Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca IN COLLABORAZIONE CON ASSOCIAZIONE ALEXANDRIA DAL RISORGIMENTO ALLA GRANDE GUERRA LO SPORT NEI TOTALITARISMI E LA SHOAH DALLA RICOSTRUZIONE AL SESSANTOTTO LO SPORT NEGLI ANNI DELLA GUERRA FREDDA A cura di Alberto Delle Fave RELATORI Prof. FABRIZIO FELICE Storico. Docente laureato in Lettere Moderne presso l’Università Cattolica di Milano, componente del consiglio direttivo della “Società Italiana di Storia dello Sport” (S.I.S.S.) Prof. SERGIO GIUNTINI Storico. Laureato in lettere moderne presso l’universita Statale di Milano. Docente di Storia dello Sport presso l’università Di Tor Vergata di Roma. Socio fondatore e membro del consiglio direttivo della “Società Italiana di Storia dello Sport “ (S.I.S.S.) e Fellows del Comitato Europeo di Storia dello Sport (C.E.S.H.) Dott. VINCENZO PENNONE Storico dello sport. Laureato in economia presso l’Università degli studi di Catania. Membro del collegio dei Probiviri della Società Italiana di Storia dello Sport” (S.I.S.S.) e socio del Comitato Europeo di Storia dello Sport (C.E.S.H.). Dott. ELIO TRIFARI Laureato in Ingegneria Elettronica presso l’Università di Napoli nel 1972. Già Vice-Direttore de “LA GAZZETTA DELLO SPORT”. Attualmente Direttore della Fondazione Candido Cannavò. Nel 1968 inizia la collaborazione con la “Gazzetta”. Dal 1989 al 2010 è vicedirettore. Ha diretto il “Magazine”, settimanale della Gazzetta, dal 1995 al 1999. Ha seguito 4 edizioni dei Giochi Olimpici estivi, da Montreal 1976 a Barcellona 1992; 2 edizioni dei Campionati Mondiali di Atletica Leggera (Helsinki 1983 e Roma 1987), 5 dei Campionati Europei di Atletica Leggera (da Atene 1969 ad Atene 1982). Principali pubblicazioni: “110 anni di gloria”, 31 volumi di storia sportiva della Gazzetta dello Sport (2005-2006) “L’Enciclopedia delle Olimpiadi”, 2 volumi sulla storia dei Giochi Olimpici antichi e moderni (2008) “Un secolo di passioni – 1909-2009”, il libro sul Centenario del Giro d’Italia (2009) (Il dott. Elio Trifari, per le sue relazioni, ha seguito alcuni articoli che non possono essere pubblicati ma la cui consultazione è possibile presso l’USR – Coordinamento att. Motorie e sportive) Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 1 Indice DAL RISORGIMENTO ALLA GRANDE GUERRA GINNASTICA E RISORGIMENTO IN ITALIA pag 3 LA BELLE ÉPOQUE DELLO SPORT LOMBARDO pag 15 LO SPORT E LA BELLE ÉPOQUE AL TEMPO DEI FLORIO pag 20 LA MARATONA DI LONDRA DEL 1908 pag 32 LE CINQUE VIE. LE ORIGINI DEL SISTEMA SPORTIVO NAZIONALE pag 45 LO SPORT NEI TOTALITARISMI E LA SHOAH SPORT E DITTATURE IN ITALIA E IN EUROPA pag 52 LO SPORT FASCISTA pag 55 BERLINO 1936, L’OLIMPIADE DEL TERZO REICH pag 64 BERLINO 1936: STORIA DI UN BOICOTTAGGIO OLIMPICO MANCATO pag 76 DALLA RICOSTRUZIONE AL SESSANTOTTO CHIEDITI CHI ERA BARTALI CICLISMO E POLITICA NELLA STORIA ITALIANA pag 85 OLIMPIADI E CONTESTAZIONE: IL ‘68 A CITTÀ DEL MESSICO pag 98 ROMA, 1960: LA “GRANDE OLIMPIADE“ pag 104 LO SPORT NEGLI ANNI DELLA GUERRA FREDDA L’IMPORTANTE È NON PARTECIPARE pag 115 RDT: MEDAGLIE, DOPING E SPIE pag 121 UNA SPLENDIDA ESTATE E UNA TRISTE PRIMAVERA pag 129 Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 2 DAL RISORGIMENTO ALLA GRANDE GUERRA GINNASTICA E RISORGIMENTO IN ITALIA PROF. SERGIO GIUNTINI Due equazioni: “sport” (ossia quasi esclusivamente ginnastica e tiro a segno) = patria, “sport” = educazione para-militare percorrono il nostro Risorgimento. É un filo rosso, tra il 1821 e il 1870, sembra tener uniti liberal-moderati e repubblicani, cavouriani, garibaldini, mazziniani, Destra e Sinistra storica. Si pensi a Garibaldi grande propagandista del tiro a segno, a Quintino Sella fondatore del Club Alpino Italiano (1863), alle società ginnastiche fucine dell’irredentismo patriottico a Trieste, Trento, ecc. Ma che cosa giustifica la piega militaresca assunta dallo “sport” italiano delle origini? Da un lato vi è la situazione storica complessiva del XIX secolo che, per rispondere alle nuove necessità militari imposte dal nazionalismo e dalla competizione capitalistica/colonialistica tra gli stati, crea in sostituzione delle precedenti milizie mercenarie gli eserciti stanziali di massa. Eserciti cui occorreva dare un’istruzione fisica generalizzata e funzionale al miglior rendimento bellico. Non a caso la stessa Prussia, che diverrà lo stato più militarizzato d’Europa, proprio nel 1812 attuò una profonda riforma militare introducendo la coscrizione obbligatoria. Dall’altro, maggiormente connesso alla realtà italiana, questa curvatura para-militare è ascrivibile alla cosiddetta “conquista regia”: cioè ai caratteri peculiari del nostro processo d’unificazione nazionale e alla egemonia diplomatico-politica esercitata dal partito moderato di Cavour. Con il Risorgimento e l’Italia unita si ha in altri termini la consacrazione del modello di educazione fisica elaborato nel periodo pre-unitario dal Piemonte sabaudo. E dunque, anche a proposito di “sport” dei primordi, si può parlare di “piemontesizzazione dall’alto”, di un’estensione al resto d’Italia di quell’impronta etico-militarista che le attività ginnastiche avevano assunto già dal 1833 nella nostra “piccola Prussia”. A percepire tale fenomeno è interessante soffermarsi rapidamente su una delle principali ristrutturazioni subite dall’esercito italiano dopo l’Unità. Si allude alla riforma voluta dal ministro della Guerra Cesare Ricotti Magnani nel 1873, a seguito delle pessime prove offerte dalle nostre truppe nella guerra contro l’Austria del 1866. Il nuovo esercito veniva così ridisegnato: 1) adozione del sistema prussiano che, al momento della mobilitazione generale, avrebbe dovuto completare i reparti, con il richiamo dei “riservisti”; 2) ferma “breve” generalizzata portata da 5 a 3 anni, ma supportata dalla possibilità di un anno di volontariato; 3) reclutamento su scala nazionale. Nelle opinioni delle più intransigenti lobbies militariste questo meccanismo determinava: A) una preoccupante riduzione della ferma, inidonea ad assicurare una adeguata istruzione militare; B) con la creazione dei “riservisti” un’estensione sostanziale del periodo nel quale il cittadino già congedato era tenuto a tenersi pronto per la difesa della patria. Per ovviare a simili obiezioni occorreva dunque creare una sorta di “sistema integrato”, pubblico e privato, che iniziasse i giovani alle pratiche marziali prima della chiamata alle armi e in seguito sapesse conservare alle attitudini militari i “riservisti”. Un problema di difficile risoluzione che, dagli anni ’70 dell’Ottocento Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 3 alla Grande Guerra, porterà alla creazione di un circolo virtuoso nel quale interagivano organicamente scuola, associazionismo ginnastico ed esercito. Le tre componenti in cui anche Léon Gambetta, primo ministro dal 14 novembre 1881 al 26 gennaio 1882, credeva per una rinascita della Francia traumatizzata dalla sconfitta con la Prussia nel 1870. Per spronare il Paese egli teorizzava infatti “L’unione del maestro, del ginnasta, del militare”. Operativamente il giovane Regno italiano procedette lungo due direttrici parallele: portando l’addestramento premilitare all’interno delle scuole sotto le mentite spoglie di ginnastica educativa, così da cercar di soddisfare il punto A di cui sopra; sostenendo l’associazionismo ginnico (una Federazione Ginnastica Italiana sorse a Venezia il 17 marzo 1869) e tirosegnistico (la prima grande gara di Tiro a Segno Nazionale si tenne a Torino nel 1863), necessario a garantire il conseguimento del punto B. Ciò secondo una logica dei “vasi comunicanti” avente lo scopo di travasare il tutto nel bacino delle forze armate. La scuola, le società ginniche e di tiro a segno, l’esercito, divennero perciò nell’epoca di Vittorio Emanuele II e Umberto I, all’acme della filosofia positivista (che lascerà molti segni anche nell’ambito dell’educazione fisica) dallo psichiatra Giuseppe Tonino (“La ginnastica e i pazzi”, 1871) al fisiologo Angelo Mosso (“La riforma della ginnastica”, 1892), dallo scrittore Edmondo De Amicis (“Amore e ginnastica”, 1892) all’antropologo Cesare Lombroso (“Il ciclismo nel delitto”, 1900) - per inciso tutti nati od operanti a Torino, la capitale storica dello sport italiano) e ancora all’alba del nuovo secolo, con l’aprirsi della stagione giolittiana, un osservatorio privilegiato tramite cui saggiare gli sforzi compiuti dalla penisola unificata per darsi un’identità di nazione. E’ in questo preciso contesto che va pertanto collocata la famosa Legge Francesco De Sanctis del 7 luglio 1878 sull’obbligatorietà della ginnastica educativa nelle scuole italiane. Legge Ricotti Magnani del ’73 e De Sanctis del ’78 non possono, insomma, esser disgiunte, ed è pure evidente come la seconda contribuisca grandemente alla piena attuazione della prima. Assunto ciò, come si notava in precedenza, notevole fu l’importanza che numerosi protagonisti dell’epopea risorgimentale attribuirono alla “corporeità” (tra gli altri ci si è già imbattuti in Giacomo Leopardi) come strumento per il raggiungimento dell’indipendenza dalle potenze estere e mezzo per rinsaldare i valori morali e ideali. In proposito ci limitiamo a fornire qualche esempio rappresentativo. - Silvio Pellico - il patriota che fra il 1822 e il 1832 fu detenuto dagli austriaci nel carcere duro dello Spielberg - sulla rivista il “Conciliatore” del 1° agosto 1819, nell’articolo “Degli esercizi ginnastici e degli effetti che producono”, tesseva un elogio della boxe inglese lasciando intendere come solo dei corpi allenati e dalla forte fibra avrebbero potuto riscattare e liberare la patria schiava degli stranieri: “Ciò che più riesce d’un vantaggio innegabile in simili esercizi di forza e di coraggio si è che alimentano nell’uomo un dignitoso sentimento di sé stesso: sentimento che non è mai abbastanza generale nella società, giacchè, dovunque esso manca, il debole innocente è vittima del provocatore malvagio, e il disonore di un pusillanime si rovescia spesso benché ingiustamente sulla patria a cui appartiene”. - Nelle “Memorie di Giuseppe Garibaldi scritte da Alessandro Dumas” e pubblicate a Livorno dall’editore Santi Seraglini nel 1860, si può leggere: “Mio padre non mi fece imparare né la ginnastica, né il maneggio d’armi e nemmeno l’equitazione. Imparai la ginnastica arrampicandomi fino alle sartie e lasciandomi quindi sdrucciolare lungo i cordoni del bastimento; la scherma, l’appresi difendendo la mia testa e procurando di colpire quella degli altri, e l’equitazione nel prendere esempio dai primi cavalieri del mondo, vale a dire dai più sgraziati. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 4 Il solo esercizio corporale della mia gioventù, e nemmeno per questo mi abbisognavano maestri, fu il nuotare. Quando e come io imparassi a nuotare non me ne sovvengo affatto, mi sembra di avere sempre conosciuto questo esercizio, come se io fossi nato anfibio […]. D’altronde poi, se mio padre non mi fece imparare tutti questi esercizi, avvenne piuttosto per colpa dei tempi che altro. A quella triste epoca, i preti erano i padroni assoluti del Piemonte; ed i loro continui sforzi, il loro continuo lavorio portava a formare della gioventù, dei frati inutili e poltroni piuttosto che dei cittadini adatti a servire il nostro disgraziato Paese”. - Carlo Pisacane, in “Saggi storici-politici-militari sull’Italia” pubblicati postumi a Milano tra il 1858 e il 1860, sosteneva quanto segue: ”L’armeggiare, le ginnastiche sono tutte cose utilissime […]. Ma questi ludi, per produrre un tale effetto dovrebbero far parte dell’educazione nazionale a cominciare dall’infanzia […]. Nondimeno, per ciò che concerne l’educazione fisica, con pochissima predisposizione si possono ottenere grandi risultati cominciando dall’infanzia, imperrochè gli organi, essendo tenerissimi, si prestano facilmente ad ogni genere d’esercitazioni […]. Nei ginnasi comunali, oltre le ginnastiche e la scherma alle varie armi, a cui debbono per obbligo addestrarsi i giovani dai 7 ai 15 anni, vi sarà eziandio il tiro al bersaglio”. ALCUNI DATI QUANTITATIVI SU SOCIETA’ E MOVIMENTO SPORTIVO IN ITALIA DAL 1861 ALLA GRANDE GUERRA: UNA “QUESTIONE MERIDIONALE” ANCHE NELLO SPORT? 1. IL PAESE REALE 1861 POPOLAZIONE: 26 milioni di abitanti 1861 COMUNI: 7720 1861 DENSITA’ per Kmq.: 87 abitanti 1861 MEDIA COMPONENTI FAMIGLIA: 4,7 persone 1861 PRODOTTO INTERNO LORDO: 50% prodotto da regioni centro-nord, 50% da regioni del sud 1861 POPOLAZIONE ATTIVA DELLE REGIONI DEL CENTRO NORD IMPIEGATA NELL’INDUSTRIA: 15,5% pari a 1.560.000 unità 1861 POPOLAZIONE ATTIVA DELLE REGIONI NELL’INDUSTRIA: 22,8% pari a 1.200.000 unità DEL SUD IMPIEGATA 1861 OCCUPATI NEI DIVERSI SETTORI ECONOMICI: agricoltura 70%, industria 18%, altre attività 12% 1861 MERCATI DI SBOCCO DEI PRODOTTI ITALIANI: Europa 86%, Americhe 10,4%, Africa 2,1%, Asia 1,2% 1863 MORTALITA’ INFANTILE: 232 nascituri su 1000 nati vivi 1871 ANALFABETISMO: 70% 1881 SPERANZA DI VITA: uomini 35,2 anni, donne 35,7 anni 1881 SEPARAZIONI MATRIMONIALI: 717 2. PROGRESSIONE NEL NUMERO DELLE SOCIETA’ GINNASTICHE NELL’ITALIA UNITA 1880: 87 (11.871 iscritti) 1881: 102 (16.002) Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 5 1882: 113 (15.509) 1890: 70 (8328 iscritti) 1895: 93 1900: 104 1905: 151 1910: 195 3. DISTRIBUZIONE REGIONALE DELLE SOCIETA’ AFFILIATE AL TIRO A SEGNO NAZIONALE NEL 1885 Totale: 576 Lombardia 107 (18,5%); Veneto 59 (10,2%); Piemonte 59 (10,2%); EmiliaRomagna 52 (9,0%); Toscana 49 (8,5%); Sicilia 42 (7,3%); Marche 41 (7,1%); Lazio 41 (7,1%); Umbria 30 (5,2%); Puglia 25 (4,3%); Calabria 15 (2,6%); Campania 13 (2,2%); Abruzzo 12 (2,1%); Liguria 10 (1,7%); Friuli 9 (1,5%); Basilicata 6 (1,0%); Molise 4 (0,6%); Sardegna 2 (0,3%). 4. DISTRIBUZIONE REGIONALE DELLE SOCIETA’ AFFILIATE FEDERAZIONE GINNASTICA NAZIONALE ITALIANA NEL 1901 ALLA Totale 112, iscritti 13.475 Lombardia 29 (25,9%); Veneto 17 (15,2%); Liguria 16 (14,3%); Toscana 13 (11,6%); Lazio 11 (10,0%); Emilia-Romagna 8 (7,1%); Piemonte 5 (4,4%); Umbria 3 (2,7%); Campania 2 (1,7%); Marche 2 (1,7%); Friuli 1 (0,9%); Istria (Parenzo) 1 (0,9%); Tunisia (Tunisi) 1 (0,9%); Abruzzo 1 (0,9%); Puglia 1 (0,9%); Sicilia 1 (0,9%). Riepilogo per grandi aree regionali: Nord 69,8%; Centro 26,9%; Sud 2,5%; altri 1,8%. 5. DISTRIBUZIONE REGIONALE DEI CLUB CALCISTICI AFFILIATI ALLA FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO NEL 1909 Totale: 54 Lombardia 18 (33,3%); Piemonte 12 (22,2%); Toscana 6 (11,1%); Campania 5 (9,2%); Veneto 5 (9,2%); Liguria 3 (5,5%); Lazio 3 (5,5%); Puglia 1 (3,7%). Riepilogo per grandi aree regionali: Nord 70,5%; Centro 16,6%; Sud 12,9%. 6. DISTRIBUZIONE REGIONALE DELLE SOCIETA’ DI ATLETICA LEGGERA AFFILIATE ALLA FEDERAZIONE ITALIANA SPORTS ATLETICI NEL 1913 Totale: 85 Lombardia 42 (49,4%); Piemonte 11 (12,9%); Lazio 9 (10,6%); EmiliaRomagna 8 (9,4%); Veneto 5 (5,9%); Liguria 4 (4,7%); Toscana 4 (4,7%); Umbria 1 (1,2%); Marche 1 (1,2%). Riepilogo per grandi aree regionali: Nord 82,3%; Centro 17,7%; Sud 0%. 7. DISTRIBUZIONE PER GRANDI AREE REGIONALI DELLE SOCIETA’ CICLISTICHE AFFILIATE ALL’UNIONE VELOCIPEDISTICA ITALIANA NEL 1914 Totale: 555 Riepilogo per grandi aree regionali: Nord 443 (79%); Centro 98 (17%); Sud 23 (4,0%) GREGORIO DRAGHICCHIO: L’IRREDENTISTA PRIMO “SOCIOLOGO” DELLO SPORT ITALIANO Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 6 Gregorio Draghicchio nasce a Parenzo, in Istria, il 5 febbraio 1851. Acceso irredentista (parente di Giacomo e Giuseppe Draghicchio, patriota nella insurrezione veneziana del 1848 il primo, garibaldino con Ricciotti Garibaldi il secondo), egli come Emilio Baumann, Costantino Reyer, Pietro Gallo, ecc. della ginnastica fece la sua missione di vita. E in questo senso incarna perfettamente quella categoria dei “ginnasiarchi” del XIX secolo cui si fa frequente riferimento. Allievo di Michelangelo Rustia e Giovanni Cibron, abilitato in ginnastica a Graz (1875), il 13 agosto 1869 Draghicchio aprì un corso privato di ginnastica nella sua città natale. Trasferitosi a Trieste, l’8 novembre 1873 il municipio giuliano gli conferì la docenza nella scuola comunale di ginnastica, e l’Associazione Triestina di Ginnastica, avendolo assunto quale assistente di Rustia, il 1° gennaio 1875 lo investì della direzione del proprio organo periodico: il “Mente sana in corpo sano”. Su queste colonne Draghicchio fornirà le prime prove delle sue profonde doti di maestro, cultore e storico della ginnastica italiana ed estera. Da irredento anti-austriaco svolse una intensa attività politica venendo coinvolto nel giro di vite repressivo conseguente all’attentato imputato a Guglielmo Oberdan (1882). E in precedenza era stato accusato dagli austriaci d’aver sospeso una riunione ginnastica in segno di lutto per la morte di Giuseppe Garibaldi, nonchè d’utilizzare il foglio “Il ginnasta triestino” per raccogliere fondi a favore della causa irredentistica. Per questi reati scontò una pena in carcere dal 15 settembre 1882 al 29 giugno 1883. Nella sua ricchissima biografia, che in seguito lo vedrà alla direzione tecnica della società ginnastica “Pro Patria” di Milano, un aspetto meno noto è quello relativo al suo interesse per la statistica. Un dato che ne fa il primo “sociologo” dello sport italiano. A lui infatti dobbiamo, nel 1880, 1881 e 1882, tre accurate raccolte statistiche sul nostro movimento ginnastico. Lavori che, da un punto di vista sia quantitativo che qualitativo, consentono di cogliere alcuni dei caratteri originali del nostro fenomeno sportivo nell’Italia dell’Ottocento. Soffermandoci sulla terza statistica del 1881, da essa emergeva che le società ginnastiche allora esistenti in Italia erano 113, di cui 37 affiliate alla Federazione delle Società Ginnastiche Italiana (filo-baumanniana), 7 alla Federazione Ginnastica italiana (veteroobermanniana), 3 alla Federazione Ginnastica Svizzera, e ben 66 non aderivano ad alcun ente federale. 15.508 gli associati, dei quali però soltanto 9703 “attivi” (cioè praticanti) con una frequentazione-media serale delle palestre pari a 4103 unità. E tra gli “attivi” i ginnasti erano 6654; 1317 gli schermidori; 819 i tiratori; 273 i canottieri, 640 i membri di fanfare. Oltre alla ginnastica, infatti, 37 società coltivavano al proprio interno anche la scherma; 15 il tiro a segno; 8 il canottaggio; 36 la musica attraverso le loro fanfare. Ancora: 21 sodalizi possedevano sale di lettura contenenti complessivamente 3390 opere, e 42 società risultavano abbonate a periodici ginnastici. Rispetto alle professioni esercitate dai ginnasti censiti, Draghicchio svolgeva le seguenti riflessioni: “Predominano gli studenti, operai, possidenti ed impiegati; vengono subito dopo gli agenti, gli avvocati, i professori, i maestri, i farmacisti. Una società ha fra i ginnasti un ecclesiastico. Quantunque non poche società abbiano sede in piccoli centri, ove abbondano per numero gli agricoltori, pure fra gli “attivi” non troviamo un contadino. Ciò dimostra come, presso la popolazione delle campagne, la ginnastica non abbia punto attaccato. Essa crede fare abbastanza movimento col suo giornaliero lavoro, e non pensa che il suo corpo, per effetto del moto unilaterale, diviene rigido e difettoso, né saprebbe nulla iniziare colla sua sola rozza forza. Sarebbe pure desiderabile che le professioni “liberali” sedentarie, come docenti, avvocati, tecnici, farmacisti ecc. fossero meglio rappresentate. La loro partecipazione alla ginnastica sarebbe la migliore Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 7 propaganda per la fisica educazione, poiché il loro esempio farebbe meglio che le più belle parole, aumentare la frequentazione”. Conclusa a fine secolo l’esperienza alla “Pro Patria” milanese, Gregorio Draghicchio tornò in Istria assumendo l’incarico di segretario comunale a Parenzo. E lì si spense il 18 marzo 1902. Prima, il 15 settembre 1901, aveva fondato la locale società ginnastica “Forza e Valore”. Sodalizio che, il 24 giugno 1912, avrebbe voluto scoprire una lapide commemorativa in suo ricordo, ma l’Imperial Regio Capitano distrettuale austriaco ne proibì l’inaugurazione sostenendo che avrebbe “potuto dar adito a dimostrazioni ostili verso lo Stato mettendo a repentaglio l’ordine pubblico”. DALLA LEGGE GABRIO CASATI (1859) ALLA LEGGE FRANCESCO DE SANCTIS (1878): L’INGRESSO DELLA GINNASTICA NELLA SCUOLA ITALIANA In linea con un paradigma di respiro europeo, il Regno di Sardegna nel 1833 affidò allo zurighese Rudolf Obermann (1812-1869) la preparazione ginnastica dei corpi scelti di genio e artiglieria. Una chiamata a Torino da porre senz’altro in relazione con le riforme militari, modellate su quelle prussiane del 1812, che furono attuate nell’esercito piemontese nel 1831. Le buone prove offerte da Obermann con genieri e artiglieri, indussero il generale Cesare Saluzzo ad assegnargli l’insegnamento dei rudimenti ginnico-militari anche presso l’Accademia e, nel 1834, il ginnasiarca svizzero iniziò ad impartire lezioni di ginnastica anche in case private. Di più, sulla scorta del successo che il suo metodo aveva ottenuto presso gli ambienti militari, nella capitale del Regno di Sardegna il 17 marzo fu tra i fondatori (dirigendola sino alla morte) della Società Ginnastica Torino (con lui, gli altri soci-fondatori risultavano: Luigi Balestra - medico, Ernesto Ricardi Di Netro - conte e colonnello dell’esercito, Luigi Franchi Di Pont - conte, Lorenzo Saroldi – avvocato, Filippo Roveda – cavaliere, Cesare Valerio – ingegnere), la più antica società d’Italia tuttora sulla breccia, e dal maggio 1853 Obermann ebbe altresì l’onore di istruire in ginnastica (ricevendo uno stipendio di 600 lire per tre ore settimanali) gli eredi al trono di Casa Savoia Umberto, Amedeo e Oddone. Per Obermann, che Edmondo De Amicis definirà “il fondatore e capo della vecchia scuola, misurata, guardinga e rigorosamente metodica”, il passaggio dalla ginnastica militare a quella civile ed educativa avvenne quindi linearmente, senza marcate differenziazioni e discontinuità; e di conseguenza l’impronta della prima non mancherà di riflettersi significativamente sulle altre due. In particolare, ciò che a noi qui più interessa, giusto il metodo Obermann sarà quello che per primo e per un lungo periodo di tempo ebbe cittadinanza nell’insegnamento ginnico all’interno delle scuole dell’Italia unificata. Il suo punto di riferimento consisteva nel sistema di Freidrich Ludwig Jahn, temperato dagli aggiustamenti di Adolf Spiess. La matrice attrezzistica e marziale era quindi quella nettamente prevalente nella sua filosofia ginnastica. Ad esserne edotti basti uno stralcio del suo articolo “I ginnasticanti”, che scrisse il 22 febbraio 1845 per il periodico torinese “Letture di famiglia”: “Egli è voi, soprattutto, stimatissimi parenti ed educatori, che io vorrei persuasi della grande importanza e dei sommi vantaggi di un tale ramo d’educazione per formare fisicamente la gioventù alla vera virilità, lungi da quell’ermafroditismo che non ritiene dell’uomo che appena le forme esterne, della donna la fiacchezza solo ed i difetti. Né vogliate già credere che la sola parte fisica dei giovanetti, le sole qualità del corpo vengano dagli esercizi ginnastici migliorate e sviluppate, poiché dai medesimi debitamente praticati le più belle doti dell’animo vengono favorite, i più brutti i più dannosi vizi repressi” Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 8 Disciplina, culto della virilità, maschilismo. Queste alcune delle categorie ideologico-morali del pensiero ginnastico di Rudolf Obermann, che metodologicamente considerava la gara individuale “diseducativa sotto il profilo etico e militare” e, perciò, privilegiava il lavoro collettivo e le marce cadenzate. Agli esercizi elementari (movimenti della testa, delle gambe, delle braccia, torsioni, flessioni, piegamenti: le sue concessioni allo Spiess), seguivano quelli ai grandi attrezzi di impostazione jahniana: piano di assalto; sbarra di sospensione mobile; scala orizzontale; trave di equilibrio; palo di salita; cavallo; passo volante. Né disdegnava le “lotte di forza”, il tiro alla fune, il “getto del giavellotto al bersaglio”. Esercitazioni nelle quali, è più ch’evidente, prevaleva in modo netto l’aspetto muscolare. Attività fisiche molto prossime, in buona sostanza, ad una efficace applicazione anche in campo bellico. E tant’è nel 1849, a Torino, Obermann darà alle stampe la sua prima opera teorico-pratica: “Istruzione per gli esercizi ginnastici ad uso dei corpi di regie truppe”. Nello specifico non è superfluo osservare che proprio in quel ’49 le esercitazioni ginnastiche vennero introdotte nell’addestramento di tutte le armi dell’esercito piemontese, e quest’ultima estensione si colloca a ridosso delle cocenti sconfitte subite da Carlo Alberto con l’Austria-Ungheria nella prima guerra d’indipendenza (1848). Finalità propedeutiche all’addestramento militare si rinvengono pure in quella che fu la prima Legge relativa alla ginnastica scolastica nel Regno di Sardegna: la Legge Gabrio Casati, modulata sul modello scolastico prussiano che era fondato su un sistema organizzativo fortemente gerarchizzato e centralizzato. Il decreto legislativo n. 3725 del ministro alla Pubblica Istruzione Casati, membro del governo presieduto dal generale Alfonso La Marmora, del 13 novembre 1859. All’articolo ottavo capo primo prescriveva: “La ginnastica e gli esercizi militari saranno insegnati in tutti gli istituti di istruzione secondaria a qualunque grado e a qualunque classe appartengano. Il capo dell’Istruzione pubblica nominerà il maestro di ginnastica e l’istruttore militare”. Ci troviamo di fronte a un’evidente commistione tra esercizi fisici ed esercizi militari, concorrendo in pratica i due momenti all’identico obiettivo educativo. Una distorsione che troveremo riprodotta anche nei primi interventi adottati in materia dal Regno d’Italia. Confermata la Legge Casati, il primo ministro alla Pubblica Istruzione del Regno d’Italia fu Francesco De Sanctis. Nato a Morra Iripina, in provincia di Avellino, il 28 marzo 1817, De Sanctis nel 1848 partecipò all’insurrezione liberale napoletana e, nel dicembre 1850, fu imprigionato dal governo borbonico. Dopo 2 anni e mezzo di carcere venne imbarcato per esser deportato in America, ma riuscì a fuggire a Malta e trascorsi due mesi raggiunse Torino dove svolse un’attività d’insegnamento in un istituto femminile proseguita poi al Politecnico di Zurigo. Patriota, nel 1860 fu governatore di Avellino prima di esser eletto deputato al parlamento italiano nel Collegio di Sessa Aurunca. Docente universitario a Napoli e insigne critico letterario, ci ha lasciato la sua fondamentale “Storia della letteratura Italia” - compiuta a Napoli tra il 1870-’71, nella quale sviluppa il concetto estetico di contenuto-forma; uomo-poeta; vita-cultura. Per De Sanctis, “l’essenza dell’arte è il “vivente”, la “forma”, ma tra contenuto e forma non vi è dissociazione, esse sono l’uno nell’altra”. Seppur con le dovute cautele nella formula desanctisiana del “contenuto-forma” si possono cogliere i prodromi della sua riforma che renderà obbligatoria la ginnastica nelle scuole del Regno. Ovvero l’idea di una imprescindibile unitarietà della persona quale sintesi organica di soma (forma) e psiche (contenuto). Le due parti di un unico insieme nel quale corpo e mente dovevano raggiungere uno sviluppo equilibrato. Questa pedagogia De Sanctis la esplicitò in alcuni famosi scritti nei quali teorizzò l’idea di “virile educazione”. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 9 In particolare nel suo “I partiti e l’educazione della nuova Italia” (1875) egli sosteneva: “Merito del realismo è di dare all’uomo una esatta conoscenza delle sue origini, del suo ambiente, delle sue forze de’ suoi mezzi […]. L’uomo si dee avvezzare a studiare le sue forze ed i suoi mezzi da proporzionarvi ai suoi fini. Questa è virile educazione dei popoli adulti […]. Gli elementi fattivi, restauratori della volontà e della fibra, sono indeboliti in nazioni rinate appena o in aperta decadenza onde nasce la poca attitudine all’opere […]. Una educazione che ci riavvicini alla natura, fortifichi i corpi, c’induri al lavoro, c’infonda il coraggio, c’ispiri tenacità e coerenza di propositi, ci avvezzi alla disciplina, è la migliore amica dell’ideale”. Ministro alla Pubblica Istruzione dal 23 marzo 1861, De Sanctis vi rimase una prima volta sino al marzo del 1862. In questo spazio di tempo tentò di metter mano alla Legge Casati sulla ginnastica, nominando il 27 aprile 1861 un’apposita Commissione sotto la responsabilità di Quintino Sella (allora Segretario generale alla Pubblica Istruzione, poi tra i soci-fondatori del CAI, nonché severo ministro alle Finanze passato alla storia per la “politica della lesina” e la “tassa sul macinato”) e con membri Obermann e Ricardi Di Netro della Società Ginnastica Torino, Giuseppe Alasia (presidente della Commissione), Piero Baricco (vice-sindaco di Torino e Ispettore delle scuole primarie della provincia torinese), Luciano Benettini (direttore del Convitto Nazionale di Torino). Lo scontro in Commissione fu tra Obermann, tenace assertore di un indirizzo “militaristico”, e Benettini, che era favorevole a una ginnastica più “dilettevole”. Chi ebbe la meglio si ricava dalla Relazione sui programmi di ginnastica che la Commissione licenziò il 1° giugno 1861: “La Commissione ha considerato l’istruzione ginnastico-militare complessivamente, scostandosi dall’uso […] di appellare istruzione puramente ginnastica gli esercizi del corpo che sono semplicemente ordinati a rinvigorire la persona ed a divincolar le membra, e di appellare istruzione militare l’esercitazione dell’uomo destinato a trarre le armi. L’istruzione da dare alla nostra gioventù deve essere tale che valga a disciplinarla ed a rafforzarla e a farla agile e vigorosa e nello stesso tempo idonea a maneggiare il fucile, ed ecco la ragione per cui si è considerato l’insegnamento ginnastico-militare come un sol corso”. La Commissione concluse i suoi lavori il 26 ottobre 1861, e in pratica confermò l’impostazione della Legge Casati. La ginnastica era limitata alle scuole secondarie e, nei licei, prevedeva anche “maneggio d’armi, tiro al bersaglio, scherma alla baionetta”. Nessuna ginnastica era prevista per il sesso femminile, lasciando Commissione “al Ministro in persona l’arbitrio di provvedere questa bisogna con particolari decreti ed istituzioni”. Decreti ed istituzioni di cui, per il momento, non si ebbe traccia alcuna. L’ITER E IL DIBATTITO PARLAMENTARE SULLA LEGGE DE SANCTIS DEL 1878 De Sanctis fu nuovamente ministro alla Pubblica Istruzione dal 18 marzo al di dicembre 1878 e dal 1879 al 1881. Nel suo secondo mandato si sforzò di dotare il Paese di una Legge obbligatoria sulla ginnastica in tutti gli ordini di scuole maschili e femminili, dalle elementari alle superiori, improntata a un autentico spirito educativo. Ma anche questo nuovo tentativo riuscì solo in parte. Non tanto per sua volontà quanto per le difficoltà incontrata sia all’interno della specifica Commissione parlamentare (formata da Domenico Berti, presidente; Nicola Marselli, Ferdinando Martini, Luigi La Porta, Alessandro Ceresa, Pasquale Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 10 Umana; Antonio Allievi relatore) sia in sede di Camera e Senato. Anche se, l’aver egli riconfermato la sua fiducia nel metodo Obermann e nella centralità metodologica rivestita dalla Società Ginnastica Torino, costituì un innegabile ostacolo, di cui avrebbe dovuto esser perfettamente consapevole, all’attuazione d’un vero e proprio programma riformatore. Comunque sia, intervenendo a sostegno della sua Legge nella discussione che il 30 maggio 1878 riguardava il bilancio definitivo del Ministero alla Pubblica Istruzione, De Sanctis pronunciò queste parole: “Io spesso sono stato[…] in certe scuole di bambini e quando li ho visti sudici, logori , pigiati, gli uni accanto agli altri in certi banchi fatti proprio per rovinare il corpo […] io mi sono domandato: non sono queste scuole omicide? Vogliamo noi, per migliorare lo spirito, uccidere il corpo? Non vediamo che la base è innanzitutto di avere corpi sani e forti? […] Signori deputati, quando il corpo è sano e forte rinasce nell’uomo non solo il coraggio fisico, che è la cosa più comune, ma ciò che è più raro, anche il coraggio morale, e la tempra e il carattere e la sincerità della condotta, e l’aborrimento delle vie oblique […]. Noi non diamo ancora troppa importanza a questa ginnastica educativa la quale dà forza, grazia e sveltezza ai movimenti del corpo; abbiamo molte società ginnastiche in Italia, ma se ne parla con leggerezza; se vi è la ginnastica nella scuola, si considera quasi come uno spasso ed io vorrei, o signori, che considerassimo un po’ più seriamente questa parte fondamentale della nostra Rigenerazione”. Stante ciò, il disegno desanctisiano originale presentava alcune difformità sostanziali rispetto agli articoli di Legge che vennero poi emanati il 7 luglio 1878. Rimasto invariato l’articolo 1° che dettava: “La ginnastica educativa è obbligatoria nelle scuole secondarie, nelle scuole normali e magistrali, e nelle scuole elementari. La conoscenza dei precetti sui quali si fonda è compresa tra le materie di esame per il conferimento della patente di maestri elementari” (e il 3°: “Nelle scuole femminili d’ogni ordine e grado, la ginnastica educativa sarà regolata con norme speciali”), letteralmente creato ex-novo dalla Commissione fu l’articolo 2°. Nella versione di De Sanctis questo articolo, che Berti-Allievi faranno diventare il 4°, recitava: “Potranno essere istituiti corsi normali di ginnastica educativa sussidiati dal governo anche presso società ed istituzioni ginnastiche ora esistenti, secondo le condizioni ed i programmi stabiliti nel Regolamento”; viceversa nel testo definitivo presentato alle due camere dopo la revisione compiuta dai commissari parlamentari esso assunse questa piega: “L’insegnamento della ginnastica nelle scuole secondarie, normali e magistrali maschili ha pure lo scopo di preparare i giovani al servizio militare. Il Ministro della Pubblica Istruzione e quello della Guerra determineranno d’accordo gli esercizi e i gradi successivi dell’istruzione ginnastica, in relazione all’età e allo sviluppo fisico dei giovani”. Si trattava dunque di una “svolta militarista” davvero difficilmente conciliabile con gli intenti, sulla carta dichiarati educativi, della Legge. Chiariti questi aspetti, vale soffermarsi sul dibattito parlamentare che la interessò e, in via preliminare, è da notare come i verbali ufficiali della Camera relativi alla seduta del 30 maggio 1878, quando De Sanctis presentò il suo progetto, riportino testualmente queste reazioni beffarde: “Ma come! Il De Sanctis debutta con un progettino di ginnastica! – Viva ilarità”. La discussione iniziò il 6 giugno 1878, e tra i diversi interventi spiccano quelli dei deputati Federico Gabelli, Paulo Fambri, Salvatore Morelli e Antonio Allievi. Gabelli, della Destra storica, si opponeva alla Legge perché, a suo parere, gli “italiani se li si voleva più sani e più forti, era più importante riuscire a dare un po’ da mangiare con minori spese e minori tasse”. Obiezioni sociali non del tutto infondate, cui tuttavia seguivano Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 11 queste sue altre considerazioni volte ad affondare la Legge negando alla ginnastica ogni valore dal punto di vista della metodologia scientifica. Nella sua visione essa, infatti, non era nient’altro che una pratica nella quale “si stira un braccio, si alza una gamba, si volta il corpo un po’ di qua e un po’ di là e si passeggia”. Dunque un lusso inutile e ozioso che quell’Italia, ancora poverissima e contadina, non poteva permettersi. Fambri, sostenitore della Legge e della sua cifra militaristica, dichiarava che dove l’operaio obbedisce al capo-officina; dove lo scolaro sia ossequiente al maestro, dove cioè, insomma, sia la disciplina sociale, voi avrete lì per lì contratta la disciplina militare […] e il ricostituente dei nostri giovani deve essere bensì il ferro ma adoperato non già in forma di pillole come tonico ma di anelli, di maniglie, di lame, di fioretti e di sciabole”. E dal paternalismo conservatore e reazionario di Fambri al precoce “taylorismo” di Salvatore Morelli. Questi, rappresentante democratico della Sinistra segnalatosi per voler garantire pari diritti alle donne ed esser favorevole al divorzio, vedeva però nella ginnastica scolastica soprattutto - se non unicamente - un mezzo per migliorare la produttività sul lavoro. E in tal senso si espresse così dinanzi ai colleghi deputati: “O Signori, una delle ragioni per cui non si lavora quanto basti in Italia sapete qual è? E’ appunto perché manca il metodo del lavoro, di cui è parte essenziale la ginnastica”. A difendere la bontà della Legge, il 7 giugno 1878, scese infine in campo il relatore Allievi che usò questi argomenti: “C’era la scuola vecchia, la scuola, vorrei dire dei preti […] la quale teneva per ore ed ore là pigiati, immobili, silenziosi, attratti i giovanetti, avezzandoli quasi a considerare l’istruzione come una mortificazione, una pena. Vi è la scuola laica la quale alterna con l’istruzione intellettuale un moderato esercizio fisico; la quale tien conto delle condizioni del corpo contemporaneamente alle condizioni dello spirito”. Ma dopo questo approccio, per quanto anticlericale tutto sommato moderato, Allievi cambiava registro e nel seguito del suo intervento invitava a considerare il fatto “che l’opportuna formazione del cittadino al servizio militare può rendere più efficace e di meno grave dispendio la piena attuazione delle nuove leggi militari” (vedi ristrutturazione Ricotti Magnani del 1873), e a ciò pertanto dovevano concorrere anche “l’istruzione obbligatoria, la ginnastica e il tiro a segno” (la Legge De Sanctis del ‘78, per l’appunto). Posta in votazione alla Camera il 18 giugno 1878, la Legge venne qui approvata con 170 sì su 235 aventi diritto. Al Senato del Regno pervenne il 22 giugno 1878 e, se tra i deputati le obiezioni avevano riguardato la medesima utilità dell’inserimento ginnastico in seno alle istituzioni scolastiche, tra i senatori i dissensi si concentrarono sul concetto di obbligatorietà, trovando in Diomede Pantaleoni il maggior oppositore. A queste posizioni rispose Berti, il presidente della Commissione referente che disse: “Non è nei ragazzi che bisogna vincere il pregiudizio contro la ginnastica, è nelle famiglie; i ragazzi si prestano volentieri, anzi molte volte si dolgono che le loro famiglie non gliela permettano. E’ dunque la famiglia che bisogna vincere. Ma se le famiglie trovano nella Legge un “salvo”, non si salvano più i maestri di ginnastica”. Il senatore Casati, evidentemente sottilmente antifemminista, per contrastare la Legge il 2 luglio 1878 intervenne chiedendo se “anche le ragazze venissero preparate al servizio militare”; e giunti al voto finale con scrutinio segreto, il 7 luglio 1878 il testo passò a maggioranza con 46 sì, contro però ben 34 schede sfavorevoli. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 12 I programmi della De Sanctis (obiettivi didattici e linee metodologiche) furono definitivamente promulgati con un decreto del 16 dicembre 1878. Nelle scuole elementari la lezione di ginnastica - secondo i canoni dell’Obermann, che restava anche dopo la sua morte il “ginnasiarca principe” dell’Italia unita doveva servire “come sollievo dopo una lunga applicazione intellettuale. Per conseguenza dove l’orario giornaliero è distribuito in un unico periodo, si faccia dopo la prima ora di studio; dove invece è distribuito in due periodi, continuavano i programmi – sarà bene farla al termine del secondo”. La lezione doveva esser sempre di mezz’ora e suddivisa in “esercizi ordinativi e preparatori; esercizi di tutte le parti del corpo, compresi il salto e la salita […] esercizi di passi ritmici, marce, evoluzioni, corse, giuochi”. Le assenze erano punite con i mezzi previsti dai regolamenti scolastici, e si sarebbero dovuti tenere saggi pubblici in occasione di feste nazionali. Nelle scuole secondarie si prescriveva di introdurre l’attrezzistica in modo da “avvezzare i giovani a superare facilmente in molte guise un ostacolo, a misurare le proprie forze e ad avere fiducia in sé”. Ancora: non mancava il maneggio delle armi, la scherma di bastone e il tiro a segno affinché l’allievo si prepari “ad entrare come valido soldato nelle file dell’esercito”. E nell’ultimo paragrafo del decreto 16 dicembre 1878, dal titolo “Istruzione per lo svolgimento del programma d’insegnamento militare nelle scuole secondarie”, una intera parte era dedicata all’uso del fucile: istruzioni con l’arma, fuochi in ordine chiuso, assalti, istruzione sulle armi, istruzione sul tiro. BIBLIOGRAFIA: AA.VV. “Scuola in movimento. La pedagogia e la didattica delle scienze motorie e sportive tra riforma della scuola e dell’Università” a cura di Giuseppe Bertagna, Milano, Franco Angeli, 2004 AA.VV. “Storia degli sport in Italia 1861-1960” a cura di Antonio Lombardo, Roma, Il Vascello, 2004 Francesco Bonini “Le istituzioni sportive italiane: storia e politica”, Torino, Giappichelli Editore, 2006 Gaetano Bonetta “Corpo e nazione. L’educazione ginnastica, igienica e sessuale nell’Italia liberale”, Franco Angeli, Milano, 1990 Ettore Carneroli “100 anni di educazione fisica”, Roma, Edizioni Mediterranee, 1959 Edmondo De Amicis “Amore e ginnastica”, Torino, Einaudi, 1971. Edmondo De Amicis “Non si sgomentino le signore…”a cura di Pino Boero, Maria Cristina Ferraro Bertolotto, Giovanni Ricci, Genova, Tilgher, 1984. Domenico Francesco Antonio Elia “Lo sport in Italia. Dal loisir alla pratica”, Roma, Carocci, 2009. Michele Di Donato “Storia dell’educazione fisica e sportiva. 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Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 13 Sergio Giuntini “Lo sport del nuoto prima delle piscine. 1898-1914: quando si nuotava in mari, laghi e fiumi”, Torino, Bradipolibri, 2013. “Lancillotto e Nausica” (numero monografico su “Storia dell’educazione fisica scolastica”) n. 1, 2009 “Lancillotto e Nausica” (numero monografico su “Sport e Risorgimento”), n. 3, 2010 George L. Mosse “La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo poliotico e movimenti di massa in Germania (1815-1933)2, Bologna, Il Mulino, 1975 Angelo Mosso “L’educazione fisica della gioventù”, Milano, Treves, 1892 Stefano Pivato “I terzini della borghesia. Il gioco del pallone nell’Italia dell’Ottocento”, Milano, Leonardo, 1991 Angela Teja “Educazione fisica al femminile. 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FABRIZIO FELICE La belle époque ha un inizio simbolico, che coincide con l’inaugurazione avvenuta nell’aprile del 1900 del “palcoscenico del mondo”, l’Esposizione Universale di Parigi, e una conclusione concretissima e fragorosa che ha luogo nell’agosto del 1914, quando una delle tante guerre balcaniche si trasforma in conflitto europeo. Gli anni racchiusi tra queste due date-spartiacque sono prima di ogni altra cosa uno stato d’animo che accomuna tutto il Vecchio Continente sovrano e libero delle grandi potenze e degli sterminati imperi coloniali, ciecamente convinto della sua inesauribile ricchezza economica e culturale. Anni frenetici, scanditi dai ritmi del cancan, del valzer viennese, dello scandaloso tango argentino. Affollati di signori che parlano francese, si vestono a Londra, esibiscono il monocolo prussiano e di signore che impazziscono per le ultime novità della moda parigina. Racchiusi nei tratti stilizzati dell’art nouveau. Anni di euforia, di ottimismo sul presente, di fiducia in un futuro di irreversibile progresso, anni nei quali l’unico problema appare quello di vivere intensamente ogni istante, in bilico tra inflessibili etichette e sconfinate spregiudicatezze, tra sorrisi stereotipati e finzioni convenzionali. La vita oziosa ed elegante dell’internazionale dei piaceri si consuma nei salotti, nelle fantasmagoriche atmosfere dei locali pubblici, negli ambienti raffinati dei grandi hotel, dei treni e dei transatlantici di lusso, delle stazioni turistiche più in voga. Le esistenze si sviluppano su livelli ben distinti. Alla dolce vita, prerogativa di un numero molto limitato di privilegiati, continua a contrapporsi la lotta quotidiana per la sopravvivenza combattuta dalla grande maggioranza della popolazione. Parigi, Vienna e, in misura minore, Londra e Berlino sono gli abbaglianti fuochi culturali di un impero di cui l’Italia continua a rimanere periferia. Ma anche il nostro paese si lascia contagiare dalla ventata di tranquilla sicurezza che percorre l’Europa, anche perché la belle époque ha come sfondo l’Italia giolittiana, nel corso della quale si accelera una rivoluzione industriale che comporta una serie di profondi sconvolgimenti di natura economica, sociale e culturale. Nella terra delle cento città e dei mille campanili ogni porzione di territorio partecipa a questo slancio impetuoso con modalità e con intensità diverse. Concentriamoci sulla Lombardia, regione che concentra all’incirca un quarto dell’apparato produttivo, proponendosi come vera e propria locomotiva dell’economia nazionale. Milano, la più europea delle città italiane, è anche la più sollecita nel catturare, rielaborare, diffondere le onde dell’innovazione. Capitale dell’informazione, della cultura, dei consumi, laboratorio del mondo nuovo, emana il senso dell’opulenza, il profumo dell’eleganza, la smania del divertimento. Le vie rischiarate dall’illuminazione elettrica e tappezzate di cartelloni pubblicitari (1) sono percorse da mastodontiche automobili e da tram sferraglianti (2). Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 15 I padiglioni delle grandi esposizioni (3) e le vetrine del centro (4) esibiscono invenzioni e merci di ogni tipo. La crema della società passeggia nel salotto della città, la Galleria (5), si dà appuntamento nei caffè, nei ristoranti, nei teatri (6), nei locali di varietà (7). Le attività motorie si adeguano a questi scenari in continua trasformazione. Lo sport, uscito da poco dall’infanzia, è definito per categorie secondo ceti sociali che tracciano circuiti paralleli in cui rare sono le intromissioni e le contaminazioni. Come a bordo del Titanic, la metafora più rappresentativa del tragico destino di una umanità persuasa della perennità della congiuntura favorevole, lo sport viaggia in classi rigidamente separate. Il mondo contadino rimane tenacemente aggrappato ai suoi svaghi tradizionale, i giochi con la palla e le bocce (8). I ceti subalterni, in modo attivo o nelle vesti di semplici spettatori, si dedicano a discipline che richiedono un equipaggiamento elementare, gusto della sfida, spirito di sacrificio, un impegno muscolare che sembra prolungare i ritmi massacranti dell’attività lavorativa. A calamitare la passione popolare, offrendo nel contempo ai campioni insostituibili occasioni di riscatto sociale e di fuoriuscita dalle ristrettezze economiche sono il ciclismo (9), primo autentico sport nazionale, il podismo (10), la lotta (11), il sollevamento pesi (12). La piccola e la media borghesia, strati compositi di frontiera tra la base proletaria e le oligarchie, rimangono incerte tra la smania di imitare i prestigiosi modelli di svago delle classi superiori e la ricerca di forme autonome di pratica, individuate nella ginnastica (13), nel calcio (14), nel canottaggio (15), nel nuoto (16), nel pugilato (17). In prima classe viaggia, circondata da comodità di ogni tipo, una cerchia ristretta in cui si integrano una nobiltà di sangue dinamica e cosmopolìta e le dinastie rampanti degli esponenti del mondo degli affari. Riunite in circoli prestigiosi, assorbite in attività in cui sulle esasperazioni agonistiche prevalgono gli aspetti mondani, le élites presidiano con puntiglio ogni spazio di socialità, venendo a formare una sorta di cerchio magico di notabili che ricoprono a lungo molteplici cariche direttive in ogni settore delle attività ludiche e sportive. Vale la pena soffermarci su quest’ultimo spazio sociale, ampiamente minoritario rispetto alla diffusione reale delle pratiche e dei gusti, ma pienamente rappresentativo dello spirito della belle époque. E’ un mondo piccolo, dove tutti si conoscono e dove implacabilmente gli stessi sono i nomi riportati con minuzia in interminabili elenchi: perché l’importante qui non è tanto scendere in gara, ma presenziare. E’ un mondo a parte, che trova solo due forme di comunicazione con il mondo circostante: lo sfruttamento dei beni e dei servizi offerti dai salariati dello sport (fabbricanti, commercianti, maestri, addetti ai lavori) e la messa in scena del proprio sfarzo, sotto gli sguardi invidiosi dei borghesi che vorrebbero ma non possono e quelli attoniti del volgo profano che si gode lo spettacolo. E’ un mondo inaccessibile che si garantisce contro ogni rischio di sgradite intromissioni attivando rigidi meccanismi di accesso alle associazioni e la richiesta di astronomiche quote di affiliazione, oscillanti tra le cinquanta e le centocinquanta lire annue, l’equivalente dello stipendio mensile di un impiegato e del guadagno trimestrale di un operaio. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 16 E’ un mondo duttile, pronto a ritirarsi fulmineamente dai territori a rischio di democratizzazione, come il ciclismo ed il calcio dei primordi, per arroccarsi nei ridotti degli sport invernali e motoristici. E’ un mondo in incessante movimento che segue rotte migratorie precisate da scadenze stagionali, tra la Costa Azzurra, i centri termali più rinomati, le località poste sulle rive dei laghi, le prestigiose stazioni invernali della Svizzera. Recuperare un accredito che consenta un comodo accesso a questo mondo a parte è tutt’altro che semplice. Bisogna armarsi di pazienza e di sfrontatezza, occorre dare una bella ripassata ai manuali del bon ton, serve una rinfrescata del proprio guardaroba per scoprire ad uno ad uno i nascondigli dei vip. Quale soluzione migliore che trasformarsi in cronisti della elegantissima “Cronaca d’oro. Rivista dell’alta società”, pubblicata dal 1910 a Milano? Issati a bordo di una impeccabile Isotta Fraschini modello B (18), siamo pronti a cominciare il nostro piccolo giro della Lombardia sportiva che conta. La prima tappa ci porta diritto ad uno dei santuari dello sport italiano, la brughiera di Montichiari, collocata tra Brescia e Mantova, regno della velocità, dell’altezza, dei motori rombanti, miti prediletti dalla sensibilità dell’epoca. Qui, dal settembre del 1905, è in funzione il primo circuito automobilistico realizzato nel Bel Paese, luogo di svolgimento di competizioni di richiamo europeo come la Coppa Florio (19), (20), e punto di raduno dei soci degli esclusivi club motoristici, fieri dei loro giocattoli di lusso, avvolti in pellicce d’orso, resi irriconoscibili dalle maschere e dagli occhialoni. Qui, nel settembre del 1909, ha luogo il Circuito Aereo Internazionale (21), prima ribalta delle spericolate evoluzioni dei nuovi titani lanciati alla conquista dei cieli, primi attori di uno spettacolo reso morbosamente attraente dai rischi che ne accompagnano la messa in scena. Sulle tribune, mescolati all’alta società al gran completo, guardano all’insù D’Annunzio, Puccini, Kafka. Brescia è appena dietro l’angolo. Guidati dall’eco delle detonazioni raggiungiamo l’area di Canton Mombello, ricavata dall’abbattimento delle antiche mura veneziane ad accogliere uno dei maggiori stand di tiro a volo in Italia, teatro delle imprese degli infallibili cecchini locali (22). Il tiro a volo della belle époque ha poco a che spartire con quello odierno, ipertecnologico e accesamente agonistico. E’ uno svago costoso (i fucili inglesi di precisione sono carissimi e un piccione – si spara quasi esclusivamente a bersagli vivi – costa due lire, la paga giornaliera di un operaio) che tra una stagione di caccia e l’altra richiama in confortevoli impianti permanenti e nei parchi delle ville di delizia una eletta schiera di sportsmen e di dame nelle vesti di spettatrici e di madrine. Ed ora su per l’interminabile Valcamonica fino ad avvistare Ponte di Legno, che le guide turistiche dell’epoca etichettano ottimisticamente come “prima stazione italiana di sport invernali”. I ripidi pendii invitano al brivido del bobsleigh, dello skeleton, dello slittino, gli spazi pianeggianti sono percorsi dagli amanti del placido ski-kjoring, agganciati ad una slitta tirata da cavalli. E’ un espediente che trova una logica spiegazione nelle fatiche venate di masochismo che richiede la pratica dello sci (23): piste non battute, l’ assenza di impianti di risalita che costringe a faticose ascensioni a lisca di pesce cui fanno seguito brevissime discese, attrezzi ingombranti e insicuri, abbigliamento che opprime senza riscaldare. In questo caso le élites optano per una attitudine contemplativa che si rafforza tra un poncino e l’altro. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 17 La fedele Isotta si arrampica tossicchiando sul passo dell’Aprica per condurci in Valtellina, paradiso della caccia ai grandi ungulati, della pesca alla trota, dell’alpinismo (24). Un alpinismo generato da nobili lombi (i primi esploratori italiani dell’Adamello, del Bernina, del Disgrazia appartengono tutti all’aristocrazia milanese) che sta inesorabilmente mutando pelle. Alle interminabili ascensioni in cordata imprescindibili dal supporto di guide ingaggiate per la modica cifra di cento lire e di malcapitati portatori oberati di scale in legno, di strumenti scientifici, di casse di cibarie e di bevande stanno subentrando le audaci imprese messe a segno da una nuova e più agguerrita generazione di scalatori. Di gran carriera iniziamo la lunga discesa che ci porterà nel cuore stesso del distretto dei piaceri mondani, collocato tra l’area comasca e quella varesina. Como e Carate Lario sono le capitali degli sport nautici. Il Regate Club sul lago di Como è il presidio dei cultori della vela (25), lo sport delle teste coronate, dei titolati, dei nuovi ricchi. I commodori e i soci, indossando giacche e pantaloni turchini, gilet bianchi, berretti alla marinara, alternano blande regate e sfarzosi ricevimenti. All’Elice Club Italiano di Carate fanno capo gli amatori delle rumorose emozioni della motonautica (26). Prima di toccare Varese è d’obbligo una breve sosta sulle rive del piccolo lago di Ghirla, che nei mesi invernali dà spazio alle incerte evoluzioni dei praticanti di un’altra icona dello sport della belle époque, il pattinaggio su ghiaccio (28): attività stagionale per necessità per carenza di impianti al coperto con refrigerazione artificiale e mondana per scelta, nella cornice delle patinoires sparse in ogni lembo della regione ad ospitare allegre feste in costume e rumorose gincane. L’elegante architettura del Grand Hotel Excelsior di Varese accoglie una clientela sceltissima, destinataria di un ampio ventaglio di svaghi a cominciare dal golf, importato e giocato prevalentemente da turisti britannici (27). Tra Varese e Milano si estende il vasto territorio coperto di brughiere che ha per centro Gallarate, terreno ideale per due pratiche esclusive per eccellenza. Il possesso di cani di razza è prerogativa dei gentiluomini anglofili affiliati al Kennel Club, che adibisce la zona allo svolgimento delle prove di cerca sul terreno (29). Tra fossi, macchie e ciglioni galoppano in sella a cavalli irlandesi e preceduti dalle mute di segugi acquistati direttamente in Gran Bretagna gli azzimati cavalieri della Società Milanese per la Caccia a Cavallo che indossano una giubba rossa trapuntata di bottoni con la corona in stampo ad attestare il patrocinio del re (30). A sostituire le volpi, che per loro fortuna latitano, provvedono cervi e daini fatti arrivare da molto lontano o addirittura semplici bigliettini di carta dei quali va seguita la traccia. Ma in realtà i complicati rituali di caccia sono una messinscena che cela una intensa vita mondana cadenzata da manieristici raduni, assidui corteggiamenti delle romantiche amazzoni (31), animate feste serali. Milano ci accoglie offrendoci un panorama ricchissimo di iniziative di ogni tipo. Completeremo qui il nostro viaggio con quattro omaggi reverenti ad altrettanti luoghi di culto. La prima è una delle numerose sale di scherma che hanno sede nelle vie del centro (32) : ambienti elegantissimi (la sala della Società del Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 18 Giardino è costata la bellezza di 25.000 lire!) nei quali celebrati maestri istruiscono nella scienza delle armi e preparano alla non tanto remota eventualità del duello il fior fiore della nobiltà meneghina. In via Vivaio il vasto salone del Veloce Club, una delle più antiche società ciclistiche italiane, è il tempio del pattinaggio a rotelle (33), fratello cadetto del pattinaggio su ghiaccio con il quale condivide la cornice mondana e le funzioni socializzanti. Ai margini del parco Sempione sorgono gli impianti nei quali si pratica lo sportsimbolo della belle époque, il tennis (34) degli eleganti e pacati gesti bianchi disegnati sui rossi campi in terra battuta, prodotto di lusso very british, ideale prolungamento dei garden-parties e dei tè delle cinque. Inaugurato nel 1888 in un’area corrispondente all’attuale piazzale Lotto, l’ippodromo di San Siro (35) vede affollarsi sulle tribune stuoli di dame che esibiscono spettacolari toilettes, attorno al recinto del peso, ai picchetti dei bookmakers, agli sportelli del totalizzatore gli allevatori, i proprietari, gli ippofili più incalliti (36), in attesa che la fiera della vanità trovi la sua apoteosi nel rientro in città delle carrozze tirate da quattro purosangue attaccati all’inglese. Anche questo concorre a nascondere sotto un sottile strato di cenere le braci vive che ardono in un’ Europa inconsapevolmente adagiata su un autentico campo minato. “Il futuro è una palla di cannone accesa e noi lo stiamo raggiungendo”, racconta un cantante un bel po’ poeta, quel Francesco De Gregori che in tre delle sue composizioni ci ha detto della belle époque più di cento libri di storia. Il cerchio si chiude con il ritorno alla metafora del Titanic (37). A procedere pedalando, correndo, remando, nuotando verso i campi di battaglia della Grande Guerra saranno i componenti dell’equipaggio e i passeggeri di terza classe. Gli imperturbabili signori protagonisti assoluti delle cronache d’oro, quelli che, per dirla con Wilfred Owen, si accingono a mandare al macello “metà del seme d’Europa, uno per uno”, viaggiano in prima classe, nella quale pochi furono gli imbarcati e tanti, tantissimi i superstiti. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 19 LO SPORT E LA BELLE ÉPOQUE AL TEMPO DEI FLORIO DOTT. VINCENZO PENNONE Come ricorda Fabrizio, al fervore impetuoso con cui il nostro paese si inserì nella belle époque europea “ogni porzione di territorio partecipò con modalità e intensità diverse”. Sicuramente minori queste intensità nel caso della Sicilia e del Meridione in generale, che scontarono anche il nulla di fatto che i successivi governi giolittiani raggiunsero per il Meridione: un Meridione abbandonato a se stesso, ancora prigioniero dell’impostazione feudale della società, immerso sino al collo già allora nella corruzione pubblica e guidato dalla criminalità che poteva già definirsi “organizzata”. Nonostante queste difficoltà strutturali, un alito di ribellione un tentativo di agganciarsi a realtà economico-sociali più avanzate, in Sicilia ci fu, trovando ispirazione anche in quelle iniziative produttive ed economicamente attive che nell’isola una importante componente anglosassone aveva già da tempo avviato. A questo processo di sviluppo del movimento imprenditoriale, che avrebbe avuto ripercussioni evidenti anche nel campo sociale e culturale, con una ventata del tutto inconsueta di attività ludico-sportive, contribuirono in maniera decisiva i Florio. I Florio, una dinastia di imprenditori i cui iniziatori, Paolo e Ignazio, calabresi di Bagnara, decisero un giorno sul finire del ‘700 di attraversare il Tirreno e fermarsi a Palermo per dare una scossa alla propria attività che fino allora era consistita nell’esportazione con una piccola flotta di feluche del legname dell’Aspromonte e dell’olio locale. Dopo un secolo, alla fine dell’800 il patrimonio dei Florio era una delle più consistenti realtà economiche del nostro paese. Le loro imprese spaziavano dall’agricoltura all’industria, e si estendevano in campo metalmeccanico, chimico, manifatturiero, estrattivo, enologico, conserviero. L’attività di maggior peso era però quella armatoriale: negli ultimi anni del secolo, grazie anche all’accordo (1881) stipulato con l’armatore genovese Rubattino per la costituzione della “Navigazione Generale Italiana”, la compagnia possedeva 105 navi che per tonnellaggio rappresentavano circa l’80% dell’intera flotta nazionale. Il vertice alto nell’ascesa del casato si avrà (1) con Ignazio, figlio di altro Ignazio e Giovanna d’Ondes Trigona, a cui sono legate alcune fra le più grosse iniziative imprenditoriali di quegli anni: i Cantieri Navali di Palermo, il quotidiano “L’Ora”, la Ceramica Florio, il “Consorzio Agrario Siciliano”, la “Anglo Sicilian Sulphour Company”, la costruzione di Villa Igiea e del Teatro Massimo. Anche le istituzioni benefiche di maggior rilievo e tutte, o quasi, le attività culturali palermitane nacquero dal mecenatismo dei Florio, e di Ignazio in particolare. (2) Uno degli avvenimenti che ufficializzò l’avvio di questa nuova fase della vita economica e sociale fu la IV Esposizione Nazionale Italiana, che Palermo ospitò nel 1891 e ‘92, (3) i cui padiglioni progettati da Ernesto Basile, esponente del liberty europeo, offrivano ampi spazi ovviamente ai prodotti delle industrie siciliane. Nel padiglione dei Florio c’era di tutto, il vino Marsala, il cognac Florio che presto si collocherà sul podio mondiale, l’archetipo delle famose tonnare di Favignana, i prodotti della fonderia Oretea per la navigazione a vapore e per altri rami dell’industria, in particolare quella di estrazione dello zolfo, sulla quale i Florio erano anche direttamente coinvolti. Quello poi che organizzarono a Palermo a latere all’esposizione lascia sbigottiti: la “corrida de toros” a Piazza Vittoria, le ascensioni in mongolfiera, gare di tiro a segno, corse di cavalli alla Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 20 Real Favorita, fuochi artificiali, concerti tsigani, balli in maschera, tornei di scherma, corsi di fiori, gare tra bande musicali. E i Reali d’Italia, Umberto I e Regina Margherita, che presenziarono alla cerimonia di inaugurazione, e tutti gli esponenti del mondo anglossassone –gli Ingham, i Whitaker, gli Hopps- che avevano già piantato stabilmente radici nell’isola, e presenti all’Esposizione testimoniarono l’attenzione per il ruolo di centralità e di convergenza di interessi economici cui la Sicilia aspirava, nella speranza di un risveglio economico e industriale sempre vagheggiato. Ed i Florio, antenne puntate anche verso quel che accadeva fuori dall’isola, non vollero mancare tra l’altro -con un elegante padiglione- all’Esposizione internazionale che Milano ospitò nel 1906. Furono in tre, i Florio protagonisti assoluti di questo fermento mondanoturistico-sportivo: Ignazio l’ultimo condottiero dell’impero familiare, Vincenzo il fratello minore, (4) i due legati sin da piccoli da un patto di fedeltà reciproca, indissolubile e mantenuto anche avanti negli anni, (5) pure durante quelli tristi che portarono al crollo di quell’impero, e Franca Jacona Florio moglie di Ignazio. Devoto al fratello, zio premuroso dei piccoli pargoli di Ignazio e Franca, Vincenzo non volle però proprio saperne di occuparsi degli affari di famiglia, perché da giovane fu –per così dire- morso dalla tarantola delle organizzazioni sportive. Darà vita alle più grandi manifestazioni del tempo, organizzatore e praticante, (6) e proprio nella veste di promoter lo incontriamo il 6 Maggio del 1906 sul lungomare di Bonfornello, alle falde delle Madonie, in trepidante attesa della nascita della sua “creatura”, proprio come un padre che aspetta il parto, ma la creatura che sta per nascere è una corsa di automobili. L’atto si consumò cinque anni prima, anche allora era il mese di Maggio, quando lui ancora diciottenne alla guida di una vettura prestatagli dal principe di Trabia cognato suo, partì per raggiungere le Madonie, per avere un primo contatto con quelle montagne conosciute solo per sentito dire o in fotografia. Con al suo fianco come guida per quella missione insolita e fascinosa l’amico Francesco Orestano, una guida importante perché Orestano aveva fondato nel 1892, e ne era presidente, il Club Alpino Siciliano. Un club che godette da subito di notevole fermento partecipativo, con moltissimi proseliti tra gli studiosi e i naturalisti, come Minà Palumbo e Giuseppe Pitrè, famoso letterato e antropologo e grande studioso di tradizioni popolari. (7) La missione di Florio si dimostrò da subito ardua e difficoltosa per le strade contorte pietrose polverose dove passavano solo muli e carretti, con la vettura avvilita quasi prostrata per la fatica, ma quelle montagne avrebbero elargito una quantità di approfondimenti di vita sociale ambientale e culturale del tutto inattesa. (8) Subito, d’acchito la scoperta imprevista e penosa di una società drammaticamente distante da quella ristretta porzione aristocratica briosa e godereccia cui Don Vincenzo apparteneva, piccoli paesi tutti uguali, fotocopie l’uno dell’altro, (9) con gli uomini per strada, uomini statici ancorati come saldati alla strada, tutti per strada esseri umani fermi immobili nella loro povertà e nella loro desolazione, (10) erano paesuzzi che un tempo il Signore depositò così a casaccio, sperduti sulla montagna, Sclafani Geraci (11) Petralia Soprana, e poi altrettanto imprevista, (12) la visione paradisiaca del territorio madonita, un paradiso di (13) volpi e di donnole, di istrici e lepri, di martore ghiri conigli e gatti selvatici, (14) di lecci sughere e abeti (15) la ginestra del Cupani (16) l’agrifoglio gigante, la quercia monumentale di Bosco Pomieri, e i due viaggiatori scoprirono infine una miniera di storia in quel territorio, (17) castelli altezzosi di principi antichi, fortezze saracene di mille anni prima scavate nella roccia, (18) e un’infinità di chiese e di conventi, con il loro prezioso contenuto di Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 21 affreschi e dipinti, (19) spesso gravi e minacciosi come questo Giudizio Universale opera dello “Zoppo di Gangi”. (20) Il giovane Vincenzo tornò a casa intontito, inebriato dagli odori e dai colori della montagna, sopraffatto dalla ricchezza dei valori dell’arte, ma tormentato dalle tortuose e ammalianti strade delle Madonie. Tre anni dopo -appena 21enne- ideò una corsa in salita, da Palermo a Monreale normanna, e fu un grande successo, con piloti importanti arrivati da ovunque, principi e conti e complimenti vivissimi, e sull’onda di quel successo pose in cantiere altre iniziative, esplorando con lo stesso impegno altri terreni dello sport, (21) come ad esempio il canottaggio, ove contribuì alla nascita del Circolo Canottieri intitolato al grande ammiraglio Roggero di Lauria, che ebbe per “iscopo di promuovere lo sviluppo e l’incremento dello Sport nautico in genere e del Canottaggio in ispecie”. (22) Vogatori fieri e robusti dell’equipaggio denominato “Per Cominciare”, in maglietta bianca accollata ma senza maniche per esaltare la muscolatura delle braccia, (23) che riscossero grande plauso ovunque fin nelle acque napoletane (aprile del 1903), il fratello Ignazio era stato eletto presidente del Circolo, (24) e come apporto di presidenza aveva messo a disposizione per la sede sociale un brigantino della sua flotta in disuso ma ancora in ottime condizioni. Vincenzo si diede da fare anche nell’atletica, (25) organizzando numerose sfide podistiche nel Parco della Favorita tra giovani aristocratici, pure loro fasciati da questa caratteristica maglia a collo alto, e sugli esiti di quelle sfide le scommesse fioccavano già allora. Non si creda però che Vincenzo Florio restasse dall’alba al tramonto incollato alla sua terra, viaggiava come un dannato alla ricerca di idee di eventi da emulare di partner da contattare. Così approdò a Padova e a Brescia, dove nel 1905 (lui era appena 22enne) organizzò, sul modello della già affermata Coppa Gordon Bennet che di disputava in Europa e dell’americana Coppa Vanderbilt, la prima “Coppa Florio”: in terra lombarda. Ma il pensiero delle tortuose strade delle Madonie riaffiorò, e da pensiero si tramutò in tormento, allora un giorno chiamò il marchese Della Motta suo intimo, e insieme riesplorarono metro per metro quelle strade strette polverose sconnesse, e lui -da abile maitre couturier- appuntò misurò e rimisurò per confezionare questo abito ribelle, questo disegno audace, questa corsa per automobili di cui –lui sperava- si sarebbe parlato per molti e moltissimi anni, in Sicilia in Italia e pure in Europa. Deciso a concludere presto e bene, un giorno s’imbarcò per Parigi, dove i Florio erano di casa, e volle incontrare Henry Desgrange, direttore de “L’Auto” e ideatore del Tour, lo invitò a cena e gli espose il suo piano (26) “da Bonfornello partiamo, per Cerda, e poi fino a Petralia Sottana saliamo saliamo, e poi scendiamo, Geraci Castelbuono Isnello Collesano, e a Bonfornello torniamo”, e il direttore dopo un attimo di smarrimento disse “mais oui, très bien…”, e anche i redattori del giornale Faroux e Le Fevre ed il famoso esperto fotografo di sport Meurisse tutti approvarono entusiasti, e poi ne parlò pure ad Etienne Giraud, uno che organizzava corse in patria e spedizioni automobilistiche nel Sahara algerino, e quello disse “oui oui, c’est un’idée merveilleuse…” ma in cuor suo temeva l’ardore dell’imprenditore siculo, lo spavaldo che poteva portare “beaucoup de problèmes à nos affaires”, un intralcio imprevisto alle sue organizzazioni. E allora dalla parte francese cominciarono i “se” ed i “ma”, ma Don Vincenzo che ignorava le dubitative suonò la tromba dell’adunata per tutti i sindaci del Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 22 territorio, scrisse lettere di invito, esortò sollecitò lusingò, e la contesa infine si accomodò, la gestazione era ormai conclusa, pochi giorni ancora e il grande sogno diventava realtà, ma d’improvviso i portuali di Marsiglia entrarono in sciopero, e a loro si affiancarono quelli di Genova, un guaio tremendo, diverse macchine tristi restarono ferme sul molo e lui seguì con angoscia quella vicenda, angosciato ma non rassegnato, rincuorato infine quando gli dissero che quattro vetture erano sbarcate a Palermo, (27) quattro vetture che sommate alle sei di marca italiana facevano dieci, pazienza, è la prima edizione, l’importante è partire … Gli attimi che precedono la partenza offrono uno scenario multiforme. L’umanità lì convenuta rappresenta diversi ceti della società palermitana e trasmette una peculiarità della “Primavera Siciliana”: aristocrazia e gente qualunque accomunate in un unico momento sportivo, in un’unica speranza di successo. (28) La potente aristocrazia, con le eleganti signore che colgono la chance di un evento motoristico di cui probabilmente non sanno e capiscono molto, per esibire i vestiti e i gioielli ordinati a Londra e Parigi, (29) e immerse nel loro cinguettio insopportabile tra cappelli e piumaggi, mariti ed amanti, ventagli e ombrellini, e un inchino di qua e un baciamani di là, si miscela perfettamente con la gente comune che quel giorno in massa è uscita di casa al canto del gallo per vedere la Targa, affollando i treni speciali predisposti dai Florio, (30) prezzo politico fino al bivio di Cerda per rispetto a Florio Vincenzo e ad Ignazio fratello maggiore. Rispetto e stima che quella gente porterà sempre ai Florio, senza titubanze e interruzioni, perché percepita quella famiglia non come entità distaccata e separata da loro, ma come punto di riferimento certo e insostituibile per tutti. Come scrisse nel 1909 un cronista de L’Illustrazione Italiana “le famiglie più ricche, più stimate di Milano, di Firenze o di Genova non sono ancora, non sono affatto, quello che è casa Florio per la Sicilia… Fra l’isola e il casato c’è un’intima connessione e il casato è certo l’ente più rappresentativo dell’isola. Per rinvenire qualcosa di simile occorre risalire al mondo romano….. come la casa gentilizia romana Casa Florio è aperta a tutti…Chi ha bisogno di un aiuto, di un patronato, chi ha un’idea da lanciare o un disegno da effettuare, prende la via dell’Olivuzza, batte alla porta di Casa Florio”. Quando tutti aspettavano il momento cruciale, cioè il colpo di cannone che comunicasse “si parte”, quel “bum” potente che significava via libera al gas alla perizia all’audacia, che era anche il colpo di cannone dell’orgoglio siculo, l’orgoglio di una terra affamata, il colpo della rinascita, (31) l’automobile la velocità il futuro passavano da lì, per quella terra, un pedaggio obbligato, alla fine anche loro les énfants de la patrie si erano ravveduti, avevano riconosciuto a Vincenzo Florio beacoup de qualités, organizzatore ottimo come il loro paesano Giraud, (32) quando tutti aspettavano quel colpo arrivò Donna Franca, ed arrivò come al solito, alta ed altera, disinvolta e solenne, elegante e sportiva, (33) qualcuno disse “è Afrodite che esce dal mare”, e dal quel momento nessuno più guardò i piloti e le macchine in gara, nessuno più disse per me vince Tizio per me vince Caio, e dell’orgoglio della terra sicula ne parliamo più avanti, (34) mentre lei, accomodatasi in tribuna, dopo aver salutato con misurati gesti e sorrisi sudditi e forestieri, annunciò “Signore e signori … mesdames et monsieurs … on peut partir”. (35) E il cannone sparò, e la Fiat di Lancia partì forsennata. La prima Targa di Florio era cominciata. Motori per le strade e motori anche sull’acqua. Il mare affascinava Florio e i motori lo esaltavano, allora Don Vincenzo ideò un’altra corsa e la chiamò “la Perla del Mediterraneo”, (36) una gara sull’acqua di canotti-automobile, Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 23 antesignani degli attuali off-shore. Nell’aprile del 1907 il piroscafo Stura, noleggiato dal “Comitato Feste e Riunioni Sportive” sbarcò nel porto di Palermo proprietari corridori e meccanici imbarcati a Nizza con i rispettivi bolidi che furono impegnati su di un circuito nautico di 10 chilometri da ripetere 10 volte. La gente era attonita per lo spettacolo, i nobili sulle terrazze di Villa Igiea, la gente qualunque sulla spiaggia dell’Acquasanta, gli occhi di tutti -di questi e di quelli- erano puntati sul golfo, alla ricerca di Flying Fish il pesce volante, e degli altri scafi assordanti che fendevano l’acqua tra spruzzi di schiuma festante. Dotato di un’energia inesauribile, (37) nello stesso anno Florio fu pure impegnato per il secondo appuntamento della “Coppa Florio” a Brescia, (38) e nella seconda edizione della “Targa” per le strade delle Madonie, nella sfida all’inglese Wonwiller in una gara aerea da svolgersi nell’aerodromo di Palermo, nella costruzione di un impianto di tiro a volo e nell’inaugurazione dell’autodromo Florio al Parco della Favorita, autodromo sulla cui pista due anni più tardi si concluderà la prima maratona di Palermo vinta dallo specialista Giovanni Blanchet. (39) Franca Florio era una donna di una bellezza unica ed esclusiva, dai magnifici grandi occhi verdi-dai magnifici soffici capelli neri-dalla magnifica pelle color dell’ambra, (40) e aveva un portamento regale consentito da misure fuori dell’ordinario tale da far esplodere d’invidia le più belle e raffinate esponenti dell’aristocrazia e da far rincretinire gli esponenti del sesso forte, aristocratici e plebei. Si diceva che con lei tra le aspiranti, Paride avrebbe avuto i suoi problemi. Il corteggiamento che Ignazio Florio, stordito da una tale beltà, le riservò fu lungo e complicato, condito di reciproci appassionati messaggi “mio caro non vedo l’ora...” “Francuzza cara, tesoro orgoglio e amore mio ...”, perchè il barone Pietro Jacona di San Giuliano non ne voleva proprio sapere di concedere la mano della figliola ad un qualunque Florio, oltretutto a detta dei più incapace di resistere alle debolezze della carne, (41) un Giacomo Casanova in versione sicula di fine ‘800, e solamente dopo la paziente intercessione della moglie il barone cedette e i due (11/2/1893) convolarono a giuste nozze. In Toscana, mai a Palermo. La storia dell’unione di Franca Jacona di San Giuliano e Ignazio Florio è una storia di gioie e di dolori, (42) è storia di mondanità smaccata e di buone azioni quotidiane “… novella Beatrice ama lasciare le sfarzose sale del suo palazzo per andare nei tuguri umidi e muffaticci, ove geme la fame, e quivi porta pane e quivi porta vesti da opporsi al rigido inverno …”, è storia di balli cotillons e feste di beneficenza, lei è patronessa dell’Istituto dei Ciechi, e di cose così ne organizza un po’ ovunque, all’Hotel Excelsior, a Villa Igiea (43) e al Teatro Politeama Garibaldi. Dove furoreggiano i veglioni in maschera, con la “Primavera Siciliana” che ha il suo apice nella “festa del Ramadan”: (44) il teatro è un grande paesaggio arabo con sullo sfondo il deserto, c’è una corte moresca, circondata da tende, e dromedari e cammelli passano in mezzo al pubblico, tra suonatori di strumenti caratteristici e danzatrici del ventre; è una storia di teatri di grande musica e di grandi compositori: (45) al Politeama c’è Giacomo Puccini per la “Manon Lescaut” e Franca Florio nel suo palco al centro della sala ascolta in trance, e qualche ora dopo a Palazzo Butera scintillante di luci affreschi e cristalli, tra camerieri in livrea, champagne e dolcetti alla crema di pistacchio, competente discute con il musicista di soprani e tenori, di flauti archi e fagotti. Al Politeama Garibaldi, inaugurato nel 1891 con la Norma diretta da Arturo Toscanini, si esplicò pure la verve organizzativa e in parte trasgressiva di Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 24 Vincenzo Florio. Il quale, all’interno di quel teatro ove si respirava l’aria più pura della lirica, e si ospitavano mostre di pittura e scultura di artisti famosi, volle portare un’altra forma di arte, la “noble art”, cioè la boxe. E a chi lo contestò perché usava un luogo sacro della musica per iniziative sportive, Florio replicò che “la boxe è un’arte antica e merita i grandi palcoscenici”. (46) La storia di Franca Florio è una storia di brillanti, di zaffiri, di lunghissime collane di perle, (47) è una storia di ritratti di artisti famosi, Giovanni Boldini su tutti, amico di Degas e di Toulouse Lautrec. Ma è anche storia di drammi familiari, (48) come l’addio straziante ai due pargoli, Giovannuzza e (49) Baby Boy morti in tenerissima età e alla giovanissima moglie di Vincenzo, Annina Alliata di Montereale, bella e amata da tutti, che il colera si porta via tra la disperazione generale. E’ storia di ammiratori e spasimanti della bella Franca, una sfilza infinita di principi e poeti e pure cognati, è storia di brevi trasporti amorosi di Ignazio, per Bice Lampedusa duchessa di Palma, per la contessa Anna Morosini dagli occhi verdi e dai capelli color del rame, (50) per Lina Cavalieri soprano famosa e donna bellissima e sensuale, definita da D’Annunzio “la massima testimonianza di Venere in Terra”. Ma è pure storia di tradimenti, seri e prolungati: con la contessa Vera Papadopoli veneziana, e di duelli conseguenti perché il conte Gilberto Arrivabene suo amico carissimo ha scoperto la tresca e gli lancia il guanto di sfida, e l’indomani alle 6 del mattino a Villa Panzani vicino Porta Pia scintillano le lame, e il sangue scorre, (51) ma Florio si è allenato con il supremo Agesilao Greco, le ferite non si contano, poi grazie al cielo intervengono i padrini e rimandano tutti a casa. Il richiamo ad Agesilao Greco è l’appiglio giusto per rimarcare il posto di prima fila che toccò alla scherma nel panorama sportivo della belle époque siciliana. Agesilao, dal greco “Aghesìlaos” (cioè capo del popolo) era figlio di Salvatore Greco dei Chiaramente, un marchese di Mineo ex garibaldino che era stato il leader massimo del movimento rivoluzionario nell’isola, sempre a fianco di Garibaldi a Messina, in Aspromonte e sul Volturno. E il marchese Greco, oltre che combattere di pugnale e sciabola, era maestro di scherma ed avvierà a Roma (1878) una sala d’armi che in seguito diventerà la celebre Accademia di scherma Greco di Via del Seminario. Agesilao era snello, di media statura, (52) e possedeva una straordinaria forza fisica. Ogni giorno svolgeva sedute di allenamento massacranti. (53) Aveva grande capacità di concentrazione, ed era in grado di sviluppare azioni potenti improvvise e velocissime partendo dalla più assoluta immobilità. Qualità che portarono Jacopo Gelli, tra i massimi studiosi della scherma italiana, ad affermare che in Greco “figlio della gloriosa terra dei Vesperi, si rispecchia tutta l’esuberanza di quella terra vigorosa, tutto il fuoco dell’Etna, tutta la passionalità di un carattere assolutamente meridionale”. All’età di 21 anni, a Firenze, riportò successi sia nella sciabola che nella spada, e da allora fino al 1934, da Roma a Milano, da Parigi a Londra a Bruxelles, da New York a Chicago a Buenos Aires, sarà un susseguirsi ininterrotto di trionfi. E la storia dei Greco e della scherma in Sicilia si intreccia con quella dei Florio. (54) Perché dell’accademia che lo spagnolo Figueroa inaugurerà il 21 Dicembre del 1899 in Via Rivoluzione facevano parte pure, soci e frequentatori fedeli, e non sarebbe potuto essere altrimenti, Ignazio e Vincenzo Florio. E vera rivoluzione fu in città, con la nobiltà e gli uomini d’affari che cominciarono a Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 25 frequentare con assiduità le eleganti sale dell’accademia, dove pure si leggevano e si studiavano i trattati dei grandi saggisti di scherma, da Morsicato Pallavicini, a Blasco Florio, ai San Malato. E’ importante soffermarsi un attimo sull’immagine dell’accademia, per presentare seduto primo da sinistra Pietro Speciale, citazione d’obbligo, perché si tratta del primo atleta che conquisterà per la Sicilia una medaglia olimpica tra tutte le discipline, e quella medaglia d’argento, (55) nel fioretto individuale ai Giochi di Stoccolma del 1912, ne richiama un’altra di metallo più nobile, che sarebbe stata appannaggio del più grande schermidore d’Italia d’ogni tempo, Nedo Nadi, l’atleta livornese che resterà l’unico capace di vincere la medaglia d’oro nelle tre armi nella stessa Olimpiade. Tornando ai coniugi Florio, la loro è pure storia di conoscenze e relazioni “reali”: con Edoardo VII d’Inghilterra e regina Alessandra, con i sovrani d’Italia in visita per l’Esposizione Agricola Siciliana, (56) con Gugliemo II° e signora imperatrice Augusta Vittoria per un thè alla Villa all’Olivuzza con Franca che predispone il tutto con grande maestria, torte e pasticcini “e non dimentichiamo la nostra cassata” raccomanda al cuoco, ornamenti floreali e ornamenti personali, questi scelti dopo attenta riflessione, perché il Kaiser lo sappiamo è sensibile all’attrazione femminile. E’ anche storia di frequentazioni di letterati illustri, Matilde Serao, Robert de Montesquiou, (57) e su tutti il Vate, Gabriele D’Annunzio, (58) che Ignazio lusinga e sprona a che possa “con una tua novella di tanto in tanto” dare impulso al quotidiano l’ “L’Ora” di recente fondazione; e lui, il Vate, legato alla Duse, prima ci prova con Franca, Lei scherza e sorride alle avances, ma Lei sempre fedele resta al patto col marito … l’onore innanzitutto … e il Vate capisce mette un freno agli ardori e avvia con Lei un rapporto sincero fatto di lettere di inviti di piccoli omaggi … E’ storia di un erede maschio tanto voluto e mai arrivato, di Giacobina nata due mesi prima del dovuto e spirata qualche ora dopo la nascita, e della convalescenza di Franca a Favignana, nell’isola dei tonni, un relax ideale tra pescatori contadini e donne che ti portano il latte appena munto, la frutta appena colta dall’albero, il dolce appena uscito dal forno. (59) E’ storia di incontri con la grande finanza del mondo, Rotschild e Vanderbilt e Morgan, è storia di crociere nel Mediterraneo a bordo dei magnifici yachts di famiglia, “Sultana Aegusa Walkyria Queen”, viaggi di piacere e cultura, Corfù Atene Costantinopoli Tunisi monumenti musei chiese moschee la casbah … E’ storia del varo di sontuose navi passeggeri, dal Caprera all’Europa (60) al Giulio Cesare, il più grande transatlantico dell’epoca, costruito dalla Navigazione Generale Italiana di Ignazio e Vincenzo Florio e Raffaele Rubattino di Genova. Un vero gioiello della marina italiana, con splendidi salotti in stile e soffitti affrescati, (61) sale da pranzo con volte a cassettoni in legno, appartamenti di lusso, sale da ballo, da thè, biblioteca e cinematografo. E’ storia di gioielli visoni cappelli carrozze teatri inchini lutti pianti tradimenti e perdono, (62) è una storia in cui “la regina di Palermo” è incensata e rispettata da tutti, ma lo è soprattutto perché è la moglie del re Ignazio, ed ella si muove ed agisce secondo le aspettative di lui, interpreta i pensieri e i desideri di lui, perché è lui in fin dei conti che così l’ha plasmata, è lui che così l’ha voluta, elegantissima raffinata eccessiva sempre al centro delle attenzioni di tutti, obiettivo ideale di sguardi e commenti, indispensabile alla sua vita di relazione, e Lei recita la parte nella maniera migliore Lei è la moglie dell’imprenditore brillante, Lei è bella elegante raffinata altera spigliata autoritaria ma pur sempre Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 26 moglie è, pur sempre accessorio è, prezioso quanto si vuole ma accessorio, oggetto pregiato da esibire da mostrare “eccellenza, Le presento mia moglie Franca …”. A questa storia se ne sovrappone però un’altra, ed è la storia di Donna Franca la sportiva, supporto strategico e insostituibile del cognato Vincenzo. Di quel Florio, che pur nel rispetto del giuramento di fedeltà eterna prestato da subito ad Ignazio fratello maggiore, ambisce comunque ad un ruolo pieno e autonomo nella vita della famiglia, (63) e quel ruolo lo trova in territorio ideale per le sue mire e passioni fatto di sport e turismo, che è terreno nuovo terreno vergine da esplorare zolla per zolla, per la Sicilia e forse anche per l’Italia intera. Per Donna Franca questa seconda storia è una storia certo più consona alle sue prerogative, pregna di momenti di grande libertà e di grandi passioni. Prima tra tutte quella per i cavalli. (64) Se vi sono cavalli, sei certo di trovarla. Lei è in tribuna, come sempre toilette impeccabile appropriata all’evento, binocolo a portata di mano, competenza e trasporto per il galoppo dei purosangue a Wellington, a Tor di Quinto, alle Capannelle, ai Parioli. Oppure la trovi a Palermo, nell’immenso e rigoglioso parco di Villa Niscemi, Lei passeggia al fianco del marchese della Cerda, il marchese è un vulcano di idee, ha fondato la Società per la caccia alla volpe, Lei volpe o non volpe con i cavalli va in estasi e nella primavera (21/4) del 1900 (65) escogita una cosa in grande prima mai vista, un torneo equestre con sapore di rinascimento, e alla Favorita accorrono tutti gli aristocratici cavalieri di Palermo, eleganti cavalieri su eleganti destrieri, ma ciò che più conta è che (*) lei ha invitato pure il capitano Caprilli, il livornese Federico Caprilli, non uno qualunque cioè, (66) ma il grande cavaliere che fa scuola ai cavalieri di mezz’Europa, (67) che fa saltare gli ostacoli al cavallo in un modo nuovo e diverso, lo addestra e lo ammalia con un sorriso e con un sussurro … Tutti cavalieri erano a quel tempo in Sicilia, cavalieri veri e cavalieri di facciata, tra i quali il cavalier Spadafora di Policastrello, certamente meno abile in groppa ma fortemente impegnato nella promozione dello sport. Raccolse una cinquantina di soci e fondò lo Sport Club (V.Mariano Stabile), con l’obiettivo di incentivare tutte le discipline, ed affidò a Donna Franca la presidenza del club. (68) All’inizio del ‘900 i giochi sportivi inventati in Inghilterra trovarono terreno fertile a Palermo, grazie anche all’impegno profuso degli esponenti importanti della comunità britannica nel capoluogo siciliano. Così fu per il lawn tennis, che trovò in Eufrosyne Manuel Whitaker, la moglie maltese di Joss Whitaker (uno dei numerosi componenti di questa famiglia di imprenditori originari del West Yorkshire e trapiantatasi a Palermo agli inizi dell’800), una grande estimatrice e promotrice della disciplina. La signora, donna eccentrica ed affascinante, meglio conosciuta come la “Whitaker col pappagallo” per via di un loquace e variopinto volatile che era solita portarsi dietro appollaiato su una spalla, adorava il lawn tennis lo praticava e lo faceva praticare nei tre campi di Villa Sperlinga, denominati l’Inferno il Purgatorio e il Paradiso. Erano momenti di spasso e di nuove emozioni, (69) ma quando arrivò a Palermo sua ospite Charlotte Cooper grande campionessa vincitrice già 3 volte a Wimbledon e ai Giochi Olimpici di Parigi (70) furono pure momenti di alta didattica e cultura tennistica, con la campionessa che oltre a giocare dirigeva pure gli incontri e distribuiva consigli ai provetti tennisti palermitani. Tra questi provetti c’era pure Donna Franca, che già da qualche anno aveva trovato nel duca d’Orleans il compagno ideale per gli incontri di doppio. E a proposito di inglesi, gli inventori del football non potevano certo trascurare Palermo. Edward De Garston e Norman Olsen, rispettivamente viceconsole e Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 27 segretario di S.M. britannica accolsero con entusiasmo la proposta di Ignazio Majo Pagano, un giovane di buona famiglia che era stato spedito dai genitori a Londra per apprendere la lingua inglese ed era tornato invece con la testa obnubilata dal football, (71) proposta di costituire l’ ”Anglo-Palermitan Athletic and Football Club”. Era il 1° novembre del 1900 e (72) della prima formazione fecero parte proprio i due britannici e Sir George Edward Samuel Blake, ufficiale della marina del Regno Unito, già co-fondatore del Genoa, primo allenatore, primo portiere, poi segretario, che giocò nel Palermo sino ad età avanzata. Fu lui ad invogliare l’irlandese Sir Thomas Lipton, il magnate del thè (73) ad investire nel calcio e in genere negli intrattenimenti sportivi palermitani le sue ingenti risorse finanziarie. A Palermo Lipton strinse molte amicizie, tra cui quella con Ignazio Florio cui lo legava la comune passione per le grandi barche a vela, (74) come Aegusa lo yacht di 86 metri che Sir Thomas comprò proprio da Florio, (75) o come il leggendario Shamrock con cui partecipava alle regate dell’America’s Cup di un tempo. Lipton destinò somme ingenti alla promozione dello sport a Palermo, il tennis a Villa Sperlinga ma soprattutto il football, (76) lanciando nel 1909 la Coppa Lipton, importante torneo cui parteciparono tutte le più forti squadre del mezzogiorno, tra cui il Naples -che pure finanziò- e che sarà la più accanita antagonista del (77) Palermo Fbc per l’aggiudicazione finale (1915) del trofeo d’argento. (78) Oltre che mecenate dello sport, Lipton fu anche molto sensibile ai problemi della società e delle classi disagiate in particolare. (79) Rispose all’appello del Principe di Galles donando 25.000 sterline per la povera gente di Londra, (80) durante la prima guerra mondiale allestì sul suo yacht Erin (che era l’Aegusa acquistato da Florio) un ospedale della Croce Rossa e trasportò un intero ospedale da campo in Francia, e poi chirurghi e personale medico in Serbia che si trovava sotto l’attacco dell’esercito astroungarico. (81) E per testamento donò tutta la cospicua eredità alla sua città natale affinché i proventi fossero distribuiti alle mamme dei ceti poveri e ai loro figli. Le barche dei Florio e di Lipton richiamano ancora il mare, le regate e le attività velistiche. Già prima della fondazione del Circolo Roggero di Lauria (82) le competizioni di canottaggio erano ben conosciute ed apprezzate a Palermo, che nel 1892 in occasione dell’Esposizione Nazionale ospitò le regate internazionali, alle quali i club cittadini iscrissero due equipaggi “Biddicchia” e “Santuzza”. Mentre Walkyria, yacht stupendo dei Florio, mieteva successi alle regate internazionali di Nizza, anche le imbarcazioni a vela avevano cominciato timidamente ad affacciarsi nelle acque del porto. (83) Il canottaggio però faceva sempre più proseliti ed era sempre più attivo nelle organizzazioni, come questa Coppa Florio di regate nazionali a Villa Igiea del 1910, (84) e nel 1912 dovette trovarsi una sede più ampia e meno fluttuante del brigantino dei Florio e si accasò alla Cala, un approdo nel porto di Palermo, accanto ad una famosa pescheria. Vincenzo Florio non aveva ancora conosciuto le Madonie, le sue montagne, quando ancora 17enne conosceva invece già bene il mare. La “rivoluzione balneare”, un mutamento profondo nei comportamenti delle persone (85) che avrebbe portato tutti, uomini e donne, a sguazzare sereni nelle acque della costa di Sferracavallo, aveva anche favorito la diffusione dell’agonismo marino, e nell’elegante specchio della spiaggia dell’Acquasanta si disputò pure il primo campionato provinciale di nuoto, con Vincenzino che ne fu protagonista assoluto sfiorando il successo nelle 100 yards a rana. (86) Tutto preso dalla smania di provare emozioni nuove tipiche dei suoi 17 anni, si presentò un giorno alla cognata Franca montando un veicolo con due ruote e pedali cui i francesi avevano dato il nome di “velocipède”, un mezzo Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 28 semplice e geometrico realizzato in acciaio cromato dal fabbro Ernest Michaux (che sarà tra l’altro l’inventore del pedale). La vecchia draisina del barone tedesco Von Drais era andata in pensione. Franca al volo colse l’occasione e con altre fidate compagne avviò un’accanita promozione dell’uso della bicicletta in città. (87) Fu in questo modo che prese il via il movimento delle donne cicliste palermitane. E grazie a Vittorio Coen, un milanese trapiantato a Palermo da trent’anni, ove gestiva il Grande Emporio Americano, e che rimase stregato da una manifestazione ciclistica su pista nel parco di Saint-Cloud nei pressi di Parigi, (88) anche Palermo avrà il suo velodromo, con una pista di 400 metri e una grande tribuna coperta per corse nazionali e internazionali. E al velodromo dei fratelli Coen Franca Florio organizzerà una competizione ufficiale femminile, due giri di pista, e Lei vi parteciperà pure, con Effie Whitaker che non poteva mancare, ed altre otto scalmanate dell’aristocrazia palermitana. Ma con l’arrivo del XX secolo il ciclismo su pista entrò in crisi ed il Veloce Club Trinacria con il velodromo dovettero chiudere i battenti. Si diffusero tanto invece le corse su strada. Nel 1902 in Sicilia circolavano oltre 10.000 biciclette e nel 1908 Vincenzo Florio, sul modello della manifestazione automobilistica da lui ideata, volle lanciare il primo “Giro Ciclistico di Sicilia” con la partecipazione dei più forti corridori italiani e francesi. Bici e turismo a braccetto per il rilancio della regione. Un prologo sul Circuito delle Madonie e sei tappe, interessando tutte le principali città dell’isola. Ma già da quel prologo si capì che dei partenti solo in pochi avrebbero concluso il giro. Il colpevole fu presto individuato: le strade siciliane, sconnesse e pericolose. Infatti, al termine della seconda tappa, la Messina-Siracusa il francese Alavoine, uno dei favoriti che aveva vinto con forte distacco, fu colto la sera da forti dolori alle gambe e decise di ritirarsi insieme a tutta l’équipe francese “pasque ce tour est massacrant, les routes sont trop dangereuses”. (89) Vincerà il milanese Galetti, che negli anni successivi farà un figurone al Giro d’Italia. (90) Ma proprio in quello stesso anno, era il 1908, a Messina tremò la terra e fu una tragedia di proporzioni immense, la città dello Stretto era solo un ammasso confuso di pietre e di corpi, servivano aiuti occorrevano fondi per i pochi rimasti in vita, per i profughi, per i parenti dei morti, per i piccoli riemersi senza mamma e senza papà. Per i Florio fu come una chiamata alle armi, non ci pensarono su più di qualche minuto, partirono subito per quell’emergenza, portarono medicine cibo coperte e indumenti, imbarcarono i profughi sulle loro navi, Franca curò i feriti e diede loro da mangiare, poi rientrati a Palermo Vincenzo con Franca organizzarono un grande torneo di scherma al Teatro Massimo per raccogliere fondi, e risposero tutti presente, tutti i più forti della Sicilia, spade e sciabole affermate eredi di grandi maestri, (91) Benfratello Alaimo Vega e Pietro Speciale medaglia d’argento a Stoccolma e altri altri ancora si ritrovarono per la benefica iniziativa. (92) Quando il colpo di cannone diede il via libera alla 1^ edizione della Targa Florio Vincenzo Lancia su Fiat partì come un forsennato. Per il pilota quel colpo fu la riconquista dell’agognata libertà personale, che era libertà di pensiero e di azione, era libertà di urlare bestemmiare irridere pentirsi pregare, libertà di guidare secondo un istinto primordiale o come Dio comanda, libertà di accellerare frenare incalzare di creare delirio o sgomento tra gli spettatori, di pigiare al massimo il pedale e fondere il motore, “basta ora”, pensava tra sè Lancia un attimo prima del via, “con tutti questi salamelecchi conte Tizio di qua marchese Caio di là, io sono Lancia Vincenzo di Vercelli e guido le automobili della casa Fiat come pilota collaudatore e devo riferire al dottor Agnelli sulle capacità di resistenza della macchina che mi è stata affidata, quindi ora che finalmente il cannone ha tuonato” pensava tra sè Lancia un attimo dopo il via Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 29 (93) “io mi scateno per i tornanti in salita verso Cerda e Caltavuturo, e superato Geraci mi scapicollo lungo la discesa che mi porta a Castelbuono, e sul rettilineo di Bonfornello gas al massimo perchè sarò il primo pilota a passare e voglio assolutamente lasciare una bella impressione agli spettatori e alle eleganti e belle signore in tribuna”. Ma Lancia partì davvero con foga esagerata per una corsa che già si sapeva sarebbe durata all’incirca dieci ore, ora più ora meno. E dopo appena due ore di corsa aveva già bucato due volte, poi nei pressi di Isnello annientò una pecora sfuggita al pastore, finì fuori strada, non si sa come riuscì a ripartire ma il serbatoio ne uscì danneggiato e la benzina cominciò a colarne fuori, alla fine del secondo giro ruppe due cilindri e collerico scese dalla vettura, comunicò ai commissari il ritiro, e buonanotte collaudo e addio vittoria ed ora pensiamo a cosa dire al dottor Agnelli. (94) Come molti piloti forse anche il francese Hubert Le Blon aveva in passato corso con la foto della moglie sul cruscotto … “pense à moi … Hubert…” e lui la guardava in foto e la pensava ma poi pensò che così si distraeva e si immalinconiva troppo (95) e allora decise di sostituire la foto con la signora Le Blon in carne ed ossa. Si presentarono così i coniugi, la signora con funzioni di navigatore e calmieratore dell’ardimento del marito. (96) La macchina filava come un treno nelle prime posizioni, ma a metà del percorso incappò in una serie incredibile di forature e madame Le Blon non potè far altro che consolare il barbuto marito “patience, mon cher”, accumularono un pesantissimo ritardo, e fu per rispetto alla signora e per la curiosità di vedere una madama in vettura, che al traguardo trovarono ancora tutti ad attenderli e festeggiarli, due ore e mezza dopo il primo, Marley il cronometrista ufficiale i giornalisti e le eleganti signore che vedevano nell’intraprendente madama francese la stella cometa dell’emancipazione femminile, tutti comunque già proiettati al solenne atto finale al Grand Hotel delle Terme, buffet e premiazioni. Abito da sera. Alessandro Cagno era uno che di odissee in automobile se ne intendeva, uno che nel corso della sua vivace esistenza avrebbe trascinato con maestria e pazienza un autocarro della proprietà Agnelli da Torino a Mosca attraverso l’Europa centrale tutta e in parte pure quella orientale, valicando Alpi e Carpazi, per issare infine nella Piazza Rossa il vessillo della Federazione Italiana Automobili Torino. Uno che alle salite delle Madonie fece presto il callo, (97) uno che l’anno prima aveva scalato il terribile Mont Ventoux nel Massiccio Centrale, la montagna che più si sale più si spelacchia, fino al suo culmine dove trovi solo polvere, polvere e angoscia, una superficie grigia, un’atmosfera lunare, niente abitanti niente tifosi niente vita. (98) Anche per le strade delle Madonie la polvere spadroneggiava, ma era polvere diversa, non grigia ma bianca, non addolorata ma briosa, polvere viva luminosa raggiante ardente bramosa di farsi violare da carri rumorosi veloci moderni, era polvere antica ma al passo coi tempi. (99) Fortuna e abilità per Cagno, esperienza e destrezza, andatura regolare dall’inizio alla fine, e le curve finali da trionfatore, dopo 9 ore e 32 minuti, (100) preceduto da un altro colpo di cannone, con le prime vedette della massa che dai campi e dalle piccole alture vicine tutto ignorando e tutto travolgendo si riversava ai bordi della strada mescolata di gioia e di polvere, (101) e l’altra massa che un minuto prima si ingozzava felice al ristorante di Florio, (102) ora sul rettilineo d’arrivo -ancora per poco ordinata e flemmatica- aspettava fremente un messaggio un annuncio un’apparizione. Quella massa accompagnò il vincitore sin dalle ultime curve con la forza dell’immaginazione, (103) poi lo identificò “è il numero 3, è Cagno su Itala!” e fu un passa parola più veloce della sua pur velocissima vettura, e la massa lo riconobbe pur sommerso dalla Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 30 polvere e lo salutò lo omaggiò lo osannò, e la massa non si dissolse affatto dopo l’arrivo di Cagno, restò imperterrita e ansiosa per tutti gli altri arrivi, pacche sulle spalle a tutti, congratulazioni a tutti, sopratutto ai piloti sfortunati e ai ritirati, (104) e incontrato infine Don Vincenzo Florio ancora trepidante per la tensione e l’ebbrezza degli avvenimenti lo rassicurò e lo incitò (105) “forza cavaliere, era la prima edizione, l’importante era partire…” Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 31 LA MARATONA DI LONDRA DEL 1908 DOTT. ENZO PENNONE (*) Il titolo che si è dato a questo intervento “Londra 1908, la prima vera Olimpiade dell’era moderna” non afferma una verità assoluta, perché a parere di molti storici questo fregio “la prima vera Olimpiade” può essere conteso tra Londra appunto ed Atene. Non tanto per la prima edizione dei Giochi, quelli del 1896, un’edizione sofferta essendo la prima del nuovo corso, quanto per quella del 1906, dei cosiddetti “Giochi intermedi” -Giochi mai riconosciuti ufficialmente dal Comitato Internazionale Olimpico- che i greci vollero fermamente per celebrare il decennale della 1^ edizione, e che si rivelarono un vero successo organizzativo con grande beneficio per il movimento olimpico. Di certo invece di “vera olimpiade” non si potè parlare nei riguardi né dei Giochi di Parigi del 1900 né di quelli di St.Louis del 1904. A Parigi gli organizzatori, che non avevano ben capito cosa il barone e gli altri promotori della rinascita olimpica intendessero per Olimpiadi, (*) inglobarono le gare nel grande evento dell’Esposizione Universale. Padiglioni e prove sportive mescolati allegramente e fraternamente, con De Coubertin seriamente preoccupato. Un numero enorme di gare, legate alle sezioni della Fiera, (*) gare spesso bizzarre come questa arrampicata su scale o come quella (*) dei 200 ostacoli nel nuoto, dove c’era un po’ di tutto inerpicarsi su un palo, ponti di barche da scavalcare, nuoto subacqueo sotto file di imbarcazioni, punti assegnati per ogni metro nuotato e per ogni secondo trascorso sott’acqua, il tutto nelle fredde e inquinate acque della Senna, tanto per intenderci un po’ come “les jeux sans frontières” dei nostri anni ‘70. (*) E nell’atletica una pista disseminata di buche e rettilineo finale tra gli alberi, le pedane immerse in una rigogliosa vegetazione, i lanciatori scagliavano il disco e poi frugavano tra i rami. (*) Vollero dare anche un pizzico di snobismo con l’inclusione del golf, che avrebbe fatto un’apparizione olimpica molto breve. (*) Ma a Saint Louis 4 anni dopo andò peggio. Anche stavolta l’Olimpiade fu infilata in una grande Fiera, la Louisiana Purchase Exposition. (*) Milioni di visitatori per l’Esposizione, una miseria il pubblico alle manifestazioni sportive. (*) Di nuovo nel nuoto si toccarono gli eccessi dell’approssimazione organizzativa, per le gare si costruì un bacino artificiale (*) poco più grande di uno stagno dove facevano pure abbeverare e lavare gli animali in mostra all’Esposizione, così quattro pallanotisti morirono di tifo dopo la conclusione dei Giochi. La corsa di maratona fu un concentrato di disorganizzazione generale, di fatti curiosi e dissacranti e di personaggi eccentrici. (*) Tra questi Fred Lorz, un americano (al centro con la maglietta scura) protagonista di uno dei più clamorosi tentativi d’inganno perpetrati nella storia dei Giochi: dopo circa 14 chilometri di gara condotta in testa, quando arrivò la crisi si infilò in una macchina e rispuntò in testa a tutti a pochi chilometri dal traguardo -fresco e pettinato- per fruire e godere del bacio della figlia del Presidente degli Stati Uniti Alice Roosevelt. Mentre Felix Carvajal, un postino cubano che sulla nave per New Orleans aveva perso al gioco tutti i soldi racimolati in patria, (*) e si presentò così alla partenza, vestito con pantaloni lunghi e scarponi pesanti raccattati per strada. (*) Eppure fu uno dei protagonisti della maratona, e sfiorò il podio pur in grande sofferenza per essersi ingozzato di mele acerbe raccolte da un albero lungo il percorso. Ma l’affronto vero allo spirito olimpico furono (*) le “Giornate Antropologiche” coordinate nientedimeno che dall’Università di St. Louis. Dissero che era un Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 32 esperimento scientifico volto a mostrare le capacità atletiche di razze diverse; in effetti volevano solo richiamare il maggior numero possibile di spettatori con un vero e proprio spettacolo da circo, una serie di prove riservate a popolazioni della Patagonia, a inuit, a nativi americani guidati dal 75enne leggendario capo Apache Geronimo, a filippini, a cocopa (messicani), a pigmei (in questa immagine in attesa di affrontare una gara di hockey su prato), a kaffir sudafricani e ad altre minoranze per loro selvagge e inferiori rispetto alla razza bianca, nel sollazzo più smaccato del pubblico convenuto e per la disperazione di un De Coubertin scandalizzato. Ricordati questi fatti, vediamo adesso come si arrivò alla scelta di Londra per i Giochi del 1908. (*) Quattro anni prima (22 giugno 1904) il C.I.O., pressato da De Coubertin che voleva a ogni costo recuperare il senso della classicità olimpica, assegnò a Roma con voto unanime l’organizzazione della IV Olimpiade. Allora il barone si mise di buzzo buono e per coronare il suo sogno incontrò e blandì tutti i possibili personaggi illustri dell’Italia dell’epoca: prima il re Vittorio Emanuele III, poi il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, quindi il sindaco di Roma Prospero Colonna e concluse questo pellegrinaggio alla Santa Sede, dove fu ricevuto dal segretario di stato cardinale Rafael Merry de Val y Zulueta. Sembrava che la cosa potesse prendere piede, tra Piazza di Siena Tor di Quinto le Terme di Caracalla, Piazza d’Armi e il fiume Tevere si poteva realizzare tutto il programma olimpico, ma il tempo passava, le disgrazie in Italia si moltiplicavano, prima il terremoto in Calabria (Settembre 1905), poi l’eruzione del Vesuvio (Aprile 1906), i governi cominciarono a darsi il cambio come gli staffettisti dell’atletica, Giolitti a Fortis, Fortis a Sonnino, Sonnino di nuovo a Giolitti, si insediarono commissioni di fattibilità, che studiarono studiarono studiarono di tutto tranne come trovare il denaro necessario per il grande evento, fino a quando Giolitti informò tutti che, più che di Olimpiadi, sarebbe stato meglio parlare del traforo del Sempione e dell’acquedotto in Puglia. Nell’aprile del 1906 Roma rinunciava ufficialmente all’organizzazione olimpica. Interpellata d’urgenza, Londra si dichiarò disponibile. (*) 67 atleti italiani, tutti rigorosamente uomini, partirono il 9 Luglio da Torino in terza classe via Modane e Parigi, budget 140 lire per atleta compreso un pasto all’andata e uno al ritorno, ed un altro offerto dall’Ambasciatore Italiano la vigilia dell’apertura dei Giochi (*) Il 13 luglio allo stadio di White City una sobria cerimonia d’apertura, (*) ancora senza giuramenti tripodi e fiaccole olimpiche, diede l’avvio alla IV^ edizione dei Giochi moderni. In tribuna, ovviamente, c’erano le monarchie d’Europa (*) i reali d’Inghilterra Edoardo VII e la regina Alessandra, i sovrani di Grecia Svezia e Norvegia, c’era (*) Lord Desborough presidente del Comitato Organizzatore, (*) c’era il principe Scipione Borghese membro del C.I.O., quello del celebre raid automobilistico Pechino-Parigi su Itala con l’inseparabile Luigi Barzini lo scrittore inviato del Corriere della Sera, c’era naturalmente De Coubertin e al suo fianco il segretario generale (*) Eugenio Brunetta d’Usseaux, piemontese, personaggio singolare sposato con la contessa russa Catherine Zeiffart di Pietroburgo. (*) E c’era anche Arthur Conan Doyle, il celebre scrittore che aveva inventato il personaggio di Sherlock Holmes, e che seguiva l’evento come corrispondente del Daily Mail. (*) Alcuni tornei erano già stati disputati alcuni giorni prima, come il tennis per esempio, con le britanniche Lambert Chambers e Boothby finaliste del torneo outdoor, (*) e il grande Reginal Doherty dominatore per 10 anni col fratello Laurie del tennis mondiale (*) come il tiro a segno con Oscar e Alfred Swahn, svedesi, padre e figlio, il barbuto che esordì vittorioso all’Olimpiade all’età di 60 Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 33 anni e 264 giorni, poi il tiro a volo e altre discipline alcune tipicamente inglesi come le “racquets” (*) e il polo, e il jeu de pomme (pallacorda). Dopo l’inaugurazione presero avvio molte altre discipline, (*) il tiro con l’arco con Sybil Newall (Quinee) 53enne vincitrice del torneo femminile, (*) la ginnastica individuale e a squadre (*) il ciclismo con i britannici sempre in prima linea, tutto o quasi si disputò all’interno dello Stadio di White City comprese (*) le gare di nuoto e di pallanuoto che per la prima volta utilizzarono anziché i fiumi la piscina (*). Calcio rugby hockey e pugilato si rimandarono al mese di Ottobre. (*) Come pure il pattinaggio su ghiaccio ovviamente, ospite originale delle Olimpiadi estive. Protagonisti lo svedese Ulrich Salchow, che sarà anche campione mondiale per 11 anni consecutivi (1901-1911), e regalerà il suo nome ad uno dei principali salti della specialità; (*) e tra le donne Florence “Madge” Syers, già rinomata e temuta per avere sconfitto ai mondiali di figura del 1902 tutti i pattinatori maschi tranne Salchow, che da gran gentiluomo per rispetto e cavalleria le regalò il suo trofeo. Quasi subito prese pure avvio una rivalità dai contorni particolarmente roventi tra gli inglesi e gli americani. In tribuna qualcuno perplesso ricordava che era trascorso più di un secolo dal famoso “Boston Tea Party”, (*) cioè da quando, nel 1773, i figli della libertà rovesciarono in mare il carico di tè dalle navi inglesi nel porto di Boston, e così era esploso il conflitto che sarebbe andato avanti per 8 anni e che si sarebbe concluso con la dichiarazione di indipendenza delle tredici colonie americane dalla madrepatria (*) e la nascita degli Stati Uniti d’America, ma anche più di un secolo dopo le antiche tensioni non si erano del tutto dissolte, e bastava una qualsiasi occasione per far riaccendere la miccia. (*) A Londra se ne incaricò il lanciatore di peso e alfiere della squadra americana Ralph Rose, che era incavolato nero perché nella cerimonia d’apertura, mentre il gran pavese colorava lo stadio, la bandiera a stelle e strisce l’avevano dimenticata in magazzino: allora al passaggio davanti al palco reale sfidò il protocollo ignorando re e regina marciando solenne bandiera al vento sguardo sprezzante in avanti, e a chi sgomento gli chiese ma perché fai ciò? lui rispose “because this flag dips before no earthly king - questa bandiera non si abbassa davanti ad un re terreno”. Ci furono diversi momenti di attrito tra le due rappresentative, (*) nel tiro alla fune gli americani sporsero reclamo perché secondo loro gli inglesi –nello specifico i poliziotti di Liverpool- avevano usato scarpe truccate, munite di chiodi per far presa sul terreno, e nella maratona furono gli inglesi, che consideravano il fondo un loro protettorato ed erano usciti bastonati con il primo maratoneta – Clarke- solamente 12° al traguardo, furono loro ad azzardare una forma di reclamo perché “Johnny Hayes was illegally helped by Mr.Jack Andrew”. (*) Ma l’unica prova del supposto aiuto illegale era questa foto, che non provava praticamente nulla. (*) La contesa raggiunse l’apice nella gara dei 400 metri. Sulla pista non erano tracciate le corsie, e John Carpenter, americano, con una bella eclatante ostruzione ai danni dello scozzese Halswelle, vinse la finale. Quindi squalifica e decisione della giuria di farla ripetere due giorni dopo. Ma i compagni di Carpenter Taylor e Robbins, dissero “per noi ha vinto John, fate quello che volete tanto noi non corriamo”, e allora, fatto curioso nella storia dei Giochi Olimpici, quella fu l’unica finale cui prese parte un solo atleta, appunto lo scozzese Halswelle. L’onore nazionale delle ex colonie era così messo al sicuro, ma tanto per “non dimenticare” al ritorno in patria ricevuti da trionfatori al Municipio di New York, gli americani tronfi e spocchiosi si presentarono portando al guinzaglio un leone Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 34 britannico in catene: re Edoardo andò su tutte le furie “e si sfiorò l’incidente diplomatico”, ricorderà De Coubertin nelle sue “Memorie Olimpiche”. E’ giusto però rammentare che gli americani primeggiarono comunque in una infinità di gare. (*) Avevano in squadra una specie di “rana umana”: Raymond Ewry. Che ebbe un’infanzia travagliata, era fragile e malaticcio, e sopravvisse – puro miracolo- a un attacco di poliomelite, finì sulla sedia a rotelle, ma poi con un intenso programma di rieducazione muscolare avvenne il secondo miracolo, e quel ragazzo gracile e malaticcio si trasformò nel più grande saltatore al mondo del primo ventennio del novecento. Straordinaria vicenda che ne richiama altre, analoghe, di atleti più conosciuti dello sport americano: (*) ad esempio quelle di Johnny Weismueller e di Wilma Rudolph, entrambi da piccoli colpiti dalla polio. (*) Ewry eccelleva nei salti da fermo, sia in alto che in lungo, e aveva cominciato a vincere medaglie d’oro già 8 anni prima a Parigi, (*) a Londra lottò aspramente per avere la meglio sul greco (*) Tsiklitiras nella prova del salto in lungo. Gli americani avevano in squadra (*) anche eccellenti lanciatori, come Martin Sheridan vincitore del lancio del disco (*) e John Flanagan di quello del martello. (*) e ottimi corridori, come Melvin Sheppard che mise in riga due inglesi nientemeno che nei 1500, vale a dire nel loro territorio di caccia, e una settimana dopo fece doppietta negli 800, (*) gara in cui Emilio Lunghi, un marinaio genovese dotato di un fisico superbo, (*) conquistò per l’Italia la medaglia d’argento. (ecco Lunghi in posizione di partenza, in quello che sembra essere il primo nudo fotografico nella storia dello sport). La maggior parte dei nostri connazionali non superò i turni eliminatori, ma bastarono un paio di nomi per ribaltare l’esito della spedizione (10^), e tenere così buono il presidente del consiglio Giolitti. (*) Uno di questi fu Alberto Braglia, figlio di un muratore, cresciuto nelle famose Fratellanza e Panaro di Modena. Braglia (*) era un ginnasta sublime, che a Londra, davanti ai giudici increduli, fece togliere le maniglie al cavallo ed eseguì le sue “milanesi” (così si chiamavano i volteggi) con stile inimitabile conquistando la medaglia d’oro. (*) Quattro anni dopo farà ancora meglio, vincendo l’individuale e il concorso a squadre cui si riferisce quest’immagine. (*) Un altro fu Enrico Porro, un marinaio nativo di Lodi, milanese di adozione, che vinse la medaglia d’oro nei pesi leggeri della lotta greco-romana. Quattro anni prima doveva andare a St.Louis ma venne la chiamata alle armi. “Naturalmente finì in marina”, così scrisse di lui Luigi Gianoli, grande giornalista della Gazzetta “si pavoneggiava con la divisa blu, il solino bianco, (*) e nelle balere della Spezia divenne un idolo, con le sue orecchie a sventola, i suoi occhi azzurri, il suo sorriso furbo di Porta Ticinese, i suoi modi di sommario dongiovanni, i capelli spartiti sulla fronte”. Gara dopo gara, medaglia dopo medaglia, si giunse così al 24 luglio, quando erano in programma diverse finali, ma una gara in particolare era attesa con ansia patriottica dai londinesi e con curiosità da tutti: era la corsa di maratona. 56 corridori si presentarono alla partenza, sul lato orientale del Castello di Windsor. (*) Perché proprio da lì: perché la duchessa di York e futura Queen Mary, quando furono comunicati i dettagli del tracciato della maratona, compreso il da dove e il fino a dove, esclamò “Oh my God…così i miei figlioli non potranno assistere alla partenza di questa gara così affascinante e originale”. Ed allora gli organizzatori, intuito che le parole della duchessa più che un rammarico erano un invito informale a fare qualcosa affinchè si potesse porre rimedio a quella spiacevole eventualità, e posto che di far spostare i sei rampolli reali fino al punto di partenza programmato non se ne parlava proprio, Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 35 decisero invece di spostare la partenza di circa un miglio retrocedendola sino al castello reale. (*) E così la corsa londinese di maratona, inizialmente programmata su una distanza di 25 miglia, aggiungendo un miglio alla partenza e 385 yards all’arrivo, cioè quelle intercorrenti dall’ingresso dello stadio sino al filo di lana, risultò misurare 26 miglia e 385 yards, cioè 42 chilometri e 195 metri. La duchessa di York quindi era riuscita a mettere d’accordo tutti: da quel giorno le maratone del mondo sarebbero state corse su quella eccentrica ed originale distanza. I 56 venivano un po’ da ovunque, c’era gente già ben conosciuta come ad esempio il sudafricano Hefferon, gli inglesi tanti, Duncan Beale Lord Price, assolutamente convinti di recitare la parte dei protagonisti, (*) c’era un pellerossa canadese della tribù degli onondaga, Thomas Longboat, da tre anni vincitore della maratona di Toronto e un anno prima di quella celebre di Boston, (*) e poi gli americani Tewanima Hatch Forshaw Morissey Johnny Hayes, e c’erano pure un paio di italiani, uno dei quali nell’elenco degli iscritti veniva segnalato come Dorando o Durando P la p puntata. Si trattava in effetti di Pietri, Dorando Pietri, un corridore emiliano anch’egli ben conosciuto nell’ambiente per alcune ottime prestazioni ottenute nelle lunghe distanze, tra le quali la maratona di Parigi di tre anni prima. (*) A Villa Mandrio frazione di Correggio vicino Carpi provincia di Modena Dorando Pietri era nato il 16 ottobre 1885 da Desiderio Pietri e Maria Teresa Incerti. (*) Il padre era fittavolo, massaia la madre. Dorando era il terzo di quattro fratelli e come è facile immaginare ebbe un’istruzione appena appena accettabile, cominciata e terminata dopo pochi anni (*) in questa scuola, e certificata da una breve e inequivocabile formula: “sa leggere e scrivere”. Correggio era un piccolo comune che aveva avuto il suo momento di gloria tre secoli prima quando era stato elevato al rango di città col privilegio di battere moneta (metà del ‘500) da Ferdinando 1° d’Asburgo, e che aveva dato i natali ad Antonio Allegri, (*) detto appunto il Correggio, uno dei più grandi pittori italiani del ‘500. Ma ora viveva in maniera più anonima e modesta, l’economia compromessa dalla crisi agraria e dall’assenza di risorse industriali, (*) era una crisi che investiva vaste aree circostanti e che costringeva famiglie intere a lasciare le tradizionali ma improduttive occupazioni e a trasferirsi altrove, come nelle campagne ostiensi, alla ricerca di qualcosa di meglio, (*) erano vere e proprie migrazioni di povertà, ferite laceranti che Andrea Costa, uno dei padri del socialismo italiano, denunciò pesantemente: e altrettanto modesta era la vita della famiglia Pietri che si reggeva sui prodotti della coltivazione di un piccolo orto (ca.1400 mq.). “Così non potremo andare avanti ancora per molto” disse il padre alla moglie Teresa, (*) e nel 1897 ordinò allora l’emigrazione della famiglia, presero il treno e si spostarono a Carpi: (*) lì a Porta Modena aprì un negozio di frutta e verdura. A Carpi, pure in una situazione generale di depressione economica, erano gli anni felici per l’industria del truciolo, (*) cioè la lavorazione di trucioli di legno tratto dai tronchi di salice e pioppo per farne trecce e cappelli di paglia d’ogni foggia. (*) Vi lavoravano tutti, uomini e donne, bambini e vecchi, gente di tutti i ceti sociali, e lo stesso Dorando per arrotondare il magro reddito familiare vi si applicò come lavorante stagionale. (*) Ma all’età di 14 anni Dorando fece un deciso salto nella scala sociale ottenendo il primo impiego fisso nella pasticceria Roma di Pasquale Melli. Questo impiego, che determinerà poi la coniazione dell’appellativo “il fornaio di Carpi” (*) consentirà comunque al giovanotto di fruire –tra uova zucchero e pasticcini che circolavano liberamente nel laboratorio – (*) di un quantitativo energetico che a casa propria si sarebbe sognato. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 36 (*) Dorando voleva diventare ciclista. Non c’era ancora il Giro d’Italia ma a Carpi il movimento era già vivace, si organizzavano anche gare dietro motori, Dorando pedalava e prometteva bene (*) ma a Modena in una di queste gare franò rovinosamente a terra insieme con la moto, ed il morale al suo fianco. Frattanto, era il 1904, passò da Carpi un famoso podista dell’epoca, il romano Pericle Pagliani, che insieme ad Achille Bargossi e pochi altri, costituiva il nucleo di podisti professionisti che giravano la penisola per raccogliere denaro con le proprie rappresentazioni sportive. (*) Tracciò un percorso nella Piazza Vittorio Emanuele perché voleva battere il record della mezz’ora di corsa. Quando scattò Pietri lo vide e non capì più niente, si gettò sul tracciato e riuscì a seguire Pagliani per molti giri, del tutto sordo alle voci di scherno che arrivavano dalla gente. Folgorante come la conversione di San Paolo, fu quindi anche quella di Pietri verso il suo nuovo credo, il podismo. A Carpi, prima ancora che lui nascesse, sulla spinta del fermento associativo emiliano, era stata fondata la Società Ginnastica La Patria con il fine (*) –come si legge nell’atto costitutivo- “di preservare lo sviluppo delle forze fisiche della gioventù e coltivare altresì lo spirito di aggregazione e fratellanza tra i cittadini di ogni classe, nell’interesse supremo della Patria”. (*) Presidente l’ingegnere Alfredo Benassi, e all’età di 18 anni il pasticciere Dorando entrò a farvi parte. Patriottismo, solidarietà tra le classi sociali, ed ancora nello Statuto nessun accenno alla apoliticità e aconfessionalità del sodalizio, che all’epoca –abbinateerano una “conditio sine qua non” per entrare a far parte della famiglia dello sport italiano, era questo un segnale palese di voglia di autonomia, di autonomia e di non neutralità quindi, scelte sociali che si inoltravano però in un sentiero irto di difficoltà e di ostacoli. Infatti vi inciampò subito proprio Alfredo Benassi il presidente, quando il 20 Settembre del 1878 ebbe l’ardire e l’ardore di procedere alla commemorazione della breccia di Porta Pia. Infatti parecchi soci, come riportato su “Ginnastica Libera” (*) “ebbero ad esprimere parole di biasimo all’indirizzo del Presidente, imperocchè, secondo essi, egli erasi permesso di manifestare massime non troppo ortodosse, opinioni politiche avanzatissime e forse non divise dalla maggioranza dei soci”. Quattro giorni dopo Benassi rassegnò le dimissioni, non prima avere ricordato il suo pensiero secondo cui (*) “le associazioni, perché rispondano al loro scopo più elevato, debbano essere altrettante scuole di educazione nazionale e, quindi all’occorrenza occuparsi di politica, che è il complesso dei più vitali interessi della Patria e dell’Umanità”. Ho voluto fare questo cenno sulla collocazione ideologica della Società Ginnastica La Patria di Carpi perché al termine del mio intervento Sergio Giuntini amplierà e completerà l’argomento che è stato oggetto delle sue ricerche e dei suoi studi, in parte anche riportati in questo suo libro “Dalla via Emilia al West”. Già nel primo anno di dedizione piena alla corsa, Dorando riportò numerosi successi, ma di uno in particolare si arricchì il suo curriculum: (*) quello (VI edizione) della prestigiosa maratona di Parigi organizzata da Henry Desgrange l’inventore del Tour de France, che con enfasi aveva annunciato “l’engagement du célèbre coureur italien Pietri Dorando: furono 30 km. tutti in testa, dal primo metro all’ultimo, e Bonheure l’eroe di casa distaccato di sei minuti. Ma a Novembre del 1905 suonò la tromba dell’adunata (*) e fu assegnato al 25° fanteria di stanza a Torino. Per Dorando era un problema serio, servire la Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 37 patria e allenarsi duramente erano due faccende che non era facile far camminare in parallelo senza il rischio di collisione. Allora cominciò a chiedere aiuto in giro, riuscì pure a scrivere o a farsi aiutare a scrivere lettere a tutti quelli che conosceva. E tanto chiese e tanto scrisse che ottenne di essere trasferito alla Società Atalanta di Mario Luigi Mina, uno dei nomi illustri dell’atletica italiana dell’epoca. Ciò gli consentì di allenarsi per bene e di gareggiare spesso, sia pure in prevalenza nel comprensorio piemontese, Arona Gravellona Pallanza Torino... Così fu spedito ad Atene per i Giochi intermedi del 1906, ma fu corsa ingloriosa, perché nelle prime posizioni per buona parte della gara Dorando dovette ritirarsi (24° chilometro) per dolori intestinali, (*) nella corsa che vide vittorioso il canadese Sherring accompagnato sul rettilineo finale da Giorgio, principe di Grecia e del fair-play. (*) Frattanto si era innamorato. Di questa giovane in piedi a destra con i parenti, Teresa Dondi, e come per tutti i giovani innamorati vi fu uno scambio epistolare, una lettera (*) una cartolina postale, un pensiero da Torino e una dichiarazione ufficiale d’amore, in parte nascosta dal francobollo (*) “chi le scrive è Dorando che le ricorda di amarla e di perdonare i dispiaceri procurati”. Avrebbero vissuto insieme per 33 anni. Digerita la delusione ateniese, espletato l’obbligo di leva, ritornato -figliol prodigo- alla Società La Patria, l’anno dopo Pietri tornò alle gare più convinto che mai. (*) Sfidò i migliori specialisti nostrani del mezzofondo sui 1000 e sui 5000 a Piazza di Siena, e non dimenticò le prove lunghe, da 20 km. in su. Poi, sul finire dell’anno, si ritirò nella sua Carpi, una specie di ritiro spirituale in vista dell’anno più importante della sua vita, il 1908. Pietri, come gli altri 66 della compagnia nazionale, (*) partì la sera del 9 luglio dalla stazione di Torino, via Modane e Parigi, alla volta di Londra, dove arrivò 36 ore dopo, dove incontrò suo fratello Ulpiano (*) che era lì per fare il cameriere e dove si sistemò a Soho nel West End della città in un albergo di italiani. Di quel che fece il buon Dorando nei 13 giorni intercorrenti tra l’arrivo a Londra e la maratona olimpica gli storici ci fanno un resoconto dettagliato, direi quasi giorno per giorno: in sintesi una triste gara olimpica a squadre sulle 3 miglia conclusa con il ritiro, e poi una serie di duri allenamenti anche per conoscere le strade londinesi punteggiate di salite che Dorando apprezzava molto perché “mi scaldano i garretti e i miei polmoni ne godono quando le affronto”. (*) Ma poiché da che mondo è mondo si sa che la trasferta sportiva è l’occasione d’oro per dare sfogo al desiderio di libertà e di conoscenza che dimora in ciascuno di noi e che si esalta proprio quando si è lontani da casa, vogliamo che Dorando nelle ore libere non sia andato in giro per la città, chessò insieme a Porro Lunghi e Pagliani maratoneta che teneva il diario di bordo (*) forse Giovedì potremmo visitare la Torre dell’orologio, qui la chiamano Big Ben, oltretutto si trova sul percorso di gara ed è giusto dargli un’occhiata, Venerdì allenamento… e poi arrivò suo fratello Ulpiano e disse alla comitiva Sabato per esempio (*) è una buona giornata per il mercato, il “Petticoat Lane Market” che è sempre affollatissimo perché lì trovi tutto quello che vuoi Dorando -giacche pantaloni berretti- e a Piccadilly non ci andate (*) a Piccadilly ci sono statue teatri negozi ristoranti e c’è gente gente di tutti i tipi, e due anni fa hanno aperto pure la stazione dell’underground a Piccadilly, perchè (*) qui a Londra c’è un treno sotterraneo, lo chiamano “the tube” che ti sposta la gente da una parte all’altra della città in pochi minuti. (*) Lunedì vi porto a Trafalgar Square dove c’è una gran colonna con la statua di un ammiraglio che sconfisse Napoleone, e poi facciamo un giro per la città, (*) anche se c’è nebbia, c’è Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 38 sempre nebbia qua pure in estate, ci prendiamo (*) the bus number nine che ci porta a Lensington, e Giovedì 23, il giorno prima della gara, (*) lo dedichiamo a “Tower Bridge” che sarebbe il ponte il ponte di Londra … come fai Dorando a tornare a Carpi senza aver visto Tower Bridge cosa rispondi a chi te lo chiede … (*) Al Castello di Windsor tutto era pronto per la partenza della maratona. La duchessa aveva ottenuto il suo scopo, i sei figlioli -Edward Albert Victoria Henry George e John- schiamazzavano allegri chiedendosi cosa ci avesse visto la madre di così interessante nella partenza di una gara, quando tutti sono insieme ammassati e sembrano tutti uguali, gli inglesi come i canadesi, i sudafricani come gli americani, molto meglio sarebbe stato seguire la maratona lungo il percorso, o all’arrivo, lì almeno si capisce chi ha vinto e chi ha perso. Gli accadimenti della maratona di Londra sono descritti con dovizia di particolari nel rapporto ufficiale del Comitato organizzatore, e nelle diverse cronache giornalistiche dell’epoca. Devo dirvi però che c’è un poemetto, definito “diario apocrifo di Dorando Pietri”, che meglio di qualsiasi rapporto ufficiale o cronaca descrive le molteplici sensazioni che la corsa di Londra possa aver trasmesso. E’ di un poeta sardo della metà del novecento non molto conosciuto, Giovanni Floris, e ho pensato di leggerne alcuni passi. (*) Siam venuti in terza portando tutto da casa come i frati, come i poveri di tutto il mondo. Questa Londra è misteriosa e grande, tanto grande. La maratona è roba da poveri come il regno dei Cieli. Non conta come si viaggia ma come si taglia il traguardo. (*) Londra, 24 Luglio Avete mai avuto paura d’una donna, dell’amore? Era una cosa così, una paura, così. Perché è solo ogni atleta in gara, ma nessuno come il maratoneta (*) Londra, 23 Luglio quanto il maratoneta alla partenza. Per vincere darei le gambe Respira dopo ogni assalto gli occhi, un pezzo di cuore. il pugile, lo schermitore, La strada è come la vita: e sognano, in un lampo, sulla pista, troppo amata è gelosa, non perdona. il saltatore e il velocista. Ogni vittoria va pagata. Ma a noi di maratona la pazienza ………………………. è tutto. Domani si corre. (*) Tutto nostro è l’onore Mi ricordo d’un italiano d’una solitudine lunga che per gareggiare andò a piedi di quella che dà paura. fino ad Atene, da Milano. Ed eravamo tutti di paura Giancarlo Airoldi: … di paura e di nebbia. un cuore come una torre! Ci vedevamo come fantasmi. Domani me lo voglio ricordare. (*) Poi, finalmente, via! Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 39 Correre, correre, correre. Tu con la strada e la strada con te. (*) La corsa partì alle 14.33, il tempo era bello ma umido e il termometro segnava 26 gradi. (*) C’era una discesa subito dopo la partenza e i britannici boriosi lanciarono il guanto di sfida. (*) Thomas Jack dettava un ritmo forsennato e faceva selezione. Dietro di lui altri tre atleti di Sua Maestà, Price Lord e Duncan. Ma il forsennato Jack si ritirò alle 5 miglia, (*) Price allora prese la testa, e dopo 13 miglia di corsa aveva 41 secondi di vantaggio su Hefferon, un sudafricano molto quotato che precedeva Lord. Poi Hefferon attaccò con decisione, lasciò Price al suo destino e alle 15 miglia precedeva Lord di 2 minuti. Sul britannico però erano in forte recupero due concorrenti: il pellerossa canadese Longboat e poi, solitario, (*) un piccolo corridore dalla maglietta bianca e i calzoncini rossi, numero 19. “Who’s him? Chi sarà mai?” In mezzo a tanta folla sono solo. il respiro pacifico (*) Io con la strada e la strada con me. mi penetra fino alle ossa Case, alberi, case, prati, case, foreste, un fiume, ed il cuore mi sta comodo come un pascià. (*) La strada mi viene incontro e saltella felice, mi sorride. un grande forte fiume. Non sento che il mio cuore e le scarpette degli altri, uguali alle mie scarpette ed al mio cuore. Nelle membra già calde la paura si scioglie, si fa dolce. Le forti, care gambe, ubbidiscono come braccia, Forza, Dorando! La strada felice saltella, sorride a tutti. Sorridono donne da un prato, il sole sembra luna, ma il cuore è nelle scarpette e le scarpette sulla grande strada. Secondi come minuti minuti come le ore. (*) Pietri e Longboat raggiunsero e staccarono Lord, ma poco dopo il pellerossa entrò in crisi: l’allenatore lo massaggiò e innaffiò di champagne, ma tutto fu inutile, perché la crisi nella maratona è quasi sempre irreversibile, l’indiano si fermò, riprese al passo, si ritirò al 17° miglio. Ne mancavano 9 al termine. Pietri era di nuovo solo, soffriva ma adesso era secondo. (*) Il sudafricano era lontano, però, molto lontano, alle 20 miglia aveva quasi 4 minuti di vantaggio sull’italiano. (*) Comincia la terra in bocca ed il duro nelle viscere. Mi spunta in gola un ciuffo di fuoco. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 40 …………………………………….. (*) Beati voi, alberi! (*) La stanchezza viene così: Mi piacerebbe mettere radici! la testa diventa una nube Ho un polipo nelle viscere e le gambe di gomma. e voglia di masticare. (*) Stringo più forte i pugni, Ma chi ha fame non vince comincio a stringere i denti, ed io sono qui per vincere. dò di gomiti, spingo. Quant’è che si corre, quant’è? Mezza borraccia d’acqua sui capelli (*) Allungo, ma ai miei talloni e un sorso sul ciuffo di fuoco. l’americano è peggio della fame. Infatti, mentre Dorando iniziava un parziale recupero su Hefferon, con una tattica accorta l’americano Johnny Hayes risaliva posizioni su posizioni. (*) Ritorna la paura sento solo dei passi sulla strada o un’altra cosa strana, e il mio cuore che da lontano una nausea, ma dolce, fina fina, fa come le scarpette, uno due un desiderio di dormire in piedi uno due uno due. con le mani dietro la nuca, Mezza borraccia in gola di correre dietro le gambe e mezza sui capelli. come dietro due persone. Il traguardo mi affiora dal cervello, Provo a dire uno due, uno due, è l’ora di stringere i denti ma non mi sento la voce, e d’allungare, di passare in testa. (*) Alla Torre dell’orologio, dopo 23 miglia, Hefferon aveva ancora due minuti di vantaggio sull’italiano, (*) mentre Johnny Hayes inseguiva a sei minuti. (*) Gente a cataste ai lati della strada Saluti, acclamazioni. Quanto manca, ditemi, quanto manca? Mi sento le gambe d’osso, brucio tutto, dai bronchi alle narici. Ditemi quanto manca? (*) Mi sento morire, ma posso “E’ là”, mi dicono “forza pure” spingere ancora, allungare. (*) Ma dov’è i tuoi passi vittoriosi, lo stadio, il traguardo dov’è? (*) è tutto là, stadio, traguardo, onore, Sotto i veli dell’alito lo sguardo un gran pennone per il tricolore, l’apoteosi, l’immortalità. mi s’annebbia. Dov’è? Dov’è il traguardo? Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 41 (*) Ah Londra sterminata! e le viscere nella gola. Ho i denti dentro i denti Mai fu così mortale una volata. (*) Galvanizzato dall’incitamento della folla, a due chilometri dall’arrivo poco prima di Wormwood Scrubbs, Pietri raggiunse e superò Hefferon. Ancora un chilometro e iniziò il calvario, l’ascesa al Golgota del piccolo maratoneta emiliano. (*) Ed ecco, quand’ero già in vista Sentivo addosso uno sguardo del traguardo, mi si staccò immenso, un unico sguardo sbarrato. tutto il corpo dall’anima, (*) stramazzandomi ai piedi sulla pista. …………………………….. (*) Lo presi per una mano, (*) Poi qualcuno mi prese per un braccio il corpo e come un santo in processione, povero corpo, e s’alzò (*) devotamente, lo portò al traguardo. che nello stadio, tutto un uragano Ero in un buio, cieco. pazzo d’urrah, (*) entrava l’americano. (*) Ricordo un vento, uno scoppio di canto Supplicai le mie gambe: (*) “Si va! in coro, poi mi parve di morire.(*) Forza, chè abbiamo vinto, su! Uno due, Quando risorsi mi vennero a dire ci bastano pochi uno due e di nuovo credetti di morire. ancora, dei brevi uno due, (*) Avevo corso bene, chi vince deve arrivare ero arrivato sfinito, col cuore di quando partì!” (*) con le gambe in catene, E le gambe: “Sì, sì, anima, sì!” ma col cuore di quando ero partito. (*) ma tornarono a stramazzare. (*) E l’indomani fui cinto Avrei corso coi ginocchi della corona d’alloro e le mani, pur d’arrivare, proprio da Sua Maestà, dalla Regina, ma avevo gli occhi pieni d’aghi e sul cuore mi si gelava l’ultimo sudore. che m’avevano squalificato e c’era ad applaudirmi il mondo intero. (*) Lo stadio ammutolì, (*) Quando mi diede la coppa, in un coro mi circondò come un mare di ghiaccio. d’urrah e di trombe, il sole londinese C’è gente buona ovunque, come qui. mi parve tra la nebbia un sole vero come quello del mio paese. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 42 (*) Che magnifico piangere fu il mio! Aveva sul pennone il tricolore una gran voglia di volare. E anch’io! Non respiravo dal batticuore (*) E vidi sole a Londra, vero sole. Ci vorrebbero le parole che sa trovare un poeta, (*) di quelle grandi, vere. Ma io non sono che un maratoneta e un bravo panettiere. Qui termina la storia della maratona di Dorando Pietri, (*) quella della maratona di Londra si completò con la vittoria ufficiale di Johnny Hayes, l’americano che pensate un po’ (*) era entrato nello stadio 9 minuti e 46 secondi dopo Pietri, tanto era durata l’agonia in pista del maratoneta di Carpi. (*) Oltre alla Coppa dalla Regina Dorando ricevette un monile dalla contessa di Mexborough italiana d’origine, ed un portasigarette da Conan Doyle, entrambi d’oro, ed un biglietto d’amore firmato Alice, che gli chiedeva se il suo cuore fosse ancora libero. Fu invitato dappertutto, (*) e nella sede del Circolo Italiano ci fu l’incontro con il tenore Enrico Caruso, la massima celebrità italiana dell’epoca. Poi Dorando lasciò Londra e tornò in patria, (*) via Parigi e Torino dove fu accolto da una folla entusiasta e (*) portato in trionfo per le vie centrali della città. (*) Due giorni dopo, insieme al fratello Ulpiano e al ginnasta Braglia arrivarono a Carpi, (*) negozi chiusi, finestre imbandierate e infiorate, (*) cortei fanfare diecimila persone osannanti venute anche da Modena e persino da Correggio, (*) c’erano tutti dirigenti amici politici e gli inviati di 9 quotidiani d’Italia (*) che avevano dato ampio spazio alla vicenda londinese e c’era pure quello del Daily Mail. (*) Pietri e Braglia erano visibilmente commossi. Tre mesi dopo, accompagnato dal fratello Ulpiano partì per New York dove gli americani avevano messo in piedi l’affare: (*) la rivincita con Johnny Hayes, nientedimeno che al Madison Square Garden, al coperto su una pista di 160 metri da percorrere 262 volte. (*) Fu un vero affare per tutti, dollari per tutti, Dorando per primo, che sconfisse Johnny per 45 secondi e stipulò contratti con cifre per lui da capogiro. (*) Restò in America fino a Giugno dell’anno seguente gareggiando su tutte le distanze, tra un allenamento seguito da Ulpiano (*) e un ricevimento alla Comunità Italiana newyorchese, e incassando dollari in tutte le città, da Buffalo a Rochester da Syracuse a St.Louis da Chicago a Filadelfia. (*) Tornò a New York ad Aprile quando il diabolico organizzatore americano presentò il Marathon Derby, (*) una sfida tra i 6 migliori specialisti del mondo al Polo Grounds su pista in erba e argilla. (*) Battè tutti Dorando tranne Saint-Yves, un francese bravo quanto lui, povero come lui, cameriere al Caffè Monico di Piccadilly Circus. (*) Anche un mese dopo, nella rivincita aperta a 13 concorrenti e seguita da 50.000 spettatori, (*) Dorando sofferente alla schiena non ebbe migliore fortuna. (*) Tra Agosto e Settembre sposò la sua amata Teresa, cerimonia prima in chiesa e (*) poi con rito civile, come si usava allora. E poi a Gennaio del 1910 ripartì per l’America, (*) imbarcato a Genova sul Principe di Piemonte, e lì giunto a San Francisco (*) lo aspettava la terza sfida in territorio americano con Johnny Hayes. Sfida che vinse ancora, Dorando, e riprese a gareggiare come un dannato, spostandosi come una trottola da Ovest ad Est da Nord a Sud dagli Stati Uniti al Canada, (*) passando per le cascate del Niagara, per raggiungere poi l’Argentina e il Brasile, (*) sfidando canadesi Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 43 irlandesi corridori dell’Alaska e cavalli montati, sconfiggendo il cameriere parigino (*) e il pellerossa dalle gambe infinite ma intascando sempre dollari tanti dollari. (*) Che gli servirono, tornato in patria, ritiratosi dalle competizioni, per comprare terreni e immobili insieme al caro Ulpiano, e a lanciarsi con lui in (*) un’avventura imprenditoriale dal nome “Grand Hotel Dorando”, tre piani e garage per l’autonoleggio, un’avventura che non ebbe purtroppo esito felice, costi elevati ricavi solo immaginati. (*) Pian piano cominciò a vendere pezzi degli immobili e dell’hotel e si tenne il garage, (*) e visto che con le automobili aveva buon feeling quando l’Italia entrò in guerra fu assegnato alla compagnia automobilisti degli artiglieri di campagna. (*) Poi, nel 1923, si trasferì con la famiglia a Sanremo dove c’era già il fratello più grande Antonio Ettore, (*) dove proseguì con professionalità e passione l’attività di autonoleggio, prestando servigi inappuntabili a personaggi illustri, (*) dove stavolta la guerra lo lasciò in pace perché aveva il foglio di congedo per insufficienza mitralica, e dove vent’anni dopo, nella serata del 7 febbraio del ’42 morì all’improvviso per una sincope cardiaca, a 58 anni, così, (*) senza neppure il tempo di un ultimo saluto anche un cenno a Teresa a parenti e conoscenti, (*) senza più notizie dei cari amici di un tempo, di Johnny Hayes, di Longboat l’indiano o (*) di Charles Hefferon, sapeva che era in Canada nella polizia dell’Ontario, non seppe che era morto undici anni prima. Non seppe neppure come finì la guerra. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 44 LE CINQUE VIE. LE ORIGINI DEL SISTEMA SPORTIVO NAZIONALE PROF. FELICE FABRIZIO L’amico Vincenzo Pennone, nell’affidarmi il compito di ricostruire la nascita del sistema sportivo nazionale, mi ha servito di barba e capelli. Tanto per cominciare, è impossibile rintracciare all’anagrafe un vero e proprio atto di nascita. Va detto poi che, come avveniva prima dell’introduzione della prova del DNA, la ricerca della paternità appare quanto mai incerta. Senza contare inoltre che il parto, più che come frutto di una rigorosa pianificazione, va interpretato come l’esito di iniziative casuali, disorganiche, non di rado contraddittorie, in un groviglio reso ancora più intricato dai caratteri originali della storia nazionale, che esaltano la diversità e il localismo. Per il sistema edificato in Italia tra il XIX e i primi anni del XX secolo all’immagine del monolito di “2001 Odissea nello spazio” va sostituita quella del mostro di Frankenstein, assemblato utilizzando pezzi sparsi di cui proverò a sintetizzare le origini e le peculiarità. In un cantun vecc del nost Milan c’è un luogo che si chiama Cinque Vie, luogo di incontri, di transazioni, di contrasti che non di rado degenerano in risse. Il sistema sportivo italiano si forma alla confluenza delle cinque vie, diverse per anzianità, ampiezza e caratteristiche. La prima è un modesto viottolo di campagna logorato dai passi delle molteplici generazioni che l’hanno percorso, olezzante di fritture e di dolciumi a buon mercato, risonante del chiasso della sagra paesana. E’ lo spazio dei giochi tradizionali. Prove di forza e di destrezza. Battaglie combattute a pugni nudi, a spintoni, a sassate, a bastonate. Palii ippici, podistici, remieri, natatori. Il calcio fiorentino. Il pallone a bracciale, il tamburello, le bocce, inventati e codificati nelle corti rinascimentali e via via fatti propri dalle classi subalterne. E’ un mondo marginale, appartato, riluttante ad abbandonare la cornice festiva, a staccarsi dalla comunità locale, ad inserirsi nel quadro istituzionale delle associazioni, delle federazioni, dei campionati. Ha origini altrettanto remote anche l’elegante strada privata su cui si muovono a ritmo di minuetto i raffinati cultori delle arti accademiche, scherma ed equitazione, assieme alla danza prodotti purissimi del Rinascimento italiano, irradiati in tutta Europa da trattatisti e da maestri. E’ un percorso angusto, riservato ad una cerchia ristretta di privilegiati, aristocratici e militari, interessati a completare il corredo del perfetto gentiluomo e ad addestrarsi allo scontro all’arma bianca, in battaglia come nel duello. E’ una via che accetta a malincuore l’avvio dei lavori di modificazione e di ampliamento che la costringeranno a fare i conti con l’oggettività dei risultati e ad adeguarsi allo spirito agonistico. Di più recente costruzione è un’austera e squadrata strada militare su cui echeggiano passi di marcia, secchi comandi, echi di spari, fanfare ed inni. Vi si incolonnano i cultori di quelle che gli storici francesi chiamano “pratiche costrittive”, il tiro a segno e la ginnastica, intrise, come vi spiegherà l’amico Sergio Giuntini, di valori patriottici e subordinate alla preparazione alla guerra. Piombate in Italia al seguito delle armate napoleoniche, in una fase storica Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 45 convulsa nella quale si affermano i modelli della mobilitazione permanente e del cittadino – soldato, le pratiche costrittive si pongono inizialmente al servizio del processo di costruzione dello stato nazionale, in un secondo tempo della elaborazione di una identità condivisa. L’apporto quantitativo fornito da questo filone è molto consistente ed è innegabile che il sistema allo stato nascente abbia come spina dorsale le società ginnastiche. Ma le pretese egemoniche di questo settore, unico ad ottenere un minimo di riconoscimento e di supporto dagli ambienti ufficiali, dovranno ben presto scontrarsi con l’apparizione delle pratiche ludiche e soprattutto delle discipline sportive. Il viale alberato ed elegantemente adornato è la chiave di accesso degli svaghi delle classi dominanti. Che arrivano da molto lontano, perché da sempre l’ozio e il denaro sono prerogative dei vertici della piramide sociale. Che nell’Ottocento subiscono tuttavia una autentica mutazione genetica. Sull’approccio individuale ed informale prende il sopravvento la pratica inquadrata da associazioni modellate sui club inglesi, che riuniscono attorno ad uno specifico programma di attività individui appartenenti al medesimo spazio sociale. E’ una tendenza irreversibile che modifica i significati e le forme di svaghi antichissimi come la caccia e la pesca e che impone l’imitazione dei prodotti culturali recanti il prestigioso marchio made in England (ippica, alpinismo, tiro a volo, vela, tennis, golf), gli stemmi delle stazioni turistiche invernali (pattinaggio e sci), il sigillo della modernità (automobilismo, motociclismo, motonautica, aviazione). Comune e viva appare qui la preoccupazione di difendere a denti stretti i privilegi di casta. Le élites abbandonano precipitosamente i settori minacciati da intrusioni plebee, il ciclismo e il calcio delle origini, per arroccarsi in cittadelle rese inespugnabili dalla rigidità dei meccanismi di ingresso nelle associazioni e dalle cifre astronomiche richieste per l’affiliazione e per l’esercizio delle attività. Altrettanto avvertita è l’esigenza di anteporre alle fatiche muscolari, alle mischie scomposte, ai furori agonistici il disinteresse amatoriale e i piaceri della mondanità. Di modernissima concezione è la quinta via, disseminata di pietre miliari e di orologi meccanici che geometrizzano lo spazio e il tempo, consentendo la misurazione e il confronto delle prestazioni. Lo sport, nato in Gran Bretagna tra la fine del Settecento e la prima metà del XIX secolo, fatto proprio dall’Europa Continentale, dagli Stati Uniti e dalle colonie inglesi, sbarca in Italia tra il 1860 e il 1890, anche se la maggior parte dei suoi principi ideologici e organizzativi sono presenti già nei decenni precedenti nell’ambito delle società che presiedono allo svolgimento delle corse ippiche “all’inglese”. Da apripista funzionano il canottaggio e ancor più il ciclismo, destinato a diventare lo sport nazionale dell’Italia liberale, in particolare dopo che sulle riunioni su pista prevarranno le affascinanti corse su strada. Alla fine dell’Ottocento risale l’insediamento del calcio, che acquista una importanza crescente solo negli anni che precedono la Grande Guerra, del nuoto e delle discipline verso cui si orientano i ceti popolari, podismo, lotta e sollevamento pesi. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 46 All’incrocio delle cinque vie, dove lo sport, facendosi largo a gomitate, si sforza, riuscendovi in buona misura, di allontanare dalla loro fisionomia originaria tutte le altre componenti, si stanno già innalzando le impalcature destinate a sorreggere l’edificio. Lo sforzo da intraprendere, già immane di per sé, è reso ancora più difficile dalla quasi assoluta indifferenza del mondo politico e scolastico, che fa ricadere per intero il peso della spinta promozionale sulle gracili spalle della società civile dell’epoca. Vi è da tessere la rete delle associazioni di base. Da intrecciare i nodi che ne coordino le iniziative, le federazioni nazionali. Da predisporre attrezzature e spazi di attività funzionali. Da allestire eventi pianificandone e concatenandone le date di svolgimento. Da selezionare gli addetti ai lavori, dirigenti, tecnici, giudici. Da produrre un apparato informativo. Da elaborare un sistema di valori. Eppure, e siamo di fronte ad uno dei miracoli che contrassegnano le vicende nazionali, allo scoppio della I Guerra Mondiale lo stato dell’arte è già soddisfacente. Diamo un’occhiata alla mappa dei lavori cominciando dalla tabella dei tempi. L’insediamento del movimento associativo si sviluppa in tre fasi. Nella prima, compresa tra il 1861 e il 1880, la struttura è sorretta dalla ginnastica, dal tiro a segno, dalle sezioni del Club Alpino Italiano, cui si aggiungono le associazioni che si occupano degli svaghi della classe agiata e i primi circoli remieri e ciclistici. La seconda, che ha per sfondo l’ultimo ventennio dell’Ottocento, fa registrare una crescita costante che ha per protagoniste le discipline sportive. Nei primi quindici anni del XX secolo si verifica un vero e proprio boom di nuove fondazioni, che ha per centri propulsori le unioni sportive, il ciclismo e il calcio. Parallelamente si costituiscono le federazioni nazionali, fattori insostituibili di coordinamento e di standardizzazione delle regole e delle formule. In rigoroso ordine di apparizione, per limitarci alle discipline più diffuse, entrano in scena l’alpinismo (1867), la ginnastica (1869), il tiro a segno (1882), il ciclismo (1885), il canottaggio (1889), il calcio (1898), il podismo (1899), il nuoto (1900), l’atletica pesante (1902), l’atletica leggera (1910). Nel 1914 assume una forma permanente il Comitato Olimpico Nazionale Italiano. Alla fine del cammino, ad eccezione del tiro a volo e del pattinaggio a rotelle, tutte le attività hanno completato un processo di istituzionalizzazione che si rafforza tramite l’allestimento dei campionati italiani. Qui l’ordine cronologico mette in fila (1884), il canottaggio e la ginnastica (1889), il podismo e il sollevamento pesi (1897), il calcio e il nuoto (1898), la lotta (1899), lo sci, la scherma e il pugilato (1909). La costruzione di impianti permanenti e funzionali si rivela quanto mai lenta e stentata. Negli strati più profondi dell’archeologia sportiva nazionale giacciono sferisteri e ippodromi. Poco più sopra gli scavi portano alla luce poligoni di tiro, palestre di società ginnastiche, piste per il pattinaggio a rotelle e su ghiaccio, tracciati in terra battuta per le corse ciclistiche su pista. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 47 Ad un livello superiore incontriamo campi da tennis e da golf e velodromi di più moderna concezione. Nello strato superficiale si mescolano gli spazi erbosi su cui si disputano le partite di calcio, i campi da sci, le piste di atletica, le cattedrali nel deserto come i mastodontici stadi di Torino e di Roma. Latitano, ed è questo uno dei non pochi peccato originali di cui lo sport italiano non si è ancora emendato, le attrezzature scolastiche, le piscine, gli impianti polivalenti di base, le strutture al coperto, sostituite dai palcoscenici dei teatri e dei caffè – concerto. Priva di tradizioni autentiche e di una solida cultura in materia di attività fisico – sportive, l’Italia trae un innegabile vantaggio dall’inserimento nel circuito internazionale, ottenuto utilizzando tre canali. L’affiliazione alle federazioni internazionali e l’adesione al movimento olimpico. L’organizzazione sul suolo nazionale di grandi manifestazioni, campionati mondiali ed europei e prove classiche. La partecipazione alle più importanti competizioni internazionali di atleti e di rappresentative, capaci di cogliere un bottino molto più consistente di quanto non appaia nelle ricostruzioni elaborate dal regime, preoccupato di accreditare l’immagine del fascismo demiurgo dello sport italico. In quattro edizioni dei Giochi Olimpici l’Italia ottiene 15 medaglie d’oro, 11 di argento, 5 di bronzo. Il tiro a segno accumula 14 titoli iridati individuali e a squadre, il ciclismo due. 14 sono anche i successi degli armi italiani nei campionati europei di canottaggio. E non è finita. Vittorie di vetture e di piloti italiani sulle piste automobilistiche europee e americane. Trionfi di schermidori e cavalieri. 13 affermazioni dei tiratori a volo nel Grand Prix du Casinò di Montecarlo, vero e proprio campionato mondiale ufficioso. Il record mondiale sui mille metri ottenuto nel 1908 dal grande podista Emilio Lunghi. Il trionfo di Giuseppe Sinigaglia nelle Challenge Sculls di Henley, la più prestigiosa prova remiera internazionale. Passiamo al registro delle maestranze. Per censirle occorrerebbero dati molto più completi ed attendibili di quelli in mio possesso, riferiti a circa 10.500 associazioni sportive e parasportive fondate tra il 1861 e il 1915. E’ quasi impossibile, vi assicuro, fotografare la situazione in un momento preciso, districarsi tra minuscole aggregazioni ed entità che vantano centinaia di tesserati, distinguere i soci attivi, generalmente in netta minoranza rispetto alle altre tipologie di tesserati. Risulta più semplice, per contro, tracciare l’identikit dei praticanti. Che sono in prevalenza adulti (gli under 18 costituiscono una ristretta pattuglia) e maschi (il lungo e tormentato itinerario di accesso alle pratiche e alle associazioni dell’altra metà del cielo merita una trattazione a parte). Molto diversi per estrazione sociale: presenti al gran completo la nobiltà e l’alta borghesia; folta rappresentanza della media e della piccola borghesia e delle aristocrazie operaie, presenze più sporadiche del proletariato di fabbrica, latitanza del mondo contadino. Il cantiere è una babele di dialetti. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 48 La distribuzione delle pratiche e delle associazioni sul territorio rispecchia i diversi livelli di sviluppo economico, il volume del capitale sociale in cui si esprimono il senso civico e la predisposizione ad aggregarsi, la natura degli insediamenti, che avvantaggiano le zone con una rete urbana a maglie fitte e ricche di dinamiche località secondarie. I primi giornali specializzati fanno la loro comparsa attorno al 1860. Si tratta di modesti bollettini di società e di federazioni che operano nei settori dell’ippica, del tiro a segno, della ginnastica e dell’alpinismo. Tra il 1876 e il 1882 entrano in campo le eleganti riviste mondane che inseriscono nella testata il termine “sport”, riferito in modo esclusivo alle discipline equestri, alla caccia, al tiro a volo. Nel ventennio successivo è la volta di fogli che si occupano di un’unica disciplina e di giornali polisportivi sul tipo della gloriosa “La Gazzetta dello Sport”, fondata nel 1896. Nel primo Novecento il quadro si arricchisce di riviste contenenti splendide immagini fotografiche, di periodici satirici e sportivo – culturali, di fogli che documentano le cronache sportive locali. Anche in questo caso il bilancio risulta molto meno deludente di quanto si potrebbe credere, se è vero che il mio elenco provvisorio di testate che si occupano in misura esclusiva o comunque consistente di sport supera le 420 unità. Sarebbe vana fatica ricercare nella pubblicistica dell’epoca un corpo organico e condiviso di contenuti ideologici. La mancanza di centri autorevoli di elaborazione e di legittimazione paragonabili alle istituzioni educative anglosassoni, ai licei parigini, alle associazioni ginnastiche tedesche, così come il silenzio assordante del mondo politico, scolastico e culturale, impone una navigazione a vista. Nell’apparato valoriale si intrecciano istanze formative, influssi umanitari e paternalistici, retaggi delle tradizioni cavalleresche, il fair – play e l’approccio amatoriale tipici del modello sportivo inglese. Il carattere apolitico fieramente affermato dalle disposizioni statutarie, effettivo nelle associazioni che esauriscono la loro ragione di essere nella pratica di una attività, si riduce a mera finzione nella vita quotidiana di sodalizi che, cominciando dalla denominazione sociale, dall’apparato simbolico, dalla partecipazione assidua ai momenti commemorativi della storia nazionale, risultano del tutto funzionali all’ideologia dominante. Nel fabbricato ancora in costruzione affiorano già le prime crepe. I primi a cogliere gli aspetti contraddittori del sistema sono i cattolici, dal 1870 irriducibili oppositori dello stato liberale, assorbiti nell’azione di arginamento delle violente campagne anticlericali che vedono in prima linea i ricreatori laici promossi dalle logge massoniche. Il mondo cattolico, forte di una presenza capillare, sensibile alle tematiche concernenti l’educazione delle nuove generazioni, coinvolto nella sua espressione più avanzata, il movimento democratico – cristiano, in un serrato confronto con la modernità e con i suoi prodotti culturali, fa leva su un fitto reticolo di associazioni per formare a partire dal 1890 dapprima sezioni ginnastiche di oratori e di circoli, in seguito organismi autonomi. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 49 Quando, agli albori del Novecento, le associazioni cattoliche bussano alla porta della Federazione Ginnastica per ottenere l’affiliazione, la finzione rivela tutti i suoi elementi di debolezza. Minacciata nella su incontrastata supremazia, la Federazione oscilla tra l’intransigenza assoluta che nega alle forze disposte a testimoniare a viso aperto la propria appartenenza ideologica di mescolarsi alle associazioni liberali, di fatto politicizzate, e le soluzioni all’italiana che conducono all’accoglimento delle istituzioni che dissimulano la propria fisionomia religiosa. L’esito è tutt’altro che inevitabile. Nel 1906 una parte delle associazioni marginalizzate si riuniscono nella Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche Italiane (F.A.S.C.I.), con sede a Roma e posta alle dipendenze dirette delle gerarchie ecclesiastiche. A un anno di distanza le società attive nella regione guida dello sport cattolico, in aperta polemica con l’istituzione capitolina, danno vita alla Federazione Ginnastica Regionale Lombarda. I cattolici forniscono in ogni caso un apporto sostanzioso alla costituzione del sistema. In meno di dieci anni sorgono infatti più di 800 società, in prevalenza ginnastiche, ma anche escursionistiche, ciclistiche, podistiche, calcistiche, polisportive, concentrate nelle regioni nord – orientali e nel Lazio. Al dinamismo organizzativo non corrisponde tuttavia una riflessione in grado di enucleare e di presentare i tratti distintivi dello sport cattolico. Unanimi nel denunciare gli aspetti degenerativi dei modelli dominanti, i cattolici non riescono ad affrancarsi dalla subalternità ai principi della suddivisione in categorie di merito, alla logica dei concorsi, all’enfasi posta sulle classifiche e sui vincitori. E’ una subalternità che emergerà in tutta evidenza nel 1915, quando lo sport cattolico si unirà a quello nazionale nel sostenere la necessità dell’intervento in guerra dell’Italia In una analoga zona grigia si collocano le associazioni ginnico – sportive repubblicane, concentrate nella Romagna, e le prime timide iniziative poste in atto dal movimento operaio. Queste ultime devono fare i conti con il pregiudiziale antisportismo che anima le componenti massimaliste del partito e della federazione giovanile socialiste, nell’età giolittiana maggioritarie rispetto alla più pragmatica componente riformista. Lo sport strumento della borghesia, strumento del militarismo, oppio delle classi lavoratrici, diventa un nemico da combattere. Prive di riferimenti culturali e di supporti organizzativi, le associazioni sportive proletarie, tranne rarissime eccezioni in cui è avvertibile una esplicita rivendicazione di classe, finiscono con il ricalcare le forme istituzionali preesistenti. L’Unione Operai Escursionisti Italiani non si discosta dalle analoghe associazioni borghesi. E perfino le espressioni all’apparenza più connotate in senso ideologico, i ciclisti rossi, si ispirano all’attività dei reparti di volontari ciclisti di matrice nazionalista. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 50 Ed è proprio nel variegato e chiassoso mondo del nazionalismo e dell’irredentismo che nel primo scorcio del XX secolo il sistema sportivo scopre un avversario inatteso, tanto più insidioso perché agisce dall’interno. Tra il 1903 e il 1815 nello sport sono trapiantati l’antipolitica, l’insofferenza per la democrazia, i sarcasmi che investono il grigiore dell’Italietta, le aspirazioni che prefigurano per il paese un destino di grande potenza economica, militare, coloniale e, ovviamente, sportiva. Vati e duci sfornano a getto continuo suggestive parole d’ordine: il Risorgimento tradito da completare attraverso gli slanci disinteressati ed eroici delle nuove camicie rosse, la Terza Italia, la Grande Proletaria, i miti della macchina e della velocità, l’agonismo muscolare, la violenza catartica, la guerra sola igiene del mondo. A questo confuso substrato lessicale e concettuale, su cui poggia la mobilitazione generale dello sport nazionale in favore della scelta interventista, attingerà a piene mani il fascismo, nello stadio di movimento prima, poi in quello di regime totalitario. Ma questa è già un’altra storia che, se volete, sarà al centro della prossima puntata. BIBLIOGRAFIA Sergio Giuntini, Sport scuola e caserma dal Risorgimento al primo conflitto mondiale, Padova, Centro Grafico Editoriale, 1988; Felice Fabrizio, Fuoco di bellezza. La formazione del sistema sportivo nazionale in Italia 1861 – 1914, Milano, Sedizioni, 2011; Felice Fabrizio, Corpi per la patria. Le attività motorie nel lungo Risorgimento 1784 – 1915, Milano, Sedizioni, 2013. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 51 LO SPORT NEI TOTALITARISMI E LA SHOAH SPORT E DITTATURE IN ITALIA E IN EUROPA PROF. SERGIO GIUNTINI “Nel quadro delle profonde evoluzioni della società europea fra le due guerre mondiali, lo sport assolse un ruolo politico e sociale di rilievo soprattutto all’interno dei regimi totalitari: questi ne sfruttarono le potenzialità non soltanto come mezzo di propaganda sul piano internazionale, ma anche come strumento di controllo sociale. Esemplare l’esperienza del fascismo italiano, che mirò a legare a sé gli strati popolari – oltreché attraverso la coercizione – attraverso una loro progressiva familiarizzazione a valori e simboli di una comune coscienza nazionale. Il regime mussoliniano costituì il primo esempio di utilizzazione dell’organizzazione sportiva come strumento di propaganda. Il modello italiano avrebbe trovato imitatori non solo nel Terzo Reich hitleriano, ma in gran parte dei regimi totalitari europei: dall’Ungheria di Horthy alla Francia di Vichy, dalla Spagna di Franco al Portogallo di Salazar […]. Quanto le imprese divenissero funzionali alla propaganda del regime fascista è testimoniato dalla popolarità che, a partire dagli anni venti, venne ad assumere il fenomeno sportivo nella società italiana. Se alle origini, e ancora nei primi anni del Novecento, lo sport era fatto elitario, proprio negli anni del regime fascista esso si avviò ad assumere caratteristiche di massa. La crescita degli sport nell’Italia degli anni trenta fu accompagnata dalla nascita di uno dei miti più rappresentativi del fenomeno sportivo: quello del divismo”. Così Stefano Pivato, redattore della voce “Sport” (altrettanto utili sono le pagine che a questo tema dedica anche il Dizionario dei fascismi di Pierre Milza, Serge Berstein, Nicola Tranfaglia, Brunello Mantelli, edito da Bompiani nel 2002; in particolare vedi le pp. 606-609) nel recente Dizionario del fascismo (2003) curato da Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto per i tipi della Einaudi di Torino. Pur nella loro sinteticità, le righe di Pivato indicano nell’avvento del totalitarismo fascista un punto di svolta, uno spartiacque decisivo per le sorti dello sport in Italia. Sia qualitativo, sul versante delle prestazioni, con l’eccezionale secondo posto dietro i padroni di casa nel medagliere delle Olimpiadi di Los Angeles del 1932 e le due affermazioni nella Rimet di calcio del 1934 e 1938; sia quantitativo, per l’incremento registrato nel numero di praticanti inquadrati nelle federazioni del CONI, nell’Opera Nazionale Balilla (ONB), nell’Opera Nazionale Dopolavoro (OND), nei Gruppi Universitari Fascisti (GUF), e nelle dotazioni di strutture impiantistiche per lo sport. Il fascismo, pur in presenza di innegabili gravi contraddizioni e del suo carattere di regime violentemente repressivo e autoritario, introdusse quindi una notevole, innegabile, discontinuità rispetto ai limiti partecipativi e organizzativi dello sport nell’Italia liberale. Ciò, tramite una serie di tappe forzate, attuate tra il 1925 e il 1928 sotto l’attenta regia del massimo ideologo dello sport Lando Ferretti, che per brevità ricapitoliamo in questa cronologia: - 1° maggio 1925: istituzione OND; - 3 aprile 1926: creazione ONB; - 1926: emanazione della Carta di Viareggio, con cui si riordinava organicamente tutto il sistema calcistico nazionale; Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 52 - 1927: il CONI veniva definitivamente asservito all’autorità politica, passando alle dirette dipendenze del Partito Nazionale Fascista (PNF); - 1928: attivazione dell’Accademia di Educazione Fisica maschile della Farnesina a Roma; - 30 dicembre 1928: promulgazione della Carta dello Sport, con la quale si delimitavano i campi d’azione sportiva rispettivamente del CONI, dell’ONB, dell’OND, dei GUF, della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale (MVSN). Con queste riforme, poteva ritenersi sostanzialmente ultimata l’opera di completa “fascistizzazione” dello sport italiano. Un’architettura oltremodo articolata, ma a suo modo efficiente, sulla quale si modulerà l’esperienza sportiva nazionalsocialista. Sotto questo aspetto, come notato anche da Pivato, lo sport nella Germania nazista ricalcò esattamente quello italiano. Più segnatamente, si suddivise in tre precipue branche non dissimili dall’organizzazione sportiva fascista: 1) Lo sport agonistico di vertice sottoposto al concetto direttivo del Fuhrerprinzip e al rigido controllo del Reichsportfuhrer: nella fattispecie di Hans Von Tschammer und Osten, una sorta di Lando Ferretti tedesco; qualcosa cioè, di facilmente riconducibile al CONI italico, che durante il Ventennio vide avvicendarsi alla sua presidenza segretari o vice-segretari del PNF; 2) Lo sport giovanile affidato alla Hitlerjugend, che all’incirca riproponeva i meccanismi della formazione educativa totalitaria proposti dall’ONB. 3) Lo sport non competitivo per le masse lavoratrici, gestito dal movimento Kraft-durch-Freude (La Forza con la Gioia) che si esemplava chiaramente sull’OND mussoliniana. Questo riflettersi oggettivo dello sport nazista nel modello dello sport fascista italiano, andrebbe naturalmente maggiormente studiato e approfondito. Esso pare davvero costituire, infatti, uno degli elementi più interessanti mediante cui comparare i due principali totalitarismi di destra nell’Europa del Novecento. Stante ciò, a proposito soprattutto del fenomeno sportivo nazionalsocialista, preme qui sottolineare un aspetto peculiare fino ad oggi, forse, non adeguatamente valorizzato dalla storiografia. Ovvero l’impatto che le Olimpiadi berlinesi del 1936 – la più macroscopica autocelebrazione dello sport nazista e dell’ideologia razzista e antisemita perseguite dall’hitlerismo – ebbero sulle opinioni pubbliche e i governi democratici del mondo libero occidentale. Al riguardo si è sempre sostenuto che vi fu una pressoché assoluta assenza di opposizione a quei Giochi Olimpici, rilasciando così una folle patente di legittimità all’hitlerismo. Tutto questo è in buona parte vero, ma sembra anche giusto rivalutare appieno i diversi, più robusti tentativi di boicottaggio e contestazione, che tali Olimpiadi in realtà suscitarono. Si pensi all’Olanda e in particolare agli Stati Uniti d’America, che vissero una lacerante spaccatura interna tra A.A.U. (Athletic Amateur Union) e parti del Comitato Olimpico Americano presieduto da Avery Brundage, il futuro presidente del C.I.O. Contrario alla partecipazione della squadra nord-americana era il massimo dirigente dell’AAU Jeremiah Mahoney. Altrettanto sfavorevole il membro statunitense del CIO, generale Charles H. Sherril, che, il 24 agosto 1935, ottenuto un colloquio di un’ora con Hitler, cercò vanamente di convincere il Fuhrer ad inserire nella nazionale olimpica germanica – quale atto di buona volontà – almeno un atleta ebreo-tedesco. Viceversa, perché gli Stati Uniti si presentassero regolarmente ai Giochi di Berlino si dichiarò sempre Brundage, il quale giunse a sostenere che dietro un’eventuale boicottaggio si celavano facoltose lobbies ebraiche e comuniste. E perciò, fino all’ultima votazione, con un dibattito rimasto accesissimo in seno al Congresso dell’AAU del 6-8 dicembre 1935, la decisione se aderire o meno rimase incerta e contestatissima. Parimenti difficile fu la scelta cui si trovò di fronte la Francia. Appena insediatosi Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 53 il nuovo governo di Fronte Popolare, quest’ultimo, in una turbinosa seduta parlamentare del 9 luglio 1936, finanziò la spedizione transalpina a Berlino, e, nel medesimo tempo però, offrendo un saggio di assai poco edificante realpolitik, stanziò 600.000 franchi a vantaggio di coloro che si fossero recati a disputare l’Olimpiada Popular di Barcellona. Tale Olimpiada, che avrebbe dovuto tenersi nella capitale catalana dal 19 al 26 luglio 1936, si proponeva esplicitamente quale contro-Olimpiade; avrebbe dovuto rappresentare simbolicamente, confluendovi gli atleti convintamente antifascisti di molte nazioni, la risposta del mondo civile ai giochi hitleriani – una saga del tradimento dei più elementari diritti umani – dell’agosto successivo. Ad abortirne sul nascere lo svolgimento, fu l’Alzamiento franchista del 18 luglio 1936; la ribellione armata dei militari contro la Repubblica, che trascinò la Spagna in una lunga, brutale guerra civile protrattasi sino al 1939. Quell’incompiuta Olimpiada Popular resterà comunque tra le pagine migliori, più belle, della storia della coscienza civile e democratica tra le due guerre. Un altro capitolo, quasi sconosciuto, su cui gli storici dovranno concentrare maggiormente i propri studi, affinchè non ne vada colpevolmente persa la memoria, il denso significato ideale e morale. Bibliografia: A.Bacci Lo sport nella propaganda fascista, Torino, Bradipolibri, 2002. H.Bernett Der weg des sports in die nationalsozialistische diktatura, Schorndorf, Hofmann, 1983. R.Bianda, G.Leone, G.Rossi, A.Urso Atleti in camicia nera. Lo sport nell’Italia di Mussolini, Roma, Giovanni Volpe Editore, 1983. D.Bolz, Nazismo, olimpismo e antichità. I tre volti culturali delle Olimpiadi del 1936, in Lancillotto e Nausica, n.3, 2003, pp. 28-35. F.Fabrizio Sport e Fascismo. La politica sportiva del regime 1924-1936, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1976. F.Fabrizio Storia dello Sport in Italia. Dalle società ginnastiche all’associazionismo di massa, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1977. G.Freise Anspruch und wirklichkeit des sports in nationalsozialismus, Ahrensburg, Czwalina, 1974. S.Giuntini Sport e fascismo: il caso dell’atletica leggera, Palermo, il CorriSicicilia Quaderni, 2003. M.Grimaldi La Nazionale del Duce, Roma. Società Stampa Sportiva, 2003. J.M.Hobermann Politica e sport. 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Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 54 LO SPORT FASCISTA PROF. FELICE FABRIZIO Per addentrarci in una realtà complessa come quella rappresentata dallo sport fascista dovremmo star qui a parlare fino a domani. E forse non basterebbe. Ho scelto perciò di concentrare la relazione su un aspetto particolare che mi auguro possa suscitare il vostro interesse, le funzioni affidate dal regime all’educazione fisica scolastica ed extrascolastica ed il ruolo svolto dagli insegnanti e dagli istruttori. Proverò a sintetizzare le tappe di attuazione, ad evidenziare ciò che questa componente strategica è in grado di dire sul sistema complessivo, a tracciare un bilancio dell’esperienza. LE TAPPE Nel campo scolastico l’Italia liberale lascia in eredità al fascismo una situazione ben poco esaltante. Il 27% della popolazione è ancora analfabeta. Il 49% degli edifici è inadeguato. Le aule mancanti sono più di 32.000. Ancora più disastrosa si rivela la situazione dell’educazione fisica. Gli insegnanti usciti dagli istituti di magistero di Torino, Roma e Napoli sono meno di 500, sottopagati e frustrati. Nella scala gerarchica e retributiva occupano saldamente l’ultimo gradino. Le loro valutazioni non influiscono sul giudizio finale e sono ammessi al collegio dei docenti solo su invito del preside. Hanno acquisito solo dal 1909 il diritto alla pensione e agli scatti di anzianità. Guadagnano meno dei paria della categoria, gli insegnanti di calligrafia. Tengono lezione negli orari rifiutati dai colleghi in ambienti fatiscenti e privi di attrezzature (più della metà delle scuole secondarie risulta sprovvista di palestra), sulla base di programmi e di metodi antiquati in cui si riflettono i contrasti tra le correnti conservatrici e le istanze di rinnovamento. Fuori dalle pareti scolastiche solo le associazioni cattoliche e i reparti di scout si dedicano in modo attivo e continuativo all’educazione fisica dei giovani. Il fascismo, impegnato prima a costruirsi come movimento, poi alla conquista del potere, si trova anche qui di fronte alla scelta tra la conservazione dell’esistente, la sua parziale modificazione, l’adozione di provvedimenti che sanciscano la rottura col passato. A prevalere è inizialmente quest’ultima soluzione. Nel quadro della riforma scolastica varata da Giovanni Gentile nel marzo del 1923 viene creato presso l’istituto polisportivo di Milano, situato alla Città degli Studi, l’Ente Nazionale per l’Educazione Fisica (ENEF), alle dipendenze del Ministero della Pubblica Istruzione. Il decreto istitutivo prevede che gli alunni delle scuole secondarie svolgano le lezioni di educazione fisica sotto la guida degli istruttori delle società ginnastiche e sportive designate dall’ente negli impianti da esse messi a disposizione. Alle attività inserite nell’orario scolastico in due pomeriggi o in una mattina e in un pomeriggio si aggiungono otto giorni all’anno destinati alle attività sportive e alle passeggiate ginnastiche. Sull’ENEF si scatena un fuoco incrociato. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 55 I pedagogisti rimproverano a Gentile la contraddizione tra l’allontanamento della ginnastica dalle scuole e una concezione al cui interno il soggetto è concepito come unità indivisibile di spirito e di corpo, destinataria di un processo educativo globale da attivare in un unico spazio, quello scolastico. Gli insegnanti di ginnastica scendono sul sentiero di guerra. I tre istituti magistrali vengono chiusi, il ruolo statale è cancellato, i docenti con più di venti anni di anzianità sono collocati a riposo o trasferiti ad altri uffici, col risultato di falcidiare i 4/5 degli organici. Protestano le famiglie, che per ottenere l’iscrizione dei figli all’ENEF, obbligatoria e certificata da uno speciale libretto trasmesso ai capi di istituto all’atto dello scrutinio, devono versare la non modica somma di trenta lire annue, con le quali l’ente provvede a corrispondere lo stipendio agli istruttori. Le associazioni, dopo il tripudio iniziale, devono fare i conti, oltre che con la carenza di quadri tecnici e di strutture, con una situazione di lavoro che comporta la gestione da parte di ogni istruttore di allievi raggruppati per gruppi di età in squadre di 140 elementi. La retromarcia è immediata. L’inattuabilità degli indirizzi tecnici e operativi, sottoposti a continue variazioni, comporta il ritorno alle palestre scolastiche e all’utilizzo del personale docente. La breve parabola dell’ENEF, che nel frattempo si è trasferito a Roma ed ha istituito a Bologna una scuola superiore di educazione fisica, si esaurisce nel 1927. Nel frattempo gli scenari politici sono in rapida evoluzione. Assestatosi al potere, il fascismo procede a marce forzate alla costruzione dello stato totalitario. Ogni forma di opposizione viene smantellata e tra il 1927 e il 1928 sono sciolte la federazione sportiva cattolica e le associazioni scoutistiche di matrice laica e religiosa. Parallelamente prende corpo un complesso di iniziative che mirano a porre sotto il controllo del partito – stato ogni aspetto della vita civile tramite la promozione di organismi che inquadrano tutta la popolazione a seconda delle fasce di età e dei diversi bisogni sociali e culturali. In questa prospettiva riveste un’importanza fondamentale il controllo delle giovani generazioni, non inquinate dalle esperienze maturate nell’Italia liberale, materiale incorrotto facilmente malleabile grazie ad un attento noviziato spirituale. Per un regime che si autorappresenta come rivolta dei giovani contro i dinosauri della politica, che ha per capo il “princeps juventutis”e per inno “Giovinezza”, l’inserimento dei cittadini di domani nella vita nazionale è condizione irrinunciabile a garantire la sopravvivenza del fascismo ed il conseguimento dei suoi obiettivi, individuati nella creazione dell’”italiano nuovo” e delle legioni degli otto milioni di baionette. Altrettanto irrinunciabili appaiono inoltre la selezione e l’uso di operatori culturali e di quadri tecnici di piena affidabilità, all’altezza della missione di orientare verso le nuove tavole dei valori le menti e i corpi. Già, i corpi. Nella formazione del fascista integrale l’esercizio fisico acquista una centralità assoluta. Nel 1926 sorge l’Opera Nazionale Balilla (ONB), che aggrega i ragazzi dagli otto ai quattordici anni. Ad essa dal 1927 compete l’insegnamento dell’educazione Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 56 fisica nelle scuole secondarie, compito che nel 1928 viene esteso alle elementari. Gli orientamenti programmatici sono contenuti in dodici manualetti elaborati dalla presidenza e distribuiti in migliaia di esemplari. Nel 1928 sorge a Roma l’Istituto Superiore Fascista di Magistero per l’educazione ginnico – sportiva, divenuto in seguito Accademia, finalizzato a rafforzare le file degli insegnanti, sino al allora scelti tra gli ex – combattenti e i fascisti di provata fede. Al 1929 risalgono il passaggio dell’ONB alle dipendenze del Ministero dell’Educazione Nazionale, che sostituisce quello della pubblica istruzione, l’apertura all’interno del ministero di un sottosegretariato per l’educazione fisica giovanile, l’assorbimento nell’ONB delle Piccole e delle Giovani Italiane fondate nel 1925 dai Fasci Femminili. Nel 1930 alle organizzazioni già esistenti si aggiungono i Fasci Giovanili di Combattimento, aperti ai giovani dai 18 ai 21 anni e posti sotto il diretto controllo del Partito Nazionale Fascista. Con il 1932 entra in funzione l’Accademia Femminile Fascista di Orvieto. Nel 1934 viene emanata la legge sull’istruzione premilitare, che ha inizio appena il fanciullo è in grado di apprendere. A conferma dello spostamento verso il basso dei confini della giovinezza sempre nel 1934 interviene l’istituzione dei Figli e delle Figlie della Lupa, che hanno per destinatari i bambini dai sei agli otto anni. E dal 1935, ad ogni lieto evento, i genitori ricevono dall’ONB un bilietto di felicitazioni contenente l’invito ad iscrivere il neonato alla grande schiera dei ragazzi di Mussolini. Il 1937 è la data di costituzione della Gioventù Italiana del Littorio (GIL) che, alle dirette dipendenze di Achille Starace, che è anche segretario del Partito e presidente del CONI, inquadra la popolazione giovanile dai sei ai 21 anni, età prescritta per l’ingresso nel partito. Dal 1937 la GIL ottiene il monopolio dell’istruzione premilitare, dal 1939 il controllo delle accademie di Roma e di Orvieto, dal 1941 la gestione di tutti gli insegnanti di educazione fisica. Vorrei soffermarmi a questo punto sui due pilastri che il regime pone alla base del suo disegno politico, pedagogico e culturale: le organizzazioni giovanili e la scuola. I PILASTRI L’ONB e la GIL sono macchine organizzative molto complesse. La struttura è piramidale e prevede una presidenza nazionale, comitati provinciali e comitati comunali. I finanziamenti provengono da diverse fonti, a cominciare dalle quote annuali di tesseramento, passate nel tempo da due a cinque lire, e dai contributi statali, inizialmente piuttosto parchi, poi sempre più consistenti. Gli iscritti sono suddivisi per età. Figli e Figlie della Lupa (6 – 8 anni). Balilla (8 – 10 anni), Balilla Moschettieri (11 – 12 anni), Piccole Italiane (8 – 14 anni). Avanguardisti (13 – 14 anni), Avanguardisti Moschettieri (15 – 17 anni), Giovani Italiane (15 – 17 anni). Giovani Fascisti e Giovani Fasciste (18 – 21 anni). Nella solenne cerimonia annuale della Leva Fascista si celebra il rito di passaggio alle categorie superiori, che segna una crescita di status, di responsabilità e di competenze. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 57 Lo imparerà sulla sua pelle il protagonista de “Il primo furto non si scorda mai” di Jannacci, che scambia per tacchino un’aquila reale perché, essendo ancora avanguardista, non conosceva i tacchini. Chi conosceva i tacchini era giovane fascista. L’ordinamento, ispirato al modello militare dell’antica Roma, prevede squadre, manipoli, centurie, coorti, legioni e una complessa struttura gerarchica (caposquadra, capo manipolo, capo centuria, cadetto, primo cadetto). I graduati, 120.000 nel 1936, sono forgiati da corsi di formazione. Le divise, obbligatorie durante le ore di ginnastica, i saggi, le competizioni, sono ricalcate per i ragazzi su quelle della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Le attività, che si sforzano di conciliare pensiero e azione, cultura ed esercizio fisico, libro e moschetto, prevedono il dispiegamento di simboli e di liturgie intese a creare un clima di mobilitazione permanente. Il tesseramento rimane facoltativo sino al 1939. Ma la mancata affiliazione comporta rischi di isolamento e discriminazione e, oltre ad incidere sul voto di ginnastica e sulla erogazione delle borse di studio, ipoteca la carriera nel settore pubblico e la destinazione ai reparti militari. Le cifre degli iscritti sono impressionanti: 5.499.267 nel 1936, 7.869.305 nel 1940. Ma le organizzazioni giovanili sono ancora lontane dall’adempiere per intero il compito per cui sono state concepite, il controllo del tempo libero extrascolastico: le estati, punteggiate di colonie, campeggi, crociere; i pomeriggi, primo tra tutti quello prefestivo, dal 1935 occupato dalle iniziative previste dal sabato fascista; i giorni festivi consacrati alle competizioni sportive così da indurre il ministero a vietare agli insegnanti di prevedere interrogazioni al lunedì. Sul terreno specifico dell’educazione fisica, presso ogni comitato provinciale e comunale è istituito un ufficio ginnico – sportivo incaricato di organizzare e dirigere l’insegnamento presso gli impianti messi a disposizione dalle scuole e dagli enti locali. Sono gli uffici a provvedere alla nomina degli insegnanti e degli istruttori, saliti dai 1.034 del 1926 ai 14.038 del 1936. La precedenza nelle graduatorie è data ai diplomati delle accademie di Roma e di Orvieto e dell’Accademia Littoria creata nel 1936 e al personale uscito dai collegi della GIL e dai ranghi delle organizzazioni giovanili sulla base di corsi inseriti nei campi estivi. Le accademie, strutturate su due anni obbligatori più un anno di specializzazione, dal 1939 diventati tre anni con relativa acquisizione del grado di facoltà universitaria, prevedono l’internato obbligatorio e il versamento di una onerosa retta annua ammontante a 5.000 lire. La selezione in ingresso è rigidissima. Le autorità di polizia sono incaricate di svolgere indagini sulle famiglie dei candidati, cui si richiede l’iscrizione al PNF comprovata dal segretario del fascio. Dal 1938 diventa obbligatoria l’appartenenza alla razza ariana, a conferma di una deriva generale ribadita dalla nomina a rettore del professor Nicola Pende, tra gli estensori del Manifesto degli scienziati razzisti. Il piano di studi prevede una formazione pedagogica e didattica, esercitazioni pratiche, una intensissima attività ginnico – sportiva che ha per cornice impianti moderni e funzionali, corsi di legislazione e di cultura fascista. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 58 Agli accademisti è affidato inoltre l’incarico di tenere corsi di taglio politico e pedagogico per gli insegnanti delle scuole elementari. Il diploma dà diritto all’immissione in ruolo presso le scuole e all’impiego in qualità di direttori degli uffici ginnico – sportivi e di istruttori nelle organizzazioni giovanili. Nell’accademia di Orvieto il personale, a cominciare dalla comandante, è interamente femminile. L’accademia è il mistico ghetto in cui si costruisce l’aristocrazia del comando, il laboratorio di sperimentazione dei modelli educativi da proporre alle giovani generazioni, dei prototipi dell’italiano nuovo animati da una fede incrollabile nelle grandi idee dell’Uomo che quotidianamente la ravviva con il suo genio romano. In essa si plasmano ruoli e immagini che valorizzano l’autodisciplina, l’ordine simbolico e gestuale, l’abnegazione, il fisico scultoreo dell’uomo, la grazia coniugata alla salute nella donna. L’attività scolastica ed extrascolastica fa capo a tre grandi aree. L’insegnamento si concentra in due ore settimanali, alle quali si aggiunge una mezza giornata riservata alle esercitazioni all’aperto. Nei programmi ispirati alle teorie di Giuseppe Monti e ancor più di Eugenio Ferrauto è evidente la rigida separazione tra ragazzi e ragazze in cui si rispecchia la concezione fascista delle identità sessuali. A partire dalla terza elementare all’educazione fisica maschile è attribuito il compito precipuo di sviluppare lo spirito militare e di abilitare i giovani alla difesa nazionale. A trionfare sono gli allineamenti e gli esercizi ordinativi, sui quali nelle medie si innestano gli esercizi collettivi a corpo libero e agli attrezzi, i giochi che temprano romanamente le anime e i corpi, le esercitazioni con fucili di legno o con moschetti modello 91 in miniatura. La palestra che abitua all’obbedienza, alla destrezza, alla forza, alla resistenza, è l’anticamera naturale della caserma. La fisicità, il volto abbronzato, il portamento marziale sono altrettanti sinonimi di virilità. I programmi femminili si concentrano su giochi, allineamenti, esercizi di grazia, ginnastica medica, ritmica e collettiva. L’obiettivo prioritario è al servizio di una volontà di potenza che postula il massimo incremento demografico. Totalmente subordinata all’uomo, cui solo spetta l’azione, la donna è chiamata a rafforzare il suo corpo così da poter offrire con fierezza alla patria figli sani e robusti, in ossequio al principio secondo cui la maternità sta alla donna come la guerra ll’uomo. Il secondo filone si collega ai saggi ginnici, cari a tutti i regimi totalitari, immortalati in innumerevoli cinegiornali LUCE, posti a conclusione dell’anno scolastico e in corrispondenza con la celebrazione delle ricorrenze più significative del calendario fascista. L’attività di massa esalta le manifestazioni espressive coreografiche al cui interno il corpo acquista un valore collettivo, simboleggia ordine e coesione, mette in scena uno spettacolo in grado di commuovere, esaltare, accomunare attori e pubblico. L’apoteosi della robotizzazione è raggiunta in occasione della festa ginnico – nazionale del 1938, quando gli ordini impartiti al Foro Mussolini da Starace sono trasmessi via radio ed eseguiti simultaneamente in tutte le province e le colonie. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 59 Gli aspetti più innovativi vanno ricercati nella promozione di una attività sportiva di massa che prevede leve atletiche, convegni e campionati provinciali e nazionali, i Ludi Juveniles, le prove eliminatorie e la fase finale del Concorso Dux a squadre per avanguardisti, che nel 1931 raggruppa a Roma 22.000 giovani alloggiati in 6.000 tende. La Carta dello Sport emanata alla fine del 1928 per definire gli ambiti di competenza delle diverse organizzazioni del regime prevede che nessun giovane non affiliato all’ONB possa iscriversi a società sportive facenti capo al CONI, che dal canto suo provvede ad autorizzare ogni manifestazione sportiva giovanile. Tra il mondo dello sport agonistico e le organizzazioni giovanili resteranno vive tuttavia una serie di malintesi e di tensioni. Si consideri, ad esempio, che le piscine costruite dall’ONB, per evitare di essere adibite ad eventi sportivi, hanno una lunghezza di 24 metri, uno in meno rispetto alla misura regolamentare. LA PARTE E IL TUTTO Quanto detto finora mette in evidenza due importanti caratteri specifici dello sport fascista. Il primo è l’assenza di un’idea precostituita, la mancanza di un progetto organico e coerente. In questo come in altri campi il fascismo, più che come sistema filosofico, si costituisce come prassi. Quello che può sembrare un deficit di egemonia culturale che costringe a una navigazione a vista fatta di continui ritocchi finisce tuttavia per diventare una carta vincente. La coesistenza di uomini e di riferimenti molto diversi per provenienza e tendenza si traduce infatti in una dattabilità alle modificazioni dei contesti e delle esigenze che privilegia a rotazione gli aspetti legati al momento storico e alle esigenze contingenti. Il fascismo incorpora tanto le suggestioni provenienti dagli ambienti futuristi quanto le posizioni espresse in epoca liberale da settori conservatori e nazionalisti che nell’esercizio fisico vedono uno strumento di educazione patriottica e di addestramento militare. Conserva l’edificio preesistente, facendo sorgere attorno ad esso nuove costruzioni incaricate di integrare le masse in uno stato identificato come nazione. Comprende e promuove il valore dell’educazione fisica soddisfando aspirazioni e desideri e cavalcando il malcontento e le frustrazioni di dirigenti, praticanti, giornalisti, insegnanti. Il secondo carattere è il frutto delle peculiarità del fascismo italiano che hanno indotto gli storici a coniare la categoria del “totalitarismo imperfetto” in contrapposizione alla monoliticità del nazismo e dello stalinismo. Basti pensare alla presenza ingombrante del movimento cattolico, che proseguirà le esperienze di attività motoria all’interno degli oratori e dei circoli giovanili e che non esiterà a far sentire la sua voce fortemente critica su molti aspetti del modello sportivo fascista. Basti pensare alla difficile convivenza di centri di potere in varia misura interessati alle attività fisico – sportive, il partito, il ministero dell’educazione nazionale, le organizzazioni giovanili, la milizia, il CONI. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 60 Basti pensare ai feroci contrasti che oppongono i più autorevoli esponenti del regime a proposito dei livelli, delle modalità, delle finalità delle pratiche, alla dicotomia mai pienamente risolta tra lo sport per tutti e lo sport – spettacolo degli stadi monumentali, dei campioni, delle vittorie assunte a testimonianza dell’impetuosa ascesa della nuova Italia. Nel campo dell’educazione dei giovani, solo per fare un esempio, l’auspicata integrazione tra la scuola e le organizzazioni di massa non risulterà mai agli occhi del regime pienamente soddisfacente. Il punto debole è senza ombra di dubbio la scuola, oggetto di una incessante azione di allineamento e di bonifica, rivelatrice dell’esistenza sotto la crosta della fascistizzazione di isole di resistenza al conformismi meno rare via via che si procede dagli ordini inferiori a quelli superiori. Ne scaturisce la delineazione di due monti contigui, quello dell’istruzione dell’allievo e della classe e quello dell’indottrinamento del balilla e del reparto, che determinano esiti controproducenti o addirittura schizofrenici. UN BILANCIO Mi avvio alla conclusione. Nel 1983 Giorgio Bocca ha sostenuto che lo sport “fascista” altro non è stato che uno sport di massa nato per combinazione assieme al fascismo, una conquista che qualunque forma di governo sarebbe stata in grado di realizzare, uno sviluppo naturale che fu solo rivestito della camicia nera. E’ un’opinione che sul piano storico non mi sento di condividere. E’ il fascismo ad innalzare le attività fisico – sportive a problema di stato inserito nel discorso nazionale, a trasformarle in fenomeno di massa. E’ il fascismo che le accentra, le razionalizza, le potenzia, le finanzia. E’ il fascismo ad estendere, capillarizzare, migliorare qualitativamente le pratiche. E’ il fascismo ad inventare un meccanismo di interscambio tra il serbatoio dei praticanti di base e le esigenze dello sport di élite la cui efficacia è impossibile da valutare a causa della cesura introdotta dalla guerra. E’ il fascismo che intraprende la costruzione degli impianti di base: nel 1937 i campi sportivi sono 2.568, 890 le case del balilla, trasformate in seguito in caserme GIL, 1.470 le palestre, 22 le piscine. E’ il fascismo che conferisce all’educazione fisica e al suo insegnamento una centralità senza riscontri precedenti e successivi. Ve lo immaginate un diplomato dell’ISEF o un laureato di scienze motorie che va in televisione a prendere il posto di tronisti e di veline come ideale estetico o che sostituisce gli opinionisti come prototipo educativo? E’ il fascismo che estende misure di igiene e profilassi, esperienze di mobilità e socializzazione, appuntamenti agonistici a ceti sociali e a contesti geografici sino ad allora esclusi. Si pensi che nel 1937 i partecipanti alle attività ginnico – sportive programmate dalla GIL sono 3.719.000. Per la generazione del Littorio l’essere fascista coincide con l’essere coinvolti nelle iniziative delle organizzazioni giovanili, la cui forza di penetrazione supera i confini dell’esteriorità. Nessuna meraviglia dunque se anche dopo la caduta del fascismo nella memoria individuale e collettiva l’appartenenza ad una comunità affettiva e la partecipazione ad un preciso tempo sociale abbiano colorato di nostalgia il Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 61 tempo della giovinezza, relegando in secondo piano le illusioni perdute. Celebre rimane al proposito la polemica scatenatasi nel 1991 in seguito ad un’intervista in cui Alberto Sordi dichiarava di essere stato molto felice sotto il fascismo. Questo non può tuttavia far passare sotto silenzio come anche nel settore delle attività fisiche il fascismo abbia riprodotto senza risolverli problemi storici di antica data. Cito alla rinfusa la macchinosità burocratica, gli aspetti clientelari, le sacche di corruzione collegate alla costruzione degli impianti (il Foro Mussolini prosciuga le casse dell’ONB) e alle forniture delle divise, una sensazione generale di volonterosa improvvisazione che contrasta con la impeccabile e cupa grandiosità dei cerimoniali nazisti. E non può soprattutto far dimenticare che, come tutti i patti col diavolo, anche questo esige un prezzo assai elevato da pagare. L’asservimento a finalità in larga misura strumentali. La mobilitazione in forme aggressive contro il nemico interno ed esterno sostenuta da una ideologia imperialista e razzista. L’accentuazione dello spirito gregario e caporalesco che annulla la libertà di scelta e lo sviluppo autonomo delle capacità individuali. Il dilagare del giovanilismo che trasforma gli italiani in un popolo bambino che crede alle favole di un capo unico depositario della verità. L’alterazione del ruolo degli educatori, ridotti a zelanti servitori del regime. Nel 1940 agli insegnanti di ginnastica sono riconosciuti la parità con i colleghi delle altre discipline ed il diritto a partecipare a consigli, collegi, scrutini ed esami. In cambio si esige che essi diano la massima risonanza alle iniziative delle organizzazioni giovanili, precedute da minuziose circolari ministeriali e attentamente monitorate dai dirigenti scolastici. Che si spendano nelle campagne di tesseramento degli allievi all’ONB e nella partecipazione alle sue attività, adempimento divenuto obbligatorio nel 1930, dal 1939 preso in considerazione nelle note informative personali e nelle qualifiche annuali, titolo indispensabile per gli avanzamenti di carriera. I disastri bellici, i bombardamenti, l’occupazione tedesca, la guerra civile provvederanno a dissolvere i battaglioni del duce in un pulviscolo di vicende individuali. C’è che, dopo aver creduto e obbedito, sceglie di combattere, andando a cercare la bella morte sui monti della Grecia, nel deserto libico, tra le file delle Brigate Nere. Ma quando, nel giugno del 1943, nell’imminenza dello sbarco alleato in Sicilia, l’esercito chiede alla GIL di fornire elementi da adibire ai servizi ausiliari, a Milano si presentano 50 giovani, 32 a Roma, nessuno in metà delle altre province. E il 25 luglio i moschettieri del duce, che avevano giurato di difendere col sangue il capo del fascismo, non muovono un dito per scongiurarne l’arresto. Povera gioventù granitica! Nell’agosto del 1942 un rapporto di polizia segnale a Mussolini che al lido di Ostia sette ragazzini in divisa da Balilla, laceri e sporchi, sono stati visti chiedere l’elemosina ai bagnanti. Poveri artefici dell’italiano nuovo! La sera del 25 luglio la radio annuncia il crollo del regime. L’accademista orvietina Piera Menarini si rende conto con stupore di essere l’unica a piangere Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 62 in mezzo a un popolo in festa. E si chiede se a non avere capito nulla sia stata proprio lei. E ci lascia come traccia per i compiti a casa questa riflessione: qualunque genere di coscrizione, anche se al momento piace, è sempre e comunque sbagliata. BIBLIOGRAFIA La summa dell’ideologia fascista è contenuta in: Lando Ferretti, Il libro dello sport, Roma – Milano, Libreria del Littorio, 1928. Ferretti recupera in chiave celebrativa le realizzazioni del regime in campo sportivo in: Lo sport, Roma, L’Arnia, 1949. Una rivisitazione nostalgica è contenuta in: Renato Biandi, Giuseppe Leone, Gianni Rossi, Adolfo Russo, Atleti in camicia nera. Lo sport nell’Italia di Mussolini, Roma, Volpe, 1983. Sulla figura di Lando Ferretti si veda: Andrea Bacci, Lo sport nella propaganda fascista, Torino, Bradipolibri, 2002. Sulla politica sportiva del regime: Felice Fabrizio, Sport e fascismo. La politica sportiva del regime 1924 – 1936, Rimini – Firenze, Guaraldi, 1976; Simon Martin, Calcio e fascismo. Lo sport nazionale sotto Mussolini, Milano, Mondadori, 2004; Maria Canella, Sergio Giuntini (a cura di), Sport e fascismo, Milano, Franco Angeli, 2009. Sulla formazione degli insegnanti: Lucia Motti, Marilena Rossi Caponeri, Accademiste a Orvieto. Donne ed educazione fisica nell’Italia fascista 1932 – 1943, Perugia, Quattroemme, 1996; Alessio Ponzio, La palestra del Littorio: l’Accademia della Farnesina. Un’esperienza di pedagogia totalitaria nell’Italia fascista, Milano, Franco Angeli, 2009. Per una introduzione alla storia sociale del fascismo ricca di spunti bibliografici: Patrizia Dogliani, Il fascismo degli italiani, Torino, UTET, 2008. Sulle organizzazioni giovanili: Carmen Betti, L’ONB e l’educazione fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1984; Tracy Koon, Believe Obey Fight. Political socialization of youth in fascist Italy 1922 – 1943, Chapell Hill – London, University of North Carolina Press, 1985; Antonio Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Torino, Einaudi, 2005. Sull’Opera Nazionale Dopolavoro: Victoria De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, Roma – Bari, Laterza, 1981. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 63 BERLINO 1936, L’OLIMPIADE DEL TERZO REICH DOTT. ENZO PENNONE Nella storia dei Giochi Olimpici moderni è abbastanza raro trovare un’edizione in cui il lungo percorso di avvicinamento al giorno dell’apertura sia stato scevro da difficoltà da contrordini da polemiche di ogni genere, sempre mare mosso ci fu per il nocchiero organizzatore, pensiamo già alla prima edizione quella del 1896 quando dapprima De Coubertin si affannò a convincere i delegati del primo Congresso Olimpico a mettere di lato Londra per sostenere Atene, e quando gli sembrava tutto risolto il primo ministro e Re Giorgio di Grecia gli dissero “non se ne parla proprio” era soprattutto questione di soldi che mancavano poi grazie al cielo spuntò un altro Giorgio, Averoff ricco mercante greco che viveva in Egitto aprì il rubinetto ed il mare si calmò, pensiamo all’edizione di Parigi di quattro anni dopo quando fu nuovamente Re Giorgio a mettere i bastoni tra le ruote, ma questa volta perché voleva averli lui i Giochi, come avrebbe voluto che tutte le edizioni da quella e per sempre si fossero tenute in Grecia, a quella del 1904 quando per i Giochi che sbarcavano nel nuovo mondo c’era in corsa Chicago sostenuta dal barone francese, ma contro di lui c’era Mr. Sullivan presidente dell’Amateur Athletic Union che i Giochi li voleva a Buffalo, e infine la contesa si accomodò quando il Presidente Theodore Roosevelt disse – facciamole a St.Louis queste Olimpiadi visto che la Luisiana fa ora parte degli Stati dell’Unione e che lì è già in programma la grande fiera internazionale, pensiamo a quella del 1908 che doveva essere di Roma ma poi fu di Londra perché Giolitti non ne volle sapere –ne abbiamo già tanti di problemi e seccature in casa nostra ci vogliamo pure mettere quelli delle Olimpiadi, e facendo un salto in avanti di quarant’anni pensiamo a quelle del ’48, i tedeschi e i giapponesi li lasciamo a casa perché hanno perduto la guerra, per l’Italia facciamo un’eccezione, i russi anche loro a casa perché il dittatore disse –noi ci andiamo solo se siamo certi di poterle vincere, la falce e il martello non possono certo stare lì ad applaudire i successi del mondo capitalista. E pensiamo a quelle a noi un po’ più vicine, a quelle del ’76 a Montreal quando tre mesi prima dell’inizio una dozzina di paesi africani comunicarono –noi sì vorremmo partecipare ma siamo messi male anzi per dirla tutta siamo proprio con le pezze in quel posto lì e quindi non ci saremo, e tre giorni dopo l’apertura l’Africa tutta invece se ne tornò a casa perché avete invitato i neozelandesi che ancora schiacciano l’occhio a quegli infami di sudafricani razzisti, e poi a quelle famose dei grandi boicottaggi dell’80 e dell’84, a Mosca e a Los Angeles –io americano a Mosca non ci vado perché Leonida Breznev mi deve prima rendere conto e ragione del perché ha invaso l’Afghanistan, e io sovietico a Los Angeles non ci vado perché Leonida Breznev ci ha detto che non saremmo adeguatamente protetti in terra nemica, sarà pure fredda la guerra che stiamo combattendo ma sempre guerra è. E nel ’96 la polemica è oramai globalizzata come l’economia e tante altre cose, e tutti in tutto il mondo dicono –ti pare normale che la Coca Cola valga di più dell’ideale olimpico, che Atlanta vale di più di Atene dove aspettavano di festeggiare il centenario, e nel 2008 da un continente all’altro andiamo a Pechino, ma in Cina c’è la pena di morte e ogni anno ne ammazzano non si sa bene quanti, ma l’abbiamo appena appena recuperata la Cina di Mao che prima non ne voleva sentire fin tanto che ci fossero circolanti i nazionalisti di Taipei, insomma è davvero arduo recuperare un’edizione olimpica che sia pervenuta al giorno dell’inaugurazione diciamo con il volto roseo sereno… che non abbia mai sentito dire da altre parti del mondo o anche da dietro l’angolo –ci andiamo o non ci andiamo, e se ci andiamo cosa diranno di noi e se non ci andiamo cosa Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 64 facciamo a casa nostra, ne prepariamo una alternativa di Olimpiade, forse una volta ci si poteva anche riuscire ma oggi figuriamoci, rassegniamoci allora ad attendere altri quattro anni e chissà se ci saremo e come saremo tra quattro anni. Ma quella di Berlino del 1936 fu, forse più di ogni altra, un’edizione contrastata e contestata. Cancelliere del Reich nel gennaio del ’33 Hitler fu preso da diversi problemi urgenti cui trovare una soluzione, e non solamente il problema ebraico che rappresentava il suo rompicapo già da un bel po’ di tempo, ad esempio c’era anche il come liquidare le camicie brune di Rohm che andavano rompendo sempre di più, per cui quando due mesi dopo il dottor Theodor Lewald membro tedesco nell’assise del Comitato Internazionale Olimpico gli ricordò che l’organizzazione dei Giochi del ’36 era stata assegnata alla Germania, quelli della neve a Garmisch e a Berlino quelli estivi, Hitler non fece proprio capriole o salti di gioia anzi storse un po’ il labbro, e ne aveva tutte le ragioni ne abbiamo già tante di rogne in casa … e poi pensiamo anche a certe consuetudini olimpiche, i ramoscelli le coroncine di lauro agli atleti le strette di mano o peggio gli abbracci tra il vincitore e lo sconfitto, ecco tutte queste cose non le leggevi (2) certamente nel manuale delle giovani marmotte hitleriane, si confidava con il camerata Goebbels con cui avrebbe condiviso tutte le vicende felici e tragiche del Reich fino alla chiusura del sipario, (3) caro Goebbels –ma che sono queste frasi idiote .. l’importante è partecipare, o questi cerchi colorati che mi hanno detto vogliono abbracciare tutte le razze del mondo come se davvero fossero tutte uguali le razze del mondo, i puri ariani come gli slavi o i semiti o gli etiopici, quelli sono “Untermenschen (subumani)” e soprattutto – mio caro ministro- chi ci assicura che le vinceremo tutte le gare, o se non tutte perlomeno una gran parte di esse, e se spunta fuori qualche negro che nessuno se lo aspetta o qualche ebreo –per i quali ultimi come sai stiamo cercando con Heydrich e Eichmann una soluzione al problema, (4) ma Goebbels, che era il ministro della propaganda del Reich, grande comunicatore, giorno dopo giorno, prima con metodo e pazienza, e poi con accanimento (5) e qualche spruzzata di allegria, e per finire come si conviene (6) una cena con gli intimi, convinto fino al midollo che l’organizzazione olimpica sarebbe stata un vero punto di forza, un grimaldello, una leva archimedea per l’espansione del nazismo nel mondo, ora e per altri mille anni ancora, gli disse –mein fuhrer ripensiamoci, ci ripensi, guardi che oltre che un esercito e una marina modernissimi e micidiali, (7) e un’aviazione del caro generale Hermann Goehring che è il terrore dei cieli d’Europa, (8) abbiamo pure plotoni di atleti, männer und frauen, (9) che i nostri allenatori mi garantiscono sono ai vertici mondiali, e poi, a parte tutto questo, (10) Berlinosarebbe affollata per un mese intero almeno da migliaia di atleti di tutto il mondo, (11) e da carovane di giornalisti di accompagnatori di interpreti, e il nome del Reich volerebbe da un continente all’altro, (12) della nostra Germania se ne parlerebbe ovunque, a Londra a Parigi a New York i giornali ci dedicherebbero pagine intere la nuova Germania ospita tutti gli atleti del mondo per i Giochi della XI Olimpiade dell’era moderna, (13) l’era della Germania uber alles, mi creda -mein fuhrer- l’Olimpiade a Berlino è una manna dal cielo. E il fuhrer alla fine si convinse. (14) Chiamò la sua amica e grande regista Leni Riefensthal che aveva già prodotto per lui tre imponenti documentari di propaganda del regime e le disse -voglio qualcosa di grandioso di mai visto qualcosa di fronte a cui tutto il mondo dovrà ammettere la Germania è davvero grande adesso con il nuovo cancelliere- e la regista, che faceva l’occhiolino al nazismo ma che soprattutto Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 65 pensava ai fatti suoi e alla sua carriera nel mondo della cinematografia mondiale, gli rispose – mein fuhrer sarà fatto -. I grattacapi per la Germania e i timori per gli altri paesi erano già incominciati sul finire del ’33, ma diciamolo francamente i nazisti se li andavano cercando gli impicci, (15) perché non appena al potere Hitler dichiarò ufficialmente il boicottaggio agli ebrei che vennero interdetti dai pubblici uffici, (16) e nel ’35 furono varate le leggi di Norimberga che ne limitarono ulteriormente i diritti civili (17). Il mondo era in fermento, in Europa le proteste contro i Giochi a Berlino erano diffuse un po’ ovunque, (18) ma furono soprattutto gli Stati Uniti il braciere dove più si scaldò il movimento a favore del boicottaggio olimpico. Lì infatti la potente Amateur Athletic Union aveva formalmente invitato atleti e tecnici (19) a disertare i Giochi qualora si fosse palesata una chiara discriminazione contro gli ebrei, e fu a questo punto che entrò in scena uno tra i grandi protagonisti dei Giochi di Berlino, (20) Avary Brundage, quello senza il cui intervento quasi certamente gli atleti e le atlete americani non avrebbero varcato l’oceano per approdare nella capitale del Reich. Sia chiaro, l’ho definito grande protagonista nel senso di decisivo determinante, pur nella sua assoluta meschinità: di acclarate e dichiarate posizioni filo-naziste, Brundage volò in Germania quale rappresentante dello U.S.O.C. (Comitato Olimpico Statunitense) e tornato in patria rassicurò tutti –don’t worry tutto a posto in Germania- è vero i tedeschi hanno sì le loro ideologie, ma in quanto a regolamento olimpico lo stanno rispettando in pieno. E a poco servì un ulteriore intervento del giudice newyorchese Mahoney successore di Brundage alla presidenza dell’A.A.U. ed un altro di Ernst Lee Jahncke, componente del C.I.O. per gli Stati Uniti, entrambi assolutamente convinti che non bisognava partire, perché Brundage zittì il primo ricordando che i Giochi sono al di sopra di qualsiasi considerazione politica, razziale e religiosa, e fece cacciare il secondo dal C.I.O. prendendo prontamente possesso dello scranno libero, dal quale si sarebbe alzato soltanto nel 1952 (21) per sedersi su quello più importante riservato al Presidente, che occuperà per un ventennio, dal ’52 al ’72, gratificato nel ‘66 dal Quirinale dell’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, e se il Quirinale ha una visione di una parte di storia così lieve e superficiale, quale sarà allora quella dei comuni mortali, (22) e mettendosi in luce nel ’68 per le punizioni inflitte a Tommie Smith e John Carlos per questo gesto nobile e disperato, (23) per aver spedito a casa il grande sciatore Karl Schranz ai Giochi di Sapporo per reato di professionismo, per la tenace e disperata difesa della Rhodesia che volevano esclusa dai Giochi per la sua politica di aparthied, (24) e per essere riuscito a non fare citazione alcuna degli 11 atleti israeliani trucidati dai terroristi a Monaco nel ’72 nel suo discorso commemorativo, tutto improntato sulla forza del movimento olimpico che non si arresta davanti a nulla “games must go on”. (25) Ma nonostante l’assist di Brundage, i nazisti che testoni erano in ogni circostanza, tali si confermarono pure in chiave olimpica. (26) A Garmisch Henry de Baillet-Latour, che era il presidente del C.I.O., mentre estatico si nutriva di cotanta magnificenza di impianti, tribune trampolini (27) palazzo del ghiaccio, due milioni e mezzo di marchi spesi per una struttura maestosa e all’avanguardia, (28) avvistò un cartello singolare posto all’entrata del villaggio olimpico che vietava l’ingresso ai cani e agli ebrei. Con un bel po’ di fatica ottenne dal fuhrer la rimozione del cartello sciagurato, ma poco tempo dopo si trovò a dovere sbrogliare un’altra scomoda matassa (29) perchè il dottor Lewald, presidente del comitato organizzatore dei Giochi, quello che in sostanza aveva fatto tutto quello che c’era da fare per portarli in Germania, aveva la Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 66 nonna ebrea. Per questo peccato mortale il regime era deciso a sbarazzarsene, ma de Baillet-Latour questa volta si incavolò davvero, fece la voce grossa, minacciò la revoca dei Giochi e la matassa fu sbrogliata. Le proteste nel mondo sembravano non placarsi, (30) in Olanda i probabili Giochi di Berlino furono battezzati in questo modo “de Olympiade onder dictatuur” “L’Olimpiade sotto dittatura” con l’acronimo D.O.O.D. che nella loro lingua significa “morte”, e per manifestare contro la Nazi-Olimpiade vennero organizzate altre manifestazioni sportive, a New York il World Labor Athletic Carnival sostenuto dal sindaco Fiorello La Guardia, (31) a Parigi il raduno degli sportivi antifascisti, nel ’35 le Maccabiadi, i Giochi ebraici a Tel Aviv, e soprattutto nella primavera del ’36 il Fronte Popolare al governo in Spagna e numerose associazioni sportive popolari organizzarono (32) dei “contro-giochi” a Barcellona, la cosiddetta “Olimpiada Popular”, cui si iscrissero ben 6.000 atleti da 22 nazioni, gran parte venivano dagli Stati Uniti dalla Gran Bretagna e dalla Francia ma vi erano rappresentati diversi altri paesi europei per un settimana di prove sportive. Si arrivò a fare la cerimonia d’apertura e si dovette sospendere tutto e con vive preoccupazioni rimandare atleti e accompagnatori a casa perchè quell’altro galantuomo di Francisco Franco “il caudillo” (33) aveva pensato di lanciare proprio in quei giorni le prime grandi offensive falangiste anche contro Barcellona. Esaurita la vivacità iniziale, le proteste un po’ ovunque cominciarono poi a placarsi, i tedeschi sembravano un po’ meno intransigenti nella iniziale pretesa del “nichts juden” nella loro rappresentativa, in Francia il governo socialista a poche settimane dall’evento berlinese decise tra la sorpresa generale per il sì alla partecipazione, ci furono anche nomi illustri che la invocarono, come in Inghilterra l’ebreo Harold Abrahams protagonista sui 100 metri a Parigi nel ’24 (momenti di gloria), e in America come già detto Brundage riuscì a emarginare i fautori del boicottaggio olimpico. (34) E così nel Luglio del 1936 3954 atleti di 49 rappresentative nazionali invasero la capitale del Reich per partecipare ai Giochi dell’XI Olimpiade dell’era moderna. Le preoccupazioni di Lewald per la riuscita dei Giochi a Berlino erano state condivise (35) da Carl Diem, segretario del Comitato tedesco per l’Educazione Fisica già da diversi anni prima della salita al potere del nazismo, strenuo sostenitore dell’ideale olimpico e più che navigato nell’organizzazione sportiva tedesca. Per non pensare alle grane che il regime procurava nei rapporti col C.I.O. e in generale con il sistema sportivo mondiale e metterla sul positivo Diem, che nel frattempo era stato nominato segretario del Comitato Organizzatore, escogitò qualcosa che mai era passata per la mente ad alcuno dei pur geniali promotori della rinascita olimpica. Ne parlò a Theodor Lewald e questi gli disse “mein lieber Carl das ist eine fantastische idee”, l’idea fantastica era quella di far partire dal santuario di Olimpia una torcia con un fuoco un fuoco sacro e farla arrivare allo stadio di Berlino portata da una staffetta di corridori. Soltanto Goebbels non era d’accordo, ma ogni tanto anche il ministro della propaganda del Reich doveva far penitenza e per l’occasione adeguarsi ai desiderata di coloro che erano i titolari ufficiali dell’evento olimpico. (36) E così fu che partendo dal Peloponneso, (37) su questo impervio tracciato, attraversati i Balcani passando per Sofia e poi Belgrado, e le grandi capitali dell’Europa centrale Budapest e Vienna e Praga, e poi la bellissima Dresda qualche anno dopo tragicamente e orrendamente sfregiata, (38) la torcia olimpica entrò infine a Berlino sommersa da gente (39) all’apparenza entusiasta del messaggio di pace e fratellanza tra i popoli che portava il fuoco, (40) traversò a passo di carica la porta di Brandeburgo (41) e si inoltrò in un lungo corridoio delimitato Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 67 da ariani e ariane ben allineati e coperti, geometrie perfette, mentre su di essa uno schieramento di croci uncinate vigilava severo, (42) croci che nacquero innocenti come quella di Cristo ma in quella terra popolata dai demoni divennero la personificazione del male. (43) Passando pure lui come la torcia in mezzo alla grande porta (44) e scortato dal cielo dall’avveniristico dirigibile Hindenburg, il dittatore era già arrivato alla stadio accompagnato da una selva di gerarchi e da una processione di dignitari olimpici, (45) prima una interminabile camminata per il Campo di Maggio a passo non militare ma fiero sì -questo almeno mi sia concesso meditava lui(46) e quindi, gerarchi e dignitari olimpici prudentemente sempre al suo fianco, (47) finalmente fece l’ingresso sulla pista di atletica, circondato da centomila credenti nella patria nella razza nel nostro unico e amato fuhrer, ma ignari del fatto che se le Olimpiadi si svolgevano a Berlino (48) il merito era tutto di questi due, il dottor Carl Diem e il dottor Theodor Lewald, che per anni avevano tessuto con pazienza la tela delle relazioni che contano nella famiglia olimpica. (49) Infine, dopo la sfilata delle squadre e dell’amata Germania tanto marziale e militaresca che se non ci fossero state pure le donne l’avremmo scambiata per la Wermacht in partenza per il fronte, dopo 3 mila chilometri infine il fuoco pervenne all’Olympiastadion, (50) portato da un corridore biondo mezzo sconosciuto, chè ancora non si era propagata l’angosciante procedura del chi sarà l’ultimo o l’ultima a portare la torcia, effimera gloria di pochi minuti. (51) Ed il braciere fu acceso, quasi sommerso da centomila bracci destri tesi fieramente in avanti (52) alle ore 4 del pomeriggio del 1° Agosto del 1936, (53) e poi anche in altre parti della città, cattivo presagio di quell’altro enorme braciere di quella gigantesca pira che sarebbe diventata Berlino e la Germania tutta nove anni più tardi. (54) E “in una cornice di austera grandiosità” come titolò la Gazzetta dello Sport, tanto avversati ma altrettanto voluti, i Giochi della XI Olimpiade di Berlino ebbero inizio. Quel negro sconosciuto che il fuhrer paventava saltasse fuori d’improvviso a sconvolgere i piani trionfali della Germania nazista e sportiva, saltò fuori davvero e prestissimo, (55) era la mattina del 2 di Agosto, il primo giorno di gare, il fuhrer ci aveva visto bene, il suo terribile vaticinio si avverava non uno soltanto, ma un battaglione intero erano quelli con la pelle nera che lo avrebbero messo nel sacco –che disgrazia popolo tedesco- (56) Jesse Owens “l’antilope d’ebano” vinse la sua batteria dei 100 metri con una facilità immensa -10”3 cose mai viste- (57) e nel pomeriggio 10”2 nei quarti, e fece subito capire che lo spazio libero per la gloria degli altri nelle gare di velocità, specie per gli ariani, era davvero risicato. (58) Jesse Owens era nato in questa casa a Oakville un piccolo centro contadino dell’Alabama, stato del sud povero, famiglie povere di tutto ma ricche di figli, Jesse era il decimo della truppa di Henry ed Emma Owens. (59) Come per tutti i poveri nella storia del mondo anche gli Owens un giorno emigrarono, si trasferirono più a nord a Cleveland nell’Ohio, i dodici della famiglia si davano tutti da fare, pure Jesse che uscito da scuola lustrava le scarpe ai benestanti o vendeva i giornali o lavorava nei campi, (60) anche se molto gli piaceva il canto. Poi alla East Technical High School prese a frequentare il campo di atletica, e come succede in questi casi fu adocchiato dal curioso allenatore di turno, (61) questi che non si fanno mai gli affari propri, quella volta fu tale Charles Riley che uno storico dice –gli dedicò un po’ del proprio tempo- ma è più verosimile che quello mise tutto da parte perché aveva scovato il fuoriclasse, (62) la perfetta fusione tra elasticità e potenza. Tant’è che dopo qualche anno, e un po’ di galoppate scolastiche vincenti sulle 100 e 220 yards Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 68 Owens (63) un pomeriggio del maggio del 1935 ad Ann Arbour nel Michigan dipinse un quadro perfetto, un capolavoro da impressionista dello sport: (64) quattro record mondiali nello spazio di 75 minuti, prima sulle 100 yards, poi sulle 220 in piano, (65) sulla stessa distanza ad ostacoli, per finire con un volo in avanti -ma uno soltanto- tra una corsa e l’altra uno shock per tutti, fino a 8 metri e 13 centimetri nel salto in lungo, cadono le barriere, primo atleta al mondo a scavalcare quel muro. (66) In America le cose andavano così, contraddizioni massime, da un lato posizioni d’intolleranza nei confronti della gente di colore, come se Lincoln avesse solo fatto un comunicato-stampa a proposito della loro emancipazione, dall’altro parte della gente comune interpretava in questo modo i successi dell’atleta dell’Ohio – What a joy tu run with him (che felicità correre con lui). (67) A Berlino era arrivato in nave, (foto Joe Caneva) e sulla nave non intendendo poltrire al sole continuò pure ad allenarsi, del resto gli bastavano una trentina di metri per la rincorsa e provare lo stacco, il resto viene poi da sé. (68) Costretti ad una traversata più sedentaria furono invece i quattro della staffetta, Draper Glikman, Stoller e Robinson, che si dovettero accontentare di qualche saltello o qualche fittizio sprint. (69) Il 3 di Agosto all’Olympiastadion, dopo la perentoria dimostrazione del giorno prima, tutti attendevano Owens, gli avversari con rispetto, il pubblico avido di spettacolo. (70) E lui scattò come sempre, una freccia nera conficcata nel cuore del Reich, e mise in fila pure i compatrioti bianchi e neri, 10”3 anche stavolta, record olimpico. (71) Il giorno dopo ancora, mentre inghiottiva la pista e gli avversari nelle batterie dei 200 metri (72) sbirciava verso la pedana del lungo, per capire quanto mancasse più o meno al suo turno di salto. Cose complicate queste di Owens, perché uno sarà pure un fuoriclasse ma c’è un limite a tutto. I 200 metri ed il salto in lungo non sono proprio la stessa cosa, il disordine si impadronisce delle gambe e della testa, e pure un fuoriclasse può trovarsi in seria difficoltà e rischiare l’eliminazione. Ma il fato gli fu amico, (73) e si presentò in pedana travestito da atleta tedesco, un maglione a collo alto sopra la canottiera bianca perché pure gli ariani hanno diritto a coprirsi quando la giornata non è clemente, un ariano un ariano puro alto e biondo di nome Carl Ludwig Long uno di quelli che il fuhrer avrebbe volentieri ingaggiato come stallone affinché i frutti della riproduzione fossero stati biondi e un giorno alti come quello, (74) i due atleti fraternizzarono subito “come si vive in America” gli chiese Long, e Owens cui piaceva molto la chiacchiera gli avrebbe volentieri raccontato la sua vita senza omettere che era pure padre di Gloria Shirley bimba di quattro anni, ma il giudice lo chiamò in pedana, e lui forse distratto forse teso saltò male per la seconda volta, e poi fu lui a chiedere a Long “e voi qui come ve la passate in questi anni” e quello disse “lasciamo perdere…” e volentieri avrebbe voluto raccontare le tristi cose della Germania di quegli anni ma pensò bene di dire (75) “ci sono spioni in giro che ascoltano achtung ne parliamo un’altra volta…” e poi cambiando discorso Long gli disse pure (76) “però mi sembra che dovresti aggiustare di un piede la rincorsa, e poi sei un po’ troppo teso … prova a rilassarti, hai già vinto una medaglia d’oro e altre due sono assicurate non hai nulla da perdere”, e Owens fece tesoro del consiglio, saltò bene, e andò in finale. (77) Poi tornò ai 200 metri, e con tre perentorie volate, fra il 4 e il 5 Agosto, raddoppiò il successo dei 100, e qualche giorno più tardi con in mano, più che il testimone, la bacchetta del direttore d’orchestra, porterà alla vittoria (78) la staffetta 4x100 degli Stati Uniti, Owens Metcalfe Draper e Wykoff, i primi due neri gli altri due bianchi, avremmo pensato per rispettare la parità delle Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 69 epidermidi, ma quando mai, Glikman e Stoller quelli che abbiamo visto sulla nave erano ebrei, passi allora per i due neri. Incredibile a dirsi, Mariani Caldana Ragni e Gonnelli per l’Italia conquistarono la medaglia argento. (79) Hitler intanto si rodeva in tribuna, fosse stato solo Owens… il primo giorno di gare un altro nero (80) Cornelius Johnson vinse il salto in alto, e per di più senza neppure togliersi la tuta, oltre il danno anche la beffa, (81) due giorni dopo fu la volta del nero Woodruff negli 800 metri, (82) il giorno 7 fu Archibald Williams dalla pelle color cioccolato fondente a precedere tutti nei 400 metri, (83) e per di più immortalato dalla diabolica regista che spesso se ne fregava delle raccomandazioni superiori, -mia cara Leni ariani soprattutto- quella dei neri era un lista che si allungava giorno dopo giorno, e c’erano pure i neri secondi e i neri terzi che te li vedevi comunque tutti belli altezzosi sul podio, (84) Metcalfe e Robinson, e Albritton e LuValle, e mentre così si rodeva era pure assillato dal dubbio amletico –li premio o non li premio questi qui, e se li premio cosa penserà di me il popolo tedesco e se non li premio cosa dirà di me la stampa straniera, ma arrivò in suo aiuto Mr. De Baillet-Latour che gli disse faccia come le dico io non premi né neri né bianchi, né gialli né mulatti a queste cose ci pensiamo noi del Comitato Olimpico, Lei ha certamente tante altre urgenze da sbrigare, grazie comunque di essere sempre qui con noi. (85) Gli italiani a Berlino si comportarono piuttosto bene, anche se ovviamente non ci potè essere storia con la potenza di fuoco che la Germania esibì al mondo intero dello sport con una formazione completa in tutte le discipline e molto ben allenata –männer und frauen- (86) e con la forza d’urto che gli Stati Uniti esercitarono soprattutto in atletica, in cui ormai da tempo imponevano un regime di monopolio quasi perfetto. Come avveniva già da alcune edizioni e come sarebbe stato per tutte quelle a venire, (87) gli schermidori rappresentarono le fondamenta della spedizione italica, cemento armato di prima qualità, 4 medaglie d’oro su 7 disponibili più tre d’argento e due di bronzo. (88) Nomi famosi come Giulio Gaudini gigantesco fiorettista medaglia d’oro nell’individuale e nella prova a squadre e alfiere nella cerimonia d’apertura, (89) Franco Riccardi, idem per la spada, e poi Ragno Marzi Cornaggia-Medici Bocchino Peterbelli e Verratti e Di Rosa e uno dei tanti della dinastia Montano (90) e la “spada italica” per antonomasia Edoardo Mangiarotti, nato da padre e madre schermidori, fratello di schermidori, che sposò una schermidrice e generò Carola fiorettista. (91) Ventiquattr’anni dopo, alle Olimpiadi di Roma, ce lo saremmo ancora ritrovato tra i piedi, ancora in pedana e ancora vittorioso nella stessa prova di ventiquattr’anni prima, la spada a squadre, ma con cinque nuovi compagni, gli anni passano ma non per lui. Pugili e calciatori recitarono bene la loro parte, una vittoria con il gallo Sergo e un secondo posto con il mosca Matta per i primi, (92) i dilettanti dell’alpino Vittorio Pozzo tra cui Foni e Rava futuri terzini della Juventus e della nazionale maggiore (93) e l’occhialuto Annibale Frossi vinsero il torneo sconfiggendo in finale l’Austria, ma se da boxe e football ci si potevano attendere successi pochissimi in patria si aspettavano una medaglia dal pentathlon, quello moderno, tutti o quasi ne ignoravano l’esistenza e la consistenza. A relazionarli in merito ci pensò un giovane istriano, (94) Silvano Abba, che insegnò a tutti gli altri concorrenti come si conduce tra i campi un cavallo che ti hanno assegnato a sorte, che si difese meglio che potè nella scherma e nel nuoto, che tirò bene con la pistola, (95) e che diede l’anima nell’ultima prova quella della corsa campestre di quattro chilometri, (96) preceduto in classifica solo dal tedesco Handrick e dall’americano Leonard. Abba aveva qualità eccezionali, tecnica e volontà, passione e resistenza, Abba rappresentava un’eccezione ovunque e comunque, raro esemplare di fascista convinto (97) all’interno di un “covo di Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 70 antifascisti” qual era il reggimento del Savoia Cavalleria, glorioso reggimento, gente importante della casta militare dal generale Raffaele Cadorna al colonnello Bettoni, passando attraverso maggiori e tenenti vari. (98) Morì in azione di guerra Abba il 24 agosto del ’42 nelle steppe dell’Ucraina, confortato dai girasoli, lui che era un gran cavaliere avanzava invece appiedato, un balzo dietro l’altro, con la missione di disturbare il fuoco dei mortai russi dagli squadroni in carica, (99) e temerario come pochi riuscì pure a fotografarla la carica, la carica di Isbuschensky fu chiamata, e che fu l’ultima nell’epopea della cavalleria italiana. (100) Il milanese Luigi Beccali detto “Ninì” era un atleta già affermatissimo quando si presentò alla partenza della finale dei 1500. (101) Quattro anni prima aveva vinto alla grande ai Giochi di Los Angeles per la felicità degli italiani in Italia e degli italiani in America e per l’orgoglio del duce che con i suoi “Mussolini’s boys” raccolse 12 medaglie d’oro 12 d’argento e 12 di bronzo, secondi in graduatoria, ora sì che si cominciava a ragionare. (102) Poi nel Settembre del ‘33 aveva stabilito all’Arena di Milano il nuovo record mondiale con il tempo di 3’49” e pochi giorni dopo pure quello delle 1000 yards, (103) i giornali ne parlavano e lo osannavano -finalmente non solo calcio- e un anno dopo aveva pure conquistato il titolo europeo. In un’altra parte del mondo, nella lontana terra dei Maori, era emerso frattanto un superbo corridore, John Lovelock. (104) Lovelock venne in Europa per confrontarsi con i migliori esponenti delle scuole del vecchio continente, ed ingaggiò con Beccali duelli entusiasmanti. (105) Ma a Berlino fu imbattibile e stabilì pure il nuovo record mondiale della distanza, (106) con l’italiano che difese con i denti il suo titolo olimpico, e fu terzo alla fine dietro l’«all-black» e l’americano, ancora sul podio, ancora felice. (107) Mario Lanzi era un atleta quasi affermato quando si presentò alla partenza della finale degli 800 metri. Non ancora ventenne, alla prima edizione dei campionati europei, nel ’34 a Torino, aveva conquistato la medaglia d’argento, (108) e in patria aveva vinto tutto quello che c’era da vincere, per il duce e per l’impero, (109) perché Lanzi come Abba era un fedelissimo del regime. Lanzi era solito nelle sue gare partire forte, in certi casi come un missile, con uno stile elegante e orgoglioso, quasi tronfio, a Berlino aveva già superato brillantemente batteria e semifinale, (110) e si presentò sicuro di sé alla prova decisiva. Chissà però cosa gli passò per la testa negli attimi cruciali, anziché andare al comando come suo solito fece passare gli altri, e non uno o due soltanto, (111) ma tre e poi quattro e poi cinque, nessuno allo stadio avrebbe scommesso un pezzetto di marco sulla sua rimonta, (112) ma Lanzi pur ingabbiato dagli avversari e annebbiato dalla fatica riuscì a pensare che non poteva finire così ingloriosamente la sua missione in terra tedesca, e metro dopo metro riuscì a metterseli tutti alle spalle tranne uno, John Woodruff, il solito nero americano dalle gambe smisurate. Mariolino nostro però non potè digerire la sconfitta e schiumante di rabbia scaraventò a terra la sua medaglia d’argento. (113) Giorgio Oberweger, che si trovava nei paraggi, recuperò in tempo quella medaglia. Oberweger, che fu il socio di Ottavio Missoni quando insieme dodici anni dopo lanciarono la prima ditta artigianale di maglieria, era un triestino dal fisico fuori del comune. Dopo una breve parentesi da canottiere, (114) si immerse nell’atletica fino al collo, cominciando qui 18enne con la maglia della Ginnastica Triestina una lunghissima e luminosa carriera, non solo atleta ma anche cronista dirigente e dissertatore tecnico (115) apprendendo l’arte alla corte di Boyd Comstock l’americano che per sei anni attraversò l’Italia con lezioni magistrali. (116) Data la grande versatilità non trascurò gli impegni ad alto rischio come il salto dal trampolino, (117) e non solo nello sport ma pure Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 71 nella vita, come quando volava ai comandi di un CR32 per le prime azioni di guerra dopo l’annuncio ufficiale di Piazza Venezia. (118) Passava dagli ostacoli che aggrediva con tecnica ed efficacia alla pedana del disco, (119) e da quella pedana lanciò a Berlino a 49 metri e 23 cm. per catturare la medaglia di bronzo preceduto da due americani, mentre da un’altra pedana di disco dodici anni più tardi a Londra lancerà senza grosse ambizioni ma con l’incarico che lui stesso s’era dato, (120) di stare vicino a Consolini e Tosi e spargere consigli sul come comportarsi, (121) primo e secondo furono Consolini e Tosi, e stavolta gli americani venivano appresso. Le italiane a Berlino, ben 13 su 182 componenti della spedizione, si comportarono ancor meglio degli uomini. (122) Due di loro, in particolare, Ondina Valla e Claudia Testoni, riuscirono a sedurre i centomila dell’Olympiastadion nella finale degli 80 metri a ostacoli il 6 di Agosto. Le due si assomigliavano, ed erano pure molto diverse tra loro. Perché avevano la stessa età, la stessa inflessione dialettale entrambe essendo bolognesi, avevano ambedue un fisico interessante (123) si cimentavano nelle stesse prove, la velocità i salti e adoravano gli 80 metri a ostacoli. Però Ondina era estroversa, Claudia era riflessiva, Claudia soffriva la sicurezza quasi la spavalderia di Ondina, Ondina era più veloce, Claudia era più tecnica. (124) Erano tutte un po’ tese prima del via, sia le nostre che le donne del Reich, (125) e lo restarono anche accucciate sulla pista prima del rituale “fertig” dello starter ufficiale, uno starter che fu anche lui personaggio singolare dei Giochi di Berlino, che condiva i suoi quattro gesti obbligati di affettazione di formalità di un pizzico di severità, e portava sempre l’impermeabile anche quando c’era il sole. (126) Poi le atlete d’improvviso si liberarono di tutte le ansie e volarono sugli ostacoli tutte insieme, come si fossero messe d’accordo, (127) e piombarono sul filo di lana quasi tutte insieme, ma le apparecchiature elettroniche di ultima generazione (128) assegnarono l’oro olimpico a Ondina, che in effetti si chiamava Trebisonda, un nome pesante per una libellula come lei, (129) e lei pure salutò il numero uno della nazione dell’epoca con il braccio teso, “mio duce, madri prolifiche va bene ma pure atlete, se mi consente”. (130) Nel bacino di Grünau si disputarono le gare di canoa e kayak che fecero il loro esordio olimpico, e quelle di canottaggio. Qui, per la Germania fu una vera e propria abbuffata di medaglie d’oro, cinque successi su sette prove, (131) con Gustav Schafer nel singolo, e poi nel due e nel quattro, (132) sia senza che con il tizio al timone. I nostri canottieri, pur senza vincere, fecero cose egregie, (133) la coppia Bergamo e Santin con Negrini a indirizzare la rotta conquistò l’argento, mentre nella prova regina del canottaggio, (134) l’otto con timoniere, quell’armo conosciuto come l’imbarcazione ammiraglia, quella per cui gli appassionati del remo si butterebbero in acqua a spingerla pur di sopravanzare le altre barche, (135) in una delle gare più emozionanti dell’intera Olimpiade, gli atleti in canottiera azzurra e bandana bianca in testa furono preceduti di un nonnulla, sei decimi un pezzetto di barca, (136) dagli stravaganti americani che l’otto comunque lo vincevano sempre dal 1920. (137) Il fiordo di Kiel sul fiume Eider nei pressi del mar Baltico ospitò le gare di vela con omogena distribuzione di medaglie tra i velisti del Reich, gli inglesi e gli scandinavi, (138) e la vittoria della nostra “Italia” una barca di 8 metri che mise in fila norvegesi e tedeschi. In quei giorni, a Lussimpiccolo in Istria, il 22enne Straulino –che figurava tra le riserve a disposizione- attendeva pazientemente a casa il suo turno. (139) Attenderà sedici anni, ma ne varrà la pena, perché ad Helsinki nel ’52 trionferà con il prodiere Nicolò Rode su questa barca della classe star chiamata “Merope”, come la figlia di Atlante e di Pleione. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 72 (140) La regista frattanto si muoveva frenetica attraverso gli impianti, dava un occhio ai cineoperatori (141) e poi uno agli atleti in posa plastica per lo scatto fotografico, (142) arrivava di corsa allo stadio del nuoto ed ecco (143) ripreso il tuffatore figura irreale immersa in un quadro di nubi e di luci, (144) poi lei stessa imbracciava la macchina per dedicare un primo piano (145) a questo giovane efebico giavellottista che tanto la affascinava, (146) ed un altro scatto pure alle due lussuriose sfumate danzatrici, (147) un salto a Kiel perché le vele e l’acqua e le vele sull’acqua trasmettono qualcosa di incomparabile, (148) e poi di nuovo allo stadio nella buca fatta apposta costruire per le riprese dal basso, (149) mentre una ciclopica nuovissima telecamera lavorava impassibile per il suo documentario. (150) Sul prato si susseguivano le prove ginniche che esaltavano il pubblico per l’armonia dei gesti (151) e il perfetto sincronismo dei movimenti, (152) così come armoniche e sincrone erano le “fechten” le schermidrici con il cuore sul corpetto, pure il fuhrer e i gerarchi ne apprezzavano le movenze, ma di più assistevano compiaciuti alle vittorie degli atleti e delle atlete del Reich, (153) omologate dal saluto romano alla premiazione. (154) Ginnasti pentathleti velocisti lanciatori dirigenti tutti salutavano, (155) qualcuno che con il Terzo Reich non c’entrava per niente salutava in modo diverso, da militare, il militare saluta così ovunque in America in Germania e nel resto nel mondo, (156) per le vallette biancovestite potevamo forse vagheggiare un gesto diverso, più delicato e tenero, ma cosa vogliamo la Germania era una e unica per tutti, ed anche il saluto quindi era uno -soltanto quello- e unico per tutti, männer und frauen. Per fortuna le corse di lunga distanza -pensava il fuhrer- non sono cose da neri. E aveva ragione, primeggiavano i bianchi a quel tempo, ma non certo i teutonici. (157) Furono infatti i seguaci del grande Nurmi, il monopolista delle lunghe distanze degli anni ’20, ad apporre il timbro indelebile della Finlandia nelle tre prove classiche del fondo, i 5.000 i 10.000 e i 3000 mila siepi, con (158) Hockert e Salminen e Iso-Hollo, e con loro sul podio anche Lehtinen e Askola e Tuominen, mentre i corridori dalla croce uncinata finirono tristemente indietro nel girone degli sconosciuti. Il giorno 9 era in programma la maratona, e a proposito di maratona e di maratoneti Hitler o i suoi consiglieri ebbero l’idea di far arrivare dalla lontana Grecia, come la torcia, (159) nientedimeno che il vincitore della prima maratona olimpica, 1896, Spyridion Louis, e lo fecero marciare, con passo che proprio definire marziale non si può, in testa alla delegazione ellenica per le vie di Berlino. (160) A Louis poi il fuhrer consegnò un ramoscello d’ulivo per la pace nel mondo, ma il contadino avrebbe preferito certamente un bel po’ di marchi che tanto ne aveva di bisogno, lui come tutti i suoi connazionali. (161) E la maratona, cui la Riefensthal avrebbe dedicato alcune delle più emozionanti riprese del suo capolavoro, (162) fu proprietà privata degli atleti del sol levante, almeno così furono presentati Kitei Son il vincitore e Shoryu Nan, il terzo arrivato. (163) Perché giapponesi lo erano ma solo secondo l’anagrafe di Tokyo, che aveva imposto già dal 1910 il suo dominio sulla Corea. (164) Ma Kitei Son, nato in un villaggio sul fiume Yalu, e Shoryu Nan erano figli della famiglia coreana, nord o sud non importa, i giapponesi avevano preso tutto allora, e si chiamavano Sohn Kee-Chung e Nam Sung-Yong, ambedue avevano già corso diverse maratone e Son in particolare ne aveva vinte tre a Seul, però nelle loro poverissime regioni nessuno sapeva cosa fossero i Giochi Olimpici e che due figli della loro amata patria erano partiti per quel motivo. (165) Ma quando a Seul seppero della vittoria del loro atleta impazzirono di gioia e fecero cancellare la bandiera giapponese dall’immagine di Sohn Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 73 pubblicata sul giornale, (166) mentre sul podio i due asiatici, precursori di Smith e Carlos, abbassavano il capo in segno di mesto dissenso. (167) A proposito di giapponesi, come dimenticare che fecero cose turche in questo maestoso e mai visto prima stadio del nuoto. (168) Guidati dal professor Matsuzawa che imponeva ai suoi atleti durissimi regimi di vita ed estenuanti allenamenti, (169) copiarono medaglia più medaglia meno i risultati di quattro anni prima a Los Angeles, a Berlino ne vinsero 4 d’oro (170) più altre 7 tra argento e bronzo, non ci fu podio dove non fu presente un atleta dagli occhi a mandorla. (171) Erano fortemente motivati e lo erano anche i loro dirigenti, perché volevano prepararsi come si deve sotto tutti gli aspetti (172) per i Giochi del 1940 assegnati a Tokyo, ma il loro amico teutonico la pensò diversamente e i Giochi non si tennero e loro dovettero aspettare altri 24 anni per poterli ospitare. Ho parlato spesso degli americani dalla pelle scura e dei loro successi, ma non pensiamo che i loro connazionali dalla pelle chiara fossero venuti a Berlino in gita turistica. Prendendoli così a caso, (173 tra i 17 che si misero la medaglia d’oro al collo, ci furono ad esempio gli ostacolisti Forrest Towns nei 110 metri (174) e Glenn Hardin sui 400, (175) l’aitante e armonico lanciatore di disco Kenneth Carpenter, (176) il decathleta Morris, qui impegnato nella prova del giavellotto (177) e qui con i suoi compagni di squadra e di podio tutto americano Clark e Parker, (178) mentre in piscina Jack Medica vincendo i 400 stile libero riuscì a limitare in parte lo strapotere dei nuotatori del sol levante. (179) I due che poco prima chiacchieravano amabilmente del più e del meno, di come si vive in America e di come in Germania, ingaggiarono nella finale del salto in lungo un duello furioso a colpi di nuovi record nazionali europei ed olimpici. (180) Long fece salti straordinari con la sua tecnica sopraffina, (181) con 7.84 prima e poi con 7.87 migliorò per due volte il record europeo, (182) eguagliando anche Owens che aveva questa stessa misura, (183) ma l’antilope d’ebano andò ancora oltre, (184) volando leggero in cielo quasi sospeso in aria (185) duecentomila occhi su di lui e quelli del giudice verso i segnali dei record presaghi della grande impresa, (186) toccando infine la sabbia a 8 metri e 6 centimetri, record olimpico. (187) Long si complimentò sinceramente con Owens, (188) e poi i due salirono sul podio insieme al giapponese Tajima. Ognuno con il proprio saluto. (189) Quando le comitive olimpiche lasciarono Berlino, i due si salutarono molto fraternamente, Owens disse “see you soon, Carl”, e Long gli rispose “das hoffe ich auch (lo spero anch’io)”. Owens, dopo qualche apparizione agonistica in Europa obbligato dalla severissima A.A.U. tornò in America accolto come un eroe, ma le quattro medaglie d’oro di Berlino non avevano innalzato di una virgola la curva del suo reddito familiare, (190) allora si diede da fare gareggiando a pagamento contro cavalli (191) levrieri e mezzi motorizzati, girò pure con gli Harlem e mise da parte una piccola fortuna che poi sprecò in un investimento sbagliato. Long terminò gli studi di diritto all’Università di Lipsia, e fece un breve praticantato ad Amburgo. I due restarono in contatto scrivendosi spesso. (192) Poi, quando la guerra incendiò tutta l’Europa, Long fu chiamato a difendere la patria. Nel ’42, subito dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, Long così scrisse ad Owens: (193) Caro amico Jesse, se questa è l’ultima lettera che ti scrivo ti chiedo una cosa: quando la guerra sarà finita vai in Germania, cerca di mio figlio Kai e parlagli di suo padre. (194) Parlagli del tempo in cui questa guerra non ci aveva ancora separato e digli che le cose tra gli uomini possono andare diversamente in questo mondo. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 74 Long morì in Sicilia, il 14 Luglio del ’43 pochi giorni dopo lo sbarco alleato. (195) Dopo qualche traversia, fu sepolto insieme ad altri tedeschi caduti in guerra (196) in questo cimitero di Motta S. Anastasia, vicino Catania. Owens onorò la richiesta di Long ed incontrò suo figlio, gli parlò di suo padre e gli parlò dei bei tempi di quando la guerra non li aveva ancora separati. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 75 BERLINO 1936 : STORIA DI UN BOICOTTAGGIO OLIMPICO MANCATO PROF. SERGIO GIUNTINI Nonostante le vere intenzioni del nazionalsocialismo tedesco rispetto ad antisemitismo e razzismo fossero (o avrebbero dovuto essere) ai contemporanei già sufficientemente chiare, i Giochi olimpici di Berlino non solo ebbero uno svolgimento regolare ma divennero una delle massime celebrazioni del III Reich hitleriano. Da cosa derivò tutto questo? Che ragioni permisero alle Olimpiadi di Adolf Hitler di ottenere il lasciapassare delle democrazie liberali? Perché, interrogato il 27 agosto 1936 da André Lang de Le Journal, Pierre De Coubertin si espresse con questi toni entusiastici: “Quali Giochi sfigurati, quale ideale olimpico sacrificato alla propaganda? E’ assolutamente falso! La grandiosa riuscita dei Giochi di Berlino è magnificamente servita all’olimpismo”. A domande siffatte si può rispondere esclusivamente con argomenti d’ordine politico. Nel biennio 1935-36 la Germania impresse una decisa accelerazione alla sua iniziativa interna ed estera (denuncia del trattato di Versailles, rimilitarizzazione della Renania, introduzione del servizio militare obbligatorio, emanazione delle leggi razziali di Norimberga,ecc.), attrezzandosi materialmente e psicologicamente alla conquista del suo “spazio vitale”. Eppure il mondo libero non sembrò o non volle accorgersi di niente. Ovvero ritenne il nazismo il minore dei mali. Semmai una solida roccaforte contro il “fantasma” del comunismo sovietico che s’aggirava per l’Europa. Tale, la spiegazione primaria dell’”appeasement” politico-diplomatico di quegli anni, e, nella circostanza, della “realpolitik” estesa all’agone olimpico. Tra debolezze e ammiccamenti, prevalse la linea morbida dell’acquiescenza: in un certo qual modo Berlino ’36 costituì la prova generale della Conferenza di Monaco di Baviera del 29-30 settembre 1938. In appena ventiquattro mesi, la Germania, con la mediazione di Benito Mussolini, incassò per ben due volte una facile fiducia da Francia e Inghilterra. Le venne concesso di annettersi liberamente i Sudeti, premessa all’occupazione dell’intera Cecoslovacchia nel marzo 1939. Sarebbe tuttavia ingeneroso fermarsi qui. Ignorare alcune altre dinamiche che interessarono in particolarei Giochi olimpici. Al riguardo si è sempre sostenuto che, nei loro confronti, si ebbe una sostanziale assenza d’opposizione. Questo in realtà è vero solo in parte, nasconde un retroterra assai più complesso e mosso. E pertanto, è necessario rivalutare appieno i diversi e più robusti tentativi di boicottaggio che quelle Olimpiadi suscitarono. Riportare alla memoria il dibattito, le acute divisioni, gli errori e le contraddizioni che quei Giochi germanici determinarono all’interno dell’opinione pubblica mondiale, tra i governi e in seno ai partiti, alle istituzioni politiche e sportive. Le battaglie civili e politiche condotte dall’antifascismo internazionale - dall’Europa al nord America - al fine d’impedire che il Fuhrer potesse trarre da quell’evento un’irresponsabile legittimazione, furono in questo senso tutt’altro che puramente simboliche o testimoniali. Un segnale importante fu il riavvicinamento tra le “due sinistre” dello sport. Nella strategia dei “fronti popolari”, superando i contrasti ideologici tra “riformisti” e “rivoluzionari”che ne avevano impedito l’unità d’azione, il 6 settembre 1935 Internazionale Sportiva socialdemocratica di Lucerna e “Sportintern” siglarono a Praga un accordo che incitava i lavoratori al Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 76 boicottaggio dei Giochi invernali di Garmish Partenkirchen e di quelli estivi nella capitale del III Reich. In Olanda le proteste democratiche culminarono nell’agosto 1936, ad Amsterdam, in un ciclo di meeting di protesta e in una mostra su “L’Olimpiade sotto le dittature”. In Svezia, su 700.000 iscritti ai sindacati, 150.000 si dichiararono avversiai Giochi affidati alla Germania di Hitler. Tuttavia il partito di governo, nel suo Congresso svolto nell’aprile ’36, non ne tenne alcun conto, e tra coloro che più si attivarono per la partecipazione spiccava Sigfrid Edstrom. Ilfondatore e presidente dell’”International Amateur Athletic Federation”(IAAF) e, dal 1931, vice-presidente del CIO. Edstrom il quale, in un suo scritto del 1934, aveva sostenuto che l’atteggiamento antiebraico dei tedeschi si giustificava con il monopolio che questa minoranza deteneva in diversi settori-chiave dell’economia, e che la Germania, per conservare la propria identità, si vedeva assolutamente costretta a limitarne l’influenza. A continuare a perorare la necessità del boicottaggio fu il movimento sportivo operaio (AIF). Movimento che a Stoccolma nell’estate 1935, durante la partita di calcio Svezia-Germania, promosse una grossa manifestazione con diffusione di volantini e lancio di palloncini antinazisti. Il fronte favorevole al boicottaggio crebbe in coincidenza dell’invasione della zona renana, e si articolò intorno alla richiesta di liberazione dei cittadini svedesi ErikJansson e Knut Mineur, arrestati dalla Gestapo ad Amburgo in quanto accusati di voler introdurre nel Paese del materiale sovversivo. In loro difesa si formò uno specifico comitato di lotta, e a esso aderirono anche 6 calciatori della nazionale che,a titolo individuale,decisero di rinunciare all’Olimpiade berlinese. Diverse le reazioni che si ebbero nel Regno Unito. Qui, specie il fascismo, godette di un certo fascino. Winston Churcill fu un ammiratore di BenitoMussolini e Osvald Mosley, ondivago exdeputato conservatore, indipendente, laburista, nel 1932 fondò l’Unione fascista britannica. Schierati per il no alle Olimpiadi il conservatore Cocker Lampson, il quale - a titolo personale - si spinse a chiedereil taglio dei fondi per lo sport e il blocco dei passaporti tedeschi alle frontiere e, logicamente, le “Trade Unions”. Il sindacato laburistache,nel 1936, diede alle stampe il pamphlet Under the Heel of Hitler: the Dictatorship over Sport in Nazi Germany: atto d’accusa del suo dirigente Walter Mc Lennon. La neutralità espressa dal Comitato olimpico produsse la raccolta di numerosi fondi per sostenere le spese della delegazione inglese a Berlino e, un ruolo non secondario a favore di tale scelta, giocò la figura di Harold Abrahams. Campione olimpico sui 100 m. ai Giochi olimpici di Parigi (1924), membro della Commissione tecnica della IAAF (con Edstrom, Avery Brundage, Billy Holt, Bo Eklund), commentatore radiofonico della BBC, presidente dell’”Associazione Atletica Ebraica”,Abrahamsnel 1934 si convertì dall’ebraismo al cattolicesimo, ammorbidendo con il suo esempio i sentimenti ostili al nazismo. Questo genere d’accondiscendenza si manifesterà peraltro nuovamente anche dopo le Olimpiadi. Nell’incontro Germania-Inghilterra giocato a Berlino il 14 maggio 1938,i calciatori di Sua Maestà, in segno d’amicizia e rispetto, salutarono quelli tedeschi con il braccio teso. Un gesto che, come è stato notato da Simon Kuper, “è diventato il simbolo delle eccessive concessioni fatte da Neville Chamberlain alla Germania”. A una soluzione di dubbio compromesso, intrecciandosi con i destini dell’”Olympiada Popular” contro-convocata a Barcellona, si piegò anche la Francia. Paese nel quale, pure, nel 1933 il vice-presidente della Camera aveva invitato il Comitato olimpico nazionale al boicottaggio, e dove, dal 4 giugno 1936, era al potere una coalizione di “fronte popolare”. Se la logica del “frontismo” applicato allo sport aveva condotto a Grange aux Belles, il 24 Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 77 dicembre 1934, alla fusione tra “Federazione Sportiva del Lavoro” (comunista) e “Unione delle Società Sportive e Ginniche del Lavoro” (socialista), dando vita a un’unitaria “Federazione Sportiva e Ginnica del Lavoro”(FSGT) presieduta da Auguste Delaune e contraria ai Giochi tedeschi, per intanto permanevano le decisioni assunte dai precedenti governi. E’ a dire il progetto di legge – presentato il 14 giugno 1934 dal deputato Jammy Schmidt - per il sovvenzionamento della trasferta, che senza interventi critici il 22 e 30 giugno ’34 superò il vaglio di Camera e Senato della Repubblica. Solo con la creazione dell’FSGT emerse quindi un deciso fronte d’opposizione. Il suo organo d’informazioni, Sport, il 15 gennaio 1935 scriveva di quei Giochi: Essi rappresentano un’ottima opportunità per il signor Hitler e il suo governo d’inscenare una manifestazione propagandistica ove lo sport non occuperà certo il ruolo che gli riconosceva il barone De Coubertin quando presiedeva il CIO. E rilanciando la sua campagna, il 14 agosto 1935 Sport diramava il seguente invitoa disertare Berlino: Non un soldo, non un uomo per i Giochi olimpici di Berlino: questa è la parola d’ordine attorno alla quale debbono riunirsi tutti gli sportivi e tutti coloro che intendono ristabilire le libertà violate e soppresse nei paesi fascisti. E’ per la realizzazione di questo obiettivo che la FSGT prende l’iniziativa di una vasta protesta popolare al fine d’intraprendere un’azione vigorosa e perseverante contro la sfida lanciata a tutto il mondo dal fascismo hitleriano con la complicità dei governi della conservazione sociale e del CIO. Sulla scorta di tale appello, trecento atleti francesi sottoscrissero un Manifesto rivolto ai “Veri Amici dello Sport” nel quale si sottolineavano i rischi connessi alle vicine Olimpiadi, e, il 17 dicembre 1935, nel corso della discussione sul bilancio dello Stato, l’onorevole socialista Jean Longuet denunciò apertamente la mistificazione berlinese: I Giochi olimpici del prossimo anno sono stati concepiti dai dirigenti attuali del Reich come un’apoteosi del regime nazista, di quel regime che, Voi lo sapete, ha cacciato dalla Germania i più prestigiosi esponenti del pensiero tedesco, che pretende, all’ombra d’un immenso drappo di croci uncinate di poter manovrare tutti gli sportivi del mondo […]. Il governo del Reich ha negato a una parte della sua popolazione la possibilità di prepararsi per i Giochi olimpici, poiché, secondo le sue concezioni, il diritto a partecipare alla competizione olimpica va di pari passo con il riconoscimento dell’ideologia nazionalsocialista […]. Con la Germania di Hitler, che proclama i suoi principi abietti, anche quando si tratta di sport, io credo che la Francia dei “Diritti dell’Uomo”, la Francia di Michelet, di Victor Hugo e Jaurés non deve aver niente in comune. E’ per questo che Noi chiediamo la soppressione del capitolo di spesa previsto dallo Stato per le squadre francesi da schierare ai Giochi di Berlino del 1936. Richiami a una nobile tradizione repubblicana che non mutarono i rapporti di forza nell’aula. La perorazione di Longuet fu respinta dal ministro alla Salute Pubblica Ernest Lafont, e dalla solido pacchetto di voti di Pierre Laval che, con 410 sì controi 161 no espressi dai social-comunisti, confermò i 900.000 franchi previsti per la partecipazione olimpica. Tra i favorevoli al boicottaggio era anche Léo Lagrange, prossimo a divenire sottosegretario socialista allo “Sport e al Loisir” nel nuovo gabinetto di Léon Blum. Giusto i “giri di valzer” di Lagrange riassumono la posizione poco trasparente tenuta dal “fronte popolare” su questo tema. Di ritorno da una visita a Berlino nel marzo 1936, prima cioè d’assumere incarichi di governo, Lagrange si diceva convinto della necessità di astenersi dall’inviarvi atleti Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 78 francesi. Ma da uomo di stato, dopo il Consiglio dei ministri del 19 giugno 1936, la sua posizione si rovesciò in questo instabile equilibrismo: Così come non è la Germania bensì la sua capitale che organizza questi Giochi, allo stesso modo è il Comitato olimpico francese che risponde a quell’invito. Un trasformismo che seguiva a una grande “Conferenza Internazionale in Difesa dell’Idea Olimpica” svolta al “Palais Hotel” di Parigi il 6-7 giugno 1936, e preludeva al dibattimento parlamentare sui Giochi in calendario il 9 luglio 1936. A dar battaglia fu stavolta il comunista Florimond Bonte, che assimilò l’adesione alle competizioni a Berlino ad una “sorta di complicità con i carnefici”. Affermazioni all’apparenza combattive, irriducibili, rintuzzate dal deputato moderato e componente del CIO François Pietri, per il quale non era “possibile che la Camera francese impedisse a dei giovani francesi di partecipare a una grande competizione internazionale solamente perché il regime interno e le particolari idee dei tedeschi non li convincevano”. Una stringente ragion di stato che, con l’astensione per disciplina di coalizione dei comunisti, prevalse nettamente. L’unico responso contrario venne infatti dal Pierre Mendés, che non venne così meno al proprio onore e alla dignità residua di due camere nelle quali i partiti di sinistra erano forze di maggioranza. A fronte d’un simile voltafaccia, per salvare il salvabile, il fragile e incerto “fronte popolare” di Blum affianco del finanziamento assicurato al Comitato olimpico nazionale proiettato verso Berlino,deliberò un ulteriore stanziamento compensatorio di 600.000 franchi a favore dell’”Olympiada Popular” - democratica e antifascista barcellonese. Tutto e il contrario di tutto. Un “cerchiobottismo” reso ancor più ambiguo dalle rassicurazioni governative, giunte il 19 giugno 1936 nel delineare le linee di diplomazia estera, circa il fatto che nessun suo membro avrebbe presenziato a quell’Olimpiade. In effetti un’altra promessa non mantenuta, poiché l’ambasciatore André François Poncet assistette alle diverse cerimonie ufficiali. In definitiva un’imbarazzante débacle per la “gauche”, che indusse il Partito Comunista (PCF) a una singolare forma di “autocritica”: i suoi militanti, il 31 luglio 1936, alla partenza della rappresentativa olimpica d’Oltralpe per la capitale tedesca, volantinarono contro quel viaggio tanto impopolare e sbagliato. Iniziativa ormai inutile e sintomatica dell’impotenza politica e delle divaricazioni interne che affliggevano il “fronte popolare”. Per Hitler invece un successo insperato, che allontanava i rischi d’un significativo boicottaggio. Tali ipotesi contestatarie percorsero anche l’America settentrionale. In Canadaa sospingere il movimento anti-Olimpiadi del ’36 fu il “Worker Sport Association”(WSA) in concorso con il “Congresso Ebraico Canadese”. Comunità ebraiche che diedero un vigoroso impulso pure all’acceso confronto che, intorno ai Giochi nazisti, si sviluppò negli Stati Uniti. Paese strategico, in cui la decisione sull’andare o meno a Berlino rimase in bilico fino all’ultimo, spaccando a metà il movimento sportivoe coinvolgendo vari settori della società americana. Fin dal maggio 1933 gli ebrei newyorkesi si mobilitarono contro le Olimpiadi hitleriane, e un’affollata manifestazione, il 3 dicembre 1935, si tenne al Madison Square Garden per esercitare una pressione sul congresso AAU del seguente 6 dicembre. Congresso preceduto dalla raccolta di 500.000 firme per il boicottaggio. Ad appoggiare questa tendenza erano lo scrittore Damon Runyon, i giornalisti John Kieran del NewYork Times, Ed Sullivan del New York Daily News. Parimenti avversi a quell’Olimpiade il governatore di New York, l’ ”American Federation of Labour”, il “National Council of the Methodist Church”, il periodico cattolico Commonweal, la Federazione degli studenti in giornalismo e 41 Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 79 accademici di 27 atenei, fra cui Alfred Hume e Frank Graham - presidenti delle Università del Missisipi e del Nord Carolina -. Di contro, per il sì a Berlino, si posizionarono le potenti YMCA, “National Collegiate Athletic Association” (NCCA) e, persino, i migliori atleti di colore. Tra questi Jesse Owens, sottoscrittore d’un appello di Avery Brundage affinché gli USA non si allineassero al boicottaggio. Un atteggiamento stigmatizzato dal segretario della NAACP (“National Association for the Advancement of Colored People”) Walter White, che in un lettera del 4 dicembre 1935 condannò tale presa di posizione. Favorevole al boicottaggio “nero” delle Olimpiadi, viceversa la NAACP lo negò alle organizzazioni ebraiche americane allorché lo promossero per il match di pugilatodel 19 giugno 1936 trai pesi massimi Joe Louis e l’ariano Max Schmeling. Schmeling che, in quel frangente, fu investito del compito di “ambasciatore” olimpico. In proposito, ha scrittoDavid Margolick: Così, all’inizio di dicembre del 1935, Schmeling era di nuovo a bordo del “Bremen” diretto a New York. Il suo obiettivo era firmare per un incontro con Louis o con Braddock, vedere Louis combattere contro Uzcudun e sistemare la posizione di Joe Jacobs. I nazisti gli diedero un’ulteriore missione: placare i persistenti timori riguardo a una discriminazione di neri ed ebrei durante i Giochi olimpici di Berlino del 1936, e quindi far rientrare la campagna americana di boicottaggio dei Giochi. Un assistente del ministro dello Sport del Reich chiese a Schmeling di “esercitare un’influenza positiva sulla gente giusta”, mentre il presidente del Comitato olimpico tedesco gli diede una lettera da portare alla sua controparte americana, Avery Brundage. La partita più tesa e politica si giocò ad ogni modo lungo l’asse Berlino-CIOAAU-USOC (Comitato olimpico americano). Rientrata l’estromissione di Theodor Lewald, il presidente pre-nazista del Comitato organizzatore che Hitler intendeva sostituire discendendo da una famiglia ebrea, simili controversie riaffiorarono nella riunione CIO di Vienna del 6 giugno1933. Un’assise nella quale i componenti americani incalzarono e quelli tedeschi si limitarono a vaghe concessioni. Promesse e niente più, eppur tuttavia passata allo storia dello sport con l’enfasi altisonante di “patto di Vienna”. Formula che stava a significare l’accettazione da parte nazionalsocialista d’una qualche presenza olimpica ebraica a Berlino. Di quell’incontro viennese uno dei membri statunitensi del CIO,il generale Charles H. Scherril, riportò questa descrizione al rabbino di New York Stephen S. Wise: E’ stato un tentativo difficile. Noi eravamo in sei nell’ Esecutivoe persino i miei colleghi inglesi hanno ritenuto di non interferire nelle questioni interne tedesche. La Germania si è mossa cautamente. Per prima cosa essi concessero che altre nazioni potessero portare ebrei in squadra; poi però al termine del confronto contattarono Berlino, dichiarando che non vi era possibilità di tornare sul problema degli ebrei tedeschi, ma lasciando uno spiraglio sul fatto che avrebbero cercato di seguire le nostre posizioni. Io ho ripreso l’argomento, insistendo sulla richiesta di spiegazioni circa la loro reale volontà di escluderli. E loro risposero che gli ebrei fino a quel momento non sarebbero stati esclusi. Tutta la nostra influenza fu usata per far prevalere la posizione USA. Alla fine accettarono, capirono che disponevamo dei voti necessari. Scherril - repubblicano newyorkese - continuerà a recitare un ruolo estremamente attivo nell’intera questione. E al riguardo è curioso evidenziarecome, al pari di Churcill, anch’egli non dissimulasse affatto le sue simpatie per Benito Mussolini. Lo considerava “un uomo di coraggio in un mondo di buoni a nulla”, e auspicava che anche gli Stati Uniti arrivassero ad Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 80 avere un proprio Duce. Ciò non lo induceva peraltro a recedere sulle discriminazioni antiebraiche; e a riprova del consenso esistente su questo punto, alla convenzione AAU del 21 novembre 1933 tutti i delegati, con una sola eccezione, votarono la risoluzione di Gustav Town Kirby (ex presidente dell’AAU e tesoriere dell’USOC) che prevedeva il boicottaggio dei Giochi di Berlino qualora non fosse mutato l’atteggiamento verso gli ebrei. Una minaccia reale, che avrebbe potuto condizionare le opzioni anche di altri importanti stati. Da qui in avanti prenderanno perciò sempre più corpo le schermaglie diplomatiche e procedurali, le missioni esplorative,i carteggi pubblici e riservati, tesi a render meno incandescente il problema ebraico. Nodo cruciale che, machiavellicamente, i nazisti affrontarono illudendoi loro interlocutori critici, prendendo tempo, alternando flessibilità a improvvisi irrigidimenti. Nella sessione CIO del maggio 1934 i delegati tedeschi ribadirono che alcuni atleti ebrei sarebbero stati inseriti nella rappresentativa olimpica della Germania. Dal numero iniziale di 21, nel giugno del ’34 Hans Von Tschammer und Osten scese a quota 5, e nel gennaio 1935 non si parlava più di partecipazioni. Bensì, 7 “probabili-olimpici” ebrei, si videro inopinatamente scartati poiché le “loro prestazioni vennero giudicate inadeguate per la qualificazione ai Giochi”. Nell’estate del’ 35, Hitler in persona fece circolare una sua lettera nella quale garantiva l’uguaglianza per i non-ariani alle prossime Olimpiadi. Atto di pura facciata, che, il 31luglio 1935, obbligò Karl Diem (con Lewald a capo dell’organizzazione olimpica) a smentire l’esistenza di difformità di vedute tra istituzioni sportive naziste e statunitensi. Divergenze che in realtà sussistevano, come dimostrato, nell’agosto ‘35, dalla proposta di ritiro degli USA avanzata da un alto dirigente sportivoquale Jeremiah Titus Mahoney -membro dell’USOC dal 1912,e dal ’35 neo-presidente dell’AAU -. E ancor più dall’udienza di un’ora che, il 24 agosto dello stesso anno, Scherril ottenne da Adolf Hitler onde concordare una presenza, perlomeno simbolica, di ebrei in seno alle nazionali del Reich. Anche quest’approccio ebbe uno sbocco insoddisfacente. Il Fuhrer fu molto evasivo e generico, garantendo solo l’accoglienza degli ebrei appartenenti alle delegazioni estere. Scherril, chiese un gesto di “buona volontà” facendo il nome della famosa schermidrice Helene Mayer, e obiettando inoltre che se la Germania avesse persistito in una simile direzione il CIO avrebbe potuto assumere delle gravi decisioni. E a sostegno di questo suo orientamento, il 30 agosto 1935 scrisse al presidente del CIO - il conte belga Henri de Baillet-Latour - esortandolo “a parlare direttamente con il Fuhrer e mostrargli la lettera che ricevesti a Vienna da Berlino riguardante l’esclusione degli ebrei dalla squadra tedesca del 1936. Devi prepararti - continuava Sherril - al più grosso shock di tutta la tua vita […] e prima affronterai la situazione più avrai speranza di successo invece di un’esplosione devastante”. Esplosione che si ebbe effettivamente con la promulgazione delle leggi razziali di Norimberga del 15 settembre 1935. Senonché, mentre la Germania cercò d’attutirne la portata, inviando già il 25 settembre il presidente del proprio Comitato olimpico negli Stati Uniti per un tour di propaganda e ripiegando sulla tattica del “mezzo ebreo”, la posizione americana, che ci si sarebbe attesi divenir più rigida, perse al contrario d’efficacia provocando delle divisioni laceranti all’interno dell’AAU e un conflitto tra le presidenze USOC e AAU. Il maggior responsabile d’un tale cambiamento di linea va indicato nel presidente dell’USOC ed ex presidente dell’AAU Avery Brundage: figura d’anti-semita e di “crociato” integerrimo del dilettantismo e della neutralità dello sport, espulso nel 1941 dal comitato isolazionista “American First” per il suo filo-nazismo. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 81 Affinità elettive con l’ideologia nazionalsocialista che, nel 1935, il consolato tedesco di Chicago segnalava compiaciuto a Berlino, e che si rilevano pure tra le pieghe di dettagli “minori” come il seguente. Negli Stati Uniti il film di Leni Riefensthal Olympia, un sublime saggio di estetica al servizio dell’ideologia hitleriana, non ebbe libera circolazione. Un abuso, a detta di Brundage, da addebitarsi al fatto che in America “sfortunatamente i teatri e le aziende cinematografiche” erano quasi tutte “in mano ad ebrei”. Ma su Avery Brundage si tornerà nei successivi capitoli in maniera più approfondita. Per ora è sufficiente dire che, di ritorno in quei mesi da un viaggio esplorativo per l’USOC nel Reich, svolse in merito una relazione tranquillizzante e tale da convincere anche Gustavus Town Kirby; e in parallelo, operò per evitare una visita di Baillet Latour negli USA, ritenendo più utile allo svolgimento dei Giochi a Berlino non surriscaldare gli animi con azioni che avrebbero soltanto accresciuto la visibilità degli oppositori. Baillet-Latour il quale, per altro, la sua scelta l’aveva già compiuta anzitempo; e a conclusione d’un colloquio con Hitler ,il 5 novembre 1935, rilasciò queste dichiarazioni che non lasciavano marginial dubbio: Niente può opporsi al mantenimento dei Giochi della XI Olimpiade a Berlino e Garmish Partenchirken. Le condizioni richieste dalla Carta olimpica sono state rispettate dal Comitato olimpico tedesco. La campagna di boicottaggio non deriva dai comitati olimpici nazionali e non è appoggiata da nessuno dei nostri colleghi. Nel frattempo nel campo germanico si attuava l’escamotage dilatorio dei “mezzi ebrei”. Un’operazione consistente nel lasciar credere possibili piccole aperture verso quei soggetti le cui origini razziali non erano completamente accertate. In questa prospettiva si scelsero come “specchietto per le allodole” atleti e atlete di primo piano, che potessero accentrare su di sé l’attenzione dell’opinione pubblica deviandola dalle discriminazioni su vasta scala applicate con la legislazione del settembre ’35. Le “cavie” prescelte furono due campionesse: Helene Mayer e Gretel Bergmann. Nata a Offenbach am Main il 10 dicembre 1910 e allenata dall’italiano Arturo Gazzera, la Mayer vinse le Olimpiadi di fioretto del 1928, i campionati europei del 1929 e ’31 e fu quinta ai Giochi olimpici del 1932.Suo padre Ludwig era uno stimato medico, presidente dell’ ”organizzazione Centrale dei Cittadini Tedeschi di Fede Ebraica” di Offenbach. In prossimità dell’Olimpiade di Los Angeles la Mayer si trasferì negli Stati Uniti per studiare lingue presso lo “Scipps College” di Claremont, e laureatasi le venne offerto d’insegnare al “Mills College” di Oakland. Lì, venne colta dalle leggi razziali entrate invigore in Germania e, il 27 settembre 1935, sul New York Times, fu pubblicato un articolo che la riguardava dal titolo: “Il Reich chiama due ebree nella squadra olimpica: Helene Mayer e la saltatrice in alto Gretel Bergmann”. Il pezzo soggiungeva che della convocazione era stata data notizia per lettera anche al generale Scherril, che in ragione di ciò si diceva pronto a dar il suo via libera ai Giochi del ’36. Questa minima e strumentale concessione, dunque, ammorbidì considerevolmente l’intransigenza statunitense, e la Mayer, imbarcatasi per la Germania il 13 febbraio 1936, fu l’unica ebrea tedesca a gareggiare in quelle Olimpiadi. Si prestò anch’essa a un compromesso di basso profilo, giunse seconda in finale e, a coronamento di questo straordinario maquillage di regime, sul podio ringraziò la folla con il saluto nazista. Diversa la sorte di Gretel Bergmann - nata a Laupheim il 12 aprile 1914 -, l’altra “vittima sacrificale” che il III Reich intendeva utilizzare per darsi una parvenza di legittimità. Figlia di genitori ebrei, nel 1934 a Gretel venne proibito di continuare a frequentare l’università in Germania e, per concludere gli studi, Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 82 si recò in Gran Bretagna. Il 30 giugno 1936 s’impose nelle prove di qualificazione olimpica saltando m. 1,60 ed eguagliando il record tedesco, ma il 16 luglio le venne comunicato che, malgrado il brillante risultato, non era stata ritenuta idonea a vestire la maglia della nazionale. Allo sport nazionalsocialista bastava e avanzava un’ebrea, la Mayer, da esibire davanti all’opinione pubblica mondiale. Due, erano francamente di troppo. Chi viceversa boicottò deliberatamente, in quanto ebreo, l’Olimpiade delle “croci uncinate” fu Milton Green. Di Lowell in Massachussets, località che gli aveva dato i natali il 31 ottobre 1913, Green - studente ad Harvard - era primatista mondiale dei 60 m. ostacoli (7”5) nel 1936, quando, consultatosi con il suo rabbino, rinunciò ai Giochi olimpici per ragioni morali e religiose, rifiutandosi di partecipare a un’esaltazione dell’hitlerismo. Un coraggio che mancò all’AAU (la più antica istituzione sportiva americana, fondata il 21 gennaio 1888), chiamata dal 6 all’8 dicembre 1935, al “Commodore Hotel” di New York, a pronunciarsi definitivamente sulle Olimpiadi berlinesi. Confronto/scontro a viso aperto, per molti versi drammatico, che in base al suo esito impedì di scrivere una diversa pagina di storia olimpica e non solo. La battaglia all’ultimo voto era già in corso dall’estate, e si polarizzò attorno ai due principali contendenti: Jeremiah Titus Mahoney - l’esponente di punta dell’area del boicottaggio - e Avery Brundage. Nato a New York il 23 giugno 1876, giudice della Corte Suprema (1925-28) e delegato newyorkese alle Convention democratiche del 1920-‘32-‘36-‘40-‘44-‘48-‘52, il cattolico Mahoney, attenendosi alla risoluzione Kirby del 21 novembre ’33, partìall’attacco il 26 ottobre 1935 con una lettera aperta sul New York Time snella quale poneva in discussione la reale autorità di Lewald, portava dei precisi esempi di discriminazione razziale e accusava la Germania di voler sfruttare propagandisticamente i Giochi. E a dar fiato alle sue posizioni, in Versey Strett a New York s’installò un “Commitee on FairPlayin Sport” che nel 1935 editò l’opuscolo Preserve the olympic ideal: a statement of case against partecipation in the Olympic Games in Berlin. Testo cui replicarono sia Brundage che Gustavus T. Kirby, divenuto – nonostante Mahoney continuasse a evocarne le posizioni originarie - suo fidato alleato. Il primo con un documento di 18 pagine distribuito in 10.000 copie, Fair Play for American Athletes, nel quale asseriva come dietro il boicottaggio si annidassero lobbies ebraiche e agitatori comunisti; Kirby con delle sue riflessioni che portavano il titolo di Some why’s and wherefore’s of the Olympic Games of 1936. Trasportato questo dibattito al “Commodore Hotel”, Mahoney provò a indirizzare la discussione presentando nella riunione ristretta del Comitato esecutivo AAU, che anticipava l’apertura dei lavori congressuali, una sua risoluzione che dettava: Occorre che la AAU chiami tutti i suoi membri, tutti gli atleti americani e tutti coloro che amano il fair play, a concordare con lo spirito di questa risoluzione: e quindi non dare supporto o incoraggiamento alla formazione di una rappresentativa USA per competere nei Giochi, né a prendervi parte, se questi si terranno in Germania, come atleti o spettatori. Con una risicata maggioranza di 7 a 6 la risoluzione venne respinta. Mahoney insistette però nella sua battaglia, chiedendo di demandare all’Assemblea l’ammissibilità di una sua eventuale messa in votazione. Ne uscì nuovamente sconfitto per 61 11/20 a 55 7/60. A battere il boicottaggio non furono tanto i singoli delegati quanto il voto dei “grandi elettori”e delle associazioni. Tra questi, bocciarono Mahoney gli ex presidenti Brundage, Kirby, Murray Hulbert e l’ex segretario Frederick Rubien. A favore del giudice della Corte suprema si schierò l’ex presidente Alfred Lille a metà, con un sì e un’astensione,l’ex segretario Ferris. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 83 Tra le associazioni finì 13 a 2 per Brundage-Kirby con l’astensione dell’”Amateur Athletic Union of Canada” . Per non boicottare Berlino si espressero: “Amateur Skating”, “American Insitute of Banking”, “American Sokol Union”, “American Turnerbund”, “German American Athletic Union”, “Intercollegiate American Amateur Athletic Association”, “Middle Atlantic State Collegiate Athletic Association”, “National Cycling Association”, “National Ski Associations”, “Polish Falcons of American”, “Polish National Alliance”, “Slovack Catholic Sokol”, “United States Amateur Baseball Association”. A Mahoney,diedero il proprio assenso solamente “Amateur Fencers League of America” e “Jewish Welfare Board”. L’asprezza dello scontro, che stava provocando una crisi senza precedenti ai vertici e alla base dell’AAU, indusse tuttavia a ricercare una mediazione estrema. Aron Steuer, membro del “Jewish Welfare Board”, propose un emendamento che prevedeva la costituzione di una commissione paritetica di tre elementi (uno in rappresentanza delle posizioni di Brundage, uno di Mahoney e un terzo neutro) che si recasse in Germania per riverificare le condizioni di rispetto dei diritti umani nel Paese. L’emendamento Steuer perse di stretta misura 55 3/4 a 58 1/4, e questo scarto pose la parola fine a ogni volontà di boicottaggio americano delle Olimpiadi di Berlino. L’ultimo colpo di coda di questa lotta, che aveva sostanzialmente visto sfiduciare la presidenza AAU in carica, si ebbe in sede CIO. Un suo componente statunitense, Ernest Lee Jahncke, che vi era stato cooptato dal 1927, non intese rassegnarsi e con dichiarazioni pubbliche e lettere aperte a Theodor Lewald e Henri de BailletLatour proseguì nel sostenere la sua contrarietà a quei Giochi. Invitato alle dimissioni non accettò di rassegnarle e, per tale motivo,venne bandito dal CIO con voto unanime, tranne l’astensione del collega americano William Garland. Un’espulsione di cui approfittò immediatamente Avery Brundage, che ne prese il posto intraprendendo da lì una scalata che nel 1952 l’avrebbe issato sullo scranno più alto del CIO. Così da New York Arbor, il 15 luglio 1936, salpava il “Manhattan” con 384 atleti e 87 accompagnatori a bordo. La delegazione statunitense sbarcò ad Amburgo il 24 luglio 1936, e a quel punto, davvero, le Olimpiadi di Adolf Hitler non correvano più nessun pericolo. LETTURE CONSIGLIATE: David Clay Large “Le Olimpiadi dei nazisti. Berlino 1936”, Corbaccio, Milano, 2009. Marshall Jon Fischer “Terribile splendore. La più bella partita di tennis di tutti i tempi” 66tha2nd, Roma, 2013. Sergio Giuntini “L’Olimpiade dimezzata. Storia e politica del boicottaggio nello sport”, sedizioni, Milano, 2009. David Margolick “Oltre la gloria. Joe Louis vs Max schmeling.Un orlo sull’orlo del baratro”, Il Saggiatore, Milano, 2008. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 84 DALLA RICOSTRUZIONE AL SESSANTOTTO CHIEDI CHI ERA BARTALI: POLITICA E CICLISMO PROF. FABRIZIO FELICE Ogni giorno l’insegnante ha di fronte allievi che attendono fiduciosi la risposta a tutti i loro perché. E allora, che nel cielo dei poeti Roberto Roversi mi perdoni se rubo le parole alla sua “Chiedi chi erano i Beatles", facciamo che al primo banco ci sia "la ragazzina bellina di quindici anni di età, col suo naso garbato, gli occhiali e con la vocina. Che deve ancora imparare, che è nata ieri, che del resto ne sa proprio poco". Che ci domanda chi era mai quel Bartali (uso la parola piana non solo per esigenze metriche, ma anche perché fino al 1940 sui giornali sportivi restera aperto il dilemma Bartali o Bartàli). Prendo il coraggio a due mani e sparo la mia risposta. (IMMAGINE 1). Bartali non è solo uno dei tanti eroi sportivi sfiorati dai grandi eventi. E’ un protagonista della Storia con la esse maiuscola. E’ il prototipo degli assi del pedale che, come afferma nel 1936 Orio Vergani, "un tempo erano simili a noi, contadini, braccianti, muratori, garzoni. Han preso la bicicletta e hanno conquistato il mondo. Le folle li attendono e li acclamano perché hanno sfidato la polvere e la pioggia e, benché feriti, si sono rialzati. Perché hanno vinto le montagne. Sono i diseredati della fatica che in un torneo umile e appassionante si sono fatti cavalieri della fatica”: Bartali è l’alfiere dello sport del popolo che parla un linguaggio facilmente decifrabile. E’ un uomo a tutto tondo, nella sua grandezza e nelle sue miserie. E lo storico, diceva Marc Bloch, è "come l’orco delle favole: là dove fiuta carne umana, là sa che é la sua preda". Una preda che inseguiro in una corsa lunga tredici anni, anni cruciali nella storia italiana, soffermandomi su tre momenti specifici della lunghissima carriera del ciclista toscano: le prime affermazioni; la traumatica interruzione legata allo scoppio della seconda guerra mondiale; gli anni della seconda giovinezza. Se volete "ascoltare non solo per gioco il passo di mille persone, se volete sentire sul braccio il giorno che corre lontano", io sono pronto. Andiamo a cominciare. BARTALI IL PIO Primo agosto 1938. Il pubblico parigino assiepato sulle tribune del Parco dei Principi acclama il vincitore del Tour de France, un ventiquattrenne esile e schivo nato a Ponte a Ema, piccola località alle porte di Firenze. (IMMAGINE 2) L’entusiasmo degli italiani è alle stelle. La campagna sportiva di Francia, inserita in una più vasta offensiva gallofoba scatenata da Mussolini, si è conclusa con un esito trionfale. Nel giro di poche settimane Nearco, il "cavallo del secolo", si impone nel Grand Prix di Parigi; i calciatori italiani si riconfermano campioni del mondo; Bartali si aggiudica la massima competizione mondiale rinnovando le gesta di Ottavio Bottecchia. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 85 Tutti gli obiettivi propagandistici sono stati centrati. In barba agli esuli antifascisti che favoleggiano di un calo del consenso, che hanno fischiato la nazionale, che hanno preso a sassate le macchine italiane al seguito del Tour, un popolo gagliardo e compatto, forte di una evidente superiorità di razza, ha dimostrato come sotto l’egida del regime ogni forma della vita sociale è destinata a primeggiare. Eppure attorno al recinto delle premiazioni aleggia un clima strano. (IMMAGINE 3) Le liturgie che accompagnano le imprese degli ambasciatori straordinari all’estero paiono più doverose e fiacche che mai: il fascio littorio sulla maglietta, il saluto romano, i telegrammi di felicitazioni dei gerarchi, gli annunci a pagamento apparsi sui giornali sportivi ("Un comandamento dell’Italia del DUCE: vincere! Bartali, campione della Legnano, ha obbedito"). (IMMAGINE 4) Al microfono dello speaker dell’EIAR Giuliano Gerbi, che di lì a qualche giorno sarà licenziato in quanto "appartenente alla razza ebraica", Bartali, dopo aver bofonchiato parole smozzicate di ringraziamento agli alti papaveri del regime, scandisce a chiare lettere il suo "caro ricordo agli amati confratelli dell’Azione Cattolica". Ed é inalberando con fierezza il distintivo della Gioventu Italiana di Azione Cattolica che il campione si reca il giorno successivo a deporre una corona di fiori al santuario di Nostra Signora delle Vittorie e a far visita all’arcivescovo di Parigi. Che, al rientro in Italia, si presenta all’appuntamento con Starace che, invece della medaglia d’oro al valore atletico conferita alla nazionale di calcio, lo insignisce della medaglia d’argento. Poco male. Gino può consolarsi con la medaglietta di Santa Teresa fatta pervenire da Pio Xl al termine di una udienza pubblica a Castelgandolfo e con le accoglienze trionfali che gli riservano cardinali, dirigenti dell’Azione Cattolica, collegi e giornali religiosi. (IMMAGINE 5) Ce n’è a sufficienza perché il nove agosto una velina del Minculpop imponga alla stampa di occuparsi di Bartali, sul cui conto l’OVRA ha aperto un fascicolo, “esclusivamente come sportivo, senza inutili resoconti sulle sue giornate di libero cittadino”. Da dove sbuca questo alieno che e stato inviato al Tour dopo che tra Mussolini, Starace e il generale Antonelli, presidente dell’UVI, si è svolto un dialogo di questo tono: "Bartali é fascista‘?" "Assolutamente no!” “Ma potrebbe vincere il Tour?" "Si, se gli verrà vietato di correre prima il Giro d’Italia" "E allora mandiamolo. Meglio una vittoria che un fascista che perde” ? Da dove sbuca questo scarto di produzione della infaticabile "officina di Mussolini" ? Per capirlo é necessario, come in tutte le grandi storie, fare un passo indietro. Fino al 1936 la vicenda umana e sportiva di Bartali non si distacca da quella degli altri campioni del pedale. Nato nel 1914 da un padre di convinzioni socialiste e da una madre profondamente religiosa, Gino trova modo di coltivare la sua passione impiegandosi come meccanico in una bottega di riparazioni di biciclette. Esordisce nel 1931, passa al professionismo nel 1935 per essere assunto in forza l’anno successivo dallo squadrone della Legnano, Bartali é cattolico, come tanti altri sportivi prima di lui. Mai tuttavia la fede era stata ostentata come elemento distintivo e come fattore di successo come avverrà per Gino, attorno Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 86 al quale il movimento cattolico, servendosi di tutti gli strumenti a sua disposizione, si accinge ad imbastire una operazione propagandistica attentamente studiata a tavolino. Operazione che ha una data e un luogo di nascita: 21 maggio 1936, Montecatini, località di arrivo della terza tappa del Giro d’Italia. Il padrino é Carlo Bergoglio, il popolare "Carlin”, uno dei più grandi giornalisti sportivi italiani, uomo di dichiarata fede. Carlin, che ha captato i segnali della schietta religiosità del corridore, intervista per la torinese "Gazzetta del Popolo" Bartali e il suo direttore spirituale don Bruno Franci. Il sacerdote gli assicura che Gino “gli é un buon figliuolo, va a messa ogni domenica, porta il distintivo della Cattolica", alla quale è affiliato dall’eta di dieci anni. La macchina si è messa in moto. "Gino Bartali vincitore del Giro d’Italia e vessillifero della Gioventù Cattolica", titola su sette colonne l’organo della curia milanese "L’Italia". L’autore del pezzo e Carlo Trabucco, militante torinese dell’Azione Cattolica, allontanato dalla redazione de "La Stampa" per non aver voluto prendere la tessera del PNF. Trabucco informa i lettori che Bartali porta all’occhiello, accanto a quello dei Giovani Fascisti, il distintivo di una Gioventù Cattolica che considera una autentica "milizia”. Che è devoto a Santa Teresa di Lisieux, alla quale nella sua casa ha eretto un altare. (IMMAGINE 6) "Basta guardarlo negli occhi per accorgersi che é dei nostri", incalza Luigi Gedda, dal 1934 presidente della GIAC, che, dopo avergli consegnato un distintivo d’oro, lo accredita presso Pio XI come atleta cristiano spendibile sul piano apologetico. La Libreria Editrice Salesiana pubblica a tamburo battente “Arriva Gino", commedia destinata a diventare un cavallo di battaglia dei teatri parrocchiali. E il tamtam mediatico non accenna a placarsi nel corso degli anni a seguire. Nel 1937, che coincide con il secondo successo di Bartali nel Giro d’Italia, si sparge addirittura la voce che il ciclista, affranto per la morte del fratello Giulio in un incidente di corsa, si sia ritirato in convento. Ma si tratta dell’ennesimo frutto della colossale ignoranza italiana in materia religiosa, che induce a confondere l’ordine religioso con il Terz’Ordine Carmelitano Teresiano, al quale Bartali è stato aggregato con il nome di Fra Tarcisio di Santa Teresa del Bambin Gesu. La stampa fascista, presa in contropiede, dopo essersi sforzata invano di far suo il nuovo prodotto dell’immaginario culturale, oscilla tra lo scetticismo, il fastidio, il sarcasmo. Scendono in campo le grandi firme. Bruno Roghi sostiene che “la vocazione dello stradista non annulla la devozione del credente: Dio aspetta sulle montagne gli uomini di buona volonta". Marco Ramperti sfonda la barriera della sublime idiozia: "chi ha visto passare Gino Bartali nel vespero delle crode, mentre il raggio delle ruote risplendeva come quello del rosone di un altare, dice che egli aveva la testa eretta e gli occhi socchiusi e le braccia sciolte, quasi, dai manubri, così come in preghiera". Dalle colonne de "Il Popolo d’Italia" picchia duro Nino Nutrizio, prendendo spunto dalla riluttanza del corridore a partecipare al Tour del 1937: "andrò se mi assicurano 200.000 lire, dice Bartali, che si e creato una popolarita come Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 87 sereno interprete della bonta francescana. Ma non ci risulta che il Poverello di Assisi avesse libretti di risparmio". Si sussurra che nel 1938, al mondiale di Valkenburg, Bartali abbia volutamente corso al risparmio per privare il fascio di una grande vittoria. E dopo il giro del 1939 un informatore dell’OVRA riferisce di un’opinione pubblica che ha accolto con gioia il successo del Giovane Fascista Giovanni Valetti a spese del "commediante cattolico” Bartali. Alla lunga, insomma, prevale la presa di distanza. Troppo marcata è la discrepanza tra lo stereotipo dell’uomo nuovo aderente ai valori fondanti del regime e quello incarnato dall’atleta toscano. Gli assi dello sport fascista ostentano una bellezza virile e una congrua dose di arroganza; sono immersi in un tempo scandito dai clamori delle adunate oceaniche; leggono "La Gazzetta dello Sport"; si ispirano a Mussolini, "promo sportivo d’Italia"; scelgono come numi tutelari gerarchi e gerarchetti. Bartali è esile ai limiti della fragilita. E’ mite, silenzioso. Non beve, non fuma, arriva vergine al matrimonio. E’ un solitario, il "solitario delle Dolomiti". Legge le vite dei santi e le riviste cattoliche. Pone ad ideali di vita due campioni del laicato cattolico, Giosuè Borsi e Pier Luigi Frassati. Si muove in uno spazio sociale e culturale delineato dall’immaginetta stampata nel maggio del 1937 in centinaia di esemplari dalla chiesa milanese del Corpus Domini: "nella chiesa dove, prima di partire per il venticinquesimo giro d’Italia, ho invocato l’aiuto divino, oggi mantengo la promessa, ringraziando solennemente il Signore, la Vergine del Carmelo e la sua santa prediletta, Santa Teresa, per la nuova grazia concessami. Gli eminentissimi cardinali e i vescovi d’Italia che mi benedirono, i padri carmelitani, gli amici di Azione Cattolica, i terziari, abbiano il mio più vivo grazie". (IMMAGINE 7) A dispetto delle insistenze dei fascisti fiorentini, rifiuta di prendere la tessera del PNF. E, sopra ogni altra cosa, nel recitare la parte che gli é stata assegnata, compendia l’ideologia sportiva cristiana esprimendosi con il linguaggio incontrovertibile della vittoria. E proprio in questa direzione va ricercata la ragione del successo dell’opera di appropriazione da parte del movimento cattolico. Bartali è l’uomo giusto nel posto giusto al momento giusto. Consente ai credenti di rialzare la testa, di cancellare in un sol colpo anni e anni di scudisciate squadristi che si abbattevano sui giovani cattolici: rachitici e occhialuti, conigli domestici, paolotti buoni solo a recitar rosari e a reggere ceri. "Habemus campionem!", esulta la GIAC, forte all’epoca di 10.000 sezioni e di 400.000 affiliati (un’enormità che ci riporta, rammentate, alla categoria del "totalitarismo imperfetto"). La Gioventù Cattolica, è il leit - motiv di riviste come "Gioventù Nova" e “Credere", penetra in ogni settore della vita sociale, si afferma in ogni competizione. "Passava Gino Bartali veloce come il vento, il giovane cattolico con fede ed ardimento. Misteri di una tessera: la sua vittoria è frutto succoso della pratica del motto primi in tutto!”. "Indietro! Passa Bartali. Alfiere, innalza l’asta. Siam giovani cattolici, signori, e tanto basta". LA GUERRA DI GINO Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 88 La ricreazione sta per finire. Nel cielo della patria battono le ore segnate dal destino. E lo sport ne segue ogni rintocco. ll 5 maggio 1940 un ventunenne piemontese, Coppi Fausto, partito come gregario di Bartali, arriva a Milano in maglia rosa (IMMAGINE 8). Cinque giorni piu tardi il popolo italiano corre alle armi. Il futuro campionissimo segue la traiettoria dell’italiano comune. Né il suecesso nel Giro d’Italia né il prestigioso record mondiale dell’ora ottenuto per acquisire benemerenze nel novembre del 1942 in un Vigorelli circondato dalle macerie dei bombardamenti valgono ad evitare la partenza per il fronte africano (IMMAGINE 9). Catturato dagli inglesi nell’aprile del 1943 e rinchiuso in un eampo di concentramento tunisino, Coppi, sofferente per un’ulcera gastrica e affetto da un focolaio di malaria verrà rimpatriato alla fine del 1944 ed internato a Caserta. Nel frattempo i Giri d’Italia di guerra e i circuiti locali mettono in scena una parvenza di normalita. Giunge il trauma della caduta del fascismo. Il 25 luglio Renato Morandi, campione italiano di velocita su pista, guida per le strade di Varese un corteo di ciclisti festanti indossando la maglia tricolore. A Firenze il marchigiano Ubaldo Pugnaloni, dopo essersi imposta nel campionato italiano dei Giovani Fascisti, si accorge con stupore che le camicie nere sono sparite e, tra le ovazioni del pubblico, strappa dalla maglia i simboli del regime. Le strade si separano dopo l’otto settembre. Qualcuno, pochi, per la verità, imita il cuoco di Salò della canzone di De Gregori, che "qui si fa l’Italia e si muore dalla parte sbagliata". E’ il caso di Fiorenzo Magni, ciclista toscano di provata fede fascista (IMMAGINE 10), ultimo frazionista della Staffetta del Ventennale corsa nell’ottobre del 1942 da Predappio a Roma, imboscato nel battaglione olimpico di stanza a Roma, arruolato alla fine del 1943 nella Guardia Nazionale Repubblicana impegnata nella lotta antipartigiana, frequentatore della banda fiorentina del maggiore Carità, definita da Pietro Calamandrei "associazione a delinquere di volontari del delitto tenuti insieme dal gusto di appagare nello strazio degli innocenti la loro sadica volonta di ferocia". Nel gennaio del 1944 Magni partecipa al rastrellamento sul monte Valibona, nelle vicinanze di Prato, in cui troverà la morte Lanciotto Ballerini, comandante di una piccola formazione partigiana collegata al Partito d’Azione (IMMAGINE 11). Il ruolo di Magni, che, per evitare rappresaglie, si e tempestivamente rifugiato a Monza, non sarà mai completamente chiarito. L’inchiesta aperta nel dicembre del 1945 sfocerà in un processo chiusosi nel febbraio del 1947 con una sentenza che eviterà al ciclista toscano la condanna a trent’anni per collaborazionismo in virtù dell’amnistia sui reati politici promulgata nel 1946 dal guardasigilli Palmiro Togliatti. Decisiva risulterà la testimonianza favorevole a Magni di Alfredo Martini, rappresentante del ricco filone dei ciclisti che aderiscono alla resistenza per le cui vicende rimando al libro di Sergio Giuntini. Nella sua singolarità, la guerra del soldato Bartali è emblematica della complessità delle vicende italiane nella fase convulsa che va dal 1943 al 1945. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 89 Pur in odore di eresia, Gino è troppo celebre per subire la sorte di Coppi. Arruolato dapprima nei battaglioni territoriali con funzioni di portaordini in bicicletta (IMMAGINE 12), assegnato successivamente alla milizia stradale con tanto di camicia nera, il 25 luglio Bartali si dimette. Considerato disertore, deve nascondersi per qualche tempo in Umbria prima di poter rientrare a Firenze. Nel capoluogo toscano viene contattato dal cardinale Elia Dalla Costa, che gli prospetta due pericolosissime missioni: coadiuvare la Delegazione per l’Assistenza degli Emigrati Ebrei, che opera clandestinamente per nascondere i perseguitati nei conventi dell’Italia centrale; trasportare fotografie e documenti da Firenze ad Assisi, dove è in azione una tipografia che stampa carte di identità e lasciapassare contraffatti (IMMAGINE 13). Nascondendo il materiale nel tubo del sellino Bartali effettua una quarantina di viaggi camuffati da sedute di allenamento, sfidando il rischio, se scoperto dai tedeschi, di essere fucilato sul posto. E non è finita. Gino nasconde a Ponte a Ema una famiglia di ebrei fiumani (IMMAGINE 14) e guida in salvo presso le formazioni partigiane un gruppo di militari inglesi. Si cammina sul filo del rasoio. Nel 1944, con l’accusa di essere in contatto con il Vaticano per organizzare un traffico d’armi, Bartali è convocato dai torturatori della banda Carità, davanti ai quali si presenta esibendo il distintivo della GIAC e alle cui grinfie sfugge solo per l’intervento delle alte gerarchie ecclesiastiche fiorentine. Alla fine del 1944, durante un’uscita di allenamento, è bloccato da una banda di partigiani comunisti che, imputandogli di avere indossato la divisa fascista, minacciano di giustiziarlo. A salvarlo sarà Primo Volpi, futuro campioncino e partigiano sul Monte Amiata. "Certe cose si fanno e non si dicono", affermera Bartali motivando un silenzio mantenuto sulle sue benemerenze che è stato rotto solo da qualche anno (IMMAGINE 15). IL CROCIATO E’ un silenzio tanto pin sorprendente se si considera che il Bartali del secondo dopoguerra, spigoloso, temprato dalle avversità, precocemente invecchiato, appare un lontano parente di quello degli anni Trenta. Beve, fuma, gioca a carte, smoccola, assume un piglio baldanzoso che lo mette in contrasto con l’universo mondo, attribuisce ogni insuccesso al destino cinico e baro, parla, parla, parla. In queste nuove vesti Gino Bartali acquista un rilievo storico di straordinaria importanza per almeno tre motivi. Come figura di confine tra il vecchio e il nuovo che esemplifica una penetrante osservazione del grande studioso della rivoluzione russa Edward Carr: "la tensione fra gli opposti principi di continuità e di cambiamento è il fondamento della storia. Tutto ciò che sembra avvenire senza interruzione è sottoposto alla sottile erosione di un intimo mutamento. Nessun cambiamento, per quanto si manifesti in modo violento e brusco, segna d’altra parte una rottura completa col passato". Come soldato di una nuova crociata nel corso della quale transita dal ruolo di icona alternativa a quella di atleta di regime (IMMAGINE 16). Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 90 Come espressione di una tendenza tutta italiana che, rifuggendo dalle mezze tinte, divide ogni aspetto della vita sociale in due campi contrapposti. Andiamo per ordine. Nella situazione di sbandamento che attanaglia il paese, gravida di potenziali vantaggi per le forze eversive, la chiesa, sbandierando benemerenze antifasciste reali e presunte, si pone come luogo di rifugio, di consolazione, di riconciliazione, come fattore di continuità culturale e strutturale, come asse portante dell’opera di ricostruzione. Sono compiti impegnativi che le gerarchie ecclesiastiche affidano, più che al partito cattolico in via di formazione, alle organizzazioni di massa, a partire dall’Azione Cattolica. La riaffermazione della presenza cristiana in ogni settore della vita quotidiana, che ha per ideologo Pio XII e per stratega il presidente dell’Unione Uomini di Azione Cattolica Luigi Gedda, coinvolge anche il mondo dello sport. Tra il 1945 e il 1946 il papa si esprime ripetutamente al proposito, attingendo al linguaggio agonistico di San Paolo: "ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa non per guadagnare un premio corruttibile, ma con la speranza di una corona imperitura”. A questa impostazione la maschera aggressiva ed invadente di Bartali risulta pienamente funzionale. Gino e uno dei “gagliardi che hanno combattuto col petto decorato di medaglie". E’ un marito e un padre esemplare. E’ l’uomo di ferro la cui straordinaria longevità atletica ha per segreto l’austerità di vita ed una fede profonda. Novello crociato (IMMAGINE 17), diviene il modello del perfetto militante cattolico che alterna preghiera, frequenza alle funzioni religiose, testimonianza nel mondo del lavoro, propaganda nei periodi elettorali e che, all’occorrenza, è capace di "dare qualche solida lezione agli avversari politici". Non a caso sfuma all’ultimo momento la realizzazione di una torrenziale pellicola sul ciclista toscano commissionata a Romolo Marcellini, regista del polpettone agiograiico sulla vita di Pio XII “Pastor Angelicus". La consacrazione arriva comunque ed é assolutamente clamorosa. Il sette settembre 1947, per celebrare il venticinquesimo anniversario di fondazione dell’Unione Uomini di Azione Cattolica, 200.000 iscritti affollano piazza San Pietro per ascoltare l’allocuzione pontificia passata alla storia come "discorso dell’arcobaleno". Avviandosi alla conclusione, Pio XII (IMMAGINE 18) si rivolge in questi termini alla folla oceanica: "il tempo della riflessione e dei progetti è finito. Ora viene il tempo dell’azione. Anche pochi istanti possono decidere della vittoria. Siete pronti? Guardate il vostro Gino Bartali, membro come voi dell’Azione Cattolica (per inciso, a 35 anni Gino appartiene ancora alla GIAC, un anacronismo cui solo nel gennaio del 1948 metterà termine Gedda con la consegna del distintivo degli Uomini di Azione Cattolica). Egli ha piu volte guadagnato l’ambita maglia gialla. Correte anche voi in questo campionato ideale". Mentre l’entusiasmo si trasforma in delirio, i vaticanisti si guardano allibiti: mai in passato un pontefice aveva formulato un riferimento pubblico a un personaggio vivente, tanto più se operante in campo profano. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 91 "Un popolo di otto milioni di biciclette sta completando il suo addestramento sotto la guida del generale Bartali", ironizza il "Don Basilio. Settimanale satirico contro tutte le parrocchie” (IMMAGINE 19). E a quanti in campo cattolico segnalano il rischio di una totale confusione di valori si obietta che anche Bartali, come Dante, Manzoni e Marconi, rientra a pieno titolo nel novero dei campioni che hanno applicato la ginnastica della mente all’ordine spirituale come a quello fisico. L’apoteosi del “generale Bartali" si completerà di li a due mesi con il conferimento della croce di cavaliere dell’ordine di San Silvestro, avvenuta nel corso di una solenne cerimonia alla quale presenziano Giulio Andreotti, il presidente dell’Azione Cattolica Veronesi, il sindaco di Roma Rebecchini, il presidente del CONI Giulio Onesti (IMMAGINE 20). Le formule di facciata che affermano l’apoliticità dello sport, terreno neutro dove possono incontrarsi uomini delle più diverse idee, sono dunque puntualmente smentite dai fatti. ll fascismo, di cui si critica in un sol coro l’uso a fini strumentali delle attività motorie, è stato un maestro che ha lasciato il segno. L’Azione Cattolica, sin dal 1944, si è affrettata a costituire il Centro Sportivo Italiano e la Federazione Associazioni Ricreative Italiane che, superando la tradizionale visione separatista, trattano da pari a pari con il CONI, le federazioni sportive, la scuola, acquisendo benemerenze e concreti riconoscimenti. Nelle sue diverse articolazioni il movimento cattolico controlla la proprietà de “La Gazzetta dello Sport", l’organizzazione del Giro d’Italia, la gestione della SISAL. A loro volta i partiti di sinistra hanno iniziato a leggere lo sport come fenomeno di massa assimilabile alle grandi istituzioni che mediano il sistema delle relazioni politiche e sociali. La nascita del Fronte della Gioventù e dell’Unione Italiana Sport Popolare destano viva preoccupazione negli ambienti cattolici, che la interpretano come segnale di una volontà di penetrazione nel feudo sportivo. Addirittura alla partenza del Giro del 1946 si allineano la squadra dei "soldati sportivi di Cristo" del CSI e una rappresentativa in maglia tricolore del Fronte della Gioventù. In un paese devastato di povera gente per la quale vivere è quotidiana arte di arrangiarsi sarà proprio il ciclismo a dimostrarsi capace di produrre e di moltiplicare energie positive, di comporre favole meravigliose che agganciano i sentimenti popolari, di delineare contrapposizioni nette e forti tra personalità distinte che alimentano meccanismi di identificazione totale. La rivalità sportiva é metafora della contrapposizione radicale che attraversa il paese, grossolanamente delineata in termini propagandistici come scontro che oppone moderatismo, umanesimo, libertà, stabilità, Cristo a progressismo, totalitarismo, schiavitù, salto nel buio, Drago Infernale. Il vertice della tensione coincide con le epocali elezioni politiche del 18 aprile 1948, in netta rottura con tutte le esperienze precedenti per vastità e intensità della mobilitazione e per la pluralità dei mezzi utilizzati, le forze cattoliche raggruppate attorno alle parrocchie, alla Democrazia Cristiana di De Gasperi, ai Comitati Civici promossi da Gedda, sconfiggerà nettamente il Fronte Democratico per la Libertà, la Pace e il Lavoro. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 92 Su questo sfondo si collocano le origini e lo sviluppo di un dualismo che ha fatto versare fiumi di inchiostro, quello tra Coppi e Bartali, elaborato in modo sistematico e coerente attorno alla figura di Bartali (IMMAGINE 21). La fede e la militanza politica di Ginettaccio sono costruite sulla roccia. L’umanità appartata di Coppi, da sempre di problematica decifrazione, consente invece una declinazione in negativo del personaggio. Se Bartali, secondo la definizione coniata da Indro Montanelli, è "il De Gasperi del ciclismo (Gino e Alcide si sono conosciuti e piaciuti a prima vista gia negli Anni Trenta), da nessuno amato, da tutti temuto, che segue nel pedalare i calcoli pazienti e tenaci a cui lo statista trentino si ispira per governare", Coppi non può che essere identificato con lo schieramento opposto: e sicuramente comunista e i suoi successi su Bartali rappresentano altrettante sconfitte dei "clericociclisti”(IMMAGINE 22). Ogni minimo indizio schiude spiragli di speranza. "Per un certo periodo di sbandamento, Coppi ha gravitato nell’orbita del cielo sinistro", lamenta l’autorevole "Osservatore Romano". Togliatti è uno dei suoi più accesi sostenitori. "L’Unità " pubblica una sua foto con dedica. Nel 1947 Coppi offre la sua consulenza tecnica al Fronte della Gioventù per la selezione della rappresentativa da inviare al Festival Mondiale della Gioventù. Ma per i proletari senza rivoluzione si tratta dell’ennesima beffa. "Non sono comunista”, afferma solennemente nel corso di una visita alla redazione del quotidiano clericale "L’Italia" Fausto, che ha ricevuto una educazione cattolica e ha maturato una fede vissuta come fatto privato senza alcuna ostentazione. Nel 1947 la rivista del CSI “Stadium" appone ad una sua fotografia il seguente commento: “Il Campionissimo condivide pienamente gli ideali della nostra associazione e aderisce ben volentieri al nostro movimento"(IMMAGINE 23). Nello stesso anno, dopo aver ricevuto da Gedda una medaglia d’argento del pontificato, viene ricevuto in udienza da Pio XII (IMMAGINE 24). Nel 1948, assieme a Bartali, al fratello Serse e ad altri sei assi del pedale, Coppi è tra i firmatari di un "Appello agli sportivi d’Italia" redatto a cura dei Comitati Civici di Gedda, il cui testo é inequivocabile: "Al culmine della grande battaglia elettorale noi, uomini del pedale, non per spirito di parte, ma per l’amore che portiamo alla nostra Italia, ricordiamo a tutti gli amici il richiamo che il Santo Padre, nel giorno di Pasqua, ha lanciato al popolo italiano:" la grande ora della coscienza cristiana e suonata". Chi non ha rinunciato alla Fede dei padri e non vuol rinnegare la Madre Italia raccolga il monito del capo della Chiesa e lo traduca in atto compiendo coscienziosamente il dovere civico cui la Patria lo chiama. Viva l’Italia!" (IMMAGINE 25). Coppi declina senza esitazioni la proposta di candidatura per il Partito Comunista nel collegio di Genova, dichiarandosi invece disposto a presentarsi nelle liste della Democrazia Cristiana se lo farà anche Bartali, che però si chiama fuori. Il 18 aprile vota per lo scudo crociato. Ma le illusioni sono dure a morire. La rivalità tra Bartali e Coppi é un gioco stupendo in grado di far dimenticare le italiche brutture. I ritratti dei due campioni occhieggiano dalle pareti dei locali pubblici, dalle copertine delle riviste. La loro apparizione sugli schermi dei cinegiornali provoca ovazioni e bordate di fischi. I loro nomi riempiono muri, Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 93 striscioni, cartelli. Folle impazzite circondano le strade e gli alberghi, travolgono i cordoni di polizia, discutono, si insultano, sciolgono voti, scommettono. Il tifo ha delle ragioni che la ragione non può comprendere. Peppone, udite udite, e un bartaliano di ferro. Don Camillo tiene a Coppi perché non sopporta “il cammello Bartali" e ritiene che chi crede in lui sia "una zucca piena di semi di girasole". Un uomo per tutte le stagioni come Curzio Malaparte sposta il confronto tra i due mattatori addirittura sul piano antropologico, indicando in Bartali il figlio dell’Italia profonda, della tradizione immutabile, di un ciclismo antico, in Coppi il prodotto del progresso, del credo materialista di un mondo nuovo, del ciclismo di robot nelle cui vene scorrono benzina e additivi. Qualche anno più tardi un grande critico letterario, Geno Pampaloni, collocherà Bartali lungo la "linea calda" dello sport italiano, quella improntata all’ardimento e all’eccitazione agonistica, in contrapposizione alla "linea fredda" di Coppi, in cui si sommano misura, calcolo, intelligenza stilistica. Ai traguardi di tappa Coppi e omaggiato di mazzi di garofani rossi da militanti comunisti che smaniano anche per i " compagni ” Giancarlo Astrua, Renzo Zanazzi, Oreste Conti, Alfredo Martini e per Vito Ortelli, aggredito ad Udine da nazionalisti giuliani. Bartali, per il quale “trecentomila preti si spendono per ottenere dagli dei la vittoria dell’Arcangelo del Pedale, è apostrofato come “falso prete" da un malcapitato tifoso di Fausto, che per tutta risposta riceve una cristianissima serie di pugni. A complicare il quadro delle implicazioni politiche, nel Giro d’Italia del 1948 balza alla ribalta il "terzo uomo”, Magni, riammesso un anno prima nel gruppo (IMMAGINE 26). Nella tappa che si conclude a Trento Magni è penalizzato di due minuti per “spinte a carattere preordinato” ricevute sul Pordoi, spinte che "L’Unità" attribuisce a “scalmanati avanzi di galera, campioni della teppaglia fascista, collaborazionisti scaglionati lungo tutto il percorso". Lo sport, afferma il poeta Alfonso Gatto, inviato del giornale del PCI al seguito della corsa, "non obbliga a convivere con un uomo che la giustizia ha ritenuto flagrantemente colpevole, pur non trovando nel codice il massimo della pena per lui". Coppi si ritira in segno di protesta per l’esiguità delle sanzioni adottate e Fiorenzo, ossequiato a Fiuggi da uno dei leader delle forze neofasciste in via di ricostituzione, Giorgio Almirante, cui dichiara che "la Patria e il tricolore sono stati punti fermi di tutta la mia esistenza", si avvia verso la vittoria finale. Non senza problemi. Le ultime due tappe si trasformano in un incubo. Mentre la carovana si dirige verso Brescia la macchina de "L’Unita", sulla quale trova posto l’ex partigiano Attilio Camoriano, precede i corridori annunciando al megafono: "Sportivi, sta arrivando il gruppo dove c’e la maglia rosa del fascismo Fiorenzo Magni". Al Vigorelli Magni, che si aggiudica l’ultima frazione, è accolto da un uragano di fischi e di insulti e dal lancio di cuscini, monetine e cartacce. L’UOMO DELLA PROVVIDENZA Nel 1948 Bartali è atteso ad un ultimo appuntamento con la storia. Il trentaquattrenne ciclista toscano inizia in modo brillante il Tour de France, ma col passare del tempo deve cedere il passo al giovane campione transalpino Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 94 Louison Bobet, rispetto al quale accumula un distacco superiore ai ventuno minuti. Alle undici e trenta del mattino del 14 luglio, all’uscita dalla Camera, Palmiro Togliatti e gravemente ferito dallo studente siciliano Antonio Pallante. La Confederazione del Lavoro proclama lo sciopero generalc (IMMAGINE 27). I vecchi partigiani disseppelliscono le armi nascoste. Si occupano fabbriche, linee ferroviarie, centrali telefoniche. Spuntano le barricate. Scoppiano violenti scontri che provocano morti e feriti tra i dimostranti e le forze dell’ordine. Spunta un Fausto Coppi comunista davvero, militante senese arrestato e massacrato di botte dalla celere (IMMAGINE 28). Il paese é in stato preinsurrezionale. Il gruppo dirigente del PCI é consapevole dell’irrealizzabilità di una rivoluzione. Nel contesto internazionale l’Italia rientra nella sfera di influenza degli Stati Uniti che, come hanno rivelato i documenti dei servizi di sicurezza americani, in caso di colpo di mano comunista sono pronti a mantenere e a rafforzare le truppe di occupazione e le basi militari, a sospendere gli aiuti economici da cui dipende l’economia nazionale, ad assistere finanziariamente e militarmente le forze moderate. Senza contare che, accanto ad un’Italia che scende in piazza, ce n’é un’altra ben più consistente che, specie al Sud, non ha alcuna intenzione di mobilitarsi. "Se l’ondata di protesta monta - é il parere di Luigi Longo - la lasciamo montare. Se cala, la blocchiamo". Privi di direttive, i "compagni piu combattivi", non in linea con le direttive del partito che ha posto come obiettivo realistico le dimissioni del governo, appaiono sempre più isolati. La sera del 14 luglio, nel suo albergo di Cannes, Bartali riceve una telefonata confermata tanto dai compagni di strada quanto dal professor Paschetta, uomo di collegamento tra l’Azione Cattolica e la Democrazia Cristiana. In linea c’é De Gasperi in persona, tanto telegrafico quanto esplicito: "Gino, qui c’e l’inferno. Vedi se puoi fare qualcosa". E Bartali obbedisce, imponendosi nella Cannes - Briancon e riducendo ad un minuto il suo distacco da Bobet (IMMAGINE 29). Al Senato, dove é in corso una tumultuosa seduta, entra trafelato il deputato democristiano Matteo Torengo che reca la notizia del trionfo di Gino. Scoppia un applauso ecumenico. La lieta novella raggiunge l’assembramento che si é creato in via Galilei davanti alla sede de “La Gazzetta dello Sport" e di qui dilaga in piazza del Duomo, dove ai capannelli degli agit-prop subentrano quelli dei bartaliani e dei coppiani. Alle otto di sera il direttore del Giornale Radio Carlo De Biase, rompendo ogni consuetudine, apre il notiziario con l’annuncio del successo di Bartali. Intasati di chiamate, i centralini della TETI e della STIPEL incidono un disco in cui sono sintetizzati i termini dell’impresa. Nelle due tappe successive Gino infligge agli avversari distacchi abissali, arriva a Parigi in maglia gialla, coglie la prima grande affermazione sportiva italiana del dopoguerra. Al rientro in Italia offre la maglia gialla a Santa Teresa. E’ consacrato ad eroe locale nel corso di una cerimonia tenuta a Ponte a Ema in cui l’onnipresente Gedda lo nomina “ambasciatore all’estero dei Comitati Civici". Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 95 Viene ricevuto in udienza dal papa, che lo addita ad esempio di "campione della Patria e della Fede, due cose che vanno benissimo d’accordo" (IMMAGINE 30). E’ l’ospite d’onore di un banchetto di notabili democristiani, nel corso del quale Giulio Andreotti gli consegna una foto di De Gasperi con la dedica al "campione di italianità" (IMMAGINE 31). E’ condotto dal capo del governo al Quirinale, dove tra Gino ed Einaudi si svolge il seguente siparietto: "Caro Bartali, dovrei regalarle un’enorme coppa". "Presidente, sarebbe meglio se potesse levarmi un po’ di tasse". "La capisco, ma per questo non posso proprio fare niente" (IMMAGINE 32). "Se si lanciasse l’idea di un triumvirato De Gasperi, Scelba e Bartali - scrive Giovannino Guareschi - l’ottanta per cento degli italiani accetterebbe con entusiasmo". Un giornale della Capitale si affretta a pubblicare le memorie di Bartali, che l’incorreggibile “Don Basilio” taccia di "ridicole elucubrazioni di un presuntuoso tutto pieno di sé, scelto dall’Ufficio del Destino come insostituibile rappresentante di un tipo umano da ammirare e da applaudire". L’Uomo della Provvidenza che ha salvato pedalando l’Italia dalla rivoluzione entra cosi nel mito senza passare per la storia. Una storia che ci racconta una realtà diversa. Con la revoca dello sciopero generale decisa a mezzogiorno del 15 luglio la tensione sta calando ben prima dell’annuncio dell’affermazione di Bartali, dei cui effetti miracolosi non si trova traccia né nei rapporti dei prefetti e delle autorità di pubblica sicurezza né nelle testimonianze dei militanti comunisti. Ancora una volta tutto il peso della operazione poggia sulle spalle della stampa cattolica, con l’ausilio dei fogli moderati, in una sostanziale omogeneità degli spunti di cronaca, dei commenti, delle scelte stilistiche e lessicali: "accade l’evento imprevisto; come per incanto; avviene come un miracolo; se Dio vuole...". Sentite come si rievoca la vicenda in un libro sui grandi campioni del ciclismo redatto nel 1951 da Giordano Goggioli: "tutti erano cupi in volto. La paura, l’odio, i sentimenti piu terribili si leggevano sui visi dei passanti. Nelle case le donne tremavano al pensiero di dover rivedere i figli, i fratelli, i mariti con le armi alle mani. Ma una sera la radio annunciò che Bartali aveva vinto. La notizia passò più rapida di un fulmine, lego i gruppi con un nastro tricolore ricordando che eravamo tutti italiani. La gente sorrise. Dalle citta, dalle campagne si levò un grande sospiro di sollievo. Di nuovo ci sentimmo uguali e ci riguardammo con amore". Non é difficile cogliere il sotto testo: l’ansia di esorcizzare uno stato d’animo diffuso di paura di una nuova e ancora piu cruenta resa dei conti dopo quella seguita alla Liberazione, un’ansia che trova espressione nell’uso dei piu vieti luoghi comuni. Italiani brava gente, mai disposti a sacrificarsi fino in fondo, pronti a lasciar perdere politica e storia in cambio di un piatto di maccheroni e delle effimere passioni sportive. Rivoluzionari da operetta, belve assetate di sangue trasformate in innocui scavezzacolli che, dopo aver fatto i capricci, tornano in fretta ai trastulli prediletti, in scolaretti che, nel pieno della mischia, maniche rimboccate e fionde alla mano, vedono passare un moscone e restano a guardarlo distratti e divertiti. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 96 Per Bartali è l’ultimo colpo di coda. Avviato sul viale del tramonto, si ritira nel 1954 riducendosi in seguito a innocua macchietta televisiva, campione di qualunquismo ("gli é tutto sbagliato, gli e tutto da rifare") (IMMAGINE 33). Nei cieli di un ciclismo sempre più distante dalle tensioni politiche e sempre più assorbito dalla logica degli interessi commerciali, splende l’astro di Coppi. Per lo scorno del mondo cattolico, che coglierà una meschina vendetta guidando prima la compagnia del linciaggio dell"’adultero nazionale" travolto dalla passione e per la "dama bianca" (IMMAGINE 34), poi la danza macabra attorno al letto di morte del Campionissimo, scomparso nel gennaio del 1960 in seguito ad una banale infezione malarica (IMMAGINE 35). Una morte che, come quella di Valentino Mazzola, qualcuno, riecheggiando la profezia di Padre Pio, attribuira alla "mano di Dio". Termino qui. Per saperne di piu, occorre fare appello ai sempre meno numerosi "nonni di oggi che sono stati i ragazzi di ieri". Che hanno fissato Bartali nei cieli chimici delle fotografie, che l’hanno aspettato, gridato, innalzato tra i santi, sfruttato e dopo dimenticato. Chissà se la ragazzina bellina ha capito chi era Bartali (IMMAGINE 36). Io resto seduto in cima a un paracarro. E aspetto che tra un silenzio e l’altro dietro quella curva spunti il naso triste di un arcitaliano, che rappresenta al meglio questo popolo di santi, di poeti, di navigatori, di eroi. E di ciclisti. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Stefano Pivato, Sia lodato Bartali. Idealogia, cultura e miti dello sport cattolico (1936 1948), Roma, Edizioni Lavoro, 1985; Paolo Facchinetti, L ’Italia di Coppi e Bartali, Roma, Compagnia Editoriale, 1989; Daniele Marchesini, Coppi e Bartali, Bologna, Il Mulino, 1998; Auro Bulbarclli, Magni il terzo uomo, Roma, RAI - ERI, 2012; Giuseppe Castelnovi, Tre uomini d’oro. Magni, Bartali, Coppi, Milano, Vallardi, 2011; Mimmo Franzinelli, Il Giro d ’Italia. Dai pionieri agli anni d’oro, Milano, F eltrinelli, 2013; Aili e Andres Mc Connon, La strada del coraggio. Bartali, eroe silenzioso, Roma, 66thand2nd, 2013. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 97 OLIMPIADI E CONTESTAZIONE: IL ‘68 A CITTÀ DEL MESSICO PROF. SERGIO GIUNTINI “ Mi dicono spesso che se Obama ora può correre per la presidenza, è anche merito nostro. Quello che io e i miei compagni abbiamo rappresentato a Città del Messico è stato come l’apertura di una strada, su cui poi ragazzi come Obama si sono potuti muovere con maggiore libertà, in un sistema che ancora non li rappresentava pienamente. Ci siamo sacrificati in modo che altri potessero avere un’opportunità.“ Sono riflessioni di Tommy Smith enunciate nel 2008, alcuni mesi prima dell’elezione di Barak Obama - il primo presidente “nero” della storia americana - alla “Casa Bianca”. Questo sì, a dispetto dell’abuso che si fa d’un simile aggettivo, un avvenimento epocale. La corsa presidenziale di Obama è stata infine vinta e, forse, a cominciarla sfrecciando nell’ Olimpiade “atzeca”, furono proprio Smith e John Carlos. L’altro contestatore che lasciò una traccia indelebile nel ’68 dello Sport. I due protagonisti assoluti - 1° e 3° a ritmo di record del mondo sui 200 m. (19”83 a 20”10) - di un’edizione dei Giochi olimpici che non fece registrare boicottaggi. Ma dalla quale, coloro i quali rinunciarono a un boicottaggio che pure era stato preso in seria considerazione, trassero comunque tutto ciò che politicamente e culturalmente può ricavarsi da una simile modalità di protesta. La vicenda celeberrima - già ampiamente esaminata altrove e su cui non torneremo - di Smith e Carlos, racconta quindi di un boicottaggio venuto meno. Di semplici, potenziali boicottatori. Conseguentemente ci soffermeremo prevalentemente sui fermenti che, tra il 1966 e il 1968, muovendo dalla questione razziale, percorsero lo sport afro-americano più consapevole: un’area di atleti radicali, legatasi organicamente alle battaglie per l’uguaglianza e i diritti civili. Due erano sempre state le tendenze che, rispetto alle discriminazioni patite, avevano diviso gli intellettuali neri d’America. Nel 1909 Medgar Evers fondò l’ ”Associazione Nazionale per il Progresso della Gente di Colore” (NAACP), che si batteva per una equiparazione giuridica con i bianchi. Nel 1920 Marcus Garvey diede vita all’intransigente “Movimento per il ritorno in Africa”. Tali diverse impostazioni, oltre a una terza di carattere più religioso e integralistico diffusasi successivamente, quella dei “Black Muslims” che perseguivano l’indipendenza e la separarazione della “Nazione Nera” islamica, si rinvengono pure negli anni ’60, quando più acuto si fece il rivendicazionismo della minoranza di colore. Il lento allargamento della parità formale nei diritti (1954: Dichiarazione di incostituzionalità nella segregazione scolastica; 1957 Desegregazione elettorale; 1961 Desegregazione nei trasporti; 1963 Desegregazione nelle condizioni di impiego; 1964 Legge nazionale sui diritti civili) non bastava più. La discriminazione e la povertà continuavano a connotare le condizioni concrete di vita della popolazione nera, e il metodo non violento fu scavalcato dalla radicalizzazione del conflitto. L’assassinio a Menphis, il 4 aprile 1968, di Martin Luther King segnò la sconfitta del pacifismo. Il suo grande “sogno”, evocato nell’agosto 1963 al termine della marcia dei 250.000 su Washington, era stato spezzato. I “profeti disarmati” risultavano perdenti, per liberarsi dalle “catene” dei bianchi servivano altri mezzi, altre forme di organizzazione politica. Dopo l’uccisione di Malcom X (21 febbraio 1965) a opera di sicari del “Black Muslims”, Heuy Newton e Bobby Seale crearono pertanto nel 1966 a Oakland il partito marxista - favorevole alla lotta armata - del “Black Panthers”, mentre Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 98 Stokely Carmichael nel 1967 lanciava la parola d’ordine “Potere Nero”, “Black Power”. Lo slogan si rifaceva al romanzo omonimo di Richard Wright (1954), e nella sua teorizzazione Carmichael proponeva di contrapporsi anche violentemente, stringendo legami di solidarietà con i movimenti rivoluzionari “terzomondisti”, alla società americana dominante e razzista. Un progetto che suggestionerà Smith, Carlos, Evans e molti altri. Tant’è in un incontro che richiamò rappresentanti di 42 città e 36 stati, svolto a Newark dopo i disordini razziali dell’estate 1967, fu il “Black Panthers” a ventilare per primo il boicottaggio olimpico di Città del Messico. A prefigurare questa presa di coscienza dello sport “colorato” fu tuttavia, nel 1966, un’affermazione agonistica di denso contenuto simbolico. Il successo, nel campionato NCCA di basket, dell’Università “Texas Western” di El Paso allenata da un bianco senza pregiudizi, Donald Lee Haskins - su Kentuky, i “Wildcats” bianchi di Adolph Rupp. Nei “Miners” della “Texas University” giocavano 7 neri su 12: uno scandalo - al massimo sino ad allora le squadre di College ne schieravano uno o due a gara per minutaggi parziali -. E ancor più scandaloso fu il fatto che Haskins, in finale, mise sul parquet un quintetto interamente “All Blacks”. Per questo Pat Riley, il leggendario coach dei “Lakers” di Los Angeles, giungerà a definire quella partita la “Dichiarazione di emancipazione del 1966”. L’obiezione di coscienza del pugile Muhammad Alì, che a Houston il 28 aprile 1967 rifiutò d’indossare la divisa per combattere in Vietnam, suscitò indubbiamente maggior risonanza; eticamente screditò ancor più gli USA “guerrafondai” in campo internazionale. Tuttavia nell’”immaginario collettivo” del popolo nero furono i campioni di El Paso a risvegliare dei profondi sentimenti d’orgoglio e appartenenza. In essi si riconoscevano politicizzati e no. I pacifisti alla Luther King e gli “arrabbiati” del “Black Panther”. Non sorprende dunque che pure la lotta di Harry Edwards, ex discobolo e giocatore di pallacanestro, professore di sociologia e “mente” della rivolta afro-americana nello sport, prendesse le mosse da quel “quintetto” di El Paso. Nel 1967 la formazione vittoriosa su Kentucky venne rapidamente smantellata. Haskins aveva osato troppo, si doveva ristabilire l’ordine. Una normalizzazione che spinse Edwards, docente all’Università di San Josè in California, a promuovere il boicottaggio dell’incontro di football tra la compagine del suo ateneo e quella della “Texas Western”. Un boicottaggio riuscito, giacchè il rettore californiano ebbe la saggezza di annullare quel match divenuto assai scomodo. Edwdars fu anche il “maestro” di Tommy Smith, John Carlos e Lee Evans, studentiatleti a San Josè. Per certi versi rappresentò per loro quello che Malcom X era stato per Muhammad Alì. Guida spirituale del campione del mondo dei massimi Malcom X, guida politica dei tre sommi velocisti Edwards. Allievi che impararono presto la lezione, come si evince da un’intervista di Dick Drake a Smith ed Evans pubblicata sul periodico specializzato Track & Field News nel 1967. Una fonte che per il suo particolare interesse - a metà tra il materiale storico e l’intensa testimonianza umana merita d’esser riprodotta integralmente: Domanda: C’è qualche particolare motivo che vi ha spinto a boicottare le Olimpiadi? Evans: Io penso che già parecchi negri comprendano quanto è accaduto. Quando ero alle medie non sapevo nulla, ma giunto al College ho capito tutto anch’io. Domanda: cosa comporterebbe per i negri, in pratica, un boicottaggio? O dovrebbe essere solo un atto simbolico? Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 99 Evans: Dovrà semplicemente accadere qualcosa, e qualcos’altro potrà cambiare fino alle Olimpiadi del ’72. Se ora noi torniamo dai Giochi con una medaglia d’oro, siamo festeggiati per un mese. Poi diventiamo di nuovo uno fra i tanti. Un esempio: Bob Richards è commentatore televisivo. Perché nessuno ha ingaggiato Bob Hayes o Henry Carr? Io so già la risposta: se si reclamizza un prodotto con un negro, si deve sopportare che alcuni bianchi rinuncino ad acquistarlo. Smith: Ci sono state marce, proteste ed altre manifestazioni per le condizioni dei negri in America. Non credo che questo boicottaggio possa risolvere il problema, ma penso che la gente saprà, che noi non abbiamo più intenzione di lasciar stare le cose come stanno. Siamo molto orgogliosi del nostro popolo e vogliamo essere trattati in modo degno. Il nostro traguardo di atleti non è quello di migliorare la nostra condizione personale, ma quella di tutta la nostra gente. Dovete considerare il boicottaggio come un passo su questa via. In altre parole: se mi danno un morso, lo restituisco. Non staremo ad aspettare che i bianchi escogitino qualcos’altro contro di noi. Ho lavorato molto e a lungo per le Olimpiadi, e mi dispiace ora che non se ne faccia più niente. Ma penso che il boicottaggio sia una buona cosa, e vale portarlo avanti soffocando quel che può personalmente farci piacere. Evans: Siamo uomini e poi atleti. Domanda: C’è boicottaggio? qualche gruppo o qualche personalità dietro questo Smith: non lo so, ma personalmente non sono mai stato avvicinato da nessuno. Ogni negro deve decidere da sé. Perciò abbiamo indetto la Conferenza di Los angeles. In definitiva non sono mica l’avvocato del boicottaggio. Domanda: Che possibilità di riuscita ha questo boicottaggio? Evans: I negri della California si assoceranno, malvolentieri, ma lo faranno. Ma ci sono negri anche negli altri 49 stati. Andrei con immenso piacere in Messico, ma sono pronto a fare questo sacrificio. Domanda: Cosa l’ha spinta ad assumere un ruolo attivo in questa situazione? Smith ed Evans: La riflessione. Domanda: Perché il boicottaggio è limitato ai Giochi olimpici? E le “high schools”? Evans: Le “high schools” sono solo una parte del Paese. Noi, penso, dobbiamo partire dall’alto. Non posso assolutamente comprendere perché gli USA abbiano votato la partecipazione del Sudafrica ai Giochi olimpici. I sudafricani hanno mandato qui Paul Nash. Se io volessi andare in Sudafrica, lì mi vieterebbero di gareggiare contro Nash. Ma lui ha potuto tranquillamente allinearsi alla partenza, qui, con noi. Prendo atto di essere un americano, ma non sono certo trattato da americano. Stan Wright, allenatore di Smith, gli ha scritto una lettera, ricordandogli che in primo luogo deve considerarsi americano e poi negro. Ma nessuno vede in me prima l’americano. Smith: Non è logico che Nash possa gareggiare qui, mentre Evans o Boston o io non possiamo gareggiare contro di lui in Sudafrica. Ora, se siamo tutti americani, come Ryun, perché questa disparità di trattamento, lì? Perché boicottiamo solo le Olimpiadi? Una gran parte dei negri è nei colleges, poiché lì guadagna uno stipendio. Così io perderei il fondamento della mia educazione. Senza di essa non potrei possedere quel bagaglio di conoscenze necessario a comprendere quel che è possibile fare per il mio popolo. C’è, naturalmente, dietro a ciò, anche un problema economico. In breve: c’è poco da prendere e Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 100 molto da guadagnare a boicottare i Giochi olimpici, mentre per i colleges sarebbe l’opposto. Domanda: Come vi trattano i professori dell’Università di San Josè? Evans: Essi sanno che siamo i più veloci “niggers” del college. Parlano con noi perché siamo atleti. Il negro che passa davanti a loro non lo vedono nemmeno. Smith: Spesso vengono da me per congratularsi. Allora io chiedo loro: “Grazie per cosa? Per il mio matrimonio o per gli esami?” E loro: “No, per il record mondiale” Non parlano mai con te del tuo matrimonio o dei tuoi risultati universitari. Evans: Tu sei solo un “nigger” veloce. Loro non dicono “nigger” ma lo pensano. Drake effettuò la sua intervista nel novembre 1967, un giorno prima dell’Assemblea che in un tempio battista di Los Angeles riunì circa duecento atleti di colore. Le tesi di Edwards a sostegno del boicottaggio, riprese nelle espressioni fortemente critiche di Tommy Smith e Lee Evans, prevalsero largamente. Non mancarono però, all’interno della comunità sportiva di colore, diverse voci dissenzienti. In disaccordo con le posizioni di Edwards, invitando a una maggior moderazione, si dichiararono ex campioni dello spessore di Jesse Owens, Rafer Johnson, Bob Hayes, e tra quelli in attività Ralph Boston primatista mondiale del salto in lungo - e Charlie Greene - tra i più accreditati “sprinter” del momento -. Boston ribattè così a Smith ed Evans: “Cercherò di ricondurre sulla terra alcuni miei amici. E’ insensato pensare di prepararsi per quattro anni ad un’Olimpiade per poi boicottarla”. E Greene affermava: “La domanda fondamentale è se uno è americano o no. Io lo sono, e perciò andrò in Messico”. Il consenso di cui godeva Edwards si basava sull’esser non solo l’”ideologo” del boicottaggio, ma di un più più articolato “Programma olimpico per i diritti umani” al quale aveva assicurato il suo appoggio il medesimo Martin Luther King. Adesione che Avery Brundage, con sprezzante sarcasmo, liquidò alla stregua d’un tentativo del pastore battista - Premio “Nobel” per la Pace nel 1966 - di “farsi pubblicità”. Tra i suoi molteplici obiettivi quel “Programma” si poneva l’irrigidimento delle sanzioni sportive applicate al Sudafrica e, non a caso, la destituzione del razzista Brundage da presidente del CIO. Il 16 febbraio 1968 gli atleti che si riconoscevano nelle posizioni di Harry Edwards, cui si unirono anche sette sovietici invitati a gareggiare al “Madison Square Garden”, boicottarono le competizioni indoor dell’”Athletic Club” newyorkese: il più blasonato d’America, forte di 8000 soci nessuno dei quali nero perché lo Statuto dell’anziata società - costituita l’8 settembre 1868 - non li ammetteva. Idem nel 1968, allorché Arthur Ashe vinceva gli Internazionali d’America, al “West Side” Tennis Club. E sempre a New York, in quegli anni, esisteva anche una “Police Athletic League” che, mischiando paternalismo da bianchi illuminati e integrazionismo alla “zio Tom”, si occupava del recupero dei giovani di colore per mezzo dello sport. Nel marzo 1968 la rivista Life diffuse un sondaggio condotto tra i massimi atleti universitari afroamericani che confermava la loro disponibilità al boicottaggio, e il seguente 7 luglio anche il reverendo Jesse Jackson diede indicazioni in tal senso. Ma avvicinandosi la scadenza olimpica il fronte contrario ai Giochi s’incrinò. In una votazione tenuta tra i selezionati olimpici di colore dell’atletica leggera, le istanze “partecipazionistiche” di Boston ebbero il sopravvento. I boicottatori si ridussero a un terzo, 12 su 36. E Smith, Carlos ed Evans, per non rompere l’unità interna del gruppo, desistettero dalle risoluzioni adottate a Los Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 101 Angeles a novembre. Fu Harry Edwards, in un convegno del “Black Panthers” a fine estate ‘68, a renderne notizia, precisando che per contestare le discriminazioni razziali negli Stati Uniti gli atleti avrebbero comunque portato una fascia nera sul braccio destro. Fascia che venne poi sostituita da un distintivo del “Programma olimpico per i diritti umani”. La marcia indietro per rispettare i voleri della maggioranza non significò rinnegare i propri convincimenti. Anzi, si deve alla forzosa rinuncia al boicottaggio integrale la clamorosa azione politica sostitutiva - attuata il 16 ottobre 1968, nel corso delle premiazioni dei 200 - di Tommie Smith e John Carlos. Quella che, abbattendo definitivamente i tabù neutralistico-sportivi, desacralizzando il retorico ritualismo olimpico, s’insinuerà nei testi di storia contemporanea come la protesta del pugno chiuso in in guanto nero. Le “Pantere Nere” di Seale e Newton salutavano in quel modo, tuttavia con i palmi guantati Smith e Carlos volevano altresì evitare di “sporcarsi” le mani dovendo eventualmente stringerne una di Brundage. Le scarpette che recavano con sé verso la premiazione non volevano pubblicizzare alcun marchio. Bensì vendicare un’ennesima recente, ingiustizia inflittagli dai “bianchi”. La revoca d’un primato mondiale sui 200, per un problema regolamentare di chiodi in sovrannumero, stabilito da Carlos (19”91) a Echo Summit il 12 settembre 1968. Ogni dettaglio di quella protesta era stato curato, rispondeva a un cifrario semiologico: i piedi scalzi, i pantaloni della tuta rialzati quasi al ginocchio, il foulard al collo, il capo reclinato, i pugni serrati, i guanti, le scarpette. La comunicatività emozionale di quell’atto recitato silenziosamente fu percepita, decodificata ovunque, trasmettendo un messaggio chiaro di solidarietà con i disagi e le frustrazioni del popolo afroamericano. Nel contempo espresse con prepotenza la rivoluzione politicoculturale innescata dal ’68. Ha scritto in merito Augusto Illuminati: La protesta dei due atleti ebbe un enorme rilievo mondiale […] e si iscrisse nella galleria dei memorabili gesti che tracciarono mediaticamente il 1968. Certo, non è una novità. Quante sequenze storiche le ricordiamo perché incastrate e riassunte in un’immagine simbolica o in una frase performativa - il dado è tratto di Cesare, la Libertà a seno nudo sulle barricate del 1848, il miliziano morente di Robert Capa sul fronte di Cordoba. Il 1968, però, moltiplicò il numero e il peso di tali atti, non li collegò obbligatoriamente a grandi figure storico-epocali ma li disseminò in una miriade di protagonisti, di prese di parola e irruzione nello spazio pubblico. Al podio olimpico si affiancarono i palcoscenici dei concerti (il denudamento di Jim Morrison, le chitarre spezzate di Jimi Endrix), le presidenze delle assemblee studentesche…La diffusione e l’innovazione dei mezzi di comunicazione di massa contribuì moltissimo, senza dubbio, e gettò subito un sospetto di banalizzazione, ma per l’essenziale si trattò di una democratizzazione radicale della soggettivizzazione in una dimensione del comune. In altri termini fu rimodulato in termini di massa e di sovversione quel concetto di onore che un tempo aveva contrassegnato i ceti aristocratici o l’etica del politico. La presenza sul podio di Smith e Carlos, che irrideva l’ ”onore” tradizionale e quello sportivo in particolare, doveva fare e fece molto più male di un boicottaggio. La coppia di velocisti dell’Università di San Josè riuscì così appieno nel suo “boicottare”, essendoci. A riconoscerglielo il Comitato organizzatore messicano e il CIO, i quali, nel timore di ulteriori disordini e contestazioni nel loro solco, optarono precauzionalmente per una modifica dell’abituale cerimonia di chiusura, limitando a sei il numero di rappresentanti per nazioni. E un nuovo riconoscimento, non meno significativo, gli provenne da un altro indomabile Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 102 combattente per i diritti dei neri d’America: Arthur Ashe. Il grande tennista che, di Tommy “Jet” Smith e John Carlos “Primero”, ebbe a dire: “Il loro gesto è stato un faro di speranza e d’ispirazione per un’intera generazione”. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 103 ROMA, 1960: LA “GRANDE OLIMPIADE“ DOTT. ENZO PENNONE Il 15 Giugno del 1955 tre persone volarono a Parigi per illustrare ai membri del Comitato Internazionale Olimpico la candidatura di Roma all’organizzazione dei XVII Giochi dell’era moderna, erano Giulio Onesti il presidente del Coni, Bruno Zauli segretario generale e Salvatore Rebecchini sindaco della città, e dopo quell’illustrazione e la conseguente votazione tornarono in patria con il cuore in affanno e la testa in subbuglio perché 35 di quei membri nell’atto finale avevano scritto “Roma”, perchè stavolta bisognava davvero organizzarle le Olimpiadi, non c’era più Giolitti per aiutarli a tirarsene fuori come fece 50 anni prima… ma cinque anni dopo Roma le organizzò, e dal 25 Agosto all’11 Settembre del 1960 5346 atleti di 83 nazioni si sfidarono in 150 gare di 19 diverse discipline sportive in quella che il regista Romolo Marcellini definì “La Grande Olimpiade”. Il film ricevette un anno dopo il Premio d’Oro al Festival di Mosca, e fu opera certamente notevole, sia per le riprese che per la musica e i testi, che furono scritti da gente importante, giornalisti e scrittori Sergio Valentini, Donato Martucci e Corrado Sofia, e per la magnificenza degli scenari proposti per i quali il merito prevalente andava ascritto alla città di Roma dell’età dei Cesari. Ma, se opera notevole fu quella del regista, “grande” cioè vasto cioè ricco cioè quasi senza confini di territorio fu il soggetto di quell’opera, cioè l’Olimpiade romana… un’Olimpiade grande per quantità di nazioni partecipanti e qualità di protagonisti di prove sportive, per quantità e qualità di record mondiali ed olimpici migliorati, grande anche nel significato di “prima” di “antesignana” rispetto alle altre nel diffondere con la Tv le sue immagini nel resto del mondo, grande nel significato di “qualcosa di mai visto e mai immaginato prima”, riferito ai tornei di lotta e di ginnastica disputati all’interno di siti di grande rilievo storico come la Basilica di Massenzio e le Terme di Caracalla, ma grande anche per numero di protagonisti di vita culturale sociale e politica coinvolti in quell’evento, così vasta e così ricca di contenuti fu quell’Olimpiade da aver serie difficoltà nell’individuare una vicenda sociale o politica o sportiva principale cui assegnare il ruolo di centralità dell’evento, e intorno a cui sviluppare trame narrative. Parlerò poco di gare, perché di queste ne possono parlar meglio le immagini tratte dal film di Marcellini che faranno seguito al mio intervento, e descriverò invece due momenti che già dal 1936 facevano parte salda del programma ufficiale olimpico, che fungevano un po’ -diciamo- da antipasto alla grande pietanza agonistica che avrebbe fatto seguito, e che nell’occasione romana trasmisero fascino ed emozioni prima mai visti. Per cominciare, grande Olimpiade, grande bellissimo seducente il viaggio della fiaccola olimpica, parto di un’organizzazione austera e meticolosa che all’epoca non aveva ancora ceduto alle lusinghe delle attività commerciali e ai diktat della pubblicità, e quindi non ci furono attori o politici che chiesero o pretesero di portare la torcia, un viaggio che fu uno straordinario ripasso di storia antica con dei professori impareggiabili, quei mari del Mediterraneo, l’Egeo e lo Jonio e quelle terre italiche, la Sicilia la Calabria e le Puglie un tempo facenti parte dei territori della Magna Grecia, furono cartoline in serie una più bella dell’altra, una più singolare dell’altra che riuscirono in parte ad ammansire quella retorica noiosa insistente e avvolgente che si manifestava in vari modi : come quando la vestale di Olimpia pregò Giove (*) “perché i raggi di Febo accendano la sacra torcia la cui fiamma illuminerà la nobile gara dei Giochi pacifici per tutti i popoli Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 104 della terra”. Pacifici si capisce solamente i giochi, perché se mai questa preghiera avesse preteso di allargare i suoi obiettivi di pace tra i popoli della terra anche ad altri momenti della vita, cioè oltre le 15 giornate canoniche dei giochi, la storia le avrebbe subito fatto sapere il proprio punto di vista sulla faccenda… La scelta del percorso di quel viaggio fu sofferta, furono proposte altre soluzioni il che creò malumori negli abitatori delle terre italiche un tempo Magna Grecia perché quale cosa più naturale per spostare una fiaccola olimpica dalla Grecia a Roma se non quella di scegliere un itinerario dal forte sapore storico a meno che non si voglia farle attraversare le Alpi come fece Annibale nella sua campagna d’Italia contro Roma, (*) la scelta fu sofferta ma per fortuna vinse il partito dei classici, e cadde su quel tracciato che poteva rappresentare, come si legge nel Rapporto del Coni, “un ideale filo conduttore tra i due poli della civiltà classica, Atene e Roma, attraverso i luoghi della Magna Grecia”. (*) La sacerdotessa della preghiera a Giove nell’agosto del 1960 era un’attrice drammatica Aleka Catseli, che senza commettere errori fece tutto quello che il protocollo prevedeva, accensione del braciere, poi della torcia e consegna della stessa al primo tedoforo. (*) Che si chiamava Panayotis Epitropoulos, un decathleta di modeste pretese che lasciò Olimpia e si inoltrò nelle campagne dell’Elide lungo il corso del fiume Alfeo…(*) passò Pirgo la torcia, e poi Patrasso, Corinto, Megara, Eleusi, e giunta ad Atene (*) il tedoforo di turno la cedette al principe Costantino di Grecia, che, tra tutti gli esponenti delle monarchie europee, si distingueva per l’abilità nel coniugare lo “status di regnante” con quello di “sportivo”, (*) infatti fu un ottimo velista Costantino e conquisterà nei giorni successivi la medaglia d’oro nella specialità dei “dragoni”. (Nirefs 3) (*) Al Pireo il fuoco fu trasferito a bordo della nave-scuola della Marina Militare Italiana Amerigo Vespucci, un veliero antico bellissimo maestoso, (*) e il comandante capitano di vascello Manca di Villahermosa ordinò rotta su Siracusa attraverso le acque dell’Egeo, e poi dello Jonio, (*) cioè quegli stessi mari che duemilasettecento anni prima avevano solcato altre navi partite dall’Ellade per fondare le colonie d’occidente, delle quali Siracusa fu la più grande, per bocca di Cicerone la “maxima et pulcherrima urbium graecarum”. (*) E dopo cinque giorni e quattro notti di serena navigazione, sempre un occhio al fuoco che non si spenga, (*) la nave a vele spiegate scortata da tantissime imbarcazioni entrò nello storico porto di Siracusa, (*) lì dove nei secoli passati ateniesi e cartaginesi ci avevano lasciato le penne e pure le navi, (*) e vi entrò illuminata dalle fotoelettriche che la fecero apparire come d’incanto nella notte, (*) accolta da una folla immensa e ammutolita, una folla affamata di cose importanti, una folla che, scrisse un giornalista, “fu da sola in grado di rappresentare spettacolo nello spettacolo”. (*) Furono stimati in 35.000 i cittadini presenti allo sbarco per una città che all’epoca ne contava 80.000, tutti assiepati tutti all’in piedi come nelle curve degli stadi di calcio, nessuno sapeva o capiva qualcosa di Olimpiadi, di fiaccole, di tripodi, (*) ma la calda serata d’agosto, con la nave – il fuoco olimpico - i fuochi d’artificio – la stella Venere che brilla in cielo - gli inni - le bandiere al vento - le sirene delle navi - le campane che suonavano a festa come quando comunicarono la fine della guerra, tutte queste cose qua li abbagliarono, li tramortirono… (*) poi il sindaco fece il suo discorso e in aggiunta alle solite parole di benvenuto augurio e di ringraziamento ebbe l’acume di ricordare i grandi olimpionici siracusani dell’antichità, da Lygdamis la cui forza dicevano Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 105 pari a quella di Eracle (*) a Ierone l’Etneo proprietario di cavalli vincenti e cantato da Pindaro nell’Olimpica I^, da Astylos grande velocista sottratto a Crotone a Dykon fanciullo di Caulonia, da Hiperbios a Zophiros e Orthon, e non solo quelli ma pure quegli altri delle altre subcolonie greche dalle quali la fiaccola purtroppo non sarebbe potuta transitare, (*) e lo fermarono giusto in tempo perché era attraccata frattanto al molo la baleniera che portava il sacro fuoco e lui, come da protocollo, avrebbe dovuto con quello accendere il tripode, (*) ed il sindaco che non era uno sprovveduto seppe districarsi abilmente in questo labirinto di incarichi e accese il tripode, e consegnò la torcia al Presidente della Regione Benedetto Majorana della Nicchiara, uno nobile, esponente dell’aristocrazia terriera che diversi anni prima era stato sindaco di Militello in Val di Catania -il paese di Pippo Baudo- con la lista dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini. (*) Dal braccio del feudatario la fiaccola passò al braccio dell’aristocrazia sportiva, perché questo che ancora si vede solo di spalle era Lo Bello, il miglior arbitro di calcio in Italia e in Europa e poi lo sarebbe divenuto anche nel mondo, e da quel momento gli occhi dei trentacinquemila si indirizzarono su di lui, in lui i trentacinquemila si immedesimarono, ciascuno di loro si vedeva trasferito nel corpo di Lo Bello, “ecce homo” sembrava che dicesse la folla prostrata… il corpo di Lo Bello quella sera fu però un corpo inconsueto, (*) niente abito scuro da assessore comunale allo sport, e men che meno (*) divisa arbitrale nera con polsini e colletto bianchi in cui lo identificava l’Italia tutta, quella sera il corpo di Lo Bello aveva un incarico molto diverso da quello domenicale, (*) e quindi vestiva di conseguenza, come si conviene per ciascun corpo di tedoforo dell’Olimpiade di Roma del 1960: solo una maglietta di cotone ed un pantaloncino bianchi, calze e scarpe da corsa anche loro bianche. Un Lo Bello umile, devoto, niente fischietto, niente ammonizioni o espulsioni … (*) egli raccolse la torcia con un abbozzo di inchino a chi gliela porgeva, come a dire grazie per avere scelto me, (*) la impugnò con orgoglio, con perizia e un po’ di delicatezza, (*) ed avviò la sua corsa maestosa, il primo dei 1.199 tedofori sul suolo italico, circondato da sei giovani valletti dello sport siracusano. (*) Nella notte la fiaccola superò le terre dei Ciclopi, e puntò su Giardini, l’antica Naxos. (*) “E se di questa città ai nostri giorni non restano nemmeno le rovine” scrisse Pausania “del sopravvivere del suo nome anche nelle età future la causa è nella rinomanza di Tisandros figlio di Cleocrito che per quattro volte sconfisse a Olimpia i pugilatori nelle gare per gli adulti e altrettante vittorie ottenne anche a Pito”…” . Pausania fu uno scrittore e geografo greco nativo dell’Asia Minore vissuto nel II° secolo d.C. che scrisse la Periegèsi, un trattato storico geografico sulla Grecia in dieci libri, di cui il V° e il VI° sono dedicati all’Elide, la regione che comprende Olimpia, con una vasta e dettagliata descrizione di fatti e personaggi, e la gran parte di questi riferentisi ad atleti dell’età ellenistica. La mattina seguente la fiaccola attraversò lo stretto, (*) e sulla costa calabra anche la Locride, sulla quale condusse ricerche e scavi il grande archeologo Paolo Orsi, visse la sua giornata di gloria. Riaffiorarono le gesta sportive dei suoi figli ad Olimpia, tra questi Hagesidamos, un pugilatore fanciullo a cui Pindaro dedicò la X^ e XI^ delle sue Olimpiche (476 a.C.) (*) La fiaccola risalì il litorale ionico, toccò Caulonia, (*) e nella notte successiva all’una inoltrata arrivò a Crotone, la patria di Pitagora. Quindicimila sacrificarono il sonno prendendo possesso di un quadratino di marciapiede nella piazza intitolata a lui, il filosofo il matematico l’astronomo lo scienziato il pedagogo che, tra teoremi e pensieri profondi, passò metà della sua vita in quella città, e Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 106 in quella piazza c’era il tripode, quella notte la città tutta visse sotto la protezione delle glorie del suo passato sportivo, (*) Daippos il pugile che primo tra gli atleti della Magna Grecia vinse ad Olimpia, poi i grandi velocisti, Glykon, Lykinos, Eratosthenes (quello che per vincere dovette battere altri 6 concittadini), Hippostratos, Diognetos, Isomachos, e Tisikrates, e anche Phayllos il pentathleta. (*) E infine Milone, l’enorme Milone, il grande lottatore che cominciò la sua avventura sportiva quand’era ancora fanciulletto e la terminò 28 anni dopo, vincendo per 7 edizioni di fila ad Olimpia, più altre 26 volte ai Giochi Pitici, Istmici e Nemei. (*) Dopo aver riposato qualche ora il fuoco riprese la sua marcia lungo la statale jonica, Corigliano Calabro, l’anticha Thurii, e poi Sibari, e poi Metaponto, (*) l’opulenta città fondata dagli achei e amica di Crotone, dove i tedofori, prima di raggiungere i propri posti di cambio, posarono dinanzi al tempio di Hera per una foto-ricordo di quel magnifico pomeriggio. (*) Taranto tutta assistette a uno spettacolo indimenticabile, ed offrì anche la sua fetta importante di storia dello sport antico. (*) Viveva qui, nel V° secolo a.C., Icco, medico ginnasiarca e maestro, fondatore della ginnastica medica e della dieta atletica, quello che visse sempre casto per non indebolire le forze del corpo, esempio di vita sobria e temperante al punto che, in antitesi ai famosi pranzi luculliani proverbiali a Roma, il frugalissimo pasto di Icco passò alla storia come “Icci coena” “la cena di Icco”. Vinse il Pentathlon nella 77° olimpiade (472 a.C.). (*) E con lui Anoco Adamanto Epicratide Ippozione Dionisodoro Smicrino e Timante tutti olimpionici dal VI° al IV° secolo a.C. ed altri ancora dal nome incerto tra cui quello che gli archeologi vollero battezzare “l’atleta di Taranto” (*) quando nel Dicembre del ’59 scavando per porre le fondamenta di un edificio venne alla luce una grande tomba pluridecorata che conteneva un sarcofago con i resti di un grande atleta vincitore nel pentathlon quattro volte ai Giochi panatenaici nel V° secolo a.C. Il mattino successivo la fiaccola lasciò il litorale jonico per l’appennino lucano, l’antica regione del Sannio, (*) qui i duemila cittadini di Miglionico si mobilitarono per onorare Milone che la tradizione dice fosse stato il fondatore della città (*) i tedofori si scambiarono la fiamma che proseguì per Matera e si fermò a Potenza. Altri chilometri, altre asperità, (*) quindi venuta la notte arrivò a Paestum, dove il tedoforo attendeva il suo turno teso e inquieto perché portare la torcia olimpica a Paestum non è come portarla in un posto qualsiasi, (*) e l’indomani col sorgere del sole il fuoco ripartì verso nord ed il tedoforo corse fiero ma con il cuore in tumulto intersecando le grandi testimonianze archeologiche del sito, la Basilica, il Tempio di Cerere (VI a.C) e quello di Nettuno dalle colonne doriche (V a.C.). (*) Il tedoforo transitò per Salerno, Amalfi, Positano, (*) Pompei ed Ercolano, dove i famosi corridori della Villa dei Papiri (*) sembravano in attesa di fare il proprio turno di staffetta, poi Portici e poi Napoli, (*) dove sul lungomare di Via Caracciolo fu acceso il tripode ed il coro del San Carlo eseguì l’Inno Olimpico. (*) Poi attraversò la verde piana di Cuma, lì dove la Sibilla, dal suo antro, prediceva i destini di Roma. E dopo Caserta, (*) dove ebbe luogo una superba sfilata che si concluse nella storica Reggia, il viaggio proseguì in direzione di Aversa, Capua, e poi Formia, Gaeta, Sabaudia, Latina, Castelgandolfo. (*) E infine Roma, dove la sera del 24 agosto, fu acceso il tripode sul Campidoglio. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 107 (*) Il pomeriggio del 25 agosto, mentre il tedoforo transitava da Palazzo Venezia, allo Stadio Olimpico c’era un caldo da morire, 37 gradi di umidità asfissiante, ma nonostante ciò la sfilata delle formazioni fu pure lei “grande”, uno straordinario ripasso di storia moderna e contemporanea, di miti e leggende, di arte e architetture, di attualità e geografia del mondo, grande per numero di nazioni in passerella, e per quantità di storie e particolari e di risvolti sociali e politici che gli sfilanti si portavano appresso marciando dietro il vessillo della propria patria. (*) E alle 16 e 30 entrò la Grecia che per tradizione inaugurava il corteo olimpico e re Costantino reggeva il vessillo del suo paese, e dopo fu il turno della prima in ordine alfabetico, (*) l’Afghanistan, e il suo alfiere al passaggio innanzi alla postazione presidenziale abbassò la bandiera in segno di saluto e rivolse uno sguardo profondo al nostro Presidente Giovanni Gronchi, (*) e da quello sguardo sembrò che gli volesse raccontare la storia del suo paese, “Signor Presidente, la mia nazione ha una storia che si perde nella notte dei tempi, (*) quando la nostra terra era il crocevia dell’Asia centrale e onde di popoli migratori la attraversavano e le lasciavano per ricordo la propria lingua e i propri costumi, poi ci furono le invasioni ariane (2000 a.C.) (*) e poi l’impero Persiano (*) e poi Alessandro Magno che lo demolì e ne assorbì per intero il territorio, e poi ancora gli Sciiti gli Unni bianchi e i Turchi, e poi come un po’ dappertutto arrivarono gli arabi, e lasciarono la loro impronta incancellabile che neppure Gengis Kahn riuscì a portare via con la violenza… (*) le nostre terre sono terre impervie quasi inaccessibili e spesso ricoperte di neve…”….. ma a quel punto la storia fu interrotta perché le altre squadre in parata incalzavano… e da quel momento in poi parve che tutti i portabandiera di tutte le nazioni che sfilavano volessero raccontare al nostro Presidente la storia e le tradizioni della loro patria, (*) così fu per l’Argentina e l’Australia divise dall’oceano più esteso del globo e unite da storie di emigranti del vecchio continente, (*) per il Brasile del sertao e del cacao, del candomblè e della capoeira e della selecao do futebol, e per la Bulgaria già avviluppata nelle spire dell’anaconda sovietica, (*) tredici nazioni avevano già preso posto sul prato dello Stadio e formavano un poligono irregolare in continua evoluzione (*) quando entrarono il Canada in maniche corte che nel caldo romano di agosto sognava il fresco dei propri laghi e delle proprie foreste, e la Cecoslovacchia che già dal saluto libero e allegro mostrava al colonnello Emil Zatopek in tribuna i primi segnali di una imminente primavera… (*) e poi sfilò il Cile, si presentarono a Roma solamente in otto perchè tre mesi prima il paese era stato devastato dal più potente terremoto mai registrato nella storia (*) e lo tsunami che ne era seguito aveva spazzato via gran parte di quanto si trovava sulla costa di Valparaiso… (*) ecco gli atleti della Corea del Sud che dopo la guerra del 38° parallelo ancora non faceva pace con quella del Nord e che mai l’avrebbe più fatta per gli anni a seguire… l’alfabeto ignorava la geografia del mondo, (*) così da un continente all’altro arrivò il turno di Cuba, e l’alfiere anche lui diresse lo sguardo verso il nostro Presidente – (*) io ho l’onore di aprire la sfilata della Repubblica di Cuba e Le porto il saluto del nostro “lìder màximo”, e anche se non tutti siamo “barbudos” come lui ne condividiamo in tutto e per tutto il pensiero e i principi… per tanti anni il nostro popolo è stato oppresso, prima dagli spagnoli e poi in questo secolo dalla dittatura di Fulgencio Batista che è sempre stato aiutato e spalleggiato dagli americani, e a quelli vendette tutte le nostre ricchezze e proprietà arricchendosi come un paperone prima di darsi alla fuga nella notte di Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 108 Capodanno del ‘59, (*) e allora da un po’ di tempo noi schiacciamo l’occhio al compagno Kruscev, che ci ha promesso una protezione totale dal nemico capitalista-… (*) alle 16.50 sfilò la Danimarca, atleti vestiti di bianco e scarlatto come i colori della bandiera nazionale, (*) che lasciavano la sirenetta le variopinte abitazioni e la serenità e qualità della loro vita per inebriarsi del caos di Roma… e poi sfilò l’Etiopia, sei corridori e sei ciclisti, (*) “uomini fieri alti esili” così li descrisse il cronista (Liebling) del New Yorker, che sfilavano dietro il vessillo a strisce verdi gialle e rosse con al centro il leone di Giuda, uomini che erano bambini (*) quando le legioni del Duce entrarono nella loro capitale e proclamarono l’impero, che per entrare in quella capitale usarono i mezzi più vili e brutali che il mondo vietava e che da quella capitale trafugarono poi l’obelisco di Axum portandolo a Roma... e l’ultimo della fila sembrava meditare la sua vendetta che era pure quella del suo imperatore Hailè Selassié (*) e che si sarebbe materializzata il penultimo giorno dei Giochi… (*) passarono poi le Isole Fiji con l’alfiere in giacca cravatta e gonna di juta, seguirono i filippini e poi i finlandesi…e poi arrivò il turno del pezzo di sfilata più controverso e contestato, (*) la Cina di Taipei, o di Chiang-Kai-shek, che avrebbe voluto sfilare con questa bandiera che sventolava sull'isola fin dal 1949 e con il nome di Repubblica di Cina di cui rivendicava il diritto all’uso esclusivo e al riconoscimento quale unico Stato al mondo di cinesi veri e autentici, dodici raggi di un sole bianco in un cielo blu a simboleggiare i dodici mesi e le dodici ore della tradizione cinese e la “Terra rossa” che rappresentava il sangue dei rivoluzionari che sacrificarono se stessi per rovesciare la dinastia Qing, (*) ma la Repubblica Popolare di Mao si rifiutava di riconoscerla, c’erano state tra le due Cine ostilità continue e conflitti armati uno va e uno viene già a partire dagli anni ’30 in una guerra civile che pareva non dovesse finire mai, e gli americani a Roma facevano pressioni a che i cinesi non cedessero sulle loro richieste anche a costo di venire esclusi dai Giochi, e nelle ore precedenti la cerimonia d’apertura fu tutto un susseguirsi di ordini e contrordini, ambasciatori cinesi americani e membri del Comitato Olimpico tutti affannati a consigliare una cosa o un’altra, (*) e mentre i monti Chung Yang le foreste e i fiumi della grande isola riposavano tranquilli ignorando quel che succedeva a Roma -sfilata sì sfilata no bandiera questa bandiera quella- (*) la delegazione infine scelse di sfilare preceduta dal cartello che la chiamava “Formosa” ma con le insegne della Repubblica di Cina sul completo blu e con un grande foglio bianco di protesta… (*) incuriositi più che convinti dalla contestazione dei cinesi gli spettatori dell’Olimpico videro sfilare i figli del barone De Coubertin che era morto senza poter coronare il sogno di assistere a un’edizione dei Giochi nella città eterna… …e poi arrivò la Germania, (*) e l’alfiere Fritz Thiedemann campione di equitazione, passando a fianco del Signor Presidente gli sussurrò “non ascolti quel trombone di Brundage che gli siede a fianco, che vuol farle credere che il merito è tutto suo se noi oggi sfiliamo insieme mischiati gli uni con gli altri sotto un’unica bandiera, tedeschi dell’est comunisti e tedeschi occidentali, non c’entra nulla l’ideale olimpico Signor Presidente, (*) questi sono anni in cui i due governi della Germania stanno come giocando a scacchi tra di loro, una mossa uno una mossa l’altro, ed allora va bene per adesso tenere le cose così come sono…-, i dirigenti delle due squadre, il nostro Gerald Stock e Manfred Ewald dell’Est quello che prima di diventare comunista aveva fatto parte della Gioventù hitleriana, ci hanno detto che per stare bene insieme bisognava evitare espressioni o manifestazioni che in qualche modo avessero un carattere Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 109 politico, ma in effetti sa cosa Le dico signor Presidente (* ) l’unico vero momento di fraternità c’è stato durante l’alzabandiera nel Villaggio Olimpico quando è stato suonato l’inno alla gioia della nona sinfonia del maestro Beethoven, perché di fronte alla nona non c’è comunismo o capitalismo che tenga”… (*) e poi fu il turno del Giappone che a Roma fece le prove generali per l’edizione di quattro anni dopo a Tokyo, e poi della Gran Bretagna che nella sua formazione accoglieva anche gli scozzesi e i gallesi, (*) e dalla tribuna stampa con flemma tutta britannica salutarono la squadra che marciava due inviati eccellenti del Times, (*) Roger Bannister e Harold Abrahams, cioè quello che per primo abbattè il muro dei 4 minuti nella corsa del miglio e quello che vinse i 100 metri a Parigi nel ’24 e che avrebbe ispirato un giorno il regista di “Momenti di gloria”… (*) seguirono poi gli atleti dell’India con il loro caratteristico turbante, lottatori hockeisti ed il forte quattrocentista Milkha Singh, l’India che Nehru erede del pensiero gandhiano guidava già da tredici anni dal giorno dell’indipendenza promuovendo il pacifismo nel mondo e guidando i paesi “non allineati” in politica estera, (*) e all’India seguì l’Indonesia pure quelli con un copricapo originale, il peci in feltro nero, indossato anche dal presidente Sukarno, che reggeva il paese sin dal ’47 quando ottenne l’indipendenza dalla regina d’Olanda… (*) e poi sfilò l’Iran che allora chiamavamo Persia, e dire Persia significava pensare allo Shah, cioè a quello del trono del pavone, quello che dei persiani per 38 anni avrebbe fatto quello che avrebbe voluto col sostegno di inglesi e americani, (*) e che mise in archivio le bellissime Fawzia d’Egitto e Soraya Esfandiari per problemi di eredi maschi che la cicogna non volle portare e si unì infine a Farah Diba pochi mesi prima dei Giochi di Roma, (*) mentre per gli studiosi dell’antico in tribuna dire Persia significava pensare alla grande Persepoli e al palazzo di Dario, (*) e poi sfilò l’Iraq che cinque anni prima con la Turchia l’Iran americani inglesi turchi e pakistani aveva firmato il patto di Baghdad, ma lo aveva rigettato già qualche anno dopo quando al potere salì il generale Abd al-Karim Qasim che rovesciò la monarchia ed eliminò Faysal II l’ultimo re dell’Iraq, (*) e Baghdad evocò negli spettatori storie antiche di califfi, una città felice cosmopolita di musulmani cristiani ebrei e zoroastriani, e pure storie fantastiche come i racconti che Sheherazade narrò al re persiano Shahriyar per mille e ancora una notte, (*) e gli studiosi dell’antico in tribuna ricordarono la grande Babilonia e i suoi giardini pensili meraviglia del mondo lì dove la regina Semiramide, raffigurata in un famoso dipinto dal maestro Degas, raccoglieva rose fresche ogni giorno pur nel clima desertico della città, (*) e poi sfilarono l’Irlanda e l’Islanda e poi gli atleti della stella di Davide che ancora alle Olimpiadi marciavano liberi e sereni… (*) arrivò poi la Jugoslavia del maresciallo Tito che era sempre insofferente con gli uomini della Piazza Rossa, e fu seguita dal Kenia che in quegli anni lanciava la volata per l’indipendenza: (*) Jomo Kenyatta dedicò una vita intera a picconare il protettorato britannico nel suo paese, organizzò la rivolta armata dei Mau-Mau che agivano nelle boscaglie della Rift Valley, e quando riuscì a far sventolare la nuova bandiera le Olimpiadi di Roma erano già passate da tre anni, (*) il Kenia, che era ancora timoroso nello sport ma otto anni dopo il mondo olimpico lo avrebbe conosciuto nella sua sontuosità con i corridori un tempo guerrieri Masai…(*) e poi passarono gli uomini della catena dell’Atlante e Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 110 poi quelli che si tuffano nel Golfo di Guinea, i nigeriani, che la loro indipendenza dai soliti britannici la conquisteranno invece proprio al termine dei Giochi, seguirono gli olandesi e i norvegesi (*) e poi i pakistani pure loro come gli indiani con il turbante in testa e già pronti per la finale del torneo di hockey contro gli avversari di sempre, ecco arriva (*) la forte Polonia -sempre cattolica per credo religioso e ancora comunista per quello politico- che nella sua capitale aveva accolto i firmatari del Patto anti-Nato… (*) e poi fu il turno della Repubblica Araba Unita, Egitto e l’alleato Siria insieme se Allah vuole per sempre, (*) così sperava il colonnello Gamal Ab el-Nasser capo degli “Ufficiali liberi” che sei anni prima aveva licenziato Re Farouk l’ultimo faraone dell’Egitto moderno, nel primo tentativo di unificazione politica del mondo arabo che avrebbe però avuto brevissima vita…(*) e per gli studiosi dell’antico in tribuna ci furono solo pochi momenti da dedicare al pensiero di Cheope Chefrem e Micerino, a Tutankamen e alla regina Hacepsut, perché le altre rappresentative premevano… (*) arrivò la Rodesia razzista e poi la Romania del Patto di Varsavia che un giovane Nicolae Ceausescu, allora numero due del partito e dello Stato avrebbe presto trasformato da implacabile mafioso balcanico in una “cosa sua”, (*) che era anche la Romania di Mircea Roger il più piccolo dell’Olimpiade che saluta felice, aveva tredici anni e faceva da timoniere agli equipaggi del quattro e del due con, ed era pure la Romania di Jolanda Balas, la donna fenicottero che come Ceausescu aveva trasformato il salto in alto in una “cosa sua”… e mentre i rumeni e le rumene sventolavano i fazzoletti, seguite da San Marino e Singapore, (*) e la Spagna riscuoteva la sua dose di fragorosi applausi fece la sua apparizione sul palcoscenico dello stadio il portabandiera degli Stati Uniti, (*) più precisamente il corpo di quell’atleta con mansioni di alfiere, che non era un corpo come quello di tanti altri atleti americani che marciavano dietro di lui, innanzitutto perché era un corpo dalla pelle scura e questo fatto di per sé rappresentava “una prima volta”, poi perché era un corpo bello come quello di una stella hollywoodiana, era un corpo muscoloso e snello nello stesso tempo, (*) e sia pur nel clamore suscitato dal passaggio della numerosa delegazione a stelle e strisce anche il possessore di quel corpo sembrò volesse conferire con Giovanni Gronchi, (*) “mi chiamo Rafer Lewis Johnson, signor presidente, e sono fiero di portare il vessillo della mia nazione anche se in quella nazione io e la mia famiglia abbiamo dovuto lottare e lottiamo ancora per avere pari dignità di trattamento dei cittadini bianchi, quando avevo nove anni la mia famiglia si trasferì dal Texas (Kingsburg) in California, vivevamo in una casetta accanto alla ferrovia e in estate io e i miei fratelli lavoravamo nei campi raccogliendo uva, prugne e pesche. Allo sport mi indirizzò mia madre Alma, che quand’ero ancora adolescente riusciva anche a superami nella corsa. (*) Sono alto 1.90 e peso novanta chili, e anche a seguito di queste misure gli allenatori mi consigliarono di provare il decathlon…io provai e la prova ebbe successo, al punto che sono diventato il primatista del mondo di questa specialità, e qui a Roma se ne vedranno delle belle perché ci sono due campioni come Yang Chuan-Kwang della Repubblica di Cina e Vasily Kuznyetsov il russo”… (*) frattanto era entrato in pista il Sudafrica, e l’accoglienza non fu certo trionfale per il paese che praticava apertamente la segregazione razziale e che sarebbe stato espulso qualche anno dopo dalla famiglia olimpica, (*) e seguirono il Sudan, Suriname, la Svezia e la Svizzera, la Thailandia, (*) la Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 111 Tunisia fresca di indipendenza e di costituzione repubblicana e prossima a conquiste sociali tra cui l’aborto legale che arriverà 13 anni prima che da noi, la Tunisia del Presidente Bourguiba che quella carica avrebbe tenuto stretta per quasi quarant’anni, e l’Ungheria fresca invece di sangue versato per difendere la propria libertà dai comandamenti del patto di Varsavia cui avrebbe obbedito per oltre quarant’anni… (*) e poi la Turchia e poi l’Uganda… e il clamore tornò (*) quando entrò sulla pista uno studente di ingegneria di nome Yuri Vlasov, che reggeva con una mano sola il pesante vessillo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, (*) e ai più quello sembrò un gesto arrogante di alterigia -vedete signori, noi del Cremlino abbiamo sempre qualcosa in più degli altri- comunque sia, arrogante o discreto che fosse, (*) il futuro ingegnere minerario aveva una tale forza negli avambracci e nelle spalle da (*) poter vincere a mani basse la prova del sollevamento pesi con 537 chilogrammi e mezzo nelle tre alzate record del mondo, e Vlasov e gli altri suoi compagni il giorno prima avevano ricevuto un messaggio (*) dal segretario del Partito Kruscev, che in quanto a retorica se la batteva con Brundage “…saluto la gioventù sportiva amante della vita e che la fiamma olimpica accenda nel cuore dei popoli lo spirito di solidarietà e fratellanza…” (*) e il compagno Kruscev ribadì il grande valore dei Giochi Olimpici perché “favoriscono il contatto fraterno tra gli sportivi di nazionalità diverse” e augurò a tutti i partecipanti “il miglior successo, nello sport come nel lavoro, negli studi e nella loro vita privata”. E fu tale il brivido provocato negli atleti dalle parole del compagno segretario che Vlasov per primo insieme a Boris Shaklin sublime ginnasta e ad altri compagni atleti si sentirono in dovere di ringraziarlo con queste parole: (*) “Caro Nikita Sergejevic, il tuo saluto è pieno di interessamento per la pace e la felicità dell’umanità e ci incita a risultati sempre migliori, nello sport come in altri campi. Promettiamo al Partito Comunista, al Popolo sovietico, e a te, caro Nikita Sergejevic, di rappresentare la nostra patria nella XVII olimpiade con onore, e di impegnarci a rafforzare l’amicizia tra gli atleti di tutto il mondo”. (*) Sfilarono ancora il Venezuela l’Uruguay e il Vietnam… e così, colmi di attrazione e di emozioni per tutte quelle storie diverse, gli spettatori si erano quasi scordati che all’appello dello speaker mancava ancora l’Italia, ma fu questione di un attimo, (*) quando alle 17 e 14 minuti entrò con passo fiero e marziale da fare rizzare la pelle a tutti, uomini e donne, bianchi e neri, comunisti e capitalisti, l’alfiere nostro (*) perché Edoardo Mangiarotti da Milano era uno che di sfilate olimpiche se ne intendeva come pochi avendone già viste e avendone già fatte ben 4 in altrettante edizioni dei Giochi a partire da quella di Berlino del ‘36 per 24 anni di fila fino a quel pomeriggio, e anche Mangiarotti pur teso all’inverosimile per non perdere neanche un momento la sua marzialità, si sentì in cuor suo di dire qualcosa a Gronchi, del tipo “la squadra è forte -signor Presidente- e ben equilibrata, comunque ci siamo noi schermidori che mettiamo una firma di fidejussione per le medaglie”, (*) salutò con deferenza quasi militaresca al passaggio innanzi alla postazione presidenziale e si rammaricò con sé stesso perché “se avessi avuto con me la spada” pensava “sì che avrei fatto davvero un gran saluto, come solo gli schermidori riescono a farlo …” Terminata la sfilata l’Olimpiade si rintanò nella sua tradizionale e macchinosa liturgia fatta di discorsi ampollosi dal pulpito, (*) e l’onorevole Andreotti scomodò i cinque cerchi (*) “inizialmente simbolo di una romantica aspirazione unitaria intercontinentale, ormai realtà vivente che premia le fatiche, le Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 112 amarezze ed i sacrifici di tutti i pionieri di questa moderna crociata di incivilimento dei rapporti tra gli uomini…”: cavolo, manco Kennedy sarebbe riuscito a parlare così, (*) fatta di giuramenti a partecipare ai Giochi quali concorrenti leali e ossequienti delle regole che li governano cui soltanto un gigante buono e ingenuo come Adolfo Consolini poteva prestare credito, una litania di cerimoniali astrusi di proclami e di speranze, in una parola l’inattaccabile retorica olimpica nutrita di frasi trite e ritrite tra cui il posto d’onore spettava a quella per cui “ai Giochi l’importante è partecipare perché l’importante nella vita non è vincere ma lottare”. (*) Frattanto l’ultimo dei 1.199 tedofori Gianfranco Peris era entrato nello stadio e di gran carriera si era proiettato verso i 92 scalini per raggiungere il tripode, e qui teso in volto ma soddisfatto aveva eseguito il suo compito. (*) E il giorno dopo le gare ebbero inizio, bando alle ciance era la cosa più importante per tutti o quasi tutti, per gli atleti per i familiari degli atleti per gli allenatori per i dirigenti per gli spettatori per le nazioni, (*) per gli americani che volevano riprendersi la prima riga nella graduatoria delle medaglie, per i sovietici che a quella prima riga si erano affezionati, (*) per i tedeschi comunisti che volevano far capire al mondo che anche se portiamo la stessa canottiera noi siamo quelli della Deutsche Demokratische Republìk e che se la seduzione capitalista continua a portarci via i compagni nostri tra un anno, giorno più giorno meno, saremo costretti ad alzare un muro che ci separi da quelli dell’Ovest, (*) per i cinesi di Taipei che pregavano che lo vincesse Yang il decathlon, che gioia sarebbe per noi e che umiliazione per Mao, (*) ma la preghiera non fu ascoltata perché Yang Chuan-Kwang perse il decathlon per soli 58 punti, 8.392 a 8.334, (*) nella gara più avvincente dell’intera Olimpiade che fu di Rafer Johnson o del suo corpo, (*) così come per una briciola di punteggio finale, 115,95 a 115,90 Takashi Ono perse il concorso di ginnastica dal biondo Boris Shakhlin (*) e per qualche centesimo di secondo o per qualche appannamento della vista dei giudici l’americano Larson perdette i 100 stile libero contro l’australiano Dewitt. Australiani che, come avevano già fatto intravedere quattro anni prima, (*) rappresentarono il vero incubo per gli americani nella piscina dello Stadio del nuoto, con tre nomi che sarebbero stati scritti con inchiostro indelebile nella storia olimpica, Konrads Rose (*) e la ribelle Dawn Fraser campionessa tre volte, a Melbourne a Roma a Tokio. (*) I pakistani non vedevano l’ora di prendere a mazzate la palla sul prato del Velodromo, perché quell’ora avrebbe potuto significare la rivincita tanto sognata sugli indiani, il cambio della guardia dopo 32 anni, e fu Naaser Bunda l’eroe nazionale a marcare l’uno a zero decisivo… (*) Cassius Clay non vedeva invece l’ora di prendere a dolci cazzotti il polacco finalista, pugni teneri pugni gentili quelli di Cassius, lungi da me l’idea di farvi del male, come lungi da me l’idea di partire per il Vietnam a fare la guerra… Le gare furono la cosa più importante anche per la signora Blanche che si teneva informata su quello che combinava la (*) sua figliola Wilma, una ragazza ventenne che da piccola aveva contratto la polio e da adolescente l’aveva sconfitta perchè lei, la madre, donna testarda, non accettava che la ventesima dei suoi 22 figli nata come gli altri nel ghetto nero di Clarksville dovesse camminare tutta la vita con le stampelle, e quella ragazza nei quindici giorni romani avrebbe fatto perdere la testa non solamente a Livio Berruti ma a un’infinità di altre persone, come ricordò Elio Trifari nel giorno in cui lei passò Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 113 ad altra vita (*) “quell’estate romana di 34 anni fa, lunga e dolce, tenera e intensa per tanti di noi che scoprivano di persona, o alla Tv, il fascino dei Giochi, segnò anche il momento di una sorta di innamoramento collettivo: di Wilma, della gazzella nera che sbancò l’Olimpiade e la corsa, ci sentimmo tutti amici, complici, fidanzati se non amanti, estasiati nell’ammirare quelle membra flessuose, quell’incedere felino e regale assieme che coniugava l’essenza della corsa e la gioia di liberare la propria vitalità, così repressa e minacciata nell’infanzia”. (*) Le gare furono la cosa più importante pure per Dave Sime, velocista americano che affrontò la finale dei 100 metri col pensiero che il Dipartimento di Stato prima di partire lo aveva nominato “prima spia ufficiale in ambito olimpico” con l’incarico esplicito di avvicinare il saltatore in lungo ucraino Igor Ter Ovanesian e convincerlo a rinnegare pubblicamente la Bibbia comunista per rendere omaggio alla statua della Libertà…ma Sime perse la gara per qualche centimetro e non riuscì a combinare nulla con l’ucraino… (*) Le gare contarono un po’ meno per Harold Connolly e Olga Fikotova, lui di Somerville vicino Boston e lei di Praga che quattro anni prima a Melbourne si erano innamorati pazzamente, e dopo aver convinto le autorità ceche a fare uno strappo alle regole della cortina di ferro avevano coronato il loro sogno d’amore, e allora a Roma che ci importa se arriviamo lui 8° e lei 7^, ce ne andiamo in giro per la città in carrozzella… (*) In giro per la città e poi per l’Appia antica, il 10 Settembre, ci andarono pure due rappresentanti del continente nero, Abebe Bikila e Rhadi ben Abdesselam, per coronare un sogno anziché d’amore di gloria olimpica, (*) ci riuscì il primo guardia dell’imperatore d’Etiopia, che entrò in Roma vittorioso e a differenza delle truppe del Duce scalzo e disarmato… (*) E il giorno dopo si concluse la 150^ gara del programma olimpico, e si conclusero i Giochi, ci fu un’altra cerimonia altri discorsi si fecero altre promesse che non sarebbero state mantenute, (*) ci fu la sfilata meno numerosa ma altrettanto bella come quella di quindici giorni prima, (*) e infine comparve sul tabellone la scritta “Arrivederci a Tokyo” tra quattro anni per un’altra bella e interessante Olimpiade, ma niente a che vedere e a che spartire con “la Grande Olimpiade” del 1960. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 114 LO SPORT NEGLI ANNI DELLA GUERRA FREDDA L’IMPORTANTE E’ NON PARTECIPARE. I BOICOTTAGGI OLIMPICI DAL 1976 AL 1984 PROF. FELICE FABRIZIO “No, no…allora non vengo. Che dici, vengo? Ma si nota di più se vengo o se non vengo per niente? Vengo! Ci vediamo là. No, non mi va, non vengo. No, ciao, arrivederci”. La ricordate? E’ una delle più celebri masturbazioni cerebrali di Michele, il nevrotico protagonista di “Ecce Bombo”. Ma nemmeno i componenti della grande famiglia olimpica scherzano quanto a confusione di idee. Per ottant’anni hanno fatto il diavolo a quattro per essere invitati alla festa quadriennale che sintetizza gli assetti di un ordine mondiale in continua trasformazione. In qualità di anfitrioni fieri di sfoggiare potenza economica, capacità organizzativa, prestigio culturale. Come convitati arrivati per la strada principale o per vie traverse, esibendo un biglietto di invito che, sulla base della concezione decoubertiana, non fa riferimento agli stati, ma ai comitati olimpici di nazioni prive di autonomia come la Boemia, l’Ungheria e la Finlandia del primo scorcio del XX secolo. E che muso lungo mettono i reprobi messi in quarantena, in sfregio al mito della neutralità sportiva, in quanto appartenenti agli schieramenti sconfitti nelle due guerre mondiali, gli Imperi Centrali e le potenze dell’Asse. Una sorte alla quale l’Italia sfuggirà per un soffio grazie al giro di valzer che dall’ottobre del 1943 getta il Regno del Sud nelle braccia del blocco anglo – americano. Quanto all’assente di maggior riguardo, l’Unione Sovietica, che si siederà a tavola solo nel 1952, la latitanza è il frutto di una scelta volontaria entusiasticamente sottoscritta dal Comitato Olimpico Internazionale, preoccupato di mantenersi fuori da ogni genere di questioni spinose. E l’ipotesi di un boicottaggio del paese ospitante, messa per la prima volta sul tappeto nel 1936, appare tanto remota che nei suoi statuti il C.I.O. non contempla provvedimenti sanzionatori nei confronti dei disertori. Il nesso tra politica e Giochi Olimpici, vecchi compagni di merende, si rafforzerà dopo il 1945, quando ogni problema internazionale conclamato o incombente finirà per scaricarsi sul sistema sportivo, chiamato non solo a prenderne atto e a farsene carico, ma in qualche caso addirittura ad anticiparne la risoluzione. E’ il caso della XXI Olimpiade assegnata per il 1976 al Canada, che porta alla ribalta in un sol colpo il fresco protagonismo africano e le vergogne dell’apartheid. Il Continente Nero dagli anni Sessanta è interessato da un processo di decolonizzazione, pacifico o legato a sanguinose battaglie per l’indipendenza, che non sembra tuttavia sortire gli effetti sperati. Gli stati hanno confini tracciati col righello senza tenere conto della compatibilità tra le diverse etnie. Sono costruzioni precarie, solo formalmente ispirate alle forme occidentali di governo democratico, esposte ai rischi di Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 115 continui colpi di stato effettuati da militari e da feroci dittatori. I nazionalismi ed i conflitti prevalgono sulla ricerca di una comune identità panafricana. Il colonialismo economico affianca quello politico, trasformando il continente in teatro della Guerra Fredda, diviso tra incrollabili alleati del blocco occidentale, aree nelle quali, sul ritmo dello slogan “creare due, tre, molti Vietnam”, si aprono nuovi fronti di lotta finalizzati a logorare l’egemonia americana, l’Angola, il Mozambico, il Corno d’Africa. Nell’Africa australe le élites bianche al potere si chiudono a riccio in difesa dei loro privilegi. La vittoria del partito afrikaner nelle elezioni del 1948 segna l’inizio delle politiche di segregazione razziale, fatte proprie nel 1964 dal governo rhodesiano guidato da Ian Smith, che l’anno successivo proclamerà unilateralmente l’indipendenza dalla Gran Bretagna. L’apartheid, nei cui confronti nel 1962 l’O.N.U. ha adottato una risoluzione di severa condanna, fa il suo ingresso nel campo sportivo nel 1956, determinando la separazione invalicabile delle attività e dei praticanti, una situazione che indurrà il C.I.O. ad escludere il Sudafrica dai Giochi Olimpici del 1964 e del 1968 e ad espellerlo dal consesso olimpico nel 1968. La Rhodesia, ammessa ai giochi del 1972, verrà precipitosamente esclusa dopo che i paesi africani hanno minacciato un unanime boicottaggio. Il problema si ripropone con forza e sotto altra forma quattro anni più tardi. Dal 1965 era attivo un Consiglio Superiore dello Sport Africano, presieduto da un politico dinamico e spregiudicato, il congolese Jean – Claude Ganga, ideatore dei Giochi Africani. Il Consiglio chiede perentoriamente al C.I.O. di revocare l’invito a Montreal della Nuova Zelanda, colpevole di intrattenere attraverso il rugby relazioni sportive con il Sudafrica. Nel mirino vi è in particolare la tournée in Nuova Zelanda degli Springboks in coincidenza con la sanguinosa repressione della rivolta di Soweto. Il C.I.O. si trincera dietro l’impossibilità di intervenire sulle scelte di federazioni non olimpiche, ma questo non basta a smorzare le proteste, sulle quali soffia la Cina Popolare, interessata a spezzare il duopolio U.S.A. – U.R.S.S. e a sua volta alle prese con l’annoso contenzioso con i nazionalisti di Taiwan, che si considerano l’unica legittima rappresentanza cinese nel movimento olimpico. Il tempo stringe. Il tre luglio il Consiglio dello Sport Africano lancia il suo ultimatum: o il Canada revoca l’invito alla Nuova Zelanda o sarà boicottaggio. Il 17 luglio le rappresentative africane sfilano nel corso della cerimonia inaugurale, ma in seguito al rifiuto del presidente del C.I.O. lord Killanin di incontrare Ganga trenta delegazioni del Continente Nero rientrano in patria, seguite in segno di solidarietà da Iraq e Guyana. A difendere i colori africani rimarranno solo il Senegal e la Costa d’Avorio Questo primo ed unico boicottaggio “interruptus” priva il campo dei partecipanti di molti protagonisti annunciati, in particolare nell’atletica leggera e nel pugilato, discipline in cui a Tokyo e a Monaco i paesi africani, capeggiati dal Kenya, avevano ottenuto 28 medaglie, sette delle quali del metallo più prezioso. Il capitolo successivo sembra aprirsi sotto migliori auspici. L’assegnazione a Mosca dei Giochi del 1980 ha per sfondo una situazione internazionale nella quale gli stadi più acuti della Guerra Fredda appaiono un lontano ricordo. Iniziata nel biennio 1947/1948, scandita da tappe drammatiche, su tutte il conflitto in Corea e la crisi dei missili cubani, che hanno portato il mondo sull’orlo dell’apocalisse nucleare, la Guerra Fredda è una estenuante partita a Risiko giocata per difendere ed assicurarsi aree di influenza geopolitica. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 116 Lo scontro tra i due blocchi, che chiama in causa gli apparati politico – militari, i sistemi economici, i modelli sociali, i valori culturali, trova riscontro dal 1952 anche nelle competizioni olimpiche, che acquistano un significato simbolico ed una rilevanza propagandistica di enorme portata. Nelle sette edizioni che vanno dai Giochi di Helsinki a quelli di Montreal il medagliere fa registrare la superiorità complessiva degli atleti sovietici (683 medaglie contro le 602 americane), compensata dal perfetto equilibrio del numero delle medaglie d’oro, 260 a 260. Partecipare è dunque fondamentale, sconfiggere l’odiato rivale un gaudio infinito. Perché si possa concepire una defezione occorre dunque che accada qualcosa di molto simile ad un cataclisma. Che si verifica puntuale. Nel 1976 il democratico Jimmy Carter viene eletto presidente degli Stati Uniti. Sull’altra sponda a detenere il potere è Leonid Breznev, strenuo difensore del socialismo reale e fautore di un tardo imperialismo. La loro partita si gioca in un’area solo apparentemente periferica, L’Afghanistan, in cui nel 1978 il controllo è stato assunto dal Partito Democratico del Popolo sostenuto da Mosca, tenacemente contrastato da un’opposizione armata di matrice islamica foraggiata dai servizi segreti americani. Tra i dirigenti del Cremlino aleggia l’incubo della destabilizzazione delle repubbliche sovietiche a maggioranza musulmana. La notte di natale del 1979, su pressante invito del Partito del Popolo, l’Armata Rossa invade in forze l’Afghanistan. Per Carter, che sul fronte interno come sulla scena internazionale ha accumulato una serie di smacchi, arriva l’agognata occasione di mostrare i muscoli assumendo le vesti di ipocrita paladino del diritto alla libertà e alla autodeterminazione dei popoli. Il quattro gennaio del 1980 il presidente U.S.A. annuncia che i recenti avvenimenti mettono fortemente a rischio la partecipazione della squadra americana ai Giochi di Mosca. Su questa linea di intransigenza si attestano immediatamente l’Arabia Saudita, la Gran Bretagna della “Lady di ferro”, l’Australia, la Nuova Zelanda, l’Iran degli ayatollah, la Cina comunista, ai ferri corti con l’ingombrante vicino e in fase di disgelo grazie alla diplomazia del ping – pong con gli Americani, una Cina che non esita ad assimilare le Olimpiadi del 1980 alle nazi – Olimpiadi del 1936. Il ritmo degli avvenimenti diviene convulso. Il governo americano, preso atto della netta opposizione del C.I.O. al trasferimento della sede a Montreal o a Monaco di Baviera, deposta l’idea di allestire a Colorado Springs una contro olimpiade delle “nazioni libere”, presenta a Mosca la sua richiesta ultimativa: se le truppe sovietiche non abbandonano l’Afghanista gli Stati Uniti e i suoi alleati diserteranno i giochi. Manco una piega fa Leonid, manco un plissé. Scaduti i termini dell’aut – aut, il Congresso ed il Senato americani votano a schiacciante maggioranza il boicottaggio, approvato con un margine più risicato dall’assemblea dei delegati delle federazioni sportive a stelle e strisce. Bocciata dal C.I.O. anche l’ultima possibile scappatoia, la partecipazione degli atleti a titolo personale, le autorità politiche e sportive dei paesi occidentali e del Terzo Mondo si trovano di fronte alla necessità di adottare una inequivocabile scelta di campo. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 117 Il Consiglio Superiore dello Sport Africano opta per la partecipazione, imitato dalle associazioni sportive inglesi in aperta ribellione alle invasioni di campo della Thatcher. In Francia la questione apre un dibattito ricco di spunti di grande interesse, che ha per l’effetto la convivenza di stranissimi compagni di letto. Si schierano per la partecipazione il Partito Comunista, di comprovata fede filosovietica, il gollista Chirac, i socialisti di Mitterand. La campagna per il boicottaggio, in cui occupano un posto di primo piano i più eminenti dissidenti russi riparati in Occidente, accomuna le forze di destra e la sinistra extraparlamentare, promotrice del Comitato per il Boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca nobilitato dal sostegno di intellettuali prestigiosi quali Marguerite Duras, Barthes, Foucault, Glusckmann. L’ultima parola spetta al Comitato Olimpico che, con 22 sì ed una astensione, autorizza la spedizione transalpina. In Italia sulla mobilitazione dal basso di un’opinione pubblica che un sondaggio effettuato in marzo dalla DOXA dimostra per oltre il 60% favorevole alla partecipazione, finiscono come sempre per prevalere il gioco dello scaricabarile, le alchimie politiche, le soluzioni pilatesche. Il C.O.N.I. appare da subito fermamente intenzionato a garantire la regolare presenza italiana alle Olimpiadi che, dirà Giulio Onesti, “moriranno il giorno in cui finirà il mondo” Dello stesso parere sono i più autorevoli opinionisti, le grandi firme del giornalismo sportivo, il Partito Comunista di Berlinguer, impegnato a difendere a spada tratta le ragioni di Mosca. Nello schieramento favorevole al boicottaggio trovano spazio le componenti fanfaniane e dorate della Democrazia Cristiana, il Movimento Sociale, i repubblicani, partito americano per eccellenza, il Partito Socialista di Craxi, che intende smarcarsi sempre più nettamente dalle posizioni comuniste, come dimostra l’instaurazione di un canale diretto e privilegiato con i dissidenti sovietici. A capeggiare un fragilissimo governo tripartito D.C. – P.S.I. – P.R.I. c’è Francesco Cossiga che, sfoderando tutta la sua abilità di acrobata della politica, si ingegna a tenere insieme l’alleanza con gli Stati Uniti e la necessità di salvaguardare l’autonomia e l’autorevolezza del C.O.N.I. Allo scopo viene riesumata una negletta sentenza del Consiglio di Stato che riconosce la sovranità degli enti pubblici ai fini del conseguimento dei loro fini istituzionali, che per il C.O.N.I. prevedono la partecipazione ai Giochi. E sovranamente il Consiglio Nazionale del C.O.N.I. sottoscrive a schiacciante maggioranza le scelte governative, che delineano un intervento senza tricolore, senza inni nazionali, senza atleti appartenenti ai corpi militari, ai quali viene immediatamente ritirato il passaporto. Il judoka Ezio Gamba, che vincerà l’oro, per recarsi a Mosca sarà costretto a chiedere il congedo dall’Arma dei Carabinieri. La proroga sine die dei termini di iscrizione ed il frenetico giro di incontri tra Carter, Breznev e i principali leader mondiali non valgono ad evitare il disastro, che emerge in tutta la sua evidenza nel corso della cerimonia inaugurale fissata per il 19 luglio. Tra i 61 paesi boicottatori si mescolano il Cile di Pinochet e, incredibile a dirsi, Israele, partner di fiducia degli U.S.A., ed i suoi nemici arabi, che intendono esprimere la loro solidarietà etnico – religiosa al popolo afghano. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 118 Pesano come macigni le assenze degli Stati Uniti, della Cina, del Giappone, di una Germania in cui una drammatica votazione all’interno del Comitato Olimpico Nazionale si è risolta con 49 favorevoli alla partecipazione contro 50 contrari. Le rappresentative di Gran Bretagna, Irlanda e Portogallo sfilano con i soli dirigenti; Belgio, Francia, Lussemburgo, Olanda, San Marino e Svizzera con i vessilli nazionali e senza atleti; l’Italia con la bandiera del C.O.N.I.; Andorra, Australia, Danimarca, Nuova Zelanda, Portorico e Spagna con la bandiera olimpica. La Liberia sfila, ma non partecipa alle gare. Per i Giochi del 1984, programmati a Los Angeles, è lecito parlare della cronaca di una ritorsione annunciata, attuata con programmato cinismo e servita come piatto freddo. Ad agitare per primo le acque è paradossalmente proprio il paese ospitante. L’abbattimento avvenuto nel settembre del 1983 di un Boeing 747 sudcoreano accusato dai Russi di aver violato il loro spazio aereo suscita negli Stati Uniti un’ondata di indignazione, che si manifesta anche attraverso una raccolta di firme per invitare gli atleti americani ad astenersi dai Giochi. Chiusi all’angolo, i Sovietici reagiscono con rabbia. I giornali denunciano l’assenza a Los Angeles delle indispensabili condizioni di sicurezza per le squadre. I dirigenti sportivi, scandalizzati dalla richiesta formulata dall’ambasciata americana a Mosca, che esige di poter esaminare per tempo la lista dettagliata della delegazione russa, subordinando alla verifica nominativa la concessione del visto di entrata, gridano alla violazione della Carta Olimpica, che impone la libera circolazione di atleti ed accompagnatori. Il cielo è sempre meno blu, malgrado le ottimistiche dichiarazioni di una pattuglia in esplorazione a Los Angeles secondo la quale “boicottaggio è una parola che non esiste nel vocabolario russo”. Sono lette come autentiche provocazioni tanto la concessione dell’accredito a due punte di diamante della propaganda occidentale, Radio Libera Europa e Radio Libertà, quanto le attività del cartello Ban The Soviet Coalition, sotto il cui ombrello si raggruppano 165 organizzazioni in rappresentanza di trenta milioni di americani, che diffonde volantini incitanti alla richiesta di asilo politico da distribuire tra le rappresentative del blocco comunista. L’otto maggio arriva l’annuncio ufficiale della defezione dell’U.R.S.S., che assume a pretesto l’esplicita violazione della Carta Olimpica. Seguono in scia Bulgaria, Cecoslovacchia, Germania Orientale, Polonia, Ungheria, Angola, Alto Volta, Etiopia, Libia, Afghanistan, Cambogia, Corea del Nord, l’Iran in guerra con l’Iraq, Laos, Mongolia, Repubblica Democratica dello Yemen. L’epoca della chiamata alle rami dello sport e della politicizzazione dei Giochi Olimpici volge al tramonto in parallelo con la fine del bipolarismo e con l’emergere sulla scena internazionale di nuovi protagonisti.. L’ultimo coda di coda si registrerà nel 1988 a Seul con la defezione della Corea del Nord, di Cuba, dell’Etiopia. E’ possibile a questo punto abbozzare un bilancio. Il boicottaggio del 1976, pur essendo assorbito senza gravi contraccolpi dal movimento olimpico, riveste un’importanza fondamentale in quanto traccia il cammino percorso dalle esperienze successive. Il boicottaggio del 1980 trasforma un potenziale ordigno nucleare in una innocua castagnola. Carter, preoccupato soprattutto di intercettare e sfruttare a fini elettorali la paura del comunismo che attanaglia l’America profonda, verrà sonoramente sconfitto da Reagan e non otterrà il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 119 Il magro bottino di paesi boicottatori raccolto nel 1984 dall’U.R.S.S. prelude alla rovinosa caduta di un colosso dai piedi di argilla, lacerato dalle contraddizioni interne e dissanguato dall’inseguimento della politica di riarmo posta in atto dagli Stati Uniti. In buona sostanza, il boicottaggio, espressione di un biasimo morale che non incide sulle relazioni vitali di ordine politico ed economico intrattenute dagli stati, sembra avere rivestito un’efficacia simbolica ed una effimera visibilità. Il tema del rispetto dei diritti umani, mai fatto proprio in modo convinto dal Comitato Olimpico Internazionale, dagli anni Novanta del XX secolo scivola in secondo piano per fare posto alle pressanti esigenze del business planetario. E Michele si è finalmente deciso. Parteciperà alla festa, costi quello che costi. Stando in un angolino o mettendosi di profilo accanto a una finestra? No: al centro della scena, sotto i fasci dei riflettori, davanti ai microfoni, esibendo alle telecamere gli attrezzi del mestiere con il marchio di fabbrica ed il logo dello sponsor ben in vista. BIBLIOGRAFIA Elio Trifari (a cura di), L’enciclopedia delle Olimpiadi, Milano, R.C.S., 2 voll., 2008; Sergio Giuntini, L’Olimpiade dimezzata. Storia e politica del boicottaggio nello sport, Milano, Sedizioni, 2009; Nicola Sbetti, Giochi di potere. Olimpiadi e politica da Atena a Londra. 1896 – 2012, Firenze, Le Monnier, 2012. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 120 RDT: MEDAGLIE, DOPING E SPIE PROF. SERGIO GIUNTINI La vicenda dell’ex Repubblica Democratica Tedesca (RDT) è emblematica per una quantità di aspetti. Ci parla di “muri” innalzati anche nello sport, di precari compromessi diplomatici e geo-politici ricercati dal CIO, di un sistema sportivo di base e di vertice apparentemente perfetto, di doping di stato, di spionaggio internazionale. Ma se tutto cio corrisponde a verità, ancor più la RDT fu una incredibile “fabbrica” di medaglie pregiate. Una nazione dalla modesta superficie e popolazione, in grado di produrre alle Olimpiadi prestazioni di contenuto superlativo. Tant’è non sembra azzardato sostenere che la legittimazione politica della RDT sia giunta dopo quella sportiva e in forza di essa. La RDT era, nel e per il mondo, il suo sport; si specchiava nei suoi campioni e nelle sue invincibili campionesse. Il vero “sesso forte” targato DDR (Deutsche Demokratische Republik). Senza per il momento valutare la bontà “onesta”, cioè non indotta da agenti biochimici o farmacologici, di questi risultati, è tuttavia doveroso evidenziarne la portata. Soltanto tenendone il dovuto conto, si razionalizza il significato di Guerra Fredda prolungata allo sport. Ammessa ai Giochi quale stato autonomo solo da Città del Messico, in un ventennio (esclusa l’Olimpiade boicottata di Los Angeles 1984) la RDT seppe incamerare 448 “metalli” olimpici così ripartiti: 1968: 9 ori, 9 argenti, 7 bronzi; 1972: 20, 23, 23; 1976: 40, 25, 25; 1980: 37, 35, 30; 1988: 37, 35, 30. Nel medagliere finale fu quarta dietro USA, URSS e Giappone in Messico, all’esordio; terza davanti alla Germania Ovest a Monaco di Baviera; sempre seconda, sopravanzata dai sovietici, a Montreal, Mosca, Seul. Numeri impressionati, che esplicitano il valore politico e ideologico annesso dalla Germania Est allo sport: il suo maggior veicolo di confronto e bilancio positivo nei riguardi dell’Ovest. Di quella Germania Federale, che ne costituiva il termine di paragone e contrasto più immediato nell’epoca che precede l’innalzamento del Muro (13 agosto 1961) e si conclude con il suo abbattimento (9 novembre 1989). Se questo è il contorno in cui collocare la RDT grande potenza sportiva, è altresì indispensabile fissare una cronologia delle principali tappe che scandirono il percorso di emarginazione e poi di lenta integrazione da essa compiuto nel movimento sportivo mondiale. Una delle piste interpretative più convincenti e utili a enucleare la natura totalizzante della contrapposizione in blocchi. Tale cronistoria prende il là con la legge 8 febbraio 1950, che stabiliva la partecipazione della gioventù all’edificazione socialista della RDT, promuovendone la crescita tramite l’istruzione, lo sport e la cura del tempo libero. Era il primo, fondamentale passo, nell’elaborazione del modello sportivo tedesco orientale. Allo sport veniva assegnato un autentico valore fondativo/costitutivo nella vita del Paese. Di concerto, la RDT perseguiva la strada del riconoscimento sportivo nelle varie sedi internazionali. Così il 13 maggio 1950 i presidenti delle federazioni atletiche tedesche, dell’Ovest e dell’Est, si accordavano per ottenere una separata e non conflittuale affiliazione alla IAAF. Ma quest’ultima, il 23 agosto 1950, a Bruxelles accettava solo la richiesta della RFT. Un chiaro segnale dell’atteggiamento diseguale che sarebbe stato a lungo mantenuto nei suoi riguardi. Per vincere queste resistenze, il 22 aprile 1951 la RDT creò un proprio comitato olimpico che potè però entrare a pieno titolo nei ranghi del CIO a distanza d’un decennio. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 121 Nella sessione CIO del 1952 a Helsinki la discussione fu a senso unico. Sigfrid Edstroem accusò la RDT di “rifiutare la cooperazione” con la RFT. Avery Brundage attaccò le “direttive dell’irresponsabile governo socialista”. Lord Michael Morris Killanin lamentò le “interferenze della politica”. Ripresentata istanza d’ammissione nel 1954, questa fu respinta con 34 no e 23 sì; e nel ’55, nella 51^ sessione di Parigi, venne recepita ma con un carattere di provvisorietà in vista di un’ipotetica riunificazione. L’attesa inflittagli era dettata dall’atteggiamento non imparziale del CIO sul tema delle due germanie. Una condotta che si riparava dietro il paravento, utilizzato con disinvoltura a seconda dei casi, dell’inammissibilità di due comitati olimpici espressione della medesima entità nazionale. Sta di fatto che - come si è visto - alle Olimpiadi di Helsinki furono presenti sia la RFT, il cui comitato era stato riconosciuto il 24 settembre 1949, sia la Sarre. Ergo: nei soli riguardi della Germania orientale permaneva un pregiudizio del CIO che non poteva avere altre motivazioni se non politiche. Un filo-atlantismo di fondo difficilmente mascherabile. Ancora nel 1954 la domanda di ammissione della RDT alla IAAF venne respinta per il veto della RFT; e il CIO, nell’impossibilità ormai di tener ferma una posizione fortemente squilibrata e tesa unicamente a prender tempo, capitolò con i Giochi di Melbourne. In quel frangente, si addivenne a un compromesso allestendo una rappresentativa mista detta “Germania unificata”. Compromesso comunque al ribasso per la componente orientale, poiché nelle cerimonie olimpiche si ricorse a inno e bandiera della RFT e, sui 177 atleti tedeschi inviati in Australia, appena 36 erano della RDT. Questo “status quo” fu conservato, con qualche indispensabile aggiustamento, anche ai Giochi di Roma e Tokio. Nell’Olimpiade italiana, sui 331 componenti della “Germania unificata” 194 provenivano dal settore occidentale e 137 dall’orientale. In quella giapponese i ruoli s’invertirono, con una presenza di 191 unità della RDT e 183 della RFT. L’inversione di tendenza avvenuta, preconizzava il prossimo inserimento non più generico e indeterminato nel consesso del CIO. Un ingresso preceduto dall’apertura di credito della IAAF. Dopo le Olimpiadi, a Tokio la Federazione atletica tenne - dal 20 al 23 ottobre 1964 - il suo 24° Congresso che, con 126 voti favorevoli e 96 contrari, ammise la RDT. A questo punto già 20 federazioni internazionali avevano riconosciuto la Germania Est, e il CIO, a Madrid nella 64^ sessione (3-9 ottobre 1965), non fece altro che dare il suo benestare a uno stato di cose in essere. Purtuttavia le procedure burocratiche non erano ancora esaurite. Occorse attendere la 68^ sessione a Città del Messico nell’ottobre 1968 per il riconoscimento integrale, in vigore dal 1° novembre di quell’anno. Ed unicamente alle Olimpiadi di Monaco di Baviera la RDT fu nelle condizioni di esibire i propri inno, vessillo, emblema. Mentre si consumava questa infinita “anticamera”, i sabotaggi e i tentativi emarginanti si sprecarono. La lista, limitandoci alla prima metà degli anni ’60, quando più vicina era la definitiva integrazione, contempla semplici punzecchiature e azioni scopertamente ostili. Nel 1960 la Francia negò il permesso d’ingresso alle pallavoliste della RDT che non poterono partecipare al Torneo di Parigi e, nel 1961, sempre il governo francese, impedì che al Congresso della federazione ciclistica internazionale - ospitato nella sua capitale - intervenissero i delegati di Berlino Est. Il cross-country parigino del giornale comunista l’Humanitè venne precluso ai mezzofondisti della Germania democratica dal 1961 al 1964; e il 7 gennaio 1963 fu Willy Daume, presidente del comitato olimpico della RFT, a bloccare la costituzione di due squadre tedesche separate per i Giochi di Tokio. Si temeva che dal confronto diretto emergesse inequivocabilmente la supremazia della zona comunista. Da ultimo, Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 122 solo un meccanismo estremamente complesso consentì la presenza della RDT alla prima Coppa Europa - ideata dall’italiano Bruno Zauli - di atletica leggera per nazioni. Al fine d’aggirare i molteplici ostacoli extrasportivi, si agì in questi termini: 1) per rendere inefficace l’embargo della NATO sui visti degli atleti tedescoorientali, la semifinale che raggruppava Jugoslavia, Regno Unito, Svezia, Romania, Olanda e RDT, si svolse a Zagabria il 21-22 agosto 1965 anzichè nella sede inizialmente prevista di Oslo; 2) per risolvere la questione posta da bandiera e inno della RDT, rigorosamente proibiti nella RFT, dove si tenevano le finali della manifestazione, venne deciso che i diversi paesi non portassero a Stoccarda (maschile, 11-12 settembre 1965) e Kassel (femminile, 19 settembre 1965) alcun segno o simbolo che ufficializzasse la loro rispettiva delegazione, eccettuato il colore della maglia. “Fabbrica delle medaglie” e punto strategico di massima criticità per la sua posizione di cerniera tra Est e Ovest, la RDT imboccherà la via del doping pianificato per affrontare con successo la competizione politica globale con l’Occidente. Una variante del tipico nazionalismo sportivo - anch’essa, a partire dall’ottobre 1952, recupererà l’eredità carismatica di Ludwig Friedrich Jahn con un respiro però assai più ampio, dovendo concorrere alla vittoria finale, sistemica, del “socialismo reale”. Argomenti non meramente propagandistici, che si ritrovano ancora affermati in un materiale ufficiale (le premesse ideologiche alle linee-guida diramate dalla Federatletica della RDT per l’allenamento dei giovani dai 10 ai 13 anni) del 1° settembre 1985. A pochi anni dal crollo del Muro, si poteva leggere: In conformità con le decisioni della SED (Partito Socialista Unitario Tedesco) e, in particolare, del suo X Congresso, tutti i cittadini del nostro Paese hanno il dovere politico di tendere sempre ai migliori e più elevati risultati. L’XI congresso darà a noi tutti nuovi impulsi, idee e principi. L’evoluzione delle prestazioni nel mondo intero mostra che anche nelle discipline dell’atletica leggera non è prevedibile nei prossimi anni un limite ai risultati. Per lo sport agonistico in RDT è fondamentale affermare la propria posizione a livello mondiale nella lotta di classe contro l’imperialismo […]. I requisiti che riguardano la personalità dei nostri atleti negli anni ’90, nell’anno 2000 e più avanti ancora, sono determinati dal crescente conflitto tra l’imperialismo e il socialismo su scala mondiale, dall’insaziabile sete di potere - in cui lo sport agonistico ha un ruolo importante - dall’abuso dell’idea di Olimpiade, dalla crescita e commercializzazione e professionalizzazione, in particolare ad opera dell’imperialismo, e dalla continua crescita dinamica del numero dei primati a livello internazionale. Gli atleti della RDT incontreranno nei prossimi anni rivali sempre più preparati e proprio gli USA vogliono diventare il numero uno al mondo. Da questo stato di cose deriva la necessità di formare delle personalità che lottino senza condizioni per la vittoria della propria patria socialista, che si identifichino costantemente con i loro doveri, che siano disponibili a conciliare i propri interessi personali con quelli della collettività e della società, che mostrino responsabilità ed affidabilità. I futuri atleti, per potersi affermare, devono distinguersi per l’alta capacità di rendimento, in piena sottomissione alla collettività. Si richiede la creazione di nuove motivazioni nell’ottica di essere i migliori al mondo, il che presuppone un allenamento più cosciente e migliore degli altri. In questa filosofia: “essere i migliori” per “affermare la propria posizione a livello mondiale nella lotta di classe contro l’imperialismo”, s’inscrive la corsa al sussidio di “laboratorio” esasperato nell’ex RDT. Alla base del doping di stato Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 123 stava l’Istituto Superiore di Cultura Fisica di Lipsia, fondato nel 1950 e presso il quale si diplomeranno 20.000 quadri di cui 2500 provenienti da 91 paesi per lo più in via di sviluppo. Un centro celeberrimo nel mondo, un’università dello sport e del doping. Se infatti negli anni ’50 erano gli Stati Uniti ad essere all’avanguardia nella produzione e consumo di anabolizzanti, nel decennio successivo si verificherà il sorpasso dell’Est sui “culturisti” californiani. E proprio la RDT, nell’ambito della manipolazione del testosterone, farà scuola ai suoi primi “maestri” sovietici. La solidarietà ideologica, inizialmente allargata a Romania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria, lascerà il campo, dalle Olimpiadi di Monaco di Baviera in poi, alla rivalità sportiva. L’obbligata amicizia tra URSS e RDT nascondeva in effetti una spietata concorrenza sul terreno della scienza utilizzata in funzione del miglioramento innaturale delle prestazioni. Il confronto, da qui in avanti, diventò perciò a tre: URSS-USA e, terzo incomodo, la RDT, che con il primato nella ricerca acquisito dall’Istituto di Lipsia poneva seriamente in discussione quello che era sempre stato un “bipolarismo olimpico”. Da sfatare, ad ogni modo, l’opinione d’un minor ricorso degli Stati Uniti d’America a questi mezzi subdoli. Oltre alle note vicende di Florence Griffith e Marion Jones, famosa resta la fuga di massa, per non incappare in una positività certa, di svariati atleti statunitensi alla vigilia dei Giochi Panamericani di Caracas (14-29 agosto 1983). Questi, gli 11 che preferirono rinunciare alle gare venezuelane: Brady Crain (100 m.), Mark Patrick (ostacoli), Jesse Stuart e Ian Pyka (peso), Greg Mc Seveney e Paul Bishop (disco), Dave Mc Kenzie e John Mc Ardle (martello), Duncan Atwood (giavellotto), Randy Williams (lungo), Mike Marlow (triplo). In Germania Est Manfred Ewald, membro del Comitato centrale della SED e uomo forte dello sport tedesco orientale da presidente della DTSB (“Deutsche Turn - und Sport Bund”), già nel 1963 avrebbe ordinato un uso massiccio di anabolizzanti per gli sportivi di vertice. Complessivamente si è potuto appurare che almeno 10.000 furono gli atleti interessati da cure ormonali. Nel 1974 un comitato ristretto stabilì le direttive per l’attuazione di un doping sistematico e, studiate a Lipsia, le sostanze dopanti venivano testate e prodotte dalla “Jenapharm” di Jena. Il laboratorio antidoping - riconosciuto dal CIO - di Kreisha, provvedeva invece, prima dei grandi eventi, a controllare i soggetti che vi si erano sottoposti, garantendo così l’efficacia del trattamento senza smascherarne i fruitori. A questo sistema articolato cooperavano una dozzina di istituzioni scientifiche e circa 1500 ricercatori. Essi partecipavano a lavori coordinati e, nel 1981, a Lipsia, si tenne un seminario nel quale si dibattè approfonditamente sul come ritrovare nuovi additivi non rilevabili agli esami di laboratorio. Non per altro, il poeta dissidente Wolf Biermann arrivò a definire il doping praticato nella Germania orientale “uno dei più grandi esperimenti mai eseguiti su corpi umani”. Il doping programmato, il cui “Doktor Mabuse” era lo stretto collaboratore di Ewald Manfred Hoppner, ricalcava nelle sue scansioni pluriennali le pianificazioni dell’economia socialista. E uno degli ultimi predisposti, portava il nome in codice di “Piano di stato 14.25”. In questo senso l’intero apparato organizzativo del doping doveva disporre della completa copertura della Stasi, e la conferma ci è data da un rapporto di 700 pagine, redatto nel 2006 dall’Istituto “Arendt” di Dresda, in cui si conclude sinteticamente che la “Stasi ebbe un ruolo fondamentale nel medagliere della DDR”. In un regime dalle maglie molto rigide, che si autososteneva con la delazione e le schedature di massa, dove tutti spiavano tutti, la potente polizia segreta, la Stasi di Erik Mielke (180.000 agenti e 120.00 collaboratori informali), Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 124 non poteva non estendere il proprio controllo politico capillare attraverso lo sport. Gli sportivi d’eccellenza godevano di una particolare libertà di movimento all’estero e di benefici sociali che dovevano ripagare ponendosi al servizio degli organi di sicurezza. Erano una casta di privilegiati, e così venivano percepiti dalla popolazione comune. Anche alla luce di ciò si spiegano le tentate violenze e vendette di cui, a pochi giorni dalla caduta del Muro, furono vittime diversi atleti dai trascorsi illustri. A Karl Marx Stadt fu distrutta l’auto della campionessa di nuoto Heike Friedrich. A Lipsia giunsero intimidazioni alla discobola Martina Hellman, minacciando di ucciderle la figlia. A Erfurt subì danni alle sue proprietà il pattinatore Uwe Ampler, e la nuotatrice Kristine Otto si asserragliò a lungo in casa temendo il peggio. Percepiti e indubbiamente vicini al potere, tra gli informatori della Stasi figurarono negli anni ’80 i migliori calciatori della principale squadra del Paese: la “Dinamo” Berlino, il sodalizio del Ministero dell’Interno di cui era fanatico supporter Mielke. Di alcuni di loro si conoscono i nomi: Thomas Doll, che giocherà anche in Italia nella “Lazio”, Andreas Thom, Frank Rodhe, Wolfgang Klein. La “Dinamo” Dresda forniva informazioni tramite Frank Lieberman, Matthias Doeschner e Andreas Trautmann, calciatore dell’anno nel 1989. Torsten Guetschow, anch’egli della “Dinamo” Dresda e tre volte capocannoniere dell’”Oberliga”, iniziò a collaborare con la Stasi dal 1981 e, in nove stagioni, passò alla polizia politica una sessantina di dossier su compagni di club, allenatori, dirigenti. Lutz Dombrowski, campione olimpico di salto in lungo a Mosca, nel 1979 sottoscrisse un documento in cui s’impegnava a riferire i “contatti con gli stranieri durante le trasferte all’estero”. Pure Heike Drechsler, lunghista che vinse i campionati europei del 1986, vide messa in pericolo la sua carriera sportiva qualora non si fosse assoggettata alle richieste della struttura diretta da Erik Mielke. E sul conto di Katharina Witt, “noffizielle maitarbeiterin” (informatrice non ufficiale) che s’aggiudicò le medaglie d’oro nel pattinaggio artistico alle Olimpiadi di Sarayevo (1984) e di Calgary (1988), presso gli archivi della Stasi erano custoditi otto nastri di registrazione e 1354 pagine di trascrizione. Stasi per la quale, con compensi mensili di 1000 marchi, lavorò anche dall’agosto 1971 l’altra pattinatrice Gaby Seyfert, campionessa del mondo nel 1969 e ’70. Quella svolta dalla Seyfert si configurava più compiutamente come un’autentica attività di spionaggio. Un’attività che in quell’epoca, non solo all’interno dei propri confini nazionali ma soprattutto durante le gare oltrecortina, interessò numerosi atleti dell’Europa orientale. Il caso più famoso è quello del polacco - nato a Varsavia il 25 ottobre 1932 Jerzy Pawlowski (vincitore dei Giochi olimpici nella sciabola a Città del Messico, secondo nell’individuale e a squadre a Melbourne, argento e bronzo a squadre a Roma e Tokio), che fu arrestato il 24 aprile 1975 e, l’8 aprile 1976, condannato da un tribunale militare a venticinque anni di carcere per spionaggio a favore della NATO. Maggiore dell’esercito, gli venne risparmiata la pena capitale perché rivelò i suoi crimini e l’identità dei complici. Le sue rivelazioni portarono all’arresto e condanna di altri ufficiali, alla morte misteriosa del comandante in capo della Marina e, nell’ambito dello sport, all’interrogatorio di oltre cento schermidori. L’11 giugno 1985 Pawlowski fu scambiato con tre spie di paesi socialisti catturate in Belgio, ma chiese e ottenne di poter rientrare in Polonia. Da scaltro doppiogiochista aveva lavorato sia per l’Est che per l’Ovest. Fin dal 1955 era stato assoldato dai servizi segreti polacchi per spiare i suoi compagni di squadra, segnalando quelli - tra cui anche l’amico fiorettista Witek Woida, sul quale stilò tre circostanziati rapporti - che progettavano di fuggire in Occidente o che sostenevano lo stato di Israele; poi, improvvisamente, nel marzo 1962 la Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 125 collaborazione di Pawlowski venne sospesa. Evidentemente non si era più tanto sicuri di lui, che nel frattempo - con sicurezza dal 1964 - aveva allacciato rapporti con la CIA. Nell’autobiografia del 1994 - Il mio duello più lungo Pawlowski sostenne che il processo a suo carico era stato una messinscena per dimostrare pubblicamente la trasparenza e la severità del regime che giungeva a punire anche i suoi simboli sportivi. In realtà la sua cattura dipese da un tradimento all’interno della CIA. Fu venduto - con altre spie - all’URSS per 90.000 dollari. Una figura ambigua, da romanzi alla John Le Carré, che impersona mirabilmente il clima e le trame oscure della Guerra Fredda. Jurgen May e il “boicottaggio” degli Europei di atletica leggera del ‘69 Le buone ragioni (democratiche) per boicottare i campionati europei d’atletica leggera, in calendario ad Atene dal 16 al 21 settembre 1969, non mancavano certo. Dal 21 aprile 1967 la Grecia pareva esser precipitata in un brutto incubo sudamericano. In piena Europa, nella culla dell’antica democrazia occidentale, un manipolo d’ufficiali di grado intermedio aveva preso il potere con le modalità generalmente in uso in Brasile, Colombia, Argentina, Paraguay, Bolivia. Con il piano d’emergenza “Prometeo”, versione ellenica dello “Stay Behind” progettato dalla NATO, i colonnelli Ghiorghios Papodopoulos e Nicholas Makarezos e il generale di brigata Stylianos Pattakos, assunsero il controllo del Paese a nome di un “consiglio rivoluzionario militare”. I tre “cervelli” del golpe, che si divisero le cariche di primo ministro, dell’interno e dell’economia, dichiararono di essere intervenuti preventivamente per impedire una fantomatica insurrezione comunista; più verosimilmente, agirono per salvaguardare i settori dell’ufficialità maggiormente compromessi con le manovre destrorse e anticostituzionali di Re Costantino, ed evitare il prepensionamento qualora, nelle elezioni del 28 maggio 1967, si fosse verificata la probabile affermazione dell’”Unione di Centro” di Andreas Papandreu. L’incubo durò un settennio, e i campionati atletici del ’69 costituivano il primo importante evento sportivo ospitato in Grecia dopo il “golpe”. Un’opportunità per esternare il proprio dissenso verso il regime reazionario dei “colonnelli”. Un’occasione unica che l’opposizione clandestina cercò di sfruttare lanciando un appello agli atleti che sarebbero convenuti ad Atene. Il manifesto invitante al boicottaggio, firmato dal “Fronte Patriottico Antidittatoriale” e dal “Movimento Panellenico di Liberazione e Difesa Democratica”, venne ripreso in Italia dall’UISP, che lo pubblicò sul numero di giugno-luglio 1969 del Discobolo. Va subito detto che il richiamo rivolto alle coscienze democratiche dagli antifascisti greci rimase lettera morta, ma quegli Europei vennero comunque turbati da una protesta. Un’azione di boicottaggio che può esser considerata, con delle singolari peculiarità, uno strascico indiretto della Guerra Fredda nello sport. Meglio ancora: il prodotto delle tensioni e delle incomprensioni che, anche con l’ammisione della RDT nel CIO, sussistevano tra Germania Federale e Democratica. L’espressione di un’incapacità di dialogo, pur parlando l’identico idioma, incancrenitasi al di qua e al di là Muro. Prova ne sia che, giusto nell’atletica leggera, a livello bilaterale RFT e RDT s’incontreranno a Dusseldorf, per la prima volta, soltanto il 19-20 giugno 1988, con nettissima vittoria maschile-femminile della formazione orientale per 250,5 a 151,5. Dunque un lunghissimo periodo di incomunicabilità che visse un momento di particolare frizione in quella settimana ateniese. Il movente specifico di tale conflittualità va individuato in Jurgen May, un otto-millecinquecentista tedesco trasformatosi in imbarazzante caso politico e di controversa diplomazia sportiva. La sua è una delle tante storie di fuggiaschi da Est a Ovest. In campo atletico l’avevano ad esempio preceduto Max Syring (1957), Manfred Steinbach (1958), Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 126 Gisela Henning (1960), Klaus Porbadnick (1960). Nato a Nordhausen in Turingia il 18 giugno 1942, May scalò le vette dell’atletismo internazionale con la casacca della RDT nel 1965, stabilendo a Erfurt, il 14 e 20 luglio, i record d’Europa e del mondo dei 1500 (3’36”4) e dei 1000 m. (2’16”2). Nel 1966 prese parte ai campionati continentali di Budapest e, al rientro dalla capitale ungherese, la “Deutscher Verband fur Leichtathletic” (DVFL) aprì nei suoi confronti un’inchiesta incentrata su due capi d’imputazione: 1) May era accusato d’aver incassato denaro da un’azienda tedesco-occidentale di articoli sportivi per pubblicizzare i suoi prodotti; 2) a questo scopo avrebbe avuto il compito di reclutare una rosa di atleti per commercializzare tali prodotti nella RDT. A contattarlo era stato il mezzofondista della RFT Karl Eyerkaufer e, non riuscendo a discolparsi, May venne radiato dalla DVFL. Radiazione che, sulle colonne del Discobolo, Gianni Romeo condivideva e difendeva a spada tratta esaltando le regole e la struttura sportiva della RDT comunista: Questo Paese alla perfetta organizzazione accoppia a una sana mentalità sportiva, quale è difficile riscontrare altrove, per non dire impossibile. May si è reso colpevole di una colpa che altrove sarebbe sembrata forse veniale; in Germania Est è colpa grave, perche lo sport non è inteso come speculazione, in nessun senso. Il professionismo non esiste. A sua difesa, May sostenne che i 400 marchi ricevuti da Eyerkaufer (a sua volta squalificato per un anno e mezzo dalla Federazione atletica della Germania Federale) li aveva accettati per farne dono al suo club atletico e, che pure il più famoso fondista Jurgen Haase, aveva fatto lo stesso. Ma così peggiorò ulteriormente le cose, precludendosi anche una brillante carriera nella SED, essendo stato eletto nella circoscrizione di Erfurt nel 1965. Scappato nel 1967 a Hanau passando per l’Ungheria, trovò rifugio da Eyerkaufer e, rapidamente “naturalizzato” tedesco dell’Ovest, la sua neo-federazione riusci ad ottenere dalla IAAF una riqualificazione e riduzione della squalifica a soli due anni. In campo internazionale poteva pertanto tornare a gareggiare dal 20 gennaio 1969. Questo, però, a titolo individuale, poiché secondo una diversa interpretazione dei regolamenti IAAF, un’atleta che aveva militato sotto i colori di un’altra nazione per almeno un triennio non avrebbe potuto vestire la maglia della nuova nazionale. Insomma una situazione normativa intricata, di cui approfittò la DVFL per impedire a May di concorrere ad Atene e che, in casa RFT, suscitò una forte reazione non tanto per voce degli organi sportivi ufficiali, quanto da parte dei compagni di squadra di Jurgen May. Furono gli atleti, che con lui seppero della sua esclusione dai 1500 e 5000 m. il 14 settembre 1969, durante il volo aereo verso la capitale ellenica, a scavalcare la loro Federazione dichiarando un boicottaggio dei campionati in solidarietà con una vittima delle divisioni politiche imposte dall’alto. Riunitisi nelle sale dell’Hotel di Atene in cui erano alloggiati, i componenti la rappresentativa tedesco-occidentale votarono a scrutinio segreto e il risultato fu chiarissimo: 61 optarono per il boicottaggio contro 10 sfavorevoli a questa soluzione. Non avendo tuttavia partecipato a quel “referendum” l’intera delegazione, si ritenne necessario ripetere la votazione e, stavolta, si ebbe un esito assai diverso nei numeri ma non nella sostanza: 29 per il boicottaggio, 27 contrari, 3 astenuti, 2 schede annullate, 17 assenti al voto. Una parziale retromarcia, probabilmente dovuta alle pressioni dei dirigenti federali, preoccupati delle eventuali sanzioni della IAAF. Chi - la stampa di sinistra - sperava che il gesto rappresentasse un atto di disapprovazione nei riguardi della giunta dei “colonnelli” restò profondamente deluso. Il boicottaggio era indirizzato verso l’ottusità burocratica e autoritaria delle “carte” IAAF e l’oltranzismo ideologico della RDT, che colpivano Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 127 biecamente l’espressione di una pura soggettività sportiva. Quel ritiro sottintendeva una contestazione e una ribellione, uno spontaneismo volontaristico che evocava la cultura del ’68. La presa di posizione degli atleti della RFT era il frutto di un dibattito assembleare interno, di una decisione venuta dalla base. Inutile disquisire sui suoi contenuti, a quali possibili interpretazioni avrebbe potuto portare. Solidarizzare con May, per quegli atleti non significava semplicisticamente parteggiare per l’Ovest contro l’Est, bensì affermare l’esistenza di un’unica Germania, di un un unico Paese che, altri, avevano l’esclusivo interesse a mantenere scisso, dicotomizzato. L’esatto contrario di quanto in Italia, non riuscendo a capacitarsi di questa novità, scriveva la rivista Atletica Leggera commentando i fatti: Evidentemente essi vogliono deliberatamente ignorare la realtà. Le Germanie sono due, tanto è vero che la IAAF riconosce due federazioni […]. Per salvare un “morto” essi preferiscono perdere molti vivi. Peggio per loro. E’ peraltro anche indubbio che, specie dopo la seconda ripetuta votazione, la coesione del gruppo era andata affievolendosi. Alcune incrinature si erano insinuate tra i più consapevoli e coloro che, da un boicottaggio, vedevano venir meno, d’un colpo, gli sforzi e l’impegno profusi per esser selezionati per quella competizione europea. Così deve intendersi la rottura del boicottaggio che condurrà, nelle ultime giornate di gara, la RFT ad allinearsi alla partenza delle staffette 4x100 e 4x400. Un cedimento alle ambizioni personali, più che una ritirata strategica. Le medesime che, nel ’67, avevano indotto May a scavalcare il Muro, cercar fortuna a Ovest. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 128 ZATOPEK: UNA SPLENDIDA ESTATE E UNA TRISTE PRIMAVERA DOTT. ENZO PENNONE L’oggetto del mio intervento è la descrizione di un incontro immaginario tra due persone: i contenuti di quest’incontro fanno riferimento a fatti storici documentati, mentre il contesto e i dialoghi sono costruiti aggrappandosi alla fantasia I protagonisti dell’incontro sono due cittadini cecoslovacchi, e pertanto possiamo pensare che quest’incontro sia occorso nella città di Praga, (*) probabilmente in uno dei suoi giardini, forse uno dei celebri incantevoli antichi giardini di Praga, (*) quelli della collina di Petrin o del parco Letna (*) o i giardini reali del Castello, o forse in un qualunque anonimo meno celebre proletario giardino praghese, siamo intorno ai primi anni ’70 e l’incontro ha luogo tra due uomini molto diversi tra loro per età, per caratteristiche fisiche e intellettuali, per tipologia di interessi e di passioni, ma due uomini intimamente legati da un filo molto molto resistente, un filo dal quale promana un’esigenza che i due condividono, un bisogno che insieme a pochi altri rientra nella lista dei bisogni fondamentali dell’uomo, cioè quello della libertà. (*) Questi due cittadini cecoslovacchi sono Alexander Dubček ed Emil Zatopek, il primo è stato il massimo propulsore della primavera di Praga, quello che aveva liberato la stampa dalle catene della censura, che aveva ridato ai cechi la libertà di pensare ed esprimere quello che volevano, di recarsi all’estero nei paesi che preferivano, est od ovest non fa differenza, che aveva ridato la libertà ad ex dirigenti del partito condannati nei grandi processi dell’era di Gottwald e pure ad importanti scrittori incarcerati per reati d’opinione, mentre l’altro è il più celebre sportivo della Cecoslovacchia, più volte campione olimpico nelle gare di fondo. (*) Zatopek, forse in lieve ritardo sull’ora convenuta, arriva all’appuntamento di corsa, del resto non potrebbe essere altrimenti per uno che ha dedicato alla corsa vent’anni della propria esistenza, mentre Dubček di cui non risultano apparentamenti con alcuna disciplina dello sport, è già seduto su una panca in attesa del campione. Entrambi non sono più di casa a Praga, (*) perché Dubček, il già segretario del Partito Comunista Cecoslovacco e principale motore del socialismo dal volto umano, epurato dai ruoli politici ed espulso dal Partito dalla nuova dirigenza ceca voluta da Mosca, ha pensato di rintanarsi nella sua Slovacchia dove ha trovato un lavoro come manovale in un’azienda forestale, in una parola fa il giardiniere, (*) mentre Zatopek sostenitore delle rivendicazioni dell’ala innovatrice anch’egli espulso dal Partito e radiato dall’esercito nazionale in cui aveva le stellette di colonnello è stato spedito nella Cecoslovacchia nordoccidentale quasi al confine con la Germania, a Jachymov, incarico di magazziniere nelle miniere di uranio. Non c’è stato bisogno di un permesso speciale per quest’incontro, visto che i due non rappresentano più elemento di pericolosità per la comunità ceca e che la situazione complessiva con Gustav Husak si è comunque normalizzata. I due, che non hanno bisogno di essere presentati da altri (*) perché per molti anni le loro immagini hanno occupato pagine intere sul Rudé Pravo e su altri giornali praghesi (*) si stringono la mano si guardano negli occhi qualche istante, un abbozzo di sorriso che sa un po’ di nostalgia un po’ di rassegnazione ma un po’ pure di speranza, e si avviano, le mani in tasca, per i sentieri del rigoglioso giardino praghese. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 129 (*) Immaginare di che cosa i due possano aver parlato e discusso in quell’oretta di colloquio a quattr’occhi, non più di un’oretta poichè una durata maggiore avrebbe certamente sollevato ragionevoli sospetti sull’innocenza dell’incontro, è cosa abbastanza semplice e scontata. Zatopek, probabilmente si sarà subito scusato per avere suo malgrado dovuto firmare una carta in cui riconosceva tutti gli errori del passato, (*) tra cui quello di aver appoggiato le forze controrivoluzionarie e i revisionisti borghesi, e dopo quel riconoscimento di colpa e atto di dolore conseguente avrà posto a Dubček una domanda, una di quelle domande che si fanno così come viene prima tanto per rompere il ghiaccio, una domanda banale tipo -come se la passa Lei ora in Slovacchia-, una domanda retorica oltretutto, perché come vogliamo che se la possa passare uno a fare il giardiniere in Slovacchia, (*) uno che per vent’anni di fila è stato deputato all’Assemblea Nazionale e che fino a un paio d’anni prima veniva osannato da tutti i suoi connazionali di tutte le età e di qualunque reparto della società, studenti e operai, intellettuali e analfabeti, (*) e poi gli avrà pure chiesto -cosa pensa Lei di come potrà evolversi la situazione, e se ci sono ancora speranze per la nostra primavera- povero ingenuo di un Emil Zatopek, chiedere un giudizio sul che cosa ci si può attendere ad uno cui sono state tagliate da un giorno all’altro tutte le vie di comunicazione con il mondo, con gli amici e con gli avversari, con i dissidenti e con gli integrati, e pure con l’altro pezzo della galassia comunista cioè quella che sta al di fuori del patto di Varsavia, solo Zatopek candido corridore di lunghe distanze poteva pensare e sperare ancora che dall’interno di quella galassia potesse venir fuori una boccata d’ossigeno una parola di solidarietà se non addirittura una nostalgica levata di scudi (*) “Lenin svegliati che Breznev è impazzito!” lui non credeva certamente che quelli se ne potessero lavare le mani come fece Pilato, come invece se le lavarono e come lo ricorderà diversi anni dopo anche Fausto Bertinotti (*) “Praga fu lasciata sola non solo dal Partito Comunista Italiano che non seppe rompere drasticamente con l’Unione Sovietica, ma anche dai sessantottini che allora avevano lo sguardo troppo rivolto ad Oriente” (*) e che “non riconobbero come fratelli nella libertà i giovani di Praga, c’era una vicenda che parlava del nostro futuro nel cuore dell’Europa e loro non se ne accorsero”. Ecco, quei giovani europei, quelli che costituirono il movimento studentesco del ’68, e che poi si invaghirono di Mao e della rivoluzione cinese, (*) commisero insieme ai partiti comunisti d’Europa un errore storico, un errore che il Manifesto, attorno al quale si era coagulata la dissidenza del Pci, denunciò con un titolo emblematico e inoppugnabile: (*) “Praga è sola”. Dubček glissò sulle domande di Zatopek e tornò invece con la memoria agli anni di quand’egli era ancora segretario, (*) a quando dagli studi televisivi e direttamente nelle piazze illustrava con passione sicurezza e competenza il Programma d’azione del Partito Comunista di Cecoslovacchia, (*) e volle ricordarne i contenuti al suo interlocutore, -solo un breve sunto si capisce- ma stavolta lo fece con toni lievi sommessi quasi fievoli, come se ricordasse cose di un trapassato remoto, come può farlo un nonno che racconta al nipote le storie di cinquant’anni prima… (*) e menzionò i punti salienti di quel programma fondato su un nuovo modello di democrazia socialista, la necessità di una larga alleanza di forze progressiste della città e delle campagne, il principio della responsabilità del governo di fronte all’Assemblea nazionale, (*) e parlò di gioventù e di spirito imprenditoriale, (*) dello sviluppo della scienza e del tenore di vita del popolo, di istruzione e di cultura, (*) e poi dell’eguaglianza tra i cechi e gli slovacchi come condizione essenziale per lo sviluppo della repubblica, e così via via discorrendo si arrivò a un certo punto al celebre “Manifesto delle duemila parole”, (*) quel documento preparato dallo scrittore Vakulik, che fu pubblicato sul Literami Listy con 70 firme di accademici, dirigenti di università, scrittori e poeti di primo piano, registi e attori di cinema e di teatro, (*) Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 130 olimpionici e campioni dello sport cecoslovacco, tra i quali proprio Zatopek firma nobile la sua, documento che in pochi giorni ricevette decine di migliaia di adesioni (*) e che fu determinante nel precipitare della crisi con Mosca, e Dubček, che quel documento lo ricordava quasi a memoria, ne volle ricordare alcuni passi: (*) “Dapprima fu la guerra a minacciare la vita della nostra nazione. (*) Seguirono poi altri brutti tempi, con avvenimenti che misero in pericolo la sua salute spirituale e il suo carattere. (*) Speranzosa, la maggioranza della nazione accettò il programma del socialismo. (*) La sua direzione però capitò nelle mani degli uomini sbagliati. (*) Il Partito Comunista, che dopo la guerra riscuoteva una grande fiducia tra la gente, cambiò gradualmente la stessa con gli uffici, fino ad averli tutti, tanto da non avere altro che uffici. (*) La linea sbagliata della direzione ha mutato il partito da partito politico e comunità unita dalla stessa ideologia in organizzazione di potere che aveva una grande attrattiva anche per avidi, egoisti, codardi, petulanti e uomini dalla coscienza sporca il cui ingresso influì sul carattere e sul comportamento del partito. (*) La situazione nel partito fu modello e causa di un’uguale situazione nello Stato. Il legame con lo Stato ha fatto sì che il partito perdesse il vantaggio della separazione dal potere esecutivo. (*) Non c’era la critica per l’attività dello Stato e delle organizzazioni economiche. (*) Il parlamento disimparò a dibattere, il governo a governare e i direttori a dirigere. (*) Le elezioni persero importanza e le leggi non ebbero più peso. (*) Non si poteva credere ai propri rappresentanti di qualsiasi comitato, e quando pure se ne fosse potuta avere l’occasione, non si poteva pretendere nulla, visto che non erano in grado di ottenere alcunchè. (*) Decaddero l’onore personale e quello collettivo. Con la lealtà non si otteneva nulla ed è vano parlare di un qualche apprezzamento secondo capacità. (*) Per questo la maggioranza perse interesse per la cosa pubblica e si occupò soltanto di sé e del danaro. (*) Si guastarono i rapporti tra gli uomini, si perdette la gioia del lavoro, in breve: arrivarono tempi minacciosi per l’integrità spirituale e per il carattere della nazione”. Poi Dubček, accortosi che era già trascorsa mezz’ora e non volendo che la conversazione diventasse un ulteriore suo monologo la interruppe e rivolgendosi a Zatopek (*) lo invitò “Colonnello mi parli invece un po’ di Lei”… E Zatopek che non aspettava altro che quell’invito attaccò la sua storia: “Eravamo in 7 in famiglia oltre papà e mamma (*) e vivevamo a Koprivnice, famosa per gli stabilimenti di automobili della Tatra, papà lavorava in una fabbrica come falegname e con i soldi che portava e con quello che si ricavava dall’orticello di casa bisognava sfamare tutti, quindi non appena fu possibile (*) andai a lavorare da Bata a Zlin, reparto gomma che tutti cercavano di evitare perché lì l’aria era irrespirabile, era un reparto che produceva 2.200 paia di scarpe da tennis al giorno, (*) dovevo rifilare le suole con una ruota dentata ma i tempi erano stretti e al più piccolo errore scattava la multa, e lì frequentavo pure da interno la scuola professionale, (*) poi per fortuna mi trasferirono alla preparazione delle forme, … a differenza dei miei coetanei dello sport non me ne fregava proprio niente, quasi li disprezzavo i mei fratelli e gli amici che si divertivano inseguendo un pallone, e ciò anche perché mio padre mi aveva trasmesso una forma di ripulsione verso l’esercizio fisico “pura perdita di tempo e di denaro” diceva lui, non parliamo poi della corsa a piedi, che oltre a non Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 131 servire assolutamente a nulla comportava risolature alle scarpe con ulteriore aggravio per il misero bilancio familiare. (*) Da Bata tutto sommato non stavo male, ma loro che già esportavano scarpe in tutto il mondo, volevano aumentare ancora le vendite, (*) e quindi pensarono di far conoscere meglio il proprio marchio e allora fondarono una squadra di calcio (*) e inventarono una corsa a piedi, la chiamarono il “Percorso di Zlin” a cui dovevamo partecipare obbligatoriamente tutti gli studenti della scuola professionale. Frattanto, come Lei sa bene, erano arrivati i tedeschi…” (*) Nel marzo del ’38 dopo aver completato l’annessione dell’Austria i tedeschi avviarono le operazioni per appropriarsi con le buone o con le cattive dei territori della Repubblica Cecoslovacca, iniziando la loro penetrazione con la regione dei Sudeti, (*) addussero a pretesto le privazioni che subivano le popolazioni di origine tedesca che abitavano quella regione, e grazie alla condiscendenza di inglesi e francesi (*) e con l’aiuto del Duce che intervenne sul Fuhrer, il 30 Settembre (*) senza necessità di ricorrere a bombardamenti da terra e dal cielo si pervenne all’accordo di Monaco che consegnò ufficialmente (*) quel territorio alla Germania con gravi conseguenze economiche e politiche per la Cecoslovacchia. (*) Ma quello dei Sudeti fu per i tedeschi solo un assaggio uno stuzzichino prima dell’operazione successiva ben più appetitosa, cioè l’invasione della Boemia e della Moravia compiuta nel marzo del ’39 (*) anche questa senza incontrare resistenze significative e così la Cecoslovacchia, che i suoi padri fondatori avevano creduto e sperato essere l’unico baluardo della democrazia accerchiata da regimi autoritari, fu cancellata dalle cartine politiche dell’atlante. E pure i tedeschi come Bata si misero a organizzare manifestazioni sportive (*) e giochi collettivi per i giovani per fare propaganda del nuovo regime, (*) non c’è da preoccuparsi siamo venuti in pace ed in pace viviamo, una corsa campestre di nove chilometri a Brno affollata di giovani tedeschi biondi slanciati e arroganti, il giovane Emil se li mette quasi tutti alle spalle arrivando secondo e attira le attenzioni di un allenatore locale che lo avvicina (*) dicendogli “corri in modo molto strano ma non corri male”. Da allora Emil archivia il drastico giudizio del padre sulla corsa, esercizio inutile e tempo sottratto ad occupazioni più redditizie, perché quella perdita di tempo comincia pian piano a piacergli. Al punto che la sera, lontano da occhi indiscreti, corre più veloce che può dalla fabbrica al bosco, andata e ritorno. (*) “Poi”, riprese Zatopek, “venne la guerra, bombe sirene urla fucilazioni deportazioni ma la corsa mi aveva ormai annebbiato la testa, ed allora qualsiasi posto qualsiasi orario qualsiasi stagione per me andava bene, (*) correvo per i campi, correvo nei boschi, correvo sulla prima pista che trovavo, chilometri e chilometri e chilometri ancora, ritmo sostenuto, rapido, sempre più rapido, gli altri si scandalizzavano mi consigliavano di correre meno e applicarmi sulla tecnica, (*) “aggiusta la posizione delle spalle e della testa e vedi di eliminare quelle continue torsioni che fai con il busto”…ma io ero sordo a quelle raccomandazioni… “ Passano gli anni ma non passa la guerra, e mentre Zatopek in fabbrica ha fatto carriera, lo hanno assegnato al Centro di ricerca chimica, anche se non ricerca nulla ma ha il solo compito di preparare la cellulosa in un capannone invaso di bombole di acido, (*) un altro la sua carriera la fa grazie alla legge del terrore, condita da deportazioni massacri e devastazioni, è Reinhard Heydrich il delfino di Himmler ma la resistenza ceca pilotata da Edvard Benes il leader del governo cecoslovacco in esilio (*) mette a segno il suo colpo più importante e plateale, e lo elimina dalla Cecoslovacchia e dalla faccia della terra. La rappresaglia di Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 132 Hitler però è puntuale e se ancora qualcuno in Europa non ne è al corrente funziona così: (*) 1.300 cecoslovacchi vengono giustiziati e il villaggio di Lidice viene raso al suolo, abitanti compresi. “Poi la guerra finì ed io lasciai Bata (*) ed entrai nell’esercito, e la vita militare mi piacque subito, faceva per me, le manovre nella campagna morava, le marce con il reggimento in mezzo alla natura, l’aria pura, entrai in Accademia per diventare un giorno un ufficiale. (*) C’era pure la pista di atletica in caserma, studiavo mi allenavo gareggiavo ma il mio stile non lo abbandonavo mai, testa incassata nelle spalle ed espressione sofferente e sbuffante …” (*) Se i tedeschi invasori erano ora spariti dalla Cecoslovacchia, per quelli che ancora vi dimoravano si aprì il sipario della crudeltà umana, che non fece differenza alcuna tra nazisti e membri della polizia dei Sudeti da una parte e i cittadini comuni dall’altra. (*) Questi ultimi, comprese le donne e i bambini, furono impacchettati alla meglio e sbattuti fuori dai nuovi confini, altri furono destinati a lavori forzati e in alcune aree furono obbligati ad apporre una N bianca sui vestiti (che stava per Nemec cioè tedesco). (*) Dal Maggio del ’45 alla fine del ’46 un milione e settecentomila tedeschi furono deportati verso la zona americana e settecentomila verso quella sovietica, e molti di essi subirono brutalità e torture. (*) Molti altri furono giustiziati nei massacri di Postelberg e di Aussig e nella marcia della morte di Brno. Furono stimati in 300.000 i civili tedeschi uccisi dai partigiani cechi e dall’Armata Rossa, e molti di questi crimini furono azioni pianificate (*) dal governo di Edvard Benes. Frattanto per Zatopek è giunto il momento di presentarsi al mondo… (*) Ai Campionati Europei di Oslo nel ’46 assaggia l’agone internazionale e si colloca al quinto posto nei 5.000 metri vinti dal britannico Wooderson, ma due anni dopo alle Olimpiadi di Londra è tra i candidati per la medaglia d’oro (*) insieme al finlandese Viljo Heino primatista mondiale dei 10.000. A Londra fa caldo e il tasso di umidità è molto alto, il finnico ne risente e le sue aspirazioni si dissolvono presto mentre Zatopek, (*) tra sbuffi e stantuffi che serviranno ad attribuirgli l’appellativo di “locomotiva umana”, completa la sua prima cavalcata trionfale precedendo il franco-algerino Mimoun di quasi un giro. Anziché stramazzare al suolo per la fatica, sgambetta sul prato, beve un sorso d’acqua, dà un’amichevole pacca sulle spalle al finnico sconfitto e si prepara per le batterie dei 5.000 metri del giorno dopo. (*) Che supera facilmente, e dopo altri due giorni torna in pista per la finale dove la concorrenza è ancora più agguerrita dei 10.000, (*) soprattutto c’è Gaston Reiff un fondista belga dalla corsa elegantissima, e sotto la pioggia battente il duello tra i due assume toni epici, con il belga che a due terzi di gara porta un attacco frontale dal quale Zatopek non sembra potersi più difendere, (*) ma il suono della campana è come il fischio del capostazione, e la locomotiva cecoslovacca che aveva quaranta metri di ritardo ne recupera trentanove, medaglia d’argento. Lo fanno capitano, (*) e poi sposa Dana Ingrova che è nata lo stesso giorno di Emil, che pratica l’atletica come Emil, che vincerà la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Helsinki come Emil, e che dall’atto del matrimonio si chiamerà più o meno come Emil, Zatopkova. (*) Tornati a Praga i coniugi ritastano con mano la differenza profonda tra la vita di Londra e quella nel loro paese, le due diverse atmosfere, (*) lì un senso assoluto di libertà e di allegria sia pure nelle ristrettezze economiche di quegli anni, a Praga invece tutti hanno paura di tutti e di tutto, in ogni momento della giornata e in ogni contesto. Nell’interesse supremo del Partito (*) la parola d’ordine è processare epurare liquidare, col tuo vicino di casa un tempo parlavi amabilmente e senza remore, oggi devi soppesare parole e pure pensieri Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 133 perché ti può credere una spia un cospiratore un sabotatore del regime e spedire alla polizia segreta una di quelle lettere che dicono -compagno commissario ti segnalo il signor Tizio così e cosà- e si sa quelle lettere che esito hanno. E pure di Zatopek sospettano, anche se lui è iscritto al Partito e crede profondamente alla via socialista, (*) perché questa sua messe di vittorie e di record hanno creato una figura di grande sportivo popolare, un idolo per la gente, qualcosa che può sfociare in una forma di individualismo borghese, e allora è meglio che si controlli il tutto, gare all’estero cioè nei paesi occidentali neanche a parlarne, (*) che gli venisse il ghiribizzo di chiedere asilo politico come ha fatto il giovane Bacigal, neppure a Parigi per il celebre cross dell’Humanité dove invitano i migliori atleti del mondo socialista lo fanno andare, di gare certo continua a farne, (*) anche gare importanti a Berlino Est a Budapest a Varsavia, imperturbabile a tutto lui aumenta ancora la quantità degli allenamenti, i chilometri e la fatica, trova sempre nuove riserve di energia (*) e nel ’49 toglie ad Heino il record dei 10.000, il finlandese offeso se lo riprende, il ceco sbuffante glielo sottrae di nuovo, e nel ’50 centra la doppietta agli Europei di Bruxelles, assoluto dominatore di 5 e 10.000 metri. (*) In patria è presentato come il frutto più gustoso del Partito, da assaporare però solo quando e dove ve lo diciamo noi, (*) organizzano per lui esibizioni quasi senza avversari, alla Giornata delle forze armate lo fanno correre da solo davanti a 50.000 spettatori nello stadio militare di Strakov nell’intervallo della finale del torneo di calcio. Per potergli fare un’intervista devi superare tre gradi di autorizzazioni, prima quella del suo comandante, poi quella del sindacato dei giornalisti e per ultimo quella del Ministero dell’Informazione. Un giornalista straniero, cocciuto, ci riesce e va a trovarlo a casa, al n.8 di Via Pujcovny, ha preso appuntamento (*) e viene accolto con grande cortesia dalla moglie che è in compagnia di un’amica insegnante, -Emil non c’è perché è fuori ad allenarsi come al solito, ma non si preoccupi lo troverà stasera-, prendono il tè, parlano di tutto della loro giornata, degli allenamenti di entrambi, delle letture, degli altri passatempi, -a Emil piace cantare le vecchie arie del folklore nazionale ed io lo accompagno con la chitarra-, (*) la sera quando il giornalista ritorna purtroppo Emil è già a letto è molto stanco in questi giorni si allena tanto come le ho detto vorrebbe arrivare ad Helsinki in perfetta efficienza-, e quando il giornalista va via il teatrino ha termine, il sipario si chiude, dopo qualche secondo si riapre ed appare l’amica insegnante che apre un armadio spegne un registratore ne preleva il nastro magnetico lo infila nella tasca del cappotto, strizza l’occhio alla compagna Dana, sale su una berlina Tatraplan T600 e si dirige alla sede della polizia segreta per fare rapporto. Dubčcek ascoltava con vero interesse il racconto di Zatopek, com’era diversa quella vita dalla sua, tutta dedicata alla società e alla politica, movimenti clandestini assemblee dei lavoratori conferenze dibattiti riunioni di partito, mai una corsa per i boschi o una gara sportiva con stretta di mano finale e fiori per i vincitori , (*) di strette di mano e di fiori ne ricordava altre meno piacevoli condite talvolta anche con il bacio alla russa… La camminata per i giardini di Praga proseguiva serena, (*) e ad infondere quella serenità ci pensavano pure i colori dei giardini di Praga che nessun regime nazista o comunista avrebbe potuto convertire, alla conversazione i due alternavano brevi pause di silenzio, che erano momenti di riflessione e di confessione (*) il silenzio era totale solo il lamento delle foglie calpestate dalle scarpe dei due camminatori, poi Zatopek riprese: Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 134 “Ad Helsinki nel ’52 avevo quasi trent’anni e ci tenevo a ben figurare (*) anche perché la Finlandia è stata la patria dei migliori specialisti del mondo già a partire dagli anni ’20, e i finnici in tribuna hanno avuto sempre il palato fino per l’atletica, (*) mezzofondo e giavellotto soprattutto. L’anno non era cominciato molto bene perché a Kiev due russi avevano interrotto la mia serie di 49 vittorie consecutive, poi tutti quei chilometri fatti in preparazione pure alla maratona mi avevano un po’ appesantito e in qualche modo reso più vulnerabile nei finali di gara. Come da tradizione si cominciò dai 10.000, e lì tutto andò liscio come l’olio, (*) al 3° chilometro passai in testa e con una serie di brevi ma ripetuti scatti riuscii a piegare la resistenza di Gordon Pirie, il britannico che era tra i favoriti, (*) mentre per staccare il francese Mimoun dovetti attendere gli ultimi giri. Il pubblico era già in estasi, io stavo davvero bene, si figuri che due giorni dopo durante la batteria dei 5.000 ero talmente sicuro di me stesso che mi misi a scambiare quattro chiacchiere con l’americano Stone e con il russo Anufriyev, la finale fu una cosa da non credere, (*) c’erano tutti i migliori specialisti del mondo, c’era Gaston Reiff il belga che a Londra mi impedì di fare doppietta, c’era il tedesco Schade, c’erano gli inglesi Pirie e Chataway e l’immancabile Mimoun (*) ed io che ero quarto a duecento metri dal traguardo non so ancora dove riuscii a trovare la forza per fare il cambio di passo decisivo, (*) che fu un cambio di passo che nessuno se lo aspettava, né Mimoun né Schade né Chataway che per la sorpresa o la stanchezza cadde sulla pista, (*) così come quasi nessuno si aspettava che mia moglie Dana vincesse proprio in quei momenti la gara del giavellotto, (*) fu una vittoria di famiglia quel pomeriggio, non so se nella storia delle Olimpiadi (*) sia successo già un’altra volta, stessa medaglia, d’oro, stesso giorno… e tre giorni dopo ci fu la maratona, (*) che come gara correvo per la prima volta ma come chilometri in allenamento la conoscevo anche troppo bene, (*) uno dei favoriti era l’inglese Jim Peters e con lui corsi per diversi chilometri poi lui ebbe un crollo ed io proseguii da solo, (*) e quando entrai nello stadio il pubblico che fremeva già da un po’ si alzò tutto in piedi, e cominciò a ritmare Za-to-pek-Za-to-pek- come fossi uno dei loro, strani questi finlandesi sembravano davvero felici appagati per quanto avevano visto, (*) non era poi così importante che io non fossi nato e vissuto in mezzo ai laghi della loro terra …”. Ad Helsinki tra i giornalisti italiani presenti c’era pure Gianni Brera che aveva solo un paio d’anni più di Zatopek e che già condirigeva la Gazzetta. (*) Il primo Brera era innamorato dell’atletica, e descrisse le imprese del campione ceco con la prosa che lo avrebbe contraddistinto e identificato negli anni successivi soprattutto nel calcio. A Zatopek il sommo riservò una buona parte della prima pagina del giornale, e l’articolo di fondo faceva così: (*) “Lascerò scritto ai nipoti di non rischiare mai, quale che sia l’apparenza, un pronostico purchessia sul mio amico Emilio Zatopek, essendo egli fuori di ogni dubbio immortale. (*) “Figlio di Mercurio divino” lo chiamerebbe Pindaro se ancora tornasse a cantare…Vecchio imbroglione di un Emil che ha nascosto sotto il suo candore di sempre le tremende velleità dell’invincibile: a Kapila sgambava malandato come dovesse tirare le cuoia da un istante all’altro… (*) Così stroncò tutti nei diecimila facendo il treno, secondo la sua natura di posseduto. E nei 5000 nemmeno cercò di spremere gli altri sull’andatura. (*) Partì ultimo, stette penultimo per due giri. Quando si accorse che il sesto della fila perdeva la ruota, (*) saltò fuori sgomitando come un ossesso e con smorfie da epilettico negro in fantasia, arrivò a tallonare Schade che ancora non conosceva. Schade, il grande deutch, credette troppo a se stesso e rimase sotto Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 135 i suoi stessi passaggi di batteria. Intanto Zatopek aizzava i più forti: l’inglese Chataway, il belga Reiff, bellissimo nella sua distesa falcata, (*) il tracagnotto arabo Mimoun. Ma Reiff, come svuotato di dentro dopo tanto spremersi sulle piste di tutta Europa, Reiff il campione olimpico di Londra, morì per non poter ormai più frenare il treno; (*) Chataway lottò a morte con Schade sull’opposto rettilineo, poi sfinito mise in fallo il piede sinistro sulla corda, e come cercò di allargare Mimoun per il serrate, (*) lui Emil, il diabolico, l’immortale, il divino figlio di Mercurio, brutto quanto il dio che soprattutto pratico era e non esteta, (*) Emil, il più grande fondista di tutti i tempi, guizzò davanti all’arabo scatenato e l’umiliò con tale una beffarda sgambata da far alzare attoniti i finlandesi”… (*) Il ritorno a Praga è trionfale, parata in auto in mezzo a una folla immensa, promozione al grado di maggiore, e poi nei mesi seguenti viene presentato di fabbrica in fabbrica affinchè tutti possano vedere e toccare il miglior prodotto sportivo del comunismo cecoslovacco. (*) Nel paese intanto, passato a miglior vita Klement Gottwald il presidente fedelissimo del Cremlino, l’aria comincia ad essere relativamente più respirabile…... Zatopek riprende il racconto, ma accorgendosi che il tempo è passato veloce come le sue volate, e ricordando che entrambi, lui e Dubček, devono prendere il treno per raggiungere le proprie destinazioni, riassume allora in pochi minuti la parte finale della sua carriera: “Dopo Helsinki capii che la parabola della mia vita sportiva era entrata, come si dice, nella sua fase discendente, ma nonostante ne fossi consapevole (*) continuai a correre e a massacrarmi di allenamenti, mi invitarono diverse volte all’estero e questa volta il governo mi autorizzò, volai fino in Brasile per la tradizionale Corrida di San Silvestro che si corre di notte a cavallo dell’anno vecchio e di quello nuovo, che vinsi alla mia maniera attaccando di continuo e districandomi nella marea di partecipanti e nella baraonda di fuochi d’artificio clacson di auto razzi petardi e orchestre che salutavano il passaggio dei corridori, feci altri record sulle lunghe distanze 25 e 30 chilometri a Starà Boleslav, (*) ai Campionati Europei di Berna nel ’54 vinsi ancora i 10.000, e nel ’55 andai a Parigi l’avevo promesso ai parigini un giorno o l’altro correrò da voi, (*) e ci andai per il Cross organizzato dall’Humanité, l’organo ufficiale del Partico Comunista Francese, e vinsi contro il pronostico che dava favorito l’astro nascente del fondo sovietico, il biondo Vladimir Kuts, detto il marinaio del Baltico… E nel ’56 andai a Melbourne per le Olimpiadi, avrei voluto correre anche i 10.000 ma mi iscrissero soltanto alla maratona, (*) fu una gara molto difficile e faticosa quella su una strada di periferia arida e polverosa e un caldo opprimente, e arrivai soltanto sesto, ma fui comunque felice perché quella volta vinse il mio amico Alain Mimoun, (*) che non aspettava altro che una mia débacle o il mio ritiro dalle competizioni per scrollarsi di dosso il soprannome “dell’eterno secondo”…mentre il marinaio del Baltico fece lui la doppietta questa volta su 5 e 10.000 metri. Al ritorno da Melbourne fui promosso colonnello, non avevo vinto nulla ma forse fu un premio alla carriera… (*) Poi, qualche anno dopo a Praga fummo testimoni io e Dana al matrimonio di Connolly con la nostra Olga Fikotova, che si erano conosciuti proprio a Melbourne e si era pazzamente innamorati uno dell’altro. (*) “Con Chris Chataway quello che inciampò nel finale concitato dei 5.000 di Helsinki mi rividi nel ’67 quando lui mi invitò a Londra per un ricevimento con ex campioni del mezzofondo, (*) Chataway era un esponente di spicco nel Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 136 partito conservatore, combattivo in politica come lo fu sulla pista, e fu lui che tirò gran parte della gara del miglio a Bannister nel ’54 quando questi fece il record del mondo, e fu lui che si battè affinchè la squadra britannica di cricket non andasse in tourneé in Sudafrica e fu lui ad affrontare seriamente in parlamento il grave problema dei profughi, soprattutto negli stati africani. E poi venne il ’68 ed io comunque riuscii a seguire la squadra alle Olimpiadi di Città del Messico, (*) felice di assistere ai successi della nostra cara ginnasta Vera Caslavska, quattro medaglie d’oro e due d’argento e firma sul “Manifesto delle duemila parole” che valeva più di qualsiasi medaglia, e al mio ritorno (*) fui intervistato da un giornalista spagnolo al quale dissi tutto quello che mi sentivo di dire…(*) del resto non erano trascorsi neppure due mesi da quando erano entrati a Praga, (*) carri armati da tutte le parti, Lei si ricorderà bene…i soldati che non sapevano bene che cosa erano venuti a fare, (*) i giovani che sfidavano la prepotenza e gli anziani che tremavano con i bimbi al braccio, (*) casalinghe e studenti che mostravano chiaramente i loro desideri, Dubček e Svoboda, (*) e la disperazione per la libertà perduta che ti fa dire “spara pure tutti i colpi che vuoi su questo petto libero…Lei si ricorderà meglio di me tutte queste cose, o forse era già sotto la loro protezione come dissero i parà quando entrarono con i kalashnikov spianati… Dubček guardò l’orologio e fece capire a Zatopek che dovevano avviarsi, parlottarono ancora per un po’ con fare cospiratorio, si volsero indietro un paio di volte, così, tanto per vedere se ancora infondevano quel pizzico di preoccupazione tale da dover predisporre un loro pedinamento, e non invece essere assolutamente inoffensivi come anzi entrambi sapevano perfettamente di esserlo, (*) attraversarono il lunghissimo e storico ponte Carlo costruito al tempo di Carlo IV re di Boemia e imperatore del Sacro Romano Impero, sotto cui scorreva la Moldàva che pareva portarsi via con l’acqua le memorie appena appena ricordate, poi entrarono alla stazione, si salutarono con molto calore reciprocamente augurandosi “di rivedersi presto”, infine si avviarono verso i binari dove c’erano i treni già in attesa che li avrebbero riportati a casa, uno in Slovacchia e l’altro a Jachimov. (*) Vent’anni dopo un pezzo di mondo, quello dell’Europa orientale cambiò in un attimo, prima Solidarnosc, poi la perestrojka, quindi la caduta del muro, quel grande castello politico all’apparenza incrollabile si sbriciolò e i suoi pezzi caddero uno sopra l’altro come le pedine del domino, e non ci fu verso di poterle fermare. (*) Dubček fu riabilitato e fu eletto Presidente del parlamento federale cecoslovacco, ed insieme a Vaclav Havel, (*) lo scrittore e drammaturgo nuovo presidente ceco che condusse la cosiddetta rivoluzione di velluto, si battè con accanimento contro la divisione della Cecoslovacchia, e con grande senso della misura politica si rifiutò di firmare la cosiddetta “legge di lustrazione”, che voleva l’epurazione di tutte le persone in qualsiasi modo compromesse con il precedente regime. (*) Pure Zatopek fu completamente e ufficialmente riabilitato, non correva più oramai da diversi anni ma indossava ancora la tuta, e continuò a fare le cose di sempre, (*) come quella di farsi coccolare a casa dalla moglie Dana e da Pedro, il fox terrier che i baschi gli avevano regalato a San Sebastiàn, al termine della sua ultima vittoria. Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Coordinamento regionale attività motorie e sportive 137