© Paul Macleod
Paulo Coelho è nato a Rio de Janeiro nel
1947. È considerato uno degli autori più
importanti della letteratura mondiale. Le sue
opere, pubblicate in più di centosettanta
paesi, sono tradotte in ottanta lingue. Tra i
premi più recenti ricevuti dall’autore, il
“Crystal Award 1999”, conferitogli dal World
Economic Forum, il prestigioso titolo di
Chevalier de l’Ordre National de la Légion
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d’Honneur,
attribuitogli
dal
governo
francese, e la Medalla de Oro de Galicia.
Dall’ottobre del 2002 è membro della Academia Brasileira de Letras.
Dal settembre 2007 è stato nominato Messaggero di Pace delle Nazioni Unite.
http://paulocoelhoblog.com/
Altri libri di Paulo Coelho
Il Cammino di Santiago
L'Alchimista
Brida
Il dono supremo
Le Valchirie
Sulla sponda del fiume Piedra mi sono
seduta e ho pianto
Monte Cinque
Manuale del guerriero della luce
Lettere d'amore del Profeta
Veronika decide di morire
Il Diavolo e la Signorina Prym
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Undici minuti
Lo Zahir
Sono come il fiume che scorre
La strega di Portobello
Il vincitore è solo
Aleph
Il manoscritto ritrovato ad Accra
Il cammino dell'arco
PAULO COELHO
ADULTERIO
Traduzione di Rita Desti
Coelho, Paulo, Adultério
Copyright © 2014 by Paulo Coelho
http://paulocoelhoblog.com/
Published by Sant Jordi Asociados, Agencia Literaria,
S.L.U.
08019 Barcelona, España.
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All rights reserved.
ISBN 978-84-616-9338-2
Diritti riservati per l’edizione stampata:
© 2014 Bompiani/RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli 8
20132 Milano, Italia
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non
autorizzata.
“Vai dove le acque sono più profonde.”
Luca, 5, 4
Oh, Maria, concepita senza peccato, pregate
per noi che ricorriamo a Voi.
Amen.
Ogni mattina, quando apro gli occhi su
quello che chiamano un “nuovo giorno”, ho
voglia di richiuderli e di non alzarmi dal
letto. Eppure devo farlo.
Ho un marito meraviglioso, perdutamente
innamorato di me, titolare di un ragguardevole fondo di investimenti; ogni anno – seppure non lo desideri – il suo nome compare
nell’elenco delle trecento persone più ricche
della Svizzera, stilato dalla rivista “Bilan”.
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Sono madre di due figli che, come dicono
le mie amiche, rappresentano la mia
“ragione di vita”. La mattina presto, devo
preparare la colazione e accompagnarli a
scuola, a cinque minuti di strada a piedi da
casa. Frequentano a tempo pieno, e ciò mi
consente di lavorare e di disporre del mio
tempo. Dopo le lezioni, una tata filippina si
occupa di loro fino a quando mio marito e io
non rincasiamo.
Il mio lavoro mi piace. Sono una
giornalista piuttosto nota di una testata
importante che si può trovare ovunque a
Ginevra, la città in cui abitiamo.
Una volta all’anno, vado in vacanza con la
famiglia, perlopiù in località da sogno con
spiagge meravigliose e in città “esotiche”, la
cui popolazione povera ci fa sentire ancora
più ricchi, privilegiati e grati per le benedizioni che la vita ci ha concesso.
Non mi sono ancora presentata. Molto
piacere: il mio nome è Linda. Ho trentun
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anni, sono alta un metro e settantacinque e
peso sessantotto chili; ogni giorno, mi vesto
con gli abiti più belli e raffinati che il denaro
possa comprare – grazie alla generosità di
mio marito. Gli uomini mi desiderano, le
donne mi invidiano.
Eppure, ogni mattina, quando apro gli
occhi su questo mondo ideale che tutti
sognano e pochi riescono a conquistare, so
che la giornata sarà disastrosa. Fino all’inizio
di quest’anno, non mettevo in discussione
niente: mi limitavo a condurre la mia vita,
sebbene di tanto in tanto mi sentissi in colpa
per il fatto di avere più di quanto meritassi.
Poi, un giorno, mentre preparavo la colazione per la mia famiglia felice – ricordo
che era appena iniziata la primavera e nel
nostro giardino cominciavano a sbocciare i
fiori –, mi sono chiesta: ‘Allora, è così?’
Una domanda che non avrei dovuto farmi.
In qualche modo, scaturiva dall’affermazione
di uno scrittore che avevo intervistato il
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giorno precedente, il quale, a un certo punto,
mi aveva confidato:
“Non mi interessa essere felice. Preferisco
vivere nell’innamoramento, anche se sono
consapevole di quanto possa essere pericoloso, poiché si ignora sempre ciò a cui si va
incontro.”
Subito ho pensato: ‘Pover’uomo. È perennemente insoddisfatto. Morirà triste e
amareggiato.’
L’indomani mi sono resa conto che io non
correvo nessun rischio, poiché sapevo
sempre a cosa andavo incontro: ogni nuovo
giorno era perfettamente uguale al precedente. Ero innamorata? Be’, sì. Io amo mio
marito: e questo mi garantisce che non cadrò
in depressione per il fatto di essere costretta
a vivere con lui soltanto per motivi economici, per amore dei miei figli o per preservare
le apparenze.
Abito nel paese più sicuro del mondo, e
nella mia vita l’ordine regna sovrano: sono
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una buona madre e una moglie comprensiva.
Ho ricevuto un’educazione protestante molto
rigida, che intendo trasmettere ai miei figli.
Presto una grande attenzione a non
compiere passi falsi, poiché sono consapevole che potrei rovinare tutto. Mi impegno
con solerzia in ogni mia attività, cercando di
evitare coinvolgimenti personali. Da ragazza,
ho sofferto per amori non corrisposti, com’è
accaduto a qualsiasi altra persona di questo
mondo.
Poi, da quando mi sono sposata, il mio
tempo personale e intimo si è fermato.
Fino al giorno in cui mi sono imbattuta in
quel maledetto scrittore e nella sua risposta.
Ma… che cosa c’è di sbagliato nella routine
della quotidianità?
A essere sincera, proprio niente. Solo…
… Solo il terrore segreto che tutto cambi
all’improvviso, cogliendomi alla sprovvista.
Dal mattino in cui questo pensiero nefasto
si è formato nella mia mente, ho cominciato
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ad aver paura. Sarei stata in grado di
affrontare il mondo da sola, se mio marito
fosse morto? ‘Sì,’ mi sono detta, ‘perché la
sua eredità sarebbe sufficiente a mantenere
generazioni di discendenti.’ E se fossi morta
io, invece, chi si sarebbe occupato dei miei
figli? Il mio adorato marito. Alla fine,
comunque, lui si sarebbe risposato, perché è
un uomo ricco, affascinante e molto intelligente. Ma i nostri figli avrebbero trovato
serenità e fiducia nella nuova famiglia?
Il mio primo passo è stato il tentativo di
rispondere a tutti questi dubbi. E, quante più
risposte trovavo, tante più domande mi si
presentavano. Mio marito si cercherà
un’amante, quando sarò vecchia? O forse c’è
già un’altra donna nella sua vita, visto che
non facciamo più l’amore come un tempo?
Oppure può darsi che lui pensi che io abbia
un altro uomo, dato che da qualche anno non
dimostro più un grande interesse nei suoi
confronti.
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Non abbiamo mai litigato per gelosia, ed è
qualcosa che ho sempre reputato davvero
importante: ma, da quel mattino di
primavera, ho cominciato a sospettare che
ciò fosse dovuto a una totale mancanza di
amore da entrambe le parti.
Mi sono sforzata di non pensarci.
Quella settimana, appena uscivo dal
lavoro, andavo a far compere in Rue du
Rhône. Non acquistavo nulla che mi
interessasse in modo particolare, tuttavia
avevo l’impressione di impegnarmi per un
cambiamento. E ciò avveniva poiché avvertivo il bisogno di un oggetto che prima non
consideravo utile, oppure poiché scoprivo un
elettrodomestico di cui non conoscevo
l’esistenza – anche se è davvero improbabile
che compaia sul mercato un’assoluta novità
tra i robot per cucina o le lavatrici. Evitavo di
varcare la soglia dei negozi di articoli per
bambini: non intendevo viziare i miei figli
con regali quotidiani. E non entravo neppure
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nelle boutique di prodotti maschili, affinché
mio marito non cominciasse a sospettare
della mia eccessiva generosità.
Quando ritornavo a casa, nel regno
incantato del mio mondo famigliare, tutto
appariva meraviglioso per tre o quattro ore,
finché non arrivava il momento di andare a
letto. Era lì che, a poco a poco, l’incubo ha
cominciato a materializzarsi.
Credo che il trasporto e la passione appartengano ai giovani e che, alla mia età, la loro
assenza possa venir considerata una condizione normale – e quindi non debba
spaventare.
Oggi, alcuni mesi dopo, sono una donna
divisa tra la paura che tutto cambi e il terrore
che ogni cosa rimanga immutata sino alla
fine dei miei giorni. Alcuni dicono che, con
l’avvicinarsi dell’estate, la nostra mente
inizia a partorire idee piuttosto bizzarre: ci si
sente più piccoli, più “bambini”, perché si
passa più tempo all’aria aperta, e questo ci
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consente di comprendere la dimensione del
mondo. L’orizzonte si allontana, al di là delle
nuvole e dei muri della casa in cui viviamo.
È possibile. Ma io non riesco più a dormire
bene, e non è per via dei primi caldi. Quando
scende la sera e mi accade di restare sola,
tutto mi terrorizza: la vita e la morte, l’amore
e la sua assenza, il fatto che ogni cosa nuova
si muti presto in un’abitudine, la sensazione
di sprecare gli anni migliori in una routine
che si protrarrà sino al mio ultimo respiro, la
paura di affrontare l’ignoto, per quanto eccitante e avventuroso sia.
Naturalmente, il pensiero della sofferenza
altrui mi offre una sorta di consolazione.
Accendo la TV, guardo un telegiornale.
Ascolto sequele di notizie su incidenti, persone sfollate a causa di disastri naturali, profughi… Quanti sono i malati sul pianeta, in
questo momento? Quante persone subiscono
in silenzio – o anche protestando – ingiustizie e vessazioni? Quanti poveri, disoccupati
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e carcerati calpestano il suolo dei cinque
continenti?
Cambio canale. Guardo una telenovela, poi
un film, e mi distraggo per qualche minuto o
qualche ora. Ho una paura tremenda che mio
marito si svegli e mi domandi: “Che sta succedendo, amore mio?” So che dovrei rispondergli che va tutto bene. Ma sarebbe assai
peggio – com’è già accaduto due o tre volte,
il mese scorso – se, a letto, lui mi posasse
una mano sulla coscia, la facesse scivolare
lentamente verso l’alto e cominciasse a toccarmi. Sono in grado di fingere un orgasmo
– l’ho già fatto in passato –, ma non posso
impormi di eccitarmi.
Dovrei dirgli che mi sento stanchissima e
lui, senza lasciar trasparire la sua irritazione
e il suo fastidio, mi darebbe un bacio; quindi
si volterebbe dall’altra parte, scorrerebbe le
ultime notizie sul tablet e rinvierebbe gli
approcci al giorno dopo. E, a quel punto,
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sarei io a dover sperare che fosse stanco,
troppo stanco.
Ma non può essere sempre così. Di tanto
in tanto, bisogna che sia io a prendere l’iniziativa. Non posso respingerlo per due sere di
seguito, altrimenti finirà per cercarsi
un’amante, e io non voglio che ciò accada:
non voglio assolutamente perderlo. Masturbandomi qualche momento prima del suo
arrivo, riesco a eccitarmi – e questo mi permette di cedere alle sue avances senza dover
fingere. Tutto torna alla normalità.
“Tutto torna alla normalità” significa che
niente sarà più come prima, come all’epoca
in cui rappresentavamo ancora un mistero
l’uno per l’altra.
Penso che mostrare il medesimo ardore
degli inizi dopo dieci anni di matrimonio sia
un’aberrazione. E ogni volta che fingo un
orgasmo, nel mio intimo mi sento un po’
morire. Un po’? Credo che mi stia svuotando
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più rapidamente di quanto reputassi
possibile.
Le mie amiche dicono che sono una donna
fortunata quando racconto loro, mentendo,
che mio marito e io facciamo l’amore piuttosto spesso: d’altronde, anch’esse non sono
sincere quando affermano di non sapere
come i loro compagni riescano a conservare
un grande interesse per i rapporti intimi.
Sostengono che, nel matrimonio, il sesso è
interessante solo nei primi cinque anni e che,
dopo, ci vuole un po’ di “fantasia”. Chiudere
gli occhi e immaginare che sia il tuo vicino a
cavalcarti, facendo cose che tuo marito non
oserebbe neppure pensare. Oppure sognare
di essere posseduta contemporaneamente da
entrambi, oggetto di ogni perversione possibile e di mille giochi proibiti.
***
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Oggi, quando sono uscita per accompagnare i bambini a scuola, mi sono fermata a
guardare il vicino. Non ho mai immaginato
di fare l’amore con lui – preferisco fantasticare su un giovane cronista che lavora nella
mia redazione e ha l’aria di vivere in uno
stato di perenne sofferenza e solitudine. Non
l’ho mai visto corteggiare una ragazza: forse
il suo fascino risiede proprio in questo. Tutte
le mie colleghe hanno affermato che gli
piacerebbe “occuparsi di quel povero
ragazzo”. Io credo che lui ne sia perfettamente consapevole, ma si accontenti di
essere soltanto un oggetto del desiderio,
niente di più. Forse prova il mio stesso
timore: la paura terribile di fare un passo in
avanti e rovinare tutto – il suo lavoro, la sua
famiglia, la sua vita passata e quella futura.
Ma, insomma… Stamattina, guardando il
mio vicino, ho avvertito una tremenda voglia
di piangere. Stava lavando la macchina e io
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ho pensato: ‘Ecco un’altra persona simile a
mio marito e a me. Un giorno, ci ritroveremo
a fare questo genere di cose. I figli saranno
cresciuti e avranno deciso di trasferirsi in
un’altra città o, magari, in un altro paese; noi
saremo in pensione e ci occuperemo del
lavaggio dell’automobile, pur potendo pagare
qualcuno per farlo al posto nostro. Eppure,
dopo una certa età, è importante passare il
tempo impegnandosi in attività semplici, per
dimostrare al prossimo l’ottimo funzionamento del proprio corpo, la lucidità riguardo
alla nozione del denaro e l’umiltà indispensabile per svolgere determinati lavori.’
Non penso che una macchina pulita possa
cambiare la visione del mondo, eppure…
Eppure stamane sembrava che quell’attività
fosse l’unica cosa importante per il mio
vicino. Il quale mi ha rivolto un caloroso
“Buongiorno”, ha sorriso e si è rituffato nel
lavoro, come se si stesse occupando di una
scultura di Rodin.
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***
Lascio l’auto in un parcheggio – “Usate i
mezzi pubblici per andare in centro! Non
inquinate l’ambiente!” –, prendo il solito
autobus e, lungo il percorso fino al lavoro, mi
ritrovo a osservare cose che ho già visto
migliaia di volte. Ginevra non sembra affatto
cambiata da quando ero una bambina: le
vecchie case padronali resistono a stento,
soffocate dai palazzi costruiti con l’autorizzazione di qualche sindaco folle che aveva
scoperto la “nuova architettura” negli anni
cinquanta.
Ogni volta che mi trovo all’estero, avverto
la mancanza di tutto ciò. Di questo scenario
privo di alte torri di vetro e acciaio e di
superstrade, ma segnato dalle radici degli
alberi che crepano il cemento dei marciapiedi e fanno inciampare i passanti; dai
giardini pubblici con misteriose aiuole
delimitate da assi di legno nelle quali
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germogliano mille varietà di erbe spontanee,
perché “la natura è così”… Insomma,
Ginevra è una città molto diversa da tutte le
altre che si sono modernizzate e hanno perduto il loro fascino.
Qui si dice ancora “Buongiorno” quando si
incrocia uno sconosciuto lungo la strada, e
“Arrivederci” quando si esce da un negozio
dopo aver acquistato una bottiglia di acqua
minerale, pur non avendo la minima intenzione di tornarci. Sull’autobus si chiacchiera
amichevolmente con gli altri viaggiatori,
anche se il resto del mondo immagina che gli
svizzeri siano un popolo taciturno e
riservato.
Che grande equivoco! Ma, in fondo, è un
fatto positivo che il mondo ci veda così, perché in tal modo riusciremo a preservare il
nostro stile di vita almeno per altri cinque o
sei secoli, prima che i nuovi barbari valichino
ancora le Alpi con i loro meravigliosi
equipaggiamenti
elettronici,
con
gli
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appartamenti dalle stanze minuscole e dai
salotti enormi per far colpo sugli invitati, con
le donne sempre truccate in maniera pesante, con gli uomini che parlano a voce altissima, disturbando i vicini, e con gli adolescenti che si vestono da ribelli, ma tremano di
paura per i commenti e i giudizi dei genitori.
Lasciamo tranquillamente che il mondo
pensi che produciamo solo formaggio, cioccolato e orologi. Che creda che a Ginevra
sorga una banca a ogni angolo di strada. Non
siamo affatto interessati a cambiare questa
percezione. Viviamo felicemente senza
l’invasione dei nuovi barbari. Siamo armati
fino ai denti – poiché il servizio militare è
obbligatorio, in tutte le case svizzere c’è un
fucile –, eppure è piuttosto raro che qualcuno spari a un altro. Viviamo felici senza
cambiare nulla da secoli. Rivendichiamo
l’orgoglio di esserci mantenuti neutrali
quando l’Europa intera ha mandato a morire
i propri figli in guerre senza senso. Non
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dover giustificare a nessuno l’aspetto assai
poco attraente di Ginevra, con i suoi caffè di
fine Ottocento e le anziane signore che
passeggiano nelle vie cittadine, ci procura
una sorta di piacere particolare.
“Viviamo felicemente” forse è un’affermazione falsa. Tutti sono felici, tranne me,
che in questo momento mi sto recando al
lavoro e mi domando che cosa ci sia di
sbagliato nella mia persona.
***
Un
altro giorno e, come sempre, al
giornale ci si adopera per reperire notizie
interessanti, qualcosa che vada al di là del
solito incidente automobilistico, della rapina
(non a mano armata) e dell’incendio (sul
luogo si stanno dirigendo decine di mezzi
con personale altamente qualificato, operatori preparatissimi che entrano nel vecchio
appartamento dove il fumo di un arrosto
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dimenticato nel forno ha messo in allarme
un intero isolato).
Poi, di nuovo un ritorno a casa, il piacere
di cucinare, la tavola apparecchiata e la
famiglia riunita intorno a essa, a ringraziare
Dio per il cibo che riceve. E un’altra sera
nella quale, dopo cena, prima di andare a
coricarsi, ciascuno ha un compito preciso: il
padre aiuta i figli a fare i compiti, la madre
pulisce la cucina, rassetta la casa e prepara la
busta con i soldi per la domestica che
arriverà domattina presto.
Durante questi mesi, in alcuni momenti mi
sono sentita molto bene. Rifletto, e mi dico
che la mia vita non è priva di un senso, che
quelli sono davvero i ruoli degli esseri umani
sulla Terra. I bambini capiscono che la
mamma è serena, mio marito si mostra più
gentile e premuroso del solito, e la casa
intera sembra brillare di una luce sfavillante.
Agli occhi del vicinato, della città, dello stato
– che qui si chiama “cantone” –, dell’intero
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paese, costituiamo l’incarnazione della
felicità.
Poi mi infilo sotto la doccia e, all’improvviso, senza una spiegazione razionale, scoppio a piangere. Piango nel bagno, dimodoché
nessuno possa sentire i miei singhiozzi e
rivolgermi quella domanda che temo terribilmente: “Va tutto bene?”
“Sì, perché non dovrebbe? Notate qualcosa
che non va nella mia vita?”
“Niente.”
Semplicemente, la notte mi fa paura.
E il giorno non suscita in me alcun
entusiasmo.
Ritornano le immagini felici del passato, le
situazioni che avrebbero potuto essere, ma
non si sono realizzate.
Il desiderio di avventura mai tramutato in
scelte.
Il terrore di ignorare il destino dei miei
figli.
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E, a quel punto, i pensieri vorticano
intorno a presagi negativi, sempre i
medesimi, come se il demonio che mi spia da
un angolo della stanza da bagno si preparasse a balzarmi addosso, a gridarmi che quella
che io chiamo “felicità” è solo uno stato
passeggero, che non può durare a lungo.
Dovrei saperlo, no?
Voglio cambiare. Ho bisogno di cambiare.
Oggi, in redazione, mi sono mostrata più
irritabile del solito, soltanto perché uno stagista ha tardato a recuperare il materiale che
gli avevo chiesto. Io non sono così, ma sto
gradualmente perdendo il contatto con me
stessa.
Incolpare quello scrittore e l’intervista è
una sciocchezza. È accaduto mesi fa. Lui ha
solo liberato il cratere di un vulcano che può
scatenarsi in qualsiasi momento, seminando
morte e distruzione. Se non fosse stato
quell’uomo, avrebbe potuto essere un film,
un libro, una persona con la quale ho
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scambiato due o tre parole. Immagino che,
per alcuni, la pressione interna impieghi
anni per giungere all’esplosione (magari loro
non ne sono neppure coscienti); poi, un bel
giorno, una stupidaggine gli fa perdere il
senno.
A quel punto dicono: “Basta! Non ce la faccio più.”
C’è chi si uccide. Chi divorzia. Altri, invece,
mollano tutto e partono per le zone più
povere dell’Africa con l’intenzione di salvare
il mondo.
Ma io mi conosco. So che la mia unica
reazione sarà quella di soffocare ciò che
sento, fino a quando un cancro mi ucciderà
da dentro. Perché sono davvero convinta che
gran parte delle malattie che ci colpiscono si
sviluppino dalle emozioni represse.
***
33/481
Mi
sveglio alle due di notte e resto
immobile a fissare il soffitto, pur sapendo
che la mattina dovrò alzarmi presto – qualcosa che francamente detesto. Anziché riflettere in modo costruttivo, magari cercando
di analizzare che cosa mi sta succedendo, i
miei pensieri fluiscono incontrollati. Ci sono
giorni – pochi, grazie a Dio – durante i quali
continuo a domandarmi se non farei meglio
a cercare l’aiuto di uno psichiatra. Ciò che mi
impedisce di mettere in pratica questa
soluzione non è il lavoro né mio marito: sono
i bambini. Non sono in grado di comprendere quello che provo, assolutamente no.
Ogni sensazione è più intensa. Ripenso a
una vita matrimoniale nella quale non è mai
comparsa la gelosia. Noi donne, però, possediamo un sesto senso. Può darsi che mio
marito abbia incontrato un’altra, e io stia
percependo l’accaduto in modo inconscio. In
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ogni caso, non ho alcun motivo per
sospettare di lui.
Non è un’assurdità? È possibile che, fra
tutti gli uomini del mondo, io sia riuscita a
sposare l’unico maschio assolutamente perfetto? Non beve, non esce la sera, non ha un
appuntamento fisso settimanale con gli
amici. La sua vita si riassume nel lavoro e
nella famiglia.
Sarebbe un sogno – se non fosse un
incubo. Per me corrispondere a tutto ciò è
un’enorme responsabilità.
Mi rendo conto che, nel mio caso, parole
come “ottimismo” e “speranza” – compaiono
in tutti i libri che si prefiggono di rassicurarci
e prepararci alla vita – non sono altro che…
parole. I saggi che le hanno pronunciate
forse stavano cercando il senso di ciascuna di
esse, e ci hanno usati come cavie, per vedere
le nostre reazioni ai diversi stimoli.
In realtà, sono stanca di avere una vita
apparentemente felice e perfetta. E questo
35/481
può essere soltanto il segno di una malattia
mentale.
Mi riaddormento con questo pensiero.
Forse il mio problema è davvero serio!
***
Vado a pranzo con un’amica.
Ha suggerito di incontrarci in un ristorante giapponese del quale non avevo mai
sentito parlare – è piuttosto strano, visto che
adoro il cibo nipponico. Mi ha assicurato che
si trattava di un locale eccellente, anche se
distante dal mio posto di lavoro.
È stato difficile arrivarci. Ho dovuto prendere due autobus, e poi chiedere informazioni sull’ubicazione della galleria che
ospita quel “ristorante fantastico”. Entro, e
ogni cosa mi sembra orribile: l’arredamento,
i tavoli con le tovaglie di carta, l’assenza di
una qualsivoglia vista sull’esterno. Ma la mia
amica aveva davvero ragione: mangio i
36/481
migliori piatti giapponesi che abbia mai
assaggiato a Ginevra.
“Prima frequentavo sempre un certo ristorante: era discreto, ma niente di speciale,”
dice lei. “Poi un amico che lavora all’ambasciata del Giappone mi ha suggerito questo.
Ho trovato il locale orribile, penso che sia
accaduto anche a te. I proprietari si occupano personalmente della cucina, e questo fa
la differenza.”
‘Io vado sempre nei medesimi ristoranti e
ordino gli stessi piatti,’ penso: non oso rischiare neppure in questo.
La mia amica assume regolarmente antidepressivi. Di certo, non desidero affrontare
con lei questo argomento: ormai sono giunta
alla conclusione di trovarmi a un passo dalla
malattia, ma mi rifiuto di prenderne atto.
E nonostante abbia pensato che quella
fosse l’ultima cosa che avrei voluto fare, mi
ritrovo subito a parlarne. Le tragedie altrui
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riescono sempre a mitigare le nostre
sofferenze.
Le domando come si sente. “Meglio.
Molto meglio. Anche se le medicine hanno
impiegato qualche tempo per fare effetto.
Quando iniziano ad agire si recupera
l’interesse per la vita, che riacquista colore e
sapore.”
In altre parole, la sofferenza è diventata
un’ulteriore fonte di guadagno per le industrie farmaceutiche: ‘Sei triste? Prendi questa
pillola, e le tue angustie finiranno.’
Con delicatezza, le domando se è
interessata a fornire la sua testimonianza per
un lungo servizio sulla depressione che
uscirà sul giornale.
“È inutile. Non ne vale la pena. Ormai le
persone condividono ogni loro sensazione su
internet. E poi ci sono le medicine…”
“Di che cosa si discute su internet?”
“Degli effetti collaterali dei farmaci. A nessuno interessano i sintomi altrui, perché si
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tratta di elementi potenzialmente contagiosi.
È possibile che, all’improvviso, si avvertano
malesseri che prima non si sentivano.”
“Nient’altro?”
“Si parla anche degli esercizi di meditazione. Ma non credo che portino a grandi
risultati. Io li ho provati tutti, ma sono migliorata soltanto quando ho deciso di accettare
che avevo un problema.”
“Ma il fatto di sapere che non si è soli non
dà un certo sollievo? Discutere di ciò che si
sente o si è provato a causa della depressione
non è un fattore positivo?”
“Assolutamente no. Chi è uscito da
quell’inferno non ha il minimo interesse a
sapere come continua la vita di chi è rimasto
là dentro.”
“Per quale motivo ci sono voluti così tanti
anni per uscire da quello stato?”
“Perché non avevo coscienza di essere
realmente depressa. E perché, quando ne
parlavo con te o con altre amiche, mi veniva
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detto che erano tutte sciocchezze, che chi ha
veramente dei problemi psichici non è nella
condizione di sentirsi depresso.”
È vero, l’ho detto anch’io.
Insisto: penso che un articolo o un post in
un blog potrebbero aiutare davvero le persone ad affrontare la malattia, magari
spronandole a cercare aiuto. Poiché io non
sono depressa, e non so che cosa si provi a
vivere nella depressione – sottolineo questo
aspetto –, le chiedo di raccontarmi come ci si
sente.
Lei esita. Ma è una mia amica, e forse
nutre qualche sospetto.
“È come trovarsi in trappola. Sai che sei
imprigionata, ma non riesci a…”
È proprio quello che avevo pensato alcuni
giorni prima.
A quel punto, inizia a elencare una serie di
situazioni che, con ogni probabilità,
accomunano tutti coloro che hanno visitato
quello che definisce “l’inferno”. L’assoluta
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mancanza di voglia di alzarsi al mattino. I
gesti più semplici che necessitano di sforzi
sovrumani. Il senso di colpa per il fatto di
non avere alcun motivo per essere in quello
stato, mentre nel mondo ci sono milioni di
persone che soffrono davvero.
Mi sforzo di concentrarmi sull’ottimo cibo
giapponese che, a quel punto, sembra avere
ormai perduto ogni sapore. La mia amica
continua:
“Apatia. Fingere allegria, tristezza, godimento, addirittura gli orgasmi… Fingere che
ti stai divertendo, fingere di aver dormito
bene, fingere di vivere… Fino a quando arrivi
al punto in cui ti trovi di fronte a una linea
rossa immaginaria e capisci che, se la oltrepassi, non ci sarà più ritorno. Allora smetti di
piagnucolare, perché anche lamentarsi significa lottare. Accetti di vivere in una sorta di
stato vegetativo, ma cerchi di nasconderlo a
tutti. E questo ti costa una fatica enorme.”
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“Ma… cosa ha scatenato la tua
depressione?”
“Niente in particolare. Ma per quale
motivo mi stai facendo tutte queste
domande? C’è qualcosa che non va?”
“No. Assolutamente no!”
È meglio cambiare argomento.
Iniziamo a parlare del politico che intervisterò fra due giorni: un mio ex fidanzatino
del liceo, il quale forse non ricorda neppure
che ci siamo scambiati qualche bacio e mi ha
palpato il seno quando non era ancora pienamente formato.
La mia amica si entusiasma. Io cerco solo
di non pensarci – ormai è una reazione
pressoché automatica.
L’apatia. Però non sono ancora arrivata a
quello stadio: mi lamento della mia vita
attuale, ma immagino che, nel volgere di
poco tempo – mesi, giorni oppure ore –,
potrebbe
sopraggiungere
una
totale
42/481
mancanza di interesse, qualcosa che poi sarà
molto difficile da superare.
È come se l’anima stesse lentamente lasciando il mio corpo, dirigendosi verso un
luogo che ignoro, un posto “sicuro”, dove
non è obbligata a sopportare me e i miei terrori notturni. È come se io non mi trovassi
realmente in questo ristorante giapponese
decisamente brutto, ma che serve un cibo
delizioso, e tutto ciò che sto vivendo fosse
solo la scena di un film che guardo, senza
volere – o potere – interferire.
***
Mi
sveglio e ripeto gli stessi gesti di
sempre: mi alzo, mi lavo i denti, mi vesto per
recarmi in ufficio, vado nella camera dei
bambini e li chiamo, preparo la colazione per
tutti, sorrido, mi dico che la vita è bella. E
tuttavia, in ogni minuto e in ogni gesto,
avverto un peso che non riesco a identificare:
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mi sento come un animale che non capisce in
quale modo sia stato preso in trappola.
Il cibo perde sapore, mentre il mio sorriso
si accentua sempre di più (per non destare
sospetti); ricaccio in gola la voglia di
piangere, in un luogo ammantato di una luce
grigiastra.
La conversazione con l’amica non mi ha
affatto giovato: comincio a pensare che sto
rinunciando a ribellarmi e sto scivolando
velocemente verso l’apatia.
È possibile che nessuno se ne accorga?
No, certo che no. Comunque, io sarei
l’ultima persona al mondo ad ammettere di
avere bisogno di un aiuto.
Ma, alla fine, questo non è un problema
mio: il vulcano ormai ha eruttato ed è
impossibile ricacciare la lava nel cratere, spianare la superficie, seminare un prato,
piantare qualche albero, e far pascolare un
gregge di pecore su quel terreno.
44/481
Era qualcosa che non meritavo. Mi sono
sempre sforzata di rispondere alle aspettative di tutti. In ogni caso, è successo – e sembra che io non possa farci niente, se non
assumere dei farmaci. Potrei inventarmi una
scusa per scrivere un articolo sulla valenza
sociale della psichiatria (il caposervizio lo
apprezzerebbe molto) e, anche se non
sarebbe eticamente corretto, avrei l’occasione per trovare uno specialista a cui
chiedere aiuto. Di sicuro, non tutto può
essere eticamente corretto.
Non esiste alcun elemento ossessivo che
martelli la mia mente, come, per esempio,
mettersi a dieta. O la mania dell’ordine che
porta a cercare insistentemente le pecche nel
lavoro della domestica, la quale arriva alle
otto del mattino e se ne va alle cinque del
pomeriggio, dopo aver lavato, stirato,
rassettato la casa e, di tanto in tanto, essere
anche andata al supermercato. Non posso
scaricare le mie frustrazioni sul ménage
45/481
famigliare, fino a diventare una madre asfissiante e opprimente, giacché i bambini ne
risentirebbero per il resto della loro vita.
Quando esco per andare al lavoro, vedo il
vicino intento a lavare l’automobile. Ma non
l’ha fatto ieri?
Non riesco a frenare la mia curiosità: mi
avvicino e gli domando il motivo di quel
comportamento.
“Erano rimaste alcune piccole chiazze,” mi
risponde, dopo avermi dato il buongiorno,
domandato come sta la mia famiglia e fatto
un commento piacevole sul vestito che
indosso.
Guardo la macchina: un’Audi (uno dei
soprannomi di Ginevra è “Audiland”). La
carrozzeria mi sembra immacolata. Lui mi
mostra alcune piccole aree che non sfavillano
ancora.
Protraggo la conversazione e, alla fine, gli
domando qual è, secondo lui, la massima
aspirazione delle persone.
46/481
“Be’, è piuttosto facile rispondere. Pagare
le bollette. Comprare una casa come la nostra. Avere un giardino rigoglioso. Invitare al
pranzo domenicale figli e nipoti. E viaggiare
per il mondo dopo essere andati in
pensione.”
È questo che le persone desiderano dalla
vita? Davvero? C’è proprio qualcosa che non
va sul nostro pianeta, e non sono le guerre in
Africa o in Medio Oriente.
Prima di recarmi in redazione, devo
intervistare Jacob, il mio vecchio fidanzatino. Ma neppure questo mi stimola – sto
davvero perdendo ogni interesse per la vita.
***
Mi fornisce delle informazioni che non
ho chiesto sui programmi del governo. Gli
pongo alcune domande con l’intenzione di
metterlo in difficoltà, ma lui si barcamena
con eleganza. Ha un anno meno di me,
47/481
quindi dovrebbe avere trent’anni, anche se
ne dimostra trentacinque. È una considerazione che taccio, com’è naturale.
Ovviamente mi ha fatto piacere rivederlo,
per quanto sinora non mi abbia chiesto cosa
ne sia stato della mia vita da quando, dopo la
maturità, ognuno ha preso la propria strada.
È concentrato su se stesso, sulla carriera, sul
futuro, mentre io sono stupidamente attaccata al passato, come se fossi ancora
un’adolescente che, nonostante l’apparecchio
per i denti, è invidiata dalle compagne.
Dopo qualche minuto, smetto di ascoltarlo
e inserisco il pilota automatico. Sempre il
medesimo copione, gli stessi argomenti –
ridurre le tasse, combattere la criminalità,
rafforzare il controllo sull’impiego dei
francesi, i cosiddetti “frontalieri” (occupano
posti di lavoro che spettano agli svizzeri).
Anno dopo anno, i programmi politici si
ripetono identici, e i problemi restano
48/481
irrisolti, giacché nessuno li affronta in modo
serio.
Dopo venti minuti di conversazione,
comincio a domandarmi se il disinteresse sia
una conseguenza della mia difficile condizione attuale. Assolutamente no. Non c’è
niente di più noioso che intervistare un
politico. Sarebbe stato meglio se mi avessero
incaricato di occuparmi di un delitto: gli
assassini sono molto più autentici.
Se paragonati ai rappresentanti del popolo
di qualsiasi altro luogo del pianeta, i nostri
politici sono quelli meno interessanti e più
scialbi. A nessuno importa della loro vita
privata. Soltanto due elementi possono far
esplodere uno scandalo: la corruzione e la
droga. In un simile frangente, la storia
acquista proporzioni gigantesche e, per
l’assoluta mancanza di argomenti dei
giornali, cattura un pubblico sempre più
vasto.
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Ma chi vuole davvero sapere se i nostri
politici hanno un’amante, se frequentano
bordelli o se hanno deciso di rivelare la propria omosessualità? Nessuno. Che continuino a svolgere il lavoro per cui sono stati
eletti, che si preoccupino di non sforare il bilancio pubblico, e tutti vivremo tranquilli.
Il presidente svizzero cambia ogni anno
(proprio così, ogni anno), ma non è eletto
dalla popolazione, bensì dal Consiglio
Federale, un organismo costituito da sette
“ministri” che governa il paese. In qualsiasi
caso, il popolo adora decidere su ogni questione attraverso i referendum – il colore dei
sacchi per la spazzatura (ha vinto il nero), il
permesso per il porto d’armi (approvato da
una maggioranza schiacciante: la Confederazione Elvetica è lo stato con più armi pro
capite del mondo), il numero massimo di
minareti che si possono costruire (quattro),
la concessione di asilo ai profughi (non ho
seguito il dibattito, ma penso che la legge sia
50/481
stata approvata e sia ormai in vigore) – e,
ogni volta che passo davanti al Museo di
Belle Arti, vedo i manifesti di nuovi quesiti
referendari.
“Signor König…”
Siamo stati interrotti già una volta. Con
gentilezza, Jacob chiede all’assistente di
posticipare il prossimo impegno. Poiché il
mio giornale è il più importante della
Svizzera francese, l’intervista potrebbe
diventare un elemento determinante per le
prossime elezioni.
Lui insiste falsamente per convincermi a
rimanere e, per un momento, io fingo di
accettare.
Ma sono già soddisfatta. Quindi mi alzo, lo
ringrazio e gli dico che ho tutto il materiale
necessario per l’articolo.
“Non manca niente?”
Certo che manca qualcosa. Ma non tocca a
me dire che cosa.
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“Perché non ci vediamo più tardi, dopo il
lavoro?”
Gli spiego che devo andare a prendere i
miei figli a scuola. Penso che abbia notato
l’enorme vera d’oro al mio dito e abbia
pensato: ‘Be’, quel che è stato, è stato.’
“Ah, certo. Allora che ne dici di pranzare
insieme, uno di questi giorni?”
Accetto. Anche se so di sbagliarmi spesso,
mi dico: ‘Forse ha qualcosa di veramente
importante da rivelarmi: un segreto di stato,
una notizia che cambierà la politica
nazionale e mi procurerà un’enorme considerazione presso il direttore del giornale.’
Lui si alza, si avvicina alla porta e la chiude
a chiave. Poi torna verso di me e mi bacia.
Ricambio quel bacio: è passato molto tempo
dall’ultima volta che ci siamo baciati. Jacob,
che forse un giorno potrei aver amato,
adesso è sposato con una docente universitaria. E io sono la moglie di un finanziere,
ricco ma gran lavoratore, e ho una famiglia.
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Potrei respingerlo, dicendo che non siamo
più due ragazzini, ma Jacob mi attrae. Non
solo ho scoperto un nuovo ristorante giapponese, ma sto anche facendo una cosa terribilmente sbagliata. Sono riuscita a trasgredire le regole, e il mondo non mi è crollato
addosso! Da tempo, non ero così felice.
Attimo dopo attimo, mi sento sempre
meglio, più coraggiosa, più libera. Allora faccio qualcosa che ho sempre sognato, fin
dall’epoca del liceo.
Mi inginocchio sul pavimento, gli abbasso
la cerniera dei pantaloni e comincio a succhiargli il pene. Lui mi afferra per i capelli e
si muove al ritmo delle mie labbra. Viene in
meno di un minuto.
“Splendido… Eccelso.”
Non commento. Al limite, ha soddisfatto
più lui che me: Jacob ha avuto
un’eiaculazione precoce.
***
53/481
Dopo il peccato, arriva la paura di essere
scoperta per il crimine commesso.
Tornando verso il giornale, compro
spazzolino e dentifricio. Ogni mezz’ora, mi
rifugio nel bagno della redazione per controllare che non vi sia nulla sul mio viso o sulla
blusa Versace con inserti di pizzo, perfetti
per trattenere una traccia. Osservo i colleghi
con la coda dell’occhio, ma nessuno – o nessuna, visto che le donne hanno una sorta di
radar per queste cose – sembra aver notato
alcunché.
Perché l’ho fatto? Era come se un’altra
persona si fosse impossessata della mia
volontà e mi avesse trascinato in quella
situazione, nella quale non c’era niente di
erotico. Volevo forse dimostrare a Jacob di
essere una donna indipendente, libera,
padrona del mio corpo? Mi sono comportata
in quel modo per far colpo su di lui o per
54/481
tentare di sfuggire a quello che la mia amica
ha chiamato “inferno”?
Tutto continuerà come prima. Non mi
trovo di fronte a un bivio. So dove devo
andare e spero che, con il passare degli anni,
riuscirò a guidare la mia famiglia lungo una
strada che non porti a reputare il lavaggio
dell’automobile un evento straordinario. I
grandi cambiamenti avvengono con il tempo
– e io ne ho fin troppo a disposizione.
Perlomeno è quello che spero.
Quando rientro a casa, cerco di non
mostrare né felicità né tristezza. E questo
attira immediatamente l’attenzione dei
bambini.
“Mamma, sei un po’ strana, oggi…”
Vorrei rispondere che è proprio così, perché ho fatto qualcosa che non avrei dovuto
fare – comunque, non mi sento minimamente in colpa: ho solo paura di essere
scoperta.
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Arriva mio marito e, come sempre, mi dà
un bacio; poi mi domanda com’è andata la
giornata e che cosa prevede la cena. Gli
rispondo con le frasi alle quali è abituato. Se
non noterà una qualche variante nella nostra
routine, non sospetterà che oggi pomeriggio
ho fatto un pompino a un uomo politico.
Il che, tra parentesi, non mi ha procurato
alcun piacere fisico. E così adesso sto quasi
impazzendo dal desiderio: ho voglia di un
uomo, bramo i suoi baci; ho bisogno di sentire il dolore e il piacere di un corpo sopra il
mio.
***
Quando saliamo in camera, mi accorgo
di essere eccitata, impaziente di fare l’amore
con lui. Ma devo procedere con assoluta
calma, senza fretta – non devo esagerare,
altrimenti potrebbe insospettirsi.
56/481
Faccio un bagno e poi mi distendo al suo
fianco; gli sfilo il tablet dalle mani e lo poso
sul comodino. Comincio ad accarezzarlo sul
petto, e subito si eccita. Era molto tempo che
non facevamo sesso così. Quando i miei gemiti aumentano d’intensità, mi chiede di controllarmi per non svegliare i bambini: gli
rispondo che sono stufa di controllarmi, che
voglio poter esprimere ciò che sento.
Ho una serie di orgasmi multipli. Mio Dio,
amo da morire l’uomo che sta al mio fianco!
Alla fine, siamo esausti e sudati. Decido di
fare un altro bagno. Lui mi accompagna e
inizia a scherzare, dirigendo il getto d’acqua
della doccia sul mio sesso. Gli chiedo di
smetterla perché è tardi e sono davvero
stanca: dobbiamo dormire e, se continuerà,
finirà per eccitarmi di nuovo.
Mentre ci asciughiamo a vicenda, gli
chiedo di portarmi in discoteca: quella richiesta è il tentativo di cambiare a ogni costo il
mio modo di affrontare le giornate. Forse in
57/481
quel momento mio marito incomincia a
sospettare che nascondo qualcosa.
“Domani?”
“Domani non posso. Ho la lezione di
yoga.”
“Ah! A proposito, posso farti una domanda
diretta?”
Il mio cuore si ferma. Lui prosegue:
“Per quale motivo prendi lezioni di yoga?
Sei una donna così calma, in armonia con te
stessa, e sai perfettamente che cosa vuoi.
Non ti pare di perdere tempo?”
Il mio cuore ricomincia a battere. Non
rispondo. Mi limito a sorridere; poi gli
accarezzo il viso.
***
Mi butto sul letto, chiudo gli occhi e,
prima di addormentarmi, penso: ‘Forse sto
attraversando la tipica crisi della persona
sposata da molto tempo. Passerà.
58/481
‘Nessuno può essere sempre felice: è
pressoché impossibile. Nella vita si deve
imparare ad affrontare la realtà.
‘Cara depressione, non ti avvicinare. Non
infastidirmi. Trova qualcuno che abbia più
motivi di me per guardarsi allo specchio e
dire: »Che vita inutile.« Che tu lo voglia o no,
io conosco un modo infallibile per
sconfiggerti.
‘Depressione cara, con me stai perdendo il
tuo tempo.’
***
L’incontro
con Jacob König si svolge
esattamente come immaginavo. Andiamo
alla Perle du Lac, un ristorante costoso in
riva al lago – un tempo era un locale ottimo,
ma oggi gode delle sovvenzioni dell’amministrazione municipale, e… E, nonostante la
cucina di bassissimo livello, continua a
essere caro. Avrei potuto stupirlo con il
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ristorante giapponese appena scoperto, ma
so che mi avrebbe giudicata una donna con
gusti pessimi: per talune persone l’ambiente
è più importante del cibo.
Quasi subito mi rendo conto di aver preso
la decisione giusta. Jacob si adopera per
dimostrarmi che è un profondo conoscitore
di vini, valutando il “bouquet”, la “tessitura”,
la “lacrima”, cioè quella traccia dall’aspetto
oleoso che scivola sulla parete del bicchiere.
In altre parole, mi vuole comunicare che è
cresciuto, non è più il ragazzino dei tempi
della scuola: ha imparato molto, si è fatto
strada nella vita e adesso conosce il mondo, i
vini, la politica, le donne e… le sue ex
fidanzatine.
Quante stupidaggini! Nasciamo e moriamo
con un brindisi, bevendo vino. Sappiamo distinguerne uno buono da uno cattivo – ma
questo è tutto!
Ma fino a quando conobbi mio marito,
tutti gli uomini che avevo incontrato – e che
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si ritenevano affascinanti ed educati – consideravano la scelta del vino il loro momento
di gloria solitaria. Si comportavano in modo
identico: con un’espressione meditabonda,
annusavano il tappo, leggevano l’etichetta,
chiedevano al cameriere di versarne un
assaggio, facevano roteare piano il calice, ne
osservavano il contenuto in controluce, lo
annusavano, lo assaporavano, lo deglutivano
e, alla fine, approvavano con un cenno del
capo.
Dopo avere assistito a questa scena
un’infinità di volte, decisi di cambiare ambiente e cominciai a frequentare i nerds, quelli
socialmente esclusi dalle comitive universitarie. Al contrario dei degustatori di vino prevedibili e superficiali, i nerds erano autentici
e non si impegnavano minimamente per far
colpo su di me. Parlavano di argomenti che
io non potevo comprendere. Pensavano, per
esempio, che fosse obbligatorio conoscere
almeno il termine “Intel”, “visto che è scritto
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su tutti i computer”. Io non ci avevo mai
prestato attenzione.
I nerds mi facevano sentire un’ignorante
totale, una ragazza senza attrattiva, e si
interessavano più alla pirateria in internet
che al mio seno e alle mie gambe. Così finii
per tornare alla sicurezza dei degustatori di
vino. Fino a quando incontrai un giovane che
non tentava di impressionarmi con il suo
gusto sofisticato né mi faceva sentire una
scema con discorsi su pianeti misteriosi,
hobbit e software che cancellano le tracce
delle pagine web visitate. Dopo alcuni mesi
di frequentazione, durante i quali visitammo
più di cento paesini intorno al lago di
Ginevra, mi chiese di sposarlo.
Accettai all’istante.
Domando a Jacob se conosce qualche discoteca, perché sono anni che ho abbandonato la vita notturna di Ginevra – “vita
notturna”, si fa per dire – e ho voglia di
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andare a ballare e a bere qualcosa. Gli brillano gli occhi.
“Non ho tempo per queste cose. Sono
onorato dell’invito ma, come sai, oltre a
essere sposato, non posso mostrarmi in giro
con una giornalista. Direbbero che le sue
notizie sono…”
“… Tendenziose?”
“Esatto: tendenziose.”
Decido di proseguire in quel piccolo gioco
di seduzione che mi ha sempre divertito.
Cos’ho da perdere? Ormai conosco tutte le
strade, le scappatoie, le trappole e gli
obiettivi.
Gli chiedo di raccontarmi qualcos’altro di
lui e della sua vita privata. In fin dei conti, gli
spiego, non sono qui come giornalista, ma
come
donna
ed
ex
fidanzatina
dell’adolescenza.
Carico d’enfasi la parola “donna”.
“Io non ho una vita privata,” dice.
“Purtroppo non posso averne una. Ho scelto
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una carriera che mi ha trasformato in un
automa. Tutto ciò che dico è monitorato,
vagliato, discusso, pubblicato.”
Non è proprio così, ma la sua sincerità è
disarmante. Sta mostrandosi disponibile:
vuole scoprire in quale campo si sta avventurando e fin dove si può spingere con me.
Accenna al fatto che è “infelice nel matrimonio”: è ciò che fanno tutti gli uomini, dopo
aver saggiato il vino ed essersi profusi in
spiegazioni sul loro potere.
“Negli ultimi due anni ho vissuto alcuni
mesi di gioia e altri di sfide ma, per la maggior parte del tempo, ho dovuto occuparmi
della mia carica, sforzandomi di compiacere i
vari postulanti per essere rieletto. Sono stato
costretto ad abbandonare tutti gli svaghi e le
attività piacevoli – come andare a ballare con
te, per esempio. Ormai mi è negato persino
trascorrere qualche ora ascoltando musica,
fumare o fare qualsiasi altra cosa che possa
venire giudicata inopportuna.”
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“Stai esagerando! Nessuno è interessato in
un modo così morboso alla tua vita privata.”
“Mah, tutto è dovuto al ritorno di Saturno.
Ogni ventinove anni, il pianeta torna nel
punto in cui si trovava quando siamo nati.”
“Il ritorno di Saturno?”
Jacob si rende conto di aver parlato troppo
e dice che forse sarebbe meglio se tornassimo al lavoro.
No. Il mio ritorno di Saturno si è già verificato, e adesso ho bisogno di sapere esattamente che cosa significa. Allora lui improvvisa una lezione di astrologia: Saturno
impiega ventinove anni per tornare nel
punto in cui si trovava il giorno della nostra
nascita. Fino a quel momento, pensiamo che
tutto sia possibile, che i sogni si avverino e
che le mura intorno a noi possano essere
abbattute. Quando il pianeta completa la sua
rivoluzione, il romanticismo sparisce. Le
scelte divengono definitive e i cambiamenti
di rotta risultano pressoché impossibili.
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“Non sono un esperto, è chiaro. Ma credo
che la mia prossima occasione arriverà
quando avrò cinquantott’anni, al ritorno di
Saturno.”
Penso: ‘A questo punto, per quale motivo
mi ha invitato a pranzo, visto che non è più
possibile scegliere un’altra strada, stando
alla regola di Saturno? Ormai stiamo parlando da quasi un’ora…’
“Sei felice?”
“Cosa?”
“Ho notato qualcosa di strano nei tuoi
occhi… Una tristezza inspiegabile per una
donna attraente come te, con un matrimonio
prestigioso e un ottimo lavoro. Mi è sembrato di vedere il riflesso dei miei occhi. Ti
ripeto la domanda: sei felice?”
Nel paese in cui sono nata e cresciuta, e
dove ora cresco i miei figli, nessuno fa simili
domande. La felicità non è un valore che
possa essere misurato con precisione, sottoposto a referendum o analizzato da uno
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specialista. Poiché non chiediamo agli altri
neppure la marca della loro auto, è pressoché
impensabile porre domande su qualcosa di
così intimo e indefinibile.
“Non è necessario che tu risponda. Il silenzio è già sufficiente.”
No, il silenzio non è sufficiente. Non è una
risposta. Indica solo sorpresa, perplessità.
“Io non sono felice,” dice lui. “Ho tutto ciò
che un uomo può desiderare, ma non sono
felice.”
Hanno versato qualcosa nell’acquedotto
cittadino? Vogliono distruggere il mio paese
con una qualche sostanza chimica che provoca una profonda frustrazione nella
popolazione? Non è possibile che tutti quelli
con cui parlo provino il medesimo disagio…
Fino a quel momento non ne avevo parlato. Ma le anime in pena posseggono la
peculiarità di riconoscersi e attrarsi reciprocamente, condividendo i loro dolori.
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Per quale motivo non l’avevo capito? Perché mi ero concentrata sulla superficialità
con cui parlava di temi politici o sulla pedanteria con cui assaggiava il vino?
Il ritorno di Saturno, l’opposizione, l’infelicità: non mi sarei mai aspettata di sentire
Jacob König trattare simili argomenti.
E così, adesso, in questo preciso istante –
guardo l’orologio: sono le 13:55 –, mi
innamoro nuovamente di lui. Nessuno, neppure il mio meraviglioso marito, mi ha mai
chiesto se sono felice. Può darsi che,
nell’infanzia, i miei genitori o i miei nonni
abbiano cercato di sapere se fossi allegra, ma
niente più di questo.
“Ci rivedremo?”
Guardo davanti a me, e ormai non vedo
più l’ex fidanzatino dell’adolescenza, ma un
abisso al quale mi avvicino volontariamente,
un baratro a cui non voglio assolutamente
sottrarmi. In una frazione di secondo, mi
rendo conto che, da adesso in poi, le notti
68/481
insonni diverranno più insopportabili, giacché ho un problema molto serio: sono
innamorata.
Tutte le spie rosse di allarme del mio
essere razionale e del mio inconscio iniziano
a lampeggiare.
Ma io mi dico: ‘Sei un’ingenua, una
sciocca: vuole soltanto portarti a letto. Gliene
importa assai poco della tua felicità.’
Così, in un gesto quasi suicida, rispondo di
sì. Forse andare a letto con qualcuno che mi
ha appena toccato il seno quando eravamo
adolescenti porterà un giovamento al mio
matrimonio, com’è successo ieri: la mattina,
ho fatto sesso orale con lui e, la sera, ho
avuto orgasmi multipli con mio marito.
Cerco di ritornare alla conversazione su
Saturno, ma Jacob ha già chiesto il conto e
parla al cellulare: sta avvisando qualcuno che
arriverà con cinque minuti di ritardo.
“Offrigli dell’acqua e del caffè, per favore.”
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Gli domando con chi era al telefono, e lui
risponde che stava parlando con la moglie. È
atteso dal direttore di una grande azienda
farmaceutica: ha chiesto di incontrarlo e,
probabilmente, vuole sovvenzionare con una
consistente somma di denaro la fase finale
della sua campagna per il Consiglio
Nazionale. Le elezioni si avvicinano
rapidamente.
Ancora una volta, penso al fatto che è
sposato. Che è infelice. Che non può fare
niente di ciò che gli piace. Che corrono voci
pettegole su di lui e sua moglie: sembra che il
loro matrimonio sia piuttosto “aperto”. Devo
assolutamente dimenticare la scintilla che mi
ha fulminato alle 13.55 e rendermi conto che
vuole soltanto usarmi.
È qualcosa che non mi disturba, purché le
cose siano ben chiare. Anch’io ho bisogno di
portarmi a letto un uomo.
***
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Ci fermiamo sul marciapiedi davanti al
ristorante. Jacob si guarda intorno, come se
fossimo una coppia clandestina. Dopo essersi
accertato che nessuno ci sta osservando, si
accende una sigaretta.
Allora è questo il suo timore: che scoprano
il suo vizio del fumo.
“Come ricorderai, ero considerato lo studente più promettente della comitiva. Volevo
dimostrare che era davvero così perché, alla
fin fine, tutti abbiamo un’immensa necessità
di amore e approvazione. Sacrificavo le
uscite con gli amici per studiare e non
deludere le aspettative del prossimo. Mi sono
diplomato con voti eccellenti. Tra parentesi,
perché è finita la nostra storia?”
Se non lo ricorda lui, figurarsi io. A
quell’epoca, tutti corteggiavano tutti, e non
esistevano rapporti fissi.
“Al termine dell’università, divenni un
difensore d’ufficio e cominciai a frequentare
71/481
criminali e innocenti, canaglie e persone perbene. Quello che doveva essere soltanto un
lavoro temporaneo mi insegnò una regola da
applicare alla vita: dovevo aiutare il
prossimo. La mia lista di clienti si allungava.
La mia fama si diffuse per la città. Mio padre
insisteva perché abbandonassi quell’incarico
e andassi a lavorare nello studio legale di un
suo amico. Ma io ero entusiasta per ogni
causa che vincevo. E spesso mi impuntavo
per contraddire una legge decisamente antiquata, che reputavo ormai inapplicabile.
Anche nell’amministrazione pubblica c’erano
molte cose da cambiare.”
Queste informazioni compaiono nella sua
biografia ufficiale, ma sentirle dalle sue labbra è diverso.
“A un certo punto, pensai che potevo candidarmi per il Gran Consiglio cantonale. Feci
una campagna elettorale assai modesta:
disponevo di pochissimi soldi, perché mio
padre era contrario. Solo i miei clienti mi
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sostennero. Venni eletto con un esiguo margine di voti – comunque, ottenni un seggio.”
Si guarda intorno di nuovo. Ha nascosto la
sigaretta dietro la schiena. Nessuno lo sta
osservando, così dà un’altra lunga tirata. Il
suo sguardo sembra vuoto: è focalizzato sul
passato.
“Quando cominciai a lavorare in politica,
dormivo soltanto cinque ore al giorno, ma
ero sempre pieno di energia. Adesso vorrei
poter disporre di diciotto ore di sonno. La
luna di miele con le mie cariche pubbliche è
finita. È rimasta solo la necessità di compiacere tutti, in particolare mia moglie, che si
batte accanitamente perché io abbia un
futuro radioso. Marianne ha sacrificato
molte aspirazioni per la mia carriera, e io
non posso deluderla.”
È davvero questo l’uomo che solo alcuni
minuti fa mi ha invitata a uscire di nuovo?
Sarà proprio questo che vuole: uscire e chiacchierare con qualcuno che possa capirlo, con
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una persona che vive una situazione analoga
e avverte il medesimo disagio?
Posseggo la dote di perdermi in fantasticherie con una rapidità impressionante. Mi
stavo già immaginando tra lenzuola di seta in
uno chalet sulle Alpi.
“Allora, quando ci vediamo di nuovo?”
“Decidi tu.”
Suggerisce due giorni dopo. Gli dico che
ho una lezione di yoga. Mi chiede di non
andarci. Gli spiego che tutta la mia esistenza
è costellata di assenze e che, da qualche
tempo, mi sono ripromessa di essere più
disciplinata.
Jacob sembra rassegnarsi. Sono tentata di
accettare, ma non voglio mostrarmi ansiosa
o troppo disponibile.
La vita sta tornando a essere stimolante.
L’apatia è stata sostituita dalla paura, ed è
una vera gioia temere di perdere
un’occasione!
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Ribadisco che è impossibile: sarebbe
meglio vederci venerdì. È d’accordo, telefona
al suo assistente e gli chiede di annotare
sull’agenda un appuntamento. Finisce la
sigaretta e ci salutiamo. Io non gli domando
perché mi abbia raccontato quei particolari
riguardo alla sua vita privata, né lui aggiunge
qualcosa di importante a ciò che aveva detto
al tavolo del ristorante.
Mi piacerebbe credere che sia cambiato
qualcosa durante quei momenti. Un altro
pranzo fra le mie centinaia di colazioni di
lavoro, con pietanze decisamente troppo
elaborate e calici di vino che entrambi
abbiamo finto di bere, ma che troneggiavano
sulla tovaglia praticamente intatti al
momento del caffè. Non si deve mai abbassare la guardia, nonostante tutta quella
messinscena dell’assaggio.
Il bisogno di compiacere tutti. L’opposizione di Saturno.
Non sono sola.
75/481
***
Il giornalismo non possiede affatto il fascino glamour che la gente immagina –
intervistare star e vip, ricevere inviti per
viaggi fantastici, entrare in contatto con il
potere, il denaro e il mondo oscuro ma
intrigante dell’emarginazione.
In realtà, i giornalisti trascorrono la maggior parte del tempo attaccati a un telefono,
in postazioni di lavoro separate da bassi
divisori di legno impiallacciato. La privacy è
riservata ai capi, che esercitano la professione chiusi nei loro acquari di vetro trasparente, le cui tende si possono tirare a
comando. Quando ciò avviene, continuano a
sapere che cosa accade all’esterno, mentre ai
sottoposti è preclusa la vista delle loro labbra
da pesce che si muovono.
A Ginevra, con i suoi 195.000 abitanti, il
giornalismo è quanto di più noioso si possa
immaginare. Do un’occhiata all’edizione di
76/481
oggi del giornale, anche se non nutro alcun
dubbio riguardo ai contenuti – i molteplici
incontri di diplomatici stranieri presso la
sede delle Nazioni Unite, le solite proteste
contro l’abolizione del segreto bancario e
qualche altra notizia che merita l’onore della
prima pagina, come “la mostruosa obesità
che impedisce a un uomo di salire in aereo”,
il “lupo che stermina pecore negli immediati
dintorni della città”, i “fossili precolombiani
rinvenuti a Saint-Georges” e, infine, con
grande rilievo, “l’imbarcazione Genève che,
dopo il restauro, ritorna a solcare le acque
del lago più bella che mai”.
Mi chiamano da una delle postazioni di
lavoro. Vogliono sapere se sono riuscita ad
avere informazioni esclusive durante la colazione con il politico. Com’era scontato, ci
hanno visti insieme.
Rispondo di no: niente che non compaia
nella sua biografia ufficiale. Il pranzo è stato
piuttosto un modo per avvicinarmi a una
77/481
“fonte”, come vengono definiti coloro che ci
passano informazioni importanti – quanto
più ampia è la sua rete di fonti, tanto più
considerato è il giornalista.
Il mio direttore mi comunica che un’altra
fonte gli ha assicurato che, nonostante sia
sposato, Jacob König ha una storia con la
moglie di un altro politico. Avverto una fitta
in quell’angolo oscuro dell’anima dove ha
bussato la depressione che ho deciso di
scacciare.
Poi mi chiede se sono in grado di instaurare un rapporto più confidenziale con lui.
Non che il giornale sia particolarmente
interessato alla sua vita sessuale, ma quella
fonte ha insinuato che potrebbe essere
oggetto di un ricatto. L’amministratore delegato di un’azienda metallurgica estera è
intenzionato a far scomparire ogni traccia di
operazioni fiscali che potrebbero nuocergli
nel paese dove ha sede, ma gli è precluso
l’accesso alle alte sfere del dipartimento
78/481
federale delle Finanze. Ha bisogno di una
“spintarella”.
Il direttore mi spiega che il nostro bersaglio non è Jacob König, ma coloro che
stanno tentando di corrompere e minare il
nostro sistema politico.
“Non sarà difficile. Basterà convincerlo che
siamo dalla sua parte.”
La Svizzera è uno dei pochi luoghi del
mondo in cui la parola data è sufficiente a
garantire un impegno. In gran parte degli
altri paesi sarebbero necessari avvocati,
testimoni e documenti firmati, oltre alla
minaccia di adire le vie legali nel caso in cui i
patti fossero violati.
“Ci occorrono soltanto una sua conferma e
alcune foto.”
“Quindi devo cercare di entrare in confidenza con lui?”
“Non dovrebbe essere difficile. Secondo
alcune fonti, avete già fissato un
79/481
appuntamento: è riportato anche nella sua
agenda ufficiale…”
Ecco il paese del segreto bancario: in
realtà, tutti sanno tutto di tutti.
“Adotta la procedura di routine.”
La “procedura di routine” è costituita da
quattro mosse: 1. Esordire con domande
riguardo a un argomento sul quale l’intervistato intende fare una dichiarazione pubblica. 2. Lasciarlo parlare per tutto il tempo
che desidera, in modo da fargli credere che il
giornale gli dedicherà un grande servizio. 3.
Alla fine dell’intervista, quando il soggetto
sarà ormai convinto di non correre alcun rischio, porre la domanda cruciale, l’unica davvero importante, facendogli capire che, se
non risponderà, non gli verrà concesso lo
spazio che si aspetta e che, quindi, avrà
sprecato il suo tempo. 4. In caso di risposta
evasiva, riformulare la domanda, evitando di
soprassedere. L’interlocutore dirà che è un
argomento che non interessa a nessuno: in
80/481
ogni
modo,
occorre
ottenere
una
dichiarazione, almeno una. Nel 99% dei casi,
l’intervistato cade nella trappola.
Questo è quanto serve. Poi si può cestinare
il resto dell’intervista e utilizzare la
dichiarazione per costruire l’articolo, che
non riguarderà l’intervistato, ma qualche
altro tema importante, e conterrà verifiche
giornalistiche, notizie ufficiali, informazioni
ufficiose, resoconti di fonti anonime ecc.
“Se si dimostra riluttante a rispondere,
insisti: digli che siamo dalla sua parte. Sai
come funziona il giornalismo. E ne terremo
conto…”
Sì, so perfettamente come funziona. La
carriera dei giornalisti è breve quanto quella
degli atleti. Raggiungiamo presto una sorta
di gloria ma, subito dopo, dobbiamo cedere il
passo alla generazione successiva. Sono
pochi coloro che riescono a continuare nella
carriera. Gli altri vedono crollare il proprio
standard di vita, si danno alla critica, creano
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blog, tengono conferenze e passano la maggior parte del loro tempo tentando di far
colpo sugli amici. Non esiste uno stadio
intermedio.
Attualmente io appartengo alla categoria
della “professionista promettente”. Se
otterrò la famosa dichiarazione, è probabile
che l’anno prossimo non sentirò questa
frase: “Dobbiamo tagliare le spese, e il tuo
contratto rientra tra queste. Di sicuro, non ti
sarà difficile trovare un altro impiego.”
Sarò promossa? Arriverò a decidere che
cosa pubblicare, magari in prima pagina? Il
lupo che stermina le pecore, l’esodo degli
investitori stranieri verso Dubai e Singapore,
o l’assurda penuria di immobili da affittare:
una prospettiva davvero affascinante per i
prossimi cinque anni…
Torno alla mia postazione, faccio qualche
telefonata senza importanza e leggo ogni
articolo appena interessante sulle varie testate online. È un’attività che occupa anche i
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colleghi accanto a me, i quali cercano disperatamente una notizia che impedisca una
riduzione della tiratura del giornale. Qualcuno dice che sono stati trovati dei cinghiali
lungo la ferrovia che collega Ginevra a
Zurigo. Ci si può scrivere un articolo?
Certo che sì. Proprio come la telefonata
che ho appena ricevuto da una donna di
ottant’anni: intendeva protestare contro la
legge che proibisce il fumo nei bar. Ha detto
che d’estate non c’è problema, ma d’inverno
ci sarà molta più gente che morirà di polmonite rispetto a quella che finisce al cimitero per un cancro ai polmoni, visto che tutti
saranno costretti a fumare fuori.
Ma, in realtà, che cosa stiamo facendo qui,
nella redazione di un giornale cartaceo?
Credo di saperlo: intendiamo salvare il
mondo per mezzo di un lavoro che adoriamo.
***
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Seduta nella posizione del loto, mentre
l’incenso spande il suo aroma nell’aria,
ascolto una musica insopportabilmente
simile a quella diffusa negli ascensori e mi
appresto a cominciare la mia “meditazione”.
Mi hanno consigliato di provare questa pratica qualche tempo fa, quando pensavano che
fossi “stressata”. (In effetti lo ero, ma vivevo
una situazione migliore del totale disinteresse per la vita che provo ora.)
“Le impurità della ragione vi turberanno.
Non dovete preoccuparvi. Accettate i pensieri che affioreranno. Non contrastate il loro
flusso.”
Perfetto, lo sto facendo. Allontano le
emozioni tossiche, come orgoglio, disillusione, gelosia, rivalsa, senso di inutilità.
Riempio lo spazio liberato con umiltà, gratitudine, comprensione, consapevolezza e
grazia.
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Penso che, nella mia dieta quotidiana, sto
assumendo troppo zucchero, e questo è deleterio per la salute fisica e per lo spirito.
Scaccio l’oscurità e la disperazione, e
invoco le forze del bene e della luce.
Mi ricordo ogni dettaglio del pranzo con
Jacob.
Intono un mantra insieme con gli altri
allievi.
Mi domando se le affermazioni del direttore corrispondano a verità. Jacob ha davvero tradito sua moglie? È realmente oggetto
di un ricatto?
L’insegnante ci chiede di immaginare di
essere protetti da un’armatura di luce.
“Dobbiamo vivere ogni singolo giorno con
la certezza che questa corazza ci proteggerà
dai pericoli, e che non saremo più legati alla
dualità dell’esistenza. Dobbiamo impegnarci
per trovare la ‘via di mezzo’, nella quale non
esistono né gioia né sofferenza, ma soltanto
una pace profonda.”
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Comincio a capire perché spesso salto le
lezioni di yoga. Dualità dell’esistenza? Via di
mezzo? Queste espressioni mi suonano
innaturali quanto l’indicazione di mantenere
il valore del colesterolo totale entro i 200
mg/dL, come prescritto lapidariamente dal
mio medico.
L’immagine dell’armatura resiste solo per
qualche secondo, poi si frantuma in mille
pezzi ed è sostituita dalla certezza assoluta
che Jacob sia affascinato da qualsiasi bella
donna che gli si pari davanti. E io, cosa
c’entro con questo?
Gli esercizi continuano. Cambiamo posizione e, come in ogni lezione, l’insegnante
insiste perché gli allievi si sforzino di
“svuotare la mente” almeno per qualche
secondo.
Il vuoto è la sensazione che temo maggiormente e che più mi ha accompagnato nella
vita. Se sapesse cosa mi sta chiedendo…
86/481
Comunque, non spetta a me giudicare una
tecnica che esiste da secoli.
Che cosa sto facendo qui?
Credo di saperlo: mi sto impegnando per
annullare lo stress.
***
Mi
sveglio di nuovo nel cuore della
notte. Vado nella stanza dei bambini per
controllare che stiano bene – è quasi
un’ossessione che, di tanto in tanto, tormenta tutti i genitori.
Poi torno a letto e rimango immobile a fissare il soffitto.
Non ho le forze per dire che cosa voglio o
non voglio fare. Perché non mi risolvo a lasciar perdere lo yoga? Perché non vado subito
da uno psichiatra e comincio ad assumere
degli antidepressivi? Perché non riesco a
controllarmi e a smettere di pensare a
Jacob? In definitiva, lui non ha mai lasciato
87/481
intendere di desiderare altro che una persona con la quale parlare di Saturno e delle
frustrazioni che, prima o poi, tutti gli adulti
sono costretti a fronteggiare.
Non mi sopporto più. La mia esistenza
sembra un film in cui la medesima scena si
ripete all’infinito.
Quando frequentavo la facoltà di giornalismo, ho seguito alcune lezioni di psicologia.
In una di esse, il professore – un uomo piuttosto interessante, tanto in aula quanto a
letto – disse che durante un’intervista un
qualsiasi soggetto passerà invariabilmente
attraverso cinque fasi: difesa, esaltazione di
sé, autostima, confessione e… tentativo di
accomodare la situazione.
Nella mia vita, senza bisogno di essere
intervistata, sono passata subito dall’autostima alla confessione. Comincio a dire a me
stessa cose che sarebbe meglio che rimanessero nascoste.
Per esempio: il mondo si è fermato.
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Non solo il mio, ma quello di tutti coloro
che mi circondano. Quando ci incontriamo
con gli amici, parliamo sempre dei soliti
argomenti e delle stesse persone. Sembrano
conversazioni nuove, ma costituiscono soltanto uno spreco di tempo ed energia. Ci
sforziamo di dimostrare che la vita continua
a essere interessante.
Tutti si adoperano per controllare la propria infelicità. Non solo Jacob e io ma, con
ogni probabilità, anche mio marito: la differenza consiste nel fatto che non lo manifesta.
Nella pericolosa fase di confessione in cui
mi trovo, queste cose cominciano ad apparire evidenti. Non mi sento sola, no. Sono circondata di persone che vivono i miei stessi
problemi, e tutte fingono che la loro vita
scorra pacifica e serena. Proprio come me.
Come il mio vicino. E, probabilmente, come
il mio direttore e l’uomo che dorme al mio
fianco.
89/481
Dopo una certa età, si inizia a indossare
una maschera fatta di sicurezze e buonsenso.
Con il tempo, essa si appiccica al viso, ed è
impossibile rimuoverla.
Da bambini, impariamo che se piangiamo,
riceviamo affetto, e se mostriamo di essere
tristi, otteniamo consolazione. Se non riusciamo a convincere con il sorriso, di sicuro
ciò accadrà con le lacrime.
Ma ormai non piangiamo più – tranne in
bagno, dove nessuno ci vede o ci ascolta – né
sorridiamo, se non ai nostri figli. Non manifestiamo i nostri sentimenti perché gli altri
potrebbero
giudicarci
vulnerabili
e
approfittarsene.
Dormire è il miglior rimedio.
***
Il giorno stabilito, mi incontro con Jacob.
Stavolta sono io a scegliere il posto, e ci ritroviamo nel bellissimo, ma poco curato, Parc
90/481
des Eaux-Vives, dove un altro pessimo ristorante
beneficia
delle
sovvenzioni
dell’amministrazione municipale.
Mi è capitato di pranzare lì con un corrispondente del “Financial Times”. Come
aperitivo, ordinammo due Martini, ma il
cameriere ci servì del vermouth Cinzano.
Nessun pranzo, per il mio incontro con
Jacob – solo panini a un tavolo sul prato. Lui
può fumare tranquillamente, giacché
abbiamo una visione privilegiata di quello
che ci circonda. Possiamo vedere chi viene e
chi va. Ho deciso di mostrarmi immediata e
sincera: dopo le frasi di circostanza (il
tempo, il lavoro, “Com’è andata in discoteca?”, “Ci vado stasera”), gli domando
subito se lo stanno ricattando per via di… Di
una relazione extraconiugale.
Non appare sorpreso. Vuole soltanto
sapere se sta parlando con la giornalista o
con l’amica.
91/481
Con la giornalista, per ora. Se mi conferma
la faccenda, posso assicurargli che il giornale
lo sosterrà. Non pubblicheremo alcunché
riguardo alla sua vita privata, ma ci
scateneremo contro i ricattatori.
“Sì, ho avuto una storia con la moglie di un
amico: immagino che tu lo conosca per via
del lavoro. È stato lui a favorirla, dato che
entrambi si sentivano prigionieri della
routine del matrimonio. Capisci cosa
intendo?”
Il marito ha incoraggiato la loro storia?
No, non lo capisco, tuttavia chino il capo in
un cenno affermativo e ripenso a ciò che mi è
accaduto l’altra sera, quando ho avuto degli
orgasmi multipli con mio marito.
“E la relazione continua?”
“Entrambi abbiamo perso ogni interesse
reciproco. Mia moglie ormai lo sa: ci sono
cose che non si possono nascondere. Un
nigeriano ci ha fotografati insieme e ora
92/481
minaccia di divulgare le immagini – ma
questa non è una novità per nessuno.”
“In Nigeria c’è la sede di quella famosa
azienda metallurgica, vero? Tua moglie non
ha minacciato di chiedere il divorzio?”
“È rimasta imbronciata per due o tre
giorni, soltanto questo. Ha grandi progetti
per il futuro del nostro matrimonio, e immagino che la fedeltà non sia una componente
fondamentale. Ha voluto mostrarsi gelosa, in
qualche modo, per fingere che fosse una
questione importante, ma è una pessima
attrice. Poche ore dopo la mia confessione,
sembrava aver già dimenticato tutto.”
A quanto pare, Jacob vive in un mondo
completamente diverso dal mio: le donne
non sono gelose, i mariti spingono le mogli a
intraprendere delle relazioni extramatrimoniali. Non è che mi stia perdendo troppe
cose?
“Non esiste niente che il tempo non sia in
grado di sanare. Non credi?”
93/481
“Dipende. In molti casi, il tempo può
anche aggravare il problema. È quello che sta
accadendo a me. Però, io sono qui per intervistarti, non per essere intervistata: di conseguenza, non intendo commentare.”
Lui prosegue: “Comunque, i nigeriani
ignorano diverse cose. Mi sono accordato
con il dipartimento federale delle Finanze
per tendergli una trappola. Registreremo
tutto, proprio come loro hanno fatto con
me.”
In quell’istante, vedo librarsi nell’aria il
mio articolo, quello che rappresenterebbe la
grande occasione per affermarmi in una professione sempre più decadente. Non c’è
niente di nuovo da raccontare – né adulteri
né ricatti né corruzione. Tutto rientra negli
standard svizzeri di qualità ed eccellenza.
“Credo che ormai tu abbia saputo tutto ciò
che volevi: possiamo passare ad altro?”
94/481
Sì, gli ho chiesto tutto. E, in verità, non mi
sovviene nessun altro argomento da
affrontare.
“Penso che tu non mi abbia chiesto perché
ho voluto rivederti. Perché ho voluto sapere
se eri felice. Immagini che io sia interessato a
te come donna? Non siamo più adolescenti.
Confesso che il tuo atteggiamento nel mio
ufficio mi ha sorpreso: mi è piaciuto enormemente godere tra le tue labbra, venirti in
bocca. Ma non è un motivo sufficiente per
rincontrarsi qui, tanto più che non potrà
accadere di nuovo in un luogo pubblico.
Allora, non vuoi sapere perché ho voluto
rivederti?”
La scatola magica che conteneva la
domanda sulla mia felicità – quella che mi
ha colto più alla sprovvista – spande la sua
luce in altri angoli oscuri. È possibile che non
capisca che queste sono domande da non
fare?
95/481
“Soltanto se vuoi dirmelo,” rispondo, per
provocarlo e per tentare di disintegrare
quella sua aria presuntuosa che mi rende
tanto insicura. Poi aggiungo: “Ovviamente
mi vuoi portare a letto. Non sarai il primo al
quale rifilo un bel ‘no’.”
Lui scuote il capo. Fingo di essere perfettamente a mio agio e mormoro una considerazione sulle onde che increspano il lago,
di solito piatto. Restiamo a guardarlo per
qualche momento, come se fosse la cosa più
interessante del mondo.
Fino a quando Jacob non riesce a trovare
le parole giuste:
“Come avrai notato, ti ho chiesto se eri
felice perché mi sono riconosciuto in te. I
simili si attraggono. È possibile che non sia
stato lo stesso per te, ma non importa. Forse
sei mentalmente esaurita e vivi nel convincimento che i tuoi problemi – inesistenti: sì, lo
sai perfettamente che non esistono – ti
stanno prosciugando ogni energia.”
96/481
Ricordo di aver avuto il medesimo pensiero durante il nostro pranzo: le anime in
pena si riconoscono e si attraggono per
spaventare i vivi.
“Provo la stessa sensazione,” continua.
“Con la differenza che i miei problemi sono
forse più concreti. Comunque, mi sorprendo
a odiarmi per non essere riuscito a risolvere
questa o quella faccenda, giacché dipendo
dall’approvazione di molte altre persone. E
questo mi fa sentire inutile. Ho pensato di
ricorrere all’aiuto di un medico, di uno specialista, ma mia moglie si è detta contraria.
Ha affermato che, se qualcuno lo scoprisse,
la mia carriera potrebbe esserne rovinata. Le
ho dato ragione.”
E così, parla di queste cose con la moglie.
Forse stasera lo farò anch’io con mio marito.
Anziché andare in discoteca, potrei sedermi
di fronte a lui e raccontargli tutto. Come
reagirebbe?
97/481
“Naturalmente ho compiuto molti errori.
Adesso mi sto sforzando di guardare il
mondo con occhi diversi, ma non funziona.
Quando trovo qualcuno come te – credimi,
ho incontrato tantissime persone che vivono
in una condizione analoga –, cerco di avvicinarmi e studiare il modo in cui sta affrontando il problema. Ho bisogno di aiuto, e
questa è l’unica maniera per ottenerlo.
Capisci?”
Ecco di che cosa si tratta veramente,
allora. Non è sesso, né una grande avventura
romantica che rischiari i grigi pomeriggi di
Ginevra. È soltanto una terapia di sostegno,
pressoché identica a quella riservata agli
alcolisti e ai tossicodipendenti.
Mi alzo.
Guardandolo negli occhi, gli dico che, in
realtà, sono molto felice e gli consiglio di
rivolgersi a uno psichiatra. La moglie non
può controllare ogni scelta della sua vita.
Inoltre, nessuno lo verrebbe a sapere – esiste
98/481
il segreto professionale. Gli racconto della
mia amica che, dopo aver seguito una cura a
base di psicofarmaci, è guarita. Vuole davvero passare il resto della vita scontrandosi
con il fantasma della depressione solo per
essere rieletto? È questo che desidera per il
suo futuro?
Jacob si guarda intorno, alla ricerca di
qualcuno in ascolto. Qualche momento
prima, l’ho fatto anch’io, pur sapendo che
eravamo soli – a parte qualche spacciatore
nella zona nord del parco, dietro il ristorante: gente che non ha alcun interesse ad
avvicinarci.
Non riesco a fermare il flusso delle mie
parole. Ascoltando me stessa, frase dopo
frase, mi rendo conto che mi sto aiutando.
Gli dico che la negatività si autoalimenta.
Che deve cercare un’attività che gli dia una
qualche gioia – andare in barca a vela o al
cinema, oppure leggere.
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“Non si tratta di questo. Non mi hai
capito.” Sembra disorientato dalla mia
reazione.
“E invece ti ho capito, sì. Quotidianamente
recepiamo migliaia di informazioni: manifesti in cui adolescenti truccate si fingono
donne mature e offrono prodotti miracolosi
per una bellezza eterna; storie strabilianti,
come quella di una coppia di anziani che ha
scalato
l’Everest
per
festeggiare
l’anniversario di matrimonio; pubblicità di
nuovi e rivoluzionari attrezzi per il massaggio; espositori stipati di prodotti per dimagrire all’interno delle farmacie; film che diffondono un’idea falsa dell’esistenza; libri che
promettono risultati fantastici in svariati
campi; programmi di sedicenti esperti che
consigliano i modi migliori per fare carriera
o raggiungere la pace interiore. E tutto
questo ci fa sentire vecchi, sfiancati da una
vita ovvia e insulsa, mentre la pelle diventa
flaccida, i chili si accumulano, e noi siamo
100/481
costretti a reprimere le emozioni e i desideri,
perché non rientrano in quella che viene
definita ‘maturità’.
“Devi selezionare le informazioni che ti
arrivano. Metterti uno schermo sugli occhi e
un filtro sulle orecchie, e far entrare soltanto
ciò che non ti affligge – a buttarti giù, basta
la quotidianità. Credi che io non sia giudicata
e criticata sul lavoro? Certo che sì, ogni benedetto giorno! Semplicemente ho scelto di
prestare ascolto soltanto a ciò che mi
fornisce uno stimolo per migliorare, a quello
che mi aiuta a correggere i miei errori. Evito
di ascoltare tutto il resto, oppure lo scarto
senza prenderlo davvero in considerazione.
“Sono venuta qui per chiederti spiegazioni
su una storia complicata, nella quale si
fondevano adulterio, ricatto e corruzione. Ma
te la sei cavata in un modo splendido. Davvero non riesci a vederlo?”
Quasi senza riflettere, mi risiedo accanto a
lui, gli prendo la testa tra le mani perché non
101/481
possa sfuggirmi e gli do un lungo bacio.
Jacob esita per una frazione di secondo, ma
poi ricambia. Immediatamente, tutte le mie
sensazioni d’impotenza, fragilità, fallimento
e insicurezza lasciano il campo a un’immensa
euforia. All’improvviso, sono diventata saggia, ho ripreso il controllo della situazione e
ho trovato il coraggio di fare qualcosa che
prima osavo soltanto immaginare. Sto
avventurandomi in terre sconosciute e mari
perigliosi,
distruggendo
piramidi
e
costruendo santuari.
Adesso sono ancora padrona dei miei pensieri e delle mie azioni. Ciò che al mattino
sembrava impossibile, nel pomeriggio è
divenuto reale. Ora sento di nuovo, posso
amare qualcosa che non possiedo; il vento
non mi infastidisce più, anzi è diventato una
benedizione, la carezza di una divinità sulla
mia guancia. Il mio spirito è tornato.
Mi sembra che durante il bacio siano passate centinaia d’anni. I nostri visi si
102/481
allontanano piano. Jacob mi accarezza il
capo con dolcezza, ci guardiamo negli occhi:
è uno sguardo che si perde nelle profondità
dell’animo.
Poi, di colpo, ritroviamo quel che abbiamo
lasciato neppure un minuto prima.
La tristezza.
Che va a sommarsi alla stupidità e all’irresponsabilità di un gesto che – perlomeno nel
mio caso – aggraverà la situazione.
Restiamo insieme ancora per mezz’ora,
chiacchierando della città e dei suoi abitanti,
come se non fosse successo niente. Credo che
fossimo molto vicini, quando siamo arrivati
al Parc des Eaux-Vives; poi, nel momento del
bacio, ci siamo fusi in un solo essere; adesso,
invece, sembriamo due estranei che si sforzano di mantenere viva la conversazione, fino
a quando ciascuno si deciderà a riprendere la
propria strada senza grande imbarazzo.
Non ci ha visto nessuno – non siamo in un
ristorante. I nostri matrimoni sono salvi.
103/481
Vorrei chiedergli scusa, ma so che non è
necessario. In fin dei conti, un bacio è soltanto un bacio.
***
Non posso dire di sentirmi vittoriosa, ma
perlomeno ho recuperato un briciolo di controllo su me stessa. A casa, tutto è uguale a
sempre: prima stavo malissimo, e ora sto un
po’ meglio, ma nessuno mi ha domandato
niente.
Mi comporterò come Jacob König: parlerò
con mio marito dello strano stato d’animo
nel quale vivo. Mi confiderò con lui, e sono
certa che saprà aiutarmi.
Eppure oggi tutto funziona alla perfezione!
Perché rovinare questa bella realtà, confessando episodi dei quali non conosco nemmeno il valore? Continuo a lottare. Non
credo che i miei tormenti attuali abbiano un
qualche rapporto con la mancanza di taluni
104/481
elementi chimici nel mio organismo, come
affermano certi siti internet in cui si parla
anche di “tristezza compulsiva”.
Oggi non sono triste: si tratta dell’inevitabile susseguirsi delle fasi della vita. Mi
ricordo di quando la mia comitiva del liceo
organizzò la festa di addio: passammo due
ore a ridere a crepapelle e, alla fine, scoppiammo in un pianto dirotto, perché
quell’allegra serata indicava che ci stavamo
separando per sempre. La tristezza si protrasse per alcuni giorni, o forse per alcune
settimane: non rammento con precisione.
Ma il fatto che non ricordi è eloquente: tutto
è passato. Superare i trent’anni è estremamente difficile e, con ogni probabilità, non
ero ancora pronta.
Mio marito sale al piano di sopra per
mettere a letto i bambini. Io mi verso un bicchiere di vino ed esco in giardino.
Il vento non è cessato. È qualcosa di familiare, qui, e soffia per tre, sei o nove giorni. In
105/481
Francia, un paese molto più romantico della
Svizzera, lo chiamano “Mistral”, ed è sempre
foriero di cieli tersi e temperature rigide. Se
queste nuvole si allontanassero, domani
sarebbe una splendida giornata di sole.
Continuo a pensare alla conversazione nel
parco, a quel lungo bacio. Non provo alcun
pentimento. Ho fatto qualcosa che non mi
ero mai permessa prima, e così ho cominciato ad abbattere i muri che mi
imprigionavano.
Mi importa assai poco di ciò che pensa
Jacob König: non posso passare la vita cercando di compiacere gli altri.
Finisco il bicchiere di vino, lo riempio di
nuovo e, dopo tanti mesi, mi gusto queste
prime ore in cui provo un sentimento diverso
dall’apatia e dalla sensazione di inutilità.
Mio marito scende perfettamente vestito e
mi domanda quanto tempo mi ci voglia per
prepararmi. Mi ero dimenticata che avevamo
deciso di andare a ballare stasera.
106/481
Salgo di corsa a vestirmi.
Quando ritorno a pianterreno, noto che è
arrivata la babysitter filippina e ha
sparpagliato i libri sul grande tavolo della
sala. I bambini sono già a letto e non dovrà
quasi occuparsi di loro: ne approfitterà per
studiare – sembra che odi la televisione.
Siamo pronti per uscire. Ho indossato uno
dei miei abiti più eleganti, forse inadatto in
un ambiente piuttosto informale. Ma che
cosa importa? Devo festeggiare.
***
Mi sveglio per il rumore di una persiana
sbattuta dal vento: mio marito avrebbe
dovuto verificare che fosse chiusa bene. Ora
mi devo alzare per il solito rituale notturno:
andare nella camera dei bambini per controllare che dormano sereni.
Qualcosa, però, me lo impedisce. Che sia
un effetto di ciò che ho bevuto? Mi ritrovo a
107/481
pensare alle onde che increspavano il lago,
alle nuvole che ormai si sono dissolte e alla
persona con cui stavo. Della discoteca
ricordo assai poco: entrambi abbiamo
trovato la musica insopportabile e l’ambiente
noiosissimo. Mezz’ora dopo eravamo di
ritorno a casa, ai nostri fedeli computer e
tablet.
E tutte le cose che ho detto a Jacob oggi
pomeriggio? Non dovrei approfittare di
questo momento per riflettere su me stessa?
Ma questa stanza mi soffoca. Il mio meraviglioso marito dorme accanto a me: a quanto
pare, non ha udito il rumore della persiana.
Penso a Jacob disteso al fianco della moglie,
mentre le racconta ogni sua sensazione (sono
certa che tacerà al mio riguardo), sollevato
dal fatto di avere qualcuno che può aiutarlo
quando si sente più solo. Non credo alla sua
descrizione di lei: se fosse davvero così, si
sarebbero già separati – in fondo, non hanno
neppure figli!
108/481
Mi domando se il Mistral abbia svegliato
anche lui e di che cosa stiano parlando in
questo momento. Dove abitano? Non è difficile scoprirlo: questo genere di informazioni
è facilmente reperibile in redazione. Avranno
fatto l’amore stasera? L’avrà penetrata con
passione? Lei avrà mugolato di piacere?
Sono sempre più sorpresa dal modo in cui
mi comporto con lui. Sesso orale, consigli
assennati, un bacio nel parco: non sembro
nemmeno io! Chi è la figura femminile che si
impadronisce di me quando sono con Jacob?
L’adolescente provocante. Quella ragazza
che aveva la sicurezza di una roccia e la forza
del vento che oggi flagellava le acque del lago
Lemano, di solito calme. È curioso il fatto
che, quando ci si ritrova con i compagni di
scuola, si pensi che siano rimasti gli individui
del passato – e invece l’amico deboluccio è
diventato forte, la più bella della classe ha un
marito impresentabile, i due tizi inseparabili
si sono allontanati e non si vedono da anni.
109/481
Ma con Jacob, almeno nei primi momenti
del nostro incontro, sono stata io a tornare
indietro nel tempo, fino a essere la ragazza
che non teme alcuna conseguenza, perché ha
soltanto sedici anni e il ritorno di Saturno
che le porterà la maturità è ancora lontano.
Tento di dormire, ma non ci riesco. Passo
più di un’ora a pensare ossessivamente a lui.
Poi mi viene in mente il vicino che lava la
macchina: impegnato in un’attività che
reputavo insulsa, avevo concluso che la sua
vita fosse “senza senso”. Non stava facendo
qualcosa di inutile: probabilmente si divertiva, s’impegnava in un esercizio fisico e
accettava le cose semplici della vita come una
benedizione, non come un’incombenza fastidiosa o una maledizione.
Ecco che cosa mi manca: rilassarmi e
godermi di più la vita. Non posso continuare
a pensare a Jacob. Sto sostituendo la mia
mancanza di allegria con qualcosa di concreto: un uomo. Ma non si tratta di questo.
110/481
Se mi rivolgessi a uno psichiatra, mi direbbe
che il problema è un altro: la carenza di litio,
una produzione assai bassa di serotonina,
cose del genere. Il disagio non si è manifestato con l’arrivo di Jacob e non scomparirà con il suo allontanamento.
E tuttavia non riesco a dimenticarlo. La
mente rivisita decine, centinaia di volte il
momento del nostro bacio.
Mi rendo conto che il mio inconscio sta
trasformando un problema immaginario in
una difficoltà reale. Accade sempre così: ecco
il motivo per cui insorgono le malattie.
Non voglio più vedere quell’uomo in vita
mia. È un emissario del demonio, mandato
per destabilizzare qualcosa che era già
insicuro, fragile. Come ho potuto innamorarmi così rapidamente di una persona che
ormai neppure conosco? E poi… chi ha detto
che sono innamorata? D’accordo, ho dei
problemi, ma sono iniziati con la primavera.
Se fino ad allora tutto è andato bene, non
111/481
vedo il motivo per cui la mia vita non debba
tornare a funzionare.
Mi ripeto quanto ho già avuto modo di
dirmi: ‘È una fase, soltanto questo.’
Non posso mantenere vivo il fuoco e continuare a perseguire comportamenti nocivi.
Non è forse questo che ho voluto fargli
intendere oggi pomeriggio?
Devo resistere e aspettare che la “crisi”
passi. Altrimenti corro il rischio di innamorarmi per davvero, di vivere in modo permanente le sensazioni che ho avvertito per una
frazione di secondo quando abbiamo pranzato insieme la prima volta. E, se ciò dovesse
accadere, non riuscirò a mantenere tutto chiuso dentro di me. Al contrario, la sofferenza
e il dolore dilagheranno ovunque.
Mi rigiro nel letto per un periodo di tempo
pressoché infinito; poi cedo al sonno e, dopo
quello che mi sembra un istante, mio marito
mi sveglia. È giorno, il cielo è azzurro e il
Mistral continua a soffiare.
112/481
***
“È l’ora della colazione. Non preoccuparti: i bambini li preparo io.”
“Perché non ci scambiamo i ruoli, almeno
una volta? Tu vai in cucina e io vesto i
bambini per la scuola.”
“È una sfida? Be’, allora avrai la miglior
colazione che tu abbia mai consumato in
questi anni.”
“No, non si tratta di una sfida: è soltanto
un tentativo di introdurre qualche variante
nella nostra quotidianità. A ogni modo, vuoi
forse dire che la mia colazione non è particolarmente buona?”
“Senti, è ancora presto per discutere. Forse
ieri sera abbiamo bevuto troppo, e la frequentazione delle discoteche non si addice
alle persone della nostra età. Comunque,
d’accordo, prepara tu i bambini.”
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Si allontana prima che possa rispondere.
Prendo il cellulare e controllo gli impegni che
mi attendono in questo nuovo giorno.
Scorro la lista delle incombenze che dovrò
obbligatoriamente portare a termine. Quanto
più lungo è l’elenco, tanto più produttiva
sarà la mia giornata. Molte annotazioni
dell’organizer riguardano cose che mi ero
ripromessa di fare il giorno prima, o nel
corso della settimana, e che finora non sono
riuscita a evadere. Ecco perché la lista continua ad allungarsi: di tanto in tanto, però,
vengo assalita da una sorta di furore e cancello tutto, per ricominciare daccapo. È in
quel momento che mi rendo conto che niente
era davvero importante.
Nelle annotazioni non figurano un paio di
attività delle quali, di sicuro, non mi
dimenticherò: scoprire dove abita Jacob
König e trovare un momento per passare in
macchina davanti a casa sua.
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Quando scendo, la tavola è apparecchiata
alla perfezione – una grossa ciotola con la
macedonia di frutta, un’ampolla con l’olio
d’oliva, un tagliere di formaggi, pane integrale, yogurt, susine. C’è anche una copia del
mio giornale, posato a sinistra della tazza per
il caffè – un gesto davvero gentile. Da tempo,
mio marito ha abbandonato la carta stampata e legge le riviste e i quotidiani sull’iPad.
Il nostro figlio maggiore chiede che cosa significa “ricatto”. Non mi spiego la sua
domanda, fino al momento in cui il mio
sguardo scivola sull’articolo in prima pagina,
dove campeggia una grande foto di Jacob –
una delle molte inviate alla stampa. Ha
un’aria pensierosa, riflessiva. Accanto
all’immagine, il titolo: “Deputato denuncia
un tentativo di ricatto”.
Non sono io l’autrice del pezzo. Mentre ero
ancora per strada, il direttore mi aveva telefonato per dirmi che potevo annullare
l’appuntamento con König: avevano appena
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ricevuto un comunicato dal dipartimento
federale delle Finanze e stavano lavorando al
caso. Gli avevo spiegato che l’incontro era già
avvenuto, che si era svolto in maniera più
rapida di quanto avessi immaginato e che
non era stato necessario usare la “procedura
di routine”. A quel punto, il caposervizio
della cronaca mi aveva spedito in un sobborgo (che si considera città, e ha persino un
consiglio comunale) per “coprire” la protesta
contro un negozio di alimentari accusato di
vendere cibi scaduti. Avevo ascoltato il proprietario dell’esercizio, i vicini di casa e i loro
amici, ed ero sicura che, per il pubblico,
questo argomento fosse ben più interessante
del fatto che un politico avesse denunciato
un tentativo di estorsione. Tra parentesi,
stamane l’articolo era in prima pagina, ma
senza alcun rilievo: “Cibi scaduti: negozio di
alimentari multato. Finora nessun intossicato in ospedale”.
116/481
La foto di Jacob sul tavolo della colazione
mi disturba profondamente.
Dico a mio marito che stasera vorrei
parlargli.
“Lasceremo i bambini da mia madre e
andremo a cena fuori,” replica lui. “Anch’io
ho voglia di passare un po’ di tempo con te.
Noi due soli. E senza il rumore di
quell’orribile musica da discoteca: non riesco
proprio a capire come possa aver successo.”
***
Era una mattina di primavera.
Io mi trovavo in un angolo del piccolo
parco, in una zona di solito deserta. Contemplavo le mattonelle del muro della scuola.
Sapevo che c’era in me qualcosa che non
andava.
Gli altri bambini dicevano che mi davo arie
di superiorità, e io non facevo alcunché per
smentirli. Al contrario! Volevo che mia
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madre continuasse a comprarmi abiti griffati
e mi accompagnasse a scuola con l’automobile di lusso.
Poi, quel giorno nel parco, mi resi conto di
essere davvero sola. E che forse sarei rimasta
tale per il resto dei miei giorni. Sebbene
avessi soltanto otto anni, mi sembrava già
troppo tardi per cambiare, per dire agli altri
che, in realtà, ero come loro.
***
Era estate.
Frequentavo il liceo, e i ragazzi si
inventavano sempre modi nuovi per corteggiarmi, sebbene mi sforzassi di tenerli a distanza. Le altre ragazze mi invidiavano, non
accettavano quella sorta di privilegio; ma,
nonostante questo, cercavano di diventarmi
amiche e di stare sempre con me – per prendere ciò che rifiutavo.
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E io rifiutavo praticamente tutti, perché
sapevo che, se qualcuno fosse riuscito a
entrare nel mio mondo, non avrebbe
scoperto nulla di interessante. Preferivo rifugiarmi in quell’aria di mistero, lasciando
immaginare agli altri delizie di cui non
avrebbero mai goduto.
Un giorno, mentre tornavo a casa, notai
alcuni funghi spuntati dopo la pioggia. Si
stagliavano nel verde, intoccati: tutti
sapevano che erano velenosi. Per una
frazione di secondo, considerai l’idea di
mangiarli. Non ero particolarmente triste:
volevo solo attirare l’attenzione dei miei
genitori.
Alla fine, decisi di non toccarli.
***
Oggi è il primo giorno d’autunno, la stagione più bella dell’anno. Fra poco le foglie
cambieranno colore, e ogni albero sarà
119/481
diverso dall’altro. Mentre sto raggiungendo il
parcheggio, decido di prendere una strada
che abitualmente non percorro.
Mi fermo davanti alla scuola della mia
infanzia. Il muro di mattonelle c’è ancora.
Niente è cambiato, a parte il fatto che non
sono più sola. Mi accompagna il ricordo di
due uomini: uno che non avrò mai, e un altro
con il quale andrò a cena stasera, in qualche
splendido ristorante – mi porterà in un posto
speciale, scelto con cura.
Un uccello incrocia nel cielo: sembra
giocare con il vento. Va ora a destra ora a
sinistra, sale e scende, come se i suoi movimenti fossero dettati da qualche regola per
me incomprensibile. Forse l’unica regola è
quella del proprio divertimento.
***
Ma io non sono un uccello, e non riuscirei a vivere la mia esistenza giocando. Molti
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amici, magari meno facoltosi di me e mio
marito, passano da un viaggio all’altro, da un
ristorante all’altro. Ho tentato di comportarmi anch’io così, ma non ci sono riuscita.
Grazie all’influenza del mio consorte, ho
trovato un impiego. Lavorando, occupo il
tempo, mi sento utile e do un senso alla vita.
Un giorno, i miei figli saranno orgogliosi
della loro madre; le mie amiche d’infanzia,
invece, si sentiranno ancora più frustrate,
perché io sono riuscita a costruire qualcosa
di concreto, mentre loro dedicano ogni energia alla cura della casa, dei figli e del coniuge.
Non so se tutti avvertano il mio stesso
desiderio di far colpo sugli altri. Io lo vivo
quotidianamente, e non lo nego: è stato un
elemento positivo per la mia vita e mi ha
spronato in molte situazioni. È qualcosa di
benefico, purché non mi esponga a rischi
superflui. Purché io riesca a conservare ogni
cosa del mio mondo esattamente com’è oggi.
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Appena arrivo al giornale, controllo gli
archivi digitali delle informazioni sul governo. In meno di un minuto, entro in possesso dell’indirizzo di Jacob König, oltre a
notizie su dove ha studiato e quanto
guadagna; apprendo anche il nome di sua
moglie e dove lavora.
***
Mio
marito ha scelto un ristorante a
metà strada tra la nostra casa e il mio ufficio.
Ci siamo già stati più volte: si chiama “Le
Valon”. Ho apprezzato il cibo, il vino e
l’ambiente – tuttavia, continuo a pensare che
la cucina casalinga sia migliore. Tranne rari
casi, ceno fuori solo quando la “vita sociale”
me lo impone. Adoro cucinare. Adoro stare
con la famiglia, avere la sensazione di proteggere i miei cari e, nel contempo, di sentirmi protetta.
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Tra le attività inevase del mio elenco del
giorno c’è “Passare in macchina davanti a
casa di Jacob König”. Sono riuscita a resistere all’impulso. Devo affrontare già troppe
difficoltà immaginarie per aggiungervi il
problema reale di un amore non corrisposto.
Quel che sentivo ormai è passato. Non ricapiterà. Sono attesa da un futuro di pace, speranza e prosperità.
“Dicono che sia cambiata la gestione, e la
qualità dei piatti sia diminuita,” commenta
mio marito.
Non ha importanza. Nei ristoranti, il cibo è
sempre uguale: tanto burro, pietanze molto
decorate e, visto che viviamo in una delle
città più care del mondo, un prezzo esorbitante che non vale assolutamente il menù
servito.
Ma cenare fuori è un rito. Siamo accolti dal
maître, che ci accompagna al “nostro” tavolo
(lo sottolinea, anche se è da tempo che non
mettiamo piede nel locale), ci domanda se
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desideriamo il solito vino (certo che sì) e ci
porge il menù. Lo scorro dall’inizio alla fine,
prima di scegliere il piatto di sempre. Anche
mio marito opta per il tradizionale “Agnello
arrosto con lenticchie”. Il maître torna per
illustrarci le specialità del giorno: ascoltiamo
educatamente, commentiamo con un paio di
parole gentili e ordiniamo le nostre pietanze
abituali.
***
Il primo bicchiere di vino – nessun esame
meticoloso né assaggio rituale, visto che
siamo sposati da dieci anni – finisce rapidamente, fra discorsi di lavoro e lamentele
riguardo alla mancata visita dell’artigiano
incaricato del controllo dell’impianto di
riscaldamento di casa.
“Come vanno gli articoli sulle elezioni di
domenica prossima?” domanda mio marito.
124/481
“Mi hanno assegnato un argomento che
reputo particolarmente interessante: ‘La vita
privata di un politico può essere giudicata
dagli elettori?’ Il pezzo costituisce un approfondimento dell’articolo che era in prima
pagina stamane, quello in cui si parlava del
deputato ricattato dai nigeriani. L’opinione
generale degli intervistati è: ‘Non ci riguarda.
Non siamo come gli Stati Uniti, e questo è un
motivo d’orgoglio.’”
Chiacchieriamo di altri argomenti d’attualità: la percentuale di votanti è salita del 38%
rispetto all’ultima elezione per il Consiglio
Nazionale; gli autisti del TPG (Transports
Publics Genevois) si lamentano per i turni
pesanti, ma sono contenti del loro lavoro;
una donna è stata investita mentre attraversava sulle strisce pedonali; un treno ha
deragliato, bloccando la circolazione ferroviaria per oltre due ore, e altre futilità del
genere.
125/481
Mi verso un secondo bicchiere di vino,
senza aspettare l’antipasto offerto dalla casa
e senza domandare a mio marito com’è
andata la sua giornata. Lui ha ascoltato con
espressione interessata tutti i miei racconti.
A questo punto, si starà domandando perché
siamo qui.
“Oggi mi sembri allegra,” dice, dopo che il
cameriere ci ha servito la portata principale.
All’improvviso, mi rendo conto che sto parlando ininterrottamente da venti minuti. “È
successo qualcosa di speciale?”
Se mi avesse fatto questa domanda il
giorno in cui sono stata al Parc des EauxVives, sarei arrossita e avrei elencato la lista
di scuse che mi ero preparata. E invece non
ho niente da nascondere: la giornata è trascorsa nel solito tran tran, nonostante io mi
sia sforzata di convincermi che sono molto
importante per il mondo.
“Allora, di che cosa volevi parlarmi?”
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Mi preparo a confessare tutto, e porto alle
labbra il terzo bicchiere di vino. A quel punto
si avvicina il maître, cogliendomi di sorpresa
mentre sto per saltare nell’abisso. Scambiamo qualche parola senza importanza:
preziosi momenti della mia vita vengono
sprecati fra gentilezze reciproche.
Mio marito ordina un’altra bottiglia di
vino. Dopo averci augurato buon appetito,
l’uomo si allontana per andare a prenderla. È
allora che comincio:
“Mi dirai che ho bisogno di un medico. Be’,
non è così. Rispetto tutti gli impegni e non
mi sottraggo alle varie incombenze, in casa e
al lavoro. Ma da alcuni mesi sono triste…”
“Be’, francamente ne sono stupito. Ti ho
appena detto che mi sembri più allegra.”
“Certo. La mia tristezza è ormai diventata
una routine: non la nota più nessuno. Sono
felice di avere qualcuno con cui parlarne.
Comunque, ciò che voglio dirti non riguarda
affatto la mia apparente allegria. Non riesco
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più a dormire bene. Mi sento egoista. Cerco
di far colpo sugli altri, come se fossi ancora
una bambina. Mi rifugio in bagno a piangere,
senza alcun motivo. Negli ultimi mesi, ho
fatto l’amore con trasporto soltanto una volta
– e tu sai perfettamente quando è accaduto.
Mi sono detta che tutto ciò appartiene a una
fase di passaggio, che è una conseguenza
dell’aver superato la soglia dei trent’anni, ma
queste spiegazioni non mi bastano. Credo di
star sprecando la mia vita: temo che un
giorno mi guarderò indietro e mi pentirò di
ogni cosa che ho fatto. Tranne che di essermi
sposata con te e di avere avuto i nostri bellissimi figli.”
“Ma questa non è la cosa più importante?”
“Per molte persone, sì. Ma, per me, non è
E le mie condizioni peggiorano sempre più.
Dopo aver concluso gli impegni della
giornata, nella mia testa inizia un dialogo
interminabile. Ho il terrore che le cose
cambino ma, nel contempo, avverto un
128/481
enorme desiderio di vivere qualcosa di
diverso. I pensieri si affollano, si intersecano,
si ripetono – e io non riesco più ad avere il
controllo su niente. Non ti rendi conto di
nulla perché stai dormendo. Ieri sera, ti sei
accorto della persiana che sbatteva per il
Mistral?”
“No. Ma mi sembra di averle chiuse tutte.”
“Ecco cosa voglio dire. Persino un vento
che ha soffiato migliaia di volte dal giorno
del nostro matrimonio riesce a svegliarmi. E
accade anche quando ti giri nel letto o parli
nel sonno. Non si tratta di una critica personale, credimi, ma a me sembra di essere
circondata da un mondo assolutamente
insensato. Per sgombrare il campo da ogni
dubbio: amo i nostri figli e amo te. E adoro il
mio lavoro. Ma tutto questo mi fa solo sentire peggio, giacché mi comporto in modo
ingiusto con Dio, con la vita, con tutti.”
Mio marito non ha quasi toccato cibo. È
come se si trovasse davanti a un’estranea.
129/481
Dopo aver pronunciato quelle parole, mi
sono sentita pervasa da una pace immensa.
Ho rivelato il mio segreto. Avverto gli effetti
del vino. Non sono più sola. Grazie, Jacob
König.
“Non pensi che sarebbe il caso di consultare un medico?”
“Non lo so. Ma, se anche fosse così, mi rifiuto categoricamente di farlo. Devo imparare
a risolvere i miei problemi da sola.”
“Immagino che sia estremamente difficile
riuscire a nascondere questo disagio, queste
emozioni per tanto tempo. Grazie per avermi
concesso la tua fiducia. Per quale motivo non
me ne hai parlato prima?”
“Perché solo negli ultimi tempi le cose
sono diventate insopportabili. Oggi mi sono
ricordata della mia infanzia e della mia
adolescenza. Mi sono chiesta se il seme fosse
già lì. Penso di no. A meno che la mia mente
non mi abbia tradito per tutti questi anni –
un’eventualità che reputo praticamente
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impossibile. Vengo da una famiglia normale,
ho avuto un’educazione normale, conduco
una vita normale. Cosa c’è di sbagliato in
me? Prima…” dico, fra le lacrime, “pensavo
che la ‘crisi’ sarebbe passata presto, e non
volevo preoccuparti.”
“Di certo, non sei matta. Non hai lasciato
trasparire niente, neppure per un istante.
Non ti sei mostrata più irritabile, né hai
perso peso. Se esiste un problema, esiste
anche una via d’uscita.”
Chissà perché ha parlato di perdere peso?
“Potrei chiedere al nostro medico di prescriverti qualche ansiolitico che ti aiuti a
dormire. Anzi, gli dirò che serve a me. Sono
convinto che, se riuscirai a riposare, a poco a
poco tornerai a dominare i tuoi pensieri.
Forse dovremmo fare più esercizio fisico. Ai
bambini piacerebbe tantissimo. Siamo
troppo concentrati sul lavoro, e questo non
va bene.”
131/481
Io non sono troppo concentrata sul lavoro.
Contrariamente a ciò che pensa mio marito,
quei reportage idioti mi aiutano a tenere la
mente occupata, evitando che i pensieri
incontrollabili s’impossessino di me, come
accade non appena non ho qualcosa da fare.
“In qualsiasi caso, abbiamo proprio
bisogno di fare dell’esercizio fisico, di stare
all’aria aperta. Di correre a perdifiato, fino a
crollare per la stanchezza. E poi… magari
dovremmo invitare più gente a casa…”
Questo sarebbe l’incubo finale! Dover conversare, intrattenere gli ospiti, avere sempre
un sorriso (forzato) sulle labbra, ascoltare
disamine e opinioni sulla lirica e sul traffico
e, alla fine, essere obbligata a rassettare la
casa.
“Durante il weekend, potremmo andare al
parco dell’Haut Jura. È molto tempo che non
facciamo una gita da quelle parti.”
“Questo fine settimana ci sono le elezioni.
E io sarò di turno al giornale.”
132/481
Restiamo in silenzio. Per due volte, il
cameriere è venuto a vedere se avevamo terminato di mangiare, ma le nostre pietanze
erano intoccate. La seconda bottiglia di vino
finisce presto. Immagino che ora mio marito
stia pensando a un modo per aiutarmi:
‘Come devo comportarmi? Cosa posso fare
per renderla felice?’ Niente. Niente, oltre a
quello che fa già. Qualsiasi altra cosa –
presentarsi con una scatola di cioccolatini o
un mazzo di fiori ecc. – la considererei un
eccesso di affetto, e ne sarei profondamente
disturbata.
Riprendiamo a parlare e giungiamo alla
conclusione che nessuno dei due è in condizione di guidare per tornare a casa: dovremo
lasciare l’auto nel parcheggio del ristorante e
venire a riprenderla domani. Telefono a mia
suocera, le chiedo di ospitare i bambini per
la notte. Domattina presto, li andrò a prendere per accompagnarli a scuola.
133/481
“Ma che cosa ti manca esattamente nella
vita?”
“Ti prego, non chiedermelo. Perché la risposta sarebbe: ‘Niente.’”
Niente! Magari avessi dei problemi seri da
risolvere. Non conosco nessuno che si trovi
nella mia stessa situazione. Persino una mia
amica, che per anni è stata depressa, si sta
curando con successo. Io non penso di
averne bisogno, perché non ho tutti i sintomi
che mi ha descritto. In qualsiasi caso, mi rifiuto di affidarmi agli psicofarmaci, di entrare
nel pericoloso mondo delle droghe legali.
Quanto agli altri, possono essere irritabili,
stressati, afflitti per una pena amorosa – e,
in quest’ultimo caso, immaginare di essere
depressi e di aver bisogno di medici e farmaci. Ma per me non è affatto così: penso
che sia soltanto un cuore spezzato, qualcosa
che accade dall’alba del mondo, da quando
l’uomo ha scoperto quell’entità misteriosa
che si chiama “Amore”.
134/481
“Se non vuoi andare da un medico, perché
non cerchi di documentarti sull’argomento?”
“Ovviamente, l’ho già fatto. Ho speso moltissime ore consultando siti che si occupano
di psicologia. Mi sono dedicata più assiduamente allo yoga. Non hai notato che i miei
ultimi libri acquistati rivelano un cambiamento di gusti letterari? Hai forse pensato
che i miei interessi si fossero indirizzati verso
il lato spirituale delle cose?”
No! Sto cercando una risposta che non
trovo. Dopo aver letto una decina di libri
intrisi di principi di saggezza, ho capito che
non mi portavano da nessuna parte. Avevano
un effetto immediato ma, appena li chiudevo, quelle regole non funzionavano più.
Erano parole, frasi che descrivono un mondo
ideale che probabilmente non esiste neppure
per chi le ha concepite.
“Ma adesso, qui, a cena, ti senti meglio?”
“Sicuro. Ma non si tratta di questo. Io
voglio sapere in chi mi sono trasformata. Ora
135/481
sono così nel mio intimo, e ho un assoluto
bisogno di comprendere.”
Capisco che sta tentando disperatamente
di aiutarmi, ma è smarrito quanto me.
Insiste sui sintomi, e io gli ripeto che non è
questo il problema, che ogni cosa può dirsi
un sintomo. “Hai presente l’idea di un buco
nero spugnoso?”
“Vagamente.”
“Ecco, è così.”
Mi rassicura sul fatto che uscirò da questa
situazione. Non devo giudicarmi. Non devo
incolparmi per niente di ciò che mi sta
accadendo. Lui è accanto a me.
“Alla fine del tunnel c’è la luce.”
Voglio crederlo, ma i miei piedi sono
imprigionati dal cemento. “Comunque, non
preoccuparti: continuerò a lottare. Ho lottato
per lunghi mesi. Ho già affrontato periodi
simili e, alla fine, tutto si è risolto. Un giorno
mi sveglierò e, d’un tratto, questo sarà stato
136/481
soltanto un incubo lontano. Sono profondamente fiduciosa.”
Mio marito chiede il conto; poi mi prende
per mano. Chiamiamo un taxi. Io mi sento
meglio. Aver fiducia in chi si ama dà sempre
ottimi risultati.
***
Jacob König, che cosa stai facendo nella
mia camera, nel mio letto, nei miei incubi?
Dovresti essere al lavoro: in definitiva, mancano meno di tre giorni all’elezione del
Consiglio Nazionale e hai già sprecato ore
preziose per la tua campagna, pranzando con
me alla Perle du Lac e chiacchierando nel
Parc des Eaux-Vives.
Non ti sembra sufficiente? Perché insisti
nell’aggirarti nei miei sogni e nei miei
incubi? Ho fatto esattamente ciò che mi hai
suggerito: ho parlato con mio marito – mi
sono resa conto dell’amore che prova per me.
137/481
E quella sensazione che la felicità sia stata
risucchiata dalla mia vita scompare quando
facciamo l’amore in una maniera che
avevamo dimenticato da tempo.
Ti prego, vattene dai miei pensieri.
Domani sarà una giornata difficile. Dovrò
svegliarmi presto per portare i bambini a
scuola, andare al supermercato, trovare un
posteggio, pensare a un articolo originale su
qualcosa di davvero scontato come la politica… Lasciami in pace, Jacob König.
Vivo felice nel mio matrimonio. Anche se
sto pensando a te: qualcosa che non sai e che
non immagini nemmeno. Stasera vorrei che
qualcuno mi raccontasse una storia a lieto
fine, che intonasse una ninnananna per
farmi addormentare… E invece no: riesco
soltanto a pensare a te.
Sto perdendo di nuovo il controllo. Malgrado sia una settimana che non ci vediamo,
tu continui a essere presente.
138/481
Se non sparirai, mi vedrò costretta a farti
visita a casa, a prendere un tè anche con tua
moglie, per rendermi conto del fatto che
siete felici, che io non ho alcuna chance, che
tu hai mentito quando dicevi di vederti riflesso nei miei occhi e hai consapevolmente
lasciato che mi ferissi con quel bacio neppure
richiesto.
Mi aspetto che tu mi capisca, prego per
questo, perché neanch’io riesco a comprendere che cosa sto chiedendo.
Mi alzo: voglio fare una ricerca in internet
su “Come conquistare un uomo”. Invece
digito la parola “depressione”. Devo essere
assolutamente certa di cosa mi sta
succedendo.
Entro in un sito che permette all’utente di
fare un’autodiagnosi: “Scopri se hai qualche
problema psichico”. Mi trovo di fronte a una
lista di domande: alla maggioranza di esse,
rispondo: “No.”
139/481
Risultato: “È possibile che tu stia passando
un momento difficile, ma nessun elemento
indica che sei un soggetto depresso. Non hai
bisogno di rivolgerti a uno psicoterapeuta.”
Non l’avevo forse detto? Lo sapevo. Non
sono malata. A quanto pare, sto inventandomi ogni cosa solo per attirare l’attenzione.
O per ingannare me stessa, per rendere la
mia vita più interessante, visto che ho dei
problemi! I problemi richiedono sempre
delle soluzioni, e io posso dedicare le mie
ore, i miei giorni, le mie settimane alla loro
ricerca.
Forse è davvero una buona idea che mio
marito chieda al nostro medico un farmaco
per aiutarmi a dormire. Chissà che non sia lo
stress sul lavoro – soprattutto in questo periodo di elezioni – la causa del mio stato? Vorrei sempre essere migliore degli altri, sia
nella professione sia nella vita personale, ed
è piuttosto difficile gestire tali aspettative.
***
140/481
Oggi è sabato, la vigilia delle elezioni. Ho
un amico che sostiene di odiare i finesettimana perché la Borsa è chiusa e lui non ha
altre distrazioni.
Mio marito mi ha convinto che abbiamo
bisogno di uscire. Ha motivato la decisione
con il fatto che dobbiamo portare a spasso i
bambini. Non possiamo star fuori due giorni,
giacché domani sarò di turno al giornale.
Mi suggerisce di indossare la tuta da jogging. Provo un grande imbarazzo al pensiero
di vestirmi in quel modo, soprattutto per
andare a Nyon, l’antica città che è stata
un’importante colonia romana e ora conta
meno di 20.000 abitanti. Replico dicendo
che uso la tuta soltanto nei dintorni di casa,
quando corricchiamo e facciamo esercizio
fisico, ma lui insiste.
Poiché non ho intenzione di questionare,
mi adeguo ai suoi desideri. Di certo, non
voglio più discutere con nessuno – è la mia
141/481
condizione attuale. Quanto più sto zitta,
tanto meglio è.
Mentre io farò una gita con picnic in una
cittadina a meno di trenta minuti di auto da
casa, Jacob sarà impegnato negli ultimi
incontri con gli elettori, scambiando opinioni
e consigli con assistenti e amici, agitato e
forse stressato, ma contento per il fatto che
la routine della sua vita sia infranta per qualche ora. In Svizzera, i sondaggi di opinione
non contano molto, perché il voto è davvero
segreto: in qualsiasi caso, sembra che verrà
rieletto.
Sua moglie avrà trascorso una notte
insonne, ma per motivi assai differenti dai
miei. Starà finendo di organizzare il ricevimento per gli amici, dopo la proclamazione
dei risultati ufficiali. Andrà al mercato in Rue
de Rive, dove settimanalmente vengono
piazzati banchetti di legumi, verdure e carni
di fronte all’ingresso della banca Julius Baer
e alle vetrine di Prada, di Gucci, di Armani e
142/481
di altre prestigiose griffes. Sceglierà i prodotti migliori, senza preoccuparsi del prezzo.
Poi, forse, prenderà l’auto e raggiungerà
Satigny, per fare acquisti in una delle molte
cantine che costituiscono l’orgoglio della
zona: assaggerà varie annate di ogni
etichetta e opterà per un vino che possa
piacere ai veri intenditori – come suo marito,
per esempio
Tornerà a casa stanca, ma felice. Ufficialmente, la rielezione di Jacob non è avvenuta,
ma perché non preparare la festa in anticipo? Mio Dio, ora si rende conto che il formaggio è troppo poco! Risale in auto e torna al
mercato. Fra le decine di varietà esposte su
un banco, sceglie quelle che rappresentano
l’orgoglio dello stato di Vaud: il Gruyère
(nelle tre varianti classiche: dolce, leggermente salato e invecchiato – è quello più
caro di tutti, visto che la stagionatura può
arrivare anche a ventiquattro mesi), la
Tomme
Vaudoise
(ha
una
pasta
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estremamente morbida, e si consuma grigliata o al naturale) e l’Etivaz (prodotto con
latte di mucche alpine, lavorato su un fuoco
di legna).
Si chiede se non debba passare da una
boutique per comprare un abito nuovo per
l’occasione. Rinuncia: potrebbe essere accusata di ostentazione. È meglio che recuperi
dall’armadio quel Moschino acquistato a
Milano, allorché ha dovuto accompagnare il
marito a un convegno sulla giurisdizione del
lavoro in Europa.
‘Chissà come sta Jacob?’ si domanda.
Lui ogni ora telefona alla moglie per
chiederle se è opportuno che dica una cosa
oppure un’altra, se è meglio che visiti questa
strada o quel quartiere, se la “Tribune de
Genève” ha pubblicato nuovi commenti
riguardo alla sua campagna nell’edizione
online. Conta su di lei e sui suoi consigli,
spera che riesca ad alleviargli la tensione
accumulata nelle visite, le domanda di
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ricordargli i punti della strategia che hanno
studiato insieme e vuole una conferma
dell’impegno successivo. Come ha accennato
durante la nostra conversazione al parco,
continua nell’attività politica per non
deluderla. Sebbene detesti tutto ciò che sta
facendo, l’amore conferisce un aspetto
diverso ai suoi sforzi. Se continuerà in questa
brillante carriera, finirà per diventare presidente della Confederazione – una carica che
non conferisce alcun potere reale, visto che,
in Svizzera, i presidenti hanno un mandato
annuale e sono eletti dalle Camere Federali
riunite. Ma a chi non piacerebbe poter dire
che il proprio marito è stato presidente della
Confederazione Elvetica?
È una chiave che può aprire tutte le porte.
Che può generare inviti per conferenze in
paesi lontani. Che può regalare una poltrona
nel consiglio di amministrazione di una
grande azienda. Probabilmente i coniugi
König sono attesi da un futuro radioso,
145/481
mentre io – in questo preciso momento – ho
davanti a me la strada e la prospettiva di un
picnic, con indosso un’orribile tuta.
***
Per prima cosa, ci rechiamo a visitare il
museo romano; all’uscita, ci inerpichiamo
sulla collina per ammirare alcune rovine. I
nostri figli giocano. Ora che mio marito conosce i miei disagi, mi sento sollevata: non
devo più continuare a fingere.
“Andiamo a correre in riva al lago.”
“E i bambini?”
“Non ti preoccupare. Ci obbediranno, se
gli diciamo di aspettarci in un posto.”
Scendiamo fino alla sponda del Lemano,
che gli stranieri chiamano “lago di Ginevra”.
Lui compra un gelato ai bambini, li fa sedere
su una panchina, e chiede loro di aspettare lì,
mentre papà e mamma vanno a correre. Il
maggiore protesta, dicendo che non ha
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l’iPad. Mio marito va in macchina a prendere
quel maledetto aggeggio. Da quel momento,
lo schermo sarà la migliore tata possibile. I
bambini non si muoveranno finché non
avranno ucciso un determinato numero di
terroristi in giochi che sembrano concepiti
per gli adulti.
***
Cominciamo a correre. Da un lato ci sono
i giardini, dall’altro i gabbiani e le barche a
vela che sfruttano il Mistral. Il vento non ha
smesso di soffiare il terzo giorno, e neppure
il sesto: ormai si sta avviando al traguardo
dei nove giorni, quando si placherà per un
certo periodo, portandosi via il cielo azzurro
e il bel tempo. Proseguiamo la corsa per una
quindicina di minuti: i bambini sono ormai
lontani, ed è meglio tornare indietro.
È molto che non mi alleno. Abbiamo corso
per venti minuti, quando mi fermo sulla via
147/481
del ritorno: non ce la faccio più. Se devo
proprio continuare, camminerò.
“Su, avanti che ce la fai!” Mio marito mi
sprona, continuando a saltellare per non perdere il ritmo della corsa. “Su, dài, non fermarti. Arriviamo sino alla panchina dei
bambini.”
Piego il corpo in avanti, appoggiando le
mani sulle gambe. Il cuore mi batte
all’impazzata: forse è colpa delle notti
insonni. Lui continua a saltellare e a corricchiare intorno a me.
“Forza! Sono sicuro che ce la fai! Il problema è solo questo: fermarsi. Continua per
me, per i bambini. Non è soltanto una corsa
utile per il fisico. Si deve prendere coscienza
che, se c’è un traguardo, non si può desistere
a metà strada.”
Che stia riferendosi alla mia tristezza
compulsiva?
Si avvicina. Mi prende le mani e mi scuote
dolcemente. Sono troppo affaticata per
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correre, eppure mi sento ancora più stanca
per opporre resistenza. Decido di accogliere
l’esortazione di mio marito. Continuerò a
correre con lui per altri dieci minuti, quelli
che mancano per ritornare al punto di
partenza.
Passo davanti ai manifesti dei candidati al
Consiglio Nazionale – non li avevo notati
all’andata. Su uno di essi campeggia il viso
sorridente di Jacob König.
Aumento la velocità. Mio marito mi sorprende e accelera il passo. Arriviamo alla
panchina in sette minuti, anziché nei dieci
previsti. I bambini non si sono mossi. Nonostante lo splendido paesaggio circostante,
con le montagne, i gabbiani e le Alpi
all’orizzonte, hanno gli occhi fissi sullo
schermo di quell’aggeggio che divora le
anime.
Mio marito si dirige verso i bambini; io,
invece, tiro dritto. Mi guarda sorpreso e
felice nel contempo. Probabilmente pensa
149/481
che le sue parole abbiano sortito un certo
effetto, che stia cercando di saturare il mio
corpo con le benefiche endorfine, che il nostro cervello produce ogniqualvolta svolgiamo
un’attività che richiede uno sforzo fisico –
correre, fare l’amore e raggiungere
l’orgasmo…
Questo
ormone
migliora
l’umore, rafforza il sistema immunitario,
protegge le cellule dall’invecchiamento ma,
soprattutto, procura una sensazione di
euforia e piacere. Tuttavia non avverto su di
me nessuno di questi effetti: semplicemente,
l’endorfina mi ha dato la forza per proseguire, oltrepassando l’orizzonte limitato della
mia quotidianità. Perché ho avuto dei figli
così meravigliosi? Quale destino mi ha fatto
conoscere mio marito e innamorare di lui?
Se i suoi passi non avessero incrociato i miei,
adesso io sarei una donna libera?
Sono pazza. Forse dovrei continuare a correre fino al manicomio più vicino, perché
150/481
queste non sono cose da pensare. Eppure, io
continuo a pensarle.
Corro ancora per alcuni minuti, poi torno
indietro. A metà strada, ho provato una sorta
di terrore al pensiero che il mio desiderio di
libertà si realizzasse, e io non trovassi nessuno sulla panchina nel parco.
E invece loro sono tutti lì, e sorridono
all’arrivo della madre e della moglie
amorosa. Li abbraccio. Sono sudata, sporca
nel corpo e nella mente, ma li stringo forte a
me.
Nonostante ciò che sento. O, meglio,
nonostante ciò che non sento.
***
Non sei tu a scegliere la tua vita: è la vita
che sceglie te. E se ciò che ti è stato riservato
sono gioie o tristezze, questo va oltre la tua
comprensione. Accetta e va’ avanti.
151/481
Non scegliamo le nostre vite, ma possiamo
decidere il modo in cui gestire le gioie e le
tristezze.
In questa domenica pomeriggio, mi trovo
nella sede di un partito per motivi professionali: sono riuscita a convincere il mio
direttore, e ora tento di persuadere me stessa
sull’opportunità di essere qui. Sono le 17:45 e
tutti stanno festeggiando – i seggi elettorali
chiudono alle 14:00 ed è possibile votare per
posta. Al contrario di quello che immaginavo
nei miei pensieri morbosi, nessuno dei candidati darà un ricevimento. Dunque, oggi
non sarà il giorno in cui avrò l’occasione di
varcare la soglia della casa dove vivono Jacob
e Marianne König.
Appena arrivata, ho subito raccolto alcune
informazioni. Ha votato più del 45% degli
“aventi diritto al voto” – un record. Al primo
posto è risultata eletta una donna; Jacob ha
conquistato un’onorevole terza piazza, che
gli consentirà di entrare nel governo, nel
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caso in cui il partito decida di proporlo per
un incarico.
La sala principale è addobbata con palloncini gialli e verdi; sono già cominciati i brindisi, e alcuni presenti si rivolgono a me con le
dita a “V”, in segno di vittoria: forse sperano
che la loro immagine sia pubblicata sul
giornale di domani. Ma i fotografi non sono
ancora arrivati: oggi è una bellissima
giornata festiva.
Quando Jacob mi vede, volge lo sguardo
altrove, in cerca di qualcuno con cui parlare
di argomenti che, nella mia mente, immagino assai poco interessanti.
Devo lavorare, o almeno fingere di farlo.
Dalla borsa estraggo un registratore, un
blocco per appunti e una penna biro. Mi
aggiro per la sede del partito e raccolgo
dichiarazioni del tipo: “Ora possiamo approvare il decreto sull’immigrazione”, oppure:
“Gli elettori si sono resi conto di aver fatto
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una scelta sbagliata alle ultime elezioni e
hanno deciso di rivotarmi.”
La prima eletta dichiara: “Per me, il voto
delle donne è stato fondamentale.”
Léman Bleu, un’emittente televisiva locale,
ha impiantato uno studio nel salone di rappresentanza. La giornalista e commentatrice
politica – l’oscuro oggetto del desiderio di
nove dei dieci uomini presenti – si sforza di
porre domande intelligenti, ma ottiene risposte preconfezionate, approvate dai vari
uffici stampa e dai consulenti per la
comunicazione.
A un certo punto, Jacob viene invitato a
fare una dichiarazione, e io tento di avvicinarmi per ascoltarlo. Una donna mi blocca.
“Salve, sono Madame König. Jacob mi ha
parlato molto di lei.”
Che donna! Bionda, occhi azzurri, con un
elegante cardigan nero accompagnato da una
sciarpa rossa di Hermès. Tra parentesi, sembra l’unico capo griffato che indossa. Gli altri
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saranno stati confezionati dal più raffinato
grand couturier di Parigi, il cui nome va
mantenuto segreto per evitare le solite
imitazioni.
La saluto, cercando di assumere un’aria
sorpresa.
“Jacob le ha parlato di me? L’ho intervistato e, qualche giorno dopo, abbiamo pranzato insieme. Sebbene i giornalisti non
debbano esprimere opinioni sugli intervistati, penso che suo marito sia un uomo davvero coraggioso per aver denunciato al pubblico il tentativo di ricatto.”
Marianne – o “Madame König”, come si è
presentata – finge di essere interessata alle
mie frasi. Deve saperne più di quanto il suo
sguardo dimostri. Che Jacob le abbia parlato
del nostro incontro nel Parc des Eaux-Vives?
Devo affrontare l’argomento?
La diretta di Léman Bleu è cominciata, ma
la donna non sembra interessata ad ascoltare
le parole del marito: indubbiamente conosce
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a memoria ciò che sta dicendo. Dev’essere
stata lei a scegliere la camicia celeste, la
cravatta grigia, la giacca di flanella dal taglio
perfetto e persino l’orologio – non troppo
costoso, per non comunicare ostentazione,
ma neppure economico da poter essere interpretato come un segno di disprezzo verso
una delle principali industrie del paese.
Le chiedo se vuol rilasciare una qualche
dichiarazione. Risponde che, se riguarda il
suo incarico di professore associato presso il
dipartimento di filosofia, psicologia e scienze
dell’educazione dell’Università di Ginevra, ne
sarà particolarmente onorata. Come moglie
di un politico appena rieletto, la reputa
un’assurdità.
Penso che mi stia provocando, e così
decido di ripagarla con egual moneta.
Le dico che ammiro la sua dignità, perché
quando è venuta a conoscenza della
relazione del marito con la moglie di un
amico, non ha sollevato alcuno scandalo. E
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ha mantenuto un atteggiamento riservato
anche quando la storia è finita sui giornali,
poco prima delle elezioni.
“Non poteva che essere così. Quando si
tratta solo di sesso consensuale, di una
relazione nella quale l’amore non c’entra,
sono favorevole alla massima libertà nei
rapporti.”
Starà forse insinuando qualcosa? Non
riesco a guardare dritto nelle grandi acquemarine dei suoi occhi. Comunque mi accorgo
che usa un trucco leggero: non ha bisogno di
molti belletti.
“Ma voglio confessarle una cosa,” aggiunge. “È stata una mia idea far avere la notizia al suo giornale tramite un informatore
anonimo e rivelare tutto nella settimana
delle elezioni. Le persone dimenticheranno
presto l’infedeltà, ma ricorderanno per
sempre il coraggio con cui mio marito ha
denunciato la corruzione e il tentativo di ricatto, pur correndo il rischio di dover
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affrontare
una
situazione
famigliare
problematica.”
Ride della sua ultima frase e mi avverte
che sono dichiarazioni off the record – ossia,
non devono essere pubblicate.
La informo che, secondo le regole del
giornalismo, l’off the record va chiesto prima
di cominciare a trattare un argomento. Il
giornalista può essere d’accordo o no.
Domandarlo dopo è come cercare di fermare
una foglia caduta nel fiume, mentre le acque
la stanno portando lontano. A quel punto,
nemmeno la foglia può decidere il proprio
destino.
“Ma lei non si opporrà alla mia richiesta,
vero? Non ha alcun interesse a danneggiare
mio marito.”
Sono passati meno di cinque minuti
dall’inizio della conversazione, e siamo già
divise da un’evidente ostilità. Seppure con un
certo disagio, accetto che le dichiarazioni
rimangano off the record; mentre lei annota,
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nella sua memoria prodigiosa, che la
prossima volta dovrà avvertire prima. Ogni
minuto apprende qualcosa di nuovo. Ogni
minuto si avvicina un po’ di più al compimento delle sue ambizioni. Sì, delle sue
ambizioni, visto che Jacob ha dimostrato di
essere infelice nella vita che conduce.
Lei continua a fissarmi. Decido di ritornare al ruolo di giornalista e le chiedo se vuole
precisare o aggiungere qualcosa. “Ha
organizzato un ricevimento per gli amici
intimi?”
“Assolutamente no! Avrebbe richiesto un
sacco di lavoro. E, inoltre, ormai è stato
eletto. Le feste e le cene vanno organizzate
prima, per raccogliere fondi e voti.”
Di nuovo, mi sento un’imbecille. Mi
impongo di fare almeno un’altra domanda.
“Jacob è felice?”
In quel momento, mi rendo conto di aver
toccato il fondo del pozzo.
159/481
Madame König assume un’aria condiscendente e risponde con pacatezza, come se
fosse una professoressa che spiega la lezione:
“Ma certo che è felice. Qualcosa le fa pensare
che non lo sia?”
Questa donna merita di essere uccisa e
squartata.
Un paio di persone si avvicinano contemporaneamente: un assistente che intende
presentarmi alla prima eletta e un tizio che
vuole salutare lei. A quel punto, le dico che è
stato un piacere conoscerla. Vorrei aggiungere che, in un’altra occasione, avrei
piacere di approfondire – off the record,
ovviamente – il suo concetto di “sesso consensuale” con la moglie di un amico, ma non
c’è tempo. Le porgo il mio biglietto da visita,
nel caso in cui possa aver bisogno di qualcosa, ma il mio gesto non viene ricambiato.
Prima che mi allontani, però, davanti
all’assistente della trionfatrice della tornata
elettorale e all’uomo che è venuto a salutarla
160/481
e a complimentarsi per la vittoria del marito,
lei mi trattiene per un braccio e dice:
“Ho incontrato quella nostra amica che ha
pranzato con mio marito. Mi ha fatto pena.
Mostra sempre di essere forte, quando in
realtà è tremendamente fragile. Finge di
essere sicura, mentre si domanda in continuazione cosa pensano gli altri di lei e del
suo lavoro. Dev’essere una persona terribilmente sola. Come sa, mia cara, noi donne
abbiamo un sesto senso acutissimo, che ci
consente di individuare chi vuol minacciare i
nostri rapporti. Non è così?”
“Certo che sì,” rispondo, senza alcuna
emozione. L’assistente assume un’espressione contrariata. La prima eletta mi sta
aspettando.
“Comunque, quella donna non ha alcuna
chance,” conclude Marianne König.
Poi mi tende la mano. Io la saluto e la vedo
allontanarsi senza ulteriori chiarimenti.
***
161/481
Per l’intera mattinata di lunedì, chiamo
con insistenza il cellulare privato di Jacob,
ma non ottengo mai risposta. Attivo la funzione “Nascondi il numero del chiamante”,
pensando che si rifiuti di parlare con me.
Tento altre volte, ma sempre invano.
Allora telefono a un paio di membri del
suo staff. Mi viene detto che, in questo
giorno successivo alle elezioni, è occupatissimo. Be’, io ho un’assoluta necessità di parlargli: insisterò.
Decido di usare uno stratagemma, al quale
ricorro con una certa frequenza: chiamare
dal cellulare di qualcuno che non compare
nella rubrica della persona che sto cercando.
Dopo due squilli, Jacob risponde.
“Sono io. Ho bisogno di incontrarti con
urgenza.”
Lui risponde educatamente: mi dice che
oggi è impossibile, ma che mi richiamerà.
162/481
Poi aggiunge: “È il tuo nuovo numero,
questo?”
“No, è quello di un cellulare che mi hanno
prestato. Non rispondevi alle mie chiamate.”
Lui scoppia a ridere, come se stesse
affrontando un argomento assai serio e
avesse deciso di stemperare la tensione.
Immagino che sia circondato da varie persone: è abile a dissimulare.
“Qualcuno ha scattato una foto nel parco e
ora vuole ricattarmi,” gli dico, mentendo.
Soggiungo che è stata colpa sua, perché ha
risposto al mio bacio. Gli elettori che l’hanno
votato pensando che avesse tradito la moglie
solo una volta saranno molto delusi. Anche
se è stato eletto alla Camera Bassa, rischia di
non poter diventare consigliere federale.
“Va tutto bene?”
Rispondo affermativamente e riattacco,
dopo avergli chiesto di mandarmi un messaggio con il luogo e l’ora in cui incontrarci
l’indomani.
163/481
Mi sento benissimo.
Come potrebbe essere altrimenti? Adesso
ho qualcosa di cui preoccuparmi, nella mia
vita così noiosa. Le mie notti insonni, ormai,
non sono più affollate di pensieri incontrollabili: finalmente so cosa voglio. Ho una
nemica da annientare e un obiettivo da
raggiungere.
Un uomo.
Non è amore – forse potrebbe anche
esserlo, ma non è importante. Il mio amore
mi appartiene e sono libera di offrirlo a chi
voglio, anche se non viene ricambiato. Certo,
sarebbe fantastico se fosse corrisposto, ma se
ciò non accadrà… pazienza! Non rinuncerò a
scavare sul fondo del pozzo in cui mi trovo,
perché so che laggiù, oltre la terra, c’è l’acqua
– l’acqua chiara e viva.
Mi rallegro per questi pensieri: sono libera
di amare qualsiasi persona al mondo. Posso
decidere senza dover chiedere il permesso a
nessuno. Quanti uomini si sono innamorati
164/481
di me senza essere corrisposti? Eppure mi
corteggiavano, mi facevano regali, si umiliavano davanti agli amici. E nessuno si è mai
irritato per i miei rifiuti.
Quando mi rivedevano, nei loro occhi c’era
sempre il luccichio della conquista non
ancora ottenuta, il sogno di una felicità che
magari avrebbero continuato a inseguire per
il resto della vita.
Se loro si comportavano così, perché non
potrei fare altrettanto? È intrigante lottare
per un amore non corrisposto.
Può non essere divertente. Può lasciare
ferite profonde e insanabili. Ma è intrigante
– soprattutto per chi, come me, da alcuni
anni ha cominciato ad aver paura di correre
qualsivoglia rischio e a vivere momenti di
autentico terrore di fronte all’eventualità che
le cose potessero cambiare senza riuscire a
controllarle.
165/481
Non ho più intenzione di reprimere
sensazioni e sentimenti: questa sfida mi sta
salvando.
***
Sei mesi fa abbiamo acquistato una lavatrice nuova e, perciò, siamo stati obbligati a
cambiare gli attacchi per l’acqua. Contestualmente, abbiamo deciso di rifare anche le vecchie tubature, il pavimento e tinteggiare le
pareti. E così il locale di servizio si è trasformato in un ambiente più bello della
cucina.
Per evitare il contrasto, abbiamo deciso di
ristrutturare anche la cucina ma, a quel
punto, ci siamo resi conto che la sala avrebbe
avuto bisogno di un intervento. Quindi
abbiamo rifatto pure la sala, che è diventata
molto più accogliente dello studio, nel quale
non avevamo effettuato alcun cambiamento
da quasi dieci anni.
166/481
Nel giro di poco tempo, abbiamo iniziato i
lavori nello studio. Insomma, a poco a poco,
la ristrutturazione ha riguardato l’intera
casa.
Mi auguro che qualcosa di analogo si verifichi nella mia vita: che le piccole cose conducano a grandi trasformazioni.
***
Passo un bel po’ di tempo investigando
sulla vita di Marianne, che si presenta in
maniera molto formale come “Madame
König”. È nata in una famiglia ricca: suo
padre è azionista di una delle più importanti
aziende farmaceutiche del mondo. Le foto
sul web la ritraggono sempre elegante – sia
nelle occasioni mondane sia durante le
manifestazioni sportive. È sempre vestita in
modo appropriato. A differenza di me, non
andrebbe mai a Nyon in tuta, o in una
167/481
discoteca affollata di giovani con indosso un
abito Versace.
Probabilmente è la donna più invidiata di
Ginevra e dintorni. Sebbene sia erede di una
considerevole fortuna e sia sposata con un
politico in grande ascesa, sta facendo una
brillante carriera come docente universitario.
Ha scritto due tesi: quella di dottorato, su
“Vulnerabilità e psicosi dopo il pensionamento”, è stata pubblicata dalle Éditions
Université de Genève. Un paio di suoi lavori
hanno trovato spazio sulla prestigiosa rivista
“Les Rencontres”, nelle cui pagine sono
apparsi anche testi di Adorno e Piaget. La
versione francese di Wikipedia ospita una
scheda su di lei, per quanto non risulti particolarmente aggiornata: viene descritta come
una studiosa dei problemi riguardanti “i conflitti, le aggressioni, i comportamenti
psicotici negli anziani”, con particolare riferimento agli ospiti delle case di riposo della
Svizzera Romanda.
168/481
Di sicuro, ha una conoscenza approfondita
delle angosce e delle estasi che caratterizzano
le nostre vite – una comprensione talmente
precisa che le ha permesso di non risultare
turbata dal “sesso consensuale” del marito.
È una stratega assai lucida, perché è riuscita a fare in modo che un giornale
autorevole credesse a un informatore anonimo. Comunque, non penso che quel tizio
appartenga al giro delle nostre fonti abituali.
Sarà stato uno dei pochissimi “battitori
liberi” che operano nella Confederazione e
che raramente risultano affidabili.
È una manipolatrice: ha saputo trasformare un evento potenzialmente devastante in
una lezione di tolleranza e complicità
all’interno della coppia, oltre che in una
battaglia contro la corruzione.
È una calcolatrice visionaria: la sua ambizione le suggerisce di non avere dei figli, per
adesso. C’è ancora tempo. In tal modo, può
adoperarsi per realizzare i suoi desideri
169/481
senza essere disturbata da pianti nel cuore
della notte o da vicini che la incitano a lasciare il lavoro per badare alla prole. (È esattamente ciò che accade a me.)
Possiede un istinto sopraffino: non mi ha
reputato una minaccia. Malgrado le apparenze, io non rappresento un pericolo per nessuno, tranne che per me stessa.
Ecco il tipo di donna che voglio distruggere senza alcuna pietà.
Di sicuro, non è la poverina che si sveglia
alle cinque del mattino per andare a lavorare
in centro, senza un permesso di soggiorno e
che muore di paura all’idea che la sua
clandestinità venga scoperta dalla polizia.
Non è la signora perbene sposata con un alto
funzionario delle Nazioni Unite, indefessa
frequentatrice di ricevimenti, che sembra
premurarsi soltanto di mostrare al mondo la
sua ricchezza e la sua felicità, anche se tutti
sanno che il marito ha un’amante di
vent’anni più giovane di lei. E non è neppure
170/481
l’amante di quel medesimo funzionario
dell’ONU – con il quale, peraltro, lavora –,
una giovane che, nonostante la passione e
l’impegno che profonde in ufficio, non
otterrà mai alcun plauso, ma soltanto il
biasimo perché “ha una relazione con il
capo”. Non è la donna d’affari solitaria e
potente, obbligata a trasferirsi a Ginevra, la
sede dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, dove tutti prendono estremamente
sul serio i rischi derivanti dalle avances sul
lavoro e, di conseguenza, non osano neppure
guardarsi in faccia; quella stessa professionista che trascorre la sera fissando una
parete dell’immenso appartamento in affitto
e che, di tanto in tanto, paga un gigolò per
distrarla e farle dimenticare che passerà il
resto della vita senza un marito, senza figli e
senza amanti.
No, Marianne non è associabile a nessuna
di queste figure: è una donna completa,
realizzata.
171/481
***
Ho dormito meglio. Dovrei incontrare
Jacob prima del weekend. Almeno è quanto
mi ha promesso, e dubito che avrà il coraggio
di cambiare idea. Lunedì, nella nostra unica
conversazione telefonica, mi è sembrato
nervoso.
Mio marito è convinto che la giornata trascorsa a Nyon mi abbia giovato. Non immagina neppure che è stato proprio quello il
momento in cui ho scoperto cosa mi facesse
realmente stare male: la mancanza di passione, di avventura.
Ho ritrovato in me uno dei sintomi della
depressione: una sorta di autismo emotivo. Il
mio mondo, prima così ampio e ricco di possibilità, ha cominciato a ridursi via via che
aumentava il bisogno di sicurezza. E questo
perché? Dev’essere un’eredità che ci arriva
dai nostri antenati che vivevano nelle
172/481
caverne: i gruppi offrono protezione; gli individui isolati sono destinati a soccombere.
Comunque, sappiamo perfettamente che,
anche se apparteniamo a una collettività, è
impossibile controllare e proteggerci da ogni
evento che riguarda la nostra vita – come,
per esempio, i capelli che cadono o una cellula che si trasforma in tumore.
Ciononostante viviamo in una falsa
sicurezza che ci fa dimenticare la nostra vulnerabilità. Quanto più riusciamo a ignorare i
limiti della vita, tanto meglio siamo in grado
di affrontarli. Anche se si tratta soltanto di
un approccio psicologico, anche se sappiamo
che, prima o poi, la morte arriverà senza
chiedere permesso, è estremamente positivo
fingere di avere tutto sotto controllo.
Negli ultimi tempi, l’agitazione e il turbamento hanno squassato il mio animo, come
le onde di un mare in tempesta. Ho
analizzato il mio percorso fino a qui, e mi
sono detta che è come se stessi facendo un
173/481
viaggio transoceanico su una zattera, nel
periodo delle burrasche. Mi domando se
riuscirò a sopravvivere, ora che non c’è più
modo di tornare indietro.
Ci riuscirò, ne sono sicura: ho affrontato
vittoriosamente altre tempeste, in passato.
Ho compilato una lista di azioni sulle quali
devo concentrarmi quando mi sento in
procinto di sprofondare nuovamente nel
buco nero:
– Giocare con i figli. Leggere storie dalle
quali sia possibile trarre degli insegnamenti
utili sia a loro sia a me: alcune favole e novelle non hanno età.
– Osservare il cielo.
– Bere diversi bicchieri d’acqua gelata. Può
sembrare una cosa piuttosto banale, ma
ogniqualvolta la faccio, mi sento rinvigorita.
– Cucinare: l’arte più bella e più completa.
Oltre ai cinque sensi, stimola una dote
nascosta del nostro essere, vale a dire il
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desiderio di condividere la parte migliore di
noi. È la mia terapia preferita.
– Redigere l’elenco delle mie rimostranze.
Reputo questa pratica una grande scoperta.
Quando mi irrito per qualcosa, elaboro una
lamentela e la annoto. Alla fine della
giornata, mi rendo conto di essermi arrabbiata senza motivo.
– Sorridere, anche quando si vorrebbe
piangere. È l’azione più difficile da compiere
tra quelle presenti nella lista ma, con qualche
sforzo, si ottengono buoni risultati. I buddisti dicono che un sorriso sul volto – anche
se falso – finisce per illuminare l’anima.
– Fare due bagni (o docce) al giorno,
invece di uno solo. Anche se l’acqua distribuita in città secca la pelle a causa dell’alta
percentuale di calcare e cloro, è una pratica
che aiuta a eliminare le scorie del corpo e
dell’anima.
Tutte queste azioni ora danno risultati
migliori perché ho un obiettivo: conquistare
175/481
un uomo. Sono una tigre braccata, senza via
di fuga, e ho un’unica chance: attaccare con
furore.
***
Finalmente ho la data e il luogo: domani
alle 15, al ristorante del campo di golf di
Cologny. Ci saremmo potuti vedere in un
qualsiasi bistrot o in un bar di una traversa
che unisce le due vie dello shopping, ma
Jacob ha scelto il ristorante del club
golfistico.
A metà pomeriggio.
Perché a quell’ora il locale sarà vuoto, e
potremo avere una privacy maggiore. Devo
trovare una scusa credibile per il direttore,
ma non sarà un grosso problema. In definitiva, ho scritto un articolo sulle elezioni che,
alla fine, è stato ripreso e citato da molti altri
giornali nazionali.
176/481
‘Un posto discreto’: ecco che cos’avrà
pensato lui. ‘Un posto romantico’: ecco che
cosa mi dico io, con la mia mania di credere
a tutto ciò che desidero. L’autunno ha donato
agli alberi tonalità dorate. Forse inviterò
Jacob a fare una passeggiata. Penso meglio
quando sono in movimento. E ancora meglio
quando corro, com’è successo a Nyon. In
qualsiasi caso, non credo che sarà possibile.
Eh eh eh.
Stasera, abbiamo cenato a casa: un pasto a
base di raclette (formaggio fuso “raschiato”
sul piatto di portata), carne cruda e rosti
(patate grattugiate e saltate in padella), serviti con panna acida. Quando i miei famigliari mi hanno chiesto se c’era qualcosa di speciale da festeggiare, ho risposto di sì: il fatto
che eravamo insieme e potevamo goderci
una cena tranquilla. Più tardi, ho fatto il
secondo bagno della giornata, lasciando che
l’acqua lavasse via le mie ansie. Dopo
essermi spalmata la crema sul corpo, sono
177/481
andata nella camera dei bambini per leggergli una storia. Li ho trovati incollati ai tablet:
l’uso di quell’aggeggio dovrebbe essere
proibito ai minori di quindici anni!
Gli ho detto di spegnerli – hanno obbedito
controvoglia –, ho preso un libro di racconti
popolari, ho aperto una pagina a caso e mi
sono messa a leggere:
Durante l’Era glaciale, molti animali
morivano a causa del freddo. Fu allora che i
porcospini decisero di raggrupparsi, in
modo da riscaldarsi e proteggersi a
vicenda.
Ma gli aculei ferivano i compagni più
vicini – proprio quelli che fornivano maggior calore. Per questo motivo, si
allontanarono di nuovo.
E ricominciarono a morire per il gelo.
A quel punto dovettero compiere una
scelta: o venir decimati e rischiare di scomparire dalla faccia della Terra, oppure
178/481
accettare il fastidio degli aculei del
prossimo.
Saggiamente, decisero di tornare a unirsi.
E impararono a convivere con le piccole ferite che un rapporto molto stretto può
causare, comprendendo che la cosa più
importante era il calore dell’altro. E così
sopravvissero.
I bambini mi hanno chiesto se li porterò a
vedere un porcospino.
“Ce ne sono nel giardino zoologico?”
“Non lo so.”
“Che cos’è l’Era glaciale?”
“Un periodo nel quale faceva molto
freddo.”
“Come in inverno?”
“Sì, ma quell’inverno continuò per millenni: non finiva mai.”
“Perché non si strapparono le spine prima
di mettersi vicini?”
Mio Dio, avrei dovuto scegliere un’altra
storia! Spengo la luce e inizio a cantare la
179/481
ninnananna di un piccolo paese alpino,
mentre li accarezzo. Qualche momento dopo,
stanno già dormendo.
Mio marito mi ha portato del Valium. Mi
sono sempre rifiutata di assumere psicofarmaci, perché temo la dipendenza: ora, però,
ho bisogno di essere in forma per il giorno
dopo.
Prendo una compressa da 10 mg e scivolo
in un sonno profondo, senza sogni. Non mi
sveglio a metà della notte, come mi è
accaduto spesso negli ultimi tempi.
***
Arrivo in anticipo sul luogo dell’appuntamento, oltrepasso il casale che ospita la
reception del circolo del golf e mi inoltro nel
prato. Cammino fino agli alberi che lo delimitano, decisa a godermi ogni momento di
questo splendido pomeriggio.
180/481
Malinconia. Quando arriva l’autunno, è la
prima parola che mi viene in mente. Perché
so che l’estate è finita, che i giorni saranno
sempre più corti – e noi non viviamo nel
mondo incantato dei porcospini durante
l’Era glaciale: ci risulta impossibile sopportare anche la più piccola ferita che ci infliggono gli altri.
Le notizie provenienti da alcuni paesi già
raccontano di persone che muoiono per il
freddo, di strade bloccate dalla neve, di aeroporti chiusi. Si accendono i camini, si tirano
fuori dagli armadi le trapunte pesanti. Ma
questo accade solo nel mondo che abbiamo
testardamente “civilizzato”.
Il paesaggio naturale è magnifico: gli
alberi, finora quasi identici gli uni agli altri,
acquistano un’individualità e colorano le foreste di mille tonalità diverse. Per molte
entità, il ciclo della vita sta per arrivare al
termine. Tutto riposerà per un periodo e
181/481
resusciterà in primavera, magari in forma di
fiore.
L’autunno è il tempo migliore per dimenticare le cose che ci amareggiano o infastidiscono. Dobbiamo lasciare che si stacchino da noi come foglie secche e sforzarci di
tornare a danzare; approfittare di ogni
momento di sole per rinfrancare il corpo e lo
spirito, prima che il disco dorato si trasformi
nella fioca presenza di una lanterna nel cielo.
***
Da lontano, noto che Jacob è arrivato. Mi
cerca all’interno del ristorante, sulla terrazza; poi si avvicina al barista, il quale fa un
cenno nella mia direzione. Ora mi ha visto e
agita una mano per salutarmi. Mi avvio
piano verso la sede del circolo. Voglio che
ammiri il mio vestito, le mie scarpe, la mia
giacca da mezza stagione, la mia camminata.
182/481
Anche se ho il cuore che batte all’impazzata,
mantengo un’andatura calma.
Penso a cosa dirgli. Per quale misteriosa
ragione abbiamo deciso di rincontrarci? Perché entrambi ci sforziamo di assumere un
atteggiamento controllato, pur sapendo che
siamo legati da qualcosa di profondo?
Temiamo forse di inciampare e cadere, com’è
già successo molte altre volte?
Mentre cammino, mi sembra di avanzare
in un tunnel che non ho mai percorso: quello
che conduce dal cinismo alla passione,
dall’ironia all’abbandono.
Chissà cosa pensa Jacob mentre gli vado
incontro? Devo forse spiegargli che non dobbiamo essere spaventati e che, “se il Male
esiste, è nascosto nelle nostre paure”?
Malinconia: ecco la parola che mi sta trasformando in una donna romantica, che mi fa
ringiovanire passo dopo passo.
Continuo a pensare alle parole da dirgli
non appena sarò davanti a lui. Forse è meglio
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che smetta di cercarle, e aspetti che fluiscano
in modo spontaneo al momento giusto. So
che sono già dentro di me. Posso non riconoscerle, magari non accettarle, ma esse si
dimostreranno
più
forti
del
mio
autocontrollo.
Perché non voglio ascoltare le mie parole,
prima di offrirle a Jacob?
È la paura a impedirmelo? Che cosa può
esserci di peggiore di una vita grigia, triste,
nella quale i giorni sono tutti uguali? Che
cosa può esserci di più angosciante del
terrore che tutto scompaia – compresa la
mia stessa anima –, e che io mi ritrovi assolutamente sola in questo mondo, dopo aver
avuto tutto per essere felice?
Vedo le ombre delle foglie degli alberi che
cadono. Dentro di me, sta accadendo qualcosa di analogo: a ogni passo, cade una barriera, salta una difesa, crolla una parete, e il
mio cuore – ormai libero – si illumina della
luce dell’autunno e ne gioisce.
184/481
Di cosa parleremo oggi? Della musica che
ho ascoltato in macchina, venendo qui? Del
vento che soffia tra le fronde? Della condizione umana, delle sue contraddizioni, della
sua oscurità e della sua redenzione?
Parleremo di malinconia, e lui dirà che è
una parola triste. Io invece dirò che è nostalgica, che si riferisce a qualcosa di dimenticato e fragile: siamo tutti così, allorché fingiamo di non vedere il cammino attraverso
cui la vita ci conduce senza chiederci alcun
permesso, allorché neghiamo il destino che
vuole portarci verso la felicità, mentre noi
bramiamo soltanto la sicurezza.
Ancora qualche passo: altre barriere
s’infrangono, altra luce mi pervade il cuore.
Decido di sottrarmi a ogni controllo: voglio
vivere appieno questo pomeriggio che non si
ripeterà mai più. Non devo convincere Jacob
a fare altrettanto. Se non lo capirà ora, lo
comprenderà più avanti. È solo questione di
tempo.
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Nonostante il freddo, ci siederemo in terrazza, così potrà fumare. All’inizio, avrà un
atteggiamento difensivo: mi chiederà della
foto che ci hanno scattato nel parco.
Presto passeremo a parlare della possibilità di vita su altri pianeti, della presenza di
Dio, sovente obliata nelle nostre vite
caotiche. Chiacchiereremo anche di fede, di
miracoli e di incontri stabiliti ancor prima
della nostra nascita.
Discuteremo dell’eterna lotta tra la scienza
e la religione. Ci confronteremo sull’amore,
vissuto sempre come un desiderio e una
minaccia, nel contempo. Lui sosterrà che la
mia definizione di malinconia è inesatta, ma
io mi limiterò a bere il tè in silenzio, osservando il tramonto sulle montagne dello Jura,
felice di essere viva.
Ah, parleremo anche di fiori, sebbene i soli
visibili saranno quelli all’interno del bar,
provenienti da qualche serra. Comunque, in
186/481
autunno, è splendido parlare di fiori: infonde
la speranza della primavera.
Ancora pochi metri. Poi i muri della mia
prigione crollano completamente. Sono
rinata.
***
Quando gli sono di fronte, lo saluto con
tre piccoli baci sulle guance, secondo la tradizione svizzera (all’estero, quando do il terzo
bacio, l’altro si sorprende sempre). Percepisco il suo nervosismo e suggerisco di
rimanere in terrazza: non avremo gente
intorno, e lui potrà fumare indisturbato. Il
cameriere lo riconosce. Jacob ordina un
Campari col seltz e io chiedo un tè – l’avevo
già deciso.
Cerco di aiutarlo a rilassarsi, parlando
della natura, degli alberi e della bellezza
insita nei cambiamenti. Perché si cerca di
replicare sempre il medesimo modello? È
187/481
qualcosa di sbagliato, di innaturale. Non
sarebbe meglio considerare i mutamenti
come una fonte di conoscenza, e non come
sfide da affrontare alla stregua di nemici?
Lui continua a essere nervoso. Risponde in
maniera meccanica, come se volesse troncare
subito la conversazione, ma io non glielo permetterò. Questo è un giorno unico nella mia
vita e merita di essere vissuto e onorato in
ogni suo attimo. Seguito a parlare, sciorinando gli argomenti che ho pensato mentre
camminavo, utilizzando quelle parole che mi
rifiutavo di ascoltare. Sono meravigliata dal
loro flusso convincente e preciso.
Parlo degli animali domestici. Gli
domando se capisce il motivo per cui le persone li amano tanto. La risposta di Jacob è
piuttosto scontata, e così decido di passare al
tema successivo: perché è così difficile
accettare la diversità delle persone? Perché si
promulgano leggi atte a favorire la creazione
di nuove “tribù”, anziché accettare
188/481
semplicemente quelle differenze etniche e
culturali che possono rendere la nostra vita
più ricca e più interessante? Mi ascolta, poi
dice che non ha voglia di discutere di
politica.
Allora gli racconterò dell’acquario che ho
visto stamane nella scuola dei bambini,
quando li ho accompagnati. Dentro c’era un
pesce che nuotava in tondo sfiorando le
pareti di vetro. Ho pensato: ‘Sono certa che
quella creatura non ricorda dove ha iniziato
a girare e non sa che non arriverà mai da
nessuna parte. Forse è questo il motivo
inconscio per cui ci piacciono i pesci degli
acquari: ci ricordano noi stessi, nutriti e pasciuti, ma impossibilitati a oltrepassare delle
pareti di cristallo.
Jacob accende un’altra sigaretta. Nel
portacenere ci sono già due mozziconi. Allora
mi accorgo che sto parlando da molto tempo,
in una sorta di trance di luce e pace, senza
concedergli alcuno spazio per esprimere i
189/481
suoi sentimenti. “Vuoi parlarmi di
qualcosa?”
“Della foto nel parco,” risponde cautamente, perché si è reso conto che sto vivendo
un momento di particolare sensibilità.
“Ah, la foto. Esiste, esiste! È impressa
indelebilmente nel mio cuore, e solo con
l’aiuto di Dio riuscirò a cancellarla. Puoi
accertarti della sua esistenza con i tuoi occhi,
perché tutte le barriere che proteggevano il
mio cuore sono crollate a mano a mano che,
lungo il prato, mi avvicinavo a te. No, non
dirmi che non conosci il cammino, perché sei
già stato laggiù varie volte, sia nel passato sia
negli ultimi giorni. Ma io mi sono sempre
rifiutata di accettarlo. Ecco perché comprendo la tua riluttanza: siamo uguali, noi
due. Non devi preoccuparti, ti guiderò io.”
Dopo queste parole, Jacob mi prende
dolcemente una mano, mi sorride e…
affonda la lama:
190/481
“Non siamo più due adolescenti. Tu sei
una persona meravigliosa e, a quanto mi è
dato sapere, hai una famiglia splendida. Ti è
mai venuto in mente di far ricorso alla terapia di coppia?”
Per un attimo, sono disorientata. Poi mi
alzo e mi avvio verso la macchina. Senza
dirgli addio. Senza piangere. Senza guardarmi indietro.
***
Non
provo nessuna sensazione. Non
penso a niente. Decisa, oltrepasso la mia
automobile e proseguo lungo la strada, senza
una meta precisa. Non c’è nessuno ad
aspettarmi alla fine della camminata. La
malinconia si è trasformata in apatia. Devo
trascinarmi per andare avanti.
Poi, dopo cinque minuti, mi ritrovo davanti a una grande villa settecentesca. So cos’è
successo in quel posto: qualcuno ha creato
191/481
un mostro famoso ancora oggi, sebbene
pochi conoscano il nome della donna alla
quale deve la vita.
Il cancello che affaccia sul giardino è chiuso, ma non si tratta di un impedimento
assoluto. Posso scavalcare la recinzione,
sedermi sulla fredda pietra di una panchina e
figurarmi che cosa accadde lì nel 1817. Ho
bisogno di distrarmi, di dimenticare tutto ciò
che mi ispirava prima e di concentrarmi su
qualcosa di diverso.
Immagino un giorno qualunque di
quell’anno, quando Lord Byron decise di
esiliarsi qui. Sia nel suo paese d’origine sia a
Ginevra era odiato, e veniva accusato di
organizzare orge e ubriacarsi in pubblico.
Forse era un uomo profondamente annoiato.
O malinconico. O arrabbiato.
Poco importa. Ciò che conta è che, in quel
giorno del 1817, arrivarono alla villa dei compatrioti. Il poeta Percy Bysshe Shelley e la
sua fidanzata diciottenne, Mary. C’era anche
192/481
un’altra persona, della cui identità non sono
sicura – forse era una sorellastra di Mary.
Probabilmente hanno discusso di letteratura, si sono lagnati del tempo, della pioggia, del freddo, dei ginevrini, dei soggiornanti inglesi, della mancanza di tè e
whisky. Probabilmente hanno letto le loro
poesie e si sono elogiati a vicenda.
Si reputavano individui speciali e importanti e, a un certo punto, decisero di fare un
patto: entro un anno sarebbero tornati in
quel luogo, ciascuno con un libro in cui fosse
descritta la condizione umana. È ovvio che,
scemato l’entusiasmo riguardo al progetto e
svaniti i commenti sulle aberrazioni insite
nell’essere umano, tutti si dimenticarono
dell’accordo.
Nonostante Mary fosse presente, non le
venne chiesto di cimentarsi in quella prova:
forse perché era una donna, e la sua condizione, oltretutto, risultava aggravata dalla
gioventù. Eppure quella conversazione
193/481
l’aveva colpita profondamente. Si disse che
anche lei avrebbe potuto scrivere qualcosa,
magari solo per far passare il tempo. Aveva il
tema: si trattava soltanto di svolgerlo – e non
divulgare il testo, quando lo avesse
terminato.
Invece, quando tornarono in Inghilterra,
Shelley lesse il manoscritto e la incoraggiò a
pubblicarlo. Ma non solo: poiché era ormai
famoso, decise che l’avrebbe presentata a un
editore e si sarebbe occupato della prefazione. Dapprima Mary si mostrò riluttante;
poi acconsentì, imponendo una condizione:
il suo nome non avrebbe dovuto comparire
né sulla copertina né nel frontespizio.
La prima tiratura di cinquecento copie
andò esaurita rapidamente, e Mary pensò
che il successo fosse ascrivibile alla presenza
di una prefazione di Shelley. Anche per verificare quest’ipotesi, accettò di firmare con il
proprio nome la seconda edizione del libro.
Da allora, il romanzo non ha mai cessato di
194/481
essere reperibile nelle librerie del mondo
intero. Ha ispirato scrittori, produttori teatrali, registi cinematografici, feste di Halloween e balli in maschera. Di recente, un
importante critico l’ha definito “l’opera più
creativa del Romanticismo, e forse degli
ultimi duecento anni”. Nessuno è mai riuscito a spiegare davvero il motivo della sua
popolarità. La maggior parte delle persone
non lo ha mai letto, ma praticamente tutti ne
hanno sentito parlare.
Il romanzo racconta la storia di Victor, uno
scienziato svizzero, nato a Ginevra ed educato dai genitori a intendere il mondo attraverso la scienza. Ancora bambino, vede un
fulmine cadere su una quercia e si domanda
se la vita possa derivare da un fenomeno del
genere, e se possa essere creata dall’uomo.
E come una moderna versione di Prometeo, la figura mitologica che rubò il fuoco
agli dèi per donarlo agli uomini – (nessuno
ricorda che Mary utilizzò come sottotitolo del
195/481
suo libro “Il moderno Prometeo”) –, si adopera per ripetere l’impresa di Dio. Ma, nonostante il grande impegno, non è in grado di
gestire le conseguenze del suo esperimento.
Il titolo del libro è Frankenstein.
***
Oh, mio Dio, è un caso se sono finita qui?
Oppure è stata l’invisibile e implacabile
mano dell’Essere in cui confido nelle ore di
afflizione a condurmi alla villa e a farmi
ricordare questa storia?
Mary conobbe Shelley quando aveva sedici
anni – sebbene lui fosse sposato, non si
piegò alle convenzioni sociali e seguì l’uomo
che riteneva l’amore della sua vita.
Sedici anni! E sapeva già esattamente cosa
voleva. E anche il modo di ottenerlo. Io ho
trentun anni, desidero una cosa diversa a
ogni ora, e sono incapace di conquistarla –
d’accordo, posso camminare in un
196/481
pomeriggio d’autunno pervasa di malinconia
e romanticismo, ripensando a ciò che avrei
detto quando fosse giunto il momento, ma…
Non sono Mary Shelley. Sono Victor
Frankenstein e il suo mostro.
Ho cercato di infondere la vita in qualcosa
di inanimato, ma il risultato può dirsi
identico a quello del romanzo: uno scenario
di terrore e distruzione.
Non ho più lacrime. Non c’è più disperazione. Mi sento come se il cuore avesse
rinunciato a battere e il mio corpo si
adeguasse a quella stasi, giacché non riesco
neppure a muovermi. È autunno, e il
pomeriggio scivola rapidamente nella sera: il
bellissimo tramonto è sostituito dal
crepuscolo. Arriva la penombra, e io sono
ancora qui, seduta a fissare la villa, immaginando i suoi inquilini che scandalizzano la
borghesia ginevrina all’inizio dell’Ottocento.
Ma dov’è il fulmine che diede vita al
mostro?
197/481
Non c’è nessun fulmine. Il traffico, già
scarso nella zona, si riduce ulteriormente. I
miei figli staranno aspettando la cena, e mio
marito – che è al corrente della mia condizione – fra poco comincerà a preoccuparsi.
Ma è come se avessi una palla di ferro legata
a una caviglia: non riesco ancora a
muovermi.
Lo so, sono una perdente.
***
Si può essere obbligati a chiedere perdono per aver ridestato un amore
impossibile?
Assolutamente no.
Perché anche l’amore di Dio per l’essere
umano può dirsi impossibile. Non sarà mai
corrisposto in modo adeguato, eppure Lui
continua ad amarci. E ci ha amato al punto
di mandare il Suo unico figlio a spiegarci che
l’Amore è la forza che muove il sole e le
198/481
stelle. In una delle epistole ai Corinzi (la
prima, che nella mia scuola dovevamo
imparare a memoria), l’apostolo Paolo dice:
Se parlassi le lingue degli uomini e degli
angeli, ma non avessi la carità, sarei come
bronzo che rimbomba o come cimbalo che
strepita.
E tutti sappiamo il perché. Spesso ci
accade di udire quelle che sembrano stupende idee per trasformare il mondo, ma
vengono esternate con parole pronunciate
senza emozione, prive di Amore. Per quanto
logiche e intelligenti siano, non ci toccano.
Paolo confronta l’Amore con la Profezia,
con i Misteri, con la Fede e la Carità.
Perché l’Amore è più importante della
Fede?
Perché la Fede è soltanto una strada che ci
conduce all’Amore.
Perché l’Amore è più importante della Carità? Perché la Carità è soltanto una delle
manifestazioni dell’Amore. E il Tutto è
199/481
sempre più importante della Parte. Inoltre,
anche la Carità è una delle molte espressioni
che l’Amore utilizza per far sì che l’uomo si
avvicini al prossimo.
Tutti sappiamo che, nel mondo, c’è tanta
Carità senza Amore. Ogni settimana, a poca
distanza da qui, viene organizzato un ballo di
beneficenza. Le persone pagano enormi
somme per un tavolo, per partecipare e
divertirsi, con indosso abiti costosissimi e
gioielli favolosi. Alla fine, escono convinte
che il mondo sia migliore grazie ai denari
raccolti per i migranti della Somalia, per i
derelitti dello Yemen, per gli affamati
dell’Etiopia. Non si sentono più in colpa per
il crudele spettacolo della miseria, ma non si
domandano neppure dove e come i loro soldi
verranno impiegati.
Chi non si può permettere di andare al
ballo, offre una moneta quando si trova a
passare davanti a un mendicante. A posto! È
assai facile lasciare uno spicciolo a un
200/481
accattone incontrato per strada. In genere, è
più facile farlo che passare oltre.
Che grande sollievo – e con una moneta
soltanto! Per noi è qualcosa di estremamente
economico, e ci risolve il problema del senso
di colpa.
Eppure,
se
amassimo
veramente
quell’essere umano, ci impegneremmo per
fare molto di più.
Oppure non faremmo niente. Non gli
daremmo nessuno spicciolo, e – chissà? –
forse i nostri sensi di colpa per quella scena
di miseria potrebbero risvegliare il vero
Amore.
Altrove, Paolo confronta l’Amore con il
sacrificio e il martirio.
Oggi comprendo appieno le sue parole.
Anche se diventerò la donna più famosa del
mondo, anche se sarò più ammirata e desiderata di Marianne König, ma nel mio cuore
non regnerà l’Amore, non servirà a niente.
Niente.
201/481
Nelle interviste con artisti e politici, con
assistenti sociali e medici, con studenti e
impiegati, pongo sempre una domanda:
“Quale obiettivo vuole raggiungere con il suo
lavoro?” Alcuni rispondono: “Formare una
famiglia.” Altri dicono: “Fare carriera.” Dopo
aver approfondito l’argomento, quando
glielo richiedo, nella maggior parte dei casi la
risposta è: “Migliorare il mondo.”
Vorrei andare sul Ponte Mont-Blanc e distribuire a tutti gli automobilisti e i passanti
un volantino sul quale campeggerebbero
queste parole, scritte con lettere dorate:
È una supplica che rivolgo a coloro che
intendono impegnarsi per il bene dell’umanità: non dimenticate che, anche se i vostri
corpi finiranno bruciati in nome di Dio, i
vostri sacrifici non serviranno a niente se
non c’è Amore. A niente!
Il dono più grande che possiamo fare agli
altri è la scintilla dell’Amore che illumina le
nostre vite. È lì il vero linguaggio universale,
202/481
quello che ci permette di parlare cinese o i
dialetti dell’India. Da giovane ho viaggiato
molto: le esperienze all’estero appartenevano
al rito di passaggio di qualsiasi studente. Ho
conosciuto paesi poveri e paesi ricchi, e
spesso non parlavo l’idioma locale. Eppure in
tutte quelle occasioni la silenziosa eloquenza
dell’Amore mi è servita per farmi capire.
Il messaggio dell’Amore si palesa nel modo
in cui l’essere umano conduce la propria vita,
e non nelle parole o nelle azioni.
Nell’epistola ai Corinzi, Paolo dice che
l’Amore è composto di molte cose, esattamente come la luce. A scuola ci viene
insegnato che, quando un raggio di sole
attraversa un prisma, esso si scompone nei
colori dell’iride.
Allo stesso modo, con le sue parole Paolo
ci rivela l’arcobaleno dell’Amore. Ma quali
sono le componenti che generano lo
splendore del miracolo più alto? Sono le
virtù che conosciamo assai bene – ne
203/481
sentiamo parlare tutti i giorni – e che possiamo praticare in qualsiasi momento.
Pazienza: L’Amore è paziente.
Bontà: L’Amore è benigno.
Generosità: L’Amore non arde di gelosia.
Umiltà: L’Amore non si pavoneggia, non è
orgoglioso.
Delicatezza: L’Amore non si comporta in
maniera sconveniente.
Dedizione: L’Amore non persegue i propri
interessi.
Tolleranza: L’Amore non si rivela
intransigente.
Innocenza: L’Amore non mostra risentimento per il male subìto.
Sincerità: L’Amore non gioisce dell’ingiustizia, ma gode per la verità.
Tutte queste benedizioni ci possono
aiutare nella vita quotidiana, nell’oggi e nel
domani, nell’eternità.
Quando cerchiamo di mettere in relazione
l’amore con Dio sorge un grande problema.
204/481
Come si manifesta l’amore per Dio? Attraverso l’amore per l’uomo.
Per raggiugere la pace del Cielo, dobbiamo
trovare
l’amore
sulla
Terra.
Senza
quest’ultimo, non valiamo niente.
Io amo, e nessuno può privarmi del mio
sentimento. Amo mio marito, che mi ha
sempre sostenuto. E credo di amare anche
un uomo conosciuto nell’adolescenza:
mentre camminavo verso di lui in uno splendido pomeriggio d’autunno, ho lasciato che
ogni mia difesa scivolasse sul prato che
calpestavo, come una veste di seta. Ora mi è
impossibile ricreare una qualsiasi protezione: sono vulnerabile, eppure non provo
né
rammarico
né
pentimento
per
quell’azione.
Stamattina, mentre prendevo un caffè e il
giardino era illuminato da una luce soave, mi
è tornata alla mente quella camminata, e mi
sono chiesta ancora: sto forse cercando di
creare una difficoltà reale per allontanare i
205/481
miei problemi immaginari? Sono davvero
innamorata, oppure ho semplicemente
trasferito tutte le sensazioni sgradevoli di
questi ultimi mesi in una fantasia?
Non può essere così. Dio non è ingiusto e
non permetterebbe mai che mi innamorassi
in questa maniera se non esistesse almeno
una possibilità di essere corrisposta.
Talvolta l’Amore vuole che si lotti per conquistarlo. Ebbene, è ciò che farò. Nel percorso che dovrò affrontare per arrivare a
quella che considero una forma di giustizia,
mi impegnerò per scacciare ogni elemento
maligno, ma evitando l’esasperazione e
l’impazienza. Quando Marianne sarà lontana
e Jacob starà al mio fianco, mi ringrazierà
per il resto della vita.
Se deciderà di andarsene di nuovo, potrò
rifugiarmi nella sensazione di avere lottato
fin dove potevo.
Sono una donna nuova. Sto andando in
cerca di qualcosa che non posso limitarmi ad
206/481
aspettare. Lui è un uomo sposato e vive nella
convinzione che un passo falso possa compromettere la sua carriera.
Su cosa devo concentrarmi, allora? Sulla
sua separazione dalla moglie, innanzitutto:
dev’essere un atto quasi automatico.
***
Per la prima volta nella vita, incontrerò
uno spacciatore.
Vivo in un paese che ha deciso di isolarsi
dal mondo, e che si reputa enormemente
soddisfatto della sua attuale condizione.
Quando si visitano i piccoli borghi nei dintorni di Ginevra, c’è qualcosa che appare
subito evidente: non esistono aree dove
parcheggiare – se è possibile, bisogna rifugiarsi nel garage di un conoscente.
Il messaggio è molto chiaro: “Evita di
venire qui, forestiero, perché la vista del lago
laggiù, l’imponenza delle Alpi all’orizzonte, i
207/481
fiori di campo in primavera e le tonalità
ambrate dei vigneti in autunno, fanno parte
dell’eredità dei nostri antenati, che hanno
vissuto in questo luogo senza essere disturbati. Poiché vogliamo preservare quella tranquillità avita, evita di venire, forestiero.
Anche se sei nato e cresciuto in un paese
vicino, non abbiamo alcun interesse a conoscere ciò che vuoi dirci. È in una metropoli
che devi cercare un parcheggio per la tua
automobile: là hanno creato innumerevoli
spazi proprio per questo.”
Viviamo talmente isolati dal resto del
mondo che crediamo ancora alla minaccia di
una guerra nucleare. Nella Confederazione,
ogni cittadino deve disporre di un posto in
un rifugio antiatomico. Di recente, un deputato ha proposto di abrogare questa legge,
ma il parlamento si è espresso in senso contrario: sì, probabilmente non ci sarà mai una
guerra nucleare, ma esiste la minaccia delle
armi chimiche, e il dovere dello stato è quello
208/481
di proteggere tutti gli svizzeri. E così, si continuano a costruire costosissimi rifugi antiatomici ma, fintantoché l’Apocalisse resta
soltanto un’ipotesi lontana, quei locali si
trasformano in cantine e magazzini.
Nonostante i nostri sforzi per continuare a
essere un’isola di pace, quasi inviolabile per
talune nefandezze del mondo, alcuni elementi maligni riescono a varcare la frontiera.
Le droghe, per esempio.
I vari governi si adoperano per reprimerne
la vendita, ma spesso si disinteressano di chi
compra. Pur vivendo in un paese ordinato e
tranquillo, anche gli svizzeri sono stressati
dal traffico, dalle responsabilità, dalle
scadenze e dalle routine. Le droghe
incentivano la produttività (la cocaina) e
allentano la tensione (l’hashish). Per non
dare un cattivo esempio al mondo con la loro
liberalizzazione, ci adeguiamo, proibendo e
tollerando nel contempo.
209/481
Eppure, ogniqualvolta il problema della
droga comincia ad assumere proporzioni
importanti, “casualmente” qualche personaggio pubblico viene fermato per possesso di
“sostanze stupefacenti”, per usare una definizione giornalistica. La notizia ha ampio
risalto sui media, e quell’arresto dovrebbe
fungere da esempio, scoraggiando i giovani
dall’imboccare una simile strada e rassicurando la popolazione sul fatto che le autorità
vigilano attentamente – e che chi infrange la
legge, alla fine, paga sempre!
Comunque, è qualcosa che capita al
massimo una volta all’anno. Io, però, non
credo che qualche personaggio importante
decida di evadere dalla propria routine solo
una volta ogni dodici mesi, recandosi nel sottopasso all’altezza del Ponte Mont-Blanc per
fare acquisti da uno degli spacciatori che
stazionano lì a qualsiasi ora del giorno e
della notte. Se fosse così, i pusher sarebbero
già spariti per mancanza di clienti.
210/481
Arrivo sul posto. Ci sono numerose
famigliole che passeggiano, ignorate dagli
spacciatori. Quegli individui non creano fastidi, non si avvicinano a nessuno, tranne
quando passa una coppietta di giovani che
chiacchiera in una lingua straniera, o quando
un distinto signore in giacca e cravatta percorre il sottopassaggio e torna indietro
subito dopo, fissando negli occhi uno di loro.
Gli passo davanti con andatura calma,
sbuco di fronte a un chiosco, prendo
un’acqua minerale e mi lamento per il freddo
con un tizio che non ho mai visto, il quale
non mi degna di una parola, immerso nel suo
mondo. Decido di ritornare sui miei passi: gli
spacciatori sono sempre lì. Cerco di stabilire
un contatto visivo, ma c’è troppa gente –
qualcosa di piuttosto raro. È ora di pranzo, e
le persone dovrebbero essere sedute ai tavoli
dei costosissimi ristoranti della zona, impegnate a concludere un affare o a sedurre la
211/481
fanciulla arrivata in città alla ricerca di un
impiego.
Aspetto qualche minuto e ripasso per la
terza volta. Di nuovo, mi sforzo per stabilire
un contatto visivo: a un certo punto, un losco
figuro mi fa un cenno con il capo, invitandomi a seguirlo. Non avrei mai immaginato
di vivere una situazione simile, ma
quest’anno è stato talmente diverso e
assurdo che non mi stupisco più dei miei
comportamenti.
Fingo un’aria disinvolta e lo seguo.
Camminiamo per due o tre minuti, fino al
Giardino Inglese. Passiamo accanto a turisti
che scattano foto davanti all’Orologio Fiorito,
una delle attrattive della città. Superiamo la
piccola stazione del trenino turistico che percorre le vie del centro – mi ricorda Disneyland. Infine arriviamo alla promenade del
porto e ci fermiamo a contemplare l’acqua.
Sembriamo una coppia che ammira il Jet
d’Eau, la gigantesca fontana il cui getto può
212/481
raggiungere i centoquaranta metri d’altezza e
che da molto tempo è diventata il simbolo di
Ginevra.
Il tizio aspetta che io dica qualcosa. Dubito
che la mia voce risulterà ferma, malgrado il
grande autocontrollo che traspare dalla mia
postura. Così rimango zitta, costringendo lui
a rompere il silenzio:
“Erba, speed, acido o neve?”
Ecco, sono perduta. Non so che cosa
rispondere, e lo spacciatore capisce di avere
a che fare con una novellina. Sono stata
messa alla prova, e non l’ho superata.
Il giovane uomo ride. Gli domando se
pensa che sia una poliziotta.
“Certo che no. Un’ispettrice di polizia saprebbe benissimo di cosa sto parlando.”
Gli spiego che, per me, è la prima volta.
“Si capisce… Una tipa vestita come te non
si prenderebbe mai la briga di venire personalmente. Potrebbe chiedere a un nipote o a
un collega di lavoro se gli avanza qualcosa
213/481
dal suo consumo personale. Ecco perché ho
deciso di portarti sulla riva del lago. Avrei
potuto passarti la roba mentre camminavamo, e ora non sarei qui a sprecare il
mio fiato. E invece voglio sapere esattamente
cosa stai cercando, oppure se ti serve un consiglio, una raccomandazione o… un qualche
genere di aiuto.”
Quel tizio non perde tempo. Probabilmente si stava annoiando da morire nel sottopasso. L’ho percorso tre volte e non ho mai
visto neppure l’ombra di un cliente.
“Va bene. Ti ripeterò l’offerta con parole
che dovresti capire: hashish, anfetamine,
LSD o cocaina?”
Gli domando se ha crack o eroina.
Risponde che sono droghe proibite. Sono
tentata di ribattere che anche quelle che ha
menzionato sono vietate, ma sto zitta.
“Non è per me,” gli spiego. “È un omaggio
per una mia nemica.”
214/481
“Stai pensando a una vendetta? Hai intenzione di uccidere qualcuno con un’overdose?
Be’, in questo caso, signora cara, ti prego di
rivolgerti altrove.”
Fa per allontanarsi, ma io lo trattengo e gli
chiedo di ascoltarmi. Credo che il mio
interesse per la sua mercanzia abbia già fatto
raddoppiare il prezzo.
“Per quanto ne so, quella tizia non usa
droghe,” gli dico. “Vuoi sapere il motivo del
mio astio: sta pregiudicando la mia
relazione. Comunque, intendo solo tendergli
una trappola.”
“È qualcosa che va contro i precetti di
Dio.”
Incredibile! Un tale che vende sostanze
che causano dipendenza, potenzialmente
letali, tenta di ricondurmi sulla retta via!
Gli racconto la mia storia. Sono sposata da
dieci anni, e ho due figli meravigliosi. Mio
marito e io possediamo il medesimo modello
215/481
di cellulare, e un paio di mesi fa ho preso
involontariamente il suo.
“Non usate un codice di sicurezza sul
bloccaschermo?”
“No, affatto. Ci fidiamo l’uno dell’altra.
Anche se lui lo usa, forse in quel momento
era disattivato! È così che ho scoperto quasi
quattrocento sms e una serie di fotografie di
una donna attraente, bionda, importante. Ho
fatto qualcosa che avrei dovuto assolutamente evitare: una scenata. L’ho accusato, gli
ho domandato chi fosse quella tizia: mi ha
risposto che si trattava della persona di cui
era innamorato. Ed era contento che lo
avessi scoperto, prima che avvertisse il
bisogno di raccontarmi tutto.”
“Capita piuttosto spesso.”
Lo spacciatore è passato da buon pastore a
consulente matrimoniale! Ma io proseguo,
perché mi sto inventando tutto, e il racconto
mi sta entusiasmando. “Gli ho detto che
doveva abbandonare la nostra casa. Ha
216/481
acconsentito e, il giorno successivo, ha lasciato me e i nostri due figli per andare a vivere
con l’amore della sua vita. Lei, però, lo ha
accolto malissimo: trovava molto più
interessante avere una relazione con un
uomo sposato, piuttosto che vivere con un
compagno che non aveva scelto.”
“Le donne… È impossibile capirvi.”
Lo penso anch’io. Continuo la mia storia:
“Gli ha detto che non si sentiva pronta per la
convivenza, ed è finito tutto. Come immagino che accada nella maggior parte dei casi,
lui è tornato a casa, chiedendomi di perdonarlo. L’ho fatto. Del resto, desideravo soltanto il suo ritorno. Sono una donna innamorata, e non saprei vivere senza la persona
che amo. Ma adesso, dopo alcune settimane,
ho notato che è cambiato di nuovo. Poiché
evita di lasciare il cellulare incustodito, non
ho modo di sapere se hanno ripreso a incontrarsi. Però sospetto di sì. Quella donna –
bionda, indipendente, piena di fascino e
217/481
potere – sta portandomi via la cosa più
importante nella vita: l’amore. Sai cos’è
l’amore, vero?”
“Ho capito cosa vuoi. Ma la faccenda è
molto pericolosa.”
Come può aver capito, visto che non ho
ancora terminato il mio racconto?
“Hai intenzione di tendere una trappola a
quella donna. Non dispongo della merce che
ti serve, signora cara. Perché il tuo piano
riesca, ci vorrebbero almeno trenta grammi
di cocaina.”
Estrae il cellulare da una tasca, digita qualcosa e mi mostra il display. È comparsa una
pagina del portale CNN Money, con il prezzo
delle droghe. Sono sorpresa. Mi dice che si
tratta di un reportage recente, sulle difficoltà
incontrate nello smercio dai grandi cartelli
della droga.
“Come puoi vedere, il prezzo è molto alto:
la trappola ti costerà circa 5000 franchi. Ne
vale la pena? Non è più economico andare a
218/481
casa di quella donna e farle una scenata?
Inoltre, da quanto ho capito, non potresti
accusarla di niente.”
Da buon pastore, si era trasformato in
consulente matrimoniale. E, da consulente
matrimoniale, adesso è diventato un consigliere finanziario, che cerca di convincermi
a non sperperare il mio denaro.
Gli dico che accetto il rischio. So di avere
ragione. E perché trenta grammi; non ne
basterebbero dieci?
“È la quantità minima per essere considerati trafficanti. La pena è molto più pesante
rispetto a quella per i consumatori e i piccoli
spacciatori. Sei sicura di volerlo fare? Perché,
tornando a casa o andando da quella donna,
la polizia ti potrebbe fermare, e tu non sapresti come spiegare il possesso di tutta quella
droga.”
Chissà se gli spacciatori sono tutti così:
forse ne ho incontrato uno particolare. Mi
piacerebbe immensamente chiacchierare per
219/481
ore con quest’uomo navigato ed esperto ma,
a quanto pare, è una persona molto occupata. Mi chiede di tornare dopo una mezz’ora
con il denaro in contante. Quindi mi dirigo
verso uno sportello bancomat, sorpresa della
mia ingenuità. È ovvio che gli spacciatori
non si muovano con addosso grandi quantità
di droga: se li arrestassero, sarebbero considerati dei trafficanti! Quando ritorno alla
promenade, lo trovo lì ad aspettarmi. Gli
consegno il denaro discretamente, e lui mi
indica un contenitore di rifiuti poco distante.
“Ti chiedo solo un favore,” dice. “Fa’ in
modo che la roba non sia a portata di mano
di quella donna: potrebbe confondersi e
ingerirla. E allora sarebbe un autentico
casino.”
Quest’uomo è unico: pensa a tutto. Se
fosse il dirigente di una multinazionale,
guadagnerebbe una fortuna con i bonus
deliberati dagli azionisti.
220/481
Quando sto per riprendere la conversazione, lui si è ormai allontanato. Volgo lo
sguardo verso il contenitore dei rifiuti. E se
non ci fosse niente? Impossibile: questa
gente ha una reputazione da difendere, non
farebbe mai una cosa del genere.
Mi avvicino al posto indicato e mi guardo
intorno. Nel bidone dell’immondizia c’è una
busta di carta: la prendo e la infilo in borsa.
Un momento dopo, salgo su un taxi per tornare alla redazione del giornale. Sono di
nuovo in ritardo.
***
Ho la prova del delitto. Ho pagato una
fortuna per qualcosa che ha un peso assai
esiguo.
Ma come posso essere sicura che quel tale
non mi abbia ingannato? Devo scoprirlo da
sola.
221/481
Noleggio due o tre film che hanno come
protagonisti dei drogati. Mio marito è sorpreso dal mio nuovo interesse.
“Non starai pensando di rifugiarti nella
tossicodipendenza, eh?”
“Certo che no! È una ricerca per il
giornale. A proposito, domani rincaserò
tardi. Ho deciso di scrivere un articolo sulla
villa di Lord Byron, e devo passare da quelle
parti. Non preoccuparti.”
“Non mi preoccupo più. Anzi, penso che le
cose siano migliorate molto dopo la gita a
Nyon. Dobbiamo prendere l’abitudine di
andare fuori, magari per capodanno… La
prossima volta, lasceremo i bambini da mia
madre. Ho parlato con alcune persone preparate su questo argomento, e…”
L’“argomento” dev’essere quello che considera il mio stato di depressione. “Con chi
ne hai parlato? Con qualche amico che
potrebbe lasciarselo sfuggire al primo bicchiere di troppo?”
222/481
“Nient’affatto. Con uno psicologo che si
occupa di terapia di coppia.”
Oddio! La terapia di coppia è stata l’ultima
cosa che ho sentito quel pomeriggio tremendo al circolo del golf. Non è che quei due
si stanno parlando a mia insaputa?
“Forse la causa dei tuoi problemi sono io.
Non ti ho dato tutte le attenzioni che meriti.
Parlo sempre di lavoro o dei miei impegni. E
così si perde la componente romantica indispensabile per la felicità della famiglia. Preoccuparsi solo dei figli non è sufficiente. Ci
vuole altro, fintantoché siamo ancora
giovani. Magari potremmo tornare a Interlaken: è stato il nostro primo viaggio dopo
esserci conosciuti, ricordi? Potremmo salire
sullo Jungfrau e goderci il panorama da
lassù.”
Uno psicologo che si occupa di terapia di
coppia: ci mancava solo questo!
***
223/481
La
conversazione con mio marito mi
riporta alla mente un vecchio adagio: “Non
c’è peggior cieco di colui che non vuol
vedere.”
Come può pensare di non avermi dato
tutte le attenzioni che merito? Da dove ha
tirato fuori questa idea balzana, visto che
generalmente sono io che non lo accolgo a
letto con le braccia e le gambe spalancate?
Tranne che in quella famosa occasione, è
da tempo che non abbiamo un rapporto sessuale intenso e davvero appagante. In una
relazione sana, per la stabilità della coppia il
sesso è una componente indispensabile –
conta più che pianificare il futuro o parlare
dei bambini. Il mio ricordo di Interlaken è
associato a passeggiate per le vie del paese
nel tardo pomeriggio – perché trascorrevamo la maggior parte del tempo chiusi in
camera a fare l’amore e a bere vino
dozzinale.
224/481
Quando amiamo qualcuno, non ci accontentiamo di conoscere solo la sua anima, ma
vogliamo impadronirci anche del suo corpo.
È necessario? Non lo so, ma è l’istinto a
spingerci ad agire. E non esiste orario per
farlo, né regola che valga la pena di
rispettare. Niente è più intrigante della
scoperta, della timidezza che lascia il campo
all’audacia, dei gemiti sommessi che si trasformano in grida o parolacce. Sì, in parolacce
– avverto uno smisurato desiderio di ascoltare cose proibite e “sporche”, mentre un
uomo si muove dentro di me.
In quei momenti, nella mia mente si affollano sempre le stesse domande: “Sto smaniando troppo?”, “Devo muovermi più veloce o
più piano?”… Sono quesiti inusuali e strani
che, pronunciati con voce ansimante, forse
costituiscono un elemento disturbante,
anche se fanno parte dei rituali della
scoperta, dell’iniziazione, della conoscenza e
del rispetto reciproco. È molto importante
225/481
parlare, allorché si cerca di costruire
un’intimità perfetta. Se non accadesse, il
silenzio rappresenterebbe una frustrazione e
l’indizio di una menzogna.
Poi arriva il matrimonio. Ci si sforza di
mantenere i medesimi comportamenti, e talvolta ciò avviene – nel mio caso, hanno resistito fino a quando sono rimasta incinta, un
fatto che si è verificato ben presto. A quel
punto, quasi all’improvviso, ci si rende conto
che le cose sono cambiate.
– Si fa sesso soltanto di sera, preferibilmente poco prima di dormire. Da parte di
entrambi, viene vissuto come un obbligo,
senza interrogarsi se l’altro ne abbia voglia o
no. L’assenza di rapporti sessuali genera
sospetti: di conseguenza, è preferibile attenersi al rito.
– Se l’amplesso non è stato appagante, è
meglio tacere: forse la volta successiva sarà
diverso. Alla fin fine, ormai si è sposati e si
ha tutta la vita davanti.
226/481
– Poiché non c’è nulla di nuovo da
scoprire, bisogna imparare a trarre il
massimo piacere dalle cose conosciute. Il che
equivale a mangiare cioccolata tutti i giorni,
senza variare né marca né varietà: non è un
sacrificio, d’accordo, ma è possibile che non
esista altro?
È ovvio che esiste: aggeggi che si possono
acquistare nei sexy shop, club di scambisti,
rapporti a tre, feste a luci rosse a casa di
amici disinibiti…
Reputo tutto questo assai rischioso, per
una persona come me. Poiché non riesco a
immaginare le conseguenze, preferisco non
rischiare.
Passano i mesi o gli anni e, parlando con
gli amici, si scopre l’esistenza di una sorta di
mito: gli orgasmi simultanei – eccitarsi
insieme, contemporaneamente, accarezzandosi le medesime zone erogene e gemendo
all’unisono. Ma com’è possibile provare
piacere se si deve prestare attenzione a ogni
227/481
minima variante dei propri gesti? Non
sarebbe più naturale dire: “Toccami, fammi
impazzire, e poi io farò lo stesso con te”?
No, è impensabile: non può funzionare
così. Meglio ritornare alla consuetudine: la
comunione dev’essere “perfetta”. Ossia,
inesistente.
Ma… attenzione ai gridolini e ai gemiti: si
rischia di svegliare i bambini.
Un paio di minuti dopo, entrambi
pensano: ‘Ah, per fortuna che è finita. Ero
stanchissimo/a, e non so proprio come sia
riuscito/a a farcela. Se non fossi stata/o tu…’
Poi, si girano e si augurano reciprocamente
la buonanotte.
Infine arriva il giorno in cui ambedue si
rendono conto che devono assolutamente
spezzare la routine. Ma, anziché frequentare
i club di scambisti, andare nei sexy shop stipati di articoli erotici (di aggeggi dei quali si
ignora il funzionamento), o partecipare a
festini a casa di amici pazzerelli che non
228/481
esitano a sperimentare nuovi giochetti,
decidono di… Di trascorrere qualche
giornata senza i figli.
Di programmare un viaggio romantico.
Senza sorprese. Nel quale tutto sarà previsto
e organizzato in ogni particolare.
E trovano che sia un’idea grandiosa.
***
Ho creato un account con un’email falsa.
Ho la droga. L’ho testata – nessun imbroglio.
(Ho giurato solennemente che non ripeterò
mai più quell’esperienza, perché regala
sensazioni bellissime.)
So come entrare nell’università senza
farmi vedere per piazzare la busta nella
scrivania di Marianne. Devo solo individuare
un cassetto che apre di rado: forse questo è il
momento più rischioso del piano. Mi è stato
suggerito dallo spacciatore, e voglio prestare
ascolto alla voce dell’esperienza.
229/481
Non posso chiedere aiuto a qualche studente: devo occuparmi personalmente di
ogni cosa. Devo alimentare il “sogno
romantico” del mio immaginario consorte e
intasare il cellulare di Jacob con i miei messaggi d’amore e di speranza.
La conversazione con lo spacciatore mi ha
fornito un’idea, che ho subito messo in pratica: mandargli quotidianamente degli sms
con frasi d’amore e d’incoraggiamento.
Può funzionare in due modi. Il primo è che
Jacob si renda conto che gode del mio
sostegno e che l’incontro al circolo del golf
non mi ha turbato affatto. Se questo non funziona, il secondo prevede che, a un certo
punto, Madame König si prenda la briga di
controllare il cellulare del marito.
Vado in internet, copio l’estratto di un
testo che mi pare intelligente, lo incollo nel
campo dell’sms e premo il pulsante “Invio”.
Dal giorno delle elezioni non è successo
niente di importante a Ginevra. Il nome di
230/481
Jacob non è più comparso sulla stampa, e io
non ho assolutamente idea di cosa stia
facendo. Nell’ultimo periodo, soltanto un
fatto ha mobilitato l’opinione pubblica: il
dibattito sull’opportunità che l’amministrazione annulli la tradizionale festa di
capodanno.
Secondo alcuni consiglieri, le spese sono
esorbitanti. Ho avuto l’incarico di appurare
che cosa significhi esattamente “esorbitanti”.
Sono andata in municipio e ho scoperto la
cifra che dovrebbe essere stanziata: 115.000
franchi – la somma che io e la collega della
postazione accanto paghiamo di tasse.
Ossia, con i soldi delle imposte di due cittadini, retribuiti con uno stipendio discreto,
ma non straordinario, si potrebbero rendere
felici migliaia di persone. E invece no.
Bisogna economizzare, perché non si sa che
cosa ci riservi il futuro. Nel frattempo, le
casse della municipalità si rimpinguano: è
ininfluente che manchi il sale da spargere
231/481
sulle strade d’inverno per evitare che si formi
il ghiaccio e si verifichino incidenti, che non
si provveda alla riparazione dei marciapiedi
ammalorati, che ovunque si effettuino lavori
dei quali non si comprende l’utilità.
La gioia e l’allegria non sono contemplate:
è importante mantenere le apparenze – e,
sottinteso, non far capire a nessuno che
siamo ricchissimi.
***
Domani
devo svegliarmi presto per
andare al lavoro. Il fatto che Jacob abbia
ignorato i messaggi ha finito per avvicinarmi
a mio marito. Comunque, intendo continuare nel mio percorso di rivincita.
In verità, la volontà di portare a compimento il piano di vendetta è ormai scemata,
ma detesto abbandonare i progetti a mezza
via. Vivere significa prendere decisioni e
subirne le conseguenze. È da molto tempo
232/481
che non lo faccio, e questa potrebbe essere
una delle ragioni per cui, all’alba, mi ritrovo
a fissare il soffitto dopo una notte quasi
insonne.
Seguitare a spedire messaggi a un uomo
che mi respinge è una perdita di tempo e di
denaro. Non m’interessa più la sua felicità.
Anzi, a questo punto, mi auguro che viva
nell’infelicità: gli ho offerto la parte migliore
di me, e lui mi ha suggerito di ricorrere alla
terapia di coppia.
È anche per questo che voglio vedere
quella strega in galera: sono pronta ad
accettare le fiamme del Purgatorio per secoli
e secoli.
Voglio? Da dove arriva questa idea feroce?
Sono stanca, enormemente stanca, e non
riesco a dormire.
“La depressione colpisce più le donne
sposate che quelle nubili”: era la tesi esposta
in un articolo pubblicato sull’edizione di ieri
del giornale.
233/481
Io, però, non l’ho letto. È un anno strano,
questo, molto strano.
***
È un periodo particolarmente proficuo
per la mia vita: sto realizzando tutti i miei
sogni di adolescente, sono felice… Poi,
all’improvviso, accade qualcosa.
È come se un virus avesse infettato il computer. Comincia il decadimento, lento ma
inesorabile, che precede la devastazione.
Tutto funziona con tempi dilatati. Alcuni
programmi richiedono lunghi minuti e molta
memoria per aprirsi. Certi file – immagini,
documenti – spariscono senza lasciare
traccia.
Cerchiamo invano di scoprire l’origine del
malfunzionamento. Chiediamo aiuto ad
alcuni amici “smanettoni”, ma neppure loro
riescono a individuare il problema. Di certo,
quel computer sta collassando, e sembra non
234/481
appartenerti più. Adesso è del virus che si
annida da qualche parte nelle sue memorie.
D’accordo, possiamo sostituire la macchina,
ma la nostra preoccupazione si sposta su
tutto ciò che abbiamo archiviato nell’hard
disk. Quanto tempo abbiamo impiegato per
catalogare e ordinare quelle cose? Sono perdute per sempre?
Non è giusto.
Non ho il minimo controllo su ciò che mi
sta accadendo. Sull’assurda passione per un
individuo che, a questo punto, penserà che lo
stia assediando. Sul matrimonio con un
uomo che si prodiga per starmi vicino, ma
che mi nasconde le sue debolezze e le sue
vulnerabilità. Sull’insano desiderio di distruggere una donna incontrata una sola
volta, con l’illusione che questo annichilirà i
miei fantasmi interiori.
Molti affermano che il tempo cancella ogni
male: è assolutamente falso.
235/481
In realtà, il tempo cancella soltanto le cose
belle che vorremmo serbare per sempre. E ci
dice: “Non illuderti, la realtà è questa.” Ecco
perché dimentico presto ciò che leggo per
risollevarmi il morale. Nella mia anima c’è
un buco che drena tutta l’energia positiva,
lasciando solo il vuoto. Conosco l’esistenza di
quella voragine – sono mesi che convivo con
essa –, ma ignoro il modo di sfuggire alla
trappola.
Jacob pensa che io abbia bisogno di una
terapia di coppia. Il mio direttore mi considera una giornalista eccellente. I miei figli si
sono accorti delle modificazioni del mio
comportamento, ma non mi hanno detto
niente. Mio marito ha capito il mio disagio
solo quando, in quel ristorante, mi sono confidata con lui.
Prendo l’iPad sul comodino. Moltiplico
365 per 70. Il risultato è 25.350: è la media
dei giorni di vita di un individuo normale.
Quanti ne ho sprecati ormai?
236/481
Le persone che mi circondano non fanno
che lamentarsi: “Lavoro otto ore al giorno e,
se otterrò una promozione, dovrò lavorarne
dodici”, “Da quando mi sono sposato, non ho
più tempo per me”, “Ho cercato Dio, e mi ritrovo costretto ad andare a messe e cerimonie
religiose.”
Quello che si persegue con entusiasmo
nell’adolescenza – amore, lavoro, fede – finisce per trasformarsi in un fardello estremamente pesante non appena si raggiunge l’età
adulta.
Esiste una sola maniera per sfuggire a
questo sortilegio: attraverso l’Amore. Amare
significa trasformare la schiavitù in libertà.
Ma io, per ora, non sono capace di amare.
Provo soltanto odio.
E, per quanto assurdo possa sembrare,
questo non dà alcun senso ai miei giorni.
***
237/481
Raggiungo il luogo dove Marianne tiene
le lezioni di filosofia: un edificio che, con mia
grande sorpresa, è situato all’interno
dell’Ospedale Universitario di Ginevra. Mi
domando se il corso pomposamente indicato
nella sua biografia non sia un seminario
extracurricolare,
senza
alcun
valore
accademico.
Ho posteggiato l’auto davanti a un supermercato e, per arrivare fin qui, ho camminato per circa un chilometro: entrando, ho
visto un complesso di edifici bassi al centro
di un prato ancora verde, ingentilito dalla
presenza di un laghetto, e un gran numero di
frecce segnaletiche. In quell’area sorgono le
sedi di vari dipartimenti che, sebbene sembrino avulsi l’uno dall’altro, possono tranquillamente essere definiti complementari:
per esempio, la struttura per il ricovero
ospedaliero degli anziani e la clinica che
ospita gli individui affetti da turbe mentali. Il
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reparto psichiatrico è ospitato in una splendida costruzione dell’inizio del Novecento, e
costituisce un centro di formazione d’eccellenza per neurologi, psicologi, psichiatri,
psicoterapeuti e assistenti specializzati che
arrivano da tutta l’Europa.
Passo davanti a una struttura stranissima,
che mi ricorda i tableaux dei riflettori installati al termine delle piste di atterraggio negli
aeroporti. Per conoscere la sua utilità, devo
leggere una targa posta accanto alla base. È
una scultura intitolata Passaggio 2000,
un’installazione di “musica visiva” costituita
da dieci barriere di passaggi a livello
equipaggiate con luci rosse. Mi domando se
l’autore sia uno dei degenti del reparto psichiatrico ma, continuando nella lettura,
scopro che si tratta dell’opera di una famosa
scultrice.
Rispettiamo l’arte, d’accordo. Ma nessuno
mi dica che tutti gli artisti sono normali.
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È ora di pranzo – per me, l’unico momento
di pausa della giornata. Nella mia vita, gli
eventi più interessanti sono accaduti all’ora
di pranzo – incontri con amiche, politici,
fonti e spacciatori.
Le aule saranno vuote. Non posso dirigermi alla mensa universitaria dove, con
nonchalance, Marianne – cioè Madame
König – si starà scostando una ciocca di
capelli biondi dal viso, mentre gli studenti
più grandi saranno immersi in mille fantasticherie per escogitare la maniera di sedurre
quella donna così affascinante, e le ragazze
staranno ammirando e invidiando quel modello di eleganza, classe e intelligenza.
Vado alla reception e domando dove si
trova lo studio di Madame König. Vengo
informata che adesso non può ricevermi perché è l’orario del pranzo. Replico dicendo che
non ho alcuna intenzione di interrompere la
sua ora di pausa e che l’aspetterò davanti alla
porta della stanza.
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Sono vestita in modo quasi anonimo: sono
una di quelle persone cui si rivolge uno
sguardo appena, dimenticandosi subito di
averle incontrate. C’è un unico elemento che
può destare qualche sospetto: gli occhiali
scuri indossati in un giorno nuvoloso. Faccio
in modo che la receptionist noti i piccoli
cerotti al di sotto delle lenti: di sicuro,
penserà che sono reduce da un intervento di
chirurgia plastica.
Sorpresa del mio autocontrollo, mi incammino verso l’aula dove Marianne fa lezione.
Immaginavo che avrei avuto paura e che
avrei rinunciato a metà strada – e invece no.
Sono nella tana del nemico, e mi sento completamente a mio agio. Se un giorno dovessi
decidere di scrivere qualcosa su me stessa,
mi ispirerei a Mary Shelley e al suo Victor
Frankenstein: anch’io sarei animata dal
desiderio di spezzare la routine e cercare una
ragione appagante per la mia vita priva di
interesse e di sfide. Chissà se riuscirei a
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creare un mostro capace di far condannare
gli innocenti e salvare i colpevoli.
In ognuno di noi esiste un lato oscuro. In
fondo, tutti bramano di sperimentare il
potere assoluto. Allorché mi è capitato di
leggere storie di tortura e di guerra, ho
notato che, nel momento in cui esercitano il
potere, i carnefici sembrano dominati da
un’entità perversa e sconosciuta ma, quando
fanno ritorno a casa, si trasformano in docili
padri di famiglia e in mariti eccellenti.
Mi ricordo di un giorno, quando ero
ancora giovane, nel quale il mio fidanzato di
allora mi chiese di occuparmi del suo barboncino – un cane che detestavo. Dovevo
dividere con quell’essere peloso le attenzioni
del ragazzo che amavo. E invece io volevo
tutto il suo amore.
In quell’occasione, decisi di vendicarmi di
quell’animale irrazionale, che non dava alcun
contributo alla crescita del genere umano, e
la cui passività scatenava amore e affetto.
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Cominciai a tormentarlo fisicamente,
premurandomi di non lasciare segni: lo punzecchiavo con uno spillo infilzato sulla punta
di una scopa. Il cane gemeva e abbaiava, ma
io continuai finché non ebbi saziato il mio
insano desiderio di rivalsa.
Quando il mio ragazzo tornò, mi abbracciò
e mi baciò, ringraziandomi per essermi occupata del suo barboncino. Facemmo l’amore,
e la nostra vita proseguì. I cani non parlano.
Ripenso a quella storia, mentre mi dirigo
verso lo studio di Marianne. Come ho potuto
essere così cattiva? Probabilmente perché la
cattiveria alligna in ogni essere umano. Ho
visto uomini perdutamente innamorati delle
mogli perdere la testa e picchiarle e, un
attimo dopo, chiedere scusa in lacrime.
Siamo animali incomprensibili.
Ma perché dovrei inguaiare Marianne,
visto che posso incolparla soltanto di avermi
snobbato durante una festa? Perché ho escogitato un piano, ho rischiato la galera comprando una grossa quantità di droga e ora mi
ritrovo a cercare di piazzarla in un cassetto
della sua scrivania?
Perché lei ha ottenuto ciò che io non ho
avuto: le attenzioni e l’amore di Jacob.
È una motivazione sufficiente? Se lo fosse,
in questo momento il 99,9% delle persone
sarebbe intento a strologare tempi e metodi
per distruggersi a vicenda.
Ma forse è perché mi sono stancata di lamentarmi. Perché le notti insonni mi hanno
portato sull’orlo della pazzia. Perché, alla fin
fine, credo di star bene nella mia follia. Perché non verrò scoperta. Perché voglio
smettere di pensarci in maniera ossessiva.
Perché sono seriamente malata. Perché non
sono l’unica. Se il romanzo di Frankenstein
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ha goduto di un successo ininterrotto dal
momento della prima pubblicazione è perché
tutti si riconoscono nello scienziato e nel
mostro.
Mi fermo. “Sono gravemente malata?”: è
una possibilità reale. Forse dovrei uscire di
corsa da qui e recarmi da uno psichiatra. Lo
farò, ma prima devo portare a compimento il
mio piano, anche se – più tardi – il medico
potrebbe avvisare la polizia: in qualsiasi
caso, sarebbe obbligato a offrirmi protezione
per via del segreto professionale, ma
dovrebbe
preoccuparsi
di
evitare
un’ingiustizia.
Mi avvicino alla porta dello studio. Rifletto
sui vari “perché” che ho elencato lungo i corridoi. Entro, senza alcuna esitazione.
E mi ritrovo davanti un tavolo semplice,
senza cassetti. Solo un piano di legno che
poggia su gambe tondeggianti, adatto soltanto per appoggiarvi qualche libro, una
borsa e poco altro.
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Avrei dovuto immaginarlo. Mi sento frustrata e sollevata nel contempo.
I corridoi, prima silenziosi, ricominciano
ad animarsi: gli studenti si dirigono verso le
aule per le lezioni pomeridiane. Esco senza
voltarmi indietro, e mi incammino in
direzione opposta alla loro. Alla fine del corridoio c’è una porta. La apro e mi ritrovo
all’aperto, davanti alla struttura per il
ricovero ospedaliero degli anziani. Sorge alla
sommità di un terrapieno e ha muri massicci; sono sicura che lì dentro il riscaldamento è già acceso. Mi dirigo verso l’ingresso
e, alla reception, chiedo di una persona di cui
invento il nome. Mi viene detto che, probabilmente, è ricoverata altrove: Ginevra ospita
un’infinità di cliniche. La receptionist –
un’infermiera – si offre di fare una ricerca.
Dico che non è necessario, ma lei insiste:
“Non mi costa nulla.”
Per evitare ulteriori sospetti, accetto la sua
offerta. Mentre sfaccenda al computer,
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prendo un libro dal bancone e comincio a
sfogliarlo.
“Storie per l’infanzia,” spiega l’infermiera,
senza distogliere lo sguardo dallo schermo.
“I pazienti le adorano.”
Non sono stupita. Apro una pagina a caso:
Un topolino era depresso a causa della
paura del gatto. Un grande mago ebbe pena
di lui e lo trasformò in gatto. A quel punto,
si ritrovò ad aver paura del cane, e il mago
lo trasformò in cane.
Allora cominciò a temere la tigre.
Mostrando un’enorme pazienza, il mago usò
tutti i suoi poteri per trasformarlo in tigre.
Inutile: a quel punto, ebbe paura del cacciatore. Il mago si rassegnò e decise di riportarlo alla condizione originaria di topolino,
dicendo:
“Nessun incantesimo della mia arte ti
potrà mai aiutare, giacché non riesci a comprendere il senso della tua crescita. È meglio
che torni a essere ciò che sei sempre stato.”
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L’infermiera non riesce a trovare il mio
degente immaginario. Mi scuso per averle
fatto sprecare del tempo, la ringrazio per la
disponibilità e mi accingo ad andarmene. A
quanto pare, però, è contenta di poter chiacchierare con qualcuno.
“Pensa davvero che la chirurgia plastica
possa aiutare?”
La chirurgia plastica? Ah, sì. Mi ricordo
dei piccoli cerotti sotto le lenti scure.
“La maggior parte dei nostri pazienti si è
sottoposto a un’operazione di quel tipo. Se
fossi in lei, cercherei di evitarla, in futuro:
determina uno squilibrio fra il corpo e la
mente.”
Non ho chiesto la sua opinione, ma sembra che si senta investita di un dovere umanitario, e prosegue: “La vecchiaia è più traumatizzante per coloro che pensano di poter
controllare il passare degli anni.”
Le domando la sua nazionalità.
“Ungherese,” risponde.
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Ah, ecco. Gli svizzeri non esprimerebbero
mai un’opinione senza essere interpellati.
La ringrazio di nuovo ed esco, togliendomi
gli occhiali e i cerotti. Il trucco ha funzionato,
ma il piano no. Il campus è di nuovo deserto.
Ora sono tutti occupati a imparare come si
pensa, come ci si preoccupa, come si condiziona il pensiero altrui.
Dopo una lunga camminata, ritorno al
parcheggio dove ho lasciato l’auto. Da
lontano posso vedere il reparto psichiatrico
dell’Ospedale Universitario: dovrei stare là
dentro?
***
“Siamo
tutti così?” domando a mio
marito, dopo che i bambini si sono
addormentati e noi ci apprestiamo a
coricarci.
“Così come?”
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“Come me. Che prima mi sento benissimo
e, un momento dopo, sto malissimo.”
“Penso di sì. Nella vita, ci sforziamo di
controllare ogni gesto e ogni emozione, per
evitare che il mostro esca dal suo
nascondiglio.”
“È vero.”
“Non siamo chi desidereremmo essere.
Siamo ciò che la società richiede, gli individui che i nostri genitori hanno deciso che
fossimo. Ci adoperiamo per non deludere
nessuno, abbiamo un immenso bisogno di
essere amati. E, di conseguenza, soffochiamo
la parte migliore di noi. A poco a poco, la
luce dei nostri sogni si trasforma nel mostro
dei nostri incubi. E diventiamo schiavi delle
cose non realizzate, delle possibilità non
vissute.”
“Per quanto ne so, in passato la psichiatria
definiva quest’atteggiamento un disturbo
maniacodepressivo, ma ora – forse per
mostrarsi politicamente corretta – preferisce
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indicarlo con il termine ‘depressione
bipolare’. Chissà dove avranno pescato una
simile definizione. Il Polo Nord e il Polo Sud
hanno
caratteristiche
tanto
diverse?
Comunque,
deve
riguardare
una
minoranza…”
“Sì, certo, è una minoranza a esprimere
una doppia personalità. Ma penso che il
mostro viva in quasi tutte le persone.”
Da un lato, la pazza che si intrufola in
un’università per far incriminare un’innocente, senza saper spiegare il motivo del suo
odio; dall’altro, la donna che si occupa
amorevolmente della famiglia e si adopera
per la felicità dei suoi cari, senza neppure
chiedersi se ciò che prova confligge con la
complessa realtà che vive.
“Hai presente il Dr. Jekyll e Mr. Hyde?”
A quanto pare, Frankenstein non è l’unico
libro sempre ristampato da quando fu esaurita la prima edizione: Lo strano caso del Dr.
Jekyll e Mr. Hyde, che Robert Louis
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Stevenson scrisse in tre giorni, ha beneficiato
del medesimo destino – e di un numero
altrettanto cospicuo di trasposizioni cinematografiche. La vicenda si svolge a Londra, nel
XIX secolo. Il medico e ricercatore Henry
Jekyll è convinto che il Bene e il Male esistano in ogni essere umano. È deciso a
dimostrare la sua teoria, derisa da quasi tutti
i suoi conoscenti. Lavorando instancabilmente nel suo laboratorio, riesce a elaborare
una formula. Ma per non mettere a rischio la
vita di altre persone, beve egli stesso la
pozione.
Il risultato è l’incarnazione del suo lato
demoniaco in un individuo che battezza con
il nome di Mr. Hyde. Jekyll crede di poter
controllare la comparsa e le azioni di Hyde,
ma ben presto si rende conto di essere profondamente in errore.
Allo stesso modo, quando la nostra componente cattiva viene liberata, finisce per
offuscare tutte le qualità di cui disponiamo.
252/481
È qualcosa che riguarda l’intero genere
umano. Accade per i tiranni che, di solito,
all’inizio sono animati da buonissime intenzioni, ma che, pian piano, per perseguire il
loro Bene immaginario, si affidano a una
delle manifestazioni peggiori della natura
umana: il terrore.
“Sì, ricordo la trama del romanzo. Mi ha
sempre confuso e spaventato. Ma è qualcosa
che può accadere a chiunque di noi?”
“No. Solo una piccola minoranza è priva di
una nozione precisa di cosa sia giusto e cosa
sia sbagliato.”
“Io non so se questa minoranza sia davvero così esigua: a scuola, ho vissuto una
situazione che poteva ricordare il libro di
Stevenson. Avevo un professore preparato e
gentile che, all’improvviso, si trasformava in
un essere rozzo e violento: i suoi cambiamenti mi disorientavano. Tutti gli studenti
ne avevano paura, perché era impossibile
253/481
prevedere come sarebbe stato un momento,
un’ora o un giorno dopo.
“Ma chi avrebbe osato reclamare? In fin
dei conti, gli insegnanti hanno sempre
ragione. Inoltre, tutti pensavano che avesse
qualche difficoltà in casa, qualche problema
che presto si sarebbe risolto. Finché, un
giorno, perse il controllo, e il suo Mr. Hyde
aggredì uno dei miei compagni. La direzione
venne informata dell’episodio, e fu allontanato dall’istituto. Da allora, ho sempre avuto
una sorta di timore verso le persone che
dimostrano
grande
gentilezza
e
disponibilità.”
“Come le cosiddette tricoteuses.”
“Esatto.” Quelle donne reclamavano giustizia e pane per i poveri e lottavano per liberare la Francia, per porre rimedio al malgoverno di Luigi XVI. Durante il Regime del
Terrore, si recavano di buon’ora nella piazza
dov’era collocata la ghigliottina, prendevano
posto in prima fila e lavoravano a maglia
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mentre aspettavano i condannati a morte.
Probabilmente erano madri di famiglia che,
durante il resto della giornata, si occupavano
amorevolmente di figli e mariti. Alla mattina,
però, passavano il tempo sferruzzando tra
un’esecuzione e l’altra.
“Comunque, ricorda: tu sei più forte di me.
È qualcosa che ho sempre patito. E forse è il
motivo per il quale non ho mai esibito i miei
sentimenti: non bisogna rivelare la propria
debolezza.”
Non sa che cosa sta dicendo. Ma la conversazione è ormai finita. Dopo qualche istante,
si gira e si addormenta.
E io rimango sola con la mia “forza”, a fissare il soffitto.
***
Una settimana dopo, mi risolvo a tradire
un giuramento che avevo fatto a me stessa:
decido di andare da uno psichiatra.
255/481
Ho fissato tre appuntamenti con tre
medici diversi. Ci sono riuscita, anche se
avevano l’agenda piena – a Ginevra c’è più
gente squilibrata di quanto si immagini.
Esordivo dicendo che si trattava di
un’urgenza. Le segretarie replicavano che
“Tutto è urgente”, mi ringraziavano per la
fiducia riposta nel “professore”, ma erano
spiacenti: non potevano cancellare le visite
degli altri pazienti.
A quel punto, ho deciso di ricorrere al
solito asso nella manica: comunicare la mia
professione. Il termine “giornalista”, seguito
dal nome di una testata importante, è una
sorta di parola magica, in grado di aprire o
far chiudere innumerevoli porte. Nel caso
specifico, sapevo che il risultato sarebbe
stato favorevole: ho ottenuto tutti gli
appuntamenti chiesti.
Non l’ho detto a nessuno – né a mio
marito né al mio direttore. Il primo specialista – un uomo abbastanza strano, con un
256/481
accento britannico – si è premurato di avvisarmi che non lavorava in convenzione con gli
enti previdenziali. Ho avuto il sospetto che
esercitasse in Svizzera illegalmente.
Con molta calma, gli ho spiegato che cosa
mi stava succedendo. Ho usato gli esempi di
Frankenstein e della sua creatura mostruosa,
e del Dr. Jekyll e Mr. Hyde. Gli ho chiesto di
aiutarmi a gestire il mostro che viveva in me
e che minacciava di sfuggire al mio controllo.
Mi ha domandato che cosa realmente rappresentavano quei riferimenti. Di certo, non
gli avrei mai rivelato i dettagli della mia
situazione, poiché avrebbero potuto compromettermi – specialmente il piano elaborato
per far incriminare Marianne König con
l’accusa di traffico di stupefacenti.
Ho deciso di raccontargli una bugia: gli ho
spiegato che ero tormentata da pulsioni
omicide, e pensavo di uccidere mio marito
nel sonno. Quando mi ha chiesto se io o lui
avessimo un amante, gli ho detto di no.
257/481
Capiva perfettamente: comunque era una
situazione ancora nella norma. Un anno di
terapia, con tre sedute alla settimana,
avrebbe ridotto del 50% il mio istinto assassino. Sono rimasta scioccata dalla sua affermazione. E se, nel frattempo, avessi ucciso
mio marito? Mi ha risposto che stavo
vivendo soltanto un “transfert”, una
“fantasia”, giacché i veri potenziali omicidi
non cercano mai aiuto.
Prima che uscissi, mi ha comunicato che il
suo onorario ammontava a 250 franchi; poi
ha detto alla segretaria di fissare degli
appuntamenti regolari a partire dalla settimana successiva. L’ho ringraziato, dicendo che
avrei dovuto consultare la mia agenda, prima
di poter confermare gli impegni. Quando ho
chiuso la porta, sapevo già che non sarei
tornata.
Il secondo psichiatra era una donna. Non
aveva alcuna preclusione sulle convenzioni
con gli enti previdenziali, e mi sembrava più
258/481
disposta ad ascoltarmi. Ho ripetuto la storia
che talvolta avvertivo il desiderio di uccidere
mio marito.
“Be’, è qualcosa che capita anche a me,” ha
replicato, con un sorriso sulle labbra.
“Comunque entrambe sappiamo che, se le
donne realizzassero i loro desideri segreti,
moltissimi bimbi sarebbero orfani di padre.
Si tratta di un impulso ‘normale’.”
Normale?
Dopo una conversazione durante la quale
mi ha spiegato che ero “intimidita dal matrimonio”, che “non avevo spazio per crescere”
e che la mia sessualità “mi procurava una
serie di scompensi ormonali ampiamente
citati nella letteratura medica”, ha preso un
ricettario e ha scritto il nome di un noto antidepressivo. Ha aggiunto che gli effetti del
farmaco si sarebbero consolidati nel giro di
un mese e che, fino ad allora, avrei dovuto
convivere con i miei disagi: poi, tutto sarebbe
stato soltanto uno spiacevole ricordo.
259/481
Purché continuassi a prendere le compresse, ovviamente. Per quanto tempo?
“La durata della cura è assai variabile. Ma
credo che, nel giro di tre anni, potrà ridurre
la dose giornaliera.”
Un problema derivante dall’utilizzo delle
casse previdenziali consiste nel fatto che la
parcella dello specialista viene inviata a casa
del paziente. Ecco il motivo per cui ho pagato
in contanti, prima di chiudermi la porta dello
studio alle spalle e giurare – ancora una
volta – di non tornare più in quel posto.
A quel punto, mi sono recata al terzo consulto. Di nuovo, un uomo in uno studio il cui
arredamento, con ogni probabilità, era
costato una fortuna. Al contrario dei due colleghi, ha preso sul serio la mia immaginaria
pulsione omicida, dopo avermi ascoltato con
attenzione. Correvo davvero il rischio di
uccidere mio marito. Ero una potenziale
assassina. Stavo perdendo il controllo di me
stessa: se il mostro che viveva nel mio intimo
260/481
fosse riuscito a liberarsi, non sarei più stata
in grado di fermarlo.
Alla fine, con grande prudenza, mi ha
domandato se facessi uso di stupefacenti.
“Mi è accaduto solo una volta,” ho
risposto.
Non mi ha creduto. Ha cambiato
argomento, parlando dei conflitti che tutti
siamo costretti ad affrontare nella quotidianità. Poi è tornato sulla questione delle
droghe.
“È indispensabile che si fidi di me. Nessuno si droga una volta soltanto. Sappia che
è protetta dal mio segreto professionale. Verrei radiato dall’albo, se rivelassi qualcosa del
genere. È meglio sgombrare il campo da ogni
equivoco, prima di fissare il prossimo
appuntamento. Non è solo lei che deve
accettarmi come medico; anch’io devo
accettarla come paziente. È così che
funziona.”
261/481
“No, non faccio uso di droghe,” ho ribadito. “Conosco la legge sul segreto professionale, e non sono qui per mentirle. Voglio
soltanto risolvere i miei problemi, per evitare
di fare del male a persone che amo o che mi
sono vicine.”
Sul suo volto affascinante e perfettamente
rasato è comparsa un’espressione convinta.
Ha annuito, prima di replicare:
“Ha impiegato anni per accumulare tutti
questi elementi negativi, e ora vuole liberarsi
di essi in un battibaleno, dalla sera alla mattina… Non è possibile con la psichiatria o la
psicanalisi: non sono uno sciamano che, con
un tocco delle dita e una formula magica,
scaccia gli spiriti maligni.”
Chiaramente era un commento ironico,
ma quelle parole mi avevano appena fornito
un’eccellente idea. I miei giorni di ricerca in
ambito psichiatrico erano finiti.
***
262/481
Post Tenebras Lux. Dopo le tenebre, la
luce.
Mi trovo davanti al Muro dei Riformatori:
un monumento lungo circa cento metri, al
centro del quale si ergono quattro statue
imponenti, fiancheggiate da figure più piccole in bassorilievo. Uno dei soggetti principali – il secondo partendo da sinistra – è più
alto degli altri, ha la barba lunga e regge con
entrambe le mani ciò che, nella sua epoca,
era più letale di una mitragliatrice: la Bibbia.
Mentre aspetto, penso: ‘Se quell’uomo
fosse nato oggi, tutti – soprattutto i francesi
e i cattolici –, lo considererebbero un terrorista.’ Infatti le tattiche che utilizzava per
far trionfare quella che reputava la verità
suprema mi portano a paragonarlo a Osama
Bin Laden, seppure con enormi distinguo
riguardo alla perversione di quest’ultimo.
Entrambi perseguivano il medesimo fine:
instaurare uno stato teocratico, nel quale
263/481
coloro che non avessero osservato le leggi
divine, avrebbero dovuto essere puniti. In
qualsiasi caso, nessuno dei due ha avuto la
minima esitazione quando si è trattato di
ricorrere al terrore per raggiungere i propri
obiettivi.
Chi raffigura quella statua? Giovanni
Calvino che, per due volte, scelse Ginevra
come base della propria lotta religiosa. Una
battaglia che vide la condanna a morte e il
sacrificio di centinaia di persone. Non solo di
cattolici che non volevano abiurare la propria fede, ma anche di scienziati che, in cerca
della verità (e magari di un rimedio per una
qualche
malattia),
sfidavano
l’interpretazione letterale della Bibbia. Il caso più
famoso riguarda Michele Serveto, teologo e
medico spagnolo, autore di un importante
studio sulla circolazione sanguigna polmonare, che per le sue ricerche e per una disputa
sulla Trinità fu condannato al rogo.
264/481
Non è sbagliato punire eretici e blasfemi.
Giacché in tal modo non diventiamo complici dei loro crimini […]. Non si tratta qui
dell’autorità dell’uomo: è Dio che parla […].
Dunque, se Egli esige da noi atti di così
estrema gravità, affinché Gli venga
dimostrato che Lo gratifichiamo degli onori
dovuti e Lo poniamo al di sopra di ogni considerazione umana, dobbiamo essere pronti
a non risparmiare né parenti né consanguinei, e a dimenticare qualsivoglia umanità, quando si tratta di combattere per la
Sua gloria.
La ferocia e la morte non si limitarono al
cantone di Ginevra: alcuni seguaci di
Calvino, probabilmente gli individui effigiati
nei bassorilievi, diffusero la sua dottrina
intollerante nell’intera Europa. In Olanda,
nel 1566, vennero distrutte numerose chiese,
e molti “ribelli” – ossia, coloro che praticavano una fede differente – furono assassinati. Tantissime opere d’arte con soggetti
265/481
sacri furono bruciate, con il pretesto
dell’“idolatria”: in poco tempo, una parte
considerevole del patrimonio storico e culturale dell’umanità andò perduta.
Eppure nei libri scolastici dei miei figli
Calvino è descritto come un grande
umanista, un uomo dalle idee nuove che
“liberò” gli svizzeri dal giogo cattolico. Un
rivoluzionario meritevole di onori e gloria
nei secoli dei secoli.
Dopo le tenebre, la luce.
‘Che cosa passava nella mente di
quest’uomo?’ mi domando, guardando il suo
volto di pietra. ‘Ha trascorso notti insonni
sapendo che le famiglie venivano decimate,
che i figli erano separati dai genitori e che la
terra stava intridendosi di sangue? Oppure
era talmente convinto della propria missione
da non avere alcuna remora. Credeva che
ogni suo atto potesse trovare una giustificazione in nome dell’amore?’ Ecco il dubbio
266/481
che mi assilla, il nocciolo dei miei problemi
attuali.
Dr. Jekyll e Mr. Hyde. Alcune testimonianze raccontano che, nell’intimità, Calvino
era un uomo buono, che seguiva gli insegnamenti di Cristo e compiva sorprendenti gesti
di umanità. Era temuto, ma anche amato – e,
grazie a questo amore, infiammava le folle.
Poiché la storia è scritta dai vincitori, nessuno ricorda le sue atrocità. Oggi è soltanto il
medico dell’anima, il grande riformatore,
colui che ci salvò dall’eresia cattolica – dai
suoi angeli, dai suoi santi, dalle vergini,
dall’oro, dall’argento, dalle indulgenze e
dalla corruzione.
***
Arriva l’uomo che aspettavo e le mie riflessioni si interrompono. È uno sciamano
cubano. Gli spiego che ho convinto il mio
direttore
riguardo
all’opportunità
di
267/481
pubblicare un articolo sui metodi alternativi
per combattere lo stress. Il mondo degli
affari pullula di persone che, un momento
prima, si comportano con estrema generosità
e, subito dopo, sfogano la propria rabbia
sugli individui più deboli – di solito, i loro
sottoposti. Gli uomini risultano sempre più
imprevedibili.
Gli psichiatri e gli psicanalisti hanno gli
studi affollati e non riescono più a seguire i
pazienti. E nessuno può aspettare mesi o
anni per curarsi la depressione.
Il cubano ascolta senza commentare. Gli
domando se possiamo continuare la nostra
conversazione in un bar: siamo all’aperto, e
la temperatura è scesa di alcuni gradi.
“È la ‘nuvola’,” dice lui. Poi accetta il mio
invito.
La “nuvola” staziona nei cieli di Ginevra
fino a febbraio o marzo: solo di tanto in tanto
il Mistral la allontana, spazzando il cielo, ma
268/481
facendo abbassare ancora di più la
temperatura.
“Com’è arrivata a me?”
“Mi ha parlato di lei uno dei sorveglianti
del giornale. Il direttore voleva che intervistassi psicologi, psichiatri e psicoterapeuti,
ma mi sarei ritrovata con un articolo già
pubblicato centinaia di volte.”
Sto pensando a un pezzo diverso, originale, e lo sciamano può fornirmi argomenti
nuovi.
“Non potrà pubblicare il mio nome. La mia
attività non è riconosciuta né dagli enti previdenziali né dagli ambienti scientifici.”
Immagino che voglia dirmi: “Ciò che faccio
è illegale.”
***
Parlo per quasi venti minuti, tentando di
metterlo a suo agio, ma il cubano non replica
mai: si limita a studiarmi. Ha la pelle bruna e
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i capelli brizzolati; è piuttosto basso e
indossa giacca e cravatta. Non avrei mai
immaginato che uno sciamano si vestisse in
quel modo.
Gli assicuro che le sue dichiarazioni resteranno anonime e che mi impegno a
mantenere il segreto sulla sua identità.
Voglio sapere soltanto se sono in molti a
rivolgersi a lui. Mi hanno riferito che è in
grado di curare e guarire.
“È falso. Io non so curare né guarire. Solo
Dio può farlo.”
“D’accordo. Ma capita quasi ogni giorno di
incontrare qualcuno che, all’improvviso,
assume un atteggiamento strano. E allora ti
domandi: ‘Che cos’è accaduto a questa persona che pensavo di conoscere così bene?
Per quale motivo si sta comportando in
maniera tanto aggressiva? Sarà a causa dello
stress derivante dal lavoro?’ Poi, l’indomani,
ecco che l’altro è tornato normale. Provi un
grande sollievo ma, poco tempo dopo,
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sopraggiunge un nuovo cambiamento: ti
senti come se, di colpo, uno sconosciuto ti
avesse strappato il tappeto da sotto i piedi. E
questa volta, anziché chiederti che cosa non
va in quel tizio, ti domandi dove hai
sbagliato.”
Il cubano tace. Non si fida ancora di me.
“Esiste una cura per questo?”
“Sì, esiste, ma appartiene a Dio.”
“Va bene. Ma… in che modo Dio cura?”
“In moltissimi modi. Mi guardi negli
occhi.”
Obbedisco, e scivolo in una sorta di trance:
uno stato nel quale mi sembra di perdere il
contatto con il mondo reale.
“In nome delle forze che guidano il mio
lavoro, per i poteri a me conferiti, chiedo agli
spiriti che mi proteggono di distruggere la
sua vita e quella dei suoi famigliari, se
denuncerà la mia attività alla polizia o segnalerà la mia presenza all’ufficio confederale
per l’immigrazione.”
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Traccia alcuni segni nell’aria, intorno al
mio capo. È una scena surreale: vorrei
alzarmi e andarmene. Ma, quando mi risolvo
a muovermi, lui è tornato normale – né particolarmente cortese né antipatico.
“Adesso chiedi pure. Mi fido di te,” dice,
passando al “tu”.
Sono piuttosto spaventata. Non ho alcuna
intenzione di mettere nei guai quest’uomo.
Gli chiedo di versarmi un’altra tazza di tè;
poi gli spiego esattamente cosa desidero:
secondo i medici che ho “intervistato”, per la
cura è necessario molto tempo. Il sorvegliante del giornale mi ha detto che – misuro
attentamente ogni parola – Dio lo utilizza
come un tramite: attraverso di lui può curare
e guarire la depressione.
“Innanzitutto, siamo noi a creare confusione nelle nostre menti – e la depressione
non è altro che uno stato confusionario.
Niente arriva dall’esterno. Per risolvere il
problema, è sufficiente chiedere aiuto a uno
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spirito protettore, il quale penetra nell’anima
e si preoccupa di sistemare tutto ciò che crea
disagio. È facile: peccato che nessuno creda
più alla presenza di quegli esseri benevoli.
Essi ci osservano, desiderosi di soccorrerci,
ma nessuno li invoca. Il mio lavoro consiste
nel chiamarli quando una persona è in difficoltà e attendere che svolgano il loro
compito. Soltanto questo.”
“E se, in un momento di aggressività, una
persona concepisce un piano per distruggerne un’altra, magari diffamandola sul
lavoro o facendola accusare ingiustamente?”
“È qualcosa che capita tutti i giorni.”
“Penso di saperlo. Ma mi chiedo, quando
la carica aggressiva si dissolverà, quando
tutto tornerà nella normalità: quella persona
non si sentirà divorata dal senso di colpa?”
“Certo. E, con il passare degli anni, la sua
condizione peggiorerà.”
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“Allora il motto della Riforma Protestante
e della città di Ginevra è sbagliato: ‘Dopo le
tenebre, la luce’.’”
“Cosa?”
“Niente. Stavo divagando sul monumento
nel parco dell’università.”
“Comunque, sì: c’è luce alla fine del tunnel, se è questo che vuoi dire. Ma accade che,
quando la persona ha attraversato l’oscurità
ed è arrivata dall’altra parte, ha lasciato
dietro di sé un’enorme scia di distruzione.”
“Capisco. Ma torniamo al motivo del nostro incontro: il suo metodo.”
“Non è il mio metodo. Altri lo hanno usato
nel corso degli anni contro lo stress, la
depressione, l’irascibilità, le manie suicide e
le mille altre maniere che l’essere umano ha
escogitato per farsi del male.”
Mio Dio, sono davanti alla persona che
cercavo. Devo mantenere il sangue freddo.
“Possiamo definirlo come…”
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“… Come una trance autoindotta. O
autoipnosi. Oppure meditazione. In ogni cultura, ha un nome differente. Comunque,
ricorda che la Società Medica della Svizzera
si oppone risolutamente a questo genere di
esperienze.”
Gli spiego che faccio yoga, anche se non
riesco ad arrivare a uno stadio di conoscenza
in cui i problemi vengono organizzati e
risolti.
“Stiamo parlando della tua persona o di un
articolo per il giornale?”
“Di entrambi.” Devo agire con estrema
cautela, perché so di non poter avere segreti
per quest’uomo. Ne ho avuto la certezza nel
momento in cui mi ha chiesto di guardarlo
negli occhi. Gli spiego che la sua preoccupazione per l’anonimato è del tutto ridicola –
molta gente sa che riceve nella sua casa di
Veyrier. E molte persone, tra cui alcuni funzionari federali responsabili della sicurezza
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carceraria, ricorrono ai suoi servigi. È quanto
mi ha raccontato il sorvegliante del giornale.
“Hai un problema con la notte,” afferma
lui.
Vero. Il mio problema si manifesta in
quelle ore. Ma perché?
“Per il semplice fatto di essere buia, la
notte ha il potere di far rivivere in noi i terrori dell’infanzia, la paura della solitudine e
dell’ignoto. Tuttavia, se riusciamo a vincere
quei fantasmi, saremo in grado di sconfiggere facilmente anche quelli che ci tormentano durante il giorno. Non avremo
paura delle tenebre, se scegliamo di affidarci
alla luce.”
Mi sento come davanti a un insegnante di
scuola elementare, che mi sta spiegando cose
tremendamente ovvie. “Non potrei venire a
casa sua perché faccia…”
“… Un rituale di esorcismo?”
Non avevo pensato a quel termine, ma
forse è proprio quello che mi serve.
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“Non è necessario. In te, vedo molte
tenebre, ma anche tanta luce. E sono convinto che, alla fine, essa prevarrà.”
Sto per piangere: quest’uomo è penetrato
davvero nella mia anima, e non riesco a spiegarmi come ci sia riuscito.
“Di tanto in tanto, abbandonati alla notte,
fermati a guardare le stelle e lasciati inebriare dalla sensazione dell’infinito. Con i suoi
sortilegi, la notte è anche un cammino verso
l’illuminazione. Proprio come il pozzo scuro
sul fondo del quale c’è l’acqua che vince la
sete, la notte porta con sé – celata tra le sue
ombre – la fiamma che incendia le nostre
anime, consentendoci di avvicinarci ai misteri di Dio.”
Chiacchieriamo per quasi due ore. Lo
sciamano cubano mi ripete che devo soltanto
abbandonarmi alla vita, lasciarmi trasportare; poi aggiunge che tutti i miei timori –
persino i più grandi – sono infondati. Gli
parlo del mio desiderio di vendetta. Lui
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ascolta senza commentare né esprimere un
giudizio. Parlo, e parlo, e parlo – e mi sento
sempre meglio.
Mi invita a uscire e a fare una passeggiata
nel parco. Vicino a un ingresso, vedo i
riquadri bianchi e neri di alcune scacchiere
dipinti sul cemento e una schiera di pezzi in
plastica. Nonostante il freddo, alcune persone stanno giocando.
Lo sciamano cammina in silenzio – io,
invece, continuo a parlare, ora ringraziando
ora maledicendo la vita che la sorte mi ha
riservato. Ci fermiamo davanti a una delle
scacchiere. Adesso lui sembra più interessato
al gioco che alle mie parole. Taccio e comincio a seguire le varie mosse, sebbene non sia
particolarmente attratta dalla partita.
“Devi arrivare sino alla fine,” dice, quasi
all’improvviso.
“Sino alla fine? Tradisco mio marito, escogito piani per mettere la cocaina in un cassetto della mia rivale e avvertire la polizia…”
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Lui scoppia a ridere.
“Vedi quei giocatori? Sono obbligati a fare
la mossa successiva. Non possono evitarla,
altrimenti sarebbe come rassegnarsi alla
sconfitta. Magari arriverà un momento in cui
essa è inevitabile, ma almeno avranno lottato
sino alla fine. In noi, c’è già tutto, in molteplici forme. Non c’è niente da trovare. Pensare
di essere buoni o cattivi, giusti o iniqui, è una
grande sciocchezza. Oggi Ginevra è coperta
da una nuvola: anche se accadrà tra mesi,
noi sappiamo che se ne andrà. Abbi fiducia,
lasciati trasportare.”
“Cercherò di farlo. Nessuna raccomandazione, per evitare che faccia qualcosa di sbagliato?”
“No, nessuna. Se sbaglierai, te ne renderai
conto da sola. Come ti ho detto, nella tua
anima la luce è maggiore delle tenebre. Ed è
per questo che dovrai giocare la tua partita
sino alla fine.”
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Nella mia vita, credo di non aver mai
ascoltato un consiglio così assurdo. Lo
ringrazio per il tempo che mi ha dedicato e
gli domando qual è il suo onorario.
“Nulla,” mi risponde.
***
Di
ritorno al giornale, il direttore mi
domanda perché ho tardato tanto. Gli spiego
che, trattandosi di un tema molto delicato e
controverso, ho stentato a ottenere le spiegazioni di cui avevo bisogno.
“Non è che stiamo favorendo delle
pratiche illecite, visto che è qualcosa di
controverso?”
“Incoraggiamo comportamenti poco virtuosi, bombardando i giovani con notizie che
spingono a consumi smodati? Promuoviamo
gli incidenti, parlando di auto che raggiungono la velocità di duecentocinquanta chilometri orari? Favoriamo la depressione e le
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manie suicide, pubblicando articoli su persone di successo e instillando in molti lettori
la convinzione di non valere niente?”
Il direttore non è in vena di discussioni.
Sarebbe davvero interessante parlare di
queste cose, anche in considerazione del
fatto che uno degli articoli più importanti
dell’edizione odierna del giornale si intitolava: “La nostra Catena della Felicità raccoglie 8.000.000 di franchi per i bambini
asiatici”.
Scrivo un pezzo di seicento parole – il
massimo abitualmente concesso dal mio
caposervizio –, elaborato soltanto attraverso
ricerche condotte in internet, visto che non
sono riuscita a utilizzare alcunché della conversazione con lo sciamano, che si è trasformata in un consulto.
***
Jacob!
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Èappena resuscitato e mi ha mandato un
messaggio, invitandomi a prendere un caffè
insieme – come se non ci fossero mille altre
cose interessanti da fare nella vita. Dov’è
finito il sofisticato degustatore di vini? Dov’è
l’uomo che possiede il più forte afrodisiaco
del mondo: il potere?
Soprattutto, dov’è l’innamorato della mia
adolescenza, che ho conosciuto in un’epoca
nella quale tutto era possibile per entrambi?
Si è sposato, è cambiato e mi invita a prendere un caffè con un sms. Non poteva
dimostrarsi più fantasioso e propormi una
corsa nudi a Chamonix? Forse sarei stata più
interessata…
Non ho alcuna intenzione di rispondere.
Mi sono sentita snobbata, umiliata dal suo
silenzio per settimane. Pensa che accetterò
entusiasta solo per l’onore di avermi proposto di condividere qualche momento della
sua giornata?
282/481
Quando sono a letto, ascolto (con gli auricolari) uno dei nastri registrati durante la
conversazione con lo sciamano. Quando fingevo ancora di essere solo una giornalista – e
non una donna spaventata da se stessa –, gli
avevo domandato se l’autoipnosi (o “meditazione”: la definizione che preferiva) fosse
in grado di far dimenticare una persona.
Avevo affrontato l’argomento in modo che
non potesse intendere se mi riferissi a una
situazione amorosa o a un evento traumatico
– il tema della nostra conversazione in quel
momento.
“È molto difficile rispondere,” aveva detto.
“Comunque, è possibile indurre un’amnesia
selettiva, anche se non conduce a un risultato
definitivo: di solito, la persona è associata ad
altri fatti ed eventi, e non si può cancellarla
completamente dalla propria memoria.
Inoltre, dimenticare è sbagliato: è molto più
corretto affrontare la situazione.”
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Ascolto l’intera registrazione. Prendo
appunti sull’agenda, mi riprometto di agire
in un certo modo, mi sforzo di scacciare un
pensiero ricorrente dalla mente – ciononostante, prima di addormentarmi, invio un
messaggio a Jacob, accettando l’invito.
Non riesco a controllare il mio comportamento: ecco il problema.
***
“Non ti dirò che ho sentito la tua mancanza, perché non mi crederesti. Non ti racconterò che non ho risposto ai tuoi messaggi
perché temo di innamorarmi di nuovo.”
Di sicuro, non credo a niente di tutto
questo. Ma lascio che continui a spiegare ciò
che è indecifrabile. Siamo seduti in un bar
piuttosto anonimo di Collongessous-Salève,
un paesino francese di confine, che si trova a
quindici minuti d’auto dal mio posto di
lavoro. I pochi avventori sono camionisti e
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operai di una cava di pietra situata nelle
vicinanze.
Sono l’unica donna nel locale, a parte la
barista che sfoggia un trucco pesante e si
muove svelta tra il bancone e i tavoli, scambiando battute con i clienti.
“Da quando sei ricomparsa nella mia vita,
vivo in una sorta di inferno. Dal giorno in cui
sei venuta a intervistarmi in ufficio e ci
siamo concessi quei momenti d’intimità…”
Ci siamo concessi? Noi due? Io gli ho fatto
un pompino. Lui non ha fatto un bel niente.
“Non posso dire di essere infelice, no. Ma
mi sento sempre più solo, anche se nessuno
se ne accorge. Succede persino quando sto
con persone amiche, in un ambiente
rilassante, a conversare amabilmente:
annuisco, sorrido, ma mi risulta impossibile
prestare attenzione a ciò che si dice. A un
certo punto, adduco la scusa di un impegno
importante e me ne vado. Comunque, so che
cosa mi manca: tu.”
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È arrivato il tempo della vendetta. “Non
pensi di aver bisogno di una terapia di
coppia?”
“Credo di sì. Ma non riesco a convincere
Marianne. Per lei, la filosofia è in grado di
spiegare tutto. Ha notato che sono diverso,
ma attribuisce i miei comportamenti alla fatica delle elezioni.”
Lo sciamano aveva ragione, quando diceva
che bisogna arrivare sino alla fine. Jacob ha
finito
per
salvare
la
moglie
da
un’imputazione per traffico di stupefacenti.
“Le mie responsabilità sono aumentate, e
non mi ci sono ancora adattato. Secondo lei,
presto mi sarò abituato alla nuova realtà. E
tu?”
E io cosa? Che cosa vuol sapere
esattamente?
I miei sforzi per resistere sono stati vanificati quando l’ho visto seduto solitario a un
tavolino d’angolo, con un Campari davanti:
appena ho varcato la soglia del locale, un
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sorriso ha illuminato il suo volto. Siamo di
nuovo due adolescenti, stavolta con il diritto
di ordinare bevande alcoliche senza
infrangere la legge. Stringo le sue mani: sono
ghiacciate – non so se per il freddo,
l’emozione o la paura.
“Va tutto bene,” rispondo. Poi suggerisco
di incontrarci prima, la prossima volta: l’ora
legale è terminata, e annotta presto. Concorda, e mi dà un bacio lieve sulle labbra,
preoccupandosi di non attirare l’attenzione
degli altri avventori.
“Le belle giornate di sole di quest’autunno
mi angustiano tremendamente. Apro le
tende dell’ufficio e vedo le persone giù in
strada: alcune camminano mano nella mano,
senza dover preoccuparsi di qualche conseguenza. Io, invece, non posso mostrare al
mondo il mio amore.”
Amore? Che lo sciamano cubano si sia
impietosito di me al punto di chiedere un
aiuto particolare agli spiriti benevoli?
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Mi aspettavo una miriade di cose da
questo incontro, ma non che Jacob fosse
capace di aprire la propria anima come sta
facendo ora. Il cuore mi batte sempre più
forte – per la gioia, per la sorpresa. Non
domanderò né a lui né a me perché ciò stia
succedendo.
“E, credimi, non si tratta di una forma di
invidia per la felicità altrui. Semplicemente,
non so spiegarmi perché gli altri possono
essere felici, mentre io…”
Chiede il conto e paga in euro. Superiamo
il posto di frontiera a piedi, e ci avviamo
verso le nostre auto parcheggiate cento metri
più avanti, in Svizzera.
Non siamo nella condizione di scambiarci
effusioni, e ci salutiamo con i tradizionali tre
bacetti, prima di riprendere la strada segnata
dai nostri rispettivi destini.
Com’è accaduto al circolo del golf, quando
arrivo alla macchina, non sono ancora in
grado di guidare. Mi infilo un berretto per
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proteggermi dal freddo e comincio a girovagare senza meta nelle vie di La Mure,
l’area elvetica di Collongessous-Salève. Passo
davanti a un ufficio postale e a un parrucchiere. Vedo un bar aperto, ma preferisco continuare a camminare all’aria aperta. Non
sono minimamente interessata a capire che
cosa sta succedendo. Voglio solo che accada.
“‘Apro le tende dell’ufficio e vedo le persone giù in strada: alcune camminano mano
nella mano, senza dover preoccuparsi di
qualche conseguenza. Io, invece, non posso
mostrare al mondo il mio amore,’” ha detto
Jacob.
Quando ho avuto la sensazione che nessuno – assolutamente nessuno: né sciamani
né psichiatri né mio marito – fosse in grado
di capire ciò che provavo, lui è riuscito a
spiegarmi l’origine e l’essenza del mio disagio. La solitudine, nonostante io viva circondata da persone care, che mi augurano
ogni bene, ma che probabilmente si
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preoccupano di aiutarmi soltanto perché
condividono la mia stessa situazione – una
sorta di isolamento dal mondo – e perché,
con il loro gesto di solidarietà, intendono
proclamare un concetto che non sanno
esprimere: “Io sono utile, anche se sono
solo.”
Sebbene la mente possa arrivare a convincersi che tutto va bene, la nostra anima è
smarrita, confusa, incapace di guarire il
malessere che ci tormenta. Ci invia segnali
che non sappiamo interpretare: non
guardiamo mai nel nostro cuore, e
seguitiamo a svegliarci al mattino e a occuparci dei nostri figli, dei nostri mariti, dei
nostri amanti, dei nostri capi, dei nostri
impiegati, dei nostri studenti, delle decine di
persone che costituiscono il nostro mondo
fisico.
Per il prossimo, abbiamo sempre il sorriso
sulle labbra e una parola di incoraggiamento
– nessuno può o vuole raccontare la propria
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solitudine, soprattutto quando gli altri finiscono per rappresentare la pietra angolare
dell’esistenza. Ma la solitudine esiste e continua a minare, a corrodere, il nostro vero
essere, visto che dobbiamo impiegare ogni
energia per apparire felici: ci imponiamo
determinati atteggiamenti, ma ci risulta
impossibile ingannare pure noi stessi. In
ogni caso, ci ostiniamo a mostrare soltanto la
rosa sontuosa, evitando accuratamente di far
vedere lo stelo spinoso che ci ferisce e ci fa
sanguinare.
E questo anche se sappiamo che tutti, in
un qualche momento della vita, si sono sentiti totalmente e assolutamente soli. Reputiamo sconveniente e umiliante dire: “Sono
solo, ho bisogno di compagnia. Devo uccidere il mostro che mi sta rubando la gioia di
vivere e, a differenza dei draghi delle favole,
non è soltanto il frutto della fantasia.” Ci
limitiamo ad aspettare un cavaliere virtuoso
che, con spada e lancia, vinca la bestia e la
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ricacci nell’abisso: ma quell’eroe non arriva
mai.
Comunque, non possiamo perdere la speranza. E allora ci dedichiamo a nuove esperienze, compiamo scelte che esigono forza e
coraggio – molto più di quanto sia necessario. Nel nostro cuore, le spine aumentano,
diventano più taglienti e devastanti, eppure
dobbiamo sopportare il dolore: non possiamo desistere, abbandonare la sfida. Come
se la vita fosse una gigantesca partita a scacchi, tutti sono in attesa del risultato.
Fingiamo che non sia importante vincere o
perdere, bensì competere, e ci adoperiamo
affinché i nostri veri sentimenti siano indecifrabili, nascosti, ma poi…
… Poi, anziché cercare la compagnia e il
conforto degli altri, ci isoliamo sempre più,
per poter leccarci le ferite in silenzio. Oppure
partecipiamo a cene e pranzi con persone
lontanissime dalla nostra vita, con le quali ci
ritroviamo a conversare di argomenti
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insignificanti. Ci distraiamo per qualche ora,
beviamo e festeggiamo ma, dentro di noi, il
drago è sempre vivo. Poi, a un certo punto, le
persone davvero vicine si accorgono del nostro disagio e si sentono in colpa perché non
sanno renderci felici. Quando ci domandano
se abbiamo qualche problema, rispondiamo
che va tutto bene, anche se non è così.
Anzi, le cose vanno davvero male. A coloro
che ci offrono aiuto, vorremmo dire: “Ti
prego, lasciami in pace: non ho più lacrime
per piangere né cuore per soffrire. Per me,
non c’è altro che insonnia, vuoto, apatia.
Credo che tu viva la mia stessa situazione,
perciò…” Ma gli altri insistono, dicono che si
tratta solo di un periodo difficile, di una
depressione passeggera: si sentono assaliti
dal terrore al pensiero di pronunciare la
parola maledetta: “solitudine”.
Nel frattempo, noi seguitiamo indefessamente a sperare nella comparsa del cavaliere dall’armatura splendente: soltanto
293/481
l’eroe può donarci la felicità, uccidendo il
drago, eliminando le spine dallo stelo della
rosa e assaporando il suo profumo.
Alcuni affermano che siamo ingiusti con la
vita. Altri si rallegrano della nostra
situazione, poiché sono convinti che sia
proprio ciò che meritiamo: la solitudine e
l’infelicità derivano dal fatto che, a differenza
di loro, noi abbiamo tutto ciò che
desideriamo.
Poi, un giorno, quelli che sono ciechi
cominciano a vedere. Quelli che sono tristi, si
consolano. Quelli che soffrono, gioiscono.
Arriva il cavaliere e ci libera dal mostro – e,
di nuovo, la nostra vita acquista un senso.
Eppure sentiamo ancora il bisogno di
mentire e ingannare, anche se con
motivazioni diverse. Chi non ha mai avvertito il desiderio di abbandonare tutto e di
inseguire un sogno? Nel sogno esiste sempre
un elemento di rischio, un prezzo da pagare:
in alcuni paesi, esso può condurre a una
294/481
sentenza di lapidazione; in altri, può causare
indifferenza o ostracismo. Di certo, però,
ogni sogno ha un costo. Anche se continuiamo a mentire e gli altri fingono di crederci
e di invidiarci, nascostamente sparlano alle
nostre spalle, dicendo che siamo individui
spregevoli, pericolosi. Tu non sei un uomo
che inganna la moglie – qualcuno che si
tollera e spesso si ammira –, ma un’adultera,
una donna che va a letto con un altro e che
tradisce il consorte – quel povero marito,
sempre così comprensivo e premuroso.
Ma soltanto tu sai che il tuo compagno
non è in grado di allontanare la solitudine
che ti devasta. Non hai mai cercato di parlargli di ciò che ti manca perché lo ami e non
vuoi perderlo. Di certo, un cavaliere
dall’armatura scintillante, che ti fa immaginare avventure in terre lontane, si dimostra
sempre assai più forte della tua aspirazione a
condurre una vita tranquilla, anche se nella
situazione in cui ti trovi, gli altri pensano che
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la soluzione dei tuoi problemi sia una pietra
al collo e un tuffo nell’acqua profonda –
oltretutto, sei un pessimo esempio.
E il fatto che tuo marito sopporta ogni cosa
in silenzio contribuisce a peggiorare lo scenario. Non protesta né urla. Si dice che
passerà. D’accordo, passerà, ma per ora ti sta
soffocando.
E così la situazione si protrae per un mese,
due mesi, un anno… E tutti sopportano in
silenzio.
Per cambiare, non occorrono permessi. Ti
guardi indietro e ti rendi conto che la pensavi
come coloro che ti accusano. Anche tu
condannavi le adultere e immaginavi che, se
fossero vissute in un altro paese, avrebbero
pagato con la lapidazione. Poi è capitato a te.
E allora hai trovato un milione di giustificazioni per il tuo comportamento: ti sei
ripetuta che hai il diritto di essere felice,
fosse pure per poco tempo, perché i cavalieri
che uccidono i draghi esistono solo nelle
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fiabe dell’infanzia. I draghi autentici non
muoiono mai. A questo punto, tu non puoi
negarti il piacere di vivere una favola adulta
almeno una volta nella vita.
E così arriva il momento che, per mesi o
anni, ti sei sforzata di evitare a ogni costo:
quello che ti obbliga a prendere una
decisione, a scegliere se continuare a stare
insieme o separarsi. Nel contempo, ti assale
la paura di sbagliare, quale che sia la
decisione che prenderai. Allora desideri
ardentemente che qualcuno scelga al tuo
posto, che ti caccino da casa o dal letto, perché è impossibile continuare una vita di falsità. Pensi: ‘In fondo, non esiste più nessuna
comunione: siamo due persone totalmente
diverse l’una dall’altra.’ È una presa di coscienza nuova, una cosa che non avevi neppure immaginato, e che non sai dove ti condurrà. Di sicuro, è una situazione che farà
soffrire un’altra persona, o forse due, oppure
tutti, ma…
297/481
Ma, soprattutto, distruggerà te – qualunque sia la tua scelta.
***
Il traffico è bloccato. Proprio oggi!
Ginevra ha meno di 200.000 abitanti ma,
in alcuni frangenti, diventa il centro del
mondo. Centinaia o migliaia di individui si
riversano qui da paesi lontani per quelle che
vengono pomposamente definite “riunioni al
vertice”. Incontri che di solito si svolgono nei
grandi alberghi e nelle ville dei dintorni e
che, di rado, creano intralci alla viabilità. Gli
unici fastidi possono derivare dal rumore
degli elicotteri che sorvolano la città.
Non so che cosa stia accadendo oggi: la
polizia ha chiuso una delle strade principali.
Ho letto i quotidiani ma, come accade talvolta, non mi sono soffermata sulle pagine
dedicate alla cronaca cittadina. Comunque,
so che i rappresentanti delle grandi potenze
298/481
si sono ritrovati a Ginevra per discutere, “in
territorio neutrale”, la minaccia della proliferazione delle armi nucleari. Indubbiamente
è un evento importante, ma non pensavo che
potesse sconvolgere la mia quotidianità.
E molto. Come al solito, rischio di arrivare
in ritardo: avrei dovuto utilizzare i mezzi
pubblici, anziché prendere questa stupida
macchina.
***
Nell’Europa ricca si spendono annualmente circa 74.000.000 di franchi per ingaggiare investigatori privati che seguano, fotografino e forniscano le prove del tradimento
del proprio coniuge. Se in molti paesi del
continente le famiglie vivono nella morsa
della crisi, le imprese falliscono e licenziano i
dipendenti, il mercato legato all’infedeltà sta
conoscendo un autentico boom.
299/481
Comunque, non sono solo i detective
privati ad aver incrementato i propri
guadagni. Le software houses hanno
immesso sul mercato numerose applicazioni
per gli smartphone che possono essere
utilizzate in un rapporto clandestino. Oltre a
queste due categorie, anche gli alberghi
hanno visto aumentare le loro entrate. Poiché è assodato che un cittadino svizzero su
sette ha una relazione extraconiugale (come
risulta dagli studi ufficiali dell’istituto di statistica della Confederazione), considerando il
numero dei matrimoni in essere, si può
affermare che 450.000 persone sono potenzialmente alla ricerca di una camera
d’albergo discreta dove potersi incontrare.
Per attirare la clientela, il direttore di un lussuoso hotel ha dichiarato: “I nostri sistemi di
pagamento consentono di far comparire
sull’estratto conto della carta di credito la
voce ‘Pranzo nel ristorante dell’albergo X’,
anziché
‘Soggiorno
presso…’”
È
300/481
perfettamente inutile aggiungere che quella
struttura alberghiera ha scalato le classifiche
di coloro che possono permettersi di pagare
600 franchi per l’affitto pomeridiano di una
stanza. Ebbene, è proprio lì che mi sto
dirigendo.
Dopo mezz’ora di traffico stressante, lascio
la macchina al posteggiatore e salgo in camera. Grazie ai servizi telematici dell’hotel, so
esattamente dove andare senza dover
chiedere alla reception.
Dal piccolo bar sul confine francese fino a
qui non sono stati necessari né giuramenti
né spiegazioni – e neppure un altro incontro
– perché Jacob e io avessimo la certezza che
volevamo proprio questo. Probabilmente
entrambi avevamo paura di ripensarci e,
magari, di rinunciare – abbiamo finito per
decidere senza troppi dubbi e domande.
***
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Non
è più autunno. È di nuovo
primavera, e io sono tornata ai miei sedici
anni – Jacob ne ha quindici. Misteriosamente, ho recuperato la verginità
dell’anima – visto che quella del corpo è
ormai perduta per sempre. Ci baciamo. Mi
ritrovo a pensare: ‘Mio Dio, avevo dimenticato le sensazioni dell’amore. Vivevo nella
costante preoccupazione di cercarlo – in che
modo? Dove? Quando? –, e mi consegnavo
passiva alle spiegazioni e ai comportamenti
di mio marito. Era tutto sbagliato. Ormai
non ci concedevamo più totalmente l’uno
all’altra.’
Forse Jacob ora si fermerà. Non ci siamo
mai spinti oltre i baci: lunghi e deliziosi baci,
scambiati in qualche angolo riparato della
scuola. Ma io già desideravo che tutti ci
vedessero, che mi invidiassero.
Adesso, però, lui non si ferma. La sua lingua ha un gusto amaro, una mistura di
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sigaretta e vodka. Provo vergogna, mi sento
tesa. ‘Forse dovrei fumare una sigaretta e
bere un goccio di vodka anch’io, per raggiungere una condizione di parità!’ penso. Lo
allontano con delicatezza, mi avvicino al
minibar e, d’un fiato, tracanno una mignon
di gin. L’alcol mi brucia la gola. Gli chiedo
una sigaretta.
Jacob me la porge, dopo avermi ricordato
che, anche se non ci sono rilevatori d’incendio, in camera è vietato fumare. Un’altra stupida regola – e un’altra trasgressione che mi
regala un piacere proibito. Aspiro una boccata, e mi sembra di star male: non riesco a
capire se l’origine del malessere sia la vodka
o la sigaretta. Nel dubbio, vado in bagno e la
getto nella tazza del water. Lui mi ha seguito,
e adesso mi afferra da dietro, mi bacia la
nuca e le orecchie, e mi stringe forte. Sento il
suo corpo aderire al mio, e la sua erezione
scivolare tra le natiche.
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Dove sono finiti i miei principi morali?
Quali pensieri occuperanno la mia mente
quando uscirò da questa stanza e riprenderò
la vita normale?
Mi riporta in camera. Di colpo, mi volto e
lo bacio: ancora un gusto di tabacco, saliva e
vodka. Gli mordicchio le labbra, mentre lui
mi accarezza il seno: è la prima volta che
accade. Mi sfila il vestito e lo getta in un
angolo. Per qualche attimo, mi vergogno del
mio corpo – ormai non sono più un’adolescente, e la nostra primavera a scuola è molto
lontana. Siamo immobili, in piedi, uno di
fronte all’altra. Oltre le tende aperte, il lago è
una sorta di barriera naturale fra noi e le
persone che abitano i palazzi della riva
opposta.
Nella mia immaginazione, voglio credere
che qualcuno ci stia osservando: è qualcosa
che mi eccita ancor più dei suoi baci sul seno.
Sono una donna di facili costumi, una puttana pagata da un uomo per scopare in un
304/481
albergo, una prostituta pronta a soddisfare
qualsiasi desiderio.
Questa sensazione svanisce presto. Ancora
una volta, mi sento come se avessi sedici
anni, quando mi masturbavo pensando a lui.
Gli stringo la testa contro il mio petto e gli
chiedo di mordicchiarmi i capezzoli: gemo di
dolore e di piacere.
Jacob è ancora vestito, mentre io sono
nuda. Spingo la sua testa verso il basso e lo
imploro di leccarmi il sesso. Lui però mi
getta sul letto, si toglie in fretta gli indumenti
e si sdraia su di me. Le sue mani cercano
freneticamente qualcosa sul comodino: perdiamo l’equilibrio e ruzzoliamo sul pavimento. Una scena da adolescenti alla prima
esperienza sessuale – siamo dei principianti,
sì, ma non ce ne vergogniamo.
Finalmente trova ciò che stava cercando:
un profilattico. Mi chiede di infilarglielo con
le labbra. Inesperta e maldestra, mi cimento
nell’impresa, anche se non riesco a spiegarmi
305/481
quell’esigenza. Dubito che pensi che io sia
ammalata o che abbia una vita sessuale
promiscua. Comunque, rispetto la sua
volontà. Percepisco il sapore sgradevole del
lubrificante che ricopre il lattice, ma mi
impongo di continuare. Mi sforzo di non lasciar trasparire il mio disagio: è la prima volta
che faccio l’amore con il preservativo.
Al termine dell’operazione, mi chiede di
girarmi di spalle e appoggiarmi al letto. Mio
Dio, sta accadendo davvero! E proprio per
questo sono una donna felice!
Inizia a possedermi da dietro – ed è qualcosa che mi spaventa. Gli dico di voltarsi, ma
non risponde. Si ferma, muove la mano sul
comodino e poi mi massaggia l’ano con un
dito. Capisco che sta spalmando della vaselina o una sostanza simile. Mi chiede di masturbarmi e, molto lentamente, comincia a
penetrarmi.
Sono di nuovo un’adolescente, per la quale
il sesso è un doloroso tabù. Mio Dio, fa
306/481
davvero male. Smetto di masturbarmi,
afferro le lenzuola e mi mordo le labbra per
non urlare di dolore.
“Dimmi che ti fa male. Dimmi che non
l’hai mai fatto. Urla!” mi ordina,
all’improvviso.
Ancora una volta, gli obbedisco. Ma evito
di dire che l’ho già fatto quattro o cinque
volte – e non mi è mai piaciuto.
Il ritmo dei suoi movimenti cresce. Lui
geme di piacere; io, di dolore. Mi afferra per i
capelli come se fossi un animale, una cavalla:
ora si muove sempre più velocemente. Di
colpo, si ritrae e scivola fuori da me. Si
strappa il preservativo, mi fa girare e viene
sul mio viso.
Cerca invano di soffocare i gemiti: sono
più forti della sua volontà. Qualche momento
dopo, si sdraia adagio sopra di me. Sono
spaventata e affascinata nel contempo da
quella situazione. Poi Jacob si alza, va in
307/481
bagno a gettare il preservativo e torna in
camera.
Si ridistende accanto a me e si accende una
sigaretta: come portacenere utilizza il suo
bicchiere della vodka, poggiato sul mio
ventre. Restiamo in silenzio per lunghi
minuti, a fissare il soffitto. Lui mi accarezza.
Non è più l’uomo violento di qualche minuto
prima, ma il giovane romantico che, a scuola,
mi parlava di galassie e di astrologia.
“Dobbiamo cancellare gli odori e lasciare
tutto in ordine, qui.”
La frase mi riporta bruscamente alla
realtà. A quanto pare, per lui non è la prima
volta. Ecco spiegata la faccenda del preservativo e la preoccupazione per l’aspetto della
stanza. Silenziosamente lo insulto e lo odio,
ma nascondo la mia rabbia dietro a un sorriso. Gli domando se conosce un sistema
efficace per eliminare gli odori.
Mi dice che sarà sufficiente che io faccia
un bagno appena arrivata a casa, prima di
308/481
abbracciare mio marito. Poi mi consiglia di
gettare nell’immondizia le mutandine, perché la vasellina può lasciare qualche traccia.
“Se lui sarà già rincasato, entra frettolosamente e di’ che devi andare in bagno con
urgenza.”
Mi sento nauseata. Ho aspettato un tempo
lunghissimo per comportarmi da tigre e ho
finito per essere usata come una cavalla. Ma
la vita è così: la realtà non si avvicina mai
alle fantasie romantiche dell’adolescenza.
“Grazie per i consigli, li seguirò.”
“Vorrei che ci vedessimo ancora.”
Ecco. Sono state sufficienti queste parole
semplici per trasformare in paradiso ciò che
sembrava un inferno, un errore, un passo
falso. “Sì, anch’io vorrei incontrarti di nuovo.
Ero nervosa e intimidita, ma sono sicura che
la prossima volta sarà più bello.”
“In realtà, è stato bellissimo.”
“Sì, è stato bellissimo: me ne rendo conto
solo adesso.” Entrambi sappiamo che questa
309/481
storia è destinata a finire, ma ora non mi
interessa.
Non parlerò più. Cercherò soltanto di
godermi questi momenti accanto a Jacob,
aspetterò che finisca la sigaretta, mi vestirò e
scenderò per prima.
Uscirò dalla medesima porta attraverso la
quale sono entrata. Salirò nella mia solita
auto e guiderò fino alla stessa casa dove
torno tutte le sere. Entrerò frettolosamente,
dicendo che ho mangiato qualcosa di indigesto e devo andare subito in bagno. Farò
una doccia, eliminando le poche tracce di lui
che mi sono rimaste addosso.
Solo allora potrò baciare mio marito e i
miei figli.
***
In quella stanza d’albergo, non eravamo
due persone
intenzioni.
animate
dalle
medesime
310/481
Io inseguivo una storia romantica; Jacob
era mosso dall’istinto del cacciatore.
Io cercavo il ragazzo della mia adolescenza; lui desiderava la donna attraente e
disinibita che l’aveva intervistato prima delle
elezioni.
Io ero convinta che la mia vita avrebbe
potuto trovare un altro senso; lui pensava
solo che il pomeriggio gli avrebbe regalato
qualcosa di più interessante delle noiose e
interminabili discussioni nell’aula del
Consiglio Nazionale.
Per lui si è trattato di una semplice distrazione, anche se pericolosa. Per me, è stata
un’esperienza crudele e pressoché imperdonabile, nella quale ho riversato il mio narcisismo e il mio egoismo.
Gli uomini tradiscono perché è insito nel
loro codice genetico. Le donne, invece, lo
fanno per mancanza di autostima e, oltre al
corpo, offrono sempre anche una parte del
proprio cuore. Un autentico crimine. Una
311/481
rapina. È peggio che assaltare una banca perché, se vengono scoperte (e ciò accade molto
spesso), procurano dei danni irreparabili alla
propria famiglia.
Per gli uomini, si tratta solo di uno “stupido errore”. Per le donne, è un assassinio
spirituale di tutti i loro affetti, di quelli che le
sostengono come madri e mogli.
È qualcosa che adesso riguarda anche me
che, coricata accanto a mio marito, immagino Jacob disteso vicino a Marianne. Di
sicuro, nella sua mente si affollano i pensieri
legati all’indomani: l’agenda fitta di appuntamenti, gli incontri politici, le promesse e gli
impegni da mantenere. Mentre io, come
un’idiota, fisso il soffitto e mi sforzo di
ricordare ogni secondo trascorso in quella
stanza d’albergo – rivedo ogni fotogramma
del film porno di cui sono stata protagonista.
Ricordo con precisione quando, guardando fuori dalla finestra, ho desiderato che
qualcuno stesse osservando la scena con un
312/481
binocolo – magari masturbandosi nel
vedermi sottomessa, umiliata, sodomizzata.
Quel pensiero mi ha eccitato in modo
morboso! Mi ha fatto quasi impazzire, poiché
ho scoperto qualcosa di me che ignoravo
completamente.
Ho trentun anni. Non sono più una bambina, e pensavo di non avere alcun lato
nascosto. Invece, non è così. Sono ancora un
mistero per me stessa, ma adesso ho varcato
una soglia e voglio andare oltre, sperimentare tutto ciò che esiste: orge, rapporti sadomaso, bondage, feticismo…
Ecco perché non riesco a dire: “Non
desidero più Jacob. Non lo amo. Tutto è nato
da una fantasia generata dalla mia
solitudine.”
Sì, è possibile che non lo ami davvero. Ma
amo ciò che ha risvegliato in me. Mi ha trattato senza riguardi, mi ha tolto ogni dignità.
Non ha avuto né pudore né rispetto: sono
stata un oggetto nelle sue mani. Ha fatto
313/481
esattamente ciò che voleva, mentre io –
come sempre – cercavo di compiacere chi mi
stava umiliando.
La mia mente veleggia verso un luogo
segreto e sconosciuto, dove sono una dominatrice. Rivedo Jacob nudo, ma adesso sono io
a impartire gli ordini. Gli lego le mani e i
piedi, mi siedo sul suo collo e lo costringo a
baciarmi il sesso, ancora e ancora. Dopo
svariati orgasmi, gli dico di girarsi e lo penetro con le dita: prima uno, poi due, e poi tre.
Lui geme di dolore e di piacere, mentre lo
masturbo con l’altra mano: sento lo sperma
caldo che mi bagna le dita. Le avvicino alle
labbra e inizio a leccarle, una dopo l’altra. Gli
accarezzo il viso con i polpastrelli. Lui vorrebbe che il gioco continuasse, ma dico
basta: sono io che decido!
Prima di addormentarmi, vado in bagno a
masturbarmi: ho due orgasmi, uno dopo
l’altro.
***
314/481
La solita scena: mio marito legge le notizie sull’iPad, mentre i bambini sono pronti
per andare a scuola. Un raggio di sole entra
dalla finestra. Sparecchio la tavola della colazione e mi mostro serena ma, in realtà, ho
una tremenda paura che lui sospetti
qualcosa.
“Oggi mi sembri felice.”
Sì, lo sono, ma non dovrei esserlo. Il
pomeriggio in albergo ha rappresentato un
rischio enorme, specialmente per me. Quel
commento di mio marito può celare un
sospetto? Ne dubito. Lui crede ciecamente a
tutto ciò che gli dico. Non perché sia un idiota – non oso neppure pensarlo –, ma perché ha fiducia in me.
Ed è qualcosa che mi irrita terribilmente
perché, in realtà, io non sono affidabile.
O, meglio, lo sono, seppure in una maniera
particolare. Sono stata condotta in
quell’albergo da circostanze che ignoro. È
315/481
una buona scusa? No, è pessima. Perché nessuno mi ha obbligato ad andarci. Ma posso
sostenere che mi sentivo sola, che non
ricevevo le attenzioni di cui avevo bisogno,
che le mie gratificazioni si riducevano a comprensione e tolleranza. Posso affermare di
avere sempre avvertito la necessità di essere
sfidata, contrastata e sollecitata in ogni mia
azione. Posso dire che è qualcosa che capita a
tutti, anche se solo in sogno…
Ma, in fondo, è accaduta una cosa davvero
semplice: sono andata a letto con un altro
uomo perché volevo assolutamente farlo.
Soltanto questo. Nessuna giustificazione
intellettuale o psicologica. Volevo scopare.
Punto.
Conosco donne che hanno scelto il matrimonio per la sicurezza, la posizione sociale, i
soldi. L’amore occupava l’ultimo posto della
loro lista. Io, invece, mi sono sposata per
amore.
316/481
Ma allora, perché ho scelto di tradire mio
marito?
Perché mi sento sola. E per quale motivo?
Boh.
“È bellissimo vederti contenta,” mi dice
lui.
Rispondo che stamane mi sento davvero
felice. “È per questa splendida giornata
d’autunno, per la casa ordinata e perché sto
con l’uomo che amo.”
Mio marito si alza e mi dà un bacio. Pur
non avendo capito il senso della nostra conversazione, i bambini sorridono.
“Anch’io sto con la donna che amo. Ma
perché me lo dici ora?”
“Perché no?”
“Voglio che tu me lo ripeta stasera, quando
saremo a letto.”
Mio Dio, ma chi sono?! Perché sto dicendo
queste cose? Perché non si insospettisca? Per
quale motivo non mi comporto come ogni
mattina: da moglie efficiente che si
317/481
preoccupa del benessere della famiglia? Cosa
sono queste smancerie? Se comincio a essere
troppo affettuosa: forse inizierà a subodorare
la tresca.
“Non riuscirei a vivere senza di te,” aggiunge, mentre si risiede a tavola.
Sono perduta. Ma, curiosamente, non mi
sento affatto colpevole per ciò che è accaduto
ieri.
***
Quando arrivo al lavoro, il direttore mi fa
i complimenti per l’articolo pubblicato
nell’edizione odierna.
“In redazione sono arrivate molte email di
apprezzamento per la storia con il misterioso
cubano. Diversi lettori vogliono sapere chi è.
Se ci consentirà di divulgare il suo indirizzo,
avrà lavoro a iosa.”
Lo sciamano cubano! Se leggerà il
giornale, si accorgerà che nell’articolo non
318/481
compare nemmeno una parola delle sue
dichiarazioni. Ho assemblato il testo recuperando materiali da vari blog sullo
sciamanesimo. A quanto pare, le mie crisi
non si limitano alla vita coniugale, ma
stanno cominciando a interessare anche la
mia professione.
Racconto al direttore del momento in cui il
cubano mi ha fissato negli occhi e, tracciando
alcuni segni intorno al mio capo, ha minacciato me e la mia famiglia nel caso avessi rivelato la sua identità. Mi esorta a non credere a
questo genere di cose; poi mi chiede se me la
sento di dare il suo indirizzo a una sola persona: sua moglie.
“È piuttosto stressata.”
Dico che lo siamo tutti, compreso lo
sciamano. Non posso promettere niente, ma
gliene parlerò.
Mi prega di telefonargli subito, adesso.
Quando il cubano mi risponde, sono sorpresa dalla sua reazione: mi ringrazia di
319/481
essermi
comportata
correttamente,
omettendo la sua identità, e si complimenta
per le mie conoscenze sull’argomento. Contraccambio i ringraziamenti, gli parlo delle
ripercussioni dell’articolo e gli domando se
possiamo fissare un altro appuntamento.
“Ma abbiamo parlato per due ore! Dal
materiale della nostra conversazione puoi
ricavare molti altri articoli.”
Gli spiego che il giornalismo non funziona
così. Di quanto è stato pubblicato, assai poco
arriva dalla nostra chiacchierata: la maggior
parte del contenuto è frutto di una ricerca.
Ora, però, voglio trattare l’argomento da un
punto di vista diverso.
Il direttore è sempre accanto a me e
ascolta le mie parole, gesticolando. Alla fine,
allorché il cubano sembra deciso a riattaccare, torno a insistere sull’appuntamento,
dicendo che l’articolo merita un approfondimento: gli dico che vorrei analizzare il ruolo
della donna in questa ricerca “spirituale” e
320/481
che la moglie del mio capo vorrebbe incontrarlo. Scoppia a ridere. Ribadisco che non
violerò mai il patto sulla sua identità, ma gli
ripeto che tutti sanno dove abita e i giorni in
cui riceve.
Gli chiedo di rispondermi “Sì” o “No”. Se
non vuole proseguire questa conversazione,
o questa esperienza, cercherò qualcun altro.
Di sicuro, non avrò difficoltà a trovare dei
suoi colleghi in grado di prendersi cura di
persone sull’orlo di una crisi di nervi. Forse
utilizzano metodi differenti ma, dev’essergli
chiaro, non è l’unico sciamano che opera in
città. Stamane sono arrivate in redazione
molte telefonate: quasi tutte provenivano da
guaritori africani alla ricerca di una visibilità
per il loro lavoro, oltre che di un guadagno
maggiore e della conoscenza di qualche personaggio importante che potesse evitargli un
foglio di via.
Per qualche minuto, il cubano seguita a
mostrarsi riluttante ma, alla fine, la vanità e
321/481
la paura della concorrenza prevalgono. Fissiamo un appuntamento a casa sua, a
Veyrier. Sono impaziente di vedere come
vive – qualcosa che renderà più “vivo”
l’articolo.
***
Sono a Veyrier, a casa dello sciamano in
una stanza trasformata in ambulatorio. Su
una parete campeggia un manifesto con
alcuni diagrammi che sembrano appartenere
alla tradizione indiana: la posizione dei
centri energetici, i punti di corrispondenza
degli organi sulla pianta dei piedi… Sopra un
mobile sono disposti vari oggetti di cristallo.
Abbiamo
avuto
una
conversazione
interessantissima sul ruolo della donna nelle
pratiche sciamaniche. Il cubano mi ha spiegato che la nostra nascita è accompagnata da
autentiche “rivelazioni” – un fenomeno che
ha maggior rilievo nei neonati di sesso
322/481
femminile. Ha aggiunto che, in tutte le
civiltà, le divinità dell’agricoltura e della
fecondità hanno sempre le sembianze di una
giovane e che, fin dagli albori del genere
umano, sono state le femmine a scoprire le
proprietà medicamentose delle varie erbe. Le
donne si dimostrano molto più sensibili
verso il mondo spirituale rispetto agli
uomini, e questo le rende più soggette a
quelle crisi che, fino a qualche tempo fa, i
medici definivano “manifestazioni isteriche”
e che oggi vengono chiamate “disturbi
bipolari” – la tendenza a passare dall’entusiasmo estremo alla tristezza profonda, anche
più volte al giorno. Abitualmente gli spiriti
preferiscono entrare in contatto con gli
esseri femminili, poiché sono in grado di
comprendere in modo più profondo una lingua che non si esprime con le parole.
Mi sforzo di adottare il suo lessico e gli
chiedo se, proprio per l’acuta sensibilità, una
323/481
donna non possa essere costretta a compiere
un’azione contro la sua volontà.
Lui non capisce la domanda, per cui la
riformulo. “Se le donne sono così instabili al
punto di passare dalla gioia alla tristezza,
allora…”
“Ho mai usato il termine ‘instabile’? Assolutamente no. Di certo, è il contrario. Malgrado la sensibilità estremamente acuta, le
donne hanno una maggiore perseveranza
rispetto agli uomini.”
“Anche nell’amore, vero?” Concorda. E io
inizio a raccontargli che cosa mi sta succedendo; poi scoppio a piangere. Lui rimane
impassibile. Ma non ha un cuore di pietra.
“Quando si tratta di un adulterio, la meditazione non serve pressoché a niente. In
fondo, la persona è felice per quello che sta
accadendo. Mantiene la propria sicurezza e,
nel contempo, vive l’avventura. È una
situazione ideale.”
“Ma… che cosa spinge all’adulterio?”
324/481
“Non posso esprimermi al riguardo: non è
il mio campo. Io ho una visione molto personale dell’argomento, ma penso che non
debba comparire sulle pagine di un
giornale.”
“La prego, mi aiuti…”
Lo sciamano accende un incenso e mi
invita a sedere nella posizione del loto di
fronte a lui; poi fa altrettanto. Ora
quell’uomo austero ha l’aspetto di un saggio
benevolo, pronto ad aiutarmi.
“Se, per una qualsivoglia ragione, un individuo sposato decide di incontrare un’altra
persona, ciò non significa necessariamente
che il rapporto di coppia stia implodendo. E
non credo neppure che la principale
motivazione di quella scelta riguardi il sesso.
Interessa piuttosto la noia, la mancanza di
passione per la vita, la scarsità di sfide. Di
solito, si tratta di un insieme di fattori.”
“Ma per quale motivo succede?”
325/481
“Perché, allontanandoci da Dio, viviamo
un’esistenza frammentata. Ci sforziamo di
ritrovare l’unità, ma non conosciamo la
strada per recuperare quella condizione: di
conseguenza, i nostri giorni sono caratterizzati da una costante insoddisfazione. La
società determina e condiziona i nostri comportamenti, ci dice cos’è buono e cos’è cattivo, ma questo non risolve il problema…”
Mi sento risollevata, come se avessi
acquisito un diverso tipo di percezione. Nei
suoi occhi leggo che ha vissuto una
situazione analoga: ecco perché ne parla in
modo così chiaro.
“Ho avuto un paziente che, ogniqualvolta
incontrava l’amante, diventava impotente.
Eppure adorava stare con lei, una donna che
ricambiava con grande ardore i suoi
sentimenti.”
Non riesco a trattenermi: gli domando se
quell’uomo sia lui.
326/481
“Sì. Ed è per questo che mia moglie mi ha
lasciato. Forse non è un motivo che può
determinare una decisione così estrema,
ma…”
“E lei come ha reagito?”
“Avrei potuto invocare l’aiuto di uno
spirito benevolo, ma lo avrei pagato nella
prossima vita. Eppure avevo il disperato
bisogno di capire perché si fosse comportata
così. Per resistere alla tentazione di farla tornare con un rituale magico, ho iniziato a studiare l’argomento.”
Forse malvolentieri, il cubano assume
un’aria professorale.
“Alcuni ricercatori dell’Università del
Texas hanno cercato di trovare una risposta
per una domanda che tantissimi individui si
pongono: perché gli uomini tradiscono più
delle donne, pur sapendo che il loro comportamento è autodistruttivo e provoca sofferenza alle persone che amano? Alla fine, gli
studiosi hanno concluso che gli uomini e le
327/481
donne avvertono il medesimo desiderio di
tradire il partner, ma gli esseri di sesso femminile
sono
dotati
di
maggiore
autocontrollo.”
Lo sciamano guarda l’orologio – forse ha
un altro appuntamento. Lo prego di continuare e mi accorgo che, in un certo modo, è
contento di poter aprire la propria anima a
qualcuno.
“La preservazione e la continuazione della
specie sono state possibili attraverso incontri
brevi, che avevano l’unico obiettivo di soddisfare l’istinto sessuale e non prevedevano
alcun coinvolgimento emotivo da parte del
maschio. Di conseguenza, le donne intelligenti non dovrebbero dare la colpa agli
uomini per i loro comportamenti spicci. Essi
tentano di resistere, ma sono biologicamente
inadatti ad affrontare la situazione. Sono
troppo tecnico?”
“No.”
328/481
“Hai notato che gli esseri umani temono
più i ragni e i serpenti che le automobili,
sebbene le morti per incidente stradale siano
assai più numerose di quelle causate da
queste creature? Questo succede perché
alcune aree della nostra mente sono rimaste
ferme all’epoca delle caverne, quando serpenti e ragni rappresentavano un pericolo
considerevole. Ed è sempre ascrivibile a quel
periodo il bisogno dell’uomo di avere tante
donne. Allora, andando a caccia, il maschio
ha appreso dalla natura che la preservazione
della specie era una priorità: doveva
ingravidare quante più donne possibile.”
“Ma le donne non si preoccupavano di preservare la specie?”
“Certo! Ma, mentre per l’uomo l’impegno
dura al massimo undici minuti, per la donna
comporta nove mesi di gestazione per ogni
figlio. E, dopo, l’obbligo di nutrirlo e proteggerlo dai pericoli – dai ragni e dai serpenti.
Ecco perché il suo istinto si è evoluto in
329/481
maniera diversa, e gli stimoli affettivi e i sistemi di autocontrollo sono diventati più
importanti.”
Quest’uomo sta parlando di se stesso.
Tenta di giustificare i propri comportamenti.
Mi guardo intorno e osservo la grande
stampa indiana, i cristalli, gli incensi. In
fondo, siamo tutti uguali. Commettiamo i
medesimi errori e seguitiamo a porci le
stesse domande, per le quali non c’è risposta.
Il mio interlocutore guarda di nuovo l’orologio; poi dice che la nostra conversazione è
terminata. Sta per arrivare un altro paziente,
e vuole evitare un incontro in sala d’attesa. Si
alza e mi accompagna alla porta.
“Non intendo essere maleducato, ma le
chiedo di non cercarmi più. Le ho detto tutto
ciò che deve sapere.”
***
Nella Bibbia è scritto:
330/481
Una sera Davide, alzatosi dal suo letto, si
mise a passeggiare sulla terrazza del
palazzo reale; da lì vide una donna che
faceva il bagno. La donna era bellissima.
Davide mandò a chiedere chi fosse la donna.
Gli dissero: “È Betsabea, figlia di Eliàm,
moglie di Uria l’Ittita.” Davide mandò a
prenderla. Ella andò da lui ed egli giacque
con lei, che si era appena purificata dalle
sue impurità. Poi ella tornò a casa. La
donna concepì e fece sapere a Davide: “Sono
incinta.” […]
La mattina seguente, Davide scrisse una
lettera a Ioab e gliela mandò per mezzo
d’Uria. Nella lettera aveva scritto così:
“Mandate Uria al fronte, dove più infuria la
battaglia; poi ritiratevi da lui, perché egli
resti colpito e muoia.” […]
Gli uomini della città fecero una sortita e
attaccarono Ioab; parecchi del popolo, della
gente di Davide, caddero e perì anche Uria
l’Ittita. […]
331/481
Dopo che [Betsabea] ebbe finito i giorni
del lutto, Davide la mandò a prendere a
casa sua. Lei divenne sua moglie e gli partorì un figlio.
Davide – il grande re, il saggio amministratore, l’intrepido guerriero – non solo commise adulterio, ma fece assassinare il rivale,
approfittando della sua lealtà e della sua
obbedienza.
Io non ho bisogno di giustificazioni bibliche per adulteri e assassini. Ma questa
storia è rimasta impressa nella mia mente fin
dai tempi della scuola, quando Jacob e io ci
baciavamo di nascosto in primavera.
Abbiamo dovuto attendere quindici anni
perché quei baci si ripetessero, ma quando è
finalmente accaduto, la scena è stata assai
diversa da come l’avevo immaginata. Lui mi
è sembrato sordido, egoista, sinistro. Eppure
mi è piaciuto immensamente, e mi sono
augurata che si ripetesse presto. Nelle ultime
due settimane, Jacob e io ci siamo già
332/481
incontrati quattro volte. A poco a poco, le
ansie e le tensioni sono scomparse. Abbiamo
avuto rapporti sia normali sia trasgressivi e
fantasiosi, anche se non sono mai riuscita a
realizzare la mia fantasia di afferrargli la
testa e costringerlo a baciare il mio sesso,
fino a farmi svenire di piacere. Sono sulla
buona strada, comunque.
***
A poco a poco, la presenza di Marianne è
sempre meno importante nella mia relazione
con Jacob. Ieri ci siamo rivisti, e non ho
pensato a lei nemmeno un momento. Non
desidero più che Madame König ci scopra o
che chieda il divorzio: voglio poter avere un
amante, senza rinunciare a ciò che ho conquistato faticosamente – mio marito, i miei
figli, il mio lavoro e la mia casa.
Mi chiedo quale sarà il destino della
cocaina che ho nascosto in sala, e che può
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venir scoperta in ogni momento. Mi è costata
un sacco di soldi. Non credo di poter rivenderla. Sarebbe una scorciatoia verso il carcere di Vandoeuvres. Per quanto mi
riguarda, ho giurato di non assumerne mai
più. Potrei regalarla ad alcune persone che la
usano, ma rischierei di rovinarmi la
reputazione o, peggio ancora, di ritrovarmi
di fronte alla richiesta di procurarne
dell’altra.
La realizzazione del sogno di andare a letto
con Jacob, prima mi ha innalzato verso le
stelle, poi mi ha sprofondato in una realtà
piuttosto difficile da affrontare. Ho scoperto
che non si trattava di un grande amore, bensì
di una passione carnale, probabilmente destinata a esaurirsi in breve tempo. Ecco perché adesso vorrei troncare la storia: ho vissuto una splendida avventura – il piacere
della trasgressione, alcune esperienze sessuali nuove, momenti di gioia disinibita. E
tutto senza alcuna traccia di rimorso. Mi
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sono concessa un meritato regalo, dopo tanti
anni di comportamenti integerrimi.
Sono in pace con me stessa. O, meglio, lo
ero fino a oggi.
Dopo molti giorni di quiescenza, il drago si
è ridestato e ha iniziato a risalire l’abisso nel
quale era stato confinato.
***
Sono io il problema, oppure è il Natale
che si avvicina? Questo è il periodo dell’anno
nel quale mi sento più depressa – comunque,
non mi sto riferendo a un malessere di origine ormonale o alla mancanza di taluni elementi chimici nell’organismo. Sono contenta
che, a Ginevra, le consuetudini che accompagnano la nascita di Cristo non siano
esagerate e pacchiane come in altri paesi. Mi
è capitato di trascorrere le feste di fine anno
a New York: ebbene, ovunque c’erano luci,
decorazioni, vetrine inghirlandate, renne
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finte, campane, fiocchi di neve artificiale,
alberi con palline di mille colori, musiche e
cori – e sorrisi stampati sui volti della gente.
Camminavo, e mi sentivo estranea a tutto
quel clamore variopinto: avevo la certezza di
essere un’aberrazione. Anche se non ho mai
assunto dell’LSD, immagino che sia necessaria una dose consistente per vedere tutti
quei colori.
Il clima natalizio di Ginevra si esaurisce in
qualche luminaria nelle due vie dello shopping, forse a esclusivo beneficio dei turisti.
(“Comprate! Portate ai vostri figli un ricordo
dalla Svizzera!”) Poiché non sono ancora
passata da quelle parti, le sensazioni tristi
non possono essere dovute al Natale. Nei
dintorni di casa non ho visto nessun Babbo
Natale che scala un balcone o un comignolo
per ricordarci che dobbiamo sentirci felici
per tutto il mese di dicembre.
Mi rigiro nel letto, come al solito, mentre
mio marito dorme. Abbiamo fatto l’amore.
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Negli ultimi tempi è capitato più di frequente: non so se ciò sia dovuto ai miei tentativi di allontanare eventuali sospetti, o a
uno scatenamento della mia libido dopo le
recenti esperienze. Di certo, adesso mi sento
sessualmente più attratta da lui. Che non si è
mai mostrato geloso e non mi ha mai chiesto
spiegazioni sui miei ritardi – soltanto la
prima volta, quando mi sono dovuta precipitare in bagno per eliminare ogni traccia di
odori e gettare nell’immondizia gli slip macchiati, seguendo le istruzioni di Jacob, mi ha
posto un paio di domande. Ora porto sempre
con me un paio di mutandine di ricambio,
faccio la doccia in albergo, e già quando sono
nell’ascensore il mio trucco è impeccabile.
Non mostro più di essere tesa o sospettosa.
Due o tre volte, mi è capitato di incontrare
dei conoscenti: li ho salutati e, a pianterreno,
mi sono allontanata nella hall, lasciandoli
probabilmente in preda a un dubbio – “Che
abbia un amante?” Be’, è qualcosa che giova
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al proprio morale ed è assolutamente sicuro.
Comunque, se anch’essi si trovavano a
scendere dalla stanza di un albergo, nonostante abitino in città, forse…
Mi addormento ma, pochi minuti dopo,
sono di nuovo sveglia. Victor Frankenstein
ha creato il suo mostro, il Dr. Jekyll ha fatto
emergere Mr. Hyde. Non è che sia
spaventata dall’eventualità di ritrovarmi a
vivere una situazione analoga, ma forse
dovrei stabilire già adesso alcune regole di
comportamento.
Posseggo un lato onesto, gentile, affettuoso, professionale: so reagire con prontezza
nei momenti difficili, soprattutto durante le
interviste, quando alcuni dei miei interlocutori si dimostrano aggressivi o tentano di
sottrarsi alle domande. Adesso, però, sto
scoprendo un lato più spontaneo, selvaggio,
impaziente, che non si manifesta soltanto
nella stanza d’albergo dove mi incontro con
Jacob, ma comincia a influire anche sulla
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mia quotidianità. Per esempio, mi irrito più
facilmente se un commesso si trattiene a chiacchierare con un cliente, quando c’è la fila.
La spesa al supermercato è diventata soltanto un dovere, e non mi soffermo più a controllare prezzi e date di scadenza. Se qualcuno fa un’affermazione sulla quale non concordo, ribatto senza aspettare un momento.
Discuto di politica. Difendo film che tutti
detestano e critico quelli che tutti amano.
Adoro stupire le persone con giudizi assurdi
e avulsi dal contesto. Insomma, non sono più
la donna discreta che sono sempre stata.
Gli altri hanno cominciato a notarlo. “Sei
diversa,” mi dicono. Di solito, questa frase
costituisce il preambolo di un altro commento: “Forse stai nascondendo qualcosa.”
Parole che ben presto potrebbero trasformarsi nella spiacevole espressione: “Se cerchi
di nasconderlo, vuol dire che stai facendo
qualcosa che non dovresti.”
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Può essere solo paranoia, certo. Ma oggi
sento che dentro di me vivono due persone
distinte.
Davide doveva soltanto ordinare ai suoi
servitori di portargli Betsabea. Non era
obbligato a dare alcuna spiegazione a nessuno. Eppure, quando si ritrovò di fronte a
una situazione problematica, spedì in guerra
il marito della donna. Nel mio caso, è
diverso. Per quanto discreti siano gli svizzeri,
ci sono due momenti nei quali non si riesce a
riconoscerli.
Il primo è nel traffico. Se tardiamo una
frazione di secondo a partire quando il semaforo diventa verde, subito gli altri guidatori
attaccano a strombazzare; se cambiamo corsia, cogliamo sempre un’espressione accigliata nel retrovisore, anche se abbiamo diligentemente azionato la freccia.
Il secondo caso riguarda i cambiamenti
nella vita – casa, lavoro, atteggiamenti. In
Svizzera regna la stabilità, e tutti si
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comportano come ci si aspetta. È come se ci
fosse una voce suadente che dice: “Per
favore, non tentare di essere diverso. Non
cercare di reinventare te stesso, altrimenti
costituirai una minaccia per l’intera società.
Al paese sono occorsi anni e fatiche per
arrivare alla condizione di ‘opera compiuta’,
fa’ in modo che non ritorni a una fase di
‘ristrutturazione’.”
***
Con l’intera famiglia mi trovo nel luogo
in cui William, il fratello di Victor Frankenstein, fu ucciso. Qui, per secoli, c’è stato solo
un pantano. Poi, quando Ginevra diventò
una città rispettabile grazie all’opera di
Calvino, il posto fu bonificato e vi vennero
condotti i malati: morivano di freddo e di
fame, ma almeno l’abitato era risparmiato
dalle epidemie.
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Plainpalais è uno spazio molto vasto,
l’unico punto nel centro cittadino dove la
vegetazione è quasi inesistente. D’inverno, il
vento ti gela le ossa; d’estate, il sole ti spacca
la testa. Un’assurdità: figurarsi all’epoca
della Riforma. Ma da quando si pensa con
raziocinio ai bisogni degli altri?
È sabato, e l’area è disseminata di
banchetti d’antiquariato. La fiera è diventata
un’attrazione locale, ed è consigliata dalle
guide turistiche come un’“esposizione che
merita una sosta”. Manufatti cinquecenteschi sono mischiati a videoregistratori.
Antiche sculture di bronzo, provenienti
dall’Asia, sono esposte accanto a orribili
mobili degli anni ottanta. Il mercato brulica
di gente. Alcuni intenditori esaminano
meticolosamente gli articoli e discutono a
lungo con i venditori. Gran parte dei frequentatori – turisti e curiosi – scova oggetti
pressoché inutili, ma finisce per acquistarli,
visto che “sono a buon mercato”. Tornano a
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casa, magari li usano una volta, poi li relegano in soffitta o in garage, pensando: ‘Non
serve a niente, ma il prezzo era davvero
irrisorio.’
Devo controllare i bambini in continuazione, perché vogliono toccare tutto: dai
preziosi vasi di cristallo ai sofisticati giocattoli dei primi del Novecento. Perlomeno
stanno scoprendo che, oltre ai giochi
elettronici, esiste una vita intelligente.
Il più grande mi chiede di comprare un
pagliaccio di metallo con le membra snodabili e la bocca movibile. Mio marito sa che
l’attrattiva del giocattolo durerà soltanto fino
all’arrivo a casa: gli dice che è “vecchio” e che
potremo trovare qualcosa di più “nuovo” e
interessante sulla via del ritorno. Proprio in
quel momento, la loro attenzione viene
attirata da alcune scatolette contenenti biglie
di vetro, con le quali un tempo i ragazzini
erano soliti giocare nei giardini delle proprie
abitazioni.
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Il mio sguardo scivola su un piccolo
quadro che ritrae una donna nuda, sdraiata
sul letto, e un angelo nell’atto di allontanarsi.
Chiedo al venditore quanto costa. Prima di
dirmi il prezzo (una sciocchezza), l’uomo mi
spiega che è la copia di un’opera famosa eseguita da qualche anonimo pittore locale. Mio
marito assiste alla scena in silenzio e,
quando non ho ancora ringraziato l’ambulante per l’informazione e mi sono diretta
verso il banco accanto, ha già acquistato il
dipinto.
Perché lo ha fatto?
“Raffigura un mito dell’antichità. A casa, ti
racconterò la storia.”
Sento un bisogno immenso di innamorarmi di nuovo di lui. Per la verità, non ho
mai smesso di amarlo – l’ho sempre amato e
lo amerò sempre –, ma la nostra convivenza
si è trasformata in qualcosa di assai vicino
alla monotonia. Se l’amore può resistere a
questo, la passione è destinata a soccombere.
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Sto vivendo un periodo molto complicato.
So che la relazione con Jacob non ha futuro,
eppure mi sono allontanata dall’uomo con il
quale ho costruito la mia vita.
Chi dice che “Basta l’amore”, mente. Non è
vero, e non lo è mai stato. Purtroppo le persone credono ai libri e ai film – una coppia
che cammina sulla spiaggia tenendosi per
mano, contempla il tramonto e fa l’amore
appassionatamente tutti i giorni in qualche
albergo affacciato sulle Alpi. È qualcosa che
mio marito e io abbiamo fatto in passato –
ma quella magia è durata soltanto un paio
d’anni.
Poi si pensa al matrimonio. Alla scelta e
all’arredamento della casa, ai progetti sulla
camera dei bambini, ai baci, ai sogni, ai
brindisi con lo champagne nel salotto vuoto
che presto si trasformerà nel luogo che
immaginiamo. Due anni dopo è già nato il
primo figlio, nella casa non c’è più spazio
neanche per uno spillo e, se decidiamo di
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introdurre un nuovo complemento d’arredo,
corriamo il rischio di dare l’impressione di
voler fare colpo sugli altri, passando la vita
ad acquistare e lustrare pezzi di antiquariato
(che saranno venduti per pochi soldi dai nostri eredi e, con ogni probabilità, finiranno
alla fiera di Plainpalais).
Dopo tre anni di matrimonio, uno conosce
esattamente ciò che l’altro pensa. Alle feste o
nelle cene, siamo obbligati ad ascoltare storie
che abbiamo udito mille volte, fingendo sorpresa e, di tanto in tanto, venendo chiamati a
confermarle. Da momento di passione, il
sesso si muta in obbligo, e perciò i rapporti
diventano sempre più radi. In poco tempo,
facciamo l’amore solo una volta a settimana
– nella migliore delle ipotesi. Eppure le
mogli si incontrano e raccontano della foga e
del trasporto dei rispettivi mariti – bugie,
soltanto bugie. Lo sanno tutte, ma nessuna
vuole ammetterlo.
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Poi arriva il momento delle relazioni
extraconiugali. Le donne fanno commenti –
sì, li fanno! – sui rispettivi amanti e sui loro
ardori insaziabili. Quelle storie contengono
una particola di verità, giacché molte
fantasie arrivano dritto dal mondo incantato
della masturbazione – reale quanto quello di
chi ha scelto di concedersi al primo venuto,
indipendentemente dalle sue qualità. D’un
tratto, le “fortunate” acquistano abiti costosi
e si mostrano reticenti riguardo ai loro
impegni: nonostante la sensualità navigata,
vorrebbero assomigliare alle sedicenni – le
adolescenti, però, sono perfettamente consapevoli del fascino che possiedono.
Alla fine, arriva il momento della rassegnazione. Il marito passa intere giornate fuori
casa, assorbito dal proprio lavoro, mentre la
moglie dedica un tempo sempre maggiore
alla cura dei figli. In qualche modo, mio
marito e io ci siamo ritrovati a vivere questa
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situazione, ma adesso io sono disposta a fare
qualsiasi cosa per cambiarla.
Il mio amore, da solo, non basta. Ho
bisogno di innamorarmi nuovamente di lui.
L’amore non è soltanto un sentimento, è
un’arte. E, come qualsiasi arte, non è sufficiente l’ispirazione, ci vuole anche molto
impegno.
***
“Per quale motivo l’angelo si allontana,
lasciando la donna sola?”
“Non è un angelo. È Eros, il dio greco
dell’amore. E la giovane nuda sul letto è
Psiche.”
Stappo una bottiglia e verso il vino nei bicchieri. Mio marito posa il quadro sulla
mensola del caminetto spento – nelle case
con un impianto di riscaldamento è solo un
elemento decorativo. Poi comincia a parlare:
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“C’era una volta una principessa bellissima, ammirata da tutti, chiamata Psiche,
che tuttavia nessuno osava chiedere in sposa.
Disperato, il padre interpellò il dio Apollo.
Questi gli disse che Psiche avrebbe dovuto
essere lasciata sola, vestita a lutto, sulla cima
di una montagna. Prima che sorgesse il sole,
un serpente si sarebbe avvicinato per prenderla come sposa. Il re obbedì. Tremando di
freddo e di paura, la fanciulla attese per
l’intera notte l’arrivo del futuro marito.
Infine si addormentò. Al risveglio, si ritrovò
in un bellissimo palazzo, incoronata regina.
Tutte le notti, lo sposo si recava nelle sue
stanze, e facevano l’amore. Per la sua felicità,
per avere ogni cosa che desiderava, il marito
le aveva imposto un’unica condizione: non
avrebbe mai potuto vederlo in viso.”
‘Che cosa orribile!’ penso, ma non oso
interromperlo.
“Per lungo tempo, la fanciulla visse felice.
Aveva affetto, lussi, gioia – ed era
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innamorata dell’uomo che ogni notte
scivolava nella sua stanza. Talvolta, però, era
assalita dal timore di essere sposata con un
orrendo serpente. Una sera, mentre il marito
dormiva, accese una lanterna. Fu allora che
vide, coricato accanto a sé, un uomo bellissimo: Eros. La luce lo svegliò. Allorché si
rese conto che l’amata non era stata in grado
di esaudire il suo unico desiderio, si dileguò.
Disperata, per poter riavere il suo amore,
Psiche accettò di affrontare una serie di
prove che Afrodite – madre di Eros – le
impose. Nell’ultima, quella più difficile, aprì
un’ampolla che conteneva l’essenza del
sonno profondo e cadde addormentata,
senza possibilità di risvegliarsi. È perfettamente inutile che ti dica che la suocera,
folle di invidia per la bellezza della giovane,
si adoperò in ogni maniera per ostacolare la
riconciliazione della coppia.”
Fremo dal desiderio di conoscere il finale
della storia, anche se mi sembra una
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fantasiosa rivisitazione di una delle favole di
Apuleio.
“Pazzamente innamorato di Psiche, Eros si
era pentito della sua intolleranza verso la
moglie. Con un sotterfugio riuscì a entrare
nella stanza dove giaceva e a risvegliarla con
la punta della sua freccia. ‘Hai rischiato di
morire per la tua curiosità,’ le disse. ‘Cercavi
una rassicurazione per i tuoi dubbi, e hai distrutto il nostro rapporto.’ Ma nell’amore
nulla va distrutto per sempre. Animati da
tale consapevolezza, gli innamorati si
rivolsero a Giove, implorando il suo aiuto
affinché la loro unione fosse eterna. Il dio
supremo utilizzò blandizie e minacce per
ottenere l’assenso di Afrodite e, alla fine, i
suoi sforzi furono coronati da successo. Da
quel giorno, Psiche – il nostro lato inconscio,
ma logico – ed Eros – l’amore – furono legati
per sempre.”
Verso un altro bicchiere di vino a entrambi
e poggio il capo sulla sua spalla.
351/481
“Chi non accetta questa evidenza e seguita
a cercare una logica nei rapporti umani,
magici e misteriosi, non sarà mai in grado di
apprezzare le cose migliori della vita.”
Oggi mi sento come Psiche, sola su quella
vetta, infreddolita e spaventata. Ma, se sarò
capace di superare la mia notte e abbandonarmi al mistero e alla fiducia nella vita, mi
sveglierò in un palazzo. Ho soltanto bisogno
di tempo.
***
Alla fine arriva il giorno in cui le due coppie si ritrovano insieme a una festa – un ricevimento offerto da un noto conduttore di
Léman Bleu. Ne abbiamo parlato ieri, nel
nostro letto d’albergo, mentre Jacob fumava
la solita sigaretta, prima di rivestirsi e
andarsene.
A quel punto, mi sarebbe stato impossibile
declinare l’invito, visto che avevo confermato
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la mia presenza. Neppure lui avrebbe potuto
mancare: un improvviso cambiamento di
programma sarebbe stato “pessimo per la
carriera”.
Quando mio marito e io raggiungiamo la
sede dell’emittente televisiva, una hostess ci
informa che il party si svolge all’ultimo
piano. Un attimo prima di entrare
nell’ascensore, squilla il mio cellulare: esco
dalla fila e mi rifugio in un angolo dell’atrio
per discutere con il direttore del giornale. Gli
invitati continuano ad arrivare, sorridenti;
mi salutano con un cenno discreto del capo:
a quanto pare, conosco tutti.
Il direttore mi dice che gli articoli sullo
sciamano – il secondo è stato pubblicato ieri
– stanno riscuotendo un grande successo.
Devo assolutamente scriverne un altro, per
concludere la serie. Gli spiego che il cubano
non vuole più parlare con me. Mi chiede di
trovare qualcun altro: qualcuno che
“padroneggi
l’argomento
e
frequenti
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quell’ambiente”, perché non c’è nulla di peggio di un pezzo che riporta le solite opinioni
dei cosiddetti “esperti” (psicologi, sociologi
ecc.). Non conosco nessuno con tali caratteristiche ma, poiché devo raggiungere mio
marito, gli dico che mi impegnerò nella
ricerca.
In quel momento, passano Jacob e Marianne König e mi salutano. Il direttore stava
quasi per riattaccare, quando ho deciso di
continuare la conversazione. Che Dio mi
scampi dal salire in ascensore insieme con
loro! “Che ne pensi di una doppia intervista a
un pastore di pecore e a un pastore protestante?” chiedo. “Non sarebbe interessante
raccontare i loro modi di affrontare lo stress
e la noia?” Lui replica dicendo che è un’idea
eccellente, ma insiste sul fatto che sarebbe
molto meglio trovare qualcuno che
“padroneggi
l’argomento
e
frequenti
quell’ambiente”. D’accordo, ci proverò.
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Ormai le porte si sono chiuse e l’ascensore è
partito. Posso riattaccare senza timore.
A quel punto, spiego al direttore che non
vorrei essere l’ultima ad arrivare al party.
Sono già in ritardo di due minuti – qui in
Svizzera il ritardo è considerato riprovevole.
È vero, ultimamente mi sto comportando
in modo strano, ma qualcosa non è cambiato
nei miei atteggiamenti: detesto andare alle
feste. E non riesco a capire perché piacciano
così tanto alla gente.
Sì, alla gente piacciono. Anche quando si
tratta di eventi “professionali”, come il cocktail di stasera – proprio così, è un cocktail,
non una festa –, le persone si agghindano, si
truccano, dicono agli amici – con una certa
aria annoiata – che purtroppo martedì dovranno obbligatoriamente presenziare a un
ricevimento in cui si festeggia il decennale di
“Pardonnez-moi”, presentato dal bello, intelligente e fotogenico Darius Rochebin. Ci
saranno
solo
personaggi
davvero
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“importanti”: gli altri dovranno limitarsi a
guardare le foto pubblicate sull’unico rotocalco di attualità diffuso in tutta la Svizzera
francese.
Frequentare questo genere di party conferisce status e visibilità. Di tanto in tanto, il
nostro giornale si occupa di simili eventi, e il
giorno successivo la redazione è subissata di
telefonate degli assistenti delle celebrità:
chiedono se le foto in cui compaiono verranno pubblicate, aggiungendo che sarebbe
un gesto “apprezzatissimo”. Dopo l’invito, è
importante accertarsi che la presenza
ottenga il giusto risalto, qualcosa che si concreta in una bella immagine sul giornale due
giorni dopo, nella quale il personaggio compare con un abito confezionato per l’occasione (anche se non lo si confessa mai) e con
un sorriso identico a quello sfoggiato in mille
altre feste e ricevimenti. Per fortuna, io non
sono la responsabile della pagina di cronaca:
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nella mia attuale condizione di mostro di
Frankenstein sarei già stata licenziata.
Le porte dell’ascensore si aprono sulla piccola hall dell’ultimo piano, dove stazionano
un paio di fotografi. Proseguiamo verso il
salone principale, dal quale si gode una magnifica vista sulla città. Pare che la famosa
nuvola abbia deciso di collaborare con
Darius, sollevando il proprio manto grigio:
laggiù in basso scintillano miriadi di luci.
Dico a mio marito che non intendo fermarmi a lungo. Poi attacco a parlare in modo
frenetico, per allentare la tensione.
“Quando vuoi, ce ne andiamo,” dice lui,
interrompendomi.
Mi ritrovo impegnata a salutare un’infinità
di persone, che mi trattano come se fossi
un’amica intima. Ricambio utilizzando il
medesimo contegno, anche se ignoro i loro
nomi. Quando la conversazione si prolunga,
ricorro a un trucco infallibile: presento mio
marito, senza aggiungere altro. Dopo avergli
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stretto la mano, lui chiede il nome all’altro,
abbassando il capo. Io ascolto la risposta e,
quasi sillabando, dico: “Tesoro, non ti ricordi
di…?”
Che cinismo!
Alla fine dei convenevoli, ci spostiamo in
un angolo, e lì commento acidamente: “Perché le persone hanno la pretesa che ci si
ricordi sempre di loro? È una situazione davvero imbarazzante. È possibile che si
ritengano così importanti? Per il mio lavoro,
io incontro gente nuova ogni giorno: mi
risulta impossibile fissare tutti i loro nomi
nella memoria.”
“Sii più comprensiva, più tollerante. E poi,
sono qui per divertirsi…”
Mio marito non sa che cosa sta dicendo.
Fingono soltanto di divertirsi: in realtà,
vogliono principalmente mettersi in mostra,
godere di una certa attenzione e, in qualche
caso, incontrarsi con qualcuno per concludere un affare. Il destino di queste
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persone – che si ritengono bellissime e
potenti, perché partecipano a un ricevimento
esclusivo o sfilano su un tappeto rosso – è
nelle mani di un redattore di cronaca sottopagato. E di un grafico che riceve le foto
per posta elettronica e sceglie lo spazio che
occuperanno nel nostro mondo piccolo, tradizionale e convenzionale. È lui che impagina
le varie immagini delle celebrità, lasciando
un modesto riquadro in cui collocare una
panoramica della festa (o del cocktail, o della
cena, o del party). Lì, tra le teste anonime di
persone che si ritengono importanti, con un
pizzico di fortuna qualcuno riesce a
riconoscersi.
Darius è salito sul palco e inizia a raccontare le esperienze vissute con le diverse personalità durante i dieci anni del programma.
Mi rilasso e, insieme con mio marito, mi
avvicino a una delle enormi vetrate. Il mio
radar interiore ha già individuato i coniugi
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König. Voglio mantenermi a distanza: credo
che Jacob desideri la medesima cosa.
“C’è qualcosa che non va?”
Ecco. Oggi sono il Dr. Jekyll o Mr. Hyde?
Victor Frankenstein o il suo mostro? Dovrei
rispondere: “No, amore. Sto solo evitando
l’uomo con cui sono andata a letto ieri. Sospetto che, in questa sala, tutti sappiano della
nostra tresca, che la parola ‘amanti’ sia stampata sulla nostra fronte”?
Sorrido e dico che, come ormai sarà stanco
di sentire, non ho più voglia di frequentare
feste e ricevimenti. In questo momento, mi
piacerebbe tanto essere a casa, a occuparmi
dei figli che abbiamo affidato alla babysitter.
Non sono una persona che ama sbevazzare;
tutta quella gente che mi saluta e vuole chiacchierare mi confonde: perché dovrei
fingere di interessarmi ad argomenti insulsi,
magari rispondendo con una domanda per
avere il tempo di prendere un salatino e masticarlo senza apparire maleducata?
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Dal soffitto cala uno schermo e parte un
montaggio con gli ospiti più importanti di
“Pardonnez-moi”. Alcuni li ho incontrati per
lavoro, ma perlopiù sono personalità
straniere di passaggio a Ginevra. La nostra
città è un crocevia del mondo, e partecipare a
quella trasmissione è quasi obbligatorio.
“Be’, possiamo andarcene. Il patron ti ha
visto. Abbiamo compiuto il nostro dovere
sociale. Noleggiamo un film, e godiamoci il
resto della serata.”
No. Ci fermeremo ancora per qualche
momento, perché ci sono Jacob e Madame
König. “Aspettiamo. Può sembrare maleducato andar via prima del clou della serata.”
Darius comincia a chiamare sul palco alcuni
degli ospiti del programma, che raccontano
brevemente la loro esperienza. Mi sto annoiando da morire. I single lasciano vagare lo
sguardo nel salone, alla ricerca di donne sole.
Le
signore,
invece,
si
osservano
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vicendevolmente, analizzando abiti, trucco, e
gli uomini che hanno accanto.
Persa nei miei pensieri, guardo la città giù
in basso, aspettando che arrivi il momento
per scivolar via senza alcun biasimo.
“… Te!”
Io? “
Amore, sta chiamando te!”
Darius Rochebin mi ha appena invitato sul
palco, e io non l’ho sentito. Sì, ho partecipato
alla sua trasmissione con la ex presidente
della Confederazione per parlare di diritti
umani. Ma non sono così importante. Ed è
qualcosa che non immaginavo proprio. Non
ci eravamo accordati e, di conseguenza, non
mi sono preparata nemmeno un discorsetto
di circostanza.
Darius mi chiede nuovamente di salire con
un cenno. Tutti mi guardano sorridendo.
Avanzo verso il palco: sono segretamente
felice, perché Marianne non godrà di questo
onore. E tanto meno Jacob – voleva soltanto
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trascorrere una serata tranquilla e gradevole,
senza discorsi politici.
Salgo sul palco improvvisato – in realtà è
una scalinata che collega i due saloni in cima
alla torre della TV –, do un bacio a Darius e
comincio a raccontare un aneddoto assai
poco interessante sulla mia partecipazione al
programma. I single continuano la loro
cerca; le donne seguitano a scrutarsi. Le persone vicine fingono di interessarsi alle mie
parole. Io tengo lo sguardo fisso su mio
marito – un oratore conosce il trucco di
usare qualcuno del pubblico come interlocutore privilegiato che lo sostenga.
Durante il mio breve discorso, colgo
un’immagine che non mi sarei mai aspettata
di vedere: Jacob e Marianne König accanto a
mio marito. È accaduto in meno di due
minuti, nel tempo che ho impiegato per raggiungere il palco e iniziare a parlare. Adesso i
camerieri circolano tra gli invitati, i quali
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chiacchierano amabilmente e si guardano
intorno.
Mi affretto a ringraziare. Il pubblico
applaude. Darius mi dà un bacio. Tento di
raggiungere mio marito e i König, ma vengo
fermata da individui che mi elogiano per
cose delle quali non ho affatto parlato:
dicono che sono una persona meravigliosa,
reputano splendidi i miei articoli sullo
sciamanesimo, mi suggeriscono nuovi
argomenti, mi porgono i loro biglietti da visita e si offrono discretamente come fonti di
qualcosa che potrebbe essere molto
“interessante”. Impiego una decina di minuti
per liberarmi. Quando mi avvicino alla meta,
nel punto in cui mio marito e io stavamo
prima dell’arrivo degli intrusi, i tre stanno
sorridendo. Si congratulano per il mio discorsetto e mi ripetono che sono stata bravissima. Poi mio marito pronuncia una frase
che suona come una sentenza:
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“Madame König vuole che ceniamo
insieme. Le ho detto che sei stanca e che i
bambini sono con la tata, ma lei ha continuato a insistere. Non accetta scuse…”
“Proprio così. Immagino che nessuno di
noi abbia cenato, no?” dice Marianne.
Jacob concorda, con un sorriso ebete
stampato in volto: ha l’espressione di un
agnellino diretto al macello.
In una frazione di secondo, la mia mente
partorisce almeno duecentomila scuse. Ma
perché dovrei utilizzarle? Ho una discreta
quantità di cocaina da usare in qualsiasi
momento, e la cena potrebbe costituire
un’ottima opportunità per capire se portare a
compimento il mio piano.
Inoltre, ho una curiosità morbosa di
scoprire qualche particolare del rapporto di
Jacob con sua moglie.
“Con molto piacere, Madame König.”
***
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Marianne
opta per il ristorante
dell’Hotel des Armures: una scelta che
dimostra una mancanza di originalità, visto
che è il locale dove di solito si portano gli
ospiti stranieri. Si trova nel cuore della città
vecchia, il personale parla moltissime lingue,
la fonduta è eccellente, ma… Ma, per chi
abita a Ginevra, è decisamente un luogo
scontato.
Arriviamo dopo i König. Jacob è ancora in
strada: sfida il freddo in nome del vizio del
fumo. Marianne è già dentro. Dico a mio
marito di entrare per non lasciarla sola; io
aspetterò che “Monsieur König” finisca di
fumare. Mi risponde che preferirebbe il contrario, ma insisto – non sarebbe educato lasciare al tavolo due donne sole, sia pure per
pochi minuti.
“L’invito ha colto alla sprovvista anche
me,” dice Jacob, non appena mio marito ha
varcato la soglia del locale.
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Cerco di comportarmi in modo naturale,
come se tutto fosse normale. Si sente in
colpa? È preoccupato per una possibile fine
del suo infelice matrimonio? “Con quella
megera che sembra un pezzo di ghiaccio,”
vorrei aggiungere.
“No, affatto. Ma si dà il caso che…”
La nostra conversazione viene interrotta
proprio dall’arpia. Con un sorriso diabolico
sulle labbra, mi saluta con i consueti tre
bacetti e ordina al marito di spegnere la
sigaretta e di entrare subito. Il suo atteggiamento sembra voler dire: “Nutro qualche
sospetto su voi due. Non è che avete una
tresca? Attenti, io sono una donna furba,
molto più furba e intelligente di quanto
pensiate.”
Tutti ordiniamo le solite portate, fonduta e
raclette, tranne mio marito: è stufo di
mangiare sempre formaggio e vuole qualcos’altro, così ripiega sull’immancabile würstel, che pure appartiene al menù offerto agli
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ospiti stranieri. Chiediamo anche del vino,
ma adesso Jacob non lo assaggia, facendo
roteare il bicchiere, annusando il bouquet e
indirizzando un cenno affermativo al cameriere – quella era solo una stupida messinscena per impressionarmi il primo giorno.
Mentre aspettiamo le pietanze chiacchierando del più e del meno, svuotiamo la prima
bottiglia: ne domandiamo subito un’altra.
Prego mio marito di smettere di bere, altrimenti dovremo nuovamente lasciare l’automobile dove abbiamo parcheggiato, in centro
– siamo più lontani da casa, stavolta.
Arrivano le comande. E noi apriamo la
terza bottiglia di vino. Le banalità continuano. Pettegolezzi sulle sedute del Consiglio
Nazionale, complimenti per i miei due articoli sulla cura dello stress (“Una proposta
alquanto insolita”), il possibile crollo dei
prezzi degli immobili a causa dell’abolizione
del segreto bancario che farà migrare a
Singapore o a Dubai migliaia di investitori
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esteri, il luogo dove trascorreremo le feste di
fine d’anno.
Mi aspetto che il toro scenda nell’arena da
un momento all’altro, ma ciò non avviene.
Decido di abbassare la guardia. Bevo qualche
bicchiere di vino – forse eccedo – e mi sento
rilassata e allegra. Poi, all’improvviso, il cancello della plaza de toros si spalanca.
“L’altro giorno mi è capitato di parlare con
alcuni amici di quel sentimento idiota che si
chiama ‘gelosia’,” dice Marianne König.
“Qual è la vostra opinione al riguardo?”
Qual è la nostra opinione riguardo a un
argomento che non dovrebbe essere
affrontato in una cena come questa? La
megera ha formulato assai bene la domanda.
Avrà impiegato l’intera giornata per elaborarla. Ha definito la gelosia un “sentimento
idiota”, con l’intenzione di rendermi ancora
più vulnerabile.
“Io sono cresciuto fra terribili scenate di
gelosia,” replica mio marito.
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Cosa? Perché parla della sua vita privata?
E con un’estranea, oltretutto.
“Quindi mi sono ripromesso che, se un
giorno mi fossi sposato, questo non sarebbe
mai accaduto. All’inizio, è stato difficile, perché istintivamente siamo portati a controllare tutto, persino gli aspetti insondabili
della vita, quelli che riguardano l’amore e la
fedeltà. Alla fine, però, ci sono riuscito. E
posso affermare che mia moglie, la quale
incontra ogni giorno molte persone e magari
rincasa con un certo ritardo, non è mai stata
oggetto di una critica o un’insinuazione.”
Non me ne aveva mai parlato: non sapevo
che fosse cresciuto fra scenate di gelosia.
L’arpia riesce a imporre sempre la propria
volontà: “Andiamo a cena… Spegni la sigaretta… Parliamo del tale argomento…”
Le parole di mio marito potrebbero avere
due motivazioni. La prima: diffida di
quest’invito e cerca di proteggermi. La
seconda: mi sta dicendo, davanti a tutti,
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quanto io sia importante per lui. Gli
accarezzo lievemente una mano. Non l’avrei
mai immaginato. Pensavo che, semplicemente, non gli interessasse conoscere le
beghe della mia professione.
“E tu, Linda, non sei gelosa di tuo marito?”
L’invito a cena ha abbattuto la barriera del
“lei” del nostro primo incontro.
Io?
“Certo che no: mi fido ciecamente di lui.
Penso che la gelosia sia un sentimento da
gente malata, insicura, priva di autostima,
che si sente inferiore ed è convinta che chiunque possa rappresentare una minaccia per
la sua relazione. E tu?”
Marianne è caduta nella sua stessa
trappola.
“Come ho già detto, la reputo un sentimento idiota.”
“D’accordo. Ma, se scoprissi un tradimento
di tuo marito, come reagiresti?”
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Jacob impallidisce. Fa appello a tutto il
suo autocontrollo per non trangugiare
l’intero bicchiere di vino dopo la mia
domanda.
“Mah! È difficile rispondere. Credo che le
occasioni non gli manchino poiché, di certo,
ogni giorno si incontrano persone insicure,
annoiate dal proprio matrimonio e destinate
a condurre una vita mediocre e ripetitiva, e
allora… Immagino che anche nel tuo lavoro
ci sia qualcuno così, che passa direttamente
dall’incarico di cronista alla pensione…”
“Sì. E non sono pochi,” rispondo, senza
lasciar trasparire alcuna emozione nella
voce. Poi prendo dell’altra fonduta. Lei mi
guarda fissa negli occhi: so che sta parlando
di me, ma non voglio che mio marito sospetti
qualcosa. Non me ne importa niente di lei e
di Jacob – lui non sarà stato capace di
reggere la tensione e avrà confessato ogni
cosa.
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La mia calma mi sorprende. Forse è il
vino, oppure il mostro che si è risvegliato e si
sta divertendo. Ma probabilmente è il grande
piacere che mi deriva dal tener testa a quella
donna che crede di sapere tutto.
“Continua,” dico, per incoraggiarla,
mentre intingo una fetta di pane nel formaggio fuso.
“Come puoi immaginare, le donne frustrate o trascurate non costituiscono una minaccia per me. Anche se, al contrario di te, io
non ho una fiducia cieca in Jacob. So che mi
ha tradito varie volte, perché la carne è
debole.”
Jacob ridacchia nervosamente, e beve un
altro sorso di vino. Anche questa bottiglia è
finita. Con un cenno, Marianne chiede al
cameriere di portarne un’altra.
“Comunque, il tradimento può essere considerato una componente di un rapporto
normale. Se il mio uomo non è desiderato e
corteggiato da quelle sfigate, dev’essere
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veramente poco interessante. Non provo
gelosia, ma qualcos’altro: sai che cosa?
Eccitazione. Alcune volte mi spoglio, gli vado
vicino, spalanco le cosce e lo invito a ripetere
ogni gesto che fa con loro. Altre, gli chiedo di
raccontarmi gli amplessi con le amanti, e
questo mi procura orgasmi incredibili.”
“Sono soltanto fantasie di Marianne,”
commenta Jacob, senza troppa convinzione.
“Frutto della sua immaginazione. L’altro
giorno mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto
andare in un club di scambisti a Losanna.”
Ovviamente non stava scherzando, eppure
abbiamo riso tutti, Marianne compresa.
Stupefatta, scopro che Jacob adora essere
definito un “macho infedele”. Mio marito è
rimasto colpito dalla risposta di Madame
König e le chiede di approfondire la faccenda
dell’eccitazione che prova al pensiero delle
avventure del coniuge. Poi le domanda l’indirizzo del club di scambisti, mi fissa con occhi
scintillanti e dichiara che, anche per noi, è
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arrivato il momento di provare qualcosa di
diverso. Non riesco a capire se stia cercando
di gestire la situazione quasi insopportabile
che aleggia sul nostro tavolo, o se sia realmente interessato a sperimentare quel
genere di trasgressione.
Marianne non conosce l’indirizzo, ma può
comunicargli il numero di telefono con un
sms.
È il momento di entrare in azione. Dico
che, in genere, chi è geloso cerca di mostrare
il contrario in pubblico. Ama insinuare, sperando di ottenere qualche informazione sui
comportamenti del partner – un’azione piuttosto ingenua, che raramente porta a qualche
risultato. “Io, per esempio, potrei avere una
storia con Jacob, e tu non lo sapresti mai,
perché non sono così idiota da cadere in
questo genere di trappole,” aggiungo, con un
tono di voce alterato.
Mio marito mi guarda, sorpreso dalle mie
parole.
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“Tesoro, non credi di star esagerando?”
“Niente affatto. Non sono stata io a iniziare questo discorso, e non ho idea di dove
Madame König voglia arrivare. Da quando ci
siamo seduti, ha continuato a provocare e
insinuare – e adesso sono proprio stufa. Non
hai notato il modo in cui mi scrutava, mentre
parlavamo di un argomento che non
interessa a nessuno a questo tavolo, tranne
che a lei?”
Marianne mi guarda con occhi sgranati:
penso che non si aspettasse una reazione di
questo tipo – è abituata ad avere tutto sotto
controllo.
Soggiungo che ho conosciuto molte persone ossessionate dalla gelosia, non perché
pensino che il marito o la moglie li tradiscano, ma per il fatto che non sono al centro
dell’attenzione, come vorrebbero. Jacob
chiama il cameriere e chiede il conto. Splendido: poiché ci hanno invitato, saranno loro
a pagare.
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Guardo l’orologio e mi fingo stupita e preoccupata: è già passato l’orario concordato
con la tata! Mi alzo, ringrazio e, scortata da
mio marito, mi avvio verso il guardaroba per
prendere il cappotto. Adesso, al tavolo, i
König parlano delle incombenze che comportano i figli.
“Ha pensato che mi stessi riferendo a lei?”
domanda Marianne a Jacob.
“Non credo proprio. Non ce ne sarebbe
motivo.”
Mio marito e io usciamo nel freddo della
sera, senza scambiarci una parola. Sono irritata e irrequieta. E attacco a dire che quella
donna stava proprio riferendosi a me: è talmente nevrotica che già il giorno delle
elezioni aveva fatto alcune insinuazioni.
Vuole sempre mettersi in mostra, dev’essere
follemente gelosa di un idiota obbligato a
comportarsi bene, e che pretende di controllare con modi dittatoriali per garantirgli un
futuro in politica – in realtà, vorrebbe essere
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al posto di Jacob, a imporre ogni sua
volontà.
Mio marito mi invita a calmarmi: forse ho
bevuto troppo.
Passiamo davanti alla cattedrale di San
Pietro. La bruma avvolge la città; c’è
un’atmosfera da film dell’orrore. Mi figuro
Marianne dietro un angolo, armata di un
pugnale e pronta ad ammazzarmi: una scena
della Ginevra medievale, quando la città era
perennemente in lotta – ora con i Savoia, ora
con il potere episcopale, ora con gli stessi
svizzeri.
Né il freddo né la camminata mi tranquillizzano. Prendiamo la macchina e, quando
arriviamo a casa, mi precipito in bagno e
ingoio due compresse di Valium, mentre mio
marito congeda la babysitter.
Dormo per dieci ore filate. L’indomani,
quando mi alzo per la solita routine mattutina, mi sembra che mio marito si comporti in maniera meno affettuosa del solito.
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È un cambiamento quasi impercettibile:
comunque, qualcosa della serata di ieri deve
averlo turbato. Sono confusa, non so come
reagire: non ho mai preso due tranquillanti
insieme. Avverto un disagio che non
assomiglia affatto a quello provocato dalla
solitudine e dall’infelicità.
Esco per andare in redazione e, meccanicamente, controllo il cellulare. C’è un messaggio di Jacob. Esito: vorrei cancellarlo
senza leggere, ma la curiosità ha il
sopravvento sull’odio.
Me l’ha spedito questa mattina, molto
presto.
“Hai rovinato tutto. Lei non pensava
affatto che avessimo una storia: ora ne ha la
certezza. Sei caduta in una trappola che M.
non aveva organizzato.”
***
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Più tardi, dovrò affrontare l’enorme seccatura di andare al supermercato e fare la
spesa, proprio come una donna frustrata e
trascurata. Forse Marianne ha ragione: sono
soltanto questo – oltre che un passatempo
sessuale per lo stupido cagnolino che dorme
nel suo letto. Guido in modo assai pericoloso: non riesco a smettere di piangere, e le
lacrime quasi mi impediscono la vista delle
altre auto. Nelle mie orecchie risuonano clacson e proteste: cerco di rallentare, ma gli
strombazzamenti e gli improperi aumentano.
Se ho commesso una stupidaggine facendo
nascere dei sospetti in Marianne, è stato
ancora più sciocco mettere a repentaglio
tutto ciò che possiedo – mio marito, la mia
famiglia, il mio lavoro.
Mentre guido, con gli ultimi strascichi
degli effetti delle due compresse di Valium e
con la rabbia che monta, mi rendo conto che
adesso sto rischiando anche la vita.
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Posteggio in una strada laterale e piango. I
miei singhiozzi sono così forti da richiamare
l’attenzione di un passante: si avvicina e mi
chiede se può aiutarmi. Rispondo di no, e lo
sconosciuto si allontana. In verità, ho davvero bisogno di aiuto – di molto aiuto. Sto
sprofondando in me stessa, nel mare di
fango della mia anima, e non riesco a
mantenermi a galla.
Sono pervasa dall’odio, da un astio tremendo. Immagino che Jacob non voglia
vedermi mai più. È solo colpa mia: ho oltrepassato i limiti, nel tentativo di scongiurate i
sospetti, di cancellare i dubbi sul mio comportamento recente. Potrei telefonargli e
chiedergli scusa, ma credo che non mi
risponderà. Forse sarebbe meglio se
chiamassi mio marito e gli chiedessi come
va. Conosco la sua voce, e capisco quando è
irritato e teso, nonostante sia un autentico
maestro nel dissimulare le sue emozioni. No,
non voglio sapere se c’è qualche problema.
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Ho troppa paura. Sento lo stomaco chiuso,
ostruito da una pietra. Con le mani serrate
sul volante, mi abbandono di nuovo a un
pianto dirotto. Urlo a perdifiato, batto i
pugni, do in escandescenze nell’unico posto
che reputo sicuro al mondo: la mia auto. Il
samaritano sconosciuto ora mi osserva da
lontano: magari teme che faccia una sciocchezza. No, non farò niente. Voglio soltanto
piangere: non penso che sia chiedere troppo.
Ho la sensazione di avere abusato di me
stessa. Vorrei tornare indietro, ma è
impossibile. Vorrei escogitare un piano per
recuperare il terreno perduto, ma non sono
in grado di ragionare. Posso solo piangere,
vergognarmi e odiare.
Come ho potuto essere tanto ingenua?
Come ho potuto pensare che Marianne stesse
parlando di cose che conosceva? Forse perché mi sentivo colpevole – una criminale.
Volevo umiliarla, annientarla davanti al
marito, affinché lui non mi considerasse più
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soltanto un trastullo. Nel mio intimo, sapevo
di non amare quell’uomo, che mi stava
restituendo la gioia perduta e mi allontanava
dal pozzo di solitudine in cui ero sprofondata. Adesso comprendo che quei giorni
appartengono definitivamente al passato.
Devo tornare alla realtà, al supermercato,
alle giornate sempre uguali, alla sicurezza
della mia casa – prima era davvero importante, poi si è trasformata in una prigione. Ho
bisogno di raccogliere i cocci di me stessa. E,
forse, devo confessare a mio marito l’intera
faccenda.
So che comprenderà. È un uomo buono,
intelligente, che ha sempre messo la famiglia
al primo posto. E se invece non capisse? Se
decidesse che siamo arrivati a un punto di
non ritorno, che è stanco di vivere con una
donna che prima si lamentava della depressione e adesso si straccia le vesti perché è
stata abbandonata dall’amante?
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I singhiozzi stanno scemando, e la mia
mente riacquista lucidità. Devo andare in
redazione: non posso trascorrere l’intera
giornata in questa piccola strada fiancheggiata da case dove vivono coppie felici, sulle
cui porte campeggiano rutilanti decorazioni
natalizie. La via si è animata, ma i passanti
non mi degnano di uno sguardo mentre,
impotente, io vedo il mio mondo che crolla.
Ho bisogno di riflettere. Devo stabilire una
lista di priorità. Nei prossimi giorni, mesi e
anni, riuscirò a fingere di essere una moglie
amorevole? Devo impormi di abbandonare
quest’aria da animale ferito. Non ho mai
avuto una grande considerazione della disciplina, ma non posso comportarmi come
una squilibrata.
Mi asciugo le lacrime e guardo oltre il parabrezza. Devo accendere il motore? Non
ancora. Aspetto qualche altro momento. C’è
una ragione per la quale dovrei rallegrarmi
per questo tracollo: cominciavo a essere
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stanca di vivere nella menzogna. Ma… fino a
che punto mio marito non ha mai sospettato
niente? Gli uomini si accorgono quando le
donne fingono l’orgasmo? È possibile, ma
non ho alcun modo di saperlo.
Scendo dall’auto, raggiungo la colonnina
del parchimetro e pago per un periodo di
sosta piuttosto lungo: in tal modo, potrò
girovagare fino a quando ne avrò voglia.
Telefono in redazione e invento una scusa:
uno dei bambini ha avuto la diarrea e devo
portarlo dal pediatra. Il direttore ci crede
subito: gli svizzeri non mentono.
E invece io lo faccio. È già accaduto molte
volte. Ho perso il mio amor proprio, e ora
non so dove sono finita. Gli svizzeri vivono in
un mondo reale; io, in uno immaginario. Gli
svizzeri sanno affrontare e risolvere i problemi; io, incapace di una simile impresa, ho
creato una situazione nella quale avevo la
famiglia ideale e l’amante perfetto.
***
385/481
Cammino in questa città che amo, con i
suoi palazzi e i suoi negozi che, tranne nelle
aree turistiche, sembrano appartenere agli
anni cinquanta del secolo scorso. Fa freddo
ma, grazie a Dio, non c’è vento, e questo
rende la temperatura sopportabile. Nel tentativo di distrarmi e calmarmi, entro in una
libreria, poi in una macelleria e, qualche
minuto dopo, in un negozio di abbigliamento. Ogni volta che mi ritrovo in strada,
mi rendo conto che la temperatura rigida
contribuisce a spegnere il falò in cui mi sono
trasformata.
È possibile predisporsi ad amare l’uomo
giusto? Certamente sì. Il problema è riuscire
a dimenticare l’uomo sbagliato, che è entrato
nella tua vita senza chiedere permesso, semplicemente perché stava passando da quelle
parti e ha trovato la porta aperta.
Di preciso, che cosa speravo di trovare in
Jacob? Fin dall’inizio, sapevo che la nostra
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relazione era senza futuro, anche se non
immaginavo che sarebbe finita in un modo
così umiliante. Forse cercavo solo quello che
ho avuto: avventura e gioia. O forse volevo
qualcosa di più: vivere al suo fianco, aiutarlo
a far carriera, fornirgli quel sostegno che non
riceveva
più
dalla
moglie,
offrirgli
quell’affetto che, in uno dei nostri primi
incontri, si era lamentato di non avere. E,
come si prende un fiore dal giardino altrui,
strapparlo da quella casa per piantarlo nel
mio terreno, pur avendo la certezza che i fiori
non resistono a un simile trattamento.
Vengo assalita da un’ondata di gelosia, ma
stavolta non ho lacrime da versare: in me, c’è
soltanto rabbia. Mi siedo su una panchina
alla fermata di un autobus. Rimango a osservare le persone, concentratissime nei loro
mondi talmente piccoli da rientrare nello
schermo di un cellulare, dal quale non staccano gli occhi.
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Gli autobus si susseguono. Alcune persone
scendono e si allontanano camminando in
fretta, forse per il freddo. Altre salgono
lentamente: magari non hanno la minima
voglia di arrivare a casa, al lavoro, a scuola…
Nessuna mostra rabbia o entusiasmo, nessuna rivela felicità o tristezza: sono solo
anime in pena che affrontano meccanicamente la missione che l’universo gli ha riservato il giorno della loro nascita.
Dopo lunghi minuti, finalmente mi rilasso.
Ho individuato alcuni pezzi del mio rompicapo interiore. Uno è costituito dal motivo di
quest’odio che viene e va, come gli autobus
che mi passano davanti. Può darsi che abbia
perso la cosa più importante della mia vita:
la famiglia. Sono stata sconfitta nella
battaglia per la ricerca della felicità, e questo
non solo mi umilia, ma mi impedisce di
scorgere il cammino.
E mio marito? Stasera gli parlerò con
estrema franchezza, confessandogli tutto. Ho
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l’impressione che, alla fine, mi sentirò leggera e libera, anche se mi ritroverò a pagarne
le conseguenze. Sono stanca di mentire – a
lui, al direttore, a me stessa.
Ma, per il momento, non voglio pensarci.
Adesso è la gelosia a divorare i miei pensieri.
Non riesco ad alzarmi dalla panchina perché
il mio corpo è prigioniero di catene invisibili
– catene grosse e pesanti, pressoché
impossibili da trascinarsi appresso.
Marianne diceva che ama ascoltare i racconti delle avventure extraconiugali del
marito mentre è a letto con lui, e poi chiedergli di fare… Di fare le stesse cose che faceva
con me? Quando Jacob ha preso il preservativo dal comodino, la prima volta, avrei
dovuto capire che frequentava altre donne.
Da come mi ha posseduta, avrei dovuto rendermi conto che ero soltanto “una in più”.
Spesso sono uscita da quel maledetto albergo
con questa sensazione, ripetendomi che non
avrei accettato di rivederlo – ero comunque
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consapevole che si trattava soltanto di
un’altra delle mie menzogne e che, se mi
avesse telefonato, sarei stata subito pronta,
nel giorno e all’ora che avesse voluto.
Sì, sapevo perfettamente tutto questo. E
cercavo di convincermi che era un’avventura,
una storia di sesso. Ma non era così. Oggi mi
rendo conto che, nonostante lo abbia negato
nelle mie notti insonni e nei miei giorni
vuoti, ero innamorata di lui. Perdutamente.
Non so cosa fare. Immagino – in verità, ne
sono certa – che tutte le persone sposate
provino una segreta attrazione per qualcun
altro. È qualcosa di proibito – ma l’illecito
costituisce l’aspetto più stimolante della vita.
Sono pochi quelli che trasformano le fantasie
in realtà: uno su sette, secondo le statistiche
ufficiali. Però credo che soltanto uno su
cento arrivi al punto di lasciarsi trasportare
dall’immaginazione, com’è accaduto a me.
Per la maggior parte delle persone, si tratta
solo di una passione passeggera – fin
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dall’inizio, si sa che non durerà molto. Brevi
momenti carichi d’emozione per rendere il
sesso più erotico, accompagnati da
esclamazioni come “Ti amo” nel momento
dell’orgasmo. Non più di questo.
Ma se mio marito avesse un’amante, come
reagirei? Sarei dura e risoluta. Direi che la
vita è ingiusta, che non valgo niente, che sto
invecchiando; poi gli farei una scenata,
piangerei a dirotto per la gelosia – in realtà,
sarebbero lacrime d’invidia: ‘Perché lui ci
riesce, e io no?’ Me ne andrei sbattendo la
porta, mi trasferirei a casa dei miei genitori
con i bambini. Due o tre mesi più tardi, mi
pentirei del mio gesto e cercherei una scusa
per tornare, immaginando che sarebbe qualcosa che vuole anche lui. Dopo quattro mesi,
sarei terrorizzata al pensiero di dover
ricominciare tutto daccapo con un’altra persona. Al quinto mese, mi inventerei un modo
per ritornare sui miei passi, “per il bene dei
bambini”, ma sarebbe troppo tardi: lui
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vivrebbe già con l’amante, una tipa molto
affascinante, più giovane e piena di energia,
con la quale avrebbe ritrovato il gusto di
vivere.
Squilla il cellulare. Il direttore mi chiede
come sta mio figlio. Gli dico che sono alla
fermata di un autobus e sento malissimo:
comunque, è tutto a posto, tra poco sarò al
giornale.
Se un individuo vive nel terrore, non riesce
a vedere la realtà. Preferisce rifugiarsi nelle
proprie fantasie. Io non posso continuare a
trascinarmi in questo stato: devo assolutamente riprendermi. Forse il lavoro potrebbe
aiutarmi.
Mi alzo dalla panchina alla fermata
dell’autobus e mi avvio verso la macchina.
Guardo le foglie morte sul selciato. Mi dico
che, a Parigi, le avrebbero già raccolte.
Ginevra è una città molto più ricca, eppure
quel fogliame disseccato è ancora lì.
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Un giorno, quelle foglie appartenevano a
un albero, a un essere vivente che ora si
appresta a scivolare nella quiescenza. Quella
pianta si è mai preoccupata delle fronde che
la coprivano, la alimentavano e le consentivano di respirare? No. Ha mai pensato
agli insetti che stavano lassù, che impollinavano i fiori, mantenendo viva la natura?
No. L’albero pensa solo a se stesso: le foglie e
gli insetti vengono abbandonati al proprio
destino quando non sono più necessari.
Ecco, io sono come una di quelle foglie
cadute sul selciato, che ha vissuto credendo
di essere eterna ed è morta senza conoscerne
il motivo, che ha amato il sole e la luna, che
ha assistito silenziosa al passaggio degli
autobus e dei tram sferraglianti – nessuno
l’ha mai avvertita della presenza dell’inverno.
Le foglie hanno vissuto un’esistenza magnifica sino al giorno in cui sono ingiallite e
l’albero gli ha detto addio.
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Non “Arrivederci”, ma “Addio”, poiché
sapeva che non sarebbero tornate mai più.
Per staccarle dai rami e allontanarle da sé, ha
chiesto aiuto al vento. L’albero sa che potrà
crescere soltanto se riuscirà a riposare. E se
crescerà, sarà rispettato. E potrà generare
dei fiori ancora più belli.
***
Basta! Per me, ora, la terapia migliore è il
lavoro, perché ho già pianto ogni mia lacrima
e rimuginato su tutto. Senza riuscire a liberarmi di niente.
Come un automa, arrivo nella strada dove
ho parcheggiato e vedo un ausiliare del traffico che scansiona la targa della mia auto con
un aggeggio elettronico.
“È sua quest’auto?”
“Sì.”
Senza parlare, il sorvegliante continua il
suo lavoro. Anch’io resto in silenzio. A
394/481
questo punto, i dati della targa saranno già
stati acquisiti dal sistema informatico cittadino e, dopo un’elaborazione quasi istantanea, avranno generato un accertamento di
infrazione che mi sarà recapitato in una
busta con una finestrella trasparente nella
quale compare il logo discreto della Polizia
Municipale accanto al mio indirizzo. Avrò
trenta giorni per pagare i 100 franchi della
contravvenzione – comunque, potrei anche
decidere di far ricorso, investendo 500 franchi per le spese legali.
“Ha sforato di venti minuti. Anche se ha
pagato per oltre un’ora, qui la sosta è consentita solo per mezz’ora.”
Mi limito ad annuire. L’uomo è sorpreso –
non l’ho implorato di annullare la contravvenzione, sostenendo che non lo farò
più, e tanto meno sono corsa verso di lui,
quando l’ho visto inquadrare la targa della
mia macchina. Non ho avuto nessuna delle
reazioni a cui è abituato.
395/481
Dal suo aggeggio elettronico esce un biglietto, simile allo scontrino di un supermercato. Lo inserisce in una busta di plastica
(per proteggerlo dalle intemperie) e si muove
verso il muso dell’auto per infilarlo sotto un
tergicristallo. Io premo il pulsante nella
chiave, e le luci lampeggiano, indicando
l’apertura delle portiere.
L’uomo si rende conto che stava per
compiere un gesto assai sciocco: come spesso
capita a me, agiva meccanicamente. Il suono
che segnala l’apertura degli sportelli lo
richiama alla realtà: mi si avvicina e mi consegna l’avviso di contravvenzione.
Ci allontaniamo entrambi soddisfatti. Lui
perché non ha dovuto ascoltare le solite proteste; io perché ho ricevuto una punizione: è
soltanto una parte di quello che merito.
***
396/481
Non so – ma lo scoprirò presto – se mio
marito stia facendo ricorso a ogni briciolo del
suo autocontrollo o se, davvero, non dia
alcuna importanza a ciò che è accaduto.
Rincaso senza ritardi, dopo un’altra
giornata di lavoro, durante la quale ho
dovuto informarmi su alcuni argomenti davvero banali: l’addestramento dei battellieri, il
surplus di alberi di Natale sul mercato,
l’introduzione di comandi elettronici nelle
intersezioni ferroviarie – queste ricerche mi
hanno reso immensamente felice, giacché le
mie condizioni fisiche e psicologiche non mi
avrebbero permesso un grande impegno
mentale.
Preparo la cena come se fosse una delle
solite sere, identica a mille altre vissute in
questa casa. Guardiamo distrattamente la
televisione, prima che i bambini salgano in
camera, attratti dai tablet e dai giochi in cui
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uccidono terroristi o soldati, a seconda della
giornata.
Carico la lavastoviglie. Mio marito si
premurerà di mettere a letto i figli. Finora
abbiamo parlato soltanto di incombenze.
Non saprei dire se lui sia stato sempre così –
forse non vi ho mai badato –, o se sia particolarmente strano oggi. Lo scoprirò fra poco.
Mentre è al piano superiore, accendo il
caminetto: è la prima volta quest’anno –
contemplare il fuoco mi tranquillizza. Sto per
rivelargli qualcosa che forse già conosce, ma
ho bisogno di tutti gli alleati possibili. Ecco
perché stappo anche una bottiglia di vino e
appronto un tagliere di formaggi. Bevo un
sorso e inizio a fissare le fiamme. Non mi
sento né ansiosa né impaurita. Basta con la
doppia vita. Qualsiasi cosa accada, sarà un
vantaggio per me. Se il nostro matrimonio
dovrà finire, che ciò avvenga in un giorno
d’autunno inoltrato, prima di Natale, mentre
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guardiamo le lingue del fuoco e chiacchieriamo da persone civili.
Lui scende, nota il tavolino apparecchiato,
ma non fa domande. Si siede accanto a me
sul divano, e guarda le fiamme. Beve tutto il
vino del suo bicchiere e, quando mi accingo a
versarne dell’altro, fa un gesto con la mano: è
sufficiente così.
Rompo il silenzio con un commento stupido: “Oggi la temperatura è scesa sotto
zero.” Lui annuisce.
A quanto pare, dovrò prendere l’iniziativa.
“Mi spiace davvero per quello che è successo ieri sera, a cena.”
“Non è stata colpa tua. Quella donna è
davvero strana. Però, ti prego, evita di portarmi nuovamente a quel genere di
ricevimenti.”
Il suo tono di voce è calmo. Ma, come si
impara fin da bambini, prima delle tempeste
esiste sempre un momento in cui il vento si
placa e tutto appare tranquillo.
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Decido di insistere sull’argomento. “Marianne ha dimostrato di essere davvero gelosa,
pur nascondendosi dietro la maschera della
donna emancipata e disinibita.”
“Forse hai ragione. Ma la gelosia è quel
sentimento che continua a soffiarci nelle
orecchie le parole: ‘All’improvviso, potresti
perdere tutto ciò che hai ottenuto con mille
sforzi.’ È qualcosa che ci rende completamente ciechi: verso quello che viviamo con
gioia, verso i momenti felici, verso i legami
creati con amore e fatica. Come può l’odio
azzerare l’intera storia di una coppia?”
Sta preparando il terreno. Vuole che gli
racconti tutto: è proprio ciò che desidero.
Continua:
“A tutti capita di vivere delle giornate nelle
quali diciamo: ‘Be’, sto vivendo un’esistenza
che esula totalmente dalle mie aspettative.’
Ma se la vita ti domandasse cos’hai fatto per
cambiarla e renderla accettabile, che cosa
risponderesti?”
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“È una domanda rivolta a me?”
“No. Sto interrogando me stesso. Niente
avviene senza fatica. Bisogna avere fede. Ed è
necessario abbattere le barriere dei pregiudizi – il che richiede coraggio. Per avere coraggio, occorre dominare la paura. E così via.
È indispensabile non scontrarsi con la propria quotidianità. Non si può ignorare che la
vita è schierata al nostro fianco, e anch’essa
vuole migliorare. Dobbiamo agire per
aiutarla e aiutarci, giorno dopo giorno!”
Mi verso un altro bicchiere di vino. Lui
ravviva il fuoco, aggiungendo della legna.
Quando avrò il coraggio di iniziare la mia
confessione?
Comunque, mio marito non sembra disposto a lasciarmi la parola.
“Rifugiarsi in un sogno non è affatto semplice come appare. Al contrario. Può risultare pericoloso. Con il sogno, scateniamo
energie fortissime, e non possiamo più nascondere a noi stessi il vero significato della
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vita. Quando sogniamo, accettiamo di pagare
un costo per la realtà immaginata.”
Adesso! Più aspetto, più sarà la sofferenza
che entrambi vivremo.
Alzo il bicchiere, faccio un brindisi e dico
che qualcosa turba profondamente il mio
animo. Mio marito replica dicendo che ne
abbiamo già parlato al Valon, quando gli ho
aperto il cuore e gli ho raccontato del mio
timore di essere depressa. Ribatto che non
mi sto riferendo a quello.
Lui mi interrompe e prosegue il suo
ragionamento:
“Inseguire un sogno ha un prezzo. Può
corrispondere alla rinuncia a determinate
abitudini, al tormento di nuove difficoltà,
alla tristezza di molte delusioni ecc. Ma, per
quanto esoso sia quel costo, non è mai alto
come il prezzo pagato da chi non ha vissuto.
Perché questi, un giorno, si guarderà indietro e sentirà il proprio cuore che dice: ‘Hai
sprecato la tua esistenza.’”
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Non posso certo affermare che mi stia spianando la strada. Non devo confessargli una
marachella, ma qualcosa di molto più doloroso, cattivo, minaccioso. “Sì, ma…”
Sorride.
“Ho considerato la mia gelosia nei tuoi
confronti, e posso dirmi felice. Sai perché?
Perché la imputo al fatto che devo
dimostrarmi sempre degno del tuo amore.
Devo lottare per il nostro matrimonio, per la
nostra comunione – una realtà che non
riguarda soltanto i figli. Io ti amo. Affronterei
qualsiasi prova, sopporterei qualsiasi peso,
per averti sempre accanto. Tuttavia non
potrei impedirti di andartene, se tu lo
volessi. Ecco perché, se quel giorno arriverà,
sarai libera di inseguire la tua felicità. Il mio
amore per te è talmente grande che mi
proibirebbe di renderti infelice.”
I miei occhi si riempiono di lacrime, anche
se non ho capito esattamente di cosa stia
403/481
parlando. È un discorso sulla gelosia, o mi
sta lanciando un messaggio?
“Non temo la solitudine,” prosegue. “Ho
paura di vivere nell’illusione, vedendo una
realtà alla quale aspiro e non quella
quotidiana.”
Mi prende una mano.
“Sei la benedizione della mia vita. E, di
sicuro, io non sono il miglior marito del
mondo, visto che difficilmente manifesto i
miei sentimenti. So che ne avverti la mancanza: magari è qualcosa che ti rende
insicura, che ti fa pensare di non essere
importante per me. Ebbene, non è affatto
così. Dovremmo sederci più spesso davanti
al caminetto e parlare: chiacchierare di mille
argomenti, tranne che di gelosia. La gelosia
non mi interessa, non ci riguarda. Forse ci
gioverebbe un bel viaggio insieme, noi due
soli. O festeggiare il capodanno fuori, magari
in qualche posto dove siamo già stati.”
“E i bambini?”
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“Sono certo che i nonni sarebbero felicissimi di occuparsene,” dice.
Dopo un attimo, si avvia a concludere.
“Quando si ama, bisogna essere pronti a
tutto. Perché l’amore è come un caleidoscopio, quel gioco che ci affascinava da bambini.
È in continuo movimento e non si ripete mai.
Chi non riesce a comprendere questa semplice verità è condannato a soffrire per un
dono che esiste solo per renderci felici. Ma
c’è qualcosa di ancora più triste, l’ho capito
ieri sera a cena: le persone come quella
donna mostrano un’enorme preoccupazione
per ciò che gli altri pensano del loro matrimonio. Per me, non è minimamente rilevante: conta soltanto quello che pensi tu.”
Appoggio la testa sulla sua spalla. Quanto
avevo da dire ha perso ogni importanza. Mio
marito sa perfettamente che cosa sta
accadendo e riesce ad affrontare la
situazione in una maniera che esula dalle
mie capacità.
405/481
***
“È semplice: purché tu non agisca in
modo illegale, operare sul mercato finanziario – guadagnando o perdendo soldi – non
può esserti proibito.”
L’ex magnate si sforza di mantenere gli
atteggiamenti di uno degli uomini più ricchi
del mondo. Ma la sua fortuna è svanita in
meno di un anno, allorché i grandi finanzieri
hanno scoperto che vendeva soltanto illusioni. Cerco di mostrare interesse per le sue
parole. In fondo, sono stata io a chiedere al
direttore di abbandonare definitivamente gli
articoli sulle cure alternative per lo stress.
È passata una settimana da quando ho
ricevuto il messaggio di Jacob, in cui mi
diceva che avevo rovinato tutto. Una settimana da quando ho girovagato in lacrime per
le strade di Ginevra – presto, quel giorno mi
verrà ricordato anche dall’arrivo della multa.
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Una settimana dalla conversazione con mio
marito davanti al caminetto.
“Dobbiamo sempre conoscere un modo
per vendere un’idea. È in questo che consiste
il successo: riuscire a vendere ciò di cui si
dispone,” prosegue l’ex magnate.
Penso: ‘Mio caro, nonostante la tua prosopopea, la tua aura di serietà, la suite in
questo albergo di lusso dalla quale si gode
una magnifica vista sulla città… Nonostante
gli abiti confezionati da una sartoria
londinese, quel sorriso e quella chioma abilmente colorata per dare un’impressione di
«naturalezza»… Nonostante la sicurezza con
cui parli e ti muovi, posso assicurarti che
conoscere un modo di vendere un’idea non è
la fonte del successo. Bisogna trovare qualcuno che la compri. E questo vale per gli
affari, per la politica e per l’amore. Caro il
mio ex milionario, immagino che tu capisca
perfettamente di che cosa sto parlando:
potrai supportare le tue parole con
407/481
esemplificazioni
grafiche,
diagrammi,
presentazioni – ma la gente chiede risultati.’
Anche l’amore vuole dei frutti, per quanto
tutti affermino che non è vero, che l’atto di
amare trova la somma giustificazione in se
stesso. È vero? Se rimanessi a passeggiare
nel Giardino Inglese, con indosso il giaccone
di pelle comprato da mio marito in Russia,
osservando l’autunno, sorridendo al cielo e
dicendo: “Io amo, e ciò basta”, questo trasformerebbe la realtà?
Ovviamente, no. Io amo, ma pretendo di
avere in cambio qualcosa di concreto – camminare mano nella mano, i baci, il sesso
focoso, i sogni da condividere, la possibilità
di costruirsi una famiglia, di educare i figli,
di invecchiare accanto alla persona amata.
“È indispensabile avere una meta molto
precisa per ogni passo che facciamo. Ed
essere ottimisti,” spiega il mio patetico interlocutore, con un sorriso apparentemente
fiducioso.
408/481
A quanto pare, sono di nuovo sull’orlo
della follia. Finisco per rapportare alla mia
situazione affettiva tutto ciò che ascolto o
leggo, compresa la barbosa intervista con
quest’uomo sgradevole. Mi ritrovo a pensarci
in ogni momento della giornata – mentre
cammino per la strada, mentre cucino,
mentre spreco momenti preziosi della mia
esistenza ascoltando discorsi che, invece di
distrarmi, mi spingono sempre di più verso
l’abisso.
“L’ottimismo è contagioso…”
L’ex magnate non smette di parlare: è
sicuro di risultare convincente, di essere
un’ottima carta per il giornale – la pubblicazione del colloquio segnerà l’inizio della
sua redenzione. È davvero splendido intervistare individui del genere: è sufficiente
porre una domanda, e parlano per ore. A differenza delle conversazioni con lo sciamano,
stavolta non presto alcuna attenzione alle
parole del mio interlocutore. Il registratore è
409/481
acceso, ma so già che ridurrò questo monologo a seicento parole – quattro o cinque
minuti di intervista.
“L’ottimismo è contagioso,” ripete lui.
Se fosse così, basterebbe avvicinarsi alla
persona amata con un sorriso immenso,
cento progetti e mille idee, e… E conoscere il
modo per vendere il pacchetto. Funzionerebbe? No. Piuttosto è contagiosa la
paura, il terrore di non trovare qualcuno che
ci accompagni sino alla fine dei nostri giorni.
È il panico a spingerci ad agire in modo
sconsiderato, ad accettare anche una persona
sbagliata, convincendoci che sia quella
giusta, l’unica, il compagno o la compagna
che Dio ha posto sulla nostra strada. In
brevissimo tempo, il desiderio di sicurezza si
trasforma in amore sincero, la vita diventa
più dolce e più facile, e rinchiudiamo i nostri
sentimenti in una scatola da conservare in
fondo all’armadio della mente: rimarrà lì,
nascosta e invisibile, per sempre.
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“Alcuni sostengono che sono uno degli
uomini che può vantare le migliori relazioni
nel mio paese. Conosco imprenditori,
politici, industriali. Le mie aziende stanno
soltanto attraversando un momento di difficoltà temporaneo. Ben presto, lei potrà
scrivere del mio ritorno.”
Anch’io sono una persona con ottime
relazioni, che conosce il tipo di soggetti che
lui frequenta. Tuttavia non ho intenzione di
adoperarmi per alcun ritorno. Desidero solo
un epilogo civile per una di queste
“relazioni”.
Perché le cose che non hanno una conclusione chiara finiscono sempre per lasciare
una porta aperta, una possibilità insondata,
una chance che tutto possa tornare come
prima. Non è qualcosa che mi attrae, anche
se conosco molte persone che adorano
questo genere di situazione.
Che cosa sto facendo? Voglio fare un paragone tra l’economia e l’amore? Cerco di
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scovare delle correlazioni tra il mondo finanziario e quello affettivo?
Da una settimana, non ho notizie di Jacob.
Da una settimana, dopo la serata trascorsa a
parlare davanti al caminetto, il rapporto con
mio marito è tornato alla normalità. Riusciremo a risollevare il nostro matrimonio?
Fino alla primavera di quest’anno ero una
persona normale. Poi, un giorno, mi sono
resa conto che tutto ciò che avevo sarebbe
potuto scomparire all’improvviso e, anziché
reagire da individuo intelligente, sono sprofondata nel panico. E questo mi ha portato
all’inerzia. All’apatia. All’incapacità di
reagire e cambiare. E dopo notti e notti
insonni, dopo giorni e giorni nei quali non
sono riuscita a trovare alcuno stimolo nella
vita, ho fatto ciò che più temevo: ho sfidato il
pericolo senza cautelarmi – molte persone
covano il germe dell’autodistruzione. Per
caso – o forse perché il destino intendeva
mettermi alla prova –, mi sono imbattuta in
412/481
qualcuno che mi ha afferrato per i capelli
(non soltanto in senso letterale, ma anche
figurato), mi ha scrollato, ha allontanato la
polvere che stava soffocandomi e mi ha fatto
respirare di nuovo.
Tutto assolutamente falso. Una felicità
analoga a quella che i tossicodipendenti
trovano nella droga. Prima o poi l’effetto
svanisce, e la disperazione diventa ancora
più forte.
L’ex magnate inizia a parlare di soldi. Non
gli ho chiesto niente al riguardo, ma lui ha
deciso di affrontare l’argomento. Avverte la
necessità impellente di dichiarare che non è
povero, che è in grado di mantenere il suo
stile di vita per decenni.
Non sopporto più di restare in questo
posto. Lo ringrazio per l’intervista, spengo il
registratore e mi accingo a recuperare il
cappotto.
413/481
“È libera, stasera? Magari potremmo
vederci per un drink, e concludere questa
conversazione,” dice lui, con un sorriso.
Non è la prima volta che mi accade. In verità, per me è quasi una regola. Sono bella e
intelligente – sebbene Madame König non lo
ammetta – e, in varie occasioni, mi sono servita del mio fascino per ottenere informazioni che normalmente certe persone non
rivelerebbero ai giornalisti, temendo di
vederle pubblicate con titoli a caratteri cubitali. Ma gli uomini… Ah, gli uomini! Si
inventano mille maniere per nascondere le
proprie debolezze, eppure una qualsiasi diciottenne riesce a manipolarli senza grandi
sforzi.
Lo ringrazio per l’invito, ma gli dico che ho
già un impegno. Sono tentata di domandargli
come abbia reagito la sua ultima fidanzata
all’ondata di notizie negative su di lui e sul
crollo del suo impero. Comunque, riesco
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perfettamente a immaginarlo: al giornale,
però, questo non interessa.
***
Esco,
attraverso la strada e arrivo al
Giardino Inglese dove, qualche minuto
prima, immaginavo di passeggiare. Proseguo
fino a una gelateria artigianale all’angolo di
Rue 31 du Décembre. Mi piace il nome di
questa strada, perché mi ricorda sempre che,
prima o poi, un altro anno si concluderà e,
come al solito, io farò grandi promesse per
quello successivo.
Prendo un cono al pistacchio e cioccolato.
Cammino fino al molo, mangiando il gelato e
osservando uno dei simboli di Ginevra, il Jet
d’Eau che s’innalza verso il cielo e crea una
cortina di minuscole gocce davanti ai miei
occhi. Dei turisti si avvicinano e scattano
alcune fotografie, che risulteranno poco
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illuminate – non sarebbe più semplice comprare una cartolina?
Ho visto monumenti e statue in tutto il
mondo. Uomini imponenti del cui nome si è
ormai persa la memoria, ma che sono
sempre lì, in groppa ai loro magnifici destrieri. Donne che levano al cielo corone o
spade, a simboleggiare la vittoria, scomparse
anche dai libri scolastici. Bambini ignoti e
solitari, la cui innocenza perduta si ritrova
nella pietra scolpita da qualche artista
dimenticato, durante sedute di posa che si
protraevano per ore e giorni.
Alla fine, con rare eccezioni, non sono mai
le statue a connotare l’immagine di una città,
bensì le cose inattese. Quando Gustave Eiffel
costruì la sua torre di ferro forgiato per
l’Esposizione Universale, non immaginava
certo che sarebbe diventata il simbolo di
Parigi – nonostante la presenza del Louvre,
dell’Arc de Triomphe e dei Jardins du Luxembourg. Una mela incarna New York. Un
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ponte scarsamente trafficato è l’effigie di San
Francisco. Un altro, sul Tago, offre la raffigurazione di Lisbona. Una cattedrale incompiuta è l’emblematico monumento che rappresenta Barcellona.
È qualcosa di analogo al Jet d’Eau di
Ginevra, che schizza verso il cielo nel punto
in cui le acque del lago Lemano incontrano
quelle del fiume Rodano, generando una corrente fortissima. Per sfruttare quell’energia –
siamo maestri nell’arte dello sfruttamento –,
verso la fine dell’Ottocento, venne costruita
una centrale idroelettrica ma, quando gli
addetti chiudevano le valvole, spesso le chiusine saltavano per la tremenda pressione.
Poi un ingegnere ebbe l’idea di installare una
grossa fontana, che consentisse all’acqua di
defluire.
Con il tempo, alcune soluzioni ingegneristiche risolsero il problema, e la fontana
divenne superflua. Con un referendum, però,
i ginevrini decisero di non smantellarla.
417/481
Molte fontane abbellivano la città, ma come
rendere visibile quella in mezzo al lago?
Vennero installate delle potenti pompe, e
nacque un “monumento mutante” che lancia
nell’aria 500 litri d’acqua al secondo, alla
velocità di 200 chilometri orari. Il suo getto è
osservabile anche da un aereo che vola a
10.000 metri di quota – io l’ho visto! Nessuno ha pensato di dargli un nome: per tutti
è soltanto il “Jet d’Eau”, un simbolo della
città di Ginevra – nonostante la presenza di
statue di uomini a cavallo, donne eroiche e
bambini solitari.
Una volta, ho domandato a Denise, una
ricercatrice scientifica, che cosa ne pensasse
del monumento.
“Il nostro corpo è composto principalmente d’acqua, che costituisce un ottimo
conduttore per le correnti elettriche che veicolano le informazioni. Anche l’amore è
un’informazione, e influisce sul funzionamento dell’intero organismo. Ma è pure un
418/481
sentimento che muta e si rinnova di continuo. Ecco perché penso che il Jet d’Eau sia
il più bel monumento all’amore concepito
dall’uomo, visto che cambia e non è mai
uguale a se stesso.”
***
Prendo il cellulare e chiamo l’ufficio di
Jacob. D’accordo, potrei raggiungerlo sul suo
numero personale, ma non intendo farlo.
Parlo con il suo assistente e gli comunico che
sto andando lì.
Il collaboratore mi riconosce. Mi chiede di
attendere in linea per una conferma. Dopo
un momento di silenzio, si scusa e mi dice
che “Monsieur König” non può ricevermi.
Voglio fissare un appuntamento all’inizio
dell’anno nuovo? Rispondo che ho bisogno
di incontrarlo subito: è una questione
urgente.
Non è che “una questione urgente” apra
sempre le porte ma, in questo caso, sono
419/481
convinta di avere delle ottime chance. Stavolta l’assistente impiega dieci minuti per
rispondermi. Poi mi chiede se è possibile
spostare l’incontro all’inizio della settimana
successiva. Gli ripeto che sarò lì nel giro di
venti minuti. Ringrazio e concludo la
conversazione.
***
Jacob mi chiede di rivestirmi subito – in
fin dei conti, il suo ufficio è un luogo pubblico,
pagato
con
i
soldi
dell’amministrazione, e se dovessero scoprirlo, lui potrebbe finire in galera. Io osservo i
pannelli di legno intagliato delle pareti e i
bellissimi affreschi sul soffitto. Sono nuda,
sdraiata su un divano in pelle piuttosto
logorato dal tempo.
Lui appare sempre più teso. In giacca e
cravatta, consulta l’orologio, ansioso. La
pausa pranzo è terminata. Il suo assistente è
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tornato, ha bussato discretamente alla porta,
ha udito le parole: “Sono in riunione”, e non
ha insistito. Da allora, sono passati quaranta
minuti – ormai alcuni colloqui e appuntamenti saranno stati cancellati.
Quando sono entrata, Jacob mi ha salutato
e, con un gesto formale, mi ha indicato la
sedia davanti alla sua scrivania. Non ho
dovuto ricorrere all’intuito femminile per
capire quanto fosse spaventato. Qual era il
motivo di quell’incontro? Non mi rendevo
conto dei suoi innumerevoli appuntamenti,
visto che è ormai prossima la sospensione
dei lavori parlamentari e ci sono importanti
questioni da risolvere? Non ho letto il messaggio nel quale mi diceva che Marianne
aveva subodorato la nostra tresca? Prima di
incontrarci di nuovo, avremmo dovuto
aspettare un po’ di tempo, lasciare sedimentare le cose.
“Ovviamente, ho negato tutto. Ho finto di
essere profondamente colpito dalle sue
421/481
insinuazioni. Le ho detto che mi sentivo
offeso nella dignità. Che ero stufo di quella
diffidenza, che poteva informarsi ovunque
sulla rettitudine del mio comportamento.
Non era stata proprio lei a sostenere che la
gelosia è un segno di inferiorità? Ho cercato
di spiegare, rassicurare, ma lei si è limitata a
rispondere: ‘Smettila di comportarti da stupido. Non intendo lamentarmi: voglio solo
dirti che ho scoperto la ragione per la quale ti
mostravi così gentile e educato, di recente.’ È
stato un… “
Non gli ho consentito di terminare la frase.
Mi sono alzata e l’ho afferrato per il colletto.
Ha creduto che volessi aggredirlo. Ma io gli
ho dato un lungo bacio. Jacob non ha avuto
alcuna reazione: probabilmente pensava che
fossi andata lì per fargli una scenata. Ho continuato a baciarlo sulla bocca e sul collo,
mentre gli allentavo la cravatta.
Lui mi ha respinto. Gli ho dato uno
schiaffo.
422/481
“Prima devo chiudere a chiave la porta.
Anch’io avvertivo una tremenda nostalgia.”
Ha percorso lo studio perfettamente arredato con mobili ottocenteschi, ha fatto ruotare
la chiave nella toppa e, quando è tornato
indietro, io ero già quasi nuda: indossavo
solo le mutandine.
Mentre gli toglievo furiosamente i vestiti,
ha cominciato a baciarmi i seni. Io gemevo di
piacere, ma mi ha tappato la bocca con una
mano: ho scosso la testa e ho continuato a
gemere piano.
“Come puoi immaginare, anch’io mi gioco
la
reputazione.
Perciò
non
devi
preoccuparti.”
È stato l’unico momento in cui ci siamo
fermati e ho detto qualcosa. Poi mi sono
inginocchiata e ho cominciato a succhiargli il
pene. Lui mi teneva il capo, seguendo il
ritmo – più veloce, sempre più veloce. Io,
però, non volevo che mi eiaculasse in bocca.
L’ho spinto via e sono andata verso il divano
423/481
di cuoio; mi sono seduta, con le gambe
aperte. Lui si è accovacciato e ha cominciato
a leccare il mio sesso. Quando ho avuto il
primo orgasmo, mi sono morsa una mano
per non urlare. L’ondata di piacere sembrava
non finire mai, e io continuavo a addentare
la mia carne.
Allora ho sussurrato il suo nome, l’ho
pregato di entrarmi dentro e di fare tutto ciò
che voleva. Lui mi ha penetrata, afferrandomi le spalle e sbattendomi in modo selvaggio. Mi ha sollevato le gambe fin quasi
all’altezza delle spalle, per poter affondare di
più. Ha accelerato il ritmo, ma io gli ho
ordinato di non venire ancora. Lo volevo di
più, sempre di più.
Mi ha spinto sul pavimento. Mi ha detto di
mettermi a quattro zampe, come un cane.
Poi mi ha penetrata e sbattuta di nuovo,
mentre mi serrava i fianchi con le mani. Dai
suoi gemiti soffocati, ho capito che stava per
godere: non riusciva più a trattenersi. L’ho
424/481
allontanato, mi sono voltata e gli ho chiesto
di entrare di nuovo, ma guardandomi negli
occhi e riversandomi addosso quelle oscenità
che mi mormorava spesso durante gli amplessi. L’ho contraccambiato con le cose più
volgari che una donna possa sussurrare a un
uomo. Lui seguitava a chiamare il mio nome,
a implorare di dirgli che lo amavo. Ma io gli
ritornavo solo sconcerie e pretendevo che mi
trattasse come una prostituta, una puttana
da strada, che mi usasse come una schiava,
come una donna che non merita alcun
rispetto.
Il mio corpo era percorso da un’infinità di
brividi. Il piacere arrivava a ondate. Ho
goduto ancora e ancora, mentre lui si
sforzava di non venire per prolungare quel
piacere. I nostri corpi si urtavano con violenza, provocando rumori sordi: adesso nessuno si preoccupava più che potessero venire
uditi oltre la porta.
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Avevo lo sguardo fisso nei suoi occhi e
ascoltavo il mio nome ripetuto a ogni movimento, quando mi sono resa conto che stava
per eiaculare, ma era senza preservativo. Mi
sono scostata e l’ho fatto scivolare fuori: gli
ho chiesto di venirmi in faccia, sulla bocca,
dicendo che mi amava.
Jacob ha obbedito, mentre io mi masturbavo e godevo insieme a lui. A quel punto, mi
ha abbracciato, ha appoggiato la testa sulla
mia spalla, mi ha pulito il volto con le dita e
ha detto più volte che mi amava, che aveva
sentito tremendamente la mia mancanza.
Ora mi chiede di vestirmi, ma io non mi
muovo. È tornato a essere l’individuo beneducato che gli elettori ammirano. Avverte
che c’è qualcosa che non va, ma non riesce a
spiegarsi cosa sia. Pian piano, capisce che
non mi trovo lì soltanto perché è un amante
meraviglioso.
“Perché sei venuta? Che cosa vuoi?”
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Mettere un punto finale. Concludere
questa storia che mi spezza il cuore e riduce
a brandelli la mia emotività. Guardarlo negli
occhi e dirgli che è finita. Che non si ripeterà
mai più.
Nell’ultima settimana ho vissuto una sofferenza quasi insopportabile. Ho pianto lacrime che pensavo di non avere e mi sono
smarrita in labirinti di pensieri: mi vedevo
trasportata nel campus dell’università, dove
insegna Marianne, e ricoverata a forza nel
reparto psichiatrico lì accanto. Ho pensato di
avere fallito in tutto, tranne che come
giornalista e come madre. In ogni minuto, mi
sono ritrovata a sfiorare la morte e la vita nel
contempo, fantasticando sulle infinite
situazioni che avrei potuto vivere con lui, se
fossimo stati ancora due adolescenti che
guardavano insieme al futuro. Poi mi sono
resa conto di aver toccato il fondo del pozzo
della disperazione: non avrei potuto sprofondare più giù. Se volgevo lo sguardo verso
427/481
l’alto, vedevo un’unica mano tesa: quella di
mio marito.
Anche se ha sospettato qualcosa, il suo
amore si è rivelato più forte. Mi ero imposta
di essere onesta, di raccontargli ogni cosa, di
levarmi quel peso dall’anima, ma non ce n’è
stato bisogno. Lui mi ha fatto capire che,
indipendentemente dalle mie scelte, sarebbe
stato sempre accanto a me – in quel
momento, il mio fardello è diventato leggero.
Mi colpevolizzavo e pretendevo di giustificarmi, anche se non mi incolpava né mi
condannava. Ripetevo a me stessa: ‘Non
sono degna di quest’uomo: non sa chi sono
realmente.’
Invece sì, lo sa perfettamente. Ed è questo
che mi permette di avere ancora rispetto per
me stessa, di recuperare il mio amor proprio.
Perché, se un uomo come lui, che non
avrebbe alcuna difficoltà a trovare una nuova
compagna, sceglie di restare al mio fianco,
allora valgo davvero qualcosa – molto.
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Quasi all’improvviso, ho scoperto che
potevo tornare a dormire accanto a lui senza
sentirmi sporca, senza pensare che lo stessi
tradendo. Ho percepito tutto il suo amore e
ho creduto di meritarlo.
Mi alzo, raccolgo i vestiti e mi dirigo verso
il bagno privato dell’ufficio di Jacob. Sa che è
l’ultima volta in cui mi vede nuda.
‘Il processo di guarigione sarà lungo,’
penso, mentre rientro nell’ufficio. Immagino
che lui si stia dicendo la stessa cosa,
provando le medesime sensazioni. Anche
Marianne vuole che questa avventura abbia
fine, per poter riabbracciare il marito con
l’amore e le certezze del passato. Non mi
trattengo e glielo chiedo.
“Sì, è così. Ma lei non mi ha mai detto
niente. Ha capito cosa stava succedendo e si
è chiusa ancora di più in se stessa. Non è mai
stata affettuosa, ma ora sembra un automa.
Si dedica al lavoro compulsivamente: è il suo
modo di scacciare i problemi.”
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Mi sistemo la gonna, mi infilo le scarpe ed
estraggo dalla borsa una busta: la appoggio
sul piano della scrivania.
“Che cos’è?”
“Cocaina.”
“Non sapevo che tu…”
‘Non è necessario che tu lo sappia,’ penso.
‘Non è necessario che tu sappia fino a che
punto ero disposta ad arrivare per conquistare l’uomo che mi aveva fatto innamorare perdutamente. La passione c’è ancora,
ma la fiamma si affievolisce giorno dopo
giorno: so che finirà per estinguersi. Qualsiasi rottura è dolente e penosa – e io posso già
sentire il dolore in ogni fibra del mio corpo.
È l’ultima volta che ci vediamo soli. Da
questo momento, ci incontreremo a feste e
cocktail, in occasione di elezioni e conferenzestampa, ma non godremo mai più di una
qualche intimità, com’è accaduto anche oggi.
È stato bellissimo fare l’amore in quel modo,
porre fine alla nostra storia con gli stessi
430/481
gesti con cui l’avevamo cominciata: concedendoci totalmente l’uno all’altra.’ Io
sapevo che era l’ultima volta. Lui, no –
comunque, non avrebbe potuto replicare.
“Che devo farne?”
“Gettala via. Mi è costata una fortuna, ma
buttala via. Così mi libererai da un vizio.”
Non gli spiego di quale vizio sto parlando.
Una cattiva abitudine, il cui nome è Jacob
König.
Noto la sua espressione di sorpresa e sorrido. Mi congedo con i tradizionali tre bacetti
sulle guance ed esco. Nell’ingresso, mi volto
verso il suo assistente e lo saluto. Lui svia lo
sguardo, fingendo di essere concentrato su
una pila di carte, e mormora una vaga formula di commiato.
Quando sono sul marciapiedi, chiamo mio
marito e gli dico che preferisco trascorrere il
capodanno a casa, con i bambini. Se vuole
andar fuori, prenotiamo per Natale.
***
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“Facciamo un giro prima di cena?”
Annuisco, ma non mi muovo. Continuo a
guardare il parco davanti all’albergo e, più
oltre, lo Jungfrau, coperto di nevi eterne e
illuminato dal sole pomeridiano.
Le potenzialità del cervello umano sono
davvero affascinanti: dimentichiamo un
odore fino al momento in cui lo risentiamo,
cancelliamo una voce dalla memoria fino a
quando non la udiamo di nuovo, e persino le
emozioni che sembravano sepolte per
sempre possono ridestarsi, allorché torniamo nel luogo che le aveva originate.
Viaggio all’indietro nel tempo, fino
all’epoca del nostro primo soggiorno a Interlaken. Avevamo preso una stanza in un
alberghetto economico, girovagavamo da un
lago all’altro e, nonostante le mete delle
nostre gite fossero sempre le solite, ci sembrava di scoprire un nuovo cammino ogni
giorno. Lui aveva deciso di partecipare alla
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Jungfrau Marathon, quella folle gara il cui
percorso si snoda fra le montagne. Io ero
orgogliosa del suo spirito di avventura, della
sua voglia di sfidare l’impossibile, di pretendere sempre di più dal suo corpo.
Per cimentarsi in quella corsa folle
arrivavano persone dai quattro angoli del
pianeta. Gli alberghi erano completi, e i concorrenti fraternizzavano nei molti bar e ristoranti di quella piccola cittadina di 5000
abitanti. Non ho idea di come sia Interlaken
adesso, ma dalla finestra mi sembra più
vuota, più distante.
Siamo scesi nel miglior albergo. Abbiamo
una bella suite. Sul tavolino c’è il cartoncino
di benvenuto con la firma del direttore: ci
augura una splendida permanenza e ci offre
una bottiglia di champagne – l’abbiamo già
bevuta.
Mio marito mi chiama: torno alla realtà.
Scendiamo per una passeggiata prima che
faccia buio.
433/481
***
Se mi domanderà come sto, mentirò: non
posso rovinare la sua gioia. Le ferite del mio
cuore stentano a guarire. Mentre passeggiamo, lui si ferma a contemplare la panchina sulla quale ci sedemmo una mattina,
dopo aver preso un caffè, e fummo avvicinati
da una coppia di hippy stranieri che ci chiese
qualche spicciolo. Passiamo davanti a una
chiesa, e le campane iniziano a suonare. Mi
bacia, e io contraccambio il bacio, sforzandomi di nascondere ciò che sento.
Non ci teniamo per mano a causa del
freddo – non sopporto i guanti. Arriviamo
fino alla stazione ferroviaria. Lui compra lo
stesso souvenir che acquistò allora – un
accendino con il simbolo della città.
All’epoca, fumava e gareggiava nelle
maratone.
Oggi non fuma più e dice di avere poco
fiato. Ogni volta che affrettiamo la
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camminata, ansima: sebbene abbia cercato
di nasconderlo, ho notato che appariva piuttosto stanco dopo la corsa sulla riva del lago,
a Nyon.
Ci fermiamo in un bar dall’apparenza simpatica e prendiamo un drink. Il cellulare
vibra. Impiego un’eternità per cercarlo nella
borsa. Quando finalmente lo trovo, hanno
già chiuso la comunicazione. Sul display
campeggia l’icona di una chiamata persa: era
l’amica che soffriva di depressione e che, grazie alla terapia farmacologica, ha ritrovato la
propria serenità.
“Se vuoi tornare, a me non dispiace.”
Gli domando per quale motivo dovrei voler
tornare in albergo. La mia compagnia lo disturba? Preferisce piazzarsi nella hall ed
essere infastidito dal cicaleccio di persone
che passano le ore al telefono, a parlare di
nulla?
Mi sembra quasi irritato con me. Forse è
un effetto dello champagne, oltre che del
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drink a base di acquavite che abbiamo
appena bevuto. Il suo nervosismo ha un
potere calmante su di me: mi fa sentire a mio
agio. Sono rassicurata sul fatto di avere
accanto un essere umano, con emozioni e
sentimenti.
“Com’è strana Interlaken senza la gente
della maratona,” commento. “Pare una città
fantasma.”
“Non ci sono piste da sci, qui.”
D’altronde, sarebbe impossibile impiantarle. La cittadina sorge in una valle,
fiancheggiata da montagne altissime, con
due laghi alle estremità.
Ordina due gin: forse vuole combattere il
freddo con l’alcol. Gli dico che stiamo esagerando: non beviamo così da moltissimo
tempo. Si incupisce.
“Sono passati dieci anni da quando siamo
stati qui la prima volta: ero giovane, allora.
Avevo mille ambizioni, amavo gli spazi aperti
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e non ero affatto intimidito dall’ignoto. Forse
sono cambiato troppo.”
“Non dire così. Non puoi sentirti
vecchio…”
Non replica. Beve d’un fiato il proprio
liquore e prende a fissare il vuoto. Non è più
il marito perfetto e, per quanto incredibile
possa sembrare, questo mi rallegra.
Usciamo dal locale e ci avviamo verso il
centro. Lungo la strada, siamo affascinati da
un ristorante con un bar magnifico, ma
abbiamo già prenotato altrove.
“Prendiamo un altro gin?” dice, appena
entrati. Un cartello informa la clientela che la
cena viene servita a partire dalle ore 19.
Chi è l’uomo che mi sta accanto? Non è
che Interlaken abbia risvegliato in lui
memorie perdute, magari sollevando la tempesta del terrore?
Non rispondo. E comincio ad aver paura.
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Gli domando se dobbiamo annullare la
prenotazione al ristorante italiano e cenare
qui.
“Mi è indifferente.”
Indifferente? Non è che stia provando il
medesimo disagio che ho vissuto quando mi
ritenevo depressa?
Per me non è “indifferente”. Voglio cenare
nel ristorante italiano che abbiamo prenotato. Quello dove ci siamo giurati amore
eterno.
“Questo viaggio è stato una pessima idea.
Preferisco tornare a casa domani stesso. Ero
animato dalle migliori intenzioni: volevo
rivivere l’alba del nostro amore. Ma… è possibile? Ovviamente, no. Siamo cambiati.
Adesso ci ritroviamo a gestire pressioni che
prima non c’erano. Dobbiamo provvedere a
tutte le necessità dei nostri figli: l’alimentazione, la salute, l’istruzione… Concentriamo i divertimenti nel fine settimana – è
ciò che fanno tutti – e, poiché siamo restii a
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uscire, pensiamo che ci sia qualcosa di
sbagliato in noi.”
“A me non piace andar fuori. Preferisco
stare in casa senza far niente.”
“Anch’io. Ma… i nostri figli? Loro desiderano altro. Non possiamo fargli trascorrere le
giornate incollati allo schermo di un tablet o
di un computer. Sono bambini. E allora ci
imponiamo di portarli da qualche parte,
adottiamo gli stessi atteggiamenti dei nostri
genitori verso di noi, identici a quelli che i
nostri nonni utilizzavano con loro. Facciamo
una vita normale. Ci comportiamo come una
famiglia emotivamente equilibrata. Se uno di
noi ha bisogno di aiuto, l’altro è sempre
pronto a soccorrerlo con ogni sua forza: a
fare il possibile e l’impossibile.”
“È vero. Anche a fare un viaggio in un
posto pieno di ricordi, per esempio.”
Un altro gin. Lui resta in silenzio per qualche momento, prima di replicare.
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“Proprio così. Ma pensi che i ricordi
possano riempire il presente? Al contrario,
mi stanno soffocando. Sto scoprendo che
non sono più la stessa persona. Fino a
quando siamo arrivati qui e abbiamo bevuto
quella bottiglia di champagne, andava tutto
bene. Adesso, però, mi sono reso conto che la
mia vita è molto diversa da quella che
sognavo durante il nostro primo soggiorno a
Interlaken.”
“E cosa sognavi?”
“Stupidaggini. Che comunque rappresentavano il mio sogno: qualcosa che avrei
potuto realizzare.”
“Che cosa pensavi di fare, in realtà?”
“Vendere tutto ciò che avevo, comprare
una barca e girare il mondo insieme a te. Mio
padre si sarebbe infuriato, se non avessi
seguito la sua strada, ma non era minimamente importante. Ci saremmo fermati nei
porti, avremmo trovato piccoli lavori saltuari
e, dopo aver raccattato un po’ di denaro,
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saremmo salpati di nuovo. Passare serate
con sconosciuti, scoprire luoghi che non figurano nelle guide turistiche. L’avventura. Il
mio unico desiderio era l’av-ven-tu-ra.”
Ordina un altro gin e lo ingolla con una
velocità impensabile. Ho deciso di non bere
più: comincio ad avvertire una sensazione di
nausea. Finora non abbiamo mangiato
niente. Vorrei dirgli che, se avesse lottato per
realizzare il suo sogno, sarei stata la donna
più felice del mondo. Ma è meglio che taccia,
altrimenti si sentirà peggio.
“Poi è arrivato il primo figlio.”
“E allora? Ci sono milioni di coppie con
figli che girano il mondo, all’avventura.”
Lui riflette per un paio di minuti.
“Milioni, non direi. Forse migliaia.”
Il suo sguardo è diverso: non rivela più
aggressività, bensì tristezza.
“Ci sono giorni in cui ci fermiamo ad
analizzare il nostro passato e il nostro
presente. Quello che abbiamo imparato e gli
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errori che abbiamo commesso. Io ho paura
di quei bilanci. Mi sforzo per sostenere di
avere sempre compiuto le scelte opportune,
magari affrontando dei sacrifici. Mi illudo,
mi inganno, ma credo che non sia una mancanza grave.”
“Perché non facciamo ancora due passi?
Hai uno sguardo strano, spento.”
Lui sferra un pugno sul bancone. La proprietaria del locale ci guarda, spaventata.
Ordino un altro gin, per me. La donna dice
che il servizio bar è terminato, e ci consegna
il conto.
Mi aspetto una reazione da mio marito,
ma si limita a estrarre una banconota dal
portafogli e gettarla sul bancone. Mi prende
per mano e, insieme, usciamo nell’aria
gelida.
“Temo che, se continuerò a pensare a tutto
ciò che non si è realizzato, finirò in un buco
nero.”
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Conosco questa sensazione. Ne abbiamo
parlato al Valon, quando gli ho aperto la mia
anima.
Lui sembra non ascoltarmi.
“… E laggiù, sul fondo, sentirò una voce
che mi dice: ‘Niente di tutto questo ha un
senso. L’universo esisteva già miliardi di
anni fa, e seguiterà a esistere dopo che sarai
morto.’ Noi viviamo nella particella microscopica di un enorme mistero, e continueremo a non avere risposta ad alcune delle
domande che ci siamo posti fin dall’infanzia:
esiste la vita su qualche altro pianeta? Se Dio
è buono, perché permette la sofferenza e il
dolore? Questioni del genere. E il tempo continua a passare. Spesso, senza alcuna ragione
apparente, vengo assalito da un terrore
immenso. A volte capita mentre sono al
lavoro, o guido, o sto mettendo a letto i
bambini. Allora li guardo con tenerezza e
paura, e mi chiedo: ‘Che ne sarà di loro?
Adesso vivono in un paese che offre sicurezza
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e tranquillità. Ma sarà ancora così, in
futuro?’
Capisco che cosa vuol dire. E credo che
non
sia
l’unico
ad
avere
quelle
preoccupazioni.
“Ti osservo mentre prepari la colazione o
la cena, e mi accade di pensare che, fra una
cinquantina d’anni o forse meno, uno di noi
due dormirà solo nel letto, piangendo ogni
notte al ricordo di un passato felice. Ormai
cresciuti, probabilmente i nostri figli saranno
lontani. Il sopravvissuto sarà malato,
bisognoso dell’aiuto di estranei.”
Si zittisce, e continuiamo a camminare in
silenzio. Passiamo davanti a un cartello girevole che annuncia una festa di capodanno.
Lui gli tira un calcio violento. Due o tre
passanti ci guardano.
“Scusami. Non volevo che la conversazione
prendesse questa piega. Siamo venuti qui
affinché ti sentissi meglio, sollevata dalle
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pressioni che siamo costretti a subire tutti i
giorni. Poi ho iniziato a bere…”
Sono sgomenta.
Arriviamo nei pressi di un gruppo di
ragazzi e ragazze che chiacchierano allegramente, fra lattine di birra sparpagliate
ovunque. Mio marito, generalmente timido,
si avvicina e li invita a bere.
I giovani lo guardano impauriti. Scusandomi, gli dico che siamo brilli, e che
un’ulteriore dose di alcol potrebbe essere
deleteria. Lo prendo sottobraccio e
proseguiamo.
Da quanto tempo non lo facevo! Era
sempre lui che mi proteggeva, mi aiutava,
risolveva i miei problemi. Oggi sono io che lo
sorreggo, per evitare che cada. Ha cambiato
di nuovo umore: ora sta cantando una canzone che non ho mai sentito.
Quando ci avviciniamo alla chiesa, le campane riattaccano a suonare.
“Che bello!” dico. “È un buon segno.”
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“Io ascolto le campane perché ci parlano di
Dio. Ma Dio ascolta noi? Abbiamo trent’anni
o poco più, e non troviamo più alcun senso
nella vita. Se non ci fossero i nostri figli,
quale sarebbe la ragione che ci spinge a
continuare?”
Vorrei replicare, ma non ho risposte. Finalmente arriviamo al ristorante nel quale ci
giurammo amore eterno. Ceniamo in
un’atmosfera deprimente, nonostante il lume
di candela e il fatto di trovarsi in uno dei
luoghi più belli della Svizzera.
***
Quando mi sveglio, fuori è ormai giorno.
Ho dormito un sonno profondo, senza sogni,
e non mi sono mai svegliata durante la notte.
Guardo l’orologio: le nove.
Mio marito è ancora tra le braccia di Morfeo. Vado in bagno e mi lavo i denti; poi
ordino la colazione per entrambi. Indosso la
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vestaglia e mi dirigo verso una finestra:
ammirerò il paesaggio, fino a quando non
busseranno alla porta con il breakfast.
Alzo lo sguardo: il cielo è costellato di
deltaplani! Atterrano nel parco davanti
all’albergo. A pilotarli devono essere dei
principianti, visto che dietro di loro scorgo
sempre un’altra persona – un istruttore?
Penso che quello sport sia un’autentica follia. Gli uomini sono arrivati al punto di rischiare la vita per sconfiggere la noia e il
tedio?
Atterra un deltaplano, poi un altro. Gli
amici dei piloti filmano tutto, pieni di
allegria. Immagino che, da lassù, si goda una
vista stupenda: le vette, il fondovalle… Provo
una forte invidia verso quegli ardimentosi
incoscienti, perché io non avrei mai il coraggio di salire su uno dei loro trabiccoli.
Bussano alla porta. Il cameriere entra con
un vassoio d’argento, sul quale si staglia un
vaso con una rosa. Ovviamente ci sono anche
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il caffè (per mio marito), il tè (per me), i
croissant caldi, e poi crostini, pane, marmellate di vari gusti, uova, succo d’arancia, i
quotidiani (compreso quello locale) e
quant’altro può rendere felice il risveglio di
una persona.
Sveglio mio marito con un bacio – non
ricordo l’ultima volta che è accaduto. Si desta
di soprassalto, poi sorride. Ci sediamo alla
piccola tavola imbandita e gustiamo le delizie che ci hanno servito. Commentiamo la
sbronza della sera prima.
“Penso che ci volesse. Comunque, non
prendere troppo sul serio le mie elucubrazioni. Il botto dell’esplosione di un pallone
spaventa tutti, ma si tratta solo di aria che
fuoriesce: è inoffensivo.”
Vorrei dirgli che mi sono sentita tremendamente bene scoprendo le sue debolezze,
ma mi limito a sorridere e continuo a sbocconcellare il mio croissant.
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Anche lui nota i deltaplani. Gli brillano gli
occhi. Ci vestiamo e scendiamo per goderci la
mattinata.
Inaspettatamente si ferma alla reception e
comunica che partiremo oggi. Poi chiede di
far portare giù le valigie e paga il conto.
“Sei sicuro di voler partire? Non
potremmo restare fino a domani?”
“Non credo che sia opportuno. La serata di
ieri dovrebbe averci fatto capire che è
impossibile viaggiare a ritroso nel tempo.”
Ci avviamo verso l’ingresso, attraversando
la lunga hall dal soffitto di cristallo. In una
delle brochure dell’hotel, ho letto che i due
edifici del complesso alberghiero si
trovavano sui marciapiedi opposti di una
strada, smantellata per far posto al grande
corridoio trasparente. A quanto pare, il turismo prospera, malgrado non vi siano piste
da sci.
Anziché varcare la soglia, mio marito
svolta a sinistra e raggiunge il portiere.
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“Possiamo fare un volo in deltaplano?”
Possiamo? Io non ho la minima intenzione
di salire su uno di quei trabiccoli.
L’uomo si avvicina a un espositore e gli
porge un opuscolo. “Qui può trovare tutte le
informazioni.”
“E come si arriva lassù in cima?”
Il portiere spiega che non è necessario
arrivare fin lassù: è sufficiente fissare
l’orario, e gli addetti verranno a prenderci in
albergo.
“Non è pericoloso veleggiare tra catene
montuose, senza averlo mai fatto prima?
Esiste qualche tipo di controllo federale o
cantonale
sugli
istruttori
e
sulle
attrezzature?”
“Signora, io lavoro qui da dieci anni e,
almeno una volta all’anno, mi concedo un
volo in deltaplano. Le assicuro che non c’è
mai stato alcun incidente.”
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Pronuncia queste parole sorridendo: probabilmente ha ripetuto questa frase migliaia
di volte.
“Allora, prenotiamo? Si va?”
“Non sono sicura di volerlo fare. Perché
non ci vai da solo?”
“Sì, potrei… E tu potresti aspettarmi nel
parco con la videocamera. Di certo, devo e
voglio fare questa esperienza nella vita. Un
salto nel vuoto mi ha sempre terrorizzato:
devo affrontarlo. Ieri abbiamo parlato del
momento in cui ci adeguiamo alla vita, senza
preoccuparci di saggiare i nostri limiti. Per
me è stata davvero una serata tristissima.”
“Lo so,” dico.
Lui chiede al portiere di fissare un orario.
“Stamane o nel pomeriggio? Nelle ore
pomeridiane, potrete ammirare il tramonto
che si riflette sulla neve tutt’intorno.”
“Stamattina. Adesso,” rispondo io.
“Per una o due persone?”
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“Due, se partiremo subito.” Se non avrò
modo di pensare a quello che sto facendo. Se
non avrò il tempo di sollevare il coperchio
della scatola dalla quale usciranno i miei
demoni – paura dell’altezza, dell’ignoto,
della morte, della vita, delle sensazioni
estreme. Sì, ora o mai più.
“Ci sono voli di venti minuti, di mezz’ora e
di un’ora.”
Nessun volo da dieci minuti? Nessuno.
“Volete lanciarvi da 1350 o da 1800
metri?”
Sto cominciando a pensare di desistere.
Tutte queste informazioni non erano affatto
necessarie. “Scelgo la quota più bassa: continuo a temere quel salto.”
“Tesoro, ma non ha senso. Non succederà
niente… In qualsiasi caso, se dovesse
accadere qualcosa, le conseguenze sarebbero
identiche. Equivalenti a una caduta dal settimo piano di un palazzo, da ventun metri.”
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Il portiere scoppia a ridere. Rido anch’io,
per nascondere i miei sentimenti. “Mi sono
dimostrata ingenua pensando che cinquecento miseri metri avrebbero cambiato il
nostro destino.”
Il portiere telefona a qualcuno.
“Sono disponibili solo lanci da 1350
metri.”
Il mio sollievo è più assurdo della paura
che ho provato alcuni momenti fa.
“Perfetto!”
La macchina sarà davanti all’ingresso
dell’hotel fra dieci minuti.
***
Mi trovo davanti all’abisso, insieme con
mio marito e altre cinque o sei persone, in
attesa di lanciarmi. Durante il percorso fino
a quassù, ho pensato ai miei figli e alla possibilità che perdano entrambi i genitori. Poi
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mi sono resa conto che non voleremo
insieme.
Dobbiamo indossare una tuta termica e un
casco. Che scopo ha quella sorta di elmo? Mi
farà arrivare al suolo con il cranio intatto,
dopo un volo di mille metri, anche se dovessi
sbattere contro una roccia?
“Il casco è obbligatorio.”
Perfetto. Lo infilo – è simile a quello dei
ciclisti che circolano per le vie di Ginevra. È
una faccenda davvero stupida, ma non ho
voglia di discutere.
Guardo davanti a me: prima del baratro,
c’è un declivio coperto di neve. Posso interrompere il lancio dopo pochi passi, scendere
fin quasi al ciglio e risalire a piedi. Non sono
obbligata a saltare.
Io non ho mai avuto paura del volo aereo.
Gli aerei hanno sempre fatto parte della mia
vita. Ma lì siamo tranquillamente seduti in
cabina: il deltaplano, invece… La fusoliera è
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uno scudo che ci trasmette un senso di protezione. E questo significa molto.
Molto? Sì, perlomeno secondo la mia modesta comprensione delle leggi della fisica.
Comunque, ho bisogno di convincermi: mi
serve un’argomentazione migliore.
D’accordo, l’aereo è fatto di metallo. E
trasporta persone, bagagli, motori, tonnellate di carburante infiammabile. Il deltaplano, invece, è leggero, si muove con la
forza del vento, obbedisce alle leggi della
natura, come una foglia che cade dall’albero.
Ecco, la sua poesia è una buona
argomentazione.
“Ti lanci tu per prima?”
“Va bene.” Se mi succede qualcosa, lo
saprà subito e potrà occuparsi dei nostri figli.
Inoltre, si sentirà tremendamente in colpa
per il resto della vita – anche per aver partorito un’idea così malsana. Io, invece, sarò
ricordata come la compagna perfetta, quella
che era sempre accanto al marito, nel dolore
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e nella gioia, nell’avventura e nella
quotidianità.
“È pronta, signora?”
“Sei tu l’istruttore? Mi sembri piuttosto
giovane.
Preferirei
andare
con
il
responsabile: sai, è la mia prima volta.”
“Mi lancio da quando ho sedici anni, l’età
richiesta delle autorità. Ho volato in diverse
località del pianeta, cinque anni fa. Stia tranquilla, signora.”
Il suo tono condiscendente mi irrita. Chi è
più vecchio e ha qualche timore dovrebbe
essere rispettato. Sono sicura che andrà in
giro a raccontare le mie paure.
“Si attenga alle istruzioni. E, quando
cominceremo a correre, non si fermi più. Per
il resto, lasci fare a me.”
Istruzioni. Come se padroneggiassimo la
situazione: il responsabile dei lanci si è limitato a spiegarci che il rischio maggiore
deriva dal fatto di fermarsi durante la
rincorsa. Poi ha aggiunto che, toccato il
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suolo, dovremo corricchiare fino a quando
non avremo la sensazione che i nostri piedi
siano ben saldi sul terreno.
Il mio sogno: i piedi saldamente piantati
sul terreno. Mi avvicino a mio marito e gli
chiedo di lanciarsi per ultimo, così avrà
modo di conoscere il mio destino.
“Vuole portare la videocamera?” dice
l’istruttore. È possibile montarla su una sorta
di antenna in alluminio rigido, lunga circa
mezzo metro.
No, assolutamente no. Prima di tutto, perché non sto facendo quell’esperienza per
mostrarne il video agli altri. Poi, nel caso
riesca a superare il panico, sarei più preoccupata di filmare che di ammirare il paesaggio.
È qualcosa che ho imparato da ragazzina,
durante un’escursione sul Cervino con mio
padre: mi fermavo ogni tre passi per scattare
una foto. A un certo punto, lui si irritò:
“Credi che questa bellezza e quest’imponenza
possano essere contenute in un fotogramma
457/481
di pellicola? Racchiudi le immagini nel tuo
cuore. È più importante che adoperarsi per
mostrare agli altri ciò che si vive.”
Il mio istruttore, dall’alto dell’esperienza
dei suoi ventun anni, comincia a fissare
alcune corde intorno al mio corpo, servendosi di grossi moschettoni di alluminio.
Poi l’imbragatura con il doppio sedile viene
agganciata alla velatura con il trapezio dei
montanti: io starò davanti, lui dietro. Potrei
ancora rinunciare al lancio, ma ormai non ho
più coscienza dei rischi. Ho smarrito la mia
volontà.
Ci mettiamo in posizione: il veterano ventunenne e il responsabile dei lanci discutono
del vento.
L’istruttore si sistema sul seggiolino. Posso
sentire il suo respiro sulla nuca. Sporgo la
testa e mi volto – e vedo una scena che mi
impaurisce: sulla neve bianca campeggia una
fila di deltaplani variopinti, i cui sedili accolgono varie persone. Sull’ultimo, scorgo mio
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marito: indossa il casco da ciclista. Probabilmente si lancerà tre o quattro minuti dopo di
me.
“Pronta? Via! Cominci a correre.”
Resto immobile.
“Su, avanti, corra.”
Gli dico che non voglio volteggiare
nell’aria. Voglio planare dolcemente. Per me,
cinque minuti di volo sono più che
sufficienti.
“Me lo spiegherà quando saremo in cielo.
Ma adesso, la prego, si muova, c’è la fila.
Dobbiamo lanciarci ora.”
Priva di volontà, obbedisco agli ordini. E
comincio a correre verso il baratro.
“Più veloce!”
Accelero: gli stivali fanno schizzare una
poltiglia nevosa tutt’intorno. In realtà, non
sono io la persona che corre, ma un automa
azionato da comandi vocali. Attacco a urlare
– non per la paura o l’eccitazione: è soltanto
l’istinto. Sono di nuovo una donna delle
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caverne, come diceva lo sciamano. Una
donna che ha paura di ragni e serpenti, e
quindi grida. Si grida sempre nella vita, poiché la paura non ci abbandona mai.
All’improvviso, i miei piedi si staccano dal
suolo: stringo forte le corde dell’imbragatura
e smetto di urlare. L’istruttore corre ancora
per un paio di secondi, poi…
Poi stiamo volando.
Ora è il vento ad avere il controllo delle
nostre vite.
***
Durante il primo minuto di volo, non
apro gli occhi – non voglio avere alcuna cognizione dell’altezza, delle montagne, del pericolo. Mi sforzo di immaginarmi a casa, in
cucina, mentre narro ai miei figli un episodio
di questo viaggio, qualcosa che riguarda la
cittadina, o la camera d’albergo. Non potrò
certo raccontargli che, la prima sera, il loro
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padre si è ubriacato ed è crollato sul marciapiedi mentre tornavamo in albergo per
andare a dormire. Né posso dirgli che, dopo
aver vinto la paura, ho volato in deltaplano:
di sicuro, vorrebbero fare la stessa cosa – o
peggio, costruirebbero una “macchina
volante” e si lancerebbero dal primo piano di
casa.
A quel punto, mi rendo conto che sto comportandomi da stupida: perché tenere gli
occhi chiusi? Nessuno mi ha costretto a lanciarmi. “Le assicuro che non c’è mai stato
alcun incidente,” ha detto il portiere.
Apro gli occhi.
E quel che vedo – e quel che sento – è
qualcosa che non potrò mai descrivere appieno. Ecco la valle che collega i due laghi, con
la cittadina nel mezzo. Volo libera nello
spazio, librandomi in cielo, in un silenzio
quasi perfetto: il deltaplano disegna circoli
lenti, sorretto e spinto dal vento. Ora le
montagne non hanno più un aspetto
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minaccioso: sono delle amiche vestite di
bianco, illuminate da un sole splendente.
Mi rilasso: le mie mani allentano la presa
sulle corde. Spalanco le braccia, come se
fossero le ali di un uccello. L’istruttore si
accorge del mio cambiamento poiché, invece
di continuare la discesa, inizia a salire, sfruttando le correnti d’aria calda.
Scorgo un’aquila: naviga nel nostro
medesimo oceano, muovendo appena le ali
per controllare il suo misterioso volo. Dove
sta andando? Forse da nessuna parte: vuole
soltanto divertirsi, godersi l’infinita bellezza
che la circonda…
Ho l’impressione di comunicare telepaticamente con l’aquila. L’istruttore decide di
seguirla: è la nostra guida, adesso. Ci indica
il percorso verso il cielo – verso la porta
dell’eternità. Provo le stesse sensazioni della
corsa sulla riva del lago, a Nyon, quando
avrei voluto continuare finché il mio corpo
non fosse stramazzato sul terreno.
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L’aquila mi parla: “Vieni. Tu sei il cielo e la
terra, il vento e le nuvole, la neve e i laghi.”
Mi sembra di essere nel ventre di mia
madre, serena e protetta, e di percepire il
mondo per la prima volta. Fra poco nascerò e
mi trasformerò in un essere umano che cammina sul suolo terrestre. Adesso, però, sono
ancora in un rifugio accogliente, dove niente
mi angustia o mi impedisce di muovermi.
Sono libera.
Sì, sono libera. L’aquila non mi ha
mentito: sono le montagne e i laghi. Non ho
né passato né presente né futuro. Sto
scivolando nell’Eternità.
Per un attimo, mi chiedo se tutti i miei
compagni di volo provano queste sensazioni:
ma ha qualche importanza? Non voglio
pensare agli altri. Sto fluttuando nell’Eternità. La natura mi parla come se fossi la sua
figlia prediletta. La montagna mi sussurra:
“Tu possiedi la mia forza.” I laghi mi mormorano: “Tu hai la nostra pace e la nostra
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calma.” Il sole mi dice: “Brilla come me.
Dimentica il tuo corpo. E ascolta.”
Allora comincio a sentire quelle voci
interiori che, da troppo tempo, erano soffocate dai pensieri compulsivi, dalla solitudine,
dai terrori notturni, dal timore dei cambiamenti e dalla paura dell’immobilità – il
terrore che tutto restasse com’era. Più
saliamo e più mi allontano da me stessa.
Mi ritrovo in un altro mondo, dove le cose
si compenetrano in modo perfetto. Lontano
da quella vita fatta di incombenze, desideri
irrealizzabili, sofferenze e amarezze. Non ho
niente e sono tutto.
L’aquila comincia a planare verso la valle.
Con le braccia spalancate, imito il movimento delle sue ali. Se qualcuno mi vedesse
in questo momento, non saprebbe chi sono:
adesso sono luce, spazio e tempo. Mi muovo
in un altro universo.
L’aquila mi dice: “Ecco, questa è
l’Eternità.”
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Nell’Eternità non esistiamo: siamo solo
uno strumento della Mano che ha creato le
montagne, la neve, i laghi e il sole. Attraverso
il tempo e lo spazio, sono tornata all’attimo
in cui la materia è stata creata e le prime
scintille sono saettate in ogni direzione. Sì,
voglio servire la Santa Mano.
Provo mille sentimenti, le idee si formano
e si dissolvono. La mia mente ha abbandonato il corpo e si è fusa con la natura. Tra
poco, l’aquila e io scenderemo nel parco di
fronte all’albergo, ed è qualcosa che mi rattrista. Ma perché preoccuparsi di quello che
accadrà nel futuro? Ora sono qui, in un
ventre materno che racchiude il nulla e il
tutto.
Il mio cuore riempie ogni angolo dell’universo. Vorrei trovare le parole per spiegare
ciò che sento, per fissarlo nella mia
memoria: passa un istante, e ogni mio pensiero svanisce – e ciò che era vuoto torna a
essere colmo.
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Il mio cuore!
Intorno a me, prima scorgevo un universo
gigantesco: adesso tutto è racchiuso in un
minuscolo punto del mio cuore, un punto
che è pronto a espandersi all’infinito, occupando ogni spazio. È uno strumento. Una
benedizione. Mi impongo di essere lucida, di
capire almeno una piccola parte delle mie
sensazioni, ma lo Spirito del Potere è più
forte.
Lo Spirito del Potere: la sua essenza. È la
percezione dell’Eternità a offrirmi una misteriosa sensazione di potere. Posso tutto,
anche cancellare la sofferenza del mondo.
Sto volando e parlando con gli angeli,
ascoltando voci e rivelazioni che presto
dimenticherò – purtroppo –, ma che in
questo momento sono reali come l’aquila che
mi precede. Non sarò mai in grado di spiegare ciò che sento, neppure a me stessa: è
davvero importante? Quello è il futuro, e io
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non ci sono ancora arrivata: vivo nel
presente.
Di nuovo, la razionalità scompare dalla
mia mente: sono felice. Mi inchino al mio
cuore gigantesco, colmo di luce e potere:
esso può sopportare ciò che è avvenuto nel
passato e quello che accadrà nel futuro, sino
alla fine dei tempi. Ho la certezza che il suo
amore trionferà.
Adesso percepisco dei suoni terreni – un
latrare di cani. Ci stiamo avvicinando al
suolo e, pian piano, la realtà si riavvicina. Fra
poco poserò i piedi sul corpo celeste che mi
ospita, ma so che con il mio cuore – il mio
immenso cuore – ho conosciuto tutti i
pianeti, tutte le stelle e tutti i soli.
Vorrei rimanere in questa dimensione, ma
il mondo reale si sta materializzando. A
destra, scorgo il grande albergo. I laghi sono
ormai nascosti dai boschi e dalle montagne.
Mio Dio, non posso continuare a esistere
qui, per sempre?
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“È impossibile,” risponde l’aquila. Ci ha
guidato fino al parco, dove atterreremo fra
qualche istante, e adesso si congeda: ha
trovato una corrente ascensionale e risale in
cielo, senza un battito d’ali, sfruttando il
vento. “Se tu rimanessi in questa condizione,
dovresti abbandonare il mondo,” mi dice.
“E allora?” Comincio a parlare con l’aquila,
ma mi accorgo che agisco in modo razionale,
tentando di discutere. “Come potrò continuare a vivere nel mondo dopo aver sperimentato l’Eternità?”
“Impegnati per essere te stessa,” replica,
ma le sue parole sono quasi impercettibili.
Poi si allontana nel cielo, ed esce dalla mia
vita, per sempre.
Avverto un sussurro: l’istruttore mi
ricorda che, nel momento in cui i miei piedi
toccheranno il suolo, dovrò corricchiare.
Vedo il prato sotto di me. Quello che prima
desideravo tanto – raggiungere il terreno
solido –, ora rappresenta la fine di qualcosa.
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Di che cosa, esattamente?
I miei piedi toccano pesantemente la
superficie erbosa. Corro per qualche
secondo, mentre l’istruttore controlla le
oscillazioni della velatura. Scende e mi libera
dall’imbragatura. Mi guarda. Io fisso il cielo:
scorgo soltanto alcuni deltaplani colorati che
si avvicinano al punto in cui mi trovo. Mi
accorgo di star piangendo.
“Si sente bene?”
Capisco che, anche se dovessi ripetere
quell’esperienza, non vivrei più le medesime
sensazioni.
“È tutto a posto?”
Annuisco. È impossibile che comprenda
ciò che ho vissuto.
E invece lo capisce. E mi dice che, almeno
una volta all’anno, gli accade di volare con
persone che hanno la mia stessa reazione.
“Quando gli chiedo che cos’hanno provato,
non riescono a spiegarlo. È capitato anche ad
alcuni miei amici: sono entrati in una sorta
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di trance e si sono ripresi solo al momento
dell’atterraggio, senza ricordare niente.”
Per me è completamente diverso.
Comunque,
non
ho
intenzione
di
spiegarglielo.
Lo ringrazio per il suo atteggiamento soccorrevole. Sono tentata di dirgli che mi
piacerebbe rivivere in ogni istante della mia
vita ciò che ho provato lassù. Poi mi dico che
il volo è finito, e non sono obbligata a dare
spiegazioni a nessuno. Mi allontano e vado a
sedermi su una panchina del parco, aspettando mio marito.
Scoppio di nuovo in lacrime. Quando
atterra, mi raggiunge. Un enorme sorriso
illumina il suo volto: è stata un’esperienza
fantastica. Continuo a piangere. Lui mi
abbraccia e mi conforta, dicendomi che è
tutto passato, che non avrebbe dovuto obbligarmi a fare qualcosa contro il mio volere.
“Non è come pensi,” replico. “Non dire
niente, per favore. Fra poco mi sarò ripresa.”
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Alcuni addetti vengono a recuperare le
tute termiche e i caschi. Io mi comporto
come un automa ma, pian piano, ogni gesto
mi riporta gradualmente in quel mondo che
definiamo “reale”, nel quale non vorrei assolutamente stare.
Ma non ho scelta. Posso soltanto chiedere
a mio marito di lasciarmi sola per qualche
minuto. Mi domanda se preferisco entrare
nell’albergo, perché fa freddo. “No, sto bene
qui.”
Rimango su quella panchina per quasi
mezz’ora, piangendo – lacrime benedette,
che purificano la mia anima. Poi capisco che
devo tornare definitivamente nel mondo.
Mi alzo e rientro in albergo. Carichiamo le
valigie in auto e ripartiamo per Ginevra.
Durante il viaggio, ascoltiamo la radio –
almeno non siamo obbligati a chiacchierare.
A poco a poco, un terribile mal di testa si
impadronisce di me. So che cosa sta
accadendo: il sangue riprende a circolare
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forte nel cervello, nelle aree dove risiedono i
centri della memoria. La sublimazione dei
ricordi è sempre accompagnata dal dolore.
Adesso nell’abitacolo regna il silenzio: lui
non avverte il bisogno di chiarire le sue affermazioni di ieri, proprio come io non devo
spiegare ciò che ho sperimentato oggi.
Il mondo è perfetto.
***
Manca solo un’ora alla fine dell’anno.
Poiché l’amministrazione municipale ha
deciso di tagliare le spese per la tradizionale
festa di capodanno, i fuochi d’artificio
saranno drasticamente ridotti. Meglio così:
ho visto così tanti spettacoli pirotecnici che
non mi suscitano più le medesime emozioni
di quando ero una bambina.
Non posso dire che proverò nostalgia per
questi 365 giorni. Ci sono stati giorni ventosi, tuoni e fulmini; i marosi hanno quasi
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rovesciato la barca della mia vita ma, alla
fine, sono riuscita ad attraversare l’oceano e
approdare sulla terraferma.
Terraferma? No, in nessun rapporto è concepibile. È proprio la mancanza di sfide, la
sensazione che non ci siano più novità, a distruggere l’unione di due persone. È indispensabile che uno rappresenti sempre una
sorpresa per l’altro.
Tutto comincia con una grande festa.
Arrivano gli amici, l’officiante ripete per
l’ennesima volta le frasi studiate per il primo
matrimonio che ha celebrato – “Dovete edificare la vostra casa sulla roccia, non sulla sabbia” –, gli invitati tirano il riso. La sposa lancia il bouquet: le nubili la invidiano segretamente, mentre le maritate sanno che sta
intraprendendo un cammino assai diverso da
quello descritto nelle favole.
E poi, a poco a poco, la realtà si impone. E
quasi tutte si rifiutano di accettarla. Vorrebbero che il compagno fosse sempre
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esattamente l’individuo con il quale hanno
scambiato la fede sull’altare. Come se si
potesse fermare il tempo.
No, è impossibile. Inaccettabile. La
saggezza e l’esperienza non trasformano
l’uomo, proprio come il tempo. L’unica cosa
che può trasformarlo è l’Amore. Mentre
veleggiavo nel cielo azzurro, ho capito che il
mio amore per la vita, per l’universo, era più
forte e più potente di tutto.
***
Mi
ricordo di un sermone che un
giovane pastore pressoché sconosciuto
scrisse nell’Ottocento, analizzando la prima
epistola di San Paolo ai Corinzi e le diverse
sfaccettature che l’Amore rivela a mano a
mano che cresce. Egli ci dice che molti dei
testi spirituali di oggi sono rivolti solo a una
parte dell’uomo.
Offrono Pace, ma non parlano di Vita.
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Discutono la Fede, però dimenticano
l’Amore.
Parlano di Giustizia, però non citano la
Rivelazione – quella che ho avuto lanciandomi con il deltaplano a Interlaken, e che mi
ha permesso di emergere dal buco nero che
io stessa avevo scavato nella mia anima.
Mi auguro di possedere sempre la lucidità
per capire che solo l’Amore Vero è in grado
di vivificare gli amori terreni. Allorché
doniamo ogni parte di noi all’altro, non
abbiamo più nulla da perdere. E allora scompaiono la paura, la gelosia, il tedio e la
routine – e resta solo una luce immateriale a
colmare un vuoto che non ci spaventa, ma ci
avvicina all’essere amato. Una luce che muta
continuamente, e quel mutamento la rende
splendida e affascinante e ricca di sorprese –
non sempre sono le sorprese desiderate, tuttavia finiamo per accettarle volentieri.
Abbondare nell’Amore significa abbondare
nella Vita.
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Amare per sempre significa vivere per
sempre. La Vita Eterna è indissolubilmente
legata all’Amore.
Ma perché vogliamo vivere in eterno? Perché desideriamo trascorrere ogni giorno
della nostra vita con la persona amata? Perché ci impegniamo per stare accanto a qualcuno degno del nostro amore, a qualcuno che
sappia amarci come pensiamo di meritare?
Perché vivere significa amare.
Perfino l’amore per un animale – un cane,
per esempio – può giustificare la vita di un
essere umano. Smarrendo il proprio legame
d’amore con la vita, l’uomo perde anche la
ragione per continuare a vivere.
Dobbiamo sempre sforzarci di cercare
l’Amore, giacché esso ci porterà anche le
altre cose.
In questi dieci anni di matrimonio, ho
avuto quasi tutto ciò che una donna può
desiderare e ho sofferto per pene immeritate.
Ebbene, guardando al passato, posso dire
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che soltanto in pochi momenti – perlopiù
molto brevi – ho vissuto quello che reputo
l’Amore Vero: quando ho visto nascere i miei
figli, quando mi sono seduta mano nella
mano con mio marito a contemplare le Alpi o
il Jet d’Eau. Ma sono questi rari momenti
che giustificano la mia esistenza, perché mi
dànno la forza di proseguire nel mio cammino e rallegrano i miei giorni – per quanto
io abbia fatto di tutto per renderli tristi.
Vado alla finestra e osservo la città. Anche
se la neve prevista non è arrivata, penso che
questo sia uno dei miei capodanni più
romantici: stavo morendo, e l’A-more mi ha
resuscitato. L’Amore: la sola cosa che
sopravvivrà al genere umano.
L’Amore. Gli occhi mi si riempiono di lacrime. Nessuno può costringersi ad amare – e
tanto meno può obbligare qualcun altro a
farlo. Si può soltanto guardare l’Amore,
innamorarsene e imitarlo.
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Non esiste altro modo per imparare ad
amare: non ci sono formule magiche o
pratiche misteriose. Dobbiamo amare gli
altri, noi stessi, i nemici – e allora nella nostra vita non mancherà nulla. Se vedremo in
televisione tutte le tragedie del mondo, ma
scopriremo in esse una particola d’Amore,
capiremo che l’umanità ha imboccato la via
della salvezza. Perché l’Amore genera
Amore.
Colui che sa amare, ama e gioisce con la
Verità, non la teme, perché sa che essa redime ogni colpa. Bisogna cercare la Verità
senza preconcetti o intolleranze, con innocenza e umiltà: ciò che troveremo, ci
ripagherà.
Forse “sincerità” non è il termine più
appropriato per una certa peculiarità
dell’Amore, ma non riesco a trovarne altri. Di
sicuro, non mi sto riferendo alla schiettezza
che umilia il prossimo: l’Amore Vero non
vuole mai che si rivelino le debolezze degli
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altri per schernirli, ma pretende che nessuno
taccia le proprie e chieda aiuto quando è in
difficoltà.
Penso con tenerezza ai König. Involontariamente, mi hanno riavvicinato a mio marito
e alla mia famiglia. Spero che siano felici in
quest’ultima notte dell’anno e che, alla fine,
la mia storia con Jacob abbia riunito anche
loro.
Sto forse tentando di giustificare il mio
adulterio? No. Ho soltanto cercato la Verità
– e l’ho trovata. Mi auguro che abbiano egual
fortuna tutti coloro che hanno vissuto
un’esperienza analoga.
Dobbiamo essere in grado di amare con
maggior consapevolezza.
Il nostro obiettivo nel mondo è: imparare
ad amare.
La vita ci offre migliaia di opportunità per
imparare. Ogni uomo e ogni donna, in tutti i
momenti della vita, ha sempre un’opportunità di affidarsi all’Amore, di consegnarsi alla
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sua grazia. La vita non è un lungo giorno di
festa, bensì un apprendistato senza fine.
La cui lezione più importante è: imparare
ad amare.
Amare sempre meglio. Perché spariranno
le lingue, le profezie, i paesi, la solida Confederazione Elvetica, Ginevra, la mia strada, i
pali della luce, la casa in cui abito, i mobili
del salotto… E scomparirà anche il mio
corpo.
Soltanto una cosa resterà impressa per
l’eternità nell’anima dell’Universo: il mio
amore. Nonostante gli errori, le scelte che
hanno fatto soffrire gli altri e i momenti nei
quali ho pensato che l’amore non esistesse.
***
Mi
allontano dalla finestra. Chiamo i
bambini e mio marito. Dico che, secondo la
tradizione, dobbiamo salire sul divano
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davanti al caminetto e, a mezzanotte, scendere con il piede destro.
“Amore, sta nevicando!”
Ritorno di corsa alla finestra e guardo
verso un lampione. Sta nevicando davvero!
Com’è possibile che non lo abbia notato?
“Possiamo uscire?” chiede uno dei
bambini.
“Non ancora. Prima dobbiamo salire sul
divano, mangiare dodici acini d’uva e conservare i semi per avere prosperità tutto l’anno:
è quello che ci hanno insegnato i nostri
antenati.”
Un passo con il piede destro, e poi
usciremo a festeggiare. Sono certa che l’anno
nuovo sarà meraviglioso.
Ginevra, 30 novembre 2013
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