IL MARGINE ISSN 2037-4240 Mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero Anno 32 (2012) n. 10 IL MARGINE Matteo Prodi 10 3 DICEMBRE 2012 Dalla Gaudium et Spes alla Caritas in Veritate. Continuità o discontinuità nella recezione del Concilio? Maurizio Mannocci Galeotti 12 Per una pastorale della finitudine Alberto Mandreoli 22 Soldaten. Le voci dei militari tedeschi durante la seconda guerra mondiale Paolo Grigolli 29 Diario cambogiano 35 Indici dell’annata XXXII (2012) Confessioni disperate di un antiberlusconiano sfinito Matteo Prodi DALLA GAUDIUM ET SPES ALLA CARITAS IN VERITATE Alberto Mandreoli SOLDATEN Paolo Grigolli Maurizio Mannocci Galeotti PER UNA PASTORALE DELLA FINITUDINE DIARIO CAMBOGIANO INDICI DELL’ANNATA XXXII (2012) Ricordo di aver capito chi era Silvio Berlusconi vedendo Il Portaborse (1991): Nanni Moretti, nei panni del giovane parlamentare socialista rampante, urlava compiaciuto all’interlocutore qualcosa come “ma non sai che gli abbiamo dato in mano il sistema televisivo del Paese?”. Ho volantinato contro il Biscione nel 1994 (ricordo lo slogan: quando ha morso è tardi) e poi nel 1996, nel 2001, nel 2006, nel 2008 e in tutti gli appuntamenti intermedi, referendari e locali. Ho partecipato alle manifestazioni in difesa della legalità e della libertà di stampa, ai comitati Prodi, a quelli per l’Ulivo e quelli per la Costituzione, ai Girotondi, a Se non ora quando. Ho scritto articoli sulle riviste e lettere sui giornali, ho invocato la giustizia divina e ho diffuso vignette. Ho raccolto firme per petizioni e referendum, ho firmato appelli ai vescovi e al capo dello Stato, ho ingoiato Dini e D’Alema, ho votato per Rutelli, ho fatto il tifo per Fini e ho sostenuto Monti, e per questo me ne sono sentite di tutti i colori da quanti mi spiegavano che bisognava costruire la Vera Alternativa (talmente vera che nel 2008 non riuscì nemmeno ad entrare in Parlamento). A questo punto la conclusione è ovvia: se Berlusconi può tornare, e può tornare per vincere, è colpa mia. Esagero? Forse sì, esagero, non vedo perché avrei dovuto fare diversamente, a qualcosa sarà pure servito… Ma chi crede che il ritorno del Seduttore sia una sciagura, sappia che quelli che finora hanno cercato di impedirlo erano le persone sbagliate. Serve che anche altri, che finora hanno taciuto, alzino la testa, parlino di libertà, costruiscano la giustizia. Il Margine 32 (2012), n. 10 di non voler essere tra quei profeti di sventura che vedono nel mondo solo fatti e volontà contrarie al Vangelo e alla Chiesa; poi sottolineava di dover essere dentro quella precisa epoca storica per poter presentare la dottrina certa, in modo da rispondere alle esigenze di quel preciso tempo. Dalla Gaudium et Spes alla Caritas in Veritate «Bisognerà attribuire molta importanza a questa forma e, se necessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione: e si dovrà ricorrere ad un modo di presentare le cose che più corrisponda al magistero, il cui carattere è prettamente pastorale»1. Continuità o discontinuità nella recezione del Concilio? MATTEO PRODI U n ipotetico visitatore laico di scaffali vaticani, che si trovasse a cercare qualche parola utile per la sua vita nei documenti della Chiesa Cattolica, potrebbe trovare non troppo distanti, come collocazione, la costituzione pastorale del Vaticano II, Gaudium et Spes (GS), e l’enciclica sociale di Benedetto XVI, Caritas in Veritate (CV). Sappiamo tutti che tra la merce esposta scattano in noi una certa fretta di consumare e una radicale attrazione verso l’esteriorità del prodotto. Quindi potrebbe accadere che il laico visitatore abbia un senso di attrazione maggiore verso le parole del Concilio, umane e solari, piuttosto che per quelle di papa Ratzinger, di derivazione chiaramente biblica ed evocatrici di un problema filosofico, oggi praticamente insolubile, come la verità. Ammettiamo, però, che il nostro amico decida di leggerle entrambe; e, partendo dalle loro parti iniziali, decida di investigare sulla profonda intenzione dei testi e sulle preoccupazioni di fondo dei due autori. Due dati potrebbero essere evidenziati: GS si definisce come costituzione pastorale e parte dalla descrizione sintetica ma efficace della condizione degli uomini; CV si preoccupa di rilanciare la sfida della verità sia all’interno della Chiesa sia verso il mondo intero. Occorre, quindi, evidenziare qualche dato storico. D’altra parte occorre, però, ricordare che il tema della verità è una battaglia che da molti anni la Chiesa sta combattendo per vincere la secolarizzazione derivante dalla modernità. L’uomo moderno ha impostato la sua vita sulla ragione; la Chiesa lo ha seguito, cercando sempre di più di mostrare come essere credenti, avere fede sia assolutamente ragionevole. Il problema maggiore arriva quando la post-modernità abbandona la centralità della ragione, che finisce per perdere ogni considerazione e ogni privilegio. Il nemico si è dissolto. Ma l’esercito rimane schierato, combattendo contro fantasmi, credendo di giocare a nascondino con chi è già al caldo del suo nuovo focolare, il gradimento, l’estetica individuale; dovremmo dire, la felicità. Va detto che l’attuale pontefice avverte il problema della ragione come davvero decisivo. Ascoltando il suo magistero, quindi, si avverte il costante tentativo di recuperare l’identità cristiana all’interno di un ragionamento sulla cultura: «il fattore dominante nel discorso pubblico di Benedetto XVI è l’assolutizzazione non già della fede cristiana, consapevolmente situata in un contesto pluralista, ma di una ragione (o meglio della ragione) assunta come organo unico preposto alla conoscenza della verità»2. Nelle sue parole si finisce per leggere un giudizio negativo su ogni pensiero che non sappia cogliere l’unica verità, che è appunto depositata nella Rivelazione3. Da dove arrivano queste intenzioni di fondo? 1 Il principio pastorale del Concilio Vaticano II è stato espresso con assoluta chiarezza da Giovanni XXIII, soprattutto nel discorso di apertura del Concilio, l’11 ottobre 1962. Il papa buono, quel giorno, dapprima affermava 3 Giovanni XXIII, Discorso di apertura del Concilio, in Enchiridion Vaticanum 1, *55. P. Stefani, Fede nella Chiesa?, Morcelliana, Brescia, 2011, p. 183. 3 «Siccome la verità è per definizione una e siccome il messaggio cristiano è vero, i due hanno contratto in linea di principio, un matrimonio indissolubile» (P. Stefani, Fede nella Chiesa?, p. 183). 2 4 «In definitiva, la volontà di assegnare un ruolo strategico a un’esausta difesa di una determinata concezione della ragione consegna l’attuale magistero all’incomprensione degli apporti più qualificanti della cultura moderna e all’estraneità del mondo reale»4. È vero che il mondo attende la Verità. Ma la Verità che il mondo attende oggi non è una verità ridotta a rappresentazione esaustiva su ogni realtà che ci circonda, è piuttosto una verità che sappia porre in relazione le varie anime che compongono la nostra umanità, anime che hanno il diritto e devono sentire il dovere di cercare il bene comune, anche a partire da una concezione della legge naturale capace di accogliere i contributi di tutti5. È, quindi, una partenza in salita quella che la CV offre al nostro laico visitatore: tutto ruota intorno alla parola “verità”, che nel paragrafo iniziale ricorre per ben undici volte. Una battaglia già combattuta Presentate così queste due impostazioni sembrano appartenere a due mondi diversissimi, distanti, incomunicabili. La storia della redazione di testi conciliari e lo studio della loro recezione, in realtà, li collegano tra loro, anche se in maniera dinamica e certamente dialettica. Infatti il principio pastorale ed ecumenico, che avrebbe potuto e dovuto essere il centro dei lavori dell’assemblea, viene smarrito perché divampa la contrapposizione tra il traditum (ciò che viene trasmesso) e i tradentes (coloro che trasmettono); ma l’unico risultato è che i destinatari sono rimasti nel dimenticatoio. In particolare con Paolo VI, la Chiesa diviene l’argomento principale del Concilio6; ma, ancor prima, si deve ricordare che già nel dicembre del 1962 la programmazione dei lavori viene gestita in modo tale da generare una sua separazione dalla recezione del principio pastorale ed ecumenico7. Gli anni successivi non consentono a tale fondamento di riprendere il posto centrale che aveva in mente Giovanni XXIII: «la recezione sotterranea di tale principio e la sua graduale esplicitazione da parte del concilio non possono più confluire sui lavori compiuti nel loro insieme (…): la pastoralità e le sue implicazioni restano quindi nascoste nel nuovo ‘spazio’ spirituale e pastorale dischiuso dall’assemblea e attendono la loro recezione postconciliare»8. La frattura tra GS e CV è, quindi, una frattura che già al Concilio era presente; si può dire che da sempre è presente nella famiglia di Gesù9. Non ci deve stupire, allora, la presenza sugli scaffali della Chiesa di due impostazioni così diverse in due documenti che sono separati da meno di cinquant’anni. In ogni caso, è bene non cercare convergenze a tutti i costi; le due impostazioni sono ben chiare. La GS, ad esempio, riporta una nota ben precisa al titolo per riaffermare il carattere pastorale di tutto il documento; ed anche lo stesso titolo è stato lungamente discusso in aula. La CV conclude la sua introduzione ribadendo che «la Chiesa la [la verità] ricerca, l’annunzia instancabilmente e la riconosce ovunque si palesi. Questa missione di verità è per la Chiesa irrinunciabile. La sua dottrina sociale è momento singolare di questo annuncio: essa è servizio alla verità che libera»10. Occorre dire che entrambi i documenti contengono elementi che sono comuni: la GS non è esente dall’aspetto dottrinale, come la CV è attenta al ruolo nel mondo della Chiesa, anche se la pone sempre al centro di questo processo di ricomposizione della verità. Gli esiti dei due documenti Dobbiamo, però, riflettere sui diversi esiti che le due impostazioni raggiungono: la GS desidera mostrare come la vita vissuta da tutti gli uomini è esattamente la stessa condotta dai discepoli di Cristo. Posto questo principio, solo dopo emerge la figura di Chiesa che ne consegue, cioè una famiglia che 8 C. Theobald, La recezione del Vaticano II, p. 286. Si pensi anche solamente agli atteggiamenti di Gesù: afferma di essere venuto per i peccatori, ma anche che non ama il mondo (es. Gv 8,23; 1 Gv 2,15). 10 CV 9. Il testo prosegue: «aperta alla verità da qualunque sapere provenga, la dottrina sociale della Chiesa l’accoglie, compone in unità i frammenti in cui spesso la ritrova, e la media nel vissuto sempre nuovo della società degli uomini e dei popoli». 9 4 P. Stefani, Fede nella Chiesa?, p. 184. Cfr. R. Mancini, La laicità come metodo, Cittadella Editrice, 2009. 6 Cfr. C. Theobald, La recezione del Vaticano II, 1, EDB, Bologna 2011, p. 284. 7 Cfr. C. Theobald, La recezione del Vaticano II, p. 285. 5 5 6 cerca di fare spazio a tutti, proprio condividendo il mistero dell’esistenza. E il desiderio del Concilio viene, di conseguenza espresso in questi termini: «esso ha presente perciò il mondo degli uomini ossia l’intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive; il mondo, che è teatro della storia del genere umano e reca i segni degli sforzi suoi, delle sue sconfitte e delle sue vittorie, il mondo che i cristiani credono creato e conservato nell’esistenza dall’amore del Creatore…»11. La CV, invece, rimane nel solco della nuova evangelizzazione lanciata da Giovanni Paolo II, che si è sempre più caratterizzata attraverso elementi ecclesiologici, organizzativi e gerarchici. Una Chiesa, quindi, che, davanti alla crisi del mondo moderno, soprattutto occidentale, si sente chiamata a compiere «una trasformazione in senso cristiano delle sue strutture sociali e culturali e delle sue istituzioni politiche ed economiche»12: viene proposta «la dottrina sociale come elemento essenziale di evangelizzazione. La dottrina sociale della Chiesa è annuncio e testimonianza di fede. È strumento e luogo imprescindibile di educazione ad essa»13. Ma è l’esito pratico quello che può essere più urgente mettere a tema: la GS parte dall’umanità e insieme a essa cerca di trovare strade per l’umanizzazione della vita, portando il proprio contributo a partire dalla fede; la Chiesa della CV parte da se stessa, dalla sua dottrina per arrivare ad una umanità credente, per riportare l’umanità a credere. Si pone, quindi, il dilemma tra fede dogmatica (cioè i contenuti della fede) e fede dialogica, come ha posto in evidenza Vito Mancuso: «Definisco dialogico il cristianesimo che concepisce la verità del mondo e della vita come più grande della propria identità, perché pensa la verità non in termini di statica dottrina ma come processo dinamico e relazionale sempre in atto, come logica della vita concreta . Rispetto a tale verità concreta della vita, la propria identità cristiana è interpretata come metodo per immettere più armonia e più organizzazione nel processo vitale. Chi vi aderisce desidera essere prima di tutto e alla fine di tutto un uomo, e interpreta il senso del suo essere cristiano come finalizzato a essere uomo nel modo più autentico possibile»14. Emerge un grandissimo rischio, per quanto riguarda i problemi politici ed economici: fornire soluzioni astratte e astoriche. Suonano, quindi, stonate e fuori luogo le parole di elogio del Concilio Vaticano II presenti in CV 11, frutto più di una necessità retorica piuttosto che di una convinta impostazione e prassi pastorale. Due auspicabili ritorni Non è necessario che il lettore scelga quale modello di rapporto Chiesamondo desideri vedere implementato; né è possibile risolvere la questione evidenziando la maggiore autorevolezza di una costituzione conciliare rispetto ad una enciclica. È positivo comunque il pluralismo teologico e le variegate riflessioni che possono essere prodotte anche oggi. Vale la pena, però, auspicare il ritorno decisivo di due “fattori”: il primo è la categoria “segni dei tempi”, proposta con grandissima forza ed efficacia dalla Pacem in Terris; il secondo è lo studio, l’approfondimento di GS 44, intitolato L’aiuto che la chiesa riceve dal mondo contemporaneo. Entrambi hanno le radici nella consapevolezza che la storia è il luogo teologico decisivo per la comprensione del cammino che l’umanità deve compiere per accogliere la vocazione da parte di Dio. Entrambi mettono l’accento sulla necessità di creare un circolo virtuoso nell’interpretare il Vangelo, confrontandolo sempre con l’esistenza concreta degli uomini nella loro storia. Da una parte, «l’esercizio pratico, che consiste nel non smettere mai di tradurre ciò che la Chiesa crede e celebra in termini di comunicazione e nel sensibilizzare i cristiani e le loro comunità su quanto si gioca sulla frontiera delle nostre prospettive interne ed esterne, è il miglior servizio che la fede e la Chiesa possono rendere a una cultura laica»15. Ma dall’altra, la frequentazione assidua e amorevole della Chiesa delle piazze del mondo le consentirà di imparare da forme concrete di piena realizzazione dell’umano, per comprendere sempre meglio il Vangelo e il necessario suo adattamento alle culture in cui l’uomo vive. 11 GS 2 (Enchiridion Vaticanum 1, 1321). P. Boschini, Verso il Sinodo dei Vescovi. Quale evangelizzazione?, in “Missione Oggi”, 109 (2012), n. 5, pp. 35-38. 13 CV 15. 14 V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, Garzanti, Milano, 2011, p. 439. 12 7 15 8 C. Theobald, La recezione del Vaticano II, p. 648. Notiamo che, nel magistero post-conciliare, il riferimento ai segni dei tempi è anch’esso puramente formale e largamente episodico; ancor più difficile reperire attenzioni a GS 44, sia nella lettera che nella sostanza. Occorre, quindi, tornare alla pratica dei segni dei tempi, alla loro individuazione, per una pastoralità secondo il desiderio di Giovanni XXIII e del Concilio, come si esprime nella GS e forse ancor più nella dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae. Tale rilettura dei segni dei tempi deve avere il suo radicamento fondamentale nella Scrittura, e in particolare nel modus agendi dell’uomo Gesù, affinché la comprensione di tali segni rifluisca nella stessa interpretazione biblica. Si tratta, quindi, di mettere in campo un doppio ascolto: i discepoli del Cristo ascoltano i destinatari del Vangelo nella stessa maniera e con la stessa intensità con cui ascoltano le parole rivelate16. L’auspicio, che queste parole vorrebbero lasciare, potrebbe sembrare paradossale: invocherei davvero la messa al centro delle parole carità e verità, ma restituendo loro l’ordine con cui ce le consegna la lettera agli Efesini: verità nella carità. Ricercare la verità può essere davvero una parte della cura dell’uomo, di ogni uomo, una spinta verso la felicità dell’individuo e della comunità, capendo i bisogni e le aspettative delle persone (verità), riempiendo la loro vita di bene e di pienezza come Gesù ci ha insegnato (carità). È questa, crediamo, la via che la Dottrina Sociale della Chiesa può e deve percorrere: ripartire dalla centralità della persona per individuare reali percorsi di felicità da proporre e condividere con tutte le forze realmente popolari che agiscono in tutto il mondo. CASA EDITRICE IL MARGINE Volumi in uscita Una ipotesi di lavoro e una timida conclusione Azzardiamo una ipotesi di studio e lavoro: la Costituzione italiana. La redazione di tale testo è certamente il frutto di una incredibile sinergia di culture, riunite dal desiderio di dare al nostro Paese un futuro ricco di speranza e prospettive. Il contributo cattolico è stato determinante; sicuramente è stato un grande momento di sperimentazione della cosiddetta inculturazione della fede. Occorrerebbe cercare se, oggi, quel testo possa essere letto dalla nostra Chiesa come un segno dei tempi. Nel leggerlo si possono trovare tracce di umanità che sappiano aiutare i credenti in Cristo ad approfondire la propria lettura del Vangelo, la propria conoscenza dell’uomo Gesù? È possibile che la risposta sia affermativa. Si potrebbero, allora, trovare segni nella modalità assembleare dei lavori, segni nel concepire i rapporti tra le persone (democrazia, solidarietà, diritti dell’uomo), segni nel vedere come l’uomo sia chiamato a collaborare alla creazione (il mondo del lavoro), segni nella cura dell’altro (il diritto alla salute); e, forse, l’elenco potrebbe continuare. Da questi segni, quindi, la Chiesa potrebbe capire come raccogliere il grido di disperazione che da tanti angoli del nostro Paese viene levato, messo a tacere da una spasmodica lotta di potere sui cosiddetti valori non negoziabili: anche il cieco di Gerico non riusciva a farsi sentire, proprio a causa della folla che seguiva il Signore. 16 Maurizio Abbà, Paolo De Benedetti, Anche Dio ha i suoi guai. Dialogo sulla Genesi, 112 pp., 13 euro (Orizzonti) Dio e la Creazione, il Diluvio e la Torre di Babele, la chiamata di Abramo, la scala di Giacobbe e la sua lotta con l’Altro: sono alcune delle pagine bibliche che il grande, acuto esploratore delle Scritture Paolo De Benedetti – sul confine tra ebraismo e cristianesimo, tra Antico e Nuovo Testamento – scandaglia in dialogo profondo e appassionato con il pastore Maurizio Abbà, della Chiesa valdese. Un’insolita ricerca, con scoperte e provocazioni spesso sorprendenti, per ripensare la nostra immagine tradizionale di Dio. Brunetto Salvarani, Odoardo (Odo) Semellini, Dio, tu e le rose. Il tema religioso nella musica pop italiana da Nilla Pizzi a Capossela (1950-2012), 200 pp., 18 euro (Orizzonti) Solo il premiato duo pop-teologico Salvarani-Semellini, autori della più completa biografia gucciniana (Di questa cosa che chiami vita) e della riscoperta dei Giganti antimafia (Terra in bocca) – due successi della casa editrice Il Margine – potevano avventurarsi nell’impresa titanica di catalogare il tema religioso nelle canzoni italiane della seconda metà del Novecento e del primo decennio del Duemila. Ed ecco, suddivisi in capitoli decennali e poi catalogati in un prezioso, mai visto dizionario finale, i protagonisti della musica popolare italiana riletti con la lente delle loro parole “religiose”: tracce di ricerca, di domande, di dubbi, più che di certezze. Com’è giusto che l’arte sia... Celentano, Guccini, De André, De Gregori, Rocchi, Battiato, dal “Compagno Dio” di Freak Antoni (Skiantos) fino alla ricerca di Vinicio Capossela e dei Baustelle. Un percorso pieno di sorprese, di “conversioni”, di spiazzamenti. C. Theobald, La recezione del Vaticano II, p. 650. 9 10 Il Margine 32 (2012), n. 10 Salvatore Natoli, Michael Davide Semeraro, Dolore, 64 pp., 7 euro (La Cattedra del Confronto) Il dolore è prima di tutto un’esperienza: immediata, invasiva, individuale. Che cosa compie l’esperienza del dolore nella vita e nella biografia delle persone? La rende più ricca e tesa, la approfondisce, o semplicemente la spezza, la abbrutisce? Il filosofo - Salvatore Natoli – mette in luce lo scandalo della domanda aperta del dolore, e la faticosa via che gli uomini devono percorrere per trovare un barlume di senso che lo renda vivibile. Il monaco – Michael Davide Semeraro – da parte sua riconosce che la fede non chiude semplicemente la domanda con una risposta facile e definitiva, ma la affronta alla luce del mistero della croce di Cristo, che nel momento stesso in cui denuncia il dolore e la sua assurdità lo iscrive in una dinamica di amore. Isabella Bossi Fedrigotti, Benedetta Selene Zorzi, Felicità, 64 pp., 7 euro (La Cattedra del Confronto) Che cos’è la felicità? Qualcosa che dipende dal caso e da una buona disposizione di carattere? Abbiamo diritto alla felicità o possiamo soltanto cercarla? E si può distinguere tra la felicità del credente e quella del non credente, individuarne i tratti distintivi? Due voci femminili si confrontano su questo tema. La prima, la scrittrice Isabella Bossi Fedrigotti, invita con tono poetico ad accogliere le semplici gioie della vita; la seconda, la monaca benedettina suor Selene Benedetta Zorzi, si lascia provocare dalla richiesta di felicità nel mondo di oggi e, con l’aiuto della grande tradizione cristiana, indica la strada che attraversa la felicità e giunge fino alla beatitudine. Patrizia Belli, Figlia di tante lacrime, 64 pp., 8 euro (I piccoli Margini) La straordinaria avventura di Bernardina Floriani (1603-1673), figlia di un povero pittore di Rovereto, bambina gracile e donna “trafitta dai dolori”, perseguitata dalla Santa Inquisizione e poi fondatrice di monasteri e mistica (con le stigmate) venerata dai poveri e dai potenti del tempo. Sullo sfondo della terribile peste “manzoniana” del Seicento un racconto avvincente: infanzia vita e morte della “beata Giovanna”, una donna scomoda, che parlava con Dio e curava gli uomini. Donata Borgonovo Re, La più bella costituzione del mondo. Le quattro parole-chiave della democrazia italiana, 256 pp., 17 euro (Orizzonti) La costituzionalista Donata Borgonovo Re, con una predilezione per il lavoro educativo e un’esperienza sul campo da difensore civico, racconta quella che è stata definita la più bella Costituzione del mondo attraverso quattro parole-chiave e interpretando con originalità e passione civile grandi autori come De Tocqueville, Bobbio, Calamandrei, Dossetti. Casa editrice Il Margine via Taramelli, 8 - 38122 Trento; tel. 0461-983368 [email protected] - www.il-margine.it 11 Per una pastorale della finitudine MAURIZIO MANNOCCI GALEOTTI U na mattina un anziano, le cui condizioni fisiche evocavano l’esistenza dei lager nazisti, ha voluto darci la prova che poteva ancora andare in bagno da solo. Ho cercato di dissuaderlo, ma inutilmente: poi, non riuscendo a controllare la mia tristezza, mi sono seduto dall’altro lato della stanza da letto. Si è alzato con lentezza, ha fatto due passi appoggiandosi al comodino e poi al comò, ha scosso la testa ed è tornato a giacere nel letto accettando l’aiuto silenzioso dell’infermiera. Lo osservavo di spalle, seminude, debole, indifeso. In quel momento mi è sembrato di comprendere per la prima volta la Passione di nostro Signore Gesù Cristo tante volte ascoltata e meditata ma mai compresa nella sua dimensione umana di sofferenza totale per l’ avvicinarsi della propria morte terrena. Mi sono domandato: quando era iniziata la Passione per Gesù, il Nazareno? Sicuramente prima della sofferenza fisica, prima delle torture inflitte dai legionari, prima della Via Crucis. Sono andato a ritroso nelle ultime 24 ore di Gesù per osservare come Lui avesse vissuto quello che da sempre hanno provato tutti gli esseri umani nel loro tempo ultimo. Alle descrizioni delle Sacre Scritture ho collegato, soggettivamente, frasi verosimili ascoltate tante volte da persone a fine vita, ho tradotto questo in bisogni espressi o sottesi dal sofferente ed infine l’ho commentato da medico palliativista (vedi tavola allegata). Il risultato di quest’analisi mi è sembrato chiaro: il Figlio di Dio, che vive anche la mia dimensione umana, non vuole morire, non percepisce la morte come evento “naturale”, quando è Lui a viverla. Sembra che emerga la fisicità, frutto dell’Incarnazione che Lui vive, di là dal controllo della Sua consapevolezza Divina sul significato della sua finitudine umana come necessario trapasso per la Resurrezione. La percezione della nostra personale, ontologica finitudine si forma in noi durante la graduale presa di coscienza della morte di “altri” esseri vivi: osservata, raccontata durante il nostro sviluppo. Questo crea dentro di noi un fisiologico equilibrio dinamico fra l’aspettativa “generica” sulla durata della propria vita (ovvero l’illusione d’immortalità) e la durata della vita 12 quantificabile razionalmente (ovvero la consapevolezza del limite temporale della propria vita). Quest’equilibrio fisiologicamente oscilla continuamente ma moderatamente durante tutta la nostra vita: talvolta, però si sbilancia tanto da non fluttuare più a causa di life events, nostre esperienze dirette o indirette, vissute positivamente come negativamente. Al momento della diagnosi di una malattia che minaccia la durata della nostra vita, che concretizza di colpo la nostra finitudine, si realizza il riconoscimento della nostra paura di morire, di lasciare gli affetti che danno un senso alla nostra vita. Conseguentemente questo equilibrio di colpo si arresta, sbilanciato sulla consapevolezza di disporre di un tempo limitato, insufficiente, percepito improvvisamente come breve… sempre troppo breve. In quel momento inizia la nostra sofferenza totale, esistenziale, in completa assenza di sintomi oggettivi o di diminuzione nella nostra performance quotidiana. L’attuale millennio vuole conservare tutto e non perdere nulla: conservare l’ambiente, gli animali, i boschi, l’arte. Si vuole lasciare agli altri i ricordi di sé e della propria vita, quasi una sindrome “foscoliana”: siamo ossessionati dalla necessità di essere ricordati dai posteri... per morire “meno”. Inoltre i fattori demografico-epidemiologici sono mutati, creando una situazione mai avvenuta in precedenza nella storia degli esseri umani: la diffusione di tecnologie terapeutiche ha diminuito i decessi con conseguente prolungamento della vita, dilatando però anche il tempo delle malattie “croniche”. Patologie che sempre più ci accompagnano per anni, con progressiva perdita di performance e autonomia, riassumibili in un nuovo refrain: “Oggi si muore meno, ma si sta male più a lungo”. D’altro canto tecnologie e benessere hanno reso possibile il mantenimento di stili di vita acquisiti in età giovanile, anche durante il nostro invecchiamento fisico. Aumentano le aspettative che il tempo intacchi solo minimamente le nostre capacità: si invecchia senza divenire (senza sentirsi) anziani. Si arriva così sempre più impreparati al tempo ultimo, quando non si possono più svolgere le azioni quotidiane a cui siamo abituati: «quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv 21,18). Il momento della diagnosi può anche essere lontano anni dal decesso, ma richiede comunque una riorganizzazione esistenziale e quindi spirituale; dunque è il momento adatto per offrire una pastorale della finitudine appropriata. 13 Bisogni nel tempo ultimo della vita I vissuti del tempo ultimo osservati nel 1969 dalla dr.ssa Kubler-Ross e comunque preconizzati nel 1886 da Tolstoj (in In morte di Ivan Il’ic), sono: il rifiuto, la collera, il patteggiamento, la depressione e l’accettazione della ineluttabilità della propria morte. Questi vissuti, che marcano la sofferenza, s’intrecciano fra loro, scompaiono per riapparire in seguito o per mescolarsi, sempre in maniera originale per ogni persona, incluso Gesù. L’interazione fra questi vissuti ed i sintomi fisici che peggiorano conforma circoli viziosi che aumentano la Sofferenza Totale. Per questo il controllo della sintomatologia è fondamentale per creare le condizioni di un intervento terapeutico sui vissuti e quindi “migliorare la qualità della vita finché si è vivi”. Controllo sintomatologico che tuttora non può prescindere dall’uso precoce della terapia con farmaci oppioidi e psicofarmaci. È dunque comprensibile che in queste persone emergano nuovi vissuti con cambi nel carattere: aggressività verbale contro i propri cari, rabbia verso tutti e verso tutto, anche verso il proprio Dio1 (e la propria Chiesa), angoscia profonda incontrollabile con possibilità di crisi d’agitazione psicomotoria, crisi di panico o ansia generalizzata, oppure passività e tristezza. Spesso la persona ricerca il protocollo medico più rigido possibile, fonte di sofferenza esso stesso, poiché persegue la logica perversa di voler pagare un prezzo altissimo per meritarsi un premio altissimo: prolungare la vita e allontanare la morte. Questa valorizzazione della sofferenza come condizione necessaria per guadagnarsi la sopravvivenza ha un effetto deleterio sulla propria qualità della vita nel presente, scambiata per un futuro benessere terreno che nessuno può garantire: né la medicina occidentale, né quella tradizionale, né i guaritori. In conclusione, se pur controllassimo tutti i sintomi senza effetti collaterali, rimarrebbe comunque questo equilibrio rotto e questa sofferenza esistenziale che si riaffaccia molto più frequentemente e più profondamente in queste persone che in noi, i cosiddetti “sani”. Un memento mori non esterno, come il cranio sulla scrivania di antica memoria, ma addirittura interno che vive in noi e nascosto agli altri. «medicine… dottori… infermiere conoscono la malattia… ma come la vivo io ?… come la sento? Solo io sono in grado di conoscerla!» (Gianni Grassi)2. 1 2 G. Cenacchi, Cammino tra le ombre, postfazione di Enzo Bianchi, Mondadori, 2008. Morire vivi, www.giannigrassi.it (l’autore è deceduto dopo otto mesi di hospice). 14 Bisogni peculiari dei consacrati I/le religiose/i mi hanno fatto scoprire come per loro vi siano delle difficoltà in più da superare. Scoprire dentro di sé i vissuti sopra descritti li deprime e li spaventa ancor di più, poiché sono inaccettabili e inconfessabili, principalmente perché completamente contrari ai valori su cui hanno costruito la loro esistenza di testimoni evangelici. Per anni hanno predicato ai fratelli sofferenti che sopportare il dolore è una via di purificazione per i propri peccati o per quelli di altri, ma ora scoprono che proprio loro non vogliono soffrire sia per i sintomi fisici come per l’attesa del transito da questa dimensione terrena. Si scoprono non felici di riunirsi al Padre Onnipotente né di abbandonare il vivere insieme ai confratelli peccatori. Oltre a ciò, nessuno offre loro risposte o accoglienza al loro soffrire l’angosciante dubbio di “non avere abbastanza fede”, innescando un ulteriore circolo vizioso di sofferenza esistenziale, con aumento dei sintomi fisici. Quando altri consacrati, magari i compagni di seminario, vanno a visitare un consacrato nel tempo ultimo, non riescono ad accoglierlo nella sua sofferenza spirituale, la negano parlando di altro. Allora il consacrato sofferente si sente ancor più solo, per la mancata condivisione di queste sue angosce esistenziali. Angosce che riducono a loro volta la compliance alla terapia necessaria, un circolo vizioso che può solo essere interrotto da un intervento sul piano spirituale della Fede. Per cercare di comprendere l’obiettivo da raggiungere, è bene analizzare la minoranza dei sofferenti che riescono, con estrema afflizione, ad arrivare allo stato dell’accettazione della propria prossima dipartita. Essi sono sofferenti che non cercano più di sopravvivere all’ineluttabilità della morte, ma mettono tutte le energie residue nel vivere. Queste rare persone in breve tempo riacquistano una tranquillità con se stessi e nella relazione con gli altri, prima sconosciuta. Si trasformano, si rilassano, pur richiedendo dosaggi molto inferiori di farmaci per il controllo dei sintomi. Questo nonostante sembri che la sofferenza fisica ed emotiva non li abbandoni e sia chiaramente percepibile. Un’accettazione del loro prossimo addio, non come una “fase felice”, un essere contenti per ciò che accade, ma un prendere atto serenamente della realtà, in ogni modo obtorto collo, senza però che ciò incida sulla loro capacità di comunicare, di relazionarsi con gli altri. Nell’unicità che ognuno di loro mantiene, una caratteristica comune riscontrabile è il loro rinnovato interesse verso il mondo esterno, che si era prima progressivamente ridotto: all’accettazione questo riappare preponde- 15 rante ma diverso. C’è estrema capacità di trasmettere amore verso gli altri, tutti gli altri: figli, operatori e volontari, conosciuti o sconosciuti. Dispensano Amore ed apprezzamento senza necessità di conoscere la storia di nessuno, solo e semplicemente perché si è, si esiste, perché siamo essere umani che stiamo vicino a loro, evangelicamente “prossimi” in questa sofferenza, ma senza più ansia o angoscia, con il volto disteso seppure sempre più scavato dalla malattia. Come se quest’Amore professato per tutti fosse un modo per amare anche se stessi, ma insieme, come se a fine vita avessero esperito che l’Amore è la priorità ultima della vita. Una chiave interpretativa potrebbe essere questa: controllata o meglio, convissuta, la propria paura di abbandonare i propri cari, quest’angoscia non occupa più tutto il loro orizzonte interiore; è presente ma è limitata, contenuta. Come avessero ridisegnato il Senso della loro Vita, lo vivono e lo manifestano amando. «Vi è un bisogno di relazione… è il settantacinque per cento della terapia, medicine... prescrizioni… analisi… sono meno importanti… per evitare la solitudine… LA VITA È RELAZIONE» (Gianni Grassi). Landsberg, in L’esperienza della morte, propone che solo tramite la perdita del consimile o prossimo possiamo esperire (indirettamente) la morte, non come esperienza di un fatto che avviene fuori di noi, ma come esperienza interiore a noi stessi: «Lo spirito può esistere solo in comunione. Non esiste un Io spirituale senza un Tu… L’isolamento non è compatibile con le struttura intima personale ed implica la tendenza all’annientamento», cioè al suicidio/eutanasia. «Quindi come la morte è esperibile principalmente in una dimensione relazionale, così, specularmente, la sopravvivenza umana (oltre la morte) è a sua volta pensabile solo in una dimensione relazionale non più immanente, ma in relazione con “la Persona che è e che dona l’essere”». In conclusione, bisogna sempre tener presente che il sofferente al termine del suo percorso ultimo conosce più di noi, è lui l’esperto, noi possiamo proporre, ma solo lui ha gli elementi di giudizio per decidere. Quale pastorale? Come annunziare la Buona Novella, la Liberazione a chi inizia il suo ultimo cammino? Una pastorale della finitudine vorrebbe rispondere ai bisogni di coloro che non solo vivono le ultime settimane o giorni di vita terrena, ma anche di coloro che iniziano questo cammino mesi ed anni prima. 16 In altre parole il tempo della Finitudine comprende anche il fine vita, ma non si identifica in esso. Sorge quindi la necessità di una diversa e più articolata risposta evangelizzante ai bisogni spirituali nel tempo ultimo. Una pastorale della finitudine intimamente legata e connessa alla pastorale della salute. Un incontro fecondo che può portare a un arricchimento reciproco, poiché il raggiungimento della necessaria accettazione del proprio stato per migliorare la qualità della vita nel presente è un obiettivo terapeutico: sia quando accompagniamo nel fine vita, sia durante una malattia invalidante con progressive riduzioni nella propria autonomia a scapito della dignità della persona, vivendo una tragica e depressogena inversione di ruoli con i propri cari, mai sperimentata prima. Questa nuova pastorale deve adeguarsi ai nuovi patterns di salute/malattia. Per esempio, in oncologia vi sono ormai – anche in Italia – migliaia di persone che hanno ricevuto trattamenti con successo; la medicina non li definisce più come dei malati oncologici guariti, ma come “persone che vivono con una malattia che minaccia la loro vita (lifethreatening disease)”. La Buona Novella non promette guarigioni fisiche o psichiche, ma la comunione beata con il nostro Dio che ci ama. «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» (Lc. 17,19). Per congedarsi senza essere risucchiati dall’angoscia bisogna sentire un legame trasparente e profondo con la realtà metafisica a cui andiamo incontro. In questo caso la Fede ci salva, lenisce anche dalla sofferenza fisica ed emotiva poiché le dà un senso, non impedendoci di relazionarci con i nostri cari, in sostanza di vivere finché si è vivi. Dall’altra parte un ostacolo sorge, quando sul limitare della vita ci sembra che ci venga richiesto di “perderci” in una beatitudine dove l’unico Sé è Dio. Questo significa perdere per l’eternità i propri cari, non rivederli mai più; eppure il nostro Dio, per mezzo di suo Figlio, ci ha promesso la Resurrezione, non una qualsiasi ma la Resurrezione della carne. Forse far comprendere meglio cosa significa ciò a tutti noi credenti nel Terzo millennio ci aiuterebbe a contenere la nostra paura della finitudine e l’angoscia precedente al trapasso. Una pastorale come aiuto, non come giudizio, con norme precise da seguire. Nel tempo ultimo qualsiasi dovere è fonte d’autosvalutazione, quindi di depressione, che rinforza solo il senso di solitudine. Non dobbiamo avere più fede, ma avere chi ci accoglie e non giudica le nostre scoperte, le nostre pulsioni. La morte può essere “buona”, ma solo se si è nati alla nostra dimensione essenziale fondante del proprio essere che è la dimensione esistenziale, la dimensione dello Spirito per i credenti. Una pa- 17 storale che ci ricordi che la nostra eternità è già iniziata, che il passato con le sue esperienze non potrà mai più essere cancellato, che nel bene o nel male siamo tutti già eterni. A fine vita, la morte non è neppure una minuscola omega, è solo un passaggio da una percezione del mondo ad un’altra percezione del mondo, ma dello stesso mondo, non di un “altro mondo”. Così il trapasso potrebbe avvenire senza soluzione di continuità: un continuum nell’eternità che già viviamo in questa “valle di lacrime”, un passaggio dalla tristezza alla bellezza. Inoltre vi sono potenzialità non valorizzate solo per paura di spaventare. Questi fratelli si mostrano progressivamente disinteressati al mondo esteriore anche affettivo, sempre più chiusi in se stessi pur mantenendo sempre la necessità di presenze amiche ma silenziose. Quando riconosciamo questo loro cambio, rispondono che stanno scoprendo un mondo interiore nuovo, finora sconosciuto, ricco di nuovi pensieri, sensazioni, vissuti; ne sono meravigliati, interessati, preoccupati di comprenderlo. Da qui l’aumentata capacità che queste persone hanno di dare priorità all’essenziale per la propria esistenza, di percepire stati d’animo, di comunicare con poche parole o senza parole, contenuti complessi. Non sono queste potenzialità per relazionarsi come mai prima con il proprio Dio? Forse il sofferente nel tempo ultimo è più capace di percepire l’unicità della relazione che Dio ha con ognuno di noi. Il nostro Dio è più importante di tutto, viene prima di tutto, ma ognuno di noi è primo di fronte a Lui, per Lui siamo unici per il nostro Dio, tutti siamo unici ed insostituibili: «Due passeri non si vendono per un soldo? Eppure non ne cade uno solo in terra senza il volere del Padre vostro. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete dunque; voi valete più di molti passeri» (Matteo 10, 29-31). In questo tempo ultimo, facilitare un cammino spirituale di fede è al tempo stesso un promuovere la cultura del vivere nonostante il confronto con l’ineluttabile e prevedibile morire. Il “come” della pastorale della finitudine Sarebbe auspicabile, già dalla diagnosi, poter proporre un percorso di accompagnamento spirituale. Costruire insieme un fil rouge che aiuti il credente sofferente nell’identificare i criteri per ricostruire delle priorità e quindi riorientare la propria vita con un compagno spirituale, una sorella/fratello (consacrati o laici) che cresce insieme a noi facendoci superare il blocco della sofferenza e del dubbi verso la scoperta dell’accettazione. Un accompa- 18 gnamento che ci porti a percorrere la strada di Emmaus, dove l’assistente spirituale non è un professionista, è solo un compagno di viaggio, un fratello nella fede meno esperto nel lottare contro la malattia ma più esperto nel comunicare con Dio. Accompagnamento impossibile da realizzare o contenere in un protocollo che non faccia riferimento al comandamento dell’Amore di Dio verso ognuno di noi. Serve una pastorale della finitudine, che ci aiuti a vivere meglio con meno paura, a declinare l’Amore nella finitudine nel tempo ultimo e a preparare l’assistente spirituale a operare insieme all’equipe di cure palliative, e non separatamente. Termino formulando alcune domande che possono guidare in questa difficile elaborazione: * nel tempo ultimo, per ricercare la comunione con il nostro Creatore, è più facile affidarsi al Dio dell’Amore o al Dio degli eserciti? * quanto l’ottica di una pastorale della finitudine deve concentrarsi sulla ricerca di definizioni, di comportamenti adeguati e d’indicazioni bioetiche, e quanto invece deve adattarsi al percorso originale di ogni sofferente? La persona che vive la sua finitudine, le sue sofferenze e i suoi bisogni è al centro del nostro annuncio evangelico? * molti credi insegnano che la morte è solo un passaggio, una trasformazione dell’eternità, ma come metempsicosi o come ritornare parte di un tutto, lasciando senza risposte domande esistenziali fondanti della sofferenza ultima, come: rincontrerò i miei cari? Manterrò la mia identità? * il soffrire del credente nel tempo ultimo è davvero funzionale, necessario per accedere alla felicità eterna? La sua sofferenza è come quella di nostro Signore, che ha sofferto per la nostra Redenzione? Non significa, ciò, rendere paradossalmente la sofferenza un dovere del buon cristiano? * Gesù, da Figlio di Dio, ha provato quello che sta vivendo ora il credente sofferente: la stessa paura, gli stessi stati d’animo. Eppure, questi non intaccano la Sua fede nel “dopo”. Ciò aiuterà il credente ad accettarsi e continuare nel suo cammino ultimo di fede? * valorizzare la sacralità della vita fisica (terrena) a scapito della sacralità della persona (che non termina con la morte), non rischia forse di innescare un circolo perverso? Quando il credente a fine vita si arrende all’ineluttabilità della sua finitudine ed è affascinato dalla voglia di accelerare il suo transito, perché soffre troppo, non vive forse questa richiesta come una volontà di suicidio, come offesa al suo Dio, in cui continua comunque a credere? 19 La Buona Novella Quando giunse l’ora egli si mise a tavola, e gli apostoli con lui. Egli disse loro: Ho vivamente desiderato di mangiare questa Pasqua con voi, prima di soffrire; poiché io vi dico che non la mangerò più, finché sia compiuta nel regno di Dio. E, preso un calice, rese grazie e disse: Prendete questo e distribuitelo fra di voi; perché io vi dico che ormai non berrò più del frutto della vigna, finché sia venuto il regno di Dio (Luca 22,14-18) L’anima mia è triste fino alla morte: restate qui e vegliate con me (Matteo 26,38) Giunto Gesù con loro nel campo chiamato Getsèmani, dice ai discepoli: Fermatevi qui, mentre io vado là a pregare. … Cominciò a provare tristezza ed angoscia: … Triste è l’anima mia fino alla morte. Rimanete qui e vegliate con me (Matteo 26, 36-38). Quindi, preso con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, incominciò ad essere preso da terrore e da spavento. Perciò disse loro: L’anima mia è triste fino alla morte. Rimanete qui e vegliate! (Marco 14,33-34) Quindi … pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. Diceva: Abbà Padre! Tutto è possibile a te. Allontana da me questo calice! (Marco 14, 35-36) E scostatosi un poco, cadde con la faccia a terra e pregava dicendo: Padre mio se non può passare senza che io lo beva si compia (non la mia) ma la tua volontà (Matteo 26, 39) Gli apparve allora un Angelo dal cielo per confortarlo. E entrato in agonia pregava più intensamente. E il suo sudore divenne come gocce di sangue che cadevano a terra (Luca 22, 43-44) Ritorna dai discepoli e, trovatili addormentati, dice a Pietro: Così non siete stati capaci di vegliare con me per una sola ora! Per tre volte (Matteo 26, 40-42; Marco 14, 37-41) Gesù dunque, …. disse a sua madre: Donna, ecco tuo figlio! Poi disse al discepolo: Ecco tua madre! (Giovanni 19,26-27) Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: Elì, Elì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?… E Gesù, emesso un alto grido, spirò (Matteo 27, 46.50). Alle tre Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? … Ma Gesù,dando un forte grido spirò (Marco 15,34.37). E Gesù, gridando a gran voce: Padre nelle tue mani rimetto il mio spirito. Detto questo spirò (Luca 23,46). 20 Il sofferente a fine vita vieni, cara, stiamo insieme sotto il nostro albero, ora come ieri … come domani, quando non sarò più qui con te … e sotto questo albero mi ricorderai ho capito dottore: non ci levo più le gambe … moglie: non uscire a prendere il pane! non voglio stare solo state con me ma in silenzio, non chiedetemi come sto … non chiedetemi di chiacchierare … di mangiare o di alzarmi, ma statemi vicino in silenzio … grazie figlia mia, ma ora per favore porta il mio nipotino di là a giocare, voglio riposare non voglio morire, soffro troppo a pensare di perdervi chino il capo di fronte all’inevitabile… avvisa tutta la famiglia, li voglio qui, presto Riesco solo a pensare a quello che mi aspetta domani. mi uccideranno… domani morirò nella sofferenza! Non riesco a pregare… a pensare ad altro!! io sto soffrendo, vi ho chiesto di farmi compagnia e pregare insieme... e voi vi addormentate come tutte le notti! Come una notte qualsiasi !! Figli cari badate alla mamma, resta da sola e non è pronta mia madre era in coma dalla mattina, mio fratello mi aveva dato il cambio ed ero andato a dormire nella stanza accanto. D’improvviso mi ha svegliato un grido acutissimo... era mia madre, che stava morendo… Il Margine 32 (2012), n. 10 Lettura del bisogno/ vissuto del sofferente Vivere intensamente il presente, condividendo insieme alle persone che contano per noi ricordi e promesse di un legame che la morte non riuscirà comunque a sciogliere L’equilibrio fra immortalità e finitudine si è definitivamente rotto, la solitudine gli ricorda il futuro prossimo che lo aspetta Prova una paura incontrollabile di morire, vuole sentirsi insieme, attraverso la presenza silenziosa dei suoi cari. Ma non vuole essere coinvolto suo malgrado nella quotidianità oramai senza interesse rispetto all’eccezionalità che vive. Chiede solo un partecipato silenzio Commento del palliativista Commiato, ultimi messaggi di ciò che è veramente essenziale e preavviso agli altri di ciò che dà il senso al vivere la vita nonostante la sua brevità. Il presente è importante, non offuscato dalla semplice attesa di non essere più in questo mondo Fase della Depressione. Presa di coscienza che non solo non guarirà, ma anche che il suo tempo è davvero al termine Consapevolezza del proprio prossimo morire. Nessuno può comprendere ciò che Lui prova, né è in grado di verbalizzarlo, ma sa cosa è meglio per se stesso. Vive in autonomia, a riconferma del locus-of-control mantenuto Prolungare la propria vita terrena, anche in quelle condizioni di sofferenza Fase del Patteggiamento, si è disposti a tutto pur di vivere ancora un po’ ha compreso che è inevitabile e che lottare contro la sua morte lo fa soffrire ancora di più… ed accetta quello che non vorrebbe soffre enormemente anche senza essere fisicamente lesionato, presenta segni inequivocabili seppur “psicogeni’ e senza essere in imminenza clinica di morte, basta la consapevolezza di ciò che gli accadrà Percezione di una solitudine esistenziale profondissima: viene lasciato solo, i suoi cari non comprendono il momento eccezionale che sta vivendo. Si distraggono con banalità come il sonno Restare nel mondo quando non ci sarà più, ma resteranno le sue ultime volontà Espressione della sua angoscia di morte, della sua solitudine massima, della sua sofferenza totale, in una fisicità estrema nel momento supremo del trapasso Stato dell’Accettazione. Controlla l’angoscia, la morte non è più al centro, è determinato a realizzare ciò che per lui è l’essenziale Agonia del corpo e dell’anima = il “nostro” pshyco-distress, al paziente che lo riferisce possiamo solo offrire la sedazione palliativa a fine vita per evitargli l’angoscia di morte Fase della Rabbia. Sfoga la rabbia della ineluttabilità della sua fine. Non si muore senza saperlo: magari rifiutandolo, negandolo, ma non lo si può rimuovere Il Legato: vi lascio qualcosa di me che vi accompagni in mia assenza Nonostante l’avesse accettato, avesse vissuto e non aspettato, non evita il dolore della sofferenza ultima. La “naturalità” del morire è inaccettabile per qualsiasi “me” che muore Soldaten Le voci dei militari tedeschi durante la seconda guerra mondiale ALBERTO MANDREOLI «Sganciare bombe è diventato un bisogno. Ti stuzzica proprio, è una bella sensazione. È quasi bello come ammazzare qualcuno». Tenente della Luftwaffe, 17 luglio 1940 stato recentemente pubblicato per la collezione storica Garzanti Solda- Èten. Combattere, uccidere, morire. È un volume scritto da Sönke Nei- tzel, docente di storia contemporanea nelle università di Mainz e Saarbrücken e Herald Welzer, direttore del Center for Interdisciplinary Memory Research di Essen e docente di psicologia sociale a San Gallo, che hanno raccolto ed interpretato le intercettazioni dei prigionieri tedeschi raccolte a loro insaputa dagli americani e dagli inglesi durante il secondo conflitto mondiale rispettivamente a Fort Hunt (Usa, in Virginia) e a Trent Park (Inghilterra, a Londra). Questa ricerca, allo stesso tempo ampia per gli innumerevoli verbali presi in esame dei due studiosi ed acuta per le riflessioni svolte, si pone sostanzialmente su quella linea interpretativa che ha inteso sottolineare, al di là dell’importanza dell’ideologia nazionalsocialista e del fanatismo razziale, la ‘normalità criminale’ dei soldati della Wehrmacht, della marina militare e della Luftwaffe nel compiere i loro doveri. Purtroppo tale ‘normalità criminale’ – è doveroso sottolinearlo – ha contrassegnato non solo l’esercito tedesco durante la seconda guerra mondiale ma anche il comportamento di numerosi soldati semplici e graduati appartenenti ad altri Stati ed inseriti in contesti storici diversi: sia sufficiente ricordare in riferimento al periodo preso in esame ciò che comandò il generale Patton ai suoi uomini durante lo sbarco in Sicilia del 1943: «Siate implacabili. Se qualcuno si arrende quando tu sei a due o trecento metri da lui, non badare alle mani alzate: mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Che si fottano! Nessun prigioniero! È ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali». 21 22 È l’uomo comune, normale, diremmo noi ‘di tutti i giorni’ che, scorporando prima di tutto interiormente ed in un secondo momento esteriormente la tecnica dalla morale (in questo caso la “professione” del soldato da qualsiasi riferimento etico) favorì – attraverso l’indifferenza deresponsabilizzante nei confronti della sorte dell’altro e la diligente partecipazione alla guerra di sterminio – il propagarsi della cieca violenza contro popolazioni inermi. Riguardo al passaggio fondamentale dalla subordinazione obbediente alla complicità partecipativa annota saggiamente Karl Jaspers: «Il Terrore determinò il fenomeno sorprendente che il popolo tedesco divenne partecipe dei crimini dei capi. Da subordinati diventarono complici. Senza dubbio ciò non è avvenuto in grandi proporzioni. Ma quel che fa meraviglia è che si tratta talvolta di uomini dei quali mai si sarebbe potuto pensare che fossero capaci di tali cose. Sono padri di famiglia, cittadini diligenti, usi a compiere in ogni professione il loro dovere, hanno ucciso e hanno commesso, in base ad ordini ricevuti, le altre scelleratezze». In virtù della consegna di se stessi e della propria coscienza alla Nazionalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, i soldati, insieme alla società tedesca, parteciparono attivamente alla rovina della stessa Germania. Gli studiosi Welzer e Neitzel riportano le riflessioni di Lingner, un ufficiale delle Waffen-SS sul tema del nazismo, vera fede e nuovo culto a cui “consegnarsi” una volta per sempre: «Il nazismo è un’applicazione della teoria della razza, ossia, chiunque si riprometta di essere una persona di gran valore, nel carattere ma in parte anche nell’aspetto esteriore, il patrimonio ideale di questa persona è il nazismo, se rimane incontaminato attraverso l’educazione. È combattivo, felice di mettersi a disposizione, mai egoista. […] sono convinto che non ci sia quasi nulla da rinfacciare al nazismo in sé, al suo patrimonio ideale». Sul tema della sacralizzazione della politica appaiono già decisivi gli studi di Luigi Sturzo (1918 e 1933), in cui l’intellettuale italiano intuì del nazi-fascismo la natura prettamente religiosa ed omnicomprensiva: «Per i nazi il loro vangelo è la razza, la purezza di razza ariana, base della loro mistica religione. […] Alla razza tedesca oggi si immolano vittime, in mezzo ai canti di adorazione e di orgia». Le intercettazioni registrate testimoniano la radicata fede nel Führer da parte del popolo tedesco e degli appartenenti dell’esercito regolare anche quando dopo il 1943, successivamente alla sconfitta di Stalingrado, i segni di una futura sconfitta erano evidenti. Il co- 23 mandante di brigata Kurt Mayer si esprime chiaramente: «Ma devo dire che il Führer, dopo il crollo della Germania, è riuscito in cose inaudite, e, anche ora che il Reich sta cadendo a pezzi, è riuscito a risollevare la Germania in modo incredibile. Grazie a lui l’uomo tedesco è di nuovo sicuro di sé». Un’esperienza unica Nella cornice di riferimento del Terzo Reich, processo sociale, economico e comunitario che mirò all’esaltazione del popolo ariano e all’emarginazione dei ‘diversi’, i soldati della Wehrmacht, della marina e della Luftwaffe – come del resto l’intero popolo tedesco – ebbero la percezione di vivere un’esperienza unica e vibrante, un’autentica necessità storica, a cui dare in modo incondizionato e acritico il proprio contributo. Consapevoli che il progetto nazista forse non avrebbe avuto successo se non avesse avuto l’adesione della Volksgemeinschaft, gli autori giungono alla brillante definizione di “dittatura partecipativa”: «Fu l’interazione tra iniziativa politica, appropriazione individuale e trasformazione che, in un periodo brevissimo, rese possibile un simile consenso al progetto nazionalsocialista. Si potrebbe parlare di dittatura partecipativa, alla quale contribuirono volentieri membri della comunità nazionale, anche senza essere per forza nazisti». Grazie alla collaborazione ideale e fattiva del popolo tedesco, i cui singoli membri vissero in modo del tutto nuovo ed unico non solo l’appartenenza esclusiva ad una comunità nazionale fondata scientificamente sullo ius sanguinis ma anche la fine della lotta di classe all’interno della società tedesca, il regime giunse progressivamente ad una vera e propria trasformazione di valori che interessò la vita quotidiana ed ebbe ripercussioni reali ed oggettive sulle relazioni interpersonali. È in questo contesto che milioni di uomini, ammaliati dal grande seduttore e spinti dalla certezza di vivere un presente ‘epocale’, si arruolarono nell’esercito combattendo fino all’ultimo per la causa della Germania nazista. Nella connessione tra modernità e tecnica, applicata alla società dai dirigenti nazisti, l’indifferenza verso il contesto e l’attenzione nei confronti del proprio lavoro, che doveva risultare il più possibile preciso e scrupoloso, ebbero un’importanza capitale. Il triste “merito” della NSDAP fu non solo di fare leva sulla tradizione tedesca che esaltava la dedizione alla professione da svolgere ma anche di “sostituire” il contenuto del lavoro con quello della guerra; il singolo non doveva essere preoccupato del “generale” ma del 24 “particolare” e solamente di quest’ultimo doveva sentirsi responsabile. Concetto ben sintetizzato da Jens Eberts: veva essere messa a tacere con estrema brutalità. Riferendosi al suo tenente, il caporale scelto Sommer racconta cosa succedeva nella penisola italiana: «è come se la guerra, a cui si applicano gli stessi valori dell’universo lavorativo in tempi di pace (operosità, perseveranza, dovere, obbedienza, sottomissione) venisse accettata senza problemi. Al fronte, così come nelle azioni del Sonderkommando, cambiano solo i contenuti del “lavoro”, ma non il modo di concepire il “lavoro” e la sua organizzazione. In questo senso si può dire che il soldato è un “lavoratore della guerra». «Anche in Italia, in ogni posto dove arrivavamo, diceva sempre: “Per prima cosa facciamone fuori qualcuno!”. Io so anche l’italiano, e quindi avevo sempre un compito particolare. Lui diceva: “Allora, fatene fuori venti, così avremo un po’ di calma, che non si facciano strane idee!”. (Risate). […] Tutti sulla piazza del mercato, poi arrivava uno con il mitra, rrr-rum, e tutti a terra. Così iniziava. Poi diceva: “Benissimo! Porci!”. Aveva una tale rabbia nei confronti degli italiani, da non crederci!». La divisione del lavoro, caratteristica tipica dell’era industriale, portò milioni di tedeschi a compiere mansioni del tutto diverse da quelle svolte prima della guerra, ma simili nella modalità: si pose l’accento sul “come” e non sul “perché”. In Germania l’indifferenza nei confronti dell’etica e degli accadimenti generali prevalse trasformando ciascun individuo in “uomomassa”, docile strumento nelle mani dell’ideologia. La moderna macchina dello sterminio, afferma Hannah Arendt nel volume Ebraismo e modernità, rese ciascun tedesco «al tempo stesso, un carnefice, una vittima e un automa». Così, proseguono Welzer e Neitzel, «i piloti della Lufthansa, o i riservisti, diventano assassini di civili; le compagnie aeree, i produttori di forni o le cattedre di patologia si trasformano in organizzazioni dedite allo sterminio di massa». Il concetto di “professione-soldato” si ritrova anche nel caso Eichmann, studiato dalla stessa Arendt: «Egli ha radicalizzato a tal punto la dicotomia tra compiti privati e compiti pubblici, tra famiglia e lavoro, da non essere più in grado di trovare in se stesso alcuna connessione tra le due sfere. Quando la sua professione gli impone di uccidere una persona, egli non si considera un assassino, dal momento che non agisce secondo la propria inclinazione ma nell’ambito dei suoi doveri professionali». Per i soldati dell’aviazione militare tedesca, uccidere civili rientrava nell’ambito dei doveri professionali e risultava completamente slegato da rimorsi di coscienza e dalle conseguenze di morte provocate. Le riflessioni del soldato Pohl impegnato nei bombardamenti in Polonia parla esplicitamente. «Il secondo giorno, in Polonia, ho dovuto sganciare delle bombe sulla stazione di Poznan. Otto delle sedici bombe sono cadute sulla città, dritte sulle case. Non ho gioito. Il terzo giorno sono passato all’indifferenza e il quarto giorno ci ho preso un certo gusto […] Abbiamo attaccato la gente in fila per strada. Eravamo un aereo dietro l’altro. Quello di testa sganciava bombe sulla strada, mentre i due in mezzo sui fossi. […] ed ecco iniziamo a sparare quando curva a sinistra, tutti con il mitra, a più non posso. Abbiamo visto i cavalli volare… mi è dispiaciuto per i cavalli, per le persone neanche un po’. I cavalli mi hanno fatto pena fino all’ultimo giorno». Nell’operazione denominata “Leone marino” (1940), che avrebbe dovuto portare all’invasione dell’Inghilterra, sembra che il divertimento avesse la meglio tra i piloti degli aerei tedeschi. Il sottufficiale Fischer il 20 maggio del 1942, senza che si rendesse conto di essere ascoltato dagli inglesi, affermò: Doveri professionali Secondo la prospettiva dei soldati intercettati la lotta condotta dalla Wehrmacht alle bande partigiane, ritenute gruppi di irregolari e dediti alla guerriglia, fu occasione di esercitare tutta la violenza possibile anche sui civili, sospettati di sostenere in diverse forme la resistenza. E questo, bisogna ricordarlo, non era il prodotto ideologico e politico dell’epoca nazionalsocialista ma costituiva un topos presente nell’esercito tedesco sin dal conflitto franco-prussiano (1870-1871) durante il quale ogni attività di guerriglia do- 25 «Ti dirò, forse ho già fatto fuori gente in Inghilterra. Nella mia squadra ero conosciuto come il “sadico professionista”. Ho fatto fuori di tutto, autobus per strada, treni passeggeri a Folkstone. Avevamo l’ordine di sganciare di tutto sulle città. Ho preso ogni singolo ciclista». La prospettiva dall’alto garantiva ai soldati dell’aviazione tedesca, in modo del tutto illusorio ed apparente, di essere distanti dalla morte che provocavano. La radicalizzazione della guerra era oramai divenuta pratica quotidiana ed ordinaria e non esisteva più nel comportamento dei soldati alcuna 26 «RODOLPH: Se penso ai nostri poveri compagni in Russia, a 42 gradi sotto zero! GESS: Sì, ma sanno per cosa stanno lottando. RUDOLPH: Sì, le catene vanno spezzate una volta per tutte. GESS E RUDOLPH: (cantano a gola spiegata) Quando il sangue dell’ebreo zampilla sul coltello, ah!, va tutto così bene. GESS: Quei maiali! Cani schifosi! RUDOLPH: Spero che il Führer avveri i nostri desideri di prigionieri e dia a ciascuno di noi un ebreo e un inglese da ammazzare; da tagliare a pezzettini – con il coltello, a pezzettini, per Dio. Gli faccio karakiri. Gli pianto il coltello nella pancia e gli faccio torcere le budella». differenza tra obiettivi militari e civili. Nel seguente modo si esprime nel gennaio 1945 il tenente Hans Hartings appartenente alla squadriglia caccia 26 impiegata in Inghilterra: «Sono volato di persona nel sud dell’Inghilterra. Nel 1943 la mia squadra aveva l’ordine di sparare su tutto ciò che non fosse obiettivo militare. Abbiamo ammazzato donne e bambini sui passeggini». In modo analogo, sul fronte orientale, si comportavano i soldati della Wehrmacht, l’esercito regolare di terra. Sconcertante il racconto del caporale scelto Müller che esprime, forse senza averne consapevolezza, il concetto di “vita indegna”: «In un villaggio in Russia c’erano dei partigiani. Ovviamente bisognava radere al suolo il villaggio. […] Avevamo l’ordine di fucilare un decimo degli uomini del villaggio. “Ma cosa vuole dire un decimo? È chiaro”, dicono i camerati, “bisogna far fuori l’intero villaggio”. Allora abbiamo riempito bottiglie di birra con la benzina, le abbiamo messe sul tavolo e, uscendo, come se nulla fosse, ci siamo lanciati alle spalle delle bombe a mano. È bruciato tutto subito – tetti di paglia. Tutti morti: donne, bambini. Pochissimi partigiani. In situazioni simili io non avrei sparato senza essermi assicurato che si trattasse veramente di partigiani. Ma molti dei miei compagni si sono divertiti come matti». Secondo il giudizio di Neitzel e Welzer, decisivo fu il sistema valoriale dell’esercito profondamente radicato nella cornice di riferimento militare. L’essere soldato era percepito sostanzialmente come una professione a cui dedicare con scrupolosità tutte le proprie energie fisiche e mentali. L’obbedienza alle regole, la disciplina verso la vita militare, il coraggio nel difendere gli avamposti, la morte decorosa in battaglia, valori della tradizione e cultura tedesca, costituirono il minimo comun denominatore a cui ogni soldato di qualsiasi grado era chiamato ad attingere. Non vi era posto nella mentalità militare per i sentimenti, per la paura, per la codardia dinanzi al nemico che avanzava. Essenziale per i soldati, secondo questo studio, fu l’immagine che essi ebbero di se stessi in termini di concretezza, di successo e di professionalità. Forte appariva lo spirito di gruppo nei militari soprattutto nelle azioni di sterminio a cui i soldati raramente si sottraevano: sparare insieme ed assistere o filmare alle fucilazioni di massa erano considerate atti “naturali” in quanto ordinari e presenti nel quadro di riferimento delle truppe. Esemplare il dialogo tra il tenente Günther Gess, ingegnere capo del sommergibile U-433 e l’ufficiale di guardia dell’U-95, il tenente Egon Rudolph: 27 Anche il complesso sistema delle onorificenze tedesche ebbe un notevole influsso sugli appartenenti dell’esercito, in particolare tra gli ufficiali che sia nei loro dialoghi intercettati sia nella documentazione fotografica si vantarono di aver ottenuto decorazioni e fasce di riconoscimento per le loro “imprese” militari. Le onorificenze erano ben radicate nell’esercito tedesco già nella Grande Guerra (1914-1918) ed erano percepite come cartina di tornasole del “successo” e della carriera sul campo militare. Nelle intercettazioni si registrano molti riferimenti alla Eiserne Kreuz, di primo e secondo livello (EK I e EK II), alla Ritterkreuz (croce di ferro, di prima e seconda classe), le medaglie d’argento e d’oro per aver sostenuto combattimenti corpo a corpo. Dal libro di Welzel e Neitzel che non solo raccoglie un notevole insieme organico di intercettazioni ma intende fornire linee interpretative sulla reale cornice di riferimento dei soldati tedeschi impiegati durante il secondo conflitto mondiale nei diversi fronti europei si evince chiaramente come in un meccanismo politico e sociale, quale è stato il nazionalsocialismo, che ha reso milioni di persone “responsabili” unicamente della propria mansione ed “irresponsabili” degli obiettivi ultimi, la dimensione della corresponsabilità negli atti commessi sia stata decisiva: «Chi non ha messo a repentaglio la propria vita per impedire il massacro degli altri, ma è rimasto lì senza far tutto il possibile per impedirli, diventa anche lui colpevole, in un senso che non può essere adeguatamente compreso da un punto di vista giuridico o morale». Bibliografia minima. H. Arendt, La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 2001; H. Arendt, Ebraismo e modernità, Milano, Feltrinelli, 2001; Z. Bauman, Modernità e Olocausto, Bologna, Il Mulino, 1992; C. R. Browning, Uomini comuni, Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia, Torino, Einaudi, 1992; K. Jaspers, La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, Milano, ed. Cortina, 1986; S. Neitzel e H. Welzer, Soldaten, Milano, Garzanti, 2012. 28 Il Margine 32 (2012), n. 10 Diario cambogiano PAOLO GRIGOLLI C hiedo a Munny: «Ma senti, se tu fossi primo ministro della Cambogia, che cosa faresti?». La nostra guida mi guarda, un poco stupito, ma affronta senza timori la domandona. «Per prima cosa, farei passare la legge anti-corruzione che è ferma da mesi e poi farei pagare le tasse. Come terza cosa bisognerebbe risistemare il sistema educativo». Lo guardo e mi chiedo se sono veramente in Cambogia. La giungla e i suoi odori me lo confermano. Troviamo rifugio sotto una tettoia a pochi passi dai lingam dedicati a Shiva sui quali scorre impetuoso il torrente alimentato dalle piogge incessanti di questa stagione. Nella bellezza maestosa di una natura prorompente e non addomesticabile, il rumore della pioggia e il riparo di fortuna alimentano il dialogo. E così comincia a raccontarmi. Le prime elezioni in questo paese martoriato da guerre civili alimentate dalle tensioni internazionali successive al colonialismo sono avvenute nel 1993. Si è trattato di una spartizione di potere tra le parti che avevano condotto la guerra. Su questo dramma si è costruito l’ennesimo tributo all’amnesia, passaggio obbligato verso una falsa transizione democratica. Mentre Munny racconta, capisco che la storia non insegna nulla, historia magistra vitae è un detto che non abita quello che ho visto, letto e ascoltato: dal nostro dopoguerra agli anni di piombo, a Franco, all’Irlanda. Ovunque le stesse scorciatoie per non fare i conti con la propria storia e pensare di regalarsi qualche anno di immunità in più. Facendola pagare a un Paese intero. E così l’accordo collusivo iniziale ha sancito, come un imprinting determinante, i successivi 20 anni di una “democrazia” fragile, incerta, ingenua da un lato e arrogante dall’altra. E ora sarebbe necessaria una legge anticorruzione, in parte già depositata al Parlamento, in cui si chiede ai politici locali di dichiarare che cosa possiedono all’inizio del loro mandato e quanto hanno accumulato negli anni di carriera. La legge è ferma, i grandi business già saldamente nelle mani dei potenti e della loro stirpe e il Paese in vendita, nel frattempo, anche perché manca un sistema di tassazione e ogni attività privata è in principio lecita e soggetta al “buon cuore” dell’amministrazione locale. Chiunque può pren- 29 dersi una motocicletta, adibirla a tuc tuc e diventare tassista. Non ci vuole la patente, ma una licenza concessa per 7 dollari, annuali. Nessuna assicurazione, ma tanta abilità. Non esiste un sistema di controllo del reddito per tutte le attività di tipo privatistico e quindi va impostata tutta la macchina legata alle entrate fiscali, senza la quale non ci possono essere progetti di sviluppo. Il terzo punto è la scuola e tutto il sistema educativo. Parte da maestri sottopagati (45 dollari al mese) che per sopravvivere devono fare altri lavori: contadini, taxisti, muratori. E quindi non si preparano, non leggono, non procurano i materiali di base per i loro studenti. Forse non vanno neppure in aula… Per evitare il problema dell’assenteismo sono gli stessi alunni che portano ogni giorno al maestro i centesimi che servono a comporre lo stipendio: questa immagine del bambino che consegna ogni mattino nelle mani del suo insegnante dei soldini ha una grande forza esplicativa. Per andare gratis all’università è necessario passare gli esami di maturità con i voti più alti e anche questa norma, di per sé comprensibile, ha finito per creare, in un contesto come questo, un “mercato” degli esami. Tanti sono i progetti delle ONG in questa direzione e tante le scuole private, di inglese in particolare: ma prima di riuscire a incidere ci vuole veramente tanto tempo. Non finirò mai di stupirmi di quanto poco peso si continui a dare a ciò che è l’unico vero motore dello sviluppo: la conoscenza, la formazione. Anche in questo caso gli esempi del passato non insegnano nulla. In questo mix di darwinismo sociale e iper-liberismo il Paese tenta di trovare una via, non si sa se autonoma, per dare un senso alla propria storia. A pelo d’acqua La barca si muove rumorosa e incerta. Ninfee e soprattutto cime di alberi che spuntano dal fiume ricordano che siamo alla fine della stagione delle piogge e tutto è stato inondato. Nuvole imponenti si raccolgono all’orizzonte e scaricheranno il loro peso al più tardi nel pomeriggio. Incrociamo due giovani pescatori in precario equilibrio su un tronco scavato, rallentiamo. Poi il motore riprende il suo numero di giri abituale e il timoniere sceglie la rotta, tra arbusti, alberi, vegetazione di una foresta sommersa. Mi chiedo come faccia a orientarsi in un dedalo infinito di possibili percorsi. Anche questa è una metafora della vita. 30 Non avevo mai percorso una scena così, sembra di stare in quei filmati che ci derivano da luoghi sconvolti dalle alluvioni, ma qui è normale, addirittura stagionale. Straordinario per chi viene da un mondo altro, non per chi vive al ritmo della stagione delle piogge. Appena un passeggero prova a muoversi, le oscillazioni cambiano l’assetto della barca e ci si guarda un poco preoccupati, ma sono sette le ore di navigazione per Battabang e avremo tempo di abituarci. Ci sono nomi che fanno immaginare i luoghi, anche se non li abbiamo mai sentiti prima e così mi aspetto una città che conserva tracce di passato coloniale sovrastate dal disordine impetuoso del tempo presente. La barca si ferma. Tutti si girano verso il timoniere. Scala la marcia, riparte affrontando un canneto altissimo. Mi pare di vedere schiene di coccodrilli. Sicuramente mi sbaglio…E quest’aria tiepida mi accarezza la pelle mentre lo sguardo tende a un punto nel quale cielo e acqua coincidono. Scrivere nell’andare a pelo d’acqua cullato dal movimento è una delle sensazioni belle della vita, farlo su una tastiera digitale è un segno dei tempi, ma qui marca anche una differenza. Un’altra sosta in mezzo ad acquitrini, suona una sirena ritmata, si avvicinano barche a remi che consegnano sacchi, pacchi e documenti avvolti nella plastica a questo DHL informale, che ritira in cambio delle monete. Nel villaggio su palafitte ci si chiede di che cosa si possa vivere. Un poco di pesca, la coltivazione di vegetali, il commercio con chi attraversa questo spazio. Molto meno di quanto noi possiamo immaginare. Non so se loro se la immaginano, vivendo così, un’altra possibilità. Si continua a navigare, sfiorando e attraversando una vegetazione rigogliosa, che ora sembra volersi appropriare di tutto lo spazio a disposizione, entrando dentro al nostro fragile guscio. Rallentiamo un poco, facendo un difficile slalom. Le piante tendono a chiudere il varco. Procediamo fino a che il cielo diventa lungo, il sole dei tropici irrompe con la sua forza e iniziano dei tratti coltivati a riso. Ci affidiamo totalmente all’istinto e alla capacità del nostro giovane “capitano” seduto in posizione dominante su un sedile di automobile con le mani strette al volante di una qualche Nissan degli anni Ottanta, una sigaretta dopo l’altra in bocca, cappellino e jeans, il piede destro a modulare l’acceleratore. Pensiamo, finora a ragione, che sia competente. È il miracolo della fiducia che si rinnova, ogni giorno, 31 L’orrore indicibile Ho atteso un mese per trovare lo spazio mentale per scrivere della giornata a Pnom Phen. Un tuc tuc creato a partire da un’Apecar rinforzata ci conduce in mezzo a un traffico a tratti infernale verso i luoghi dell’orrore. Anche qui si sono scelte le periferie per dare sfogo all’indicibile, all’inascoltabile, all’inguardabile. Pol Pot, al secolo Sa lut Sor, dopo aver studiato in Francia, al rientro nel suo Paese, ispirandosi alla Rivoluzione culturale cinese e ai movimenti di collettivizzazione delle terre, ha costituito una forza di resistenza, i Khmer Rouge, dando vita a uno degli episodi più atroci di genocidio della nostra storia moderna. In 3 anni, 8 mesi e 21 giorni, dal 17 aprile 1975 al 7 gennaio 1979, furono uccise più di 2 milioni di persone, il 20% della popolazione. Cominciando da tutti coloro che conducevano una vita “borghese”. E quelli che portavano gli occhiali. Il tuc tuc si ferma. Il luogo è chiamato “Genocidal Centre” o “Campi della Morte” perché qui sono state scoperte le fosse comuni con oltre 20.000 persone i cui resti testimoniano il massacro. La cosa sconvolgente, tra le altre, è il fatto che il Centro sia stato istituito già nell’agosto del 1979, quando i fatti erano appena avvenuti. Facciamo il biglietto, entriamo con delle audio-guide che ci accompagnano nel tragitto contrassegnato da cartelli esplicativi e da numeri. Il primo cartello che incrocio, in una visita che diventa da subito densa, silenziosa, solitaria, dice: NON C’È VANTAGGIO NEL TENERVI IN VITA, NON C’È SVANTAGGIO NELLA VOSTRA MORTE. Era una delle frasi dei capi Khmer, poi ripetuta a cascata dagli aguzzini. MEGLIO UN INNOCENTE MORTO PER ERRORE CHE RISPARMIARE UN POSSIBILE NEMICO. È questo il secondo cartello, accompagnato dalle spiegazioni dell’audio-guida che mi fa sostare dove arrivavano i camion carichi di condannati che venivano costretti in ginocchio davanti alle fosse comuni e nella gran parte dei casi uccisi con un colpo di piccone o di zappa sulla testa per non sprecare pallottole. Il percorso porta davanti a una delle tante fosse comuni di quest’area. La stagione delle piogge che volge al termine riempie le buche e strani intrecci di vasi comunicanti sotterranei portano ancora oggi in superficie ossa e denti che vengono raccolti in urne poste al limitare di questi spazi. Sembra 32 di percorrere campi coltivati. Ma non è così. Si sta sul crinale di 88 fosse comuni. Inizia a piovere, ma non lo sento. Una cappa di silenzio mi avvolge. Procedere è faticoso. L’audio-guida propone racconti di alcuni sopravvissuti che si sono impegnati nella conservazione della memoria. Mi appunto mentalmente la storia di Yuk, che a un certo punto dice: «mi sento come un vetro infranto e sono solo io che posso rimettere insieme i pezzi». Un altro testimone dice che un vecchio si è sacrificato per lui, all’epoca quindicenne, e che quando è stato liberato è andato fino in Thailandia a piedi, carico dei sogni di sua madre che lo aveva voluto vedere andare, allontanarsi da lei, definitivamente. Da allora ha cercato di riconciliarsi con il suo Paese, fino a diventare commissario dell’ONU e supervisore delle prime elezioni “libere e democratiche” della Cambogia. Dice che questa è la sua responsabilità verso se stesso, verso il mondo. «Capite – dice – se io sono ancora vivo, lo devo al sogno di mia madre, che mi aveva visto libero». Procedo. A passi lenti, pesanti. Il tour dell’orrore non vuole finire. Mi siedo su una panca di legno, prendo fiato, guardo in alto. Attraverso altre fosse, altre paludi. Poi mi trovo davanti a un albero immenso. Sui suoi rami venivano fissate casse stereo che con la loro musica coprivano i suoni secchi dei colpi, le urla dei condannati, le imprecazioni maligne degli assassini. Mi fermo. Davanti a me un serpente, verde, lucido, con un impressionante rigonfiamento in un certo punto del suo corpo sinuoso. Se ne sta immobile a cercare di ingurgitare un topo, una talpa o una rana. È proprio una metafora di questo luogo e serve anche a distrarsi per qualche minuto. Perché è veramente troppo. Un altro albero, sulla sinistra. Ricoperto di braccialetti di tutti i colori a ricordare i bambini trovati nella fossa comune alle sue radici. Capelli, brandelli di testa e di cervello, di arti e sangue sul tronco testimoniarono a coloro che entrarono per primi qui dentro che si era compiuta un’immane tragedia. Un cartello spiega che, affinché non si sentissero odori, venivano spruzzate quantità enormi di DDT sui corpi senza vita. E così le città si svuotavano, i borghesi venivano torturati, uccisi, condotti nei campi e costretti a mestieri che non conoscevano e a diventare bravi contadini del popolo con l’obiettivo, mai raggiunto, di triplicare la produzione del riso. Nel mezzo dei Campi della Morte hanno poi eretto uno stupa gigantesco che contiene 8.000 teschi tra quelli ritrovati in buono stato di conserva- 33 zione. Migliaia di teschi impilati per anno e per età. È qualcosa di insostenibile. Silenziosamente cerco il tuc tuc. Si torna verso la città per andare al Museo del Genocidio. È una scuola, grigia come il cemento che l’avvolge. Penso alle caserme e ai peggiori luoghi dei desaparecidos in Argentina. Ovunque questi crimini hanno le stesse anonime, brutte, squallide facciate. Scuole che diventano teatro di crimini efferati e classi trasformate, con mattoni e calce a vista, in celle larghe ottanta centimetri e lunghe due metri, con porticine di legno chiuse da un inesorabile lucchetto. Un piccolo spioncino per l’impossibile relazione con l’esterno. I corridoi, meglio dire i ballatoi, ricoperti di filo spinato per evitare che i prigionieri cercassero il suicidio tuffandosi dal terzo piano. L’edificio A del cosiddetto Office 21 convertito in stanze di tortura, isolato con vetri spessi per evitare che si udissero troppo le urla delle vittime. La contabilità dei prigionieri era precisa: 154 nel 1975, 2250 nel 1976, 2350 nel 1977, 5765 nel 1978. Senza contare i bambini. Da qui, se non si moriva prima, si veniva trasportati nei Campi della Morte. Anche questo luogo venne aperto come Museo sin dall’agosto 1979. Questo fatto mi colpisce, veramente. Nell’opuscolo consegnato insieme al biglietto d’ingresso c’è scritto: MANTENERE VIVA LA MEMORIA DELLE ATROCITÀ COMMESSE SUL SUOLO CAMBOGIANO È LA CHIAVE PER COSTRUIRE UNO STATO GIUSTO E FORTE. Mi chiedo se questa sia la risposta anche alle nostre domande. Viviamo in un Paese che ha fatto del deficit di trasparenza e di democrazia uno stile di governo. Possibile che in Italia non siamo mai riusciti a fare un museo del Fascismo? Pensiamo veramente che la nostra storia ci scivoli addosso senza lasciare traccia? All’uscita trovo Mr Chum Mey, direttore dell’Associazione delle vittime, ma mi è difficile comunicare con lui. Mi lascia una testimonianza, un racconto. Gli prometto che lo porterò con me, fino in Italia, perché da loro dobbiamo imparare. Molto. 34 Il Margine 32 (2012), n. 10 sente. Un film e il libro a cui è ispirato, 20-25 – (e) Omar Brino, Il respiro del cemento. Pier Luigi Nervi e la Roma del suo tempo, 26-35 – (f) Lorenzo Perego, Non dimenticate questo sangue, 36-39 Indici dell’annata XXXII (2012) Numero 1, gennaio (a) “Il Margine” e “Dialoghi”, Parlare del Concilio cinquant’anni dopo, 3-4 – (b) Giovanni Colombo, La “scelta religiosa” di Comunione e Liberazione, 5-10 – (c) Omar Brino, Espansioni edilizie e toponomastiche, 11-15 – (d) Nunzio Bombaci, Il “leghista” del Sud, 16-20 – (e) Matteo Prodi, La Chiesa dell’Apocalisse, 20-26 – (f) Tobia Morandi, Martini da vicino, 27-28 – (g) Fabio Olivetti, La verità inclusiva del cristianesimo di Johannes Hessen, 2932 – (h) Leonardo Paris, La Cattedra del Confronto. La nuova collana della Casa editrice “Il Margine”, 33-35 Numero 2, febbraio (a) Paolo Ghezzi, Alexander di Monaco, che ha stupito gli angeli. Il primo beato della Rosa Bianca, 3-9 – (b) Urbano Tocci, Punti di caduta. Prospettive neocentriste nel panorama politico italiano, 10-16 – (c) Giovanni Colombo, Aspettando Francesco I, 17-24 – (d) Milena Mariani, Yves Congar e il riscatto di tre parole conciliari, 25-35 – (e) Giampiero Girardi, Autorità e profezia nella Chiesa: Mazzolari e Paolo VI, 36-39 – (f) Francesco Ghia, L’anima e l’uomo. Il nuovo libro di Giovanni Straffelini, 40-42 Numero 3, marzo (a) Francesco Ghia, Salve, Piemonte. La «melodia mesta» della Tav, 3-9 – (b) E- manuele Curzel, Uniti nella lotta. A proposito del diritto/dovere al titolo di studio e del suo valore legale, 10-12 – (c) Matteo Prodi, “Gridare”: un verbo centrale per chi crede nel Vangelo, 13-19 – (d) Eugen Galasso, Pasqua di liberazione, 20-22 – (e) Mauro Stenico, La fuga davanti a Dio. Un’opera di Max Picard per riflettere sulla modernità, 23-30 – (f) Giuseppe Morotti, In dialogo con la cultura postmoderna, 31-38 Numero 4, aprile (a) Giovanni Colombo, Gli abiti di Formigoni, 3-6 – (b) Amer Al Sabaileh, Primavera araba: modelli, conseguenze, prospettive, 7-12 – (c) Mariangela Franch, Paolo Grigolli, D.P.R.K. Repubblica Popolare Democratica di Corea: un viaggio paradossale, 13-17 – (d) Fulvio De Giorgi, Vedovanza dell’anima e misericordia ecclesiale, 18-22 – (e) Silvio Mengotto, Ribelli per amore. Il clero milanese durante la seconda guerra mondiale, 23-35 – (f) Paolo Calabrò, Doppio gioco. Racconto di una perversione cristiana, 36-41 Numero 5, maggio (a) Emanuele Curzel, Francesco Ghia, Silvano Zucal, Tutto vacilla, 3-11 – (b) Carlo Ancona, Il prezzo della memoria, 12-15 – (c) Giovanni Colombo, La Chiesa di Dior, 16-19 – (d) Roberto Antolini, Il 12 dicembre 1969 e le radici del pre- 35 Numero 6, giugno-luglio (a) Roberto Antolini, Nonostante Beppe, 3-8 – (b) Antonio Zecca, Caccia all’anatra, 9-12 – (c) Claudio Fontanari, Federigo Enriques e la legge elettorale, 13-16 – (d) Fulvio De Giorgi, Ci può essere pienezza ecclesiale fuori dall’Eucaristia? Nota sui divorziati risposati, 17-25 – (e) Alberto Mandreoli, La legislazione nazista e Giuseppe Dossetti, 26-33 – (f) Mauro Stenico, Contingenza cosmica e creazione, 3440 – (g) Associazione Rosa Bianca, Casa editrice Il Margine, Il risveglio dei popoli nella crisi delle sovranità. 24-28 agosto 2012 – Terzolas (TN), 4143 Numero 7, agosto-settembre (a) Giovanni Colombo, Il Gigante nella corazza, 3-4 – (b) Alberto Conci, Paolo Grigolli, Natalina Mosna, Verità incomplete, 5-12 – (c) Urbano Tocci, Una questione di morale. Sulla politica tedesca dopo le elezioni regionali in NordrheinWestfalen, 13-23 – (d) Eugen Galasso, I pregiudizi nei confronti della teologia della liberazione, 24-27 – (e) Piergiorgio Cattani, Graffi sul muro, 28-30 – (f) Luigi Giorgi, Il tempo e la fine, 31-34 36 Numero 8, ottobre (a) Emanuele Curzel, Non puoi imporre al tiranno la legge che non accetti per te, 3-8 – (b) Michele Nicoletti, Usciamo dal teatro, 9-14 – (c) David Maria Turoldo, La lotta di liberazione in Italia. La vicenda storica e l’eredità etico-civile, 15-26 – (d) Alberto Mandreoli, L’angelo della morte, 27-33 – (e) Vanda Giuliani, Il Concilio Vaticano II come “dibattito”, 34-38 Numero 9, novembre (a) Piergiorgio Cattani, Cinquant’anni dopo il mondo è cambiato, 3-4 – (b) Massimo Campanini, Un nuovo laboratorio politico? Note sulle rivolte arabe, 5-13 – (c) Francesco Lauria, In difesa dei diritti. Ricordando Alberto Tridente, 14-16 – (d) Giuseppe Morotti, La “democratizzazione” della mistica, 17-21 – (e) Roberto Antolini, Teologia e psicanalisi in Il tempo è un dio breve, 22-23 – (f) Mattia Coser, Nichilismo ed esperienza religiosa in Bernhard Welte, 2434 Numero 10, dicembre (a) Matteo Prodi, Dalla Gaudium et Spes alla Caritas in Veritate. Continuità o discontinuità nella recezione del Concilio?, 3-10 – (b) Maurizio Mannocci Galeotti, Per una pastorale della finitudine, 12-21 – (c) Alberto Mandreoli, Soldaten. Le voci dei militari tedeschi durante la seconda guerra mondiale, 22-28 – (d) Paolo Grigolli, Diario cambogiano, 29-34 – (e) Indici dell’annata XXXII (2012), 35-38 Autori Amer Al Sabaileh 4b – Carlo Ancona 5b – Roberto Antolini 5d, 6a, 9e – Nunzio Bombaci 1d – Omar Brino 1c, 5e – Paolo Calabrò 4f – Massimo Campanini 9b – Piergiorgio Cattani 7e, 9a – Giovanni Colombo 1b, 2c, 4a, 5c, 7a – Alberto Conci 7b – Mattia Coser 9f – Emanuele Curzel 3b, 5a, 8a – Fulvio De Giorgi 4d, 6d – Claudio Fontanari 6c – Mariangela Franch 4c – Eugen Galasso 3d, 7d – Paolo Ghezzi 2a – Francesco Ghia 2f, 3a, 5a – Luigi Giorgi 7f – Giampiero Girardi 2e – Vanda Giuliani 8e – Paolo Grigolli 4c, 7b, 10d – Francesco Lauria 9c – Alberto Mandreoli 6e, 8d, 10c – Maurizio Mannocci Galeotti 10b – Milena Mariani 2d – Silvio Mengotto 4e – Tobia Morandi 1f – Giuseppe Morotti 3f, 9d – Natalina Mosna 7b – Michele Nicoletti 8b – Fabio Olivetti 1g – Leonardo Paris 1h – Lorenzo Perego 5f – Matteo Prodi 1e, 3c, 10a – Mauro Stenico 3e, 6f – Urbano Tocci 2b, 7c – David Maria Turoldo 8c – Antonio Zecca 6b – Silvano Zucal 5a Soggetti Persone Paolo Borsellino 5b Yves Congar 2d Giuseppe Dossetti 6e Federigo Enriques 6c Giovanni Falcone 5b Roberto Formigoni 1b, 4a Giuseppe (Beppe) Grillo 6a Johannes Hessen 1g Carlo Maria Martini 1f, 7a Primo Mazzolari 2e Josef Mengele 8d Pier Luigi Nervi 5e Paolo VI 2e Max Picard 3e Alexander Schmorell 2a Alberto Tridente 9c Bernhard Welte 9f Luoghi Argentina 4f Cambogia 10d Corea 4c Germania 7c Milano 1b, 4a, 4e, 5c Nordafrica (rivolte nei paesi arabi) 4b, 9b Temi Chiesa 1e, 5c - e dittature 4f - e potere 2c - Caritas in Veritate 10a - Comunione e liberazione 1b - Concilio Vaticano II 1a, 2d, 8e, 9a, 10a - eucarestia 6d - Gaudium et Spes 10a - pastorale dei divorziati 4d, 6d Fede 9f - questione dell’anima 2f - Apocalisse 1e - cosmologia/escatologia 6f, 7f - mistica 9d - Pasqua 3d - pastorale della finitudine 10b 37 - teologia della liberazione 7d - Vangelo e protesta 3c Politica/economia/società: - architettura 5e - città 1c - crisi finanziaria 6b, 8b - cultura postmoderna 3f - diritti dei lavoratori 9c - Islam e democrazia 9b - leghismo 1d - malattia mentale 7e - nazismo/seconda guerra mondiale 4e, 6e, 8c, 8d, 10c - odonomastica 1c - politica (italiana) 2b, 5a, 5b, 6a, 8a, 8b; legge elettorale 6c - scuola 3b - strategia della tensione 5d, 7b - TAV 3a - urbanizzazione 1c Libri/film A onor del vero. Piazza Fontana. E la vita dopo 7b Paolo Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Fontana 5d Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage 5d Johannes Hessen, Il cristianesimo è davvero la religione assoluta? 1g Max Picard, La fuga davanti a Dio, 3e Paolo Miorandi, Nannetti 7e Sönke Neitzel, Herald Welzer Soldaten. Combattere, uccidere, morire 10c Giovanni Straffelini, L’anima e i confini dell’umano. Tra scienza, fede e bioetica 2f Aldo Maria Valli, Storia di un uomo 1f Maria Pia Veladiano, Il tempo è un dio breve 9e Daniele Vicari, Diaz 5f IL MARGINE anno 2013 un piccolo progetto un impegno che, grazie ai suoi lettori, continua per il 33° anno su carta e/o in pdf Continuate a sostenerci! 38 Il Margine 32 (2012), n. 10 Q IL MARGINE mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero http://www.ilmargine.it/it/rivista e-mail: [email protected] Direttore: Emanuele Curzel Vicedirettore: Francesco Ghia Amministrazione e diffusione: Luciano Gottardi [email protected] [email protected] Comitato di direzione: Celestina Antonacci, Monica Cianciullo, Giovanni Colombo, Francesco Comina, Alberto Conci, Fulvio De Giorgi, Marcello Farina, Guido Formigoni, Paolo Ghezzi (resp. a norma di legge), Giovanni Kessler, Roberto Lambertini, Paolo Marangon, Fabrizio Mattevi, Michele Nicoletti, Fabio Olivetti, Vincenzo Passerini, Pierangelo Santini, Grazia Villa, Silvano Zucal. Collaboratori: Carlo Ancona, Anita Bertoldi, Dario Betti, Stefano Bombace, Omar Brino, Vereno Brugiatelli, Luca Cristellon, Marco Dalbosco, Mirco Elena, Cornelia Dell’Eva, Michele Dorigatti, Michele Dossi, Claudio Fontanari, Eugen Galasso, Lucia Galvagni, Luigi Giorgi, Massimo Giuliani, Giancarlo Giupponi, Paolo Grigolli, Alberto Guasco, Tommaso La Rocca, Paolo Mantovan, Gino Mazzoli, Milena Mariani, Pierluigi Mele, Silvio Mengotto, Walter Nardon, Rocco Parolini, Lorenzo Perego, Nestore Pirillo, Gabriele Pirini, Emanuele Rossi, Flavio Santini, Angelo Scottini, Giorgio Tonini. Progetto grafico: G. Stefanati Una copia € 2,00 – abb. annuo € 20, + pdf euro 22, solo pdf euro 8, estero € 30, via aerea € 35. Versamenti: c.c.p. 10285385 intestato a: «Il Margine», c.p. 359 - 38122 Trento o c.c.b. Bancoposta (IBAN IT97 D076 0101 8000 0100 4299 887). Estero: BIC: BPPIITRRXXX. Autorizzazione Tribunale di Trento n. 326 del 10.1.1981. Codice fiscale e partita iva 01843950229. Redazione e amministrazione: «Il Margine», c.p. 359, 38122 Trento. Publistampa Arti Grafiche, Pergine Il Margine n. 10/2012 è stato chiuso in tipografia il 17 dicembre 2012. uando sul mio corpo o sul mio spirito comincerà a lasciare i segni d’usura dell’età. Quando si abbatterà su di me dall’esterno o nascerà dal di dentro il male che sminuisce e porta via. Nell’istante particolarmente doloroso in cui prenderò coscienza all’improvviso di essere ammalato o che sto invecchiando. E soprattutto in quel momento ultimo, in cui mi sentirò sfuggire a me stesso, pienamente passivo nelle mani delle grandi forze ignote che mi hanno formato. In tutti quei momenti bui concedimi, o Signore, di capire che sei Tu ad aprire dolorosamente le fibre del mio essere per penetrare fin nell’intimo della mia sostanza e per assorbirmi in Te. Teilhard de Chardin «Il Margine» è in vendita a Trento presso: “Artigianelli”, via Santa Croce 35 - “Centro Paolino”, via Perini 153 “La Rivisteria” via San Vigilio 23 - “Benigni” via Belenzani 52 - a Rovereto presso “Libreria Rosmini”, “Blulibri”. editore della rivista: A S S OC I A Z I ON E OS C A R R O M E R O Presidente: Piergiorgio Cattani [email protected] Vicepresidente: Leonardo Paris Segretaria: Veronica Salvetti Periodico mensile - Anno 32, n. 10, dicembre 2012 - Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Trento - taxe perçue. Redaz. e ammin.: 38122 Trento, cas. post. 359 – Una copia € 2,00 – abb. annuo € 20 http://www.il-margine.it/it/rivista