Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
IN COLLABORAZIONE CON ASSOCIAZIONE ALEXANDRIA
DAL RISORGIMENTO ALLA GRANDE GUERRA
LO SPORT NEI TOTALITARISMI E LA SHOAH
DALLA RICOSTRUZIONE AL SESSANTOTTO
LO SPORT NEGLI ANNI DELLA GUERRA FREDDA
A cura di Alberto Delle Fave
RELATORI
Prof. FABRIZIO FELICE
Storico. Docente laureato in Lettere Moderne presso l’Università Cattolica di Milano, componente del
consiglio direttivo della “Società Italiana di Storia dello Sport” (S.I.S.S.)
Prof. SERGIO GIUNTINI
Storico. Laureato in lettere moderne presso l’universita Statale di Milano. Docente di Storia dello Sport
presso l’università Di Tor Vergata di Roma. Socio fondatore e membro del consiglio direttivo della “Società
Italiana di Storia dello Sport “ (S.I.S.S.) e Fellows del Comitato Europeo di Storia dello Sport (C.E.S.H.)
Dott. VINCENZO PENNONE
Storico dello sport. Laureato in economia presso l’Università degli studi di Catania. Membro del collegio dei
Probiviri della Società Italiana di Storia dello Sport” (S.I.S.S.) e socio del Comitato Europeo di Storia dello
Sport (C.E.S.H.).
Dott. ELIO TRIFARI
Laureato in Ingegneria Elettronica presso l’Università di Napoli nel 1972.
Già Vice-Direttore de “LA GAZZETTA DELLO SPORT”.
Attualmente Direttore della Fondazione Candido Cannavò.
Nel 1968 inizia la collaborazione con la “Gazzetta”. Dal 1989 al 2010 è vicedirettore.
Ha diretto il “Magazine”, settimanale della Gazzetta, dal 1995 al 1999.
Ha seguito 4 edizioni dei Giochi Olimpici estivi, da Montreal 1976 a Barcellona 1992; 2 edizioni dei
Campionati Mondiali di Atletica Leggera (Helsinki 1983 e Roma 1987), 5 dei Campionati Europei di Atletica
Leggera (da Atene 1969 ad Atene 1982).
Principali pubblicazioni:
“110 anni di gloria”, 31 volumi di storia sportiva della Gazzetta dello Sport (2005-2006)
“L’Enciclopedia delle Olimpiadi”, 2 volumi sulla storia dei Giochi Olimpici antichi e moderni (2008)
“Un secolo di passioni – 1909-2009”, il libro sul Centenario del Giro d’Italia (2009)
(Il dott. Elio Trifari, per le sue relazioni, ha seguito alcuni articoli che non possono essere pubblicati
ma la cui consultazione è possibile presso l’USR – Coordinamento att. Motorie e sportive)
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1
Indice
DAL RISORGIMENTO ALLA GRANDE GUERRA
GINNASTICA E RISORGIMENTO IN ITALIA
pag
3
LA BELLE ÉPOQUE DELLO SPORT LOMBARDO
pag 15
LO SPORT E LA BELLE ÉPOQUE AL TEMPO DEI FLORIO
pag 20
LA MARATONA DI LONDRA DEL 1908
pag 32
LE CINQUE VIE. LE ORIGINI DEL SISTEMA SPORTIVO NAZIONALE
pag 45
LO SPORT NEI TOTALITARISMI E LA SHOAH
SPORT E DITTATURE IN ITALIA E IN EUROPA
pag 52
LO SPORT FASCISTA
pag 55
BERLINO 1936, L’OLIMPIADE DEL TERZO REICH
pag 64
BERLINO 1936: STORIA DI UN BOICOTTAGGIO OLIMPICO MANCATO
pag 76
DALLA RICOSTRUZIONE AL SESSANTOTTO
CHIEDITI CHI ERA BARTALI CICLISMO E POLITICA NELLA STORIA ITALIANA
pag 85
OLIMPIADI E CONTESTAZIONE: IL ‘68 A CITTÀ DEL MESSICO
pag 98
ROMA, 1960: LA “GRANDE OLIMPIADE“
pag 104
LO SPORT NEGLI ANNI DELLA GUERRA FREDDA
L’IMPORTANTE È NON PARTECIPARE
pag 115
RDT: MEDAGLIE, DOPING E SPIE
pag 121
UNA SPLENDIDA ESTATE E UNA TRISTE PRIMAVERA
pag 129
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2
DAL RISORGIMENTO ALLA GRANDE GUERRA
GINNASTICA E RISORGIMENTO IN ITALIA
PROF. SERGIO GIUNTINI
Due equazioni:
“sport” (ossia quasi esclusivamente ginnastica e tiro a segno) = patria,
“sport” = educazione para-militare percorrono il nostro Risorgimento.
É un filo rosso, tra il 1821 e il 1870, sembra tener uniti liberal-moderati e
repubblicani, cavouriani, garibaldini, mazziniani, Destra e Sinistra storica. Si
pensi a Garibaldi grande propagandista del tiro a segno, a Quintino Sella
fondatore del Club Alpino Italiano (1863), alle società ginnastiche fucine
dell’irredentismo patriottico a Trieste, Trento, ecc. Ma che cosa giustifica la
piega militaresca assunta dallo “sport” italiano delle origini? Da un lato vi è la
situazione storica complessiva del XIX secolo che, per rispondere alle nuove
necessità militari imposte dal nazionalismo e dalla competizione
capitalistica/colonialistica tra gli stati, crea in sostituzione delle precedenti milizie
mercenarie gli eserciti stanziali di massa. Eserciti cui occorreva dare
un’istruzione fisica generalizzata e funzionale al miglior rendimento bellico. Non
a caso la stessa Prussia, che diverrà lo stato più militarizzato d’Europa, proprio
nel 1812 attuò una profonda riforma militare introducendo la coscrizione
obbligatoria. Dall’altro, maggiormente connesso alla realtà italiana, questa
curvatura para-militare è ascrivibile alla cosiddetta “conquista regia”: cioè ai
caratteri peculiari del nostro processo d’unificazione nazionale e alla egemonia
diplomatico-politica esercitata dal partito moderato di Cavour. Con il
Risorgimento e l’Italia unita si ha in altri termini la consacrazione del modello di
educazione fisica elaborato nel periodo pre-unitario dal Piemonte sabaudo. E
dunque, anche a proposito di “sport” dei primordi, si può parlare di
“piemontesizzazione dall’alto”, di un’estensione al resto d’Italia di quell’impronta
etico-militarista che le attività ginnastiche avevano assunto già dal 1833 nella
nostra “piccola Prussia”. A percepire tale fenomeno è interessante soffermarsi
rapidamente su una delle principali ristrutturazioni subite dall’esercito italiano
dopo l’Unità. Si allude alla riforma voluta dal ministro della Guerra Cesare Ricotti
Magnani nel 1873, a seguito delle pessime prove offerte dalle nostre truppe
nella guerra contro l’Austria del 1866. Il nuovo esercito veniva così ridisegnato:
1) adozione del sistema prussiano che, al momento della mobilitazione
generale, avrebbe dovuto completare i reparti, con il richiamo dei “riservisti”; 2)
ferma “breve” generalizzata portata da 5 a 3 anni, ma supportata dalla
possibilità di un anno di volontariato; 3) reclutamento su scala nazionale.
Nelle opinioni delle più intransigenti lobbies militariste questo meccanismo
determinava: A) una preoccupante riduzione della ferma, inidonea ad assicurare
una adeguata istruzione militare; B) con la creazione dei “riservisti”
un’estensione sostanziale del periodo nel quale il cittadino già congedato era
tenuto a tenersi pronto per la difesa della patria.
Per ovviare a simili obiezioni occorreva dunque creare una sorta di “sistema
integrato”, pubblico e privato, che iniziasse i giovani alle pratiche marziali prima
della chiamata alle armi e in seguito sapesse conservare alle attitudini militari i
“riservisti”. Un problema di difficile risoluzione che, dagli anni ’70 dell’Ottocento
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alla Grande Guerra, porterà alla creazione di un circolo virtuoso nel quale
interagivano organicamente scuola, associazionismo ginnastico ed esercito. Le
tre componenti in cui anche Léon Gambetta, primo ministro dal 14 novembre
1881 al 26 gennaio 1882, credeva per una rinascita della Francia traumatizzata
dalla sconfitta con la Prussia nel 1870. Per spronare il Paese egli teorizzava
infatti “L’unione del maestro, del ginnasta, del militare”. Operativamente il
giovane Regno italiano procedette lungo due direttrici parallele: portando
l’addestramento premilitare all’interno delle scuole sotto le mentite spoglie di
ginnastica educativa, così da cercar di soddisfare il punto A di cui sopra;
sostenendo l’associazionismo ginnico (una Federazione Ginnastica Italiana sorse
a Venezia il 17 marzo 1869) e tirosegnistico (la prima grande gara di Tiro a
Segno Nazionale si tenne a Torino nel 1863), necessario a garantire il
conseguimento del punto B. Ciò secondo una logica dei “vasi comunicanti”
avente lo scopo di travasare il tutto nel bacino delle forze armate. La scuola, le
società ginniche e di tiro a segno, l’esercito, divennero perciò nell’epoca di
Vittorio Emanuele II e Umberto I, all’acme della filosofia positivista (che lascerà
molti segni anche nell’ambito dell’educazione fisica) dallo psichiatra Giuseppe
Tonino (“La ginnastica e i pazzi”, 1871) al fisiologo Angelo Mosso (“La riforma
della ginnastica”, 1892), dallo scrittore Edmondo De Amicis (“Amore e
ginnastica”, 1892) all’antropologo Cesare Lombroso (“Il ciclismo nel delitto”,
1900) - per inciso tutti nati od operanti a Torino, la capitale storica dello sport
italiano) e ancora all’alba del nuovo secolo, con l’aprirsi della stagione
giolittiana, un osservatorio privilegiato tramite cui saggiare gli sforzi compiuti
dalla penisola unificata per darsi un’identità di nazione. E’ in questo preciso
contesto che va pertanto collocata la famosa Legge Francesco De Sanctis del 7
luglio 1878 sull’obbligatorietà della ginnastica educativa nelle scuole italiane.
Legge Ricotti Magnani del ’73 e De Sanctis del ’78 non possono, insomma, esser
disgiunte, ed è pure evidente come la seconda contribuisca grandemente alla
piena attuazione della prima.
Assunto ciò, come si notava in precedenza, notevole fu l’importanza che
numerosi protagonisti dell’epopea risorgimentale attribuirono alla “corporeità”
(tra gli altri ci si è già imbattuti in Giacomo Leopardi) come strumento per il
raggiungimento dell’indipendenza dalle potenze estere e mezzo per rinsaldare i
valori morali e ideali. In proposito ci limitiamo a fornire qualche esempio
rappresentativo.
- Silvio Pellico - il patriota che fra il 1822 e il 1832 fu detenuto dagli austriaci nel
carcere duro dello Spielberg - sulla rivista il “Conciliatore” del 1° agosto 1819,
nell’articolo “Degli esercizi ginnastici e degli effetti che producono”, tesseva un
elogio della boxe inglese lasciando intendere come solo dei corpi allenati e dalla
forte fibra avrebbero potuto riscattare e liberare la patria schiava degli stranieri:
“Ciò che più riesce d’un vantaggio innegabile in simili esercizi di forza e di
coraggio si è che alimentano nell’uomo un dignitoso sentimento di sé stesso:
sentimento che non è mai abbastanza generale nella società, giacchè,
dovunque esso manca, il debole innocente è vittima del provocatore malvagio, e
il disonore di un pusillanime si rovescia spesso benché ingiustamente sulla
patria a cui appartiene”.
- Nelle “Memorie di Giuseppe Garibaldi scritte da Alessandro Dumas” e
pubblicate a Livorno dall’editore Santi Seraglini nel 1860, si può leggere: “Mio
padre non mi fece imparare né la ginnastica, né il maneggio d’armi e nemmeno
l’equitazione. Imparai la ginnastica arrampicandomi fino alle sartie e lasciandomi
quindi sdrucciolare lungo i cordoni del bastimento; la scherma, l’appresi
difendendo la mia testa e procurando di colpire quella degli altri, e l’equitazione
nel prendere esempio dai primi cavalieri del mondo, vale a dire dai più sgraziati.
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Il solo esercizio corporale della mia gioventù, e nemmeno per questo mi
abbisognavano maestri, fu il nuotare. Quando e come io imparassi a nuotare
non me ne sovvengo affatto, mi sembra di avere sempre conosciuto questo
esercizio, come se io fossi nato anfibio […]. D’altronde poi, se mio padre non mi
fece imparare tutti questi esercizi, avvenne piuttosto per colpa dei tempi che
altro. A quella triste epoca, i preti erano i padroni assoluti del Piemonte; ed i
loro continui sforzi, il loro continuo lavorio portava a formare della gioventù, dei
frati inutili e poltroni piuttosto che dei cittadini adatti a servire il nostro
disgraziato Paese”.
- Carlo Pisacane, in “Saggi storici-politici-militari sull’Italia” pubblicati postumi a
Milano tra il 1858 e il 1860, sosteneva quanto segue: ”L’armeggiare, le
ginnastiche sono tutte cose utilissime […]. Ma questi ludi, per produrre un tale
effetto dovrebbero far parte dell’educazione nazionale a cominciare dall’infanzia
[…]. Nondimeno, per ciò che concerne l’educazione fisica, con pochissima
predisposizione si possono ottenere grandi risultati cominciando dall’infanzia,
imperrochè gli organi, essendo tenerissimi, si prestano facilmente ad ogni
genere d’esercitazioni […]. Nei ginnasi comunali, oltre le ginnastiche e la
scherma alle varie armi, a cui debbono per obbligo addestrarsi i giovani dai 7 ai
15 anni, vi sarà eziandio il tiro al bersaglio”.
ALCUNI DATI QUANTITATIVI SU SOCIETA’ E MOVIMENTO SPORTIVO IN
ITALIA DAL 1861 ALLA GRANDE GUERRA: UNA “QUESTIONE MERIDIONALE”
ANCHE NELLO SPORT?
1. IL PAESE REALE
1861 POPOLAZIONE: 26 milioni di abitanti
1861 COMUNI: 7720
1861 DENSITA’ per Kmq.: 87 abitanti
1861 MEDIA COMPONENTI FAMIGLIA: 4,7 persone
1861 PRODOTTO INTERNO LORDO: 50% prodotto da regioni centro-nord, 50%
da regioni del sud
1861 POPOLAZIONE ATTIVA DELLE REGIONI DEL CENTRO NORD IMPIEGATA
NELL’INDUSTRIA: 15,5% pari a 1.560.000 unità
1861 POPOLAZIONE ATTIVA DELLE REGIONI
NELL’INDUSTRIA: 22,8% pari a 1.200.000 unità
DEL
SUD
IMPIEGATA
1861 OCCUPATI NEI DIVERSI SETTORI ECONOMICI: agricoltura 70%, industria
18%, altre attività 12%
1861 MERCATI DI SBOCCO DEI PRODOTTI ITALIANI: Europa 86%, Americhe
10,4%, Africa 2,1%, Asia 1,2%
1863 MORTALITA’ INFANTILE: 232 nascituri su 1000 nati vivi
1871 ANALFABETISMO: 70%
1881 SPERANZA DI VITA: uomini 35,2 anni, donne 35,7 anni
1881 SEPARAZIONI MATRIMONIALI: 717
2. PROGRESSIONE NEL NUMERO DELLE SOCIETA’ GINNASTICHE NELL’ITALIA
UNITA
1880: 87 (11.871 iscritti)
1881: 102 (16.002)
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1882: 113 (15.509)
1890: 70 (8328 iscritti)
1895: 93
1900: 104
1905: 151
1910: 195
3. DISTRIBUZIONE REGIONALE DELLE SOCIETA’ AFFILIATE AL TIRO A SEGNO
NAZIONALE NEL 1885
Totale: 576
Lombardia 107 (18,5%); Veneto 59 (10,2%); Piemonte 59 (10,2%); EmiliaRomagna 52 (9,0%); Toscana 49 (8,5%); Sicilia 42 (7,3%); Marche 41 (7,1%);
Lazio 41 (7,1%); Umbria 30 (5,2%); Puglia 25 (4,3%); Calabria 15 (2,6%);
Campania 13 (2,2%); Abruzzo 12 (2,1%); Liguria 10 (1,7%); Friuli 9 (1,5%);
Basilicata 6 (1,0%); Molise 4 (0,6%); Sardegna 2 (0,3%).
4. DISTRIBUZIONE REGIONALE DELLE SOCIETA’ AFFILIATE
FEDERAZIONE GINNASTICA NAZIONALE ITALIANA NEL 1901
ALLA
Totale 112, iscritti 13.475
Lombardia 29 (25,9%); Veneto 17 (15,2%); Liguria 16 (14,3%); Toscana 13
(11,6%); Lazio 11 (10,0%); Emilia-Romagna 8 (7,1%); Piemonte 5 (4,4%);
Umbria 3 (2,7%); Campania 2 (1,7%); Marche 2 (1,7%); Friuli 1 (0,9%); Istria
(Parenzo) 1 (0,9%); Tunisia (Tunisi) 1 (0,9%); Abruzzo 1 (0,9%); Puglia 1
(0,9%); Sicilia 1 (0,9%).
Riepilogo per grandi aree regionali: Nord 69,8%; Centro 26,9%; Sud 2,5%; altri
1,8%.
5. DISTRIBUZIONE REGIONALE DEI CLUB CALCISTICI AFFILIATI ALLA
FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO NEL 1909
Totale: 54
Lombardia 18 (33,3%); Piemonte 12 (22,2%); Toscana 6 (11,1%); Campania 5
(9,2%); Veneto 5 (9,2%); Liguria 3 (5,5%); Lazio 3 (5,5%); Puglia 1 (3,7%).
Riepilogo per grandi aree regionali: Nord 70,5%; Centro 16,6%; Sud 12,9%.
6. DISTRIBUZIONE REGIONALE DELLE SOCIETA’ DI ATLETICA LEGGERA
AFFILIATE ALLA FEDERAZIONE ITALIANA SPORTS ATLETICI NEL 1913
Totale: 85
Lombardia 42 (49,4%); Piemonte 11 (12,9%); Lazio 9 (10,6%); EmiliaRomagna 8 (9,4%); Veneto 5 (5,9%); Liguria 4 (4,7%); Toscana 4 (4,7%);
Umbria 1 (1,2%); Marche 1 (1,2%).
Riepilogo per grandi aree regionali: Nord 82,3%; Centro 17,7%; Sud 0%.
7. DISTRIBUZIONE PER GRANDI AREE REGIONALI DELLE SOCIETA’
CICLISTICHE AFFILIATE ALL’UNIONE VELOCIPEDISTICA ITALIANA NEL 1914
Totale: 555
Riepilogo per grandi aree regionali: Nord 443 (79%); Centro 98 (17%); Sud 23
(4,0%)
GREGORIO DRAGHICCHIO: L’IRREDENTISTA PRIMO “SOCIOLOGO” DELLO
SPORT ITALIANO
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Gregorio Draghicchio nasce a Parenzo, in Istria, il 5 febbraio 1851. Acceso
irredentista (parente di Giacomo e Giuseppe Draghicchio, patriota nella
insurrezione veneziana del 1848 il primo, garibaldino con Ricciotti Garibaldi il
secondo), egli come Emilio Baumann, Costantino Reyer, Pietro Gallo, ecc. della
ginnastica fece la sua missione di vita. E in questo senso incarna perfettamente
quella categoria dei “ginnasiarchi” del XIX secolo cui si fa frequente riferimento.
Allievo di Michelangelo Rustia e Giovanni Cibron, abilitato in ginnastica a Graz
(1875), il 13 agosto 1869 Draghicchio aprì un corso privato di ginnastica nella
sua città natale. Trasferitosi a Trieste, l’8 novembre 1873 il municipio giuliano
gli conferì la docenza nella scuola comunale di ginnastica, e l’Associazione
Triestina di Ginnastica, avendolo assunto quale assistente di Rustia, il 1°
gennaio 1875 lo investì della direzione del proprio organo periodico: il “Mente
sana in corpo sano”. Su queste colonne Draghicchio fornirà le prime prove delle
sue profonde doti di maestro, cultore e storico della ginnastica italiana ed
estera. Da irredento anti-austriaco svolse una intensa attività politica venendo
coinvolto nel giro di vite repressivo conseguente all’attentato imputato a
Guglielmo Oberdan (1882). E in precedenza era stato accusato dagli austriaci
d’aver sospeso una riunione ginnastica in segno di lutto per la morte di
Giuseppe Garibaldi, nonchè d’utilizzare il foglio “Il ginnasta triestino” per
raccogliere fondi a favore della causa irredentistica. Per questi reati scontò una
pena in carcere dal 15 settembre 1882 al 29 giugno 1883. Nella sua ricchissima
biografia, che in seguito lo vedrà alla direzione tecnica della società ginnastica
“Pro Patria” di Milano, un aspetto meno noto è quello relativo al suo interesse
per la statistica. Un dato che ne fa il primo “sociologo” dello sport italiano. A lui
infatti dobbiamo, nel 1880, 1881 e 1882, tre accurate raccolte statistiche sul
nostro movimento ginnastico. Lavori che, da un punto di vista sia quantitativo
che qualitativo, consentono di cogliere alcuni dei caratteri originali del nostro
fenomeno sportivo nell’Italia dell’Ottocento. Soffermandoci sulla terza statistica
del 1881, da essa emergeva che le società ginnastiche allora esistenti in Italia
erano 113, di cui 37 affiliate alla Federazione delle Società Ginnastiche Italiana
(filo-baumanniana), 7 alla Federazione Ginnastica italiana (veteroobermanniana), 3 alla Federazione Ginnastica Svizzera, e ben 66 non aderivano
ad alcun ente federale. 15.508 gli associati, dei quali però soltanto 9703 “attivi”
(cioè praticanti) con una frequentazione-media serale delle palestre pari a 4103
unità. E tra gli “attivi” i ginnasti erano 6654; 1317 gli schermidori; 819 i tiratori;
273 i canottieri, 640 i membri di fanfare. Oltre alla ginnastica, infatti, 37 società
coltivavano al proprio interno anche la scherma; 15 il tiro a segno; 8 il
canottaggio; 36 la musica attraverso le loro fanfare.
Ancora: 21 sodalizi possedevano sale di lettura contenenti complessivamente
3390 opere, e 42 società risultavano abbonate a periodici ginnastici. Rispetto
alle professioni esercitate dai ginnasti censiti, Draghicchio svolgeva le seguenti
riflessioni:
“Predominano gli studenti, operai, possidenti ed impiegati; vengono subito dopo
gli agenti, gli avvocati, i professori, i maestri, i farmacisti. Una società ha fra i
ginnasti un ecclesiastico. Quantunque non poche società abbiano sede in piccoli
centri, ove abbondano per numero gli agricoltori, pure fra gli “attivi” non
troviamo un contadino. Ciò dimostra come, presso la popolazione delle
campagne, la ginnastica non abbia punto attaccato. Essa crede fare abbastanza
movimento col suo giornaliero lavoro, e non pensa che il suo corpo, per effetto
del moto unilaterale, diviene rigido e difettoso, né saprebbe nulla iniziare colla
sua sola rozza forza. Sarebbe pure desiderabile che le professioni “liberali”
sedentarie, come docenti, avvocati, tecnici, farmacisti ecc. fossero meglio
rappresentate. La loro partecipazione alla ginnastica sarebbe la migliore
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propaganda per la fisica educazione, poiché il loro esempio farebbe meglio che
le più belle parole, aumentare la frequentazione”.
Conclusa a fine secolo l’esperienza alla “Pro Patria” milanese, Gregorio
Draghicchio tornò in Istria assumendo l’incarico di segretario comunale a
Parenzo. E lì si spense il 18 marzo 1902. Prima, il 15 settembre 1901, aveva
fondato la locale società ginnastica “Forza e Valore”. Sodalizio che, il 24 giugno
1912, avrebbe voluto scoprire una lapide commemorativa in suo ricordo, ma
l’Imperial Regio Capitano distrettuale austriaco ne proibì l’inaugurazione
sostenendo che avrebbe “potuto dar adito a dimostrazioni ostili verso lo Stato
mettendo a repentaglio l’ordine pubblico”.
DALLA LEGGE GABRIO CASATI (1859) ALLA LEGGE FRANCESCO DE SANCTIS
(1878): L’INGRESSO DELLA GINNASTICA NELLA SCUOLA ITALIANA
In linea con un paradigma di respiro europeo, il Regno di Sardegna nel 1833
affidò allo zurighese Rudolf Obermann (1812-1869) la preparazione ginnastica
dei corpi scelti di genio e artiglieria. Una chiamata a Torino da porre senz’altro
in relazione con le riforme militari, modellate su quelle prussiane del 1812, che
furono attuate nell’esercito piemontese nel 1831. Le buone prove offerte da
Obermann con genieri e artiglieri, indussero il generale Cesare Saluzzo ad
assegnargli l’insegnamento dei rudimenti ginnico-militari anche presso
l’Accademia e, nel 1834, il ginnasiarca svizzero iniziò ad impartire lezioni di
ginnastica anche in case private. Di più, sulla scorta del successo che il suo
metodo aveva ottenuto presso gli ambienti militari, nella capitale del Regno di
Sardegna il 17 marzo fu tra i fondatori (dirigendola sino alla morte) della
Società Ginnastica Torino (con lui, gli altri soci-fondatori risultavano: Luigi
Balestra - medico, Ernesto Ricardi Di Netro - conte e colonnello dell’esercito,
Luigi Franchi Di Pont - conte, Lorenzo Saroldi – avvocato, Filippo Roveda –
cavaliere, Cesare Valerio – ingegnere), la più antica società d’Italia tuttora sulla
breccia, e dal maggio 1853 Obermann ebbe altresì l’onore di istruire in
ginnastica (ricevendo uno stipendio di 600 lire per tre ore settimanali) gli eredi
al trono di Casa Savoia Umberto, Amedeo e Oddone. Per Obermann, che
Edmondo De Amicis definirà “il fondatore e capo della vecchia scuola, misurata,
guardinga e rigorosamente metodica”, il passaggio dalla ginnastica militare a
quella civile ed educativa avvenne quindi linearmente, senza marcate
differenziazioni e discontinuità; e di conseguenza l’impronta della prima non
mancherà di riflettersi significativamente sulle altre due. In particolare, ciò che a
noi qui più interessa, giusto il metodo Obermann sarà quello che per primo e
per un lungo periodo di tempo ebbe cittadinanza nell’insegnamento ginnico
all’interno delle scuole dell’Italia unificata. Il suo punto di riferimento consisteva
nel sistema di Freidrich Ludwig Jahn, temperato dagli aggiustamenti di Adolf
Spiess. La matrice attrezzistica e marziale era quindi quella nettamente
prevalente nella sua filosofia ginnastica. Ad esserne edotti basti uno stralcio del
suo articolo “I ginnasticanti”, che scrisse il 22 febbraio 1845 per il periodico
torinese “Letture di famiglia”:
“Egli è voi, soprattutto, stimatissimi parenti ed educatori, che io vorrei persuasi
della grande importanza e dei sommi vantaggi di un tale ramo d’educazione per
formare fisicamente la gioventù alla vera virilità, lungi da quell’ermafroditismo
che non ritiene dell’uomo che appena le forme esterne, della donna la
fiacchezza solo ed i difetti. Né vogliate già credere che la sola parte fisica dei
giovanetti, le sole qualità del corpo vengano dagli esercizi ginnastici migliorate e
sviluppate, poiché dai medesimi debitamente praticati le più belle doti
dell’animo vengono favorite, i più brutti i più dannosi vizi repressi”
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Disciplina, culto della virilità, maschilismo. Queste alcune delle categorie
ideologico-morali del pensiero ginnastico di Rudolf Obermann, che
metodologicamente considerava la gara individuale “diseducativa sotto il profilo
etico e militare” e, perciò, privilegiava il lavoro collettivo e le marce cadenzate.
Agli esercizi elementari (movimenti della testa, delle gambe, delle braccia,
torsioni, flessioni, piegamenti: le sue concessioni allo Spiess), seguivano quelli
ai grandi attrezzi di impostazione jahniana: piano di assalto; sbarra di
sospensione mobile; scala orizzontale; trave di equilibrio; palo di salita; cavallo;
passo volante. Né disdegnava le “lotte di forza”, il tiro alla fune, il “getto del
giavellotto al bersaglio”. Esercitazioni nelle quali, è più ch’evidente, prevaleva in
modo netto l’aspetto muscolare. Attività fisiche molto prossime, in buona
sostanza, ad una efficace applicazione anche in campo bellico. E tant’è nel
1849, a Torino, Obermann darà alle stampe la sua prima opera teorico-pratica:
“Istruzione per gli esercizi ginnastici ad uso dei corpi di regie truppe”. Nello
specifico non è superfluo osservare che proprio in quel ’49 le esercitazioni
ginnastiche vennero introdotte nell’addestramento di tutte le armi dell’esercito
piemontese, e quest’ultima estensione si colloca a ridosso delle cocenti sconfitte
subite da Carlo Alberto con l’Austria-Ungheria nella prima guerra d’indipendenza
(1848). Finalità propedeutiche all’addestramento militare si rinvengono pure in
quella che fu la prima Legge relativa alla ginnastica scolastica nel Regno di
Sardegna: la Legge Gabrio Casati, modulata sul modello scolastico prussiano
che era fondato su un sistema organizzativo fortemente gerarchizzato e
centralizzato.
Il decreto legislativo n. 3725 del ministro alla Pubblica Istruzione Casati,
membro del governo presieduto dal generale Alfonso La Marmora, del 13
novembre 1859. All’articolo ottavo capo primo prescriveva: “La ginnastica e gli
esercizi militari saranno insegnati in tutti gli istituti di istruzione secondaria a
qualunque grado e a qualunque classe appartengano. Il capo dell’Istruzione
pubblica nominerà il maestro di ginnastica e l’istruttore militare”. Ci troviamo di
fronte a un’evidente commistione tra esercizi fisici ed esercizi militari,
concorrendo in pratica i due momenti all’identico obiettivo educativo. Una
distorsione che troveremo riprodotta anche nei primi interventi adottati in
materia dal Regno d’Italia. Confermata la Legge Casati, il primo ministro alla
Pubblica Istruzione del Regno d’Italia fu Francesco De Sanctis. Nato a Morra
Iripina, in provincia di Avellino, il 28 marzo 1817, De Sanctis nel 1848 partecipò
all’insurrezione liberale napoletana e, nel dicembre 1850, fu imprigionato dal
governo borbonico. Dopo 2 anni e mezzo di carcere venne imbarcato per esser
deportato in America, ma riuscì a fuggire a Malta e trascorsi due mesi raggiunse
Torino dove svolse un’attività d’insegnamento in un istituto femminile
proseguita poi al Politecnico di Zurigo. Patriota, nel 1860 fu governatore di
Avellino prima di esser eletto deputato al parlamento italiano nel Collegio di
Sessa Aurunca. Docente universitario a Napoli e insigne critico letterario, ci ha
lasciato la sua fondamentale “Storia della letteratura Italia” - compiuta a Napoli
tra il 1870-’71, nella quale sviluppa il concetto estetico di contenuto-forma;
uomo-poeta; vita-cultura. Per De Sanctis, “l’essenza dell’arte è il “vivente”, la
“forma”, ma tra contenuto e forma non vi è dissociazione, esse sono l’uno
nell’altra”. Seppur con le dovute cautele nella formula desanctisiana del
“contenuto-forma” si possono cogliere i prodromi della sua riforma che renderà
obbligatoria la ginnastica nelle scuole del Regno. Ovvero l’idea di una
imprescindibile unitarietà della persona quale sintesi organica di soma (forma) e
psiche (contenuto). Le due parti di un unico insieme nel quale corpo e mente
dovevano raggiungere uno sviluppo equilibrato. Questa pedagogia De Sanctis
la esplicitò in alcuni famosi scritti nei quali teorizzò l’idea di “virile educazione”.
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In particolare nel suo “I partiti e l’educazione della nuova Italia” (1875) egli
sosteneva:
“Merito del realismo è di dare all’uomo una esatta conoscenza delle sue origini,
del suo ambiente, delle sue forze de’ suoi mezzi […]. L’uomo si dee avvezzare a
studiare le sue forze ed i suoi mezzi da proporzionarvi ai suoi fini. Questa è
virile educazione dei popoli adulti […]. Gli elementi fattivi, restauratori della
volontà e della fibra, sono indeboliti in nazioni rinate appena o in aperta
decadenza onde nasce la poca attitudine all’opere […]. Una educazione che ci
riavvicini alla natura, fortifichi i corpi, c’induri al lavoro, c’infonda il coraggio,
c’ispiri tenacità e coerenza di propositi, ci avvezzi alla disciplina, è la migliore
amica dell’ideale”.
Ministro alla Pubblica Istruzione dal 23 marzo 1861, De Sanctis vi rimase una
prima volta sino al marzo del 1862. In questo spazio di tempo tentò di metter
mano alla Legge Casati sulla ginnastica, nominando il 27 aprile 1861
un’apposita Commissione sotto la responsabilità di Quintino Sella (allora
Segretario generale alla Pubblica Istruzione, poi tra i soci-fondatori del CAI,
nonché severo ministro alle Finanze passato alla storia per la “politica della
lesina” e la “tassa sul macinato”) e con membri Obermann e Ricardi Di Netro
della Società Ginnastica Torino, Giuseppe Alasia (presidente della
Commissione), Piero Baricco (vice-sindaco di Torino e Ispettore delle scuole
primarie della provincia torinese), Luciano Benettini (direttore del Convitto
Nazionale di Torino). Lo scontro in Commissione fu tra Obermann, tenace
assertore di un indirizzo “militaristico”, e Benettini, che era favorevole a una
ginnastica più “dilettevole”. Chi ebbe la meglio si ricava dalla Relazione sui
programmi di ginnastica che la Commissione licenziò il 1° giugno 1861:
“La
Commissione
ha
considerato
l’istruzione
ginnastico-militare
complessivamente, scostandosi dall’uso […] di appellare istruzione puramente
ginnastica gli esercizi del corpo che sono semplicemente ordinati a rinvigorire la
persona ed a divincolar le membra, e di appellare istruzione militare
l’esercitazione dell’uomo destinato a trarre le armi. L’istruzione da dare alla
nostra gioventù deve essere tale che valga a disciplinarla ed a rafforzarla e a
farla agile e vigorosa e nello stesso tempo idonea a maneggiare il fucile, ed
ecco la ragione per cui si è considerato l’insegnamento ginnastico-militare come
un sol corso”.
La Commissione concluse i suoi lavori il 26 ottobre 1861, e in pratica confermò
l’impostazione della Legge Casati. La ginnastica era limitata alle scuole
secondarie e, nei licei, prevedeva anche “maneggio d’armi, tiro al bersaglio,
scherma alla baionetta”. Nessuna ginnastica era prevista per il sesso femminile,
lasciando Commissione “al Ministro in persona l’arbitrio di provvedere questa
bisogna con particolari decreti ed istituzioni”. Decreti ed istituzioni di cui, per il
momento, non si ebbe traccia alcuna.
L’ITER E IL DIBATTITO PARLAMENTARE SULLA LEGGE DE SANCTIS DEL 1878
De Sanctis fu nuovamente ministro alla Pubblica Istruzione dal 18 marzo al di
dicembre 1878 e dal 1879 al 1881. Nel suo secondo mandato si sforzò di dotare
il Paese di una Legge obbligatoria sulla ginnastica in tutti gli ordini di scuole
maschili e femminili, dalle elementari alle superiori, improntata a un autentico
spirito educativo. Ma anche questo nuovo tentativo riuscì solo in parte. Non
tanto per sua volontà quanto per le difficoltà incontrata sia all’interno della
specifica Commissione parlamentare (formata da Domenico Berti, presidente;
Nicola Marselli, Ferdinando Martini, Luigi La Porta, Alessandro Ceresa, Pasquale
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Umana; Antonio Allievi relatore) sia in sede di Camera e Senato. Anche se,
l’aver egli riconfermato la sua fiducia nel metodo Obermann e nella centralità
metodologica rivestita dalla Società Ginnastica Torino, costituì un innegabile
ostacolo, di cui avrebbe dovuto esser perfettamente consapevole, all’attuazione
d’un vero e proprio programma riformatore. Comunque sia, intervenendo a
sostegno della sua Legge nella discussione che il 30 maggio 1878 riguardava il
bilancio definitivo del Ministero alla Pubblica Istruzione, De Sanctis pronunciò
queste parole:
“Io spesso sono stato[…] in certe scuole di bambini e quando li ho visti sudici,
logori , pigiati, gli uni accanto agli altri in certi banchi fatti proprio per rovinare
il corpo […] io mi sono domandato: non sono queste scuole omicide? Vogliamo
noi, per migliorare lo spirito, uccidere il corpo? Non vediamo che la base è
innanzitutto di avere corpi sani e forti? […] Signori deputati, quando il corpo è
sano e forte rinasce nell’uomo non solo il coraggio fisico, che è la cosa più
comune, ma ciò che è più raro, anche il coraggio morale, e la tempra e il
carattere e la sincerità della condotta, e l’aborrimento delle vie oblique […]. Noi
non diamo ancora troppa importanza a questa ginnastica educativa la quale dà
forza, grazia e sveltezza ai movimenti del corpo; abbiamo molte società
ginnastiche in Italia, ma se ne parla con leggerezza; se vi è la ginnastica nella
scuola, si considera quasi come uno spasso ed io vorrei, o signori, che
considerassimo un po’ più seriamente questa parte fondamentale della nostra
Rigenerazione”.
Stante ciò, il disegno desanctisiano originale presentava alcune difformità
sostanziali rispetto agli articoli di Legge che vennero poi emanati il 7 luglio
1878. Rimasto invariato l’articolo 1° che dettava: “La ginnastica educativa è
obbligatoria nelle scuole secondarie, nelle scuole normali e magistrali, e nelle
scuole elementari. La conoscenza dei precetti sui quali si fonda è compresa tra
le materie di esame per il conferimento della patente di maestri elementari” (e il
3°: “Nelle scuole femminili d’ogni ordine e grado, la ginnastica educativa sarà
regolata con norme speciali”), letteralmente creato ex-novo dalla Commissione
fu l’articolo 2°. Nella versione di De Sanctis questo articolo, che Berti-Allievi
faranno diventare il 4°, recitava: “Potranno essere istituiti corsi normali di
ginnastica educativa sussidiati dal governo anche presso società ed istituzioni
ginnastiche ora esistenti, secondo le condizioni ed i programmi stabiliti nel
Regolamento”; viceversa nel testo definitivo presentato alle due camere dopo la
revisione compiuta dai commissari parlamentari esso assunse questa piega:
“L’insegnamento della ginnastica nelle scuole secondarie, normali e magistrali
maschili ha pure lo scopo di preparare i giovani al servizio militare. Il Ministro
della Pubblica Istruzione e quello della Guerra determineranno d’accordo gli
esercizi e i gradi successivi dell’istruzione ginnastica, in relazione all’età e allo
sviluppo fisico dei giovani”.
Si trattava dunque di una “svolta militarista” davvero difficilmente conciliabile
con gli intenti, sulla carta dichiarati educativi, della Legge. Chiariti questi aspetti,
vale soffermarsi sul dibattito parlamentare che la interessò e, in via preliminare,
è da notare come i verbali ufficiali della Camera relativi alla seduta del 30
maggio 1878, quando De Sanctis presentò il suo progetto,
riportino
testualmente queste reazioni beffarde: “Ma come! Il De Sanctis debutta con un
progettino di ginnastica! – Viva ilarità”. La discussione iniziò il 6 giugno 1878, e
tra i diversi interventi spiccano quelli dei deputati Federico Gabelli, Paulo
Fambri, Salvatore Morelli e Antonio Allievi. Gabelli, della Destra storica, si
opponeva alla Legge perché, a suo parere, gli “italiani se li si voleva più sani e
più forti, era più importante riuscire a dare un po’ da mangiare con minori spese
e minori tasse”. Obiezioni sociali non del tutto infondate, cui tuttavia seguivano
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queste sue altre considerazioni volte ad affondare la Legge negando alla
ginnastica ogni valore dal punto di vista della metodologia scientifica. Nella sua
visione essa, infatti, non era nient’altro che una pratica nella quale “si stira un
braccio, si alza una gamba, si volta il corpo un po’ di qua e un po’ di là e si
passeggia”. Dunque un lusso inutile e ozioso che quell’Italia, ancora poverissima
e contadina, non poteva permettersi.
Fambri, sostenitore della Legge e della sua cifra militaristica, dichiarava che
dove l’operaio obbedisce al capo-officina; dove lo scolaro sia ossequiente al
maestro, dove cioè, insomma, sia la disciplina sociale, voi avrete lì per lì
contratta la disciplina militare […] e il ricostituente dei nostri giovani deve
essere bensì il ferro ma adoperato non già in forma di pillole come tonico ma di
anelli, di maniglie, di lame, di fioretti e di sciabole”.
E dal paternalismo conservatore e reazionario di Fambri al precoce “taylorismo”
di Salvatore Morelli. Questi, rappresentante democratico della Sinistra
segnalatosi per voler garantire pari diritti alle donne ed esser favorevole al
divorzio, vedeva però nella ginnastica scolastica soprattutto - se non
unicamente - un mezzo per migliorare la produttività sul lavoro. E in tal senso si
espresse così dinanzi ai colleghi deputati: “O Signori, una delle ragioni per cui
non si lavora quanto basti in Italia sapete qual è? E’ appunto perché manca il
metodo del lavoro, di cui è parte essenziale la ginnastica”. A difendere la bontà
della Legge, il 7 giugno 1878, scese infine in campo il relatore Allievi che usò
questi argomenti: “C’era la scuola vecchia, la scuola, vorrei dire dei preti […] la
quale teneva per ore ed ore là pigiati, immobili, silenziosi, attratti i giovanetti,
avezzandoli quasi a considerare l’istruzione come una mortificazione, una pena.
Vi è la scuola laica la quale alterna con l’istruzione intellettuale un moderato
esercizio fisico; la quale tien conto delle condizioni del corpo
contemporaneamente alle condizioni dello spirito”.
Ma dopo questo approccio, per quanto anticlericale tutto sommato moderato,
Allievi cambiava registro e nel seguito del suo intervento invitava a considerare
il fatto “che l’opportuna formazione del cittadino al servizio militare può rendere
più efficace e di meno grave dispendio la piena attuazione delle nuove leggi
militari” (vedi ristrutturazione Ricotti Magnani del 1873), e a ciò pertanto
dovevano concorrere anche “l’istruzione obbligatoria, la ginnastica e il tiro a
segno” (la Legge De Sanctis del ‘78, per l’appunto).
Posta in votazione alla Camera il 18 giugno 1878, la Legge venne qui approvata
con 170 sì su 235 aventi diritto. Al Senato del Regno pervenne il 22 giugno
1878 e, se tra i deputati le obiezioni avevano riguardato la medesima utilità
dell’inserimento ginnastico in seno alle istituzioni scolastiche, tra i senatori i
dissensi si concentrarono sul concetto di obbligatorietà, trovando in Diomede
Pantaleoni il maggior oppositore. A queste posizioni rispose Berti, il presidente
della Commissione referente che disse:
“Non è nei ragazzi che bisogna vincere il pregiudizio contro la ginnastica, è nelle
famiglie; i ragazzi si prestano volentieri, anzi molte volte si dolgono che le loro
famiglie non gliela permettano. E’ dunque la famiglia che bisogna vincere. Ma
se le famiglie trovano nella Legge un “salvo”, non si salvano più i maestri di
ginnastica”.
Il senatore Casati, evidentemente sottilmente antifemminista, per contrastare la
Legge il 2 luglio 1878 intervenne chiedendo se “anche le ragazze venissero
preparate al servizio militare”; e giunti al voto finale con scrutinio segreto, il 7
luglio 1878 il testo passò a maggioranza con 46 sì, contro però ben 34 schede
sfavorevoli.
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I programmi della De Sanctis (obiettivi didattici e linee metodologiche) furono
definitivamente promulgati con un decreto del 16 dicembre 1878. Nelle scuole
elementari la lezione di ginnastica - secondo i canoni dell’Obermann, che
restava anche dopo la sua morte il “ginnasiarca principe” dell’Italia unita doveva servire “come sollievo dopo una lunga applicazione intellettuale. Per
conseguenza dove l’orario giornaliero è distribuito in un unico periodo, si faccia
dopo la prima ora di studio; dove invece è distribuito in due periodi, continuavano i programmi – sarà bene farla al termine del secondo”. La lezione
doveva esser sempre di mezz’ora e suddivisa in “esercizi ordinativi e
preparatori; esercizi di tutte le parti del corpo, compresi il salto e la salita […]
esercizi di passi ritmici, marce, evoluzioni, corse, giuochi”. Le assenze erano
punite con i mezzi previsti dai regolamenti scolastici, e si sarebbero dovuti
tenere saggi pubblici in occasione di feste nazionali. Nelle scuole secondarie si
prescriveva di introdurre l’attrezzistica in modo da “avvezzare i giovani a
superare facilmente in molte guise un ostacolo, a misurare le proprie forze e ad
avere fiducia in sé”. Ancora: non mancava il maneggio delle armi, la scherma di
bastone e il tiro a segno affinché l’allievo si prepari “ad entrare come valido
soldato nelle file dell’esercito”. E nell’ultimo paragrafo del decreto 16 dicembre
1878, dal titolo “Istruzione per lo svolgimento del programma d’insegnamento
militare nelle scuole secondarie”, una intera parte era dedicata all’uso del fucile:
istruzioni con l’arma, fuochi in ordine chiuso, assalti, istruzione sulle armi,
istruzione sul tiro.
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Piero Viotto “Storia antologica dell’educazione fisica in Italia”, Milano, Vita Pensiero,
1983
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LA BELLE EPOQUE DELLO SPORT LOMBARDO
PROF. FABRIZIO FELICE
La belle époque ha un inizio simbolico, che coincide con l’inaugurazione
avvenuta nell’aprile del 1900 del “palcoscenico del mondo”, l’Esposizione
Universale di Parigi, e una conclusione concretissima e fragorosa che ha luogo
nell’agosto del 1914, quando una delle tante guerre balcaniche si trasforma in
conflitto europeo.
Gli anni racchiusi tra queste due date-spartiacque sono prima di ogni altra cosa
uno stato d’animo che accomuna tutto il Vecchio Continente sovrano e libero
delle grandi potenze e degli sterminati imperi coloniali, ciecamente convinto
della sua inesauribile ricchezza economica e culturale.
Anni frenetici, scanditi dai ritmi del cancan, del valzer viennese, dello
scandaloso tango argentino. Affollati di signori che parlano francese, si vestono
a Londra, esibiscono il monocolo prussiano e di signore che impazziscono per le
ultime novità della moda parigina. Racchiusi nei tratti stilizzati dell’art nouveau.
Anni di euforia, di ottimismo sul presente, di fiducia in un futuro di irreversibile
progresso, anni nei quali l’unico problema appare quello di vivere intensamente
ogni istante, in bilico tra inflessibili etichette e sconfinate spregiudicatezze, tra
sorrisi stereotipati e finzioni convenzionali.
La vita oziosa ed elegante dell’internazionale dei piaceri si consuma nei salotti,
nelle fantasmagoriche atmosfere dei locali pubblici, negli ambienti raffinati dei
grandi hotel, dei treni e dei transatlantici di lusso, delle stazioni turistiche più in
voga.
Le esistenze si sviluppano su livelli ben distinti. Alla dolce vita, prerogativa di un
numero molto limitato di privilegiati, continua a contrapporsi la lotta quotidiana
per la sopravvivenza combattuta dalla grande maggioranza della popolazione.
Parigi, Vienna e, in misura minore, Londra e Berlino sono gli abbaglianti fuochi
culturali di un impero di cui l’Italia continua a rimanere periferia. Ma anche il
nostro paese si lascia contagiare dalla ventata di tranquilla sicurezza che
percorre l’Europa, anche perché la belle époque ha come sfondo l’Italia
giolittiana, nel corso della quale si accelera una rivoluzione industriale che
comporta una serie di profondi sconvolgimenti di natura economica, sociale e
culturale.
Nella terra delle cento città e dei mille campanili ogni porzione di territorio
partecipa a questo slancio impetuoso con modalità e con intensità diverse.
Concentriamoci sulla Lombardia, regione che concentra all’incirca un quarto
dell’apparato produttivo, proponendosi come vera e propria locomotiva
dell’economia nazionale.
Milano, la più europea delle città italiane, è anche la più sollecita nel catturare,
rielaborare, diffondere le onde dell’innovazione.
Capitale dell’informazione, della cultura, dei consumi, laboratorio del mondo
nuovo, emana il senso dell’opulenza, il profumo dell’eleganza, la smania del
divertimento.
Le vie rischiarate dall’illuminazione elettrica e tappezzate di cartelloni
pubblicitari (1) sono percorse da mastodontiche automobili e da tram
sferraglianti (2).
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I padiglioni delle grandi esposizioni (3) e le vetrine del centro (4) esibiscono
invenzioni e merci di ogni tipo.
La crema della società passeggia nel salotto della città, la Galleria (5), si dà
appuntamento nei caffè, nei ristoranti, nei teatri (6), nei locali di varietà (7).
Le attività motorie si adeguano a questi scenari in continua trasformazione. Lo
sport, uscito da poco dall’infanzia, è definito per categorie secondo ceti sociali
che tracciano circuiti paralleli in cui rare sono le intromissioni e le
contaminazioni. Come a bordo del Titanic, la metafora più rappresentativa del
tragico destino di una umanità persuasa della perennità della congiuntura
favorevole, lo sport viaggia in classi rigidamente separate.
Il mondo contadino rimane tenacemente aggrappato ai suoi svaghi tradizionale,
i giochi con la palla e le bocce (8).
I ceti subalterni, in modo attivo o nelle vesti di semplici spettatori, si dedicano a
discipline che richiedono un equipaggiamento elementare, gusto della sfida,
spirito di sacrificio, un impegno muscolare che sembra prolungare i ritmi
massacranti dell’attività lavorativa.
A calamitare la passione popolare, offrendo nel contempo ai campioni
insostituibili occasioni di riscatto sociale e di fuoriuscita dalle ristrettezze
economiche sono il ciclismo (9), primo autentico sport nazionale, il podismo
(10), la lotta (11), il sollevamento pesi (12).
La piccola e la media borghesia, strati compositi di frontiera tra la base
proletaria e le oligarchie, rimangono incerte tra la smania di imitare i prestigiosi
modelli di svago delle classi superiori e la ricerca di forme autonome di pratica,
individuate nella ginnastica (13), nel calcio (14), nel canottaggio (15), nel nuoto
(16), nel pugilato (17).
In prima classe viaggia, circondata da comodità di ogni tipo, una cerchia
ristretta in cui si integrano una nobiltà di sangue dinamica e cosmopolìta e le
dinastie rampanti degli esponenti del mondo degli affari.
Riunite in circoli prestigiosi, assorbite in attività in cui sulle esasperazioni
agonistiche prevalgono gli aspetti mondani, le élites presidiano con puntiglio
ogni spazio di socialità, venendo a formare una sorta di cerchio magico di
notabili che ricoprono a lungo molteplici cariche direttive in ogni settore delle
attività ludiche e sportive.
Vale la pena soffermarci su quest’ultimo spazio sociale, ampiamente minoritario
rispetto alla diffusione reale delle pratiche e dei gusti, ma pienamente
rappresentativo dello spirito della belle époque.
E’ un mondo piccolo, dove tutti si conoscono e dove implacabilmente gli stessi
sono i nomi riportati con minuzia in interminabili elenchi: perché l’importante
qui non è tanto scendere in gara, ma presenziare.
E’ un mondo a parte, che trova solo due forme di comunicazione con il mondo
circostante: lo sfruttamento dei beni e dei servizi offerti dai salariati dello sport
(fabbricanti, commercianti, maestri, addetti ai lavori) e la messa in scena del
proprio sfarzo, sotto gli sguardi invidiosi dei borghesi che vorrebbero ma non
possono e quelli attoniti del volgo profano che si gode lo spettacolo.
E’ un mondo inaccessibile che si garantisce contro ogni rischio di sgradite
intromissioni attivando rigidi meccanismi di accesso alle associazioni e la
richiesta di astronomiche quote di affiliazione, oscillanti tra le cinquanta e le
centocinquanta lire annue, l’equivalente dello stipendio mensile di un impiegato
e del guadagno trimestrale di un operaio.
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E’ un mondo duttile, pronto a ritirarsi fulmineamente dai territori a rischio di
democratizzazione, come il ciclismo ed il calcio dei primordi, per arroccarsi nei
ridotti degli sport invernali e motoristici.
E’ un mondo in incessante movimento che segue rotte migratorie precisate da
scadenze stagionali, tra la Costa Azzurra, i centri termali più rinomati, le località
poste sulle rive dei laghi, le prestigiose stazioni invernali della Svizzera.
Recuperare un accredito che consenta un comodo accesso a questo mondo a
parte è tutt’altro che semplice. Bisogna armarsi di pazienza e di sfrontatezza,
occorre dare una bella ripassata ai manuali del bon ton, serve una rinfrescata
del proprio guardaroba per scoprire ad uno ad uno i nascondigli dei vip.
Quale soluzione migliore che trasformarsi in cronisti della elegantissima
“Cronaca d’oro. Rivista dell’alta società”, pubblicata dal 1910 a Milano? Issati a
bordo di una impeccabile Isotta Fraschini modello B (18), siamo pronti a
cominciare il nostro piccolo giro della Lombardia sportiva che conta.
La prima tappa ci porta diritto ad uno dei santuari dello sport italiano, la
brughiera di Montichiari, collocata tra Brescia e Mantova, regno della velocità,
dell’altezza, dei motori rombanti, miti prediletti dalla sensibilità dell’epoca.
Qui, dal settembre del 1905, è in funzione il primo circuito automobilistico
realizzato nel Bel Paese, luogo di svolgimento di competizioni di richiamo
europeo come la Coppa Florio (19), (20), e punto di raduno dei soci degli
esclusivi club motoristici, fieri dei loro giocattoli di lusso, avvolti in pellicce
d’orso, resi irriconoscibili dalle maschere e dagli occhialoni. Qui, nel settembre
del 1909, ha luogo il Circuito Aereo Internazionale (21), prima ribalta delle
spericolate evoluzioni dei nuovi titani lanciati alla conquista dei cieli, primi attori
di uno spettacolo reso morbosamente attraente dai rischi che ne accompagnano
la messa in scena. Sulle tribune, mescolati all’alta società al gran completo,
guardano all’insù D’Annunzio, Puccini, Kafka.
Brescia è appena dietro l’angolo. Guidati dall’eco delle detonazioni
raggiungiamo l’area di Canton Mombello, ricavata dall’abbattimento delle
antiche mura veneziane ad accogliere uno dei maggiori stand di tiro a volo in
Italia, teatro delle imprese degli infallibili cecchini locali (22).
Il tiro a volo della belle époque ha poco a che spartire con quello odierno,
ipertecnologico e accesamente agonistico. E’ uno svago costoso (i fucili inglesi
di precisione sono carissimi e un piccione – si spara quasi esclusivamente a
bersagli vivi – costa due lire, la paga giornaliera di un operaio) che tra una
stagione di caccia e l’altra richiama in confortevoli impianti permanenti e nei
parchi delle ville di delizia una eletta schiera di sportsmen e di dame nelle vesti
di spettatrici e di madrine.
Ed ora su per l’interminabile Valcamonica fino ad avvistare Ponte di Legno, che
le guide turistiche dell’epoca etichettano ottimisticamente come “prima stazione
italiana di sport invernali”. I ripidi pendii invitano al brivido del bobsleigh, dello
skeleton, dello slittino, gli spazi pianeggianti sono percorsi dagli amanti del
placido ski-kjoring, agganciati ad una slitta tirata da cavalli.
E’ un espediente che trova una logica spiegazione nelle fatiche venate di
masochismo che richiede la pratica dello sci (23): piste non battute, l’ assenza
di impianti di risalita che costringe a faticose ascensioni a lisca di pesce cui
fanno seguito brevissime discese, attrezzi ingombranti e insicuri, abbigliamento
che opprime senza riscaldare. In questo caso le élites optano per una attitudine
contemplativa che si rafforza tra un poncino e l’altro.
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La fedele Isotta si arrampica tossicchiando sul passo dell’Aprica per condurci in
Valtellina, paradiso della caccia ai grandi ungulati, della pesca alla trota,
dell’alpinismo (24).
Un alpinismo generato da nobili lombi (i primi esploratori italiani dell’Adamello,
del Bernina, del Disgrazia appartengono tutti all’aristocrazia milanese) che sta
inesorabilmente mutando pelle. Alle interminabili ascensioni in cordata
imprescindibili dal supporto di guide ingaggiate per la modica cifra di cento lire
e di malcapitati portatori oberati di scale in legno, di strumenti scientifici, di
casse di cibarie e di bevande stanno subentrando le audaci imprese messe a
segno da una nuova e più agguerrita generazione di scalatori.
Di gran carriera iniziamo la lunga discesa che ci porterà nel cuore stesso del
distretto dei piaceri mondani, collocato tra l’area comasca e quella varesina.
Como e Carate Lario sono le capitali degli sport nautici.
Il Regate Club sul lago di Como è il presidio dei cultori della vela (25), lo sport
delle teste coronate, dei titolati, dei nuovi ricchi. I commodori e i soci,
indossando giacche e pantaloni turchini, gilet bianchi, berretti alla marinara,
alternano blande regate e sfarzosi ricevimenti.
All’Elice Club Italiano di Carate fanno capo gli amatori delle rumorose emozioni
della motonautica (26).
Prima di toccare Varese è d’obbligo una breve sosta sulle rive del piccolo lago di
Ghirla, che nei mesi invernali dà spazio alle incerte evoluzioni dei praticanti di
un’altra icona dello sport della belle époque, il pattinaggio su ghiaccio (28):
attività stagionale per necessità per carenza di impianti al coperto con
refrigerazione artificiale e mondana per scelta, nella cornice delle patinoires
sparse in ogni lembo della regione ad ospitare allegre feste in costume e
rumorose gincane.
L’elegante architettura del Grand Hotel Excelsior di Varese accoglie una clientela
sceltissima, destinataria di un ampio ventaglio di svaghi a cominciare dal golf,
importato e giocato prevalentemente da turisti britannici (27).
Tra Varese e Milano si estende il vasto territorio coperto di brughiere che ha per
centro Gallarate, terreno ideale per due pratiche esclusive per eccellenza.
Il possesso di cani di razza è prerogativa dei gentiluomini anglofili affiliati al
Kennel Club, che adibisce la zona allo svolgimento delle prove di cerca sul
terreno (29).
Tra fossi, macchie e ciglioni galoppano in sella a cavalli irlandesi e preceduti
dalle mute di segugi acquistati direttamente in Gran Bretagna gli azzimati
cavalieri della Società Milanese per la Caccia a Cavallo che indossano una
giubba rossa trapuntata di bottoni con la corona in stampo ad attestare il
patrocinio del re (30).
A sostituire le volpi, che per loro fortuna latitano, provvedono cervi e daini fatti
arrivare da molto lontano o addirittura semplici bigliettini di carta dei quali va
seguita la traccia.
Ma in realtà i complicati rituali di caccia sono una messinscena che cela una
intensa vita mondana cadenzata da manieristici raduni, assidui corteggiamenti
delle romantiche amazzoni (31), animate feste serali.
Milano ci accoglie offrendoci un panorama ricchissimo di iniziative di ogni tipo.
Completeremo qui il nostro viaggio con quattro omaggi reverenti ad altrettanti
luoghi di culto. La prima è una delle numerose sale di scherma che hanno sede
nelle vie del centro (32) : ambienti elegantissimi (la sala della Società del
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Giardino è costata la bellezza di 25.000 lire!) nei quali celebrati maestri
istruiscono nella scienza delle armi e preparano alla non tanto remota
eventualità del duello il fior fiore della nobiltà meneghina.
In via Vivaio il vasto salone del Veloce Club, una delle più antiche società
ciclistiche italiane, è il tempio del pattinaggio a rotelle (33), fratello cadetto del
pattinaggio su ghiaccio con il quale condivide la cornice mondana e le funzioni
socializzanti.
Ai margini del parco Sempione sorgono gli impianti nei quali si pratica lo sportsimbolo della belle époque, il tennis (34) degli eleganti e pacati gesti bianchi
disegnati sui rossi campi in terra battuta, prodotto di lusso very british, ideale
prolungamento dei garden-parties e dei tè delle cinque.
Inaugurato nel 1888 in un’area corrispondente all’attuale piazzale Lotto,
l’ippodromo di San Siro (35) vede affollarsi sulle tribune stuoli di dame che
esibiscono spettacolari toilettes, attorno al recinto del peso, ai picchetti dei
bookmakers, agli sportelli del totalizzatore gli allevatori, i proprietari, gli ippofili
più incalliti (36), in attesa che la fiera della vanità trovi la sua apoteosi nel
rientro in città delle carrozze tirate da quattro purosangue attaccati all’inglese.
Anche questo concorre a nascondere sotto un sottile strato di cenere le braci
vive che ardono in un’ Europa inconsapevolmente adagiata su un autentico
campo minato.
“Il futuro è una palla di cannone accesa e noi lo stiamo raggiungendo”,
racconta un cantante un bel po’ poeta, quel Francesco De Gregori che in tre
delle sue composizioni ci ha detto della belle époque più di cento libri di storia.
Il cerchio si chiude con il ritorno alla metafora del Titanic (37).
A procedere pedalando, correndo, remando, nuotando verso i campi di battaglia
della Grande Guerra saranno i componenti dell’equipaggio e i passeggeri di
terza classe.
Gli imperturbabili signori protagonisti assoluti delle cronache d’oro, quelli che,
per dirla con Wilfred Owen, si accingono a mandare al macello “metà del seme
d’Europa, uno per uno”, viaggiano in prima classe, nella quale pochi furono gli
imbarcati e tanti, tantissimi i superstiti.
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LO SPORT E LA BELLE ÉPOQUE AL TEMPO DEI FLORIO
DOTT. VINCENZO PENNONE
Come ricorda Fabrizio, al fervore impetuoso con cui il nostro paese si inserì
nella belle époque europea “ogni porzione di territorio partecipò con modalità e
intensità diverse”. Sicuramente minori queste intensità nel caso della Sicilia e
del Meridione in generale, che scontarono anche il nulla di fatto che i successivi
governi giolittiani raggiunsero per il Meridione: un Meridione abbandonato a se
stesso, ancora prigioniero dell’impostazione feudale della società, immerso sino
al collo già allora nella corruzione pubblica e guidato dalla criminalità che
poteva già definirsi “organizzata”.
Nonostante queste difficoltà strutturali, un alito di ribellione un tentativo di
agganciarsi a realtà economico-sociali più avanzate, in Sicilia ci fu, trovando
ispirazione anche in quelle iniziative produttive ed economicamente attive che
nell’isola una importante componente anglosassone aveva già da tempo
avviato. A questo processo di sviluppo del movimento imprenditoriale, che
avrebbe avuto ripercussioni evidenti anche nel campo sociale e culturale, con
una ventata del tutto inconsueta di attività ludico-sportive, contribuirono in
maniera decisiva i Florio.
I Florio, una dinastia di imprenditori i cui iniziatori, Paolo e Ignazio, calabresi di
Bagnara, decisero un giorno sul finire del ‘700 di attraversare il Tirreno e
fermarsi a Palermo per dare una scossa alla propria attività che fino allora era
consistita nell’esportazione con una piccola flotta di feluche del legname
dell’Aspromonte e dell’olio locale.
Dopo un secolo, alla fine dell’800 il patrimonio dei Florio era una delle più
consistenti realtà economiche del nostro paese. Le loro imprese spaziavano
dall’agricoltura all’industria, e si estendevano in campo metalmeccanico,
chimico, manifatturiero, estrattivo, enologico, conserviero. L’attività di maggior
peso era però quella armatoriale: negli ultimi anni del secolo, grazie anche
all’accordo (1881) stipulato con l’armatore genovese Rubattino per la
costituzione della “Navigazione Generale Italiana”, la compagnia possedeva 105
navi che per tonnellaggio rappresentavano circa l’80% dell’intera flotta
nazionale.
Il vertice alto nell’ascesa del casato si avrà (1) con Ignazio, figlio di altro
Ignazio e Giovanna d’Ondes Trigona, a cui sono legate alcune fra le più grosse
iniziative imprenditoriali di quegli anni: i Cantieri Navali di Palermo, il quotidiano
“L’Ora”, la Ceramica Florio, il “Consorzio Agrario Siciliano”, la “Anglo Sicilian
Sulphour Company”, la costruzione di Villa Igiea e del Teatro Massimo. Anche le
istituzioni benefiche di maggior rilievo e tutte, o quasi, le attività culturali
palermitane nacquero dal mecenatismo dei Florio, e di Ignazio in particolare.
(2) Uno degli avvenimenti che ufficializzò l’avvio di questa nuova fase della vita
economica e sociale fu la IV Esposizione Nazionale Italiana, che Palermo ospitò
nel 1891 e ‘92, (3) i cui padiglioni progettati da Ernesto Basile, esponente del
liberty europeo, offrivano ampi spazi ovviamente ai prodotti delle industrie
siciliane. Nel padiglione dei Florio c’era di tutto, il vino Marsala, il cognac Florio
che presto si collocherà sul podio mondiale, l’archetipo delle famose tonnare di
Favignana, i prodotti della fonderia Oretea per la navigazione a vapore e per
altri rami dell’industria, in particolare quella di estrazione dello zolfo, sulla quale
i Florio erano anche direttamente coinvolti. Quello poi che organizzarono a
Palermo a latere all’esposizione lascia sbigottiti: la “corrida de toros” a Piazza
Vittoria, le ascensioni in mongolfiera, gare di tiro a segno, corse di cavalli alla
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Real Favorita, fuochi artificiali, concerti tsigani, balli in maschera, tornei di
scherma, corsi di fiori, gare tra bande musicali.
E i Reali d’Italia, Umberto I e Regina Margherita, che presenziarono alla
cerimonia di inaugurazione, e tutti gli esponenti del mondo anglossassone –gli
Ingham, i Whitaker, gli Hopps- che avevano già piantato stabilmente radici
nell’isola, e presenti all’Esposizione testimoniarono l’attenzione per il ruolo di
centralità e di convergenza di interessi economici cui la Sicilia aspirava, nella
speranza di un risveglio economico e industriale sempre vagheggiato.
Ed i Florio, antenne puntate anche verso quel che accadeva fuori dall’isola, non
vollero mancare tra l’altro -con un elegante padiglione- all’Esposizione
internazionale che Milano ospitò nel 1906.
Furono in tre, i Florio protagonisti assoluti di questo fermento mondanoturistico-sportivo: Ignazio l’ultimo condottiero dell’impero familiare, Vincenzo il
fratello minore, (4) i due legati sin da piccoli da un patto di fedeltà reciproca,
indissolubile e mantenuto anche avanti negli anni, (5) pure durante quelli tristi
che portarono al crollo di quell’impero, e Franca Jacona Florio moglie di Ignazio.
Devoto al fratello, zio premuroso dei piccoli pargoli di Ignazio e Franca,
Vincenzo non volle però proprio saperne di occuparsi degli affari di famiglia,
perché da giovane fu –per così dire- morso dalla tarantola delle organizzazioni
sportive. Darà vita alle più grandi manifestazioni del tempo, organizzatore e
praticante, (6) e proprio nella veste di promoter lo incontriamo il 6 Maggio del
1906 sul lungomare di Bonfornello, alle falde delle Madonie, in trepidante attesa
della nascita della sua “creatura”, proprio come un padre che aspetta il parto,
ma la creatura che sta per nascere è una corsa di automobili.
L’atto si consumò cinque anni prima, anche allora era il mese di Maggio,
quando lui ancora diciottenne alla guida di una vettura prestatagli dal principe
di Trabia cognato suo, partì per raggiungere le Madonie, per avere un primo
contatto con quelle montagne conosciute solo per sentito dire o in fotografia.
Con al suo fianco come guida per quella missione insolita e fascinosa l’amico
Francesco Orestano, una guida importante perché Orestano aveva fondato nel
1892, e ne era presidente, il Club Alpino Siciliano. Un club che godette da subito
di notevole fermento partecipativo, con moltissimi proseliti tra gli studiosi e i
naturalisti, come Minà Palumbo e Giuseppe Pitrè, famoso letterato e
antropologo e grande studioso di tradizioni popolari.
(7) La missione di Florio si dimostrò da subito ardua e difficoltosa per le strade
contorte pietrose polverose dove passavano solo muli e carretti, con la vettura
avvilita quasi prostrata per la fatica, ma quelle montagne avrebbero elargito
una quantità di approfondimenti di vita sociale ambientale e culturale del tutto
inattesa. (8) Subito, d’acchito la scoperta imprevista e penosa di una società
drammaticamente distante da quella ristretta porzione aristocratica briosa e
godereccia cui Don Vincenzo apparteneva, piccoli paesi tutti uguali, fotocopie
l’uno dell’altro, (9) con gli uomini per strada, uomini statici ancorati come
saldati alla strada, tutti per strada esseri umani fermi immobili nella loro povertà
e nella loro desolazione, (10) erano paesuzzi che un tempo il Signore depositò
così a casaccio, sperduti sulla montagna, Sclafani Geraci (11) Petralia Soprana,
e poi altrettanto imprevista, (12) la visione paradisiaca del territorio madonita,
un paradiso di (13) volpi e di donnole, di istrici e lepri, di martore ghiri conigli e
gatti selvatici, (14) di lecci sughere e abeti (15) la ginestra del Cupani (16)
l’agrifoglio gigante, la quercia monumentale di Bosco Pomieri, e i due
viaggiatori scoprirono infine una miniera di storia in quel territorio, (17) castelli
altezzosi di principi antichi, fortezze saracene di mille anni prima scavate nella
roccia, (18) e un’infinità di chiese e di conventi, con il loro prezioso contenuto di
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affreschi e dipinti, (19) spesso gravi e minacciosi come questo Giudizio
Universale opera dello “Zoppo di Gangi”.
(20) Il giovane Vincenzo tornò a casa intontito, inebriato dagli odori e dai colori
della montagna, sopraffatto dalla ricchezza dei valori dell’arte, ma tormentato
dalle tortuose e ammalianti strade delle Madonie.
Tre anni dopo -appena 21enne- ideò una corsa in salita, da Palermo a Monreale
normanna, e fu un grande successo, con piloti importanti arrivati da ovunque,
principi e conti e complimenti vivissimi, e sull’onda di quel successo pose in
cantiere altre iniziative, esplorando con lo stesso impegno altri terreni dello
sport, (21) come ad esempio il canottaggio, ove contribuì alla nascita del Circolo
Canottieri intitolato al grande ammiraglio Roggero di Lauria, che ebbe per
“iscopo di promuovere lo sviluppo e l’incremento dello Sport nautico in genere e
del Canottaggio in ispecie”. (22) Vogatori fieri e robusti dell’equipaggio
denominato “Per Cominciare”, in maglietta bianca accollata ma senza maniche
per esaltare la muscolatura delle braccia, (23) che riscossero grande plauso
ovunque fin nelle acque napoletane (aprile del 1903), il fratello Ignazio era
stato eletto presidente del Circolo, (24) e come apporto di presidenza aveva
messo a disposizione per la sede sociale un brigantino della sua flotta in disuso
ma ancora in ottime condizioni. Vincenzo si diede da fare anche nell’atletica,
(25) organizzando numerose sfide podistiche nel Parco della Favorita tra giovani
aristocratici, pure loro fasciati da questa caratteristica maglia a collo alto, e sugli
esiti di quelle sfide le scommesse fioccavano già allora.
Non si creda però che Vincenzo Florio restasse dall’alba al tramonto incollato
alla sua terra, viaggiava come un dannato alla ricerca di idee di eventi da
emulare di partner da contattare.
Così approdò a Padova e a Brescia, dove nel 1905 (lui era appena 22enne)
organizzò, sul modello della già affermata Coppa Gordon Bennet che di
disputava in Europa e dell’americana Coppa Vanderbilt, la prima “Coppa Florio”:
in terra lombarda.
Ma il pensiero delle tortuose strade delle Madonie riaffiorò, e da pensiero si
tramutò in tormento, allora un giorno chiamò il marchese Della Motta suo
intimo, e insieme riesplorarono metro per metro quelle strade strette polverose
sconnesse, e lui -da abile maitre couturier- appuntò misurò e rimisurò per
confezionare questo abito ribelle, questo disegno audace, questa corsa per
automobili di cui –lui sperava- si sarebbe parlato per molti e moltissimi anni, in
Sicilia in Italia e pure in Europa.
Deciso a concludere presto e bene, un giorno s’imbarcò per Parigi, dove i Florio
erano di casa, e volle incontrare Henry Desgrange, direttore de “L’Auto” e
ideatore del Tour, lo invitò a cena e gli espose il suo piano (26) “da Bonfornello
partiamo, per Cerda, e poi fino a Petralia Sottana saliamo saliamo, e poi
scendiamo, Geraci Castelbuono Isnello Collesano, e a Bonfornello torniamo”, e il
direttore dopo un attimo di smarrimento disse “mais oui, très bien…”, e anche i
redattori del giornale Faroux e Le Fevre ed il famoso esperto fotografo di sport
Meurisse tutti approvarono entusiasti, e poi ne parlò pure ad Etienne Giraud,
uno che organizzava corse in patria e spedizioni automobilistiche nel Sahara
algerino, e quello disse “oui oui, c’est un’idée merveilleuse…” ma in cuor suo
temeva l’ardore dell’imprenditore siculo, lo spavaldo che poteva portare
“beaucoup de problèmes à nos affaires”, un intralcio imprevisto alle sue
organizzazioni.
E allora dalla parte francese cominciarono i “se” ed i “ma”, ma Don Vincenzo
che ignorava le dubitative suonò la tromba dell’adunata per tutti i sindaci del
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territorio, scrisse lettere di invito, esortò sollecitò lusingò, e la contesa infine si
accomodò, la gestazione era ormai conclusa, pochi giorni ancora e il grande
sogno diventava realtà, ma d’improvviso i portuali di Marsiglia entrarono in
sciopero, e a loro si affiancarono quelli di Genova, un guaio tremendo, diverse
macchine tristi restarono ferme sul molo e lui seguì con angoscia quella
vicenda, angosciato ma non rassegnato, rincuorato infine quando gli dissero
che quattro vetture erano sbarcate a Palermo, (27) quattro vetture che
sommate alle sei di marca italiana facevano dieci, pazienza, è la prima edizione,
l’importante è partire …
Gli attimi che precedono la partenza offrono uno scenario multiforme. L’umanità
lì convenuta rappresenta diversi ceti della società palermitana e trasmette una
peculiarità della “Primavera Siciliana”: aristocrazia e gente qualunque
accomunate in un unico momento sportivo, in un’unica speranza di successo.
(28) La potente aristocrazia, con le eleganti signore che colgono la chance di un
evento motoristico di cui probabilmente non sanno e capiscono molto, per
esibire i vestiti e i gioielli ordinati a Londra e Parigi, (29) e immerse nel loro
cinguettio insopportabile tra cappelli e piumaggi, mariti ed amanti, ventagli e
ombrellini, e un inchino di qua e un baciamani di là, si miscela perfettamente
con la gente comune che quel giorno in massa è uscita di casa al canto del
gallo per vedere la Targa, affollando i treni speciali predisposti dai Florio, (30)
prezzo politico fino al bivio di Cerda per rispetto a Florio Vincenzo e ad Ignazio
fratello maggiore. Rispetto e stima che quella gente porterà sempre ai Florio,
senza titubanze e interruzioni, perché percepita quella famiglia non come entità
distaccata e separata da loro, ma come punto di riferimento certo e
insostituibile per tutti. Come scrisse nel 1909 un cronista de L’Illustrazione
Italiana “le famiglie più ricche, più stimate di Milano, di Firenze o di Genova non
sono ancora, non sono affatto, quello che è casa Florio per la Sicilia… Fra l’isola
e il casato c’è un’intima connessione e il casato è certo l’ente più
rappresentativo dell’isola. Per rinvenire qualcosa di simile occorre risalire al
mondo romano….. come la casa gentilizia romana Casa Florio è aperta a
tutti…Chi ha bisogno di un aiuto, di un patronato, chi ha un’idea da lanciare o
un disegno da effettuare, prende la via dell’Olivuzza, batte alla porta di Casa
Florio”.
Quando tutti aspettavano il momento cruciale, cioè il colpo di cannone che
comunicasse “si parte”, quel “bum” potente che significava via libera al gas alla
perizia all’audacia, che era anche il colpo di cannone dell’orgoglio siculo,
l’orgoglio di una terra affamata, il colpo della rinascita, (31) l’automobile la
velocità il futuro passavano da lì, per quella terra, un pedaggio obbligato, alla
fine anche loro les énfants de la patrie si erano ravveduti, avevano riconosciuto
a Vincenzo Florio beacoup de qualités, organizzatore ottimo come il loro
paesano Giraud, (32) quando tutti aspettavano quel colpo arrivò Donna Franca,
ed arrivò come al solito, alta ed altera, disinvolta e solenne, elegante e sportiva,
(33) qualcuno disse “è Afrodite che esce dal mare”, e dal quel momento
nessuno più guardò i piloti e le macchine in gara, nessuno più disse per me
vince Tizio per me vince Caio, e dell’orgoglio della terra sicula ne parliamo più
avanti, (34) mentre lei, accomodatasi in tribuna, dopo aver salutato con
misurati gesti e sorrisi sudditi e forestieri, annunciò “Signore e signori …
mesdames et monsieurs … on peut partir”.
(35) E il cannone sparò, e la Fiat di Lancia partì forsennata. La prima Targa di
Florio era cominciata.
Motori per le strade e motori anche sull’acqua. Il mare affascinava Florio e i
motori lo esaltavano, allora Don Vincenzo ideò un’altra corsa e la chiamò “la
Perla del Mediterraneo”, (36) una gara sull’acqua di canotti-automobile,
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antesignani degli attuali off-shore. Nell’aprile del 1907 il piroscafo Stura,
noleggiato dal “Comitato Feste e Riunioni Sportive” sbarcò nel porto di Palermo
proprietari corridori e meccanici imbarcati a Nizza con i rispettivi bolidi che
furono impegnati su di un circuito nautico di 10 chilometri da ripetere 10 volte.
La gente era attonita per lo spettacolo, i nobili sulle terrazze di Villa Igiea, la
gente qualunque sulla spiaggia dell’Acquasanta, gli occhi di tutti -di questi e di
quelli- erano puntati sul golfo, alla ricerca di Flying Fish il pesce volante, e degli
altri scafi assordanti che fendevano l’acqua tra spruzzi di schiuma festante.
Dotato di un’energia inesauribile, (37) nello stesso anno Florio fu pure
impegnato per il secondo appuntamento della “Coppa Florio” a Brescia, (38) e
nella seconda edizione della “Targa” per le strade delle Madonie, nella sfida
all’inglese Wonwiller in una gara aerea da svolgersi nell’aerodromo di Palermo,
nella costruzione di un impianto di tiro a volo e nell’inaugurazione
dell’autodromo Florio al Parco della Favorita, autodromo sulla cui pista due anni
più tardi si concluderà la prima maratona di Palermo vinta dallo specialista
Giovanni Blanchet.
(39) Franca Florio era una donna di una bellezza unica ed esclusiva, dai
magnifici grandi occhi verdi-dai magnifici soffici capelli neri-dalla magnifica pelle
color dell’ambra, (40) e aveva un portamento regale consentito da misure fuori
dell’ordinario tale da far esplodere d’invidia le più belle e raffinate esponenti
dell’aristocrazia e da far rincretinire gli esponenti del sesso forte, aristocratici e
plebei. Si diceva che con lei tra le aspiranti, Paride avrebbe avuto i suoi
problemi.
Il corteggiamento che Ignazio Florio, stordito da una tale beltà, le riservò fu
lungo e complicato, condito di reciproci appassionati messaggi “mio caro non
vedo l’ora...” “Francuzza cara, tesoro orgoglio e amore mio ...”, perchè il barone
Pietro Jacona di San Giuliano non ne voleva proprio sapere di concedere la
mano della figliola ad un qualunque Florio, oltretutto a detta dei più incapace di
resistere alle debolezze della carne, (41) un Giacomo Casanova in versione
sicula di fine ‘800, e solamente dopo la paziente intercessione della moglie il
barone cedette e i due (11/2/1893) convolarono a giuste nozze. In Toscana,
mai a Palermo.
La storia dell’unione di Franca Jacona di San Giuliano e Ignazio Florio è una
storia di gioie e di dolori, (42) è storia di mondanità smaccata e di buone azioni
quotidiane “… novella Beatrice ama lasciare le sfarzose sale del suo palazzo per
andare nei tuguri umidi e muffaticci, ove geme la fame, e quivi porta pane e
quivi porta vesti da opporsi al rigido inverno …”, è storia di balli cotillons e feste
di beneficenza, lei è patronessa dell’Istituto dei Ciechi, e di cose così ne
organizza un po’ ovunque, all’Hotel Excelsior, a Villa Igiea (43) e al Teatro
Politeama Garibaldi. Dove furoreggiano i veglioni in maschera, con la
“Primavera Siciliana” che ha il suo apice nella “festa del Ramadan”: (44) il
teatro è un grande paesaggio arabo con sullo sfondo il deserto, c’è una corte
moresca, circondata da tende, e dromedari e cammelli passano in mezzo al
pubblico, tra suonatori di strumenti caratteristici e danzatrici del ventre; è una
storia di teatri di grande musica e di grandi compositori: (45) al Politeama c’è
Giacomo Puccini per la “Manon Lescaut” e Franca Florio nel suo palco al centro
della sala ascolta in trance, e qualche ora dopo a Palazzo Butera scintillante di
luci affreschi e cristalli, tra camerieri in livrea, champagne e dolcetti alla crema
di pistacchio, competente discute con il musicista di soprani e tenori, di flauti
archi e fagotti.
Al Politeama Garibaldi, inaugurato nel 1891 con la Norma diretta da Arturo
Toscanini, si esplicò pure la verve organizzativa e in parte trasgressiva di
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Vincenzo Florio. Il quale, all’interno di quel teatro ove si respirava l’aria più pura
della lirica, e si ospitavano mostre di pittura e scultura di artisti famosi, volle
portare un’altra forma di arte, la “noble art”, cioè la boxe. E a chi lo contestò
perché usava un luogo sacro della musica per iniziative sportive, Florio replicò
che “la boxe è un’arte antica e merita i grandi palcoscenici”.
(46) La storia di Franca Florio è una storia di brillanti, di zaffiri, di lunghissime
collane di perle, (47) è una storia di ritratti di artisti famosi, Giovanni Boldini su
tutti, amico di Degas e di Toulouse Lautrec.
Ma è anche storia di drammi familiari, (48) come l’addio straziante ai due
pargoli, Giovannuzza e (49) Baby Boy morti in tenerissima età e alla
giovanissima moglie di Vincenzo, Annina Alliata di Montereale, bella e amata da
tutti, che il colera si porta via tra la disperazione generale.
E’ storia di ammiratori e spasimanti della bella Franca, una sfilza infinita di
principi e poeti e pure cognati, è storia di brevi trasporti amorosi di Ignazio, per
Bice Lampedusa duchessa di Palma, per la contessa Anna Morosini dagli occhi
verdi e dai capelli color del rame, (50) per Lina Cavalieri soprano famosa e
donna bellissima e sensuale, definita da D’Annunzio “la massima testimonianza
di Venere in Terra”.
Ma è pure storia di tradimenti, seri e prolungati: con la contessa Vera
Papadopoli veneziana, e di duelli conseguenti perché il conte Gilberto
Arrivabene suo amico carissimo ha scoperto la tresca e gli lancia il guanto di
sfida, e l’indomani alle 6 del mattino a Villa Panzani vicino Porta Pia scintillano le
lame, e il sangue scorre, (51) ma Florio si è allenato con il supremo Agesilao
Greco, le ferite non si contano, poi grazie al cielo intervengono i padrini e
rimandano tutti a casa.
Il richiamo ad Agesilao Greco è l’appiglio giusto per rimarcare il posto di prima
fila che toccò alla scherma nel panorama sportivo della belle époque siciliana.
Agesilao, dal greco “Aghesìlaos” (cioè capo del popolo) era figlio di Salvatore
Greco dei Chiaramente, un marchese di Mineo ex garibaldino che era stato il
leader massimo del movimento rivoluzionario nell’isola, sempre a fianco di
Garibaldi a Messina, in Aspromonte e sul Volturno. E il marchese Greco, oltre
che combattere di pugnale e sciabola, era maestro di scherma ed avvierà a
Roma (1878) una sala d’armi che in seguito diventerà la celebre Accademia di
scherma Greco di Via del Seminario.
Agesilao era snello, di media statura, (52) e possedeva una straordinaria forza
fisica. Ogni giorno svolgeva sedute di allenamento massacranti. (53) Aveva
grande capacità di concentrazione, ed era in grado di sviluppare azioni potenti
improvvise e velocissime partendo dalla più assoluta immobilità. Qualità che
portarono Jacopo Gelli, tra i massimi studiosi della scherma italiana, ad
affermare che in Greco “figlio della gloriosa terra dei Vesperi, si rispecchia tutta
l’esuberanza di quella terra vigorosa, tutto il fuoco dell’Etna, tutta la passionalità
di un carattere assolutamente meridionale”.
All’età di 21 anni, a Firenze, riportò successi sia nella sciabola che nella spada, e
da allora fino al 1934, da Roma a Milano, da Parigi a Londra a Bruxelles, da
New York a Chicago a Buenos Aires, sarà un susseguirsi ininterrotto di trionfi.
E la storia dei Greco e della scherma in Sicilia si intreccia con quella dei Florio.
(54) Perché dell’accademia che lo spagnolo Figueroa inaugurerà il 21 Dicembre
del 1899 in Via Rivoluzione facevano parte pure, soci e frequentatori fedeli, e
non sarebbe potuto essere altrimenti, Ignazio e Vincenzo Florio. E vera
rivoluzione fu in città, con la nobiltà e gli uomini d’affari che cominciarono a
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frequentare con assiduità le eleganti sale dell’accademia, dove pure si
leggevano e si studiavano i trattati dei grandi saggisti di scherma, da Morsicato
Pallavicini, a Blasco Florio, ai San Malato.
E’ importante soffermarsi un attimo sull’immagine dell’accademia, per
presentare seduto primo da sinistra Pietro Speciale, citazione d’obbligo, perché
si tratta del primo atleta che conquisterà per la Sicilia una medaglia olimpica tra
tutte le discipline, e quella medaglia d’argento, (55) nel fioretto individuale ai
Giochi di Stoccolma del 1912, ne richiama un’altra di metallo più nobile, che
sarebbe stata appannaggio del più grande schermidore d’Italia d’ogni tempo,
Nedo Nadi, l’atleta livornese che resterà l’unico capace di vincere la medaglia
d’oro nelle tre armi nella stessa Olimpiade.
Tornando ai coniugi Florio, la loro è pure storia di conoscenze e relazioni “reali”:
con Edoardo VII d’Inghilterra e regina Alessandra, con i sovrani d’Italia in visita
per l’Esposizione Agricola Siciliana, (56) con Gugliemo II° e signora imperatrice
Augusta Vittoria per un thè alla Villa all’Olivuzza con Franca che predispone il
tutto con grande maestria, torte e pasticcini “e non dimentichiamo la nostra
cassata” raccomanda al cuoco, ornamenti floreali e ornamenti personali, questi
scelti dopo attenta riflessione, perché il Kaiser lo sappiamo è sensibile
all’attrazione femminile.
E’ anche storia di frequentazioni di letterati illustri, Matilde Serao, Robert de
Montesquiou, (57) e su tutti il Vate, Gabriele D’Annunzio, (58) che Ignazio
lusinga e sprona a che possa “con una tua novella di tanto in tanto” dare
impulso al quotidiano l’ “L’Ora” di recente fondazione; e lui, il Vate, legato alla
Duse, prima ci prova con Franca, Lei scherza e sorride alle avances, ma Lei
sempre fedele resta al patto col marito … l’onore innanzitutto … e il Vate
capisce mette un freno agli ardori e avvia con Lei un rapporto sincero fatto di
lettere di inviti di piccoli omaggi …
E’ storia di un erede maschio tanto voluto e mai arrivato, di Giacobina nata due
mesi prima del dovuto e spirata qualche ora dopo la nascita, e della
convalescenza di Franca a Favignana, nell’isola dei tonni, un relax ideale tra
pescatori contadini e donne che ti portano il latte appena munto, la frutta
appena colta dall’albero, il dolce appena uscito dal forno.
(59) E’ storia di incontri con la grande finanza del mondo, Rotschild e Vanderbilt
e Morgan, è storia di crociere nel Mediterraneo a bordo dei magnifici yachts di
famiglia, “Sultana Aegusa Walkyria Queen”, viaggi di piacere e cultura, Corfù
Atene Costantinopoli Tunisi monumenti musei chiese moschee la casbah …
E’ storia del varo di sontuose navi passeggeri, dal Caprera all’Europa (60) al
Giulio Cesare, il più grande transatlantico dell’epoca, costruito dalla Navigazione
Generale Italiana di Ignazio e Vincenzo Florio e Raffaele Rubattino di Genova.
Un vero gioiello della marina italiana, con splendidi salotti in stile e soffitti
affrescati, (61) sale da pranzo con volte a cassettoni in legno, appartamenti di
lusso, sale da ballo, da thè, biblioteca e cinematografo.
E’ storia di gioielli visoni cappelli carrozze teatri inchini lutti pianti tradimenti e
perdono, (62) è una storia in cui “la regina di Palermo” è incensata e rispettata
da tutti, ma lo è soprattutto perché è la moglie del re Ignazio, ed ella si muove
ed agisce secondo le aspettative di lui, interpreta i pensieri e i desideri di lui,
perché è lui in fin dei conti che così l’ha plasmata, è lui che così l’ha voluta,
elegantissima raffinata eccessiva sempre al centro delle attenzioni di tutti,
obiettivo ideale di sguardi e commenti, indispensabile alla sua vita di relazione,
e Lei recita la parte nella maniera migliore Lei è la moglie dell’imprenditore
brillante, Lei è bella elegante raffinata altera spigliata autoritaria ma pur sempre
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moglie è, pur sempre accessorio è, prezioso quanto si vuole ma accessorio,
oggetto pregiato da esibire da mostrare “eccellenza, Le presento mia moglie
Franca …”.
A questa storia se ne sovrappone però un’altra, ed è la storia di Donna Franca
la sportiva, supporto strategico e insostituibile del cognato Vincenzo. Di quel
Florio, che pur nel rispetto del giuramento di fedeltà eterna prestato da subito
ad Ignazio fratello maggiore, ambisce comunque ad un ruolo pieno e autonomo
nella vita della famiglia, (63) e quel ruolo lo trova in territorio ideale per le sue
mire e passioni fatto di sport e turismo, che è terreno nuovo terreno vergine da
esplorare zolla per zolla, per la Sicilia e forse anche per l’Italia intera. Per Donna
Franca questa seconda storia è una storia certo più consona alle sue
prerogative, pregna di momenti di grande libertà e di grandi passioni.
Prima tra tutte quella per i cavalli. (64) Se vi sono cavalli, sei certo di trovarla.
Lei è in tribuna, come sempre toilette impeccabile appropriata all’evento,
binocolo a portata di mano, competenza e trasporto per il galoppo dei
purosangue a Wellington, a Tor di Quinto, alle Capannelle, ai Parioli.
Oppure la trovi a Palermo, nell’immenso e rigoglioso parco di Villa Niscemi, Lei
passeggia al fianco del marchese della Cerda, il marchese è un vulcano di idee,
ha fondato la Società per la caccia alla volpe, Lei volpe o non volpe con i cavalli
va in estasi e nella primavera (21/4) del 1900 (65) escogita una cosa in grande
prima mai vista, un torneo equestre con sapore di rinascimento, e alla Favorita
accorrono tutti gli aristocratici cavalieri di Palermo, eleganti cavalieri su eleganti
destrieri, ma ciò che più conta è che (*) lei ha invitato pure il capitano Caprilli, il
livornese Federico Caprilli, non uno qualunque cioè, (66) ma il grande cavaliere
che fa scuola ai cavalieri di mezz’Europa, (67) che fa saltare gli ostacoli al
cavallo in un modo nuovo e diverso, lo addestra e lo ammalia con un sorriso e
con un sussurro …
Tutti cavalieri erano a quel tempo in Sicilia, cavalieri veri e cavalieri di facciata,
tra i quali il cavalier Spadafora di Policastrello, certamente meno abile in groppa
ma fortemente impegnato nella promozione dello sport. Raccolse una
cinquantina di soci e fondò lo Sport Club (V.Mariano Stabile), con l’obiettivo di
incentivare tutte le discipline, ed affidò a Donna Franca la presidenza del club.
(68) All’inizio del ‘900 i giochi sportivi inventati in Inghilterra trovarono terreno
fertile a Palermo, grazie anche all’impegno profuso degli esponenti importanti
della comunità britannica nel capoluogo siciliano. Così fu per il lawn tennis, che
trovò in Eufrosyne Manuel Whitaker, la moglie maltese di Joss Whitaker (uno
dei numerosi componenti di questa famiglia di imprenditori originari del West
Yorkshire e trapiantatasi a Palermo agli inizi dell’800), una grande estimatrice e
promotrice della disciplina. La signora, donna eccentrica ed affascinante, meglio
conosciuta come la “Whitaker col pappagallo” per via di un loquace e variopinto
volatile che era solita portarsi dietro appollaiato su una spalla, adorava il lawn
tennis lo praticava e lo faceva praticare nei tre campi di Villa Sperlinga,
denominati l’Inferno il Purgatorio e il Paradiso. Erano momenti di spasso e di
nuove emozioni, (69) ma quando arrivò a Palermo sua ospite Charlotte Cooper
grande campionessa vincitrice già 3 volte a Wimbledon e ai Giochi Olimpici di
Parigi (70) furono pure momenti di alta didattica e cultura tennistica, con la
campionessa che oltre a giocare dirigeva pure gli incontri e distribuiva consigli
ai provetti tennisti palermitani. Tra questi provetti c’era pure Donna Franca, che
già da qualche anno aveva trovato nel duca d’Orleans il compagno ideale per gli
incontri di doppio.
E a proposito di inglesi, gli inventori del football non potevano certo trascurare
Palermo. Edward De Garston e Norman Olsen, rispettivamente viceconsole e
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segretario di S.M. britannica accolsero con entusiasmo la proposta di Ignazio
Majo Pagano, un giovane di buona famiglia che era stato spedito dai genitori a
Londra per apprendere la lingua inglese ed era tornato invece con la testa
obnubilata dal football, (71) proposta di costituire l’ ”Anglo-Palermitan Athletic
and Football Club”. Era il 1° novembre del 1900 e (72) della prima formazione
fecero parte proprio i due britannici e Sir George Edward Samuel Blake, ufficiale
della marina del Regno Unito, già co-fondatore del Genoa, primo allenatore,
primo portiere, poi segretario, che giocò nel Palermo sino ad età avanzata. Fu
lui ad invogliare l’irlandese Sir Thomas Lipton, il magnate del thè (73) ad
investire nel calcio e in genere negli intrattenimenti sportivi palermitani le sue
ingenti risorse finanziarie. A Palermo Lipton strinse molte amicizie, tra cui quella
con Ignazio Florio cui lo legava la comune passione per le grandi barche a vela,
(74) come Aegusa lo yacht di 86 metri che Sir Thomas comprò proprio da
Florio, (75) o come il leggendario Shamrock con cui partecipava alle regate
dell’America’s Cup di un tempo. Lipton destinò somme ingenti alla promozione
dello sport a Palermo, il tennis a Villa Sperlinga ma soprattutto il football, (76)
lanciando nel 1909 la Coppa Lipton, importante torneo cui parteciparono tutte
le più forti squadre del mezzogiorno, tra cui il Naples -che pure finanziò- e che
sarà la più accanita antagonista del (77) Palermo Fbc per l’aggiudicazione finale
(1915) del trofeo d’argento.
(78) Oltre che mecenate dello sport, Lipton fu anche molto sensibile ai problemi
della società e delle classi disagiate in particolare. (79) Rispose all’appello del
Principe di Galles donando 25.000 sterline per la povera gente di Londra, (80)
durante la prima guerra mondiale allestì sul suo yacht Erin (che era l’Aegusa
acquistato da Florio) un ospedale della Croce Rossa e trasportò un intero
ospedale da campo in Francia, e poi chirurghi e personale medico in Serbia che
si trovava sotto l’attacco dell’esercito astroungarico. (81) E per testamento donò
tutta la cospicua eredità alla sua città natale affinché i proventi fossero
distribuiti alle mamme dei ceti poveri e ai loro figli.
Le barche dei Florio e di Lipton richiamano ancora il mare, le regate e le attività
velistiche. Già prima della fondazione del Circolo Roggero di Lauria (82) le
competizioni di canottaggio erano ben conosciute ed apprezzate a Palermo, che
nel 1892 in occasione dell’Esposizione Nazionale ospitò le regate internazionali,
alle quali i club cittadini iscrissero due equipaggi “Biddicchia” e “Santuzza”.
Mentre Walkyria, yacht stupendo dei Florio, mieteva successi alle regate
internazionali di Nizza, anche le imbarcazioni a vela avevano cominciato
timidamente ad affacciarsi nelle acque del porto. (83) Il canottaggio però
faceva sempre più proseliti ed era sempre più attivo nelle organizzazioni, come
questa Coppa Florio di regate nazionali a Villa Igiea del 1910, (84) e nel 1912
dovette trovarsi una sede più ampia e meno fluttuante del brigantino dei Florio
e si accasò alla Cala, un approdo nel porto di Palermo, accanto ad una famosa
pescheria.
Vincenzo Florio non aveva ancora conosciuto le Madonie, le sue montagne,
quando ancora 17enne conosceva invece già bene il mare. La “rivoluzione
balneare”, un mutamento profondo nei comportamenti delle persone (85) che
avrebbe portato tutti, uomini e donne, a sguazzare sereni nelle acque della
costa di Sferracavallo, aveva anche favorito la diffusione dell’agonismo marino,
e nell’elegante specchio della spiaggia dell’Acquasanta si disputò pure il primo
campionato provinciale di nuoto, con Vincenzino che ne fu protagonista
assoluto sfiorando il successo nelle 100 yards a rana.
(86) Tutto preso dalla smania di provare emozioni nuove tipiche dei suoi 17
anni, si presentò un giorno alla cognata Franca montando un veicolo con due
ruote e pedali cui i francesi avevano dato il nome di “velocipède”, un mezzo
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semplice e geometrico realizzato in acciaio cromato dal fabbro Ernest Michaux
(che sarà tra l’altro l’inventore del pedale). La vecchia draisina del barone
tedesco Von Drais era andata in pensione. Franca al volo colse l’occasione e con
altre fidate compagne avviò un’accanita promozione dell’uso della bicicletta in
città. (87) Fu in questo modo che prese il via il movimento delle donne cicliste
palermitane. E grazie a Vittorio Coen, un milanese trapiantato a Palermo da
trent’anni, ove gestiva il Grande Emporio Americano, e che rimase stregato da
una manifestazione ciclistica su pista nel parco di Saint-Cloud nei pressi di
Parigi, (88) anche Palermo avrà il suo velodromo, con una pista di 400 metri e
una grande tribuna coperta per corse nazionali e internazionali. E al velodromo
dei fratelli Coen Franca Florio organizzerà una competizione ufficiale femminile,
due giri di pista, e Lei vi parteciperà pure, con Effie Whitaker che non poteva
mancare, ed altre otto scalmanate dell’aristocrazia palermitana.
Ma con l’arrivo del XX secolo il ciclismo su pista entrò in crisi ed il Veloce Club
Trinacria con il velodromo dovettero chiudere i battenti. Si diffusero tanto
invece le corse su strada. Nel 1902 in Sicilia circolavano oltre 10.000 biciclette e
nel 1908 Vincenzo Florio, sul modello della manifestazione automobilistica da lui
ideata, volle lanciare il primo “Giro Ciclistico di Sicilia” con la partecipazione dei
più forti corridori italiani e francesi. Bici e turismo a braccetto per il rilancio della
regione. Un prologo sul Circuito delle Madonie e sei tappe, interessando tutte le
principali città dell’isola. Ma già da quel prologo si capì che dei partenti solo in
pochi avrebbero concluso il giro. Il colpevole fu presto individuato: le strade
siciliane, sconnesse e pericolose. Infatti, al termine della seconda tappa, la
Messina-Siracusa il francese Alavoine, uno dei favoriti che aveva vinto con forte
distacco, fu colto la sera da forti dolori alle gambe e decise di ritirarsi insieme a
tutta l’équipe francese “pasque ce tour est massacrant, les routes sont trop
dangereuses”. (89) Vincerà il milanese Galetti, che negli anni successivi farà un
figurone al Giro d’Italia.
(90) Ma proprio in quello stesso anno, era il 1908, a Messina tremò la terra e fu
una tragedia di proporzioni immense, la città dello Stretto era solo un ammasso
confuso di pietre e di corpi, servivano aiuti occorrevano fondi per i pochi rimasti
in vita, per i profughi, per i parenti dei morti, per i piccoli riemersi senza
mamma e senza papà. Per i Florio fu come una chiamata alle armi, non ci
pensarono su più di qualche minuto, partirono subito per quell’emergenza,
portarono medicine cibo coperte e indumenti, imbarcarono i profughi sulle loro
navi, Franca curò i feriti e diede loro da mangiare, poi rientrati a Palermo
Vincenzo con Franca organizzarono un grande torneo di scherma al Teatro
Massimo per raccogliere fondi, e risposero tutti presente, tutti i più forti della
Sicilia, spade e sciabole affermate eredi di grandi maestri, (91) Benfratello
Alaimo Vega e Pietro Speciale medaglia d’argento a Stoccolma e altri altri
ancora si ritrovarono per la benefica iniziativa.
(92) Quando il colpo di cannone diede il via libera alla 1^ edizione della Targa
Florio Vincenzo Lancia su Fiat partì come un forsennato. Per il pilota quel colpo
fu la riconquista dell’agognata libertà personale, che era libertà di pensiero e di
azione, era libertà di urlare bestemmiare irridere pentirsi pregare, libertà di
guidare secondo un istinto primordiale o come Dio comanda, libertà di
accellerare frenare incalzare di creare delirio o sgomento tra gli spettatori, di
pigiare al massimo il pedale e fondere il motore, “basta ora”, pensava tra sè
Lancia un attimo prima del via, “con tutti questi salamelecchi conte Tizio di qua
marchese Caio di là, io sono Lancia Vincenzo di Vercelli e guido le automobili
della casa Fiat come pilota collaudatore e devo riferire al dottor Agnelli sulle
capacità di resistenza della macchina che mi è stata affidata, quindi ora che
finalmente il cannone ha tuonato” pensava tra sè Lancia un attimo dopo il via
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(93) “io mi scateno per i tornanti in salita verso Cerda e Caltavuturo, e superato
Geraci mi scapicollo lungo la discesa che mi porta a Castelbuono, e sul rettilineo
di Bonfornello gas al massimo perchè sarò il primo pilota a passare e voglio
assolutamente lasciare una bella impressione agli spettatori e alle eleganti e
belle signore in tribuna”.
Ma Lancia partì davvero con foga esagerata per una corsa che già si sapeva
sarebbe durata all’incirca dieci ore, ora più ora meno. E dopo appena due ore di
corsa aveva già bucato due volte, poi nei pressi di Isnello annientò una pecora
sfuggita al pastore, finì fuori strada, non si sa come riuscì a ripartire ma il
serbatoio ne uscì danneggiato e la benzina cominciò a colarne fuori, alla fine del
secondo giro ruppe due cilindri e collerico scese dalla vettura, comunicò ai
commissari il ritiro, e buonanotte collaudo e addio vittoria ed ora pensiamo a
cosa dire al dottor Agnelli.
(94) Come molti piloti forse anche il francese Hubert Le Blon aveva in passato
corso con la foto della moglie sul cruscotto … “pense à moi … Hubert…” e lui la
guardava in foto e la pensava ma poi pensò che così si distraeva e si
immalinconiva troppo (95) e allora decise di sostituire la foto con la signora Le
Blon in carne ed ossa. Si presentarono così i coniugi, la signora con funzioni di
navigatore e calmieratore dell’ardimento del marito. (96) La macchina filava
come un treno nelle prime posizioni, ma a metà del percorso incappò in una
serie incredibile di forature e madame Le Blon non potè far altro che consolare
il barbuto marito “patience, mon cher”, accumularono un pesantissimo ritardo,
e fu per rispetto alla signora e per la curiosità di vedere una madama in vettura,
che al traguardo trovarono ancora tutti ad attenderli e festeggiarli, due ore e
mezza dopo il primo, Marley il cronometrista ufficiale i giornalisti e le eleganti
signore che vedevano nell’intraprendente madama francese la stella cometa
dell’emancipazione femminile, tutti comunque già proiettati al solenne atto
finale al Grand Hotel delle Terme, buffet e premiazioni. Abito da sera.
Alessandro Cagno era uno che di odissee in automobile se ne intendeva, uno
che nel corso della sua vivace esistenza avrebbe trascinato con maestria e
pazienza un autocarro della proprietà Agnelli da Torino a Mosca attraverso
l’Europa centrale tutta e in parte pure quella orientale, valicando Alpi e Carpazi,
per issare infine nella Piazza Rossa il vessillo della Federazione Italiana
Automobili Torino. Uno che alle salite delle Madonie fece presto il callo, (97)
uno che l’anno prima aveva scalato il terribile Mont Ventoux nel Massiccio
Centrale, la montagna che più si sale più si spelacchia, fino al suo culmine dove
trovi solo polvere, polvere e angoscia, una superficie grigia, un’atmosfera
lunare, niente abitanti niente tifosi niente vita. (98) Anche per le strade delle
Madonie la polvere spadroneggiava, ma era polvere diversa, non grigia ma
bianca, non addolorata ma briosa, polvere viva luminosa raggiante ardente
bramosa di farsi violare da carri rumorosi veloci moderni, era polvere antica ma
al passo coi tempi.
(99) Fortuna e abilità per Cagno, esperienza e destrezza, andatura regolare
dall’inizio alla fine, e le curve finali da trionfatore, dopo 9 ore e 32 minuti, (100)
preceduto da un altro colpo di cannone, con le prime vedette della massa che
dai campi e dalle piccole alture vicine tutto ignorando e tutto travolgendo si
riversava ai bordi della strada mescolata di gioia e di polvere, (101) e l’altra
massa che un minuto prima si ingozzava felice al ristorante di Florio, (102) ora
sul rettilineo d’arrivo -ancora per poco ordinata e flemmatica- aspettava
fremente un messaggio un annuncio un’apparizione. Quella massa accompagnò
il vincitore sin dalle ultime curve con la forza dell’immaginazione, (103) poi lo
identificò “è il numero 3, è Cagno su Itala!” e fu un passa parola più veloce
della sua pur velocissima vettura, e la massa lo riconobbe pur sommerso dalla
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polvere e lo salutò lo omaggiò lo osannò, e la massa non si dissolse affatto
dopo l’arrivo di Cagno, restò imperterrita e ansiosa per tutti gli altri arrivi,
pacche sulle spalle a tutti, congratulazioni a tutti, sopratutto ai piloti sfortunati e
ai ritirati, (104) e incontrato infine Don Vincenzo Florio ancora trepidante per la
tensione e l’ebbrezza degli avvenimenti lo rassicurò e lo incitò (105) “forza
cavaliere, era la prima edizione, l’importante era partire…”
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LA MARATONA DI LONDRA DEL 1908
DOTT. ENZO PENNONE
(*) Il titolo che si è dato a questo intervento “Londra 1908, la prima vera
Olimpiade dell’era moderna” non afferma una verità assoluta, perché a parere
di molti storici questo fregio “la prima vera Olimpiade” può essere conteso tra
Londra appunto ed Atene. Non tanto per la prima edizione dei Giochi, quelli del
1896, un’edizione sofferta essendo la prima del nuovo corso, quanto per quella
del 1906, dei cosiddetti “Giochi intermedi” -Giochi mai riconosciuti ufficialmente
dal Comitato Internazionale Olimpico- che i greci vollero fermamente per
celebrare il decennale della 1^ edizione, e che si rivelarono un vero successo
organizzativo con grande beneficio per il movimento olimpico.
Di certo invece di “vera olimpiade” non si potè parlare nei riguardi né dei Giochi
di Parigi del 1900 né di quelli di St.Louis del 1904.
A Parigi gli organizzatori, che non avevano ben capito cosa il barone e gli altri
promotori della rinascita olimpica intendessero per Olimpiadi, (*) inglobarono le
gare nel grande evento dell’Esposizione Universale. Padiglioni e prove sportive
mescolati allegramente e fraternamente, con De Coubertin seriamente
preoccupato. Un numero enorme di gare, legate alle sezioni della Fiera, (*)
gare spesso bizzarre come questa arrampicata su scale o come quella (*) dei
200 ostacoli nel nuoto, dove c’era un po’ di tutto inerpicarsi su un palo, ponti di
barche da scavalcare, nuoto subacqueo sotto file di imbarcazioni, punti
assegnati per ogni metro nuotato e per ogni secondo trascorso sott’acqua, il
tutto nelle fredde e inquinate acque della Senna, tanto per intenderci un po’
come “les jeux sans frontières” dei nostri anni ‘70. (*) E nell’atletica una pista
disseminata di buche e rettilineo finale tra gli alberi, le pedane immerse in una
rigogliosa vegetazione, i lanciatori scagliavano il disco e poi frugavano tra i
rami. (*) Vollero dare anche un pizzico di snobismo con l’inclusione del golf, che
avrebbe fatto un’apparizione olimpica molto breve.
(*) Ma a Saint Louis 4 anni dopo andò peggio. Anche stavolta l’Olimpiade fu
infilata in una grande Fiera, la Louisiana Purchase Exposition. (*) Milioni di
visitatori per l’Esposizione, una miseria il pubblico alle manifestazioni sportive.
(*) Di nuovo nel nuoto si toccarono gli eccessi dell’approssimazione
organizzativa, per le gare si costruì un bacino artificiale (*) poco più grande di
uno stagno dove facevano pure abbeverare e lavare gli animali in mostra
all’Esposizione, così quattro pallanotisti morirono di tifo dopo la conclusione dei
Giochi. La corsa di maratona fu un concentrato di disorganizzazione generale, di
fatti curiosi e dissacranti e di personaggi eccentrici. (*) Tra questi Fred Lorz, un
americano (al centro con la maglietta scura) protagonista di uno dei più
clamorosi tentativi d’inganno perpetrati nella storia dei Giochi: dopo circa 14
chilometri di gara condotta in testa, quando arrivò la crisi si infilò in una
macchina e rispuntò in testa a tutti a pochi chilometri dal traguardo -fresco e
pettinato- per fruire e godere del bacio della figlia del Presidente degli Stati
Uniti Alice Roosevelt. Mentre Felix Carvajal, un postino cubano che sulla nave
per New Orleans aveva perso al gioco tutti i soldi racimolati in patria, (*) e si
presentò così alla partenza, vestito con pantaloni lunghi e scarponi pesanti
raccattati per strada. (*) Eppure fu uno dei protagonisti della maratona, e sfiorò
il podio pur in grande sofferenza per essersi ingozzato di mele acerbe raccolte
da un albero lungo il percorso.
Ma l’affronto vero allo spirito olimpico furono (*) le “Giornate Antropologiche”
coordinate nientedimeno che dall’Università di St. Louis. Dissero che era un
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esperimento scientifico volto a mostrare le capacità atletiche di razze diverse; in
effetti volevano solo richiamare il maggior numero possibile di spettatori con un
vero e proprio spettacolo da circo, una serie di prove riservate a popolazioni
della Patagonia, a inuit, a nativi americani guidati dal 75enne leggendario capo
Apache Geronimo, a filippini, a cocopa (messicani), a pigmei (in questa
immagine in attesa di affrontare una gara di hockey su prato), a kaffir
sudafricani e ad altre minoranze per loro selvagge e inferiori rispetto alla razza
bianca, nel sollazzo più smaccato del pubblico convenuto e per la disperazione
di un De Coubertin scandalizzato.
Ricordati questi fatti, vediamo adesso come si arrivò alla scelta di Londra per i
Giochi del 1908.
(*) Quattro anni prima (22 giugno 1904) il C.I.O., pressato da De Coubertin che
voleva a ogni costo recuperare il senso della classicità olimpica, assegnò a
Roma con voto unanime l’organizzazione della IV Olimpiade. Allora il barone si
mise di buzzo buono e per coronare il suo sogno incontrò e blandì tutti i
possibili personaggi illustri dell’Italia dell’epoca: prima il re Vittorio Emanuele
III, poi il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, quindi il sindaco di Roma
Prospero Colonna e concluse questo pellegrinaggio alla Santa Sede, dove fu
ricevuto dal segretario di stato cardinale Rafael Merry de Val y Zulueta.
Sembrava che la cosa potesse prendere piede, tra Piazza di Siena Tor di Quinto
le Terme di Caracalla, Piazza d’Armi e il fiume Tevere si poteva realizzare tutto il
programma olimpico, ma il tempo passava, le disgrazie in Italia si
moltiplicavano, prima il terremoto in Calabria (Settembre 1905), poi l’eruzione
del Vesuvio (Aprile 1906), i governi cominciarono a darsi il cambio come gli
staffettisti dell’atletica, Giolitti a Fortis, Fortis a Sonnino, Sonnino di nuovo a
Giolitti, si insediarono commissioni di fattibilità, che studiarono studiarono
studiarono di tutto tranne come trovare il denaro necessario per il grande
evento, fino a quando Giolitti informò tutti che, più che di Olimpiadi, sarebbe
stato meglio parlare del traforo del Sempione e dell’acquedotto in Puglia.
Nell’aprile del 1906 Roma rinunciava ufficialmente all’organizzazione olimpica.
Interpellata d’urgenza, Londra si dichiarò disponibile.
(*) 67 atleti italiani, tutti rigorosamente uomini, partirono il 9 Luglio da Torino
in terza classe via Modane e Parigi, budget 140 lire per atleta compreso un
pasto all’andata e uno al ritorno, ed un altro offerto dall’Ambasciatore Italiano la
vigilia dell’apertura dei Giochi (*) Il 13 luglio allo stadio di White City una sobria
cerimonia d’apertura, (*) ancora senza giuramenti tripodi e fiaccole olimpiche,
diede l’avvio alla IV^ edizione dei Giochi moderni. In tribuna, ovviamente,
c’erano le monarchie d’Europa (*) i reali d’Inghilterra Edoardo VII e la regina
Alessandra, i sovrani di Grecia Svezia e Norvegia, c’era (*) Lord Desborough
presidente del Comitato Organizzatore, (*) c’era il principe Scipione Borghese
membro del C.I.O., quello del celebre raid automobilistico Pechino-Parigi su
Itala con l’inseparabile Luigi Barzini lo scrittore inviato del Corriere della Sera,
c’era naturalmente De Coubertin e al suo fianco il segretario generale (*)
Eugenio Brunetta d’Usseaux, piemontese, personaggio singolare sposato con la
contessa russa Catherine Zeiffart di Pietroburgo. (*) E c’era anche Arthur Conan
Doyle, il celebre scrittore che aveva inventato il personaggio di Sherlock
Holmes, e che seguiva l’evento come corrispondente del Daily Mail.
(*) Alcuni tornei erano già stati disputati alcuni giorni prima, come il tennis per
esempio, con le britanniche Lambert Chambers e Boothby finaliste del torneo
outdoor, (*) e il grande Reginal Doherty dominatore per 10 anni col fratello
Laurie del tennis mondiale (*) come il tiro a segno con Oscar e Alfred Swahn,
svedesi, padre e figlio, il barbuto che esordì vittorioso all’Olimpiade all’età di 60
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anni e 264 giorni, poi il tiro a volo e altre discipline alcune tipicamente inglesi
come le “racquets” (*) e il polo, e il jeu de pomme (pallacorda).
Dopo l’inaugurazione presero avvio molte altre discipline, (*) il tiro con l’arco
con Sybil Newall (Quinee) 53enne vincitrice del torneo femminile, (*) la
ginnastica individuale e a squadre (*) il ciclismo con i britannici sempre in prima
linea, tutto o quasi si disputò all’interno dello Stadio di White City comprese (*)
le gare di nuoto e di pallanuoto che per la prima volta utilizzarono anziché i
fiumi la piscina (*). Calcio rugby hockey e pugilato si rimandarono al mese di
Ottobre. (*) Come pure il pattinaggio su ghiaccio ovviamente, ospite originale
delle Olimpiadi estive. Protagonisti lo svedese Ulrich Salchow, che sarà anche
campione mondiale per 11 anni consecutivi (1901-1911), e regalerà il suo nome
ad uno dei principali salti della specialità; (*) e tra le donne Florence “Madge”
Syers, già rinomata e temuta per avere sconfitto ai mondiali di figura del 1902
tutti i pattinatori maschi tranne Salchow, che da gran gentiluomo per rispetto e
cavalleria le regalò il suo trofeo.
Quasi subito prese pure avvio una rivalità dai contorni particolarmente roventi
tra gli inglesi e gli americani. In tribuna qualcuno perplesso ricordava che era
trascorso più di un secolo dal famoso “Boston Tea Party”, (*) cioè da quando,
nel 1773, i figli della libertà rovesciarono in mare il carico di tè dalle navi inglesi
nel porto di Boston, e così era esploso il conflitto che sarebbe andato avanti per
8 anni e che si sarebbe concluso con la dichiarazione di indipendenza delle
tredici colonie americane dalla madrepatria (*) e la nascita degli Stati Uniti
d’America, ma anche più di un secolo dopo le antiche tensioni non si erano del
tutto dissolte, e bastava una qualsiasi occasione per far riaccendere la miccia.
(*) A Londra se ne incaricò il lanciatore di peso e alfiere della squadra
americana Ralph Rose, che era incavolato nero perché nella cerimonia
d’apertura, mentre il gran pavese colorava lo stadio, la bandiera a stelle e
strisce l’avevano dimenticata in magazzino: allora al passaggio davanti al palco
reale sfidò il protocollo ignorando re e regina marciando solenne bandiera al
vento sguardo sprezzante in avanti, e a chi sgomento gli chiese ma perché fai
ciò? lui rispose “because this flag dips before no earthly king - questa bandiera
non si abbassa davanti ad un re terreno”.
Ci furono diversi momenti di attrito tra le due rappresentative, (*) nel tiro alla
fune gli americani sporsero reclamo perché secondo loro gli inglesi –nello
specifico i poliziotti di Liverpool- avevano usato scarpe truccate, munite di chiodi
per far presa sul terreno, e nella maratona furono gli inglesi, che consideravano
il fondo un loro protettorato ed erano usciti bastonati con il primo maratoneta –
Clarke- solamente 12° al traguardo, furono loro ad azzardare una forma di
reclamo perché “Johnny Hayes was illegally helped by Mr.Jack Andrew”. (*) Ma
l’unica prova del supposto aiuto illegale era questa foto, che non provava
praticamente nulla.
(*) La contesa raggiunse l’apice nella gara dei 400 metri. Sulla pista non erano
tracciate le corsie, e John Carpenter, americano, con una bella eclatante
ostruzione ai danni dello scozzese Halswelle, vinse la finale. Quindi squalifica e
decisione della giuria di farla ripetere due giorni dopo. Ma i compagni di
Carpenter Taylor e Robbins, dissero “per noi ha vinto John, fate quello che
volete tanto noi non corriamo”, e allora, fatto curioso nella storia dei Giochi
Olimpici, quella fu l’unica finale cui prese parte un solo atleta, appunto lo
scozzese Halswelle.
L’onore nazionale delle ex colonie era così messo al sicuro, ma tanto per “non
dimenticare” al ritorno in patria ricevuti da trionfatori al Municipio di New York,
gli americani tronfi e spocchiosi si presentarono portando al guinzaglio un leone
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britannico in catene: re Edoardo andò su tutte le furie “e si sfiorò l’incidente
diplomatico”, ricorderà De Coubertin nelle sue “Memorie Olimpiche”.
E’ giusto però rammentare che gli americani primeggiarono comunque in una
infinità di gare. (*) Avevano in squadra una specie di “rana umana”: Raymond
Ewry. Che ebbe un’infanzia travagliata, era fragile e malaticcio, e sopravvisse –
puro miracolo- a un attacco di poliomelite, finì sulla sedia a rotelle, ma poi con
un intenso programma di rieducazione muscolare avvenne il secondo miracolo,
e quel ragazzo gracile e malaticcio si trasformò nel più grande saltatore al
mondo del primo ventennio del novecento. Straordinaria vicenda che ne
richiama altre, analoghe, di atleti più conosciuti dello sport americano: (*) ad
esempio quelle di Johnny Weismueller e di Wilma Rudolph, entrambi da piccoli
colpiti dalla polio. (*) Ewry eccelleva nei salti da fermo, sia in alto che in lungo,
e aveva cominciato a vincere medaglie d’oro già 8 anni prima a Parigi, (*) a
Londra lottò aspramente per avere la meglio sul greco (*) Tsiklitiras nella prova
del salto in lungo. Gli americani avevano in squadra (*) anche eccellenti
lanciatori, come Martin Sheridan vincitore del lancio del disco (*) e John
Flanagan di quello del martello. (*) e ottimi corridori, come Melvin Sheppard
che mise in riga due inglesi nientemeno che nei 1500, vale a dire nel loro
territorio di caccia, e una settimana dopo fece doppietta negli 800, (*) gara in
cui Emilio Lunghi, un marinaio genovese dotato di un fisico superbo, (*)
conquistò per l’Italia la medaglia d’argento. (ecco Lunghi in posizione di
partenza, in quello che sembra essere il primo nudo fotografico nella storia dello
sport).
La maggior parte dei nostri connazionali non superò i turni eliminatori, ma
bastarono un paio di nomi per ribaltare l’esito della spedizione (10^), e tenere
così buono il presidente del consiglio Giolitti.
(*) Uno di questi fu Alberto Braglia, figlio di un muratore, cresciuto nelle famose
Fratellanza e Panaro di Modena. Braglia (*) era un ginnasta sublime, che a
Londra, davanti ai giudici increduli, fece togliere le maniglie al cavallo ed eseguì
le sue “milanesi” (così si chiamavano i volteggi) con stile inimitabile
conquistando la medaglia d’oro. (*) Quattro anni dopo farà ancora meglio,
vincendo l’individuale e il concorso a squadre cui si riferisce quest’immagine.
(*) Un altro fu Enrico Porro, un marinaio nativo di Lodi, milanese di adozione,
che vinse la medaglia d’oro nei pesi leggeri della lotta greco-romana. Quattro
anni prima doveva andare a St.Louis ma venne la chiamata alle armi.
“Naturalmente finì in marina”, così scrisse di lui Luigi Gianoli, grande giornalista
della Gazzetta “si pavoneggiava con la divisa blu, il solino bianco, (*) e nelle
balere della Spezia divenne un idolo, con le sue orecchie a sventola, i suoi occhi
azzurri, il suo sorriso furbo di Porta Ticinese, i suoi modi di sommario
dongiovanni, i capelli spartiti sulla fronte”.
Gara dopo gara, medaglia dopo medaglia, si giunse così al 24 luglio, quando
erano in programma diverse finali, ma una gara in particolare era attesa con
ansia patriottica dai londinesi e con curiosità da tutti: era la corsa di maratona.
56 corridori si presentarono alla partenza, sul lato orientale del Castello di
Windsor. (*) Perché proprio da lì: perché la duchessa di York e futura Queen
Mary, quando furono comunicati i dettagli del tracciato della maratona,
compreso il da dove e il fino a dove, esclamò “Oh my God…così i miei figlioli
non potranno assistere alla partenza di questa gara così affascinante e
originale”. Ed allora gli organizzatori, intuito che le parole della duchessa più
che un rammarico erano un invito informale a fare qualcosa affinchè si potesse
porre rimedio a quella spiacevole eventualità, e posto che di far spostare i sei
rampolli reali fino al punto di partenza programmato non se ne parlava proprio,
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decisero invece di spostare la partenza di circa un miglio retrocedendola sino al
castello reale. (*) E così la corsa londinese di maratona, inizialmente
programmata su una distanza di 25 miglia, aggiungendo un miglio alla partenza
e 385 yards all’arrivo, cioè quelle intercorrenti dall’ingresso dello stadio sino al
filo di lana, risultò misurare 26 miglia e 385 yards, cioè 42 chilometri e 195
metri. La duchessa di York quindi era riuscita a mettere d’accordo tutti: da quel
giorno le maratone del mondo sarebbero state corse su quella eccentrica ed
originale distanza.
I 56 venivano un po’ da ovunque, c’era gente già ben conosciuta come ad
esempio il sudafricano Hefferon, gli inglesi tanti, Duncan Beale Lord Price,
assolutamente convinti di recitare la parte dei protagonisti, (*) c’era un
pellerossa canadese della tribù degli onondaga, Thomas Longboat, da tre anni
vincitore della maratona di Toronto e un anno prima di quella celebre di Boston,
(*) e poi gli americani Tewanima Hatch Forshaw Morissey Johnny Hayes, e
c’erano pure un paio di italiani, uno dei quali nell’elenco degli iscritti veniva
segnalato come Dorando o Durando P la p puntata. Si trattava in effetti di
Pietri, Dorando Pietri, un corridore emiliano anch’egli ben conosciuto
nell’ambiente per alcune ottime prestazioni ottenute nelle lunghe distanze, tra
le quali la maratona di Parigi di tre anni prima.
(*) A Villa Mandrio frazione di Correggio vicino Carpi provincia di Modena
Dorando Pietri era nato il 16 ottobre 1885 da Desiderio Pietri e Maria Teresa
Incerti. (*) Il padre era fittavolo, massaia la madre. Dorando era il terzo di
quattro fratelli e come è facile immaginare ebbe un’istruzione appena appena
accettabile, cominciata e terminata dopo pochi anni (*) in questa scuola, e
certificata da una breve e inequivocabile formula: “sa leggere e scrivere”.
Correggio era un piccolo comune che aveva avuto il suo momento di gloria tre
secoli prima quando era stato elevato al rango di città col privilegio di battere
moneta (metà del ‘500) da Ferdinando 1° d’Asburgo, e che aveva dato i natali
ad Antonio Allegri, (*) detto appunto il Correggio, uno dei più grandi pittori
italiani del ‘500. Ma ora viveva in maniera più anonima e modesta, l’economia
compromessa dalla crisi agraria e dall’assenza di risorse industriali, (*) era una
crisi che investiva vaste aree circostanti e che costringeva famiglie intere a
lasciare le tradizionali ma improduttive occupazioni e a trasferirsi altrove, come
nelle campagne ostiensi, alla ricerca di qualcosa di meglio, (*) erano vere e
proprie migrazioni di povertà, ferite laceranti che Andrea Costa, uno dei padri
del socialismo italiano, denunciò pesantemente: e altrettanto modesta era la
vita della famiglia Pietri che si reggeva sui prodotti della coltivazione di un
piccolo orto (ca.1400 mq.). “Così non potremo andare avanti ancora per molto”
disse il padre alla moglie Teresa, (*) e nel 1897 ordinò allora l’emigrazione della
famiglia, presero il treno e si spostarono a Carpi: (*) lì a Porta Modena aprì un
negozio di frutta e verdura.
A Carpi, pure in una situazione generale di depressione economica, erano gli
anni felici per l’industria del truciolo, (*) cioè la lavorazione di trucioli di legno
tratto dai tronchi di salice e pioppo per farne trecce e cappelli di paglia d’ogni
foggia. (*) Vi lavoravano tutti, uomini e donne, bambini e vecchi, gente di tutti i
ceti sociali, e lo stesso Dorando per arrotondare il magro reddito familiare vi si
applicò come lavorante stagionale.
(*) Ma all’età di 14 anni Dorando fece un deciso salto nella scala sociale
ottenendo il primo impiego fisso nella pasticceria Roma di Pasquale Melli.
Questo impiego, che determinerà poi la coniazione dell’appellativo “il fornaio di
Carpi” (*) consentirà comunque al giovanotto di fruire –tra uova zucchero e
pasticcini che circolavano liberamente nel laboratorio – (*) di un quantitativo
energetico che a casa propria si sarebbe sognato.
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(*) Dorando voleva diventare ciclista. Non c’era ancora il Giro d’Italia ma a
Carpi il movimento era già vivace, si organizzavano anche gare dietro motori,
Dorando pedalava e prometteva bene (*) ma a Modena in una di queste gare
franò rovinosamente a terra insieme con la moto, ed il morale al suo fianco.
Frattanto, era il 1904, passò da Carpi un famoso podista dell’epoca, il romano
Pericle Pagliani, che insieme ad Achille Bargossi e pochi altri, costituiva il nucleo
di podisti professionisti che giravano la penisola per raccogliere denaro con le
proprie rappresentazioni sportive. (*) Tracciò un percorso nella Piazza Vittorio
Emanuele perché voleva battere il record della mezz’ora di corsa. Quando
scattò Pietri lo vide e non capì più niente, si gettò sul tracciato e riuscì a seguire
Pagliani per molti giri, del tutto sordo alle voci di scherno che arrivavano dalla
gente.
Folgorante come la conversione di San Paolo, fu quindi anche quella di Pietri
verso il suo nuovo credo, il podismo.
A Carpi, prima ancora che lui nascesse, sulla spinta del fermento associativo
emiliano, era stata fondata la Società Ginnastica La Patria con il fine (*) –come
si legge nell’atto costitutivo- “di preservare lo sviluppo delle forze fisiche della
gioventù e coltivare altresì lo spirito di aggregazione e fratellanza tra i cittadini
di ogni classe, nell’interesse supremo della Patria”. (*) Presidente l’ingegnere
Alfredo Benassi, e all’età di 18 anni il pasticciere Dorando entrò a farvi parte.
Patriottismo, solidarietà tra le classi sociali, ed ancora nello Statuto nessun
accenno alla apoliticità e aconfessionalità del sodalizio, che all’epoca –abbinateerano una “conditio sine qua non” per entrare a far parte della famiglia dello
sport italiano, era questo un segnale palese di voglia di autonomia, di
autonomia e di non neutralità quindi, scelte sociali che si inoltravano però in un
sentiero irto di difficoltà e di ostacoli. Infatti vi inciampò subito proprio Alfredo
Benassi il presidente, quando il 20 Settembre del 1878 ebbe l’ardire e l’ardore di
procedere alla commemorazione della breccia di Porta Pia. Infatti parecchi soci,
come riportato su “Ginnastica Libera” (*) “ebbero ad esprimere parole di
biasimo all’indirizzo del Presidente, imperocchè, secondo essi, egli erasi
permesso di manifestare massime non troppo ortodosse, opinioni politiche
avanzatissime e forse non divise dalla maggioranza dei soci”.
Quattro giorni dopo Benassi rassegnò le dimissioni, non prima avere ricordato il
suo pensiero secondo cui (*) “le associazioni, perché rispondano al loro scopo
più elevato, debbano essere altrettante scuole di educazione nazionale e, quindi
all’occorrenza occuparsi di politica, che è il complesso dei più vitali interessi
della Patria e dell’Umanità”.
Ho voluto fare questo cenno sulla collocazione ideologica della Società
Ginnastica La Patria di Carpi perché al termine del mio intervento Sergio
Giuntini amplierà e completerà l’argomento che è stato oggetto delle sue
ricerche e dei suoi studi, in parte anche riportati in questo suo libro “Dalla via
Emilia al West”.
Già nel primo anno di dedizione piena alla corsa, Dorando riportò numerosi
successi, ma di uno in particolare si arricchì il suo curriculum: (*) quello (VI
edizione) della prestigiosa maratona di Parigi organizzata da Henry Desgrange
l’inventore del Tour de France, che con enfasi aveva annunciato “l’engagement
du célèbre coureur italien Pietri Dorando: furono 30 km. tutti in testa, dal primo
metro all’ultimo, e Bonheure l’eroe di casa distaccato di sei minuti.
Ma a Novembre del 1905 suonò la tromba dell’adunata (*) e fu assegnato al
25° fanteria di stanza a Torino. Per Dorando era un problema serio, servire la
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patria e allenarsi duramente erano due faccende che non era facile far
camminare in parallelo senza il rischio di collisione.
Allora cominciò a chiedere aiuto in giro, riuscì pure a scrivere o a farsi aiutare a
scrivere lettere a tutti quelli che conosceva. E tanto chiese e tanto scrisse che
ottenne di essere trasferito alla Società Atalanta di Mario Luigi Mina, uno dei
nomi illustri dell’atletica italiana dell’epoca. Ciò gli consentì di allenarsi per bene
e di gareggiare spesso, sia pure in prevalenza nel comprensorio piemontese,
Arona Gravellona Pallanza Torino...
Così fu spedito ad Atene per i Giochi intermedi del 1906, ma fu corsa ingloriosa,
perché nelle prime posizioni per buona parte della gara Dorando dovette ritirarsi
(24° chilometro) per dolori intestinali, (*) nella corsa che vide vittorioso il
canadese Sherring accompagnato sul rettilineo finale da Giorgio, principe di
Grecia e del fair-play.
(*) Frattanto si era innamorato. Di questa giovane in piedi a destra con i
parenti, Teresa Dondi, e come per tutti i giovani innamorati vi fu uno scambio
epistolare, una lettera (*) una cartolina postale, un pensiero da Torino e una
dichiarazione ufficiale d’amore, in parte nascosta dal francobollo (*) “chi le
scrive è Dorando che le ricorda di amarla e di perdonare i dispiaceri procurati”.
Avrebbero vissuto insieme per 33 anni.
Digerita la delusione ateniese, espletato l’obbligo di leva, ritornato -figliol
prodigo- alla Società La Patria, l’anno dopo Pietri tornò alle gare più convinto
che mai. (*) Sfidò i migliori specialisti nostrani del mezzofondo sui 1000 e sui
5000 a Piazza di Siena, e non dimenticò le prove lunghe, da 20 km. in su. Poi,
sul finire dell’anno, si ritirò nella sua Carpi, una specie di ritiro spirituale in vista
dell’anno più importante della sua vita, il 1908.
Pietri, come gli altri 66 della compagnia nazionale, (*) partì la sera del 9 luglio
dalla stazione di Torino, via Modane e Parigi, alla volta di Londra, dove arrivò 36
ore dopo, dove incontrò suo fratello Ulpiano (*) che era lì per fare il cameriere
e dove si sistemò a Soho nel West End della città in un albergo di italiani. Di
quel che fece il buon Dorando nei 13 giorni intercorrenti tra l’arrivo a Londra e
la maratona olimpica gli storici ci fanno un resoconto dettagliato, direi quasi
giorno per giorno: in sintesi una triste gara olimpica a squadre sulle 3 miglia
conclusa con il ritiro, e poi una serie di duri allenamenti anche per conoscere le
strade londinesi punteggiate di salite che Dorando apprezzava molto perché “mi
scaldano i garretti e i miei polmoni ne godono quando le affronto”.
(*) Ma poiché da che mondo è mondo si sa che la trasferta sportiva è
l’occasione d’oro per dare sfogo al desiderio di libertà e di conoscenza che
dimora in ciascuno di noi e che si esalta proprio quando si è lontani da casa,
vogliamo che Dorando nelle ore libere non sia andato in giro per la città, chessò
insieme a Porro Lunghi e Pagliani maratoneta che teneva il diario di bordo (*)
forse Giovedì potremmo visitare la Torre dell’orologio, qui la chiamano Big Ben,
oltretutto si trova sul percorso di gara ed è giusto dargli un’occhiata, Venerdì
allenamento… e poi arrivò suo fratello Ulpiano e disse alla comitiva Sabato per
esempio (*) è una buona giornata per il mercato, il “Petticoat Lane Market” che
è sempre affollatissimo perché lì trovi tutto quello che vuoi Dorando -giacche
pantaloni berretti- e a Piccadilly non ci andate (*) a Piccadilly ci sono statue
teatri negozi ristoranti e c’è gente gente di tutti i tipi, e due anni fa hanno
aperto pure la stazione dell’underground a Piccadilly, perchè (*) qui a Londra
c’è un treno sotterraneo, lo chiamano “the tube” che ti sposta la gente da una
parte all’altra della città in pochi minuti. (*) Lunedì vi porto a Trafalgar Square
dove c’è una gran colonna con la statua di un ammiraglio che sconfisse
Napoleone, e poi facciamo un giro per la città, (*) anche se c’è nebbia, c’è
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sempre nebbia qua pure in estate, ci prendiamo (*) the bus number nine che ci
porta a Lensington, e Giovedì 23, il giorno prima della gara, (*) lo dedichiamo a
“Tower Bridge” che sarebbe il ponte il ponte di Londra … come fai Dorando a
tornare a Carpi senza aver visto Tower Bridge cosa rispondi a chi te lo chiede …
(*) Al Castello di Windsor tutto era pronto per la partenza della maratona. La
duchessa aveva ottenuto il suo scopo, i sei figlioli -Edward Albert Victoria Henry
George e John- schiamazzavano allegri chiedendosi cosa ci avesse visto la
madre di così interessante nella partenza di una gara, quando tutti sono
insieme ammassati e sembrano tutti uguali, gli inglesi come i canadesi, i
sudafricani come gli americani, molto meglio sarebbe stato seguire la maratona
lungo il percorso, o all’arrivo, lì almeno si capisce chi ha vinto e chi ha perso.
Gli accadimenti della maratona di Londra sono descritti con dovizia di particolari
nel rapporto ufficiale del Comitato organizzatore, e nelle diverse cronache
giornalistiche dell’epoca. Devo dirvi però che c’è un poemetto, definito “diario
apocrifo di Dorando Pietri”, che meglio di qualsiasi rapporto ufficiale o cronaca
descrive le molteplici sensazioni che la corsa di Londra possa aver trasmesso. E’
di un poeta sardo della metà del novecento non molto conosciuto, Giovanni
Floris, e ho pensato di leggerne alcuni passi.
(*) Siam venuti in terza portando
tutto da casa come i frati,
come i poveri di tutto il mondo.
Questa Londra è misteriosa
e grande, tanto grande.
La maratona è roba da poveri
come il regno dei Cieli.
Non conta come si viaggia
ma come si taglia il traguardo.
(*) Londra, 24 Luglio
Avete mai avuto paura
d’una donna, dell’amore?
Era una cosa così,
una paura, così.
Perché è solo ogni atleta
in gara, ma nessuno
come il maratoneta
(*) Londra, 23 Luglio
quanto il maratoneta alla
partenza.
Per vincere darei le gambe
Respira dopo ogni assalto
gli occhi, un pezzo di cuore.
il pugile, lo schermitore,
La strada è come la vita:
e sognano, in un lampo, sulla
pista,
troppo amata è gelosa, non
perdona.
il saltatore e il velocista.
Ogni vittoria va pagata.
Ma a noi di maratona la pazienza
……………………….
è tutto.
Domani si corre.
(*) Tutto nostro è l’onore
Mi ricordo d’un italiano
d’una solitudine lunga
che per gareggiare andò a piedi
di quella che dà paura.
fino ad Atene, da Milano.
Ed eravamo tutti di paura
Giancarlo Airoldi:
… di paura e di nebbia.
un cuore come una torre!
Ci vedevamo come fantasmi.
Domani me lo voglio ricordare.
(*) Poi, finalmente, via!
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Correre, correre,
correre.
Tu con la strada e la strada con
te.
(*) La corsa partì alle 14.33, il tempo era bello ma umido e il termometro
segnava 26 gradi. (*) C’era una discesa subito dopo la partenza e i britannici
boriosi lanciarono il guanto di sfida. (*) Thomas Jack dettava un ritmo
forsennato e faceva selezione. Dietro di lui altri tre atleti di Sua Maestà, Price
Lord e Duncan. Ma il forsennato Jack si ritirò alle 5 miglia, (*) Price allora prese
la testa, e dopo 13 miglia di corsa aveva 41 secondi di vantaggio su Hefferon,
un sudafricano molto quotato che precedeva Lord. Poi Hefferon attaccò con
decisione, lasciò Price al suo destino e alle 15 miglia precedeva Lord di 2
minuti. Sul britannico però erano in forte recupero due concorrenti: il pellerossa
canadese Longboat e poi, solitario, (*) un piccolo corridore dalla maglietta
bianca e i calzoncini rossi, numero 19. “Who’s him? Chi sarà mai?”
In mezzo a tanta folla sono solo.
il respiro pacifico
(*) Io con la strada e la strada con
me.
mi penetra fino alle ossa
Case, alberi, case,
prati, case, foreste,
un fiume,
ed il cuore mi sta
comodo come un pascià.
(*) La strada mi viene incontro
e saltella felice, mi sorride.
un grande forte fiume.
Non sento che il mio cuore
e le scarpette degli altri,
uguali alle mie scarpette
ed al mio cuore.
Nelle membra già calde
la paura si scioglie, si fa dolce.
Le forti, care gambe,
ubbidiscono come braccia,
Forza, Dorando!
La strada felice saltella,
sorride a tutti.
Sorridono donne da un prato,
il sole sembra luna,
ma il cuore è nelle scarpette
e le scarpette sulla grande strada.
Secondi come minuti
minuti come le ore.
(*) Pietri e Longboat raggiunsero e staccarono Lord, ma poco dopo il pellerossa
entrò in crisi: l’allenatore lo massaggiò e innaffiò di champagne, ma tutto fu
inutile, perché la crisi nella maratona è quasi sempre irreversibile, l’indiano si
fermò, riprese al passo, si ritirò al 17° miglio. Ne mancavano 9 al termine.
Pietri era di nuovo solo, soffriva ma adesso era secondo. (*) Il sudafricano era
lontano, però, molto lontano, alle 20 miglia aveva quasi 4 minuti di vantaggio
sull’italiano.
(*) Comincia la terra in bocca
ed il duro nelle viscere.
Mi spunta in gola un ciuffo di
fuoco.
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……………………………………..
(*) Beati voi, alberi!
(*) La stanchezza viene così:
Mi piacerebbe mettere radici!
la testa diventa una nube
Ho un polipo nelle viscere
e le gambe di gomma.
e voglia di masticare.
(*) Stringo più forte i pugni,
Ma chi ha fame non vince
comincio a stringere i denti,
ed io sono qui per vincere.
dò di gomiti, spingo.
Quant’è che si corre, quant’è?
Mezza borraccia d’acqua sui capelli
(*) Allungo, ma ai miei talloni
e un sorso sul ciuffo di fuoco.
l’americano è peggio della fame.
Infatti, mentre Dorando iniziava un parziale recupero su Hefferon, con una
tattica accorta l’americano Johnny Hayes risaliva posizioni su posizioni.
(*) Ritorna la paura
sento solo dei passi sulla strada
o un’altra cosa strana,
e il mio cuore che da lontano
una nausea, ma dolce, fina fina,
fa come le scarpette, uno due
un desiderio di dormire in piedi
uno due uno due.
con le mani dietro la nuca,
Mezza borraccia in gola
di correre dietro le gambe
e mezza sui capelli.
come dietro due persone.
Il traguardo mi affiora dal cervello,
Provo a dire uno due, uno due,
è l’ora di stringere i denti
ma non mi sento la voce,
e d’allungare, di passare in testa.
(*) Alla Torre dell’orologio, dopo 23 miglia, Hefferon aveva ancora due minuti di
vantaggio sull’italiano, (*) mentre Johnny Hayes inseguiva a sei minuti.
(*) Gente a cataste ai lati della
strada
Saluti, acclamazioni.
Quanto manca,
ditemi, quanto manca?
Mi sento le gambe d’osso,
brucio tutto, dai bronchi alle narici.
Ditemi quanto manca?
(*) Mi sento morire, ma posso
“E’ là”, mi dicono “forza pure”
spingere ancora, allungare.
(*) Ma dov’è
i tuoi passi vittoriosi,
lo stadio, il traguardo dov’è?
(*) è tutto là, stadio, traguardo,
onore,
Sotto i veli dell’alito lo sguardo
un gran pennone per il tricolore,
l’apoteosi, l’immortalità.
mi s’annebbia.
Dov’è?
Dov’è il traguardo?
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(*) Ah Londra sterminata!
e le viscere nella gola.
Ho i denti dentro i denti
Mai fu così mortale una volata.
(*) Galvanizzato dall’incitamento della folla, a due chilometri dall’arrivo poco
prima di Wormwood Scrubbs, Pietri raggiunse e superò Hefferon. Ancora un
chilometro e iniziò il calvario, l’ascesa al Golgota del piccolo maratoneta
emiliano.
(*) Ed ecco, quand’ero già in vista
Sentivo addosso uno sguardo
del traguardo, mi si staccò
immenso, un unico sguardo
sbarrato.
tutto il corpo dall’anima,
(*) stramazzandomi ai piedi sulla
pista.
……………………………..
(*) Lo presi per una mano,
(*) Poi qualcuno mi prese per un
braccio
il corpo e come un santo in
processione,
povero corpo, e s’alzò
(*) devotamente, lo portò al
traguardo.
che nello stadio, tutto un uragano
Ero in un buio, cieco.
pazzo d’urrah,
(*) entrava l’americano.
(*) Ricordo un vento, uno scoppio
di canto
Supplicai le mie gambe: (*) “Si va!
in coro, poi mi parve di morire.(*)
Forza, chè abbiamo vinto, su! Uno
due,
Quando risorsi mi vennero a dire
ci bastano pochi uno due
e di nuovo credetti di morire.
ancora, dei brevi uno due,
(*) Avevo corso bene,
chi vince deve arrivare
ero arrivato sfinito,
col cuore di quando partì!”
(*) con le gambe in catene,
E le gambe: “Sì, sì,
anima, sì!”
ma col cuore di quando ero
partito.
(*) ma tornarono a stramazzare.
(*) E l’indomani fui cinto
Avrei corso coi ginocchi
della corona d’alloro
e le mani, pur d’arrivare,
proprio da Sua Maestà, dalla
Regina,
ma avevo gli occhi
pieni d’aghi e sul cuore
mi si gelava l’ultimo sudore.
che m’avevano squalificato
e c’era ad applaudirmi il mondo
intero.
(*) Lo stadio ammutolì,
(*) Quando mi diede la coppa, in
un coro
mi circondò come un mare di
ghiaccio.
d’urrah e di trombe, il sole
londinese
C’è gente buona ovunque, come
qui.
mi parve tra la nebbia un sole vero
come quello del mio paese.
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(*) Che magnifico piangere fu il
mio!
Aveva sul pennone il tricolore
una gran voglia di volare. E
anch’io!
Non respiravo dal batticuore
(*) E vidi sole a Londra, vero sole.
Ci vorrebbero le parole
che sa trovare un poeta,
(*) di quelle grandi, vere.
Ma io non sono che un maratoneta
e un bravo panettiere.
Qui termina la storia della maratona di Dorando Pietri, (*) quella della maratona
di Londra si completò con la vittoria ufficiale di Johnny Hayes, l’americano che
pensate un po’ (*) era entrato nello stadio 9 minuti e 46 secondi dopo Pietri,
tanto era durata l’agonia in pista del maratoneta di Carpi. (*) Oltre alla Coppa
dalla Regina Dorando ricevette un monile dalla contessa di Mexborough italiana
d’origine, ed un portasigarette da Conan Doyle, entrambi d’oro, ed un biglietto
d’amore firmato Alice, che gli chiedeva se il suo cuore fosse ancora libero. Fu
invitato dappertutto, (*) e nella sede del Circolo Italiano ci fu l’incontro con il
tenore Enrico Caruso, la massima celebrità italiana dell’epoca.
Poi Dorando lasciò Londra e tornò in patria, (*) via Parigi e Torino dove fu
accolto da una folla entusiasta e (*) portato in trionfo per le vie centrali della
città. (*) Due giorni dopo, insieme al fratello Ulpiano e al ginnasta Braglia
arrivarono a Carpi, (*) negozi chiusi, finestre imbandierate e infiorate, (*) cortei
fanfare diecimila persone osannanti venute anche da Modena e persino da
Correggio, (*) c’erano tutti dirigenti amici politici e gli inviati di 9 quotidiani
d’Italia (*) che avevano dato ampio spazio alla vicenda londinese e c’era pure
quello del Daily Mail. (*) Pietri e Braglia erano visibilmente commossi.
Tre mesi dopo, accompagnato dal fratello Ulpiano partì per New York dove gli
americani avevano messo in piedi l’affare: (*) la rivincita con Johnny Hayes,
nientedimeno che al Madison Square Garden, al coperto su una pista di 160
metri da percorrere 262 volte. (*) Fu un vero affare per tutti, dollari per tutti,
Dorando per primo, che sconfisse Johnny per 45 secondi e stipulò contratti con
cifre per lui da capogiro.
(*) Restò in America fino a Giugno dell’anno seguente gareggiando su tutte le
distanze, tra un allenamento seguito da Ulpiano (*) e un ricevimento alla
Comunità Italiana newyorchese, e incassando dollari in tutte le città, da Buffalo
a Rochester da Syracuse a St.Louis da Chicago a Filadelfia. (*) Tornò a New
York ad Aprile quando il diabolico organizzatore americano presentò il Marathon
Derby, (*) una sfida tra i 6 migliori specialisti del mondo al Polo Grounds su
pista in erba e argilla. (*) Battè tutti Dorando tranne Saint-Yves, un francese
bravo quanto lui, povero come lui, cameriere al Caffè Monico di Piccadilly
Circus. (*) Anche un mese dopo, nella rivincita aperta a 13 concorrenti e
seguita da 50.000 spettatori, (*) Dorando sofferente alla schiena non ebbe
migliore fortuna.
(*) Tra Agosto e Settembre sposò la sua amata Teresa, cerimonia prima in
chiesa e (*) poi con rito civile, come si usava allora.
E poi a Gennaio del 1910 ripartì per l’America, (*) imbarcato a Genova sul
Principe di Piemonte, e lì giunto a San Francisco (*) lo aspettava la terza sfida
in territorio americano con Johnny Hayes. Sfida che vinse ancora, Dorando, e
riprese a gareggiare come un dannato, spostandosi come una trottola da Ovest
ad Est da Nord a Sud dagli Stati Uniti al Canada, (*) passando per le cascate
del Niagara, per raggiungere poi l’Argentina e il Brasile, (*) sfidando canadesi
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irlandesi corridori dell’Alaska e cavalli montati, sconfiggendo il cameriere
parigino (*) e il pellerossa dalle gambe infinite ma intascando sempre dollari
tanti dollari. (*) Che gli servirono, tornato in patria, ritiratosi dalle competizioni,
per comprare terreni e immobili insieme al caro Ulpiano, e a lanciarsi con lui in
(*) un’avventura imprenditoriale dal nome “Grand Hotel Dorando”, tre piani e
garage per l’autonoleggio, un’avventura che non ebbe purtroppo esito felice,
costi elevati ricavi solo immaginati. (*) Pian piano cominciò a vendere pezzi
degli immobili e dell’hotel e si tenne il garage, (*) e visto che con le automobili
aveva buon feeling quando l’Italia entrò in guerra fu assegnato alla compagnia
automobilisti degli artiglieri di campagna.
(*) Poi, nel 1923, si trasferì con la famiglia a Sanremo dove c’era già il fratello
più grande Antonio Ettore, (*) dove proseguì con professionalità e passione
l’attività di autonoleggio, prestando servigi inappuntabili a personaggi illustri,
(*) dove stavolta la guerra lo lasciò in pace perché aveva il foglio di congedo
per insufficienza mitralica, e dove vent’anni dopo, nella serata del 7 febbraio del
’42 morì all’improvviso per una sincope cardiaca, a 58 anni, così, (*) senza
neppure il tempo di un ultimo saluto anche un cenno a Teresa a parenti e
conoscenti, (*) senza più notizie dei cari amici di un tempo, di Johnny Hayes, di
Longboat l’indiano o (*) di Charles Hefferon, sapeva che era in Canada nella
polizia dell’Ontario, non seppe che era morto undici anni prima. Non seppe
neppure come finì la guerra.
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LE CINQUE VIE. LE ORIGINI DEL SISTEMA SPORTIVO NAZIONALE
PROF. FELICE FABRIZIO
L’amico Vincenzo Pennone, nell’affidarmi il compito di ricostruire la nascita del
sistema sportivo nazionale, mi ha servito di barba e capelli.
Tanto per cominciare, è impossibile rintracciare all’anagrafe un vero e proprio
atto di nascita.
Va detto poi che, come avveniva prima dell’introduzione della prova del DNA, la
ricerca della paternità appare quanto mai incerta.
Senza contare inoltre che il parto, più che come frutto di una rigorosa
pianificazione, va interpretato come l’esito di iniziative casuali, disorganiche, non
di rado contraddittorie, in un groviglio reso ancora più intricato dai caratteri
originali della storia nazionale, che esaltano la diversità e il localismo.
Per il sistema edificato in Italia tra il XIX e i primi anni del XX secolo
all’immagine del monolito di “2001 Odissea nello spazio” va sostituita quella del
mostro di Frankenstein, assemblato utilizzando pezzi sparsi di cui proverò a
sintetizzare le origini e le peculiarità.
In un cantun vecc del nost Milan c’è un luogo che si chiama Cinque Vie, luogo di
incontri, di transazioni, di contrasti che non di rado degenerano in risse.
Il sistema sportivo italiano si forma alla confluenza delle cinque vie, diverse per
anzianità, ampiezza e caratteristiche.
La prima è un modesto viottolo di campagna logorato dai passi delle molteplici
generazioni che l’hanno percorso, olezzante di fritture e di dolciumi a buon
mercato, risonante del chiasso della sagra paesana.
E’ lo spazio dei giochi tradizionali. Prove di forza e di destrezza. Battaglie
combattute a pugni nudi, a spintoni, a sassate, a bastonate. Palii ippici,
podistici, remieri, natatori. Il calcio fiorentino. Il pallone a bracciale, il
tamburello, le bocce, inventati e codificati nelle corti rinascimentali e via via fatti
propri dalle classi subalterne.
E’ un mondo marginale, appartato, riluttante ad abbandonare la cornice festiva,
a staccarsi dalla comunità locale, ad inserirsi nel quadro istituzionale delle
associazioni, delle federazioni, dei campionati.
Ha origini altrettanto remote anche l’elegante strada privata su cui si muovono
a ritmo di minuetto i raffinati cultori delle arti accademiche, scherma ed
equitazione, assieme alla danza prodotti purissimi del Rinascimento italiano,
irradiati in tutta Europa da trattatisti e da maestri.
E’ un percorso angusto, riservato ad una cerchia ristretta di privilegiati,
aristocratici e militari, interessati a completare il corredo del perfetto gentiluomo
e ad addestrarsi allo scontro all’arma bianca, in battaglia come nel duello.
E’ una via che accetta a malincuore l’avvio dei lavori di modificazione e di
ampliamento che la costringeranno a fare i conti con l’oggettività dei risultati e
ad adeguarsi allo spirito agonistico.
Di più recente costruzione è un’austera e squadrata strada militare su cui
echeggiano passi di marcia, secchi comandi, echi di spari, fanfare ed inni.
Vi si incolonnano i cultori di quelle che gli storici francesi chiamano “pratiche
costrittive”, il tiro a segno e la ginnastica, intrise, come vi spiegherà l’amico
Sergio Giuntini, di valori patriottici e subordinate alla preparazione alla guerra.
Piombate in Italia al seguito delle armate napoleoniche, in una fase storica
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convulsa nella quale si affermano i modelli della mobilitazione permanente e del
cittadino – soldato, le pratiche costrittive si pongono inizialmente al servizio del
processo di costruzione dello stato nazionale, in un secondo tempo della
elaborazione di una identità condivisa.
L’apporto quantitativo fornito da questo filone è molto consistente ed è
innegabile che il sistema allo stato nascente abbia come spina dorsale le società
ginnastiche.
Ma le pretese egemoniche di questo settore, unico ad ottenere un minimo di
riconoscimento e di supporto dagli ambienti ufficiali, dovranno ben presto
scontrarsi con l’apparizione delle pratiche ludiche e soprattutto delle discipline
sportive.
Il viale alberato ed elegantemente adornato è la chiave di accesso degli svaghi
delle classi dominanti. Che arrivano da molto lontano, perché da sempre l’ozio e
il denaro sono prerogative dei vertici della piramide sociale. Che nell’Ottocento
subiscono tuttavia una autentica mutazione genetica.
Sull’approccio individuale ed informale prende il sopravvento la pratica
inquadrata da associazioni modellate sui club inglesi, che riuniscono attorno ad
uno specifico programma di attività individui appartenenti al medesimo spazio
sociale.
E’ una tendenza irreversibile che modifica i significati e le forme di svaghi
antichissimi come la caccia e la pesca e che impone l’imitazione dei prodotti
culturali recanti il prestigioso marchio made in England (ippica, alpinismo, tiro a
volo, vela, tennis, golf), gli stemmi delle stazioni turistiche invernali (pattinaggio
e sci), il sigillo della modernità (automobilismo, motociclismo, motonautica,
aviazione).
Comune e viva appare qui la preoccupazione di difendere a denti stretti i
privilegi di casta. Le élites abbandonano precipitosamente i settori minacciati da
intrusioni plebee, il ciclismo e il calcio delle origini, per arroccarsi in cittadelle
rese inespugnabili dalla rigidità dei meccanismi di ingresso nelle associazioni e
dalle cifre astronomiche richieste per l’affiliazione e per l’esercizio delle attività.
Altrettanto avvertita è l’esigenza di anteporre alle fatiche muscolari, alle mischie
scomposte, ai furori agonistici il disinteresse amatoriale e i piaceri della
mondanità.
Di modernissima concezione è la quinta via, disseminata di pietre miliari e di
orologi meccanici che geometrizzano lo spazio e il tempo, consentendo la
misurazione e il confronto delle prestazioni.
Lo sport, nato in Gran Bretagna tra la fine del Settecento e la prima metà del
XIX secolo, fatto proprio dall’Europa Continentale, dagli Stati Uniti e dalle
colonie inglesi, sbarca in Italia tra il 1860 e il 1890, anche se la maggior parte
dei suoi principi ideologici e organizzativi sono presenti già nei decenni
precedenti nell’ambito delle società che presiedono allo svolgimento delle corse
ippiche “all’inglese”.
Da apripista funzionano il canottaggio e ancor più il ciclismo, destinato a
diventare lo sport nazionale dell’Italia liberale, in particolare dopo che sulle
riunioni su pista prevarranno le affascinanti corse su strada.
Alla fine dell’Ottocento risale l’insediamento del calcio, che acquista una
importanza crescente solo negli anni che precedono la Grande Guerra, del
nuoto e delle discipline verso cui si orientano i ceti popolari, podismo, lotta e
sollevamento pesi.
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All’incrocio delle cinque vie, dove lo sport, facendosi largo a gomitate, si sforza,
riuscendovi in buona misura, di allontanare dalla loro fisionomia originaria tutte
le altre componenti, si stanno già innalzando le impalcature destinate a
sorreggere l’edificio.
Lo sforzo da intraprendere, già immane di per sé, è reso ancora più difficile
dalla quasi assoluta indifferenza del mondo politico e scolastico, che fa ricadere
per intero il peso della spinta promozionale sulle gracili spalle della società civile
dell’epoca.
Vi è da tessere la rete delle associazioni di base. Da intrecciare i nodi che ne
coordino le iniziative, le federazioni nazionali. Da predisporre attrezzature e
spazi di attività funzionali. Da allestire eventi pianificandone e concatenandone
le date di svolgimento. Da selezionare gli addetti ai lavori, dirigenti, tecnici,
giudici. Da produrre un apparato informativo. Da elaborare un sistema di valori.
Eppure, e siamo di fronte ad uno dei miracoli che contrassegnano le vicende
nazionali, allo scoppio della I Guerra Mondiale lo stato dell’arte è già
soddisfacente.
Diamo un’occhiata alla mappa dei lavori cominciando dalla tabella dei tempi.
L’insediamento del movimento associativo si sviluppa in tre fasi.
Nella prima, compresa tra il 1861 e il 1880, la struttura è sorretta dalla
ginnastica, dal tiro a segno, dalle sezioni del Club Alpino Italiano, cui si
aggiungono le associazioni che si occupano degli svaghi della classe agiata e i
primi circoli remieri e ciclistici.
La seconda, che ha per sfondo l’ultimo ventennio dell’Ottocento, fa registrare
una crescita costante che ha per protagoniste le discipline sportive.
Nei primi quindici anni del XX secolo si verifica un vero e proprio boom di nuove
fondazioni, che ha per centri propulsori le unioni sportive, il ciclismo e il calcio.
Parallelamente si costituiscono le federazioni nazionali, fattori insostituibili di
coordinamento e di standardizzazione delle regole e delle formule.
In rigoroso ordine di apparizione, per limitarci alle discipline più diffuse, entrano
in scena l’alpinismo (1867), la ginnastica (1869), il tiro a segno (1882), il
ciclismo (1885), il canottaggio (1889), il calcio (1898), il podismo (1899), il
nuoto (1900), l’atletica pesante (1902), l’atletica leggera (1910).
Nel 1914 assume una forma permanente il Comitato Olimpico Nazionale
Italiano.
Alla fine del cammino, ad eccezione del tiro a volo e del pattinaggio a rotelle,
tutte le attività hanno completato un processo di istituzionalizzazione che si
rafforza tramite l’allestimento dei campionati italiani.
Qui l’ordine cronologico mette in fila (1884), il canottaggio e la ginnastica
(1889), il podismo e il sollevamento pesi (1897), il calcio e il nuoto (1898), la
lotta (1899), lo sci, la scherma e il pugilato (1909).
La costruzione di impianti permanenti e funzionali si rivela quanto mai lenta e
stentata.
Negli strati più profondi dell’archeologia sportiva nazionale giacciono sferisteri e
ippodromi.
Poco più sopra gli scavi portano alla luce poligoni di tiro, palestre di società
ginnastiche, piste per il pattinaggio a rotelle e su ghiaccio, tracciati in terra
battuta per le corse ciclistiche su pista.
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Ad un livello superiore incontriamo campi da tennis e da golf e velodromi di più
moderna concezione.
Nello strato superficiale si mescolano gli spazi erbosi su cui si disputano le
partite di calcio, i campi da sci, le piste di atletica, le cattedrali nel deserto come
i mastodontici stadi di Torino e di Roma.
Latitano, ed è questo uno dei non pochi peccato originali di cui lo sport italiano
non si è ancora emendato, le attrezzature scolastiche, le piscine, gli impianti
polivalenti di base, le strutture al coperto, sostituite dai palcoscenici dei teatri e
dei caffè – concerto.
Priva di tradizioni autentiche e di una solida cultura in materia di attività fisico –
sportive, l’Italia trae un innegabile vantaggio dall’inserimento nel circuito
internazionale, ottenuto utilizzando tre canali.
L’affiliazione alle federazioni internazionali e l’adesione al movimento olimpico.
L’organizzazione sul suolo nazionale di grandi manifestazioni, campionati
mondiali ed europei e prove classiche.
La partecipazione alle più importanti competizioni internazionali di atleti e di
rappresentative, capaci di cogliere un bottino molto più consistente di quanto
non appaia nelle ricostruzioni elaborate dal regime, preoccupato di accreditare
l’immagine del fascismo demiurgo dello sport italico.
In quattro edizioni dei Giochi Olimpici l’Italia ottiene 15 medaglie d’oro, 11 di
argento, 5 di bronzo.
Il tiro a segno accumula 14 titoli iridati individuali e a squadre, il ciclismo due.
14 sono anche i successi degli armi italiani nei campionati europei di
canottaggio.
E non è finita. Vittorie di vetture e di piloti italiani sulle piste automobilistiche
europee e americane. Trionfi di schermidori e cavalieri. 13 affermazioni dei
tiratori a volo nel Grand Prix du Casinò di Montecarlo, vero e proprio
campionato mondiale ufficioso.
Il record mondiale sui mille metri ottenuto nel 1908 dal grande podista Emilio
Lunghi. Il trionfo di Giuseppe Sinigaglia nelle Challenge Sculls di Henley, la più
prestigiosa prova remiera internazionale.
Passiamo al registro delle maestranze.
Per censirle occorrerebbero dati molto più completi ed attendibili di quelli in mio
possesso, riferiti a circa 10.500 associazioni sportive e parasportive fondate tra
il 1861 e il 1915.
E’ quasi impossibile, vi assicuro, fotografare la situazione in un momento
preciso, districarsi tra minuscole aggregazioni ed entità che vantano centinaia di
tesserati, distinguere i soci attivi, generalmente in netta minoranza rispetto alle
altre tipologie di tesserati.
Risulta più semplice, per contro, tracciare l’identikit dei praticanti.
Che sono in prevalenza adulti (gli under 18 costituiscono una ristretta pattuglia)
e maschi (il lungo e tormentato itinerario di accesso alle pratiche e alle
associazioni dell’altra metà del cielo merita una trattazione a parte).
Molto diversi per estrazione sociale: presenti al gran completo la nobiltà e l’alta
borghesia; folta rappresentanza della media e della piccola borghesia e delle
aristocrazie operaie, presenze più sporadiche del proletariato di fabbrica,
latitanza del mondo contadino.
Il cantiere è una babele di dialetti.
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La distribuzione delle pratiche e delle associazioni sul territorio rispecchia i
diversi livelli di sviluppo economico, il volume del capitale sociale in cui si
esprimono il senso civico e la predisposizione ad aggregarsi, la natura degli
insediamenti, che avvantaggiano le zone con una rete urbana a maglie fitte e
ricche di dinamiche località secondarie.
I primi giornali specializzati fanno la loro comparsa attorno al 1860. Si tratta di
modesti bollettini di società e di federazioni che operano nei settori dell’ippica,
del tiro a segno, della ginnastica e dell’alpinismo.
Tra il 1876 e il 1882 entrano in campo le eleganti riviste mondane che
inseriscono nella testata il termine “sport”, riferito in modo esclusivo alle
discipline equestri, alla caccia, al tiro a volo.
Nel ventennio successivo è la volta di fogli che si occupano di un’unica disciplina
e di giornali polisportivi sul tipo della gloriosa “La Gazzetta dello Sport”, fondata
nel 1896.
Nel primo Novecento il quadro si arricchisce di riviste contenenti splendide
immagini fotografiche, di periodici satirici e sportivo – culturali, di fogli che
documentano le cronache sportive locali.
Anche in questo caso il bilancio risulta molto meno deludente di quanto si
potrebbe credere, se è vero che il mio elenco provvisorio di testate che si
occupano in misura esclusiva o comunque consistente di sport supera le 420
unità.
Sarebbe vana fatica ricercare nella pubblicistica dell’epoca un corpo organico e
condiviso di contenuti ideologici.
La mancanza di centri autorevoli di elaborazione e di legittimazione paragonabili
alle istituzioni educative anglosassoni, ai licei parigini, alle associazioni
ginnastiche tedesche, così come il silenzio assordante del mondo politico,
scolastico e culturale, impone una navigazione a vista.
Nell’apparato valoriale si intrecciano istanze formative, influssi umanitari e
paternalistici, retaggi delle tradizioni cavalleresche, il fair – play e l’approccio
amatoriale tipici del modello sportivo inglese.
Il carattere apolitico fieramente affermato dalle disposizioni statutarie, effettivo
nelle associazioni che esauriscono la loro ragione di essere nella pratica di una
attività, si riduce a mera finzione nella vita quotidiana di sodalizi che,
cominciando dalla denominazione sociale, dall’apparato simbolico, dalla
partecipazione assidua ai momenti commemorativi della storia nazionale,
risultano del tutto funzionali all’ideologia dominante.
Nel fabbricato ancora in costruzione affiorano già le prime crepe.
I primi a cogliere gli aspetti contraddittori del sistema sono i cattolici, dal 1870
irriducibili oppositori dello stato liberale, assorbiti nell’azione di arginamento
delle violente campagne anticlericali che vedono in prima linea i ricreatori laici
promossi dalle logge massoniche.
Il mondo cattolico, forte di una presenza capillare, sensibile alle tematiche
concernenti l’educazione delle nuove generazioni, coinvolto nella sua
espressione più avanzata, il movimento democratico – cristiano, in un serrato
confronto con la modernità e con i suoi prodotti culturali, fa leva su un fitto
reticolo di associazioni per formare a partire dal 1890 dapprima sezioni
ginnastiche di oratori e di circoli, in seguito organismi autonomi.
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Quando, agli albori del Novecento, le associazioni cattoliche bussano alla porta
della Federazione Ginnastica per ottenere l’affiliazione, la finzione rivela tutti i
suoi elementi di debolezza.
Minacciata nella su incontrastata supremazia, la Federazione oscilla tra
l’intransigenza assoluta che nega alle forze disposte a testimoniare a viso aperto
la propria appartenenza ideologica di mescolarsi alle associazioni liberali, di fatto
politicizzate, e le soluzioni all’italiana che conducono all’accoglimento delle
istituzioni che dissimulano la propria fisionomia religiosa.
L’esito è tutt’altro che inevitabile.
Nel 1906 una parte delle associazioni marginalizzate si riuniscono nella
Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche Italiane (F.A.S.C.I.), con sede
a Roma e posta alle dipendenze dirette delle gerarchie ecclesiastiche.
A un anno di distanza le società attive nella regione guida dello sport cattolico,
in aperta polemica con l’istituzione capitolina, danno vita alla Federazione
Ginnastica Regionale Lombarda.
I cattolici forniscono in ogni caso un apporto sostanzioso alla costituzione del
sistema.
In meno di dieci anni sorgono infatti più di 800 società, in prevalenza
ginnastiche, ma anche escursionistiche, ciclistiche, podistiche, calcistiche,
polisportive, concentrate nelle regioni
nord – orientali e nel Lazio.
Al dinamismo organizzativo non corrisponde tuttavia una riflessione in grado di
enucleare e di presentare i tratti distintivi dello sport cattolico.
Unanimi nel denunciare gli aspetti degenerativi dei modelli dominanti, i cattolici
non riescono ad affrancarsi dalla subalternità ai principi della suddivisione in
categorie di merito, alla logica dei concorsi, all’enfasi posta sulle classifiche e sui
vincitori.
E’ una subalternità che emergerà in tutta evidenza nel 1915, quando lo sport
cattolico si unirà a quello nazionale nel sostenere la necessità dell’intervento in
guerra dell’Italia
In una analoga zona grigia si collocano le associazioni ginnico – sportive
repubblicane, concentrate nella Romagna, e le prime timide iniziative poste in
atto dal movimento operaio.
Queste ultime devono fare i conti con il pregiudiziale antisportismo che anima le
componenti massimaliste del partito e della federazione giovanile socialiste,
nell’età giolittiana maggioritarie rispetto alla più pragmatica componente
riformista.
Lo sport strumento della borghesia, strumento del militarismo, oppio delle classi
lavoratrici, diventa un nemico da combattere.
Prive di riferimenti culturali e di supporti organizzativi, le associazioni sportive
proletarie, tranne rarissime eccezioni in cui è avvertibile una esplicita
rivendicazione di classe, finiscono con il ricalcare le forme istituzionali
preesistenti.
L’Unione Operai Escursionisti Italiani non si discosta dalle analoghe associazioni
borghesi. E perfino le espressioni all’apparenza più connotate in senso
ideologico, i ciclisti rossi, si ispirano all’attività dei reparti di volontari ciclisti di
matrice nazionalista.
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Ed è proprio nel variegato e chiassoso mondo del nazionalismo e
dell’irredentismo che nel primo scorcio del XX secolo il sistema sportivo scopre
un avversario inatteso, tanto più insidioso perché agisce dall’interno.
Tra il 1903 e il 1815 nello sport sono trapiantati l’antipolitica, l’insofferenza per
la democrazia, i sarcasmi che investono il grigiore dell’Italietta, le aspirazioni
che prefigurano per il paese un destino di grande potenza economica, militare,
coloniale e, ovviamente, sportiva.
Vati e duci sfornano a getto continuo suggestive parole d’ordine: il Risorgimento
tradito da completare attraverso gli slanci disinteressati ed eroici delle nuove
camicie rosse, la Terza Italia, la Grande Proletaria, i miti della macchina e della
velocità, l’agonismo muscolare, la violenza catartica, la guerra sola igiene del
mondo.
A questo confuso substrato lessicale e concettuale, su cui poggia la
mobilitazione generale dello sport nazionale in favore della scelta interventista,
attingerà a piene mani il fascismo, nello stadio di movimento prima, poi in
quello di regime totalitario.
Ma questa è già un’altra storia che, se volete, sarà al centro della prossima
puntata.
BIBLIOGRAFIA
Sergio Giuntini, Sport scuola e caserma dal Risorgimento al primo conflitto mondiale,
Padova, Centro Grafico Editoriale, 1988;
Felice Fabrizio, Fuoco di bellezza. La formazione del sistema sportivo nazionale in Italia
1861 – 1914, Milano, Sedizioni, 2011;
Felice Fabrizio, Corpi per la patria. Le attività motorie nel lungo Risorgimento 1784 –
1915, Milano, Sedizioni, 2013.
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LO SPORT NEI TOTALITARISMI E LA SHOAH
SPORT E DITTATURE IN ITALIA E IN EUROPA
PROF. SERGIO GIUNTINI
“Nel quadro delle profonde evoluzioni della società europea fra le due guerre
mondiali, lo sport assolse un ruolo politico e sociale di rilievo soprattutto
all’interno dei regimi totalitari: questi ne sfruttarono le potenzialità non soltanto
come mezzo di propaganda sul piano internazionale, ma anche come strumento
di controllo sociale. Esemplare l’esperienza del fascismo italiano, che mirò a
legare a sé gli strati popolari – oltreché attraverso la coercizione – attraverso
una loro progressiva familiarizzazione a valori e simboli di una comune
coscienza nazionale. Il regime mussoliniano costituì il primo esempio di
utilizzazione dell’organizzazione sportiva come strumento di propaganda. Il
modello italiano avrebbe trovato imitatori non solo nel Terzo Reich hitleriano,
ma in gran parte dei regimi totalitari europei: dall’Ungheria di Horthy alla
Francia di Vichy, dalla Spagna di Franco al Portogallo di Salazar […]. Quanto le
imprese divenissero funzionali alla propaganda del regime fascista è
testimoniato dalla popolarità che, a partire dagli anni venti, venne ad assumere
il fenomeno sportivo nella società italiana. Se alle origini, e ancora nei primi
anni del Novecento, lo sport era fatto elitario, proprio negli anni del regime
fascista esso si avviò ad assumere caratteristiche di massa. La crescita degli
sport nell’Italia degli anni trenta fu accompagnata dalla nascita di uno dei miti
più rappresentativi del fenomeno sportivo: quello del divismo”.
Così Stefano Pivato, redattore della voce “Sport” (altrettanto utili sono le pagine
che a questo tema dedica anche il Dizionario dei fascismi di Pierre Milza, Serge
Berstein, Nicola Tranfaglia, Brunello Mantelli, edito da Bompiani nel 2002; in
particolare vedi le pp. 606-609) nel recente Dizionario del fascismo (2003)
curato da Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto per i tipi della Einaudi di Torino.
Pur nella loro sinteticità, le righe di Pivato indicano nell’avvento del totalitarismo
fascista un punto di svolta, uno spartiacque decisivo per le sorti dello sport in
Italia. Sia qualitativo, sul versante delle prestazioni, con l’eccezionale secondo
posto dietro i padroni di casa nel medagliere delle Olimpiadi di Los Angeles del
1932 e le due affermazioni nella Rimet di calcio del 1934 e 1938; sia
quantitativo, per l’incremento registrato nel numero di praticanti inquadrati
nelle federazioni del CONI, nell’Opera Nazionale Balilla (ONB), nell’Opera
Nazionale Dopolavoro (OND), nei Gruppi Universitari Fascisti (GUF), e nelle
dotazioni di strutture impiantistiche per lo sport. Il fascismo, pur in presenza di
innegabili gravi contraddizioni e del suo carattere di regime violentemente
repressivo e autoritario, introdusse quindi una notevole, innegabile,
discontinuità rispetto ai limiti partecipativi e organizzativi dello sport nell’Italia
liberale. Ciò, tramite una serie di tappe forzate, attuate tra il 1925 e il 1928
sotto l’attenta regia del massimo ideologo dello sport Lando Ferretti, che per
brevità ricapitoliamo in questa cronologia:
- 1° maggio 1925: istituzione OND;
- 3 aprile 1926: creazione ONB;
- 1926: emanazione della Carta di Viareggio, con cui si riordinava
organicamente tutto il sistema calcistico nazionale;
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- 1927: il CONI veniva definitivamente asservito all’autorità politica, passando
alle dirette dipendenze del Partito Nazionale Fascista (PNF); - 1928: attivazione
dell’Accademia di Educazione Fisica maschile della Farnesina a Roma;
- 30 dicembre 1928: promulgazione della Carta dello Sport, con la quale si
delimitavano i campi d’azione sportiva rispettivamente del CONI, dell’ONB,
dell’OND, dei GUF, della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale (MVSN).
Con queste riforme, poteva ritenersi sostanzialmente ultimata l’opera di
completa “fascistizzazione” dello sport italiano. Un’architettura oltremodo
articolata, ma a suo modo efficiente, sulla quale si modulerà l’esperienza
sportiva nazionalsocialista. Sotto questo aspetto, come notato anche da Pivato,
lo sport nella Germania nazista ricalcò esattamente quello italiano. Più
segnatamente, si suddivise in tre precipue branche non dissimili
dall’organizzazione sportiva fascista:
1) Lo sport agonistico di vertice sottoposto al concetto direttivo del
Fuhrerprinzip e al rigido controllo del Reichsportfuhrer: nella fattispecie di Hans
Von Tschammer und Osten, una sorta di Lando Ferretti tedesco; qualcosa cioè,
di facilmente riconducibile al CONI italico, che durante il Ventennio vide
avvicendarsi alla sua presidenza segretari o vice-segretari del PNF;
2) Lo sport giovanile affidato alla Hitlerjugend, che all’incirca riproponeva i
meccanismi della formazione educativa totalitaria proposti dall’ONB.
3) Lo sport non competitivo per le masse lavoratrici, gestito dal movimento
Kraft-durch-Freude (La Forza con la Gioia) che si esemplava chiaramente
sull’OND mussoliniana.
Questo riflettersi oggettivo dello sport nazista nel modello dello sport fascista
italiano, andrebbe naturalmente maggiormente studiato e approfondito. Esso
pare davvero costituire, infatti, uno degli elementi più interessanti mediante cui
comparare i due principali totalitarismi di destra nell’Europa del Novecento.
Stante ciò, a proposito soprattutto del fenomeno sportivo nazionalsocialista,
preme qui sottolineare un aspetto peculiare fino ad oggi, forse, non
adeguatamente valorizzato dalla storiografia. Ovvero l’impatto che le Olimpiadi
berlinesi del 1936 – la più macroscopica autocelebrazione dello sport nazista e
dell’ideologia razzista e antisemita perseguite dall’hitlerismo – ebbero sulle
opinioni pubbliche e i governi democratici del mondo libero occidentale. Al
riguardo si è sempre sostenuto che vi fu una pressoché assoluta assenza di
opposizione a quei Giochi Olimpici, rilasciando così una folle patente di
legittimità all’hitlerismo. Tutto questo è in buona parte vero, ma sembra anche
giusto rivalutare appieno i diversi, più robusti tentativi di boicottaggio e
contestazione, che tali Olimpiadi in realtà suscitarono. Si pensi all’Olanda e in
particolare agli Stati Uniti d’America, che vissero una lacerante spaccatura
interna tra A.A.U. (Athletic Amateur Union) e parti del Comitato Olimpico
Americano presieduto da Avery Brundage, il futuro presidente del C.I.O.
Contrario alla partecipazione della squadra nord-americana era il massimo
dirigente dell’AAU Jeremiah Mahoney. Altrettanto sfavorevole il membro
statunitense del CIO, generale Charles H. Sherril, che, il 24 agosto 1935,
ottenuto un colloquio di un’ora con Hitler, cercò vanamente di convincere il
Fuhrer ad inserire nella nazionale olimpica germanica – quale atto di buona
volontà – almeno un atleta ebreo-tedesco. Viceversa, perché gli Stati Uniti si
presentassero regolarmente ai Giochi di Berlino si dichiarò sempre Brundage, il
quale giunse a sostenere che dietro un’eventuale boicottaggio si celavano
facoltose lobbies ebraiche e comuniste. E perciò, fino all’ultima votazione, con
un dibattito rimasto accesissimo in seno al Congresso dell’AAU del 6-8 dicembre
1935, la decisione se aderire o meno rimase incerta e contestatissima.
Parimenti difficile fu la scelta cui si trovò di fronte la Francia. Appena insediatosi
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il nuovo governo di Fronte Popolare, quest’ultimo, in una turbinosa seduta
parlamentare del 9 luglio 1936, finanziò la spedizione transalpina a Berlino, e,
nel medesimo tempo però, offrendo un saggio di assai poco edificante
realpolitik, stanziò 600.000 franchi a vantaggio di coloro che si fossero recati a
disputare l’Olimpiada Popular di Barcellona. Tale Olimpiada, che avrebbe dovuto
tenersi nella capitale catalana dal 19 al 26 luglio 1936, si proponeva
esplicitamente quale contro-Olimpiade; avrebbe dovuto rappresentare
simbolicamente, confluendovi gli atleti convintamente antifascisti di molte
nazioni, la risposta del mondo civile ai giochi hitleriani – una saga del
tradimento dei più elementari diritti umani – dell’agosto successivo. Ad
abortirne sul nascere lo svolgimento, fu l’Alzamiento franchista del 18 luglio
1936; la ribellione armata dei militari contro la Repubblica, che trascinò la
Spagna in una lunga, brutale guerra civile protrattasi sino al 1939.
Quell’incompiuta Olimpiada Popular resterà comunque tra le pagine migliori, più
belle, della storia della coscienza civile e democratica tra le due guerre. Un altro
capitolo, quasi sconosciuto, su cui gli storici dovranno concentrare
maggiormente i propri studi, affinchè non ne vada colpevolmente persa la
memoria, il denso significato ideale e morale.
Bibliografia:
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H.Bernett Der weg des sports in die nationalsozialistische diktatura, Schorndorf,
Hofmann, 1983.
R.Bianda, G.Leone, G.Rossi, A.Urso Atleti in camicia nera. Lo sport nell’Italia di
Mussolini, Roma, Giovanni Volpe Editore, 1983.
D.Bolz, Nazismo, olimpismo e antichità. I tre volti culturali delle Olimpiadi del 1936, in
Lancillotto e Nausica, n.3, 2003, pp. 28-35.
F.Fabrizio Sport e Fascismo. La politica sportiva del regime 1924-1936, Rimini-Firenze,
Guaraldi, 1976.
F.Fabrizio Storia dello Sport in Italia. Dalle società ginnastiche all’associazionismo di
massa, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1977.
G.Freise Anspruch und wirklichkeit des sports in nationalsozialismus, Ahrensburg,
Czwalina, 1974.
S.Giuntini Sport e fascismo: il caso dell’atletica leggera, Palermo, il CorriSicicilia
Quaderni, 2003.
M.Grimaldi La Nazionale del Duce, Roma. Società Stampa Sportiva, 2003.
J.M.Hobermann Politica e sport. Il corpo nelle ideologie politiche dell’800 e del ‘900,
Bologna, Il Mulino, 1988.
A.Kruger, Fasci e croci uncinate, in Lancillotto e Nausica, n.1-2, 1991, pp.88-101.
A.Kruger, “Non è affar da negri”. La questione della razza si affaccia a Berlino, in
Lancillotto e Nausica, n.1-2-3, 1995, pp.56-67.
R.D.Mandell The Nazi Olympics, Chicago, University of Illinois Press, 1987.
G.L.Mosse La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa
in Germania (1815-1933), Bologna, Il Mulino, 1975.
S.Pivato L’era dello sport, Firenze, Giunti-Casterman, 1994.
X.Pujadas, C.Santacana, Le mythe des Jeux Populaires de Barcelone, in Aa.Vv. Les
origines du sport ouvrier en Europe a cura di P.Arnaud, Paris, l’Harmattan, 1994, pp.
267-277.
R.Hueberhorst, L’uovo del serpente. La caduta della Repubblica di Weimar e le
organizzazioni della cultura fisica, in Lancillotto e Nausica, n. 2-3, 1997, pp. 48-53.
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LO SPORT FASCISTA
PROF. FELICE FABRIZIO
Per addentrarci in una realtà complessa come quella rappresentata dallo sport
fascista dovremmo star qui a parlare fino a domani. E forse non basterebbe.
Ho scelto perciò di concentrare la relazione su un aspetto particolare che mi
auguro possa suscitare il vostro interesse, le funzioni affidate dal regime
all’educazione fisica scolastica ed extrascolastica ed il ruolo svolto dagli
insegnanti e dagli istruttori.
Proverò a sintetizzare le tappe di attuazione, ad evidenziare ciò che questa
componente strategica è in grado di dire sul sistema complessivo, a tracciare
un bilancio dell’esperienza.
LE TAPPE
Nel campo scolastico l’Italia liberale lascia in eredità al fascismo una situazione
ben poco esaltante.
Il 27% della popolazione è ancora analfabeta. Il 49% degli edifici è inadeguato.
Le aule mancanti sono più di 32.000.
Ancora più disastrosa si rivela la situazione dell’educazione fisica.
Gli insegnanti usciti dagli istituti di magistero di Torino, Roma e Napoli sono
meno di 500, sottopagati e frustrati.
Nella scala gerarchica e retributiva occupano saldamente l’ultimo gradino. Le
loro valutazioni non influiscono sul giudizio finale e sono ammessi al collegio dei
docenti solo su invito del preside. Hanno acquisito solo dal 1909 il diritto alla
pensione e agli scatti di anzianità. Guadagnano meno dei paria della categoria,
gli insegnanti di calligrafia. Tengono lezione negli orari rifiutati dai colleghi in
ambienti fatiscenti e privi di attrezzature (più della metà delle scuole secondarie
risulta sprovvista di palestra), sulla base di programmi e di metodi antiquati in
cui si riflettono i contrasti tra le correnti conservatrici e le istanze di
rinnovamento.
Fuori dalle pareti scolastiche solo le associazioni cattoliche e i reparti di scout si
dedicano in modo attivo e continuativo all’educazione fisica dei giovani.
Il fascismo, impegnato prima a costruirsi come movimento, poi alla conquista
del potere, si trova anche qui di fronte alla scelta tra la conservazione
dell’esistente, la sua parziale modificazione, l’adozione di provvedimenti che
sanciscano la rottura col passato.
A prevalere è inizialmente quest’ultima soluzione.
Nel quadro della riforma scolastica varata da Giovanni Gentile nel marzo del
1923 viene creato presso l’istituto polisportivo di Milano, situato alla Città degli
Studi, l’Ente Nazionale per l’Educazione Fisica (ENEF), alle dipendenze del
Ministero della Pubblica Istruzione.
Il decreto istitutivo prevede che gli alunni delle scuole secondarie svolgano le
lezioni di educazione fisica sotto la guida degli istruttori delle società
ginnastiche e sportive designate dall’ente negli impianti da esse messi a
disposizione.
Alle attività inserite nell’orario scolastico in due pomeriggi o in una mattina e in
un pomeriggio si aggiungono otto giorni all’anno destinati alle attività sportive e
alle passeggiate ginnastiche.
Sull’ENEF si scatena un fuoco incrociato.
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I pedagogisti rimproverano a Gentile la contraddizione tra l’allontanamento
della ginnastica dalle scuole e una concezione al cui interno il soggetto è
concepito come unità indivisibile di spirito e di corpo, destinataria di un
processo educativo globale da attivare in un unico spazio, quello scolastico.
Gli insegnanti di ginnastica scendono sul sentiero di guerra. I tre istituti
magistrali vengono chiusi, il ruolo statale è cancellato, i docenti con più di venti
anni di anzianità sono collocati a riposo o trasferiti ad altri uffici, col risultato di
falcidiare i 4/5 degli organici.
Protestano le famiglie, che per ottenere l’iscrizione dei figli all’ENEF, obbligatoria
e certificata da uno speciale libretto trasmesso ai capi di istituto all’atto dello
scrutinio, devono versare la non modica somma di trenta lire annue, con le
quali l’ente provvede a corrispondere lo stipendio agli istruttori.
Le associazioni, dopo il tripudio iniziale, devono fare i conti, oltre che con la
carenza di quadri tecnici e di strutture, con una situazione di lavoro che
comporta la gestione da parte di ogni istruttore di allievi raggruppati per gruppi
di età in squadre di 140 elementi.
La retromarcia è immediata. L’inattuabilità degli indirizzi tecnici e operativi,
sottoposti a continue variazioni, comporta il ritorno alle palestre scolastiche e
all’utilizzo del personale docente.
La breve parabola dell’ENEF, che nel frattempo si è trasferito a Roma ed ha
istituito a Bologna una scuola superiore di educazione fisica, si esaurisce nel
1927.
Nel frattempo gli scenari politici sono in rapida evoluzione.
Assestatosi al potere, il fascismo procede a marce forzate alla costruzione dello
stato totalitario.
Ogni forma di opposizione viene smantellata e tra il 1927 e il 1928 sono sciolte
la federazione sportiva cattolica e le associazioni scoutistiche di matrice laica e
religiosa.
Parallelamente prende corpo un complesso di iniziative che mirano a porre
sotto il controllo del partito – stato ogni aspetto della vita civile tramite la
promozione di organismi che inquadrano tutta la popolazione a seconda delle
fasce di età e dei diversi bisogni sociali e culturali.
In questa prospettiva riveste un’importanza fondamentale il controllo delle
giovani generazioni, non inquinate dalle esperienze maturate nell’Italia liberale,
materiale incorrotto facilmente malleabile grazie ad un attento noviziato
spirituale.
Per un regime che si autorappresenta come rivolta dei giovani contro i dinosauri
della politica, che ha per capo il “princeps juventutis”e per inno “Giovinezza”,
l’inserimento dei cittadini di domani nella vita nazionale è condizione
irrinunciabile a garantire la sopravvivenza del fascismo ed il conseguimento dei
suoi obiettivi, individuati nella creazione dell’”italiano nuovo” e delle legioni degli
otto milioni di baionette.
Altrettanto irrinunciabili appaiono inoltre la selezione e l’uso di operatori
culturali e di quadri tecnici di piena affidabilità, all’altezza della missione di
orientare verso le nuove tavole dei valori le menti e i corpi.
Già, i corpi. Nella formazione del fascista integrale l’esercizio fisico acquista una
centralità assoluta.
Nel 1926 sorge l’Opera Nazionale Balilla (ONB), che aggrega i ragazzi dagli otto
ai quattordici anni. Ad essa dal 1927 compete l’insegnamento dell’educazione
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fisica nelle scuole secondarie, compito che nel 1928 viene esteso alle
elementari.
Gli orientamenti programmatici sono contenuti in dodici manualetti elaborati
dalla presidenza e distribuiti in migliaia di esemplari.
Nel 1928 sorge a Roma l’Istituto Superiore Fascista di Magistero per
l’educazione ginnico – sportiva, divenuto in seguito Accademia, finalizzato a
rafforzare le file degli insegnanti, sino al allora scelti tra gli ex – combattenti e i
fascisti di provata fede.
Al 1929 risalgono il passaggio dell’ONB alle dipendenze del Ministero
dell’Educazione Nazionale, che sostituisce quello della pubblica istruzione,
l’apertura all’interno del ministero di un sottosegretariato per l’educazione fisica
giovanile, l’assorbimento nell’ONB delle Piccole e delle Giovani Italiane fondate
nel 1925 dai Fasci Femminili.
Nel 1930 alle organizzazioni già esistenti si aggiungono i Fasci Giovanili di
Combattimento, aperti ai giovani dai 18 ai 21 anni e posti sotto il diretto
controllo del Partito Nazionale Fascista.
Con il 1932 entra in funzione l’Accademia Femminile Fascista di Orvieto.
Nel 1934 viene emanata la legge sull’istruzione premilitare, che ha inizio appena
il fanciullo è in grado di apprendere.
A conferma dello spostamento verso il basso dei confini della giovinezza sempre
nel 1934 interviene l’istituzione dei Figli e delle Figlie della Lupa, che hanno per
destinatari i bambini dai sei agli otto anni. E dal 1935, ad ogni lieto evento, i
genitori ricevono dall’ONB un bilietto di felicitazioni contenente l’invito ad
iscrivere il neonato alla grande schiera dei ragazzi di Mussolini.
Il 1937 è la data di costituzione della Gioventù Italiana del Littorio (GIL) che,
alle dirette dipendenze di Achille Starace, che è anche segretario del Partito e
presidente del CONI, inquadra la popolazione giovanile dai sei ai 21 anni, età
prescritta per l’ingresso nel partito.
Dal 1937 la GIL ottiene il monopolio dell’istruzione premilitare, dal 1939 il
controllo delle accademie di Roma e di Orvieto, dal 1941 la gestione di tutti gli
insegnanti di educazione fisica.
Vorrei soffermarmi a questo punto sui due pilastri che il regime pone alla base
del suo disegno politico, pedagogico e culturale: le organizzazioni giovanili e la
scuola.
I PILASTRI
L’ONB e la GIL sono macchine organizzative molto complesse.
La struttura è piramidale e prevede una presidenza nazionale, comitati
provinciali e comitati comunali.
I finanziamenti provengono da diverse fonti, a cominciare dalle quote annuali di
tesseramento, passate nel tempo da due a cinque lire, e dai contributi statali,
inizialmente piuttosto parchi, poi sempre più consistenti.
Gli iscritti sono suddivisi per età. Figli e Figlie della Lupa (6 – 8 anni). Balilla (8 –
10 anni), Balilla Moschettieri (11 – 12 anni), Piccole Italiane (8 – 14 anni).
Avanguardisti (13 – 14 anni), Avanguardisti Moschettieri (15 – 17 anni), Giovani
Italiane (15 – 17 anni). Giovani Fascisti e Giovani Fasciste (18 – 21 anni).
Nella solenne cerimonia annuale della Leva Fascista si celebra il rito di
passaggio alle categorie superiori, che segna una crescita di status, di
responsabilità e di competenze.
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Lo imparerà sulla sua pelle il protagonista de “Il primo furto non si scorda mai”
di Jannacci, che scambia per tacchino un’aquila reale perché, essendo ancora
avanguardista, non conosceva i tacchini. Chi conosceva i tacchini era giovane
fascista.
L’ordinamento, ispirato al modello militare dell’antica Roma, prevede squadre,
manipoli, centurie, coorti, legioni e una complessa struttura gerarchica
(caposquadra, capo manipolo, capo centuria, cadetto, primo cadetto). I
graduati, 120.000 nel 1936, sono forgiati da corsi di formazione.
Le divise, obbligatorie durante le ore di ginnastica, i saggi, le competizioni, sono
ricalcate per i ragazzi su quelle della Milizia Volontaria per la Sicurezza
Nazionale.
Le attività, che si sforzano di conciliare pensiero e azione, cultura ed esercizio
fisico, libro e moschetto, prevedono il dispiegamento di simboli e di liturgie
intese a creare un clima di mobilitazione permanente.
Il tesseramento rimane facoltativo sino al 1939. Ma la mancata affiliazione
comporta rischi di isolamento e discriminazione e, oltre ad incidere sul voto di
ginnastica e sulla erogazione delle borse di studio, ipoteca la carriera nel settore
pubblico e la destinazione ai reparti militari.
Le cifre degli iscritti sono impressionanti: 5.499.267 nel 1936, 7.869.305 nel
1940.
Ma le organizzazioni giovanili sono ancora lontane dall’adempiere per intero il
compito per cui sono state concepite, il controllo del tempo libero
extrascolastico: le estati, punteggiate di colonie, campeggi, crociere; i
pomeriggi, primo tra tutti quello prefestivo, dal 1935 occupato dalle iniziative
previste dal sabato fascista; i giorni festivi consacrati alle competizioni sportive
così da indurre il ministero a vietare agli insegnanti di prevedere interrogazioni
al lunedì.
Sul terreno specifico dell’educazione fisica, presso ogni comitato provinciale e
comunale è istituito un ufficio ginnico – sportivo incaricato di organizzare e
dirigere l’insegnamento presso gli impianti messi a disposizione dalle scuole e
dagli enti locali. Sono gli uffici a provvedere alla nomina degli insegnanti e degli
istruttori, saliti dai 1.034 del 1926 ai 14.038 del 1936.
La precedenza nelle graduatorie è data ai diplomati delle accademie di Roma e
di Orvieto e dell’Accademia Littoria creata nel 1936 e al personale uscito dai
collegi della GIL e dai ranghi delle organizzazioni giovanili sulla base di corsi
inseriti nei campi estivi.
Le accademie, strutturate su due anni obbligatori più un anno di
specializzazione, dal 1939 diventati tre anni con relativa acquisizione del grado
di facoltà universitaria, prevedono l’internato obbligatorio e il versamento di una
onerosa retta annua ammontante a 5.000 lire.
La selezione in ingresso è rigidissima. Le autorità di polizia sono incaricate di
svolgere indagini sulle famiglie dei candidati, cui si richiede l’iscrizione al PNF
comprovata dal segretario del fascio. Dal 1938 diventa obbligatoria
l’appartenenza alla razza ariana, a conferma di una deriva generale ribadita
dalla nomina a rettore del professor Nicola Pende, tra gli estensori del
Manifesto degli scienziati razzisti.
Il piano di studi prevede una formazione pedagogica e didattica, esercitazioni
pratiche, una intensissima attività ginnico – sportiva che ha per cornice impianti
moderni e funzionali, corsi di legislazione e di cultura fascista.
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Agli accademisti è affidato inoltre l’incarico di tenere corsi di taglio politico e
pedagogico per gli insegnanti delle scuole elementari.
Il diploma dà diritto all’immissione in ruolo presso le scuole e all’impiego in
qualità di direttori degli uffici ginnico – sportivi e di istruttori nelle organizzazioni
giovanili.
Nell’accademia di Orvieto il personale, a cominciare dalla comandante, è
interamente femminile.
L’accademia è il mistico ghetto in cui si costruisce l’aristocrazia del comando, il
laboratorio di sperimentazione dei modelli educativi da proporre alle giovani
generazioni, dei prototipi dell’italiano nuovo animati da una fede incrollabile
nelle grandi idee dell’Uomo che quotidianamente la ravviva con il suo genio
romano.
In essa si plasmano ruoli e immagini che valorizzano l’autodisciplina, l’ordine
simbolico e gestuale, l’abnegazione, il fisico scultoreo dell’uomo, la grazia
coniugata alla salute nella donna.
L’attività scolastica ed extrascolastica fa capo a tre grandi aree.
L’insegnamento si concentra in due ore settimanali, alle quali si aggiunge una
mezza giornata riservata alle esercitazioni all’aperto.
Nei programmi ispirati alle teorie di Giuseppe Monti e ancor più di Eugenio
Ferrauto è evidente la rigida separazione tra ragazzi e ragazze in cui si
rispecchia la concezione fascista delle identità sessuali.
A partire dalla terza elementare all’educazione fisica maschile è attribuito il
compito precipuo di sviluppare lo spirito militare e di abilitare i giovani alla
difesa nazionale. A trionfare sono gli allineamenti e gli esercizi ordinativi, sui
quali nelle medie si innestano gli esercizi collettivi a corpo libero e agli attrezzi, i
giochi che temprano romanamente le anime e i corpi, le esercitazioni con fucili
di legno o con moschetti modello 91 in miniatura.
La palestra che abitua all’obbedienza, alla destrezza, alla forza, alla resistenza,
è l’anticamera naturale della caserma. La fisicità, il volto abbronzato, il
portamento marziale sono altrettanti sinonimi di virilità.
I programmi femminili si concentrano su giochi, allineamenti, esercizi di grazia,
ginnastica medica, ritmica e collettiva.
L’obiettivo prioritario è al servizio di una volontà di potenza che postula il
massimo incremento demografico. Totalmente subordinata all’uomo, cui solo
spetta l’azione, la donna è chiamata a rafforzare il suo corpo così da poter
offrire con fierezza alla patria figli sani e robusti, in ossequio al principio
secondo cui la maternità sta alla donna come la guerra ll’uomo.
Il secondo filone si collega ai saggi ginnici, cari a tutti i regimi totalitari,
immortalati in innumerevoli cinegiornali LUCE, posti a conclusione dell’anno
scolastico e in corrispondenza con la celebrazione delle ricorrenze più
significative del calendario fascista.
L’attività di massa esalta le manifestazioni espressive coreografiche al cui
interno il corpo acquista un valore collettivo, simboleggia ordine e coesione,
mette in scena uno spettacolo in grado di commuovere, esaltare, accomunare
attori e pubblico.
L’apoteosi della robotizzazione è raggiunta in occasione della festa ginnico –
nazionale del 1938, quando gli ordini impartiti al Foro Mussolini da Starace sono
trasmessi via radio ed eseguiti simultaneamente in tutte le province e le
colonie.
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Gli aspetti più innovativi vanno ricercati nella promozione di una attività sportiva
di massa che prevede leve atletiche, convegni e campionati provinciali e
nazionali, i Ludi Juveniles, le prove eliminatorie e la fase finale del Concorso
Dux a squadre per avanguardisti, che nel 1931 raggruppa a Roma 22.000
giovani alloggiati in 6.000 tende.
La Carta dello Sport emanata alla fine del 1928 per definire gli ambiti di
competenza delle diverse organizzazioni del regime prevede che nessun
giovane non affiliato all’ONB possa iscriversi a società sportive facenti capo al
CONI, che dal canto suo provvede ad autorizzare ogni manifestazione sportiva
giovanile.
Tra il mondo dello sport agonistico e le organizzazioni giovanili resteranno vive
tuttavia una serie di malintesi e di tensioni. Si consideri, ad esempio, che le
piscine costruite dall’ONB, per evitare di essere adibite ad eventi sportivi, hanno
una lunghezza di 24 metri, uno in meno rispetto alla misura regolamentare.
LA PARTE E IL TUTTO
Quanto detto finora mette in evidenza due importanti caratteri specifici dello
sport fascista.
Il primo è l’assenza di un’idea precostituita, la mancanza di un progetto
organico e coerente.
In questo come in altri campi il fascismo, più che come sistema filosofico, si
costituisce come prassi.
Quello che può sembrare un deficit di egemonia culturale che costringe a una
navigazione a vista fatta di continui ritocchi finisce tuttavia per diventare una
carta vincente.
La coesistenza di uomini e di riferimenti molto diversi per provenienza e
tendenza si traduce infatti in una dattabilità alle modificazioni dei contesti e
delle esigenze che privilegia a rotazione gli aspetti legati al momento storico e
alle esigenze contingenti.
Il fascismo incorpora tanto le suggestioni provenienti dagli ambienti futuristi
quanto le posizioni espresse in epoca liberale da settori conservatori e
nazionalisti che nell’esercizio fisico vedono uno strumento di educazione
patriottica e di addestramento militare.
Conserva l’edificio preesistente, facendo sorgere attorno ad esso nuove
costruzioni incaricate di integrare le masse in uno stato identificato come
nazione.
Comprende e promuove il valore dell’educazione fisica soddisfando aspirazioni e
desideri e cavalcando il malcontento e le frustrazioni di dirigenti, praticanti,
giornalisti, insegnanti.
Il secondo carattere è il frutto delle peculiarità del fascismo italiano che hanno
indotto gli storici a coniare la categoria del “totalitarismo imperfetto” in
contrapposizione alla monoliticità del nazismo e dello stalinismo.
Basti pensare alla presenza ingombrante del movimento cattolico, che
proseguirà le esperienze di attività motoria all’interno degli oratori e dei circoli
giovanili e che non esiterà a far sentire la sua voce fortemente critica su molti
aspetti del modello sportivo fascista.
Basti pensare alla difficile convivenza di centri di potere in varia misura
interessati alle attività fisico – sportive, il partito, il ministero dell’educazione
nazionale, le organizzazioni giovanili, la milizia, il CONI.
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Basti pensare ai feroci contrasti che oppongono i più autorevoli esponenti del
regime a proposito dei livelli, delle modalità, delle finalità delle pratiche, alla
dicotomia mai pienamente risolta tra lo sport per tutti e lo sport – spettacolo
degli stadi monumentali, dei campioni, delle vittorie assunte a testimonianza
dell’impetuosa ascesa della nuova Italia.
Nel campo dell’educazione dei giovani, solo per fare un esempio, l’auspicata
integrazione tra la scuola e le organizzazioni di massa non risulterà mai agli
occhi del regime pienamente soddisfacente.
Il punto debole è senza ombra di dubbio la scuola, oggetto di una incessante
azione di allineamento e di bonifica, rivelatrice dell’esistenza sotto la crosta
della fascistizzazione di isole di resistenza al conformismi meno rare via via che
si procede dagli ordini inferiori a quelli superiori.
Ne scaturisce la delineazione di due monti contigui, quello dell’istruzione
dell’allievo e della classe e quello dell’indottrinamento del balilla e del reparto,
che determinano esiti controproducenti o addirittura schizofrenici.
UN BILANCIO
Mi avvio alla conclusione.
Nel 1983 Giorgio Bocca ha sostenuto che lo sport “fascista” altro non è stato
che uno sport di massa nato per combinazione assieme al fascismo, una
conquista che qualunque forma di governo sarebbe stata in grado di realizzare,
uno sviluppo naturale che fu solo rivestito della camicia nera.
E’ un’opinione che sul piano storico non mi sento di condividere.
E’ il fascismo ad innalzare le attività fisico – sportive a problema di stato inserito
nel discorso nazionale, a trasformarle in fenomeno di massa.
E’ il fascismo che le accentra, le razionalizza, le potenzia, le finanzia.
E’ il fascismo ad estendere, capillarizzare, migliorare qualitativamente le
pratiche.
E’ il fascismo ad inventare un meccanismo di interscambio tra il serbatoio dei
praticanti di base e le esigenze dello sport di élite la cui efficacia è impossibile
da valutare a causa della cesura introdotta dalla guerra.
E’ il fascismo che intraprende la costruzione degli impianti di base: nel 1937 i
campi sportivi sono 2.568, 890 le case del balilla, trasformate in seguito in
caserme GIL, 1.470 le palestre, 22 le piscine.
E’ il fascismo che conferisce all’educazione fisica e al suo insegnamento una
centralità senza riscontri precedenti e successivi. Ve lo immaginate un
diplomato dell’ISEF o un laureato di scienze motorie che va in televisione a
prendere il posto di tronisti e di veline come ideale estetico o che sostituisce gli
opinionisti come prototipo educativo?
E’ il fascismo che estende misure di igiene e profilassi, esperienze di mobilità e
socializzazione, appuntamenti agonistici a ceti sociali e a contesti geografici sino
ad allora esclusi. Si pensi che nel 1937 i partecipanti alle attività ginnico –
sportive programmate dalla GIL sono 3.719.000.
Per la generazione del Littorio l’essere fascista coincide con l’essere coinvolti
nelle iniziative delle organizzazioni giovanili, la cui forza di penetrazione supera i
confini dell’esteriorità.
Nessuna meraviglia dunque se anche dopo la caduta del fascismo nella
memoria individuale e collettiva l’appartenenza ad una comunità affettiva e la
partecipazione ad un preciso tempo sociale abbiano colorato di nostalgia il
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tempo della giovinezza, relegando in secondo piano le illusioni perdute. Celebre
rimane al proposito la polemica scatenatasi nel 1991 in seguito ad un’intervista
in cui Alberto Sordi dichiarava di essere stato molto felice sotto il fascismo.
Questo non può tuttavia far passare sotto silenzio come anche nel settore delle
attività fisiche il fascismo abbia riprodotto senza risolverli problemi storici di
antica data.
Cito alla rinfusa la macchinosità burocratica, gli aspetti clientelari, le sacche di
corruzione collegate alla costruzione degli impianti (il Foro Mussolini prosciuga
le casse dell’ONB) e alle forniture delle divise, una sensazione generale di
volonterosa improvvisazione che contrasta con la impeccabile e cupa
grandiosità dei cerimoniali nazisti.
E non può soprattutto far dimenticare che, come tutti i patti col diavolo, anche
questo esige un prezzo assai elevato da pagare.
L’asservimento a finalità in larga misura strumentali.
La mobilitazione in forme aggressive contro il nemico interno ed esterno
sostenuta da una ideologia imperialista e razzista.
L’accentuazione dello spirito gregario e caporalesco che annulla la libertà di
scelta e lo sviluppo autonomo delle capacità individuali.
Il dilagare del giovanilismo che trasforma gli italiani in un popolo bambino che
crede alle favole di un capo unico depositario della verità.
L’alterazione del ruolo degli educatori, ridotti a zelanti servitori del regime. Nel
1940 agli insegnanti di ginnastica sono riconosciuti la parità con i colleghi delle
altre discipline ed il diritto a partecipare a consigli, collegi, scrutini ed esami.
In cambio si esige che essi diano la massima risonanza alle iniziative delle
organizzazioni giovanili, precedute da minuziose circolari ministeriali e
attentamente monitorate dai dirigenti scolastici. Che si spendano nelle
campagne di tesseramento degli allievi all’ONB e nella partecipazione alle sue
attività, adempimento divenuto obbligatorio nel 1930, dal 1939 preso in
considerazione nelle note informative personali e nelle qualifiche annuali, titolo
indispensabile per gli avanzamenti di carriera.
I disastri bellici, i bombardamenti, l’occupazione tedesca, la guerra civile
provvederanno a dissolvere i battaglioni del duce in un pulviscolo di vicende
individuali.
C’è che, dopo aver creduto e obbedito, sceglie di combattere, andando a
cercare la bella morte sui monti della Grecia, nel deserto libico, tra le file delle
Brigate Nere.
Ma quando, nel giugno del 1943, nell’imminenza dello sbarco alleato in Sicilia,
l’esercito chiede alla GIL di fornire elementi da adibire ai servizi ausiliari, a
Milano si presentano 50 giovani, 32 a Roma, nessuno in metà delle altre
province.
E il 25 luglio i moschettieri del duce, che avevano giurato di difendere col
sangue il capo del fascismo, non muovono un dito per scongiurarne l’arresto.
Povera gioventù granitica! Nell’agosto del 1942 un rapporto di polizia segnale a
Mussolini che al lido di Ostia sette ragazzini in divisa da Balilla, laceri e sporchi,
sono stati visti chiedere l’elemosina ai bagnanti.
Poveri artefici dell’italiano nuovo!
La sera del 25 luglio la radio annuncia il crollo del regime. L’accademista
orvietina Piera Menarini si rende conto con stupore di essere l’unica a piangere
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in mezzo a un popolo in festa. E si chiede se a non avere capito nulla sia stata
proprio lei. E ci lascia come traccia per i compiti a casa questa riflessione:
qualunque genere di coscrizione, anche se al momento piace, è sempre e
comunque sbagliata.
BIBLIOGRAFIA
La summa dell’ideologia fascista è contenuta in: Lando Ferretti, Il libro dello sport,
Roma – Milano, Libreria del Littorio, 1928.
Ferretti recupera in chiave celebrativa le realizzazioni del regime in campo sportivo in:
Lo sport, Roma, L’Arnia, 1949.
Una rivisitazione nostalgica è contenuta in: Renato Biandi, Giuseppe Leone, Gianni
Rossi, Adolfo Russo, Atleti in camicia nera. Lo sport nell’Italia di Mussolini, Roma, Volpe,
1983.
Sulla figura di Lando Ferretti si veda: Andrea Bacci, Lo sport nella propaganda fascista,
Torino, Bradipolibri, 2002.
Sulla politica sportiva del regime: Felice Fabrizio, Sport e fascismo. La politica sportiva
del regime 1924 – 1936, Rimini – Firenze, Guaraldi, 1976; Simon Martin, Calcio e
fascismo. Lo sport nazionale sotto Mussolini, Milano, Mondadori, 2004; Maria Canella,
Sergio Giuntini (a cura di), Sport e fascismo, Milano, Franco Angeli, 2009.
Sulla formazione degli insegnanti: Lucia Motti, Marilena Rossi Caponeri, Accademiste a
Orvieto. Donne ed educazione fisica nell’Italia fascista 1932 – 1943, Perugia,
Quattroemme, 1996; Alessio Ponzio, La palestra del Littorio: l’Accademia della
Farnesina. Un’esperienza di pedagogia totalitaria nell’Italia fascista, Milano, Franco
Angeli, 2009.
Per una introduzione alla storia sociale del fascismo ricca di spunti bibliografici: Patrizia
Dogliani, Il fascismo degli italiani, Torino, UTET, 2008.
Sulle organizzazioni giovanili: Carmen Betti, L’ONB e l’educazione fascista, Firenze, La
Nuova Italia, 1984; Tracy Koon, Believe Obey Fight. Political socialization of youth in
fascist Italy 1922 – 1943, Chapell Hill – London, University of North Carolina Press,
1985; Antonio Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a
Salò, Torino, Einaudi, 2005.
Sull’Opera Nazionale Dopolavoro: Victoria De Grazia, Consenso e cultura di massa
nell’Italia fascista, Roma – Bari, Laterza, 1981.
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BERLINO 1936, L’OLIMPIADE DEL TERZO REICH
DOTT. ENZO PENNONE
Nella storia dei Giochi Olimpici moderni è abbastanza raro trovare un’edizione in
cui il lungo percorso di avvicinamento al giorno dell’apertura sia stato scevro da
difficoltà da contrordini da polemiche di ogni genere, sempre mare mosso ci fu
per il nocchiero organizzatore, pensiamo già alla prima edizione quella del 1896
quando dapprima De Coubertin si affannò a convincere i delegati del primo
Congresso Olimpico a mettere di lato Londra per sostenere Atene, e quando gli
sembrava tutto risolto il primo ministro e Re Giorgio di Grecia gli dissero “non
se ne parla proprio” era soprattutto questione di soldi che mancavano poi
grazie al cielo spuntò un altro Giorgio, Averoff ricco mercante greco che viveva
in Egitto aprì il rubinetto ed il mare si calmò, pensiamo all’edizione di Parigi di
quattro anni dopo quando fu nuovamente Re Giorgio a mettere i bastoni tra le
ruote, ma questa volta perché voleva averli lui i Giochi, come avrebbe voluto
che tutte le edizioni da quella e per sempre si fossero tenute in Grecia, a quella
del 1904 quando per i Giochi che sbarcavano nel nuovo mondo c’era in corsa
Chicago sostenuta dal barone francese, ma contro di lui c’era Mr. Sullivan
presidente dell’Amateur Athletic Union che i Giochi li voleva a Buffalo, e infine la
contesa si accomodò quando il Presidente Theodore Roosevelt disse –
facciamole a St.Louis queste Olimpiadi visto che la Luisiana fa ora parte degli
Stati dell’Unione e che lì è già in programma la grande fiera internazionale,
pensiamo a quella del 1908 che doveva essere di Roma ma poi fu di Londra
perché Giolitti non ne volle sapere –ne abbiamo già tanti di problemi e
seccature in casa nostra ci vogliamo pure mettere quelli delle Olimpiadi, e
facendo un salto in avanti di quarant’anni pensiamo a quelle del ’48, i tedeschi
e i giapponesi li lasciamo a casa perché hanno perduto la guerra, per l’Italia
facciamo un’eccezione, i russi anche loro a casa perché il dittatore disse –noi ci
andiamo solo se siamo certi di poterle vincere, la falce e il martello non possono
certo stare lì ad applaudire i successi del mondo capitalista.
E pensiamo a quelle a noi un po’ più vicine, a quelle del ’76 a Montreal quando
tre mesi prima dell’inizio una dozzina di paesi africani comunicarono –noi sì
vorremmo partecipare ma siamo messi male anzi per dirla tutta siamo proprio
con le pezze in quel posto lì e quindi non ci saremo, e tre giorni dopo l’apertura
l’Africa tutta invece se ne tornò a casa perché avete invitato i neozelandesi che
ancora schiacciano l’occhio a quegli infami di sudafricani razzisti, e poi a quelle
famose dei grandi boicottaggi dell’80 e dell’84, a Mosca e a Los Angeles –io
americano a Mosca non ci vado perché Leonida Breznev mi deve prima rendere
conto e ragione del perché ha invaso l’Afghanistan, e io sovietico a Los Angeles
non ci vado perché Leonida Breznev ci ha detto che non saremmo
adeguatamente protetti in terra nemica, sarà pure fredda la guerra che stiamo
combattendo ma sempre guerra è.
E nel ’96 la polemica è oramai globalizzata come l’economia e tante altre cose,
e tutti in tutto il mondo dicono –ti pare normale che la Coca Cola valga di più
dell’ideale olimpico, che Atlanta vale di più di Atene dove aspettavano di
festeggiare il centenario, e nel 2008 da un continente all’altro andiamo a
Pechino, ma in Cina c’è la pena di morte e ogni anno ne ammazzano non si sa
bene quanti, ma l’abbiamo appena appena recuperata la Cina di Mao che prima
non ne voleva sentire fin tanto che ci fossero circolanti i nazionalisti di Taipei,
insomma è davvero arduo recuperare un’edizione olimpica che sia pervenuta al
giorno dell’inaugurazione diciamo con il volto roseo sereno… che non abbia mai
sentito dire da altre parti del mondo o anche da dietro l’angolo –ci andiamo o
non ci andiamo, e se ci andiamo cosa diranno di noi e se non ci andiamo cosa
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facciamo a casa nostra, ne prepariamo una alternativa di Olimpiade, forse una
volta ci si poteva anche riuscire ma oggi figuriamoci, rassegniamoci allora ad
attendere altri quattro anni e chissà se ci saremo e come saremo tra quattro
anni.
Ma quella di Berlino del 1936 fu, forse più di ogni altra, un’edizione contrastata
e contestata.
Cancelliere del Reich nel gennaio del ’33 Hitler fu preso da diversi problemi
urgenti cui trovare una soluzione, e non solamente il problema ebraico che
rappresentava il suo rompicapo già da un bel po’ di tempo, ad esempio c’era
anche il come liquidare le camicie brune di Rohm che andavano rompendo
sempre di più, per cui quando due mesi dopo il dottor Theodor Lewald membro
tedesco nell’assise del Comitato Internazionale Olimpico gli ricordò che
l’organizzazione dei Giochi del ’36 era stata assegnata alla Germania, quelli
della neve a Garmisch e a Berlino quelli estivi, Hitler non fece proprio capriole o
salti di gioia anzi storse un po’ il labbro, e ne aveva tutte le ragioni ne abbiamo
già tante di rogne in casa … e poi pensiamo anche a certe consuetudini
olimpiche, i ramoscelli le coroncine di lauro agli atleti le strette di mano o
peggio gli abbracci tra il vincitore e lo sconfitto, ecco tutte queste cose non le
leggevi (2) certamente nel manuale delle giovani marmotte hitleriane, si
confidava con il camerata Goebbels con cui avrebbe condiviso tutte le vicende
felici e tragiche del Reich fino alla chiusura del sipario, (3) caro Goebbels –ma
che sono queste frasi idiote .. l’importante è partecipare, o questi cerchi colorati
che mi hanno detto vogliono abbracciare tutte le razze del mondo come se
davvero fossero tutte uguali le razze del mondo, i puri ariani come gli slavi o i
semiti o gli etiopici, quelli sono “Untermenschen (subumani)” e soprattutto –
mio caro ministro- chi ci assicura che le vinceremo tutte le gare, o se non tutte
perlomeno una gran parte di esse, e se spunta fuori qualche negro che nessuno
se lo aspetta o qualche ebreo –per i quali ultimi come sai stiamo cercando con
Heydrich e Eichmann una soluzione al problema, (4) ma Goebbels, che era il
ministro della propaganda del Reich, grande comunicatore, giorno dopo giorno,
prima con metodo e pazienza, e poi con accanimento (5) e qualche spruzzata di
allegria, e per finire come si conviene (6) una cena con gli intimi, convinto fino
al midollo che l’organizzazione olimpica sarebbe stata un vero punto di forza, un
grimaldello, una leva archimedea per l’espansione del nazismo nel mondo, ora e
per altri mille anni ancora, gli disse –mein fuhrer ripensiamoci, ci ripensi, guardi
che oltre che un esercito e una marina modernissimi e micidiali, (7) e
un’aviazione del caro generale Hermann Goehring che è il terrore dei cieli
d’Europa, (8) abbiamo pure plotoni di atleti, männer und frauen, (9) che i nostri
allenatori mi garantiscono sono ai vertici mondiali, e poi, a parte tutto questo,
(10) Berlinosarebbe affollata per un mese intero almeno da migliaia di atleti di
tutto il mondo, (11) e da carovane di giornalisti di accompagnatori di interpreti,
e il nome del Reich volerebbe da un continente all’altro, (12) della nostra
Germania se ne parlerebbe ovunque, a Londra a Parigi a New York i giornali ci
dedicherebbero pagine intere la nuova Germania ospita tutti gli atleti del mondo
per i Giochi della XI Olimpiade dell’era moderna, (13) l’era della Germania uber
alles, mi creda -mein fuhrer- l’Olimpiade a Berlino è una manna dal cielo.
E il fuhrer alla fine si convinse.
(14) Chiamò la sua amica e grande regista Leni Riefensthal che aveva già
prodotto per lui tre imponenti documentari di propaganda del regime e le disse
-voglio qualcosa di grandioso di mai visto qualcosa di fronte a cui tutto il mondo
dovrà ammettere la Germania è davvero grande adesso con il nuovo
cancelliere- e la regista, che faceva l’occhiolino al nazismo ma che soprattutto
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pensava ai fatti suoi e alla sua carriera nel mondo della cinematografia
mondiale, gli rispose – mein fuhrer sarà fatto -.
I grattacapi per la Germania e i timori per gli altri paesi erano già incominciati
sul finire del ’33, ma diciamolo francamente i nazisti se li andavano cercando gli
impicci, (15) perché non appena al potere Hitler dichiarò ufficialmente il
boicottaggio agli ebrei che vennero interdetti dai pubblici uffici, (16) e nel ’35
furono varate le leggi di Norimberga che ne limitarono ulteriormente i diritti
civili (17). Il mondo era in fermento, in Europa le proteste contro i Giochi a
Berlino erano diffuse un po’ ovunque, (18) ma furono soprattutto gli Stati Uniti
il braciere dove più si scaldò il movimento a favore del boicottaggio olimpico. Lì
infatti la potente Amateur Athletic Union aveva formalmente invitato atleti e
tecnici (19) a disertare i Giochi qualora si fosse palesata una chiara
discriminazione contro gli ebrei, e fu a questo punto che entrò in scena uno tra
i grandi protagonisti dei Giochi di Berlino, (20) Avary Brundage, quello senza il
cui intervento quasi certamente gli atleti e le atlete americani non avrebbero
varcato l’oceano per approdare nella capitale del Reich.
Sia chiaro, l’ho definito grande protagonista nel senso di decisivo determinante,
pur nella sua assoluta meschinità: di acclarate e dichiarate posizioni filo-naziste,
Brundage volò in Germania quale rappresentante dello U.S.O.C. (Comitato
Olimpico Statunitense) e tornato in patria rassicurò tutti –don’t worry tutto a
posto in Germania- è vero i tedeschi hanno sì le loro ideologie, ma in quanto a
regolamento olimpico lo stanno rispettando in pieno.
E a poco servì un ulteriore intervento del giudice newyorchese Mahoney
successore di Brundage alla presidenza dell’A.A.U. ed un altro di Ernst Lee
Jahncke, componente del C.I.O. per gli Stati Uniti, entrambi assolutamente
convinti che non bisognava partire, perché Brundage zittì il primo ricordando
che i Giochi sono al di sopra di qualsiasi considerazione politica, razziale e
religiosa, e fece cacciare il secondo dal C.I.O. prendendo prontamente possesso
dello scranno libero, dal quale si sarebbe alzato soltanto nel 1952 (21) per
sedersi su quello più importante riservato al Presidente, che occuperà per un
ventennio, dal ’52 al ’72, gratificato nel ‘66 dal Quirinale dell’onorificenza di
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, e se il
Quirinale ha una visione di una parte di storia così lieve e superficiale, quale
sarà allora quella dei comuni mortali, (22) e mettendosi in luce nel ’68 per le
punizioni inflitte a Tommie Smith e John Carlos per questo gesto nobile e
disperato, (23) per aver spedito a casa il grande sciatore Karl Schranz ai Giochi
di Sapporo per reato di professionismo, per la tenace e disperata difesa della
Rhodesia che volevano esclusa dai Giochi per la sua politica di aparthied, (24) e
per essere riuscito a non fare citazione alcuna degli 11 atleti israeliani trucidati
dai terroristi a Monaco nel ’72 nel suo discorso commemorativo, tutto
improntato sulla forza del movimento olimpico che non si arresta davanti a
nulla “games must go on”.
(25) Ma nonostante l’assist di Brundage, i nazisti che testoni erano in ogni
circostanza, tali si confermarono pure in chiave olimpica. (26) A Garmisch
Henry de Baillet-Latour, che era il presidente del C.I.O., mentre estatico si
nutriva di cotanta magnificenza di impianti, tribune trampolini (27) palazzo del
ghiaccio, due milioni e mezzo di marchi spesi per una struttura maestosa e
all’avanguardia, (28) avvistò un cartello singolare posto all’entrata del villaggio
olimpico che vietava l’ingresso ai cani e agli ebrei. Con un bel po’ di fatica
ottenne dal fuhrer la rimozione del cartello sciagurato, ma poco tempo dopo si
trovò a dovere sbrogliare un’altra scomoda matassa (29) perchè il dottor
Lewald, presidente del comitato organizzatore dei Giochi, quello che in sostanza
aveva fatto tutto quello che c’era da fare per portarli in Germania, aveva la
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nonna ebrea. Per questo peccato mortale il regime era deciso a sbarazzarsene,
ma de Baillet-Latour questa volta si incavolò davvero, fece la voce grossa,
minacciò la revoca dei Giochi e la matassa fu sbrogliata.
Le proteste nel mondo sembravano non placarsi, (30) in Olanda i probabili
Giochi di Berlino furono battezzati in questo modo “de Olympiade onder
dictatuur” “L’Olimpiade sotto dittatura” con l’acronimo D.O.O.D. che nella loro
lingua significa “morte”, e per manifestare contro la Nazi-Olimpiade vennero
organizzate altre manifestazioni sportive, a New York il World Labor Athletic
Carnival sostenuto dal sindaco Fiorello La Guardia, (31) a Parigi il raduno degli
sportivi antifascisti, nel ’35 le Maccabiadi, i Giochi ebraici a Tel Aviv, e
soprattutto nella primavera del ’36 il Fronte Popolare al governo in Spagna e
numerose associazioni sportive popolari organizzarono (32) dei “contro-giochi”
a Barcellona, la cosiddetta “Olimpiada Popular”, cui si iscrissero ben 6.000 atleti
da 22 nazioni, gran parte venivano dagli Stati Uniti dalla Gran Bretagna e dalla
Francia ma vi erano rappresentati diversi altri paesi europei per un settimana di
prove sportive. Si arrivò a fare la cerimonia d’apertura e si dovette sospendere
tutto e con vive preoccupazioni rimandare atleti e accompagnatori a casa
perchè quell’altro galantuomo di Francisco Franco “il caudillo” (33) aveva
pensato di lanciare proprio in quei giorni le prime grandi offensive falangiste
anche contro Barcellona.
Esaurita la vivacità iniziale, le proteste un po’ ovunque cominciarono poi a
placarsi, i tedeschi sembravano un po’ meno intransigenti nella iniziale pretesa
del “nichts juden” nella loro rappresentativa, in Francia il governo socialista a
poche settimane dall’evento berlinese decise tra la sorpresa generale per il sì
alla partecipazione, ci furono anche nomi illustri che la invocarono, come in
Inghilterra l’ebreo Harold Abrahams protagonista sui 100 metri a Parigi nel ’24
(momenti di gloria), e in America come già detto Brundage riuscì a emarginare i
fautori del boicottaggio olimpico.
(34) E così nel Luglio del 1936 3954 atleti di 49 rappresentative nazionali
invasero la capitale del Reich per partecipare ai Giochi dell’XI Olimpiade dell’era
moderna.
Le preoccupazioni di Lewald per la riuscita dei Giochi a Berlino erano state
condivise (35) da Carl Diem, segretario del Comitato tedesco per l’Educazione
Fisica già da diversi anni prima della salita al potere del nazismo, strenuo
sostenitore dell’ideale olimpico e più che navigato nell’organizzazione sportiva
tedesca. Per non pensare alle grane che il regime procurava nei rapporti col
C.I.O. e in generale con il sistema sportivo mondiale e metterla sul positivo
Diem, che nel frattempo era stato nominato segretario del Comitato
Organizzatore, escogitò qualcosa che mai era passata per la mente ad alcuno
dei pur geniali promotori della rinascita olimpica. Ne parlò a Theodor Lewald e
questi gli disse “mein lieber Carl das ist eine fantastische idee”, l’idea fantastica
era quella di far partire dal santuario di Olimpia una torcia con un fuoco un
fuoco sacro e farla arrivare allo stadio di Berlino portata da una staffetta di
corridori. Soltanto Goebbels non era d’accordo, ma ogni tanto anche il ministro
della propaganda del Reich doveva far penitenza e per l’occasione adeguarsi ai
desiderata di coloro che erano i titolari ufficiali dell’evento olimpico. (36) E così
fu che partendo dal Peloponneso, (37) su questo impervio tracciato, attraversati
i Balcani passando per Sofia e poi Belgrado, e le grandi capitali dell’Europa
centrale Budapest e Vienna e Praga, e poi la bellissima Dresda qualche anno
dopo tragicamente e orrendamente sfregiata, (38) la torcia olimpica entrò infine
a Berlino sommersa da gente (39) all’apparenza entusiasta del messaggio di
pace e fratellanza tra i popoli che portava il fuoco, (40) traversò a passo di
carica la porta di Brandeburgo (41) e si inoltrò in un lungo corridoio delimitato
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da ariani e ariane ben allineati e coperti, geometrie perfette, mentre su di essa
uno schieramento di croci uncinate vigilava severo, (42) croci che nacquero
innocenti come quella di Cristo ma in quella terra popolata dai demoni
divennero la personificazione del male.
(43) Passando pure lui come la torcia in mezzo alla grande porta (44) e scortato
dal cielo dall’avveniristico dirigibile Hindenburg, il dittatore era già arrivato alla
stadio accompagnato da una selva di gerarchi e da una processione di dignitari
olimpici, (45) prima una interminabile camminata per il Campo di Maggio a
passo non militare ma fiero sì -questo almeno mi sia concesso meditava lui(46) e quindi, gerarchi e dignitari olimpici prudentemente sempre al suo fianco,
(47) finalmente fece l’ingresso sulla pista di atletica, circondato da centomila
credenti nella patria nella razza nel nostro unico e amato fuhrer, ma ignari del
fatto che se le Olimpiadi si svolgevano a Berlino (48) il merito era tutto di questi
due, il dottor Carl Diem e il dottor Theodor Lewald, che per anni avevano
tessuto con pazienza la tela delle relazioni che contano nella famiglia olimpica.
(49) Infine, dopo la sfilata delle squadre e dell’amata Germania tanto marziale e
militaresca che se non ci fossero state pure le donne l’avremmo scambiata per
la Wermacht in partenza per il fronte, dopo 3 mila chilometri infine il fuoco
pervenne all’Olympiastadion, (50) portato da un corridore biondo mezzo
sconosciuto, chè ancora non si era propagata l’angosciante procedura del chi
sarà l’ultimo o l’ultima a portare la torcia, effimera gloria di pochi minuti. (51)
Ed il braciere fu acceso, quasi sommerso da centomila bracci destri tesi
fieramente in avanti (52) alle ore 4 del pomeriggio del 1° Agosto del 1936, (53)
e poi anche in altre parti della città, cattivo presagio di quell’altro enorme
braciere di quella gigantesca pira che sarebbe diventata Berlino e la Germania
tutta nove anni più tardi.
(54) E “in una cornice di austera grandiosità” come titolò la Gazzetta dello
Sport, tanto avversati ma altrettanto voluti, i Giochi della XI Olimpiade di
Berlino ebbero inizio.
Quel negro sconosciuto che il fuhrer paventava saltasse fuori d’improvviso a
sconvolgere i piani trionfali della Germania nazista e sportiva, saltò fuori
davvero e prestissimo, (55) era la mattina del 2 di Agosto, il primo giorno di
gare, il fuhrer ci aveva visto bene, il suo terribile vaticinio si avverava non uno
soltanto, ma un battaglione intero erano quelli con la pelle nera che lo
avrebbero messo nel sacco –che disgrazia popolo tedesco- (56) Jesse Owens
“l’antilope d’ebano” vinse la sua batteria dei 100 metri con una facilità immensa
-10”3 cose mai viste- (57) e nel pomeriggio 10”2 nei quarti, e fece subito capire
che lo spazio libero per la gloria degli altri nelle gare di velocità, specie per gli
ariani, era davvero risicato.
(58) Jesse Owens era nato in questa casa a Oakville un piccolo centro
contadino dell’Alabama, stato del sud povero, famiglie povere di tutto ma ricche
di figli, Jesse era il decimo della truppa di Henry ed Emma Owens. (59) Come
per tutti i poveri nella storia del mondo anche gli Owens un giorno emigrarono,
si trasferirono più a nord a Cleveland nell’Ohio, i dodici della famiglia si davano
tutti da fare, pure Jesse che uscito da scuola lustrava le scarpe ai benestanti o
vendeva i giornali o lavorava nei campi, (60) anche se molto gli piaceva il
canto. Poi alla East Technical High School prese a frequentare il campo di
atletica, e come succede in questi casi fu adocchiato dal curioso allenatore di
turno, (61) questi che non si fanno mai gli affari propri, quella volta fu tale
Charles Riley che uno storico dice –gli dedicò un po’ del proprio tempo- ma è
più verosimile che quello mise tutto da parte perché aveva scovato il
fuoriclasse, (62) la perfetta fusione tra elasticità e potenza. Tant’è che dopo
qualche anno, e un po’ di galoppate scolastiche vincenti sulle 100 e 220 yards
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Owens (63) un pomeriggio del maggio del 1935 ad Ann Arbour nel Michigan
dipinse un quadro perfetto, un capolavoro da impressionista dello sport: (64)
quattro record mondiali nello spazio di 75 minuti, prima sulle 100 yards, poi
sulle 220 in piano, (65) sulla stessa distanza ad ostacoli, per finire con un volo
in avanti -ma uno soltanto- tra una corsa e l’altra uno shock per tutti, fino a 8
metri e 13 centimetri nel salto in lungo, cadono le barriere, primo atleta al
mondo a scavalcare quel muro.
(66) In America le cose andavano così, contraddizioni massime, da un lato
posizioni d’intolleranza nei confronti della gente di colore, come se Lincoln
avesse solo fatto un comunicato-stampa a proposito della loro emancipazione,
dall’altro parte della gente comune interpretava in questo modo i successi
dell’atleta dell’Ohio – What a joy tu run with him (che felicità correre con lui).
(67) A Berlino era arrivato in nave, (foto Joe Caneva) e sulla nave non
intendendo poltrire al sole continuò pure ad allenarsi, del resto gli bastavano
una trentina di metri per la rincorsa e provare lo stacco, il resto viene poi da sé.
(68) Costretti ad una traversata più sedentaria furono invece i quattro della
staffetta, Draper Glikman, Stoller e Robinson, che si dovettero accontentare di
qualche saltello o qualche fittizio sprint.
(69) Il 3 di Agosto all’Olympiastadion, dopo la perentoria dimostrazione del
giorno prima, tutti attendevano Owens, gli avversari con rispetto, il pubblico
avido di spettacolo. (70) E lui scattò come sempre, una freccia nera conficcata
nel cuore del Reich, e mise in fila pure i compatrioti bianchi e neri, 10”3 anche
stavolta, record olimpico.
(71) Il giorno dopo ancora, mentre inghiottiva la pista e gli avversari nelle
batterie dei 200 metri (72) sbirciava verso la pedana del lungo, per capire
quanto mancasse più o meno al suo turno di salto. Cose complicate queste di
Owens, perché uno sarà pure un fuoriclasse ma c’è un limite a tutto. I 200
metri ed il salto in lungo non sono proprio la stessa cosa, il disordine si
impadronisce delle gambe e della testa, e pure un fuoriclasse può trovarsi in
seria difficoltà e rischiare l’eliminazione. Ma il fato gli fu amico, (73) e si
presentò in pedana travestito da atleta tedesco, un maglione a collo alto sopra
la canottiera bianca perché pure gli ariani hanno diritto a coprirsi quando la
giornata non è clemente, un ariano un ariano puro alto e biondo di nome Carl
Ludwig Long uno di quelli che il fuhrer avrebbe volentieri ingaggiato come
stallone affinché i frutti della riproduzione fossero stati biondi e un giorno alti
come quello, (74) i due atleti fraternizzarono subito “come si vive in America”
gli chiese Long, e Owens cui piaceva molto la chiacchiera gli avrebbe volentieri
raccontato la sua vita senza omettere che era pure padre di Gloria Shirley
bimba di quattro anni, ma il giudice lo chiamò in pedana, e lui forse distratto
forse teso saltò male per la seconda volta, e poi fu lui a chiedere a Long “e voi
qui come ve la passate in questi anni” e quello disse “lasciamo perdere…” e
volentieri avrebbe voluto raccontare le tristi cose della Germania di quegli anni
ma pensò bene di dire (75) “ci sono spioni in giro che ascoltano achtung ne
parliamo un’altra volta…” e poi cambiando discorso Long gli disse pure (76)
“però mi sembra che dovresti aggiustare di un piede la rincorsa, e poi sei un po’
troppo teso … prova a rilassarti, hai già vinto una medaglia d’oro e altre due
sono assicurate non hai nulla da perdere”, e Owens fece tesoro del consiglio,
saltò bene, e andò in finale.
(77) Poi tornò ai 200 metri, e con tre perentorie volate, fra il 4 e il 5 Agosto,
raddoppiò il successo dei 100, e qualche giorno più tardi con in mano, più che il
testimone, la bacchetta del direttore d’orchestra, porterà alla vittoria (78) la
staffetta 4x100 degli Stati Uniti, Owens Metcalfe Draper e Wykoff, i primi due
neri gli altri due bianchi, avremmo pensato per rispettare la parità delle
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epidermidi, ma quando mai, Glikman e Stoller quelli che abbiamo visto sulla
nave erano ebrei, passi allora per i due neri. Incredibile a dirsi, Mariani Caldana
Ragni e Gonnelli per l’Italia conquistarono la medaglia argento.
(79) Hitler intanto si rodeva in tribuna, fosse stato solo Owens… il primo giorno
di gare un altro nero (80) Cornelius Johnson vinse il salto in alto, e per di più
senza neppure togliersi la tuta, oltre il danno anche la beffa, (81) due giorni
dopo fu la volta del nero Woodruff negli 800 metri, (82) il giorno 7 fu Archibald
Williams dalla pelle color cioccolato fondente a precedere tutti nei 400 metri,
(83) e per di più immortalato dalla diabolica regista che spesso se ne fregava
delle raccomandazioni superiori, -mia cara Leni ariani soprattutto- quella dei
neri era un lista che si allungava giorno dopo giorno, e c’erano pure i neri
secondi e i neri terzi che te li vedevi comunque tutti belli altezzosi sul podio,
(84) Metcalfe e Robinson, e Albritton e LuValle, e mentre così si rodeva era
pure assillato dal dubbio amletico –li premio o non li premio questi qui, e se li
premio cosa penserà di me il popolo tedesco e se non li premio cosa dirà di me
la stampa straniera, ma arrivò in suo aiuto Mr. De Baillet-Latour che gli disse
faccia come le dico io non premi né neri né bianchi, né gialli né mulatti a queste
cose ci pensiamo noi del Comitato Olimpico, Lei ha certamente tante altre
urgenze da sbrigare, grazie comunque di essere sempre qui con noi.
(85) Gli italiani a Berlino si comportarono piuttosto bene, anche se ovviamente
non ci potè essere storia con la potenza di fuoco che la Germania esibì al
mondo intero dello sport con una formazione completa in tutte le discipline e
molto ben allenata –männer und frauen- (86) e con la forza d’urto che gli Stati
Uniti esercitarono soprattutto in atletica, in cui ormai da tempo imponevano un
regime di monopolio quasi perfetto.
Come avveniva già da alcune edizioni e come sarebbe stato per tutte quelle a
venire, (87) gli schermidori rappresentarono le fondamenta della spedizione
italica, cemento armato di prima qualità, 4 medaglie d’oro su 7 disponibili più
tre d’argento e due di bronzo. (88) Nomi famosi come Giulio Gaudini gigantesco
fiorettista medaglia d’oro nell’individuale e nella prova a squadre e alfiere nella
cerimonia d’apertura, (89) Franco Riccardi, idem per la spada, e poi Ragno
Marzi Cornaggia-Medici Bocchino Peterbelli e Verratti e Di Rosa e uno dei tanti
della dinastia Montano (90) e la “spada italica” per antonomasia Edoardo
Mangiarotti, nato da padre e madre schermidori, fratello di schermidori, che
sposò una schermidrice e generò Carola fiorettista. (91) Ventiquattr’anni dopo,
alle Olimpiadi di Roma, ce lo saremmo ancora ritrovato tra i piedi, ancora in
pedana e ancora vittorioso nella stessa prova di ventiquattr’anni prima, la spada
a squadre, ma con cinque nuovi compagni, gli anni passano ma non per lui.
Pugili e calciatori recitarono bene la loro parte, una vittoria con il gallo Sergo e
un secondo posto con il mosca Matta per i primi, (92) i dilettanti dell’alpino
Vittorio Pozzo tra cui Foni e Rava futuri terzini della Juventus e della nazionale
maggiore (93) e l’occhialuto Annibale Frossi vinsero il torneo sconfiggendo in
finale l’Austria, ma se da boxe e football ci si potevano attendere successi
pochissimi in patria si aspettavano una medaglia dal pentathlon, quello
moderno, tutti o quasi ne ignoravano l’esistenza e la consistenza. A relazionarli
in merito ci pensò un giovane istriano, (94) Silvano Abba, che insegnò a tutti gli
altri concorrenti come si conduce tra i campi un cavallo che ti hanno assegnato
a sorte, che si difese meglio che potè nella scherma e nel nuoto, che tirò bene
con la pistola, (95) e che diede l’anima nell’ultima prova quella della corsa
campestre di quattro chilometri, (96) preceduto in classifica solo dal tedesco
Handrick e dall’americano Leonard. Abba aveva qualità eccezionali, tecnica e
volontà, passione e resistenza, Abba rappresentava un’eccezione ovunque e
comunque, raro esemplare di fascista convinto (97) all’interno di un “covo di
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antifascisti” qual era il reggimento del Savoia Cavalleria, glorioso reggimento,
gente importante della casta militare dal generale Raffaele Cadorna al
colonnello Bettoni, passando attraverso maggiori e tenenti vari. (98) Morì in
azione di guerra Abba il 24 agosto del ’42 nelle steppe dell’Ucraina, confortato
dai girasoli, lui che era un gran cavaliere avanzava invece appiedato, un balzo
dietro l’altro, con la missione di disturbare il fuoco dei mortai russi dagli
squadroni in carica, (99) e temerario come pochi riuscì pure a fotografarla la
carica, la carica di Isbuschensky fu chiamata, e che fu l’ultima nell’epopea della
cavalleria italiana.
(100) Il milanese Luigi Beccali detto “Ninì” era un atleta già affermatissimo
quando si presentò alla partenza della finale dei 1500. (101) Quattro anni prima
aveva vinto alla grande ai Giochi di Los Angeles per la felicità degli italiani in
Italia e degli italiani in America e per l’orgoglio del duce che con i suoi
“Mussolini’s boys” raccolse 12 medaglie d’oro 12 d’argento e 12 di bronzo,
secondi in graduatoria, ora sì che si cominciava a ragionare. (102) Poi nel
Settembre del ‘33 aveva stabilito all’Arena di Milano il nuovo record mondiale
con il tempo di 3’49” e pochi giorni dopo pure quello delle 1000 yards, (103) i
giornali ne parlavano e lo osannavano -finalmente non solo calcio- e un anno
dopo aveva pure conquistato il titolo europeo. In un’altra parte del mondo,
nella lontana terra dei Maori, era emerso frattanto un superbo corridore, John
Lovelock. (104) Lovelock venne in Europa per confrontarsi con i migliori
esponenti delle scuole del vecchio continente, ed ingaggiò con Beccali duelli
entusiasmanti. (105) Ma a Berlino fu imbattibile e stabilì pure il nuovo record
mondiale della distanza, (106) con l’italiano che difese con i denti il suo titolo
olimpico, e fu terzo alla fine dietro l’«all-black» e l’americano, ancora sul podio,
ancora felice.
(107) Mario Lanzi era un atleta quasi affermato quando si presentò alla
partenza della finale degli 800 metri. Non ancora ventenne, alla prima edizione
dei campionati europei, nel ’34 a Torino, aveva conquistato la medaglia
d’argento, (108) e in patria aveva vinto tutto quello che c’era da vincere, per il
duce e per l’impero, (109) perché Lanzi come Abba era un fedelissimo del
regime. Lanzi era solito nelle sue gare partire forte, in certi casi come un
missile, con uno stile elegante e orgoglioso, quasi tronfio, a Berlino aveva già
superato brillantemente batteria e semifinale, (110) e si presentò sicuro di sé
alla prova decisiva. Chissà però cosa gli passò per la testa negli attimi cruciali,
anziché andare al comando come suo solito fece passare gli altri, e non uno o
due soltanto, (111) ma tre e poi quattro e poi cinque, nessuno allo stadio
avrebbe scommesso un pezzetto di marco sulla sua rimonta, (112) ma Lanzi
pur ingabbiato dagli avversari e annebbiato dalla fatica riuscì a pensare che non
poteva finire così ingloriosamente la sua missione in terra tedesca, e metro
dopo metro riuscì a metterseli tutti alle spalle tranne uno, John Woodruff, il
solito nero americano dalle gambe smisurate. Mariolino nostro però non potè
digerire la sconfitta e schiumante di rabbia scaraventò a terra la sua medaglia
d’argento.
(113) Giorgio Oberweger, che si trovava nei paraggi, recuperò in tempo quella
medaglia. Oberweger, che fu il socio di Ottavio Missoni quando insieme dodici
anni dopo lanciarono la prima ditta artigianale di maglieria, era un triestino dal
fisico fuori del comune. Dopo una breve parentesi da canottiere, (114) si
immerse nell’atletica fino al collo, cominciando qui 18enne con la maglia della
Ginnastica Triestina una lunghissima e luminosa carriera, non solo atleta ma
anche cronista dirigente e dissertatore tecnico (115) apprendendo l’arte alla
corte di Boyd Comstock l’americano che per sei anni attraversò l’Italia con
lezioni magistrali. (116) Data la grande versatilità non trascurò gli impegni ad
alto rischio come il salto dal trampolino, (117) e non solo nello sport ma pure
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nella vita, come quando volava ai comandi di un CR32 per le prime azioni di
guerra dopo l’annuncio ufficiale di Piazza Venezia. (118) Passava dagli ostacoli
che aggrediva con tecnica ed efficacia alla pedana del disco, (119) e da quella
pedana lanciò a Berlino a 49 metri e 23 cm. per catturare la medaglia di bronzo
preceduto da due americani, mentre da un’altra pedana di disco dodici anni più
tardi a Londra lancerà senza grosse ambizioni ma con l’incarico che lui stesso
s’era dato, (120) di stare vicino a Consolini e Tosi e spargere consigli sul come
comportarsi, (121) primo e secondo furono Consolini e Tosi, e stavolta gli
americani venivano appresso.
Le italiane a Berlino, ben 13 su 182 componenti della spedizione, si
comportarono ancor meglio degli uomini. (122) Due di loro, in particolare,
Ondina Valla e Claudia Testoni, riuscirono a sedurre i centomila
dell’Olympiastadion nella finale degli 80 metri a ostacoli il 6 di Agosto. Le due si
assomigliavano, ed erano pure molto diverse tra loro. Perché avevano la stessa
età, la stessa inflessione dialettale entrambe essendo bolognesi, avevano
ambedue un fisico interessante (123) si cimentavano nelle stesse prove, la
velocità i salti e adoravano gli 80 metri a ostacoli. Però Ondina era estroversa,
Claudia era riflessiva, Claudia soffriva la sicurezza quasi la spavalderia di
Ondina, Ondina era più veloce, Claudia era più tecnica.
(124) Erano tutte un po’ tese prima del via, sia le nostre che le donne del
Reich, (125) e lo restarono anche accucciate sulla pista prima del rituale “fertig”
dello starter ufficiale, uno starter che fu anche lui personaggio singolare dei
Giochi di Berlino, che condiva i suoi quattro gesti obbligati di affettazione di
formalità di un pizzico di severità, e portava sempre l’impermeabile anche
quando c’era il sole. (126) Poi le atlete d’improvviso si liberarono di tutte le
ansie e volarono sugli ostacoli tutte insieme, come si fossero messe d’accordo,
(127) e piombarono sul filo di lana quasi tutte insieme, ma le apparecchiature
elettroniche di ultima generazione (128) assegnarono l’oro olimpico a Ondina,
che in effetti si chiamava Trebisonda, un nome pesante per una libellula come
lei, (129) e lei pure salutò il numero uno della nazione dell’epoca con il braccio
teso, “mio duce, madri prolifiche va bene ma pure atlete, se mi consente”.
(130) Nel bacino di Grünau si disputarono le gare di canoa e kayak che fecero il
loro esordio olimpico, e quelle di canottaggio. Qui, per la Germania fu una vera
e propria abbuffata di medaglie d’oro, cinque successi su sette prove, (131) con
Gustav Schafer nel singolo, e poi nel due e nel quattro, (132) sia senza che con
il tizio al timone. I nostri canottieri, pur senza vincere, fecero cose egregie,
(133) la coppia Bergamo e Santin con Negrini a indirizzare la rotta conquistò
l’argento, mentre nella prova regina del canottaggio, (134) l’otto con timoniere,
quell’armo conosciuto come l’imbarcazione ammiraglia, quella per cui gli
appassionati del remo si butterebbero in acqua a spingerla pur di sopravanzare
le altre barche, (135) in una delle gare più emozionanti dell’intera Olimpiade, gli
atleti in canottiera azzurra e bandana bianca in testa furono preceduti di un
nonnulla, sei decimi un pezzetto di barca, (136) dagli stravaganti americani che
l’otto comunque lo vincevano sempre dal 1920.
(137) Il fiordo di Kiel sul fiume Eider nei pressi del mar Baltico ospitò le gare di
vela con omogena distribuzione di medaglie tra i velisti del Reich, gli inglesi e gli
scandinavi, (138) e la vittoria della nostra “Italia” una barca di 8 metri che mise
in fila norvegesi e tedeschi. In quei giorni, a Lussimpiccolo in Istria, il 22enne
Straulino –che figurava tra le riserve a disposizione- attendeva pazientemente a
casa il suo turno. (139) Attenderà sedici anni, ma ne varrà la pena, perché ad
Helsinki nel ’52 trionferà con il prodiere Nicolò Rode su questa barca della
classe star chiamata “Merope”, come la figlia di Atlante e di Pleione.
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(140) La regista frattanto si muoveva frenetica attraverso gli impianti, dava un
occhio ai cineoperatori (141) e poi uno agli atleti in posa plastica per lo scatto
fotografico, (142) arrivava di corsa allo stadio del nuoto ed ecco (143) ripreso il
tuffatore figura irreale immersa in un quadro di nubi e di luci, (144) poi lei
stessa imbracciava la macchina per dedicare un primo piano (145) a questo
giovane efebico giavellottista che tanto la affascinava, (146) ed un altro scatto
pure alle due lussuriose sfumate danzatrici, (147) un salto a Kiel perché le vele
e l’acqua e le vele sull’acqua trasmettono qualcosa di incomparabile, (148) e poi
di nuovo allo stadio nella buca fatta apposta costruire per le riprese dal basso,
(149) mentre una ciclopica nuovissima telecamera lavorava impassibile per il
suo documentario.
(150) Sul prato si susseguivano le prove ginniche che esaltavano il pubblico per
l’armonia dei gesti (151) e il perfetto sincronismo dei movimenti, (152) così
come armoniche e sincrone erano le “fechten” le schermidrici con il cuore sul
corpetto, pure il fuhrer e i gerarchi ne apprezzavano le movenze, ma di più
assistevano compiaciuti alle vittorie degli atleti e delle atlete del Reich, (153)
omologate dal saluto romano alla premiazione. (154) Ginnasti pentathleti
velocisti lanciatori dirigenti tutti salutavano, (155) qualcuno che con il Terzo
Reich non c’entrava per niente salutava in modo diverso, da militare, il militare
saluta così ovunque in America in Germania e nel resto nel mondo, (156) per le
vallette biancovestite potevamo forse vagheggiare un gesto diverso, più
delicato e tenero, ma cosa vogliamo la Germania era una e unica per tutti, ed
anche il saluto quindi era uno -soltanto quello- e unico per tutti, männer und
frauen.
Per fortuna le corse di lunga distanza -pensava il fuhrer- non sono cose da neri.
E aveva ragione, primeggiavano i bianchi a quel tempo, ma non certo i
teutonici. (157) Furono infatti i seguaci del grande Nurmi, il monopolista delle
lunghe distanze degli anni ’20, ad apporre il timbro indelebile della Finlandia
nelle tre prove classiche del fondo, i 5.000 i 10.000 e i 3000 mila siepi, con
(158) Hockert e Salminen e Iso-Hollo, e con loro sul podio anche Lehtinen e
Askola e Tuominen, mentre i corridori dalla croce uncinata finirono tristemente
indietro nel girone degli sconosciuti.
Il giorno 9 era in programma la maratona, e a proposito di maratona e di
maratoneti Hitler o i suoi consiglieri ebbero l’idea di far arrivare dalla lontana
Grecia, come la torcia, (159) nientedimeno che il vincitore della prima maratona
olimpica, 1896, Spyridion Louis, e lo fecero marciare, con passo che proprio
definire marziale non si può, in testa alla delegazione ellenica per le vie di
Berlino. (160) A Louis poi il fuhrer consegnò un ramoscello d’ulivo per la pace
nel mondo, ma il contadino avrebbe preferito certamente un bel po’ di marchi
che tanto ne aveva di bisogno, lui come tutti i suoi connazionali.
(161) E la maratona, cui la Riefensthal avrebbe dedicato alcune delle più
emozionanti riprese del suo capolavoro, (162) fu proprietà privata degli atleti
del sol levante, almeno così furono presentati Kitei Son il vincitore e Shoryu
Nan, il terzo arrivato. (163) Perché giapponesi lo erano ma solo secondo
l’anagrafe di Tokyo, che aveva imposto già dal 1910 il suo dominio sulla Corea.
(164) Ma Kitei Son, nato in un villaggio sul fiume Yalu, e Shoryu Nan erano figli
della famiglia coreana, nord o sud non importa, i giapponesi avevano preso
tutto allora, e si chiamavano Sohn Kee-Chung e Nam Sung-Yong, ambedue
avevano già corso diverse maratone e Son in particolare ne aveva vinte tre a
Seul, però nelle loro poverissime regioni nessuno sapeva cosa fossero i Giochi
Olimpici e che due figli della loro amata patria erano partiti per quel motivo.
(165) Ma quando a Seul seppero della vittoria del loro atleta impazzirono di
gioia e fecero cancellare la bandiera giapponese dall’immagine di Sohn
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pubblicata sul giornale, (166) mentre sul podio i due asiatici, precursori di Smith
e Carlos, abbassavano il capo in segno di mesto dissenso.
(167) A proposito di giapponesi, come dimenticare che fecero cose turche in
questo maestoso e mai visto prima stadio del nuoto. (168) Guidati dal professor
Matsuzawa che imponeva ai suoi atleti durissimi regimi di vita ed estenuanti
allenamenti, (169) copiarono medaglia più medaglia meno i risultati di quattro
anni prima a Los Angeles, a Berlino ne vinsero 4 d’oro (170) più altre 7 tra
argento e bronzo, non ci fu podio dove non fu presente un atleta dagli occhi a
mandorla. (171) Erano fortemente motivati e lo erano anche i loro dirigenti,
perché volevano prepararsi come si deve sotto tutti gli aspetti (172) per i Giochi
del 1940 assegnati a Tokyo, ma il loro amico teutonico la pensò diversamente e
i Giochi non si tennero e loro dovettero aspettare altri 24 anni per poterli
ospitare.
Ho parlato spesso degli americani dalla pelle scura e dei loro successi, ma non
pensiamo che i loro connazionali dalla pelle chiara fossero venuti a Berlino in
gita turistica. Prendendoli così a caso, (173 tra i 17 che si misero la medaglia
d’oro al collo, ci furono ad esempio gli ostacolisti Forrest Towns nei 110 metri
(174) e Glenn Hardin sui 400, (175) l’aitante e armonico lanciatore di disco
Kenneth Carpenter, (176) il decathleta Morris, qui impegnato nella prova del
giavellotto (177) e qui con i suoi compagni di squadra e di podio tutto
americano Clark e Parker, (178) mentre in piscina Jack Medica vincendo i 400
stile libero riuscì a limitare in parte lo strapotere dei nuotatori del sol levante.
(179) I due che poco prima chiacchieravano amabilmente del più e del meno, di
come si vive in America e di come in Germania, ingaggiarono nella finale del
salto in lungo un duello furioso a colpi di nuovi record nazionali europei ed
olimpici. (180) Long fece salti straordinari con la sua tecnica sopraffina, (181)
con 7.84 prima e poi con 7.87 migliorò per due volte il record europeo, (182)
eguagliando anche Owens che aveva questa stessa misura, (183) ma l’antilope
d’ebano andò ancora oltre, (184) volando leggero in cielo quasi sospeso in aria
(185) duecentomila occhi su di lui e quelli del giudice verso i segnali dei record
presaghi della grande impresa, (186) toccando infine la sabbia a 8 metri e 6
centimetri, record olimpico. (187) Long si complimentò sinceramente con
Owens, (188) e poi i due salirono sul podio insieme al giapponese Tajima.
Ognuno con il proprio saluto.
(189) Quando le comitive olimpiche lasciarono Berlino, i due si salutarono molto
fraternamente, Owens disse “see you soon, Carl”, e Long gli rispose “das hoffe
ich auch (lo spero anch’io)”. Owens, dopo qualche apparizione agonistica in
Europa obbligato dalla severissima A.A.U. tornò in America accolto come un
eroe, ma le quattro medaglie d’oro di Berlino non avevano innalzato di una
virgola la curva del suo reddito familiare, (190) allora si diede da fare
gareggiando a pagamento contro cavalli (191) levrieri e mezzi motorizzati, girò
pure con gli Harlem e mise da parte una piccola fortuna che poi sprecò in un
investimento sbagliato. Long terminò gli studi di diritto all’Università di Lipsia, e
fece un breve praticantato ad Amburgo. I due restarono in contatto scrivendosi
spesso. (192) Poi, quando la guerra incendiò tutta l’Europa, Long fu chiamato a
difendere la patria. Nel ’42, subito dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti,
Long così scrisse ad Owens:
(193) Caro amico Jesse, se questa è l’ultima lettera che ti scrivo ti chiedo una
cosa: quando la guerra sarà finita vai in Germania, cerca di mio figlio Kai e
parlagli di suo padre. (194) Parlagli del tempo in cui questa guerra non ci aveva
ancora separato e digli che le cose tra gli uomini possono andare diversamente
in questo mondo.
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Long morì in Sicilia, il 14 Luglio del ’43 pochi giorni dopo lo sbarco alleato.
(195) Dopo qualche traversia, fu sepolto insieme ad altri tedeschi caduti in
guerra (196) in questo cimitero di Motta S. Anastasia, vicino Catania.
Owens onorò la richiesta di Long ed incontrò suo figlio, gli parlò di suo padre e
gli parlò dei bei tempi di quando la guerra non li aveva ancora separati.
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BERLINO 1936 : STORIA DI UN BOICOTTAGGIO OLIMPICO MANCATO
PROF. SERGIO GIUNTINI
Nonostante le vere intenzioni del nazionalsocialismo tedesco rispetto ad
antisemitismo e razzismo fossero (o avrebbero dovuto essere) ai contemporanei
già sufficientemente chiare, i Giochi olimpici di Berlino non solo ebbero uno
svolgimento regolare ma divennero una delle massime celebrazioni del III Reich
hitleriano. Da cosa derivò tutto questo? Che ragioni permisero alle Olimpiadi di
Adolf Hitler di ottenere il lasciapassare delle democrazie liberali? Perché,
interrogato il 27 agosto 1936 da André Lang de Le Journal, Pierre De Coubertin
si espresse con questi toni entusiastici:
“Quali Giochi sfigurati, quale ideale olimpico sacrificato alla propaganda? E’
assolutamente falso! La grandiosa riuscita dei Giochi di Berlino è
magnificamente servita all’olimpismo”.
A domande siffatte si può rispondere esclusivamente con argomenti d’ordine
politico.
Nel biennio 1935-36 la Germania impresse una decisa accelerazione alla sua
iniziativa interna ed estera (denuncia del trattato di Versailles, rimilitarizzazione
della Renania, introduzione del servizio militare obbligatorio, emanazione delle
leggi razziali di Norimberga,ecc.), attrezzandosi materialmente e
psicologicamente alla conquista del suo “spazio vitale”. Eppure il mondo libero
non sembrò o non volle accorgersi di niente. Ovvero ritenne il nazismo il minore
dei mali. Semmai una solida roccaforte contro il “fantasma” del comunismo
sovietico che s’aggirava per l’Europa. Tale, la spiegazione primaria
dell’”appeasement” politico-diplomatico di quegli anni, e, nella circostanza, della
“realpolitik” estesa all’agone olimpico.
Tra debolezze e ammiccamenti, prevalse la linea morbida dell’acquiescenza: in
un certo qual modo Berlino ’36 costituì la prova generale della Conferenza di
Monaco di Baviera del 29-30 settembre 1938.
In appena ventiquattro mesi, la Germania, con la mediazione di Benito
Mussolini, incassò per ben due volte una facile fiducia da Francia e Inghilterra.
Le venne concesso di annettersi liberamente i Sudeti, premessa all’occupazione
dell’intera Cecoslovacchia nel marzo 1939. Sarebbe tuttavia ingeneroso fermarsi
qui. Ignorare alcune altre dinamiche che interessarono in particolarei Giochi
olimpici. Al riguardo si è sempre sostenuto che, nei loro confronti, si ebbe una
sostanziale assenza d’opposizione. Questo in realtà è vero solo in parte,
nasconde un retroterra assai più complesso e mosso. E pertanto, è necessario
rivalutare appieno i diversi e più robusti tentativi di boicottaggio che quelle
Olimpiadi suscitarono. Riportare alla memoria il dibattito, le acute divisioni, gli
errori e le contraddizioni che quei Giochi germanici determinarono all’interno
dell’opinione pubblica mondiale, tra i governi e in seno ai partiti, alle istituzioni
politiche e sportive. Le battaglie civili e politiche condotte dall’antifascismo
internazionale - dall’Europa al nord America - al fine d’impedire che il Fuhrer
potesse trarre da quell’evento un’irresponsabile legittimazione, furono in questo
senso tutt’altro che puramente simboliche o testimoniali.
Un segnale importante fu il riavvicinamento tra le “due sinistre” dello sport.
Nella strategia dei “fronti popolari”, superando i contrasti ideologici tra
“riformisti” e “rivoluzionari”che ne avevano impedito l’unità d’azione, il 6
settembre 1935 Internazionale Sportiva socialdemocratica di Lucerna e
“Sportintern” siglarono a Praga un accordo che incitava i lavoratori al
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boicottaggio dei Giochi invernali di Garmish Partenkirchen e di quelli estivi nella
capitale del III Reich.
In Olanda le proteste democratiche culminarono nell’agosto 1936, ad
Amsterdam, in un ciclo di meeting di protesta e in una mostra su “L’Olimpiade
sotto le dittature”. In Svezia, su 700.000 iscritti ai sindacati, 150.000 si
dichiararono avversiai Giochi affidati alla Germania di Hitler. Tuttavia il partito di
governo, nel suo Congresso svolto nell’aprile ’36, non ne tenne alcun conto, e
tra coloro che più si attivarono per la partecipazione spiccava Sigfrid Edstrom.
Ilfondatore e presidente dell’”International Amateur Athletic Federation”(IAAF)
e, dal 1931, vice-presidente del CIO.
Edstrom il quale, in un suo scritto del 1934, aveva sostenuto che
l’atteggiamento antiebraico dei tedeschi si giustificava con il monopolio che
questa minoranza deteneva in diversi settori-chiave dell’economia, e che la
Germania, per conservare la propria identità, si vedeva assolutamente costretta
a limitarne l’influenza. A continuare a perorare la necessità del boicottaggio fu il
movimento sportivo operaio (AIF). Movimento che a Stoccolma nell’estate
1935, durante la partita di calcio Svezia-Germania, promosse una grossa
manifestazione con diffusione di volantini e lancio di palloncini antinazisti. Il
fronte favorevole al boicottaggio crebbe in coincidenza dell’invasione della zona
renana, e si articolò intorno alla richiesta di liberazione dei cittadini svedesi
ErikJansson e Knut Mineur, arrestati dalla Gestapo ad Amburgo in quanto
accusati di voler introdurre nel Paese del materiale sovversivo. In loro difesa si
formò uno specifico comitato di lotta, e a esso aderirono anche 6 calciatori della
nazionale che,a titolo individuale,decisero di rinunciare all’Olimpiade berlinese.
Diverse le reazioni che si ebbero nel Regno Unito. Qui, specie il fascismo,
godette di un certo fascino. Winston Churcill fu un ammiratore di
BenitoMussolini e Osvald Mosley, ondivago exdeputato conservatore,
indipendente, laburista, nel 1932 fondò l’Unione fascista britannica.
Schierati per il no alle Olimpiadi il conservatore Cocker Lampson, il quale - a
titolo personale - si spinse a chiedereil taglio dei fondi per lo sport e il blocco
dei passaporti tedeschi alle frontiere e, logicamente, le “Trade Unions”.
Il sindacato laburistache,nel 1936, diede alle stampe il pamphlet Under the Heel
of Hitler: the Dictatorship over Sport in Nazi Germany: atto d’accusa del suo
dirigente Walter Mc Lennon. La neutralità espressa dal Comitato olimpico
produsse la raccolta di numerosi fondi per sostenere le spese della delegazione
inglese a Berlino e, un ruolo non secondario a favore di tale scelta, giocò la
figura di Harold Abrahams. Campione olimpico sui 100 m. ai Giochi olimpici di
Parigi (1924), membro della Commissione tecnica della IAAF (con Edstrom,
Avery Brundage, Billy Holt, Bo Eklund), commentatore radiofonico della BBC,
presidente dell’”Associazione Atletica Ebraica”,Abrahamsnel 1934 si convertì
dall’ebraismo al cattolicesimo, ammorbidendo con il suo esempio i sentimenti
ostili al nazismo. Questo genere d’accondiscendenza si manifesterà peraltro
nuovamente anche dopo le Olimpiadi. Nell’incontro Germania-Inghilterra
giocato a Berlino il 14 maggio 1938,i calciatori di Sua Maestà, in segno
d’amicizia e rispetto, salutarono quelli tedeschi con il braccio teso. Un gesto
che, come è stato notato da Simon Kuper, “è diventato il simbolo delle
eccessive concessioni fatte da Neville Chamberlain alla Germania”.
A una soluzione di dubbio compromesso, intrecciandosi con i destini
dell’”Olympiada Popular” contro-convocata a Barcellona, si piegò anche la
Francia. Paese nel quale, pure, nel 1933 il vice-presidente della Camera aveva
invitato il Comitato olimpico nazionale al boicottaggio, e dove, dal 4 giugno
1936, era al potere una coalizione di “fronte popolare”. Se la logica del
“frontismo” applicato allo sport aveva condotto a Grange aux Belles, il 24
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dicembre 1934, alla fusione tra “Federazione Sportiva del Lavoro” (comunista) e
“Unione delle Società Sportive e Ginniche del Lavoro” (socialista), dando vita a
un’unitaria “Federazione Sportiva e Ginnica del Lavoro”(FSGT) presieduta da
Auguste Delaune e contraria ai Giochi tedeschi, per intanto permanevano le
decisioni assunte dai precedenti governi. E’ a dire il progetto di legge –
presentato il 14 giugno 1934 dal deputato Jammy Schmidt - per il
sovvenzionamento della trasferta, che senza interventi critici il 22 e 30 giugno
’34 superò il vaglio di Camera e Senato della Repubblica.
Solo con la creazione dell’FSGT emerse quindi un deciso fronte d’opposizione. Il
suo organo d’informazioni, Sport, il 15 gennaio 1935 scriveva di quei Giochi:
Essi rappresentano un’ottima opportunità per il signor Hitler e il suo governo
d’inscenare una manifestazione propagandistica ove lo sport non occuperà
certo il ruolo che gli riconosceva il barone De Coubertin quando presiedeva il
CIO.
E rilanciando la sua campagna, il 14 agosto 1935 Sport diramava il seguente
invitoa disertare Berlino:
Non un soldo, non un uomo per i Giochi olimpici di Berlino: questa è la parola
d’ordine attorno alla quale debbono riunirsi tutti gli sportivi e tutti coloro che
intendono ristabilire le libertà violate e soppresse nei paesi fascisti. E’ per la
realizzazione di questo obiettivo che la FSGT prende l’iniziativa di una vasta
protesta popolare al fine d’intraprendere un’azione vigorosa e perseverante
contro la sfida lanciata a tutto il mondo dal fascismo hitleriano con la complicità
dei governi della conservazione sociale e del CIO.
Sulla scorta di tale appello, trecento atleti francesi sottoscrissero un Manifesto
rivolto ai “Veri Amici dello Sport” nel quale si sottolineavano i rischi connessi
alle vicine Olimpiadi, e, il 17 dicembre 1935, nel corso della discussione sul
bilancio dello Stato, l’onorevole socialista Jean Longuet denunciò apertamente
la mistificazione berlinese:
I Giochi olimpici del prossimo anno sono stati concepiti dai dirigenti attuali del
Reich come un’apoteosi del regime nazista, di quel regime che, Voi lo sapete,
ha cacciato dalla Germania i più prestigiosi esponenti del pensiero tedesco, che
pretende, all’ombra d’un immenso drappo di croci uncinate di poter manovrare
tutti gli sportivi del mondo […]. Il governo del Reich ha negato a una parte
della sua popolazione la possibilità di prepararsi per i Giochi olimpici, poiché,
secondo le sue concezioni, il diritto a partecipare alla competizione olimpica va
di pari passo con il riconoscimento dell’ideologia nazionalsocialista […]. Con la
Germania di Hitler, che proclama i suoi principi abietti, anche quando si tratta di
sport, io credo che la Francia dei “Diritti dell’Uomo”, la Francia di Michelet, di
Victor Hugo e Jaurés non deve aver niente in comune. E’ per questo che Noi
chiediamo la soppressione del capitolo di spesa previsto dallo Stato per le
squadre francesi da schierare ai Giochi di Berlino del 1936.
Richiami a una nobile tradizione repubblicana che non mutarono i rapporti di
forza nell’aula. La perorazione di Longuet fu respinta dal ministro alla Salute
Pubblica Ernest Lafont, e dalla solido pacchetto di voti di Pierre Laval che, con
410 sì controi 161 no espressi dai social-comunisti, confermò i 900.000 franchi
previsti per la partecipazione olimpica.
Tra i favorevoli al boicottaggio era anche Léo Lagrange, prossimo a divenire
sottosegretario socialista allo “Sport e al Loisir” nel nuovo gabinetto di Léon
Blum. Giusto i “giri di valzer” di Lagrange riassumono la posizione poco
trasparente tenuta dal “fronte popolare” su questo tema. Di ritorno da una
visita a Berlino nel marzo 1936, prima cioè d’assumere incarichi di governo,
Lagrange si diceva convinto della necessità di astenersi dall’inviarvi atleti
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francesi. Ma da uomo di stato, dopo il Consiglio dei ministri del 19 giugno 1936,
la sua posizione si rovesciò in questo instabile equilibrismo:
Così come non è la Germania bensì la sua capitale che organizza questi Giochi,
allo stesso modo è il Comitato olimpico francese che risponde a quell’invito.
Un trasformismo che seguiva a una grande “Conferenza Internazionale in
Difesa dell’Idea Olimpica” svolta al “Palais Hotel” di Parigi il 6-7 giugno 1936, e
preludeva al dibattimento parlamentare sui Giochi in calendario il 9 luglio 1936.
A dar battaglia fu stavolta il comunista Florimond Bonte, che assimilò l’adesione
alle competizioni a Berlino ad una “sorta di complicità con i carnefici”.
Affermazioni all’apparenza combattive, irriducibili, rintuzzate dal deputato
moderato e componente del CIO François Pietri, per il quale non era “possibile
che la Camera francese impedisse a dei giovani francesi di partecipare a una
grande competizione internazionale solamente perché il regime interno e le
particolari idee dei tedeschi non li convincevano”. Una stringente ragion di stato
che, con l’astensione per disciplina di coalizione dei comunisti, prevalse
nettamente. L’unico responso contrario venne infatti dal Pierre Mendés, che non
venne così meno al proprio onore e alla dignità residua di due camere nelle
quali i partiti di sinistra erano forze di maggioranza. A fronte d’un simile
voltafaccia, per salvare il salvabile, il fragile e incerto “fronte popolare” di Blum
affianco del finanziamento assicurato al Comitato olimpico nazionale proiettato
verso Berlino,deliberò un ulteriore stanziamento compensatorio di 600.000
franchi a favore dell’”Olympiada Popular” - democratica e antifascista barcellonese. Tutto e il contrario di tutto. Un “cerchiobottismo” reso ancor più
ambiguo dalle rassicurazioni governative, giunte il 19 giugno 1936 nel delineare
le linee di diplomazia estera, circa il fatto che nessun suo membro avrebbe
presenziato a quell’Olimpiade.
In effetti un’altra promessa non mantenuta, poiché l’ambasciatore André
François Poncet assistette alle diverse cerimonie ufficiali. In definitiva
un’imbarazzante débacle per la “gauche”, che indusse il Partito Comunista
(PCF) a una singolare forma di “autocritica”: i suoi militanti, il 31 luglio 1936,
alla partenza della rappresentativa olimpica d’Oltralpe per la capitale tedesca,
volantinarono contro quel viaggio tanto impopolare e sbagliato.
Iniziativa ormai inutile e sintomatica dell’impotenza politica e delle divaricazioni
interne che affliggevano il “fronte popolare”. Per Hitler invece un successo
insperato, che allontanava i rischi d’un significativo boicottaggio.
Tali ipotesi contestatarie percorsero anche l’America settentrionale. In Canadaa
sospingere il movimento anti-Olimpiadi del ’36 fu il “Worker Sport
Association”(WSA) in concorso con il “Congresso Ebraico Canadese”. Comunità
ebraiche che diedero un vigoroso impulso pure all’acceso confronto che, intorno
ai Giochi nazisti, si sviluppò negli Stati Uniti. Paese strategico, in cui la decisione
sull’andare o meno a Berlino rimase in bilico fino all’ultimo, spaccando a metà il
movimento sportivoe coinvolgendo vari settori della società americana.
Fin dal maggio 1933 gli ebrei newyorkesi si mobilitarono contro le Olimpiadi
hitleriane, e un’affollata manifestazione, il 3 dicembre 1935, si tenne al Madison
Square Garden per esercitare una pressione sul congresso AAU del seguente 6
dicembre. Congresso preceduto dalla raccolta di 500.000 firme per il
boicottaggio.
Ad appoggiare questa tendenza erano lo scrittore Damon Runyon, i giornalisti
John Kieran del NewYork Times, Ed Sullivan del New York Daily News.
Parimenti avversi a quell’Olimpiade il governatore di New York, l’ ”American
Federation of Labour”, il “National Council of the Methodist Church”, il periodico
cattolico Commonweal, la Federazione degli studenti in giornalismo e 41
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accademici di 27 atenei, fra cui Alfred Hume e Frank Graham - presidenti delle
Università del Missisipi e del Nord Carolina -. Di contro, per il sì a Berlino, si
posizionarono le potenti YMCA, “National Collegiate Athletic Association” (NCCA)
e, persino, i migliori atleti di colore. Tra questi Jesse Owens, sottoscrittore d’un
appello di Avery Brundage affinché gli USA non si allineassero al boicottaggio.
Un atteggiamento stigmatizzato dal segretario della NAACP (“National
Association for the Advancement of Colored People”) Walter White, che in un
lettera del 4 dicembre 1935 condannò tale presa di posizione.
Favorevole al boicottaggio “nero” delle Olimpiadi, viceversa la NAACP lo negò
alle organizzazioni ebraiche americane allorché lo promossero per il match di
pugilatodel 19 giugno 1936 trai pesi massimi Joe Louis e l’ariano Max
Schmeling. Schmeling che, in quel frangente, fu investito del compito di
“ambasciatore” olimpico. In proposito, ha scrittoDavid Margolick:
Così, all’inizio di dicembre del 1935, Schmeling era di nuovo a bordo del
“Bremen” diretto a New York. Il suo obiettivo era firmare per un incontro con
Louis o con Braddock, vedere Louis combattere contro Uzcudun e sistemare la
posizione di Joe Jacobs. I nazisti gli diedero un’ulteriore missione: placare i
persistenti timori riguardo a una discriminazione di neri ed ebrei durante i
Giochi olimpici di Berlino del 1936, e quindi far rientrare la campagna americana
di boicottaggio dei Giochi. Un assistente del ministro dello Sport del Reich
chiese a Schmeling di “esercitare un’influenza positiva sulla gente giusta”,
mentre il presidente del Comitato olimpico tedesco gli diede una lettera da
portare alla sua controparte americana, Avery Brundage.
La partita più tesa e politica si giocò ad ogni modo lungo l’asse Berlino-CIOAAU-USOC (Comitato olimpico americano). Rientrata l’estromissione di Theodor
Lewald, il presidente pre-nazista del Comitato organizzatore che Hitler
intendeva sostituire discendendo da una famiglia ebrea, simili controversie
riaffiorarono nella riunione CIO di Vienna del 6 giugno1933.
Un’assise nella quale i componenti americani incalzarono e quelli tedeschi si
limitarono a vaghe concessioni. Promesse e niente più, eppur tuttavia passata
allo storia dello sport con l’enfasi altisonante di “patto di Vienna”. Formula che
stava a significare l’accettazione da parte nazionalsocialista d’una qualche
presenza olimpica ebraica a Berlino.
Di quell’incontro viennese uno dei membri statunitensi del CIO,il generale
Charles H. Scherril, riportò questa descrizione al rabbino di New York Stephen
S. Wise:
E’ stato un tentativo difficile. Noi eravamo in sei nell’ Esecutivoe persino i miei
colleghi inglesi hanno ritenuto di non interferire nelle questioni interne
tedesche. La Germania si è mossa cautamente. Per prima cosa essi concessero
che altre nazioni potessero portare ebrei in squadra; poi però al termine del
confronto contattarono Berlino, dichiarando che non vi era possibilità di tornare
sul problema degli ebrei tedeschi, ma lasciando uno spiraglio sul fatto che
avrebbero cercato di seguire le nostre posizioni. Io ho ripreso l’argomento,
insistendo sulla richiesta di spiegazioni circa la loro reale volontà di escluderli. E
loro risposero che gli ebrei fino a quel momento non sarebbero stati esclusi.
Tutta la nostra influenza fu usata per far prevalere la posizione USA. Alla fine
accettarono, capirono che disponevamo dei voti necessari.
Scherril - repubblicano newyorkese - continuerà a recitare un ruolo
estremamente attivo nell’intera questione. E al riguardo è curioso
evidenziarecome, al pari di Churcill, anch’egli non dissimulasse affatto le sue
simpatie per Benito Mussolini. Lo considerava “un uomo di coraggio in un
mondo di buoni a nulla”, e auspicava che anche gli Stati Uniti arrivassero ad
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avere un proprio Duce. Ciò non lo induceva peraltro a recedere sulle
discriminazioni antiebraiche; e a riprova del consenso esistente su questo
punto, alla convenzione AAU del 21 novembre 1933 tutti i delegati, con una
sola eccezione, votarono la risoluzione di Gustav Town Kirby (ex presidente
dell’AAU e tesoriere dell’USOC) che prevedeva il boicottaggio dei Giochi di
Berlino qualora non fosse mutato l’atteggiamento verso gli ebrei. Una minaccia
reale, che avrebbe potuto condizionare le opzioni anche di altri importanti stati.
Da qui in avanti prenderanno perciò sempre più corpo le schermaglie
diplomatiche e procedurali, le missioni esplorative,i carteggi pubblici e riservati,
tesi a render meno incandescente il problema ebraico. Nodo cruciale che,
machiavellicamente, i nazisti affrontarono illudendoi loro interlocutori critici,
prendendo tempo, alternando flessibilità a improvvisi irrigidimenti.
Nella sessione CIO del maggio 1934 i delegati tedeschi ribadirono che alcuni
atleti ebrei sarebbero stati inseriti nella rappresentativa olimpica della
Germania. Dal numero iniziale di 21, nel giugno del ’34 Hans Von Tschammer
und Osten scese a quota 5, e nel gennaio 1935 non si parlava più di
partecipazioni. Bensì, 7 “probabili-olimpici” ebrei, si videro inopinatamente
scartati poiché le “loro prestazioni vennero giudicate inadeguate per la
qualificazione ai Giochi”.
Nell’estate del’ 35, Hitler in persona fece circolare una sua lettera nella quale
garantiva l’uguaglianza per i non-ariani alle prossime Olimpiadi. Atto di pura
facciata, che, il 31luglio 1935, obbligò Karl Diem (con Lewald a capo
dell’organizzazione olimpica) a smentire l’esistenza di difformità di vedute tra
istituzioni sportive naziste e statunitensi. Divergenze che in realtà sussistevano,
come dimostrato, nell’agosto ‘35, dalla proposta di ritiro degli USA avanzata da
un alto dirigente sportivoquale Jeremiah Titus Mahoney -membro dell’USOC dal
1912,e dal ’35 neo-presidente dell’AAU -. E ancor più dall’udienza di un’ora che,
il 24 agosto dello stesso anno, Scherril ottenne da Adolf Hitler onde concordare
una presenza, perlomeno simbolica, di ebrei in seno alle nazionali del Reich.
Anche quest’approccio ebbe uno sbocco insoddisfacente. Il Fuhrer fu molto
evasivo e generico, garantendo solo l’accoglienza degli ebrei appartenenti alle
delegazioni estere. Scherril, chiese un gesto di “buona volontà”
facendo il
nome della famosa schermidrice Helene Mayer, e obiettando inoltre che se la
Germania avesse persistito in una simile direzione il CIO avrebbe potuto
assumere delle gravi decisioni.
E a sostegno di questo suo orientamento, il 30 agosto 1935 scrisse al
presidente del CIO - il conte belga Henri de Baillet-Latour - esortandolo “a
parlare direttamente con il Fuhrer e mostrargli la lettera che ricevesti a Vienna
da Berlino riguardante l’esclusione degli ebrei dalla squadra tedesca del 1936.
Devi prepararti - continuava Sherril - al più grosso shock di tutta la tua vita […]
e prima affronterai la situazione più avrai speranza di successo invece di
un’esplosione devastante”.
Esplosione che si ebbe effettivamente con la promulgazione delle leggi razziali
di Norimberga del 15 settembre 1935. Senonché, mentre la Germania cercò
d’attutirne la portata, inviando già il 25 settembre il presidente del proprio
Comitato olimpico negli Stati Uniti per un tour di propaganda e ripiegando sulla
tattica del “mezzo ebreo”, la posizione americana, che ci si sarebbe attesi
divenir più rigida, perse al contrario d’efficacia provocando delle divisioni
laceranti all’interno dell’AAU e un conflitto tra le presidenze USOC e AAU. Il
maggior responsabile d’un tale cambiamento di linea va indicato nel presidente
dell’USOC ed ex presidente dell’AAU Avery Brundage: figura d’anti-semita e di
“crociato” integerrimo del dilettantismo e della neutralità dello sport, espulso
nel 1941 dal comitato isolazionista “American First” per il suo filo-nazismo.
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Affinità elettive con l’ideologia nazionalsocialista che, nel 1935, il consolato
tedesco di Chicago segnalava compiaciuto a Berlino, e che si rilevano pure tra
le pieghe di dettagli “minori” come il seguente. Negli Stati Uniti il film di Leni
Riefensthal Olympia, un sublime saggio di estetica al servizio dell’ideologia
hitleriana, non ebbe libera circolazione. Un abuso, a detta di Brundage, da
addebitarsi al fatto che in America “sfortunatamente i teatri e le aziende
cinematografiche” erano quasi tutte “in mano ad ebrei”. Ma su Avery Brundage
si tornerà nei successivi capitoli in maniera più approfondita. Per ora è
sufficiente dire che, di ritorno in quei mesi da un viaggio esplorativo per l’USOC
nel Reich, svolse in merito una relazione tranquillizzante e tale da convincere
anche Gustavus Town Kirby; e in parallelo, operò per evitare una visita di Baillet
Latour negli USA, ritenendo più utile allo svolgimento dei Giochi a Berlino non
surriscaldare gli animi con azioni che avrebbero soltanto accresciuto la visibilità
degli oppositori.
Baillet-Latour il quale, per altro, la sua scelta l’aveva già compiuta anzitempo; e
a conclusione d’un colloquio con Hitler ,il 5 novembre 1935, rilasciò queste
dichiarazioni che non lasciavano marginial dubbio:
Niente può opporsi al mantenimento dei Giochi della XI Olimpiade a Berlino e
Garmish Partenchirken. Le condizioni richieste dalla Carta olimpica sono state
rispettate dal Comitato olimpico tedesco. La campagna di boicottaggio non
deriva dai comitati olimpici nazionali e non è appoggiata da nessuno dei nostri
colleghi.
Nel frattempo nel campo germanico si attuava l’escamotage dilatorio dei “mezzi
ebrei”. Un’operazione consistente nel lasciar credere possibili piccole aperture
verso quei soggetti le cui origini razziali non erano completamente accertate. In
questa prospettiva si scelsero come “specchietto per le allodole” atleti e atlete
di primo piano, che potessero accentrare su di sé l’attenzione dell’opinione
pubblica deviandola dalle discriminazioni su vasta scala applicate con la
legislazione del settembre ’35. Le “cavie” prescelte furono due campionesse:
Helene Mayer e Gretel Bergmann.
Nata a Offenbach am Main il 10 dicembre 1910 e allenata dall’italiano Arturo
Gazzera, la Mayer vinse le Olimpiadi di fioretto del 1928, i campionati europei
del 1929 e ’31 e fu quinta ai Giochi olimpici del 1932.Suo padre Ludwig era uno
stimato medico, presidente dell’ ”organizzazione Centrale dei Cittadini Tedeschi
di Fede Ebraica” di Offenbach. In prossimità dell’Olimpiade di Los Angeles la
Mayer si trasferì negli Stati Uniti per studiare lingue presso lo “Scipps College”
di Claremont, e laureatasi le venne offerto d’insegnare al “Mills College” di
Oakland. Lì, venne colta dalle leggi razziali entrate invigore in Germania e, il 27
settembre 1935, sul New York Times, fu pubblicato un articolo che la
riguardava dal titolo: “Il Reich chiama due ebree nella squadra olimpica: Helene
Mayer e la saltatrice in alto Gretel Bergmann”. Il pezzo soggiungeva che della
convocazione era stata data notizia per lettera anche al generale Scherril, che
in ragione di ciò si diceva pronto a dar il suo via libera ai Giochi del ’36. Questa
minima e strumentale concessione, dunque, ammorbidì considerevolmente
l’intransigenza statunitense, e la Mayer, imbarcatasi per la Germania il 13
febbraio 1936, fu l’unica ebrea tedesca a gareggiare in quelle Olimpiadi. Si
prestò anch’essa a un compromesso di basso profilo, giunse seconda in finale e,
a coronamento di questo straordinario maquillage di regime, sul podio ringraziò
la folla con il saluto nazista.
Diversa la sorte di Gretel Bergmann - nata a Laupheim il 12 aprile 1914 -,
l’altra “vittima sacrificale” che il III Reich intendeva utilizzare per darsi una
parvenza di legittimità. Figlia di genitori ebrei, nel 1934 a Gretel venne proibito
di continuare a frequentare l’università in Germania e, per concludere gli studi,
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si recò in Gran Bretagna. Il 30 giugno 1936 s’impose nelle prove di
qualificazione olimpica saltando m. 1,60 ed eguagliando il record tedesco, ma il
16 luglio le venne comunicato che, malgrado il brillante risultato, non era stata
ritenuta idonea a vestire la maglia della nazionale. Allo sport nazionalsocialista
bastava e avanzava un’ebrea, la Mayer, da esibire davanti all’opinione pubblica
mondiale. Due, erano francamente di troppo.
Chi viceversa boicottò deliberatamente, in quanto ebreo, l’Olimpiade delle “croci
uncinate” fu Milton Green. Di Lowell in Massachussets, località che gli aveva
dato i natali il 31 ottobre 1913, Green - studente ad Harvard - era primatista
mondiale dei 60 m. ostacoli (7”5) nel 1936, quando, consultatosi con il suo
rabbino, rinunciò ai Giochi olimpici per ragioni morali e religiose, rifiutandosi di
partecipare a un’esaltazione dell’hitlerismo.
Un coraggio che mancò all’AAU (la più antica istituzione sportiva americana,
fondata il 21 gennaio 1888), chiamata dal 6 all’8 dicembre 1935, al
“Commodore Hotel” di New York, a pronunciarsi definitivamente sulle Olimpiadi
berlinesi. Confronto/scontro a viso aperto, per molti versi drammatico, che in
base al suo esito impedì di scrivere una diversa pagina di storia olimpica e non
solo. La battaglia all’ultimo voto era già in corso dall’estate, e si polarizzò
attorno ai due principali contendenti: Jeremiah Titus Mahoney - l’esponente
di punta dell’area del boicottaggio - e Avery Brundage. Nato a New York il 23
giugno 1876, giudice della Corte Suprema (1925-28) e delegato newyorkese
alle Convention democratiche del 1920-‘32-‘36-‘40-‘44-‘48-‘52, il cattolico
Mahoney, attenendosi alla risoluzione Kirby del 21 novembre ’33,
partìall’attacco il 26 ottobre 1935 con una lettera aperta sul New York Time
snella quale poneva in discussione la reale autorità di Lewald, portava dei
precisi esempi di discriminazione razziale e accusava la Germania di voler
sfruttare propagandisticamente i Giochi. E a dar fiato alle sue posizioni, in
Versey Strett a New York s’installò un “Commitee on FairPlayin Sport” che nel
1935 editò l’opuscolo Preserve the olympic ideal: a statement of case against
partecipation in the Olympic Games in Berlin. Testo cui replicarono sia
Brundage che Gustavus T. Kirby, divenuto – nonostante Mahoney continuasse a
evocarne le posizioni originarie - suo fidato alleato. Il primo con un documento
di 18 pagine distribuito in 10.000 copie, Fair Play for American Athletes, nel
quale asseriva come dietro il boicottaggio si annidassero lobbies ebraiche e
agitatori comunisti; Kirby con delle sue riflessioni che portavano il titolo di Some
why’s and wherefore’s of the Olympic Games of 1936. Trasportato questo
dibattito al “Commodore Hotel”, Mahoney provò a indirizzare la discussione
presentando nella riunione ristretta del Comitato esecutivo AAU, che anticipava
l’apertura dei lavori congressuali, una sua risoluzione che dettava:
Occorre che la AAU chiami tutti i suoi membri, tutti gli atleti americani e tutti
coloro che amano il fair play, a concordare con lo spirito di questa risoluzione: e
quindi non dare supporto o incoraggiamento alla formazione di una
rappresentativa USA per competere nei Giochi, né a prendervi parte, se questi
si terranno in Germania, come atleti o spettatori.
Con una risicata maggioranza di 7 a 6 la risoluzione venne respinta. Mahoney
insistette però nella sua battaglia, chiedendo di demandare all’Assemblea
l’ammissibilità di una sua eventuale messa in votazione. Ne uscì nuovamente
sconfitto per 61 11/20 a 55 7/60. A battere il boicottaggio non furono tanto i
singoli delegati quanto il voto dei “grandi elettori”e delle associazioni. Tra
questi, bocciarono Mahoney gli ex presidenti Brundage, Kirby, Murray Hulbert e
l’ex segretario Frederick Rubien. A favore del giudice della Corte suprema si
schierò l’ex presidente Alfred Lille a metà, con un sì e un’astensione,l’ex
segretario Ferris.
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Tra le associazioni finì 13 a 2 per Brundage-Kirby con l’astensione dell’”Amateur
Athletic Union of Canada” . Per non boicottare Berlino si espressero: “Amateur
Skating”, “American Insitute of Banking”, “American Sokol Union”, “American
Turnerbund”, “German American Athletic Union”, “Intercollegiate American
Amateur Athletic Association”, “Middle Atlantic State Collegiate Athletic
Association”, “National Cycling Association”, “National Ski Associations”, “Polish
Falcons of American”, “Polish National Alliance”, “Slovack Catholic Sokol”,
“United States Amateur Baseball Association”.
A Mahoney,diedero il proprio assenso solamente “Amateur Fencers League of
America” e “Jewish Welfare Board”.
L’asprezza dello scontro, che stava provocando una crisi senza precedenti ai
vertici e alla base dell’AAU, indusse tuttavia a ricercare una mediazione
estrema. Aron Steuer, membro del “Jewish Welfare Board”, propose un
emendamento che prevedeva la costituzione di una commissione paritetica di
tre elementi (uno in rappresentanza delle posizioni di Brundage, uno di
Mahoney e un terzo neutro) che si recasse in Germania per riverificare le
condizioni di rispetto dei diritti umani nel Paese. L’emendamento Steuer perse
di stretta misura 55 3/4 a 58 1/4, e questo scarto pose la parola fine a ogni
volontà di boicottaggio americano delle Olimpiadi di Berlino. L’ultimo colpo di
coda di questa lotta, che aveva sostanzialmente visto sfiduciare la presidenza
AAU in carica, si ebbe in sede CIO. Un suo componente statunitense, Ernest
Lee Jahncke, che vi era stato cooptato dal 1927, non intese rassegnarsi e con
dichiarazioni pubbliche e lettere aperte a Theodor Lewald e Henri de BailletLatour proseguì nel sostenere la sua contrarietà a quei Giochi. Invitato alle
dimissioni non accettò di rassegnarle e, per tale motivo,venne bandito dal CIO
con voto unanime, tranne l’astensione del collega americano William Garland.
Un’espulsione di cui approfittò immediatamente Avery Brundage, che ne prese il
posto intraprendendo da lì una scalata che nel 1952 l’avrebbe issato sullo
scranno più alto del CIO. Così da New York Arbor, il 15 luglio 1936, salpava il
“Manhattan” con 384 atleti e 87 accompagnatori a bordo. La delegazione
statunitense sbarcò ad Amburgo il 24 luglio 1936, e a quel punto, davvero, le
Olimpiadi di Adolf Hitler non correvano più nessun pericolo.
LETTURE CONSIGLIATE:
David Clay Large “Le Olimpiadi dei nazisti. Berlino 1936”, Corbaccio, Milano, 2009.
Marshall Jon Fischer “Terribile splendore. La più bella partita di tennis di tutti i tempi”
66tha2nd, Roma, 2013.
Sergio Giuntini “L’Olimpiade dimezzata. Storia e politica del boicottaggio nello sport”,
sedizioni, Milano, 2009.
David Margolick “Oltre la gloria. Joe Louis vs Max schmeling.Un orlo sull’orlo del
baratro”, Il Saggiatore, Milano, 2008.
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DALLA RICOSTRUZIONE AL SESSANTOTTO
CHIEDI CHI ERA BARTALI: POLITICA E CICLISMO
PROF. FABRIZIO FELICE
Ogni giorno l’insegnante ha di fronte allievi che attendono fiduciosi la risposta a
tutti i loro perché.
E allora, che nel cielo dei poeti Roberto Roversi mi perdoni se rubo le parole alla
sua “Chiedi chi erano i Beatles", facciamo che al primo banco ci sia "la
ragazzina bellina di quindici anni di età, col suo naso garbato, gli occhiali e con
la vocina. Che deve ancora imparare, che è nata ieri, che del resto ne sa
proprio poco".
Che ci domanda chi era mai quel Bartali (uso la parola piana non solo per
esigenze metriche, ma anche perché fino al 1940 sui giornali sportivi restera
aperto il dilemma Bartali o Bartàli).
Prendo il coraggio a due mani e sparo la mia risposta. (IMMAGINE 1).
Bartali non è solo uno dei tanti eroi sportivi sfiorati dai grandi eventi. E’ un
protagonista della Storia con la esse maiuscola.
E’ il prototipo degli assi del pedale che, come afferma nel 1936 Orio Vergani,
"un tempo erano simili a noi, contadini, braccianti, muratori, garzoni. Han preso
la bicicletta e hanno conquistato il mondo. Le folle li attendono e li acclamano
perché hanno sfidato la polvere e la pioggia e, benché feriti, si sono rialzati.
Perché hanno vinto le montagne. Sono i diseredati della fatica che in un torneo
umile e appassionante si sono fatti cavalieri della fatica”: Bartali è l’alfiere dello
sport del popolo che parla un linguaggio facilmente decifrabile. E’ un uomo a
tutto tondo, nella sua grandezza e nelle sue miserie. E lo storico, diceva Marc
Bloch, è "come l’orco delle favole: là dove fiuta carne umana, là sa che é la sua
preda".
Una preda che inseguiro in una corsa lunga tredici anni, anni cruciali nella storia
italiana, soffermandomi su tre momenti specifici della lunghissima carriera del
ciclista toscano: le prime affermazioni; la traumatica interruzione legata allo
scoppio della seconda guerra mondiale; gli anni della seconda giovinezza.
Se volete "ascoltare non solo per gioco il passo di mille persone, se volete
sentire sul braccio il giorno che corre lontano", io sono pronto. Andiamo a
cominciare.
BARTALI IL PIO
Primo agosto 1938. Il pubblico parigino assiepato sulle tribune del Parco dei
Principi acclama il vincitore del Tour de France, un ventiquattrenne esile e
schivo nato a Ponte a Ema, piccola località alle porte di Firenze. (IMMAGINE 2)
L’entusiasmo degli italiani è alle stelle.
La campagna sportiva di Francia, inserita in una più vasta offensiva gallofoba
scatenata da Mussolini, si è conclusa con un esito trionfale.
Nel giro di poche settimane Nearco, il "cavallo del secolo", si impone nel Grand
Prix di Parigi; i calciatori italiani si riconfermano campioni del mondo; Bartali si
aggiudica la massima competizione mondiale rinnovando le gesta di Ottavio
Bottecchia.
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Tutti gli obiettivi propagandistici sono stati centrati. In barba agli esuli
antifascisti che favoleggiano di un calo del consenso, che hanno fischiato la
nazionale, che hanno preso a sassate le macchine italiane al seguito del Tour,
un popolo gagliardo e compatto, forte di una evidente superiorità di razza, ha
dimostrato come sotto l’egida del regime ogni forma della vita sociale è
destinata a primeggiare.
Eppure attorno al recinto delle premiazioni aleggia un clima strano. (IMMAGINE
3)
Le liturgie che accompagnano le imprese degli ambasciatori straordinari
all’estero paiono più doverose e fiacche che mai: il fascio littorio sulla maglietta,
il saluto romano, i telegrammi di felicitazioni dei gerarchi, gli annunci a
pagamento apparsi sui giornali sportivi ("Un comandamento dell’Italia del
DUCE: vincere! Bartali, campione della Legnano, ha obbedito"). (IMMAGINE 4)
Al microfono dello speaker dell’EIAR Giuliano Gerbi, che di lì a qualche giorno
sarà licenziato in quanto "appartenente alla razza ebraica", Bartali, dopo aver
bofonchiato parole smozzicate di ringraziamento agli alti papaveri del regime,
scandisce a chiare lettere il suo "caro ricordo agli amati confratelli dell’Azione
Cattolica".
Ed é inalberando con fierezza il distintivo della Gioventu Italiana di Azione
Cattolica che il campione si reca il giorno successivo a deporre una corona di
fiori al santuario di Nostra Signora delle Vittorie e a far visita all’arcivescovo di
Parigi. Che, al rientro in Italia, si presenta all’appuntamento con Starace che,
invece della medaglia d’oro al valore atletico conferita alla nazionale di calcio, lo
insignisce della medaglia d’argento.
Poco male. Gino può consolarsi con la medaglietta di Santa Teresa fatta
pervenire da Pio Xl al termine di una udienza pubblica a Castelgandolfo e con le
accoglienze trionfali che gli riservano cardinali, dirigenti dell’Azione Cattolica,
collegi e giornali religiosi. (IMMAGINE 5)
Ce n’è a sufficienza perché il nove agosto una velina del Minculpop imponga
alla stampa di occuparsi di Bartali, sul cui conto l’OVRA ha aperto un fascicolo,
“esclusivamente come sportivo, senza inutili resoconti sulle sue giornate di
libero cittadino”.
Da dove sbuca questo alieno che e stato inviato al Tour dopo che tra Mussolini,
Starace e il generale Antonelli, presidente dell’UVI, si è svolto un dialogo di
questo tono:
"Bartali é fascista‘?" "Assolutamente no!” “Ma potrebbe vincere il Tour?" "Si, se
gli verrà vietato di correre prima il Giro d’Italia" "E allora mandiamolo. Meglio
una vittoria che un fascista che perde” ?
Da dove sbuca questo scarto di produzione della infaticabile "officina di
Mussolini" ?
Per capirlo é necessario, come in tutte le grandi storie, fare un passo indietro.
Fino al 1936 la vicenda umana e sportiva di Bartali non si distacca da quella
degli altri campioni del pedale.
Nato nel 1914 da un padre di convinzioni socialiste e da una madre
profondamente religiosa, Gino trova modo di coltivare la sua passione
impiegandosi come meccanico in una bottega di riparazioni di biciclette.
Esordisce nel 1931, passa al professionismo nel 1935 per essere assunto in
forza l’anno successivo dallo squadrone della Legnano, Bartali é cattolico, come
tanti altri sportivi prima di lui. Mai tuttavia la fede era stata ostentata come
elemento distintivo e come fattore di successo come avverrà per Gino, attorno
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al quale il movimento cattolico, servendosi di tutti gli strumenti a sua
disposizione, si accinge ad imbastire una operazione propagandistica
attentamente studiata a tavolino.
Operazione che ha una data e un luogo di nascita: 21 maggio 1936,
Montecatini, località di arrivo della terza tappa del Giro d’Italia.
Il padrino é Carlo Bergoglio, il popolare "Carlin”, uno dei più grandi giornalisti
sportivi italiani, uomo di dichiarata fede.
Carlin, che ha captato i segnali della schietta religiosità del corridore, intervista
per la torinese "Gazzetta del Popolo" Bartali e il suo direttore spirituale don
Bruno Franci. Il sacerdote gli assicura che Gino “gli é un buon figliuolo, va a
messa ogni domenica, porta il distintivo della Cattolica", alla quale è affiliato
dall’eta di dieci anni.
La macchina si è messa in moto. "Gino Bartali vincitore del Giro d’Italia e
vessillifero della Gioventù Cattolica", titola su sette colonne l’organo della curia
milanese "L’Italia".
L’autore del pezzo e Carlo Trabucco, militante torinese dell’Azione Cattolica,
allontanato dalla redazione de "La Stampa" per non aver voluto prendere la
tessera del PNF.
Trabucco informa i lettori che Bartali porta all’occhiello, accanto a quello dei
Giovani Fascisti, il distintivo di una Gioventù Cattolica che considera una
autentica "milizia”. Che è devoto a Santa Teresa di Lisieux, alla quale nella sua
casa ha eretto un altare. (IMMAGINE 6)
"Basta guardarlo negli occhi per accorgersi che é dei nostri", incalza Luigi
Gedda, dal 1934 presidente della GIAC, che, dopo avergli consegnato un
distintivo d’oro, lo accredita presso Pio XI come atleta cristiano spendibile sul
piano apologetico.
La Libreria Editrice Salesiana pubblica a tamburo battente “Arriva Gino",
commedia destinata a diventare un cavallo di battaglia dei teatri parrocchiali.
E il tamtam mediatico non accenna a placarsi nel corso degli anni a seguire.
Nel 1937, che coincide con il secondo successo di Bartali nel Giro d’Italia, si
sparge addirittura la voce che il ciclista, affranto per la morte del fratello Giulio
in un incidente di corsa, si sia ritirato in convento. Ma si tratta dell’ennesimo
frutto della colossale ignoranza italiana in materia religiosa, che induce a
confondere l’ordine religioso con il Terz’Ordine Carmelitano Teresiano, al quale
Bartali è stato aggregato con il nome di Fra Tarcisio di Santa Teresa del Bambin
Gesu.
La stampa fascista, presa in contropiede, dopo essersi sforzata invano di far suo
il nuovo prodotto dell’immaginario culturale, oscilla tra lo scetticismo, il fastidio,
il sarcasmo.
Scendono in campo le grandi firme. Bruno Roghi sostiene che “la vocazione
dello stradista non annulla la devozione del credente: Dio aspetta sulle
montagne gli uomini di buona volonta".
Marco Ramperti sfonda la barriera della sublime idiozia: "chi ha visto passare
Gino Bartali nel vespero delle crode, mentre il raggio delle ruote risplendeva
come quello del rosone di un altare, dice che egli aveva la testa eretta e gli
occhi socchiusi e le braccia sciolte, quasi, dai manubri, così come in preghiera".
Dalle colonne de "Il Popolo d’Italia" picchia duro Nino Nutrizio, prendendo
spunto dalla riluttanza del corridore a partecipare al Tour del 1937: "andrò se
mi assicurano 200.000 lire, dice Bartali, che si e creato una popolarita come
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sereno interprete della bonta francescana. Ma non ci risulta che il Poverello di
Assisi avesse libretti di risparmio".
Si sussurra che nel 1938, al mondiale di Valkenburg, Bartali abbia volutamente
corso al risparmio per privare il fascio di una grande vittoria. E dopo il giro del
1939 un informatore dell’OVRA riferisce di un’opinione pubblica che ha accolto
con gioia il successo del Giovane Fascista Giovanni Valetti a spese del
"commediante cattolico” Bartali.
Alla lunga, insomma, prevale la presa di distanza. Troppo marcata è la
discrepanza tra lo stereotipo dell’uomo nuovo aderente ai valori fondanti del
regime e quello incarnato dall’atleta toscano.
Gli assi dello sport fascista ostentano una bellezza virile e una congrua dose di
arroganza; sono immersi in un tempo scandito dai clamori delle adunate
oceaniche; leggono "La Gazzetta dello Sport"; si ispirano a Mussolini, "promo
sportivo d’Italia"; scelgono come numi tutelari gerarchi e gerarchetti.
Bartali è esile ai limiti della fragilita. E’ mite, silenzioso. Non beve, non fuma,
arriva vergine al matrimonio. E’ un solitario, il "solitario delle Dolomiti". Legge le
vite dei santi e le riviste cattoliche. Pone ad ideali di vita due campioni del
laicato cattolico, Giosuè Borsi e Pier Luigi Frassati. Si muove in uno spazio
sociale e culturale delineato dall’immaginetta stampata nel maggio del 1937 in
centinaia di esemplari dalla chiesa milanese del Corpus Domini: "nella chiesa
dove, prima di partire per il venticinquesimo giro d’Italia, ho invocato l’aiuto
divino, oggi mantengo la promessa, ringraziando solennemente il Signore, la
Vergine del Carmelo e la sua santa prediletta, Santa Teresa, per la nuova grazia
concessami. Gli eminentissimi cardinali e i vescovi d’Italia che mi benedirono, i
padri carmelitani, gli amici di Azione Cattolica, i terziari, abbiano il mio più vivo
grazie". (IMMAGINE 7)
A dispetto delle insistenze dei fascisti fiorentini, rifiuta di prendere la tessera del
PNF.
E, sopra ogni altra cosa, nel recitare la parte che gli é stata assegnata,
compendia l’ideologia sportiva cristiana esprimendosi con il linguaggio
incontrovertibile della vittoria.
E proprio in questa direzione va ricercata la ragione del successo dell’opera di
appropriazione da parte del movimento cattolico.
Bartali è l’uomo giusto nel posto giusto al momento giusto.
Consente ai credenti di rialzare la testa, di cancellare in un sol colpo anni e anni
di scudisciate squadristi che si abbattevano sui giovani cattolici: rachitici e
occhialuti, conigli domestici, paolotti buoni solo a recitar rosari e a reggere ceri.
"Habemus campionem!", esulta la GIAC, forte all’epoca di 10.000 sezioni e di
400.000 affiliati (un’enormità che ci riporta, rammentate, alla categoria del
"totalitarismo imperfetto").
La Gioventù Cattolica, è il leit - motiv di riviste come "Gioventù Nova" e
“Credere", penetra in ogni settore della vita sociale, si afferma in ogni
competizione.
"Passava Gino Bartali veloce come il vento, il giovane cattolico con fede ed
ardimento. Misteri di una tessera: la sua vittoria è frutto succoso della pratica
del motto primi in tutto!”.
"Indietro! Passa Bartali. Alfiere, innalza l’asta. Siam giovani cattolici, signori, e
tanto basta".
LA GUERRA DI GINO
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La ricreazione sta per finire. Nel cielo della patria battono le ore segnate dal
destino. E lo sport ne segue ogni rintocco.
ll 5 maggio 1940 un ventunenne piemontese, Coppi Fausto, partito come
gregario di Bartali, arriva a Milano in maglia rosa (IMMAGINE 8).
Cinque giorni piu tardi il popolo italiano corre alle armi.
Il futuro campionissimo segue la traiettoria dell’italiano comune. Né il suecesso
nel Giro d’Italia né il prestigioso record mondiale dell’ora ottenuto per acquisire
benemerenze nel novembre del 1942 in un Vigorelli circondato dalle macerie
dei bombardamenti valgono ad evitare la partenza per il fronte africano
(IMMAGINE 9).
Catturato dagli inglesi nell’aprile del 1943 e rinchiuso in un eampo di
concentramento tunisino, Coppi, sofferente per un’ulcera gastrica e affetto da
un focolaio di malaria verrà rimpatriato alla fine del 1944 ed internato a
Caserta.
Nel frattempo i Giri d’Italia di guerra e i circuiti locali mettono in scena una
parvenza di normalita.
Giunge il trauma della caduta del fascismo. Il 25 luglio Renato Morandi,
campione italiano di velocita su pista, guida per le strade di Varese un corteo di
ciclisti festanti indossando la maglia tricolore. A Firenze il marchigiano Ubaldo
Pugnaloni, dopo essersi imposta nel campionato italiano dei Giovani Fascisti, si
accorge con stupore che le camicie nere sono sparite e, tra le ovazioni del
pubblico, strappa dalla maglia i simboli del regime.
Le strade si separano dopo l’otto settembre.
Qualcuno, pochi, per la verità, imita il cuoco di Salò della canzone di De
Gregori, che "qui si fa l’Italia e si muore dalla parte sbagliata".
E’ il caso di Fiorenzo Magni, ciclista toscano di provata fede fascista (IMMAGINE
10), ultimo frazionista della Staffetta del Ventennale corsa nell’ottobre del 1942
da Predappio a Roma, imboscato nel battaglione olimpico di stanza a Roma,
arruolato alla fine del 1943 nella Guardia Nazionale Repubblicana impegnata
nella lotta antipartigiana, frequentatore della banda fiorentina del maggiore
Carità, definita da Pietro Calamandrei "associazione a delinquere di volontari del
delitto tenuti insieme dal gusto di appagare nello strazio degli innocenti la loro
sadica volonta di ferocia".
Nel gennaio del 1944 Magni partecipa al rastrellamento sul monte Valibona,
nelle vicinanze di Prato, in cui troverà la morte Lanciotto Ballerini, comandante
di una piccola formazione partigiana collegata al Partito d’Azione (IMMAGINE
11).
Il ruolo di Magni, che, per evitare rappresaglie, si e tempestivamente rifugiato a
Monza, non sarà mai completamente chiarito. L’inchiesta aperta nel dicembre
del 1945 sfocerà in un processo chiusosi nel febbraio del 1947 con una
sentenza che eviterà al ciclista toscano la condanna a trent’anni per
collaborazionismo in virtù dell’amnistia sui reati politici promulgata nel 1946 dal
guardasigilli Palmiro Togliatti.
Decisiva risulterà la testimonianza favorevole a Magni di Alfredo Martini,
rappresentante del ricco filone dei ciclisti che aderiscono alla resistenza per le
cui vicende rimando al libro di Sergio Giuntini.
Nella sua singolarità, la guerra del soldato Bartali è emblematica della
complessità delle vicende italiane nella fase convulsa che va dal 1943 al 1945.
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Pur in odore di eresia, Gino è troppo celebre per subire la sorte di Coppi.
Arruolato dapprima nei battaglioni territoriali con funzioni di portaordini in
bicicletta (IMMAGINE 12), assegnato successivamente alla milizia stradale con
tanto di camicia nera, il 25 luglio Bartali si dimette.
Considerato disertore, deve nascondersi per qualche tempo in Umbria prima di
poter rientrare a Firenze.
Nel capoluogo toscano viene contattato dal cardinale Elia Dalla Costa, che gli
prospetta due pericolosissime missioni: coadiuvare la Delegazione per
l’Assistenza degli Emigrati Ebrei, che opera clandestinamente per nascondere i
perseguitati nei conventi dell’Italia centrale; trasportare fotografie e documenti
da Firenze ad Assisi, dove è in azione una tipografia che stampa carte di
identità e lasciapassare contraffatti (IMMAGINE 13).
Nascondendo il materiale nel tubo del sellino Bartali effettua una quarantina di
viaggi camuffati da sedute di allenamento, sfidando il rischio, se scoperto dai
tedeschi, di essere fucilato sul posto.
E non è finita. Gino nasconde a Ponte a Ema una famiglia di ebrei fiumani
(IMMAGINE 14) e guida in salvo presso le formazioni partigiane un gruppo di
militari inglesi.
Si cammina sul filo del rasoio. Nel 1944, con l’accusa di essere in contatto con il
Vaticano per organizzare un traffico d’armi, Bartali è convocato dai torturatori
della banda Carità, davanti ai quali si presenta esibendo il distintivo della GIAC
e alle cui grinfie sfugge solo per l’intervento delle alte gerarchie ecclesiastiche
fiorentine.
Alla fine del 1944, durante un’uscita di allenamento, è bloccato da una banda di
partigiani comunisti che, imputandogli di avere indossato la divisa fascista,
minacciano di giustiziarlo. A salvarlo sarà Primo Volpi, futuro campioncino e
partigiano sul Monte Amiata.
"Certe cose si fanno e non si dicono", affermera Bartali motivando un silenzio
mantenuto sulle sue benemerenze che è stato rotto solo da qualche anno
(IMMAGINE 15).
IL CROCIATO
E’ un silenzio tanto pin sorprendente se si considera che il Bartali del secondo
dopoguerra, spigoloso, temprato dalle avversità, precocemente invecchiato,
appare un lontano parente di quello degli anni Trenta. Beve, fuma, gioca a
carte, smoccola, assume un piglio baldanzoso che lo mette in contrasto con
l’universo mondo, attribuisce ogni insuccesso al destino cinico e baro, parla,
parla, parla.
In queste nuove vesti Gino Bartali acquista un rilievo storico di straordinaria
importanza per almeno tre motivi.
Come figura di confine tra il vecchio e il nuovo che esemplifica una penetrante
osservazione del grande studioso della rivoluzione russa Edward Carr: "la
tensione fra gli opposti principi di continuità e di cambiamento è il fondamento
della storia. Tutto ciò che sembra avvenire senza interruzione è sottoposto alla
sottile erosione di un intimo mutamento. Nessun cambiamento, per quanto si
manifesti in modo violento e brusco, segna d’altra parte una rottura completa
col passato".
Come soldato di una nuova crociata nel corso della quale transita dal ruolo di
icona alternativa a quella di atleta di regime (IMMAGINE 16).
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Come espressione di una tendenza tutta italiana che, rifuggendo dalle mezze
tinte, divide ogni aspetto della vita sociale in due campi contrapposti.
Andiamo per ordine.
Nella situazione di sbandamento che attanaglia il paese, gravida di potenziali
vantaggi per le forze eversive, la chiesa, sbandierando benemerenze
antifasciste reali e presunte, si pone come luogo di rifugio, di consolazione, di
riconciliazione, come fattore di continuità culturale e strutturale, come asse
portante dell’opera di ricostruzione.
Sono compiti impegnativi che le gerarchie ecclesiastiche affidano, più che al
partito cattolico in via di formazione, alle organizzazioni di massa, a partire
dall’Azione Cattolica.
La riaffermazione della presenza cristiana in ogni settore della vita quotidiana,
che ha per ideologo Pio XII e per stratega il presidente dell’Unione Uomini di
Azione Cattolica Luigi Gedda, coinvolge anche il mondo dello sport.
Tra il 1945 e il 1946 il papa si esprime ripetutamente al proposito, attingendo al
linguaggio agonistico di San Paolo: "ho combattuto la buona battaglia, ho
terminato la corsa non per guadagnare un premio corruttibile, ma con la
speranza di una corona imperitura”.
A questa impostazione la maschera aggressiva ed invadente di Bartali risulta
pienamente funzionale.
Gino e uno dei “gagliardi che hanno combattuto col petto decorato di
medaglie". E’ un marito e un padre esemplare. E’ l’uomo di ferro la cui
straordinaria longevità atletica ha per segreto l’austerità di vita ed una fede
profonda.
Novello crociato (IMMAGINE 17), diviene il modello del perfetto militante
cattolico che alterna preghiera, frequenza alle funzioni religiose, testimonianza
nel mondo del lavoro, propaganda nei periodi elettorali e che, all’occorrenza, è
capace di "dare qualche solida lezione agli avversari politici".
Non a caso sfuma all’ultimo momento la realizzazione di una torrenziale
pellicola sul ciclista toscano commissionata a Romolo Marcellini, regista del
polpettone agiograiico sulla vita di Pio XII “Pastor Angelicus".
La consacrazione arriva comunque ed é assolutamente clamorosa.
Il sette settembre 1947, per celebrare il venticinquesimo anniversario di
fondazione dell’Unione Uomini di Azione Cattolica, 200.000 iscritti affollano
piazza San Pietro per ascoltare l’allocuzione pontificia passata alla storia come
"discorso dell’arcobaleno".
Avviandosi alla conclusione, Pio XII (IMMAGINE 18) si rivolge in questi termini
alla folla oceanica:
"il tempo della riflessione e dei progetti è finito. Ora viene il tempo dell’azione.
Anche pochi istanti possono decidere della vittoria. Siete pronti? Guardate il
vostro Gino Bartali, membro come voi dell’Azione Cattolica (per inciso, a 35 anni
Gino appartiene ancora alla GIAC, un anacronismo cui solo nel gennaio del
1948 metterà termine Gedda con la consegna del distintivo degli Uomini di
Azione Cattolica). Egli ha piu volte guadagnato l’ambita maglia gialla. Correte
anche voi in questo campionato ideale".
Mentre l’entusiasmo si trasforma in delirio, i vaticanisti si guardano allibiti: mai
in passato un pontefice aveva formulato un riferimento pubblico a un
personaggio vivente, tanto più se operante in campo profano.
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"Un popolo di otto milioni di biciclette sta completando il suo addestramento
sotto la guida del generale Bartali", ironizza il "Don Basilio. Settimanale satirico
contro tutte le parrocchie” (IMMAGINE 19). E a quanti in campo cattolico
segnalano il rischio di una totale confusione di valori si obietta che anche
Bartali, come Dante, Manzoni e Marconi, rientra a pieno titolo nel novero dei
campioni che hanno applicato la ginnastica della mente all’ordine spirituale
come a quello fisico.
L’apoteosi del “generale Bartali" si completerà di li a due mesi con il
conferimento della croce di cavaliere dell’ordine di San Silvestro, avvenuta nel
corso di una solenne cerimonia alla quale presenziano Giulio Andreotti, il
presidente dell’Azione Cattolica Veronesi, il sindaco di Roma Rebecchini, il
presidente del CONI Giulio Onesti (IMMAGINE 20).
Le formule di facciata che affermano l’apoliticità dello sport, terreno neutro
dove possono incontrarsi uomini delle più diverse idee, sono dunque
puntualmente smentite dai fatti.
ll fascismo, di cui si critica in un sol coro l’uso a fini strumentali delle attività
motorie, è stato un maestro che ha lasciato il segno.
L’Azione Cattolica, sin dal 1944, si è affrettata a costituire il Centro Sportivo
Italiano e la Federazione Associazioni Ricreative Italiane che, superando la
tradizionale visione separatista, trattano da pari a pari con il CONI, le
federazioni sportive, la scuola, acquisendo benemerenze e concreti
riconoscimenti.
Nelle sue diverse articolazioni il movimento cattolico controlla la proprietà de
“La Gazzetta dello Sport", l’organizzazione del Giro d’Italia, la gestione della
SISAL.
A loro volta i partiti di sinistra hanno iniziato a leggere lo sport come fenomeno
di massa assimilabile alle grandi istituzioni che mediano il sistema delle relazioni
politiche e sociali.
La nascita del Fronte della Gioventù e dell’Unione Italiana Sport Popolare
destano viva preoccupazione negli ambienti cattolici, che la interpretano come
segnale di una volontà di penetrazione nel feudo sportivo.
Addirittura alla partenza del Giro del 1946 si allineano la squadra dei "soldati
sportivi di Cristo" del CSI e una rappresentativa in maglia tricolore del Fronte
della Gioventù.
In un paese devastato di povera gente per la quale vivere è quotidiana arte di
arrangiarsi sarà proprio il ciclismo a dimostrarsi capace di produrre e di
moltiplicare energie positive, di comporre favole meravigliose che agganciano i
sentimenti popolari, di delineare contrapposizioni nette e forti tra personalità
distinte che alimentano meccanismi di identificazione totale.
La rivalità sportiva é metafora della contrapposizione radicale che attraversa il
paese, grossolanamente delineata in termini propagandistici come scontro che
oppone moderatismo, umanesimo, libertà, stabilità, Cristo a progressismo,
totalitarismo, schiavitù, salto nel buio, Drago Infernale.
Il vertice della tensione coincide con le epocali elezioni politiche del 18 aprile
1948, in netta rottura con tutte le esperienze precedenti per vastità e intensità
della mobilitazione e per la pluralità dei mezzi utilizzati,
le forze cattoliche raggruppate attorno alle parrocchie, alla Democrazia
Cristiana di De Gasperi, ai Comitati Civici promossi da Gedda, sconfiggerà
nettamente il Fronte Democratico per la Libertà, la Pace e il Lavoro.
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Su questo sfondo si collocano le origini e lo sviluppo di un dualismo che ha fatto
versare fiumi di inchiostro, quello tra Coppi e Bartali, elaborato in modo
sistematico e coerente attorno alla figura di Bartali (IMMAGINE 21).
La fede e la militanza politica di Ginettaccio sono costruite sulla roccia.
L’umanità appartata di Coppi, da sempre di problematica decifrazione, consente
invece una declinazione in negativo del personaggio.
Se Bartali, secondo la definizione coniata da Indro Montanelli, è "il De Gasperi
del ciclismo (Gino e Alcide si sono conosciuti e piaciuti a prima vista gia negli
Anni Trenta), da nessuno amato, da tutti temuto, che segue nel pedalare i
calcoli pazienti e tenaci a cui lo statista trentino si ispira per governare", Coppi
non può che essere identificato con lo schieramento opposto: e sicuramente
comunista e i suoi successi su Bartali rappresentano altrettante sconfitte dei
"clericociclisti”(IMMAGINE 22).
Ogni minimo indizio schiude spiragli di speranza. "Per un certo periodo di
sbandamento, Coppi ha gravitato nell’orbita del cielo sinistro", lamenta
l’autorevole "Osservatore Romano". Togliatti è uno dei suoi più accesi
sostenitori. "L’Unità " pubblica una sua foto con dedica. Nel 1947 Coppi offre la
sua consulenza tecnica al Fronte della Gioventù per la selezione della
rappresentativa da inviare al Festival Mondiale della Gioventù.
Ma per i proletari senza rivoluzione si tratta dell’ennesima beffa.
"Non sono comunista”, afferma solennemente nel corso di una visita alla
redazione del quotidiano clericale "L’Italia" Fausto, che ha ricevuto una
educazione cattolica e ha maturato una fede vissuta come fatto privato senza
alcuna ostentazione.
Nel 1947 la rivista del CSI “Stadium" appone ad una sua fotografia il seguente
commento:
“Il Campionissimo condivide pienamente gli ideali della nostra associazione e
aderisce ben volentieri al nostro movimento"(IMMAGINE 23).
Nello stesso anno, dopo aver ricevuto da Gedda una medaglia d’argento del
pontificato, viene ricevuto in udienza da Pio XII (IMMAGINE 24).
Nel 1948, assieme a Bartali, al fratello Serse e ad altri sei assi del pedale, Coppi
è tra i firmatari di un "Appello agli sportivi d’Italia" redatto a cura dei Comitati
Civici di Gedda, il cui testo é inequivocabile:
"Al culmine della grande battaglia elettorale noi, uomini del pedale, non per
spirito di parte, ma per l’amore che portiamo alla nostra Italia, ricordiamo a
tutti gli amici il richiamo che il Santo Padre, nel giorno di Pasqua, ha lanciato al
popolo italiano:" la grande ora della coscienza cristiana e suonata". Chi non ha
rinunciato alla Fede dei padri e non vuol rinnegare la Madre Italia raccolga il
monito del capo della Chiesa e lo traduca in atto compiendo coscienziosamente
il dovere civico cui la Patria lo chiama. Viva l’Italia!" (IMMAGINE 25).
Coppi declina senza esitazioni la proposta di candidatura per il Partito
Comunista nel collegio di Genova, dichiarandosi invece disposto a presentarsi
nelle liste della Democrazia Cristiana se lo farà anche Bartali, che però si
chiama fuori. Il 18 aprile vota per lo scudo crociato.
Ma le illusioni sono dure a morire.
La rivalità tra Bartali e Coppi é un gioco stupendo in grado di far dimenticare le
italiche brutture. I ritratti dei due campioni occhieggiano dalle pareti dei locali
pubblici, dalle copertine delle riviste. La loro apparizione sugli schermi dei
cinegiornali provoca ovazioni e bordate di fischi. I loro nomi riempiono muri,
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striscioni, cartelli. Folle impazzite circondano le strade e gli alberghi, travolgono
i cordoni di polizia, discutono, si insultano, sciolgono voti, scommettono. Il tifo
ha delle ragioni che la ragione non può comprendere. Peppone, udite udite, e
un bartaliano di ferro. Don Camillo tiene a Coppi perché non sopporta “il
cammello Bartali" e ritiene che chi crede in lui sia "una zucca piena di semi di
girasole".
Un uomo per tutte le stagioni come Curzio Malaparte sposta il confronto tra i
due mattatori addirittura sul piano antropologico, indicando in Bartali il figlio
dell’Italia profonda, della tradizione immutabile, di un ciclismo antico, in Coppi il
prodotto del progresso, del credo materialista di un mondo nuovo, del ciclismo
di robot nelle cui vene scorrono benzina e additivi.
Qualche anno più tardi un grande critico letterario, Geno Pampaloni, collocherà
Bartali lungo la
"linea calda" dello sport italiano, quella improntata
all’ardimento e all’eccitazione agonistica, in contrapposizione alla "linea fredda"
di Coppi, in cui si sommano misura, calcolo, intelligenza stilistica.
Ai traguardi di tappa Coppi e omaggiato di mazzi di garofani rossi da militanti
comunisti che smaniano anche per i " compagni ” Giancarlo Astrua, Renzo
Zanazzi, Oreste Conti, Alfredo Martini e per Vito Ortelli, aggredito ad Udine da
nazionalisti giuliani.
Bartali, per il quale “trecentomila preti si spendono per ottenere dagli dei la
vittoria dell’Arcangelo del Pedale, è apostrofato come “falso prete" da un
malcapitato tifoso di Fausto, che per tutta risposta riceve una cristianissima
serie di pugni.
A complicare il quadro delle implicazioni politiche, nel Giro d’Italia del 1948
balza alla ribalta il "terzo uomo”, Magni, riammesso un anno prima nel gruppo
(IMMAGINE 26).
Nella tappa che si conclude a Trento Magni è penalizzato di due minuti per
“spinte a carattere preordinato” ricevute sul Pordoi, spinte che "L’Unità"
attribuisce a “scalmanati avanzi di galera, campioni della teppaglia fascista,
collaborazionisti scaglionati lungo tutto il percorso".
Lo sport, afferma il poeta Alfonso Gatto, inviato del giornale del PCI al seguito
della corsa, "non obbliga a convivere con un uomo che la giustizia ha ritenuto
flagrantemente colpevole, pur non trovando nel codice il massimo della pena
per lui".
Coppi si ritira in segno di protesta per l’esiguità delle sanzioni adottate e
Fiorenzo, ossequiato a Fiuggi da uno dei leader delle forze neofasciste in via di
ricostituzione, Giorgio Almirante, cui dichiara che "la Patria e il tricolore sono
stati punti fermi di tutta la mia esistenza", si avvia verso la vittoria finale.
Non senza problemi. Le ultime due tappe si trasformano in un incubo. Mentre la
carovana si dirige verso Brescia la macchina de "L’Unita", sulla quale trova
posto l’ex partigiano Attilio Camoriano, precede i corridori annunciando al
megafono: "Sportivi, sta arrivando il gruppo dove c’e la maglia rosa del
fascismo Fiorenzo Magni". Al Vigorelli Magni, che si aggiudica l’ultima frazione,
è accolto da un uragano di fischi e di
insulti e dal lancio di cuscini, monetine e cartacce.
L’UOMO DELLA PROVVIDENZA
Nel 1948 Bartali è atteso ad un ultimo appuntamento con la storia.
Il trentaquattrenne ciclista toscano inizia in modo brillante il Tour de France, ma
col passare del tempo deve cedere il passo al giovane campione transalpino
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Louison Bobet, rispetto al quale accumula un distacco superiore ai ventuno
minuti.
Alle undici e trenta del mattino del 14 luglio, all’uscita dalla Camera, Palmiro
Togliatti e gravemente ferito dallo studente siciliano Antonio Pallante.
La Confederazione del Lavoro proclama lo sciopero generalc (IMMAGINE 27).
I vecchi partigiani disseppelliscono le armi nascoste. Si occupano fabbriche,
linee ferroviarie, centrali telefoniche. Spuntano le barricate. Scoppiano violenti
scontri che provocano morti e feriti tra i dimostranti e le forze dell’ordine.
Spunta un Fausto Coppi comunista davvero, militante senese arrestato e
massacrato di botte dalla celere (IMMAGINE 28). Il paese é in stato
preinsurrezionale.
Il gruppo dirigente del PCI é consapevole dell’irrealizzabilità di una rivoluzione.
Nel contesto internazionale l’Italia rientra nella sfera di influenza degli Stati Uniti
che, come hanno rivelato i documenti dei servizi di sicurezza americani, in caso
di colpo di mano comunista sono pronti a mantenere e a rafforzare le truppe di
occupazione e le basi militari, a sospendere gli aiuti economici da cui dipende
l’economia nazionale, ad assistere finanziariamente e militarmente le forze
moderate.
Senza contare che, accanto ad un’Italia che scende in piazza, ce n’é un’altra
ben più consistente che, specie al Sud, non ha alcuna intenzione di mobilitarsi.
"Se l’ondata di protesta monta - é il parere di Luigi Longo - la lasciamo
montare. Se cala, la blocchiamo".
Privi di direttive, i "compagni piu combattivi", non in linea con le direttive del
partito che ha posto come obiettivo realistico le dimissioni del governo,
appaiono sempre più isolati.
La sera del 14 luglio, nel suo albergo di Cannes, Bartali riceve una telefonata
confermata tanto dai compagni di strada quanto dal professor Paschetta, uomo
di collegamento tra l’Azione Cattolica e la Democrazia Cristiana. In linea c’é De
Gasperi in persona, tanto telegrafico quanto esplicito: "Gino, qui c’e l’inferno.
Vedi se puoi fare qualcosa".
E Bartali obbedisce, imponendosi nella Cannes - Briancon e riducendo ad un
minuto il suo distacco da Bobet (IMMAGINE 29).
Al Senato, dove é in corso una tumultuosa seduta, entra trafelato il deputato
democristiano Matteo Torengo che reca la notizia del trionfo di Gino. Scoppia
un applauso ecumenico.
La lieta novella raggiunge l’assembramento che si é creato in via Galilei davanti
alla sede de “La Gazzetta dello Sport" e di qui dilaga in piazza del Duomo, dove
ai capannelli degli agit-prop subentrano quelli dei bartaliani e dei coppiani.
Alle otto di sera il direttore del Giornale Radio Carlo De Biase, rompendo ogni
consuetudine, apre il notiziario con l’annuncio del successo di Bartali.
Intasati di chiamate, i centralini della TETI e della STIPEL incidono un disco in
cui sono sintetizzati i termini dell’impresa.
Nelle due tappe successive Gino infligge agli avversari distacchi abissali, arriva a
Parigi in maglia gialla, coglie la prima grande affermazione sportiva italiana del
dopoguerra. Al rientro in Italia offre la maglia gialla a Santa Teresa. E’
consacrato ad eroe locale nel corso di una cerimonia tenuta a Ponte a Ema in
cui l’onnipresente Gedda lo nomina “ambasciatore all’estero dei Comitati Civici".
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Viene ricevuto in udienza dal papa, che lo addita ad esempio di "campione della
Patria e della Fede, due cose che vanno benissimo d’accordo" (IMMAGINE 30).
E’ l’ospite d’onore di un banchetto di notabili democristiani, nel corso del quale
Giulio Andreotti gli consegna una foto di De Gasperi con la dedica al "campione
di italianità" (IMMAGINE 31).
E’ condotto dal capo del governo al Quirinale, dove tra Gino ed Einaudi si svolge
il seguente siparietto: "Caro Bartali, dovrei regalarle un’enorme coppa".
"Presidente, sarebbe meglio se potesse levarmi un po’ di tasse".
"La capisco, ma per questo non posso proprio fare niente" (IMMAGINE 32).
"Se si lanciasse l’idea di un triumvirato De Gasperi, Scelba e Bartali - scrive
Giovannino Guareschi - l’ottanta per cento degli italiani accetterebbe con
entusiasmo".
Un giornale della Capitale si affretta a pubblicare le memorie di Bartali, che
l’incorreggibile “Don Basilio” taccia di "ridicole elucubrazioni di un presuntuoso
tutto pieno di sé, scelto dall’Ufficio del Destino come insostituibile
rappresentante di un tipo umano da ammirare e da applaudire".
L’Uomo della Provvidenza che ha salvato pedalando l’Italia dalla rivoluzione
entra cosi nel mito senza passare per la storia.
Una storia che ci racconta una realtà diversa. Con la revoca dello sciopero
generale decisa a mezzogiorno del 15 luglio la tensione sta calando ben prima
dell’annuncio dell’affermazione di Bartali, dei cui effetti miracolosi non si trova
traccia né nei rapporti dei prefetti e delle autorità di pubblica sicurezza né nelle
testimonianze dei militanti comunisti.
Ancora una volta tutto il peso della operazione poggia sulle spalle della stampa
cattolica, con l’ausilio dei fogli moderati, in una sostanziale omogeneità degli
spunti di cronaca, dei commenti, delle scelte stilistiche e lessicali: "accade
l’evento imprevisto; come per incanto; avviene come un miracolo; se Dio
vuole...".
Sentite come si rievoca la vicenda in un libro sui grandi campioni del ciclismo
redatto nel 1951 da Giordano Goggioli: "tutti erano cupi in volto. La paura,
l’odio, i sentimenti piu terribili si leggevano sui visi dei passanti. Nelle case le
donne tremavano al pensiero di dover rivedere i figli, i fratelli, i mariti con le
armi alle mani. Ma una sera la radio annunciò che Bartali aveva vinto. La notizia
passò più rapida di un fulmine, lego i gruppi con un nastro tricolore ricordando
che eravamo tutti italiani. La gente sorrise. Dalle citta, dalle campagne si levò
un grande sospiro di sollievo. Di nuovo ci sentimmo uguali e ci riguardammo
con amore".
Non é difficile cogliere il sotto testo: l’ansia di esorcizzare uno stato d’animo
diffuso di paura di una nuova e ancora piu cruenta resa dei conti dopo quella
seguita alla Liberazione, un’ansia che trova espressione nell’uso dei piu vieti
luoghi comuni.
Italiani brava gente, mai disposti a sacrificarsi fino in fondo, pronti a lasciar
perdere politica e storia in cambio di un piatto di maccheroni e delle effimere
passioni sportive. Rivoluzionari da operetta, belve assetate di sangue
trasformate in innocui scavezzacolli che, dopo aver fatto i capricci, tornano in
fretta ai trastulli prediletti, in scolaretti che, nel pieno della mischia, maniche
rimboccate e fionde alla mano, vedono passare un moscone e restano a
guardarlo distratti e divertiti.
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Per Bartali è l’ultimo colpo di coda. Avviato sul viale del tramonto, si ritira nel
1954 riducendosi in seguito a innocua macchietta televisiva, campione di
qualunquismo ("gli é tutto sbagliato, gli e tutto da rifare") (IMMAGINE 33).
Nei cieli di un ciclismo sempre più distante dalle tensioni politiche e sempre più
assorbito dalla logica degli interessi commerciali, splende l’astro di Coppi.
Per lo scorno del mondo cattolico, che coglierà una meschina vendetta
guidando prima la compagnia del linciaggio dell"’adultero nazionale" travolto
dalla passione e per la "dama bianca" (IMMAGINE 34), poi la danza macabra
attorno al letto di morte del Campionissimo, scomparso nel gennaio del 1960 in
seguito ad una banale infezione malarica (IMMAGINE 35).
Una morte che, come quella di Valentino Mazzola, qualcuno, riecheggiando la
profezia di Padre Pio, attribuira alla "mano di Dio".
Termino qui. Per saperne di piu, occorre fare appello ai sempre meno numerosi
"nonni di oggi che sono stati i ragazzi di ieri". Che hanno fissato Bartali nei cieli
chimici delle fotografie, che l’hanno aspettato, gridato, innalzato tra i santi,
sfruttato e dopo dimenticato.
Chissà se la ragazzina bellina ha capito chi era Bartali (IMMAGINE 36).
Io resto seduto in cima a un paracarro. E aspetto che tra un silenzio e l’altro
dietro quella curva spunti il naso triste di un arcitaliano, che rappresenta al
meglio questo popolo di santi, di poeti, di navigatori, di eroi. E di ciclisti.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Stefano Pivato, Sia lodato Bartali. Idealogia, cultura e miti dello sport cattolico (1936 1948), Roma, Edizioni
Lavoro, 1985;
Paolo Facchinetti, L ’Italia di Coppi e Bartali, Roma, Compagnia Editoriale, 1989;
Daniele Marchesini, Coppi e Bartali, Bologna, Il Mulino, 1998;
Auro Bulbarclli, Magni il terzo uomo, Roma, RAI - ERI, 2012;
Giuseppe Castelnovi, Tre uomini d’oro. Magni, Bartali, Coppi, Milano, Vallardi, 2011;
Mimmo Franzinelli, Il Giro d ’Italia. Dai pionieri agli anni d’oro, Milano, F eltrinelli, 2013;
Aili e Andres Mc Connon, La strada del coraggio. Bartali, eroe silenzioso, Roma,
66thand2nd, 2013.
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OLIMPIADI E CONTESTAZIONE: IL ‘68 A CITTÀ DEL MESSICO
PROF. SERGIO GIUNTINI
“ Mi dicono spesso che se Obama ora può correre per la presidenza, è anche
merito nostro. Quello che io e i miei compagni abbiamo rappresentato a Città
del Messico è stato come l’apertura di una strada, su cui poi ragazzi come
Obama si sono potuti muovere con maggiore libertà, in un sistema che ancora
non li rappresentava pienamente. Ci siamo sacrificati in modo che altri
potessero avere un’opportunità.“
Sono riflessioni di Tommy Smith enunciate nel 2008, alcuni mesi prima
dell’elezione di Barak Obama - il primo presidente “nero” della storia americana
- alla “Casa Bianca”. Questo sì, a dispetto dell’abuso che si fa d’un simile
aggettivo, un avvenimento epocale. La corsa presidenziale di Obama è stata
infine vinta e, forse, a cominciarla sfrecciando nell’ Olimpiade “atzeca”, furono
proprio Smith e John Carlos. L’altro contestatore che lasciò una traccia
indelebile nel ’68 dello Sport.
I due protagonisti assoluti - 1° e 3° a ritmo di record del mondo sui 200 m.
(19”83 a 20”10) - di un’edizione dei Giochi olimpici che non fece registrare
boicottaggi. Ma dalla quale, coloro i quali rinunciarono a un boicottaggio che
pure era stato preso in seria considerazione, trassero comunque tutto ciò che
politicamente e culturalmente può ricavarsi da una simile modalità di protesta.
La vicenda celeberrima - già ampiamente esaminata altrove e su cui non
torneremo - di Smith e Carlos, racconta quindi di un boicottaggio venuto meno.
Di semplici, potenziali boicottatori. Conseguentemente ci soffermeremo
prevalentemente sui fermenti che, tra il 1966 e il 1968, muovendo dalla
questione razziale, percorsero lo sport afro-americano più consapevole: un’area
di atleti radicali, legatasi organicamente alle battaglie per l’uguaglianza e i diritti
civili. Due erano sempre state le tendenze che, rispetto alle discriminazioni
patite, avevano diviso gli intellettuali neri d’America. Nel 1909 Medgar Evers
fondò l’ ”Associazione Nazionale per il Progresso della Gente di Colore”
(NAACP), che si batteva per una equiparazione giuridica con i bianchi. Nel 1920
Marcus Garvey diede vita all’intransigente “Movimento per il ritorno in Africa”.
Tali diverse impostazioni, oltre a una terza di carattere più religioso e
integralistico diffusasi successivamente, quella dei “Black Muslims” che
perseguivano l’indipendenza e la separarazione della “Nazione Nera” islamica, si
rinvengono pure negli anni ’60, quando più acuto si fece il rivendicazionismo
della minoranza di colore.
Il lento allargamento della parità formale nei diritti (1954: Dichiarazione di
incostituzionalità nella segregazione scolastica; 1957 Desegregazione elettorale;
1961 Desegregazione nei trasporti; 1963 Desegregazione nelle condizioni di
impiego; 1964 Legge nazionale sui diritti civili) non bastava più. La
discriminazione e la povertà continuavano a connotare le condizioni concrete di
vita della popolazione nera, e il metodo non violento fu scavalcato dalla
radicalizzazione del conflitto. L’assassinio a Menphis, il 4 aprile 1968, di Martin
Luther King segnò la sconfitta del pacifismo. Il suo grande “sogno”, evocato
nell’agosto 1963 al termine della marcia dei 250.000 su Washington, era stato
spezzato. I “profeti disarmati” risultavano perdenti, per liberarsi dalle “catene”
dei bianchi servivano altri mezzi, altre forme di organizzazione politica.
Dopo l’uccisione di Malcom X (21 febbraio 1965) a opera di sicari del “Black
Muslims”, Heuy Newton e Bobby Seale crearono pertanto nel 1966 a Oakland il
partito marxista - favorevole alla lotta armata - del “Black Panthers”, mentre
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Stokely Carmichael nel 1967 lanciava la parola d’ordine “Potere Nero”, “Black
Power”. Lo slogan si rifaceva al romanzo omonimo di Richard Wright (1954), e
nella sua teorizzazione Carmichael proponeva di contrapporsi anche
violentemente, stringendo legami di solidarietà con i movimenti rivoluzionari
“terzomondisti”, alla società americana dominante e razzista. Un progetto che
suggestionerà Smith, Carlos, Evans e molti altri.
Tant’è in un incontro che richiamò rappresentanti di 42 città e 36 stati, svolto a
Newark dopo i disordini razziali dell’estate 1967, fu il “Black Panthers” a
ventilare per primo il boicottaggio olimpico di Città del Messico. A prefigurare
questa presa di coscienza dello sport “colorato” fu tuttavia, nel 1966,
un’affermazione agonistica di denso contenuto simbolico. Il successo, nel
campionato NCCA di basket, dell’Università “Texas Western” di El Paso allenata da un bianco senza pregiudizi, Donald Lee Haskins - su Kentuky, i
“Wildcats” bianchi di Adolph Rupp. Nei “Miners” della “Texas University”
giocavano 7 neri su 12: uno scandalo - al massimo sino ad allora le squadre di
College ne schieravano uno o due a gara per minutaggi parziali -. E ancor più
scandaloso fu il fatto che Haskins, in finale, mise sul parquet un quintetto
interamente “All Blacks”. Per questo Pat Riley, il leggendario coach dei “Lakers”
di Los Angeles, giungerà a definire quella partita la “Dichiarazione di
emancipazione del 1966”. L’obiezione di coscienza del pugile Muhammad Alì,
che a Houston il 28 aprile 1967 rifiutò d’indossare la divisa per combattere in
Vietnam, suscitò indubbiamente maggior risonanza; eticamente screditò ancor
più gli USA “guerrafondai” in campo internazionale. Tuttavia nell’”immaginario
collettivo” del popolo nero furono i campioni di El Paso a risvegliare dei profondi
sentimenti d’orgoglio e appartenenza. In essi si riconoscevano politicizzati e no.
I pacifisti alla Luther King e gli “arrabbiati” del “Black Panther”. Non sorprende
dunque che pure la lotta di Harry Edwards, ex discobolo e giocatore di
pallacanestro, professore di sociologia e “mente” della rivolta afro-americana
nello sport, prendesse le mosse da quel “quintetto” di El Paso. Nel 1967 la
formazione vittoriosa su Kentucky venne rapidamente smantellata. Haskins
aveva osato troppo, si doveva ristabilire l’ordine. Una normalizzazione che
spinse Edwards, docente all’Università di San Josè in California, a promuovere il
boicottaggio dell’incontro di football tra la compagine del suo ateneo e quella
della “Texas Western”. Un boicottaggio riuscito, giacchè il rettore californiano
ebbe la saggezza di annullare quel match divenuto assai scomodo.
Edwdars fu anche il “maestro” di Tommy Smith, John Carlos e Lee Evans,
studentiatleti a San Josè. Per certi versi rappresentò per loro quello che Malcom
X era stato per Muhammad Alì. Guida spirituale del campione del mondo dei
massimi Malcom X, guida politica dei tre sommi velocisti Edwards. Allievi che
impararono presto la lezione, come si evince da un’intervista di Dick Drake a
Smith ed Evans pubblicata sul periodico specializzato Track & Field News nel
1967. Una fonte che per il suo particolare interesse - a metà tra il materiale
storico e l’intensa testimonianza umana merita d’esser riprodotta
integralmente:
Domanda: C’è qualche particolare motivo che vi ha spinto a boicottare le
Olimpiadi?
Evans: Io penso che già parecchi negri comprendano quanto è accaduto.
Quando ero alle medie non sapevo nulla, ma giunto al College ho capito tutto
anch’io.
Domanda: cosa comporterebbe per i negri, in pratica, un boicottaggio? O
dovrebbe essere solo un atto simbolico?
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Evans: Dovrà semplicemente accadere qualcosa, e qualcos’altro potrà cambiare
fino alle Olimpiadi del ’72. Se ora noi torniamo dai Giochi con una medaglia
d’oro, siamo festeggiati per un mese. Poi diventiamo di nuovo uno fra i tanti.
Un esempio: Bob Richards è commentatore televisivo. Perché nessuno ha
ingaggiato Bob Hayes o Henry Carr? Io so già la risposta: se si reclamizza un
prodotto con un negro, si deve sopportare che alcuni bianchi rinuncino ad
acquistarlo.
Smith: Ci sono state marce, proteste ed altre manifestazioni per le condizioni
dei negri in America. Non credo che questo boicottaggio possa risolvere il
problema, ma penso che la gente saprà, che noi non abbiamo più intenzione di
lasciar stare le cose come stanno. Siamo molto orgogliosi del nostro popolo e
vogliamo essere trattati in modo degno. Il nostro traguardo di atleti non è
quello di migliorare la nostra condizione personale, ma quella di tutta la nostra
gente. Dovete considerare il boicottaggio come un passo su questa via. In altre
parole: se mi danno un morso, lo restituisco. Non staremo ad aspettare che i
bianchi escogitino qualcos’altro contro di noi. Ho lavorato molto e a lungo per le
Olimpiadi, e mi dispiace ora che non se ne faccia più niente. Ma penso che il
boicottaggio sia una buona cosa, e vale portarlo avanti soffocando quel che può
personalmente farci piacere.
Evans: Siamo uomini e poi atleti.
Domanda: C’è
boicottaggio?
qualche
gruppo
o
qualche
personalità
dietro
questo
Smith: non lo so, ma personalmente non sono mai stato avvicinato da nessuno.
Ogni negro deve decidere da sé. Perciò abbiamo indetto la Conferenza di Los
angeles. In definitiva non sono mica l’avvocato del boicottaggio.
Domanda: Che possibilità di riuscita ha questo boicottaggio?
Evans: I negri della California si assoceranno, malvolentieri, ma lo faranno. Ma
ci sono negri anche negli altri 49 stati. Andrei con immenso piacere in Messico,
ma sono pronto a fare questo sacrificio.
Domanda: Cosa l’ha spinta ad assumere un ruolo attivo in questa situazione?
Smith ed Evans: La riflessione.
Domanda: Perché il boicottaggio è limitato ai Giochi olimpici? E le “high
schools”?
Evans: Le “high schools” sono solo una parte del Paese. Noi, penso, dobbiamo
partire dall’alto. Non posso assolutamente comprendere perché gli USA abbiano
votato la partecipazione del Sudafrica ai Giochi olimpici. I sudafricani hanno
mandato qui Paul Nash. Se io volessi andare in Sudafrica, lì mi vieterebbero di
gareggiare contro Nash. Ma lui ha potuto tranquillamente allinearsi alla
partenza, qui, con noi. Prendo atto di essere un americano, ma non sono certo
trattato da americano. Stan Wright, allenatore di Smith, gli ha scritto una
lettera, ricordandogli che in primo luogo deve considerarsi americano e poi
negro. Ma nessuno vede in me prima l’americano.
Smith: Non è logico che Nash possa gareggiare qui, mentre Evans o Boston o io
non possiamo gareggiare contro di lui in Sudafrica. Ora, se siamo tutti
americani, come Ryun, perché questa disparità di trattamento, lì? Perché
boicottiamo solo le Olimpiadi? Una gran parte dei negri è nei colleges, poiché lì
guadagna uno stipendio. Così io perderei il fondamento della mia educazione.
Senza di essa non potrei possedere quel bagaglio di conoscenze necessario a
comprendere quel che è possibile fare per il mio popolo. C’è, naturalmente,
dietro a ciò, anche un problema economico. In breve: c’è poco da prendere e
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molto da guadagnare a boicottare i Giochi olimpici, mentre per i colleges
sarebbe l’opposto.
Domanda: Come vi trattano i professori dell’Università di San Josè?
Evans: Essi sanno che siamo i più veloci “niggers” del college. Parlano con noi
perché siamo atleti. Il negro che passa davanti a loro non lo vedono nemmeno.
Smith: Spesso vengono da me per congratularsi. Allora io chiedo loro: “Grazie
per cosa? Per il mio matrimonio o per gli esami?” E loro: “No, per il record
mondiale” Non parlano mai con te del tuo matrimonio o dei tuoi risultati
universitari. Evans: Tu sei solo un “nigger” veloce. Loro non dicono “nigger” ma
lo pensano.
Drake effettuò la sua intervista nel novembre 1967, un giorno prima
dell’Assemblea che in un tempio battista di Los Angeles riunì circa duecento
atleti di colore. Le tesi di Edwards a sostegno del boicottaggio, riprese nelle
espressioni fortemente critiche di Tommy Smith e Lee Evans, prevalsero
largamente. Non mancarono però, all’interno della comunità sportiva di colore,
diverse voci dissenzienti. In disaccordo con le posizioni di Edwards, invitando a
una maggior moderazione, si dichiararono ex campioni dello spessore di Jesse
Owens, Rafer Johnson, Bob Hayes, e tra quelli in attività Ralph Boston primatista mondiale del salto in lungo - e Charlie Greene - tra i più accreditati
“sprinter” del momento -.
Boston ribattè così a Smith ed Evans: “Cercherò di ricondurre sulla terra alcuni
miei amici. E’ insensato pensare di prepararsi per quattro anni ad un’Olimpiade
per poi boicottarla”. E Greene affermava: “La domanda fondamentale è se uno
è americano o no. Io lo sono, e perciò andrò in Messico”.
Il consenso di cui godeva Edwards si basava sull’esser non solo l’”ideologo” del
boicottaggio, ma di un più più articolato “Programma olimpico per i diritti
umani” al quale aveva assicurato il suo appoggio il medesimo Martin Luther
King. Adesione che Avery Brundage, con sprezzante sarcasmo, liquidò alla
stregua d’un tentativo del pastore battista - Premio “Nobel” per la Pace nel
1966 - di “farsi pubblicità”. Tra i suoi molteplici obiettivi quel “Programma” si
poneva l’irrigidimento delle sanzioni sportive applicate al Sudafrica e, non a
caso, la destituzione del razzista Brundage da presidente del CIO.
Il 16 febbraio 1968 gli atleti che si riconoscevano nelle posizioni di Harry
Edwards, cui si unirono anche sette sovietici invitati a gareggiare al “Madison
Square Garden”, boicottarono le competizioni indoor dell’”Athletic Club”
newyorkese: il più blasonato d’America, forte di 8000 soci nessuno dei quali
nero perché lo Statuto dell’anziata società - costituita l’8 settembre 1868 - non
li ammetteva. Idem nel 1968, allorché Arthur Ashe vinceva gli Internazionali
d’America, al “West Side” Tennis Club. E sempre a New York, in quegli anni,
esisteva anche una “Police Athletic League” che, mischiando paternalismo da
bianchi illuminati e integrazionismo alla “zio Tom”, si occupava del recupero dei
giovani di colore per mezzo dello sport.
Nel marzo 1968 la rivista Life diffuse un sondaggio condotto tra i massimi atleti
universitari afroamericani che confermava la loro disponibilità al boicottaggio, e
il seguente 7 luglio anche il reverendo Jesse Jackson diede indicazioni in tal
senso. Ma avvicinandosi la scadenza olimpica il fronte contrario ai Giochi
s’incrinò. In una votazione tenuta tra i selezionati olimpici di colore dell’atletica
leggera, le istanze “partecipazionistiche” di Boston ebbero il sopravvento. I
boicottatori si ridussero a un terzo, 12 su 36. E Smith, Carlos ed Evans, per non
rompere l’unità interna del gruppo, desistettero dalle risoluzioni adottate a Los
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Angeles a novembre. Fu Harry Edwards, in un convegno del “Black Panthers” a
fine estate ‘68, a renderne notizia, precisando che per contestare le
discriminazioni razziali negli Stati Uniti gli atleti avrebbero comunque portato
una fascia nera sul braccio destro. Fascia che venne poi sostituita da un
distintivo del “Programma olimpico per i diritti umani”.
La marcia indietro per rispettare i voleri della maggioranza non significò
rinnegare i propri convincimenti. Anzi, si deve alla forzosa rinuncia al
boicottaggio integrale la clamorosa azione politica sostitutiva - attuata il 16
ottobre 1968, nel corso delle premiazioni dei 200 - di Tommie Smith e John
Carlos. Quella che, abbattendo definitivamente i tabù neutralistico-sportivi,
desacralizzando il retorico ritualismo olimpico, s’insinuerà nei testi di storia
contemporanea come la protesta del pugno chiuso in in guanto nero. Le
“Pantere Nere” di Seale e Newton salutavano in quel modo, tuttavia con i palmi
guantati Smith e Carlos volevano altresì evitare di “sporcarsi” le mani dovendo
eventualmente stringerne una di Brundage. Le scarpette che recavano con sé
verso la premiazione non volevano pubblicizzare alcun marchio. Bensì vendicare
un’ennesima recente, ingiustizia inflittagli dai “bianchi”. La revoca d’un primato
mondiale sui 200, per un problema regolamentare di chiodi in sovrannumero,
stabilito da Carlos (19”91) a Echo Summit il 12 settembre 1968.
Ogni dettaglio di quella protesta era stato curato, rispondeva a un cifrario
semiologico: i piedi scalzi, i pantaloni della tuta rialzati quasi al ginocchio, il
foulard al collo, il capo reclinato, i pugni serrati, i guanti, le scarpette. La
comunicatività emozionale di quell’atto recitato silenziosamente fu percepita,
decodificata ovunque, trasmettendo un messaggio chiaro di solidarietà con i
disagi e le frustrazioni del popolo afroamericano. Nel contempo espresse con
prepotenza la rivoluzione politicoculturale innescata dal ’68. Ha scritto in merito
Augusto Illuminati:
La protesta dei due atleti ebbe un enorme rilievo mondiale […] e si iscrisse nella
galleria dei memorabili gesti che tracciarono mediaticamente il 1968. Certo, non
è una novità. Quante sequenze storiche le ricordiamo perché incastrate e
riassunte in un’immagine simbolica o in una frase performativa - il dado è tratto
di Cesare, la Libertà a seno nudo sulle barricate del 1848, il miliziano morente
di Robert Capa sul fronte di Cordoba. Il 1968, però, moltiplicò il numero e il
peso di tali atti, non li collegò obbligatoriamente a grandi figure storico-epocali
ma li disseminò in una miriade di protagonisti, di prese di parola e irruzione
nello spazio pubblico. Al podio olimpico si affiancarono i palcoscenici dei
concerti (il denudamento di Jim Morrison, le chitarre spezzate di Jimi Endrix), le
presidenze delle assemblee studentesche…La diffusione e l’innovazione dei
mezzi di comunicazione di massa contribuì moltissimo, senza dubbio, e gettò
subito un sospetto di banalizzazione, ma per l’essenziale si trattò di una
democratizzazione radicale della soggettivizzazione in una dimensione del
comune. In altri termini fu rimodulato in termini di massa e di sovversione quel
concetto di onore che un tempo aveva contrassegnato i ceti aristocratici o
l’etica del politico.
La presenza sul podio di Smith e Carlos, che irrideva l’ ”onore” tradizionale e
quello sportivo in particolare, doveva fare e fece molto più male di un
boicottaggio. La coppia di velocisti dell’Università di San Josè riuscì così appieno
nel suo “boicottare”, essendoci. A riconoscerglielo il Comitato organizzatore
messicano e il CIO, i quali, nel timore di ulteriori disordini e contestazioni nel
loro solco, optarono precauzionalmente per una modifica dell’abituale cerimonia
di chiusura, limitando a sei il numero di rappresentanti per nazioni. E un nuovo
riconoscimento, non meno significativo, gli provenne da un altro indomabile
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combattente per i diritti dei neri d’America: Arthur Ashe. Il grande tennista che,
di Tommy “Jet” Smith e John Carlos “Primero”, ebbe a dire:
“Il loro gesto è stato un faro di speranza e d’ispirazione per un’intera
generazione”.
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ROMA, 1960: LA “GRANDE OLIMPIADE“
DOTT. ENZO PENNONE
Il 15 Giugno del 1955 tre persone volarono a Parigi per illustrare ai membri del
Comitato Internazionale Olimpico la candidatura di Roma all’organizzazione dei
XVII Giochi dell’era moderna, erano Giulio Onesti il presidente del Coni, Bruno
Zauli segretario generale e Salvatore Rebecchini sindaco della città, e dopo
quell’illustrazione e la conseguente votazione tornarono in patria con il cuore in
affanno e la testa in subbuglio perché 35 di quei membri nell’atto finale
avevano scritto “Roma”, perchè stavolta bisognava davvero organizzarle le
Olimpiadi, non c’era più Giolitti per aiutarli a tirarsene fuori come fece 50 anni
prima… ma cinque anni dopo Roma le organizzò, e dal 25 Agosto all’11
Settembre del 1960 5346 atleti di 83 nazioni si sfidarono in 150 gare di 19
diverse discipline sportive in quella che il regista Romolo Marcellini definì “La
Grande Olimpiade”. Il film ricevette un anno dopo il Premio d’Oro al Festival di
Mosca, e fu opera certamente notevole, sia per le riprese che per la musica e i
testi, che furono scritti da gente importante, giornalisti e scrittori Sergio
Valentini, Donato Martucci e Corrado Sofia, e per la magnificenza degli scenari
proposti per i quali il merito prevalente andava ascritto alla città di Roma
dell’età dei Cesari.
Ma, se opera notevole fu quella del regista, “grande” cioè vasto cioè ricco cioè
quasi senza confini di territorio fu il soggetto di quell’opera, cioè l’Olimpiade
romana… un’Olimpiade grande per quantità di nazioni partecipanti e qualità di
protagonisti di prove sportive, per quantità e qualità di record mondiali ed
olimpici migliorati, grande anche nel significato di “prima” di “antesignana”
rispetto alle altre nel diffondere con la Tv le sue immagini nel resto del mondo,
grande nel significato di “qualcosa di mai visto e mai immaginato prima”,
riferito ai tornei di lotta e di ginnastica disputati all’interno di siti di grande
rilievo storico come la Basilica di Massenzio e le Terme di Caracalla, ma grande
anche per numero di protagonisti di vita culturale sociale e politica coinvolti in
quell’evento, così vasta e così ricca di contenuti fu quell’Olimpiade da aver serie
difficoltà nell’individuare una vicenda sociale o politica o sportiva principale cui
assegnare il ruolo di centralità dell’evento, e intorno a cui sviluppare trame
narrative.
Parlerò poco di gare, perché di queste ne possono parlar meglio le immagini
tratte dal film di Marcellini che faranno seguito al mio intervento, e descriverò
invece due momenti che già dal 1936 facevano parte salda del programma
ufficiale olimpico, che fungevano un po’ -diciamo- da antipasto alla grande
pietanza agonistica che avrebbe fatto seguito, e che nell’occasione romana
trasmisero fascino ed emozioni prima mai visti.
Per cominciare, grande Olimpiade, grande bellissimo seducente il viaggio della
fiaccola olimpica, parto di un’organizzazione austera e meticolosa che all’epoca
non aveva ancora ceduto alle lusinghe delle attività commerciali e ai diktat della
pubblicità, e quindi non ci furono attori o politici che chiesero o pretesero di
portare la torcia, un viaggio che fu uno straordinario ripasso di storia antica con
dei professori impareggiabili, quei mari del Mediterraneo, l’Egeo e lo Jonio e
quelle terre italiche, la Sicilia la Calabria e le Puglie un tempo facenti parte dei
territori della Magna Grecia, furono cartoline in serie una più bella dell’altra, una
più singolare dell’altra che riuscirono in parte ad ammansire quella retorica
noiosa insistente e avvolgente che si manifestava in vari modi : come quando la
vestale di Olimpia pregò Giove (*) “perché i raggi di Febo accendano la sacra
torcia la cui fiamma illuminerà la nobile gara dei Giochi pacifici per tutti i popoli
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della terra”. Pacifici si capisce solamente i giochi, perché se mai questa
preghiera avesse preteso di allargare i suoi obiettivi di pace tra i popoli della
terra anche ad altri momenti della vita, cioè oltre le 15 giornate canoniche dei
giochi, la storia le avrebbe subito fatto sapere il proprio punto di vista sulla
faccenda…
La scelta del percorso di quel viaggio fu sofferta, furono proposte altre soluzioni
il che creò malumori negli abitatori delle terre italiche un tempo Magna Grecia perché quale cosa più naturale per spostare una fiaccola olimpica dalla Grecia a
Roma se non quella di scegliere un itinerario dal forte sapore storico a meno
che non si voglia farle attraversare le Alpi come fece Annibale nella sua
campagna d’Italia contro Roma, (*) la scelta fu sofferta ma per fortuna vinse il
partito dei classici, e cadde su quel tracciato che poteva rappresentare, come si
legge nel Rapporto del Coni, “un ideale filo conduttore tra i due poli della civiltà
classica, Atene e Roma, attraverso i luoghi della Magna Grecia”.
(*) La sacerdotessa della preghiera a Giove nell’agosto del 1960 era un’attrice
drammatica Aleka Catseli, che senza commettere errori fece tutto quello che il
protocollo prevedeva, accensione del braciere, poi della torcia e consegna della
stessa al primo tedoforo. (*) Che si chiamava Panayotis Epitropoulos, un
decathleta di modeste pretese che lasciò Olimpia e si inoltrò nelle campagne
dell’Elide lungo il corso del fiume Alfeo…(*) passò Pirgo la torcia, e poi
Patrasso, Corinto, Megara, Eleusi, e giunta ad Atene (*) il tedoforo di turno la
cedette al principe Costantino di Grecia, che, tra tutti gli esponenti delle
monarchie europee, si distingueva per l’abilità nel coniugare lo “status di
regnante” con quello di “sportivo”, (*) infatti fu un ottimo velista Costantino e
conquisterà nei giorni successivi la medaglia d’oro nella specialità dei “dragoni”.
(Nirefs 3)
(*) Al Pireo il fuoco fu trasferito a bordo della nave-scuola della Marina Militare
Italiana Amerigo Vespucci, un veliero antico bellissimo maestoso, (*) e il
comandante capitano di vascello Manca di Villahermosa ordinò rotta su Siracusa
attraverso le acque dell’Egeo, e poi dello Jonio, (*) cioè quegli stessi mari che
duemilasettecento anni prima avevano solcato altre navi partite dall’Ellade per
fondare le colonie d’occidente, delle quali Siracusa fu la più grande, per bocca
di Cicerone la “maxima et pulcherrima urbium graecarum”.
(*) E dopo cinque giorni e quattro notti di serena navigazione, sempre un
occhio al fuoco che non si spenga, (*) la nave a vele spiegate scortata da
tantissime imbarcazioni entrò nello storico porto di Siracusa, (*) lì dove nei
secoli passati ateniesi e cartaginesi ci avevano lasciato le penne e pure le navi,
(*) e vi entrò illuminata dalle fotoelettriche che la fecero apparire come
d’incanto nella notte, (*) accolta da una folla immensa e ammutolita, una folla
affamata di cose importanti, una folla che, scrisse un giornalista, “fu da sola in
grado di rappresentare spettacolo nello spettacolo”.
(*) Furono stimati in 35.000 i cittadini presenti allo sbarco per una città che
all’epoca ne contava 80.000, tutti assiepati tutti all’in piedi come nelle curve
degli stadi di calcio, nessuno sapeva o capiva qualcosa di Olimpiadi, di fiaccole,
di tripodi, (*) ma la calda serata d’agosto, con la nave – il fuoco olimpico - i
fuochi d’artificio – la stella Venere che brilla in cielo - gli inni - le bandiere al
vento - le sirene delle navi - le campane che suonavano a festa come quando
comunicarono la fine della guerra, tutte queste cose qua li abbagliarono, li
tramortirono… (*) poi il sindaco fece il suo discorso e in aggiunta alle solite
parole di benvenuto augurio e di ringraziamento ebbe l’acume di ricordare i
grandi olimpionici siracusani dell’antichità, da Lygdamis la cui forza dicevano
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pari a quella di Eracle (*) a Ierone l’Etneo proprietario di cavalli vincenti e
cantato da Pindaro nell’Olimpica I^, da Astylos grande velocista sottratto a
Crotone a Dykon fanciullo di Caulonia, da Hiperbios a Zophiros e Orthon, e non
solo quelli ma pure quegli altri delle altre subcolonie greche dalle quali la
fiaccola purtroppo non sarebbe potuta transitare, (*) e lo fermarono giusto in
tempo perché era attraccata frattanto al molo la baleniera che portava il sacro
fuoco e lui, come da protocollo, avrebbe dovuto con quello accendere il tripode,
(*) ed il sindaco che non era uno sprovveduto seppe districarsi abilmente in
questo labirinto di incarichi e accese il tripode, e consegnò la torcia al
Presidente della Regione Benedetto Majorana della Nicchiara, uno nobile,
esponente dell’aristocrazia terriera che diversi anni prima era stato sindaco di
Militello in Val di Catania -il paese di Pippo Baudo- con la lista dell’Uomo
Qualunque di Guglielmo Giannini.
(*) Dal braccio del feudatario la fiaccola passò al braccio dell’aristocrazia
sportiva, perché questo che ancora si vede solo di spalle era Lo Bello, il miglior
arbitro di calcio in Italia e in Europa e poi lo sarebbe divenuto anche nel
mondo, e da quel momento gli occhi dei trentacinquemila si indirizzarono su di
lui, in lui i trentacinquemila si immedesimarono, ciascuno di loro si vedeva
trasferito nel corpo di Lo Bello, “ecce homo” sembrava che dicesse la folla
prostrata… il corpo di Lo Bello quella sera fu però un corpo inconsueto, (*)
niente abito scuro da assessore comunale allo sport, e men che meno (*) divisa
arbitrale nera con polsini e colletto bianchi in cui lo identificava l’Italia tutta,
quella sera il corpo di Lo Bello aveva un incarico molto diverso da quello
domenicale, (*) e quindi vestiva di conseguenza, come si conviene per ciascun
corpo di tedoforo dell’Olimpiade di Roma del 1960: solo una maglietta di cotone
ed un pantaloncino bianchi, calze e scarpe da corsa anche loro bianche. Un Lo
Bello umile, devoto, niente fischietto, niente ammonizioni o espulsioni … (*) egli
raccolse la torcia con un abbozzo di inchino a chi gliela porgeva, come a dire
grazie per avere scelto me, (*) la impugnò con orgoglio, con perizia e un po’ di
delicatezza, (*) ed avviò la sua corsa maestosa, il primo dei 1.199 tedofori sul
suolo italico, circondato da sei giovani valletti dello sport siracusano.
(*) Nella notte la fiaccola superò le terre dei Ciclopi, e puntò su Giardini, l’antica
Naxos. (*) “E se di questa città ai nostri giorni non restano nemmeno le rovine”
scrisse Pausania “del sopravvivere del suo nome anche nelle età future la causa
è nella rinomanza di Tisandros figlio di Cleocrito che per quattro volte sconfisse
a Olimpia i pugilatori nelle gare per gli adulti e altrettante vittorie ottenne anche
a Pito”…” . Pausania fu uno scrittore e geografo greco nativo dell’Asia Minore
vissuto nel II° secolo d.C. che scrisse la Periegèsi, un trattato storico geografico
sulla Grecia in dieci libri, di cui il V° e il VI° sono dedicati all’Elide, la regione
che comprende Olimpia, con una vasta e dettagliata descrizione di fatti e
personaggi, e la gran parte di questi riferentisi ad atleti dell’età ellenistica.
La mattina seguente la fiaccola attraversò lo stretto, (*) e sulla costa calabra
anche la Locride, sulla quale condusse ricerche e scavi il grande archeologo
Paolo Orsi, visse la sua giornata di gloria. Riaffiorarono le gesta sportive dei
suoi figli ad Olimpia, tra questi Hagesidamos, un pugilatore fanciullo a cui
Pindaro dedicò la X^ e XI^ delle sue Olimpiche (476 a.C.)
(*) La fiaccola risalì il litorale ionico, toccò Caulonia, (*) e nella notte successiva
all’una inoltrata arrivò a Crotone, la patria di Pitagora. Quindicimila sacrificarono
il sonno prendendo possesso di un quadratino di marciapiede nella piazza
intitolata a lui, il filosofo il matematico l’astronomo lo scienziato il pedagogo
che, tra teoremi e pensieri profondi, passò metà della sua vita in quella città, e
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in quella piazza c’era il tripode, quella notte la città tutta visse sotto la
protezione delle glorie del suo passato sportivo, (*) Daippos il pugile che primo
tra gli atleti della Magna Grecia vinse ad Olimpia, poi i grandi velocisti, Glykon,
Lykinos, Eratosthenes (quello che per vincere dovette battere altri 6
concittadini), Hippostratos, Diognetos, Isomachos, e Tisikrates, e anche
Phayllos il pentathleta. (*) E infine Milone, l’enorme Milone, il grande lottatore
che cominciò la sua avventura sportiva quand’era ancora fanciulletto e la
terminò 28 anni dopo, vincendo per 7 edizioni di fila ad Olimpia, più altre 26
volte ai Giochi Pitici, Istmici e Nemei. (*) Dopo aver riposato qualche ora il
fuoco riprese la sua marcia lungo la statale jonica, Corigliano Calabro, l’anticha
Thurii, e poi Sibari, e poi Metaponto, (*) l’opulenta città fondata dagli achei e
amica di Crotone, dove i tedofori, prima di raggiungere i propri posti di cambio,
posarono dinanzi al tempio di Hera per una foto-ricordo di quel magnifico
pomeriggio.
(*) Taranto tutta assistette a uno spettacolo indimenticabile, ed offrì anche la
sua fetta importante di storia dello sport antico. (*) Viveva qui, nel V° secolo
a.C., Icco, medico ginnasiarca e maestro, fondatore della ginnastica medica e
della dieta atletica, quello che visse sempre casto per non indebolire le forze del
corpo, esempio di vita sobria e temperante al punto che, in antitesi ai famosi
pranzi luculliani proverbiali a Roma, il frugalissimo pasto di Icco passò alla
storia come “Icci coena” “la cena di Icco”. Vinse il Pentathlon nella 77°
olimpiade (472 a.C.).
(*) E con lui Anoco Adamanto Epicratide Ippozione Dionisodoro Smicrino e
Timante tutti olimpionici dal VI° al IV° secolo a.C. ed altri ancora dal nome
incerto tra cui quello che gli archeologi vollero battezzare “l’atleta di Taranto”
(*) quando nel Dicembre del ’59 scavando per porre le fondamenta di un
edificio venne alla luce una grande tomba pluridecorata che conteneva un
sarcofago con i resti di un grande atleta vincitore nel pentathlon quattro volte ai
Giochi panatenaici nel V° secolo a.C.
Il mattino successivo la fiaccola lasciò il litorale jonico per l’appennino lucano,
l’antica regione del Sannio, (*) qui i duemila cittadini di Miglionico si
mobilitarono per onorare Milone che la tradizione dice fosse stato il fondatore
della città (*) i tedofori si scambiarono la fiamma che proseguì per Matera e si
fermò a Potenza. Altri chilometri, altre asperità, (*) quindi venuta la notte arrivò
a Paestum, dove il tedoforo attendeva il suo turno teso e inquieto perché
portare la torcia olimpica a Paestum non è come portarla in un posto qualsiasi,
(*) e l’indomani col sorgere del sole il fuoco ripartì verso nord ed il tedoforo
corse fiero ma con il cuore in tumulto intersecando le grandi testimonianze
archeologiche del sito, la Basilica, il Tempio di Cerere (VI a.C) e quello di
Nettuno dalle colonne doriche (V a.C.).
(*) Il tedoforo transitò per Salerno, Amalfi, Positano, (*) Pompei ed Ercolano,
dove i famosi corridori della Villa dei Papiri (*) sembravano in attesa di fare il
proprio turno di staffetta, poi Portici e poi Napoli, (*) dove sul lungomare di Via
Caracciolo fu acceso il tripode ed il coro del San Carlo eseguì l’Inno Olimpico.
(*) Poi attraversò la verde piana di Cuma, lì dove la Sibilla, dal suo antro,
prediceva i destini di Roma. E dopo Caserta, (*) dove ebbe luogo una superba
sfilata che si concluse nella storica Reggia, il viaggio proseguì in direzione di
Aversa, Capua, e poi Formia, Gaeta, Sabaudia, Latina, Castelgandolfo.
(*) E infine Roma, dove la sera del 24 agosto, fu acceso il tripode sul
Campidoglio.
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(*) Il pomeriggio del 25 agosto, mentre il tedoforo transitava da Palazzo
Venezia, allo Stadio Olimpico c’era un caldo da morire, 37 gradi di umidità
asfissiante, ma nonostante ciò la sfilata delle formazioni fu pure lei “grande”,
uno straordinario ripasso di storia moderna e contemporanea, di miti e
leggende, di arte e architetture, di attualità e geografia del mondo, grande per
numero di nazioni in passerella, e per quantità di storie e particolari e di risvolti
sociali e politici che gli sfilanti si portavano appresso marciando dietro il vessillo
della propria patria.
(*) E alle 16 e 30 entrò la Grecia che per tradizione inaugurava il corteo
olimpico e re Costantino reggeva il vessillo del suo paese, e dopo fu il turno
della prima in ordine alfabetico, (*) l’Afghanistan, e il suo alfiere al passaggio
innanzi alla postazione presidenziale abbassò la bandiera in segno di saluto e
rivolse uno sguardo profondo al nostro Presidente Giovanni Gronchi, (*) e da
quello sguardo sembrò che gli volesse raccontare la storia del suo paese,
“Signor Presidente, la mia nazione ha una storia che si perde nella notte dei
tempi, (*) quando la nostra terra era il crocevia dell’Asia centrale e onde di
popoli migratori la attraversavano e le lasciavano per ricordo la propria lingua e
i propri costumi, poi ci furono le invasioni ariane (2000 a.C.) (*) e poi l’impero
Persiano (*) e poi Alessandro Magno che lo demolì e ne assorbì per intero il
territorio, e poi ancora gli Sciiti gli Unni bianchi e i Turchi, e poi come un po’
dappertutto arrivarono gli arabi, e lasciarono la loro impronta incancellabile che
neppure Gengis Kahn riuscì a portare via con la violenza… (*) le nostre terre
sono terre impervie quasi inaccessibili e spesso ricoperte di neve…”….. ma a
quel punto la storia fu interrotta perché le altre squadre in parata incalzavano…
e da quel momento in poi parve che tutti i portabandiera di tutte le nazioni che
sfilavano volessero raccontare al nostro Presidente la storia e le tradizioni della
loro patria, (*) così fu per l’Argentina e l’Australia divise dall’oceano più esteso
del globo e unite da storie di emigranti del vecchio continente, (*) per il Brasile
del sertao e del cacao, del candomblè e della capoeira e della selecao do
futebol, e per la Bulgaria già avviluppata nelle spire dell’anaconda sovietica, (*)
tredici nazioni avevano già preso posto sul prato dello Stadio e formavano un
poligono irregolare in continua evoluzione (*) quando entrarono il Canada in
maniche corte che nel caldo romano di agosto sognava il fresco dei propri laghi
e delle proprie foreste, e la Cecoslovacchia che già dal saluto libero e allegro
mostrava al colonnello Emil Zatopek in tribuna i primi segnali di una imminente
primavera…
(*) e poi sfilò il Cile, si presentarono a Roma solamente in otto perchè tre mesi
prima il paese era stato devastato dal più potente terremoto mai registrato
nella storia (*) e lo tsunami che ne era seguito aveva spazzato via gran parte di
quanto si trovava sulla costa di Valparaiso…
(*) ecco gli atleti della Corea del Sud che dopo la guerra del 38° parallelo
ancora non faceva pace con quella del Nord e che mai l’avrebbe più fatta per gli
anni a seguire…
l’alfabeto ignorava la geografia del mondo, (*) così da un continente all’altro
arrivò il turno di Cuba, e l’alfiere anche lui diresse lo sguardo verso il nostro
Presidente – (*) io ho l’onore di aprire la sfilata della Repubblica di Cuba e Le
porto il saluto del nostro “lìder màximo”, e anche se non tutti siamo “barbudos”
come lui ne condividiamo in tutto e per tutto il pensiero e i principi… per tanti
anni il nostro popolo è stato oppresso, prima dagli spagnoli e poi in questo
secolo dalla dittatura di Fulgencio Batista che è sempre stato aiutato e
spalleggiato dagli americani, e a quelli vendette tutte le nostre ricchezze e
proprietà arricchendosi come un paperone prima di darsi alla fuga nella notte di
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Capodanno del ‘59, (*) e allora da un po’ di tempo noi schiacciamo l’occhio al
compagno Kruscev, che ci ha promesso una protezione totale dal nemico
capitalista-…
(*) alle 16.50 sfilò la Danimarca, atleti vestiti di bianco e scarlatto come i colori
della bandiera nazionale, (*) che lasciavano la sirenetta le variopinte abitazioni
e la serenità e qualità della loro vita per inebriarsi del caos di Roma…
e poi sfilò l’Etiopia, sei corridori e sei ciclisti, (*) “uomini fieri alti esili” così li
descrisse il cronista (Liebling) del New Yorker, che sfilavano dietro il vessillo a
strisce verdi gialle e rosse con al centro il leone di Giuda, uomini che erano
bambini (*) quando le legioni del Duce entrarono nella loro capitale e
proclamarono l’impero, che per entrare in quella capitale usarono i mezzi più vili
e brutali che il mondo vietava e che da quella capitale trafugarono poi l’obelisco
di Axum portandolo a Roma... e l’ultimo della fila sembrava meditare la sua
vendetta che era pure quella del suo imperatore Hailè Selassié (*) e che si
sarebbe materializzata il penultimo giorno dei Giochi…
(*) passarono poi le Isole Fiji con l’alfiere in giacca cravatta e gonna di juta,
seguirono i filippini e poi i finlandesi…e poi arrivò il turno del pezzo di sfilata più
controverso e contestato, (*) la Cina di Taipei, o di Chiang-Kai-shek, che
avrebbe voluto sfilare con questa bandiera che sventolava sull'isola fin dal 1949
e con il nome di Repubblica di Cina di cui rivendicava il diritto all’uso esclusivo e
al riconoscimento quale unico Stato al mondo di cinesi veri e autentici, dodici
raggi di un sole bianco in un cielo blu a simboleggiare i dodici mesi e le dodici
ore della tradizione cinese e la “Terra rossa” che rappresentava il sangue dei
rivoluzionari che sacrificarono se stessi per rovesciare la dinastia Qing, (*) ma
la Repubblica Popolare di Mao si rifiutava di riconoscerla, c’erano state tra le
due Cine ostilità continue e conflitti armati uno va e uno viene già a partire
dagli anni ’30 in una guerra civile che pareva non dovesse finire mai, e gli
americani a Roma facevano pressioni a che i cinesi non cedessero sulle loro
richieste anche a costo di venire esclusi dai Giochi, e nelle ore precedenti la
cerimonia d’apertura fu tutto un susseguirsi di ordini e contrordini, ambasciatori
cinesi americani e membri del Comitato Olimpico tutti affannati a consigliare
una cosa o un’altra, (*) e mentre i monti Chung Yang le foreste e i fiumi della
grande isola riposavano tranquilli ignorando quel che succedeva a Roma -sfilata
sì sfilata no bandiera questa bandiera quella- (*) la delegazione infine scelse di
sfilare preceduta dal cartello che la chiamava “Formosa” ma con le insegne
della Repubblica di Cina sul completo blu e con un grande foglio bianco di
protesta…
(*) incuriositi più che convinti dalla contestazione dei cinesi gli spettatori
dell’Olimpico videro sfilare i figli del barone De Coubertin che era morto senza
poter coronare il sogno di assistere a un’edizione dei Giochi nella città eterna…
…e poi arrivò la Germania, (*) e l’alfiere Fritz Thiedemann campione di
equitazione, passando a fianco del Signor Presidente gli sussurrò “non ascolti
quel trombone di Brundage che gli siede a fianco, che vuol farle credere che il
merito è tutto suo se noi oggi sfiliamo insieme mischiati gli uni con gli altri sotto
un’unica bandiera, tedeschi dell’est comunisti e tedeschi occidentali, non c’entra
nulla l’ideale olimpico Signor Presidente, (*) questi sono anni in cui i due
governi della Germania stanno come giocando a scacchi tra di loro, una mossa
uno una mossa l’altro, ed allora va bene per adesso tenere le cose così come
sono…-, i dirigenti delle due squadre, il nostro Gerald Stock e Manfred Ewald
dell’Est quello che prima di diventare comunista aveva fatto parte della
Gioventù hitleriana, ci hanno detto che per stare bene insieme bisognava
evitare espressioni o manifestazioni che in qualche modo avessero un carattere
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politico, ma in effetti sa cosa Le dico signor Presidente (* ) l’unico vero
momento di fraternità c’è stato durante l’alzabandiera nel Villaggio Olimpico
quando è stato suonato l’inno alla gioia della nona sinfonia del maestro
Beethoven, perché di fronte alla nona non c’è comunismo o capitalismo che
tenga”…
(*) e poi fu il turno del Giappone che a Roma fece le prove generali per
l’edizione di quattro anni dopo a Tokyo, e poi della Gran Bretagna che nella sua
formazione accoglieva anche gli scozzesi e i gallesi, (*) e dalla tribuna stampa
con flemma tutta britannica salutarono la squadra che marciava due inviati
eccellenti del Times, (*) Roger Bannister e Harold Abrahams, cioè quello che
per primo abbattè il muro dei 4 minuti nella corsa del miglio e quello che vinse i
100 metri a Parigi nel ’24 e che avrebbe ispirato un giorno il regista di “Momenti
di gloria”…
(*) seguirono poi gli atleti dell’India con il loro caratteristico turbante, lottatori
hockeisti ed il forte quattrocentista Milkha Singh, l’India che Nehru erede del
pensiero gandhiano guidava già da tredici anni dal giorno dell’indipendenza
promuovendo il pacifismo nel mondo e guidando i paesi “non allineati” in
politica estera, (*) e all’India seguì l’Indonesia pure quelli con un copricapo
originale, il peci in feltro nero, indossato anche dal presidente Sukarno, che
reggeva il paese sin dal ’47 quando ottenne l’indipendenza dalla regina
d’Olanda…
(*) e poi sfilò l’Iran che allora chiamavamo Persia, e dire Persia significava
pensare allo Shah, cioè a quello del trono del pavone, quello che dei persiani
per 38 anni avrebbe fatto quello che avrebbe voluto col sostegno di inglesi e
americani, (*) e che mise in archivio le bellissime Fawzia d’Egitto e Soraya
Esfandiari per problemi di eredi maschi che la cicogna non volle portare e si unì
infine a Farah Diba pochi mesi prima dei Giochi di Roma, (*) mentre per gli
studiosi dell’antico in tribuna dire Persia significava pensare alla grande
Persepoli e al palazzo di Dario, (*) e poi sfilò l’Iraq che cinque anni prima con la
Turchia l’Iran americani inglesi turchi e pakistani aveva firmato il patto di
Baghdad, ma lo aveva rigettato già qualche anno dopo quando al potere salì il
generale Abd al-Karim Qasim che rovesciò la monarchia ed eliminò Faysal II
l’ultimo re dell’Iraq, (*) e Baghdad evocò negli spettatori storie antiche di califfi,
una città felice cosmopolita di musulmani cristiani ebrei e zoroastriani, e pure
storie fantastiche come i racconti che Sheherazade narrò al re persiano
Shahriyar per mille e ancora una notte, (*) e gli studiosi dell’antico in tribuna
ricordarono la grande Babilonia e i suoi giardini pensili meraviglia del mondo lì
dove la regina Semiramide, raffigurata in un famoso dipinto dal maestro Degas,
raccoglieva rose fresche ogni giorno pur nel clima desertico della città,
(*) e poi sfilarono l’Irlanda e l’Islanda e poi gli atleti della stella di Davide che
ancora alle Olimpiadi marciavano liberi e sereni…
(*) arrivò poi la Jugoslavia del maresciallo Tito che era sempre insofferente con
gli uomini della Piazza Rossa, e fu seguita dal Kenia che in quegli anni lanciava
la volata per l’indipendenza: (*) Jomo Kenyatta dedicò una vita intera a
picconare il protettorato britannico nel suo paese, organizzò la rivolta armata
dei Mau-Mau che agivano nelle boscaglie della Rift Valley, e quando riuscì a far
sventolare la nuova bandiera le Olimpiadi di Roma erano già passate da tre
anni, (*) il Kenia, che era ancora timoroso nello sport ma otto anni dopo il
mondo olimpico lo avrebbe conosciuto nella sua sontuosità con i corridori un
tempo guerrieri Masai…(*) e poi passarono gli uomini della catena dell’Atlante e
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poi quelli che si tuffano nel Golfo di Guinea, i nigeriani, che la loro indipendenza
dai soliti britannici la conquisteranno invece proprio al termine dei Giochi,
seguirono gli olandesi e i norvegesi (*) e poi i pakistani pure loro come gli
indiani con il turbante in testa e già pronti per la finale del torneo di hockey
contro gli avversari di sempre, ecco arriva (*) la forte Polonia -sempre cattolica
per credo religioso e ancora comunista per quello politico- che nella sua capitale
aveva accolto i firmatari del Patto anti-Nato…
(*) e poi fu il turno della Repubblica Araba Unita, Egitto e l’alleato Siria insieme
se Allah vuole per sempre, (*) così sperava il colonnello Gamal Ab el-Nasser
capo degli “Ufficiali liberi” che sei anni prima aveva licenziato Re Farouk l’ultimo
faraone dell’Egitto moderno, nel primo tentativo di unificazione politica del
mondo arabo che avrebbe però avuto brevissima vita…(*) e per gli studiosi
dell’antico in tribuna ci furono solo pochi momenti da dedicare al pensiero di
Cheope Chefrem e Micerino, a Tutankamen e alla regina Hacepsut, perché le
altre rappresentative premevano…
(*) arrivò la Rodesia razzista e poi la Romania del Patto di Varsavia che un
giovane Nicolae Ceausescu, allora numero due del partito e dello Stato avrebbe
presto trasformato da implacabile mafioso balcanico in una “cosa sua”, (*) che
era anche la Romania di Mircea Roger il più piccolo dell’Olimpiade che saluta
felice, aveva tredici anni e faceva da timoniere agli equipaggi del quattro e del
due con, ed era pure la Romania di Jolanda Balas, la donna fenicottero che
come Ceausescu aveva trasformato il salto in alto in una “cosa sua”…
e mentre i rumeni e le rumene sventolavano i fazzoletti, seguite da San Marino
e Singapore, (*) e la Spagna riscuoteva la sua dose di fragorosi applausi fece la
sua apparizione sul palcoscenico dello stadio il portabandiera degli Stati Uniti,
(*) più precisamente il corpo di quell’atleta con mansioni di alfiere, che non era
un corpo come quello di tanti altri atleti americani che marciavano dietro di lui,
innanzitutto perché era un corpo dalla pelle scura e questo fatto di per sé
rappresentava “una prima volta”, poi perché era un corpo bello come quello di
una stella hollywoodiana, era un corpo muscoloso e snello nello stesso tempo,
(*) e sia pur nel clamore suscitato dal passaggio della numerosa delegazione a
stelle e strisce anche il possessore di quel corpo sembrò volesse conferire con
Giovanni Gronchi, (*) “mi chiamo Rafer Lewis Johnson, signor presidente, e
sono fiero di portare il vessillo della mia nazione anche se in quella nazione io e
la mia famiglia abbiamo dovuto lottare e lottiamo ancora per avere pari dignità
di trattamento dei cittadini bianchi, quando avevo nove anni la mia famiglia si
trasferì dal Texas (Kingsburg) in California, vivevamo in una casetta accanto
alla ferrovia e in estate io e i miei fratelli lavoravamo nei campi raccogliendo
uva, prugne e pesche. Allo sport mi indirizzò mia madre Alma, che quand’ero
ancora adolescente riusciva anche a superami nella corsa. (*) Sono alto 1.90 e
peso novanta chili, e anche a seguito di queste misure gli allenatori mi
consigliarono di provare il decathlon…io provai e la prova ebbe successo, al
punto che sono diventato il primatista del mondo di questa specialità, e qui a
Roma se ne vedranno delle belle perché ci sono due campioni come Yang
Chuan-Kwang della Repubblica di Cina e Vasily Kuznyetsov il russo”…
(*) frattanto era entrato in pista il Sudafrica, e l’accoglienza non fu certo
trionfale per il paese che praticava apertamente la segregazione razziale e che
sarebbe stato espulso qualche anno dopo dalla famiglia olimpica, (*) e
seguirono il Sudan, Suriname, la Svezia e la Svizzera, la Thailandia, (*) la
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Tunisia fresca di indipendenza e di costituzione repubblicana e prossima a
conquiste sociali tra cui l’aborto legale che arriverà 13 anni prima che da noi, la
Tunisia del Presidente Bourguiba che quella carica avrebbe tenuto stretta per
quasi quarant’anni, e l’Ungheria fresca invece di sangue versato per difendere
la propria libertà dai comandamenti del patto di Varsavia cui avrebbe obbedito
per oltre quarant’anni… (*) e poi la Turchia e poi l’Uganda…
e il clamore tornò (*) quando entrò sulla pista uno studente di ingegneria di
nome Yuri Vlasov, che reggeva con una mano sola il pesante vessillo
dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, (*) e ai più quello sembrò
un gesto arrogante di alterigia -vedete signori, noi del Cremlino abbiamo
sempre qualcosa in più degli altri- comunque sia, arrogante o discreto che
fosse, (*) il futuro ingegnere minerario aveva una tale forza negli avambracci e
nelle spalle da (*) poter vincere a mani basse la prova del sollevamento pesi
con 537 chilogrammi e mezzo nelle tre alzate record del mondo, e Vlasov e gli
altri suoi compagni il giorno prima avevano ricevuto un messaggio (*) dal
segretario del Partito Kruscev, che in quanto a retorica se la batteva con
Brundage “…saluto la gioventù sportiva amante della vita e che la fiamma
olimpica accenda nel cuore dei popoli lo spirito di solidarietà e fratellanza…” (*)
e il compagno Kruscev ribadì il grande valore dei Giochi Olimpici perché
“favoriscono il contatto fraterno tra gli sportivi di nazionalità diverse” e augurò a
tutti i partecipanti “il miglior successo, nello sport come nel lavoro, negli studi e
nella loro vita privata”. E fu tale il brivido provocato negli atleti dalle parole del
compagno segretario che Vlasov per primo insieme a Boris Shaklin sublime
ginnasta e ad altri compagni atleti si sentirono in dovere di ringraziarlo con
queste parole:
(*) “Caro Nikita Sergejevic, il tuo saluto è pieno di interessamento per la pace e
la felicità dell’umanità e ci incita a risultati sempre migliori, nello sport come in
altri campi. Promettiamo al Partito Comunista, al Popolo sovietico, e a te, caro
Nikita Sergejevic, di rappresentare la nostra patria nella XVII olimpiade con
onore, e di impegnarci a rafforzare l’amicizia tra gli atleti di tutto il mondo”. (*)
Sfilarono ancora il Venezuela l’Uruguay e il Vietnam…
e così, colmi di attrazione e di emozioni per tutte quelle storie diverse, gli
spettatori si erano quasi scordati che all’appello dello speaker mancava ancora
l’Italia, ma fu questione di un attimo, (*) quando alle 17 e 14 minuti entrò con
passo fiero e marziale da fare rizzare la pelle a tutti, uomini e donne, bianchi e
neri, comunisti e capitalisti, l’alfiere nostro (*) perché Edoardo Mangiarotti da
Milano era uno che di sfilate olimpiche se ne intendeva come pochi avendone
già viste e avendone già fatte ben 4 in altrettante edizioni dei Giochi a partire
da quella di Berlino del ‘36 per 24 anni di fila fino a quel pomeriggio, e anche
Mangiarotti pur teso all’inverosimile per non perdere neanche un momento la
sua marzialità, si sentì in cuor suo di dire qualcosa a Gronchi, del tipo “la
squadra è forte -signor Presidente- e ben equilibrata, comunque ci siamo noi
schermidori che mettiamo una firma di fidejussione per le medaglie”, (*) salutò
con deferenza quasi militaresca al passaggio innanzi alla postazione
presidenziale e si rammaricò con sé stesso perché “se avessi avuto con me la
spada” pensava “sì che avrei fatto davvero un gran saluto, come solo gli
schermidori riescono a farlo …”
Terminata la sfilata l’Olimpiade si rintanò nella sua tradizionale e macchinosa
liturgia fatta di discorsi ampollosi dal pulpito, (*) e l’onorevole Andreotti
scomodò i cinque cerchi (*) “inizialmente simbolo di una romantica aspirazione
unitaria intercontinentale, ormai realtà vivente che premia le fatiche, le
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amarezze ed i sacrifici di tutti i pionieri di questa moderna crociata di
incivilimento dei rapporti tra gli uomini…”: cavolo, manco Kennedy sarebbe
riuscito a parlare così, (*) fatta di giuramenti a partecipare ai Giochi quali
concorrenti leali e ossequienti delle regole che li governano cui soltanto un
gigante buono e ingenuo come Adolfo Consolini poteva prestare credito, una
litania di cerimoniali astrusi di proclami e di speranze, in una parola
l’inattaccabile retorica olimpica nutrita di frasi trite e ritrite tra cui il posto
d’onore spettava a quella per cui “ai Giochi l’importante è partecipare perché
l’importante nella vita non è vincere ma lottare”.
(*) Frattanto l’ultimo dei 1.199 tedofori Gianfranco Peris era entrato nello stadio
e di gran carriera si era proiettato verso i 92 scalini per raggiungere il tripode, e
qui teso in volto ma soddisfatto aveva eseguito il suo compito.
(*) E il giorno dopo le gare ebbero inizio, bando alle ciance era la cosa più
importante per tutti o quasi tutti, per gli atleti per i familiari degli atleti per gli
allenatori per i dirigenti per gli spettatori per le nazioni, (*) per gli americani
che volevano riprendersi la prima riga nella graduatoria delle medaglie, per i
sovietici che a quella prima riga si erano affezionati, (*) per i tedeschi comunisti
che volevano far capire al mondo che anche se portiamo la stessa canottiera
noi siamo quelli della Deutsche Demokratische Republìk e che se la seduzione
capitalista continua a portarci via i compagni nostri tra un anno, giorno più
giorno meno, saremo costretti ad alzare un muro che ci separi da quelli
dell’Ovest, (*) per i cinesi di Taipei che pregavano che lo vincesse Yang il
decathlon, che gioia sarebbe per noi e che umiliazione per Mao, (*) ma la
preghiera non fu ascoltata perché Yang Chuan-Kwang perse il decathlon per
soli 58 punti, 8.392 a 8.334,
(*) nella gara più avvincente dell’intera Olimpiade che fu di Rafer Johnson o del
suo corpo, (*) così come per una briciola di punteggio finale, 115,95 a 115,90
Takashi Ono perse il concorso di ginnastica dal biondo Boris Shakhlin (*) e per
qualche centesimo di secondo o per qualche appannamento della vista dei
giudici l’americano Larson perdette i 100 stile libero contro l’australiano Dewitt.
Australiani che, come avevano già fatto intravedere quattro anni prima, (*)
rappresentarono il vero incubo per gli americani nella piscina dello Stadio del
nuoto, con tre nomi che sarebbero stati scritti con inchiostro indelebile nella
storia olimpica, Konrads Rose (*) e la ribelle Dawn Fraser campionessa tre
volte, a Melbourne a Roma a Tokio.
(*) I pakistani non vedevano l’ora di prendere a mazzate la palla sul prato del
Velodromo, perché quell’ora avrebbe potuto significare la rivincita tanto sognata
sugli indiani, il cambio della guardia dopo 32 anni, e fu Naaser Bunda l’eroe
nazionale a marcare l’uno a zero decisivo…
(*) Cassius Clay non vedeva invece l’ora di prendere a dolci cazzotti il polacco
finalista, pugni teneri pugni gentili quelli di Cassius, lungi da me l’idea di farvi
del male, come lungi da me l’idea di partire per il Vietnam a fare la guerra…
Le gare furono la cosa più importante anche per la signora Blanche che si
teneva informata su quello che combinava la (*) sua figliola Wilma, una ragazza
ventenne che da piccola aveva contratto la polio e da adolescente l’aveva
sconfitta perchè lei, la madre, donna testarda, non accettava che la ventesima
dei suoi 22 figli nata come gli altri nel ghetto nero di Clarksville dovesse
camminare tutta la vita con le stampelle, e quella ragazza nei quindici giorni
romani avrebbe fatto perdere la testa non solamente a Livio Berruti ma a
un’infinità di altre persone, come ricordò Elio Trifari nel giorno in cui lei passò
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ad altra vita (*) “quell’estate romana di 34 anni fa, lunga e dolce, tenera e
intensa per tanti di noi che scoprivano di persona, o alla Tv, il fascino dei
Giochi, segnò anche il momento di una sorta di innamoramento collettivo: di
Wilma, della gazzella nera che sbancò l’Olimpiade e la corsa, ci sentimmo tutti
amici, complici, fidanzati se non amanti, estasiati nell’ammirare quelle membra
flessuose, quell’incedere felino e regale assieme che coniugava l’essenza della
corsa e la gioia di liberare la propria vitalità, così repressa e minacciata
nell’infanzia”.
(*) Le gare furono la cosa più importante pure per Dave Sime, velocista
americano che affrontò la finale dei 100 metri col pensiero che il Dipartimento
di Stato prima di partire lo aveva nominato “prima spia ufficiale in ambito
olimpico” con l’incarico esplicito di avvicinare il saltatore in lungo ucraino Igor
Ter Ovanesian e convincerlo a rinnegare pubblicamente la Bibbia comunista per
rendere omaggio alla statua della Libertà…ma Sime perse la gara per qualche
centimetro e non riuscì a combinare nulla con l’ucraino…
(*) Le gare contarono un po’ meno per Harold Connolly e Olga Fikotova, lui di
Somerville vicino Boston e lei di Praga che quattro anni prima a Melbourne si
erano innamorati pazzamente, e dopo aver convinto le autorità ceche a fare
uno strappo alle regole della cortina di ferro avevano coronato il loro sogno
d’amore, e allora a Roma che ci importa se arriviamo lui 8° e lei 7^, ce ne
andiamo in giro per la città in carrozzella…
(*) In giro per la città e poi per l’Appia antica, il 10 Settembre, ci andarono
pure due rappresentanti del continente nero, Abebe Bikila e Rhadi ben
Abdesselam, per coronare un sogno anziché d’amore di gloria olimpica, (*) ci
riuscì il primo guardia dell’imperatore d’Etiopia, che entrò in Roma vittorioso e a
differenza delle truppe del Duce scalzo e disarmato…
(*) E il giorno dopo si concluse la 150^ gara del programma olimpico, e si
conclusero i Giochi, ci fu un’altra cerimonia altri discorsi si fecero altre promesse
che non sarebbero state mantenute, (*) ci fu la sfilata meno numerosa ma
altrettanto bella come quella di quindici giorni prima, (*) e infine comparve sul
tabellone la scritta “Arrivederci a Tokyo” tra quattro anni per un’altra bella e
interessante Olimpiade, ma niente a che vedere e a che spartire con “la Grande
Olimpiade” del 1960.
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LO SPORT NEGLI ANNI DELLA GUERRA FREDDA
L’IMPORTANTE E’ NON PARTECIPARE. I BOICOTTAGGI OLIMPICI DAL
1976 AL 1984
PROF. FELICE FABRIZIO
“No, no…allora non vengo. Che dici, vengo? Ma si nota di più se vengo o se non
vengo per niente? Vengo! Ci vediamo là. No, non mi va, non vengo. No, ciao,
arrivederci”.
La ricordate? E’ una delle più celebri masturbazioni cerebrali di Michele, il
nevrotico protagonista di “Ecce Bombo”.
Ma nemmeno i componenti della grande famiglia olimpica scherzano quanto a
confusione di idee.
Per ottant’anni hanno fatto il diavolo a quattro per essere invitati alla festa
quadriennale che sintetizza gli assetti di un ordine mondiale in continua
trasformazione.
In qualità di anfitrioni fieri di sfoggiare potenza economica, capacità
organizzativa, prestigio culturale.
Come convitati arrivati per la strada principale o per vie traverse, esibendo un
biglietto di invito che, sulla base della concezione decoubertiana, non fa
riferimento agli stati, ma ai comitati olimpici di nazioni prive di autonomia come
la Boemia, l’Ungheria e la Finlandia del primo scorcio del XX secolo.
E che muso lungo mettono i reprobi messi in quarantena, in sfregio al mito
della neutralità sportiva, in quanto appartenenti agli schieramenti sconfitti nelle
due guerre mondiali, gli Imperi Centrali e le potenze dell’Asse. Una sorte alla
quale l’Italia sfuggirà per un soffio grazie al giro di valzer che dall’ottobre del
1943 getta il Regno del Sud nelle braccia del blocco anglo – americano.
Quanto all’assente di maggior riguardo, l’Unione Sovietica, che si siederà a
tavola solo nel 1952, la latitanza è il frutto di una scelta volontaria
entusiasticamente sottoscritta dal Comitato Olimpico Internazionale,
preoccupato di mantenersi fuori da ogni genere di questioni spinose.
E l’ipotesi di un boicottaggio del paese ospitante, messa per la prima volta sul
tappeto nel 1936, appare tanto remota che nei suoi statuti il C.I.O. non
contempla provvedimenti sanzionatori nei confronti dei disertori.
Il nesso tra politica e Giochi Olimpici, vecchi compagni di merende, si rafforzerà
dopo il 1945, quando ogni problema internazionale conclamato o incombente
finirà per scaricarsi sul sistema sportivo, chiamato non solo a prenderne atto e
a farsene carico, ma in qualche caso addirittura ad anticiparne la risoluzione.
E’ il caso della XXI Olimpiade assegnata per il 1976 al Canada, che porta alla
ribalta in un sol colpo il fresco protagonismo africano e le vergogne
dell’apartheid.
Il Continente Nero dagli anni Sessanta è interessato da un processo di
decolonizzazione, pacifico o legato a sanguinose battaglie per l’indipendenza,
che non sembra tuttavia sortire gli effetti sperati.
Gli stati hanno confini tracciati col righello senza tenere conto della
compatibilità tra le diverse etnie. Sono costruzioni precarie, solo formalmente
ispirate alle forme occidentali di governo democratico, esposte ai rischi di
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continui colpi di stato effettuati da militari e da feroci dittatori. I nazionalismi ed
i conflitti prevalgono sulla ricerca di una comune identità panafricana. Il
colonialismo economico affianca quello politico, trasformando il continente in
teatro della Guerra Fredda, diviso tra incrollabili alleati del blocco occidentale,
aree nelle quali, sul ritmo dello slogan “creare due, tre, molti Vietnam”, si
aprono nuovi fronti di lotta finalizzati a logorare l’egemonia americana, l’Angola,
il Mozambico, il Corno d’Africa.
Nell’Africa australe le élites bianche al potere si chiudono a riccio in difesa dei
loro privilegi. La vittoria del partito afrikaner nelle elezioni del 1948 segna
l’inizio delle politiche di segregazione razziale, fatte proprie nel 1964 dal
governo rhodesiano guidato da Ian Smith, che l’anno successivo proclamerà
unilateralmente l’indipendenza dalla Gran Bretagna.
L’apartheid, nei cui confronti nel 1962 l’O.N.U. ha adottato una risoluzione di
severa condanna, fa il suo ingresso nel campo sportivo nel 1956, determinando
la separazione invalicabile delle attività e dei praticanti, una situazione che
indurrà il C.I.O. ad escludere il Sudafrica dai Giochi Olimpici del 1964 e del 1968
e ad espellerlo dal consesso olimpico nel 1968.
La Rhodesia, ammessa ai giochi del 1972, verrà precipitosamente esclusa dopo
che i paesi africani hanno minacciato un unanime boicottaggio.
Il problema si ripropone con forza e sotto altra forma quattro anni più tardi.
Dal 1965 era attivo un Consiglio Superiore dello Sport Africano, presieduto da
un politico dinamico e spregiudicato, il congolese Jean – Claude Ganga,
ideatore dei Giochi Africani.
Il Consiglio chiede perentoriamente al C.I.O. di revocare l’invito a Montreal della
Nuova Zelanda, colpevole di intrattenere attraverso il rugby relazioni sportive
con il Sudafrica. Nel mirino vi è in particolare la tournée in Nuova Zelanda degli
Springboks in coincidenza con la sanguinosa repressione della rivolta di Soweto.
Il C.I.O. si trincera dietro l’impossibilità di intervenire sulle scelte di federazioni
non olimpiche, ma questo non basta a smorzare le proteste, sulle quali soffia la
Cina Popolare, interessata a spezzare il duopolio U.S.A. – U.R.S.S. e a sua volta
alle prese con l’annoso contenzioso con i nazionalisti di Taiwan, che si
considerano l’unica legittima rappresentanza cinese nel movimento olimpico.
Il tempo stringe. Il tre luglio il Consiglio dello Sport Africano lancia il suo
ultimatum: o il Canada revoca l’invito alla Nuova Zelanda o sarà boicottaggio.
Il 17 luglio le rappresentative africane sfilano nel corso della cerimonia
inaugurale, ma in seguito al rifiuto del presidente del C.I.O. lord Killanin di
incontrare Ganga trenta delegazioni del Continente Nero rientrano in patria,
seguite in segno di solidarietà da Iraq e Guyana. A difendere i colori africani
rimarranno solo il Senegal e la Costa d’Avorio
Questo primo ed unico boicottaggio “interruptus” priva il campo dei partecipanti
di molti protagonisti annunciati, in particolare nell’atletica leggera e nel
pugilato, discipline in cui a Tokyo e a Monaco i paesi africani, capeggiati dal
Kenya, avevano ottenuto 28 medaglie, sette delle quali del metallo più prezioso.
Il capitolo successivo sembra aprirsi sotto migliori auspici. L’assegnazione a
Mosca dei Giochi del 1980 ha per sfondo una situazione internazionale nella
quale gli stadi più acuti della Guerra Fredda appaiono un lontano ricordo.
Iniziata nel biennio 1947/1948, scandita da tappe drammatiche, su tutte il
conflitto in Corea e la crisi dei missili cubani, che hanno portato il mondo
sull’orlo dell’apocalisse nucleare, la Guerra Fredda è una estenuante partita a
Risiko giocata per difendere ed assicurarsi aree di influenza geopolitica.
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Lo scontro tra i due blocchi, che chiama in causa gli apparati politico – militari, i
sistemi economici, i modelli sociali, i valori culturali, trova riscontro dal 1952
anche nelle competizioni olimpiche, che acquistano un significato simbolico ed
una rilevanza propagandistica di enorme portata.
Nelle sette edizioni che vanno dai Giochi di Helsinki a quelli di Montreal il
medagliere fa registrare la superiorità complessiva degli atleti sovietici (683
medaglie contro le 602 americane), compensata dal perfetto equilibrio del
numero delle medaglie d’oro, 260 a 260.
Partecipare è dunque fondamentale, sconfiggere l’odiato rivale un gaudio
infinito. Perché si possa concepire una defezione occorre dunque che accada
qualcosa di molto simile ad un cataclisma. Che si verifica puntuale.
Nel 1976 il democratico Jimmy Carter viene eletto presidente degli Stati Uniti.
Sull’altra sponda a detenere il potere è Leonid Breznev, strenuo difensore del
socialismo reale e fautore di un tardo imperialismo.
La loro partita si gioca in un’area solo apparentemente periferica, L’Afghanistan,
in cui nel 1978 il controllo è stato assunto dal Partito Democratico del Popolo
sostenuto da Mosca, tenacemente contrastato da un’opposizione armata di
matrice islamica foraggiata dai servizi segreti americani.
Tra i dirigenti del Cremlino aleggia l’incubo della destabilizzazione delle
repubbliche sovietiche a maggioranza musulmana.
La notte di natale del 1979, su pressante invito del Partito del Popolo, l’Armata
Rossa invade in forze l’Afghanistan.
Per Carter, che sul fronte interno come sulla scena internazionale ha
accumulato una serie di smacchi, arriva l’agognata occasione di mostrare i
muscoli assumendo le vesti di ipocrita paladino del diritto alla libertà e alla
autodeterminazione dei popoli.
Il quattro gennaio del 1980 il presidente U.S.A. annuncia che i recenti
avvenimenti mettono fortemente a rischio la partecipazione della squadra
americana ai Giochi di Mosca.
Su questa linea di intransigenza si attestano immediatamente l’Arabia Saudita,
la Gran Bretagna della “Lady di ferro”, l’Australia, la Nuova Zelanda, l’Iran degli
ayatollah, la Cina comunista, ai ferri corti con l’ingombrante vicino e in fase di
disgelo grazie alla diplomazia del ping – pong con gli Americani, una Cina che
non esita ad assimilare le Olimpiadi del 1980 alle nazi – Olimpiadi del 1936.
Il ritmo degli avvenimenti diviene convulso. Il governo americano, preso atto
della netta opposizione del C.I.O. al trasferimento della sede a Montreal o a
Monaco di Baviera, deposta l’idea di allestire a Colorado Springs una contro olimpiade delle “nazioni libere”, presenta a Mosca la sua richiesta ultimativa: se
le truppe sovietiche non abbandonano l’Afghanista gli Stati Uniti e i suoi alleati
diserteranno i giochi.
Manco una piega fa Leonid, manco un plissé. Scaduti i termini dell’aut – aut, il
Congresso ed il Senato americani votano a schiacciante maggioranza il
boicottaggio, approvato con un margine più risicato dall’assemblea dei delegati
delle federazioni sportive a stelle e strisce.
Bocciata dal C.I.O. anche l’ultima possibile scappatoia, la partecipazione degli
atleti a titolo personale, le autorità politiche e sportive dei paesi occidentali e
del Terzo Mondo si trovano di fronte alla necessità di adottare una
inequivocabile scelta di campo.
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Il Consiglio Superiore dello Sport Africano opta per la partecipazione, imitato
dalle associazioni sportive inglesi in aperta ribellione alle invasioni di campo
della Thatcher.
In Francia la questione apre un dibattito ricco di spunti di grande interesse, che
ha per l’effetto la convivenza di stranissimi compagni di letto. Si schierano per
la partecipazione il Partito Comunista, di comprovata fede filosovietica, il gollista
Chirac, i socialisti di Mitterand.
La campagna per il boicottaggio, in cui occupano un posto di primo piano i più
eminenti dissidenti russi riparati in Occidente, accomuna le forze di destra e la
sinistra extraparlamentare, promotrice del Comitato per il Boicottaggio delle
Olimpiadi di Mosca nobilitato dal sostegno di intellettuali prestigiosi quali
Marguerite Duras, Barthes, Foucault, Glusckmann.
L’ultima parola spetta al Comitato Olimpico che, con 22 sì ed una astensione,
autorizza la spedizione transalpina.
In Italia sulla mobilitazione dal basso di un’opinione pubblica che un sondaggio
effettuato in marzo dalla DOXA dimostra per oltre il 60% favorevole alla
partecipazione, finiscono come sempre per prevalere il gioco dello scaricabarile,
le alchimie politiche, le soluzioni pilatesche.
Il C.O.N.I. appare da subito fermamente intenzionato a garantire la regolare
presenza italiana alle Olimpiadi che, dirà Giulio Onesti, “moriranno il giorno in
cui finirà il mondo”
Dello stesso parere sono i più autorevoli opinionisti, le grandi firme del
giornalismo sportivo, il Partito Comunista di Berlinguer, impegnato a difendere a
spada tratta le ragioni di Mosca.
Nello schieramento favorevole al boicottaggio trovano spazio le componenti
fanfaniane e dorate della Democrazia Cristiana, il Movimento Sociale, i
repubblicani, partito americano per eccellenza, il Partito Socialista di Craxi, che
intende smarcarsi sempre più nettamente dalle posizioni comuniste, come
dimostra l’instaurazione di un canale diretto e privilegiato con i dissidenti
sovietici.
A capeggiare un fragilissimo governo tripartito D.C. – P.S.I. – P.R.I. c’è
Francesco Cossiga che, sfoderando tutta la sua abilità di acrobata della politica,
si ingegna a tenere insieme l’alleanza con gli Stati Uniti e la necessità di
salvaguardare l’autonomia e l’autorevolezza del C.O.N.I.
Allo scopo viene riesumata una negletta sentenza del Consiglio di Stato che
riconosce la sovranità degli enti pubblici ai fini del conseguimento dei loro fini
istituzionali, che per il C.O.N.I. prevedono la partecipazione ai Giochi.
E sovranamente il Consiglio Nazionale del C.O.N.I. sottoscrive a schiacciante
maggioranza le scelte governative, che delineano un intervento senza tricolore,
senza inni nazionali, senza atleti appartenenti ai corpi militari, ai quali viene
immediatamente ritirato il passaporto. Il judoka Ezio Gamba, che vincerà l’oro,
per recarsi a Mosca sarà costretto a chiedere il congedo dall’Arma dei
Carabinieri.
La proroga sine die dei termini di iscrizione ed il frenetico giro di incontri tra
Carter, Breznev e i principali leader mondiali non valgono ad evitare il disastro,
che emerge in tutta la sua evidenza nel corso della cerimonia inaugurale fissata
per il 19 luglio.
Tra i 61 paesi boicottatori si mescolano il Cile di Pinochet e, incredibile a dirsi,
Israele, partner di fiducia degli U.S.A., ed i suoi nemici arabi, che intendono
esprimere la loro solidarietà etnico – religiosa al popolo afghano.
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Pesano come macigni le assenze degli Stati Uniti, della Cina, del Giappone, di
una Germania in cui una drammatica votazione all’interno del Comitato
Olimpico Nazionale si è risolta con 49 favorevoli alla partecipazione contro 50
contrari.
Le rappresentative di Gran Bretagna, Irlanda e Portogallo sfilano con i soli
dirigenti; Belgio, Francia, Lussemburgo, Olanda, San Marino e Svizzera con i
vessilli nazionali e senza atleti; l’Italia con la bandiera del C.O.N.I.; Andorra,
Australia, Danimarca, Nuova Zelanda, Portorico e Spagna con la bandiera
olimpica. La Liberia sfila, ma non partecipa alle gare.
Per i Giochi del 1984, programmati a Los Angeles, è lecito parlare della cronaca
di una ritorsione annunciata, attuata con programmato cinismo e servita come
piatto freddo.
Ad agitare per primo le acque è paradossalmente proprio il paese ospitante.
L’abbattimento avvenuto nel settembre del 1983 di un Boeing 747 sudcoreano
accusato dai Russi di aver violato il loro spazio aereo suscita negli Stati Uniti
un’ondata di indignazione, che si manifesta anche attraverso una raccolta di
firme per invitare gli atleti americani ad astenersi dai Giochi.
Chiusi all’angolo, i Sovietici reagiscono con rabbia. I giornali denunciano
l’assenza a Los Angeles delle indispensabili condizioni di sicurezza per le
squadre. I dirigenti sportivi, scandalizzati dalla richiesta formulata
dall’ambasciata americana a Mosca, che esige di poter esaminare per tempo la
lista dettagliata della delegazione russa, subordinando alla verifica nominativa la
concessione del visto di entrata, gridano alla violazione della Carta Olimpica,
che impone la libera circolazione di atleti ed accompagnatori.
Il cielo è sempre meno blu, malgrado le ottimistiche dichiarazioni di una
pattuglia in esplorazione a Los Angeles secondo la quale “boicottaggio è una
parola che non esiste nel vocabolario russo”.
Sono lette come autentiche provocazioni tanto la concessione dell’accredito a
due punte di diamante della propaganda occidentale, Radio Libera Europa e
Radio Libertà, quanto le attività del cartello Ban The Soviet Coalition, sotto il cui
ombrello si raggruppano 165 organizzazioni in rappresentanza di trenta milioni
di americani, che diffonde volantini incitanti alla richiesta di asilo politico da
distribuire tra le rappresentative del blocco comunista.
L’otto maggio arriva l’annuncio ufficiale della defezione dell’U.R.S.S., che
assume a pretesto l’esplicita violazione della Carta Olimpica.
Seguono in scia Bulgaria, Cecoslovacchia, Germania Orientale, Polonia,
Ungheria, Angola, Alto Volta, Etiopia, Libia, Afghanistan, Cambogia, Corea del
Nord, l’Iran in guerra con l’Iraq, Laos, Mongolia, Repubblica Democratica dello
Yemen.
L’epoca della chiamata alle rami dello sport e della politicizzazione dei Giochi
Olimpici volge al tramonto in parallelo con la fine del bipolarismo e con
l’emergere sulla scena internazionale di nuovi protagonisti..
L’ultimo coda di coda si registrerà nel 1988 a Seul con la defezione della Corea
del Nord, di Cuba, dell’Etiopia.
E’ possibile a questo punto abbozzare un bilancio.
Il boicottaggio del 1976, pur essendo assorbito senza gravi contraccolpi dal
movimento olimpico, riveste un’importanza fondamentale in quanto traccia il
cammino percorso dalle esperienze successive.
Il boicottaggio del 1980 trasforma un potenziale ordigno nucleare in una
innocua castagnola. Carter, preoccupato soprattutto di intercettare e sfruttare a
fini elettorali la paura del comunismo che attanaglia l’America profonda, verrà
sonoramente sconfitto da Reagan e non otterrà il ritiro delle truppe sovietiche
dall’Afghanistan.
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Il magro bottino di paesi boicottatori raccolto nel 1984 dall’U.R.S.S. prelude alla
rovinosa caduta di un colosso dai piedi di argilla, lacerato dalle contraddizioni
interne e dissanguato dall’inseguimento della politica di riarmo posta in atto
dagli Stati Uniti.
In buona sostanza, il boicottaggio, espressione di un biasimo morale che non
incide sulle relazioni vitali di ordine politico ed economico intrattenute dagli
stati, sembra avere rivestito un’efficacia simbolica ed una effimera visibilità.
Il tema del rispetto dei diritti umani, mai fatto proprio in modo convinto dal
Comitato Olimpico Internazionale, dagli anni Novanta del XX secolo scivola in
secondo piano per fare posto alle pressanti esigenze del business planetario.
E Michele si è finalmente deciso. Parteciperà alla festa, costi quello che costi.
Stando in un angolino o mettendosi di profilo accanto a una finestra? No: al
centro della scena, sotto i fasci dei riflettori, davanti ai microfoni, esibendo alle
telecamere gli attrezzi del mestiere con il marchio di fabbrica ed il logo dello
sponsor ben in vista.
BIBLIOGRAFIA
Elio Trifari (a cura di), L’enciclopedia delle Olimpiadi, Milano, R.C.S., 2 voll., 2008;
Sergio Giuntini, L’Olimpiade dimezzata. Storia e politica del boicottaggio nello sport,
Milano, Sedizioni, 2009;
Nicola Sbetti, Giochi di potere. Olimpiadi e politica da Atena a Londra. 1896 – 2012,
Firenze, Le Monnier, 2012.
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RDT: MEDAGLIE, DOPING E SPIE
PROF. SERGIO GIUNTINI
La vicenda dell’ex Repubblica Democratica Tedesca (RDT) è emblematica per
una quantità di aspetti. Ci parla di “muri” innalzati anche nello sport, di precari
compromessi diplomatici e geo-politici ricercati dal CIO, di un sistema sportivo
di base e di vertice apparentemente perfetto, di doping di stato, di spionaggio
internazionale. Ma se tutto cio corrisponde a verità, ancor più la RDT fu una
incredibile “fabbrica” di medaglie pregiate. Una nazione dalla modesta
superficie e popolazione, in grado di produrre alle Olimpiadi prestazioni di
contenuto superlativo. Tant’è non sembra azzardato sostenere che la
legittimazione politica della RDT sia giunta dopo quella sportiva e in forza di
essa. La RDT era, nel e per il mondo, il suo sport; si specchiava nei suoi
campioni e nelle sue invincibili campionesse. Il vero “sesso forte” targato DDR
(Deutsche Demokratische Republik).
Senza per il momento valutare la bontà “onesta”, cioè non indotta da agenti
biochimici o farmacologici, di questi risultati, è tuttavia doveroso evidenziarne la
portata. Soltanto tenendone il dovuto conto, si razionalizza il significato di
Guerra Fredda prolungata allo sport. Ammessa ai Giochi quale stato autonomo
solo da Città del Messico, in un ventennio (esclusa l’Olimpiade boicottata di Los
Angeles 1984) la RDT seppe incamerare 448 “metalli” olimpici così ripartiti:
1968: 9 ori, 9 argenti, 7 bronzi; 1972: 20, 23, 23; 1976: 40, 25, 25; 1980: 37,
35, 30; 1988: 37, 35, 30. Nel medagliere finale fu quarta dietro USA, URSS e
Giappone in Messico, all’esordio; terza davanti alla Germania Ovest a Monaco di
Baviera; sempre seconda, sopravanzata dai sovietici, a Montreal, Mosca, Seul.
Numeri impressionati, che esplicitano il valore politico e ideologico annesso
dalla Germania Est allo sport: il suo maggior veicolo di confronto e bilancio
positivo nei riguardi dell’Ovest. Di quella Germania Federale, che ne costituiva il
termine di paragone e contrasto più immediato nell’epoca che precede
l’innalzamento del Muro (13 agosto 1961) e si conclude con il suo abbattimento
(9 novembre 1989).
Se questo è il contorno in cui collocare la RDT grande potenza sportiva, è altresì
indispensabile fissare una cronologia delle principali tappe che scandirono il
percorso di emarginazione e poi di lenta integrazione da essa compiuto nel
movimento sportivo mondiale. Una delle piste interpretative più convincenti e
utili a enucleare la natura totalizzante della contrapposizione in blocchi. Tale
cronistoria prende il là con la legge 8 febbraio 1950, che stabiliva la
partecipazione della gioventù all’edificazione socialista della RDT,
promuovendone la crescita tramite l’istruzione, lo sport e la cura del tempo
libero. Era il primo, fondamentale passo, nell’elaborazione del modello sportivo
tedesco orientale. Allo sport veniva assegnato un autentico valore
fondativo/costitutivo nella vita del Paese.
Di concerto, la RDT perseguiva la strada del riconoscimento sportivo nelle varie
sedi internazionali. Così il 13 maggio 1950 i presidenti delle federazioni atletiche
tedesche, dell’Ovest e dell’Est, si accordavano per ottenere una separata e non
conflittuale affiliazione alla IAAF. Ma quest’ultima, il 23 agosto 1950, a Bruxelles
accettava solo la richiesta della RFT. Un chiaro segnale dell’atteggiamento
diseguale che sarebbe stato a lungo mantenuto nei suoi riguardi. Per vincere
queste resistenze, il 22 aprile 1951 la RDT creò un proprio comitato olimpico
che potè però entrare a pieno titolo nei ranghi del CIO a distanza d’un
decennio.
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Nella sessione CIO del 1952 a Helsinki la discussione fu a senso unico. Sigfrid
Edstroem accusò la RDT di “rifiutare la cooperazione” con la RFT. Avery
Brundage attaccò le “direttive dell’irresponsabile governo socialista”. Lord
Michael Morris Killanin lamentò le “interferenze della politica”. Ripresentata
istanza d’ammissione nel 1954, questa fu respinta con 34 no e 23 sì; e nel ’55,
nella 51^ sessione di Parigi, venne recepita ma con un carattere di
provvisorietà in vista di un’ipotetica riunificazione. L’attesa inflittagli era dettata
dall’atteggiamento non imparziale del CIO sul tema delle due germanie. Una
condotta che si riparava dietro il paravento, utilizzato con disinvoltura a
seconda dei casi, dell’inammissibilità di due comitati olimpici espressione della
medesima entità nazionale. Sta di fatto che - come si è visto - alle Olimpiadi di
Helsinki furono presenti sia la RFT, il cui comitato era stato riconosciuto il 24
settembre 1949, sia la Sarre.
Ergo: nei soli riguardi della Germania orientale permaneva un pregiudizio del
CIO che non poteva avere altre motivazioni se non politiche. Un filo-atlantismo
di fondo difficilmente mascherabile. Ancora nel 1954 la domanda di ammissione
della RDT alla IAAF venne respinta per il veto della RFT; e il CIO,
nell’impossibilità ormai di tener ferma una posizione fortemente squilibrata e
tesa unicamente a prender tempo, capitolò con i Giochi di Melbourne. In quel
frangente, si addivenne a un compromesso allestendo una rappresentativa
mista detta “Germania unificata”. Compromesso comunque al ribasso per la
componente orientale, poiché nelle cerimonie olimpiche si ricorse a inno e
bandiera della RFT e, sui 177 atleti tedeschi inviati in Australia, appena 36
erano della RDT.
Questo “status quo” fu conservato, con qualche indispensabile aggiustamento,
anche ai Giochi di Roma e Tokio. Nell’Olimpiade italiana, sui 331 componenti
della “Germania unificata” 194 provenivano dal settore occidentale e 137
dall’orientale. In quella giapponese i ruoli s’invertirono, con una presenza di 191
unità della RDT e 183 della RFT. L’inversione di tendenza avvenuta,
preconizzava il prossimo inserimento non più generico e indeterminato nel
consesso del CIO. Un ingresso preceduto dall’apertura di credito della IAAF.
Dopo le Olimpiadi, a Tokio la Federazione atletica tenne - dal 20 al 23 ottobre
1964 - il suo 24° Congresso che, con 126 voti favorevoli e 96 contrari, ammise
la RDT. A questo punto già 20 federazioni internazionali avevano riconosciuto la
Germania Est, e il CIO, a Madrid nella 64^ sessione (3-9 ottobre 1965), non
fece altro che dare il suo benestare a uno stato di cose in essere. Purtuttavia le
procedure burocratiche non erano ancora esaurite. Occorse attendere la 68^
sessione a Città del Messico nell’ottobre 1968 per il riconoscimento integrale, in
vigore dal 1° novembre di quell’anno. Ed unicamente alle Olimpiadi di Monaco
di Baviera la RDT fu nelle condizioni di esibire i propri inno, vessillo, emblema.
Mentre si consumava questa infinita “anticamera”, i sabotaggi e i tentativi
emarginanti si sprecarono. La lista, limitandoci alla prima metà degli anni ’60,
quando più vicina era la definitiva integrazione, contempla semplici
punzecchiature e azioni scopertamente ostili. Nel 1960 la Francia negò il
permesso d’ingresso alle pallavoliste della RDT che non poterono partecipare al
Torneo di Parigi e, nel 1961, sempre il governo francese, impedì che al
Congresso della federazione ciclistica internazionale - ospitato nella sua capitale
- intervenissero i delegati di Berlino Est. Il cross-country parigino del giornale
comunista l’Humanitè venne precluso ai mezzofondisti della Germania
democratica dal 1961 al 1964; e il 7 gennaio 1963 fu Willy Daume, presidente
del comitato olimpico della RFT, a bloccare la costituzione di due squadre
tedesche separate per i Giochi di Tokio. Si temeva che dal confronto diretto
emergesse inequivocabilmente la supremazia della zona comunista. Da ultimo,
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solo un meccanismo estremamente complesso consentì la presenza della RDT
alla prima Coppa Europa - ideata dall’italiano Bruno Zauli - di atletica leggera
per nazioni.
Al fine d’aggirare i molteplici ostacoli extrasportivi, si agì in questi termini: 1)
per rendere inefficace l’embargo della NATO sui visti degli atleti tedescoorientali, la semifinale che raggruppava Jugoslavia, Regno Unito, Svezia,
Romania, Olanda e RDT, si svolse a Zagabria il 21-22 agosto 1965 anzichè nella
sede inizialmente prevista di Oslo; 2) per risolvere la questione posta da
bandiera e inno della RDT, rigorosamente proibiti nella RFT, dove si tenevano le
finali della manifestazione, venne deciso che i diversi paesi non portassero a
Stoccarda (maschile, 11-12 settembre 1965) e Kassel (femminile, 19 settembre
1965) alcun segno o simbolo che ufficializzasse la loro rispettiva delegazione,
eccettuato il colore della maglia.
“Fabbrica delle medaglie” e punto strategico di massima criticità per la sua
posizione di cerniera tra Est e Ovest, la RDT imboccherà la via del doping
pianificato per affrontare con successo la competizione politica globale con
l’Occidente. Una variante del tipico nazionalismo sportivo - anch’essa, a partire
dall’ottobre 1952, recupererà l’eredità carismatica di Ludwig Friedrich Jahn con un respiro però assai più ampio, dovendo concorrere alla vittoria finale,
sistemica, del “socialismo reale”. Argomenti non meramente propagandistici,
che si ritrovano ancora affermati in un materiale ufficiale (le premesse
ideologiche alle linee-guida diramate dalla Federatletica della RDT per
l’allenamento dei giovani dai 10 ai 13 anni) del 1° settembre 1985. A pochi anni
dal crollo del Muro, si poteva leggere:
In conformità con le decisioni della SED (Partito Socialista Unitario Tedesco) e,
in particolare, del suo X Congresso, tutti i cittadini del nostro Paese hanno il
dovere politico di tendere sempre ai migliori e più elevati risultati. L’XI
congresso darà a noi tutti nuovi impulsi, idee e principi. L’evoluzione delle
prestazioni nel mondo intero mostra che anche nelle discipline dell’atletica
leggera non è prevedibile nei prossimi anni un limite ai risultati. Per lo sport
agonistico in RDT è fondamentale affermare la propria posizione a livello
mondiale nella lotta di classe contro l’imperialismo […]. I requisiti che
riguardano la personalità dei nostri atleti negli anni ’90, nell’anno 2000 e più
avanti ancora, sono determinati dal crescente conflitto tra l’imperialismo e il
socialismo su scala mondiale, dall’insaziabile sete di potere - in cui lo sport
agonistico ha un ruolo importante - dall’abuso dell’idea di Olimpiade, dalla
crescita e commercializzazione e professionalizzazione, in particolare ad opera
dell’imperialismo, e dalla continua crescita dinamica del numero dei primati a
livello internazionale. Gli atleti della RDT incontreranno nei prossimi anni rivali
sempre più preparati e proprio gli USA vogliono diventare il numero uno al
mondo. Da questo stato di cose deriva la necessità di formare delle personalità
che lottino senza condizioni per la vittoria della propria patria socialista, che si
identifichino costantemente con i loro doveri, che siano disponibili a conciliare i
propri interessi personali con quelli della collettività e della società, che
mostrino responsabilità ed affidabilità. I futuri atleti, per potersi affermare,
devono distinguersi per l’alta capacità di rendimento, in piena sottomissione alla
collettività. Si richiede la creazione di nuove motivazioni nell’ottica di essere i
migliori al mondo, il che presuppone un allenamento più cosciente e migliore
degli altri.
In questa filosofia: “essere i migliori” per “affermare la propria posizione a
livello mondiale nella lotta di classe contro l’imperialismo”, s’inscrive la corsa al
sussidio di “laboratorio” esasperato nell’ex RDT. Alla base del doping di stato
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stava l’Istituto Superiore di Cultura Fisica di Lipsia, fondato nel 1950 e presso il
quale si diplomeranno 20.000 quadri di cui 2500 provenienti da 91 paesi per lo
più in via di sviluppo. Un centro celeberrimo nel mondo, un’università dello
sport e del doping.
Se infatti negli anni ’50 erano gli Stati Uniti ad essere all’avanguardia nella
produzione e consumo di anabolizzanti, nel decennio successivo si verificherà il
sorpasso dell’Est sui “culturisti” californiani. E proprio la RDT, nell’ambito della
manipolazione del testosterone, farà scuola ai suoi primi “maestri” sovietici. La
solidarietà ideologica, inizialmente allargata a Romania, Bulgaria,
Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria, lascerà il campo, dalle Olimpiadi di Monaco
di Baviera in poi, alla rivalità sportiva. L’obbligata amicizia tra URSS e RDT
nascondeva in effetti una spietata concorrenza sul terreno della scienza
utilizzata in funzione del miglioramento innaturale delle prestazioni. Il
confronto, da qui in avanti, diventò perciò a tre: URSS-USA e, terzo incomodo,
la RDT, che con il primato nella ricerca acquisito dall’Istituto di Lipsia poneva
seriamente in discussione quello che era sempre stato un “bipolarismo
olimpico”.
Da sfatare, ad ogni modo, l’opinione d’un minor ricorso degli Stati Uniti
d’America a questi mezzi subdoli. Oltre alle note vicende di Florence Griffith e
Marion Jones, famosa resta la fuga di massa, per non incappare in una
positività certa, di svariati atleti statunitensi alla vigilia dei Giochi Panamericani
di Caracas (14-29 agosto 1983). Questi, gli 11 che preferirono rinunciare alle
gare venezuelane: Brady Crain (100 m.), Mark Patrick (ostacoli), Jesse Stuart e
Ian Pyka (peso), Greg Mc Seveney e Paul Bishop (disco), Dave Mc Kenzie e
John Mc Ardle (martello), Duncan Atwood (giavellotto), Randy Williams (lungo),
Mike Marlow (triplo).
In Germania Est Manfred Ewald, membro del Comitato centrale della SED e
uomo forte dello sport tedesco orientale da presidente della DTSB (“Deutsche
Turn - und Sport Bund”), già nel 1963 avrebbe ordinato un uso massiccio di
anabolizzanti per gli sportivi di vertice. Complessivamente si è potuto appurare
che almeno 10.000 furono gli atleti interessati da cure ormonali. Nel 1974 un
comitato ristretto stabilì le direttive per l’attuazione di un doping sistematico e,
studiate a Lipsia, le sostanze dopanti venivano testate e prodotte dalla
“Jenapharm” di Jena. Il laboratorio antidoping - riconosciuto dal CIO - di
Kreisha, provvedeva invece, prima dei grandi eventi, a controllare i soggetti che
vi si erano sottoposti, garantendo così l’efficacia del trattamento senza
smascherarne i fruitori. A questo sistema articolato cooperavano una dozzina di
istituzioni scientifiche e circa 1500 ricercatori. Essi partecipavano a lavori
coordinati e, nel 1981, a Lipsia, si tenne un seminario nel quale si dibattè
approfonditamente sul come ritrovare nuovi additivi non rilevabili agli esami di
laboratorio. Non per altro, il poeta dissidente Wolf Biermann arrivò a definire il
doping praticato nella Germania orientale “uno dei più grandi esperimenti mai
eseguiti su corpi umani”. Il doping programmato, il cui “Doktor Mabuse” era lo
stretto collaboratore di Ewald Manfred Hoppner, ricalcava nelle sue scansioni
pluriennali le pianificazioni dell’economia socialista. E uno degli ultimi
predisposti, portava il nome in codice di “Piano di stato 14.25”.
In questo senso l’intero apparato organizzativo del doping doveva disporre della
completa copertura della Stasi, e la conferma ci è data da un rapporto di 700
pagine, redatto nel 2006 dall’Istituto “Arendt” di Dresda, in cui si conclude
sinteticamente che la “Stasi ebbe un ruolo fondamentale nel medagliere della
DDR”. In un regime dalle maglie molto rigide, che si autososteneva con la
delazione e le schedature di massa, dove tutti spiavano tutti, la potente polizia
segreta, la Stasi di Erik Mielke (180.000 agenti e 120.00 collaboratori informali),
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non poteva non estendere il proprio controllo politico capillare attraverso lo
sport. Gli sportivi d’eccellenza godevano di una particolare libertà di movimento
all’estero e di benefici sociali che dovevano ripagare ponendosi al servizio degli
organi di sicurezza. Erano una casta di privilegiati, e così venivano percepiti
dalla popolazione comune. Anche alla luce di ciò si spiegano le tentate violenze
e vendette di cui, a pochi giorni dalla caduta del Muro, furono vittime diversi
atleti dai trascorsi illustri.
A Karl Marx Stadt fu distrutta l’auto della campionessa di nuoto Heike Friedrich.
A Lipsia giunsero intimidazioni alla discobola Martina Hellman, minacciando di
ucciderle la figlia. A Erfurt subì danni alle sue proprietà il pattinatore Uwe
Ampler, e la nuotatrice Kristine Otto si asserragliò a lungo in casa temendo il
peggio. Percepiti e indubbiamente vicini al potere, tra gli informatori della Stasi
figurarono negli anni ’80 i migliori calciatori della principale squadra del Paese:
la “Dinamo” Berlino, il sodalizio del Ministero dell’Interno di cui era fanatico
supporter Mielke. Di alcuni di loro si conoscono i nomi: Thomas Doll, che
giocherà anche in Italia nella “Lazio”, Andreas Thom, Frank Rodhe, Wolfgang
Klein. La “Dinamo” Dresda forniva informazioni tramite Frank Lieberman,
Matthias Doeschner e Andreas Trautmann, calciatore dell’anno nel 1989.
Torsten Guetschow, anch’egli della “Dinamo” Dresda e tre volte capocannoniere
dell’”Oberliga”, iniziò a collaborare con la Stasi dal 1981 e, in nove stagioni,
passò alla polizia politica una sessantina di dossier su compagni di club,
allenatori, dirigenti.
Lutz Dombrowski, campione olimpico di salto in lungo a Mosca, nel 1979
sottoscrisse un documento in cui s’impegnava a riferire i “contatti con gli
stranieri durante le trasferte all’estero”. Pure Heike Drechsler, lunghista che
vinse i campionati europei del 1986, vide messa in pericolo la sua carriera
sportiva qualora non si fosse assoggettata alle richieste della struttura diretta
da Erik Mielke. E sul conto di Katharina Witt, “noffizielle maitarbeiterin”
(informatrice non ufficiale) che s’aggiudicò le medaglie d’oro nel pattinaggio
artistico alle Olimpiadi di Sarayevo (1984) e di Calgary (1988), presso gli archivi
della Stasi erano custoditi otto nastri di registrazione e 1354 pagine di
trascrizione. Stasi per la quale, con compensi mensili di 1000 marchi, lavorò
anche dall’agosto 1971 l’altra pattinatrice Gaby Seyfert, campionessa del mondo
nel 1969 e ’70. Quella svolta dalla Seyfert si configurava più compiutamente
come un’autentica attività di spionaggio. Un’attività che in quell’epoca, non solo
all’interno dei propri confini nazionali ma soprattutto durante le gare
oltrecortina, interessò numerosi atleti dell’Europa orientale.
Il caso più famoso è quello del polacco - nato a Varsavia il 25 ottobre 1932 Jerzy Pawlowski (vincitore dei Giochi olimpici nella sciabola a Città del Messico,
secondo nell’individuale e a squadre a Melbourne, argento e bronzo a squadre a
Roma e Tokio), che fu arrestato il 24 aprile 1975 e, l’8 aprile 1976, condannato
da un tribunale militare a venticinque anni di carcere per spionaggio a favore
della NATO. Maggiore dell’esercito, gli venne risparmiata la pena capitale
perché rivelò i suoi crimini e l’identità dei complici. Le sue rivelazioni portarono
all’arresto e condanna di altri ufficiali, alla morte misteriosa del comandante in
capo della Marina e, nell’ambito dello sport, all’interrogatorio di oltre cento
schermidori. L’11 giugno 1985 Pawlowski fu scambiato con tre spie di paesi
socialisti catturate in Belgio, ma chiese e ottenne di poter rientrare in Polonia.
Da scaltro doppiogiochista aveva lavorato sia per l’Est che per l’Ovest. Fin dal
1955 era stato assoldato dai servizi segreti polacchi per spiare i suoi compagni
di squadra, segnalando quelli - tra cui anche l’amico fiorettista Witek Woida, sul
quale stilò tre circostanziati rapporti - che progettavano di fuggire in Occidente
o che sostenevano lo stato di Israele; poi, improvvisamente, nel marzo 1962 la
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collaborazione di Pawlowski venne sospesa. Evidentemente non si era più tanto
sicuri di lui, che nel frattempo - con sicurezza dal 1964 - aveva allacciato
rapporti con la CIA. Nell’autobiografia del 1994 - Il mio duello più lungo Pawlowski sostenne che il processo a suo carico era stato una messinscena per
dimostrare pubblicamente la trasparenza e la severità del regime che giungeva
a punire anche i suoi simboli sportivi. In realtà la sua cattura dipese da un
tradimento all’interno della CIA. Fu venduto - con altre spie - all’URSS per
90.000 dollari. Una figura ambigua, da romanzi alla John Le Carré, che
impersona mirabilmente il clima e le trame oscure della Guerra Fredda.
Jurgen May e il “boicottaggio” degli Europei di atletica leggera del ‘69
Le buone ragioni (democratiche) per boicottare i campionati europei d’atletica
leggera, in calendario ad Atene dal 16 al 21 settembre 1969, non mancavano
certo. Dal 21 aprile 1967 la Grecia pareva esser precipitata in un brutto incubo
sudamericano. In piena Europa, nella culla dell’antica democrazia occidentale,
un manipolo d’ufficiali di grado intermedio aveva preso il potere con le modalità
generalmente in uso in Brasile, Colombia, Argentina, Paraguay, Bolivia. Con il
piano d’emergenza “Prometeo”, versione ellenica dello “Stay Behind” progettato
dalla NATO, i colonnelli Ghiorghios Papodopoulos e Nicholas Makarezos e il
generale di brigata Stylianos Pattakos, assunsero il controllo del Paese a nome
di un “consiglio rivoluzionario militare”.
I tre “cervelli” del golpe, che si divisero le cariche di primo ministro, dell’interno
e dell’economia, dichiararono di essere intervenuti preventivamente per
impedire una fantomatica insurrezione comunista; più verosimilmente, agirono
per salvaguardare i settori dell’ufficialità maggiormente compromessi con le
manovre destrorse e anticostituzionali di Re Costantino, ed evitare il
prepensionamento qualora, nelle elezioni del 28 maggio 1967, si fosse verificata
la probabile affermazione dell’”Unione di Centro” di Andreas Papandreu.
L’incubo durò un settennio, e i campionati atletici del ’69 costituivano il primo
importante evento sportivo ospitato in Grecia dopo il “golpe”. Un’opportunità
per esternare il proprio dissenso verso il regime reazionario dei “colonnelli”.
Un’occasione unica che l’opposizione clandestina cercò di sfruttare lanciando un
appello agli atleti che sarebbero convenuti ad Atene. Il manifesto invitante al
boicottaggio, firmato dal “Fronte Patriottico Antidittatoriale” e dal “Movimento
Panellenico di Liberazione e Difesa Democratica”, venne ripreso in Italia
dall’UISP, che lo pubblicò sul numero di giugno-luglio 1969 del Discobolo.
Va subito detto che il richiamo rivolto alle coscienze democratiche dagli
antifascisti greci rimase lettera morta, ma quegli Europei vennero comunque
turbati da una protesta. Un’azione di boicottaggio che può esser considerata,
con delle singolari peculiarità, uno strascico indiretto della Guerra Fredda nello
sport. Meglio ancora: il prodotto delle tensioni e delle incomprensioni che,
anche con l’ammisione della RDT nel CIO, sussistevano tra Germania Federale e
Democratica. L’espressione di un’incapacità di dialogo, pur parlando l’identico
idioma, incancrenitasi al di qua e al di là Muro. Prova ne sia che, giusto
nell’atletica leggera, a livello bilaterale RFT e RDT s’incontreranno a Dusseldorf,
per la prima volta, soltanto il 19-20 giugno 1988, con nettissima vittoria
maschile-femminile della formazione orientale per 250,5 a 151,5.
Dunque un lunghissimo periodo di incomunicabilità che visse un momento di
particolare frizione in quella settimana ateniese. Il movente specifico di tale
conflittualità va individuato in Jurgen May, un otto-millecinquecentista tedesco
trasformatosi in imbarazzante caso politico e di controversa diplomazia sportiva.
La sua è una delle tante storie di fuggiaschi da Est a Ovest. In campo atletico
l’avevano ad esempio preceduto Max Syring (1957), Manfred Steinbach (1958),
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Gisela Henning (1960), Klaus Porbadnick (1960). Nato a Nordhausen in Turingia
il 18 giugno 1942, May scalò le vette dell’atletismo internazionale con la casacca
della RDT nel 1965, stabilendo a Erfurt, il 14 e 20 luglio, i record d’Europa e del
mondo dei 1500 (3’36”4) e dei 1000 m. (2’16”2). Nel 1966 prese parte ai
campionati continentali di Budapest e, al rientro dalla capitale ungherese, la
“Deutscher Verband fur Leichtathletic” (DVFL) aprì nei suoi confronti
un’inchiesta incentrata su due capi d’imputazione: 1) May era accusato d’aver
incassato denaro da un’azienda tedesco-occidentale di articoli sportivi per
pubblicizzare i suoi prodotti; 2) a questo scopo avrebbe avuto il compito di
reclutare una rosa di atleti per commercializzare tali prodotti nella RDT.
A contattarlo era stato il mezzofondista della RFT Karl Eyerkaufer e, non
riuscendo a discolparsi, May venne radiato dalla DVFL. Radiazione che, sulle
colonne del Discobolo, Gianni Romeo condivideva e difendeva a spada tratta
esaltando le regole e la struttura sportiva della RDT comunista:
Questo Paese alla perfetta organizzazione accoppia a una sana mentalità
sportiva, quale è difficile riscontrare altrove, per non dire impossibile. May si è
reso colpevole di una colpa che altrove sarebbe sembrata forse veniale; in
Germania Est è colpa grave, perche lo sport non è inteso come speculazione, in
nessun senso. Il professionismo non esiste.
A sua difesa, May sostenne che i 400 marchi ricevuti da Eyerkaufer (a sua
volta squalificato per un anno e mezzo dalla Federazione atletica della
Germania Federale) li aveva accettati per farne dono al suo club atletico e, che
pure il più famoso fondista Jurgen Haase, aveva fatto lo stesso. Ma così
peggiorò ulteriormente le cose, precludendosi anche una brillante carriera nella
SED, essendo stato eletto nella circoscrizione di Erfurt nel 1965. Scappato nel
1967 a Hanau passando per l’Ungheria, trovò rifugio da Eyerkaufer e,
rapidamente “naturalizzato” tedesco dell’Ovest, la sua neo-federazione riusci ad
ottenere dalla IAAF una riqualificazione e riduzione della squalifica a soli due
anni. In campo internazionale poteva pertanto tornare a gareggiare dal 20
gennaio 1969. Questo, però, a titolo individuale, poiché secondo una diversa
interpretazione dei regolamenti IAAF, un’atleta che aveva militato sotto i colori
di un’altra nazione per almeno un triennio non avrebbe potuto vestire la maglia
della nuova nazionale. Insomma una situazione normativa intricata, di cui
approfittò la DVFL per impedire a May di concorrere ad Atene e che, in casa
RFT, suscitò una forte reazione non tanto per voce degli organi sportivi ufficiali,
quanto da parte dei compagni di squadra di Jurgen May. Furono gli atleti, che
con lui seppero della sua esclusione dai 1500 e 5000 m. il 14 settembre 1969,
durante il volo aereo verso la capitale ellenica, a scavalcare la loro Federazione
dichiarando un boicottaggio dei campionati in solidarietà con una vittima delle
divisioni politiche imposte dall’alto.
Riunitisi nelle sale dell’Hotel di Atene in cui erano alloggiati, i componenti la
rappresentativa tedesco-occidentale votarono a scrutinio segreto e il risultato fu
chiarissimo: 61 optarono per il boicottaggio contro 10 sfavorevoli a questa
soluzione. Non avendo tuttavia partecipato a quel “referendum” l’intera
delegazione, si ritenne necessario ripetere la votazione e, stavolta, si ebbe un
esito assai diverso nei numeri ma non nella sostanza: 29 per il boicottaggio, 27
contrari, 3 astenuti, 2 schede annullate, 17 assenti al voto. Una parziale
retromarcia, probabilmente dovuta alle pressioni dei dirigenti federali,
preoccupati delle eventuali sanzioni della IAAF.
Chi - la stampa di sinistra - sperava che il gesto rappresentasse un atto di
disapprovazione nei riguardi della giunta dei “colonnelli” restò profondamente
deluso. Il boicottaggio era indirizzato verso l’ottusità burocratica e autoritaria
delle “carte” IAAF e l’oltranzismo ideologico della RDT, che colpivano
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biecamente l’espressione di una pura soggettività sportiva. Quel ritiro
sottintendeva una contestazione e una ribellione, uno spontaneismo
volontaristico che evocava la cultura del ’68. La presa di posizione degli atleti
della RFT era il frutto di un dibattito assembleare interno, di una decisione
venuta dalla base. Inutile disquisire sui suoi contenuti, a quali possibili
interpretazioni avrebbe potuto portare. Solidarizzare con May, per quegli atleti
non significava semplicisticamente parteggiare per l’Ovest contro l’Est, bensì
affermare l’esistenza di un’unica Germania, di un un unico Paese che, altri,
avevano l’esclusivo interesse a mantenere scisso, dicotomizzato.
L’esatto contrario di quanto in Italia, non riuscendo a capacitarsi di questa
novità, scriveva la rivista Atletica Leggera commentando i fatti:
Evidentemente essi vogliono deliberatamente ignorare la realtà. Le Germanie
sono due, tanto è vero che la IAAF riconosce due federazioni […]. Per salvare
un “morto” essi preferiscono perdere molti vivi. Peggio per loro.
E’ peraltro anche indubbio che, specie dopo la seconda ripetuta votazione, la
coesione del gruppo era andata affievolendosi. Alcune incrinature si erano
insinuate tra i più consapevoli e coloro che, da un boicottaggio, vedevano venir
meno, d’un colpo, gli sforzi e l’impegno profusi per esser selezionati per quella
competizione europea. Così deve intendersi la rottura del boicottaggio che
condurrà, nelle ultime giornate di gara, la RFT ad allinearsi alla partenza delle
staffette 4x100 e 4x400. Un cedimento alle ambizioni personali, più che una
ritirata strategica. Le medesime che, nel ’67, avevano indotto May a scavalcare
il Muro, cercar fortuna a Ovest.
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ZATOPEK: UNA SPLENDIDA ESTATE E UNA TRISTE PRIMAVERA
DOTT. ENZO PENNONE
L’oggetto del mio intervento è la descrizione di un incontro immaginario tra due
persone: i contenuti di quest’incontro fanno riferimento a fatti storici
documentati, mentre il contesto e i dialoghi sono costruiti aggrappandosi alla
fantasia
I protagonisti dell’incontro sono due cittadini cecoslovacchi, e pertanto
possiamo pensare che quest’incontro sia occorso nella città di Praga, (*)
probabilmente in uno dei suoi giardini, forse uno dei celebri incantevoli antichi
giardini di Praga, (*) quelli della collina di Petrin o del parco Letna (*) o i
giardini reali del Castello, o forse in un qualunque anonimo meno celebre
proletario giardino praghese, siamo intorno ai primi anni ’70 e l’incontro ha
luogo tra due uomini molto diversi tra loro per età, per caratteristiche fisiche e
intellettuali, per tipologia di interessi e di passioni, ma due uomini intimamente
legati da un filo molto molto resistente, un filo dal quale promana un’esigenza
che i due condividono, un bisogno che insieme a pochi altri rientra nella lista dei
bisogni fondamentali dell’uomo, cioè quello della libertà. (*) Questi due cittadini
cecoslovacchi sono Alexander Dubček ed Emil Zatopek, il primo è stato il
massimo propulsore della primavera di Praga, quello che aveva liberato la
stampa dalle catene della censura, che aveva ridato ai cechi la libertà di
pensare ed esprimere quello che volevano, di recarsi all’estero nei paesi che
preferivano, est od ovest non fa differenza, che aveva ridato la libertà ad ex
dirigenti del partito condannati nei grandi processi dell’era di Gottwald e pure
ad importanti scrittori incarcerati per reati d’opinione, mentre l’altro è il più
celebre sportivo della Cecoslovacchia, più volte campione olimpico nelle gare di
fondo.
(*) Zatopek, forse in lieve ritardo sull’ora convenuta, arriva all’appuntamento di
corsa, del resto non potrebbe essere altrimenti per uno che ha dedicato alla
corsa vent’anni della propria esistenza, mentre Dubček di cui non risultano
apparentamenti con alcuna disciplina dello sport, è già seduto su una panca in
attesa del campione.
Entrambi non sono più di casa a Praga, (*) perché Dubček, il già segretario del
Partito Comunista Cecoslovacco e principale motore del socialismo dal volto
umano, epurato dai ruoli politici ed espulso dal Partito dalla nuova dirigenza
ceca voluta da Mosca, ha pensato di rintanarsi nella sua Slovacchia dove ha
trovato un lavoro come manovale in un’azienda forestale, in una parola fa il
giardiniere, (*) mentre Zatopek sostenitore delle rivendicazioni dell’ala
innovatrice anch’egli espulso dal Partito e radiato dall’esercito nazionale in cui
aveva le stellette di colonnello è stato spedito nella Cecoslovacchia
nordoccidentale quasi al confine con la Germania, a Jachymov, incarico di
magazziniere nelle miniere di uranio.
Non c’è stato bisogno di un permesso speciale per quest’incontro, visto che i
due non rappresentano più elemento di pericolosità per la comunità ceca e che
la situazione complessiva con Gustav Husak si è comunque normalizzata.
I due, che non hanno bisogno di essere presentati da altri (*) perché per molti
anni le loro immagini hanno occupato pagine intere sul Rudé Pravo e su altri
giornali praghesi (*) si stringono la mano si guardano negli occhi qualche
istante, un abbozzo di sorriso che sa un po’ di nostalgia un po’ di rassegnazione
ma un po’ pure di speranza, e si avviano, le mani in tasca, per i sentieri del
rigoglioso giardino praghese.
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(*) Immaginare di che cosa i due possano aver parlato e discusso in quell’oretta
di colloquio a quattr’occhi, non più di un’oretta poichè una durata maggiore
avrebbe certamente sollevato ragionevoli sospetti sull’innocenza dell’incontro, è
cosa abbastanza semplice e scontata. Zatopek, probabilmente si sarà subito
scusato per avere suo malgrado dovuto firmare una carta in cui riconosceva
tutti gli errori del passato, (*) tra cui quello di aver appoggiato le forze
controrivoluzionarie e i revisionisti borghesi, e dopo quel riconoscimento di
colpa e atto di dolore conseguente avrà posto a Dubček una domanda, una di
quelle domande che si fanno così come viene prima tanto per rompere il
ghiaccio, una domanda banale tipo -come se la passa Lei ora in Slovacchia-,
una domanda retorica oltretutto, perché come vogliamo che se la possa
passare uno a fare il giardiniere in Slovacchia, (*) uno che per vent’anni di fila è
stato deputato all’Assemblea Nazionale e che fino a un paio d’anni prima veniva
osannato da tutti i suoi connazionali di tutte le età e di qualunque reparto della
società, studenti e operai, intellettuali e analfabeti, (*) e poi gli avrà pure
chiesto -cosa pensa Lei di come potrà evolversi la situazione, e se ci sono
ancora speranze per la nostra primavera- povero ingenuo di un Emil Zatopek,
chiedere un giudizio sul che cosa ci si può attendere ad uno cui sono state
tagliate da un giorno all’altro tutte le vie di comunicazione con il mondo, con gli
amici e con gli avversari, con i dissidenti e con gli integrati, e pure con l’altro
pezzo della galassia comunista cioè quella che sta al di fuori del patto di
Varsavia, solo Zatopek candido corridore di lunghe distanze poteva pensare e
sperare ancora che dall’interno di quella galassia potesse venir fuori una
boccata d’ossigeno una parola di solidarietà se non addirittura una nostalgica
levata di scudi (*) “Lenin svegliati che Breznev è impazzito!” lui non credeva
certamente che quelli se ne potessero lavare le mani come fece Pilato, come
invece se le lavarono e come lo ricorderà diversi anni dopo anche Fausto
Bertinotti (*) “Praga fu lasciata sola non solo dal Partito Comunista Italiano che
non seppe rompere drasticamente con l’Unione Sovietica, ma anche dai
sessantottini che allora avevano lo sguardo troppo rivolto ad Oriente” (*) e che
“non riconobbero come fratelli nella libertà i giovani di Praga, c’era una vicenda
che parlava del nostro futuro nel cuore dell’Europa e loro non se ne accorsero”.
Ecco, quei giovani europei, quelli che costituirono il movimento studentesco del
’68, e che poi si invaghirono di Mao e della rivoluzione cinese, (*) commisero
insieme ai partiti comunisti d’Europa un errore storico, un errore che il
Manifesto, attorno al quale si era coagulata la dissidenza del Pci, denunciò con
un titolo emblematico e inoppugnabile: (*) “Praga è sola”.
Dubček glissò sulle domande di Zatopek e tornò invece con la memoria agli
anni di quand’egli era ancora segretario, (*) a quando dagli studi televisivi e
direttamente nelle piazze illustrava con passione sicurezza e competenza il
Programma d’azione del Partito Comunista di Cecoslovacchia, (*) e volle
ricordarne i contenuti al suo interlocutore, -solo un breve sunto si capisce- ma
stavolta lo fece con toni lievi sommessi quasi fievoli, come se ricordasse cose di
un trapassato remoto, come può farlo un nonno che racconta al nipote le storie
di cinquant’anni prima… (*) e menzionò i punti salienti di quel programma
fondato su un nuovo modello di democrazia socialista, la necessità di una larga
alleanza di forze progressiste della città e delle campagne, il principio della
responsabilità del governo di fronte all’Assemblea nazionale, (*) e parlò di
gioventù e di spirito imprenditoriale, (*) dello sviluppo della scienza e del tenore
di vita del popolo, di istruzione e di cultura, (*) e poi dell’eguaglianza tra i cechi
e gli slovacchi come condizione essenziale per lo sviluppo della repubblica, e
così via via discorrendo si arrivò a un certo punto al celebre “Manifesto delle
duemila parole”, (*) quel documento preparato dallo scrittore Vakulik, che fu
pubblicato sul Literami Listy con 70 firme di accademici, dirigenti di università,
scrittori e poeti di primo piano, registi e attori di cinema e di teatro, (*)
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olimpionici e campioni dello sport cecoslovacco, tra i quali proprio Zatopek firma
nobile la sua, documento che in pochi giorni ricevette decine di migliaia di
adesioni (*) e che fu determinante nel precipitare della crisi con Mosca, e
Dubček, che quel documento lo ricordava quasi a memoria, ne volle ricordare
alcuni passi:
(*) “Dapprima fu la guerra a minacciare la vita della nostra nazione. (*)
Seguirono poi altri brutti tempi, con avvenimenti che misero in pericolo la sua
salute spirituale e il suo carattere. (*) Speranzosa, la maggioranza della nazione
accettò il programma del socialismo. (*) La sua direzione però capitò nelle mani
degli uomini sbagliati.
(*) Il Partito Comunista, che dopo la guerra riscuoteva una grande fiducia tra la
gente, cambiò gradualmente la stessa con gli uffici, fino ad averli tutti, tanto da
non avere altro che uffici.
(*) La linea sbagliata della direzione ha mutato il partito da partito politico e
comunità unita dalla stessa ideologia in organizzazione di potere che aveva una
grande attrattiva anche per avidi, egoisti, codardi, petulanti e uomini dalla
coscienza sporca il cui ingresso influì sul carattere e sul comportamento del
partito.
(*) La situazione nel partito fu modello e causa di un’uguale situazione nello
Stato. Il legame con lo Stato ha fatto sì che il partito perdesse il vantaggio della
separazione dal potere esecutivo. (*) Non c’era la critica per l’attività dello Stato
e delle organizzazioni economiche. (*) Il parlamento disimparò a dibattere, il
governo a governare e i direttori a dirigere. (*) Le elezioni persero importanza e
le leggi non ebbero più peso. (*) Non si poteva credere ai propri rappresentanti
di qualsiasi comitato, e quando pure se ne fosse potuta avere l’occasione, non
si poteva pretendere nulla, visto che non erano in grado di ottenere alcunchè.
(*) Decaddero l’onore personale e quello collettivo. Con la lealtà non si
otteneva nulla ed è vano parlare di un qualche apprezzamento secondo
capacità. (*) Per questo la maggioranza perse interesse per la cosa pubblica e
si occupò soltanto di sé e del danaro.
(*) Si guastarono i rapporti tra gli uomini, si perdette la gioia del lavoro, in
breve: arrivarono tempi minacciosi per l’integrità spirituale e per il carattere
della nazione”.
Poi Dubček, accortosi che era già trascorsa mezz’ora e non volendo che la
conversazione diventasse un ulteriore suo monologo la interruppe e
rivolgendosi a Zatopek (*) lo invitò “Colonnello mi parli invece un po’ di Lei”…
E Zatopek che non aspettava altro che quell’invito attaccò la sua storia:
“Eravamo in 7 in famiglia oltre papà e mamma (*) e vivevamo a Koprivnice,
famosa per gli stabilimenti di automobili della Tatra, papà lavorava in una
fabbrica come falegname e con i soldi che portava e con quello che si ricavava
dall’orticello di casa bisognava sfamare tutti, quindi non appena fu possibile (*)
andai a lavorare da Bata a Zlin, reparto gomma che tutti cercavano di evitare
perché lì l’aria era irrespirabile, era un reparto che produceva 2.200 paia di
scarpe da tennis al giorno, (*) dovevo rifilare le suole con una ruota dentata ma
i tempi erano stretti e al più piccolo errore scattava la multa, e lì frequentavo
pure da interno la scuola professionale, (*) poi per fortuna mi trasferirono alla
preparazione delle forme, … a differenza dei miei coetanei dello sport non me
ne fregava proprio niente, quasi li disprezzavo i mei fratelli e gli amici che si
divertivano inseguendo un pallone, e ciò anche perché mio padre mi aveva
trasmesso una forma di ripulsione verso l’esercizio fisico “pura perdita di tempo
e di denaro” diceva lui, non parliamo poi della corsa a piedi, che oltre a non
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servire assolutamente a nulla comportava risolature alle scarpe con ulteriore
aggravio per il misero bilancio familiare.
(*) Da Bata tutto sommato non stavo male, ma loro che già esportavano scarpe
in tutto il mondo, volevano aumentare ancora le vendite, (*) e quindi
pensarono di far conoscere meglio il proprio marchio e allora fondarono una
squadra di calcio (*) e inventarono una corsa a piedi, la chiamarono il “Percorso
di Zlin” a cui dovevamo partecipare obbligatoriamente tutti gli studenti della
scuola professionale.
Frattanto, come Lei sa bene, erano arrivati i tedeschi…”
(*) Nel marzo del ’38 dopo aver completato l’annessione dell’Austria i tedeschi
avviarono le operazioni per appropriarsi con le buone o con le cattive dei
territori della Repubblica Cecoslovacca, iniziando la loro penetrazione con la
regione dei Sudeti, (*) addussero a pretesto le privazioni che subivano le
popolazioni di origine tedesca che abitavano quella regione, e grazie alla
condiscendenza di inglesi e francesi (*) e con l’aiuto del Duce che intervenne
sul Fuhrer, il 30 Settembre (*) senza necessità di ricorrere a bombardamenti da
terra e dal cielo si pervenne all’accordo di Monaco che consegnò ufficialmente
(*) quel territorio alla Germania con gravi conseguenze economiche e politiche
per la Cecoslovacchia. (*) Ma quello dei Sudeti fu per i tedeschi solo un
assaggio uno stuzzichino prima dell’operazione successiva ben più appetitosa,
cioè l’invasione della Boemia e della Moravia compiuta nel marzo del ’39 (*)
anche questa senza incontrare resistenze significative e così la Cecoslovacchia,
che i suoi padri fondatori avevano creduto e sperato essere l’unico baluardo
della democrazia accerchiata da regimi autoritari, fu cancellata dalle cartine
politiche dell’atlante.
E pure i tedeschi come Bata si misero a organizzare manifestazioni sportive (*)
e giochi collettivi per i giovani per fare propaganda del nuovo regime, (*) non
c’è da preoccuparsi siamo venuti in pace ed in pace viviamo, una corsa
campestre di nove chilometri a Brno affollata di giovani tedeschi biondi slanciati
e arroganti, il giovane Emil se li mette quasi tutti alle spalle arrivando secondo e
attira le attenzioni di un allenatore locale che lo avvicina (*) dicendogli “corri in
modo molto strano ma non corri male”. Da allora Emil archivia il drastico
giudizio del padre sulla corsa, esercizio inutile e tempo sottratto ad occupazioni
più redditizie, perché quella perdita di tempo comincia pian piano a piacergli. Al
punto che la sera, lontano da occhi indiscreti, corre più veloce che può dalla
fabbrica al bosco, andata e ritorno.
(*) “Poi”, riprese Zatopek, “venne la guerra, bombe sirene urla fucilazioni
deportazioni ma la corsa mi aveva ormai annebbiato la testa, ed allora qualsiasi
posto qualsiasi orario qualsiasi stagione per me andava bene, (*) correvo per i
campi, correvo nei boschi, correvo sulla prima pista che trovavo, chilometri e
chilometri e chilometri ancora, ritmo sostenuto, rapido, sempre più rapido, gli
altri si scandalizzavano mi consigliavano di correre meno e applicarmi sulla
tecnica, (*) “aggiusta la posizione delle spalle e della testa e vedi di eliminare
quelle continue torsioni che fai con il busto”…ma io ero sordo a quelle
raccomandazioni… “
Passano gli anni ma non passa la guerra, e mentre Zatopek in fabbrica ha fatto
carriera, lo hanno assegnato al Centro di ricerca chimica, anche se non ricerca
nulla ma ha il solo compito di preparare la cellulosa in un capannone invaso di
bombole di acido, (*) un altro la sua carriera la fa grazie alla legge del terrore,
condita da deportazioni massacri e devastazioni, è Reinhard Heydrich il delfino
di Himmler ma la resistenza ceca pilotata da Edvard Benes il leader del governo
cecoslovacco in esilio (*) mette a segno il suo colpo più importante e plateale, e
lo elimina dalla Cecoslovacchia e dalla faccia della terra. La rappresaglia di
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Hitler però è puntuale e se ancora qualcuno in Europa non ne è al corrente
funziona così: (*) 1.300 cecoslovacchi vengono giustiziati e il villaggio di Lidice
viene raso al suolo, abitanti compresi.
“Poi la guerra finì ed io lasciai Bata (*) ed entrai nell’esercito, e la vita militare
mi piacque subito, faceva per me, le manovre nella campagna morava, le
marce con il reggimento in mezzo alla natura, l’aria pura, entrai in Accademia
per diventare un giorno un ufficiale. (*) C’era pure la pista di atletica in
caserma, studiavo mi allenavo gareggiavo ma il mio stile non lo abbandonavo
mai, testa incassata nelle spalle ed espressione sofferente e sbuffante …”
(*) Se i tedeschi invasori erano ora spariti dalla Cecoslovacchia, per quelli che
ancora vi dimoravano si aprì il sipario della crudeltà umana, che non fece
differenza alcuna tra nazisti e membri della polizia dei Sudeti da una parte e i
cittadini comuni dall’altra. (*) Questi ultimi, comprese le donne e i bambini,
furono impacchettati alla meglio e sbattuti fuori dai nuovi confini, altri furono
destinati a lavori forzati e in alcune aree furono obbligati ad apporre una N
bianca sui vestiti (che stava per Nemec cioè tedesco). (*) Dal Maggio del ’45
alla fine del ’46 un milione e settecentomila tedeschi furono deportati verso la
zona americana e settecentomila verso quella sovietica, e molti di essi subirono
brutalità e torture. (*) Molti altri furono giustiziati nei massacri di Postelberg e
di Aussig e nella marcia della morte di Brno. Furono stimati in 300.000 i civili
tedeschi uccisi dai partigiani cechi e dall’Armata Rossa, e molti di questi crimini
furono azioni pianificate (*) dal governo di Edvard Benes.
Frattanto per Zatopek è giunto il momento di presentarsi al mondo…
(*) Ai Campionati Europei di Oslo nel ’46 assaggia l’agone internazionale e si
colloca al quinto posto nei 5.000 metri vinti dal britannico Wooderson, ma due
anni dopo alle Olimpiadi di Londra è tra i candidati per la medaglia d’oro (*)
insieme al finlandese Viljo Heino primatista mondiale dei 10.000. A Londra fa
caldo e il tasso di umidità è molto alto, il finnico ne risente e le sue aspirazioni
si dissolvono presto mentre Zatopek, (*) tra sbuffi e stantuffi che serviranno ad
attribuirgli l’appellativo di “locomotiva umana”, completa la sua prima cavalcata
trionfale precedendo il franco-algerino Mimoun di quasi un giro. Anziché
stramazzare al suolo per la fatica, sgambetta sul prato, beve un sorso d’acqua,
dà un’amichevole pacca sulle spalle al finnico sconfitto e si prepara per le
batterie dei 5.000 metri del giorno dopo. (*) Che supera facilmente, e dopo altri
due giorni torna in pista per la finale dove la concorrenza è ancora più
agguerrita dei 10.000, (*) soprattutto c’è Gaston Reiff un fondista belga dalla
corsa elegantissima, e sotto la pioggia battente il duello tra i due assume toni
epici, con il belga che a due terzi di gara porta un attacco frontale dal quale
Zatopek non sembra potersi più difendere, (*) ma il suono della campana è
come il fischio del capostazione, e la locomotiva cecoslovacca che aveva
quaranta metri di ritardo ne recupera trentanove, medaglia d’argento. Lo fanno
capitano, (*) e poi sposa Dana Ingrova che è nata lo stesso giorno di Emil, che
pratica l’atletica come Emil, che vincerà la medaglia d’oro alle Olimpiadi di
Helsinki come Emil, e che dall’atto del matrimonio si chiamerà più o meno come
Emil, Zatopkova.
(*) Tornati a Praga i coniugi ritastano con mano la differenza profonda tra la
vita di Londra e quella nel loro paese, le due diverse atmosfere, (*) lì un senso
assoluto di libertà e di allegria sia pure nelle ristrettezze economiche di quegli
anni, a Praga invece tutti hanno paura di tutti e di tutto, in ogni momento della
giornata e in ogni contesto. Nell’interesse supremo del Partito (*) la parola
d’ordine è processare epurare liquidare, col tuo vicino di casa un tempo parlavi
amabilmente e senza remore, oggi devi soppesare parole e pure pensieri
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perché ti può credere una spia un cospiratore un sabotatore del regime e
spedire alla polizia segreta una di quelle lettere che dicono -compagno
commissario ti segnalo il signor Tizio così e cosà- e si sa quelle lettere che esito
hanno.
E pure di Zatopek sospettano, anche se lui è iscritto al Partito e crede
profondamente alla via socialista, (*) perché questa sua messe di vittorie e di
record hanno creato una figura di grande sportivo popolare, un idolo per la
gente, qualcosa che può sfociare in una forma di individualismo borghese, e
allora è meglio che si controlli il tutto, gare all’estero cioè nei paesi occidentali
neanche a parlarne, (*) che gli venisse il ghiribizzo di chiedere asilo politico
come ha fatto il giovane Bacigal, neppure a Parigi per il celebre cross
dell’Humanité dove invitano i migliori atleti del mondo socialista lo fanno
andare, di gare certo continua a farne, (*) anche gare importanti a Berlino Est
a Budapest a Varsavia, imperturbabile a tutto lui aumenta ancora la quantità
degli allenamenti, i chilometri e la fatica, trova sempre nuove riserve di energia
(*) e nel ’49 toglie ad Heino il record dei 10.000, il finlandese offeso se lo
riprende, il ceco sbuffante glielo sottrae di nuovo, e nel ’50 centra la doppietta
agli Europei di Bruxelles, assoluto dominatore di 5 e 10.000 metri. (*) In patria
è presentato come il frutto più gustoso del Partito, da assaporare però solo
quando e dove ve lo diciamo noi, (*) organizzano per lui esibizioni quasi senza
avversari, alla Giornata delle forze armate lo fanno correre da solo davanti a
50.000 spettatori nello stadio militare di Strakov nell’intervallo della finale del
torneo di calcio. Per potergli fare un’intervista devi superare tre gradi di
autorizzazioni, prima quella del suo comandante, poi quella del sindacato dei
giornalisti e per ultimo quella del Ministero dell’Informazione. Un giornalista
straniero, cocciuto, ci riesce e va a trovarlo a casa, al n.8 di Via Pujcovny, ha
preso appuntamento (*) e viene accolto con grande cortesia dalla moglie che è
in compagnia di un’amica insegnante, -Emil non c’è perché è fuori ad allenarsi
come al solito, ma non si preoccupi lo troverà stasera-, prendono il tè, parlano
di tutto della loro giornata, degli allenamenti di entrambi, delle letture, degli
altri passatempi, -a Emil piace cantare le vecchie arie del folklore nazionale ed
io lo accompagno con la chitarra-, (*) la sera quando il giornalista ritorna purtroppo Emil è già a letto è molto stanco in questi giorni si allena tanto come
le ho detto vorrebbe arrivare ad Helsinki in perfetta efficienza-, e quando il
giornalista va via il teatrino ha termine, il sipario si chiude, dopo qualche
secondo si riapre ed appare l’amica insegnante che apre un armadio spegne un
registratore ne preleva il nastro magnetico lo infila nella tasca del cappotto,
strizza l’occhio alla compagna Dana, sale su una berlina Tatraplan T600 e si
dirige alla sede della polizia segreta per fare rapporto.
Dubčcek ascoltava con vero interesse il racconto di Zatopek, com’era diversa
quella vita dalla sua, tutta dedicata alla società e alla politica, movimenti
clandestini assemblee dei lavoratori conferenze dibattiti riunioni di partito, mai
una corsa per i boschi o una gara sportiva con stretta di mano finale e fiori per i
vincitori , (*) di strette di mano e di fiori ne ricordava altre meno piacevoli
condite talvolta anche con il bacio alla russa…
La camminata per i giardini di Praga proseguiva serena, (*) e ad infondere
quella serenità ci pensavano pure i colori dei giardini di Praga che nessun
regime nazista o comunista avrebbe potuto convertire, alla conversazione i due
alternavano brevi pause di silenzio, che erano momenti di riflessione e di
confessione (*) il silenzio era totale solo il lamento delle foglie calpestate dalle
scarpe dei due camminatori, poi Zatopek riprese:
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“Ad Helsinki nel ’52 avevo quasi trent’anni e ci tenevo a ben figurare (*) anche
perché la Finlandia è stata la patria dei migliori specialisti del mondo già a
partire dagli anni ’20, e i finnici in tribuna hanno avuto sempre il palato fino per
l’atletica, (*) mezzofondo e giavellotto soprattutto. L’anno non era cominciato
molto bene perché a Kiev due russi avevano interrotto la mia serie di 49 vittorie
consecutive, poi tutti quei chilometri fatti in preparazione pure alla maratona mi
avevano un po’ appesantito e in qualche modo reso più vulnerabile nei finali di
gara.
Come da tradizione si cominciò dai 10.000, e lì tutto andò liscio come l’olio, (*)
al 3° chilometro passai in testa e con una serie di brevi ma ripetuti scatti riuscii
a piegare la resistenza di Gordon Pirie, il britannico che era tra i favoriti, (*)
mentre per staccare il francese Mimoun dovetti attendere gli ultimi giri. Il
pubblico era già in estasi, io stavo davvero bene, si figuri che due giorni dopo
durante la batteria dei 5.000 ero talmente sicuro di me stesso che mi misi a
scambiare quattro chiacchiere con l’americano Stone e con il russo Anufriyev, la
finale fu una cosa da non credere, (*) c’erano tutti i migliori specialisti del
mondo, c’era Gaston Reiff il belga che a Londra mi impedì di fare doppietta,
c’era il tedesco Schade, c’erano gli inglesi Pirie e Chataway e l’immancabile
Mimoun (*) ed io che ero quarto a duecento metri dal traguardo non so ancora
dove riuscii a trovare la forza per fare il cambio di passo decisivo, (*) che fu un
cambio di passo che nessuno se lo aspettava, né Mimoun né Schade né
Chataway che per la sorpresa o la stanchezza cadde sulla pista, (*) così come
quasi nessuno si aspettava che mia moglie Dana vincesse proprio in quei
momenti la gara del giavellotto, (*) fu una vittoria di famiglia quel pomeriggio,
non so se nella storia delle Olimpiadi (*) sia successo già un’altra volta, stessa
medaglia, d’oro, stesso giorno…
e tre giorni dopo ci fu la maratona, (*) che come gara correvo per la prima
volta ma come chilometri in allenamento la conoscevo anche troppo bene, (*)
uno dei favoriti era l’inglese Jim Peters e con lui corsi per diversi chilometri poi
lui ebbe un crollo ed io proseguii da solo, (*) e quando entrai nello stadio il
pubblico che fremeva già da un po’ si alzò tutto in piedi, e cominciò a ritmare Za-to-pek-Za-to-pek- come fossi uno dei loro, strani questi finlandesi
sembravano davvero felici appagati per quanto avevano visto, (*) non era poi
così importante che io non fossi nato e vissuto in mezzo ai laghi della loro terra
…”.
Ad Helsinki tra i giornalisti italiani presenti c’era pure Gianni Brera che aveva
solo un paio d’anni più di Zatopek e che già condirigeva la Gazzetta. (*) Il
primo Brera era innamorato dell’atletica, e descrisse le imprese del campione
ceco con la prosa che lo avrebbe contraddistinto e identificato negli anni
successivi soprattutto nel calcio. A Zatopek il sommo riservò una buona parte
della prima pagina del giornale, e l’articolo di fondo faceva così:
(*) “Lascerò scritto ai nipoti di non rischiare mai, quale che sia l’apparenza, un
pronostico purchessia sul mio amico Emilio Zatopek, essendo egli fuori di ogni
dubbio immortale. (*) “Figlio di Mercurio divino” lo chiamerebbe Pindaro se
ancora tornasse a cantare…Vecchio imbroglione di un Emil che ha nascosto
sotto il suo candore di sempre le tremende velleità dell’invincibile: a Kapila
sgambava malandato come dovesse tirare le cuoia da un istante all’altro… (*)
Così stroncò tutti nei diecimila facendo il treno, secondo la sua natura di
posseduto. E nei 5000 nemmeno cercò di spremere gli altri sull’andatura. (*)
Partì ultimo, stette penultimo per due giri. Quando si accorse che il sesto della
fila perdeva la ruota, (*) saltò fuori sgomitando come un ossesso e con smorfie
da epilettico negro in fantasia, arrivò a tallonare Schade che ancora non
conosceva. Schade, il grande deutch, credette troppo a se stesso e rimase sotto
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i suoi stessi passaggi di batteria. Intanto Zatopek aizzava i più forti: l’inglese
Chataway, il belga Reiff, bellissimo nella sua distesa falcata, (*) il tracagnotto
arabo Mimoun. Ma Reiff, come svuotato di dentro dopo tanto spremersi sulle
piste di tutta Europa, Reiff il campione olimpico di Londra, morì per non poter
ormai più frenare il treno; (*) Chataway lottò a morte con Schade sull’opposto
rettilineo, poi sfinito mise in fallo il piede sinistro sulla corda, e come cercò di
allargare Mimoun per il serrate, (*) lui Emil, il diabolico, l’immortale, il divino
figlio di Mercurio, brutto quanto il dio che soprattutto pratico era e non esteta,
(*) Emil, il più grande fondista di tutti i tempi, guizzò davanti all’arabo
scatenato e l’umiliò con tale una beffarda sgambata da far alzare attoniti i
finlandesi”…
(*) Il ritorno a Praga è trionfale, parata in auto in mezzo a una folla immensa,
promozione al grado di maggiore, e poi nei mesi seguenti viene presentato di
fabbrica in fabbrica affinchè tutti possano vedere e toccare il miglior prodotto
sportivo del comunismo cecoslovacco.
(*) Nel paese intanto, passato a miglior vita Klement Gottwald il presidente
fedelissimo del Cremlino, l’aria comincia ad essere relativamente più
respirabile…...
Zatopek riprende il racconto, ma accorgendosi che il tempo è passato veloce
come le sue volate, e ricordando che entrambi, lui e Dubček, devono prendere
il treno per raggiungere le proprie destinazioni, riassume allora in pochi minuti
la parte finale della sua carriera:
“Dopo Helsinki capii che la parabola della mia vita sportiva era entrata, come si
dice, nella sua fase discendente, ma nonostante ne fossi consapevole (*)
continuai a correre e a massacrarmi di allenamenti, mi invitarono diverse volte
all’estero e questa volta il governo mi autorizzò, volai fino in Brasile per la
tradizionale Corrida di San Silvestro che si corre di notte a cavallo dell’anno
vecchio e di quello nuovo, che vinsi alla mia maniera attaccando di continuo e
districandomi nella marea di partecipanti e nella baraonda di fuochi d’artificio
clacson di auto razzi petardi e orchestre che salutavano il passaggio dei
corridori, feci altri record sulle lunghe distanze 25 e 30 chilometri a Starà
Boleslav, (*) ai Campionati Europei di Berna nel ’54 vinsi ancora i 10.000, e nel
’55 andai a Parigi l’avevo promesso ai parigini un giorno o l’altro correrò da voi,
(*) e ci andai per il Cross organizzato dall’Humanité, l’organo ufficiale del
Partico Comunista Francese, e vinsi contro il pronostico che dava favorito l’astro
nascente del fondo sovietico, il biondo Vladimir Kuts, detto il marinaio del
Baltico…
E nel ’56 andai a Melbourne per le Olimpiadi, avrei voluto correre anche i
10.000 ma mi iscrissero soltanto alla maratona, (*) fu una gara molto difficile e
faticosa quella su una strada di periferia arida e polverosa e un caldo
opprimente, e arrivai soltanto sesto, ma fui comunque felice perché quella volta
vinse il mio amico Alain Mimoun, (*) che non aspettava altro che una mia
débacle o il mio ritiro dalle competizioni per scrollarsi di dosso il soprannome
“dell’eterno secondo”…mentre il marinaio del Baltico fece lui la doppietta questa
volta su 5 e 10.000 metri. Al ritorno da Melbourne fui promosso colonnello, non
avevo vinto nulla ma forse fu un premio alla carriera…
(*) Poi, qualche anno dopo a Praga fummo testimoni io e Dana al matrimonio
di Connolly con la nostra Olga Fikotova, che si erano conosciuti proprio a
Melbourne e si era pazzamente innamorati uno dell’altro.
(*) “Con Chris Chataway quello che inciampò nel finale concitato dei 5.000 di
Helsinki mi rividi nel ’67 quando lui mi invitò a Londra per un ricevimento con
ex campioni del mezzofondo, (*) Chataway era un esponente di spicco nel
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partito conservatore, combattivo in politica come lo fu sulla pista, e fu lui che
tirò gran parte della gara del miglio a Bannister nel ’54 quando questi fece il
record del mondo, e fu lui che si battè affinchè la squadra britannica di cricket
non andasse in tourneé in Sudafrica e fu lui ad affrontare seriamente in
parlamento il grave problema dei profughi, soprattutto negli stati africani.
E poi venne il ’68 ed io comunque riuscii a seguire la squadra alle Olimpiadi di
Città del Messico, (*) felice di assistere ai successi della nostra cara ginnasta
Vera Caslavska, quattro medaglie d’oro e due d’argento e firma sul “Manifesto
delle duemila parole” che valeva più di qualsiasi medaglia, e al mio ritorno (*)
fui intervistato da un giornalista spagnolo al quale dissi tutto quello che mi
sentivo di dire…(*) del resto non erano trascorsi neppure due mesi da quando
erano entrati a Praga, (*) carri armati da tutte le parti, Lei si ricorderà bene…i
soldati che non sapevano bene che cosa erano venuti a fare, (*) i giovani che
sfidavano la prepotenza e gli anziani che tremavano con i bimbi al braccio, (*)
casalinghe e studenti che mostravano chiaramente i loro desideri, Dubček e
Svoboda, (*) e la disperazione per la libertà perduta che ti fa dire “spara pure
tutti i colpi che vuoi su questo petto libero…Lei si ricorderà meglio di me tutte
queste cose, o forse era già sotto la loro protezione come dissero i parà quando
entrarono con i kalashnikov spianati…
Dubček guardò l’orologio e fece capire a Zatopek che dovevano avviarsi,
parlottarono ancora per un po’ con fare cospiratorio, si volsero indietro un paio
di volte, così, tanto per vedere se ancora infondevano quel pizzico di
preoccupazione tale da dover predisporre un loro pedinamento, e non invece
essere assolutamente inoffensivi come anzi entrambi sapevano perfettamente
di esserlo, (*) attraversarono il lunghissimo e storico ponte Carlo costruito al
tempo di Carlo IV re di Boemia e imperatore del Sacro Romano Impero, sotto
cui scorreva la Moldàva che pareva portarsi via con l’acqua le memorie appena
appena ricordate, poi entrarono alla stazione, si salutarono con molto calore
reciprocamente augurandosi “di rivedersi presto”, infine si avviarono verso i
binari dove c’erano i treni già in attesa che li avrebbero riportati a casa, uno in
Slovacchia e l’altro a Jachimov.
(*) Vent’anni dopo un pezzo di mondo, quello dell’Europa orientale cambiò in
un attimo, prima Solidarnosc, poi la perestrojka, quindi la caduta del muro, quel
grande castello politico all’apparenza incrollabile si sbriciolò e i suoi pezzi
caddero uno sopra l’altro come le pedine del domino, e non ci fu verso di
poterle fermare.
(*) Dubček fu riabilitato e fu eletto Presidente del parlamento federale
cecoslovacco, ed insieme a Vaclav Havel, (*) lo scrittore e drammaturgo nuovo
presidente ceco che condusse la cosiddetta rivoluzione di velluto, si battè con
accanimento contro la divisione della Cecoslovacchia, e con grande senso della
misura politica si rifiutò di firmare la cosiddetta “legge di lustrazione”, che
voleva l’epurazione di tutte le persone in qualsiasi modo compromesse con il
precedente regime.
(*) Pure Zatopek fu completamente e ufficialmente riabilitato, non correva più
oramai da diversi anni ma indossava ancora la tuta, e continuò a fare le cose di
sempre, (*) come quella di farsi coccolare a casa dalla moglie Dana e da Pedro,
il fox terrier che i baschi gli avevano regalato a San Sebastiàn, al termine della
sua ultima vittoria.
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