Litografia Fondo Parmense 165. Parma, Biblioteca Palatina.
Nasce a Busseto nel 1686,
Buonafede Vitali, ma da lì parte
visita mezzo mondo, dall'Inghilterra
alla Lapponia. Giovane istruito,
i arruola nel Reggimento dei Dragoni
come chirurgo militare, viene ferito
in battaglia, lascia l'incarico e,
con il soprannome dei senza nome,
úionimo, inizia a confezionare farmaci
e a viaggiare, compiendo ricerche
ed esercitando sulle pubbliche piazze
l'onorato mestiere di medico
saltimbanco. Buonafede è
n commediante nato. Ha la medicina
nel cervello, la chirurgia nelle mani,
il teatro nel sangue e per attirare
le folle, prima e dopo l'offerta
dei suoi miracolosi medicinali,
recita e fa recitare commedie.
Questo gli procura notorietà
- apprezzamento, ma anche l'ostilità
l'invidia di tanti colleghi 'regolari'.
Eppure dell'arte dell'Anonimo
si fidano i popolani come i potenti,
e le sue preparazioni, prescrizioni,
operazioni non sono poi molto diverse
da quelle praticate dai suoi
contemporanei (né più bizzarre).
Tuttavia una cosa c'è, che distingue
Buonafede Vitali dalla medicina
dell'epoca. Per la prima volta
i suoi preparati a buon mercato
rendono democraticamente accessibile
a tutti ciò che è sempre stato
monopolio di pochi: la cura.
«QUEST'UOMO SINGOLARE
A NESSUNA SCIENZA ERA ESTRANEO;
AVEVA UN'AMBIZIONE SFRENATA
DI FAR VALERE LE SUE CONOSCENZE
IN TUTTA LA LORO ESTENSIONE,
E POICHÉ NELLA PAROLA
ERA PIÙ VALENTE CHE NELLO SCRITTO,
PRESE IL PARTITO DI MONTAR SUL PALCO
PER ARRINGARE IL PUBBLICO.
CIÒ EQUIVALEVA A FARE IL MESTIERE
DEL CIARLATANO: UN CIARLATANO
DI SPECIE RARISSIMA CHE MERITA
FORSE DI ESSERE RICORDATO
NEGLI ANNALI DEL SECOLO. SI FACEVA
CHIAMARE L'ANONIMO.»
CARLO GOLDONI
GIORGIO COSMACINI
IL MEDICO
SALTIMBANCO
VITA E AVVENTURE
DI BUONAFEDE VITALI,
GIRAMONDO INSTANCABILE,
CHIMICO DI TALENTO,
ISTRIONE DI BUONA CREANZA
EDITORI LATERZA
Premessa
Scopo di questa premessa è quello di avvertire il lettore che il protagonista del libro —
Buonafede Bonaventura Ignazio Vitali (1686-1745) «medico saltimbanco» — è designato con tre
nomi diversi.
Il primo, tratto dai Mémoires di Carlo Goldoni scritti in francese, è Bonafede: allo stesso modo,
cent'anni dopo, sarà francesizzato in Bonaparte il cognome Buonaparte della famiglia
d'appartenenza del generale corso, poi divenuto imperatore dei francesi.
Il secondo nome è quello proprio, Buonafede, dato al protagonista al fonte battesimale in
Busseto, sua patria natale: di tale nome è il Vitali stesso a sbarazzarsi quando, a ventott'anni,
dopo aver girato l'Europa, fa ritorno in Italia per intraprendervi il mestiere di medico
saltimbanco.
Il terzo nome è il «nome dei senza nome», l'Anonimo, scelto da lui medesimo per dare
un'identità personale a un mestiere ch'egli considera originale e nuovo, esercitato «saltando in
banco» nelle piazze d'Italia.
Milano, 10 febbraio 2008
G.C.
Il medico saltimbanco
Introduzione
1. La cioccolata di Goldoni
«Fu davanti a una bella tazza di cioccolata fumante che venne suggellata l'amicizia di Carlo
Goldoni con il professor Bonafede Vitali»1.
La predilezione goldoniana per la cioccolata è nota quanto il fatto che il commediografo
veneziano fu periodicamente soggetto alla «stravaganza di quei disturbi» da lui stesso
diagnosticati, nei propri Mémoires (Paris 1787), come recidivanti «vapori»2.
Un'auto-diagnosi attendibile, formulata da persona competente due volte: competente come
figlio di un quasi-medico, Giulio Goldoni, benemerito venditore di medicinali in quel di
Chioggia3, e competente come malade imaginaire, afflitto più che affetto da ripetute crisi di
malinconia, da «vapori», appunto, secondo la nomenclatura delle malattie vigente nel
Settecento e ancora in vigore nella prima metà del secolo successivo.
I «vapori» sono «vampe», recita un ottocentesco Dizionario dei termini di medicina compilato in
Francia da una schiera di savants e tradotto in Italia quarant'anni dopo la morte a Parigi
dell'ottantaseienne Goldoni, longevo ipocondriaco che passò la sua vita altalenando tra il buon
umore delle proprie commedie e l'«umor nero» o «melancolia» nel quale si ribaltava di tanto in
tanto, capovolgendosi, il suo temperamento. «Vapori, nome volgare dell'isteria e
dell'ipocondria», così specifica, impietosamente, il predetto vocabolario4.
Il nome «isteria» era più adatto alle sole femmine, mentre il nome «ipocondria» si adattava bene
ad ambedue i sessi. L'isteria era un'affezione correlata a un organo esclusivamente muliebre
come l'utero — hystèra, in greco —, matrice della fecondità destinata ad accogliere il feto capace
di movimenti (intrauterini) e perciò ritenuto mobile anch'esso e libero di spostarsi dentro il
corpo fino a impattare contro il diaframma su cui poggiano il cuore e i polmoni, suscettibili —
così si credeva — l'uno di sobbalzare e gli altri di restare soffocati portando la donna fino al
deliquio.
L'ipocondria era invece un'affezione correlata alla milza, che è un organo «ipocondriaco», cioè
«sottocostale», al pari del fegato. Per entrambi non c'è differenza di sesso. Come il fegato
produce la bile — kholè, in greco — e, se malato, la «chòlera», così la milza produce l'atrabile o
bile nera — mèlaina kholè, in greco — e, se malata, la «melancolia». La malattia così etichettata
(poi melanconia o malinconia) era detta anche «saturnofobia», essendo la milza ritenuta,
nell'universo zodiacale applicato al microcosmo del corpo umano, soggiacente a Saturno.
Insomma Goldoni, commediografo in carriera e bell'amoroso, scontò già da giovane le delusioni
e le ansie tra insuccessi e successi, tra innamoramenti e disamori, con qualche attacco di
«collera» alternato a frequenti contraccolpi di fiera «malinconia». Fu, nei termini usati dai
medici astrologi del tempo suo, un uomo «saturnino». In termini moderni, fu quel che gli
psichiatri o psicologi d'oggi direbbero un paziente «ciclicamente depresso».
Certamente Goldoni, che visse buona parte della sua vita senile a Parigi, seppe che in questa
città godeva di grande fortuna, negli anni del Settecento maturo, un medico autore di un
celebre Traité des affections vaporeuses. «Era questi il famoso dottor Pomme, medico elegante,
seducente e gradito alle signore. Egli paragonava i nervi nella loro condizione fisiologica a 'una
cartapecora bagnata, rammollita e flessibile' e affermava che, quando i vapori si manifestavano,
'la carta pergamenacea s'irrigidiva e per secchezza totale si raccorciava. Allora per distendere i
nervi e le altre parti solide increspate non v'era che adottare un trattamento emolliente, fatto di
brodi di vitello, d'agnello o di rane, di purées e gelatine, soprattutto di bagni freddi e prolungati.
Così si potevano umettare le parti solide increspate e secche e calmare i nervi «raccorciati». E
arrivava fino a dichiarare che le ammalate di vapori galleggiavano quasi sull'acqua del bagno,
all'inizio della cura, tanto i loro tessuti erano raggrinziti e secchi, mentre mano a mano che
miglioravano si affondavano più facilmente nell'acqua. E per essere coerente infliggeva a
Madame De Cluny milleduecento ore di bagno in quattro mesi. Il dottor Pomme [...] morì
milionario ad Arles nei primissimi anni del secolo XIX»5.
ll sensitivo giovane commediografo in erba, ciclicamente affetto da «vapori» e depresso, era alla
ricerca di un dottor Pomme, affidabile quanto quello parigino di cinquant'anni dopo. Gli
psichiatri e psicologi odierni ci dicono che è tipico di certe forme depressive il fare ricorso, da
parte dei pazienti che ne sono afflitti, a un medico dopo l'altro; il che si spiega in modo
esaustivo non solo con la speranza di trovare nel migliore dei medici consultati la medicina
migliore per i propri disturbi, ma anche con il tentativo di ricevere per detti disturbi,
eminentemente soggettivi, una legittimazione tale da renderli oggettivamente credibili.
È quanto accadde al venticinquenne Goldoni, neolaureato «nelle leggi» (a Padova, nell'ottobre
1730) e residente a Milano nel 1732, anno bisestile, quando «al principio della Quaresima»,
cadendo la Settuagesima il 10 febbraio, «arrivò in questa città» — sono parole goldoniane —
«Bonafede Vitali, parmense». Costui «era di buona famiglia, aveva ricevuto un'educazione
eccellente, ed era stato dai gesuiti», come Gol-doni stesso durante l'adolescenza; ma,
«disgustato del convento, si era applicato alla medicina, meritando una cattedra di professore
all'università di Palermo»6.
Goldoni era da un anno orfano di padre e da poco assunto come «gentiluomo di camera» presso
il ministro della Serenissima a Milano, Orazio Bartolini, che egli stesso ci presenta come
«ricchissimo» e «molto ragguardevole». Il suo servizio, precario, era quello del segretario con
incarichi di scrittura e di pratica «causidica», connaturata alla sua laurea. Il giovane stava
attraversando un periodo gramo, travagliato anche dai paterni procuratigli dall'Amalasunta, una
sua opera dilettantesca da dimenticare, e infatti da lui stesso data alle fiamme.
A tale proposito ha lasciato scritto: «Cavo di tasca il mio dramma», i cui versi «che il diavolo se
li porti! E porti anche te, disgraziata opera [...1. La fiamma ti divori!». Ha scritto inoltre: «La
getto nel fuoco, e la vedo bruciare con sangue freddo, anzi con una specie di compiacenza. Il
mio dispiacere, la mia collera, avevano bisogno di uno sfogo violento»7.
A questo raptus di tipo maniacale fece seguito per rinculo psicologico il buio della depressione,
favorito dalle deprimenti sequele di una promessa di matrimonio non mantenuta. C'è da
crederlo in balia dei veleni ipocondriaci esalati dagli «stravaganti vapori» e in affannata ricerca
di qualche rimedio d'urgenza, se non per guarire, almeno per star meno peggio.
Perché non tentare — questo verosimilmente il suo pensiero segreto — un approccio con il
medico appena giunto sulla piazza milanese? Bonafede Vitali era un «fisico filosofo» in perfetta
regola, con tanto di titolo di «dottore», anzi di «professore». Dava garanzie di competenza,
ispirava fiducia. Tuttavia, nonostante l'ufficialità dei suoi titoli, era un curante eterodosso che
faceva uso di metodi e mezzi totalmente diversi da quelli impiegati dalla medicina ufficiale. Era
un curante che oggi si direbbe «alternativo», perciò molto chiacchierato, sia nel bene che nel
male. Chi ne parlava bene erano perlopiù i pazienti; chi ne parlava male erano perlopiù i
colleghi, spiazzati da lui. Rispetto ad altri esculapi di grido, egli lucrava di meno. Forse lo
faceva per batterli in libera concorrenza. Comunque, per quanto famoso, non s'era arricchito.
Goldoni ha scritto al riguardo: «Non essendo abbastanza ricco per appagarsi della semplice
gloria, traeva partito dal suo ingegno vendendo i suoi medicinali»8.
«Andai a trovarlo un giorno col pretesto di voler acquistare il suo alessifarmaco»9, prosegue il
ricordo goldoniano. Probabilmente non fu affatto un pretesto, ma un proponimento ben
preciso. Gli ipocondriaci, si sa, tendono a mascherare le loro motivazioni.
«Alessifarmaco»: quale diavoleria si celava sotto questo nome scientifico? Nessun mistero, tanto
meno diabolico: il già citato Dizionario dei termini di medicina lo dice un nome derivante dalla
giustapposizione delle due parole greche alèxo, «respingo», e phàrmakon, «veleno». Ogni veleno
a piccole dosi è un farmaco, ogni farmaco ad alte dosi è un veleno. Il nome composito designava
un medicinale «composto», formato da più ingredienti, non «semplice», com'era detto il
medicinale tratto da questa o quell'erba coltivata nell'orto botanico. Il «composto» era un
«preparato» farmaceutico che richiedeva la perizia «spagirica» (da spào, «estraggo», e aghèiro,
«riunisco») di uno speziale provetto. La denominazione era generica, non specificava i
componenti. Comunque, a detta del Dizionario, si trattava di un medicinale «valido ad espellere
dal corpo i veleni»10, in definitiva di un «antidoto» nella fattispecie indicato per fugare í
«vapori» che avvelenavano gli umori corporei del nostro Goldoni.
La richiesta da parte di costui dell'antidoto dalla formula segreta — medicinale ignoto nella sua
composizione e perciò più attrattivo e più ambito dall'ipocondriaco richiedente non convinse il
medico-speziale. Il Vitali non era un profittatore. Rispettoso della sua clientela, voleva prima
sapere se il suo «alessifarmaco» fosse adeguato alla patologia del paziente, appropriato a
risolvere il caso e somministrabile ad h6c.
«Egli mi fece qualche domanda sulla malattia che avevo o che credevo di avere», ricorda
Goldoni, asserendo, con la mezza verità o mezza falsità propria dell'ipocondria, d'essere andato
a consultarsi da lui soltanto «per curiosità». Aggiunge: «Trovai piacevole la sua cortesia, e
conversammo per qualche tempo». Il medico-speziale, evidentemente edotto non solo dei guai,
ma anche dei gusti del proprio interlocutore, capì che questi aveva bisogno non
dell'«alessifarmaco», ma di buone parole condite da una buona cioccolata. Dice ancora Goldoni:
«Mi fece portare una buona cioccolata, dicendomi che questo era il miglior medicamento che
facesse per me»11.
2. «Comédie humaine»
Ripartiamo dunque dalla cioccolata tanto gradita, «piacevole» quanto l'amabile «conversare»
del Vitali: un vero e proprio doppio placebo, fatto su misura per l'ipocondriaco paziente, stretto
da pene di carriera e d'amore.
La cioccolata o «cioccolatte» apparteneva alla specie delle «spezie» o «droghe». Lo certifica uno
storico come Fernand Braudel che, pur non facendone espressa menzione, tuttavia rileva che
«ogni civiltà ha avuto bisogno di una serie di stimolanti, di droghe [...]; nel secolo XVI, il primo
alcool; poi il tè, il caffè, senza contare il tabacco»12.
Droga? «Nome dato dai farmacisti a tutti i rimedi semplici, e dal volgo a tutti quelli che si
prendono internamente»: così ancora ci informa la fonte delle nostre nozioni lessicali13. Droga?
In un'accezione più consona ai nostri tempi, alla specie appartenevano certamente la «polvere
di nicoziana» o tabacco da fiuto e la pasta di «cioccolatte»: all'abuso dell'una e dell'altra, «prese
internamente» in dose eccessiva, era stato attribuito il gran numero di morti improvvise che
avevano falcidiato la popolazione romana nel biennio 1705-1706. A tale moria e alle sue
presunte cause aveva dedicato il trattato De subitaneis mortibus (Roma 1707) il protomedico
dello Stato pontificio Giovanni Maria Lancisi.
Un altro esponente della medicina coeva, Francesco Redi, primo medico di Ferdinando II e
Cosimo III de' Medici, nonché arguto poeta cruscante, nel suo ditirambo Bacco in Toscana (1685)
aveva riservato alla cioccolata il seguente «scherzo anacreontico»:
Non fia mai che il cioccolatte
v'adoprassi, ovvero il tè:
medicine così fatte
non saran giammai per me.
Una medicina in forma di droga? O una droga in forma di medicina? In fondo il «cioccolatte»
altro non era che il theobroma, «cibo degli dèi», sopraffino o soprannaturale come l'ambrosia. Era
stato introdotto in Italia dagli spagnoli reduci dalle Americhe, era arrivato da un «mondo
nuovo», insieme all'oro e all'argento. L'«oro della salute» — metafora dell'oro amerindio e
dell'«oro potabile» o elisir di lunga vita dei medievali alchimisti — contemplava anche una
«pasta» fatta di «amandorle di cacao torrefatte e zuccaro» che, «ove non contenga sostanze
aromatiche», meritava per le sue virtù curative il nome appropriato di «cioccolatta di sanità»14.
Droga o pasta sanitaria, la «cioccolatta» prediletta da Gol-doni contribuì al fatto che questi si
accomiatasse dal Vitali rinfrancato nel fisico e sollevato nel morale, compiaciuto due volte per il
duplice effetto placebo procurato in lui dalla bevanda e dalla chiacchierata. La «visita» aveva
sortito l'effetto desiderato. Uscendo si sentiva molto meglio di quando era entrato.
Di quale cura s'era trattato? Il Vitali, dapprima, era stato ad ascoltare con pazienza il paziente.
Era stato attento ai mali che questi esponeva e ai modi della esposizione. Non ci è dato sapere se
Goldoni fosse un malade du petit papier, annotante su di un «foglietto di carta» ogni più piccolo
disturbo registrato dalla sua patofobia, cioè dalla malattia che — scrive nei Mémoires —
«credevo di avere». Sappiamo però che su tale presunta malattia il Vitali lo interrogò a lungo,
spendendo il proprio tempo anche in chiacchiere amene.
Le chiacchiere sono fatte di parole. Parole sono quelle scambiate tra simili, come tra curato e
curante. Similia similibus curentur: «i simili siano curati dai simili». L'aforisma sanciva
un'omeopatia antropologica, un'empatia interumana. Parole sono quelle scambiate nel
«dialogo»: il dialogo «socratico» è un momento importante, insostituibile, dell'ippocratismo
medico. È importante sotto l'aspetto diagnostico, in quanto veicolo di memoria fisiopatologica e
di storia clinica, ed è insostituibile sotto l'aspetto terapeutico, in quanto strumentò di sfogo e via
di scampo dai contenuti logoranti di una coscienza afflitta dall'ansia e dall'angoscia.
Nelle malattie, in certune più che in altre, non c'era solo la «materia peccante» da eliminare
mediante lo «spurgo del corpo» dagli umori cattivi; c'era anche, talora soprattutto, lo spirito da
depurare dal temperamento collerico prodotto dalla bile e dal temperamento malinconico
prodotto dall'atrabile. C'era già da cacciar via la malattia del futuro, la «sindrome depressiva».
C'era, per il paziente, una pena dell'anima da confidare, da «confessare»; e c'era, per il medico,
una sofferenza psichica da «analizzare» e da lenire. Il medico era dunque, o doveva essere, un
«confessore» come il prete o uno «psicoanalista» ante litteram?
Bonafede Vitali era una via dí mezzo tra il prete nel confessionale, che senza bisturi sapeva
come «infilzare l'anima», e lo psicoanalista nel gabinetto d'analisi, che senz'altri strumenti che la
parola e l'ascolto sapeva come «strizzare il cervello» del suo paziente e giovargli.
È ciò che si evince da una lettura non superficiale del testo goldoniano, spigolando tra le righe e
andando oltre le reticenze dell'autore ottuagenario. Ma lasciamo alla prosa da teatrante del
vecchio Goldoni le pennellate che danno colore al ritratto dal vero del professor Bonafede,
attore protagonista di una comédie humaine rimastagli nella penna:
Quest'uomo singolare a nessuna scienza era estraneo; aveva un'ambizione sfrenata di far valere
le sue conoscenze in tutta la loro estensione, e poiché nella parola era più valente che nello
scritto, lasciato il posto che occupava con onore [all'università di Palermo], prese il partito di
montar sul palco per arringare il pubblico. [...]. Ciò equivaleva a fare il mestiere del ciarlatano:
[...] un ciarlatano di specie rarissima che merita forse di essere ricordato negli annali del secolo.
[...]. Si faceva chiamare l'Anonimo15.
3. Ciarlatano sì o no
Un ciarlatano memorabile? Un ciarlatano tanto schivo da rinunciare al prestigio del proprio
nome titolato scegliendo di rimanere «anonimo»?
Andiamo con ordine e ripartiamo da un altro Vocabolario, quello degli accademici della Crusca,
elaborato a Venezia in tre successive edizioni seicentesche (1612, 1623, 1691). Alla voce
Ciarlatano si legge: «Colui che per le piazze spaccia unguenti o altre medicine, cava denti e
anche fa giuochi di mano». Ciarlatani erano «coloro insomma che laddove la gente più si aduna,
salgono sopra banchi, panche o palchi per dispensare farmaci di varia natura, specifici contro
determinate malattie, antidoti contro veleni, per cavar denti, compiere piccole operazioni
chirurgiche».
La definizione, che faceva d'ogni erba un fascio mettendo insieme tutti coloro che sul mercato
della salute prestavano larga parte delle cure richieste da un'altrettanto larga utenza popolare,
cela o svela un'accezione svalutativa, una valenza negativa, correlata all'etimologia. La storia
della parola fa infatti derivare «ciarlatano» dall'incrocio lessicale tra «ciarla» e «cerretano»,
ereditando quanto scritto in proposito da due testi risalenti alla seconda metà del secolo
precedente.
«Ciarlare» dicesi di «coloro i quali favellano non per aver che favellare, ma per non aver che
fare, dicendo senza saper che dirsi e insomma cose inutili o vane, cioè senza sugo o sostanza
alcuna»: così scrive nell'incompiuto dialogo intitolato Ercolano (Firenze 1570) il notaio e storico
fiorentino Benedetto Varchi. «Cerretano» deriva da «Cerreto, castello di nuovo nome et molto
pieno di popolo», sito tra gli «asperi et alti monti» del Ducato di Spoleto, donde «sono nominati
li cerretani, quali discorrono per tutta Italia simulando santità con diversi modi e sotto diversi
colori per trarre denari»: così scrive nella geografica Descrittione di tutta Italia (Bologna 1550) il
frate domenicano e inquisitore bolognese Leonardo Alberti.
Vaniloquio, vacuità, insipienza, simulazione, furberia, brama di lucro: sotto la cappa di queste
categorie squalificanti erano raffazzonati tutti i vari distributori di guarigioni o di cure. Stanziali
o più spesso itineranti, essi annoveravano nelle loro file ogni sorta di spacciatore, cavadenti,
mezzochirurgo, giustaossa, mezzospeziale, cantimbanco, montimbanco.
A fronte dell'accezione svalutativa sancita a metà Cinquecento dal notaio e storico fiorentino e
recepita un secolo dopo dagli accademici cruscanti, sta un'annotazione a margine di una
memoria del re Filippo IV di Spagna (infelicemente regnante dal 1621 al 1665 su una nazione
penalizzata nel suo ruolo di grande potenza dalle paci di Westfalia e dei Pirenei). La memoria
del sovrano è conservata nel grande archivio di Simancas, dove sono custodite le carte
dell'Impero spagnolo. La nota marginale suona tutt'altra campana. Essa dice: «Ciarlk es hablar
de ciencia»16.
Se «ciarlare» era «parlar di scienza» — e ne vedremo il perché —, «cerretani» erano anche quei
benemeriti abitanti di Cerreto che nella seconda metà del Trecento avevano avuto dal vescovo
di Spoleto la facoltà di «cercare» elemosine per rifondare il sistema assistenziale della carità,
dissestato dalla peste nera del 1348. Anche il frate domenicano bolognese aveva dunque
inquisito a senso unico, svalutando in modo univoco, senza eccezioni, l'attività di «cercanti»
svolta in due , secoli, su licenza episcopale, dagli abitanti della cittadina umbra.
La licenza del vescovo e l'enigmatica (per ora) frase annotata dal re autorizzano ad affacciare
l'ipotesi che in un arco di tempo trisecolare — quello trascorso tra l'una e l'altra — il termine
«ciarlatano» abbia avuto un significato non esclusivamente negativo, ma si sia dotato di una
valenza per così dire «neutra», modificabile in peggio o in meglio a seconda dei singoli casi. Il
che sarebbe provato da una diversa origine linguistica del termine, da taluni fatto risalire — per
quanto riguarda le «ciarle» — a Charles, Carlo Magno, e alle storie parlate, rimate e ritmate dei
cantastorie, intrattenitori dal palco di piccole folle, accorrenti ad ascoltare le gesta narrate deí
paladini carolingi.
L'ipotesi è che, nel corso dei secoli, il termine «ciarlatano» non abbia espresso soltanto
dispregio, e che coloro che lo meritavano non siano stati solo imbonitori, imbroglioni, furfanti.
Nel campo delle cure, il ciarlatano ebbe un ruolo non privo sovente di una sua dignità. Questo o
quel cavadenti che levava il dente e il dolore, questo o quel giustaossa che aggiustava con le
mani una spalla lussata, questo o quello spacciatore di medicinali che dispensava rimedi forse
di null'altro carichi che di benefica suggestione rispondevano in certo qual modo ai bisogni di
un'utenza molto larga che la medicina dotta di fatto escludeva.
Contrapposta a una medicina ufficiale che diceva di sapere e potere, mentre poco sapeva e
molto poco poteva, la ciarlataneria a modo suo, pur tra frequenti stravaganze e millanterie,
rispose a un bisogno umano insopprimibile e primario: trovare un rimedio, anche solo
consolatorio, all'inguaribilità della malattia, all'incalzare della vecchiaia, alla paura della morte.
Il ciarlatano, sotto questo aspetto, fu anche un prodotto dell'angoscia esistenziale dell'uomo e
della sua ansia di vivere17.
È fuor di dubbio che accanto a questo o quel ciarlatano benemerito allignò e prosperò anche il
sedicente guaritore che faceva della medicina popolare una malpratica profittatrice, non a buon
mercato, della buona fede e della popolare credulità. Tale ciarlatano della specie peggiore, più
che nascondersi nell'anonimato, era solito darsi dei soprannomi che indicavano non la sua
identità, ma la sua provenienza: Furlan, l'Alfier Lombardo, il Mantoanino, il Toscano, il
Napolitano... Diversi, e più burleschi, erano gli eponimi adottati dai ciarlatani d'oltralpe:
Mondor, Tabarin, Turlupin...
Ma Vitali Bonafede — «bona fede», nomen omen — apparteneva alla specie migliore, divenuta
nel Settecento, al dire di Goldoni, una «specie rarissima». Egli era il ciarlatano che faceva
eccezione, eccezionale. Il suo anonimato non era un nascondiglio dove celare la propria identità,
né un espediente per esibire una falsa modestia. Era invece un modo per tacere i propri titoli e
far parlare al posto loro, avvolti nelle debite «ciarle», i fatti prodotti dalla propria «scienza»
applicata.
4. Ciarlataneria e scienza
Che cos'era mai questa «scienza» — ciencia in lingua castigliana — che una persona
mediamente colta come il re di Spagna aveva collegato al ciarlar? Siamo davanti a un'altra
ambiguità o doppia valenza. Delle due, l'una: o el rey católico, in clima di «controriforma»
fiammeggiante, aveva inteso etichettare come ciarle presuntuose le parole di una scienza
insuperbita a tal punto da pretendere di descrivere il mondo in un modo totalmente diverso da
quello biblico, oppure il sovrano informato, in clima di aurorale «rivoluzione scientifica», aveva
presagito che una nuova scienza batteva alle porte ed era prossima a darsi un linguaggio
innovatore, tanto diverso da quello tradizionale al punto d'apparire quasi eretico e meritare
d'esser detto, per contrapposizione elogiativa o provocazione intenzionale, ciarlatanesco.
Chi scrive dura fatica a ravvisare nel re di Spagna un provocatore culturale in odore di eresia;
ma, pur propendendo per l'altra identità del personaggio, ama tuttavia vedere la frase regia
incarnata in un soggetto pensante che all'eloquio facondo e permagno — la magniloquenza o
vaniloquenza dei dotti saputi derisi da Molière — preferiva le ciarle sensate degli onesti
ciarlatani.
Erano ciarle ammantate di scientificità. Nel Seicento una nuova scienza stava decollando verso i
suoi fasti settecenteschi: la chimica. Essa fioriva sul terreno dove s'era combattuta, e ancora si
stava combattendo, una delle ultime battaglie in nome della «magia naturale» del Rinascimento
e al tempo stesso una delle prime battaglie in nome della «tecnologia» dell'età modernocontemporanea. Il solco che divideva gli alchimisti «spagirici» di retroguardia, tardivi ma tenaci
seguaci di Paracelso, dai «chimici scettici» d'avanguardia, compagni di strada e primi imitatori
di Robert Boyle, permaneva, tra Seicento e Settecento, ancora labile e incerto18.
L'ambivalenza intrinseca alla ciarlataneria era riprodotta fedelmente in ambito chimico. Da un
lato una sapienza intuitiva, immediata, folgorante, quasi mistica, si realizzava nelle arti proprie
della vecchia magia rinascimentale; dall'altro lato una razionalità dimostrativa, argomentata,
illuminante, di stampo fisico-matematico, si realizzava nelle tecniche applicative della scienza
nascente. Le teorie e le pratiche di non pochi adepti oscillavano tra i due poli, incrociandosi e in
parte embricandosi.
In tale ambiguo gioco delle parti non è sempre facile distínguere i retaggi dai vantaggi;
l'interfaccia tra gli uni e gli altri è il piano di clivaggio, indistinto e indefinito, tra paracelsismo
postumo e galileismo in itinere. La Experienz dei paracelsiani irriducibili si sovrapponeva alle
«sensate esperienze» di scuola galileiana fatte da molti medici «iatrofisici» o «iatrochimici»19.
Iatrochimica era, alla lettera, la medicina fondata sulla chimica. Il sapere-agire di quei medici
che nel Rinascimento s'erano richiamati in parte all'alchimia, dal Seicento in poi si rimodellava
gradatamente su basi protochimiche (o fisico-meccaniche). La medicina, avviandosi in questo
percorso, tendeva a farsi cheiniatria (e, in prospettiva, chemioterapia). Tale tendenza la
costrinse a restare per non breve periodo in bilico, per così dire, tra la «chemiatria» di nuovo
conio e la medicina alchemica di vecchio stampo; e a ciò contribuì la perdurante resistenza o
renitenza di gran parte della medicina ufficiale ad accettare la nuova scienza, come d'altronde la
«spagirica» nel secolo precedente, tra le proprie fondamenta.
Molti medici collegiati asserivano che i medicamenti chimici erano «per lo più mal sicuri e
pericolosi», per cui erano «da non permettersi senza l'approvazione de' medici galenisti», cioè
tradizionalisti. Ne derivava l'istanza — rivolta ai collegi, alle università, alle accademie — «che
la lettura della chimica, benché privatamente, come non utile, debba restare proibita»20.
I medici tradizionalisti, arroccati nel loro sapere-potere, non avevano tutti i torti nell'opporsi
all'adozione, quando questa fosse indiscriminata e dettata da moda o faciloneria, di una scienza
che ai vecchi e collaudati «semplici» della farmacopea botanica sostituiva i nuovi e aleatori
«metalli» tra cui l'arsenico e l'antimonio. Avevano anzi ragione d'essere diffidenti nei confronti
di quel «trionfale carro dell'antimonio»21 di cui s'era vaticinata, agli inizi del Seicento,
l'inarrestabile marcia (destinata a protrarsi fino all'Ottocento inoltrato): un trionfo del tutto
fantasioso, però di lunga durata, motivato non da ragioni chimiche, ma da suggestioni
astrologico-alchemiche.
Infatti l'antimonio o metallo «stibiato» — stibium è il suo nome latino —, dopo fusione e
raffreddamento in presenza di ferro, si rapprendeva in forma cristallina e in foggia stellare.
Questa «stella di antimonio» appariva come la prova eloquente di una segnaletica che,
apparentando il metallo a un corpo cosmico, ammodernava l'antica presunta «simpatia» tra
l'astrologia e l'alchimia nella moderna corrispondenza, altrettanto presunta, tra la cosmologia e
la chimica.
Così, tra vecchia alchimia e nuova chimica, l'antimonio continuava la sua marcia
farmacoterapica, visto dai chemiatri come «piombo sacro ai saggi» e dai suoi detrattori come
farmaco non «stibiato», ma «stigiato», cioè come veicolo di sicuro trapasso oltretomba, verso la
palude Stigia. A quest'ultimo riguardo è disponibile una testimonianza autobiografica
settecentesca dello scrittore e storico napoletano Pietro Giannone.
Scrive Giannone in veste di paziente: «Nella mia adolescenza mancò poco che non tornassi in
quello stato nel quale fui prima di nascere, poiché, infermato di febre ancorché non gravemente,
il medico, poco riflettendo sul mio gracile temperamento, mi diede una purgagione con
antimonio superiore alle mie forze; sicché [...] poco mancò che non esalassi l'anima tra le braccia
della mia cara madre»22.
Le ragioni della scienza chimica non sempre coincidevano con quelle della salute. Nel
contraddittorio e stentato procedere della medicina seicentesca — un percorso tutt'altro che
trionfale — c'era dunque il riscontro di una scienza rivoluzionaria che nel labirintico aggirarsi
dei suoi primi passi sul terreno della pratica medica commetteva errori e imboccava vicoli
ciechi. Gli uni e gli altri le venivano imputati come conseguenze inevitabili del suo essere una
scienza eterodossa, eretica, vituperabile come ciarlataneria.
Così non era. Ma se uno scienziato in veste di chemiatra poteva essere insultato come
ciarlatano, un medico ciarliero, grande comunicatore, poteva presentare il proprio
«alessifarmaco» chimico come prodotto sicuramente scientifico. Tale era il caso di Bonafede
Vitali, che da qui in poi chiameremo con il suo vero nome, Buonafede, lasciando il nome
Bonafede al francese dei Mémoires goldoniani.
I
Vita e avventura di Buonafede Vitali
1. Primi passi; a scuola di retorica
La vita di Buonafede Vitali parte da Busseto, sua patria. La cittadina del Ducato parmense,
centoventisette anni prima che vi nascesse Giuseppe Verdi, diede i natali al protagonista di
questa storia alle ore dieci e mezza pomeridiane del 3 luglio 1686. Il nuovo nato era il frutto del
matrimonio «congiunto» tra il patrizio bussetano Giuseppe Vitali e la giovine parmigiana Maria
Carpi (o da Carpi, appartenente a famiglia oriunda da tale città del Ducato modenese). Sul
registro parrocchiale dei «nascimenti» vennero scritti come prenomi, in aggiunta a quello di
Buonafede, attestante la confessione cattolica, apostolica e romana del battezzato, quelli di
Bonaventura, beneaugurante, e di Ignazio, promettente — sicut erat in votis — un futuro
sacerdotale nella Compagnia di Gesù.
Busseto era la terra innalzata a città nel 1533 dall'imperatore Carlo V. Era uno staterello
signoreggiato a lungo dai Pallavicino e poi conteso a costoro dai Farnese. La città era ed è sita al
margine occidentale di un fertile territorio agricolo contiguo al Piacentino, separato da questo
da un esile torrente, l'Ongina, affluente di sinistra del Po. Era ed è ubicata a circa metà strada tra
Borgo San Donnino (Fidenza) e il Po di Zibello: il grande fiume demarca il territorio a
settentrione, segnando il confine con il Cremonese, appartenente — ai tempi del Vitali — allo
Stato di Milano. Busseto era un centro importante, sede di una dogana intermedia e di una
brigata di dragoni.
«Il suo nome sembra indicare che il luogo ove sorse era piantato di bossi», recita il Vocabolario
topografico dei Ducati di Parma, Piacenza e Guastalla (Parma 1832-34) di Lorenzo Molossi. Con
riferimento ai tempi in cui ci visse il casato dei Vitali, l'estensore della voce Busseto aggiunge:
«Estinta con Girolamo la linea di Pallavicino, succedeva nello Stato Alessandro de' marchesi di
Zibello, in virtù dell'addozione che di lui fece il marchese Sforza di Fiorenzola, consenziente il
duca Ottavio Farnese nel 1585». Una successiva «fiera lite, che occupò le penne di molti valorosi
giureconsulti italiani, si spense soltanto nel 1633, a mediazione del pontefice Urbano VIII».
La famiglia de Vitalibus residente a Busseto rimonta, fin dov'è dato risalirne l'albero
genealogico, a un Vitale Vitali morto nel 1466, padre di un Giovan Giacopo «podestà di Borgo
San Donnino». Dopo sette generazioni, i cui maggiori esponenti figurano come «anziani della
Comunità di Busseto», il ramo più prospero mette capo a Giuseppe Vitali, nato il 3 marzo 1660 e
padre di Buonafede. Questi era dunque discendente d'alto rango di una famiglia «ascritta da
più secoli alla Nobiltà di Cremona e di Parma», che esibiva «personaggi per dignità, per valore,
per consiglio e per dottrina insigni»1.
Buonafede era un virgulto da crescere con cura; era un garzone d'ingegno precoce sul quale
investire, con fondate speranze di successo, il patrimonio di una tradizione familiare ricca di
talenti, a maggior gloria dei Vitali.
«Di dodici anni difese Filosofia», cioè coltivò gli studi e «disputò» nelle arti propedeutiche,
grammatica, dialettica, retorica. Ciò avvenne «nella Università di Parma, ove dimorava allora
suo Padre»2. Lo conferma Goldoni riconoscendo — come s'è visto — l'«eccellente educazione»
impartitagli dai Gesuiti.
Un dodicenne all'Università? «Dal 1600 la Scuola parmense di San Rocco era stata una
università gesuitica di Stato: un istituto dotato dei livelli secondario e universitario di
istruzione, esemplato secondo la Ratio studiorum della Compagnia di Gesù e [...] abilitato a
rilasciare gradi accademici dal potere pubblico». Qui fece i propri studi «di Filosofia»
l'adolescente Buonafede. «Alla Scuola si era aggiunto il Collegio dei Nobili, forse il più reputato
convitto d'istruzione italiano nei secoli XVII e XVIII, i cui ospiti avevano frequentato i corsi in
San Rocco». La sua fama era grande, «facendo affluire nella Scuola parmense allievi d'alto ceto
da quasi tutta la penisola». Era «un centro essenziale per l'azione culturale e religiosa della
Compagnia in Italia», luogo di formazione della classe dirigente nel Sei-Settecento. «Notevole
era anche la Scuola di San Pietro a Piacenza», mentre «quella di Borgo San Donnino giungeva
solo alla retorica»3.
Tra Parma e Borgo San Donnino, la retorica appresa dai Gesuiti fu una delle basi fondative
dell'attività futura di Buonafede Vitali. Se la grammatica era l'«arte di parlare correttamente», la
retorica era l'«arte di dire bene». Ma i reverendi padri gesuiti non la vendevano così a buon
mercato. Al «pretino» da essi coltivato non insegnavano solo, nel dotto latino delle loro lezioni,
che la grammatica era l'ars recte loquendi e la retorica l'ars bene dicendi nel senso proprio della
«bene-dizione». Dicevano anche che la elocutio, l'eloquio, aveva la sua propria virtù — virtus
elocutionis — nella puritas, purezza, supportata da maiestas, auctoritas, vetustas, perspicuitas et
elegantia. Tali «maestà, autorità, vetustà, perspicuità ed eleganza» dovevano fare da usbergo
contro ogni «vizio barbarico»: barbarismus nullo modo excusari potest; i d vitium est, quod graece
appellatur metaplasmos («il barbarismo non può essere scusato in alcun modo; è un vizio che in
greco dicesi metaplasma»)4. Una metastasi del discorso, un cancro da evitare.
L'indottrinamento gesuitico non finiva qui. La dottrina dell'elaborazione del discorso si
articolava in una serie di tappe «teoretiche» alle quali faceva seguito una serie altrettanto
prolissa di prove «pratiche» in cui lo studente doveva dimostrare che l'apprendimento era stato
pari all'insegnamento.
L'inventio, la propositio, la narratio, l'argumentatio, la recapitulatio, la peroratio, la conclusio
dovevano risultare bene assimilate nei modi di trovare le parole appropriate, e di presentarle
raccontando, argomentando, riassumendo, recitando, chiosando.
La retorica, inoltre, nella versione aristotelico-scolastica cara ai reverendi padri, si dipanava tra
due generi, il «giudiziale» e l'«epidittico». L'uno era proprio degli avvocati causidici e aveva per
oggetti le quaestiones concernenti le res dubiae, per esempio «se Tizio è innocente o colpevole».
L'altro era proprio degli oratori ufficiali e aveva per oggetti le quaestiones concernenti le res
certae, per esempio che «Caio è degno di lode» oppure che «Sempronio è meritevole di
biasimo».
Tra letture da Cicerone e da Demostene, ripasso di appunti presi a lezione, ripetizione di passi
scelti ed esercitazioni declamatorie, il giovane Buonafede alimentava la sua «rara facondia ed
eloquenza di discorso, onde dai suoi emuli chiamavasi» — e così sarà chiamato — «potens in
sermone», parlatore potente5.
2. Esperienza di guerra
Un triennio da loyolita è stato un periodo formativo ed educativo duro, ma efficace. I reverendi
padri gesuiti avevano tra i loro principi inderogabili quello di pretendere un esercizio assiduo
della memoria. Per apprendere si doveva ripetere: ripetere all'infinito fino a memorizzare. Le
ripetizioni erano esercitazioni in cui bisognava dire e ridire, parola per parola, le cose lette nei
libri o scritte sotto dettatura. Ogni mancanza al riguardo era punita con la ripetizione
«genuflessa», fatta stando in ginocchio. La mnemotecnica era indispensabile per il successivo
apprendimento della retorica.
Retore alle prime armi, ma molto promettente, Buonafede vive gli anni giovanili sotto
Francesco Farnese, settimo duca di Parma e Piacenza, succeduto al padre Ranuccio II nel 1694.
La dinastia farnese già declinava. «Nel ducato di Parma e Piacenza la vera e propria età della
decadenza si ebbe con Ranuccio II e con Francesco», segnando la «partecipazione dello Stato
farnesiano alla crisi europea. [...] I piccoli Stati, repubbliche o ducati che fossero, nel Seicento
erano già antichi [fatta eccezione per il Ducato sabaudo] e antiquati fossili dell'età
rinascimentale»6.
Erano ormai tramontati da tempo i fasti imperiali e papali del Ducato farnesiano, elevato a
dignità sovrana nel 1545. Lontani un secolo e mezzo erano i fastigi toccati sotto Ottavio,
secondo duca e sposo di Margherita d'Asburgo, figlia naturale di Carlo V, e sotto il di lui
fratello maggiore Alessandro, cardinale a quattordici anni, vescovo di Parma (di Avignone e di
Tours) e detto il Gran Cardinale. L'Alessandro Farnese loro nonno era stato eletto papa nel 1534
con il nome di Paolo III: nel 1545 era stato lui a investire del Ducato di Parma e Piacenza il figlio
Pierluigi (assassinato nel 1547 da taluni feudatari piacentini); ed era stato lui a riversare sui
membri della propria famiglia — figli e nipoti — un «nepotismo sfrenato», al punto che in una
pasquinata era stato stigmatizzato come il papa «a cui l'amore / va di sua casa / divorando il
cuore»7.
Ora, nell'anno 1702, quando il sedicenne Buonafede, lasciata la scuola gesuitica, è presso il
padre Giuseppe, «castellano» fresco di nomina, comandato dal duca Francesco alla Rocca di
Montechiarugolo — «castello sulla sponda sinistra dell'Enza a' piedi dei colli» —, la crisi del
piccolo Stato farne-siano è acuita dal fatto che il suo territorio è uno dei teatri della guerra,
formalmente dichiarata il 15 maggio, che vede l'un contro l'altro armato l'esercito francese e
l'esercito imperiale. La primavera è la stagione d'inizio della «guerra di successione spagnola». •
La morte senza eredi, avvenuta il l° novembre 1700, dell'ultimo re di Spagna del ramo
asburgico, il malaticcio Carlo II (figlio di Filippo IV) detto el bechizado perché ritenuto «stregato»
da morbo diabolico, ha creato il casus belli. Il testamento regio, redatto in articulo mortis dietro
pressione dell'entourage francofilo della corte madrilena, designa «erede universale» il duca
Filippo d'Angiò, nipote del re di Francia Luigi XIV, il Re Sole. Alla boria di questi non sembra
vero di poter sottolineare il disegno di una unione delle due corone, francese e spagnola, con la
frase attribuitagli dagli storici: «Tra Francia e Spagna non esistono più i Pirenei».
Chi non può assolutamente accettare tale progetto egemonico è l'imperatore Leopoldo I, ch'è in
grand'auge come defensor christianitatis, difensore dell'Europa dai turchi, da poco costretti a
resa temporanea e alla pace di Carlowitz..Con il re di Francia l'imperatore asburgico aveva
stipulato in precedenza, durante la fase terminale della malattia di Carlo II, un accordo in base
al quale la corona di Spagna, con i Paesi Bassi e le colonie americane, sarebbe toccata al proprio
figlio secondogenito, Carlo d'Asburgo, mentre al nipote del Re Sole, Filippo d'Angiò, sarebbero
toccati i domini italiani, cioè Milano, Napoli e la Sicilia.
Fallita la diplomazia della spartizione concordata, la parola è alle armi. Già nella primavera del
1701, ovvero un anno prima dell'inizio della guerra guerreggiata, un agguerrito esercito
imperiale al comando del principe Eugenio di Savoia-Soissons — Eugen von Savoy —, il
feldmaresciallo italo-austriaco protagonista delle vittorie sui turchi, è stanziato stabilmente
nell'Italia padana. Dopo l'inizio delle operazioni belliche, le truppe «alemanne», con grande
rapidità di manovra e celerità di marcia, muovono all'attacco delle truppe «gallo-sabaude» (il
duca di Savoia è alleato dei francesi) al comando dei marescialli Catinat e Villeroi e del supremo
stratega Louis-Joseph de Vend6me. Dopo scontri vittoriosi a Carpi e a Luzzara, le soldatesche di
Eugenio si dirigano a est, alla volta del Cremonese, per poi puntare su Milano. Un loro corpo
armato transita sotto le mura di Montechiarugolo, dove — come sappiamo — governatore della
Rocca è Giuseppe Vitali, padre di Buonafede.
L'invadenza delle soldatesche alemanne fa «risorgere la questione della sovranità sul ducato
[farnesiano], mai risolta per il contemporaneo sopravvivere di tesi imperiali e papali». Il papa
Clemente XI, il filofrancese Giovanni Francesco Albani, «nel 1701-2 aveva innalzato le sue
insegne sulle città di Parma e Piacenza, a monito degli aggressori imperiali e [il duca] Francesco
non aveva potuto opporsi», dal momento che «la supremazia della Chiesa, di fatto se non de
jure, aveva trasformato Parma e Piacenza in un ducato per i membri della dinastia di papa
Paolo III»8, alla quale egli era fiero di appartenere.
Giuseppe Vitali era stato nominato «castellano» per meriti, dopo essere «ritornato dalla Guerra
de' Viniziani contro a' Turchi, nella quale servito avea prima come alfiere, poi in grado di
tenente sotto il capitano Garimberti nel Battaglion Farnese»9. Il battaglione era stato associato
alle truppe di San Marco, alleate di quelle imperiali nella «Lega santa» in difesa della cristianità.
La Repubblica di Venezia aveva tratto dalla pace di Carlowitz l'acquisto della Morea
(Peloponneso) e altri vantaggi territoriali e commerciali. Ne era derivata grande riconoscenza
per chi aveva contribuito al successo; tra questi, i reduci parmensi. La nomina del tenente Vitali
a castellano di Montechiarugolo era stata una delle ricadute locali dei riconoscimenti profusi. Il
quarantaduenne bussetano, uomo di riconosciuta «fierezza», si sentiva pienamente investito del
ruolo, orgoglioso d'essere una «guardia nobile» preposta dal duca a salvaguardia della Rocca
minacciata dall'invadenza alemanna. Il decreto di nomina era esplicito al riguardo ed egli,
fedele alla consegna, «ributtò col fuoco di quella Rocca un corpo di tedeschi, che non si sa come
improvvisamente tentò di occuparla alla sprovvista, benché luogo neutrale»10.
Mal gliene incoglie. Dal comando imperiale si levano minacciose proteste. Il duca Francesco,
temendo il peggio, sconfessa l'operato del proprio castellano.
Avendo il principe Eugenio di Savoia, condottier dell'esercito imperiale, voluto ragion di ciò dal
duca di Parma, quasi che si fosse fatto ostilità contro le sue genti che chetamente ed
amichevolmente [a suo dire] di là passavano, convenne a quel Sovrano cedere alla necessità de'
tempi e il castellano Vitali, tuttoché operato così avesse con espressa istruzione per lettera del
suo Sovrano e fosse [stato] con lettera del medesimo lodato dopo fatto il suo valore, fu chiamato
a Parma e tenuto a bada finché passasse il turbine11.
In conclusione, Giuseppe Vitali viene esautorato, destituito, vittima dei tempi iniqui, scontando
colpe non sue. Suo figlio, il diciassettenne Buonafede, testimone partecipe di tali avverse
vicende, non può che ricavare da esse un'amara esperienza di cui fare tesoro come
insegnamento di vita.
3. Quanto è incerta giovinezza
Il padre di Buonafede è un brav'uomo: bravo, ma non sciocco. «Tenne modo per mezzo del
segretario marchese Rosa di far soscrivere fra molte altre cose dal duca, senza che se ne
avvedesse, la supplica del congedo tante volte a lui negato. Ottenutolo in tal guisa, si pose al
servizio della Repubblica veneta nel Reggimento Dotti, seco conducendo il figliuol suo
Buonafede, il quale ebbe anch'esso in quel Reggimento il grado di alfiere, siccome il padre
aveva quello di tenente»12.
A diciott'anni Buonafede Vitali è dunque un giovane graduato che porta alte le insegne di San
Marco. La Repubblica Serenissima, logorata dalle continue lotte contro i turchi, non è più
egemone nel Mediterraneo; s'è ridotta a esercitare il proprio dominio sul solo Adriatico. Se
questo soltanto è il mare ancora tutto suo, in compenso alle spalle di Venezia si estende una
terraferma assai vasta, da Udine a Crema, che attende gli investimenti terrieri di un patriziato
sempre meno attratto dai sempre più arrischiati traffici marini. A questa prospettiva di
«terrierizzazione» economica il governo veneziano tende ad adeguare l'organizzazione
amministrativa territoriale con i relativi «uffizi» di dogana, gendarmeria, milizia armata. Il
riassetto merita particolare cura in un territorio, quello cremasco, ritagliato come enclave nel
Ducato dí Milano, avversario storico della Repubblica. Proprio a Crema, varcato il Po, i due
Vitali, padre e figlio, sono «uffiziali viniziani» al servizio della Serenissima.
Il Vitali senior, già sappiamo, è un uomo fiero e orgoglioso, forse anche altezzoso e pieno di
sussiego nell'esercizio del proprio impiego. «In tale impiego avvenne in Crema, nel 1705 a' 10
marzo, un duello fra i suddetti padre e figlio Vitali e i conti capitano Arrigo Cittadella ed alfiere
Tiso Camposampiero, nel quale il figlio servì di padrino al padre e il Camposampiero al
Cittadella». Non ci è dato conoscere le motivazioni del diverbio; sappiamo però che il tenente
Vitali è «di natura sempre intollerante», alquanto rissoso, talora attaccabrighe, e possiamo
supporre che il Vitali junior, alle soglie dei suoi vent'anni, venga coinvolto nella contesa per
amore od obbligo filiale. Il fatto è che anch'egli duellò, alfiere contro alfiere, con il
Camposampiero. «Batteronsi anch'essi, rimanendo ferito lievemente in un braccio, prima del
conflitto tra i duellanti maggiori, il giovane Vitali»13.
La ferita riportata da Buonafede è di poco conto. Ferito ben più «gravemente nella pugna, sul
capo, [è] il Cittadella», per mano dell'infuriato tenente, verosimilmente ancor più irato per via
della ferita subita dal figlio. Scorre il sangue, che fa chiasso. Il duello viene interrotto per
manifesta incapacità del capitano Cittadella a proseguirlo. Le due parti si separano. Esse
vengono «accomodate per arbitramento di Niccolò Scoto» un mese più tardi, «a' 9 aprile del
medesimo anno, dichiarandosi aver ambe adempiuto al dovere di cavaliere e di soldato
d'onore, e dovere e volere reciprocamente restare amici, come prima, e con essi i loro
aderenti»14.
Buonafede stringe la mano dell'alfiere suo pari, con cui ha duellato e che lo ha ferito. Senza
rancore. La fitta al braccio è la sola traccia residua dell'evento; ed è un segnale del corpo che di
tanto in tanto lo rende avvertito: mai più liti, zuffe, contese, ferite d'arma bianca o da schioppo,
archibugiate, sangue sparso. Le ferite non vanno né inferte, né patite: semmai, vanno curate. Il
sangue non va versato, ma serbato: è un dono prezioso, da preservare, semmai da depurare. Il
mestiere delle armi è un «impiego» da lasciare ad altri, più adatti. «Non andava a genio di
Buonafede né la naturale fierezza del padre, né l'impiego della milizia; così, separatosi dal
genitore e dimessa la carica di alfiere, ebbe in pensiero d'imprender lo stato ecclesiastico»15.
Ecclesia abhorret sanguine, «la Chiesa ha il sangue in orrore». L'intenzione di Buonafede di farsi
prete è coerente con la crisi di coscienza apertasi, per contraccolpo, dopo il duello. Il
contraccolpo psicologico apre agli interrogativi: fare ritorno dai padri gesuiti? Reindossare la
«veste nera»? Dedicarsi agli studi di teologia? Il giovane ha dei dubbi, esita, non sa nemmeno
lui che cosa desiderare. «Non riuscendogli sul punto quanto bramava», pensa di confidarsi «con
Antonio Vitali, suo zio paterno, il quale fu a ritrovare in Busseto». Forse il borgo natìo ha in
serbo per lui una nuova «determinazione»16.
4. Apprendistato chirurgico-chimico
Non sappiamo quale influenza abbiano avuto i consigli dello zio Antonio; sappiamo però che
Buonafede «cangiò determinazione». Anziché farsi prete, egli decide di farsi medico: «Si volse
allo studio della Medicina e della Chimica, nelle quali fu licenziato in Parma»17.
Licenziato a diciott'anni? Nel primissimo Settecento — siamo nel 1704 — «licenziarsi» non
voleva dire «addottorarsi», essere cioè riconosciuto «dottore in filosofia e medicina»; voleva
dire semplicemente «immatricolarsi», essere cioè iscritto, «previo esame della moneta deposta»
per acquisire «licenzia di studio», al corso di lezioni per diventare «fisico-filosofo»18.
Possiamo dunque vedere il diciottenne Buonafede non laureato, ma frequentatore dello Studio
di Parma, dove già dal XIII secolo esisteva una scuola tanto fiorente da far ombra, in campo
medico e più propriamente chirurgico, alla stessa Università di Bologna; e possiamo capire
l'influenza esercitata dalla tradizione sul giovane bussetano, attratto anche dalla «nuova
scienza», la chimica.
Chimica e chirurgia. Come dire: scienza d'avanguardia e pratica antica. Quest'ultima, in Parma,
rimontava a Ruggero Frugardi o da Frugardo (Friigard), chirurgo svevo appartenente alla
«gente forte» d'oltralpe — Folk hard —, sceso in Italia al seguito degli armati dell'imperatore
Federico Barbarossa e poi detto «da Parma» perché stabilitosi nella città emiliana. Qui diede
avvio alla scuola di chirurgia pubblicando nel 1180 il trattato Cyrurgia Magistri Rogerii, la celebre
Rogerina. Tale trattato venne poi arricchito da additiones dovute a Rolando Capelluti o
Capezzuti, parmigiano di nascita, autore dell'opera detta Rolandina. Parmigiano fu anche
Teodorico de' Borgognoni (1205-1296), autore di una Cyrurgia scritta nel 1248 (e riveduta nel
1267) nella quale le affezioni chirurgiche non sono più descritte «da capo a' piedi» — a capite ad
calcem —, ma sono suddivise in base alla loro tipologia. Piacentino fu infine Guglielmo da
Saliceto (1210-1277), anch'egli autore di una Cyrurgia licenziata in forma definitiva nel 1276 e poi
detta Guilelmia: in essa le stesse affezioni sono distinte in «interne» (gozzi, scrofole, emorroidi)
ed «esterne» (ferite e fratture)19.
Non va dimenticato che a Carpi — città natale della madre di Buonafede — era nato quel
Jacopo Barigazzi (1470-1530), detto poi Berengario, che s'era creato grande nomea per aver
promosso la chirurgia da zootomia di maiali ad anatomia dí cadaveri e a chirurgia di viventi; né
va obliato che dal Ducato gonzaghesco confinante con quello farnese s'era diffusa oltre Po la
fama o l'infamia del chirurgo ebreo Abraham Portaleone senior, maestro Abramo, che dopo aver
risanato Luigi Alessandro Gonzaga ferito a un occhio e a una gamba nella battaglia di Parma
del 1521 aveva «sacrificato» una gamba e accorciato la vita di Giovanni de' Medici, «dalle Bande
Nere», ferito da un «bastone da fuoco» alemanno nel 1525, al guado di Governolo sul Mincio.
Terra di guerre, patria di chirurghi: il territorio parmense convalidava il nesso esistente tra le
«ferite da taglio» e «da bocca da fuoco» inferte in battaglia e l'arte chirurgica mirante a risanarle.
Guerra, madre di chirurgia. La stessa soldataglia d'oltralpe — dagli armati del Barbarossa ai
lanzichenecchi di Carlo V, fino ai soldati imperiali di Eugenio di Savoia — coltivava tra le sue
file un'autoctona chirurgia, non tanto «ferramentaria» quanto piuttosto «medicamentaria». Il
famoso chirurgo provenzale Guy de Chauliac (1300-1370) l'aveva definita, nella propria
Cyrurgia pubblicata ad Avignone nel 1363, come la chirurgia «dei soldati tedeschi [che] con
scongiuri e pozioni e olii e lana e foglie di cavoli curano tutte le ferite»20.
Il celebre Guy l'aveva classificata al quarto posto di merito, dopo il primo posto assegnato alla
chirurgia di Ruggero e Rolando da Parma, propensi a far suppurare le ferite con cataplasmi;
dopo il secondo posto assegnato alla chirurgia dell'altro parmigiano Teodorico de' Borgognoni,
incline a lavare e medicare le ferite con il vino; e dopo il terzo posto assegnato alla chirurgia del
piacentino Guglielmo da Saliceto, partigiano della cura delle ferite con unguenti ed empiastri
dolci. La «chirurgia dei soldati tedeschi» precedeva nel merito solo quella «delle donne e di
gran parte del volgo [che] soltanto ai Santi affidano i malati».
Il giovane Buonafede era cresciuto nel posto giusto per sperimentare come fosse stretto il
rapporto tra esperienza bellica e pratica chirurgica, fosse questa quella cruenta, esercitata cum
ferro et igni (con il coltello e il cauterio), o quella incruenta, esercitata lavando, impomatando,
fasciando e crocesegnando. Diventare chirurgo, in tempi di perdurante conflíttualità armata tra
potenti, poteva essere un investimento professionale proficuo.
Ma, accanto all'attrattiva di apprendere un mestiere rimunerativo, a Parma c'era anche
l'opportunità d'impreziosire il mestiere medesimo con la chemiatria, con l'arte del curare e
guarire le ferite e i «morbi castrensi» per mezzo di nuovi «preparati» e «composti» confezionati
tramite un fai-da-te ricco di motivazioni e di promesse.
Anche in questo campo Buonafede dispone di un retaggio non irrilevante. L'attività del padre al
soldo dei veneziani e il recente soggiorno di lui stesso nel territorio cremasco afferente a
Venezia devono avergli reso familiare la lettura di certi testi semiproibiti, però liberamente
importati o liberamente stampati in uno Stato insofferente di divieti estrinseci qual era la
Repubblica Serenissima. Fra tali testi c'erano le opere eterodosse, o francamente eretiche, di
Teofrasto Paracelso.
Non ci è dato sapere se nella «libraria» bussetana dello zio Antonio o in altra biblioteca
«secreta» Buonafede viva l'esperienza di quel tal patrizio veronese Tommaso Bovio, detto
Zefiriele dal nome del proprio angelo custode, che in visita all'amico bresciano Girolamo
Donzelliní s'era sentito «di-mandare se avesse mai letto le opere di questo Paracelso». Ammette
il Bovio: «Io gli risposi non averlo ancho mai sentito nominare, onde egli mi tirò in camera sua
ben adorna et trasse fuori d'un armali() grande tre torni, doí grossi et uno mezzano, di questo
Theofrasto [Paracelso] et disse: 'Mi sono stati mandati a donar di Allemagna»21.
Il patrizio veronese aveva tratto immediato profitto dalla lettura dei libri paracelsiani. Da
guaritore dilettante, aveva confezionato un «Hercule miracoloso, discacciator de' vermi, domator
del mal franzese, delle petecchie, della febbre quartana e di mille altre diaboliche et incurabili
infermità». Con una buona dose di vanità, da discepolo che presumeva d'aver superato il
maestro, aveva affermato che il farmaco universale di Paracelso era stato nettamente superato
dal proprio Hercule chimico.
Non sappiamo — s'è detto — se Buonafede, a vent'anni, viva questa stessa esperienza. Ma ci è
dato sapere per certo il suo «aver dimorato alquanto tempo», in questo periodo, «col Conte
Gardani di Viadana, della Chimica amantissimo»22.
5. Chirurgo dei dragoni
Con una «raccomandazione» al conte Simonetta, scritta dal conte Gardani presso cui ha potuto
affinare le proprie conoscenze e competenze chimiche, Buonafede «portossi a Milano». Il
giovane non ha nemmeno il tempo di orientarsi nella turbinosa capitale del Ducato milanese
che già riceve, grazie all'influenza del Simonetta (discendente del Cicco Simonetta ch'era stato
cancelliere dei duchi Francesco e Galeazzo Sforza e poi decapitato da Ludovico il Moro),
«l'impiego di chirurgo maggiore del Reggimento Cailus [dei] Dragoni»23.
Chirurgo maggiore non è qualifica di poco conto, anzi è il massimo grado di una scala di
competenze che vede, nell'ordine, al gradino più basso il «barbiere», esperto di forbice e rasoio
e quindi abilitato alla flebotomia e al salasso; a un gradino intermedio il «mezzochirurgo»,
abilitato a incidere ascessi e bubboni, nonché a cauterizzare ferite e piaghe con il ferro infuocato;
a un gradino più alto il «chirurgo minore», abilitato a legar vasi sanguinanti, nonché a pungere
«globi» vescicali e a praticare «serviziali» (clisteri) onde ovviare agli impedimenti nel «fare
orina» e nell'«andare di corpo»; infine, al massimo livello, il «chirurgo maggiore», al quale è
consentito tutto, dall'affondare nell'occhio la lente cristallina opacata da cataratta al «trarre la
pietra» di vescica nella calcolosi urinarla, dall'applicare «cinture e braghieri» negli «allargati»
(portatori di ernia) all'amputare la gamba, là coscia, l'avambraccio, il braccio nei casi, non
infrequenti in guerra, di arti maciullati, fratturati, affetti da ferite suppuranti.
Buonafede si è dunque guadagnato quest'alta qualifica. Proviamoci ad arguire in qual modo.
Molto probabilmente ha letto e riletto gli scritti sempre validi, anzi fondamentali, del chirurgo
militare francese Ambroise Paré (1510-1590), divenuto in età matura premier chirurgien du Roi
alla corte di Francia. Sono scritti relativi al «modo di trattare le ferite fatte da archibugi o altri
bastoni da fuoco» (Parigi 1545) e alla «chirurgia, con repertorio degli strumenti a essa necessari»
(Parigi 1564). L'appartenenza di Buonafede all'esercito guidato dal maresciallo Louis-Joseph de
Vend6me, storico avversario di Eugenio di Savoia, lo porta a privilegiare metodi e mezzi di
tradizione ed estrazione francese. È nel pieno delle proprie funzioni che il chirurgo maggiore
«trovossi alla battaglia di Cassano», il 16 agosto 1705, «ove il celebre duca di Vandom, passata
l'Adda in faccia a' nemici, sconfisse l'Esercito Alemanno»24.
«A quel tempo ero ancora un chirurgo in erba», si legge nel testo di Paré che sembra
un'anticipazione del pensiero inespresso di Buonafede e comunque una consonanza con ciò che
pensa ogni chirurgo alle prime armi.
È bensì vero che aveva letto [...] che le ferite fatte da armi da fuoco sono velenose a causa della
polvere [da sparo]; e per non sbagliare, prima di usare l'olio bollente, sapendo che tal cosa
avrebbe arrecato al malato un dolore grandissimo, volli sapere, prima di applicarlo, come gli
altri chirurghi facevano [—]. Alla fine però l'olio mi venne a mancare, e fui costretto ad
applicare in sua vece un digestivo fatto di giallo d'uovo, olio rosato e trementina25.
La notte — prosegue il testo magistrale — non potei prendere sonno a dovere, pensando che,
poiché non avevo provveduto alla cauterizzazione, avrei trovato i feriti, cui non avevo
applicato il suddetto olio bollente, morti avvelenati; e questo pensiero mi fece alzare di buon
mattino per andare a visitarli. Al di là di ogni speranza, trovai coloro ai quali avevo applicato il
medicamento digestivo che quasi non avvertivano dolori per le piaghe, senza infiammazione né
tumefazione, e che avevano ben riposato la notte. Gli altri, ai quali era stato invece applicato il
predetto olio, li trovai febbricitanti, con dolori grandissimi, turgore e infiammazione intorno
alle ferite. E dunque decisi di non bruciare mai più in modo sì crudele i poveri feriti dalle
archibugiate26.
Buonafede dev'essere affascinato da questa manière de traicter i feriti in battaglia, ma ancor più
dal modo sperimentale di procedere e di fare scoperte utilissime. Anche nel campo chirurgico,
come in quello chimico, c'è molto da sperimentare, provando e riprovando, e magari da
arrischiare. In corpore vili? Nel vivo della carne da macello dai propri dragoni? Nel proseguir
degli scontri tra i due eserciti nella pianura padana? Il chirurgo maggiore «intervenne ancora
alla Rotta de' Francesi, malcondotti dal Duca della Feuillade, ricevuta sotto Torino»27.
È il 30 agosto 1706. Buonafede ha da due mesi compiuto vent'anni. Torino, capitale del Ducato
sabaudo, è assediata dai francesi dopo che il duca Vittorio Amedeo II ha ribaltato l'alleanza
unendosi all'Austria. Tuttavia il duca è riuscito a evadere per muovere incontro a Eugenio di
Savoia, il quale sta accorrendo in suo aiuto alla testa delle truppe imperiali.
La popolazione torinese è stretta in città dalle bombarde francesi e dalla fame. Fuori le mura,
30.000 imperiali si scontrano con 47.000 francesi assedianti. Costoro tentano di penetrare nella
piazza fortificata attraverso una galleria sotterranea. Li ferma il sacrificio di un popolano
ventinovenne, appartenente a una compagnia di minatori piemontesi, il quale fa brillare una
mina e crollare la galleria, salvando, a prezzo della propria vita, la propria città. Il suo nome,
consegnato alla storia dell'indipendenza italiana, è quello di Pietro Micca.
6. Una ferita che non viene per nuocere
La débacle dei francesi in Piemonte fa onore al genio strategico del vincitore Eugenio di Savoia
assai più di quanto faccia scalpore la «mala condotta» dello sconfitto duca de Feuillade. Essa
pone le premesse della secolare dominazione dell'Austria nel Milanese. Sotto un aspetto ben più
«particolare», quella sconfitta ha come corollario, tra morti e feriti, un semimortale colpo toccato
in battaglia a Buonafede: «ferito egli in quella sconfitta da un brandeburghese di bajonetta in un
fianco, cadde semivivo»28.
Il reggimento di dragoni a cui egli appartiene è un reparto di artiglieria che, per quanto
composto da archibugieri a cavallo, è tuttavia molto appesantito da bocche da fuoco di grosso
calibro (capaci di lanciare palle di ferro da cinquanta libbre) che condizionano a rilento i suoi
movimenti in battaglia. È un corpo militare poco manovriero, tanto capace di offendere con i
propri «proietti» quanto assai suscettibile d'essere offeso da incursori all'arma bianca, di esso
più agili nella manovra sul campo. Un colpo di baionetta alemanna (brandeburghese) atterra,
ferito, il chirurgo dei dragoni. Buonafede, soccorso e rianimato, provvede ad automedicarsi:
«dopo il fatto riavutosi, fasciossi alla meglio e, rinvenuto avventurata-mente un cavallo, si
ridusse a piccol viaggio a Milano»29.
Convalescente, temporaneamente inidoneo a riprendere servizio, ma anche troppo provato dal
campo di battaglia e forse anche deluso dall'aver constatato la relativa impotenza e inefficacia
della chirurgia militare, Buonafede lascia il reggimento e l'esercito, che d'altra parte è
scompaginato. Fa ritorno alla vita civile: «con raccomandazione del [solito] Conte Simonetta al
Principe Odescalchi, da Milano passò a Roma»30.
Nel romano principe Odescalchi è da identificarsi l'allora cinquantaquattrenne duca di Ceri,
Livio Odescalchi, unico nipote del papa Innocenzo XI (Benedetto Odescalchi) in quanto figlio
del di lui fratello Carlo. Innocenzo XI nel suo pontificato, conclusosi nel 1689, aveva condotto
una fiera crociata contro il lassismo morale della Chiesa e contro il nepotismo papale instaurato
dai suoi predecessori. Per dimostrare il proprio rigore aveva sì chiamato a Roma il diletto
nipote, ma anziché coprirlo di ori e di onori, lo aveva fatto studiare sodo, dai Gesuiti, perché
fosse messo in grado di meritarsi, per grado d'istruzione e di cultura, ogni beneficio
eventualmente erogato dall'amorevole zio.
Il giovane Livio aveva ben meritato: il papa-zio lo aveva fatto conte di Ceri con relative
prebende. Anche l'imperatore Leopoldo I ne aveva apprezzato le virtù, rifulse in altro campo,
quando l'Odescalchi, a trentun anni, s'era segnalato nella difesa di Vienna, nel 1683, nel corso
della guerra — proclamata «santa» dallo zio — contro i turchi infedeli (quella stessa in cui il
padre di Buonafede aveva militato tra i veneziani facenti parte della Lega santa). Leopoldo gli
aveva conferito il titolo, trasmissibile agli eredi, di principe dell'impero. È a questo «principe»,
ricco di cultura, di beni e di gloria, che si presenta Buonafede, esibendo la «raccomandazione»
del Simonetta, «per sempre più avanzarsi nelle imprese scienze»31.
Gli studi giovanili di Livio Odescalchi nel Collegio romano dei padri gesuiti, l'eccellenza
scientifico-culturale del Collegio medesimo, la precedente formazione a Parma presso gli stessi
padri di Buonafede Vitali rendono quasi d'obbligo disegnare un continuum in cui s'intravvede
Buonafede «avanzarsi nelle scienze» intraprese, cioè nella chimica. Questa, evolvendo dalla
rinascimentale alchimia, è anch'essa fatta oggetto di studio nella scuola gesuitica, in ossequio
alla tradizione filosofico-scientifica risalente al padre Athanasius Kircher (1602-1680), gesuita
tedesco trapiantato da Wiirzburg a Roma per coltivarvi e insegnarvi l'Experienz, pratica, e la
Naturphilosophie, teorica, sulle quali si regge ogni scienza che meriti questo nome. In campo
chimico uno specializzando come Buonafede ha certamente modo di apprendere un tale
insegnamento metodologico, teorico-pratico, onde penetrare in profondità nei molti «secreti»
della sua disciplina.
A riguardo del Kircher, dei suoi discepoli anonimi e degli anonimi discepoli dei discepoli (tra
cui Buonafede), può essere condiviso il giudizio datone nel 1766 da Pierre-Joseph Macquer nel
Dictionnaire de Chymie contenant la Théorie et la Practique de cette Science:
Siccome negli ultimi tempi di questi Autori, di cui parliamo, la materia degli Alchimisti era in
qualche sorte di crisi, così trovò essa allora degli antagonisti potenti, ai quali la sana Chimica ha
le maggiori obbligazioni, mentre contribuirono co' loro scritti a liberada da quella lebbra che la
sfigurava e opponevasi a' di lei progressi. I più segnalati fra i detti Autori sono il celebre padre
Kircker [sic! ] e il dotto Conringio medico [Hermann Conring, 1606-1681], i quali la
combatterono con gloria32.
La teoria della nuova scienza chimica, affrancando quest'ultima dalle stravaganze dell'alchimia,
non può non essere utile se non quando nasce da esperienze già fatte, oppure ci dimostri quelle
che restano a farsi; conciosíacché il raziocinio è in qualche maniera l'occhio del fisico; ma
l'esperienza è il di lui tatto, e quest'ultimo senso deve certamente rettificare presso di lui gli
errori, ai quali il primo è purtroppo soggetto. Se l'esperienza dalla teoria non diretta è sempre
un cieco tasteggiamento, la teoria all'esperienza non appoggiata è sempre un colpo d'occhio
ingannevole e malsicuro33.
Saprà Buonafede Vitali far tesoro costante di questo metodo d'interscambio fra teoria ed
esperienza, senza enfatizzare unilateralmente quest'ultima in un ideologizzato elogio dell'empi
ria?
7. Testimone e interprete della peste di Londra
In Italia sono tempi duri per la chimica e per chi se ne proclama seguace. Perché un conto è
l'esercizio intellettuale, privato e appartato, di un facoltoso patrizio ludens che può concedersi il
lusso di curiosare nelle cose della natura e lasciarsi attrarre dal gioco di trasmutar le «sostanze»
per scorgervi meravigliosi «accidenti»: costui può liberamente coltivare la propria propensione
o passione nel chiuso del suo gabinetto d'analisi, nel suo laboratorio «secreziore», segreto più
che mai, dal momento che le «mirabilia» emergenti da esso rimangono riservate e comunque
vagliate «come Dio comanda» prima d'essere date in pasto ai profani (tra cui i medici e i
pazienti).
Tutt'altra cosa è l'investigazione scientifica compiuta da chimici e iatrochimici apertis verbis,
senza clausure e cautele, in modo ch'è detto «democratico» e «democritico»: perché da un lato
prova e riprova pubblicamente, senza remore e riserve, e d'altro lato s'ispira alla filosofia
corpuscolare dell'antico Democrito, precursore del materialismo epicureo. Tale investigazione
reca in sé il pregiudizio, serpeggiante con il proprio veleno irreligioso, secondo cui la materia
cangiante, trasformandosi per sublimazione in spirito, dimostra che l'anima non è altro che
materia sublimata, niente affatto immateriale.
Buonafede Vitali sente il giogo che, gravando sulla nuova • scienza, penalizza la ricerca
limitando gli sbocchi vantaggiosi ch'essa può avere nella «materia medica», cíoè nell'ambito
della spezieria (farmaceutica) e della chemiatria (terapia con farmaci chimici). Da un paese come
l'Italia, dove c'è bisogno di un anonimo Discorso per difesa dell'arte chimica e de' professori di essa34
per rivendicare ai ricercatori la libertas philosophandi, oppressa dai pesi aristotelico-scolastici, e
per reagire ai divieti controriformatori ancora imperanti nelle università, è meglio andar via. È
meglio migrare in cerca di lidi più propizi.
Buonafede «da Roma in breve volle veder la Inghilterra, raccomandato dall'Odescalchi a certo
lord» amico suo. Costui, durante un soggiorno nella molle città papale di Clemente XI
(restauratore tra l'altro del gioco del lotto), s'era guadagnato fama di uomo a dir poco
spregiudicato per aver «estratta una dama dal Monistero di Torre de' Specchi» e per averla poi
«spesata [leggi sposata] in sua patria»35.
L'Inghilterra è paese scientificamente meno conformista e più libero. È la patria — s'è detto —
di Robert Boyle, il chimico che ha fatto proseliti. Per Boyle, e per molti dopo di lui, la chimica è
la chiave della struttura del mondo. Per i medici chimici, essa è la chiave delle funzioni del
corpo, quella che apre ai «segreti» delle sue disfunzioni e ai rimedi ch'essa stessa è in grado di
«preparare» e «comporre». Una ridda di «preparati» e «composti» attende d'essere scoperta,
allestita, sperimentata, impiegata. Il chimico emigrante, quanto a studi e a lavoro officinale,
deve sentirsi a casa propria.
Di lui, peraltro, si perdono le tracce per circa un triennio. Si sa solo che «per tre anni frequentò
la [improbabile] Università di Cantorberì». A Canterbury, nella contea di Kent, c'è l'abbazia
fondata da sant'Agostino, sede primaziale d'Inghilterra con Thomas Becket (il cui «assassinio
nella cattedrale» fu perpetrato da Enrico II nel 1170), divenuta luogo di miracoli e meta di
pellegrinaggi devoti. Non c'è, né c'è mai stata, un'università. Se non ci vediamo Buonafede in
veste di pellegrino o residente devoto, non possiamo nemmeno vederlo come studente o
frequentatore universitario. Possiamo tutt'al più immaginarlo come goloso lettore dei
Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer, il «Boccaccio d'Inghilterra». Di lui ritroviamo le tracce
solo nel 1710, a Londra, dov'è testimone degli eventi calamitosi occorsi quando nella capitale
inglese «si accese la peste»36.
Di questa pestilenza londinese del 1710 c'è stata in Italia soltanto un'eco generica e fioca.
«Stupefacenti quanto miserande sono le cose che apprendemmo essere accadute altrove, in
Francia, in Germania, in Inghilterra», ha scritto il carpigiano Bernardino Ramazzini, medico
coevo, in cattedra a Padova37. Ha scritto Ludovico Antonio Muratori, nel 1713: «Pochi anni or
sono, la Polonia, l'Ungheria, la Prussia, la Danimarca e altre Provincie Settentrionali [tra cui
l'Inghilterra] furono gravemente infettate dal contagio»38.
Su tale contagio pestifero o pestisimile getta luce, ma solo indirettamente, il libellista londinese
Daniel Defoe, che nel 1722 scrive A Journal of thePlagueYear, vivida narrazione della peste di
Londra nel 1665, di cui l'autore non ha però memoria diretta (essendo nato nel 1660), mentre ha
diretta esperienza delle vicende (personalmente vissute a cinquant'anni) relative alla peste del
1710. Defoe è dunque un Alessandro Manzoni anteriore d'un secolo, che ricostruisce gli eventi
di un'epidemia del passato sulla scorta di soli documenti; ma, in più, egli è influenzato da
analoghi eventi successivi, dei quali è stato testimone partecipe.
Almeno un passo della sua narrazione si attaglia anche alla pestilenza di cui è testimone
partecipe Buonafede: «è una influenza maligna [provocata da] una stella fiammeggiante o
cometa che apparve per parecchi mesi di seguito, di color languido e fosco». Dai preti e dal
popolo, contrito e atterrito, la cometa è stata vista come «precorritrice di un castigo di Dio»39.
L'ipotesi astrologica dell'influenza stellare, vista come tramite della collera divina, aveva favori
finanche tra i medici. Più numerosi erano però quelli che affermavano «esser la peste una
mal'aria», una malattia causata da guasti cosmotellurici quali il maremoto che aveva fatto
esondare il mare sulle scogliere di Dover e di Folkestone, nonché, oltre il passo di Calais, sulle
coste francesi da Dunquerque fino a raggiungere Ostenda. L'esondazione aveva popolato i
litorali di enormi masse di pesci in putrefazione, ammorbanti l'aere fino a Londra e
corrompendo i corpi dei miseri londinesi.
Buonafede Vitali fa sentire, in proposito, la propria voce. Fornisce la propria interpretazione.
Egli «diè in luce un libretto sulla origine della peste, secondo [quanto] ci fa sapere nella sua
Lettera sulla peste stampata [nel 1743] in Verona dal Tumarmani [Giovanni Alberto, stampatore
veronese]». In detta lettera asserirà di aver parteggiato non per l'ipotesi aerista, incriminante il
mal aere, ma per quella contagionista, addebitante la peste a «minutissimi vermini». Sosterrà (pp.
12 sgg.) che il francese «Padre Saguens, teologo de' Padri Minimi, ancor esso così pensò: idest,
quod morbi contagiosi vermes in causam agnoscerent ['cioè che le malattie contagiose conoscessero i
vermi come causal , opponendosi in Francia a quanti diversamente pensavano». E concluderà
affermando: «Ed io nel 1710 scrissi e stampai in Londra una proposizione su questa ipotesi»40.
La proposizione, che prova l'adesione di Buonafede Vitali alla giusta tesi infettivologica, è il
citato Breve trattato sulla Peste, e sua origine, unico frutto bibliografico, peraltro disperso, del
triennio da lui trascorso in Inghilterra.
8. Viaggio in Fiandra, Brabante. e Paesi Bassi
Se non proprio determinante, la peste di Londra è certo predisponente a una rapida partenza di
Buonafede dall'Inghilterra. Cito, longe, tarde era l'aforisma antipestoso risalente a Claudio
Galeno, il medico greco-romano che l'aveva personalmente messo in pratica fuggendo da Roma
in occasione della «grande peste» — mègas loimòs — del 167-170 d.C.: «Fuggi presto, va' lontano,
torna più tardi che puoi». A Galeno avevano fatto eco i medici medievali di Provenza, che di
fronte alla «peste nera» — atra mors — del 1347-48 avevano ribadito l'adagio: «Queste tre piccole
parole scacciano la peste: vite, loin et longtemps». Il che voleva dire: «Partir veloci, andar lungi e
[star via] per lungo tempo»41.
Buonafede «da Londra navigò a Calais e quindi a Donkerken, ad Ostenda, a Brugges, a
Bruxelles, a Liegi, poi a Lovanio, a Malines, ad Anversa»42. Egli intraprende a «camminare il
mondo», ch'è per lui, com'è stato per un medico cinquecentesco cui per certi aspetti assomiglia
— Leonardo Fioravanti (1518-1588) bolognese —, «l'unico immutabile, ossessivo baricentro,
mobile e incerto, dell'esistenza». Esso deve apparirgli come una sterminata «piazza universale»
da visitare in lungo e in largo. Non diversamente da Fioravanti, «cupido di danaro ma ancor
più di fama, avidissimo di conoscenze e di esperienze, spinto da una inesauribile curiosità di
vedere, udire, apprendere, fare e provare»43, Buonafede inizia il suo lungo viaggio di
apprendista medico vagabondo ed errante.
Incomincia il Grand Tour continentale muovendo dalle Fiandre e dal Brabante. Queste terre
sono ancora travagliate dai postumi della guerra tra francesi, anglo-olandesi, imperiali. Sono i
campi di battaglia e d'assedio subentrati, nel proseguimento della guerra di successione
spagnola, a quelli italiani, padani. Qui brilla ancora l'estro strategico di Eugenio di Savoia;
accanto a lui, brilla di luce propria anche il genio militare di John Churchill, primo duca di
Marlborough. Questi, nel 1711, riporta sull'esercito francese una vittoria decisiva che porta ai
preliminari del trattato di pace di Utrecht.
Bruges, dove sosta Buonafede, è sempre la bella città che specchia le sue case nei suoi canali;
ma, dacché il suo porto s'è interrato nelle sabbie della Schelda, non è più il grande emporio
aperto ai traffici di mezzo mondo: conquistata dagli olandesi nel 1706, vive ormai di gloria
passata. Sulla strada per Bruxelles, la città di Gand, dov'è nato Carlo V, reca ancora i segni
dell'assedio recente e delle bombarde al pari di Bruxelles, dov'è nato Andrea Vesalio (15141564), colui che a Padova e a Bologna ha gettato le basi dell'anatomia moderna.
Sono tutte città parlanti. Lovanio è città di cultura, dove ha sede l'erasmiano Collegium trilingue
e dove Vesalio ha studiato nel Paedagogium castrense o «Scuola del castello». Malines è città
aperta, assediata e saccheggiata più volte, lungo la cui strada maestra venivano «appiccati per
giustizia» i rei condannati a morte, i cui cadaveri Vesalio trafugava nottetempo per praticarvi le
proprie «aperture» (dissezioni). Più lontana è Liegi, città aristocratica, dominata dal suo
principe-vescovo.
Infine Anversa, la città dello smercio del pesce azzurro e dei salmoni, del commercio marittimo
e delle borse finanziarie: questo ai tempi del suo massimo fulgore. È anche la città dei pannilana
e delle spezie. Consapevole dell'importanza che queste ultime hanno per la farmacopea e la
medicina, Buonafede non può non cogliere l'opportunità di aggiornare le proprie conoscenze ed
esperienze in proposito. «Un interesse sempre maggiore per il valore terapeutico delle piante
aveva condotto a una vera e propria esplosione di erbari e libri sui regimi dietetici, tutti inclini a
sostenere che la noce moscata e altre spezie fossero benefiche nel combattere una serie di
malanni»44.
Buonafede, chemiatra, non è cieco nei confronti di medicinali che chimici non sono. Purché
giovino alla salute, sono i benvenuti. «Si diceva che i chiodi di garofano curassero il mal
d'orecchi, il pepe i raffreddori, mentre chi era infastidito dai gas intestinali avrebbe dovuto
sorbire uno straordinario infuso di quindici spezie tra cui il cardamomo, la cannella e la noce
moscata»45.
Anversa ha perso importanza dopo la conseguita indipendenza e supremazia delle Province
Unite olandesi. Ha abdicato al ruolo di primo mercato mondiale a favore di Amsterdam. Il
viaggio di Buonafede, a questo punto, si dirige verso quest'ultima città, la più importante
d'Olanda: dopo Anversa, infatti, la sua direttrice di marcia volge «a Breda, a Boisle-duc, a
Rotterdam, all'Aia e ad Amsterdam»46.
Breda è la culla degli Orange, che l'hanno fortificata dopo i ripetuti saccheggi. Bois-le-duc è
Boscoducale, ma da quando è passata agli olandesi si chiama s'Hertogenbosch. Rotterdam è la
sede della prospera Compagnia delle Indie (Orientali e Occidentali). L'Aia — Den Haag — è il
maggior centro della diplomazia europea, consacrato tale dal congresso che nel 1701 ha visto
coalizzarsi, contro Francia e Spagna, l'impero, l'Inghilterra e l'Olanda (con la successiva
adesione di Prussia, Portogallo, Svezia e del Ducato sabaudo).
Amsterdam è la meta culturale di Buonafede. In seno alla «civiltà olandese del Seicento»47,
matrice di molte libertà (commerciale, politica, religiosa), la città è stata meta di molti «diversi»,
profughi ed esuli da ogni parte d'Europa: ugonotti dalla Francia, ebrei marrani dalla Spagna,
eretici della fede ed eretici della scienza da tutto il continente. Quando vi giunge Buonafede,
essa è sempre terra d'asilo per quanti vi migrano da paesi nei quali si cerca di estirpare o
soffocare ogni residua eresia. Come quella di un chemiatra alla ricerca di una propria strada da
percorrere.
9. Nelle terre del Baltico, uomo di miniera in Lapponia
Buonafede è un escursionista che elegge Amsterdam a proprio campo base. Da qui riparte e qui
fa ritorno dopo un viaggio per terra e per mare nei paesi bagnati dal Baltico. «Fatto vela ad
Amburgo», lo seguiamo da Amburgo «a Copenaghen, a Lubecca, a Danzica, e per la Livonia a
Pietroburgo. Da Pietroburgo passò in Isvezia, a Stokolm [...] e da Stokolm ritornò dopo alcun
tempo ad Amsterdam»48.
Viaggiare per mare non è come viaggiare per terra. Il galoppo del cavallo o lo spedito procedere
della diligenza, lungo strade sfarinate di polvere, d'estate, o cancellate dal fango, in primavera e
in autunno, lasciano il passo alla nordica «nave tonda» che da febbraio a San Martino (11
novembre) solca ininterrottamente il Mare del Nord e il Mar Baltico. La sua media giornaliera
d'incedere è di 4-5 nodi (pari a circa 200 chilometri) contro le 20 leghe (pari a circa 80 chilometri)
dei più veloci mezzi a cavallo. Il viaggio di Buonafede, di porto in porto, è dunque più rapido di
prima, anche se deve fare i conti con bonacce e burrasche.
Ad Amburgo si arriva dall'estuario dell'Elba. La città è alquanto declinata dai tempi della Lega
anseatica, di cui rappresentava lo sbocco sul Mare del Nord, punto d'incontro tra la navigazione
marittima e i porti fluviali nel cuore della Germania. Quando vi giunge Buonafede, è sotto la
minaccia dell'invasione danese ed è travagliata dalle lotte interne tra le opposte fazioni. Né si
sta meglio a Lubecca, gotica città di mattoni rosati dove la vita non è affatto rosea a causa della
guerra che ha ribadito la supremazia commerciale della Svezia. Vi si arriva attraverso un canale
navigabile che consente ai veicoli natanti — barche, zattere, chiatte — di evitare la
circumnavigazione della penisola danese. Copenaghen è la città dove il re Federico IV, tutto
impegnato ad abolir la servitù della gleba contro i voleri della nobiltà feudataria, non ha per
Buonafede né il tempo né il credito che cinquant'anni prima suo nonno, Federico III, aveva
riservato a un magister chymiae come il famoso o famigerato alchimista Francesco Giuseppe
Borri (1627-1695)49. L'attuale re di Danimarca condivide lo scetticismo di suo padre, Cristiano V,
nei confronti della «chimica filosofica» intrisa di ciarlataneria.
Danzica, città di partenza delle navi frumentarie che portano nelle piazze mercantili olandesi il
grano polacco fatto scendere lungo la Vistola, regge al proprio ruolo di ventre d'Europa. Più su
è la Curlandia e ancor più su è la Livonia, con Riga, città dei cavalieri teutonici, e poi la Russia,
con l'antica Novgorod, ancora spopolata dagli incendi d'un secolo prima, distesa sulle rive del
Volchov, il fiume che finisce nel lago Ladoga, da cui la Neva raggiunge il golfo di Finlandia,
dove, sul delta fluviale, sorge Pietroburgo.
Pietroburgo, città neonata! Buonafede non ama scrivere; conseguentemente non tiene, come
fanno altri viaggiatori, curiosi di città e di paesi e vogliosi di comunicare notizie ed emozioni,
un proprio diario di viaggio a cui attingere dati. Però sappiamo che quando egli arriva a
Pietroburgo, la città fondata nel 1703 dallo zar Pietro il Grande, ex operaio apprendista nei
cantieri di Amsterdam, è in febbrile espansione. Essa, dopo la vittoria — a Poltava nel 1709 —
del trentasettenne zar sull'esercito del ventisettenne re di Svezia Carlo XII, protende sul Baltico
l'ombra minacciosa della Russia zarista.
Dal 1712 Pietroburgo è la nuova capitale dell'impero russo, al posto di Mosca. Alla corte di
Pietro il Grande, Buonafede non trova alcun credito, come a Copenaghen. Lo trova invece a
Stoccolma, presso Carlo XII. Questi, dopo la sconfitta subita a Poltava dal suo esercito decimato
dal freddo e poi distrutto dai russi, s'è messo in salvo in territorio ottomano trattenendosi
presso la Sublime Porta molto a lungo, nella speranza di convincere il sultano ad aiutarlo in una
rivincita contro lo zar. Invano: deluso, dopo una romanzesca cavalcata di quindici giorni
attraverso l'Europa, ha fatto ritorno in patria. Qui Buonafede, che nel frattempo è giunto nella
capitale svedese, ha fortuna: «avuto accesso al celebre re Carlo XII, fu spedito alle miniere della
Laponia»50.
In Lapponia, fra tundra e conifere, fra laghi gelati e traini di renne, Buonafede è addetto alle
miniere, verosimilmente come sovrintendente. È accreditato delle competenze necessarie per
dar corpo alle speranze regie di trovare nei giacimenti di ferro dei densi filoni argentiferi da cui
trarre il pregiato e prezioso metallo. L'argento serve a molti scopi: non solo a fare oggetti
massicci per uso sacro e profano, ma anche ad ageminare spade e pugnali, e inoltre alla
monetazione, alla marchiatura, alla fabbricazione di bolli e sigilli. È richiestissimo dal mercato:
mercanti e argentieri se lo contendono a suon di denari, sollecitando forniture e stimolando il
ritrovamento e lo sfruttamento di nuovi filoni. Il chimico italiano è ritenuto capace di «far
montagne d'argento» con l'arte sua; non più però con il segreto del lapis philosophiae, come aveva
millantato il Borri alla corte danese, vantando della propria «pietra filosofale» gli «effetti
mirabili, il minimo de' quali è di far oro e argento in infinito»51. Buonafede non è un ciarlatano,
è uno studioso che conosce le tecniche, le pratiche e i segreti dell'estrazione mineraria. La
chimica, di cui ormai è padrone, gli dà il destro di governare i metalli da vero «maestro».
Il minerale grezzo che si pensa possa contenere l'argento, dopo frantumazione a colpi di mazza
e di picca, è sottoposto al «piombo d'opera». È questo un metodo per cui il minerale viene
prima fuso nella carbonaia con il piombo e poi, divenuto piombifero, viene raffreddato e
rappreso finché da esso si smescola il piombo argentifero, da cui, tramite un solvente
«magistrale», viene tratto l'argento. Ma altri metodi sono le procedure di «arrostimento», di
«lisciviazione», di «amalgama» con il mercurio. In quest'ultimo caso, il mercurio, detto «argento
dei filosofi» o «argento vivo», in quanto nobile e inafferrabile come il dio Mercurio messaggero
degli dèi, serve a estrarre l'«argento vero», fisso e tenace, però afferrabile ed estraibile grazie
all'arte del chimico.
Buonafede dà buona prova. Ma, come detto all'inizio, dalla Lapponia e da Stoccolma, dopo
breve tempo, fa ritorno ad Amsterdam. C'è da chiedersi il perché: la ragione è che il suo
protettore ed estimatore Carlo XII ha perduto ogni interesse per le miniere. Ha ripreso le armi
contro la Danimarca. Combattendo sotto le mura della fortezza norvegese di Fredrikshald,
perderà di lì a poco la vita, a trentasei anni incompiuti.
10. Da Amsterdam a Lisbona, e ritorno in patria
Incompiuta è anche l'impresa mineraria di Buonafede. Del periodo svedese egli conserverà,
oltreché inobliata memoria, un ricordo tangibile: «un pezzo di sasso a strati, frammezzo a' quali
era dovunque l'argento natìo della grossezza di una lamina, disposta a guisa di una rete e a
figura di una grossa gelata brina, agevolmente con una punta di coltello separabile»52.
È un frammento di minerale argentifero, lavorato e «trattato», che egli tiene in serbo per esibirlo
come mezzo di presentazione eloquente ad altri sovrani, o principi, o banchieri, che siano
eventualmente interessati ai suoi metodi. Il «pezzo» vale più di ogni raccomandazione scritta.
Ma Amsterdam, motore pulsante della prosperità olandese, è luogo di mercanzia, non di
metallurgia; e, quanto alla chemiatria, coltivata ufficialmente a Leida sotto l'ala sapiente di
Hermann Boerhaave (1668-1738), professore universitario di un tetra-de di discipline (medicina
teorica, medicina pratica, botanica, chimica), essa non lascia spazio a cultori della materia che
non siano «addottorati» nell'università e «collegiati» nella corporazione. Come, appunto, non è
Buonafede Vitali.
Però Amsterdam è città cosmopolita, sede di molte famiglie «forestiere» che conoscono mezzo
mondo. Tra queste, numerose sono quelle di provenienza iberica: profughi ebrei, cripto-giudei
semiconvertiti, cattolici per convenienza o per fede, portoghesi o spagnoli, apolidi senza radici.
Il loro comune denominatore sono i commerci, i legami di censo, i rapporti d'affari. Per la folta
comunità ebraica, Amsterdam è veramente la «Gerusalemme olandese», così come per gli
olandesi d'America la Nuova Amsterdam delle origini era stata la città divenuta poi New York.
Ma per tutti quanti, olandesi e non olandesi, essa è la città proba e tollerante, dove il successo e
la gloria terrena sono la prova provata della benevolenza divina. È questa l'etica del capitalismo
nascente: Dio sancisce che i più ricchi sono anche i più buoni. È da uno di costoro che viene a
Buonafede una «commendatizia» che lo porta per mare a «Lisbona, ove, col mezzo del
Marchese [conte, per l'esattezza] di Fuentes, ebbe la soprintendenza delle Reali Fonderie»53.
I Fuentes sono un nobile e ricco casato originario dell'Aragona, ma poi espanso in tutta la
penisola iberica e al di là in tutti i domini spagnoli d'Europa e d'America. Allorché Buonafede è
raccomandato in Portogallo da uno dei suoi membri più autorevoli, l'intero casato è in fermento
per l'annunciato legame che unirà in matrimonio, qualche anno dopo, la contessina Maria
Francisca de Montayo Fuentes con il principe romano Antonio Pignatelli, omonimo nipote del
defunto papa Innocenzo XII che aveva regnato sul trono di Pietro durante il decennio di fine
Seicento (1691-1700).
La «soprintendenza» delle Fonderie Reali è altra cosa dall'incarico di ugual nome svolto nelle
miniere di Lapponia. È da intendersi piuttosto come «sorveglianza» dei lavori della Zecca di
Stato, che batte moneta — le pregiate lisbonine per conto del re. «A vantaggio di quel Re»,
Buonafede, giustamente sospettoso che le predette monete venissero indebitamente
depauperate mediante alleggerimenti, «scoprì come con sottile accortezza sottratto venivagli
gran quantità di prezioso metallo»54.
Egli ha il ruolo di consigliere di Stato. Si prodiga infatti in premonizioni e consigli. «Diè, fra
molti avvertimenti, il consiglio, sempre dappoi seguito, che tutto ciò che riguardava le
operazioni metalliche ed il conio delle monete si facesse nel Brasile». Il re del Portogallo, che è
Giovanni V di Braganza, dissipatore di tesori per mania di magnificenza, è anche imperatore
del Brasile, dove l'abbondanza dell'oro estratto dalle miniere rende relativamente «meno
preziosa quella materia»55.
In terra lusitana, invece, quella stessa «materia» aurea tentatrice, che solletica l'auri sacra fames
del re Giovanni, desta appetiti anche in impiegati e operai delle Fonderie Reali. Buonafede, con
sguardo occhiuto, controlla e scopre le indebite sottrazioni. Il suo contributo alla salvaguardia e
all'incremento delle finanze di Stato, nonché indirettamente all'opulenza della corte regia, è
vivamente apprezzato. Ma il suo lavoro di consulenza è finito. «Condotto dal Genio
Viaggiatore, [...] tolto congedo e visitate nella navigazione le città delle costiere della Spagna e
della Francia — Cadice, Gibilterra, Malaga, Cartagena, Alicante, Valenza, Barcellona, Narbona,
Agde, Monpellieri, Marsiglia, Tolone, Frejuls, Antibo e Nizza — se ne tornò in Italia, e passò a
Genova»56.
Il viaggio di ritorno di Buonafede in Italia, dopo lunga assenza, viene descritto come un'amena
crociera mediterranea, di porto in porto, al ritmo delle galee che uscivano ed entravano dallo
stretto di Gibilterra. Non è dato sapere se egli sbarchi in ciascuna delle città portuali citate: se a
Malaga assapori le mollezze andaluse, se ad Alicante goda il refrigerio dei palmizi, se a
Cartagena e a Valenza apprezzi le vestigia rispettivamente puniche e romane, se a Barcellona,
dove termina la parte spagnola della navigazione, percorra la strada selciata che porta dagli
arsenali alla cattedrale gotica dominante sul Mons Taber. Né è dato sapere se, lungo l'itinerario
costiero francese, egli resti ammirato delle mura e delle torri di Narbonne, dell'antica École de
médecine di Montpellier, delle bianche colline di Marsiglia e delle rosse scogliere di Frejus.
Lasciata la Linguadoca e la Provenza, i suoi occhi godono, dopo il Capo d'Antibes, dell'azzurro
di cui si ammanta la costiera e, dopo l'arrivo nelle acque liguri, della bellezza di Genova. «La
città, vista dal mare, è molto bella. [...] Il commercio di Genova con la Francia, la Spagna e
l'Inghilterra è assai sviluppato. [...] Inoltre, Genova ha un grande commercio con Cadice. [...]
Tutti i nobili di Genova sono dei veri mercadantes»57
Potrebbero essere parole e pensieri di Buonafede, che vede ín Genova il grande emporio del
Mediterraneo occidentale, dove è possibile impiantare una proficua attività. Sono invece frasi
scritte da un altro viaggiatore, che sbarca nella città della Lanterna, alzata sul Capo del Faro,
qualche anno dopo di lui: Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu.
Buonafede, «in quella città, l'anno 1714, ín età di 28 anni, per la prima volta si espose al pubblico
col nome dell' Anonimo»58.
2
Scienza e vita dell'Anonimo
1. Progetto di un mestiere nuovo
«Camminando il mondo», come s'è detto, Buonafede Vitali ha imparato a starci. Saper «stare al
mondo» è un modo di dire che significa saper navigare, non però nel Mar Baltico o nel Mar
Mediterraneo, ma tra procellosi eventi approdando in porti sicuri. Egli sa ora come fare, come
indossare il salvagente nei perigli, ma anche e soprattutto come fare per evitarli e per guidare la
propria personale navicella verso gli approdi. Fuor di metafora, egli ora sa qual è il
comportamento da tenere e qual è l'abito comportamentale per attrarre favori.
È partito dall'Italia che sapeva far bene il chirurgo militare. Era inoltre già provvisto delle
competenze necessarie per essere un operatore chimico qualificato. Il suo sapere chemiatrico
aveva salde radici. Sapeva anche come farsi apprezzare, grazie alla naturale facondia e
all'eloquio persuasivo trasmessogli dall'educazione gesuitica. Il lungo viaggio in Europa ha
ulteriormente arricchito il suo bagaglio e ha fatto sì che il suo modo di fare diventasse ancor più
gradevole e accattivante.
La prolungata permanenza in Inghilterra, tra Londra e Canterbury, ha contribuito a irrobustire
in lui l'arte chimica e chemiatrica. La civiltà d'Olanda gli ha fatto assimilare le buone maniere
con cui navigare in società, senza sbilanciarsi in opzioni religiose o politiche di parte,
smussando abilmente ogni asprezza e coltivando un'altra arte non meno importante ai fini del
successo: quella del compromesso.
La frequentazione di ricchi e potenti, in Danimarca e altrove, lo ha reso edotto di come sia
«duro calle» e richieda perseveranza <do scendere e il salir per l'altrui scale». Le soste in Svezia
e Portogallo, che hanno registrato le sue migliori prove, e più in generale l'esperienza di vita
maturata in ogni dove lo hanno reso ancor più consapevole dell'importanza che hanno le
protezioni e raccomandazioni autorevoli. L'approdo pilotato alle stanze della ricchezza e del
potere, fino alle corti regie, è un traguardo non facile, che richiede umiltà e talvolta umiliazione.
Tuttavia, sbaglierebbe chi volesse vedere nel reduce in Italia un prototipo del parvenu,
dell'arrivista arrivato. Opportunista senza dubbio, ma certamente non ancora un individuo
baciato dalla fortuna e dalla fama; né, tanto meno, un ciarlatano imputabile di aver costruito
sulla sabbia l'edificio del proprio sapere e mestiere. Ma di quale mestiere? Il ventottenne che
sbarca dalla nave genovese sul finire dell'anno 1714 deve ancora inventarsi un mestiere
definitivo.
Genova è un buon punto di partenza. È una grande piazza dov'è possibile intraprendere
un'attività del tutto nuova, tanto utile agli altri e perciò largamente vendibile, quanto utile a sé
perché ben lucrativa. Genuensis ergo mercator: se dire «genovese» è come dire «mercante», a
Genova si può offrire una merce che non ha concorrenza sul mercato della salute. È una merce
fornita da un mestiere basato su due pilastri strutturali entrambi di grande presa sul pubblico:
la medicina e il teatro.
Una ben dosata miscela di arte medica e di sana comicità è un impasto tra il serio e il faceto che
può funzionare: può giovare rallegrando, veicolare rimedi ai patemi fisici e psichici alleviandoli
anche con qualche sorriso. Però non si tratta di agire come quel «montaimbanco savoiardo» —
descritto dal diarísta Fuidoro — che nel 1669 aveva organizzato «nel suo banco una scena»
facendo «recitare da circa dieci persone, comedíe». Quel montaimbanco, approfittando del
«concorso grande che vi è senza pagare, vende una conserva di ginepro, la quale è
contravveleno, e di questo ne smaltisce gran quantità, e sana anco le scrofole e sue posteme
fredde»1.
Il mestiere che Buonafede Vitali ha in pectore non è quello del ciarlatano nella sua accezione
seicentesca. Quello coniugava tra loro arte comica e ciarle allettando e «dilettando per tal modo
le genti, accorrenti a comprare meravigliosi specifici»2, mirabolanti ma assai poco efficaci. Il
mestiere in gestazione nella mente propositiva di Buonafede è tutt'altra cosa. Per prima cosa si
tratta di allestire «composti» e «preparati» di propria personale fattura, confezionati a regola
d'arte secondo la migliore prassi farmaceutica: Buonafede è titolatissimo a farlo. In secondo
luogo si tratta di esibire pubblicamente i medesimi medicinali a buon prezzo, come farmaci «di
banco», demistificando i prodotti venduti a caro prezzo nelle farmacie da farmacisti ingordi e
poco scrupolosi. In terzo luogo si tratta di far propaganda di tutto ciò, sfruttando le proprie
doti.
Il progetto, per il quale Buonafede ha messo da parte il denaro da investire, è concepito nel
modo seguente: anzitutto far sì che sia l'esercente dell'arte ad andar dall'utente, e non viceversa;
poi che per farlo, in maniera corretta, l'esercente in veste di curante o guaritore si presenti sulla
pubblica piazza per esporsi alle richieste e alle domande dei pazienti potenziali e reali; infine,
che intrattenga gli uni e gli altri con sensati discorsi e onesti divertimenti, assecondando gusti,
desideri, aspettative, speranze.
Accintosi pertanto «a rispondere improvvisamente ad ogni quistione, e a discorrere e disputare
a lungo sopra ogni propostagli materia»3, nonché a corrispondere a ogni problema
prospettatogli con un medicinale appropriato a risolverlo, Buonafede si «espose», con un corteo
di «comedianti» interpreti di amene «varietà», al vaglio e all'apprezzamento del vasto pubblico
genovese.
Le sue comparse e comparsate sulla pubblica piazza sono annunciate e divulgate da battitori. Il
nome di richiamo è quello dei «senza nome»: l'Anonimo, quasi a voler rimarcare, con l'identità
«innominata», il fatto che la vera scienza e la vera arte, in quanto universali, non hanno bisogno
di alcuna particolare denominazione personalizzante.
2. Vacanza romana da chirurgo estetico
Non risulta che a Genova l'attività dell'Anonimo — così lo chiameremo d'ora in poi,
assecondando il suo desiderio — abbia avuto bisogno di un placet d'alto loco per poter essere
esercitata. Nella città ligure non dev'essere stata necessaria la «patente d'esercizio» che invece,
come si vedrà, gli verrà richiesta in altre città.
L'Anonimo riscuote gran successo di pubblico. Dà spettacolo, diverte, persuade. Cura e
guarisce? Non meno e non più della medicina ufficiale coeva, per la quale un cattedratico di
gran nome, Marcello Malpighi (1627-1694), professore a Bologna, confidava in tarda età
all'allievo Antonio Vallisnieri (1661-1730), poi professore a Padova, di conoscere assai più cose
di prima, ma di non essere in grado di tradurle in risorse terapeutiche: «Non abbiamo rimedi»4.
Comunque, l'accorrere di gente alle sue «salite in banco» non esime l'Anonimo dall'inaugurare
poco dopo una delle abitudini comportamentali che sempre caratterizzeranno il suo agire: la
vagatio del girovago, dell'homo viator perennemente itinerante. Inaspettatamente, quando più gli
arride il successo, se ne va via da Genova. Il suo è un «correr via» non meno caratteristico del
suo «discorrer vario». Perché mai? Per il già detto «genio viaggiatore»? Oppure — secondo la
maldicenza di medici e farmacisti spiazzati e invidiosi — per fuggir presto, prima che i pazienti
abbiano il tempo di constatare l'inadempienza delle sue promesse guarigioni?
«Da Genova passò ad Aqui nel Monferrato, oltre il Tanaro, a visitar quelle bollenti acque
minerali, che ivi sgorgano. Quivi essendo, scrisse di quelle Terme»5 in un Trattato delle acque
bollenti di Acqui, le antiche Aquae Statiellae, descritte prima di lui solo dal pavese Antonio
Guainiero nel De balneis Aquensis Civitatis, pubblicato a Pavia nel 1518. Del testo settecentesco
dell'Anonimo non resta però traccia alcuna.
Non sarà peraltro il suo unico approccio termale. Egli crede fermamente, come già Paracelso nel
Baden, nell'utilità terapeutica del «bagnarsi» e «infangarsi». Le sorgenti minerali sono come le
miniere: grandi laboratori spontanei della natura, utilizzabili dall'uomo a proprio beneficio. I
metalla disciolti nelle acque e nei fanghi sono «sali della salute». Inoltre, il fatto che le acque
sgorghino dalle viscere della terra, traendo da questa il calore degli inferi, carica di significati
sotterranei e segreti la pratica del termalismo e conferisce agli studi chimici dell'Anonimo l'aura
prometeica di chi strappa le faville del fuoco dalla sapienza divina e penetra negli arcana posti
in grembo alla natura.
Arcana è il nome che l'Anonimo darà ai suoi «dodici rimedi» sovrani, dieci anni dopo, come
vedremo. Ora, «tornatosene a Genova, prese imbarco per Livorno, passò a Cività Vecchia ed a
Roma, ove nel 1715 riaprì con particolare cura una ferita nel volto della celebre Faustina Zappi,
mal curata, togliendole la bruttura della cicatrice»6.
Lasciamo la parola all'Anonimo stesso:
Succede talora che si medicano da taluni così malamente le ferite, che rimangono orridi segni, o
vi restano palle, o altri corpi estranei, sicché compie il riaprirle per curarle meglio. In quel caso
si prende una Radice fresca di Levistico, si cuoce sotto le ceneri e si taglia per mezzo per lo
lungo, e con la parte interiore si pone su la chiusa ferita, replicandola di sei in sei ore. [Così si]
riapre la ferita, come fosse stata fatta allora appunto, e [si] tira fuori ciò che dentro di essa vi è, e
si medica meglio. Così feci io in Roma l'anno 1715, alla virtuosissima Faustina Zappi, che fu
sfrisata dal Duca Cesarino, e mal curata, che era orrore a vederla, d'ordine di Clemente XI, santa
e gloriosa memoria, suo padrino. Io gli riaprii la ferita, e la sanai7.
In proposito si può rilevare che, oltre alle ipotesi formulate sul perenne vagare dell'Anonimo, in
questo caso sia da ritenere attendibile quella di una perentoria convocazione romana «per
ordine del Sommo Pontefice»8. Clemente XI (Giovanni Francesco Albani) è un papa mecenate,
prodigo di protezioni ad artisti e poeti. Sua è l'opera pia e pietosa di chiamare a Roma un
chirurgo valente per fama -- l'Anonimo — per affidargli la cura di una sua protetta, la predetta
Faustina Zappi Marattí, squisita poetessa nonché donna bellissima prima dello «sfriso»
deturpante subito.
Questa la vicenda. La bella Faustina, nata da una relazione extraconiugale del celebre pittore
marchigiano Carlo Ma-ratti, era anch'essa pittrice come il padre, e in più dedita alla musica, al
bel canto e al ben poetare. Arcade poetessa con il nome di Aglaura Cidonia, era andata sposa
nel 1705 a Giovo Battista Felice Zappi, uomo di legge e poeta, tra i fondatori dell'Arcadia e noto
col nome di Tirsi Leucasio. Moglie integerrima, la Faustina aveva subito un tentativo di ratto da
parte del duca Cesarini, preso d'amore per lei, ma da lei respinto e deriso. La sua fedeltà
coniugale era stata ripagata dal duca, uscito di senno, con lo sfregio del viso.
L'Anonimo è dunque universalmente noto come abile chirurgo, specialista in estetica. Avrebbe
fatto invidia a Gaspare Tagliacozzi (1545-1599), il chirurgo bolognese che aveva inaugurato la
plastica del viso — naso, labbra, orecchi — in un'epoca, quella rinascimentale, in cui non si
contavano le ferite d'arma bianca e in cui cominciavano a prodursi ferite d'arma da fuoco. Ma la
fama che gli viene dall'intervento chirurgico risanatore non basta a trattenere l'Anonimo a
Roma: la città dei papi è gonfia di medici e tronfia dei suoi dottori sapienti. L'Università romana
«La Sapienza» è una istituzione sospettosa da cui è meglio prendere le dovute distanze.
3. Salita o salto in banco
L'Anonimo «da Roma andò a Napoli, ove dimorò sei mesi»9. Quest'uomo ormai baciato dal
successo, indottrinato al punto d'essere pressoché onnisapiente, che però mostra di tenere la
propria dottrina in assai minor conto della propria arte empirica, mette continuamente in gioco
se stesso. Non smette di barattare la stabilità di una «positione ferma» con l'insopprimibile
esigenza interiore di assecondare il proprio spirito «extravagante».
Riprende a viaggiare, come un gabbiano di mare, stavolta però in terraferma. Percorre in lungo
e in largo il reame, cioè una gran parte delle città appartenenti al Regno di Napoli, «disteso tra
l'acqua santa [lo Stato della Chiesa] e l'acqua salata [il Mare Mediterraneo]». Qui — al dire nel
1713 da parte di un testimone attendibile, il filosofo Mattia Paolo Doria «gli spagnuoli hanno
sviluppato i germi tristi, per corrompere i costumi e precipitarlo [il Regno] nel vizio e nella
miseria»10.
Miseria dei sudditi napoletani, non però dell'Anonimo, il quale nel volger di sei mesi, «per sua
replicata confessione, raccolse più di 24 mila ducati», tuttavia «uscendo da quella terra con
pochi carlini. Ciò serva per saggio di suo trattamento, perciocché ritraendo dovunque gran
copia di danajo, ch'è indicibile, altrettanto sempre ne profondeva»11.
È questo un altro aspetto saliente del suo carattere, proprio di un uomo che non dà soverchio
valore al denaro che lucra e che gli sfugge dalle mani bucate. La sua propensione allo scialo è
un'ambigua via di mezzo tra vizio dissipatorio e disprezzo per la vile, eppur gradita, pecunia.
Dopo un fugace ritorno a Roma, per incassare un'ulteriore benedizione da parte di Clemente XI,
sempre grato per avergli risanato la figlioccia Faustina, l'Anonimo si conduce in altre città dello
Stato pontificio — «Spoleti, Perugia e quelle del Piceno e altre» — finché, giunto in Romagna,
«da Rimini por-tossi a Venezia»: dalla città caput mundi alla città «ombelico del mondo», come
l'aveva chiamata Fioravanti nei tempi d'oro della Serenissima. Ogni centro del mondo, per
quanto possa essere importante, è per lui troppo angusto. Eccolo dunque subito a Ferrara e da
qui a Parma, la città che un bussetano come lui, che a Parma inoltre ha studiato, sente «quasi
che [sia] sua patria». Ma anche qui non si ferma: «quindi per Piacenza se ne gì a Milano»12.
A Parma peraltro, nonostante la brevità della sosta, «fu aggregato al Collegio de' Medici di
quella città» e il 26 ottobre 1717 ottenne una pari «aggregazione» all'albo dei phisici di Milano.
Tu vero Doctor Bonafides Vitali amicus noster praedilectus, recita l'inizio del diploma rilasciatogli a
Parma; e quello rilasciato a Milano concordando conclude: Idcirco auctoritate qua fungimur, Te
Bonafidem Vitali collegio nostro aggregamus. «In questa guisa», come medico collegiato, «andò
scorrendo le città della Lombardia, acquistando gran nome»13.
Per l'Anonimo che scorre in Padania corrono tempi importanti. «Nel 1719, trovatosi in Bologna,
qui fu dichiarato Dottore e Maestro nell'arte chimica». E il completamento di ciò che gli è
dovuto: il riconoscimento di una competenza chemiatrica dappertutto acclarata. L'importanza è
anche quella di altri eventi, familiari, intimi. Nello stesso anno muore infatti, all'età di
cinquantanove anni, suo padre Giuseppe, che ha concluso l'onorata carriera militare «a' servigi
del Sommo Pontefice» come «uffiziale anziano in Castel Franco, o sia Forte Urbano, poco lungi
da Bologna sui confini del Modenese»14.
Minato da un male «alle parti di sotto», che il memorialista etichetta «emorroidi» per via del
cronico stillicidio di sangue che lo ha consumato, il vecchio uomo d'armi ha la consolazione di
vedere accorrere al proprio capezzale, prima che la consumazione l'abbia vinta, il figlio ormai
famoso. Questi «fu a ritrovarlo, ed a farsi riconoscere, dappoiché dopo la partenza dall'Italia
niuna nuova più non erasene inteso, ed ignoto era che sotto il nome dell'Anonimo egli si
nascondesse»15.
Un altro evento, non meno importante della morte del padre, è il matrimonio. «Nel medesimo
anno», dopo aver provveduto «a prender seco la vedova madre», in forza della pronuba «opera
della suddetta sua madre e del marchese Sale», mediatore influente, «mentre era in Vicenza
prese a moglie Erminia Arsiero, che priva di padre e di madre trovavasi in casa del marchese
Gonzato suo zio»16.
Nei giorni tra l'estremo addio al proprio padre, con un rapporto ritrovato in articulo mortis, e
l'unione matrimoniale con l'orfana Erminia, tramite un rapporto istruito dalla propria madre
secondo convenienza, si colloca un terzo accadimento che nella nostra storia riveste
un'importanza molto maggiore: la pubblicazione, peraltro senza precisa indicazione di data, di
una Lettera scritta dall'Anonimo, che si autodefinisce «pubblico operatore empirico»,
«all'illustrissimo Signor il Signor N.N.», che condivide l'anonimato con l'estensore dell'epistola,
edita «in Verona, per li fratelli Merli, con licenza de' Superiori»17.
La quiete dei Colli Euganei e la pausa intima dovuta agli eventi familiari devono essere state
propizie all'introspezione e a un primo bilancio delle proprie idee ed esperienze (come lo
saranno nel 1802 per Jacopo Ortis, che qui scriverà le sue Ultime lettere con il pensiero rivolto
all'amata Teresa, promessa sposa al mediocre Odoardo). Devono aver propiziato anche il
superamento della naturale ritrosia a metter per iscritto í propri convincimenti. Destinatario
della Lettera è, sotto celate spoglie, l'amico ed erudito veronese Scipione Maffei, che oggi
diremmo grande opinionista, membro dell'Arcadia e fondatore nel 1710, con Apostolo Zeno e
Antonio Vallisnieri, del «Giornale dei letterati». Egli nutre un vivo interesse per il teatro, che
costituisce una parte non irrilevante del mestiere dell'Anonimo; proprio allora sta iniziando a
scrivere una «istoria del teatro, in difesa di esso». L'argomento del saggio epistolare dedicatogli
in modo criptico dall'Anonimo è un lungo discorso «in cui si prova non inferire macchia di
disonore alcuno l'esercizio del saglimbanco a chi lo porta con decoro e fedeltà».
4. Archiatra e professore
Lasciamo per il momento i contenuti della Lettera, che meritano una trattazione
particolareggiata (oggetto del terzo capitolo di questo libro), per riprendere a narrare la vita
avventurosa del suo autore, il quale, «proseguendo il suo quasi che perpetuo moto, per cui non
trovasi che più di tre anni al sommo abbia in un luogo dimorato», fu a Padova, città di dottori, e
poi nuovamente, di scappata, a Venezia, città di signori. Successivamente fu a Verona,
probabilmente per esigenze editoriali relative alla stampa della Lettera, e infine a Mantova18.
«Nell'agosto del 1720 la fama dell'Anonimo si era diffusa pure a Mantova, dove era ammalato il
marchese Giovanni Francesco Gonzaga. Si era pensato troppo tardi al Vitali: il marchese
spirava, oppresso dalle cure dei medici». Nell'occasione un medico mantovano, Flaminio
Gorghi, aveva chiesto ad Antonio Vallisnieri, il cattedratico padovano a noi già noto, se avesse
notizia «d'un certo Anonimo, che fa il salimbanco e che viene predicato per un gran medico». Il
Vallisnieri, che durante il passaggio dell'Anonimo per Padova s'era fatto interprete della
diffidenza dei dottori padovani nei confronti dell'eterodosso saltimbanco, s'era alla fine
ricreduto. La sua risposta al collega Gorghi era stata favorevole, tal-ché il medico mantovano,
nel ringraziarlo per il sollecito riscontro, aveva potuto scrivere: «Godo in sentire che mi date
dell'Anonimo l'informazione uniforme a quella che spande la pubblica fama»19.
A Mantova l'Anonimo deve interrompere le proprie salite in banco nella pubblica piazza perché
chiamato d'urgenza a Roma per curarvi Innocenzo XIII (Michelangelo Conti), eletto papa
quantunque malaticcio nel conclave conclusosi 1'8 aprile 1721. Il nuovo pontefice, al dire del
maldicente Pasquino, «dorme sempre». Uno dei prodotti di tale sonnolenza — che i cardinali
filofrancesi a lui ostili chiamano hebetudo mentis, associata a «crassa pinguedine» — è l'aver dato
nel 1722 l'investitura di Sicilia all'imperatore Carlo VI d'Asburgo quando questi già da due anni
aveva ottenuto l'isola dai Savoia in cambio della Sardegna. Il breve pontificato, durato solo tre
anni, è caratterizzato, oltreché dall'inerzia diplomatica, dal continuo altalenare, e poi dal
precipitare, della salute del papa, tormentato da prolungate crisi di singhiozzo e da «humores
muy turpes», come scrive a Madrid l'ambasciatore spagnolo presso la Santa Sede20.
A questo punto interviene, in veste di archiatra, l'Anonimo, che riesce a eliminare il singhiozzo
papale laddove i medici della corte pontificia avevano fallito. Dice egli stesso che con «essenza
di spico in dose di 3 in 4 goccie, sciolte con poco torio d'ovo e poi diluta con vin bianco [...],
colata, e bevuta, e replicata, [...] sanai Innocenzo XIII, Sommo Pontefice in Roma, ch'era sfidato
da tutti»21.
Mentre è impegnato nella cura del pontefice, torna in scena il marchese di Fuentes, divenuto
ambasciatore a Roma del re del Portogallo, che è sempre il «magnifico» Giovanni V di
Braganza, estimatore dell'Anonimo. Il marchese vorrebbe rispedire questi a Lisbona: «avendo
fatto mille onori ed accoglienze all'Anonimo, scrisse anche di lui a Lisbona ed ebbe come
missione di fermarlo al servizio di quel Re e, caso che accettasse, sborsargli mille lisbonine per il
viaggio e raccomandarlo al cardinale Nurio de Acaria che partir fra poco colà doveva»22.
L'Anonimo è tentato dalla nuova avventura in terra portoghese, dove lo aspettano grandi onori
e denari. Ma sconta una fiera opposizione in famiglia, da parte non della moglie, ma della
madre: «la madre sua, protestando di non volerlo seguire sì lontano, fu cagione ch'esso non
accettasse l'offerta». Forse rimpiange la perduta libertà del viaggiatore solitario; con madre e
moglie appresso, allo scadere dell'incarico presso il papa, «da Roma se ne passò a Napoli e
poscia tè vela per Palermo»23.
Palermo, dopo tre lustri di periferica città sabauda, è ritornata ai fasti di città sede di un viceré,
Joaquín Fernkidez, grande di Spagna. Per i settecenteschi viaggiatori del Grand Tour erano
«mete preferite [...] Roma, Napoli, ma soprattutto la Sicilia. La moda del viaggio in terra di
Sicilia, fino ad allora fuori dai circuiti europei [...], prende corpo agli albori del secolo XVIII». Un
viaggiatore nordico, l'olandese Jakob Philippe d'Orville, «dopo aver girato, appena trentenne, in
lungo e in largo la Francia, la Germania e l'Inghilterra, [...] visita, giungendovi via mare,
Palermo», il cui immenso thesaurus monumentale era già descritto nelle stampe delle «antiche
tipografie di Leida e Amsterdam»24.
L'Anonimo, che come il viaggiatore olandese s'è lasciato alle spalle l'Olanda, l'Inghilterra e altre
parti d'Europa, quasi ricalca il percorso di D'Orville giungendo, trentottenne, a Palermo, però
alla ricerca di ben altro thesaurus. Scrive egli stesso: «Ebbi finalmente la bella sorte di approdare
a' felicissimi lidi della fedelissima [alla Spagna] Città di Palermo, ove favorito dalle immense
grazie dell'eccellentissimo Senato e di tutto il fiore di quella eccelsa nobiltà e cittadinanza, fui
dichiarato l'anno 1724 lettore pubblico di chimica e filosofia esperimentale, e direttore di un
nobile laboratorio eretto a spese dell'eccellentissimo Viceré»25.
Viceré e capitano generale della reale città di Palermo è, come sappiamo, Joaquín Fernkidez de
Portocarrero, conte di Palma del Río e marchese di Montechiaro (Palma di Montechiaro sarà
Donnafugata nel romanzo Il Gattopardo), balio della Sacra religione gerosolomitana, consigliere
intimo di sua maestà e generale di cavalleria degli eserciti imperiali. È il personaggio chiave che
assicura all'Anonimo un'incondizionata «protezione»: «amavalo all'eccesso». È grazie a lui che
l'Anonimo ha potuto pubblicare, «sulla fine del 1723», presso la stamperia palermitana di
Antonino Gramignani, la dissertazione sopra il problema Che nel sangue non vi sia acido, poi
«recitata nell'Accademia del Palagio Senatorio»26.
La lettura accademica è stata una sorta di libera docenza, ottenuta peraltro previa assunzione,
«giusta le leggi di quel Regno», di una nuova laurea, «che difatti assunse, come dalle patenti [...]
date in Catania a' 7 giugno del 1724, ove chiamato viene philosophiae et medicinae doctorem
perillustrem, nobilem dominum don Bonafidem Vitali civitatis Buxeti»27 .
Nella «lezione magistrale» l'Anonimo ha sostenuto la tesi «anti-acidista» secondo cui il sangue
non è acido, contrariamente a quanto sostenevano i più. Dando dimostrazione di grande
dottrina ha cominciato il suo dire «oppugnando che lo stesso Ippocrate è di parer contrario,
avendo egli parlato di acido in Nomine e mai di acido in sanguine»; ha proseguito rilevando che
perfino l'Elmonzio (van Helmont), pur essendo «il più autorevole fra tutti gli acidisti», tuttavia
asserisce che nella naturale mistura acido-alcalina degli alimenti, «di cui ci nutriamo e di cui
siamo costituiti», gli alcali sono prevalenti sugli acidi. Questi, d'altronde, come l'esperienza
insegna, «accagliano il latte e induriscono [= coagulano] il sangue», onde questo, per mantenersi
fluido, «aborrisce» da essi. Infine, è la prova empirica ad avvalorare la dottrina: gli acidi, «posti
sulla tintura cerulea di girasole [= tornasole], si fanno rossi», e poiché il sangue «non arrossa
tale tintura», tale è il segno che in esso «non v'è acido». Ergo: l'argomentazione risulta
«fortissima per ciò [che] doveva essere l'illazione»28.
5. Dal laboratorio alla piazza
La città che ingemma la Conca d'Oro attrae:
Palermo ha il diritto di essere annoverata fra le principali e più belle città non solo d'Italia, ma
anche d'Europa; vi si contano vari palazzi grandiosi, molti conventi e monasteri, tra le chiese ve
ne sono alcune di bella architettura e ricche di pietre dure e marmi siculi ed orientali. Le strade
sono tirate al cordone [leggi delimitate dal cordolo del marciapiede] e ben selciate [...]. Il Vice Re
dimora nel Palazzo Reale E...]. La chiesa cattedrale è un ampio tempio [...]. Il convento dei
gesuiti è un grandioso edificio [...]. Molti palermitani al tramonto passeggiano lungo la marina,
ampio e delizioso passeggio E...] [che] ha il vanto di essere esteticamente più gradevole rispetto
al giardino di Napoli, detto di Chiaia, [dove] il pur piacevole colpo d'occhio del paesaggio è
deturpato dalle distese di panni che le lavandaie stendono sulla spiaggia ad asciugare. Qui a
Palermo invece tutto è ordine e pulizia e la vastità dello spazio, lasciando l'accesso libero alle
carrozze, lo rende più comodo agli abitanti aggiati e meno pericoloso ai pedestri29.
Nonostante questa settecentesca atmosfera di onori e di agi e nonostante questa perenne
temperie di pace e benessere, l'Anonimo non si trattiene a Palermo; chiede congedo. Una
patente in data 4 luglio 1726 «così esprime i più vivi sentimenti» del Senato accademico
palermitano, formulati in aulico latino:
Dopo aver dimorato più anni in questa nostra città con somma comodità e utilità di tutti, il
mobilissimo e ottimo medico don Buonafede Vitali, detto l'Anonimo, avendo molto
urbanamente chiesto a noi, che lo tenevamo in special predilezione, di ritornare in patria, non
possiamo esimerci dal concedere ciò, quantunque dolenti della partenza dalla nostra città di
cotanto Uomo; né possiamo non significare con questa patente — come sola cosa che ci resti da
fare — la gratitudine dell'animo nostro. In verità tacciamo della multiforme scienza di lui e
dell'onnisciente erudizione di cui sempre ebbimo contezza nei suoi discorsi su vari argomenti; e
diamo testimonianza di non esservi mai stato nessuno, tra coloro che furono affetti da morbo
grave mortifero, o da perniciosissima piaga, o da salute disperata, che siasi rivolto
tempestivamente a questo medico espertissimo senza essere da lui consigliato in qual modo
venir liberato dai mali. Essendo d'ora in poi assai difficili e insperate le cure tramite suo nell'arte
chimica, nella quale è dottissimo e di cui Palermo è ammirata, consegue che tutti i cittadini
d'ogni ceto vorrebbero almeno ch'egli fosse, se possibile, a vanto eterno di questa città,
dichiarato immortale30.
Consegnato, ancor vivente, all'immortalità, l'Anonimo deve lo sperticato elogio della propria
arte chemiatrica anche al fatto d'aver egli pubblicato, sempre presso lo stampatore palermitano
Antonio Gramignani, un opuscolo dal titolo tanto eloquente quanto imperativo: Operibus credite,
«date credito alle mie opere». Più circostanziato è il sottotitolo: «Facoltà, uso e dose de' dodici
arcani che s'inchiudono nella cassetta medica dispensata dall'Anonimo, lettore di chimica e
filosofia esperimentale e direttore del nuovo laboratorio chimico»31.
Nel laboratorio chimico messogli a disposizione, l'Anonimo ha sottoposto a prova la vecchia
alchimia e l'ha vagliata al crivello della nuova chimica. Ha ripassato la lezione spagirica e
chemiatrica di Paracelso: gli elementi primi del creato sono tre, lo zolfo (abrìc degli arabi), caldosecco e soggiacente all'«influenza» del sole, il mercurio (azòth degli arabi), freddo-umido e
soggiacente alla «flussioni» della luna, il sale (hals deí greci e sal dei latini), sapido come la
sapienza e simbolo della salus. Ha ripassato le operazioni verbali e manuali della magia
rinascimentale, le formule che conferiscono alle sostanze trasmutabili i riflessi solari e lunari e le
parvenze dell'oro e dell'argento, le sublimazioni che mediante cozione nella fornace (athanòr
degli arabi) ed elevazione a vapore trasmuta la materia in spirito, la sostanza in essenza.
L'essenza, distillata nel «pellicano» (al-ambìq degli arabi), si trasforma in elisir e questo può dare
l'oro della salute, gli anni d'argento della vecchiaia e prolungare la giovinezza consentendo —
come al giorno d'oggi dicono in molti — d'essere «più sani e più belli» a ogni età della vita.
Palermo, dove le impronte lasciate dagli arabi sono stampate nella memoria collettiva, è sede
quanto mai propizia e sensibile. Inoltre il mito dell'eterna giovinezza è una sirena che attrae. Tra
fornaci e alambicchi, l'Anonimo ha preparato i suoi «trovati chimici», salvifici come i dodici
apostoli coadiutori del salvatore, e li ha messi ín vendita bene confezionati in cassette
farmaceutiche con allegate indicazioni, posologia e istruzioni per l'uso: dal produttore al
consumatore, senza intermediari.
Anche se nessuna illustrazione o ritratto ci mostra l'Anonimo in azione, non è difficile vederlo
salire sul banco tra i battimani. I banditori hanno fatto da richiamo, i commedianti al suo
seguito hanno fatto da intrattenimento. Lo sentiamo parlare agli astanti, da grande
comunicatore. Lo vediamo mostrare, uno a uno, i propri preparati estraendoli da una delle
cassette poste in vendita. Sono queste degli armadietti di medicinali che ogni famiglia può avere
a disposizione, per ogni occorrenza, con una spesa molto minore di quella necessaria per medici
e medicine.
6. I dodici arcani
Le «opere» per cui l'Anonimo chiede imperativamente il credito da parte dell'uditorio assiepato
in piazza sono le «operazioni chimiche», diverse da quelle chirurgiche nelle quali è altrettanto
competente. Sono le operazioni che gli hanno consentito di allestire i «dodici arcani» contenuti
nella «cassetta medica» i cui numerosi esemplari egli offre dal banco. La dozzina degli «arcani»
è la seguente: un «catartico universale», un «sale balsamico», un «diaforetico solare», un'«acqua
vulneraria», un «elixir corallato», un «triafarmaco spezioso», una «tintura bezoardica», una
«tintura del giglio», una «tintura di Marte», una «cera cattolica», una «pietra cobra», un
«mercurio meteorizzato».
Ce n'è per molte necessità. La poli-micro-farmacia da lui posta in vendita è, nel suo complesso,
una sorta di panacea, però non più riunita in un unico, onnivalente «farmaco universale» sul
tipo della vecchia «triaca», composta da una cinquantina d'ingredienti (tra cui, sovrano, il tritato
di vipera) e ancora prescritta da molti medici e preparata da molti farmacisti. Nella cassetta
farmaceutica dell'Anonimo ogni esigenza ha il suo «farmaco particolare», specifico. Per ogni
bisogno c'è la relativa «specialità». Per questo l'Anonimo può a buon diritto presentarsi al suo
pubblico come «specialista»; anche per questo egli ha il fascino dell'homo novus, del medico
«novatore».
Si considerino i suoi «dodici arcani», uno dopo l'altro. Archè, in greco, significa «principio»,
«origine», «fondamento». Gli «arcani» sono farmaci «principali», «originali», «fondamentali».
Essi non hanno nulla di arcano, di criptico, di iniziatico. L'Anonimo non è un mago medievale
rinchiuso nei propri segreti e misteri. Egli è un probo artigiano che usa i barlumi, se non ancora
i lumi, di una ragione medica che va facendosi strada, non senza fatica e passi falsi, nella pratica
quotidiana.
Prescindendo dalla specifica ricettazione, si considerino, di ciascun «arcano», la natura, la
valenza, le finalità.
Il catartico universale è un universale purgante. Purga senza irritare, più energico di un lassativo
come la cassia o la manna, meno violento di un drastico come la gialappa o l'elleboro. È un
ritrovato chimico a base di un composto analogo alla magnesia «eccoproctica», che «tira fuori
gli escrementi» dall'intestino senza troppo scombussolarlo. A comporlo concorrono, oltre al
minerale, gli altri due regni della natura, il vegetale, con erbe, e l'animale, con sostanze
organiche tratte dai sedimenti marini.
Il sale balsamico è un «balsamo artificiale», diverso dai «balsami naturali» (del Perù, del Tolù, del
Canada e altre trementine). Preso internamente, depura il sangue e lo rafforza. Funziona molto
meglio del «balsamo spiritoso del Fioravanti», in uso da oltre cent'anni, ed è apparentato al
«sale sacerdotale» o «sale dei sali» degli antichi egizi.
Il diaforetico solare è un presidio che opera la trasformazione del calore emanato dal sole nella
traspirazione della pelle emanante il sudore. È, in altri termini, un preparato che rende
permeabili i pori cutanei alle sudorazioni profuse, facilitando gli spurghi corporei degli umori
peccanti responsabili delle febbri. Esclama, dal suo banco, l'Anonimo: «Non v'è catarro, né
essudato, anche cronico, che regga»32.
L'acqua vulneraria è un distillato per ferite ben più efficace della vecchia «aqua di archibugiate» o
«aqua traumatica». Come alle «più nefaste stragi» si oppone la medicina, così la «cirurgía alleata
alle indivisibili compagne, botanica, farmacia e chimica», si oppone alle lesioni traumatiche di
guerra e di pace. Una sua varietà è composta da alcol dilungato nell'acqua di fontana e fatto
pregno di oli essenziali. Si ottiene distillando acqua e vino bianco, con aggiunta di erbe
aromatiche quali foglie d'angelica, salvia, menta, timo, assenzio, finocchio.
L' elixir corallato è un rimedio che consente di tenere i denti sani e i dentisti lontani. È al tempo
stesso odontalgico e dentifricio, ma se alla macerazione del corallo si aggiungono «preziosissimi
aromi e semplici egreggi» esso diventa di più largo impiego: «annusato, rafforza la memoria,
risveglia dal sonno e dagli svenimenti, fa scomparire le vertigini». Inoltre «uccide li vermini alle
creature» e con un'unica somministrazione «alle nutrici con latte troppo abbondante e acquoso»
consente, «medicandosi esse», di «sanare il figlio»33.
ll triafarmaco spezioso sembra fatto apposta per star lontani dagli speziali, le cui costose misture e
tinture, a base di spezie tanto rare quanto care, sono sostituite da un composto speziato più a
portata di borsa e più speciale. È uno specifico per í disturbi di stomaco, funzionando da
digestivo ed «eupeptico», ma non per bocca, bensì per «fregagione». «Se ne soffrega la regione
gastrica per smuovere le languidezze dello stomaco e moderarne l'acquosità [ipersecrezione] o
maturarne la crudità [iposecrezione]». Dalla sua panca, l'Anonimo promette: «È un grandissimo
rimedio [...]. Non si sprezzi perché sia esterno, giacché assicuro chicchessia che se non fosse più
che grande e più che bisognoso [= necessario], io non l'avrei incluso tra il breve numero dei
medicamenti cotanto insigni ed eccelsi, quanto sono li qui radunati»34.
Tra le virtù dell'Anonimo non c'è la modestia. Però la sua immodestia non è la vanagloria di un
medicus gloriosus come l'«aureolo» Paracelso, né l'autocelebrazione sperticata di tanti ciarlatani
presenti e futuri.
La tintura bezoardica ha, come dice il nome, la qualità del bezoar o «bezuarro», concrezione
reperibile nello stomaco di animali refrattari ai veleni e perciò ritenuta antivenefica. Il preparato
è una tintura «fattizia», fatta con le proprietà svelenanti del bezuarro, ma senza derivare da
esso. È un antidoto, un contravveleno.
La tintura del giglio deve il suo nome al lilium campeggiante nello stemma che orna lo stendardo
di Firenze. È infatti detta «tintura d'iride fiorentina». Quest'iride è una pianta le cui radici
tuberose, sottoposte a cozione nella brace e ammollate nell'olio, vengono poi immerse in un
liquido spiritoso, caricandosi d'un potere corroborante, buono per molti acciacchi. La tintura è
la «guida di un'arte maestra» e «a buon diritto potrebbe chiamarsi oro potabile vero», simile a
quell'«universo liquore che dà la felicità»35.
La tintura di Marte è un composto disostruttivo che combatte imbarazzi e intasamenti d'ogni
sorta, dal peso allo stomaco al raffreddore che «ragghigna le narici e arruffasi nel ceffo»36. È
detta «di Marte» perché il composto è ferruginoso, «marziale». La sua composizione è salina, a
base di vitriolato (solfato) di ferro eventualmente associato a magnesia effervescente. È indicata,
oltreché nelle ostruzioni, nella «hidropisia, mancanza di mestrui, flati ed emorroidi viziate».
La cera cattolica è una tela cerata, ossia impregnata di cera detta «cattolica» perché
universalmente benefica come la religione. Con essa si fanno cerotti d'ogni sorta, impiastranti,
essiccativi, maturanti, rubefacenti, con cui curare torcicolli e strappamenti, slogature e artralgie,
scrofole (tubercolari) aperte e aperti «tumori gallici» (salitici).
La pietra cobra, dal nome esotico sinistro, è una specie di lapis medicamentoso, fatto di squame o
scaglie di serpente, capace di attrarre ed estrarre il veleno iniettato dalle morsicature di vipere,
cani, lupi e sorci rabbiosi. È capace anche di sanare i «carboni» pestilenziali e i noli-me-tangere o
fistole lebbrose.
Il mercurio meteorizzato, infine, unica concessione alle affinità mitologiche e alle influenze astrali,
è un amuleto. Amuletum amovet, «allontana», tiene lontana ogni cagione avversa, disperde il
caglio dal latte delle balie, scioglie gli «orzuoli» dagli occhi cisposi, distrae dai corpi i «contagi»
degli insetti volanti.
Questi ordunque, riassumendo, i «dodici arcani»: un purgante, un depurativo, un sudorifero,
un disinfettante, un dentifricio, un digestivo topico, un antidoto, un corroborante, un farmaco
liberatorio, un cerotto polivalente, un lapis medicato e — ultimo ma non in coda — un amuleto
contro il malocchio.
7. Medico malato
La cassetta farmaceutica posta in vendita al prezzo di «una doppia» (moneta equivalente a due
once d'oro) non è un contenitore di farmaci «eroici» come quelli risolutivi di frangenti gravi,
combattivi contro il mal di cuore, l'apoplessia, i «cancheri». La cassetta venduta dall'Anonimo è
piuttosto, come già detto, un trasportabile armadietto per famiglie, contenente un campionario
di farmaci per automedicazione, veri prodotti «da banco» in offerta «speciale». A tali farmaci si
può ricorrere quando, a causa d'inconvenienti o accidenti di salute che possono capitare, il
capofamiglia o la donna di casa debba improvvisarsi rispettivamente «medicone» o
«medichessa», facendo a meno del medico phisico e dello speziale farmacista.
Medici e farmacisti, ovviamente, non vedono tutto ciò di buon occhio. Il cura te ipsum applicato
al paziente svincola questi dalla medico-dipendenza, dalla medicalizzazione d'ogni pur minimo
male. Inoltre, la sottrazione dei medicinali d'uso comune al monopolio dei farmacisti penalizza
non poco gli interessi di questi ultimi. Sono in gioco interessi di casta, di corporazione.
L'Anonimo, nonostante i successi di piazza, la comprovata sapienza elogiata dal Senato
accademico, la «buona fede» che il suo nome non anonimo esprime, è come un pesce al mercato
di Palermo: dopo un po' di tempo incomincia a puzzare. È meglio cambiar aria.
«Partitosi dunque da Palermo, essendo ancora per mare, intese la nuova dell'orribile tremuoto
di quella città, in cui fra l'altro rovinò anche la casa ov'egli abitava»37. «Rovinosissimo
terremoto fu in Palermo il primo dì di settembre 1726: contaronsi da 250 morti e più di 150
feriti. [...] Risentissi lo scuotimento, ma lieve, il 5 dicembre, siccome nell'ottobre sentirono
Cefalù e luoghi vicini»38. L'Anonimo, partito appena in tempo, registra «la perdita di que'
mobili, che per non so qual non intesa fretta di partire, lasciati avea addietro da vendersi con
cavalli e cocchi»39.
«Dopo sofferta burrasca, preso terra a Cívità Vecchia e fatto provigione, continuò il viaggio [per
mare] ed approdò alla Spezia; e quindi per la via di Pontremoli», risalendo in carrozza la via
Francigena, «si condusse a Parma», sua patria. La richiesta di tornare a casa, fatta al viceré e al
Senato di Palermo, non era stata un pretesto. A Parma il duca Antonio Farnese, che sarà l'ultimo
della dinastia (estinta nel 1731), «lo volle alla sua corte» per affidargli l'incarico di sovrintendere
alle miniere di Stato, essendo l'Anonimo «favoritissimo dal conte Anviti allora primo
Ministro»40.
La sua fama di esperto minerario ha raggiunto Parma e fa di lui un anomalo propheta in patria.
Terre di miniera nelle valli appenniniche celano nel sottosuolo acque salse, acque «madri» di
sali di zolfo, di iodio, di arsenico, di ferro (che oltre cent'anni dopo faranno la fortuna di
Tabiano, di Salsomaggiore, di Sant'Andrea dei Bagni). L'Anonimo, forse troppo in anticipo sui
tempi, «visitati i luoghi delle miniere dello Stato» senza «scoprirne di nuove» e «non ritrovando
[la] cosa di suo piacere», vi si dedica poco. La sua permanenza in Parma lo riporta piuttosto
nella natìa Busseto, dov'è «ancor vivente» lo zio Antonio, fratello di suo padre. Ritrova il figlio
dello zio, il «cugin germano» Pietro, padre di una nidiata di figli — dodici per l'esattezza — e
con «moglie incinta» nuovamente. «L'Anonimo obbligollo, quando maschio fosse il parto, a
porgli [al neonato] il proprio nome Buonafede», ripromettendosi di adottarlo, «allorché fosse di
qualche età», essendo egli «privo di ogni prole»41.
L'Anonimo ha giusto quarant'anni quando Buonafede Vitali junior, «venuto in luce a' 29
settembre di tal anno 1726 alle ore 16 minuti 55 italiane», promette di esaudire il suo desiderio
di una futura paternità, che evidentemente l'unione con l'Erminia non è in grado di dargli, né
gli lascia sperare. Rallegrato dal lieto evento, «essendo stato richiesto da' Viniziani per le
miniere di piombo argento [foro] di Schio e del Treto sul Vicentino, aderì alla richiesta [...]
ond'egli passò alla soprintendenza di quelle miniere collo stipendio di cento ducati il mese»42.
È ripartito da Parma con l'Erminia, che deve aver molto premuto per il ritorno nella propria
terra d'origine: Arsiero, il cognome che portava prima del matrimonio con l'Anonimo, è il nome
del paese ubicato poche miglia a settentrione di Schio. Dopo il marito, anche lei vuole rituffarsi
nelle acque del Leogra e dell'Astico, nei luoghi della propria giovinezza. A Parma l'Anonimo
«ritornò per poco nel 1728, a prender la madre colà lasciata, colle robbe sue, [essendo] partito
già colla sola moglie»43.
L'Anonimo si trova a Parma a prendere sua madre quando inaspettatamente «ebbe in detta città
a' 10 di marzo [1728] un grave colpo apopletico, da lui per un tal giorno appunto preveduto».
Da buon medico di se stesso s'è fatto da solo la prognosi, «atteso la cognizione del proprio
pingue e pletorico temperamento». Il suo sguardo non s'è limitato alla «causa prossima», ma è
anche risalito alla «cagione remota», «quella dell'astronomia, onde fino [da quando trovavasi] in
Vicenza rilevato aveva che accadeva in tal giorno nella sera un'eclisse solare in gradi 21 di
Pesci». S'era altresì premunito contro l'evento pronosticato, «prevenutolo con alcuni sussidi
medici»44.
L'apoplessia subita riconosce come causa e concausa la costituzione del paziente, adiposa e
pletorica, e l'influsso di un evento astrale straordinario, l'eclisse di sole, verificatosi in una
congiunzione zodiacale impropizia, nel segno dei Pesci. Circa la costituzione somatica
dell'Anonimo sappiamo che «egli fu di statura mezzana, assai pingue, di bella presenza, color
vivace [rubicondo], faccia leonina [con lineamenti larghi e marcati]»45. Obesità e pletora
metabolica hanno fatto di lui un soggetto predisposto alle flussioni del sangue sovreccitato e
agli insulti sanguigni al petto o alla testa, al cuore o al cervello.
Alla predisposizione organica s'è aggiunta — concursus causarum — l'influenza degli astri. Non
sono più i tempi del Medioevo in cui i medici della Sorbona attribuivano la peste nera a una
congiunzione planetaria nefasta nel segno dell'Acquario; però già allora Pietro d'Abano
affermava che astra non necessitant, sed inclinant: «gli astri non determinano, predispongono».
Non sono più i tempi del Rinascimento in cui Paracelso faceva dell'astronomia, da lui
equivocata come astrologia, uno dei quattro pilastri della «medicina nova»; però già allora si
pensava che le condizioni meteorologiche e la temperie climatica perpetuassero in qualche
modo la superata influenza solare del sole, lunare della luna, gioviale di Giove, marziale di
Marte, saturnina di Saturno, venerea dí Venere. Nella sua previsione l'Anonimo dimostra non
tanto d'essere un astrologo di retroguardia, imbevuto di paracelsismo residuo, quanto d'essere
allineato al pensiero medico prevalente nel tempo suo proprio, che nella ricerca difficile e
spesso vana di spiegazioni plausibili guarda ancora a comete ed eclissi, interroga ancora le stelle
e i pianeti.
Apoplexìa, dal greco apòplektos, «colpito», «paralizzato», equivale a ictus, vocabolo usato da
Cicerone nel De officiis (3, 94) per indicare l’ictus fulminis, l'«impeto del fulmine», anche e
soprattutto del fulmine a ciel sereno, come quello scagliato in un «impeto d'ira» dalla divinità
incollerita allo scopo di punire con la malattia l'uomo inobbediente al disegno divino. Il
vocabolo latino, trapassato nel lessico medico come ictus sanguinis o «percossa del sangue», ha
assunto un'accezione talora «ultimativa», di malattia mortale, e talora «transitiva», di malattia
reversibile, guaribile se addomesticata con adeguati sussidi. Riuscendo ad addomesticarla,
l'Anonimo l'ha superata in breve tempo. Probabilmente non s'è trattato né d'infarto cardiaco né
di emorragia cerebrale. Possiamo pensare a un insulto meno grave, a una transitoria ischemia
senza gravi conseguenze. Infatti «ricuperato[si] fra non lungo tempo da tale insulto senza
funesta reliquia, tornò a Vicenza ed a Schio e alle sue miniere»46.
8. Dalla Serenissima alla Dominante
A Schio, ad Arsiero e negli interposti rilievi montani e scoscendimenti vallivi l'idrogeologia
settecentesca, ch'è una scienza in itinere, scandaglia il territorio, promettente quanto quello della
vicina Val d'Agno, dove la aquae Recorbarii , le «acque di Recoaro», hanno virtù «marziali e
acidificanti» (acidulo-ferruginose) che ne consigliano l'impiego in campo terapeutico. Trent'anni
dopo le ricerche minerarie dell'Anonimo in territorio vicentino, Giovanni Arduino, in una
lettera ad Antonio Vallisnieri datata da Vicenza il 30 gennaio 1759, scriverà delle «celebri acque
minerali di Recoaro nel Vicentino e della natura e struttura delle montagne dalle quali
scaturiscono»47.
Le montagne che l'Anonimo fa scavare per sondarne il sottosuolo stanno li vicino. «Fra le altre
cose negli scavamenti sotterranei, fatti da lui fare, di osservabile si ha che in vari di essi, che
internavansi anche ascendendo ne' più sovrastanti monti della Leogra, ritrovò degli uomini, de'
cavalli ed altri animali impietriti, e ciò ch'è il più mirabile, de' pesci e delle conche marine»48.
L'Anonimo scopre dunque anche il mare in montagna. La sua occasionale attività
paleontologica è una breve parentesi. I suoi interessi in questo campo non vanno oltre la
curiosità del naturalista dilettante e la voglia del collezionista intrigato. Egli accumula reperti
che lascerà in eredità al figlio adottivo. Questi dirà dei «fossili da me veduti», testimonianze
della versatilità dell'amato patrigno e dei di lui rapporti a tutto campo con la natura e la storia
naturale.
Confinato tra le montagne sopra Schio; l'Anonimo è compensato del suo lavoro appartato dai
ducati dell'ingaggio. Ma, a fronte degli «scavamenti» poco produttivi dal punto di vista
minerario, egli non è gratificato; e d'altra parte la Serenissima Repubblica lo ritiene
sottoutilizzato rispetto alle sue molte capacità. Di comune accordo «da Schio fu [ri]chiamato a
Venezia, dove da quella nobiltà, che tanto lo ha sempre amato e pregiato, volevasi obbligarlo a
fermarvi sua stabile dimora»49.
L'apprezzamento dell'Anonimo da parte dei serenissimi sopraprocuratori e provveditori alla
sanità veneziana risale all'anno 1717, quando in data 16 marzo, nel già detto suo fugace transito
per Venezia, gli era stata rilasciata la patente con cui «il Priore e Consiglieri de' Medici, [...] eletti
per fare l'esame di medicina e in chimica alla persona di Buonafede Vitali detto l'Anonimo»,
avevano mediante «accreditate risposte» certificato «esser in lui habilità, sufficienza e peritia in
ciò che aspetta alla medicina e all'operatione chimica». In base a tale attestato era stata concessa
all'Anonimo, e a lui reiterata dopo dodici anni, «libera facoltà di potere tanto in questa città,
quanto in ogn'altro luoco di questo Serenissimo Dominio, manipulare e vendere tutti li suoi
medicamenti chimici e quelli anco applicare ne' mali cronici et altri mali lunghi»50.
Tuttavia la «dimora» in Venezia resta un'altra volta non «stabile». Nel breve periodo del suo
secondo passaggio nella città lagunare, l'Anonimo ha però modo di riconfermare, se non la sua
fama di affidabile guaritore, certamente i suoi meriti di curante non ciarlatanesco. Si dimostra
infatti consapevole dei propri limiti e responsabile delle proprie decisioni in un caso clinico
significativo e importante: «intanto ch'ei trovavasi in Venezia, approdovvi l'Agà dei Giannizzeri
che, ricevuto in battaglia un colpo di alabarda sul capo, per un estravaso di qualche umore
[aveva] perduto la vista». La rinomanza dell'Anonimo era giunta fin nella capitale dell'impero
ottomano, onde l'Agà, «partitosi era di Costantinopoli con permesso del Gran Signore [il
Sultano] e con commendatizie sulla fama dell'Anonimo, per esserne guarito». Ma lo sperato
guaritore d'ogni male cronico non è in grado di ridare la vista ai ciechi: la serietà del medico che
ha coscienza di non poter fare né promettere l'impossibile è la premessa del fatto che,
«vedutolo, l'Anonimo lo dichiarasse incapace di guarigione»51.
«Ottenuta dopo sei mesi d'istanza la licenza di partire», l'Anonimo «voltossi a Bologna». Ma
anche nella città felsinea, pur essa in passato a lui benigna, non si trattiene. Di là «voltossi
quindi a Firenze, [ivi] onorato dal Gran Duca Gian Gastone», ipocondriaco e molle epigone di
casa Medici, la dinastia del Magnifico Lorenzo dominante da secoli sulla città del fiore (una
dinastia minata nella psiche dalle tare ereditarie studiate dal medico novecentesco Gaetano
Pieraccini nel libro La stirpe dei Medici di Cafaggiolo).
Il granduca Gian Gastone viveva gli anni della decadenza propria e del proprio casato in
completa abulia e solitudine, con frequenti stravasi d'umor nero, disfatto dall'alcol, disanimato.
L'Anonimo riesce a rianimarlo e ne riceve in compenso «un bel diamante», venendo in
sovrappiù «regalato di un grosso smeraldo»52.
Prima o dopo tale prestazione a favore del granduca, l'Anonimo riceve, addì 16 settembre 1730,
un diploma redatto in latino dal Collegio dei medici dell'alma città di Firenze che lo autorizza a
professare nel Granducato e che dice, non senza le stesse cautele veneziane, quanto segue:
Da tante certe testimonianze di sapient'uomini [...] a noi è notificato che quest'uomo è per essere
esimio nella spiegazione di enigmi filosofici e nella trattazione di cose spagiriche. Laonde, per
voto di questo nostro Collegio di medici, [...] intenti con grande ammirazione alla singolare sua
eloquenza e confortati dal giudizio di persone insigni [leggi forse il granduca], dichiariamo il
signor Buonafede Vitali, cittadino bussetano che chiede la nostra approvazione, maestro di
sapienza e padrone dell'arte chimica, poiché non gli sono ignoti i più segreti misteri della natura
e poiché egli serba nel suo seno i presìdi della salute53.
Dopo Firenze, l'Anonimo si trattiene per qualche tempo in Toscana — a Lucca, a Pisa, a Livorno
— esercitandovi l'arte del saltimbanco itinerante di piazza in piazza. Da Livorno «navigò a
Genova», sede dei suoi esordi nell'arte predetta, «con pensiero di passar in Francia». A Genova
ha modo di dimostrare per l'ennesima volta, nel corpo di un potente, le sue capacità di cura e
guarigione: «ebbe l'incontro di sanar il Doge, allora Balbi [Francesco Maria], da' calcoli»54.
Non sono giovevoli i Bagni di Lucca, celebrati centocinquant'anni prima da un paziente
«pietrante» (urolitiasico) come il doge della repubblica dominante e rispondente al nome di
Michel de Montaigne. Non sono le acque solventi delle fontane lucchesi a suggerirgli la cura più
adatta per ovviare alla «gravezza dei reni» e per «fare arenella» e «buttar flegma nell'orina»55;
l'Anonimo ha in serbo di meglio, per «discacciare i calcoli» ha una ricetta tutta sua: «Polvere di
scarpioni seccati nel sol lione, e presa in dose di grani 2 fino a 6». Lo scorpione «rompe con
sicurezza ogni sorte di calcoli, e caso che ci fosse infiamazione, si antimettano qualch'oncie
d'olio d'amandole dolci o di semi di melone»56.
Gli scorpioni hanno chele estrattive più tenaci delle branche di un litotomo o litotritore, e l'olio
mandorlato rinfrescato dal melone mitiga l'«arzore di orina» o bruciore alla minzione dovuto
all'infiammazione del canale uretrale. Il doge della Dominante non può che trarne, se non
guarigione definitiva, almeno giovamento o sollievo. Lo può ancor di più se l'assunzione del
farmaco, non sappiamo se per bocca o attraverso catetere, avviene, come prescrive anche
qualche esponente di spicco della medicina accademica, nell'ottavo segno dello Zodiaco, cioè
nel mese dello Scorpione, tra Bilancia e Sagittario (tra il 24 d'ottobre e il 22 di novembre). La
ricettazione empirica, eclettica e spesso ridondante non è una prerogativa esclusiva del medico
saltimbanco.
9. A Milano e nelle valli lombarde
Da Genova, per Alessandria, l'Anonimo «si trasferì a Torino nel 1731 col pensier novamente di
gir per quella via in Francia [...]. Ivi rimaso fin sulla fin dell'anno, cangiò idea e tornando sen
venne a Milano nel 1732, ove fermo restò quasi per tre anni». In realtà la sua permanenza a
Milano e in Lombardia è ben più duratura, protraendosi fin «verso la fin del 1736», quando —
essendosi egli trasferito dalla capitale nel Bergamasco e Bresciano — fa ritorno «a Milano ove
stavano peranco la madre e la moglie sua, lasciate co' suoi equipaggi in quella città». Portate con
sé le due donne «con parte [circa un terzo] dell'equipaggio», l'Anonimo «ritornò [ancora] a
quella città alla Pasqua del 1737 per trasportarne un'altra porzione [cioè un altro terzo di mobili
e suppellettili]» nella sua nuova residenza in Val Camonica, ivi «associatosi per certe miniere
col conte Giovanni Federici in quella parte possente»57.
Questo secondo e lungo periodo milanese, dopo il primo e breve della sua «aggregazione» nel
1717 all'albo dei medici di Milano, è di grande importanza per almeno tre buone ragioni. La
prima è che nel 1732 viene ripubblicata in Milano, «per Giuseppe Richino Malatesta stampatore
regio-camerale», la Lettera scritta dall'Anonimo «in difesa della professione del salimbanco» già
due volte pubblicata in Verona presso i fratelli Merli.
La seconda ragione è che tutta l'esperienza idrogeologica che l'Anonimo ha accumulato ad
Acqui e a Schio viene condensata per iscritto e ampliata in base alle nuove esperienze che egli
stesso ha compiuto in Val Tellina e descritto nella «dissertazione medico-filosofica» su Le Terme
del Masino «esaminate dal dottor Buonafede Vitali detto l'Anonimo». In essa «si tratta della
natura e proprietà delle acque termali suddette, dell'origine delle fontane, della causa del loro
calore, della produzione de' corpi minerali che in esse contengonsi». A tale dissertazione sulle
acque minerali della Val Masino, stampata in Milano nel 1734 «per Giuseppe Cairoli», è
«annesso un brieve metodo per servirsene»58. L'opuscolo è dedicato dall'Anonimo «alla
Principessa Trivulzio, alla quale, non che al Principe suo marito, fu sommamente caro»59.
Dovunque vada, non gli manca mai il favore dei potenti.
Rimandando, per quanto concerne i temi inerenti alle prime due ragioni, al terzo capitolo di
questo libro, la terza ragione addotta per dire dell'importanza del periodo milanese è di natura
del tutto diversa, familiare, intima. La permanenza a Milano dell'Anonimo, oltre agli
andirivieni in Lombardia per conciliare l'arte del saltimbanco nelle piazze milanesi con l'arte del
saggiatore di terre e di acque nelle valli prealpine, permette a lui di poter fare la spola con
Busseto, dov'è chiamato da eventi di famiglia tristi e lieti.
«Sulla metà dell'agosto del 1735, chiesto dal già mentovato suo cugino Pietro Vitali», si reca a
Busseto «a provedere alla sanità» del figlio di questi, «dottor di leggi Vitale Vitali d'anni 22», da
«più sbocchi di sangue» e da «lenta febbre invaso». È una ingravescente tisi polmonare che
l'Anonimo cura, ma di cui non sbaglia la prognosi: egli «provide, come potevasi meglio, a'
sintomi del male, fattone [tuttavia] mal pronostico, che avverossi colla morte dell'infermo,
accaduta sulla fine del seguente gennaro»60.
Un evento lieto concomitante è il fatto che «in tale occasione, visto il fanciullo ch'era allora di 8
anni mesi 11 a cui era stato imposto per compiacerlo il nome Buonafede», l'Anonimo,
«andandogli molto a grado» il bambino, il 1° dicembre 1736 «seco lo condusse alla sua
partenza». Da buon padre putativo lo avvia agli studi, «incominciati prima nella nobil terra di
Lovero sul lago d'Iseo» e poi «a Borno in Val Camonica sotto un assai dotto prete chiamato don
Barcellandi, donde [il fanciullo] cominciò a succhiare il gusto delle scienze», un gusto
assaporato poi meglio attraverso la «studiata rettorica», sui «libri al suo tavolino» e «nella
conversazione e discorsi del suo nutricatore»61.
La famiglia s'è accresciuta, la famiglia torna a essere una triade: per un figlio che arriva, un
genitore se ne va. Durante la residenza in Val Camonica, «nel giugno del 1738 morì anche la
madre sua in Darfo, sepolta ne' sepolcri dei Conti Federici». Poi l'Anonimo lascia la valle
dell'Oglio e i monti camuni e va a Venezia, dove «nel Carnevale del 1739 la moglie sua col
piccol Buonafede lo raggiunsero insieme col [suo socio in affari] Conte Federici e la consorte sua
Donna Lelia Fenaroli»62.
Milano, addio! Addio, monti lombardi! Nel lasciare definitivamente il paese di Lombardia,
l'Anonimo s'è perfino «lasciato addietro gli equipaggi [il terzo residuo dei mobili] mai più
ricuperati». Su Milano regna ormai Maria Teresa, «morto essendo Carlo VI», l'imperatore suo
padre, «nell'ottobre del 1740»63. La città, prima di avviarsi a quel che sarà il felice tempo
teresiano, è ancora stretta nel «contrapposto che fu osservato nei costumi, di gale e cenci, di
superfluità e miseria»64.
Questa Milano dalle molte contraddizioni è la città che ha permesso all'Anonimo di rilanciare
alla grande la nobile arte del medico saltimbanco, al cui esercizio «non inferisce macchia di
disonore alcuno a chi lo porta con decoro e fedeltà»65. È la città dove egli ha incontrato Goldoni
(vedi l'Introduzione) scambiando le cure date a lui con gli apprezzamenti da lui ricevuti. È la
città dove gli è stato possibile mettere a fuoco e fondere nel medesimo crogiuolo la scienza
chimica, la ricerca mineraria e la promessa terapeutica delle acque termali.
La terra di Lombardia è anche il paese dove egli ha sentito reciso per la seconda, definitiva volta
il cordone ombelicale che lo legava in vita a sua madre e dove ha annodato il legame d'affetto
che lo lega d'ora in poi al ragazzo che porta il suo nome.
10. Nelle Tre Venezie, la fine
A Venezia l'Anonimo raccoglie nuovi successi e nuova riconoscenza in persone d'alto rango.
Risana il principe di Elboeuf «pericolosamente infermo di emorroidi», il quale vorrebbe
«condurlo seco in Francia; ma esso se ne disimpegnò, né volle seguirlo». Rimane nel Triveneto:
«imbarcossi per Trieste a' 24 giugno del 1740, e dopo due mesi passò a Gorizia, colà chiamato
per la cura di un cancro in una mammella nella persona della moglie del Generale Conte
Barbon»66.
A Gorizia guarisce il figlio del generale conte Lantieri, «il quale aveva riportato da' Turchi,
scorrendo a cavallo, un colpo d'archibuso di fianco, che infissa gli avea la palla per fin nell'ossa
innominate [ossa dell'anca], e benché sanato della ferita dolevasi nel moversi e zoppicava: onde
gli riaprì la ferita e vi estrasse con ferro adatto l'infissa palla e lo sanò, siccome andava ritto
come prima»67.
Dalla Carniola interiore passa in Friuli, a Udine, e poi di là «a Trevigi, dove fu raggiunto alla fin
di giugno [del 1742] dalla moglie e dall'allievo [ch'è] il giovine Buonafede». «Sulla fin poi del
medesimo anno», l'Anonimo giunge a Verona, «allora piazza d'armi della Repubblica Veneta»,
accolto «quasi che un semideo, in cui arbitrio fosse il dar a chiunque la sanità». Lo accolgono
trionfalmente il «proveditor generale» Angiolo Corno, il «capitan grande e vice podestà»
Giovan Baziza, il maresciallo conte di Schulenburg, il tenente generale barone di Spahar, il
sergente generale Demetrio Stratico, tutti suoi ex pazienti, a lui legati da gratitudine e «molto
ben affetti»68.
Nel febbraio 1743 viene nominato «protomedico dell'Ospedale de' SS. Jacopo e Lazzaro della
Tomba» e poiché a tale incarico è legato il ruolo di «protomedico della suddetta città di
Verona», l'Anonimo si ritrova «eletto» al vertice della sanità veronese. Nell'atto di nomina si
legge:
Noi Conte Girolamo Orsi priore, Fabio Brugnolico, Dionisio Nichesola patrizi veronesi e
conservatori del venerabile Ospedale de' SS. Jacopo e Lazzaro della Tomba, a' quali per antica e
inveterata consuetudine si aspetta il gius di eleggere e nominare il Protomedico di questa nostra
città e del detto venerando Ospitale, abbiamo nominato, eletto e creato Protomedico — per
Protomedico della nostra città di Verona e del suddetto Ospitale — il nobile signor dottore
Buonafede Vitali, figlio del nobile quondam signor Giuseppe69.
A cinquantasette anni d'età, l'Anonimo è giunto all'apice della propria carriera, universalmente
riconosciuto e stimato. Dà alle stampe due opere di pregio. Una è la Lettera e risposta del dottor
Buonafede Vitali, protomedico in Verona, che tratta delle malattie contagiose. Pubblicata nel mese di
novembre del 1743 presso la stamperia veronese di Giovan Alberto Tumarmani, essa è
occasionata dalla peste di Messina e della Sicilia citeriore. Ripubblicata due anni dopo oltralpe,
«tradotta in latino» nel «Giornale dei letterati» di Norimberga «con un ben tessuto elogio
dell'autore», la Lettera viene presentata al re di Prussia, Federico II il Grande, il cui gradimento
ha un riscontro tanto inaspettato quanto sconvolgente: l'offerta di «una Cattedra con 5 mila
fiorini anni nella nuova sua Università di Hal[le]» con «mille ungari per lo viaggio» e in più
«anche un impiego per il giovine Buonafede», ormai diciottenne, «ove più avesse inclinato»70.
L'Anonimo ha in animo d'accettare, per sé e per garantire al figlio adottivo un impiego sicuro
suscettibile di sviluppi. Si ripromette di portarsi «a Berlino, alla primavera seguente del 1746».
«Diedesi frattanto a scrivere Li Bagni di Caldiero, esaminati dal dottor Buonafede Vitali
protomedico in Verona e patrizio bussetano detto l'Anonimo», pubblicati «in Venezia nel 1746
appresso Simon Occhi»71.
La pubblicazione — seconda delle due pregiate opere scritte in Verona — esce postuma.
«Compiuta l'opera», l'Anonimo «infermò a' 27 di settembre del medesimo anno 1745 di
peripneumonia e sul far del giorno de' 2 di ottobre, giorno di sabbato, morì». «Ei fu sepolto
nella Chiesa de' SS. Appostoli [...] con dolore e pianto universale». «Così terminò il suo corso
questo grand'Uomo»72.
3
Elogio del medico saltimbanco
1. Filosofemi
L'avventurosa formazione professionale di Buonafede Vitali, negli anni dell'adolescenza e della
giovinezza, e la professione da lui svolta, come Anonimo, negli anni della maturità operosa e
dell'anzianità importante, pongono in evidenza alcuni suoi peculiari modi d'essere quali,
dapprincipio, l'abilità retorica e dialettica d'estrazione gesuitica, la diretta esperienza chirurgica
di medico militare, la competenza chimica autodidattica ma non dilettantesca e la perizia
mineraria, corollario — nel Sei-Settecento — della competenza predetta; successivamente danno
risalto allo spirito d'iniziativa e al rischio d'impresa manifestati nell'inventarsi un mestiere —
quello del medico saltimbanco — capace del paradosso di coniugare una prassi medica non
ciarlatanesca con una tecnica d'intrattenimento compatibile con la ciarlataneria; infine rivelano
l'autopersuasione o intimo convincimento del «patrizio bussetano» — come l'Anonimo ama
chiamarsi e farsi chiamare — nella coerenza del proprio metodo o modello con il fine della
buona medicina, nonché nell'adeguatezza del proprio paradigma metodologico ed
epistemologico agli scopi prefissi di utilità, liceità, moralità, valori rivendicati, in caute
controversie o in aperte polemiche, a fronte dei canoni, criteri e dogmi della medicina ufficiale.
Fa fede di tutto ciò la citata Lettera scritta dall'Anonimo, «publico operatore empirico, in cui si
prova non inferire macchia di disonore alcuno l'esercizio del saglimbanco a chi lo porta con
decoro e con fedeltà».
L'incipit epistolare è il classico artificio retorico che mette in bocca al destinatario della Lettera —
che sappiamo essere l'iperletterato e maitre à penser veronese Scipione Maffei le parole che
danno verbo e corpo alla diffusa «opinione, nascente nella fantasia degli uomini», secondo cui
quella del saltimbanco è una professione disonorata che il mittente della Lettera medesima
dovrebbe abbandonare e non difendere per iscritto perdendo il proprio tempo dietro le cause
perse in partenza.
All'immaginaria obiezione ed esortazione, l'Anonimo risponde argomentando intorno allo
scopo della Lettera: «Ho preso la risoluzione di disingannarla, facendo vedere ad evidenza
essere onorata questa proffessione ín sé, purché onoratamente [la] si eserciti [...]. Ed in effetti
che sia così, come a Vostra Signoria Illustrissima dico, cioè essere onoratissima questa
proffessione, si prova dal primato che essa trae nella medicina, e dall'esercitarsi in pubblico a
pro d'ognuno, e dal dispensarsi da essa medicamenti sicuri». Primato medico, esercizio
pubblico, garanzia farmaceutica: sono una triade di cose importanti, «cose tutte che a provare
m'accingo»1.
L'Anonimo la prende alla larga, appellandosi innanzi tutto all'autorità di Epitteto, il filosofoschiavo emancipato, epigono dello stoicismo antico, che nel Manuale (tradotto nell'Ottocento da
Leopardi) dove sono raccolte le sue «massime» afferma «essere il mondo un teatro diviso in
atteggia-tori e spettatori d'azione scenica, o sia questa tragica o eroica o comica o mista» ed
«essere altresì vero, sì come è legge del Supremo Autore di questa rappresentazione a sua
volontà stabilita, che ognuno rivesti diverso il personaggio e questo eseguisca [nel modo] a cui
ognun di noi è elletto, purché si faccia con esattezza e pontualità tale, che di quella parte che si
rappresenta sen porti l'onore e il vanto»2.
In quella fabula ch'è la vita di ognuno di noi, ciascuno faccia la sua parte, reciti il proprio
copione. Lo reciti a modo suo, purché tale modo sia conforme alla sua indole (= «ellezione»)
senza mai tradirla e sia improntato a precisione e rigore (= «esattezza e pontualità») tali da
fargli meritare il successo (= «onore e vanto»). L'Anonimo fa «spettacolo». Ebbene, il problema
della sua scelta metodologica di teatrante si lega a quello, più vasto, della libertà individuale di
interpretare se stessi sul palcoscenico della vita. L'Anonimo si rivela un buon filosofo. «Egli
ripropone la dottrina umanistica di Epitteto: [...] ad ognuno la vita assegna un ruolo, un ruolo
che si fonda sulle attitudini e inclinazioni personali. È sufficiente che ciascuno segua ciò cui si
sente chiamato, per mettere a frutto i propri talenti a beneficio di sé e dei propri simili»3.
Anche il problema della scelta epistemologica di medico pratico, per cui íl valore del sapere
teoretico è secondario rispetto al valore del sapere pratico, ha radici nella filosofia di Epitteto, il
quale, più che al fondamento teorico della virtù, guardava alla pratica della virtù medesima. Per
un medico, più che la teoria, conta la pratica. L'Anonimo è un contemporaneo di Giambattista
Vico: del grande filosofo, che rifiuta il cogito come fondamento di «scienza nuova» poiché questa
si fonda — a parer suo — sulla conversione del verum nel factum, l'Anonimo, durante il suo
soggiorno nel reame di Napoli, deve certamente aver tratto una qualche infarinatura.
Altrettanto può dirsi per la sua prolungata permanenza in Inghilterra. Qui, nella patria
dell'empirismo anglo-scozzese, aveva eco ed emulazione il modello empirico dell'«Ippocrate
inglese», Thomas Sydenham, seicentesco studioso delle malattie attraverso un'osservazione
clinica scevra da teorie, il quale aveva detto del proprio collega Thomas Willis, non meno
grande di lui, che era «un uomo d'ingegno ma non un buon medico, perché non conosceva le
vie della pratica»4.
Nella storia non c'è posto per i precorrimenti, per i giudizi dati con il senno del poi. Ma si può
rilevare che a fine Settecento il medico francese Pierre-Jean-Georges Cabanis, nel saggio Du
degré de la certitude de la médecine (Parigi 1797), esaminando i titoli di validità che la medicina
può accampare nel proporsi come sapere-agire adeguato a far fronte ai bisogni umani, ravviserà
l'alto «grado di certezza della medicina» non tanto nella dottrina delle cattedre, ma nell'efficacia
pratica e nella valenza etica di una professione esercitata con la nobiltà dell'animo, non del
rango, in modo autenticamente virtuoso.
Sotto questo aspetto, l'Anonimo è un medico addottrinato e colto, che però cerca una propria
strada, diversa, professionale ma non professorale. Ammette che non la libertà individuale del
medico né <da commune del volgo», cioè il consenso che egli riceve su larga scala, bastano a
fare «veramente lecita e onorata in sé una proffessione». Bisogna che questa «intrinsecamente e
dalla propria origine sia tale [..J. Questa è prerogativa del medico», grazie al quale, se «virtuoso
e onorato», «non possono mai li vizi, quantunque infrascati da bizzarri epiteti, travestirsi da
virtù»5.
2. Supposizione ed evidenza, ragione e pregiudizio
L'Anonimo dà a vedere di conoscere bene anche la vulgata circa gli usi e costumi di popoli
«diversi», che cita come esempi. Dai prologi delle Historiae Philippicae di Pompeo Trogo, storico
gallo-romano vissuto negli anni tra il prima e il dopo Cristo, trae riferimenti comparativi ed
esemplificativi. Leggiamo:
I popoli dell'Etiopia pensavano infame quella moglie che alla morte del marito anch'essa
volontariamente non si gettasse al rogo destinato alle sue ceneri. Gli indiani sotto Dario
vantavano per indegno quell'erede, quel parente, quel figlio che de' morti loro non facesse
sepoltura il ventre col mangiarseli cotti in sontuoso banchetto. Gli sciti giuravano per
disonorato quel famigliare o ministro del re il quale non si cavava un occhio o non si storpiava
all'inguercire o allo storpiare del loro sovrano6.
I riferimenti servono all'Anonimo per affacciare la tesi secondo cuí il medico saltimbanco è mal
giudicato infame, indegno, disonorato, in base a una «comune opinione fondata sul suposto»
più che sulla «evvidenza». Il suo ragionamento ha la veste dell'arzigogolo, fa pure qualche
grinza, però colpisce nel segno. Per lui il fondamento della verità non è la supposizione, che per
sua natura è ambigua; è invece l'evidenza (chiara e distinta, come direbbe Cartesio), che è
tutt'altra cosa dall'apparenza. È l'evidenza il vero criterio su cui fondare il giusto giudizio sulla
«medicina di piazza», una evidence-based medicine — come potremmo dire — anticipata di tre
secoli. Con la supposizione «si giudica ciò che pienamente non si conosce»; con l'evidenza «si
veggono li vizi e le imposture a milliaia»7.
Vizi ed espedienti truffaldini si appalesano anche laddove comunemente si suppone che essi non
ci siano, mentre è evidente che proprio là si annidano copiosi. L'Anonimo sembra domandarsi:
dove stanno le vere infamità e indegnità, dove sta il vero disonore? E sembra rivolgersi la
domanda ammiccante: stanno nella «medicina di piazza» oppure stanno altrove?
L'evidenza è diversa dall'apparenza di quella che, per colpa di molti ma non sua, è la «medicina
di piazza» recepita dalla communis opinio che, basata sulla supposizione, tende a screditarla in
blocco, facendo d'ogni erba un fascio. Dell'arte o artificio che merita davvero il discredito egli dà
un quadro pittoresco, ravvisandone l'inizio
nelle millantarie, vantando quasi tutti li saglimbanco d'aver servite Corone, ricavate da Prencipi
o da gran Dottori li segreti che dispensano, aver medicato armate, ricuperate dall'incursione de'
mali le province e i regni; nelle sperienze, facendo comparir per vero ciò che è falsissimo, come
a dire morsicature di vipere, beveroni di veleni, arsenici, risigalli [= realgar, varietà rossa del
solfuro di arsenico], rospi ed altri semplici o composti guazzabugli, facendo ancora ad arte
gettarsi da un parziale [= compare] qualche acqua sotto nome di potentissimo veleno, e così
ingannar il popolo8.
Né qui finiscono «gli infiniti inganni»9. Il dipinto dell'Anonimo prosegue: «Tagli, ferite,
abbenché grandi in apparenza [...] ma di pura pelle e scottature di pompa si fingono sanate in
poco tempo, essendo falsissimo che le prime sì presto guariscano e che le seconde veramente
abbrugino»10. Saltimbanchi da strapazzo ingannano il popolo a più livelli:
Ne' medicamenti, spacciando per arcani potentissimi un po' d'olio impecciato, quattro radiche
impastate col miele, un po' di catapuzia [= pillola da inghiottirsi intera] e quattr'altre robbazze.
Ne' prezii, sostentando con fasto oggi la robba loro ad uno scudo, di-mani o l'altro per meno,
con palese inganno della borsa de' primi, che corrivi dello speso maledicono la bricconeria
dell'artefice. Nelle pubblicità, ostentando quadri con dipinti uomini mezzo morti risuscitati,
mali incurabili guariti, cose insomma né da credersi fatte né da immaginarsi fattibili.
Compagnie da postriboli, e non da esporsi alla presenza d'un publico onorato, con altre cose che
per non innoltrarmi taccio11.
L'Anonimo non nega, anzi denuncia tutto ciò. Rileva peraltro che dalle «tristi azioni degli
artefici non viene punto ad annerirsi] l'arte. I difetti degli artefici non è di ragione che sieno di
pregiudizio all'arte, né dee credersi essere qualità di natura quello che è vizio di mal uso». Il
Codex iustinianeus, su cui si fonda la legge, afferma che la società non rende colpevoli;
analogamente la malpratica dei più non dev'essere una colpa per il singolo che, pur esercitando
l'arte medesima, è incontaminato da tale malpratica12.
La «ragione» dell'Anonimo combatte il «pregiudizio» vigente facendo ricorso ad altre analogie.
Si dice con ragione: «Alcuni giuristi, teologi, politici sono atei e privi di scrupoli»; ma è giusto
pregiudicare la ragione aggiungendo che «ergo lo sono tutti»? Con ragione si dice: «Alcuni
venditori di farmaci in piazza sono cattivi»; ma è giusto cedere al pregiudizio aggiungendo che
«ergo lo sono tutti»? L'Anonimo conclude la propria argomentazione dicendo: «Io non intendo
d'aver a provare che li proffessori [= professionisti dell'arte] sieno buoni, ma che l'arte in sé è
onorata e che quand'uno l'esercita bene è onorato all'eguale». Guai «se volessimo inverniciare
con la corruttela de' pessimi l'onorate azzioni de' costumati proffessori!»13.
Dato e concesso che basta una pecora nera per annerire il gregge, aggiunge che piegare la
ragione a tale pregiudizio è segno inequivocabile di iniquità e di stoltezza:
Se fra i teologi io dassi di piglio a un Lutero, ad un Calvino ed a tant'altri e, posti in publico li
loro falsi dogmi ed ingiusta riforma, dicessi che tutti i teologi sono così e che per causa di questi
la teologia è male, non sarei io un sacrilego mentitore? Se fra filosofi tirassi in campo un
Epicuro, fra comici un Aristofane, fra i giuristi il fatto scorticare dal suo re [Tommaso Moro], fra
cortiggiani il condannato alla morte del fumo del rogo], fra soldati il poltrone o il ribelle, fra
notai il falsario, fra i mercanti l'usuraio, fra i medici l'omicida, fra cavaglieri l'indegno, fra i
principi l'usurpatore, fra monarchi il tiranno, e, declamate le loro sceleraggini, argomentassi
simili tutti gl'altri perché dello stess'ordine, o meriterei titolo d'iniquo o al meno al meno taccia
di stolto14.
3. Dalla storia alla (anti)teoria
L'Anonimo vive in un'epoca nella quale i medici fanno della storia della medicina uno dei
pilastri portanti del proprio sapere. D'altronde il mestiere di medico si è sempre esercitato tra
sintomi e storie. I due momenti fondamentali dell'atto ippocratico erano l'«anamnesi», storia del
passato remoto e prossimo del malato, e la «prognosi», storia del futuro del malato detta dal
medico. Quando tra i due momenti si è inserita la «diagnosi», il medico ha avuto ancora
bisogno di fare storia collezionando una serie di storie cliniche tratte dagli insegnamenti dei
grandi maestri, vuoi per seguirne il magistero, vuoi per elaborare teoria attraverso una
condivisione o una critica, parziale o totale, dei loro ammaestramenti.
L'excursus storico dell'Anonimo, ricco di citazioni latine come si conviene a un testo che, pur
scritto in volgare, tuttavia è diretto da un dotto ad altri dotti come lui, risale a Erodoto, che nelle
Storie afferma che le malattie furono
divise in due classi dall'antica superstizione: altre interne, e giudicate venute da' Dei, altre
esterne, e conosciute derivate dagli uomini. Per queste, non per quelle, pensarono il rimedio,
argomentando che, sì come per man d'uomo venivano fatte, così per esse potersi sanare. Posero
a tal fine sotto lo scrutinio dell'esperienza diversi remedi che [...] conobbero valere ai tumori,
alle piaghe, alle ferite, estendendosi poi anche da lì a [...] que' remedi che per le malattie interne
servivano15.
Nella classica distinzione fra «malattie esterne», di competenza chirurgica, e «malattie interne»,
di competenza che ancor oggi diciamo «intemistíca», l'Anonimo fa vibrare l'orgoglio della
propria formazione originaria di chirurgo militare, rivendicando alla propria «medicina
esterna», se non un primato, almeno una priorità. E, sull'onda dell'autostima, prosegue: «Da qui
nacque che Esculapio e tant'altri», cioè i medici in generale, «portavano que' loro specifici quasi
in trionfo, e connotati di giusto applauso godevano nelle publiche dimostrazioni de' popoli il
contento di vedersi fabbri dell'altrui bene»16.
Tale il principio. «Questi furono i principi da' quali a poco a poco conobbe gli avanzamenti suoi
la medicina». Il mestiere di medico nacque dunque tra «il giusto applauso nelle pubbliche
dimostrazioni», dal «consenso [più o meno] informato» — diremmo noi oggi — della pubblica
piazza, fosse questa quella del porto o del mercato di Atene, che l'Anonimo deve intravvedere
riprodotta nella piazza del Caricamento in Genova, o del Verziere in Milano, o nella contrada
delle Mercerie in Venezia. Il mestiere di medico non nacque nei templi greci sull'acropoli, dalla
taumaturgia dei sacerdoti asclepiadi «sacri di prole», com'egli li chiama, cioè guaritori divini
per tradizione di casta. L'Anonimo stigmatizza le preferenze spesso date in passato a un
Menecrates jupiter, personificante la medicina ieratica, piuttosto che all'Empiricus verax,
personificante la medicina empirica; e attualizza la propria critica indirizzando i propri strali
contro il «voler più tosto affidarsi dell'opinione, che nulla di certo scuopre, di quel che sia della
pratica, che il tutto per evidente dimostra»17.
Poi cita, inaspettatamente, san Paolo: Videte ne quis decipiat vos per philosophiam, «badate che
nessuno v'inganni con la filosofia». Fu la filosofia «la pietra ove inciampò e si distorse dal
cammin retto la medicina, questa la remora che la fermò al meglio del correre, posciaché
l'intelletto umano, in ricerca del raziocinio, trascurò le osservazioni della esperienza»18. Il culto
della observatio, intesa come sola e vera madre del conoscere, lo porta verso un odium
antiphilosophicum che coinvolge la stessa intelligenza raziocinante, malintesa come viluppo di
filosofemi in cui peraltro l'Anonimo stesso ha dato e dà prova d'invilupparsi. Nel sostenere la
fallacia del «raziocinare» rispetto alla verità dell'«esperire», egli, che combatte contro le teorie,
ricalca la teoria ricorrente che distingue nettamente «la vera arte di medicare», empirica, «da
una palese arte di ingannare, qual è quella del raziocinio»19.
È una teoria anche moderna. Ottant'anni dopo l'Anonimo, passata l'età dell'illuminismo ed
esplosa la successiva temperie rivoluzionaria, Pietro Moscati, clinico medico a Pavia e poi
protomedico a Milano, capitale del napoleonico Regno d'Italia, sosterrà nel discorso accademico
Dell'uso dei sistemi nella pratica medicina (Pavia, 28 febbraio 1799) l'importanza in medicina della
«sola osservazione ben fatta», quella che «tramanda ai posteri i nomi de' più celebri pratici, che
spesso felicissimi essendo stati nelle loro cure, furono teorici men che mediocri»20. E centott'anni
dopo l'Anonimo, passata l'età del positivismo, Pietro Grocco, clinico medico a Firenze, dirà con
riferimento ai suoi contrasti con Augusto Murri, clinico medico a Bologna: «Io faccio dei medici
e Murri dei filosofi della medicina»21.
L'Anonimo ha forse il torto di dire anzitempo cose analoghe non dalla cattedra, ma dalla
piazza. Egli, con minori cautela e sagacia, svolge la propria tesi seguendo la falsariga del
preconcetto o pregiudizio di una medicina compiutamente realizzata in una pratica priva di
teorie salvo di quella che la definisce «ateorica». Reagisce con veemenza contro chi osa asserire
che ratio stat pro experienti a, affermando a sua volta: «Dirruti li veri principi dell'empirica [...], si
perde la vera e legitima cognizione di sanare li mali»22.
4. Egotismo e contraddizioni
Ora questa è per appunto l'arte che segue il saglimbanco: esercitare publicamente un'assodata
empirica e prevalersi di medicamenti repplicatissime volte conosciuti a prò d'ogn'uomo,
vendendogli a prezzi decenti ed innalterabili ed usandogli alla guarigione d'indisposizioni
stranissime con utile del prossimo e con gloria della proffessione. Così volesse Iddio che non ci
fossero tanti e tanti che, isporcando con le loro ignoranze e ribalderie il lustro a quest'arte, non
la facessero comparire per quello che intrinsecamente non è. [...] Come non può chiamar arte
onorata e civile quella che con tanta sicurezza attende a medicare le indisposizioni più ardue de'
viventi?23
La domanda retorica che l'Anonimo rivolge al suo interlocutore e ai suoi lettori cela, o piuttosto
rivela, il vizio logico di chi pretende di assumere l'intrinseca bontà dell'universa medicina ad
automatica convalida a priori del proprio particolare buon mestiere, «decoroso» e «dignitoso».
Scordando tutto il male che ha detto del «raziocinio», ragiona come segue.
Ego, l'Anonimo medico saltimbanco, faccio il mio mestiere «con decoro e dignità», dispensando
rimedi che l'esperienza, mia ma non solo mia, ha dimostrato e dimostra essere efficaci in questa
e in quella «indisposizione». Io li dispenso a prezzo modico, calmierato, fisso, prescindendo dal
censo di chi li compra; li dispenso come farmaci «da banco». Io giovo, come alla salute, così alla
borsa del mio prossimo. Esperienza, efficacia, onestà, utilità sono le pregiate referenze della mia
professione, la quale «ha per fine la sanitade, tesoro senza del quale ben si sa che nulla vagliono
né li onori, né la ricchezza»24. Io ridò la salute, o cerco di ridarla, a chi l'ha perduta e con essa ha
perduto la vera ricchezza: perché mai il mio mestiere non dovrebbe essere, oltreché onorato,
equamente rimunerato e giustamente arricchito?
Introdotta da quest'altra domanda retorica, l'autogiustificazione amplifica l'autostima. Rafforza
l'egotismo. Forse per questo l'Anonimo è indotto a peccare di rigore logico e a insistere in una
pervicace distinzione — o confusione? — tra experientia magistra ed experimentum periculosum:
«Se per empirica viene inteso di quell'arte di medicare che s'azarda all'esperimento, veramente
niuno s'inganna a chiamarla arte fallace e pericolosa». Ribadisce il concetto: «Vera e legittima è
l'arte che non si serve dell'esperimento, ma dell'esperienza». Però perde il filo del discorso e ne
smarrisce la coerenza: afferma che legittima è l'arte che si serve «non de' medicamenti alla
rinfusa, ma di esperimentatissimi, e con cognizione storica de' mali». Dice e si contraddice: la
polifarmaceutica di cui egli stesso fa uso non è meno eclettica, «alla rinfusa», ed è nata e rinata
proprio dall'esperimento, dalla sperimentazione clinica, dal «provando e riprovando» applicato
alla «storia de' mali» e approdato alla convalida di farmaci ch'egli stesso ammette essere stati
giocoforza, prima che «repplicatissimi», «esperimentatissimi»25.
Non è la sola contraddizione. Egli, che ha riconosciuto nella piazza un referente importante
dell'andata verso il popolo della sua arte medica, a chi lo rimprovera di vantarne il valore sulla
scorta del consenso plateale, replica non confermando le proprie ragioni, ma rivoltandole. Fa
suo il «famoso detto di Plutarco: Argumentum pessimi turba est, la folla è la prova del peggio».
Rincara la dose citando Seneca: «Turpe est non ire, sed ferri, non è vergognoso il procedere, ma il
farsi portare». Il che «può applicarsi», dice, «a chi si lascia trasportare da ciò che credono li più,
solo perché così li più credono». E commenta, chiamando in causa il padre Dante (Purgatorio, III,
82-84): «Fra le pecore sole vi è questo costume, che ciò che fa la prima, e l'altre fanno
addossandosi a lei s'ella s'arresta semplici e chete e lo perché non sanno»26.
Però questo vale non solo per il popolo pecorone, ma anche per il gregge niente affatto
mansueto dei propri detrattori, che giudicano in base all'apparenza e non alla sostanza.
L'apparire è diverso dall'essere: a dirlo è proprio lui, l'Anonimo, che fa dell'apparire sulla
pubblica piazza la prova provata d'essere un medico disponibile, democratico e senza segreti.
L'apparenza è ingannatrice. Cita Tertulliano: «Mendacium visui obicitur, ciò che è falso è evidente
all'occhio [clinico]». Se «il remo mezo immerso nell'acqua [appare] spezzato e torto, [...] la
ragione, che ha per ufficio di scoprire la fallacia del senso e per debito d'emmendarne gli errori,
non afferma per vero ciò che l'ogetto ingannatore e l'occhio ingannato l'appresenta per vero»27.
Il raziocinio che affranca la verità dalla fallacia della sensazione è un'altra contraddizione
dell'Anonimo rispetto a quanto da lui detto fin qui. Ma anche qui sí riscatta, e ai medici
«razionali» o «dogmatici» suoi detrattori manda a dire: «Se il vero esercitator di quest'arte
[medica] che è il saglimbanco non si esponesse su pubbliche piazze alla licenziosa censura de'
popoli, ma l'esercitasse privatamente come fan la loro li razionali, li dogmatici e che so io d'altri,
verrebbe ad accrescer [a essi] il lustro», rinunciando a «quella pubblicità che», a parer loro, l'arte
«avvilisce e disonora»28.
«Eh via!», dice rivolgendosi a chi lo contesta e denigra: «convien oramai che ella creda a tante
prove del merito di sì degn'arte, e che concordi anche per questo, perché publicamente
s'esercita, che essa è onoratissima in sé e che per con-sequenza chi giustamente in essa si espone
merita tutti gli onori e le glorie»29.
5. Sobrietà e amenità
L'autoelogio prosegue. L'Anonimo contrappone all'«apparato sontuoso di dispendiosissimi
medicamenti», prescritti da medici di gran nome e fruibili da pochi o pochissimi abbienti, i
pochissimi o «pochi ma sicuri, rimedi» da lui dispensati a basso costo e da tutti fruibili. Ai
«delirii chimici» dispensati dalla controparte egli oppone farmaci «facili e pronti, ed anche di
poca spesa», nonché «avvalorati da notissime esperienze»30.
La prescrizione dei farmaci dev'essere non ridondante, ma sobria. L'Anonimo chiama a
sostegno Ciro il Grande, imperatore dei persiani. Narra Erodoto nelle Storie che Ciro, invitato
da Astiage re dei Medi (poi detronizzato), «ad una mensa tremante sotto il peso d'infinite
vivande», ebbe a rimarcare l'«inutile prodigalità» di quel popolo a fronte della «parsimonia
persiana». «Voi e noi», disse Giro ad Astiage, «coll'uso de' cibi tendiamo allo stesso termine, di
trarci con essi la fame, ma ove noi contenti di poca carne e pane in breve tempo ci siamo, voi [...]
per sì vasto circuito di vivande appena dopo molte ore di fatica ci giungete»31.
Come nei cibi, «lo stesso ne' medicamenti campeggia». L'arte medica non è l'«arte di mettere in
pompa la medicina», né quella dí usare medicamenti «exotici». I pazienti ricchi cedano pure alle
mode d'importazione, alle stravaganze d'oltremare. Già Plinio, nella sua Naturalis historia,
scriveva che per il ricco «medicina a Rubro Mari i mpetratur , si cerca la medicina nel Mar Rosso»
(come la «mumia egizia», polvere da fiuto o per bocca, ricavata da resti di mummie
«immortali») mentre «remedia vera pauperrimus quisque canit, il più povero di tutti esalta i veri
rimedi»32.
Il medico Giovanni da Damasco, noto come «il Damasceno», autore di celebri Aphorismi, diceva
al malato: «Ti si devono apprestare pochi medicinali, di cui tu conosca l'uso e le virtù», le giuste
dosi e la loro efficacia. È un'anticipazione dell'odierno concetto dí consenso informato?
L'Anonimo ne fa cenno, e cita Ippocrate, il quale, fautore del dialogo tra il malato e il suo
medico, diceva che questi «deve aiutare la natura a eliminare quel che è in eccesso e ad
accrescere quel che fa difetto»33.
In medio stat virtus, hanno detto i padri latini e, prima di loro Aristotele, «maestro di color che
sanno» e fondatore dell'etica — Etica Nicomachea, Etica Eudemia —, che sancisce la filosofia del
«giusto mezzo», della via mediana ch'è maestra anche in medicina, teorizzando l'equidistanza
da difetti ed eccessi, da penuria e opulenza, da carenza e superfluità. «Li veri e legittimi
proffessori», dice l'Anonimo appellandosi ancora all'autorità dell'«antesignano Ippocrate»,
provvedono con i farmaci «a corroborar la natura», non a stravolgerla, e «sanano le ferite senza
il maledetto abuso delle taste [tamponi e stretti bendaggi] e di sedagni [drenaggi troppo
profondi]». Abusare della chirurgia quando si può medicare è come impomatare e imbellettare
anziché praticare «la qualità del bagno»: detto da un chirurgo, c'è da fidarsi34.
Emerge, più che mai, la figura in altorilievo del medico saltimbanco, il cui «ascendere» sul palco
è paragonato dall'Anonimo allo sforzo di elevazione dell'atleta crotonese Milone, che — narra la
leggenda — si sostituì alla colonna pericolante che avrebbe fatto sprofondare il tetto del teatro
in cui si teneva lo spettacolo, consentendo agli spettatori di salvarsi. Il saltimbanco è dunque il
pilastro vivente e portante della vera medicina: la sostiene e la eleva, «passando per mezzo
d'una folla di oppositori che gli contrastano il posto». Costoro, «giaché non ponno avvilir le
vere e onorate di lui operazioni», cioè i risultati finali, «conculcano il mezzo», cioè cercano di
screditare l'arte della commedia di cui egli si serve come strumento, «caricandola d'obbrobri»35.
L'Anonimo giustifica il mezzo della commedia, da lui utilizzato per ottenere il fine della sanità.
Che se poi [si] volesse tacciare la pubblicità di quest'arte a causa de' personaggi buffoneschi che
si portano su palchi, quasi che fosse unito il sodo e meritevole della medicina col tutto ridicolo
del divvertimento, risponderò che la corruttella del secolo è colpa di questo ed ove principiò a
mancare il buon gusto negli uditori, introdussero gli operatori il divvertimento per alletare i
popoli, e dal vedergli svogliati dell'utile gli proposero il dilettevole. S'aumentò a poco a poco a
grado tale faccenda, che divenne costume quello che fu semplice arte di fargli gustar il bene
della medicina, circondato dal dolce dello spasso36.
Poi sciorina il solito rosario di citazioni latine. Da Tito Livio «Usus efficacissimus omnium rerum
magister, l'usanza è il più efficace maestro di tutte le cose». Da Seneca: «Consuetudinis magna vis
est, grande è la forza della consuetudine». Da Settimio Severo: «Censitis [sic!] tandem caput
imperare, non pedes, considerate comunque che a comandare non sono i piedi, ma la testa»37. Le
perle di saggezza degli autori citati convalidano la tesi dell'Anonimo: che bisogna far buon viso
alle costumanze e farne buon uso; che bisogna assecondare i gusti del popolo per trarne
consenso; che bisogna cercar di giovare al prossimo possibilmente in modi ameni. Ciò che più
conta è comunque il saper distinguere i piedi dalla testa: considerare il ruolo inferiore e
subordinato dei suoi compari d'arte — d'arte comica — e il ruolo superiore e dominante del
medico saltimbanco, esercente l'arte propria — l'arte medica «con decoro e fedeltà».
Come volevasi dimostrare.
6. «Secreti» per mali minori e per donne
La Lettera dell'Anonimo volge al termine. «Restami», egli dice, «far pienamente conoscere le
prerogative de' medicamenti sicuri che si fabbricano in quest'arte», medico-farmaceutica, da lui
magistralmente professata. Sono medicamenti diversi da quelli «ben mediocri» proposti da altri
e ai quali si «attribuiscono gloriosi e fastosi titoli di panacee, di restauratori di vita, d'Ercoli
vitali, [di] balsami universali e altri termini di simile portata»38.
«Scrivere secreti al giorno d'oggi è difficile», dice, ed è come se sospirasse al cospetto dei tempi
ardui in cui vive. E difficile perché la farmaceutica è «una pasta cotanto maneggiata a cui non
ponno aggiunger[si] cose nuove». Però egli aggiunge: «Voglio anch'io far rottolare la mia
botte»39. Ecco dunque, in appendice alla Lettera, una completa Raccolta di vani ma sicuri secreti,
«esposti per alfabeto»40.
Spigolando dalla A alla Z — in realtà dalla voce Aborto alla voce Volatiche — troviamo accozzate
indicazioni di farmaci e composizioni di medicamenti senza soverchia distinzione. Possiamo
cercare di distinguere le une e le altre in base a una suddivisione arbitraria delle indicazioni e
composizioni in semplici e complesse. Le prime concernono soprattutto affezioni «esterne» di
lieve o modesta rilevanza, interessanti la pelle o gli annessi cutanei e comunque parti del corpo
visibili; le seconde concernono soprattutto affezioni «interne» e comunque parti del corpo
inaccessibili alla vista e suscettibili di terapia solo in base a una lunga esperienza.
Per le «buganze o gelature [= geloni] l'olio di cera è rimedio prestantissimo»; parimenti «le
chiare d'ovi» ridotte in «spumma», con l'aggiunta di «borace abbrugiato e allume zuccherino»,
sono in grado di fare un «bianchetto mobilissimo per conservar le carni bianche e morbide».
Però per fare un «bianchetto innocentissimo per le donne» la procedura è molto più complicata:
Si prenda tartaro di Bologna, salnitro ed arsenico cristallino [in] parti eguali, si macini e si
unisca il tutto e, fatto rosso nel fuoco un crogiolo de' più grandi, a cucciaro a cucciaro ci si getti
entro la detta mistura, lavorando a fuoco scoperto e sopra vento, e con cucciaro lungo per
scansar li fumi avelenati dell'arsenico, terminata la detonazione d'uno si getti l'altro e così si
facci fino alla fine. Poi si levi dal foco colandolo sopra qualche marmo e si lasci all'umido per 2 o
3 giorni, e si farà come unguento molle, che è privo affatto di venefico41 .
Per i «cali [= calli] di piedi» serve il «tartaro d'orina, cioè quel sale che si ritrova attaccato agli
orinali mal custoditi; va unito a verderame, pece greca e cera mole [= molle] in parti eguali»,
così da fare «cerotto da applicarsi con tutta sicurezza». Per quegli annessi della cute che sono i
capelli, la ricettazione è varia: per «fargli biondi» basta «spirito di mele» e star «per 15 o 20
giorni con la testa al sole»; per «fargli neri» ci vuole invece una «tintura di ferro fatta con aceto»
oppure una «polvere di folie di fichi cotta in unguento con olio di nocciole»; per i «capelli che
cadono» occorre unire al predetto «olio di nocelle selvatiche» la «pelle delle vipere abbrugiate»;
ma per «fargli nascere», combattendo alopecie e calvizie, bisogna fare di più: «Mosche, api e
vespe in parti eguali si cuocino nell'olio di nocelle e rossi d'uovi, si coli e si aggioghi di storace
liquido [resina usata contro scabbia e pidocchi] e si usi lungamente»42.
L'Anonimo, che abbiamo visto dimostrare la propria abilità di chirurgo estetico nei casi della
bella Faustina Zappi Maratti e del figlio del generale conte Lantieri, passa dall'estetica alla
cosmetica: da estetista ad artista di cosmesi il passo è breve. Per il «nettar de' denti» prescrive
«cremor di tartaro, allume, scorze di lumache, radici d'ireos, coralli bianchi preparati e
garofoli», il tutto polverizzato, ridotto in una polvere «che li incarna [i denti] a meraviglia»43.
Per «smagrire il grasso senza detrimento veruno» prescrive la «polve di lucerte pria scorticate e
nette, prese in dose d'un denaro [1/24 di oncia] per mattino a proprio beneplacito». Per
«macchie del volto levarsi» prescrive «l'ova intostate» tagliate a metà, private del tuorlo e
riempite di «trementina, belgioino [benzoino o incenso di Giava], mirra e spermaceti [bianco di
balena]». C'è anche una «pastiglia odorata eccellente» a base di «noce moscata, [...] polve di fiori
di lavandola, di maggiorana, e 2 dramme di balsamo del Perù [...] sciolto in acqua di fior di
cedro». C'è un «saponetto odorifero» fatto da una miscela di oli con «muschio e ambra» e
indicato per «imbiancar le carni». C'è infine, nel campo cosmetico, il mezzo per «levar pelli [=
peli]» con sicurezza: «Rospi vivi nel solleone, in numero di 4, si coprono in una pignata con sale
decrepitato per 20 dì, dopo in lambico di vetro si distilli e l'acqua che ne uscirà si usi con
sicurezza»44.
Per le necessità del sesso femminile l'Anonimo ha un occhio clinico di riguardo. Dispone di
tutta una polifarmaceutica «da latte», «per moltiplicar [lo]», «per farlo perdere», per evitare che
resti «acquagliato nelle mammelle», per farne uso come cosmetico «virginale composto». Per le
«settole nelle mammelle», ragadi al seno e altre crepe cutanee, prescrive «olio mastice, incenso
polverizzato e cera bianca», cotti «in scorza di citrine». Passa dalla medicina alla chirurgia
prescrivendo che «all'uscir dalla vagina dell'utero [...] si leghino con uno spago que' calli che si
trovano alle gambe de' cavalli e se ne pone uno nel collo dell'utero, legando il capo dello spago
alla coscia»45.
Per moderare i «flussi menstruali», così come la «diarea» e «disenteria», vale il «raccogliere li
cottogni allor che sono ancor immaturi assai, né hanno succo alcuno, fargli seccare, limarne al
bisogno mezza dramma e prenderla con vino o brodo replicandola due volte il dì». Viceversa,
per «provocare mestrui si prenda per mezzo d'un imbutto alle parti naturali due volte al dì il
fumo del decotto delle scorie [...] del regolo comune». Il regolo è l'antimonio, regolus o reuccio
dei metalli, secondo solo all'oro, rex metallorum omnium, «re di tutti i metalli»46.
Altro medicamento muliebre, atto «a facilitar il parto», «è sicuro ed esperimentato il fegato
d'un'anguilla fatto in polve, dopo d'averlo seccato in forno senza che abbrugi, e dato tutto dopo
la rotta delle acque. Avertasi che non dura più d'uno in due mesi, che si corrompe, sì che
converrebbe preparargli pochi dì avanti il bisogno»47.
A completare la farmaceutica ostetrico-ginecologica ecco infine una ricetta tra le più preziose,
particolarmente studiata per «aborto proibire a chi n'è solita per debolezza di reni e d'altro»:
«polve di radica di tormentilla [rosacea detta Potentilla erecta, indicata contro ogni “tormento”,
di radica di bistorta [poligonacea dalla radice due volte torta e perciò detta Setpentaria], di
kermes [minerale d'antimonio di colore cremisi come il 'rosso paonazzo' del Coccus ilicis,
coccinella anticamente ritenuta depositaria di virtù più miracolose che medicamentose]». Si
aggiunga
canella [con] zuccaro sciolti in acqua di cottogni quanto basta, si cuoccia il tutto assieme e si
riduchi in guisa di conserva, da prendere un cucchiaro per mattina. In tanto si aplichi il
seguente ceroto: incenso, mastice, laudano, mezz'oncia per sorte, pietra ematite [così detta per il
suo color rosso sangue], coagulo di lepre, balsamo del Perù, dramma una per sorte, resina di
pino quanto basta a legar tutto in forma di ceroto, da aplicarsene una parte, secondo il
bisogno48.
7. «Secreti» per mali maggiori e per uomini
I mali che richiedono maggiori competenza e disponibilità da parte dell'Anonimo sono altri:
mali contagiosi, mali minacciosi, mali insidiosi, mali che vanno dalla «apoplessia» alla «tabe»,
dai «cancri aperti» alle «cancrene o sfaceli», dal «diabete o sia flusso d'orina» alla «epilepsia o
sia mal caduco de' fanciulli», dalle «erisipelle» alle «febbri pestilenziali», dalla «paralesia» allo
«sputo di sangue dai polmoni», dal «vaiolo» alla «peste». Di questa multipatologia grave e dei
rimedi atti a prevenirla, contenerla, curarla e possibilmente guarirla, non potendosi qui dar
conto in modo completo, bastino alcuni esempi.
Apoplessia è l'accidente di cui è vittima, a quarantadue anni, l'Anonimo stesso. Di tale insulto,
da lui subìto e superato, egli ha fatto esperienza non solo come medico, ma anche come malato.
C'è da credere ch'egli per primo sia fruitore, come infermo, delle cure che, come medico
saltimbanco, dispensa dal palco:
Successo l'accidente apopletico in chi ne sia, se gli aprino i denti e gli si ponghi in bocca del sal
marino decrepitato [..J. Consta per esperienza che ponendo un sacchettino stretto e longo, pieno
di sale decrepitato, caldo al soffribile, intorno al collo dell'infermo, lo difende da nuovi accidenti
[...]. Non resto anche di ricordar per gran specifico, dopo li debiti vomitivi, il Balsamo della
Mecca in dose di 12 in 20 goccie per un mese o più, o in pillole con qualche polvere cefalica, o in
brodo appropriato, sciolto col rosso dell'uovo49.
Il balsamo della Mecca è un olio detto anche «giudaico» perché tratto dalla resina di una pianta
mediterranea dall'odor di rosmarino — Amyris opobalsamum — appartenente alla vegetazione
medio-orientale, però non della Giudea, bensì dell'Arabia. Islamici o ebrei, la medicina non fa
differenza, basta che giovi. Anche la liturgia cattolica ne fa uso, miscelando il balsamo della
Mecca all'olio per il crisma: la contaminatio è dunque il mezzo di un'unzione che ha un grande
potere, tanto più accresciuto quanto più si unisca alla miscela, medicando, una «polvere cefalica
o cefalartica», «buona per la testa», come già aveva certificato Pietro Ispano, naturalista e
medico, eletto papa nel 1276 col nome di Giovanni XXI. Famoso era stato il suo trattato di
medicina popolare — Thesaurus pauperum — indicante i medicinali e le cure per ogni malattia,
proprio come fa l'Anonimo nella sua Raccolta.
«Cancri aperti» sono i cancri ulcerati, visibili all'esterno del corpo e circoscritti, circondati da
parti sane e quindi suscettibili di essere asportati chirurgicamente, ma, quando non lo siano
perché infiltranti o terebranti, curabili medicalmente in quanto, al dire d'Ippocrate, «se non
curati durano più a lungo: cancri non curati vero diutius perdurant». In tali casi, dove la chirurgia
è inapplicabile, <d'arte prima consiste nel purgar il corpo ed il sangue», il che significa
alleggerire «il corpo coll'estratto d'elleboro magistrale», drastico purgante, «e '1 sangue co'
diluenti e vulnerari», cioè vulnerando con il coltello la vena per il salasso, come suole fare un
esperto chirurgo, che poi applica «il ceroto di minio e in ultimo il balsamo di solfo del
Rolando», l'antico chirurgo parmigiano conterraneo dell'Anonimo50.
Diabete è la malattia caratterizzata da copioso «flusso d'orina» (poliuria), come l'etichetta
l'Anonimo, nonché da «sete intollerabile» (polidípsia), secondo Areteo di Cappadocia, e da
«sete canina» (polifagia), secondo Claudio Gale-no. Quando scrive l'Anonimo, che peraltro
ignora la nuova etichetta, da pochi anni si chiama «mellito», poiché il medico inglese Thomas
Willis ha dato la dovuta importanza al fatto che l'urina degli affetti da tale morbo, se assaggiata
in punta di lingua, è «dolce come il miele». Per essa il medico saltimbanco prescrive «oppio
torrefatto tanto che non sia più capace di far dormire», somministrato in polvere e unito a terra
d'«ocra di Marte», ferrosa, per rafforzare, e diluita, per evitare i tormenti del continuo «flusso»,
«in brodo di tormentilla»51.
«Epilepsia» o «mal caduco» è il «morbo erculeo» che gli antichi riferivano alla mitica figura di
Ercole, il semidio colto sovente dal raptus di violente passioni. È l'antico «male sacro»
desacralizzato da Ippocrate e da lui riferito a una malattia del cervello con perdita dei sensi e
convulsione dei muscoli. L'Anonimo prescrive «cinnabro», cioè solfuro di mercurio color rosso
vermiglio, «mescolato con polpa di pomo cotto». Due sono però i rimedi sovrani: la «secondina
di cavalla», o placenta equina «polverizzata e fatte debitamente seccare», e la «tintura di
corallo», che è «sicurissima»52.
«Non posso trascurare in questo caso», dice l'Anonimo, «di dar notizia ad ognuno delle due
vere e legittime tinture di corallo, diverse nelle operazioni, secondo [che] diverse sono le
manipolazioni d'esse». La prima è «corroborante» e «confortativa in sommo di tutti gli spiriti
ne' casi più ardui» e va preparata facendo «digerire il corallo crudo» dallo «spirito di tartaro
solubile rettificato». La seconda è «incisiva di tutte le viscosità», di «apoplesie e vertigini», di
«flussi albi» ed «effetti ipocondriaci disperati» e va preparata facendo «calcinar il corallo nelle
fornaci de' vetrari che così da bianco nel foco ritorni rubicondissimo e spongioso: si trituri ed a
poco a poco ci sí infonda lo spirito sopra segnato, e si caverà perfettissima e odorifera tintura
senza passarla in altro liquore»53.
La coralloterapia, ch'è in auge nel gran mondo e che incontra anche il favore di papi e di
sovrani, offre all'Anonimo il destro di dilungarsi nel riferire una personale «esperienza», che dà
conferma della sua assidua attività di laboratorio, affiancata dalla lettura dei testi più aggiornati
di chimica e chemiatria:
Già che del corallo si discorre, mi resta da palesare una esperienza fatta e rifatta da me, di ridurlo
tutto qual è in acqua rubicondissima senza l'unione del mestruo [= tartaro solubile], ed è di far
in acqua un po' più fluida il mercurio d'antimonio cavato dal regolo marziale, qual vien
descritto dal Becchero [Johann Joachim Becher, medico seicentesco autore delle Theses chimicae];
e distillata più volte [...] dett'acqua, posta in debita quantità su coralli, gli scioglie in acqua
rubiconda, [...] e l'acqua di mercurio sta sul fondo del vaso e si può separare con cautela
d'imbutto, essendo la dett'acqua sempre la stessa, e sempre capace di scioglier nuovi coralli54.
Spigolando tra le varie malattie che la patologia odierna include nelle infettive — virali,
batteriche, parassitarie — emerge la particolare attenzione che l'Anonimo riserva a quelle di
maggiore impatto ai suoi tempi.
«Per difendersi dalle eresipelle o fuoco sacro», cioè dal sacro «fuoco di Sant'Antonio»
comprendente tutte o quasi tutte le infiammazioni della pelle — dagli erpeti alle rogne —, vale
«una pezza di lino inzuppata in sangue di lepre stancata in longa caccia da cani ed uccisa verso
la fine di giugno o principio di luglio», conservata «per applicarla a' lochi offesi bagnandola
prima d'usarla in acqua di fontana». Essa «sana immediatamente»; ma pure «vien depredicato
per sicurissimo un nodo della pianta maestra del sambuco di quattro rami portato addosso»55.
Per il «morbo gallico» o sifilide vale un «decotto universale» fatto di «rasura di sassafras»,
raspatura di corteccia di sassofrasso, pianta amerindia, unita a «smilace aspra», gigliacea
volgarmente detta vilucchione, a «polipodio quercino», felce che dirama ai piedi delle querce, e
ad «argento vivo ben purgato»56. La prescrizione ottempera al classico aforisma: ubi morbus, ibi
remedium, «dove c'è la malattia, lì c'è la medicina». La sifilide non sfugge alla regola: essa è di
origine americana, importata in Europa prima dai marinai di Cristoforo Colombo e poi dai
soldati di Cortés e Pizarro; il sassofrasso ha la medesima origine, venendo a sostituire, nella
farmacopea dell'Anonimo, il vecchio guaiaco, pianta anch'essa amerindia usata nel Cinquecento
ma poi caduta in disuso.
Peraltro, per il «morbo gallico» l'Anonimo ha in serbo una ricetta propria, personalissima e
segreta, di cui tace la formula per evitare — così dice — che altri meno onesti di lui se ne
impadroniscano facendone cattivo uso:
Averto al cortese leggitore che all'estirpazione intiera di questo pessimo morbo ho una
medicina impareggiabile mercuriale, che non opera mai per salivazione né per seccesso [=
secreto sudoralel, né per vomito, e pur con essa ho sanati li più disperati morbi che in caso tale
possono darsi. Non paleso per ora la forma di fabricarla, perché fin che vivo voglio io tutto
l'onore di servirvi, temendo non sii in altre mani per fabricarsi da tutti con sicurezza e fedeltà57.
Per la tigna, grave malattia parassitaria del capillizio, detta «favosa» perché incrostante a guisa
di favo d'api il capo, soprattutto nei bambini tenuti in cronica sporcizia con formazione di
cotenne setolose, la cui rimozione comporta un vero e proprio scotennamento, l'Anonimo
prescrive una lavatura «emogliente» con «olio di tartaro e laurino applicati varie volte», seguita
dalla risolutiva «essenza di solfo». Quanto al vaiolo, spurgo cutaneo di bollori umorali con
febbre alta, le pustole «all'ora che sono scopiate si ongino subito con olio di amandole dolci, indi
si coprono con fogli d'oro di zecchino replicandoli 2 volte il dì per 3 o 4 giorni»58. Con buon pro
dei poveracci senza il becco d'un quattrino, verrebbe da commentare!
Per le febbri pestilenziali la prescrizione è una polvere di un imprecisato «cristallo minerale»
misto a canfora, sciolta «in brodo di scordion»59. Lo scordio è un aglio dotato di potere
preservante, usato per conservare le carni commestibili e per impedire la putrefazione delle
carni cadaveriche: la peste, malattia sopra ogni altra mortale, non può che venirne impedita nei
suoi cadaverici effetti. Ma per essa l'Anonimo dispone di un «amuleto sicurissimo»:
Polvere di rospi battuti prima vivi al solleone, che gettino nelle patelle di cera li vermi verdi, e
unito il tutto con la metà di succino [= ambra] e dragante [= gomma adragante] disciolto [...],
unite le limature de' quattro imperfetti metalli e fattane pasta alla grossezza d'un amandolo, da
portarsi dalla parte del petto, difendono — permittente Deo — da ogni mal contaggioso. Di
questi amuletti me ne trovo in quantità pronti a comando dell'amato leggitore, per
conservazione d'ognuno60.
Infine, per completare il quadro dei morbi più incombenti su larga scala o epidemici, la tisi,
intesa come «spurgo di sangue quantunque venisse da polmoni», è bene curata da «rane verdi
così vive», poste «in una pignata di terra in forno ben caldo a seccare in polvere». Di tale
polvere si dia «una dramma in sciroppo di papaveri [...] due volte il dì finché cessi lo sputo.
Assicurasi che è rimedio impareggiabile». Quanto alle «scrofole aperte», che oltre un secolo
dopo verranno ascritte con la tisi alla tubercolosi, per esse «si prendano sei o vero otto ragani [=
ramarri] verdi e grossi, si ponghino nell'olio d'ulivo a farli morire a foco legero, poi a poco a
poco s'aumenti il foco facendolo bollir alla gagliarda, in fine si attacchi il foco nell'olio ed
abbrugi il tutto e quando sarà ridotto in cenere si macini e si conservi per coprir di questa
polvere le scrofole aperte [...] [che] guariscono ottimamente»61.
Non minore riguardo, rispetto a quello dimostrato verso il gentil sesso, l'Anonimo dimostra nei
confronti dei pazienti appartenenti al sesso suo, affetti da «indisposizioni» o da mali
tipicamente o prevalentemente maschili, che vanno dalle «poluzioni notturne» negli adolescenti
a «chi[unque] pisciasse a letto involontariamente», dalla «gonorrea» o «scolo venereo»
(blenorragia) alle «carnosità del meato urinario» comunemente dette «creste di gallo»
(conditomi acuminati), dalle «dificoltà d'orina» (da «mal della pietra» o calcolosi vescicale, o da
restringimento del canale dell'uretra per ingrossamento della prostata) alle pari difficoltà
d'evacuare l'intestino per la presenza di «moroidi».
L'Anonimo si sbizzarrisce. Il suo ricettario comprende un'emulsione di semi di canapa e
papavero in gelatina di cotogni per le polluzioni adolescenziali; una «polve de' sorci seccati o
de' rizzi [= ricci]» per l'incontinenza urinaria; «occhi di granci [= granchi] veri preparati» per la
gonorrea; «polvere sottilissima di sabina [arborescenza cupressacea] attortigliata alla candeletta
di cera» per le escrescenze carnose in sede urogenitale; «gomma bdelio» detta anche «manna del
deserto» per la ritenzione d'urina. Il preparato di maggior pregio è l'«anello simpatico»,
confezionato dall'Anonimo con i sali di piombo, efficacissimo per le emorroidi se infilato «nel
dito auricolare della mano sinistra».
Di bizzarria in bizzarria — reale, o apparente tale a noi posteri? — l'Anonimo amplia la sua
Raccolta «di vani ma sicuri secreti» a tutto l'orbe patologico: «vipere seccate» appese al collo
nell'«angina»; «calcina viva» tratta dall'urina del paziente per curare l'«artritide» del medesimo;
«noce d'India [di cocco]» tritata in «spirito di formiche» contro l'«atrofia e tabe»; «sterco di
fanciullo maschio che ancor si cibi di solo latte» applicato alle «cattarate degl'occhi»; «pelle
interiore del ventricolo del galletto» o «polve dell'intestino di lupo presa in vino» usate
ambedue come farmaco «simpatico» capace di neutralizzare l'«antipatia» degli effluvi maligni e
degli umori peccanti.
Si aggiungano, senza pretesa di completezza, «lo sterco di pavone maschio con canfora
applicato alla tempia» nell'emicrania, «un cimice vero» inghiottito «sopra d'un uovo sorbi-bile»
nell'itterizia, vari interventi interni ed esterni (farmaco-logici e chirurgici) «succedendo la
disgrazia della morsicatura delle vipere» o «di cani rabiosi», il bollito di «iuiube e dattili
[giuggiole e datteri]» con «semola di grano e liquirizia» nella raucedine, l'impacco di «cervella
di vitello per cenere» nei dolori della gotta, nonché — per concludere qui l'elencazione —
l'autoclistere di urina, efficacissimo nella «pleuritide o sia mal di costa»62.
8. Le tre professioni
Delle due, l'una: o il medico saltimbanco che confeziona e prescrive i medicamenti anzidetti è
un fior di ciarlatano e chi lo accredita di competenza stimandolo è ottenebrato da chissà quali
nubi mentali; o viceversa ciarlatano non è, ma è figlio del suo tempo, e le sue manipolazioni,
preparazioni, operazioni, prescrizioni non sono diverse da quelle di molti medici suoi
contemporanei, magari passati alla storia per essere stati geniali. In questo secondo caso, il
criterio comparativo tra le rispettive pratiche terapeutiche induce a ritenere che le une o le altre
non siano né migliori, né peggiori, ma sostanzialmente uguali.
Quel kavalier Antonio Vallisnieri che già conosciamo, medico e naturalista in cattedra a Padova
ai tempi dell'Anonimo, se come scienziato sperimentale è passato alla storia per le sue geniali
«considerazioni ed esperienze» Intorno alla generazione de' vermi ordinarii del corpo umano (Padova
1710), come clinico e curante eroga prestazioni a caro prezzo nelle quali figurano prescritti
costosissimi farmaci63. Nella calcolosi renale, a fronte della polvere di scorpione diluita in olio di
mandorle dolci e semi di melone, prescritta dall'Anonimo al doge Balbi di Genova, Vallisnieri
prescrive ai propri pazienti «polvere di millepiedi, emulsione di semi di mellone, di viole rosse,
di alchechengi e, per cibo, brodo di gamberi bolliti e, spremuta nel brodo di pollo, una gelatina
formata [...] con raspatura di corno di cervo e infuso di vipere»64. Fin dai tempi del Medioevo il
cervo, visto spesso appartarsi in luoghi isolati per vivere la propria vecchiaia fuori dal branco e
morire in solitudine, evoca leggende d'immortalità favorenti la fiducia in una vita lunga; quanto
alle vipere, esse sono considerate per tradizione fornitrici di una carne che, sminuzzata o tritata,
è il più importante fra i cinquanta ingredienti da cui è costituita la triaca, panacea ancora in
voga come antidoto contro ogni sorta di veleno.
Non basta. Una prescrizione di eliotropio — Helianthus annus o «girasole» — tratto dall'Orto dei
semplici dell'Università di Padova (il giardino botanico sito «dietro il Santo», cioè dietro la
basilica di Sant'Antonio) «era complicata dalla necessità che il fiore fosse spiccato dal 28 al 30
luglio, non un giorno di più o di meno, perché altrimenti avrebbe perduto le virtù curative».
Inoltre, a un paziente affetto da un'asma mozzafiato, per la cui «strettezza di petto» l'Anonimo
avrebbe prescritto «tintura di belgioino e spermaceti», veniva avallata una terapia a base di
«latte di capra nera o rossa, da prendersi subito dopo un bicchiere di acqua stibiata [tartaro di
antimonio] allungato con un terzo di acqua di viole e di bettonica» e somministrato
principiando la cura sotto il segno zodiacale del Leone.
Il medico universitario, vocato alla ricerca nell'ambito della scienza sperimentale settecentesca,
poteva essere considerato uno scienziato, ma non un curante-guaritore molto diverso dal
saltimbanco. Le sue cure non erano affatto la naturale conseguenza delle sue ricerche di
fisiologia meccanica o chimica: la macchina-uomo o l'uomo-provetta descritti dalla scienza del
Sei-Settecento (la pompa del cuore, i filtri dei reni, i mantici dei polmoni, l'alambicco dello
stomaco con acidi e alcali) non fruivano ancora di farmaci nuovi. Le cure di questo medico
scienziato erano sovrapponibili a quelle del curante empirico. Questi, inoltre, veniva
rimunerato in misura minore; il suo presunto ciarlatanismo era, sotto l'aspetto lucrativo, meno
cialtrone di quello del medico d'estrazione universitaria o accademica, di lui molto più esoso.
Rispetto a lui, questo medico scienziato era, infine, un curatore assai meno curante65.
11 riferimento ad Antonio Vallisnieri, quale esponente di una medicina «scientifica» dal punto
di vista teorico ma non meno «eclettica» di quella dell'Anonimo sul piano pratico del medicare,
è importante anche perché il medico-scienziato di Padova è uno dei principali giudici della
medicina «empirica» del saltimbanco bussetano.
Nel marzo 1718 il dottor Magnavini di Montagnana informava Vallisnieri di «un tal ciarlatano»
che si presentava «con pulito e limato discorso» affermando che la professione di
«montimbanco» da lui esercitata era tutt'altra cosa dalla comune ciarlataneria e che, mentre
quest'ultima era una pratica di «baroni», cioè di grandi bari, la propria era un'arte di
professionisti «nobili», tra cui egli era nobilissimo. Il Magnavini, commentando, non mancava
di rilevare altresì la differenza del medico saltimbanco dai medici tradizionali: il primo si
sfiatava dal palco a raccomandare cerotti ed elettuari, ma non obbligava nessuno all'acquisto
lasciando «in libertà chi vuole e chi non vuole»; i secondi, invece, ordinavano le loro medicine
avendo «cento botteghe piene e stivate da rubar denari a chi gli cava il cappello con più
riverenza quanto più fanno spendere». Comparando le tre professioni — del ciarlatano, del
saltimbanco, del medico tradizionale — il Magnavini concludeva che l'una era «infame», la
seconda «civile» e la terza celebrata «soltanto perché riusciva a rubare meglio»66.
«Vallisnieri parve dapprima sdegnare di prendere in considerazione le opinioni» dell'Anonimo,
riferite a lui dal Magnavini; «ma poi le esaminò con serena equanimità e dovette finire di
riconoscere in lui un'esperienza non comune», diversissima dalla comune ciarlataneria. «Altri
medici non si vollero mai arrendere a tale riconoscimento». Fra gli ostili irriducibili non
mancarono quei senatori veneziani, tra cui Bernardo Memmo, procuratore di San Marco, che si
rivolgevano a Vallisnieri per averne un parere circa la «polvere simpatica» posta in vendita
dall'Anonimo. I medici di Venezia avevano presentato al Senato una «scrittura» per ottenere
l'allontanamento di chi rubava loro il mestiere. Vallisnieri s'era mostrato reticente, anche perché
l'Anonimo s'era detto pronto all'eventuale contraddittorio. La «scrittura», appoggiata dal
procuratore Emo, favorevole all'estradizione, era stata bloccata dal procuratore Morosini,
nettamente contrario: «se l'Anonimo mesceva strani e arcani elementi [...], anche la medicina
ufficiale si valeva di polveri di scorpione e di rospo, di olio di lucertole, di pelle di rana, di orina
di bimbo»67.
Il nome di Vallisnieri ricorre nelle vicende dell'Anonimo anche quando questi è a Parma, reduce
da Palermo. «A istanza dei parenti e a insaputa dei medici fu chiamato in Mantova al letto della
settantenne marchesa Barbara Valenti Gonzaga, che da oltre un anno era curata dai dottori
Gorghi e Stolfini, come idropica e ammalata di petto, con l'orina di giovenca». L'Anonimo
cambiò la cura prescrivendo «anacatartici», ossia farmaci facilitanti l'espettorazione. La
decisione trovò consenziente lo Stolfini, «incantato dalla sua molta facondia», ma dissenziente il
Gorghi, affermante che la nuova cura «era contraria ai precetti più assodati dell'arte [...], onde se
la nobile inferma avesse continuato un tal rimedio avrebbe tirato poco lungi a soffocare». Il che
— post hoc, propter hoc? — come da pronostico avvenne. Che ne pensava il Vallisnieri? Sia questi
che lo Stolfini «erano costretti a riconoscere [all'Anonimo] cognizioni indubbie» e anche il
dottor Francesco Negrisoli, pure lui mantovano, ammetteva che l'Anonimo era «veramente un
garbato uomo»68.
Il giudizio del Vallisnieri viene sollecitato altresì nell'occasione di una gravissima malattia che
aveva colto a Venezia l'eminente cardinale Pietro Priuli, il cui medico curante Giovanni Ripa,
viste le disperate condizioni del paziente, s'era deciso — extrema ratio — a consultare l'Anonimo.
Il giudizio del Vallisnieri non giunge anche perché l'Anonimo non arriva in tempo al capezzale
dell'insigne porporato: quando arriva il cardinale è già morto. Questa volta nessuno può fare di
lui un capro espiatorio69.
9. Dal banco in piazza al protomedicato
L'Anonimo che divide i pareri del Senato veneziano, che divide i giudizi su di sé da parte dei
medici di Mantova, di Padova e d'ogni dove, ha dalla sua il consenso della piazza, che gradisce
le sue offerte a buon prezzo e che crede nelle sue promesse fino a prova contraria. Ma
l'Anonimo ha dalla sua anche il godimento di «molta stima non pure appresso a' Dotti de' suoi
giorni, ma a' molti Principi ancora — come si è accennato — molti de' quali si servirono in vari
casi del suo consiglio. [...] Egli era certamente di una vasta e profonda dottrina, la quale
campeggia negli scritti suoi; ma egli era ancor miglior parlatore che scrittore, talché colle parole
dipingeva le cose, e le rendeva palpabili, e persuadeva chi voleva». Persuasore palese od
occulto, dimostrava d'aver fatto fruttare i talenti di retorica ricevuti alla scuola gesuitica. Alla
dottrina e alla facondia univa «una memoria singolare», davvero mastodontica, e un
temperamento «faceto, ilare» che lo rendeva attraente, «amicissimo degli amici» e contento «di
giovare a tutti»70.
Erudito e colto, ma parlatore piano senza orpelli né fronzoli, «trattavasi sempre alla grande»
esibendosi in modo d'accattivare gli umori delle folle e di garantire al popolo il benessere
divertendolo. A questo scopo dava fondo al proprio repertorio di facezie e dava spazio al
proprio corteo di teatranti. Era un manovratore abilissimo dei mezzi di comunicazione di massa
del suo tempo: la concione in piazza, il comizio, la commedia, con tutta una gradazione di
tecniche che andavano da quelle del battitore d'asta a quelle del capopopolo.
L'Anonimo che sa farsi apprezzare dalla folla, sa ben come fare per rendere accetta, anche
grazie alla propria «potenza in sermone», la propria arte empirica a persone potenti in altro
modo, esercitanti il potere negli uffici, negli istituti, nei ranghi della nobiltà e del clero, nei ruoli
della società alto-borghese. Egli sa intrattenere una rete di relazioni preziose, facilitato in ciò
dalla competenza versatile e dal carattere affabile. Una medicina experta et jucunda era proprio
quella teorizzata e predicata nell'università da Boerhaave, il grande medico totius Europae
praeceptor, «maestro a tutta Europa», personalmente conosciuto dall'Anonimo a Leida71.
L'Anonimo è colui, quanto meno, che incuriosisce e fa nascere in molti il desiderio di
avvicinarlo e incontrarlo; è anche colui, quanto più, che incarna l'ultima speranza di pazienti
inguaribili e di parenti angosciati. Che male c'è a consultarlo, dopo aver ascoltato dai medici che
«non c'è più niente da fare», dopo aver udito dai preti che «c'è da sperare solo nella
misericordia di Dio»? L'Anonimo ha fama di saper trovare le parole giuste anche per i morenti e
di consolare meglio delle due «vesti nere» — l'abito del medico e la tonaca del prete — che
fanno parte del paesaggio offerto alla vista del malato che muore.
Per queste e per altre ragioni egli è un personaggio chiacchierato, criticato, contestato, ma non
mai, se non raramente, vituperato. Può attirare su di sé tante ciarle, senza essere, lui, un
ciarlatano nel senso spregiativo del termine. È stimato da molti: invitarlo, averlo ospite è spesso
un piacere e un onore. «Nell'autunno del 1744, sulla riviera di Salò», l'Anonimo, «gito a visitar
un miglio lungi a Maderno il Conte de Vilio, Legato del Re di Polonia alla Repubblica Veneta, il
quale, fabbricato ivi un palagio con nobile giardino facevalo luogo di sua villeggiatura, nel
ritirarsi lo pregò di scusa dell'incomodo. Al che il de Vilio rispose che i suoi Pari non
incomodavano, ma onoravano dovunque andassero, e lo volle e commensale»72.
A quel tempo egli era già all'apice della sua carriera in Verona. «Il rimedio con cui guarì a
Verona una mortifera epidemia di mal di petto [o influenza maligna] gli valse la nomina di
protomedico»73. ll mortifero morbo dilagante era un «catarro epidemico» da cui «come in un
subito venivano attaccati tutti i generi di persone»74. L'Anonimo aveva prescritto l'«olio glaciale
di fuligine» o lo «siroppo di fuligine», i cui ingredienti erano fuliggine cristallina e vino bianco
dolce portati a bollitura e filtrati con aggiunta di ottimo miele e zucchero eletto: una sorta di
sofisticato vin brulé. «Questo rimedio fu dato alla luce in Verona dal Dottor Buonafede Vitali
detto l'Anonimo, nel tempo ch'era [in procinto di diventare] Protomedico di quella città»75.
Il rimedio è stato determinante per la nomina dell'Anonimo al protomedicato. Ma la sua fama
di affidabile interprete dei morbi epidemici è amplificata dallo studio ch'egli fa della peste di
Messina nel saggio pubblicato in Verona nel novembre 1743. «Il Vitali, ch'era protomedico in
Verona, non vide la peste di Messina, ma ne discorse in modo generale e conformemente alle
relazioni che se n'aveano, fermandosi principalmente sopra la natura del morbo e i modi di
preservarsene»76.
«Della peste che attaccossi in Messina nell'anno 1743» scrive di lì a poco in una dettagliata
Relazione istorica (Palermo 1745) Francesco Testa, il quale informa che «un bastimento genovese
mercantile [...] che veniva dalla Morea [Peloponneso] infestata dalla peste approdò verso la fine
di marzo 1743 in Messina»; e informa altresì che, poiché «il mortifero veleno avea come
inondato tutta la città», in «otto giorni dal 6 giugno in appresso fece la peste siffatto eccidio» da
sterminare gran parte del popolo messinese77.
A Verona, città pur lontana da Messina, c'è da stare tranquilli? Quattrocento anni prima, nel
1347, la peste era arrivata a Messina, portata da genovesi vascelli fantasma, carichi di grano
ucraino, ma anche di topi morti e di cadaveri di appestati. Di là s'era sparsa a macchia d'olio fin
oltre il Settentrione, recando l'immane moria di cui si tramandava ancora l'incubo e il terrore.
Nel 1743 a Messina, come narrano le cronache, «il catarro epidemico fu messaggiere della peste,
che in città fece orribile strage»78. Sarà mai che la maligna influenza, guarita in Verona
dall'Anonimo, possa fare da staffetta alla peste, avendole già fatto da battistrada nell'evenienza
di Messina? La popolazione veronese ha bisogno d'essere avvisata e, per conseguenza, mezzo
salvata.
L'Anonimo ha già dalla sua la giovanile esperienza e testimonianza della peste di Londra. Le
sue argomentazioni, in risposta all'allarme popolare, sono circostanziate ed esaustive:
teologiche, eziologiche, patogenetiche, profilattiche, terapeutiche. Nell'ordine, bisogna: a) se si
paventi il propagarsi della peste in Verona, ricordarsi che la peste è un «flagello di Dio» e che «li
peccati nostri sono molti»; b) sapere che la peste è un «mal contagioso», cioè un «ente vivo che
genera, si riproduce, si aumenta, cresce»; c) sapere inoltre che tale contagio «proviene da insetti
volanti minutissimi e poco meno che impercettibili, i quali entrano a turme per tutte le porosità
del corpo umano» e «con li loro aculei e con le loro proboscidi pungono, lacerano, [...] trivellano
[...] e così corrompono, avvelenano, incadaveriscono»; d) rendersi conto che contro tali malefici
«insetti volanti», che depongono «innumerevoli quantità delle loro ova», che ci «imputridiscono
con i loro escrementi» e ci «attossicano con i loro aliti», vanno accesi «fuochi dalla mezzanotte
all'alba» e vanno fatte «fumigagioni» di case e di robe, «scottature di cibi», protezioni con
«maschere» e «amuleti» (questi ultimi scelti con particolare riguardo alle loro «composizioni
elettriche»); e) rendersi avvertiti e allertati del fatto che ai primi sintomi o segni va fatto ricorso
allo specifico «febbrifugo» contro vermi e veleni, tosto seguito dall'«aceto antipestilenziale»,
dalla «tintura bezoardica» e dall'«elettuario divino»79.
Alla terapia medica generale — è questa l'ultima raccomandazione — si unisca quella chirurgica
locale, facendo applicare ad «antraci e carboni bubboni» l'«olio glaciale di antimonio» o il «ferro
rovente». Dopo aver causticato o cauterizzato, si applichi, «ben canforato e caldo», il «balsamo
di solfo di Roberto Bolle». Con questa citazione di Robert Boy-le, il «chimico scettico», si
conclude il saggio istruttivo, in forma epistolare, scritto per i veronesi dal «protomedico
epidemiologo».
10. Ritorno in miniera e termalismo medico
Durante il triennio del protomedicato veronese, che conclude la sua vita e la sua ascesa in
carriera, l'Anonimo conclude anche la sua lunga esperienza di «ex minatore», esperto di
miniere, di chimica minerale, di acque naturali saline, acide, alcaline, di terme e di loro
attinenze terapeutiche — bibite, bagni, fanghi — sempre più richieste da coloro che cercano di
risanare il proprio corpo o di farlo restare sano il più a lungo possibile.
Conseguentemente alle richieste crescenti, la medicina settecentesca è sempre più intenta a
scoprire nuove fonti termali, a ristudiare le antiche, a illustrare i pregi delle une e delle altre.
Scoperte, studi, illustrazioni sono anche i mezzi di una propaganda atta ad aumentare
ulteriormente le richieste, con circolarità — virtuosa o a volte viziosa — di autopromozione.
Le spoglie mortali del protomedico di Verona hanno avuto da sette mesi degna sepoltura nella
chiesa dei Santi Apostoli quando esce, sulle «Novelle della repubblica letteraria» «per l'anno
1746», ín data 7 maggio, la recensione postuma di Li bagni di Caldiero, l'opera d'argomento
termale scritta dall'Anonimo sul finire della propria vita e pubblicata «appresso Simone Occhi»,
familiare del Domenico Occhi stampatore delle «Novelle» che ospitano la recensione.
Sopra le Terme minerali di Acqui che sono nel Monferrato, e sopra l'altre del Masino che
trovansi in Voltolina [= Valtellina], il Sig. Vitali ha già prodotte negli anni passati alcune sue
osservazioni fisiche. Ora, spinto egli non meno dalla vicinanza de' Bagni rinomati di Caldiero
che dal nuovo pubblico offizio testé conferitogli nella città di Verona, riassume un pari
argomento e in due Dialoghi introdotti tra Fidelio ed Adolfo studia [di] rischiarare primieramente
la natura e le qualità generiche dell'Acqua, indi sopra la Semiterma — così viene dall'autore
appellata [l'acqua «semitermale»] —, la quale trovasi nella pianura del Castello altre volte
chiamato Gauderio.
Infine, «adduce que' particolari riflessi che possono ogni giorno più giovare all'incremento della
facoltà medica»80.
L'opera, conclusiva e riassuntiva, dà spunto per ripercorrere retrospettivamente l'attività di
ricerca spesa dall'Anonimo nei citati luoghi termali di Acqui e della Val Masino, nelle miniere
del Parmense e della Val Camonica (sede della sua impresa col conte Federici) e in quelle
vicentine del Tretto e della Val Leogra, nonché, con ancor più remota retrospettiva, nelle
miniere della Lapponia, all'estremo Nord dell'Europa abitata, quando egli aveva ventisei anni.
La Lapponia non è, per il protomedico alle soglie dei sessant'anni e del suo improvviso morire,
che un lontano ricordo della sua andata giovanile nei paesi del «grande orso bianco», come si è
espresso il letterato e scienziato veneziano Francesco Algarottí (1712-1764) reduce dai Viaggi di
Russia nel 173981.
Quando nel Settecento, per la «graduale omologazione della Russia alle altre potenze europee»
(in conseguenza della fondazione di Pietroburgo e dell'accresciuta presenza russa sul Baltico),
crebbe l'interesse per tutte le terre del Nord tangenti «i confini del mondo», l'immagine
dell'«orso aizzato da Carlo XII di Svezia» rivelò anche l'interesse di questo sovrano, nemico
storico di Pietro il Grande, per le proprie «terre glaciali», nella speranza che la Lapponia non
fosse meno avara in stagno, piombo, ferro, argento delle terre russe bagnate dallo stesso Mar
Glaciale in cui il «grande orso bianco» affondava le sue zampe predatrici82.
Come dell'esperienza dell'Anonimo nelle miniere dellaLapponia, così mancano testimonianze
dirette dei suoi studi sulle «acque bollenti di Acqui», elaborati in forma scritta a ventott'anni, e
mancano fonti attendibili circa le ricerche minerarie e idrogeologiche da lui compiute intorno ai
quarant'anni, prima nelle valli appenniniche del Parmense e poi in quelle prealpine del
Vicentino.
Delle ricchezze minerarie di queste ultime terre fa fede quanto scritto nel 1670 da Marc'Antonio
Castagna: «In questa parte bellissima dello Stato [veneziano] havevano un piccolo Perù [...]
perché vi sono così copiose da ogni parte le miniere et di nobili metalli che è cosa di stupore».
Verso il 1680 s'era deciso di rilanciare le ricerche minerarie, con la clausola di «impegnare i
nuovi finanziamenti in pochi cantieri e solo per ricerche di metalli pregiati: argento, rame e
possibilmente oro». I risultati s'erano rivelati scarsi e i lavori sospesi, ma poi ripresi ai tempi
dell'Anonimo; però nel 1727 la Compagnia generale delle miniere della Vicentina (attiva sul
Tretto, sul monte Novegno, nel fondovalle presso Torrebelvicino e dei dintorni di Santa
Caterina), «dopo essersi impegnata ancora in nuove infruttuose ricerche, cessò di operare»83.
Sono disponibili invece le dirette testimonianze e considerazioni consegnate al citato saggio Le
Terme del Masino in Val Tellina, scritto dall'Anonimo quarantottenne «per rassegnata
ubbidienza» al principe don Bartolomeo Trivulzi (con dedica alla di lui consorte donna Maria
Archinti «generosissima protettrice») e «per consolazione degli Infermi che concorrono alla
mirabil Terma»84.
L'Anonimo sottopone anzitutto a serrata critica le congetture altrui sull'origine del calore delle
acque termali. Scarta l'ipotesi di chi «suppone chimeriche fiamme centrali che, per certi crepacci
della terra, scaldano le fonti»: il fuoco centrale si nega per l'assenza di materiali combustibili e
per mancanza d'aria atta a mantener viva la fiamma. Scarta anche l'ipotesi di chi «pensa a fuochi
di solfi e di bitumi vulcanici»: si oppone a ciò l'evidenza che presso i vulcani non si trovano
sorgenti calde, pur essendovi dovizia dí bitumi e dí zolfi.
Scarta pure una terza ipotesi, di una «perfetta calce viva sotterranea» sopra la quale, scorrendo,
le acque si riscaldano: nel sottosuolo, invece della calce, esistono «marogne vetrificate, lapideometalliche, o aridissime pietre pomici». Elimina inoltre una quarta ipotesi, di «raggi solari
penetranti nella terra, per vie ignote, a percuotere minutissime arene che, a guisa di specchi
ustori, fanno raggiungere iperboliche temperature»: in proposito obietta, appellandosi a
Lucrezio, che il calore del sole a malapena trapassa i muri delle case. Elimina altresì una quinta
ipotesi, secondo cui «il moto precipite delle acque abissali genera calore»: al riguardo obietta,
citando Dante, che l'acqua «sé in sé rigira», però senza mai scaldarsi giacché il moto genera
calore solo quando cozzano fra loro corpi eterogenei. Elimina, infine, una sesta ipotesi, che
attribuisce il calore allo zolfo, ridondante di «spiriti focosi»: respinge quest'ultima ipotesi
rilevando che nei «pozzi salsi di Salsomaggiore fetidissime acque sulfuree si riscontrano e
ciononostante freddissime elle sono»85.
Dopo la pars destruens, demolitrice delle altrui congetture, l'Anonimo passa alla pars construens,
esponendo le ipotesi proprie. «Fra gli sterminati piani delle gran pietre che formano le
montagne», egli afferma che sono insiti semi creati da Dio, i quali, fecondati sottoterra da
quell'ens summum che è l'acqua, danno corpo a diversi tipi di terra: la terra «vitriscibile bianca»,
che dà l'argento metallico e l'argento vivo (mercurio), nonché, se pura, l'oro (oppure, se «non
ben purgata e concotta», dà i metalli «subalterni», piombo e stagno); la terra «vitriscibile rossa»,
che dà il ferro e il rame; la terra «calcinabile», che dà l'alluminio e l'allume di rocca; la terra
«combustibile», che dà lo zolfo. È dall'incontro, tra gli anfratti terrosi, dei «vapori salinoprimigenii» con i «vapori sulfureo-metallici» che le acque si riscaldano e diventano termali,
scorrendo per «reconditi meandri» e recando in se stesse «rapito e impegnato il miscuglio
vaporoso»86.
«Questa interpretazione del fenomeno — dice l'Anonimo è avvalorata da esperimenti», dei
quali — aggiunge — «fo grazia al lettore, invitato a meco jurare in verba magistri», cioè sulla
parola propria, senza lasciarsi attrarre dagli esecrati experimenta: ancora una volta è l'empiria,
non l'esperimento, la vera fonte della conoscenza. È l'esperienza a suggerirgli che le acque del
Masino sgorgano «fra oscuri sassi costellati di veri sali di antimonio dorato [sic!], scevre di
grasso, di fango, di zolfo»: il vapore minerale dell'oro stibiato (antimonio dorato) si scontra con
il «vapor salino che sale dal profondo della montagna [...] finché, incontrata una vena d'acqua
pura, l'uno e l'altro vi si inviluppano, si dissolvono, si svincolano, s'urtano, si collidono, si
disgregano e, per il moto che all'acqua comunicano, la riscaldano»87.
La «prodigiosa Terma» del Masino è dotata di numerose virtù. Essa «irradia», ridà luce al corpo
ove sia stata offuscata da qualche «sugo nuvoloso e tetro»; «penetra», insinua nelle porosità
corporee sostanze «tanto sottili» da spingere «gli fluidi stagnanti a un movimento più sollecito»;
«rarefa», dilata gli spazi del corpo favorendo la distensione dei vasi e il «moto progressivo dei
fluidi»; «discute», scuote le «mucosità» che, raccolte dal «gran circolo», sono «evacuate per gli
emuntori»; «asterge», ripulisce, rinfresca; «corrobora», induce scioltezza di corpo e di membra.
Chiosa l'Anonimo: «Chi lo vuol credere, creda; chi non vuol credere, lasci. Non fa alcun
detrimento alla verità l'incredula ignoranza dei preoccupati, degli ostinati e dei goffi»88.
L'Anonimo dà consigli per le cure idropiniche e balneo-termali. Dopo la purga all'arrivo,
l'ospite delle terme vada alla fonte e vi attinga «un bicchiere della tenuta di 15 once incirca e con
giocondità, facendo brindisi agli altri concorrenti con lieti auguri di sanità, beva». La dose della
bibita, per una cura completa di 14-15 giorni, sia di 100 once pro die. Ogni giorno, alla bevuta,
faccia seguito il bagno, o la doccia, o il fango. Il «balneante», dopo la «bagnatura», stia ben
coricato sotto coltri di lana, in letto riscaldato, e beva un brodo caldo per far sfumare con il
sudore le impurità e superfluità umorali; indi si sottoponga a unzione di reni e ipocondri con
«unguento sandalino», o con «unguento rinfrescante di Galeno», o con «pomata di cera bianca»,
o con una «manteca di grasso di capretto». «Esperte maestranze» sono adibite ad applicare
empiastri, a stemperare fanghi, a regolare docciature, sia «a getto» che «a stillicidio»89.
Le acque termali del Masino sono multipotenti. Curano «ostruzioni», languori o bruciori di
stomaco, disturbi di milza e fegato, specie quelli che muovono da «viziato moto del sangue
nella vena porta che dal dottissimo Stallo [Georg Ernst Stahl, professore a Halle, teorico del
'flogisto' e fondatore del sistema `animistico'] è stata con ragione nominata porta malorum».
Curano malattie delle donne: alle leucorree femminili si provvede con irrigazioni. Alle
emorroidi maschili, può provvedersi con analoghi clisteri, però con cautela, mutatis mutandis. Le
acque curano slogature e fratture dolenti, mali degli orecchi e degli occhi, mali di testa (con
docciature fronto-parietali nell'epilessia e occipitali nell'apoplessia). Se la cura comporta
stitichezza, si provvede con le «prugne di Provenza», l'«uva passula», la «conserva di cassia», il
«cremor tartaro»90.
Tutto bene, però... Forse perché il suo scritto non appaia troppo propagandistico, o
commissionato da persona troppo interessata allo sfruttamento delle terme del Masino,
l'Anonimo non si esime dal rimarcare che lo stabilimento termale lascia molto a desiderare sotto
gli aspetti logistico e alberghiero, costringendo quanti vi si recano, tra cui molti affetti da gravi
malanni, ad accedervi per «impervie strade», valicando «scoscese montagne», per poi
«chiudersi nell'angusto vano di strette camerette con pareti sgorbiate dalle insulse e sconce
iscrizioni dei precedenti ospiti». Egli pertanto sollecita «li Padroni» delle terme a porre rimedio,
affinché «cotesti meravigliosi Bagni siano giovevoli il centuplo di quello che sono»91.
I «padroni» delle terme appartengono alla notabile famiglia Paravicini: nel 1531 un Basilio
Paravicini aveva tradotto in volgare alcune pagine latine di Petronio Alessandro Traiano, autore
di scritti De aqua tiberina e De victu Romanorum et de sanitate tuenda; nel 1545 un Pietro Paolo
Paravicini aveva scritto in latino un'opera Sul sito, natura e miracoli delle Terme delMasino e
diBormio, fin qui sconosciute; nel 1649 un Giovan Pietro Paravicini aveva scritto anch'egli in latino
un'opera ripubblicata in volgare nel 1658 con il titolo Avvertenza sopra i bagni del Masino overo di
San Martino, per valersene internamente ed esternamente (con in appendice una Breve e compendiosa
relazione delle eccellenti e meravigliose virtù dell'acqua delli Bagni del Masino, dovuta alla penna di
Giovanni Andrea Malacrida di Sondrio); nel 1694 un Fabrizio Paravicini aveva stilato una sua
Descrizione delle acque minerali del Masino. Si aggiunga che nel 1709 un membro della famiglia
proprietaria, verosimilmente un Paravicini parroco di San Martino, celato sotto lo pseudonimo
di Vaginnio Mosato (anagramma di Giovanni Tomaso), aveva scritto un'opera intitolata Bagni di
San Martino, detti comunemente del Masino, esistenti in Valtellina, procedenti da miniere d'oro, ferro e
nitro, ottime in bibita, in bagno e in fango92.
L'Anonimo potrebbe aver tratto da tali presunte «miniere d'oro» la suggestione che gli ha fatto
dire dei sali e vapori di «antimonio dorato» sgorganti dai sassi del Masino: dall'oro minerario,
l'oro della salute. Ma non è tutto oro quel che luce. Ai proprietari delle terme che tengono
queste in condizioni insoddisfacenti, egli ha l'aria di dire: ma come? Come mai voialtri, che siete
termalisti da più di un secolo, che coltivate da generazioni questa tradizione di famiglia, che
giustamente decantate pregi e virtù delle vostre terme, non vi curate dí migliorarne l'accesso,
l'abitabilità, l'ospitalità, la comodità? Perché mai questa incuria, quando con appropriati
investimenti potreste apportare migliorie utilissime ai malati e giovevoli a voi stessi? La
sobrietà della vostra mensa, che opportunamente esclude «li ritrovati dei cuochi più ghiotti» e i
«liquori, latti gelati e sorbetti rappresi», si accompagni pure al «risparmio della borsa» e alla
contrizione nella chiesuola «a cantar preci al Signore dei Signori». Ma un maggior agio e un
maggior conforto sarebbero auspicabili, a vantaggio di tutti.
È un auspicio raccolto? Un secolo dopo la perorazione dell'Anonimo, un medico insigne,
visitatore delle terme del Masino, scriverà la pagina seguente:
Il 3 agosto [1837] partimmo alle quattro del mattino. Faceva così freddo che dovetti indossare il
mantello imbottito. Dopo un'ora di viaggio con la vettura arrivammo all'Osteria della Pillasca
[borgo di Pilasco, frazione di Ardenno], a quattro passi da Morbegno. Qui si abbandona la
strada che porta allo Stelvio e si prende a sinistra la via delle montagne. Mi diedero un cavallino
che avevo paura di schiantare. [...] Mentre ci avvicinavamo al villaggio di San Martino, posto in
fondo alla valle, spuntò il sole. Erano le otto e ci restava da percorrere la parte più faticosa e
pericolosa del viaggio, su per una costa ripida, lungo un sentiero pietroso, sul bordo di un
abisso nel quale il Masino mugghiava; se il cavallo avesse fatto un passo falso, vi sarei senza
dubbio precipitato. Finalmente, alle nove, raggiungemmo la nostra meta, lo Stabilimento del
Masino, simile a un mulino diroccato93.
Detto dell'accidentato e precario accesso alle terme, l'ottocentesco medico visitatore affonda la
sua penna a criticare la struttura, l'organizzazione e il funzionamento dello stabilimento
termale:
Lo Stabilimento, o piuttosto la locanda, è in legno e ha un corridoio con le camere sui due lati.
Questo baraccamento è stato costruito due secoli fa. Ci sono quattro camere a un letto, tre a tre
letti e ventuno a due letti, tutte molto anguste. Si mangia alla tavola comune, sei portate per il
pranzo [!] e tre per la cena, con vino a volontà; il prezzo è di otto lire austriache per i bagni, il
vitto e l'alloggio. Ci sono anche malati di seconda categoria che pagano cinque lire e mangiano
con i domestici. C'erano una trentina di malati di prima classe [...]. Lo Stabilimento balneare del
Masino non ha un medico residente, ma il dottor Guicciardi di Sondrio, che passa qui la
stagione delle acque per proprio conto, ne fa le veci. Questo degno medico mi ha confermato ciò
che scrivono gli autori, e cioè che le acque del Masino sono efficaci contro le malattie scrofolose,
la secrezione viziosa della bile, i fiori bianchi [manifestazioni cutanee di malattie veneree], i
calcoli renali, la desquamazione della pelle [pellagra], la rigidità dei muscoli e dei tendini. [...]
Quanto ai bagni, sono troppo miseri e troppo sporchi per parlarne. Mi ricordarono le stufe
usate nel XVII secolo contro le malattie veneree. Non avrei potuto rimanervi a lungo per timore
di un'apoplessia, tanto erano caldi. I malati uscivano dai bagni rossi come dei gamberi [...]. La
valle dove si trova lo Stabilimento termale è troppo stretta per potervi passeggiare. Del resto,
non vi sono né sentieri né alberi. Si può immaginare la noia degli ospiti, chiusi giorno e notte in
un edificio di legno; gli unici svaghi sono gli altri malati, la miglior panna che abbia mai
assaggiato in vita mia e le trote [...]. Il proprietario dello Stabilimento [signor Paravicini] e il suo
socio, signor Cotta, mi prodigarono molte cortesie e non vollero essere pagati per le 36 ore
passate al Masino. Io che avevo deciso di non mandare nessuno al Masino se la strada per
arrivarci non fosse resa più praticabile, non volli avere alcun obbligo verso di loro94.
Conclusione
1. Riecco Goldoni
Un secolo prima della citata «memoria» del medico ottocentesco visitatore delle terme del
Masino, la visita alle medesime terme da parte di Buonafede Vitali — riprendiamo post mortem a
chiamarlo con i suoi propri nome e cognome — non dev'essere stata molto diversa. Scrivendo,
da protomedico in Verona, di quell'esperienza risalente a vent'anni prima, comparata a quella
dei bagni di Caldiero da lui fatti oggetto di descrizione poco prima di morire, il Vitali non
manca di sottolineare che ora come allora il medico deve sempre interessarsi non solo alla
generica salubrità delle acque, ma anche e soprattutto alla specificità dei benefici offerti dalle
«fonti medicate».
Ma anche qui, alla disamina particolareggiata delle virtù delle fonti, da uomo di scienza quale si
autostima, premette una lunga dissertazione teorica, questa volta centrata sull'acqua in
generale, come elemento, «considerata in primo luogo qual corpo contiguo-liquido avente le
sue minime particelle fatte come una figura di piramide triangolare». Egli esibisce od ostenta uno
spirito scientifico di stampo meccanicistico, atomistico, geometrico, al passo coi tempi. La
recensione postuma che compare l'anno dopo sulle «Novelle della repubblica letteraria»
commenta che tale spirito scientifico «egli sostenne apertamente, che che ne dicano coloro che
volessero nella medesima [acqua] ammettere ogni altra figura fuorché quella di piramide
triangolare». Chiunque — obietta il recensore — «invoglierassi a saper il fondamento di quelle
piramidette impercettibili, che [...] fanno ricordar il curioso computo di dodici angoli acuti per
ciascuna particella, o atometto piccolissimo innumerabile, assegnato [da lui] all'acqua
medesima»1.
Il Vitali è infatuato della propria interpretazione particellare, di geometra della natura, quasi da
iatromeccanico di scuola galileiana. «Egli adduce nuove sue osservazioni circa la natura de' tre
Sali — alcali o calcario, acido o solfureo, e salso propriamente detto — [...]; e dietro la famosa
distinzione degli angoli presso de' Matematici, ei si fa lecito introdurre ancora la triplicata
forma de' Sali cubici, ottusi, acuti»2.
Poi, per fortuna del recensore e del lettore, il protomedico iatromatematico lascia la teoria per la
pratica. Dai cervellotici, personalissimi concetti sulla struttura fisico-chimica dell'acqua passa
alla descrizione delle acque di Caldiero, sgorganti da due polle, l'una per individui di pelle
sana, l'altra per «impiagati». Sono ambedue «senza brividi», limpide e tiepide, giovevoli in
bagno e in bibita, utili «agli ostrutti, ai torpidi, ai cachettici». Tra le loro proprietà —
«ricostituenti, dirigenti, rinforzanti, penetranti, discutenti e ristoranti» merita menzione quella
«dovuta allo spirito minerale mobile, attivo ed elastico» che s'introduce nelle porosità del corpo
svaporandone le fumosità ed espellendo le sudicerie. Il dosaggio della cura per bocca parte da 3
libbre per arrivare a 12 in due settimane. Il vitto delle terme è parco, moderato: lo soccorre
peraltro un «innocente antipasto» e lo corrobora il formaggio «lodigiano o parmigiano»; inoltre
lo completa «la cioccolata o il caffè» e lo aiuta un sonnellino pomeridiano seguito da una
passeggiata «in carrozza o a cavallo»3.
Per mezzo delle acque e dei fanghi di Caldiero la medicina si allarga a comprendere la
veterinaria: le fangature si prestano infatti a «impastocchiare cavalli spallati o pieni di dolie». Il
laghetto termale, dove l'acqua fa maggior gorgo, è chiamato «[della] Cavalla» perché una
giumenta vi ci sprofondò. Ma la veterinaria rimanda subito alla medicina degli uomini, di quelli
che hanno il coraggio di farsi curare «come giumenti» infangando le loro «sciatiche, lombature,
dolie delle spalle e degli ginocchi». Senza mancare, poi, di esporsi «al Sole ardente» per le
opportune «abbronzature»4.
L'elogio delle terme di Caldiero non fa obliare al protomedico il primato terapeutico della
propria farmacopea da saltimbanco, comprendente le pillole «melanogoghe» contro la
malinconia, che talora afferra gli ospiti delle terme, e le pillole «ermetiche» con cui «nella quiete
della notte si risvegliano li [organi] solidi impigriti e si dispongono [per il meglio] gli umori
stagnati»5.
Ma il saltimbanco d'un tempo, ora nella veste di protomedico, concede assai più spazio d'una
volta alla scienza ufficiale, di cui loda le pillole «Becheriane», «Staaliane», «Offmaniane», in
ossequio alle nuove dottrine chimiche. Johann Joachim Becher (1635-1682) era stato il chimico
maestro di Georg Ernst Stahl (1660-1734); questi e Friedrich Hoffmann (1660-1742) erano stati
entrambi professori a Halle, nel Magdeburgo, sostenitori l'uno della teoria del flogisto, l'altro
della teoria dell'etere. È dall'Università di Halle, cara a Federico II il Grande, re di Prussia, che è
giunto al Vitali l'invito, graditissimo, a trasferirsi colà coronando la propria carriera. La
raccomandazione delle pillole dei due professori può essere vista come captatio benevolentiae
espressa da parte di un futuro membro del prestigioso ateneo.
Nel consuntivo della vita di Buonafede Vitali si può dire che se egli ha speso in lungo e in largo
i propri talenti, questi gli sono stati riconosciuti e ricompensati, più che altrove, in Verona,
durante gli ultimi tre anni del suo vivere e viaggiare nel mondo. Ce ne dà conferma Carlo
Goldoni:
[Il Vitali] fu chiamato a Verona in occasione di una malattia epidemica che faceva strage fra
quanti ne erano colpiti. Il suo arrivo in quella città fu salutato come l'apparizione di Esculapio in
Grecia. Ottenne guarigioni generali con delle mele appiole e del vino di Cipro. Per riconoscenza
gli fu dato il titolo di medico primario di Verona; ma non doveva goderne a lungo perché in
quello stesso anno venne a morte, rimpianto da molti meno che dai medici6.
2. Commediante, commediografo
Torniamo a quegli anni Trenta del Settecento in cui Goldoni incontra a Milano Buonafede Vitali
nel pieno vigore della maturità e nel maggior fulgore dell'attività di medico saltimbanco. Sono
«anni agitatissimi per la città di Milano». Mentre un esercito franco-piemontese al comando di
Carlo Emanuele III di Savoia occupa lo Stato di Milano volgendo a proprio vantaggio le vicende
della guerra di successione polacca (combattuta contro Austria e Russia e conclusa dalla pace di
Vienna nel 1738), a tale guerra fanno da contorno le carestie e le epidemie catarrali descritte dal
medico milanese Giacomo Antonio Crivelli e da lui attribuite agli autunnali «scirocchi con
piogge e nebbie» e agli inverni «umidissimi e freddi»7.
Il clima milanese non giova all'ipocondria di Goldoni che, rivoltosi al Vitali in veste di paziente,
mantiene con lui rapporti anche d'altra natura, come si vedrà tra poco, frequentandolo in
privato e dilunganddsi a valutarne e memorizzarne modi e comportamenti. Scrive:
Dovunque si mostrava in pubblico a Milano, l'Anonimo aveva la soddisfazione di veder tutto
pieno di gente a piedi e dí gente in carrozza; ma poiché i dotti erano quelli che comperavano
meno, bisognava rifornire il palco di certe attrazioni per intrattenere gl'ignoranti; e il nuovo
Ippocrate spacciava i suoi medicamenti e prodigava la sua oratoria, circondato dalle quattro
maschere della Commedia italiana8.
Le quattro maschere con cui il Vitali era solito rallegrare il suo pubblico erano quelle
tradizionali: Pantalone, il Dottore, Arlecchino, Brighella. A parte queste ultime due, tratte l'una
dalla Bergamasca e l'altra da Brisighella nel Faentino, Pantalone e il Dottore consentivano al
Vitali di duettare sul palco, lui assumendo la parte del Dottore e affidando il ruolo «di spalla» di
Pantalone a quel Francesco Rubini, mantovano, che a detta di Goldoni «sosteneva mirabilmente
la parte»9.
Buonafede Vitali non solo teneva in gran conto la spettacolarizzazione cerimoniale della propria
eloquenza nell'esercizio dell'arte sua e durante le sue vendite, ma anche dedicava se stesso, in
prima persona, all'arte dello spettacolo, scrivendo i testi per i teatranti che gli facevano
«compagnia» — una vera e propria compagnia di teatro — nelle sue esibizioni. Scrive ancora
Goldoni: «Bonafede Vitali aveva anche la passione della commedia, e manteneva a sue spese
una intera compagnia di commedianti»10.
Si immagini la scena, nel «Verzaro [alias Viridario]» di Milano, stracolmo di folla, o nell'attiguo
slargo davanti alla basilica collegiata di Santo Stefano. È un luogo storico: in data 26 dicembre
1476 lì era stato ucciso a pugnalate il duca Galeazzo Maria Sforza; li il famigerato frate
Gerolamo Donato, detto «il Farina», in data 2 agosto 1570 era stato impiccato non prima che gli
venisse amputata «la mano che havea sparato l'archibugiata contro l'Illustrissimo Cardinale
Carlo Borromeo», arcivescovo di Milano, inviso a molti per aver «disciplinato e contristato»
l'ordine religioso degli Umiliati, troppo arricchitosi, al quale apparteneva il temerario frate
sparatore.
Il sito non è lontano dall'«albergo del Pozzo, uno degli alberghi mobiliati più famosi di Milano»,
dove — scrive sempre Goldoni — «andai ad alloggiare»11.
Lì c'è il banco su cui sale l'Anonimo, mentre lo schiamazzo d'intorno si acquieta ed egli si
appresta a recitare, a conversare con Pantalone, a dialogare — botta e risposta — con la piazza.
Ha inizio la rappresentazione, descrittaci da Goldoni.
Scena prima: «egli risolveva pubblicamente le questioni più difficili che gli erano proposte su
tutte le scienze e sulle materie più astratte. Sul suo teatro empirico si avvicendavano problemi,
questioni di critica, di storia, di letteratura, ecc.; ed egli con risposte improvvisate svolgeva
dissertazioni d'alto pregio».
Scena seconda: le maschere al suo seguito, che gli facevano contorno, mentre egli magnificava
uno dopo l'altro i suoi dodici «arcani» — la meravigliosa dozzina della salute a buon mercato —
con lazzi e giuochi di mano «aiutavano il loro padrone a ricevere il denaro ch'era gettato dal
pubblico in fazzoletti» e si sbracciavano «a rinviare questi stessi fazzoletti carichi di vasetti e
scatolette».
Scena terza: queste stesse maschere, ultimata la compravendita, «facevano seguire la recita di
commedie in tre atti al lume di bianche tracce di cera, non senza un magnifico apparato»12.
Buonafede Vitali è un commediante nato. Ha la medicina nel cervello, la chirurgia nelle mani, il
teatro nel sangue. Scrive commedie. Sua è La bella negromantessa, che ha per protagonista una
strega due volte pericolosa: perché è una maga intrisa di «nera magia», demoniaca, e perché è
bellissima, provocante e attraente come una sirena omerica trasmutante gli uomini in porciu. È
una «commedia in prosa, brieve, onesta e piacevole, composta e data in luce dall'Anonimo»
presso l'editore Longhi, in Bologna, nel 1735.
Il Vitali fa la spola tra Milano, Busseto, Parma, Bologna. «La città di Bologna», ha scritto Luigi
Rasi traendo spunto dall'Histoire du thédtre italien (Parigi 1728) di Luigi Andrea Riccoboni, «ci ha
sempre fornito un gran numero di scienziati e soprattutto di Dottori. [...] Essi vestivan la toga e
in iscuola e per via; e saggiamente si pensò di fare del Dottore bolognese un altro vecchio che
potesse figurare al fianco di Pantalone». Nacque così «un eterno cicalone [...]; non è fuori del
possibile che sia preso questo carattere dal vero»14.
Buonafede Vitali, come medico, ha giovato a Goldoni, paziente ipocondriaco. Come
commediante e commediografo gli giova favorendo in lui, amareggiato e depresso per il
fallimento sul nascere del dramma in versi Amalasunta, il ritrovamento della vena di autore di
commedie che stentava a venir fuori. Lasciamo, in proposito, la parola allo stesso Goldoni:
Gli spettacoli di Milano erano stati sospesi durante la Quaresima secondo l'usanza italiana. La
riapertura del teatro di commedia doveva aver luogo a Pasqua, ed era già stato preso l'impegno
con una delle migliori compagnie. Senonché il direttore, chiamato in Germania, s'allontanò
senza dir parola, piantando in asso i Milanesi. Trovandosi priva di spettacoli, la città si
disponeva a far ricerca a Venezia e a Bologna per formare una compagnia. L'Anonimo avrebbe
desiderato che fosse data la preferenza alla sua, che non era eccellente ma, oltre a poter contare
su tre o quattro soggetti di merito, presentava un complesso assai bene affiatato.
[...] Con piacere assunsi l'incarico d'una commissione che doveva essermi, sotto ogni aspetto,
gradita. Ne feci parte al mio ministro [Orazio Bartolini] che mi promise di parlarne alle più
cospicue dame della città; ne feci [io stesso] parola al conte Prata, con cui avevo intrattenuto
buone relazioni; feci valere il mio credito e quello del residente di Venezia presso il
governatore; e, in capo a tre giorni, con grande soddisfazione dell'Anonimo, il contratto fu
firmato. Per compenso ebbi un secondo palchetto di faccia che poteva contenere fino a dieci
persone.
Poiché avevo stretta dimestichezza con la compagnia, approfittai dell'occasione per
riaccingermi a comporre qualche bagatella teatrale. Per fare una commedia non avevo tempo
sufficiente, perché gli accordi presi con l'Anonimo si limitavano alla primavera e all'estate, e
scadevano a settembre; ma, d'altra parte, poiché fra i suoi dipendenti, c'era un compositore di
musica e una coppia di eccellenti cantori, composi un intermezzo a due voci, intitolato il
gondoliere veneziano, che fu eseguito con tutto il successo che una composizione del genere
poteva meritare. Ecco la mia prima produzione comica apparsa in pubblico15.
«Oltre a questo intermezzo, Goldoni compose, in brevissimo tempo, alcuni soliloqui, rimproveri,
disperazioni, dialoghi, dichiarazioni, concetti amorosi e altre bagatelle del genere»: questa
iperproduzione, tra cui Buonafede Vitali dovette pescare a piene mani per le propiie esibizioni
spettacolari dipiazza, fece pensare all'Anonimo e ai commedianti della sua compagnia che
Goldoni «dovesse diventare il poeta del loro cuore, la colonna della Commedia dell'arte»16.
Nella recente Vita di Goldoni Franca Angelini, riassumendo gli inizi di carriera del grande
commediografo veneziano, ha detto che per l'Anonimo Goldoni «scrive, dietro richiesta,
l'intermezzo a due voci I sdegni amorosi tra Bettina putta de Campiello e Buleghin barcariol venezian
(poi intitolato Il gondoliere veneziano) e Il Belisario, sua prima tragicommedia dopo la sfortunata
Amalasunta»; e aggiunge che Goldoni, «viaggiatore e avventuriero perché sempre disponibile a
nuove esperienze, figlio di un medico che somiglia all'Anonimo, trova in quest'ultimo la
persona per cui iniziare la pratica del teatro, con gli attori e con il tipo di teatro allora di
moda»17. Insomma, nel 1732 è «l'Anonimo Buonafede Vitali [colui] che instraderà Goldoni al
teatro»18.
3. Hanno detto di lui
Il sito urbano dove Buonafede Vitali predilige allestire il proprio palco è poco lontano dalla «Ca'
Granda dei Milanesi», l'Ospedale Maggiore fondato nel 1456 dal duca Francesco Sforza. Non
più dí duecento passi separano il trespolo del medico saltimbanco dai, seggi dei medici
ospedalieri. Né maggiore è la distanza che divide la ricettazione empirica dell'Anonimo
dall'offerta omnium medicamentorum & compositionum quae reperiuntur in aromataria del
«venerando» Ospedale. L'index di tutti questi «medicamenti e composti che si trovano nella
spezieria» della Ca' Granda elenca oltre 400 voci medicinali, alla data del 20 marzo 1711. Ma
l'«indice» è valido anche vent'anni dopo, quando il Vitali è, con Goldoni, ospite di Milano.
Tra gli elettuari figura ancora l'antica «triaca»; tra gli sciroppi c'è quello di «legno santo» (=
guaiaco); tra i giulebbi, l'«ossimele»; tra le pillole, la «lingua di cane» o «erba dellaMadonna»;
tra i trocisci (= pastiglie), la «terra sigillata»; tra le polveri, quella «magistrale per le costrizioni»;
tra gli estratti, il «vischio»; tra le conserve, il «corallo»; tra i succhi, il «cardo benedetto» (=
centaurea); tra le acque, la «ungaria regia»; tra gli unguenti, l'«egiziaco»; tra gli oli,
l'«ovovitellino»; tra i balsami, quello di «Monsù Giac[obbel»; tra gli spiriti volatili, quello di
«fuliggine». Infine, catalogati nei medicamentis spectantibus ad Chymiam, cioè tra i «farmaci
chimici», troviamo l'antimonio diaforetico, il butirro solforato, la gialappa magistrale, il
precipitato di mercurio, il regolo di antimonio19.
C'è dell'altro: ancora nel 1707, dal «siscalco» ospedaliero, reggitore del nosocomio e
provveditore ai bisogni, vengono emanati «ordini per la provvisione del grasso umano e della
polvere di cranio da tenersi nella farmacia»20. Tutta questa «farmacopea speciale» è destinata a
protrarsi a lungo: fino all'aprile del 1760 la farmacia dell'ospedale produce e smercia, per
pazienti ricoverati o ambulanti (assistiti questi ultimi dal Pio istituto di Santa Corona), ben 397
medicinali21.
Medici e farmacisti che guardano all'Anonimo con sospetto e dispetto dimostrano d'aver fede in
una empiria medico-farmaceutica più complicata ed eclettica di quella del rivale. Di lui
stigmatizzano, biasimandola, l'eterodossia comportamentale, ritenuta incompatibile con
l'esercizio della professione. Esercitandola secondo i dovuti canoni, essi vedono ogni malattia o
malanno come una cattiva miscela di umori corporei, talora «crudissimi» e resistenti alla
«cozione», talaltra «acidissimi» e da neutralizzare con farmaci «alcalini»: così insegna loro la
iatrochimica, che sta uscendo fuori dall'ostracismo seicentesco, della quale, peraltro, il Vitali è
stato tra i primi a dirsi e a farsi assertore. La distanza chemiatrica tra lui e i medici del vicino
ospedale, che si professano osservanti dell'ortodossia dottrinale, è — a ben vedere sfumata.
Altrettanto lo è la distanza diagnostica: il medico ospedaliero Paolo Gerolamo Biumi, un
patrizio laureato a Pavia e collegiato a Milano come altri suoi colleghi, oltreché ribadire la
propria fede nella «polifarmaceutica empirica», manifesta in modo emblematico l'invalsa
«tendenza a derivar tutto dalla fermentazione degli umori» diagnosticando sconcerti chimici e
curando secondo una chemiatria addizionata in modo posticcio al vecchio galenismo22.
La distanza, o differenza, non è di sostanza, ma di «buona creanza». E, per dirla nel francese di
Goldoni, di bon ton. Non è l'arte medica, né la teoria degli umori, né l'aggiornamento chimico
di questa, né l'adeguamento della prassi terapeutica alla nuova fisiologia chimico-umorale, a
fare la differenza tra i medici dell'Ospedale Maggiore e il loro scomodo vicino. A farla è la
«mala creanza» di costui, è il suo «saltare in banco», che è tutt'altra cosa dall'«assidersi in
cattedra» proprio dei dottori degni di rispetto. Costoro criticano non tanto l'arte altrui, che non è
dissimile dalla propria, quanto l'artefice, che apertamente dicono essere un ciarlatano. Il che fa
imbestialire il Vitali, che si professa artefice «senza macchia» e che imputa alla corruttela dei
tempi il dover ricorrere a commedianti e commedie per richiamare la gente e spingerla a
provvedersi di medicinali utili o necessari. Egli ritorce l'accusa di vilipendere l'arte al ruolo di
ciarlataneria sui dottori che rilasciano licenze d'esercizio a destra e a manca, senza far
distinzione tra gli artefici ottimi e gli artefici pessimi.
Ma l'onda avversa che si abbatte sul medico saltimbanco non è solo quella della medicina
«ortodossa»; è anche quella di ben altra ortodossia. A Milano, di cui è stato paterno arcivescovo
il cardinale Federico Borromeo, vige ancora l'editto, da questi emanato il 7 agosto 1621, Che niun
ecclesiastico secolare o regolare vadi alle comedie. In tale editto il cardinale ordina ai suoi sottoposti,
e beninteso consiglia ai più devoti diocesani appartenenti al suo gregge, di non assistere a
«qualunque profano spettacolo» e di non porgere orecchio, «vagando per le piazze, a cose
inutili, et nocive». Egli diffida apertamente dal «ritrovarsi a comedie, overo a sentir ciarlatani,
cantimbanchi, ciurmatori, et simili altre sorte di gente»23.
Questa l'onda burrascosa, che va e che viene in un clima ostile, dove coloro che propiziano
turbini e tempeste sul capo di Buonafede Vitali sono quelli che l'Anonimo considera
«pseudomedíci», cioè medici mentitori. Due anni prima ch'egli desse alle stampe in Verona la
propria Lettera in difesa dell'«esercizio del Saglimbanco» era uscita, postuma, un'operetta dal
titolo eloquente, Il mondo ingannato da' falsi medici (Trento 1716), dovuta alla penna del medico
veronese Giuseppe Gazola (1661-1715). Scrive il Gazola che ormai «fare il medico» voleva dire
«sapere a memoria quattro Aforismi d'Ippocrate e una dozzina di passi di Galieno, [...] essendo
Galieno come una gran zucca — tamquam cucurbita magna — dove si convertono in catarri,
flemme, pituite, flussioni», i mali da «battezzare con un nome che abbia un poco del Greco e
dell'Arabo»24.
La vacua nomenclatura arabo-galenica, esprimente una fisiopatologia arcaica ed espressa da
flatus votis vuoti di contenuti moderni, è, per il Gazola, il vero gergo ciarlatanesco fatto su
misura per «gabbare il mondo e guadagnare [zecchini] con il semplice capitale di quattro ricette
rancide». La vera ciarlataneria medica, che si esprimeva nel lessico gabbamondo bollato dal
Gazola, cui fa eco Buonafede, è quella stessa che è stata bollata oltralpe dal teatrante JeanBaptiste Poquelin, ín arte Molière, e stigmatizzata nella Recherche de la vérité dal filosofo
Nicolas de Malebranche con queste parole, indicanti la «falsità» lessicale e sostanziale di certa
medicina sedicente ortodossa: «Se i medici citano passi greci e latini servendosi di termini nuovi
e fuori del comune, per quelli che li ascoltano si tratta di grandi uomini. Si dà loro diritto di vita
e di morte, si crede loro come ad oracoli»25.
Sono questi «falsi medici» i «veri ciarlatani», cioè i dottori con cui polemizza il Vitali.
Buonafede, d'altro lato, ha da polemizzare anche con gli esponenti della ciarlataneria di piazza,
che addirittura spingono la loro impudenza fino al punto di tentar d'imitarlo. Nella raccolta di
Memorie degli scrittori e letterati parmigiani (Parma 1833) dell'Affò e del Pezzana è scritto che «la
somiglianza di professione» e «l'essere stati ambidue contemporanei», nonché figli entrambi del
Parmense, rendono legittima l'ipotesi che emulo e fiero «avversario» dell'Anonimo sia stato, lui
vivente, quel Giuseppe Colombani, nato a San Secondo (a metà strada tra Parma e Busseto) nel
1689 (tre anni dopo Buonafede), che amò autodefinirsi «l'Alfier Lombardo»26.
La vita di costui, ricapitolata in breve, sembra a prima vista evocare in qualche tratto la vita del
Vitali. Il Colombani, in una sua «opera nuova» intitolata Apri ben l'occhio, pubblicata presso
Maldura a Venezia nel 1725, narra d'aver cinto la sciabola paterna all'età di dieci anni, d'essersi
arruolato nelle milizie ma poi d'aver disertato per imbarcarsi come mozzo a Genova, migrando
successivamente di là a Barcellona per farvi il ballerino e il bell'amoroso. Narra ancora d'essere
andato per mare a Palermo a spacciarvi i «segreti» appresi tra le braccia di un'Angelica, figlia di
un vecchio persiano, e da lui venduti in società con un saltimbanco suo pari, chiamato «Testa di
Ferro». Racconta inoltre che poi, passato tra le braccia di un'Apollonia, girò il mondo — in
Francia, Olanda, Inghilterra — facendo ora il soldato, ora il marinaio, ora il chirurgo e sempre il
poeta: ín realtà un poetastro da strapazzo che amava definirsi a quel tempo «Cittadino
dell'Universo». Con il mestiere di cavadenti ottenne successo e denari a Venezia, dal banco
eretto in piazza San Marco, suscitando l'invidia di molti, tra cui un tale «Monsciù Guascon»,
epiteto allusivo da lui dato a un saltimbanco vanaglorioso nel quale s'è voluto identificare
Buonafede Vitali. La denominazione denigratoria e la presunta personificazione sono
desumibili dall'opuscolo intitolato Il tutto ristretto in poco, scritto dal Colombani e pubblicato
presso Milocco a Venezia nel 1724. Il ruolo di «castigamatti» e di «flagello della bugia» il
Colombani l'avrebbe svolto anche dopo, continuando a tacciare l'Anonimo di millanteria e
fraudolenza27.
In ordine cronologico, ciò che s'è detto e scritto di Buonafede Vitali nell'arco del secolo che fu il
suo — il Settecento della «ragione dei lumi» o dei «lumi della ragione» — va dalle stoccate di
Giuseppe Colombani, che sparla di lui in modo palesemente e pesantemente allusivo, alle
cautele epistolari di Antonio Vallisnieri, che altalena tra giudizi più o meno critici, alla
biografica «memoria inserita nel tomo III della Raccolta di opuscoli scientifici e letterari (Ferrara
1779)» e scritta in elogio del proprio cugino di secondo grado e padre adottivo da Buonafede
Vitali junior. Si aggiungono i Mémoires di Carlo Goldoni, «bellissime testimonianze [...] della
prestanza dell'Anonimo, quantunque egli il ponga nel novero de' cerretani»: un cerretano sui
generis, «il quale non credé punto oscurata la chiarezza del proprio sangue da una professione
che, esercitata in modo così rigoroso, il fece onorato appo de' Principi, di tutte le grandezze de'
suoi tempi e di tutte le condizioni»28.
Dal nero livore di un invidioso conterraneo di nessun conto al fulgore degli elogi tessuti dal
biografo di famiglia, passando attraverso il grigiore dei pareri a senso e controsenso di un
professore d'università e il nitore dei ricordi simpatetico-empatici di un teatrante-paziente,
l'Anonimo vien fuori dal XVIII secolo come figura ambigua, avvolta in un chiaroscuro di
sentenze che rende legittima la domanda: Buonafede, chi è stato?
Nel primo Ottocento, il bibliotecario palatino Angelo Pezzana ne ha fatto un protagonista di
storia locale, ancorché egli avesse vissuto in tante parti d'Italia e d'Europa, degno di incuriosire
e — perché no — divertire. La Storia della medicina italiana, licenziata a Napoli da Salvatore De
Renzi nel 1845, non lo ha ritenuto degno di attenzione; né diversamente lo ha considerato,
ignorandolo, Francesco Puccinotti nella Storia della medicina pubblicata a Pisa nel 1850.
Nel secondo Ottocento, la medicina positivistica assisa in cattedra non ha certo visto nel Vitali
un medico positivo e progressivo, degno di memoria, contrariamente a Goldoni, che cent'anni
prima l'aveva detto meritevole «di essere ricordato negli annali del secolo»; ed Emilio Seletti,
raccoglitore delle «memorie storiche» della Città di Busseto (Milano 1883), ha ricalcato
l'approccio storiografico del Pezzana considerando il Vitali una sorta di gloria bussetana, nel
tempo in cui Giuseppe Verdi dava maggior lustro a Busseto, citando ad avallo la menzione
dell'Anonimo da parte di Cesare Cantù e di altri autori meno noti.
Dall'oblio ottocentesco il Vitali è stato tratto, sul finire del secolo, da Alessandro D'Ancona,
professore di letteratura italiana nell'Università di Pisa, che in una «strenna» pubblicata a
Genova nel 1889 e ripubblicata nella silloge Viaggiatori e avventurieri (Firenze 1912) ha descritto
viaggi e avventure di «Bonafede Vitali, l'Anonimo», da lui definito «macchietta goldoniana»
specificando: «Questo avventuriero che lasciava l'Accademia per la piazza e faceva della piazza
Accademia, rispondendo, dottore enciclopedico, ad ogni dimanda, [...] unendo insieme teatro e
farmacopea, maschere e barattoli, scienza ciarlatanesca e commedia improvvisata, l'una
aiutando con l'altra, costui era certamente di per sé un curioso personaggio»29.
D'Ancona, autore tra l'altro delle Origini del teatro in Italia, opera pubblicata nel 1877, ha
riservato al Vitali un'attenzione da storico del teatro e da filologo: «Non saprei dire se il nome
Salimbanco invece di Saltimbanco sia invenzione del Vitali: ben è certo che mentre questo
richiama i salti, gli atti grotteschi, le scene giullaresche del [...] piazzaiuolo, l'altro ci rappresenta
invece l'Anonimo che sale sulla banca, come facevano gli improvvisatori popolari detti appunto
cantatori in banca, e se ne fa un suggesto, una tribuna, una cattedra» 30.
Nella storiografia non del teatro, ma della medicina, il Vitali ha fatto ingresso nel 1922, grazie al
medico e storico Andrea Corsini, che lo annovera tra i «medici ciarlatani e ciarlatani medici»,
chiedendosi peraltro se sia «lecito domandarsi se il Vitali era proprio da disprezzarsi più di
altri» in un'epoca in cui «lunghe disquisizioni filosofiche teneano il campo negli innumerevoli
consulti fatti da quattro o cinque parrucconi, insieme congregati presso il letto dell'ammalato o
nelle riunioni accademiche»31.
Nel 1938, sulla falsariga del D'Ancona, ha scritto del Vitali Bruno Brunelli, che ha concluso il
suo giudizio con queste parole: «Fu dunque l'Anonimo uno di quei multiformi avventurieri, un
po' scienziati e un po' ciarlatani, ma indubbiamente geniali, come ne ebbe molti il secolo XVIII, e
certo, fra i molti, non dei mediocri»32. Contemporaneamente, sulla falsariga del Corsini, ha
accolto il Vitali nella storiografia medica ufficiale Arturo Castiglioni, che nella sua Storia della
medicina, pubblicata nel 1938 e ripubblicata in edizione «ampliata e aggiornata» nel 1948, ha
scritto che «assai frequente fu nel '700 il tipo dei medici saltimbanchi, i quali avendo studi o
cognizioni di medicina, esercitavano l'arte sulle piazze. Il più interessante e notevole fra questi
fu Bonafede Vitali saltimbanco, come egli amava chiamarsi orgogliosamente, generalmente noto
sotto il nome di Anonimo, il quale era chiamato e riverito da principi e sovrani, e da tutti
colmato di doni preziosi»33.
Nel 1974 lo storico della medicina Adalberto Pazzini, dedicando un breve paragrafo della sua
Storia dell'arte sanitaria dalle origini a oggi ai «ciarlatani e avventurieri», ha scritto che «tra costoro
merita una speciale menzione Giuseppe Balsamo, che si faceva chiamare Cagliostro», e che
«anche Giacomo Casanova [.. .] , sebbene non avesse praticato ciarlataneria medica, ebbe la sua
parte in materia. Maggior valore ebbe, invece, Bonafede Vitali, medico che si faceva chiamare
l'Anonimo e si vantava di essere saltimbanco»34.
4. L'Anonimo come prototipo
In tempi più prossimi a noi, la figura dalle molte sfaccettature di Buonafede Vitali è stata
oggetto di attenzione da parte di parecchi studiosi. Tra questi Paolo Rigoli, autore di una ricerca
bio-bibliografica sul «mestiere di ciarlatano tra Sei e Settecento», ha considerato il Vitali «un
ciarlatano in odore di onestà, che tiene a debita distanza sia i comici», dal Vitali medesimo
etichettati come «personaggi ridicolosi e buffoneschi», «sia i [tanti] colleghi millantatori», dallo
stesso Vitali bollati come «i moltissimi vigliacchi che disonorano questa povera arte a scapito dei
pochi eccelsi e gran professori che la sostentano»35.
Michelangelo Ferraro, in un saggio sul Vitali e i suoi «segreti» pubblicato nel 2002, ha scritto che
«l'Anonimo serve a confermare la regola che tra una miriade di ciarlatani impostori dell'età
moderna si poteva incontrare, ogni tanto, l'eccezione di un ciarlatano esperto di medicina, colto
e di nobili natali». Ha soggiunto che «la vicenda biografica dell'Anonimo rivela la sua dinamica
attività di cercatore, confezionatore e distributore di 'segreti', ma anche la rete di relazioni
importanti che egli seppe costruire [...1, apprezzato da professori di medicina come Vallisnieri e
Lancisi [docente alla Sapienza], licenziato da tutti i Collegi medici degli Stati italiani, ricevuto
nelle corti di tutta Europa»36.
In tempi ancora più recenti, la figura del Vitali, dopo aver valicato i confini della storia locale,
ha varcato anche quelli d'Italia. Piero Gambaccini, medico, nel 2004 ha pubblicato oltreoceano (a
Jefferson, North Carolina) il libro Mountebanks and Medicasters. A History of Italian Charlatans,
traduzione in lingua inglese del suo volume I mercanti della salute (Firenze 2000). In esso c'è un
paragrafo su «Bonafede Vitali, celebre medico e saltimbanco», in cui l'autore riconosce tra le
qualità dell'Anonimo, a fianco della «rinomata eloquenza», la «medicina semplice» grazie alla
quale «riuscì a guarire dove [altri] medici avevano fallito»37.
Infine David Gentilcore, storico della medicina, ha dedicato al Vitali una decina di dense pagine
del suo libro Medi-cal Charlatanism in Early Modern Italy, pubblicato a New York nel 2006.
Tali pagine compongono il capitolo Buonafede Vitali e una «Lettera in difesa della professione
di ciarlatano». Con quest'ultimo termine l'autore traduce tout court il termine «saglimbanco»
usato dall'Anonimo nella citata Lettera, scritta ad autodifesa: lo scambio dei termini autorizza a
pensare a un unico «tipo d'identità».
Lo storico della medicina coglie dapprima alcune «evidenti contraddizioni» del Vitali. Costui
biasimava la teatralità, ma teneva al proprio soldo una compagnia di teatranti. Affermava la
semplicità della medicina, ma distribuiva una dozzina di «arcani» tutt'altro che semplici. Era
uno dei chimici più celebrati, ma proclamava di rifuggire da ogni teoria, anche iatrochimica.
Cercava 1'«anonimato», ma era un maestro di autopromozione. Si atteggiava a venditore
ambulante, ma era ben lieto di assumersi importanti incarichi e di frequentare persone influenti.
Riceveva grandi accoglienze e offerte di lavoro dovunque andasse, ma era sempre pronto a
scappar via38.
Poi Gentilcore rileva quelle che, a parer suo, sono le peculiarità — o le pecche? — del Vitali:
culto sperticato dell'empirismo; credenza nel merito di un mestiere — il proprio di saltimbanco
— inteso come «arte pubblica»; sicurezza o sicumera circa i «benefici forniti dai suoi pochi, ma
sicuri rimedi»; disprezzo per l'accademia, accusata di autorizzare l'esercizio dell'arte da parte di
«enormi ignoranti», purché paghino la tassa d'esercizio, e di sconfessare gli «onesti praticanti»
con il pretesto che essi saltano in banco insieme ai loro attori39.
L'autore del saggio sospetta che «il neologismo salimbanco», scelto dal Vitali per sé, sia stato
«parte di una precisa strategia per distinguere se stesso e la propria attività dalla vituperata
immagine della ciarlataneria». Così argomenta:
Mentre non era per nulla inusuale parlare di salire in banco, nessuno aveva mai unito le parole
per dar vita al nome salimbanco. La dizione è molto più aggraziata sia di montare (come in
montainbanco), sia di saltare (come in saltimbanco). Vitali non esita a usare un nuovo o raro
termine. Deve aver capito che le parole possono celare [o svelare] le cose. [...] Può aver sperato
che usando la parola salimbanco si sarebbe sbarazzato del pesante fardello della tradizione
[ciarlatanesca] nel processo creativo di un originale tipo d'identità40.
È una tesi condivisibile. Il Vitali, uomo di ottima estrazione e di altrettanto ottima creanza,
dotato da madre natura di talenti cospicui e di grande savoir faire, culturalmente nutrito di
molte disparate letture e plasmato da un'erudizione affastellata e da esperienze di vita
numerosissime e varie, ha tenuto a differenziarsi dalla massa dei ciarlatani di bassa lega, incolti
e mentitori, dando vita a un prototipo originalissimo, sconfinante dai margini della medicina
attraverso il teatro e sconfinante dai limiti di quest'ultimo allo scopo di «andare verso il popolo»
con una medicina largamente fruibile, non senza valorizzare — a modo suo — gli aspetti
comunicativi e relazionali del messaggio medico.
Il pre-illuminismo settecentesco, nella sua ricerca di nuove identità, ha prodotto anche questa
contaminazione di ruoli. Non diversamente la nostra stagione storica, quella in cui siamo vissuti
e viviamo, ha prodotto e produce sconfinamenti non dissimili. «Gli sconfinamenti politici di
attori, teatranti e umoristi appartengono, da Aristofane in poi, alla storia delle democrazie
occidentali»: così ha scritto recentemente Sergio Romano («Corriere della Sera», 23 settembre
2007, p. 41).
Romano ha scritto inoltre: «Il teatrante ha una grande capacità di comunicazione, mette alla
berlina la classe politica [talora in attesa di farne parte], risveglia le frustrazioni e i risentimenti
di una parte della società. Il fenomeno assomiglia per molti aspetti al carnevale, vale a dire a
quella parentesi, nel corso dell'anno, in cui è permesso di trasgredire e sovvertire le regole della
vita civile. La irresistibile ascesa del comico-politico», per l'appunto non dissimile dall'ascesa
settecentesca del saltimbanco-medico, «dura generalmente qualche mese o pochi anni [ma non è
sempre così] e si spegne quando il pubblico si stanca di ascoltare sempre le stesse battute o si
accorge che nessuna soluzione politica potrà mai venire dal mondo dell'avanspettacolo».
Aveva intuito tutto ciò il già citato medico e storico Andrea Corsini, scrivendo, a proposito
dell'Anonimo, che «se fosse vissuto un paio di secoli dopo [o anche tre, cioè ai nostri giorni],
avrebbe potuto soddisfare alle sue attitudini facendo il professore o il deputato! [-1 È possibile
che non sia lontano il tempo in cui, per attirar gente intorno all'oratore, candidato o
propagandista, si ricorra a qualche più o meno onesta commediola ! »41.
Questa similitudine avveniristica è stata formulata dal Corsini nel luglio 1922, tre mesi prima
del fatidico ottobre di quell'anno. Nella prefazione al suo libro, sollecitando una «storia
professionale della medicina» che tenesse conto non solo dei progressi della scienza e della
tecnica, ma anche e soprattutto dei comportamenti buoni o cattivi dei medici, Corsini formulava
anche questo invito: «Ciascuno, nella sua professione, e fra gli uomini della propria fede politica
o religiosa, si guardi attorno»42.
Chissà mai se, guardandosi attorno, a qualche medico o politico sarebbe capitato di ritrovare
accanto a sé un saltimbanco come l'Anonimo, altrettanto disinvolto e abile comunícatore, capace
di cumulare in se stesso molte contraddizioni o ambiguità, ma comunque in grado di
rispondere alle esigenze delle folle: «placebo, io piacerò».
Note
Introduzione
I Piero Gambaccini, I mercanti della salute, Le Lettere, Firenze 2000, p. 216.
2 Carlo Goldoni, Memorie, a cura di Eugenio Levi, Einaudi, Torino 1967, p. 339.
3 Nelle Memorie «Goldoni omette di dire che il padre si fermò alle soglie della laurea [...]. Era un venditore di
balsami, essenze e medicamenti per uso esterno, creme e elisir di lunga vita [...]. Tuttavia, grazie ai suoi studi, alla
sua cultura, alla sua mondanità, Giulio Goldoni esercitò la professione medica, specializzandosi nella cura delle
malattie urinarie». Così scrive Franca Angelini, Vita di Goldoni, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 21.
4 Dizionario dei termini di medicina, chirurgia, veterinaria, chimica, farmacia, botanica, fisica e storia naturale,
terza edizione allo stato attuale delle scienze, la ed. 1834 per cura del dottor fisico Gio. Batta Fantonetti, Società
degli editori degli Annali universali delle scienze e dell'industria, Milano 1849, p. 852.
5 Alberico Benedicenti, Malati, medici e farmacisti, vol. 11, Hoepli, Milano 19512, p. 955.
6 Goldoni, Memorie, cit., p. 130.
7 Ivi, p. 129.
8 Ivi, p. 131.
9 Ibid.
'° Dizionario, cit., p. 77.
11 Goldoni, Memorie, cit., pp. 131-32.
12 Fernand Braudel, Capitalismo e civiltà materiale (secoli XV-XVII), trad. it. di Corrado Vivanti, Einaudi, Torino
1977, p. 194. Quanto al potere stimolante o corroborante della cioccolata, «quando studiavo in Inghilterra», scrive
oggi Sebastiano Maffettone («Il Sole 24 Ore», domenica 3 giugno 2007, p. 39), «mi era di grande conforto la
cioccolata Cadbury».
13 Dizionario, cit., p. 372.
14 Ivi, p. 273.
15 Goldoni, Memorie, cít., pp. 130-31.
16 Giorgio Cosmacini, Presentazione, in Gambaccini, I mercanti della salute, cit., p. 7.
17 Ivi, p. 8.
18 Paracelso (Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim, 1493-1541) è il medico-mago elvetico che fece
dell'alchimia, praticata con metodo «spagirico» (risolutivo-compositivo o analitico-sintetico) uno dei «quattro
pilastri» — con astrologia, filosofia e virtù — della medicina nova Philippi Paracelsi (così detta dai suoi epigoni).
Robert Boyle (1627-1691) è lo scienziato oxoniense autore dell'opera The Sceptical Chymist (Oxford-London 1661)
in cui venne definito il concetto di elemento chimico -e precisata la differenza tra miscuglio e combinazione.
19 Per le «sensate esperienze» cfr. Galileo Galilei, Lettera a Gallanzone Gallanzoni (16 luglio 1611), riportata in Id.,
Sensate esperienze e certe dimostrazioni, Laterza, Bari 1971, p. 78.
20 Dell'istanza fu, tra gli altri, portavoce in Napoli il protomedico Carlo Pignataro. Per la citazione cfr. Maurizio
Torrini, L'Accademia degli Investiganti. Napoli 1663-1670, in «Quaderni storici», XVI, 48, 1981, pp. 866-68.
21 Triumphwagen Antimonii è il trattato pubblicato nel 1604 e attribuito al monaco benedettino Basilio Valentino,
vissuto nel XVI secolo.
22 Pietro Giannone, Vita scritta da lui medesimo, a cura di Sergio Bertelli, Feltrinelli, Milano 1960, p. 5. L'opera fu
composta tra il 1736 e il 1741.
1. Vita e avventura di Buonafede Vitali
Memorie intorno la Vita e gli Studi del dottor Buonafede Vitali, bussetano, in Raccolta di opuscoli scientifici e
letterari dí chiarissimi autori italiani, vol. III, Giuseppe Rinaldi, Ferrara 1779, p. 26. Queste memorie sono dovute
alla penna di Buonafede Vitali junior, figlio del cugino Pietro Vitali.
2 Ibid.
3 Ugo Baldini, I gesuiti nella cultura del ducato, in Alba Mora (a cura di), Un Borbone tra Parma e l'Europa. Atti del
Convegno internazionale di studi, Fontevivo, Parma, ex Collegio dei Nobili, 12-14 giugno 2003, «Parma e il suo
territorio», 4, Diabasis, Reggio Emilia 2005, p. 99. Cfr. anche Gian Paolo Brizzi, La formazione della classe dirigente
nel Sei-Settecento. I «seminaria nobilium» nell'Italia centro-settentrionale, Il Mulino, Bologna 1976.
4 La frase latina citata è del grammatico Mario Vittorino, De soloecismo et barbarismo fragmentum, 35, 16.
3 Memorie intorno la Vita, cit., p. 25.
6 Giovanni Tucci, Il ducato di Parma e Piacenza, in Giuseppe Galasso (a cura di), Storia d'Italia, vol. XII, Utet,
Torino 1979, p. 265.
Vedi in proposito Claudio Rendina, I papi. Storia e segreti, Newton Compton, Roma 1983, pp. 629-30.
8 Tucci, Il ducato, cit., p. 284.
9 Memorie intorno la Vita, cit., p. 26. lo Ivi, pp. 26-27.
" Ivi, p. 27.
12 Ibid.
13 Ibid.
14 Ivi, pp. 27-28. " Ivi, p. 28.
16 Ibid.
17 Ibid.
18 Vedi il paragrafo Medici e mediconi d'antico regime, in Giorgio Cosmacini, Medici nella storia d'Italia. Per una
tipologia della professione medica, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 3.
19 Id., La vita nelle mani. Storia della chirurgia, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 84-85.
20 I passi della Cyrurgia di Guy de Chauliac sono riportati da Jole Agri-mi, Chiara Cristiani, Malato, medico e
medicina nel Medioevo, Loescher, Torino 1980, pp. 170-71.
21 Vedi il paragrafo II paracelsismo tra guerre e paci, in Giorgio Cosmacini, La medicina e la sua storia. Da Carlo
Val Re Sole, Rizza, Milano 1989, pp. 85-86.
n Memorie intorno la Vita, cit., p. 28.
23 Ibid.
24 »id.
25I1 passo, tratto da Ambroise Paré, La manière de traicter les playes faictes par hacquebutes et aultres bastons à
feu, Vivant Gualterot, Paris 1545, è riportato nella traduzione italiana reperibile nel paragrafo 11 chirurgo non
medico: Paré, in Cosmacini, La medicina e la sua storia, cit., p. 140.
26 Ibid.
27 Memorie intorno la Vita, cit., p. 28.
28 Ivi, pp. 28-29.
29 Ivi, p. 29. 3° Ibid.
31 Ibid.
32 Dizionario di chimica del Sig. Pietro Giuseppe Macquer, socio dell'Accademia delle Scienze e della Società Reale
di Medicina di Parigi, tradotto dal francese e corredato di note e articoli da Giovanni Antonio Scopoli, Giuseppe
Bianchi, Pavia 1783, pp. 63-64.
33 Ivi, pp. 69-70.
34 I1 Discorso, tardo-seicentesco, è dovuto alla penna del medico napoletano Leonardo Di Capua.
35 Memorie intorno la Vita, cit., p. 29. La suora «estratta» dal convento apparteneva verosimilmente al monastero
delle Oblate, ordine religioso fondato nel 1443 da santa Francesca Romana. Tale monastero, con la torre in esso
inglobata (una delle 300 esistite nella turrita Roma medievale), è ubicato in via Tribuna di Tor de' Specchi (non in
via Tor de' Specchi, non più esistente perché sacrificata dal rimaneggiamento urbanistico degli anni Trenta del
Novecento).
36 Ibid.
37 La notazione di Ramazzini è riportata da Alfonso Corradi, Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime
memorie fino al 1850, vol. II, 16011800, Gamberini e Parmeggiani, Bologna 1865-95 (rist. Forni, Bologna 1973), pp. 304-305.
38 Ludovico Antonio Muratori, Li tre governi, politico, medico ed ecclesiastico utilissimi, anzi necessari in tempo di peste, Domenico Ciuffetti e Filippo Maria Benedini, Lucca 1713, p. 10.
3911 passo, tratto da Daniel Defoe, La pestè di Londra, Bompiani, Milano 1984, è riportato da Cosmacini, La
medicina e la sua storia, cit., p. 181. ° Memorie intorno la Vita, cit., p. 29.
41 Vedi John Nohl, La mort noire, Payot, Paris 1986, p. 96.
42 Memorie intorno la Vita, cit., p. 29.
43 Piero Camporesi, Camminare il mondo. Vita e avventura di Leonardo Fioravanti, medico del Cinquecento,
Garzanti, Milano 1997, p. 9.
" Giles Milton, L'isola della noce moscata, trad. it. di S. Mancini, Rizzo-li, Milano 1999, pp. 27-28.
45 Ivi, p. 28.
46 Memorie intorno la Vita, cit., p. 29.
47 Johan Huizinga, La civiltà olandese del Seicento, trad. it. di P. Bernardini Marzollo, A. Rotondò, A. Omodeo,
Einaudi, Torino 1967.
48 Memorie intorno la Vita, cit., pp. 29-30.
49 Vedi Giorgio Cosmacini, Il medico ciarlatano. Vita inimitabile di un europeo del Seicento, Laterza, Roma-Bari
1998.
"Memorie intorno la Vita, cit., pp. 28-29.
La frase del Borri è riportata da Cosmacini, Il medico ciarlatano, cit., p. 109.
52 Memorie intorno la Vita, cit., p. 30.
53 Ibid.
54 Ivi, pp. 30-31.
55 Ivi, p. 31.
56 Ibid.
"Charles-Louis Montesquieu, Viaggio in Italia, a cura di Giovanni Macchia e Massimo Colesanti, Laterza, Bari 1971,
pp. 107-109.
58 Memorie intorno la Vita, cit., p. 31.
2. Scienza e vita dell'Anonimo
1 Il passo del diarista Fuidoro è riportato da Benedetto Croce, I teatri di Napoli, Luigi Pierro, Napoli 1891, p. 145.
2 Alessandro D'Ancona, Viaggiatori e avventurieri, Sansoni, Firenze 19742 (I ed. 1912), p. 108.
'Memorie intorno la Vita e gli Studi del dottor Buonafede Vitali, bussetano, in Raccolta di opuscoli scientifici e
letterari di chiarissimi autori italiani, vol. III, Giuseppe Rinaldi, Ferrara 1779, p. 31.
4 Le parole di Malpighi a Vallisnieri sono riportate da Ugo Baldini, La scuola galileiana, in Gianni Micheli (a cura
di), Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal Rinascimento a oggi. Annali 3 della Storia d'Italia, Einaudi,
Torino 1980, p. 429 nota.
5 Memorie intorno la Vita, cit., p. 31.
6 Ivi, pp. 31-32.
7 Le parole di Buonafede Vitali sono riportate ivi, p. 32.
8 Ibid.
9 Ivi, p. 33.
93 La frase dí Mattia Paolo Doria è riportata da Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza, Bari 1965 (ed.
or. 1925), p. 176.
11 Memorie intorno la Vita, cit., p. 33.
12 Ibid.
13 Ibid.
14 Ivi, pp. 33-34. " Ivi, p. 34.
16 Ibid.
17 Scrive in proposito Angelo Pezzana, continuatore delle Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, raccolte dal
padre Ireneo Affò, vol. III, Tipografia Ducale, Parma 1833, p. 117: «Due volte la stamparono i fratelli Merli
senz'anno. Una di queste edizioni ha facce 93, [...] l'altra è di sole facce 92 [...]. Di queste edizioni non parla il
Biografo, che solo accenna a quella di Milano in 8° [del] 1732 per Giuseppe Malatesta».
18 Memorie intorno la Vita, cit., p. 34.
19 Bruno Brunelli, Figurine e costumi nella corrispondenza di un medico del Settecento: Antonio Vallisnieri,
Mondadori, Milano 1938, pp. 48-49.
20 Vedi in proposito Giovanni Ceccarelli, La salute dei pontefici, Ancora, Milano 2001, p. 136.
21 Le parole di Buonafede Vitali sono riportate in Memorie intorno la Vita, cit., pp. 34-35.
22 Ivi, p. 35.
23 Ibid.
24 Vedi Emilio Fortunato, Introduzione, in Paolo Andreani, In tour aspettando Goethe. La Sicilia nei resoconti di
viaggio di Paolo Andreani, Viennepierre, Milano 2004, p. 18.
25 Le parole dell'Anonimo sono riportate in Memorie intorno la Vita, cit., p. 36.
26 Ivi, p. 35.
27 Ivi, p. 36.
28 Le citazioni sono tratte da Giovanni Battistini, Buonafede Vitali, l'Anonimo, in «Archivio storico per le Province
parmensi», IV serie, XXII, 1970, pp. 348-49.
29 Andreani, In tour, cit., pp. 45-53. " Memorie intorno la Vita, cit., p. 37. " Ivi, p. 50.
32 Vedi Battístini, Buonafede Vitali, cit., p. 344.
33 Ivi, p. 345.
34 Ibid.
35 Ivi, p. 346.
36 Ibid.
" Memorie intorno la Vita, cit., pp. 37-38.
38 Alfonso Corradi, Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino al 1850, vol. II, 1601-1800,
Gamberini e Parmeggiani, Bologna 1865-95 (rist. Forni, Bologna 1973), pp. 358-59.
39 Memorie intorno la Vita, cit., p. 38. 4° Ivi, pp. 38-39.
41 Ivi, p. 38.
42 Ivi, p. 39.
43 Ivi, p. 38.
44 Ivi, p. 39.
45 Ivi, p. 47.
46 Ivi, p. 39.
47 Da Giuseppe Ravaglia (a cura di), Bibliografia idrologica italiana, Be-stetti e Tumminelli, Roma s.d., pp. 27-28.
" Memorie intorno la Vita, cit., pp. 39-40.
49 Ivi, p. 40.
5° Vedi Paolo Rigoli, Gli infiniti inganni. Il mestiere del ciarlatano tra Sei e Settecento, Della Scala, Verona 1990, p.
51.
51 Memorie intorno la Vita, cit., p. 40.
52 Ibid.
" Ivi, pp. 40-41.
54 Ivi, p. 41.
" Vedi Michel de Montaigne, Viaggio in Italia, Laterza, Bari 1972, p. 277.
56 Vedi alla voce Calcoli discacciare della Raccolta di vani ma sicuri secreti esposti per alfabeto dall'Anonimo,
Fratelli Merli, Verona 1718.
57 Memorie intorno la Vita, cit., p. 42.
ss Ivi, p. 50. 59 Ivi, p. 42. 6° Ibid.
61 Ivi, pp. 42-43.
62 Ivi, p. 43.
63 Ivi, p. 44.
64 Andrea Verga, L'Ospitale Maggiore di Milano nel secolo XVIII, Fratelli Rechiedei, Milano 1871, p. 7.
65 Dal frontespizio della Lettera scritta dall'Anonimo, pubblico operatore empirico, all'illustrissimo signor il signor
N.N., Giuseppe Richino Malatesta, Milano 1732.
" Memorie intorno la Vita, cit., p. 44.
67 Ivi, pp. 32-33.
68 'Vi» p. 44. " Ivi, p. 45.
70 Ivi, p. 46.
71 Ivi, pp. 46 e 51.
72 Ivi, pp. 46-47.
3. Elogio del medico saltimbanco
Le citazioni della Lettera sono tratte dalla più recente edizione di essa (pp. 3-32) in Buonafede Vitali l'Anonimo, Il
medico di piazza ovvero Elogio dell'empirti, introduzione di Giorgio Cosmacini, prefazione, trascrizione e note di
Francesco di Ciaccia, Terziaria, Milano 2002. Le frasi fin qui citate sono alle pp. 3-4.
2 Ivi, p. 4.
3 È quanto scrive Francesco di Ciaccia nella prefazione, ivi, p. X.
4 Vedi Giorgio Cosmacini, Le spade di Damocle. Paure e malattie nella storia, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 110 nota.
3 II medico di piazza, cit., p. 4. •
Ivi, p. 5.
7 Ibid.
8 Ivi, p. 6.
9 È il titolo del citato volume di Paolo Rigoli dedicato al «mestiere del
ciarlatano».
1011 medico di piazza, cit., p. 6.
" Ibid.
Ivi, p. 7.
13 Ivi, pp. 8-9.
14 Ivi, p. 8.
" Ivi, pp. 9-10.
16 Ivi, p.
17 Ivi, p. 11.
18 Ibid.
19 Ivi, p. 17.
20 Le parole di Moscati sono riportate da Giorgio Cosmacini, La qualità del tuo medico. Per una filosofia della
medicina, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 8.
21 Le parole di Grocco sono riportate da Corrado Tumiati, Vite singolari di grandi medici dell'Ottocento, Vallecchi,
Firenze 1952, p. 105.
22 11 medico di piazza, cit., p. 14.
23 Ivi, p. 15.
24 mid.
23 Ivi, p. 16.
26 Ivi, p. 18.
27 Ivi, pp. 18-19.
28 Ivi, p. 20.
29 Ivi, p. 22. 39 Ivi, p. 23.
31 Ibid.
32 Ivi, pp. 23-24.
33 Ivi, p. 24.
34 Ivi, pp. 24-25. 33
Ivi, p. 27. 36
Ibid.
37 Ivi, p. 28.
38 Ivi, pp. 29-30.
39 Ivi, pp. 31-32.
40 Le citazioni dalla Raccolta sono tratte dalla più recente edizione di essa, ivi, pp. 33-69.
41 Ivi, pp. 42-43.
42 mid.
43 Ivi, p. 49.
44 Ivi, pp. 54, 55, 57, 63, 67.
45 Ivi, pp. 56, 66, 69.
46 Ivi, pp. 48, 58.
47 Ivi, p. 63.
48 Ivi, pp. 35-36.
49 Ivi, pp. 37-38.
5° Per le citazioni vedi ivi, p. 45.
51 Ivi, p. 49.
52 Ivi, pp. 51-52. " Ivi, p. 50.
54 Ivi, pp. 50-51. " Ivi, p. 52.
56 Ivi, p. 57.
57 Ivi, p. 58.
58 Ivi, p. 68.
59 Ivi, pp. 52-53. Ibid.
61Ivi,pp. 63-64.
62 I vari «secreti» e le relative indicazioni, via via oggetto di menzione, sono reperibili in extenso alle voci ad
nomen nella Raccolta più volte citata.
63 Vallisnieri fu il continuatore in biologia del programma di ricerca sperimentale di Francesco Redi, confutante la
dottrina della generazione spontanea della vita dalla materia inanimata e affermante la teoria dell'omne vivum ex
ovo. Su di lui vedi Giovanni Artico di Porcia, Notizie della vita e degli studi del kavalier Antonio Vallisnieri, a cura
di Dario Generali, Patron, Bologna 1986.
64 Il passo citato e quello seguente sono riportati da Bruno Brunelli, Figurine e costumi nella corrispondenza di un
medico del Settecento: Antonio Vallisnieri, Mondadori, Milano 1938, pp. 142-45.
65 Vedi Giorgio Cosmacini, Ciarlataneria e medicina. Cure, maschere, darle, Raffaello Cortina, Milano 1998, p. 130.
66 Vedi Brunelli, Figurine e costumi, cit., p. 46.
67 La vicenda svoltasi presso il Senato veneziano è riassunta ivi, pp. 48-49. " La vicenda mantovana è riportata ivi,
pp. 50-52.
69 Anche questa vicenda è riportata ivi, p. 53.
7° Memorie intorno la Vita e gli Studi del dottor Buonafede Vitali,• bussetano, in Raccolta di opuscoli scientifici e
letterari di chiarissimi autori italiani, vol. III, Giuseppe Rinaldi, Ferrara 1779, p. 48.
71 «Due cose si richiedono al medico: che sia istruito nella scienza medica e che possegga la disposizione di genio
necessaria ut exerceat medicinam jucundam»: è quanto scrive Hermann Boerhaave, Methodus discendi medicinam,
Apud Angelum Parisellum, Venetiis 1727, pp. 7 e 9.
72 Memorie intorno la Vita, cit., p. 50.
73 Vedi Paolo Rigoli, Gli infiniti inganni. Il mestiere del ciarlatano tra Sei e Settecento, Della Scala, Verona 1990, p.
26 nota.
74 Alfonso Corradi, Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino al 1850, vol. Il, 1601-1800,
Gamberini e Parmeggiani, Bologna 1865-95 (rist. Forni, Bologna 1973), P. 399.
" Vedi Rigoli, Gli infiniti inganni, cit., pp. 26-27 nota. La nota riporta la ricetta, tratta dal Lessico farmaceuticochimico di Gio. Battista Capello, Lovisa, Venezia 1763, p. 217.
76 Annali delle epidemie, cit., vol. II, p. 407 nota.
" Ivi, pp. 408-409.
78 Ivi, p. 399.
79 Le citazioni sono tratte dalla Lettera e risposta del dottor Buonafede Vitali, protomedico in Verona, che tratta
delle malattie contagiose, Giovan Alberto Tumarmani, Verona 1743, passim.
80 «Novelle della repubblica letteraria per l'anno MDCCXLVI, pubblicate, sotto gli auspizí dell'eminentiss. e
reverendiss. principe Francesco Borghese cardinale di S. Chiesa, appresso Domenico Occhi, con licenza de'
superiori e privilegio (n. 19) per il dì 7 maggio 1746», p. 145.
81 Vedi Giorgio Maria Nicolai, Il grande orso bianco. Viaggiatori italiani in Russia, Bulzoni, Roma 1999, p. 193.
82 Ivi, pp. 180, 189, 193.
83 Vedi L'argento e le «terre bianche» del Treno e della Val Leogra. Atti della Giornata di studio, Schio 15 aprile
2000, Tipografia Menin, Schio 2003, pp. 39 e 57.
" Vedi al riguardo Giovanni Battistini, Buonafede Vitali, l'Anonimo, in «Archivio storico per le Province parmensi»,
IV serie, XXII, 1970, pp. 35566.
85 Ivi, pp. 356-57.
86 Ivi, pp. 358-59.
87 Ivi, pp. 359-60.
88 Ivi, pp. 361-62.
89 Ivi, pp. 362-63. " Ivi, pp. 363-64.
91 Ivi, pp. 364-65.
92 Sulle terme del Masino vedi il capitolo XII, La cura delle acque, in Pierluigi Patriarca, Storia della medicina e
della sanità in Valtellina, L'Officina del libro, Sondrio 1998, pp. 248-68.
93 Giuseppe Frank, Memorie. VI, a cura di Giovanni Galli, Cisalpino, Milano 2007, pp. 29-30.
" Ivi, pp. 30-32. Il memorialista Joseph Frank, medico e professore universitario, figlio dell'assai più noto Johann
Peter Frank, fondatore della «polizia medica» o medicina politica, visse con il padre a Pavia tra il 1785 e il 1796, indi
fu a Vilna, in Lituania, a Vienna e a Pietroburgo. Ritornato in Italia nel 1826, si stabilì a Como, dove risiedette fino
alla morte, nel 1842. Una tomba monumentale a piramide egizia è la sua sepoltura nel cimitero di Laglio, sul lago di
Como.
Conclusione
' Vedi «Novelle della repubblica letteraria per l'anno MDCCXLVI, pubblicate, sotto gli auspizi dell'eminentiss. e
reverendiss. principe Francesco Borghese cardinale di S. Chiesa, appresso Domenico Occhi, con licenza de'
superiori e privilegio (n. 19) per il dì 7 maggio 1746», pp. 145-46.
2 Ivi, pp. 146-47.
3 Vedi al riguardo Giovanni Battistini, Buonafede Vitali, l'Anonimo, in
«Archivio storico per le Province parmensi», IV serie, XXII, 1970, pp. 36772.
4 Ivi, p. 373.
5 Ivi, p. 372.
6 Carlo Goldoni, Memorie, a cura di Eugenio Levi, Einaudi, Torino 1967, p. 131.
7 Andrea Verga, L'Ospitale Maggiore di Milano nel secolo XVIII, Fratelli Rechiedei, Milano 1871, pp. 88-89.
8 Goldoni, Memorie, cit., p. 131.
9 Ivi, p. 132. '° Ivi, p. 131.
11 Ivi, p. 125.
12 Iví, p. 131.
13 A Buonafede Vitali è attribuita anche una tragedia, La Circe, recitata da una compagnia drammatica, ma non
mai pubblicata.
14 Luigi Rasi, I comici italiani, Bocca, Firenze 1897, vol. I, pp. 408-409.
15 Goldoni, Memorie, cit., pp. 132-33.
"Id., Mémoires, a cura di Guido Davico Bonino, Einaudi, Torino 1993, p. 133, nota 1.
17 Franca Angelini, Vita di Goldoni, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 53-54.
18 Ivi, p. 21.
19 Per un elenco completo vedi Giorgio Cosmacini, La Ca' Granda dei
milanesi. Storia dell'Ospedale Maggiore, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 12021.
20 Pietro Canetta, Cronologia dell'Ospedale Maggiore, Cogliati, Milano 1884, p. 66.
21 Verga, L'Ospitale Maggiore, cit., p. 57.
22 Ivi, pp. 65 e 68.
23 Vedi Federico Borromeo, La peste di Milano, a cura di Armando Torno, Rusconi, Milano 1987, p. 20.
24 Le parole di Giuseppe Gazola sono riportate da Giorgio Cosmacini, Ciarlataneria e medicina. Cure, maschere,
ciarle, Raffaello Cortina, Milano 1998, pp. 96-97.
23 Nicolas de Malebranche, La ricerca della verità, trad. it. di Maria Garin, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 389.
26 Vedi Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, raccolte dal padre Ireneo Affò e continuate da Angelo
Pezzana, Tipografia Ducale, Parma 1833, vol. VII, p. 118.
27 Vedi in proposito Ludovico Gambara, Cerretani parmensi del Settecento, in «Aurea Parma», XII, 5, 1928, pp.
157-59. Il Gambara non condivide l'ipotesi che ha indotto l'Affò e il Pezzana a identificare in «Monsciù Guascon» il
Vitali; ma l'obiezione si limita al fatto che, quando l'opuscolo vide la luce, «il Vitali occupava una cattedra
universitaria a Palermo».
28 Memorie degli scrittori, cit., p. 114.
29 Alessandro D'Ancona, Viaggiatori e avventurieri, Sansoni, Firenze 19742, p. 110.
Ivi, pp. 112-13.
31 Andrea Corsini, Medici ciarlatani e ciarlatani medici, in «Attualità
scientifiche - Serie medica», Zanichelli, Bologna 1922, p. 94.
32 Bruno Brunelli, Figurine e costumi nella corrispondenza di un medico del Settecento: Antonio Vallisnieri,
Mondadori, Milano 1938, p. 53.
33 Arturo Castiglioni, Storia della medicina, Mondadori, Milano 19482, vol. II, p. 574.
34 Adalberto Pazzini, Storia dell'arte sanitaria dalle origini a oggi, Minerva Medica, Torino 1974, vol. II, p. 1196.
38 Paolo Rigoli, Gli infiniti inganni. Il mestiere del ciarlatano tra Sei e Settecento, Della Scala, Verona 1990, pp. 1819. I corsivi sono parole tratte dalla Lettera scritta dall'Anonimo.
36 Michelangelo Ferraro, I «segreti» di Buonafede Vitali e la medicina del primo Settecento, «Bologna Studies in
History of Science», 10, Università di Bologna, Bologna 2002, pp. 9-10. Ivi, pp. 108-14, è un elenco completo dei
manoscritti dell'Anonimo, custoditi nell'archivio privato della famiglia Vitali-Verga, a Napoli, via Posillipo 54.
37 Piero Gambaccini, I mercanti della salute, Le Lettere, Firenze 2000, pp. 217-18.
38 David Gentilcore, Medical Charlatanism in Early Modern Italy, Oxford University Press, New York 2006, p. 80.
39 Ivi, pp. 84-86.
40 Ivi, p. 87.
41 Corsini, Medici ciarlatani, cit., p. 93.
42 Ivi, p, 2.
GIORGIO COSMACINI
è medico da oltre cinquant'anni e laureato
in Filosofia. Insegna Storia del pensiero
medico nella Facoltà di Filosofia
dell'Università Vita-Salute San Raffaele di
Milano e Filosofia della scienza e Storia
della medicina nella Facoltà di Medicina e
chirurgia della stessa Università. Tra le sue
ultime opere per i nostri tipi: La vita nelle
mani. Storia della chirurgia (20042); Il
medico materialista. Vita e pensiero di Jakob
Moleschott (2005); Storia della medicina e
della sanità in Italia. Dalla peste nera ai
giorni nostri (prima edizione 1987, n.e.
2005); Le spade di Damocle. Paure e
malattie nella storia (2006); Introduzione
alla medicina (con C. Rugarli, n.e. 2007);
La religiosità della medicina. Dall'antichità
a oggi (2007); L'arte lunga. Storia della
medicina dall'antichità a oggi (20082).
Dirige (con V.A. Sironi) la nostra collana
"Storia della medicina e della sanità".
Proprietà letteraria riservata
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