Giovanna Rosa
La narrativa degli Scapigliati
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TITOLO: La narrativa degli Scapigliati
AUTORE: Rosa, Giovanna
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TRATTO DA: La narrativa degli Scapigliati / Giovanna
Rosa - Roma \etc.! : Laterza, 1997 - VII, 187 p. ;
21 cm.
CODICE ISBN: 88-420-5185-3
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2a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 8 maggio 2002
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3
Giovanna Rosa
LA NARRATIVA SCAPIGLIATA
INDICE
Cap-I: L’avvio della modernità letteraria
Una generazione di scrittori “crucciosi”
Milano, il "microscopico Parigi della Lombardia"
Le officine della letteratura
I nuovi circuiti editoriali
I confini della narrativa scapigliata
Cap-II: La Scapigliatura tra romanticismo e positivismo
Il rifiuto della tradizione romantico-risorgimentale
L'apertura ai modelli europei
Contro l'ottimismo positivista
Il conflitto arte-scienza
Cap-III: Il pubblico degli scapigliati
Dal "noi" di Manzoni all'"io sol io" di Dossi
La sfida al lettore
Il dialogo con la "migliore società"
Le provocazioni dei fratelli Boito
Il feuilleton sperimentale di Praga
Tarchetti: "Io scrivo per me medesimo"
Cap-IV: Romanzi brevi e racconti d'effetto
La scelta della prosa
Dal passato storico al presente
"Frammenti di libri"
Un appendicismo raffinato
Il rinnovamento della novella
Il campo del fantastico
Cap-V: La narrativa dell'io
L'eclisse del narratore onnisciente
Gli sfoghi di un autore narcisista
I procedimenti dissolventi dell’umorismo
Schizzi, acquerelli, gite col lapis
La tavolozza dei letterati girovaghi
Cap-VI: Ritratti di giovani artisti
Protagonisti ventenni e immaturi
Solitari egocentrici
Senza famiglia
La latitanza delle figure d’autorità
Le tecniche di sdoppiamento
La raffigurazione fisionomica
Cap-VII: Il dualismo tematico
Tutto è doppio
Guerra e pace
Conservazione e modernità
Città e campagna
Maschile e femminile
Cap-VIII: Le forme dello stile scapigliato
.
Una comune scelta antirealistica
L'espressionismo risentito di Dossi
I riflessi e i ricordi di Bazzero
Il giornalismo espressionistico di Faldella
L'impressionismo inquieto di Praga
La negazione melodrammatica di Tarchetti
Gli esperimenti eccentrici di Arrigo; l'eleganza
eclettica di Camillo
Nota bibliografica
Capitolo I  L'avvio della modernità letteraria
Una generazione di scrittori "crucciosi"
Nel giugno del 1861 muore Camillo Benso conte di
Cavour: sono passati appena due mesi dalla proclamazione
ufficiale dello Stato unitario e dalla designazione di Vittorio
Emanuele II al trono di re d'Italia. In questo stesso scorcio di
tempo, una tempesta fa affondare il piroscafo "Ercole" su cui era
imbarcato Ippolito Nievo, autore del primo e forse unico
romanzo risorgimentale che delinei la nascita della nazione, Le
Confessioni d'un Italiano.
Incomincia, nel nostro paese, un'altra stagione storicopolitica, cui si accompagna una diversa temperie culturale: gli
autori della Scapigliatura ne sono fra gli interpreti più autentici.
Emilio Praga, Igino Ugo Tarchetti, i fratelli Camillo e
Arrigo Boito, Luigi Gualdo, Carlo Dossi, e accanto Giovanni
Faldella, Roberto Sacchetti, costituiscono il nucleo forte del
movimento che si sviluppa e si consuma nel primo quindicennio
unitario: un'epoca caratterizzata dai governi della Destra storica,
conclusasi quando, con la cosiddetta rivoluzione parlamentare,
Depretis diventa Presidente del Consiglio (marzo 1876).
All'avvento al trono di Umberto I (gennaio 1878), il clima
intellettuale della penisola è già profondamente mutato: in
questo stesso anno Verga pubblica uno dei suoi capolavori veri­
sti, Rosso Malpelo, alcuni mesi prima Carducci aveva dato alle
stampe le Odi barbare. E' ormai iniziata l'età umbertina.
La Scapigliatura è l'espressione genuina dello stato di
crisi e di sfiducia che colse i letterati all'indomani della
formazione della nuova compagine nazionale, così lontana
dall'immagine ideale coltivata durante gli anni eroici delle
battaglie risorgimentali. Del passaggio "dalla poesia alla prosa",
secondo una formula famosa già in voga in quel periodo, la
narrativa scapigliata ci offre una testimonianza originale in
forme modernamente rinnovatrici.
I
suoi
protagonisti
appartengono
tutti
a
quella
"generazione crucciosa" (E. Praga-R. Sacchetti, Memorie del
presbiterio, p. 122) che, venuta al mondo nel decennio centrale
delle lotte per l'indipendenza, raggiunge la piena giovinezza
durante gli anni Sessanta. Ecco le date di nascita: 1839 Tarchetti
e Praga; 1842 Arrigo Boito, il fratello Camillo era di qualche
anno più vecchio, 1836; 1844 Gualdo, 1846 Faldella, 1847
Sacchetti, 1849 Dossi. Ad essi si affiancano, quali compagni
d'arte e di vita: i poeti Camerana e Pinchetti (1845) e il
giovanissimo Ambrogio Bazzero (1851). Nel delineare il ritratto
di quest'ultimo, nell'introduzione all'opera postuma Storia di
un'anima (Treves, Milano 1885), Emilio De Marchi ricorda
ch'era appartenuto alla "piccola scuola milanese" sviluppatasi
in quel tumultuoso periodo che succede alle battaglie
dell'indipendenza, quando l'entusiasmo che le ha compiute
diventa il primo imbarazzo del vincitore. Tutto è disordine
ancora, non si sa quel che si vuole, ma si vuole molto, da tutti.
(p. XXVIII)
Non dissimile il ritratto generazionale schizzato da Cletto
Arrighi, l'inventore del fortunato nome di Scapigliatura: nella
Presentazione
del
romanzo
La
scapigliatura
milanese,
pubblicata sull'"Almanacco del Pungolo" per il 1858, la
compagnia d'artisti protagonista della narrazione è
figlia soprattutto di un'epoca non lontana e fatale; figlia
generosa, giacché, chi ha traveduto il cielo, è un imbecille od un
santo se si rassegna a vivere di nuovo contento e felice sulla
terra. (p. 68)
Gli scapigliati non erano certo tali e proprio nella rivolta
contro l'assetto del paese uscito dall'"epoca fatale" rinvengono il
motivo primo della loro identità esistenziale e letteraria. Tanto
più che lo scontro fra poesia e prosa si appalesa in tutta la sua
gravità durante la terza guerra d'indipendenza (1866), alle cui
campagne partecipano come volontari Emilio Praga, Arrigo
Boito, Giulio Pinchetti e Roberto Sacchetti.
Nella sequenza centrale di una novella di Praga, dal titolo
molto scapigliato Tre storie in una, apparsa sul "Pungolo" nei
primi mesi del 1869, le battute del dialogo che si svolge fra due
amici poeti rivelano uno stato d'animo molto diffuso:
Quindici giorni dopo (...) veniva dichiarata la guerra
all'Austria ed io mi arruolavo nelle file dei volontari.
Tu pure militasti sotto quella divisa, e sai quanto peso di
prosa abbia gettato la realtà di quella vita sull'entusiastica poesia
con cui l'avevamo immaginata.  (in Racconti lombardi
dell'ultimo '800, p. 22)
Già nel settembre del '66, in un articolo uscito sul
"Politecnico", Pasquale Villari si era chiesto, con lucidità
impietosa, Di chi è la colpa? O sia la pace e la guerra:
Questa guerra ci ha fatto perdere molte illusioni, ci ha
tolto quella fiducia infinita che avevamo in noi stessi. (...) Ci è
impossibile pensar di noi quello che avevamo pensato finora.1
Spetta appunto alla generazione "nata a combattere e
demolire" (E. Praga, "Figaro", 14 gennaio 1864) dar conto dello
sconforto amaro che pervase la stagione post-risorgimentale,
illustrando con fervore arrovellato le condizioni di debolezza e
di precarietà su cui si reggeva l'"edificio" appena costruito. In
questi anni è subito evidente il capovolgimento di ruolo che il
letterato era chiamato a sostenere: non c'era più bisogno né di
romanzieri storici, capaci di ritrovare nelle cronache del passato
le radici della coscienza unitaria, né di infiammatori d'animi che
con i versi della "fiorita patriottica" (Mameli, Mercantini,
Dall'Ongaro) alimentassero gli empiti ardenti del Quarantotto e
P. Villari, Lettere meridionali ed altri scritti nella
questione sociale in Italia, a c. di F. Barbagallo,
Guanda, Napoli 1979, p. 107.
1
dell'impresa dei Mille; e neppure, infine, di cultori dei dolci
affetti familiari, fonte di conforto rassicurante nei momenti di
riflusso (Carcano, Carrer, Prati, Aleardi). Altro e diversamente
orientato era il compito che il paese unificato sollecitava nei suoi
intellettuali più consapevoli: cogliere con sguardo critico ma
senza regressioni nostalgiche o avvilimenti nihilistici i conflitti
inediti della modernità. Milano offriva l'osservatorio privilegiato
per una simile indagine.
Milano, il "microscopico Parigi della Lombardia"
La connotazione "urbana" è il tratto più pertinente della
nostrana Bohème. Nel Prologo alla Scapigliatura e il 6 febbraio
(1862), l'edizione in volume del romanzo da cui prende nome il
movimento, Cletto Arrighi lo dichiara subito e senza equivoci:
In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste
una certa quantità d'individui di ambo i sessi, fra i venti e
trentacinque anni, non più. (p. 117).
La
caratterizzazione
generazionale
è
strettamente
intrecciata all'individuazione di un preciso spazio cittadino entro
cui l'armonia tradizionale della comunità organica viene meno.
La successiva contrapposizione fra i giovani "irrequieti,
travagliati, turbolenti", che vivono in "maniera eccentrica e
disordinata", e "i ricchi contenti, le fanciulle guardate a vista, le
donne che amano i mariti" acquista così una specifica valenza
storica. Proiettata sull'orizzonte ampio dell'urbanesimo borghese,
la stessa dialettica interna che divide la numerosa "casta" di
artisti  da una parte "il lato simpatico e forte" che "per ogni
causa bella, grande, o folle balza d'entusiasmo", dall'altra "un
volto smunto, solcato, cadaverico"  perde l'alone mitizzante
per sostanziarsi di spessore psico-sociale.
"Milano..." suona l'incipit dell'opera di Arrighi, nella
definitiva edizione dell'80: e lo sfondo del capoluogo lombardo
costituì sempre, nelle recriminazioni e nelle ebbrezze, il campo
d'azione elettivo sia degli autori sia dei personaggi da loro
inventati. Perché, secondo una tautologia tarchettiana, "Milano è
Milano. Tu mi capisci." (La fava bianca e la fava nera, to. II, p.
558).
Poco importa allora se Arrighi modificò poi nelle varie
stesure il testo della Presentazione e del racconto, riducendo il
color locale ambrosiano a vantaggio della dimensione nazionale;
ciò che conta, come suggerisce Farinelli, è "il primato di Milano
come città ideale della Scapigliatura"2.
Un primato che non va riaffermato semplicemente per
rievocare l'atmosfera nebbiosa dei navigli, cara ai pittori coevi,
Cremona, Conconi, Ranzoni, D. Induno, o gli atteggiamenti
anticonformisti di chi amava le osterie fuori porta. La
supremazia di Milano è tale perché qui i letterati conoscono per
la prima volta e in forme angosciose le contraddizioni che
l'urbanesimo moderno induce non solo nel loro statuto
professionale ma nelle percezioni di realtà, nella scansione
discontinua del tempo e dello spazio, nell'articolazione fra le
vicende pubbliche e gli affetti privati. E' l'impatto con le norme
prosaiche
dell'"incivilimento"
borghese
ad
alimentare
il
confronto polemico diretto con gli ideali eroici della stagione
passata. Parigi in tanto è la città di Hugo e Baudelaire, luogo di
pellegrinaggi artistici (Praga e Boito), in quanto offre
paradigmaticamente il modello urbano cui paragonare i ritmi di
vita e il dinamismo mercantile che il capoluogo lombardo si
avviava a sperimentare:
2
G. Farinelli, Introduzione a C. Arrighi, La Scapigliatura, p. 65.

Le città... le grandi città come Milano! come Parigi! 
(...) chi ha visto Milano ha visto Parigi... miglia più, miglia
meno. Il denaro fugge, scappa, scivola, svapora, svanisce,
dilegua... (Memorie del presbiterio, p. 64)
Non c'è alcun dubbio che il "microscopico Parigi della
Lombardia", per usare l'espressione efficace del solito Arrighi
(La Scapigliatura, p. 147), non abbia ancora assunto il volto
insidioso della metropoli francese: le strutture del capitalismo
economico italiano sono appena entrate nella fase incerta della
"giovinezza industriale" ("Il Sole", 21 settembre 1877); e
tuttavia in questo quindicennio, il fervore intraprendente della
collettività ambrosiana pone le basi di quello sviluppo che
renderà Milano la "capitale morale" del paese.
Nel 1863 l'inaugurazione del Politecnico garantisce la
preparazione meccanica dei futuri ingegneri, mentre, grazie alla
perspicacia finanziaria dell'economista Luzzatti, nel 1865 si
costituisce la Banca Popolare: il corso forzoso del 1866 funge da
riparo indiretto per la produzione delle aziende milanesi prima
della definitiva scelta protezionistica (1878). Ad avvalorare i dati
dell'inchiesta parlamentare del 1871, in cui Milano risulta la
prima città industriale d'Italia, gli imprenditori più giovani si
mescolano alle figure già celebri, Binda Richard Salmoiraghi
Borghi Gavazzi, e occupano il proscenio: nel 1872 uno dei primi
laureati al Politecnico, Gian Battista Pirelli, apre uno
stabilimento per il trattamento della "gomma e guttaperca"; nello
stesso anno Eugenio Cantoni trasforma l'azienda cotoniera in
moderna società per azioni; nel 1875 Ernesto De Angeli compra
un'antiquata tintoria per farne una fabbrica all'avanguardia nello
stampaggio dei tessuti; infine, i fratelli Bocconi sanzionano il
loro dominio commerciale, avviato nel 1865, inaugurando nel
1877 il primo "grande magazzino". Gli scioperi cittadini del
1867,
dovuti
al
carovita,
confermano,
a
contrariis,
l'articolazione di classe che tramava ormai il tessuto della società
milanese.
E' il volto urbanistico della città a testimoniare con
evidenza il passaggio d'epoca: la realizzazione del Cimitero
Monumentale (1860-66) precede di poco l'abbattimento di un
"sudicio baraccone di legno" presso il Castello per sostituirvi la
sala del Dal Verme (1870-2), il "più bel teatro di Milano" (F.
Fontana); l'annessione definitiva dei Corpi Santi (1873) allarga
la cinta daziaria ben oltre i confini tradizionali.
Mentre si
stanziano i fondi per il progetto grandioso del traforo del San
Gottardo, la costruzione della Stazione Centrale (1864) e della
stazione di Porta Genova (1865) traduce in realtà il mito per
eccellenza del progresso: l'Inno a Satana di Carducci è del 1863,
Praga l'aveva anticipato con i versi di Strada ferrata (stesa nel
1860, ma pubblicata in Trasparenze). La ristrutturazione dei
quartieri centrali muta l'assetto morfologico del vecchio borgo.
Famose le strofe di Case nuove (1866), dove senza alcun
rimpianto ma con ironia amara, Boito riconnette le scelte
poetiche agli scenari inediti: "Scuri, zappe, arieti,/Smantellate,
abbattete e gaia e franca/Suoni l'ode alla calce e al
rettifilo!/Piangan pure i poeti".
Pochi mesi prima, nel novembre 1865, sulla "Rivista
minima" erano cominciate ad apparire le puntate del romanzo di
Tarchetti, Paolina (Misteri del Coperto dei Figini): il sottotitolo
allude esplicitamente a un "casone", prossimo alla centralissima
Piazza del Duomo, che il Municipio aveva deciso di demolire
per consentire all'architetto Mengoni di erigere la Galleria. Di lì
a poco (1867), infatti, a fianco della cattedrale si innalza il
tempio laico della mondanità, "dove si celebra, e si santifica
incessantemente con pompa, con magnificenza, al gran Dio della
società moderna, al Lavoro." (L. Capuana, In Galleria, in
Milano 1881, p. 412)
Siamo al vero elemento che caratterizza la fisionomia
urbano-borghese del movimento scapigliato: anche per i letterati
è giunto il momento di confrontarsi in prima persona con il
"gran Dio della
società
moderna".
Privi
di strumenti
rappresentativi adeguati, fragili ideologicamente, brancolanti
"com'uom che sogna" (A.Boito) davanti agli abissi del nuovo,
nessuno di loro sarà in grado di delineare entro il testo narrativo
la vita intensa e operosa della "città più città d'Italia" (Verga),
ma tutti i loro libri testimoniano dell'impatto avvenuto. E' sul
terreno elettivo dell'attività professionale che gli artisti della
Bohème milanese sperimentano le contraddizioni tipiche di un
mercato in fase espansiva e avviato ad assumere i tratti specifici
della produttività capitalistica. Per dirla con le parole schiette di
uno di loro: "Non si campa coll'arte, si campa col mestiere"3.
Le officine della letteratura
R. Sacchetti, Emilio Praga, in “Serate Italiane”,
n.105, 2 gennaio 1876, citato da G. Zaccaria,
Introduzione a E. Praga - R. Sacchetti, Memorie del
presbiterio, p. XV.
3
E' lo stesso Sacchetti che, qualche anno dopo, schizza il
quadro complessivo della Vita letteraria a Milano.
L'inaspettata convivenza delle industrie del ventre con le
industrie dello spirito allarga subito il cuore al giovinetto,
piovuto, come il Maffei, il Prati, il Tarchetti, sul lastrico della
grande città con un grosso manoscritto in tasca. Che gli volevano
far credere ch'erano nemiche inconciliabili, se vivono tanto bene
insieme? Non già ch'egli non sia agguerrito e corazzato d'ideali,
contro gli strapazzi della miseria; ma non gli spiace trovare nella
realtà le officine della letteratura fiancheggiate confortevolmente
dalle osterie e dalle botteghe dei cervelèe. (Milano 1881, p.429)
L'ottica dell'avvocato torinese che aveva scelto il
capoluogo lombardo per passare alla professione di giornalista,
se pecca di facile ottimismo, coglie tuttavia un dato di realtà
irrefutabile. Da queste pagine lontane, che conservano ancor
oggi un fascino suggestivo, emerge il ritratto più veritiero
dell'universo editorial-letterario d'allora. Come documentano le
statistiche del periodo, "erano attive nella provincia di Milano 70
tipografie con 130 torchi a macchina, 178 torchi a mano e 1622
operai" (Inchiesta Ottino, 1875). Di queste "officine" ben
sessanta avevano sede entro la cerchia dei navigli, a conferma
della mescolanza di "fragranze" caserecce con l'acre "odore
oleoso" dell'inchiostro tipografico, di cui parla Sacchetti. Il
nucleo storico dell'AIE (Associazione italiana editori) si
costituisce, qui, nel 1871 sotto l'etichetta ATLI (Associazione
tipografico-libraria italiana).
Il ritratto canonico dell'artista bohémien "agguerrito e
corazzato
d'ideali"
acquista
tinteggiature
ben
altrimenti
chiaroscurate se proiettato sullo sfondo di un sistema editoriale
che prospetta occasioni d'intervento, impegni di lavoro,
opportunità di guadagno prima impensabili. Nelle "officine della
letteratura", l'arte "si può offrire e mercanteggiare", nella
consapevolezza dolorosa e nel contempo esaltante che "di sotto
allo strettoio del lavoro utile e obbligatorio scaturisce più
copiosa la vena dell'ispirazione" (ibidem). La dimensione
dell'economicità ha investito ogni esperienza d'arte, imponendo
agli autori funzioni e comportamenti "prosaici", estranei sia
all'otium
umanistico
delle
età
gentilizie
sia alle
pose
generosamente eroiche delle stagioni di lotta. Ormai
Milano è un mercato letterario, dove seguendo la legge
della domanda e dell'offerta, si può procacciarsi colla penna una
discreta posizione; lo scrivere non è qui, come altrove, una
mania solitaria, ma una professione riconosciuta e quasi
regolare. (ivi, p. 433)
La fisionomia sociale dello scrittore non si ammanta più
né del prestigio di casta né dell'aura sacrale della missione civile;
si fonda sul riconoscimento laico e borghese del successo:
A Milano non si commette la ridicolaggine di chiamare il
conte Maffei, il cavaliere Boito, il cavaliere Ponchielli, il
cavaliere Verga. Si dice Boito, Verga... e si crede di dir molto.
(ivi, p. 437)
La reazione sdegnata di Praga e compagni contro "al
bottegume ed al borghesume", complici delle "cento nullità
letterarie di cui si pasce ogni giorno la curiosità cittadina"
(Memorie del presbiterio, p. 17), è tanto più violenta quanto
maggiore è il loro coinvolgimento nella "speculazione libraria"
(ibidem).
Poco
anticonformista,
o
del
nulla
si
recupero
comprende
della
dell'oltranzismo
ribellione
romantico,
dell'eccentricità provocatoria degli Scapigliati se non se ne
inquadra l'attività di scrittura entro le strutture portanti di un
mercato delle lettere in fase di riorganizzazione profonda.
Con coincidenza strepitosa, nello stesso anno in cui viene
proclamato il Regno d'Italia, entrano in campo gli uomini che ne
gestiranno la produzione culturale per lungo tempo: trasferitosi a
Milano da Trieste, Emilio Treves fonda l'omonima casa editrice;
Edoardo Sonzogno trasforma il vecchio stabilimento tipografico
di famiglia in azienda polifunzionale (dalle cartiere Pella alla
Casa Musicale, dalla sede parigina alla proprietà del Teatro
Lirico). A sostenere le scelte innovative dei due giovani editori
è, ovviamente, un sistema editorial-giornalistico ormai prossimo
a superare la misura artigianale, per acquisire l'assetto
economico-organizzativo della impresa capitalistica. Ideato nel
1859, il "Pungolo", sotto la direzione di Leone Fortis, era
diventato "il padrone incontrastato di Milano", affermandosi
come "il più diffuso organo di stampa dell'Italia settentrionale"
(S. Merli); nel marzo 1863, in via San Paolo, Attilio Manzoni
apre una strana bottega, cellula germinale del circuito inedito
delle concessioni pubblicitarie; due anni dopo, nell'agosto, la
Camera di Commercio, insieme con le categorie imprenditoriali
e finanziarie, promuove l'uscita del primo giornale economico
italiano, "Il Sole", destinato, secondo il pronostico azzeccato di
Dario Papa, a "un bell'avvenire". Sullo sfondo, intanto, anche
grazie ai celebri spettacoli allestiti al Teatro alla Scala,
grandeggia il "colosso Ricordi". Bastano pochi mesi perché
Tarchetti, giunto dalla sonnolenta provincia piemontese, colga la
ricchezza multiforme di "questa nostra città, notevole pel suo
sviluppo intellettuale, e il più gran centro del movimento
letterario in Italia" (Idee minime sul romanzo, to. II, p. 535).
Su questo orizzonte dinamicamente alacre, Treves e
Sonzogno assumono un ruolo guida, diventando i protagonisti
attivi del rinnovamento editoriale post-risorgimentale: grazie ad
una spregiudicatezza spavalda, che opera, con strategia integrata,
sulla catena libro-rivista-giornale, i due imprenditori sanciscono
il successo di nuovi generi e tipi di fruizione, imponendo
l'egemonia della cultura milanese sull'intera penisola.
Secondo l'analisi esemplare di Giovanni Ragone, in
questi anni tramontano i "codici" tradizionali delle opere di
"ricerca" e di "mediazione" intellettuale (biografie, memorie,
novelle morali, etc.), e sempre più si consolida il polo funzionale
della narrativa borghese di consumo.
Dai «tempi difficili per la letteratura» degli inizi unitari si
raggiunge in pochi anni un massimo storico (1872). A
determinarlo, sempre ragionando di quantità, è soprattutto la
grande crescita di produzione di nuovi testi, che triplica tra il
1863 il 1872.4
Il fulcro di tale sviluppo è l'ideazione e diffusione di
riviste e periodici, capaci di sostenere e potenziare la lettura dei
libri, pubblicati nelle diverse collane "economiche". Nel 1872, a
soli sei anni dalla comparsa, "L'Emporio pittoresco" di
Sonzogno, un "fenomeno" di giornale a detta dello stesso
editore, raggiunge una tiratura media di 25.000 copie, con punte
di 60.0005; sempre per i tipi Sonzogno, un altro settimanale, "Il
romanziere illustrato", pensato per ospitare unicamente romanzi,
interi o "affettati nell'appendice", supera le 10.000 copie. La
concorrenza di Treves è agguerrita: "L'Illustrazione popolare",
"Il giro del Mondo", "Il giornale popolare dei viaggi" anticipano
e preparano il successo dell'"Illustrazione italiana", definita dal
solito Dario Papa "senza dubbio il miglior giornale illustrato del
paese". Affianca e completa la stampa periodica dei due gruppi,
4
G. Ragone, La letteratura e il consumo: un profilo dei generi e
dei modelli nell'editoria italiana (1845-1925), Produzione e
consumo, vol. II, LIE, a c. di A. Asor Rosa, Einaudi, Torino
1983, p. 720.
5
F. Nasi, Il peso della carta, Alfa, Bologna 1966, p. 50.
la fondazione di nuovi quotidiani. Nel 1866 esce il primo
numero del "Secolo", editore Sonzogno. L'accoglienza è
stupefacente: in dieci anni sfiora la tiratura di 30.000 copie
giornaliere, "secolista" suona sinonimo di giornalaio e "la gente
chiamava «un secolo» qualsiasi foglio stampato, sanzionando
così, con quella popolaresca espressione, una ascesa senza
precedenti"6. La risposta di Treves non si fa attendere: se il
tentativo del "Corriere di Milano" non riesce, nel 1876 ecco
trovata la formula giusta: "Il Corriere della Sera", affidato alle
cure di Eugenio Torelli Viollier. Il quotidiano, che diventa ben
presto la voce più autorevole della classe dirigente nazionale,
comparve in edicola, come ricorda lo stesso direttore,
esattamente "tredici giorni prima della caduta della Destra!" (La
stampa e la politica, in Milano 1881, p. 469) a sottolineare la
tempestività dell'intuizione politica e culturale da cui germinò il
progetto.
Con la prospettiva tipicamente "strabica" dell'intellettuale
meridionale venuto a cercar fortuna nel capoluogo lombardo,
Torelli Viollier, dopo un prezioso tirocinio presso Sonzogno, è
in grado di cogliere il dato di maggior rilevanza dell'inedito oriz­
6
S. Merli, Il Secolo, in I periodici di Milano. Bibliografia e
storia, to. I, Feltrinelli, Milano 1956, p. 12.
zonte cittadino: la consistenza matura di una "opinione
pubblica", consapevole di sé e del proprio ruolo, a cui il
giornalista deve rivolgersi con onesta professionalità:
Bisogna tenere a mente che il giornalista non è il padrone
del pubblico, ma il suo servitore, e che deve fare il giornale non
per servire la propria ambizione, le proprie passioni, le proprie
amicizie, i propri interessi, ma per istruzione e divertimento del
pubblico. In questo il pubblico ha il fiuto finissimo (...) Il
pubblico compra il giornale per essere informato di tutto quel
che accade: è dunque un dovere di stretta onestà pel giornalista
di non tacergli nulla. (ivi, p. 472)
Dal versante letterario, gli fanno eco le parole altrettanto
lucide di Sacchetti:
Milano è finora la sola città italiana dove ci sia un vero
pubblico: la classe colta coi novantamila italiani delle diverse
regioni vi formano un tutto omogeneo, armonico, che vibra e
risponde tutto insieme, ad un tratto alla stessa commozione, alla
stessa provocazione. (La vita letteraria, p. 434)
Il compagno d'arte di Praga non ha dubbi:
il poter misurarsi col giudizio del pubblico, il potente
interrogare dà agli spiriti timidi, agli intelletti schivi una giusta
misura della propria capacità, li rinfranca (ivi, p. 435).
In questo scenario matura l'esperienza scapigliata: il
primo "dualismo" di cui patiscono gli scrittori della "generazione
crucciosa" deriva dalla coscienza inquieta di doversi misurare
con il giudizio di un pubblico ignoto, potenzialmente ampio, dal
quale si pretende fama e ricchezza, nel momento stesso in cui lo
si provoca con offerte anticonformiste e spregiudicate. Siamo
davvero agli esordi della letteratura borghese moderna, i cui
destini futuri si giocheranno tutti entro questa pendolare
dialettica.
I narratori bohémiens per un verso sfruttano con foga
prolifica le possibilità inedite dei nuovi circuiti editoriali, per
l'altro vi si contrappongono con proposte orgogliosamente
antagonistiche. Esemplare il loro rapporto con stampa periodica,
pilastro centrale di quella "repubblica della carta sporca"
(Arrighi), popolata da artisti e letterati che cominciano "a
meditare sulla necessità di farsi giornalisti" (Tarchetti, Ad un
moscone, to. II, p. 502).
I nuovi circuiti editoriali
Grazie al monumentale studio di Gaetano Mariani, Storia
della scapigliatura, e al prezioso regesto della Pubblicistica nel
periodo della Scapigliatura, a cura di G. Farinelli, è ormai
attestata l'interconnessione fertile fra il gruppo dei nostri autori e
le riviste più vivaci del periodo. Non c'è dubbio che la "Cronaca
grigia" diretta, fra il 1860 e il 1880, da Cletto Arrighi e la
"Rivista minima" di Ghislanzoni abbiano favorito e promosso
l'opera in versi e in prosa di Dossi, Boito, Praga e Tarchetti.
Sulla prima, oltre alle incoraggianti recensioni della rubrica
Libri e giornali (1867-69), apparvero i versi provocatori della
boitiana Ballatella (gennaio 1865) e numerosi testi di Praga. La
seconda ospitò le più varie sperimentazioni: di Tarchetti, nel
1865, oltre a Paolina e ai racconti d'esordio (Un suicidio
all'inglese, Ad un moscone), i componimenti poetici, Canti del
cuore, e il saggio Idee minime sul romanzo; poi Schizzi a penna
di Praga (febbraio-marzo 1865); le prime Figurine (1873) e La
laurea
dell'amore
(febbraio
1876)
di
Faldella;
Scene
campagnuole. Un confronto, Alcuni giorni a Pompei di Sacchetti
(1874); Una storia di mare di Gualdo (giugno 1874); infine la
famosa Lezione d'anatomia (giugno 1865) e le prime puntate del
racconto Il trapezio (1873-74) di Arrigo Boito. Altrettanto certo
l'appoggio offerto dal "Gazzettino rosa" di Cavallotti e Achille
Bizzoni alle vibranti polemiche condotte dagli scapigliati contro
il perbenismo conformista, il moralismo conservatore e
l'oscurantismo clericale, che la pubblicazione del Sillabo (1864)
aveva alimentato anche presso l'opinione pubblica lombarda. Ma
il punto qualificante dell'incontro fra la brigata degli artisti
ribelli e la galassia multicolore delle riviste coeve non va
rinvenuto in una coerente sintonia ideologica, o addirittura
politica,
quanto
professionale
che
piuttosto
queste
nelle
sedi
modalità
di
sollecitavano.
intervento
Nell'inedita
organizzazione delle attività di scrittura, la collaborazione
periodica modificava nel profondo la modulazione dei tempi (la
scansione per puntate) e degli spazi (la misura del singolo
"pezzo"), il rapporto economico con il committente (gli anticipi,
la puntualità della consegna), le forme del dialogo con i lettori.
Lo ricorda, deplorandolo, Dossi nella Rovaniana:
oggi il giornalismo ha ammazzato i libri, e questi, se pur
aspirano ad esser letti, devono passare attraverso il giornalismo
stesso come metallo che solamente sotto conio acquista valore di
moneta e circola.7
Tarchetti, redattore del più diffuso settimanale di
Sonzogno, "L'Emporio pittoresco", su cui sigla articoli di varia
umanità (le serie dei Pensieri e le Conversazioni), sceglie "Il
Sole" per denunciare i Drammi della Vita militare. Vincenzo
D*** (Una nobile follia), (1866-'67), e conclude la sua breve
carriera artistica con le puntate di Fosca, apparse sul "Pungolo"
(1869). Per questo giornale, della cui redazione Sacchetti
diventerà capo alla fine degli anni Settanta e su cui pubblicò
Candaule (1878) e Vecchio guscio (1879), Praga scrive non solo
una corrispondenza di guerra, Garibaldi fra i volontari (giugno
1866), ma tutte le sue narrazioni: oltre a Tre storie in una
(1869), uno strampalato feuilleton, Due destini (1867-8) e la
prima parte delle Memorie del presbiterio. I raffinati autori della
Bohème "dorata" non sono da meno: sempre il "Pungolo"
7
Si cita dall'edizione curata da G. Nicodemi, Libreria
Vinciana, Milano 1946, pp. 149-50.
accoglie la provocazione di Arrigo Boito, A Sua Eccellenza il
Ministro della Istruzione Pubblica. Lettera in quattro paragrafi
(21 maggio 1868), mentre il "Corriere di Milano" ospita la
novella Il pugno chiuso (1870); Camillo, se predilige la
prestigiosa rivista fiorentina "Nuova Antologia", cui peraltro
collabora con senso di economicità molto ambrosiano, non
disdegna l'"Illustrazione popolare" e esordisce anch'egli sul
giornale di Leone Fortis con un racconto a puntate di timbro
ultrascapigliato (Gite di un artista. Un verso del Petrarca, 1867,
che si scinderà poi in due testi, appunto Baciale 'l piede e la man
bella e bianca e Tre romei8), e nella scelta dell'editore non ha
alcun dubbio: Treves, per entrambe le raccolte delle Storielle
vane (1876, 1883). Il parigino Gualdo invia bozzetti alla "Rivista
minima" e il "deserto" Bazzero, mentre stampa in edizione
privata Lagrime e sorrisi, appresta le Melanconie di un
antiquario per il "Pungolo", gli Acquerelli per la "Vita Nuova" e
gli "schizzi a penna" per "Il Monitore della moda". Una sua nota
diaristica accosta moti di perplessità titubante e sussulti di
fierezza speranzosa, in un intreccio in cui molti si sarebbero
riconosciuti:
8
cfr. M. Dillon Wanke, Introduzione a C. Boito, Senso e altri
racconti, Mondadori, Milano, 1994, pp. X-XI.
Ho accettato di scrivere le Appendici artistiche del
Pungolo per l'Esposizione. Avrò coraggio di scrivere? E che
scriverò?... Uscivo dalla Direzione del Pungolo: mi sentivo
contento, superbo (Anima, p. 136).
L'unica eccezione è l'"aristocraticissimo" Dossi, come
amava definirsi, cui peraltro non sfuggiva affatto l'opportunità
della promozione editoriale, se è vero che già per i primi
raccontini stila la lista di coloro cui inviare le "copie omaggio".
E tuttavia, proprio il coinvolgimento diretto nei
meccanismi del mercato rinvigorisce la consapevolezza fiera
dell'autonomia del lavoro artistico. L'autore dell'Altrieri ci
ricorda l'energia risentita con cui tutti i letterati scapigliati si
impegnano a riaffermare la diversità di un "mestiere" che, alieno
dalle leggi della domanda e dell'offerta, sprezza il gusto volgare
del
"pubblicaccio".
Ecco
allora
a
controbilanciare
i
condizionamenti della "speculazione libraria", che costringe "le
arti e le lettere" a "prostituirsi per vivere" (Tarchetti, Paolina, to.
I, p. 375), l'invenzione di una stampa alternativa, articolata in
fogli, rivistine, "palestre" letterarie e musicali, rigorosamente
destinate a pochi eletti, cui rivolgersi in contristato dialogo, per
propugnare l'"Arte dell'avvenire" (A. Boito) e combattere la
"formula" ormai stantia del melodramma verdiano. Sul "Figaro",
sotto la direzione di Praga e Boito (7 gennaio-31 marzo 1864),
escono la poesia-manifesto Dualismo e gli articoli teorici di
maggior impatto (Programma n. 1, Pubblicazioni italiane nn. 23, Polemica letteraria n. 5). La "Palestra musicale" ospita, sia
pure incompiuto, il racconto tarchettiano Lorenzo Alviati; "La
palestra letteraria" accoglie le prime sconosciute novelline di
Bazzero (Un libro buono, I Nobili Antenati, Oh, la guerra,
Rimembranze autunnali, 1870); e se "Lo Scapigliato", il giornale
diretto nel 1866 da Cesare Tronconi, durò pochi numeri, vita
ancor più esile ebbero "Piccolo giornale" e la "Petite Revue",
ideate da Tarchetti nell'anno successivo.
E' questo abbozzo di doppio circuito editoriale ad
avvalorare la sostanza storica del "dualismo" scapigliato,
tradizionalmente e univocamente attribuito a penosi dissidi
d'indole psicologico-esistenziale. Questi, certo, vi furono e
furono gravi: basti ricordare le lacerazioni devastanti di Praga,
che, nato in una agiata famiglia d'imprenditori, non seppe reagire
al fallimento dell'azienda paterna e al peso delle responsabilità
adulte, oppure i turbamenti schizofrenici di Tarchetti, ufficiale di
carriera e autore del pamphlet più radicale contro lo spirito
militare. Minate da uno senso di disadattamento irriducibile,
corrose da vizi e malattie fin troppo canoniche (l'alcool e
l'assenzio, la tisi e il tifo) le loro vite furono brevissime: Praga
morì a soli 36 anni, Sacchetti a 34, Tarchetti non oltrepassò la
trentina. Non dissimile il groviglio nevrotico che abitava gli
amici poeti Pinchetti (1845-1870) e Camerana (1845-1905),
capaci del gesto estremo di uccidersi, quasi a tradurre in
angosciosa realtà l'immagine enfatica di una quartina di Boito:
"Torva è la Musa. Per l'Italia nostra/corre levando impetuosi
gridi/una pallida giostra/di poeti suicidi" (A Giovanni Camerana,
ottobre 1865). La morte per scelta o per consunzione, mentre
denuncia l'incapacità individuale di sopportare il tormento di
conflitti rovinosi, getta una luce livida su un'intera generazione,
composta dai "figli del Dubbio", "i reietti, i fuggiti da
Adamo,/dal ciel, dal fango vinti!" (E. Praga, Manzoni, 1873).
L'epitaffio demarchiano dedicato a Bazzero, abbattuto dal tifo a
trent'anni, dopo una giovinezza dominata dal tormento di "tre
grandi illusioni: Dio - La Donna - l'Arte" (Anima, p. 37), vale
per molti di loro: "tutti amarono l'arte con geniale sfrenatezza; la
vita uccise i migliori" (Introduzione, cit. p. XXVIII).
E tuttavia, il dualismo, teorizzato programmaticamente
nell'eponima poesia boitiana, in tanto diventa parola-chiave di
tutta la Scapigliatura in quanto trapassò dalla dimensione
esistenziale alle scelte professionali, ai modelli compositivi, alle
opzioni espressive, fino alle "scommesse" narrative lanciate ai
lettori.
I confini della narrativa scapigliata
Questa animazione esaltata e disforica conferma il
carattere di frontiera della Bohème milanese, che rimase in
bilico fra vecchie consuetudini umanistiche e inusuali scenari
editoriali. Ormai estranei alle forme del cenacolo o della
consorteria, i nostri scrittori sono ben lontani dal costituire un
"gruppo d'avanguardia", come talvolta la critica ha amato
tratteggiarli (G. Viazzi, F. Bettini): privi di coerenti coordinate
etiche e filosofiche, con scarsa capacità organizzativa, con ancor
meno potere d'intervento culturale, questi autori rinvengono una
fisionomia unitaria nell'appartenenza spaesata ad una breve ma
intensa stagione della nostra civiltà letteraria. Solo questa
specifica prospettiva istituzionale, d'altra parte, consente di
definire in positivo la narrativa scapigliata come un insieme
variegato di testi, affini per scelte strutturali, tematiche e
stilistiche. Non, quindi, categoria interpretativa metastorica,
capace d'abbracciare tutte le iniziative di sperimentalismo
eccentrico che vengono coltivate magari ben oltre la fine del
secolo; e nemmeno etichetta generica che privilegia abitudini e
costumi stravaganti o condotte di vita disordinate e contestatrici.
Troppo diversi erano i comportamenti mondano-sociali di Dossi
e di Gualdo rispetto alle pose devianti di Praga o Tarchetti per
accomunarli in un'identica rivolta anti-sistema. D'altra parte, i
convincimenti ideologici difformi non consentono di individuare
un'unica direzione di iniziativa politica: al democraticismo
ribelle di Tarchetti e alle provocazioni dissacranti di Praga si
oppongono non solo il moderatismo liberale di Sacchetti, il
cattolicesimo inquieto di Bazzero o il conservatorismo
provinciale di Faldella, ma anche la netta rivendicazione di
signorilità alto-borghese avanzata da Dossi e dai fratelli Boito.
Altra e propriamente letteraria è la consonanza che li affratella:
il comun denominatore risiede nel campo variopinto ma
concorde delle scelte compositive che definiscono il percorso
accidentato e nient'affatto lineare compiuto dalla civiltà del
romanzo nel nostro paese da Manzoni a Verga e De Roberto.
Questa ottica, delimitata da precisi confini temporali, posti al di
qua della soglia del Decadentismo e della crisi epistemologica di
fine secolo, ci aiuta a ritagliare una zona di produzione narrativa
non sfilacciata o troppo vaga. Possiamo allora specificare meglio
anche il termine a quo e chiarire i motivi di un'esclusione che
può apparire clamorosa e di un accantonamento altrettanto
sorprendente: nel nostro quadro non rientrano, e non solo per
motivi anagrafici, né Giuseppe Rovani (1818-1874) né Cletto
Arrighi (1828-1906).
A un romanzo di quest'ultimo, La scapigliatura e il 6
febbraio, è vero e lo abbiamo già ricordato, si deve il nome del
movimento; ma appunto nel titolo di un'opera, che traduce con
termine efficace il francese bohème, risiede la ragione prima e
unica dell'appartenenza di Arrighi alla narrativa propriamente
scapigliata.
Cletto Arrighi, pseudonimo di Carlo Righetti, ebbe meriti
indubbi come promotore di cultura: dall'impegno vivace e
appassionato della "Cronaca grigia" fino alla fondazione
dell'Accademia del Teatro Milanese (1869), la sua attività fece
di lui un potente catalizzatore di giovani energie intellettuali. La
dedica della Vita di Alberto Pisani è l'omaggio sincero di un di­
scepolo riconoscente: "A Cletto Arrighi, che primo s'accorse di
me" e Dossi coglie nel segno quando, con il consueto
narcisismo, afferma "La più bella opera dell'Arrighi fu il Dossi"
(N. A., n. 60). Fiancheggiatore e ammiratore dell'Arte nuova,
l'autore di Nanà a Milano (1880) non ne partecipò, tuttavia,
l'estro inventivo: i suoi libri sono così intrisi di qualunquismo
eclettico e dispersivo da offrirsi più come testimonianza di
spirito goliardico (Gli sposi non promessi, Gli amori degli
imbecilli, Il ventre di Milano, dove la metafora zoliana è,
gastronomicamente, presa alla lettera) che di autentica
immaginazione romanzesca. Anche quelle opere che meglio
restituiscono il clima di un'epoca, Gli ultimi coriandoli (1857) e
La canaglia felice (1885), appartengono all'area di un tardoromanticismo
estraneo
all'arrovellato
sperimentalismo
postunitario. Come suggerisce un giudizio sintetico di Bigazzi:
Arrighi "più che fra gli scapigliati è da inserire nell'ambito
risorgimentale degli anni garibaldini"9. Confratello di Arrighi
nell'arruffato poliformismo di generi e stili e nella versatile
intraprendenza editoriale, è Antonio Ghislanzoni (1824-1893).
Anch'egli sodale e "levatrice" di molti scapigliati, primo fra tutti
Tarchetti, fu contagiato dal clima bohémien. Ne saccheggiò
anche il campionario di situazioni balzane e paradossali
(Bizzarrie, Nuove Bizzarrie, Libro Bizzarro, Capricci letterari),
ma rimase sempre e solo un fecondo pubblicista, che intuite le
9
R. Bigazzi, I colori del vero, Nistri Lischi, Pisa 1978, p. 132.
potenzialità della "repubblica della carta sporca", alle sue leggi
seppe adeguarsi con fiuto audace e spavaldo10.
Più complesso il discorso critico su Giuseppe Rovani. La
maggior parte delle antologie e degli studi dedicati alla
Scapigliatura si apre con il suo ritratto. A fondamento della
"leggenda" c'è l'ammirazione incondizionata professata da Carlo
Dossi, le cui Note azzurre e il progetto della Rovaniana
contribuirono non poco a circonfondere l'autore dei Cento anni
di fascinosa aura bohémienne. Il brio accattivante delle sue
"lezioni all'aria aperta", la facondia oratoria sempre disposta a
rievocare gli "aneddoti sconosciutissimi" della cronaca cittadina,
il gusto per le provocazioni anti-accademiche, l'inclinazione
esibita per il vino e l'assenzio appartengono all'iconografia
scapigliata ormai di maniera. Di gran lunga più pertinente al
nostro quadro è, semmai, la volontà dichiarata da parte dei
giovani artisti di presceglierlo come Padre adottivo da
contrapporre a un altro Maestro, ben diversamente compassato e
equilibrato: il Manzoni dei Promessi sposi. Già; ma il confronto
polemico era efficace perché comune ai due scrittori era il
primato
concesso al componimento
misto
di storia e
10
E. Travi, L’operosa dimensione scapigliata di A. Ghislanzoni, in
“Otto/Novecento”, n. 5/6, settembre-dicembre 1980.
d'invenzione. Le suggestioni narrative che gli scapigliati
potevano attingere dalla trama frastagliata dei Cento anni erano
molteplici: lo squilibrio fra scenario storico e vicenda privata
corroborava l'interesse per l'intimità riposta; l'ordine digressivo
dell'intreccio propiziava la tecnica per "frammenti" e "schizzi ";
il dialogo fra narratore e lettore impostava un patto narrativo
cordialmente straniato; e soprattutto, come ha già ben
sottolineato
Nardi,
"il
liberarsi
dell'io"11
avvalorava
il
protagonismo egotistico a cui tutti i giovani artisti volevano dare
voce spiegata. E tuttavia questi suggerimenti in tanto
possedevano una carica di originalità feconda in quanto
deflagravano all'interno di una struttura compositiva regolata
dalle norme del romanzo storico: in forza di questa congerie di
motivi contraddittori, che corrodono intimamente il tradizionale
equilibrio del genere, i Cento anni occupano, insieme con il
capolavoro di Nievo, la sezione conclusiva della letteratura
romantico-risorgimentale. Fra i cinque tomi rovaniani, usciti fra
il 1859 e il 1864, e le "storielle vane" degli scapigliati, l'arco
11
Questo è il titolo del capitolo che apre la Scapigliatura. Da
Rovani a C. Dossi, Zanichelli, Bologna, 1924. Già E. Ghidetti,
nel suo importante Tarchetti e la Scapigliatura lombarda,
Libreria Scientifica, Napoli, 1968, ne contesta l’appartenenza al
gruppo.
temporale è breve, ma grande è la distanza artistico-intellettuale
che li separa.
Un'osservazione conclusiva, d'indole geografica, vale a
precisare ulteriormente i confini dell'esperienza letteraria della
Bohème italiana. Accanto al gruppo compatto degli scrittori
attivi sotto le guglie del Duomo, è ormai consuetudine critica
affiancare i nomi di autori appartenenti alla "scapigliatura
piemontese": Giovanni Faldella, Roberto Sacchetti, il poeta
Camerana, e poi Giovanni Cagna e Edoardo Calandra.
L'ipotesi, avanzata da Contini nell'introduzione di una
celebre antologia, Racconti della Scapigliatura piemontese
(Bompiani, Milano 1953, ma il saggio era già apparso nel 1947
su "Letteratura"), ha il merito di non limitare al capoluogo
lombardo il panorama dei fermenti innovatori che maturavano
nel paese appena unificato. Non c'è dubbio che gli intellettuali
raccolti inizialmente intorno alla Società torinese Dante
Alighieri (1863) e poi nella redazione della rivista "Serate
italiane" (1874-1878) ricavarono stimoli seri e importanti dalla
frequentazione degli autori ambrosiani. Se il sodalizio più fertile
si sviluppò entro la dimensione poetica grazie ai rapporti fra
Praga, Boito e Camerana, anche il campo narrativo mostra
interconnessioni significative. Il male dell’arte (1874) di
Faldella si affianca, non solo per assonanza di titolo, alla trilogia
tarchettiana
Amore
nell'arte
(1869)
e
i
cromatismi
espressionistici di certe Figurine (1875) sono foggiati sul
modello della prosa dossiana; i racconti di Sacchetti, d'altronde,
ben illuminano le modalità di composizione con cui vennero
concluse le Memorie del presbiterio che Praga aveva lasciato
interrotte. Ma siamo appunto nell'ambito ultra-tradizionale delle
affinità amicali e delle corrispondenze intertestuali che
l'universo letterario da sempre conosce. La chiave interpretativa
di Contini, tutta incentrata sulla cifra espressionistica, si rivela,
perciò, di grande acume, preziosa per l'analisi di alcune opere,
ma difficilmente utile per dare configurazione unitaria al gruppo
dei "cauti e costumati piemontesi". Sacchetti, "orientato", a parer
dello stesso critico, "verso l'impassibilità flaubertiana" 12 nei suoi
racconti e soprattutto nei romanzi Vecchio guscio e Entusiasmi si
muove nella zona, da noi così poco praticata, del realismo
critico, affatto estraneo alla cifra oscura del pastiche. D'altra
parte, l'attività artistica di Faldella, dopo l’esordio narrativo e i
reportages di viaggio, proseguì su cadenze diverse, lontane dalla
primitiva "violenza linguistica". La dichiarazione di poetica
"modesta" con cui introduce Tota Nerina,  "Mi basta di
12
G. Contini, Introduzione a Racconti della Scapigliatura piemontese, p. 10.
scrivere in modo decente e passabile cose da me sentite vere,
con intenzioni oneste" (Genesi di un romanzo giovanile, 1884)
 consuona ormai con l'"ufficialità medio borghese" di una
goffa età umbertina13. Come spesso capita, le etichette hanno una
valenza definitoria da non sottovalutare:
...non è forse un caso che, alla scapigliatura milanese, sia
stata poi affiancata una scapigliatura «piemontese». L'accento
posto sulla dimensione regionale del fenomeno, anziché su
quella propriamente cittadina, non si riferisce solo ai dati
anagrafici degli autori (...) Esso tocca, più intrinsecamente, le
coordinate di una letteratura che si costituisce, in prevalenza,
intorno ai poli di un'attrazione provinciale.14
Se il paradigma narrativo e stilistico della scapigliatura
fruttificò anche in altri autori (per esempio il Ghislanzoni dei
Racconti incredibili) e in altre zone, dal Cagna "esponente di un
13
A. Briganti, Introduzione a G. Faldella, Tota Nerina, Cappelli, Bologna
1972, p. 8.
14
G. Zaccaria, Il Piemonte e la Lombardia, in Storia e
geografia. III L'età contemporanea, LIE, a c. di A.
Asor Rosa, Einaudi, Torino 1989, p. 132.
espressionismo in rosa"15 al Calandra, i cui romanzi sono ormai
prossimi all'atmosfera fin de siècle, fino al genovese Zena,
influenzato soprattutto dalla coeva produzione verista, ciò
testimonia solo della ricchezza di suggestioni di cui s'era fatto
interprete il movimento; non altro. E' così anche per l'ulteriore
ampliamento proposto dalla critica, teso a raggruppare sotto le
insegne della "scapigliatura democratica" alcuni autori milanesi
attivi nell'ultimo ventennio del secolo: anche in questo caso
l'etichetta, mentre illumina i legami fra Valera Corio Tronconi
Cameroni e la prima generazione bohémienne, tende a
privilegiarne la specificità tutta "ideologica". Ma è, innanzitutto,
questa connotazione ad essere poco pertinente: non solo il clima
degli anni Ottanta è altro rispetto alla stagione immediatamente
postrisorgimentale, ma è veramente difficile accostare sotto la
stessa bandiera "politica" il socialismo anarchicheggiante del
"refrattario" Valera, il moderatismo illuminato di Corio, il
ribellismo pseudotrasgressivo del piccolo-borghese Tronconi. In
ambito propriamente letterario, poi, poco o nulla accomuna i
progetti difformi cui ciascuno di loro diede vita. Se Madri per
ridere o Passione maledetta di quest'ultimo appartengono alla
produzione melodrammatico-appendicistica che, nell'offesa alla
15
G. Contini, Introduzione, cit., p. 39.
morale benpensante, allestisce intrighi scandalosi, le inchieste
giornalistiche
nei "ventri cittadini" di Corio e Valera sono
dettate dallo spirito analitico del positivismo d'impianto
documentario e sociologico, alieno dal soggettivismo, fantastico
o umoristico, che sorregge la miglior narrativa scapigliata.
Persuasive sono, perciò, le conclusioni di Spera quando, al
termine del capitolo intitolato Percorsi e confini, afferma: "pare
azzardato fare rientrare costoro ancora nella Scapigliatura, pur se
ne conservano tratti specifici"16. Ampliare l'area della narrativa
scapigliata oltre le opere ideate dagli autori della generazione
crucciosa si rivela davvero fuorviante: alle soglie dell'età
umbertina, la tensione reattiva alla "prosa" della modernità
borghese, fonte originaria delle loro scelte tecnico-stilistiche, si è
ormai esaurita; nessuna eccentricità espressiva può recuperare
entro il tessuto della scrittura il pathos di uno sperimentalismo
che, germinato dai risentimenti etico-culturali della prima
stagione unitaria, trovò risonanza autentica nell'orizzonte d'attesa
della "città più città d'Italia".
16
F. Spera, La letteratura del disagio: Scapigliatura e dintorni,
in AA.VV., Storia della civiltà letteraria italiana, a c. di G.
Barberi Squarotti, vol. V, to. I, Utet, Torino 1994, p. 143.
Capitolo II  La Scapigliatura tra romanticismo e
positivismo
Il rifiuto della tradizione romantico-risorgimentale
Nella lettera che accompagna la Ballatella, indirizzata a
Cletto Arrighi, direttore della "Cronaca grigia", Boito si
presenta:
Noi scapigliati romantici in ira, alle regolari leggi del
Bello, prediligiamo i Quasimodi nelle nostre fantasticherie; ecco
la causa del mio ritornello. Se vuoi sapere anche lo scopo ti dirò
che non è filosofico, né politico, né religioso; ho voluto
semplicemente esercitarmi nella scabrosa rima in iccio (1
gennaio 1865).
Nella dichiarazione d'intenti si legge l'autoritratto di un
gruppo di letterati che rinviene la genesi della propria identità in
una
appassionata
paradossalmente
in
battaglia
nome
del
anti-romantica
principio
condotta
cardine
del
Romanticismo: l'autonomia della creazione artistica. Come
ricorda Hauser:
il Romanticismo che fiorisce dopo la Rivoluzione
rispecchia un nuovo senso del mondo e della vita, e matura
anzitutto una nuova interpretazione della libertà artistica (...)
Ogni espressione individuale è unica, insostituibile e ha in sé le
sue leggi e la sua misura17.
L'autodefinizione di "scapigliati romantici in ira" vuole
innanzitutto
rivendicare
all'"arte
dell'avvenire"
quell'indipendenza che il nostro Romanticismo aveva sottomesso
ad altri, più impegnativi valori eteronomi.
All'indomani del Congresso di Vienna (1815), il grande
sforzo di ammodernamento che aveva visto gli uomini del
"Conciliatore" schierarsi compatti contro la tradizione ormai
sclerotica dei classicisti aveva tratto linfa vitale non dal rifiuto
ma dalla consonanza con le idee della cultura illuministica dei
Verri e Beccaria. In piena Restaurazione, il progetto del "Caffè",
riaggiornato alla luce dello storicismo liberale, si era tradotto in
un "sistema" che, secondo una fonte massimamente attendibile,
17
A. Hauser, Storia sociale dell'arte, to. II, Einaudi, Torino 1956, p. 162.
era "un complesso d'idee più ragionevole, più ordinato, più
generale, che in nessun altro luogo" (A. Manzoni, lettera Sul
Romanticismo al Marchese Cesare D'Azeglio). La volontà di
entrare in sintonia solidale con le forze vive della società 
l'"esser coevi al secol suo" di Berchet  aveva promosso una
letteratura che tendeva a coniugare il rinnovamento delle forme
artistiche con la rinascita politico-morale della penisola. Sotto
l'oppressione
della
dominazione
austriaca,
ben
presto
"romantico" era diventato "sinonimo di liberale" (S. Pellico).
Rifiutate le "follie ultramontane", ricche di suggestioni
fantastiche e irrazionali, accantonate le ansie misticheggianti in
favore di una religiosità popolarmente attiva, il nostro
Romanticismo si era caratterizzato, nelle sue espressioni più
feconde, quale cultura dell'impegno. Opposte per orientamento
politico, scelte retoriche, opzioni linguistiche  appartenenti
alla scuola capeggiata dal Manzoni o al gruppo dei mazziniani,
secondo la famosa bipartizione desanctisiana  tutte, o quasi, le
opere in versi, in prosa, in musica della stagione risorgimentale
avevano concorso a dare coscienza di sé a un "volgo disperso
che nome non ha".
E' appunto contro questo complesso di idee "ragionevole,
ordinato e generale" che gli scapigliati si dichiarano "romantici
in ira". Boito e compagni in tanto proclamano la loro originalità
d'artisti
moderni,
in
quanto,
rigettata
l'accezione
"conciliatoristica", di quella cultura vogliono rilanciare i motivi
dell'individualismo
esacerbato,
i
timbri
misteriosamente
perturbanti, le note di maggior bizzarria.
Liquidato l'ordine della normativa classicheggiante  "le
regolari leggi del Bello",  la Presentazione della Ballatella
esibisce il nome di Quasimodo, l'anti-eroe victorughiano di
Notre-Dame de Paris (1831), per alludere subito a un clima e a
un gusto in cui dominano il deforme, il macabro, il terrificante:
"il Bello sta nell'orrido/nella Beltà è l'Orror" (Pinchetti, Poeta).
Ma la vera provocazione, e Boito ne è ben consapevole, risiede
nella rivendicazione esplicita dell'autonomia del fare letterario:
contro ogni finalità "filosofica, politica, religiosa"  e nella
terna d'aggettivi ben si sintetizza la produzione dei decenni
precedenti  l'"Arte reproba" predilige l'esercizio arduo che,
esaltando l'abilità tecnico-espressiva di chi la compone, pretende
d'essere giudicato iuxta propria principia (la rima in iccio). Per
dirla con le parole ancor più schiette di Camillo: l'arte "non è
tenuta insomma ad essere altro che arte"18.
18
Citato da M. C. Mazzi, Introduzione a C. Boito, Gite di un artista, p. VIII.
Il recupero scapigliato del maledettismo romantico, in
opposizione a Verdi e Manzoni, è stato spesso interpretato dalla
critica come spia di evasione regressiva: in realtà, denuncia la
consapevolezza moderna che il ceto intellettuale umanistico
cominciò a maturare della propria funzione all'indomani della
proclamazione dello Stato unitario.
Relegati in un ruolo subalterno da una classe dirigente
intenta ad affrontare i problemi prosaicamente assillanti della
compagine nazionale, ancor più emarginati dalle forze
imprenditoriali in ascesa, gli artisti della generazione crucciosa
si ribellano, come i primi Romantici europei, all'assetto
utilitaristico-borghese che la collettività italiana, massime in
terra ambrosiana, si avviava ad assumere. Lungi dall'esser "coevi
al secol loro", ostentano con orgoglio spavaldo l'inconciliabilità
dell'estro creativo con un sistema sociale che svilisce l'attività
intellettuale e deprime i valori disinteressati dell'arte. Insomma,
per dirla con il vecchio Marx, dopo l'acconsentimento alla
formazione dell'identità collettiva del popolo-nazione, ora la
letteratura
dà
voce
alle
recriminazioni
tipiche
dell'anticapitalismo romantico e l'io individuale, soprattutto se
dotato di fervore immaginoso, s'accampa con le sue inquietudini
e ossessioni al centro della scena.
La
protesta ideologica contro il "borghesume" dei
"banchieri" (Praga), contro "la folla dei merciai" (Bazzero,
Anima, p. 73) fu tanto più sincera quanto maggiore era il
radicamento di ogni ribelle in quell'universo socio-economico da
cui si sentiva snobbato e in cui avrebbe voluto svettare.
Rampolli di illustri famiglie lombarde (Dossi, Gualdo),
alto-borghesi di formazione internazionale (Camillo e Arrigo
Boito), figli di imprenditori (Praga), di notabili di paese
(Tarchetti, Bazzero) o di esponenti delle nuove professioni
liberali (Faldella, Sacchetti); tutti manifestarono risentimenti e
moti di estraneità nei confronti della classe d'appartenenza,
ormai ben insediata al potere; ma in nessuna delle loro opere è
possibile rintracciare un paradigma di valori, certezze,
sentimenti
autenticamente
antagonistico.
La
rivolta
"antiborghese" del gruppo storico degli Scapigliati  e
l'aggettivo si spreca nei saggi a loro dedicati  è tale solo se
interpretata alla luce delle pretese d'autonomia e di superiorità
rivendicate dalla letteratura moderna contro ogni impegno
d'efficacia
praticistica
e
soprattutto
contro
il
presunto
involgarimento di gusto che l'espansione dell'area d'utenza
"inevitabilmente" induce.
L’apertura ai modelli europei
Sulla spianata del berchettiano Cenisio davanti al
"sorriso interminabile della pianura padana", Cirillo, il
protagonista malato d'arte del primo racconto faldelliano, non
teme di affermare: "Ebbene io artista a poco a poco per la
schiena dei muli, per i sassi, per la muriccia dimenticai la mia
patria, l'Italia" (Il male dell’arte, p. 85). Anche la "Musa altera"
di Praga, pronta a vantare di non aver mai rivolto "un verso a
Bruto o a Cesare" (Alla Musa), può forse rimpiangere "i tempi
belli" del passato in cui, accanto al Manzoni, brillava la "falange
di sublimi esempi" di "Goethe, Foscolo...Porta" (Manzoni), ma
ormai sa che la stagione "olimpica" delle fedi certe e condivise è
irrecuperabile. La foga polemica dei "romantici in ira" si scaglia
proprio contro chi meglio di altri era riuscito nell'ardua impresa
di dialogare, in sintonia fraterna e senza mai rinnegare il
patrimonio illustre della tradizione, con il pubblico più ampio.
Nell'opposizione a Verdi e Manzoni, il maledettismo
scapigliato era reso ancor più esacerbato dalla consapevolezza
amara che il prestigio dei due maestri era vincolante ed
opprimente perché tutto intorno era vuoto e silenzio. Nel nostro
paese, il decennio seguito al fallimento dei moti quarantotteschi
e al crollo delle speranze legate all'insurrezione popolare era
occupato solo da detriti e macerie. I due romanzi che suggellano
la parabola della stagione preunitaria vi alludono con sconforto
acre: Carlino Altoviti comincia a scrivere le sue Confessioni "la
sera d'una grande sconfitta", fonte di "sgomenti" luttuosi: "la
rotta di Novara più che un improvviso scompiglio fu la dolorosa
conferma di lunghi timori"; sullo "spettacolo grandioso e
insieme angoscioso" della caduta di Venezia si chiudono i Cento
anni di Rovani. A questo rovinìo, politico e ideale, gli
intellettuali italiani non seppero reagire; il confronto con la
coeva letteratura europea mostra un quadro di povertà
sconcertante.
Entro il dominio della poesia imperversano i languorosi
lai di Prati e Aleardi, contro cui ben presto si sarebbe levata la
restaurazione del classicismo carducciano. Sullo sfondo, eccelsi
si stagliano i Canti di Leopardi; ma il poeta recanatese, seppur
talvolta orecchiato (Tarchetti, Camerana, Pinchetti) era troppo
lontano, isolato nella sua "poesia senza nome" (F. Brioschi), così
intrisa di materialismo illuminista e così radicalmente avversa
alla modernità dell'urbanesimo borghese da suscitare nei giovani
autori una reverenza ammirata non una consonanza emulativa.
Più accessibile, sebbene altrettanto infruttuoso, il campo
della produzione in prosa. Gli epigoni della scuola cattolicoliberale, quando non si rifugiavano nell'idillio campestre
(Carcano, Carrer, Percoto), si isterilivano, come Tommaseo nel
"piagnonismo antilaicista" (C. Muscetta) o, peggio, cadevano nel
reazionarismo bigotto alla Cantù, un "letterario ciabattino.
Forbice e colla, ecco il suo stile", secondo la perfida definizione
di Dossi (N. A., n. 486). Tutte scelte che ben giustificavano lo
sprezzo di Praga e Boito:
Se un uomo benedetto e privilegiato dalla natura, nacque
col misterio della fede nell'anima, e cantò soavemente i più
placidi canti, una torma di bertuccie dev'essa forse corrergli
dietro, e scimmieggiare ogni giorno colle zanche vellose il suo
segno di croce? (Programma, "Figaro", n. 1).
La domanda non solo era lecita ma resa ancor più attuale
dalla crisi irreversibile che l'atteggiamento antimodernista di Pio
IX  "fatal pontefice... mitrata putredine" (Praga, Spes unica)
 aveva aperto nelle schiere del cattolicesimo liberale. Sul
versante democratico, d'altronde, il panorama era, se possibile,
ancor più desolante: il modello letterario proposto da Guerrazzi
non era sopravvissuto alla catastrofe di quella parte politica. Le
vite romanzate sanciscono l'esaurimento della narrazione storica,
mentre i tentativi di romanzo d'ambiente regionale (Storia d'un
moscone, Torre di Nonza) e contemporaneo (Il buco nel muro),
lungi dal riaggiornare il filone sterniano, confermano lo scacco
immedicabile di una poetica sempre fedele all'antirealismo
melodrammatico. Lo sforzo di democratizzazione avviato dalla
prima generazione romantica, comunque schierata, si è risolto in
un esito complessivamente deludente: mentre il mercato
comincia a essere invaso dai feuilletons francesi, Bonghi si
chiede Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia
(1856). Dieci anni dopo, nel fatidico 1866, il diciassettenne
Dossi inizia la sua carriera sintetizzando in poche battute il
disincanto acrimonioso dei giovani ribelli:
Allontanatevi o venditori di libri futili, o perfidi
antiquari, o gente tutta che vivete ingannando, allontanatevi ché
vane son vostre parole, inutili vostre offerte.
I fortunati hanno spento ogni bernoccolo di manie e di
desiderii, Dio?, Patria?, Famiglia? che! entusiasmo? parola vuota
di senso. (Letterata e Beghina, in Due Racconti, p. 222)
In questo orizzonte culturale, che aveva già imbalsamato
Verdi e Manzoni come numi tutelari della nazione e non offriva
alcun modello alternativo, ai "nuovi romantici antiromantici" (A.
Romanò) non restava che recuperare l'ispirazione iniziale da cui
era scaturita, nel lontano 1816, la polemica contro i classicisti:
aprirsi all'Europa, guardare agli autori che per primi avevano
cercato di reagire, magari varcando la soglia dell'Ignoto e
dell'Arcano, alle contraddizioni e ai conflitti della modernità.
Nasce da quest'ansia sperimentale, in cui si mescolano motivi di
autentico scoramento e spunti di rivolta velleitaria, il culto che
gli scrittori della Scapigliatura professano per Hugo, Baudelaire,
Nerval, Gautier, Murger, Musset, Richter, Hoffman, Poe.
Gli studi meticolosi di Mariani e Ghidetti hanno messo in
chiara luce la filigrana variegata delle relazioni che le opere di
Tarchetti, Praga, Boito, Dossi intrattengono con la produzione
d'oltralpe; tutti i critici, anche i meno benevoli, ascrivono a
merito precipuo di questi autori lo slancio costante e generoso
con cui si sforzarono di sprovincializzare la nostra cultura,
malata di arretratezza e accademismo. Altrettanto unanime è il
riconoscimento dello scarto che separa i testi italiani dai grandi
modelli stranieri. E' facile esibire pose da maudit, frequentare i
paradisi artificiali delle droghe, atteggiarsi a ribelli indomiti; ben
più arduo è cogliere la sostanza intellettuale di cui tutto ciò
altrove si era nutrito. Non basta contestare i cardini dell'ordine
letterario costituito e magari adottare tecniche compositive
estrosamente eccentriche, quando poi se ne compensano le
spinte corrosive con il rifugio negli affetti domestici, il rimpianto
della serenità idillica, il ripiegamento intenerito sul proprio ego.
E tuttavia, la sproporzione fra l'encomiabile esterofilia che
anima gli Scapigliati e la realizzazione formale dei loro racconti
non va imputata, come troppo spesso hanno fatto gli studiosi,
unicamente
ad
insufficienze
individuali;
questi
letterati
operavano in un sistema culturale fragile, povero di idee e,
soprattutto, interagivano con un orizzonte d'attesa ristretto, in cui
la soglia dell'analfabetismo era paurosamente alta. Il censimento
del 1861 aveva registrato 14 milioni di analfabeti, pari al 74,7 %
della popolazione; a dieci anni di distanza, il tasso era sceso solo
di qualche punto, attestandosi al 68,8%.
Non si vuole affatto disconoscere che le opere
tarchettiane pecchino di ideologismo fumoso, che le polemiche
artistiche e musicali condotte sul "Figaro" da Boito e Praga siano
arruffate e confuse e che persino le note di riflessione poetica di
Dossi difettino di spessore teorico. Questa improvvisazione
intellettuale, che lascia segni vistosi entro la tramatura espressiva
dei singoli libri, si traduce anche in una congerie disordinata di
tentativi e esperimenti che spesso preludono al silenzio creativo.
Ma il fallimento e la dispersione, se pertengono alla
responsabilità individuale dell'autore, trovano inveramento in un
clima culturale asfittico e scialbo, dove i critici lamentavano
"l'invasione dei romanzi stranieri" e gli Amici pedanti del
Carducci, alle romanticherie malsane dei poeti "nani" e
"stracchi", sapevano solo opporre la vigoria solare del
Classicismo.
Calati pienamente in un'epoca "piena di aspirazione e
scoraggiamenti, che vede l'avvenire ma dubita di avere la forza
di raggiungerlo" (Gualdo, Il viaggio del duca Giorgio, p. 67), gli
artisti ribelli furono le prime vittime della loro irresolutezza: la
storia della narrativa scapigliata è intessuta di opere interrotte (Il
trapezio di A. Boito; Ugo, scena del secolo X di Bazzero), di
testi lasciati a mezzo e terminati dalla penna d'un amico (le
praghiane Memorie del presbiterio da Sacchetti, la tarchettiana
Fosca da Farina), di scritti pubblicati postumi (Storia di
un'anima di Bazzero; Entusiasmi di Sacchetti), di progetti solo
abbozzati (gli incipit romanzeschi di Tarchetti, il volume
boitiano di novelle intitolato Idee fisse, la serie dei Ritratti
umani di Dossi). I segnali di sofferta fedeltà alla tradizione e gli
indizi della titubanza innovatrice sono disseminati ovunque.
Tarchetti aggiunse a Igino il nome di Ugo, per infatuazione
foscoliana; alla morte del "Casto Poeta", Praga stende versi di
palinodia (Manzoni) all'irriverente Preludio del 1864; dopo la
condanna sprezzante della "formula" melodrammatica italiana,
Arrigo Boito diventa il librettista dell'ultime opere di Verdi,
Otello (1887) e Falstaff (1893); il fratello Camillo sottomette
una vena inventiva, davvero non comune, alla pratica ultraistituzionale di accademico e di critico d'arte ("il pesantissimo
masso ch'io mi sento legato ai piedi" 19; Gualdo scrive romanzi
direttamente "in francese, per non commettere  dice lui  de'
francesismi" (Sacchetti, La vita letteraria, p. 450); Bazzero
alterna freschi Acquerelli impressionistici ai cataloghi eruditi,
redatti con gli "occhialoni d'antiquario"; per concludere con il
rigoroso Dossi, il quale "poco più che ventenne si sopravvive
con sofferenza"20. Nello "stretto orizzonte" della cultura italiana,
dove la "povera fede" si misurava con "immensi ideali" (le
espressioni sono tratte dalla poesia boitiana A Giovanni
19
Lettera del 16 dicembre 1861 citata da P. Nardi in Vita di
Arrigo Boito, Mondadori, Milano, 1942, p. 96.
20
D. Isella, Introduzione a C. Dossi, Note azzurre, p. XII.
Camerana) il conflitto del singolo autore s'acuiva fino ad
abbracciare lo scenario collettivo.
"Ribelli, non rivoluzionari, municipalisti e cosmopoliti,
«poeti maledetti» col cuore ansioso di tenerezze, antiborghesi
nel rifiuto dello spirito pratico e utilitario, ma borghesissimi
nella
permanente
nostalgia
dell'idillio"21,
gli
scapigliati
peccarono per difetto non per eccesso di spregiudicatezza. La
sfida al gusto del lettore bempensante fu esplicita e spesso
irriverente, mai trasgressiva; il tono provocatorio nascondeva
spesso il richiamo alla funzione "etica" della scrittura artistica.
Se Tarchetti, nelle Idee minime sul romanzo, esalta "il fine
comune delle lettere, che è l'istruire e l'educare allettando" (to.
II, p. 522), il pastiche dossiano nasce dal riconoscimento che lo
scontro decisivo ormai è fra "due morali", come suona il titolo
del libro ideato da Alberto Pisani.
In questa modernità perplessa, in questo senso del limite
gli intellettuali scapigliati si scoprono in sotterranea sintonia con
la classe dirigente lombarda che, da poco salita sul proscenio
della storia, proclamava il primato della "capitale morale" in
nome non dell'ardimento speculativo o dell'audacia finanziaria
21
V. Spinazzola,
Gli scapigliati tra Manzoni e Verga,
introduzione ai Racconti della scapigliatura milanese, Club del
libro, Milano 1959, p. 7.
ma della eticità implicita nel lavoro produttivo. Così, mentre i
tecnici Luzzatti e Colombo celebravano la superiorità del
modello di sviluppo ambrosiano, fondato sull'equilibrio e il buon
senso, il ribelle Tarchetti riconosce Milano "dal lato del
benessere sociale la migliore città d'Italia" (lettera alla madre del
giugno 1864) e si dice contagiato dal suo spirito di sano
pragmatismo: "siamo diventati gente seria, gente positiva"
(Conversazioni, "L’Emporio pittoresco", 23-29 febbraio 1868
22
).
Da questo sfondo cittadino, in cui i progetti di espansione
economica attivano una dialettica d'antagonismo solidale con i
paradigmi intellettuali dell'élite artistica, prende vigore il
secondo paradosso culturale della Scapigliatura.
Contro l'ottimismo positivista
In una novella di Gualdo, lo scrittore Arnoldo D.
s'impegna a scrivere un racconto in una notte, mosso da un
"eccitamento non artistico" (la prospettiva di vincere la somma
22
I testi delle Conversazioni e dei Pensieri sono stati pubblicati, a
cura di F. Contorbia, negli Atti del Convegno di San Salvatore
Monferrato 1-3 ottobre 1976, pp. 289-339.
di cinquecentomila franchi) e fidando solo su "uno sforzo di
volontà". La lettera in cui spiega la ragione dello scacco
comincia contestando il cardine ideologico dell'ottimismo
positivo che animava i ceti borghesi della capitale morale:
"Dicono: volere è potere. E' falso." (Una scommessa, p. 188).
Collocato in un punto strategico, prossimo allo
scioglimento e affidato alla diretta voce del protagonista, il
richiamo alla dottrina di Smiles è il motivo di autentica
originalità
del
testo:
non
solo
conferisce
concretezza
all'argomentazione tradizionale sulla necessità dell'ispirazione e
dell'immedesimazione fra autore e personaggio, ma consente di
delineare l'inedita fisionomia del letterato scapigliato e le
modalità nuove in cui si svolge la sua pratica di scrittura.
Lungi dal ritenere la miseria fonte di felicità e d'estro
inventivo, convinto anzi che il suo ingegno "abbisognava per
espandersi di esser circondato dal benessere e dall'opulenza"
(ibidem), Arnoldo D. crede che il miraggio della ricchezza lo
aiuterà a superare ogni ostacolo: in una sola notte il racconto
"molto strano e dalla difficoltà poco comune" (p.181) sarà
terminato. Ecco perché il fallimento, "quella carta ostinatamente
bianca" (p.190), lo sospinge alla follia:
Io non ho potuto essere ricco, io che l'ho sempre sognato,
io che avrei avuto il genio se avessi avuto il metallo, che avrei
trovata la felicità se avessi fatto il racconto (p.188).
Ma appunto, come ammette amaramente nella lettera in
cui rievoca l'inconcludenza dei "febrili sforzi" notturni (p.189),
in arte volere non è potere.
La provocazione colpiva al petto i lettori d'allora, affatto
persuasi della bontà dell'ideologia volontaristica, messa a
fondamento non solo del modello economico ma dell'intero
ordinamento sociale e civile. Il libro di Smiles Self-help, apparso
nel 1859 e subito tradotto da Treves nella Biblioteca utile
(Milano 1865), aveva inaugurato un filone editoriale di grande
fortuna, in cui spicca il best-seller di Michele Lessona, intitolato
appunto Volere è potere (Barbera, Firenze 1869).
La novella di un autore da tutti ritenuto un dandy, alieno
da ogni assillo ideologico, appartenente alla cosiddetta
"scapigliatura dorata" (P. Nardi, G. Mariani, G. Spagnoletti),
coglie in realtà con acutezza il nodo dei problemi in cui si
dibattevano i giovani scrittori: "lo sforzo di volontà" (p.182,
p.183), che per il pubblico ambrosiano era fonte certa di
successo e ricchezza, è affatto inutile, anzi controproducente nel
campo della invenzione artistica, che sfugge alle norme
regolatrici dell'agire quotidiano.
L'esperimento, tale lo considerano i due scommettitori
("ch'io giunga a provarvi", "tentare la prova", "sarà provato
che"), fallisce perché sbagliato è il presupposto "positivistico" da
cui muove lo scrittore, nella discussione con il conte:
seppe quasi provarmi che tutta l'arte non è che un
meccanismo, che ogni cosa si può fare con certi elementi e che,
purché si faccia uno sforzo di volontà, qualunque momento è
buono. (p. 182)
Ma se Arnoldo D. perde la sfida, la scommessa che
Gualdo propone ai suoi lettori è, invece, vincente. La scrittura
narrativa confuta il fulcro dell'ideologia dominante che crede
all'onnipotenza della volontà, riducendo ogni ordine di realtà a
un "meccanismo", composto di "elementi": la letteratura non
rispetta le convenzioni della prassi operativa e tanto meno
sottostà alle leggi delle verifiche sperimentali.
Grazie alla novella dell'artista più snob del gruppo siamo
così giunti al secondo paradosso culturale della produzione
scapigliata: il recupero dell'oltranzismo romantico diventa lo
strumento privilegiato per declinare in forme irrazionali e
antirealistiche le sollecitazioni più moderne che provenivano
dalla cultura egemone in Europa: il positivismo, con la sua fede
nella scienza e nel divenire progressivo delle sorti umane.
L'esaltazione della libera fantasia creativa, l'appello alle
risorse
irrefrenabili
emotivamente
dell'ispirazione,
sbrigliato,
lo
l'elogio
sfoggio
della
dell'estro
"stranezze"
inspiegabili con i criteri del buon senso, sono i Leitmotiv che la
narrativa scapigliata si accanisce ad opporre al paradigma rigido
della filosofia del progresso organico e positivo, delle
classificazioni
sistematiche,
degli
studi
anatomici,
della
psicologia sperimentale, delle ricerche medico-fisiologiche che
stavano inondando l'intero continente. Nel contempo, proprio
l'apertura alle correnti europee più innovative corrobora il
dualismo caro alla poetica scapigliata, che nelle coppie scienzaarte,
salute-malattia,
ragione-follia,
calcolo-immaginazione
rinviene moduli inediti di rappresentazione e attinge stimoli per
provocazioni irriverenti.
All'indomani della vittoria del moto risorgimentale, e
tuttavia in presenza di gravi questioni sociali  il brigantaggio,
l'arretratezza delle regioni meridionali, i primi scioperi operai
nel Nord  anche l'Italia si lascia contagiare dall'ottimismo
operativo della nuova filosofia positivista che, soprattutto in
terra lombarda, si intreccia al volontarismo smilesiano per
sostenere lo slancio espansivo della classe borghese:
la filosofia positiva rinuncia, per ora, alla conoscenza
assoluta dell'uomo, anzi a tutte le conoscenze assolute, senza
però negare l’esistenza di ciò che ignora. Essa studia solo fatti e
leggi sociali e morali (...) Così non si ostina a studiare un uomo
astratto, fuori dallo spazio e dal tempo, composto solo di pure
categorie, e di vuote forme; ma un uomo vivente e reale,
mutabile per mille guise, agitato da mille passioni, limitato per
ogni dove, e pure pieno di aspirazioni all’infinito.23
Con questo articolo, pubblicato nel gennaio 1866 sul
"Politecnico" e ritenuto il manifesto del positivismo italiano,
Pasquale Villari invitava gli intellettuali del paese appena
unificato a dividere "i problemi solubili da quelli che per ora
sono insolubili", per potersi meglio occupare "solo dei primi".
Anche nel campo delle idee era ormai giunto il momento di
passare dalla "poesia alla prosa": ma ora, meno che mai, i nostri
23
P. Villari, La filosofia positiva e il metodo storico, in Saggi
critici di storia, letteratura, arte, filosofia, a c. di G. Bettelli, to.
II, Carabba, Lanciano 1919, pp. 39-40.
letterati sono disposti ad acconsentire alla svolta. L'iniziale,
immediata reazione del ceto umanistico all'avanzata della cultura
pragmatica si declina nelle forme dell'antagonismo e del senso di
rivalsa. Boito: "Scienza vattene/co' tuoi conforti!/Ridammi i
mondi/del sogno e l'anima!" (Lezione di anatomia); Bazzero:
"La scienza è vana" (Anima, p. 26). Solo negli anni Ottanta,
quando il positivismo avrà permeato di sé l'intero orizzonte
culturale, la letteratura modulerà la propria poetica in
connessione stretta con la nuova filosofia: durante la stagione
felice del verismo, il dialogo fra arte e scienza è tanto più
fecondo quanto maggiore è la tensione emulativa che sorregge
gli scrittori nel tentativo d'appropriarsi strumenti d'indagine
rigorosamente obiettivi. Ebbene, negli anni Sessanta, al primo
arrivo in Italia delle teorie materialistiche e davanti al successo
dei libri di fisiologia e medicina, la narrativa scapigliata opera
esattamente in senso contrario: scende in armi per opporre il
fervore immaginoso al "linguaggio crudele del notomista e del
clinico" (Memorie del presbiterio, p. 122); al timbro asettico del
narratore-scienziato predilige sempre l'egocentrismo esibito
dell'io narrante. Con un'immediata e decisiva conseguenza
compositiva: nessuna volontà di rappresentazione realistica
sorregge la scrittura dei nostri autori, anzi. Anche e proprio
l'articolo programmatico Polemica letteraria, apparso sul
"Figaro" nel 1864, letto da alcuni critici come dichiarazione di
poetica
mimetica,
non
lascia
dubbi
sull'orientamento
eminentemente protestatario cui si riduce la parola d'ordine del
realismo: l'arte nuova "sarà un'arte malata, vaneggiante, al dire
di molti, un'arte di decadenza, di barocchismo, di razionalismo,
di realismo, ed ecco finalmente la parola sputata". Certamente,
la battaglia contro la raffigurazione edulcorata della realtà e
contro le convenzioni del sentimentalismo tardo-romantico
spinge tutti gli autori bohémiens a avviare un allargamento del
repertorio tematico di indubbia rilevanza; per osteggiare la
"scuola piagnosa e biliosa del povero cuore che parla di dolori,
di disinganni, di aspirazioni colle sdolcinatezze a l'acqua di rosa"
(Praga, "Figaro" 14 gennaio), la rudezza scandalosa di immagini
bassamente volgari era strumento facile di dissacrazione
antiaccademica. Tuttavia il sistema dei moduli tecnico-espressivi
non conosce un rinnovamento adeguato nella direzione del
criticismo moderno, della rappresentazione seria del "tragico
quotidiano". In una recensione pittorica, pubblicata sul
"Pungolo", Praga ribadisce: "realismo sì, ma realismo che ci fa
battere il cuore, che ci fa pensare, ricordare, sognare", in sintonia
con la considerazione del materialismo quale linguaggio capace
di sedurre "coll'apparenza di una generosa, eroica ribellione
contro l'autorità dell'universo" (Memorie del presbiterio, p. 136).
E d'altra parte, proprio nell'incontro-scontro con le
certezze positive, con i metodi dell'algida ragione, la narrativa
scapigliata rinviene i motivi di originalità autentica.
Il conflitto arte-scienza
La polemica reazione alla "squallida aritmetica del fatto"
(Pinchetti) deriva, innanzitutto, dalla consapevolezza inquieta
che i giovani letterati maturano dell'appannamento progressivo
del loro ruolo sociale. Già emarginati entro la sfera delle
decisioni politiche, spiazzati dalla logica economica del
"mercato delle lettere", gli artisti intuiscono che la società
borghese in via di sviluppo valorizza innanzitutto le competenze
"utili" dei tecnici, scienziati, medici, relegando in un ruolo
subalterno i cultori del Bello disinteressato: "il nostro salmo il
secolo/delle
macchine
annoia"
(Praga,
Spes
unica).
A
galvanizzarne l'empito contestatore è il clima "positivo" che sta
sempre più pervadendo la "repubblica della carta sporca", di cui
i letterati pretendono di detenere il primato indiscusso. In questi
anni, anche gli editori s'adeguano al nuovo orizzonte culturale e
puntano con decisione all'ampliamento delle collane nelle aree
disciplinari di maggior fortuna: secondo le tabelle di Ragone, nel
decennio 1861-1872, la produzione di libri scientifici ha un
incremento eccezionale passando da 210 a 956 testi. Treves, per
il quale "la scienza è il centro di gravità del nuovo repertorio" 24,
lancia con successo le Conversazioni scientifiche (1865-1874);
Sonzogno prevede nella "Biblioteca del popolo" (15 centesimi al
volume) sezioni dedicate a "anatomia", "chimica e fisica",
"fisiologia", "igiene", "scienze esatte". Mentre Hoepli e Vallardi
sfruttano la fama già consolidata in campo tecnico per proporre
opuscoli e manualetti d'alta divulgazione, anche un editore
tradizionale
come
Brigola
rinnova il
proprio catalogo,
pubblicando L. Büchner Forza e materia, J. Moleschott La
circolazione della vita, e soprattutto le opere di un giovane
medico, Paolo Mantegazza: Un giorno a Madera esce lo stesso
anno, 1868, in cui esordiscono Gualdo con le Novelle, Dossi con
L'Altrieri e Tarchetti conosce il periodo di maggior produttività.
Il recupero scapigliato del patrimonio di temi e figure
caro all'oltranzismo romantico acquista allora timbri di ben più
energica attualità: nella rivendicazione dell'autonomia artistica e
24
G. Ragone, op. cit., p. 727.
nell'esaltazione della fantasia inventiva, la scrittura letteraria
cerca di difendere lo spazio di riflessione e di rappresentazione
del mondo contemporaneo che la scienza tende sempre più ad
occupare. Cosicché se giustamente "è difficile pensare ad una
diretta influenza del Positivismo sulla Scapigliatura"25, ancor più
arduo è misconoscere l'impatto della mentalità empiricomaterialistica presso i ribelli della Bohème ambrosiana.
I nostri autori forse non conobbero i libri di Comte,
Spencer, Darwin, anche se L'origine della specie venne subito
tradotta da Canestrini (Modena 1864), ma certo percepirono le
sollecitazioni conturbanti di una cultura che stava modificando
le gerarchie del sapere e i parametri del senso comune.
Manifesta è l'affinità che lega il ritratto dell'artista in delirio, al
centro di moltissime opere scapigliate, alla fisionomia dell'uomo
eccezionale tracciata da Cesare Lombroso in Genio e follia
(Chiusi, Milano 1864) e non stupisce che proprio al medico
scienziato il nevrotico Dossi abbia inviato la propria
Autodiagnosi quotidiana (ora a c. di L. Barile, Scheiwiller,
Milano 1984). Altrettanto palese la trama di risonanze dei nuovi
linguaggi scientifici o pseudo-tali che le opere scapigliate fanno
25
R. Tessari, La Scapigliatura. Un'avanguardia artistica nella
civiltà preindustriale, Paravia, Torino 1975, p. 38.
a gara nell'esibire: dallo spiritismo al magnetismo, dal
messmerismo e l'ipnotismo alla patologia diagnostica, le
citazioni più o meno sfiziose si sprecano e la recente bibliografia
critica (V. Roda, A. M. Cavalli Pasini) ne ha ormai indagato le
lontane ascendenze. Tuttavia, più interessante della ricerca delle
fonti e delle interconnessioni tematiche, è l'analisi della strategia
modellizzante con cui gli scrittori scapigliati declinano materiali
e figure tratte dal campo delle materie positive. Per un verso,
infatti, essi tendono ad acquisirle alla loro dimensione
irrazionale, avvolgendo i personaggi dediti alle nuove discipline
entro un alone di sacralità arcana. In Un corpo di C. Boito,
l'anatomista Gulz, quando celebra la "figura della Scienza" a cui
tutti "dobbiamo inchinarci e adorare", assume "una espressione
solenne e mistica", degna di un "sacerdote" (p. 36). Nella Vita di
Alberto Pisani il raccontino dedicato al Mago, lo zio del
protagonista che dagli studi medici aveva unicamente ricavato
una maledetta ipocondria ("E in quella, per paura di morte,
morì" p. 163), mostra i procedimenti di trasfigurazione cui è
sottoposta la figura dello scienziato Paolo Gorini, a conferma
che per Dossi la scienza, lungi dal dare solide certezze, "dubita"
(N. A., n. 2739). Anche Tarchetti quanto più ostenta attenzione
per l'indagine clinica, tanto più esalta le tensioni fantastico-
misteriose, vera fonte del suo estro creativo. Nei racconti, il
prologo che sottolinea la "stranezza" del caso, introduce subito il
lettore
nel clima vaneggiante di una narrazione che, affatto
estranea agli "studi analitici" o ai "documenti umani", punta a
esplorare l'unica dimensione di realtà davvero autonoma e alla
quale ha accesso solo l'intuito eccezionale dell'artista: "il mondo
pauroso dell'incomprensibile e del soprannaturale" (I fatali, to.
II, p. 18).
L'altra tecnica compositiva, grazie a cui i letterati
scapigliati riplasmano il conflitto fra arte e scienza, cala
direttamente il dualismo entro la trama del racconto, generando
un testo che nel parallelismo rinviene il suo criterio privilegiato.
Il sistema dei personaggi si divarica: da una parte il
rappresentante della scienza esatta, che si affida alla "vista",
dall'altro l'uomo della contemplazione, che si perde in remote
"visioni"
(L’alfier
nero).
Le
strutture
spazio-temporali
conoscono un'analoga scissione: alle gelide stanze anatomiche si
contrappongono le mansarde degli artisti illuminate dai caldi
raggi di sole (Un corpo).
Questo testo apre l'edizione in volume delle Storielle
vane: la scelta di Camillo, incurante dell'ordine cronologico di
stesura dei racconti, offre una prima chiave interpretativa del
dualismo scapigliato. La novella, apparsa nel '70 sulla "Nuova
Antologia", mette in scena lo scontro tra l'io narrante, pittore, e
l'anatomista Gulz: la posta in gioco è il corpo splendido della
modella Carlotta. L'antagonismo che sorregge la storiella di
Boito è rivelatore perché il fulcro della narrazione non è l'ideale
freddo della Bellezza parnassiana, ma il fascino seducente di un
corpo femminile. Nella raffigurazione del supremo oggetto del
desiderio maschile acquista risalto la declinazione particolare
che l'opposizione scienza-arte assume nella stagione scapigliata
e ci spiega la ragione dell'affollamento di dottori e clinici nella
produzione di questo quindicennio: persino i primi Ritratti
umani di Dossi nascono dal "calamajo di un medico".
Ancora debole il dominio delle macchine e degli
strumenti tecnologici, è ad una disciplina di frontiera fra i due
campi del sapere che la cultura positivista affida una posizione
egemone: la medicina, appunto. Sulla stessa rivista in cui Boito
pubblica Un corpo, pochi anni dopo si poteva leggere un articolo
a firma dell'autore dei Fondamenti della patologia analitica,
Maurizio Bufalini:
colla riforma del metodo scientifico si intrinseca pur
quella dell'essere morale degli uomini e di tutta la civile
convivenza di essi; la direi quasi una vera redenzione
dell'umanità dalle secolari sue calamità.26
Dotato da sempre del "prestigio e della funzione sociale"
tipica dell'intellettuale tradizionale,27 nell'Italia unita, il medico
possiede competenze tecnico-scientifiche decisive per assolvere
un ruolo professionale di primo piano: a lui spetta il compito di
risolvere "in laboratorio" le gravi questioni aperte dallo sviluppo
economico-sociale, senza mai dimenticare che il suo potere
abbraccia i poli ultimi dell'esistenza umana, salute e malattia,
anima e corpo, eros e thanatos.
Come ci ricorda il racconto di Boito, il conflitto fra arte e
scienza è tanto più aspro quanto più al centro della contesa è il
dominio dell'eros femminile. L'intellettuale per eccellenza della
società borghese dovrà non solo debellare i mali terribili indotti
dall'urbanesimo industriale ma anche e soprattutto prevenire i
contagi che promanano da una sessualità che l'emancipazione
femminile rende minacciosa. E tuttavia, nessun clinico potrà mai
26
M. Bufalini, Sul metodo scientifico sperimentale, in "Nuova
Antologia", vol. XXV, 1874. Sulla raffigurazione romanzesca
delle figure mediche si veda il recente L. Avellini, Il
professionista verosimile, in Storia d'Italia. I Professionisti,
Annali 10, Einaudi, Torino 1996, pp. 678-685.
27
A. Gramsci, Quaderni del carcere, a c. di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975,
to. II, p. 846.
comprendere e tanto meno curare l'isteria di Fosca, cogliere la
genesi della "macchia grigia" che oscura l'iride del narratore
protagonista della storiella vana di C. Boito, trovare nel
"sangue" la causa del mutismo che ha colpito il saggio Yao (A.
Boito, Il trapezio), o aiutare la sfuggente Rosilde nelle Memorie
del presbiterio e la cieca visionaria Krimilth (Sacchetti, Da uno
spiraglio). Analogamente, nessun medico saprà aprire il "pugno
chiuso" di Paw vivo (A. Boito), spiegare la paranoia che detta la
tarchettiana Lettera U, "concepire l'orrenda mutilazione" di un
arto (Storia di una gamba), rompere il delirio in cui si è rifugiato
Zaverio di Candaule. Solo "la forza della ispirazione" (L'alfier
nero) o l'"ebbrezza dell'immaginazione" (Fosca), di cui gli artisti
sono i primi e privilegiati detentori, potrà darne conto.
Contro la marcia trionfale degli uomini di scienza, si fa
avanti, allora, la serie, altrettanto ricca e variegata, dei creatori
eccelsi in tutti i campi artistici. Nel timore ansioso del
misconoscimento intellettuale e professionale, i nostri autori
riaffermano, attraverso l'autorappresentazione di sé e dei propri
rovelli espressivi, il prestigio dell'uomo di lettere e compensano
la paventata perdita d'aura: ad essi spetta il merito di aver dato
avvio, anche nel nostro paese, al sottogenere del Künstlerroman,
appunto il "ritratto d'artista". Ai protagonisti tormentati delle
loro opere gli scapigliati affidano il compito di ricordare al
pubblico della "capitale morale" che nessun primato è possibile
se si sviliscono i valori disinteressati della libera fantasia
creativa.
Capitolo III - Il pubblico degli Scapigliati
Dal "noi" di Manzoni all'"io sol io" di Dossi
Il noi di Manzoni vale io e il lettore, il noi di Rovani
vale io ancor io  ché, vale per due  l'io di Dossi vale per
l'io sol io. (N. A., n. 2271)
ovvero:
Manzoni dice le cose sue, come il lettore vuole 
Rovani, come il lettore non vuole  Dossi parla per suo conto.
(N. A., n. 2305)
La filigrana di confronti a tre, che si dipana nel tessuto
a pachtwork delle Note azzurre, delinea con brillantezza la
parabola compiuta dalla civiltà romanzesca nel nostro paese,
dall'impegnato esordio in età romantico-risorgimentale al
primo momento di crisi, testimoniato dagli scrittori della
"generazione crucciosa". Il dialogo confidenziale che il
narratore dei Promessi sposi apriva con la ampia "parte del
pubblico, non letterata né illetterata" (Sul Romanticismo) era
sfumato, nei Cento anni, in una "schermaglia fra l'autore e i
suoi lettori, fatta di botte e risposte, di aggressività e
compiacenza, di adesione e rifiuto".28 Ora, nella stagione
postunitaria, la sfida abbandona il gusto dell'ammiccamento
complice, per acquistare i toni della polemica conflittuale,
talvolta della provocazione irridente. Il modello dell'"Hypocrite
lecteur,  mon semblable,  mon frère", cui sono rivolti Les
fleurs du mal, fa scuola pur semplificandosi molto: i versi della
poesia maledetta sono "cantati" per un "nemico lettor",
"fratello" in pianto (Praga, Preludio).
Nel
"microscopico
Parigi
della
Lombardia",
la
ristrutturazione del sistema editoriale, la creazione di una rete
di riviste e periodici che affiancano la stampa quotidiana,
l'avvio
di
una
politica
scolastica
tesa
a
combattere
l'analfabetismo diffuso, tutto ciò interagisce con i processi
espansivi dell'urbanesimo e dello sviluppo economico per
favorire la formazione di una vivace "opinione pubblica", voce
della moderna società civile. L'ampliamento delle fasce di
utenza e la commercializzazione del prodotto librario,
28
L. Amabilino, Alcune riflessioni sulla tipologia del lettore in
Rovani e Dossi, in AA. VV., Scrittore e lettore nella società di
massa, Lint, Trieste 1991, p. 258.
nondimeno, aprono una frattura fra l'élite intellettuale e la
massa dei potenziali fruitori: i "venticinque lettori" del
Manzoni sono diventati "un vero pubblico" (Sacchetti) dai
lineamenti sfuocati e incerti. Se l'autore di Entusiasmi fu tra i
pochi a credere che "il poter misurarsi col giudizio" dei più
"preserva dalle divagazioni solitarie, dagli smarrimenti che
avviliscono" (La vita letteraria, pp.434-5), la reazione degli
altri scapigliati fu improntata a moti di arroccamento difensivo
e risentito, simili a quelli che tanta parte dell'intellettualità
aveva già manifestato in Europa all'inizio del secolo XIX:
romantici e postromantici non si sottomettono più al
gusto e alle richieste di alcun gruppo, sempre pronti ad
appellarsi contro il giudizio di un foro a un altro foro. C'è una
continua tensione, un'eterna polemica fra il pubblico e l'opera
loro (...) sì che rimane distrutta ogni continuità di rapporti fra il
pubblico e l'arte.29
L'"eroica fatica" di trascrivere dal dilavato manoscritto
una "bella storia", cui corrispondeva un'analoga "fatica di
leggere" (I promessi sposi), creava un'intesa fra il narratore e i
suoi interlocutori fondata su una somma di valori estetici,
29
A. Hauser, op. cit., p. 163.
morali e politici largamente condivisi. Come ricorda Camillo
Boito, l'arte "dianzi era un bisogno comune, si potrebbe dire
politico",30 ora, invece, "l'accordo sincero fra il pubblico e gli
artefici è svanito" (C. Boito, La Mostra nazionale di Belle arti,
in Gite di un artista, p. 345). Anche la pratica letteraria ha
assunto i caratteri della professionalità, economicamente
determinata: davanti a un'utenza di cui ignora le articolazioni
interne, i gusti culturali, la stessa fisionomia etico-ideologica,
l'artista è in bilico fra due strategie comunicative opposte: o
sperimentare moduli dialogici volti a soddisfare le attese
indifferenziate del pubblico medio, di recente formazione
(l'esempio più clamoroso di questi anni fu Salvatore Farina,
l'amico di Tarchetti che terminò Fosca) oppure coltivare, nella
solitudine narcisistica, l'autonomia di un estro, tanto più
autentico quanto meno sottomesso alle richieste del mercato.
Dossi, per il quale "il letterato che non scrive pei pochi
è letterato di ben poco valore" (N. A., n. 4847), non risparmia
condanne feroci contro la "sùbita popolarità" che il
"pubblicaccio" decreta a libri stesi con "goffaggine" e senza
ingegno. Bazzero, nel ricordo della "riuscita" di Tarchetti si
30
Citato da M. C. Mazzi, Introduzione, cit., p. XII.
domanda: "Oh e il pubblico? Il pubblico? Il pubblico che legge
l'anima nostra e non la capisce ci sprezza, e fa il pettegolezzo"
(Anima, p. 69). Praga, i cui versi non piacciono alla "gente che
calcola e che conta" ma a quella "che fantastica e che sente",
(Arrighi "Cronaca grigia", 20 gennaio 1867), ne spiega la
ragione in un componimento dal titolo esemplare Il poeta alla
folla: "io sono il poeta voi siete i merciai!". Ancor più
manifestamente classista suona la riprovazione lanciata da
Arrigo Boito contro la potenziale fruizione di massa di prodotti
d'eccelso valore estetico:
che un popolo grasso e materiale debba giungere un
giorno a scuoprire i sublimi misteri dell'ultime opere di
Beethoven, è tale un'idea da non mi dar pace né tregua.
(Cronaca musicale parigina, "Perseveranza" 2 marzo 1862, in
Tutti gli scritti, to. II, p. 1071)
Più chiari di così non si può essere, e ancor oggi molti
sottoscriverebbero. La sola ipotesi che un'opera d'arte
raggiunga la cerchia più vasta dei non intenditori spaventa il
musicista-poeta, a ulteriore conferma dei connotati di difesa
reattiva che il movimento scapigliato esibisce davanti alle
prime dinamiche di un sistema culturale in fase espansiva.
E tuttavia, lo snobismo aristocratico di Dossi o dei
fratelli Boito non solo si scontra con la fiducia ottimistica di
Sacchetti o con la pratica di scrittura appendicistica di
Tarchetti, ma soprattutto si trova a interagire con i meccanismi
del consenso che, attivati dalle "officine della letteratura",
caricano
lo
statuto
professionale
dell'artista
di
fertili
contraddizioni.
Questa Bohème di prìncipi del pensiero, che hanno
l'aria di amare l'incognito, ha una grande ansietà, anzi un
bisogno assiduo e continuo della pubblica attenzione
(Sacchetti, La vita letteraria, p.435)
Se Praga confessa ingenuamente "Io bacerei chi mi
loda", Tarchetti, dopo aver lamentato "Oh, i letterati fanno
cattivi affari davvero!", sfrutta le opportunità del mercato
editoriale con disinvolta spregiudicatezza. Non è certo un caso
che i protagonisti della trilogia Amore nell'arte, per quanto
"artisti maledetti" e prossimi alla follia, conoscano uno
strepitoso successo di critica e di pubblico: Lorenzo Alviati,
Riccardo Waitzen, Bouvard non raggiungono la felicità, ma
sperimentano, tutti, la condizione di "benessere e opulenza"
agognata da Arnoldo D., lo scrittore della novella di Gualdo,
già ricordata. Persino
il piccolo savoiardo, il povero suonatore di gironda, era
divenuto un giovane elegante, un artista ricercato, l'elemento
morale di quelle grandi riunioni: l'eletta società si contendeva
Bouvard come il genio vivente dell'arte (Bouvard, to. I, p. 640).
Anche gli autori più propensi a ostentare un disinteresse
sovrano nei confronti dei desideri del lettore comune, vengono
colti da sussulti di perplessità autocritica. Nel prologo di una
figurina, Faldella imputa il rifiuto di pubblicare a "quel
miscuglio di orgoglio e di viltà, che ingombra l'animo di
coloro, i quali non hanno peranco rotto il ghiaccio con il
pubblico." (Galline bianche e galline nere, p. 24); Gualdo, "il
romanziere gran signore, che non pensa a ricavar guadagni dal
suo lavoro per l'invidiabile ragione che ha da vivere del suo"
(Sacchetti, La vita letteraria, p. 450), raffigura in un suo
personaggio "la felicità del lavoro compreso e ricompensato,
dell'ingegno apprezzato al suo valore" (La gran rivale, p. 43);
da parte sua, il "geroglifico" Dossi, in una delle prime Note
azzurre, esclama: "O gente che scrivete per non essere capita,
non sarebbe assai meglio taceste!" (N. A., n. 17), e nel
Preambolo steso per l'epistolario denuncia la propria costante
ansia di consenso:
Sì  lo confesso a voce alta  io non scrissi mai una
riga, franca dal desiderio o dalla paura che il Pubblico non la
vedesse stampata.31
Con consapevolezza lucida, nelle sue rassegne d'arte,
Camillo Boito mette a fuoco la nuova contraddittoria dialettica
fra domanda e offerta:
la scarsità e la gretteria delle allogazioni e degli
acquisti, avvilendo l'artefice in una lunga povertà, irritandogli
l'animo nella furia dei desideri, delle invidie e delle maldicenze
(...) sono causa dall'una parte di questa impotenza, dall'altra di
questa prostituzione dell'arte.32
31
Citato da A. Saccone, C. Dossi. La scrittura del margine, Liguori, Napoli
1995, p. 107.
32
Citato da M. C. Mazzi, Introduzione, cit., p. XV.
In effetti, all'origine dello sperimentalismo arrovellato
dei narratori scapigliati vi è un progetto confuso e talvolta
equivoco, ma sorretto da una grande ambizione, estranea al
radicalismo trasgressivo.
All'indomani di una svolta storico-politica di enorme
rilevanza
e
davanti
alla
riorganizzazione
complessiva
dell'orizzonte d'attesa, la funzione primaria che i giovani ribelli
assegnano alla letteratura è di galvanizzare la coscienza critica
del ceto dirigente, ancora fragile e immatura, fors'anche
aiutarne la formazione, in nome dei principi di una moralità
spregiudicata e anticonformista, degni di una classe borghese
davvero europea. A quella società civile milanese che, pur
avendo alimentato i grandi entusiasmi risorgimentali, non si
riconosce nella forma istituzionale assunta dallo Stato unitario
e si vanta d'essere all'avanguardia del paese, i letterati
scapigliati si rivolgono elettivamente, nella speranza di avviare
un'ardua inusuale collaborazione.
Crollate le certezze "olimpicamente" condivise, occorre
impostare una strategia comunicativa duttilmente selettiva: per
un verso, le cadenze dell'umorismo straniante e dell'eccentricità
fantastica puntano a sintonizzarsi con il pubblico emergente,
signorilmente colto e raffinato; per l'altro, l'asprezza dei toni e
dei temi serve a prendere le distanze dal perbenismo del
"borghesume" ottuso e triviale, raffigurato esemplarmente nel
"negoziante di candele arricchito" (Gualdo, La villa d'Ostellio
in Racconti lombardi dell'ultimo '800, p. 67). Un simile
impegnativo disegno, che intendeva ritagliare all'interno dei
ceti medi urbani una utenza ideale composta dalla borghesia
illuminata, si rivelerà ben presto velleitario e perdente, ma, nel
primo quindicennio unitario, aveva una sua non disprezzabile
credibilità: gli intellettuali umanisti vogliono diventare la guida
coscienziale di una collettività dominata dai valori del
pragmatismo utilitario.
L'espressionismo stilistico di Dossi, l'autore più
coerente del gruppo, lievita non solo grazie al luddismo antieditoriale che lo spinge a stampare in proprio le poche copie
numerate dell'Altrieri e della Vita: più forte e potente c'è
l'avvertimento penoso della propria "limitatezza" espressiva a
fronte dei modelli impareggiabili del recente passato:
Stia certo il lettore che, se di un'oncia soltanto della
lìmpida mente e dell'amàbile filosofìa di Alessandro Manzoni o
del sicuro ànimo e dell'ampio umorismo di Giuseppe Rovani
avessi potuto disporre, non mi sarèi contentato di fare il
geroglìfico Dossi. (Màrgine alla «Desinenza in A», p. 680)
Sollecitata dal paragone non con la tradizione
romantico-risorgimentale ma con il successo delle opere
naturaliste, un'osservazione di Camillo Boito riecheggia note
non dissimili:
La parte del lettore si è andata via via restringendo: è
diventato completamente passivo. Il romanzo vi sminuzza, vi
trita la verità, in modo che non rimane oramai nulla da
aggiungervi di proprio. (...) E la mente del lettore, vedendo il
dramma innanzi tutto intero, così ben definito in ogni parte, in
ogni minuzia si sente persuasa e convinta, ma affranta (...) il
lettore prova una certa inconsapevole compiacenza nel mettere
qualcosa di suo in un'opera d'arte: l'opera s'immedesima in lui;
finisce per amarla come una parte di sé medesimo (La mostra
nazionale, in Gite di un artista, pp. 341-3).
Per l'autore di Senso, la narrativa d'orientamento
verista, fondata sull'oggettivismo impersonale, punta alla
"mortificazione della fantasia del lettore" (ibidem), rinunciando
così a quella sfida a tutto campo fra io narrante e io leggente
che è il fulcro della miglior letteratura scapigliata.
Ed ecco, allora, affiorare dai nostri testi un'altra galleria
di figure che affianca e completa la serie dei "ritratti d'artista":
sono le immagini del lettore cui ogni singola opera si rivolge,
in un dinamico processo di cooperazione critica.
La sfida al lettore
L'abile gioco rifrangente con cui Carlo Dossi costruisce
la Vita di Alberto Pisani lascia emergere una prima preziosa
indicazione di lettura: "in un romanzo", chi scrive
si apre ingenuamente a ogni frase. Ben sott'inteso, che
chi si ha una pàgina innanzi, abbia acùta la vista, legga
nell'interlìnee, facoltà di pochissimi. (p.182)
Ancora una dichiarazione di poetica aristocraticissima,
e insieme di sintonia amicale, visto che subito dopo sono
richiamati i "due leggitori" elettivi, Cletto Arrighi e Luigi
Perelli. Chiedere di individuare "nelle interlinee" il profilo
autentico dell'autore significa, tuttavia, attivare una strategia
fruitiva altamente concorrenziale, in cui l'io leggente mette a
prova tutte le sue facoltà intellettuali e immaginative.
Il tarchettiano Un osso di morto ha un incipit
esemplare:
Lascio a chi mi legge l'apprezzamento del fatto
inesplicabile che sto per raccontare.(to. II, p. 65)
Con un analogo invito alla collaborazione fantasmatica
si apre L'alfier nero di Arrigo Boito:
Chi sa giuocare a scacchi prenda una scacchiera, la
disponga in bell'ordine davanti a sé ed immagini ciò che sto per
descrivere.
Immagini... (p. 397)
L'allocuzione diretta rende il lettore partecipe in prima
persona del duplice gioco, contemporaneamente la partita a
scacchi fra Tom e Anderssen e la finzione letteraria, a cui il
narratore si appresta a dare inizio.
Il fratello Camillo non è da meno nel coinvolgimento
complice: il racconto d'esordio, Baciale 'l piede e la man bella
e bianca, esibisce sin dal titolo il gusto delle risonanze
intertestuali (da Petrarca a Sterne, da Orazio e Giovenale a
Montaigne) su cui si articola la rete fitta di battute fra il
protagonista narratore, il lettore competente, il lettore ingenuo.
Nel III capitolo, Dove l'autore rivide il suo petrarchino,
assistiamo a un dialogo teatralizzato fra l'io narrante, il
"pedagogo" erudito "che ha studiato i sinonimi del Tommaseo"
(p. 111), e il "lettore meno aguzzo" pronto a "bere grosso" (p.
112).
Siamo qui, ovviamente, nell'area scapigliata in cui si
espande con maggior forza dissolvente l'"effetto Sterne", come
suona il titolo di un libro recente dedicato alla narrativa
umoristica italiana.33
Una nota azzurra dossiana, riecheggiando passi famosi
del Tristan Shandy, recita:
Le idee sottintese fanno sì che il lettore, tutto contento
di indovinarlo, pigli interesse al libro e gli paja di averci messo
33
AA. VV., Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia da
Foscolo a Pirandello, Nistri Lischi, Pisa 1990.
mano egli stesso. Egli lo scrive, per così dire, leggendolo. (N.
A., n. 2173)
Una simile pratica, d'impianto umoristico, se vale a
ridurre i moti d'appassionamento, produce entro la trama
compositiva dei testi un "effetto" ben più rilevante: la chiamata
in causa del lettore e la messa a fuoco dei meccanismi che
regolano l'atto di lettura.
Nel momento in cui anche nel nostro paese comincia a
costituirsi un pubblico potenzialmente ampio, dai lineamenti
anonimi e incerti, gli scrittori tendono a precisare il loro
orizzonte d'attesa, abbozzando all'interno delle loro opere
l'identità del fruitore elettivo. Con quanta maggior precisione
l'autore personalizza la figura dell'io narrante e ne individua i
connotati specifici, con altrettanto scrupolo schizza la
fisionomia del destinatario cui è diretto il messaggio.
Una scommessa di Gualdo, avviata con un fatico
"ecco", esemplifica in sommo grado la relazione dialogica fra i
due interlocutori modernamente atteggiati: da una parte lo
scrittore Arnoldo D., "giovane di straordinario ingegno", dal
carattere "vivace e variabile" e con una "vita poco regolare",
incline a "affogare le noie nella ubriachezza" (p. 178), dibattuto
fra poetica romantica e nuove concezioni d'arte, pronto a
misurarsi con i tempi stretti cui deve sottostare ormai anche
l'attività letteraria. Dall'altra parte, il conte Sotowski, il
committente-destinatario,
"favolosamente
ricco,
affatto
indipendente" (p. 176), dotato di buona competenza letteraria
("munito delle sue stesse armi" p. 182), disposto a offrire non
solo "parole di incoraggiamento" (p. 180), ma occasioni per
ottenere fama e agiatezza. La "segreta e quasi magnetica
simpatia" che scocca fra i due poggia su una sotterranea
colleganza intellettuale. Come ricorda il conte:
Il genio, sotto qualunque forma si mostri, è sempre stato
per me un oggetto d'ammirazione e le opere della fantasia altrui
hanno sempre potentemente eccitata la mia. (ibidem)
Proprio
la
reciproca
eccitazione
delle
risorse
immaginative, pur se diversamente orientate, rende possibile la
scommessa; la posta in gioco è alta per entrambi. Per l'autore
che accetta la sfida il rischio è massimo: davanti a una pagina
"ostinatamente bianca" (p. 190) è in agguato la "perdita della
ragione" e, peggio, il silenzio. La drammatizzazione del
fallimento creativo, d'altra parte, vincola la responsabilità di
colui che ha sollecitato la prova: la generosità mecenatesca,
mista a orgoglio narcisista ["gongolava a mia volta (bisogna
che lo confessi) all'idea di aver fatto una cosa che certo non si
fa tutti i giorni" p. 184], quando viene frustrata, induce "una
mestizia mista al rimorso" che richiede l'atto liberatorio del
racconto-confessione.
Con la novella di Gualdo, davvero ricca di spunti finora
ignorati, siamo entrati in quella dimensione del testo, occupata
dalla figura del lettore fittizio, il "narratario", secondo la
terminologia tecnica offerta dalla narratologia, particolarmente
utile nel caso della produzione scapigliata. E' su questo piano,
infatti, che possiamo cominciare a misurare il percorso
compiuto dalla nostra civiltà romanzesca nel mezzo secolo che
separa I promessi sposi dalle Storielle vane.
Innanzitutto, al "narratario di gruppo"  i "venticinque
lettori" del capolavoro manzoniano, i "giovani frementi" dei
romanzi storici guerrazziani, ma anche gli "amici lettori" delle
Confessioni nieviane  gli autori della Bohème sostituiscono
la relazione privilegiata con un io leggente individuo,
personificazione di un lettore colto e competente. I singoli
racconti ben testimoniano il passaggio dal "noi" di Manzoni,
proiezione dell'ampio pubblico di cui si voleva forgiare la
coscienza nazionale, all'"io sol io" di Dossi, che delimita l'area
ristretta degli "addetti ai lavori". Il lettore che "sa giuocare a
scacchi", cui è rivolto L’alfier nero, non è molto dissimile dal
conte Sotowski della Scommessa o dal "discreto lettore" di
Baciale 'l piede.
Anche quando il narratore passa dal singolare al plurale
 "Lettori miei; conterò intanto una storia" (Vita di Alberto
Pisani, p. 143); "Io vorrei che la vostra curiosità, lettori"
(Memorie del presbiterio, p. 70)  le clausole suonano così
generiche da vanificare l'individuazione specifica di un gruppo
coeso; anzi, la parodia discreta degli stereotipi della scrittura
romanzesca avvalora l'ipotesi che quel "narratario" collettivo
sia formato sempre e comunque da pochi intenditori:
Se adesso poi io vi presento questo Daniele come un
marmocchio costruito coi gòmiti, con un viso da tromba, non
crediate già che lo faccia per convenzione, per quella brutta
ruffiana che t'imbastisce in quattro agugliate un lavoro (Dossi,
L'Altrieri, p. 493).
ho giudicata la lettera di Cirillo, come si dice,
interessante anche per voi, ed ho arbitrato di parteciparvela.
Ma ora, riflettendoci su, temo non abbia a farvi effetto, perché
voi quegli occhi non li avete visti. Ad ogni modo, poiché
l'esordio è fatto, eccovi il pistolone narrativo. (Faldella, Il male
dell'arte, p. 59).
Insomma, per dirla con le parole sempre illuminanti di
Dossi: quando il narratore parla al plurale "allude sempre ai
non irosi e non disattenti lettori, cioè ai pochi", perché
"l'applauso della moltitudine scompare colle mani che l'hanno
prodotto e anche prima" (Màrgine, p.683) e "sogghignano"
all'arte gli "uomini d'esperienza panciuti e i giovinetti che
hanno la mantenuta e le femmine eleganti che, oltre il francese,
sanno leggere l'italiano!" (Bazzero, Anima, p. 70).
Anche nei testi di Tarchetti, in cui la tensione
dialogante risente maggiormente dei condizionamenti imposti
dalla sede di pubblicazione  "immaginai (...) l'interesse che
ne avrebbe destato la pubblicazione sopra questo periodico"
(Un suicidio all'inglese, to. I, pp. 88-9) , è difficile cogliere
nel "voi" la raffigurazione di un pubblico omogeneo:
l'alternanza fra le particelle pronominali della seconda persona
plurale ("Vi voglio raccontare la mia vita", La lettera U, to. I,
p. 59; "no, miei lettori (...) io vi esporrò il mio racconto", Re
per ventiquattrore, to. I, p. 204) e il pronome indefinito ("A chi
mi legge il giudizio", Storia di un ideale, to. II, p. 92) non
consente di definire un orizzonte d'attesa preciso. Tutt'al più,
l'appello ad una utenza collettiva è connesso alla vis polemica
implicita nel pamphlet antimilitarista, Una nobile follia, o nel
"romanzo sociale" Paolina. Anche in questo caso, nondimeno,
il narratore si premura di delimitare l'area del "voi" al gruppo
dei "mansueti, che si appagarono nel fervore delle loro passioni
della sola conquista di un cuore", ben diversi dai più "che
hanno già messo il piede nell'arena, e vi hanno conquistate
molte vittime" (Paolina, to. I, p. 254).
Le
citazioni
si
potrebbero
moltiplicare,
magari
allineando le sfumature più diverse delle clausole fatiche
("Cioè, scusatemi (...) Oh non sapete? Bene, ascoltatemi,
fanciulle mie", Bazzero, Riflesso azzurro, p. 12, "Vi ricordate?
Se sì, voi, miei lettori" Vita di Alberto Pisani, p. 123);
ricapitolando
la
gamma
varia
delle
connotazioni
che
circoscrivono il ritratto dell'io leggente ("Onesto", "avveduto",
C. Boito, Baciale; le "lettrici sensibili e amanti dei colpi di
fulmine", Gualdo, La gran rivale; "il lettore discreto",
Tarchetti, Un suicidio all'inglese); fino a mettere in luce l'abile
disseminazione di artifici convenzionali, tanto più ostentati
quanto maggiore è la volontà di ribaltarli: "Quale vi sembra lo
scioglimento più probabile?" (Gualdo, Il viaggio del duca
Giorgio); "in ciò non s'ha da immischiare il lettore. E' un
privilegio che la fortuna accorda esclusivamente ai romanzieri"
(Tarchetti, Un suicidio all'inglese).
Forse, per tracciare i confini di questo circuito amicale
basterebbe fermarsi sulla soglia del racconto, dove la cornice
paratestuale dichiara il nome dei diretti destinatari. Le lettere
dedicatorie: Memorie del presbiterio a Antonio Galateo; Un
suicidio
all’inglese
a
Alessandro
Appia;
Paolina
a
Ghislanzoni, lo stesso a cui Praga indirizza Schizzi a penna. Le
innumerevoli epigrafi: Dossi, Vita di Alberto Pisani a Cletto
Arrighi, La desinenza in A a Tranquillo Cremona; Faldella, Il
male dell'arte a Luigi Muggio, cofondatore del "Velocipide",
Rovine a Cagna, tutte le dodici Figurine a amici e compagni
d'arte, dai più noti, Galateo Camerana Molineri Giacosa
Sacchetti Farina, agli sconosciuti L. Egidio Nicetti, "dilettante
valente di letteratura" o il Maestro Giuseppe Coggiola "autore
di buoni sillabari e primi libri di lettura". Per chiudere al
declinar del secolo, con Decadenza (1892) di Gualdo dedicato
ad Arrigo Boito.
Questo patrimonio di tipologie relazionali costituisce
una delle eredità più feconde trasmesse dalla narrativa
scapigliata agli scrittori delle generazioni future, dal Verga di
Eva al D'Annunzio dell'"ideal libro di prosa moderna" (Trionfo
della morte), per giungere alle pirandelliane "premesse quasi
filosofiche" del bibliotecario Mattia Pascal o al Prologo a firma
Dottor S. del diario sveviano di Zeno Cosini. Grazie alle
modulazioni che il patto narrativo assume nelle diverse opere,
è possibile tracciare una sorta di parabola ideale della
morfologia dialogica esperita dagli autori scapigliati, a
conferma non solo della varietà dei progetti, ma anche della
ricchezza contraddittoria del movimento. Dalle note rifrangenti
dell'aristocraticismo intellettuale, ricco di risentimento etico in
Dossi,
più
mondanamente
cosmopolita
in
Gualdo,
giornalisticamente brillante in Faldella, si trapassa ai toni
signorili dei fratelli Boito, declinati con ironico eclettismo in
Camillo, inclini al funambolismo eccentrico in Arrigo. Più
oltre, l'invito partecipativo anticonvenzionale sperimentato
nelle "memorie" appendicistiche di Praga si affianca ai timbri
tarchettiani
dell'appassionamento
melodrammatico,
per
confluire, infine, nelle cadenze dell'oggettivismo realistico di
marca flaubertiana care a Sacchetti, che segnano il limite
estremo dell'area bohémienne.
Il dialogo con la "migliore società"
Il ritratto del conte Sotowski ben raffigura il
destinatario ideale delle Novelle di Gualdo, il suo libro più
propriamente scapigliato. Eccezionalmente benestante, sempre
in viaggio (tutti i personaggi gualdiani vorticano per le capitali
europee), appartiene alla fascia degli happy few di stendhaliana
memoria, usciti "dalla società più alta, o dalla più intelligente,
o dalla più divertente (dalla migliore insomma in qualunque
senso si voglia prendere la parola)" (Il viaggio del duca
Giorgio, p. 63). E' il bel mondo frequentato appunto dalla
nobiltà colta, la cui eleganza raffinata è "incomprensibile per
qualunque arricchito da ieri" (p. 64), dove si può incontrare
l'invidiabile coppia della Gran rivale e ammirare lo splendore
fascinoso di Narcisa. Questo lettore collezionista d'arte, in
grado di apprezzare i richiami innumerevoli ai capolavori
d'ogni epoca, pronto a cogliere le citazioni virgolettate o solo
alluse, acquista la sua fisionomia precisa in opposizione al
ritratto del marito di Emilia, l'amante del poeta Alberto:
O*** era un negoziante di seta, ricco di un millione,
generoso, divertente nel suo insieme (...) Rideva di un riso
forte, spontaneo, volgare; amava le donne, i cavalli prussianoinglesi e i romanzi di Ponson du Terrail, del resto un buon
diavolo (La gran rivale, p.8).
Il riferimento esplicito al celebre scrittore d'appendici
vale non solo a identificare in negativo la cerchia vasta
dell'utenza popolare, ma a precisare le coordinate dell'orizzonte
d'attesa delle opere di Gualdo.
"Fine e profondo conoscitore del mondo cosmopolita", 34
l'autore di Narcisa già fissa nella tendenza all'uniformità un
carattere tipico della società moderna: "le comunicazioni rapide
del telegrafo e del vapore hanno tolto ogni marcata
individualità di nazione" (Il viaggio del duca Giorgio, p. 77).
Se questo processo omologante favorisce la diffusione dei
feuilletons, letti con avidità anche dal pubblico italiano, un
movimento analogo e contrario percorre il campo della
34
G. Rovetta, Appendice a L. Gualdo, Romanzi e novelle, p. 1232.
produzione alta, fruita internazionalmente da tutti i lettori
competenti e anticonformisti. Ecco perché è indifferente
pubblicare a Milano o a Parigi: anzi, meglio seguire l'esempio
dell'amico di Alberto, un giovane letterato, "il cui primo
romanzo, scritto in italiano, venne letto da diciassette persone"
e che quindi "si decise all'orrendo misfatto di scrivere il
secondo in francese" (La gran rivale, p. 42). Esattamente come
Gualdo, che dopo il volume di Novelle e il primo romanzo
Costanza Girardi (Treves, Milano 1871), pubblica Une
ressemblance e Un mariage excentrique direttamente presso un
editore d'oltralpe (Lemerre, 1874 e 1879). Parigi non è solo "il
paese dove i buoni scrittori possono guadagnare trecentomila
franchi con un libro" (ibidem), è la capitale di quella
intellighenzia
europea
che
ha
sostituito
alle
barriere
geografiche confini precisi di gusto e di classe. La scelta
gualdiana di passare alla lingua francese, allora, se certo risentì
della frequentazione assidua dei salotti alla moda, con ben più
forza fu determinata dal rifiuto della limitata provincia italiana.
Come e meglio di altri, l'autore della Gran rivale,
riaggiorna, in chiave di aristocraticità laicamente moderna, il
profilo cosmopolita che caratterizza, secondo Gramsci, la
maggior parte dei nostri intellettuali, prossimi più al gusto dei
colleghi stranieri che al sentire comune del cittadino medio. A
sorreggere la scrittura di questo pendolare di lusso, tuttavia,
non è solo la predilezione snobistica per la sensibilità
parnassiana e predecadente; sulle sue narrazioni un po' blasé
egli "proietta sempre l'ombra della rovina, il raggio cupo d'una
notte di morte e di distruzione"35. L'insicurezza espressiva,
tipicamente scapigliata, che lo tormentò per tutta la vita, si
rifrange sulle cadenze dialogiche, virandole sui toni dello
sconforto amaro: non solo il privilegio di godere delle più
eccelse forme d'arte non consente evasioni consolatrici, perché
"di bellezza si muore" (Narcisa), ma ogni cedimento al
conformismo deve essere combattuto con ironia. La carica
umoristica, allora, più che verso i lettori simili al negoziante di
seta, signor O***, troppo rozzo per gustare l'arte nuova, va
rivolta a chi, interno alla cerchia selezionata degli addetti,
assume pose e comportamenti "eccessivi". Mosso da un vivace
spirito autocritico, il narratore di Allucinazione si fa gioco dei
suoi stessi amici bohémiens: Guglielmo è un musicista "strano"
che, diviso fra il "lavoro volgare" di copiatura di spartiti e
l'"estasi artistica" del creatore (p. 194), dà letteralmente fuori di
35
M. Guglielminetti, L. Gualdo: uno scrittore senza stile?, in "Sigma", n. 6,
giugno 1965.
matto. Questa volta però la "monomania" non solo non produce
il capolavoro, ("più la sua musica si faceva banale, più egli ne
andava orgoglioso" pp. 203-4), ma lo induce a sposare la vicina
di casa povera e brutta, "sempre sdegnata". La conclusione
suona parodia dei tanti geni scapigliati che cercano l'"amore
nell'arte":
Guglielmo, calmo, ordinato, curato maternamente dalla
povera amante era tranquillo e sereno sebbene sempre
allucinato.
L'amico, ch'era un po' filosofo, pensò che il migliore
augurio che si possa far loro, e il lettore s'associerà certo a lui,
è ch'egli abbia a ritrovare il suo ingegno e anche a guarire 
ma non del tutto. ( p. 206).
Non siamo molto lontani dal tono ironico con cui Dossi
termina la Vita di Alberto Pisani, dove il suicidio del
protagonista "sul desiato corpo" della donna amata replica la
morte del tarchettiano Bouvard. Eppure, se per i suoi tratti di
snobismo intellettuale e esistenziale il pubblico ideale di
Gualdo può essere avvicinato ai pochi lettori "sovrani
dell'intelligenza" che omaggiano Dossi, è utile segnalare la
distanza profonda che separa i due progetti di scrittura.
Spregiatori feroci dell'involgarimento diffuso dalla mentalità
affaristico-commerciale, entrambi sognano un interlocutore
capace di cogliere, anche nei libri, "non l'eleganza del ricco, ma
del signore" (Vita, p. 215). Al pari di Gualdo, anche Dossi
percepisce, con apprensione ansiosa, il mutamento epocale
avviato dallo sviluppo tecnologico e dalla circolazione larga di
merci e di idee:
I mercati del mondo (in gergo ufficiale «Stati»)
gràvitano a fòndersi in uno solo. Si và a tutto vapore, e già può
dirsi a tutto elèttrico, verso il comunismo più equo e la più
disordinata anarchìa. (Màrgine, p.677)
A chi si vanta di essere in arte "«la distilleria della
quintessenza»" nulla di più odioso dello "sgabello della
mediocrità". E tuttavia, mentre il narratore gualdiano adotta la
koiné "anonima" e "salottiera" (G. Spagnoletti, C. Bo) della
"conversazione sociale" (M. Guglielminetti), il sofisticato
pastiche dossiano germina in terra lombarda e si alimenta dei
timbri dell'espressionismo esacerbato. I suoi lettori sono
"pochi, uno anche, purché siano degni, a loro volta di lode"
(Màrgine), ma quella lode può meritarla solo chi, abitando
entro la cerchia dei Navigli, è problematicamente coinvolto
nelle dinamiche della cultura cittadina. L'orizzonte d'attesa
della "capitale morale" è il vero reagente della prosa dossiana:
non solo, come annota Isella, per la fedeltà dello scapigliato
alla tradizione letteraria autoctona (da Maggi a Porta, da
Manzoni
a
Rovani),
ma
anche
e
soprattutto
per
l'interconnessione profonda che la sua opera instaura con la
mentalità ambrosiana. Come ben suggerisce un erede diretto
dell'espressionismo di Dossi:
Però, sotto sotto, quel tragico spasimo: quel conflitto
implacabile fra le due anime della Lombardia  illuminismo
cosmopolita
e
scientificizzante,
delirante
romanticismo
melodrammatico  ostinatamente riproposto dal tormentoso
Genius Loci in un assordante contesto di «lavurà» e «danè» a
ogni successiva generazione letteraria, fino a diventare una
costante antropologica milanese.36
36
A. Arbasino, Nota introduttiva, a C. Dossi, Vita di Alberto Pisani, Einaudi,
Torino 1976, p. IX.
Elemento cardine di questa "costante antropologica
milanese", di cui Gadda è l'esponente più alto, è il risentimento
acre
che
muove
lo
scrittore
davanti
allo
scenario
fascinosamente perturbante offerto dai nuovi costumi urbani.
Nato dalla "densità di idee", il discorso "avviluppato" vuol
essere per l'autore dell'Altrieri, come sarà per Gadda, un segno
di rispetto verso chi legge:
perocché sempre mi parve atto di letterarietà disonesta
quello di véndere al pùbblico, per libri scritti, volumi di carta
tinta d'insignificante inchiostro (Màrgine, p. 678).
Lo
riconosce
anche
Croce,
in
un
"ritratto"
simpatizzante:
Ha dunque violato le convenzioni letterarie per non
violare sé stesso; e quella violazione non è effetto d'indisciplina
e di sciatteria, ma di coscienza: non è libertinaggio ma rigore.37
L'"intreccio fra il mio e l'animo dei lettori" (Màrgine, p.
682) a cui Dossi dichiara di tenere massimamente, si avvia non
37
B. Croce, La letteratura della Nuova Italia, vol. III, Bari Laterza 1943, p.
204.
grazie agli strumenti dell'appassionamento ruffiano, ma in
forza di un patto narrativo emulativo-concorrenziale:
Uno stile che fosse una rotaja inoliata sarebbe la
perdizione de' libri mièi. Uno invece a viluppi, ad intoppi a
tranelli, obbligando il lettore a procèder guardingo e a sostare
di tempo in tempo (...) segnala cose che una lettura veloce
nasconderebbe (...) In altre parole, dall'addentellato di una
fàbbrica
letteraria,
egli
trae
invito
e
possibilità
di
appoggiàrvene contro un'altra  la sua  e, da lettore mutàtosi
in collaboratore, è naturalmente condotto ad amar l'òpera altrùi
diventata propria. (Màrgine, pp. 680-1)
La poetica dossiana postula un io leggente così
"scaltrito" da trasformare il processo di lettura in ingegnosa
fatica creativa, così competente da sciogliere tutti i "calappi"
sottesi al racconto e diventare l'alter-ego dell'io narrante38.
L'Altrieri si apre con un'evocazione dei "miei dolci
ricordi" che avvalora "l'io sol io" della nota azzurra; il libro, se
per un verso è indirizzato ai pochi sodali per i quali è stato
38
G. Rosa, Dal conforto esemplare alla vendetta, in AA. VV.,
Scrittore e lettore nella società di massa, op. cit., p. 48.
pubblicato in edizione numerata, dall'altro si riavvolge su se
stesso, recuperando il filo diretto con gli "amati ricordi". Nella
prima edizione, l'invito finale suonava ancor più equivoco:
Oh i miei amati ricordi, éccovi. Mentre di fuori (...) qui,
un mucchio di crepitanti marroni or or spadellati, forma il
centro del cìrcolo... Compagni miei, novelliamo (p. 7).
Altrettanto sternianamente autoriflessa è la relazione
dialogica che sorregge la Vita di Alberto Pisani, dove lo
sdoppiamento fra il narratore Carlo Dossi e il personaggio
Alberto Pisani rimodella, neanche troppo nascostamente,
l'identità completa dell'autore reale, Alberto Carlo Pisani Dossi.
Le istruzioni per l'uso offerte dal prologo sono eloquenti: il
racconto, iniziando col quarto capitolo, non solo stravolge la
linearità dell'intreccio, ma immette il lettore subito in medias
res e queste res sono appunto i volumi della biblioteca
d'Alberto. Il confronto immediato fra due opposti mondi di
carta completa la sua fisionomia: abbandonato "lo studio degli
studi", dove "tutto è tarlato ed ammuffito", il giovane ripara
nello "studiolo, bellino e luminoso", rallegrato da "pochi" ma
"vivissimi" libri (p. 85), fra cui il prediletto, La vita nova. La
vicenda del "nostro bimbo-in-cilindro" (p. 219) si svolgerà,
allora,
tutta
all'insegna
della
più
raffinata
letterarietà
stilnovistica, nel cui omaggio al "cor gentile" si riconoscono i
lettori elettivi. A costoro, tuttavia, Alberto non porge né liriche
amorose né storie sentimentali, ma un volume dal titolo
impegnativo Le due morali.
sul teatro del mondo, le morali son due (tutto è doppio
del resto). Ed una è l'officiale, in guardinfante e parrucca, a
tiro-a-sei, coi battistrada e i lacchè, annunziata da tutti i
tamburri e gli zùfoli della città; l'altra è... ma in verità, non tien
nome... è una morale pedina, in gonnelluccia di tela, alla quale
ben pochi làscian la dritta (...) E la prima ha per sè, tutto quel
che di leggi, glosse, trattati, fu fabricato e si fàbrica, fiume a
letto incostante, roba in cui sguàzzano i topi e le tarme; l'altra,
nudo e puro il buonsenso, eternamente uno. (p. 217)
I vari raccontini inseriti, che costituiscono il secondo
livello narrativo della Vita, lungi dall'essere solo parodiche
sperimentazioni stilistiche, come la critica li ha finora
interpretati (D. Isella, F. Spera, F. Tancini), compongono un
frammentato ma ben definito sistema di principi etico-civili,
improntati a quel "nudo e puro buon senso" che, cardine dei
Promessi sposi, era diventato la parola d'ordine della "capitale
morale". Va da sé che Dossi lo declina in perfetta coerenza con
i dettami propri alla "quintessenza della distilleria" esistenziale.
Consegnato alla voce saggia di nonna Giacinta il
compito di dare l'addio definitivo sia ai "tempi tristissimi"
dell'aristocrazia retriva (Il codino) sia alla stagione violenta
della volgare "malattia rivoluzionaria" (Isolina), i capitoli del
libro di Alberto propongono le norme "pedine" di una moralità
illuministicamente orientata. In consonanza implicita con lo
spirito "borghese-utopico" (S. Timpanaro) di cui aveva dato
prova l'Holbach nel saggio intitolato appunto al Buon Senso
(1772), Dossi invita i pochi lettori "degni di lode" a seguire
l'istinto naturale dell'io e ad abbandonarsi alla libera effusione
degli affetti senza temere superstiziosamente le "pene
infernali". Agli anatemi di un prete bigotto e morboso il
narratore risponde con un suggerimento di tutt'altro tono: "O
giovinette, peccate!" (p. 175), giacchè "la cosiddetta virtù del
pudore" è "virtù cara ai deformi, sempre posticcia, figlia e
madre ad un tempo della libìdine" (p. 137).
Beninteso una simile morale, laica ("Dio, il sordomuto
eterno" p. 229), spregiudicata a tal punto da preferire unioni
antistituzionali al matrimonio (La maestrina d'inglese) e da
consentire adulteri (Le due morali) e incesti (Odio amoroso),
così audace da sbeffeggiare le premure miopi dei genitori
(Prima e dopo) e il sacro amor materno (Una fanciulla che
muore), non solo privilegia il campo separato delle relazioni
private, fuori dai vincoli della collettività sociale e politica, ma
presuppone seguaci dotati di quella urbanitas
che non si
apprende perché si ha in dote cromosomica. Il "buon senso",
affatto opposto al senso comune, è la virtù difficile degli
anticonformisti che sanno coltivare con signorilità impavida il
"coraggio della verità" (Holbach). Estranea all'involgarimento
corrotto e corruttore dell'aristocrazia in disfacimento, ben
raffigurata nell'"infrollito" marchese Andalò; sprezzante della
nomea nobiliare acquistata grazie agli intrallazzi affaristici ("i
signori baroni Del-Bue. Non han fatt'altro che trasportare
l'insegna dalla bottega al calesso" p. 135), orgogliosamente
incurante della grettezza "gnocca" della piccola-borghesia
dedita ai commerci (Le caramelle), la cerchia del pubblico
elettivo si restringe di molto, forse davvero si limita a quei
"pochi, uno soltanto" in grado di apprezzare la provocazione
trasgressiva sempre sottesa alla letteratura espressionistica:
un'élite, magari capeggiata dagli "scrittori novellini", cui è
dedicata la seconda edizione dell'Altrieri (1881). Già, appunto:
l'ipotetico lettore di simili opere, "probabilmente ne scrive, non
ne legge. Ed ecco la gran ragione degli insuccessi del Dossi"
(N. A., n. 4806).
In effetti, subito dopo il prezioso dittico  "Fanciullo,
scrissi d'infanzia e vi offersi L'Altrieri; adolescente, di
adolescenza e vi diedi l'Alberto Pisani" (Màrgine, p. 674)  la
ricchezza inventiva del pastiche comincia a venir meno.
Dell'ambizioso progetto dei Ritratti Umani
ci resta Dal
calamajo di un medico (1873), schizzato con un rancoroso
"colore nero", e La Desinenza in A (1878), dove il risentimento
morale, degradandosi a livida misoginia, offusca il brio
compositivo e stilistico. Se gli Amori (1887) sono un estenuato
frutto tardivo, l'esperimento delle opere di palingenesi sociopolitica, Il Regno dei cieli (1873), La Colonia felice - Utopia
(1874), stese dal "Dossi buono" (N. A., n. 3502), ha un esito
ancor più fallimentare. La Diffida, posta a premessa
all'edizione del 1883 definisce il romanzo utopico, "un errore
di crosta e di mollica" (p. 529), con un "sapor ràncido" non
solo nelle idee ma anche e soprattutto nella forma.
Sopravvissuto a se stesso, l'autore dell'Altrieri continuò a
centellinare poche "goccie d'inchiostro"  questo il titolo
esemplare del volume in cui raccolse nel 1880 raccontini e
bozzetti sparsi  e soprattutto a sfogare il suo estro polemico
nella matassa arruffata delle Note azzurre. Nell'attività pratica,
quasi per autopunizione, intraprese la carriera diplomatica 
giusta l'intuizione paterna, evocata in Panche di scuola  sotto
le insegne conservatrici del nazionalismo crispino. La salita al
potere della Sinistra, d'altronde, condanna senza appello
l'astrattezza, questa sì davvero utopica, del progetto dossiano
teso a costruire un dialogo ravvicinato con una élite
altoborghese tanto più civilmente sicura di sé quanto più
consapevole dei propri doveri. Nella realtà storica ambrosiana,
invece, la maggior parte del ceto colto nutriva, per ammissione
dello stesso scrittore, una "fede accadèmica di miserabilità
intellettuale" (Màrgine, p. 668) e la buona società che avrebbe
dovuto favorire l'incontro fra la classe dirigente e il gruppo
degli artisti era composta di "ingegni rachitici" e "animi
aggrinziti". Il giudizio perfido questa volta è di Camillo Boito e
si riferisce al famoso salotto della contessa Maffei39.
Le provocazioni dei fratelli Boito
39
Citato da P. Nardi, Vita di Arrigo Boito, cit., p. 239.
Nella nostra parabola ideale, la coppia dei fratelli Boito
occupa un posto vicino a Dossi e Gualdo. Se ad Arrigo
quest'ultimo dedicò Decadenza, non fu solo per l'amicizia
comune con la divina Duse. L'intreccio fra aristocraticismo
snob e penoso senso di inadeguatezza che aveva minato
l'esistenza di Gualdo domina anche l'attività artistica del Boito
più giovane.
L'autore del poemetto Re Orso (1865), che vanta "la
nostra penna scriveva per noi singolarmente, e mai per gli altri
(...) Il pubblico e il lettore fu sempre le cento miglia lontano dal
nostro cervello ("Figaro", 31 marzo 1864), è ossessionato
dall'incubo del silenzio. Nelle sue poche novelle, L’alfier nero
(1867), Iberia (1867), Il trapezio (1873-74, incompiuta) e Il
pugno chiuso (quest'ultima del 1870 é stata ritrovata e
pubblicata da R. Ceserani, presso Sellerio nel 1981), la
richiesta di collaborazione rivolta al lettore elettivo assume toni
pressanti e si configura come un supporto di fiducia, capace di
sconfiggere la paralisi: la pratica di scrittura si distende come
un work in progress a cui l'io leggente è chiamato a partecipare
direttamente. Se nell'Alfier nero è l'immaginazione del lettore
ad avviare la partita fra Anderssen e l'Oncle Tom ("Chi sa
giuocare a scacchi [...] immagini" p. 397), nel Trapezio il
tempo del racconto corre parallelo all'atto fruitivo, in un
cortocircuito che avvicina i due interlocutori nel massimo
dell'intimità intellettuale.
Leggi attento.
Incomincio.
La storia che ti racconterò è lunga e per te sarebbe più
agevole il leggerla da solo quando io l'avessi tutta scritta; ma tu
non puoi sapere quanto mi sia di conforto il sentire che tu la
cogli calda ancora mentre esce dalla mia mano cifra per cifra.
Mi par di parlare. (Il trapezio, p. 441)
La sintonia fra scrittore e lettore affidata alle cadenze
dell'oralità punta non solo a annullare la lontananza fra i due
poli della comunicazione, ma a lenire la paura dell'impotenza
espressiva che l'autore reale proietta nel mutismo del
protagonista Yao. Anche in questo caso, sia chiaro, nessuna
concessione alla narrazione volgarmente "ruffiana": il discorso
si modula sulle note del colloquio "caldo" e rassicurante grazie
al "rigore" intellettuale con cui si cala nelle "variabili parvenze
del simbolo" (p. 439). La disposizione strategica delle formule
di raccordo, collocate in
apertura e chiusura delle puntate
apparse sulla "Rivista minima",40 sottolinea l'attenzione
boitiana al rapporto con i destinatari interni e esterni. Il saggio
Yao, rivolgendosi al suo discepolo prediletto Meng-Pen, sa
che il suo messaggio non cadrà nel vuoto: ricerca "il punto
dove i due moti opposti si intersecano perché ivi scoprirai la
sintesi dell'uomo e la spiegazione d'ogni sua apparente
stranezza" (Il trapezio, p. 439). Dove il "punto", lungi
dall'essere il luogo ideale dell'autodominio equilibrato e sereno
(P. Nardi), è, al pari della scacchiera in cui si gioca la partita
"fatale" tra il bianco e il nero, la dimensione profonda in cui gli
antagonismi si convertono l'uno nell'altro. E poco importa se la
congiunzione dei contrari sfiori il mistero "alchemico della
gnosi" (A. I.Villa, R. Quadrelli) o la legge della reversibilità
dei moti interiori: ciò che conta, sempre, è la sfida che la
scrittura letteraria lancia alle certezze presuntuose di una
cultura convinta di poter comporre ogni antitesi nell'ordine
"evidente" e positivo.
Nelle novelle di Arrigo Boito, la provocazione
ideologica al lettore ambrosiano è tanto più efficace quanto
40
Cfr. I. Crotti, Gli equilibrismi del "Trapezio", in AA. VV.,
Arrigo Boito, a c. di G. Morelli, Olsckhi, Firenze 1994, p. 125.
meno esibita: il racconto ostenta una sfrenatezza ludica che
esalta l'estro inventivo lucidamente geometrico, mentre allude
a una serie di conflitti gravi che assillano io leggente e io
narrante. Abitato da contraddizione immedicabili, l'uomo della
civiltà moderna può anche tentare la fuga nelle atmosfere
neogotiche (Iberia), nella saggezza orientaleggiante (Il
trapezio) o trasferirsi nelle regioni cupe di una misera Polonia
(Il pugno chiuso), a patto però di mantenere acuta la percezione
del proprio dualismo, a cui solo la misura ironica dell'arte può
porre argini mai definitivi.
Aveva ragione Camillo: c'erano tutte le ragioni per non
piacere alla bempensante società maffeiana. D'altra parte, la
sfiducia boitiana nella parola scritta tende a corrodere, al di là
dei funambolismi anticonformisti, ogni possibile relazione
dialogica. Il trapezio rimase interrotto, Il pugno chiuso
abbandonato nelle appendici del "Corriere di Milano", il
progetto della silloge di racconti, Idee fisse, mai attuato. Sarà
nel rapporto più diretto, "d'ascolto", con il pubblico teatrale che
Arrigo Boito scioglierà il suo conflitto di "scapigliato
romantico in ira": operare il rinnovamento delle convenzioni
melodiche, senza sovvertirne il paradigma tradizionale. Anche
in questa prospettiva, la collaborazione feconda con il vecchio
Verdi dà conto del tentativo di riorganizzare il sistema delle
attese, superando l'appassionata
sonorità del melodramma
risorgimentale senza vanificarne le vibrazioni più coinvolgenti.
Dei due fratelli non c'è dubbio, tuttavia, che sia Camillo
il vero maestro della provocazione intelligente, lo scrittore di
novelle più curioso del gruppo. Già Cameroni, col suo fiuto
critico, ne aveva individuato la "specialità" di "novelliere
brillante ed originale" ("Il Sole", 28 luglio 1878).
Sin dal titolo dei primi racconti, l'architetto narratore
mostra il gusto dell'antifrasi pungente: le storielle sono "vane"
non certo perché delimitano "una zona di totale disimpegno"
dilettantesco41 e neppure, al contrario, perché suggeriscono con
cupezza contristata l'incapacità del discorso letterario di dare
un senso al reale42. La "vanità" delle novelle è tale non in
rapporto al loro contenuto ma in relazione al giudizio che ne
formulerà il lettore ambrosiano. L'edizione in volume presso
Treves
rinvigorisce
la
supposizione
che
le
storielle
sembreranno futili, di poco spessore, al pubblico a cui quello
stesso editore proponeva in vari tomi le ristampe dei romanzi
41
F. Portinari, Narrativa tra idillio e rivolta in Un'idea di realismo, Napoli,
Guida 1976, p. 209.
42
E.Scarano, L'anatomia del corpo in una storiella vana di C.
Boito, in "Linguistica e letteratura", VI, 1-1981.
storici, le traduzioni dei fluviali feuilletons o i nuovi libri "di
consumo". Qui niente di tutto ciò: l'iniziale umorismo sterniano
(Baciale 'l piede e la man bella e bianca) si stempera e assume
forme colloquiali più elusive che invitano il lettore o a
riflettersi nel destinatario interno (il medico di Macchia grigia;
il nipote del Demonio muto) oppure a collaborare ad una
narrazione solo apparentemente oggettiva. Sono soprattutto le
Storielle scritte in prima persona, e quindi con ottica parziale, a
sollecitare l'intervento critico dell'io leggente. Spetta a lui
decidere il valore della sfida fra l'anatomista Gulz e il pittore
amante di Carlotta (Un corpo), giudicare l'atteggiamento
spregiudicato della marchesa Giulia (Dall'agosto al novembre),
ma anche afferrare le motivazioni ambigue del senso di
sollievo assaporato dal protagonista di Meno di un giorno alla
partenza della donna furtivamente amata. Il gusto di mettere in
scena le situazioni scontate della galanteria salottiera, gli
inganni fatui dell'adulterio borghese, gli incontri fra il giovane,
malato d'amore incestuoso, e la crestaia di dubbia moralità
(Notte di Natale) è esibito con la leggerezza amabile di chi
invita a cogliere, sotto la patina di vacuità, i timbri e i motivi di
un racconto ricco di umori polemici. Se la rappresentazione del
processo di industrializzazione avviato nelle campagne trova
accenti melodrammatici nella vicenda del pretino, acceso di
passione per la femme fatale che accompagna l'affarista
speculatore (Vade retro, Satana), Senso, che chiude il volume
delle Nuove Storielle vane, edito nel 1883, tocca questioni
politiche altrettanto conturbanti per il pubblico dell'Italia unita.
La
condanna
dei
comportamenti
antinazionali
assunti
dall'aristocrazia reazionaria del Lombardo-Veneto si fa tanto
più acre quanto più distorto è il punto di vista: l'autore,
trascrivendo direttamente, senza alcun commento, le pagine
dello "scartafaccio segreto" della contessa Livia, lascia al
personaggio piena libertà elocutiva e al lettore il compito di
vagliarne la spavalderia vendicativa.
A vent'anni di distanza dalla proclamazione del Regno
d'Italia, la novella non poteva non suscitare scandalo,
certamente andando poco "a' versi" di quella società maffeiana
"che rappresenta in sé coll'ebetismo della pedanteria la
quintessenza delle sue amiche e dei suoi amici quotidiani".43 I
salotti della "capitale morale", affatto simili all'ambiente
ristretto e pettegolo messo in scena nel tardo Maestro di
setticlavio (1891), non compresero l'eleganza della scrittura
boitiana. Le Storielle vane dovettero attendere l'apprezzamento
43
Citato da P. Nardi, Vita di A. Boito, cit., p. 239.
novecentesco
di
un
altro
raffinato
rappresentante
dell'intellettualità milanese per sottrarsi al giudizio negativo di
chi aveva preso quel titolo alla lettera. Solo il successo di
Senso, il film diretto da Luchino Visconti nel 1954, cominciò a
gettare nuova luce sull'opera del letterato architetto, liberandola
finalmente dalle accuse di estetismo galante, evasione
parnassiana, dilettantismo predannunziano sotto cui fino allora
era stata sommersa.
Il feuilleton sperimentale di Praga
Anche il protagonista narratore delle Memorie del
presbiterio. Scene di provincia non nutre grande fiducia nella
"sonnolenta critica del Bel Paese" e dichiara di rivolgersi alle
"poche anime appassionate" che già amarono i suoi versi (p. 5).
E'
qui
indicata
l'origine
di
quello
"sperimentalismo
feuilletonistico" che caratterizza il progetto prosastico di
Emilio Praga: calare la tensione inquieta del "mistero", che
permea l'esistenza di ognuno, entro le cadenze cordialmente
intriganti dell'appendice, in un dialogo serrato con il ristretto
pubblico della poesia.
Già con Due destini, pubblicato sul "Pungolo" (30
dicembre 1867-18 febbraio 1868), l'autore di Tavolozza aveva
tentato di sfruttare le tecniche e i moduli della "letteratura
alimentare", ma la vicenda, ambientata nel primo settecento,
ben presto perde ritmo e interesse. Come ha mostrato
Moestrup, la stessa scansione irregolare delle puntate
testimonia lo sforzo di un impegno mal governato 44. Molto più
suggestivo invece, è l'esperimento avviato con le Memorie del
presbiterio, dove il narratore Emilio intreccia la cifra
impressionistica
della
testimonianza
d'artista
con
le
modulazioni coinvolgenti del romanzo a puntate. In queste
Scene di provincia, apparse sul "Pungolo" dal giugno al
novembre del 1877, l'autore di Penombre pare tradurre entro la
compagine narrativa il dissidio che Sacchetti individuava come
elemento caratteristico della Bohème: da una parte il rifiuto
pregiudiziale del pubblico borghese, "i curvi che incensano
l'ara del dio metallo" (Per cominciare, in Tavolozza), qui
identificato nella "gente d'affari" (p. 5), e dall'altra, il desiderio
ansioso del letterato moderno d'essere letto e omaggiato: ché la
lode "è per l'anima di un autore ciò che è pei fiori la pia rugiada
44
J. Moestrup, La Scapigliatura. Un capitolo di storia del
Risorgimento, Annali dell’istituto di Romanistica danese,
Copenaghen 1966, p. 57.
dell'alba" (ibidem). La dicotomia strutturale e stilistica,
sottolineata da tutti i critici, più che imputarla all'intervento
completivo di Sacchetti (G. Zaccaria) o alle leggi "edonistiche"
dell'editoria di consumo (G. Tellini), va raccordata piuttosto
alla duplice inclinazione che percorre il libro sin dall'esordio:
Praga vuole rivolgersi al pubblico intenditore della poesia, "le
poche anime" che si commossero sui suoi versi, invitandolo,
nel contempo, a seguire il racconto con l'appassionamento che
s'addice a una "lugubre istoria" (p. 103):
Io vorrei che la vostra curiosità, lettori, somigliasse,
anche solo in diciottesimo, quella che mi faceva immobile sotto
la cappa del camino, quando... (p. 70).
Nel contempo, proprio perché il fruitore elettivo non
appartiene al "borghesume" e "bottegume" (p. 17) che gradisce
i "drammi" rappresentati al teatro Fossati (p. 110), il narratore
sparge a piene mani le dichiarazioni antiromanzesche e i
riferimenti parodici: gli artifici dell'umorismo spiazzante,
mentre incrinano la tenuta dell'intrigo  esemplare la
conduzione del Racconto del sindaco  vanificano, altresì,
l'assaporamento nostalgico dell'idillio. Grazie ad una scrittura
appendicistica che non disdegna, però, gli schizzi pittorici, le
suggestioni del chiaroscuro e la tecnica del ritratto "a macchia",
il mistero, Leitmotiv dell'intero romanzo, si scioglie, ma nel
contempo si acuisce nella trama rapsodica delle "impressioni" e
"sensazioni" (p. 25) allineate da un narratore che, poco
coinvolto nella vicenda, diventa il portavoce dei racconti degli
altri. "Tre storie in una" potrebbe essere il sottotitolo anche di
quest'opera praghiana, a conferma che la cifra stilistica del
frammento si integra sempre con la struttura a incastro, nella
ricerca di uno "sperimentalismo feuilletonistico", degno di
interesse anche se di scarsa fortuna: parlare al pubblico della
poesia, attraverso le "semplici", ma raffinatissime, Memorie,
cadenzandone il ritmo sulla serialità delle puntate del
"Pungolo", era impresa davvero ardua. Il tentativo si
interruppe; e forse la fine prematura dell'autore non ne fu
l'unica
causa.
Grazie
alla
consonanza
amicale
che
contraddistingue il gruppo scapigliato, il romanzo venne
portato a termine e pubblicato in volume (Casanova, Torino
1881) da Roberto Sacchetti. Ancor oggi, è difficile attribuire
con sicurezza le parti del testo alla mano dell'uno e dell'altro.
Alle preziose indicazioni offerte da Zaccaria che accerta il
momento di sutura all'altezza del XX capitolo e alle numerose
osservazioni degli altri commentatori (G. Catalano, L.
Baldacci, L. Iachini Bellisarii), si può forse aggiungere una
postilla che pertiene l'intonazione del patto narrativo. Nella
seconda parte del libro, con l'attenuazione degli ammiccamenti
al "narratario", cadono anche le note stranianti dell'ironia: in
due luoghi del racconto, anzi, la voce narrante pare quasi
recuperare il tono dell'affabilità manzoniana, per appellarsi ai
"miei lettori" (p. 210), e interrogarsi sulla presenza confidente
dell'"amico lettore" (p. 164). La "modestia smania di realtà" (p.
231), a cui rispondono i comportamenti della bella Rosilde,
sembra guidare anche la penna di Sacchetti, lasciando nel testo
praghiano uno specifico indizio.
Tarchetti: “Io scrivo per me medesimo”
Siamo così giunti al termine della nostra parabola,
dove, al polo opposto dell'espressionismo aristocratico di
Dossi, si colloca il pathos melodrammatico dei racconti
tarchettiani.
Nel rifiuto dichiarato del dialogo con il lettore, l'autore
di Fosca sembra esaltare la strategia comunicativa tipicamente
scapigliata, che predilige i timbri del solipsismo narcisistico:
Scrivere per noi per rileggere, per ricordare in segreto,
per piangere in segreto. Ecco perché scrivo (...) Io scrivo ora
per me medesimo. (Fosca, to. II, p. 241)
Nel prologo dell'ultimo libro, Tarchetti ostenta di rifarsi
ai moduli canonici della narrativa d'impianto romantico per
stravolgerne radicalmente il senso. L'innominato "editore", a
cui il "manoscritto" di Giorgio è pervenuto per una "strana
combinazione", ci rassicura, quasi manzonianamente, di aver
espunto "quelle indicazioni che potevano compromettere la
fama di persone ancora viventi", ma nutre il timore di non aver
giustificazioni alla "colpa" di darlo alla luce. D'altronde, sin
dalla prima pagina, l'io narrante si premura subito di cancellare
ogni presunzione di storica verità: "Noi sentiamo di non poter
essere nel vero" (p. 240). Analogamente viene ripreso e
capovolto il modello ultracompassionevole delle foscoliane
Ultime lettere: qui la decisione di pubblicare le memorie
inedite non solo non è un gesto di gratificazione amicale ma
presuppone la noncuranza orogogliosa del protagonista:
"rifuggito nella solitudine e nell'egoismo", Giorgio
è ora troppo indifferente alle cose del mondo, troppo
sicuro di sé, perché abbia a godere dell'elogio o a soffrire del
biasimo che può derivargliene. (pp. 237-8)
Ad avvalorare il tono provocatorio di un patto narrativo
fondato sulla superiorità imperturbabile di chi racconta sono le
dichiarazioni d'apertura di un altro testo, dedicato alle vicende
di un artista:
Scrivo per me stesso, scrivo per dare alle memorie della
mia gioventù la durata della mia esistenza (Bouvard, to. I, p.
631)
Anche Le leggende del castello nero si avviano con un
analogo rifiuto: "Non so se le memorie che sto per scrivere
possano avere interesse per altri che per me  le scrivo ad
ogni modo per me" (to. II, p. 41).
Troppo esibito, questo egotismo intransitivo, per non
presupporre un'ansia incontenibile di dialogo coinvolgente:
l'insistenza sulla omologia fra tempo di vita e attività di
scrittura ("Scrivere ciò che abbiamo sofferto e goduto, è dare
alle nostre memorie la durata della nostra esistenza" Fosca, to.
II, p. 241) getta luce equivoca sulla volontà di mantenere
"segrete" le pagine diaristiche; il rigetto spavaldo della
comunicazione si ribalta nella ricerca del consenso partecipato.
Il "processo di estraneazione dell'io dal tu", lungi dal
testimoniare l'"esigenza del realismo ad oltranza",45 si inscrive
piuttosto nella strategia del negativo che sorregge l'intera
produzione tarchettiana, in un gioco di rimozioni e censure, di
ellissi e litoti, rinforzato sempre dalle modulazioni dell'eccesso
e
dell'iperbole.
E'
l'altra
via
della
sperimentazione
feuilletonistica intrapresa in ambito scapigliato. Tarchetti, che
sfrutta con spregiudicatezza i canali distributivi della
"letteratura alimentare", che esordisce cimentandosi con il
prototipo romanzesco dell'appendice, Paolina (Misteri del
Coperto dei Figini), imposta la relazione con il pubblico
borghese,
45
saccheggiando
il
repertorio
morfologico
M. Garré, Verso i paradigmi del moderno. Dallo scarto
negato di Hoffman allo sregolamento di Tarchetti, in
"Otto/Novecento", a. X, n. 1, 1986.
del
dialogismo moderno. Nel ricorso costante sia alle note
dell'ammiccamento complice ("non si stupiscano i lettori del
titolo d'eccellenza prodigato ad uno scrittoruzzo par mio" Un
suicidio all'inglese, to. I, p. 83) sia ai timbri della polemica
conflittuale,
il
dualismo
scapigliato
deflagra
con
un'incandescenza al calor bianco. L'autore della Lettera U,
mentre s'impegna a contestare i condizionamenti del mercato,
corruttori del libero estro inventivo ("procurarsi un successo
clamoroso" presuppone "gettare nel fango della pubblicità il
segreto" della propria esperienza, Fosca, to. II, p. 241), ricerca
poi tutte le forme che assicurino l'interessamento appassionato
del lettore. Quanto più nega, disperatamente nega, di scrivere
per
qualcuno,
tanto
più
accumula
dichiarazioni
programmatiche, spiegazioni delle elisioni e silenzi, commenti
alle proprie "cancellature". L'ultimo romanzo ci offre un
campionario sterminato di queste pseudo-omissioni e finti
interdetti: "non giova qui riportare", "Non racconterò qui",
"rinuncio a descrivere", "impossibile raccontare", "le pagine
che ometto": persino la lunga lettera di Fosca, stesa peraltro
contro il "divieto" di scrivere, è piena di clausole censorie e
reticenti.
Le ragioni di una strategia narrativa così contraddittoria
si chiarificano alla luce dello specifico orizzonte d'attesa
prescelto da Tarchetti: a costituirlo sono le schiere di "giovani
frementi", che educati al protagonismo eroico dai libri della
stagione passata, patiscono la frustrazione del clima "prosaico"
postunitario.
Da
buon
scapigliato,
anche
il
narratore
tarchettiano vuole rivolgersi privilegiatamente all'élite colta,
ma,
in
linea
con
la
tradizione
del
democraticismo
risorgimentale, la individua non già nella nuova classe
dirigente alto-borghese, sì piuttosto negli intellettuali della
"generazione crucciosa", appartenenti alla piccola-borghesia,
privi di un adeguato ruolo sociale, ma cultori di buone letture e
ricchi soltanto d'esperienza militare, poco importa se maturata
nell'esercito ufficiale o fra le fila dei volontari. L'artificio
privilegiato del racconto nel racconto gli consente di attivare
una strategia al tempo stesso inusuale e massimamente
empatica. Comunque sia declinata la comunicazione io-tu 
confidenze segrete, lettere degli amici, "pallottole di carta"
degli amanti, diari abbandonati e ritrovati, confessioni raccolte
per strada  il lettore reale non fa mai fatica a riconoscersi nel
narratario interno. D'altra parte, proprio perché il dialogo con il
pubblico elettivo non sfugge le asprezze della rivalità
aggressiva, la provocazione tarchettiana assume, in qualche
caso, una carica davvero dirompente: non certo, come era nelle
intenzioni dell'autore, sul piano delle fedi politiche sì piuttosto
nell'ambito dei comportamenti etico-sentimentali. Scrivendo
nascostamente al suo amante, Fosca può rinfacciare a chi legge
l'ingiustizia di una società che impone alle donne il ruolo di
seducenti "oggetti d'amore":
Non vivendo che per essere amate, e non potendolo
essere che alla condizione di essere avvenenti, l'esistenza di
una donna brutta diventa la più terribile, la più angosciosa di
tutte le torture. (Fosca, to. II, p. 332)
Capitolo IV - Romanzi brevi e racconti d'effetto
La scelta della prosa
Mia cara nonna. Essendo
cotesto giorno quello...
del nome tuo, e parendomi, più degli altri, bello... (Vita di Alberto Pisani, p. 102)
L'"oda" in onore di nonna Giacinta segna l'esordio della
carriera letteraria di Alberto Pisani: "sòlito cominciamento;
foggia di esprìmersi la men naturale di tutti, e però la più fàcile"
(p. 101). Il giudizio paradossale del narratore della Vita ben
sintetizza l'atteggiamento antitradizionale assunto dall'estroso
scrittore verso la gerarchia dei generi. Nella sua ansia
sperimentale, Dossi non indossò mai "i poètici occhiali" (p.
106), per dedicarsi con coerenza strenua all'elaborazione della
prosa moderna, il cui ritmo non si ottiene certo "continuando a
tagliuzzare le frasi" (p. 102).
In effetti, è l'area della narrativa a illustrare meglio gli
elementi di originalità e di debolezza presenti nel movimento
scapigliato. Le provocazioni "avveniristiche" delle raccolte
poetiche di Praga (Tavolozza, Penombre) e Boito (Re Orso, Il
libro dei versi), lo scandalismo macabro-cimiteriale dei
componimenti tarchettiani (Disjecta) concentrarono l'interesse
dei primi studiosi sulla produzione lirica, condizionando per
lungo tempo l'ottica complessiva dell'indagine; tuttavia, oggi non
c'è dubbio che
nel campo della prosa gli Scapigliati hanno raggiunto i
risultati più validi, o almeno più fruttiferi, in quanto sentirono
con maggior impegno la gravità e l'urgenza dei problemi che
occorreva affrontare, e ne furono spronati ad affilar meglio le
armi, a misurare e utilizzare più sapientemente le proprie risorse.
46
Il
rinnovamento
del
sistema
editoriale
e
la
ristrutturazione dell'orizzonte d'attesa sollecitano tutti gli autori
bohémiens a cimentarsi con le questioni aperte e assillanti della
moderna civiltà del romanzo. L'esito finale non era affatto
scontato: i pregiudizi contro la produzione narrativa di ampia
mole erano ancora forti, se, sul "Pungolo", Nievo faceva
46
V. Spinazzola, op. cit., p. 3.
dell'ironia sulla condanna del romanzo, come "genere falso,
sintomo di decadimento, figlio aborticcio d'immaginazioni
malate" (Ciance letterarie, 3 gennaio 1858). Ma gli anatemi dei
critici ufficiali contavano poco ormai davanti alle scelte sicure
del pubblico: come pronosticava Rovani nel Preludio ai Cento
anni,
i romanzi si riproducono, si sparpagliano, penetrano
dappertutto, e sono letti persino da chi tuona e sbuffa; persino
dalle madri sospettose; persino dagli uomini che si danno
importanza; persino da quelli che hanno la missione di far
prosperare l'alta filologia e la numismatica e la diplomatica e i
concimi e il baco e il gelso.
Ecco allora gli "scapigliati romantici in ira" riprendere
l'empito polemico degli uomini del "Conciliatore" in difesa del
genere "anfibio": adesso, però, oltre le attardate posizioni
classiciste, l'obiettivo da colpire era proprio il canone forte della
"narrazione mista di storia e d'invenzione", riproposto nelle
formule logore degli epigoni manzoniani o riaggiornato in
chiave biografica nelle "Vite di Uomini Illustri".
L'articolo di Tarchetti dedicato alle Idee minime sul
romanzo, pubblicato sulla rivista di Ghislanzoni nel 1865, non
ci offre né una trattazione brillante né un nucleo di concetti
molto originale, ma la definizione "scapigliata" del genere spicca
per chiarezza perspicua: il romanzo, "la perfettissima fra tutte le
forme", è
la storia del cuore umano e della famiglia, come la storia
propriamente detta è il romanzo della società e della vita
pubblica (to. II, p. 523).
Anche all'interno dell'istituzione letteraria comincia a
maturare la consapevolezza di quanto ampia sia la frattura che
l'urbanesimo borghese apre fra pubblico e privato, eventi
collettivi e vicende individuali, io e mondo.
Il rifiuto del modello romantico-risorgimentale, se certo
nasce sull'abbrivio delle discussioni esplose negli anni cinquanta
intorno all'esaurimento della proposta manzoniana, esprime
soprattutto la volontà degli scapigliati di sperimentare altri
canoni narrativi più consoni alla modernità.
Quando in pieno Novecento, dopo un lungo periodo di
latenza, le opere di Dossi e compagni tornano sul mercato, la
collana einaudiana che li accoglie s'intitola "Centopagine": nel
1971, Fosca inaugura la serie, seguono L'Altrieri (n. 17), Vita di
Alberto Pisani (n. 44), Desinenza in A (n. 66), Memorie del
presbiterio (n. 49), cui si affiancano, ripescati in una zona
limitrofa, Alpinisti ciabattoni di Cagna (n. 16) e Confessione
postuma. Quattro storie dell'altro mondo di Zena (n. 47).
Il curatore, Italo Calvino, è guidato dal desiderio di
recuperare "testi che appartengono a un genere non meno illustre
[dei romanzi di vasto impianto] e nient'affatto minore: il
«romanzo breve» o il «racconto lungo»"; il progetto, che vuole
"rispondere a un fondamentale bisogno di «materie prime»",
punta all'"intensità di una lettura sostanziosa che possa trovare il
proprio spazio anche nelle giornate meno distese della nostra
vita quotidiana"47. I libri degli scapigliati, ideati, agli esordi della
civiltà urbano-borghese, per una lettura concentrata, si offrono
davvero come il serbatoio di quelle "materie prime" della
narratività moderna, che l'Italia postunitaria cominciava a
ricercare e a porgere al nuovo pubblico cittadino.
Il rigetto del paradigma romanzesco dei Promessi sposi,
reso consunto anche dai melensi imitatori rusticali  i
47
I. Calvino, Una nuova collana: i «Centopagine» Einaudi, in
Saggi, a c. di M. Barenghi, to. II, Mondadori, Milano 1995, p.
1718.
"Carcanini", sbeffeggiati da Dossi (Vita, p. 125)  appare
motivato secondo orientamenti diversi, talvolta fra loro
contraddittori; ma un uguale intento muove gli scrittori di questo
periodo: all'avvicinamento al presente, già promosso dai
romanzieri della seconda generazione romantica, con in testa
Nievo e Rovani, e assecondato dai critici della "Rivista europea"
capeggiati
da
Tenca,
deve
corrispondere
una
diversa
articolazione delle coordinate spazio-temporali e dei nessi
strutturali dell'intreccio, per meglio sollecitare una più agile,
intensa lettura. Gli ammirati capolavori stranieri indicavano
soluzioni molteplici, esibendo un campionario morfologico di
indubbia ricchezza.
Abbandonata l'ampia tela del genere storico, i nostri
scrittori saggiano, accanto alla misura concentrata del racconto, i
canoni inediti del romanzo breve. Nei loro testi, la parabola
narrativa perde l'andamento ascendente e compiuto per frangersi
in un intreccio unilineare e sincopato, spia di un iniziale crollo di
fiducia nel divenire storico e nella dialettica conflittuale delle
forze in campo che lo realizzano. L'ambiente cittadino non viene
mai delineato con precisione, ma i riferimenti costanti all'età
contemporanea e la registrazione delle impressioni intermittenti
e distratte del soggetto percipiente ne evocano sfondi e
atmosfere. Il sistema dei personaggi si riduce drasticamente alla
figura del protagonista, che svetta solitario ed egocentrico,
intrattenendo, tutt'al più, ambigui rapporti amicali o fosche
relazioni amorose, nell'attesa dell'incontro fatale con la morte.
L'onniscienza sovrana del narratore storico, che dall'alto
tutto guidava e commentava, lascia il posto alla parzialità della
voce narrante interna, incline a affabulare le memorie personali
di un prossimo "altrieri". I livelli multipli della narrazione
testimoniano il relativismo prospettico con cui la realtà viene
osservata. L'interesse del lettore, non più rapito dal groviglio
avvincente di trame tortuose, destinate a sciogliersi in un epilogo
prevedibilmente catartico, ora si concentra sui ritmi serrati di
una vicenda dal finale ricco di suspence spiazzante.
L'opzione per le misure del racconto e del romanzo
breve, infine, mentre acconsente ai tempi di fruizione veloce del
pubblico urbano, sfrutta pienamente i nuovi canali distributivi
del sistema editoriale: le appendici dei quotidiani e le pagine
della stampa periodica. I nostri autori, occupando con abilità gli
spazi messi a disposizione dalla "repubblica della carta sporca",
rinnovano la tipologia tradizionale della novella, secondo il
doppio schema del "racconto d'effetto" e dello "schizzo" e
inaugurano la formula originale dei "centopagine". Nel
contempo, la costante infrazione delle norme stereotipe della
narratività distesa conforta la polemica agguerrita contro il
successo della "letteratura alimentare", la più apprezzata dal
"cretinismo italiano" (Dossi), che in quelle stesse sedi trovava il
suo luogo d'elezione.
Dal passato storico al presente
Compiuto il processo unitario, acquisita, anche grazie
alle narrazioni storiche, l'identità collettiva di nazione, è giunto il
momento di fissare lo sguardo sull'immediato presente. Dossi
proclama la "Necessità nell'Arte del Vero Contemporaneo" (N.
A., n. 2277), aggiungendo, per chiarire subito la preminenza
dell'attributo, di voler "narrare le cose e gli uòmini del tempo
mio, non oso più dire come davvero sono, ma quali appàjono ai
miei occhi" (Prefazione generale ai "Ritratti Umani", p. 903).
Un analogo desiderio d'attualità, tradotto sempre nelle
forme della testimonianza soggettiva, alimenta i progetti
narrativi dell'intero movimento scapigliato. In quei rari testi in
cui lo sfondo ambientale si allontana nel tempo, la scelta,
quando non si rivela subito un errore clamoroso (Praga, Due
destini), acquista tonalità volutamente straniate, in cui o
dominano le note esoterico-fantastiche  il medioevo fiabesco
dell'Iberia boitiana, l'"epoca assai remota" rivissuta per via
onirica dal protagonista tarchettiano delle Leggende del castello
nero  o prevale il timbro parodico, che mette a confronto
mode e costumi di stagioni solo apparentemente contigue, come
in Capriccio di Gualdo, dove i salotti settecenteschi della
Pompadour accolgono la vicenda ultraromantica del pittore
Armando M. Nella stragrande maggioranza dei libri scapigliati,
il tempo della storia si situa a una distanza ravvicinata rispetto al
tempo di scrittura e il lettore non fatica mai a riconoscere gli
scenari della sua quotidianità.
Nella disarticolazione delle strutture del romanzo storico,
allo spostamento radicale verso la contemporaneità corrisponde
un restringimento di campo spaziale altrettanto netto: la
dialettica costitutiva della narrazione mista fra collettivo e
individuale, orizzonti aperti e luoghi chiusi, si spezza e il
racconto si sviluppa nell'intérieur degli appartamenti borghesi.
La soffitta del pittore protagonista di Tre storie in una racchiude
"un piccolo universo di contemplazioni, di fantasticaggini di
pace" (p. 3), rifugio ideale per proibiti incontri amorosi; Anima,
il diario di Bazzero, germina dal contrasto tra un "di fuori",
"tutto bigio e nebbioso (...) tutto mesto, tutto morto", e un "di
dentro 
tutto santamente allegro e tutto vita" (p. 5); il
"letterone" di Cirillo si avvia col riconoscimento che la sua "è
pura storia, poco esterna, ma molto interna, come dev'essere la
storia di un'anima" (Faldella, Il male dell'arte, p. 60). Infine, se
la cornice dell'Altrieri rinserra la vicenda fra le pareti della "più
còmoda saletta del mondo" (p. 519), il protagonista della
tarchettiana Storia di un ideale coltiva il miraggio di un amore
felice solo entro il cerchio protetto di stanze segrete. Nella
coppia Domus-mundus, per riprendere il titolo di un poemetto
praghiano (Penombre), il primo termine si allarga ad abbracciare
il secondo, riassorbendone inquietudini e possibili consolazioni.
Esemplari di questa visione introversa e centripeta sono
quei racconti, pochi, che alludono a eventi recenti dell'epopea
risorgimentale.
In un breve passo del Male dell'arte, la spedizione dei
Mille diventa "l'affare di Garibaldi" che obbliga il narratore a
"scasarsi" dal Napoletano, per rifugiarsi a Roma. Alberto Pisani,
per parte sua, "nasce", nel tempo del racconto, fra le pareti di
uno "studio bellino" anche per sfuocare, in contrappunto
polemico, la nascita vera avvenuta sotto l'eco delle "cannonate
infauste" della battaglia di Novara. Tre storie in una di Praga ha
come sfondo la terza guerra d'indipendenza: i due protagonisti
hanno partecipato all'avventura garibaldina, ma la novella,
seppur suggerisce lo sbandamento ideale che serpeggiava fra le
schiere dei volontari di basso rango, focalizza lo sguardo sugli
intrighi
amorosi
dei
due artisti
bohémiens.
Anche lo
"scartafaccio" della contessa Livia recupera la stagione
dell'ultimo conflitto con gli Austriaci, ma nella memoria della
narratrice solo conta il tradimento infame del bell'ufficiale
Remigio. Insomma, la cancellatura che capovolge il senso della
scritta sullo stendardo tricolore, riposto nella canonica di Don
Luigi, si riverbera sull'intero panorama letterario, alterandone il
sistema di riferimenti politici: "si sarebbe letto un via invece di
leggere un viva" (Memorie del presbiterio, p. 31).
Sia chiaro: in tutti i testi, la raffigurazione dei casi bellici
e la descrizione dei personaggi in essi coinvolti non lasciano
dubbi al lettore, anzi gli impongono una decisa assunzione di
responsabilità critica. Ma il giudizio complessivo sulla stagione
risorgimentale suona tanto più netto quanto più decentrato e
tangenziale è il punto di vista di chi la rievoca. Persino il
romanzo di Tarchetti Una nobile follia, steso nel 1865, in
prossimità dello scoppio della terza guerra d'indipendenza e
ambientato durante la seconda, organizza i materiali del testo in
funzione dei casi eccezionali di Vincenzo D., subordinando la
ricostruzione storica della spedizione in Crimea all'intento
ideologico del pamphlet antimilitarista, con la sua ambizione
d'universalità.
Anche quando il narratore s'impegna nella ricostruzione
di un quadro sociale  è il caso di Paolina (Misteri del Coperto
dei Figini), che sin dal sottotitolo richiama il prototipo dei
feuilletons  a guidarlo è il desiderio di "lacerare questo velo
che ci nasconde" il "segreto della vita intima", giacché la verità
"di un dramma domestico" è ben più eloquente "delle grandi
tragedie dei popoli" (to. I, pp. 250-1). Così, in quest'opera di
denuncia  il libro è dedicato "alla santa memoria di Celestina
Dolci operaia prostituitasi per fame e morta in una soffitta della
via di S. Cristina l'11 gennaio 1863"  è arduo trovare l'affresco
metropolitano, con i complotti e le "trame" che, nei maestri
francesi, animavano l'universo sommerso e ignoto delle "classi
lavoratrici e classi pericolose", come suona il titolo di un
importante studio di Chevalier sulla Parigi primottocentesca 48.
La vicenda familiare di Paolina, al contrario, testimonia l'esilità
della nostra letteratura sociale: non solo i "misteri" cittadini sono
48
L. Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi
nella rivoluzione industriale, Laterza, Roma-Bari 1976.
pochi e poco romanzeschi,49 ma, in ambito scapigliato, anche la
rappresentazione dei "mali della società", nella "loro nudità
spaventevole" (to. I, p. 248), rispetta più l'andamento lineare del
"romanzo breve" di quanto non segua le volute contorte e
digressive del feuilleton. In fondo, come ci suggerisce un altro
racconto tarchettiano, i viali di un giardino possono racchiudere
un intero microcosmo miniaturizzato (Ad un moscone).
In questo panorama, una sola vera grande eccezione va
semmai ricordata: i romanzi di Sacchetti. Negli intrecci delle sue
opere, l'autore di Entusiasmi inscrive un sistema spaziotemporale che, nell'ancoraggio alla contemporaneità o al recente
passato, conferisce spessore storico agli avvenimenti, mentre la
struttura pluridimensionale del racconto coordina lo svolgimento
dei fatti pubblici con le esperienze private dei protagonisti, a
conferma dell'opzione globale per la cifra compositiva del
realismo. Ma appunto l'eccezione conferma la regola, e la regola
scapigliata
decreta
il
primato
assoluto
"frammenti" di romanzo.
"Frammenti di libri"
49
Cfr. Q. Marini, I misteri d'Italia, Ets, Pisa 1994.
conquistato
dai
E' Carlo Dossi a indicare il motivo di attualità culturale e
letteraria che corrobora la battaglia contro il romanzo di grande
mole: "Una volta si scrivevano libri, oggi frammenti di libri" (N.
A., n. 3519). Non solo perché, nell'età delle conquiste
scientifiche, "chi molto dice  pensa poco" (N. A., n. 1587), ma
soprattutto perché la prosa narrativa degli "artisti davvero", non
dei "semplici scrittori" (N. A., n. 1474), distilla poche "goccie
d'inchiostro", affatto incompatibili con i "ruffianesmi" della
letteratura d'intrattenimento, "primo fra tutti l'intreccio che
appassiona e che rapisce" (Màrgine, p. 681). Siamo al secondo
obiettivo polemico che acuisce la tensione disgregante della
narrativa scapigliata: le convenzioni del romanzo di vasta
orditura, quali si erano affermate nella produzione di maggior
successo, straniera e italiana, d'appendice e non. La volontà di
smontare il modello invalso a campiture larghe e ben scandite è
annunciata esplicitamente anche all'interno delle singole opere:
io qui non scrivo un romanzo col suo principio, col suo
mezzo, col suo fine, colle sue cause, il suo sviluppo e le sue
conseguenze, e tutte le belle cose che si leggono nei trattati di
estetica; ma bensì raccolgo impressioni di scene e di fatti,
sensazioni di luoghi e persone in cui mi sono scontrato
(Memorie del presbiterio, p. 25)
sappia anzi che il mio racconto è tutto sconclusionato,
che non ha né capo né coda, e che non ci voglio impiegare
nessuno degli accorgimenti de' narratori (Baciale ‘l piede, p. 92)
Tarchetti
introduce
L'innamorato
della
montagna,
dichiarando esplicitamente:
Queste pagine non costituiscono, nello stretto senso della
parola un romanzo (...) sono frammmenti di un più gran libro
(nota in calce alla prima edizione, citata da E. Ghidetti, to. II, p.
115)
Dossi, che ironizza sulla polvere di "Pirlimpimpìna"
(Vita, p. 123) per commentare un "trac" sospensivo di capitolo,
degno finale di una puntata appendicistica, spiega la differenza
fra le due opposte concezioni nel Màrgine alla "Desinenza in
A":
Non nego che una fàvola concitata, densa di colpi di
scena, irritante la curiosità, incalzante la lettura, sia la maggiore
fortuna, anzi la dote sine qua non per un romanzo sprovvisto di
ogni sapore di stile e d'ogni potenza d'idèa: là è necessario infatti
che il leggitore percorra a rotta di collo il volume e precìpiti al
fine prima di accòrgersi che l'autore è più di lui soro; inghiotta
per così dire il cibo senza aver tempo di rilevarne la insipidità.
Nei libri, invece, in cui gli avvenimenti narrati sono un mero
pretesto ad esprìmere idèe ed una occasione di suggerirne, deve
l'intreccio sì esìstere, ma non troppo apparire (p. 681).
Le tecniche e i procedimenti che erano a fondamento del
romanzo storico, primo moderno genere "di consumo" in Italia,
sono ora trapassati, acquistando in popolarità, nella letteratura
"alimentare" dei vari Farina Bersezio Barrili, e fanno bella
mostra di sé nei best-sellers d'oltralpe, tradotti e diffusi nelle
collane economiche di Treves e Sonzogno: ben comprensibile
che gli autori della Bohème, avversi alle "cento nullità letterarie
di cui si pasce la curiosità cittadina" (Memorie del presbiterio, p.
17) vi contrappongano narrazioni rapsodiche, frante, nervose,
capaci di suscitare, per dirla con Calvino "l'intensità di una
lettura sostanziosa". Nella collana einaudiana non avrebbero
stonato, infatti, altre opere scapigliate: Riflesso azzurro, il libro
d'esordio di Bazzero (Lombardi, Milano 1873, pp. 94) o gli
Acquerelli-Schizzi dal mare, raccolti dal De Marchi (pp. 97); la
trilogia dell'Amore nell'arte di Tarchetti (Treves, Milano 1869,
pp. 159), i racconti lunghi Candaule di Sacchetti e Rovine di
Faldella.
Nel percorso accidentato compiuto dalla nostra fragile
civiltà romanzesca, queste narrazioni costituiscono il primo
momento di contestazione interna: sono testi di non eccelso
valore, ma ricchi di potenzialità future. Con un'avvertenza
importante: il campionario dei canoni compositivi e il repertorio
delle "materie prime" sono tanto più fertili quanto meno
univocamente declinati: a contrastare la "prostituzione" delle arti
e delle lettere a opera del mercato (Paolina, to. I, p. 375), i nostri
autori adibiscono una somma di artifici che, impostando
strategie diverse, affiancano all'ironia parodica l'eccitazione
orrorosa, agli indugi divaganti cari al modello sterniano la
suspence del gothic novel, alla fantasmagoria delle trame
d'ambiente urbano le "genuine impressioni" di un viaggiatore
colto. In questa sperimentazione, estranea al gusto triviale del
pubblicaccio,
gli
scapigliati
ci
offrono
un
interessante
assortimento morfologico, destinato a fruttificare nelle stagioni
successive.
In coerenza piena con la poetica dell'umorismo,
teorizzata in una larga sezione delle Note azzurre, gli "antiromanzi" dossiani prediligono i moduli narrativi ricavati dai
"maestri" dello straniamento, Sterne e Jean Paul. Il recupero
dell'"altrieri" non si distende nella trama fluida delle confessioni
memoriali, ma si condensa in tre brevi episodi-capitoli, "tre
tentativi" (N. A., n. 2382). Lisa, Panche di scuola, La
principessa di Pimpirimpara segnano le tappe irrelate di una
Bildung che s'arresta alle soglie della giovinezza, ben al di qua di
ogni maturazione socio-psicologica. Nella Vita di Alberto
Pisani, "la disseminazione dell'intreccio" (A. Saccone), avviata,
come abbiamo visto, con l'incipit al IV capitolo, procede con
l'inserimento dei raccontini di secondo grado, recitati da nonna
Giacinta o tratti dal libro di Alberto che, parodiando i modelli
romantici e scapigliati di maggior fortuna, gettano luce
fortemente equivoca sull'esperienza artistica e amorosa del
"bimbo-in-cilindro". Infine La desinenza in A, frutto di
"gioventù" un po' tardivo, s'avvale di un montaggio scenicomelodico, che nell'ibridazione dei generi più disparati 
"magazzeno di rigattiere-antiquario" la definisce l'autore  nega
ogni schema romanzesco, ogni congegno narrativo.
E tuttavia è opportuno subito chiarire che il progetto
letterario di Dossi non punta unicamente, come sostiene la
maggior parte dei critici, a mettere a nudo gli artifici e gli
stereotipi compositivi, cancellando ogni riferimento di realtà.
Soprattutto nell'Altrieri e nella Vita di Alberto Pisani, i
"frammenti di libri", pur senza rispettare il tradizionale
andamento lineare, organizzano la serie degli episodi intorno a
un nodo cruciale: il rapporto conflittuale tra l'io e il "nemico
mondaccio". Nel primo testo, la memoria accompagna il piccolo
Guido nel suo progressivo percorso di crescita all’interno degli
ambiti istituzionali  famiglia, scuola, società  e la triplice
scansione è racchiusa entro una circolarità manifesta: il prologo
I miei dolci ricordi! e l'epilogo E qui mi fermo sono collocati
entrambi nel tempo presente e nello spazio dell’intimità
borghese. Nella Vita, la narrazione sfrangiata si raggruma in
blocchi che si rimandano per antitesi o simmetria e i raccontini
inseriti sottolineano, oltre al sistema dei valori ideologici, i
nuclei semantici forti. Se Il Mago circoscrive il luogo deputato
all'attività creativa moderna, i brani tratti dalle Due morali
replicano la tematica dominante delle relazioni di coppia. Sul
piano della trama principale, alla doppia nascita di Alberto (fra i
libri, nell'esordio anticipato, poi, sullo sfondo della battaglia di
Novara) seguono i tre capitoli infantili che, in un'unica sequenza
analettica, delineano il vuoto apertosi con la morte dei genitori,
solo parzialmente colmato dall'autorevolezza bonaria di nonna
Giacinta. Il capitolo quinto, in stretto raccordo con il primo,
rilancia la narrazione: dopo una riaffermazione marcata di
materialismo laico ("il vostro oblio è il mio nulla", p. 126), il
ritratto del protagonista chiarisce la sua indole melanconica,
misto di narcisismo ferito e di angosciosa paura degli altri, e ne
illumina le ideali aspirazioni d'arte e d'amore; al termine, con
un'intonazione e un'ottica volutamente incerte, La cassierina ci
riporta indietro di dieci anni, all'incontro di Alberto fanciullo con
una "tosuccia" dagli "occhioni neri e calamarenti" (p. 132). La
connessione con l'intreccio principale è attuata allusivamente
nell'episodio che apre il capitolo sesto, dove compare donna
Claudia, ed è esibita con rifrangenza luminosa nella scena finale
del capitolo tredicesimo, prima della conclusione parodica,
quando
il
richiamo
alla
"bottiglia
spezzata"
denuncia
l'impossibilità di recuperare il tempo infantile, unico momento in
cui la confidenza con la femminilità bambina assume i toni
elegiaci dello scambio generoso: così come era stato con Lisa.
Ora la constatazione amara, "Più non era stagione di potersi
ajutare" (p. 230) sanziona l'esito fallimentare cui approdano i
vari tentativi di conciliare "mondo interno" e "mondo esterno". Il
progetto del viaggio si riduce alla conta della "valigeria"
familiare (p. 233); la decisione di avvicinare la donna amata, mai
raffigurata direttamente solo evocata dal coro discorde delle
"voci" estranee, s'infrange alla notizia improbabile della sua
morte improvvisa.
Non c'è dubbio che a reggere i libri dossiani sia il
letteratissimo "principio dell'antiletteratura", giusto il titolo di un
bel saggio di Spera50, ma la carica di contestazione non si limita
a corrodere le norme letterarie convenzionali, investe con
energia dissolvente il sistema dei codici di comportamento
individuali e collettivi. La scelta dell'espressionismo, cifra che
accomuna Dossi al primo Faldella, si rivela, infatti, tanto più
coerente quanto più il pastiche stilistico trova rispondenza
efficace nell’ordinamento dei materiali romanzeschi. La
controprova è offerta dai libri del "Dossi buono" (La Colonia
Felice, Il Regno dei Cieli), in cui il progetto utopico è affidato,
con esito malcerto, a un paradigma tradizionale che uniforma
lingua stile e intreccio.
505
F. Spera, Il principio dell'antiletteratura: Dossi-Faldella-Imbriani, Liguori,
Napoli 1976.
Così è anche nell'autore piemontese, la cui eversione
linguistica rischia di girare a vuoto, quando non s’appoggia allo
stravolgimento
dei
procedimenti
narrativi.
Nel
racconto
d’esordio, Il male dell'arte (1874), Faldella sperimenta le
tecniche della distorsione prospettica, in una cornice ad incastro
che prevede la doppia figura del narratore e del testimoneprotagonista. Nell'affastellamento di motivi fantastici (Quasi dal
tedesco, suona il sottotitolo) e di richiami gotici (persino un
omicidio), "il pistolone narrativo" di Cirillo (p. 59) allinea la
serie
fallimentare delle "prove" creative, instaurando con il
racconto di primo grado una dialettica duplice: ultraletteraria nel
"rifacimento"
ironico
del
ritratto
d'artista,
ideologica
nell'opposizione fra l'esperienza eccezionale del genio e la
banalità del lavoro quotidiano (i due narratori si incontrano in
un'aula di tribunale durante "una certa causa per la corda di un
pozzo" p. 52). La "scelta parodistica dello schema della
confessione romantico-scapigliata"51 rivela tutta la sua felicità
compositiva nel confronto con Rovine (1879), un racconto
biografico in 49 capitoletti, dove l'irrisione del letterato "malato
di ideale" si limita alla sfera tematica, senza intaccare la
51
A. Briganti, op. cit., p. 22.
compagine strutturale. Al discorso, condotto da una voce esterna
e onnisciente, non sono estranei i timbri di quel moralismo che
tanto spazio occuperà nelle successive opere faldelliane, ideate
ormai fuori dalla temperie scapigliata.
Un appendicismo raffinato
Calati nella modernità dell'urbanesimo e pienamente
coinvolti nella "repubblica della carta sporca", Praga e Tarchetti
partecipano
con
fervore
alacre
al
rinnovamento
sprovincializzante che caratterizza l'intero movimento. Nella
polemica contro il successo della letteratura di consumo,
anch'essi prediligono la misura del romanzo breve, entro cui
meglio risaltano i procedimenti di scomposizione, incastonatura,
dislocamento prospettico. Tali scelte, tuttavia, non sono
riconducibili al canone dissonante dell'umorismo sterniano (F.
Portinari, F. Bettini, R. Severi), che i due autori certo ben
conobbero e talvolta imitarono, ma senza mai assumerlo a
modello incontrastato. Nella costruzione delle loro opere, Praga
e Tarchetti danno vita, piuttosto, a una sorta d'appendicismo
contratto e anticonvenzionale, in cui suggestioni diverse si
intrecciano spesso in equilibrio precario.
Nelle ventiquattro puntate di Due destini, pubblicato sul
"Pungolo" (30 dicembre 1867-18 febbraio 1868), la vicenda di
Teodoro e Ippolito, due giovani amici-nemici, riprende gli
stereotipi canonici della narrativa popolare, dall'agnizione
all'analessi (Storia anteriore), dallo scontro fra personaggi
positivi e geni del Male alle atmosfere cimiteriali, fino alla
"catastrofe" che avviene dopo una serie di "complicazioni" e
"insuccessi" (secondo i titoli degli ultimi tre capitoli) e così via
feuilletonando. Ma lo sfondo storico (primo Settecento tra
Valperga e Ginevra), la trama sconclusionata, l'opacità
fisionomica dei protagonisti, la commistione di un linguaggio
aulico e di una scrittura sciatta, tutto ciò rende l'opera un vero
piccolo disastro.
Nelle Memorie del presbiterio, invece, la frantumazione
dell'intreccio è funzionale al punto di vista di un narratoreartista, intento ad allineare "impressioni di scene e di fatti,
sensazioni di luoghi e di persone", che convergeranno ad unità
solo "per mero effetto del caso" (p. 25). I racconti di secondo
grado, graficamente marcati (Il romanzo del sindaco, Storia di
Rosilde, Il romanzo del dottore), valgono a cancellare
l'opposizione irriducibile fra buoni e cattivi, mostrando gli
struggimenti nascosti che anche l'umanità più semplice patisce.
La meta ultima ricercata da Praga, con cui Sacchetti entra in
sintonia, è una sorta di sperimentalismo appendicistico, ricco di
umori e venature: il gusto irridente per le mode gotiche
(l'allucinazione del cappello danzante, pp. 25-7) si intreccia al
rifacimento parodico della storia di Renzo e Lucia ma virata in
tragedia; il montaggio digressivo  le note sul materialismo e la
cultura della "generazione crucciosa"  corrobora, non deprime,
l'intensità delle scene di pathos; le pause di rallentamento, siano
panorami naturali o profili ritrattistici, esibiscono l'abilità
pittorica di Emilio, senza cedere alle divagazioni funamboliche.
Solo in un impasto così eterogeneo, d'altronde, i dichiarati
propositi dell'"arte per l'arte" (p. 110) possono non solo lievitare
ma addirittura favorire il clima tenebroso in cui svolge la
vicenda. Un'ampia descrizione del torrente Strona, collocata
all'inizio del capitolo XVIII, ci suggerisce che l'esistenza umana,
anche nello sperduto paese di montagna, non scorre "tranquilla
come un idillio, monotona come il ciangottare di un ruscello",
ma s'ingarbuglia misteriosamente come nei cupi drammi allestiti
al Teatro Fossati: le memorie che la rievocano dovranno allora
seguire un percorso accidentato, non dissimile dai "balzelloni"
compiuti dal torrente.
Figuratevi che egli non vuol saperne neppure per un
minuto di quella linea retta, di quella misura costante che la
convenienza
dovrebbe
insegnare
anche ai
torrenti,
per
trasformarli, se Dio vuole, in quieti rigagnoli, in pingui e onesti
canali. Dimentico dei suoi doveri, del grande scopo della
creazione che è quello di impinguare le tasche del negoziante di
grano e di bestiame, sta asciutto la maggior parte dell'anno; poi,
ad un tratto, quando il ghiribizzo gli salta, devasta pascoli e
distrugge vigneti, cosa contraria all'economia politica; abbatte
baite e casolari, attentato iniquo, come ognun vede, all'ordine e
alla sacra prosperità della famiglia. (Memorie, pp. 110-1)
Il
paragone
metanarrativo
affastella
provocazioni
d'ordine estetico e extraestetico in un amalgama davvero balordo
e contraddittorio; i diversi livelli di discorso si sovrappongono,
creando un reticolo confuso sia sul piano delle idee sia nei
riferimenti alle poetiche: ma a mimare un simile groviglio
tendevano, appunto, sia l'intreccio appendicistico delle Memorie
sia la dissonante scrittura praghiana.
Ancor più varia la gamma di strategie narrative messe in
atto da Tarchetti, considerato da Spera "una specie di fondatore
del romanzo e del racconto italiano moderno".52 A muoverlo è
un inesauribile anelito alla sperimentazione, che attinge materiali
e moduli contemporaneamente dalle opere di Poe e Hugo,
Hoffmann e Dumas, Sue e Gautier, Sterne e Guerrazzi.
Nel campo della narrazione, dopo Paolina, esile
feuilleton di denuncia sociale, e Una nobile follia, pamphlet
antimilitarista con struttura a cannocchiale, la trilogia Amore
nell'arte inaugura in Italia il "ritratto d'artista" (Künstlerroman);
Fosca, infine, al termine di una breve ma fertile carriera, offre ai
lettori la storia di una maledetta "passione d'amore", come suona
il titolo del bel film che Ettore Scola trasse dal libro nel 1981.
Altrove, la misura del racconto lungo consente a Tarchetti di
mettere a frutto la tecnica divagante con intento parodico: Ad un
moscone. Viaggio sentimentale nel giardino Balzaretti (1865),
L'innamorato della montagna. Impressioni di viaggio (1869).
Debitori sin dal titolo di Sterne e Rajberti, i due testi
circoscrivono il tempo-spazio entro cui si distende il cammino
distratto del moderno flâneur. Anche Un suicidio all'inglese
52
F. Spera, La letteratura del disagio. Scapigliatura e dintorni, cit., p. 145.
(1865) si apre sulle cadenze lente del viaggio sentimentale, ricco
di pause descrittive e di aneddoti curiosi; poi però l'andamento
narrativo muta: grazie al consueto gioco di scambi epistolari,
prende il sopravvento, seppur con ritmo poco trascinante, la
trama dell'intrigo passionale con tanto di tragico equivoco fra gli
amanti, un'avventura esotica, un figlio della colpa e un presunto
incesto fra fratelli. Analoga e opposta la commistione di generi e
registri che sottostà a In cerca di morte, edito postumo da Farina
nel volume Racconti umoristici (1869): qui l'inserimento di
alcune lettere sorregge, nel rifacimento ironico, il motivo della
quête suicida e prepara il più pacificante degli happy end.
Insomma, al di là degli esiti più o meno felici, ciò che
colpisce nel ventaglio polimorfo delle tipologie narrative è la
fedeltà tarchettiana al genere indicato nel saggio sulle Idee
minime: se "il romanzo è la storia del cuore umano e della
famiglia", i testi dello scrittore di S. Salvatore Monferrato ce ne
danno una rappresentazione in negativo, senza, però, mai
abbandonare la linearità di un intreccio che riconduce sempre gli
eventi collettivi entro la sfera privata dell'io. Le coordinate
spazio-temporali delimitano spesso un universo "separato": il
protagonista dell'Elixir dell'immortalità, che pure vive nei secoli
più travagliati della storia europea, si sofferma solo sul rapporto
amoroso con Ortensia; l'avvenimento cruciale di Storia di una
gamba, l'operazione chirurgica, è collocato sullo sfondo della
terza guerra d'Indipendenza, ma, come è consuetudine
scapigliata, nulla ci viene detto del combattimento del Caffaro,
prologo alla vittoria garibaldina di Bezzecca. Al pari delle
esplorazioni di Alberto Pisani, le avventure di viaggio del
letterato che sfugge ai creditori non superano i giardini o le
periferie urbane (Ad un moscone), e, quand'anche si spingono
sulle vette "orride" dell'appennino meridionale (L'innamorato
della montagna), il resoconto del tragitto avvalora i timbri
"sublimi" dell'egocentrismo solitario.53
Tarchetti, cogliendo ed esasperando le suggestioni
profonde che permeano il clima culturale post-unitario, pare
puntare alla fusione dei due schemi narrativi individuati da
Lämmert: "racconto di una vita" e "racconto di una crisi" 54. Nella
concentrazione del racconto lungo e del romanzo breve l'intera
biografia del protagonista si condensa, acquistando senso,
nell'acme di un esito risolutore, per lo più fatale: "si può dire che
53
M. Muscariello, L'umorismo di I. U. Tarchetti, ovvero la
passione delle opinioni, in AA. VV., Effetto Sterne, cit., pp. 26061.
54
E. Lämmert, Bauformen des Erzählens, Metzler, Stuttgart 1967.
l'ultimo giorno di Bouvard fu il riassunto di tutta la sua
vita."(Bouvard, to. I, p. 653)
Anche per questa inclinazione alla sintesi abbagliante,
Tarchetti è lo scrittore emblematico della temperie scapigliata: i
suoi testi illustrano allo stesso tempo il fervore coattivo che
dominava il carattere di quei letterati portati a cercare
nell'esperienza unica e eccezionale dell'"amore nell’arte"
un'intensità emotivo-sentimentale che i tempi prosaici ormai più
non consentivano. A dare profondità di campo ad un resoconto
romanzesco che delinea il percorso esistenziale con la
stringatezza deflagrante dell'eccesso è l'adozione continua,
ossessiva della struttura ad incastro. Lungi dal produrre effetti di
straniamento e di "pluridiscorsività" (I. Crotti) o, all'inverso, di
certificazione pre-naturalistica (E. Ghidetti), l'artificio determina
un duplice risultato: per un verso, dinamizza vicende
programmaticamente lineari; dall'altro, corrobora il tono
melodrammatico di un discorso che non rinuncia mai allo
scambio empatico io-tu. Ecco perché a dominare la pagina
tarchettiana è sempre il timbro dell'allucinazione visionaria, in
una
ricerca
convulsa
d'espressività
accesa.
La
stessa
concentrazione d'effetti che fonda lo statuto moderno dell'altro
genere prescelto dai narratori scapigliati: il racconto.
Il rinnovamento della novella
Come annota De Meijer, la "rifondazione" ottocentesca
del genere novellistico presuppone il ripudio della cornice
esterna che raggruppa i singoli testi55: ebbene, il momento di
rottura va collocato proprio nel primo quindicennio unitario,
quando Praga Boito Bazzero cominciano a pubblicare storielle,
scenette, acquerelli, racconti su giornali e gazzette, senza
preliminarmente preoccuparsi di organizzarli entro un ordine
macrostrutturale. Da questa ricca e confusa congerie di prose,
ancor oggi in parte dispersa,56 prende avvio il racconto moderno,
destinato a dare frutti splendidi nella successiva stagione verista
e a prolungare la sua fortuna per tutto il corso del Novecento. Ad
essere inaugurate sono, da una parte, le misure e i toni del
"bozzetto", in chiave di estroso impressionismo linguistico: ed
ecco le Figurine di Faldella, gli Schizzi a penna di Praga, gli
Acquerelli di Bazzero: tutti, in fondo, raggruppabili, sotto
55
P. De Meijer, La prosa narrativa moderna, in Le forme del testo. La prosa,
vol. 3, to. II, LIE,
a c. di A. Asor Rosa, Einaudi, Torino 1984, p. 782.
56
E. Paccagnini, Contributo alla bibliografia d'esordio di
Tarchetti. Testi dispersi e varianti, in "Otto/ Novecento", marzoaprile 1994.
l'etichetta di "briciole letterarie" (N. A., n. 2527), indicata da
Dossi per le sue Goccie d'inchiostro (Sommaruga, Roma 1880).
In direzione analoga e opposta, si avvia la rifondazione dello
schema narrativo della novella, il genere per eccellenza della
tradizione italiana.
Nella stagione postunitaria, l'«"ascesa" della forma
breve» (P. De Meijer) assume un ritmo così strepitoso perché si
integra nell'orizzonte d'attesa del pubblico urbano-borghese:
quell'intensità
fruitiva,
a
cui
accennava
Calvino,
trova
corrispondenza piena nella struttura unitaria e compatta del
"racconto d'effetto" (Poe). Come aveva intuito l'autore della
Lettera rubata, il "principio della composizione" moderna
chiede sintesi e "unità d'impressione":
Il racconto propriamente detto, a nostro giudizio, offre
indiscutibilmente all'esercizio del talento più elevato il campo
migliore che si possa trovare nel più ampio dominio della pura e
semplice prosa (...) A tale proposito basti dire soltanto, in questa
sede, che nella composizione di quasi tutte le categorie l'unità di
effetto o d'impressione è un punto di massima importanza.57
57
E. A. Poe, I "Twice-told-tales" di Hawthorne, in Opere scelte,
a c. di G. Manganelli, Mondadori, Milano 1971, pp. 1384-5.
La riflessione sul romanzo, che non "potendosi leggere
tutto in una sola seduta si priva, naturalmente, dell'immensa
forza derivabile dalla totalità", conduce Poe a ribadire che il
racconto è "il più vantaggioso banco di prova" per il "genio più
sublime". Il confronto canonico fra gli scapigliati e lo scrittore
americano (M. Garré, S. Rossi, G. Finzi, C. Apollonio) rivela la
sua efficacia interpretativa non tanto sul piano tematicocontenutistico
ma
sul terreno
decisivo delle
intenzioni
progettuali: l'impianto morfologico della short story indicava a
Tarchetti e compagni lo strumento più adatto per scardinare i
modelli anacronistici della narratività prevalenti ancora nel
nostro sistema letterario: le "novelle morali" alla Soave, intrise
di stucchevole conservatorismo didattico-pedagogico; le novelle
in versi di Carrer e Prati, sempre più lacrimosamente melense;
gli idilli campestri che, sullo sfondo dello sviluppo urbano, la
letteratura rusticale aveva rilanciato.
La provocazione rivolta al lettore borghese era tanto più
irriverente quanto più l'anticonformismo delle situazioni e dei
personaggi era calato in un'orditura inedita, retta da specifici
procedimenti funzionali: l'"effetto puntuale", illuminato dalla
scelta di un caso estremo ed enigmatico; la tensione posta sul
finale, spesso marcata dalla bipartizione "chiusa-scioglimento";
il parallelismo comparativo, ideale per esporre dinamicamente il
dualismo scapigliato.
Alcuni di questi racconti mostrano il canone di genere
con nettezza impareggiabile. Nell'Alfier nero, il "pezzo segnato"
non lascia dubbi su quale sia il "perno" della partita; le due
strategie di gioco sono descritte nel rispetto dell'alternanza dei
punti di vista; l'acme conclusiva, fragorosa come il colpo di
pistola che abbatte l'Oncle Tom vincitore, e l'epilogo, dislocato
in altro tempo e altro spazio, suggellano la reversibilità delle
coppie antitetiche ragione-follia, ordine-disordine, malattiasalute. Diversamente orchestrato, ma tipologicamente analogo lo
schema narrativo di Una scommessa o di Un corpo. Anche nelle
novelle di Gualdo e di Camillo Boito, sia la sfida fra Arnoldo D.
e il conte Sotowski sia lo scontro fra il pittore e l'anatomista
Gulz esaltano gli artifici binari dell'intreccio: e la posta in gioco
(il successo artistico, la bellezza femminile) acquista un valore
unico ed assoluto. Se alcuni titoli designano subito l'"effetto
centrale" (Poe) su cui poggia il racconto  Il pugno chiuso (A.
Boito), Macchia grigia (C. Boito), La lettera U, Un osso di
morto (Tarchetti)  la tessitura delle singole opere esemplifica,
di volta in volta, le varie tecniche: ancora la geminazione
oppositiva e speculare, I fatali, Storia di un gamba (Tarchetti),
Riccardo il tiranno, Scene campagnuole. Un confronto
(Sacchetti); l'incorniciamento, Tre storie in una (Praga), Storia
di un ideale (Tarchetti), Notte di Natale (C.Boito), Da uno
spiraglio (Sacchetti); il gioco parodico di accostamenti seri o
dissonanti che si sciolgono nella pointe del finale: Dall'agosto al
novembre (C. Boito), Re per ventiquattrore, La fortuna del
Capitano Gubart (Tarchetti), Allucinazione (Gualdo).
Attingendo dal repertorio vasto della produzione
d'oltralpe, gli scrittori scapigliati sperimentano sia tipologie
narrative più riconoscibili (fantastico, umoristico, sentimentale)
sia schemi non ancora codificati (la novella d'ambiente cittadino,
il racconto di costume, il Künstlerroman). La varietà dei moduli
non incrina la norma costitutiva del genere a misura breve, anzi
la convalida, aiutandoci a cogliere la ragione specifica della sua
"rifondazione" nell'orizzonte storico dell'Italia unita.
Lukàcs ha studiato il rapporto d'antagonismo fra la forma
"singola" della novella e la "totalità degli oggetti" propria della
rappresentazione
romanzesca,
contrastivo e strutturante.
individuandone
l'elemento
La novella non pretende di raffigurare completa la realtà
sociale (...) La sua verità deriva dal fatto che un caso singolo per lo più estremo - è possibile in una società determinata, e
nella sua mera possibilità è caratteristico di essa. (...) Perciò non
ha bisogno di mediazioni, per avviare i fatti, e può rinunciare a
prospettive concrete. Questa particolarità della novella, che
tuttavia dal Boccaccio a Cechov ammette variazioni interne
all'infinito, consente che storicamente essa appaia tanto come
anticipatrice quanto come retroguardia delle forme grandi, come
espressione artistica del non-ancora o del non-più della totalità
rappresentabile.58
L'espressione "non-ancora non-più" è perfetta per
indicare il momento di passaggio che il nostro paese conosce nel
primo quindicennio unitario: la fase di transizione dalla "poesia"
degli ideali risorgimentali alla "prosa" dello Stato nazionale,
dalla comunità aristocratico-contadina alla collettività borghesecapitalistica, dal sistema letterario ristretto ed elitario al mercato
editoriale del consumo potenzialmente ampio.
58
G. Lukàcs, Solzìnitsyn: "Una giornata di Ivan Denisovic" in
Marxismo e politica culturale, il Saggiatore, Milano 1972, pp.
234-5.
La narrativa degli scapigliati pare declinare con
lucentezza sfolgorante le contraddizioni della stagione del "nonancora non-più". I "racconti d'effetto" e i "frammenti di
romanzo" non solo parcellizzano la rappresentazione della
società uscita dalle lotte per l'indipendenza, ma, prescegliendo
un "caso singolo per lo più estremo", lo collocano all'interno di
una struttura narrativa che ne esalta l'unicità sintomatica. Anche
per Ejchenbaum "la novella è una forma fondamentale,
elementare", "intrinsecamente opposta" alla "forma sincretica"
del romanzo:
La novella è un problema d'impostazione di un'equazione
ad un incognita; il romanzo è un problema su regole diverse,
risolvibile con l'aiuto d'un intero sistema di equazioni a più
incognite, in cui hanno maggior importanza le costruzioni
intermedie che il risultato finale. La novella è un enigma; il
romanzo una specie di sciarada o di rebus.59
B. Ejchenbaum, Teoria della prosa in AA. VV, I
formalisti russi, a c. di T. Todorov, Einaudi Torino
1968, p. 241.
59
Le "incognite", gli "enigmi" che gli autori della Bohème
milanese porgevano al loro pubblico elettivo non erano di facile
soluzione, nemmeno sul piano della tecnica letteraria. Anche per
questa ragione storico-morfologica, i loro testi non sono
capolavori: la sperimentazione delle "materie prime" e dei
moduli compositivi della narrativa moderna era ricerca ardua,
talvolta destinata a un esito precario se non addirittura al
fallimento. E tuttavia non c'è dubbio che alcune delle Storielle
vane di C. Boito o dei Racconti fantastici di Tarchetti conservino
una ricchezza di suggestioni inedita e mantengano il fascino
problematico del prototipo esemplare.
Il campo del fantastico
Nella
"rifondazione"
del
genere
novellistico,
la
grammatica narrativa del racconto fantastico assolve una
funzione di spicco. Imitando le opere dei grandi maestri,
Hoffmann Poe Nerval Gautier, gli scrittori scapigliati saggiano
l'insieme dei procedimenti più idonei a dare forma alle fantasie
maledette
e
perturbanti
che
il
nostro
romanticismo
"conciliatoristico" aveva cautelosamente emarginato. L'intérieur
borghese
si
affolla
di
fantasmi,
incubi,
allucinazioni:
"Rammentò la scena spaventosa. Era sogno, delirio? Era una
cosa orribile" (Sacchetti, Da uno spiraglio, p. 289); nei sogni
notturni, spettri del passato lanciano oscure premonizioni:
"Erano fatti?, od erano visioni?" (Tarchetti, Leggende del
castello nero, to. II, p. 41); nelle case avite risuonano melodie
strazianti che conducono a morte padri egoisti:
Era un'agonia di note.
Poi
l'ultima
vibrò
lunga
lunga,
tetra,
triste,
soprannaturale, con un accento che una mente umana non può
imaginare. Pareva partire dalle viscere della terra e come una
freccia volare in cielo. Era il grido supremo, il grido di chi
muore d'amore. Al conte sembrò riconoscere in quell'accento
l'accento d'Ida. (Gualdo, La canzone di Weber, p. 150)
Finalmente esibite, compaiono anche nella nostra
letteratura la "carne, la morte e il diavolo", con il corteggio delle
sulfuree immagini care all'"agonia romantica" (M. Praz). La
fortuna di questo sottogenere nella produzione scapigliata deriva
da una doppia motivazione: la volontà battagliera di chiudere
definitivamente
con
il
manzonismo
dei
rusticali
e
le
sdolcinatezze dei novellatori in versi s'innestava nel clima
positivista dominato dallo scontro fra spiegazioni razionali,
condotte
in
nome
delle
nuove
discipline
scientifiche
(magnetismo, messmerismo, ipnotismo), e la fascinazione
artistica per i misteri insondabili. L'alternativa è denunciata negli
stessi testi: "Avevo dinanzi a me un meraviglioso problema di
scienza e fors'anche un fatale argomento di dramma" (Il pugno
chiuso, p. 14); al centro di Storia di una gamba c'è "il segreto di
un fenomeno strano, di un fenomeno spaventoso", connesso ai
"rapporti fra patologia animale colla clinica psicologica", che
solo la testimonianza d'arte potrà "afferrare" (to. II, p. 189). E le
ricorrenze dei termini "fatale" e "strano" davvero si sprecano.
La struttura del racconto fantastico porge, infatti, lo
schema migliore per rompere con le norme compositive più
antiquate, rispondendo pienamente ai dettami della poetica
scapigliata. L'"esitazione di lettura", prima condizione del genere
secondo Todorov60, non solo impedisce ogni commento morale o
pedagogico, ma impone al fruitore un atteggiamento di dubbio
complice: lo scarto irriducibile fra la voce del narratore e la
percezione allucinata del personaggio amplifica la "visione
ambigua" che nessun finale può chiarire. Concentrando il fuoco
60
T. Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 1977.
narrativo sull'enigma da sciogliere, la scrittura esalta l'"effetto
puntuale", cardine del racconto; poiché il fantastico si gioca,
soprattutto nel secolo XIX, sulla contraddizione fra due livelli di
realtà (naturale/soprannaturale, noto/ignoto, certo/possibile,
razionale/irrazionale, latente/manifesto)61, gli scapigliati vi
calano le innumerevoli polarità del loro conclamato dualismo. Il
sistema delle coordinate spazio-temporali è stravolto da moti
convulsi di stasi e accelerazione, fissità monomaniacale e euforie
demoniache, e il primato del "superlativo e l'eccesso" 62 non solo
infrange ogni norma di ragionevole misura e di moderato buon
senso, ma ben s'inserisce nella forma narrativa del "non-ancora
non-più", fondata sul "caso singolo per lo più estremo". L'incipit
del Pugno chiuso non lascia dubbi sul grado parossistico
dell'evento narrato: "Non avevo mai visto un caso più
spaventoso di plica"(p. 13), mentre nelle novelle tarchettiane,
"circostanze singolari e incomprensibili", "fenomeni singolari",
"sentimenti inesplicabili" introducono sempre nel "regno
inesplorato" della "superstizione e del terrore".
Se Il pugno chiuso di Arrigo Boito è "forse la più perfetta
«novella fantastica» prodotta in Italia nel secondo Ottocento"63 e
61
Cfr. AA. VV., La narrazione fantastica, Nistri Lischi, Pisa 1983.
62
T.Todorov, op. cit., p. 96.
63
Un corpo del fratello Camillo eleva al quadrato "l'esitazione
irrisolta fra spiegazione casuale e spiegazione meravigliosa"64, i
Racconti fantastici dell'autore di Fosca ci offrono un
campionario ricco e sfaccettato, che la critica più recente ha
illustrato nei suoi molteplici risvolti: il tema del "corpo diviso"
(V. Roda), l'"intrusione di una possibile illogicità" nell'ordine
naturale (M. Colummi Camerino), le ossessioni sessual-religiose
(M. Garré), la dimensione di onirismo notturno (G. Tardiola), il
motivo dei "mondi eterogenei" (M. Farnetti), il "dispositivo
dell'oggetto mediatore" (L.Lugnani), le tecniche dell'equivoco e
dell'"errore" (N. Bonifazi).
E' impossibile dare una descrizione analitica delle tante
novelle in cui gli autori scapigliati riaggiornano, sul modello
degli
amati
Hoffman
Poe
e
Gautier,
le
suggestioni
dell'irrazionalità perturbante. Più utile forse suggerire una
distinzione non rigida, ricavata dallo schema todoroviano, che
delinea due campi vicini, spesso convergenti, ma non del tutto
omologhi: nel primo, Tarchetti, insieme con l'Arrigo del Pugno
chiuso, predilige i "temi dell'io"; nel secondo, Camillo Boito, cui
R. Ceserani, Una perfetta novella fantastica, postilla a A. Boito, Il pugno
chiuso, p. 48.
64
E. Scarano, L'anatomia del corpo in una storiella vana di C.B., cit.
s'affianca il sacchettiano Da uno spiraglio, ama l'esplorazione
dei "temi del tu".
Nei testi tarchettiani più rispettosi del paradigma
ambivalente del genere (anche se per tutti Ceserani conia il
neologismo di "racconti fantasticizzati"), è la percezione distorta
dell'io narrante a guidare il discorso. I protagonisti dei Racconti
fantastici sono esseri "fatali" nei quali la dissociazione
metamorfica e schizofrenica della personalità altera, in un delirio
rovinoso, la ricognizione della dimensione spazio-temporale.
Non c'è dubbio che simili impulsi paranoici governino anche i
rapporti con la figura femminile, ma ad eccezione dello Spirito
in un lampone, risolto peraltro con un poco ortodosso happy end,
la narrazione non rende mai la donna soggetto attivo nello
scontro fra reale e sovrannaturale. Silvia, Ulrica, la dama del
castello nero sono sì coinvolte nella logica fobica del loro
compagno, ma costui resta l'unica vittima delle lacerazioni
psico-somatiche e il solo portatore della "immaginazione
sregolata". Sarà, piuttosto, al di fuori di questo specifico
sottogenere che l'erotismo femminile, ricco di pulsioni
indomabili, travolgerà ogni barriera e confine (Fosca).
Diverso e più curioso il caso delle Storielle vane di
Camillo Boito. In questi racconti, in cui il fantastico sfiora il
campo dello "strano", i "temi del tu" circoscrivono con
limpidezza l'area della sessualità morbosa: l'oggetto del
desiderio è davvero al centro del racconto e determina le
reazioni sconvolte del protagonista: Carlotta, dalla "sensibilità
eccessiva" (Un corpo, p.27), la gitana "empia" del Demonio
muto, Teresa di Macchia grigia, la "fanciulla bizzarra" di
Santuario. E' vero che le ossessioni in Boito non si traducono
mai nelle allucinazioni angoscianti alla Poe: le note equivoche
delle Storielle vane sono eminentemente elusive; la "visione
ambigua", se pur lambisce l'Unheimliche (la coincidenza
"spaventosa" della morte di Carlotta, i denti della merciaia di
Notte di Natale, con il facile richiamo a Berenice), lo annebbia
con una patina di intelligenza ironica che nell'"esitazione" del
genere immette una buona dose di criticismo ludico. E tuttavia
gli indizi "maledetti" sono troppi e troppo diffusi per attribuire
all'autore "la disposizione distaccata e controllata" (P. Nardi) o
la "scettica imperturbabilità dello spettatore" (R. Bigazzi). Sotto
l'effigie della "parnassiana bellezza" è, in realtà, sempre sotteso
"quel mescolamento di attrazione e repulsione che promana da
qualunque esistenza senza possibilità di fuga o di controllo" 65.
Forse lo intuirono i cautelosi lettori ambrosiani che, per evitare il
65
L. Strappini, La memoria e la scrittura, "Senso" di Camillo
Boito, in "FM Annali", n. 2, 1979.
contagio ammaliante dei fantasmi boitiani, preferirono prendere
alla lettera il titolo e reputare le Storielle il divertissement di un
serioso architetto.
Capitolo V  La narrativa dell'io
L'eclisse del narratore onnisciente
Secondo Debenedetti, a metà Ottocento, l'istituzione
letteraria europea conosce un sorta di rivolgimento di vasta
portata democratica: "Era nato una specie di diritto di voto, a
suffragio molto allargato, nel pubblico" 66. Fra le varie numerose
conseguenze che il rinnovamento produsse anche nella nostra
asfittica repubblica delle lettere, il saggista sottolinea la crisi del
"romanzo del «dover essere»", di quelle opere cioè in cui
l'autore, poco importa a quale ideologia si ispirasse, "doveva
intervenire, con la sua intelligenza e il suo giudizio, per tenere
saldi i rapporti fra ciò che raccontava" e l'intero sistema di valori
e norme a carattere universale che il lettore era invitato a
condividere. In prima linea contro il romanzo del "dover essere"
si schiera compatto il gruppo degli artisti scapigliati; e la loro
foga iconoclasta s'abbatte, innanzitutto, su chi deteneva il
comando assoluto della compagine testuale: il narratore
onnisciente.
Nelle opere miste di storia e d'invenzione, la voce
narrante dispiegava una somma di funzioni ampia e variegata:
66
G. Debenedetti, Verga e il naturalismo, Garzanti, Milano 1976,
misurava
la
sapientemente
distanza
il
fra
presente
meccanismo
e
passato,
ingarbugliato
reggeva
dell'intreccio,
regolava l'inserimento nella trama principale di digressioni
spaziali e analessi temporali, descriveva i fatti che si svolgevano
sullo scenario del mondo, indagava i conflitti psicologici in cui
si dibattevano protagonisti e comparse e, ovviamente, tutto
giudicava in nome, appunto, del "dover essere" pubblico e
privato.
Negli anni Cinquanta, l'indebolimento dell'onniscienza
sovrana del narratore è il primo segnale dell'esaurimento della
formula mista: i due libri che con energia fervida testimoniano il
momento di svolta scelgono una figura di narratore meno
autorevolmente atteggiata. Nelle Confessioni di Nievo la
rievocazione memoriale, innestata sul duplice impianto del
resoconto storico e del Bildungsroman, esalta l'esperienza
individuale dell'italiano ottuagenario Carlino; nei Cento anni di
Rovani, il "liberarsi dell'io" (P. Nardi) incrina il dominio del
narratore, il quale continua sì a intervenire, ma assumendo i toni
un po' pettegoli del cronista cittadino, scettico e svagato.
Nei testi degli scapigliati la rottura è ormai consumata:
l'avvicinamento al presente e la linearità sfrangiata della trama
suggeriscono di affidare il racconto a un narratore che, calato nel
flusso delle vicende, non si preoccupa di indirizzarne il corso
con criteri certi e inappellabili. La stagione dell'impegno
risorgimentale, in cui chi raccontava s'avvaleva di un punto di
vista largamente condiviso, è davvero finita. Ora, per Praga e
compagni era giunto il momento di distogliere lo sguardo dal
mondo, ben più "prosaico" e squallido di quanto le illusioni
"poetiche" non l'avessero prospettato, per guardare dentro di sé e
sciogliere gli assilli dell'individualità singola.
Il narratore onnisciente, di storica memoria o di
feuilletonistica invadenza, lascia allora il posto a un io narrante
"eccentrico" e parziale. La focalizzazione ristretta è ottenuta
grazie a un duplice schema. Da una parte, gli scrittori inventano
una
figura
di
narratore
interno,
verso
cui
assumono
un'inclinazione di maggior o minor sintonia; dall'altra, proiettano
la propria soggettività in un io fittizio che affabula ricordi e
memorie, visioni e impressioni di viaggio.
Nel primo caso, l'autore delega la responsabilità del
discorso a un personaggio che, protagonista o testimone,
racconta un fatto in cui è stato direttamente o tangenzialmente
coinvolto. Nasce da qui l'artificio della narrazione a "scatole
cinesi", che caratterizza la produzione di questi anni: il racconto
si offre al lettore come riscrittura di confidenze e confessioni
orali o come edizione di manoscritti diari taccuini foglietti lettere
scartafacci albi testamenti "breviari bruciacchiati" e "carte
sparse". Il titolo della novella di Praga, Tre storie in una,
potrebbe valere come indicazione generale per l'intero corpus dei
libri scapigliati.
Le relazioni che i livelli del testo creano fra la prospettiva
d'autore e il punto di vista del narratore interno sono molteplici e
diversamente modellate: se nei racconti "fantastici", l'abbiamo
appena visto, l'alter ego è funzionale ad attivare l'"esitazione di
lettura" propria del genere, nelle altre opere la sfasatura
favorisce moti proiettivi più o meno marcati. In Una nobile
follia la struttura a cannocchiale rifrange, galvanizzando il piglio
polemico, l'esperienza militare realmente patita da Tarchetti;
nella novella di Praga, come annota Moestrup, Riccardo, il
compagno d'armi e d'arte del primo narratore, altri non è che
Arrigo Boito67. Per contro, le novelle di quest'ultimo presentano
solo qualche superficiale indizio (la Polonia, la competenza
scacchistica) utile a identificare la fisionomia del poeta
musicista. Al polo opposto dei drammi militari di Vincenzo D.,
Senso dimostra, invece, come il gioco prospettico sia tanto più
67
J. Moestrup, op. cit., p. 58.
efficace quanto maggiore è la distanza che separa l'autore dal
narratore fittizio.
E tuttavia comune a tutti questi racconti è il privilegio
accordato a un'ottica parziale e decentrata, capace di
demistificare le verità "olimpiche" della storia recente,
contestando, nel contempo, i principi di una collettività
positivamente sicura del proprio futuro e già incline ad assestarsi
in un bempensantismo miope e ipocrita. Davanti a un narratore
inaffidabile  poco importa se si tratta di un pazzo ossessionato
dalla "lettera U", della vanesia contessa Livia o dello scritturale
Cirillo malato d'arte  il lettore è invitato a confrontarsi con un
punto di vista "altro", che induce un atteggiamento di distacco
critico. Chiusi nella gabbia delle loro fobie o mossi da grandi
ambizioni, nel pieno della vita o vicini alla morte, vegliardi
saggi o giovani artisti ribelli, femmes fatales o donne
spaventosamente brutte, tutti i narratori interni operano una
distorsione prospettica che, minando il tradizionale ordine
romanzesco del "dover essere", apre la via alle soluzioni più
tipiche del relativismo novecentesco.
Allo stesso esito anti-oggettivistico conduce l'altra
tipologia sperimentata dagli scapigliati per insidiare il dominio
del narratore demiurgo. Anche in questo caso, il punto di vista è
prossimo agli eventi narrati, ma ora l'ottica ristretta non
appartiene a un personaggio, portavoce più o meno camuffato
dell'autore, sì piuttosto ad una sorta di controfigura, variamente
delineata,
che
affabula
storie,
memorie
e
impressioni.
Accantonato il ruolo di giudice e ideologo, affievolite le funzioni
di regia, incrinata la sintonia col lettore, lo scrittore si ripiega su
se stesso e si preoccupa solo delle proprie emozioni. Si avvia
così anche in Italia la moderna narrativa dell'io.
Ad accamparsi al centro di questi testi è la sensibilità
percettiva di un letterato-artista persuaso d'essere unico e diverso
fra la folla anonima che popola le città. Sia che esponga i
trasalimenti del suo cuore nel ricordo dei tempi passati, sia che
divaghi per percorsi umoristici, sia infine che schizzi acquerelli
o appunti di viaggio, a risuonare è sempre la "voce" di un
intellettuale colto, raffinato, spesso nevroticamente scosso, e che
tale si dichiara: i "nervetti" dossiani, "il genio capriccioso,
dispettoso, pieno di gusti pazzi e bizzarri" ispiratore di Tarchetti
(L'innamorato
della
montagna,
to.
II,
p.
143),
la
"voluttuosissima estasi di mesto abbandono" di Bazzero
(Riflesso azzurro, p. 79); "le febbrili concitazioni d'istinti" di
Emilio nelle Memorie (p. 122); "l'irritabilità delle fibre" dei
pittori boitiani (Il colore a Venezia, p. 432); "il subisso di
pensamenti" in cui si perde Faldella davanti a un paesaggio
scorto "più con la fantasia che con gli occhi" (A Vienna, p. 51 e
p. 55)
Gli sfoghi di un autore narcisista
Dossi, come al solito, è l'interprete più consapevole e
acuto della tendenza comune:
negli autori moderni, lo scrittore tiene per sé il primo
posto (N. A., n. 1976)
Una volta i novellieri contavano novelle, oggi contano sè
stessi. (N. A. n. 3572).
Bazzero, come aveva già capito De Marchi, "trasfonde il
suo io in tutto ciò che vede e tutto vivifica di sé" (Introduzione a
Storia di un'anima p. XIX); Tarchetti, per parte sua, non nutrì
mai alcuna incertezza nel considerarsi il fulcro della narrazione,
sempre e dovunque.
Gli atteggiamenti proiettivi dei vari autori si modulano,
come è ovvio, su cadenze originalmente impostate, ma lo sfondo
culturale entro cui si staglia la "narrativa dell'io" è l'orizzonte
europeo dell'individualismo borghese. E dal campionario
narrativo della prima stagione ottocentesca, gli "scapigliati
romantici in ira" recuperano schemi e modelli che meglio
confortano l'egocentrismo creativo. L'esibizione narcisistica,
tuttavia, rifiuta le note spontanee dell'effusione autobiografica: il
cruccioso "dualismo" da cui sono abitati impedisce l'abbandono
all'urgenza dei sentimenti. Persino l'"io inquieto di Tarchetti" 
questo il titolo del capitolo a lui dedicato nel bel volume di
Nardi  non conosce il conforto di confessioni pacificanti.
Nella letteratura postunitaria, il primato assegnato
all'ottica soggettiva risponde, infatti, ad un preciso intento
innovatore. Rigettate le certezze della cronaca storica, ancora
lontana l'impersonalità verista, i nostri
scrittori cercano una
verità non estrinseca e più intima: solo chi dice "io" può
arrogarsi il diritto-dovere di dare credibilità piena all'invenzione
letteraria, liberandola dai vincoli eteronomi che nei decenni
precedenti l'avevano troppo costretta. Ad essere galvanizzata,
allora, è l'estrosità immaginosa che poco cura le norme
dell'immediata verisimiglianza: anzi, è proprio la finzione a
garantire il timbro non menzognero del racconto. A sostenerlo è
il più espansivo degli scapigliati: per Tarchetti, i letterati
sono i più famosi simulatori tra i figli d'Adamo, e hanno
dato alla finzione tutte le attrattive della realtà, e se ne sono fatti
una religione severissima, perché è destino che nel cammino
faticoso delle lettere, non si possa giungere alla verità che per la
via della finzione. (Un suicidio all'inglese, to. I, p. 94)
Cui risponde in eco Dossi, il più vigile a camuffare gli
"scampoli" dei propri ricordi:
Il romanzo, menzogna lecita e onesta... Gli uomini
amano i romanzi per amore delle bugie. Le figure rettoriche sono
tutte bugie.- (N. A., n. 2425, cfr. anche n. 5064)
Ecco perché ogni lettura tesa a catturare spezzoni di
verità esistenziale nelle opere scapigliate, anche le più schiette,
rischia di essere fuorviante: persino quando la figura del
narratore è manifestamente l'alter ego dell'autore reale, lo
spessore d'autenticità è racchiuso negli artifici della scrittura,
non nell'esperienza di vita su cui si modella. Troppo moderni
erano, o aspiravano ad essere, i letterati bohémiens per credere
nella trasparenza limpida della confessione memoriale. Anzi, a
caratterizzare la narrativa dell'io in questi anni è il rifiuto
dell'autobiografismo disteso che, fra Sette e Ottocento, puntava a
ricomporre l'unità intera di un destino, inglobandola, con
l"esperienza del poi" entro un "preventivo disegno"68.
Esemplare è la torsione che alcuni scrittori imprimono al
genere elettivo della prima effusività romantica: la struttura
epistolare. Tarchetti, ammiratore di Ortis e Werther, ad essi si
richiama nel delineare la fisionomia di tanti suoi eroi-diaristi,
dall'inglese suicida al Giorgio di Fosca. Sotto l'influsso dei più
vicini D'Azeglio e Rajberti, l'esordiente Sacchetti (Eufrosina.
Lettere da Sorrento, 1869) e il Bazzero di Confidenze e
Corrispondenze (Dall'Oropa e Sui monti) sfruttano la finzione
delle missive amicali per raccogliere appunti di viaggio, sullo
sfondo di uno scenario ricco di richiami letterari e di "ghirigori
trasparenti". Ma ben presto, in tutti, il codice epistolare si
trasforma o cade del tutto. Nell'autore dei Fatali si innesta entro
le strutture multiple del racconto fantastico e umoristico, del
romanzo saggio, del feuilleton, potenziando l'effetto a "scatole
68
C. Dossi, Preambolo alla Vita di Carlo Dossi scritta da
Alberto Pisani, ricordato da A. Saccone, op. cit. p. 106.
cinesi". Nei due scapigliati più giovani, le coordinate del genere
conoscono un'opposta corrosione: Sacchetti le abbandona subito
per imboccare la strada della novella e del romanzo d'impianto
realistico; Bazzero, per contro, ne brucia ogni tensione
comunicativa, esasperando l'autoriflessività del discorso. In
Anima la scelta del giornale intimo giustifica l'esplorazione
morbosa dei disincanti acerbi e dei turbamenti ossessivi patiti
per la lontananza della donna amata: "Posso scrivere lo stato
dell'anima mia?... Eppure voglio sfogarmi" (p. 3), magari per
abbattere "la muraglia di ghiaccio che mi separa dall'avvenire"
(p. 65). Lo sciorinamento degli "stringigola, groppi, memorie
fallite e speranze fallite", cui si lascia andare il "deserto"
scrittore, è davvero romanticamente impudico, troppo per chi
voleva sentirsi parte della "piccola scuola milanese". Più
sottilmente modulata doveva essere la strategia per "tradurre a
parola le convulsioni dell'anima, le contorsioni di mano" che
l'autore di Schizzi dal mare condivideva con gli amici del
gruppo: ecco allora, sul modello dossiano dell'Altrieri, un primo
esempio di scrittura "intransitiva", riaggiornata alla luce di un
impressionismo melodico-pittorico. Riflesso azzurro (1873),
dopo il prologo collocato nel solitario presente, ricama la "danza
dei rimpianti e delle speranze" (p. 82) sull'onda delle ricordanze
di una stagione lontana, quando il piccolo protagonista giocava
con la cuginetta e la tata Teresa: qui, il percorso artificioso della
memoria si distende come "un nastro dalle tinte fuggevoli e
nebulose" (p. 49) che, nei frammenti di narrazione, allinea
sequenze allegre e sconsolate.
Al pari di Bazzero, tutti i letterati della "generazione
crucciosa"
coltivano
con
struggimento
il
desiderio
di
riassaporare le emozioni dell'infanzia, stagione felice dell'io e
insieme "età di candida innocenza del mondo"69.
La recriminazione pseudoleopardiana sul crollo delle
"dolci e dilette illusioni" coltivate nel passato è Leitmotiv di
molti racconti tarchettiani:
Vi è una sola epoca nell'esistenza nella quale si è felici
od osiamo almeno asserire più tardi di esserlo stati. Nella
gioventù. Felici? Sì, perché illusi, illusi perché inesperti (Storia
di un ideale, to. I, p. 89)
Dolci e serene memorie dell'infanzia, voi formate tutto il
segreto de' miei affetti, tutto il tesoro
delle mie più care
predilezioni. Oh potessi, dal sepolcro in cui giacete, evocarvi
69
G. Petronio, Poeti minori dell'Ottocento, Utet, Torino 1959, p. 591.
almeno un istante, per riabbellire del vostro sorriso fugace questi
miei giorni sconsolati e sofferenti! (Lorenzo Alviati, to. I p. 562)
Il tono di rimpianto accorato, su cui si chiude il quarto
capitolo del romanzo di Praga "O memorie della mia
giovinezza!" (Memorie, p. 20), è preparato dal ritratto iniziale
del protagonista:
Molti anni, ciò che vuol dire molte sciagure, sono passati
dal giorno in cui bussai a quella porta.
Compivo i venti, avevo la valigia del pittore sulle spalle,
e un buon angelo mi guidava  un angelo che adesso chi sa
dove è andato a nascondersi. Allora lo vedevo e sentivo;
splendore di cielo, verzure di convalli, scroscio di torrenti, belate
di mandre, tutto brillava, profumava, cantava per la presenza di
lui; e sul nostro passaggio gli atomi della natura si animavano al
contatto delle sue ali per parlar meco di arte e di gloria. (p. 7)
Ma, appunto, a differenza dell'intenerimento lirico, le
Memorie del presbiterio non possono più allineare le parole che
ragionano d'arte e di gloria e il narratore si riduce a diventare il
raccoglitore delle voci altrui. Egli stesso ostenta la sua "triste
prerogativa":
ebbi molte volte a ricevere confidenze da gente che mi
vedevano per la prima volta. Io sono stato così il depositario di
molti dolori (p. 116)
I racconti inseriti, riproponendo la sfasatura consueta fra
i due livelli di narrazione, incrinano l’atmosfera idillica della
presunta Tebaide e attenuano le note del compianto. Sulla
sequenza finale cala la luce "avvilente" della attualità squallida:
L'estate scorsa era in ferrovia (...)
Eppure quella sua gioia tanto naturale mi faceva pena
perché mi pareva una irriverenza verso le tristi memorie che il
suo incontro mi suscitava nell'animo. (p. 247)
Nella narrativa dell'Italia unita, le nostalgiche visioni
d'antan, non appena si affacciano, o si velano dell'ombrosa
malinconia che accompagna ciò che è irrecuperabile oppure si
schermano dietro il filtro ironico che raffrena la piena dei
ricordi. Come Dossi sa:
La Letteratura Umoristica non dà fuori, che in quelle
epoche nelle quali tutte le regole della vita antecedente sembrano
andare a fascio. (N. A., n. 1886)
Non c'è dubbio che tale appariva l'epoca postrisorgimentale: per dare conto dei dissidi che agitano gli autori
moderni, a cui peraltro non è concesso che parlare di sé (N. A, n.
2183), occorre, allora, mettere in scena un io fittizio dalle mille
sfaccettature.
I procedimenti dissolventi dell'umorismo
In preda alle contraddizioni più dirompenti, l'io inquieto
di Tarchetti tenta di bilanciare gli spasimi con le tecniche
dell'umorismo e dell'ironia, reputandole, da buon lettore di
Didimo-Yorick, le migliori "armi dell'attacco culturale e
dell'arroccamento soggettivo" (I. Crotti)70. E tuttavia, i
procedimenti sterniani di scomposizione e gli artifici del
70
I. Crotti-R. Ricorda, Scapigliatura e dintorni in Storia
letteraria d'Italia: L’Ottocento, a c. di A. Balduino, Piccin
Vallardi, Padova 1992, p. 8.
rovesciamento
parodico
non
presuppongono
un
piglio
"avanguardistico", sovvertitore del sistema sociale e dell'ordine
letterario (F. Bettini), corroborano, piuttosto, il "maniacale
monocentrismo" (V. Roda) che sempre ispira l'autore di Fosca.
Se nelle prose Ad un moscone, L'innamorato delle
montagna,
Viaggio
nelle
provincie
l'intreccio
divagante
smarrisce la meta di un autentico percorso sentimentale 71, I
racconti umoristici
illustrano il gusto scapigliato delle
disarmonie e del paradosso ("il ridicolo è forse il sublime del
serio" L’innamorato, to. II, p. 163), ma confermano, altresì, la
carica
ultraromantica
del
dualismo
tarchettiano:
"la
contraddizione è l'urto, è il moto, è la lotta (...) l'universo non è
che un'enorme contraddizione" (In cerca di morte, to. I p. 157).
L'epilogo comico di Re per ventiquattrore, mentre neutralizza la
valenza "politica" del sogno utopico, sottolinea la giocosità
estrosa di un narratore che si era "proposto di destare nell'anima
degli altri un'eco delle sensazioni della mia" (to. I, p. 204). Un
analogo capovolgimento conclude In cerca di morte: il successo
del
protagonista,
assunto
proprio
dalla
compagnia
di
Assicurazioni che voleva frodare, stempera la critica alle
71
R. Morabito, Logoramento del viaggio sentimentale da Yorick a
Camillo Boito, in "Trimestre", a. VIII, 1973, nn. 1-4.
convenzioni
della
civiltà
borghese
in
un
consolatorio
risarcimento amicale. Di più: l'happy end ("Alfredo di Rosen è il
più esemplare dei padri e dei mariti" to. I, p. 202) getta una luce
di moralità molta ambrosiana sulle cause dell'iniziale stato di
miseria: il barone si accinge al "pericoloso" tour europeo per
ripianare un colossale debito di gioco. Davanti ai tanti "padri e
mariti esemplari" che componevano il pragmatico pubblico
milanese, al ribelle Tarchetti non restava che esorcizzare i propri
fantasmi
angoscianti
attivando
l'esitazione
orrorosa
del
fantastico o inneggiando all'umoristica fede del dubbio:
il dubbio è la rivelazione della scienza,  essa lo cerca
immolandogli ogni fede  poiché una sola fede esiste, quella del
dubbio. (Riccardo Waitzen, to. I, pp. 604-5)
E tuttavia, troppo enfaticamente battagliera è la
proclamazione di incredulità scettica per non ribaltarsi in nuovo
e ancor più agonistico impegno: "Il dubbio è la lotta  le anime
deboli si acquetano facilmente nelle convinzioni, le grandi anime
lottano" (L'innamorato della montagna, to. II, p. 132). Se per
l'autore di Fosca "dubitando si crede", l'"effetto Sterne", pur
spesso evocato, si vanifica nel tessuto espressivo del pathos
melodrammatico,
l'unico
tarchettianamente
in
grado
di
"decifrare questo enimma spaventoso e incomprensibile di me
stesso" (ivi, p. 152).
Ben più intellettualmente coerente è il richiamo al
pessimismo umorista che lievita le dossiane Note azzurre: "la
scienza dubita e così l'umorismo" (N. A., n. 1255). Anche
l'autore dell'Altrieri coltiva le certezze dello scetticismo, "la sola
spontaneità che ci è rimasta" (N. A., n. 2267); e, ormai
consapevole
che "la naïveté non è più possibile nell'arte
odierna, (N. A., n. 1968), nell'appagare l'"intenso melanconico
desiderio per ciò che fu" (L'Altrieri, p. 448), decanta la filatera
dei ricordi con il brio dei maestri dell'ironia.
La critica, soprattutto recente (F. Tancini, M. Serri, T.
Pomilio, A. Saccone,
N. Lusuardi), ha registrato con
puntigliosità attenta le conseguenze disgreganti che l'imitazione
dossiana di Sterne e di Jean Paul produce entro l'orditura
complessiva del racconto. Non c'è dubbio che la pratica
umoristica, di cui il "libro azzurro" delinea uno sorta di
genealogia storica e di mappa geografica, sia il solvente più
corrosivo del romanzo del "dover essere". Da questa scelta
derivano il privilegio accordato ai "frammenti di libri", la
prevalenza nell'intreccio degli "intoppi" e "calappi" spiazzanti, la
parodia dei modelli romantico-scapigliati, i procedimenti di
"scomposizione coloristica e musicale" (G. Mariani), le mille
venature del pastiche espressionistico. E, tuttavia, il dato
centrale di una simile poetica non risiede nella somma di artifici
che promuove, sì piuttosto nell'implicita tensione ultrasoggettiva
da cui s'origina72.
L'ironia, musa elettiva dei Romantici d'oltralpe, diventa
lo strumento scapigliato di rivolta ultraindividuale -"l'io sol io"
della nota azzurra  contro la grettezza prosaica del mondo
borghese. Ecco il vero "effetto Sterne":
Egli spezza consapevolemente l'unità della forma
narrativa per creare, mediante arabeschi fantastici, un'unità
soggettiva,
l'unità
dell'intenerimento
degli
e
stati
dell'ironia
d'animo
(...)
contrastanti
Questo
estremo
soggettivismo e relativismo di Sterne esprime una caratteristica
molto importante e sempre più forte, dell'ideologia borghese: la
sua reazione al potere crescente della prosa dell'esistenza73.
72
L. Clerici, Pubblico reale e lettori ideali: l’umorismo di C. D.,
in AA. VV., Calvino e il comico, a c. di L. Clerici-B. Falcetto,
Marcos y Marcos, Milano 1994.
73
G. Lukàcs, Il romanzo come epopea borghese, in G. Lukàcs, M.
Bachtin e altri, Problemi di teoria del romanzo, Einaudi, Torino
L'Altrieri e la Vita di Alberto Pisani nascono dal
rimpianto per la perduta sintonia dell'io con il sé più riposto:
Era forse, originariamente, il mio cuore un ùnico
specchio, ma, dalla memoria onerato, si spezzò in centomila
specchietti. (Màrgine alla "Desinenza in A", p. 678).
Le due "quasi-autobiografie" (Prefazione generale ai
"Ritratti umani", p. 903) riescono a rifrangere il caleidoscopio
degli umori caratteriali più contraddittori anche grazie all'abile
gioco dei nomi che "intorno a questo sospiro d'uomo
compongono un rebus"74. Alberto Carlo Pisani Dossi incarica
Carlo Dossi di narrare la vita di Alberto Pisani, aspirante
scrittore che pubblica un libro con lo pseudonimo di Guido
Etelredi, protagonista della rievocazione in prima persona
dell'Altrieri. La serie delle controfigure costruisce lo schermo
difensivo attraverso cui l'individuo esibisce i suoi "geroglifici"
sentimenti, prendendo le distanze da sé e nel contempo elevando
un argine di signorilità narcisista contro la rozzezza volgare
1976, p. 159.
74
A. Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, Bompiani Milano 1988, p. 301.
degli "uòmini inferajolati" (Vita, p. 142). La "popolazione degli
Ii, uno diverso dall'altro "(N .A., n. 2369) da cui lo scapigliato si
dichiara abitato, calandosi nel "rebus dei nomi", assume timbri
espressivi difformi. In Lisa, la melodia elegiaca rammemora
l'esperienza del lutto patita dal "frugolo", quando ancora protetto
dal nucleo familiare, incontra, per subito perderla, la femminilità
oblativamente confidente. Panche di scuola pone in caricatura,
con la sequela scoppiettante delle metafore culinarie, il luogo
elettivo dell'educazione: il sarcasmo grottesco denuncia l'impatto
penoso dell'adolescente, ormai solo entro la comunità scolastica,
con la perfidia del "nemico mondaccio" e l'"onnipotenza del dio
Mammone" (p. 494). Infine, nel rispetto pieno dell'umorismo
straniante, La principessa di Pimpirimpara descrive i riti
dell'entrata in società, dove alle "piccole miserie" causate
dall'esibizione di pose virili (sigari e alcool), segue, ben più
pericolosa, la seduzione erotica del fascino muliebre. L'ultimo
episodio dell'Altrieri, prologo al percorso iniziatico di Alberto
Pisani, si chiude sulla raffigurazione onirica di Ego che, tornato
"collegialinuccio, in tunica azzurra" e rifugiatosi fra le
marionette di un teatrino, regredisce ad una innocua sessualità
orale.
Da questa autorappresentazione ironicamente sdoppiata
prende avvio la Vita di Alberto Pisani, in cui la dissociazione
fra narratore e personaggio porta a compimento l'ambizioso
progetto
di
delineare
un
"ritratto
d'artista"
d'equivoca
ambivalenza: la fisionomia del "gotico" protagonista, mentre
riflette il "malincònico e verginale erotismo" dell'autore
(Màrgine, p. 685), attua nel contempo la demistificazione
parodica dei suoi ideali romantico-scapigliati.
Nella Desinenza in A, infine, Dossi cerca di oggettivare
le ansie dell'io "giòvine" entro una struttura mista che alterna
scene, intermezzi e sinfonie. L'"io sol io", tuttavia, è troppo
nevroticamente assillante per contentarsi di assumere le vesti di
una semplice comparsa (il Nino Fiore del secondo Atto) o di
padroneggiare gli "attrezzi" concessi dalla "dramatica teatrale",
la quale, peraltro, "non appartiene né alla Letteratura pr. detta" e
"neppure all'umorismo, non tenendoci l'autore (dopo l'abolizione
del coro) nessuna parte a sé, ma dovendo sminuzzare la propria
anima fra differenti personaggi" (N. A., n. 2276). Nella partitura
ultrascandita e massimamente sconnessa, a venir meno è il
sofferto soggettivismo umoristico che aveva lievitato il pastiche
dei due primi piccoli capolavori; né vale a recuperare le note di
gaiezza dissacrante il confronto ravvicinato con "pinti romanzi"
di Hogart, più volte richiamato dall'autore. Certo, dietro la "linea
serpentina" s'affaccia
un'altra maschera, quella hogartiana (...) e con la stessa
funzione delle altre: di conservare intatta ed amplificare, agli
albori del verismo, la propria soggettività d'autore, di cui si teme
angosciosamente la disintegrazione75.
Ma, appunto, le "scritte pitture" e il "graphice scribere"
altro non sono che l'ennesimo artificio per "creare, mediante
arabeschi fantastici, un'unità soggettiva"76 da opporre alla
volgarità prosaica del mondo, qui raffigurato sub specie
femminea. E poiché "il potere della prosa dell'esistenza" si fa
sempre più alienante, nell'"estrosa ornamentalità della forma"
sterniana che caratterizza la Desinenza in A e i Ritratti umani, il
colore dominante è
il nero  un gran malumore contro gli individui di quella
razza alla quale pur io ho il disonore di appartenere. (Prefazione
generale ai "Ritratti umani", p. 904)
75
A. Saccone, op. cit., p. 93.
76
G. Lukàcs, op. cit., p. 159.
Altra allora è la valenza storico-culturale che occorre
attribuire alle stilizzazioni funamboliche che dissolvono la
rappresentazione unitaria della realtà. Il "tentativo di trovare alla
soggettività umana smarrita un punto d'appoggio dentro di sé" 77
spinge gli scrittori post-risorgimentali a sfruttare ogni risorsa
eccentricamente modulata: il raccordo analogico fra il discorso
narrativo e l'immaginario figurativo, che vede accomunati molti
scapigliati, è un'ulteriore spia dell'inquietudine maturata dagli
intellettuali umanisti davanti all'incipiente sviluppo capitalistico.
Nella valorizzazione orgogliosa di un ruolo in crisi, la scrittura
letteraria ricerca le linee serpentine, le trasparenze indefinite, i
ghirigori arabescati, gli acquerelli svaporanti, tutto pur di
difendere la sensibilità individuale dell'artista, minacciata dagli
strumenti della moderna riproducibilità tecnica.
Schizzi, acquerelli, gite col lapis
77
Ibidem.
Colpisce, nella produzione di questo quindicennio, una
serie di opere in prosa i cui titoli si corrispondono per sinonimia
o assonanza "pittorica". A Praga dobbiamo gli Schizzi a penna
("Rivista minima", febbraio-marzo 1865), lo stesso titolo hanno i
brani che Bazzero pubblica sul "Monitore della Moda"
(dicembre 1873) e sulla "Rivista illustrata di letteratura, belle arti
e varietà" (primi mesi 1876). Sempre di questo autore sono gli
Schizzi dal mare-Acquerelli; Schizzo dal vero è il sottotitolo di
una storiella vana di Boito, Quattr'ore al lido ("Nuova
Antologia" 1876), cui si affiancano, nella prima edizione Treves,
Pittore bizzarro e Il colore a Venezia. Vanno poi ricordate,
sempre di Boito, le Gite di un artista (Hoepli 1884) e i due
reportages di Faldella, A Vienna. Gita con il lapis, A Parigi.
Viaggio di Geronimo e comp. (entrambi usciti sulla "Gazzetta
Piemontese" il primo dal luglio al dicembre 1873, il secondo in
cinque puntate nel 1878 poi, in volume, rispettivamente
Tipografia C. Favale, Torino 1874, e Triverio, Torino 1887). Ce
n'è abbastanza per circoscrivere se non un preciso sottogenere,
certo un'area di testi con caratteri compositivi omogenei: brani
brevi, inizialmente apparsi su rivista, d'indole descrittiva, in cui
paesaggi e figure sono tratteggiati in ossequio alla moda della
"macchia" o del colorismo impressionistico. Esile e veloce
l'andamento narrativo, appena accennata la silhouette dei
personaggi, a risaltare è la sensibilità acuta dell'osservatoreflâneur che trascrive in diretta impressioni divagazioni
riflessioni, nate durante le tappe di un percorso itinerante.
Gli "sgorbii a casaccio", staccati da un "certo libricciolo
che mi fu compagno fedele di viaggio", allineano "impressioni
genuine di paesi, d'uomini e di casi" (Praga, Schizzi a penna, pp.
61 e 66). Le varie etichette che accompagnano il tarchettiano
Innamorato della montagna ne sottolineano l'ordito frastagliato:
Impressioni di viaggio è il sottotitolo definitivo; la nota in calce
alla prima edizione suonava "impressioni e memorie di viaggio
(...) frammenti di un più gran libro"; i capitoli iniziali
ribadiscono: Fantasticherie di viaggio, Altre divagazioni.
Le "impressioni calde e varie" raccolte da Camillo per
Hoepli sono, per ammissione esplicita, "lo svago di un artista,
non la fatica di un erudito", che ha girato in lungo e in largo per
mostre e musei d'Europa (Gite di un artista, p. XLIV). Ancora:
l'intenzione dell'autore di Schizzi dal mare è "buttar giù qualche
poverissimo acquerello" durante una vacanza in riviera; e a
meglio chiarirne il timbro evanescente, ecco il ricorso
antifrastico alla "carta sciupata", ricca di notazioni dotte, subito
messa da parte e sostituita da un "albo sfogliato e due pennelli
arruffati" (p. 148). Faldella, per parte sua, in cammino verso
l'Esposizione Universale di Vienna del 1873, osserva il
paesaggio lombardo attraverso "i piccoli quadrelli dei finestrini"
ferroviari, intarsiando richiami colti con curiose divagazioni "a
lapis" e ricorda che anche il reportage parigino nasce come un
"taccuino di note prese col lapis caldo"78.
Insomma, e le citazioni si potrebbero moltiplicare, siamo
nell'ambito di appunti di viaggio, stesi su ritmi discontinui e dai
contorni indefiniti, in cui confluiscono molteplici inedite
suggestioni.
Nell'epoca in cui i grands tours dei giovani aristocratici
si trasformano nelle escursioni dei turisti borghesi (i parigini
"memoriali di touristes", cui ammicca Sacchetti, in Eufrosina, in
Il forno della marchesa e altri racconti, p. 21), gli scrittori
scapigliati recuperano il modello ormai consolidato del
Sentimental journey e dei Reisebilder heiniani (in ambito
lombardo il precedente più immediato era Il viaggio di un
ignorante di G. Rajberti, 1857) e lo riattualizzano alla luce dei
fenomeni
"velocità"
78
nuovi dall'indubbio
conquistata
dalla
fascino:
ferrovia,
l'esperienza
la
della
fantasmagoria
Lettera a V. Bersezio, 17 agosto 1878, riportata da L. Surdich
nell'Introduzione a G. Faldella, A Parigi. Viaggio di Geronimo e
Comp., Costa Nolan, Genova 1983, p. 16.
straordinaria degli spettacoli esotici, la magia travolgente delle
Esposizioni Universali, colme di gente merci e prodotti d'arte. A
favorire lo sgranarsi a trama larga delle note divaganti è
l'adozione di un genere descrittivo che sin dalla denominazione
esibisce la sua vicinanza con le arti pittoriche: il bozzetto. Il
"taglio" agile e breve, inaugurato sui periodici in quegli anni e
destinato a rapida diffusione  fino alla "bozzettomania" contro
cui si scaglierà il verista De Roberto  era ideale per ricreare il
"color locale", ritrarre "figure a macchia", schizzare scenette
campestri en plein air. Sullo sfondo, ricco di stimoli artisticointellettuali, sfolgorava il modello di eleganza saggistica delle
baudelairiane recensioni ai Salons parigini.
In questa osmosi di scrittura letteraria e codici iconici,
alcuni critici (P. Nardi, G. Mariani, G. Scarsi) hanno voluto
leggere l'applicazione della tesi rovaniana sulle "mutue
rispondenze" fra Le tre Arti (Treves, Milano 1874), a conferma
del magistero scapigliato dell'autore dei Cento anni. Non c'è
dubbio che il termine "schizzi" alluda alle modalità grafiche del
disegno, ben conosciute dal pittore Praga o dall'architetto Boito.
E tuttavia, come ha chiarito Baldi79, il saggio di Rovani non
addita un'ipotesi di confusa commistione o "affinità", propone
79
G. Baldi, G. Rovani e il problema del romanzo nell’ottocento, Olschki,
Firenze 1967.
semmai una visione unitaria della pratica artistica che, nel
decennio '65-'75, acquista un timbro di polemica attualità.
Per comprendere l'assetto originale di queste prose poco
giovano gli aneddoti di scapestrata vita in comune o i richiami
canonici alla tradizione pittorica e letteraria. Più utile si rivela il
confronto con le inclinazioni raffigurative promosse dai nuovi
circuiti editoriali, all'interno di quella "repubblica della carta
sporca", di cui gli scapigliati erano ospiti assidui. La
partecipazione alle riviste di varia umanità, moda e costume, per
un verso, li induce a cimentarsi in prove inedite di scrittura
"giornalistica": Praga invia gli Schizzi a penna in risposta alle
richieste di Ghislanzoni per la "Rivista Minima"; Faldella,
"ghermito agli ozi campestri e letterari del suo villaggio e spinto
alla batteria elettrica della corrispondenza giornaliera" (Salita a
Montecitorio), stende i suoi reportages da Vienna e Parigi per la
"Gazzetta Piemontese"; Boito, infine, appresta le sue Gite di un
artista accorpando recensioni e articoli usciti sulla "Nuova
Antologia". Persino Bazzero comincia a colorare i suoi
Acquerelli su incoraggiamento dei redattori della "Vita Nuova".
Per altro verso, il caleidoscopio di illustrazioni che dilaga sulle
pagine delle riviste eccita l'estro figurativo dei narratori. La
proliferazione degli "schizzi a penna", se certo risente degli
influssi pittorici delle Esposizioni e del gusto diffuso della moda
parnassiana, nasce, anche dalla voglia di contrastare, con forza
d'arte, l'"esplosione dell'immagine a tutti i livelli" 80 su cui
l'editoria periodica milanese fondava i suoi successi. Ragone
ricorda come "L'illustrazione italiana" di Treves sia sede di una
collaborazione intensissima, in cui spesso "il letterato si trova a
costruire, come semplice portatore di competenza tecnica, il
contesto
dell'illustrazione"81.
Negli
autori
di
più
alta
consapevolezza, forse di maggior narcisismo, il rapporto con i
nuovi
codici
iconici
avviene
nelle
forme
della
sfida
concorrenziale, mai della subalternità imitativa. Così è per il
poeta-pittore Praga, per l'architetto-critico Boito, per il
collezionista archeologo Dossi, per l'antiquario d'armi Bazzero.
A tutti questi "malati d'arte" da' voce sincera il faldelliano
Cirillo: "Io odio i giornali illustrati" (Il male dell'arte, p. 93).
La tavolozza dei letterati girovaghi
80
G. Ragone, op. cit., p. 730.
81
Ibidem.
Nel boitiano Colore a Venezia, con il suo sottotitolo
ironico-esplicativo (Queste annotazioni sono tolte dall'albo di
un artista pedante), la descrizione degli splendori della città
lagunare è affidata alle "impressioni", alle "sensazioni", alla
"sensibilità nervosa" della mente del pittore, "più fortunata della
macchina fotografica", perché in grado di "serbare vivo il
ricordo dei moti, delle espressioni, delle forme, della luce e delle
tinte" (p. 433). Dall'antagonismo conflittuale con gli strumenti
della riproducibilità tecnica, l'arte dell'avvenire ricava stimoli
inediti per raffinarsi:
si capiva bene come egli non intendesse a riprodurre
sulla tela ciò che la fotografia porge materialmente e che
centinaia di pittori ritrassero prima di lui, bensì volesse dare una
sostanza corporea all'immagine tutta ideale, che la piazza San
Marco aveva suscitato in date condizioni di luce e in date
circostanze sull'animo di lui pittore. (ivi, p. 437)
Scandito sulla contrapposizione oggi-allora, un analogo
confronto spiega, agli occhi di Bazzero, il "vezzo ribaldo" di
schizzare degli acquerelli fuggi-fatica: così e così, quattro
pennellate, senza fondo, senza un contorno deciso, magari
spropositati di disegno, su un brandello di carta qualunque. (...)
Adesso c'è la fotografia. (Schizzi dal mare, p. 221)
La prosa dell'impressionismo soggettivista ha ormai la
strada spianata e quanto più ciascun autore rispetta le proprie
singole percezioni immaginose, tanto più l'acquerello e la
figurina
acquistano
tonalità
inconfondibili.
L'aveva
già
dichiarato il solito Cirillo: "Il paesaggio non deve essere né
convenzionale, né fotografico, ma deve scaturire dal profondo
dell'animo" (Il male dell’arte, p. 71).
Nelle Gite di un artista, Boito riserva un'attenzione
preziosa agli effetti plastici creati dalle variazioni luminose e, in
questa sorta di "taccuino-tavolozza"82, gli scenari di storia e
natura si compenetrano in un impasto coloristico intriso di colta
ebbrezza melanconica. Se la "campagna fra Villafranca e
Custoza" diffonde per l'aria "un'agitazione, lenta, grave, funerea"
(L'ossario, p. 5), nel tragitto da Milano a Ulma "la fantasia si
smarrisce in vaghe visioni, l'animo si allarga, mentre il corpo
82
P. Pancrazi, Racconti e Novelle dell'Ottocento, Sansoni,
Firenze 1939, ora a c. di G. Luti, Le Lettere, Firenze 1988, p.
271.
nell'aria sottile si sente più snello e più forte" (La Baviera, p.
198). Pur non abbandonando mai il tono un un po' blasé del
letterato cosmopolita, "il pittore vagabondo che gira l'Italia in
cerca di cose da dipingere e di donne da amare"83, matura ben
presto una "sensibilità nervosa" e irrequieta che trasforma anche
le sue passeggiate in coinvolgenti "avventure estetiche" (M.
Dillon Wanke).
Più mossa e intimamente raffigurativa la tecnica pittorica
adottata da Praga negli Schizzi a penna: in queste "poche
pagine" strappate dal vecchio albo, predominano i procedimenti
di scomposizione screziata delle immagini: "In quel rosso, in
quel giallo, in quel lucido, è tutta una gaja e vagabonda vita di
artista" (p. 65). Il resoconto di viaggio intreccia alle pennellate
cromatiche le linee guizzanti dei profili, in un incastro abile di
toni leggendari e squarci realistici, preannuncio di alcune delle
pagine più felici delle Memorie: i ritratti della vecchia montanara
e di Baccio vicino alla fontana, i paesaggi notturni del villaggio
o del presbiterio "immerso in una nebbia diafana" (p. 90).
Lo stesso timbro di inquietudine nervosa caratterizza gli
Schizzi dal mare di Bazzero, anticipatori secondo Mariani e
83
M. Guglielminetti, Introduzione a C. Boito, Storielle vane, Silva, Roma 1971,
p. 16.
Gioanola di atmosfere crepuscolari: "facendomi il poeta dei
crepuscoli, vorrei coll'anima illanguidita della sera, vorrei
pregare la Madonna" (p. 151); "E perché di quei fiorellini io
colgo e bacio l'appassito?" (p. 232). Nei brani lievitati da un
impossibile desiderio di pienezza vitale, le clausole iterative, già
presenti in Riflesso azzurro, intensificano le sfumature raffinate
del chiaroscuro; quando l'acquerello riesce a superare le note
della leziosità compiaciuta, i toni evanescenti della "carissima
tavolozza" (p. 228) preannunciano un languore intenso di marca
decadente.
Animate da una vena di eccentricità espressionista, si
snodano invece le "note con il lapis" di Faldella, inviato speciale
all'Esposizione Universale del 1873. La tecnica "a lineole a
singhiozzi, senza congiunzioni di grammatica e di pensiero" (A
Vienna, p. 92) ben rende L'effetto di vapore su cui si apre il libro
e le Venti ore di strada ferrata, altra puntata del reportage,
passano
come il corso di un nastro a colori svariati (...) Il verde
dei prati, è condotto più dolcemente, le curve del suolo
molleggiano; festoni di fiori inghirlandano le finestre e le porte
delle case; il bianco delle loro cornici vince il bianco delle
pareti, e alcune di queste sembrano stuoie granulose (p. 237).
Il "Reisebilder italiano", per dirla con le parole di un
comune amico scapigliato, assommava
Finezze, mezze tinte, miniature, paesaggi, novelline,
bizzarrie, rubrica di parole, sapienza di lingua, rivelazioni di
estetica.84
E'
questo
eclettismo
erudito
a
guidare
l'ottica
complessiva del letterato flâneur in terra mitteleuropea: il
pastiche, più che trascrivere i moti umbratili di una sensibilità
morbosa, punta a contrastare polemicamente le consuetudini
linguistiche e comportamentali dei viaggiatori comuni, la "gente
grassa" che, con omaggio al Giusti, viene sbeffeggiata alla fine
del capitoletto intitolato Guide. Il corrispondente della "Gazzetta
Piemontese" mette subito in guardia i suoi lettori:
84
A. Galateo, citato da M.Dillon Wanke, nell'Introduzione a G.
Faldella, A Vienna Gita con il lapis, p. 23.
Non isperate che io vi annoii con la descrizione di una cattedrale, ché le
cattedrali sono diventate troppo pericolose dopo la pubblicazioni di certi libri
descrittivi. (p.101)
Poiché "la vera essenza qualitativa di una città consiste
in cento nonnulla" (pp. 58-9), Faldella rifiuta la prosa sciatta e
grigia dei Baedeker turistici e, indugiando sui singoli dettagli,
scopre
sfumature
incomprensibili
ai
più,
risvolti
colti,
franto
degli
dimenticate reminiscenze letterarie.
Lontana
dall'andamento
ritmicamente
Acquerelli di Bazzero e dalla trascolorante semplice eleganza
degli Schizzi praghiani, qui la scrittura espressionista poggia su
una "deformazione osservativa"85 che si traduce eminentemente
in un impasto lessicale di purismi, dialettalismi, neologismi di
cui lo stesso autore spiega la ricetta al termine del libro nella
famosa Autobibliografia.
Vocaboli del trecento, del cinquecento, della parlata
toscana e piemontesismi; sulle rive del patetico piantato uno
sghignazzo da buffone; tormentato il dizionario come un
cadavere, con la disperazione di dargli vita mediante il canto, il
pianoforte, la elettricità e il reobarbaro (p. 246).
85
G. Contini, Introduzione, cit., p. 14.
Anche nell'opera sollecitata dal viaggio a Parigi per
l'Esposizione del 1878,
la scoppiettante prosa faldelliana
trascrive impressioni curiose:
Quel ponte è una smisurata gabbia rettangolare da
elefante, che gitta nell'abisso le sue proboscidi articolate. (A
Parigi, p. 97)
L'arrivo a Berna suggerisce l'atmosfera della città
svizzera con un’immagine sinteticamente azzeccata:
Ai nostri viaggiatori nell'entrare in Berna parve di entrare
in una scarpa; imperocché le vie di Berna hanno proprio il liscio,
il colore, il tepore freddo, come disse Pino Goldi, e la convessità
delle pareti interne di una scarpa. (p. 101)
Poi, lo spettacolo rutilante dell'Esposizione travolge i
visitatori; la capitale francese non solo riporta la sua "rivincita",
ma mette in mostra meraviglie prodigiose:
In effetto si avanzava il drago meccanico inaffiatore,
quasi scotendo il giogo del lungo tubo elastico, che lo allacciava
alla sorgente tromba idraulica; si avanzava saltellando come un
capriolo; si torceva e si inserpentiva accusando convulsioni
intestine; si inerpicava certe volte, come un cavallo ombroso
sulle zampe di dietro, e sputava, vomitava continuamente dai
contorcimenti della bocca rabbiosa la più proprizia acqua irrigua.
(p. 161)
In A Parigi, tuttavia, l'autore abbandona la prospettiva in
presa diretta, adottata non solo nella prima Gita con il lapis ma
anche nel Viaggio a Roma senza vedere il Papa ("Fanfulla"
1874, poi in volume Perino, Roma 1880), per affidare voce e
punto di vista ad una controfigura interna: il "dabben sindaco"
Geronimo, cui si affiancano il segretario comunale, Pino Goldi,
e le rispettive signore. L'inserimento delle note giornalistiche
entro una struttura più compiutamente narrativa complica e
appesantisce l'andamento del resoconto, a tutto discapito
dell'effervescenza espositiva. Ha ragione, allora, Vassalli a
lamentare il rischio che Faldella "si geronimizzi" 86, assuma, cioè,
senza
86
il
filtro
dell'autoironia,
l'ottica
bempensante
S. Vassalli, Prefazione a G. Faldella, A Parigi..., p. 5.
del
"provinciale" che distorce ogni confronto fra il paesino di
Monticella, da cui la compagnia è partita e a cui non vede l'ora
di ritornare, e la tentatrice ville lumière. I commenti moralistici
sul Mabille, il doppio volto di Parigi di "carta" e vista "dal vero",
l'attenzione alle domestiche beghe di coppia falsano il timbro del
discorso, frenandone il ritmo con una serie di osservazioni
banali.
Meglio allora ritornare alla scrittura screziata dell'opera
di maggior successo dell'onorevole di Saluggia, quelle Figurine,
che sin dal titolo rimandano alla tecnica pittorica. Come già
segnalava un critico coevo: "Faldella ha mutato la penna in
pennello, il libro in una tavolozza" (F. Cameroni, "il Sole",
ottobre 1875). In questa dozzina di "libere rapsodie"87 che, prive
di
ogni
incorniciamento,
rompono
con
le
convenzioni
tradizionali della narrativa rusticale, la tipologia compositiva
trapassa dal quadretto esemplare (High life contadina) alla fiaba
boschiva (La figliuola da latte), dalla parodia scapigliata
(Gentilina) all'idillio con finale edificante (Carluccio, Lord
Spleen). Apparsi sulle "Serate Piemontesi" e sulla "Rivista
Minima"
87
88
di
Farina88,
i
"tritoli
di
racconti",
G. Ferrata, Introduzione a G. Faldella, Figurine, p. XXII.
Sull'orientamento normalizzatore della collaborazione insiste
R. Bigazzi, I colori del vero, cit., pp.276-80.
secondo
l'autodefinizione faldelliana, non puntano mai a comporre un
affresco pluridimensionale o un ritratto dal vero dei costumi
paesani, ma cesellano silhouettes, miniano ghiribizzi, ricamano
arabeschi che inseguono le giravolte del fumo ora "patito,
compassionevole" ora "lussurioso, pettoruto" e rincorrono i
giochi di chiaroscuro che gli spruzzi di neve, simili a "virgole di
gesso", disegnano nell’aria buia. Bazzero, per indicare i pezzi
corti in contrapposizione alle "operone", usa il termine "elzevir"
(Anima, pag. 44). Appunto: le Figurine, calandosi a bell'agio
nella misura breve promossa dai nuovi circuiti editoriali,
inaugurano un genere di prosa che tanta fortuna godrà nella
nostra letteratura di fine secolo e soprattutto dei primi decenni
del Novecento.
Capitolo VI  Ritratti di giovani artisti
Protagonisti ventenni e immaturi
Età: vent'anni; sesso: maschile; estrazione sociale:
borghese; professione: artista. Occhi: neri o azzurrissimi, ma
sempre "pieni di fuoco esprimenti una strana potenza d'affetto"
(Capriccio); segni particolari: aspetto bello e impossibile.
Il documento d'identità della stragrande maggioranza dei
personaggi scapigliati non si discosta da questo immaginario
paradigma. Certo, nella galassia variegata dei comprimari che
affollano le opere di Boito e compagni si incontrano anche
aristocratici, il barone
di Rosen il duca Giorgio molte
nobildonne; popolani, la coppia dei promessi sposi Luigi e
Paolina (Paolina), Teresa (Macchia grigia), Mansueta e Baccio
(Memorie del presbiterio), Carluccio e le "villane" delle
Figurine; s'affaccia sul proscenio qualche vegliardo, nonna
Giacinta, l'orientale Yao del Trapezio, lo zio prossimo a morte
del Demonio muto, oltre a sacerdoti, medici e colonnelli che
ormai maturi scoprono di non aver capito molto della vita. E
naturalmente, accanto agli eroi, svettano fatali dark ladies o
sedicenni fanciulle in fiore. Ma appunto le eccezioni confermano
la regola, e molto spesso, autonegandosi, la corroborano
ulteriormente: i nobili assumono per lo più comportamenti
signorilmente borghesi, le povere madamine si rivelano figlie di
marchesi, i vecchi prendono la parola per rievocare la stagione
della loro gioventù; le "fosche" e "sensuali" seduttrici sono
doppi speculari del protagonista. Ecco perché, alla fine, il lettore
di racconti e romanzi scapigliati si convince di essere stato in
compagnia di un solo personaggio prototipo dai lineamenti
inequivocabili.
A rafforzare quest'impressione di lettura è il dato davvero
unificante che caratterizza i personaggi della narrativa postrisorgimentale: gli attori delle vicende, sia che si muovano nella
contemporaneità sia che agiscano nel passato memorialmente
recuperato, sono immancabilmente e dichiaratamente ventenni.
Giorgio, dalla "gioventù ricca di molte passioni", si innamora di
Clara e Fosca a 23 anni; la stessa età ha Lorenzo Alviati,
"dovizioso elegante", "anima nobile e pura"; di un solo anno più
vecchi Riccardo Waitzen e l'amante di Carlotta (Un corpo); poco
più che ventenne è la contessa Livia quando si invaghisce di
Remigio. L'Emilio praghiano, "originale" e "curioso", è un
"giovine pittore" di vent'anni, forse lo stesso ventenne che
alloggia nello "studio circondato d'olmi" in un "quartiere remoto
e tranquillo" di Milano (Tre storie in una), poco distante magari
dalla casa del mago dove Alberto Pisani, "di un venti anni e
coda" (Vita, p.86), incomincia a scrivere il libro per donna
Claudia. L'"autore" di Baciale 'l piede ha "diciotto anni", è
coetaneo di Paolo maestro di musica, "ricco soltanto di gioventù
e di speranze" (La canzone di Weber, p. 123), di Armando M.,
"superbamente fatto, bello, nella freschezza dei suoi vent'anni"
(Capriccio, p.152), e così via nella lunga galleria di giovani che,
in cerca di morte, di gambe o di donne ideali, si atteggiano tutti a
controfigure dei loro creatori.
Il romanzo di Cletto Arrighi che dà il nome al
movimento, La Scapigliatura e il 6 febbraio, deriva la sua
esemplarità anche dalla specifica indicazione generazionale: gli
"eroi in rivolta" che compongono la Compagnia brusca (cap. I)
sono tali perché abitano la dimensione vitale ed emotiva della
gioventù, i Flegeljahre, per usare il titolo di un romanzo di Jean
Paul, allora di gran moda e che in traduzione italiana suona
Anni di scapigliatura giovanile. E' l'età che, secondo "la cultura
occidentale moderna racchiude in sé «il senso della vita»", nella
agonistica aspirazione alla maturità e nel suo implicito rifiuto 89.
Se ricordiamo, sempre con Moretti, che il primato attribuito dal
89
F. Moretti, Il romanzo di formazione, Garzanti, Milano 1986, p. 10.
romanzo ottocentesco agli eroi giovani è "connesso ai processi
ammalianti e pericolosi della modernità", la narrativa che
inaugura la letteratura dell'Italia unita acquista un rilievo storicoideale decisivo.
A imprimere il marchio originalmente scapigliato a
questa gioventù "inquieta e travagliata" è l'enfasi costante con
cui se ne sottolinea la professione creativa: ancora una volta
Arrighi aveva colto nel segno quando, schizzandone il ritratto,
aveva scelto come suoi rappresentanti poeti commediografi
litografisti. Ed ecco infatti avanzare, oltre ai numerosissimi già
citati, i letterati viaggiatori degli Schizzi a penna e degli
Acquerelli, gli artisti di Gualdo in preda a capricci o a
allucinazioni, l'esordiente disegnatore Roberto Marini del
racconto giovanile di Dossi (Per me si va tra la perduta gente),
il terzetto protagonista del Cesare Mariani, Cirillo del Male
dell’arte e Pinotto di Rovine, i musicisti della
trilogia
tarchettiana Amore nell'arte in compagnia dei pittori boitiani più
o meno bizzarri, del bozzettista sacchettiano di Eufrosina.
Lettere da Sorrento e di Guido di Entusiasmi. Il Künstlerroman
(il romanzo dell'artista) è davvero il modello paradigmatico della
narrativa scapigliata, a testimonianza e difesa di quell'"aura" che
la società positiva dei traffici tendeva a offuscare. Ma sul
binomio "arte e gioventù" ci siamo già soffermati a sufficienza;
ora, piuttosto, conviene analizzare come il giovane protagonista,
in attesa d'amore e di fama, occupi il centro della scena.
Solitari egocentrici
In molte opere il personaggio si presenta al lettore sulla
soglia del testo e il titolo non lascia dubbi su chi sia il perno
della vicenda: Lorenzo Alviati, Riccardo Waitzen, Cesare
Mariani, e poi Bouvard, Riccardo il tiranno, Vita di Alberto
Pisani, Il viaggio del duca Giorgio. Per le protagoniste
femminili, basta il nome proprio: Fosca, Paolina, Narcisa, Tota
Nerina, a riprova di una convenzione che, nel nostro paese,
conosce poche smentite. A fronte di Eugenie Grandet, Madame
Bovary, Effi Briest e Anna Karenina noi continueremo a leggere
Eva, Teresa, Arabella, Giacinta.
Più curiosamente scapigliata è la consuetudine di
indicare, nel corso del racconto, solo l'iniziale del patronimico: il
più celebre Vincenzo D. (Una nobile follia) apre la strada a
Federico M. (Un osso di morto), Alfredo M. (Storia di un
ideale), Eugenio M. e Lorenzo D. (Storia di una gamba), il
barone di B. (Uno spirito in un lampone), il marchese di B., con
i suoi compari "il conte di F., il barone di C., il cavaliere di Z."
(Paolina),
Armando M. (Capriccio), Arnoldo D. (Una
scommessa), il cav. G... (Da uno spiraglio): quasi che il
narratore voglia alludere a un'identità ben nota nella cerchia
ristretta del pubblico elettivo. La scelta, cara soprattutto a
Tarchetti e Gualdo (se si esclude il vezzo dossiano di
autonominarsi D. nelle Note azzurre), suggerisce, d'altronde, la
fisionomia eminentemente privata di questi personaggi. A
determinare, infatti, il loro destino e il corso degli eventi sono i
dati biologici, sesso età, e un mestiere dettato dall'ispirazione più
segreta, sciolto, almeno nelle intenzioni di chi lo esercita, da
vincoli di anagrafe sociale.
La "narrativa dell'io" di marca scapigliata, qualunque
siano le coordinate di genere adottate, esalta la solitudine
egocentrica del protagonista, ammantandola di connotazioni
esistenziali e proiettandola, perciò, ben al di là degli schemi cari
alla poetica romantica. A fondamento dell'intreccio non c'è più
lo scontro frontale tra l'eroe e la collettività, sancito, al termine,
da un'esclusione di morte o da una meritata integrazione
nell'ordine comune: qui il conflitto oppone l'io al sé, in una
dialettica di indole antropologica che intreccia desideri di
possesso e ansie regressive, ambizioni di gloria e istinti
masochisti, eros e thanatos insomma. Eccola l'origine endogena
del dualismo in cui si dibattono gli eroi maledetti. I due estremi
possono indicare polarità divergenti, ma la tensione primaria non
oltrepassa quasi mai i confini dell'interiorità: la lotta morale fra
fatalità e libero arbitrio è il Leitmotiv ossessivo dei libri di
Tarchetti; il "male" di Cirillo s'origina nell'intrico dei suoi "tanti
ii"; le antitesi boitiane si dispongono entro lo spazio,
simbolicamente chiuso, di una scacchiera o di un trapezio; le
"quasi-autobiografie" dossiane mettono in scena sempre e
unicamente "l'io sol io"; l'inclinazione comportamentale che
Camillo Boito invita ad assumere davanti alla "vanità delle cose
mortali" presuppone uno sdoppiamento psichico: "Ciascun
individuo ha da contenere due esseri, sinceri entrambi: l'attore e
lo spettatore" (Dall'agosto al novembre, pp. 90-1).
Anche per questo restringimento di campo narrativo, la
Scapigliatura è testimonianza crucciosa del passaggio nodale che
il paese conosce nel quindicennio immediatamente successivo
all'Unità. Lo sviluppo dell'urbanesimo moderno apre una frattura
irriducibile fra pubblico e privato: storia e destino non sono più
correlati e la sfera protetta dell'esistenza fronteggia la
dimensione competitiva degli scambi sociali. Spetta agli scrittori
bohémiens cominciare a dare conto del sopravvento che il
"mondo interno" piglia sempre sul "mondo esterno" (Vita di
Alberto Pisani, p. 237): la constatazione che in terra lombarda vi
siano poche "Educazioni sentimentali" e nessun Bel Ami, ma
molte storielle vane e innumerevoli Bouvard rimanda più che a
incertezze d'autore, alla debolezza della tradizione romanzesca
italiana e ancor più alla fragilità strutturale del nostro assetto
borghese.
Meglio si comprendono, ora, le ragioni della scarsa
rilevanza
dei pur copiosi misteri cittadini o della povertà
culturale di cui peccano i vari libri d'ispirazione sociale: la
narrativa post-unitaria non delinea mai lo scenario della civiltà
urbana, quale si andava affermando sotto le guglie del Duomo,
anche perché i "tritoli di racconto" e i "frammenti di libri"
rifuggono dalla rappresentazione del "sistema delle relazioni"
entro cui si organizza la totalità romanzesca. Per nulla coinvolti
dai meccanismi dello sviluppo produttivo, gli scapigliati poco
s'interessano alle dinamiche connettive fra io e mondo.
Ciò non significa che dal tessuto sfrangiato del racconto
non emerga un diagramma preciso dei rapporti di forza: anche le
figure "strane e fatali" si muovono entro un ambito pubblico
capace di condizionarne scelte e comportamenti. Così, la
vicenda di Beppe e Gina ripete, sia pur in una sequenza
retrospettiva, lo scontro di classe fra la coppia di contadini e il
potente locale, (Memorie del presbiterio); la storia di Paolina ne
fa il cardine della trama principale, anche se lo subordina alla
perfidia dell'intrigo incestuoso. Vade retro, Satana (C. Boito)
disegna un brutale conflitto di interessi finanziario-speculativi
ma cala il diavolo tentatore nelle vesti sgargianti della donna del
capo e la tavolozza di Faldella, incline a miniare le sane
Figurine del mondo campagnolo, ne offusca però le condizioni
materiali di vita. Più incisivo, semmai, l'affresco di realtà offerto
dai quadri d'interni schizzati con snobismo ironico da Dossi e
Gualdo. I ritratti dei maggiordomi (Paolino nella Vita, un
perfetto Jeeves ante-litteram, Pietro "il vecchio servitore" della
Villa d'Ostellio) illustrano esemplarmente l'atteggiamento di
deferente superiorità intellettuale e sentimentale assunto dai
subalterni verso i padroni, nelle famiglie della nobiltà
imborghesita. Con ombreggiature altrettanto sfumate, nella
strategia geometrica di una partita a scacchi Boito inscrive
un'opposizione di indole sociale: contro Anderssen, proprietario
latifondista arricchitosi col gioco, lotta un self made man, degno
di comparire nella galleria allestita da Lessona in Volere è
potere. L'Oncle Tom, infatti, dopo aver riscattato la sua
posizione di schiavo con lo studio, oggi "è uno dei più ricchi
possidenti del cantone di Ginevra, ha delle mirabili coltivazioni
di tabacco e per un certo suo segreto nella concia della foglia,
fabbrica i migliori zigari del paese" (L'alfier nero, p. 398). Se
l'antagonismo fra ceti diversi regge, sin dal titolo, le novelle di
Sacchetti, Tenda e castello e soprattutto Cascina e castello,
nell'opera di Tarchetti il populismo democratico ispira commenti
vibranti sul lavoro operaio o sullo squallore delle periferie
urbane, mentre il disprezzo per l'inoperosità improduttrice di
dandies e zerbini (Riccardo Waitzen, to. I, p. 607) e la condanna
senza appello del dissoluto marito di Fosca s'accordano con la
mentalità fattiva della capitale morale. Suggella questa veloce
carrellata l'ancipite riprovazione classista che accomuna l'intera
pattuglia scapigliata: quanto più feroce suona la satira contro
l'"infrollita" aristocrazia che riempie i teatri milanesi, senza nulla
comprendere d'arte, tanto più irredimibile è l'infamia che
marchia il mondo bottegaio dei commercianti, sempre e
dovunque rozzi e volgari.
Insomma, in una prospettiva d'indagine sociologica,
l'analisi minuta e puntuale riesce a individuare nei singoli testi
una serie di elementi "tipici", per quanto scorciati della civiltà
postunitaria. E tuttavia non il panorama delle forze collettive
occupa il centro della narrativa scapigliata, né i conflitti
economici sostengono la dinamica dell'intreccio: le singole
notazioni particolari rifrangono un clima, allestiscono uno
scenario, non costituiscono mai il fulcro del racconto. Altra e più
riposta è la dimensione entro cui si sviluppa la rete dei rapporti
fra i personaggi: l'aveva già indicata Tarchetti quando, definito il
romanzo "la storia del cuore umano e della famiglia",
annunciava polemicamente: "Ho desiderato di conoscere l'uomo,
l'uomo solo" (Idee minime sul romanzo, to. II, p. 523)
Il fuoco della produzione scapigliata è collocato nella
sfera dell'intimità privata, ricca di rovelli esistenziali. Ovvio e un
po' superfluo ribadire che in questa "narrativa dell'io", postromantica e pre-positivista, prevalgano i deliri morbosi e gli
incubi fobici; più interessante anticipare che per lumeggiarli
Dossi
e
compagni
ripudino
i
moduli
analitici
dell'approfondimento psicologico. Decisivo chiarire subito che
la storia della famiglia resta un'ipotesi progettuale, senza
rappresentazione alcuna: nel passato e nel futuro dei giovani
personaggi il nucleo domestico è per lo più assente o
infidamente traballante.
Senza famiglia
E' stato opportunamente osservato che "il romanzo
storico è un romanzo prevalentemente prematrimoniale"90, dove
la lontananza forzata degli amanti prelude o a una felice unione
o alla separazione definitiva di morte. Altrettanto nota la
centralità che assumono le crisi coniugali per adulterio, vero o
presunto, nei testi teatrali e narrativi di fine Ottocento. Ebbene
gli scapigliati s'inseriscono in una fase di passaggio e illustrano
il vuoto che si apre, ai loro occhi, tra il declino del vecchio
modello aristocratico-patriarcale e l'affermarsi del nuovo ordine
mononucleare. Della famiglia borghese, cellula primaria della
società, in cui affetti disinteressati e convenienze economiche si
stringono in un unico nodo, non c'è traccia in queste opere: l'arco
temporale del racconto pare anzi occupare due zone estreme di
latenza. Da una parte, la Vigilia di nozze, secondo il titolo di una
bella novella di Sacchetti che allude allo stato d'attesa in cui si
consuma la maggior parte delle vicende sentimentali; dall'altra
Requiem: così un Acquerello di Bazzero sancisce l'unico esito
possibile del legame d'amore. Quando, beninteso, la follia non
abbia già condotto alla disintegrazione dell'io e di ogni possibile
90
F. Fiorentino, Luoghi del romanzo storico francese (18201835), in AA. VV., Storie su storie, Neri Pozza, Vicenza 1985, p.
147.
convivenza a due. Nel mezzo, un periodo di attrazione fatale che
dura, per dirla questa volta con Boito, Meno d'un giorno o, tutt'al
più, Dall'agosto al novembre.
E' il multiforme campionario narrativo di Tarchetti a
offrirci lo spettro esemplare degli innamoramenti destinati allo
scacco. La trilogia dedicata ai musicisti, Lorenzo Alviati
Bouvard e Riccardo Waitzen, esibisce in modi canonici
l'inconciliabilità fra "amore e arte", le due tensioni che
governano l'esistenza di tutti i giovani protagonisti. Il conflitto
verrà rimodulato da Praga (Tre storie in una), approfondito da
Gualdo (La gran rivale), riformulato con accenti positivisti in
Un corpo di Boito, proiettato sullo sfondo risorgimentale da
Sacchetti (Guido e Dosolina in Entusiasmi), esasperato nel
faldelliano Male dell’arte, dove Cirillo giunge addirittura ad
ammazzare la moglie modella, messo in parodia da Dossi che
allestisce il suicidio di Alberto sul "desiato corpo" di Claudia,
ormai cadavere. Il gioco dei sentimenti varia, le cadenze
espressive vi si adeguano, trascolorando dal melodrammaticomorboso dell'autore di Fosca alla galanteria mondana di Gualdo,
dalla sensualità nevrotica di Boito fino ai poli opposti del
realismo sacchettiano e dell'ironia straniante di Dossi e Faldella,
ma la composizione finale del quadro non cambia. L'ansia di
assoluto non concede compromessi: la dedizione all'attività
inventiva impone compiti ardui, indirizzando la creatività verso
perfette immagini ideali. Sarà anche vero, come sostiene Cirillo,
che "Il genio senza la donna è come il gas illuminante prima che
gli si avvicini la fiamma: non si vede, solo se ne sente il fetore"
(Il male dell'arte, pp. 76-7), ma il femminile "astro di luce",
calato nella realtà, non galvanizza l'ispirazione, la brucia fino
all'esaurimento.
Anche oltre la cerchia degli artisti, nessun legame
conosce la gioia dell'affetto scambievole. Sono ancora le figure
tarchettiane a guidare la schiera degli amanti infelici: Giorgio,
diviso fra Clara già sposata e Fosca "l'isterismo fatto donna" (to.
II, p. 271), alla fine può solo rifugiarsi fra le braccia protettive
della madre resuscitata in extremis ("mia madre che perdetti
fanciullo" p. 285, "l'arrivo di mia madre" p. 426); sir Robert si
butta nel Vesuvio perché si crede tradito dalla fidanzata Maria,
che s'accompagna, invece, a un giovane fratello ritrovato dopo
molte traversie; il destino di Paolina, già segnato da una nascita
irregolare, ripete coattivamente la sorte materna (stessa età,
stessa malattia mortale, persino stesso seduttore); l'innamorato
della montagna è tale perché quelle balze accolgono la tomba
della promessa sposa diciassettenne, il cui ricordo continua a
ispirare "antiche melodie"; l'amputazione di una gamba grava di
sospetti e risentimenti la passione fra Eugenio e Clemenza; la
vicinanza del "fatale" barone di Saternez mina pericolosamente
la salute di Silvia, e così via tra smanie e tormenti fino alla
morte.
Nei testi degli altri narratori, mutano gli schemi, variano
gli intrecci, si modifica la fisionomia degli amanti, ma l'epilogo
sancisce sempre la vittoria di thanatos su eros: nel primitivo
impatto col disagio della civiltà, l'istinto del piacere, per quanto
sublimato, si ribalta subito in pulsione di morte. Il racconto
scapigliato dell'amore può calarsi nelle note memoriali della
melanconia elegiaca (Lisa, La cassierina, Elvira, Riflesso
azzurro), velare con l'ironia del pudore il virginale erotismo
(Principessa di Pimpirimpara, Vita di Alberto Pisani), modularsi
sulle cadenze del rancore o del rimorso (Senso, Macchia grigia,
Il demonio muto), riproporre le funeste passioni di età antiche
(Candaule), rievocare folli infatuazioni per dame di corte
(Capriccio) o incontri dettati da frenesie incestuose (Notte di
Natale), avviare un dialogo con l'ombra di un fantasma
femminile (Anima), condensarsi persino nell'apologo icastico di
Tonio lo scemo del villaggio (Memorie del presbiterio, pp. 12529), ma sarà sempre, tarchettianamente, "storia di un ideale".
Quando il desiderio rischia di tradursi in realtà, i timbri della
censura rimozione condanna invadono la pagina. Il mistero che
aleggia intorno al presbiterio di Praga riguarda una relazione
proibita e un'ingannevole attribuzione di paternità; in un'antica
Spagna leggendaria, l'"ultima brage" di un cero velenoso brucia
il destino di una dinastia regale e il casto amore fra cugini
adolescenti (Iberia); tutte le vicende sentimentali delle Storielle
vane sono proiettate "sullo sfondo di legami passati e finiti, tanto
conclusivi che portano direttamente o alla morte o a sue varianti
metaforiche"91.
Ancora peggio vanno le cose quando il matrimonio è già
stato celebrato. Tenda e castello e Candaule ne sanzionano la
fine col sangue, mentre Riccardo il tiranno, dell'omonima
novella sacchettiana, aveva tutte le ragioni d'opporsi all'unione
dell'amico Giovanni con Bettina. La lettera di Fosca descrive
l'inferno della convivenza con il finto conte Lodovico; sulle note
della "canzone di Weber", Ida incomincia a lasciarsi morire il
giorno stesso delle nozze; la solitaria stanza di Guglielmo si
trasforma
in
"un
nido",
solo
grazie
agli
effetti
dell'"allucinazione". Alfonsina, la moglie modella di Cirillo,
passata da "cervelloticheria" a figura reale, non merita che la
morte per soffocamento e nei dossiani racconti delle Due morali,
91
L. Strappini, art. cit.
un provocatorio happy end premia chi contravviene alla volontà
paterna e infrange le regole istituzionali del matrimonio (La
maestrina d'inglese). Le poche eccezioni, Vincenzo D. e Teresa
(Una nobile follia), Rosen e Emilia (In cerca di morte), Giulio e
Maria (Cascina e castello), sono confinate nelle zone marginali
del testo, prologo e epilogo.
L'unica coppia protagonista di sposi felici "si dissolve",
forse rifugiatasi in "qualche rosea regione sconosciuta
confinante con la terra" oppure "compenetrata con gli alberi, coi
cespugli, e con gli arrampicanti della villa" (La villa d'Ostellio,
p. 84). Ma questa novella di Gualdo è appunto una "leggenda
popolare" intorno a una dimora vetusta che "acquistò fama
d'esser fatata".
Nel passato, d'altronde, le vicende di casa non
procedevano molto meglio: una ugual legge rovinosa governa la
vita domestica nella famiglia d'origine. Figli di padri ammalati,
come recitano i versi praghiani, i giovani personaggi scapigliati
brancolano nel buio senza guide autorevoli.
La stragrande maggioranza dei protagonisti sono orfani.
Riccardo Waitzen: "il giovane non aveva né padre, né madre,
anzi non li aveva mai conosciuti"(to. I,p. 605); "a dieci anni
Bouvard era rimasto solo nel mondo" (to. I, p. 632); il folle
Vincenzo D.: "Io non conobbi né mio padre, né mia madre"
(Una nobile follia, to. I p. 419). Il vuoto alle loro spalle, tuttavia,
non fortifica il senso di responsabilità nelle scelte della stagione
adulta, come accadeva a Renzo Tramaglino o a Carlino Altoviti;
acuisce semmai lo smarrimento indotto dalla caduta dei valori
tradizionali. Per lo più neanche nominati, i genitori, se e quando
compaiono in scena, sono immagini larvali: confinate sullo
sfondo dell'infanzia le madri; destinati a morte precoce i padri:
"Della mia famiglia non conobbi che due moribondi, mio padre
e mia madre, e non avrò mai figliuoli." (Candaule, p. 85). E
tuttavia, per quanto ombre fugaci e a qualunque ceto
appartengano, contadini (Memorie del presbiterio, Il trapezio)
aristocratici (La desinenza in A) commercianti arricchiti (Panche
di scuola) borghesi d'alte pretese (Fosca), sono per i figli sempre
fonte di calamità.
Nonna Giacinta può placare i "nervetti" di Alberto con i
suoi racconti, ma nessun conforto fabulatorio può risarcire della
morte del padre e del suicidio della madre e il "nostro bimbo-incilindro" non uscirà mai dalla condizione di infantilismo
psichico. Il male di cui patisce Cirillo comincia dalla vergognosa
latitanza delle figure genitoriali, troppo impegnate in feste e
ricevimenti ufficiali per curarsi del ragazzino, affidato alle cure
leziosamente servili di un prete (Il male dell'arte). Non va
meglio a Pinotto, la cui terribile madre lo distrugge
psicologicamente, preferendogli nell'attenzione premurosa il
cane Glafir (Rovine). I fatali dell'omonimo racconto di Tarchetti
attingono il loro potere malefico da un legame familiare
occultato e il primo incubo del folle Vincenzo D. tradisce un
desolato senso d'abbandono ("Mi svegliai urlando e piangendo:
non ho mai più sognato mia madre" Una nobile follia, to. I, p.
423); il povero Ignazio-Aminta è sballottato fra una ragazzamadre deceduta nel darlo alla luce, un genitore naturale di cui
per fortuna ignora l'identità e un padre adottivo, a cui è stato
fraudolentemente attribuito e che lo tratta con malevolenza
perfida (Memorie del presbiterio); nell'"anno della grande
carestia" la fame costringe una donna vedova a separarsi dal
figlio, che alla fine si scopre "schiavo" dell'uomo cui è stato
consegnato (Il trapezio). Bazzero ci offre una variante
"familiare" meno esotica ma altrettanto esiziale: se il piccolo
Rigo trova rifugio fra le braccia amorose della mammina dolente
(Riflesso azzurro), in Anima proprio il confronto implacabile con
la madre, modello ideale di femminilità, e con il padre, esempio
di virilità operosa, è causa dell'impotenza affettiva e creativa
dello scrittore.
I genitori delle protagoniste femminili, soprattutto se
animati da buone intenzioni, sono anche peggio. Fosca deve
patire non solo la cieca stupidità materna (to. II, pp. 332-3), ma
la pochezza di carattere di un padre incapace di difenderla dal
marito violento e imbroglione; a Livia la famiglia insegna solo
cinismo opportunista e insensibilità morale. Il padre di Ida, il
quale "non era un uomo senza ingegno, ma ostinatamente
aggrappato ai suoi pregiudizi" (La canzone di Weber, p. 120), la
sacrifica al blasone nobiliare; dal genitore, che peraltro muore
lasciando la casa in miseria, Rosilde eredita l'amore nefasto per
il canto e il ballo (Memorie del presbiterio). Chiude degnamente
la serie il "padre snaturato e crudele" di Paolina, il cui unico
passatempo è insidiare, per scommessa, la virtù delle fanciulle.
Ancora una volta l'esemplificazione rischia di suonare
prolissa; per tutti può forse valere il ritratto sintetico che
Tarchetti traccia all'inizio della vicenda dedicata a Giovanni e
Fiordalisa: i due capifamiglia, in gioventù cospiratori, erano
Disillusi della vita politica, troppo deboli per perseverare
nella
lotta,
troppo
forti
per
cedere,
(L'innamorato della montagna, to. II, p. 163).
irresoluti
sempre
E naturalmente, scoperti e arrestati, "lasciavano la vita
sul palco" (p. 170), abbandonando i due ragazzi al loro solitario
destino.
La latitanza delle figure d'autorità
Il fallimento delle figure parentali assurge a emblema
della fine di un sistema di valori che, con coerenza amara,
nessun altro personaggio di potere e d'autorità riesce a surrogare:
anche i padri simbolici sono deboli e latitanti.
Nel passaggio "dalla poesia alla prosa" che caratterizza la
stagione unitaria, è naturale che i protagonisti politici siano i
primi a vacillare: non perché i nostri autori vi si accaniscono
contro, come capiterà nei romanzi antistorici di fine secolo,
quanto piuttosto per l'offuscamento che involge l'intera res
publica. Le poche "notabilità" che compaiono nei testi 
esemplari le Memorie praghiane  sono o macchiette da
sbeffeggiare (l'intendente, il segretario) o, peggio, torvi mestatori
da evitare (il sindaco De Boni, il consigliere farmacista
Bazzetta). Nella riunione del consiglio comunale, su cui
"l'insegna dello Stato" vigila "vergognosa" (p. 151), lo "sperpero
di preamboli" e la sequela retorica di "attesoché, di
considerandi, di ritenuti" avallano "le sciocchezze e le
bricconate" dei governanti (p. 153). Nel paesino di Sulzena,
come a Torre Orsolina, "la fregola del maggioreggiare nella
politica paesana" (Gioberti e Radescki, in Figurine, p. 97)
induce comportamenti non riprovevoli ma già tocchi dal "baco"
dell'ambizione.
Dossi è il più implacabile nella demistificazione dei
rappresentanti del potere, ovunque siedano. Privi di dignità
espressiva sono silhouettes appena abbozzate: in testa il Re,
"muso beatamente intontito dalla lussuria", poi i "Regi Impiegati
egoisti fino alla settima pelle", i "bottacciuti pretoni" le cui
prediche terroristiche spingono le fanciulle alla consunzione
mortale, infine gli "illustri" burbanzosi professori Proverbio,
Pignacca e Tamaroglio, voci stentoree capaci solo di
"spolverizzare" ogni frase di mitologia e erudizione.
Quanto
ai
militari,
protagonisti
dell'epopea
risorgimentale, sono definitivamente usciti di scena, ormai
sconfitti dai traffici del pragmatismo borghese. Ne corrode il
prestigio più che l'eco infausta delle cannonate di Novara (Vita
di Alberto Pisani) e di Custoza (Tre storie in una) o l'arringa
dettata da una "nobile follia", il rito convenzionale di un duello
inutile e ridicolo (Fosca).
La nuova area del sapere scientifico, d'altronde, non ha
ancora maturato figure dotate di autorevolezza sicura e
affidabile. Al di là dell'antagonismo fra cultori di discipline
positive e adepti del "male dell'arte", proprio la rappresentazione
degli atteggiamenti assunti dai medici segna la distanza che
separa la Scapigliatura dalla poetica naturalistica. Il dottor De
Emma non solo non riesce a salvare Rosilde, ma si fa suo
"complice"
nell'inganno
della
paternità
(Memorie
del
presbiterio); anche il chirurgo Lorenzo, pur senza alcuna volontà
malevola, è causa della follia dell'amico Eugenio (Storia di una
gamba) e il consulto di "celebri" e "famosissimi" clinici europei
non vale a aprire la mano rinserrata di Levy (Il pugno chiuso).
Di colpe gravi si macchia, invece, il dottore dagli "occhi furbi"
di Vade retro, Satana, mentre l'ignoranza maliziosa dei "novelli
Esculapi" è causa di terrore per il tramortito Gioacchino (Il
collare di Budda); tutti gli altri, con la sola significativa
eccezione dei personaggi sacchettiani (Cascina e castello,
Vigilia di nozze), se non sono imputabili di viltà o ipocrisie,
certo non brillano per sagacia e lungimiranza. Persino l'io
narrante del dossiano Calamajo di un medico annega la sua
sacrosanta indignazione nel catalogo moraleggiante dei "ritratti
umani". Presiede l'intera categoria, quasi a sintetizzarne la cecità
ottusa, il dottore-militare di Fosca. Responsabile diretto
dell'incontro fra i due amanti, incapace di fronteggiare i guai
combinati, contraddittorio nelle diagnosi e nelle terapie, al
termine del romanzo è lui ad esporre per lettera il "sugo della
storia". Dopo aver comunicato la morte della donna e le
dimissioni dall'esercito del cugino colonnello, prospetta a
Giorgio, ormai distrutto e "indifferente alle cose del mondo",
una facile e serena guarigione: "Viaggiate, divagatevi (...)
possiate esser felice" (to. II, pp. 426-7).
A sancire la fine di un'epoca e di una civiltà è,
conclusivamente, l'erosione che investe l'ordine dei personaggi
religiosi. Le figure di sacerdoti che s'affacciano nelle opere
scapigliate confermano il senso di abbandono cui allude la morte
del padre. Comune a tutti gli "antecristi" è la polemica contro il
"Vegliardo" Manzoni, in "sante visioni assorto", e soprattutto
contro "la letana dei diaconi, sottodiaconi, chierici e sacrestani"
che gli "fan coda" ("Figaro" n. 2, 1864). All'impeto dell'invettiva
consegnata ai saggi e agli articoli non corrisponde, però, un
analogo impegno di rappresentazione: la gamma timbrica con
cui vengono delineati gli ecclesiastici non si discosta dalla
convenzionalità caricaturale.
Il laico Dossi, sin dall'esordio (Educazione pretina),
recupera dalla poesia portiana le note pungenti dell'umorismo
parodico,
mentre
Tarchetti,
più
prossimo
alle
idealità
romantiche, confessa "le lotte" sostenute dalla ragione contro "la
favola religiosa tessuta sì scaltramente e sì ingegnosamente", per
poi, nondimeno, ammettere che "essa è nel cuore umano, essa è
fatta di pietà e di amore" (L'innamorato della montagna, to. II,
pp. 149-50). Sottilmente variato il gioco di cadenze che percorre
le Storielle vane: se le tentazioni che affliggono Don Giuseppe
chiedono il pathos visionario (Vade retro, Satana), il ritratto del
rettore del Santuario invita al sorriso sornione e le placide
ammonizioni del curato, "ottimo di cuore, ma un po' beone e
mangiatore insaziabile" (Il demonio muto, p. 362), poco
incidono sullo "scavo nella coscienza" compiuto dal vecchio zio.
Estranee a ogni assillo d'indole religiosa le novelle gualdiane
della Gran rivale e i racconti di Arrigo Boito: quest'ultimo
ambienta Iberia nella cattolicissima terra spagnola unicamente
per l'aura esotica che le sue "sante reliquie" sprigionano e
proietta l'orrida vicenda di Paw sullo sfondo delle "feste della
Madonna di Czenstokow" (Il pugno chiuso, p. 10) per meglio
far risaltare i contagi dell'allucinazione superstiziosa.
E' piuttosto l'opera di Praga, cui s'affratella l'inquieto
Bazzero, a testimoniare il groviglio di "soffocazioni d'ideali" e
"febbrili concitazioni d'istinti" nel quale si dibatte la "schiera di
coloro che negano assetati di fede" (Memorie, p. 122). Intorno al
presbiterio si muove una folla di figurine che, nelle molteplici
citazioni manzoniane, esemplificano le diverse attitudini dei
credenti. Fra i laici, al vecchio avaro Deboni, "diventato prodigo
per ispeculazione" ("collocava i suoi averi all'interesse nella
cassa pensioni del Padre eterno" p. 62) si oppongono i generosi
popolani, Mansueta e Baccio e la sventurata Gina; fra gli
ecclesiastici, oltre all'abatino Aminta, "creatura pensierosa e
malatticcia" (p. 47) in preda delle lusinghe dei sensi, officiano,
assieme a Don Luigi, peccatore innocente, Don Gaudenzio,
ingordo e miope, e Don Sebastiano, il vice-curato, il cui
"ultramontanismo spilorcio e fanatico" (p. 245) nega ogni
conforto di carità al disperato Beppe.
Su questo sfondo si staglia un solo personaggio in veste
talare ricco di vera devozione e d'amor di patria, tanto da
assurgere a eroe delle Cinque Giornate milanesi: padre Celestino
di Entusiasmi. Ma appunto, ormai lo sappiamo, l'opera di
Sacchetti vale come cartina di tornasole contrastiva rispetto alle
altre narrazioni bohémiennes.
Le tecniche di sdoppiamento
La solitudine del protagonista scapigliato, non più
romantico eslege ma non ancora dandy decadente, è corroborata
dai procedimenti compositivi che organizzano le relazioni fra i
vari attori della vicenda. Il rifiuto dello scenario storico, mentre
suggerisce la prospettiva ristretta e parziale, riduce il sistema dei
personaggi a una rete monocentrica in cui spicca l'eroe,
affiancato da figure disposte in coppia amorosa o amicale. Ecco
allora che in quasi tutti i racconti, il criterio distributivo ordina le
relazioni di complementarità solidale o oppositiva entro uno
schema orizzontale, non gerarchicamente regolato. L'assenza dei
genitori esalta il confronto con i "pari", d'età condizione sociale
scelta professionale, persino di fissazione alienata. L'omonimia
dei personaggi di Una nobile follia è spia macroscopica della
identità dei diversi; la dissociazione autoriflessiva che sorregge
gli antiromanzi di Carlo Dossi ne rappresenta il risvolto ironico.
Abbandonata la profondità di campo della narrazione
mista, allentate le maglie dei rapporti familiari, concentrato
l'interesse sull'io ipertrofico del protagonista, gli autori
scapigliati si trovano ad affrontare una questione decisiva: se "il
romanzo è la storia del cuore umano" (Tarchetti), come
raccontarne i turbamenti e gli assilli, come dar voce al
"dualismo" che tutti agita, senza contraddire l'ansia di modernità,
connessa al rigetto del realismo manzoniano, e senza restare
invischiati nella melassa sentimentale di cui l'"Arcadia
romantica" aveva fatto sfoggio? Fede e Bellezza (1840), l'unico
romanzo italiano che aveva tentato di penetrare nelle zone
oscure della psiche, ritraendo l'erotismo morboso che alterna
peccato e penitenza, conteneva numerosi spunti fecondi:
resoconto in soggettiva, struttura franta, aperta a squarci lirici e
descrittivi, infine, la "lieta e infelice schiera" di figure femminili
dal fascino torbido e ammaliante. E tuttavia il libro di
Tommaseo era troppo intriso di religiosità espiatoria per non
suscitare sospetto negli "antecristi" milanesi, resi ancor più
avvertiti dalla stroncatura di Cattaneo, apparsa sull'autorevole
"Politecnico".
La soluzione esperita dai nostri autori, sulla scorta dei
grandi
maestri
stranieri,
è
efficacemente
semplice:
la
drammatizzazione dello sdoppiamento, declinata con una varietà
sfolgorante di moduli. Per descrivere i "moti elementari e
contrari" (Il trapezio, p. 456) cui rispondono sempre le facoltà
umane, il narratore mette letteralmente in scena le antitesi:
nessun
approfondimento
psicologico,
nessun'indagine
introspettiva, piuttosto il ricorso costante al campionario delle
tecniche di geminazione. "Tutto è doppio", il motto ispiratore del
volume di Alberto Pisani, è il principio genetico dell'intera
produzione scapigliata.
Entro la dimensione tipologica delle opzioni di genere, i
modelli prediletti del fantastico e dell'umoristico valorizzano i
procedimenti
di
scomposizione
binaria,
corrispondenza
simmetrica, rifrangenza anaforica. Come ribatte il primo
narratore a Paw che sta per raccontare la doppia storia del
fiorino rosso: "«Meglio due che una»" (Il pugno chiuso, p. 17).
Nella misura breve della novella, il montaggio "a contrasto"
corrobora la specularità delle vicende rappresentate; nei
romanzi, l'intreccio sincopato disloca su piani diversi percorsi
paralleli (Vita di Alberto Pisani, Memorie del presbiterio) e la
struttura a canocchiale li proietta l'uno sull'altro in un gioco
caleidoscopico che moltiplica le immagini, senza peraltro creare
risonanze polifoniche (Una nobile follia, Fosca). Se l'intera
organizzazione dei materiali narrativi denuncia l'ossessione del
doppio, è, ovviamente, il sistema dei personaggi a renderla
manifesta.
Le opere più tipicamente scapigliate collocano il
protagonista al centro di una contesa, di fronte a un antagonista
uguale e contrario, "il gemello inesorato" evocato in una poesia
famosa di Praga (Alla Musa). Quando il poeta-pittore passa alla
prosa, il suo primo romanzo s'intitola, appunto, Due destini: in
campo Ippolito e Teodoro, "due cuori, due caratteri, due nature
diametralmente opposte" (p. 180) innamorati, ovviamente, della
stessa donna, Clemenza.
In alcuni testi, lo scontro è tematizzato e la posta in gioco
diversa ma sempre pericolosamente alta: una enorme somma di
denaro (Il pugno chiuso), il successo e la fama (Una
scommessa), la vittoria "fatale" in una partita a scacchi (L'alfier
nero), il possesso pieno del corpo femminile (Un corpo). In altri,
il conflitto impone scelte radicali e il personaggio si dibatte fra i
poli ultimi di vita e morte (Fosca, Il trapezio). Ciò che conta,
comunque, è la "messa in scena" delle antitesi da cui l'io è
lacerato, quasi a tradurre in prosa le indicazioni programmatiche
che Arrigo Boito aveva cantato nella prima strofa della sua
poesia-manifesto:
Son luce ed ombra; angelica
farfalla o verme immondo,
sono un caduto chèrubo
dannato a errar sul mondo,
o un demone che sale
affaticando l'ale,
verso un lontano ciel. (Dualismo)
A derivarne è un ritratto dell'individuo modernamente
inquieto, scosso da contraddizioni inedite e non riconducibili alla
coppia romantica cuore-ragione. Tuttavia la proiezione visibile
dell'"agitarsi alterno/fra paradiso e inferno" può solo denunciare
l'intensità divaricante del moto pendolare, senza mai offrirne le
chiavi interpretative, senza mai sfiorarne la sostanza. Il saggio
Yao presume di regolare la propria esistenza secondo le linee
convergenti che osserva in una piazza o in un'arena di circo,
salvo nulla capire e sprofondare nella "vertigine dell'abisso" (Il
trapezio).
La fenomenologia dell'io diviso è forse il topos più
caratteristico della narrativa postunitaria: come è già stato
notato, esso "rende conto in massima economia fantastica del
rapporto di identità e differenza dell'io con se stesso,
consentendo al soggetto, attraverso i meccanismi di divisione e
proiezione, di scaricare le angoscie distruttive in idoli di
persecuzione"92. Se l'opera tarchettiana documenta in ogni testo,
pressocché in ogni sequenza,  esemplare il raccontino sui
gemelli che apre la vicenda di Riccardo Waitzen ,
l'onnipervasiva legge dell'"urto e dell'antitesi" (Fosca, to. II, p.
348), tutti gli altri ne sfruttano a iosa le potenzialità compositive,
nel rispetto di quel "dualismo" teorizzato, in versi e in prosa, sin
dalle origini del movimento. Spia di uno specifico disagio
culturale, anticipatrice di suggestioni poi ampiamente diffuse
(basti ricordare, in terra ambrosiana, l'esordio di De Marchi con
Due anime e un corpo), l'immagine scapigliata dell'"homo
duplex"93, tuttavia, non apre nuovi mondi, non esplora regioni
sconosciute. Privi di retroterra filosofico, dilettanti pasticcioni
(Tarchetti, Praga), collezionisti nevrastenici (Dossi, Bazzero),
studiosi di discipline artistiche affini (C. Boito), magari anche
cultori ingordi di materie esoteriche (A. Boito), i narratori della
Bohème lombarda non amano gli approfondimenti riflessivi, le
92
E. Gioanola, Scrittura del pathos. Pathos della scrittura
nell'esperienza scapigliata, in "Otto/Novecento", a. IV, n. 5-6,
sett.-dic. 1980.
93
V. Roda, Homo duplex, il Mulino, Bologna 1991.
sistemazioni teoriche. Dietro le composizioni "a specchio"
traluce, piuttosto, ancora una volta, la fragilità della nostra
tradizione romanzesca. Per marcare la distanza dall'opera
manzoniana
e
nel
contempo
testimoniare
la
crisi
dell'individualismo eroico primottocentesco, i giovani letterati
credono sia sufficiente appropriarsi gli ambigui e schizofrenici
personaggi che popolavano la produzione d'oltralpe e riusare le
tecniche della raffigurazione dissociata, adattandole, tutt'al più,
al clima provinciale della penisola.
Ecco, allora, l'esibizione dei moti di "discordanza
perenne", del soggetto in "bilico tra l'essere e il non essere"
(Tarchetti, Storia di un ideale, to. I, p. 89, Storia di un gamba,
to. II, p. 217), dell'"addoppiarsi" esistenziale (Bazzero, Anima, p.
137) o del "raddoppiarsi e sdoppiarsi" (Faldella, Il male
dell’arte, p. 94). Certo, nell'episodio della Principessa di
Pimpirimpara, la comparsa sulla scena di "Ego" è segno
smagliante della spregiudicatezza intellettuale di Dossi, ma
proprio "il garbuglio di fantoccini" ammontonati dietro il sipario
a conclusione della fantasia onirica, ci aiuta a spiegare la esilità
d'implicazioni di cui pecca lo sdoppiamento dell'io nella
stragrande maggioranza di queste opere. La "messa in scena" del
double, quando non si cala nelle note stranianti dell'ironia, tende,
per lo più, a recuperare l'unica grammatica delle emozioni che la
nostra tradizione aveva elaborato al di fuori del solco
manzoniano: i gesti le pose i dialoghi, tutto condito d'enfasi,
della scrittura teatrale, magari d'impianto melodrammatico.
Troppi e troppo fragorosi sono i colpi di pistola che
suggellano il racconto per non denunciare la platealità del
dissidio psichico. La figure in antitesi per lo più non si
confrontano
davvero
né
crescono
in
progressione
ma
confliggono in uno scoppio finale: una partita a scacchi tra il
bianco e il nero (L'alfier nero), il matrimonio del nobile con la
zingara (Tenda e castello), l'attrazione sensuale fra due cinici
rappresentanti di una civiltà al tramonto (Senso), un duello che
non salva l'onore militare ma solo appalesa il contagio morboso
fra due amanti (Fosca), persino la Bildung di un giovane artista
alla ricerca della donna ideale (Vita di Alberto Pisani); tutte
queste vicende si chiudono con una rivoltellata che tronca di
netto la parabola narrativa. E l'accoltellamento di Saternez (I
fatali), il rantolo di Paw (Il pugno chiuso), il silenzio folle di
Arnoldo D. (Una scommessa), la morte in "un ospedale dei
pazzi" di Riccardo (Tre storie in una), la consunzione di
Lorenzo Alviati, l'apoplessia di Bouvard e di Waitzen sono esiti
altrettanto romanticamente risolutori che non concludono una
storia, sanciscono un destino.
A fondamento di simili epiloghi deflagranti è forse
possibile leggere una doppia negazione: il disagio patito dagli
intellettuali postunitari davanti alle vicende della dialettica
storica si traduce nel rifiuto dei valori della tradizione passata e
nel contempo nella riluttanza a prospettare un ipotetico scenario
futuro. Orfani, incapaci di diventare a loro volta padri, i
protagonisti scapigliati si arrestano sulla soglia della giovinezza,
crogiolandosi nella attesa vana della virilità matura e in preda
alla nostalgia del tempo infantile e delle franche certezze.
La raffigurazione fisionomica
La
raffigurazione
per
coppie
antinomiche,
l'accantonamento di ogni strumento d'indagine psicologica, il
privilegio concesso ad una permanente gioventù: tutti questi
elementi, immessi entro le strutture unilineari del racconto e del
romanzo breve, avvalorano la "piattezza" 94 dei personaggi
scapigliati. Fissati, monomaniaci, eternamente ragazzi nessuno
di loro muta e si corregge; tutt'al più si riconvertono nei loro
94
E. M. Forster, Aspetti del romanzo, il Saggiatore, Milano 1963.
doppi, in attesa dell'incontro ultimo e fatale. A derivarne è,
innanzitutto, la riduzione, se non lo svuotamento, degli schemi
compositivi di quei generi che si fondano sulla tramatura
analitica degli stati emotivo-sentimentali: da una parte la
scrittura memoriale, dall'altra il romanzo di formazione. Nel
primo caso (Dossi, Bazzero, C. Boito), la dinamica decisiva fra
io narrante e io narrato viene subordinata al recupero delle
atmosfere impalpabili dell'"altrieri" o al vagheggiamento
gratificante dei ricordi lontani. In Lisa e Riflesso azzurro
l'assunzione piena dell'ottica infantile colma lo scarto fra passato
e presente, fra ingenuità innocente e coscienza adulta; nella
Principessa di Pimpirimpara lo sdoppiamento ironico garantisce
al protagonista la fuga regressiva: la "farfalloneria" mondana di
Guido, al ritorno della festa, si scioglie nella recita di marionette
in cui campeggia l'"Ego" bambino. Nella Vita la divaricazione
marcata fra Carlo e Alberto apre uno iato fortissimo che vanifica
ogni processo di introspezione psicologica: "Osserva
il mio
amico «tu calchi troppo la penna»  Vero; ma quì non sono io
che pensa, è Alberto" (p. 117).
Molte
delle
Storielle
vane
sono
costruite
sui
procedimenti di rievocazione memoriale e la gamma delle
soluzioni esperite da Boito gioca su una varietà di intonazioni
sempre assolutorie: le "brutte confessioni" di un delirio
incestuoso affidate a una governante che, nulla capendo, tutto
legittima (Notte di Natale); la lettera testamento di un vegliardo
in punto di morte, pronto a sciorinare, con palese narcisismo, le
tentazioni del "demonio muto"; la descrizione dei sintomi
morbosi patiti da un narratore reso inaffidabile dalla "macchia
grigia " di un rimorso pervicacemente negato. Infine, splendida
nel rifiuto di ogni consapevolezza e responsabilità, Senso, dove
la scrittura della memoria è rispecchiamento "esaltante" e
"voluttuoso" nella fascinazione giovanile: la cornice, collocata
temporalmente a sedici anni di distanza, sottolinea la
permanenza dei moti di civetteria maliarda che già avevano
nutrito la folle passione di Livia per Remigio.
Anche il romanzo di formazione, nei due autori che
sembrano
prediligerlo,
Dossi
e
Faldella,
si
sfrangia
nell'annullamento del percorso progressivo che, per statuto,
dovrebbe orientarne la trama. Opportunamente Spera rinviene
nell'orditura dell'Altrieri e della Vita di Alberto Pisani, del Male
dell'arte e di Rovine, una legge sotterranea che sancisce
l'"inutilità della psicologia"95.
95
F. Spera, Il principio dell'antiletteratura, cit., pp. 89-91.
Il finale enigmatico della Vita, oltre che parodiare la
necrofilia di Bouvard, sottolinea il vuoto che si spalanca davanti
a chi, proclamata la naturalezza istintiva del "buon senso", è
incapace di praticarlo, continuando a vivere nell'universo fittizio
dell'immaginazione fantastica. Nella "città in fregola", l'etica
"pedina" e nel contempo elitariamente trasgressiva di Alberto
non ha modo di esplicarsi e al giovinetto scrittore "stilnovista"
non resta che il furto melodrammatico del cadavere della donna
amata. In Tarchetti, d'altronde, la preferenza accordata al
sottogenere del Künstlerroman, che condensa nel giro di poche
pagine la sorte eccentrica del protagonista sottratto ad ogni prova
di Bildung, avvalora la statica univocità in cui sono imbozzolati i
fatali eroi scapigliati. Se gli amanti esasperano l'ansia di
possesso fino al delirio e gli artisti bruciano la vita
nell'aspirazione al capolavoro irrealizzabile, tutti i personaggi
indistintamente, sono mossi da un'implacabile coazione a
ripetere che li conduce a clamorose scelte inconsulte.
Strumento di fuga davanti agli impegni di responsabilità,
esorcismo dei fantasmi di morte, specchio di narcisismo
schizofrenico o voluttuoso, alibi confortante per infrazioni più o
meno gravi, pausa di sospensione di un tempo volgare, la
scrittura cui si affidano i narratori di secondo grado rifrange i
patemi degli autori reali e diventa la dimensione compensativa
del loro stato di "piattezza" esistenziale.
Ecco perché il lettore di libri scapigliati fatica a mettere a
fuoco, nella multiforme e variopinta galleria di personaggi, la
singola personalità: certo non dimentica la "timida Gìa",
compagna dell'"orgogliosetto" Guido (L'Altrieri), i "due nidi
d'occhi" di Cirillo (Il male dell'arte), l'"influenza magnetica" del
fatale barone di Saternez, "la bruttezza orrenda" di Fosca e "la
pura bellezza di Narcisa". Ma appunto a colpirlo, restando
impresso, è un tratto unico, spesso condensato in un sostantivo
astratto o in un aggettivo iterato che immobilizza il personaggio:
il "deserto" diarista di Anima, il "gotico" Alberto, il "blasé" duca
Giorgio, il "folle" Vincenzo D. Di più: come ammoniscono i
narratori dei due casi estremi di femminilità, la "magrezza
spaventosa" di Fosca è "inconcepibile" e non esistono parole
adeguate per rendere l'"orribilità" di quel volto (p. 278); di
Narcisa, ugualmente, si può solo enunciare l'ineffabile
splendore: "Ella era bella più che sia possibile immaginare" (p.
207). Con sorprendente diffusa consonanza, gli scrittori
scapigliati incorniciano ritratti e descrizioni fisionomiche con
costanti e ripetute figure di ellissi e preterizione, quasi a
manifestare un impaccio effettivo patito da tutti, sebbene
diversamente esibito. Così, alle maldestre dichiarazioni di
impotenza elocutiva cui sempre Tarchetti s'abbandona, Boito
risponde con consapevolezza critica:
ci sono delle impressioni che, mentre rimangono vaghe,
nella mente, paiono potenti di novità e di forza, e quando si
trasmutano in corpo, sia pure in prosa od in verso, diventano
cose fiacche e vietissime. (Il colore a Venezia, p. 432)
Metaforicamente più fantasioso, l'analogo lamento di
Cirillo sull'"inettezza" espressiva:
quelle sensazioni che ci parevano così vive e così roventi
dentro di noi, una volta travasate e ridotte sulla carta o sulla tela,
eccole lì floscie e rigide come cadaveri di bruchi lanciati
stramazzoni sulla strada da un temporale. (Il male dell’arte, p.
76)
Dossi fa eco con moderno senso del limite:
è impossibile di imprigionare  salvo che in un rigo di
musica  certi pensieri che fra loro si giungono, non già per
nodi gramaticali ma per sensazioni delicatissime e il cui
prestigio sta tutto nella nebulosità dei contorni. (L'Altrieri, p. 67)
Anche per questa ricercata "nebulosità di contorni", il
volto del personaggio dilegua e persino il sembiante più
originale rischia di dissolversi nella galassia composta di eterni
adolescenti malati d'arte e d'amore. Foster definisce i personaggi
privi di spessore psicologico, che non evolvono nel corso della
vicenda, "disegnati" con un profilo a "semplice contorno"96:
l'espressione suona efficacemente pertinente per autori che
amano
buttar
giù "scarabocchi
abbreviati",
"acquerelli",
"arzigogoli", "schizzi a penna", ritratti "nero su bianco". Certo, il
campo delle tecniche di raffigurazione fisionomica richiederebbe
un'analisi puntuale e precisa, capace di cogliere le differenze di
tratteggio non solo fra autore e autore, ma, all'interno della
singola maniera narrativa, fra protagonisti e comparse, eroi fatali
e macchiette comiche, fantasmi dell'"altro" mondo, viaggiatori
cosmopoliti, sagome ritagliate sullo sfondo di un paesaggio. Sul
piano dei moduli espressivi, d'altra parte, anche il disegno "a
stiacciato" conosce, come è naturale, modulazioni policrome: la
linea serpentina dell'umorismo dossiano, la tecnica a macchia
del pittore Praga, il plasticismo sensuale di Camillo Boito,
96
E. M. Forster, op. cit., pp. 78-83.
l'algido rigore teatrale del fratello musicista, infine il risalto
melodrammatico delle fattezze tarchettiane contrapposto sia alla
tavolozza espressionista dei bozzetti campestri di Faldella sia
alle velature evanescenti degli Acquerelli di Bazzero. Comune a
tutti, nondimeno, è il rifiuto radicale dei moduli rappresentativi
ascrivibili al canone del realismo analitico. In questa zona del
testo, la lontananza dalla modellistica descrittiva cara al romanzo
storico, in cui ogni ritratto ambiva racchiudere un "tipo" storicosociale, acquista un'evidenza abbagliante. Ripetiamolo: la
riluttanza generalizzata a delineare personaggi a tutto tondo
nasce da progetti di scrittura diversi che si traducono in scelte
stilistiche
spesso
opposte,
cosicché
la
trasandatezza
convenzionale della prosa di Tarchetti ha poco a che spartire con
le "smorzature dei toni" proprie alle Storielle di Camillo Boito e
con l'allestimento scenico caro ai racconti di Arrigo. Persino
nella comune predilezione per gli "schizzi", il pittoricismo di
Praga conosce vibrazioni lontane dal colorismo inquieto di
Bazzero e dalle spigolature miniate di Faldella. Ma le
dissonanze, per quanto marcate, non inficiano la coesione del
quadro complessivo.
La brillantezza icastica con cui sono sbozzati i caratteri
degli attori principali e dei comprimari è sintetizzata con effetto
lampante dalla coppia delle amanti di Giorgio, Clara e Fosca; e
come quel modello abbia fatto scuola ce lo indica il rifacimento
serioso-parodico di Faldella in Madonna di fuoco e Madonna di
neve (Brigola, Milano 1888).
Apparentemente più mossa è la schiera delle figurine che,
delineate con guizzanti pennellate, s'affacciano sul proscenio, e
vi restano per qualche sequenza fissate in una posa, imprigionate
in una smorfia. Il farmacista di Sulzena:
Due occhietti grigi, un naso aquilino, due baffetti ed un
pizzo di un colore impossibile fra il biondo e il grigio (Memorie
del presbiterio, p. 40).
Le sue donne non sono da meno: la moglie
Era lunga, lunga, lunga; aveva gli occhi nella nuca e le
ciocche dei capelli a un centimetro più innanzi della punta del
naso! E che punta e che naso! (p. 87)
La figlia
era grassa e paffuta come un dindo nutrito da una brava
massaia per onorare il Natale. Aveva la pelle tesa, come quella
di un tamburo, sicché, malgrado tanta lussuria di muscoli e di
polpe, pareva fosse stata fatta con economia. I suoi grandi occhi
bovini avean l'aria di voler saltar fuori a ballonzolare sul
pavimento (ibidem)
Don Severo, precettore di Cirillo:
Zazzeruto azzimato, lustro come le sue scarpette perpetue
di marocchino, timoroso delle zacchere più che un pavone, egli
camminava per la via a brevi saltetti, quasi ogni pagliuzza fosse
una pozzanghera da evitare. (Il male dell’arte, p. 62)
E così via in una serie di profili bizzarri, di sagome
strambe, silhouettes evanescenti: a prevalere di volta in volta è la
perizia "fiamminga" (Faldella), la sprezzatura luminosa (Praga),
la deformazione alla Hogarth (Dossi), la limpidezza dei contorni
(C. Boito). Di tutte ricordiamo un particolare, nessuna di loro
diventa un personaggio.
Si aggiunga che simili figurine solo raramente hanno
autonomia di parola: anche la caratterizzazione "per voce" è,
infatti, affidata a poche battute, volte a sottolineare, con gusto
espressionistico, tic e vezzi linguistici.
Certo, ed è persino superfluo ricordarlo, l'orchestrazione
del dialogato conosce modulazioni plurime, variando da autore a
autore, da opera a opera. Dossi è il più attento alla
contaminazione dei registri pluridiscorsivi: soprattutto nei testi
narrati in terza persona, e il culmine è raggiunto nella
teatraleggiante Desinenza in A, la componente mimetica del
parlato acquista rilevanza espressiva. Nella Vita di Alberto
Pisani la saggezza pacatamente ironica di nonna Giacinta, che
smonta i primi patemi amorosi del nipote, è prologo al buon
senso scanzonato dell'amico Fiorelli, pronto a sbeffeggiare la
mania di Alberto di vivere "sempre fra quei tuoi morti libri"
(Vita, p. 135). Per contro l'omelia terroristica del sacerdote al
funerale
di
Adelina
è
una
testimonianza
sfolgorante
dell'anticlericalismo dossiano. Quanto più la parola del
personaggio riecheggia note parossisistiche o iperboliche tanto
più ne esce rafforzato il tratto fisionomico. La controprova ci è
offerta dalle opere meno riuscite: nei racconti giovanili, il
frequente dialogato ad alta predominanza mimetica è banalmente
convenzionale; nella Colonia Felice l'oratoria enfatica non
risparmia né le concioni avvocatesche del Letterato né le
invettive brutali, altrettanto declamatorie del Beccajo e del resto
del "papagallame".
E tuttavia, anche Dossi, il meno monologico del gruppo,
conferma che nel rapporto fra voce del narratore e voce dei
personaggi domina incontrastato il primo termine. Nella
Desinenza in A, dove gli "a solo" e i duetti delle protagoniste
valgono a costruire il campionario sfaccettato delle nefandezze
femminili, le didascalie registiche, per quanto incastonate e di
secondo piano, fungono da reagente ai recitativi e ne distorcono
ogni intonazione realistica.
Ciò non significa negare che nella produzione scapigliata
vi siano timbri dissonanti che si levano dal coro: i diminutivi del
farmacista Bazzetta (Memorie del presbiterio), le "sesquipedali
baggianate" di cui è infarcita la lezione del Professor Proverbio
(L'Altrieri, p. 439) le note indignate che sorreggono, e
intralciano, l'orazione dell'ex-capitano Ballotta davanti a nonna
Giacinta (Vita di Alberto Pisani), le risposte sguaiate della
crestaia in Notte di Natale e, più stupefacenti di tutte, anche
perché ignorate dalla critica, le "vociacce" (p. 151) di marinai,
vetturali, bagnini che apostrofano in dialetto genovese il
malinconico viaggiatore degli Schizzi dal mare. Ma, ancora una
volta, è un accento singolo a riecheggiare, confermando che
anche le voci discordi non rispondono ad alcun intento
documentario,
a
nessuna
volontà
di
mimesi
dialogica:
avvalorano solo l'effetto "a stiacciato" con cui sono disegnati
tutti i personaggi.
Una simile scelta, d'altronde, non deve sorprendere. Nelle
narrazioni condotte in prima persona, la parola del narratore
riassorbe, per lo più, le battute dei vari interlocutori, cosicché i
pochi, brevi dialoghi riportati s'intonano alle cadenze elocutive
del discorso principale. Anche laddove vengono inseriti brani di
lettere, diari, confessioni e testamenti, nessuno scarto polifonico
si apre nella compagine del racconto: anzi, proprio la più tipica
composizione a scatole cinesi corrobora l'opacità elocutiva di cui
la nostra civiltà romanzesca continua a peccare, e che solo sul
discrimine del nuovo secolo comincerà a diradarsi.
D'altra parte, la compattezza del sistema dei personaggi
non prevede escursioni violente e il tono complessivo del
dialogato non conosce modulazioni ampie. Elisenda e Estebano
recitano quasi in duetto la loro parte di amanti regali (Iberia);
l'Oncle Tom si oppone ad Anderssen più per le sfumature di un
sorriso che per le differenze di linguaggio (L'alfier nero). Nelle
novelle di Gualdo, le conversazioni fra frequentatori di salotti
europei si sviluppano nel rispetto di una koiné elegante e
mondana, cui, peraltro, si associano sia la popolana Paquita (Il
viaggio del duca Giorgio) sia la favorita del re (Capriccio). Le
Storielle vane allineano confronti verbali poco polemici, sempre
pervasi da un'ironia corrosiva che ne smorza le note stridenti.
Quando poi l'incontro fra due personaggi acquista la
vivezza di una sfida amorosa, la retorica melodrammatica è lì in
agguato: le confessioni intime di Giorgio e Fosca non sfuggono
mai alle insidie del parossismo, pericolosamente vicino al
ridicolo involontario. Nelle opere scapigliate, il resoconto del
narratore narcisista avviluppa sempre tutti gli altri discorsi, in
qualunque tipo di sottogenere si diffonda, su qualunque cadenza
espressiva si moduli. I commenti che fungono da prologo ai
racconti inseriti nelle Memorie del presbiterio lo dichiarano con
sincera conclusiva onestà.
Ciò che udii quella sera, nel silenzio opaco e tristo di
quella cucina, vorrei potere e saper ripetere colla rozza ed
efficace semplicità con cui narrava il dabbene speziale; ma
dovrei accennare le interruzioni, citare le osservazioni, ch'egli vi
intercalava, senza di che l'effetto sarebbe mancato e il racconto
non farebbe che diventar più prolisso. Preferisco quindi
riassumere alla meglio e raccontarvi con parole mie
DEL SINDACO
IL ROMANZO
(p. 56)
A parte la speciale gravità delle circostanze, il suo
racconto era per se stesso molto interessante. E tal sembrerebbe
così anche ai miei lettori, se potessi ripeterlo come egli lo
espose. Ma sono costretto a riassumere alla meglio
DEL DOTTORE
(p. 210).
IL ROMANZO
Capitolo VII  Il dualismo tematico
Tutto è doppio
Non è facile orientarsi nella galassia dei temi e motivi
che coesistono nella narrativa scapigliata: la costellazione del
fantastique si interseca con i campi semantici propri alla
rievocazione
memoriale,
i
topoi
del
gotico-macabro
occhieggiano fra le maglie della divagazione umoristica, le
suggestioni
ricavate
dagli
autori
europei
si
innestano
sull'immaginario post-risorgimentale e anticipano il décor
decadente. E' ben vero che Dualismo di Arrigo Boito sciorina,
nell'abile gioco di strofe, la varietà di coppie antitetiche entro cui
si dibatte l'"altera" musa bohémienne: arte reproba-arte eterea,
virtù-peccato,
luce-ombra,
bestemmia-orazione,
cherubo-
demone, farfalla-verme, ideale-reale. Nella sua intenzionalità
manifesta, tuttavia, la poesia che apre Il libro dei versi disegna
un diagramma di linee in perfetto equilibrio, come se l'"agitarsi
alterno/fra paradiso e inferno" si raggelasse in una sorta di
oscillazione perpetua, priva di tensione drammatica.
Meglio allora prender spunto da un altro testo di Boito,
L'alfier nero, dove la dialettica di immagini inverse e
simmetriche
è meno
programmatica, ma
più ricca di
connotazioni polisemiche. Il racconto, apparso sul "Politecnico"
nel '67, è un piccolo gioiello per l'omologia che vige fra la scelta
dei materiali e la loro organizzazione narrativa. La partita a
scacchi fra Anderssen e Tom mette in scena  e il prologo in
medias res avvalora il taglio teatrale  la sfida all'ultimo sangue
fra un bianco e un nero: l'uno latifondista miliardario, l'altro exschiavo diventato un apprezzato self made man. Le due strategie
di gioco alludono a una serie di contrasti che abbracciano l'intero
orizzonte culturale97. Immediato il primo riferimento all'attualità:
i paragoni militari, adottati con pertinenza per spiegare le mosse
degli scacchi, rinviano ai conflitti storici in corso: non solo le
rivolte coloniali (la rivoluzione di Santo Domingo) ma l'appena
conclusa terza guerra d'indipendenza. Le fasi della partita,
descritte nell'alternanza del punto di vista ("Mutiamo il campo",
p. 405), illustrano con "evidenza" due antitetici comportamenti
mentali: all'equilibrio simmetrico del bianco si oppone il
disordine confuso "fatto ad arte" del nero, "al giuoco aperto e
sano il giuoco nascosto e maniaco" (p. 406). Tradotto in codice
scapigliato, sulla "fatale scacchiera" si fronteggiano ragione e
97
G.Gronda, Testo diegetico o testo simbolico? "L’alfier nero"
un "pezzo segnato" in più sensi?, in Teoria e analisi del testo,
Quaderni del circolo filologico linguistico padovano n. 12, 1981.
follia, salute e malattia, calcolo e fantasia, scienza e finzione,
"forza dell'ordine" e "potenza dell'ispirazione". L'antagonismo
fra "la calma del matematico" esibita da Anderssen e
l'"eccitamento allucinato" da cui si lascia condurre l'Oncle Tom
permea l'intero tessuto compositivo: dalle scelte lessicali
all'articolazione sintattica, dal sistema delle figure retoriche ai
procedimenti di focalizzazione, dal campo dell'intertestualità
scientifica e iperletteraria alle tecniche della ritrattistica
fisionomica, dalla costruzione binaria dell'intreccio fino al
doppio epilogo con scioglimento e chiusa. A differenza del testo
poetico, però, il racconto vibra di una vivida accensione
drammatica. Durante il breve arco di ore in cui si svolge la sfida,
la "vista", l'organo per eccellenza dell'indagine positiva, cede
alla "visione", carica di richiami emotivi e ideali, e l'americano,
dapprima guidato dal metodo "infallibilmente sicuro", subisce il
fascino delle acrobazie vertiginose dell'alfier nero, ormai
umanizzato in eroico ribelle moribondo. Nel corso della notte, lo
sguardo di Anderssen perde il distacco gelido di chi "legge"
sulla faccia dell'avversario ogni suo intento, per inoltrarsi nella
dimensione
profonda
dell'interiorità:
"Anderssen
non
lo
guardava più, poiché l'oscurità era troppo fitta e perché
anch'esso, come attirato dalla stessa elettricità, fissava l'alfier
nero" (p. 410). Grazie
al processo di concentrazione
introspettiva, la rigidità dello schema dualistico viene meno: la
disposizione delle pedine testimonia il capovolgimento in atto, i
giocatori sono colti ora con immagini sintetiche e la potenza
simbolica del "pezzo segnato" li travolge entrambi. Alla fine, il
rappresentante della civiltà positiva e razionale è dominato
dall'impulso oscuro della follia di morte.
Il racconto, pubblicato sulla rivista ufficiale del neonato
positivismo, metteva in guardia i lettori della "capitale morale"
dall'affidarsi alle presunzioni unilaterali della scienza e, grazie
alla limpidezza del "linguaggio figurato e fantasioso", suggeriva
l'ipotesi inquietante che ogni antitesi reca in sé un principio di
reversibilità. Il dualismo boitiano, sotteso da un grumo di ansia
nevrotica, cerca nel rigore geometrico un argine difensivo; ma,
come conferma l'incompiuto Trapezio, il rischio della paralisi è
sempre in agguato. Il saggio Yao e il discepolo Meng-Pen non
solo non raggiungono "la sintesi dell'uomo" nel "punto dove i
due moti opposti s'intersecano" (p. 439), ma, durante la
narrazione, capiscono che "tutta l'arte della più minuta e più
scrupolosa analisi" non basta a preservare dalla catastrofe: tanto
più che qui la sfida fra i due fraterni rivali presuppone la
presenza sconvolgente di un'altra figura. Yao e Ramar, che
"simboleggiavano parecchie profonde antitesi: il calcolo e
l'intuizione, l'esattezza e l'audacia, la pazienza e l'impeto, la
scienza e l'arte" (p. 463), si contendono il possesso della
raggiante Ambra e Il trapezio, lungi dal delineare il percorso che
conduce alla saggezza imperturbabile, s'interrompe bruscamente.
Pur senza esibire la ricchezza programmatica dei testi
boitiani, l'orditura della stragrande maggioranza dei racconti
scapigliati
denuncia
una
analoga
visione
contraddittoria
dell'individuo e del mondo: a darne conto è sempre una
rappresentazione di situazioni e motivi che si dispongono in
coppie antitetiche. Molte le abbiamo già ricordate e commentate:
ne ripercorriamo alcune, distribuendole entro uno schema a
cerchi concentrici che dall'orizzonte ampio della storia giunge
all'intimità riposta dell'io.
Guerra e pace
Dopo la lettura della Vita di Settembrini, Bazzero si
lascia andare al rimpianto di un'epoca eroica, in cui un forte
"carattere" alimentava la "fede in Dio" e l'"amore nella sua
donna":
perché non sono io vissuto nel tempo delle cospirazioni, dei patiboli, delle
battaglie? A me che rimane? Lo sconforto! (Anima, p. 97)
Al "triplice ideale", evocato anche dal protagonista di
Entusiasmi  "l'arte, la donna, la patria" (p. 50) , il diarista di
Anima aggiunge l'ansia di una fervida religiosità, non turbata dal
desiderio colpevole del corpo femminile. In entrambi, il periodo
glorioso delle guerre per l'indipendenza coincide con la stagione
viva dell'impegno artistico: allora le verità supreme erano a
fondamento di un'attività di scrittura nobile e generosa; forse
meno elaborata ma più agonistica, come i "decasillabi,
dardeggianti e vulcanici" dei verseggiatori antiaustriaci ricordati
da Faldella (A Vienna, p. 48). Ora, in tempo di pace, si respira
l'"aria grossa della realtà pregna di cose" (E. De Marchi,
Introduzione, cit., p. V) che mortifica ogni aspirazione ideale,
ogni fantasia creativa.
Da questo osservatorio quotidiano, giudicato squallido e
mediocre, l'empito animoso dell’immediato passato appare
irrimediabilmente consunto: l'età delle "vampe patrie" (Faldella,
Il male dell'arte, p. 84) può essere solo proiettata in un'atmosfera
vaga e sfumata o tratteggiata di scorcio nella zona conclusiva del
testo, dove l'ipotesi di morire sui campi di battaglia porge
l'ultimo conforto al lutto amoroso:

Sentite  disse il giovane  in atto di confidargli un
mistero; si tenterà fra poco un colpo di mano sulla Sicilia; un
nucleo di valorosi guidati da Garibaldi approderà inaspettato a
quell'isola; noi ci raduneremo a Quarto, io sono del numero, e se
volete seguirmi...

E che faremo colà?  chiese Luigi.

Là si muore  rispose il giovane con freddezza.
Luigi gli porse la mano, e disse  Il nostro patto è
sancito. (Paolina, to. I, p. 165)
Nei rari casi in cui la vicenda è ambientata in un preciso
contesto militare, al centro del racconto è posto un altro
dualismo, che per lo più rimodula specularmente il primo: la
passione ardente dei volontari a fronte del grigiore ordinato
dell'esercito regolare. A fondamento di questa rappresentazione
obliqua delle lotte per l'indipendenza vi è la consapevolezza
universalmente diffusa che la nascita della Nazione era una
necessità ineluttabile, su cui nessun giudizio, per quanto critico,
doveva gettare la luce dissolvente del dubbio. Inscritto nel corso
fatale della storia, il moto unitario non consente alcuna
scomposizione analitica. A derivarne sono due corollari: la
cancellazione dello scontro diretto col nemico, anche perché,
come ricorda Faldella, "la nostra santa collera [era] non contro le
vostre persone, ma contro la vostra oppressura" (A Vienna, p.
49); la predilezione per i toni smorzati, per le situazioni di
estenuata stanchezza che seguono il combattimento. Ad
eccezione del romanzo postumo di Sacchetti, Entusiasmi,
nessun'opera scapigliata sceneggia il conflitto né s'interroga sulle
questioni politico-istituzionali, sulle condizioni sociali, sulle
ragioni economiche sottese al processo risorgimentale. Il
narratore può solo ripercorrerne le tappe col rimpianto di chi
ormai si sente ed è fuori dal "tempo delle cospirazioni e delle
battaglie". Quando un'occasione di intervento attivo coinvolge la
"generazione crucciosa", la condotta disastrosa della guerra
ribalta il giovanile fervore in frustrazione cocente:
tutto faceva presagire l'inizio, l'avvento di grandi
giornate. Ed ecco alle cinque del pomeriggio, la grave, la
inattesa e sgomentevole notizia dell'armistizio. C'era stata Lissa
il 20.98
Sullo sfondo della terza guerra d'indipendenza, sola si
staglia, aureolata di gloria, la figura di Garibaldi. In un articolo
inviato al "Pungolo" dal campo dei volontari presso Como,
Praga ne schizza il ritratto con pennellate degne dei quadri
storici di Gerolamo Induno:
D'un tratto, un uomo venne, un uomo vestito di rosso,
semplice, calmo e dignitoso; passò in mezzo a noi con un sorriso
velato di lacrime (...)
Chi è l'uomo ch'è giunto? E' il padre, gridavano i suoi
vecchi soldati!  è la guerra rispondevano i giovinetti  e molti
dicevano: è la patria!
E Garibaldi li guarda e sembra conoscerli tutti (Garibaldi
fra i volontari, ora in Schizzi a penna, pp. 92-94)
98
Biglietto di Arrigo a Camillo, in P. Nardi, Vita di
Boito, cit., p. 226.
La baldanzosa corrispondenza dal fronte si chiude con la
consueta ammissione d'impotenza raffigurativa: "né sillogismo,
né strofa, né narrazione verranno a ritrarne lo splendore, a
cantarlo, a dirne il senso profondo e sublime" (p. 96). Qui,
nondimeno,
la
triplice
negazione
vale
ad
esaltare
l'impareggiabile prestigio del Generale e la contrapposizione
canonica fra poesia e prosa si affida all'enfasi di una domanda
retorica:
Perché in mezzo a una folla che vive di prosa, in un
tempo fatto di prosa, chiamare col nome di feticismo, di
idolatria, un entusiasmo, un delirio ch'essa non può non
condannare (...) e che l'illumina di miracolo a poesia? (p. 93)
Ben più amare le note con cui la stessa antitesi sarà
ripresa e motivata nelle battute di dialogo fra due artisti volontari
di guerra nel racconto Tre storie in una: nel frattempo, però,
c'erano state le "fortunate catastrofi di Lissa e Custoza", giusto
l'efficace ossimoro usato da un letterato amico del gruppo,
Salvatore Farina.
Il disinganno penoso che seguì l'esito positivo ma
umiliante della guerra del 1866 è l'humus da cui germina l'opera
scapigliata che con più irruenza accusa le belliche "stragi di
sangue": Una nobile follia. Il romanzo tarchettiano, uscito a
puntate sul "Sole" a cavaliere fra il 1866 e il '67 con il titolo
Drammi della vita militare. Vincenzo D. (Una nobile follia), si
scaglia contro l'ottusità crudele che vige nell'organizzazione
degli eserciti permanenti, negando valore al loro stesso assetto
istituzionale. L'invettiva antimilitarista, sostenuta da spunti di
ardita polemica sociale ("La proprietà è l'usurpazione",
"L'elemosina!  Ah! colui che primo inventò questa parola
doveva essere sbranato" to. I, p. 399) raggiunge apici di
virulenza che ben meritarono all'autore il titolo di alfiere
dell'impegno democratico:
sotto questo amore simulato della patria, e questo istinto
mendace della grandezza, si nascondono l'egoismo e la crudeltà
instillatavi dall'educazione, e quella sete ardente della proprietà
che inebbria tutti gli uomini! (ivi, p. 402)
E tuttavia non solo la rappresentazione delle battaglie di
Inkermann e della Cernaia, condotta sulle note epiche del
sublime
negativo,
capovolge
il
senso
"eretico"
dell'antimitologia99, ma la struttura discontinua e digressiva del
testo appanna l'intento primo di "far conoscere nei suoi vari
aspetti la vita intima e segreta della caserma" (p. 381). La
ridondanza oratoria, unico connettivo alle sfilacciature della
trama, snerva l'argomentazione ideologica e denuncia la fragilità
dell'impianto romanzesco. Il vero conflitto, l'ha ben visto Barberi
Squarotti, è tutt'interno al protagonista, meglio alla sua
fisionomia bifronte: l'omonimia di Vincenzo D., spia della solita
scissione dell'io, rimanda all'opposizione fra l'eroe ortisiano,
tragico e fatale, e il personaggio medio del piccolo borghese
senza aspirazioni, chiuso nella propria serenità familiare,
ottenuta, del resto, grazie al suicidio "nobile" dell'altro.
L'intreccio, pur esasperando l'antagonismo fra il tempo di
pace (il primo Vincenzo D., pittore e amante ricambiato di
Margherita, perde tutto a seguito della chiamata al distretto) e il
delirio guerresco (dopo la rievocazione della spedizione in
Crimea, ormai pazzo s'uccide all'alba del '66), ne disperde il
significato storico-politico e al centro dell'opera s'accampa il
consueto schema manicheo delle coppie ideale-reale, salutemalattia, ragione-follia.
99
S. Jacomuzzi, L'epica negativa di Tarchetti: la battaglia della
Cernaia, in AA. VV., I. U. Tarchetti, Atti, cit., p. 361.
Conservazione e modernità
La fase di passaggio fra l'idealismo romanticorisorgimentale e la cultura positivista alimenta, come abbiamo
già osservato, la linfa autentica della narrativa scapigliata e ne
determina i tratti innovatori: il recupero dell'irrazionalismo
primottocentesco
in
chiave
antimanzoniana
induce
all'esplorazione orrorosa delle regioni buie dell'io; questa
ricognizione, d'altronde, acuisce l'urto con le pretese egemoniche
del sapere scientifico, galvanizzando la dinamica contrastiva. Ne
deriva, per usare una sintetica, incisiva locuzione di Sacchetti,
"un singolare contrasto di positivismo provinciale e di un
fantastico lugubre e superstizioso" (Candaule, p. 58).
La critica ha illustrato i termini della discordia con
dovizia analitica. Per Moestrup "i tre racconti di Amore nell'arte
danno un'immagine completa del più vero Tarchetti", perché
esemplificano le "tre varianti sul tema spirito e materia" 100;
"nella fondamentale opposizione di ciò che è «malato» a ciò che
è «sano»" Gioanola rinviene il centro dell'esperienza scapigliata,
100
J. Moetrup, op.cit., pp. 93-95.
a cui dà voce la moderna "scrittura del pathos" 101. Le
interpretazioni di Un corpo (E. Scarano, R. Bertazzoli, M. C.
Mazzi) variano nell'attribuire la palma della vittoria al pittore o
all'anatomista, ma tutte identificano il fulcro della storiella nel
conflitto fra arte e scienza. E così via in una serie ricca di saggi e
studi d'indole monografica o complessiva in cui prevalgono, di
volta in volta, le coppie ideale-reale (R. Bigazzi), normalitàeccentricità (G. Mariani); idillio-rivolta (F. Portinari), vero
naturalista-fantastico decadente (E. Ghidetti); maledettismo-fede
religiosa (gli Autori del "Vegliardo" e gli "Antecristi").
Nel recente encomiabile tentativo di dare un quadro
sintetico delle polarità in dissidio, Spera ne individua la genesi
nello scontro primario fra bene e male: "l'innovazione cruciale
della poetica scapigliata" è la "scoperta della letteratura del
male"102.
Non c'è dubbio che il gusto provocatorio di celebrare gli
aspetti orridi, laidi, deformi del mondo sorregga l'opera di molti
autori bohémiens; che l'incessante ansia sperimentale li spinga a
saccheggiare i repertori "demoniaci", a libare il "veleno di
101
E. Gioanola, art. cit.
102
F. Spera, La letteratura del disagio: Scapigliatura e dintorni, cit. p. 125.
malanni col vino e coll'amor" (Praga, La libreria), a entrare negli
obitori dove si squarciano i ventri delle vergini incinte (A. Boito,
Lezione d'anatomia). Quanto accesa sia stata la battaglia
condotta da Tarchetti e compagni contro le sdolcinature
aleardiane e il sentimentalismo dei "Carcanini" non c'è più
bisogno di ricordarlo. Già nel 1875 Faldella ironizzava su
"questo culto del Bello brutto" che aveva fomentato, negli amici
scapigliati, il "male dell'arte" (Lettera letteraria a T. M.  Il
Bello brutto, in "Serate italiane", 17 gennaio 1875). E tuttavia,
non solo l'emulazione del modello baudelairiano, a cui
l'indicazione di Spera rimanda esplicitamente, rimane un pio
desiderio, senza mai tradursi in adeguate scelte espressive, ma
soprattutto i ribelli milanesi restano sempre librati "fra un sogno
di peccato/e un sogno di virtù" (Dualismo), in una zona limbale
in cui raramente spuntano i fiori del male. A occupare il centro
dei racconti è sì la dialettica inferno-paradiso, ma confinata entro
il dominio cauteloso dell'ethos ambrosiano: quei "sogni", privi di
audacia trasgressiva, alludono ai grovigli esistenziali che tanto
turbavano la generazione crucciosa. Il titolo del libro di Alberto
Pisani, Le due morali, è un'indicazione tematica preziosa, che
nessun arabesco stilistico può e deve cancellare. Gli schizzi, le
memorie divaganti, i racconti fantastici, per quanto estrosamente
provocatori, sottintendono sempre l'assillo di una domanda poco
formale: a quale sistema di valori deve ancorarsi l'arte in una
società che è passata dalla poesia alla prosa, sospesa nella fase
del "non-ancora non-più"?
In questo primo quindicennio unitario, la luce delle lotte
risorgimentali mantiene un fulgore splendente, troppo tiepido
però per rinfocolare slanci generosi; la "giovinezza industriale"
alimenta la fede nel progresso, ma non mitiga affatto le
miserevoli condizioni d'arretratezza del paese; le teorie
scientifiche pronosticano scoperte strabilianti nel momento
stesso in cui aprono orizzonti minacciosi. La smania di
competere con i "solenni giganti del passato" (A. Boito) esaspera
il desiderio di un rinnovamento radicale e d'altronde l'urgenza di
rompere con la tradizione rafforza, non lenisce, le perplessità che
accompagnano ogni viaggio verso l'"Inconnu". In questo stato di
titubanza inquieta, il dialogo con la classe dirigente in
formazione assume timbri contristati: come ritagliare entro il
nuovo orizzonte d'attesa il pubblico ideale cui rivolgersi in
spirito di autonomia matura e consapevole? Se l'élite politica è
composta da "notabilità bacate" e l'intellighenzia ufficiale è
rappresentata dalla "pigmèa e sparuta (perché cibata di pura
crusca) fanterìa de' gramàtici" e dalle schiere di critici che
mirano "cogli autori morti a spègnere i vivi" (Dossi, Màrgine,
pp. 667, 671), le forze sociali non promettono molto di più: la
nobiltà precipita verso la corruzione viziosa, il ceto medio dei
bottegai e commercianti pecca di miopia perbenista, se non di
grossolanità
volgare,
il
mitizzato
popolo
dell'epoca
risorgimentale si sta scindendo in "canaglia" stracciona e
nell'ancor
più
"pericolosa"
classe
operaia.
Sul
piano
propriamente professionale, la "carriera della carta sporca"
(Dossi, Prefazione generale ai "Ritratti Umani", p. 901) offre
agli scrittori occasioni tanto più allettanti, quanto meno
svincolate da quelle leggi di mercato che la loro ispirazione
ferocemente depreca. Insomma e conclusivamente, dove fermare
il pendolo fra bene e male sotto l'urto delle contraddizioni aperte
dalla modernità, di cui la capitale morale era la sede elettiva?
Se proiettiamo i termini dell'antagonismo sullo sfondo
storico entro cui il movimento scapigliato si sviluppa, a prendere
vigore è la vera sostanza del dualismo: la dialettica di attrazione
e repulsione che governa a tutt'oggi i comportamenti del ceto
intellettuale davanti agli sconvolgimenti continui della civiltà
dell'urbanesimo borghese: nell'immaginario culturale postunitario il conflitto si articola privilegiatamente nello scontro fra
città e campagna, uomo e donna.
Città e campagna
L'aspirazione a recuperare le zone serene e innocenti
dell'idillio trascorre come una corrente carsica entro tutta la
produzione scapigliata: sono molti i brani in cui l'io narrante,
riecheggiando magari i versi dell'amico poeta (le raccolte di
Praga; Nostalgie si intitola il volume di liriche gualdiane), si
abbandona al rimpianto per la stagione passata, quando un unico
nodo stringeva la felicità dei dolci affetti familiari e il senso di
pacificata armonia con la natura.
Ai desideri del pittore Emilio  "vorrei vivere sempre in
alto, in quest'aria pura in mezzo a queste scene sublimi; esse
valgono, ve ne assicuro, signor curato, tutti gli svaghi e tutti gli
agi delle città" (Memorie del presbiterio, p. 23)  risponde l'eco
sonora delle invettive di Vincenzo D.: "Tutto è trasformato 
l'anima dell'umanità non è più l'amore, è la violenza e la forza 
l'idillio è sparito, abbiamo l'epopea di guerra" (Una nobile follia,
to. I, p. 439); al rincrescimento maturo,  l'infanzia "è un canto
vago, incompreso mentre vibra, che diventa chiaro più tardi nella
memoria" (Il trapezio, p. 444)  s'intrecciano le note compunte
dei musicisti, nelle cui "dolci e serene memorie dell'infanzia"
"s'affacciano per le prime queste scene incantevoli della natura,
che furono testimoni dei nostri dolori e delle nostre prime
confidenze" (Lorenzo Alviati, to. I, p. 563). Quando lo sguardo
del narratore si sposta dalle visioni campestri verso orizzonti più
vasti, alle cadenze idilliche subentrano i toni alti del
romanticismo melodrammatico, ma non diminuisce l'ansia di
comunione fra io e macrocosmo. Mentre la vicenda di sir Robert
è ambientata sullo sfondo dell'"imponente spettacolo" offerto
dalle voragini del Vesuvio (Un suicidio all’inglese, to. I, pp. 847), nell'Innamorato della montagna il racconto si dipana fra "i
luoghi più selvaggi e più tristi di quelle provincie; il bello
dell'orrido vi è diffuso a profusione" (to. II, p. 115).
Al polo opposto degli aspri panorami tarchettiani, gli
Schizzi dal mare di Bazzero disegnano la costiera ligure con le
cadenze iridiscenti di una malinconia intrisa di venature
crepuscolari: l'autore vi trasfonde il sentimento di una perdita
dolorosa che coniuga la nostalgia per un'evanescente "fanciulla
bionda", capace di cantare "le poesie d'Iddio e dell'amore" (p.
180), con la "cupidità di pace" che solo la distesa marina può
oggi placare, nel desiderio regressivo del grembo materno. E
tuttavia, proprio dal più "deserto" degli scapigliati ci viene il
richiamo imperioso a non dimenticare mai il dualismo
connaturato alla poetica del gruppo. Per quante lacrime i
narratori versino sul paradiso perduto dell'età infantile e della
quiete agreste, il fascino dello scenario urbano li cattura sempre,
aprendo nei loro racconti contraddizioni feconde. La raccolta
degli Acquerelli, dopo aver percorso l'"insidiosa d'ozi e d'amori,
bellissima riviera genovese" (p. 189), giunge a celebrare il
fervore alacre del suo capoluogo. Nel primo schizzo dedicato a
"Zena", il diarista viaggiatore comprende che, per lumeggiarne il
ritratto, deve non solo uscire dalle "morte biblioteche" ma
scendere sulle banchine del porto, dove i marinai mettono in
fuga ogni poesia:
Ho detto la poesia? Ho sbagliato: dovevo dire la Nonna
poesia: quella in cuffia, colla tabacchiera e il mazzo di tarocchi lì
sul tavolo: è titolata, sfoggia genealogia e stemmi, e nulla fa di
bene se non ha le rose dell'aurora (...) cinguetta coi poeti e i
professoroni ufficiali, è pettegola e si liscia. Via! di cotesta
donna marchesaccia siamo stufi. C'è una bella scapigliata, con
grand'occhi acuti, senza rimario sotto le ascelle, senza
svolazzetti, la penna d'oca e l'elmo di Minerva, c'è una giovinetta
che s'asside anche all'ombra delle vele, viaggia coi marinai, e
mangia il pane duro, conta i soldi e canta Dio e il mare. E' la
vera poesia (...) Voglio conoscere la potenza di Genova? Vado a
gustare la grandiosa poesia del suo Porto. (Poesia, p. 214)
Le figure contrapposte della marchesaccia e della
giovinetta ricordano le immagini adottate da Alberto Pisani per
descrivere metaforicamente le "due morali": una "è l'officiale, in
guardinfante e parrucca, a tiro-a-sei, coi battistrada e i lacché",
l'altra "è una morale pedina, in gonnelluccia di tela, alla quale
ben pochi làscian la dritta." (Vita, p. 217). A chi debba andare la
preferenza è facile indovinare; ma il timore che proprio in città
la giovinetta in gonnelluccia di tela possa incontrare, ad ogni
cantone, il cinico nobile Andalò (Vita di Alberto Pisani) o il
bieco marchese di B. (Paolina), impedisce una scelta
irrevocabile.
Nella rappresentazione scapigliata dello scenario urbano,
a far ondeggiare costantemente il pendolo fra bene e male,
conservazione e modernità, è l'attenzione univoca che tutti
riservano alla sfera privata dei comportamenti sentimentali.
Nasce
da
un'ostinata
prospettiva
etica,
peraltro
molto
ambrosiana, la paura diffusa che la città, "madre d'inganni e
toschi" (Praga, A Enrico Junk), contamini affetti e ideali: l'urto
volgare dei traffici rovina non solo le pure fanciulle in fiore,
cassierine e operaie prossime a nozze, ma anche gli artisti
esordienti, ricchi solo di sogni e ambizioni. La vicenda di
Roberto Marini, protagonista del giovanile racconto dossiano, è
intessuta di stereotipi così convenzionali da assurgere a modello.
Il titolo Per me si va fra la perduta gente non lascia dubbi
sull'approdo del cammino che conduce il pittore dal paese di
Moncalvo, nella cui "dolce quiete" scorre una "vita laboriosa ed
onesta, una vita di famiglia e di pace"(Due racconti, p. 125), alla
città di Narpea, "immensa esalazione d'uomini e cose" (p. 136).
La descrizione di "una gran piazza lastricata di granito" con al
centro un'ardita chiesa (p. 142) scioglie le ambiguità dei
riferimenti topografici e rivela che siamo giunti a Milano in
mezzo a una "strana folla di gente". Qui Marini, dopo i primi
dipinti "senza contorni", sbozzati alla maniera di Cremona con la
"bambagia" (p. 190), si integra nei meccanismi del mercato,
adeguandosi ai gusti del pubblico tradizionale. "Dieci anni
dopo", lo ritroviamo benestante, famoso, sposato con la figlia di
un accademico, nominato addirittura Cavaliere: i prezzi pagati
sono la rinuncia ad ogni progetto di rinnovamento pittorico e
l'abbandono della fedele fidanzata rimasta al paesello natio. E'
l'avvio della serie dei giovani intellettuali che, venuti da lontano
nella "città più città d'Italia", si prostituiscono in arte e in amore.
Il quadro complessivo del tracollo è delineato in un coevo brano
tarchettiano.
La civiltà è una parola che mi atterrisce, il progresso che
ella segna è una via disastrosa, che conduce forse l'umanità ad
un abisso. (...) Io rimpiango quei tempi in cui si credeva e si
amava, in cui gli uomini si riunivano attorno all'altare della
famiglia (...) rimpiango un passato in cui gli uomini non erano sì
colti,
sì
saggi,
sì
avveduti
come
adesso,
ma
erano
incontrastabilmente felici (...) L'umanità è malata, l'uomo
individuo è malato, soffrono. (L'innamorato della montagna, to.
II, pp. 122-3)
Ancora una volta, tutto sembra saldarsi nella condanna
senza appello della fiumana del progresso che sospinge
l'individuo e la collettività sull'orlo dell'abisso. Ma Bazzero ci ha
ammonito che per la giovinetta scapigliata il dualismo non è solo
facile parola d'ordine, è tensione irrisolta che orienta lo sguardo
sul mondo: all'elogio della vita campestre e dell'immemore età
fanciullesca si contrappone, allora, una rete di temi e motivi che
sorreggono, con ben altra efficacia narrativa, la rappresentazione
dello spazio cittadino. L'urbanitas perde l'aspetto negativo per
mostrare il suo volto fascinosamente attraente, per ricordare ai
lettori della capitale morale che le sorti private e pubbliche si
decidono ormai entro un nuovo sistema di valori, estraneo alla
presunta armonia del microcosmo bucolico.
Esemplare è l'itinerario di Dossi che, dopo il racconto
giovanile, per altro mai ripubblicato, nelle sue opere "cattive"
cancella letteralmente gli scenari naturali: le pause descrittive
d'esterni o si riducono a schizzi espressionistici (il cielo
"giojellato di stelle che lappoleggiavano" Lisa, p. 467; i campi di
Praverde, simili a una "gran planimetrìa a colori" Vita, p. 89) o
sono parodie di stereotipi ("Era la primavera. ¿Vorreste una
descrizione? Ne ho mille" La desinenza in A, p. 837).
Analogamente, nell'ordine compositivo-tematico, la "trilogia"
romanzesca disegna un itinerario diretto "vèr la città" (Vita, p.
95).
La cornice dell'Altrieri, collocata nell'oggi di un
accogliente salotto borghese, rinserra le tappe di una Bildung
che, iniziata in "un pìccol villaggio", si conclude sotto le guglie
del Duomo: qui il giovinetto pallido avvia "il completo
riversamento nel suo naturale" (p. 509) e, per svezzarsi "dal
materno capezzolo" (p.510), s'immerge nella folla seducente
delle feste danzanti. Anche il percorso di crescita di Alberto
segue un simile tragitto: dopo la partenza da Montalto, luogo di
lutti dolorosi, "alla città i suoi nervettini quietàronsi" (Vita, p.
95) e nel "raccolto appartamentino" insorge la passione per la
lettura:
là non avea mai sentito il bisogno di ricercare oltre i
confini del sillabario. Toccàvanlo troppe emozioni dirette per
dimandarne in imprestito. Alla città, invece, fu còlto da una vera
lupa pei libri; leggeva ogni cosa... (ibidem)
E' la stessa motivazione che spinge l'aspirante scrittore a
scappare da Silvano, un lillipuziano paesino da cartolina, dove si
era rifugiato per stimolare l'estro creativo: "la cristallina aria di lì
mettèvagli indosso più voglia di fare che non di scrìver
romanzi... alla larga! alla larga!" (p. 159). La vivacità spontanea
indotta dall'immediatezza naturale inibisce l'entrata nello "strano
regno di spìriti" (L'Altrieri, p. 509) in cui germina la vena di
morbosa "malinconia", fonte originale della letteratura moderna.
Ormai remoto il moralistico mondo di Narpea, Alberto trasloca,
per lavorare, nella "borghessima casa" dello zio mago, situata in
contrada San Rocco, all'interno dei Corpi Santi. Siamo in una
villetta periferica, gravata di tasse, circondata da un'ortaglia
incolta e con vista sul cimitero, un tempo laboratorio di
sperimenti macabro-scientifici. Le serate a teatro, le passeggiate
all'alba, gli incontri con i passanti "inferajolati" e le velate
signore in carrozza forniscono il materiale per stendere il libro
che conquisterà donna Claudia.
Nella Desinenza in A, infine, il narratore, installato in un
osservatorio ultracittadino (la Sinfonìa iniziale s'intitola Sezione
di una casa civile a due piani), colpisce con ironia impietosa chi
ancora crede in un possibile ritorno all'"idillio": nella scena terza
dell'atto secondo campeggia l'ingenuo, innamorato artista Nino
Fiore, riparato "a quel covo d'ogni ambizioso fallito, che è la
campagna" (p. 779).
Malinconici o maledetti, vittime di capricci o in preda
alle allucinazioni, pittori poeti musicisti, nobili (Riccardo
Waitzen), borghesi (Lorenzo Alviati) o figli di poveri cantastorie
(Bouvard), tutti i protagonisti "malati d'arte" si lasciano andare
al rimpianto di "ciò che fu": ma, per coltivare la loro "torva"
musa, scelgono il dissonante universo urbano. Tanto più amanti
della provocazione quanto più desiderosi di plauso e gloria,
sanno che a decretare il loro successo sarà il pubblico borghese
che affolla teatri e salotti, a Parigi come a Firenze, a Vienna
come a Milano. Persino Cirillo spera di ridestare "in sé l'idea
dell'artista"
suonando
per
un
pubblico
mondano,
con
l'accompagnamento di un frullio di ventagli femminili, simili a
un'artificiosa "cosmogonia di farfalle" (Il male dell'arte, p. 91)
Nei
suoi
risvolti
metaletterari,
il
Künstlerroman
individua la sede privilegiata della moderna attività creativa
nella dimensione cittadina e comincia a suggerirne i possibili
percorsi tematici.
Sebbene molto più titubanti delle loro controfigure
fittizie, gli autori scapigliati sono consapevoli che "le note
malinconiche e toccanti del canto di natura" hanno "cessato di
parlare al cuore" e nulla possono contro il desiderio di
conquistare il "gran mondo sconosciuto" che sta al di là di
torrenti, monti e foreste di pini. (Paolina, to. I, p. 284). I testi,
costruiti sul confronto ravvicinato fra le due dimensioni,
affidano all'andamento dell'intreccio il compito di offuscare il
rimpianto delle zone protette dell'idillio: in Paolina i residui di
serenità campestre si esauriscono nel corso della vicenda; nelle
Memorie del presbiterio, il quadro di un Eden felice  la
presunta "Tebaide, dove son vive tuttavia le memorie bibliche"
(p. 22)  è solo un vagheggiamento fugace che i racconti
inseriti si incaricano di dissolvere. Le note nostalgiche si
affievoliscono e Sulzena appare come "una bolgia", dominata da
ipocrisie e violenze (p. 103), in cui le "scene della natura",
invocate dai giovani poeti, "sono mute" incapaci di dare risposta
alcuna a chi pensieroso le interroga (p. 23). Non resta davvero
che seguire le orme dei protagonisti del Künstlerroman e
intraprendere il cammino "vèr la città".
Qui sarà possibile mettere a fuoco un campionario di
immagini che, pur senza mai disegnare l'affresco metropolitano,
sempre lo presuppongono: la folla affaccendata o distratta che si
agita nelle strade piene di "luce moto allegrezza" (Fosca), il
vagabondaggio curioso del flâneur nei quartieri eleganti o
periferici, le occasioni mondane dove avvengono incontri fatali,
le prime seduzioni della moda, le scommesse del gioco
d'azzardo, l'urto della réclame che "spia il luogo più propizio,
per colpire l'uomo nell'opportunità dei suoi bisogni e dei suoi
dolori" (Faldella, A Parigi, cit., p. 176). Con inedita sensibilità
percettiva, i nostri narratori scoprono il "sonno delle vie
popolari" avvolte, nelle mattine di quaresima, da una "nebbia
torpidiccia" sotto "il cielo d'un colore gesso annacquato"
(Malinconie di un antiquario, p. 424) e colgono l'apprensione
euforica di chi s'imbatte nell'imprevisto, il sentimento di penosa
estraneità avvertito dal singolo nel bailamme della festa o,
all'inverso, l'inebriante "piacere di guardarsi l'un l'altro nel
bianco degli occhi" (I fatali, to. II p. 10) in pieno veglione
mascherato. Gli schizzi e i frammenti cominciano a riecheggiare
i rumori degli scalpelli che abbattono vecchi caseggiati per
innalzare "case nuove", il vocio confuso del carnevale
ambrosiano, "la pagina più vera di questa immensa epopea della
vita" (Paolina, to. I, p. 370) o, infine, i sussulti, simili alle
"vertigini del volare" (Fosca, to. II, p. 300), che si provano in
una carrozza ferroviaria (fra i sedili di un treno si apre Il male
dell'arte, si chiudono le Memorie del presbiterio e si svolge il
viaggio di Geronimo a Parigi).
Una precisazione è d'obbligo. Queste ricognizioni nella
civiltà dell'urbanesimo non sono mai condotte con l’ottica
positivista dei "palombari sociali" che, immersi nei "ventri"
cittadini, ne illustrano gli aspetti oscuri (P. Valera, Milano
sconosciuta, Bignami Milano 1880; L. Corio, Abissi plebei,
Milano in ombra, Civelli Milano 1885103); né tanto meno
replicano gli "choc" della poesia baudelairiana, offrendo magari
"visioni epifaniche" di un "altrove" minaccioso (V. Roda). Nella
fase del "non-ancora non-più", in cui si sviluppa la narrativa
103
G. Rosa, Il mito della capitale morale. Letteratura e
pubblicistica a Milano tra Otto e Novecento, Edizioni di
Comunità, Milano 1982.
postunitaria, il "microscopico Parigi della Lombardia" (C.
Arrighi) racchiude sempre il volto contraddittorio del Milanin
Milanon, per dirla questa volta con De Marchi, e le sicurezze del
passato
continuano
a
sprigionare
un
incanto
potente.
L'attaccamento tenace di Faldella ai valori del mondo agreste ci
ammonisce a non sottovalutare le tracce di conservatorismo che
sono spesso sottese alle sperimentazioni linguistiche. Le
Figurine, volte a celebrare il "galateo dei villani, ossia del buon
cuore" (Galline bianche e galline nere, p. 31), eleggono la "vita
nell'aja" come modello di virtù, tanto più esemplare quanto più
nefasto è l'influsso delle "moderne Babilonie", capaci di
diffondere ovunque i virus dei conflitti sociali (Sant'Isidoro) e
delle "isterie" nevrasteniche (Madonna di fuoco e Madonna di
neve). Semmai, a conferma ultima del permanente dualismo, si
può ricordare che dalla schiera dei "cauti e costumati
piemontesi" (G. Contini) esce anche Roberto Sacchetti. Al
giovane avvocato giornalista, il soggiorno milanese non mostra
il volto cinico della corruzione, gli suggerisce, piuttosto, la
necessità di uscire dal "vecchio guscio" per "vivere in una
grande città dove si lavora, e si pensa, dove ci si agita, ci si fa
strada" (Vecchio guscio, p. 96; il romanzo uscì a puntate sul
"Pungolo" nel 1879). Il "confronto" fra "scene di campagna" e di
città, che nelle novelle d'esordio inclinava faldellianamente a
favore del primo termine (Il forno della marchesa e altri
racconti), nelle opere successive perde ogni rigidità moralistica e
si modula sulle tonalità sfumate della scrittura realistica. Se
Entusiasmi
privilegia
lo
sfondo
storico
della
Milano
quarantottesca, Vecchio guscio condanna l'immobilismo crudele
e soffocante della provincia, replicando, in piena sintonia
scapigliata, il giudizio implacabile con cui il narratore di Fosca
aveva bollato la grettezza dei piccoli villaggi:
Chi ha vissuto un tempo nelle grandi città non può più
adattarsi alla vita dei villaggi; non può impicciolire le sue
vedute, le sue idee, le sue abitudini fino alle proporzioni
meschine, e spesso ridicole, che dà alle proprie la gente delle
campagne. Io ho considerato sempre i piccoli villaggi come
centri d'ignoranza, di barbarie, spesso anche di corruzione. Sono
essi, a mio credere, che arrestano il corso della civiltà (Fosca, to.
II, p. 246).
Anche per Anna Bossano, la protagonista del romanzo
sacchettiano, che nel tentativo di sottrarsi all'accidia maligna del
"paesucciaccio" (Vecchio guscio p. 96) ne rimane schiacciata,
vale l'osservazione con cui Giorgio ribalta uno dei più logori
luoghi comuni dell'idillio:
Vicino ai villaggi anche la natura sembra patire, è rozza e
pigmea, soffre d'impotenza e di rachitismo. (Fosca, to. II p. 247)
Maschile e femminile
Con lo stesso sguardo moderno i nostri autori scoprono il
fascino meduseo della bellezza femminile:
quella specie di beltà cittadina, quasi di beltà malata, che
è affatto sconosciuta alle donne della campagna, ma che è pur
sempre la più attraente delle beltà, perché è una beltà che lascia
trasparire le passioni. (L'innamorato della montagna, to. II, p.
174)
Siamo al nucleo tematico forse più ricco e fecondo delle
opere scapigliate: l'impatto con la civiltà dell'urbanesimo
borghese impone agli scrittori di fare i conti con una figura di
donna dinamica, energica, attraente, a cui i panni dell'angelo del
focolare vanno decisamente stretti. Nella serie delle coppie
oppositive che tramano la narrativa postrisorgimentale, al centro
si colloca l'immagine ossimorica dell'io femminile, fonte di
vitalità erotica e di contaminazione ferale, ispiratrice sublime
dell'arte eterea e origine prima di deliri demoniaci. In questi
racconti,
l'antitesi
fra
Eros
e
Thanatos
raggiunge
un'incandescenza al calor bianco; l'antagonismo fra il dolce
affetto materno, capace di placare tutti gli affanni, e la seduzione
peccaminosa della femme fatale non può trovare sintesi
pacificatrice. Le ripetute invocazioni alla madre che scandiscono
il diario di Bazzero sono debole argine alle visioni, altrettanto
ricorrenti, delle "spaventose voluttà della donna" (Anima, p.
117). Tale schizofrenia è insita nella personalità muliebre,
perché come spiega, con parole di malcelata mistificazione, un
narratore tarchettiano:
Tutto ciò che vi è nella donna  le sue opere, i suoi
pensieri, le sue parole, i suoi atti  tutto è seduzione, benché
seduzione tacita e delicata. Oh l'uomo è assai più puro! (...)
Nella fanciulla si trova sempre la donna  l'angelo bisogna
cercarlo nella madre. (Lorenzo Alviati, to. I, p. 581)
In questo moto ossessivo fra aneliti alla purezza e smanie
per gli "amplessi della femmina nuda" (Anima, p. 17), il pendolo
conosce oscillazioni ampie e irrefrenabili. Nella raffigurazione
del supremo oggetto del desiderio acquistano lucentezza i
conflitti di una collettività che, nel momento in cui delegava alle
discipline positive il compito di risolvere "in laboratorio" le
questioni
aperte
dall'emancipazione
femminile,
dall'altra
s'affrettava ad acconsentire al dogma papale dell'Immacolata
Concezione (1854). Praga: "Bella commedia!...e trassero/ in
clinica Maria,/e alle genti bandirono,/ dogmatica utopsia:/
Olà, madama è vergine! " (Spes unica).
Partecipi di una svolta storico-culturale di vasta portata,
gli artisti ribelli che s'interrogano sulla nuova morale saggiano
nella ritrattistica femminile
moduli e tecniche di vera
provocazione. Tanto più che su questo terreno la polemica con le
convenzioni narrative primottocentesche aveva buon gioco e
massima forza deflagrante. A capo della schiera delle vergini
timorose e pudibonde svettava Lucia Mondella, dietro, molto più
scipite, s'affacciavano le Nunziate e le Angiole Marie di
Carcano, le Miutte candide e paralitiche della Percoto, le
peccatrici pentite di Dall'Ongaro; Pisana, sullo sfondo, era
ancora solo un'ombra fugace. Ben comprensibile che per
delineare l'"abisso di voluttà" (Riccardo Waitzen, to. I, p. 627),
in cui si perdono gli artisti scapigliati, il saccheggio dei modelli
d'oltralpe sia avvenuto a man bassa.
Splendenti nel loro fulgore inattingibile (Narcisa) o
orribili per cumulo di malattie nervose (Fosca), austriacanti
(contessa Livia) o, al contrario, ferventi patriote (donna Elodia di
Entusiasmi), mature o adolescenti, silhouettes schizzate o
protagoniste di primo piano, tutte le eroine in gonnella hanno
una fisionomia originalmente marcata. Non è qui possibile,
purtroppo, passarle in rassegna analitica: troppe e troppo
personalizzate sono le figure che compongono questa galleria
policroma, in cui la sorellanza di genere appanna le differenze di
classe: dalle più celebri, Fosca Rosilde Narcisa Nerina la
contessa Livia, alle meno conosciute ma dal fascino altrettanto
prepotente, Ambra del Trapezio, la zingara Luscià (Tenda e
castello), la baronessa Vittoria (Candaule), la marchesa di
Pallanza il cui amore dura "dall'agosto al novembre", la fulva
tentatrice di Don Giuseppe e Irene di "calle delle Zotte", nelle
Storielle vane. E poi le giovani vedovelle spregiudicate, Regina
"superbamente bella e orgogliosa" che, nella sera del trionfo,
attira a sé Lorenzo Alviati o la contessina di Nievo, la prima ad
iniziare Alberto Pisani ai riti del corteggiamento; oltre,
naturalmente, alla folla variopinta di ballerine, cantanti, modelle,
fanciulle ispiratrici dei geni malati d'arte. Insomma, ci vuole
davvero la "desinenza in A" per declinare il campo raffigurativo
più memorabile della narrativa scapigliata; che il perfido Dossi
ce ne abbia offerto la fotografia in negativo testimonia solo
dell'effetto dirompente che la "donna nuova" incomincia a
produrre nell'immaginario dell'Italia unita.
Tutte sono protagoniste attive del loro destino e a loro
spetta la funzione di catalizzare la dinamica dell'intreccio: poco
importa a quale strumento seduttorio si affidino  lettere
fluviali, suadenti richiami di voce, gesti imperiosi, occhiate
languide, contratti di nozze, somme ingenti di denaro, urla
strazianti, offerte oblative d'aiuto, lavacri odorosi "di polvere di
riso", apparizioni fantasmatiche o sonnambulismi visionari 
ciò che conta è il primato d'autonomia assunto nella coppia.
Perché, come proclama Fosca, "Tutte le donne scelgono"
(Fosca, to. II, p. 334), senza lasciare l'iniziativa ai loro
compagni. Costoro, d'altronde, non sono degli inetti (è giunto il
momento di rinunciare a un'etichetta interpretativa inflazionata e
buona
per
tutte
le
stagioni
post-romantiche);
sono
semplicemente uomini normali attratti e atterriti da una figura
muliebre non più vittima succube. Recita una poesia di Gualdo:
"tra l'acri voluttà misteriose/v'è un senso di speranza e di paura"
(Alla sera). La tensione del desiderio pavido s'origina, certo,
nell'incontro con gli allettamenti maliardi delle dark ladies, ma è
la richiesta pressante e quotidiana di una assunzione piena di
responsabilità maschile a innescare nei vari personaggi il
meccanismo delle titubanze audaci. Il richiamo alle virtù
energiche è tanto più cogente in quanto l'autorevolezza virile,
abbandonati i gloriosi campi di battaglia o le imprese di coraggio
indomito, deve manifestarsi nell'ordine prosaico della società
civile, di cui la famiglia costituisce la cellula germinale: è
appunto l'assenza di nuclei domestici armoniosi, come abbiamo
già notato, a documentare, nella narrativa secondottocentesca, il
declino del modello patriarcale e a denunciare i primi segni della
fragilità maschile. D'altra parte, in quella fase storica di
transizione, la crisi delle relazioni fra i sessi, lungi dall'aprire
prospettive rinnovatrici, acuiva lo stato di disorientamento in cui
versava la neonata collettività nazionale. Anche perché, è ancora
Fosca ad ammetterlo con sincerità masochistica, le donne
prediligono gli uomini autorevoli, per non dire autoritari:
Le donne, ancorché non cessino di essere cortesi coi
buoni e coi miti, cedono sempre di preferenza agli uomini
audaci, prepotenti, pronti all'offesa, disprezzatori degli altri,
vanagloriosi di sé; in una parola ai peggiori degli uomini.
(Fosca, to. II, pp. 340-1)
Gli amanti scapigliati solo raramente sono loschi
individui che, simili al finto conte Ludovico, seducono e
maltrattano le loro compagne; è vero, però, che pochi sono in
grado di tener testa a chi, come Anna Bossano, per uscire dal
vecchio guscio di consuetudini arcaiche e paralizzanti, si
presenta sulla scena del mondo con ardire temerario:
Nulla di languido, di tenero nei suoi atti e nella sua
persona, bensì una franchezza provocante. Era una di quelle
donne fredde, insensibili, che per una reazione oscura
infiammano i sensi inconsciamente, senza volerlo, vi accendono
effervescenze strane, dei deliri pazzi e furiosi che esse non
comprendono; la loro bellezza superba, originale, esagerata
sconvolge in chi ne è colpito l'equilibrio morale, ha delle linee
d'acciaio che straziano il cuore. I loro sguardi fieri e imperiosi
cacciano innanzi a scudisciate frotte di desideri mostruosi,
feroci. Volontà inflessibili, quando si danno, è per prendere tutto
il vostro essere, per spremerlo, per stritolarlo; ambizioni che non
conoscono il piacere e lo sdegnano, qualche volta lo sfruttano.
(Vecchio guscio, pp. 198-9)
Era difficile per i lettori milanesi delle appendici
del "Pungolo" apprezzare un progetto di vita femminile così
ferocemente spavaldo: se poi aggiungiamo che Anna Bossano
contesta il primo dovere muliebre  "le pareva che la maternità
dovesse impacciarla nel suo piano di guerra", "Questo richiamo
ai suoi uffici di donna l'umiliava" (ivi, p. 264)  meglio forse si
comprendono le ragioni del lungo oblio calato sul romanzo
sacchettiano.
In realtà, Anna non riesce a raggiungere il suo ambizioso
traguardo: basta un'accidentale spinta del marito ubriaco a farla
precipitare giù dalle scale, dove spira fra le braccia di un
servitore fedele. E' il prezzo pagato dalla maggior parte delle
eroine scapigliate, sopraffatte dal gioco dualistico di spinte
trasgressive e controspinte censorie, che è il vero fulcro
dinamico di queste opere: nel momento in cui il racconto le
rende protagoniste attive del loro destino, le condanna a subirne
tutte le conseguenze. Quasi a tradurre narrativamente l'attrazione
sgomentevole che suscita una donna "bella ma terribile",
preoccupata unicamente di ottenere "il rispetto di se stessa"
(Candaule, p. 92), la progressione dell'intreccio esalta il libero
sfogo degli istinti vitali, per poi reprimerli con uno scioglimento
catartico che concede ai personaggi maschili il recupero del
primato perduto. L'ordine ricomposto in extremis è altamente
precario: i finali sono per lo più affrettati, incongrui, talvolta
sgangherati, volti solo a decretare la vittoria di un moralismo
occhiuto che distrugge chi turba la gerarchia dei valori costituiti,
massime nella sfera dei rapporti fra i sessi. In alcuni casi, la
lusinga paralizzante delle grazie femminili contagia anche
l'autore e la narrazione s'interrompe bruscamente: Il trapezio
docet. In altri, supplisce la mano dello scrittore amico: il vuoto
che si apre nella compagine di Fosca all'altezza del XLVIII
capitolo, la scandalosa notte d'amore, è spia macroscopica della
difficoltà tarchettiana di controllare la tensione giunta all'acme.
Nella maggior parte dei testi è un esito ferale a sciogliere il
nodo. I corpi splendidi consegnati al gelo di morte non si
contano: Carlotta, contesa fra un pittore egocentrico e un
anatomista pazzo (Un corpo); Rosilde, spirata pochi giorni dopo
aver dato alla luce un innocente bastardo (Memorie del
presbiterio); Luscià, zingara fuggitiva, uccisa per sbaglio da un
marito troppo ben intenzionato (Tenda e castello); Krimilth,
delirante visionaria cieca (Da uno spiraglio); Teresa, selvaggia
sedicenne
sedotta
e
abbandonata
(Macchia
grigia);
la
malinconica Elvira a cui il volo cocciuto di un "minaccioso
moscone" apre la via del sonno eterno (Dossi, Elvira, 1872, poi
in Goccie d'inchiostro). E così scompaiono, per decesso naturale
o fine violenta, le tarchettiane Adalgisa Giulia Anna della
trilogia dei musicisti, e Fiordalisa (L'innamorato della
montagna); poi ancora Alfonsina, moglie modella di Cirillo, e
l'inafferrabile donna Claudia di Alberto Pisani: insomma tutte le
donne ispiratrici d'arte e d'amore, dopo aver insufflato vita e
creatività nell'animo dei loro compagni, devono lasciare per
sempre il proscenio. In questo scapigliato trionfo della morte si
può leggere la sanzione ultima dell'incomponibilità di spirito e
materia, ideale e reale, angelo e demone, eros e thanatos, e così
via geminando nel rispetto del consueto dualismo. Esclama
Bouvard a nome di tutti i ribelli romantici:
Ecco apparecchiata la mia camera nuziale e la mia tomba
a un tempo... la vita e la morte...il gelo del sepolcro, e il fuoco
dell'amore sì lungamente represso... (Bouvard, to. I, p. 653)
Su un orizzonte culturalmente più aggiornato, a
fomentare la dinamica conflittuale sono le suggestioni
parnassiane che, provenienti dalla capitale francese, si vanno
diffondendo anche nella nostra provinciale repubblica delle
lettere. La malia fascinosa che promana da queste creature,
sintesi dei più incantevoli ideali estetici (Narcisa), è così
raggiante e tentatrice da renderle "degne di morire". Il titolo
della Figurina nera di Faldella (1876), che riecheggia la battuta
finale della novella gualdiana "E' morta di bellezza" (Narcisa,
p.221) e i commenti dossiani all'ingegno buono di Elvira (un
"troppo" destinato a "consumarsi tutto in sè stesso" Elvira, p.
421), illumina le connotazioni implicite nella valorizzazione
bohémienne dell'immagine archetipica di Narciso: per un verso,
solo la morte concede di preservare "nel candore verginale tutte
le tumide promesse di una splendida Eva" (Degna di morire, p.
116); per l'altro, gli strumenti d'arte, fissando il fulgore
femminile in forme così perfettamente armoniose da vincere la
corruzione
del
tempo
e
l'involgarimento
della
"civiltà
infracidita" (ibidem), lo svuotano di ogni carica offensiva.
Il binomio romantico d'amore e morte trova rinforzo
negli influssi parnassiani che, per parte loro, corroborano
l'ambiguità equivoca che plasma i ritratti di queste meravigliose
belles dames sans merci; tanto più che la sequela dei cadaveri
femminili non maschera il sadismo difensivo con cui l’istinto di
conservazione
virile,
talvolta
intriso
d’inconfessabile
omosessualità (F. Spera, V. Roda, E. Gioanola), risponde alle
avances della donna-vampiro.
Una considerazione conclusiva è comunque d'obbligo: in
tutti i testi, a imprimersi nella memoria del lettore non è affatto
l'esito ferale che colpevolizza l'intraprendenza seduttiva delle
protagoniste, è semmai, al contrario, l'energia spregiudicata che
s'irradia dalle "linee d'acciaio" di un carattere che "strazia il
cuore". Con un corollario interessante, che apparenta le donne
attive sulla scena del mondo e le divine modelle che sfuggono
alla furia rapinosa del tempo e del desiderio. Con timbri uguali e
contrari, la fantasia creativa si impegna sempre a opporre un
argine rassicurante all'erompere di una naturalità che nel corpo
femminile ha la sua sede elettiva. Sia chiaro: pur nell'esibizione
ostentata delle coppie dualistiche, la narrativa scapigliata non è
in grado di elaborare consapevolmente quella dialettica di
cultura e natura che tanto spazio occuperà nella tradizione del
Novecento; è indubbio, però, che fra mille rimozioni e
autocensure, squilibri compromissori ed anche stramberie
balorde, per la prima volta nella letteratura italiana moderna, le
opere di Boito e compagni danno voce e "senso" alle tensioni
conturbanti dell'eros femminile. Non tutte le eroine romantiche,
è vero, erano languide fanciulle morenti e qualche dark lady
movimentava gli scenari storici; ma appunto le figure
guerrazziane, da Veronica Cybo a Beatrice Cenci, agivano in
epoche lontane, all'interno di corti principesche depravate e
prossime al tracollo.
Nei racconti scapigliati, invece, la minaccia della
sessualità muliebre deflagra nella dimensione prosaica del
quotidiano, incrinando un equilibrio domestico già molto
precario. Non a caso, Fosca è diventata un prototipo.
La
protagonista
dell'ultima
opera
tarchettiana,
"l'isterismo fatto donna", raffigura non già la pulsione distruttiva
di thanatos, ma piuttosto la forza dirompente del desiderio
erotico represso. Negli stessi anni in cui a Parigi illustri medici
studiano le crisi isteriche, decretandone l'origine nervosa
tipicamente femminile, un maldestro letterato di provincia ci
suggerisce che la malattia può essere la risposta dolorosa
elaborata dal narcisismo ferito: la voglia di piacere e del piacere,
censurata dalle norme di convenienza sociale e dalle autodifese
psichiche, esplode in grida e convulsioni strazianti. Gli attacchi
morbosi non sono solo gli alibi per difendersi dall'idiozia di un
mondo gretto  "un paese di Pellirosse" (Fosca, to. II, p. 271)
 di cui è a capo un cugino colonnello un po' citrullo, ma gli
indizi sintomatici attraverso cui una donna brutta e intelligente
rivendica la libertà degli istinti primari contro tabù e rimozioni:
la potenza del desiderio di Fosca è travolgente, ostinata,
irrefrenabile come una patologia di cui si ignora la vera origine e
che appunto perciò tanto più si teme.
Capitolo VIII  Le forme dello stile scapigliato
Una comune scelta antirealistica
Ammettiamolo subito: l'etichetta di "stile scapigliato" è
impropria, forse addirittura azzardata: accostare i "viluppi"
dossiani e gli "alambicchi" di Faldella ai timbri melodrammatici
di Tarchetti o anche all'eclettismo elegante delle Storielle vane è
impresa ardua. Persino nell'area degli schizzi e delle memorie
risalta, di volta in volta, la cifra originale delle singole opzioni. E
tuttavia, non solo è possibile individuare un minimo comun
denominatore in grado di circoscrivere il campo espressivo della
prima narrativa postunitaria, ma è opportuno farlo per meglio
misurare la portata innovativa che, nella generale propensione
allo sperimentalismo, caratterizza i diversi progetti.
All'origine del movimento vi è la percezione ancora
confusa ma penosamente acuta delle trasformazioni che hanno
investito, nel giro di pochi anni, l'orizzonte d'attesa entro cui
operano i professionisti della penna. Nel paese appena uscito
dalle lotte risorgimentali e alle prese con questioni socioeconomiche di seria gravità, il mutamento del quadro culturale
appanna antichi valori e chiede lo sviluppo di un'intellettualità
organica
alle
discipline
"positive",
mentre
la
civiltà
dell'urbanesimo borghese sollecita una modificazione profonda
delle abitudini di vita e dei comportamenti collettivi.
Nel
capoluogo
lombardo,
epicentro
della
spinta
propulsiva, chi ha intrapreso la "carriera della carta sporca"
patisce in prima persona gli esiti sconvolgenti del passaggio
d'epoca: le "officine della letteratura" corrodono le consuetudini
di lavoro umanistiche, sottomettendo anche l'attività artistica alle
leggi inderogabili del mercato. A fronte dell'articolazione interna
del sistema letterario, che comincia a divaricarsi fra produzione
"alta" e narrativa "di consumo", gli scrittori aggiustano il tiro,
pre-selezionando la cerchia dei lettori cui intendono rivolgersi.
La ricchezza di ogni progetto espressivo è a misura della
coerenza con cui viene impostato il dialogo; il criterio formale
con cui il singolo autore miscela le diverse componenti ne
determina il particolare assetto.
Il fulcro dello stile scapigliato non è tutto riconducibile a
"una violenza linguistica, una varietà di espressionismo",
secondo la celebre definizione di Contini104; l'impegno comune a
sperimentare i moduli inediti di una prosa narrativa eccentrica
assume tonalità difformi: ora autenticamente espressionistiche,
104
G. Contini, Introduzione, cit, p. 4.
ora ludico-estrose, ora fantastico-deliranti. Per chi si prefiggeva
di oltrepassare le convenzioni care ai "solenni giganti del
passato", lo sforzo di rinnovamento era orientato in una duplice
direzione: infrangere definitivamente l'aulica compostezza della
lingua letteraria italiana e, nel contempo, rispondere alle
sollecitazioni dello sviluppo tecnico-editoriale, senza mai
sconfessare, anzi inverando, la specificità della scrittura d'arte.
La vena più vivace del ribellismo trasgressivo s'alimenta
certo dell'opposizione alla soluzione di medietà proposta dai
Promessi sposi e dalla scuola degli imitatori "fiorentineggianti",
ma a sostenerla è soprattutto il desiderio ansioso di contrastare
con gli strumenti di una letterarietà moderna l'espansione del
linguaggio giornalistico, dominato dalle funzioni comunicativa e
referenziale. Germina da questa bivalente esigenza reattiva la
scrittura d'impianto antimimetico che connota l'intera narrativa
scapigliata; la sua debolezza complessiva risiede nel paradosso
di innescare "una crisi del realismo prima che si affermi il
realismo stesso"105.
L'espressionismo risentito di Dossi
105
F. Portinari, op. cit., p. 214.
In esordio al Màrgine alla Desinenza in A, Dossi elenca
con la consueta verve polemica la schiera di coloro che
disdegnano le sue opere: i "letterati" tradizionali, il pubblico
volgare e rozzo dei bottegai (il "banco di drogherìa"), i
"gazzettieri" il cui "stile è «forbice e colla»" (N. A., n. 3607);
infine, la critica conservatrice, supina ai dettami del manzonismo
pedissequo (il "saccheggio bonghiano").
Proprio contro il gusto pigro e stantio di questi lettori
l'autore dell'Altrieri dà vita al suo pastiche e ne chiarisce i motivi
genetici con uno sterminio di dichiarazioni programmatiche:
"scrivere oggi in stile di jeri, è una vergogna" (N. A., n. 2186);
"Guai se il passato avesse più forza dell'avvenire" (Màrgine);
"Al giornale si deve la perdita dell'originalità nello stile; e la
moderna incolorità della lingua" (N. A., n. 1783); "La sicurezza
di stile, è la piena espressione del concetto" (N. A., n. 1692).
L'elenco degli aforismi icastici è davvero sconfinato e
eterogeneo, sgranato negli appunti del "libro azzurro" o
condensato nella scrittura autoriflessiva delle prefazioni,
preamboli, diffide, dediche, note a margine: ne sintetizza il
nucleo centrale l'obiezione reiterata e risentita contro la banalità
mediocre che impronta ormai comportamenti di vita e abitudini
elocutive:
Ma, ahimè! la uniformità, di giorno in giorno,
uggiosamente si accrèdita. La ferrovìa vuol la pianura.
Scompàjono i dialetti, le foggie, i misteri; scompàjono le
divisioni e le suddivisioni nella filosofìa, scompàjono i confini,
e, bastasse il volere, scomparirebbero, anche le stagioni. (Dal
calamajo di un médico, p. 614)
Coinvolta negli iniziali processi omologanti, anche la
lingua letteraria tende ad appiattirsi sul registro medio della
comunicazione quotidiana, diventando, nei "semplici scrittori",
una "broda completamente sciapa, incolora, inodora" (Màrgine).
Non c'è dubbio che la scelta stilistica dossiana maturi
nell'antagonismo radicale ai sostenitori della tesi che "fuor di
Toscana, anzi di Firenze, anzi di Palazzo Riccardi, non era
letteraria salute" (ivi, pp. 668-9); ma il pastiche, che amalgama
con elegante "bujezza" cultismi e modi familiari, termini
dialettali milanesi e lombardi, neologismi e parole arcaiche,
onomatopee e voci dotte di vocabolario, non sprigiona la sua
energia solo nell'attrito con la "scròfola fiorentina" e le
scolastiche formule bonghiane. A lievitarne l'impasto è la
"densità delle idee" alimentata, nell'epoca moderna, sia da una
maggior ricchezza intellettuale ("pisciàvasi chiaro perchè non si
beveva che aqua, compreso il vino" ivi, p. 677) sia soprattutto
dall'acconsentimento alle correnti centrifughe che dinamizzano i
rapporti fra l'io e la collettività: "Il Progresso tende a
riemancipare l'individuo dalla società tutrice" e, nel nuovo
ordine dominato dalla "varietà nella molteplicità" (N. A., n.
2459), la percezione soggettiva si frantuma in "centomila
specchietti" (Màrgine).
Questa lettura della realtà, in cui s'innerva l'intero filone
dell'espressionismo lombardo, è a fondamento di uno stile
umoristico che si autodefinisce un "misto di scetticismo e di
sentimentalismo" (N. A., n. 2382) e i cui esiti più alti sono
individuabili nell'Altrieri e nella Vita di Alberto Pisani. Allo
studio filologico e variantistico delle fulgide "alchimie lessicali"
dei libretti giovanili è dedicato il saggio pionieristico di Dante
Isella La lingua e lo stile di C. Dossi, cui vanno affiancati i testi
introduttivi e gli apparati che accompagnano le numerose
riedizioni (ora raccolte in Opere, Adelphi, Milano 1995). In
seguito, una folta schiera di critici ha analizzato, con acribia
puntigliosa, i procedimenti raffinatissimi d'elaborazione formale
che puntano alla scomposizione sistematica delle immagini:
catene
anaforiche,
fonosimboliche,
rifrangenze
corrispondenze
coloristiche,
semantiche,
ripetizioni
equivalenze
chiastiche e ossimoriche, cataloghi più o meno caotici. E tuttavia
l'elemento di maggior originalità non risiede nel caleidoscopico
spettro delle scelte lessicali e neppure nella gamma delle figure
retoriche
che, nel rispetto della poetica umoristica, operano
nella direzione univoca dello straniamento e della parodia.
Troppo poliedrica e difforme è la visione del mondo esterno che
si riflette nei "centomila specchietti" soggettivi per essere
rinserrata in un'unica formula linguistica, per quanto pirotecnica
essa sia ("un incessante spettacolo di fuochi d'artificio" D.
Isella). La pluralità prospettica con cui l'autore osserva gli
scenari di realtà e indaga la propria "popolazione di ii" alimenta
un andamento ritmico che coniuga la varietà dei registri elocutivi
con le vibrazioni di un periodare sincopato e avvolgente.
Sul piano propriamente sintattico, il gioco combinatorio
di "segmenti testuali lunghi-brevi, lunghissimi-brevissimi, di
sequenze a sviluppo lineare, prevalentemente paratattico e
sequenze involute, con forte scardinamento della successione
normale di parole e proposizioni"106, produce un flusso narrativo
106
F. Caputo, Il filo di Arianna della sintassi nella scrittura di C.
D., tesi di dottorato di ricerca in Scienze Letterarie, VI Ciclo,
intermittente e nervoso, dove l'emotività si raggruma in nuclei
semanticamente isolati. Le modulazioni espressionistiche, che
ora mimano lo stupore infantile e gli sbalzi d'umore
adolescenziali ora danno sfogo all'indignazione giovanile o
all'acredine misogina, scaturiscono dall'"ingegnosa" cesellatura
del fraseggio che incrocia la complessità della struttura ipotattica
con la sveltezza dello stile nominale. In una pagina che sempre
ostenta la "perdita di baricentro", il dettato inciampa nella
contorsione dei "viluppi" e "calappi"  parentetiche incidentali
esclamative interiezioni apposizioni domande retoriche  per
poi riavviarsi sull'onda delle distensioni polisindetiche, delle
cadenze anaforiche, delle riprese a grappolo con "effetto di eco"
(F. Caputo). La calibratura delle diverse strategie compositive
muta da libro a libro e, se l'enfasi sentenziosa delle opere
"utopiche" denuncia il fallimento del Dossi "buono", nell'Altrieri
e nella Vita la commistione abilissima di dispositivi centripeti e
effetti dissolventi trova un equilibrio delizioso, forse irripetibile.
Nella prima operetta sono soprattutto gli attacchi dei
paragrafi, ellittici esclamativi o interrogativi, a imprimere alla
rievocazione memoriale l'andamento "a sbalzi, ad intervalli"
entro cui il "groppo" dei ricordi si lascia catturare. In questo
Università di Pavia, a. a. 1994-5.
intarsio la brillantezza dei toni ilari si smorza nella "malinconia
dolce" dell'elegia (Lisa), il sarcasmo acre colpisce l'"assurdità
dell'educazione collegiale", censurando l'arroganza del ricco e di
chi "incensa il vitello d'oro" (Panche di scuola), la zigzagante
alternanza di autoconsapevolezza ironica e nostalgia regressiva
chiarisce la potenziale schizofrenia del protagonista ("Sotto il
chiarore del fantastico mondo, le cose del materiale, mi si
colorivano al doppio" La principessa di Pimpirimpara, p. 509):
sempre la rapsodia espressionistica interrompe la melodia
struggente e il più raffinato "stiacciato" congela i moti proiettivi.
Nella Vita di Alberto Pisani spetta ai periodi a grappolo,
variamente
ramificati,
rigorosamente
scanditi
da
una
punteggiatura "nevrotica", accompagnare il percorso di crescita
del "gotico" artista, illustrando il duplice movimento che anima
la
declinazione
propriamente
umoristica
del
pastiche:
l'esibizione narcisistica di una soggettività ipertrofica, incline a
liberarsi in mille arabeschi evanescenti, cui si oppone
un'implacabile autocensura a difesa del pudore per i sentimenti
autentici. La combinazione ritmico-sintattica e la varietà dei
registri espressivi danno conto dell'oscillazione irrefrenabile in
cui vive l'alter ego del narratore, in bilico fra l'ansia assillante di
entrare nel "nemico mondaccio" e il desiderio, altrettanto
tormentoso, di restarne fuori: la scintilla scocca quando i toni
della melanconia fantasticante si fondono con i timbri dell'ironia
corrosiva, in un bagliore che accorda narrazione di primo grado
e
raccontini
inseriti.
Quel
"misto
di
scetticismo
e
sentimentalismo", formulazione idiosincratica del dualismo
scapigliato e chiave dell'umorismo moderno ("il riso temperato
col pianto" N. A., n. 2280), è la fonte genuina del pastiche
dossiano che, mai riducibile al gioco parodico delle convenzioni
narrative, investe con pathos lucido i meccanismi dell'universo
collettivo da cui l'individuo s'industria a isolarsi ma di cui
subisce gli assalti. Se il soggettivismo relativistico di Sterne
nasceva dalla "reazione al potere crescente della prosa
dell'esistenza"107, il geroglifico Dossi ne rimodula le strategie
formali con risentita moralità ambrosiana. La straordinaria
pagina che descrive Milano in notturna, mentre "il mercato di
Priapo affolla" e "Nabucco imbestia" (Vita, p. 141), testimonia
quanto la deformazione espressiva, lungi dall'essere esercizio
funambolico o svagata pratica metaletteraria, sia confessione di
estraneità dolente e, nel contempo, atto di denuncia impietosa.
107
G.Lukàcs, op. cit., p. 159.
I riflessi e i ricordi di Bazzero
Sulle stesse cadenze di soggettività ferita si distende la
scrittura eccentrica di Ambrogio Bazzero.
Come mi spaventa il mondo reale, il mondo della prosa,
dei bisogni, degli affari. (Anima, p. 48)
Contro l'età adulta che impone scelte di vita pratica e
assunzioni di responsabilità mature, il "deserto" scrittore, il più
giovane
del
gruppo,
esordisce,
sulle
orme
di
Dossi,
immergendosi nella stagione perduta dell'infanzia protetta.
Se i primi racconti, pubblicati nel 1870 sulla "Palestra
letteraria", avviano "la fuga nel passato, inteso come «piccola
archeologia» di diretta influenza dossiana"108, il modello
dell'Altrieri si staglia in controluce dietro lo stile melodicamente
franto di Riflesso azzurro (1873). Lina, così s'intitola l'unico
ampio capitolo, è sorella in mestizia e morte di Lisa, evocata
esplicitamente all'inizio del racconto: "creaturina, degna del
bacio della tua Gìa, o Guido di Praverde, e come Gìa...!" (p. 16).
Le consonanze con il libro dossiano sono molteplici: sul piano
compositivo, al prologo collocato nell'oggi segue il recupero
108
A. Puglisi Allegra, Presagi novecenteschi nelle novelle di A.
B., in "Critica letteraria", n. 25, 1979.
memoriale dell'epoca passata, prima rallegrata dai giochi
bambineschi poi intristita dalla doppia esperienza della
separazione (lo studio nel collegio cittadino) e del lutto (la
scomparsa di Lina). Il sistema dei personaggi è limitato, oltre ai
due protagonisti, alle figurine di contorno, per lo più schizzate
con bonarietà caricaturale: la tata Teresa, il maestro Benpoco, i
compagni di classe. Entro la dimensione linguistico-espressiva,
l'io narrante, assunta pienamente l'ottica fanciullesca, deriva dal
pastiche dossiano soprattutto i toni elegiaci e le note di
intenerimento comico. Anche nell'elegante operetta di Bazzero,
degna di uscire dal silenzio che finora l'ha offuscata, più che
l'intarsio lessicale, pur ricco di voci deformate (accrescitivi,
diminutivi, dispregiativi affettuosi), neologismi, popolarismi e
cultismi, è l'andamento sintattico a sostenere il fiotto discontinuo
dei ricordi, districandone il garbuglio di sentimenti: incisi,
domande retoriche, apposizioni esplicative, interiezioni, battute
di dialogo increspano un periodare che, senza avvolgersi nella
bujezza densa dei "calappi", è sempre sbilanciato e privo di
baricentro.
Cioè, scusatemi, fino ai soldi e soldoni l'affare non va
zoppo: poi errata-corrige, di grazia corrige per amore di quel
prestigio militare. Oh, non sapete? Bene, ascoltate fanciulle mie.
Peppo Valperquattro, vulgo senza paura, un ciuffetto in Boscate
che nemmanco al signor curato faceva di cappello, Peppo, vi
dico, al mio cospetto, pareva un'alberella, perchè sapeva  e chi
no?  che sempre in mia cintura e sempre nell'arsenale di
Teresa e baionette e pistole e scatole di polvere e di granate non
aspettavano che carne da ribelle. Dio Marte, alla larga, ve'! (pp.
12-3)
Il ritmo saltellante che isola sia i singoli particolari di una
descrizione  gli scenari naturali, ma anche le croci di un
cimitero (p. 43) o i giochi fanciulleschi di guerra (p. 63)  sia i
nuclei emotivamente intensi è spesso ottenuto grazie all'uso
peculiare dei due punti in sequenza:
Guarda: il cielo di primavera azzurro e smagliante: il
venticello carezzevole: l'acqua tremula e crespa: sui prati una
danza di variopinte farfalle: noi carichi di cerchi e di palloni e di
fiori. E va, e va.(p. 37)
I pensieri morivano l'uno nell'altro, si sfumavano,
armonizzavano, si rinnovellavano: il dolore svaniva nella gioia,
la gioia nel dolore: melanconica quella, carissimo questo: il
misto indistinto che ne risultava un'incertezza speranzosa.(p. 72)
A fronteggiare le spinte centrifughe sono adibite con
sistematica insistenza le figure di ripetizione che organizzano
l'ordine microsintattico  il raddoppio di parole o gruppi di
parole più o meno ravvicinate  e il sistema delle ricorrenze
distesamente narrative. Le campiture larghe, segnate da frequenti
clausole-ritornello  "Ecco" "Eh tu" "L'ora malinconica" ,
attenuano la nervosità sincopata del discorso e rilanciano la
melodia evocativa delle ricordanze lontane:
Poi nebbia...Il nastro passava. Eccolo là, rasentava un
cassettone inespugnato; Il nastro passava. Ecco rasentava una
grande poltrona, arsenale di balocchi; Poi il nastro tremerellava
dinanzi a un vetro screziato a rabeschi sinuosi; Poi il nastro
serpeggiava tra le sedie; Il nastro passava... (da pag. 50 a pag.
65)
Nell'opera d'esordio, la scrittura di Bazzero sembra
soprattutto intenta a assecondare il tremore spaurito del bimbo
che si sente abbandonato davanti al mistero della morte; tuttavia,
l'epicedio elegiaco non solo è raffrenato dai moti di incredulità
attonita del fanciullo, a cui sfugge il senso della perdita, ma è
pervaso da una sotterranea inquieta morbosità: a differenza di
Lisa, la piccola compagna di giochi di Rigo è la sua amata
cuginetta.
Poi, quando il grumo di rovelli nevrotici balza in primo
piano,
non
trattenuto
dagli
artifici
dissolventi
dell'espressionismo, la pagina s'intorbida cedendo ora al pathos
ultraromantico (Anima) ora al lamentio vittimistico (Lagrime e
sorrisi). Le screziature preziose tornano nei brani delle
Melanconie di un antiquario, dove la prosa alterna parole
desuete, predilette da chi raccoglie reperti del passato, a
neologismi, paradialettalismi e voci alterate in un fraseggiato
sempre scandito dalle figure di raddoppiamento. Negli
Acquerelli, infine, il soggettivismo perturbato, pur senza alcuna
concessione alle tecniche della dissociazione umoristica, si
sgrana negli schizzi e nei frammenti dedicati ai paesaggi marini;
il dettato assume tonalità opalescenti, care al cromatismo en
plein air:
verde bavoso (p. 157), lumicini giallosi (p. 161), Tutto
azzurreggiava (p. 162), questo crepuscolo infosca ed è silente
(pp. 173, 175); tutto è d'un azzurriccio-perla (p. 176); tutto d'un
cangiante celestognolo che ai primi raggi si spolverizza d'oro (p.
177); Mare turchino buio, azzuolo, più che azzuolo: tinte
ubbriache (p. 182); Il mare finisce con una lista nera di lavagna:
l'aere giallo-inaonato al basso si colora d'un riflesso di luci
crocee, all'alto si stinge nella dispersione dei cieli (p. 185).
Il giornalismo espressionistico di Faldella
Nella medesima area espressionistica, ma privo di
sfumature masochiste, si colloca il pastiche di Faldella. A
differenza del dimenticato Bazzero, l'autore di Figurine ha
goduto dell'attenzione lusinghiera di importanti critici, primo fra
tutti l'autorevole Contini: "Faldella era un piccolo europeo. E la
sua deformazione osservativa è sincronizzata con i classici
dell'umorismo inglese e germanico"109. Accomunati quasi
sempre ai geroglifici dossiani, gli alambicchi dello scrittore di
Saluggia sono stati sottoposti a un'indagine analitica sia in
specifici studi linguistici (C. Marazzini, S. Scotti Morgana), sia
109
G. Contini, Introduzione, cit, pp.14-5.
nelle ampie prefazioni che accompagnano le edizioni recenti
delle singole opere110.
Il
plurilinguismo
faldelliano
si
costruisce
grazie
all'amalgama di due tensioni energicamente divergenti: il
massimo di "zelo retorico" e "accademico" (G. Contini), che lo
induce a saccheggiare il patrimonio lessicale racchiuso nei
vocabolari antichi e moderni, si sposa con il gusto esasperato
dello straniamento che quella ricchezza semantica altera e
stravolge. Ne deriva una scrittura "vivacissima e sorniona,
raffinata e graffiante"111, in cui cultismi, arcaismi, termini desueti
cozzano con i piemontesismi, tecnicismi, stranierismi; le voci
popolareggianti affiancano i lemmi puristici "nella latitudine che
110
Roma Borghese a c. di G. Mariani, Cappelli, Bologna 1957;
Madonna di fuoco e Madonna di neve, Introduzione di G.
Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1969; Tota Nerina a c. di A.
Briganti, Cappelli, Bologna 1972; Sant'Isidoro. Commentari di
guerra rustica a c. di G. Luti, Vallecchi, Firenze 1972; Donna
Folgore a c. di G. Catalano, Adelphi, Milano 1974; Nemesi o
Donna Folgore a c. di G. Zaccaria-M. Masoero, Fogola, Torino
1974; Una serenata ai morti a c. di B. Mortara Garavelli, Serra e
Riva, Milano 1982; A Vienna. Gita con il lapis a c. di M. Dillon
Wanke e A Parigi. Viaggio di Geronimo e comp a c. di L.
Surdich, Costa Nolan, Genova 1983; Un viaggio a Roma senza
vedere il papa a c. di P. M. Prosio, Centro Studi Piemontesi,
Torino 1988.
111
M. Corti, Introduzione a Figurine ristampa Bompiani 1983, p. 7.
va dagli Autori al toscano attuale"112, mentre le derivazioni
suffissali e i neologismi declinati in varie maniere (sostantivi e
aggettivi verbali, verbi denominali, ibridismi) imprimono alla
pagina un andamento aggressivamente mosso. Anche in questo
impasto stilistico dominano i procedimenti retorici volti a
scomporre
le
immagini,
snaturandone
i
contorni:
l'accumulazione accrescitiva, le geminazioni per accostamento
ravvicinato o a distanza, l'enumerazione caotica, i cataloghi
estravaganti. Le connessioni interne sono affidate ai paragoni
inusuali ("la fumea di una locomotiva a vapore, che pareva uno
strascico lento di lenzuola funebri sopra una distesa geografica",
Gentilina, p. 186; il "risolino" di Alfonsina "corto come una
lumaca che non dava né dentro né fuori" Il male dell’arte, p. 91)
e ai costrutti analogici ("E il sole spinge le sue gambe di ragno
per aggrappare l'orizzonte" Dies, p. 17). Il correttivo ironico
insidia sia le situazioni di banalità quotidiana,  il narratore del
Male dell'arte si dichiara "innamorato cotto non della lavandaia,
brutta come la notte, ma delle partenze di buon mattino" (p. 52)
, sia gli stereotipi letterari: "Scintillarono le volgari stelle che
112
G. Contini, Introduzione, cit., p. 15.
fanno sempre da candeliere sopra tutti i balconcini, in cui si
becchino due tortore" (Degna di morire, p. 113).
Nel racconto di Cirillo e nei reportages di viaggio, il
piglio effervescente del letterato girovago s'irradia sui molteplici
piani del testo, disarticolando l'ordine del discorso e incrinando
le coordinate compositive. Sempre scoppiettante, ma meno
corrosivo il risultato delle Figurine: non solo perché la pratica
inventiva comincia a sganciarsi dalla elaborazione teorica e dalla
ricerca archivistica113, ma per l’ancoraggio alla misura del
quadretto campestre che raggela l'"enciclopedismo linguistico". I
bozzetti infatti si limitano ad allineare stringhe lessicali bizzarre
che non spezzano l''"immobilità contemplativa" (R. Bigazzi) con
cui il narratore ammira la naturale e sana rettitudine della
comunità contadina, riproponendola come argine alla corruzione
delle "moderne Babilonie".
Già il Rolfi, nella Prefazione a Una serenata ai morti
(Perino, Roma 1888), pur riconoscendo nella prosa faldelliana
"una fresca vena di allegria", uno "scattare battagliero" capace di
scuotere "i pacifici lettori della «Gazzetta Piemontese»", ne
individuava un rischio latente: "quel toscaneggiare che sa molte
volte di becerume colto in piazza della Signoria, quel ricamare
113
C. Marazzini, Introduzione a G. Faldella, Zibaldone, Centro
Studi Piemontesi, Torino 1980, p. XXVIII.
ragnatele sulla punta di un ago, è uno scapricciarsi da
Sardanapalo che non può sempre piacere al lettore" 114.
L'esibizione narcisistica di chi si abbandona alla furia elencatoria
tende sempre più a sommergere i segni vivi del "mondo piccino"
sotto la mole erudita dei "libri grossi" (A Vienna, p. 246).
La tenuta delle prime opere poggia, infatti, su un
equilibrio precario: "tormentato il dizionario cadavere" per
ridargli nuova vitalità (ibidem), la torsione espressionistica si
cala entro una tramatura sintattica in cui prevalgono i moduli
della coordinazione franta e dello stile nominale.
Questo "conservatore anarchico", che si riserva "una
totale libertà di laboratorio" per forzare soggettivisticamente il
tessuto semantico-lessicale, si avvale poi, sul piano del più
ampio
fraseggiato, dei procedimenti
cari alla
"rapidità
giornalistica" che alleggeriscono e vivacizzano il dettato (tutte le
citazioni sono di Contini). L'autore del Male dell'arte non solo
evita la "bujezza" dei viluppi dossiani, ma, per lo più, messo in
rilievo il perno del discorso, costruisce un ordito a forte
prevalenza paratattica, in cui il gioco dei parallelismi
giustapposti si integra nel reticolo dei richiami anaforici.
114
Si cita dall'edizione a cura di B. Mortara Garavelli, p.78.
Nell'autoraffigurazione di Cirillo, i segmenti frastici si avviano,
quasi tutti, con soggetto e verbo reggente:
Io sono figliuolo di mio padre, mancomale... Egli fu ... Io
sono nato... Son sicuro... (Il male dell'arte, p.60)
Se l'evocazione amaramente ironica della figura materna
increspa l'ordo naturalis ("Sospetto di averla conosciuta la mia
mamma." ibidem), nei ritratti dei personaggi minori è la sintassi
nominale a produrre, con l'accumulo dei particolari, la
deformazione caricaturale. Esemplare la presentazione di Don
Sereno, "uomo dimezzato" nel suo servilismo pretesco, le cui
"smorfiette" anticipano i saltelli i guizzi i gesti scorciati e le
mosse improvvise, insomma "la divincolazione elastica" (High
life contadina, p. 64) delle figurine-marionette che affollano i
"tritoli" faldelliani. Ma appunto, la "stranezza ruvida" (L.
Capuana), che ricerca le serie aggettivali debordanti, i sintagmi
apposizionali, le interruzioni esclamative, le onomatopee, i
nomi-maschera, i calembours linguistici, l'interpunzione fitta di
pause e puntini di sospensione, vale a dinamizzare la
rappresentazione di una realtà colta sempre nei suoi aspetti
statici. Ecco perché la "dialettica dell'invenzione", concentrata
nello "scrutinio di lista" (G. Contini), privilegia le descrizioni
fisionomiche e gli scenari paesaggistici. Faldella proietta la
violenza espressionistica verso l'esterno senza mai mettere in
discussione l'unità del soggetto percipiente: i "tanti ii", in cui il
malato Cirillo si sente sdoppiare, si ricompongono ben presto in
"un io solo" (p. 94). Come lo stesso Contini suggerisce, seppur
in altra prospettiva:
Agitando l'aria intorno al bozzetto, diciamo alla
«figurina», alla cosa vista, si legga corrispondenza di giornale,
Faldella decompone prismaticamente la visione, fa del pleinairisme, del divisionismo, dell'impressionismo, ma non si muove
di dove s'è piantato.115
Ben comprensibile allora che non solo gli sia inibita ogni
autentica "carriera di scrittore"116, ma che l'esuberanza inventiva,
appannata la carica provocatoria delle prime prove, si converta
in eleganza sostenuta in Madonna di fuoco e Madonna di neve o
in sentenziosità moraleggiante nel Sant'Isidoro. Difficile, perciò,
115
G. Contini, Pretesto novecentesco sull'ottocentista G. F.
(1947) in Varianti e altra linguistica, Einaudi Torino 1979, pp.
582-3.
116
Ibidem.
condividere la tesi di chi legge nel pastiche il grimaldello
acuminato con cui il narratore rompe lo schema ottimistico
dell'idillio rustico, minandone il pacioso "interclassismo un po'
arcadico" (G. Petronio). Opinabile, d'altra parte, il giudizio di
quei
critici
che,
sulle
orme
di
Croce,
attribuiscono
l'affiochimento della vena creativa alla pervicacia con cui
Faldella si mantenne fedele al mestiere di cronista 117. Proprio da
questa moderna condizione professionale, condivisa con l'amico
Sacchetti (cfr. La morte di un giornalista, in Roma Borghese), e
di cui seppe ben sfruttare le opportunità 118, l'onorevole di
Saluggia deriva lo slancio per candidarsi a membro elettivo del
cenacolo scapigliato. Al pari dei suoi amici, anche Faldella
s'impegna a contrastare la paludata lingua letteraria, la
tradizionalissima armonia della narrazione "ben commessa" (ivi,
p. 81), ma, a differenza del geroglifico Dossi, nei suoi
alambicchi immette gli sprazzi della "rapidità giornalistica",
inaugurando un modello di scrittura che ispirerà, di lì a poco, i
"corrispondenti" e gli "inviati speciali" dei quotidiani di maggior
successo.
117
"troppo lavorò da giornalista" B. Croce, La letteratura della
Nuova Italia vol. V, Laterza, Bari 1943, p. 149.
118
F. Imbornone, Teoria sul romanzo in un carteggio inedito di G.
F., in "Filologia e critica", maggio-dicembre. 1980.
L'impressionismo inquieto di Praga
Anche Praga, quando passa dai ritmi poetici all'andatura
prosastica, sceglie le appendici dei giornali: Schizzi a penna esce
sulla "Rivista minima" (febbraio-marzo 1865); il "Pungolo"
ospita Due destini, Tre storie in una, Memorie del presbiterio
(rispettivamente 1867-8, 1869 e 1877). La ragione economica è
il movente primo che spinge il letterato a collaborare con la
"repubblica della carta sporca"; ma, come spesso capita nel
movimento bohémien, una decisione obbligata diventa fonte di
sperimentazione feconda. Gli Schizzi, che avviano la ricca
produzione delle gite d’artista, hanno movenze stilistiche di
vivezza inusuale. Nei "quattro foglietti", staccati "a casaccio"
dall'album e inviati a Ghislanzoni con una nota di modestia
compiaciuta, la varietà delle tipologie compositive esalta le
gradazioni della scrittura pittorica: quadri d'interni, ritratti di
"vaghe macchiette" che dileguano sullo sfondo di una piazza,
atmosfere ovattate in cui appaiono figure leggendarie. "Il
risultato sarà una vera e propria modalità di strutturare il testo
procedente per accostamenti contrastanti o quanto meno
differenti, sia nella prospettiva stilistica sia in quella geografica"
119
.
Le altre opere, rispettose della misura breve del racconto
e dell'"appendice", conoscono cadenze espressive diversamente
intonate: ma non c'è dubbio che siano le Memorie del
presbiterio il testo più suggestivo. Dopo una novella tipicamente
scapigliata, Tre storie in una, e Due destini, un balordo
feuilleton dalla prosa trasandata (la descrizione di un cimitero
cade nell'umorismo involontario: "le cartilagini delle spine nasali
avevano l'aspetto degli alveari delle vespe... le sinfisi del mento
e le branche delle mascelle circondavano la testa a guisa di
corona" p. 26; la presentazione della fanciulla che incanterà i
due protagonisti si avvia con una scomposta citazione: "Era
l'unica donna fatta per il miracolo di destare un senso amoroso"
p. 180), Praga mette a punto un paradigma narrativo
originalmente duttile, in cui tenta di coniugare il montaggio
franto del "racconto a puntate" con la cifra di un impressionismo
inquieto.
Nel progetto impervio di proporre ai lettori del "Pungolo"
un "poetico" romanzo d'appendice, Praga incrocia sequenze dal
119
E.Paccagnini, Introduzione a E. Praga, Schizzi a penna, p. 31.
ritmo serrato, spesso affidato alle forme verbali del mondo
narrato ("Mi rivolsi al suono dei suoi passi, mi rizzai, e gli mossi
incontro. Egli si fermò, mi stese ambe le mani, e, prima ch'io
trovassi una parola, mi disse" p. 21), con pause raffigurative in
cui la gamma delle screziature cromatiche delinea lo sfondo
"misterioso" del racconto. Ad una prima lettura il "periodare può
anche parere sciatto (e cioè la pennellata singola disfatta)", ma
ben presto la pagina si rivela composta di sovrapposizioni
abilmente fuse: "come nell'opera di preparazione d'un quadro
moderno avviene una ripetuta stesura coloristica sulla superficie
intera di essa, per toni, rilievi e rapporti, così tale tecnica
conduce a svolgere su tutto lo sviluppo del racconto un lavoro di
stesura psicologico a larghi strati"120.
L'inclinazione pittorica risalta nella serie delle descrizioni
fisionomiche che alternano l'evidenza icastica del ritratto
canonico (il giovane artista, il vecchio curato dagli "occhi
limpidi e profondi", gli sventurati Beppe e Gina, il sindaco De
Boni "genio malefico"), il gusto della sagoma caricaturale
(l'organista, le donne del farmacista, l'intendente, gli avventori
della bottega del caffè), la "tecnica della macchia":
120
G. De Blasi, recensione all'edizione di Memorie del
presbiterio, a c. di E. Colombo (Garzanti, Milano 1940) in
"Giornale storico della letteratura italiana", CXXI, 1943.
Veder quella donna che, di femminile, non aveva che la
gonna cenciosa, e pensare alle rocce basaltiche tutte a buchi e a
crepacci, che si trovano sulle cime, in mezzo al verde,
sparpagliate non si sa come e perché  era la stessa cosa. (p. 82)
A raccordare lo sgranarsi intermittente delle "impressioni
di scene e di fatti" (p. 25) è la vibrazione di soffuso turbamento
che permea l'intero resoconto narrativo: in questa prosa, che
poco concede al "frammentismo lirico-descrittivo" studiata
com'è "per essere strutturalmente frammentata"121, gli stilemi
dell'analogia deformante ("Piselletti cosputati dalle streghe" p.
19, "un addio secco come un'acciuga" p. 61, "mormorò un
«posso?» dolce come una ciliegia bucherellata dai passeri" p. 64)
corroborano i procedimenti di scomposizione luminosa: grazie ai
giochi avvolgenti di luce e ombra, il giardino del presbiterio
mostra, da subito, uno strano "splendore" in cui volteggiano
"salme" di fiori "scomposte e sparpagliate" (p. 29).
Se l'adozione delle tonalità atmosferiche del plein air
avvia "un processo di compenetrazione panteistico di uomini e
cose"122, enfatizzato dall'antropomorfizzazione di oggetti e
121
122
F. Portinari, op. cit., p. 178.
eventi naturali (la luna illumina "i casti amplessi" di un albero e
di una casa "abbracciati" p. 12, il breviario "pareva annoiarsi" p.
17, "i fiorellini cominciavano a sorridere" fra i petali "ansiosi" p.
106), ogni sfumatura coloristica allude, senza però mai
decifrarlo, al senso di misteriosa trepidazione che incrina la
calma serenità di Sulzena: "si udiva il risveglio della luce nel
fruscio sommesso delle foglie" (p. 106).
Nella
diversa
declinazione
delle
tensioni
che
scompaginano l'idillio è forse possibile individuare uno dei tratti
distintivi che segnano il passaggio di mano fra Praga e Sacchetti.
Se la precisione dei vettori temporali, la cordialità del patto
narrativo, l'accentuazione dei congegni romanzeschi, il cui perno
è la figura di Rosilde, sottolineano la svolta, la panoramica finale
sulla presunta Tebaide pare esibire il mutamento di ottica
rappresentativa. La vicenda volge al termine e, durante l'ultima
passeggiata, Emilio osserva il paesaggio sottostante e commenta:
Giravo la gola di Fontanile e vedevo il villaggio rimpetto,
un po' sotto a me, indorato dai raggi del sole che cadeva.
Distinguevo i più minuti particolari, le siepi, le finestre, coi
E. Paccagnini, Introduzione, cit., p. 23.
pannilini stesi, le pietre, le spire del fumo che usciva dai bassi
comignoli.
E' delizioso spettacolo questo di poter in una occhiata
riassumere la vita di un intero paese; dà un sentimento di
potenza, quasi di superiorità; pare di poter disporre di quel
gruzzolo di vite come si fa di un alveare. (p. 193)
Nel
corso
della
narrazione,
Praga
s'avvale
del
divisionismo impressionistico per imprimere un andamento
perturbato alle sequenze descrittive e il ricorso costante alla
sineddoche isola i singoli tratti (esemplare il quadro della folla
sul sagrato), suggerendo l'impossibilità di ricondurre ad unità gli
aspetti contraddittori di un universo cangiante. Sacchetti non
cancella il dissidio praghiano, anzi ne appalesa le motivazioni
sotterranee, ma nella sua scrittura "i più minuti particolari" si
"riassumono" in sintesi e la frequenza delle figure metonimiche
indica il percorso privilegiato della maniera realistica, entro
un'area ormai di confine della produzione scapigliata. Come
riconobbe subito Capuana: "Qui siamo in piena realtà".
La negazione melodrammatica di Tarchetti
Pur collocandosi al polo opposto dell'espressionismo
dossiano, i libri di Tarchetti avvalorano l'orientamento
soggettivistico
che
prevale
nella
narrativa
del
primo
quindicennio unitario. Non è un paradosso: è solo la spia del
confuso empito di ribellione antitradizionalista che anima il
gruppo scapigliato.
Fra tutti, l'autore di Fosca è quello che con più slancio
sfrutta le occasioni offerte dalle "officine della letteratura". La
sua breve, disordinata carriera artistica è caratterizzata dalla
varietà dei generi adottati: dal pamphlet al feuilleton sociale,
dalla novella umoristica al Künstlerroman, dal racconto
fantastico alle divagazioni di viaggio. Li riconduce ad unità la
sede in cui per la prima volta tutti videro la luce: pagine e
appendici di riviste e giornali.
Non c'è dubbio che i ritmi accelerati imposti da questo
sistema editoriale abbiano condizionato nel profondo le scelte
compositive di Tarchetti, a cui è difficile non imputare una
complessiva trasandatezza stilistica. A dare un'impressione di
incuria formale e di inerzia linguistica è la ricorrenza monotona
e inalterabile di opzioni pressocché identiche: una selezione
lessicale opaca e spesso convenzionale, in cui stridono clausole
aulicizzanti (Fosca: "in tal guisa", "che cale", "ho meco",
"menomo") e una tessitura sintattica frettolosa, che ama le
subordinate per gerundi modali e temporali e si appoggia ai
grappoli enfatici di domande retoriche, agli abbinamenti
giustapposti e ai cumuli di aggettivi disposti in tricolon.
L'innesto nella trama principale dei racconti di secondo grado,
non
aprendo
mai
squarci
polifonici
o
contrappunti
pluridiscorsivi, conforta il monologismo urlato che sempre
sorregge il dettato tarchettiano. Un ritmo originalmente spiccato
scaturisce, semmai, dalla frequenza degli stilemi che esprimono i
moti dell'eccitazione "convulsiva", per usare un termine caro a
Fosca: la figura dominante dell'iperbole, il parossismo dei
climax, gli schemi dell'iterazione esasperata, il gioco accanito
delle antitesi e degli ossimori.
La fedeltà ai timbri della visionarietà delirante e il ri-uso
delle cadenze patetico-grottesche, mai sentimental-ironiche,
ricollegano
Tarchetti
alla
tradizione
più
veemente
del
romanticismo primottocentesco: dietro le amate opere di Victor
Hugo, occhieggiano i libri-battaglie
con cui Guerrazzi
contrastava, giusta la distinzione desanctisiana, l'egemonia
moderata della scuola cattolico-liberale.
L'impegno democratico di Tarchetti ha qui la sua prima
fonte, da qui deriva il suo antimanzonismo dichiarato. La
presenza esibita dell'io narrante, la frenesia pronominale, l'ampio
spazio concesso alle digressioni pseudofilosofiche: sono tutti
indizi di quel protagonismo d'autore che già informava la prosa
dell'Assedio di Firenze e della Beatrice Cenci. In piena sintonia
con quella cultura, lo scrittore si lancia in invettive indignate e in
profezie solenni, mentre i timbri gotico-macabri alimentano le
tensioni orrorose e avvincenti. Persino i moduli della
divagazione
umoristica
sono
più
prossimi
al
modello
guerrazziano (La serpicina, Il buco nel muro) di quanto non
siano
debitori
dell'oltranzismo
del
capolavoro
immaginoso
sterniano.
della
Erede
narrativa
diretto
romantico-
risorgimentale, l'autore della Nobile follia ne riaggiorna le
suggestioni prometeiche alla luce del ribellismo contestatore del
nuovo orizzonte d'attesa. Ormai estraneo al patrimonio illustre
del classicismo nazional-patriottico, lo scrittore scapigliato
recupera piuttosto i procedimenti di taglio appendicistico che,
nei frementi romanzi storici di parte democratica, corroboravano
l'eccezionalità dei destini "fatali": anche nello spazio ristretto del
privato, "Le grandi cose sono estreme  le grandi anime
adorano o odiano" (Fosca, to. II p. 254). Non aveva torto il
Faldella di Tota Nerina nell'appellarlo "un Guerrazzi, senza
riboboli toscani".
Il dato di originalità risiede nella declinazione moderna
del pathos melodrammatico: crollato il paradigma aristocratico
del tragico-sublime, nella dimensione borghese sono le cadenze
dell'eccentrico a dar voce a tutto ciò che, fuori dalla norma,
sconfina nell'eccesso: lo sperimentalismo tarchettiano affronta
gli incubi di morte, la necrofilia sadica, le allucinazioni
patologiche, le fobie ossessive con uno stile che, nel rifiuto di
ogni medietas realistica, traduce il groviglio nevrotico da cui è
mosso l'individuo "irregolare" nell'impatto con la mediocrità
prosaica. Il ventaglio polimorfo dei generi adottati non attenua,
ma potenzia la carica di irrazionalismo concitato: ora in chiave
fantastica ricorrendo alle figure di "geminazione sineddotica"
(V. Roda), ora calandolo negli intrighi dei misteri cittadini, in
cui meglio risalta l'antitesi vizio-virtù, ora infine, e con l'esito
più felice, ritmandolo sulle note della follia o della schizofrenia
morbosa. Se "l'immaginazione melodrammatica" d'età romantica
è la risposta ingenua che la cultura letteraria oppone alla crisi dei
valori assoluti e alla "perdita del sacro" 123, Tarchetti ne sfrutta "la
123
P. Brooks, L’immaginazione melodrammatica, Pratiche editrice, Parma
1985, pp. 32-34.
sublimità pleonastica e ridondante" per meglio contrastare
l'avvento del positivismo scientista.
In un bel saggio, Barberi Squarotti ha individuato nella
opera tarchettiana la presenza sistematica dei procedimenti di
preterizione e di elusione124: ciò che colpisce è l'espansione di
simili moduli entro il tessuto espressivo. Ben oltre il livello
strutturale dell'intreccio, la negazione è la regola costitutiva
dell'ordito morfosintattico: il sintagma martellante "non... che"
(Fosca: "Non scriverò che di uno solo", "amore non è che una
questione
di
nervi")
è
perno
centrale
di
descrizioni
paesaggistiche, ritratti fisionomici, indicazioni temporali, analisi
introspettive, riflessioni saggistiche, battute di dialogo, insomma
implacabilmente di ogni segmento narrativo. Impossibile darne
un'esemplificazione; basta aprire a caso un testo qualunque per
imbattersi in una selva di formulazioni al negativo. Strumento
della repressione censoria, la clausola "non che" si capovolge in
affermazione al quadrato, diventando l'artificio privilegiato
attraverso cui Tarchetti può estrinsecare le pulsioni profonde
che, radicate nel suo io, lo accomunano ai lettori più inquieti.
Troppo fragile per dar loro assetto di coerenza organica, lo
124
G. Barberi Squarotti, Problemi della narrativa tarchettiana, in Atti, cit.
scapigliato si arresta sulla soglia del dicibile e rafforza, con la
serie delle false litoti, finte preterizioni, antifrasi mascherate, la
retorica dell'eccesso iperbolico. Anche dal campionario di questa
moderna morfologia del pathos la letteratura di fine secolo
attingerà a piene mani.
Gli esperimenti eccentrici di Arrigo; l'eleganza eclettica
di Camillo.
Le scelte di stile compiute da Arrigo e Camillo Boito
confermano l'eterogeneità del gruppo scapigliato: labili le
consonanze con l'espressionismo dossiano, arduo ogni confronto
fra
la
raffinatezza
dei
due
fratelli
e
la
convulsa
melodrammaticità tarchettiana. Persino tra di loro è difficile
rinvenire elementi di comunanza formale, muovendosi l'uno
entro un ambito di elegante eclettismo, il più giovane
privilegiando la strada dell'eccentricità snobistica. E tuttavia
anche le ricerche dei due
Boito confortano il tentativo di
circoscrivere l'area espressiva della narrativa scapigliata entro i
confini di uno sperimentalismo che, teso alla raffigurazione dei
conflitti inediti della modernità, si oppone agli accenti cordiali
del realismo manzoniano.
Nelle poche novelle che ci ha lasciato, Arrigo s'ingegna
non solo a trasporre lo schema dualistico entro le coordinate
strutturali del racconto, ma a adeguarvi le tramature del tessuto
linguistico. In una prosa dall'indubbio tono aristocratico, "il
gioco di bizzarrie lessicali"125, carico di tensione allusiva, di
divertimento erudito, accosta arcaismi e idiotismi, stranierismi di
moda e tecnicismi di varia origine (il gergo degli scacchi
nell'Alfier nero, la terminologia medica nel Pugno chiuso, la
dottrina confuciana nel Trapezio). Ancor più prezioso l'intarsio
di segmenti divergenti entro l'orditura sintattica e retorica. Il
movimento del discorso conosce l'alternanza di periodi bilanciati
e sequenze centrifughe, costrutti di sapiente ipotassi che si
sciolgono in onde di coordinazione anaforica. I moduli iterativi,
mentre avvalorano la centralità dell'"idea fissa", valgono a
dispiegarne le molteplici sfumature: "Quello squilibrio aveva un
perno, quella ribellione aveva un capo, quel vaneggiamento un
concetto" (Lalfier nero, p. 406); "Quel paria dei mendicanti,
quel patriarca della plica...quell'uomo vilipeso... quel lugubre
Paw m'invadeva il pensiero" (Il pugno chiuso, p. 14).
Analogamente, il sistema retorico allestisce un reticolo di
125
A. Romanò, La poesia giovanile di A. B., in Il secondo
romanticismo lombardo e altri saggi sull'ottocento italiano,
Fabbri Editore, Milano 1958, p. 71.
antitesi e parallelismi che ora si scompongono in traslucide serie
metonimiche ora, al contrario, si raggrumano in forti sintesi
metaforiche: "I nodi dello spavento avviticchiavano quei corpi e
quelle anime" (Il trapezio, p. 464); "Il pugilato del pensiero non
poteva essere più violento: le idee cozzavano l'una contro l'altra;
i concetti cadevano strozzati da una parte e dall'altra" (L'alfier
nero, p. 411). A derivarne, nei brani più riusciti, è un intreccio di
geometrica precisione denotativa e di accesa connotazione
simbolica: il prologo, l'epilogo e le prime fasi della partita
nell'Alfier nero; i micidiali "calcoli mentali" di Yao sulla nave o
le acrobazie della coppia Ramar-Ambra sotto il tendone del circo
(Il trapezio); la fascinazione del "fiorino rosso" nel Pugno
chiuso.
Innervato entro i procedimenti compositivi, senza
forzature psicologiche o fughe esoteriche, l'intellettualismo
algido di Arrigo genera un ritmo nervosamente martellante che,
acconsentendo con il dualismo profondo della struttura di
genere, da' voce a inquietudini e perplessità autentiche. Nei casi
in
cui,
invece,
prevalgono
l'eccentricità
gratuita,
il
compiacimento dell'esibizione erudita, l'ambiziosa pretensione al
simbolismo onnicomprensivo, il conflitto fra ethos e pathos, fra
rigore angosciato e lucida mania perde sostanza espressiva per
ridursi a un gioco astratto e manierista.
"Boito Camillo sta a sé": con questo riconoscimento
Borlenghi apre uno dei pochi ritratti lusinghieri che la critica ha
dedicato al maggiore dei fratelli Boito126.
Un sottile studio d'atmosfere e d'ambiente, una
costruzione che insinui in quell'ambiente e vi adatti un destino
umano, una storia (...) Quindi, un'attenzione anche per la
costruzione del racconto, a volte affidata a uno scoperto gioco di
piani, ma efficace nel risultato.127
Posto solitamente all'ombra del più celebre Arrigo,
Camillo viene elogiato, in campo letterario, solo come studioso e
cronista d'arte, e menzionato appena come autore delle Storielle
vane. Si direbbe che si continui a prendere alla lettera il titolo
delle due raccolte, senza cogliervi l'ombreggiatura dell'ironia
sorniona che è, invece, cifra originale della sua scarsa ma
126
A. Borlenghi, Introduzione a Narratori dell'Ottocento e del
primo Novecento, to. I Ricciardi, Milano-Napoli 1961, p
.XXXIX.
127
ivi, p. 582.
interessante
produzione.
L'atteggiamento
di
sprezzatura
signorile, da cui nascono i racconti e ricava sostanza l'opzione
per la narrazione in prima persona, tende a permeare di sé
l'intero ordito espressivo, modulandone le cadenze sui registri di
un'antimedietas non eccentrica. A sostenere la ricerca linguistica
di Camillo Boito era una "fiducia istintiva e nella propria natura
d'italiano piuttosto d'elezione che non per una precisa particolare
radice regionale, e nella curiosità per colori e valori di paesi
diversi, nutrita dall'esercizio dell'arte" 128. Un eclettismo, appunto,
che dalle rilevanti opere architettoniche trapassa entro l'andatura
della ben più "vana" prosa narrativa.
Le Gite di un artista, l'abbiamo già visto, compensano il
tono erudito delle osservazioni urbanistiche e museali con pause
descrittive in cui il "pittoresco" è reso con screziature
ossimoriche, stranierismi colti, sofisticate voci popolari. Un solo
esempio tratto dal brano iniziale del viaggio a Cracovia:
l'olezzo di unto rancido, di pessimo tabacco e di
acquavite accarezza deliziosamente il senso dell'olfatto. Corri
alla porta a respirare un soffio d'aria pura, ed ecco che ti
vengono appresso e ti si piantano in giro, tirandoti per le falde, i
128
A. Borlenghi, op. cit., p. XL.
vetturini sudici e gli ebrei bisunti. Quegli vogliono cacciarti nei
loro droschki sconnessi, questi offrono di cangiarti le monete (p.
113).
Nelle Storielle d'indole pittorica, in cui l'io narrante
ripercorre i "beati anni, in cui le giornate parevano ore, ed i mesi
giornate!" (Pittore bizzarro, p. 422), in gara con l'amico a
"schiccherare con quattro sgorbii un profilo o una figuretta" (p.
423), prevalgono le note digressive dell'umorismo o gli
intermittenti squarci coloristici. E nondimeno, anche nelle
maglie sfrangiate delle "bizzarrie" raccontate alla "piccola
Claudia" o delle "annotazioni tolte dall'albo" veneziano, il
discorso non abbandona mai la sostenutezza limpida del
periodare calibrato.
Il primato concesso alla resa plastica creata dalle
variazioni luminose conferisce allo stile "pittorico" boitiano una
velatura speciale. Se i ritratti delle fanciulle veneziane sprizzano
sempre lampi di seduzione abbagliante, nello Schizzo dal vero,
colpisce la descrizione di una nuotata al Lido, in cui la scrittura
pare mimare la sinuosità pacata dei movimenti nell'acqua ("In
mare il tempo s'allunga. L'allegria o la tristezza, l'ardire e la
paura fermano l'attimo" Quattr' ore al Lido, p. 339). Siamo
all'origine di quella intonazione struggentemente sensuale che
lievita la scrittura delle migliori "storielle", capaci di racchiudere
nel giro breve del racconto quel "vero così singolare e
fantastico" che aleggia sulle calli della città lagunare (Il colore a
Venezia, p. 436).
Squisito "dilettante di sensazioni", come lo definì
Pancrazi129, non c'è dubbio che, nella pattuglia scapigliata,
Camillo risalti per la disinvolta abilità a tradurre narrativamente
la ricchezza cromatica e le venature materiche che l'occhio
esperto dell'artista coglie negli scenari naturali o nei profili di
donna. Le connotazioni antropomorfiche e le analogie
metaforiche immettono moti di dinamismo trepidante nelle
numerose sequenze paesaggistiche: "Il bel sereno fuggiva via
impaurito, e le gentili nuvolette di fiamma, che danzavano prima
nella gaiezza dell'aria, si lasciavano divorare dai nuvoloni
furiosi" (Dall’agosto al novembre p.68); l'onda del torrente
"scatta in uno sprazzo e via; tal'altra si caccia distrattamente in
un laberinto, e gira e rigira e, se vuole uscirne le conviene
tornare indietro" (Macchia grigia, p. 287). Nelle prime
apparizioni femminili, il taglio scorciato della descrizione svela
lineamenti fascinosi: "La ragazza a un tratto si volta con gli
129
P. Pancrazi, op. cit., p. 271.
occhi sfavillanti e con le labbra aperte ad un gaio sorriso, che
mostrava i denti bianchissimi; poi, accortasi di me, si stringe
nelle spalle e via come saetta." (Notte di Natale, p. 153)
Cultore della bellezza, prossimo all'ideale parnassiano, lo
scrittore-architetto insinua nell'oggetto del desiderio maschile
tratti di morbosità conturbante che generano attrazione e
repulsione nel contempo: la sagoma della donna di Santuario ha
un "aspetto innocente e agghiacciante", lo sguardo di Matilde è
"insieme fisso e vago, scrutatore e distratto", mentre l’amante
che ne attende l’arrivo è "invaso dall’ardore della passione e
insieme da un misterioso senso di paura" (Meno di un giorno, p.
346); gli "abbracciamenti furiosi e disperati" di Teresa suscitano
paura e desiderio nel narratore di Macchia grigia; Don
Giuseppe, in preda ai sensi di colpa più tormentosi, davanti al
crocefisso trasfigurato "sembrava spaventato e nello stesso
tempo attratto" (Vade retro, Satana, p. 277); Livia, infine,
ammette che, nel "confidarsi unicamente a sé" attraverso gli
appunti dello scartafaccio, "nell'umiliarsi si esalta" (Senso, p.
384). Ma la nota distintiva dello stile boitiano non risiede nella
resa analitica dei sentimenti contraddittori che, in coerenza con il
dualismo scapigliato, abitano i personaggi, quanto piuttosto
nell'elaborazione di una prosa sinuosamente introspettiva, che,
tuttavia, s'ingegna sempre a "evitare il registro della nostalgia e
della denuncia"130. Lontano da ogni forma d'eccesso, ("Non ho
né sventure né gioie mie proprie" dichiara il narratore di
Dall'agosto al novembre, p. 66), Camillo non ama né gli artifici
della deformazione, né il turgore convulso dei timbri
melodrammatici; nondimeno, altrettanto ostile alle norme
dell'oggettivismo naturalistico, non abbandona l'ottica parziale
che coniuga, in un nesso originale, memoria e scrittura (L.
Strappini). La sua produzione letteraria delinea, secondo
Guglielminetti, una parabola ascendente "dall'evasivo modello
sterniano-foscoliano delle prime Storielle verso un modo di
responsabilizzazione del compito dello scrittore borghese",
capace di “scoprire l'immoralità che si cela dietro il culto altoborghese della bellezza”131. Al tempo stesso, occorre però
individuarvi, come filo rosso, una vena di criticismo laico che gli
consentì di dar corpo alle inquietudini di un mondo privo di
certezze, in cui cominciano a comparire gli strumenti della
riproducibilità tecnica e dove la ricerca strenua dell'"aura" è
forse già destinata allo scacco: su un tavolo anatomico, sotto il
"fosco verde dell'acqua" del Danubio, tra le fiamme di un
130
M.Dillon Wanke, Introduzione, cit., p. XVIII.
131
M. Guglielminetti, Introduzione, cit., p. 43 e p. 44.
camino dove brucia una chitarra, nelle note lievi della scrittura
letteraria: "L'arte della parola val poco, quella del pennello
niente" (Una salita, p. 166).
NOTA BIBLIOGRAFICA
Per delineare un tracciato sintetico degli studi sulla
narrativa scapigliata è opportuno prendere le mosse non dai
volumi complessivi dedicati al movimento ma piuttosto da
alcune antologie apparse a metà del nostro secolo: Racconti
della Scapigliatura, curato da C. Linati-E. Colombo (1942) e
Racconti lombardi dell'ultimo '800, a cura di G. Ferrata (1949).
Dopo la rievocazione affettuosa di Linati, Colombo avanza al
lettore il suo "invito all'ottocento", esordendo con un
riconoscimento indicativo: "E' il curioso destino degli Scapigliati
prosatori. Di loro si tace". Sulla stessa lunghezza d'onda si
muove Ferrata, che, riaggiornando l'impostazione critica di un
pregevole saggio apparso su "Primato" nel 1941, Parabola della
Scapigliatura, elegge a fulcro della propria raccolta i testi di
Dossi e compagni, e ne sottolinea la costante tensione
sperimentale: "Narrare per gli scapigliati è un mondo
d'esperimenti". Nel decennio successivo escono altre due
importanti antologie: Racconti della Scapigliatura piemontese a
c. di G. Contini (1953); Racconti della Scapigliatura milanese, a
c. di V. Spinazzola (1959). I due curatori non potrebbero essere
più diversi, per orientamento critico, metodologie d'analisi,
inclinazioni di gusto; ma, grazie alle loro introduzioni, si
comincia finalmente a circoscrivere i confini geografici del
movimento e a esaminare specificamente le scelte di stile e
genere: da una parte, la valorizzazione continiana della cifra
espressionistica avvia il ricco filone degli scandagli filologicolinguistici; dall'altra il discorso spinazzoliano illumina la
funzione di raccordo assolta dalla narrativa scapigliata, proiettata
entro l'orizzonte d'attesa del pubblico ambrosiano, fra il
capolavoro manzoniano e l'esperienza verista. Fino a metà
Novecento, l'etichetta vaga e imprecisa di Scapigliatura era stata,
infatti, per lo più adottata per indicare, tra mille sfumature e
distinzioni, un "fenomeno culturale" eccentrico e contraddittorio,
dai contorni labili e evanescenti, al cui interno operavano artisti
dalle personalità così eterogenee da rendere improduttivi i
raffronti testuali. I primi commentatori, fino al termine del
secolo scorso, ne sottolineavano i comportamenti estrosi e
"maledetti", ricercavano le spigolature aneddotiche di una
stagione ormai lontana o infine deprecavano la turbolenza
ambigua di polemiche che mescolavano pittura, musica e poesia.
Poi, il giudizio si affina e, dopo i medaglioni crociani della
Letteratura della Nuova Italia e i "profili" di Russo (I narratori),
l'opera fondamentale e pionieristica di Nardi, Scapigliatura. Da
Rovani a Dossi (1924), tratteggia la fisionomia letteraria del
gruppo, rinvenendone il cemento unitario nel magistero di
Rovani e nella sua intuizione sul "simultaneo cammino delle Tre
Arti". Nel 1936, La poetica del decadentismo di W. Binni
attribuisce ai "ribelli" milanesi una volontà di rottura che
anticipa la crisi di fine Ottocento, ma il discorso metodologico
insiste soprattutto sulle confuse intenzioni programmatiche che
guidavano i poeti. Ormai oltre la metà del secolo XX, in
concordanza con i volumi antologici da cui abbiamo preso le
mosse, appaiono i saggi di A. Romanò (Il secondo romanticismo
lombardo e altri studi sull'Ottocento italiano, 1958) e il volume
di J. Moestrup (La Scapigliatura. Un capitolo di storia del
Risorgimento, 1966), attenti a chiarire il quadro storico e
culturale entro cui si sviluppò il movimento: il critico italiano lo
interpreta come seconda, e più autentica, fase della cultura
romantica; l'italianista danese vi legge la risposta letteraria al
tracollo dell'impegno politico e patriottico. Poi, mentre una
mostra alla Permanente di Milano (1966) sollecita Dante Isella a
dare "un nome e una definizione" al cenacolo di artisti e letterati,
esce la monumentale Storia della Scapigliatura di G. Mariani
(1967), nelle cui pagine si dipanano i fili delle discussioni e delle
consonanze amicali, i grovigli dei dibattiti sviluppatisi sulle
riviste coeve, la varietà dei progetti che affratellano, o separano,
le singole personalità. A dominare l'ampio affresco è la rivolta
esistenziale e intellettuale che questo gruppo di autori
conduceva, in rinnovata sintonia con i maggiori modelli europei,
contro l'assetto utilitaristico-borghese raggiunto dalla società
italiana e assieme contro i maestri illustri della nostra tradizione
più recente.
Diversamente articolati, privilegiando ora questo ora
quell'autore, tutti questi saggi, pur concedendo attenzione
adeguata al fenomeno complessivo, leggono i testi sempre con
un ottica "sfasata", alla ricerca del rapporto, antagonistico o
solidale, con le due grandi correnti ideali che hanno dominato il
sistema letterario del secolo XIX: romanticismo e decadentismo.
La Scapigliatura prende, cioè, forma e consistenza non in forza
delle proposte tecnico-espressive e tematico-compositive
avanzate dai vari scrittori, ma in nome della capacità
complessiva del movimento di rilanciare le suggestioni del
primo Ottocento o, all'inverso, di anticipare motivi
irrazionalistici proto-novecenteschi. Entro questo orizzonte la
discussione sulle intenzioni "realistiche" professate e praticate da
alcuni scapigliati arricchisce l'indagine, ma non ne sposta il
baricentro. E il giudizio critico non conosce ripensamenti
significativi: quanto più si esaltano gli empiti ribellistici e la
spregiudicatezza sprovincializzante dell'intero gruppo, tanto
meno se ne apprezzano gli effettivi risultati d'arte. A corroborare
questa interpretazione è un duplice orientamento di studi: da una
parte, l'influenza potente del saggio binniano induce a
privilegiare l'analisi delle elaborazioni programmatiche,
riconnettendole alle sperimentazioni simboliste-crepuscolari
(esemplare il libro di L. Anceschi sulle Poetiche del Novecento.
Studio di fenomenologia e storia delle poetiche, 1962). Dall'altra
parte, si allunga la serie di monografie dedicate, a partire dal
secondo dopoguerra, alle diverse personalità, giudicate di volta
in volta preminenti rispetto alla composita pattuglia bohémienne
e capaci, perciò, di oltrepassarne i confini limitati: dal volume di
Dante Isella, Lingua e stile di C. Dossi (1958) all'opera di M.
Petrucciani Emilio Praga (1962); dallo studio di E. Ghidetti
Tarchetti e la scapigliatura lombarda (1968) alle indagini
successive d'indole linguistica riservate a Faldella (S. Scotti
Morgana, La lingua di G. F. 1974, i saggi di C. Marazzini.).
Le grandi sillogi dei Narratori dell'Ottocento e del primo
Novecento, a c. di A. Borlenghi (1961-63) e dei Narratori
settentrionali dell'Ottocento, a c. di F. Portinari (1970),
avvalorano il taglio scorciato dei ritratti e preparano il terreno
per gli affreschi d'insieme tracciati nelle successive ponderose
storie letterarie (Garzanti, Laterza, Einaudi, Piccin Vallardi,
Utet).
A movimentare il quadro, acuendo la brillantezza dei
singoli percorsi narrativi, sono, piuttosto, le ricche introduzioni
che accompagnano le ristampe recenti delle opere scapigliate.
Dopo un periodo di latenza, grazie anche all'impresa calviniana
della collana "Centopagine" Einaudi, la riscoperta dell'Ottocento
minore immette nel mercato una notevole quantità di edizioni,
più o meno sfiziose e non sempre accurate. Favorisce
ulteriormente la fortuna degli "eccentrici" il clima culturale
alimentato dalle teorizzazioni neoavanguardistiche del Gruppo
'63 che, sulla scorta della "funzione Gadda" (G. Contini), rilegge
romanzi e racconti del passato in chiave di trasgressione e di
violenza linguistica: ne deriva una lettura "strabica" del
movimento, volta a marcarne le componenti di denuncia
antiborghese o di eversione prenovecentesca (F. Bettini, La
critica e gli Scapigliati, 1976). Nel contempo, però, una
rinnovata attenzione degli studiosi all'orizzonte storico-culturale
dell'Italia unita e la diffusione di aggiornati strumenti d'indagine
smorzano le interpretazioni ideologistiche, favorendo l'esame
approfondito delle componenti tecniche e dei procedimenti
formali che strutturano le varie opere. Soprattutto alcuni saggi
dedicati alla produzione in prosa della seconda metà
dell'Ottocento, si soffermano sul capitolo scapigliato con
osservazioni puntuali e preziose: sul versante delle tendenze
realistiche, si collocano R. Bigazzi, I colori del vero (1969) e G.
Zaccaria con gli articoli sulla "giovane letteratura torinese" (poi
raccolti in Tra storia e ironia, 1981); sul crinale dello
sperimentalismo compositivo N. Bonifazi con L'alibi del
realismo (1972), F. Spera con Il principio dell'antiletteratura.
Dossi Faldella Imbriani (1976), G. Finzi nelle sue varie
introduzioni (1965, 1980); più propensi, infine, a proiettare le
intuizioni scapigliate verso l'area decadente, ma in antitesi
feconda con il clima positivista, A. Cavalli Pasini, La scienza
del romanzo. Romanzo e cultura scientifica tra Ottocento e
Novecento (1982); i saggi di V. Roda, poi riuniti in Homo
duplex (1991). Una serie di agili strumenti di studio, infine, offre
una sintesi chiara e precisa del fenomeno, colto nel suo
complesso: R. Tessari, La Scapigliatura. Un'avanguardia
artistica nella civiltà preindustriale (1975), attento alle
dinamiche dello sviluppo economico-sociale e ai suoi riflessi
d’arte; E. Gioanola, La Scapigliatura (1975), le cui pagine
introduttive schizzano i tratti "maledetti" e "estetizzanti" della
Bohème nostrana; G. Carnazzi, La Scapigliatura (1989), frutto
di accurate indagini sui legami fra la produzione letteraria, il
dibattito ideologico e le tendenze della critica coeva. Due numeri
unici della rivista "Otto/Novecento" Sulla Scapigliatura (a. IV
settembre-dicembre 1980 e a. V gennaio-febbraio 1981)
confermano l’interesse della cultura di orientamento cattolico
per l’antitesi del dualismo religioso, già esaminata in due opere
miscellanee Novità e tradizione nel secondo Ottocento italiano,
(a c. di F. Mattesini, 1974), Il "Vegliardo" e gli "Antecristi", (a c.
di R. Negri, 1978).
Il panorama odierno è variegato, ricco di sovrapposizioni
ma anche di lacune sconcertanti, di indagini puntigliose e di
suggestioni indeterminate, di sopravvalutazioni fuori misura e di
dimenticanze altrettanto inspiegabili (un caso esemplare è il
"deserto" Bazzero, condannato a rimanere tale). L'affinamento
degli strumenti interpretativi e la ricognizione di aree tematiche
inesplorate alimentano il dibattito critico con ipotesi stimolanti:
mentre si precisano i confini della narrativa scapigliata, l'analisi
delle opere dei vari prosatori, condotta con metodologie
aggiornate (formalistico-strutturalistiche, retorico-stilistiche,
antropologico-psiconalitiche, storico-istituzionali), consente di
illuminare il ventaglio polimorfo delle soluzioni compositive
esperite in quel primo cruciale quindicennio unitario, quando,
anche nel nostro paese, il sistema letterario si apre al confronto
con i processi e i ritmi della modernità urbano-borghese.
Questa bibliografia è specificamente dedicata alla
produzione narrativa e ai testi in prosa dei singoli autori; nelle
voci relative a ciascuno di essi si omette di citare nuovamente i
saggi compresi in volumi già indicati nelle prime tre sezioni.
1. ANTOLOGIE
Le più belle pagine di Emilio Praga, Tarchetti e Arrigo
Boito scelte da M. Moretti, Treves Milano 1926; Racconti e
novelle dell'Ottocento, a c. di P. Pancrazi, Sansoni Firenze 1939
(recentemente ristampata a c. di G. Luti, Le Lettere Firenze
1988); Racconti della scapigliatura, a c. di E. Colombo e C.
Linati, Bompiani Milano 1942; Racconti lombardi dell'ultimo
'800, a c. di G. Ferrata, Bompiani Milano 1949; Racconti della
Scapigliatura piemontese, a c. di G. Contini, Bompiani Milano
1953 (ristampata a c. di D. Isella, Einaudi Torino 1992; il saggio
introduttivo si può leggere anche in Varianti e altra linguistica,
Einaudi Torino 1970); Racconti della Scapigliatura milanese, a
c. di V. Spinazzola, Club del libro Milano 1959; Narratori
dell'Ottocento e del primo Novecento, a c. di A. Borlenghi, to. I,
II, III, Ricciardi Milano-Napoli 1961, 1962, 1963; Narratori
settentrionali dell'Ottocento, a c. di F. Portinari, Utet Torino
1970 (l'introduzione è stata ristampata in Un'idea di realismo,
Guida, Napoli 1976); Racconti neri della Scapigliatura, a c. di
G. Finzi, Mondadori, Milano 1980.
Utili strumenti introduttivi, ricchi di parti antologiche:
La Scapigliatura, a c. di E. Gioanola, Marietti Torino
1975; La Scapigliatura. Un'avanguardia artistica nella civiltà
preindustriale, a c. di R. Tessari, Paravia Torino 1975; La
critica e gli scapigliati, a c. di F. Bettini, Cappelli Bologna 1976.
2. STUDI D'INDOLE COMPLESSIVA
B. Croce, La letteratura della nuova Italia, vol. I, III, V,
Laterza Bari 1919-40; L. Russo, I Narratori, Leonardo Milano
1923 (3° ediz. Principato Milano-Messina 1958); P. Nardi,
Scapigliatura. Da Rovani a Carlo Dossi, Zanichelli Bologna
1924 (2ª ediz. Mondadori Milano 1968); G. Ferrata, Parabola
della Scapigliatura in "Primato", 1941 (ora in Prospettiva
dell'Otto-Novecento, Editori Riuniti Roma 1978); G. Petrocchi,
Scrittori piemontesi del secondo Ottocento, De Silva Torino
1948; A. Romanò, Il secondo romanticismo lombardo e altri
saggi sull'Ottocento italiano, Fratelli Fabbri Milano 1958; E.
Gennarini, La Scapigliatura milanese, Scalabrini Napoli 1961;
G. Finzi, Il fenomeno della Scapigliatura, in "Il Verri", ottobre
1962; J. Moestrup, La Scapigliatura. Un capitolo di storia del
Risorgimento, Annali dell'istituto di Romanistica danese
Copenaghen 1966; D. Isella, La Scapigliatura letteraria
lombarda: un nome, una definizione, in Mostra della
Scapigliatura, Società per le Belle Arti ed Esposizione
Permanente, Milano 1966 (ora raccolto assieme ad altri studi
sulla scapigliatura in I Lombardi in rivolta, Einaudi Torino
1984); G. Mariani, Storia della Scapigliatura, Sciascia
Caltanisetta-Roma 1967; G. Cattaneo, Prosatori e critici dalla
Scapigliatura al verismo in Storia della Letteratura Italiana,
vol. VIII Dall'Ottocento al Novecento, a c. di Cecchi-N.
Sapegno, Garzanti Milano 1968; G. Catalano, Momenti e
tensioni della Scapigliatura, Editrice universitaria Messina
1969; R. Bigazzi, I colori del vero. Vent'anni di narrativa, Nistri
Lischi Pisa 1969, n. ed. 1978; R. Merolla, Storia della critica
della Scapigliatura, in "Cultura e Scuola", n. 37, gennaio-marzo
1971; N. Bonifazi, L'alibi del realismo, La Nuova Italia Firenze
1972; AA. VV., Novità e tradizione nel secondo Ottocento
italiano, a c. di F. Mattesini, Vita e Pensiero Milano 1974; A. Di
Pietro, Per una storia della letteratura italiana postunitaria,
Vita e Pensiero Milano 1974; L .Bolzoni, Le tendenze della
scapigliatura e la poesia tra tardo-romanticismo e realismo e E.
Sormani, Prosatori e narratori dalla Scapigliatura al
decadentismo in Letteratura Italiana Laterza, a c. di C.
Muscetta, vol. VIII Il secondo Ottocento, Laterza Bari 1975; F.
Spera, Il principio dell'antiletteratura, Liguori Napoli 1976; F.
Vettori, Recenti studi sulla Scapigliatura, in "Cultura e scuola",
nn. 63-64, luglio-dicembre 1977; AA. VV., Il "Vegliardo" e gli
"Antecristi", a c. di P. Negri, Vita e Pensiero Milano 1978; G.
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storia e ironia. «Regione» e «Nazione» nella narrativa
piemontese postunitaria, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Roma
1981; G. Ragone, La letteratura e il consumo: un profilo dei
generi e dei modelli nell'editoria italiana(1845-1925),
Produzione e consumo, vol. 2, LIE, a c. di A. Asor Rosa,
Einaudi Torino 1983; M. Garré, Il dibattito critico sulla
Scapigliatura lombarda: una questione novecentesca, in
"Otto/Novecento", n. 2 marzo-aprile 1983; P. De Meijer, La
prosa narrativa moderna, in Le forme del testo. La prosa, vol.3,
to. II, LIE, a. c. di Asor Rosa, Einaudi Torino 1984; G. Zaccaria,
La fabbrica del romanzo (1861-1914), Edition Slatkine GenèveParis 1984; A. Ferrini, Invito a conoscere la Scapigliatura,
Mursia Milano 1988; G. Carnazzi, La Scapigliatura, Morano
Napoli 1989; G. Zaccaria, Il Piemonte e la Lombardia, in Storia
e geografia, I L'età contemporanea, LIE, a c. di A. Asor Rosa,
Einaudi Torino 1989; F. Portinari, Milano, ibidem; G. Farinelli,
Dal Manzoni alla Scapigliatura, IPL Milano 1991; I. Crotti-R.
Ricorda, Scapigliatura e dintorni, in Storia letteraria d’Italia,
L'Ottocento, a c. di A. Balduino, Piccin Vallardi Padova 1992;
G. Carnazzi, Da Rovani ai "perduti", Led Milano 1992; F.
Spera, La letteratura del disagio: Scapigliatura e dintorni, in
Storia della civiltà letteraria italiana, Vol. V, to. I, a c. di G.
Barberi Squarotti, Utet Torino 1994; F. Spera, La realtà e la
differenza. Studi sul secondo Ottocento, Genesi editore Torino
1994.
3.SAGGI SU TEMI E ASPETTI PARTICOLARI
S.Rossi, E. A. Poe e la Scapigliatura lombarda in "Studi
americani" 1959, n. 5; D. Ascolano, Il racconto psicologico
nella Scapigliatura milanese, in "Convivium", 1967, n. 5; N.
Bonifazi, Il racconto fantastico da Tarchetti a Buzzati, Argalia
Urbino 1971; A. M. Cavalli Pasini, La scienza del romanzo.
Romanzo e cultura scientifica tra Otto e Novecento, Patron
Bologna 1982; S. Romagnoli, Gli scapigliati e il paesaggio
regionale, in Storia d'Italia, Annali 5, Il paesaggio, Einaudi
Torino 1982; AA. VV, La narrazione fantastica, Nistri Lischi
Pisa 1983; G. Zuccaro, Da angelo a medusa: le donne della
Scapigliatura, in AA. VV., La parabola della donna, Adriatica
editrice Bari 1983; La pubblicistica nel periodo della
Scapigliatura, a c. di G. Farinelli, IPL Milano 1984; G. Bezzola,
Il fantastico della Scapigliatura, in "Studi di letteratura
francese" XIII, serie I, 1987; M. Farnetti, Il giuoco del maligno.
Il racconto fantastico nella letteratura italiana fra Otto e
Novecento, Vallecchi, Firenze 1988; AA. VV., Effetto Sterne,
La narrazione umoristica da Foscolo a Pirandello, Nistri-Lischi
Pisa 1990; V: Moretti, Antiutopie in Scapigliatura e dintorni, in
AA. VV., Teoria e storia dei generi letterari. I mondi possibili,
Tirrenia, Torino 1990; AA. VV., Nevrosi e follia nella
letteratura moderna, a c. di A. Dolfi, Bulzoni Roma 1993; G.
Rosa, Il racconto delle battaglie perdute, in AA. VV., Il Mito
del Risorgimento nell'Italia Unita, in “Il Risorgimento”, nn. 1/2,
1995; V. Roda, Alle origini del «fantastico» italiano: il motivo
del corpo diviso in I fantasmi della ragione, Liguori Napoli
1996.
A. BAZZERO
Scarsissima la bibliografia critica su B., delle cui opere
mancano edizioni novecentesche. Vanno solo ricordate su "Il
Convegno", giugno 1922, Pagine dimenticate di A. B., in cui,
dopo una breve nota di C. Linati, sono riproposti due brani tratti
da Storia di un'anima, Natale in famiglia e Chiaravalle. Oltre i
ritratti di Croce, Russo e alcuni cenni nelle opere d'indole
complessiva, interessanti suonano le note di commento di
Ferrata, Spinazzola e Gioanola nei loro volumi antologici.
C. A. Madrignani, Una lettera giovanile di E. De Marchi
ad Ambrogio Bazzero, in Ideologia e narrativa dopo
l'unificazione, Savelli Roma 1974; E. Gioanola, Scrittura del
pathos e pathos della scrittura nell'esperienza scapigliata, in
"Otto/Novecento" n.5/6 settembre-dicembre 1980; A. Puglisi
Allegra, Presagi novecenteschi nelle novelle di A. B., in "Critica
letteraria", n. 25, 1979.
A. BOITO
Tutti gli scritti, a c. di P. Nardi, Mondadori Milano 1942;
L'alfier nero, Il trapezio, Iberia, a c. di A. Seppilli, Cappelli
Bologna 1979; Poesie e Racconti, a c. di R. Quadrelli,
Mondadori Milano 1981; Il pugno chiuso, a c. di R. Ceserani,
Sellerio Palermo 1981; Iberia a c. di I. Donfrancesco, Lucarini
Roma 1988.
La maggior parte della critica boitiana è dedicata alla
produzione poetica e musicale; oltre allo studio fondamentale di
P. Nardi, Vita di A. B., Mondadori, Milano 1942, ricordiamo per
B. novelliere:
V. Marini, A. B. tra scapigliatura e classicismo,
Loescher Torino 1968; M. Lavagetto, Introduzione a A. B.,
Opere, Garzanti Milano 1979; R. Ceserani, Una novella
fantastica sinora ignorata di A. B., in "Giornale storico della
Letteratura Italiana", fasc. 500, 1980; G. Gronda, Testo diegetico
o testo simbolico? "L'alfier nero": un "pezzo segnato" in più
sensi, in AA. VV., Teoria e analisi del testo, Quaderni del
circolo filologico padovano, n. 12, 1981; P.Paolini, Appunti
sulla cultura letteraria di A. B.: la letteratura Italiana, in
"Otto/Novecento", n.5-6, settembre-dicembre 1983; P. Paolini,
Appunti sulla cultura letteraria di A. B.: le letterature straniere,
in AA. VV., Studi di lingua e letteratura lombarda offerti a M.
Vitale, Giardini Pisa 1983; G. Rosa, L'arte dell'"Alfier nero",
ibidem; A. I. Villa, A. B. massone: gnostico, alchimista,
negromante, in "Otto/ Novecento", n.3-4, maggio-agosto 1992;
A. I. Villa, A. B. teorico e poeta scapigliato, in
"Otto/Novecento", n. 2, marzo-aprile 1994; L. Derla, Estetica e
poesia di A. B.,in "Otto/Novecento", n.3-4 maggio-agosto 1994;
AA. VV., A. B., Atti del Convegno a c. di G. Morelli, Olschki
Firenze 1994
C. BOITO
Il maestro di setticlavio, a c. di G. Bassani, Colombo
Roma 1945; Senso e altre storielle vane, a c. di P. Nardi, Le
Monnier Firenze 1961; Storielle vane. Tutti i racconti, a c. di
R.Bigazzi, Vallecchi Firenze 1971; Storielle vane a c. di
M.Guglielminetti, Silva Genova 1971, (l'introduzione, con il
titolo Il leggendario borghese in C. B., è ristampata in La
contestazione del reale, Liguori Napoli 1974); Senso, a c. di E.
Siciliano, Rizzoli Milano 1975; Senso. Storielle vane, a c. di R.
Bertazzoli, Garzanti Milano 1990; Gite di un artista, a c. di M.
C. Mazzi, Roma De Luca 1990; Senso e altri racconti, a c. di
M. Dillon Wanke, Mondadori Milano 1994.
R. Morabito, Logoramento del viaggio sentimentale: da
Yorick a C. B., in "Trimestre", n.1-4, 1973; P. Zambon, Sul
realismo estetico di C. B., in "Otto/Novecento", n. 6, novembredicembre 1978; L. Strappini, La memoria e la scrittura."Senso"
di C. B., in "F M Annali dell'Università di Roma" Facoltà di
Lettere, 1979; E. Scarano, L'anatomia del corpo in una storiella
vana di C. B., in "Linguistica e Letteratura", n.1, 1981; G.
Padoan, "Senso" da Camillo Boito a Luchino Visconti, in
"Quaderni Veneti", n.4, 1986. Sull'attività di architetto e teorico
del restauro L. Grassi, C. B., Il balcone, Milano 1959.
C. DOSSI
Opere, a c. di D. Isella, Adelphi, Milano 1995; Note
azzurre, a c. di D. Isella, Adelphi Milano 1964.
Non è qui possibile indicare le numerosissime edizioni
delle opere dossiane che sono uscite in questi anni. Ne offre un
elenco dettagliato l'edizione adelphiana nella sezione I libri di C.
D. Bibliografia, a cura di N. Reverdini, che va solo integrata con
le più recenti ristampe:
Ritratti umani, a c. di M. Berisso, Bulzoni Roma 1995;
L'Altrieri, a c. di L. Sasso, Garzanti Milano 1996; La Desinenza
in A, a c. di G. Lucchini, Garzanti Milano 1996.
D. Isella, La lingua e lo stile di C. D., Ricciardi MilanoNapoli 1958; M.Serri, C. D. e il "racconto", Bulzoni Roma
1975; F. Tancini, "L'Altrieri" di C. D., contributi a una rilettura
dello scrittore scapigliato, in "Acme", a. XXX, fasc. III,
settembre-dicembre 1977; L. Avellini, La critica e D., Cappelli
Bologna 1978; Pacchiano, Approssimazione alla "Desinenza in
A", in "Giornale storico della Letteratura Italiana", CLVI, 1979;
F. Tancini, La parodia del romanzo ottocentesco nella "Vita di
Alberto Pisani", in "Giornale storico della Letteratura Italiana",
CLVII, 1980; G. Anceschi, Dossi e la linea lombarda, in "Il
Ponte", n.1-2, gennaio-febbraio, 1980; L. Cozzi, L’interpunzione
nel manoscritto dell'"Altrieri" di C. D. in AA. VV., Studi di
Letteratura Italiana offerti a Dante Isella, Bibliopolis, Napoli
1983; A. Scannapieco, In tristitia hilaris, in hilaritate tristis,
Francisci Abano Terme 1984; T. Pomilio, Pisani-Dossi, la vita
dei nomi, in "Il piccolo Hans", estate 1988; L. Clerici, Pubblico
reale e lettori ideali: l'umorismo di C. D., in AA. VV., Calvino
e l'editoria, a cura di L. Clerici e B. Falcetto, Marcos y Marcos
Milano 1994; N. Lusuardi, C. D., l'umorismo e l'ombra di Jean
Paul, in "Intersezioni", n.2, agosto 1994; T. Pomilio, Paradigmi
atopici: Milano 1860-1881, in "FM" 1994; A. Saccone, C. D. La
scrittura del margine, Liguori Napoli 1995; G. L. Lucente,
Dossi e D'Annunzio, autoritratti d'artista, in Bellissime fiabe,
Milella Lecce 1995; F.Caputo, L'europeismo dimidiato di C. D.,
in "Autografo", ottobre 1995; F. Caputo, Il filo d'Arianna della
sintassi nella scrittura di C. D., tesi di dottorato di ricerca in
Scienze Letterarie (VI Ciclo, Università di Pavia, a. a. 1994-5).
G. FALDELLA
Non esiste un'edizione completa o una raccolta di opere
di F.; molti, invece, i testi ristampati singolarmente. Per un
elenco preciso si rinvia alla bibliografia contenuta in A
Parigi.Viaggio di Geronimo e C. a c. di L. Surdich, Costa e
Nolan Genova 1983, cui ora s'aggiunge la ristampa di Un
viaggio a Roma senza vedere il Papa, a c. di P. M. Prosio,
Centro Studi Piemontesi Torino 1988.
G. Contini, Pretesto novecentesco sull'ottocentista
Giovanni Faldella (1947), ora in Varianti e altra linguistica, cit.;
S. Scotti Morgana, La lingua di G. F., La Nuova Italia Firenze
1974; C. Marazzini, La componente puristica e la componente
dialettale nell'espressionismo linguistico di G. F., in G. L.
Beccaria, Quattro scrittori in cerca di una lingua, Giappichelli
Torino 1974; S. Berman, G. Faldella's “Figurine”: one hundred
years since, in "Italica", 1974, n. 1; G. Ragazzini, G. F.
viaggiatore e giornalista, Vita e Pensiero Milano 1976; C.
Marazzini, Per dei racconti mai nati. In margine alle "Figurine"
del F., in AA. VV., A Gian Luigi Beccaria, s. ed., Torino 1977;
AA. VV., Ricordando G. F. nel 50° anniversario della morte,
Giappichelli Torino 1978; F. Imbornone, Teorie sul romanzo in
un carteggio inedito di G. F., in "Filologia e critica", nn. 2-3,
maggio-dicembre 1980.
L. GUALDO
Romanzi e novelle, a c. di C. Bo, Sansoni Firenze 1959.
L'ultimo romanzo Decadenza (1892) ha avuto alcune
ristampe recenti, fra cui una a c. di G. Pampaloni, Club del libro
Milano 1961, e l’altra a c. di C A. Madrignani, Mondadori
Milano 1981.
G. Spagnoletti, Gilet bianco, Ritratto di L. G., in
"Paragone" n. 82, ottobre 1956; M. Guglielminetti, L. G. uno
scrittore senza stile, in "Sigma", n. 6, 1965 (ora in Petrarca fra
Abelardo e Eloisa e altri saggi di letteratura italiana, Adriatica
Bari 1969); V. Ramacciotti, L. G. e Robert de Montesquiou, in
"Atti dell'Accademia delle Scienze", vol. 107, Torino 1973; R.
Lollo, Ipotesi su una presenza manzoniana nelle prime opere di
L. G., in "Otto/Novecento", n. 3, maggio-giugno 1977; M. C.
Cafisse, Rassegna di studi su L. G., in "Esperienze letterarie",
n.4, ottobre-dicembre 1978; R. Lollo, Alla fine della
Scapigliatura: L. G., in "Otto/Novecento", n.1, gennaio-febbraio
1981; P. De Montera, L. G.(1844-1898). Son milieu et ses
amitiés milanaises et parisiennes, Edizioni di storia e letteratura
Roma 1983; G. Raya, Lettere Verga-Gualdo, in
"Otto/Novecento", nn. 3/4, 1984; R. Lollo, I manoscritti
giovanili di L. G. nell'Archivio di Stato di Milano, in
"Otto/Novecento" n. 1 gennaio-febbraio 1987; E. De Troja,
Amico di Robert: L. G. e la sua opera narrativa, Giardini Pisa
1990; V. Roda, "Ressemblance" e "déjà vu" nella narrativa di L.
G. e La donna "composta": d'Annunzio, Gualdo, Maupassant, in
Homo duplex, il Mulino Bologna 1991; C. A. Madrignani, I
romanzi francesi di L. G. in AA. VV., Studi offerti a Luigi
Baldacci, Pacini Fazzi editore Lucca 1996.
E. PRAGA
Opere, a c. di G. Catalano, Napoli Rossi 1969; Memorie
del presbiterio a c. di E. Colombo (Garzanti Milano 1940); a c.
di L. Crescini (Rizzoli Milano 1963); a c. di G. Zaccaria,
(Einaudi Torino 1977); a c. di G. Tellini (Mursia Milano 1990);
Due destini a c. di G. Finzi, Lombardi editore Milano 1989;
Schizzi a penna a c. di E. Paccagnini, Salerno Editrice Roma
1993.
La maggior parte della critica praghiana è dedicata alla
produzione poetica; oltre alla fondamentale monografia di M.
Petrucciani, E. P., Einaudi Torino 1962 (curatore anche
dell'edizione critica delle Poesie, Laterza Bari 1969) e a V.
Paladino, E. P., Longo Ravenna 1967, ricordiamo per P.
prosatore:
G. De Blasi, recensione all'edizione delle Memorie del
presbiterio, a c. di E. Colombo, in "Giornale storico della
letteratura italiana", CXXI, 1943; L. Iachini Bellisarii, Postille
alle "Memorie del presbiterio"; in "Trimestre", 1973 n. 1-4;
P.Zambon, E. P.,"Due destini" in AA. VV., Ventitré aneddoti
raccolti nell'Istituto di Filologia e Letteratura dell'Università di
Padova, Vicenza 1980.
R. SACCHETTI
La bibliografia critica su S. si limita ad alcuni cenni nelle
opere d'indole complessiva e alle note introduttive di alcune
ristampe:
B. Croce a Entusiasmi, Garzanti Milano 1948; G. Contini
ai Racconti della Scapigliatura piemontese, cit.; C. Colicchi a
Entusiasmi, Cappelli Bologna, 1969; G. Catalano a Cesare
Mariani, Vallecchi Firenze 1972; G. Zaccaria a Il forno della
marchesa e altri racconti, Olschki Firenze 1979 (per i rapporti
Praga Sacchetti si veda anche l'importante introduzione alle
Memorie del presbiterio, Einaudi cit.); G. Barberi Squarotti a
Vecchio guscio, Serra e Riva Milano 1984; G. Tellini a Memorie
del presbiterio, Mursia Milano 1990; e inoltre: A. Palermo, Gli
"entusiasmi di un vinto" in Lo spessore opaco e altro OttoNovecento, Flaccovio Palermo 1979.
I. U. TARCHETTI
Tutte le opere a c. di E. Ghidetti, Cappelli Bologna 1967;
dello stesso studioso ricordiamo subito la monografia T. e la
Scapigliatura lombarda, ELS Napoli 1968. Gli scritti, non
raccolti da Ghidetti, apparsi sull'"Emporio pittoresco" sono stati
ripubblicati da F. Contorbia negli Atti del Convegno di San
Salvatore Monferrato, 1/3 ottobre 1976.
Fra gli scapigliati, Tarchetti ha conosciuto una notevole
fortuna editoriale; fra le varie ristampe recenti segnaliamo:
La leggenda del castello nero, a c. di U. Bosco (De Luigi
Roma 1944, l'introduzione è stata poi ristampata in Realismo
romantico, Sciascia Roma-Caltanisetta 1959); Fosca a c. di F.
Portinari (Einaudi Torino 1971); a c. G. Finzi, (Mondadori
Milano 1981); a.c. di R. Bertazzoli (Mursia Milano 1989); a c. di
L. Della Bianca (SEI Torino 1995); Racconti fantastici a c. di N.
Bonifazi (Guanda Parma 1978) e a c. di G. Finzi (Bompiani
Milano 1993); Una nobile follia, a c. di G. Barberi Squarotti,
Cappelli Bologna 1979; Lorenzo Alviati, a c. di R. Mussapi,
Marcos y Marcos Milano 1986; Paolina (Misteri del coperto dei
Figini), a c. di R. Fedi, Mursia Milano 1994.
Per la bibliografia critica si vedano innanzitutto gli Atti
del Convegno I. U. Tarchetti e la Scapigliatura, Comune di S.
Salvatore Monferrato 1977 (con saggi di M. Guglieminetti, G.
Tellini, F. Mattesini, M. Colummi Camerino, G. Viazzi, G.
Barberi Squarotti, V. Moretti, E. Villa, G. B. Nazzaro, G.
Zaccaria, E. Gioanola, G. Finzi, M. Dell'Aquila, R. Tessari, N.
Bonifazi, M. Ambel, F. Bettini, F. Contorbia, F. Spera, R.
Bigazzi, F. Portinari, S. Jacomuzzi, L. Erba, R. Mussapi) e si
rinvia a G. Tortorella Esposito, La critica tarchettiana: dal 1957
al 1987, in "Critica letteraria" n.69, 1990; cui vanno aggiunti:
R. Severi, T. e Sterne: considerazioni sui "viaggi
sentimentali", in "Rivista di letterature moderne e comparate", n.
1 gennaio-marzo 1984; A. Caesar, Construction of character in
Tarchetti's Fosca, in "The modern language Review", January
1987; E. Tateo, Follia sadica e suicidio in "Un suicidio
all'inglese" di I. U. T., in "Critica letteraria" n. 62, 1989; G.
Tardiola, Il sogno, l'anima, la morte: una lettura dei "Racconti
fantastici" di I. U. T., in "Rassegna della letteratura italiana",
giugno-agosto 1989; E. Tateo, Morte bella e necrofilia,
ipersensibilità e bruttezza in "Paolina", in "Critica letteraria", n.
71, 1991; V. Roda, Il contrappunto imperfetto di I. U. Tarchetti
(1987), in Homo duplex, cit.; E. Paccagnini, Contributo alla
bibliografia d'esordio di T. Testi dispersi e varianti, in
"Otto/Novecento", n. 2, marzo-aprile 1994; V. Roda, Il patetico
e il perturbante nella città di I. U. T. in I fantasmi della ragione,
cit.
AVVERTENZA
LE CITAZIONI DEI TESTI NARRATIVI DEGLI AUTORI
SCAPIGLIATI SONO TRATTE DALLE SEGUENTI EDIZIONI:
A. BAZZERO, Riflesso azzurro, Milano tip.
Lombardi 1873; Storia di un'anima, a c. di E. De
Marchi, Treves Milano 1885, che comprende
Anima, Schizzi dal mare, Acquerelli, Lagrime e
sorrisi, Corrispondenze, Malinconie di un
antiquario.
A. BOITO, Tutti gli scritti, a c. di P.Nardi,
Mondadori Milano 1942; Il pugno chiuso, a c. di
R. Ceserani, Sellerio Palermo 1981.
C. BOITO, Storielle vane. Tutti i racconti, a c. di
R. Bigazzi, Firenze Vallecchi 1971; Gite di un
artista a c. di M. C. Mazzi, De Luca Roma 1990.
C. DOSSI, Opere, a c. di D. Isella, Adelphi Milano
1995; Note azzurre a c. di D. Isella, Adelphi
Milano 19882, Due racconti giovanili, a c. di P.
Montefoschi, Salerno editrice Roma 1994.
G. FALDELLA, Figurine, a c. di G. Ferrata,
Bompiani Milano 1942; A Vienna. Gita con il
lapis, a c. di M. Dillon Wanke, Costa e Nolan
Genova 1983; A Parigi. Viaggio di Geronimo e
comp. a c. di L. Surdich, ibid.; Il male dell'arte e
Degna di morire in G. Contini, Racconti della
Scapigliatura piemontese, Einaudi Torino 1992.
L. GUALDO, Romanzi e novelle, a c. di C. Bo,
Sansoni Firenze 1959.
E. PRAGA, E. Praga-R. Sacchetti, Memorie del
presbiterio. Scene di provincia, a c. di G. Zaccaria,
Einaudi Torino 1977; Due destini, a c. di G. Finzi,
Claudio Lombardi editore Milano 1989; Schizzi a
penna, a c. di E. Paccagnini, Salerno editrice
Roma 1993.
R. SACCHETTI, Candaule, Treves Milano 1879
(che comprende anche Vigilia di nozze, Riccardo il
tiranno, Da uno spiraglio); Entusiasmi, a c. di B.
Croce, Garzanti Milano 1948; Il forno della
marchesa e altri racconti, a c. di G. Zaccaria,
Olschki Firenze 1979; Vecchio guscio, a c. di G.
Barberi Squarotti, Serra e Riva Milano 1984.
I. U. TARCHETTI, Tutte le opere, a c. di E.
Ghidetti, Cappelli Bologna 1967.
e inoltre
AA.VV., Milano 1881, Ottino Milano 1881;
Racconti lombardi dell' ultimo '800, a c. di G.
Ferrata, Bompiani Milano 1949;
C.Arrighi, La scapigliatura e il 6 febbraio a c.di G.
Farinelli, IPL Milano 1978.
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La narrativa degli Scapigliati