Formazione
Seminari TemaTici per le OrganizzaziOni nOn prOfiT 2010-2011
Incremento dell’opera
e sviluppo dell’io:
tra governance e partecipazione
dicembre 2010 - aprile 2011
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Coordinamento editoriale: Nicola Celora
Editing: Cristina Del Gatto
Progetto grafico e impaginazione: Cromosoma, Milano
Stampa: Cartotecnica Pinocchio società cooperativa sociale onlus
Si ringrazia la Fondazione Cariplo per la collaborazione
Seminari Tematici per le Organizzazioni Non Profit 2010-2011
Incremento dell’opera
e sviluppo dell’io:
tra governance e partecipazione
dicembre 2010 - aprile 2011
sommario
9
Introduzione
11
14 dicembre 2010
Chi governa chi nelle opere sociali?
Ruoli e finalità dell’organizzazione
33
25 gennaio 2011
La partecipazione dei collaboratori
tra condivisione e governo dell'opera
71
15 febbraio 2011
Le relazioni tra i soggetti che governano l'impresa
99
29 marzo 2011
Le relazioni con gli stakeholder
135
19 aprile 2011
Le relazioni con la politica locale
nel governo dell’impresa sociale
CDO Opere Sociali (CDO OS) è un’associazione di secondo livello che
raccoglie oltre 1400 realtà non profit iscritte a Compagnia delle Opere; ne
fanno parte cooperative, associazioni, enti morali e fondazioni distribuite su
tutto il territorio italiano.
Associazione non lucrativa di promozione sociale, CDO OS intende promuovere lo spirito di collaborazione tra i propri soci e favorire la nascita, la
crescita e lo sviluppo delle realtà non profit.
Il suo scopo specifico è offrire un aiuto agli associati e, attraverso di loro,
alle persone che ad essi si rivolgono, mai sostituendosi alla libertà delle opere
e di chi in esse è impegnato, ma favorendo il più possibile il loro protagonismo.
Le attività che CDO Opere Sociali realizza per perseguire la propria mission sono principalmente riconducibili a quattro aree:
• formazione (i percorsi della Scuola Opere di Carità, della Scuola di
Impresa Sociale, dei Seminari Tematici);
• consulenza (supporto per l’affronto di tematiche amministrative e giuslavoristiche, consulenza sul 5x1000, assistenza alla progettazione nonché
convenzioni con partner qualificati);
• tavoli di lavoro (incontri periodici di associati che operano in un medesimo settore);
• comunicazione (newsletter, sito, bilancio sociale, Corriere delle Opere).
I settori in cui CDO OS interviene, attraverso i propri associati, sono: educazione e istruzione, handicap, anziani, lotta alle dipendenze, inserimento al
lavoro, cultura, sport, comunicazione, ambiente, famiglia e minori, assistenza
e accoglienza, lotta alla povertà, aiuto agli stranieri, cooperazione internazionale, nuove risposte al disagio.
CDO Opere Sociali
via Legnone 4 - 20159 Milano
Tel. 02/36723900 – fax 02/6694008
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400 volontari
10.000 persone accolte ogni anno
Una condivisione
che diviene cultura
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Introduzione
Q
uesta pubblicazione raccoglie gli atti del X Ciclo di Seminari
Tematici per le Organizzazioni Non Profit promosso e realizzato da
CDO Opere Sociali.
Un’opera, come qualsiasi impresa, richiede – per potersi muovere e crescere
– una chiara azione di governo, che le consenta di assumere una propria
fisionomia e di muoversi nella direzione del suo scopo con la massima
efficienza ed efficacia.
In questa prospettiva, il governo dell’opera costituisce uno strumento che
non sostituisce la responsabilità di ogni singola persona, ma la sostiene,
affinché possa al contempo sostenere la sua possibilità di espressione di sé
e aumentare la possibilità di successo dell'azione dell'opera.
La partecipazione quindi non può essere una mera e acritica esecuzione
del compito affidato dall’organizzazione, ma occasione di “possedere”
interamente l’opera stessa. Da ciò deriva il desiderio di sviluppare un nesso
tra governo e partecipazione, come possibilità di esperienza di generatività.
Il ciclo di seminari di quest’anno vuole sviluppare questo tema generale,
approfondendone alcuni aspetti particolari, dal funzionamento degli organi
direttivi e di governo nel loro rapporto con gli altri ruoli dell'organizzazione,
alla corresponsabilità dei diversi ruoli, alla relazione con gli stakeholder.
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Chi governa chi nelle opere sociali? - 14 dicembre 2010
14 dicembre 2010
Chi governa chi nelle opere sociali?
Ruoli e finalità dell’organizzazione
Intervengono
Monica Poletto
Presidente di CDO Opere Sociali
Bernhard Scholz
Presidente di Compagnia delle Opere
Moderatore
Stefano Gheno
Docente di Psicologia sociale, Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia
Stefano Gheno
Iniziamo questo seminario introduttivo del decimo ciclo dei seminari tematici della CDO Opere Sociali. Io sono Stefano Gheno, a me spetta il compito
di coordinare questo incontro. Alla mia destra Monica Poletto, presidente della
CDO Opere Sociali e Bernhard Scholz, presidente di Compagnia delle Opere.
Abbiamo chiesto a loro di aiutarci perché il tema scelto – «Incremento
dell’opera e sviluppo dell’io tra governance e partecipazione» –, nel lavoro
dell’ultimo anno di Compagnia delle Opere e di Compagnia delle Opere
Sociali, ha assunto grande importanza. È il tema delle opere, di come si governano, di qual è la modalità più adeguata e rispettosa della realtà, un tema che
attraversa in modo differente tutte le nostre opere e imprese associate.
Abbiamo deciso di dedicare a questo tema il ciclo di quest’anno e affronteremo nei prossimi incontri temi più specifici.
Abbiamo chiesto aiuto a Monica e Bernhard perché questo primo seminario vuole essere quello che ci dà le linee guida per leggere in maniera trasversale gli altri temi più specifici. Il tema che verrà affrontato oggi è il realismo,
cioè quel rispetto della realtà che abbiamo di fronte a partire dalla coincidenza di forma e sostanza, che ci sembra uno dei tratti più importanti e meno
considerati quando ci occupiamo del governo delle opere.
Questa mattina è un dialogo tra due persone che hanno molto da dire, non
solo per il loro ruolo di presidenti ma anche perché sono esperti e specialisti.
Abbiamo chiesto loro di dialogare su un titolo un po’ bizzarro, «Chi governa
11
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
chi nelle opere sociali?», un titolo che dice della confusione che talvolta vediamo nelle nostre opere.
Inizierà Monica Poletto, che entrerà nel merito della natura delle opere
sociali e della forma con cui queste opere agiscono; e poi passerà la staffetta
a Bernhard, che approfondirà l’aspetto organizzativo di queste opere.
Come di consueto, a metà mattina faremo una pausa e poi proseguiremo
fino alla chiusura con un dibattito e la possibilità di interventi e domande.
Passo la parola a Monica Poletto.
Monica Poletto
Grazie della vostra partecipazione e dell’invito.
Già osservando la platea si capisce che è un tema importante e difficile da
affrontare, visto che tra il pubblico ci sono rappresentanti di enti che afferiscono a tutte le forme giuridiche del “non profit”: termine che non ha un
corrispondente nell’ordinamento giuridico italiano.
Mi concentrerò soprattutto sul tema cui Stefano accennava, cioè sulla
forma giuridica: che cosa è e perché è importante.
Come diceva Stefano, la forma giuridica attiene al realismo, perché è il
primo aspetto dell’opera in cui ci imbattiamo. Ciò che vorrei emergesse dal
mio intervento è che la forma giuridica non è una costrizione estrinseca
all’opera (per cui, per esempio, per la forma giuridica della mia opera devo
“fare per forza” l’assemblea), ma è un dato della realtà, per cui il prenderla
sul serio è la possibilità dello sviluppo organico e duraturo dell’opera.
Inizio con il fare alcune domande e osservazioni. Anzitutto, perché è
importante la forma giuridica?
Perché determina molte cose. Gli aspetti dell’opera più evidentemente
determinati dalla forma giuridica sono: il rapporto tra coloro che partecipano
all’opera; la modalità di scelta di chi amministra l’opera e le sue responsabilità patrimoniali.
In Italia a fianco delle forme giuridiche propriamente dette, disciplinate dal
codice civile (associazioni, fondazioni, cooperative) esistono “categorie speciali” disciplinate da leggi emanate a partire dagli anni ’90. Queste leggi hanno
cercato di colmare il gap tra il Codice civile del ’42 e quello che stava succedendo. Esse non hanno introdotto nel nostro ordinamento nuove forme giuridiche: si tratta di categorie spesso legate ad agevolazioni tributarie, ma le cui
norme istitutive condizionano pesantemente le modalità di funzionamento
dell’opera. Sto parlando di onlus, di organizzazioni di volontariato, di associazioni di promozione sociale, di associazioni sportive dilettantistiche, di
organizzazioni non governative…
Si tratta di realtà la cui forma giuridica è disciplinata dal Codice civile –
12
Chi governa chi nelle opere sociali? - 14 dicembre 2010
sono associazioni o fondazioni o cooperative –, che però hanno delle modalità di funzionamento che sono disciplinate da altre norme. Perciò, nel parlare di forma giuridica terrò conto anche di queste categorie speciali, perché,
ad esempio, una associazione che assume la qualifica di ONLUS ha limiti e
opportunità di cui occorre tenere conto.
Ad esempio, le ONLUS non possono svolgere tutte le attività che vogliono,
né possono pagare le persone come vogliono, perché una remunerazione del
personale che eccede certi parametri può essere considerata distribuzione
indiretta degli utili.
Le categorie speciali introducono nuovi vincoli e in alcuni casi disciplinano
la modalità con cui le attività devono essere svolte.
Per esempio, un’associazione di volontariato deve svolgere la sua attività
in modo prevalente attraverso volontari.
Un altro aspetto influenzato dalla forma giuridica è la possibilità e la modalità di accesso al finanziamento.
Noi sappiamo che ci sono delle linee di finanziamento dedicate soprattutto
a certe forme giuridiche o categorie speciali.
Molte opere hanno una forma giuridica immutata nel tempo. Per altre la
forma giuridica è un work in progress, perché giustamente deve leggere l’evoluzione di una certa realtà (cosa peraltro non sempre semplicissima soprattutto in Italia, perché i vincoli sono rigidi e, in molti casi, al cambiamento di
forma consegue l’obbligo di devoluzione del patrimonio).
Il riflettere sulla forma adeguata ci costringe a un’attività progettuale
importantissima, per ogni forma imprenditoriale, se pur di imprenditoria
sociale.
Pertanto, per scegliere adeguatamente una forma, occorre farsi e rispondere ad alcune domande.
La prima domanda è certamente: Quali sono le finalità dell’opera e quali
attività le attueranno?
E, contemporaneamente: chi sono i soci? Come partecipano dell’opera? Ci
lavorano? Sono beneficiari dell’opera o ne sono volontari? E che rapporti
intercorrono tra i soci?
E poi: come si pensa di finanziarla? Attraverso il mercato? Attraverso il
rapporto con l’ente pubblico? Attraverso la raccolta fondi? Questa domanda è
molto importante in quanto la modalità con cui l’opera può essere finanziata
è uno degli aspetti spesso disciplinati dalle leggi speciali.
Ad esempio, le associazioni di volontariato non possono fare tutto, non
possono finanziarsi con tutto: c’è un limite molto rigido sui corrispettivi e su
tutti i rapporti di tipo sinallagmatico.
Le ONLUS stesse devono finanziarsi attenendosi all’attività indicata in sta13
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
tuto e rientrante tra quelle disciplinate dal D.Lgs 460/97.
È importante ricordare che l’opera “non profit” non ha scopo di lucro.
L’assenza di scopo di lucro è paradigmatica di una certa idea di gratuità che
attiene all’agire di ogni uomo - e non solo all’agire “non profit” in senso stretto; ma soprattutto la non lucratività significa che l’apporto che diamo all’opera non si propone di avere alcun ritorno che non sia – eventualmente – la
remunerazione del nostro stesso lavoro. Non pensiamo al futuro in termini di
rendita. Se, invece, apriamo una attività lucrativa in forma societaria, speriamo
tra dieci anni di avere un guadagno dalla eventuale vendita delle nostre
quote, perché negli anni la società ha accumulato patrimonio e vale di più.
Questa è un’aspettativa assente
Non c’è, nelle opere non lucrative, la possibilità di ricevere rendite di capitale – come dividendi. Nelle società di capitali, invece, se ho investito e la
società va bene, questo rischio imprenditoriale mi viene ripagato, anche sotto
forma di dividendi.
Un’altra grande differenza tra le società di capitali e molte forme non lucrative (o mutualistiche) è la possibilità che il socio ha di incidere nella determinazione della governance. Infatti – aspetto spesso sentito come una grossa
limitazione – alcune categorie di soggetti non profit hanno leggi istitutive che
prevedono un assetto democratico; cioè: chi fonda l’opera conta quanto l’ultimo dei soci.
Questo è molto importante, perché ha molte implicazioni operative.
Tuttavia, il fondatore dell’opera non profit – pur non essendo il suo ruolo
in nessun modo assimilabile a quello del fondatore di società, che può normalmente avere ritorni di carattere economico in forma di remunerazione
dell’investimento e decidere se attribuirsi un ruolo importante nella governance dell’opera – ha una funzione molto importante, diversa a seconda della
forma giuridica che l’opera assume.
Infatti, il fondatore innanzitutto decide quale sia questa forma giuridica e
conseguentemente il suo ruolo nell’opera.
Vediamo il caso della fondazione. Nella fondazione - in cui un patrimonio
viene destinato uno scopo - il fondatore apporta il patrimonio; stabilisce a
quale scopo esso è destinato – scopo che è immodificabile. Perciò se il fondatore decide che una frazione del proprio patrimonio – ad esempio un
immobile – vada destinato per finalità educative, lo sottrae dalla propria
disponibilità per destinarlo ad una finalità immodificabile.
Inoltre il fondatore decide quali siano le attività che la fondazione deve
svolgere, chi nomina l’organo amministrativo e a chi vada destinato il patrimonio residuo in caso di scioglimento.
La fondazione storica (chiamo così quella che evidentemente ispirò il
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Chi governa chi nelle opere sociali? - 14 dicembre 2010
Codice civile del 1942) vedeva in molti casi il ruolo dei fondatori esaurirsi con
l’atto fondativo: ad esempio, nell’atto fondativo veniva stabilito che il vescovo
o qualche autorità locale nominassero i membri del Consiglio di
Amministrazione.
In molti casi le fondazioni nascevano per via ereditaria: il patrimonio accumulato in vita veniva destinato non solo agli eredi, ma anche a finalità di
pubblica utilità.
Con l’andare del tempo le fondazioni si sono un po’ contaminate con le
associazioni. Si tratta di “contaminazioni” che hanno introdotto negli statuti
delle fondazioni elementi partecipativi. Mi riferisco alle cosiddette fondazioni
di partecipazione: esse spesso hanno statuti che prevedono forme assembleari, ad esempio per la nomina di alcuni componenti del Consiglio di
Amministrazione
Anche la funzione del patrimonio è cambiata.
In origine il patrimonio - che anche adesso deve essere congruo rispetto
allo scopo che la fondazione si pone - aveva lo scopo di assicurare una rendita sufficiente all’attuazione degli scopi della fondazione.
Ad esempio, c’erano fondazioni il cui patrimonio era costituito da immobili che – concessi in locazione – davano rendite che permettevano di sfamare i poveri, essendo lo scopo della fondazione quello di assistere i bisognosi.
Con il tempo, in presenza di fondazioni che svolgono attività di impresa,
che gestiscono strutture socio assistenziali, scuole, ospedali o altro, il ruolo
del patrimonio è cambiato, perché l’attività si finanzia attraverso rette o contributi pubblici e il patrimonio va sempre più assumendo il ruolo di garanzia
nei confronti dei terzi creditori.
Parlando dell’associazione, il ruolo dei soci fondatori può cambiare a
seconda che essa abbia un assetto democratico o non democratico.
Infatti, nel caso di associazione “non democratica” i fondatori possono
decidere di ritagliarsi un ruolo importante. Ad esempio, attribuire a se stessi
la nomina di una parte dei membri dell’organo direttivo.
Quasi tutte le “leggi speciali” richiedono, però, statuti democratici: si pensi
alla disciplina sulle organizzazioni di volontariato; a quella sulle associazioni
di promozione sociale; alle associazioni sportive dilettantistiche, alle associazioni ONLUS.
Anche per accedere ad alcune disposizioni fiscali di favore – come la
decommercializzazione dell’attività svolte nei confronti dei soci – è richiesto
che lo statuto contenga clausole democratiche.
In caso di associazione “democratica”, tutti i soci hanno diritto di voto e
“la proprietà” dell’associazione è dell’assemblea dei soci.
In questo caso il fondatore ha lo stesso peso – dal punto di vista dei voti
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
che può esprimere – degli altri soci.
Nelle cooperative, la terza forma giuridica in cui ci imbattiamo, la democraticità è un elemento fondamentale.
Infatti per le cooperative in genere (quindi parliamo di cooperative diverse da quelle sociali) le agevolazioni fiscali sono legate alla mutualità prevalente, cioè alla prevalenza di attività svolta nei confronti dei soci rispetto a
quella svolta nei confronti di terzi.
Esse, pertanto, devono associare i soggetti che intrattengono un rapporto
“mutualistico”.
Le cooperative sociali di tipo B hanno una mutualità prevalente di diritto,
ma la legge istitutiva (la Legge 381/91) dispone che i lavoratori svantaggiati
debbano essere soci, compatibilmente al loro stato soggettivo – salvano pertanto la possibilità di non associare persone che, pur lavorando in cooperativa, non hanno la capacità di agire.
Le cooperative sociali di tipo A sono caratterizzate dallo svolgimento di
determinate attività, mentre – come abbiamo detto - quelle di tipo B dal fatto
che fanno lavorare persone svantaggiate.
In tutte le cooperative vige il principio della porta aperta: ogni persona in
possesso di certe caratteristiche non discriminatorie può chiedere di diventare
socio e, se le sue caratteristiche sono compatibili con quanto richiesto dallo
statuto, deve essere ammessa. Ogni socio, a parte i sovventori persone giuridiche, ha un solo voto: “una testa, un voto”.
I soci sono esclusivamente le persone legate alla cooperativa da un vincolo mutualistico: o sono lavoratori (o consumatori, dipende dal tipo di cooperativa), o sono finanziatori o – nelle sole cooperative sociali – volontari. Il
socio che non è niente di tutto questo non ha le caratteristiche per essere
considerato socio.
Se la cooperativa è di lavoro, i soci sono quelli che vi lavorano o che
intendono lavorarvi; se è una cooperativa agricola, sono coloro che portano
alla cooperativa i prodotti che hanno coltivato perché siano venduti; se è una
cooperativa di consumo, sono le persone che comprano i prodotti commercializzati dalla cooperativa.
Nelle associazioni la sottolineatura dell’obbligo di assetto democratico è
legato a una impostazione culturale per la quale solo ciò che è democratico
è di pubblica utilità.
Si tratta, a mio avviso, di una posizione un po’ ideologica in quanto è
evidente che la presenza negli organi direttivi delle associazioni di soggetti
non democraticamente eletti che imprimono un indirizzo, non è contro la
pubblica utilità, anzi, spesso ne è una condizione. La possibilità di membri del
Consiglio scelti da un soggetto terzo ispiratore (la diocesi, una congregazione
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Chi governa chi nelle opere sociali? - 14 dicembre 2010
religiosa, il comune …) non è prevista da buona parte delle leggi; solo le
associazioni di promozione sociale a carattere nazionale possono richiedere
una pur minima disapplicazione di questo principio.
Per le cooperative la sottolineatura è soprattutto sull’aspetto della partecipazione. A mio avviso, la parola “partecipazione” è collegata a un concetto a
me caro: “responsabilità personale”. La cooperativa è uno strumento che esige
e sollecita la responsabilità personale, in quanto la cooperativa è di tutti: tutti
decidono chi deve amministrala e tutti approvano il bilancio, due atti che
sembrano neutri ma che sono invece importantissimi, perché vuol dire che
tutti possono dire qualcosa sull’andamento economico e sulle scelte, e tutti
possono dire che non sono d’accordo con queste scelte e chiedere che si
cambi.
Nelle cooperative la governance non ha strumenti coercitivi per imporsi.
Nella srl, se un socio ha il 51% delle quote ha possibilità di determinare molto.
Nelle cooperative questo non c’è, la governance non ha strumenti coercitivi
per imporsi, e deve conquistare il consenso.
Ciò che a prima vista può sembrare una complicazione, l’esperienza la
restituisce come una grande possibilità.
Ci sono esperienze molto positive di cooperative partecipate, accanto a
tanti problemi generati dall’assenza di partecipazione.
Realmente la sollecitazione a una partecipazione è una aspetto fondamentale di costruzione dell’opera: infatti, ciò che non è responsabilmente e liberamente assunto dalla persona non sarà mai fattore di costruzione, né di sé
né del contesto lavorativo. Anche nel caso di aziende profit con assetti proprietari ben definiti, le decisioni non possono essere imposte ma devono
essere il più possibile condivise; nelle associazioni e cooperative questo è
imposto dalla forma giuridica stessa. La forza della governance quindi sta nel
saper comunicare e nel dare le ragioni delle proprie decisioni, che possono
essere sempre poste al vaglio di una discussione assembleare. Il prendere
sotto gamba questo aspetto è costato caro a chi lo ha fatto: perciò, è una
autorevolezza che la governance deve esprimere, servendo anzitutto le finalità per cui l’opera è nata e le persone che con il loro lavoro la attuano. Infatti
la governance di ogni opera deve servire le finalità dell’opera.
Ma questo strumento di governance che deve conquistarsi il consenso, che
funzioni ha?
Accenno alcune cose di cui parlerà meglio Bernhard.
Anzitutto, la funzione dell’organo che esercita la governance è quello di
amministrare l’opera in attuazione degli scopi statutari, gli scopi per cui essa
è nata, quindi in obbedienza ad essi; e sviluppa l’opera ben sapendo che la
creatività si sprigiona sempre da un’obbedienza alla natura delle cose. Ogni
17
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
mossa umana che prescinde da questa obbedienza è violenta e non dura nel
tempo, come abbiamo visto nell’ultima crisi.
Leggo ora alcune righe dell’intervento che fece François Michelin al
Meeting del 2003, e che al tempo ci colpì moltissimo. Mi sembra introduca
bene l’aspetto dello sguardo di chi guida un’opera. Parlava dei clienti che gli
fanno degli ordini e diceva: «Quando queste grosse aziende automobilistiche
mi richiedono un prodotto adatto alle loro autovetture, mi danno un ordine.
Noi trasformiamo un grosso cavo metallico in un piccolo cavo metallico, una
trafilatura; e se le macchine sono mal progettate, quel filamento si spezza.
Quindi, ecco che è la materia prima che in quel caso ci dà un ordine: “non
avete capito come manipolarmi. Ricominciate le ricerche, ricominciate a lavorare”. Ciò che è vero nell’ambito dei problemi tecnici, economici o commerciali, è tanto più vero nell’ambito umano. La domanda che ci dobbiamo porre
è questa: cosa fare affinché le persone lavorino bene insieme? Perché ci sono
difficoltà tra le persone e perché io stesso faccio difficoltà? Vediamo subito
che una risposta univoca non c’è, perché ognuno di voi, anche in questa sala,
è unico e irripetibile. Nella storia dell’umanità non c’è un altro come voi. Ecco
perché dobbiamo avere questa disposizione d’animo, questo atteggiamento
che ci permetta di metterci all’ascolto delle persone che lavorano e vivono
attorno a noi. In ogni essere umano al di sopra dell’apparenza e delle sembianze c’è un diamante, che dobbiamo poter scoprire assieme».
Perciò chi esercita la governance è colui che per primo scopre e addita i
punti di obbedienza. E la forma giuridica è un importante punto di obbedienza. Tracciandola, si pone il primo argine entro il quale il fiume dell’opera può
scorrere.
Un’altra cosa che fa chi guida l’opera è aiutare ciascuno ad essere se stesso, cioè libero e responsabile. Ma nemmeno la forma dei rapporti è arbitrio e
anch’essa obbedisce alla funzione organizzativamente o statutariamente stabilita. Ad esempio, se i miei lavoratori sono soci, dovrò rendere conto delle
scelte economiche della mia organizzazione, almeno in linea di massima, visto
che sono loro ad approvare il bilancio, come abbiamo visto; e sono loro a
decidere se ho fatto o meno il bene dell’opera e dunque se rieleggermi o
meno.
Se un’opera ha quale scopo una certa attività di pubblica utilità perseguita
attraverso i volontari, essa sarà tutta appoggiata, anche per legge, sull’azione
libera e volontaria di chi vi prende parte: dunque la proposta ai volontari deve
essere chiara, ed è una proposta alla libertà.
E in questa chiarezza di proposta, che i volontari liberamente devono
poter verificare, sta molto della riuscita di certe realtà, che sono troppo spesso tenute insieme da personalismi o sono ambito di pretese e recriminazioni,
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Chi governa chi nelle opere sociali? - 14 dicembre 2010
come capita talvolta di vedere.
Pertanto, certi obblighi formali spesso nascondono proposte sostanziali
importanti. Conosco realtà, anche presenti qui, che hanno fatto dell’approvazione annuale del bilancio, che può sembrare un’imposizione, un’occasione
importantissima per i soci: un’occasione per metterli davanti alla loro responsabilità, per porli davanti a un operato, per porre sotto i loro occhi la dignità
di ciò che ciascuno con il suo pezzettino contribuisce a fare, fornendo quello
sguardo di insieme così necessario per amare e rispettare il proprio lavoro.
Stefano Gheno
Grazie a Monica Poletto. Prima di ascoltare Bernhard e il suo contributo,
che riguarderà il funzionamento di questa realtà che così bene ci ha tratteggiato Monica, volevo dire tre cose che mi hanno colpito e che possono essere un suggerimento per fissare alcuni punti e avviare poi la discussione.
Prima di tutto, la questione del tema del rapporto tra te e la tua opera. In
qualche misura mi sembra che ci sia una dimensione di gratuità, di non possesso rispetto a quello che è frutto della tua inventiva e della tua gratuità. Tutti
gli uomini tendono a possedere quello che fanno: riuscire a guardare il proprio lavoro con questo sguardo, mi sembra una questione molto interessante.
Legato a questo è il tema della partecipazione. Anche questa è una questione di gratuità: il fatto di ritenere ogni testa un voto e la possibilità di dare
una partecipazione ai tuoi soci, è cosa non scontata.
Concludo con la terza osservazione, che mi sembra sintetica di tutto quello che ha detto Monica: la forma non è una formalità. Spesso viene etichettata come qualcosa che non inerisce alla sostanza, qualcosa che viene utilizzata
in un modo o in un altro. Mi sembra invece che qui siamo stati tutti richiamati alla necessità di fare un esame di realtà di fronte a quello che abbiamo
davanti a tutti i livelli, un esame di realtà finalizzato a una “obbedienza”, diceva Monica in conclusione, rispetto alla natura che ha la realtà; e tale obbedienza può aiutare a governare meglio l’opera, cioè a perseguire meglio lo
scopo per cui l’opera è stata fondata. E per fare questo c’è tutta una vita.
Bernhard Scholz
Io mi concentrerò sul compito dell’organo destinato alla governance dell’opera. Non sulla sua genesi - alcuni organi vengono eletti, altri nominati - ma proprio sul compito che l’organo ha una volta che gli viene assegnata la responsabilità. Quindi, le cose che cerco di dire riguardano qualsiasi organo, indipendentemente dal modo in cui è stato responsabilizzato, eletto o nominato.
Parto da alcune osservazioni generali. La prima è che la governance ha il
19
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
compito di guidare e non solo di amministrare o gestire. Questa, tra l’altro, è
la ragione per cui si è introdotto il termine “governance”, che potrebbe sembrare strano: ma se, ad esempio, parlassimo solo di Consiglio di Amministrazione,
ci sarebbe il rischio di concentrarci solo sul compito della buona gestione: una
cosa giusta che, anzi, in alcuni casi manca addirittura. Ma la governance
riguarda, invece, il guidare l’opera verso il suo obiettivo, alla realizzazione di
ciò che essa è, al suo scopo. Questo implica una dinamicità e non l’affermazione di uno status quo o, peggio ancora, di un’autoreferenzialità nel portare
avanti un proprio progetto. Ogni opera è nata con uno scopo e la cosa più
importante è che questo scopo venga realizzato: con questo tagliamo già fuori
qualsiasi personalismo, perché al centro sta l’opera, non la persona che guida,
anche se ne è il fondatore.
Altrimenti cadiamo nei vari personalismi, dove tutto poggia, se va bene, su
uno pseudo carisma; se uno non serve la sua opera non parliamo neanche di
carisma o di grande intuizione. Ognuno dev’essere al servizio dell’opera.
È attraverso l’opera, infatti, che si contribuisce al bene delle persone cui
essa è dedicata. Tutte le parti gestionali e amministrative sono strumenti perché lo scopo dell’opera si possa realizzare. Si tratta quindi della realizzazione
dello scopo ultimo, la famosa “mission”, sviluppando l’identità specifica. E lì
entra in gioco quanto detto da Monica, perché la forma giuridica fa parte
dell’identità specifica. Non è indifferente che l’opera abbia la forma di un’associazione, di una fondazione o di una cooperativa. Non è assolutamente
marginale, è fondamentale per l’identità dell’opera stessa. Se io voglio raggiungere lo scopo, devo promuoverne l’identità specifica, che ha una formula giuridica attraverso la quale si veicola tutta una sostanza di principi, di
intenzionalità, di motivazioni, di operatività, di gratuità, di tutto quello che fa
vivere l’opera quotidianamente.
Ma, come un muscolo non fa nulla senza lo scheletro, noi non possiamo
pensare di fare qualsiasi cosa a prescindere dalla forma, oppure di creare
un’opera e poi arrangiarci con la forma. Questo non funziona! La forma fa
parte integrale dell’identità. Se sono una cooperativa devo essere una cooperativa fino in fondo, non una cooperativa finta; se sono una fondazione devo
essere una fondazione fino in fondo, non una fondazione finta; altrimenti a un
certo punto ho dei conflitti interni che non riesco più a dominare. Tra l’altro il
primo elemento che fa emergere queste dicotomie è il problema finanziario.
È decisivo che l’approccio alla governance, alla realtà che governa, sia
sempre una valorizzazione di tutto il potenziale presente e che sia sempre la
ricerca sistematica di nuove opportunità. Partire dal potenziale presente significa valorizzare quello che c’è e non quello che non c’è; però il potenziale va
sviluppato. Ogni collaboratore ha un potenziale, ogni realtà deve venire fuori.
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Chi governa chi nelle opere sociali? - 14 dicembre 2010
È lì che emerge il bello della guida. Orientare tutti gli sforzi verso lo scopo
vuol dire sprigionare, educare, pro-covare, questo significa guidare. E trovare
nuove opportunità dove questo potenziale si può giocare.
Il motivo ultimo e primo è sempre un desiderio che si mette all’opera,
caratterizzato da realismo e prudenza. Questi sono criteri importantissimi.
Realismo vuol dire tenere conto di tutti i fattori che esistono, tutti, non dei
pochi che mancano e creando su questi un’illusione o mettendo gli sforzi alla
ricerca del Nirvana. Accanto a questo, la prudenza. La prudenza è la capacità
di ponderare tutti i fattori, di riconoscerne il significato: ad esempio, chiedendosi che significato ha il fatto di avere bisogni di un certo tipo, se possiamo
rispondervi oppure no.
Realismo e prudenza vanno di pari passo: questa è l’obbedienza di cui
parlava Monica. Io devo obbedire a quello che c’è, non passivamente.
L’obbedienza non è mai passiva, è sempre attiva perché coglie tutto quello
che c’è e lo valorizza. Spesso noi abbiamo un’idea di obbedienza sottomessa,
restrittiva. Obbedire vuol dire mettersi in pista al 180%, su quello che c’è.
L’altra possibilità è partire da quello che vorrei: ma io voglio tante cose, che
non riesco a realizzare. Io vorrei fare un’opera per dare lavoro a tutti i disoccupati dei quali tutti i giorni mi arrivano i curricula.
Vorrei, ma non posso. È una grande sofferenza, ma io devo partire da
quello che c’è.
Sono queste alcune osservazioni generali per contestualizzare la governance dal punto di vista delle sue funzioni principali.
Passiamo ora ai compiti della governance. Anzitutto la governance deve
fissare gli obiettivi, a breve, medio e lungo termine. La mission è un indirizzo
generale identificativo, ma che deve essere tradotto in obiettivi specifici da
raggiungere in un anno o in un triennio, a seconda delle possibilità. Senza
fissare degli obiettivi io mi guardo dentro e non miro a uno scopo. Ci sono
momenti in cui, paradossalmente, il mantenimento dello status quo è già un
grande obiettivo, ma lo devo dichiarare. Devo dire: «Ragazzi, quest’anno noi
dobbiamo cercare con tutti i nostri sforzi di rimanere al livello dell’anno scorso. E questa è una cosa difficilissima. Come facciamo?».
La seconda questione, quindi, è la definizione delle strategie. Gli obiettivi
sono il dove, le strategie il come. Lì entrano tutte le questioni delle risorse,
dello sviluppo, dei rapporti, degli investimenti: tutte le questioni che riguardano il come arriviamo a realizzare quello che vogliamo realizzare.
Spesso, quando parliamo di strategie, ci rendiamo conto che l’obiettivo
non è realizzabile, lo dobbiamo ridefinire perché mancano le risorse o, al
contrario, perché ne sono arrivate di nuove e quindi dobbiamo definire obiettivi più ambiziosi.
21
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Qui la prudenza si gioca al 100%, perché si tratta di ponderare, valutare,
tentare. Però, a un certo punto, bisogna decidere: la governance non deve
essere titubante, deve dire che questa è la direzione e che si va.
Bisogna perciò definire i principi identificativi, che sono la parte identificativa dell’opera: chi siamo?
Per cosa vogliamo essere riconosciuti? Siamo una cooperativa di tipo B,
per cosa vogliamo essere riconosciuti dai nostri fornitori? Cosa caratterizza la
modalità con cui lavoriamo e con cui offriamo i nostri prodotti sul mercato?
Questo in un certo senso è già definito, ma va sempre ridefinito e riproposto,
se no si perde.
Quarto: verificare continuamente se l’andamento prefissato e predisposto
corrisponde veramente a ciò che abbiamo stabilito. Il Consiglio di
Amministrazione deve verificare strada facendo se siamo sulla pista giusta o
se abbiamo qualcosa che porta fuori, e quindi eventualmente ri-orientare i
lavori, riprendere, ripristinare. Non cambiare la direzione, ma riportare tutto
nella direzione giusta.
Poi il compito di chi governa, della governance è quello di definire l’organizzazione, chi fa cosa, ma sempre in termini di obiettivi e responsabilità, che
sono fondamentali. Non possiamo definire l’organizzazione a prescindere
dalle persone che devono raggiungere gli obiettivi e quindi dalle responsabilità che si devono assumere. Una delle parti più decisive in assoluto è la
scelta delle persone per le funzioni chiave, perché ogni opera è fatta da persone e quindi non è assolutamente indifferente chi ricopre certe responsabilità. E questa è una scelta che il Consiglio di Amministrazione si deve assumere.
Un altro compito principale è di curare i compiti dell’opera con chi è fuori
dell’opera. I contatti associativi, i fornitori, tutto. Questo è fondamentalmente
compito di chi governa.
Poi, ultimo di quelli che dico, ce ne sono infatti anche altri, è la capacità
di affrontare e non subire le difficoltà o le crisi che inevitabilmente, di tanto
in tanto, si presentano. Chi governa non deve rimanere paralizzato di fronte
a una crisi, deve essere capace di affrontarla. È fondamentale per chi è dentro
l’opera sapere che chi guida è capace di affrontare le situazioni, altrimenti
prima o poi l’opera diventa schiava delle condizioni in cui lavora. Se c’è un
problema che non possiamo cambiare non è più un problema, è un dato di
fatto e va dichiarato come tale. Altrimenti subentra il lamento. Se, ad esempio,
non ci sono le risorse finanziare per fare una cosa in questo momento, io non
posso dire dalla mattina alla sera «se ci fossero», perché così si vive in un
condizionale che fa vivere male tutto. Si dice: «Non ci sono. Che facciamo?».
E si affronta il problema.
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Chi governa chi nelle opere sociali? - 14 dicembre 2010
Questo vuol dire che io sprigiono energie, altrimenti le paralizzo. E bisogna a un certo punto avere il coraggio di dire: abbiamo fatto di tutto, abbiamo
accertato che non ci sono, abbiamo questo budget e con questo budget dobbiamo lavorare. Cerchiamo di ottimizzare tutto rispetto a questo budget.
Questo vuol dire che c’è sempre una certa dinamicità. Di fronte a un problema abbiamo sempre due possibilità. O ci sottomettiamo lamentandoci, o
sprigioniamo nuove possibilità. La crisi ci mette sempre di fronte a queste due
possibilità, qualsiasi crisi. La crisi dell’opera, la crisi personale, una crisi in
famiglia, la crisi della società civile… qualunque crisi ci chiede questo. O
affrontiamo o subiamo. E per la governance è decisivo affrontare.
La gente guarda la governance soprattutto nei momenti di crisi, non quando va tutto bene. Quando c’è la crisi, invece, si capisce se c’è lo standing, la
capacità di affrontare o solo la capacità di subire. Per questo la governance è
importantissima, se la governance funziona le cose sono semplici da fare.
Queste osservazioni sono di carattere generale e riguardano tutto: sia che
ti nomini il vescovo sia che ti eleggano gli associati. Queste responsabilità le
hai, e non puoi essere condizionato da chi ti ha nominato, perché se tu assumi la responsabilità la devi portare fino in fondo. Se poi gli associati non sono
d’accordo non ti eleggeranno più, o il vescovo non ti nominerà più, ma non
puoi farti condizionare, altrimenti viene meno la tua responsabilità.
Un ultimo aspetto sulla collaborazione fra le persone che lavorano dentro
la governance. È una collaborazione perché anche se c’è un primus inter
pares, il presidente del Consiglio o chi per lui, le persone che hanno questo
compito devono lavorare insieme con lui. Il criterio per decidere dev’essere
sempre se ciò che si discute è orientato verso l’obiettivo dell’opera, non verso
una parte dell’opera o un suo aspetto opera; sempre verso l’opera in quanto
tale. Questo è il bello, mettere assieme tutti i fattori e trovare il modo per
valorizzare tutto, altrimenti ognuno va per conto suo. Qualsiasi proposta faccio dentro un organo di questo genere deve tenere conto di tutti i fattori e di
tutti gli equilibri. Non posso fare una proposta che vada da altre parti, devo
tenere conto di tutto.
Certo, ci sarà quello che ha l’ultima parola, ma l’uso dell’ultima parola è
adeguato se hai valorizzato tutto, altrimenti è una prepotenza. Io poi suggerisco che all’interno del Consiglio di Amministrazione si diano delle deleghe:
ad esempio, uno ha la delega di curare la formazione delle persone, un altro
di controllare l’amministrazione, un altro ancora dei rapporti con i fornitori,
così, avendo delle deleghe, non è una sola persona a fare tutto, uno magari
verifica che tutto ciò che viene fatto corrisponda ai criteri stabiliti. Dipende se
il C.d.A. è operativo o no: ma dare delle deleghe - anche ad esempio di chi
cura i rapporti con le istituzioni, non tutti sono portati per questo, se sei un
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
orso non ti conviene curare le pubbliche relazioni! - non vuol dire che viene
meno la tua responsabilità per il tutto, ma che diventa più valido il contributo che dai e più efficace la collaborazione.
La governance di un’opera orientata al fine dell’opera e non a particolarismi
è, in momenti come questi, decisiva. Quando va tutto bene possiamo permetterci qualche errore a breve termine, ma a lungo termine viene comunque
fuori. Ma quando le cose vanno male viene fuori la capacità di guidare l’opera verso il suo scopo, di attraversare le condizioni sfavorevoli che si presentano. Così diventa occasione di maturazione dell’opera stessa. Altrimenti le difficoltà diventano schiacciamento e appiattimento, rassegnazione. Invece guidata bene, un’opera, proprio nel momento di difficoltà, può maturare, perché
diventa più cosciente dello scopo, più nitida. Diventa più chiara l’identità e
addirittura un’opera potrebbe riscoprire se stessa e la ragione per cui è nata.
Non è scontato che un’opera mantenga negli anni viva la ragione per cui
è nata. Facendo le cose infatti spesso ci indaffariamo e ci concentriamo su
questioni marginali e viene sempre meno il nesso con l’origine che dà un
senso a tutto.
Stefano Gheno
Come di consueto facciamo un break e poi iniziamo la seconda parte in
cui ci sarà spazio per osservazioni e domande.
Io faccio tre sottolineature, che lascio come spunto di riflessione.
La prima cosa è che sia l’intervento di Monica che quello di Bernhard ci
hanno descritto qualcosa che è non un insieme di norme polverose, ma il
dinamismo di una vita. Questo credo sia la cosa più interessante, anche rispetto a un tema che altrimenti potrebbe sembrare astratto.
La seconda cosa che mi ha colpito è il tema del desiderio, che per me è
importante. Noi viviamo in un’epoca in cui il desiderio è vissuto come qualcosa di sganciato dalla realtà. Desiderare vuol dire evadere. Invece sottolineare che il desiderio implica realismo e prudenza è interessante.
La terza questione che segnalo è la responsabilità personale. Noi abbiamo
ragionato molto sulla corresponsabilità; frequentemente la corresponsabilità è
letta in alternativa a quella personale: o c’è l’individuo o c’è il collettivo.
Invece la lettura data oggi è molto importante.
In particolare (anticipo così una domanda), tu giustamente dici: le persone
che hanno la responsabilità dell’opera non possono lasciarsi condizionare da
chi li ha nominati in questo. È però vero che frequentemente c’è una questione di rappresentanza. Come possiamo vivere come non contraddittori il non
condizionamento e il fatto che tu rappresenti una storia e una continuità?
C’è poi anche la questione della delega, che è un tuo cavallo di battaglia.
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Chi governa chi nelle opere sociali? - 14 dicembre 2010
DIBATTITO
Intervento
Come educare le persone al rapporto con il tutto e a non concentrarsi soltanto sul loro particolare, ma avere presente lo scopo complessivo dell’opera?
Bernhard Scholz
Educare a tenere conto di tutto e tornare allo scopo coincidono. Perché?
Perché è lo scopo che è comune a tutto. L’arte sta nel fatto di far rendere
conto alle persone che ciò che fanno non è tutto, ma un contributo, che ha
un significato pieno in sé ma che è un contributo. Perché un’opera consiste
nel fatto che il risultato che si raggiunge è raggiunto attraverso il contributo
di tante persone.
Quindi il valore del tuo lavoro sta nel fatto che contribuisci. Io mi soffermo
su questo, perché questo è un problema di natura esistenziale. Ci sono persone che pensano che se non fanno tutto loro, ciò che fanno non ha valore.
No! Il valore del tuo lavoro sta nel fatto che tu contribuisci, che tu servi, se
volete un termine più provocante.
Ognuno di noi contribuisce. Ho cercato di spiegarlo prima: anche chi
guida dà il contributo della guida, contribuisce all’opera, ognuno con il suo
lavoro dà una parte del suo servizio perché tutto possa esistere.
Uno che si fissa sul suo particolare è perché ha perso di vista l’insieme.
Educare le persone, tirarle fuori dal particolare per far loro vedere tutto, è
possibile solo riaffermando sempre lo scopo di quello che stai facendo. Il
fatto che nella tua cooperativa tutti hanno una idea diversa dello scopo è
sintomatico del fatto che è la cosa meno scontata l’avere presente, mentre
lavoro, il motivo per cui sto lavorando. A un certo punto ciò che faccio mi
assorbe e, mentre sono assorbito da ciò che faccio, perdo di vista lo scopo.
Questi sono tutti processi molto fisiologici: il fatto che il tuo particolare diventi il tutto per te è una cosa abbastanza fisiologica.
Infatti, chi guida ha il compito di riaffermare sempre lo scopo per cui si
lavora. Per questo lo scopo è così fondamentale: non perché la gente si alza
al mattino e dice: ragazzi, io me ne frego sullo scopo e mi concentro sul mio
particolare. Non è un atto deciso, è qualcosa che capita, che avviene. Quindi
è necessario che ci sia sempre qualcuno che ricordi, che renda presente lo
scopo.
Insisto sul fatto: se sei preso dal tuo particolare, non servi.
Questa insistenza forse è un po’ moralistica, ma deve essere il contrario, il
dire: quello che sto facendo è “per”, ha un senso. Se non ha un senso, si
perde. Il senso viene dal fatto che si sta lavorando “per”.
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Faccio un esempio semplicissimo: voi avete la parte amministrativa e la
parte operativa di un’opera, le tensioni sono normali. Ma chiedete una volta
all’operativo che si lamenta dell’amministrazione: «Ma tu senza l’amministrazione cosa faresti? Niente, niente. Non avresti la luce, la struttura, niente.
Rifletti».
Faccio questo esempio per dire che queste cose non sono automatiche,
occorre una breve riflessione sulle condizioni che ti permettono di fare ciò
che fai. Quindi c’è una parte di noi che è importante perché pone le condizioni per quello che tu fai; ma non è che così vengono meno, altrimenti
vengono meno le condizioni. Solo che noi abbiamo un’idea riduttiva di opera
sociale.
Pensiamo che un’opera sociale abbia una valenza solo nella persona che
cura l’handicappato. Ma scusate e chi ha fatto gli attrezzi? Chi fa il letto, chi
pulisce, chi fa da mangiare? Non vale? Vale esattamente come chi lo cura! Se
noi cominciamo a dare più valore a un gesto piuttosto che a un altro non
abbiamo capito! Vale tutto. Perché una cosa non esisterebbe senza l’altra, e
nessuno può stabilire cosa è meno e cosa più importante.
È questa la bellezza di un’opera: che tutto in modo sinfonico contribuisce
perché venga fuori.
A questo punto rimangono le tensioni, ma non ci sono più conflitti di
fondo. Le tensioni ci sono sempre, e il compito della guida è proprio fare in
modo che le tensioni non diventino paralizzanti, perché le tensioni comunque
ci sono. In qualsiasi rapporto umano. Il problema è se sono tensioni che
portano verso o che portano sotto.
Monica Poletto
Mi sembra che un compito di chi guida sia anche quello di indicare delle
modalità che rendono più presente lo scopo. Mi ricollego così alla questione
della forma, che era l’oggetto del mio intervento. Un certo utilizzo delle
assemblee è fondamentale, e dico questo non per convinzione astratta, ma
perché l’ho visto in alcune nostre opere. Ad esempio, a Busto Arsizio un
gruppo di cooperative utilizza l’assemblea di approvazione annuale del bilancio come momento in cui tutti i soci sono invitati e richiamati a rendersi conto
dello scopo comune. E questo attraverso il racconto di un anno di vita delle
cooperative. Che i principali momenti dell’anno o i passi fatti insieme vengano ridetti, è una cosa utilissima, e il giorno dopo le persone possono ricominciare a lavorare sapendo che c’è di più rispetto al loro particolare, e che il
loro particolare è ricollocato e serve il tutto. Questo strumento necessita di
una grande creatività: per esempio, c’è un modo di esporre i dati del bilancio
o di esplicitare le attività di ciascuno che tiene conto di tutti.
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Chi governa chi nelle opere sociali? - 14 dicembre 2010
Sul tema delle deleghe: le deleghe non fanno venire meno la responsabilità per il tutto, ma la rendono più efficace. Mi sono accorta che - se c’è un
Consiglio di Amministrazione, e ci sono poteri ordinari e straordinari, e c’è la
possibilità di delegarne qualcuno -, il fatto di attribuire una delega, un’attribuzione specifica di responsabilità, implica due cose che sono intrinsecamente legate: di cosa sono responsabile e a chi rispondo.
Queste due cose non vanno mai tenute disgiunte, perché, è nella natura
della delega avere entrambe queste componenti. «A chi rispondo» ha una
conseguenza operativa: che l’attribuzione di delega deve sempre confluire
come discussione e verifica all’interno dell’ambito che attribuisce la delega,
normalmente il Consiglio di Amministrazione. Molto banalmente, se ci sono
delle persone che si assumono responsabilità particolari, è importante che si
dica sempre che devono relazionare di fronte al Consiglio (che è l’organo
che ha dato la delega) su come questa delega sta portando frutti e su come
viene esercitata. Il rendersi conto di questi due aspetti semplifica tante cose.
Intervento
Come garantire il perseguimento delle finalità per cui l’opera è nata, anche
in presenza di assetti democratici?
Monica Poletto
Il tema del rapporto tra democraticità e natura dell’opera, è un problema
che tutti sentiamo tantissimo. Nel senso che in certi assetti c’è una tensione
tra una grande apertura dell’opera, che può portare a snaturarla, e una chiusura, che invece può portare a inaridirla, a farla morire. C’è sempre questo
aspetto.
Dobbiamo renderci conto che, anche con una governance chiara esplicita
e “blindata”, non è detto che si persegua la finalità dell’opera: ci sono sempre
persone che con la loro libertà perseguono qualcosa. Che l’opera possa nel
tempo mutare, è una cosa di cui è importante tenere conto. Però nel suo DNA
c’è qualcosa, lo scopo per cui è nata e la sua identità (le due cose cui accennava Bernhard), che nel tempo deve attuarsi, non snaturarsi, perché altrimenti l’opera muore. Allo stesso tempo abbiamo visto come in molte realtà storiche del nostro paese la paura di perdere questo DNA ha portato ad una
chiusura e alla morte dell’opera. Ci può essere una ripetizione, un «abbiamo
sempre fatto così», che porta alla morte dell’opera. Quindi è importantissimo
tutto quello che stavamo dicendo sulla governance: nel momento in cui faccio
una proposta associativa a qualcuno, deve essere chiaro cosa gli sto proponendo e che tipo di opera gli sto presentando.
Questo è importantissimo, perché io sto introducendo delle persone a una
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
modalità stabile di rapporto con me e con l’opera.
Il rapporto tra identità dell’opera, sue finalità, sue attuazioni e persone che
ci partecipano, è sempre dinamico e non può mai sottrarsi alla logica del
rapporto: io mi rivolgo alle persone che mi sono date sollecitando il più possibile la loro responsabilità, libertà e immedesimazione con lo scopo dell’opera. Questo non potrà mai essere precluso, qualsiasi forma giuridica abbia
l’opera.
Bernhard Scholz
Mi associo a questo che è fondamentale: in qualsiasi associazione o cooperativa, meno in un’impresa, non abbiamo in mano alcun automatismo che
garantisca che l’ideale per cui l’opera è nata vada avanti. Dipende dalle persone. Quindi, occorre che ognuno si assuma la responsabilità di entrare continuamente in un dialogo che mette a tema l’origine, ma non in modo generico, per fare dei discorsi, ma richiamando sempre i criteri con i quali prendiamo le decisioni.
Questo perché l’origine e l’ideale non sono una cosa astratta, si giocano
nella modalità con cui decidiamo in cosa investire, chi assumere e così via.
L’ideale non è astratto, ma incide su tutti i particolari, e se l’ideale non viene
giocato come criterio in tutti i particolari, si perde. Questa è la ragione per cui,
a un certo punto, una realtà va da una parte o si perde: perché si dà per scontato l’ideale, in modo “general generico”, e poi le decisioni si prendono con
altri criteri.
Se io faccio parte di un’associazione, sono socio normale, normo-dotato,
e discuto una cosa, devo chiedere: quella decisione che proponete, cosa
c’entra con l’ideale per cui abbiamo cominciato a fare certe cose? Quindi non
è una questione di ruolo che hai, ma della sincerità con cui ti poni come
associato dentro l’opera alla quale partecipi.
Questo nesso fra particolare e ideale lo può richiamare ognuno, non devi
avere nessuna posizione per fare questo: e obblighi tutti a obbedire all’ideale
dentro il particolare. Questa è la questione.
In molte realtà sono presenti personalità forti: cosa vuol dire che una personalità è forte? Noi sappiamo che alcune persone si impongono in qualche
modo, e quello che dicono e quello che fanno ha un peso tale che si fa fatica a fare diversamente. Normalmente come viene gestito il problema? O in
modo aggressivo o in modo remissivo, o ti sottometti o scattano le scintille.
Invece, devi fare una cosa molto semplice: devi porre una domanda. Tu,
quello che fai, quello che proponi, lo fai per quale ragione? E cosa c’entra con
lo scopo? Bisogna cioè avere il coraggio di sfidare anche la personalità e la
persona sulle ragioni per cui fa qualcosa. Non dobbiamo rimanere all’appa28
Chi governa chi nelle opere sociali? - 14 dicembre 2010
renza della potenza fisiologica o fisica della persona.
Ci sono poche persone che hanno una caratteristica di questo tipo, perché
altrimenti non avrebbero fondato la loro realtà! Perché per far breccia hai
bisogno di un certo carattere. E non è che tutti i santi che hanno fondato le
opere sono persone tranquille… noi leggiamo a volte biografie in cui sembra
tutto bello. Ma leggete una volta una biografia reale di san Paolo o altri santi.
Sono personalità di un certo tipo. Barnaba, ad esempio, se ne è andato!
Non dobbiamo illuderci. Io penso che sia giusto che esistano persone così,
ma noi non dobbiamo scoraggiarci, dobbiamo affrontare la questione non
andando contro e non sottomettendoci, ma chiedendo loro le ragioni per cui
propongono quello che propongono, magari non nel momento in cui sono
arrabbiati, aspettiamo cinque minuti.
Occorre questo perché tutti, anche il fondatore (e torno allo spogliarsi)
deve rispondere all’opera che ha creato. Perché ti è stata affidata, non è tua,
anche se sei il fondatore. Neanche i nostri talenti sono nostri, ci sono stati
dati. Figuriamoci le opere che creiamo con questi talenti! In fondo lo spogliarsi è spogliarsi di qualcosa che non è mai stato tuo.
Infatti, il problema è che se tu fondi qualcosa devi avere una disciplina
enorme per riconoscere che quello che stai creando è tuo ma non è tuo, è
tuo in quanto non è tuo. E questo riconoscere che qualcosa ti è stato affidato
ti responsabilizza di più, per rispondere a, non per fare quello che ti piace e
pare. Tu devi rispondere, anche se sei fondatore, perché quello che hai fondato non è tuo.
Prendiamo un imprenditore che crea un’azienda perché ha un prodotto
bellissimo. Ha trovato una specie di i-pod multifunzionale che fa anche il
caffè… un prodotto fantastico! E lui porta avanti questa azienda. Se, ad un
certo punto, smette di rispondere al mercato, l’impresa non va più avanti.
Perché l’impresa in un certo senso non è sua. Anche se l’ha fondata, anche
se ha inventato il prodotto. Perché se non riconosce questo, porta questa
impresa a catafascio. Questo vale per tutto: i nostri figli sono nostri perché
non sono nostri, e non sono nostri perché sono nostri.
Questa dinamica vale per tutto ciò che facciamo, ci rende liberi e responsabili, responsabili e liberi.
Questa è la vera dinamica per cui si realizza un’opera vera e consistente,
e questo permette un dialogo libero. Non dico facile, ma libero con chiunque.
Non dico a uno: sbagli o non sbagli, ma gli chiedo perché lo fai, e cosa c’entra questo con l’origine o lo scopo per cui stiamo lavorando insieme, come
porti acqua al mulino di quello che vogliamo fare insieme.
Il dialogo rimane arduo, ma è sempre costruttivo.
Questo mi costringe non ad arrabbiarmi con questa persona che fa cose
29
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
che non mi piacciono, perché questa è una reazione emotiva, ma a pormi la
domanda: cosa realmente mi sta a cuore?
Questo diventa il criterio del confronto, altrimenti io sono reattivo e questo
non porta da nessuna parte, perché vuol dire che io volendo andare contro
qualcuno mi lascio dominare da questa persona.
Perché ho fatto questo excursus? Perché molte nostre opere sono state
fondate da personalità forti, ed è giusto che sia così, altrimenti non ci sarebbero. Ma noi dobbiamo guardare come portare aventi queste cose, non limitarci al fatto che queste sono persone spigolose. Scusate se faccio questi
esempi, ma dico cose che non credo siano lontane dalla nostra esperienza
quotidiana.
Ed è facile che a un certo punto una guida, o un’associazione, non trova
più gli associati. Forse arrivano alla cena di Natale, salutano ma per tutto
l’anno non li vedi. Capita.
Questo non si affronta facendo richiami morali, che non servono.
«Dovresti»… vivere al condizionale è sempre brutto!
L’unica cosa che serve è trovare una modalità reale di valorizzare il loro
contributo, che vuol dire ad esempio delegare alcuni compiti, coinvolgerli in
alcuni progetti, perché se non c’è una partecipazione attiva è difficile che
rimanga un certo interesse. Infatti, l’unica modalità con cui potete coinvolgere le persone è affidare loro certe responsabilità. Non c’è altra strada. Possono
essere responsabilità molto semplici. La vera valorizzazione è la responsabilizzazione. Finché non diciamo a una persona che deve rispondere, non
emerge per quello che è.
Ci sono alcune associazioni che forse faranno fatica a uscire da questo
dilemma perché non c’è una reale possibilità di responsabilità. Allora bisognerà cercare di accettare il fatto che è così e punto. Ma la strada che sicuramente non funziona sono i richiami, i «dovresti». Questo vale per cinque minuti e
basta. O si affidano responsabilità o diventa difficile.
Questa tra l’altro è una delle ragioni per la quale la valorizzazione degli
organi intermedi dentro le associazioni, i cosiddetti direttivi, è fondamentale:
se voi valorizzate i direttivi (non solo gli esecutivi), dove ci sono, cioè quegli
organi intermedi che fanno un po’ da tramite tra la base associativa e la governance, dove è possibile, create quel meccanismo, quel metodo che permette
che un direttivo si metta in pista responsabilmente, ma se lo fa veramente non
può non farlo con altri associati e quindi li coinvolgerà. Valorizzare i direttivi,
dove ci sono, è il modo migliore di riattivare anche la base associativa.
Intervento
Come la governance può favorire il lavoro insieme?
30
Chi governa chi nelle opere sociali? - 14 dicembre 2010
Monica Poletto
Anzitutto non indicando il lavoro insieme come scopo dell’opera - infatti,
questa è una ambiguità perché lavorare insieme non è lo scopo del lavoro e
qualsiasi realtà che si pone uno scopo che non è il proprio, implode - ma
indicando lo scopo dell’opera e le modalità per aiutare le persone a assumersi responsabilità in attuazione di questo scopo. Insieme non ci si mette, ci si
trova. Questo accade anche nelle opere. Se tiriamo nella stessa direzione, ci
troviamo insieme.
Stefano Gheno
Riprendo una frase che ha detto Bernhard perché mi sembra sia una splendida descrizione del tentativo che abbiamo fatto individuando il titolo
«Incremento dell’opera e sviluppo dell’io». Bernhard nel suo intervento ha
detto «liberi ma responsabili». L’uso della congiunzione “ma” è meraviglioso.
Di solito noi, almeno a livello psicologico, viviamo e sentiamo la libertà come
svincolo dalla responsabilità; invece questo sentirsi liberi ma responsabili dice
cosa vuol dire favorire la crescita e lo sviluppo dell’opera, ma insieme la crescita e lo sviluppo di chi la fa.
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
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La partecipazione dei collaboratori tra condivisione e governo dell'opera - 25 gennaio 2011
25 gennaio 2011
La partecipazione dei collaboratori tra
condivisione e governo dell’opera
Intervengono:
Angelo Mainini
Direttore sanitario Fondazione Maddalena Grassi
Stefano Giorgi
Direttore generale cooperativa sociale In-presa
Moderatore:
Stefano Gheno
Docente di Psicologia sociale, Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia
Stefano Gheno
Avviamo il secondo appuntamento del decimo ciclo di seminari tematici
che quest’anno è dedicato al tema della governance; è un argomento, come
è stato sottolineato nel seminario introduttivo da Monica Poletto e Bernhard
Scholz,1 a noi particolarmente caro.
Il ciclo di seminari si propone di dettagliare diverse dimensioni e diversi
elementi costitutivi del tema del governare le opere sociali; questo secondo
appuntamento avrà come contenuto la “partecipazione”.
La partecipazione evidentemente è un fattore strategico per tutte le imprese, ma particolarmente importante per le opere sociali perché, data la natura
in qualche modo vocazionale del lavoro in ambito sociale, in ambito non
profit e in ambito di carità, frequentemente la partecipazione è elemento di
successo, ma anche di possibile criticità. Frequentemente è difficile affrontare
le possibili ambiguità e il rischio di confusione tra una buona e corretta partecipazione alla vita dell’opera e il rispetto della natura e della struttura organizzativa dell’opera stessa.
Abbiamo dato all’incontro di oggi il titolo «La partecipazione dei collaboratori tra condivisione e governo dell’opera», perché c’è un tema che riguarda
la condivisione dei motivi e degli scopi propri dell’opera ma c’è anche la
necessità di garantire un adeguato governo all’opera. Questo è vero in tutte
1 Si tratta dell’incontro del 14/12/2010 dal titolo Chi governa chi nelle opere sociali?,
qui pubblicato alle pagine 11-31.
33
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
le organizzazioni, a maggior ragione (ma su questo chiederemo un aiuto) in
quelle organizzazioni in cui il lavoro è fatto di professionisti e volontari, il che
è un aspetto ulteriormente delicato.
Ci aiuteranno Angelo Mainini, direttore sanitario della Fondazione
Maddalena Grassi, e Stefano Giorgi, direttore generale della Cooperativa
sociale In-presa. Conoscerete entrambe le opere, molto significative per la
nostra realtà.
La modalità sarà la consueta: abbiamo chiesto ad Angelo di proporci un
caso, dalla sua esperienza di direttore sanitario della Maddalena Grassi, che
indicasse cosa ha significato lavorare in termini di partecipazione con i collaboratori dell’opera stessa. Seguirà l’intervento di Stefano Giorgi e ci sarà, come
sempre, la possibilità di una discussione con i nostri relatori.
Grazie a tutti per la partecipazione e grazie ai nostri relatori.
Angelo Mainini
Ho strutturato il mio intervento, che è il racconto della mia esperienza
presso la Fondazione Maddalena Grassi, in due parti.
Nella prima parte vi illustrerò da dove nasce la Fondazione e che cosa è
adesso.
La Fondazione è un ente di diritto privato costituita nel 1991; ottiene il
riconoscimento regionale nel 1992 e quello nazionale nel 2003. Ha origine,
sul finire degli anni Ottanta, da un gruppo di operatori della sanità (medici,
assistenti sociali, infermiere, amministratore) che lavoravano in aziende ospedaliere e dal rapporto che questi medici e operatori avevano con i pazienti
che incontravano nel loro ambito di lavoro: persone spesso affette da patologie che non si concludevano col loro stare in ospedale, ma che avevano
bisogno di essere curate anche dopo la dimissione. Da tale bisogno scaturiscono un’attenzione, e un’attività volontaria per consentire una continuità di
assistenza al domicilio. Maddalena Grassi è stata una delle prime persone
seguite a domicilio da questi amici. Alla morte di Maddalena i suoi parenti
hanno voluto lasciare un contributo, avendo riconosciuto in questa modalità
di aiuto, che evidentemente non ha cambiato l’esito della malattia ma ha cambiato il modo loro e di Maddalena di affrontare l’ultima parte della sua vita,
qualcosa di utile che valeva la pena far sperimentare anche ad altre persone
nelle stesse condizioni.
La Fondazione nasce quindi da un gruppo di persone che hanno una
competenza specifica e che vivono un rapporto di amicizia che li rende protagonisti, al di là di quello che è il loro ruolo.
Cito l’articolo 1 dello Statuto: «Lo scopo della Fondazione è accogliere e
condividere il bisogno di chi soffre a causa della infermità e della malattia,
34
La partecipazione dei collaboratori tra condivisione e governo dell'opera - 25 gennaio 2011
attraverso la promozione di capacità e forme di assistenza sanitaria domiciliare e ospedaliera in tutte le sue manifestazioni, purché rispettose della persona
nella sua totalità».
Che cosa è oggi la Fondazione?
Come ho già detto, l’attività della Maddalena Grassi è iniziata con l’assistenza domiciliare. Una volta si chiamava “assistenza domiciliare integrata”,
adesso in Regione Lombardia si chiama “voucher socio sanitario” e prevede
un’assistenza a domicilio con figure professionali come medico, infermiere,
fisioterapista, ASA.
Attualmente la Fondazione Maddalena Grassi è accreditata nel territorio di
tutta la città di Milano (ASL Milano) e sul distretto di Corsico della ASL Milano
1 svolgendo l’attività voucher sia per l’assistenza di base che per l’assistenza e
la cura di persone affette da alcune patologie specifiche: l’assistenza domiciliare, cure palliative ai malati oncologici, l’assistenza a malati di AIDS, a persone con fibrosi cistica, a malati di SLA o con patologie neuro-degenerative e, da
circa un anno e mezzo, l’assistenza a bambini gravemente disabili, che quindi
hanno bisogno non solo di attività educative ma anche di riabilitazione fisica
e di interventi infermieristici a domicilio.
Nel 2010 abbiamo assistito quasi 2.000 pazienti a domicilio, ogni mese
abbiamo in carico circa 850 persone: questo vuol dire che noi assistiamo ogni
giorno 350, 400 malati. Le ore di assistenza sono state circa 100.000; gli operatori che operano al domicilio sono 80, più circa 15 persone addette al coordinamento delle attività e alla parte amministrativa.
Oltre all’assistenza domiciliare la Fondazione Maddalena Grassi ha poi
attivato assistenze di tipo residenziale.
Attualmente gestiamo due case di accoglienza per malati di AIDS, una a
Seveso e una a Concorezzo, entrambe nella Provincia di Monza e Brianza; a
Vigevano (PV) gestiamo dal 2005 una struttura polifunzionale dove trovano
posto sia servizi per pazienti psichiatrici – una Comunità Protetta a Media
Assistenza (CPM), un Centro Diurno (CD) – sia, dallo scorso anno, anche due
appartamenti per la residenzialità leggera, sempre per malati psichiatrici e una
Residenza Sanitaria per Disabili (RSD) dove accogliamo persone gravemente
disabili a causa di patologie neurologiche acquisite, in particolare esiti di trauma cranico in stato vegetativo o di patologie di tipo neuro-degenerativo come
la SLA e la sclerosi multipla.
A Milano collaboriamo inoltre con le aziende ospedaliere Luigi Sacco e
Fatebenefratelli e Oftalmico, per quanto riguarda i servizi di cure palliative
oncologiche, ospedalizzazione domiciliare e Hospice.
Per statuto la Fondazione ha un consiglio di amministrazione di cui fanno
parte il presidente, due vicepresidenti e l’amministratore delegato; a questi si
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
aggiungono il direttore sanitario, il direttore amministrativo e la responsabile
della formazione e comunicazione che formano un direttivo che si riunisce settimanalmente. Oltre al direttivo ogni unità operativa ha un proprio responsabile.
Per scelta, i fondatori, hanno continuato a svolgere la loro precedente
attività lavorativa; la loro partecipazione al consiglio di amministrazione ed al
direttivo è dunque un’attività totalmente gratuita.
Quale è il metodo della Fondazione? Abbiamo detto che essa è nata da
un’amicizia operativa. Cosa dunque sta a cuore alla Fondazione? Sicuramente
il paziente, come abbiamo letto nell’articolo 1 dello Statuto, ma anche le loro
famiglie e, ovviamente, tutte le persone che nella Fondazione lavorano.
La Fondazione non investe in progetti pensati a tavolino, ma a partire dalle
persone; le strutture, così come anche i servizi che si sono sviluppati, sono
nati dall’incontro con persone, o ammalate e portatrici di un bisogno, oppure
professionisti che avevano il desiderio di affrontare un bisogno che vivevano
nel quotidiano ma per il quale, da soli, non avevano la capacità di organizzarsi o di dare una risposta efficace.
Vi faccio l’esempio delle case per i malati di AIDS: il primo lavoro affidatoci dall’ente pubblico è stata la cura domiciliare di questi malati. Eravamo
all’inizio dell’epidemia e quindi anche inesperti rispetto alla modalità migliore
di assistenza. Ci siamo subito scontrati con la concretezza di questi malati, che
allora erano pressoché tutti con seri problemi di tossicodipendenza, e quando
uscivano dall’ospedale non avevano una casa, perché avevano interrotto i
rapporti con le loro famiglie e si trovavano perciò a vivere letteralmente sotto
i ponti. Dunque è sorta la domanda: ma come facciamo a curarli a casa se
non ce l’hanno? Non possiamo evidentemente curarli sotto i ponti. Da lì è nata
l’idea di cercare una struttura per accoglierli. Questa domanda ha trovato
risposta attraverso l’incontro con una famiglia che per anni aveva aperto la
propria casa all’accoglienza di giovani, tramite l’affido e che, avendo raggiunto un’età matura, non si sentiva più di continuare questa opera, ma desiderava che quella casa potesse essere utilizzata ancora per un’attività di tipo
sociale. Da questo incontro è nata la prima casa di accoglienza, quella di
Seveso, che ospita ad oggi 10 persone in regime residenziale ed altre 2 in
regime diurno.
Sempre da incontri e rapporti, sono nate le altre opere. Ad esempio la
struttura di Vigevano è nata dall’incontro con i coniugi Rondo, una famiglia
di industriali di Vigevano, che alla fine della loro esistenza hanno deciso di
lasciare parte dei loro averi alla Fondazione perché facesse “qualcosa di utile”.
Noi eravamo a Milano, eravamo a Seveso, cosa ci interessava andare a
Vigevano? Dal punto di vista dell’azienda sarebbe stato forse più razionale
vendere l’immobile e con il ricavato costruire qualcosa a Milano, dove erava36
La partecipazione dei collaboratori tra condivisione e governo dell'opera - 25 gennaio 2011
mo già presenti e dove avevamo evidenziato alcuni bisogni di assistenza.
Invece, dal rapporto con alcuni professionisti del posto, in particolare con uno
psichiatra, è nata l’idea di realizzare questa comunità psichiatrica ed il centro
diurno, perché anche lì ce ne era bisogno.
Allo stesso modo, dalla nostra attività nell’assistenza domiciliare, che si era
specializzata in alcune gravi patologie, come la SLA o gli esiti del coma, abbiamo cominciato a incontrare pazienti che in alcune condizioni non potevano
essere assistiti a domicilio. Si trattava in particolare di persone con patologie
di tipo neurologico con disabilità motorie importanti ma cognitivamente ancora integre, per le quali non trovavamo, nel contesto dei servizi proposti
dall’assistenza nazionale e lombarda, una risposta adeguata. Molti di questi
pazienti a 45 o 50 anni, quando non potevano più essere assistiti al domicilio,
venivano ricoverati in una RSA, che è una residenza per anziani, dove si trovavano a contatto con situazioni differenti dalle loro: degenti ultraottantenni,
molti dei quali affetti da demenza. Le strutture per anziani inoltre non erano
adatte ad accogliere questi pazienti, perché la maggior parte di essi presentava gravi problemi respiratori e la necessità di utilizzare un ventilatore meccanico 24 ore su 24.
Un altro esempio riguarda l’oncologia: noi attualmente seguiamo, fornendo cure palliative a domicilio, circa 170 pazienti all’anno e poi ne seguiamo
altri 200 attraverso gli hospice. Anche qui è nato tutto dal rapporto con un
medico dell’ospedale Sacco, e dalla sua esigenza di poter continuare ad assistere e curare questi pazienti che, seguiti per tutto l’iter diagnostico e terapeutico, quando la terapia non era più in grado di controllare l’evolversi della
malattia, non avevano un ambito adeguato dove potesse essere data ancora
risposta ai loro bisogni. Dall’amicizia e dal rapporto con questa dottoressa è
nata la possibilità di dare continuità al lavoro che lei faceva al Sacco, prima
attraverso le cure domiciliari e poi attraverso l’hospice.
L’ultima attività nata nella Fondazione è quella del servizio domiciliare per
i bambini: anch’esso è nato dal rapporto con alcuni genitori di bambini gravemente disabili, che abbiamo cominciato a seguire a domicilio con cure
specialistiche. Attualmente abbiamo in carico circa 27 bambini gravemente
disabili, alcuni con prognosi infausta, nel senso che le malattie di cui sono
colpiti li porteranno alla morte nel giro di alcuni mesi o pochi anni.
Quindi questo metodo, che nasce dall’avere a cuore il bene della persona
e che si esplicita nel lavorare non su progetti teorici ma a partire da incontri
concreti, è ciò che ha fatto nascere e poi crescere la Fondazione.
La stessa cosa avviene per quanto riguarda l’attenzione ai collaboratori: dal
desiderare il bene per la persona nasce il desiderio di valorizzare le loro capacità e le loro doti, sin da quando iniziano a incontrarci.
37
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Entriamo nello specifico del tema di oggi: come far partecipare a questa
esperienza di bello e di pienezza quelli che cominciano a lavorare con noi o
che ci incontrano perché sono medici, infermieri, fisioterapisti che cercano un
lavoro e noi abbiamo la possibilità di offrirglielo?
Siamo una realtà lavorativa e quindi dobbiamo partire da lì, dalla serietà
del lavoro. Gli strumenti che ci si è dati come Fondazione in questi anni sono
stati: prima di tutto l’incontro settimanale del direttivo che, da due anni a
questa parte, non comprende più solo i membri dell’ufficio di presidenza e
della direzione, ma è un direttivo partecipato: tre o quattro volte all’anno
infatti si svolge presso ognuna delle unità operative, per incontrare direttamente le persone che operano in ciascuna delle realtà che costituiscono la
Fondazione. Si tratta di momenti che vengono preparati dal responsabile della
singola realtà, coinvolgendo le persone che lavorano con lui e con il supporto eventuale dei direttori. Vengono preparate relazioni sulle attività svolte,
confrontandosi con obiettivi prefissati ed indicatori che ci aiutano a dare un
giudizio sul lavoro svolto o a identificare delle necessità o dei correttivi. È
compito poi del direttore amministrativo, di quello sanitario e del responsabile dell’attività della formazione mantenere rapporti sistematici e periodici
con i responsabili delle singole realtà per continuare questo lavoro e mantenere vivo ciò che sta a cuore a chi ha fatto nascere l’opera: la crescita della
persona.
Altri strumenti utilizzati sono quelli legati alla attività di formazione: noi
facciamo formazione e ci siamo accreditati presso la Regione Lombardia come
provider ECM, cioè per la formazione continua nella sanità. Per questo organizziamo 5 o 6 corsi all’anno su tematiche che interessano i nostri operatori e
che poi apriamo anche a operatori esterni; da 3 anni organizziamo a Vigevano
un convegno mettendo a tema specificamente le patologie e le problematiche
che interessano quella nostra opera, cioè il tema degli stati vegetativi, delle
possibilità o dei limiti della cura. Da alcuni anni inoltre collaboriamo con la
facoltà di Medicina dell’Università Statale di Milano: siamo partiti con un corso
di perfezionamento per infermieri e dopo due edizioni lo abbiamo ampliato
ottenendo il riconoscimento di Master di primo livello; siamo anche qui giunti alla seconda edizione.
Un’attività che non organizziamo noi ma che riteniamo importante per i
nostri operatori, per andare a fondo sulle motivazioni che hanno fatto nascere e sostengono la nostra Fondazione è la “Scuola opere di carità” della CDO.
Un altro strumento è la newsletter che viene prodotta ed inviata 3 o 4 volte
all’anno: vuole essere una modalità di comunicazione rivolta sia ai nostri operatori sia a chi ci incontra, come ad esempio le famiglie dei nostri pazienti,
per dire cosa facciamo ma soprattutto chi siamo e cosa ci sta a cuore.
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La partecipazione dei collaboratori tra condivisione e governo dell'opera - 25 gennaio 2011
Una volta all’anno si svolge un momento comune per tutta la Fondazione:
il pellegrinaggio che facciamo a Trivolzio, in provincia di Pavia. Inizia con un
momento di assemblea cui sono invitati tutti gli operatori e i collaboratori, o
le persone che abbiamo incontrato e che magari lavorano nelle ASL o negli
ospedali e a volte anche le famiglie di pazienti che abbiamo curato; a seguire
la santa Messa nella chiesa che ospita le spoglie di san Riccardo Pampuri e,
per finire, si cena insieme.
Da 3 anni abbiamo iniziato un’attività particolare: sono delle cene mensili,
alle quali sono invitati prima di tutto i responsabili delle unità operative ma
anche, tramite loro, tutte le altre persone che hanno incontrato la Fondazione.
Tali momenti non hanno a tema argomenti tecnici specifici ma ci aiutano ad
approfondire le motivazioni che hanno permesso l’origine della Fondazione
e a giudicare il lavoro che ognuno, a partire da questo, fa nel quotidiano.
Questi sono gli strumenti che la Fondazione oggi utilizza.
Quello che ho sperimentato lavorando nella Fondazione, e che desidero
condividere anche con gli altri, è l’importanza dell’appartenenza: il fatto cioè
di sentire la Fondazione non solo come un luogo di lavoro, ma come un
luogo in cui giocarsi e crescere, sia professionalmente che umanamente. Da
questa appartenenza nasce la responsabilità: di giocarsi, che chiediamo a tutte
le persone che lavorano con noi. Ad esempio la responsabilità della casa di
Seveso è attualmente in mano a una persona che è cresciuta nella Fondazione,
anche dal punto di vista formativo. Infatti ha cominciato a lavorare per la
Fondazione quando le case per malati di AIDS erano una realtà nata spontaneamente nel terzo settore e non avevano nessuna struttura fissa o pre-fissata
dall’ente pubblico. Successivamente la Regione Lombardia ha fatto propria
questa modalità di presa in carico delle persone ed ha creato degli standard:
cioè ha detto che per lavorare nelle case per malati di AIDS il direttore deve
avere certe caratteristiche e gli operatori devono avere certi titoli. La responsabile della casa di Seveso è un’operatrice che ha acquisito esperienza sul
campo e poi ha dovuto seguire una formazione per avere un titolo adeguato
e mantenere così la sua funzione. A lei stava a cuore questa cosa, e ha fatto
un sacrificio grande, perché a più di 30 anni si è messa a studiare cose nuove
per poter avere un titolo che le permettesse di fare ciò che faceva da sempre.
La Fondazione ha favorito questa opportunità.
A Vigevano, invece, abbiamo scoperto che una nostra operatrice, una OSS,
era anche una pittrice. È nato da lei il desiderio di decorare alcuni luoghi in
cui lavoriamo, ambienti comuni e camere, perché gli spazi non siano solo
luoghi asettici, ma aiutino noi e i nostri pazienti e vivere in modo familiare. È
nata poi l’idea di collaborare con l’equipe psichiatrica, creando corsi di pittura per gli ospiti della struttura. Abbiamo fatto un corso di base, poi uno di
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
approfondimento che è sfociato in un’esposizione aperta al pubblico, ospitata presso una struttura del Comune di Vigevano
Allo stesso modo, dal desiderio di alcuni operatori di andare a fondo sulla
loro professionalità e di dare una risposta sempre più adeguata al bisogno che
incontravano, le nostre visite domiciliari hanno subito un’evoluzione per
quanto riguarda una delle attività più complesse che svolgiamo, che è quella
della cura delle lesioni cutanee, di tipo vascolare e altro, dando il via ad un
gruppo strutturato per il miglioramento della qualità che ha la responsabilità
di essere d’aiuto agli operatori meno esperti.
Un altro esempio di attenzione alla persona lo troviamo nell’assistenza ai
malati di AIDS: anche se è cambiata la tipologia degli assistiti, che ora hanno
la casa dove abitare, restano comunque persone fragili che, oltre ad aver
bisogno di cure, una volta usciti dall’ospedale a volte non hanno da mangiare. Per questo è partita la collaborazione con il Banco Alimentare, da cui è
scaturita la possibilità, attraverso i banchi di solidarietà, di portare a domicilio
anche il pacco di alimenti.
I risultati quali sono? Quello che noi vediamo continuamente è che c’è una
crescita professionale e umana delle persone che lavorano con noi, e questa
è la cosa che ci interessa di più
Un altro indicatore è la stima che le istituzioni hanno nei nostri riguardi:
penso alla ASL di Milano e Milano 1 per l’assistenza domiciliare o alla ASL di
Monza per l’assistenza ai malati di AIDS: è capitato che, nonostante il fatto
che noi spesso siamo un interlocutore scomodo, perché, avendo a cuore il
bene delle persone che incontriamo, non ci fermiamo a fare quello che da
capitolato dovremmo fare ma andiamo oltre, l’ente pubblico, capendo la
nostra posizione, abbia adattato la propria struttura per poter accogliere un
bisogno da noi indicato.
Ulteriore indicatore è il riconoscimento manifestato da parte delle famiglie
dei nostri assistiti: attraverso delle lettere o a volte attraverso delle segnalazioni. Ad esempio mi ha chiamato la settimana scorsa la figlia di una paziente
malata di SLA e mi ha ringraziato perché ha osservato che i nostri operatori
domiciliari non solo hanno una attenzione professionale nei confronti di sua
madre ma, pur sapendo che effettivamente un esito positivo non ci sarà e che
ad esempio la fisioterapia o la logopedia non avranno come esito la guarigione, hanno comunque un’attenzione che va oltre l’aspetto professionale e che
dà speranza a sua madre. Per me sentire questo è stata la conferma che ciò
che abbiamo a cuore e a cui teniamo viene comunicato e diventa modo
d’operare nei nostri operatori.
Le difficoltà. L’aspetto della partecipazione, della valorizzazione, dell’avere
a cuore la persona che incontri, nasce da una relazione, cioè dall’esperienza
40
La partecipazione dei collaboratori tra condivisione e governo dell'opera - 25 gennaio 2011
che ognuno dei miei operatori può fare nel suo lavoro. Imparo se “faccio
con”. Gli strumenti operativi di cui ci siamo dotati non servono per fare lezioni teoriche su dei modelli, ma per entrare realmente sulle questioni: il budget,
le attività di formazione, gli spazi di incontro e d’equipe sono la modalità
operativa di questa concretezza e di questo lavorare insieme. E anche per
l’assistenza domiciliare, dove gli operatori sono da soli ed è più difficile “fare
con”, abbiamo creato le figure dei tutor (infermieri più esperti) e quando
serve i pazienti vengono visitati insieme al tutor. Certamente tutto questo si
gioca attraverso la libertà mia e dell’altro. Proprio ieri, nel direttivo, ci interrogavamo circa gli strumenti più utili per rendere maggiormente efficaci queste
modalità di dialogo tra l’ufficio di presidenza e le realtà delle singole opere.
L’obiettivo è di aiutarci con strumenti professionali sempre più adeguati, affinché la partecipazione all’opera da parte di tutti coloro che vi lavorano sia
sempre più centrata sulle motivazioni che l’hanno fatta nascere e le hanno
permesso di crescere.
Stefano Gheno
Grazie per il contributo, che ci ha mostrato una prospettiva interessante:
senza cedere nulla alla professionalità e alla rigorosità della organizzazione,
lascia totalmente spazio alla centralità della persona.
Ne discutevamo anche l’anno scorso, nell’edizione precedente:2 noi spesso
pensiamo che nel non profit si parli della persona intendendo gli utenti e non
gli operatori. Invece la posizione che Angelo ci ha illustrato rende ragione del
fatto che uno è attento agli altri se sente una attenzione su di sé.
Tre punti mi hanno molto colpito nel suo intervento.
Il primo è la centralità delle persone. Il secondo è l’idea che uno si occupa del suo particolare con il rigore, l’attenzione e la tecnica, ma questo apre
ad altri, come l’idea del Banco Alimentare, che è venuta ai suoi operatori
perché si sono accorti di un nuovo bisogno. Ciò mi fa nascere una domanda:
come mai certe persone si accorgono di certe cose? Frequentemente invece
uno è talmente centrato sul suo settore particolare che non vede niente altro.
Io, lavorando nella sanità, lo riscontro spesso; una volta un primario mi diceva: «I nostri medici ormai sono talmente specialistici, che non sono capaci di
una visione complessiva della persona». Invece Angelo ci ha fatto vedere che
è possibile il contrario, ma mi domando: questo come può accadere?
La terza domanda che mi viene riguarda i direttivi itineranti. Perché la
partecipazione sia non solo un’idea, bisogna che ci siano dei messaggi non
2 Cfr. La centralità della persona nel governo dell’opera, Seminari Tematici per le
Organizzazioni Non Profit 2009, CDO Opere Sociali, 2010.
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
solo simbolici. Quindi l’idea che io vengo da te è un ribaltamento molto interessante della abituale prospettiva top-down: chi governa sta sopra, gli altri
sotto. Invece che chi governa vada a governare in provincia – perdonatemi,
ma sono uno psicologo –, mi sembra anche psicologicamente interessante.
Iniziamo ora il secondo intervento, che come vi ho detto, sarà tenuto da
Stefano Giorgi direttore di In-Presa.
I nostri seminari sono organizzati con una prima testimonianza e un intervento del secondo relatore cui chiediamo di sistematizzare il contributo del
primo, facendo emergere i punti di maggiore provocazione e attenzione.
Chiediamo dunque a Stefano Giorgi di rileggere l’intervento di Angelo
Mainini; Stefano Giorgi è anche direttore di un’opera in cui il tema della partecipazione non è indifferente; quindi, oltre al contributo teorico, ci darà
sicuramente nuove suggestioni.
Stefano Giorgi
Bene. Buongiorno a tutti!
Il tema principale che volevo toccare, anche rispetto al racconto di Angelo,
è legato a quanto Bernhard Scholz ha sviluppato la volta scorsa. Mi ha colpito il suo abbrivio, quando diceva: «Voglio fare alcune osservazioni generali. La
prima è che la governance ha il compito di guidare, non solo di amministrare
e gestire». Mi sembra quindi che il rapporto tra governance e partecipazione
non abbia solo lo scopo di far funzionare meglio un’organizzazione ma che
ci sia dietro una questione importante, più profonda: cosa vuol dire nella
proposta di Bernhard Scholz la guida dell’opera? Guidare l’opera significa
portarla al suo scopo, alla realizzazione di quello che è.
Direi che il vero tema della partecipazione è quello della condivisione
dello scopo dell’opera. Non è un caso che Angelo abbia parlato ripetutamente del tema del rapporto, dell’attenzione alle persone. Ero rimasto particolarmente colpito quando, al Matching3 di due anni fa ci fu il pranzo dei presidenti delle CDO con don Julián Carrón,4 cui ho avuto la fortuna di partecipare, in quanto si è tenuto nel ristorante realizzato dai ragazzi di In-Presa.
In quell’occasione Carrón fu davvero incisivo e ripeté una cosa che aveva
particolarmente a cuore: «Quale è lo scopo di quello che facciamo? Quale è
lo scopo dell’opera? Lo scopo dell’opera è la generazione di un soggetto
diverso».
Il primo punto del rapporto tra governance, partecipazione e responsabi3 Evento annuale organizzato da Compagnia delle Opere per sviluppare i rapporti tra
le imprese, si svolge presso la Fieramilano di Rho (MI) nel mese di novembre.
4
42
Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione.
La partecipazione dei collaboratori tra condivisione e governo dell'opera - 25 gennaio 2011
lità, che Angelo ha descritto, è la possibilità che si faccia sempre più esplicito
e chiaro ciò che rende possibile questa generazione. Quello che ha descritto
Angelo, ad esempio, non è tanto la risposta al bisogno, quanto un certo modo
di rispondere al bisogno. È questo il primo tema, anche perché, come diceva
Monica Poletto la volta scorsa, la partecipazione può essere avvertita come
“lavorare insieme”; mentre scopo dell’opera non è “lavorare insieme”, ma è
qualcosa che, se condiviso, permette il lavoro insieme.5 Guidare l’opera verso
il suo obiettivo toglie qualsiasi personalismo.
Da questo punto di vista io sono fortunato: molti di voi conoscono
In-Presa, che nasce dall’esperienza di Emilia Vergani, una quindicina di anni
fa. È un’opera educativa per minori in situazioni di disagio. Sinteticamente, la
proposta di Emilia per i ragazzi in difficoltà si basa su tre fattori: la famiglia,
il lavoro, la scuola. In questo ordine. Famiglia, ovverosia un’esperienza di
accoglienza. Subito dopo viene il lavoro, come possibilità di esperienza di una
realizzazione. Vorrei raccontarvi un episodio avvenuto durante un momento
di dialogo con i ragazzi. Eravamo ancora prima della riforma della scuola di
Berlinguer, per cui dopo la terza media i ragazzi potevano essere direttamente introdotti nel mondo del lavoro. Una delle sottolineature di Emilia circa
l’esperienza lavorativa è che non c’è esperienza senza giudizio. Quindi, per
poter giudicare ciò che capitava in officina o in azienda, ci si trovava settimanalmente a fare un momento di dialogo insieme ai ragazzi che chiamavamo
“raggio”. Uno dei nostri ragazzini faceva l’apprendista da un idraulico. Doveva
portare la borsa dell’idraulico piena di ferri e una volta aveva sbagliato a offrire gli strumenti ed era successo un disastro in una villa di privati. In quel
periodo l’idraulico stava vivendo un momento di difficoltà familiare e questo
incidente lo aveva fatto esplodere. Il ragazzino è tornato e ha detto: «Non
vado più a lavorare!». Era inutile fargli la predica, allora, come tema del raggio
abbiamo proposto: «Qual è lo scopo del lavoro? I soldi?». La discussione languiva, quando uno dei ragazzi, che dal punto di vista della acutezza intellettuale non sembrava molto avanti, ha detto: «Vedete quella lampadina [proprio
nella stanza del raggio]? Ricordate che ieri non potevamo trovarci qui, perché
il neon non funzionava! Ecco: l’ho aggiustata io». E ha aggiunto: «Questo è per
me il senso del lavoro». È stata una folgorazione. Quel ragazzino ci ha insegnato che il senso del lavoro è la possibilità di trasformare la realtà per renderla più bella e che nel lavoro, attraverso di me, il mondo è più bello e più
corrispondente all’uomo.
Il lavoro, quindi, come possibilità di scoprire la propria utilità.
Non solo, non c’è mai un fare privo di riflessione. Per questo ogni servizio
5
Vedi qui, p. 31.
43
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
di In-Presa (dall’accompagnamento al lavoro, al triennale di qualifica per
aiuto cuoco) è la proposta di un cammino di conoscenza. Perché dico questo?
Perché questa è l’origine, ed anche lo scopo: lo scopo di In-Presa è quello di
generare ragazzi che scoprono il proprio posto nel mondo, e questo è possibile attraverso un cammino di conoscenza.
Cosa è adesso In-Presa, anche rispetto alla descrizione di Angelo e quello
che ha detto Bernhard Scholz?
Io sono il direttore: ho il compito di verificare tutti i percorsi educativi che
si svolgono a In-Presa: prendere le decisioni inerenti a un ragazzino da mandare in un tal posto di lavoro, far fare a un altro un certo percorso di scuola
e così via. I ragazzi adesso sono 360, quindi è un lavoro piuttosto complesso.
Perché dicevo che sono fortunato? Perché la guida è tutta indirizzata al
raggiungimento dello scopo, e lo scopo non lo possiedi. Non può esserci
qualcuno che dice: «Io sono il vero interprete del pensiero di Emilia», perché
se fosse così non ci sarebbe possibilità di partecipazione. Anzi, ci si mette
insieme proprio per cercare di imparare quale è lo scopo dell’opera. Per
esempio, c’è stato un incontro nell’ambito di un altro progetto di CDO Opere
Sociali, dedicato alla comunicazione, tenuto da Davide Perillo, direttore di
«Tracce», e da Davide Bartesaghi, che per alcuni anni ha fatto il capo ufficio
stampa della CDO e attualmente è amministratore delegato di In-Presa e
quindi ha la responsabilità strategico-gestionale dell’opera.6 A un certo punto
Bartesaghi ha detto: «Per noi comunicare significa poter dire a un altro: “Vieni
a partecipare di quest’opera, e proprio perché non è mia puoi parteciparvi”».
Questo è l’aspetto interessante. Ciò che rende possibile la partecipazione è la
consapevolezza del non-possesso dello scopo. Lo scopo è qualcosa che possiamo imparare, e che ogni avventura di conoscenza è sempre comunitaria.
Secondo passaggio, sempre di Bernhard Scholz. Bernhard diceva che è
decisivo che l’approccio alla governance sia sempre una valorizzazione di
tutto il potenziale presente. Occorre, cioè, partire da quello che c’è. È una
bellissima osservazione: è possibile, diceva, che una guida sia corrispondente
allo scopo se la modalità con cui essa guarda e dirige tutto parte dalla sottolineatura di ciò che c’è, mai dalla osservazione contraria. Perché è l’allargamento di quello che c’è che può anche offrire modifiche migliorative.7 Questo
è un aspetto interessante.
È a partire dalla valorizzazione che si rende possibile una corresponsabilità. Vorrei fare un esempio di questo, legato a In-Presa così come anche
6 Il testo dell’incontro Comunicare l’opera¸ organizzato da CDO Opere Sociali e
svoltosi a Milano il 19 gennaio 2011, è disponibile sul sito www.knowledgecenter.it.
7
44
Vedi qui, p. 20-21.
La partecipazione dei collaboratori tra condivisione e governo dell'opera - 25 gennaio 2011
Angelo l’ha sviluppato. Mi pare, Angelo, che il punto centrale di corresponsabilità per voi sia quello che hai chiamato “direttivo partecipato itinerante”.
Per noi questa modalità di partecipazione ha due strumenti e organismi.
Uno è la riunione di direzione settimanale, in cui si incontrano i responsabili
delle aree: il responsabile della segreteria, il responsabile dell’amministrazione, la coordinatrice del centro di formazione professionale, la coordinatrice
dell’alternanza scuola-lavoro, la responsabile dell’ufficio di inserimento lavorativo e così via. Il tema è: cercare di verificare in che modo affrontare le linee
strategiche dell’opera. Dove andare, come andare, l’aspetto economico, ecc.
E l’altro è il momento che noi facciamo ogni lunedì mattina con tutti gli
operatori. Sono presenti tutti i tutor, gli insegnanti, gli addetti alla segreteria,
la risorsa dedicata al fund raising e al rapporto con gli imprenditori… insomma, tutte le figure impegnate nell’opera. Lavoriamo in questo modo: cerchiamo di porre dei casi particolari, la situazione di un ragazzo o di un consiglio
di classe, interrogandoci sul modo in cui l’azione che stiamo svolgendo corrisponda al principio originante l’opera stessa.
Un’altra cosa mi ha particolarmente colpito tra quelle che Bernhard diceva:
nell’agire, a poco a poco, è come se venisse meno nella coscienza lo scopo;
non per cattiveria, ma perché è nella natura delle cose. Non perché ci sia una
pervicacia nell’accantonarlo, ma perché nell’azione c’è anche la debolezza;
perciò, se non c’è un richiamo adeguato, nasce la preoccupazione di rispondere all’immediato senza domandarsi se la risposta ha la forma corrispondente al principio che l’ha generata.8
Affinché lo scopo possa essere condiviso, è interessante che ci possano
essere dei momenti in cui venga sottoposta al giudizio comune l’azione concreta, la risposta in un determinato ambito, per poter raccogliere un principio
di giudizio che sia poi giocato negli ambiti di responsabilità. Vi faccio un
esempio. Una volta una nostra ragazza, con un certo grado di difficoltà certificata, dopo aver terminato il cammino di formazione professionale ha partecipato all’esame, ma non le abbiamo dato il titolo di studio. Perché? Perché
abbiamo pensato che certificarla come aiuto cuoco (questa è la nostra figura
professionale) l’avrebbe messa nell’impossibilità professionale di trovare lavoro. Sulla carta lo sarebbe stata, ma non nella realtà, per le difficoltà che ha.
Abbiamo anche lottato con la famiglia, ma ci sembrava che poter riconoscere
il suo limite non rappresentasse una diminuzione, ma, anzi, la possibilità di
iniziare una strada perché il mondo lavorativo la potesse accogliere così come
è. Questo vuol dire che, finiti i tre anni di formazione, non la abbandoni, ma
inizi un altro itinerario per trovare il posto adeguato per lei. Questa ragazza
8
Vedi qui, p. 25-26.
45
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
ha un tono di voce particolarmente irritante e non sa stare in silenzio, immaginatela in una cucina! Per una ragazza così ci vuole l’accoglienza, ma non
basta. Abbiamo trovato per lei una trattoria a gestione familiare, con una
signora che è una specie di mamma. La mandiamo lì. Poco dopo la signora
che gestisce la trattoria ci chiama e dice: «Ho dovuto comprare i tappi per le
orecchie»!
Questa situazione l’abbiamo discussa insieme per aiutarci a capire che
cosa poteva imparare. Quello che ci ha insegnato è che il lavoro di accompagnamento di questa ragazza deve avere uno scopo individuato e condiviso
dagli operatori: renderla “adeguata” al contesto in cui deve andare. È stato un
momento di lavoro importante. Perché? Perché nel rapporto educativo con i
ragazzi siamo spesso portati a poggiare il nostro intervento sull’aspetto esortativo, comportamentale. Io sono anche papà e durante l’avventura scolastica
dei miei figli spesso mi capitava di essere chiamato dai professori, che mi
dicevano sempre: «È intelligentissimo, ma non si impegna. Deve impegnarsi
di più». È un bel dire che è intelligente ma non si impegna! È tutto sull’aspetto esortativo.
Quello che abbiamo scoperto è che invece la possibilità di un cammino è
sempre legata a una conoscenza. Non è: «Io ti esorto a», ma: «Io ti metto in
rapporto con la natura delle cose, con la natura del lavoro». Questo per dire
che cosa significa la partecipazione allo scopo. Non è la condivisione di
buone intenzioni, non è la questione di un certo modo di considerare l’amicizia, ma è la natura delle cose.
La vera questione è lì. Cos’è un’opera? Un’opera è una realtà di risposta a
bisogni incontrati che ha come scopo la generazione di un soggetto diverso.
Allora la guida, la governance e la partecipazione è come se fossero tutte tese
a imparare la modalità generativa di questo soggetto diverso. Infatti, cosa
significa corresponsabilità? Mi sembra che sia aiutarsi a rispondere insieme
alla domanda che la realtà ci pone. E ciò è possibile solo se con i collaboratori si attuano due fattori.
Primo: la divisione dei compiti. La partecipazione è quanto più elevata
tanto più chiari sono gli ambiti di responsabilità, quanto più c’è distinzione di
ambiti di attività,
Secondo: l’individuazione di obiettivi misurabili e identificabili. È un aspetto per me interessante. Spesso si parla di desiderio; il desiderio è particolarmente legato all’idea di cuore, è come il punto nevralgico. Se ne parla a
pagina 11 de Il senso religioso ed è in nesso con gli ultimi due incontri di
questi seminari tematici: «Identifico in questo cuore ciò che ho chiamato esperienza elementare, qualcosa cioè che tende a indicare compiutamente l’impeto originale con cui l’essere umano si protende verso la realtà, cercando di
46
La partecipazione dei collaboratori tra condivisione e governo dell'opera - 25 gennaio 2011
immedesimarsi con essa attraverso la realizzazione di un progetto».9 Cioè:
l’identificazione dello scopo coincide con l’identificazione di un progetto, di
obiettivi precisi. È partecipazione laddove c’è chiarezza di obiettivi, identificazione di essi, anche misurabili. Angelo ha citato la questione dei numeri. Noi
portiamo i ragazzi a fare un certo cammino. Fondamentale è l’individuazione
degli obiettivi, che ti permette l’assoluta flessibilità. Senza progettazione non
c’è ultimamente gratuità. «Obiettivi – diceva Bernhard Scholz – vuol dire dove
vogliamo andare».10 Lui ha definito gli obiettivi e ha detto che senza fissare
gli obiettivi mi guardo “dentro” e non guardo “verso”. La partecipazione è
possibile dove nell’opera c’è sempre un richiamo a essere aderenti alla realtà.
Perché è la realtà quella che ci indica i passi.
Sempre Bernhard diceva: «Le strategie ci indicano il come questi obiettivi
si possono raggiungere. E devono dunque essere indicati, perché così rendono possibile la verifica».11
L’ultima cosa che diceva Scholz è che la collaborazione è orientata verso
l’intero dell’opera.12 La condivisione dello scopo rende possibile che io, che
sono lì a fare la rendicontazione (aspetto che potremmo definire arido), mi
senta utile allo scopo tanto quanto chi è in rapporto diretto con i ragazzi; guai
se all’interno di In-Presa la tutor si sentisse più utile allo scopo di generare
un soggetto diverso (la tutor che vive con i ragazzi, sta con loro, li aiuta e li
capisce), rispetto a quella oscura ragazza nascosta in un antro, che tiene il
conto delle bollette, delle fatture, delle ore da rendicontare, ecc! Ognuno è
portato a fare il suo ma tutti contribuiscono alla realizzazione dell’opera.
Ultima cosa. Diceva sempre Scholz che la decisione di chi guida favorisce
la collaborazione.13 Vorrei fare un esempio. La modalità con cui si affronta il
bisogno è originariamente condivisa. Ovverosia: l’aspetto fondamentale, proprio perché lo scopo è la generazione di un soggetto diverso, è che la realizzazione di una risposta non poggi mai sulla forza o sulla capacità del singolo
operatore. Angelo prima ha detto: «Quello che ho sperimentato è l’appartenenza. Dall’appartenenza nasce la corresponsabilità». Ma l’appartenenza è
anzitutto una concezione della propria azione. Per cui quando incontri un
bisogno percepisci immediatamente che per poter rispondere efficacemente
devi poter condividere. Uno dei miei più stretti collaboratori, parlando della
9
L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, p.11.
10 Vedi qui, p. 20.
11 Vedi qui, p. 21-22.
12 Vedi qui, p. 22-23.
13 Vedi qui, p. 23-24.
47
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
modalità di lavoro delle equipe, ha detto che quando incontra un problema
lui lo consegna all’equipe. Questo indica una concezione. La consegna significa: cerchiamo di comprendere quali sono i fattori in cui consiste il problema
e il rischio di una proposta. La guida è quella che rischia la decisione. Da quel
momento le energie di tutti vanno in quella direzione.
A me è capitato di prendere delle decisioni su cose per le quali pensavo
di aver ragione in modo diverso; ma metterle al servizio della decisione presa
è quello che permette di far bene o far male, e di far sì che i rapporti tra gli
operatori siano improntati alla stima e alla collaborazione. Altrimenti c’è la
gara a vedere chi ha ragione. Non esiste chi ha ragione. Esiste una realtà che
ti interroga e ti indica quali sono i passi che bisogna fare. In questo ambito,
come ci diceva Scholz, lo scopo toglie ogni personalismo. Diceva: «Al centro
sta l’opera. Le persone passano, ma l’opera può rimanere».14
DIBATTITO
Stefano Gheno
Apriamo adesso la possibilità di fare interventi o domande.
Mi permetto di riprendere tre aspetti che mi hanno particolarmente colpito. Abbiamo sentito dire: «La partecipazione è possibile nel momento in cui
nell’opera c’è un richiamo a guardare la realtà», altrimenti “ti guardi addosso”.
Questo secondo me è molto interessante. Noi abbiamo l’idea che chi governa
ha le strategie, gli altri lavorano. E il problema è collegare le cose. Invece i
nostri relatori ci hanno detto che per entrambi il punto di partenza è la realtà.
E bisogna guardare quello che c’è. Non è che chi governa è più autorizzato
di chi lavora, anzi la responsabilità è equamente distribuita.
In secondo luogo «ciò che genera partecipazione è mettersi assieme per
cercare di capire quale è lo scopo dell’opera». È una cosa che mi colpisce
molto, quando ascolto la testimonianza di chi fa le opere, sentire che la loro
opera non è mai nata da un progetto sulla realtà, bensì da un incontro con
delle circostanze, molto specifiche e definite nel tempo. È così per la
Maddalena Grassi, che ha questo nome non per caso; è così per In-Presa di
Emilia Vergani, non a caso. È così perché dall’incontro con le circostanze nasce
questa cosa che poi va oltre l’intuizione originale, perché quello che oggi fa
In-Presa non è quello che faceva Emilia. Cosa rende possibile questo? Il mettersi insieme per capire lo scopo; si può anche capire che dopo qualche anno
il modo migliore non è quello dei primi anni. Questo spazza via il “problema”
del fondatore e altro, cose che spesso rappresentano pietre di scandalo.
14 Vedi qui, p. 20.
48
La partecipazione dei collaboratori tra condivisione e governo dell'opera - 25 gennaio 2011
Terza questione: «La partecipazione come condivisione dello scopo». Credo
che questa sia la formula più sintetica che esprime il senso di entrambi i contributi: l’espressione dello scopo permette il mio contributo specifico, ma solo
se a monte c’è una condivisione dello scopo.
Io mi accorgo che frequentemente c’è una gestione democratica delle
opere, un’idea di condivisione per la quale bisogna essere tutti d’accordo,
altrimenti ti devo convincere, manipolare. Invece a me piace ricordare che
nella parola “condivisione” c’è la parola “visione”. Dobbiamo vedere la realtà
nello stesso modo, non interpretarla. Ed è la prima domanda che vi pongo.
Angelo Mainini
Per quella che è la mia esperienza, non può che essere così. Il condividere, prima che un “essere d’accordo”, è un “vedere”, vedere in modo comune,
come dicevi tu.
La visione su come rispondere concretamente a una situazione può non
essere univoca, può dipendere dalla sensibilità di ciascuno, dalle capacità tecniche che uno ha, ma quello che è importante primariamente è che tutte e due
vediamo che c’è un problema e che va affrontato. Non è poi detto che ci sia
una modalità unica di affrontare il problema. E., che lavora a Seveso, avrà una
modalità di affrontare il problema diverso da quello di M., che è a Vigevano.
Però entrambi hanno a cuore e vedono la questione in modo uguale.
È chiaro che poi anche l’approccio viene confrontato. Ma per quello che
io ho imparato e che vivo, mi sta a cuore innanzitutto che le persone vedano
il problema. Dopo lo affrontano anche con le loro libertà, secondo quello che
loro giudicano giusto, anche con la possibilità di sbagliare.
Io a volte non mi trovo d’accordo con delle persone che lavorano gerarchicamente sotto di me e, a meno che questo non causi un danno alle persone o alla Fondazione, non mi fa scandalo. Può invece diventare un motivo
per andare a fondo delle questioni, approfondirle e scoprire dopo che magari aveva ragione l’altro, nel senso che si è dimostrato migliore il suo approccio
rispetto al mio, o viceversa. Io vedo così la condivisione: condividere il perché
delle cose e vederle; poi uno gioca la sua libertà e responsabilità.
Stefano Giorgi
Mi sembra importante questo: che la condivisione sia la questione del perché delle cose. Vorrei farvi solo un esempio. Molti di voi conoscono il mondo
della scuola: non è che condividere con gli insegnanti significhi che io do loro
tutte le informazioni inerenti questo particolare studente. Da noi vengono
ragazzini con situazioni anche molto particolari. Certe volte, anche ieri mi è
capitato, per dialogare sulla situazione di un ragazzino ci troviamo in sette: la
49
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
mamma, un altro appartenente alla famiglia, lo psichiatria, l’assistente sociale… e vengono fuori una serie di questioni sulla storia del ragazzo anche
molto pesanti. Non è che la corresponsabilità degli insegnanti è messa in azione se loro sanno tutte le informazioni, ma se con loro condividi appieno lo
scopo dell’azione. Al servizio di cosa sei in quell’ora di lezione? Di fronte a
chi sei? Certo, c’è anche il fatto che il ragazzo che hai di fronte ha un certo
tipo di ferita, non entro nei particolari di questo argomento.
Il vedere significa cominciare a percepire che quello che hai davanti ha
una profondità più grande di quello che immediatamente appare. Per cui il
tuo rapporto con l’oggetto deve essere l’offerta di qualcosa che è fruibile al
di là di una immediatezza.
Mi colpisce il fatto che Angelo abbia detto, raccontando di quella paziente,
di andare oltre la professionalità; io sono convinto che quella è la professionalità. La professionalità è intervenire sulla realtà per quello che realmente è:
essa ha una profondità più grande del suo aspetto immediato. Per questo ai
collaboratori non chiedi di condividere una ideologia, una partenza ideologica; chiedi invece l’apertura alla realtà. Chi non ha questa lealtà credo debba
essere messo di fronte al fatto che il mondo è grande. Noi chiediamo questo.
Non la risposta a un bisogno, ma un modo di rispondere a un bisogno che
ha una diversità.
Stefano Gheno
È proprio vero. Da un lato c’è il tema ideologico, secondo cui dobbiamo
essere tutti d’accordo; dall’altro il tema professionale: dobbiamo sapere tutto.
Per la mia esperienza frequentemente vedo che l’eccesso di informazioni è
paralizzante, perché sei di fronte a situazioni talmente gravose che non puoi
non sperimentare l’impotenza. È evidente! Invece ricordarsi del motivo per cui
si è lì è fondamentale.
È anche il problema delle industrie: non “risolvere i problemi”, ma generare qualcosa.
Stefano Giorgi
Vi racconto questo episodio: c’è un ragazzino di 14 anni che soffre di una
malattia che lo rende vecchio e fa fatica in alcune cose. Frequenta la prima
aiuto-cuoco. L’insegnante di italiano arriva da me dicendo: «A cosa serve il
mio lavoro con questo ragazzo, che passa il tempo a ricopiare le cose scritte
alla lavagna senza capire niente?». Io la interrompo e dico: «Cosa ne sai?».
Primo. E secondo: «Proviamo a chiedere a chi lo segue, andiamo a fondo».
Questo per dire che tu fai un pezzettino. Nella risposta tu fai un pezzettino. Guai se pensassi che tu sei la risposta. Tu fai un pezzettino, magari signi50
La partecipazione dei collaboratori tra condivisione e governo dell'opera - 25 gennaio 2011
ficativo, magari no. E gli altri aggiungono il loro. Infatti di quel ragazzo un’altra persona ci ha detto: «Sta facendo passi da gigante, perché il suo ricopiare
è il modo in cui si sente uguale ai compagni». Allora posso tornare dall’insegnante e dirle: «Il tuo lavoro è utilissimo, anche se è diverso da quello che hai
in mente. Tu hai in mente che il tuo compito sia è far capire al ragazzo l’utilità dei verbi. Sii invece ancora più acuta! Anche perché questo ti obbliga a
lavorare su di te, non su di lui. Ti obbliga a capire perché, se il verbo è una
cosa così importante, può arrivare fino a lui. Il tuo lavoro è la possibilità per
lui di fare esperienza che lui è uno di noi».
Il soggetto diverso è questo: che chiunque possa fare esperienza che ciascuno è uno di noi. Il mondo invece pensa che c’è qualcuno che non è di
noi.
Intervento
Io volevo chiederti, Stefano, di declinare una cosa che hai detto che mi
sembra un po’ criptica. Hai detto: senza progettazione non c’è ultimamente
gratuità. Puoi spiegare meglio cosa intendi?
Poi dicevi che per una decisione presa ognuno ha le sue energie e la sua
responsabilità. Io capisco che questo ha un che di gratuito, rispetto al progetto
o alla dimensione educativa. La gratuità è il non aver ragione, il collaborare.
Volevo capire questo perché mi sembra interessante.
Stefano Giorgi
Anche a me sembra interessante!
Faccio un esempio che sembra non c’entrare. Io faccio il volontario al
Meeting.15 E credo di fare una esperienza di gratuità. Anche i miei figli lo
fanno… siamo una famiglia di volontari al Meeting! Credo che non ci sia
niente di più studiato nei particolari del Meeting. Se il tema è lo scopo, non
c’è nessun particolare che non possa essere connesso con questo. La programmazione, gli obiettivi, sono in questa direzione.
Ora faccio un esempio inerente alla mia attività. C’è un ragazzino che è
massacrato dalla separazione dei genitori (alcuni stanno a letto, non riescono
a reagire!), non cammina più nella realtà. Lo scopo del nostro intervento è che
lui riparta, che lui dica «mio» a ciò che incontra. Bene, lo accogliamo. Cosa
vuol dire? Che per questa settimana lo andiamo a prendere. Poi cerchiamo di
capire cosa deve fare. Cosa chiediamo all’imprenditore? Che arrivi alle 8.30,
che non si metta le dita nel naso… il cammino è fatto di tanti piccoli passi.
15 Si riferisce al Meeting per l’amicizia tra i popoli, che si svolge ogni anno a Rimini
nell’ultima settimana di agosto.
51
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Questo permette anche di essere libero rispetto alla sua risposta perché sai
dove vai, dove vuoi arrivare. Lo spontaneismo non esiste, è una illusione. E
se lui risponde negativamente sei costretto a inventare nuove strade, ma sempre per farlo ripartire.
È impressionante la questione del desiderio: ci eravamo illusi che i desideri potessero alimentarsi da soli. Invece, se non trovano l’oggetto adeguato,
scemano. L’inizio di una ripresa del desiderio è una accoglienza senza condizioni, che si fa strada, cioè passi. I nostri padri per indicare una strada ponevano le pietre miliari. E sono gli obiettivi. Se non li sai… Diceva Scholz «educare le persone, tirarle fuori dal particolare, è possibile solo riaffermando
sempre lo scopo di quello che stai facendo».16 E il fatto che nella cooperativa
tutti hanno una concezione diversa dello scopo è la dimostrazione che è la
cosa meno scontata avere presente il motivo per cui lavoro mentre sto agendo. A un certo punto ciò che faccio mi assorbe, e mentre sono assorbito perdo
di vista lo scopo.
Questi sono processi molto fisiologici. Non c’è da scandalizzarsi. Occorre
allora la riproposizione dello scopo, in actu exercito, cioè mentre sto facendo
la cosa nella forma e nell’affronto del particolare. È una ipotesi, la progettualità è l’ipotesi di lavoro.
Angelo Mainini
Mi collego a questo. Io nella mia relazione ho molto stressato la questione
della mission, dello scopo, del perché. Questo non può essere scollegato dal
lavoro quotidiano: i direttivi hanno una loro struttura, richiedono una preparazione; i direttori aiutano i responsabili di quella unità operativa a preparare
il direttivo. Viene fatto un ordine del giorno, viene mandata una relazione
preliminare su questioni da affrontare e dati di produzione. Si entra nel concreto delle cose. Solo entrando in questo concreto si giudica se questa modalità corrisponde a quello che è lo scopo dell’opera. E poi ci si aiuta anche
eventualmente a trovare delle soluzioni. Può darsi che per essere fedeli allo
scopo dell’opera si debba andare “contro” ad un’altra condizione.
L’aspetto economico ad esempio è un vincolo. Noi non siamo un’associazione di volontari, siamo una Fondazione e lavorano con noi 180 persone che
devono portare a casa lo stipendio ed è compito di chi dirige garantire che
ciò possa avvenire. L’aspetto economico è un vincolo e non possiamo non
considerarlo. In certe situazioni l’aspetto economico cozza o sembra cozzare
con la possibilità di dare un certo tipo di servizio, di accogliere e curare adeguatamente la persona. Mettersi assieme avendo chiaro lo scopo permette di
16 Vedi qui, p 25.
52
La partecipazione dei collaboratori tra condivisione e governo dell'opera - 25 gennaio 2011
affrontare i vari aspetti della questione. Questo è un momento “educativo” del
lavoro che si fa con il direttivo o che i direttori fanno tra un direttivo e l’altro.
Come dice il nostro amministratore delegato: «In certe realtà che operano
nella sanità sembra che il male peggiore che possa succedere è che un
paziente guarisca». A volte i meccanismi di remunerazione fanno sì che formalmente sia così, sembra che penalizzino chi ottiene dei risultati. Le strutture o i servizi socio-assistenziali sono pagate a seconda del livello di intensità
di cura e di bisogno. Ad esempio lo stato vegetativo è considerato il livello
più alto di bisogno e quando questa persona migliora, e non è più in stato
vegetativo, la ASL lo paga meno, ma il bisogno di assistenza non diminuisce,
anzi spesso aumenta e lo stesso concetto vale nell’assistenza domiciliare. La
difficoltà è oggettiva ed allora è importante fare insieme un lavoro ed aiutarci
a giudicare e capire che il nostro scopo è fare il bene per la persona malata
(curarla) e questo non può essere separato o in contraddizione con il bene
mio e tuo.
Stefano Giorgi
Quest’ultima cosa mi sollecita.
Vi faccio un esempio. Quasi sempre gli insegnanti che vengono da me,
dopo circa una settimana, bussano al mio ufficio e mi dicono (sono dei giovani, credono di aver sbagliato): «Non è la mia strada». E io dico: «Ottimo!
Adesso puoi cominciare a fare l’insegnante». E loro ti guardano straniti! Perché
dico questo? Quello che abbiamo imparato con i nostri ragazzini è questo.
Cosa fa far loro fatica a impegnarsi? La separazione dei genitori è devastante
perché è come se in loro si fosse aperta una frattura circa una certezza fondamentale, perché l’entusiasmo nel muoversi deriva dalla certezza di essere
amato.
Questa cosa è fondamentale a mio avviso nel rapporto con i collaboratori,
nel senso che non c’è collaborazione e corresponsabilità se il lavoro è fatto
per compiacere un altro. È come se invece ci fosse un qualcosa in partenza a
prescindere, una stima dell’altro. La corresponsabilità è laddove nella guida
c’è una stima dell’altro senza misura. Questo permette la correzione. Altrimenti
tu costringi l’altro a “fare” per compiacerti. E questo è disumano! Mi permetto
di dirlo perché nell’esperienza con i più giovani è impressionante, e ti costringe a essere leale nel rapporto con loro. Altrimenti quando tu parlavi di manipolazione del consenso, è un rischio grosso che possiamo correre, soprattutto chi ha una certa personalità.
Sarebbe per me disumana In-Presa se il richiamo a uno sguardo di accoglienza verso i ragazzi non fosse anzitutto a partire da un rapporto con i
collaboratori.
53
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Stefano Gheno
Non faccio nessun tentativo di sintesi, mi sembra che gli spunti siano ricchissimi. Ringrazio molto i nostri relatori, che ci hanno fornito uno spunto e
una testimonianza importante. Le cose che dicono sono assolutamente trasferibili a contesti di opere anche non sanitarie o educative.
54
Azioni di sviluppo delle persone: le responsabilità del management - 23 giugno 2009
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Seminari Tematici per le Organizzazioni Non Profit - La centralità della persona, il governo dell'opera
56
56
Azioni di sviluppo delle persone: le responsabilità del management - 23 giugno 2009
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ACCOGLIENZA, CURA E REINSERIMENTO
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57
COMUNITA’ TERAPEUTICA EDUCATIVA maschile
COMUNITA’ TERAPEUTICA EDUCATIVA femminile “Tingolo per tutti”
CENTRO DIURNO LUCIGNOLO per minori e famiglie
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57
Seminari Tematici per le Organizzazioni Non Profit - La centralità della persona, il governo dell'opera
“Siamo ammirati e commossi
dal vostro impeto che ha saputo
immaginare operazioni di carità
con il coraggio giocato dalla fedeltà ai principi della
vostra fede... Tutto il mondo si senta costretto ad
amare quello che voi costruite”.
Don Luigi Giussani (in occasione dei vent’anni dell’Associazione Fraternità)
L’associazione Fraternità, nata il 24 febbraio 1984 da
un gruppo di famiglie guidate da don Mauro Inzoli,
ha accolto il suggerimento di don Giussani dato agli
esercizi della Fraternità (1983), di vivere la carità come
dimensione della vita in una forma semplice e alla portata
di ogni famiglia: spalancare la porta della propria casa al
bisogno dei minori in difficoltà.
Questo suggerimento, preso come giudizio di valore, ha
segnato la strada di alcune famiglie che, strette dall’amicizia fra loro, hanno desiderato darsi una
forma giuridicamente riconosciuta.
L’associazione Fraternità fonda la sua risposta al problema del disagio minorile utilizzando come
risorsa fondamentale la famiglia, sostenendola con mezzi adeguati nell’esperienza dell’affido.
La famiglia affidataria non è un ostacolo tra il
bambino e i suoi genitori
Come ci aiutiamo
anzi, vuole essere il luogo
✔ L’Associazione Fraternità accompagna le famiglie
dove è possibile tenere
nell’intero percorso dell’affido e non solo nel
momento iniziale dell’incontro con il bambino
insieme il dolore di una storia
✔
Favorisce i rapporti tra le diverse famiglie che
passata, la fatica del presente
fanno la medesima esperienza in una reale
e la possibilità di guardare con
corresponsabilità
speranza il futuro.
✔ Mette a disposizione operatori qualificati per i
L’esperienza maturata in questi
minori accolti e per i rapporti con i servizi sociali
ventisette anni ha reso possibile
✔ È particolarmente attenta ai rapporti tra famiglia
l’unità tra le famiglie e la stima
naturale e i figli affidati, favorendo l’obiettivo del
Novità
rientro del bambino nella propria famiglia
con
gli
operatori
dei
Servizi
Sociali.
2011
Via B. Terni, 14 - 26013 Crema (CR) - Tel. 0373 80756 - Fax 0373 80752
58
www.associazionefraternita.it
58
paura
Opere in prima linea
Non abbiate
Azioni di sviluppo delle persone: le responsabilità del management - 23 giugno 2009
Uomini e
Progetto finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
ai sensi della lett. f) della l. 383/2000 - Direttiva 2010
Non
Ogni giorno le realtà che operano nell’ambito sociale incontrano attraverso i
propri uomini “al fronte” persone in situazione di forte disagio. Talvolta esso è
talmente grande che ci si sente inadeguati, spaventati dalla condizione umana che
si presenta davanti: dipendenze, patologie psichiatriche, malattie, povertà estrema
e situazioni di abbandono sono i principali stati che provocano questo senso di
“paura”. Sono persone così determinate dalla propria situazione umana che è
doloroso affrontarle: i nostri uomini in “prima linea” fanno questa esperienza
quotidianamente.
abbiate
paura
Nel nostro popolo, invece, ci sono realtà esemplari in cui sono presenti uomini, che
vivono la propria vita come quella di tutti gli altri uomini ma che sono in grado di
vivere queste situazioni in modo originale e che con la loro Opera e testimonianza
è come se dicessero: “Non abbiate paura!”.
1) I TEAM
AZIONI
Uomini
Verranno costituiti nei territori tre team che svolgeranno il coordinamento
fattivo del progetto nelle diverse località coinvolte:
a) Team uomini al fronte.
b) Team “witness (testimoni).
c) Team accolti.
2) SPERIMENTAZIONE
La sperimentazione consisterà nello sviluppo sui territori coinvolti di forme
nuove di accoglienza. Saranno individuati tre ambiti di intervento all'interno
della lotta alla povertà e all'esclusione sociale, e saranno:
a) Ambito dell'incontro (sportello lavoro)
b) Ambito della terapia (comunità terapeutiche)
c) Ambito dell'inserimento nella vita attiva delle persone in situazione di disagio.
3) VALUTAZIONE DELL’EFFICACIA
4) COMUNICAZIONE
5) STABILIZZAZIONE DELLA RETE
Opere
prima
LUOGHI
I territori in cui si svolgerà il progetto saranno:
Sicilia (Siracusa; Catania; Castellammare del Golfo; Messina e Palermo)
Calabria (Reggio Calabria)
Puglia (Foggia; Casarano)
Abruzzo
Campania (Napoli)
Marche (Pesaro e San Benedetto del Tronto)
Centro Culturale
Emilia Romagna (Ferrara, Forlì, Rimini, Piacenza)
Umana Avventura
Veneto (Rovigo)
Liguria (Genova)
Centro Culturale
Piemonte
Umana 59
Avventura
59Lombardia (Milano, Brescia, Pavia)
Corso Giovecca 177 - 44100 Ferrara
Friuli (Udine)
cell. 329 3019641 Fax 0532 240773
linea
nea
Haiti. Photo courtesy by Chiara Mezzalira
Giovani studenti alla scuola per non udenti in Ntinda, Uganda. Photo courtesy by Brett Morton
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due lettere all’anno
e un sorriso per sempre!
Contattaci per avere altre informazioni
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Fondazione AVSI
tel. 0547 360811 - [email protected]
www.avsi.org sezione “Sostegno a distanza”
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Azioni di sviluppo delle persone: le responsabilità del management - 23 giugno 2009
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Seminari Tematici per le Organizzazioni Non Profit - La centralità della persona, il governo dell'opera
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Azioni di sviluppo delle persone: le responsabilità del management - 23 giugno 2009
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Seminari Tematici per le Organizzazioni Non Profit - La centralità della persona, il governo dell'opera
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CONSORZIO NAZIONALE
Azioni di sviluppo delle persone: le responsabilità del management - 23 giugno 2009
C O N
O P E R A
Servizi educativi
per l’infanzia e la famiglia
Con.Opera promuove azioni e strumenti operativi a sostegno
dell’infanzia e favorisce le politiche più adeguate alla realizzazione di un Welfare sociale e aziendale che risponda ai reali bisogni delle Famiglie. Opera a favore dello sviluppo imprenditoriale dei propri consorziati attraverso l’incremento della qualità dei
servizi socio-educativi, la formazione permanente del personale,
il consolidamento di partnership e relazioni tra territorio, imprese
e società civile, attraverso la promozione di una cultura attenta ai
bisogni dell’infanzia e della famiglia.
Con.Opera è nato nel 2005 in forma di cooperativa sociale, ha
sede legale a Firenze, sede operativa a Milano e tre sedi secondarie a Sassari, Foggia e
Udine. Opera, attraverso 15 cooperative sociali che hanno una pluriennale esperienza nei
servizi socio-educativi per la prima infanzia, in Lombardia, Toscana, Umbria, Marche, Emilia
Romagna, Puglia, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, oltre che nella Repubblica di San Marino.
I numeri
Servizi per l’Infanzia
presenti sul territorio nazionale
Bambini accolti
Personale educativo occupato
152
4.561
911
Il Consorzio Con.Opera gestisce le affiliazioni dei servizi prima infanzia nel Consorzio
Pan per gli associati a CDO Opere Sociali. Il Consorzio PAN, costituito dalle più grandi
centrali dell’imprenditoria sociale del Paese, tra cui Con.Opera, insieme a Banca Intesa
Sanpaolo, si propone di aumentare l’offerta di servizi all’infanzia di qualità su tutto il territorio nazionale offrendo ai propri affiliati:
Un Marchio di qualità riconosciuto a livello europeo
L’assistenza
alla progettazione e allo start up di servizi per la prima infanzia
L’
Finanziamenti agevolati per lo start up, la ristrutturazione dei locali e l’acquisto di
nuovi arredi
Finanziamenti per le famiglie che utilizzano i servizi Pan
Formazione gratuita per educatori e coordinatori
Accompagnamento all’applicazione del Marchio di qualità
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PER INFORMAZIONI:
Tel. 02/28970189
E-mail [email protected]
Sito Web www.conopera.it
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Seminari Tematici per le Organizzazioni Non Profit - La centralità della persona, il governo dell'opera
Il progetto “Open - Reti locali per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale” parte dal presupposto che
le problematiche relative al fenomeno dell’esclusione sociale e l’esistenza di situazioni personali e
familiari di povertà possano essere affrontate in modo efficace attraverso la condivisione dei bisogni delle
persone che vivono tali situazioni da parte della società civile.
Attraverso il progetto l’Associazione Santa Caterina da Siena intende sperimentare, nei territori di
attuazione, interventi specifici per sostenere ed aiutare le persone e le famiglie che si trovano a vivere
situazioni ambientali, sociali, economiche ed educative difficili, che non permettono loro di affrontare
con serenità gli aspetti del quotidiano più immediati.
OPEN
Reti locali per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale
Progetto finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
ai sensi della lett. f) della l. 383/2000 - Direttiva 2010
Attivita’
FASE 1:
- Costituzione del Comitato di Coordinamento del progetto
- Predisposizione del materiale di promozione locale del progetto
- Predisposizione degli strumenti di monitoraggio in itinere
e relativi alla fase 3 del progetto
- Preparazione delle attività delle reti Open previste
nelle fasi 2 e 3
Abruzzo:
Basilicata
Calabria:
Campania:
Emilia Romagna:
FASE 2:
- Promozione del progetto “Open”
- Monitoraggio delle risorse umane, professionali,
tecniche ed esperienziali delle reti locali “Open”
- Monitoraggio dei bisogni dei territori in relazione al fenomeno
della povertà
- Redazione della “Possibility’s Card” delle reti Locali “Open”
- Presentazioni pubbliche della “Possibility’s Card”
di ogni rete locale “Open”
Friuli Venezia Giulia:
Liguria:
Lombardia:
Marche:
Piemonte:
Puglia:
FASE 3:
- Apertura e sviluppo delle “Possibility’s Places”
- Realizzazione dei percorsi “Open”
- Sviluppo dei percorsi “Open”
- Il monitoraggio della sperimentazione a livello locale.
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Sedi
FASE 4:
Redazione del modello “Open”
- Promozione del modello “Open”.
- Progettazione interventi di sostenibilità futura del modello “Open”
Sicilia:
Toscana:
Veneto:
Teramo
Martinsicuro
Matera
Bernalda
Reggio Calabria
Napoli
Castelbolognese
Lugo
Faenza
Ferrara
Comacchio
Ostellato
Masi Torello
Mesola
Massafiscaglia
Forlì
Rimini
Bellaria Igea Marina
Udine
Gorizia
Genova
Milano
Brescia
Rodengo Saiano
Pavia
Trivolzio
Ascoli Piceno
S.Benedetto del Tronto
Grottammare
Pesaro
Torino
Casarano
Foggia
C/mmare del Golfo
Alcamo
Palermo
Catania
Messina
Patti
Milazzo
Siracusa
Noto
Monte San Savino
Cortona
Chioggia
Rovigo 66
Porto Viro
Adria
Azioni di sviluppo delle persone: le responsabilità del management - 23 giugno 2009
SERVIRE
L’OPERA
L’idea del progetto “SERVIRE
L’OPERA” è quella di rendere
consapevoli, attraverso azioni di
formazione formale e informale, le
sedi regionali, provinciali e tutti i
soci, dell’importanza di dotarsi di
strumenti validi e competenze
tecniche per una corretta gestione
dei fondi di cui si fruisce.
Progetto finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
ai sensi della lett. d) della l. 383/2000 Direttiva 2010
Il progetto nasce per informare e
agevolare
le
organizzazioni
associative del Terzo Settore per la
tenuta di un corretto assetto amministrativo, per poter continuare a
fruire delle agevolazioni specifiche
per il settore no profit.
La Federazione si pone come
soggetto “facilitatore” che asseconda, mediante una dinamica
sussidiaria, un metodo di condivisione del lavoro, di cammino
comune, di correzione e di aiuto
vicendevole per lo sviluppo
dell’esperienza
e la crescita
umana di chi fa i CdS.
Il progetto perciò si propone
l'obiettivo di dare spessore alle
competenze degli operatori delle
sedi della Federazione e favorire
lo scambio d’esperienze per incentivare la crescita delle organizzazioni, la diffusione della cultura
della solidarietà, dello scambio,
del confronto, della cooperazione,
della condivisione e dell’impegno
sociale.
PER INFO E CONTATTI:
Federazione CdS
Presidenza e sede amministrativa
Via Fabbri, 414 - 44100 Ferrara
Tel. 39.0532.742582 - Fax 39.0532.746483
Mail [email protected]
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www.federazionecds.org
Seminari Tematici per le Organizzazioni Non Profit - La centralità della persona, il governo dell'opera
Ufficiali
della
bellezza
Progetto finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
ai sensi della lett. f) della l. 383/2000 - Direttiva 2010
Il progetto Ufficiali della bellzza nasce a partire dalla “Mostra del buon governo” visitabile al
Meeting di Rimini nell’ Agosto 2010. Il percorso ripropone gli affreschi del Buon Governo del
Palazzo Pubblico di Siena, opera del pittore Ambrogio Lorenzetti. Alcuni dei pannelli delle
mostra lanciano una grande sfida per la società e le città contemporanee, ovvero quella del
bene comune.
La Siena del Medioevo era un esempio lampante di tensione al bene comune. Anzi, per l’uomo
medioevale non esisteva alcuna differenza tra il bene comune ed il Comune. Prova ne è il fatto
che nelle città di quel tempo esisteva proprio la cosiddetta figura dell’ Ufficiale della bellezza,
ovvero colui che si occupava della cura in senso generale dei quartieri, delle vie e degli spazi
comuni: essi pulivano le strade, manutenevano le facciate degli edifici, abbellivano le vie con
minime decorazioni floreali e naturali, ecc.
L’esigenza rilevata è quella di avere figure simili anche nelle città contemporanee.
Il progetto esprime, già nel suo titolo, l’intento
fondamentale di provocare un cambio di mentalità
nel modo di concepire la realtà che ci circonda ed il
mondo intero, passando da una visione individualistica ad una tesa verso la ricerca del bene comune,
in modo tale che gli abitanti della città non siano
semplicemente una realtà passivamente governata,
ma una realtà viva e feconda che può trasmettere e
rafforzare direttamente e indirettamente
i valori e i principi delle persone
che la governano.
FASI DI AZIONE
1) Pianificazione e promozione
2) Accoglienza e formazione
3) Sperimentazione
4) Monitoraggio e valutazione
5) Consolidamento e diffusione
Le azioni saranno realizzate
nelle seguenti Regioni d’Italia:
Emilia Romagna, Sicilia, Puglia,
Veneto, Marche, Lombardia,
Friuli Venezia Giulia, Toscana,
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Campania,
Liguria, Lazio.
OPUSFACERE
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Azioni di sviluppo delle persone: le responsabilità del management - 23 giugno 2009
Progetto finanziata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
ai sensi della lett. d) della l. 383/2000 - Direttiva 2010
L’Associazione Santa Caterina da Siena, presente su tutto il territorio nazionale, ha maturato in questi anni, soprattutto a livello di sedi regionali, la consapevolezza dell’importanza di uno strumento di comunicazione, quale il Bilancio sociale che si presenta come una “storia fatta di passione e competenza, di professionalità e volontariato, di sogni, progetti e difficoltà”.
Nella mission che gli è propria e nei principi che ne guidano l’azione, l’Associazione Santa Caterina da Siena è vicino alle persone. In risposta a tale mission, il bilancio sociale si presenta come una narrazione di una storia e di un percorso. Le metodologie di intervento avverranno, secondo il metodo
- dell’incontro formativo in aule e attraverso visite guidate delle “opere” su tutto il territorio nazionale.
- dei seminari, per raccogliere i principali rappresentanti degli associati e affrontare insieme i principali argomenti dell’azione formativa.
- di workshop, che permettono di valutare insieme quanto svolto e appreso durante l’azione formativa.
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Il progetto attraverso grandi eventi promozionali vuole informare e promuovere quanto si intende realizzare. La promozione e la comunicazione avverrà attraverso la diffusione dei propri periodici (newsletter, volantini) indirizzati a circa 50.000 adulti e attraverso la realizzazione di tre grandi eventi:
1) Evento promozionale del progetto formativo 2) Evento di comunicazione (Meeting di Rimini – Agosto)
3) Evento di chiusura con la presentazione della bozza del bilancio sociale dell’associazione “Santa Caterina da Siena” O
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REGIONI COINVOLTE
Lombardia Veneto Friuli Venezia Giulia
Emilia Romagna Toscana O
Marche Campania
Puglia Calabria Sicilia Basilicata
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Seminari Tematici per le Organizzazioni Non Profit - La centralità della persona, il governo dell'opera
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Le relazioni tra i soggetti che governano l'impresa - 15 febbraio 2011
15 febbraio 2011
Le relazioni tra i soggetti che governano l’impresa
Intervengono:
Andrea Giussani
Vicepresidente della Fondazione Banco Alimentare onlus
Stefano Gheno
Docente di Psicologia sociale, Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia
Moderatore:
Monica Poletto
Presidente di CDO Opere Sociali
Monica Poletto
Il tema di oggi è “Le relazioni tra i soggetti che governano l’impresa”.
Abbiamo due relatori bravissimi: alla mia destra Andrea Giussani, che da
sei mesi è vicepresidente della Fondazione Banco Alimentare Onlus, arrivando da una carriera manageriale molto importante.
Sarà interessante scoprire cosa nasce dall’incontro tra un’esperienza manageriale e una fondazione importante e strutturata come quella del Banco
Alimentare. Lui ci parlerà soprattutto del tipo di lavoro che stanno facendo,
un lavoro di carattere organizzativo e di ridefinizione della governance. È
molto importante osservare il metodo che stanno seguendo. Infatti non stiamo
proponendo (mai lo proponiamo, tanto meno in questi seminari) un modello
da imitare, ma piuttosto un metodo, che ognuno può paragonare con quello
utilizzato nella propria organizzazione, e degli strumenti.
Alla mia sinistra abbiamo Stefano Gheno che, oltre ad essere docente di
Comportamento Organizzativo nella Scuola di Impresa di CDO, è il responsabile della formazione della CDO Opere Sociali. Lui interverrà precisando il
tema e reagendo rispetto all’intervento di Andrea.
Passo immediatamente la parola ad Andrea; dopo il suo intervento ci sarà
un brevissimo break e poi proseguiremo con l’intervento di Stefano e uno
spazio per le domande, come al solito.
Andrea Giussani
Non so quanto “importante” sia stata la mia carriera, ma certo lo è stata
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
per me, nel senso che l’utilità di aver passato degli anni in aziende complesse
fa sì che inevitabilmente io sia stato permeato da una serie di esperienze e
verifiche sull’utilità e l’utilizzo di vari modelli organizzativi e di modalità con
cui tenere le persone insieme, con un link rispetto alle organizzazioni, agli
obiettivi comuni e a motivazioni diverse.
Cosa posso dire rispetto a questo traumatico cambio di vasca in cui sono
stato immerso? Dopo 38 anni di azienda, fare il volontario in una onlus produce il tentativo inevitabile e automatico di ri-applicare alcune delle esperienze provate in un luogo diverso, tenendo però presente il contesto diverso, gli
obiettivi, le storie, le persone.
La breve storia che vi racconto adesso tenta di dire in che modo secondo
me l’esperienza che stiamo facendo in questi mesi al Banco Alimentare (che
durerà sicuramente qualche anno) può trarre valore da applicazioni che il
mondo dice non abbiano niente a che fare con la conduzione di una onlus.
Invece, con i dovuti aggiustamenti e le dovute diverse letture della realtà,
molto si può imparare, reciprocamente.
Coglierò l’occasione per illustrarvi, nei primi minuti, un spot sul Banco
Alimentare, che vi prego di considerare non solo come una utile e sintetica
illustrazione di quello che è (senza dare per scontato che tutti sappiano cosa
sia), ma anche come l’illustrazione di alcune caratteristiche del Banco poco
note e il perché di alcune scelte di governance in corso.
E qui dico la prima cosa che ha l’aria di una definizione, ma io l’ho scoperta facendo: le governance non sono dettate da schemi, da statuti, da procedure nate prima, ma hanno il senso di essere prodotte dal bisogno e dalla
necessità della realtà organizzata che si ha davanti, dalle persone, dalla storia,
dalle condizioni numeriche di complessità, di prodotto, di servizio, di rapporto col mercato di riferimento e con gli interlocutori. Non ha cioè senso, come
diceva Monica prima, scimmiottare quello che qualcuno fa per applicarlo
nella propria organizzazione, ma ha senso coglierne le capacità di lettura
delle dinamiche, dei meccanismi, per poi magari riprodurre alcune pratiche
buone.
Quello che mi ha sorpreso di più in questi primi mesi, dovendo girare per
l’Italia e nei mondi vicini al Banco Alimentare, è scoprire che apparentemente tutti sanno tutto del Banco Alimentare, perché è una delle esperienze e dei
meccanismi onlus più noti, ma in realtà anche i più vicini non sanno esattamente che cosa realmente sia; sia dal punto di vista dello scopo che del funzionamento, non è del tutto chiara la reale dimensione e la mission. La gran
parte degli interlocutori infatti, anche dei mondi vicini, pensa che il Banco sia
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Le relazioni tra i soggetti che governano l'impresa - 15 febbraio 2011
la Colletta di fine novembre17 che, invece, ne è solo una parte.
Il Banco Alimentare nasce dall’incontro tra don Giussani e Danilo Fossati;
lo leggerei più dal punto di vista del senso che dell’evento: un’esperienza
industriale e imprenditoriale che si pone delle domande sul senso da dare a
ciò che all’industria non serve più o ha finito il suo ciclo di mercato e, dall’altra parte, una esperienza e una pressione educativa nei confronti dell’utilizzo
delle proprie risorse e dell’attenzione alle persone bisognose in forme di intelligente risorsa di volontariato. L’insieme di queste due cose fanno il Banco
nell’89, che diventa nel ’95 una rete di 20 Banchi. Il Banco lancia nel ’97 la
Colletta Alimentare; tenete conto che, mentre i Banchi sono un meccanismo,
un processo, un tipo di organizzazione presente in tutto il mondo, la Colletta
no, è nata ed è attuata inizialmente quasi solo in Italia.
La costituzione della Fondazione avviene nel ’99.
Un altro passo importante per noi, circa 5 anni fa, è la promulgazione della
Legge del Buon Samaritano,18 che regola il recupero di tutti gli alimenti cotti
o freschi. È una normativa che esiste in Italia e che è quasi unica in Europa.
Una volta tanto siamo stati i più bravi in Europa a leggere una necessità! Prima
infatti era vietato usare per il recupero qualsiasi alimento fresco o cotto.
Nel 2009 abbiamo fatto una grossa ricerca sulla povertà in Italia, che ci ha
permesso di dire una parola scientifica su questo. E infine quest’anno è l’Anno europeo della povertà e dell’esclusione sociale, che ci ha permesso un salto
di visibilità prima inimmaginabile.
La mission, citata nel nostro Statuto, è un rifarsi alla tradizione cristiana,
alla sussidiarietà e alla condivisione dei bisogni; ma il processo operativo è il
recupero di eccedenze di produzione, che viene sia dalla produzione che
dalla distribuzione e adesso anche dalla ristorazione, tramite il Servizio
Siticibo, sostenuto dalla Legge del Buon Samaritano, e la ridistribuzione a enti
che si occupano di poveri ed emarginati. E in più l’organizzazione della
Colletta Alimentare.
Sintetizzo cosa dice lo Statuto e cosa facciamo: ci sono alcuni aspetti di
fondatività, cioè un elemento di fondo che riconosce l’importanza e l’essenzialità del concetto di dono, condividere il bisogno vuol dire quindi condividere il senso della vita; poi un aspetto di sussidiarietà: noi non incontriamo
direttamente il povero, ma permettiamo la miglior vita e il miglior funzionamento di strutture caritative sul territorio che sono invece vicine al povero.
Siamo quindi un tipico esempio di sussidiarietà; c’è poi un aspetto economi17 Si tratta della Giornata Nazionale della Colletta Alimentare che si tiene ormai da 15
anni l’ultimo sabato di novembre.
18 Legge n 155, entrata in vigore il 16/07/2003.
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
co, perché quello che si recupera è valore altrimenti perso, cioè tutti gli alimenti che recuperiamo sarebbero buttati via; vi è poi un effetto conseguente
di miglioramento ambientale per via delle minori emissioni di CO2; infine
un aspetto culturale e educativo: molte infatti delle caratterizzazioni operative portano in sé, addirittura in maniera esplicita (come vi racconterò per
Siticibo), aspetti educativi che avvicinano adulti, scuole, organizzazioni alimentari ed anche ragazzi.
Per darvi le dimensioni dell’opera, gli alimenti raccolti (i numeri precisi
sono intorno a 76.000 tonnellate nel 2010) in valori stimati sono di 220 milioni di euro: vuol dire che, in un anno, alimenti per circa 220 milioni di euro
sarebbero finiti nella pattumiera e invece finiscono nelle case, nelle mense di
persone che ne hanno bisogno. Capite, dunque, perché ogni tanto ci viene
da dire che c’è chi parla del povero e chi invece lavora per il povero: non è
uno slogan ma è la realtà.
La struttura è oggi fatta da 21 onlus presenti in forme analoghe sul territorio nazionale (non solo regionali, perché alcune regioni ne hanno più di una).
Ci sono 1250 volontari che lavorano continuativamente, non nella Colletta ma
nella vita del Banco di tutto l’anno. Alcuni sono a tempo pieno, altri a tempo
parziale, 86 dipendenti e un certo numero di mezzi per il trasporto e le movimentazioni di magazzino. Nessuno ha mai fatto un calcolo serio dei costi di
struttura rispetto all’attività di fondo, al core business del Banco, ma io sono
certo che ben poche opere possano paragonare un così basso costo della
gestione rispetto al valore ottenuto.
Ci sono più di 8.000 strutture caritative registrate e convenzionate, dopo
una accurata selezione, non in base alla finalità ma al funzionamento, perché
devono rispondere a una serie di caratteristiche che ci permettono di consegnare gli alimenti che devono poi essere trattati rispondendo ai criteri fissati
dalla legge e alle norme di igiene sanitaria e di gestione fiscale.
Le persone assistite si stimano essere circa un milione e mezzo, che sui 3.2
milioni di poveri stimati in Italia ne costituiscono quasi la metà. Non sono
assistiti in maniera totalizzante: il Banco ridistribuisce agli Enti ciò che riceve,
quindi non può decidere a priori che cosa ridistribuire.
Due parole sulla Colletta che, anche dal punto di vista del pubblico, è
l’evento più deflagrante in termini di numeri, perché in un giorno si riesce a
raccoglie circa il 12% degli alimenti di tutto l’anno. E non solo: non si raccolgono eccedenze ma alimenti donati. Sono coinvolti quasi 9.000 supermercati
e ipermercati; circa 110.000 volontari provenienti da tutte le realtà che durante l’anno fanno carità (alpini, scout, gruppi parrocchiali, san Vincenzo…), che
ormai tradizionalmente si ritrovano a fare questa cosa insieme, cogliendone e
condividendone le motivazioni.
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Le relazioni tra i soggetti che governano l'impresa - 15 febbraio 2011
Il valore stimato di questa raccolta è di circa 30 milioni di euro di donazione dai consumatori e non di recupero, 9.500 tonnellate. Si cresce ogni
anno, anche in anni di crisi e la crescita è funzione sia del gesto delle persone che continuano a donare la spesa che dell’aumento dei punti di vendita.
In certe zone si verifica un surplus di volontari e quindi li riutilizziamo nei
magazzini o in altro. Altrove il numero dei supermercati disponibili è superiore alla possibilità di avere in quei luoghi dei volontari. Dovremmo creare dei
pullman per portare i volontari nei luoghi dei supermercati che li richiedono!
Sono situazioni paradossali. A Roma abbiamo dei quartieri lontani dove ci
sono dei supermercati che vorrebbero fare la Colletta ma non ci sono volontari e altri quartieri in cui accade il contrario. E’ un evento di popolo che
coinvolge molta emozione e grandissima partecipazione.
Siticibo è la penultima nata. È una importante iniziativa, con cui si raccolgono le eccedenze alimentari cotte e non servite: non si va sul tavolo della
mensa a recuperare il piatto, ma si recupera la teglia rimasta in cucina, cotta
e non distribuita; e poi i prodotti freschi dalle mense, dagli ipermercati e
supermercati. Vengono raccolti nella giornata in cui si rileva l’eccedenza, attraverso accordi; quindi è un’operazione quotidiana e di norma nella stessa
giornata, dopo un’operazione di abbattimento a freddo e la redistribuzione
con camioncini attrezzati con celle a enti religiosi, caritativi, mense dei poveri e associazioni simili. Accade a Milano, Varese, Como, Pavia, Torino,
Bolzano, Firenze, Roma: come capite, lo si può fare dove c’è una forte densità. L’ultima recente ed importante acquisizione, di novembre, è la grande
mensa di Mirafiori, che da tre mesi dà tutte le sue eccedenze a enti religiosi
della zona. In alcuni casi nostri sono i camioncini, li potete vedere in giro con
la scritta Siticibo, in altri casi sono gli stessi Enti che passano a ritirare queste
eccedenze dai donatori.
Dicevo dell’aspetto educativo, nel recupero del cotto e del fresco, cioè nel
segmento del consumo finale, è nata una catena di educazione, ad esempio
nelle scuole, sull’attenzione a non sprecare ciò che arriva in tavola; programmi di inserimento e di presenza nelle scuole che spiegano cosa vuol dire
valorizzare il cibo. Una delle idee che sono nate, anche se per ora ha un
scarsa possibilità di essere implementata, è quella di educare anche alla minimizzazione dello spreco in casa, attraverso messaggi ed azioni educative
anche per le famiglie.
È stato pubblicato e presentato al Meeting di Rimini un libro per ragazzi,
che racconta una idea di un recupero di cibo; si chiama Le giornaliste di moda
non mangiano il Tiramisu, divertente e molto leggibile. Quest’anno faremo
un giro in tutte le librerie di un’importante casa editrice per presentare il libro
e proporlo più ampiamente nelle scuole.
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Detto della storia, veniamo al momento che stiamo vivendo, che ci spiega
il perché di una certa governance.
Il Banco Alimentare ha vissuto un 2010 di grande efficacia, visibilità e
sfida. Questo perché l’Anno della povertà ci ha coinvolto in iniziative del
Ministero, per cui il Banco Alimentare è stato scelto come il segno più visibile di un’opera per la povertà; in più, questo ci ha aperto canali mediatici, su
giornali o in TV, che prima non avevamo. Questo ovviamente scatena un’attenzione e il moltiplicarsi di proposte di progetti comuni. Nelle emergenze,
alluvioni, crolli, nell’esperienza de L’Aquila e recentemente nel Veneto, la
Protezione Civile prontamente chiama noi. Chiama il Banco Alimentare non
per ottenere ricovero per chi ha perso la casa per l’alluvione, ma per il problema alimentare, perché trova nel Banco regionale una forma strutturata e
logisticamente adeguata per gestire la grande quantità di derrate che arrivano
in aiuto e che generalmente la Protezione Civile è capace di raccogliere ma
non altrettanto capace di distribuire.
Ci sono poi privati donatori e banche che, fatto l’incontro e colto il segno
di questa attività, si propongono per dei progetti. Progetti vuol dire lavoro,
perché non significa solo dare i soldi e poi usarli come pare: il progetto ha
sempre al centro un’idea, una forma operativa e quindi un lavoro da fare.
Tutto questo è sostenuto da un collegamento con la CDO in giro per l’Italia
che sicuramente produce una possibilità di collaborazione che una vita o
un’esperienza fatta da soli non garantirebbe.
Quindi che cosa ci aspetta nel 2011?
Una domanda diffusa nasce dal fatto che la povertà da cibo (quindi non
la povertà da città, dal fatto che non hai certi servizi) è riemersa in questi due
ultimi anni in modo prepotente. Il 2011 è stato proclamato Anno europeo per
il volontariato e quindi è l’occasione per essere ancora in prima fila; è un anno
dedicato alla lotta contro lo spreco, che è un tema molto attuale. Spesso leggete sui giornali sparate sulle tonnellate di pane che viene sprecato, sui quintali di cibo che i ristoranti buttano… tutte cose vere, ma usate in termini
giornalistici, quasi a colpevolizzare la società che spreca (ed in parte è pure
vero), ma si dedicano le proprie energie più a colpevolizzare che non a vedere come si possa fare diversamente. Noi sosteniamo che, almeno per certi
versi, non nella sua totalità, la produzione delle eccedenze è un fatto connaturato al tentativo di fare le cose meglio, avere più assortimento, avere più
date ristrette, e questo inevitabilmente produce degli sprechi, che non saranno mai eliminabili nel moderno ciclo industriale.
E poi una diffusione di un’etica di impresa, il tentativo cioè di essere visibili non solo producendo un buon telefonino o una buona bevanda, ma
anche attraverso una presenza sociale.
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Le relazioni tra i soggetti che governano l'impresa - 15 febbraio 2011
E infine, in lontananza (ma neanche poi tanto) c’è l’Expo che, essendo
dedicato a temi alimentari, ci vede coinvolti in progetti che nei prossimi anni
prenderanno vita.
La situazione ci dice che dobbiamo interrogarci su come siamo strutturati.
Ci siamo chiesti, anche con un’analisi un po’ brutale e sintetica: la nostra
struttura di risorse e di organizzazione è sicuramente adeguata, visto che ce
l’abbiamo fatta fino ad oggi, ma rischia di essere insufficiente per un’eventuale cambio di marcia. Possiamo continuare ad essere organizzati così o serve
altro? Di quali risorse abbiamo necessità? La qualità delle persone e delle
risorse in generale è molto professionale, molto buona, ma vive di un’esperienza totalmente autoreferenziale. La maggior parte delle persone che lavorano stabilmente nel Banco, infatti, è nata nel Banco e quindi tende a rifare e
a riprodurre le cose che ha sempre fatto, come in tutte le organizzazioni,
come a casa nostra.
Quindi la governance, l’organizzazione, vive anche di una forte disomogeneità, perché tutti i 21 Banchi sono nati da un desiderio e da una esperienza
locale, non da una missione andata, ad esempio, in Calabria, per riprodurre
lo stesso Banco che si faceva a Milano. Un gruppo di persone, in Calabria, in
Sardegna, in Sicilia, ha deciso, magari avendo incontrato qualcuno che faceva
il Banco altrove, di fare un Banco là dove abitano. Esso si è poi costituito
come onlus che si è collegata alla rete della Fondazione Banco Alimentare.
Capite, quindi, che molte delle caratteristiche organizzative presenti sul territorio dipendono da come è nato lì il Banco, se da un gruppo di parrocchia,
di oratorio, di volontari, da un gruppo di persone della CDO o semplicemente da un gruppo di amici. Ogni realtà, insomma, ha la sua genesi. Questo
produce una grande generosità e aderenza al bisogno locale ma anche un
grave rischio di non crescita, perché riproduce questa esperienza e fa più
fatica a collegarsi ad una innovazione continua. Ed infine deve svilupparsi
sempre una dialettica tra l’esigenza locale di rispondere al bisogno specifico
e l’esigenza di rifarsi ad alcune caratteristiche fondative che fanno l’identità
del Banco Alimentare e la sua portata educativa.
Faccio un esempio. Per rispondere al bisogno, uno potrebbe dire: visto
che in questo luogo specifico non ci sono Enti Caritativi adeguati, non ci sono
Banchi di Solidarietà, perché non distribuiamo noi direttamente gli alimenti ai
poveri? Perché non si può aprire direttamente al Banco uno sportello per
distribuire, senza passare attraverso gli Enti? Apparirebbe idea del tutto ragionevole. Quando io ho cominciato a fare il volontario al Banco, mia moglie mi
ha proprio detto questa cosa: «Non capisco perché evitiate di dare il cibo
direttamente ai poveri; in fondo togliete loro una opportunità».
Questa è una scelta – non un giudizio morale su che cosa sia buono e che
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
cosa no - di identità: quella di sostenere enti, quindi di sostenere la presenza
sul territorio di chi può occuparsi di rispondere al bisogno in modo continuo
e strutturato, di chi conosce la realtà specifica. Noi non lo potremmo fare, non
siamo in grado. Dunque questo è un forte elemento di identità che abbiamo
mantenuto. Di conseguenza la Fondazione Banco Alimentare Onlus, impedisce che qualsiasi Banco tra i 21 operi in questa modalità diretta. Era naturalmente solo un esempio. Noi vogliamo che si crei una struttura ideale di
Banchi sul territorio: talvolta questo approccio sviluppa qualche limitazione e
difficoltà al desiderio buono, ma è fondamentale all’identità. E come questo
caso ce ne sono altri, magari non sulla questione della sussidiarietà, ma su
altri aspetti di scelte organizzative e valoriali, dove la questione è sempre la
stessa, giocata tra l’affermazione di un bisogno rilevato localmente che genera la richiesta “di fare le cose in modo diverso”. E nasce la dialettica sull’importanza di preservare il valore fondativo.
Che cosa allora vogliamo fare per rispondere a queste sfide? Dare un’attenzione a una solida e motivata governance, cioè un solido metodo di governo della Rete e della Fondazione. Solido e motivato: vuol dire investire tempo,
attenzione, risorse, obiettivi e strumenti per il governo, non solo per il funzionamento operativo. Investire tempo per creare sempre più una cultura di rete,
di team, per tutti i ruoli della rete. Quindi le persone che guidano le 21 onlus
devono fare parte di un percorso comune. E la crescita della professionalità
va portata avanti con la formazione e con strumenti comuni, non solo con la
buona volontà.
Cito velocemente come abbiamo tratteggiato (non è un mansionario) il
ruolo del presidente e del direttivo delle onlus e della Fondazione, per darvi
un suggerimento e una traccia a cui ci si possa riferire per la figura del
presidente. Attenzione, però. Questa è una traccia che si sviluppa nel
Banco; non voglio affermare che ogni presidente di ogni onlus debba essere così!
Il presidente decide quali sono le risorse, i prodotti, gli strumenti, le tecnologie adeguate. Quindi ha un incarico di decisione, non di sola rappresentanza. Sceglie le risorse chiave, non necessariamente tutte ma quelle chiave;
vigila sullo sviluppo della propria organizzazione; individua le deleghe quando sono necessarie. Se, per esempio, in un Banco complesso la ricerca di
fondi deve esser portata avanti da più persone, delega alcuni componenti del
Consiglio a fare fund raising; c’è un aspetto organizzativo importante, un
progetto: delega qualcuno a fare questo. Non è un meccanismo obbligatorio,
ma può essere utile nella divisione delle responsabilità. Ed infine prende cura
delle minacce economiche, sociali e normative che si sviluppano intorno alla
vita della onlus per garantire il fatto di non essere colti di sorpresa per la
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Le relazioni tra i soggetti che governano l'impresa - 15 febbraio 2011
mancanza di fondi o per normative nuove che vengano ad attraversare la vita
della Associazione.
Il direttivo deve guidare, non gestire, come ha detto Bernhard Scholz nel
primo intervento in questo corso.19 È un luogo di conoscenza: quindi noi
vorremmo chiedere a chi partecipa al Consiglio di conoscere l’attività del
Banco, non di essere seduto come un silente osservatore che ogni tanto dà il
suo contributo ma di conoscere ciò di cui si occupa. È un luogo di giudizio,
di valutazione e di condivisione del lavoro, non un luogo notarile. Quindi il
direttivo aiuta il presidente in tutte le sue mansioni.
Capite dunque che una persona che sieda in un direttivo di un Banco
Alimentare, per quanto malfermo, e lo faccia con buona volontà ma non
implicato in questa modalità, non lo farà mai adeguatamente e non sarà mai
in grado di rispondervi, se non stando dentro a questa proposta, a quello che
la realtà gli chiede. Chiediamo quindi uno sforzo a tutti i volontari, presidenti e consiglieri, non tanto di tempo (certo anche di questo), ma di adesione a
una presenza e partecipazione che non è formale, bensì sostanziale.
Passo ora in rassegna una serie di azioni che noi stiamo intraprendendo,
alcune sono già partite, altre sono nella fase di progetto. Vi prego di annotarle o di considerarle prevalentemente in relazione a quanto sta accadendo a
noi, non sono cioè necessariamente e immediatamente utili e fattibili in tutte
le realtà.
Abbiamo provato a organizzarci tenendo conto delle mille richieste di
aiuto, intervento, progetto, con due orizzonti temporali diversi, garantendo,
sia nella Fondazione sia all’interno dei singoli Banchi, due riferimenti di
responsabilità, se si tratta di breve termine o di medio-lungo. Ad esempio, se
si parla della Fondazione io tendo a occuparmi (e ovviamente devo imparare
essendo qui solo da sei mesi) sempre di più di cose che hanno l’occhio più
lungo, mentre Marco Lucchini, che è il direttore generale, si occupa più di
cose che hanno una cadenza nel primo o nei primi due anni.
Abbiamo lanciato una sfida ai direttivi, quindi ai singoli Banchi, di occuparsi non solo della gestione quotidiana, ma di guardare più avanti. Una delle
domande caratteristiche dei Banchi ad esempio è: «Il magazzino è sufficiente?».
Perché più è piccolo meno costa, ma più è grande più posso accogliere eccedenze alimentari e quindi essere attivo nel cercarle. Io non so però quante
donazioni e quante richieste da enti avrò. Questa capacità, dunque, di pianificare quando mi viene offerto un magazzino dal benefattore o dalla parrocchia, non è solo un accaparrarsi la struttura, ma un pensare in avanti i prossimi obiettivi e un’ipotesi sul loro raggiungimento. Noi non siamo abituati a
19 Cfr. qui, p. 20.
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
lavorare per obiettivi, è un fastidio: «Perché devo fissare quanti enti devo
reclutare o accogliere?». «Perché devo sapere prima se avrò più o meno volontari? Perché devo dire in anticipo se avrò bisogno di soldi o meno? Se arrivano, arrivano!». Bene: per questa dimensione di opera, il Banco Alimentare di
oggi, non possiamo permetterci di procedere in questo modo, non possiamo
lasciare al caso, alla provvidenza temi del genere. Quindi ci dobbiamo dare
degli obiettivi.
Faccio un esempio di tipico sviluppo ideale delle attività: ci sono 30 enti
in più che ci chiedono aiuto. Noi li vagliamo e poi ci poniamo l’obiettivo di
acquisirli. Ma abbiamo le derrate? Se non le abbiamo, andiamo da produttori
o distributori locali a cercare di ottenere eccedenze o viceversa. Tutto ciò deve
essere programmato. E se poi non troviamo gli alimenti da chi pensavamo di
riceverli? Bene, mi adopererò per trovarne altri. Scusate l’analogia, che potrebbe apparire stridente: se uno non riesce a vendere con il suo camioncino gli
yogurt che ha perché i minimarket riducono gli ordini o hanno chiuso, che
cosa fa? Dice: «Che sfortuna, non me li hanno comprati!»? No, va a cercarne di
altri. Cioè: metto in atto una serie di azioni, intenti, conoscenze, spinte, per
ottenere ciò che mi sono prefissato. Questo significa lavorare per obiettivi.
Certo, non si fa da oggi a domani, bisogna abituarsi, avere tempo, risorse,
metodologia. Questo stiamo cercando di fare. È per questo che da due anni
chiediamo a tutti, direttori e presidenti dei Banchi, di far conoscere gli obiettivi, lavoriamo con loro sugli obiettivi, per definire meglio quali sono raggiungibili e quali sono pure speranze.
Puntiamo ad una reale attuazione del processo di pianificazione e budget:
ogni onlus ha un suo budget, un suo bilancio ed è responsabile. Quindi noi
della Fondazione potremmo dire: «Cavoli vostri!». Ma non è così: la Fondazione
garantisce l’intervento presso tutti i Banchi in caso di difficoltà, pretende però
che siano fatti dei budget leggibili. Noi non facciamo un bilancio consolidato,
facciamo semplicemente una raccolta informativa degli obiettivi e dei budget
di tutti i Banchi, con fatica, per poter anche noi prevenire e sostenere ciò che
ci sembra meno sostenibile.
Vi è uno sviluppo di servizio della Fondazione verso le onlus, verso i vari
Banchi del territorio: questo accade sempre di più negli ultimi mesi e accadrà
ancora di più. Quest’anno viene data una maggiore autonomia e un maggior
servizio degli esperti che si occupano di macrologistica, di micrologistica
(Siticibo), di approvvigionamenti, di immagine e comunicazione, di fund raising e di aspetti organizzativi di scelta delle risorse. La Fondazione dovrebbe
diventare ed essere percepita sempre di più come un centro di servizi a disposizione delle singole realtà che sono autonome e libere. Per esempio, bisogna
scegliere il nuovo capo magazzino: noi abbiamo le competenze per aiutare il
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Le relazioni tra i soggetti che governano l'impresa - 15 febbraio 2011
Banco regionale a fare la scelta che è di responsabilità sua, anche perché le
conseguenze della buona o cattiva scelta restano in capo ad esso.
Nuovi supporti: quindi anche lo sviluppo in casa di una capacità che prima
ritenevamo inutile, eccessiva, ridondante, per esempio di servizio stampa: la
raccolta e la distribuzione delle informazioni che ci riguardano, e anche delle
disinformazioni. Abbiamo lanciato (e questa cosa riguarderà tutto l’anno) una
rivisitazione del marchio che ha la sua storia, i suoi onori, la sua gloria, ma
che ormai appare a tutti fuori dal tempo, sia per le caratteristiche di visibilità,
sia perché non ha del tutto senso: la società in cui siamo è la società che
ricorda il “baffetto” di una nota marca di articoli sporitvi e non può trovarsi
davanti il marchio del Banco, che pure è una entità importante, che appare
quasi come un romanzo! Stiamo, dunque, ripensando il tipo di immagine, il
tipo di presenza sui media, il tipo di comunicazione da fare al mondo profit
e non profit.
Comunicazione, stampa: la stampa a noi serve per essere riconosciuti, ma
è anche uno strumento di attacco che subiamo di continuo. Vi faccio un
esempio. L’espressione “Banco Alimentare” è ormai di uso comune. Molti
usano questa parola non per dire la Fondazione BA Onlus, quella che ha oggi
come logo la formichina, ma con l’espressione indicano genericamente “un
luogo dove si distribuiscono alimenti”. Ora, se questo da una parte è un motivo di vanto, (noi diciamo comunemente “autogrill”: non diciamo che andiamo
al My chef, ma all’Autogrill, nome diventato di uso comune), siamo consapevoli che esso vada comunque difeso nella sua originalità. Così siamo quotidianamente bersagliati da segnalazioni sul territorio di enti che, alcuni in
buona fede altri proprio no, utilizzano il Banco Alimentare come schermo e
specchietto per allodole. Vi segnalo l’ultima di settimana scorsa, quindi in
febbraio 2011, un caso veramente bello. Compare in una provincia di centro
Italia, un volantino e locandine ai muri con la nostra immagine della Giornata
della Colletta di novembre 2010, l’anno scorso, con il tradizionale sacchetto
giallo, la scritta verde, la formichina… con scritto anche “27 novembre 2010”
(quindi senza neanche la cura di cambiare la data!) e, sotto, l’annuncio di una
raccolta di eccedenze alimentari da negozi e supermercati… per animali!
Quindi, sabato scorso si è svolta una colletta, usando l’immagine della Colletta
del Banco di novembre, da parte di un gruppo di protezione degli animali. È
un piccolo esempio, ma così ce ne è a frotte.
Delle risorse umane ho parlato già prima, come possibilità per i Banchi
regionali di avere a disposizione chi aiuta a scegliere professionalmente non
i volontari, che poco si scelgono (ma che magari non si sa a che attività dedicare), quanto i dipendenti.
L’altra azione è una spinta alla valorizzazione delle capacità che noi rico81
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
nosciamo nella Rete. Facciamo ormai da tre anni un workshop pesante, duro,
che richiede sacrificio, anche perché viene fatto di sabato e domenica, di tutti
i presidenti, che si trovano due volte all’anno a Milano a ragionare sulle pratiche, sulle attività, sui problemi. Ad esempio a ragionare sui temi che avete
sentito adesso. Partecipano i presidenti, i direttori, i direttivi. Due settimane
fa, sabato e domenica, a Milano ero con 100 persone, la buona grande maggioranza dei presidenti e direttivi dei Banchi.
L’utilizzo dell’intranet per comunicarsi le esperienze: oggi è piuttosto un
sito, nel quale tutti vanno dentro e fuori, non è un luogo di valorizzazione dei
contributi. Vorremmo invece farlo diventare sempre più una specie di directory nella quale depositare le esperienze positive e trasmetterle. Qui si gioca
sempre (lo troverete anche nei vostri mondi) il bilanciamento tra il dire: «Io
questa cosa l’ho fatta, è mia e la tengo io»; oppure il dire: «Questa cosa l’ho
fatta, è venuta bene, perché non possono farla anche gli altri?». Perché non
ho motivazione nel dire: «L’ho fatta io, funziona, falla anche tu». È un gioco
che, se viene aiutato, sviluppa successo e rete positiva.
I gruppi di lavoro che abbiamo creato e che incrementiamo sono una cosa
recentissima. Prima un Banco tendeva a sviluppare le sue idee e attività o la
Fondazione proponeva ma in modo assai centralizzato. Invece, per il progetto sulla nuova immagine, ad esempio, oppure per l’ultima Colletta, per l’attuazione di un sistema informativo integrato, stiamo utilizzando le professioni
presenti all’interno dei singoli Banchi. Quindi chiediamo a chi ha una competenza nella pubblicità o comunicazione, di incontrarsi. Si sono riunite più
volte 6 o 7 persone che hanno prodotto, con uno studio serio di comunicazione pubblicitaria, coadiuvati da un’agenzia, un lavoro sulla nuova immagine, la nuova identità e la nuova modalità di comunicarla.
Così stiamo facendo anche per il sistema informativo: alcuni esperti di
applicazioni nei vari Banchi ci danno la possibilità di confrontare le diverse
informazioni.
E poi la possibilità di scambiare le esperienze quando sono di successo.
Alcuni Banchi fanno da qualche anno degli open day aperti alla visita di aziende, associazioni, e istituzioni per mostrare come funziona il Banco. Ancora,
l’anno scorso a Muggiò (Banco della Lombardia), la domenica dopo la Colletta
è stato aperto il Banco tutto il giorno, sia per i volontari che per i consumatori incontrati il sabato della Colletta, per permettere di vedere come si lavora,
oltre la Colletta. Queste iniziative hanno una capacità esplosiva, perché nessuno pensa che il Banco abbia dietro una macchina: si pensa forse che si sia
un gruppo di poveracci che mettono insieme quattro sacchetti del supermercato e poi li distribuiscono a qualche famiglia. Il concetto del «vieni e vedi» è
totalmente rivoluzionario rispetto a una corretta comunicazione.
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Le relazioni tra i soggetti che governano l'impresa - 15 febbraio 2011
La partecipazione ai bandi: fino ad oggi ognuno ha fatto come ha potuto.
Ma ci può essere una capacità professionale sul come partecipare ai bandi,
scegliendo bandi che si possono vincere, non perdendo tempo, e soprattutto
si lavora per vincerli!
Una gestione amministrativa più puntuale: quando c’è qualcosa che non
va bene nella Rete, sono problemi per tutti, non solo per quel singolo Banco.
Da questo punto di vista, noi ci siamo occupati moltissimo gli anni scorsi della
sicurezza alimentare, tanto che uno dei fiori all’occhiello del Banco nel 2011
(che normalmente non si comunica, perché è notizia tipicamente interna) è
che abbiamo ricevuto 11 visite ispettive da parte della AGEA (l’Ente che distribuisce gli alimenti prodotti in eccedenza secondo programmi UE, che oggi
non vanno più distrutti ma vengono riutilizzati, e una gran parte viene data al
Banco Alimentare) e non sono stati trovate irregolarità né disapplicazioni
procedurali da nessuna parte. E voi sapete che queste ispezioni sono assai
rigide e precise nel trovare errori.
Poi una capacità nella ricerca dei fondi, perché tutti sono pieni di buona
volontà, ma anche questa è una scuola, è una tecnica, e quindi vogliamo
renderci sempre più in grado di farlo meglio.
Infine, uno sforzo di coinvolgimento e di responsabilità richiesto ai presidenti, direttivi e direttori. È quello che dicevo all’inizio: di fronte alle sfide
attuali o noi diciamo che ci basta e siamo contenti di quello che abbiamo fatto
fino ad adesso e lì rimaniamo oppure facciamo un salto di responsabilità che
non può essere quello di due che hanno un’idea o del volontario più generoso, ma quello di una volontarietà e generosità disciplinata su regole, impegno, organizzazione, a fronte di una misura che si può riconoscere, un’attività che si può riconoscere.
Per questo mi sembrava importante dare questo contributo: quando le
realtà diventano complesse, non è un male sentire dire “volontari”. A volte,
infatti, si sente dire: questa cosa deve diventare un business, deve diventare
una forma meno volontaria. No! Il volontario è l’anima di quello che facciamo.
1250 volontari! Come faremmo senza?! Ma il volontario agisce bene, ha la sua
motivazione, funziona e ha la sua corretta posizione se in qualche modo è
dentro una macchina che gli garantisce di fare quel che deve fare. Altrimenti
è pura generosità sprecata, è velleitarismo e non educa. E visto che siamo così
attenti di fronte alle eccedenze, vorremmo stare attenti a usare bene le eccedenze di generosità di cui siamo circondati.
Monica Poletto
Faccio solo una breve nota su quanto ci ha detto Andrea.
Mi colpisce molto questo aspetto inevitabile nella vita dell’opera: ad un
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
certo punto si pone il tema dell’uscita dallo spontaneismo. E questa uscita
dallo spontaneismo non è mai una frattura - «ripensiamo ai bei tempi in cui
facevamo le cose con il cuore, invece adesso le dobbiamo fare in modo strutturato …» -, ma è sempre un andare a fondo di quell’impeto originale e renderlo comunicabile. È difficilissimo comunicare uno spontaneismo, è molto
più facile comunicare un metodo. Questo è un passo adulto, che chiede un
“di più” di libertà e responsabilità alle persone che si coinvolgono.
Perciò ti ringrazio moltissimo di quanto ci hai detto, che contiene spunti
veramente interessanti. Sottolineo, ad esempio, l’importanza del lavorare per
obiettivi, che significa lavorare con ragioni, ragioni che delineano un metodo.
Quindi è la cosa più amica dell’agire umano.
Ora interviene Stefano.
Stefano Gheno
Spero sia chiaro a tutti cosa sono i comportamenti organizzativi. I comportamenti organizzativi sono i comportamenti che le persone adottano all’interno dell’organizzazione. Io sono uno psicologo del lavoro e da un po’ di anni
mi occupo di tematiche del lavoro e dello sviluppo organizzativo, utilizzando
questa dicitura, molto anglosassone, organization behavior, che vuol dire
tutto quello che appartiene all’area soft dell’organizzazione.
È un po’ imbarazzante per me essere qui oggi. Perché? Andrea Giussani,
invitato in quanto vicepresidente della Fondazione Banco Alimentare onlus,
in realtà ha passato più tempo che in questo ruolo (che come ha detto ricopre
da pochissimi mesi) in quello di manager di altissimo livello, in particolare
nelle risorse umane all’interno di organizzazioni molto complesse.
Di solito la funzione di chi parla per secondo è quella di sistematizzare e
organizzare il contenuto di chi ha parlato per primo; ma siccome il contributo di Andrea Giussani era molto sistematizzato e organizzato… possiamo
andare a casa!
In realtà quindi io vi proporrò alcuni spunti - mi piacerebbe dire “di riflessione”, ma è del tutto esagerato -, che mi sono stati suscitati dall’intervento di
Andrea. Ci siamo visti prima di questa giornata per focalizzare alcuni aspetti
che ci sembravano importanti. Nel frattempo la nostra organizzazione, assolutamente elastica e flessibile, mi ha messo in difficoltà cambiando il titolo del
seminario. Io infatti mi ero preparato sulla “collaborazione tra soggetti”, che
è diventata invece «le relazioni tra soggetti»… solo perché chi ha parlato prima
di me ha detto di essersi preparato sulle relazioni! Ma sono anche io molto
flessibile, quindi in tempo reale cambierò il mio intervento.
Prima considerazione. Chi sono i soggetti che governano l’impresa?
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Le relazioni tra i soggetti che governano l'impresa - 15 febbraio 2011
Abbiamo detto che il fil rouge di quest’anno è il tema del governo dell’impresa sociale, dell’opera sociale.
Come è emerso in maniera molto evidente in tutti gli interventi fatti finora,
e anche l’intervento di Andrea lo ha confermato, i soggetti che governo l’impresa sono tanti e diversi. Tanti, perché in senso lato governano l’impresa
sicuramente i presidenti e i consigli direttivi o di amministrazione, ma governa l’impresa anche il management; e poi, anche se in maniera diversa, governano anche gli stake holder, che nel caso dell’impresa sociale sono frequentemente molti e diversi. Una volta si diceva: i diversi sistemi cliente esercitano
la loro influenza e dunque in qualche modo governano l’organizzazione. In
qualche modo (sembra un paradosso, ma poi cercherò di documentarlo)
anche gli operatori, gli operativi, governano l’impresa. Peraltro in molte nostre
opere, in molte opere sociali (il Banco da questo punto di vista è emblematico: 1200 volontari, 86 persone che invece lavorano con un rapporto di lavoro
tipico) la compresenza di lavoratori volontari e lavoratori inquadrati con qualche forma contrattuale è un elemento del gioco che va in qualche modo ad
influenzare la questione della governance.
Una volta il mondo era più semplice. Era molto chiara la divisione tra chi
comandava e chi eseguiva, anche nelle organizzazioni di lavoro: c’erano le
figure di governo e le figure esecutive. Oggi il mondo non è più così semplice. Anche nei modelli organizzativi, nelle dinamiche e nei processi organizzativi questa dinamica emerge in maniera forte. Addirittura ci sono alcuni
modelli organizzativi che dicono che le organizzazioni si autogovernano, che
le strutture gerarchiche si appiattiscono, diventano più snelle, e che così i
diversi livelli di responsabilità si fanno sempre più presenti; è in qualche
misura invalsa una dinamica per cui c’è sempre meno gerarchia (la gerarchia
è chiaramente un elemento di semplificazione della realtà) e sempre più questa diminuzione delle gerarchie dovrebbe essere accompagnata da una
responsabilità diffusa tra i diversi livelli presenti nell’organizzazione.
Anche su questo, il caso descritto da Andrea Giussani è emblematico: la
loro organizzazione territoriale che vede queste onlus autonome ma in una
certa misura afferenti a un marchio che è unico e a un sistema in qualche
modo fondativo, che dovrebbe essere il medesimo, fa percepire come questa
complessità vada di pari passo con l’esigenza di sviluppare una pari responsabilità nel governo dell’opera. Questo implica che necessariamente la collaborazione è un requisito del buon funzionamento dell’opera. Non essendo
più vero il paradigma «c’è chi comanda, c’è chi obbedisce», inevitabilmente il
paradigma nuovo è quello collaborativo.
Ora, “collaborazione” è una bella parola, anche se l’abbiamo tolta dal titolo. Ma ha due condizioni perché non resti solo una parola: da un lato, deve
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
essere promossa, non è sufficiente ripeterla come un mantra. In questo senso
mi ha colpito quello che ha detto Andrea Giussani, soprattutto la parte finale:
l’organizzazione si deve porre la domanda su come si promuove la collaborazione, non può essere lasciata semplicemente come una formula esortativa:
«Siamo tutti collaboratori». Ci deve essere una domanda: come fare a promuovere questa istanza?
E l’altra condizione, più implicita in quello che ha detto ma sulla quale
vorrei ora concentrarmi: la collaborazione deve essere sviluppata come competenza. Non è sufficiente affermarla, non è neanche sufficiente promuoverla
come valore fondante, come valore forte nell’organizzazione, ma in qualche
misura la collaborazione deve diventare una competenza radicata tra persone
che fanno parte dell’organizzazione stessa. E non è da dare per scontato che
questa si sviluppi da sola, deve invece essere accompagnata. Il lavoro che
fanno loro con il workshop e che si sta facendo anche come CDO Opere
Sociali ha in fondo come obiettivo lo sviluppo di questa competenza.
Secondo passaggio. Cosa significa collaborare?
Questo è il mio carpione rispetto al cambiamento del titolo… ma in realtà
il titolo non è cambiato, sono due sfumature della stessa medaglia. Parlare del
lavoro come collaborazione significa, secondo me, insistere sull’aspetto relazionale del lavoro.
Su questo punto vorrei soffermarmi. La dimensione relazionale del lavoro
è uno dei temi su cui frequentemente si va via veloce, dando per scontati
aspetti che invece non sono scontati. Andrea ci ha aiutato a fare il punto su
queste questioni centrali. Parlare di relazioni implica inevitabilmente parlare
di legami, perché la relazione non è un semplice scambio tra persone, una
transazione: la relazione implica che in qualche modo i soggetti, le persone,
siano legati. E questo nell’organizzazione è una grande opportunità, ma anche
una grande criticità. Perché?
Da un lato perché, come dicevo prima, in passato l’organizzazione era più
semplice, perché ciò che dettava il legame era il rapporto gerarchico. Il legame era anzitutto il legame di gerarchi: il fatto che ci fosse un ordine, una
gerarchia, una scala, rendeva questi rapporti meno complicati. Invece oggi
questo legame, il legame tra vertice e base, ma anche tra centro e periferia
(come ci sottolineava l’intervento precedente) non può essere dato per scontato. Oggi, cioè, sempre più il tema del legame, anche nelle organizzazioni di
lavoro e nelle organizzazioni di lavoro sociale in particolare, deve tenere
conto della dinamica della libertà.
Che spazio c’è - potremmo porci questa domanda - che spazio resta alla
libertà in questa necessità dell’organizzazione di promuovere e mantenere un
legame? L’organizzazione di cui ci parlava Andrea è enorme, penso che quasi
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Le relazioni tra i soggetti che governano l'impresa - 15 febbraio 2011
tutte le persone che sono qui dentro abbiano organizzazioni più piccole, ma
in realtà la dinamica non è diversa. C’è infatti sempre contemporaneamente
una richiesta di vicinanza al centro e una tendenza centrifuga di affermazione
di sé. Perché succede questo? È un dato intrinseco: nel lavoro c’è sempre il
desiderio di esprimere se stessi, la propria individualità. È un dato intrinseco
al lavoro. Ma se questo desiderio è un desiderio buono, perché il lavoro dà
la possibilità di esprimere sé e il proprio portato, di costruire qualcosa, questo
inevitabilmente implica il rischio di fare di testa propria, prescindendo dal
luogo dove si è chiamati ad esprimere sé.
La risposta a questo apparente paradosso tra necessità di legami e tentazione di svincolarsi dai legami per affermare sé, qual è? Come fanno le organizzazioni virtuose a rispondere a questa dinamica?
È questo il terzo passaggio. Secondo me una buona relazione organizzativa si fonda su due elementi particolari a cui si deve obbedire. Uso apposta la
parola obbedienza, parola un po’ desueta dal linguaggio moderno, perché
frequentemente è considerata un disvalore. Invece, recuperare questa parola
è secondo me utile per capire qual è la buona relazione. Vicino al termine
obbedienza c’è un altro termine a me caro: realismo.
Lo spiego con due affondi.
Il primo è che nelle organizzazioni bisogna anzitutto, per avere buone
relazioni, obbedire alle circostanze. Ce lo diceva prima Andrea Giussani: le
cose cambiano, nascono nuove esigenze, il contesto si modifica. Questo vuol
dire che delle cose anche giustissime, buonissime, che esistevano quando è
nata l’opera, potrebbero essere oggi non più buonissime. Questo non toglie
niente al valore che avevano prima, ma io devo obbedire alle circostanze. E
le circostanze sono date, non le decido io. Se c’è un cambiamento nel trend
sociale del paese, per cui la povertà alimentare acquista nuovi numeri, nuove
quantità, io devo guardare a questo dato, obbedire a questo, e magari come
facevo prima non va più bene. Frequentemente nelle opere c’è questo tema:
tu stai cambiando, quindi hai un giudizio negativo su come eri prima. No! È
che prima le circostanze erano diverse, quindi io non rispetterei un criterio di
realismo, cioè di obbedienza alle circostanze, se non provassi a cambiare la
mia modalità di risposta.
La seconda obbedienza che si deve dare è allo scopo dell’impresa. Mi ha
colpito molto il lavoro che loro stanno facendo sulla vision e sulla mission di
condivisione. Condivisione non vuol dire che dobbiamo essere tutti d’accordo, ma che dobbiamo tutti vedere le stesse cose, avere la stessa visione delle
cose. Essere d’accordo o meno è una decisione personale, sempre, non è una
decisione organizzativa. Ognuno guarderà a se stesso e deciderà se può andare avanti o meno in un luogo nel quale sistematicamente non è mai d’accordo.
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Ma questo viene dopo. Prima bisogna vedere le cose nello stesso modo. La
condivisione dello scopo è l’altra forma di obbedienza alla realtà, perché le
opere nascono per rispondere a uno scopo. Tutte le organizzazioni nascono
così, profit e non profit. Ogni opera deve rispondere allo scopo; e io credo
che una buona relazione organizzativa, corretta, è possibile solo se queste due
modalità, queste due forme di obbedienza vengono rispettate.
L’autoreferenzialità di cui parlava Andrea deriva da questo: che non si
ubbidisce a una delle due obbedienze, a quel pezzo di realtà.
L’obbedienza non è l’applicazione meccanica di un modello organizzativo.
Non deve scandalizzare, ad esempio, che ci sia una dialettica tra centro e
periferia sulla modalità con cui applicare quelle indicazioni anche nel mio
specifico. Non deve scandalizzare, anzi, è segno di vitalità e ricchezza. E se il
centro è capace di cogliere questa dialettica in modo positivo, può diventare
possibilità di maggiore ricchezza per tutti.
Non è che dobbiamo essere tutti uguali e omogenei: un tempo c’erano gli
stili di impresa, uguali per tutti, dalle Alpi alle Piramidi, ma oggi questa cosa
non è proprio più possibile, oltre ad essere concettualmente sbagliata. Ma
allora che cosa è possibile? Come facciamo ad aiutare le persone ad obbedire
a questi due elementi della realtà? Anzitutto, la fatica delle opere e delle organizzazioni deve essere dedicata a chiarire, a rendere riconoscibili e riconosciute le circostanze e le scopo. Frequentemente molti problemi organizzativi
derivano dal fatto che si salta questo passaggio di chiarezza per occuparci
subito di tecniche e strumenti. Il discorso sull’ideale è prontissimo, gli strumenti si acquisiscono, ma manca il passaggio intermedio in cui si rendano
riconosciute e riconoscibili le circostanze.
Mi permetto di aggiungere un altro piccolo dettaglio. Le circostanze vogliono dire due cose. Da un lato la storia: tutti i nostri testimoni partono sempre,
nel loro racconto, dalla storia. Ma non è una istanza di nostalgia, è invece che
la storia è una modalità di leggere le circostanze che l’opera ha attraversato,
è il percepire che ci sono stati degli sviluppi, dei cambiamenti. Quindi, da un
lato la storia, dall’altro il contesto attuale. Sono i due elementi che dicono
quali sono le circostanze cui le persone devono obbedire per una buona
relazione all’interno dell’opera.
Visione e missione dunque, come diceva Andrea Giussani.
Ultimo passaggio. Se io rispetto la necessità di rendere riconosciuti e riconoscibili scopo e circostanze, a quel punto mi pongo la domanda di quali
siano gli strumenti. Ci sono due strumenti, entrambi evidenti nella relazione
di Andrea Giussani.
I primi sono gli strumenti tipicamente organizzativi: la struttura, l’organizzazione, i processi, cioè gli strumenti che riguardano il funzionamento della
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macchina organizzativa. E sono strumenti preziosi. Frequentemente nelle
opere sociali c’è una sottovalutazione della rilevanza degli strumenti organizzativi. Siamo molto forti sui discorsi, meno sugli strumenti più hard. Cerchiamo
di dare enfasi, anche come CDO Opere Sociali, alla capacità di fare i conti
con i numeri, con il dato giuridico, alla capacità di usare budget e gli strumenti di programmazione: quello che Andrea ci diceva sulla insistenza di chiedere ai Banchi di lavorare per obiettivi e quindi il chiedere la fatica di imparare
a programmare, non evidentemente per costringere la realtà in binari prefissati, ma per essere obbligati a stare dentro quello che la realtà chiede. Questi
sono tutti elementi su cui dobbiamo imparare, soprattutto nell’ambito delle
organizzazioni non profit e sociali, a fare uso di certi strumenti. Questo vale
sia nel grande che nel piccolo. È una mistificazione dire che un’opera piccola non ha bisogno di strumenti organizzativi, non è affatto vero.
L’altro strumento è la formazione. Perché dico che è l’altra grande questione? Perché avvalersi di supporti organizzativi talvolta diventa una tentazione:
pensare di risolvere con il meccanismo. C’è una grande confusione, cosa facciamo? Delle procedure. È vero che la procedura aiuta a mettere ordine, che
l’organizzazione e la dimensione hard aiutano a mettere in ordine. Qual è
però il problema? Che se questo ordine non è concepito, se non è visto dalle
persone coinvolte come una opportunità, non fa altro che ribadire la tendenza centrifuga, cioè la tendenza all’affermazione di sé in alternativa all’organizzazione. Concludo: strumenti organizzativi e formativi (cioè che lavorano sulla
dimensione hard e sulla dimensione soft dell’organizzazione) sono efficaci in
quanto sono integrati. Io posso introdurre il budget o la pianificazione come
strumento di lavoro, se contemporaneamente accompagno le mie persone a
vederli come possibilità di esprimere sé, non come alternativa all’espressione
di sé. Spesso si pensa: mi obblighi al budget, quindi vuol dire che mi incaselli. È esattamente il contrario! Io devo aiutare le persone a capire che la tecnicalità aggiunge possibilità di espressione, non le sottrae.
Questo è quello che permette secondo me (così torno da dove sono partito) di percepire una relazione, cioè un legame, tra i soggetti che governano
l’impresa non come limitazione della libertà, ma come possibilità di esprimere la libertà in maniera realista, cioè capace di tenere conto di tutti i fattori.
DIBATTITO
Intervento
Ho 61 anni, sono ex dirigente del personale di una multinazionale. Mi è
venuto un po’ freddo alla schiena perché qualche mese fa sono stato coinvolto
dal Banco della Lombardia, per dare un contributo di analisi sul personale,
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
basandomi sulla mia esperienza e la mia disponibilità.
Sentendo i vostri due interventi mi sono rincuorato. Sto lavorando ancora
su questo progetto, che non è ancora conosciuto, l’ho presentato al comitato
esecutivo la settimana scorsa. Spiego ora brevemente in cosa consiste per avere
dei contributi.
Il Banco della Lombardia è il più importante. Sta passando un periodo di
maturazione, fra Paderno e Muggiò. Mi avevano dato questi segnali: che la
gente sente un po’ a pelle che ci sono obiettivi più ambiziosi e pensa a come
era bello quando “eravamo in pochi”. Dunque io, in accordo con il responsabile, ho scelto un questionario come strumento da sottoporre a tutti i dipendenti e anche ai volontari con responsabilità organizzative. Il questionario teneva
presenti i dati anagrafici, l’età, le precedenti esperienze, quale era la posizione
organizzativa, il contributo della attività, e alla fine (è la parte che mi piace
di più) i suggerimenti che le persone potevano dare per migliorare il Banco.
Abbiamo razionalizzato lo strumento, non la parte del peso professionale, su
cui sto lavorando; ho finito la parte di confronto fra la situazione organizzativa formale e quella percepita, che è un dato interessante; ho raccolto questi
suggerimenti - circa 70/80 - che abbiamo ordinato per tipologia, elementi tecnici, motivazionali, organizzativi, e su questi stiamo lavorando.
Il passaggio che faceva lei mi colpiva: sembrava ci fossimo messi d’accordo!
Il problema è proprio questo: il fatto che tu faccia esprimere; e organizzeremo
anche una riunione in cui diremo i suggerimenti di ciascuno, che è un modo
per far sentire parte ciascuno. Vi posso dire alcuni suggerimenti, di quelli semplici, ci sono poi anche quelli critici (l’operaio o dipendente che dice: “Noi
abbiamo il camion con le ribalte; se aprissimo un’ora prima, i camion non
starebbero fuori ad aspettare, e facendo arrivare il materiale un’ora prima,
potremmo cominciare prima a organizzarlo”), anche suggerimenti microtecnici (la ribalta più bassa o alta, le righe per le auto).
Esiste un aspetto numerico e uno anche di comportamento. Ieri parlavo con
la persona che segue la selezione, e le ho chiesto di farmi uno schema di circa
quante sono le persone al giorno, e poi le ho detto, da ex dirigente, di farmi
anche una stima di quante persone ha bisogno, in maniera da farle combaciare. Non abbiamo bisogno di 20 persone un giorno e 12 un altro. E’ anche
questo un modo di far crescere.
Ho provato molta sintonia, specialmente nelle parti sull’evoluzione, anche
attraverso questo elemento del coinvolgimento.
Stefano Gheno
Credo che la questione della collaborazione vada insieme alla “partecipazione”. Il tema del governo non è il tema dei ruoli - è chiaro e evidente che
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Le relazioni tra i soggetti che governano l'impresa - 15 febbraio 2011
in una organizzazione ci sono diversi ruoli -, il tema invece è che io collaboro al governo dell’opera in quanto desidero partecipare all’interità del processo. Questa è una scoperta recente delle organizzazioni; non sempre è stato
così, anzi, in passato si teorizzava che la partecipazione di chi non era management era puramente organizzativa. Invece, il dare spazio anzitutto permette
a chi guida di capire cosa sta succedendo. È la differenza tra organizzazione
formale e percepita, molto importante. Perché se c’è un delta troppo elevato,
devo farmi delle domande.
Io esprimo me anche perché mi chiedono di lavorare per dare delle idee
verso qualcosa.
Intervento
Non so se rischio di andare fuori tema. Ho qualche domanda che mi è stata
sollecitata dagli interventi.
Io lavoro in una fondazione scolastica. Rispetto alla questione delle relazioni, mi chiedevo: gli organigrammi che spesso vengono sollecitati, dove si
pongono rispetto alle relazioni? Quale importanza hanno? Quali criteri alla
fine, nel momento in cui ti viene chiesto di metter giù un organigramma,
bisogna tenere prima di tutto presenti?
Tu hai fatto qualche battuta dicendo: se c’è una dicotomia tra organizzazione formale e organizzazione percepita, bisogna farsi delle domande. Bene,
una volta scoperta la dicotomia, quali domande ti devi fare? Dove devi andare?
Andrea Giussani
Parto da un mezzo passo più indietro.
Quando chiunque di noi prende in mano o si appassiona a una realtà
organizzata e, osservandola e confrontandola con la propria esperienza, capisce che qualcosa va cambiato, inevitabilmente deve sapere che va incontro a
una realtà data, come si diceva prima, e a qualcosa che muoverà, poco o
tanto. E il muovere le cose crea sempre domande a chi lo fa o lo induce,
domande a chi ne è oggetto e qualche volta qualche trauma o scossone.
Io sono entrato in un mondo di cui sapevo qualcosa, sono stato nel direttivo del Banco della Lombardia per due anni a Muggiò, ma ho comunque fatto
poco rispetto alle storiche esperienze di chi è nato ed è stato al Banco per 20
anni. Le barriere sono moltissime, a cominciare dal linguaggio. Io immagino
che qualcuno di voi stamattina, mentre ho parlato, abbia sentito qualche frizione di linguaggio rispetto al proprio, perché io ho lavorato 38 anni in aziende produttive e un certo linguaggio operativo mi si è appiccicato addosso.
Così quando dico “processo di lavoro” ho ben presente cosa vuol dire. A
qualcuno “processo di lavoro” può apparire una inutile industrializzazione di
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
quello che è semplicemente il modo di fare.
Se già il linguaggio in prima battuta, tra persone che hanno storie diverse,
crea qualche difficoltà, figuratevi quando si parla di metodo, di strumenti, di
obiettivi, di budget – «Non si possono solo scrivere due numeri?» -, di metodi,
di innovare le cose, di fare cose diverse. Questo lo dico perché la prima domanda che mi porrei ovunque è quella che ho cercato di farmi in azienda e che
cerco di farmi qui: «Come quello che vado proponendo e che cerco di leggere
nella realtà risponde ad alcuni prerequisiti?». Altrimenti devo fare uno stop.
E i prerequisiti sono: «Questa cosa risponde realmente allo scopo dell’opera
o è un mio capriccio?». Se uno si interroga in tutta sincerità su una cosa del
genere, credo possa darsi delle risposte certe. Ad esempio, fare un organigramma è un capriccio perché ho vissuto 38 anni in mezzo agli organigrammi o è
un bisogno reale che io riconosco nell’opera per raggiungere meglio lo scopo?
Secondo aspetto: «Ciò che propongo risponde al bisogno delle persone
che qui operano?». Se è uno strumento che rimane avulso (l’organigramma o
qualsiasi altro strumento) rispetto al compito delle persone, è meglio che io
mi faccia qualche domanda. Banalmente, se io scrivo delle procedure in inglese perché mi vengono bene ma nessuno sa l’inglese, risponderanno allo
scopo dell’opera in Inghilterra, ma qui no.
Terzo: «Qual è la verificabile utilità che l’innovazione, lo strumento nuovo,
l’organigramma può dare?». Se io non ho anche la passione di scoprire, insieme alle persone che saranno destinatarie e utenti di questa cosa, una utilità,
l’innovazione verrà rifiutata nei fatti. Ricordo benissimo (ho questa età!!) l’introduzione dei PC nelle segreterie delle aziende, mettendo da parte centinaia
di Olivetti elettroniche che funzionavano benissimo. All’inizio il rifiuto non era
motivato altro che dal fatto che “queste funzionano benissimo” e non si capiva perché si dovesse cambiare. Quando tutto ha cominciato a entrare in una
reale fase di cambiamento? Quando abbiamo eliminato i vecchi strumenti?
Quando tutti si sono resi conto che le funzioni innovative di questo PC erano
10, 100 volte più utili e rispondenti al bisogno. Quindi, una passione da parte
di chi introduce nuovi strumenti nella verifica dell’utilità reali per gli ambienti in cui li introduce. Se lui a Muggiò si limitasse a dare quattro consigli e poi
se ne andasse per la sua strada e non cogliesse il ritorno di questa utilità, non
credo farebbe un’opera utile agli obiettivi che ha.
L’ultima osservazione è se “questo corrisponde agli obiettivi che l’opera ha
- dimensionali, quantitativi –”, se gli strumenti sono eccessivi rispetto a una
realtà piccola o inefficienti rispetto a una realtà grande. Quindi l’attenzione a
una corrispondenza tra la realtà e lo strumento che introduco.
Da questo punto di vista, l’organigramma di per sé (parlo della mia esperienza) diventa inevitabile a chi osserva, magari con occhio esterno, non il
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Le relazioni tra i soggetti che governano l'impresa - 15 febbraio 2011
fatto che prima non c’era, ma il fatto che la gente ha bisogno di sapere chi fa
che cosa, dove stanno le responsabilità. Poi, che sia appiccicato su una parete, in un archivio o che sia solo noto, questo dipende dalla sensibilità culturale del momento. Ma il fatto di scrivere nero su bianco nomi e cognomi,
ruoli, un minimo di funzionigramma o mansionario, secondo me corrisponde
alla necessità di funzionalità e di chiarezza. Quando me ne accorgo? Quando
le persone mi chiedono: «Cosa fa lui e cosa faccio io? Qual è il confine?». Fino
a che questa domanda non sorge, credo che l’organigramma sia ridondante,
perché è sostituito da una prassi tra le persone.
Non credo esista una ricetta su quanti debbano essere i dipendenti per
giustificare uno strumento, se 10 o 15 o 30. Il primo organigramma ufficiale
del Banco lo abbiamo fatto solo qualche anno fa, prima non c’era, si sapeva
più o meno qualche cosa... A Muggiò, che è per certi versi più complessa nei
processi organizzativi, è “più azienda”, l’organigramma c’è da qualche anno.
Quindi viene dalla storia, dalle necessità. Credo che più che preoccuparsi se
è il momento o no, vale la pena fare il percorso che ho detto prima: verificare quali strumenti, per quale utilità (bene per lo scopo, bene per le persone)
e la corrispondenza con la realtà.
Stefano Gheno
Nella sua domanda c’è anche un’altra questione.
Io credo che talvolta ci sia bisogno di alcune cose, e in fondo lo si sappia,
ma c’è anche un po’ paura di queste cose. Il “si dice” è percepito come esigenza, ma ti fa paura rispetto a quello che scoprirai quando le cose si dicono.
Su questo chi guida deve avere un po’ di coraggio. Deve avere un po’ di
coraggio a proporre qualcosa che sa essere una risposta a un’esigenza reale,
anche di fronte al fatto che le persone dicono che non c’è nessuna esigenza reale.
Quando prima cercavo di dire che certi strumenti organizzativi sono da
utilizzarsi anche in situazioni di piccole dimensioni, mi riferivo al fatto che
spesso si pensa che nel piccolo non ci sia bisogno di questi strumenti. E talvolta è vero, cioè si rischia una burocratizzazione inutile, ma talvolta è soltanto un meccanismo difensivo quello che ti fa dire che non ce ne è bisogno.
Quindi talvolta si aiutano le persone spingendo in questa direzione. Poi c’è
tutto il tema che, se è solo un atto amministrativo, allora non solo è inutile
ma anche dannoso.
Andrea Giussani
Aggiungo a questo l’ultimo accenno che tu facevi del rapporto tra organizzazione formale e informale, che vuol dire l’organigramma che corrisponde o
no alla realtà.
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Io dico: guai! Nelle organizzazioni ci sarà una organizzazione formale e
informale su certi confini e strutture, che è l’adattamento della persona a una
qualche cosa che è fissato, bloccato, come un organigramma. Ma guai se partisse il concetto di dire: «Facciamo questa cosa che si chiama organigramma
perché ci hanno detto di farlo, però lo lasciamo lì appiccicato, di fatto non ci
riguarda». Che è quello che forse è successo il primo anno di tentativo di
lavoro per obiettivi in tutta la rete del Banco Alimentare. È stato detto: «Fatevi
degli obiettivi (è stata fatta una giornata di spiegazione), mandateceli»: i 3/4
degli obiettivi non sono arrivati nei tempi! Cioè una gran parte non li ha mandati. Cosa è successo? Che si è chiesto, per favore, nel tempo, di farlo, ma
l’impressione era che forse non implicasse per nulla proprio la vita degli interessati. E infatti chi non li ha prodotti ha continuato a vivere come prima. Così
può accadere che chi non ha l’organigramma può continuare a vivere come
prima. Ma questo aiuta a osservare meglio la realtà e la circostanza non a
concedere un alibi a non fare … «Tanto non serve».
Io dico quindi: interroghiamoci sulla reale validità che ha uno strumento
di innovazione per le persone. E quindi quest’anno cosa abbiamo fatto?
Abbiamo cercato (poi vedremo come va a finire) di lavorare di più sul ragionare sugli obiettivi comuni, per guardare dalla stessa parte; poi ognuno riflette sui propri; abbiamo dei tempi per darci comunicazione di questi e lavoriamo insieme per rispettarli: noi vi mettiamo nelle condizioni per, ma non lo
fate per un dovere, ma perché senza questo tipo di consapevolezza comune
non andiamo da nessun parte. Abbiamo cercato di lavorare più sul perché che
non sulla scadenza, sul form da compilare.
Non è sempre facilissimo, soprattutto per gente che è sparsa in tutta Italia,
ma lo sforzo deve andare in questo senso, piuttosto che sulla formalizzazione
precisa.
Monica Poletto
Per chiudere vorrei fare una domanda a entrambi sul tema di come trasmettere un metodo. A volte, quando si entra in una situazione e si ha una
responsabilità, è facile rendersi conto delle lacune e dei passi che occorrerebbe fare.
Ma è frequente scontrarsi con lo scoglio del «abbiamo sempre fatto così»,
scoglio che evidentemente è un deficit conoscitivo. Il fatto che magari la realtà nel frattempo è mutata, non è detto che sia stato percepito.
Allora io vi chiederei di approfondire come si comunica la propria lettura
della realtà e dunque il metodo che occorre seguire nel lavoro. Stefano diceva che bisogna arrivare a leggere la realtà nello stesso modo, ma secondo me
è impossibile, perché nella lettura della realtà è implicata la libertà, è una cosa
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Le relazioni tra i soggetti che governano l'impresa - 15 febbraio 2011
che avrà sempre delle sfumature legate al soggetto.
La lettura dei bisogni che porta a dire: «È ragionevole questo passo» è
veramente il punto interessante, anche perché ognuno tende a difendere
quello che ha capito e il proprio operato.
Nella mia esperienza ho visto che è importantissimo mettere le persone di
fronte alla loro responsabilità, che implica spesso l’assunzione di una responsabilità specifica. Questa assunzione di responsabilità “mette in moto” e dunque aiuta anche a leggere la realtà.
Stefano Gheno
Giusto richiamo. Nessuno legge la realtà nello stesso modo di un altro,
perché la lettura contiene un aspetto di mediazione personale legato a ciascuno di noi. Nell’ambito lavorativo e organizzativo questo è reso ulteriormente
complesso dal fatto che c’è anche il tema della gerarchia, dell’ordine, della
visione come giro di orizzonte, che non tutti possono avere nello stesso
modo.
La prima risposta immediata che mi veniva da dare alla tua domanda è:
questo è un “a tendere”. L’organizzazione ideale, cioè, è davvero un’organizzazione in cui lo scopo è chiaro a tutti, ma anche le modalità sono chiare a
tutti. È ovvio poi che ciascuno, in questa chiarezza, ci mette del proprio.
C’è anche un’altra dinamica importante: come funziona il processo di conoscenza? La lettura della realtà, l’obbedienza alla realtà non è solo una questione
di analisi corretta. L’obiettivo non è che tutti analizziamo la realtà nello stesso
modo, anche perché è impossibile. Andrea ha delle categorie per analizzare la
realtà organizzativa superiori alle mie, ne ha di più, ha più esperienza, ha più
“tecnicalità”. Però io credo di avere delle chiavi per leggere la realtà organizzativa che possono arricchire anche Andrea Giussani: lo credo un po’ perché sono
presuntuoso, e un po’ perché sono certo della mia possibilità di contributo.
Questo è il tema: l’organizzazione è anche una comunità, cioè un insieme
di persone legate. In questo senso in ogni comunità ciascuno porta il suo
contributo e attraverso il suo personale contributo arricchisce l’altro. Dico
questo perché il problema della conoscenza non è solo un problema di analisi, ma anche di affetto. Ultimamente a un certo punto c’è un livello per cui
la condivisione passa attraverso il fatto che mi fido di te; e quindi anche dal
fatto che, se avete fatto un lavoro al centro e me lo proponete come possibilità di sviluppo della mia realtà locale, io ci provo. E nel provarci verificherò
se questa proposta è adeguata o non è adeguata anche al mio particolare.
L’analisi e questo, però, devono andare insieme, altrimenti io chiedo un
fideismo e questo non aiuta la responsabilità. Io devo dunque fare questa
fatica.
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Da questo punto di vista all’amico del Banco della Lombardia mi viene da
dire che io personalmente penso che forse il questionario non è adatto.
Facciamo dei focus group, troviamoci con la gente, parliamo, perché è più
facile. Se voi poi avete raccolto 70 suggerimenti coi questionari, vuol dire che
c’era davvero un grande desiderio di dire la propria!
Il grande lavoro di condivisione è dare restituzione di questo; e c’è la
libertà del singolo, perché tu puoi condividere anche tutto, ma uno ti può
dire: «Io non sono d’accordo». È la libertà.
Andrea Giussani
Dal punto di vista della spinta alla responsabilità (come è noto, la responsabilità coincide con la libertà), il tentativo che stiamo cercando di fare con i direttivi, che sono circa 150 persone - le più disparate e motivate dalle più differenti
spinte - non è quello di dire: «Bisognerà fare così», ma il dire: «Secondo una lettura di quello che il Banco si propone e quello che la realtà sociale e le richieste
hanno posto al Banco, noi dobbiamo rispondere ad una serie di domande».
Allora tu, consigliere, presidente, direttore, devi affrontare questa serie di richieste, ti devi chiedere: «Che lavoro posso fare io?». Proviamo quindi a costruire un
quadro e una prima risposta che aiuti il singolo Banco a dare una lettura più
completa. Così, tu, singola persona impegnata, ti porrai le singole specifiche
domande. Tu, consigliere del singolo Banco della Calabria o delle Puglie dovrai
rispondere a queste specifiche domande sul tuo ruolo e le tue responsabilità e
da lì le risposte alle circostanze locali. E la Fondazione non “darà voti” alla tua
adeguatezza ma ti incalzerà sempre per farti porre da te stesso questa domanda
di adeguatezza. E se tu ti poni da solo di fronte a queste domande ma guidato,
io sono certo che ti porrai in modo responsabile e quindi dirai se ce la puoi fare
o meno.
Da questo punto di vista, che corrisponde a quello che tu dicevi (l’affetto
di cui c’è bisogno nella conoscenza), io dico: quando alla fine si viene al
dunque, cioè ad esempio (per stare a una cosa recente) bisogna decidere se
buttare via la formichina e rifare il logo, bisogna che, fatto un certo percorso,
certi approfondimenti professionali, un certo dibattito, alla fine ci sia anche
una simpatia per il percorso fatto e quindi per la scelta che ne esce. Questo
esempio vale per tutti gli altri esempi di strumentazione o di decisione di
cambiamento. Rimanesse vitale al termine del percorso una forte riserva di
lamento, nel quale si dicesse: «Io avevo detto fin dall’inizio che la formichina
era meglio!», allora mi chiederei davvero come ci siamo mossi!
Credo che mai come in questo caso la parola “responsabilità” indichi la
radice della risposta: bisogna rispondere anche a un percorso fatto insieme.
Io lavoro per rendere più mio un percorso al quale ho partecipato, non dal
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Le relazioni tra i soggetti che governano l'impresa - 15 febbraio 2011
quale sono stato assente. E quindi questa simpatia dice anche che, se pure
non ho ancora digerito il cambiamento fino in fondo, vista la realtà in cui
opero, ci sto, mi va di starci.
Intervento
Sono di Cremona. Noi siamo una cooperativa media di servizi. Questo vuol
dire che non stiamo gestendo in proprio delle realtà, ma che offriamo le nostre
professionalità e competenze in ambito educativo a istituzioni diverse.
Nella nostra organizzazione chi passa di grado è gente che viene dal
campo. Quindi si arriva fino ad un certo punto: siamo forti nel gestire il particolare, i piccoli progetti, e ciascuna realtà ha un suo coordinatore ben preciso, che funge da cinghia di trasmissione fra la cooperativa e il committente;
però ad un certo punto c’è un gap: il fatto che chi viene dal campo fa fatica a
guardare il generale, ma guarda sempre il particolare.
Abbiamo tentato di inserire nel Consiglio di Amministrazione qualcuno
che venga dall’esterno; però non avendo trovato finora persone che abbiano
dedicato il tempo solo a questo, tranne me, queste persone fungono più da
consulenti esterne che da persone partecipanti ad uno sguardo sintetico complessivo.
Cosa fare?
Andrea Giussani
Non conosco nulla di questa cosa, quindi reagisco solo a pelle.
Credo ci siano due vie parallele da seguire: l’una (uso una comunicazione
efficace) di provare, con alcune persone ritenute da voi le più fertili dal punto
di vista della possibilità di crescita, a fare un investimento serio di formazione,
di sviluppo, di crescita, che vuol dire andare a dare l’occhio a un’altra realtà,
comunicare con altri. Di fatto vuol dire forzatamente farle uscire dal guscio,
per scoprire che esistono altri modi, altre occasioni, altre opportunità, creare
quindi una opportunità di percorso formativo con alcune persone, che però
non leggano la scelta fatta come un’obiezione alla propria professionalità.
Parallelamente a questo provare a incrociare consulenti o comunque persone a tiro ma fuori dal giro, che abbiano una competenza. L’esempio fatto
prima, di un amico incontrato che si rende disponibile, è quello giusto: delle
competenze che si rendono disponibili. Questa è in qualche modo la mia
esperienza: io non sono andato a cercare il Banco, ma mi è stato detto: «Visto
quello che sai fare, potresti essere utile».
L’insieme di queste vie crea delle competenze possibili, anche se ci vuol
del tempo, tanto e faticoso.
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
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Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
29 marzo 2011
Le relazioni con gli stakeholder
Intervengono:
Raffaella Pannuti
Segretario generale Fondazione ANT
Dario Bolis
Direttore della comunicazione e relazione esterna Fondazione Cariplo
Moderatore:
Stefano Gheno
Docente di Psicologia sociale, Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia
Stefano Gheno
Siamo ormai arrivati al quarto incontro di questo decimo ciclo dei seminari tematici, un ciclo molto interessante, che ci ha visto protagonisti, anche
perché è totalmente inserito sul macro tema di lavoro che la CDO Opere
Sociali si è data quest’anno, cioè il tema della governance.
Come ci hanno aiutato a ricordare nel primo incontro Monica Poletto e
Bernhard Scholz, la questione del governo parte anzitutto da un riconoscimento, da una chiarezza sullo scopo per cui le opere sono nate e agiscono:
la memoria e il riconoscimento dello scopo sono il punto di partenza.20
La seconda questione, che tutti i relatori ci hanno ricordato, è che la governance di un’opera è questione di rapporti, sia tra le persone che fanno l’opera (e quindi abbiamo dedicato il secondo e il terzo incontro al tema del rapporto con i collaboratori e con chi fa parte degli organi sociali delle diverse
opere) sia all’esterno.
Con l’incontro di oggi ci spostiamo verso l’esterno. Il primo tema sarà
quello del rapporto con gli stakeholder: è chiaro che le opere sociali, più
ancora delle aziende e delle imprese, hanno a che fare con un mercato di
riferimento che non è esclusivamente quello dei propri clienti e utenti, ma è
più ampio; in qualche misura coincide con il territorio in cui le opere si muovono, con i diversi soggetti che concorrono alla loro possibilità di finanziamento, e con gli utenti e la rete che intorno agli utenti si sviluppa.
20 Cfr. qui, pp. 25 ss.
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Tratteremo oggi questo tema, in maniera secondo me molto interessante.
Infatti alla mia destra c’è Raffaella Pannuti, segretario generale di Fondazione
ANT Italia, una fondazione che si occupa di assistenza domiciliare a persone
gravemente ammalate, quindi in una situazione molto critica della loro esistenza. Lei se ne occupa con un approccio secondo noi molto interessante e
particolare; inoltre Raffaella, in quanto segretario generale, rappresenta la
capacità di comunicare che Fondazione ANT ha nei confronti dei suoi stakeholder, in senso allargato. L’abbiamo invitata perché il racconto della sua
esperienza e la sua conoscenza ci sono molto piaciuti; e anche perché lei è
una fund raiser eccezionale. Abbiamo di recente visto i dati, che non sono
segreti: Fondazione ANT ha una capacità di raccolta fonti, legata alla quantità
di contatti che è capace di esprimere attraverso il suo universo di riferimento,
che nel 2009 è aumentata ancora rispetto all’anno precedente, nonostante la
crisi e nonostante questo non si sia tradotto in una maggiore redditività; ma
quello che ci interessa qui è la dimostrazione della capacità di contatto.
Alla mia sinistra Dario Bolis: lui è l’altra faccia della medaglia, è quello che
dà i soldi. È il direttore della comunicazione e relazione esterna di Fondazione
Cariplo, quindi è un soggetto che è altrettanto impegnato in un rapporto con
gli stakeholder, che sono diversi da quelli di un’opera come Fondazione ANT.
A loro chiederemo un contributo per capire come avviare e sostenere un
rapporto di comunicazione efficace, che nel caso delle opere sociali è anche
legato alla capacità di mantenere viva e far sopravvivere l’opera attraverso la
raccolta fondi.
Utilizzeremo il solito meccanismo: interverrà per prima Raffaella che ci
mostrerà la sua realtà e poi tratterà il tema dal suo punto di vista. Saremo poi
nella necessità di prendere un caffè. Interverrà in seguito il dottor Bolis e nei
45 minuti finali ci sarà spazio per un dibattito.
Non aggiungo altro, ho rubato fin troppo spazio a cose ben più interessanti. La parola a Raffaella Pannuti.
Raffaella Pannuti
Grazie Stefano, ringrazio per questo invito. La Fondazione ANT è nata a
Bologna il 15 maggio del 1978; abbiamo ormai compiuto 32 anni. Abbiamo
come scopo istituzionale quello di assistere i Sofferenti di tumore a casa, fare
prevenzione e formazione in modo gratuito.
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Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
Quello che voi vedete nella fotografia è l’Istituto delle Scienze Oncologiche
della Solidarietà e del Volontariato, che è la nostra sede principale a Bologna.
È la sede dei nostri uffici (la parte destra) e l’aula magna (il cubo), perché
riteniamo che la formazione e la comunicazione siano importantissime.
Vorrei iniziare la mia relazione parlando di “Eubiosia”, cioè dei valori etici che
sono alla base di tutto il nostro lavoro. Secondo me, è importantissimo soffermarsi, soprattutto in questo momento, sul significato di questa parola. Eubiosia viene
dal greco, è una parola che abbiamo inventato noi, e significa “buona vita”, l’insieme delle qualità che conferiscono dignità alla vita, dignità della vita intesa
come riconoscimento dei propri diritti e di quelli altrui, con amore.
Da questa idea di eubiosia è disceso il codice etico della nostra Fondazione,
che si trova a permeare tutto quello che è il lavoro dei nostri operatori sanitari,
ma anche di chi si trova ad operare nella raccolta fondi, e che ha come primo
punto la vita come valore fondamentale e inviolabile:
1.
2.
3.
4.
5.
Considera in ogni occasione la vita un valore sacro ed inviolabile.
Considera l’EUBIOSIA (la buona-vita, la vita-in-dignità) un obiettivo
primario da conquistare quotidianamente.
Accogli la morte naturale come naturale conclusione dell’EUBIOSIA.
Considera ogni evento della malattia reversibile.
Combatti la sofferenza (fisica, morale e sociale) tua e degli altri con lo
stesso impegno.
101
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
6.
7.
Considera tutti i tuoi simili fratelli.
Il Sofferente richiede la tua comprensione e la tua solidarietà, non la tua
pietà.
8. Evita sempre gli eccessi.
9. Porta il tuo aiuto anche ai Parenti del Sofferente e non dimenticarti di
loro anche “dopo” .
10. Il nostro molto sarebbe niente senza il poco di tanti.
Come vedete, sono dei valori che sono molto vicini a quella che è l’etica
cristiana, anche se la nostra Fondazione è laica; ma sicuramente il valore della
vita sacra e inviolabile è condiviso anche da noi.
Cos’è il “progetto eubiosia”? Noi ci occupiamo di assistenza socio sanitaria
gratuita ai Sofferenti di tumore in fase avanzata ed avanzatissima a domicilio;
la parte più importante e più grossa della nostra attività sono quindi gli aiuti
alle famiglie e alle persone; poi lo studio, la ricerca scientifica, la prevenzione,
la diagnosi tempestiva, ma anche l’impegno civile. Abbiamo promosso, infatti, delle leggi per l’ospedalizzazione a domicilio e anche per il voto a domicilio, che adesso è legge dello Stato: le persone che non si possono muovere
hanno diritto di avere un seggio elettorale nella propria casa. E poi anche
l’impegno ecologico, quindi il rispetto dell’ambiente attraverso l’iniziativa “i
boschi della vita”.
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Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
Questo è l’organigramma dell’ANT: è formato dalla presidenza, il consiglio di amministrazione e i diversi dipartimenti: ho sottolineato il dipartimento promozione, che è quello che si occupa della raccolta fondi e da cui
dipende anche il settore comunicazione. Nel dipartimento promozione ci
sono i Volontari, la promozione nazionale, l’ufficio stampa e la comunicazione
e immagine, l’ufficio bandi e progetti (una cosa che sosteniamo con molta
determinazione) e il dipartimento sostenitori. Questo è l’ambito della fondazione in cui viene espressa la raccolta fondi e la comunicazione.
Una breve nota su quello che sono la raccolta fondi e la comunicazione.
Dobbiamo pensare e concepire la raccolta fondi non come una semplice attività di reperimento di fondi, ma come la capacità di costruire una rete di fiducia con le varie persone o aziende o enti con cui ci troviamo a relazionarci. Per
quanto riguarda invece la comunicazione, non è una semplice capacità di informazione, ma la capacità di dialogare con le persone e di coinvolgerle in un
progetto.
D’altra parte, per quanto riguarda la raccolta fondi, sono uscite le linee
guida nel maggio del 2010, alla cui stesura anche noi abbiamo partecipato.21
Queste linee guida non sono legge dello Stato, ma vi sono racchiusi tre
principi fondamentali della raccolta fondi: la trasparenza, la rendicontabilità e
l’accessibilità dei dati che vengono raccolti. Sono questi i tre principi su cui si
basa e si deve basare la raccolta fondi.
La Fondazione ANT è una ONLUS, organizzazione non lucrativa, fatta da
Volontari da una parte e professionisti dall’altra. Sono queste le due anime
della nostra Fondazione: i Volontari possono essere Volontari che stabilmente
o occasionalmente stanno dentro le nostre strutture. Sono Volontari quelli che
fanno i banchetti, che vengono contattati una domenica, una o due volte
all’anno, per presidiare uno di quei banchetti di cui poi parleremo. D’altro
canto, la Fondazione ANT è fatta da professionisti, cioè persone che sono
pagate per raccogliere fondi o per fare assistenza, che non deve essere una
attività occasionale, ma deve essere portata avanti nel tempo con professionalità.
Quelli che raccolgono fondi, i nostri fund raiser, noi li chiamiamo promoter: si occupano con i Volontari della raccolta fondi e vengono formati in tal
senso. Non è lasciata all’intuito della persona o all’occasionalità, ma c’è una
strutturazione all’interno dell’ANT che permette la raccolta fondi sistematica
durante l’anno.
21 Ci si riferisce alle Linee guida per la raccolta fondi, pubblicate dalla Agenzia per le
onlus nel maggio del 2010 e consultabili all’indirizzo: http://www.agenziaperleonlus.
it/intranet/home-page/home-page/Bandi--Avv/Avvisi/Linee-Guid1/index.htm
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Noi, infatti, abbiamo una forte caratterizzazione territoriale, quindi queste
persone si trovano ad operare in territori diversi e poi si incontrano e vengono coordinate dal centro.
L’attività di raccolta fondi non può più essere lasciata al caso, ma deve
essere strutturata: ci sono attività consolidate ogni momento dell’anno, anche,
per esempio nel mese di agosto. Noi abbiamo avuto questo slogan per un
certo periodo: “La solidarietà non va in vacanza”, nel senso che anche in
agosto le persone vengono assistite, i medici sono pagati, e quindi bisogna in
qualche modo cercare di creare un flusso che ci permetta di sostenere la
nostra solidarietà. Quindi in tutti i mesi dell’anno c’è un’attività che può essere fatta, di comunicazione e, ovviamente, di raccolta fondi.
Vediamo più nel dettaglio quali sono queste attività.
Noi abbiamo tre campagne nazionali durante l’anno, più una campagna
stabile lungo tutto l’anno.
Le tre campagne nazionali sono:
• la Campagna Ciclamini, ottobre mese della prevenzione
(ottobre 2010, testimonial: Roberta Capua)
• la Campagna Stelle di Natale
(novembre e dicembre 2010, testimonial: Carlo Conti)
• la Campagna Uova di Pasqua
(periodo pasquale 2009, testimonial: Carlo Conti)
Si presuppone che, almeno a Natale e Pasqua, le persone siano più sensibili; poi ci deve essere il riempimento in un altro periodo, in cui magari non
c’è una presenza così cospicua anche di altre organizzazioni.
Io sono anche dell’idea (che viene dall’esperienza) che non dobbiamo avere
paura di andare in piazza anche a fianco di altre organizzazioni: questo mi è
capitato personalmente. Io faccio i banchetti, come anche il nostro presidente:
le campagne di uova, stelle e ciclamini consistono proprio nell’andare nelle
piazze e organizzare banchetti, offrendo stelle, uova, ciclamini. Mi sono trovata
diverse volte nella mia città, Bologna, con il mio banchetto a fianco dello stand,
molto più grande, di Telethon. Come ci sono in una stessa strada due bar, ci
possono essere nella stessa piazza due o tre organizzazioni che si occupano di
raccolta fondi. Sta poi nella comunicazione di ciascuno, nel progetto che ciascuno porta avanti, nel modo in cui lo comunica, la capacità di offrire il prodotto.
C’è poi la raccolta tramite salvadanai che viene fatta tutto l’anno.
Come vengono organizzate? Anzitutto noi ci avvaliamo di un supporto
logistico: contemporaneamente abbiamo diversi banchetti in diverse piazze
della città, quindi abbiamo bisogno di persone che fisicamente portino il banchetto ed anche l’oggetto che offriamo. Questo significa ottimizzare i costi ed
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Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
anche la disponibilità dei Volontari. A volte i Volontari fanno fatica a portare
fisicamente le uova e le stelle… semplicemente perché pesano! Quindi ci
deve essere qualcuno che organizza il banchetto e poi i Volontari sono disponibili a stare al banchetto ad offrire l’oggetto della campagna.
La logistica ci consente di raggiungere più postazioni contemporaneamente; e possiamo così aumentare le postazioni stesse durante l’anno.
Per i nostri fornitori, sempre “accreditati ANT”, seguiamo alcune regole
particolari:
• Gli ordini al fornitore devono sempre essere controfirmarti per accettazione e contenere questi elementi essenziali:
a) data di consegna;
b) condizioni di pagamento;
c) resa;
d) destinazione della merce;
e) descrizione della merce, quantità e prezzo;
f) firma del legale rappresentante ANT o di un suo procuratore.
• Verificare sempre la merce in fase di consegna.
• Importanza della scheda tecnica del prodotto.
• Evitare di utilizzare prodotti in vendita separata se non prevista (cioccolatini in confezioni da kg).
Altra cosa importante sono le ricevute che vengono rilasciate. Questo è
un problema: l’indicazione che noi diamo è che in tutte le campagne promozionali, in tutte le sedi, ci deve essere il rilascio delle ricevute. Questo è
importante dal punto di vista amministrativo, perché dobbiamo garantire la
trasparenza verso i nostri sostenitori: qualcuno ci fa un’offerta, noi dobbiamo
rilasciare una ricevuta di questa offerta. Nei banchetti è difficile fare questo
perché, se qualcuno di voi ha avuto esperienza magari nelle chiese, in cui alla
fine della messa arriva la massa di persone che (per fortuna!) chiede le uova,
le stelle o quant’altro, è ovvio che è difficile rilasciare una ricevuta. In questo
senso noi abbiamo ovviato, facendo una ricevuta cumulativa del banchetto.
L’importanza delle ricevute non è solo di trasparenza, ma anche perché così
noi possiamo tenere i dati della persona che ci fa l’offerta, la mail o il cellulare. E questo, tenuto e registrato secondo la legge della privacy, serve per
comunicare i successivi eventi.
La reperibilità dell’informazione: anche questa è importantissima.
L’abbiamo visto all’inizio, quando parlavamo delle linee guida delle onlus. La
Fondazione ANT dispone di un sistema informativo integrato su AS 400, che
è un grosso computer dove abbiamo collegato 22 sedi attraverso la linea
ADSL. Noi abbiamo circa cento sedi in Italia; queste 22 sono le più importan105
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
ti, che raccolgono anche le più piccoline. Ne vorremmo collegare anche altre.
Questo comunque ci permette di disporre diverse cose, come le informazioni
riguardanti un certo fornitore o un certo benefattore, nel momento in cui
facciamo questa operazione di registrazione. Contemporaneamente noi
aggiorniamo gli archivi amministrativi, statistici e anagrafici.
Un esempio banale. Il signor Mario Rossi fa una ricevuta di 2 euro; noi
segniamo che è stata fatta questa ricevuta, che va nel bilancio amministrativo;
e statistico, perché magari è la terza volta che il signor Mario Rossi ci fa una
ricevuta; e anagrafico, perché segniamo il signor Mario Rossi cui verrà mandato un ringraziamento o magari la «Gazzetta eubiosia» che è il nostro organo
di stampa. Quindi, attraverso l’emissione di una ricevuta si raggiungono diversi effetti: la stampa di un documento che viene lasciato al benefattore, l’aggiornamento dello storico del benefattore, del saldo di cassa e dei dati del
bilancio. Quindi non si risparmia una persona in amministrazione, ma piuttosto si aiuta questa persona a registrare più dati.
Altra cosa importante è l’accessibilità dei dati. Ci possono essere delle
lamentele per la campagna e per l’assistenza che viene fatta: tutte le lamentele che ci arrivano (grazie al cielo fino ad ora ci riusciamo) passano attraverso
la segreteria generale che deve poi rispondere con risposte personalizzate
cioè che riguardano quella lamentela e quella persona. Anche questo è molto
importante: bisogna creare un rapporto con la persona, cercare di venire in
contatto e, se ci sono cose da dirimere, farlo.
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Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
Questo è un esempio di pubblicità che abbiamo fatto con la campagna
delle stelle di Natale: avevamo come testimonial Carlo Conti, che ci ha prestato la sua immagine a titolo assolutamente gratuito e quindi noi abbiamo
fatto questi manifesti. Come vedete c’è è presente il “bollino” del 5 per mille:
bisogna sempre comunicare il 5 per mille, è fondamentale perché tutte le
persone che hanno a che fare con ANT (o con qualsiasi altra organizzazione)
abbiano sempre la possibilità di ricordarsi che possono destinare il 5 per mille
che, lo ricordo, non è una donazione ma è una scelta. Quindi è molto importante. Nel periodo natalizio, oltre alla stella, offriamo anche i panettoni, le
candele, e altri gadget.
Questo è il manifesto delle uova di Pasqua (siamo nel periodo!) e anche
delle colombe. Nella foto grande c’è un banchetto, che ha una tovaglia verde
(che è il colore dell’ANT) con il simbolo dell’ANT. Abbiamo cambiato da poco
il nostro logo, ma qui c’è ancora quello vecchio perché bisogna guardare al
risparmio… Le tovaglie si buttano via solo quando si rompono! È una tovaglia
fatta di carta, tela, che costa relativamente poco ma è abbastanza resistente e
quindi ci dà la possibilità di fare un banchetto dignitoso, in cui sia chiaramente esposto il logo dell’ANT e in cui le persone che sono lì possano mettere
bene i prodotti che vengono offerti.
Altre attività di raccolta fondi possono venire dalla sede centrale: qual è la
forza di un’organizzazione che ha una sede centrale e si dirama poi sul terri107
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
torio? È che se, per esempio, ci sono delle campagne nazionali di raccolta
fondi, c’è la possibilità di organizzarsi centralmente aggregando le delegazioni periferiche che possono dare forza all’attività sul territorio. Le iniziative di
fundraising possono essere ideate e organizzate:
• dalla sede centrale ANT, ad esempio:
– Raccolta alimentare
• dalle Delegazioni (sedi locali), ad esempio:
– Cene, tornei, serate a tema, etc.
– Merc’ANT
– Aste di beneficenza
– cANTucci
• dall’iniziativa spontanea di nostri sostenitori, che dedicano alla
Fondazione una particolare iniziativa, ad esempio:
– Cena Virtus per ANT
– Feste private o di associazioni
Oppure in autonomia le sedi locali possono organizzare diverse cose: il
mercato ANT, un mercatino che facciamo in istituto 4 volte all’anno, o anche
in altre sedi, e dove offriamo la merce che ci viene regalata. Oppure si possono fare cene, tornei, serate a tema, aste di beneficenza, organizzare i “cantucci” e poi varie altre iniziative che possono venire o dall’interno dell’ANT o
dall’esterno. Ci possono essere, per esempio, delle organizzazioni quali Lions
o Rotary che decidono di devolvere il ricavato di una loro serata a sostegno
delle nostre organizzazioni. Quindi noi siamo lì, partecipiamo e diamo il supporto.
Tutte le attività di raccolta fondi, come vedete, devono essere ben supportate da un punto di vista strategico e logistico. Se l’intuito è importantissimo
nella raccolta fondi, deve però essere seguito con precisione ed organizzazione.
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Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
Qui vedete la locandina che riguarda la raccolta alimentare: questa è
un’occasione che abbiamo avuto ma che bisognerebbe cercare anche con
altre organizzazioni. La CONAD è da tre anni che ci dedica la raccolta alimentare di una particolare giornata, in cui raccogliamo diversi alimenti che in
parte diamo ai nostri Sofferenti e in parte distribuiamo ai punti verdi per raccogliere dei fondi. Oltre a questo, la CONAD l’8 marzo (l’anno scorso l’abbiamo saltato, ma gli anni prima l’abbiamo fatto e adesso speriamo di mantenerlo) ci ha donato l’1% del fatturato dei negozi NORDICONAD da dedicare ai
progetti di prevenzione che l’ANT fa per le donne.
Dedichiamo anche particolare attenzione alle aziende e alle istituzioni. Noi
abbiamo istituito un “Premio Eubiosia” per le istituzioni che nel corso dell’anno sono state particolarmente sensibili alla crescita dei nostri progetti. Lo
abbiamo istituito nel 2009; nei primi due anni lo abbiamo fatto a Bologna,
nella sede di un’industria, e abbiamo assegnato 5 premi simbolici: un piatto
di argento che ci era stato regalato con inciso «Premio eubiosia». Ha un valore simbolico molto forte: è stato comunicato ai nostri sostenitori, le aziende
stesse l’hanno comunicato ai loro dipendenti.
Cantucci della solidarietà: questa è una forma innovativa di comunicazione, che abbiamo sviluppato parecchio. Noi siamo presenti in 9 regioni e
abbiamo 45 “Cantucci della solidarietà”: sono botteghe in cui offriamo alla
cittadinanza le merci donate da aziende, negozi e privati. Gli scopi di questi
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Cantucci sono sostanzialmente due: il primo, ovviamente, la raccolta fondi, e
il secondo quello di comunicare e avvicinare sempre più i cittadini alla nostra
attività. Sono gestiti dai Volontari, ci sono regole ben precise, quale per esempio il fatto che non devono avere l’insegna luminosa. Sono importantissimi, è
un punto di aggregazione straordinario. Si avvicinano molti Volontari che
chiedono di fare i turni, è un posto “protetto” (il che non è secondario, perché
quando si avvicina Natale e uno deve fare il banchetto sotto la neve, diventa
difficile), è un posto tranquillo.
Anche in questi casi la trasparenza è importante. Noi abbiamo messo in
ogni negozio un cartello in cui è scritto «Chiedi la ricevuta ai nostri Volontari,
grazie per l’offerta». E poi stiamo cercando di informatizzare questi cantucci:
alcuni hanno già un computer (per cui le ricevute vengono fatte in automatico), per aggiornare la contabilità e l’anagrafica. Prima succedeva che i
Volontari dei cantucci facevano la ricevuta, poi questo blocchetto veniva
inviato al dipartimento sostenitori che lo immetteva nel sistema centrale.
Invece in questo modo, con l’informatizzazione, la ricevuta è già immessa nel
sistema informativo dell’ANT e quindi non c’è bisogno di fare un doppio
lavoro. Esistono ovviamente dei problemi: il primo è la linea che non si collega, il secondo è che a volte c’è una resistenza al computer… ma in qualche
modo stiamo cercando di fare e qualcosa abbiamo già fatto.
Un altro aspetto importante è il dipartimento sostenitori, cioè l’attenzione a chi ci fa donazioni. Noi, come ogni organizzazione, abbiamo due tipi di
sostenitori: i sostenitori che ci stanno vicino dandoci dei prodotti o delle offerte, e quelli invece che ci danno del tempo, che sono i Volontari.
Una particolare attenzione è rivolta ai Sostenitori ANT con una serie di
incentivi:
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Lettera di ringraziamento per donazioni in memoria alle famiglie
Menzioni sull’albo marmoreo in Istituto
Targhe
Citazioni in editoriali Gazzetta Eubiosia ANT
Menzioni speciali sul sito
Diplomi di grandi sostenitori
Premio Eubiosia ANT
Affissioni locali e pubblicità sulla carta stampata
Quando si ricevono merci o donazioni, bisogna sempre fare una lettera di
ringraziamento, anche per semplici donazioni liberali. Ci può essere una menzione nell’albo marmoreo, se sono donazioni particolari; targhe; citazioni in
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Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
articoli che facciamo sulla «Gazzetta»; il diploma di grande sostenitore; il
“Premio eubiosia” per le aziende o le persone; le affissioni locali e la pubblicità su carta stampata. Ci sono cioè diversi mezzi con cui noi dobbiamo fidelizzare i nostri sostenitori ed anche ringraziarli.
Anche per i Volontari ANT sono pensati alcuni incentivi:
• Corsi di formazione e aggiornamento dedicati (sia per volontari socioassistenziali che volontari promozionali)
• Lettere di ringraziamento personalizzate
• Cene ed eventi di ringraziamento
• Omaggi per ricorrenze (Natale, Pasqua)
• Diplomi e riconoscimenti speciali
• Attività di comunicazione sulla stampa locale e nazionale
• Affissioni locali (GRAZIE ANT)
La quarta campagna che avevamo visto è la raccolta fondi tramite i cubi
della solidarietà.
Abbiamo l’ufficio sostenitori, che si occupa di distribuire questi cubi sul
territorio. Sono circa 9.000. Queste persone, munite di una specifica delega,
vanno dagli esercenti e propongono di ospitare i cubi, ovviamente senza
nessun onere a loro carico: viene lasciato un recapito telefonico, vengono
contati i soldi e poi viene ovviamente inviata una lettera di ringraziamento e
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
anche la ricevuta. Di solito i cubi si contano in due, perché è difficilissimo
sapere cosa c’è dentro un cubo e quindi così si evitano diatribe.
Sono contenitori in plexiglas, hanno lucchetti di sicurezza, riportano i dati
identificativi della nostra Fondazione, logo, conto corrente, numero di telefono, codice fiscale. I cubi sono tutti segnalati, quindi si possono riconoscere in
base all’esercizio che lo ospita.
Sul cubo c’è scritto chiaramente ANT, poi c’è la taschina in cui si possono
mettere i depliant della nostra Fondazione, c’è il lucchetto, a volte c’è anche
una catena per riuscire a legarlo meglio.
Quanto fin qui detto, dunque, è l’attività di raccolta fondi.
L’attività di comunicazione è strettamente connessa con il dipartimento
promozione e si rivolge a un pubblico interno ed esterno. La sede centrale
deve comunicare ai vari delegati delle zone, ma anche al di fuori, alle persone che vogliono conoscere la nostra attività.
Esiste una comunicazione istituzionale: cosa facciamo, quali sono le nostre
attività e quant’altro, e una comunicazione a supporto della promozione, cioè
delle campagne che vengono fatte.
Qual è l’attività dell’ufficio stampa? La mailing list, che ha 1.000 contatti di
giornalisti; vengono fatti comunicati stampa, diffusi anche via web; vengono
scritti degli articoli e dei testi di presentazione. C’è una newsletter on line, che
stiamo organizzando proprio in questi giorni. Questo vuol dire che se da una
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Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
parte c’è la «Gazzetta eubiosia», d’altra parte vogliamo mandare le novità via
mail a diversi sostenitori che si trovano sul web o che ci hanno lasciato la
mail; la ricerca di spazi di visibilità sui media; la realizzazione di interviste; le
conferenza stampa (ne facciamo diverse); la presenza a eventi, l’organizzazione di incontri e il briefing.
Per quanto riguarda la pubblicità, la decliniamo in diverse forme: le pagine sui giornali, le affissioni stradali, i manifesti, le locandine, i banner, gli spot
radio e televisivi. Tutti gratuiti? Purtroppo no, non è più possibile pensare di
supportare un’attività di raccolta fondi sperando nel buon cuore. Quindi in
alcuni casi queste cose vengono fatte in modo gratuito, in altri no.
Le nostre campagne istituzionali, nazionali vengono seguite da un’agenzia
di Firenze che si chiama Diaframma, che lo fa gratuitamente; questa ci supporta anche nell’acquisto di spazi pubblicitari. Gli spot radio per adesso li
stiamo facendo gratuitamente, con diversi testimonial come Benvenuti di
Firenze, che gratuitamente ci presta la sua voce; abbiamo fatto spot televisivi
a titolo gratuito, che poi abbiamo mandato in onda. Sulle reti Mediaset e Rai
esistono degli spazi per il sociale che sono gratuiti; ci sono determinati periodi dell’anno in cui uno si può prenotare e si mette in lista per ottenere quegli
spazi televisivi. È ovvio che bisogna capire che grandezza ha la nostra organizzazione, cioè se ci serve veramente andare sulle reti nazionali oppure se
non è meglio concentrarsi sulla zona dove siamo presenti. Le campagne pubblicitarie a volte sono seguite da altri Volontari.
La comunicazione istituzionale, è rivolta a un pubblico sia interno che
esterno. Quello che vogliamo comunicare è l’identità dell’ANT, i valori
dell’ANT e i progetti che stiamo realizzando. I principali strumenti di comunicazione sono:
• Il nostro pieghevole che contiene le notizie più importanti: chi siamo,
la nostra missione, il 5 per mille, dove ci potete trovare. Lo vedete
infilato nei box dei cubi della solidarietà; e lo diamo in occasione dei
banchetti;
• La brochure destinata soprattutto alle aziende, in cui in poche pagine
e in modo chiaro viene detto dove sono le nostre sedi, i nostri cantucci, cosa un’azienda può fare per noi e come noi ci relazioniamo con
le aziende stesse;
• la presentazione istituzionale, indicata per aziende, sostenitori, enti
pubblici e altro;
• il bilancio operativo che viene aggiornato ogni sei mesi e contiene dati
molto sintetici: sono due pagine in cui si dice quanti sono i nostri
Assistiti, quali sono i nostri progetti e lo stato di avanzamento dei progetti;
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
• il bilancio sociale: è uno strumento fondamentale per la trasparenza.
Deve essere destinato sia a pubblici interni che esterni. È questo il
secondo anno in cui facciamo il bilancio sociale: è una descrizione
abbastanza corposa, in cui descriviamo in maniera piuttosto dettagliata come è fatta la nostra organizzazione, l’assetto organizzativo e istituzionale, la nostra missione, i valori dell’ANT, il rendiconto della
nostra attività, la raccolta fondi. Il bilancio sociale del 2009 lo trovate
su internet e vi permette di vedere tutti i dati della nostra attività.
• l’ANT identikit: è un breve documento di presentazione della
Fondazione, strutturato in 4 capitoli principali:
– Chi siamo
– Cosa facciamo
– Come lo facciamo
– Dove siamo
E’ pensato come veloce strumento di comunicazione verso i giornalisti, ma
si rivolge anche agli interlocutori interni della Fondazione (delegati, volontari,
dipendenti).
Campagne pubblicitarie: le facciamo in diversi modi, tramite pagine
pubblicitarie sui giornali (siamo usciti adesso su diversi settimanali, come
forse qualcuno ha visto); le affissioni nelle strade, che a volte sono gratuite,
più spesso a costi inferiori - magari ci sono spazi liberi in cui noi ci “infiliamo”,
quindi costa di meno di quanto di solito costa un’affissione -; spot televisivi,
radiofonici e attività sul web.
Un esempio di campagna istituzionale è «Sottoscrivi i nostri valori», in cui
chiedevamo alle persone di sottoscrivere i valori dell’eubiosia. Era presente
sul web e poi in diversi manifesti che abbiamo fatto.
Campagna del 5 per mille: è stata una campagna che abbiamo lanciato
insieme a Diaframma ed è una pubblicità piuttosto forte, perché dice: «Il
tumore può togliere la vita molto prima che arrivi la morte». Si vede una persona coperta da un telo bianco e la gente che è indifferente a questa persona.
Voleva colpire la sensibilità delle persone, per dire: non togliamo la vita prima
che la morte arrivi veramente, quindi dateci una mano con il vostro 5 per
mille, scegliendo l’ANT. Abbiamo avuto 3 o 4 lamentele in cui le persone si
sentivano toccate, quindi è stata una campagna che, pur forte, ha toccato
molto le persone, e molto visibile. Vedremo poi i risultati. L’anno prossimo
abbiamo in mente un altro tipo di messaggio che trasmetta più speranza.
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Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
Campagna ringraziamento Volontari: la campagna è stata fatta in occasione dell’anno internazionale del volontariato, che ricorre quest’anno, in cui
abbiamo ringraziato tutte le persone che si sono avvicinate ad ANT.
Spot televisi e radiofonici: le attività istituzionali della Fondazione sono
presentate anche attraverso spot radiofonici e televisivi, a diffusione locale o
nazionale, con la collaborazione di diversi testimonial. Abbiamo fatto uno
spot insieme a Vito, un comico bolognese, in cui diceva che l’ANT va a casa
delle persone. E si vede una persona che, come una formica (ant in inglese
significa formica), vola verso una casa. Ha avuto un discreto successo. Viene
distribuito nelle varie reti locali e nazionali.
«Gazzetta eubiosia»: è il periodico ufficiale dell’ANT, viene stampata in
160.000 copie e inviata anche tramite e-mail a 250.000 contatti. Viene distribuita gratuitamente a tutti i sostenitori, volontari, amici dell’ANT. All’interno si
possono trovare interviste, articoli sui progetti ANT, testimonial, grandi eventi,
notizie dalle delegazioni. La «Gazzetta Eubiosia» si trova anche sul sito internet
ANT. Per riceverla si può inviare una e-mail a: [email protected]
Un’altra cosa carina è l’inno dell’ANT, che potete sentire su internet, molto
orecchiabile, molto toccante, che ci ha regalato Andrea Mingardi, un cantante
bolognese.
Questa dunque era la campagna istituzionale. C’è poi quella a supporto
della promozione.
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Vi faccio vedere questo manifesto, in cui si dice chiaramente che i medici
dell’ANT sono pagati dall’ANT, attraverso le offerte raccolte. Questo è importante per capire esattamente come è fatta l’assistenza, che è un’assistenza
professionale. Io non sono medico, non vado a casa dei nostri assistiti. Questo
è molto importante: noi comunichiamo chiaramente che l’offerta che ci viene
data serve per pagare medici e infermieri che vanno a casa delle persone.
Altri esempi di comunicazione e informazione:
•
•
•
Roberta Capua, che è stata una Miss Italia, gratuitamente ha prestato
la sua foto in cui pubblicizzava il ciclamino, nel mese di ottobre, che
è il mese da noi dedicato alla prevenzione;
Sul nostro sito c’è un banner con la foto di Carlo Conti
Shoppers e segnalibri sono mezzi di pubblicità non secondari
La campagna dei lasciti testamentari è un’altra cosa molto importante.
Ho sentito adesso l’AIRC che faceva per radio uno spot in cui c’era Remo
Girone che diceva che ha fatto un lascito a sostegno della ricerca. Anche noi
facciamo delle campagne di lasciti testamentari.
Il sito internet è diventato uno strumento fondamentale per la comunicazione. Stavo raccontando prima che adesso abbiamo una persona, che io
chiamo il “promoter di internet”, che si dedica esclusivamente a tenere dietro
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Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
quelli che sono i link su internet, i vari contatti, l’aggiornamento del sito, il
blog… Il sito internet è di per sé interattivo, quindi, se non c’è qualcuno
dedicato, difficilmente si riesce a raggiungere l’obiettivo. Come vedete ci sono
delle cose importantissime sul sito; il 5 per mille da una parte e il «dona subito» dall’altra. Questo significa che uno, entrando nel «dona subito», può fare
una donazione tramite carta di credito e specificando quanto lascia e per cosa
lo fa. In modo automatico, finita l’operazione, si riceve una mail in cui si dice:
«Caro Giovanni, abbiamo ricevuto l’offerta che tu hai fatto di 3, 4 o 6 euro
(quindi non una somma generica, ma esattamente quello che è stato dato)», e
tempestivamente se ne dà comunicazione alla famiglia che lui ha indicato.
Questo è il blog del nostro presidente.
Siamo poi presenti su Facebook, abbiamo un gruppo in cui raccontiamo
gli eventi e immettiamo i comunicati stampa.
Adesso avremo direttamente anche le notizie sull’home page, le varie
dichiarazioni del nostro presidente, le comunicazioni, in maniera che le persone che entrano sul sito internet possano vedere chiaramente se la notizia
che hanno letto riguardante l’ANT sia vera o meno.
Sul sito internet c’è uno spazio dedicato a chi vuole diventare Volontario.
Abbiamo diversi spot su Twitter o You Tube.
Chiudo con altre due diapositive.
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Il bilancio 2010 è ancora da licenziare; nel bilancio 2009, per quanto
riguarda gli enti pubblici e le fondazioni bancarie, è il 2%. Le convenzioni non
raggiungono il 20% del nostro ricavato. Il resto viene dai sostenitori, dalla
raccolta fondi. Per noi è strategico il dipartimento raccolta fondi.
Sulla parte destra c’è la destinazione degli oneri. L’avanzo di gestione del
2009 è stato del 18%, perché il 5 per mille del 2008 è arrivato il 25-26 di
dicembre (come anche voi avete verificato), quindi era impossibile metterlo a
bilancio. Non è possibile tuttora mettere a bilancio il 5 per mille, perché non
è legge dello Stato ma proroghe che tutti gli anni vengono fatte, come abbiamo detto più volte.
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Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
È possibile vedere, oltre all’efficienza, anche l’efficacia di questa gestione
dei fondi. Nel 2009 il totale degli oneri (costi dei medici, della sottoscritta,
della direzione, dell’amministrazione) è stato suddiviso per il numero di giornate di assistenza.
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Quindi, una giornata di assistenza ANT fatta da un medico, un infermiere,
uno psicologo, contributi che diamo alle famiglie, servizio sociale, costa circa
18 euro al giorno. Una giornata in ospedale di media intensità costa circa 670
euro! A casa il Sofferente raggiunge due obiettivi: primo, è trattato con una
intensità paragonabile ad un hospice e, secondo, può stare vicino ai propri
cari. Non è quindi solo il “tenere la mano”, ma cure specialistiche.
Con questo abbiamo voluto dire che noi come ANT abbiamo una nuova
idea di civiltà della persona, che è basata sull’espressione di un amore universale, la verità, la vita, la dignità e Dio. Non un diritto dell’individuo basato
sulla contrattazione tra lo stato, con quello che può offrire, e l’individuo.
Riteniamo che una civiltà senza dei valori universali e condivisi sia una civiltà
che non abbia futuro.
Stefano Gheno
Ringraziamo Raffaella Pannuti per la sua comunicazione e per l’entusiasmo
che ha messo per comunicarcela. Volevo sottolineare solo due cose. La prima
è che in nessun modo la comunicazione è stata da loro intesa come attività
accessoria. È evidente per come è stata presentata, per l’entusiasmo che ci ha
messo e per le cose che ha detto, che la comunicazione è parte integrante del
core della loro Fondazione. Molto spesso invece le opere sociali peccano su
questo tema, che provoca divisione e quindi inefficacia.
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Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
L’altra osservazione è che, pur nella assoluta concretezza, professionalità e
operatività, quello che si coglie è un utilizzo non opportunistico della comunicazione. Quest’accentuazione del legame, la volontà di dialogo e di costruire
fiducia, come diceva lei, è il desiderio di incontrare davvero le persone. Anche
questo è molto interessante.
Lasciamo ora la parola a Dario Bolis, direttore alla comunicazione e alle
relazioni esterne di Fondazione Cariplo. Il suo punto di vista è esattamente il
contrario, cioè il punto di vista di chi deve dire di sì o di no!
Dario Bolis
Buongiorno a tutti.
La Fondazione Cariplo, nel rapporto con gli stakeholder, vive un rapporto
diverso. Noi, cioè, siamo quelli che in teoria (quando mi capita di parlare
cerco di essere molto semplice e brutale) regalano i soldi. Detto così, dici: è
semplice, tutti ti vogliono bene e ti apprezzano. In realtà, si fa sempre più
fatica a farsi voler bene anche in questo campo. Quindi il rapporto con gli
stakeholder diventa fondamentale.
Noi ci dotiamo di informazioni per capire quanto possiamo migliorare le
nostre attività: abbiamo delle attività di customer satisfaction per capire se
facciamo bene il nostro mestiere.
La prima cosa che vi presento sono le indagini sulla percezione di notorietà. Per vedere i risultati dobbiamo capire cosa facciamo.
Noi siamo tra i principali organismi filantropici al mondo: da 136 milioni
di euro nel 2005, siamo passati a 211 milioni di euro erogati nell’anno di picco
che era il 2008. L’anno di picco c’è stato proprio nel momento della crisi, con
un significato preciso: non che ci fossero più risorse in giro, ma Fondazione
Cariplo ha cercato di attingere a delle riserve, che per fortuna gli amministratori hanno messo da parte nei momenti in cui, come dice il presidente
Guzzetti, «le vacche erano più grosse», perché era in quel momento specifico
che bisognava dare un segnale di coerenza nei confronti del mondo del
volontariato e del non profit che aveva più bisogno. Non facciamo commenti, però notiamo che se, nel momento di crisi, uno tira indietro il suo braccino,
evidentemente non fa il suo mestiere. Anche di fronte a questo, però, siamo
tornati nel 2010 a dei livelli normali: circa 200 milioni di euro all’anno.
Noi abbiamo alcune “principesse” di cui ci occupiamo: i servizi alla persona, l’arte e la cultura, la filantropia, il volontariato e la ricerca scientifica.
Questo non è un concetto chiaro: di solito la Fondazione viene vista come
avente i suoi campi di intervento soprattutto nell’arte e cultura e nei servizi
alla persona. Ma non è così.
Gli aspetti della comunicazione sono per tutti uguali; noi abbiamo la
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Cenerentola che è l’ambiente, che è quella che ha ricevuto meno dal punto
di vista dell’erogazione: sta a un 2%. I settori sono abbastanza equilibrati.
Negli ultimi anni la moda e la sensibilità hanno cambiato un po’ di cose e
quindi oggi l’ambiente non è più la Cenerentola, ma è dignitosamente un’attività che riceve 111 milioni di euro per progetti e sta al 6%, quindi sta crescendo.
Questa è una prima panoramica per capire cosa facciamo.
Sembra però ancora brutale: siamo i “Paperoni”, siamo quelli che danno
via i soldi, che aspettano le domande di contributi e alla fine bocciano i progetti… insomma veniamo visti così. Voglio farvi capire che noi ragioniamo
con un criterio simile a quello del profit: per noi investire in comunicazione
non vuol dire prendere un po’ di soldi e comprare gli spazi pubblicitari.
Anche perché non ce li danno: il responsabile della comunicazione di
Fondazione Cariplo non ha budget. Anche noi lavoriamo low cost. È un concetto molto banale ma efficace: per noi tutti i progetti che facciamo si devono
trasformare in comunicazione, altrimenti non li faremmo.
Cominciamo così a entrare nel tema degli stakeholder. Se noi finanziamo
1.000 progetti l’anno, di cui 300 su arte e cultura, ci sono 300 organizzazioni
che dovrebbero occuparsi di fare quell’attività. Il che succede molto raramente. Quello che succede è invece che quelli che devono fare il progetto si
concentrano sul progetto; alla fine devono fare il convegno e dicono: «Ci
manca il convegno, torniamo da Fondazione Cariplo e facciamoci dare anche
i soldi per il convegno». Ma noi iniziamo a dire dei no, e il rapporto con gli
stakeholder comincia a farsi complicato. Dicono: «Questi ci danno i soldi e poi
pretendono…». Tutto nasce da un concetto che si è sviluppato 4 o 5 anni fa.
Quando sono arrivato io non si poteva parlare di comunicazione. Il filantropo,
si pensava, è quello che regala i soldi ma non deve dire niente a nessuno. Io
allora ho guardato attentamente quello che fanno loro e ho visto i manifesti
che mettono in giro per le città con nomi e cognomi dei donatori. Ho pensato che loro hanno sviluppato una sensibilità nei confronti dei donatori. C’era,
cioè, questo concetto molto elegante, del fatto che il mecenate dovesse stare
nascosto. Io all’inizio ho fatto fatica: immaginate di arrivare in un’organizzazione come Fondazione Cariplo dove, anche solo per spostare una penna,
giustamente, devi chiederlo… Iniziare a fare comunicazione voleva dire rovesciare la testa di un po’ di persone. E bisognava sapersi muovere in maniera
discreta, soprattutto con le persone che erano lì da un certo tempo.
A un certo punto ho avuto l’occasione di incontrare l’avvocato Guzzetti e
di dire: «Avvocato, c’è una sostanziale differenza tra un imprenditore che decide di staccare l’assegno per una comunità di recupero e chiede che non si
dica perché quello è un gesto fatto dal proprio portafoglio in una certa dire122
Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
zione, e le fondazioni come le nostre, che non staccano assegni propri ma
staccano assegni da un patrimonio generato da 200 anni di tradizione, generata dalle persone che hanno vissuto qui. Quindi è necessario che questo
accada! Buttiamo via tutto quello che abbiamo fatto finora e cominciamo a
raccontare quello che facciamo». Promisi però di farlo in maniera educata e
mai esagerata. Il problema sta nell’equilibrio: non si fa pubblicità, non possiamo dire che siamo i più bravi e i più belli. Infatti tante volte queste cifre non
le posso dire, altrimenti succede l’esatto contrario; dicono: «Arriva questo e
parla di 200 milioni l’anno». 200 milioni l’anno è una cifra spaventosa!
Se andassimo a rapportarci con il modello di comunicazione profit, uno
investe in comunicazione e si aspetta un ritorno in termini di visibilità. Noi
abbiamo visto sostanzialmente che i mezzi di comunicazione parlano di noi
al 13% (faccio l’esempio dell’ambiente) a fronte di un’attività di progetto al
6%. Quindi questo vuol dire che quel settore è trainante, perché ha fatto parlare molto di più di quello che si è investito. Ci sono altri settori invece che
hanno vissuto un trend contrario, come quello della ricerca; ma c’è un motivo: la ricerca che sosteniamo noi non è una ricerca scientifica di base, cioè
non è l’AIRC che ottiene un ritrovato che impatta direttamente sulla persona
e sulla malattia e quindi la popolazione sa che AIRC ha fatto qualcosa che
può aiutare tutti. Fondazione Cariplo, invece, sostiene una ricerca di alto
livello, che non impatta direttamente sulle nostre vite. Ma se si costruisce un
laboratorio di microbiologia molecolare, quel laboratorio verrà usato dall’AIRC
per conseguire risultati che poi useranno tutti. Ma questo è più difficile da
comunicare.
Un po’ di posizionamento va fatto: quando siamo partiti c’erano circa 8.000
persone al mese che passavano per il nostro sito, adesso siamo passati a
30.000. Quindi c’è stato un certo incremento. E considerate che vengono a
cercarci solo perché cercano soldi…!
Noi ci poniamo allora questo obiettivo e questo problema, perché chi
entra nel nostro sito va a scaricarsi l’opuscolo dei bandi: che senso ha allora
costruire tutto il resto, comunicazioni e informazioni? Ha senso perché, come
vedremo nell’indagine di percezione e notorietà, noi non vogliamo passare
come un bancomat. Se passassimo come i bancomat, infatti, avremmo due
risultati negativi: il primo è che non riusciremmo a separare la nostra immagine da quella della Banca (devo dirlo, anche se qui siamo nella sede di
Banca Intesa! L’ho detto anche a loro: noi abbiamo questa necessità); ci chiamiamo Cariplo, ma dobbiamo far capire che non c’entriamo più nulla con
loro. Se non lo facciamo capire, qualcuno arriva ancora con il libretto di
risparmio cercando gli sportelli! A volte mi hanno fatto delle telefonate dove
qualcuno mi chiedeva come accendere un mutuo... Il secondo è che non
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
riusciamo a far capire che c’è una scelta strategica di intervenire su alcuni
settori per cercare di risolvere dei problemi. I progetti che vengono presentati sono tutti buoni, ma qualcuno prevede delle attività che non sono di pertinenza di una fondazione come la Cariplo. Faccio un esempio: se uno deve
comprare dei libri scolastici, che sono delle necessità, questo è un problema
non di nostra pertinenza. Noi ci occupiamo di sussidiarietà, e lo facciamo
privilegiando quei progetti che in qualche modo possono fungere da leva
anche per altri. Questo poi cercheremo di capirlo.
Oggi le fondazioni hanno ancora una bassa visibilità e comprensione. Oggi
però abbiamo anche un altro problema, che riguarda gli stakeholder. Ci sono
fondazioni anche di carattere politico; nel fare di tutta l’erba un fascio, si vede
che c’è una fondazione che si occupa di un partito, e allora perché un’altra
invece ti regala i soldi? Io posso avere un problema di immagine, che è un
problema diverso; ma chi fa raccolta fondi, che deve fare leva sulla serietà e
sulla garanzia, quando si trova di fronte a queste incertezze, ha dei problemi.
Oggi Fondazione Cariplo è cresciuta del 12% a livello di notorietà; mi
dicono che è un buon risultato. Come l’abbiamo ottenuto? Ci sono altre fondazioni che crescono, ma quali sono queste fondazioni? Quelle che fanno
fund raising, perché più conosciute di Fondazione Cariplo – come la FAI, la
Fondazione Veronesi -, quelle fondazioni cioè che hanno la necessità di fare
comunicazione anche con campagne mediatiche molto importanti, perché
fanno la raccolta fondi. Noi non facciamo pubblicità, ma cerchiamo di lavorare sui nostri stakeholder in maniera diversa. Sta migliorando la nostra conoscenza di una fascia che ci interessava molto, che è quella dei giovani tra i 18
e i 30, una fascia critica. Quello che sta succedendo è che veniamo interpretati sempre un po’ meno come bancomat, il che vuol dire che almeno le
organizzazioni di volontariato stanno iniziando a capirci.
Abbiamo avuto un ottimo incremento nella nostra percezione di notorietà,
che ci fa capire che le persone hanno in mente di più quale è il nostro modo
di lavorare e ci vedono come oculati, affidabili, potenti (anche se questa
potenza è troppo ostentata!). La solidità è sicuramente un fattore che ci piace.
Abbiamo fatto una campagna di comunicazione, che sta girando grazie agli
stakeholder. Quando sono andato a presentarla al presidente Guzzetti, mi ha
detto che è molto bella ma di farla senza spendere. Come possiamo fare una
campagna di comunicazione senza spendere? Usando le leve che sono nelle
nostre possibilità, gli stakeholder. Cioè quegli stakeholder che non sono ancora abituati a comunicare, che si lamentano perché sono poco conosciuti, perché quando fanno una conferenza stampa non ci sono dieci giornalisti… ma
questi sono anche gli stakeholder che si dimenticano di mettere il logo di un
donatore, di quel donatore che deve farsi pubblicità, ma loro non capiscono.
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Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
Ci sono esempi di organizzazioni piccolissime che sono bravissime (e
qualche volta assillanti!) perché ti chiedono 10 volte dove mettere il logo su
un volantino che magari va a 50 persone. Ma è giusto, perché hanno compreso la relazione con chi ti dà i soldi. Si fa così con le persone: io se dovessi
essere dall’altra parte, ci terrei a rendere più forte quella relazione. Ci sono
invece enti giganteschi (non faccio nomi perché è imbarazzante, ma dico che
sono qui di Milano) che hanno preso 25 milioni di euro per fare delle cose
molto grosse, dei castelli, dei palazzi, e si dimenticano di invitarti alla conferenza stampa di presentazione o ti invitano il giorno prima… oppure in questo palazzo o castello non c’è neppure una targa! Come si fa? Qui la relazione
con gli stakeholder diventa complicata: bisogna picchiare i pugni sul tavolo!
Ed è brutto che il donatore debba picchiare i pugni sul tavolo.
Così abbiamo chiesto agli oltre 4.000 enti con cui lavoriamo di darci una
mano. Ed è successo che oltre 500 organizzazioni ci hanno dato i loro strumenti, che vuol dire i loro siti, i loro spazi e altro, per fare una campagna che
raggiunga diversi scopi. Non solo la pubblicità, ma chiarire il ruolo che abbiamo di sostegno al non profit, lo scopo non solo filantropico. Dobbiamo separare le immagini e incrementare la notorietà.
Adesso vi spiego perché dobbiamo incrementare la notorietà. La notorietà
va aumentata per obiettivo di trasparenza: questa parola, che ho già sentito
prima, che è una parola abusata, è fondamentale. Se ai bandi di Fondazione
Cariplo partecipano 100 persone, siamo contenti; se partecipano 1.000 persone, abbiamo qualche problema in più ma probabilmente abbiamo raggiunto
un altro risultato, cioè che si è allargata la platea. Un altro punto importante,
infatti, per chi fa il nostro mestiere, è che non posso concentrarmi sempre
sulle solite persone. Il problema nella relazione con gli stakeholder è: nel
momento in cui arrivano in 1.000 a chiedere, come gestisci la relazione con
lo stakeholder, sapendo già che a 500 dovrai dire di no? Questo è un aspetto
critico. Allora il segreto sta nell’impostare l’accordo all’inizio. Noi diciamo
prima le regole di ingaggio: noi possiamo finanziare nei 4 settori detti all’inizio, e su specifiche tematiche. Nei servizi alla persona non possiamo occuparci di tutto. Magari ci occupiamo dei disabili, ma dei disabili non riusciamo a
sostenere l’assistenza tout court; ci siamo invece dedicati all’housing, alla
domotica, le cose a cui nessuno pensa, perché invece all’assistenza ci pensano le organizzazioni. Il problema è gestire quella parte. Devo dire che sempre
di più riusciamo a farlo incontrando le persone; se 3 anni fa incontravamo
faccia a faccia 1.000 persone all’anno, quest’anno ne incontriamo 10.000. Il
che è un grosso sforzo chiesto alla struttura. Fondazione Cariplo infatti (non
molti lo sanno) è fatta di 45 persone: 45 persone per gestire un fatturato di
200 milioni di euro. Il che vuol dire che comunque è stata messa in piedi una
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
macchina che va abbastanza veloce. Loro sono bravissimi anche nel far vedere quanto i costi di gestione e quelli di raccolta siano dentro un equilibrio: se
un donatore eroga 100 milioni di euro, può spenderne 150 per tenere in piedi
la struttura. Noi oggi abbiamo un rapporto tra struttura e erogato che è intorno al 4%. È un buon rapporto, soprattutto perché non abbiamo volontari,
dobbiamo avere persone molto professionalizzate. Oggi infatti chi valuta i
progetti non è più il funzionario di banca, il direttore di filiale che vede una
cosa bella e dice che va bene. C’è l’architetto, perché se devi mettere a posto
un castello, devi capire se quel business plan funziona o se invece c’è qualcuno che sta gonfiando le spese.
Questo è il rapporto con gli stakeholder: un po’ di severità. Questa severità qualche volta non viene compresa, altre volte viene molto apprezzata.
Questo vuol dire che nel momento in cui qualcuno si interfaccia con
Fondazione Cariplo e gli viene detto un no, possiamo ottenere due risultati:
o ce li facciamo nemici, oppure siamo così bravi da far loro vedere perché la
cosa non ha funzionato, aiutandoli a rimodellare il progetto che magari dopo
viene premiato. Così il progetto alza il suo valore, la sua efficacia. Non si butta
indietro un progetto per dirgli che non era efficace, ma lo si rimanda per
fargli acquisire più valore.
Questa severità, che credo sia opportuna oggi in un periodo di scarsità di
risorse, viene però stemperata da altre attività di Fondazione Cariplo. La severità sta nel definire le modalità con cui la Fondazione eroga, che sono principalmente 4 o 5. La prima sono i bandi. A volte vengono da me e mi dicono:
«Non riesco a partecipare al bando perché è troppo complicato». Io, che mi
occupo anche di relazioni esterne, dico: «Lei si siede e prepara un progetto
per un bando di Fondazione Cariplo; se il progetto funziona porta a casa una
cifra che mediamente si aggira tra il 150 e i 200 milioni di euro». Ci vuole un
po’ di fatica! Siamo abituati a fare le cose facili… Quando tu spieghi questa
cosa, quando dici che Fondazione Cariplo ha strutturato una serie di livelli
dai più facili ai più difficili, spieghi che loro devono solo capire in quale livello si infila la loro organizzazione: «Se dovete organizzare un evento, l’evento
è complicato, però in una mezza giornata riuscite a fare la lettera in cui lo
chiedete, abbinate a questa lettera il programma dell’evento, e se la cosa vale
portate a casa tra i 3.000 e 5.000 euro… in un mezzo pomeriggio! ».
Se uno vuole fare un progetto per una casa di accoglienza per ragazze
madri, dovrà impegnarsi un po’ a pensare come metterla in piedi e soprattutto come tenerla in piedi dopo. Il problema infatti è gestionale. Cominciano
qui le prime difficoltà. Il rapporto con gli stakeholder è anche questo: «Come
faccio, se la Fondazione mi finanzia la prima parte, ad andare avanti? Certo,
è vero, ma sembra quasi che io faccia qualcosa di male perché faccio solo
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Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
quel pezzetto!». Ma noi non possiamo sostenere l’attività gestionale ordinaria
e quotidiana delle organizzazioni. Quando però arrivano delle organizzazioni
e dicono: «Io ho un bel progetto ma nei vostri bandi non c’è», noi allora cerchiamo di spiegare loro che ci sono anche delle altre modalità. Noi abbiamo
una possibilità che si chiama “extrabando” nella quale possono rientrare altri
progetti buoni e sui quali la Fondazione non mette il massimo delle risorse.
Si può partecipare per chiedere un contributo. Il modulo extrabando, parlando in termini burocratici, sono 8 pagine per spiegare cosa vuole fare l’organizzazione; se lo fa bene, ci mette un po’ di più di quello che ci vuole per
fare la lettera: a impegno corrisponde un risultato. Normalmente a un modulo extrabando corrisponde un contributo tra i 30.000 e i 50.000 euro. Non è
che tutti i progetti passano: il 50% dei progetti non passa.
C’è allora anche un altro metodo, molto simile a quanto fanno le organizzazioni di fund raising: il metodo delle fondazioni locali. Quando Fondazione
Cariplo si è resa conto di un problema gestionale di come fare a mappare tutto
il territorio di competenza - Lombardia, Novara e Verbania (come si fa a sapere se a Sondrio c’è una piccola organizzazione di volontariato che ha bisogno
di una ambulanza? E come facciamo a sapere se quella ambulanza è importante per l’organizzazione? Non ci arriveremo mai!) -, per coprire questo territorio ha creato 10 anni fa le fondazioni locali, piccole fondazioni su ogni
provincia, che fanno esattamente quello che fa Fondazione Cariplo, anche se
in maniera più ridotta. In questa maniera riescono a sostenere altri progetti,
mediamente 1.000 progetti. Quindi in un anno in Lombardia 2.000, 2.500 progetti si realizzano grazie a Fondazione Cariplo e a queste piccole fondazioni,
le quali fanno fund raising; il meccanismo di leva è interessante: la Fondazione
Cariplo le ha fatte nascere, ha dato all’inizio un patrimonio di 10.000 euro ma
poi ha detto: «Ti arrangi, adesso ci pensi tu a incrementare quel patrimonio».
Cosa vuol dire? Che loro hanno la necessità sul territorio di raccogliere fondi;
lo fanno con azioni che vanno dai lasciti alle imprese, creano dei fondi con lo
stesso meccanismo con cui lavora Fondazione Cariplo, cioè il patrimonio non
viene mai intaccato - il motto antico è quello che dice: «Preservare il patrimonio per donare sempre più» -, quindi creano dei fondi e il ricavato di questi
fondi viene usato per sostenere i progetti.
Come vedete sono molte le possibilità con cui gli stakeholder si interfacciano con la Fondazione; però ci sono tre problemi.
Uno è quello della conoscenza: come faccio a sapere cosa fa la Fondazione
o come posso arrivare alla fine della burocrazia? Io oggi quello che posso dire
è che chi si lamenta del fatto che non ci sono modalità di accesso a volte lo
prende come scusa. Chi vuole ti trova! Questa parte ormai l’abbiamo superata: magari 4 anni fa era vero, eravamo poco visibili, ma quando sei al 50% di
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
notorietà, vuol dire che uscendo per strada 1 persona su 2 ti conosce e quindi vuol dire che a un certo punto se non viene a cercarmi è perché non ha
bisogno.
Il secondo aspetto è quello della condivisione: Fondazione Cariplo ha
bisogno del feedback degli stakeholder per capire quali sono le esigenze del
territorio. Ci sono dei momenti (come questi che fate voi) in cui incrociamo,
anche con questionari, le associazioni di volontariato, cercando di capire quali
sono i bisogni emergenti e cercando di anticiparli, non correndo dietro
all’emergenza. L’emergenza per noi è importante, ma non è la nostra priorità.
Abbiamo dato dei contributi al terremoto, non ci si può tirare indietro, ma non
è su quello che si eleva la crescita del territorio.
Ultimo aspetto, molto concreto, la customer satisfaction. Le organizzazioni,
anche quelle che alla fine ottengono un contributo, si lamentano di due aspetti. Uno sono i pagamenti, che arrivano troppo in là col tempo. Su questo
bisogna chiedersi: arrivano in là nel tempo perché tu non mi passi le pezze
giustificative o perché noi non siamo abbastanza veloci nell’attivare la procedura? Qualche volta le organizzazioni di volontariato non fanno bene la rendicontazione e noi diciamo: se in 20 anni abbiamo sostenuto più di 23.000
progetti con 2 miliardi di euro, potendo dire che non c’è stato uno scandalo,
forse è perché quella severità di chi ha guardato la rendicontazione è servita!
Noi non possiamo scivolare su questo, basterebbe una piccola cosa per rovinarci non tanto l’immagine, quanto un lavoro fatto in tanti anni. C’è poi anche
la possibilità che il pagamento arrivi lentamente perché noi facciamo i mollaccioni davanti al computer. In questi anni ci siamo dotati di un segretario
generale, che viene dal profit, che ha lavorato nella grande distribuzione (era
amministratore delegato di una catena di supermercati): è fondamentale, perché un uomo capace di misurare l’incremento del costo delle patate di anche
soli 2 centesimi, è capace di misurare l’efficienza rispetto a una donazione. Se
io riesco a fare bene quella donazione, tiro fuori un’altra parte che va a un
altro progetto. Quindi la macchina organizzativa è cambiata: oggi i pagamenti avvengono nel giro di 2 o 3 mesi, che è una buona tempistica per pagare.
Sembra assurdo: io regalo dei soldi e se faccio tardi sento pure quello che si
lamenta! Però è giusto che sia così.
L’altro aspetto riguarda gli sfasamenti temporali che le organizzazioni di
volontariato sono costrette a subire: loro partono con il progetto ma non
hanno i fondi. Ed è un problema. Fondazione Cariplo allora ha fatto due cose:
ha inserito nella propria modalità la possibilità di dare un anticipo. Se prendi
100.000 euro per un progetto, noi possiamo anticiparti il 30% sulla fiducia, che
è un buon livello, perché io ti do i soldi senza sapere come li userai. E, secondo, ha fatto un accordo con chi di mestiere lavora in banca: per chi ha un
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Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
problema di liquidità nel periodo che sta nel mezzo, di fronte a una delibera
di Fondazione Cariplo in cui è scritto che quell’organizzazione ha preso dei
soldi da noi e che arriveranno a rendicontazione, la banca si impegna a colmare quel periodo di difficoltà (perché dal punto di vista amministrativo
questa è la fatica).
Sulla relazione con gli stakeholder possiamo dire che le cose sono
migliorate, stanno migliorando; noi confidiamo molto in queste relazioni e
abbiamo cercato di personalizzare le modalità comunicative. Infatti veniva
fuori che eravamo una fondazione troppo distante, chiusa in un palazzo di
vetro: questa cosa è dovuta cambiare prima in noi che negli altri. Nel frattempo le cose stanno andando bene, quindi credo che le relazioni che sono
maturate in questi anno sono quelle che hanno consentito ai progetti di
essere realizzati.
Stefano Gheno
Grazie a Dario Bolis per questo intervento, che credo sia stato chiarificatore di molti aspetti non banali e non secondari che ci stanno a cuore.
Mi ha colpito molto, del suo intervento, il fatto che il finanziatore, l’erogatore e l’operatore del progetto siano partner. In questo modo il progetto è
davvero possesso comune di chi è interessato al bene; per questo è importante saper parlare alle fondazioni bancarie, che in questi tempi hanno davvero a disposizione delle risorse altrimenti impossibili.
DIBATTITO
Intervento
Da un po’ di tempo ho l’opportunità di occuparmi professionalmente di
fund raising a livello consulenziale. Sono rimasto colpito dall’impostazione
data da Raffaella Pannuti alla questione dell’attività legata alla raccolta fondi
e alla comunicazione, in termini di attivazione di relazioni di fiducia. Per
esperienza posso dire che questo è il punto fondamentale, che permette di impostare la questione del fund raising come questione strategica e non occasionale,
perché la relazione di fiducia diventa il patrimonio della organizzazione che
nella sua attività può avere l’opportunità di chiedere fondi.
Chiedo se può fare un affondo sulla possibilità, sull’opportunità e la fattibilità di misurare questa fiducia. La posso misurare solo alla fine dell’anno
quando faccio la somma di quanto ho raccolto? Cioè la lego solo alla raccolta
fondi o in qualche modo la posso misurare e tenere come un parametro da
legare all’attività ordinaria e complessiva dell’organizzazione? Se sì, come?
129
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Intervento
Sono il direttore sanitario della Fondazione XXX.
La mia domanda è un po’ spostata dall’aspetto di raccolta fondi, è più sulla
gestione della sostanza dell’attività, sempre però legata agli stakeholder.
È la questione dei volontari. La dottoressa Pannuti ha parlato di volontari
impegnati in tutta l’attività di raccolta fondi; volevo sapere se ci sono dei
volontari anche all’interno delle équipe, che fanno un’attività di supporto
all’assistenza delle persone. Ne ha fatto un accenno parlando della raccolta
alimentare, che evidentemente avete iniziato a fare perché vi siete resi conto
che nelle persone che accudite e nell’ambito delle medicazioni ci sono anche
queste necessità.
Vorrei capire come avviene, come viene vista la figura del volontario, che
poi aiuterà l’équipe, con gli ammalati o con le loro famiglie; e che tipo di attività viene fatta, se c’è, per reclutarli e per sostenerli.
Raffaella Pannuti
Vediamo la questione della fattibilità di misurare la fiducia: non è così
semplice, soprattutto quando si investe in pubblicità. Ci siamo chiesti come
questa comunicazione che noi facevamo realmente supportava la raccolta
fondi. Visto che questo è il primo anno in cui in qualche modo abbiamo
investito di più in pubblicità, questo ancora non ci è chiaro.
Per quanto riguarda la fiducia abbiamo un termine di relazione molto
intuitivo, che è il 5 per mille. Il 5 per mille è una scelta, non è una donazione
che uno fa a un banchetto che trova per strada: nel momento in cui si fa la
denuncia dei redditi, si decide che il 5 per mille va alla Fondazione ANT.
Quest’anno 90.000 persone hanno scelto di scrivere il nome ANT nella loro
dichiarazione dei redditi.
Un altro indice di fiducia misurabile è quante volte una persona fa una
donazione all’ANT: noi mandiamo la «Gazzetta eubiosia» con un bollettino
postale e la gente lo rispedisce facendo un’offerta. La tiratura è di 220.000
copie circa, come dicevamo, lo spediamo a circa 160.000 persone, per l’aumento delle tariffe postali, quindi facciamo una scelta tra i nostri donatori in
base alla periodicità o all’entità della donazione. Questi sono i due parametri.
C’è poi l’aumento in fatturato delle campagne, che però è da verificare.
Per quanto invece riguarda i Volontari, noi abbiamo dei Volontari che si
affiancano ai professionisti nella cura del sofferente. Dal punto di vista professionale, sono medici, infermieri, psicologi e via dicendo, pagati dall’ANT;
invece i Volontari si avvicinano all’ANT con un corso di secondo livello. Il
corso di primo livello è quello che noi facciamo per quelli che fanno il banchetto, per saper dire cos’è l’ANT. Poi c’è un secondo livello, selezionato dagli
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Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
psicologi, in cui gli psicologi ritengono che la persona possa andare a casa
del sofferente, il che non è scontato (la persona deve essere preparata psicologicamente), e affrontano questo secondo livello andando a casa del sofferente facendo una parte sociale, che può essere stare con la persona, o andare a pagare una bolletta. Così affiancano i professionisti; non è semplice e non
ne abbiamo molti (qualcuno a Bologna, qualcuno a Taranto).
Stefano Gheno
Mi piace molto il tema della partnership tra chi fa l’azione di promozione
sociale e chi contribuisce attraverso la dotazione di risorse economiche. Se
dovesse suggerire una modalità particolarmente efficace per un richiedente,
quali direbbe che sono gli elementi su cui prestare attenzione anche rispetto
a quelli che vengono trascurati?
Dario Bolis
Io cerco di essere molto diretto. Per sapere bene le cose, bisogna saperle
copiare bene, possibilmente migliorandole.
Noi stiamo anzitutto cercando di far capire agli enti che non sono in concorrenza fra di loro. Questa la prima cosa: la partnership è a due livelli, con
noi ma anche con gli altri enti che fanno quelle attività. Questo è un primo
criterio: nei progetti di Fondazione Cariplo chi si presenta con un pool ottiene
un punteggio più alto, proprio perché le risorse a disposizione sono spese
meglio. Faccio l’esempio della ricerca scientifica: chi si occupa di ricerca
scientifica tende a farlo da solo, perché spera di avere dal ricavato di quella
ricerca, anche successivamente, una fonte di business. Difficile che i ricercatori si mettano insieme perché credono tutti nella stessa causa. Con la leva
severa dei soldi, la Fondazione ha detto ai centri di ricerca: noi finanziamo un
progetto quando siete almeno un tre. Così sono obbligati a mettersi insieme,
magari scoprono che mettendosi insieme vanno d’accordo e riescono a
migliorare la qualità di quel progetto.
Dicevo del copiare: è vero, ci sono dei punti di eccellenza che vanno
messi a disposizione di tutti. Quello che oggi Fondazione Cariplo sta cercando di fare è proprio mettere a disposizione di tutti un grosso patrimonio, cioè
tutto il database dei progetti finanziati in questi 20 anni. Così io vado sul sito
di Fondazione Cariplo e siccome mi occupo di assistenza ai disabili, cerco di
capire come sono fatti i progetti di assistenza ai disabili. Questo vale più di
mille parole e di mille bandi: vedere come è stata fatta una cosa e replicarla,
declinandola sulla mia necessità a livello locale. Così si evitano gli errori.
Quindi la partnership avviene in due modi. La prima è questo mettere a
disposizione la conoscenza, che svilupperemo attraverso il social network. Il
131
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
social network a noi serve a chiacchierare, è uno strumento efficacissimo ma
spesso viene svilito perché si racconta della fidanzata o si fanno vedere le foto
delle vacanze. Invece è uno strumento molto importante, che noi utilizzeremo e
così tutti gli enti che lavorano con noi potranno raccontare come fanno le cose.
La prima questione è quella della concorrenza, come dicevo, che però non
basta.
La seconda cosa è che quando un’organizzazione ha un progetto o anche
solo un’idea di progetto, la Fondazione ascolta prima: «Piuttosto che venire
con 200 pagine di progetto, vediamoci». Quando tra gennaio e febbraio facciamo il giro di tutte le province per presentare i bandi, cerchiamo di spiegare questo: «Vediamoci prima, quando avete l’idea in mano, prima che il progetto sia cantierabile». Così c’è davvero partnership: lavori meglio tu e lavora
meglio la Fondazione. Per questo si è abbassata la quota dei progetti che
vengono respinti, perché la partnership funziona meglio, diventa meno complicato e meno imbarazzante anche dover dire di no.
Intervento
Sono dell’Associazione XXX, che svolge attività di volontariato nei carceri.
Noi sosteniamo psicologicamente e materialmente i detenuti.
Ho una domanda per il dottor Bolis. Volevo chiedere se (già in parte lo
accennava) può approfondire quali sono le linee strategiche su cui puntate per
il 2011-2012. Ho visto che l’ambiente è sicuramente privilegiato, però volevo
capire se tra le 5 “principesse” di cui ha parlato all’inizio c’è un focus particolare; magari legandolo al fatto che questo è l’anno europeo del volontariato.
Ho una domanda anche per il dottor Gheno. Una difficoltà che la nostra
associazione talvolta incontra è quella di come impostare i progetti, perché
magari per un’associazione di volontariato non è così chiaro chi sono gli stakeholder. Chi sono i nostri stakeholder? I detenuti? Le loro famiglie? La società
civile? Questo rimane difficoltoso anche nell’impostazione della nostra relazione verso l’esterno, la comunicazione e i temi di cui avete parlato oggi.
Dario Bolis
Io ho parlato dell’ambiente perché i dati dicono che sta crescendo. Le
scelte strategiche, dicevo, vengono fatte anche ascoltando il territorio quindi,
visto che la voglia di ambiente sta aumentando, anche noi aumentiamo la
nostra attenzione. Non è però diminuita l’attenzione agli altri 4 settori.
Affronto il tema dei servizi alla persona, dove sta anche il tema cui ha fatto
riferimento lei, il lavoro dentro le carceri. Quest’anno abbiamo presentato 31
bandi in senso generale, credo ve ne siano almeno 10 o 11 sui servizi alla
persona. I temi sono anzitutto la coesione sociale, che è una parola compli132
Le relazioni con gli stakeholder - 29 marzo 2011
cata che vuol dire qualcosa di trasversale a tutte le organizzazioni di volontariato. Se un’associazione di volontariato organizza qualcosa nelle periferie
disagiate, come in viale Padova, e riesce a risolvere con le attività quotidiane
il problema della aggregazione di persone di culture diverse, questo è tema
più importante di quello dell’assistenza di una persona malata. Abbiamo
messo molte risorse su questo bando, credo circa 2 milioni di euro. C’è poi il
tema della integrazione culturale: stiamo lavorando in tutte le scuole della
Lombardia, che vogliono portare avanti dei progetti affinché le culture diverse si incontrino. Come vedete, sono tematiche sussidiarie, che probabilmente
non molti oggi hanno in mente.
Nello specifico delle carceri, è stato attivato l’anno scorso un bando che
punta a tirare fuori i carcerati: noi continuiamo a sostenere progetti che puntano a fare attività nelle carceri, dentro le mura (mi vengono in mente alcune
cose curiose come i laboratori di cucina o di produzione di vestiti e abiti), ma
questo ha un limite: il tenere le persone lì dentro.
Siccome però c’è una normativa che parla della possibilità di portare le
persone fuori dal carcere, almeno durante la giornata, per fare attività produttive, abbiamo siglato una convenzione con il Ministero per sostenere quelle
iniziative credibili, che garantiscano che le persone facciano poi ritorno al carcere. E sono altri 2 milioni di euro perché queste persone tornino a inserirsi.
Ci sono poi le tematiche legate all’housing sociale, che sono un problema
in Italia per le famiglie; questo tema sta producendo delle soluzioni notevoli,
tant’è che il piano casa del governo dovrebbe realizzare 20.000 appartamenti
in Italia, ed è stato realizzato sulla base del piano di Fondazione Cariplo,
piano che prevede 3 fondamentali ambiti di intervento. Ci deve essere qualcuno che mette a disposizione le aree gratuitamente, e di solito è il Comune;
ci deve essere qualcuno che gestisce questi villaggi, di solito cooperative; e ci
deve essere qualcuno che mette i soldi, di solito le fondazioni bancarie.
Verificati questi tre aspetti, i costi si abbattono, consentendo di avere delle
case di classe energetica A, quindi case modello (ne apriremo qualcuna a
Crema tra poco) che consentono l’accesso alle persone che hanno un reddito
solo. Non è un modello fantascientifico; il problema è solo mettere al tavolo
le persone interessate, anche gli immobiliaristi, che però devono capire che
devono fare solo la loro parte.
C’è poi il tema dell’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate; stiamo affrontando la nuova frontiera dei malati psichici: stiamo finanziando
progetti che portano i malati di mente a lavorare. Continuiamo a finanziare
progetti per malati fisici, ma la frontiera si deve sempre alzare, perché il disabile fisico ha già avuto un avanzamento sociale dal punto di vista del contesto
e oggi è più accettato; ci poniamo invece il problema di come inserire i mala133
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
ti di mente nel tessuto produttivo.
C’è il tema dell’infanzia, il tema legato ai minori, che parte dalle ragazze
madri, anche adolescenti: abbiamo appena finanziato un progetto per le
ragazze che partoriscono a 14 anni, che in Lombardia sono tante. In questi
casi i minori a rischio sono due: la ragazza e il bambino che nasce.
C’è il tema, un po’ marginale, legato agli anziani, non perché ci si disinteressi ma perché può darsi che si inserisca nelle altre questioni, ad esempio
nell’housing sociale (spesso quello che serve è una casa, una abitazione). Sui
temi sociali sono queste le cose principali.
Raffaella Pannuti
Volevo riagganciarmi a quello che diceva il dottor Bolis sul tema della
cooperazione, che è fattibile. Noi collaboriamo con il carcere minorile, recuperiamo i ragazzi e li facciamo lavorare per trasportare i lettini, per quel
periodo di recupero di cui hanno bisogno. Raggiungiamo così due scopi:
accogliere questi ragazzi e provare a reinserirli, e dare una mano ai sofferenti di tumore perché portiamo loro le carrozzine e i lettini.
Si può e si deve fare dunque questa cooperazione, tra onlus, organizzazioni e fondazioni.
Stefano Gheno
Recupero quest’ultima osservazione per concludere questa mattinata molto
densa; ritengo infatti importante per ciascuno prendersi del tempo per riflettere su quello che ci è stato detto.
Volevo segnalare due cose, così magari non rinuncio al tema proposto
dall’ultimo intervento. Credo che entrambi i nostri relatori abbiamo evidenziato due aspetti assolutamente cruciali.
Il primo è la pluralità: questo mondo, grazie a Dio, è grande, le persone
che concorrono al bene comune sono tante, almeno tante quanti sono i bisogni. Questa cosa rassicura. Il concetto anglosassone di stakeholder, che sembra un po’ astratto, diventa così molto concreto, se si pensa alle persone che
sul campo incontrano il bisogno e si accorgono che non è mai esclusivamente specifico. Come ci diceva Raffaella, infatti, c’è una sorta di filiera. È interessante vedere come soggetti vivi e veri tengano conto di questa pluralità nella
forma di manifestazione.
L’altra cosa interessante è che anche la pluralità di soggetti che rispondono
ha la possibilità di stare insieme: anzi, magari forzati dall’ente finanziatore che
li obbliga, sono poi capaci di individuare possibilità di rapporto.
Ringrazio ancora i due relatori.
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Le relazioni con la politica locale nel governo dell’impresa sociale - 19 aprile 2011
19 aprile 2011
Le relazioni con la politica locale nel governo
dell’impresa sociale
Intervengono:
Domenico Pietrantonio
Presidente della cooperativa sociale Solidarietà e servizi
Ilaria Marzi
Dirigente della Direzione generale della Famiglia, Conciliazione, Integrazione
e Solidarietà Sociale della Regione Lombardia
Dario Nardella
Vicesindaco di Firenze
Moderatore:
Stefano Gheno
Docente di Psicologia sociale, Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia
Stefano Gheno
Nel seminario di oggi, che conclude il ciclo, terminiamo la trattazione
iniziata nel seminario precedente, che è quella della relazione con gli stakeholder. Avevamo trattato il tema del rapporto con gli stakeholder privati;
oggi invece l’obiettivo del nostro dialogo è quello di affrontare la relazione
tra impresa sociale di diversa natura e soggetti della pubblica amministrazione.
Abbiamo individuato due tipologie diverse di pubblica amministrazione,
che in maniera differente hanno a che fare con gli enti non profit: la Regione,
ente di governo preposto a coordinare, programmare ed anche facilitare e
sviluppare le politiche sociali che coinvolgono il terzo settore; e il Comune
come ente di servizio al territorio più vicino agli utenti finali e in alcuni casi
erogatore lui stesso di servizi di utilità sociale.
Quando si ha a che fare con la politica e le amministrazioni pubbliche
l’imprevisto è sempre in agguato: era prevista la partecipazione, oltre che di
Dario Nardella, vice sindaco di Firenze, anche del dottor Albonetti, direttore
generale dell’assessorato di riferimento, che è quello delle politiche sociali di
135
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
regione Lombardia. Il dottor Albonetti è stato chiamato dal suo assessore (oggi
c’è il consiglio regionale) su una serie di questioni che riguardano le attività
di giunta, specificamente sull’assessorato alla famiglia, e quindi non poteva
non partecipare. Data però la rilevanza del tema, ha chiesto di intervenire alla
sua collaboratrice dottoressa Ilaria Marzi che è qui al mio fianco, dirigente di
struttura delle attività legislative e riforma della direzione generale famiglia.
Purtroppo abbiamo necessità di ristrutturare l’organizzazione della mattinata. Avevamo previsto di iniziare da un intervento di Domenico Pietrantonio,
presidente della cooperativa sociale Solidarietà e servizi, che avrebbe avviato
il seminario ponendo una serie di questioni a cui i nostri invitati, esponenti
della amministrazione locale, potessero rispondere.
Cercheremo di rispettare questo spirito, ma dovremo dividere l’intervento
di Domenico e le sue domande in due tranche successive. Ci sarà un primo
momento in cui Domenico porrà alcune questioni di particolare rilevanza a
livello regionale, per permettere così alla dottoressa Marzi di intervenire (poi
dovrà lasciarci perché ha una riunione istituzionale con ANCI in Regione) e
poi, nella seconda parte della mattinata, porremo le questioni che sono più
legate al livello locale del Comune.
Passo subito la parola a Domenico che introdurrà le questioni riguardanti
il rapporto con la Regione.
Domenico Pietrantonio
Cercherò di sintetizzare le domande che ora mi stanno più a cuore come
responsabile di un’impresa sociale.
Noi siamo di fronte, per quanto ci riguarda, a uno tsunami. C’è una serie
di cambiamenti che mettono in crisi la modalità con la quale portiamo avanti
la responsabilità delle nostre opere.
Per quanto mi riguarda, e in particolare per l’ambito della disabilità (ma
come vedremo questo non riguarda solo i disabili), ci sono alcuni fatti che
vanno guardati e giudicati e sui quali bisogna lavorare.
Il fatto fondamentale lo sintetizzerei così: c’è stato il passaggio dall’accreditamento all’acquisto dei posti. Cosa è successo? La Regione ormai non opera
più una remunerazione dei servizi sulla base esclusiva dell’accreditamento che
concede ai gestori. Per un problema di risorse (che poi la dottoressa Marzi mi
confermerà) la remunerazione dipende dall’acquisto dei posti da parte della
Regione. Questo non era mai successo prima. Cosa implica? Come fare fronte
a questa diversità di approccio?
Altro aspetto: il budget dei servizi. Quello che abbiamo sottoscritto a fine
anno, per il 2011, rischia di non remunerare i posti che verranno inseriti per
i nuovi utenti, perché è un budget che è stato predisposto – e, ahimè, non
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Le relazioni con la politica locale nel governo dell’impresa sociale - 19 aprile 2011
condiviso - sulla base della spesa storica e quindi non prevede risorse aggiuntive relative a nuovi inserimenti.
È poi successo anche un altro fatto: la Regione ha classificato diversamente le categorie dalle quali dipendono le persone disabili in termini di remunerazione per i gestori, e questo è stato un meccanismo alquanto penalizzante. Grazie a Dio poi è tornata indietro.
Salto per arrivare ora alle domande che più mi stanno a cuore e che da
un certo punto di vista sono le più interessanti.
Un altro aspetto fondamentale riguarda anche il coinvolgimento delle realtà del terzo settore nei cosiddetti piani di zona. In tal senso non possiamo non
registrare che noi facciamo fatica ad essere protagonisti all’interno di un sistema sussidiario, che sia sussidiario veramente.
Qualche tempo fa mi è successo di discutere anche animatamente, per
oltre un anno con un’amministrazione comunale e con un sindaco, perché il
sindaco non ammetteva, non era d’accordo sul fatto che il servizio per disabili che avevamo sul suo territorio fosse nostro, e non suo, e che il rapporto
con il Comune fosse nell’ambito di un mero contesto di locazione. Un anno!
Un anno per capirci! E quando l’ha capito ha detto: ma allora le cose cambiano. E in che senso cambiano? Nel senso che nel contratto di locazione voleva
inserire anche quante volte dovevamo fare le pulizie al giorno! E io gli ho
risposto: «Se facesse un contratto di locazione con chiunque altro, avrebbe
questo approccio?». C’è una sfiducia e un sospetto: il privato sociale sembra
non poter dare certe garanzie.
Allora, a me interessa questo possibile dialogo, che c’è stato nel 2002-03
quando la Regione Lombardia ha rimesso mano agli standard dei servizi per
i disabili. Lì c’è stata una collaborazione con il terzo settore, tutti abbiamo dato
il nostro contributo per capire, per verificare, per valutare al fine di condividere. Quindi, secondo me, possiamo veramente lavorare insieme rispetto ai
cambiamenti che succedono, perché le risorse mancano per tutti, per noi e
per la Regione.
Allora mi chiedo: possiamo veramente collaborare insieme evitando il
ripetersi di quello che è successo a fine anno, quando è avvenuto da un giorno all’altro un cambiamento, come quello relativo alle schede SIDI, che ha
rivoluzionato la modalità di remunerazione dei gestori di servizi per disabili?
Ilaria Marzi
Cerco di rispondere in quanto dirigente delle strutture, attività legislative e
riforme. Io risponderò soprattutto in modo dettagliato sulla seconda parte, che
mi vede partecipe della riforma del welfare lombardo.
In merito alla prima domanda, lei ha citato la delibera delle regole uscita
137
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
a fine anno. Di solito i provvedimenti di fine anno sono attaccati ai provvedimenti della sanità, quindi il tempo per consultarvi (come abbiamo fatto con
la delibera del Terzo Settore) molte volte non ci consentono quella procedura
della nostra legge di governo e i provvedimenti attuativi riguardanti i tavoli di
consultazione.
Questo è il primo provvedimento: ci troviamo in un periodo di scarsità di
risorse; noi a differenza della sanità non abbiamo mai separato l’accreditamento dal contratto. Cosa ha comportato questo negli anni passati? A un certo
punto abbiamo dovuto bloccare gli accreditamenti. Io sono in Regione
Lombardia dal ’98, ho iniziato a collaborare alla direzione famiglia nel 2003.
Negli ultimi anni per la mancanza di risorse abbiamo dovuto procedere al
blocco degli accreditamenti. Questo naturalmente non poteva continuare
all’infinito, quindi a un certo punto la riflessione che si è fatta è: procedere
come ha fatto la direzione sanità nel 2001-02. Quello che mi sento di dire è
che con la delibera delle regole si è introdotto un principio, che Regione
Lombardia vuole portare avanti nei prossimi anni. Però questo cambiamento,
sarà graduale: la delibera delle regole comunque introduce questo principio,
ma demanda poi a provvedimenti successivi e sarà comunque una fase transitoria in cui saranno valutate tutte le problematiche e le peculiarità di questo
sistema.
Senz’altro il passato non lo possiamo cancellare, e tutte le riflessioni e le
stesure dei prossimi provvedimenti terranno conto di quella che è stata la
realtà lombarda e si farà tutta una serie di riflessioni.
Non si poteva più continuare con questo sistema, anche il blocco degli
accreditamenti ha generato tantissimi contenziosi. Bisognava fare una scelta:
la scelta è stata quella che ha fatto la sanità tanti anni fa, la separazione
dall’accreditamento al contratto, tenendo però conto della realtà del welfare.
La delibera delle regole - mi sento di dire - ha introdotto la volontà che era
presente anche nel piano socio sanitario, la volontà di separare l’accreditamento dal contratto, che era prevista anche dagli atti programmatori della
Regione Lombardia; e la motivazione è quella delle risorse, che sono limitate,
e quindi Regione Lombardia doveva fare una scelta.
Questo è il primo provvedimento e la cosa sarà graduale, proprio per dare
il tempo di fare le riflessioni che bisognerà fare. Questo mi sento di dirlo
anche se non sono la responsabile dell’accreditamento, ma ho partecipato ai
lavori di stesura della regola. Infatti, ha fatto seguito alla delibera delle regole
il decreto attuativo sul budget, dove sono stati fatti alcuni chiarimenti.
Mi sento anche di dire che è stato fatto un altro provvedimento importante: la delibera che ha approvato il piano disabilità. È una delibera che si
conosce ancora poco, e l’obiettivo è quello di arrivare a un piano integrato
138
Le relazioni con la politica locale nel governo dell’impresa sociale - 19 aprile 2011
di disabilità.
In assenza di risorse, con questo lavoro, cosa si è cercato di fare? Questa
delibera è stata fatta da diversi assessorati della direzione, perché quando
parliamo di riforma del welfare dobbiamo partire dal fatto che il welfare non
è solo nell’ambito sociale e socio sanitario, ma riguarda anche i trasporti,
riguarda la casa, le politiche della formazione… Il futuro sarà proprio creare
un welfare a 360 gradi. E la riforma legislativa va proprio in questa direzione:
con una riduzione di risorse, se non c’è integrazione delle politiche, si rischia
che non ci sia un utilizzo efficace ed efficiente delle risorse. E con questo
piano di disabilità si è fatta tutta una serie di analisi di tutte quelle che erano
le risorse impiegate nei vari assessorati e si vuole arrivare ad un utilizzo mirato, efficace e efficiente delle risorse, in modo integrato, in modo che non ci
siano sprechi di risorse. Il piano disabilità mira a fare interventi mirati a favore della disabilità (sono stati stanziati circa 400.000 euro) destinati a piani di
intervento per la disabilità. È un provvedimento molto importante, recentemente approvato, interessante da analizzare e verificare.
Per quanto riguarda (e questo mi riguarda maggiormente) il coinvolgimento, questo mi trova pienamente d’accordo. Quando è stata stesa la legge 3 del
2008, io ho partecipato ai lavori, l’obiettivo del legislatore lombardo era fare
in modo di sviluppare questo principio di sussidiarietà. Le realtà del terzo
settore non dovevano essere solo le realtà che gestivano servizi e presentavano progetti alla pubblica amministrazione, ma dovevano partecipare veramente alla progettazione e realizzazione della rete. Il legislatore lombardo ha
riconosciuto nell’articolo 3 della legge 3 questo principio: il principio della
partecipazione. Il mondo del terzo settore conosce i bisogni della gente, e
quindi in un momento in cui le risorse sono scarse, i bisogni cambiano e si
differenziano da territorio a territorio, chi meglio del terzo settore riesce a
indicare la strada all’amministratore, che si trova a fare delle scelte con risorse
limitate?
E’ in discussione in Terza Commissione il provvedimento legislativo che
introduce il FFL (Fattore Famiglia Lombardo). Noi abbiamo tanti tavoli tecnici
all’interno della direzione famiglia; abbiamo i tavoli che sono rappresentati
dagli enti pubblici, ma anche quelli che rappresentano il privato sociale.
Naturalmente come tutte le leggi, abbiamo anche emanato i primi due provvedimenti di attuazione della legge 3, che sono stati provvedimenti che riguardavano i tavoli di consultazione. Perché una legge non rimanesse solo sulla
carta, c’era la necessità di dettare delle linee guida, affinché questi tavoli
venissero istituiti sia a livello regionale che locale. Regione Lombardia ha dato
delle linee guida anche all’interno dei piani di zona, ai Comuni e anche alle
aziende sanitarie locali.
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Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Dal punto di vista amministrativo e legislativo quindi c’è tutto; purtroppo
risulta, anche da un primo monitoraggio che abbiamo fatto, che a livello locale c’è anzitutto un problema di comunicazione e integrazione. Infatti si fa
fatica a comunicare non solo con il terzo settore, ma anche ASL e Comuni
fanno fatica a parlare; ecco perché prima come assessorato ci chiamavamo
“Famiglia e solidarietà sociale”, ora ci chiamiamo “Integrazione e conciliazione”. Questo perché le politiche integrative in questo momento devono funzionare. Non dobbiamo più ragionare a settori, ma in un modo integrato.
Noi come problema da superare abbiamo quello che le aziende sanitarie
parlino con i Comuni, perché di fatto succede che le aziende si occupano del
socio sanitario e i Comuni del sociale, ma spesso ci sono problematiche che
vanno al limite tra il sociale e il socio sanitario e che quindi vanno affrontate
insieme. Se non c’è questa integrazione tra Comuni e ASL è un problema;
immaginiamoci poi con il terzo settore, anche perché i soggetti del terzo settore aderiscono all’accordo di programma di attuazione dei piani di zona.
Non me ne occupo io, me ne occuperò per gli aspetti giuridici e legislativi:
le linee guida sui piani di zona. Questo senz’altro è un canale molto importante: a quattro anni dalla prima applicazione della legge 3 del 2008 abbiamo fatto
anche noi i monitoraggi e ci siamo resi conto della criticità della applicazione,
soprattutto in alcune zone. Noi dopo la legge 3 avevamo dato le linee guida
ai Comuni, dicendo: «L’accordo di programma è lo strumento di attuazione del
piano di zona. Il mondo del terzo settore è molto importante, non si può prevedere tutto nel piano di zona e nell’accordo di programma. Demandate a
protocolli operativi la collaborazione tra il terzo settore e le amministrazioni
locali. Però già nell’accordo di programma è fondamentale che ci siano delle
azioni relative alla programmazione e che quindi si individuino già i protocolli operativi che i comuni dovranno fare con il terzo settore».
Senz’altro quindi a distanza dalla prima applicazione della legge 3, i tavoli
e le modalità rappresentative (chi partecipa, come partecipano) li stiamo controllando e rivedendo. Stiamo facendo senz’altro un monitoraggio proprio per
avvicinarsi a questa scadenza delle linee guida sui piani di zona, per dare indicazioni sempre più precise ai Comuni. Se si fanno le riforme e a livello locale
non funzionano, è anche un fallimento della riforma. Noi abbiamo predisposto
(e qui c’è un rappresentante che ha collaborato) delle linee guida sui rapporti
tra le amministrazioni e il terzo settore: finalmente abbiamo un provvedimento
che definisce come deve fare una pubblica amministrazione quando vuole
instaurare un rapporto di collaborazione con il mondo del terzo settore. Stiamo
lavorando sugli schemi di convenzione tipo che farà la pubblica amministrazione, in questo caso aziende sanitarie locali e ASL e Comuni nei confronti del
terzo settore.
140
Le relazioni con la politica locale nel governo dell’impresa sociale - 19 aprile 2011
Con questi schemi noi andremo ad approvare le convenzioni con associazioni, con le organizzazioni di volontariato le cooperative e le fondazioni,
proprio per assicurare una omogeneità di applicazione sul territorio, che sia
cioè un rapporto veramente trasparente. Siccome le ASL fanno parte del
nostro sistema, l’abbiamo messo negli obiettivi dei direttori generali. I direttori generali devono rispettare questa delibera, che va a omogeneizzare e a
rendere più efficaci e efficienti i rapporti con il terzo settore, e risponderanno
se rispettano questi schemi di convenzione, le linee guida dettate da questa
delibera. Per quanto riguarda i Comuni, hanno una autonomia, ma abbiamo
dato delle linee di indirizzo.
Il percorso è lungo; c’è una sperimentazione, ma quello a cui si vuole
arrivare è che anche a livello locale funzionino questi tavoli, quindi anche su
quello ci saranno da rivedere le linee di indirizzo che verranno date ai
Comuni sul funzionamento di questi tavoli.
Stefano Gheno
Grazie, dottoressa Marzi, per il suo intervento.
Mi permetto di fare due sottolineature, che penso siano significative sia
rispetto a quanto diceva Domenico Pietrantonio che a quanto diceva la dottoressa Marzi.
Credo che ci sia da un lato un tema profondamente culturale: sicuramente
non è di per sé sufficiente enunciare dei principi sussidiari perché questo trovi
immediata e sistematica attuazione. Si tratta di un percorso che è un percorso
di cultura e che quindi richiede un’attività che mi permetto di definire educativa. Non è scontato che delle buone intenzioni si traducano in prassi coerenti e conseguenti.
Credo sia importante sottolineare la necessità di non fermarsi a livello
enunciativo, ma di insistere sulla possibilità che questo trovi attuazione pratica.
D’altro canto mi sembra interessante il tema della partnership tra ente di
governo e soggetti che vanno ad attuare nella realtà locale, a realizzare queste
politiche del bene comune, che sono poi il motivo per cui si va a costruire
un corpus legislativo.
Credo che non possiamo dare per scontato che il tavolo di per sé sia lo
strumento di attuazione immediata: il tavolo richiede un presidio importante
che frequentemente mostra difficoltà ad essere attuato da parte di soggetti che
hanno competenze e dimensioni operative che spesso sono piccole e legate
allo specifico del territorio.
Anche su questo penso che sia importante tenere aperta la questione e
non ritenerla chiusa individuando meccanismi che sicuramente sono virtuosi.
141
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Ilaria Marzi
Volevo dire un’ultima cosa.
Ci troviamo in un momento in cui le risorse sono diminuite; l’assessore è
impegnato in una serie di incontri stato-regioni.
Vi invito a leggere la delibera 1353 del 25 febbraio 2011, una delibera di
recente approvazione intitolata “Linee guida per la semplificazione amministrativa e la valorizzazione degli enti del terzo settore”, che introduce il principio della sussidiarietà circolare. Quello che in un momento in cui le risorse
sono diminuite diventa sempre più importante è la responsabilità sociale di
impresa, e quindi il mondo non profit: si devono utilizzare le capacità progettuali del terzo settore insieme alle capacità manageriali del mondo profit, delle
imprese, che insieme alla pubblica amministrazione dovrebbero creare dei
rapporti di collaborazione.
Si stanno studiando queste forme: già con il custode socio sanitario abbiamo un’impresa che ha partecipato a questo progetto regionale, ministeriale.
Ci sono quindi già delle esperienze. Bisogna però far crescere la cultura della
responsabilità sociale di impresa.
Stefano Gheno
Procediamo con il nostro lavoro: a questo punto ripropongo la palla a
Domenico, che aveva preparato il suo intervento. Noi chiediamo ai nostri
relatori di presentare anche brevemente il loro mondo; il suo intervento prende l’avvio con un breve filmato che gli permette di introdurre la seconda
tranche di domande che proporremo a Dario Nardella.
[filmato]
Domenico Pietrantonio
A questo punto vorrei dire attraverso alcuni esempi qual è il rapporto che
ho con i Comuni.
I numeri della nostra cooperativa: noi serviamo e accogliamo quasi 1.600
persone, la maggior parte delle quali (più di 1.100) nei servizi d’inserimento
lavorativo, 300 circa nei servizi diurni, 40 nei servizi residenziali, poco più di
110 negli altri servizi. Occupiamo circa 300 persone; il fatturato del 2010 è di
poco superiore agli 8 milioni di euro.
Dicevo del rapporto con i Comuni; anzitutto un fatto, una relazione che
ritengo virtuosa. Da qualche anno abbiamo un rapporto con un certo Comune
e abbiamo individuato un certo bisogno, una certa domanda. Per che cosa?
Per il cosiddetto “Dopo di noi”, un servizio per persone disabili e svantaggia142
Le relazioni con la politica locale nel governo dell’impresa sociale - 19 aprile 2011
te, che non hanno una famiglia o per le quali la famiglia non è in grado di
provvedere. Dopo aver rilevato il bisogno e la domanda, abbiamo fatto un
progetto che ha previsto le modalità gestionali e organizzative, che è stato
condiviso e dialogato con il Comune. Badate, fino alla scelta del posto! È stato
simpatico: siamo andati in giro con l’assistente sociale di questo Comune per
decidere insieme il posto. Dopodiché abbiamo coinvolto alcune imprese del
posto, e il rapporto con queste imprese è stato nell’ottica di una collaborazione e forse qualcosa in più. Mi raccontavano che alcuni operai erano lì non
alle 7 del mattino ma alle 6, per portarsi avanti: quando hanno conosciuto gli
utenti di quella casa, la casa è diventata la loro casa. Abbiamo poi intitolato
il servizio al presidente dell’associazione locale del servizio disabili; e con
questa associazione, a partire da questo coinvolgimento, è re-iniziato un rapporto di collaborazione. Naturalmente ci siamo dovuti occupare anche degli
aspetti economici: il Comune ci ha dato una mano, e speriamo continui a
darcela; la Fondazione Cariplo ci ha dato un supporto e quindi abbiamo cercato di sostenere anche economicamente il progetto.
Mi dico: «Non è questa una bella circostanza e un bell’esempio di coprogettazione?». Spesso il mettersi insieme e coprogettare ha tutt’altre modalità e
finalità.
Un altro esempio è il caso di una relazione mancata: il Comune, dopo aver
ricevuto una certa donazione, attiva una procedura di project financing. È una
procedura piuttosto complessa, che prevede prima l’inserimento dell’opera
nel piano delle opere pubbliche e poi una serie di atti e bandi; per darvi
un’idea: abbiamo iniziato un altro project financing nel 2000 e il servizio è
stato aperto nel 2005. Questo per farvi rendere conto dei tempi e soprattutto
della complessità.
In questo Comune della provincia milanese, dicevo, viene attivata la procedura di project financing per la costruzione di un centro polivalente, con
servizi per anziani e disabili. E poi? La cooperativa Solidarietà e servizi partecipa, non da sola, ma con una impresa edile che avrebbe realizzato la struttura e una cooperativa che si occupa di servizi per anziani, così come noi ci
occupiamo di servizi per disabili. Partecipiamo e ci aggiudichiamo la prima
gara. Cosa succede? Cambia l’amministrazione, e non solo. La nuova amministrazione cosa fa? Recede. La procedura viene revocata, il centro “non s’ha da
fare, né ora né mai”. Una relazione mancata. Più di un anno di lavoro, perché
il progetto da presentare ha una certa consistenza e complessità. Ma al di là
di questo: perché è stato valutato diversamente? È solo un problema di risorse? Era probabilmente un problema “politico”.
Chiudo con un esempio che mi è venuto in mente mentre parlava la dottoressa Marzi. C’è un assessore di un Comune della provincia di Varese che
143
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
dice: «Avete troppi servizi in questo paese, non va bene». Questa cosa mi fa
alquanto arrabbiare! Perché? Perché il problema non è chi gestisce, ma come
gestisce. Perché non è possibile effettuare una valutazione, una differenziazione dei soggetti e delle attività svolte? L’approccio è stupidamente politico.
Ci vuole una valutazione sul perché non è possibile.
Questo è il panorama di quello che caratterizza e contraddistingue il mio
rapporto con le amministrazioni comunali. Lo dicevo prima: il vero problema
è scommettere sul fatto che tutti possiamo contribuire a realizzare il bene
comune, non rinunciando a trovare strumenti che diano evidenza a questa
possibile collaborazione rispetto a un fine che può essere sicuramente condiviso.
Stefano Gheno
Passerei subito la parola a Dario Nardella per un primo intervento.
Dario Nardella
Grazie per l’invito alla CDO Opere Sociali, che mi dà l’opportunità di intervenire stamattina.
Interagisco con queste tre osservazioni, poi proverò a sviluppare, se ci
sono domande o interventi, una risposta più complessa.
Il tema della coprogettazione è un tema vero ed interessante. La coprogettazione è uno dei modi più efficaci con cui si può declinare la famosa sussidiarietà orizzontale; anzi, direi che la coprogettazione è tipica del rapporto tra
enti locali e soggetti, imprese sociali, associazioni o imprese cooperative, che
operano in questo campo.
I comuni sono la parte terminale della filiera della pubblica amministrazione
e sono gli interlocutori più naturali, perché agiscono direttamente sul territorio.
Io vorrei concepire il welfare locale come un ambito ancora più ampio del
welfare classico, legato solo al sociale o alla formazione: nel welfare locale
inserirei lo sport, la cultura e, per alcuni aspetti, anche la mobilità.
E’ un tema che, a mio avviso, va affrontato, dopo questi anni di grande
esperienza a livello locale, in modo più trasversale e ampio possibile.
I Comuni sono gli interlocutori più idonei per un modello di coprogettazione e lo strumento più efficace per la messa in pratica della sussidiarietà
orizzontale.
Non è un caso - la mia formazione giuridica mi porta a dirlo - che l’articolo 118 della nostra Costituzione così come modificato a seguito della riforma
del 2001, ha introdotto nella Costituzione il concetto di sussidiarietà, al primo
comma infatti si apre con un principio che dice che le funzioni amministrati144
Le relazioni con la politica locale nel governo dell’impresa sociale - 19 aprile 2011
ve sono esercitate dai Comuni, salvo che per esigenze di omogeneità non
vengano poi affidate ai livelli superiori, province, regioni, stato.
L’ente che rappresenta l’interlocutore sistematico, operativo e quotidiano,
è quello che agisce sul territorio in modo diretto; le Regioni hanno un ruolo
più di programmazione e legislazione. E a mio avviso, quando le Regioni
tentano di fare i Comuni, cioè di svolgere una funzione impropria di amministrazione attiva, snaturano la loro funzione e non riescono e ottenere risultati.
Agire su scala regionale, infatti, vuol dire unificare l’azione del territorio, perdendo di vista la specificità dei diversi contesti delle nostre regioni, mentre
agire a livello locale consente di vedere quello a cui faceva prima riferimento
Pietrantonio: il bisogno, la domanda. Il bisogno e la domanda nascono dal
territorio, da una realtà vera, mutevole.
L’interlocutore più naturale per un Comune nella coprogettazione non può
che essere il settore sociale, l’impresa sociale, che sia associazione, cooperativa o impresa. Perché? Perché c’è una comune condivisione di finalità di
natura pubblica. Sia l’impresa sociale sia il Comune svolgono per proprio
conto mestieri diversi, ma sono accomunati dallo stesso fine, che è l’interesse
per il bene comune. Come nella presentazione che abbiamo visto questa
mattina, l’impresa sociale svolge con criteri imprenditoriali un servizio che ha
una finalità pubblica. E quindi la stessa finalità e la caratteristica tipica di queste organizzazioni, che non mette al centro il profitto ma l’uomo e rende
queste realtà più vicine agli enti locali.
Quindi la coprogettazione non è solo utile, ma direi anche indispensabile
nel rapporto tra pubblico e privato e tra enti locali e imprese.
Anche il project financing è una forma condivisa di progettazione.
Il problema che qui è stato riportato, di un Comune che a un certo punto
nella progettazione ha fatto marcia indietro, non dipende tanto dallo strumento project, ma da un problema politico: il fatto che qualcuno sia stato eletto
non lo autorizza certamente a cancellare tutto quello che c’era prima di lui,
perché questo costume ci porta ad una spaventosa deficienza. L’esempio più
lampante è quello delle opere strutturali, grandi e piccole.
Per le grandi opere potrei citare il ponte sullo stretto di Messina. Se ne
parla da 15 anni: ogni governo ne aveva una visione diversa, quindi il risultato è che ad oggi sono stati spesi molti soldi, si è creata una società, ma non
c’è neanche l’ombra del ponte. Ritengo invece che ci sia una responsabilità
per chi amministra la cosa pubblica, che è anzitutto quella di verificare quello che c’è stato prima, e di dare priorità alle cose già impostate, che vanno
portate in fondo. Noi ci troviamo spesso ad avere a che fare con progetti che
rimangono appesi.
Il project financing è uno strumento interessante, utile. Faccio un esempio,
145
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
che riguarda la nostra amministrazione: noi abbiamo portato avanti un project
financing, un progetto di finanza, con un soggetto non profit, la UISP,22 una
grande organizzazione, un ente di promozione sportiva e sociale, nazionale,
per la realizzazione di una piscina. È un’opera da 6 milioni di euro.
Il progetto è nato dal soggetto privato. Sapete infatti che i project possono
nascere per un progetto presentato dall’amministrazione comunale oppure
direttamente dal privato. Abbiamo scelto questa seconda strada, la UISP ha
presentato questo progetto da 6 milioni di euro, facendo un’Associazione
Temporanea d’Impresa (ATI) con un’impresa edile che poi ha diminuito la
quota di partecipazione nella fase gestionale, giustamente, perché più interessata alla fase di realizzazione. Abbiamo siglato un accordo con l’ATI, dando
la concessione a utilizzare l’impianto per 25 anni, una durata sufficiente a
ammortizzare l’investimento e anche a fare degli utili, sempre però rimpiegati nell’ottica sociale, perché non l’abbiamo fatto con un’impresa tout court.
L’anno scorso l’abbiamo inaugurato: abbiamo realizzato una micro piscina,
alta un metro e mezzo, dove si fanno corsi per anziani, corsi per i giovanissimi più piccoli, attività motorie, riabilitazione, attività che non sono agonistiche
ma hanno una funzione più sociale e formativa. In cambio il Comune non
solo ha dato l’uso per 25 anni, ma ha concesso nell’area vicino alla piscina,
che è un’area pubblica, di realizzare un ristorante. Questo non solo è un
arricchimento della funzione del servizio, ma è anche una forma con cui il
privato che ha realizzato l’opera e che la gestisce ha potuto rafforzare l’opera
di rientro. La UISP, non essendo un’impresa di ristorazione, ha dato a un privato la gestione della ristorazione.
I project financing sono complessi, ma io penso che la legge italiana sia
molto avanzata rispetto agli altri paesi europei: se sono ben fatti, se c’è una
buona cultura di impresa alla base, io penso che i project financing siano una
buona alternativa alle gare d’appalto e alle procedure di evidenza pubblica,
perché il problema è lì. Il project financing è a mio avviso indicato per le
imprese sociali, perché c’è una coprogettazione: io cioè mi affido alle capacità, all’esperienza e alla qualità del soggetto privato, e prendo atto che il soggetto privato è più capace di me, amministrazione, di dare vita a un progetto,
ad un’opera. E lo riconosco come attore sociale del mio territorio. Nel riconoscerlo come attore sociale gli do una mia risorsa e gli dico: «Tu metti in pratica il progetto e insieme condividiamo un obiettivo».
L’ultimo riferimento è alla valutazione. Sono molto d’accordo con
Pietrantonio. A Firenze con un bilancio di circa 500 milioni di euro abbiamo
22 Unione Italiana Sport per tutti.
146
Le relazioni con la politica locale nel governo dell’impresa sociale - 19 aprile 2011
una spesa corrente per i servizi sociali di circa 50 milioni di euro; il 70% di
questi lo diamo con affidamento a soggetti terzi di servizi. Quindi riversiamo
sul territorio circa 35, 40 milioni di euro che vanno a imprese sociali, cooperative sociali, associazioni, a molte delle quali - la maggioranza - con bando
pubblico, anche perché la legge ci indica questo strumento; quando possiamo
utilizziamo strumenti alternativi, come coprogettazioni o convenzioni, ma ad
ogni modo ci sforziamo di mettere in pratica un sistema di valutazione. La
valutazione è la maggiore garanzia per il privato, per il privato capace, è
quello strumento che ti consente di fare coprogettazione e di evitare le gare.
Perché? Perché la valutazione non la faccio a monte, sulle carte, ma la faccio
a valle, quando vedo se il soggetto privato è davvero capace di fare quello
che ha detto. Spesso la gara, imponendomi una valutazione a monte, mi
impedisce di valutare quello che il privato può fare su quel progetto, per la
sua esperienza o per quello che mi fa vedere sulla carta. E non è un caso che
non di rado gli affidamenti di servizi con gara ci portano a sorprese: per
esempio strutture realizzate male, su cui dobbiamo rimettere mano dopo
qualche mese; ci capita con le biblioteche, ci capita con gli impianti sportivi,
perché qui c’è un principio del massimo ribasso: strutture che non riscontrano
bisogni che vengono dalla comunità che le vuole e deve utilizzare, e strutture
che vengono gestite da soggetti che pur di aggiudicarsi la gara si spingono
oltre il proprio limite. Sono d’accordo sulla questione del limite, lo applicherei
anche al mondo dell’impresa: si spingono oltre al proprio limite non potendo
poi corrispondere agli obiettivi che si sono dati in fase di gara e che nella
realizzazione non possono attuare, costringendo spesso gli enti locali a ritrattare le condizioni della gara, spingendoli anche spesso a forzare le leggi e a
trovarsi nella necessità di compiere atti illegittimi.
Quindi, il rapporto tra pubblico e privato va visto con grande lucidità; non
sempre la gara è garanzia della qualità del servizio. Questo non lo dico perché
le amministrazioni vogliono sfuggire alla trasparenza, anzi, figuriamoci! Guai
a quel politico che dice: «Mi stai già facendo troppi servizi, devo anche accontentare gli altri». La vera trasparenza la do con la valutazione sul servizio, con
la verifica degli standard, rigorosa, equa, approfondita: ma è una verifica che
faccio quando posso toccare con mano il servizio che tu effettivamente mi
avevi detto che avresti fatto.
DIBATTITO
Stefano Gheno
Grazie a Dario Nardella per questo primo giro di risposta agli spunti suggeriti da Domenico.
147
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Io ho due questioni da porre.
La prima è questa. Parto dall’ultima cosa che hai detto. Noi in questo
periodo, come CDO Opere Sociali, stiamo lavorando molto sulla valutazione
ex post, proprio perché siamo convinti che l’unico rimedio per uscire dalla
“trappola gara”, cioè la valutazione fatta sulla carta, e per entrare nel merito
del contributo che si può dare al bene comune, sia andare a vedere quello
che si è effettivamente realizzato sulla base di quello che l’opera si è assunta.
C’è anche un altro aspetto, tu hai parlato di standard: nell’ambito sociale vi è
una serie di attività che non sono standard, non sono standardizzabili e quindi sfuggono alla possibilità di una valutazione ex ante. Per forza bisogna
procedere a valle per valutare la loro effettiva efficacia. Penso quindi che sia
un tema molto caldo: io so che anche il ministero del welfare sta lavorando
in questa direzione; mi fa molto piacere sentire che questo tema è assolutamente trasversale.
Credo che la questione a riguardo sia una questione di cultura politica e
quindi anche di educazione: la cultura politica, infatti, non è solo la cultura
dei “politici”. Introduco qui la seconda questione sulla quale mi piacerebbe
sentire il tuo parere. Sicuramente uno dei problemi di rapporto con le amministrazioni locali e la politica locale è legato alla capacità della politica locale
di ascoltare effettivamente ciò che il terzo settore propone. A me piace pensare che anche il terzo settore può imparare: chiedo allora a te, amministratore locale, come può fare il terzo settore o l’impresa sociale a diventare più
bravo a comunicare il valore che porta all’amministrazione e alla comunità
locale. Evidentemente l’ascolto e l’interlocuzione devono essere reciproci.
La volta scorsa, nel nostro seminario, avevamo chiesto al rappresentante
di una fondazione bancaria: «Ma come facciamo? Come possiamo essere più
capaci di far capire il valore dei progetti che portiamo?». Ti chiederei la stessa
cosa per l’interlocuzione con l’amministrazione locale. Da qui puoi partire e
andare dove credi.
Dario Nardella
La questione non è semplice, secondo me. Mi devo mettere nei vostri
panni. Parto dall’esperienza che noi abbiamo messo in pratica con il settore
dell’infanzia. C’è una serie di servizi per l’infanzia che non abbiamo messo a
gara, ma che abbiamo realizzato a coprogettazione, cioè abbiamo siglato delle
convenzioni con soggetti che rispondono a certi criteri, soggetti del welfare
locale. Lo abbiamo fatto perché abbiamo capito che queste realtà vivono a
prescindere dalla presenza di un servizio pubblico, vivono perché esprimono
una capacità progettuale, una vocazione, una tensione ideale. Non sono soggetti che sono nati per erogare un servizio pubblico, ma esistono prima anco148
Le relazioni con la politica locale nel governo dell’impresa sociale - 19 aprile 2011
ra che io debba affidare loro un servizio pubblico. Questo li rende più credibili di fronte al servizio pubblico: non nascono cioè con l’obiettivo contingente di vincere una gara, ma nascono a prescindere, nascono comunque, e per
il soggetto pubblico sono una garanzia.
Questo aspetto alla fine si traduce nella possibilità di condividere un obiettivo, al punto tale che l’utente non distingue più tra il nido privato e il nido
pubblico e non solo per la qualità del servizio, anzi: nella nostra città ad
esempio i nidi “privati”, cioè quelli convenzionati, non con bando ma con
coprogettazione, sono risultati addirittura migliori di quelli pubblici. Non lo
possiamo dire troppo, altrimenti i sindacati si arrabbiano! Ma noi a fine anno
facciamo fare ai genitori le valutazioni e le rendiamo pubbliche, non solo per
un fatto di qualità del servizio, ma per una condivisione di una missione, dove
il soggetto privato non è uno strumento in mano all’amministrazione pubblica,
ma è un soggetto paritario, immesso al pari mio nel tessuto, protagonista al
pari mio nella comunità.
È questo che il soggetto privato, la cooperativa, l’impresa, deve trasmettere agli utenti: che non è diverso dal pubblico, ma che è lui stesso un vero
interprete di quello che nasce nella comunità. Io quindi ti do questo servizio
perché mi sento in qualche modo pubblico, mi sento comunità, mi sento
locale. Non sono semplicemente un privato che ha sottoscritto il contratto con
il pubblico e quindi deve riversare questo servizio: mi sento protagonista. Se
si trasmette questo all’utente, scompare quella barriera di diffidenza o anche,
se non diffidenza, quella tendenza a distinguere il soggetto pubblico dal privato. Un conto è la differenza giuridica, di contratto, che ci deve essere, ed è
bene che ci sia; altro è la capacità del soggetto privato di farsi vero interprete
di un bisogno e quindi anche di un servizio. Il giorno in cui un cittadino porta
suo figlio in una scuola o in una struttura sanitaria e non si pone il problema,
non si chiede se è gestito da un pubblico o da un privato, ma apprezza il
servizio che gli viene offerto, lo apprezza in quanto tale, sarà un momento di
successo per il soggetto privato che gestisce il servizio. E ovviamente sarà un
momento di successo anche per l’ente pubblico.
Comunicazione e qualità: userei questi due termini. La comunicazione è
molto importante.
Stefano Gheno
Mi sembra di cogliere che la questione dell’identità non è un elemento in
dissonante rispetto al poter partecipare ad un’azione comunitaria, ma anzi, se
c’è una storia che qualifica la tua attività in precedenza rispetto all’offerta di
servizio, questo è un elemento di garanzia.
149
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Dario Nardella
Nel porsi davanti all’amministrazione locale, è importante che il soggetto
privato trasmetta questa capacità. Io penso che la capacità progettuale sia
fondamentale: oggi, per tutta una serie di motivi, le amministrazioni locali, a
meno che non siano grandi Comuni, non hanno al loro interno il know how
sul fronte della progettazione, perché la progettazione si deve aggiornare
continuamente, deve tenere conto dell’esperienza sul campo, è complessa, è
impegnativa, anche economicamente.
Dal mio punto di osservazione devo dire che per un’amministrazione pubblica è importante trovarsi davanti un soggetto, una cooperativa, una impresa
sociale, che investa molto sulla qualità della progettazione, perché questa
capacità copre un vulnus che noi spesso abbiamo come amministrazione.
Quindi, se dovessi dare un altro suggerimento a un soggetto privato che si
approccia nei confronti di un’istituzione pubblica, di un ente locale in particolare, direi: il tema della progettazione è un tema centrale.
Intervento
Volevo chiederti di approfondire una cosa. Faccio anzitutto una considerazione: è stato molto interessante come tu hai posto la questione, perché noi
ci stiamo accorgendo che “sussidiarietà” è una parola molto abusata, e la cosa
più lontana dalla sussidiarietà è una cosa che le assomiglia tantissimo, cioè la
“subfornitura”, nel senso che spesso, per il fatto stesso che ti do da fare dei
servizi, mi considero un ente locale sussidiario. Questo sta mettendo in enorme
difficoltà tante realtà perché c’è l’idea che certi servizi che sono di competenza
mia, che sono un Comune, li attribuisco a te, e ti do una serie di gabbie all’interno delle quali devi esercitare la tua funzione. Questa è la cosa meno sussidiaria del mondo, che sta mettendo in difficoltà e sradicando delle realtà che
storicamente hanno fatto il bene di quartieri o di città. Invece questo tipo di
sguardo che ci hai detto tu mi sembra molto più rispettoso, anche perché realmente sussidiarietà, a mio avviso, non vuol dire che siamo tutti sullo stesso
piano, ma che c’è qualcosa che opera, e compito della pubblica amministrazione è riconoscerlo e intervenire quando queste realtà di cittadini non sono
in grado di concorrere al bene comune. È una cosa che ha anche detto il cardinal Bagnasco all’intergruppo per la sussidiarietà� e che mi ha colpito molto.
Scusa la premessa, ti ringraziavo perché mi sembrava molto interessante il tuo
modo di trattare questi temi.
Volevo poi chiederti un approfondimento su alcuni temi cui accennavi,
come la valutazione ex post che state iniziando a fare. Tutti si rendono conto
che o si inizia a valutare o non si sa dove si va. Evidentemente una valutazione di carattere puramente formale non può essere unica, come diceva
150
Le relazioni con la politica locale nel governo dell’impresa sociale - 19 aprile 2011
Pietrantonio. La Regione Lombardia stessa, nelle sue linee guida al welfare, ha
proposto un organismo di valutazione. Volevo proprio chiederti come vi siete
mossi, se state valutando tutti i servizi, se solo quelli standard… un approfondimento su questo, che m’interessa perché mi sembra che sia per tutti.
La seconda cosa che chiedo è questa, stante l’evidentissima importanza del
tema. Stefano diceva che c’è un abisso culturale. Io mi chiedo: laddove ci sono
esperienze di persone di centro destra o di centro sinistra che a livello di amministrazione locale fanno vedere una modalità di esercizio delle proprie funzioni un po’ più ampia, che possibilità c’è, a livello di amministrazione locale,
di un contagio?
Stefano Gheno
Se non ci sono altre questioni, cominciamo ad affrontare queste due che
mi sembrano spesse.
Dario Nardella
Mi piace l’idea del contagio! Ormai quando vado in giro per l’Italia e dico:
«Sono il vicesindaco di Firenze», mi guardano come dire: «Non è strano che tu
sia il vicesindaco di Firenze, ma il vicesindaco di Matteo Renzi! Oh, Matteo
Renzi!».
Il contagio secondo me certamente lo si ha attraverso le leadership o le
amministrazioni virtuose; non voglio parlare della mia città o del mio sindaco,
ma ad esempio di Torino, di cui parlavo prima con Monica. Il sindaco
Chiamparino ha trasformato una città che era sull’orlo del declino post industriale, con la FIAT in crisi o comunque con il modello industriale in crisi, e
ne ha fatto una città della cultura, dello sport, della grande innovazione. Ha
giocato la carta del grande evento delle Olimpiadi, e di per sé questo è stato
un modello che molti altri hanno provato a implementare e attuare.
Noi a Firenze siamo riusciti a vincere la candidatura per i mondiali di ciclismo del 2013: non si erano mai corsi in Toscana e correre i mondiali di ciclismo in Toscana è come fare i mondiali di calcio in Brasile! Sarà una grande
opportunità per la nostra città, che non utilizzeremo solo in chiave sportiva,
perché lo guarderanno un miliardo e mezzo di persone nel mondo (speriamo
di avere finanziamenti anche dal governo e non solo dalla Regione), ma
anche perché sarà l’opportunità di fare di Firenze la città dell’ambiente, della
ciclabilità, della mobilità sostenibile. Non ci siamo inventati nulla, ci siamo
ispirati a modelli messi a punto da altri, e Chiamparino è stato veramente
antesignano.
Il contagio non può avvenire solo attraverso figure di sindaci innovativi,
deve essere anche sistematico, e questo si mette in pratica tramite le associa151
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
zioni di rappresentanza, come l’ANCI, l’Associazione Nazionale dei Comuni
Italiani, che penso faccia molte cose. Questo le imprese non lo sanno, e qui
c’è anche un problema di comunicazione: l’ANCI raramente dialoga con
l’esterno, è più un’associazione interna che serve per mettere a fuoco e in
pratica aspetti interni. Però ci sono sedi in cui ci incontriamo tra amministratori, condividiamo esperienze, mettiamo in pratica progetti comuni… Faccio
qui un po’ una autocritica: spesso i sindaci e i Comuni non danno importanza al momento associativo, come invece dovrebbero fare e come fanno diversi parsi europei. Solo nel momento associativo, quando cioè mi confronto con
altri Comuni, posso capire quali sono i veri temi. Lavorare molto sull’ANCI,
fare in modo che sia operativo e legittimarlo di più dal punto di vista della
partecipazione e aprirlo all’esterno: penso che l’ANCI debba aprirsi di più
all’esterno, alle associazioni di categoria, ai sindacati, e non solo discutere il
contratto collettivo nazionale degli enti pubblici.
L’altra domanda è sulla valutazione ex post. Noi l’abbiamo per ora sperimentata soprattutto nell’istruzione e nei servizi all’infanzia; facciamo la valutazione incrociata anche con gli utenti esterni e sulla base di questo calibriamo poi le scelte successive, anche nella predisposizione delle gare e nei
rapporti convenzionali con i gestori. Io devo sempre avere la possibilità di
rimettere in discussione la convenzione che ho con il privato, proprio perché
non ho fatto a monte la gara, quindi deve essere chiaro, tra il pubblico e il
privato, che i risultati della valutazione, se fatta in modo approfondito, ascoltando anche l’utenza e con criteri condivisi, devono avere qualche conseguenza, o in positivo o in negativo, o a conferma dell’esercizio.
È cioè importante che la valutazione non sia utilizzata solo per fare le
statistiche a fine anno, ma che sia uno strumento che mi consenta poi di
migliorare il servizio. Io la sto introducendo anche nel settore dello sport, ma
non è facile: lo sport è destrutturato, è un po’ fatto in casa. Abbiamo una legge
regionale, della Toscana, che impone di affidare per gare gli impianti sportivi.
Questo purtroppo ci complica la vita, perché davvero nello sport, più che in
tanti altri settori, non c’è la “cultura” del bando o della gara, per cui magari ci
sono società sportive che ti fanno offerte straordinarie, vincono il bando e poi
entrano letteralmente nel panico. Quindi io mi trovo ora a dover introdurre
elementi di valutazione che mi consentano di attutire l’impatto della gara o di
modulare le conseguenze. Noi abbiamo gli impianti gratuiti e la gara quindi
si gioca sulla partecipazione ai consumi. Se tu copri il 100% e fai un buon
progetto, vinci, e non paghi il canone.
Mi è capitata una società sportiva che non è riuscita a pagare le spese dei
consumi, ma che tuttavia, a seguito del meccanismo di valutazione, mi ha dato
delle risposte; allora a questa società non gli tolgo l’impianto, cosa che dovrei
152
Le relazioni con la politica locale nel governo dell’impresa sociale - 19 aprile 2011
fare restando nei criteri della gara. Mitigo l’impatto che mi viene da una mera
applicazione della gara: hai fornito il servizio? Bene. Non l’hai fornito?
Arrivederci e grazie! Non è che gli ritiro l’impianto, ma gli dico: «Bene, mi hai
dato comunque una risposta, anche se non hai rispettato la gara fino in fondo
e non mi hai pagato a fine anno. Allora io ti propongo un piano di rientro,
cioè introduco dei meccanismi flessibili che ti aiutano a rispettare la gara,
premiandoti perché tu al momento della verifica mi hai dato una risposta».
Non è un modo di aggirare le gare, ma è tutto fatto a norma di legge e nel
rispetto dei regolamenti. Però questo può essere utile per considerare la valutazione un elemento interessante nel caso dell’affidamento di gare e di fronte
a problemi che i privati possono presentare nell’attuare la gara in modo pedissequo, alla lettera. Se tu mi dai una risposta e io certifico questa risposta con
la valutazione, può essere che quello che avevo valutato sulla carta della gara
mi dia delle risposte nuove, che io non avevo considerato al momento della
gara; e la valutazione mi aiuta. Stiamo introducendo questo nel settore degli
impianti sportivi, che con la legge regionale del 2005 è tutto disciplinato con
la gara pubblica.
Come dicevo, nel settore dell’infanzia lo abbiamo già messo in pratica,
stiamo cominciando sul sociale che è molto complesso. Stiamo cominciando,
siamo nella fase di inizio, e vorremmo con l’assessore al welfare mettere in
piedi un cruscotto di criteri che incrocino la spesa storica con la spesa standard, anche perché dobbiamo incominciare ad allinearci con il modello di
spesa standard introdotto dal decreto attuativo della legge 42 sul federalismo
fiscale. Voi sapete che uno degli ultimi decreti impone ai Comuni di lavorare
sulla spesa standard. Non oso pensare a cosa succederà nei Comuni del sud
Italia; avrei trovato più sensato introdurre un passaggio graduale dalla spesa
storica alla spesa standard, non si può cambiare da un giorno all’altro.
Comunque bisogna farlo e noi ci stiamo orientando a un meccanismo di valutazione dei criteri standard che servano a introdurre le voci di spesa. Il bilancio lo dobbiamo strutturare sui criteri di spesa standard.
Stefano Gheno
Proseguiamo la discussione: interventi, domande, osservazioni.
Intervento
Io rappresento una piccola associazione sportiva, e siccome Nardella ha
fatto spesso riferimento allo sport come impresa sociale, mi interessa capire
questo. La risposta al bisogno, quando il bisogno si pone, è ciò che ti muove a
costruire un’opera. Esiste però anche la necessità o la capacità di prevenire
determinati bisogni.
153
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
Questo nella mia esperienza vedo che è raramente compreso, nel senso che
si capisce bene l’utilità di chi risponde a certi bisogni e quindi interviene in
base al principio di sussidiarietà, fornendo risorse, collaborando, accettando
una coprogettazione; è più difficile che ci sia la disponibilità da parte dell’ente pubblico quando uno cerca di prevenire determinati bisogni. Parlo dello
sport perché lo sport ha una valenza educativa molto utile per prevenire i bisogni e i problemi di tipo sociale e sanitario.
Volevo quindi sentire come vi muovete voi a Firenze, perché vedo che nella
realtà di Milano, in cui lavoriamo noi, lo sport è visto favorevolmente dall’ente
pubblico: io intervengo a fronte di eventi che tu organizzi, quindi a fronte di
risposte a esigenze e bisogni che sono più di carattere legato al divertimento - lo
sport inteso come creare eventi che siano occasione tipo circo - e ti do; rarissimamente c’è un sostegno o la volontà di sostenere chi opera per prevenire e i
contributi che vengono dati sono irrisori. È capitato solo una volta che un assessore sia voluto intervenire, distribuendo una parte limitata di risorse a chi dimostrava di avere un determinato tipo di utenza, quindi sulla base dell’utenza.
Mi ricollego a quanto diceva prima Pietrantonio: siccome queste regole si
stabiliscono sulla base della storia, se uno scopre di avere più utenti, non viene
considerata questa possibilità e si rischia di non accettare altre richieste. E non
possiamo rispondere a ulteriori sostegni perché si risponde solo sulla base della
storia o di eventi che vengono creati e si chiudono in sé.
Intervento
Faccio sempre un po’ di fatica a metter insieme sussidiarietà e gara d’appalto. La gara d’appalto contraddice questa idea che il cittadino abbia la
possibilità di scegliere dentro un ventaglio.
In Lombardia su alcuni servizi si sta attuando il tema della voucherizzazione: le forme possono essere le più diverse, ma questo è un primo dato. La
prima domanda è: se e quanto è così vincolante per un Comune indire la gara
d’appalto per diversi servizi oppure ci sono forme diverse? Anche perché seconda grande sfida che vedo all’interno della mia cooperativa - spesso le
gare di appalto vanno a ragionare definendo in una maniera estremamente
rigida il servizio; invece oggi ciò che viene richiesto dalla realtà è di rispondere con una complessità.
Il fatto allora di avere la possibilità (questa è una questione organizzativa
del terzo settore, della mia cooperativa) di dialogare con il bisogno complesso
e di dialogare con l’ente pubblico attraverso le forme flessibili che mette in
campo, potrebbe essere una possibile soluzione e dare il via ad un rapporto tra
chi fornisce il servizio e chi ne deve usufruire.
154
Le relazioni con la politica locale nel governo dell’impresa sociale - 19 aprile 2011
Dario Nardella
Questo tema dello sport invita la lepre a correre!
Io penso che lo sport sia davvero un pezzo fondamentale del welfare; e
noi su questo abbiamo un ritardo culturale, perché non ci rendiamo conto
delle potenzialità che la rete, il tessuto dello sport è in grado di mobilitare su
un territorio, in termini di rapporti con le famiglie, educazione, integrazione
del momento educativo scolastico. Noi questo non riusciamo a capirlo; vi
basti pensare che l’Italia è il fanalino di coda per l’educazione fisica nelle
scuole, si fa solo un’ora, e spesso nelle scuole elementari quell’ora viene fatta
dalla maestra, che magari sa parlare di storia, arte, letteratura… e al massimo
fa un po’ di ginnastica! Questo fa capire che l’Italia è un paese strano, che ha
grandi ambizioni sportive ma che non riesce a capire che lo sport è un giacimento culturale e educativo.
Mi permetto di incoraggiare la CDO nello spingere sull’esperienza che ho
visto al Meeting l’anno scorso nel settore di promozione sportiva (non so se
è nel settore delle opere sociali o affiancato).
Penso che sia una realtà che deve essere promossa con forza. Lo sport va
declinato in molti modi, tutti importanti. C’è lo sport business: citavo prima i
mondiali di ciclismo, che porteranno in Toscana 800/900.000 persone. Il triplo
dei posti letto disponibili! I mondiali dureranno 9 giorni, dal 20 al 29 settembre 2013. Fate voi il calcolo e ponete che ogni persona rimanga a dormire
una media di due notti (che sono poche), avete 1.800.000 notti. Moltiplicatele
per una media di 100 euro a notte, gli albergatori triplicheranno le tariffe e
noi litigheremo con gli albergatori fiorentini. Rendetevi così conto dell’indotto
che porteranno i mondiali di ciclismo non solo in Toscana ma in tutto il centro Italia.
Bene: queste cose vanno fatte, anche perché ci consentono di investire
nelle infrastrutture. Torino dalla cittadella olimpionica ha rifatto un intero
quartiere, investendo sull’edilizia residenziale pubblica. Chiamparino ha avuto
l’intelligente idea di dire: bene, fine delle olimpiadi, cosa me ne faccio della
cittadella? Ci faccio le case per la gente! Nel palaghiaccio non è che posso
farci sopra le case, è più problematico! Ma i grandi eventi ti consentono di
portare ricchezza e di investire nella città.
Questo, però, è diverso dallo sport come soggetto sociale, perché lo sport
come soggetto sociale è quello che non lavora sull’agonismo e sugli eventi
ma proprio sul tessuto. Considerate che gli investimenti fatti sullo sport hanno
una ricaduta diretta sul welfare, perché abbattono i costi sanitari sull’assistenza delle persone. Se io faccio sport, è statisticamente provato che ho il 20,
25% in meno di possibilità di una decorrenza della mia anzianità meno problematica sotto il profitto delle patologie ad essa associate. Questo vuol dire
155
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
risparmio, soldi in meno.
Non vuol dire che noi siamo un modello, ma che riscontro un ritardo
generale. Quello che stiamo cercando di fare a Firenze (parto dalle nostre
esperienze) è coinvolgere le associazioni sportive nelle società della salute. Si
parlava prima della scarsa integrazione dei servizi: la Regione Toscana ha fatto
la legge 60 del 2008 che istituisce le cosiddette società della salute, che sono
il tentativo di dare una risposta all’integrazione degli attori. Le società della
salute sono dei soggetti giuridici dove stanno dentro gli enti locali, le ASL, gli
operatori privati che operano nel campo socio sanitario e tutti condividono
progetti, proposte, campagne, attività. C’è anche il sistema educativo scolastico. Noi a Firenze stiamo cercando di far entrare nelle società della salute
anche le società sportive. Questo vuol dire che abbiamo una cabina di regia
in cui diversi attori direttamente o indirettamente sono chiamati a realizzare il
welfare locale e interagiscono con uno strumento giuridicamente riconosciuto: le ASL sono tenute a entrare e a stare nelle società della salute. Purtroppo
una sentenza della corte costituzionale del novembre dell’anno scorso ha
decretato l’incostituzionalità della legge regionale ma per conflitto di attribuzioni: quindi noi continueremo ad andare avanti con queste società della
salute.
Io trovo che l’esperimento delle società della salute sia molto complesso;
a distanza di cinque anni non è che stia funzionando alla perfezione, ma è la
risposta giusta: delle sedi in cui soggetti privati e pubblici, o pubblici e pubblici, privati e privati, stanno insieme e condividono un obiettivo. Potete
andare a vedere il sito della società sportiva di Firenze - www.sds.firenze.it per avere idea delle cose che stiamo facendo.
Sempre con lo sport abbiamo dato vita alla creazione di un consorzio: il
Comune con una ventina di società sportive, per la valorizzazione del Parco
delle cascine. Il Parco delle cascine è un famoso parco di Firenze, il parco
cittadino, il parco storico a dieci minuti dal Duomo, noto più per l’attività
peripatetica che per i pregi della flora. Abbiamo preso in mano questo parco,
il sindaco Renzi ne ha fatto un punto centrale: lì sarà realizzato il nuovo teatro dell’opera, che sarà inaugurato dal presidente Napolitano a dicembre, sarà
l’opera pubblica più importante, in occasione del 150° dell’unità di Italia, ed
è l’opera all’ingresso di questo parco, che lo renderà un parco culturale. Però
abbiamo detto: «Non solo cultura, anche sport», perché ci siamo resi conto che
in questo parco c’è il centro ippico toscano, con 130 cavalli, che fa anche
ippoterapia (cavalli per non vedenti); c’è il circolo del tennis, che ha 113 anni,
dove è nata la federazione tennis; ci corrono la mattina per fare jogging; ci
sono due società di calcio; c’è una piscina, gestita peraltro dalla UISP; c’è
perfino il circolo del tamburello! Uno dice: «Il tamburello si fa sulla spiaggia!».
156
Le relazioni con la politica locale nel governo dell’impresa sociale - 19 aprile 2011
Invece esiste in Italia una federazione del tamburello affiliata al CONI.
Abbiamo preso tutte queste società sportive e abbiamo detto: «Invece di
stare chiuse nei vostri spazi, visto che vivete tutte in questo parco, ci mettiamo
insieme e facciamo un soggetto sociale di promozione ambientale per riavvicinare i fiorentini al loro parco storico ed evitare che se ne parli solo in negativo?». Allora abbiamo costituito questo consorzio, abbiamo per ora fatto una
scrittura di intenti che presenteremo all’inizio di marzo. Scopo di questo consorzio è la valorizzazione ambientale, sociale e culturale di questo parco,
portare ad esempio le famiglie e i bambini a fare attività sportiva anche all’aria
aperta del parco e non solo all’interno delle strutture sportive. Io trovo quindi che ci possano essere molti strumenti con cui valorizzare l’impatto sociale
dello sport, incluse le società sportive.
Lo sport tra gli attori del welfare state, come prima cosa; facendo coprogettazione sugli impianti sportivi e su altro; e come ultima cosa dando anche
dei contributi. Noi abbiamo un piano di contributi molto stringato; se Tremonti
non ci farà tagliare altro, lo terremo intorno ai 100.000 euro. È poco, non c’è
dubbio, ma noi riserviamo questi contributi solo alle società sportive per progetti sociali. Non li destiniamo a eventi agonistici, non li diamo alla Fiorentina,
per intenderci. Ho scoperto che il comune di Parigi finanzia il Paris saint
Germain, e gli dà anche un sacco di soldi… Alla faccia dello sport sociale! E
neanche per i grandi eventi sportivi, che devono autofinanziarsi.
La seconda cosa è la questione della gara: noi abbiamo molti vincoli, non
solo in Toscana ma in tutta Italia. Abbiamo tutta una serie di vincoli che
impongono le procedure di evidenza pubbliche in tutta una serie di servizi, a
cominciare dal Testo unico degli enti locali.
A mio avviso la gara di per sé non è un fatto negativo, ha degli aspetti
positivi: è fatta per ottenere il miglior risultato al prezzo più basso, deve avere
dei criteri di trasparenza, deve essere fatta in un certo modo… quindi ha
sicuramente dei risultati positivi. Quello che io contesto è l’applicazione di un
modello rigido. Noi abbiamo bisogno, come enti locali, di strumenti e di una
gamma più flessibile di valutazione. Ci possono essere comparti in cui si
fanno le gare. Io ho la delega allo sviluppo economico. Abbiamo approvato
a gennaio il nuovo piano della pubblicità: metteremo una gara, mentre prima
la giunta dava gli impianti pubblicitari su concessione diretta. In questo caso
abbiamo cambiato non per dimostrare di essere più bravi, ma semplicemente
perché abbiamo detto: «Perché dobbiamo dare in concessione diretta a un’impresa privata i cartelloni pubblicitari? Facciamo una gara». A Milano è stata
fatta una gara. Il bike sharing a Milano è gestito grazie ad una gara che è stata
vinta da un’importante società. Noi faremo la stessa cosa. Invece per i servizi
all’infanzia la gara non ha senso, la gara rischia di non interpretare quel biso157
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
gno, quel desiderio di comunità locale che nasce da una struttura.
Direi che nel settore dei servizi sociali la gara non può essere calata rigidamente come un servizio; invece nel settore dei servizi pubblici - penso al
trasporto, penso alla pubblicità outdoors per i Comuni e a tutta una serie di
servizi che hanno una componente più aziendale - la gara può essere uno
strumento utile. Però non con rigidità: non la gara come strumento rigido, la
gara per forza utile. No, “la gara è buona a prescindere” è un meccanismo che
non funziona. Ci vuole una varietà di strumenti, convenzioni, concessioni
dirette, procedure di evidenza pubblica, che l’amministratore ha la responsabilità di mettere in pratica.
Intervento
Ho una domanda di carattere tecnico e una più generale.
Ho esperienza nel settore dell’industria; in questi anni, quando si deve
valutare qualcosa, ci sono le certificazioni di qualità. Mi incuriosisce sapere il
comportamento che può avere Firenze nei confronti di questi servizi pubblici
decentrati, questi asili: quando fate le valutazioni vi riferite a una vostra esperienza, e questo potrebbe fare scuola per altri, o esistono delle metodologie per
valutare questi servizi?
L’altra domanda è un po’ birichina: non so se lo sa ma a Milano ci sono le
elezioni per il sindaco. Lei non vorrebbe cogliere l’opportunità?
Dario Nardella
Grazie dell’invito! Perderei miseramente!
La domanda tecnica è molto tecnica. Confesso che, dall’esperienza che ho
dal confrontarmi con la mia collega, assessore al welfare e assessore alla pubblica istruzione (perché nel bilancio i nidi li inseriamo nella spesa per il sociale, ma dal punto di vista organizzativo i nidi e i servizi all’infanzia entrano
nell’istruzione), dico anzitutto che il sindaco Renzi ha chiamato l’assessorato
non “alla pubblica istruzione” ma “all’istruzione”: l’istruzione è tutto, pubblica
e privata. E nell’aspetto tecnico, posso dire che noi sicuramente applichiamo
uno standard di esperienza nostra, perché lo facciamo attraverso i meccanismi di riscontro che abbiamo con il personale docente, con gli insegnanti e
con le cooperative stesse che gestiscono i servizi. Noi chiediamo alle cooperative di presentare, attraverso dei moduli anche molto semplici, dei riscontri
sulla modalità dei servizi e sul rientro - anche consultando i genitori con una
valutazione capillare, genitore per genitore - che poi organizziamo con la
collaborazione dell’ufficio statistica.
Ritengo che ci siano anche valutazioni collegate alle certificazioni di qualità, ma non saprei dire niente di più dettagliato su questo aspetto.
158
Le relazioni con la politica locale nel governo dell’impresa sociale - 19 aprile 2011
Domenico Pietrantonio
Se posso aggiungere una cosa, guardando la mia esperienza, per quanto
riguarda la valutazione della qualità, spesso per i Comuni questa coincide con
il non avere problemi e non con una valutazione effettiva del servizio che
viene svolto: abbiamo in un Comune un problema con l’associazione genitori del centro diurno per disabili e questo d’improvviso, d’amblais, coincide
con una valutazione del servizio. Non dico che non debba incidere, che non
debba essere considerato, ma non vorrei che venisse assolutizzato. Quello che
mi spiace, come approccio, come dicevamo prima, è che non c’è un tentativo
serio, completo e preciso di andare a vedere quello che è stato fatto e come
è stato fatto; no, c’è il ritrarsi rispetto a un problema di interlocuzione con gli
attori che sono coinvolti nel servizio.
Questo per me è un passaggio importante; lo dico anche rispetto a noi
gestori. Spesso non è che noi ragioniamo diversamente. Abbiamo cominciato
da poco un lavoro per individuare parametri, sia quantitativi che qualitativi,
che siano quanto più possibile oggettivi rispetto alla valutazione dei nostri
servizi. Quale è il problema? Che molti Comuni da questo punto di vista non
solo non ci sentono, ma non ci vogliono sentire, quindi siamo ulteriormente
in difficoltà.
Quando poi abbiamo a che fare con meccanismi legati agli appalti, la cosa
si decuplica. Gli appalti, infatti, non prevedono questa valutazione, prevedono al massimo un miglioramento del servizio su aspetti quantitativi e non
qualitativi.
Stefano Gheno
Faccio anche io una breve considerazione su questo tema, che mi sembra
molto caldo.
Ci sono due aspetti che vanno considerati rispetto alla valutazione dei
servizi, soprattutto dove non siano facilmente standardizzabili. Il primo è che
bisogna chiaramente definire l’oggetto di valutazione, cosa che non è assolutamente banale e scontata. Uno dice: «Lo sport per me ha una funzione sociale, di educazione»; questo allora vuol dire che io nella valutazione dovrò
considerare dei criteri che riguardano la capacità di prevenire, altrimenti non
sto valutando questa cosa.
L’altro aspetto è quello della condivisione dei criteri di valutazione. Il tema
della valutazione partecipata va insieme alla coprogettazione. Il processo di
progettazione e di valutazione deve essere partecipativo: deve poter dire la
sua sia chi eroga il servizio, sia chi ne è l’utente, sia chi lo finanzia. È chiaro
che la considerazione che faceva adesso Pietrantonio annulla tutte le altre,
perché la valutazione è uno strumento di sviluppo se il valutatore è interes159
Seminari Tematici per le ONP - Incremento dell’opera e sviluppo dell’io: tra governance e partecipazione
sato a una prospettiva di sviluppo, altrimenti diventa tutto un grande pretesto
per far venire fuori quello che deve venire fuori o non far venire fuori quello
che non deve venire fuori.
Siamo arrivati alla fine del nostro incontro.
Voglio ringraziare molto Dario Nardella, sia istituzionalmente come
Compagnia delle Opere sia personalmente; credo che Dario Nardella ci abbia
dato un contributo molto interessante, ma ci abbia anche mostrato uno stile
di interlocuzione che non può che essere apprezzato e apprezzabile.
160
La Fondazione Banco Farmaceutico è un’associazione non profit nata a Milano nel 2000 che
si pone il fine di aiutare le persone indigenti
rispondendo al loro bisogno farmaceutico
attraverso la collaborazione con le realtà
assistenziali che operano localmente, al fine di
educare l’uomo alla condivisione e alla gratuità.
SOSTEGNO
AGLI ENTI ASSISTENZIALI
COLLABORAZIONE
CON LE AZIENDE
Il Banco Farmaceutico ha scelto di sostenere le
realtà assistenziali già presenti sul territorio, senza
sostituirsi ad esse. Dai primi 60 enti coinvolti
nel 2000 si è arrivati agli attuali 1.390, che
assistono regolarmente 420.000 persone.
A beneficiare dell’attività del Banco Farmaceutico
sono associazioni di volontariato, associazioni
di promozione sociale, fondazioni, cooperative
sociali, enti morali ed enti religiosi. Gli indigenti
assistiti appartengono alle categorie più diverse:
malati, famiglie in difficoltà, anziani, senza fissa
dimora, tossicodipendenti ed extracomunitari.
Fin dagli inizi il Banco ha perseguito l’obiettivo
di un rapporto stabile con la componente aziendale
del mondo della farmacia. La crescente entità
delle donazioni aziendali testimonia la fiducia
che il Banco ha saputo ottenere dalle aziende
farmaceutiche. Attorno alle donazioni aziendali
– che riguardando tutte le tipologie di farmaci –
il Banco si è impegnato per creare una rete
efficiente e professionale, che coinvolge
aziende farmaceutiche, distributori ed enti
assistenziali specializzati nell’assistenza
sanitaria.
RACCOLTA E DISTRIBUZIONE DI
FARMACI
SOLIDARIETÀ
NELLE EMERGENZE
www.bancofarmaceutico.org
L’approvvigionamento dei medicinali, gestito in
base alle reali necessità degli enti assistenziali
convenzionati, avviene ogni anno attraverso
le donazioni dei cittadini in occasione della
Giornata Nazionale di Raccolta del Farmaco
e le donazioni delle aziende farmaceutiche.
I farmaci raccolti vengono poi distribuiti
gratuitamente agli enti convenzionati.
L’iniziativa ha consentito di raccogliere,
in 11 anni, 3.442.979 farmaci per un valore
economico totale di 22.171.504 di euro.
La partnership con le diverse realtà istituzionali
presenti sul territorio, vissuta alla luce del principio
di sussidiarietà, è un tratto caratteristico della
storia del Banco. A partire da questo rapporto tra
pubblico e privato sociale, che esalta le specificità
e le eccellenze di entrambi mettendole al servizio
del bene comune, il Banco Farmaceutico ha
realizzato diversi interventi di aiuto, in contesti
di emergenza o nell’ambito di una collaborazione
strutturata. Come è accaduto, ad esempio, in
occasione del disastroso terremoto in Abruzzo e
della catastrofe naturale che ha letteralmente raso
al suolo Haiti.
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