994. R. Morabito, Logoramento del viaggio sentimentale: da Yorick a C. B., in "Trimestre", n.1-4, 1973; P. Zambon, Sul realismo estetico di C. B., in "Otto/Novecento", n. 6, novembredicembre 1978; L. Strappini, La memoria e la scrittura."Senso" di C. B., in "F M Annali dell'Università di Roma" Facoltà di Lettere, 1979; E. Scarano, L'anatomia del corpo in una storiella vana di C. B., in "Linguistica e Letteratura", n.1, 1981; G. Padoan, "Senso" da Camillo Boito a Luchino Visconti, in "Quaderni Veneti", n.4, 1986. Sull'attività di architetto e teorico del restauro L. Grassi, C. B., Il balcone, Milano 1959. C. DOSSI Opere, a c. di D. Isella, Adelphi, Milano 1995; Note azzurre, a c. di D. Isella, Adelphi Milano 1964. Non è qui possibile indicare le numerosissime edizioni delle opere dossiane che sono uscite in questi anni. Ne offre un elenco dettagliato l'edizione adelphiana nella sezione I libri di C. D. Bibliografia, a cura di N. Reverdini, che va solo integrata con le più recenti ristampe: Ritratti umani, a c. di M. Berisso, Bulzoni Roma 1995; L'Altrieri, a c. di L. Sasso, Garzanti Milano 1996; La Desinenza in A, a c. di G. Lucchini, Garzanti Milano 1996. D. Isella, La lingua e lo stile di C. D., Ricciardi MilanoNapoli 1958; M.Serri, C. D. e il "racconto", Bulzoni Roma 1975; F. Tancini, "L'Altrieri" di C. D., contributi a una rilettura dello scrittore scapigliato, in "Acme", a. XXX, fasc. III, settembre-dicembre 1977; L. Avellini, La critica e D., Cappelli Bologna 1978; Pacchiano, Approssimazione alla "Desinenza in A", in "Giornale storico della Letteratura Italiana", CLVI, 1979; F. Tancini, La parodia del romanzo ottocentesco nella "Vita di Alberto Pisani", in "Giornale storico della Letteratura Italiana", CLVII, 1980; G. Anceschi, Dossi e la linea lombarda, in "Il Ponte", n.1-2, gennaio-febbraio, 1980; L. Cozzi, L’interpunzione nel manoscritto dell'"Altrieri" di C. D. in AA. VV., Studi di Letteratura Italiana offerti a Dante Isella, Bibliopolis, Napoli 1983; A. Scannapieco, In tristitia hilaris, in hilaritate tristis, Francisci Abano Terme 1984; T. Pomilio, Pisani-Dossi, la vita dei nomi, in "Il piccolo Hans", estate 1988; L. Clerici, Pubblico reale e lettori ideali: l'umorismo di C. D., in AA. VV., Calvino e l'editoria, a cura di L. Clerici e B. Falcetto, Marcos y Marcos Milano 1994; N. Lusuardi, C. D., l'umorismo e l'ombra di Jean Paul, in "Intersezioni", n.2, agosto 1994; T. Pomilio, Paradigmi atopici: Milano 1860-1881, in "FM" 1994; A. Saccone, C. D. La scrittura del margine, Liguori Napoli 1995; G. L. Lucente, Dossi e D'Annunzio, autoritratti d'artista, in Bellissime fiabe, Milella Lecce 1995; F.Caputo, L'europeismo dimidiato di C. D., in "Autografo", ottobre 1995; F. Caputo, Il filo d'Arianna della sintassi nella scrittura di C. D., tesi di dottorato di ricerca in Scienze Letterarie (VI Ciclo, Università di Pavia, a. a. 1994-5). G. FALDELLA Non esiste un'edizione completa o una raccolta di opere di F.; molti, invece, i testi ristampati singolarmente. Per un elenco preciso si rinvia alla bibliografia contenuta in A Parigi.Viaggio di Geronimo e C. a c. di L. Surdich, Costa e Nolan Genova 1983, cui ora s'aggiunge la ristampa di Un viaggio a Roma senza vedere il Papa, a c. di P. M. Prosio, Centro Studi Piemontesi Torino 1988. G. Contini, Pretesto novecentesco sull'ottocentista Giovanni Faldella (1947), ora in Varianti e altra linguistica, cit.; S. Scotti Morgana, La lingua di G. F., La Nuova Italia Firenze 1974; C. Marazzini, La componente puristica e la componente dialettale nell'espressionismo linguistico di G. F., in G. L. Beccaria, Quattro scrittori in cerca di una lingua, Giappichelli Torino 1974; S. Berman, G. Faldella's “Figurine”: one hundred years since, in "Italica", 1974, n. 1; G. Ragazzini, G. F. viaggiatore e giornalista, Vita e Pensiero Milano 1976; C. Marazzini, Per dei racconti mai nati. In margine alle "Figurine" del F., in AA. VV., A Gian Luigi Beccaria, s. ed., Torino 1977; AA. VV., Ricordando G. F. nel 50° anniversario della morte, Giappichelli Torino 1978; F. Imbornone, Teorie sul romanzo in un carteggio inedito di G. F., in "Filologia e critica", nn. 2-3, maggio-dicembre 1980. L. GUALDO Romanzi e novelle, a c. di C. Bo, Sansoni Firenze 1959. L'ultimo romanzo Decadenza (1892) ha avuto alcune ristampe recenti, fra cui una a c. di G. Pampaloni, Club del libro Milano 1961, e l’altra a c. di C A. Madrignani, Mondadori Milano 1981. G. Spagnoletti, Gilet bianco, Ritratto di L. G., in "Paragone" n. 82, ottobre 1956; M. Guglielminetti, L. G. uno scrittore senza stile, in "Sigma", n. 6, 1965 (ora in Petrarca fra Abelardo e Eloisa e altri saggi di letteratura italiana, Adriatica Bari 1969); V. Ramacciotti, L. G. e Robert de Montesquiou, in "Atti dell'Accademia delle Scienze", vol. 107, Torino 1973; R. Lollo, Ipotesi su una presenza manzoniana nelle prime opere di L. G., in "Otto/Novecento", n. 3, maggio-giugno 1977; M. C. Cafisse, Rassegna di studi su L. G., in "Esperienze letterarie", n.4, ottobre-dicembre 1978; R. Lollo, Alla fine della Scapigliatura: L. G., in "Otto/Novecento", n.1, gennaio-febbraio 1981; P. De Montera, L. G.(1844-1898). Son milieu et ses amitiés milanaises et parisiennes, Edizioni di storia e letteratura Roma 1983; G. Raya, Lettere Verga-Gualdo, in "Otto/Novecento", nn. 3/4, 1984; R. Lollo, I manoscritti giovanili di L. G. nell'Archivio di Stato di Milano, in "Otto/Novecento" n. 1 gennaio-febbraio 1987; E. De Troja, Amico di Robert: L. G. e la sua opera narrativa, Giardini Pisa 1990; V. Roda, "Ressemblance" e "déjà vu" nella narrativa di L. G. e La donna "composta": d'Annunzio, Gualdo, Maupassant, in Homo duplex, il Mulino Bologna 1991; C. A. Madrignani, I romanzi francesi di L. G. in AA. VV., Studi offerti a Luigi Baldacci, Pacini Fazzi editore Lucca 1996. E. PRAGA Opere, a c. di G. Catalano, Napoli Rossi 1969; Memorie del presbiterio a c. di E. Colombo (Garzanti Milano 1940); a c. di L. Crescini (Rizzoli Milano 1963); a c. di G. Zaccaria, (Einaudi Torino 1977); a c. di G. Tellini (Mursia Milano 1990); Due destini a c. di G. Finzi, Lombardi editore Milano 1989; Schizzi a penna a c. di E. Paccagnini, Salerno Editrice Roma 1993. La maggior parte della critica praghiana è dedicata alla produzione poetica; oltre alla fondamentale monografia di M. Petrucciani, E. P., Einaudi Torino 1962 (curatore anche dell'edizione critica delle Poesie, Laterza Bari 1969) e a V. Paladino, E. P., Longo Ravenna 1967, ricordiamo per P. prosatore: G. De Blasi, recensione all'edizione delle Memorie del presbiterio, a c. di E. Colombo, in "Giornale storico della letteratura italiana", CXXI, 1943; L. Iachini Bellisarii, Postille alle "Memorie del presbiterio"; in "Trimestre", 1973 n. 1-4; P.Zambon, E. P.,"Due destini" in AA. VV., Ventitré aneddoti raccolti nell'Istituto di Filologia e Letteratura dell'Università di Padova, Vicenza 1980. R. SACCHETTI La bibliografia critica su S. si limita ad alcuni cenni nelle opere d'indole complessiva e alle note introduttive di alcune ristampe: B. Croce a Entusiasmi, Garzanti Milano 1948; G. Contini ai Racconti della Scapigliatura piemontese, cit.; C. Colicchi a Entusiasmi, Cappelli Bologna, 1969; G. Catalano a Cesare Mariani, Vallecchi Firenze 1972; G. Zaccaria a Il forno della marchesa e altri racconti, Olschki Firenze 1979 (per i rapporti Praga Sacchetti si veda anche l'importante introduzione alle Memorie del presbiterio, Einaudi cit.); G. Barberi Squarotti a Vecchio guscio, Serra e Riva Milano 1984; G. Tellini a Memorie del presbiterio, Mursia Milano 1990; e inoltre: A. Palermo, Gli "entusiasmi di un vinto" in Lo spessore opaco e altro OttoNovecento, Flaccovio Palermo 1979. I. U. TARCHETTI Tutte le opere a c. di E. Ghidetti, Cappelli Bologna 1967; dello stesso studioso ricordiamo subito la monografia T. e la Scapigliatura lombarda, ELS Napoli 1968. Gli scritti, non raccolti da Ghidetti, apparsi sull'"Emporio pittoresco" sono stati ripubblicati da F. Contorbia negli Atti del Convegno di San Salvatore Monferrato, 1/3 ottobre 1976. Fra gli scapigliati, Tarchetti ha conosciuto una notevole fortuna editoriale; fra le varie ristampe recenti segnaliamo: La leggenda del castello nero, a c. di U. Bosco (De Luigi Roma 1944, l'introduzione è stata poi ristampata in Realismo romantico, Sciascia Roma-Caltanisetta 1959); Fosca a c. di F. Portinari (Einaudi Torino 1971); a c. G. Finzi, (Mondadori Milano 1981); a.c. di R. Bertazzoli (Mursia Milano 1989); a c. di L. Della Bianca (SEI Torino 1995); Racconti fantastici a c. di N. Bonifazi (Guanda Parma 1978) e a c. di G. Finzi (Bompiani Milano 1993); Una nobile follia, a c. di G. Barberi Squarotti, Cappelli Bologna 1979; Lorenzo Alviati, a c. di R. Mussapi, Marcos y Marcos Milano 1986; Paolina (Misteri del coperto dei Figini), a c. di R. Fedi, Mursia Milano 1994. Per la bibliografia critica si vedano innanzitutto gli Atti del Convegno I. U. Tarchetti e la Scapigliatura, Comune di S. Salvatore Monferrato 1977 (con saggi di M. Guglieminetti, G. Tellini, F. Mattesini, M. Colummi Camerino, G. Viazzi, G. Barberi Squarotti, V. Moretti, E. Villa, G. B. Nazzaro, G. Zaccaria, E. Gioanola, G. Finzi, M. Dell'Aquila, R. Tessari, N. Bonifazi, M. Ambel, F. Bettini, F. Contorbia, F. Spera, R. Bigazzi, F. Portinari, S. Jacomuzzi, L. Erba, R. Mussapi) e si rinvia a G. Tortorella Esposito, La critica tarchettiana: dal 1957 al 1987, in "Critica letteraria" n.69, 1990; cui vanno aggiunti: R. Severi, T. e Sterne: considerazioni sui "viaggi sentimentali", in "Rivista di letterature moderne e comparate", n. 1 gennaio-marzo 1984; A. Caesar, Construction of character in Tarchetti's Fosca, in "The modern language Review", January 1987; E. Tateo, Follia sadica e suicidio in "Un suicidio all'inglese" di I. U. T., in "Critica letteraria" n. 62, 1989; G. Tardiola, Il sogno, l'anima, la morte: una lettura dei "Racconti fantastici" di I. U. T., in "Rassegna della letteratura italiana", giugno-agosto 1989; E. Tateo, Morte bella e necrofilia, ipersensibilità e bruttezza in "Paolina", in "Critica letteraria", n. 71, 1991; V. Roda, Il contrappunto imperfetto di I. U. Tarchetti (1987), in Homo duplex, cit.; E. Paccagnini, Contributo alla bibliografia d'esordio di T. Testi dispersi e varianti, in "Otto/Novecento", n. 2, marzo-aprile 1994; V. Roda, Il patetico e il perturbante nella città di I. U. T. in I fantasmi della ragione, cit. AVVERTENZA LE CITAZIONI DEI TESTI NARRATIVI DEGLI AUTORI SCAPIGLIATI SONO TRATTE DALLE SEGUENTI EDIZIONI: A. BAZZERO, Riflesso azzurro, Milano tip. Lombardi 1873; Storia di un'anima, a c. di E. De Marchi, Treves Milano 1885, che comprende Anima, Schizzi dal mare, Acquerelli, Lagrime e sorrisi, Corrispondenze, Malinconie di un antiquario. A. BOITO, Tutti gli scritti, a c. di P.Nardi, Mondadori Milano 1942; Il pugno chiuso, a c. di R. Ceserani, Sellerio Palermo 1981. C. BOITO, Storielle vane. Tutti i racconti, a c. di R. Bigazzi, Firenze Vallecchi 1971; Gite di un artista a c. di M. C. Mazzi, De Luca Roma 1990. C. DOSSI, Opere, a c. di D. Isella, Adelphi Milano 1995; Note azzurre a c. di D. Isella, Adelphi Milano 19882, Due racconti giovanili, a c. di P. Montefoschi, Salerno editrice Roma 1994. G. FALDELLA, Figurine, a c. di G. Ferrata, Bompiani Milano 1942; A Vienna. Gita con il lapis, a c. di M. Dillon Wanke, Costa e Nolan Genova 1983; A Parigi. Viaggio di Geronimo e comp. a c. di L. Surdich, ibid.; Il male dell'arte e Degna di morire in G. Contini, Racconti della Scapigliatura piemontese, Einaudi Torino 1992. L. GUALDO, Romanzi e novelle, a c. di C. Bo, Sansoni Firenze 1959. E. PRAGA, E. Praga-R. Sacchetti, Memorie del presbiterio. Scene di provincia, a c. di G. Zaccaria, Einaudi Torino 1977; Due destini, a c. di G. Finzi, Claudio Lombardi editore Milano 1989; Schizzi a penna, a c. di E. Paccagnini, Salerno editrice Roma 1993. R. SACCHETTI, Candaule, Treves Milano 1879 (che comprende anche Vigilia di nozze, Riccardo il tiranno, Da uno spiraglio); Entusiasmi, a c. di B. Croce, Garzanti Milano 1948; Il forno della marchesa e altri racconti, a c. di G. Zaccaria, Olschki Firenze 1979; Vecchio guscio, a c. di G. Barberi Squarotti, Serra e Riva Milano 1984. I. U. TARCHETTI, Tutte le opere, a c. di E. Ghidetti, Cappelli Bologna 1967. e inoltre AA.VV., Milano 1881, Ottino Milano 1881; Racconti lombardi dell' ultimo '800, a c. di G. Ferrata, Bompiani Milano 1949; C.Arrighi, La scapigliatura e il 6 febbraio a c.di G. Farinelli, IPL Milano 1978.