LE CATTEDRALI Macerata Tolentino Recanati Cingoli Treia a cura di Gabriele Barucca In copertina: San Nicola di Bari, cappella del Santissimo Crocifisso. Cingoli, concattedrale LE CATTEDRALI Macerata Tolentino Recanati Cingoli Treia a cura di Gabriele Barucca saggi di Gabriele Barucca, Silvia Blasio, Simona Breccia, Stefano D’Amico, Laura Mocchegiani, Elisa Mori, Egidio Pietrella Con il patrocinio della Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici delle Marche - Urbino Direzione progetto editoriale Renzo Borroni Proposta editoriale Don Gianluca Merlini Progetto scientifico Gabriele Barucca Testi Gabriele Barucca Silvia Blasio Simona Breccia Stefano D’Amico Laura Mocchegiani Elisa Mori Egidio Pietrella Referenze fotografiche Foto CMR - Massimo Zanconi, Macerata Franco Mosconi, Tolentino Pierluigi Siena, Roma Foto ISCR - Angelo Rubino Foto SBSAE delle Marche-Urbino, Marco Fanelli e Claudio Maggini Amministrazione e distribuzione Raffaella Cinque Progetto grafico Memphiscom - Mirta Cuccurugnani www.memphiscom.it Stampa Tecnostampa, Loreto (AN) © 2010 Carima Arte Srl Via Crescimbeni, 30-32 62100 Macerata [email protected] Tutti i diritti riservati ISBN 9788887651362 Sulla scia di precedenti ed apprezzati volumi, quali Ori e argenti. Capolavori di oreficeria sacra nella provincia di Macerata e Lo spazio del sacro. Chiese barocche tra ‘600 e ‘700 nella provincia di Macerata, gli edifici di culto tornano ad essere protagonisti di una pubblicazione della Fondazione Carima. L’opera Le Cattedrali infatti, curata dal prof. Gabriele Barucca, approfondisce ed illustra le caratteristiche delle cattedrali di un’importante diocesi del nostro territorio. San Giuliano a Macerata, San Catervo a Tolentino, San Flaviano a Recanati, Santa Maria Assunta a Cingoli e la Santissima Annunziata a Treia sono cinque chiese che, oltre a custodire le reliquie dei santi patroni, hanno rappresentato in passato e rappresentano tuttora, il fulcro intorno al quale ruota sia la vita religiosa che quella civile delle rispettive città e dunque di un’area di riferimento importante per il nostro ente. A tale proposito è stato compiuto uno studio che mira ad analizzare i singoli edifici sacri nel loro complesso: sotto il profilo architettonico, storico-artistico e del patrimonio di arredi, paramenti e suppellettili ecclesiastiche. I saggi, i numerosi documenti di archivio consultati e trascritti, come pure l’imponente e pregevole apparato iconografico in esso contenuti ne fanno un testo di alto valore scientifico, che siamo certi incontrerà non solo l’interesse degli addetti ai lavori ma altresì il favore di un pubblico più ampio. Anche l’anno corrente, quindi, segna per la Fondazione Carima il conseguimento di un altro significativo traguardo in relazione al suo impegno nell’editoria. I progetti editoriali, infatti, caratterizzano da sempre l’attività del nostro ente nell’ambito del settore culturale, rappresentandone un’indubbia eccellenza, peraltro confermata dall’incremento nel tempo della tiratura e della diffusione delle pubblicazioni. Ogni testo, attraverso ricerche, studi specialistici ed approfondimenti, costituisce un nuovo tassello che va di volta in volta ad aggiungersi ai molti già noti, favorendo la conservazione, la divulgazione e la promozione del grande patrimonio storico, artistico ed architettonico maceratese. Nell’esprimere gratitudine al prof. Barucca ed a tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo volume, mi preme ringraziare ed esprimere le più vive congratulazioni a sua eccellenza monsignor Claudio Giuliodori e a don Gianluca Merlini per aver intuito, segnalato e sostenuto la rilevanza documentale e la valenza scientifica della nostra nuova proposta editoriale. Franco Gazzani Presidente della Fondazione Cassa di risparmio della provincia di Macerata Tabula gratulatoria Stefano Baldassarri, Claudia Bernardini, Patrizia Bizzarro, Maria Claudia Caldari, Vittoria Carloni, Andrea Carnevali, Pio Cartechini, Rosaria Cicarilli, Mons. Lauro Cingolani, Daniele Diotallevi, Marco Fanelli, Don Attilio Feroci, Vittoria Garibaldi, Emanuela Gostoli, Maria Chiara Leonori, Maria Giannatiempo, Alberto Maccioni, Claudio Maggini, Alessandro Marchi, don Gianluca Merlini, Benedetta Montevecchi, Maria Rita Paccagnani, Renato Pagliari, Ivano Palmucci, Francesca Pappagallo, Giuliana Pascucci, Luca Pernici, Osvaldo Pieramici, Anna Pieroni, Alba Pucci, Daila Radeglia, Gianfranco Ruffini, Monica Ruffini, Orlando Ruffini, don Frediano Salvucci, Giuliano Sanseverinati, Giovanni Sbergamo, Alessandra Sfrappini, Simone Sgalla, Denise Tanoni, Goffredo Teodori, Maria Rosaria Valazzi, Agnese Vastano, Luisanna Verdoni. Il curatore e gli autori tengono infine a ringraziare in modo particolare i parroci della cattedrale e delle quattro concattedrali per la loro grande e costante disponibilità e cortesia: don Enzo Buschi, don Gianni Carraro, mons. Pietro Spernanzoni, don Sergio Salvucci, don Vittorio Fratini. La Cattedra di Pietro e le Cattedrali Quando si entra in una Cattedrale si respira sempre un’aria solenne e misteriosa. Durante le celebrazioni presiedute dal Vescovo ci si sente subito avvolti dall’abbraccio del successore degli apostoli che guida la Chiesa particolare. Lo manifestano la mitra, il bastone pastorale e, soprattutto, la cattedra. Da quella sede il vescovo conduce, quale maestro e buon pastore, il cammino di santificazione dei fedeli, nella fede, nella speranza e nella carità. I successori degli apostoli esercitano il loro ministero nella collegialità episcopale e in comunione con il Successore di Pietro che li ha nominati e inviati. Quindi c’è un particolare legame tra ciascuna Cattedrale e la Cattedra del Successore di Pietro da cui viene la garanzia della comunione fraterna e della fedeltà all’insegnamento evangelico. Per capire quindi il valore della Cattedrale bisogna risalire al suo profondo legame con Pietro e alle parole che Gesù gli rivolge dopo la solenne professione di fede: “E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16, 18-19). Da questo straordinario potere spirituale deriva anche la responsabilità di essere il segno visibile dell’unità di tutta la Chiesa e di sostenere gli altri apostoli nell’esercizio del loro ministero. È il compito svolto da tutti i Papi fino ai nostri giorni. Dalla Cattedra di Pietro si estende a tutte le Cattedrali il paterno affetto e il fraterno incoraggiamento ad annunciare il Vangelo. Esse sono quindi il segno della continuità e della comunione apostolica “cum Petro et sub Petro” di ogni vescovo chiamato ad edificare il corpo di Cristo. La Chiesa edificata su Pietro è fatta di pietre vive che con la loro fede e il loro impegno hanno modellato le pietre delle Cattedrali scrivendo così la storia spirituale di una comunità, che in ultima analisi è storia dell’incontro con Cristo, pietra angolare posta a fondamento. “Il Signore Gesù è la pietra che sostiene il peso del mondo - ricordava Benedetto XVI a Barcellona consacrando la Sagrada Familia -, che mantiene la coesione della Chiesa […] L’unico Cristo fonda l’unica Chiesa; Egli è la roccia sulla quale si fonda la nostra fede. Basati su questa fede, cerchiamo insieme di mostrare al mondo il volto di Dio, che è amore ed è l’unico che può rispondere all’anelito di pienezza dell’uomo. Questo è il grande compito, mostrare a tutti che Dio è Dio di pace e non di violenza, di libertà e non di costrizione, di concordia e non di discordia” (Omelia, 7 novembre 2010). Con questo volume che presenta la Cattedrale di Macerata e le quattro Concattedrali di Tolentino, Recanati, Cingoli e Treia, la Diocesi riscopre le sue radici, rafforza i legami di comunione con il successore di Pietro e offre a tutti la possibilità di conoscerne la storia e lo splendore artistico. Guardando l’impressionante patrimonio di arte e di cultura presente nelle Cattedrali, si resta affascinati per la bellezza e per la quantità delle opere poste ad ornamento del luogo sacro con la finalità di esplicitare i misteri della fede attraverso linee architettoniche, immagini e sculture. Sentiamo particolarmente vere e riferite a tutte le cattedrali le parole pronunciate da Benedetto XVI a Bressanone durante un dialogo con i sacerdoti: “se contempliamo le bellezze create dalla fede, ecco, sono semplicemente la prova vivente della fede. Se guardo questa bella cattedrale: è un annuncio vivente! Essa stessa ci parla, e partendo dalla bellezza della cattedrale riusciamo ad annunciare visivamente Dio, Cristo e tutti i suoi misteri: qui essi hanno preso forma e ci guardano. Tutte le grandi opere d’arte, le cattedrali – le cattedrali gotiche e le splendide chiese barocche – tutte sono un segno luminoso di Dio e quindi veramente una manifestazione, un’epifania di Dio” (Cattedrale di Bressanone, dialogo con i sacerdoti, 6 agosto 2008). La Cattedrale di Macerata e le Concattedrali di Tolentino, Recanati, Cingoli e Treia continuino ad essere centro di unità e luogo di incontro e di abbraccio con il Mistero di Dio, che in Gesù si è fatto vicino a tutti noi. Card. Angelo Comastri Vicario Generale di Sua Santità per la Città del Vaticano Presidente della Fabbrica di San Pietro Le Cattedrali, fari del territorio Con questo volume ricco di documentazione storica e di immagini affascinanti viene data piena visibilità ad uno dei patrimoni più rilevanti del territorio maceratese e in modo particolare della diocesi di Macerata - Tolentino - Recanati - Cingoli - Treia. Le cinque cattedrali di queste antiche realtà ecclesiali, ora unite in un’unica Diocesi, sono libri aperti che narrano le vicende religiose, sociali e artistiche della nostra terra. Non sono semplici contenitori religiosi ma spazi armonici e policromi, di incantevole bellezza, che racchiudono secoli di storia, nei quali si riassume il vissuto di intere comunità, dove si respira la dimensione spirituale e trascendente dell’esistenza. Ma che cosa rappresenta una Cattedrale? Dal nome comprendiamo subito il legame inscindibile con la Cattedra del Vescovo. Fin dai primi tempi del cristianesimo il punto di riferimento, secondo il mandato di Gesù, sono stati gli Apostoli e i loro successori, i vescovi. Dalla “Cattedra” il vescovo esercita il compito di guidare, istruire e santificare il popolo a lui affidato. Il luogo quindi riflette ed esplicita la funzione del vescovo. Per questo da sempre nella storia della Chiesa le Cattedrali costituiscono il centro visibile dell’unità della comunità ecclesiale attorno al Vescovo. Nella Cattedrale si svolgono le attività più significative della comunità ecclesiale presiedute dal vescovo, in modo particolare le celebrazioni liturgiche più importanti dell’anno o altri eventi di grande rilevanza ecclesiale. Normalmente nella Cattedrale sono conservate le reliquie del patrono e sono ben visibili i segni dell’autorità e della missione del vescovo, a partire dalla sede episcopale. Le nostre cinque cattedrali raccontano, quindi, la storia delle comunità ecclesiali riunite attorno al vescovo. Le figure dei vescovi che si sono succeduti nel tempo sono ben visibili negli stemmi, nelle opere d’arte, negli interventi architettonici, nei paramenti, nelle suppellettili e negli arredi liturgici. Le cattedrali, proprio perché sono il centro visibile dell’unità della fede e luogo dove si custodisce la fedeltà alla verità rivelata, sono anche spazi dove risplende il mistero del sacro. La Cattedrale di San Giuliano in Macerata e le altre Concattedrali di Tolentino, Recanati, Cingoli e Treia sono veri e propri scrigni di bellezza. Sono luoghi dove in modo tutto particolare “il Dio invisibile si fa visibile” come ha detto il Santo Padre consacrando la basilica della Sagrada Familia a Barcellona. Lo stupore che si prova entrando in una Cattedrale deriva dall’essere avvolti dalla bellezza perché “la bellezza è la grande necessità dell’uomo - afferma ancora Benedetto XVI -; è la radice dalla quale sorgono il tronco della nostra pace e i frutti della nostra speranza. La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo” (Omelia del 7 novembre 2010). Nel prendere in mano questo volume sento la necessità di esprimere la più sentita riconoscenza agli autori e alla Fondazione Carima per un’opera così bella che ci permette di entrare, attraverso l’accuratezza degli studi e la qualità dell’apparato iconografico, nel cuore vivo e pulsante delle nostre Cattedrali. Esse sono un vanto del passato, un imprescindibile riferimento per il presente della vita sociale e religiosa, ma anche un importante messaggio di fede, cultura e civiltà da consegnare alle nuove generazioni perché anche loro possano incontrare attraverso al bellezza il mistero di Dio. È questa in fondo la ragion d’essere delle Cattedrali che, come sottolineava Benedetto XVI in una catechesi su questo tema, “ci rammentano che la via pulchritudinis, la via della bellezza, è un percorso privilegiato e affascinante per avvicinarsi al Mistero di Dio. Che cos’è la bellezza, che scrittori, poeti, musicisti, artisti contemplano e traducono nel loro linguaggio, se non il riflesso dello splendore del Verbo eterno fatto carne?” (Catechesi del 18 novembre 2009). X Claudio Giuliodori Vescovo di Macerata - Tolentino Recanati - Cingoli - Treia INDICE 15 Una storia comune Gabriele Barucca 19 La Diocesi di Macerata - Tolentino - Recanati - Cingoli - Treia: breve storia religiosa di un territorio Egidio Pietrella LE CATTEDRALI 29 MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO 31 La storia religiosa della cattedrale di San Giuliano di Macerata Egidio Pietrella 41 L’espressione del sacro alla fine del XVIII secolo: la cattedrale di San Giuliano a Macerata di Cosimo Morelli Stefano D’Amico 55 Cattedrale di San Giuliano a Macerata: la pinacoteca sacra Silvia Blasio 71 I dipinti di Ciro Pavisa nella cattedrale di Macerata Simona Breccia 75 Il tesoro della cattedrale di San Giuliano di Macerata Gabriele Barucca 85 87 99 111 121 131 137 143 TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO La storia religiosa della concattedrale di Tolentino Egidio Pietrella Dal panteum cum tricoro alla facciata neoclassica di Filippo Spada: la chiesa di San Catervo a Tolentino Stefano D’Amico Le testimonianze medievali nella chiesa di San Catervo a Tolentino Gabriele Barucca La decorazione della cappella di San Catervo Silvia Blasio Le pale d’altare nella chiesa di San Catervo a Tolentino Silvia Blasio Francesco Ferranti e l’apparato decorativo di San Catervo a Tolentino Elisa Mori Il tesoro di San Catervo a Tolentino Gabriele Barucca 151RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 153 La storia religiosa della concattedrale di San Flaviano di Recanati Egidio Pietrella 163 Carlo Orazio Leopardi e la trasformazione barocca della chiesa di San Flaviano a Recanati Stefano D’Amico 173 Il mecenatismo dei vescovi nella cattedrale di Recanati Silvia Blasio 187 ‘Arti rare’ nel tesoro della chiesa di San Flaviano a Recanati Gabriele Barucca 203 205 213 223 237 241 CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA La storia religiosa della concattedrale di Santa Maria Assunta di Cingoli Egidio Pietrella Una chiesa della Controriforma a Cingoli: Santa Maria Assunta Stefano D’Amico Le cappelle gentilizie della chiesa di Santa Maria Assunta a Cingoli: dipinti, stucchi e intaglio ligneo Silvia Blasio Donatello Stefanucci e la chiesa di Santa Maria Assunta di Cingoli Elisa Mori Il tesoro della concattedrale di Cingoli e i doni di Pio VIII Gabriele Barucca 253TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA 255 La storia religiosa della concattedrale di Treia Egidio Pietrella 265 Tra spazio longitudinale e spazio centrale: la chiesa della Santissima Annunziata di Treia di Andrea Vici Stefano D’Amico 275 Dipinti e sculture nella chiesa della Santissima Annunziata di Treia Silvia Blasio 291 Il tesoro della Santissima Annunziata di Treia Gabriele Barucca APPARATI 305 La storia delle cattedrali dallo studio dei documenti. Saggio documetario Laura Mocchegiani 326 Cronotassi dei vescovi della Diocesi di Macerata - Tolentino - Recanati - Cingoli - Treia Egidio Pietrella 335Bibliografia 15 UNA STORIA COMUNE Gabriele Barucca Le Cattedrali è il titolo di questo volume che intende dar conto degli studi intrapresi sulla cattedrale di San Giuliano a Macerata e sulle quattro concattedrali dell’attuale diocesi: vale a dire, San Catervo a Tolentino, San Flaviano a Recanati, Santa Maria Assunta a Cingoli e la Santissima Annunziata a Treia. Queste cinque chiese costituiscono da secoli il fulcro della vita religiosa e della storia delle rispettive città e diocesi preesistenti e autonome, che solo dal 1986 sono state ‘unificate’ sotto il titolo di “Diocesi di Macerata - Tolentino - Recanati - Cingoli -Treia”, affidata alla cura pastorale di un solo vescovo. A guardar bene, la “piena unione” delle cinque diocesi, stabilita dalla Congregazione dei Vescovi con decreto del 30 settembre 1986, è l’ultimo atto di un lungo percorso iniziato nel Medioevo, che ha registrato mutate pertinenze territoriali delle diverse diocesi e divisioni nella giurisdizione ecclesiastica di questo vasto territorio, che coincide all’incirca con la metà dell’attuale provincia di Macerata e che peraltro è connotato da una marcata identità culturale. Queste cinque chiese, che accolgono le reliquie dei santi patroni - ora venerati come compatroni dell’intera diocesi posta sotto l’alto patronato della Madonna della Misericordia – si arricchirono nel corso dei secoli di memorie sacre e devozionali illustrate da innumerevoli e pregevoli lavori di pittura, scultura e di arti suntuarie. Nel corso del tempo su questi stessi edifici monumentali si intervenne ripetutamente, rinnovandoli e parzialmente trasformandoli; questo riflette in modo rivelatore non solo la necessità di adattarli al gusto moderno connesso al mutare delle forme e del repertorio decorativo, ma anche la volontà di arricchirli continuamente. Questa volontà di rinnovamento ha il più delle volte prevalso sulla spinta altrettanto forte a conservare e mantenere, che si è spesso concretizzata nel riuso di gran parte degli apparati decorativi mobili, come le pale d’altare, gli arredi e, naturalmente, le suppellettili sacre d’uso. Questo processo duplice illustra a meraviglia il valore di queste cattedrali, ed è senza dubbio da leggere in rapporto con la loro funzione pubblica e con l’importanza che esse, più delle altre chiese e santuari, rivestirono per le comunità, di cui rappresentavano il segno dell’unità e della loro stessa identità. Esse sono il riflesso di un’intensa vita religiosa, che, intrecciata alle vicende politico-amministrative e sociali, anche di lotte intestine e calamità naturali, ha costruito una identità cattolica di riconosciuta evidenza e peculiarità. Questa tradizione è significativamente attestata nel corso dei secoli da un ragguardevole numero di personaggi, provenienti dall’ambito della diocesi di recente ‘unificata’, trasferitisi nella capitale per entrare nella prelatura e in molti casi elevati alla suprema dignità della sacra porpora, nonché splendidamente illuminata da santi, come Vincenzo Maria Strambi, vescovo di Macerata e Tolentino dal 1801 al 1824, e da un pontefice, Pio VIII, il cingolano Francesco Saverio Castiglioni che agli inizi del suo cursus honorum che lo portò a ricoprire le più eminenti cariche ecclesiastiche fu Proposto del Capitolo della cattedrale di Cingoli dal 1795 al 1800. Figure tutte che non mancarono di lasciare memoria della loro munificenza e devozione, nonché di affermare il prestigio del proprio ruolo attraverso splendide committenze artistiche e preziosi doni, tuttora in parte conservati nelle diverse chiese. Il volume intende dunque presentare queste cattedrali per la prima volta come capisaldi di una ‘storia comune’ di un unico organismo attraverso contributi di studio specialistici e immagini inedite. Arte umbra, Natività, vetro dorato e graffito. Recanati. Museo Diocesano (particolare) 17 Nel corso dell’indagine si sono comunque toccati momenti più larghi della storia culturale e religiosa del territorio. Sono emersi dalle ricerche i vari momenti di un percorso culturale, politico e religioso comune che tuttavia non ha comportato l’omologazione dei caratteri delle cinque chiese, ognuna ricca di peculiarità molteplici legate di volta in volta a diversi fenomeni: l’affacciarsi di alcuni protagonisti di spicco nell’ambito della gerarchia ecclesiastica come papi e cardinali, attenti e munifici nei confronti delle singole realtà da cui provenivano, oppure il forte impegno dei vescovi diocesani nel campo del mecenatismo artistico o ancora l’energica partecipazione delle famiglie del patriziato cittadino riguardo all’acquisizione dei giuspatronati e alle commissioni artistiche, spesso indirizzate verso artefici di primo piano, ma cui corrispose anche la vivace reazione delle maestranze locali. Peraltro i limiti anche di spazio lasciano ancora tanti aspetti e problemi aperti, ma questa è la sorte che spesso tocca alla ricerca. L’ambizione è comunque quella di suscitare non soltanto in ambito locale l’interesse di un pubblico vasto e per quel che riguarda gli specialisti nei vari settori di ricerca di aver elaborato una sorta di fonte primaria per i necessari futuri riscontri e gli opportuni approfondimenti degli studi finora intrapresi, soprattutto nell’ambito della storia istituzionale e di quella socio-religiosa. Il proposito di voler illustrare questi edifici e ciò che ancora conservano, di trascrivere le carte d’archivio inedite, di definire in modo preciso le coordinate spazio-temporali delle opere d’arte ha come intento non secondario quello di rammentare perentoriamente a tutti, ciascuno nelle proprie competenze, la sempre più urgente necessità di tutelare questi beni culturali, considerati come insiemi di straordinario valore storico e simbolico. La tutela va riaffermata come esigenza culturale, ideale e pratica primaria, attraverso cui garantire la conservazione del patrimonio, della cui valorizzazione sociale e anche economica si potrà parlare solo in un momento successivo. Il volume si apre con un saggio di inquadramento storico ecclesiastico, che dà conto delle complesse vicende che hanno portato alla definizione dell’attuale diocesi. A corredo di questo capitolo si pubblica in appendice la cronotassi degli ordinari delle diverse sedi episcopali preesistenti sulla base della Hierarchia Catholica Medii et Recentioris Aevi. Seguono cinque ampie sezioni riservate ciascuna alle singole chiese, secondo uno schema che prevede per ogni edificio sacro l’analisi storica della fondazione, la descrizione della forma e struttura architettonica, lo studio delle vicende artistiche con particolare riguardo agli aspetti della decorazione pittorica e scultorea, nonché l’illustrazione degli arredi, dei paramenti e dei tesori di suppellettili ecclesiastiche. A corredo del volume sono infine pubblicati i documenti più significativi riguardo alle vicende storiche e di vita religiosa di ogni cattedrale. A conclusione di questa breve presentazione, è opportuno ricordare che i saggi qui raccolti sono stati redatti da specialisti nei vari settori di ricerca. La campagna fotografica è stata in gran parte condotta da Massimo Zanconi. Il progetto grafico e l’impaginazione dei testi è di Mirta Cuccurugnani. Nella revisione delle bozze e della bibliografia un prezioso aiuto mi è stato dato da Stefano D’Amico. L’impegno da parte di tutti è stato costante e premuroso, a tutti va la mia profonda gratitudine. A monsignor Claudio Giuliodori, vescovo di Macerata-Tolentino-Recanati-Cingoli-Treia, che ha sostenuto l’idea di questo volume, e a Franco Gazzani e Renzo Borroni, rispettivamente presidente e segretario generale della Fondazione Cassa di risparmio della provincia di Macerata, che con particolare generosità hanno voluto ospitarlo nella loro prestigiosa collana di libri strenna, vanno i miei ringraziamenti più vivi. Giovan Battista Foschi (?), Fuga in Egitto. Treia, concattedrale (particolare) 19 LA DIOCESI DI MACERATA - TOLENTINO - RECANATI - CINGOLI - TREIA: BREVE STORIA RELIGIOSA DI UN TERRITORIO Egidio Pietrella La diocesi di Macerata - Tolentino - Recanati - Cingoli - Treia conta circa centoquarantamila abitanti e comprende tredici Comuni tutti della Provincia di Macerata: Appignano, Cingoli, Colmurano, Macerata, Montecassiano, Montefano, Montelupone, Pollenza, Porto Recanati, Recanati, Tolentino, Treia, Urbisaglia. L’attuale diocesi, “unificata” con il decreto della Congregazione dei Vescovi del 30 settembre 1986, reso esecutivo il 30 gennaio 1987, è il risultato dell’unione di cinque diocesi precedentemente autonome che hanno avuto una determinata serie di vescovi e una storia religiosa e civile propria. Con il presente saggio si vuole presentare una breve ricostruzione storica di una diocesi così molteplice, seguendone cronologicamente l’implantatio evangelica e l’aedificatio ecclesiae nelle varie comunità di tutto l’attuale territorio diocesano. Nel secolo III il Piceno conosce certamente il cristianesimo, portatogli da Roma e dall’Oriente.1 Nella seconda metà del V secolo, restando nell’ambito dei tredici Comuni dell’attuale diocesi unificata e del territorio limitrofo, sono sicure sedi vescovili: Cingulum, Potentia, Pausulae, Urbs Salvia, Tolentinum, Camerinum, Firmum e, molto probabilmente, Trea.2 Un vero “terremoto” sul piano politico-sociale e religioso provocò l’invasione dei Longobardi (573): molti vescovi fuggirono in altre città, alcune diocesi scomparvero per sempre, altre si ricostruirono dopo molti anni.3 Nel nostro territorio scomparvero quelle di Cingoli, Tolentino, Urbisaglia, Potenza, Treia e per qualche tempo di Osimo. Fermo, che aveva subito immense rovine con i Longobardi, neppure un secolo dopo incorporava i territori delle diocesi di Pausulae, Potentia e altre dell’attuale provincia di Ascoli Piceno.4 Nei secoli IX-XIV nel nostro territorio diocesano esistono due grandi circoscrizioni ecclesiastiche: Camerino e Fermo; tre circoscrizioni minori: Numana, Osimo e Recanati, la quale ultima è costituita sede vescovile nel 1240 con la bolla Recte considerationis e con l’erezione a cattedrale della chiesa di San Flaviano, per soppressione momentanea (1240-1264) della sede di Osimo, che aveva aderito all’imperatore Federico II costringendo alla fuga il vescovo locale Rinaldo. Varia fu la storia della diocesi di Recanati.5 Alleatasi con re Manfredi, dal 1263 fino al1289 fu privata della sede vescovile e sottoposta a Numana; tornata sede vescovile nel 1289, i ghibellini nel 1320 costrinsero il vescovo Federico Nicolò di Giovanni (Sanguigni) a rifugiarsi a Macerata, che fu così elevata a città e diocesi dal papa Giovanni XXII. Restituita a Recanati la sede vescovile con il vescovo Nicolò di San Martino nel 1357, da allora fino al 1586 la diocesi di Recanati restò unita aeque principaliter con quella di Macerata e il suo vescovo era denominato “vescovo di Recanati e Macerata”. Con la riforma delle diocesi operata da Sisto V nel 1586, Recanati fu annessa a Loreto fino al 1592, quando, riottenuta la sede vescovile, i suoi furono indicati sempre come “vescovi di Recanati e Loreto” fino al 1934, quando il papa Pio XI con la bolla Lauretanae Basilicae del 5 settembre soppresse la cattedra vescovile di Loreto e pose il Santuario sotto la diretta autorità della Santa Sede, esercitata in suo nome da un amministratore pontificio a cui fu concessa la giurisdizione sul territorio di Loreto con le facoltà dei vescovi residenziali per la cura spirituale dei fedeli. Recanati restò diocesi, continuando ad avere sotto la sua giurisdizione i Comuni di Porto Recanati, Castelfidardo, Montecassiano, Montelupone e vescovi propri fino al 1968, quando la diocesi fu retta, in qualità di amministratori apostolici (19701976), dai vescovi di Macerata: Ersilio Tonini e Vittorio Cecchi (amministratori apostolici) e successi- Cristoforo Unterperger, San Giuliano invoca per Macerata la protezione della Vergine. Macerata, cattedrale di San Giuliano (particolare) 20 vamente da mons. Francesco Tarcisio Carboni come vescovo ordinario unico di tutte e cinque le diocesi ancora autonome (1976-1986). Sul piano religioso e civile sono da ricordare due fatti importanti: la “venuta” a Loreto, secondo la tradizione, della Santa Casa di Nazareth nel 1294; l’episcopato di Angelo Correr, che, eletto papa a Roma nel 1406, rinunciò al pontificato per contribuire alla soluzione dello scisma d’Occidente, riservandosi l’amministrazione della diocesi di Recanati e Macerata; morto a Recanati nel 1417, fu sepolto nell’attuale concattedrale di San Flaviano. Le chiese degne di essere ricordate entro le mura urbane sono: San Flaviano (identificato con il vescovo di Costantinopoli, martire, protettore della diocesi, la festa del quale si celebra il 24 novembre) che fu costruita nell’alto medioevo, in altro luogo extra moenia, successivamente intra oppidum ed elevata a ruolo di cattedrale; San Vito (protettore della città di Recanati, la cui festa cade il 15 giugno), pieve medievale, che officiarono successivamente i Carmelitani (1458-1524), i Gesuiti (1577-1773) con annesso collegio; Santa Maria in Montemorello, antica pieve e collegiata; San Domenico, costruita dai Domenicani alla fine del ‘200, dove si venera il simulacro della Madonna del Rosario (o della “Vittoria”, ottenuta dai cristiani nel 1571 a Lepanto), per la quale Lorenzo Lotto dipinse il celebre polittico e l’immagine di San Vincenzo Ferrer; Sant’Agostino edificata dagli Agostiniani ai primi del Trecento e lasciata nel 1986; San Filippo, costruita dai padri Filippini con annesso oratorio nella seconda metà del ‘600. In periferia Santa Maria in Castelnuovo, officiata in origine dai Camaldolesi di Fonte Avellana e successivamente retta da un “proposto” del luogo; San Francesco costruita dai Francescani Conventuali con annesso convento, vivente ancora il santo di Assisi; la chiesa di Santa Maria di Varano, già nota dal 1249 e poi dei Minori Osservanti, con annesso convento; la chiesa di Chiarino, già dei frati Clareni, con annesso il loro convento; nel comune di Montelupone l’abbazia di San Firmano, anteriore al sec. X. Degli antichi Ordini religiosi residenti un tempo in gran numero a Recanati (Camaldolesi Avellaniti in Castelnuovo; Agostiniani, Domenicani, Francescani Conventuali, Carmelitani, Francescani Minori, Gesuiti, Filippini; Apostolini, Francescani Cappuccini in città) non resta più nessuno; ora vi hanno sede solo i Padri Passionisti, che nel 1783 costruirono il loro “Ritiro”, tuttora attivo come loro sede provincializia e annessa chiesa con funzione di parrocchia (Santa Maria della Pietà). A Porto Recanati operano i Salesiani (S. D. B.) nella Parrocchia del Preziosissimo Sangue con annesso oratorio giovanile; i Missionari della Fede, che reggono l’antica parrocchia di San Giovanni Battista. A Montefano i Frati Servi di Maria dirigono un centro di studi biblici. Le Comunità femminili (tutte di fondazione più recente) presenti sono: in Recanati le Figlie di S. Maria della Divina Provvidenza (fondate da don Guanella); a Porto Recanati le Suore adoratrici del Sangue di Cristo (con scuola materna); a Montelupone le Ancelle del Sacro Cuore di Gesù agonizzante (con scuola materna). La vicaria di Recanati, dopo il riordino e l’unificazione delle antiche diocesi, comprende cinque Comuni (Montecassiano, Montefano, Montelupone, Porto Recanati, Recanati) ed è suddivisa in tre zone pastorali, per un totale di diciotto parrocchie.6 Seguendo l’ordine cronologico dopo il sec. XIII, Macerata7 fu la seconda - tra le cinque diocesi ora unificate - ad essere creata diocesi con la bolla Sicut ex debito di Giovanni XXII data in Avignone il 18 novembre 1320, in cui la città- già libero Comune dal 29 agosto del 1138 affrancatasi dai vescovi di Fermo- è definita insignis, populosa et apta e i Maceratesi riconosciuti ecclesiae devoti filii et fideles. La diocesi - sorta, come si è detto, a spese di quella di Recanati ghibellina - si estendeva all’inizio fino al mare e comprendeva con Recanati anche il territorio di Loreto. Macerata progressivamente incominciò ad acquisire un’importanza sempre maggiore, in quanto agli inizi del XIV sec. veniva scelta come sede preferita dai Rettori e dai Vicari della Marca, e come città della Tesoreria e della Curia Generale; ebbe il privilegio di battere moneta fin dal 1392 e circa un secolo prima vi era stato fondato uno studio 21 di giurisprudenza (1290) per opera di Giulioso di Montegranaro. Restituita la diocesi a Recanati dal papa Innocenzo VI nel 1357, ad essa fu unita quella di Macerata e il vescovo da allora fino al 1586 fu chiamato “vescovo di Recanati e Macerata”. Non ebbe risultato positivo - per le forti opposizioni dei vescovi di Camerino e di Fermo - il proposito di Urbano V (1370) di allargare i confini della diocesi di Recanati e Macerata, con l’annettere ad esse i comuni di Treia, Montemilone (Pollenza), Montecassiano, Montolmo (Corridonia), Monte Santo (Potenza Picena), Montelupone, Civitanova e altri centri minori. Il papa marchigiano Sisto V il 17 marzo 1586 separò definitivamente la diocesi di Macerata da quella di Recanati e con la bolla Super universas del 10 settembre dello stesso anno unì ad essa la restituita diocesi di Tolentino con la clausola che “il vescovo di Macerata sia il vescovo di ambedue le diocesi e sebbene si chiami vescovo di Macerata, tuttavia nelle lettere e negli atti riguardanti la città e la diocesi di Tolentino debba ordinariamente sottoscriversi: vescovo di Macerata e Tolentino”. Giuridicamente le due erano diocesi autonome, unite aeque principaliter ad personam unius episcopi e tali resteranno fino alla piena unione del 30 settembre 1986, usufruendo di uniformità nella guida pastorale ad opera dello stesso vescovo e vivendo un buon clima di collaborazione e una certa affinità di storia religiosa. Prima di questa data Tolentino8 ebbe una lunga ed attiva vicenda civile-religiosa. Colonia e poi municipio romano, Tolentino (forse dall’etrusco Tul, confine) ricevette il cristianesimo in data molto antica, probabilmente ancor prima che vi arrivasse nella seconda metà del IV secolo Flavio Giulio Catervo, “battezzato e cresimato dal vescovo Probiano”, che ivi quievit in pace e fu sepolto, insieme alla moglie Settimia Severina e al figlio Basso, nel sarcofago della fine del IV secolo collocato, fino al 1820, in un solenne Pantheum cum tricoro, di cui recentemente (10 e 30 dicembre1992) è stata eseguita la quinta ricognizione canonica. Venerato come martire e scelto come protettore anche dal libero Comune (formatosi nel 1099), presso il suo mausoleo nei secoli VII-VIII si costituì un insediamento benedettino (cella Sanctae Mariae, Sancti Catervi, Sancti Salvatoris) con chiesa, ricostruita nel 1256 in stile romanico e rimasta in piedi fino al 1820, rinnovata in stile neoclassico e terza sede di cattedrale (attuale concattedrale di S. Catervo), officiata, dopo la partenza dei Benedettini, dai Canonici Regolari Lateranensi (1509- fine sec. XVIII) cui subentrò il clero diocesano. Con l’invasione dei Longobardi anche Tolentino restò privata della sede vescovile (dopo Probiano è ricordato il vescovo Basilio che partecipò ai concili romani del 487, 489, 502) e passò sotto la giurisdizione della diocesi di Camerino che ne riorganizzò la vita pastorale, istituendovi nell’alto medioevo la pieve di Sant’Andrea, nel contado a sud della città, e la pieve di Santa Maria nel centro urbano, chiesa matrice, con altre chiese soggette, unica ad avere il battistero e la cura animarum, retta da un collegio di canonici (collegiata) a capo dei quali era l’arciprete. Elevata a cattedrale da Sisto V, tale restò fino al 1653, quando la cattedrale passò nella chiesa di San Francesco (fino al 1810), lasciata dai francescani Conventuali che l’avevano costruita nel 1250. Ricostruita ex novo (nel 1746) a pianta centrale, la chiesa di Santa Maria Nuova (come da allora fu chiamata e dove si incominciò a venerare la trecentesca statua della Vergine col Bambino sotto il titolo di “Madonna della Tempesta”), divenne tempio mariano della città, successivamente parrocchia (1926-1966), e in seguito tempio ed ora (dal 1 settembre 2002) santuario mariano. Fin dal Duecento numerosa e significativa a Tolentino fu la presenza degli Ordini religiosi sorti nel medioevo. Un gruppo di eremiti agostiniani dalla campagna a sud di Tolentino verso il 1250 entrarono in città nella chiesa di Sant’Agostino (chiamata dal 1456 di San Nicola dal nome del santo che qui a lungo santamente visse e morì); ampliata e arricchita di pregevoli opere d’arte, nonostante le soppressioni degli Ordini religiosi da parte di Napoleone e del nuovo Stato italiano, sopravvisse con il suo convento ed, elevata a santuario-basilica, divenne sempre più un grande centro di spiritualità, 22 arte, cultura fino ad oggi. Nella campagna di Rosciano si insediò il primo gruppo di francescani Conventuali, che poi trasferitisi in città, costruirono la chiesa di San Francesco con annesso convento. I Clareni dal 1370 vissero in un romitorio nella boscaglia ad ovest di Tolentino presso la chiesa di Santa Maria del Cesolone, dove poi si insediarono i Minori Osservanti (dedicando la chiesa al santo francescano Diego d’Alcalà), per passare nel 1607 in città nella chiesa di Santa Maria di Loreto che ricostruirono insieme al convento. Per la legge del regio commissario Valerio il tutto fu requisito dallo Stato italiano nel 1866 e trasformato in ospedale. I Cappuccini insediatisi dapprima in campagna (collina di S. Pietro) entrarono in Santa Maria Costantinopolitana ove restarono fino alla soppressione governativa del 1866. Creata parrocchia con il titolo di “SS. Crocifisso”, la chiesa fu officiata prima dal clero diocesano, poi affidata ai religiosi Salesiani che vi crearono l’oratorio, per tornare al clero secolare da cui ora è retta. Furono presenti altri Ordini religiosi (Terzordine francescano, Girolamini, Silvestrini) e monasteri femminili: di Sant’Agnese (con regola francescana), di Santa Maria della Misericordia (con regola benedettina), delle Cistercensi. Ora resta solo il monastero delle Carmelitane (dal 1779) e le suore “Maestre Pie Venerini”, di più recente istituzione, che gestiscono una scuola materna. Nella relatio ad limina del 1609 il neo vescovo Morone elenca tre chiese con cura animarum: la cattedrale di Santa Maria, la collegiata di San Giacomo, la chiesa di San Catervo. Due erano le chiese extraurbane con cura animarum: la pieve di Sant’Andrea e di Santa Maria Maddalena di Paterno. In Colmurano, soggetta giuridicamente alla diocesi di Tolentino, esistevano due chiese parrocchiali: San Donato, Santa Maria Annunziata. Nel 1653 fu aperto il seminario che, trasferito (1850) poi in un edificio annesso alla cattedrale di San Catervo, restò aperto, salvo brevi interruzioni, fino al 1975. Degli antichi Ordini religiosi (Benedettini, Francescani: Conventuali, Minori, Terzordine regolare, Cappuccini; Silvestrini, Girolamini) trasferitisi o soppressi dal nuovo Stato italiano, restano solo gli Agostiniani. Tolentino è ricordata nella storia anche per il trattato di pace tra Napoleone e i legati del papa Pio VI (17 febbraio 1797). I santi protettori della diocesi e città di Tolentino sono: san Catervo martire (17 ottobre); san Nicola da Tolentino (10 settembre); San Tommaso da Tolentino, francescano conventuale, martire in India nel 1321 (24 ottobre); San Donato vescovo e martire del IV secolo patrono di Colmurano (7 agosto); la “Madonna della Tempesta” (17 maggio). Dopo la riorganizzazione del 1986, la vicaria di Tolentino comprende otto parrocchie (Colmurano fa parte della vicaria di Macerata).9 Ritornando alla diocesi di Macerata, che con Tolentino ha avuto legami più stretti per quattrocento anni, c’è da ricordare che ad essa - limitata territorialmente alla città e al piccolo contado all’intorno - solo nel 1588 furono assegnati i comuni di Pollenza e di Urbisaglia (già sotto giurisdizione camerte) sempre dallo stesso Sisto V, il quale il 24 maggio del 1586, innalzata a metropolitana la sede vescovile di Fermo, ad essa aggregò come suffraganee Macerata, Tolentino, Ripatransone, Montalto e S. Severino. Per compensare i maceratesi della perduta dipendenza dalla Santa Sede, il pontefice marchigiano istituì in quello stesso anno a Macerata il tribunale della Sacra Rota, a cui sottopose lo stesso arcivescovo di Fermo. Tra i vescovi di Macerata si venerano un beato (beato Pietro Mulucci, dei Francescani Conventuali) e un santo (San Vincenzo Maria Strambi, della Congregazione dei Passionisti, la cui memoria ricorre il 25 settembre). I santi protettori sono San Giuliano (31 agosto) e la Madonna della Misericordia (1 settembre), alla quale è dedicato il piccolo santuario diocesano adiacente alla cattedrale, ricco di opere d’arte (a cominciare dalla preziosa tela cinquecentesca della Mater Misericordiae), gioiello d’arte vanvitelliana (1730-1742), centro vivo, oltre che di fede e devozione, di memorie antiche e recenti, che fanno tutt’uno con la storia civile e religiosa della diocesi e della città. Altre chiese da segnalare sono la cattedrale, dedicata al patrono San Giuliano, sorta prima del Mille come pieve sul podium Sancti Juliani, ricostruita nel 1422, di cui resta la torre, e nel 1771-1790, l’attuale, che con- 23 serva tra le altre cose pregevoli, l’urna d’argento con il braccio di S. Giuliano e il Corporale macchiato del Sangue miracolosamente sgorgato da un’ostia consacrata. In città sono degne di nota: la chiesa inferiore dell’attuale Santa Maria della Porta, esistente fin dal IX secolo e dedicata a Maria Assunta, formata da due navate, divisa da tre colonne in laterizio; su quella primitiva fu costruita un’altra nuova chiesa verso la metà del Trecento, con lo splendido portale in cotto; la chiesa di San Giorgio, esistente già nel XIV secolo, dove si venera l’immagine della Madonna della Salute, attribuita al Sassoferrato; la chiesa di San Giovanni, costruita nel 1625 e officiata fino al 1773 dai Gesuiti che avevano attiguo il collegio, ora biblioteca comunale; San Filippo, costruita dai Padri Filippini nel 1624 e ampliata più volte e arricchita di ornamenti e opere d’arte secondo lo stile dell’Ordine. Nei dintorni, della metà del Cinquecento è la monumentale chiesa a croce greca di Santa Maria delle Vergini, ricca d’opere d’arte e di decorazioni, tra cui spicca l’Adorazione dei Magi di Domenico Tintoretto. Nel comune di Pollenza si trova l’Abbazia di Rambona dell’VIII secolo; nel comune di Tolentino è l’Abbazia di Fiastra dedicata alla Vergine Annunziata, costruita nel 1142 dai monaci Cistercensi, che dopo lunga assenza vi sono tornati nel 1985. Numerosi furono gli Ordini religiosi che in vari momenti s’insediarono a Macerata: Agostiniani eremitani; Agostiniani Scalzi; agostiniani della Congregazione lombarda; Barnabiti, Benedettini, Camaldolesi; Cistercensi; Somaschi, Gesuiti, Domenicani; Francescani Conventuali, Minori Osservanti, Cappuccini; Filippini, Signori della Missione: alcuni se ne andarono di loro iniziativa, altri furono soppressi dalle leggi eversive napoleoniche o dello Stato italiano e i loro beni e conventi incamerati (Domenicani, Minori Osservanti, Conventuali, Cappuccini, Agostiniani di Lombardia, Barnabiti, Signori della Missione, Monastero delle Clarisse). I Cappuccini sono tornati nel 1890, i Minori nel 1957; I Monaci Cistercensi sono tornati (1985) nella loro abbazia di Chiaravalle di Fiastra; i Padri Carmelitani reggono la parrocchia di Santa Maria delle Vergini; i Salesiani (S.D.B.) dirigono (dal 1890) il loro Istituto con scuola media, liceo scientifico e liceo linguistico europeo. Nella vicaria di Macerata sono presenti attualmente due monasteri femminili: delle Domenicane del “Corpus Domini” (a Macerata), delle Clarisse (Pollenza); inoltre tre comunità religiose femminili di più recente istituzione: a Macerata sono le Suore di S. Giuseppe di Torino con Istituto scolastico di scuola materna ed elementare; le Figlie dell’Addolorata con scuola materna; le Suore di Gesù Redentore (a Villa Potenza di Macerata). Il Seminario, aperto nel 1615, ebbe varie sedi, le cui ultime due furono: l’ex convento degli Agostiniani (1830) nell’attuale piazza Strambi (ora sede universitaria) e in via Cincinelli dal 1954 al 1980. Degni di ricordo sono, tra gli altri, due eventi storici del XX secolo: la proclamazione di Macerata Civitas Mariae avvenuta per volontà del popolo nel 1952; la visita del papa Giovanni Paolo II il 19 giugno del 1993, quando benedisse la prima pietra del seminario diocesano missionario Redemptoris Mater ora attivo e operante. Attualmente la vicaria di Macerata comprende quattro zone pastorali per un totale di venticinque parrocchie (Colmurano, Urbisaglia, Pollenza incluse).10 Cingoli,11 oppidum romano, ampliato e fortificato da Tito Labieno luogotenente di Cesare, accolse fin dai primi secoli il cristianesimo: sicura è l’esistenza del vescovo Giuliano (VI sec.). Con l’invasione dei Longobardi perde anch’essa la sede vescovile e il suo territorio risulta sotto la guida del vescovo di Osimo fino al 1725 e in minima parte, quella montana, sotto Camerino. Nell’alto medioevo presso le mura della rocca romana fu edificata la pieve di Santa Maria, su cui più tardi fu costruita la chiesa di Santa Maria Assunta, che divenne collegiata e che nel sec. XVII fu ceduta alla Congregazione dei Filippini (e chiamata tuttora San Filippo), quando il popolo e il Comune (che ne è proprietario) fecero ricostruire la chiesa sul luogo attuale, assumendo essa il ruolo di parrocchia e il titolo di Santa Maria 24 Assunta: è l’attuale concattedrale di proprietà del Comune. Lungo il corso dei secoli Cingoli ha espresso la propria religiosità con numerosi altri luoghi di culto: la chiesa di San Esuperanzio, sorta su una preesistente costruzione nel 1278, che conserva le reliquie del santo, protettore della città (costituitasi Comune nel 1150), la cui festa si celebra il 24 gennaio; di Santa Sperandia, parente di Sant’Ubaldo di Gubbio, che si fece benedettina a Cingoli, divenendo badessa e morendovi nel 1276: è venerata come compatrona della città con festa liturgica l’11 settembre; di San Domenico che conservava la tela della Madonna del Rosario di Lorenzo Lotto; di San Francesco, di San Giacomo apostolo, Santa Croce (dei Padri Cappuccini), di San Girolamo, di San Benedetto, di Santa Caterina e altre ancora tutte nel centro storico o nelle immediate vicinanze. Nel territorio circostante sorsero il monastero dei Santi Quattro Coronati, l’Abbazia di San Vittore, San Flaviano, Sant’Anastasio; Sant’Elena di Avenale che originariamente fu pieve; San Giovanni Evangelista (Villa Strada) è nominata nel X secolo; Troviggiano fu collegiata con chiese dipendenti; altre chiese antiche, risalenti fin dal X secolo - sebbene ricostruite nel corso del tempo - sono San Michele Arcangelo (Castel S. Angelo), San Nicolò da Bari (Moscosi). Nel 1725, con bolla del 19 agosto del papa Benedetto XIII, Cingoli ottenne di nuovo la diocesi con il vescovo Agostino Pipia cardinale e già ministro generale dell’Ordine dei Predicatori; fu unita aeque principaliter con Osimo e il suo vescovo fu chiamato vescovo di Osimo e di Cingoli e tale organizzazione durò fino al 1964. Seguì poi la fase degli amministratori apostolici dei vescovi di Macerata: Cassulo (1964-1968), Sabattani (arcivescovo e prelato di Loreto, allora amministratore apostolico di Macerata sede vacante) (1968- 69), Tonini (1969-1975), Cecchi (vescovo ausiliare di Macerata) (1975-76). Subentrò poi mons. Carboni quale vescovo delle 5 diocesi autonome (1976-1986), prima della “piena unione”. Tra i cittadini più illustri, oltre il luogotenente di Cesare Tito Labieno, Cingoli ricorda il papa Pio VIII (1829-1830), Francesco Saverio Castiglioni. Dei numerosi Ordini religiosi presenti un tempo (Avellaniti, Agostiniani, Francescani Minori Osservanti e Conventuali, Domenicani, Filippini, Silvestrini, Monache Cistercensi), restano ora le Monache Benedettine e le Francescane della Beata Angelina. Con il riordinamento della “piena unione” del 30 settembre 1986, la vicaria di Cingoli ha recuperato alcune parrocchie, denominate “Ville montane”, che pur facendo parte del Comune di Cingoli, appartenevano alla diocesi di Camerino. Attualmente la vicaria di Cingoli comprende nove parrocchie.12 Treia13 fondata probabilmente dai Sabini, fu municipio romano (Trea o Trajana) che sorgeva a due chilometri dal colle dove è situata oggi la città, nella contrada attuale del Santissimo Crocifisso. Analogamente ad altre antiche città romane vicine, ricevette ben presto il cristianesimo e molto probabilmente fu sede vescovile, anche se non ci sono rimasti nomi di vescovi né riferimenti espliciti. Le invasioni barbariche, specialmente dei Longobardi, ne sconvolsero l’assetto civile e religioso e Treia, come altre città del Piceno, rimase privata della sede vescovile e il suo territorio, presumibilmente alla fine del VI secolo, passò sotto la guida spirituale della superstite diocesi di Camerino e vi restò fino al 1816. Più volte nel corso dei tempi i Treiesi richiesero (a Sisto V, a Pio VI) la sede vescovile. Finalmente Pio VII il 1 settembre 1816 restituì a Treia la diocesi immediatamente soggetta alla Sede Apostolica, sotto l’amministrazione dei vescovi di Camerino. Nel frattempo nel nuovo centro urbano collinare di Montecchio che si formò nel basso Medioevo, sul luogo dell’antica chiesa di San Giovanni Battista risalente al XII secolo, nel 1814 era stata ultimato con grande entusiasmo della comunità un nuovo tempio, consacrato il 29 settembre da San Vincenzo Maria Strambi, vescovo di Macerata e Tolentino, destinato ad essere cattedrale (attuale concattedrale), che divenne la chiesa principale della città e del 25 territorio, che fu dotata progressivamente di pregiate opere d’arte, tra cui: la tela dell’Annunciazione, (copia dell’Annunciazione di Guido Reni) a cui fu dedicata la cattedrale. Con il primo amministratore apostolico furono istituiti il seminario (1837) e la nuova parrocchia di Passo di Treia (1828) dedicata a Sant’Ubaldo. Il 4 novembre 1914 Treia subì una nuova organizzazione ecclesiastica: passò sotto l’amministrazione apostolica di San Severino Marche e vi rimase fino al 1966, quando ebbe come amministratori apostolici i vescovi di Macerata Cassulo (1966-1968); Sabattani, prelato di Loreto e amministratore apostolico di Macerata (1968-69), Tonini (1969-1975), Cecchi (1975-76); dal 1976 al 1986 la resse come vescovo ordinario mons. Carboni fino alla “piena unione” del 30 settembre 1986. I numerosi luoghi di culto disseminati nel territorio testimoniano l’intensa e costante vita religiosa vissuta dalla comunità nel corso del tempo. Sull’antico tempio pagano sorse la pieve di Santa Maria in tempi molto remoti, nell’alto medioevo; sull’antico castello dell’ Onglavina (dal nome di una principessa longobarda) fu costruita una chiesa dedicata a San Michele: ricostruita nel 1357 in stile romanico e dopo vari altri restauri si è conservata fino a noi, svolgendo anche la funzione di parrocchia. I francescani Conventuali, alloggiati tra il 1240 e 1250 presso la chiesetta di Santa Margherita (vicino a porta Vallesacco), costruirono dentro Montecchio nel Trecento la chiesa di San Francesco, restaurata nella prima metà del ‘700, arricchita di opere d’arte, lasciata nel 1966. La presenza dei Francescani fu contrassegnata anche dalla venuta dei Clareni (rigidi osservanti della povertà) nella mistica solitudine di Valcerasa, dove visse anche il beato Pietro di Treia (morto nel 1304). Oggi dei Francescani restano i Minori Osservanti chiamati qui nel 1671 come custodi del santuario dedicato al Santissimo Crocifisso, che ai primi del ‘400 aveva sostituito l’antica pieve trasferita nel nuovo centro urbano organizzatosi sulla vicina collina. L’attuale complesso del SS. Crocifisso è composto dalla chiesa restaurata nel XX secolo e dal convento dei secoli XVII-XVIII. La congregazione dell’ Oratorio di San Filippo Neri venne eretta nel 1631 e sul luogo dove esisteva la chiesa di Sant’Antonio Abate (demolita nel 1366) fu costruito nella seconda metà del ‘700 il tempio di S. Filippo, con attiguo convento per i Filippini. Fuori del centro urbano sono da ricordare: la pieve di San Lorenzo (attestata dal XIII secolo); Santa Maria in Selva (cosiddetta per la presenza di boschi): edificata sulle rovine di una chiesetta fatta costruire fin dal 1042 dai signori del castello di Ajano (ora non più esistente), fu aggregata nel 1096 all’Abbazia di Rambona da papa Urbano II, già monaco benedettino. Nel 1151 l’abate di Rambona donò tutte le proprietà di Santa Maria in Selva all’abbazia di Santa Maria di Chiaravalle di Fiastra, legandola alle sue vicende per molti secoli e facendone un punto di riferimento importante per lo sviluppo religioso e culturale della zona. Dal 1581 la tenuta di Santa Maria in Selva di molto ampliata, vide le sue vicende legarsi prima a quelle della Compagnia di Gesù (il cui collegio romano divenne proprietario dell’Abbazia di Fiastra) e dal 1773 a quelle della nobile famiglia dei Bandini di Camerino, a cui passarono gli averi dell’Abbazia di Fiastra mediante enfiteusi (affrancata nel 1802). Vicaria curata nel 1920, la chiesa fu eretta a parrocchia nel 1945 per donazione del principe Carlo Giustiniani Bandini. Nel comune di Appignano (già della diocesi di Osimo e ora facente parte della Vicaria di Treia) sono da ricordare: la chiesa di San Giovanni Battista, costruita dai Monaci Cistercensi dell’Abbazia di Chiaravalle di Fiastra nel sec. XIII in stile romanico, trasformata radicalmente nel Settecento; il convento francescano di Forano, nel cui edificio originario avrebbe soggiornato san Francesco. Degli Ordini religiosi del passato a Treia ora restano solo i Minori Osservanti e le Monache (di clausura) della Visitazione che subentrarono nell’Ottocento nella chiesa di Santa Chiara e nel Monastero delle Clarisse; più recente è la presenza delle Suore Serve di Maria di Galeazza presso la chiesa di San Michele la quale non ha più la funzione di parrocchia; la Congregazione di San Giovanni Battista, 26 Opera culturale-religiosa (a Passo di Treia). L’attuale vicaria di Treia comprende sette parrocchie con Appignano.14 Questo lungo e vario percorso storico ebbe il suo “punto d’arrivo” il 30 settembre 1986 quando la Congregazione dei Vescovi emanò il decreto che dice testualmente: “Vi criterii generalis, quo statuitur ut in unum coalescant circumscriptiones ecclesiasticae usque adhuc pastorali curae unius Episcopi commissae, etiam pro dioecesibus unitis Maceratensi, Tolentina, Ricinetensi, Cingulana et Treiensi Congregatio pro Episcopis praesenti Decreto plenam earum unionen decernit”. Il suddetto Decreto specifica poi le conseguenze pratiche della “piena unione” delle cinque diocesi: la Diocesi dotata di questa nuova struttura avrà sede nella città di Macerata, dove l’attuale chiesa cattedrale conserva questo suo proprio titolo (mentre le altre già cattedrali saranno chiamate concattedrali) e sarà suffraganea della Chiesa metropolitana di Fermo; la denominazione della diocesi sarà “Diocesi di Macerata - Tolentino - Recanati - Cingoli - Treia”; essa avrà un unico Capitolo cattedrale (quello della cattedrale della sede vescovile, cioè di Macerata); una sola Curia vescovile, un solo Tribunale ecclesiastico, un solo Seminario, un solo Collegio di Consultori, un solo Consiglio Presbiterale e Pastorale e uno solo di tutti gli altri organismi diocesani; i santi patroni delle singole diocesi prima autonome saranno venerati come patroni della nuova diocesi; i sacerdoti e i diaconi finora incardinati nelle singole diocesi saranno considerati incardinati nella nuova diocesi sorta dall’unione delle cinque precedenti; la nuova circoscrizione ecclesiastica comprenderà i territori, le parrocchie e le istituzioni ecclesiastiche con i loro beni e diritti appartenenti a ciascuna precedente diocesi. A tale decreto diede esecuzione il vescovo Francesco Tarcisio Carboni in data 30 gennaio 1987.15 NOTE 1 Gentili, Adversi 1987, pp. 3-4. Sul problema cfr. anche: Lanzoni 1927, pp. 381-399; I Santi delle Marche 1967, pp.13-15; Tassi 2006, pp. 24-36; Santarelli 2007, pp. 24-56, passim. 2 Lanzoni 1927, pp. 381-399; Bartoccetti 1937-1941; I Santi delle Marche 1967, pp. 36.38. 3 Gordini 1976, p. 537. 4 Gentili, Adversi 1987, p. 5. 5 Calcagni 1711; Vogel 1859; Bettini 1990; Fini 1990; Castellani 2001, pp. 63-64. 6 IDSCM, Statistica anno 2010. 7 Gentili 1967 ; Gentili, Adversi 1987, pp. 1-106; inoltre Paci 1987, pp. 122-265; Paci 1975, pp. 288 ss; Paci 1978, pp. 33 ss.; Paci 1987, pp. 42 ss. 8 Santini 1789; A. Pace, Cenni biografici sulla istituzione di tutti i luoghi pii, conventi, chiese, canonicati e benefici della città e diocesi di Tolentino compilati da me Alessandro Pace cancelliere di questa Curia Vescovile, ms. 1853 in ASDT; Cecchi 1975; Semmoloni 2000; Pietrella 2001, pp. 57-62. 9 IDSCM, Statistica anno 2010. 10 IDSCM, Statistica anno 2010. 11 Avicenna 1644; Cingoli dalle origini 1986; Chiesa cattedrale di Santa Maria Assunta 1994; Pennacchioni 1994, pp. 14-18; 75-78; Spernanzoni 2001, pp. 65-66; Santarelli 2007, pp. 218224. 12 IDSCM, Statistica anno 2010. 13 Turchi 1762; De Mathia 1901; Meriggi 1978; Fabrini 1990, pp. 107-175; Treia 1998. 14 IDSCM, Statistica anno 2010. 15 ASDM, Pos. Unione delle diocesi. Per una prima visione sommaria della nuova diocesi unificata cfr. Pietrella 2005. LE CATTEDRALI Macerata Pagine precedenti: Ciro Pavisa, Arrivo di san Giuliano al fiume Potenza MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO 31 LA STORIA RELIGIOSA DELLA CATTEDRALE DI SAN GIULIANO DI MACERATA Egidio Pietrella Le prime due cattedrali Sul lato orientale del colle dove ora sorge Macerata, fin dall’VIII secolo esisteva la “pieve di San Giuliano”, sotto la giurisdizione dell’Arcivescovo di Fermo. Ne è verosimile testimonianza un capitello arcaico di marmo, rinvenuto nel 1931, incassato come architrave in una volta del sotterraneo dell’attuale cattedrale, riconducibile a prima del mille.1 In verità la prima notizia registrata dell’esistenza della pieve di S. Giuliano sul luogo suddetto risale al 1022.2 Si può semplicemente supporre che l’edificio sacro, secondo il periodo storico, fosse di stile preromanico, a tre navate secondo la forma basilicale, a croce latina, fornito di campanile. Costituitosi nel 1138 il libero Comune di Macerata dall’unione del Podium Sancti Juliani, su cui sorgeva la pieve, e il castrum Maceratae, posto un po’ più a nord-ovest, sotto la giurisdizione del vescovo di Camerino, i Maceratesi nel 1188 si arruolarono per la crociata inalberando il vessillo del santo patrono Giuliano. È documentato, inoltre, che nel 1223 essi, distrutto il castello di San Claudio, collocarono la statua del santo sottratta ai vinti castellani sulla facciata della pieve. Questa doveva avere una notevole grandezza, dal momento che in essa si riuniva (come nel 1267 e 1268) il Consiglio generale del Comune composto di 700 cittadini. Nel 1287 la chiesa fu restaurata. Il 18 novembre del 1320 il papa Giovanni XXII con la bolla Sicut ex debito elevò Macerata a città, erigendola in contempo Capitello preromanico della pieve di San Giuliano. Macerata, Museo della Basilica della Misericordia sede di diocesi, dove si trasferirono il vescovo di Recanati (cui fu tolta la diocesi, per aver parteggiato per i Ghibellini) Federico di Nicolò Sanguigni e il Capitolo della cattedrale, costituito da sedici canonici e da due “dignità”, cioè l’arciprete e l’arcidiacono. Ma nel 1357, restituita la sede vescovile a Recanati, metà dei canonici con l’arciprete tornarono nella primitiva sede, mentre gli altri otto restarono a Macerata con l’arcidiacono. In conseguenza di questo cambiamento i vescovi reggenti aeque principaliter Recanati e Macerata furono indicati come vescovi di Recanati e Macerata, fino alla riforma del papa marchigiano Sisto V che nel 1586 separò Recanati (unita a Loreto, eretta diocesi) da Macerata, unita questa con Tolentino. La cattedrale fu consacrata nel 1369 in onore di Maria Santissima Assunta in cielo e del patrono San Giuliano dal vescovo Oliviero da Verona (1369-1374). Il 6 gennaio 1442, essendo vescovo Nicolò Delle Aste, avvenne l’inventio brachii Sancti Juliani, su indicazione del vegliardo Filippo Di Nicola, uomo autorevole e stimato, che suggerì di eseguire uno scavo tra le due colonne antistanti l’altare maggiore. Successivamente, nel 1447, la prima cattedrale, ormai fatiscente, fu abbattuta, per costruirne una nuova secondo le deliberazioni del Comune risalenti al 1422.3 La seconda cattedrale ebbe la durata di trecentoventitre anni. Iniziata per volontà dello zelante vescovo Niccolò Dalle Aste nel 1447, la costruzione, affidata al capomastro Giacomo Petruzzi, fu portata a termine solo nel 1464, a dieci anni di distanza dalla morte del vescovo promotore e suo munifico benefattore, che lasciò i suoi ricchi paramenti alla nuova chiesa. L’abside, non ancora eseguita, fu costruita nel 1470 con l’eredità lasciata a questo scopo dall’arcidiacono maceratese Venanzo di Antonio. Nel 1478, infine, il 32 Comune – come attesta la lapide ancora esistente – fece edificare a sue spese la torre campanaria, che è quella attuale, sia pure privata della cuspide, delle bifore e di eleganti ornamenti.4 Successivamente la cattedrale nel 1559 fu dotata dal Capitolo di un organo e, negli anni 1563-1576, del coro di pregiata fattura ad intarsio, i cui artefici sono ignoti. Alla fine del secolo XVI il vescovo Galeazzo Morone la restaurò, arricchendola di splendidi arredi sacri, compreso un suo pastorale d’argento. Nel suo interno erano disposte tredici cappelle, ciascuna di giuspatronato di nobili famiglie maceratesi. La maggiore, sul cui altare erano collocati sei preziosi candelieri d’argento, aveva da una parte l’organo e dall’altra l’armadio delle reliquie. Le altre cappelle erano dedicate a San Bernardino, alla Concezione di Maria Santissima (dove si conservavano il Braccio di San Giuliano e il Sacro Corporale); a San Gerolamo (poi a San Carlo Borromeo); a San Andrea; a San Giovanni Battista (poi dalla metà del secolo XVIII a San Giuliano); all’Annunziata (o all’Angelo Custode); a San Claudio; a San Pietro; a Santa Maria in Valverde; al Crocifisso; alla Visitazione. La confraternita del Santissimo Sacramento eresse una cappella in onore della Santissima Eucaristia. Il vescovo cardinal Felice Centini (16131641) si interessò molto e con generosità della cattedrale: ottenne dal papa Paolo V le stesse indulgenze che si lucravano nella visita ai sette altari di San Pietro in Roma, come ricorda una lapide posta in fondo alla chiesa, a destra dell’ingresso; restaurò a sue spese la chiesa, la torre e l’organo. Altri munifici interventi per migliorare la cattedrale furono compiuti dal vescovo Papirio Silvestri (1642-1659) che rinnovò il fonte battesimale e iniziò la costruzione dell’orologio sulla torre (portato a termine dal vescovo succes- Egidio Pietrella Misericordia, di cui è tuttora custode e proprietaria. Lapide della concessione di indulgenze di Paolo V, 1616 sore Francesco Cini di Osimo). Fabrizio Paolucci (1685-1698) rifece a sue spese il pavimento della chiesa e recinse il presbiterio con una balaustra di colonnine di marmo e donò tutti i suoi pregevoli arredi sacri alla sagrestia. Da ricordare, infine, che la seconda cattedrale fu sede di due grandi celebrazioni: la solenne incoronazione dell’Immagine della Madonna della Misericordia compiuta dal canonico Francesco Bussi del Capitolo di San Pietro in Vaticano (25 agosto 1721); l’incoronazione della Madonna della Salute (opera del Sassoferrato), venerata nell’antica chiesa di San Giorgio (11 maggio 1749). La chiesa inferiore era dedicata alla Santissima Trinità; fu ceduta nel 1574 dal Capitolo della cattedrale alla confraternita di Santa Maria delle Grazie (che officiava l’omonima chiesetta presso la porta di Santa Maria Maddalena), che qui mutò il nome in quello della Santissima Trinità e che prese a officiare la quarta chiesetta in onore della Madonna della La cattedrale attuale La cattedrale quattrocentesca, ormai fatiscente, andava riedificata. Ma la decisione e i preparativi per costruirne una nuova incontrarono difficoltà e lungaggini. Già il 12 febbraio del 1729 l’Arcidiacono espose al Capitolo della cattedrale lo stato precario dell’edificio sacro con il pericolo per la popolazione e preoccupazione dell’intera città. Il vescovo Ignazio Stelluti (1735-1756) dispose perizia e restauri, ma questi non furono risolutivi. Durante la sede vacante il Magistrato della città presentò supplica al papa Benedetto XIV (1740-1758), che, anche per l’interessamento del cardinale maceratese Mario Compagnoni Marefoschi, con un suo chirografo dispose la ricostruzione della chiesa, ma in un luogo diverso dal precedente e precisamente nella sede dov’era la collegiata di San Salvatore, presso Porta Romana, devolvendo a questo scopo i fondi del Monte di pietà Ulissi. Ma queste decisioni non soddisfecero il Consiglio di Credenza che, tra l’altro, riteneva – a torto o a ragione – che questo impiego del monte di pietà “Ulissi” era contro il bene dei poveri. Il Consiglio, pertanto, chiese al nuovo papa Clemente XIII (1758-1769), ottenendola, la revoca del chirografo emesso dal predecessore. Al nuovo papa Clemente XIV (17691774) furono presentate nuove istanze, soprattutto da parte del Capitolo per l’iterazione del chirografo di Benedetto XIV, ad eccezione del cambiamento del luogo per la nuova costruzione. Dietro i buoni uffici dei cardinali maceratesi Mario Compagnoni Marefoschi e Simone Buonaccorsi, il papa accolse la domanda del Capitolo con rescritto del 13 giugno 1771.5 Il vescovo Carlo Augusto Peruzzini (1756-1777) con grande solennità pose la prima pietra della nuova fabbrica il 1° no- MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO vembre 1771, facendo coniare per l’occasione una medaglia commemorativa. I lavori, soprattutto per mancanza di fondi, che con difficoltà si riuscirono alla fine a reperire, durarono 19 anni (17711790). Il Capitolo fu costretto ad officiare successivamente la chiesa della Madonna della Misericordia, poi di Sant’Agostino degli eremitani, poi di San Giovanni (lasciata libera dai Gesuiti a causa della loro soppressione del 1773) dove furono trasferiti provvisoriamente anche il Braccio di San Giuliano, il miracoloso Corporale eucaristico e le reliquie più insigni. Architetto della nuova costruzione fu Cosimo Morelli di Imola, uno dei più stimati dell’epoca, progettista anche delle cattedrali di Imola, Fermo e Fossombrone. La consacrazione da parte del vescovo Domenico Spinucci avvenne il 24 maggio 1790, seconda festa di Pentecoste. Le feste durarono cinque giorni. La nuova cattedrale aveva nove altari che sono gli stessi di oggi, anche se qualcuno di essi nel corso del tempo ha mutato dedica e, in parte, forma. L’altare maggiore di marmo, collocato in alto come su di una tribuna, cui si accede mediante una scalinata, dono del vescovo Peruzzini, era rivolto verso l’abside; ora, in seguito alla riforma liturgica del Concilio Vaticano secondo, è stato trasportato a metà, circa, del presbiterio e rivolto verso il popolo. Sotto l’altare si conservava entro una preziosa urna d’argento la reliquia del Braccio di San Giuliano, che, trafugata in tempi recenti, ora è stata reintegrata ed è custodita in luogo sicuro. Lungo ciascuna delle pareti del presbiterio sono collocate due serie di seggi lignei per i canonici, i “mansionari” e i chierici inservienti. Un maestoso coro ligneo è al fondo dell’abside. Nel 1835 in alcuni armadi a muro della cappella di Sant’Andrea furono collocate più di ventimila reliquie di santi, raccolte dal canonico Amico Amici, per cui l’al- 33 Lapide commemorativa del vescovo Domenico Spinucci, 1790 tare porta in alto la scritta Reliquiae Sanctorum. Recentemente la cappella di San Pietro è stata chiamata della “tomba dei Vescovi”, perché sotto l’altare, in un vano sotterraneo, cui si accede dall’esterno, sono collocate le tombe dei vescovi della diocesi ricordati in un elenco preceduto dalla scritta Quos Spiritus Sanctus/posuit Episcopos/Maceratensem Ecclesiam regere.6 Nella navata di sinistra, a partire dal transetto si apre ora l’ampia cappella del Santissimo Sacramento, inaugurata nel 1932 in occasione del Congresso Eucaristico Regionale e affrescata da Ciro Pavisa. Il 31 dicembre 1993 l’altare della Concezione fu dedicato dal vescovo Carboni a San Vincenzo Maria Strambi, nella ricorrenza del 250° anniversario della nascita, con l’installazione di un quadro del santo (successivamente rimosso) e di una reliquia.7 In seguito al terremoto del 1997-1998, che rese inagibile la chiesa di San Filippo Neri, il corpo del santo vescovo venerato dal 1959 nel suddetto oratorio filippino custodito in un’urna preziosa, fu trasferito ai piedi di questo altare, dove si trova tuttora. La sagrestia è costituita da due ampi locali, nel primo dei quali, di forma rettangolare, in appositi armadi si conservano vesti liturgiche e oggetti sacri; segue poi a destra la sala del Capitolo dei canonici. In un’altra più ampia sala, di forma ellittica, è la sagrestia vera e propria con armadi di noce (sia pure privi della parte superiore) e con un’antica cassa lignea dove sono custoditi arredi e vesti sacre, anche preziose. Nella piccola sala adiacente, un tempo dei mansionari, ora sono sistemate vesti e arredi per il servizio liturgico. La cripta, costruita su quella della chiesa precedente, a cui si accede per due ampie scalinate, si presenta con una caratteristica architettura a colonne binate e tre altari. Il maggiore è dedicato al Santissimo Crocifisso, la cui immagine fu trasferita qui il 17 luglio 1811 dalla demolita chiesa dei Cincinelli (nei pressi dell’attuale stazione ferrovia). L’altare di destra, già dedicato a Santa Maria Maddalena, fu ornato di un’immagine della Madonna Addolorata ed ora della Madonna della Misericordia. L’altare di sinistra è dedicato alla Madonna di Loreto. Ai lati di esso 34 Egidio Pietrella nel 1857 furono costruiti gli stalli dei canonici che vi recitavano l’Ufficio divino nel periodo invernale, fino al 1970, circa, quando nella chiesa superiore fu installato il sistema di riscaldamento. Nella nicchia a destra si conservava la statua lignea di San Giuliano a cavallo, ora rifatta ex novo e sistemata nella seconda cappella della navata destra della chiesa superiore. Lungo la navata della chiesa vi sono le tombe gentilizie delle famiglie Compagnoni, Ciccolini, Aurispa, Amici.8 Tre lapidi poste alla fine della navata centrale e delle altre due laterali documentano l’avvenuta realizzazione dell’imponente costruzione, ricordando rispettivamente la consacrazione della nuova chiesa (1790), il papa Clemente XIV, munifico benefattore della fabbrica, il vescovo mons. Peruzzini promotore della costruzione. A distanza di 16 anni il vescovo Strambi la descrive “templum cathedrale novum…satis amplum et elegans”.9 Fonte battesimale Istituzioni e organismi Il Capitolo Il Capitolo della cattedrale fu istituito con l’elevazione di Macerata al ruolo di diocesi avvenuta il 18 novembre 1320 e mediante il trasferimento di quello di Recanati (cui fu soppressa nella stessa data la sede vescovile) unitamente al vescovo Federico di Nicolò Sanguigni che divenne vescovo di Macerata. Esso era composto di sedici canonici, più le due “dignità” di arcidiacono e di arciprete. Restituita nel 1357 da Innocenzo VI la diocesi a Recanati, in questa città tornarono otto canonici con l’arciprete, mentre gli altri otto con l’arcidiacono restarono nella cattedrale di Macerata. Successivamente, in data imprecisata, a questi ultimi se ne aggiunsero altri quattro canonici e un quinto con la fondazione della cappellania di Santa Maria di Loreto istituita nel 1494 da Maringiacomo Succhianappi. Nel 1546 furono affidate al Capitolo della Cattedrale dal cardinale Giovanni Domenico De Cupis, già vescovo di Macerata e allora amministratore dei benefici della diocesi, le chiese di San Biagio, di Santa Maria in Torresana, di San Paolo, di San Tommaso e di San Michele. Inoltre il 20 luglio del 1626 il vescovo cardinale Centini unì alla mensa capitolare la chiesa della Madonna della Consolazione. Il 30 aprile del 1592 fu eretta in seno al Capitolo, in base alle disposizioni del concilio di Trento, la prebenda teologale.10 Per accrescere il decoro e il servizio delle sacre funzioni, il 23 febbraio 1601 Bernardino Pellicani eresse quattro benefici minori, detti “ mansionariati” con annesso obbligo di cantare la messa e i vespri. A sua volta il 14 giugno dello stesso anno il Capitolo istituì un quinto beneficio mansionariale di suo patrona- to, chiamato “corista”, con funzione di maestro di cappella. Nel 1662 il Capitolo decise di trasformare due benefici temporanei in perpetui attribuiti a due sacerdoti che da tempo ne beneficiavano, assegnando loro l’ufficio di suddiacono e di diacono e chiamati “chierici di Coro”. Precedentemente il 5 aprile 1655 furono eretti dal nobile Lelio Piissimi quattro nuovi canonicati (chiamati dal nome del fondatore “piissimi”), sicché i canonici raggiunsero il numero di diciotto unità, cui si aggiunse, con i beni lasciati da Settimio Mareotti, un diciannovesimo il 3 giugno 1737. Infine il vescovo Peruzzini il 7 ottobre 1769 trasferì in cattedrale quattro benefici di grado maggiore e due di grado minore fondati nell’arcipretura di San Giorgio da Saverio Malerbi; ed inoltre successivamente ad essi si aggiunsero altri tre alla morte dell’ultima erede dei Malerbi, Teresa Gregoretti. In totale i benefici “Malerbi “ furono nove. Dunque, il Capitolo della cattedrale di Macerata con i successivi ampliamenti raggiunse il massimo della sua struttura e composizione, contando diciannove canonici, quattro mansionari, nove “beneficiati” Malerbi e due “chierici di Coro”; con la dignità dell’arcidiacono, cui si aggiunse in tempo recente (9 giugno 1962) anche la seconda dignità di “arcipretura” concessa da parte del papa Giovanni XXIII; con le varie funzioni di canonico teologo, penitenziere, prefetto del Coro, Prefetto di Cappella, commissione di fabbriceria, vicario curato. Tra i privilegi accordati dalla Santa Sede si ricordano: l’uso della cappa di ermellino bianco con coda secondo l’uso dei canonici della basilica vaticana; l’uso del canone e della bugia nelle messe solenni; dei fiocchi rossi sul cappello; della croce pettorale sulla cappa di ermellino e di una piccola croce sulla veste ordinaria; il privilegio del collare violaceo sulla veste ordinaria. Con le leggi eversive del nuovo regno MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO d’Italia, il 15 agosto 1867 i canonici furono ridotti a dodici, i mansionari soppressi, i beneficiati ridotti a sei. Dopo il Concilio Vaticano II, introdotti nuovi organismi diocesani che assistono il vescovo nel governo della diocesi, cioè il Collegio dei Consultori e il Consiglio presbiterale diocesano, e in seguito alla unificazione delle cinque diocesi preesistenti (30 settembre 1986) che avevano ciascuno il proprio Capitolo, sono state emanate nuove Costituzioni secondo cui fanno parte dell’unico Capitolo della Cattedrale di Macerata tutti quelli che erano già canonici nei rispettivi Capitoli cattedrali preesistenti. Pur non essendovi più l’obbligo della recita quotidiana e corale dell’Ufficio divino, è prevista la partecipazione dei canonici alle liturgie solenni presiedute dal vescovo nelle feste dei Santi Patroni delle attuali cinque vicarie, un tempo sedi di diocesi autonome.11 Legata al servizio liturgico del Capitolo e alle funzioni solenni del vescovo era la cappella musicale della cattedrale,12 le cui origini risalgono all’erezione della diocesi di Macerata. L’antico archivio del Capitolo conteneva documenti (esclusivamente libri liturgici di canto gregoriano) ora dispersi, che attestavano l’esistenza di un corpo corale stabile. Negli anni 1473-1483 il maestro Giovanni “teotonico”, fabbricante di organi, residente a Macerata, costruì un organo per la cattedrale. Sviluppi maggiori si ebbero negli anni successivi: nel 1530 fu istituito il ruolo del “corista”, incaricato di eseguire il canto; nel 1559 fu costruito un nuovo organo dai maestri Benedetto e Luca da Borgo San Sepolcro, che il vescovo Galeazzo Morone fece restaurare nel 1574, desiderando per tale strumento un “sonator famoso”. Falliti i due tentativi compiuti dal Capitolo (1576) e dal canonico Gasparrini (1582) di costituire un corpo di sei beneficiati cantori, il nobile maceratese Bernardino Pellicani fondò 35 Organo di Gaetano Callido (1599) quattro “mansioniariati coristi”. Nel ‘600 continuarono l’organizzazione e l’esecuzione di “buona musica”, ammirata anche da Cristina di Svezia di passaggio a Macerata nel 1655. Il vescovo Morone fondò (1607) ufficialmente il “mansioniarato corista” con compiti di direzione del coro; i vescovi cardinale Centini (1625) e Silvestri (1649) fecero restaurare e ampliare l’organo. Nella metà del secolo l’arte musicale sacra fu portata ad alti livelli dall’organista Vincenzo De Grandis, che fu titolare di sedi prestigiose in Italia e all’estero. La buona tradizione continuò nel ’700. Nel 1790, ricostruita la terza cattedrale, il Capitolo decise di costruire anche l’organo e ne affidò l’incarico al celebre organaro Gaetano Callido, che lo sistemò nella cantoria di destra, dove si trova ora. La caratteristica di tale strumento è che l’autore al primo organo affiancò l’organo-eco: introdusse anche la “cornetta” e due ancie: i tromboncini e i violoncelli. La costruzione di questo nuovo organo indusse i canonici a costituire una vera e propria cappella musicale di valenti cantanti e di buoni maestri, che all’inizio fu chiamato a dirigere il maestro Francesco Basili. Subentrò così una vera cappella musicale di “laici”, sostituendo il “mansioniariato corista” legato agli ecclesiastici. Nell’ ‘800 la cappella musicale del duomo raggiunse il suo apogeo per i valenti maestri e organisti che la diressero: tra gli altri si ricordano Basilio Basili, Domenico Concordia, Angelo Triccoli, Giuseppe Antonioli e Oreste Liviabella (1893-1930). Con quest’ultimo, nel 1930, ebbe termine, per mancanza di fondi, la cappella musicale del duomo sostituita nel canto liturgico dalla Schola cantorum del seminario vescovile, alla direzione della quale dopo il canonico Agostino Natali (1934 - 1955) subentrò il valente maestro e organista Luigi Calistri, il quale, chiusa la “Schola cantorum” del Seminario, istituì (1972) e diresse fino al 1985 l’associazione Chorus angelicus di soli voci bianche, ampliato poi con voci virili, di cui prese la guida per breve periodo il Maestro don Fernando Morresi e dal 1993 fino ad oggi il maestro Carlo Paniccià. L’attuale cappella musicale della cattedrale 36 Egidio Pietrella di voci femminili e maschili, è composta da 25 elementi; svolge in cattedrale il servizio liturgico domenicale e festivo; promuove seminari e incontri di musica sacra, partecipa a concerti ed esecuzioni di argomento liturgico e religioso. La parrocchia di San Giuliano L’antica “pieve di San Giuliano”, chiesa “matrice”, unica ad essere fornita del battistero, dalla quale dipendevano altre chiese o cappelle, esercitava la cura animarum. Eretta cattedrale nel 1320, la chiesa “madre” continuò a svolgere l’assistenza spirituale dei fedeli e quindi ebbe funzione di parrocchia con tutti i diritti e i doveri. La cura animarum “abituale” e “attuale” (cioè esercitata de facto) restò affidata al Capitolo che la “attuava” mediante due canonici, i quali avevano anche l’ufficio di sacristi. Nel 1472 il Comune discusse l’unione dei beni dell’antica pieve con quelli del Capitolo e nel 1473 fu redatto un primo inventario degli arredi.13 Nei secoli XIV-XV la cattedrale assorbì la cura spirituale e materiale di alcune parrocchie di campagna rimasta disabitata (Santa Maria in Torresana, San Biagio, Santa Maria della Misericordia extra moenia) e successivamente (nel 1511) accorpò anche il territorio della parrocchia di San Venanzo sita al centro della città (presso l’attuale palazzo delle poste). Quindi la popolazione a cui doveva provvedere la parrocchia della cattedrale aumentò considerevolmente, comprendendovi praticamente anche tutto il territorio della campagna, mentre in città esistevano contemporaneamente solo altre tre parrocchie: Santa Maria della Porta, San Giorgio, San Salvatore. Nel 1573 il vescovo Morone apportò una prima modifica dei confini delle parrocchie, per cui restarono a quella della cattedrale quasi i 3/5 della città. Successivamente, nel 1603, il medesimo vescovo Corporale eucaristico. Altare del Santissimo Sacramento eresse la prima parrocchia rurale di Santo Stefano, presso l’antica chiesa dei Padri Cappuccini, assegnando ad essa un vasto territorio fino al fiume Potenza.14 Sempre il vescovo Morone nel 1607, tenute presenti le necessità spirituali dei fedeli della cattedrale aumentati di numero, eresse due “vicarie curate” perpetue con l’obbligo dell’ufficiatura anche della chiesa di Santa Maria della Consolazione (sita nell’attuale piazza Mazzini).15 Altri provvedimenti migliorativi ai fini dell’assistenza spirituale dei fedeli si verificarono nel ‘600 e nel ‘700. Il vescovo cardinale Centini nel 1622, in adempimento del testamento di Vincenzo Berardi, aggiunse ai due vicari curati un altro sacerdote, detto il “confessore di campagna”, col compito di recarsi in campagna per le confessioni degli infermi. Nel 1782 fu istituita un’altra cappellania curata, con nomina vescovile. Infine Pio VI nel 1787 aggiunse alle “vicarie” esistenti altre due vicarie ausiliarie. La popolazione della cattedrale ammontava a circa novemila anime. Un’altra grande modifica sotto l’aspetto territoriale e quindi anche demografico fu apportata durante il governo napoleonico sotto l’episcopato del vescovo Alessandro Alessandretti. Furono erette sette nuove parrocchie16 e i confini delle parrocchie cittadine furono ridotti a quelli che durarono fino alla seconda metà del ‘900. Così la parrocchia della cattedrale restò con soli tremila abitanti e continuò con l’ordinamento dei due “vicari curati” fino all’8 luglio 1818, quando Pio VII, su proposta del vescovo Strambi, tolse al Capitolo della Cattedrale la cura “attuale” della parrocchia per affidarla ad un canonico con il titolo di “vicario curato”, di nomina vescovile, coadiuvato da due cappellani “curati” nominati dal Capitolo, per uno dei quali, in seguito il vescovo Zangari nel 1854, riservò per sé il diritto di nomina.17 Giungendo ai tempi recenti, c’è da segnalare che dalla visita pastorale del 6/7 ottobre 1951 compiuta nel secondo dopoguerra dal vescovo Silvio Cassulo risulta che la parrocchia della cattedrale contava ottocentocinquanta famiglie e tremilacinquecento abitanti; nel 1973 gli abitanti erano scesi a milleottocento; nel 1985 a millecinquecento; nel 2000 a millecinquanta; nel 2004 gli abitanti della cattedrale sono mille e venti e dopo che essa ha accorpato la parrocchia soppressa (15.5.1968) di Santa Maria della Porta; mentre quella di San Giovanni intra moenia, solo giuridicamente ancora esistente, ma pastoralmente dipendente dalla stessa cattedrale, conta cinquecentocinquanta anime.18 Tutto questo si spiega con la diminuzione demografica MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO del centro storico della città di Macerata, la cui popolazione ha preferito trasferirsi nei quartieri nuovi, sorti nella seconda metà del ‘900 attorno alla città o, addirittura, nei borghi notevolmente aumentati demograficamente e commercialmente di Piediripa, Villa Potenza, Sforzacosta. La confraternita del Santissimo Sacramento Questa confraternita fu istituita nella cattedrale il giorno 1 giugno 1494 e il 1 gennaio 1496 furono presentati i suoi Statuti al Consiglio di Credenza. Probabilmente fu una delle prime erette nel mondo in onore della Santissima Eucaristia.19 Essa ottenne una duplice aggregazione all’Arciconfraternita di Roma, rispettivamente il 22 maggio 1575 e il 22 marzo 1611. Ebbe due scopi fondamentali: il culto eucaristico e la beneficenza. Infatti, dopo l’estinzione della Confraternita dei Flagellanti (attiva tra il 1370 e la fine del ‘400), prese a dirigere l’ospedale cittadino, mantenendolo a sue spese, amministrandone i beni, fino all’annessione delle Marche al Regno d’Italia (1860), che ne indemaniò i beni, passandoli alla Congregazione della Carità e impadronendosi anche dell’intero archivio. Tra gli altri privilegi, ottenne anche quello di chiedere e ottenere nel venerdì santo – ex antiqua et inveterata consuetudine – la liberazione di più condannati a morte, privilegio che il papa Paolo V nel 1614 ridusse a favore di uno solo: questa prerogativa fu mantenuta fino al 1860. Il governo napoleonico, pur indemaniando i beni di tutte le corporazioni religiose, risparmiò la confraternita del Santissimo Sacramento, assegnandone una parte dei beni all’ospedale e l’altra alla confraternita, per le spese di culto. Caduto il governo napoleonico, il papa Pio VII restituì alla Confraternita l’amministrazione dell’ospedale, disponendo, però, una amministrazione separata dei beni, finché l’ospedale con tutti i beni non passò alla Congregazione della Carità (1860). Circa la sede della confraternita, c’è da precisare che pur essendo eretta in cattedrale, essa officiò dalle origini fino al 1548 la chiesa di San Paolo; successivamente quella di Santa Maria della Porta, presso cui poi costruì un suo proprio oratorio; in seguito acquistò la chiesa di San Rocco, nei pressi della suddetta chiesa, dove rimase fin verso la fine del ‘700. In quest’ultima chiesa la confraternita curava la processione del sabato santo con la statua del Cristo Risorto che rimaneva esposta fuori della chiesa per tutta l’ottava di Pasqua. Dopo il 1860 la confraternita, fino al 1970, circa (quando praticamente si estinse) curò nella cattedrale l’esposizione solenne del Santissimo Sacramento durante il carnevale e l’inizio della Settimana Santa.20 Eventi principali Il miracolo eucaristico Il 25 aprile dell’anno 1356 un sacerdote, verosimilmente nella chiesa di Santa Maria in Torresana (demolita alla fine dell’800) sita a circa un chilometro dalla città, lungo l’attuale ferrovia per Fabriano, mentre celebrava la messa fu preso dal dubbio sulla presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche. L’ostia consacrata cominciò a stillare vivo sangue, che a causa del tremolio delle mani del celebrante, cadde oltre che nel calice anche sul sottoposto lino liturgico, erroneamente chiamato poi “corporale”. Alla notizia dell’accaduto, il vescovo Nicolò di San Martino ordinò che il prezioso “corporale” fosse portato in processione in cattedrale. Di tale fatto non si sono conservati documenti storici contemporanei, perché i libri delle Riformanze del Comune di Macerata hanno una grande lacuna dal 1298 al 1372. Il primo documento della curia vescovile che si riferisce 37 alla sacra reliquia risale al 1647, quando il 10 agosto il canonico Orazio Longhi, già gentiluomo del cardinale Centini vescovo di Macerata, donò alla cattedrale una piccola urna, ornata d’argento e di cristalli, per riporvi la reliquia. Tuttavia, fino alla metà del ‘600 dovevano esistere alcuni documenti in proposito, perché lo storico Ignazio Compagnoni nel 1650, nel IV tomo dei suoi manoscritti conservati nella Biblioteca Comunale MozziBorgetti di Macerata, riferendosi al fatto suddetto e ai successivi provvedimenti, afferma: “Acta ecclesiae Maceratensis hoc testantur”. Evidentemente anche questi documenti sono andati perduti. Tuttavia dal 1584 (in cui nell’elenco delle reliquie conservate nella cattedrale, la cassetta contenente il “corporale” è nominata al primo posto) fino ai nostri giorni esistono nella curia vescovile documenti attestanti il culto; così pure interventi del Comune a favore della sacra reliquia. Molti vescovi hanno firmato una “testimoniale” della reliquia (Alessandretti nel 1797; Zangari nel 1861; Galeati nel 1885). Ogni anno, nella prima domenica dopo Pentecoste, il “corporale” veniva portato solennemente in processione per le vie della città, come risulta dall’editto del vescovo Papirio Silvestri del 14 luglio 1649, da cui si evince oltretutto che tale processione si celebrava da molto tempo con il concorso del clero e di molto popolo. La processione con il “corporale” ebbe luogo fino al 1807, quando da Napoleone furono soppresse tutte le confraternite e proibite tutte le processioni. Successivamente il culto verso il sacro “corporale” si affievolì e la reliquia giacque quasi dimenticata in un armadio della cattedrale fino al 1932, quando l’arcidiacono Piero Scarponi la espose nuovamente alla venerazione dei fedeli e la collocò sotto l’altare della nuova cappella del Santissimo Sacramento. Nel febbraio del 1951, in prossimità del 38 seicentesimo anniversario dell’evento miracoloso, il vescovo Silvio Cassulo, per dare un fondamento storico-critico alla tradizione e nuovo impulso alla venerazione del “corporale”, incaricò Andrea Lazzarini, redattore de “L’Osservatore Romano”, che aveva già compiuto uno studio simile sul miracolo di Bolsena, di esaminare i documenti restanti (la tela e la forma del “corporale”; la pergamena cucita nel medesimo corporale, nella quale sono scritte in caratteri gotici le seguenti parole “Heic fuit aspersio sanguinis D.N.I.C. de calice die XXV mensis aprilis anno Domini MCCCLVI”) per appurarne la verità; alla fine egli riconobbe l’autenticità del corporale e dell’iscrizione della pergamena come risalenti al periodo a cui la tradizione attribuisce il miracolo.21 Il Congresso Eucaristico Regionale (6-10 settembre 1933) Questo solenne raduno di popolo da tutte le Marche fu tenacemente voluto e preparato dall’arcidiacono Piero Scarponi, che promosse con impegno anche la decorazione interna del duomo e il rifacimento della cappella del Santissimo Sacramento, decorata da Ciro Pavisa (1932). Vi parteciparono come Legato Pontificio il cardinale Luigi Capotosti, tutto l’episcopato marchigiano e gran numero di sacerdoti e fedeli. Uno dei prelati al seguito del cardinale legato fu Giambattista Montini, addetto alla Segreteria di Stato, che poi fu eletto pontefice con il nome di Paolo VI.22 Visite dei Sommi Pontefici La cattedrale fu visitata da numerosi pontefici. Ecco l’elenco: Pio II nel luglio 1464. Giulio II dal 3 al 6 settembre 1510 e in seguito il 13 giugno 1511. Clemente VII nel marzo 1533. Paolo II il 24-26 settembre 1539; nell’ottobre 1541 e nel luglio 1543. Clemente VIII il 20-23 aprile 1598 e il 13-14 dicembre 1598. Pio Egidio Pietrella Ritratto del cardinale Mario Compagnoni Marefoschi, secolo XVIII. Macerata. Pinacoteca Comunale VI il 2 marzo 1782 e il 9 giugno 1782. Pio VII il 26 maggio 1800 e il 16 maggio 1814. Gregorio XVI il 9-11 settembre 1841. Pio IX il 13-15 maggio 1857. Giovanni Paolo II il 19 giugno 1993: incoraggiò e benedisse i lavori del Sinodo diocesano in svolgimento; ricordò la figura del grande missionario maceratese Padre Matteo Ricci; benedisse la prima pietra del costruendo seminario missionario-diocesano “Redemptoris Mater” del cammino neocatecumenale con carisma missionario e destinazione prevalente in Cina sulle orme di Padre Matteo Ricci.23 Sinodi Diocesani Furono celebrati in totale venti sinodi diocesani a cominciare dal primo indetto dal vescovo Galeazzo Morone il 27 giugno 1583. Nell’attuale cattedrale si tennero i seguenti tre: - 8-10 agosto 1830 dal vescovo Ansaldo Teloni, originario di Treia, di cui si legge una lapide encomiastica (soprattutto per la sua mitezza e carità) sulla parete destra antistante la cappella del Santissimo Sacramento; - 21-23 ottobre 1900 indetto, celebrato dal vescovo Giambattista Ricci; - 8 settembre1988 - 4 giugno 1995: indetto, celebrato e chiuso (in cattedrale) dal vescovo Francesco Tarcisio Carboni; promulgato (in cattedrale) dal vescovo Luigi Conti l’11 maggio 2000, durante lo svolgimento del congresso eucaristico della diocesi unificata (6-14 maggio), in concomitanza con la celebrazione dell’anno santo giubilare del 2000, a chiusura del quale il vescovo programmò un decennio di nuova evangelizzazione nel grato ricordo e nel nome del gesuita maceratese P. Matteo Ricci, missionario in Cina, in preparazione alla celebrazione del quattrocentesimo anniversario della morte che ora, nel 2010, si sta solennizzando con numerose cerimonie religiose, culturali, artistiche nella cattedrale della città, in Italia, in Europa e in Cina.24 Santi e Patroni. San Giuliano ospitaliere è il patrono di Macerata. A Giuliano, probabilmente martire nel 302 insieme alla moglie Basilissa in Antiochia (o Antinoe?), fu dedicata a Macerata l’antica pieve (VIIIIX secolo), dove ora sorge la cattedrale. Il giorno 6 gennaio del 1442 avvenne il prodigioso ritrovamento delle reliquie del santo braccio in cattedrale da parte del vescovo Nicolò Dalle Aste. La reliquia fu da allora conservata in una preziosa urna d’argento. Alla figura originaria del santo martire si sovrappose, prendendone il sopravvento, quella di San Giuliano “ospitaliere”, nota in Francia dalla fine del secolo XII. Originario del Belgio (o della Spagna), cacciatore, Giuliano avrebbe ucciso involontariamente i genitori, per espiare la quale colpa si sarebbe fatto pellegrino in molti luoghi, giungendo infine presso le rive del fiume Potenza nei pressi di Macerata, qui accogliendo e traghettando poveri e pellegrini. La festa con molta solennità e manifestazioni varie si MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO celebra il 31 agosto.25 Maria Santissima Madre di Misericordia è attualmente la patrona della città e dell’intera diocesi di Macerata – Tolentino – Recanati – Cingoli – Treia. È veneratissima specialmente a Macerata fin dal 1447 quando alla Mater Misericordiae fu dedicata come voto una ecclesiola costruita una die per implorare la fine di una terribile peste che mieteva vittime in città. La primitiva chiesetta agli inizi del ‘500 fu ampliata e arricchita di una pregevole tela, di anonimo, con la tipica icona della Madonna della Misericordia che allarga il suo manto per proteggere, insieme ai santi che la circondano, i fedeli che la implorano. Invocata nelle varie calamità (epidemie, terremoti, tempeste, siccità, alluvioni, guerre) la Madonna della Misericordia ebbe una devozione sempre crescente, soprattutto dal ‘600. Nell’agosto del 1721, il Capitolo Vaticano incoronò la venerata immagine con serto aureo. Nel 1946, in preparazione del V° centenario della costruzione del tempietto la Sacra Immagine fu traslata per le parrocchie della diocesi con una peregrinatio Mariae che fu la prima svoltasi in Italia. Il 16 novembre 1952 in riconoscimento della sua plurisecolare devozione mariana, Macerata fu proclamata ufficialmente Civitas Mariae. La festa si celebra il 1° settembre; per la domenica successiva è stato concesso dai sommi Pontefici il privilegio dell’indulgenza plenaria e si svolge, tra devozione e folclore popolare, la processione delle “canestrelle” per offrire doni alla Vergine secondo l’antichissima tradizione.26 San Vincenzo Maria Strambi è compatrono della diocesi. Egli nacque a Civitavecchia il 1° gennaio 1745; entrò nella Congregazione dei Padri Passionisti da giovane sacerdote. Con gli scritti e la predicazione della Passione di Gesù promosse la vita cristiana tra il popolo. Eletto vescovo di Macerata e Tolentino Memoria di san Vincenzo Maria Strambi (1801) si dedicò intensamente all’attività pastorale, curando la disciplina ecclesiastica, la catechesi, la vita cristiana dei fedeli, con una particolare predilezione per i poveri. Fedelissimo al Papa, preferì l’esilio (1808-1814) al giuramento di fedeltà al regno d’Italia napoleonico. Devotissimo alla Eucaristia e alla Madonna della Misericordia, salvò Macerata dal saccheggio del generale Bianchi vincitore su Giacchino Murat nella battaglia della Rancia (Tolentino 1815). Nel 1823 Leone XII lo chiamò a Roma nel palazzo del Quirinale per averlo come suo consigliere personale; ivi morì il 1° gennaio 1824, offertosi a Dio in sostituzione del Papa gravemente ammalato. Le sue reliquie sono venerate nella cattedrale di Macerata. Fu canonizzato l’11 giugno 1950. La festa si celebra il 25 settembre.27 Personaggi illustri28 Tra gli ecclesiastici illustri Macerata conta nove cardinali: Buonaccorso Buonaccorsi (1668-1678); Gabriele Filippucci (1706); Prospero Marefoschi 39 (1724-1732); Simone Bonaccorsi (17631776); Mario Compagnoni - Marefoschi (1770-1780); Guglielmo Pallotta (17771795); Giuseppe Ugolini (1838-1868); Fernando Cento (1958-1973); Umberto Mozzoni(1973-1983); ventiquattro vescovi: Beato Pietro Mulucci, vescovo di Macerata (1323-1347); Fortunato Pellicani vescovo di Sarsina (1451-1474); Pietro Francesco Ferri, vescovo di Barletta e arcivescovo di Nazareth (1520); Lorenzo Lenzi vescovo di Fermo (1547-1571); Lelio Pio Rotelli vescovo di Sarsina (15301556); Leandro Rotelli vescovo titolare di Argolico e di Sarsina in cui successe al fratello (1556-1581); Cesare Costa arcivescovo di Capua (1572-1602); Cornelio Firmani vescovo di Osimo (1574-1588); Pietro Francesco Ferri “junior” vescovo di Polignano (Puglia) (1576); Giulio Rossini arcivescovo di Amalfi (15761616); Amico Panici vescovo di Sarsina (1632-1635) e di Recanati (1535-1661); Gaspare Buggi vescovo di Atri e Penne (1657-1661); Claudio Ciccolini vescovo di Forlì (1659-1681); Giulio Troili vescovo di Foligno (1690-1712); Francesco De Vico vescovo titolare di Eleusa (1722); Pompeo Compagnoni vescovo di Osimo e Cingoli (1740-1774); Giulio Cesare Compagnoni vescovo di San Severino (1752-1759); Pellegrino Consalvi vescovo di Fano (1776-1786); Filippo Mornatti vescovo di Sutri e Nepi (1754-1785); Giovanni Francesco Compagnoni Marefoschi arcivescovo titolare di Damiata e nunzio apostolico a Rio de Janeiro (1816-1820); Ignazio Ranaldi vescovo di Montalto (1818), arcivescovo di Urbino(1819), Nunzio apostolico in Sardegna (1825-27); Raniero Sarnari vescovo di Ripatransone (1900), di Macerata (1902-1916); Vincenzo Migliorelli vescovo di Norcia (1916), poi di San Severino dove non potè fare ingresso per l’opposizione del regime politico; Vittorio Cecchi vescovo di Fossombrone 40 (1961), Amministratore delle due diocesi di Cagli e Pergola (1966), Ausiliare delle diocesi di Macerata-Tolentino-RecanatiCingoli Treia. Tra i missionari si ricorda soprattutto Padre Matteo Ricci (Macerata 1552- Pe- chino 1610), della Compagnia di Gesù, grande evangelizzatore della Cina, dove operò per ventisette anni e dove è sepolto (onore unico per uno straniero) nella capitale Pechino. Inoltre Padre Cassiano Beligatti (Macerata 1708-1791), che ve- stì l’abito dei Francescani Cappuccini e fu missionario nel Tibet dal 1739 al 1754, ottenendo numerose conversioni e componendo preziosi scritti sugli usi e sulla lingua di quel popolo. NOTE Cattedrale di Macerata 1932, p. 10; Gentili 1967, p. 97. Pacini 1966, pp. 6. 47. 3 Cattedrale di Macerata 1932, pp. 11-12; Gentili 1967, pp. 97-99. 4 Il testo della lapide è il seguente: DIVO JULIANO PATRONO POPULUS MACERAT(ENSIS) AERE PUBLICO NOVAM A FUNDAMENTIS EREXIT CONSTRUXITQUE ANNO SAL(UTIS) 1478, SEDENTE XISTO IV PONT(IFICE) MAX(IMO)]. 5 ASDM, Fabbrica Nuova Cattedrale II; Cattedrale di Macerata 1932, pp. 15-17; Gentili 1967, pp. 104-105. 6 Bartolomeo Zambrosi, Teseo de Cupis, Galeazzo Morone, Felice cardinale Centini, Papirio Silvestri, Francesco Cini, Ignazio Stelluti, Ansaldo Teloni, Amadio Zangari, Raniero Sarnari, Romolo Molaroni, Domenico Pasi, Luigi Ferretti, Domenico Argnani, Silvio Cassulo, Francesco Tarcisio Carboni, Vittorio Cecchi; e di due prelati maceratesi: il cardinale Umberto Mozzoni, già nunzio apostolico in Bolivia e in Argentina, e il canonico Filippo Piccinini, fondatore dell’Opera Mater Misericordiae, tuttora attiva e diffusa in varie Nazioni (Italia, Giappone, Sud America). 7 APCM, E. Buschi, Cronaca parrocchiale, ms. 8 Bibliografia sulla planimetria della chiesa con integrazioni e aggiornamenti: Gentili 1967, pp.105-114; Macerata. Guida storico-artistica 1978, pp. 60-62; Macerata. Guida storico-artistica 1997, pp. 62-67; APCM, E. Buschi, Cronaca parrocchiale ms. 9 ASDM, Relationes ad limina, Strambi 1806. 10 ASDM, Bollario 1600-1610, c. 15. 11 ASCCM, Costituzioni; Costituzioni del Capitolo della Cattedrale, approvate dal vescovo Luigi Ferretti, Macerata 1929; Gentili 1967, pp. 118-121; per il nuovo Statuto approvato dal vescovo L. Conti con Decreto del 6.1.1998, cfr. APCM. 12 Per questo argomento cfr. Paci 1989, pp. 233-343, passim, con elenco dei Coristi, 1 2 Organisti, Maestri di Cappella. Per l’organo di G. Callido cfr. Breccia, Paniccià, Quarchioni 2008. 13 APM, Ref. n. 40, c. 200; BCM, Inventari della Cattedrale, Libro I, c. 175 t, ms. 14 Cattedrale di Macerata 1932, p. 25; Gentili 1967, p. 29. 15 Gentili 1967, p. 122. 16 San Michele, San Giovanni Battista decollato (in Borgo Cairoli), Santa Maria del Monte (in campagna a nord-est), Santissimo Crocifisso ai Cincinelli (nei pressi dell’attuale stazione ferroviaria), titolo trasferito nel 1835 a Villa Potenza; L’Immacolata (a Rotacupa, trasferita nel 1802 a Santa Croce); a Corneto (nella campagna a sud); a Morica (nella campagna ad est), successivamente trasferita a Santa Maria delle Vergini. 17 Cattedrale di Macerata 1932, p. 25; Gentili 1967, p. 123. 18 ASDM, Visite Pastorali, Cassulo 1951; Annuario Interdiocesano Macerata 1973; Annuario Diocesano 1985; Annuario diocesano 2000; Annuario Diocesano A.D. 2004. 19 Tacchi Venturi 1930, I, pp. 219-220. 20 ASDM, dove si conserva una ricca documentazione in 6 faldoni; Cattedrale di Macerata 1932, pp. 29-30; Gentili 1967, pp. 298-301; 386-387. 21 Su tutto l’argomento cfr. ASDM, Macerata eucaristica. Documenti relativi al culto del Sacro Corporale; Gentili 1967, pp. 383-386; Pietrella 2005, pp. 209-212. 22 Cattedrale di Macerata Ricordo 1932, pp. 35-36; Gentili 1967, pp. 388-389. 23 Gentili 1967, pp. 393-395 con integrazioni. 24 Libro del Sinodo 2001; Conti 2001, pp. 329-340; Pietrella 2005, pp. 237-240. 25 Su San Giuliano cfr. Gentili 1967, pp. 34-49. 26 Sub tuum praesidium 2008. 27 Per la vita e l’opera del vescovo Strambi cfr. Stanislao dell’Addolorata 1949; Giorgini 1997. 28 Gentili 1967, pp. 343-349, 354-356, 373-381. CRONOLOGIA VIII sec. Esistenza della “pieve di S. Giuliano” sul podium S. Juliani. 1138 Macerata diventa libero Comune. 1320 (20 novembre) Macerata è elevata al ruolo di città e di diocesi; la “pieve di S. Giuliano” è cattedrale. 1447-1464 Costruzione, su iniziativa del vescovo Nicolò Dalle Aste, della seconda cattedrale sul medesimo luogo della prima: con una sola navata; travatura scoperta; stile “composito” (romanico-rinascimentale”). 1478 Costruzione della torre a spese del Comune; è l’attuale, sebbene priva di cuspide. 1771-1790 Costruzione della terza cattedrale sul medesimo sito: disegno di Cosimo Morelli. 1790 (24 maggio) Consacrazione solenne della nuova chiesa ad opera del vescovo Domenico Spinucci. 1924-1937 Decorazione pittorica di Ciro Pavisa: del catino dell’abside e della volta del presbiterio (1924-1926); della nuova cappella del SS. Sacramento (1932); delle tre storie di S. Giuliano sulla volta centrale della chiesa e affresco dell’annunciazione nella controfacciata (1936-37); tempere nei pennacchi del catino della cupola di Silvio Galimberti; ornamenti di Crucianelli. 1933 (6-10 settembre) Congresso eucaristico regionale. 1970 (circa) Modifica- secondo la riforma liturgica del Concilio Vaticano II- del presbiterio: altare rivolto verso il popolo; nuova disposizione della sede del vescovo e del seggio dei celebranti; installazione dell’ambone per il lettore. 19 giugno 1993 Visita del Papa Giovanni Paolo II e benedizione della prima pietra per l’erigendo seminario “Redemptoris Mater” del Cammino Neocatecumenale. 1992-2008 Restauri molteplici: del tetto (1992-1993); della torre campanaria (1994); dell’abside, del presbiterio e dei finestroni (2000-2001) danneggiati dal terremoto del 1997/98; dell’impianto (parziale) dell’illuminazione; dell’organo di Gaetano Callido (2001-2008). MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO L’ESPRESSIONE DEL SACRO ALLA FINE DEL XVIII SECOLO: LA CATTEDRALE DI SAN GIULIANO A MACERATA DI COSIMO MORELLI Stefano D’Amico Studi sistematici sulla cattedrale di Macerata non sono mai stati pubblicati. Tra i vari testi che, più o meno diffusamente, ne trattano, ricordiamo un opuscolo pubblicato nel 1932 in occasione dell’inaugurazione della cappella del Santissimo Sacramento1 e una Macerata sacra, pubblicata nel 1947 e aggiornata venti anno dopo,2 che Otello Gentili (1918-1988) ha tratto dal riordino degli archivi della Curia vescovile. Notizie sparse, ma ben documentate, sono contenute nei cinque volumi della Storia di Macerata, riedita tra il 1986 e il 1993, soprattutto nei capitoli dedicati all’arte e alla religione di Libero Paci3 che ha attinto a documenti d’archivio e a manoscritti che saranno man mano citati. La prima cattedrale La prima notizia certa dell’esistenza di una pieve dipendente dal vescovo di Fermo e dedicata a San Giuliano risale al 10224 e si trova in un atto di donazione a favore della chiesa di Santa Maria Assunta di quella città. Di questo edificio rimane solo un capitello rinvenuto, nel 1931, dall’arcidiacono Piero Scarponi murato come architrave nei sotterranei dell’attuale cattedrale. Di forma trapezoidale, con collarino e smussature angolari, ha incisi, in forma molto stilizzata, una specie di vaso e una figuretta umana e fu datato “al secolo VIII e non mai dopo il secolo X”, basandosi sulla testimonianza del barnabita Luigi Fabiani che nel XIX secolo, analizzando la struttura ed i sotterranei della vecchia Facciata incompiuta con campanile del XV secolo 41 42 Stefano D’Amico Disegno della facciata Quattrocentesca in BCM ms. 531/VI, XVII secolo cattedrale, indicava una datazione “anteriore al secolo X”.5 Di questa chiesa abbiamo solo notizie sparse e a volte contraddittorie. Secondo lo storico locale Raffaele Foglietti (18461911) la chiesa doveva essere ampia e dignitosa perché nel 1267 e nel 1268 vi fu riunito il Consiglio Generale della città che contava circa 700 persone.6 Sulla facciata vi era una statua di San Claudio “con panneggiamenti alla gotica” - di cui si persero le tracce alla fine del Settecento - forse proveniente dall’omonimo castello presso il Chienti distrutto dai maceratesi nel 1222.7 Lavori di ristrutturazione furono realizzati nel 1287 da Bartolomeo di Bonfiglio da Forlì, che a Macerata in quel periodo stava costruendo il Palazzo della Ragione - attuale Palazzo del Governo - al quale forse si deve un portale ad anelli poi inglobato nella facciata dell’edificio quattrocentesco.8 Nel 1320 l’antica pieve fu elevata a cattedrale della nuova dio- cesi di Macerata e il vescovo Oliviero di Verona (1369-74) la consacrò nel 1369 a Maria Santissima Assunta in Cielo e a San Giuliano avviando nuovi lavori di ristrutturazione.9 La seconda cattedrale Nel frattempo, cadute le Signorie dei Mulucci e dei Da Varano, Macerata tornava, nel 1415, sotto l’autorità del governo pontificio, e si avviava a diventare un importante capoluogo della Marca, cen- MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO tro del potere amministrativo, giuridico e culturale. Fu in questo frangente che il Comune avvertì l’esigenza di una nuova cattedrale, simbolo dei tempi nuovi, e dopo aver finanziato altri restauri, nel 1422, deliberò la sua ricostruzione.10 I lavori, tuttavia, non iniziarono, probabilmente a causa della conquista sforzesca della città e delle ingenti spese sostenute per l’ampliamento delle mura urbane voluto dallo Sforza. Ristabilita l’autorità pontificia nella Marca, Macerata poteva iniziare quell’irresistibile ascesa politicoamministrativa che sarebbe terminata solo nella seconda metà del XIX secolo con l’Unità d’Italia.11 Artefice di questa svolta fu il vescovo di Recanati e Macerata Nicolò delle Aste (1440-1469) che nel 145912 avviò la ricostruzione della cattedrale interessando anche l’episcopio. Un documento del 1° marzo 1464, con il quale il vescovo approva gli atti compiuti dall’amministratore della fabbrica, ci ha tramandato il nome del capomastro, un certo Frater Ludovicus Lombardus.13 In quello stesso anno fu aperta al pubblico, ma i lavori continueranno, almeno nelle sue parti essenziali, fino al 1470 con la costruzione del coro ad opera degli ebanisti Battista da Monte Vidone e Giovanni di Stefano da Mont’Elparo14 e di un portico antistante la facciata. Una lapide posta sopra al portale del campanile, oggi purtroppo mutila, c’informa15 dell’ultimo atto di questa fase: la costruzione della torre campanaria, iniziata nel 1467 per volere e a spese del Comune, ornata con tre bifore, archetti pensili e cuspide, alla quale lavorarono fino al 1478 Antonio Lombardo e un certo Don Ludovico di Cristoforo, forse lo stesso Frater Ludovicus Lombardus che lavorò alla cattedrale.16 Il campanile è da sempre un elemento fondamentale dell’architettura cristiana. Le campane sostituirono nella liturgia occidentale l’uso delle raganelle e delle si- 43 Disegno del Banco de Lettori in BCM ms. 531/VI, XVII secolo mandre usate dai monaci orientali quale “strumento musicale che canta la gloria di Dio e il regno di Cristo”17 e fin dal V secolo furono costruite torri annesse alle basiliche per contenerle, diventando nello stesso tempo segnale di convocazione per l’assemblea del popolo ed elemento per scandire il tempo – mattino, mezzogiorno e sera – delle comunità cristiane. Della cattedrale quattrocentesca esistono molte testimonianze iconografiche desunte dalle incisioni seicentesche di vedute della città di Macerata, purtroppo non sempre fedeli e a volta contraddittorie.18 Dalle vedute del 1618 e del 1642 è possibile dedurre che la chiesa avesse tre navate absidate, la copertura a capanna, il prospetto principale ‘a vento’ con timpano, il fianco laterale scandito da lesene, il portico e il campanile cuspidato di cui si è detto. La veduta del 1661 presenta invece un profilo trasversale ‘a salienti’ – che non compare nella veduta del 1663 – e il già noto portico sul davanti, confermato anche nel disegno successivo dove, invece, sembra sia presente un transetto leggermente agget- tante. Poi abbiamo le testimonianze documentarie desunte da relazioni e verbali di Sacre visite dalle quali Otello Gentili ha dedotto che la nuova cattedrale fosse più grande della precedente, avesse una navata unica19 con travi di legno a vista, tredici cappelle laterali molto profonde, una cripta, un prospetto con fregi marmorei e un rosone nel mezzo e il portico che ricorrerà molto spesso nelle cronache del XVIII secolo perché pericolante e sempre bisognoso di restauri.20 Resti di capitelli e colonne erano ancora visibili nel 1932 nell’orto del palazzo vescovile e potrebbero essere quelli attualmente conservati presso il Museo della Madonna della Misericordia. Ma la documentazione grafica più preziosa della cattedrale quattrocentesca è contenuta nel manoscritto di Ignazio e Pompeo Compagnoni21 conservato nella Biblioteca di Macerata dove è riportato lo schizzo del prospetto principale come si presentava nel XVII secolo. Il disegno, a differenza delle già ricordate vedute, presenta una “facciata a coronamento retto”, una tipologia architettonica di 44 origine romanica molto diffusa in Umbria e in Abruzzo e abbastanza rara nelle Marche. Fabio Mariano22 ne individua due ad Ascoli Piceno (la chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio e la chiesa di San Pietro in Castello) e una a Visso (la chiesa di San Francesco), alle quali si possono almeno aggiungere la demolita chiesa parrocchiale di Bolognola e la chiesa di Santa Maria in Castellana a Ussita, zone non a caso limitrofe ad Umbria e Abruzzo. Il portico è a tre luci con archi a sesto acuto su pilastri poligonali che inquadrano altrettanti portali, due dei quali sono strombati ad anelli concentrici, evidente risultato di un adattamento della facciata duecentesca nella chiesa quattrocentesca, mentre il terzo portale è voltato a tutto sesto con una semplice cornice e fu rifatto in epoca successiva. Il secondo ordine della facciata, delimitato da due lesene d’angolo, si eleva sopra una cornice marcapiano decorata a motivi floreali e presenta nella parte centrale un rosone con due finestre rettangolari ai lati. Pienamente romanica è infine la decorazione del cornicione con una serie di archetti pensili intrecciati su colonnine. Nel disegno sono ben evidenziati i cinque stemmi collocati nelle lunette dei portali: a sinistra quello con le insegne della città, a destra quello con il santo protettore Giuliano e nella lunetta di mezzo gli stemmi di Urbano VIII Barberini (1623-1644), di un altro membro della sua famiglia non identificato e del vescovo Felice Centini che all’inizio del XVII secolo fece fare lavori di restauro nella cattedrale. Il mecenatismo dell’aristocrazia maceratese (ad opera delle famiglie Pellicani, Berardi, Compagnoni “delle lune”, Rossini, Giardini, Carboni, Ciccolini, Ferri, Aurispa, Compagnoni “delle stelle”) arricchirà nel corso dei secoli la cattedrale con decorazioni e pitture, alcune delle quali giunte fino a noi, di cui ci danno Stefano D’Amico Cosimo Morelli, sezioni trasversali, 1771 ca., in ASDM conto Otello Gentili, Libero Paci23 e il saggio di Silvia Blasio nel presente volume. Anche il Comune ebbe sempre cura della cattedrale e i documenti d’archivio parlano di restauri effettuati con il con- tributo pubblico tra il 1536-1558 e di un intervento nella cappella dei Cacciatori realizzato nel 1582 dall’architetto Lattanzio Ventura, a quel tempo impegnato a Loreto nel cantiere della Santa Casa.24 MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO 45 Testimonianza di questa continua azione di patronato sono anche il coro ad intarsio realizzato nel 1565 dal fiorentino Bastiano Brunori,25 e un non meglio specificato “Banco de Lettori” il cui schizzo si trova sempre nel manoscritto dei Compagnoni. Intorno al 1620, il già ricordato cardinale Felice Centini fece restaurare a sue spese la torre campanaria rimuovendo le bifore trilobate - tracce delle quali sono rimaste nei finestroni laterali - e aprendo una grande porta rettangolare alla base ed infine il vescovo Papiro Silvestri (1642-1659)26 fece rinnovare il fonte battesimale che si trovava sotto la torre e iniziò la costruzione dell’orologio terminata nel 1667. A ricordo dei lavori il Capitolo della cattedrale fece porre sul prospetto principale lo stemma cardinalizio del Centini – poi rimosso – e una lapide con iscrizione.27 La cattedrale di Cosimo Morelli Il Settecento si apri con il rifacimento del pavimento e della balaustra del presbiterio,28 voluti nel 1707 dal cardinale Fabrizio Paolucci, già vescovo di Macerata, e con una serie di lavori di restauro che continueranno fino agli anni Quaranta, segno che la cattedrale non era in buono stato di conservazione ed infatti continuarono a distaccarsi stucchi nel coro e “tavolette dalla travatura” tanto da indurre il Capitolo della cattedrale, nella seduta del 12 febbraio 1729, a “nominare due deputati per pregare S. E. Mons. Vescovo di degnarsi di riparare la minacciata ruina della fabbrica”. Le riparazioni, tuttavia, o non furono realizzate o non furono risolutive, e nel 1736 il capomastro Francesco Vici, impegnato nella ristrutturazione della vicina chiesa della Madonna della Misericordia, presentò una perizia per nuovi lavori di restauro con un preventivo di spesa di circa mille scudi.29 Gli ultimi lavori furono eseguiti su progetto dell’architetto maceratese Giuseppe Mat- Salvatore Innocenzi (?), prospetto, 1826 ca, in ASDM tei, che tra il 1741 e il 1743 ristrutturò la cappella di San Giuliano.30 I maceratesi, oramai decisi a ricostruire la cattedrale, appena morì il vescovo Ignazio Stelluti (1735-1756) presentarono una supplica in tal senso a Benedetto XIV (1740-58), che l’accolse immedia- tamente nominando vescovo di Macerata il barnabita Carlo Augusto Peruzzini (1756-77) con il mandato primario di costruire la nuova cattedrale nella parte opposta della città, in una zona pianeggiante vicino Porta Romana (attuale piazza Annessione) dove era la Collegiata 46 di San Salvatore,31 e concesse l’utilizzo di una parte del lascito del canonico Antonio Ulissi, originariamente destinato per un Monte di Pietà. La demolizione e ricostruzione degli antichi edifici di culto, o la loro radicale trasformazione, era una pratica molto diffusa in tutto lo Stato pontificio (a Roma, tanto per fare un esempio, si stava ristrutturando la basilica costantiniana di San Giovanni in Laterano) e in genere queste decisioni non provocavano grandi critiche e opposizioni, salvo rare eccezioni, come per esempio a Fermo dove le proteste dei fedeli riuscirono a salvare la facciata medievale del duomo, mentre tutto il resto fu demolito e ricostruito. A livello teorico sia Clemente XI (17001721) che Benedetto XIV (1740-1758) si erano già pronunciati sulla necessità di salvaguardare le antiche fabbriche,32 ma sugli edifici gotici e romanici pesava ancora il drastico giudizio negativo del Vasari che nell’introduzione a Le Vite (1550) li aveva definiti “mostruosi e barbari (…) che hanno ammorbato il mondo (…) difformi alla bellezza” e in loro aiuto non poteva neanche la trattatistica contemporanea, tutta tesa al recupero della classicità. Anche i maceratesi, a dire il vero, si opposero, ma non tanto alla demolizione della cattedrale, quanto al suo spostamento e all’utilizzo dell’eredità Ulissi, riuscendo ad ottenere dal nuovo pontefice Clemente XIII (175869) la revoca dell’autorizzazione. Seguirono nuove perizie e nuove stime dalle quali emergeva una situazione sempre più compromessa: “il portico, il tetto, il sotterraneo si dichiaravano pericolanti (…) il pavimento ricostruito da appena 50 anni, era impregnato di umidità ed in più punti rigonfio (…) qualche tomba minacciava rovina” e sembra che “pochi anni prima una donna in tempo di sacre funzioni restò seppellita sotto una parte di tetto caduto”.33 Stefano D’Amico Salvatore Innocenzi (?), pianta della piazza 1826 ca., in ASDM Difficile dire se lo stato di conservazione della cattedrale fosse così “ignobile e sconveniente”, come dicono i documenti dell’epoca, certo è che Macerata – come d’altra parte anche le altre città della provincia sede di diocesi – nel corso del secolo aveva cambiato volto: municipio, nobili e ordini religiosi fin dall’inizio del secolo avevano rinnovato o riedificato i loro edifici (il teatro comunale; i palazzi Buonaccorsi, Compagnoni, Marefoschi, Torri, Costa, Lauri, Ugolini; le chiese e i conventi dei filippini, delle clarisse, dei francescani e dei domenicani) o gli edifici di patronato (come la chiesa della Madonna della Misericordia) avvalendosi di architetti di spicco come Giovan Battista Contini o Luigi Vanvitelli. La cattedrale non poteva fare eccezione e il Capitolo, tramite i cardinali Mario Marefoschi e Simone Buonaccorsi, rivolse una nuova istanza a Clemente XIV (1769-74) che finalmente, il 13 giugno 1771, nominò tre deputati – un rappresentante del vescovo, uno del Capitolo e uno del Comune – con il compito di provvedere alla ricostruzione, nello stesso luogo, della cattedrale secondo “il modello o disegno” del suo architetto di fiducia, l’imolese Cosimo Morelli. Fu approntata una fornace di mattoni nel terreno del “Sig. cavaliere Ciccolini”, che lo concesse gratis, e il 1° novembre 1771 il vescovo Peruzzini poteva procedere alla posa della prima pietra della nuova cattedrale.34 Le pendici del colle furono rafforzate con poderose MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO Cesare Tucci(ani), restauro dell’altare maggiore, fine XIX secolo, in ASDM fondazioni e la chiesa fu completamente riedificata in laterizio, un materiale povero ma molto economico che nello Stato pontificio, attanagliato da una grave crisi economica, aveva sostituito da diversi anni il più costoso marmo. E proprio un mattone, con incisa la data 1773, fu murato all’esterno dell’abside, all’altezza della copertura della cripta ad indicare lo stato d’avanzamento dei lavori. Il finanziamento del cantiere fu l’assillo continuo dei committenti e quando, per esempio, il 28 aprile 1775 il Morelli presentò una perizia di 7000 scudi romani per il completamento dell’opera, il Peruzzini gli rispose pregandolo di “informarsi intorno a quella pietra di nuova invenzione, cioè della qualità, prezzo ed uso che per la nostra chiesa se ne potrebbe fare, se non con risparmio, almeno con poca maggiore spesa, ma migliore veduta”.35 Una nuova perizia sarà predi- sposta il 6 settembre 1776 dagli architetti Francesco Maria Ciaraffoni di Ancona e Luigi Paglialunga di Fermo insieme al capomastro Domenico Spadoni.36 Dalla corrispondenza tra Macerata e Roma emerge poi la questione dell’ampliamento della piazza davanti alla cattedrale “affinché si potesse vedere la facciata con le due torri”. Cosimo Morelli ne parlò in una relazione del 1778 affermando che occorrevano “500 scudi per tagliare parte del Seminario vecchio” (attuale palazzo Strambi) e contenere nella sua interezza l’imponente facciata. Ritornò sull’argomento il fratello Luigi, direttore del cantiere e impresario della fabbrica, che in una nota senza data indicava, tra le operazioni e le spese da farsi per terminare la nuova cattedrale, il taglio di una porzione di seminario affinché si vedesse il prospetto della nuova facciata con le due torri “secondo il dise- 47 gno del sig. Morelli”.37 Il cardinale Marefoschi, da Roma, continuava a tenere i contatti con il pontefice e nell’udienza dell’8 aprile 1777 si decise di accelerare i lavori rinunciando alla cupola (sostituita da un semplice catino fatto “con la maggior polizia e minore spesa”), alle decorazioni in stucco (simulate con la pittura) e agli altari (fatti provvisoriamente in stucco per essere poi completati in marmo dai privati) per dare precedenza assoluta al completamento della facciata e del campanile. Non si rinunciava invece alle sacrestie, all’altare patriarcale, alle cantorie con l’organo, al battistero, a sei candelabri “con la croce secondo il disegno di Giulio Romano o secondo la misura dell’architetto”, alle predelle, al concessionario, al pulpito e a tutte le porte, finestre, ramate, tendine e gronde, stabilendo che “se poi si avranno i quattrini si faranno tutte le altre cose che si propongono, cioè cupola, stucchi dorati, altra cappella in confronto di quella del Santissimo, pavimento di marmo, altari di marmo e molte altre cose che in avvenire si potranno fare”.38 I lavori invece procedettero molto lentamente e si prolungarono per altri tredici anni39 con periodiche sospensioni per mancanza di fondi e qualche dubbio sulla stabilità della fabbrica, subito fugato dalla perizia di un non meglio identificato architetto romano, e mentre i lavori erano ancora in corso, la Confraternita del Sacramento iniziò la tanto auspicata decorazione affidando, intorno al 1780, all’architetto Giuseppe Mattei il progetto della cappella omonima.40 Il 14 maggio 1790, visto il collaudo del 11 ottobre 1787 dell’architetto fiorentino Luigi Sgrilli,41 (vedere allegato nella sezione di Laura Mocchegiani) il vescovo Domenico Spinucci (1777-1796) poteva finalmente consacrare la nuova cattedrale senza la prevista facciata con i due campanili. Rispetto alla precedente, la nuova 48 Stefano D’Amico cattedrale risultò più lunga di circa quattro-cinque metri sul davanti, inglobando circa un terzo del vecchio campanile, e di circa due metri sul retro, con un costo di 50.000 scudi che diventeranno 57.000 nel 1803, quando i lavori, con la costruzione del pulpito, potranno dirsi conclusi.42 Una veduta di Macerata, attribuita a Francesco Foschi e databile al 1780, presenta una curiosa versione della cattedrale con una cupola a vista su un alto tamburo cilindrico, come quella della chiesa di San Giovanni, e un campanile con cupolino. Ammesso che il pittore abbia voluto anticipare l’imminente nuovo profilo della città, è poco chiaro perché abbia scelto di mettere una cupola estradossata, che il Morelli sembra non abbia mai prospettato, e non il secondo campanile, che invece a quel tempo era dato per certo. La questione della facciata I disegni del progetto di Cosimo Morelli sono stati tutti dispersi ad eccezione di una sezione trasversale sulla tribuna e sulla navata che si conserva presso l’Archivio della diocesi di Macerata. Il prospetto principale “con le due torri” si perse nel 1802 quando il vescovo San Vincenzo Maria Strambi (1801-1824), volendo rifare e ampliare il Seminario (attuale palazzo Sarnari), lo mandò a Roma per farlo giudicare ed eventualmente modificare, senza che tornasse indietro. La successiva conquista napoleonica dell’Italia e di Macerata, con l’esilio forzato di papa Pio VII e del vescovo Strambi (28 settembre 1808), distolsero l’attenzione dal progetto di completamento della facciata fino al 1826, quando si ripropose la questione del taglio di una parte del Seminario. Il nuovo vescovo Ansaldo Teloni (18241846) incaricò l’architetto comunale Salvatore Innocenzi di fare un nuovo disegno della facciata con le due torri già L. Belli, sezione cappella del SS. Sacramento, 1878, in ASDM MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO previste dal Morelli, conservando però il vecchio campanile rivestito con un paramento in laterizio per assecondare il volere del Capitolo che chiedeva di contenere i costi.43 Il progetto fu nuovamente inviato a Roma per l’approvazione di rito, probabilmente insieme alla planimetria della piazza nella quale si proponeva di tagliare cinque metri del Caseggiato del Seminario vecchio – evidentemente non volendo demolire il Caseggiato del Seminario nuovo da poco costruito, ma fu respinto. L’architetto Giuseppe Valadier, che con Luigi Poletti faceva parte della commissione, pur concordando nella scelta di conservare la torre quattrocentesca tornava a parlare dell’arretramento di tutto il seminario di dodici metri per dare alla chiesa una piazza “conveniente e comoda” che permettesse di vedere la seconda torre, simmetrica alla prima, alla quale evidentemente non intendeva rinunciare.44 Il vescovo, non sapendo cosa fare, chiese all’architetto Bertolini della Legazione pontificia di apportare le modifiche richieste mediando tra le varie proposte, ma la grave crisi economica di quegli anni impedì di procedere con i lavori.45 L’ultimo tentativo per dare un prospetto alla cattedrale si ebbe nel 1857: nel mese di maggio Pio IX visitò Macerata e il Capitolo colse l’occasione per chiedere di poter disporre per dodici anni di alcune rendite vacanti, asserendo che la spesa per il completamento sarebbe stata di soli 3.000 scudi, mille in meno di quelli necessari nel 1777. Il papa concesse i sussidi e i sondaggi eseguiti per vedere se ci fossero le fondazioni della seconda torre diedero “l’effetto sperato”. Il Seminario ora poteva non essere più un problema essendo stato ricostruito venti anni prima nell’area dell’ex convento degli agostiniani (attuale palazzo della Facoltà di Scienze politiche),46 proprio davanti alla facciata della cattedrale, ma anche questo Giuseppe Rossi, sezione cappella del SS. Sacramento, 1907, in ASDM 49 50 Stefano D’Amico Navata centrale, particolare arcate tentativo non andò a buon fine e i fondi non poterono più essere utilizzati perché, nel 1861 lo Stato italiano li incamerò. Negli anni successivi si procedette a piccoli interventi di miglioramento, quali la sistemazione dell’altare maggiore47 e il rifacimento del pavimento,48 e iniziò il progressivo oscuramento dell’interno – così come stava avvenendo nella vicina basilica vanvitelliana della Madonna della Misericordia – con la chiusura dei lunettoni del transetto (1868),49 la posa in opera di vetrate in alabastro ai finestroni dell’abside e l’oscuramento dei vetri delle finestre delle navate. La cappella del Santissimo Sacramento di Giuseppe Rossi Il desiderio dei maceratesi di dare una facciata alla loro cattedrale, malgrado fosse passato quasi un secolo e mezzo, era ancora vivo e l’anonimo cronista del 1932, dopo aver ricordato che “nel corso degli anni, altri architetti presentarono disegni senza che potessero essere attuati”, ricordava che ultimamente anche “S. E. l’architetto Bazzani dell’Accademia d’Italia” aveva presentato un disegno e auspicava l’intervento del Comune al quale era “affidato il mantenimento delle chiese parrocchiali”.50 L’ultimo intervento architettonico, voluto dall’arcidiacono Piero Scarponi, fu la ristrutturazione della Cappella del Santissimo Sacramento che ebbe un iter progettuale lungo e complesso. Il vano a croce greca con gli angoli smussati e un semplice “volto” coperto a tetto era quello già impostato dal Mattei nel 1780 e probabilmente non aveva un grande apparato decorativo. I primi “abbozzi della pianta e spaccati” risalgono al 11 marzo 1878 e sono firmati da un non meglio identificato L. Belli51 che mantenne la pianta aggiungendo due colonne composite ai lati delle smussature, quattro archi a tutto sesto impostati direttamente sulle colonne, una trabeazione di raccordo e la cupola estradossata, leggermente rialzata e conclusa con una breve lanterna coperta a vetro.52 Il progetto richiamava il presbiterio vanvitellino della vicina Basilica della Misericordia, o la cappella del Sacramento di Recanati, ed era molto co- stoso, motivo per il quale probabilmente non venne realizzato. Se ne riparlò solo nel 1907, quando l’architetto fermano, ma residente a Macerata, Giuseppe Rossi53 ridusse i costi sostituendo le colonne con più economiche paraste e la cupola a vista con una cupola intradossata e un tetto a piramide con lanternino. Tuttavia passeranno altri venti anni prima di iniziare i lavori e concluderli nel 1932. Dell’antica cappella, “eccessivamente bassa, meschina, non rispondente alla dignità del luogo e del Divino Ministero che in esso si adora”, si salvarono i due angeli in stucco, poi dorati e posti ai lati dell’affresco centrale, e l’altare in legno ornato con rilievi e le statue dei dodici apostoli, riadattato e restaurato di cui ci parla Silvia Blasio nel presente volume.54 Cosimo Morelli (Imola 8 ottobre 1732 26 febbraio 1812) fu un architetto molto apprezzato dai pontefici Clemente XIV e Pio VI, entrambi romagnoli come lui, e da loro ebbe titoli, onori e importanti incarichi, soprattutto tra la Romagna e le Marche. Uguale stima non godette invece tra i suoi colleghi romani e l’Accademia di San Luca gli fu sempre ostile forse per una sua certa spregiudicatezza professionale messa in luce nella monografia a lui dedicata da Anna Maria Matteucci e Deanna Lenzi.55 Praticò vari ambiti dell’architettura distinguendosi nella progettazione di teatri a conferma della bontà della scuola emiliano-romagnola che in tale settore si affermò in tutta Italia. Il catalogo delle opere del Morelli è molto ampio, ma non sempre supportato da documenti d’archivio. Nelle Marche, tra il 1770 e il 1798, ebbe incarichi prestigiosi progettando le cattedrali di Fossombrone e di Fermo e i teatri di Osimo, Iesi e Fermo, mentre gli sono attribuite la chiesa di San Francesco a Pollenza, la chiesa parrocchiale di Montegrimano, la chiesa degli agostiniani di Fossombrone e un MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO 51 Navata centrale disegno per ricavare un teatro all’interno della chiesa di San Francesco sempre a Fossombrone. A Macerata progettò, oltre alla cattedrale, il teatro comunale e la facciata di Palazzo Silvestri (già Banca d’Italia), diede alcuni disegni, mai rea- lizzati, per Palazzo Ciccolini e gli sono attribuiti il dossale per l’altare maggiore della chiesa di San Giovanni e il progetto per la chiesa di San Giorgio.56 Dalla Romagna arrivò a Roma, per la prima volta nel 1759, e qui farà propri gli orientamenti stilistici della cultura ufficiale classicista che, abolita la fantasia della recente tradizione barocca, sperimentava ora linguaggi volti al recupero rigoroso dell’antico che nell’architettura sacra significa ripresa dei modelli solenni 52 Stefano D’Amico Volta del presbiterio e pacati del Cinquecento romano, i più idonei a trasmettere quella forza rassicurante, quel senso monumentale del grandioso, quella severa maestosità dell’ordine e della simmetria utili a rappresentare la certezza della fede e dell’autorità della Chiesa minacciata dall’avanzare incal- zante delle idee illuministe. I volumi che si stagliano netti e compatti nel profilo urbano, con la poderosa ‘torre’ semicilindrica dell’abside, contribuiscono ad esprimere tali concetti a Macerata come nella vicina Treia dove, in quegli stessi anni, si stava elevando la cattedrale su di- segno di Andrea Vici. Come i grandi architetti del XVI secolo, che seppero “prefigurare una capitale cristiana in grado di surclassare la Roma imperiale pagana” attraverso il recupero degli antichi motivi architettonici, cosi il Morelli tentò di fare nella seconda metà del XVIII secolo MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO con le sue architetture sacre, anche se la storia stava andando in un’altra direzione. Tutto il repertorio classico romano (colonne su piedistalli, archi a tutto sesto, ordini architettonici, volte a botte e cupole cassettonate) è piegato ed utilizzato per esprimere il senso della grandezza. Cosimo si attiene alla tradizione anche nell’impostazione planimetrica con un’immensa navata centrale scandita da colonne ioniche binate, con piedistallo e breve trabeazione, che sorreggono tre ampie arcate a tutto sesto. Un gigantesco ordine architettonico, composto da due coppie di paraste corinzie giganti e una profonda trabeazione, inquadra le tre campate e funge da solida base per l’altrettanto grandiosa volta a botte a tutto sesto lunettata. Conforme alla tradizione è anche l’innesto della navata con il transetto sottolineato da una cupola intradossata classicamente scandita, nel disegno originario, da cassettoni esagonali e conclusa da uno snello lanternino. Anche il catino absidale, che si apre dopo un profondo e ampio presbiterio, degna sede per la manifestazione del divino, era previsto con cassettoni quadrati che, come i primi, non furono mai realizzati preferendosi, un secolo e mezzo dopo, una decorazione pittorica. Lo storico e critico d’arte maceratese Amico Ricci (1794-1862) nel 1834 espresse un giudizio negativo, sia sull’opera complessiva del Morelli, affermando che “operò molto, ma in nessuno de’ suoi lavori toccò la meta, cui dovevasi mirare per ricondurre nuovamente l’architettura ai modi abbandonati da più di un secolo. Al semplice ed al purgato stile non seppe ben uniformarsi, e perciò non superò d’un passo i contemporanei”, sia sulla cattedrale di Macerata, perché “nei Capitelli imitò quelli che si vogliono inventati da Michelangelo, in luogo dei Scamoziani, a cui sembra doversi la preferenza, perché i più naturali, i più vaghi, ed i più convenienti. Le cornici appajono soverchiamente ornate, e non corrispondenti al carattere medio, che distingue quest’ordine. Pel rimanente non può certo lodarsi l’uso praticatovi delle colonne binate, le quali in vece di sostenere il solo architrave sono usate a sostenimento degli archi; lo stesso 53 dicasi di una proporzione troppo angusta nelle navate, che non corrisponde all’ampiezza della tribuna”.57 Più pacato il giudizio di Carlo Astolfi nel 1907, secondo il quale “il tempio non è andato esente da qualche giusta critica, però si addice ad esso la sobria decorazione dal purgato stile neoclassico”.58 La rivalutazione architettonica della cattedrale di Macerata iniziò nel 1926 con Guido Gambetti, che la riteneva “di belle proporzioni” e un buon esempio della tendenza del Morelli “a cercare il grandioso come espressione del sentimento religioso”,59 e proseguì nel 1959 con Giuseppe Marchini che vi ravvisò una “vaga ispirazione algardiana, ma in una nuova unità spaziale a giorno per vera luce che fiotta all’interno senza respiro d’ombre”.60 Anna Maria Matteucci e Deanna Lenzi, pur esprimendo nel complesso un giudizio positivo, notano che “purtroppo le posteriori decorazioni pittoriche compromettono in parte l’effetto di sobria eleganza dell’interno”61 e su questo inciso potremmo concordare pienamente. NOTE Cattedrale di Macerata 1932. Gentili 1967. 3 Storia di Macerata 1986-93. Gentili, Adversi 1987. Paci 1987. Paci 1989. 4 Gentili 1967 p. 97 a Pacini 1963 p. 62. Storia della cattedrale 1932 p. 10. 5 Paci 1989 p. 9 rimanda al manoscritto di Luigi Fabiani Memorie della città di Macerata, “conservato in varie copie nell’Archivio della Curia Vescovile e nella Biblioteca Comunale di Macerata (ms. n. 847)”, che non è stato possibile reperire. Secondo Storia della cattedrale 1932 p. 10 l’opera del Fabiani sarebbe della seconda metà del XVIII secolo. Compagnoni 1661 p. 146 si limita a dire che, ai suoi tempi, la cripta della vecchia chiesa appariva “molto antica”. 6 Foglietti 1885, pp. 242-243. 7 Compagnoni 1661 p. 185. Ragionamento della origine 1780 p. XIII. Gentili 1967 p. 97. Paci 1989 p. 13. 8 Astolfi 1907 p. 43. Paci 1989 p. 10. Nel 1278, dovendosi acquistare delle travi di legno per il palazzo Comunale, si disse che fossero lunghe e grosse quanto quelle comprate per la chiesa di San Giuliano. 9 Gentili 1967 p. 98. Paci 1989 p. 12. Secondo Storia della Cattedrale 1932 p. 11 la chiesa fu consacrata dal vescovo di Macerata Beato Pietro Mulucci (13271347) nel 1330. 10 Gentili 1967 p. 99. 1 2 A Macerata risiedevano i cardinali Legati, i Rettori e i Vicari della Marca; vi erano la Tesoreria, la Curia generale e un importante Studio di legge. Successivamente si avranno la Zecca e il Tribunale della Rota. 12 Paci 1989 p. 18. Gentili 1967 p. 99. Secondo Storia della Cattedrale 1932 p. 12 i lavori iniziarono nel 1447. 13 Paci 1989 p. 18. 14 Ricci 1834 p. 139. Paci 1989 p. 26. Una lapide in pietra all’ingresso del coro recava la seguente iscrizione: “In Dei nomine amen./ Hoc opus fabricaverent magister Johannes Stephani/ de Monte Elparo et magister Baptista de Monte Vidone/ Huius chori fabricae socius de bonis et ereditate/ venerabilis viri Domini Venantii Antonimi de Macerata archidiaconi/ maceratensis per eiusdem fidei commissarios testamenti sub annis Domini MCCCCLXX de mense aprilis”. Il coro fu rimosso nel 1563 per essere sostituito da uno nuovo, e andò disperso. Nel 1871 due tavole con la figura intarsiata di San Giuliano (Pallotta 1885 pp. 60 e ss.) furono rinvenute da Filippo Raffaelli nella bottega del falegname Miche Capuano che le disse provenienti da palazzo Lazzaroni (Raffaelli 1877 p. 25). Trasportate nella Biblioteca comunale, scomparvero già prima del 1892. Astolfi 1907 p. 44 rimanda al Vogel. 15 Per il testo vedere il saggio di Egidio Pietrella in questo volume 16 Paci 1989 p. 18. 11 54 Jounel 1984 p. 787. Fusari-Torresi 2009. 19 Gentili 1967 p. 100. Secondo Storia della Cattedrale 1932 p. 12 “è certo che era a tre navate, chiuse in fondo da tre absidi”, confermando quindi le vedute del 1618 e del 1642. 20 Storia della Cattedrale 1932 p. 12. 21 BCM, ms. n. 531/VI, t. II, cc. 440-431. 22 Mariano 1995 p. 66. 23 Gentili 1967 pp. 100-103. Paci 1989 pp. 61, 62. 24 Paci 1989 p. 38. 25 Paci 1989 p. 68. 26 Gentili 1967 p. 103. 27 FELIC CENTINO CARA SC/ HVIS ECCL.IA ERO OMNI PASTO/ RALIVM VIRTVT GENERE C(?)/ LATISSIMO RELIGIONIS INDEX/ DILECTIO NISIN HOMINES PIETA/ TIS IN PAVPERES BENEFICENTHAE/ IN CVNCTOS EXIMIAE/ CAPITVLUM COTESTA EA VOLV/ IT POSIERITATI MEMORIA. 28 Storia della Cattedrale 1932 p. 14. Gentili 1967 p. 103 rimanda ad un manoscritto sulla cattedrale di Antonio Norsini conservato nella Biblioteca comunale che non è stato possibile consultare. Paci 1989 p. 113. La lapide sepolcrale del Tesoriere della Marca, il vescovo Angelo Marsicano, fu rimossa dai piedi degli scalini e collocata in mezzo alla chiesa. Attualmente è murata nei locali dell’archivio diocesano. 29 Paci 1989 p. 86. 30 Paci 1989 p. 92 rimanda a BCM, ms. n. 968. 31 Matteucci, Lenzi 1977 p. 220. 32 Matteucci 2000 pp. 245, 249. 33 Storia della Cattedrale 1932 p. 16. 34 Storia della Cattedrale 1932 p. 17. Matteucci, Lenzi 1977 p. 164. Furono coniate alcune monete in oro e bronzo nelle quali si legge: D.O.M. IN HON B.V.M. ET S. IVLIAN (recto), PR. LAP. IMPOS./ KAL NOV. AN. D.NI MDCCLXXI (centro del verso) e CLEMENTE XIV P. M. CARD. AVG. PERUZINIVS EPISC. ET S.P.Q.MACERAT. PRINC. TEMPL. VET. DIRUTO REFECER AERE COLL. (bordo del verso). 35 Matteucci, Lenzi 1977 p. 220. ASDM, Fabbrica della cattedrale, lettera di Cosimo Morelli del 28 aprile 1775 e lettera di Carlo Augusto Peruzzini del 22 dicembre 1775. 36 ASDM, Fabbrica della cattedrale, perizia del 6 settembre 1776. 37 Matteucci, Lenzi 1977 p. 220. ASDM, Fabbrica della cattedrale, “Nota esatta di tutte le operazioni e spese da farsi per terminare la nuova cattedrale” di Luigi Morelli, s. d. 38 Storia della Cattedrale 1932 p. 19. Matteucci, Lenzi 1977 p. 220. 39 La complessità dei lavori emerge chiaramente dal resoconto del viaggio, da Roma a Macerata, del mosaico rappresentante San Michele Arcangelo posto sull’altare sud del transetto. Eseguito nel 1628 per la Basilica di San Pietro, il cardinale Mario Compagnoni Marefoschi riuscì ad averlo per la cattedrale di Macerata e lo spedì a Civitavecchia. Il 17 dicembre 1771 fu imbarcato per Ancona dove arrivò intorno al 13 gennaio 1772. Il trasporto fino a Macerata fu affidato al “custode degli attrezzi del Santuario di Loreto” che, con un carro trainato da otto paia di buoi, partì dal capoluogo alle ore 13,30 del 29 maggio e “dopo parecchie tappe giunse felicemente a destinazione”. Storia della Cattedrale 1932 p. 21. 40 Paci 1989 p. 93. Giuseppe Mattei il 28 agosto 1790 fu pagato per il disegno del Bancone di noce del Magistrato realizzato da Pasquale Prosperi, a sua volta pagato il 30 settembre. Astolfi 1907 p. 65. 41 ASDM, Fabbrica della cattedrale, perizia di Luigi Sgrilli del 11 ottobre 1787 42 Astolfi 1907 p. 65. 17 18 Paci 1989 p. 141. Matteucci, Lenzi 1977 p. 220. ASDM, Fabbrica della cattedrale, Facciata Cattedrale, promemoria, s. d. 44 Matteucci, Lenzi 1977 p. 220. ASDM, Fabbrica della cattedrale, perizia di Giuseppe Valadier del 22 agosto 1826. 45 Storia della Cattedrale 1932 p. 22. 46 Mateucci, Lenzi 1977 p. 220. ASDM, Fabbrica della cattedrale, lettera di Giovanni Teloni del 7 agosto 1857. 47 ASDM, Fabbrica della cattedrale, “Progetto di Ristauro dell’Altare del duomo di Macerata” di Cesare Tucci(ani), s.d. Astolfi 1907 p. 64. Gentili 1967 pp. 108,109. Paci 1989 p. 97. L’altare era stato consacrato il 24 maggio 1790, anno al quale risale un pagamento di 200 scudi allo scultore maceratese Antonio Piani per due putti e lo stemma del committente, il vescovo Peruzzini, che l’ornavano. Il progetto di restauro, su disegno di Cesare Tucci(ani), fu necessario probabilmente per riparare i danni causati dal terremoto del 1873, ma non fu mai realizzato perché nel 1907 era ancora rivestito in legno. Il restauro si fece nel 1910 su commissione del vescovo Raniero Sarnari (1902-1916): furono modificate le parti laterali, probabilmente togliendo i putti del Piani, ora conservati in sacrestia, e si aggiunse lo stemma del Sarnari. 48 Storia della Cattedrale 1932 p. 22. Realizzato nel 1892 dal cementista Roberto di Marino di Montalto delle Marche con mattonelle di “cemento Portland di prima scelta” a tre colori. 49 ACM, Fabbrica della cattedrale, “Perizia di mastro Pasquale Pietrosi” del 26 giugno 1868. 50 Storia della Cattedrale 1932, p. 22. Paci 1989 p. 165. Cesare Bazzani presentò il progetto, insieme a quelli per le facciate delle chiese di San Paolo e di San Filippo, alla Mostra provinciale d’arte del 1922. 51 Escluso che possa trattarsi dello scultore torinese Luigi Belli (1844-1919) e considerato che la Stima approssimativa dei lavori da eseguirsi è datata Macerata 11 Marzo 1878, potrebbe trattarsi di un membro della omonima famiglia di capomastri-architetti attiva in città dalla fine del XIX secolo, della quale sono documentati Pietro Belli (notizia nel 1789) e Biagio Belli (notizie tra il 1830 e il 1854). 52 ACM, Fabbrica della cattedrale, “Abbozzi della pianta e spaccati per la costruzione della cupola e restauro generale della Cappella del SS. Sacramento nel Duomo di Macerata” di L. Belli del 11 marzo 1878. Nel fascicolo sono contenuti altri tre disegni (una pianta e due sezioni, di cui una a matita) con una versione più slanciata della cappella conclusa con una cupola a tutto sesto. 53 Bonci 1932 p. 23. Paci 1989 p. 146. 54 Bonci 1932 p. 23. Le opere murarie furono realizzate dall’impresa di Giuseppe Scodanibbio con l’assistenza del geometra Romeo Cicconi, il coro e le due porte laterali sono di Umberto Fossi di Prato, la vetrata è opera di Giulio Cesori Giuliani di Roma, Mario Bedini di Ostra dipinse gli arazzi sulle pareti, la Ditta Fratelli Tecchi di Fano realizzò il pavimento in marmo, la decorazione pittorica è di Ciro Pavisa. 55 Mateucci, Lenzi 1977. 56 Paci 1989 p. 91. Gentili 1967 p. 174 per la chiesa di San Giorgio non indica le fonti. Matteucci, Lenzi 1977 pp. 220, 268. 57 Ricci 1834 p. 390. 58 Astolfi 1907 p. 64. 59 Gambetti 1926 p. 36. Alle pp. 96-97 riporta il giudizio favorevole di Albert E. Brinckmann espresso in un’opera pubblicata a Berlino nel 1917, e credo mai tradotta in italiano (Die Baukunst des 17. und 18. Jahrhunderts in den romanischen Lander). 60 Marchini 1965 p. 424. 61 Mateucci, Lenzi 1977 p. 220. 43 MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO 55 CATTEDRALE DI SAN GIULIANO A MACERATA: LA PINACOTECA SACRA Silvia Blasio Quasi niente rimane a testimonianza degli arredi dell’antica pieve di San Giuliano, elevata a cattedrale nel 1320, se non un capitello marmoreo preromanico con una decorazione incisa che nel 1931 monsignor Pietro Scarponi ritrovò incassato come architrave in una volta dei sotterranei della chiesa attuale.1 Su questa primitiva chiesa sorse poi, a partire dal 1447 e per iniziativa del vescovo Niccolò delle Aste, la cosiddetta “seconda cattedrale”, consacrata nel 1464 e interessata da varie e rinnovate decorazioni tanto che, all’inizio del Seicento, padre Francesco Orazio Civalli poté definirla “bella, con molte cappelle stuccate, dorate, e con quadri e pitture di bella mano”.2 I dipinti che tra Cinque e Seicento arricchirono progressivamente questa chiesa quattrocentesca dotata di tredici cappelle, stando alla testimonianza delle Sacre Visite del 16613 e del 1685, in parte vennero riadattati agli spazi delle cappelle laterali della terza cattedrale edificata a partire dal 1771, in parte furono ricoverati in sacrestia e in parte andarono dispersi. Un inventario settecentesco fotografa la situazione degli arredi immediatamente prima della demolizione della vecchia chiesa, registrando anche la provvisoria destinazione di oggetti e dipinti, – di solito le abitazioni dei detentori dei giuspatronati o altri edifici di culto4 –, in attesa di poterli riportare nella nuova cattedrale. L’importanza storico-artistica di alcuni dei dipinti presenti in chiesa evidenzia l’aggiornamento culturale dei committenti maceratesi soprattutto Giovanni Baglione, Consegna delle chiavi a san Pietro 56 Silvia Blasio Andrea Boscoli, Martirio di sant’Andrea, disegno. Ubicazione ignota Andrea Boscoli, Martirio di san Sebastiano, disegno. Brema, Kunsthalle nel primo Seicento, i loro legami con il mondo artistico romano, l’attenzione per pittori forestieri attivi in quegli anni nel territorio della Marca e per gli artisti marchigiani più in voga. Inoltre preziosi doni come quelli del cardinale Mario Compagnoni Marefoschi, oppure acquisizioni ottocentesche come il trittico di Allegretto Nuzi, hanno in qualche modo compensato quelle perdite spesso inevitabili nell’avvicendarsi delle fasi architettoniche di un edificio religioso, trasformandone il patrimonio di dipinti in una vera e propria pinacoteca sacra. Dal formato di alcune delle tele che ornavano la seconda chiesa, o dalle testimonianze antiche che le riguardano si può dedurre che le cappelle erano molto profonde e consentivano un allestimento decorativo basato sulla presenza di tre dipinti, uno sull’altare di formato verticale e due laterali disposti orizzontalmente, mentre la profondità esigua delle cappelle della chiesa settecentesca ha comportato il riutilizzo della sola pala d’altare e l’eliminazione dei laterali. Tale situazio- Giovanni Baglione, Martirio di san Pietro Giovanni Baglione, Resurrezione di Tabita ne si riscontra infatti nella prima cappella della navata destra entrando, dedicata a san Pietro;5 essa era sotto il giuspatronato della famiglia nobile dei Ferri, che commissionarono a Giovanni Baglione tre tele con Storie di san Pietro, la Consegna delle chiavi sull’altare e nelle pareti laterali la Crocifissione di san Pietro e la Resurrezione di Tabita. Le due tele laterali a sviluppo marcatamente orizzontale che non trovarono spazio nella cappella dopo la ricostruzione settecentesca sono state collocate nella sacrestia. L’attribuzione dei dipinti a Giovanni Baglione MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO risale a un manoscritto di Amico Ricci,6 ma essi figurano nella letteratura sul pittore romano solo a partire dall’articolo di Roberto Longhi7 che nel 1930 definì un primo catalogo delle sue opere. Il percorso artistico di Giovanni Baglione (Roma 1566-1644) attraversa le più diverse esperienze, dall’esordio nel contesto fantastico ed elegante dell’ultimo manierismo romano, alla partecipazione ai cantieri sistini accanto a Giovanni Guerra e Cesare Nebbia, fino al drammatico confronto con la pittura di Caravaggio, di cui fu il seguace più precoce, conclusosi come è noto con il processo del 1603 e la denuncia per diffamazione nei confronti del Merisi. Aspetti del naturalismo caravaggesco continuarono tuttavia ad affiorare anche più avanti nella sua carriera, segnata da moltissime commissioni importanti a Roma e dalla nomina a principe dell’accademia di San Luca, alternandosi a ritorni manieristici e temporanee adesioni alle istanze classiciste.8 La cronologia dei tre dipinti maceratesi non datati, in mancanza di documentazione, è stata ipoteticamente riferita all’inizio del secondo decennio del Seicento,9 anche tenuto conto dell’ostacolo dei vari e disordinati mutamenti di rotta attuati dal Baglione, del resto riscontrabili anche tra una tela e l’altra del ciclo: la pala d’altare d’impianto arcaizzante, nella composizione ordinatamente affollata rispecchia la concezione classicista del tema che risale addietro fino al Perugino, presentando una chiara partizione degli astanti in due gruppi per lasciar visibile, nello spazio vuoto al centro, un’architettura coperta da cupola con un portico ad arcate. Assai diversi i due laterali: nella Resurrezione di Tabita vi è quella “mescolanza un po’ aspra tra le parti di maniera e quelle ‘dal naturale’”,10 mentre la Crocifissione di san Pietro, audace nell’impaginazione e drammatica nel chiaroscuro, teatralmente costruita per diagonali, ri- Andrea Boscoli, Madonna col Bambino e i santi Andrea e Sebastiano 57 58 Silvia Blasio Vincenzo Martini, San Carlo Borromeo in preghiera echeggia inevitabilmente, ma in modo retorico e con opulenta corporeità, il precedente caravaggesco di Santa Maria del Popolo insieme alle grandi figure di proscenio del Martirio di san Matteo. Sull’altare della seconda cappella del lato destro, dedicata a Sant’Andrea, vi è la pala di Andrea Boscoli (Firenze 1564Roma 1608) raffigurante la Madonna col Bambino e i santi Andrea e Sebastiano,11 commissionatagli insieme ai due laterali perduti con il Martirio di sant’ Andrea e il Martirio di san Sebastiano, dal nobile prelato maceratese monsignor Giulio Rossini, arcivescovo di Amalfi, cui il 19 luglio 1600 fu concesso il giuspatronato della cappella “ut possit construere, reedificare et adaptare”.12 Con quest’importante lavoro Andrea Boscoli esordì con successo a Macerata, dopo aver già eseguito varie opere per Fabriano,13 conquistando un immediato consenso nella città testimoniato da Amico Ricci: ” […] presto mostrò quanto valeva in una tela, che dipinse pel Duomo nella cappella dei Rossini, ove figurò in alto la Vergine col Andrea Sacchi, Miracolo di san Gregorio Magno Putto atteggiato graziosamente, al basso un Sant’Andrea, che dimostra la di lui abilità nel ben disporre, e piegare de’panni, e San Sebastiano nel lato opposto, che lo dichiara intelligentissimo nel nudo.”14 La pala dovette essere compiuta entro il 22 dicembre 1602 quando, con solenne processione, nella cappella vennero col- locate le sacre reliquie donate alla chiesa dal vescovo Rossini.15 I due dipinti laterali perduti, ricordati in un manoscritto di Amico Ricci,16 sono menzionati nell’Inventario di quadri redatto subito prima dell’edificazione della nuova cattedrale con le misure (“tutte due di palmi sette e mezzo di lunghezza e di larghezza palmi MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO dieci e dita sei in circa”)17 che attestano il loro sviluppo in orizzontale, documentato anche dalla struttura formale e dalle dimensioni dei due disegni preparatori.18 I fogli con i due Martiri mostrano composizioni mosse e attraversate da linee diagonali che dovevano convergere nei quadri verso la pala d’altare, creando un effetto teatrale inedito nella pittura del Boscoli. L’insieme così ricomposto della cappella Rossini, che doveva essere anche ornata di stucchi,19 presentava un assetto molto simile a quello della cappella Ferri di Giovanni Baglione: due laterali a sviluppo orizzontale e un quadro d’altare di formato verticale e dalla composizione arcaizzante. Infatti la Madonna col Bambino e i santi Andrea e Sebastiano, in cui Boscoli mostra di riattingere alle fonti venete cinque-seicentesche visibili nelle Marche per il denso impasto materico e la sensibilità per il colore, evidenzia una più tradizionale disposizione piramidale delle figure, per quanto attraversata da direttrici oblique in armonia coi due Martiri. Non possono sfuggire nemmeno le analogie compositive tra il disegno boscoliano con il Martirio di sant’Andrea e il Martirio di san Pietro di Giovanni Baglione, entrambi impostati su assi diagonali incrociati e introdotti sulla destra da una manieristica figura di spalle à repoussoir, tanto da far supporre che il pittore romano abbia visto e assunto come modello il precedente fiorentino già sicuramente presente nel duomo di Macerata. La cappella successiva è dedicata a San Carlo Borromeo e San Girolamo, nella seconda cattedrale già della Societas Venatorum e poi, in seguito ad un lungo periodo di abbandono, della famiglia Compagnoni. La presenza di un altare dedicato all’arcivescovo di Milano è attestata dal resoconto della visita pastorale del 1685 condotta dal vescovo Fabrizio Paolucci: “visitavit altare S. Hieronimi seu Caroli 59 Giovan Battista Calandra dal Cavalier d’Arpino, San Michele Arcangelo, mosaico in quo mandavit provideri de tela cerata super petram, reaptari picturam S. Carolis et gradus altaris”.20 Vi era dunque anche un quadro raffigurante il santo che prima della demolizione settecentesca fu portato in casa Compagnoni.21 L’altare fu dedicato in occasione della visita compiuta nel dicembre del 1576 da Carlo Borromeo a Macerata22 al tempo del vescovo Galeazzo Morone, suo nipote, che negli ultimi anni del Cinquecento aveva intrapreso una capillare azione di riforma religiosa nella diocesi. Egli fece rinnovare molti arredi sacri della cattedrale, donandole anche un pastorale d’argento.23 Nella chiesa odierna l’altare è decorato da un 60 dipinto raffigurante San Carlo Borromeo in preghiera, eseguito nel 1790, anno della consacrazione del nuovo edificio sacro, dal pittore maceratese Vincenzo Martini. Procedendo verso il presbiterio, l’ultimo altare è dedicato a San Michele ove è collocato un grande mosaico raffigurante San Michele Arcangelo che sconfigge il demonio eseguito nel 1628 dal miglior mosaicista di quegli anni, Giovan Battista Calandra, da un cartone di Giuseppe Cesari, il cavalier d’Arpino (Frosinone 1568 – Roma 1640), il più autorevole esponente del tardo manierismo romano. Il cartone da tradurre in mosaico fu ordinato al cavalier d’Arpino da Urbano VIII, come ricordano le fonti sei-settecentesche da Baglione, a Passeri, a Lione Pascoli, come primo esperimento per ovviare al problema dell’umidità che aggrediva i dipinti nella basilica di San Pietro, e che prese avvio con le pale di minori dimensioni. Tale esigenza di ordine pratico si conciliava tuttavia anche con la volontà di garantire eternità alle immagini sacre e alla brillantezza dei loro colori, attraverso una tecnica che idealmente si ricollegava all’era dei primi cristiani. L’opera rimase fino al 1758 sull’altare di san Michele nella cappella di Santa Petronilla, ma fu poi sostituito da una copia del san Michele di Guido Reni che si trova nella chiesa di Santa Maria della Concezione a Roma.24 Si trattò dunque di un avvicendamento dovuto al mutamento del gusto, che all’epoca privilegiava l’ideale classico reniano rispetto all’elegante manierismo del Cesari; eppure quest’ultimo per la sua composizione, si era ispirato al modello classico per eccellenza, il San Michele eseguito per Francesco I da Raffaello (Parigi, Louvre). Il mosaico giunse a Macerata grazie alla munificenza del cardinal Mario Compagnoni Marefoschi, Segretario di Stato, che lo ottenne per la cattedrale dallo stesso pontefice Clemente XIV.25 La storia Silvia Blasio Allegretto Nuzi, Madonna col Bambino e i santi Antonio Abate e Giuliano dell’arrivo del mosaico è doviziosamente documentata: “ Da Roma venne spedito a Civitavecchia ed in quel porto fu collocato sulla nave denominata l’Unità […] il 17 Decembre 1771 e diretto al nostro Vescovo Mons. Peruzzini: era chiuso in un cassone, con incerata inchiodata all’intorno e venne assicurato sulla coperta non potendo entrare nel Boccaporto di essa. L’Em.o cardinale scrisse all’Architetto Marchionna di Ancona incaricandolo di curare lo scarico del quadro e d’inviarlo a Macerata. Sembra che arrivasse in Ancona il 13 gennaio 1772. Il canonico Riccardini di quella città, pregato dal nostro Vescovo, pensò di commettere il trasporto al Signor Triverelli, custode degli attrezzi del Santuario di Loreto, perché con un carro fornito di tutto punto lo portasse a Macerata. Fatti tutti i preparativi il carro partì da Ancona il 29 maggio alle ore 13,30, trainato da otto paia di buoi e dopo parecchie tappe giunse felicemente a destinazione”.26 L’impresa, tra restauro, trasporto, imballaggio, noleggio della nave, sbarco e trasporto a Macerata costò in totale la somma ingente di più di cinquecentocinquantuno scudi e il mosaico fu collocato sull’altare in marmo spettante al Monte di Pietà Ulissi che lo fece costruire a proprie spese, dove ancora oggi si trova. Un altro magnifico dono elargito dal cardinal Mario Compagnoni Marefoschi alla cattedrale è l’inedito modello per il dipinto raffigurante il Miracolo di San Gregorio Magno, opera capitale di Andrea Sacchi (Nettuno 1599-Roma 1661) per San Pietro, la cui commissione egli ottenne incredibilmente a vent’anni grazie alla protezione del cardinal Del Monte.27 Dipingere per la basilica di San Pietro era MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO infatti l’incarico più prestigioso cui un pittore potesse aspirare in Roma, capace di determinare la fortuna o la sfortuna di un’intera carriera artistica e la pala “la quale egli non eseguì allora, ma fu maturata lo spazio di sei anni”,28 ultimata nel 1626, suscitò l’entusiastica ammirazione di Giovan Pietro Bellori: “Il colore di questo quadro è il più armonioso temperamento che possa dare il pennello di chiunque fa professione di gran coloritore con unione molto intelligente tra la forza e la soavità d’ombreggiamenti e di lumi”.29 Nel modello maceratese, di qualità elevatissima, vi è già in ogni dettaglio l’audace e unitaria composizione del dipinto definitivo, la profondità emotiva di origine baroccesca, il richiamo classico al prototipo romano del Seneca morente30 nella testa di san Gregorio; ma il raffinato disegno delle stoffe è rapidamente abbozzato con pennellate fluide e colore neoveneto più corposo, soprattutto nella dalmatica del personaggio a destra di spalle. Il quadro trae il suo tema dalla Legenda aurea e mostra san Gregorio sull’altare mentre tagliando con una lama il brandeum, un panno di lino che aveva precedentemente avvolto le reliquie di alcuni martiri, ne provocò il miracoloso sanguinamento. La limpida struttura neoclassica dell’ampio presbiterio scandito da lesene corinzie è ornata da molti manufatti e dipinti legati alla storia della cattedrale, ma attraverso la lettura di fonti e documenti in questi spazi architettonici rivive parzialmente la memoria di ciò che un tempo era nella vecchia cappella maggiore, dedicata a San Giuliano patrono della città e sotto il giuspatronato della famiglia Pellicani. Qui, per esempio, fu collocato nel 1470 l’antico coro ligneo intarsiato andato disperso, iniziato nel 1469, che un’iscrizione trascritta da Amico Ricci31 attribuiva ai due celebri maestri Battista da Montevidone e Giovanni di Stefano da Montelparo, atti- 61 Lorenzo de Carolis detto il Giuda, Madonna col Bambino in gloria e i santi Giuliano e Antonio da Padova vi anche a Fermo e Perugia. Una sequenza di opere che si snoda attraverso i secoli, insieme ad alcune notizie documentarie su quelle perdute, costruisce nella cattedrale di Macerata una sorta di storia iconografica di san Giuliano dalla seconda metà del Trecento fino alla fine del Settecento. All’epoca più antica appartiene il trittico di Al- legretto Nuzi del 1369, raffigurante la Madonna in trono col Bambino, angeli e quattro santi nello scomparto centrale, e nei laterali a sinistra sant’Antonio abate e a destra san Giuliano, l’unico dipinto che non proviene dal duomo ma dalla chiesa di Sant’Antonio Abate per la quale fu commissionato da frate Giovanni da Tolentino.32 Dopo che questa chiesa fu 62 Silvia Blasio Cristoforo Unterperger, San Giuliano invoca per Macerata la protezione della Vergine soppressa il canonico Francesco Compagnoni Floriani fece trasferire il trittico nella cattedrale.33 Qui san Giuliano che regge il vessillo con lo stemma di Macerata e la palma del martirio, un attributo iconografico destinato a scomparire, si mostra solennemente immobile, araldicamente sigillato entro i contorni netti che delimitano la preziosa superficie della sua veste, fittamente ornata da motivi decorativi tratti dal repertorio delle sete lucchesi. Questo maestro viaggiò infatti in Toscana alla metà del Trecento e a Firenze si conquistò un posto di prestigio trasportando poi la cultura figurativa dei giotteschi nei vari centri delle Marche in cui fu attivo al suo ritorno. Anche due specchiature intarsiate del coro ligneo quattrocentesco recavano l’immagine di san Giuliano; esse furono ritrovate da Filippo Raffaelli nella bottega di un falegname, ma finirono poi di nuovo per disperdersi.34 Francesco Mancini, San Giuliano visitato dall’angelo MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO 63 Antonio Piani, Arme del vescovo Carlo Augusto Peruzzini, altare maggiore San Giuliano compare ancora nella tavola che rappresenta la Vergine col Bambino in gloria e i santi Giuliano e Antonio da Padova di Lorenzo de Carolis detto il Giuda, pittore di Matelica attivo a Macerata e Recanati tra il 1492 e il 1553. Un dipinto con un soggetto corrispondente era menzionato nel resoconto della Sacra Visita del 166135 nella cappella dei Santi Carlo e Gerolamo; essa apparteneva in origine alla Societas Venatorum, formata da cittadini di rango per onorare il santo patrono che la Legenda aurea diceva cacciatore e che secondo l’iconografia tradizionale è talvolta raffigurato anche con i simboli di tale attività.36 Benché riccamente decorata da stucchi di Lattanzio Ventura, la cappella, come si è detto, era stata lasciata in stato di progressivo abbandono, e il giuspatronato passò in seguito ai Compagnoni. La tavola nel 1600 risulta essere in sacrestia37 ma poi fu posta nella cappella di San Carlo, da dove fu di nuovo prelevata e portata in Seminario subito prima della demolizione della vecchia chiesa.38 Precedentemente attribuita a Vincenzo Pagani, con il quale effettiva- Antonio Piani, Angelo Antonio Piani, Acquasantiera mente presenta delle affinità, quest’opera in cui si fondono modernità e arcaismo e di una qualità esecutiva singolarmente alta per questo maestro, mostra il santo patrono nella sua veste ufficiale, abbigliato secondo la moda del tempo e invocato da un gruppo di devoti variopinti che sciamano in primo piano attraverso un arco nel parapetto decorato all’antica, a grottesche gialle su fondo nero.39 Il 13 aprile del 1627 il pittore anconetano Giovan Battista Foschi,40 che due anni prima aveva eseguito tre opere nella volta della basilica di San Giovanni, ricevette dal cardinal Felice Centini, vescovo di Macerata, l’incarico di dipingere a fresco sei Storie di san Giuliano nell’abside, opere perdute con le demolizioni iniziate nel 177141 insieme agli stucchi di Giovan Maria Bacarelli che completavano la decorazione.42 Nel 1738 Francesco Mancini (Sant’Angelo in Vado 1679 - Roma 1758), nella tela centinata raffigurante San Giuliano visitato dall’angelo, elaborò per il santo patrono un’iconografia non comune, resa pittoricamente con moti leggiadri e delicati accordi di colori: nella scena impaginata come una “annunciazione”, un angelo appare al santo inginocchiato davanti al proprio letto e accompagnato dal cervo che durante la caccia gli aveva predetto il tragico errore che avrebbe compiuto.43 Il quadro ora in sacrestia, si trovava sull’altare della cappella di San Giuliano44 e fu commissionato dal canonico Callisto Frontoni;45 per Mancini giungeva al termine di una lunga serie di incarichi maceratesi iniziata più di vent’anni prima al tempo della decorazione della Sala dell’Eneide di Palazzo Buonaccorsi, attraverso la quale è possibile seguire lo sviluppo coerente dello stile del pittore vadese, da una stretta adesione ai modelli bolognesi del maestro Carlo Cignani, fino all’elaborazione di un linguaggio elegante e soave, venato di sottile malinconia che ebbe risonanza 64 Silvia Blasio Filippo Bellini, Ultima Cena Filippo Bellini, Pietà europea. La cornice rococò del dipinto è opera dell’intagliatore romano Rocco di Stefano, già attivo nel Santuario della Misericordia, che la realizzò nel 1743.46 San Giuliano è infine ancora nella pala attualmente sul muro di fondo dell’abside raffigurante, secondo un’invenzione ancora diversa, San Giuliano che invoca per Macerata la protezione della Vergine, commissionato dal marchese Valerio Ciccolini-Silenzi nel 1786 a Cristoforo Unterperger (Cavalese 1732 - Roma 1798). Unterperger fu artista di rilevanza internazionale inseritosi a Roma nel giro di personaggi influenti come Mengs e Winckelmann che stavano allora gettando le basi della cultura neoclassica, e dai quali fu introdotto nel prestigioso e redditizio entourage della committenza vaticana.47 Nella pala del duomo, dai colori nitidi e brillanti, la composizione segue un percorso sinuoso tra la terra e il cielo attraverso le nuvole che esalta il ruolo di intermediario di san Giuliano: questi indica con una mano la città di Macerata, e con l’altra i devoti immaginati davanti al quadro, ma il suo sguardo è diretto in alto verso la Vergine col Bambino a implorare la sua protezione. La contrapposizione tra il bene assicurato dalla protezione della Vergine e il male di qualche oscura minaccia per la città (il terremoto? Il colera?), è efficacemente visualizzata attraverso lo squarcio di cielo azzurro che si sta aprendo sulla città ingrigita e il corvo nero appollaiato in primo piano, sul profilo della collina. Al centro del presbiterio l’altar maggiore in marmi policromi era forse opera dei fratelli Benedetto e Giovanni Rodoloni di Fossombrone,48 celebri marmorari, e fu consacrato dal vescovo Domenico Spinucci il 24 maggio del 1790, anno in cui allo scultore e argentiere maceratese Antonio Piani (Macerata 1747-1825) vennero pagati duecento scudi per due putti in marmo e due stemmi del vescovo Carlo Augusto Peruzzini, che lo aveva commissionato, ancora visibili nel lato verso la navata. L’altare odierno tuttavia, completamente modificato, è una semplice struttura a mensa risultato del restauro intrapreso nel 1910 a molti anni di distanza dal terremoto del 1873 che lo aveva fortemente danneggiato; in quell’occasione i putti del Piani che stavano alle due estremità vennero tolti e portati in sacrestia e furono aggiunti, nel lato verso l’abside, gli stemmi del vescovo Raniero Sarnari che ne aveva promosso il restauro.49 Sono di Antonio Piani anche le eleganti acquasantiere molto rovinate e in parte mutile che fiancheggiano l’ingresso della cappella del Santissimo Sacramento e quella di un delicato gusto rocaille posta nell’andito che dalla sacrestia conduce all’abside.50 Infine sempre nella zona absidale, nella cantoria di destra, vi è l’organo realizzato nel 1790 da Gaetano Callido, costato settecentocinquanta scudi, cui seguì l’istituzione di una cappella musicale.51 L’odierna cappella del Sacramento, adorna degli affreschi novecenteschi di Ciro Pavisa, costituiva il fulcro religioso ma MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO Filippo Bellini, Cena in Emmaus anche l’insieme decorativo più ricco ed elaborato della vecchia cattedrale. Per l’esecuzione delle opere la Confraternita del Sacramento si rivolse in un primo momento al pittore eugubino Felice Damiani, ma il contratto fu poi sottoscritto nel 1599 da Filippo Bellini di Urbino.52 Affreschi, stucchi, dipinti a olio su tela, concorrevano ad esaltare visivamente il Sacramento dell’Eucarestia, secondo un elaborato programma iconografico dettagliatamente descritto nell’Ordine osservato nel fabbricare et ornare la Cappella del S.mo Sacramento, nella Chiesa Cattedrale di Macerata stampato nel 1604.53 Ne è autore un anonimo accademico catenato, l’”Incolto”; viene il sospetto, vista la dottrina profusa nella descrizione, che sotto questo ironico pseudonimo si celi l‘inventore del complesso soggetto. Secondo l’accademico Incolto, le storie dipinte si dividevano in tre fasce: la prima “ch’è quella della volta distinta e partita da dodici Quadri di Pittura lavorati a calce fresca con somma diligenza, ma però di grandezza ineguali […] ne’ quali sono dipinte varie Historie del Vecchio 65 Immacolata, secolo XIX Testamento […]Nella parte di mezo, ch’è quella dell’Altare, con gli due lati, destro e sinistro, vi sono tre quadri assai grandi; lavorati tutti a olio, quali ci rappresentano il Figurato Christo, con alcune attioni fatte da lui in Vita, in Morte, e doppo Morte intorno all’istituzione Sacramentale, mediante il Corpo, e Sangue suo preciosissimo […]Nella terza e ultima parte, ch’è quella de’ Basamenti, vicino à terra, si vedono quattro Historie, dipinte medemamente a olio, nelle quali è dipinto il descenso dell’Anima di Christo nel Limbo e l’Apparitioni, che fece doppo la sua Santissima Resurrezione, finte di Bronzo, per mostrar più sodezza, servendo per fondamento delle parti superiori, non però senza misterio”. Nei tre quadri descritti nella “parte di mezo” si riconoscono i tre dipinti di Filippo Bellini ancora conservati nella cattedrale:54 una tela in verticale rappresentante la Pietà, oggi nella sacrestia, già collocata su un altare con timpano spezzato con le figure in stucco di due Sibille, e altre due orizzontali raffiguranti l’Ultima cena a destra e la Cena in Emmaus a sinistra, entrambe sostenute da “due figure grandi di scoltura”, secondo la consueta sintassi che nel duomo vecchio fu seguita anche nella cappella Ferri e nella cappella Rossini. Vi sono differenze stilistiche tra i dipinti, la Pietà è un’austera pala controriformata che risente della robusta retorica di Cristoforo Roncalli, mentre i laterali per il taglio diagonale in profondità che sfoga su paesaggetti a monocromo e per l’intenso cromatismo evidenziano una netta impronta venetotintorettesca. Completavano la decorazione cartelle con iscrizioni a lettere dorate; l’iscrizione SVREXIT AQVILO si legge in basso a sinistra nella Pietà e l’accademico “Incolto” ne dà la spiegazione tratta dal Cantico dei Cantici (cap. 4): “per il Vento Aquilone è intesa la volontà perversa della Sinagoga Hebrea, come quella, che del continuo […] cospirò contro la persona di Cristo per farlo morire”, ma ad esso “tanto nocivo”segue l’Austro “che sempre spira con dolcezza”, e infatti la scritta nella cartella sopra il quadro recitava in risposta PERFLAVIT AVSTER, IAM FLVUENT AROMATA, 66 Silvia Blasio Gioacchino Varlè, Angeli cioè i soavissimi effluvi sacramentali. Nei sottarchi e nei pilastri erano dipinte otto figure di angeli con i simboli della Passione. All’esterno della cappella infine, vi erano due nicchie con le figure dipinte di san Rocco a destra e di sant’Alessio a sinistra con due cartelle in cui era scritto FILIPPVS BELLINVS DVM FACIEBAT OBIIT e PALAZZINVS FIDELIS, INTERMISSA EXPLEBAT, cioè Palazzino Fedeli, allievo di Filippo Bellini, terminò l’opera interrotta,55 perché il Bellini infatti morì prematuramente nel luglio del 1603. Sopra l’arco vi era poi scolpito lo stemma della Confraternita del Sacramento. Nel 1685 il vescovo Francesco Cini acquistò a Roma una grande costruzione in legno di cipresso rappresentante una copia del progetto di Michelangelo per la basilica di San Pietro che, ornata nel coronamento da dodici statuette di Apostoli rubate nel 1979, fu collocata nella cappella del Santissimo Sacramento della vecchia cattedrale. Smontato con la demolizione, il grande tabernacolo fu poi ricomposto nella nuova chiesa inaugurata nel 1790 e affiancato da due bellissimi Angeli in stucco che imita il bronzo eseguiti nel 1790 da Gioacchino Varlè,56 ancora visibili nella cappella attuale. Il tabernacolo fu invece in seguito di nuovo smembrato e solo una porzione di esso sopravvive nella cattedrale, dove la cupola e parte della facciata sono stati reimpiegati nella prima cappella a sinistra entrando per realizzare il nuovo fonte battesimale.57 Il Varlè (Roma 1734-Ancona 1806), allievo a Roma di Camillo Rusconi, fu uno dei migliori scultori attivi nelle Marche nella seconda metà del Settecento, trasferitosi ad Ancona pare su sollecitazione di Luigi Vanvitelli che lo volle come collaboratore nei suoi progetti per la città. Gli angeli del duomo evidenziano parecchi dati formali tipici MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO 67 Pietro Tedeschi, Trinità e santi del suo stile, dall’elegante modulo delle figure affusolate, alla dolcezza espressiva, alle linee nervose che percorrono i panneggi frastagliati e mossi, confrontabili con opere anconetane precedenti come gli angeli nelle Glorie nelle chiese di San Biagio o di san Bartolomeo. I due angeli poggiano su nuvole argentate e reggono grappoli d’uva e fasci di spighe, simboli del mistero eucaristico. Continuando il percorso della navata sinistra dall’abside, dopo la cappella del Santissimo Sacramento si incontrano la cappella della Concezione, di patronato Seri-Molini, che ha sull’altare un dipinto ottocentesco di autore ignoto con l’Immacolata che denota un neoclassicismo edulcorato e la cappella dei Santi Bernardino da Siena e Francesco di Sales, titolo già presente nella vecchia chiesa con il giuspatronato della famiglia Pellicani. In essa vi è una tela rappresentante la Trinità e i santi Bernardino da Siena e Francesco di Sales di Pietro Tedeschi (Pe- Corrado Giaquinto, Santa Margherita da Cortona saro 1750? – Roma post 1808), allievo di Giovanni Andrea Lazzarini con il quale giunse a Macerata nel 1775 per decorare le sale di palazzo Compagnoni Marefoschi. Dal 1777 si trasferì a Roma, dove secondo Amico Ricci aprì una scuola di pittura,58 continuando tuttavia a lavorare per la regione da cui proveniva e inserendosi nella schiera dei pittori marchigiani “portatori di una linea di educato classicismo”,59 espressa anche in questo dipinto, che nel secondo Settecento godette 68 Silvia Blasio Gaspare Gasparini, Madonna e santi Giovanni Battista Brughi, Annunciazione nell’Urbe di una certa fortuna. Nel 1887 la Pia Unione del Sacro Cuore fece restaurare la cappella curandone la decorazione con due statue in stucco di sant’Alfonso e san Bernardo nelle nicchie laterali e con il dipinto raffigurante il Sacro Cuore. La sacrestia, interamente tappezzata di dipinti come la sala di un’antica quadreria, ospita una pala raffigurante la Madonna in gloria e i santi Giacomo maggiore, Giovanni Battista e Sebastiano che nella vecchia cattedrale stava sull’altare della cappella dedicata a san Giovanni Battista, che infatti appare al centro della composizione. Questo dipinto, improntato apertamente al manierismo toscoromano, fu eseguito nel 1574 dall’artista maceratese Gaspare Gasparini, allievo a Roma di Girolamo Siciolante, per la nobildonna Guglielmina Giardini, la cui famiglia deteneva il patronato della cappella.60 Vi sono inoltre la Santa Margherita da Cortona di Corrado Giaquinto, proveniente dalla chiesa extra moenia di Santa Croce, dipinto creduto perduto con l’incendio che distrusse la chiesa e che ora, nell’edificio ricostruito è sostituito da una derivazione eseguita nel 1804 da Pietro Tedeschi61 e un’Annunciazione opera firmata del pittore genovese Giovan Battista Brughi, proveniente dalla cappella dell’Annuziata o dell’Angelo custode62 di proprietà della famiglia Ulissi. Il Brughi, nato a Genova intorno al 1660,63 allievo del Gaulli a Roma, è ricordato così dal Soprani-Ratti: “Giovan Battista Brughi, detto l’abate Brughi per cagion dell’abito clericale che portava. Costui, se non fu un raro pittore, disegnò davvero assai bene, ed ebbe in ciò per maestro il Gaulli. Questo Brughi diedesi a lavorar di musaico; e vi acquistò grande stima. Morì il Brughi assai vecchio, e credo in Roma, circa l’anno 1730, e in S. Martino ebbe sepoltura”.64 Vi sono poi due quadri, un San Francesco e una Natività di Maria del cavalier Sforza Compagnoni, accademico catenato (Macerata 1584-1640) allievo a Bologna di Guido Reni o di Francesco Albani65 che dipinse alcuni stemmi di questa istituzione maceratese. Della Natività di Maria non si hanno notizie antiche, ma il San Francesco sembra essere quello citato a conclusione dell’inventario redatto alla vigilia della smobilitazione degli arredi del vecchio duomo: “Il quadro di S. Francesco d’Assisi che stava nella cappellina della saletta lo ha ripreso mons. Vescovo”.66 NOTE Cattedrale di Macerata 1932, p. 10. Il capitello è ora conservato nel Museo della basilica della Misericordia. 2 Giudizio ripreso alla lettera da Ignazio Compagnoni [Note storiche e bibliografiche sulle Marche e su Macerata in particolare], sec. XVIII, in BCM, ms 539, c. 30v; Gentili 1947, p. 81. 3 La segnatura ADM, B, V, 7 e l’esistenza degli atti della visita pastorale del 1661 1 sono segnalati da Gentili 1947, p. 81, ma nella busta Sacre Visite la relazione risulta stralciata e la visita si ferma a Urbisaglia. Pertanto le informazioni date da Gentili sulla base di questo documento sono solo in parte verificabili, per mezzo di altre fonti. 4 ASDM, Fabbrica della cattedrale, b.1: “[1] Nella cappella di S. Carlo un quadro con S. Giuliano, S. Diego, la Madonna in mezzo, dipinto in tavola, antico della MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO ven. sagrestia portato in Seminario; due altri quadri lunghi senza cornici uno vi è S. Agata, l’altro S. Girolamo senza cornici. Un altro quadro largo con la sagra Famiglia con cornice marmorata portati in Seminario di palmi sei di lunghezza e di larghezza 12 circa. Il quadro di S. Carlo di altezza palmi 12 circa e di larghezza palmi otto circa, carteglorie, candelieri, paliotto, predella, candele di legno, tutto portato in casa Compagnoni/ [2r.] Nella cappella di S. Andrea due quadri laterali rappresentante in uno di essi il martirio del medesimo santo, nell’altro il martirio di S. Sebastiano con cornicette indorate tutte e due di palmi dieci e dita sei in circa. Una Madonna che sta in sedia che cuzzina [allatta] il bambino con due angeli laterali con ornato indorato presi dal sig. Giuseppe Mornati ed una credenza quale tiene in deposito Luigi Rossi. Il quadro grande di S. Andrea di palmi [spazio bianco] di altezza e di larghezza di palmi [spazio bianco] circa con cornice indorata presa dal suddetto sig. Giuseppe Mornati. E più scalinata, paliotto, candelieri e croce parimente prese dal sig. Giuseppe Mornati con la ferrata e finestra di pietra avanti l’altare, vetrata, di più la cassettiera del braccio di S. Vito, il reliquiario d’argento e capelli di Maria ss.ma ed il braccio di S. Maccario, trasportata a S. Carlo con poliza esistente in cancelleria vescovile./ [3r.] Nella cappella di S. Giuliano: un quadro di S. Emidio con cornice indorata di palmi [spazio bianco] e suo ornato di palmi [spazio bianco]. Un altro quadro de santi Giovanni Battista e Giacomo di lunghezza palmi 12 circa portata in Seminario. Il cancello indorato con lo stemma della città e il cartello che vi è “Hic est qui multum orat pro populo” portata a S. Pietro del’Ospidale. Il quadro grande di s. giuliano con cornice intagliata ed indorata trasferito nella chiesa delle rr. Mm. Cappuccine cioè a S. Vincendo ed anche li due ornati, li è stata consegnata una lampada di rame inargentato con la custodia di cartone./ [4r.] Nella cappella dell’angelo custode: un quadro con cornice intagliata indorata con la Vergine di Loreto. Altro quadro con cornice grande indorata e di figura larga di palmi 12 circa rappresentante la ss.ma Annunziata lunghezza palmi 9 in circa. Una Madonna di legno che tiene il bambino che stava sopra ad una credenza. Altare di legno con il quadro dell’angelo custode, scalinate, candelieri, carteglorie, paliotto tutto indorato et predella. Un altro ornamento indorato piccolo da una parte laterale con vetrata e ramata che cuopre una Madonna dipinta in un muro ed un crocefisso grande tutto portato nel Monte Ulisse. E più S. Elena e S. Biagio protettore con suo ornato indorato e color perla con vetrata portata in Seminario. Un paliotto con la Madonna ni mezzo che ricopre il paliotto indorato portato tutto nel Monte Ulisse./ [5r.] Nella cappella di S. Pietro: il quadro grande di palmi 13 di lunghezza e di larghezza palmi 9 con cornice indorata, altri due quadri laterali della larghezza di palmi tredici e di lunghezza di palmi noce circa consimili nel quadro grande il Signore che consegna le chiavi a S. Pietro, in uno de’ laterali il martirio di S. Pietro e nell’altro rappresenta quando l’ombra del Santo risanava l’infermi, fatti prendere dai sig. Ferri. La scalinata dipinta turchina e filettata d’oro buono con li otto candelieri compagni, carteglorie, paliotto di legno dipinto co la figura di S. Pietro e predella di legno./ [6r.] Nella cappella del SS.mo Vecchio: due quadri latrali in uno rappresentante la Cena e nell’altro l’andata del Signore in Emmaus, una Madonna in sedia ed un angelo in atto di annunziare indorati e due credenze portati dal fattore dell’ospidale, li quadri laterali l’altezza di palmi otto circa, larghezza di palmi 11 circa, una credenza l’ha consegnata a Don Giuseppe Ganasini che la trasportò nella Madona della Misericordia. Il quadro dell’altare rappresentante la medesima della Pietà parimente portato all’ospidale dal fattore Filati quale è di palme [spazio bianco] di lunghezza e di larghezza palmi [spazio bianco]/ [7r.] Nella cappella de’ Sette Dolori: il quadro grande della Madonna ss.ma con la corona d’argento indorata portata in Seminario. S. Cosmo protettore de’ signori barbiericon piedestallo e quadro avanti, lo prese in deposito sig. Giovan Battista Micheli. S. Claudio protettore de muratori con piedestallo e ornato con vetrata ed iscrizione. S. Claudio lo ha auto in deposito Francesco Romagnoli muratore con la credenza, altra credenza latrale quale tiene in deposito Francesco Federici. Due quadri in uno rappresenta S. Liborio ed in un altro S. Niccolò da Bari consimili portato in Seminario./ 69 [8r.] Nella cappella del Crocifisso Piccolo: u quadro grande col crocifisso, altro quadro laterale con la Madonna ed altro con S. Giovanni, altro quadro grande consimile ma non rilevato rappresentante in aria la Madonna, da una parte una santa Vergine e da un’altra una santa martire, di sotto un santo vescovo s. Bartolomeo e sia o s. Diego o S. Antonio, due stelle grandi laterali in una vi è un santo martire tirato da quattro cavalli, nell’altra Santa margherita col drago; un cartello sopra la cornice del crocifisso con l’iscrizzione, altro quadretto sopra la finestra ed un albereto in cornu epistole significante lo stemma Aurispa portato a S. Antonio abbate nel mercato, una tela dipinta con nuvoli ed aria di lontananza della luce, del quadro e del crocifisso./ [9r.] Nell’altare della ss.ma Concezione: un quadro laterale rappresentante S. Giuseppe col bambino con la croce in mano, ed un pomo ed un angelo da parte che tiene la sega di palme dieci di lunghezza in circa e cinque di larghezza in circa con cornice piccola indorata, lampada, candelieri e carteglorie e tutto che si teneva di argenti, paliotti e tutto è stato portato in casa della sig. priora Angelucci, fiori, bandinella della finestra e vetrata, vasetti candelieri, carteglorie e fiori feriali. Tutto in casa Angelucci la ferrata di ferro e ramata in sagrestia grande./ [10r.] Nella cappella del santissimo: la ricopertura della custodia cioè quattro cartoni ricoperti di ganzo auti dalla sig. marchesa Anna Ricci ed uno di essi cartoni quale serviva per celo con una stella, la bandinella di broccato d’oro e gallonato di merletto buono d’oro con anellett e ferretto , la ricopertura dello sportello di lama trinato con fettuccia d’oro buono lo sportellino con cornice indorata e vi è la figura ella Madonna col bambino quale sta nel credenzone della biancheria in seminario./ Il quadro di S. Francesco d’Assisi che stava nella cappellina della saletta lo ha ripreso mons. Vescovo./”. L’inventario è citato, ma non trascritto in Paci 1989, p. 62. 5 Vedi c. 5r dell’inventario settecentesco trascritto a nota 4. 6 BCM, Amico Ricci Petrocchini, Guida per le chiese di Macerata ex. da un ms. del 1780 del Sig. Amici di Macerata in Miscellanea di belle arti ms 275, c.139: “Nella Cappella dei Sig.ri Ferri = N. S.re che dà le chiavi a S. Pietro - del Baglioni”, ma Ricci non parla nelle Memorie del 1934 né di questi dipinti, né del loro autore. 7 Longhi 1930, ed. 1968, p. 148, in cui la Resurrezione di Tabita è indicata come Battesimo di santa Prisca. Nella stessa sede Longhi attribuisce al Baglione anche la Visitazione della chiesa di Santa Maria delle Vergini già ritenuta di Ludovico Trasi. 8 Spear 1985, pp. 90-93; Papi 1989, II, p. 621. 9 Möller 1991, p. 120, schede nn. 46-48 propende per una datazione intorno al 1615 mentre Smith O’Neil 2002, p. 216, scheda n. 54 la anticipa al 1610, sempre sulla base di confronti stilistici con altre opere; Brink 2008, pp. 83-85, scheda n. 9, che colloca Macerata in Umbria, pubblica il disegno preparatorio a gessetto nero con lumeggiature a gessetto bianco, su carta marrocina quadrettata per la figura inginocchiata del San Pietro nella pala d’altare (Düsseldorf, Kunstakademie, inv. 1934, già inventariato come “Salimbene”). 10 Longhi 1930, ed. 1968, p. 147. 11 Il disegno preparatorio per il dipinto è nella Biblioteca Reale di Torino segnalato da Forlani 1963, p. 164, n. 311 e pubblicato da Brooks 1999, p. 170, fig.35. 12 ASDM, Bullarium 1600-1610, c. 10, in Paci 1989, p. 62, Bastogi 2008, p. 173. 13 Boscoli è documentato a Macerata nel maggio del 1600, quando il Consiglio cittadino deliberava l’allestimento degli archi trionfali effimeri per accogliere Margherita Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, che andava in sposa al duca di Parma Ranuccio Farnese, al quale egli partecipò eseguendo numerose pitture. L’apparato era stato voluto fortemente dal cardinale Ottavio Bandini, fiorentino, governatore di Fermo dal 1586, arcivescovo di Fermo dal 1595 al 1606 e dal 1596 legato pontificio della Marca, che sicuramente protesse il pittore durante i cinque anni della sua attività nelle Marche (Ricci 1834, II, p. 238; Paci 1989, p. 62; Blasio 2007, pp. 199-200, fig. 19; Bastogi 2008, p. 164). A Fabriano aveva però incontrato Fabio Cafaggi, orafo e scultore fiorentino cui Boscoli era legato da stretti vincoli di amicizia, che poté introdurlo nel giro della committenza fabrianese (Blasio 2007, pp. 193-194; Bastogi 2008, p. 164). 14 Ricci 1834, II, p. 238. 15 Forlani 1963, p. 130, n. 15; (BCM, Ignazio e Pompeo Compagnoni, mss riguardanti la città di Macerata, sec. XVIII, t. X, c. 45t). 70 16 BCM, Amico Ricci Petrocchini Guida per le chiese di Macerata ex. da un ms. del 1780 del Sig. Amici di Macerata in Miscellanea di belle arti, ms 275, c.139v: “Nella cappella di Messer Rossini i SS. Andrea Apostolo e Sebastiano d’Andrea Boscoli. I due laterali sono del medesimo autore”. Il Sant’Andrea esiste ancora mentre i laterali andarono persi nella ricostruzione del Duomo del 1790”. Ricci nelle Memorie alla nota 14 a p. 248 afferma che “Prima che si riedificasse il nuovo Duomo eravi anche dipinta dal Boscoli una intiera, e spaziosa cappella”, ma evidentemente si parla sempre della cappella Rossini. 17 Portati in casa Mornatti, eredi dei Rossini. Vedi c. 2r dell’inventario trascritto a nota 4; Paci 1989, p. 62, Bastogi 2008, p. 174, nota 52. 18 Brook 1999, p. 169, figg. 33-34. Del Martirio di sant’Andrea è sconosciuta l’ubicazione attuale, mentre il Martirio di san Sebastiano è conservato a Brema, Kunsthalle. 19 Gentili 1947, p. 82. 20 ASDM, Visite pastorali, n. 4. 21 Vedi c.1r dell’inventario trascritto a nota 4. 22 Paci 1971, p. 97. 23 Paci 1971, p. 80. 24 Il Cesari ha trattato più volte questo soggetto: in una piccola tela in collezione Almagià a Roma e nella pala sull’altar maggiore della chiesa di san Michele Arcangelo ad Arpino, eseguita nel 1620. H. Röttgen 1973, pp. 129-132, schede nn. 49-51; Röttgen 2002, pp. 419-429, schede nn. 179-180, e in particolare p. 451, scheda n. 26 (sul mosaico di Macerata). 25 Hautecour 1910, pp. 1-12. 26 Cattedrale di Macerata 1932, p. 21; Paci 1989, p. 116. 27 Rimase in San Pietro fino alla metà del Settecento, poi fu sostituito da una copia in mosaico, mentre l’originale fu requisito da Napoleone e portato a Parigi. Tornato a Roma fu collocato nella Pinacoteca Vaticana e poi nella Sala Capitolare attigua alla sacrestia, Sutherland Harris 1977, p. 52, scheda n. 9. 28 Bellori 1672, ed. 1976, p. 541. 29 Bellori 1672, ed. 1976, p. 542; Sutherland Harris 1977, pp. 3-4, 52, scheda n. 9; Barbiellini Amidei 2000, p. 35. 30 Derivazione individuata da Barbiellini Amidei 2000, p. 35 per la figura del san Gregorio nel quadro definitivo. L’originale della statua romana fu restaurato nello studio del cardinal Del Monte dallo scultore Nicolas Cordier. 31 Ricci 1834, I, p. 139, nota 27: “In Dei nomine Amen hoc opus fabricaverunt Magister Joannes Stephani de Monte Elparo, et Magister Baptista de Monte Guidon huius chori fabricae sotius de bonis, et hereditate venerabilis viri domini Venantii Antonii de Macerata Archidiaconi maceratensis per ejusdem fidei commissarius testamenti sub annis domini MCCCCLXX. De mense aprilis”; Paci 1989, p. 26. 32 Come si apprende dalle iscrizioni sul gradino del trono “ISTAM TABULAM FECIT FIERI FR/TER JOHANNES CLERICUS PRAECEPTOR TOLENTINI ANNO DNI MCCCLXVIIII” e lungo il bordo inferiore della tavola centrale “ALEGRITTUS DE FABRIANO ME PINXIT MCCCLXVIIII”, trascritte con qualche imprecisione da Amico Ricci (1834, I, p. 110, nota 53). Intorno al 1354, insieme al fiorentino Puccio di Simone che lo aveva seguito nelle Marche, Allegretto aveva dipinto a Fabriano per lo stesso committente un trittico oggi nella National Gallery di Washington di cui l’opera di Macerata è una replica con alcune varianti. Vedi anche Marcelli 2004, p. 37. Ricci 1834, I, pp. 89-90. Raffaelli 1877a, p. 25; Paci 1989, p. 26, nota 132. 35 Gentili 1947 segna ADM, B, V, 7, ma vedi nota 3. 36 F. Scattolini 1989, pp. 565-566. Ogni anno, fin dal suo costituirsi, la Società dei cacciatori doveva far eseguite una statua di San Giuliano, nel genere di quella a cavallo conservata nella cattedrale, copia di una scultura settecentesca trafugata. 37 M. Ceriana in Pinacoteca di Brera 1992, pp. 153-156, scheda n. 63; secondo Paci 1979, p. 229, una Madonna tra i santi Giuliano e Antonio da Padova stava in origine sull’altare di Sant’Antonio da Padova, concesso nel 1600 al vescovo Rossini che lo ridedicò a Sant’Andrea. 38 Vedi c.1r dell’inventario trascritto a nota 4. 39 Per notizie sul Giuda Paci 1989, pp. 46,47, M. Ceriana in Pinacoteca di Brera 1992, pp. 153-156, scheda n. 63. 40 Vedi il mio saggio su Treia in questo volume alle pp. 277-292. 41 ASDM, Atti Curia 1625-1631, cc.103v-105v. Gentili 1947, p. 83; Paci 1989, p. 100. Nel contratto il Foschi viene detto “pittore anconitano abitante in Macerata” 42 ASDM, Atti Curia 1625-1631, c. 103. 43 Blasio 2008, p. 163. 44 Vedi c.3r dell’inventario trascritto a nota 4. 45 Paci 1989, p. 112, nota 847 riferisce di aver trovato la quietanza di pagamento di duecentocinquanta scudi in BCM, Miscellanea di Belle Arti, ms. 958/1, Registro Frontoni, c.10, ma alla verifica odierna il documento non risulta più reperibile. 46 Paci 1989, p. 131. 47 Felicetti 1998, pp. 9-13; Debenedetti 1998, pp. 27-34 e per la pala di Macerata, C. Felicetti in Cristoforo Unterperger 1998, pp. 208-209. 48 Paci 1989, p. 136. 49 Gentili 1947, p. 89; Paci 1989, p. 97 50 Buccolini 1978, pp. 152-153. 51 Paci 1989, p. 263-264. 52 ACSSM, Libro Congregazioni, 1592-1618, c. 99. Paci 1989, p. 62. 53 Ordine osservato 1604. Un esemplare si trova in BCM. 54 Vedi c.6r dell’inventario trascritto a nota 4. 55 Su Filippo Bellini, da ultimo Montevecchi 2005, pp. 175-185. 56 ACSSM, Libro dei conti dal 1771; Paci 1989, p. 135, nota 1022. Per Varlè, Ricci 1834, II, pp. 409-410; Zampetti 1993, pp. 444-445; Polverari 1999, pp. 41,46; Toccare gli angeli 2009. 57 Paci 1989, p. 129 58 Ricci 1834, II, p. 413. 59 M. R. Valazzi in I sensi e le virtù 2000, p. 134, scheda n. 87. 60 Gentili 1947, p. 82; Paci 1989, p. 54. per un profilo del Gasparini, Giannatiempo López 1992, pp. 312-321. 61 Arcangeli 1983, pp. 79-82. 62 Prima della demolizione del vecchio duomo fu portato insieme agli altri arredi della cappella al Monte di Pietà Ulissi, c.4r dell’inventario trascritto a nota 4. 63 Voss 1911, p. 490; Damigella 1972, pp. 490-491. 64 Soprani, Ratti 1769, pp. 89-90. 65 Simi 2008. 66 Vedi c.10r dell’inventario trascritto a nota 4. 33 34 MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO 71 I DIPINTI DI CIRO PAVISA NELLA CATTEDRALE DI MACERATA Simona Breccia Quando nel 1924, trentaquattrenne, Ciro Pavisa da Mombaroccio viene chiamato a lavorare nella Cattedrale di Macerata già vantava un discreto curriculum tra lavori di produzione propria e commissioni a carattere religioso. Era ormai un docente affermato e stimato, un artista che stava sviluppando sempre di più una sua dialettica personale nella produzione di opere da cavalletto e un decoratore religioso apprezzato e richiesto nelle Marche, tanto da trovarsi in procinto di ottenere un incarico di grande prestigio proprio nella città di Macerata.1 La prima comparsa del Pavisa a Macerata risale al 1918, quando giovanissimo è chiamato da don Eliseo Ruffini ad affrescare l’abside della Chiesa del Sacro Cuore, situata in quello che una volta era chiamato Borgo Cairoli, con tre grandi quadri: a sinistra la Natività, al centro il Sacro Cuore e a destra la Crocifissione, il tutto sormontato da un cielo blu stellato campito nel catino absidale nel quale campeggia una croce. Ma è il secondo, importantissimo, incarico alla Cattedrale che conferma il prestigio del pittore a Macerata. A partire dagli inizi degli anni Venti, sotto la guida, il sostegno e l’infaticabile impegno dell’Arcidiacono del Capitolo della Cattedrale, monsignor Piero Scarponi, si dà inizio ad una campagna di lavori che si protrarranno per tutto il Ventennio. Tra le molteplici maestranze che concorsero a dare al Duomo l’aspetto che ancora oggi conserva – pittori, scultori, decoratori, stuccatori, intagliatori – fu chiama- Ciro Pavisa, Assunta to proprio Ciro Pavisa a compiere i lavori di decorazione più importanti. D’altronde il pittore, pur essendo giovane, aveva dato prova delle sue grandi capacità artistiche e tecniche: le opere del Sacro Cuore erano state un ottimo biglietto da visita nonché un trampolino di lancio di peso rilevante. La storia della decorazione della Cattedrale è ricostruibile attraverso i molti documenti conservati presso l’archivio della Curia Vescovile di Macerata che consentono di tracciare un percorso completo delle fasi di realizzazione che videro Pavisa coinvolto: dal 1924 al 1926, la decorazione del catino absidale e della volta del presbiterio, rispettivamente con l’Assunzione della Vergine e Il ritrovamento del braccio di San Giuliano; nel 1932, la Cappella del Santissimo Sacramento con l’Empireo nella cupola e la Chiesa adorante, la Chiesa militante e la Chiesa purgante nella parete di fondo; dal 1936 al 1937, la navata centrale con le Storie di San Giuliano l’Ospitaliere nella volta e l’Annunciazione nella controfacciata. In realtà, per la prima fase non esistono documenti d’archivio ma bisogna fare riferimento alla pur puntuale pubblicazione risalente al 1932, edita in occasione dell’inaugurazione della Cappella del Santissimo Sacramento; la seconda fase è 72 Simona Breccia Ciro Pavisa, Ritrovamento del Braccio di san Giuliano ben documentata, ma la mole più consistente riguarda la terza tranche dei lavori che possiamo dire sia documentata passo passo. La prima commissione nella Cattedrale per Ciro Pavisa è nel 1924 ed è la decorazione del catino absidale con l’Assunzione della Vergine. Per dipingerla l’artista si è sicuramente ispirato al testo apocrifo “Transitus Mariae” in cui si narra la scena dell’Assunzione ambientata nella valle di Giosafat, luogo adibito a cimitero, dove gli Apostoli dopo la morte della Vergine portarono il suo feretro e lo deposero in un sepolcro. Pavisa dipinge una larga vallata con una composizione molto ordinata, dall’ aspetto scenografico e solenne. Al centro è dipinto un sepolcro bianco reso di scorcio sul quale è accasciato a sinistra un angelo che dà le spalle all’osservatore; si innalza così una scala di angeli osannanti, pacifici nella loro bellezza di- vina, che aprono le loro splendide ali per sollevare Maria verso il Paradiso. Ai lati del sepolcro si aprono due ali di personaggi concitati che gesticolano animatamente, stupefatti da quanto sta avvenendo davanti ai loro occhi. La folla è composta da uomini e donne di diversa età, molto ben caratterizzati dal punto di vista fisiognomico. Abilissimo ritrattista, è ormai certo anche grazie alla viva testimonianza orale di chi lo ricorda in prima persona, che Pavisa facesse ricorso a persone del luogo per dare forma e vita alle sue figure. La cromia dell’opera è varia, per le creature terrene l’artista ha usato pigmenti dai toni caldi, per le entità angeliche ha preferito utilizzare tinte più fredde, quasi opalescenti. Nello stesso anno, Pavisa dipinge nella volta del presbiterio l’episodio del Ritrovamento del Braccio di San Giuliano, in corrispondenza del luogo dove, secondo la tradizione, esso venne ritrovato, cioè fra due colonne davanti l’altare maggiore della vecchia cattedrale. Un ulteriore saggio di bravura di Pavisa questo quadro, caratterizzato da un taglio “fotografico”, sia per il personaggio di spalle inginocchiato verso il vescovo, in primo piano nell’angolo in basso a destra, sia per i bordi della scena che tagliano fuori le figure più esterne. Osservando il dipinto, il riguardante si trova all’interno del racconto e viene come catapultato sul presbiterio della vecchia Cattedrale durante la celebrazione pontificale dell’Epifania del 1442, quando la sacra reliquia, da parecchi anni dispersa, venne ritrovata. Il taglio è molto ardito, è come se Pavisa fosse anch’egli sul presbiterio e riprendesse la scena guardando verso il transetto alla destra dell’altare e avendo l’altare stesso alla sua destra; lì in piedi, l’allora Vescovo di Macerata Nicolò dell’Aste MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO 73 Ciro Pavisa, Storie di san Giuliano mostra alla cittadinanza maceratese la reliquia del patrono con fare solenne. Ai lati delle due finestre che illuminano il quadro del Ritrovamento del braccio di san Giuliano, l’artista pesarese ha ritratto i quattro compatroni di Macerata. A sinistra san Claudio Abate, nella sua lunga veste nera davanti alla Basilica a lui dedicata; gli è accanto il quadro con il beato Pietro da Macerata dipinto con abiti vescovili. A destra san Marone, il Predicatore della Marca, è raffigurato con la palma del martirio e il libro; accanto a lui il quadro con san Vincenzo Maria Strambi, anch’egli in abiti vescovili, è appoggiato al pastorale e sembra benedire con il crocifisso che tiene in mano. I personaggi sono disposti a chiasmo: san Claudio davanti a san Vincenzo Maria Strambi e il Beato Pietro davanti a san Marone; tutti e quattro sembrano affacciarsi e uscire davvero dalle loro cornici, come a sorvegliare le celebrazioni che si svolgono ormai da decenni sotto i loro occhi. Nel 1932 Pavisa è chiamato di nuovo a lavorare nella cattedrale per decorare la ricostruita Cappella del Santissimo Sacramento. Dai documenti deduciamo che l’articolazione della decorazione è stata progettata da Pavisa insieme a Giuseppe Rossi, architetto che ha curato i lavori di ristrutturazione, sotto lo stretto controllo di monsignor Scarponi. Così Pavisa dipinge l’Empireo nella cupola, le figure degli Evangelisti nei quattro archi di pennacchi e affresca la parete di fondo con la Chiesa adorante, la Chiesa militante e la Chiesa purgante. La cupola, realizzata a tempera è animata da un Empireo non a caso definito “dantesco” già dai commentatori dell’epoca. L’artista infatti si è indubbiamente ispirato ai canti del Paradiso. Nell’opuscolo realizzato in occasione dell’inaugurazione della Cappella, il canonico Silvio Ubaldi descriveva dettagliatamente tutte le figure che avanzano tra le nuvole riportando i versi della Divina Commedia nei quali vengono citati i personaggi raffigurati. Profeti, patriarchi, santi e sante martiri, le grandi personalità dell’Antico e del Nuovo Testamento, tutte le legioni angeliche rivolgono lo sguardo verso la Trinità, fulcro compositivo e concettuale dell’opera. Dio Padre, Gesù e la Colomba dello Spirito Santo assistono all’incoronazione della Vergine che si sta svolgendo sotto i loro occhi. Gli archi di pennacchi incorniciano le figure dei quattro Evangelisti assisi su gonfie nuvole. Nella parete di fondo Pavisa affresca il Sacro Cuore di Gesù. Nell’opuscolo già citato la puntuale descrizione di quest’opera è affidata ad un altro storico maceratese, Carlo Carletti. In un verdeggiante giardino circondato da alte montagne che 74 si rincorrono verso il fondo, Cristo è in piedi sopra una roccia dalla quale sgorga acqua limpida. Egli è affiancato dai santi che più hanno promosso la devozione al Santissimo Sacramento. Alla sinistra san Tommaso d’Aquino, san Pasquale Bajlon, san Tarcisio e la beata Imelda; sulla destra santa Giuliana da Liegi, santa Margherita Alacoque, il santo Papa Urbano IV, e un’altra figura di santa rimasta ancora non identificata. La sorgente di acqua che sgorga dalla roccia sotto i piedi di Cristo si riversa, nella parte bassa del dipinto, sulle anime purganti che stanno scontando le loro colpe nelle alte fiamme del fuoco purificatore. Sulla sinistra si alzano in volo le anime ormai salve, candidamente vestite; fluttuando nell’aria esse ascendono in cielo dirigendosi verso la porta del Paradiso, dipinta sulla sommità dell’affresco e affiancata da schiere di angeli. Gli ultimi lavori in Cattedrale, datati 1937, sono la decorazione della volta a botte della navata centrale con scene della vita di san Giuliano l’Ospitaliere e l’Annunciazione in controfacciata. Nella volta, senza un ordine cronologico, Pavisa dipinge tre quadri dedicati a san Giuliano l’Ospitaliere. La tradizione agiografica li ricorda con i titoli: San Giuliano traghettatore, di formato rettangolare, in cui il santo accoglie due pellegrini appena arrivati sulle rive del fiume Potenza, e indica loro la strada per raggiungere la casa ospizio; l’Arrivo di San Giuliano al fiume Potenza, di formato ovale, che mostra il santo con il vessillo di Macerata su un cavallo bianco rampante, sullo sfondo di un vasto panorama e la Morte di San Giuliano, di nuovo di formato rettangolare che è in realtà l’episodio in cui un angelo annuncia al santo il perdono divino e la sua morte in santità insieme alla moglie, scena ambientata nella sua stanza da letto. Si ritrovano anche qui le caratteristiche, ormai costanti, della produzione artistica del Pavisa, come le composizioni molto equilibrate, la grande capacità tecnica supportata dal preciso disegno, le figure monumentali e la luce iperreale diffusa nelle ambientazioni facilmente riconducibili ai paesaggi marchigiani. L’Annunciazione nella controfacciata, anch’essa firmata e datata “Pavisa 1937”, per quanto sia tradizionale nella composizione, è resa speciale dal luogo ove è inserita e dall’ambiente in cui si svolge l’episodio raccontato nel Vangelo di Luca, l’unico dei canonici a narrare l’evento, e nel protoevangelo di Giacomo ripreso poi da Jacopo da Varagine nella “Legenda Aurea”. Il finestrone in facciata, come un antico rosone, illumina la navata centrale e l’edificio tutto, dividendo la scena in due come nella tradizione. A sinistra un diafano Arcangelo Gabriele sorretto da una solida nuvola irrompe nell’intimità della vita della Vergine, dipinta a destra, flette le gambe per poi inginocchiarsi di fronte al mistero dell’Incarnazione. Ciò avviene in un ipotetico grande terrazzo fuori della cattedrale, al quale si accede da un porticato di gusto neoclassico scandito da colonne, che comprende la grande finestra centrale, “porta” simbolica come Maria è Janua Coeli. Lo sfondo si apre su un paesaggio primaverile, ma lo scenario rappresentato da Pavisa non ha nulla delle caratteristiche della Galilea e di Nazareth bensì è ispirato alle dolci colline marchigiane con i piccoli paesi sparsi e arrampicati sulle sommità, la varietà delle vegetazioni e dei campi coltivati. Una luce paradisiaca si irradia su tutta la scena. L’arte sacra di Ciro Pavisa è il risultato di una felice confluenza tra tradizione e modernità, tra accademismo sfruttato in un momento in cui lo si voleva eliminare dalla ricerca artistica, e calibrati innesti con soluzioni formali e tecniche più innovative, quali le raffinatezza e le eleganze della linea liberty sposate alle cromie simboliste. Le composizioni tecnicamente ineccepibili sono preservate dalla pesante monumentalità dell’arte dell’epoca, i cui echi risuonano in ogni caso nelle sue opere. NOTE Ciro Pavisa (1890 – 1972) nasce al Beato Sante di Mombaroccio, convento santuario incastonato sulle colline tra Fano e Pesaro. Artista, artigiano, Pavisa ha avuto un’intensa produzione artistica sia sacra che profana. Tra gli anni Venti e Trenta partecipa a numerose esposizioni d’arte, fra cui l’Esposizione Provinciale d’Arte del 1922 a Macerata. Ottimo decoratore religioso, fine ritrattista, ha saputo immortalare le colline marchigiane e le vedute marine unendo la formazione accademica ad una ricerca di stile personale contemporaneo. Consapevole delle proprie capacità e con la forza della sua completezza artistica contribuì, con l’intensa attività di insegnante che esercitò fino al 1960, anno del pensio- 1 namento, a formare artisti come il pittore Bruno Bruni e lo scultore Terenzio Pedini. Numerosi sono i lavori che Pavisa ha realizzato nelle Marche, a partire dal 1908 e dal suo paese natale. Molto prolifica poi è la produzione di opere, sia di piccole che di grandi dimensioni, nella città di Macerata e nella provincia: viene chiamato in diverse città come Petriolo, Urbisaglia, Montecosaro, Penna San Giovanni e Potenza Picena. Altri importanti commissioni verranno dalle province di Pesaro Urbino e Ascoli Piceno; l’artista infatti ha operato anche nelle città di Fossombrone, Fano e Sant’Elpidio a Mare. MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO 75 IL TESORO DELLA CATTEDRALE DI SAN GIULIANO DI MACERATA Gabriele Barucca Calici, pissidi, ostensori, croci, turiboli, navicelle, reliquiari e paramenti liturgici sono solo alcuni dei preziosi oggetti che costituiscono il tesoro di una chiesa. Queste raccolte di suppellettili sacre, destinate a decorarla (l’ornamentum) o utilizzate nella celebrazione dei riti religiosi (il ministerium), ci raccontano la storia di un’istituzione, ci parlano degli oblatori, solitamente papi, cardinali, vescovi, canonici, confraternite e illustri visitatori, del loro gusto e degli artefici a cui si sono rivolti. Questi committenti spesso fanno apporre il proprio nome o lo stemma di famiglia, intendendo così legare alle preziose suppellettili la memoria della propria devozione e affermando altresì il prestigio del proprio ruolo. Spesso il confronto tra il numero degli oggetti elencati negli antichi inventari delle chiese e la consistenza attuale delle raccolte rivela purtroppo perdite ingentissime, dovute in parte alla natura preziosa di tali beni, ai quali si attingeva in caso di necessità economica, ma più spesso al fatto che fossero oggetto di furti, che ancora si verificano, e soprattutto di requisizioni forzate nei momenti di turbolenza della vita politica e sociale e, conseguentemente, dispersi o distrutti. Questa evenienza si riscontra puntualmente analizzando il tesoro della cattedrale di Macerata e delle altre concattedrali della diocesi. La loro consistenza è stata drasticamente ridotta, specie durante il periodo napoleonico. Tuttavia gli oggetti superstiti, insieme alla rilevante documentazione archivistica emersa, consentono tuttora di segnare i momenti salienti della lunga storia di queste cattedrali, una storia in cui accanto agli artefici e al pubblico, compaiono volta per volta direttamente i committenti. Passando all’esame del tesoro della cattedrale di San Giuliano, quasi a compensare della quasi totale mancanza di pezzi antichi, disponiamo di una serie di inventari quattro e cinquecenteschi che danno conto di un numero ingentissimo di suppellettili sacre, paramenti e libri liturgici.1 Ad accrescere la consistenza del tesoro della cattedrale maceratese nel corso del Sei e Settecento, attestata anche dalle relazioni delle Sacre Visite, contribuì il progressivo e notevole miglioramento delle capacità economiche, in generale di tutta la Marca d’Ancona, antica e strategica provincia dello Stato della Chiesa, e in particolare di Macerata. Sede del governo generale della Marca e di molte altre magistrature aventi giurisdizione su tutta o gran parte della provincia, Macerata è al centro di un ampio territorio in cui il consolidarsi del capitale fondiario e l’aumento dei ricavi prodotti da un’agricoltura sempre più fiorente favorirono lo straordinario incremento patrimoniale di alcune famiglie del patriziato civico, da cui peraltro provenivano personaggi destinati ad essere elevati alla dignità cardinalizia. Questi illustri prelati spesso manifestarono proprio con munifici doni di preziose suppellettili sacre alla cattedrale il prestigio e l’orgoglio del proprio ruolo. Purtroppo la gran parte di questo pa- trimonio di suppellettili – che come s’è detto doveva essere strabiliante sia per la quantità dei pezzi che per lo splendore della loro qualità artistica e materica, secondo quanto risulta dagli inventari di sacrestia della cattedrale e dai resoconti delle Sacre Visite – è andata distrutta a partire dalla fine del Settecento per cause di diversa natura. In particolare è il caso di ricordare almeno sinteticamente i principali avvenimenti susseguitisi negli anni delle invasioni napoleoniche nel cosiddetto “triennio giacobino” (17961799), che determinarono la distruzione quasi totale del tesoro della cattedrale di Macerata, come della maggior parte delle chiese dello Stato pontificio.2 Le prime requisizioni degli argenti nelle Marche presero avvio subito dopo l’armistizio di Bologna (23 giugno 1796) ad opera delle stesse autorità pontificie. Tra luglio e settembre venne effettuata una rapida indagine per valutare la consistenza dei manufatti preziosi; in seguito vennero radunati gli oggetti in metalli nobili nelle diverse chiese per inviarli a Roma, tramite il tesoriere della Marca, per far fronte al pagamento delle onerose contribuzioni di guerra imposte dai Francesi. La raccolta, iniziata dal vescovo di Macerata e Tolentino monsignor Domenico Spinucci e proseguita dal 2 luglio dal successore monsignor Alessandro Alessandretti fu stimata, complessivamente nelle due diocesi, di 553 libre, 4 once e 12 ottave d’argento, costituita da ogni sorta di suppellettili sacre, senza probabilmente tener in alcun conto 76 l’antichità dei pezzi o la loro bellezza e qualità artistica, ma solo considerando il peso dell’argento con cui erano realizzati. In quei giorni concitati giunse agli ordinari una lettera a firma del cardinale Francesco Xaverio de Zelada del 13 luglio 1796 con la quale si asseriva che “per salvar Roma, e lo Stato da un’imminente ruina e distruzione totale, che gli sovrasta, occorre riunire ingenti somme di denaro in oro, ed argento per il pagamento della contribuzione”. Si chiedeva quindi di radunare ori e argenti ad esclusione di quelli “puramente necessari al decoro del Divin Culto, ed all’esercizio de’ comuni atti di Religione, e che non possono essere formati di altra materia” e di inviarli al tesoriere a cui competeva il “farne seguire in zecca lo squaglio, e la riduzione in verghe, o in moneta per sodisfare all’annunciato pagamento”. Il successivo 20 luglio lo stesso cardinale de Zelada emanava un editto in cui si ordinava “la coattiva riquisizione”. A questa prima requisizione di argenti voluta dallo stesso Pio VI ne seguì un’altra subito dopo la firma del trattato di Tolentino. In questo caso, nonostante si fosse sancita formalmente la pace tra il papa e Napoleone, l’amministratore delle finanze e delle contribuzioni dell’Armata francese, generale Haller, inviava il 25 febbraio 1797 una circolare risalente al 17, vale a dire due giorni prima della firma del trattato, in cui si chiedeva l’immediata “presa dell’argenteria delle chiese Gabriele Barucca Arte renana, altare portatile, verso e recto di Macerata e di tutta la provincia”. Erano come al solito fatti salvi i pezzi d’argento “lasciati per il culto”. Nonostante le proteste lo stesso 25 febbraio venivano consegnate ai commissari francesi le “assegne”, ovvero le denunce giurate dei responsabili delle varie chiese relative agli oggetti d’argento posseduti. Nel febbraio del 1798 poco dopo l’annessione delle Marche alla Repubblica romana venne ordinata una nuova inventariazione degli argenti. Alla redazione degli inventari fece seguito l’ordine di requisizione del 27 marzo 1798 da parte dell’agente delle finanze per il dipartimento del Musone, Rosingana. Questi il 31 marzo ribadiva con una nuova ordinanza che in nessuna chiesa dovesse rimanere niente più che “l’infimo degli ostensori, un calice per ogni due altari, e li reliquiari”, ordinava di portare tutto il materiale a Macerata entro il lunedì successivo e concedeva la possibilità ai responsabili delle varie chiese di poter eventualmente riscattare “pagandone il peso in pezzi duri” tutto ciò che “potesse piacere alli differenti capi sia laici che religiosi di dette chiese”.3 Tutti i vari pezzi sequestrati nei paesi del Dipartimento del Musone furono raccolti in Ancona per essere saggiati da un orefice e poi venduti. Non conosciamo con esattezza ciò che effettivamente nella cattedrale di Macerata sia stato sottratto, arbitrariamente rubato dai soldati francesi, venduto o eventualmente riscattato, se non occultato dopo i diversi ordini di requisizione, ma c’è certezza che in questi anni drammatici la consistenza del tesoro è stata drasticamente ridotta. Passiamo dunque all’illustrazione dei pezzi superstiti. Il più antico è un altare portatile4 costituito di una lastra di marmo serpentino, spesso usato per questo genere di manufatti, montata in una struttura lignea sulla quale è fissata una lamina d’argento, dorata e niellata, ribattuta sullo spessore e inchiodata sul retro.5 Lungo uno dei lati corti, la lamina ripiegata ha graffite delle lettere di difficile interpretazione. La fascia che ricopre gli spessori è incisa con un motivo geometrico a meandri intrecciati che sostituisce un più naturalistico decoro a MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO girali, simile a quello del piano superiore, di cui resta solo un accenno. La faccia posteriore è rivestita con un frammento di tessuto serico a fondo bianco, con medaglioni includenti forse un leone e motivi fitomorfi, realizzati in verde e rosso. Si tratta di un raro frammento tessile di origine orientale, verosimilmente coevo al resto del manufatto. L’altarolo poggia su quattro piedini in rame dorato, a forma di artigli di rapace. La cornice che definisce il piano dell’altare presenta una decorazione di grande interesse in cui, tra motivi fitomorfi stilizzati e figure simboliche, caratteristiche del lessico decorativo romanico, è incisa una lunga iscrizione, con i nomi dei santi le cui reliquie sono custodite all’interno. L’iscrizione6 è niellata e corre senza soluzione di continuità, lungo la fascia d’argento disposta al centro della cornice rettangolare dorata che definisce la lastra di serpentino, decorata con sintetici ramages, lungo il perimetro esterno, e con irregolari motivi a “C”, lungo il perimetro interno. La scritta è interrotta, al centro di ognuno dei lati, da quattro clipei raffiguranti l’Agnus Dei, la Dextera Dei, la Madonna, individuata dalle iniziali S(ancta) M(aria), e la colomba dello Spirito Santo. Le figure, incise, sono dorate e risaltano sul fondo d’argento. L’iscrizione, forse realizzata in un momento successivo, denuncia nell’irregolarità del modulo e dell’allineamento la poca esperienza e perizia dell’incisore. Quanto alla datazione e all’analisi stilistica, Bendetta Montevecchi,7 sulla base anche dei suggerimenti paleografici di Giuseppe Avarucci, assegna l’altare portatile al X-XI secolo, riferendolo a manifatture renane. La studiosa propone peraltro convincenti raffronti con un manufatto analogo conservato a Feltre e con altre oreficerie sacre, come il celebre calice ottoniano della cattedrale di Cividale, la croce astile di Casola (Parma) e il reliquiario di San 77 Orafo marchigiano, calice Orafo romano, pisside Giacomo del duomo di Zara, dove compare un’iscrizione molto simile a quella dell’altarolo di Macerata. Non si hanno notizie circa la provenienza originaria di questo oggetto, ma la sua stessa funzione di altare portatile rende probabile il suo arrivo come dono di qualche ecclesiastico tedesco in visita a Macerata. Sembra invece sicura la sua origine oltremontana. Del resto in ambito tedesco questo tipo di arredi sacri era particolarmente diffuso e, infatti, se ne conservano ancora numerosi esemplari.8 Un’ulteriore conferma di questa provenienza è inoltre data dall’iscrizione dove compaiono nomi tipicamente nordici e centro-europei come Valpurga e Venceslao, santo patrono della Boemia, la cui venerazione si diffonde proprio intorno all’XI secolo. Tra i calici superstiti dalle requisizioni dell’età napoleonica il più antico è un esemplare che dall’analisi dell’impianto strutturale, così come del repertorio decorativo risulta databile tra la fine del Cinque e l’inizio del Seicento.9 Il momento in cui, abbandonate le forme tardogotiche, si afferma la nuova tipologia del calice, caratterizzata da nodo ovoidale e base circolare, in questo caso ospitante tra volute e girali fitomorfi, due cherubini e, al centro, una raffigurazione della Pietà. Nel nodo ovoidale sono sbalzate e cesellate tre testine di cherubino alternate a cartelle ornate da fiori di cardo in rilievo su fondo puntinato, mentre il sottocoppa è sbalzato a baccellature profilate da listelli lisci a bulino. Questa tipologia a partire dal momento successivo alla Controriforma caratterizzò la storia del 78 Gabriele Barucca Bartolomeo Boroni, calice Vincenzo Belli, calice Giuseppe Grazioli, calice calice italiano per tutta l’età barocca. Nel pezzo in questione l’accurata esecuzione dello sbalzo e la resa raffinata dei motivi decorativi tratti dal repertorio classico rivelano le notevoli qualità tecniche e inventive dell’argentiere, forse attivo in una delle numerose botteghe maceratesi, attestate dai documenti d’archivio. È databile allo stesso periodo una splendida pisside tonda lavorata10 che, come nel caso del calice, rivela l’adozione in età controriformata della nuova tipologia di questo genere di vaso sacro, caratterizzata soprattutto dall’adozione di moduli architettonici e dalla preferenza per motivi decorativi del repertorio classico. Il disegno della pisside è elegante e l’esecuzione piuttosto raffinata. In particolare l’oggetto è caratterizzato dal nodo principale del fusto, a forma di vaso appena allungato, decorato da baccellature a sbalzo alternativamente chiare e brunite. La grande coppa è racchiusa entro un sottocoppa lavorato a traforo con orlo scandito da motivi gigliati, ornato da quattro festoni e da altrettante teste di cherubini ad ali spiegate alternate a gigli araldici. Il coperchio, assai elaborato, si imposta su una cornice a baccellature profilate da listelli incisi, seguita da un’ampia fascia svasata con una raffinata decorazione a sbalzo su fondo uniformemente puntinato costituita da cherubini alternati a palmette e volute. Al di sopra è un cupolino embricato, pausato da quattro lesene su cui si impostano archetti a voluta tangenti la lanterna culminante in una crocetta trilobata su monte di tre colli. Anche nel tesoro della cattedrale di Macerata, come in quelli delle principali chiese delle Marche, è ancora conservato, nonostante le ingentissime perdite, un buon numero di argenterie settecentesche di qualità assai elevata e di notevole rilevanza per la storia dell’arte orafa. Si tratta di pezzi per la maggior parte provenienti da Roma a dimostrazione dell’esistenza fin dal Seicento, ma soprattutto nel corso del Settecento, di un rapporto diretto e continuativo tra i committenti della Marca e le botteghe orafe romane.11 In ossequio alle ordinanze emanate in età napoleonica che consentivano di lasciare nelle chiese almeno “un calice per ogni due altari”, nella cattedrale di Macerata furono preservati fortunatamente dallo ‘squaglio’ e dalla vendita alcuni splendidi calici settecenteschi, sui quali la presenza dei bolli ha consentito l’individuazione dei loro autori. Si tratta di alcuni degli argentieri più prestigiosi attivi a Roma nell’arco del XVIII secolo. Questi calici sia nella struttura, sia nel repertorio decorativo rivelano l’affermarsi e il lungo persistere nel corso del secolo del gusto rocaille. Elementi naturalistici, come teste di cherubini, volute fitomorfe e approssimazioni astratte del motivo a conchiglia, insieme a una proliferazione di volute, cartelle e perline costituiscono il repertorio decorativo di questi argenti di grande effetto, ulteriormente arricchiti dalla diversa lavorazione della superficie argentea e dal contrasto cromatico con MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO Lorenzo Petroncelli, calice le parti dorate. Questo comune repertorio viene declinato con accenti personali dai diversi argentieri, che comunque dal punto di vista esecutivo dimostrano l’altissimo livello qualitativo raggiunto dall’arte orafa romana nel Settecento. Sono superstiti un calice col marchio della bottega diretta da Giuseppe Nepoti (Rocca Contrada, ora Arcevia, 1677 – Roma, 1753; pat. maestro 1702), in seguito passata sotto la direzione di Domenico Gabriele Mariani (Ronciglione, 1697 – Roma, 1756; pat. maestro 1753), un altro12 bollato da Bartolomeo Boroni (Vicenza, 1703 – Roma, 1787; pat. maestro 1730), celebre argentiere a lungo impiegato da Guarniero Marefoschi per le suppellettili del santuario della Madonna della Misericordia. È datato 1770 uno splendido calice13 marcato da Vincenzo Belli (Torino, 1710 – Roma, 1787; pat. maestro 1741), donato alla cattedrale dall’arcidiacono Pietro Cagnaroni, di cui è inciso sotto il piede lo stemma e la scritta dedicatoria.14 Un ele- Lorenzo Petroncelli, calice d’oro gante calice interamente dorato presenta un bollo non perfettamente leggibile ma probabilmente corrispondente a quello usato da Giuseppe Grazioli (Fermo 1717 – Roma 1792; pat. 1749).15 Del resto la qualità dell’esecuzione dell’arredo sacro, la sobrietà della composizione che non trascende nella leziosità talvolta esagerata del repertorio rococò, nonché il confronto con altri pezzi sicuramente del Grazioli confermano la sua paternità per il pezzo in questione. Il calice, come risulta da un’iscrizione sotto il piede, venne poi donato al Capitolo della cattedrale nel 1859 dal canonico Cesare Blasi.16 Altri splendidi pezzi segnano nel 79 tesoro l’ultimo quarto del XVIII secolo, in particolare gli oggetti donati dal cardinale Mario Compagnoni Marefoschi.17 L’illustre presule commissionò due calici con le rispettive patene, destinati alla cattedrale maceratese dove era stato battezzato. La scelta cadde su Lorenzo Petroncelli, romano, patentato maestro nel 1758 e dal 1767 titolare della bottega all’insegna del Vascello. Questo artefice doveva essere ben conosciuto nella Marca, come dimostra un buon numero di oggetti di bella qualità emersi in recenti ricognizioni.18Il cardinale maceratese gli commissionò un magnifico calice d’oro, costato ben settecentosessantadue scudi e consegnato nel maggio del 1779,19 e un altro d’argento pagato cinquantacinque scudi e mezzo il 13 febbraio 1780,20 a pochi mesi dalla morte del Compagnoni Marefoschi. Quest’ultimo, elegantissimo nella struttura e nell’esuberante apparato decorativo, è punzonato con le lettere R C A (Reverenda Camera Apostolica) e col bollo attestante il titolo inferiore di 95 bajocchi, pari a 851 centesimi di carlino. Ben più prezioso è l’altro calice donato alla cattedrale di San Giuliano realizzato in oro e recante sotto il piede lo stemma dello stesso cardinale, alla banda accompagnata in capo da tre stelle di sei raggi poste in banda e in punta da un delfino natante sopra un mare ondato. La base del calice presenta le tre statuette delle Virtù teologali, realizzate sugli stessi modelli che erano stati usati in precedenza da Antonio Arrighi e di nuovo da Mattia Venturesi. Come rileva Jennifer Montagu in una acuta analisi dell’oggetto che riporto “Qui esse sono separate da cartelle contenenti i simboli della Passione (titolo, tre chiodi, spugna e lancia) affiancate da tralci di vite. Sopra le cartelle vi sono tre figure di putti a tutto tondo che sostengono un globo sul quale le acque che separano i continenti sono più in evidenza della terra, forse in rife- 80 Gabriele Barucca Pianeta del cardinale Mario Compagnoni Marefoschi Pianeta del cardinale Simone Buonaccorsi Pianeta di papa Pio VI rimento al nome e allo stemma dei Marefoschi. Il nodo racchiude tre immagini ad altorilievo di Mosè, Aronne e di una figura maschile che tiene un agnello (forse san Giovanni Battista) entro una ricca incorniciatura e il sottocoppa è ornato da cartelle contenenti bassorilievi con scene della Passione di Cristo (l’Ultima Cena, l’Orazione nell’orto e la Crocifissione) tra teste di cherubini, grappoli e spighe di grano. Questo capolavoro in miniatura può essere considerato anche come “paragone” per dimostrare la maestria dell’orafo nell’architettura per l’elaborazione della struttura del fusto, nella scultura a tutto tondo e in altorilievo e nell’emulazione della pittura per mezzo delle scene a bassorilievo. Iconograficamente il calice rappresenta il mondo sostenuto da Fede, Speranza e Carità e santificato dal sacrificio del Salvatore, come era stato predetto nel Vecchio Testamento.”21 Il cardinale Compagnoni Marefoschi a queste sontuose oreficerie da lui commissionate aggiunse come dono alla cattedrale ma- ceratese alcuni spettacolari paramenti liturgici. Purtroppo è stata di recente trafugata una pianeta in taffetas laminato bianco, ricamata in oro; si conserva invece un’altra pianeta in taffetas laminato viola, ricamata in oro filato a rigogliosi girali con fiori e siglata con il suo stemma, timbrato con il cappello e le nappe esprimenti la dignità cardinalizia, applicato nella parte inferiore della colonna centrale. Un’altra magnifica pianeta in taffetas laminato bianco ricamato in oro e argento filato, lamellare e riccio, reca applicata nella parte inferiore della colonna centrale un’arma ricamata e timbrata dalle insegne cardinalizie. Lo stemma è quello della famiglia Buonaccorsi di Macerata, che aveva annoverato tra i suoi membri due cardinali, Buonaccorso morto nel 1678 e Simone morto nel 1776. Il disegno del ricamo d’oro, con infiorescenze e volute simmetriche che definiscono due grandi cartelle mistilinee, una delle quali è riempita da rete, è estremamente ricco e ripropone il repertorio decorativo baroc- chetto misto ad apporti orientali, come ad esempio la palmetta persiana. Questa tipologia decorativa è assai diffusa intorno alla metà del Settecento, consentendo di ipotizzare che la pianeta sia stata donata alla cattedrale maceratese da Simone Buonaccorsi, creato cardinale il 18 luglio 1763 da Clemente XIII. Tra i numerosi paramenti sacri ancora conservati nel tesoro della cattedrale maceratese merita almeno citare una pianeta in damasco di seta viola, su fondo ocra, recante lo stemma ricamato in oro di monsignor Ignazio Stelluti, vescovo di Macerata dal 1735 al 1756 e, infine, la splendida pianeta donata da Pio VI in occasione di uno dei suoi passaggi a Macerata, avvenuti il 2 marzo e il 9 giugno 1782. La pianeta è in raso rosso siglata con il suo stemma,22 cimato dalle insegne papali e applicato in basso alla colonna, e presenta ricami “a mezzo risalto” in argento e oro filato, con sottili e sinuosi girali vegetali a sviluppo simmetrico impreziositi da fiori di cardo, fiordalisi e piccoli fiori a grappolo. Accanto a questi vasi e paramenti sacri MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO 81 Domenico Piani, tronetto Antonio Piani, croce di confraternita Antonio Piani, ostensorio raggiato realizzati da argentieri, tessitori, “passamanteri”, battiloro e ricamatori operanti a Roma, esiste nel tesoro della cattedrale di Macerata un nucleo di pezzi recanti i marchi di Domenico Piani, capostipite della più illustre dinastia di argentieri maceratesi tra Sette e Ottocento, e di suo figlio Antonio. Purtroppo la consistenza di questo nucleo è stata ridotta da un furto avvenuto tra il 13 e il 14 dicembre 1984 che, secondo quanto si legge nel Libro dei Verbali del Capitolo della cattedrale, causò la perdita di “sei calici, una pisside, quattro turiboli in argento, lavori dei fratelli Piani”. Le prime notizie che riguardano Domenico Piani risalgono al 1744 e concernono la sua presenza a Roma, dove è registrato come lavorante negli stati d’anime della parrocchia di Santo Stefano in Pi- scinula. Prima del 1761 è documentato il suo ritorno nella Marca: a Matelica, impegnato in importanti commissioni del Comune, di casa Piersanti e della badessa del monastero di Santa Maria Maddalena e in seguito a Macerata dove apre una fiorente bottega assai operosa, passata nel 1799, anno della sua morte, sotto la direzione del figlio Antonio. Nato a Macerata nel 1747, Antonio completò la sua formazione artistica, iniziata nella bottega paterna, a Roma presso Luigi Valadier. Ma già nel 1787 è nuovamente nella città natale, come attestano numerose argenterie datate in quell’anno e bollate col merco personale. La straordinaria operosità di Antonio Piani, interrotta dalla morte avvenuta nel 1825, non si limita ai lavori in argento ma comprende un’interessantissima produzione scultorea e plastica in marmo, terracotta, bronzo e stucco.23 L’unico pezzo superstite con il bollo di Domenico Piani è un monumentale tronetto per l’esposizione eucaristica.24 Si tratta di una sorta di edicola, in legno rivestito di velluto cremisi, adorno di placchette d’argento sbalzato e cesellato, che segnano la struttura dello zoccolo di base, del postergale e del baldacchino apicale con la sequenza di lambrecchini. Questa tipologia di arredo sacro venne introdotta con l’Istruzione Clementina per le Quarantore, devozione il cui titolo deriva dal periodo di permanenza di Cristo nel Sepolcro, promulgata da Clemente XI nel 1705. Il marchio di Antonio Piani, insieme a quello di un artefice non identificato,25 è impresso sulle lamine della grande croce processionale della Confraternita 82 Gabriele Barucca Antonio Piani, calice Luigi Sciolet, calice Argentiere romano, pisside del Santissimo Sacramento, che deteneva l’omonima cappella in cattedrale.26 La struttura lignea dell’oggetto è ricoperta di velluto marrone e profilata da una cornice a ovoli in lamina d’argento. Lungo i bracci della croce sono applicate lamine d’argento traforato con il solito repertorio di motivi simbolici e insieme decorativi, comprendenti grappoli d’uva, spighe di grano, cartelle racchiudenti angioletti in volo, conchiglie e foglie d’acanto. All’incrocio dei bracci è applicata una lamina argentea raffigurante il calice con l’ostia raggiata entro un nuvolario. Alla base del montante, sul recto, è incisa un’iscrizione con la data e i nomi dei committenti: “AN. D. 1769/ NICOLAO JLLUMINATO/ET/JOSEPHO COMPAGNONIO/PRAEF. SACRARII ECCL. CATH.” Se il bollo di Antonio Piani non è stato apposto solo in occasione di un restauro della croce, siamo di fronte ad una delle prime opere marcate dal giovane Antonio, che nel 1769 aveva appena ventidue anni ed era impegnato ad apprendere l’arte orafa nella bottega del padre Domenico. Gli altri pezzi di Antonio Piani degni di attenzione sono un leggio, la cui struttura lignea è rivestita di velluto rosso impreziosito da applicazioni in lamina d’argento con volute e festoni vegetali, un calice, donato alla cattedrale di San Giuliano dal canonico Pietro Compagnoni nel 180227 e un ostensorio raggiato, molto simile a un altro esemplare conservato nella collegiata di Santa Maria di Montecassiano, a conferma di una produzione quasi seriale di questo genere di suppellettili liturgiche nella prolifica bottega di Antonio Piani. Nel corso dell’Ottocento il tesoro si arricchirà di altri pezzi importanti. Purtroppo è stato rubato il calice donato alla cattedrale nel 1857 da Pio IX, quando visitò Macerata nel corso del viaggio attraverso lo Stato Pontificio, intrapreso il 4 maggio e chiuso il 5 settembre. Questo calice d’argento dorato era ornato di smalti e pietre preziose ed era stato realizzato tra il 1781 e il 1783 da Gaspar Saverio Stippeldey, orafo di Augsburg.28 Sono invece superstiti un bel calice,29 donato nel 1832 dal canonico Francesco Narducci, firmato e bollato da Luigi Sciolet (nato a Roma nel 1797 e patentato maestro nel 1818), discendente di una dinastia di argentieri di origine francese operante a Roma dagli anni sessanta del Settecento, e una pisside con un bollo illeggibile, donata nel 1844 da monsignor Francesco Ansaldo Teloni, vescovo di Macerata e Tolentino dal 1824 al 1846.30 MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO 83 NOTE Questi inventari della sagrestia della cattedrale, stilati negli anni 1473, 1487, 1517, 1525, 1559, insieme a un elenco di doni offerti alla stessa sacrestia dal cardinale Girolamo Basso-Della Rovere redatto il 13 aprile 1496, sono contenuti in un volume cartaceo custodito nella biblioteca Mozzi-Borgetti di Macerata (catalogato col n. 852), a cui è stata applicata nel Settecento da Ignazio Compagnoni un’etichetta ove scrisse “Libro I° degli Strumenti, inventari ecc. del Duomo di Macerata”. Il manoscritto, con rilegatura cinquecentesca in cuoio, contiene atti dal 1467 al 1570. Libero Paci, a cui si deve il rinvenimento del manoscritto, ha pubblicato la serie di inventari della sagrestia sopra citati. Vedi Paci 1979, pp. 193-236. 2 Barucca 2007, pp. 38-43, con bibliografia precedente. Per l’ambito territoriale che qui particolarmente interessa è fondamentale Mocchegiani 1998, pp. 185197, da cui traggo le notizie nel testo di seguito riportate. 3 Le notizie e le citazioni di documenti fin qui riportate sono tratte da Mocchegiani 1998, pp. 185-197. 4 “L’altare portatile è un arredo liturgico molto diffuso nel Medioevo, utilizzato per celebrare la messa durante i viaggi o dove non era possibile disporre di altari consacrati. Poteva essere costituito della sola “pietra sacra”, come in questo caso, cioè fatto di una pietra naturale intatta, ampia tanto da potervi posare l’ostia e il calice, fornita, sul rovescio, di un loculus in cui collocare le reliquie (cfr. l’altarolo della cattedrale di Gorizia), oppure, nella versione più elaborata, la piccola mensa era posata sopra una cassetta lignea, rivestita di lamine metalliche decorate con smalti o figurazioni incise o sbalzate (cfr. gli altaroli delle cattedrali di Modena e di Feltre).” Questa definizione è tratta da B. Montevecchi, scheda 1, in Ori e argenti 2001, p. 76. Alla stessa scheda, a cui si fa costante riferimento nel testo per l’illustrazione dell’oggetto, si rimanda anche per la bibliografia precedente. 5 Altare portatile in marmo serpentino, argento inciso, niellato e dorato su anima di legno. 4,5 x 14 x 22 cm. 6 Intorno alla cornice si legge: DE VEST(IMENTIS) MARIE. RE(LIQUIE) AP(OSTO)LOR(UM). PHILI/PPI. (ET) IACOBI. LAUR(ENTII). CRISOG(ONI). COSME (ET) DAMIANI MARTIRU(M) / MAXIMI. EP(ISCOP)I IERONIMI. / CONFESSOR(IS). VENEZLAI CON(FESSORIS) VVALPVRGE. V(IRGINIS) (ET) EUTROPIE. 7 B. Montevecchi, scheda 1, in Ori e argenti 2001, p. 76. 8 Vedi Ornamenta Ecclesiae, I, 1985, pp. 453 sgg. 9 Calice in argento e argento dorato, altezza 22,8 cm, diametro del piede 11,4 cm, diametro dell’orlo della coppa 9 cm. G. Barucca, scheda 60, in Ori e argenti 2001, p. 156. 10 Pisside in argento, altezza 34,5 cm, diametro del piede 10,5 cm, diametro dell’orlo della coppa 13,5 cm. G. Barucca, scheda 62, in Ori e argenti 2001, p. 157. 11 Barucca 2007, pp. 23-47. 12 Calice in argento e argento dorato, altezza 26 cm, diametro del piede 15,2 cm, diametro dell’orlo della coppa 9,4 cm. 13 Calice in argento e argento dorato, altezza 30 cm, diametro del piede 17 cm, diametro dell’orlo della coppa 9,5 cm. G. Barucca, scheda 130, in Ori e argenti 2001, p. 233. 14 Al di sotto del piede è inciso lo stemma dell’arcidiacono Pietro Cagnaroni e l’iscrizione: “DIVO JULIANO ARCH. CAGNARONI USU DEDIT 14 GENNARO 1770”. Compare inoltre sul bordo esterno la scritta: “Calice l(ibbre)3 o(nce) 3 d(enari) 15 Patena o(nce) 5 d(enari) 14”. 15 Calice in argento dorato, altezza 26,8 cm, diametro del piede 15,2 cm, diametro dell’orlo della coppa 9 cm. Paci attribuisce questo calice a Giovanni Gagliardi. Evidentemente confonde il nome con Giuseppe Gagliardi, celebre argentiere ro1 mano, che dal 1745 lavora per la cappella di San Giovanni Battista nella chiesa di San Rocco a Lisbona. Dall’esame del bollo sul calice, pur non perfettamente impresso, sembra comunque di poter escludere la paternità del Gagliardi. Vedi Paci 1989, p. 126. 16 Al di sotto del piede è inciso lo stemma del canonico Cesare Blasi e l’iscrizione: “Em(enintissim)o Capitulo ecclesiae Cathed Maceratae Caesar Can(oni)cus Blasi Ad MDCCCLIX”. 17 Nato a Macerata nel 1714, Mario Compagnoni Marefoschi si avviò alla carriera ecclesiastica nel corso della quale fu chiamato a ricoprire le più eminenti cariche nonché i più prestigiosi uffici nella curia romana. Fu referendario delle due segnature, segretario della Congregazione del Buon Governo, segretario della Congregazione dei Riti, membro della Congregazione della Visita Apostolica, di quella dell’Indice e di quella dell’Esame dei Vescovi quale esaminatore dei Sacri Canoni. Nel 1759 fu nominato segretario della Sacra Congregazione de Propaganda Fide. Ottenne la porpora cardinalizia da Clemente XIII nel 1770. L’anno seguente fu nominato prefetto dei Riti. Morì il 23 dicembre 1780 e fu sepolto nella chiesa titolare di Sant’Agostino in Roma. 18 Barucca 2007, pp. 31-38, e schede 70-74, 95-98. 19 AMCPP, Conti del Cardinale Mario: ricevute di Camillo de’ Rossi, ricevuta n.1802, carta s.n. 20 AMCPP, ivi, ricevuta n. 1801, carta s.n. 21 J. Montagu, scheda 74, in Ori e argenti 2007, p. 239. 22 Stemma di Pio VI Braschi: scudo di rosso, alla pianta di giglio fiorita e fogliata al naturale, piantata su di una pianura di verde, curvata dal soffio d’argento del vento Borea di carnagione e movente dal cantone destro del capo; col capo d’argento caricato di tre stelle d’oro a otto punte. Questo scudo è posto su di un inquartato: nel primo e nel quarto d’oro, all’aquila bicipite di nero spiegata, coronata dello stesso; nel secondo e nel terzo d’azzurro, alla fascia d’argento caricata di tre stelle a sei punte e accompagnata da due gigli d’argento. 23 Barucca 2006, pp. 242-243, con bibliografia precedente. 24 Paci 1989, p. 127. 25 Si tratta del bollo n° 1766 in Bulgari Calissoni 2003, p.236. Questo bollo è stato rilevato su altri oggetti marcati da Antonio Piani e potrebbe essere di uno dei tanti artefici non patentati che lavoravano privatamente per le botteghe più importanti. 26 Croce processionale in argento sbalzato, cesellato, inciso e traforato su anima lignea, ricoperta di velluto; 342 x 167 cm. 27 Calice in argento e argento dorato, altezza 28,5 cm, diametro del piede 15 cm, diametro dell’orlo della coppa 9,4 cm. Sotto il piede è incisa la scritta dedicatoria: “Can(onicu)s Petrus Compagnoni Calicem Hunc dono dedit Cathed(ral)i Maceratae A. D. MDCCCII” e lo stemma comitale dei Compagnoni. 28 Paci 1989, p. 127. 29 Calice in argento e argento dorato, altezza 30,8 cm, diametro del piede 13,4 cm, diametro dell’orlo della coppa 8,5 cm. Sotto il piede è incisa la firma dell’argentiere: “Luigi Sciolette in Roma” la scritta dedicatoria del canonico Francesco Narducci datata 1832. 30 Pisside in argento e argento dorato, altezza 35 cm, diametro del piede 13,5 cm, diametro dell’orlo della coppa 14,5 cm. Sulla cornice esterna del piede è incisa a lettere capitali la scritta: “FRANCISCVS ANSALDVS TELONI EPISCOPOS MACERATEN ET TOLENTINEN DONO DEDIT ANNO 1844”. Il punzone apposto sulla pisside non è ben leggibile ma potrebbe corrispondere a quello usato da Domenico Balestra o, più probabilmente, a quello usato dall’argentiere romano Domenico Masotti, attivo tra il 1815 e il 1859. Tolentino Pagine precedenti: Sarcofago di Flavio Giulio Catervio (particolare del retro) TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO 87 LA STORIA RELIGIOSA DELLA CONCATTEDRALE DI TOLENTINO Egidio Pietrella Tolentino nel corso dei secoli ha avuto tre chiese cattedrali successive, site in luoghi diversi; e in più, una cattedrale “provvisoria” nella basilica di San Nicola, in un momento travagliato della sua storia (1810-1817). Le due prime cattedrali “ufficiali” furono quelle istituite nella “pieve di Santa Maria” (1586) e nella chiesa di San Francesco (1653), già dei Francescani Conventuali costruita nel centro della città a partire dal 1270, circa. Tolentino, municipio romano dalla metà del primo secolo a. C., collocata lungo un diverticulum di un’importante strada romana, fu certamente favorita da queste circostanze nel ricevere presto il messaggio cristiano. Il mausoleo di San Catervo, di Settimia Severina, sua moglie e del loro figlio Basso, è la testimonianza più antica e più eloquente dell’esistenza di una famiglia cristiana nella Tolentino della seconda metà del secolo IV. Il ricordo poetico redatto nella struttura metrica dell’esametro, la quale attesta che i due coniugi furono battezzati e cresimati dal vescovo Probiano e uniti in matrimonio “paribus meritis”, ne è la prova più sicura.1 Tolentino fu sede episcopale, il cui vescovo fu probabilmente Probiano nominato nel sarcofago e certamente Basilio Tolentinas che partecipò al sinodo romano del 487 sotto il papa Felice III; lo stesso, forse, prese parte al sinodo del 495 sotto papa Gelasio; e indubbiamente il medesimo fu nel successivo sinodo romano del 499 convocato da papa Simmaco; e, con ogni probabilità, intervenne ancora Sarcofago di Flavio Giulio Catervio (particolare della fronte) nel sinodo romano del 502. Sull’identità della primitiva cattedrale disputant auctores, ritenendola alcuni essere stata la chiesa, dedicata in origine alla Vergine e al Salvatore e solo più tardi a San Catervo, annessa a un monastero benedettino (ne sarebbe conferma il fatto che la porta urbana confinante con la chiesa Salvatoris et Sancti Catervi era chiamata tradizionalmente “porta del vescovado”); altri, invece, la identificano con l’antica alto medievale - “pieve di Santa Maria”, costruita su un tempio romano, che nel 1586 Sisto V, elevando nuovamente Tolentino al ruolo di diocesi, eresse come cattedrale.2 L’invasione dei Longobardi sconvolse come altrove - l’assetto sociale, politico e religioso di Tolentino, per cui la sede vescovile venne meno e la cura spirituale dei cristiani fu affidata al vescovo della superstite diocesi di Camerino, sotto la cui giurisdizione Tolentino restò fino al 1586. La prima cattedrale nella “pieve” urbana di Santa Maria (1586-1653) La pieve urbana di Santa Maria, che secondo il Santini risalirebbe al VII secolo,3 è attestata in molti documenti espliciti a partire dal 1060.4 Nella visita pretridentina compiuta nel 1378 dal vescovo di Camerino Benedetto Chiavelli risultano presenti nella pieve il pievano e quattro canonici. La chiesa ha quattro altari: maggiore, della Maestà, di San Biagio, di Santa Caterina. L’importante visita apostolica, compiuta il 9 maggio 1573, per mandato della Santa Sede, dal vescovo Giambattista Maremonti, titolare di Utica, ci informa più dettagliatamente: 88 Egidio Pietrella la chiesa ora possiede undici altari, compreso l’altare maggiore; il battistero è di marmo e fatto recentemente ex novo; la cura animarum è svolta da un cappellano deputato dal Capitolo dei canonici, che sono obbligati ad abitare nella casa canonicale, eccetto quelli responsabili di chiese che sono fuori la “terra” i quali debbono risiedere nella propria chiesa. Essendo la pieve di Santa Maria satis insignis, vi si deve tenere nei giorni festivi aliqua sacra lectio. Nella visita pastorale del vescovo di Camerino Girolamo Vitale de’ Buoi, è pievano Gian Matteo Fiduzio (che deve risiedere in sede, e non a Roma, dove è canonico lateranense) e vi sono sei canonici. “Ecclesia ipsa est antiqua in eaque deservitur per plebanum et canonicos singulis diebus et horis”. La chiesa ha undici altari: quello maggiore ha una bellissima “cona” con l’immagine della Vergine e santi; conta duecentocinquanta famiglie con milleottocento fedeli comunicabili; vi si tiene il catechismo per i ragazzi. La visita pastorale del 1585 compiuta dallo stesso vescovo annota che “dicta collegiata fuit erecta antiquitus et non adest memoria erectionis”. Le famiglie sono circa trecento e quattro i confessori approvati. L’edificio non è in buono stato. È del 10 dicembre del 1586 la Bolla Super universas del papa marchigiano Sisto V (già cardinale “protettore” di Camerino e Tolentino) con la quale Tolentino fu elevata alla qualifica di città e alla dignità di (ristabilita) diocesi autonoma, staccata da Camerino: “In perpetuo erigiamo e costituiamo l’oppidum di Tolentino in città di Tolentino e la collegiata di Santa Maria in cattedrale con il titolo della stessa Santa Maria e in essa la dignità, la sede e la mensa vescovile per un vescovo da chiamarsi vescovo di Tolentino… (Erigiamo e costituiamo) la pievania di Tolentino in arcidiaconato, che rappresenti la maggiore dignità, dopo quella vescovile e sottoponiamo immediata- mente alla sede apostolica la stessa chiesa eretta in cattedrale e l’accogliamo sotto la protezione dei beati apostoli Pietro e Paolo”. Il vescovo di Tolentino estende la sua giurisdizone anche su Colmurano. Ovviamente si cercò di abbellire la neocattedrale di santa Maria con nuova e necessaria suppellettile per assolvere alla sua acquisita maggiorata funzione; si decise di approntare un’abitazione conveniente al neo vescovo contigua alla cattedrale. Anche il Capitolo dei canonici acquistò un ruolo maggiore, non solo in relazione al culto liturgico da prestare in una chiesa cattedrale, ma anche come “senato” del vescovo e consiglio diocesano, e di supplenza in caso di sede vacante. Il pievano divenne arcidiacono; gli altri sei prebendati divennero canonici veri e propri della cattedrale con uffici e incombenze varie (di cura d’anime, di culto, di servizi amministrativi). Le sette prebende della originaria pieve collegiata costituirono i primi sette benefici canonicali, i quali furono appunto chiamati “antiquiori”, ai quali nei settantasette anni in cui la pieve di Santa Maria fu cattedrale se ne aggiunsero altri tre, fino ad arrivare a un totale di dieci. Tre anni dopo l’erezione di Santa Maria in cattedrale, il 10 gennaio 1589 il vescovo Galeazzo Morone vi compì la prima visita e non la trovò ancora molto ordinata, sia dal punto di vista di forniture di suppellettile sacra che di adempimenti giuridici; il pavimento stesso della chiesa era sconnesso; della sacrestia mancava l’inventario. Le tre visite vescovili successive (1603, 1608, 1613) attestano l’avvenuto miglioramento; e già la relatio ad limina del 1609 dichiara positivamente che nella chiesa cattedrale officiano l’arcidiacono e otto canonici, il “curato” (per la cura animarum) e il sacrista. Nella chiesa sono sei cappelle e due altari, oltre l’altare maggiore; il fonte battesimale, l’organo, il campanile con quattro cam- pane, la sagrestia. Vi si predica sempre nel tempo di avvento e in quaresima con la scelta del predicatore da parte del vescovo e della Comunità. La funzione di cattedrale dell’antica “pieve” cessò nel 1653, come si vedrà. La chiesa di Santa Maria, dopo un periodo di decadenza fu ricostruita secondo l’attuale sistemazione architettonica negli anni 1740-46 e, riconsacrata dal vescovo Peruzzini nel 1766, prese il nome di Santa Maria Nuova e divenne tempio mariano della città e in parte succursale della cattedrale. Ebbe la funzione di parrocchia dal 1926 al 1966, per finire cappellania e rettoria dipendente dalla collegiata di S. Francesco. Restaurata con molteplici interventi dopo il terremoto del 199798, fu inaugurata il 16 giugno 2002 ed elevata a “santuario” mariano dal vescovo Luigi Conti. La seconda cattedrale nella chiesa di San Francesco (1653-1810) Il 15 ottobre del 1652 la bolla pontificia Instaurandae del papa Innocenzo X ordinò la chiusura dei conventi con scarso numero di religiosi, data l’impossibilità da parte loro di assolvere pienamente alla Regola. In seguito a tale disposizione a Tolentino anche il Convento di San Francesco dei Frati Conventuali fu chiuso. Approfittando di questa circostanza il vescovo diocesano Papirio Silvestri e il Capitolo della cattedrale chiesero alla Congregazione dei Vescovi e dei Regolari la centralissima chiesa di San Francesco lasciata dai Francescani Conventuali per trasferirvi la cattedrale, perché quella di Santa Maria era troppo fuori mano, “scomoda al popolo, incapace, in cattivo sito e humida sopra modo”, mentre la chiesa di San Francesco richiesta era “più ragguardevole e più capace di farveli con maggiore zelo et edificatione di tutto il popolo il servitio di Dio”. Accolta positivamente dalla Congregazione la doman- TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO da, il vescovo diocesano in data 14 luglio 1653 adunò il Capitolo e con l’arcidiacono e gli altri nove canonici deliberò che la Vergine Assunta, titolare fino allora della cattedrale, lo sarebbe stata anche della nuova cattedrale, pur conservandosi in questa il nome di chiesa di San Francesco. La traslazione della cattedrale avvenne con grande solennità il 15 luglio 1653. Le rendite del soppresso convento dei Padri Conventuali furono utilizzate per l’erezione del seminario che ebbe sede nell’abitazione del vescovo annessa alla chiesa ex-cattedrale di Santa Maria; il convento dei Conventuali contiguo alla nuova cattedrale diventò residenza vescovile e sede della Curia che vi restarono praticamente fino al 1950. La chiesa e il convento francescano annesso furono edificati a partire dal 1270 nel luogo ove era già una casa situata nella piazza del Comune e donata ai frati nel 1247. Di questa prima costruzione, che probabilmente ripeteva lo schema tipico delle chiese francescane con unica navata e tetto in legno, resta ora l’abside poligonale affiancata da due cappelle originariamente aperte verso la chiesa, poi richiuse e divenute, la sinistra, base del campanile e la destra, retrosagrestia. Il campanile ricavato dalla sopraelevazione della cappella di sinistra è stato innalzato probabilmente a più riprese, forse a partire dal 1314, quando i francescani vendettero alla Comunità il primitivo campanile, allora staccato dalla chiesa, che diventerà la torre civica nell’angolo del Palazzo Comunale. Attualmente misura trentotto metri ed è noto come “Torre degli Orologi”. Eretta in forme romanico-gotiche nel secolo XIII, la chiesa di San Francesco fu trasformata a più riprese e specialmente intorno al 1765 e al 1875 (a seguito del terremoto del 12 marzo 1873, che provocò danni ingenti e il crollo della volta). L’attuale aspetto è, quindi, principalmente frutto 89 di questi due ultimi interventi, anche se le strutture barocche si sono sovrapposte alle preesistenze medievali senza cancellarle del tutto. Il molteplice corredo degli affreschi e delle tele datano dal XIV al XVII secolo.5 In questa seconda chiesa cattedrale - stando alla documentazione esistente nella archivio diocesano di Tolentino - furono celebrati sei sinodi diocesani (nel 1663 e nel 1673 dal vescovo Francesco Cini; nel 1690, dal vescovo Fabrizio Paolucci; nel 1728 dal vescovo Alessandro Varano; nel 1763 dal vescovo Carlo Augusto Peruzzini; nel 1784 dal vescovo Domenico Spinucci). Sempre attestate dall’archivio diocesano di Tolentino sono otto visite pastorali compiute nella cattedrale dal 1686 al 1778.6 La terza cattedrale di Tolentino nella chiesa di San Catervo (1817-1986) La terza cattedrale di Tolentino fu eretta nel 1817 nella chiesa di San Catervo, già chiesa abbaziale e parrocchia.7 Per conoscere questa travagliata soluzione è necessario richiamare il contesto storicopolitico di quegli anni. La città e diocesi di Tolentino, dove il vescovo Vincenzo Maria Strambi il 4 ottobre fece il suo ingresso, nell’anno 1802 - data a cui si riferisce la nostra documentazione - contavano complessivamente 8962 anime e 1737 famiglie. In città tre erano le parrocchie: la cattedrale (chiesa di San Francesco, dal 1653) con 4857 abitanti (2561 in città; 2296 in campagna) per complessive 966 famiglie; la collegiata (fin dal 1420) in San Giacomo con 517 abitanti (327 in città; 190 in campagna) e 121 famiglie; la chiesa abbaziale di San Catervo (dal 1508) con 1085 anime (490 in città e 595 in campagna) e 195 famiglie.8 Dal 2 aprile 1808 il territorio delle delegazioni pontificie delle Marche fu annesso al regno italico napoleonico e Ritratto di san Vincenzo Maria Strambi, secolo XIX ovviamente la stessa sorte toccò a Tolentino. Il vescovo di Macerata e Tolentino, Vincenzo Maria Strambi, non aderendo alla richiesta di giuramento di fedeltà al nuovo regno napoleonico, il 28 settembre del 1808 fu arrestato e deportato prima a Novara e poi a Milano. Dal governo francese fu decisa e attuata anche a Tolentino la soppressione degli ordini religiosi maschili (Agostiniani, Minori Osservanti, Cappuccini) e femminili (Santa Teresa e Santa Caterina). Rimasta priva di religiosi nel 1810, la chiesa di S. Nicola era richiesta da un gruppo di canonici che volevano farne sede del Capitolo e della cattedrale. Di fatto con l’appoggio del podestà vi si insediarono, trasferendovi mobili e archivio dalla sede precedente di San Francesco. Il vescovo Strambi dall’esilio fece intendere che il santuario di San Nicola fosse da considerarsi sede “provvisoria” della cattedrale e del Capitolo, che dovevano ritornare nella chiesa di San Francesco. Ma questa situazione di contrasti e di incertezza 90 Egidio Pietrella durò fino alla metà del 1817, quindi oltre il tempo in cui gli Agostiniani erano rientrati, nel 1816, in possesso del loro convento e della chiesa e i loro tre rami dei Conventuali, Eremitani e Agostiniani della Congregazione Lombarda si erano unificati. Il vescovo Strambi, rientrato nel maggio del 1814 dall’esilio, nel dicembre del 1815 comunicò al Capitolo della cattedrale il decreto della Sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari secondo cui si intimava di riconsegnare il santuario di San Nicola agli Agostiniani, aggiungendo essere desiderio del papa (ed era il progetto dello stesso vescovo) che la cattedrale si trasferisse nella chiesa di San Catervo. Il Capitolo avanzò delle condizioni per ottemperare a tale ordine. Ma il vescovo Strambi, non considerandole ragionevoli, perseguendo il suo progetto per San Catervo come nuova sede della cattedrale, nel febbraio del 1816 disponeva il trasferimento del titolo di Collegiata dalla chiesa di San Giacomo a quella di San Francesco che come parrocchia, ampliata territorialmente e demograficamente continua fino ad ora la sua funzione della cura animarum.9 Alla fine, i canonici dopo due sentenze della Sacra Rota dovettero lasciare la basilica di San Nicola e sistemarsi alla meglio (28 giugno 1817) nella chiesa di San Catervo. Questa chiesa era stata ricostruita, a partire dal 1256, in stile romanico (di cui restano tuttora il possente campanile e la porta d’accesso laterale che dà sull’attuale via Garibaldi) su una preesistente chiesa eretta nell’alto medioevo, ed era stata officiata, sine cura animarum, fino al 1490 dai Benedettini qui insediatisi verso il VI-VII secolo. Passati il convento e la chiesa in commenda a Giovanni Battista Rutiloni, fu da lui riconsegnata nel 1507 al papa Giulio II che concesse chiesa, convento e beni ai Canonici Regolari Lateranensi, erigendovi (1509) la prepo- situra e la parrocchia. Questi abbandonarono tutto alla fine del secolo XVIII, lasciando numerosi debiti. La necessaria ricostruzione di questa terza chiesa fu affidata in un primo tempo al pittore e architetto tolentinate Giuseppe Lucatelli e successivamente all’architetto e pittore maceratese Filippo Spada. Quest’ultimo modificò il progetto primitivo e nell’assetto architettonico neoclassico cambiò l’orientamento dell’edificio, ponendo l’ingresso dov’era il presbiterio della chiesa monastica del 1256, abbattendo quasi completamente il panteum cum tricoro, contenente il sarcofago dei corpi di San Catervo, Settimia e Basso e trasportando la stessa arca nella cappella della Santissima Trinità (o di Santa Maria della Pace), dove attualmente ancora si trova.10 La cattedrale vi fu trasferita in maniera definitiva nel 1819. I lavori della ricostruzione durarono dal 1820 al 1828. Durante questo periodo i canonici volevano ritornare (26 agosto 1819) nella chiesa di San Francesco, ma il vescovo Strambi non lo concesse, “perché erano state rese officiabili ad uso di chiesa le camere contigue alla sagrestia di San Catervo […], dando a quelle l’ingresso dalla parte delle logge”.11 Organizzazione ecclesiastica della neoeretta cattedrale di San Catervo Nella chiesa di San Catervo già esisteva la parrocchia, per cui sorse il problema di conciliare le due parrocchie preesistenti (della cattedrale, già in San Francesco e di San Catervo). Il Capitolo nella sessione del 28 marzo 1818 sollecitò una soluzione appropriata e il 7 dicembre del 1819 un decreto della Congregazione dei Vescovi e Regolari impose la fusione delle due parrocchie in una sola, riservando al Capitolo la nomina del “vicario curato” che attendesse alla cura animarum parrocchiale, alla cui funzione lo stesso Capitolo nominò il 7 gennaio 1820 don Domenico Migliorelli. Il vescovo Strambi il 25 marzo 1820 emise il decreto di perpetua unione delle due parrocchie e vi aggiunse anche due coadiutori del “vicario curato”.12 L’istituzione del Capitolo della cattedrale risaliva nella sua più antica origine al collegium presbiterale esistente già nell’antica pieve di Santa Maria, le cui sette prebende costituirono i primi benefici canonicali (detti per questo “antiquiori”) della ricostituita (1586) diocesi e cattedrale di Tolentino. Nel corso del tempo il Capitolo si accrebbe di altri benefici e relativi canonicati fino a raggiungere il numero di diciotto, quanti erano nel tempo preso in esame. Esso aveva due “dignità: l’arcidiacono, che nella ricostituzione della diocesi e della cattedrale venne a usufruire della prebenda della collegiata di Santa Maria goduta dal pievano, il quale nel 1586 fu promosso arcidiacono; l’arciprete, di giuspatronato Nardi (15 dicembre 1739), che costituiva la seconda dignità. Tra gli altri sedici canonici ricoprivano particolari incarichi il canonico “teologo” - incaricato di tenere nelle domeniche le lezioni di Sacra Scrittura - che il vescovo Paolucci istituì nel 1692, elevando a tale compito il preesistente canonicato di Santa Maria delle Grazie eretto dal vescovo Morone il 12 febbraio 1590; e il canonico “penitenziere” istituito nel 1693 dal vescovo Paolucci con l’obbligo di attendere alle confessioni (anche nel tempo della recita dell’ufficio divino). Il Capitolo della cattedrale aveva ancora tre mansionari, cioè beneficiati minori, con obblighi precisi (recita del coro, celebrazioni, servizi liturgici) stabiliti dall’atto della loro istituzione; inoltre alcuni “officiali”, detentori di incarichi e di servizi vari: il sacrestano maggiore, eletto tra i canonici, coadiuvato da un sacrestano “minore” sacerdote; il camerlengo, eletto tra i canonici, che amministrava le rendite destinate all’intero TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO 91 Concattedrale di san Catervo, facciata mantenimento della chiesa e alla “massa comune”; un canonico “segretario”, che tra l’altro custodiva l’archivio (riordinato, dopo i vari trasferimenti subiti, nel 1821, anche con un nuovo indice delle materie). L’arcidiacono era soggetto alla Regola della Cancelleria apostolica. I canonici avevano il diritto di indossare la cappa magna ad instar S. Petri in Urbe, accordato dal pontefice Benedetto XIV con bolla del 6 dicembre 1740. Tutti avevano l’obbligo dell’officiatura corale. Il sigillo del Capitolo rappresentava l’immagine di Maria Vergine Assunta. Rifacendoci più direttamente al nostro periodo, c’è da segnalare che risale al 1821-22 la nuova elaborazione delle “Costituzioni del Rev.mo Capitolo della cattedrale di Tolentino” emendate e poi approvate dal vescovo Strambi con decreto del 3 luglio 1822.13 Nel 1862 per il decreto del commissario generale Lorenzo Valerio i canonici furono ridotti a dodici; ridimensionato fu pure il numero dei mansionari. Nel 1973, oltre l’arcidiacono, il Capitolo della cattedrale di San Catervo contava dodici canonici attuali, un onorario; cinque mansionari. Le funzioni del Capitolo della cattedrale, oltre che liturgiche (recita corale quotidiana dell’Ufficio divino, celebrazioni nelle domeniche e nelle feste solenni) erano anche di natura giuridico-istituzionale. Stando al Codice di Diritto Canonico emanato nel 1917, spettavano ad essi il titolo e la funzione di “Senato” e di “Consiglio” del vescovo; il compito di eleggere sede vacante il Vicario Capitolare; il governo stesso della diocesi fino all’elezione del detto vicario (cann. 391,§ 1; 429, §.3; 431, §. 1; 432, §. 1). Con il Concilio Vaticano II queste importanti funzioni sono state affidate al Consiglio presbiterale diocesano e al Consiglio dei consultori.14 Inoltre, con il decreto della Congregazione dei Vescovi del 30 settembre 1986 che stabilì la “piena unione” delle cinque diocesi preesistenti, si istituì - con nuove costituzioni approvate dal vescovo Conti il 6 gennaio 1998 - un unico Capitolo di canonici presso la cattedrale di Macerata, formato dai canonici delle diocesi autonome e da altri nominati dal vescovo stesso, che debbono prendere parte al servizio litur- 92 Egidio Pietrella Francesco Ferranti, iscrizione in memoria della consacrazione della nuova cattedrale gico nelle annuali feste dei santi patroni delle precedenti diocesi e nelle celebrazioni più solenni dell’anno liturgico.15 Ricognizione canonica dei corpi di san Catervo, Settimia e Basso (3 agosto 1822) Il 3 agosto 1822, tra gli atti di sacra visita pastorale del vescovo Vincenzo Maria Strambi, fu compiuta la ricognizione dei corpi di San Catervo martire, protettore principale della città, di Settimia e di Basso, contenuti nel sarcofago.16 La ricognizione fu eseguita da “don Giuseppe Bonelli canonico della collegiata di Tolentino e pro-vicario nelle cose spirituali, per delega speciale del vescovo dei Tolentinati Vincenzo Maria di San Paolo”. Il canonico Bonelli, aperta l’urna, visionò e identificò i corpi di San Catervo martire, principale Patrono di Tolentino, di Settimia vergine [sic!], moglie dello stesso e di Basso, ugualmente martire. Successivamente l’arca, chiusa e appostivi i sigilli vescovili, fu trasportata dal sacello dove era situata antecedentemente in un altro luogo più in alto dove ora si trova. La cattedrale e la parrocchia di San Catervo nella visita pastorale del vescovo Teloni (1825) Dalla “Risposta ai 42 quesiti proposti da sua Signoria ill.ma e rev.ma Francesco Ansaldo Teloni vescovo di Macerata e Tolentino in atto di sacra visita” a don Nicola Pallotta vicario perpetuo (dal 1823) della chiesa cattedrale di Tolentino il 9 settembre 182517 si deducono lo stato materiale, l’organizzazione ecclesiastica e l’attività pastorale della cattedrale e della parrocchia recentemente unite. La parrocchia non ha confini stabiliti, non essendo limitata ad un quartiere proprio. Essa è costituita da famiglie che vivono in città e nella campagna del territorio. Le famiglie sono 1228 e le anime 6479. Il “vicario curato” perpetuo viene eletto dal Capitolo della Cattedrale e approvato dal vescovo dopo regolare concorso. I canonici della cattedrale sono diciotto, le cui “dignità” sono: l’arcidiacono; l’arciprete; vi sono poi il canonico penitenziere; il canonico teologo (che era “beneficiario” della chiesa di Santa Maria delle Grazie) ; due “mansionari” (“beneficiati” minori); il sacrista; due “curati adiutori”. La parrocchia ha il fonte battesimale, sito all’ingresso del corridoio che fa parte della chiesa provvisoria; possiede i registri dei battesimi (dal 1556), dei matrimoni (dal 1564), dei defunti (dal 1656), dello stato d’anime, uno per gli abitanti in città e uno per quelli di campagna. Nell’ambito della parrocchia si trova l’Oratorio Notturno (istituito dal vescovo Strambi), in Santa Maria Nuova che è diretto, per disposizione del vescovo, dal vicario curato della cattedrale; inoltre, vi è un orfanotrofio. Nel territorio della parrocchia cinque sono le famiglie che hanno l’oratorio privato per indulto apostolico. Complessivamente l’organizzazione della vita liturgica, catechistica, è regolare ed efficiente; la vita religiosa e morale della parrocchia è buona. La consacrazione della nuova cattedrale (1829) e il sinodo diocesano (1830) La grandiosa opera di rifacimento della chiesa, la durata dei lavori, la sua dedicazione e consacrazione sono testimoniate da tre lapidi poste sulla facciata e da un’altra nella parete interna dell’ingresso secondario dalla piazza Strambi. Quella centrale esterna, tradotta dal latino attesta che il tempio è “sacro alla Vergine Madre di Dio Assunta in cielo e al martire Catervo patrono salvatore”. Lungo l’architrave della facciata si legge questa invocazione, già inserita nelle antiche insegne del Comune di Tolentino: “San Catervo, difendi il popolo di Tolentino”. La scritta posta a sinistra della facciata esterna traccia una breve storia della chiesa: “Il tempio, glorioso e degno di ammirazione per la sua antichità, nel quale i monaci dell’Ordine di San Benedetto e poi i canonici Lateranensi cantarono le lodi del Signore, elevato alla dignità di chiesa cattedrale, fu ricostruito nell’attuale forma e struttura per la cura dei vescovi il beato Vincenzo Ma- TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO ria Strambi e Francesco Ansaldo Teloni negli anni 1820-1828”. La scritta che si legge all’ingresso retrostante della chiesa da piazza Strambi attesta che “il tempio portato a termine per lo zelo del canonico teologo Gabriele Bezzi e di Domenico Pace preposti alla raccolta delle offerte e alla direzione dell’opera, Francesco Ansaldo Teloni, vescovo di Macerata e Tolentino consacrò il 6 settembre 1829 con rito solenne, consacrazione che ogni anno si deve commemorare nell’ultima domenica di agosto”. Sulle feste dei santi Patroni che si celebravano nella cattedrale di Tolentino siamo informati dai vari calendari liturgici editi dai vescovi Strambi (1821), Teloni (1828.1833); dagli Addenda al messale romano pubblicato nel 1835 e dall’opuscolo Officia propria sanctorum quae recitantur in ecclesiis cathedrali et collegiata huius civitatis Tolentini del vescovo Zangari (1854), tutti custoditi nell’Archivio diocesano. La solennità di Maria Santissima Assunta in cielo, prima titolare della cattedrale, si celebrava (e si celebra tuttora) il 15 agosto secondo il calendario liturgico universale, di cui si seguono i testi eucologici e le letture. La festa di San Catervo martire si celebrava il 17 ottobre con particolare solennità: alla vigilia, il 16, erano prescritti il digiuno e la celebrazione dei primi vespri solenni; Il 17 ottobre, solennizzato con numerose celebrazioni eucaristiche e la messa pontificale del vescovo, si concludeva nel pomeriggio con devota processione cittadina con la reliquia di San Catervo contenuta in un reliquiario d’argento. La festa di San Tommaso di Tolentino francescano missionario e martire, ucciso per la fede cristiana dai musulmani a Tana in India nel 1321, patrono principale minore di Tolentino (la cui reliquia si venerava - e si venera - nella cattedrale dal 1824, quando vi fu trasferita dalla chiesa di San Francesco), era fissata nella prima domenica di giugno; successivamente, come ai nostri giorni, si celebra l’ultima domenica di ottobre. Tra i santi particolarmente venerati a Tolentino è San Nicola. Nato A Sant’Angelo in Pontano, entrò ben presto nell’Ordine degli Eremitani di Sant’ Agostino in Tolentino, dove rimase per più di trent’anni fino alla morte avvenuta il 19 settembre 1305. Umile e semplice, si distinse per la sua carità verso i confratelli, i malati e i poveri che visitava con sollecitudine. Attese con zelo al ministero della predicazione e alla direzione spirituale delle anime che edificava con il suo spirito di preghiera, di penitenza e di carità. Fu particolarmente devoto alle Anime Sante del Purgatorio. Tante, secondo la tradizione, furono le grazie straordinarie e i miracoli che lo accompagnarono in vita e in morte, che fu ben presto avviato il processo di beatificazione condotto a termine nel 1447 dal papa Eugenio IV. Il suo corpo si conserva a Tolentino nella monumentale basilica che porta il suo nome e racchiude ricchi tesori d’arte e di fede ed è mèta di numerosi pellegrini. La festa liturgica che cade il 10 settembre, si celebra per una settimana intera e termina nella domenica successiva con l’indulgenza plenaria del “Perdono”. Questo ordinamento liturgico continuò nel corso del tempo e lo ritroviamo ancora nell’ultimo calendario liturgico proprio dei santi tolentinati e approvato il 2 febbraio 1962 dalla Sacra Congregazione dei Riti. Attualmente, nell’anno 2010 con decreto del vescovo diocesano Mons. Claudio Giuliodori è stato pubblicato, dopo la riforma liturgica introdotta dal Concilio Vaticano II (1963) e l’unificazione delle cinque diocesi preesistenti, il “santorale” di tutta la diocesi, aggiornato nei testi e nelle letture. Continuando la storia, il vescovo Teloni celebrò un sinodo diocesano nei giorni 23-25 agosto 1830 nella cattedrale di 93 Tolentino.18 Esso fu il primo dopo la restaurazione pontificia, tenuto a distanza di quarantasei anni da quello dello Spinucci. Dopo tutti questi fatti, inaugurato il nuovo edificio sacro, indicati gli orientamenti spirituali, definiti e prescritti i riti liturgici, la vita religiosa della cattedrale e della parrocchia di San Catervo procedette con regolarità ed efficienza. Nell’interno la nuova cattedrale aveva dieci altari, come al presente; con il passare del tempo qualcuno di essi ha mutato titolo e decorazioni. Nell’Ottocento furono eseguiti alcuni interventi di riparazione dell’edificio sacro: nella facciata (1841-43) e per la costruzione della gradinata esterna (1882-1883). Nel 1884 l’architetto Luigi Fontana realizzò il vano (con cupola, statue dei 4 Santi Padri della Chiesa latina, dei santi marchigiani; tele di San Severino, Sant’ Emidio e San Benedetto) che collega l’altare della cappella di San Catervo con la chiesa.19 Dipendenti dalla cattedrale, sia perché benefici di canonicati, sia perché proprietà della chiesa, i cui membri vi svolgevano il servizio religioso, erano alcune chiese extraurbane: Santa Maria delle Grazie (beneficio del canonico teologo), la chiesa della Vergine Maria dei sette dolori (detta comunemente dell’Addolorata), di San Pietro, della Pace, di San Rocco, della Stelluccia, tutte ugualmente controllate nelle varie visite pastorali dei vescovi. Pie unioni e confraternite Nel 1850 fu istituita la Pia Unione del “Santissimo Crocifisso e della Beata Vergine Desolata” con lo scopo di promuovere sempre più il culto del SS. Crocifisso e della Beata Vergine Desolata.20 L’attività di questa pia istituzione che da oltre centocinquanta anni svolge fino ad oggi il servizio religioso e conta al presente circa quattrocento soci è lodevole. Il 19 giugno 1856 fu incaricato il tolenti- 94 nate professor Pallotta di sistemare, come è oggi, la cappella della Pia Unione, riunendo in un unico altare le due statue del Cristo morto e della Vergine Desolata. Nel dicembre del 1856 si stabilì che la divisa dei confratelli su veste nera doveva essere ornata di mostre e fasce di colore amaranto. Il 28 gennaio 1866, dietro richiesta esplicita del Capitolo, la Pia unione ricevette l’incarico di organizzare la funzione del Venerdì Santo, comprendente la predicazione delle tre ore di agonia e la processione con il Cristo morto. Fu necessario nominare allo scopo un deputato e tre assistenti, procurare tutta l’apparatura richiesta e di tempo in tempo sostituirla a causa dell’usura; provvedere ogni anno alla nomina del “Triorista” (predicatore delle tre ore), approntare ex novo il feretro, che è opera di Allevi (1873), dotarsi di un servizio di musica vocale e strumentale per le tre ore di agonia (1874), acquistare un locale - che è quello attuale - per riporvi gli oggetti sacri (1875). In tempi recenti, entro il 1996, sono stati effettuati i restauri delle statue del Cristo e della Vergine e degli oggetti e suppellettile sacra e dei locali. Intorno alla metà dell’800 sorse la “Pia Unione del Sacro Cuor di Maria” già venerata nel 1707 sotto il titolo della “Stella” in una chiesa suburbana, dal nome della “Visitazione” (di Maria) che apparteneva alla cattedrale o al Capitolo, dove pie persone praticavano pubblici atti di devozione mariana e di edificante pietà. Col passare del tempo, crescendo il numero e il fervore dei devoti, questi nel 1842 costituirono un sodalizio, chiedendo all’autorità ecclesiastica il riconoscimento e l’aggregazione, ottenendoli con diploma del 4 ottobre 1843, alla Primaria Congregazione del “Cuore Santissimo di Maria”, eretta a Roma nella collegiata dei SS. Eustachio e compagni martiri. Nel 1859 il vescovo diocesano Amadio Egidio Pietrella collegiata di San Giacomo. Presso l’altare della BeataVergine del Carmine svolgeva le sue pratiche di pietà la “Confraternita del Carmine” eretta in San Catervo, ancora chiesa abbaziale, il 31 luglio 1726. Infine la Confraternita di San Giuseppe aveva il suo altare dedicato al santo, nella seconda cappella a destra per chi entra in chiesa lungo la navata laterale destra.21 Alcide Allevi o Girolamo Capoferri, Sacro Cuore Zangari con un suo decreto fece trasferire la sacra Immagine in cattedrale, nella cappella attigua a quella del Santissimo Crocifisso, abbellita e ornata con pitture a cura della stessa Unione, che qui proseguì le devote pratiche in onore del “Sacro Cuore di Maria”. Il Regolamento stabiliva la finalità nel promuovere la devozione mariana, celebrando con particolare solennità le feste della Vergine e il mese di maggio a lei dedicato. Altre Pie Unioni elencate nella Visita pastorale del vescovo Sebastiano Galeati compiuta nel 1883 erano: la “Pia Unione delle Figlie di Maria” eretta dal vescovo Franceschini nella Cappella di San Catervo; la “Pia Unione del Sacro Cuore di Gesù” nell’altare di San Biagio, di cui ora si mantiene solo un ricordo con il quadro del Sacro Cuore, che si trova al centro dell’altare della cappella del Carmine; la “Pia Unione dell’Apostolato della preghiera”, istituita nella parrocchia dal 1873. Delle Confraternite, quella del Sacramento (e della Carità), risulta aggregata alla cattedrale, pur avendo la sua sede nella Storia dall’Unità d’Italia alla prima divisione della parrocchia di San Catervo (1870-1926) Gli eventi storici che si verificarono dal 18 settembre 1860 (battaglia di Castelfidardo e annessione delle Marche al futuro Regno d’Italia) al 20 settembre 1870 (presa di Roma) cambiarono completamente l’assetto politico e amministrativo vigente da tempo nel nostro territorio. L’organizzazione civile ed ecclesiastica e la stessa vita religiosa delle nostre città furono profondamente toccate dal nuovo stato di cose. A Tolentino furono soppressi (1866) gli Ordini religiosi degli Agostiniani, dei Francescani Minori, il cui convento venne adibito a ospedale, dei Cappuccini, la cui casa fu trasformata successivamente a ricovero dei vecchi. Altre disposizioni riguardavano la riduzione del numero dei canonici e mansionari e la previa concessione del regio placet nella nomina dei vescovi, la cui mancanza o ritardo allungò talvolta il periodo di sede vacante. Il breve episcopato di mons. Giambattista Ricci (18951902) si distinse per una visita pastorale e la celebrazione, dopo settant’anni da mons. Teloni, di un importante sinodo diocesano. La visita fu eseguita a Tolentino negli anni 1897-1898;22 aperta nella cattedrale l’8 settembre 1897 post horas vespertinas, fu molto scrupolosa e analitica circa la suppellettile, gli oggetti, la regolarità dei registri parrocchiali. Il Sinodo diocesano, penultimo nelle due diocesi affidate ad un unico vescovo, fu TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO celebrato nella cattedrale di Tolentino nei giorni 28-30 dello stesso mese ed anno.23 Più lungo e molto attivo fu l’episcopato del maceratese Raniero Sarnari. Fu speso soprattutto nella diffusione capillare dei due nuovi testi del catechismo di San Pio X (1905; 1913). Il vescovo, inoltre, costituì in ogni parrocchia la “Confraternita della Dottrina Cristiana”. Devotissimo della SS. Eucaristia (su cui scrisse tre lettere pastorali il 1910, 1912, 1913) e della Beata Vergine Maria, favorì l’Azione Cattolica, curò i seminari di Macerata e Tolentino, e il movimento cattolico. Tolse il non expedit nelle elezioni del marzo 1909 imponendo ai cattolici di votare a Macerata Vittorio Bianchini e a Tolentino Anselmo Ciappi. Infine, svolse un’intensa attività anche in campo culturale, per contrastare la cultura laicista e antireligiosa soprattutto il socialismo e il modernismo. Dalla “Relazione intorno alla vicaria curata della cattedrale di Tolentino” fatta in occasione della Visita Pastorale di mons. Raniero Sarnari, si ricavano nuove informazioni sull’organizzazione e la vita della parrocchia di San Catervo. Essa è retta per la cura animarum, oltre che dal vicario curato perpetuo, canonico ed eletto dal Capitolo, da due curati coadiutori, l’uno dei quali è mansionario, perpetui anch’essi e nominati dal vescovo. La parrocchia risulta divisa “per convenzione” e per accordi informali in tre parti o quartieri, sia nella città che nella campagna, nei quali ciascun curato amministra gli ultimi sacramenti e assicura l’assistenza agli infermi. Nel territorio della parrocchia sono costituite sette cappellanie. La prima divisione della parrocchia di San Catervo (1926) Il 23 giugno 1926 il vescovo Luigi Feretti emise il decreto della divisione della parrocchia della cattedrale di Tolentino in tre parrocchie distinte ed autonome. 95 visione pastorale (non giuridica, perché la parrocchia rimaneva unica, quella di San Catervo) in tre parti assegnandone il servizio religioso ai due curati coadiutori della cattedrale, ai quali imponeva precisi doveri, con sedi rispettive nella chiesa di Santa Maria Nuova (da tempo succursale della cattedrale) e di Santa Maria Costantinopolitana (già dei Cappuccini). Dopo sedici anni (26 giugno 1926) fu emesso l’atto giuridico del vescovo Ferretti che divise definitivamente la parrocchia di S. Catervo, erigendo canonicamente le altre due parrocchie autonome.24 Braccio reliquiario di san Vincenzo Maria Strambi Questa decisione fu il risultato naturale di una situazione richiesta dall’aumento della popolazione e dalle esigenze pastorali. Le premesse di questa soluzione risalgono all’inizio del 1900 e con la prima visita pastorale del vescovo Sarnari (1904). Per l’incremento demografico e la maggiore estensione territoriale si venne amichevolmente e de facto alla divisione del servizio religioso per la parrocchia di San Catervo in tre zone o quartieri tra il vicario curato perpetuo e i due curati coadiutori. Già il 5 maggio 1910 il vescovo Sarnari con il totale assenso del Capitolo, procedeva con autorità alla di- Gli ultimi sessanta anni (1949-2010) Terminata la seconda guerra mondiale che nel passaggio del fronte sul Chienti causò nella cattredrale danni sul tetto, presto riparati, si avviò lentamente l’opera di ricostruzione materiale e religiosa. Tolentino accolse festosamente il 29 agosto il nuovo vescovo mons. Silvio Cassulo nella sua cattedrale; egli riaprì nel 1949 il seminario minore nel palazzo adiacente la chiesa; promosse la peregrinatio Mariae nelle parrocchie della diocesi (12 marzo-5 giugno) con la statua della Madonna della Tempesta, pellegrinaggio che si concluse solennemente nella cattedrale il 5 giugno 1949. Nel 1950, anno santo, il vescovo guidò numeroso popolo di diocesani, ricevuto in udienza particolare da Pio XII il 10 giugno 1950, in occasione della canonizzazione di San Vincenzo Maria Strambi, la cui urna contenente il corpo del santo fu riportata tra i suoi fedeli in una sorta di peregrinatio che sostò dal 17 al 24 settembre nella cattedrale di Tolentino. Quattro anni dopo, la cattedrale e la città vissero giorni solenni nel periodo 13-19 settembre 1954, quando fu celebrato il congresso eucaristico diocesano. In occasione di questo evento straordinario la cattedrale ebbe una nuova sistemazione. I lavori iniziati un anno prima con lo sco- 96 Egidio Pietrella Luigi Galli La Forest, Ultima Cena po principale di eliminare l’umidità che deteriorava i preziosi affreschi cinquecenteschi della cappella di San Catervo, assunsero progressivamente un carattere ben più compleso e risolutivo rispondente alle nuove esigenze. Il presbiterio fu arretrato e portato ad un livello più basso; fu data la luce a due arcate, sopraelevando le volte laterali, che permisero l’apertura di un finestrone per una più adeguata iluminazione. Ne risultarono, dunque, il prolungamento della navata centrale e delle due laterali e a destra lo scoprimento dell’antica torre.25 Furono modificati il coro dei canonici e il trono del vescovo, degnamente sistemato al centro dello stesso coro. Le due volte, in corrispondenza delle due nuove arcate, con le rispettive pareti, furono dipinte con arte dal pittore Cesare Angeletti che riprese, nello stile, la decorazione del Ferranti. Infine, per il nuovo altare del Santissimo Sacramento lo scultore Luigi Galli La Forest realizzò il nuovo paliotto dell’altare rappresentante l’Ultima Cena e scene della Passione ai lati del tabernacolo. Nel 1960 la popolazione della cattedrale raggiunse il numero di tremilanovecento abitanti, con evidente accrescimento che preludeva ad una nuova necessaria divisione per un migliore servizio pastorale, provvedimento che fu deciso agli ini- zi degli anni ’70 con la creazione della Zona Pastorale “Giovanni XXIII” ad est della città dove si era creato un nuovo insediamento urbanistico, che ampliatosi ancora, determinò la costruzione di un nuovo ampio edificio sacro terminato nel 1986 e divenuto parrocchia con il titolo dello “Spirito Santo” (18 maggio 1986). Da allora, fino al presente, la popolazione della parrocchia di San Catervo si è attestata sulle quattromila unità. Dal 1986 per effetto del decreto della Congregazione dei Vescovi che stabilì “la piena unione delle (cinque) diocesi nella chiesa di San Catervo, divenuta “concattedrale”, pur restando attiva la parrocchia con la cura animarum retta dal parroco precedentemente nominato, cessò l’esistenza del Capitolo della cattedrale. Il vescovo Francesco Tarcisio Carboni compì tre intense visite pastorali alla parrocchia e cattedrale di San Catervo, per conoscerne analiticamente situazione e necessità sul piano religioso, ma anche sociale e culturale, e indicando orientamenti pastorali adeguati ai tempi mutati. Con questo stesso intento fu celebrato il sinodo diocesano (1988-1995) a cui presero parte attiva i fedeli laici della cattedrale, con una sorta di vera mobilitazione. Negli anni 1990-1993 fu condotta una campagna di scavi da parte della Catte- dra di Archeologia Cristiana dell’Università degli Studi di Macerata, sotto la guida del prof. Aldo Nestori, nel Mausoleo ( denominato panteum cum tricoro) dov’era custodito il sarcofago di San Catervo. Come è stato ricordato, il mausoleo fu abbattuto negli anni 1822-25 per far posto al presbiterio della nuova (attuale) chiesa neoclassica. Nei giorni 10 e 30 dicembre 1992 fu compiuta la ricognizione canonica dello stesso sarcofago di San Catervo su disposizione del vescovo Carboni. Questa fu la quinta tra quelle compiute nel corso dei secoli e successiva all’ultima fatta eseguire nel 1822 dal vescovo Strambi. L’apertura del sarcofago consentì la verifica dell’esistenza dei corpi di San Catervo, Settimia sua moglie e Basso loro figlio come testimonia la tabula inscriptionis e tramanda la tradizione. Gli scheletri dei tre corpi furono ricomposti nelle varie parti dal prof. Giulio Marinozzi titolare della II cattedra di Anatomia Umana dell’Università “La Sapienza” di Roma. Nel periodo 17 ottobre 1992 - 25 aprile 1995 nella stessa cattedrale iniziò e terminò l’attività del tribunale ecclesiastico diocesano istituito per il processo di canonizzazione del tolentinate Luigi Rocchi (1932-1979), vissuto quarantasette anni di cui ventotto passati a letto a causa del- TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO la distrofia muscolare progressiva. Il grave sisma del 26 settembre 1997, con le sue ripetute e forti scosse che continuarono fino all’anno successivo (soprattutto nel marzo 1998) lesionò la concattedrale di San Catervo in più punti, soprattutto là dove la struttura era stata indebolita da infiltrazioni d’acqua. La Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici delle Marche di Ancona, intraprese l’intervento di consolidamento strutturale e di restauro inserito nel vasto programma di riparazione dei danni subiti da molti edifici monumentali della Regione. I lavori commissionati alla ditta “Cingoli Nicola & Figlio” di Teramo procedettero a rilento e con pause e per mancanza di fondi e per la imprevista necessaria revisione dei lavori effettuati. Le offerte generose dei fedeli (riuniti in un “Comitato Pro San Catervo”), l’accensione di un mutuo e l’ipoteca su un podere stipulata con la Banca delle Marche riuscirono a far terminare questo recupero nel 2004. Ma si procedette anche ad una revisione totale degli impianti dell’amplificazione, dell’illuminazione (ditta “Bettucci & Salvatori”), dell’elettrificazione (a cura dell’organaro Angelo Carbonetti di Foligno) del grande organo a canne della ditta Zanin. Furono restaurate dalla ditta Osvaldo Pieramici di Urbino con il contributo della Fondazione della Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata, le decorazioni e le pitture dell’interno della chiesa, della cappella delle “Carceri”. Nel periodo aprile-giugno 2006 l’impresa edile Frapiccini di Recanati eseguì un impegnativo lavoro sulla romanica torre campanaria (cambiamento dell’intelaiatura delle campane, rinnovo del sistema elettrico e dei motori, collocazione di reti sulle apertura e chiusura di tutti i fori per impedire l’annidamento dei volatili ecc.). I complessi e molteplici lavori furono inaugurati solennemente il 15 ottobre 2006 con la partecipazione di 97 Veduta del presbiterio con il paliotto d’argento dell’altare di Adeo Occhibianchi, 1958 autorità civili, della rappresentanza della Soprintenza ai Beni Storici e Artistici di Urbino, di mons. Cleto Bellucci, Delegato per i Beni Ecclesiastici delle Marche, e di numeroso popolo. A questi interventi si aggiunse nel 2008, grazie alla provvidenziale donazione di una generosa benefattrice e contributi del Rotary Club di Tolentino, il restauro della cappella, antistante quella di San Catervo, realizzata da Luigi Fontana: la ditta Osvaldo Pieramici, con l’assistenza dell’ingegner Gianfranco Ruffini, restaurò le decorazioni e le pitture, le dodici statue dei santi; rifece le dorature mancanti, rinnovò totalmente le finestre circolari della cupola. La nuova illuminazione, sullo stesso stile di quella della chiesa, fu eseguita dalla ditta “Bettucci & Salvatori”. L’inaugurazione avvenne il 16 novembre 2008 da parte del vescovo diocesano Claudio Giuliodori. Fu il punto finale di una enorme fatica: quella del completo restauro della concattedrale (così ora è chiamata dal punto di vista giuridico) e dell’intero complesso, durata ben otto anni.26 98 NOTE Sul sarcofago di S. Catervo esiste numerosa e aggiornata bibliografia, per la quale si rinvia a Il mausoleo e il sarcofago 1996. 2 Santarelli 2007, pp. 242-244. 3 Santini 1789, p. 154. 4 Per la storia della “pieve di Santa Maria” di Tolentino cfr. Pietrella 2002, pp. 107-192. 5 Per questa sintetica descrizione dell’architettura e dell’arte della chiesa di San Francesco cfr. Tolentino. Guida all’arte 2000, pp. 98-102. 6 L. Mocchegiani, Archivio diocesano di Tolentino. Inventario, pro manuscripto, Tolentino 2003, Sinodi Diocesani 3/1-3/7; Visite Pastorali 4/1.3-4/2.2. 7 Si segue, sintetizzando, Pietrella 2007, pp. 147-209. 8 ASDT 42/1.1: “Ristretto dello Stato d’anime dell’anno corrente 1802 della città e diocesi di Tolentino” 9 Costituzioni del Capitolo della cattedrale di Tolentino 1932, p. 16; cfr. ASDT 00011/18, Verbale del Capitolo della collegiata di S. Giacomo (22 febbraio 1816): Proposta di traslazione della Collegiata da S. Giacomo a S. Francesco. 10 ASCCT, precatalogazione dattiloscritta di L. Mocchegiani, Tolentino 2002: 01019, “Fabbrica della chiesa di S. Catervo” (1818-1829); ASCCT, 01204/08: “Facciata della cattedrale Gentiloni-Silveri 1828, n. 2 disegni; ASDT 00011/17: “Fabbrica della chiesa cattedrale: relazione dell’ing. Spada al pro-vicario generale G. Bonelli sui lavori necessari (27 nov. 1822); A. Pace, Cenni biografici sulla istituzione di tutti i luoghi pii, conventi, chiese, canonicati e benefici della città e diocesi di Tolentino compilati da me Alessandro Pace cancelliere di questa Curia Vescovile, manoscritto in ASDT 1853, p. 38 r/v; pp.138 r/v; Costituzioni del Capitolo della Cattedrale di Tolentino, 1932, pp.11-20; I santi delle Marche 1967, pp.18-25 passim; Cecchi 1975, pp.326-341, passim; Semmoloni 2002, pp.66-67; per la lite tra agostiniani e canonici: cfr. Mocchegiani 2001, 34/9. 11 Costituzioni Capitolari, Tolentino 1932, p. 20. 12 ASCCT, 0127/705 Traslazione della cattedrale in S. Catervo; ASCTT 01207/7, Vescovo Strambi, Decreto di annessione della parrocchia di S. Catervo; ASDT, 00041/22 Acta Unionis et incorporationis; institutio Dominici Migliorelli ad vica1 riam curatam N.S. 11/11/22. ASCCT 00725, Costituzioni capitolo della cattedrale…1821-1822; ASDT 42/1.10: “Risposta del Capitolo della Cattedrale ai quesiti fatti dall’ ill.mo e rev. mo Teloni nella S. Visita aperta il giorno 20 settembre 1829. Per la storia del capitolo della cattedrale di Tolentino vedi Costituzioni del Capitolo della Cattedrale di Tolentino 1932, pp. 20-34 passim. 14 Chiappetta 1996, vol. I, pp. 636-637. 15 APCM, Costituzioni del Capitolo della cattedrale, vescovo L. Conti, 06.01.1998. 16 Nestori 1996c, pp. 119-126. 17 ASDT 42/1: Risposta ai 42 quesiti proposti da sua signoria ill.ma e rev.ma mons. Ansaldo Teloni in atto di sacra visita a me Niccola Pallotta vicario curato perpetuo della chiesa cattedrale di Tolentino il dì 9 settembre 1825, cc.10 n.nn. 18 ASDT, Sinodi Diocesani, 3/7, Teloni. 19 Per i lavori compiuti dalla metà dell’800 cfr. ASDT 42/1-10. 20 Archivio della Pia Unione del Cristo morto, Tolentino [1996 ?]. 21 Pietrella 2007, pp. 160-162. 22 ASDT, Visite pastorali, 4/3.10, Ricci. 23 ASDT, Sinodi diocesani 3/8, 1901 Ricci. 24 Pietrella 2002, pp. 185-186. 25 Una lapide, posta all’ingresso della cappella antistante l’altare di San Catervo attesta: “Nell’anno della Redenzione millenovecentocinquantaquattro / nel centenario della definizione dell’Immacolata Concezione dellaVergine Madre di Dio / anno quindicesimo del sacro pontificato di Pio XII Pontefice Massimo, / l’abside di questo tempio e la cappella dedicata a San Catervo / con opera e ornamento più splendido / rifatto il pavimento di marmo e resa visibile la sacra torre / unendo la funzionalità e il decoro / Silvio Cassulo vescovo di Tolentino / e il Capitolo dei canonici /in occasione del primo congresso eucaristico diocesano / fecero restaurare”. 26 APCT, anni 2000-2008. 13 CRONOLOGIA VII sec. (?) Esistenza della “pieve di Santa Maria”. 1378 La pieve di Santa Maria risulta “collegiata”. 1586 (10 dicembre) - Tolentino riottiene la diocesi; la pieve-collegiata di Santa Maria diventa cattedrale. 1653 (15 luglio) La sede della cattedrale viene trasferita nella chiesa di San Francesco già dei Francescani Conventuali. 1810-1817 La Basilica di San Nicola è sede “provvisoria” della cattedrale. 1817 (28 luglio) La chiesa di San Catervo diventa la sede della terza cattedrale di Tolentino. 1818-1829 Fabbrica della cattedrale nella chiesa di San Catervo su progetto di F. Spada. 1829 (6 settembre) Consacrazione della nuova cattedrale nella chiesa di San Catervo. 1926 (26 maggio) Prima divisione della parrocchia della cattedrale con la costituzione di due nuove parrocchie. 1950-1954 Restauri e nuova parziale sistemazione strutturale della cattedrale. 1954 Congresso eucaristico diocesano. 1970 Creazione della zona pastorale “Giovanni XXIII” nell’ambito della parrocchia della cattedrale. 1986 (18 maggio) Nuova divisione della parrocchia della cattedrale con l’istituzione della nuova parrocchia dello Spirito Santo. 1986 (30 settembre) La cattedrale in San Catervo assume il ruolo di concattedrale. 1990-1993 Campagna di scavi a cura della cattedra di Archeologia dell’Università degli Studi di Macerata nell’area dove era situato il mausoleo di San Catervo. 1992 Va ricognizione canonica del sarcofago di San Catervo da parte del vescovo Francesco Tarcisio Carboni. 2000-2008 Lavori di consolidamento della chiesa concattedrale danneggiata dal sisma del 1997-1998. 1997-1998 Restauro generale delle pitture, decorazioni; della cappella antistante il sarcofago di San Catervo; rifacimento di impianti elettrico, amplificazione, organo, struttura campanaria. TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO 99 DAL PANTEUM CUM TRICORO ALLA FACCIATA NEOCLASSICA DI FILIPPO SPADA: LA CHIESA DI SAN CATERVO A TOLENTINO Stefano D’Amico Il panteum cum tricoro La cattedrale di San Catervo sorge ai margini dell’antica città romana di Tolentinum in una zona che a quel tempo era a destinazione funeraria.1 Qui alla fine del IV secolo, Settimia Severina, moglie dell’ ex prefetto del pretorio Flavius Iulius Catervius, fece seppellire il marito in un sarcofago collocato all’interno di un panteum cum tricoro – un edificio cupolato a pianta circolare con tre absidi - che probabilmente lo stesso Catervo aveva fatto costruire come mausoleo di famiglia.2 La tradizione, non supportata da fonti attendibili, ritenendo che il santo fosse vissuto nel I secolo, lo indicò come colui che portò per primo il cristianesimo a Tolentino. Gli storici sono invece concordi nel posticipare di tre secoli le vicende dell’ex prefetto romano, quando il cristianesimo probabilmente era già arrivato a Tolentino ed è attestata la presenza di un vescovo di nome Basilio (487 e il 502).3 La diocesi di Tolentinum – come quella di Cingulum e di altri centri del Piceno – scomparve con le guerre gotiche e le invasioni longobarde e il suo territorio fu annesso alla diocesi di Camerino. Nel 1586 Tolentino riavrà il titolo di diocesi, seppure unita a quella di Macerata, e la pieve di Santa Maria – oggi chiesa di Santa Maria Nuova – sarà elevata a cattedrale.4 Dell’antico panteum cum tricoro ricordato nell’iscrizione del sarcofago restano solo poche fonti documentarie e alcuni tratti di muro conservati tra la base del campanile e il locale detto carcere di San Pianta del panteum, fine XIX secolo, in Gabrielli 1961 Catervo. Le prime sommarie e indirette notizie dell’edificio sono contenute in una passio S. Catervi, stilata da un anonimo redattore non prima del XIII,5 nel verbale della ricognizione del sarcofago del 17 ottobre 15676 e nella Storia di Camerino di Camillo Lilii7 del 1649. Le informazioni più dettagliate sul mausoleo le abbiamo invece da un manoscritto del 1727 e da un Inventario del 10 giugno 1729, redatti, rispettivamente, dal canonico della cattedrale don Nicola Gualtieri8 e dall’abate don Giovanni Battista Loreto9 che lo videro ancora sostan- zialmente integro seppur circondato da un monastero e da una chiesa di origine benedettina che nel tempo si erano notevolmente ampliati. Dai manoscritti si deduce che era formato da una “Cappella grande” rotonda, detta “Panteone” o “Cappellone”, coperta con una volta originariamente rivestita di mosaici, e da tre “Cappellette”, una di faccia all’entrata, una “a man destra” e l’altra “a man sinistra”. L’arca di San Catervo era collocata al centro dell’aula, sollevata su quattro leoni in pietra, probabili resti del protiro della chiesa medioevale, affinché “dalli 100 Stefano D’Amico Sezione del panteum ricostruita dopo gli scavi del 1989-1993, in Il mausoleo e il sarcofago1996 Devoti si potesse passare sotto quella per liberarsi dalli mali et infermità loro”. Nel nicchione nord vi era l’altare dedicato al santo e qui si conservavano un reliquiario in argento con la testa del santo e una teca d’argento e cristallo a forma di calice con il sangue del martire. Il mausoleo comunicava a nord con un ambiente posto tra le absidi nord ed ovest, denominato carcere (foto nn. …) dove, secondo la tradizione, il santo avrebbe subito il martirio10, ma che in realtà è una costruzione di epoca posteriore, edificata sopra una tomba preesistente in un periodo non facile da determinare e comunque prima della metà del XIV secolo quando assunse la funzione di sacrestia o comunque di luogo legato al culto del vicino mausoleo.11 Gli ultimi a vederlo e a descriverlo furono i membri della commissione istituita dal vescovo Vincenzo Maria Strambi (18011823) che il 3 agosto 1822 eseguirono una nuova ricognizione dell’interno del sarcofago, prima di trasferirlo nell’attuale cappella di San Catervo e dare inizio ai lavori di ristrutturazione della chiesa con la perdita quasi totale del panteum. Si salvò, infatti, solo una parte dell’abside nord che, sebbene “alquanto modificata per uso di Battistero”, era ancora visibile nel 1882 quando fu descritta da don Nicola Nerpiti, mansionario della cattedrale.12 Nel 1954, improvvidi lavori per mettere in comunicazione l’ingresso posteriore della chiesa con gli uffici parrocchiali, cancellarono la parete di fondo di questa struttura lasciando solo i due muri laterali dove di recente sono venuti alla luce i resti di un affresco con Le Vergini sagge.13 Non fu, quindi, l’ingiuria del tempo o l’incuria dell’uomo la causa della distruzione di questa preziosa testimonianza, quanto invece, per uno strano paradosso della storia, propria la fama di santità che circondò sempre la tomba di San Catervo e le necessità legate al culto che richiedevano l’adeguamento continuo degli spazi. Non sono giunti fino a noi rilievi o disegni del panteum, neanche quelli che fece l’architetto Filippo Spada nel 1822 prima di iniziare i lavori di ristrutturazione della chiesa, o la pianta che, tra il 1885 e la fine del secolo, fu redatta probabilmente dal Nerpiti traendola dall’originale dello Spada o, viste le imprecisioni che contiene, rifatta ‘a memoria’. Fortunatamente quest’ultima fu più volte copiata e pubblicata a partire dal 1958,14 ma solo al termine della campagna di scavi condotta dal 1989 al 1993, Aldo Nestori ha potuto ricostruire con più precisione la pianta e la sezione del mausoleo confermandone l’eccezionalità architettonica. Con il suo naos circolare coperto con una cupola si rifaceva direttamente al Pantheon di Agrippa a Roma, l’edificio forse più significativo della classicità romana, anche se è impossibile dire se avesse, come quest’ultimo, un pronao e l’oculo in sommità.15 Il diametro e l’altezza esterna dell’aula erano di 10,65 metri con un diametro interno di 8,90 metri; la larghezza da nord a sud era di 17,30 metri, mentre la profondità esterna da ovest ad est era di 15,90 metri e basti considerare, tanto per avere un termine di paragone, che la chiesa di San Giusto a San Maroto di Pievebovigliana, databile tra l’XI-XII secolo e chiaramente ispirata al panteum di Tolentino, è leggermente più piccola. La chiesa e il convento di Santa Maria La fama di santità di Catervo “avrebbe richiamato intorno alla sua tomba le tombe di altri cristiani”16 e Arnaldo Manlio Osmani ha ipotizzato che nei pressi del mausoleo “i cristiani del IV-V secolo erigessero una prima Edicola”17 intono alla quale i benedettini, giunti a Tolentino nell’VIII-IX secolo costruirono una cella “attratti dai simboli cristiani apposti nei sarcofagi e ben determinati ad individuare in essi non soltanto il segnale di una precoce cristianizzazione di quelle contrade quanto piuttosto la prova di un’origine miracolosa di tale evangelizzazione il cui strumento non poteva che essere un santo”.18 Nei documenti dell’XI seco- TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO Base del campanile inglobata nella navata laterale destra lo la cella e denominata di S. Salvatore in vocabulo S. Mariae in quanto dipendente dall’Abbazia di San Salvatore Maggiore presso Longone Sabino in provincia di Rieti,19 ma già alla fine del XII secolo il monastero e la chiesa saranno dedicati a Santa Maria e a San Catervo finché, nel secolo successivo, resterà solo il secondo titolo segnando il definitivo distacco dai benedettini di Longone che nel 1166 avevano ceduto i diritti sul monastero ai Marchesi della Marca anconitana.20 Di questa chiesa, come già detto, restano solo alcuni elementi del protiro: la lu- 101 netta a rilievo con Cristo tra gli arcangeli Michele e Gabriele e i santi Pietro e Paolo, ora conservata nel corridoio dell’ingresso posteriore,e i quattro leoni stilofori che sorreggono l’arca di San Catervo.21 Loretta Mozzoni ritiene che, già dal 1099, intorno a questo primitivo insediamento monastico cominciasse a sorgere una fortificazione, della quale resterebbe traccia nel campanile “la cui struttura di base risale proprio a quel periodo, chiamata a forse a due diverse funzioni: campanaria e di avvistamento”.22 (foto n. …) Nel 1256 i monaci chiesero ad Alessandro IV “l’autorizzazione a raccogliere offerte in varie città della Marca per potere restaurare la loro chiesa ormai cadente perché molto antica”. I lavori iniziarono intorno al 127023 e portarono ad un organismo forse a navata unica, correttamente orientato con l’abside ad est, ma senza la tradizionale facciata principale sul fronte opposto alla quale si rinunciò per salvaguardare il panteum che venne a trovarsi in asse con la navata, tra la cappella della Madonna della Pace - poi dedicata alla SS. Trinità e oggi a San Catervo - e la torre campanaria. L’ingresso principale, segnato con un portale strombato ad anelli, (foto n. …) fu aperto sul lato sud e sulla base in pietra dell’antica torre fu innalzato un campanile in muratura con marcapiani a dentelli mentre la navata e la cappella della Madonna probabilmente erano coperte con travi di legno.24 Nei secoli successivi la chiesa fu dotata di un coro ligneo, rimosso e smembrato nel 1825, parzialmente intagliato e intarsiato da Giovanni di Dravia nel 147225 e nel 1433 vi fu sepolto il duca di Camerino Bernardo Varano la cui pietra tombale è stata rinvenuta durante i lavori di ristrutturazione del 1953-54. I benedettini restarono a San Catervo fino al 1490, poi il monastero e la chiesa passarono in commenda a Giovanni Battista Rutiloni che “rinovò quasi tutta la 102 Stefano D’Amico Pianta della chiesa quattrocentesca, fine XIX secolo, in Arte medievale benedettina ante 1990 Portale laterale, XIII secolo Chiesa (…) e li fece la volta reale di mattoni doppij e la ridusse alla forma di tre Navate”,26 mentre, su commissione della Confraternita di San Catervo, il pittore Marchisiano di Giorgio da Tolentino nel 1502 affrescò la cappella della Madonna della Pace anch’essa ricostruita, insieme a quella del battistero, ed entrambe coperte con una crociera costolonata.27 Il complesso fu poi consegnato a papa Giulio II che nel 1507 lo cedette, insieme a tutti i beni, ai Canonici Regolari Lateranensi erigendovi nel 1509 la prepositura e la parrocchia.28 Gli inventari e le descrizioni di cui abbiamo detto ci danno altre indicazioni sui lavori effettuati e sullo stato di fatto all’inizio del XVIII secolo: in particolare sappiamo che nell’anno giubilare 1700 l’abate Ascanio Benadduci fece sistemare la cupola del panteum, illuminandola “con finestre a proporzione” e decorandola con stucchi e una Gloria celeste affrescata da Pasqualino Marini da Recanati;29 spostò il sarcofago nell’abside ovest; commissionò una Santa Maria Maddale- si risolvesse il problema dell’umidità di tutta la struttura.30 Tale esigenza, insieme a quella ben più rilevante di avere una sede episcopale “maestosa e decorata”31, decretò la fine dell’antico complesso romanico e del mausoleo paleocristiano. Il 28 giugno 1817 i canonici si sistemarono “alla meglio” nella chiesa di San Catervo e i lavori di bonifica iniziarono - secondo quanto attestano le lapidi poste sul prospetto principale e sopra l’ingresso secondario32 - nel 1820, anche se l’incarico all’architetto-pittore Giuseppe Lucatelli (1751-1828) sembra sia stato affidato solamente nel 1821. Non avendo a disposizione disegni e/o dettagliate relazioni è difficile dire quale fosse la sua idea. Secondo l’Osmani33 lo “scempio” che ne seguì con la demolizione del panteum non è imputabile al Lucatelli perché “il suo progetto, che nel complesso sarebbe stato grandioso e degno di una grande città, fu guastato per economia e ridotto dal maceratese conte Filippo Spada” e continua affermando che “lo scempio fu completo perché si spostò la cripta (in- na per la cappella del Santissimo Crocifisso e fece ornare con stucchi la cappella di San Biagio. La lunetta altomedievale con il bassorilievo di cui si è detto sopra e una lapide con l’iscrizione Anno ab Incarnazione Dni MCCLXX Tempore Reverendi Iacobi Praepositi erano poste all’esterno, sopra il portale principale. Tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo anche i canonici lateranensi, “oberati di passività”, lasciarono Tolentino e per il complesso di San Catervo, già in grave stato di conservazione, iniziava una nuova fase. La cattedrale di San Catervo Dopo la parentesi napoleonica (aprile 1808 - luglio 1815), ripristinato il governo pontificio anche a Tolentino, il vescovo Vincenzo Maria Strambi decise di trasferire la sede vescovile dalla chiesa di San Francesco a quella di San Catervo, ma il Capitolo della cattedrale, prima di accettare il trasferimento, documentò con certificato medico “l’insalubrità dell’edificio, causa di danni per la salute” e chiese che TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO 103 Cappella del battistero Veduta da ovest tende l’abside n.d.a.) che anteriormente era là dove è ora la tozza facciata”. Filippo Spada (1769-1852), preferito anche ad Ireneo Aleandri (1795-1885),34 subentrò nell’incarico nel mese di aprile del 1822,35 forse “a causa di macchinazioni e intrighi”36 che gettarono il Lucatelli in un grave stato di prostazione, e il 20 del mese successivo presentò il Piano di esecuzione e un disegno in cui espresse “con la diversità di colori l’eseguito Fabbricato e ciò che da me si prospettava”.37 Il disegno è disperso, ma fu certamente lui ad elevare l’imponente e scenografica faccia- ta rivolta verso la nuova strada di accesso alla città che ora arrivava direttamente davanti alla cattedrale. La demolizione del panteum, per far spazio al presbiterio, pensato dallo Spada altrettanto imponente ed esteso fino alla quinta campata, a questo punto era inevitabile, mentre si mantennero le due absidi laterali, probabilmente impostate dal Lucatelli, utilizzate come una specie di transetto. I lavori furono appaltati il 16 maggio 1825 - quando “la Cappella del Santo” era già stata demolita - al capomastro Patrizio De Mattia, “del fu Francesco” (colui che aveva già costruito il duomo di Treia), il quale si impegnò a seguire “in tutto e per tutto” il “disegno già approntato dal Sig.r Conte Spada”.38 Il progetto originario prevedeva l’uso del più economico ordine dorico, ma – scrive l’architetto maceratese – “la Cong.ne ed i Cittadini di Tolentino desiderevoli, per lustro della loro patria, mi invitarono a produrre altro progetto, che fu da me esibito, fregiato, ed ornato col grandioso ordine Composito”, il quale, essendo più 104 Stefano D’Amico Abside laterale snello dell’altro, rese “necessario elevare i muri della maggior navata a quell’altezza che richiedeva il suindicato ordine”.39 Questa variazione sarà causa di un contenzioso con Filippo De Mattia, erede di Patrizio, che ritarderà il collaudo dell’opera, ma non la fine dei lavori che anzi furono ultimati con un certo anticipo sul previsto, e il 6 settembre 1829 il vescovo Francesco Ansaldo Teloni (1824-1846) poteva consacrare la nuova cattedrale priva di tutta la decorazione interna. Poco dopo la fine dei lavori, a causa lo spessore troppo sottile delle murature, si manifestarono alcune lesioni a livello del timpano e del cornicione della facciata e i deputati della fabbrica chiesero all’architetto Ireneo Aleandri un parere su un progetto di restauro che prevedeva una nuova facciata. L’Aleandri, il 10 marzo 1841, sconsigliò, saggiamente, l’intervento e “sommessamente” propose di “conservare identicamente il Disegno dell’attuale facciata” e di procedere alla ricostruzione del cornicione e del timpano con “proporzionata grossezza”.40 Alla cattedrale di Tolentino mancava tuttavia una cappella cupolata, già realizzata a Recanati e a Treia e solo progettata a Macerata, che doveva collegare la nuova chiesa con la preesistente cappella di San Catervo. Il progetto fu affidato nel 1884 al pittore-architetto Luigi Fontana (1827–1908) che su una classica pianta quadrata, impostò un tiburio ottagonale con quattro oculi coperto con una cupola intradossata a padiglione. I lavori comportarono lo spostamento verso est e l’arretramento del portale romanico e la creazione di un’intercapedine per eliminare lo sfalsamento del muro perimetrale tra il corpo di fabbrica superstite e la nuova chiesa. I lavori interessarono anche il chiostro cinquecentesco del convento che fu tagliato con un corridoio per collegare l’ala nord con la base della torre campanaria, mettendo in comunicazione diretta la chiesa con la sacrestia e salvando, per il momento, gli ultimi resti del mausoleo. Anche i disegni del Fontana sono dispersi e nell’Archivio diocesano di Tolentino si conservano solo cinque tavole, di cui una firmata dall’architetto Antonio Massi, relative alla costruzione del Seminario vescovile (1889).41 Nel frattempo si mise mano alla decorazione interna della chiesa impegnando per decenni vari artisti locali come lo stuccatore e scagliolista Villibaldo Natali di Montelupone, il pittore-ornatista Antonio Morettini, i doratori Giambattista Savorelli di Fermo e Canzio Canzi di Foligno, i pittori Girolamo Capoferri e Alessandro Pagliari di Tolentino, l’ornatista Nicola Achillini e l’intagliatore Alessandro Callisti di Montegiorgio.42 Gli ultimi interventi Il XX secolo si aprì con l’indizione TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO dell’Anno Santo, un’occasione favorevole per completare i lavori iniziati circa un secolo prima, con un pavimento in marmo, l’abbellimento di due cappelle con mosaici e marmi, il restauro dell’arco del presbiterio e delle scale esterne, il rivestimento delle pareti in finto marmo per opera di Mario Adami di Roma e soprattutto la decorazione pittorica dell’aula, affidata al tolentinate Francesco Ferranti (1873-1951) e realizzata nel biennio 1914-1916.43 Gli ultimi interventi risalgono al 1953-54 quando, in occasione del Congresso eucaristico diocesano del 13-19 settembre 1954, si cercò di risolvere l’annoso problema dell’umidità che, tra l’altro, stava interessando anche gli affreschi quattrocenteschi della cappella di San Catervo. I lavori finirono per interessare nuovamente l’impianto planimetrico della chiesa con l’arretramento del presbiterio attraverso l’apertura delle arcate laterali della quinta campata, l’abbassamento del livello del presbiterio, l’apertura degli archi di fondo delle navate laterali – che permise di scoprire la base della torre campanaria - la sopraelevazione delle due volte laterali, l’apertura di un finestrone ed infine la realizzazione di un nuovo corridoio per mettere in comunicazione l’ingresso con i locali parrocchiali senza passare dalla chiesa, il quale, girando tra il carcere e la torre campanaria, distrusse per sempre la parete di fondo dell’unica cappella superstite del panteum. Le vicende del mausoleo paleocristiano e della chiesa romanica di San Catervo – ma anche della collegiata duecentesca di Treia o delle cattedrali gotiche di Macerata e di Recanati – pongono una questione fondamentale nella storia dell’architettura obbligandoci a domandarci come sia stato possibile, nei secoli passati, e per certi versi ancora fino alla prima metà del XX secolo, demolire edifici che oggi conserveremmo con la 105 Navata centrale massima cura in quanto testimonianza non solo artistica ma anche e soprattutto storico-documentaria. La sostituzione di ‘vecchi’ edifici con strutture più moderne è stata sempre una pratica considerata normale in tutte le culture, ma questa attività sembro quasi ‘programmatica’ nella Chiesa cattolica a partire dal XV secolo. Il precedente più illustre, e che per certi versi legittimò i successivi, fu la demolizione, all’inizio del Cinquecento, della basilica costantiniana di San Pietro che avvenne non per mano di ‘barbari’ invasori, ma per consapevole e ponderata decisione di colti e raffinati umanisti al vertice delle istituzioni politiche e culturali del tempo, quale papa Giulio II della Rovere e Donato Bramante. Fra le tante possibili motivazioni, vorrei qui riprendere quella formulata fin dal 1965 dallo storico inglese Peter Murray, secondo il quale la demolizione di San Pietro sa- 106 rebbe da inserire nel contesto più sacro della cosiddetta instauratio, un termine che “designava tecnicamente l’obbligo che l’officiante ripetesse dall’inizio un sacrificio non condotto correttamente”, quindi la necessità non tanto di distruggere, ma di “ricreare da capo la basilica di San Pietro” che, per vari motivi, non era ‘riuscita bene’. Questa idea del rinnovo e della rinascita era anche “il simbolo del primato di Pietro e dell’antichità della Chiesa Romana”44 che il papato, dopo l’esilio avignonese, voleva riaffermare riallacciandosi direttamente all’autorità dell’antica Roma di cui si sentiva erede legittimo. Poste queste premesse, per l’architettura ne derivava l’obbligo di esprimere tale “ricreazione” nelle forme del più puro e monumentale classicismo romano, riprendendo dal vero, direttamente dalle rovine degli antichi edifici, i modelli da utilizzare: archi a tutto sesto, ordini architettonici, volte a botte cassettonate e cupole estradossate che da quel momento saranno il bagaglio formale degli architetti e in particolare di quelli della seconda metà del XVIII secolo. Su questa linea si muovono ancora gli architetti impegnati a Tolentino nella ricostruzione di San Catervo all’inizio del XIX secolo: Giuseppe Lucatelli, Filippo Spada e Luigi Fontana sono in fondo gli eredi diretti del neocinquecentista Cosimo Morelli e del più classico Andrea Vici, che furono punti di riferimento della cultura architettonica marchigiana tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. La loro produzione, certamente inferiore per importanza e qualità a quella del coetaneo Giuseppe Valadier (1762-1839) o del più giovane Ireneo Aleandri, fu l’ultima stagione del classicismo di origine rinascimentale prima della nuova era dell’eclettismo di matrice storicista e romantica. Giuseppe Lucatelli,45 un pittore formato nella bottega di Tommasoconca, allievo ed amico Stefano D’Amico Cupola all’intersezione della navata centrale con il transetto, Filippo Spada, 1822 Cupola della cappella di San Catervo, Luigi Fontana, 1884 di Anton Raphael Mengs, il padre del neoclassicismo, anche in ambito architettonico si muoverà tra la grande tradizione rinascimentale – toccando il vertice nel progetto di Villa Collio a San Severino Marche (1812-1825) disegnata sui moduli palladiani della Rotonda di Vicenza – e le forme austere e lineari, epurate da ogni eccesso decorativo, del più aggiornato Purismo come nel prospetto del TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO 107 Facciata principale, Filippo Spada, 1822 teatro di Tolentino (1788-1795). Il suo intervento nella chiesa di San Catervo sembra limitato alla scelta delle due absidi laterali, troppo poco per esprimere un giudizio. Filippo Spada46 invece nella facciata di San Catervo, elevata come un grande pronao tetrastilo in versione tuscanica a colonne binate su un piedistallo, sembra fatalmente attratto dai modelli del neoclassicismo internazionale che guardava al mondo greco, più che a quello romano, riproponendone gli stili senza mediazioni, quali modelli ideali e astratti, incapaci di comunicare emozioni e sentimenti. Più riuscito sem- bra invece l’interno della cattedrale perché, non distaccandosi dalla tradizione, riuscì ad ottenere, malgrado la successiva sovrapposizione di una decorazione di gusto eclettico, una pacata e armoniosa solennità, espressione – direbbe Fabio Mariano – di “conoscenza ordinatrice e di certezza edificatoria” tipica del rinascimento. Diverso è lo spirito con il quale Luigi Fontana,47 quasi alla fine del secolo, affronta il tema della cappella. Già allievo del pittore Tommaso Minardi, massimo esponente della corrente purista, il Fontana si allontanerà dallo stile del maestro “preferendo la verità all’idea- lizzazione”48 con innesti di tipo eclettico e nella cappella della cattedrale di San Catervo sembra già approdato a quella fase finale che Marisa Calisti ha definito neobarocca. Un fastoso apparato decorativo, esaltato dalla luce che cala copiosa dall’alto e realizzato sfruttando al meglio tutte le tecniche e i materiali artistici, riveste le superfici della cappella, mentre nicchie con statue in gesso ricavate nei pilastri d’angolo, nei pennacchi di raccordo tra la pianta e il tamburo e nelle pareti angolari del tamburo, contribuiscono alla fusione, sempre ricercata dagli artisti barocchi, delle tre arti. 108 Cappella di San Catervo, Luigi Fontana, 1884 Stefano D’Amico TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO 109 NOTE Per la storia di Tolentino vedere i testi di Santini e Colucci, pubblicati tra il 1789 e il 1793; una serie di articoli di Osmani ne L’informatore cittadino edito a Tolentino dal 1951 al 1965; la Storia di Tolentino di Cecchi del 1975 e soprattutto gli studi di Diotallevi, Semmoloni e Nestori che via via saranno indicati. 2 Casadidio 1967. Nestori 1996a. Semmoloni 2007a. 3 Nestori 1996a p. 1. 4 Per la storia della diocesi vedere il saggio di Egidio Pietrella in questo volume. 5 Delehaye 1943 p. 26. Casadidio 1967 p. 19. Nestori 1996a p. 3. 6 Nestori 1996c pp. 101-113. 7 Lilii 1649 p. 85. 8 Semmoloni 1990 pp. 153-154, 162-163. Manoscritto C di Nicola Gualtieri, capitoli: Vita e Martirio di S. Catervo Martire, Protettore di Tolentino e Altre memorie notabili nella Chiesa di S. Catervo in Tolentino. Vedere anche Nestori 1996a pp. 9-16 e Semmoloni 2007a pp. 37-38. 9 Nestori 1996a p. 5 e Semmoloni 2007a pp. 37-38. Giovanni Battista Loreto era abate del monastero di San Catervo. Il manoscritto, già conservato nell’Archivio diocesano, non è più reperibile. 10 Più specificatamente sulla pietra che funge da mensa dell’altare. 11 Nestori 1996b p. 75. Simoni 2007 p. 92. Il terminus ad quem e fissato dalle tracce di affreschi presenti sulle pareti e collocabili “nella produzione locale trecentesca gravitante attorno al cantiere di San Nicola”. Secondo Semmoloni 2007a p. 66 il locale sarebbe stato un tutt’uno con il cosiddetto “anticarcere” che successivamente fu diviso in due vani non comunicanti e poi di nuovo collegati con l’apertura di un varco. 12 ASDT, Commentario dei Santi Beati, e Venerabili che illustrano la Città di Tolentino e la Chiesa Cattolica con la spiegazione dè monumenti un cenno del culto e varie preghiere ai principali di essi a S. Catervo Protettore S. Basso e S. Settimia suoi compagni a S. Nicola e S. Tommaso Compatrioti che si venerano in detta città, 1882. Il Nerpiti, a pochi anni di distanza, ora condanna la “deplorevole” devastazione del “Panteo”. Nestori 1996a p. 9. Semmoloni 2007a p. 39. 13 Casadidio 1995 p. 18. Semmoloni 2007a, p. 38. 14 Testini 1958 p. 89. Gabrielli 1961 fig. 51. Casadidio 1967 p. 21. Mozzoni, Montironi s.d. ante1990 p. 130. La prima copia, di autore ignoto, è del 1926; la seconda è datata 1934 e si deve al canonico della cattedrale E. Pierangeli; la terza, su carta lucida, è più recente. Paoloni 1996a p. 24. 15 Il Pantheon romano non ha absidi laterali, ma ambienti centralizzati absidati costituiscono una tipologia specifica dell’architettura curvilinea romana. 16 Semmoloni 2007a p. 44. Due furono rinvenute nel 1953-54 nel locale detto “anticarceri”. Altre sepolture vennero alla luce durante gli scavi del 1988-93 nel locale detto “carceri”. 17 Osmani 1954, p. 4. 18 Mozzoni, Montironi s.d. ante 1990 pp. 131-132. Altri autori, senza riscontri documentari, anticipano l’arrivo dei benedettini al 599. 19 Alcuni autori fanno giustamente notare che se i benedettini si insediarono presso la tomba del santo vuol dire che il suo culto era già consolidato a Tolentino. 20 Santini 1789 p. 94, Cecchi 1975 pp. 63-64,77-79, Tolentino. Guida all’arte 1988 p. 62 Mocchegiani 2007 p. 221. I riferimenti sono contenuti in pergamene dell’XI secolo dell’archivio monastico di San Catervo, conservato in San Pietro in Vincoli a Roma. Nel 1255 papa Onorio III conferma tutti i beni goduti dal monastero di San Catervo senza citare più la chiesa madre. 21 Osmani 1953 p. 5 dice che “durante i lavori di sistemazione del nostro Duomo sono stati rinvenuti nel sottosuolo i resti di un altare in pietra comprendenti molte colonnine, basi e capitelli che possono ascriversi al X-XI secolo” che furono riutilizzate per l’altare della cappella di San Catervo. 22 Mozzoni, Montironi s.d. ante 1990 p. 132. 23 Tolentino. Guida all’arte 1988 p. 62, Semmoloni 1990 p. 164. All’inizio del XVIII secolo, a sinistra del portale principale sulla facciata sud, era visibile una lapide a ricordo dei lavori che Nicola Gualtieri fece in tempo a ricopiare prima che 1 venisse rimossa. Il Consiglio comunale del 9 giugno 1272 non si tenne, come al solito, nella chiesa di San Catervo, ma in quella di San Giacomo, probabilmente perché inagibile causa i lavori di ristrutturazione-costruzione. Casadidio 2007 p. 143, Mocchegiani 2007 p. 225. 24 Il non allineamento della torre ai muri della chiesa confermerebbe la sua preesistenza. 25 Servanzi Collio 1850 p. 11, Semmoloni 1990 p. 164. L’iscrizione era uguale a quella contenuta in alcuni sigilli comunali “Alme Tolentinum Populum difende Caterve” poi seguiva la firma e la data: “Joannes Oravia finivit 1427”. Quando nel 1825 fu rimosso e smembrato, il conte Severino Servanzi Collio di San Severino ne acquistò alcune tavole, mentre di altre fece dei disegni. 26 Semmoloni 1990 p. 164. Stemmi in pietra con le lettere I.B.R. (Ioannes Baptista Rutilonus) – dice Nicola Gualtieri - furono posti “sopra la Volta grande e sopra le Cappelle nella Navata”. Le colonne in laterizio sono attualmente inglobate nei pilastri. Durante i lavori del 1953-54 fu scoperta una colonna circolare la cui foto è pubblicata in semmoloni 2007b p. 101. La pianta del 1934, copiata da un originale di fine Ottocento, indicava una successione di pilastri circolari, esagonali, ottagonali e criciformi. Mozzoni, Montironi s.d. ante 1990 p. 130. 27 Semmoloni 2007b pp. 108-109. 28 Pietrella 2007 p. 149. 29 Semmoloni 1990 pp. 153, 163. Frammenti della Gloria, che recava una “memoria” dell’abbate, sono ancora visibili in un ripostiglio del primo piano dell’episcopio. 30 Pietrella 2007 p. 149. 31 ASDT, Chiesa cattedrale, busta 42, Lettera di Filippo Spada del 7 giugno 1843. 32 La prima iscrizione dice: TEMPLUM ANTIQUITATIS GLORIA SPECTANDUM UBI / SODALES ORD. S. BENEDICTI AC DEIN CANONICI LATER. / DEI LAUDES CECINERE – AD DIGNITATEM ECCLESIAE / CATHEDRALIS EVECTUM – IN PRAES. STRUCTURAE / FORMAM RESTITUTUM EST – CURA EPP. B. VINCENTII / MARIAE STRAMBI ET FRANCISCI ANSALDO TELONI/ MDCCCXX – MDCCCXXVIII. La seconda dice: TEMPLUM / GABRIELIS BEZZI CANONICI THEOLOGI / ET / DOMINICI PACE / TAM COLLIGENDIS/ QUAM OPERI DIRIGENDO PRAEFECTORUM / SOLLICITUDINE PERFECTUM / FRANCISCUS ANSALDUS TELONI / EPISCOPUS MACERATAE ET TOLENTINI / POSTRIDIE NONAS SEPTEMBRIS ANN. MDCCCXXIX / ULTIMA DOMINICA AUGUSTI / QUOTANNIS RECOLENDO / SOLEMNI RITU DEDICAVIT. 33 OSMANI 1953 p. 5. 34 Cristini 2004 p. 171. Una lettera del canonico Bezzi del 30 settembre 1839 si conserva in BCM, Archivio Aleandri, ms. LII, c.16. 35 ASDT, Chiesa cattedrale, busta 42, Lettera di Filippo Spada del 7 giugno 1843. 36 Settembri 2001 p. 15. 37 Nestori 1996a p. 7. 38 ASDT, Chiesa cattedrale, busta 42, contratto di appalto del 16 maggio 1825. 39 ASDT, Chiesa cattedrale, busta 42, lettera di Filippo Spada del 7 giugno 1843. 40 ASDT, Chiesa cattedrale, busta 42, relazione di Ireneo Aleandri del 10 marzo 1841. 41 Semmoloni 2007a pp. 60-63. 42 Casadidio 2007 pp. 138-140. 43 Pietrella 2007 pp. 156, 184, 213, 216 e le lapidi sulle pareti di fondo. Casadidio 2007 pp. 131-137. 44 Murray 1971 p. 154. Il Rinascimento fu supportato letterariamente da numerose descriptio urbis Romae che, rievocando nostalgicamente la gloria di un tempo passato con la speranza di rinnovare quella grandezza, diffondevano l’ideale della romanitas e del senso della continuità ininterrotta tra la Roma antica e quella cristiana. 110 Settembri 2001. Giuseppe Lucatelli 1929. Mariano 2004a pp. 23,31. Quando concluse gli studi a Roma si stabilì a Tolentino, la città paterna, iniziando un’intensa attività di pittore, architetto e docente nelle scuole locali. Progettò edifici a Fermo (ristrutturazione del teatro dell’Aquila, 1795-1797), a Treia (collaborò con Carlo Rusca, al quale poi subentrò, nei lavori per il teatro Condominiale, 17921811), a San Severino Marche (cappella di palazzo Collio, 1808; chiesa di Santa Chiara, 1815 c.; Monte di Pietà, 1817 e probabilmente il primo disegno per la chiesa di San Michele) a Mogliano (chiesa del SS. Crocifisso, 1811); a Colmurano (chiesa di San Donato, 1815-1821), a Porto San Giorgio (facciata del teatro Comunale, 1811-1817) e a Tolentino (teatro Nicola Vaccaj, 1788-1795; chiesa di San Nicolò, 1786; chiesa di Santa Croce e Porta marina, 1812). Morì a Tolentino il 4 settembre 1828 e i suoi resti furono trasferiti nella cattedrale nel 1951. 46 Mozzoni 1984 pp. 217-218. Paci 1989 pp. 152, 153. Mariano 2004b p. 185. Montironi 2009 p. 226. Alla fine del XVIII secolo si trasferì a Macerata dove insegnò disegno nel regio Liceo avendo come allievo, nell’anno scolastico 18131814, il giovane Ireneo Aleandri. Pittore, musicista, collezionista, accademico clementino e georgico, subentrò a Carlo Rusca e a Giuseppe nei lavori del teatro Condominiale di Treia, progettandone l’atrio e probabilmente la facciata A Macerata presentò un disegno per Porta Mercato (1815) impostato con un ordine gigante di colonne tuscaniche che ritroveremo a Tolentino; invitato a presentare un progetto per lo Sferisterio, risultò il meno criticato dalle commissioni giudicatrici; un suo disegno per casa Carnevali in via Crescimbeni (1825) sarà modificato in fase esecutiva. È sepolto nella chiesa dei Cappuccini (ora dell’Ospedale civile) e sulla lapide si legge: FILIPPO DEI CONTI SPADA / RELIGIOSO INTEGRO LIMOSINIERO / IN SEVERA GRAVITA’ DI COSTVMI / SOAVISSIMO D’INDOLE DI ASPETTO DI MODI / CVLTORE DELLA MVSICA / NELLA PITTVRA E ARCHITETTURA / OPERATORE ASSIDVO / E NEL 45 PVBB. ATENEO E NEL PRIV. STVDIO / PRECETTORE LODATISSIMO / QVI PRESSO ALLA IMMAGINE / DI NOSTRA SIGNORA / CONSOLATRICE DEGLI AFFLITTI / DA LVI STESSO DIPINTA E DONATA / VOLLE ESSERE SEPOLTO / MANCO’ AL DESIDERIO DEI BVONI / E ALL’AMORE / DELLA VED. COSTANZA CONVENTATI / DELLE FIGLIVOLE DOLENTISSIME / ARTEMISIA GVLIA MARIA-AVGVSTA / E DEI GENERI QVASI FIGLI / CELESTINO SALVATORI GIOVANNI VRBANI / FRANCESCO MARCVCCI / IL DI X. FEBBR. MDCCCLII./FVRONO GLI ANNI SVOI OTTANTATRE / LE SVE VIRTV’ SENZA NUMERO. 47 Cicconi 1928. Papetti 2004a p. 13. Luigi Fontana 2004. Calisti 2004b p. 52. Erede di una famiglia di architetti-muratori di origine svizzera venuta nelle Marche alla fine del XVIII secolo. Agli studi di architettura preferì quelli di pittura, frequentò l’Accademia di San Luca e lo studio del pittore Tommaso Minardi. Accademico di San Luca e socio della Pontificia Congregazione dei Virtuosi al Pantheon fu essenzialmente un pittore e uno scultore, un protagonista assoluto della pittura marchigiana, e non solo, della seconda metà del secolo, ma non rifiutò incarichi di architettura come la ristrutturazione e il restauro delle chiesa di San Domenico a Fermo (1846), della cappella Colonna nella basilica dei Santi Apostoli a Roma (1877), delle cattedrali di Sutri (1882), Montefiascone (1889) e Montalto delle Marche (1894), della chiesa del Rosario a Grottazzolina (1894); il progetto di palazzo Sacconi a Montalto, del nuovo atrio – mai realizzato - del teatro Apollo di Mogliano (1881) ed infine a Tolentino progetto il Cimitero comunale (1878), la villa del conte Giuseppe Carradori (1878-1883) e il restauro della cappella di palazzo Morici Morrone (1883). Morì a Monte San Pietrangeli il 27 dicembre 1908 dopo esserne stato sindaco nel 1900. 48 Papetti 2004a p. 13. Calisti 2004a pp. 25, 52, 58. Calisti 2004b p. 149. TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO 111 LE TESTIMONIANZE MEDIEVALI NELLA CHIESA DI SAN CATERVO A TOLENTINO Gabriele Barucca In occasione del rifacimento della cattedrale, iniziato nel 1820 e portato a termine nel 1828, venne malauguratamente distrutto il mausoleo paleocristiano di Flavius Iulius Catervius, costruito per contenere il suo maestoso sarcofago.1 Il monumento funerario, costruito alla fine del IV o ai primi anni del V secolo a forma di pantheon circolare sul cui perimetro si aprivano tre nicchioni absidati, aveva superato indenne le successive fasi costruttive della chiesa. Queste si concentrarono in almeno due momenti fondamentali: un primo ampliamento risale forse al VII o VIII secolo, quando si addossò al mausoleo una cella monastica, elemento iniziale di un insediamento benedettino con conseguente costruzione di una chiesa con annesso monastero.2 A questa fase seguì un completo rifacimento del complesso monastico intorno al 1256, quando i benedettini di San Catervo per la riedificazione della loro chiesa ormai cadente ottennero dal papa Alessandro IV il consenso a raccogliere offerte in varie città della Marca.3 Nonostante la demolizione ottocentesca, insieme ai pesanti restauri condotti nel 1954, abbia cancellato quasi per intero le tracce delle precedenti costruzioni,4 esistono alcuni elementi che ne conservano ancora la memoria e vanno pertanto ricordati. Per iniziare commentiamo il frammento di affresco nascosto alla vista da superfetazioni murarie venute nel corso del tempo e riportato alla luce grazie a una importante campagna di scavo, diretta da Aldo Nestori tra il 1989 e il 1993, che Le Vergini prudenti 112 Gabriele Barucca Cristo benedicente tra gli arcangeli Michele e Gabriele e i santi Pietro e Paolo, rilievo ha consentito il rinvenimento dei resti del mausoleo di Catervio inglobati nella costruzione ottocentesca. Si tratta della decorazione frammentaria dell’absidiola del nicchione nord del panteum cum tricoro. Sopravvivono della composizione originaria due figure femminili sontuosamente abbigliate, e il frammento di una terza, che volgono a destra verso il centro dell’abside, tenendo in una mano la torcia accesa e nell’altra un vasetto monoansato dell’olio. Come ricorda la scritta sottostante a lettere capitali (“(P) RUDENTES VIRGIN(ES)”), si tratta dei resti di una teoria di vergini prudenti, scandite da colonne intercalate, di cui una ancora si intravede alla destra del lacerto. In origine forse le figure femminili erano cinque conformemente al racconto evangelico, secondo il quale le vergini erano nel complesso dieci, cinque prudenti e cinque stolte. Sopra le figure corre una fascia con un’altra scritta di cui si leggono solo alcune lettere (“E CUN- CTI”). Nella parte superiore sopravvive una porzione della decorazione del catino absidale dove si intuisce la raffigurazione dell’inizio di un albero che affonda le radici nel terreno reso con un tracciato di linee ricurve come la sequenza di piccole onde. Questo misero resto ha fatto pensare, cercando di interpretare il soggetto della decorazione dell’abside, ad una croce fra due alberi o, forse con più probabilità, ad un Cristo in trono fra alberi, in ragione del nesso tra le Vergini e lo Sposo, vale a dire Cristo. Quanto alla datazione dell’affresco tornato alla luce si rileva tra quanti se ne sono occupati una notevole discordanza di giudizio, motivata dalla difficoltà oggettiva di inserire il frammento superstite in un panorama ormai irrimediabilmente e gravemente lacunoso come quello della pittura murale nelle Marche altomedievali. Aldo Nestori, che ha scoperto e più volte pubblicato l’affresco,5 lo confronta con quelli conservati nella cripta, o sacel- lo ipogeo, dell’abbazia dei Santi Rufino e Vitale ad Amandola e ipotizza “che nel mausoleo di Catervio ci si trovi di fronte ad una pittura di età carolingia, IX-X sec., o al massimo ottoniana, XI sec.”6 Di diverso avviso è Serena Romano che propone una “datazione ben all’interno della civiltà romanica”7 tra la fine dell’XI e il XII secolo. La studiosa propone confronti con un affresco a Santa Maria di Piazza ad Ancona, per la tendenza alla composizione di tessuti lineari o addirittura graficizzanti, nonché per un’affine rozzezza dei particolari anatomici. Non trovando in ambito marchigiano ulteriori confronti soddisfacenti, la Romano propone un accostamento con i resti di affreschi della torre campanaria di Farfa, per “la somma di colori semplici e fortemente sottolineati da linee nere”8 e inoltre con certa pittura della Francia meridionale, o della Catalogna, zone a cui il riferimento si estende anche per la “particolare iconografia del frammento, di cui non conosco TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO Leone che ghermisce un martire con la croce molti casi nella pittura romanica italiana”9. Infine Daniela Simoni ha di recente evidenziato un rapporto con l’arte del Nord Italia, in particolare rilevando “che il tema delle vergini sagge e delle vergini folli, non molto testimoniato nell’arte medievale italiana, trova particolare diffusione in Friuli, un’area fortemente intrisa di cultura longobarda”10. La breve rassegna critica dà conto dunque delle difficoltà di inserire gli affreschi riportati alla luce in un contesto ben definito, sia cronologico sia stilistico; pertanto occorre ancora una certa cautela nel giudizio in attesa che la segnalazione di nuove testimonianze rendano possibile l’avvio di più articolate prospettive d’indagine. Le stesse difficoltà motivate dalla mancanza di utili confronti si hanno nel commentare un’altra testimonianza superstite dell’originaria chiesa benedettina, precedente alla ristrutturazione del 1256. Si tratta di una lunetta a bassorilievo in pietra con Cristo benedicente, tra gli ar- 113 cangeli Michele e Gabriele e i santi Pietro e Paolo poggiata su due frammenti ricomposti di un architrave decorato a rilievo da un motivo raffigurante alle estremità due serpenti attorcigliati dalla cui bocca partono due nastri che si intrecciano con elementi fitomorfi. L’insieme è posto in alto sulla parete del breve corridoio di accesso alla chiesa, a destra del presbiterio e in prossimità dell’absidiola del nicchione nord del panteum cum tricoro con i resti di affresco di cui s’è appena detto. Nella lunetta è raffigurato al centro Cristo benedicente in posa rigidamente frontale recante nella mano sinistra un piccolo codice con legatura decorata da quattro borchie. Mostrano il libro anche gli altri quattro personaggi raffigurati sulla lunetta: a sinistra l’arcangelo Michele e a destra l’arcangelo Gabriele, individuati come Cristo dalla scritta coi rispettivi nomi incisa sul fondo in epoca successiva,11 e alle estremità san Pietro, a sinistra, e san Paolo a destra. Questi ultimi sono rappresentati in scala ridotta rispetto al gruppo centrale, sia per adattarsi allo spazio interno della lunetta, sia per manifestare simbolicamente una distinzione gerarchica tra i protagonisti della scena; non compaiono in questo caso le scritte coi nomi, ma la presenza in particolare evidenza dei rispettivi attributi, le chiavi e la spada, non genera dubbi sull’identificazione dei santi. I due arcangeli indossano una lunga tunica diaconale decorata da una grande croce e con la mano destra agitano un turibolo rivolto verso Cristo. Sul verso della lunetta compare un’iscrizione romana: IMP. CAES. / LICINIO GALLIENO / PIO FELICI AUG. / PONTIFICI MAXIMO. Il riferimento a Licinio Gallieno, imperatore romano tra il 253 e il 268 d.C., conferma l’uso consueto nell’alto medioevo di riutilizzare materiali di recupero per eseguire nuove opere. Quanto alla datazione della lunetta risultano opinioni non concordi nella 114 critica. Serra12 la colloca alla fine del XII secolo; Casadidio13 seguito da Bittarelli14 al IX secolo; Semmoloni15 e la Simoni16 ipotizzano una datazione tra il IX e il X secolo; Zampetti17 ne pubblica una foto con l’indicazione dubitativa al X secolo nella didascalia. Anche in questo caso dunque la difficoltà di datare con ragionevole certezza l’opera appare evidente e si motiva col fatto che siamo nuovamente di fronte a un unicum di difficile confronto con altri pezzi superstiti nel territorio. Sono probabilmente databili al XII secolo i quattro leoni in pietra18 di diversa fattura e dimensione su cui poggia il sarcofago di Flavius Iulius Catervius. “Questa Santa Arca fu levata dal mezo della Cappella grande e rotonda, chiamata Panteone; alzata di peso, fu riposta nella Cappelletta in faccia, nel modo e forma come stava prima sopra gl’istessi quattro Leoni di pietra bianca anticamente, con lasciarli alto lo spatio da terra, come stava prima, acciò dalli Devoti si potesse passare sotto quella per liberarsi dalli mali et infermità loro.” Così Nicola Gualtieri,19 erudito tolentinate vissuto tra Sei e Settecento, attesta la presenza ab antiquo dei leoni sotto il sarcofago e il loro trasferimento contestuale dal centro del panteum cum tricoro al nicchione di fronte, avvenuto il 2 luglio 1700. Lo stesso Gualtieri si sofferma poi sui significati della presenza dei leoni che abbracciano “la fede, che è una Donna con la Croce in mano.”20 In realtà i due leoni anteriori, più grandi, ghermiscono un martire agonizzante con la croce in mano; quelli posteriori sono più piccoli e hanno atteggiamenti diversi tra loro: uno afferra con gli artigli un martire, mentre l’altro accucciato e mansueto regge con la zampa una croce verticale con accanto una figura in piedi. I leoni alla base del sarcofago sono dunque presentati, come spesso accadeva nell’iconografia sacra, con significati Gabriele Barucca “Le carceri” ambivalenti: come simbolo del diavolo, che “come leone ruggente va in giro cercando che divorare” (prima lettera di san Pietro 5,8) e come immagine cristologica ad esaltazione della Fede. Possiamo ora passare all’illustrazione delle pitture murali che decorano un piccolo ambiente a pianta grosso modo a tau irregolare, chiamato “le carceri”, addossato alla muratura esterna del panteum cum tricoro. Non è stato chiarito il periodo preciso di costruzione di questo locale, comunque certamente successivo rispetto al mausoleo, e, nonostante gli sforzi, la sua destinazione originaria.21 Di fatto la pietà popolare aveva associato a questo spazio angusto la memoria della prigionia e del martirio di Catervio. Fu proprio per questa ragione che venne preservato dalla distruzione in occasione della ricostruzione ottocentesca della chiesa, che non risparmiò neppure il mausoleo. Da una porticina, che si apre a sinistra sul corridoio che da piazza Strambi immette nella chiesa, si accede al braccio rettilineo dell’ambiente con volta ogivale piuttosto irregolare dove è addossato sulla parete di fondo un altare composto da una mensa di pietra che la tradizione indica essere, secondo quanto riporta un’iscrizione dipinta a fianco, il piano sul quale Catervio venne decapitato, sostenuta da un rocchio di colonna con base e capitello probabilmente romanici. Le pareti di questo vano presentano tre affreschi frammentari, riferibili ad altrettanti pittori attivi nel TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO Santa Caterina d’Alessandria San Giovanni Evangelista (?) Madonna in trono col Bambino corso del Trecento. Il più antico sembra essere quello con santa Caterina d’Alessandria, raffigurata al di sopra della porta d’ingresso, la cui apertura ha peraltro provocato la perdita della fascia inferiore dell’affresco. La santa in posa rigidamente frontale è identificata dal nome scritto in lettere gotiche sulla fascia che delimita la parte superiore del riquadro, ed è 115 inoltre caratterizzata dai suoi attributi: la corona, allusiva al rango principesco, che regge in ciascuna mano, e la ruota, ricordo del suo martirio, che compare lateralmente sulle due porzioni triangolari che completano il lunettone. Nella parete sinistra in un primo riquadro è dipinto a figura intera un giovane santo con una penna in mano che probabilmente può essere identificato con san Giovanni Evangelista. L’intonaco dipinto di questo riquadro va in parte a sovrapporsi con la cornice del dipinto successivo, che dunque lo precede cronologicamente. Si tratta della raffigurazione di una Madonna in trono col Bambino, il quale con la manina sinistra alzata trattiene l’ala di un uccellino in atto di volare via mentre con l’altra stringe un lembo del mantello della Madre. Questo riquadro affrescato è stato tagliato nell’angolo inferiore destro per aprire la nicchia ovest che ha sostituito una porta per passare nell’annesso monastero benedettino. Questi tre affreschi superstiti, insieme alla decorazione che corre lungo la fascia inferiore delle pareti, raffigurante un tendaggio a bande verticali di differenti colori, sono giunti ai nostri giorni purtroppo molto danneggiati, tanto da indurre a una certa prudenza nel giudizio stilistico, falsato viepiù dalle integrazioni apportate dal moderno restauro. In ogni caso gli affreschi spettano a mani distinte e almeno i due sulla parete sinistra sono cronologicamente situabili nella seconda metà del Trecento, quando a Tolentino artefici più 116 Gabriele Barucca Cassapanca dipinta nella nicchia destra delle ”carceri” o meno dotati dipingevano ancora suggestionati dal modello del Cappellone di san Nicola o dalla forte personalità del Maestro di Campodonico. Il braccio orizzontale del tau è costituito da due nicchie: quella a sinistra, di modestissime dimensioni, è stata ricavata in un secondo tempo, visto che l’apertura ha distrutto, come s’è visto, una porzione del soprastante affresco con la Vergine col Bambino, mentre quella a destra è a pianta trapezoidale ed è coperta con volta a botte. Questa nicchia, profilata sulla parete esterna da una cornice cosmatesca, era in origine completamente decorata da pitture murali; ora a sinistra restano brani di preparazione della parete da affrescare col tipico motivo a graticcio romboidale inciso per far aderire l’intonaco dipinto e, sulla parete destra, una buona porzione di decorazione. Il fondo blu scuro è scompartito in due riquadri sovrapposti e delimitati da una fascia tricolore, ocra-bianco-ocra. Nel riquadro superiore è dipinto un attaccapanni costituito da un bastone cilindrico da cui pendono tre drappi o paramenti di lino bianco bordati con motivi lineari rispettivamente blu, rosso e verde e rifiniti sui lati corti con una sottile frangia termi- nante con dei nodini. Nella fascia inferiore è raffigurata una cassapanca, definita con incerta prospettiva, su cui poggia un codice chiuso con la legatura rossa. La decorazione richiede un difficile esercizio per comprenderne i significati, che non è qui il caso di tentare, ma è apprezzabile anche per il carattere di vero e proprio trompe-l’oeil, in cui il pittore rivela doti di qualche conto nella resa naturalistica degli oggetti rappresentati. Quanto alla datazione di questa parte della decorazione, Aldo Nestori la ritiene coeva al lacerto con le Vergini prudenti e dunque, secondo la sua opinione, tra il IX e l’XI secolo;22 giustamente Daniela Simoni la avanza alla prima metà del Trecento, rilevando strette analogie stilistiche tra i due riquadri e gli affreschi del Cappellone di san Nicola.23 Risale agli anni 1992-1994 il restauro che ha consentito il recupero di un testo importante della scultura lignea medievale, vale a dire il Deposto ora collocato sull’altare dell’esedra della navata destra della chiesa,24 unico pezzo superstite da un gruppo ligneo di Deposizione.25 Il restauro ha provveduto a restituire al Cristo la posizione con le braccia abbassate da Deposto e a recuperare e reintegrare Cristo Deposto la cromia antica, che, tuttavia, non può ritenersi quella originale. Le istanze devozionali della locale Confraternita del Cristo Morto avevano determinato agli inizi del Novecento il taglio delle braccia, con l’asportazione parziale dell’omero e la lacerazione dell’incamottatura, e il loro collegamento mobile al corpo tramite fasce di cuoio inchiodate alle spalle per consentire la variazione della funzione da “Deposto” a “Crocifisso” e, successivamente, a “Cristo morto”. Nel restauro le braccia sono state fissate nella originaria posizione, rivolte verso il basso, integrando le parti mancanti con listelli dello stesso legno.26 Non rimane memoria delle figure che dovevano completare il gruppo della Deposizione tolentinate, vale a dire la TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO Vergine, san Giovanni Evangelista, san Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo e due angioletti che sorreggevano simboli della Passione.27 Sono questi generalmente i protagonisti della riproposizione plastica del dramma della Depositio Christi, basato sulla testimonianza evangelica di Giovanni (Gv. 19,38-42) integrata dalle riletture apocrife, che fin dalla sua prima comparsa nell’arte bizantina fra il IX e il X secolo divenne uno dei soggetti più coinvolgenti e diffusi dell’iconografia cristiana. Peraltro, quasi in contrapposizione con le tradizionali immagini degli ieratici Crocifissi nella versione di Christus Triumphans, lo schema compositivo incentrato sul corpo esangue del Cristo rispondeva appieno alle esigenze crescenti, stimolate dalle intensissime correnti di rinnovata spiritualità che attraversavano il mondo basso medievale, di nuovi modi di partecipazione alla vita religiosa della Chiesa, di nuovi riti collettivi. Ciò si espresse in special modo nel corso del Duecento con la messa in opera proprio di questi grandi gruppi lignei,28 che, scenicamente disposti, assumevano un ruolo centrale durante la liturgia del Venerdì santo ed erano spesso usati in funzione drammatica nel corso delle ‘sacre rappresentazioni’ della Passione sia all’interno sia, più di frequente, all’esterno delle chiese. E’ inoltre documentato l’uso di un noto lamentum Virginis come canto processionale nella liturgia in particolare dei benedettini, che lo facevano eseguire durante la processione per la depositio del Venerdì santo.29 Dobbiamo far rivivere nell’immaginazione il potente coinvolgimento emozionale suscitato, nel corso di queste liturgie drammatizzate, dalle esposizioni delle statue lignee della Deposizione accompagnate da canti polifonici tematicamente affini, soprattutto in contesto benedettino. Del resto proprio da fondazioni benedettine provengono con certezza la maggior parte delle De- 117 Vesperbild posizioni lignee superstiti. È dunque lecito supporre che il Deposto di Tolentino sia stato custodito ab origine nella chiesa di San Catervo. Infatti l’attuale chiesa, come s’è detto, è un rifacimento ottocentesco dell’antica abbazia benedettina sorta nel 1256 sul mausoleo di Flavio Giulio Catervio, presso il quale già prima del Mille esisteva un insediamento monastico. E’ dunque probabile che a dotazione della nuova chiesa si sia provveduto a promuovere la realizzazione del gruppo ligneo della Deposizione, stilisticamente databile proprio intorno a quegli anni. Il Deposto di Tolentino costituisce un esempio delle possibili derivazioni dall’archetipo di straordinaria rilevanza artistica quale la Deposizione di Tivoli, databile all’incirca tra il 1210 e il 1220. Sulla scia figurativa e tecnica del cosiddetto atelier di Tivoli, attivo probabilmente sino alla metà del secolo nell’ambito di un’aggiornata realtà culturale, sono stati infatti inseriti gradualmente gran parte dei gruppi dell’Italia centrale. Peraltro il persistere di un ductus che accomuna i pezzi superstiti non ha impedito di rilevarne sottili varianti di carattere formale e tecnico, nonché differenze qualitative sia nell’esecuzione dell’intaglio sia nella resa della policromia. Questi elementi sono serviti a definire ulteriori raggruppamenti della produzione. Pertanto il Deposto di Tolentino, databile entro il terzo quarto del Duecento, è stato inserito insieme agli esemplari di Barcellona (Collezione Thyssen-Bornemisza nel Museo Monastero de Pedralbes), di Iesi (Museo Diocesano) e di Capriolo (Monastero di Santa Maria degli Angeli) in una delle diverse derivazioni dal prototipo tiburtino che “incarna un modello ormai più snello e di diversa espressività, soprattutto nel volto emaciato e nella posa assai ribassata delle braccia quasi parallele ai fianchi.”30 118 Crocifisso ligneo È esposta sul lato della torre-campanile, verso la navata, ai piedi di una croce lignea su un basamento fissato alla muratura, una piccola Pietà, scolpita in pietra arenaria policromata31. Queste immagini scolpite della Pietà vengono definite col termine tedesco di Vesperbild, che allude alla consuetudine di meditare all’ora del vespro del Venerdì santo sulle piaghe del Cristo morto giacente sulle ginocchia della madre. Il tragico tema, nato e sviluppato in quei centri del misticismo che furono i monasteri della Germania sud-occidentale, ottenne a partire dal Trecento straordinaria popolarità e fortuna. Era una immagine plastica che suscitava al pari di una ‘rappresentazione sacra’ l’emozione del fedele e lo induceva a immedesimarsi nel dolore della Vergine: un atteggiamento che era stimolato dalla “devozione moderna” che faceva appello a sentimenti del singolo, dell’individuo. Ben presto l’iconografia del Vesperbild dall’area germanica d’origine si Gabriele Barucca diffuse ampiamente ed ebbe favorevole accoglienza anche in Italia, soprattutto in quelle zone in cui era più incisiva la presenza degli ordini mendicanti e dove esistevano comunità di cittadini di lingua tedesca. In particolare la diffusione interessò i territori sul crinale verticale che dalle zone alpine orientali scendevano per il Veneto, la Romagna, le Marche, l’Umbria, l’Abruzzo fino alla Basilicata.32 In questa vasta area territoriale si conservano ancora innumerevoli esemplari di Vesperbild, molti dei quali realizzati da artefici tedeschi itineranti specializzati in questo genere di manufatti, che solitamente richiedevano l’uso di materiali e procedure tecniche di lavorazione gelosamente custodite quali segreti di bottega.33 Naturalmente nelle varie zone e nel tempo furono elaborate tipologie diverse che vanno da una composizione più verticale ad una che accentua piuttosto l’orizzontalità, come nel pezzo di Tolentino. Qui il corpo sottile del Cristo è sostenuto alle spalle dalla mano destra della Madonna, che rivolge il suo sguardo doloroso verso i fedeli mostrando le gote solcate dalle lacrime, mentre con l’altra mano stringe un lembo del proprio velo per tergere le lacrime che le sgorgano dagli occhi. Il viso del Cristo è rivolto verso gli osservatori: una lunga ciocca di capelli attorcigliati è posata sul petto, la bocca è semi aperta, mentre gli occhi sono socchiusi. I preziosismi grafici e decorativi del panneggio del manto e del velo della Vergine, aderenti al dettato gotico ‘cortese’ e sottolineati da una naturalistica policromia, tornata leggibile dopo il restauro, hanno giustamente suggerito rapporti stilistici con alcune sculture presenti nell’antica contea dei Montefeltro, riferibili ad artefici di origine boemo-germanica, e soprattutto con la Pietà del Museo Civico di Spello, tanto da far pensare a uno stesso autore e a una datazione abbastanza avanzata tra il quarto e il quinto decennio del Quattrocento.34 Sono attualmente collocati in San Catevo alcuni manufatti lignei provenienti dalla chiesa di San Francesco di Tolentino. Una foto degli anni settanta del secolo scorso testimonia la presenza nella chiesa francescana di un Crocifisso ligneo policromo, ora fissato ad una croce moderna posta a lato del secondo altare a sinistra della concattedrale.35 Il Crocifisso è caratterizzato da una resa anatomica espressionistica di gusto oltremontano, con le braccia sottili segnate dalle vene rilevate e con lo sterno e l’addome incavato in singolare evidenza. Com’è noto, una certa ricerca per la rappresentazione realistica dei particolari e per l’espressione dei sentimenti più drammatici connota una numerosa serie di Crocifissi gotici dolorosi trecenteschi, di comune origine tedesca, tuttora visibili in diverse chiese italiane. Comunque, è stato giustamente notato, che nell’esemplare di Tolentino “le forme tese e drammatiche si allentano in parte a favore di un linguaggio più ricco e decorativo, ormai in piena temperie goticointernazionale”,36 suggerendo una datazione in anni ormai prossimi alla fine del secolo se non all’inizio del Quattrocento e rendendo incerti quanto alla paternità tra uno scultore locale influenzato dalla cultura transalpina o un maestro tedesco italianizzante. Vanno infine ricordati alcuni stalli e rilievi lignei intagliati, riadattati intorno al 1950 sulle pareti laterali dell’anticappella progettata da Luigi Fontana per raccordare la nuova chiesa ottocentesca con la cappella della Madonna della Pace. Essi costituiscono le parti superstiti dell’antico coro della chiesa di San Francesco, realizzato in anni di poco successivi alla metà del Quattrocento e smontato dopo il terremoto del 1873, quando in un primo tempo fu trasferito nella chiesa francescana di Santa Maria di Loreto.37 TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO 119 NOTE Cfr. il saggio di Silvia Blasio in questo volume. I benedettini hanno officiato la chiesa dalla sua fondazione, della quale non si hanno sicuri riferimenti cronologici, fino al 1490; da questo anno fino alla fine del 1507 fu assegnata in commenda al chierico Giovanni Battista Rutiloni che assunse il titolo di prevosto e dal 1508 alla fine del Settecento passò ai Canonici Regolari Lateranensi ai quali subentrò il clero secolare; cfr. Mozzoni s. d. (ante 1990), p.132. 3 Per le varie fasi della costruzione della chiesa cfr. il saggio di Stefano D’Amico in questo volume. 4 Il rifacimento ottocentesco ha fortunatamente preservato integra la sola cappella della Madonna della Pace, meglio nota come cappella di san Catervo, con gli affreschi di Marchisiano di Giorgio, dove è custodito il pregevole sarcofago paleocristiano di Fl. Iulius Catervius e dei suoi famigliari. A proposito cfr. il saggio di Silvia Blasio in questo volume. 5 Cfr. Nestori 1996b, pp. 64-73, con l’indicazione in bibliografia dei suoi precedenti contributi. 6 Nestori 1996b, p. 72. 7 Romano 1994, p. 201. 8 Romano 1994, p. 201. 9 Romano 1994, p. 201. 10 Simoni 2007, p. 100. 11 Le tre iscrizioni sono incise a caratteri gotici: “Angelus Michael”, “IhVs X” ossia “Jesus Christus” e “Ange/lus Gabri/el”. 12 Cfr. Serra 1929a, p. 148. 13 Cfr. Casadidio 1967, p. 11. 14 Cfr. Bittarelli 1986, p. 28. 15 Cfr. Semmoloni 1988, p. 76. 16 Cfr. Simoni 2007, pp. 95-97. 17 Cfr. Zampetti 1993, pp. 12-13. 18 La datazione dubitativa al XII secolo viene indicata nella didascalia della foto di uno dei leoni da Zampetti 1993, pp. 14-15. Nel corso del restauro effettuato all’inizio degli anni novanta del secolo scorso sono state trovate tracce evidenti di policromia su tutti i leoni. Cfr Mazzoleni 1996, pp. 158-159. 19 I manoscritti settecenteschi di Nicola Gualtieri sulla storia di Tolentino sono stati pubblicati a cura di Giorgio Semmoloni. Cfr. Semmoloni 1990, p. 153. 20 Cfr. Semmoloni 1990, p. 159. 21 Riguardo alle possibili destinazioni d’uso dell’ambiente cfr. Semmoloni 2007a, pp. 42-59. 22 Cfr. Nestori 1996a, pp. 10-13. 23 Cfr. Simoni 2007, pp. 90-94. 24 Il Deposto della concattedrale di San Catervo di Tolentino è realizzato in legno di pioppo o salice; altezza 175 cm, larghezza 89 cm, spessore 50 cm. Il restauro è stato condotto negli anni 1992-1994 da Nino Pieri di Urbino con la direzione di Maria Giannatiempo LÒpez della Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici e Etnoantropologici della Marche-Urbino. 1 2 La coppia di Dolenti che affianca attualmente il Deposto sull’altare dell’esedra della navata destra, costruita su disegno del Lucatelli, è opera di Enrico Pallorito, scultore tolentinate attivo intorno alla metà del Novecento. Le due sculture lignee policrome, databili alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso, rivelano le qualità di questo artista autodidatta, che ha saputo dare alle due figure, rese con una severa sintesi formale, una forte carica psicologica in sintonia con la concezione espressiva del Deposto. 26 Le notizie sul restauro sono tratte da M. Giannatiempo LÒpez, scheda 13, in La Deposizione lignea in Europa 2004, pp.219-220, e da B. Bruni, Scheda tecnica, in La Deposizione lignea in Europa 2004, pp.220-221. 27 Ciò non deve sorprendere, infatti, tra le immagini sacre, al genere Deposizione lignea non è toccata una lunga fortuna. Sin dal Trecento il mutare dei generi iconografici e delle ritualità liturgico-processionali determinò la inarrestabile scomposizione dei gruppi e la progressiva eliminazione delle immagini di corredo degli stessi. Solo la figura del Cristo, spesso riadattata nella postura delle braccia, come nel caso tolentinate, ha resistito più a lungo nel tempo, giungendo fino ai nostri giorni in un numero assai maggiore di esemplari. 28 Cfr. Mor 2004, p. 637. 29 Cfr. Sapori, Toscano 2004, pp. 26-27. 30 Mor 2004, p. 659. 31 La scultura misura 68 x 70 x 30 cm. Cfr. M. Giannatiempo LÒpez, scheda 10, in I pittori del Rinascimento a Sanseverino 2006, pp. 112-113, con bibliografia precedente. 32 Cfr. Castri 2002, pp. 170-185, con bibliografia precedente. In particolare per gli esemplari marchigiani cfr. S. Castri, scheda n. 2, in Il Quattrocento a Camerino 2002, pp. 151-152. 33 Molti esemplari di Vesperbild sono realizzati in Steinguβ, una sorta di stucco duro ottenuto da un impasto dove prevale il gesso mischiato al coccio pesto. Questo materiale artificiale veniva colato in controforme e in seguito rifinito a mano elemento per elemento e infine policromato. La composizione di questa ‘pietra colata’ e le procedure tecniche della sua lavorazione erano del tutto ignote alla pratica dei plasticatori italiani e di esclusivo appannaggio di artefici di origine boemo-tedesca, operanti nel corso del Trecento e fino alla metà del secolo seguente. Cfr. Perusini, Spadea, Casadio 1995, pp. 73-92. 34 M. Giannatiempo LÒpez, scheda 10, in I pittori del Rinascimento a Sanseverino 2006, p. 112. 35 La foto (GRI, N.6911.H88, Marche, Tolentino, San Francesco, n. 42) è stata scattata intorno al 1970 da Max Hutzel quando l’opera si trovava ancora in San Francesco e mostra il Crocifisso inchiodato a una croce, forse originaria e ora perduta, ornata con un motivo di tralcio spinoso, allusione simbolica al concetto di redenzione e di rigenerazione dell’umanità seguite al Sacrificio di Cristo, arbor vitae. 36 Casciaro 2002, pp. 41-42, fig. 6 a p. 51. 37 Cfr. Semmoloni 2007b, pp. 101, 103, e in particolare n. 2 a pp. 126-127, con bibliografia precedente. 25 TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO LA DECORAZIONE DELLA CAPPELLA DI SAN CATERVO Silvia Blasio Gli ambienti che si trovano sul lato sinistro guardando il presbiterio e che costituiscono la cappella di San Catervo rappresentano un’epitome delle varie fasi storiche, costruttive e decorative che hanno dato vita alla cattedrale tolentinate: dalle origini del culto di San Catervo, magnificamente rappresentato dal suo sarcofago marmoreo, all’epoca altomedievale, cui afferiscono alcuni manufatti come i quattro leoni che sostengono la cassa del sarcofago stesso, alla fase cinquecentesca degli affreschi di Marchisiano di Giorgio, fino all’insieme di stucchi, pitture e vetri ideato da Luigi Fontana per l’atrio che segna l’ultima tappa, tra il 1883 e il 1884, dell’allestimento architettonico e decorativo di questa zona della chiesa. In seguito all’abbattimento dell’antica grande abbazia benedettina preesistente, cui si dette inizio nel 1822, la Cappella della Madonna della Pace, comunemente detta cappella di San Catervo, salvatasi dalla distruzione, venne a trovarsi sul lato sinistro dell’abside a causa dell’inversione dell’orientamento attuato nella nuova cattedrale.1 Essa si trovava in origine a destra dell’ingresso principale e fu costruita presumibilmente sullo scorcio del Quattrocento come corpo aggiunto alla fabbrica duecentesca. Come è noto la chiesa benedettina era stata edificata sul luogo ove sorgeva un antico sacello paleocristiano, il “panteum cum tricoro”,2 costruito nel IV secolo da Settimia Severina come mausoleo per sé, per il proprio marito, il prefetto del pretorio Cappella di San Catervo 121 122 Silvia Blasio Marchisiano di Giorgio, I quattro Evangelisti Flavio Giulio Catervio e per il figlio Basso.3 Secondo la tradizione4 Catervio fu martirizzato per aver introdotto a Tolentino la religione cristiana e pertanto nei secoli seguenti fu oggetto di una sempre più vasta e profonda venerazione, cresciuta intorno al magnifico sarcofago marmoreo voluto dalla moglie in cui fu deposto e che preservò il panteum dalla distruzione cui furono invece condannati già in epoca medievale altri edifici paleocristiani, sorti nei luoghi vicini e a loro volta dedicati a San Catervo. L’antico mausoleo fu comunque demolito all’inizio dell’Ottocento e il sarcofago fu trasportato nella collocazione attuale, al centro del secondo ambiente della cappella di San Catervo.5 Quando la chiesa nel 1817 fu elevata a cattedrale,6 San Ca- tervo fu proclamato defensor, cioè patrono, del popolo di Tolentino. Le pareti e la volta della cappella di San Catervo sono ricoperte da un ciclo di affreschi di Marchisiano di Giorgio, pittore di origine slava residente a Tolentino di cui si hanno notizie tra il 1493 e il 1543. Fanno eccezione i finti drappi fittamente decorati, visibili nelle vecchie fotografie che ornavano lo zoccolo che corre lungo le pareti, eseguiti nel 1914 da Francesco Ferranti, responsabile delle pitture murali delle navate della chiesa, o da un suo collaboratore.7 L’avventura storiografica di Marchisiano si brucia tutta nel giro di pochi, recentissimi anni, e come spesso avviene, la sua identificazione e il profilo storico della sua personalità sono stati preceduti dalla costruzione di un corpus di dipinti che ha preso avvio con la recensione di Federico Zeri alla mostra di Lorenzo Lotto del 1981: “Sarebbe stato interessante rivedere qui la grande pala della pinacoteca di Sarnano con la “Vergine che appare a San Francesco”…non sarà il caso, come credo, di ravvisare in questo singolare dipinto la stessa mano di quegli affreschi di San Catervo a Tolentino…? Se così, avremmo nella tavola di Sarnano il pezzo più antico di una personalità abitualmente identificata con Francesco da Tolentino.”8 A questo pittore, da Berenson in poi erano stati infatti riferiti gli affreschi tolentinati, prima di lui definiti negli atti della visita pastorale del 1883 pitture “pregiatissime, ma assai danneggiate” che ”si attribuiscono al TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO 123 Marchisiano di Giorgio, Adorazione dei Magi Pinturicchio o alla sua scuola.”9 Il passo successivo fu il raggruppamento intorno alla pala di Sarnano e agli affreschi tolentinati di altre opere ad essi legate da incontrovertibili affinità stilistiche, tra cui la lunetta con la Deposizione di Cristo e Annunciazione del Museo della basilica di san Nicola, di nuovo col riferimento dubitativo a Francesco da Tolentino.10 Le ricerche d’archivio davano nel frattempo una consistenza sempre più solida alla figura di Marchisiano di Giorgio, ‘nome senza opere’ talvolta menzionato nelle fonti tolentinati, fino alla pubblicazione dei “capituli et pacti” stipulati il 6 maggio 1518 per l’esecuzione della “cona de Sancto Nicola” tra Marchisiano e il suo socio, Catervo di Piermarino, e il rappresentante dei frati agostiniani del convento di San Nicola11 e finalmente del contratto col solo Marchisiano per la decorazione ad affresco della cappella di san Catervo, in data 16 agosto 1502.12 Seguiva poi il riconoscimento della tavola centrale della pala di San Nicola nella Madonna con Bambino in trono e i santi Agostino, Caterina d’Alessandria, Nicola da Tolentino e Apollonia dei depositi della Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma.13 Grazie al rincorrersi di studi e ricerche avvicendatisi di mese in mese e culminati con una monografia,14 Marchisiano, abile manipolatore di spunti altrui che si lasciò lambire con apparente candore dagli eventi che tra Quattro e Cinquecento cambiarono la storia dell’arte italiana, si è trovato al centro di una delle più dibattute querelles del ‘rinascimento’ marchigiano;15 risarcito di una ventina di opere almeno e di molti documenti che restituiscono sia aspetti interessanti della sua attività professionale e dei suoi rapporti con i committenti, sia il ritratto di un uomo irrequieto e violento, colpevole di due omicidi, il pittore ha riacquistato oggi il posto che gli compete entro un contesto artistico ove gli sono compagni Vincenzo Pagani, con cui ebbe probabilmente contatti personali, Pietro Paolo Agabiti, Giulio Vergari, Bernardino di Mariotto, Nobile da Lucca, Venanzio da Camerino e Piergentile da Matelica, ognuno interprete di un linguaggio comune nato sotto la costellazione degli illustri nomi di Crivelli, Perugino, Pinturicchio, Signorelli fino a Raffaello e a 124 Silvia Blasio Marchisiano di Giorgio, Crocifissione Lorenzo Lotto, di volta in volta chiamati in causa per spiegare questa o quella inflessione della loro parlata.16 Gli affreschi della cappella di San Catervo, obbedendo quasi alla lettera alle prescrizioni del contratto del 1502, coprono interamente le pareti e la volta del vano e rappresentano, nella parete di fondo, la Madonna in trono col Bambino con san Catervo e san Sebastiano, nella parete destra la Crocifissione, nella parete sinistra l’Adorazione dei Magi. Le tre scene sembrano apparire col medesimo effetto illusionistico, al di là di una cortina di stoffa damascata raccolta lungo l’arco di ogni lunetta e fermata da lacci posti a distanza regolare l’uno dall’altro. Nelle vele della volta a crociera sono dipinti i Quattro Evangelisti e nei pennacchi otto Sibille.17 Rispetto al programma decorativo descritto nel contratto vi sono tuttavia alcune varianti: si rinunciò infatti a raffigurare i due uomini abbracciati che dovevano esprimere visivamente, secondo i committenti, la dedicazione della cappella a Santa Maria della “Pace”, un’iconografia peregrina che difficilmente sarebbe stata compresa e non compare nemmeno la figura di Dio Padre che avrebbe dovuto essere dipinta al centro della volta. Al contrario sono state dipinte otto Sibille non previste dagli accordi contrattuali, il cui carattere di aggiunta quasi come riempitivo è denunciato sia dallo sgraziato sovrapporsi delle loro teste alle nubi che sostengono in alto gli Evangelisti, segno di un certo disagio del pittore nell’adattare la composizione allo spazio delle vele, sia dalla singolarità iconografica della presenza delle Sibille da sole. Nel contratto non si fa inoltre menzione dell’Adorazione dei Magi, tema che fu scelto in un secondo momento da Giovan Battista Rutiloni, prevosto della chiesa di San Catervo. Il commento sullo stile delle pitture espresso ormai molti anni fa da Rodolfo Battistini18 e poi da Pietro Zampetti, quando ancora si credevano eseguite da Francesco da Tolentino, è tuttora valido, e dimostra come il pittore tolentinate si sia servito di prestiti evidenti soprattutto da Perugino, Pinturicchio e Signorelli – dalla volta della sagrestia di San Giovanni a Loreto egli derivò per esempio gli Evangelisti nelle vele – forse anche per accelerare i tempi di un lavoro impegna- TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO Sarcofago di Flavio Giulio Catervio e il particolare del Buon Pastore tivo che avrebbe dovuto consegnare nel termine molto stretto di un anno, con il compenso piuttosto modesto di sessanta fiorini: “Su una sostanziale educazione umbra – ma con qualche rimembranza veneta, che ha fatto pensare al Berenson ad un rapporto con l’Agabiti – l’artista da vero eclettico innesta le più varie esperienze, dove trova il suo posto la stessa arte del Crivelli (ma la Madonna col Bambino dell’Adorazione dei Magi è di ascendenza lottesco-belliniana), dimostrandosi abile nel comporre, specie nella scena della Crocifissione, senza tuttavia portare un contributo di evidenti, personali esperienze.”19 Il vertice qualitativo di questi affreschi è certamente nella Madonna in trono col Bambino con san Catervo e san Sebastiano della parete di fondo. Si tratta della scena 125 più importante, quella immediatamente visibile, anche da lontano, appena si entra nella cappella. Per quanto danneggiata dall’umidità, questa lunetta ha meno subito l’ingiuria delle pesanti ridipinture che hanno invece compromesso altre zone della decorazione. La cortina damascata che la inquadra illusionisticamente forma pieghe più rigonfie e ha cadenze più naturali, che mostrano la fodera rossa del rovescio, mentre due angeli biondi graziosamente la sorreggono; la composizione simmetrica è limpidamente spaziata e la Madonna siede su un’ampia struttura a specchiature marmoree sulla quale cala dall’alto un drappo alla veneta ad ammorbidire un così rigido schienale. I due santi incedono con passo leggero recando alla Vergine le loro offerte e sfoggiando i loro abiti più sontuosi. Ma la mano del pittore è particolarmente felice nelle stupende grottesche in punta di pennello 126 Silvia Blasio Luigi Fontana, Santa Veronica de Julianis Luigi Fontana, San Serafino da Montegranaro che formano la ringhiera a coronamento del trono, nelle nubi che scorrazzano arricciandosi per il cielo, nel bel paesaggio punteggiato di alberi e formazioni rocciose e aperto sul lato destro fino a scoprire aguzze montagne, rese azzurre dalla distanza. Il paesaggio, di evidente derivazione peruginesca e pinturicchiesca, desta nel pittore lo stesso interesse delle figure, e corrisponde con precisione e sensibilità a quanto avviene in primo piano, talvolta assumendo, come nello sfondo fatto di morbide alture in prossimità del mare dell’Adorazione di Magi, le caratteristiche tipiche dell’orografia marchigiana. Nella grandiosa e affollata Crocifissione, ricca di episodi e personaggi in cui Marchisiano esibisce la sua pungente capacità di ritrattista, il paesaggio si amplia e sembra assumere significati simbolici: la veduta di Tolentino-Gerusalemme20 si apre al centro e mentre sul lato del buon ladrone già spirato un sentiero che può ben raffigurare l’ascesa della sua anima al cielo serpeggia attraverso una verdeggiante collina, dalla parte del cattivo ladrone che ancora si contorce sulla croce, inaccessibili anfratti rocciosi amplificano il dramma dell’uomo dannato che non si pente. Fedele per sempre alla sua formula protoclassica, Marchisiano affronterà con gli stessi strumenti – disegno preciso, colorito vivace, “semplici simmetrie di ritmi costantemente bilaterali”21 – e con gli stessi modelli di riferimento, la grande pala per San Nicola dipinta quasi vent’anni più tardi, nel cui fondale lo sguardo si allarga all’orizzonte fino a comprendere la calma distesa delle acque dell’Adriatico, tema caro a questo pittore senza radici. Al centro del vano affrescato da Marchisiano di Giorgio, come si è accennato all’inizio, dal 1822 si erge il sarcofago di Flavio Giulio Catervio. Trasportatovi in previsione della demolizione del panteum, l’imponente monumento marmoreo fu mantenuto sopraelevato sui quattro leoni che ghermiscono prede nelle zampe che già lo sorreggevano nell’antico mausoleo.22 L’importanza del sarcofago di Catervio e il suo ruolo nell’ambito della civiltà figurativa tardo-antica è stato già ampiamente discusso in vari interventi di specialisti,23 cui qui si può solo fare riferimento. Il manufatto, databile verso la fine del IV secolo, rientra nella tipologia “a porte di città”, un genere eclettico scaturito dalla fusione di motivi orientali e occidentali la cui produzione sembra prevalentemente localizzata a Roma e particolarmente destinata alla sepoltura di personaggi d’alto rango, come nel caso di Catervio che in vita aveva ricoperto ruoli prestigiosi nell’ambito dell’amministrazione imperiale.24 L’iscrizione incisa sulla tabula al centro della fronte del sarcofago informa infatti che Flavio Giulio Catervio di nobile famiglia senatoria, era stato prefetto del Pretorio, che era morto all’età di cinquantasei anni e che la moglie aveva fatto costruire il monumento come sepoltura per entrambi.25 In modo piuttosto inusuale il sarcofago tolentinate riunisce tre diverse tipologie: la fronte della cassa presenta un rilievo centrale e due alle estremità separati da strigili, una composizione in cinque scomparti mutuata dai sarcofaghi pagani,26 i fianchi rientrano nella tipologia “a porte di città”, mentre la parte posteriore riprende la tipologia romana con l’imago clipeata con i due coniugi che si stringono la mano destra, affiancata da strigili come sulla fronte. TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO Luigi Fontana, atrio della cappella di San Catervo, parete sinistra 127 128 Silvia Blasio I temi cristiani rappresentati sulla fronte sono il Buon Pastore, visibile al centro, originariamente personificazione pagana della nozione filosofica della “Filantropia”, divenuto allegoria di Cristo, qui affiancato da una vite e da un olivo, e ai lati san Pietro e san Paolo. Nei due lati, le porti di città fanno da sfondo a due diversi episodi, quello biblico dei Tre Giudei davanti a Nabucodonosor, a destra e l’Adorazione dei Magi a sinistra, ove spicca la bella immagine della Vergine seduta sul faldistorio. Nel tergo il clipeo con i coniugi è iscritto in una cornice quadrata ai cui angoli sono, in alto due croci monogrammatiche con l’alfa e l’omega, e in basso due colombe. Il coperchio a due spioventi presenta lateralmente la croce con due agnelli e il monogramma entro un serto con due colombe e quattro acroteri: i due anteriori con i ritratti di Settimia e Catervio, i due posteriori, a due facce, con motivi a palmetta. Un certo divario stilistico caratterizza i vari rilievi, più espressivi e dinamici nelle storie ai lati, più rigidi e appiattiti, soprattutto nei panneggi, nell’immagine frontale dei due coniugi, e ciò ha dato spazio a varie ipotesi, tra le quali prevale quella di una esecuzione da parte di artefici diversi, o forse anche dell’adozione di diversi modelli di riferimento indicati dalla stessa committente. Le profonde modifiche architettoniche subite dalla chiesa con la ricostruzione ottocentesca, e il diverso orientamento della pianta ebbero come conseguenza il completo isolamento dell’antica cappella affrescata da Marchisiano; per metterla in comunicazione con la navata sinistra l’architetto Luigi Fontana costruì un locale di raccordo, una sorta di atrio a pianta rettangolare coperto da una cupola ottagona impostata su quattro arconi, curandone anche la decorazione pittorica e plastica. Dopo una prima formazione avvenuta a Macerata e poi a Fermo presso il pittore di Grottammare Gaetano Palmaroli, Luigi Fontana (Monte San Pietrangeli 1827-1908) ebbe in seguito un lunghissimo discepolato a Roma presso Tommaso Minardi, teorizzatore della linea purista e di un recupero di Raffaello fino alla Stanza della Segnatura e non oltre.27 Pur essendo rimasto presso Minardi fino al 1896, data del suo rientro nelle Marche, Fontana, nelle sue opere prevalentemente religiose sempre sostenute da un’altissima tenuta formale, seppe tuttavia esprimersi secondo una linea autonoma rispetto all’ortodossia raffaellesca del maestro. Coltivò infatti anche un profondo interesse per il colorismo veneto, da cui le tonalità sempre brillanti della sua tavolozza, per il Correggio e per la pittura romana del Cinque e Seicento, creando un linguaggio “neo-barocco”, che decretò il suo successo e il moltiplicarsi degli incarichi, a Roma, nel Lazio e nelle Marche.28 Ciò fu dovuto probabilmente anche al fatto che, dotato di straordinaria facilità esecutiva, Fontana aveva avuto un lungo tirocinio come architetto, pittore, scultore e stuccatore ed era quindi in grado di affrontare personalmente ogni singolo aspetto di un apparato decorativo, fino agli arredi e alle argenterie sacre. Il progetto per la cappella di San Catervo venne a cadere in un momento denso di impegni per l’artista, tra i quali si annoverano il ciclo di pitture e stucchi della Vergine del Rosario di Grottazzolina, il restauro architettonico e la decorazione pittorica della cattedrale di Sutri e la decorazione del Teatro Vaccai e della cappella maggiore del Santuario di San Nicola a Tolentino. Il 15 marzo del 1883 il sindaco di Tolentino Giovanni Benadduci invitò Fontana a spedire il progetto per la cappella di San Catervo, mentre il 9 gennaio del 1884 Alberto Catinelli scrisse all’artista che i disegni inviati “hanno suscitato entusiasmo e consensi in quanti li hanno visti”. Fontana eseguirà i lavori nella primavera inoltrata dello stesso anno. La decorazione dell’atrio si compone di tre registri sovrapposti: la zona inferiore definita da quattro arconi che sostengono la cupola è interamente rivestita di marmi a fasce policrome sulla quale si aprono quattro nicchie contenenti statue in stucco di santi: le prime due, oltrepassato l’ingresso, raffigurano a sinistra san Serafino da Montegranaro e santa Veronica de Julianis, le altre san Venanzio da Camerino e san Tommaso di Tolentino martire. Nel registro superiore, entro i pennacchi al di sotto del tamburo vi sono le figure sedute dei dottori della Chiesa, san Girolamo, sant’Ambrogio, san Gregorio Magno, sant’Agostino, mentre nella fascia più alta alla base della cupola, alternandosi alle finestre circolari, altre quattro statue entro nicchie rappresentano santi marchigiani, san Giacomo della Marca, san Marone martire, san Nicola da Tolentino e la beata Camilla Battista da Varano. Tutti questi stucchi evidenziano la notevole perizia tecnica raggiunta dal Fontana nella lavorazione di questo materiale, plasmato dall’artista in modo da raggiungere una certa varietà di accenti: mentre i dottori della chiesa appaiono magniloquenti e intensamente espressivi, saldamente costruiti entro le ampie falde dei loro panneggi, le altre statue appaiono più semplici nella struttura e più accostanti nel registro espressivo, forse a voler interpretare una devozione più affettuosa, legata certamente alla loro origine e al culto locale. Il realismo mimetico di certi dettagli e l’umanità profonda di alcune di queste figure, tra le quali spiccano il san Serafino da Montegranaro, umile e ripiegato, e il san Girolamo intenso e meditativo, possono essere indicati come esiti della diretta conoscenza della scultura verista di Giovanni Dupré, per la quale Luigi Fontana aveva compiuto apposita- TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO mente un viaggio a Firenze nel 1857. Altre immagini completano il programma iconografico di questi ambienti. Sul lato verso l’interno della chiesa, a destra entrando, un finto trittico presenta le immagini di san Severino, sant’Emidio e san Benedetto, mentre a sinistra, in una struttura speculare, tre vetrate offrono le immagini di santa Settimia, san Catervio e san Basso. Queste vetrate prendono luce grazie alle finestre di un’intercapedine costruita per allineare il profilo esterno della cappella con il nuovo perimetro della chiesa. Le fasce decorative a motivi floreali che segnano il profilo degli arconi sono un motivo ricorrente nell’opera 129 del Fontana e probabilmente si devono alla collaborazione della bottega. Infine, lungo il cornicione ottagonale alla base della cupola, su uno sfondo a finto mosaico dorato corre la seguente iscrizione in grandi lettere capitali: “Sacra Tolentinum docuit te lingua Catervi et verum ostendit quem sequerere deum”. NOTE Per le vicende architettoniche degli ambienti in questione vedi da ultimo Semmoloni 2007b, pp. 101-107 e, in questo volume, il capitolo sull’architettura di Stefano D’Amico. 2 Tale denominazione del mausoleo si legge sulla tabula inscriptionis al centro della fronte del sarcofago, vedi nota 24. Sul sacello paleocristiano vedi Casadidio 1967, pp. 18-25 (estratto pp. 7-14); Il mausoleo e il sarcofago 1996; Semmoloni 2007a, pp. 35-37. 3 Per il culto di San Catervo a Tolentino vedi Santini 1789, pp. 44-59; Casadidio 1967, pp. 18-25 (estratto pp. 7-14). 4 Si veda la testimonianza di Nicola Gualtieri, erudito tolentinate vissuto tra il Sei e il Settecento. dei tre manoscritti conservati presso la Biblioteca Egidiana di Tolentino due sono stati pubblicati in Semmoloni 1990. 5 Vedi da ultimo le osservazioni di Semmoloni 2007a, pp. 35-37. 6 Vedi Pietrella 2007, in particolare le pp. 147-151. 7 Semmoloni 2007b, p. 105. Oggi queste pitture non sono più visibili, ma coperte da una zoccolatura a lastre di marmo grigio. 8 Zeri, 1982, ed. 2000, p. 268. 9 Pietrella 2007, p. 172. 10 Scotucci, Pierangelini 1994, pp. 208-209. 11 Semmoloni 1996; Semmoloni 1997, pp. 12-13, già implicitamente proponeva di accostare il nome di Marchisiano, emerso dalle sue ricerche archivistiche, agli affreschi di Tolentino. 12 Semmoloni 2002. 13 Pierangelini, Scotucci 2002 14 Pierangelini, Scotucci, Semmoloni 2002, cui si rimanda per la bibliografia precedente e la fortuna critica degli affreschi e del loro autore. 15 Per un riesame della questione vedi Coltrinari 2006, pp. 25-51. 16 L’individuazione dei riferimenti culturali di Marchisiano è definita, anche se ancora col riferimento a Francesco da Tolentino da Serra, 1934, pp. 364-366; Battistini 1981, pp. 82-86; Zampetti 1989, p. 359. Sul pittore vedi da ultimo M. Mazzalupi in I pittori del Rinascimento 2006, pp. 146-151, schede nn. 24-25; Semmoloni 2007b. 17 Per l’esame dei soggetti e il raffronto tra il contratto e gli affreschi eseguiti, oltre che per le modalità di pagamento vedi la bibliografia citata alle note precedenti. 18 Battistini 1981, pp. 84-86, scheda n. 5. 19 Zampetti 1989, p. 359. 20 Testi devozionali quattrocenteschi, come ha indicato Michael Baxandall, (1972, ed. 1978, p. 56) consigliavano di visualizzare la storia sacra ambientandola sullo sfondo di luoghi consueti e riconoscibili, per esempio le città. Così è frequente che nello sfondo di soggetti sacri e in particolare delle Crocifissioni la rappresentazione di Gerusalemme si identifichi con l’immagine di città esistenti. 21 Longhi 1927. Longhi usò questa espressione nella monografia su Piero della 1 Franccesca, mentre prendeva forma il concetto di “classicismo prematuro” definito per la prima volta nell’Officina Ferrarese 1934. 22 Grazie alla testimonianza coeva di Nicola Gualtieri si viene a sapere che il sarcofago aveva già subito uno spostamento nell’anno 1700 in occasione del Giubileo per volontà dell’abate Ascanio Benadduci. In quell’occasione esso fu tolto dal centro del mausoleo e collocato nella cappella situata a nord ovest, poi chiusa da una cancellata in ferro, sempre mantenendo i quattro leoni di marmo che lo sostenevano. Nello stesso anno Benadduci fece anche aprire nuove finestre nel monumento e ne fece ridecorare la cupola con stucchi e pitture da Pasquale Marini da Recanati – di cui restano solo alcuni frammenti – raffiguranti una “Gloria celeste”, distruggendo gli antichi mosaici. Vedi Semmoloni 1990, pp.153-154, 162 e 2007, p. 37. 23 Sul sarcofago tolentinate vedi Gabrielli 1961, pp.115-135; Joli 1971, pp. 6971; Nestori 1990; Barsanti 1993, pp. 63-64; Paoloni 1996b, pp. 77-98; Luni 2004, p. 395. 24 Barsanti 1993, p. 63. 25 Sul sarcofago si leggono tre iscrizioni: la prima e più antica è sulla tabula iscriptionis al centro del versante anteriore del coperchio, trascritta da Teodoro Mommsen nel Corpus Inscriptionum Latinarum: FL.IVL.CATERVIVS V. C. EX PRAEF. PRAETORIO QVI / VIXIT CVM SEPTIMIA SEVERINA C.F. DVLCISSIMA / CONIUGE ANNIS XVI MINUS D.XIII QVIEVIT IN PACE / ANNORVM LVI DIERVM XVIII XVI KAL.NOB. DEPO /SITUS EST IIII KAL. DCB SEPTIMIA SEVERINA C.F. / MARITO DVLCISSIMO AC SIBI SARCOFAGVM / ET PANTEUM CUM TRICORO DISPOSVIT / ET PERFECIT; la seconda, dedicata alla morte prematura di Basso è lungo il bordo anteriore del coperchio: FLENDE IACES IN BASSO ITERUM DEFUNCTE CATERVI / OCCIDIT ORE GENUS NOMINE POSTERITAS / TU MEDIUS GEMMA ET GERMANIS CLAUSA METALLIS / MORTE TUA FRACTUM EST BASSE MONILE PIUM / OCTAVUS DECIMUS VIX TE SUSCEPERAT ANNUS / OCIUS ERIPITUR QUOD PLACET ESSE DEI; la terza, di nuovo dedicata ai due coniugi si è incisa lungo il margine del versante posteriore del coperchio: QVOS PARIBVS MERITIS IVNXIT MATRIMONIO DVLCI OMNIPOTENS DOMINVS TVMVLVS CVSTODIT IN AEVUM / CATERVI SEVERINA TIBI CONIVNCTA LAETATVR / SVRGATIS PARITER CRISTO PRAESTANTE BEATI / QVOS DEI SACERDOS PROBIANVS LAVIT ET VNXIT. Le ricognizioni avvenute in varie epoche storiche hanno confermato la presenza di tre corpi, quello dei due coniugi e quello del loro figlio Basso, premorto alla madre. Vedi Nestori 1996c, pp. 99-149. 26 Grabar 1966 ed. it 1967, p.127. 27 Bon Valsassina, 1991, I, p. 431. 28 Per la fecondissima attività di Luigi Fontana vedi Luigi Fontana 2004. TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO 131 LE PALE D’ALTARE NELLA CHIESA DI SAN CATERVO A TOLENTINO Silvia Blasio La situazione attuale degli altari del presbiterio e della navata, e dei dipinti che li ornano, riflette con poche varianti quella riscontrata nel corso della sacra visita del 1883 svolta da monsignor Sebastiano Galeati1 e nella testimonianza coeva del Commentario di Nicola Nerpiti, mansionario della cattedrale morto nel 1900.2 Si tratta per lo più di opere eseguite da artisti attivi negli anni centrali dell’Ottocento, marchigiani di nascita ma di educazione romana, che proseguirono quindi ben addentro nel loro secolo la tradizionale osmosi artistica tra le Marche e Roma che aveva caratterizzato il Sei e il Settecento. L’orientamento stilistico dominante, volto a soddisfare le esigenze di una committenza soprattutto religiosa e rispecchiato anche dai quadri di San Catervo, è quello purista sostenuto da Tommaso Minardi, consulente ufficiale di Pio IX in materia di restauri e di acquisizioni e maestro di più di un centinaio di allievi, tra cui il prediletto sembra essere stato proprio Luigi Fontana. Dall’ingresso, la prima cappella a destra è dedicata a Sant’Emidio e il dipinto sull’altare, raffigurante il santo, è opera di Emidio Pallotta (Tolentino 1803-1868), allievo di Giuseppe Lucatelli e formatosi a Roma presso l’Accademia di Belle Arti grazie a un contributo del Comune di Tolentino. Rientrato nel 1834, si dedicò prevalentemente all’insegnamento ed eseguì varie opere per la sua città, tra le quali si segnalano, nel 1850, quattro tele raffiguranti ritratti di pontefici per i pennacchi della cupola del secondo vano Emidio Pallotta, Sant’Emidio della cappella delle Sante Braccia nel Santuario di San Nicola. La sua pittura, come mostra anche il Sant’Emidio della cattedrale, è fedele ad una linea di severo classicismo e si fonda su correttezza del disegno e equilibrio compositivo di tradizione accademica, unito però ad una particolare predilezione per una gamma cromatica delicata e tenue e per i graduali trapassi chiaroscurali. In questo dipinto lo scenario di rovine architettoniche e gli oggetti rovesciati al suolo vanno interpretati come riferimento al santo dotato del potere miracoloso di placare i terremoti ma anche, in un senso più ampio, come trionfo della fede cristiana sul paganesimo, rappresentato dalla statua a destra su un alto basamento sbrecciato, la cui testa, simile a quella di un Giove, è rotolata sul pavimento. La seconda cappella del lato destro è dedicata a San Giuseppe, e la tela sull’altare raffigura il Transito di san Giuseppe dipinto da Alcide Allevi di Offida (Offida 1831-1893)3. L’Allevi fa parte della schiera degli scolari marchigiani di Tommaso Minardi, presso il quale studiò a Roma all’Accademia di San Luca, collaborando col maestro in vari lavori e intrattenendo proficui rapporti anche con Domenico Morelli, che poté stimolare in lui l’interesse per i temi del romanticismo storico. Il Transito di San Giuseppe è un quadro dalla sobria ambientazione di gusto ancora neoclassico, caratterizzato da colori brillanti e definiti, composizione e disegno semplificati, controllo delle emozioni, secondo gli insegnamenti puristi del Minardi. La gran parte dell’attività di Alcide Allevi si svolse a Offida (teatro del Serpente Aureo, Palazzo Alessandrini, Collegiata), e a Tolentino a partire dagli anni Ottanta. Proseguendo sullo stesso lato attraverso una porta si accede alla cappella del Battistero caratterizzata da un’elegante vasca battesimale in porfido, da un altare seicentesco in legno intagliato e dorato con il Battesimo di Cristo, tela seicentesca di qualità mediocre, ispirata a prototipi veneti. Riprendendo il percorso nella navata si incontra la terza cappella del lato destro, dedicata a San Vincenzo Maria Strambi (1745-1824) vescovo di Macerata e Tolentino che nel 1822 fece dare 132 Silvia Blasio Battesimo di Cristo, secolo XVII Alcide Allevi da Offida, Transito di san Giuseppe inizio ai lavori di ricostruzione della cattedrale, il cui ritratto è visibile sull’altare. Prima dell’allestimento attuale, posteriore alla canonizzazione sotto papa Pio XII nel 1950, questa cappella recava la dedicazione alla Madonna della Stella e sull’altare vi era un’immagine seicentesca della Vergine col Bambino dormiente che a giudizio di Luigi Fontana era opera della bottega di Carlo Dolci, stando a quanto viene riportato nel resoconto della visita pastorale del 18834 e nel Commentario del Nerpiti. Quest’ultimo la descrive come una tela in cattivo stato di conservazione lacerata e forata per appendervi gli ex voto, essendo molto venerata dal popolo tolentinate, e pertanto restaurata nel 1857 da Emidio Pallotta e di nuovo nel 1860 da un suo collaboratore.5 L’esedra progettata da Giuseppe Lucatelli – cui in un primo momento era stato affidato l’incarico di ricostruire la chiesa – specularmente alla cappella del Santissimo Sacramento di uguale forma nella navata sinistra costituisce la cappella del Cristo morto, ove sull’altare è collocato il duecentesco Deposto in legno.6 Giunti al presbiterio, dove nel coro ligneo moderno hanno trovato sistemazione alcune formelle dell’antico coro monastico,7 sull’altar maggiore dedicato all’Assunta vi è una grande pala eseguita dal conte maceratese Filippo Spada, autore del nuovo progetto architettonico della chiesa,8 firmata e datata “Philippus Spada pinxit 1827”. Essa raffigura l’Assunta e angeli e i santi Nicola da Tolentino, TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO 133 Gaetano Giorgini, I santi Biagio, Lucia e Apollonia Filippo Spada, Assunta con angeli e santi Settimia, Catervo, Tommaso da Tolentino e Nicola di Mira un’opera neosecentesca rigida e impacciata, impostata secondo la tradizionale distinzione in due piani sovrapposti, quello celeste e quello terreno e incentrata sulla figura magniloquente e retorica del San Catervo, al centro della composizione. La scarsa familiarità dello Spada con la pittura evidente in questa pala dalle dimensioni considerevoli è riscattata solo dall’amena veduta di Tolentino nello sfondo, al quale le figure si sovrappongono senza ambientarvisi, in cui si riconosce la chiesa di san Catervo nelle sua forma neoclassica.9 All’inizio della navata sinistra, l’esedra del Lucatelli, dedicata come si è detto al Santissimo Sacramento, è la prima cappella su questo lato, ed è decorata da un paliotto a rilievo in bronzo con l’Ultima Cena, da Scene della Passione e da un Cristo benedicente opera di Luigi Galli eseguiti nel 1954 a ricordo del Congresso Eucaristico Diocesano. La seconda cappella è dedicata al Carmine e vi sono raffigurati, ad opera di 134 Silvia Blasio Francesco Ferranti, i santi carmelitani san Giovanni della Croce e santa Teresa d’Avila, e la terza, già dedicata a san Biagio, è oggi la Cappella del Sacro Cuore. L’immagine del Sacro Cuore sull’altare è una tela generalmente attribuita ad Alcide Allevi, ma secondo il Nerpiti è opera del suo allievo Girolamo Capoferri (1850-1913ca.), un pittore che trascorse quasi l’intera sua vita a Roma,10 su com- missione del canonico Seri nel 1889. La tela è adorna di una ricchissima cornice settecentesca in legno intagliato dipinto e dorato che sempre secondo il Nerpiti si trovava nella cappella già prima dell’esecuzione del quadro. L’ultima cappella del lato sinistro, già di San Girolamo Emiliani è oggi dedicata a San Biagio e sull’altare vi è una tela mediocre di Gaetano Giorgini dipinta nel 1829 e raffigurante i santi Biagio, Lucia e Apollonia.11 Credo sia utile infine, per valutare quale fosse all’inizio del Novecento l’entità del patrimonio di pitture posseduto dalla cattedrale e dislocato nei suoi vari ambienti annessi, la trascrizione in nota del paragrafo intitolato “Quadri” dell’Inventario degli oggetti mobili della Chiesa Cattedrale di Tolentino 1902”.12 NOTE Pietrella 2007, p. 171. ASDT, N. Nerpiti, Commentario dei Santi Beati, e Venerabili che illustrano la Città di Tolentino e la Chiesa Cattolica con la spiegazione de’ monumenti un cenno del culto e varie preghiere ai principali di essi a S. Catervo Protettore S. Basso S. Settimia suoi compagni a s. Nicola e S. Tommaso Compatroni che si venerano in detta città. Piacenza. Tipografia Solari, Strada Diritta n. 187-189, 1882, busta IV, consultato da Nestori 1996a, pp. 8-9. Vedi anche Casadidio 2007, pp. 138-140. Il Nestori aveva già individuato lo stampatore, ma il manoscritto non fu mai pubblicato. 3 Sull’Allevi vedi Rossi 2003, II, p. 663. 4 Pietrella 2007, p. 171. 5 La tela proveniva dalla piccola chiesa della Stelluccia, dove è tornata nel 1952. Casadidio 2007, p. 144, nota 8. 6 Vedi il paragrafo di Gabriele Barucca sulle opere medievali in questo volume. 7 Secondo Nicola Gualtieri “Ha questa Chiesa un bellissimo Choro per salmeggiare; è stimato assai per l’intagli e intarsiature di Noce e di Legno bianco, dove, nell’Imagine di S. Catervo, si legge: Alme Tolentinum Populum difende Caterve. Joannes de Dravia finivit anno 1472”, in Semmoloni 1990, p. 164. L’iscrizione, ora perduta, fino a Semmoloni 2000, p. 70 è sempre stata interpretata come riferita a “Giovanni Oravia”, mentre vi si deve leggere il nome di Giovanni schiavo, originario di Dvar (Dravia) che i documenti tolentinati indicano come colui che diresse i lavori di costruzione del coro ligneo tra il 1469 e il 1470. Vedi F. Coltrinari in Rinascimento scolpito 2006, p. 128, scheda n. 11. Alcune delle formelle rimontate nella struttura moderna sono di Domenico Indivini, intervenuto nel 1489. 8 Per Filippo Spada vedi il saggio sull’architettura di Stefano d’Amico in questo volume e Dizionario biografico dei maceratesi 2000, p. 44. 9 Vedi D. Di Nucci in San Nicola da Tolentino 1999, pp. 198-199, scheda n. 189. 10 Casadidio 2007, p. 143, nota 2. 11 “Faceva pure rinnovare l’Altare già di S. Girolamo Miani (sic), al cui quadro, trasferito nel coretto, sostituivasi quello di S. Biagio”; vedi Casadidio 2007, p.140. 12 ASDT, 41/3.1. Capo VIII Quadri Paragrafo 1 Con pittura 1)Principali I) All’Altare Maggiore: Tela rappresentante l’Assunta con i Santi Protettori insieme a S. Nicola e S. Settimia II) Alla Cappella del Sacro Cuore di Gesù: Tela di medesimo S. Cuore con bellissima cornice a rococò argentata e a velatura III) Alla Cappella detta di San Biagio: Gruppo in tela rappresentante S. Biagio, S. Lucia, S. Apollonia IV) Alla Cappella di S. Emidio: Tela di questo Santo V) Alla Cappella di S. Giuseppe: Tela del Transito di questo Santo Patriarca coll’assistenza di Gesù e di Maria 1 2 VI) Alla Cappella della Stella: Piccola tela con tendina della B. V. reggente il Bambino. VII) Alla Cappella del Cristo Morto: Quadretto a pastello del Lucatelli con tendina, rappresentante la Vergine Desolata e S. Giovanni. 2) Sottoquadri: I) Alla Cappella di S. Biagio: L’Immacolata con ai piedi S. Agnese ed alcune pie giovanette in oleografia (della P. U. delle figlie di Maria) su cornice dorata con fregi in intaglio e zoccolatura II) Alla Cappella di S. Giuseppe: la s. Famiglia (oleografia) su cornice semplice dorata e zoccolatura. III) All’Altare del vecchio coretto: La B. V. Addolorata in tela su cornice semplice dorata e zoccolatura di ceraso. 3) Via Crucis I) Grandi con immagini di carta impresse a colori su cornici dorate, alle due navate laterali della Chiesa. II) Piccole al vecchio coretto con immagini di carta impresse in nero su cornici dipinte color ceraso. 4) Quadri vari I) Al coretto vecchio: Ai lati dell’Altare con cornici di legno dipinte a guazzo due tele rappresentanti S. Matteo e S. Luca. Una tela grande con cornice biancastra doppiamente filettata d’oro rappresentante S. Girolamo Emiliani. Una tela del Vescovo S. Ubaldo (cornice di legno dipinta a guazzo) Una tela rappresentante S. Bernardo (cornice idem) Una tela col Bambino (cornice idem). II) Alla Sagrestia: Tela grande senza cornice che rappresenta S. Giorgio Tela di S. Andrea Avellino su cornice nera listata d’oro ai due bordi. Un’olografia delle Figlie di Maria (Quadretto su cornice di commercio dorata con base) Quattro ritratti in tela con cornici dorate di Pio VI e dei Vescovi Peruzzini. Stelluti e Spinucci III) All’Anticanonica Tela rappresentante S. Nicola su cornice di legno dipinta a guazzo Tela di S. Camillo De Lellis su cornice dorata IV) Alla Canonica: Tela rappresentante S. Giambattista De Rossi su cornice dorata (Dono del Rev.mo Can.co Sig. Don Felice Marinelli) Due cartoni su cornici nese con doppio filetto dorato rappresentanti: Uno la B. V. Assunta con i tre Santi Protettori; l’altro il Crocifisso e i Santi S. Tommaso da Tolentino, S. Nicola, S. Basso, S. Settimia e S. Catervo (Dono del fu Mans.rio TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO Nerpiti Sess: Cap. 4 maggio 1901) V) Al Corridoio laterale della Cappella di S. Catervo: due tele con listina di legno dorata rappresentanti la Vittoria di Lepanto e la Predicazione di S. Catervo. VI) Nella sede parrocchiale: Tela rappresentante la Samaritana su cornice dipinta a guazzo. Due quadri in tela: uno della Vergine e un altro del Redentore su cornice idem Una tela dell’Addolorata senza cornice Quattro quadretti con immagini di carta VII) Al Battisterio: Quadro in tela rappresentante il Battesimo di S. Giovanni VIII) Nei corridoi che mettono accesso alla Sagrestia: Piccola tela con cornice rappresentante il Nazzareno Una tela senza cornice rappresentante S, Giovanni Battista Una tela senza cornice rappresentante l’Arcangelo S. Raffaele e Tobia Una tela senza cornice rappresentante il Presepio Una tela senza cornice rappresentante S. Carlo Borromeo Due quadri in tela rappresentanti dei portici con cornice Due quadri in tela rappresentanti paesaggi con cornice Uno in carta rappresentante itinerari di viaggio IX) Nella camera detta degl’imbrogli 135 Una piccola tela di Gesù Nazzareno senza cornice. Risulta purtroppo disperso, e sarebbe stato di enorme utilità per conoscere la situazione dei beni mobili della vecchia chiesa, prima della distruzione e del rifacimento ottocentesco, l’ ”Inventario Di tutti Li Beni mobili, e Stabili Fatto per Ordine della Santità di nostro Signore Benedetto terzo decimo à tenore del Concilio Romano, e respettivamente Provinciale dal Priore Don Giovanni Battista Loreto Abbate in Capite del Monastero et Chiesa di S. Catervo di Tolentino de’ Canonici Regolari Lateranensi, et consegnato alla Cancelleria Episcopale della detta Città di Tolentino Adì 10 giugno 1729”. Questo inventario del 1729, di cui già Semmoloni 2007, p. 80, nota 80 lamentava la scomparsa indicandone la seguente collocazione “Archivio Curia Vescovile, Busta non segnata ‘Monasteri e conventi’, è stato parzialmente trascritto in Nestori 1996a, p. 5, nota 24, per le parti relative al panteum cum tricorno e agli oggetti ivi conservati. L’inventario fu redatto a pochi anni di distanza dal rinnovamento delle pale d’altare voluto dall’abate Ascanio Benadduci nel 1700 (“rinovò gl’altari di novi quadri”), in occasione del Giubileo. Vedi Semmoloni 1990, p. 154 e infra nota 22. Altri importanti documenti, oggi non più consultabili e visti da Vittorio Aleandri all’inizio del Novecento, segnalavano il pagamento nel 1453 per una pala di Paolo da Visso per l’altar maggiore (Aleandri 1905, p. 105). TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO 137 FRANCESCO FERRANTI E L’APPARATO DECORATIVO DI SAN CATERVO A TOLENTINO Elisa Mori La Crocefissione, ingresso principale Al 1909 risale il pregevole bozzetto che documenta l’imponente apparato decorativo, realizzato da Francesco Ferranti tra il 1914 e il 1919, data del completamento delle decorazioni delle cappelle laterali, nella chiesa di San Catervo a Tolentino.1 Sono anni in cui l’artista è impegnato anche a Macerata, dove dipinge l’Assunzione della Vergine nel catino absidale della chiesa di Santa Maria della Porta e La civiltà latina e il progresso nel soffitto della Sala dei Concerti della Filarmonica. A testimoniare l’operosità di Ferranti, sempre a Tolentino, nel corso degli anni restano le vaste decorazioni realizzate nel- la basilica di San Nicola (1904 – 1905 e 1935), nella chiesa di Santa Maria Nuova (1911), nella Cassa di risparmio (1900) e nel Palazzo Comunale (1930). Fondamentali per la sua formazione sono gli anni romani della fine dell’Ottocento nei quali frequenta prima l’Accademia di Belle Arti e poi la Scuola Libera del Nudo, diretta in quel periodo dal pittore Cesare Mariani. Sempre al periodo romano risale l’incontro, e la conseguente conoscenza, degli artisti Cesare Maccari e Ludovico Seitz, impegnati in quegli anni nella grande fabbrica della Basilica della Santa Casa di Loreto. Lo studioso Mario Rivosecchi svela nel 1952, un anno dopo la morte dell’artista, il segreto dello stile di Ferranti che “si è iniziato all’arte godendo dell’opera del Seitz e del Maccari: oggi questi maestri, ammirati nella giovinezza, ritornano nell’opera sua matura, la quale sa ridonarci alcuni preziosi toni della tavolozza del Maccari e certe finezze di decorazione mistica che si credevano perdute con il Seitz, senza mai servi’ e [sic!] imitazione, bensì con la capacità di fondere i pregi di due artisti così diversi”.2 Alla natia Tolentino, come già anticipato in apertura al testo, è legato il nome di 138 Elisa Mori Francesco Ferranti, Spaccato del Duomo di Tolentino (1909), acquerello su carta, cm 100 x 52, Collezione privata (foto Giorgio Semmoloni) Francesco Ferranti, ed in particolare alla concattedrale di San Catervo, nella quale realizza, su un impianto architettonico neoclassico, gran parte dell’apparato decorativo. Da segnalare, sopra l’ingresso principale, la raffigurazione della Crocefissione, lungo la volta della navata centrale le tre Virtù teologali, le quattro Virtù cardinali e S. Catervo in abito militare romano, patrono della città tolentinate. In corrispondenza della crociera, infine, circondata da uno stuolo di angeli, l’artista riproduce l’Incoronazione della Vergi- ne da parte della Ss. Trinità.3 Ferranti, che tra i suoi più validi collaboratori vanta anche il pittore Donatello Stefanucci, artefice del ciclo decorativo della Chiesa di Santa Maria Assunta di Cingoli, inizia ad operare nella Chiesa di San Catervo intorno al 1914, quando già numerosi interventi di restauro avevano interessato l’edificio sin dal 1904, come attesta la Relazione tecnica sullo stato della Chiesa Cattedrale di S. Catervo in Tolentino, constatazione e stima dei lavori urgenti in essa eseguiti, computo e stima dei lavori ancora necessari per ridurla in stato di ordinaria manutenzione, decente ed igienità, redatta dal perito Antonio Massi il 9 settembre del 1907 e conservata presso l’Archivio Diocesano di Tolentino.4 Gran parte dell’impianto decorativo risulta terminato dall’artista già nel 1916, com’è chiaramente indicato in un rendiconto redatto nello stesso anno dal perito incaricato dei lavori Antonio Massi. In esso vengono menzionate, tra le altre, anche le “decorazioni eseguite dal pittore Sig. Francesco Ferranti nell’interno della 139 TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO chiesa per un complessivo contrattuale di £ 15000,00”.5 L’opera del pittore all’interno della chiesa, tuttavia, termina definitivamente solo nel 1919, quando vedranno la loro conclusione i lavori delle cappelle laterali. A tale proposito si riporta integralmente il contratto siglato il 15 giugno del 1918 tra Ferranti e il Vicario Generale Monsignor Pietro Tacci, nonché Presidente della commissione per i restauri del Duomo, nel quale vengono descritte le varie fasi dei lavori con i relativi importi. “Al Rev/mo PRESIDENTE della Rev/ma COMMISSIONE PER I RESTAURI DEL DUOMO DI TOLENTINO Mi si presenta l’occasione di avere a mia disposizione del personale atto ad eseguire la decorazione delle restanti cappelle del nostro Duomo. Iniziatesi ora la buona stagione e terminate le funzioni della settimana Santa e di Pasqua urge un’intesa comune per poter dar principio ai lavori, perchè il detto personale, di cui qualcheduno è profugo, si trova senza lavoro, e conseguentemente nella necessità di procurarselo. Domando venia per questo mio sollecitare, perché non vorrei farmi sfuggire la suaccennata combinazione dati i tempi e le difficoltà che attraversiamo e a cui andiamo incontro. Animato dal desiderio che ho di vedere completata anche nelle altre parti quest’opera mia, presento un progetto, che nei limiti della massima economia compatibile col decoro, permetta di eseguire la decorazione delle altre cappelle in intonazione e fusione col resto del Tempio. 1° - CAPPELLA DEL SS. SACRAMENTO. - La decorazione di questa Cappella dovrà essere eguale per ricchezza di decorazione all’altra di fronte dedicata al SS. Crocefisso, escludendo la parte figurata supplendola con decorazione musiva. Il Baldacchino e la scalinata andranno dorati e a marmo come attualmente si trovano. £ 700.00 Le invetriate come al lato opposto, ma con decorazione allusiva, all’Eucarestia. Le vecchie finestre di ritorno. £ 300.00 2° - CAPPELLA DI S. GIUSEPPE. – Soffitto e pareti come all’arco della Cappella del Cristo Morto, ma con decorazione che si riferisca al Santo. L’Altare sarà fatto a marmi con decorazioni a mosaico. Nel centro si dovrà fare una nicchia per porvi il Santo. (Prezzo da convenirsi con l’oblatore). 3° - CAPPELLA DI S. EMIDIO. – Secondo il contratto 1911 io avrei dovuto restaurare le pitture esistenti in questa Cappella, e vi avrei dovuto trasportare il fonte battesimale. Io propongo invece ora una piccola aggiunta di £ 250, si potrebbe così avere una cappella corrispondente alla vicina di S. Giuseppe, in modo da non farla essere una cosa estranea al resto della Chiesa, come verrebbe se vi effettuasse il 1° progetto RIPORTO £ 1000.00 Riguardo poi al trasporto in essa del fonte battesimale, questo mi fu impossibile eseguirlo, perché assolutamente non è possibile trovarvi un posto a meno che non si voglia fare una cosa antiestetica £ 250.00 4° - CAPPELLA DEI SS. LUCIA – BIAGIO – APOLLONIA eguale a quella di S. Emidio £ 450.00 L’invetriata, della medesima eguale a quello del Carmelo £ 250.00 5° - Per eseguire il cancello di chiusura del presbiterio e per avere un cancello solido sono necessarie lire 300, dato l’enorme aumento del ferro e carbone, e della mano d’opera £ 300.00 Faccio noto alla Reverendissima Commissione che, non pratico in materia, ho già speso molto di più delle 400 lire pattuite per fare eseguire e mettere a posto la balaustra come ora si vede. A richiesta tengo sempre a disposizione della Reverendissima Commissione le pezze giustificative. Intendendo sempre di mettere l’idea dei candelabri sopra i balaustri non essendo più possibile dato l’enorme prezzo delle materie prime. 6° - Mio avere per la medesima balaustra £ 400.00 7° - Mio avere secondo il contratto del 1911 £ 3000.00 £ 5650.00 8° - Il sistema di pagamento di tutta la somma di L. cinquemilaseicentocinquanta Sarà fatto ininterrottamente a rate settimanali di L. 150 previo ordine di pagamento della S. V. Rev/ma firmato, o dalla S. V. Rev/ma direttamente pagato sino alla totale estinzione della somma suddetta. 9° - I lavori iniziati non dovranno essere interrotti. Il restauro degli intonachi sarà a carico del pittore. 10° - La S. V. Rev/ma potrà rifiutarsi di emettere l’ordine di pagamento in quella settimana in cui il lavoro venisse sospeso. Il pittore si obbliga di compiere i detti lavori entro 37 settimane. 11° - Si accettano da ambo le parti i patti sopra descritti e si sottofirmano. Tolentino, 15 giugno 1918 IL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE PER I RESTAURI DEL DUOMO Arcip. Pietro Tacci Vicario Generale Canonico Fausto Verdinelli Fabbriciere”.6 IL PITTORE Ferranti Francesco 140 Elisa Mori L’Incoronazione della Vergine da parte della Ss. Trinità Numerose le ricevute che documentano i pagamenti percepiti dall’artista tra il 1918 e il 1919 per il ciclo decorativo delle cappelle laterali. Grandi riconoscimenti per il lavoro svolto nell’edificio sono testimoniati anche dalla lettera, datata 26 ottobre 1919, redatta dal Canonico Giacinto Rascioni, membro del Capitolo, al Vicario Generale Pietro Tacci, nella quale sollecita tutti i colleghi della seduta capitolare a rivolgere “un vivo elogio e un cordiale ringraziamento al Sig. Francesco Ferranti, che, con raro disinteresse, con egregio valore d’artista, ha voluta compiere un’ope- ra d’arte veramente ammirevole e rispondente, non a quanto gli si è potuto offrire, ma solo ai suoi nobilissimi sentimenti di cristiano e di concittadino. A lui dobbiamo quella ricca profusione di figure e di motivi ornamentali svariatissimi che abbelliscono la nostra Chiesa, e che col profondo pensiero religioso e col caro simbolismo dell’antichità cristiana elevano l’animo alle contemplazioni celesti, per le quali è fatto il Tempio di Dio”.7 A San Catervo, dunque, al pari di altri apparati decorativi, Ferranti dà prova di tutta la sua abilità di decoratore, nei grandi spazi riesce ad “esprimere la sua sensibilità pronta ad intendere e ad eseguire composizioni profane e liturgiche, dense di pensiero ed originali nella concezione, considerando sempre che l’abbellimento di una costruzione architettonica non deve essere commerciale e causale ma coscienzioso, studiato, logico catechistico”.8 Padronanza tecnica, accompagnata da una grande originalità e dalla potenza del colore, contribuiscono a fare di Francesco Ferranti uno degli interpreti più autorevoli tanto del territorio tolentinate quanto di quello marchigiano. NOTE Casadidio 2007, pp. 132-133. Rivosecchi 1952, pp. 3-4. 3 Tolentino. Guida all’arte 2000, pp. 70, 72. 4 ASDT, Cattedrale, 42/1.10. Relazione tecnica sullo stato della Chiesa Cattedrale di S. Catervo in Tolentino, constatazione e stima dei lavori..., 9 settembre 1907. ASDT, Chiesa Cattedrale di S. Catervo - Restauri, 31 ottobre 1916. ASDT, Contratto per i lavori delle cappelle laterali..., 15 giugno 1918. 7 ASDT, Lettera del Canonico Giacinto Rascioni al Vicario Generale Pietro Tacci, 26 ottobre 1919. 8 Maranesi 1952, p. 2. 1 5 2 6 TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO Navata centrale 141 TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO 143 IL TESORO DI SAN CATERVO A TOLENTINO Gabriele Barucca “Nell’Altare delle Reliquie esistente in detta Cappella grande verso man destra con la sua cancellata di ferro indorata dentro si conserva la testa di esso S. Catervo martire in Tabernacolo di Argento con li cristalli, item un’Ampolla o Bicchiero pieno di sangue del medesimo Santo diventato polvere rossa, raccolto nella di lui decollazione, con molte altre Reliquie de Santi”, così Nicola Gualtieri,1 erudito tolentinate vissuto tra Sei e Settecento, descrive le reliquie più insigni della chiesa di San Catervo. Non sappiamo se il “Tabernacolo di Argento con li cristalli” contenente il capo di san Catervo, citato dal Gualtieri, sia ancora quello realizzato fra il 1453 e il 1456 dall’orafo tolentinate Jacopo Marini insieme al collega Battista di Francesco,2 oppure quello nuovo commissionato nel 1705 da Nicolò Benadduci, abate mitrato del monastero di S. Catervo, nato nel 1677 e morto nel 1742. Quest’ultimo reliquiario è tuttora conservato sebbene privo della reliquia e con il ricettacolo malamente manomesso. Le parti originarie di questo grande reliquiario architettonico sono quelle del fusto piriforme e del piede circolare bombato dove si alternano, sul fondo finemente decorato da esuberanti fogliami sbalzati e cesellati, due scudi con lo stemma del Comune di Tolentino e due cartelle ovali con la scritta incisa: “Abb. Benadduci 1705”. C’è notizia indiretta che Nicolò Benadduci pagò il nuovo reliquiario ben quaranta scudi, come risulta da un Inventario redatto nel 1729,3 peraltro contenente una Reliquiario di san Catervo dettagliata descrizione del tesoro di reliquie che vale la pena di citare per intero: “In questo Cappellone subbito che si entra à mano destra vi è una Cappelletta con l’Altare del Glorioso S. Catervo Martire protettore P(rincipa)le della Città di Tol(enti)no con un Reliquiario d’Argento di valore scudi 40 incirca, ove si conserva la di lui S(an)ta Testa et una Crocetta d’Argento appesa al s(opr)ad(dett) o con sua copertina di Brocchato Rosso. Dentro la med(esim)a Nicchia, che si descriverà sotto, vi è un altro Reliquiario d’Argento con suo piede di legno dentro il quale vi è il Sangue di S. Catervo. Un Reliquiario indorato nel quale vi è il legno della S. Croce con sua Autentica. Un altro Reliquiario di cristallo con reliquie di S. Catervo e Compagni. Quattro Reliquiarij indorati, uno di S. Lucia, uno di S. Biaggio, uno di S. Ubaldo, e l’altro di SS.ti Catervo, e Bonifatio MM. Un altro Reliquiario indorato con la reliquia di S. Paolo Ap(osto)lo e sua Autentica. Una scattoletta indorata dentro la quale vi è un Berettino di S. Ubaldo, una mitra di Velluto Rosso e Falzone d’oro con suo cristallo ove stà chiusa la Mitra, e Berettino di Broccato toccati nel corpo di S. Ubaldo con sua Autentica”. L’elencazione accurata di questi preziosi involucri con i loro reperti sacri, così lontana dalla nostra sensibilità, ci consente di misurare il posto tenuto allora dai reliquiari e dai pii ricordi nella vita delle popolazioni. Offerte alla pietà e il più delle volte apportatrici di indulgenze queste insigni reliquie fondavano la fama e il prestigio stesso delle chiese e dei santuari che le detenevano. In una successiva descrizione redatta nel 1882 da un certo don Nicola Nerpiti, mansionario della cattedrale morto nel 1900, viene illustrato il nuovo assetto della chiesa dopo i lavori degli anni venti dell’Ottocento e si attesta che: “Finalmente, rimodernato dal detto Lucatelli il vestibolo della Cappella Meridionale già della SS. Trinità, essa cappella rimane ancora e convertita in Santuario, vi riposano i corpi del Patrono e congiunti con le insigni reliquie del Compatrono S. 144 Gabriele Barucca Dionisio Boemer, reliquiario a busto di san Tommaso da Tolentino Tommaso da Tolentino.” Ancora oggi, custodito nell’altare della cappella della Madonna della Pace, si conserva il reliquiario a busto d’argento contenente la testa di san Tommaso da Tolentino dell’Ordine dei Minori.5 Il personaggio sacro ha un volto reso in termini fortemente individualizzati mentre il busto vestito con l’umile saio francescano, che sul petto lascia spazio ad una grande teca ovale, chiusa da un vetro per consentire la visione della venerata reliquia in essa racchiusa, è modellato nella lamina d’argento con geometrica staticità che tende a circoscrivere l’immagine in un blocco compatto, rigidamente frontale. Tale linguaggio fortemente arcaizzante non sorprende per questo genere di arredi liturgici realizzati normalmente riproducendo gli stessi modelli a distanza anche di diversi secoli; ciò si riscontra tanto più quando a produrli quasi in serie sono ar4 tefici non particolarmente dotati di inventiva artistica. Nel caso in questione l’autore è Dionisio Boemer, argentiere peraltro di un certo interesse che imprime il suo bollo personale sul busto. Boemer, nato a Münster, giunse in Italia ai primi del Settecento con le truppe tedesche dirette a Napoli. Abbandonate le armi, nel 1702 si stabilì a Macerata, dove aprì bottega a partire almeno dal 1711. Dieci anni dopo fu aggregato al patriziato cittadino. Della sua cospicua produzione, sia di destinazione profana che religiosa, realizzata su ordinazione dei nobili e degli ecclesiastici di Macerata e delle cittadine vicine, si conservano ancora innumerevoli pezzi, soprattutto sacri, di buona qualità.6 Quanto alla datazione del reliquiario a busto di San Tommaso da Tolentino esiste la possibilità di fissare un sicuro termine post quem esaminando tre lettere, conservate nell’Archivio Diocesano di Tolentino in una busta segnata con la scritta “Cattedrale di Tolentino”, che attestano la corrispondenza in merito all’oggetto sacro intercorsa tra il Vescovo di Macerata-Tolentino, il Provveditore della S. Congregazione del Buon Governo e un certo Decio Antonio Odorisij, rappresentante del Consiglio Generale della Città di Tolentino. Nella prima di queste lettere, datata “Roma, 4 dicembre 1723” il Provveditore chiede al Vescovo“… se veramente sussista il bisogno, che li Pubblici Rappresentanti di cotesta Città suppongono vi sia d’ingrandire il Reliquiario, ove conservasi il Capo di S. Tommaso Martire, per erogarvi li scudi 25 soliti spendersi nella compra del Pallio per la Corsa de’ Barbari per la festa di San Catervo”. Nella seconda lettera, datata “Tolentino, 26 dicembre 1723”, il rappresentante del Comune di Tolentino informa il Provveditore della Congregazione del Buon Governo che “al Reliquiario di S. Tomaso Martire ancora non li è Dionisio Boemer, reliquiario di sant’Apollonia stato dato principio, per ché li destinati scudi cinquanta, dall’Artefice non sono stati riconosciuti sufficienti per l’intiero compimento dell’Opera sul giuditio del quale, assistito ancora dal pietoso zelo di questo Generale, che mi si dice tenga adunata del ...per detto preciso … altra somma di scudi 25; Il Generale Consiglio si è mosso ad applicarvi parimente li altri scudi 25 acciò l’opera riesca più decorosa, e magnifica à maggiore Gloria et honore del Santo; che doveano spendersi per la solita corsa del Pallio de Barbari nella prossima … festa di S. Catervo, per lo che detta soluzione si crede a tutta giustizia applausibile, e ben fondata, per trattarsi di un ornamento troppo necessario, si per che in Gloria di un Santo oriundo e Comprotettore del Luogo à contemplatione di cui la stessa Città oltre alle Gioie, che per sua Intercessione spiritualmente ne riceve dalla Divina Onnipotenza nei continui bisogni, a lui TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO ricorre ne gode ancora de Temporali per Indulto de Sommi Pontefici quali sono le fiere e franchigie in tutti li Lunedì di Giugno in honore e solennità maggiore della di lui festa indispensabilmente ogni Anno”. Infine nell’ultima lettera, datata 31 dicembre 1723, il Confaloniere e i Consiglieri della Città di Tolentino riaffermano in modo deciso agli “Eminentissimi e Reverendissimi Signori”, vale a dire il Provveditore e il Vescovo, che “è veramente necessario il Reliquiario, che li Pubblici Rappresentanti di Tolentino intendono fare per conservare col debbito decoro il Capo di S. Tommaso martire, oriundo e Comprotettore di questa Città, mentre ora si trova rinchiuso in una scatola di latta, la quale non corrisponde punto alla preziosità e nobiltà della reliquia, mà più non riesce di ammirazione à fedeli, nell’esporsi alla pubblica venerazione; non essendo però sufficienti li scudi 50 già destinati col beneplacito dell’Ill. ma S. V., per l’essecuzione dell’opera è applausibile la risoluzione di quel Conseglio di applicarvi li scudi 25 che dovevano erogarsi nel Pallio solito corrersi nella festa di S. Catervo.” Per ora non è emersa altra corrispondenza al riguardo, ma è logico supporre che di lì a qualche mese il Comune abbia ottenuto il nulla osta ad incaricare l’argentiere dell’esecuzione dell’oggetto sacro. In ogni caso la commissione ebbe buon esito come dimostra lo scudo d’argento recante lo stemma coronato della Città di Tolentino, applicato in bella evidenza sulla faccia anteriore del basamento a sezione quadrata in bronzo dorato su cui poggia il reliquiario a busto di san Tommaso da Tolentino. Il marchio del Boemer compare anche su un piccolo reliquiario di sant’Apollonia,7 costituito da una lamina d’argento sbalzata e fissata sopra un’anima di legno, raffigurante la figura intera della santa che tiene nelle mani una palma e una tenaglia, rispettivamente simbolo e Mattia Venturesi, calice strumento del suo martirio, mentre in una teca sul petto è custodito uno dei sui denti, che secondo la leggenda le furono ferocemente estratti. A questi oggetti realizzati da Dionisio Boemer, argentiere attivo localmente, nel corso del Settecento si aggiunsero ad arricchire il tesoro della chiesa di San Catervo numerose suppellettili sacre di cui spesso non si conoscono gli oblatori e le circostanze della donazione. Si tratta di oggetti di qualità più o meno elevata, quasi esclusivamente provenienti da botteghe orafe romane. E’ opportuno segnalare brevemente questi pezzi, sui quali la presenza dei bolli ha consentito l’individuazione dei loro autori. Si tratta di alcuni degli argentieri 145 più reputati attivi a Roma nell’arco del XVIII secolo. Ad aprire la serie è un calice8 caratterizzato da una struttura molto semplice con piede tondo e fusto con nodo piriforme, e da un apparato decorativo affidato a naturalistici cespi di foglie d’acanto che cingono nodo e sottocoppa. Questa tipologia affermatasi nella seconda metà del Seicento fu destinata a un enorme successo e venne replicata serialmente fin oltre la metà del secolo successivo. Infatti il calice di Tolentino reca incisa sotto il piede la data 1759 e l’indicazione del peso (Libbra 1 oncie 4 denari 4) nonché impresso il bollo del maestro Matteo Chiocca (Roma, 1702 – 1758; pat. 1734), capostipite di una dinastia di argentieri attivi a Roma fino alla metà dell’Ottocento. Peraltro, visto che l’oggetto risulta datato all’anno successivo alla morte di Matteo, è probabile che sia stato eseguito dal figlio Giuseppe, che solo alla fine del 1759 ottenne la conferma della patente paterna, proseguendo così la conduzione della bottega di famiglia con l’uso di un nuovo merco personale.9 E’ opera di Giuseppe Bartolotti o di suo figlio Carlo un calice10 d’argento privo di elementi ornamentali naturalistici: non ci sono teste di cherubino né elementi vegetali, ma solo una proliferazione di volute, cartelle, motivi desunti dal lessico decorativo architettonico. Se l’identificazione del bollo camerale è corretta, si tratterebbe di un oggetto databile nel biennio 1775-1777, dunque nel periodo in cui avvenne il passaggio di consegne nella bottega dei Bartolotti in seguito alla morte di Giuseppe, avvenuta il 12 dicembre 1775.11 Passiamo ora ad illustrare uno splendido calice12 marcato da Mattia Venturesi (Forlì 1710 – Roma 1776), argentiere di origine forlivese trasferitosi a Roma dove entrò nella bottega degli Arrighi, celebre dinastia di argentieri romani, che gli affidarono la direzio- 146 Gabriele Barucca Matteo Chiocca, calice Giuseppe Pagamici, pisside Domenico Balestra, pisside ne della loro bottega nel 1762, quando Mattia ottenne la patente di maestro e la possibilità di apporre un proprio merco personale sugli oggetti, dapprima sotto il controllo di Antonio Arrighi e in seguito dal 1766 sotto la sua diretta ed esclusiva responsabilità, anche se ciascuna delle parti aveva il diritto di rescindere il contratto.13 Il calice di Tolentino presenta una decorazione insolitamente ricca, non solo di motivi ornamentali astratti desunti dal consueto repertorio settecentesco ma anche di altorilievi figurativi fusi, come i tre angioletti che si inseguono gioiosi sulla base, le coppie di teste di cherubini collocate entro tre cartelle che si susseguono sul nodo di elaborato rilievo plastico. Le volute, le cartelle architettoniche, i motivi vegetali che sono tipici del repertorio rococò e che caratterizzano molte delle opere di Venturesi, sono qui organizzati non con la sua consueta rigida simmetria ma in modo più libero conferendo all’oggetto una sorta di dinamismo, secondo un’interpretazione di questo stile più oltremontana che italiana. Un altro calice settecentesco di notevole eleganza,14 con piede circolare sagomato, nodo a lampione e sottocoppa a margine libero, decorato da testine di cherubini aggettanti, volute e cartelle coi simboli della Passione, presenta un bollo molto abraso ma ascrivibile con qualche incertezza a Giuseppe Grazioli (Fermo 1717 – Roma 1792; pat. 1749). Del resto la qualità dell’esecuzione dell’arredo sacro, la sobrietà della composizione che non trascende nella leziosità talvolta esagerata del repertorio rococò, nonché il confronto con altri pezzi15 sicuramente del Grazioli confermano la sua paternità per il calice in questione. Va segnalato poi un piccolo ed elegante reliquiario ad ostensorio,16 appartenente a una tipologia molto diffusa nel Settecento, con la teca incastonata in esuberanti corni- ci formate da variati intrecci di volute, cartelle e motivi fitomorfi. L’oggetto presenta il merco personale dell’argentiere Pietro Moretti, nato a Roma nel 1722, patentato maestro nel 1746 e attivo fino al 1766.17 Per concludere il commento dei pezzi settecenteschi ancora conservati nel tesoro di San Catervo bisogna almeno accennare ad un grande ostensorio raggiato, purtroppo manomesso da un improprio e pesante restauro nel 1942, che riargentando il pezzo ha tra l’altro cancellato la probabile presenza del bollo dell’argentiere e di quello camerale. Riprende la struttura e il repertorio decorativo tardo seicentesco una grande pisside18 marcata dal maceratese Giuseppe Pagamici, la cui attività di maestro argentiere è documentata dal 1811 quando deposita il suo bollo.19 L’arredo sacro, che ripropone i consueti cespi di foglie d’acanto a cingere il nodo, la coppa e a ricoprire completamente il coper- TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO chio lievemente rialzato su fascia bombata, si riscatta per la raffinata esecuzione che rivela le notevoli capacità tecniche dell’argentiere maceratese. Venne donata alla cattedrale di San Catervo dal vescovo Francesco Ansaldo Teloni20 nel 1845, un anno prima di morire, una grande pisside21 recante un merco non perfettamente impresso ma che forse è quello usato da Domenico Balestra, argentiere nato a Marino nel 1779 e patentato maestro a Roma nel 1822. La pisside presenta un piede circolare, impostato su un alto gradino liscio con incisa la scritta dedicatoria,22 che si raccorda tramite una cornice a palmette al corpo su cui sono applicati festoncini vegetali dorati intercalati da testine di cherubini. Lo stesso motivo dorato decora il nodo ad anfora del fusto, mentre la coppa e il coperchio presentano cespi di foglie d’acanto, cornici definite da serti di alloro, e, sulla calotta del coperchio, una finissima decorazione incisa e appena sbalzata a palmette e girali su fondo punzonato a buccia d’arancia. Questa descrizione serve a illustrare le caratteristiche dell’oreficeria sacra romana intorno alla metà dell’Ottocento, quando si affermò un gusto segnato dalle ibridazioni dell’eclettismo, che determinarono curiose associazioni di forme e stili. Nell’ultimo quarto dell’Ottocento il tesoro di suppellettili sacre della cattedrale di San Catervo si arricchì di alcuni calici, aderenti ai canoni formali dell’oreficeria gotica d’oltralpe, a dimostrazione della fortuna che nella seconda metà del XIX secolo ebbe il recupero di forme e decori codificati fra Tre e Quattrocento. Il primo pezzo23 è contenuto in un bauletto di pelle viola con impresso in oro sul coperchio lo stemma di papa Pio IX . Sotto il piede dell’oggetto è incisa la scritta: “Offert a sa Sainteté le Pape Pie IX le 21 mai 1877 par plusieurs catholiques de Paris” e “Comité de Paris”. Il calice reca impressi il bollo di garanzia di Parigi e Pastorale del cardinale Giovanni Tacci 147 148 Gabriele Barucca quello della manifattura Thiéry. Peraltro dentro il bauletto è fissata una targhetta metallica con la seguente scritta: “Thiéry/ Manufacture d’orfèurerie/et de bronzes d’église/6 rue du Vieux-Colombier/a Paris”.24 L’oggetto fa parte dell’innumerevole serie di suppellettili donate a Pio IX in occasione del suo Giubileo episcopale dalle diocesi di ogni parte d’Europa e in particolare da quelle francesi e tedesche. Questi doni alla morte del papa, avvenuta il 7 febbraio 1878, vennero a loro volta regalati a molte chiese, in particolare delle Marche, terra d’origine di papa Mastai Ferretti.25 Probabilmente questa ridistribuzione è stata gestita da fra Francesco Marinelli, che in qualità di sacrista del Palazzo Apostolico - incarico conferito a partire dalla fine del XV secolo a un monaco dell’Ordine Eremitano di sant’Agostino, e al quale dal 1645 si associava il titolo vescovile di Porfireone26 - era di fatto il custode degli arredi della sacrestia papale. Allo stesso monsignor Marinelli, che fu sacrista dal 1856 al 1887, si deve il dono di un altro calice27 che reca inciso sulla coppa conica il suo stemma vescovile. Riguardo alle ragioni che indussero fra Francesco Marinelli a donare questi oggetti al duomo di Tolentino non abbiamo notizie certe, ma è forse dovuto al legame forte e speciale che gli Agostiniani hanno sempre avuto con Tolentino dove sorge il santuario di San Nicola. Va infine menzionato un altro calice neogotico di esibita ricchezza suntuaria ornato da numerose gemme colorate che reca incisa sotto il piede la scritta: “Capit Cath. Tolen. Ep. Galeati. D. 1882”.28 Delle acquisizioni novecentesche sono da ricordare in particolare gli oggetti legati alla figura del cardinale Giovanni Tacci Porcelli,29 che in gioventù, seppure fosse originario di Mogliano in diocesi di Fermo, frequentò il seminario di Tolentino. Il porporato lasciò alla cattedrale di San Catervo il suo pastorale dorato. Lo splendido riccio del pastorale, percorso da un tralcio di edera e punteggiato da ametiste tagliate a losanga, ospita al centro le statuette a fusione di san Pietro inginocchiato ai piedi del Buon Pastore che gli indica due pecore. Fu regalato nel 1908 al Tacci Porcelli, allora nunzio apostolico in Belgio (1907-1911), un elegante calice completamente dorato punzonato dall’argentiere Billaux-Crosse di Bruxelles.30 Dopo la morte del cardinale, avvenuta il 30 giugno 1928, suo fratello l’arcidiacono monsignor Pietro Tacci donò il calice al Capitolo della cattedrale di San Catervo,31 in memoria dell’illustre congiunto, che proprio a Tolentino aveva iniziato la sua prestigiosa carriera ecclesiastica. Manifattura Thiéry, calice Calice donato da mons. Marinelli Manifattura Billaux-Crosse, calice TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO 149 NOTE I manoscritti settecenteschi di Nicola Gualtieri sulla storia di Tolentino sono stati pubblicati a cura di Giorgio Semmoloni. Cfr. Semmoloni 1990, p. 162. 2 I pagamenti ai due orafi tolentinati per il reliquiario cefalico di san Catervo, predisposto ad hoc quando fu autorizzata nel 1455 l’apertura del sarcofago per estrarre il capo di Catervo, sono stati pubblicati da Aleandri 1905, pp. 150-152. Cfr. anche Coltrinari 2004, pp. 35-36. 3 L’inventario della chiesa, redatto per ordine di Benedetto XIII a tenore del Concilio romano dal P. Giovan Battista Loreto, Abate del Monastero e chiesa di San Catervo e consegnato alla Cancelleria Episcopale della Città di Tolentino il 10 giugno 1729, era conservato nell’Archivio della Curia Vescovile, Busta non segnata “Monasteri e Conventi”. Purtroppo infatti del manoscritto originale se ne sono perse le tracce e le uniche testimonianze dell’Inventario sono contenute in studi che ne hanno riportato testualmente alcuni passi. 4 Il manoscritto del Nerpiti è intitolato “Commentario dei SS. Beati e Venerabili che illustrano la Città di Tolentino e la Chiesa cattolica con la spiegazione de’ monumenti un cenno del culto e varie preghiere ai principali di essi a S. Catervo Protettore S. Basso e S. Settimia suoi compagni a S. Nicola e S. Tommaso Compatroni che si venerano in detta città. Piacenza. Tipografia Solari. Strada diritta n. 187-189. 1882”. A riguardo di questa indicazione, il Nerpiti aveva già preventivato luogo e data di edizione, ma il manoscritto non venne mai edito. Traggo queste informazioni da Nestori 1996a, pp. 7-9. Lo studioso ricorda anche che il manoscritto è conservato “nell’Archivio del Duomo in una busta con l’indicazione IV”. Non riuscendo a rintracciare il manoscritto ho tratto la citazione da Semmoloni 2007a, p. 39. 5 Nell’altare della Madonna della Pace si conserva, oltre al reliquiario a busto di San Tommaso da Tolentino, un altro di argento contenente il capo di San Catervo, realizzato in anni recenti. Il reliquiario a busto di San Tommaso da Tolentino di proprietà comunale, era in origine conservato nella chiesa di San Francesco fino al 1810 sede della cattedrale. Vedi Mocchegiani 1998, p.189. 6 Cfr. Barucca 2008, p. 201, con bibliografia precedente. 7 Il reliquiario in lamina d’argento sbalzata su supporto ligneo è alto 32,5 cm (col basamento in legno dorato), 24,7 cm (la figura in lamina d’argento). 8 Calice in argento e argento dorato, altezza 23 cm, diametro del piede 11,1 cm, diametro dell’orlo della coppa 8,8 cm. 9 Cfr. Bulgari Calissoni 1987, pp. 144-145. 10 Calice in argento e argento dorato, altezza 23,8 cm, diametro del piede 13,5 cm, diametro dell’orlo della coppa 9 cm. 11 Cfr. Bulgari Calissoni 1987, p. 85. 12 Calice in argento e argento dorato, altezza 28,5 cm, diametro del piede 15 cm, diametro dell’orlo della coppa 9 cm. 13 Su Mattia Venturesi e sulla bottega degli Arrighi cfr. Montagu 2007, in particolare pp. 13-21; Eadem 2009. 14 Calice in argento e argento dorato, altezza 26,3 cm, diametro del piede 13,1 cm, diametro dell’orlo della coppa 13,1 cm. 15 Vedi in particolare la pisside in collezione privata pubblicata da G. Barucca, in Ori e argenti 2007, p. 235, fig. 62 a p. 146. 16 Il reliquiario a ostensorio in lamina d’argento sbalzata su supporto ligneo è alta 29,5 cm (col basamento ligneo), 26 cm (la lamina argentea). 17 Cfr. Bulgari Calissoni 1987, p. 311. 1 Pisside in argento e argento dorato, altezza 27,5 cm, diametro del piede 13,2 cm, diametro dell’orlo della coppa 14 cm. 19 Cfr. Bulgari Calissoni 2003, p. 227. 20 Nato a Treia l’8 ottobre 1760, Francesco Ansaldo Teloni fu vescovo di Macerata e Tolentino dal 1824 al 1846, quando morì il 31 gennaio a Macerata. In gioventù era stato precettore di Giovanni Maria Mastai Ferretti, futuro papa Pio IX. 21 Pisside in argento e argento dorato, altezza 36 cm, diametro del piede 13,4, diametro dell’orlo della coppa 16 cm. 22 Sulla fascia esterna del piede della pisside corre la seguente iscrizione: “Franciscus Ansaldus Teloni Ep(iscop)us Maceratae et Tolentini 1845”. 23 Calice in argento e argento dorato, altezza 22,7 cm, diametro del piede 13,1, diametro dell’orlo della coppa 9,2 cm. In un Inventario degli oggetti mobili della Chiesa Cattedrale di Tolentino 1902, conservato manoscritto nell’ADT, busta 41/3.1, l’oggetto viene così descritto: “I) Uno con custodia di pelle nera a cassetta dorato, di stile bizantino con pietre, donato da Pio IX.” 24 All’interno del bauletto si conserva un cartoncino prestampato con lo stemma di Pio IX e recante la scritta: “Diocesi di Parigi OFFERTA della Commissione dell’Opera del Denaro di San Pietro di Parigi 1877”. 25 A tal proposito cfr. Munera i doni di Pio IX 2000. 26 Sulla figura e le funzioni del sacrista del Palazzo Apostolico cfr. Orsini 2000, pp. 27-30. 27 Calice in argento e argento dorato, altezza 23,8 cm, diametro del piede 15,5 cm, diametro dell’orlo della coppa 9,8 cm. Nel citato Inventario del 1902, l’oggetto viene così descritto: “II) Uno con custodia di tela, paonazza di stile bizantino dorato con medaglione a croce in smalto al piede, dono del fu Mons. Marinelli, Sagrista dello stesso Pontefice.” 28 Calice in argento e argento dorato, altezza 24 cm, diametro del piede 13,2 cm, diametro dell’orlo della coppa 9,2 cm. 29 Giovanni Tacci Porcelli (Mogliano, 12 novembre 1863 - 30 giugno 1928) frequentò il seminario della diocesi di Tolentino. Ordinato prete nel 1886 per la diocesi di Roma, in giovanissima età venne consacrato vescovo di Città della Pieve (1895-1910). Fu delegato apostolico a Costantinopoli e patriarca vicario per i cattolici di rito latino (1904-1907), nunzio apostolico in Belgio (1907-1911), internunzio nei Paesi Bassi (1911-1916). Dal 1916 fu prefetto della Casa Pontificia e dal 1918 prefetto dei Sacri Palazzi. Dal 1922 al 1927 fu segretario della Congregazione per le chiese orientali. Infine il 13 giugno 1921 fu nominato da papa Benedetto XV, cardinale con il titolo di Santa Maria in Trastevere. 30 Calice in argento e argento dorato, altezza 24,8 cm, diametro del piede 16,5 cm, diametro dell’orlo della coppa 11,4 cm. Sotto il piede è incisa la scritta: “SOUVENIR RECONNAISSANT DE M(onsieu)R ET MADAME EDGAR de POTTER d’INDOYE A’ SON EXCELLENCE LE NONCE APOSTOLIQUE 9 JUIN 1908”. Intorno alla coppa conica del calice è corre una scritta in lettere gotiche: “Calicem salutaris accipiam et Nomen Domini invocabo” 31 Queste notizie sono scritte su una targhetta metallica applicata all’interno del bauletto in cuoio nero che contiene il calice con la sua patena: “L’Arcidiacono Monsignor D Pietro Tacci / donò al Capitolo Cattedrale il 15 Agosto 1928 / in memoria del / Cardinale Giovanni Tacci / m. il 30 giugno 1928.” 18 Recanati Pagine precedenti: Giovanni Antonio Carosio, Angelo e stucchi, 1650 ca. (particolare della decorazione dell’abside) RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 153 LA STORIA RELIGIOSA DELLA CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO DI RECANATI Egidio Pietrella Diffusione del cristianesimo nel territorio di Recanati Non si hanno precise notizie sulla diffusione e primitiva organizzazione della religione cristiana nel territorio di Recanati. Sono state avanzate solo alcune ipotesi, non sufficientemente suffragate da documenti. Una riguarda l’esistenza di un Flaviano vescovo di Helvia Ricina, vissuto nel III secolo e morto martire, il cui culto sarebbe stato introdotto in Recanati da san Claudio, altro vescovo di Ricina del IV secolo, che ne istituì la festa il 24 novembre; le reliquie del santo sarebbero state portate anche in un oratorio dove più tardi sorse (VIII-IX secolo) il monastero di Rambona, e lì ancora sarebbero conservate nella cripta dell’abbazia, dalla quale deriva il dittico d’avorio del IX secolo – ora conservato nei Musei Vaticani – in cui sarebbe rappresentato un san Flaviano in abiti pontificali.1 Sembra, invece, non inverosimile ritenere che almeno una parte dell’attuale territorio di Recanati fosse stato sotto l’influsso della città romana di Potentia, di cui sono attestati due vescovi: Faustinus episcopus Potentinae Provinciae Italiae Piceni” inviato dal papa ad un concilio africano negli anni 418-422; e un anonimo Pontifex Potentiae urbis del quale papa Gelasio, negli anni 494-495, incaricò Geronzio vescovo di Valva di interessarsi per una questione che lo riguardava.2 Secondo il Vogel, dopo le devastazioni dei Goti e dei Longobardi, il territorio di Recanati, per circa sette secoli, fu affidato nella cura spirituale, parte alla Disegno con il Castello degli antichi Vulpiani, da originale di Benedetto Fucili superstite diocesi di Numana e parte a quella di Osimo. Nel Piceno la Chiesa di Roma possedeva i patrimoni in Osimo, Ancona, Numana all’epoca di Pelagio II (579-590), amministrati dal vescovo di Cingoli Giuliano. La maggior parte del patrimonio di Numana sarebbe stato nel territorio di Recanati. In una Bolla di Urbano IV del 24 maggio 1264 la mensa del vescovo di Recanati è detta essere stata donata dalla Chiesa di Roma; e Nicolò IV nella Bolla del dicembre 1289 chiama Recanati “speciale ecclesiae Romanae peculium”.3 Sotto la giurisdizione del vescovo di Numana risulta elencata, tra le altre chiese, anche quella di San Flaviano, in Castelnuovo, sita presso Porta d’Osimo, che era del patrimonio di San Pietro.4 All’inizio del XII secolo l’altura dell’attuale Recanati era occupata da tre monti o vici, probabilmente dotati di un castello ciascuno: monte di Vulpio, monte San Vito e monte Morello. Dalla loro unione si formò il Comune di Recanati nel 1160, circa. Recanati elevata al grado di città e di sede vescovile Il 22 dicembre del 1240 Recanati fu elevata al grado di città e la chiesa di San Flaviano alla dignità di cattedrale. Questi onori, sottratti alla vicina Osimo perché parteggiava per Federico II, scomunicato dal papa (pasqua 1239), furono trasferi- 154 Egidio Pietrella Ritratto di Gregorio XII, sagrestia Sarcofago del vescovo Angelo Cino da Bevagna ti a Recanati, per la sua fedeltà alla sede apostolica, come afferma la Bolla “Recte considerationis” del papa Gregorio IX: “Eapropter, dilecti in Domino filii, prout convenit, attendentes, quod in devotione Ecclesiae illam studuistis observare constantiam, quod nec damna rerum vobis per Federicum dictum imperatorem, Dei et Ecclesiae inimicum illata nec pericula corporum vos a fidelitate Sedis Apostolicae avertere potuerunt, et congruum aestimantes ut castrum Recanatense, quod de caetero esse Civitatem statuimus, grata honorificentia extollamus, de communi Fratrum nostrorum consensu et assensu Terrae vestrae, quam a jurisdictione Ecclesiae Humanatae eximimus, episcopalem concedimus dignitatem”.5 Il primo vescovo di Recanati fu Rinaldo, il quale lo era stato già di Osimo; ne seguirono altri quattro fino al 1263, anno in cui Recanati alleatasi con il re Manfredi contro il papa Urbano IV, fu privata del titolo di città e della sede vescovile e sottoposta nuovamente alla Chiesa di Numana. Ma la sede episcopale fu restituita da Nicolò IV nel 1289. Nel corso del tempo seguirono ancora altre fasi alterne nell’organizzazione ecclesiastica di Recanati, come si può desumere dalla cronotassi sinottica dei vescovi delle cinque diocesi riunite presente in questa pubblicazione, cui si rimanda.6 Ritornando più direttamente alla chiesa elevata nel 1240 al ruolo di cattedrale, va precisato che essa fu quella di San Flaviano dell’inizio del secolo XIII, costruita intra oppidum, nel periodo in cui Recanati si era costituita ormai in libero Comune. Come accennato sopra, dedicata allo stesso San Flaviano, a Castelnuovo esisteva anticamente (dal VI-VII secolo, forse) una chiesa non lontano dalla via che conduceva ad Osimo; essa era la più antica delle altre chiese (Santa Maria di Montemorello, San Vito) e antichissimo patrimonio di San Pietro. Distrutta verso la fine del secolo XII, rimanendo in quel luogo il toponimo di San Flaviano vecchio, se ne costruì una nuova dedicata allo stesso San Flaviano, che data l’antichità del titolo e per il fatto che era già patrimonio di San Pietro, meritò la di- gnità di cattedrale. In onore del titolare san Flaviano, patrono della cattedrale e della diocesi (mentre san Vito fu ed è tuttora quello della città) si celebravano annualmente due feste: una con minore fasto il 18 febbraio, secondo un’usanza introdotta nel 1611; ed un’altra il 24 novembre, con maggiore solennità. Sembra che quest’ultima data sia stata la sola in cui anticamente si festeggiava il santo a Recanati, nel Piceno e in Abruzzo. Secondo Vogel, il santo Flaviano celebrato a Recanati è stato qui sempre ritenuto martire, come risulta da alcuni documenti del 1249, 1291, 1310, 1334. Un antico calendario, l’iconografia e i sigilli dei vescovi lo ritraggono come vescovo e martire. Che san Flaviano patrono di Recanati sia stato il vescovo patriarca di Costantinopoli del V secolo, è un’opinione piuttosto recente, non essendoci in proposito un documento più antico di quello costituito dagli Atti della Visita Pastorale del 1587.7 La storia della cattedrale di San Flaviano La storia della struttura materiale e di quella religiosa della cattedrale consente di seguirne le fasi di sviluppo, la vita di fede e i personaggi che si adoperarono per il suo decoro artistico e la vita spirituale. La prima cattedrale, ormai angu- RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 155 Sarcofago di Gregorio XII sta e fatiscente, fu ricostruita negli anni 1384-1402 dal vescovo Angelo di Bevagna (1383-1412), mediante lasciti testamentari di benefattori. Nel 1411 fu portato a termine anche il campanile. Resti di muri e tracce di affreschi anteriori al secolo XIV, capitelli in pietra della prima chiesa sono ancora visibili nella cripta.8 Memoria monumentale di un fatto unico nella storia della Chiesa è tramandata dal sarcofago di Gregorio XII. Angelo Correr, veneziano, eletto papa il 30 novembre 1406, dopo aver abdicato dal pontificato il 4 luglio del 1415 per favorire la soluzione dello scisma d’occidente, fu nominato legato perpetuo a latere della Marca d’Ancona, con il diritto riconosciutogli del primo posto dopo il papa, e perpetuo amministratore delle diocesi di Recanati e Macerata. Morì a Recanati il 18 ottobre 1417 e fu sepolto nella cattedrale, in un monumento funebre (ora collocato nel sacello antistante il luogo detto Sancta Sanctorum delle reliquie) su cui si legge una epigrafe, scritta in latino in caratteri gotici.9 A vantaggio della cattedrale molto contribuì anche l’opera attiva del vescovo Niccolò Dalle Aste (1440-1469). Considerato “ordinatore e riformatore della diocesi di Recanati”, giudicato “pastore di cui nessuno fu migliore”, ornò la cattedrale con la sede episcopale, il trono e il coro, eseguito con lavori di intarsio di fattura pregevole e di grande eleganza artistica, sostituiti poi nei successivi restauri. Per il Capitolo emanò le Costituzioni, per il collegio degli Altaristi decreti; stabilì la recita quotidiana delle Ore canoniche; istituì nel Capitolo l’Arcidiaconato, lasciò ricchi legati agli Altaristi e alla sagrestia della cattedrale. La sua attività benefica e il suo interessamento generoso furono rivolti a tutta la città e a Loreto dove diede inizio alla costruzione del tempio monumentale, e al “tesoro” di cui Lapide dedicatoria di Paolo V, 1618 fu munifico donatore. Un’urna collocata nel sacello antistante la sala del reliquie ricorda il Dalle Aste con un’epigrafe.10 Grandi e innovativi interventi furono eseguiti soprattutto nel 1600 e 1700 che resero la chiesa praticamente come si trova nello stato attuale. Spendendo del suo, il vescovo cardinale Agostino Galamini (1613-1620) ricostruì gli archi della navata centrale, fece eseguire il soffitto ligneo a cassettoni ottagonali a croce greca, con al centro, in rilievo, san Flaviano. Gli ottagonali riportano gli stemmi di Paolo V, dei cardinali Borghese e Gala- 156 Egidio Pietrella Sarcofago del vescovo Niccolò delle Aste mini. Furono modificate le finestre per dare luce a tutto l’interno.11 Il vescovo cardinale Giulio Roma (1621-1634) aggiunse ulteriori abbellimenti e l’organo pneumatico della ditta Bossi (1633); istituì nel Capitolo le funzioni del canonico penitenziere e del canonico teologo.12 Il vescovo Amico Panici (1634-1661) fece stuccare l’abside e affrescare con il martirio di san Flaviano e di san Vito, la Natività di Maria, l’Annunciazione e la Traslazione della Santa Casa di Nazareth a Loreto. Da parte sua il Comune nel 1621 contribuì con denaro per il nuovo battistero di pietra abbronzata, ornato di statue e targhe bronzee del recanatese Pier Paolo Jacometti.13 Con il vescovo Lorenzo Gherardi (1693-1727) la cattedrale di San Flaviano fu dotata di oggetti ornamentali, venne fornita di sagrestia e di leggi per la disciplina del Coro, per gli obblighi degli altaristi e i canonici ebbero il privilegio di vesti eminenti.14 L’ultima trasformazione della chiesa fu dovuta al vescovo Giovanni Antonio Bacchettoni (1749-1767) che fece abolire gli archi acuti e aggiungere le colonne ai pilastri; sostituire i finestroni gotici con quelli attuali per dare spazio agli altari laterali. Fu costruita anche la nuova cappella del Santissimo Sacramento.15 Il 17 agosto del 1804 con Bolla pontificia di Pio VII (1800-1823), per interessamento del vescovo Felice Paoli (1800-1806), la cattedrale fu elevata all’onore di basilica minore. Nel 1827 fu modificato l’ingresso della cattedrale: chiusa la porta laterale, fu aperta quella in fondo alla chiesa.16 Dopo circa centocinquanta anni, lavori necessari di riparazione furono fatti eseguire dal vescovo Emilio Baroncelli (1955-1968): vennero ricostruiti il pavimento di marmo e il tetto; fu decorato l’interno ed installato un moderno impianto di illuminazione. Nel 1957, terminati i lavori, la cattedrale fu riaperta al pubblico con solenni cerimonie.17 Negli ultimi dieci anni, dopo i danni provocati dal terremoto del 1997-98 sono stati eseguiti lunghi lavori di consolidamento della struttura, di rifacimento del tetto, del pavimento e di restauro delle pitture e delle decorazioni La chiesa è a tre navate. Il presbiterio comprende l’altare maggiore “papale” e il coro ligneo. Lungo la navata di destra si succedono dal presbiterio gli altari di San Carlo Borromeo, di San Filippo Neri, della Madonna e santi, di San Liborio. Lungo la navata di sinistra, a partire dal fondo della chiesa, si trova il battistero; di seguito sono le cappelle della Madonna Addolorata e del Santissimo Sacramento fornito di coro ligneo. Al lato sinistro del presbiterio si trova il sacello con le tre urne dei vescovi Angelo di Bevagna, Nicolò Dalle Aste e del pontefice Gregorio XII; contigua è la cappella delle Reliquie, tra cui da segnalare sono quelle della Santa Croce e il reliquiario con osso del braccio di San Flaviano donati dal papa Gregorio XII. Nella cripta si conservano resti della prima cattedrale, tracce di affreschi (la Vergine Addolorata ai piedi della Croce; San Sebastiano) e capitelli in pietra posti alla base delle colonne in cotto (provenienti, forse, dalla chiesa di San Flaviano vecchio). Nelle due urne sepolcrali sono sepolti il cardinale Tommaso Antici morto nel 1812 e il vescovo Luigi Cossio deceduto il 3 gennaio 1957. Sulle pareti del pronao si leggono varie epigrafi dedicate a vescovi e personaggi illustri e l’elenco dei vescovi della diocesi. Il Capitolo della cattedrale di San Flaviano È indubbio che all’erezione della chiesa di San Flaviano come cattedra vescovile (1240) si accompagnò l’istituzione del Capitolo della cattedrale, dato il suo triplice ruolo di essere esso il “senato” del vescovo (unico organo consultivo e in alcuni casi importanti, anche deliberativo); di svolgere il servizio liturgico con recita collettiva delle ore canoniche nella chiesa episcopale; di assolvere il compi- RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO to della cura animarun della parrocchia principale. Mancano fonti documentarie, almeno degli inizi, circa la sua costituzione e il numero dei membri. Ma già nel 1256 si parla del priore del Capitolo e di San Vito; nel 1290 dell’arcidiacono. Nel 1320, quando fu soppressa la diocesi di Recanati e istituita a Macerata, in questa città si trasferirono sedici canonici e le due “dignità” di prevosto e di arcidiacono. Ristabilita la diocesi di Recanati nel 1357, in essa tornarono otto canonici con il prevosto, mentre gli altri otto restarono a Macerata con l’arcidiacono. Ma, nonostante la promessa dei Recanatesi (esposta nella richiesta di un vescovo per la propria diocesi) di costruire le case dei canonici presso la cattedrale di San Flaviano, il Capitolo, per mancanza di sedi non realizzate in quel luogo, officiavano ancora la chiesa di San Vito, recandosi nella cattedrale solo in occasione delle funzioni celebrate dal vescovo, e, in tempo di sede vacante, per eleggere il vicario capitolare e per altre decisioni importanti che interessavano il Capitolo o la diocesi stessa. Ai precedenti otto canonici, talvolta assenti o ammalati, nel 1441 il vescovo Nicolò Dalle Aste ne aggiunse altri quattro; inoltre, nel 1464 egli ripristinò la “dignità” dell’Arcidiaconato. Frattanto, dopo la ricostruzione della cattedrale (1384) si incominciò a formare in essa un collegio di “altaristi”, cioè di sacerdoti “beneficiati” (fruitori di lasciti, beni, legati, offerti dai fedeli) che officiavano la cattedrale di San Flaviano: essi formavano una sorta di secondo “Capitolo” concorrente con quello della cattedrale officiante ancora in San Vito. Erano divisi, secondo l’anzianità e gli anni di servizio, in due categorie: dodici erano detti di prima erezione; quattro di seconda erezione. Trasferitosi definitivamente il Capitolo nella cattedrale di San Flaviano con la bolla di Gregorio XIII dell’11 luglio 1577, gli altaristi co- 157 Lapide commemorativa del vescovo Giovanni Battista Campagnoli, 1751 Lapide commemorativa del vescovo Benedetto Bussi, 1728 adiuvavano i canonici nelle funzioni religiose, nel servizio corale e, soprattutto, nel canto, essendo riservato agli altaristi l’ufficio di primo cantore o solista. Tra i due gruppi di presbiteri non mancarono dissensi, che i vescovi riuscirono poco a poco a far superare. La breve soppressione della diocesi di Recanati (1586), stabilita da Sisto V a favore di quella di Loreto, costrinse i canonici a trasferirsi, con i loro benefici, nella città lauretana. Ma nel 1592 ricostituitasi per opera di Clemente VIII la diocesi recanatese, anche il Capitolo vi fece ritorno. Una generale riorganizzazione, con l’aggiunta del canonico teologo (1629) e del canonico penitenziere (1630), si ebbe con il vescovo cardinale Agostino Galamini (1613-1620) e il vescovo cardinale Giulio Roma (1621-1634). Per tutto il 1700 si segnalano nel servizio corale e negli incarichi un ordinato funzionamento e un perfetto accordo fra cano- nici, mansionari, altaristi. Tra i privilegi concessi da Benedetto XIII nel 1726 i canonici ottennero l’uso della cappa d’ermellino d’inverno e la mozzetta d’estate e gli altaristi la cappa di pelle cenerina. Del Capitolo all’inizio dell’Ottocento risulta questa composizione: “Dignità” n. 4: Preposto (istituzione: anno 1360); Arcidiacono (istituito nuovamente nel 1457); Arciprete (istituzione nel 1522); Decano (istituzione nel 1527); 12 canonici; 10 altaristi di I^ erezione; 4 altaristi di II^ erezione. Come altrove, per le leggi eversive del nuovo Stato italiano, dopo il 1860 tutti i beni capitolari furono indemaniati e i canonici ricevettero in compenso una “congrua”, provvedimento superato, sia pure dopo oltre un secolo, con il nuovo Concordato tra la Santa Sede e il Governo italiano del 18 febbraio 1986 mediante l’istituzione del l’Istituto Diocesano di Sostentamento per il Clero. Nel 1973, oltre il prevosto, il Capitolo contava quattordici canonici e due alta- 158 Lapide dedicatoria di Pio VI risti (mansionari). Il Nuovo Codice di Diritto Canonico del 25 gennaio 1983 e la Costituzione apostolica “Sacrae disciplinae leges” di Giovanni Paolo II hanno ridimensionato la funzione e la struttura dei Capitoli cattedrali, riducendo la loro attività al solo ruolo “liturgico” per le celebrazioni più solenni della cattedrale. Il nuovo statuto della Diocesi unificata di Macerata – Tolentino – Recanati – Cingoli – Treia approvato dal vescovo Luigi Conti il 6 gennaio 1998 ha stabilito nell’unica cattedrale di Macerata un solo Capitolo, i cui canonici prendono parte alle celebrazioni liturgiche più solenni nella cattedrale di Macerata e nelle quattro concattedrali di Tolentino, Recanati, Cingoli, Treia in occasione delle feste principali, specialmente dei santi patroni locali.18 Per la cattedrale di Recanati è necessario ricordare ancora la lunga e prestigiosa attività in essa svolta dalla Cappella Musicale. La “Cantoria” fu istituita nel 1461 dal vescovo Nicolò Dalle Aste (1440-1469) ed era diretta dal primo degli “altaristi”, detto “cantore”, di nomina episcopale e canonicale. Il beneficio assai cospicuo Egidio Pietrella allora permetteva che si chiamassero musicisti di vaglia; poi vescovi ammiratori e protettori di quest’arte dotarono la cappella musicale di organi egregi e di buone voci. Tre furono, in successione di tempo, gli organi di cui fu dotata la cattedrale. Il più antico, opera del rinomato Corrado di Colonia, fu donato nel 1528 dal vescovo cardinale Giovanni Domenico De Cuppis. Nel 1633 il vescovo cardinale Giulio Roma fece dono del grande organo pneumatico eseguito dall’organaro Bossi; infine, il vescovo Amico Panici di Macerata, che “molto promosse la musica, tenendo per le funzioni ecclesiastiche musici di stima”,19 dotò la cattedrale di un terzo organo, fatto colorire a guisa di pietra mischia, toccata d’oro, con l’arme della sua famiglia. I registri dell’Archivio Capitolare riportano ventisei nomi dei “cantori” e organisti succedutisi nella direzione della “Cantoria” di Recanati, molti recanatesi, ma anche provenienti da città delle Marche e dell’Italia; alcuni furono anche eccellenti compositori prevalentemente di musica sacra, per lo più inedita. Per venire più vicini a noi nel tempo, degno di particolare ricordo è il direttore recanatese mons. Giuseppe Guzzini, letterato e profondo conoscitore di musica, che attuò nella cattedrale la riforma della musica sacra promossa dal papa San Pio X. Alla sua scuola si formò il tenore Beniamino Gigli, che con la sua arte e voce potente e delicata fu e resta una gloria luminosissima di Recanati. Ora la schola cantorum del Duomo, dal titolo di Virgo Lauretana, è composta di cinquanta elementi e si produce ancora con un ricco repertorio di musica sacra classica e moderna.20 La parrocchia della cattedrale di San Flaviano La chiesa di San Flaviano eretta cattedrale (1240) esercitava ovviamente la cura animarum. Anzi, essendo la chiesa epi- scopale, era la parrocchia principale della città, rispetto a quelle anche più antiche, quali la pieve di San Vito, la parrocchia di Santa Lucia. Quest’ultima, sita nell’ambito di San Flaviano, nel 1669 fu unita a quella della cattedrale. Altre chiese urbane con funzione di parrocchie, erano quelle di San Domenico (dal 1290), di Sant’Angelo (poi detta di Sant’Anna) dal 1500; Santa Maria di Montemorello (dal 1582), di Sant’Agostino (dal 1586). La parrocchia della cattedrale ebbe definiti i confini nel novembre del 1609: essi giungevano fino al ponte del fiume Musone; comprendevano parte della città (dall’attuale piazza Leopardi all’inizio del rione di Castelnuovo); vaste zone della contrada di San Francesco, Duomo, quasi l’intero rione delle Grazie e la contrada dell’Addolorata. L’archivio parrocchiale conserva fin dal 1564 i registri dello stato d’anime, dei battesimi, dei matrimoni e dei morti. L’elenco dei parroci dal 1564 fino ai giorni nostri enumera trentatre titolari.21 Nel 1769 la parrocchia contava tremila abitanti; nel 1897, duemisettecentocinquanta22 Successivamente, furono erette dentro il suo ampio territorio nuove parrocchie (dell’Addolorata, 1864; di Cristo Redentore, 1970; di Santa Maria della Pietà, 1973; di San Francesco, 1974). Nel 1973 contava ancora tremilacento abitanti; nel 1985 millecentosettantotto; dal 2000 conta circa milletrecento abitanti e ha nel suo territorio le seguenti chiese: San Filippo Neri, Santa Maria Sopramercanti; la chiesa del Beato Placido, di Sant’Anna, del Santissimo Crocifisso, di Santa Maria dei mercanti. La festa principale, oltre quella del titolare san Flaviano, è costituita dalle solenni Quarantore di Adorazione Eucaristica che si svolgono in maniera solenne dalla domenica delle Palme fino al martedì santo. La confraternita del Santissimo Sacramento – di cui resta una ricca documentazione nell’Archivio diocesano dal RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 1562 e che è rimasta attiva fino all’ultimo ventennio del Novecento – curava il culto eucaristico, coadiuvando i parroci, specialmente nelle solenni quarantore.23 Eventi principali Il papa Pio VI compì una duplice visita a Recanati nell’anno 1782: il 2 marzo, provenendo da Tolentino e sostando anche a Loreto, mentre era diretto a Vienna; e il 9 giugno di ritorno, dopo una prolungata visita nel santuario lauretano, si fermò nuovamente a Recanati, dove da un trono allestito davanti alla chiesa di Santa Maria della Piazza benedisse il popolo e proseguì per Roma. Il fatto è ricordato da una lapide posta nell’atrio della cattedrale. I Sinodi diocesani celebrati a Recanati sono stati quattordici.24 Sono da ricordare due congressi eucaristici diocesani: del 1919 (promosso dal vescovo Alfonso Maria Andreoli); del 1948 sotto l’episcopato di mons. Luigi Cossio, con la partecipazione del cardinale legato Giuseppe Bruno, Prefetto della Congregazione del Concilio.25 Da segnalare, ancora, la solenne peregrinatio Mariae con l’immagine della Beata Vergine Lauretana per tutte le parrocchie della diocesi, durata sette mesi, dal settembre 1949 al maggio 1950.26 La devozione mariana dei Recanatesi fu rivolta da sempre soprattutto alla Madonna di Loreto, per ovvie ragioni storiche. Nel territorio di Recanati, a pochi chilometri, nel 1294 ebbe inizio la tradizione della Traslazione della Santa Casa di Nazareth. I vescovi di Recanati prima, di Recanati e Loreto successivamente curarono in ogni tempo questa devozione sorta nell’ambito della loro diocesi, con la costruzione del tempio, la dotazione di benefici e di donativi.27 Il 25 marzo del 1498 la città compì uno storico pellegrinaggio al Santuario di Loreto, in adempimento di un voto alla Vergine che con la sua protezione l’aveva liberata dalla peste.28 Il calendario liturgico diocesano pub- La “Madonna dei Coppetti” blicato nel 1611 su ordine del vescovo Benzoni stabiliva solenni celebrazioni in onore della Vergine lauretana nel giorno 10 dicembre anniversario della Traslazione della Santa Casa di Nazareth. La prima manifestazione era costituita da un pellegrinaggio di cento fanciulle al santuario mariano per offrire ceri a nome del Comune; la seconda prevedeva la celebrazione riservata al clero secolare e regolare e si svolgeva intra urbem; la terza era una celebrazione “nocturna” che coinvolgeva il vescovo, il clero, nobili, popolo con processione di candele e suono di musica. Sulla pubblica piazza, dopo il canto delle litanie, al suono della campana, si ripeteva tre volte il saluto angelico. Le cerimonie riprendevano nei tre giorni antecedenti la domenica successiva, con triduo solenne e predicazione di valente oratore.29 Nel 1613 nella chiesa urbana di Sant’Anna si costruì una “replica” della Santa Casa di Loreto; in essa si recavano fedeli e devoti che non potevano compiere, per ragioni di salute e di età, il pellegrinaggio a Loreto. 159 Quando il papa Sisto V nel 1586 separò Loreto da Recanati, conferendo a Loreto il grado di città e di diocesi, i Recanatesi si sentirono ancor più legati alla chiesetta di Sant’Anna, curandola, abbellendola, facendone il loro piccolo santuario lauretano. Questa sentita tradizione si è mantenuta fino ai giorni nostri. Nel 2010, restaurata la chiesa di Sant’Anna dove si conserva la “copia” della Santa Casa di Loreto, sono state inaugurate anche le porte bronzee della chiesa, ultima opera dello scultore Sesto Americo Luchetti di Montecassiano, narranti nei vari pannelli la storia della Santa Casa di Nazareth e la devozione dei Recanatesi alla Vergine Lauretana. Se Recanati fu definita “justissima civitas”, per il suo codice di giuste leggi emanate nel 1405, prese a modello da altri Comuni della Marca e dell’Italia; e “città della poesia” (per il suo poeta Giacomo Leopardi); “città della musica” (per il suo concittadino, celebre cantore lirico Beniamino Gigli) e ancora “città d’arte (per le numerose opere che vi si conservano, soprattutto di Lorenzo Lotto), a maggior ragione essa merita anche il titolo di “città lauretana” per la sua spiccata e secolare devozione alla Madonna di Loreto. Immagini (statue, pitture, altari, copie del sacello di Loreto) della Vergine Lauretana presenti in chiese, in case private, nel museo diocesano, se ne contano una ventina, circa, a Recanati. Tra di esse si segnalano per l’arte quelle dipinte da Giovanni Antonio Carosio (1638, concattedrale di San Flaviano) e quella attribuita a Vincenzo Pagani (sec. XVI, Pinacoteca civica); la scultura in bronzo della Traslazione della Santa Casa di Pier Paolo Jacometti (1627-1633), trasferita, dalla facciata dell’antico palazzo civico abbattuto, sulla torre civica dove ora si ammira; e la recente (2008) porta bronzea della chiesa di Sant’Anna con le scene della devozione lauretana dei Recanatesi.30 160 Egidio Pietrella Santi e personaggi illustri San Flaviano, vescovo e martire, protettore della cattedrale e della diocesi, fu identificato fin dal 1587, secondo il Vogel, con Flaviano vescovo di Costantinopoli (390-449) che dovette combattere l’eresia monofisita tra difficoltà d’ogni genere. Alla relazione che egli inviò al papa Leone I dell’operato del Sinodo che aveva condannato e deposto l’eresiarca Eutiche, il Pontefice rispose con la celebre Epistula ad Flavianum del 13 giugno 449. Uno pseudo concilio – il cosiddetto Latrocinium Ephesinum – convocato dall’imperatore Teodosio II, depose il santo patriarca e lo condannò all’esilio. Malmenato violentemente, egli morì dopo appena tre giorni, avendo potuto inviare in extremis a San Leone I un pressante appello. Fu riabilitato dai Padri del Concilio di Calcedonia (451) e annoverato tra i santi come martire. San Vito martire (288-303) è commemorato nel martirologio Geronimiano (sec. V) che ne colloca le origini del culto in Lucania. Pare sia stato vittima, appena quindicenne, della persecuzione di Diocleziano. Fin dal V secolo furono dedicati alla sua memoria chiese e monasteri in Roma, Sicilia, Sardegna. Il suo culto ebbe grande sviluppo nel medioevo, specialmente tra i Tedeschi e gli Slavi. Le sue reliquie, dopo varie traslazioni, sono ora venerate nella Cattedrale di Praga. A lui in Recanati, fu dedicata la “pieve” di San Vito, costruita, forse, fin dal mille sulla cresta più alta dell’allungata collina recanatese dove si stava costituendo il Comune. È il patrono della città di Recanati che ne celebra la festa il 15 giugno. Il Beato Placido di Recanati ha la memoria liturgica il 5 giugno. Bartolomeo da Fermo, o Placido da Recanati, come viene comunemente chiamato, nacque a Fermo all’inizio del secolo XV ed entrò tra gli “Apostolini” della Congregazione di San Barnaba. Dal 1432 la sua presen- za risulta a Recanati nella chiesa di San Giovanni in Pertica in una comunità di “Apostolini” di cui fu vicario o padre spirituale. Fu un religioso di grande santità. Morì nel 1473. Presso il suo sepolcro, come si tramanda, avvennero molti miracoli. Il beato Girolamo Ghirarducci di Recanati sacerdote (-1335), entrato nell’ordine agostiniano, visse santamente la sua vita religiosa nel convento di Sant’Agostino di Recanati. Esercitò un intenso apostolato tra la gente marchigiana, predicando e facendo soprattutto opera di pace tra famiglie e città. Il papa Pio VII ne confermò il culto nel 1804. Le sue spoglie si venerano nella chiesa di Sant’Agostino. La memoria liturgica ricorre il 12 marzo. Tra i personaggi recanatesi illustri, limitandoci agli esponenti ecclesiastici e religiosi, si ricordano ventitre vescovi, di cui tre cardinali: Anselmini Rocco, vescovo di Nocera Umbra (+1910); Antici Giovanni Battista (1630-1690), nominato vescovo di Amelia nel 1685; Antici Pietro, vescovo di S. Agata dei Goti e successivamente di Giovinazzo (+ 1472); Antici Ruggero (1811-1883) nominato da Pio IX patriarca di Costantinopoli e cardinale; Antici Tommaso (17311812) nunzio pontificio in Germania, Polonia, nel ducato di Parma; cardinale Bongiovanni Anton Giacomo (secolo XVI) vescovo di Camerino; Bongiovanni Berardo senior (secolo XV) vescovo di Venosa; Bongiovanni Berardo junior (secolo XVI) vescovo di Camerino; Bongiovanni Muzio (secolo XVI) arcivescovo di Sorrento e Nunzio in Portogallo; Colombella Antonio, dotto agostiniano, vescovo di Senigallia (1438); Condulmari Filippo (1635-1688) arcivescovo di Nazareth; Federico di Niccolò Sanguigni vescovo di Recanati (1300-1320) e poi di Macerata (1320-1323); Ferrini Giovanni (1779-1850) vescovo di Bagnorea; Leonini Francesco (1774-1822) nunzio pontificio in Portogallo, vescovo di Urbania e S. Angelo in Vado; Leopardi Monalduzio (1884-1943) vescovo di Osimo e Cingoli; Massucci Francesco (1610-1656) vescovo di Atri e Penne; Melchiorri Girolamo vescovo di Macerata (1553) e delle diocesi di Macerata e Recanati (1571); Melchiorri Niccolò vescovo di Nardò; Riccabella Filippo (secolo XVI) vescovo di Macerata e poi di Recanati. Partecipò al Concilio di Trento in qualità di giudice; Roberti Anton Francesco (16291701) vicario generale dell’Abbadia di Nonantola e vescovo di Urbino; Venieri Anton Giacomo (1421-1479) vescovo di Siracusa, poi di Leo e Conca (Spagna), cardinale; Venieri Giovanni arcivescovo di Ragusa (1447). Meritevoli di memoria per la loro attività di storici della vita religiosa di Recanati sono: Angelita Giovan Francesco autore della storia Origine della città di Recanati e la sua storia e descrizione, Venezia 1601; Angelita Girolamo, Storia della Santa Casa di Loreto (1531); Benedettucci Clemente (1850-1949), oratoriano dei Filippini, autore di studi su Leopardi e ricercatore di memorie storiche e religiose di Recanati; Calcagni Diego (secolo XVIII), dotto gesuita compose Memorie Istoriche della città di Recanati, Messina 1711; Vogel Giuseppe Antonio, sacerdote nato in Alsazia nel 1756, esiliato tra i preti “refrattari” al giuramento di fedeltà a Napoleone, esule prima in Svizzera poi a Fermo, a Matelica e a Cingoli da dove il vescovo cingolano Paoli lo portò in Recanati, e qui eletto canonico. Morì nel 1817, lasciando preziosi manoscritti di storia religiosa locale tra cui il prezioso De ecclesiis Recanatensi et Lauretana commentarius historicus, pubblicato postumo nel 1859.31 RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 161 NOTE Benedettucci 1939, pp. 9-63: tale ricostruzione è respinta da Stiernon 1991, pp. 914, per mancanza di documenti attestanti l’esistenza della diocesi di Ricina e del supposto vescovo “ricinese” San Claudio. 2 Santarelli 2007, p. 233. 3 Vogel 1859, I, pp. 27-28, passim. 4 Vogel 1859, I, p. 38. 5 Calcagni 1711, p. 123; Vogel 1859, II, p. 26. 6 Pietrella, Cronotassi dei vescovi delle cinque diocesi unite, in questo volume. 7 Per tutto questo argomento, cfr. Vogel 1859, I pp.72-77, passim. 8 Vogel 1859, I, pp. 155-156; Fini 1990, pp. 31-32. 9 Vogel 1859, I, pp. 155-156. “Quest’urna racchiude il supremo Principe e sommo monarca della Chiesa Gregorio dodicesimo. Questi dato per volere divino per il bene della pace, arse sempre di zelo di unire nel miglior modo i ribelli ai buoni. Ma prevalso per due volte lo scisma funesto (tanta follia si operò in Pisa), egli pietoso lo rimuove. La Marca conoscendo il pastore per la sua doppia investitura, lo accolse da vivo in Recanati, Flaviano (lo accolse) da morto nel suo tempio nell’anno del Signore 1417”. 10 Calcagni 1711, pp. 136-137; Vogel 1859, I, pp. 199-224, passim; Fini 1990, pp. 38-39. Ecco la traduzione in italiano dell’epigrafe latina: “Al Rev.mo e degno di memoria Nicolò Dalle Aste di Forlì, ottimo vescovo di Recanati e Macerata, insigne per beni, pietà e generosità, che i nostri antenati stabilivano di suffragare e celebrare negli anniversari con preghiere e orazioni, il Capitolo ordinò di porre questo grato e amorevole ricordo e di perpetuare ai posteri il suo elogio nell’ingresso del sacello, anno 1793”. La data si riferisce al trasferimento dell’urna da altra sede della cattedrale. 11 Calcagni 1711, pp. 142-143; Vogel 1859, I, p. 380; Fini 1990, p. 34. 12 Vogel 1859, I, p. 384. 13 Calcagni 1711, p. 145; Vogel 1859, I, p. 391; Fini 1990, pp. 34-35. 14 Calcagni 1711, p.156; Vogel 1859, I, pp. 401-402. 15 Vogel 1859, I, p. 416; Fini 1990, p. 35. 1 Fini 1990, p. 35. Fini 1990, p. 35. 18 Vogel 1859, I, pp. 78-82, passim a proposito dei vescovi Niccolò Dalle Aste, Galeazzo Morone, Agostino Galamini, Giulio Roma; Fini, pp. 50-64; Cartechini, Cingolani 2003, pp. 1551-1152. Per la situazione attuale cfr. Annuario diocesano A.D. 2004. 19 Calcagni 1711, p.145; Vogel 1859, I, p. 391. 20 Cingolani 1990, pp. 69-75. 21 Fini 1990, pp. 64 - 68. 22 Pietrella 2005, pp. 127; 174. 23 Annuario diocesano A.D. 2004, p. 93. Per la Confraternita del Santissimo Sacramento cfr. ADR, Elenco sommario del materiale contenuto nell’Archivio Diocesano, sezione di Recanati, dattiloscritto, s.v. Confraternita del Santissimo Sacramento in cattedrale, p. 9. 24 Fini 1990, pp. 256-262; Pietrella 2005, pp. 102-126, passim; p.127, passim. I sinodi furono indetti e celebrati dai seguenti vescovi negli anni indicati: Riccabella: 1566 (?); 1571; Melchiorri: 1572; Morone: 1583; Benzoni: 1588; 1592; 1609; Galamini: 1614; Roma: 1623; 1632; Vecchioni: 1781; Gallucci: 1874; 1884. Negli anni 1988-1995 fu celebrato il sinodo diocesano indetto dall’unico vescovo della diocesi “unificata” mons. Francesco Tarcisio Carboni; la sua promulgazione ebbe luogo nella cattedrale di Macerata, durante l’anno giubilare, l’11 maggio 2000, per opera del vescovo successore Luigi Conti. 25 Fini 1990, pp. 183-184. 26 Fini 1990, p. 184. 27 Niccolò Dalle Aste cfr. Vogel 1859, I, pp. 208-211; 219; 335-440, passim. 28 Vogel 1859, I, pp. 243-244. 29 Vogel 1859, I, p. 374. 30 Cfr. La Madonna di Loreto nelle Marche 1998, pp. 206-214; Luchetti 2009, pp. 54-60. 31 Bettini 1990, pp. 223-244, passim. 16 17 CRONOLOGIA Secc. V-XIV Il territorio di Recanati è sotto la guida spirituale in parte dei vescovi di Potentia, in parte di quelli di Numana e in parte di Osimo. 1160 circa Recanati è costituita libero Comune. 1240 (22 dicembre) Recanati è elevata al grado di città e diocesi; la chiesa di S. Flaviano intra oppidum alla funzione di cattedrale. 1384-1402 Ricostruzione della cattedrale per opera del vescovo Angelo di Bevagna. 1415-1417 Il Papa Gregorio XII, lasciato il pontificato, amministra fino alla morte la diocesi di Recanati nella cui cattedrale è sepolto. 1440-1469 Ornamenti vari della cattedrale ad opera del vescovo Nicolò Dalle Aste; Costituzioni per il Capitolo dei Canonici e Decreti per gli “altaristi”. 1461 Fondazione della “Cantoria” della cattedrale ad opera del vescovo Nicolò Dalle Aste. 1557 Il Capitolo della cattedrale si trasferisce definitivamente dalla chiesa di S. Vito alla cattedrale di S. Flaviano. 1613-1620 Il vescovo cardinale Agostino Galamini fa eseguire grandi interventi migliorativi nella struttura e nell’arte; archi della navata centrale della chiesa: soffitto ligneo a cassettoni ottagonali; modifica delle finestre. 1749-1767 Ultima grande trasformazione della chiesa ad opera del vescovo Giovanni Antonio Bacchettoni. 1782 Pio VI visita due volte Recanati. 1804 (17 agosto) La cattedrale è elevata all’onore di Basilica minore da parte di Pio VII. 1919 Congresso Eucaristico diocesano. 1948 Congresso eucaristico diocesano. 1949-1950 Peregrinatio Mariae in tutta la diocesi con la statua della Madonna di Loreto 1955-1968 Restauro della cattedrale per iniziativa del vescovo Emilio Baroncelli. 1986 (30 settembre) La cattedrale di S. Flaviano diventa concattedrale. 2000-2010 Lavori di consolidamento strutturale dopo il sisma del 1997-1998; restauri delle pitture e delle decorazioni. RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 163 CARLO ORAZIO LEOPARDI E LA TRASFORMAZIONE BAROCCA DELLA CHIESA DI SAN FLAVIANO A RECANATI Stefano D’Amico San Flaviano vecchio La storiografia locale1 è concorde nel sostenere che all’inizio del XII secolo esisteva, sul crinale della collina tra i fiumi Musone e Potenza, il castello di Monte Volpino con un piccolo borgo appena fuori le mura, detto di Castelnuovo, dove vi era la chiesa di San Flaviano, appartenente al Patrimonio pontificio e ricordata nei documenti almeno fin dal 1151. Di questo edificio, localizzato vicino alla Porta d’Osimo, si è conservato solo il toponimo nel vicolo a lato della chiesa di San Ubaldo, ma i ruderi – o forse anche qualcosa di più – erano ancora visibili nel 1415, quando in un documento si cita una fossa per grano nel quartiere di Santa Maria avanti la chiesa di “S. Flaviano vecchio”.2 Lo storico padre Clemente Benedettucci (1850-1949),3 convinto che il culto di San Flaviano provenisse dalla città romana di Ricina, di cui il santo sarebbe stato vescovo nel III secolo, datava la chiesa al VI-VII secolo basando la sua ipotesi su un’iscrizione incisa su una lamina di piombo, scoperta nel 1793 alla base della statua di San Flaviano attualmente conservata nel museo diocesano, e che, prima di essere dispersa, fu descritta dal canonico Giuseppe Antonio Vogel (17561817). L’iscrizione, incisa nel 1619, ricordava il restauro della statua effettuato dopo la rimozione dalla facciata della cattedrale e nel testo si faceva riferimento ad “un’antichissima base” – anch’essa poi dispersa - posta sotto la statua nella quale era incisa una memoria dedicationis “fat- Veduta da est ta mille e più anni indietro.”4 Purtroppo l’iscrizione non riportava il testo della memoria e non diceva se la base fosse murata insieme alla statua sulla cattedrale o se i due reperti erano stati ricomposti in epoca successiva. Il Benedettucci, consapevole di tali difficoltà, ipotizzava tuttavia che la memoria provenisse da una chiesa di Ricina, portata dagli abitanti in fuga dopo la distruzione della città e murata in una primitiva chiesa rurale, posta “non lungi dalla via che conduce in Osimo”, successivamente ricostruita all’interno di Castelnuovo. Lo storico recanatese, tra l’altro, interpretava a suo favore anche una notizia sull’esistenza di una chiesa di San Fabiano de Racanato in Numanaten, che pagava un censo di dodici danari alla Chiesa romana sotto il pontificato dei papi San Gregorio III (731) e San Paolo I (754), ritenendo che si trattasse di uno scambio di nomi tra Fabiano e Flaviano.5 La prima cattedrale Tra il 1151 e il 1179 Monte Volpino si costituiva Comune innescando anche nel territorio recanatese quei processi d’incastellamento tipici dell’epoca: unione dei castelli contigui e attrazione al suo interno degli abitanti del contado con importazione dei toponimi di origine e del culto dei santi protettori ai quali, molto spesso, venivano ricostruite le chiese. Ciò avvenne anche per gli abitanti di Castelnuovo quando, abbandonata e forse demolita la primitiva chiesa di San Flaviano, la ricostruirono tra la fine 164 Stefano D’Amico Il soffitto a cassettoni seicentesco della navata centrale e la crociera gotica della navata laterale del XII e l’inizio del XIII secolo, all’interno del Castrum Rachanati. Secondo Luigi Rosino Varinelli la chiesa fu ricostruita su un insediamento preesistente, utilizzando materiali provenienti dalla vecchia chiesa6 e a conclusione dei lavori fu collocata sulla facciata una statua in pietra di epoca romana riadattata a rappresentare il santo protettore Flaviano, di cui si è detto. A Recanati vi erano chiese più antiche e più importanti, come per esempio quella di Santa Maria di Castelnuovo o quella di San Vito, che già svolgeva la funzione di Pieve, ma quando, il 22 dicembre 1240, papa Gregorio IX toglieva ad Osimo il titolo di città e la sede vescovile per assegnarli a Recanati, la chiesa di San Flaviano fu scelta quale sede della cattedra vescovile. Lo stato di conservazione della chiesa non doveva essere molto buono perché i recanatesi, mentre s’impegnavano a costruire il palazzo vescovile e le case per i canonici del capitolo, offrirono “cinquemila libbre di moneta ravennate” per arricchirla e renderla degna nel nuovo titolo.7 L’Episcopio vecchio L’obbligo dei recanatesi di costruire il palazzo vescovile fu subito onorato e le sue vicende incideranno notevolmente sull’architettura della cattedrale fino a privarla della facciata. L’episcopio, che risultava già edificato nel 1256, si elevò a nord della chiesa e i vescovi vi risiedettero, in modo più o meno stabile, fino al 13208 quando, nel più vasto movimento di lotta tra guelfi e ghibellini, la città fu conquistata dai sostenitori dell’impero che lo incendiarono e danneggiarono gravemente, costringendo il vescovo Federico di Niccolò di Giovanni (13001323) a rifugiarsi a Macerata, elevata ora a sede vescovile a discapito di Recanati. Nel 1357 il cardinale Egidio Albornoz ristabiliva l’autorità pontificia nelle Marche e la città poteva riavere la sede vescovile – seppur unita a Macerata – con l’obbligo per il vescovo Niccolò da San Martino (1349-1357) di risiedere a Recanati. L’umile e austero domenicano si adattò, momentaneamente, in un palazzo che una relazione pontificia dell’epoca registrava “deditis in ruinam” e i lavori RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 165 di restauro iniziarono solo nel 1369 lasciando inalterato il disegno originario della facciata nord. L’edificio subì altri due incendi - nel 1399 e nel 1422 - e fu nuovamente restaurato nel 1433 ad opera del vescovo Giovanni Vitelleschi (1431-1435) che colse l’occasione per ampliarlo ad est con la costruzione delle cosiddette Carceri pontificie. La seconda cattedrale Le alterne vicende della sede vescovile di Recanati, sempre in bilico tra Numana e Macerata, avevano dissuaso i recanatesi dall’intraprendere costosi lavori di adeguamento formale e strutturale dell’antica cattedrale, ma il ritorno sotto l’autorità pontificia e la presenza stabile dei vescovi in città spinsero ora verso questa decisione. D’altra parte, da qualche anno, a pochi chilometri dalla città, in località Loreto, si stava sviluppando un importante movimento religioso destinato a sviluppare l’economia, la cultura e l’arte dell’intera regione e di Recanati, in particolare, imponendo, si potrebbe dire, il rinnovo architettonico della cattedrale. Parliamo ovviamente della miracolosa traslazione della Santa Casa di Nazareth, avvenuta – secondo la tradizione – nel 1294 su una collinetta a nord-est della città e quindi sotto la giurisdizione civile ed ecclesiale di Recanati. La presenza della Santa Casa fece affluire masse di pellegrini che attirarono nel territorio di Recanati mercanti provenienti da tutte le parti d’Europa, e alcuni anche dall’Asia,9 dando vita ad una delle più importanti fiere d’Italia, fonte di ricchezza e prosperità. Per non dire degli effetti che “l’infinito cantiere”, allestito sotto il patronato dei pontefici, ebbe sull’attività artistica, richiamando in zona i migliori artisti e le migliori maestranze dell’epoca. Altro fatto rilevante, che inciderà sul rinnovo architettonico della cattedrale fu, senza dubbio, l’inclusione di Recanati tra le La soluzione di Carlo Orazio Leopardi per la navata centrale, metà XVIII secolo civitas magnae10 dello Stato pontificio avvenuta nel 1357 con la promulgazione delle Costitutiones Aegidiane attirando in loco le sedi d’importanti magistrature e uffici pubblici che favorirono lo sviluppo di una nuova classe sociale di funzionari e professionisti, laici e religiosi, che a loro volta diventeranno colti e raffinati committenti di opere d’arte e architetture, pubbliche e private, che cambieranno l’im- 166 Stefano D’Amico La soluzione di Carlo Orazio Leopardi per la parete di fondo della navata laterale, metà XVIII secolo pianto urbano e il volto stesso della città. Fu quindi in questo nuovo contesto sociale e culturale che il vescovo Angelo Cino da Bevagna (1383-1412) si fece promotore, con il contributo ancora una volta del Comune, della ricostruzione della cattedrale oramai “troppo angusta e, per la sua antichità, prossima a cadere in rovina”.11 Il 13 gennaio 1384, con i lasciti di tre testamenti, fece acquistare “centomila mattoni e mille some di calce per 1180 libbre di moneta ravennate” e il 27 aprile poteva stipulare un contratto cum muratoribus per la trasformazione dell’antico organismo romanico in una più moderna struttura gotica. I documenti parlano della costruzione del “Corpus Ecclesiae” e di lavori “pro fabbrica et conservazione”, facendo supporre che si conservassero alcune parti della vecchia chiesa – probabilmente l’abside e tratti di muratura perimetrale – mentre otto basi di colonne in laterizio furono sepolte sotto il pavimento, da dove riemergeranno nel 1956-1957 durante lavori di ristrutturazione, segno che le navate furono completamente ricostruite e ampliate.12 Difficile dire quanto durassero i lavori: il Vogel dice che la chiesa fu consacrata “intorno al 1390”,13 che il vescovo Cino, con testamento del 9 maggio 1402, lasciò beni mobili e immobili alle Confraternite dei Mercanti e di Santa Lucia con l’obbligo di abbellire la chiesa14 e che il campanile fu ultimato nel 1411-1412 con la posa in opera di tre campane, mentre nel 1433 fu spostato l’ingresso della chiesa a mezzogiorno ponendo sugli architravi lo stemma episcopale del Vitelleschi. L’edificio aveva i caratteri dell’architettura lombardo-padana, ampiamente documentata nelle Marche, con il tipico impianto basilicale a tre navate, probabilmente absidate, divise da colonne in laterizio collegate con archi a sesto acuto e coperte con crociere costolonate. La sezione trasversale era a salienti con beccatelli esterni nella parte alta della navata centrale e finestroni trilobati con ghiere a tutto sesto a motivi geometrici nei muri perimetrali delle navate laterali. Gli interventi sei-settecenteschi modificheranno sensibilmente tali caratteri con demolizioni, ricostruzioni e tamponature, e si conserverà solo l’abside centrale poligonale parzialmente inglobata negli edifici circostanti, i beccatelli del cornicione, porzioni di alcuni finestroni e i locali ai lati del presbiterio tuttora coperti con le crociere originarie delle navate laterali. Nel XV secolo tre illustri vescovi della diocesi di Recanati-Macerata furono se- RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 167 La cupola della cappella del Santissimo Sacramento di Carlo Orazio Leopardi, metà XVIII secolo polti nella cattedrale di San Flaviano in altrettante urne sepolcrali di cui si parla in un’altra sezione del volume. Gli interventi sei-settecenteschi Lo stile nuovo, che dall’inizio del XV secolo da Firenze si stava diffondendo in tutta Italia, giunse anche a Recanati, naturalmente attratto - potremmo dire - dal cantiere laureano, sempre al centro delle attenzioni dei pontefici i quali, da poco definitivamente rientrati a Roma, avevano fatto del nuovo stile il manifesto per la rinascita, in chiave cristiana, dell’antico splendore romano. Come oramai ampiamente documentato dalla critica il Rinascimento arrivò a Recanati nel 1473 - quando la cattedrale era già stata ultimata - con Giuliano da Majano, chiamato dal cardinale Jacopo Antonio Venieri per la ricostruzione del palazzo di famiglia, e nello stesso periodo il vescovo Girolamo Basso della Rovere (14761507), mentre procedeva all’ennesimo restauro del palazzo vescovile (1492) pensava di “risarcire e ridurre a migliore e più elegante forma” la cattedrale: espressione generica che giustamente il Benedettucci interpretava come intenzione di trasformare la chiesa gotica in una chiesa rinascimentale. Cercò quindi di acquistare certe case che erano attigue all’ab- side, probabilmente per isolarla o per ingrandirla, ovvero per rovesciare l’orientamento della chiesa, aprendo l’ingresso ad est, su una spaziosa piazza rivolta verso il centro cittadino, ma i proprietari si opposero alla vendita e la cattedrale di San Flaviano non fu mai rinascimentale, passando direttamente dallo stile gotico a quello barocco.15 Si riuscì a realizzare solo una piazza davanti alla chiesa demolendo alcune case, livellando il terreno e realizzando una scalinata per superare il dislivello che si era creato. Il Comune, il 9 settembre 1591, donò ancora una volta 200 scudi, 16 tuttavia non sappiamo se e come il progetto fu realizzato 168 Stefano D’Amico Ingresso dell’Episcopio nuovo L’ingresso posteriore, 1827 perché tutto scomparve con la successiva costruzione dell’Episcopio nuovo. Il passaggio a forme manieriste e barocche fu graduale e chiaramente non programmato. Iniziò il vescovo Rutilio Benzoni (1592-1613) che fece ricostruire le volte pericolanti della navata e disporre “in forma più adatta e più elegante gli altari, le porte e le finestre”,17 ma probabilmente i lavori non furono ben eseguiti, o non furono sufficienti, e la volta, o parte di essa, crollò nel 1619. Più radicale fu quindi l’intervento del nuovo vescovo, il domenicano Agostino Galamini (16131620), che decise di sostituire le crociere della navata centrale con un soffitto piano a lacunari e uno scenografico baldacchino aereo in legno e stucco.18 I lavori proseguirono sotto l’episcopato del milanese Giulio Roma (1621-1634) che ricostruì il coro dotandolo di un organo pneumatico19 e del maceratese Amico Panici (1634-1661) che fece decorare con stucchi e affreschi il catino absidale, aggiunse un secondo organo e completò il battistero.20 La costruzione del coro comportò la chiusura della finestra cen- trale dell’abside e l’apertura delle due laterali con la perdita di un ciclo di affreschi di cui si aveva notizia fin dalla metà del XV secolo.21 La ricostruzione del campanile, avvenuta intorno al 1641, concluse probabilmente questa fase, mentre erano stati portati avanti e terminati anche i lavori di costruzione del Nuovo episcopio, iniziati con il Benzoni, occupando tutta la piazza davanti la chiesa che da quel momento non avrebbe avuto più una facciata.22 Le opere realizzate nella cattedrale di Recanati sono l’espressione del sentire estetico e funzionale diffuso nella Chiesa cattolica con il pontificato di Urbano VIII (1623-1644), quando “il trattamento antiestetico dell’arte, comune nel periodo della Controriforma militante, fu sostituito da un apprezzamento estetico della qualità artistica”23 che portò al superamento delle austere direttive del Concilio di Trento sostituite da un gusto più sfarzoso e sensuale, segno del consolidamento della dottrina e dell’autorità dopo la restaurazione cattolica. L’arte continuerà ad istruire e a catechizzare, ma ora dovrà anche divertire, colpire i sensi, meravigliare, persuadere i fedeli della costante presenza del divino nell’umano. In San Flaviano, l’epilogo di questo processo si avrà solo a metà del Settecento, un secolo nel quale Recanati non ebbe a soffrire eccessivamente della crisi generale che investì lo Stato pontificio: la grande fiera aveva certamente risentito del crollo dei traffici lungo l’Adriatico dopo la caduta di Costantinopoli e la scoperta delle rotte atlantiche, ma la riconversione delle risorse nella produzione agricola e la concessione del porto franco ad Ancona, diedero fiato alle attività commerciali permettendo alla vecchia e nuova aristocrazia di affiancare l’autorità pubblica nell’opera di ristrutturazione edilizia ed urbana. Nelle Marche, nel corso del secolo, arriveranno dalla capitale i più importanti architetti camerali, scelti in genere tra i migliori professionisti in attività (come Luigi Vanvitelli, Andrea Vici o Cosimo Morelli), ma per il rinnovo della cattedrale di Recanati il vescovo Giovanni Antonio Bacchettoni (1749-1767) si avvalse dell’opera di un colto architetto locale ‘dilettante’, il canonico Carlo Orazio Leopardi, un prozio di Monaldo - padre del più illustre poeta Giacomo24 - che inglobò le antiche colonne in pilastri rettangolari, segnati da paraste composite, affiancati da colonne ioniche libere che sorreggono archi ribassati sopra ai quali aprì ovali ciechi con fastose cornici che si protendono sull’archivolto sottostante che a sua volta gira a formare una geometrica specchiatura. Ai lati del presbiterio, in fondo alle navate laterali, ricavò due scenografiche loggette con un leggerissimo profilo ondulato - più evidente nella trabeazione - e due volute che raccordano i pilastrini del portale sottostante con i piedistalli della balaustra, unica, riuscitissima, vera concessione ad uno dei capisaldi del barocco: la contrapposizione di concavo-convesso. Rivestì le pareti delle navate laterali con una sottile trama RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 169 di semipilastri, trabeazione e specchiature lineari che proseguono sulle vele delle crociere originarie a sottolinearne la funzione strutturale. All’esterno chiuse i finestroni trilobati gotici e aprì, sopra questi, finestre rettangolari con semplici cornici in stucco. Nella cappella del Santissimo Sacramento il Leopardi, meno influenzato dalle preesistenze, impostò una classica pianta quadrata sormontata da una cupola con otto ampi costoloni raccordati alla base da archetti ribassati con ovali. Pilastri smussati con colonne angolari addossate introducono a brevi bracci allusivi ad una croce greca e una fitta trama di stucchi dorati a motivi floreali si svolge sui pennacchi e sulle vele della cupola senza che venga mai meno la chiarezza delle proporzioni dell’ampia struttura di evidente derivazione rinascimentale. Gli interventi otto-novecenteschi Monaldo Leopardi nel capitolo III della sua Serie dei Vescovi, dedicato alla cattedrale, riporta una notizia quasi in presa diretta dicendo che “in questo 1827 in cui scrivo le presenti memorie la sua Porta principale che stava in un lato, è stata aperta al fondo della Chiesa”.25 Questo intervento, completato con l’orologio e il campaniletto a vela soprastante, fu l’ultimo tentativo di realizzare l’antico sogno di collegare la cattedrale al centro della città attraverso la realizzazione di una piazza sulla quale affacciare, se non un prospetto, almeno qualcosa che lo evocasse o, in alternativa, l’abside nella sua interezza. Ci avevano già provato, senza successo, nel 1492 e ci riprova ora il vescovo Stefano Bellini (1806-1831) che intorno al 1830, approfittando dei lavori per l’apertura della piaggia che scende a Castelnuovo e della sistemazione di palazzo Politi, acquistò e fece demolire le casette adiacenti l’abside. Ma al loro posto saranno ricostruite le Camere capitolari e si rinuncerà per sempre all’idea di La soluzione di Carlo Orazio Leopardi per il paramento della navata laterale, metà XVIII secolo isolare l’abside e creare una piazza rivolta verso la città. 26 A questo scorcio di secolo potrebbe infine risalire la sopraelevazione del campanile con una cella campanaria architravata coronata con quattro frontoni e un lanternino cupolato. Nel corso del XX secolo abbiamo notizie solo di restauri e prima dell’ultimo grande intervento conseguente al terremoto del 1997 i più importanti furono realizzati per interessamento del canonico Attilio Moroni tra il 1956 e il 1957 con il rinvenimento degli importanti reperti medievali di cui si è detto.27 Di Carlo Orazio Leopardi sappiamo dal nipote Monaldo28 che nacque a Recanati il 13 novembre 1714 e che frequentò il Collegio Montalto a Bologna29 dove si laureò nel 1737 in diritto canonico e civile, pur avendo una fortissima passione per l’architettura. Nel capoluogo emiliano non risulta iscritto all’Accademia Clementina, l’unica nello Stato pontificio, con quella romana di San Luca, che laureava in architettura, ma è “presumibile che partecipasse al clima culturale vivace e aggiornatissimo” di quella città che da anni condizionava fortemente la cultura artistica delle Marche. Che non abbia frequentato regolari studi di architettura si evince anche dall’autobiografia del pronipote quando afferma che “si 170 Stefano D’Amico dilettava di architettura”, ma, come ogni buon cultore dell’arte di quel periodo, ebbe modo di completare la sua formazione estetica soggiornando a Roma e a Napoli.30 Tornato a Recanati intraprese la carriera ecclesiastica diventando canonico della cattedrale senza mai abbandonare l’architettura, “unico suo sollievo” di una vita per altri versi “agitatissima dagli scrupoli che lo tormentavano compassionevolmente”. Monaldo, basandosi su una memoria dello zio ritenuta autografa, affermava – forse esagerando – che “sino all’ultima vecchiaia tutte le fabbriche di Recanati vennero dirette da lui” e quando il conte Roberti, dovendo realizzare lo scalone del proprio palazzo, lo preferì “ad uno straniero” – probabilmente Francesco Galli Bibiena – se ne dispiacque molto.31 Il catalogo delle sue opere presenta qualche difficoltà per mancanza di documentazione e difficoltà ad identificare vecchi edifici demoliti o trasformati32 e il primo giudizio critico sul suo intervento in San Flaviano lo diede proprio Monaldo nella sua Autobiografia, scritta nel 1824 e pubblicata postuma nel 1883, affermando che lo zio “ridusse la cattedrale da un brutto gotico alla attuale sufficiente decenza”.33 Facendo intendere con questo di non apprezzare né l’architettura medievale né quella barocca, giudizio probabilmente condizionato dall’imperante neoclassicismo dell’epoca. Più benevolo fu il giudizio del Vogel, che parlava di “forma più legante”, e pienamente positivo quello di Vincenzo Spezioli che, alla fine del secolo, in un contesto culturale completamente diverso, affermava di non credere “che quel gotico sia stato brutto ed è certo che a’ giorni nostri tali innovazioni sarebbero giudicate irriverenti”.34 Per quanto riguarda invece i modelli ispiratori di Carlo Orazio, Cesare Fini li identificava nelle opere di Luigi Vanvitelli e del suo assistente Pietro Bernasconi, molto attivi a Loreto e a Recanti dove, tra il 1746-1749, ricostruivano la facciata della chiesa di San Vito.35 Più recentemente, Gabriele Barucca li ha individuati nelle grandi opere degli architetti bolognesi (i Bibiena, Giuseppe Antonio Torri, Alfonso Torregiani e Gaetano Stegani), romani (Giovan Battista Piranesi, Robert Adams e Hubert Robert) e napoletani (Ferdinando Sanfelici, Domenico Antonio Vaccaio, Francesco Solimena, Ferdinando Fuga e Luigi Vanvitelli), che Carlo Orazio “ebbe modo di osservare e meditare” nei suoi viaggi di studio, sapendo far convivere queste diverse componenti senza approdare ad un deteriore eclettismo, ma piuttosto “ad una complessa e rigorosa sintesi, propria di una generale tendenza classicista nella quale si fondono elementi della tradizione antica e di quella rinascimentale e barocca”.36 Anche Gian Carlo Càpici ha riconosciuto a Carlo Orazio un grande rigore nel saper coniugare il tardo stilismo barocco e le nuove istanze neoclassiche ed ha individuato le fonti della sua riflessione nelle opere dei grandi trattatisti rinascimentali presenti nella biblioteca di famiglia – l’Alberti, il Vasari, il Vignola, il Sansovino e il Bibbiena.37 L’architetto recanatese nelle opere più tarde, verosimilmente realizzate nella seconda metà del secolo, sembra propendere per soluzioni più pacate e rigorose, iscrivibili nell’indirizzo classico, ma nel progetto per il rifacimento della cattedrale, dovendosi confrontare con i precedenti interventi seicenteschi tardomanieristi, annunciatori dell’incipiente gusto barocco, e obbligato dalla spazialità gotica preesistenze, propende per un elegante e misurato intervento decorativo risolto tutto in superficie, conforme al gusto baroccheggiante ancora in auge nel panorama architettonico dello Stato pontificio che solo negli anni ’60 s’indirizzerà verso modelli neo-cinquecenteschi come a vedremo a Macerata con Cosimo Morelli.38 Solo una puntuale ricostruzione storico-critica dell’attività di Carlo Orazio potrà aggiungere nuovi elementi e farci apprezzare in pieno il talento di un protagonista dell’architettura settecentesca recanatese che in vita “si lamentava perché, dovendo combinare per lo più il vecchio col nuovo, non poteva dilatare il suo genio e doveva tollerare che molti difetti deturpassero i suoi lavori”.39 NOTE Angelita 1601. Calcagni 1711. Vogel 1859. Leopardi 1828. Spezioli 1898. Benedettucci 1939. Leopardi 1945. Questi autori hanno potuto consultare i documenti degli archivi comunali, diocesani e capitolari e a loro dobbiamo la maggior parte delle notizie sulla chiesa di San Flaviano cui hanno attinto gli storici del XX secolo: Calamanti 1961, Varinelli 1958, Bettini 1990, Fini 1989. Circa mille buste dell’Archivio diocesano di Recanati dal XVI al XIX secolo sono depositate senza inventario presso l’Archivio di Stato di Macerata, così come non inventariato è l’Archivio del Capitolo della cattedrale. 2 Vogel 2008, pp. 55-56. 1 Benedettucci 1939, pp. 10-20. Vogel 2008, p. 56, L’iscrizione diceva: “Frater Augustinus S.R.E. Presbyter Cardinalis de Aracoeli Recinetensis et Lauret. Antistes vetus simulacrum S. Flaviani atque eius Dedicationis Memoriam ante M et amplius annos in antiqua basi incisam contra temporis iniuriam restaurari et in hac plumbei lamina renovari fecit Anno Domini 1619”. 5 Benedettucci 1939, p. 13. Secondo l’autore questo scambio di nomi sarebbe stato usuale a quei tempi e si ebbe – per esempio – in un documento del 22 aprile 1357 dove la cattedrale di Recanati era detta Ecclesia Sancti Fabiani. Il Benedet3 4 RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO tucci affermava anche di aver visto altre volte scriversi Flabiani. 6 Varinelli 1958, p. 20. Le colonne della cripta risalirebbero “certamente nella loro fattura al mille e furono qui importate forse da S. Flaviano Vecchio”, mentre il pozzo antico trovato sotto il pavimento del Duomo, durante i lavori di restauro del 1956 e posto “poco distante dai resti della chiesa primitiva, può far pensare che sulla cima di questo stesso colle vi fosse la rocca di difesa di Monte Volpino o il palazzo di un signorotto”. 7 Vogel 2008, pp. 35-56. Bravi 1878, p. 63. Bettini 1961, p. 40. Sembra che la scelta cadesse su San Flaviano perché nel quartiere prevalevano le famiglie guelfe, mentre i ghibellini erano in maggioranza nel quartiere di San Vito. Varinelli 1958, pp. 19-20. 8 Recanati fu nuovamente soggetta al vescovo di Numana dal 1263 al 1289. 9 Grimaldi 2001. Bartoli 2008. Già nel 1229 Federico II aveva concesso alla zona litoranea, dall’Aspio al Potenza, franchigie commerciali poi sempre confermate dai successivi pontefici. 10 Grimaldi 2001. Bartoli 2008. 11 Vogel 2008, p. 109. 12 Varinelli 1973, p. 152. 13 Vogel 2008, p. 110. 14 Queste opere di abbellimento potrebbero identificarsi con gli affreschi venuti alla luce nel 1989 nel vestibolo che precede la sacrestia sulla parete dove fu appoggiato il sarcofago di Nicolò delle Aste e con il lavabo in stile rinascimentale, attribuito al Sansovino, ora conservato nel museo diocesano, che si trovava nella sacrestia. 15 Vogel 2008, p. 204. “In questo luogo pensava di costruire la porta maggiore della Chiesa, in modo che l’entrata fosse più comoda e molto più elegante”. Il rovesciamento dell’orientamento di una chiesa, con la costruzione di una nuova facciata al posto della vecchia abside, riuscirà solo tre secoli dopo a Tolentino. 16 Leopardi 1828, p. 29. Benedettucci 1939, p. 54. 17 Vogel 2008 p. 316. 18 Vogel 2008 p. 320. 19 Vogel 2008 p. 325. 20 Vogel 2008, p. 327. Spezioli 1968, p. 144. Fini 1985, p. 111. Varinelli 1958, p. 51. Risale a questo periodo il pavimento in cotto e pietra, sostituito nel 1961 con un altro in granito. 21 Spezioli 1968, pp. 144-145. 22 Il vescovo Alessandro Crescenzi (1676-1682) fece costruire lo scalone, poi fatto rifare, insieme alla cappella, dal vescovo Stefano Bellini all’inizio del XIX secolo. A questo periodo è attribuibile anche l’atrio della chiesa che, con il suo severo ordine dorico di colonne binate trabeate che lo divide in tre navatelle, è già pienamente neoclassico. Vedere la lapide posta nell’atrio. Mariano 1998, p. 48 ritiene, dubitativamente, che l’atrio possa essere di Carlo Orazio Leopardi. Il vescovo Raimondo Ferretti (1690-92) fece invece costruire un oratorio all’interno delle carceri. Queste saranno chiuse nel 1866 e dopo un secolo d’abbandono, nel 1957, saranno trasformate, insieme all’Episcopio vecchio, in sede del museo diocesano. Vogel 2008 pp. 332, 335. Leopardi 1828, p. 220. Fini 1985 pp. 431-432. Varinelli 1958 p. 50-52. 23 Wittkower 1993, p. 121. 171 Vogel 2008, p. 351. Il Vogel fece una storia dei vescovi e raramente indugia sulle opere artistiche. Anche in questo caso non nomina il Leopardi annotando solo che il vescovo “ dette forma più elegante alla Cattedrale e fece fabbricare interamente una ricchissima Cappella per custodirvi la SS. Eucaristia”. 25 Leopardi 1828, p. 29. 26 Benedettucci 1939, p. 53. Mariano 1998, p. 46 ritiene, dubitativamente, che il palazzo possa essere attribuito a Carlo Orazio Leopardi. 27 Vedere la lapide murata nell’atrio a ricordo dei lavori realizzati durante l’episcopato di Emilio Baroncelli (1955-1958). 28 Il suo primo nome era Francesco Saverio, ma usò sempre il secondo nome. 29 Il collegio, fondato da papa Sisto V nel 1586, ospitava cinquanta scolari provenienti dalle Marche, terra d’origine di quel pontefice. Gli studenti dovevano avere già svolto gli studi secondari ed avere un’età tra 15 e 18 anni. 30 Fini 1986, p. 79. Secondo l’autore si laureò in architettura, ma non aggiunge altri particolari, né indica la fonte. 31 Barucca 2004. 32 Recanatesi illustri 1872, p. 45. Leopardi 1997, pp. 162-163. Alcuni antenati 1890, p. 145. Moroni 1987. Mariano 1998, p. 44. Moroni 2004b, pp. 707-708. Barucca 2004. Nella memoria autografa Orazio si auto-attribuisce: la chiesa delle Anime del Purgatorio - o del Suffragio o di San Michele in Ponticello - (1785); la facciata, l’atrio e lo scalone di palazzo Massucci; il braccio nuovo del monastero delle Clarisse - già di San Benedetto - (1762); la chiesa della Confraternita sopra Mercanti (1772); la chiesa di San Pietro - o di San Pietrino di Montemorello (1785); la chiesa di San Carlo - identificabile con l’oratorio di San Carlo Borromeo presso palazzo Mazzagalli - (1772); la cappella di Santa Maria di Loreto nella chiesa di Sant’Anna; lo scalone e l’entrata di un palazzo non meglio identificato che – secondo Fabio Mariano – potrebbe essere quello in via Falleroni che ha un portale con i caratteri dell’atrio di villa Colloredo; lo scalone di palazzo Antici; lo scalone nel vecchio palazzo Podaliri; la chiesa di Sant’Antonio a piè di Piazza - probabilmente quella poi inglobata nel Seminario diocesano - (1771) e il parlatorio nuovo del monastero di Santo Stefano (1760 circa). Poi ci sono le opere attribuite unanimamente: la ristrutturazione della cattedrale e la costruzione della cappella del Santissimo Sacramento annessa, il prospetto e lo scalone del palazzo di famiglia (1754 ca), “la riduzione in miglior forma del collegio dei Gesuiti” (1760-61). Ed infine le attribuzioni dubbie, come la facciata e lo scalone di villa Colloredo. Fini 1986, pp. 82-83 ne sembra certo, mentre per Mariano 1998, p. 48 esisterebbero “maggiori incertezze”. La ricognizione dell’archivio di Casa Leopardi potrà gettare nuova luce su questo architetto. 33 Leopardi 1997, p. 163. Per l’atrio e lo scalone dell’episcopio, realizzati negli anni Venti dell’Ottocento, userà espressioni come “splendidamente” e “assai nobilmente” (Leopardi 1828 p. 220). 34 Spezioli 1898 (ed. 1968 p. 145). 35 Fini 1986, pp. 90-91. 36 Barucca 2004. 37 Capici 2008b, p. 67. 38 Spezioli 1898 (ed. 1968, p. 145) dice che “il Canonico aveva già trovato il barocco nell’abside ed egli volle armonizzare anche il resto”. 39 Barucca 2004. 24 RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 173 IL MECENATISMO DEI VESCOVI NELLA CATTEDRALE DI RECANATI Silvia Blasio L’esame sistematico degli arredi della cattedrale di San Flaviano a Recanati, nella situazione odierna, risulta condizionato dal perdurare dei lavori di restauro che ne stanno interessando la struttura architettonica. Le pale d’altare, anch’esse in corso di restauro, non si trovano nelle loro originarie sedi, molti oggetti sono stati provvisoriamente riuniti in sacrestia, in attesa di essere ricollocati al loro posto e la zona absidale è coperta dalle impalcature. Nonostante l’accessibilità limitata è possibile tuttavia rendere un’idea chiara e quanto più possibile precisa della consistenza del patrimonio artistico mobile di questa chiesa che è “grande, e magnifica, e mostra la ricchezza, e grandezza di coloro, che la fabricorono”,1 con l’ausilio delle fonti e dei documenti, in particolare le Memorie istoriche di Diego Calcagni, stampate nel 1711 e la Descrizione e inventario della chiesa cattedrale del 1733, appoggiata nelle sue linee generali all’analisi del Calcagni, ma arricchita di alcune ulteriori informazioni che servono a comprendere meglio le opere di pertinenza dell’edificio sacro. Il mecenatismo dei vescovi e la presenza di alti prelati ebbe un ruolo di primaria importanza per le arti nel duomo di Recanati: il severo sarcofago in marmo a due specchiature lisce sulla fronte con iscrizione in lettere gotiche2 e con al centro lo stemma di Angelo Cino di Bevagna, vescovo di Recanati dal 1383 e morto nel 1402, ricorda il cardinale che alla fine del Trecento dette avvio alla costruzione della cattedrale ed è scoperta recente3 l’aspetto Giacomo di Nicola da Recanati, Madonna dell’Umiltà seicentesco della tomba a parete del veneziano Gregorio XII Correr che, dopo la rinuncia al papato nel 1415 si ritirò a Recanati divenendo vicario generale della Marca e amministratore perpetuo della diocesi di Recanati e Macerata, morendo nel 1417. Questo sepolcro era in origine contenuto entro un’imponente struttura ad arcosolio con alto basamento, colonne ioniche e frontone con lo stemma del defunto, come si vede in un incisione del Ciacconio del 1677,4 e ciò lascia supporre che anche gli altri monumenti sistemati in forma ridotta in questa zona secondaria della chiesa dopo varie peregrinazioni iniziate con la ristrutturazione seicentesca, fossero contenuti in strutture simili andate distrutte. Anche del monumento di questo illustre e singolare personaggio che dotò la cattedrale di molti doni di altissimo valore simbolico e religioso resta solamente il sarcofago, situato come il precedente in un vestibolo che dalla sacrestia immette in cattedrale. La fronte della cassa marmorea è divisa in tre specchiature con cornici lisce, quella al centro con l’iscrizione in lettere minuscole gotiche5 e sul coperchio è scolpita la figura giacente del defunto. Sopra il sarcofago, entro l’arcosolio, come mostra l’incisione del Ciacconio, era collocata una tavola raffigurante san Pietro in cattedra ieraticamente frontale. La tavola nel 1733 era ancora nella sacrestia della cattedrale – “S. Pietro dipinto in tavola con diverse indorature”6 –, ma nel 1783 fu descritta molto dettagliatamente da Luigi Lanzi in un suo taccuino, che la vide nella bottega di un “rivenditore” a Recanati: “una [tavola] bellissima S. Pietro vestito da pontefice con triregno e con un piviale tutto fregiato di animali d’oro e di fiori con anella in ogni dito della man destra e della sinistra eccetto l’indice; ciascuno con gemma di color disparato. Intorno vari angeli di stile piuttosto secco. Il santo ha un volto pieno di verità bella sfilatura buon rilievo le mani son fatte di rilievo di legno: così la testa e il triregno pittura delle più belle che vedessi in questo stile. Vi è scritto (ma non potei leggerlo per un armadio che lo copriva) “Petrus Montanus pinxit, autore che dicesi nominato 174 Silvia Blasio Andrea Costa intagliatore, Antonio Rizzo pittore, Tommaso Gattucci e Giacomo Zappetta doratori, soffitto ligneo nella stessa data 1419”.7 La tavola è stata identificata come opera di Pietro di Domenico da Montepulciano,8 ricordato da Amico Ricci9 come “Pietro da Recanati” a sottolineare il suo ruolo di gloria locale, nonostante non si sia potuto ancora chiarire se il pittore, attivo tra il secondo e il terzo decennio del Quattrocento ed esponente della scuola di Ancona, città in cui risiedeva, sia nato a Montepulciano in Toscana, oppure davvero a Recanati. Nuove opere adornarono la cattedrale al tempo del vescovo Niccolò delle Aste, di Forlì, che governò la sede vescovile per trent’anni, dal 1440 al 1469, anno della sua morte. Prelato coltissimo e di famiglia nobile molto facoltosa, lasciò al clero recanatese una rendita di ottomila scudi, e si distinse per iniziative esemplari al fine di promuovere il culto della Santa Casa di Loreto, dando inizio alla fabbrica della basilica lauretana e istituendone il tesoro.10 La confraternita di Santa Lucia, erede universale dei suoi beni, fece realizzare il suo sepolcro nel 1470, anch’esso visibile nel vestibolo che dalla sacrestia immette in cattedrale: si tratta di una semplice cassa marmorea con tracce di pittura sorretta da tre mensole, le due laterali a testa di leone, quella centrale con una voluta vegetale con cornice a tortiglione nella base aggettante e coperchio scolpito che raffigura il defunto giacente; la fronte, ornata superiormente da un motivo a dentelli è divisa in tre specchiature, quella al centro con cornice a motivi fogliacei è rettangolare e riporta l’iscrizione in lettere capitali,11 le due laterali sono quadrate e presentano due rilievi, a destra santa Lucia a sinistra san Sebastiano. Nel 1443 il vescovo delle Aste fece eseguire per l’altar maggiore il polittico di Giacomo di Nicola di Recanati di cui oggi solo lo scomparto centrale con la Madonna dell’umiltà resta nel Museo Diocesano della città, la cui iscrizione informa del nome del committente e dell’anno di esecuzione.12 La grande macchina d’altare fu infatti smembrata probabilmente al tempo dei rifacimenti seicenteschi della cattedrale voluti dal cardinal Roma ed è possibile riconoscerla, smontata e inutilizzata, tra gli oggetti descritti nel 1733 in sacrestia: “Vi sono alcuni quadri con diverse pitture, […] come ancho vi sono tutte l’imagini che sono molte, con gli ornamenti indorati dell’altar maggiore anticho di essa chiesa che era situato ove in oggi sta il fenestrone del choro”.13 Si trattava di un polittico a più ordini ricostruito finora solamente nel suo registro principale,14 che a fianco della Madonna dell’umiltà mostrava quattro laterali attualmente sparsi in varie ubicazioni: san Flaviano (collezione privata), san Giovanni, san Girolamo (Bologna, Pinacoteca Nazionale), san Vito (ubicazione ignota); vi sono poi la Crocifissione della cimasa RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO (Pesaro, Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro) e due scomparti di predella con la Consacrazione episcopale e il Martirio di san Flaviano. Ma nella visita del 1 dicembre 1621 (ASDR, Visite pastorali b.1, c.10v) dello stesso cardinal Roma il polittico risulta spostato sull’altare di san Rocco ed è citato come “icona lignea antiqua / deaurata / cum immaginibus depictis sanctissimi Chrucifixi, beate virgi / nis sanctorum Petri et Pauli nec non sancti Flaviani et Viti et aliorum”. Giacomo di Nicola prese a modello per il polittico del duomo quello di Pietro di Domenico eseguito nel 1422 per la chiesa recanatese di san Vito, nel segno di una continuità tra i pittori della “scuola di Ancona” nella fase iniziale di accostamento del maestro che si presume più anziano al linguaggio di Gentile da Fabriano. Un frammento di affresco con la Madonna col Bambino da una composizione più grande, salvato dalla devozione entro un riquadro e situato in cima alla scala d’accesso alla chiesa, è stato ultimamente riferito a Giacomo di Nicola da Recanti nella sua fase più tarda, intorno al 14551460 circa, per affinità con le due immagini di san Sebastiano affrescate nella chiesa di Sant’Agostino.15 L’anno successivo all’esecuzione del polittico di Giacomo di Nicola, il vescovo Niccolò delle Aste provvide anche al coro, anch’esso perduto quando il cardinal Roma nel 1633 fece costruire quello nuovo ancora presente nell’abside; un’iscrizione riportata dal Vogel ne indicava la data, il giugno del 1444, e il committente.16 Un altro polittico quattrocentesco originariamente nella vecchia chiesa gotica, di cui però non si conosce il committente, fu tolto dalla sua sede e smembrato: di quest’opera, dipinta intorno al 1480 da Ludovico Urbani di San Severino,17 sopravvivono nel Museo Diocesano due 175 degli scomparti laterali raffiguranti san Francesco e san Ludovico di Tolosa18 ma essi sono da ricollegare alla tavola centrale con la Madonna col Bambino e angeli in coro al Musée du Petit Palais di Avignone.19 I due estremi della cultura figurativa marchigiana del Quattrocento erano in questo modo rappresentati nelle opere della cattedrale: da una parte la tenera grazia e la fantasia decorativa di Pietro di Domenico e Giacomo di Nicola, sotto l’influsso di Gentile, dall’altro l’espressionismo dell’Urbani spinto talvolta fino al grottesco dall’impulso degli esempi crivelleschi e di Niccolò Alunno. Per “la smania di tutto rinnovare che fu carattere de’ due secoli anteriori al nostro”,20 al principio del Seicento prese avvio per la cattedrale di Recanati un’era di radicali trasformazioni. Da questo momento in poi alti prelati con sede cardinalizia a Roma orientarono le proprie scelte artistiche verso l’Urbe, divenuta ormai riferimen- 176 Ludovico Urbani, San Francesco to privilegiato per la civiltà artistica delle Marche. La più imponente tra le iniziative intraprese in questa fase fu senza dubbio la costruzione del magnifico soffitto ligneo che si estende per l’intera lunghezza della navata, per quarantacinque metri e per una larghezza di otto. La precedente volta in mattoni fin dal 1597 Silvia Blasio Ludovico Urbani, San Ludovico di Tolosa minacciava di crollare così che il vescovo Rutilio Benzoni, che resse la diocesi dal 1586 al 1613 stipulò una convenzione con il maestro Tullio Simonetto da Osimo per la manutenzione.21 Per alleggerire la struttura si optò per un soffitto a cassettoni lignei la cui realizzazione avvenne all’epoca dell’episcopato del cardinale d’Aracoeli Agostino Galamini che ne sostenne personalmente le spese (16131620). Il lavoro costò al Galamini mille e duecento scudi corrisposti “de suo” all’intagliatore bolognese Andrea Costa, il 22 maggio del 1619,22 altrimenti ignoto se non per aver eseguito gli armadi della cappella del Tesoro nella Basilica di RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO Loreto tra il 1608 e il 1615,23 coadiuvato per le pitture a tempera su tavola da Antonio Rizzo, residente a Fabriano ma di origine veneziana e dai doratori Tommaso Gattucci e Giacomo Zappetta, residenti entrambi a Macerata. Verso l’atrio una scritta ricorda che i lavori nel 162024 erano terminati ma, vista la sua entità, è probabile che l’impresa fosse iniziata alcuni anni prima del 1619, data del pagamento. La struttura del soffitto è formata da una fascia centrale con una sequenza di sei lacunari a croce greca con al centro rosoni e cinque ottagonali a fondo rosso e blu; negli ottagoni sono scolpite, al centro la figura del vescovo e martire Flaviano, patrono della città e ai lati gli stemmi con bellissimi e mossi cartigli, di Paolo V Borghese, del cardinale Borghese e del committente, il vescovo Galamini, cardinale d’Aracoeli. Negli spazi dei lacunari e tra i lacunari e le cornici laterali Antonio Rizzo dipinse santi martiri, i dottori della chiesa, le Virtù Teologali e Cardinali, gli apostoli, putti e angeli, secondo una precisa scansione che riserva a ciascuna figura il suo proprio spazio. Il rigore geometrico del disegno, l’eleganza delle partizioni e degli ornati di impronta classica e l’aggetto delle cornici richiamano esempi romani come il soffitto di Santa Maria in Trastevere e nelle Marche quello del Battistero di Osimo, commissionato dallo stesso Galamini. Al governo del vescovo Giulio Roma (1621-1634), di origine milanese, subentrato allorché il cardinale Aracoeli rinunciò alla sede di Recanati per passare a quella di Osimo, si devono altri significativi interventi: nel 1621, in occasione della visita pastorale del primo dicembre,25 ordinò che fosse rifatto un nuovo fonte battesimale e l’incarico fu conferito dai deputati al lavoro Fabrizio Lepretti e Flaviano Costantini a Pietro Paolo Jacometti (Recanati 1580-1658), fratello di Tarquinio (Recanati1570-1638) che 177 Pietro Paolo Jacometti, fonte battesimale e particolare ricevette in pagamento dal Comune centocinquanta scudi.26 Lo stesso Pietro Paolo nel suo libro di Memorie consultato da Giovanni Pauri dichiara “E più ho fatto per la medesima città [Recanati] il Battesimo del Duomo con l’ornamento e figurine di bronzo per prezzo di scudi 150 in circha come costa per rogito del Cancelliero”.27 Definito dal Calcagni “tutto di marmo fino con alcune statue opera rara di Pietro Paolo Jacometti”28 l’oggetto è ricordato anche nell’inventario della cattedrale del 1733: “Da piedi la chiesa sta il battisterio o fonte battesimale circondato da una bella cancellata di ferro ornata con sei rami d’ottone, essa fonte è tutta di marmo biancho adornata con più statue di bronzo rappresentanti Gesù Cristo che riceve il battesimo da San Giovanni, altri angeli e cherubini, adornato ancho con colonne di mattoni bianchi, stucchi e pitture con nobil baldacchino di sopra di legno in più luoghi indorato come pure in detta fonte battesimale vi sono due arme una del cardinal Roma e l’altra della città”.29 Dalla descrizione si evince che il fonte era originariamente contenuto entro un ambiente riccamente decorato di cui non resta traccia. I due fratelli Jacometti portarono avanti nel Seicento l’eredità della scuola recanatese di scultura in bronzo dopo la morte dello zio, Antonio Calcagni, avvenuta nel 1593,30 ma il più giovane Pietro Paolo, come riporta Filippo Baldinucci che dedicò due brevi biografie31 a questi bronzisti, apprese dal Pomarancio a Loreto anche l’arte della pittura.32 I caratteri espressivi e stilistici delle loro opere si 178 Silvia Blasio Giovanni Antonio Carosio, Speranza Giovanni Antonio Carosio, Carità e girotondo di angeli richiamano ancora ai modelli tardocinquecenteschi ma la loro abilità tecnica fu altissima e riconosciuta da tutte le fonti antiche. Il fonte battesimale si presenta attualmente con una ridipintura color bronzo piuttosto sorda, che copre interamente l’originario bianco messo in evidenza dalle descrizioni settecentesche come elemento di determinante valore estetico, anche se Calcagni scambia per “marmo fino” quella che è in realtà pietra d’Istria; il materiale viene invece correttamente individuato nella relazione della Sacra Visita effettuata il 23 ottobre 1640 dal vescovo Amico Panici in cui il fonte è detto “e marmore illirico constructus est aliquibus aeneis figuris ornatus”;33 una maggiore approssimazione al colore chiaro originario si percepisce in due vecchie fotografie pubblicate da Pauri nel 1915 che però, come avverte l’autore, mostrano l’oggetto “con poco accorgimento verniciato di bianco”.34 La successiva e recente riverniciatura a finto bronzo, oltre ad ottundere le linee architettoniche della struttura portante del fonte, annulla il contrasto tra le candide superfici della pietra e le applicazioni in metallo. La struttura a forma di ciborio è composta da una vasca poligonale sorretta da un fusto modanato e da una copertura RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 179 Giovanni Antonio Carosio, Nascita della Vergine Giovanni Antonio Carosio, Madonna di Loreto a specchiature con due sportelli in legno intagliato e dorato in quelle anteriori, terminante con una cupola a campana. Su questa struttura sono applicate le sculture di bronzo: il Battista è posto alla sommità del cupolino e guardando verso il basso somministra il battesimo a Gesù che è collocato inferiormente sul bordo della vasca in atto di chinare la testa per ricevere il Sacramento, sottomettendosi alla volontà divina. Questa efficace soluzione che allinea i personaggi sacri in verticale invece di collocarli sullo stesso piano secondo l’iconografia tradizionale, denota l’originale inventiva e lo spirito innovatore propri del bronzista, del resto già espressi al massimo grado nei bizzar- ri ornamenti della fontana nella piazza antistante la basilica lauretana, eseguita in collaborazione con Tarquinio, tra il 1619 e il 1620. I due bronzi del Battesimo di Cristo si strutturano secondo un lieve chiasmo e sono uniti l’uno all’altro attraverso sottili corrispondenze di movimenti di gusto ancora tardo- manierista; entrambi sono così prossimi alle statuarie figure dipinte dal Pomarancio nella volta della cappella del Tesoro, per esempio le due Allegorie che affiancano il riquadro col Giudizio di Salomone, da confermare anche per via stilistica che Pier Paolo Jacometti ne sia l’autore, avendo collaborato col Roncalli negli affreschi di Loreto. È da notare inoltre come le figure in bronzo mantengano la loro patina arancio-dorata originaria, caratteristica della scuola recanatese di scultura.35 Alla base del fusto è applicato lo stemma della città di Recanati, ma manca l’arme del cardinal Roma citata sia nella relazione della Sacra Visita del 1640, sia nella descrizione del 1733, e già perduta nel 1915.36 Ulteriori fusioni in bronzo sono state rubate: nella fotografia pubblicata dal Pauri si vedono chiaramente i due angioletti a braccia conserte nell’atto di inginocchiarsi fissati lateralmente sul bordo della coppa, di cui oggi ne resta uno solo e si intravedono altre applicazioni in bronzo sotto di essi, probabilmente altre due arpie simili all’unica rimasta, posta frontalmente nella gola sotto il bordo della vasca. Secondo un’iconografia riscontrabile talvolta anche negli oggetti di oreficeria, le arpie, creature demoniache, sono situate nella parte inferiore della struttura, al di sotto dei piedi del Redentore, mentre gli elementi celesti come le teste di cherubini, occupano in alto le facce del cupolino.37 Il cardinal Roma fece inoltre rifare l’ab- 180 Silvia Blasio Giovanni Antonio Carosio, Madonna e i santi Rocco e Filippo Neri side “anticamente ottagonata e [che] fin dal tempo del vescovo Niccolò delle Aste portava dipinte alcune storie di san Girolamo” e fece costruire da Agostilio Vangelisti di Ripatransone nel 1633 il coro nuovo costato mille scudi,38 tuttora presente, in sostituzione di quello quattrocentesco. Nell’inventario del 1733 esso è così descritto: “[…] il bello e magnifico choro fatto come si è detto dal fu eminentissimo Roma, diviso in due ordini fabbricato di legno di noce ove spicca Giovanni Antonio Carosio, Madonna col Bambino e santi un nobil disegno dove fra gl’altri intagli si vedono dodici statue rappresentanti i dodici apostoli tramezzate con gigli che sembrano alludersi allo stemma del medesimo cardinale”39 Anche il pulpito di legno di noce e le cantorie furono eseguite per volere dello stesso cardinale. Nella cattedrale di Recanati al tempo del vescovo Amico Panici di Macerata, che resse la diocesi tra il 1634 e il 1661, operò un pittore di origine genovese, Giovanni Antonio Carosio. Sono scarsissime le notizie su questo artista prima della sua apparizione recanatese, né sappiamo per quali vie egli si sia portato a Recanati. La sua attività nella cattedrale, per quanto assai cospicua, è completamente inedita, poiché finora il pittore era noto solo per la sua presenza a Roma. Nato a Genova intorno al 160640 si trasferì a Roma probabilmente giovanissimo, perché il suo nome è ricordato in una querela sporta contro di lui dal pittore Nicolò Bizesi nel 1628,41 anno in cui risulta già iscritto RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 181 Saverio Moretti, Martirio di santa Paolina Giovanni Antonio Carosio e Pier Simone Fanelli, I santi Carlo Borromeo e Liborio all’accademia di San Luca; nel 1631 un documento attesta la sua partecipazione a lavori nelle grotte vaticane, diretti da Gian Lorenzo Bernini, che ricevette seicentoventi scudi da ripartire tra i suoi collaboratori. Non si sa esattamente che cosa Carosio abbia dipinto, ma percepì un compenso di sessanta scudi.42 Dal 1630 in poi risulta partecipare alle sedute e alle attività dell’Accademia e nel 1640 il suo nome fu proposto per l’elezione a principe, ma non venne eletto.43 Intorno al 1632 aveva sposato la genovese Gerolama e nello stato di famiglia del 1656 è ricordato come povero, abitante in via Condotti con nove figli dai ventidue ai due anni. Dettò il proprio testamento il 1 febbraio 1667 e dovette morire poco dopo questa data. Il pittore era finora noto per una sola opera, la decorazione a fresco della cupola e dei pennacchi della cappella delle Grazie nella chiesa di san Rocco all’Augusteo a Roma. Questi affreschi che rappresentano l’Assunzione della Vergine e nei pennacchi Profeti e Sibille erano tradizionalmente attribuiti da Filippo Titi in poi a un figlio del pittore, fino a che con il restauro sono riapparse la firma e la data “Gio. Ant. Carosio fecit 1657”. Essi denotano come Carosio abbia messo a frutto la sua lunga frequentazione accademica, ispirandosi palesemente ai modelli del classicismo emiliano e soprattutto di Guido Reni. Filippo Titi gli 182 Crocifissione, secolo XVII attribuisce anche un dipinto raffigurante la Morte di San Giuseppe nella cappella omonima del Pantheon.44 L’esame degli affreschi recanatesi può essere al momento solo parziale perché a causa dei restauri in corso alcuni dipinti non sono visibili; il ciclo comprende nell’ordine inferiore due scene di martirio, il Martirio di san Flaviano e il Martirio di san Vito tra i quali al centro è la Santa Casa di Loreto trasportata dagli angeli e nell’ordine superiore due storie della Vergine, la Nascita della Vergine e Silvia Blasio Giovanni Antonio Scaramuccia, Madonna col Bambino e santi Annunciazione con al centro Dio Padre affiancato da due tondi con due angeli inginocchiati in preghiera. Alla sommità del catino absidale la decorazione si conclude con “uno scherzo di angeli”,45 ossia un girotondo di angioletti in volo. Nel sottarco sono rappresentate le Virtù Teologali, un angelo inginocchiato e una figura allegorica non identificata: è una donna che tiene due cani sotto il piede, regge uno scettro ed è coronata d’alloro. Tutte queste raffigurazioni sono racchiuse entro una ricca ornamentazione in stucco che presenta il consueto repertorio manierista di cornici a ovoli e fusarole, sequenze di foglie e altri elementi vegetali che delimitano le singole scene, ma le zone tra una cornice e l’altra sono riempite da figure panneggiate, angeli, telamoni, putti muscolosi quasi a tutto tondo, mascheroni e rigogliosi festoni di fiori e frutta; al centro, davanti alla Madonna di Loreto, due angeli semisdraiati sui due lati di un timpano spezzato sorreggono lo stemma del committente, il cardinale Amico Panici. Verso la navata, RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO Antonio Maria Garbi, Trinità e particolare una fascia a bassorilievo mostra figure allegoriche racchiuse da coppie di volute affrontate a formare medaglioni ovali, molto simili a quelli che delimitano il perimetro dei due battenti della porta meridionale della basilica di Loreto di Antonio Calcagni, da cui prendono ispirazione. La decorazione del sottarco, in- 183 vece, mostra motivi circolari con rosoni al centro in forte rilievo, con maschere, volute e cespi di frutta che si alternano alle cartelle con le Virtù affrescate, motivi di gusto classicheggiante più simili a quelli del soffitto ligneo. Non sappiamo chi siano gli abilissimi stuccatori che hanno affiancato Carosio nell’ornamentazione dell’abside, né vi sono elementi per precisare meglio gli anni di esecuzione di questi lavori. Amico Panici governò a lungo la diocesi, per ventisette anni, e l’inizio e la fine di questo vescovado sono gli unici riferimenti cronologici di cui al momento si dispone per circoscrivere la datazione. Qualche osservazione si può fare riguardo allo stile del pittore, che non è dissimile da quello degli affreschi in San Rocco a Roma: entrambi i cicli decorativi denotano un classicismo semplificato ed essenzialità compositiva di derivazione reniana, ma soprattutto l’assenza di effetti di illusionismo spaziale e prospettico, o di movimento, in dispregio dei principi del barocco. Le pitture 184 Giovanni Gallucci, San Flaviano in San Rocco risalgono al 1557, ed è probabile che l’incarico per l’abside del Duomo, che presuppone un soggiorno di qualche tempo a Recanati, non si discosti troppo da quella data. Per le scene di martirio dei due santi patroni esistono anche due modelli su tela, conservati nel Museo Diocesano. L’attività di Carosio a Recanati riguardò anche l’esecuzione di alcune pale d’altare, nessuna delle quali è datata. Al pittore genovese spettano il quadro con la Madonna e i santi Rocco e Filippo Neri, nell’altare dedicato a san Rocco che recava l’arme dello stesso cardinal Panici; l’opera è menzionata nell’inventario del 1733 come “diviso […] in due parti e perché si apre si vede dentro il commodo per ponervi le reliquie della chiesa come dicesi voler fare mons. Panici, ma perché dubitò che non fossero ben difese dall’humido non ve le fece riponere”,46 ma all’esame diretto questa possibilità di apertura non è stata riscontrata. I caratteri stilistici e il colorito acceso e con- Silvia Blasio trastato sono simili a quelli degli affreschi. Del Carosio è anche la pala con la Vergine col Bambino e i santi Antonio da Padova e Michele, che sarebbe una bella composizione dall’impianto nitido e colori squillanti, se non fosse stata deturpata dall’aggiunta di un san Francesco di Paola per motivi di devozione. L’altare su cui questo dipinto si trovava in origine era dedicato a Sant’Antonio e recava alla base delle colonne lo stemma della famiglia Galamini. Il terzo dipinto del Carosio rappresenta san Carlo in preghiera, cui Pier Simone Fanelli,47 che in quel tempo mandava avanti la sue fiorente bottega e accademia di pittura di Recanati, aggiunse un san Liborio a quadro terminato; la spiegazione di tale intrusione è che “non sapendosi da divoti di S. Liborio in che altare far mettere la sua immagine alla fine la fecero mettere in questo quadro dalla mano di Pietro Simone Fanelli, pare ora che S. Carlo avanti S. Liborio stia genuflesso”.48 È probabile che una motivazione analoga abbia giustificato anche l’aggiunta del san Francesco di Paola nel quadro precedente. Perduto è il dipinto in cui Pietro Andrea Briotti, recanatese raffigurò san Gaetano Thiene, ricavando la composizione da una stampa di Giovan Francesco Romanelli, mentre sono ancora in chiesa una seicentesca Crocifissione di autore ignoto49 di cui il Museo Diocesano conserva il modelletto preparatorio, il Martirio di santa Paolina del pittore Saverio Moretti di Recanati e, sull’altar maggiore, il san Flaviano di Giovanni Gallucci (Ancona 1815 – Malta ?) fratello del vescovo Tommaso. Il dipinto di Giovanni Antonio Scaramuccia (Perugia 1570/80 – 1633) rappresenta come si è detto la Madonna col Bambino e i Santi Francesco d’Assisi, Tommaso d’Aquino, Luigi di Francia, Ubaldo, Nicola da Tolentino e Onofrio, e si trova sull’altare “di rilievo fatto di pietra scu- ra” che sui basamenti delle colonne reca un’iscrizione a ricordo della dedicazione ai santi presenti nel quadro. Il mantenimento dell’altare spettava alla famiglia di Matteo Gonfalonieri, che risiedeva secondo il Calcagni vicino alla cattedrale,50 che probabilmente commissionò il quadro. Scaramuccia, formatosi nell’ambito dei barocceschi umbri, aggiornò la sua cultura recandosi a Roma dove dapprima si orientò verso Annibale Carracci, in seguito divenne allievo di Cristoforo Roncalli. La pala del duomo, prossima per la grandiosità della composizione rotante attraversata da bagliori luminosi alla Madonna col Bambino tra i santi Francesco, Agostino, Domenico, Costanzo, Ercolano e Fiorenzo della cattedrale di Perugia del 1610, si dovrebbe datare nel medesimo momento ed è probabile che l’introduzione dello Scaramuccia a Recanati sia stata favorita dallo stesso Roncalli, attivo nella vicina Loreto.51 Sull’altare della cappella del Santissimo Sacramento è infine un dipinto raffigurante la Trinità e tre angeli; nel corso del recente restauro sul turibolo dell’angelo a destra è tornata a leggersi la firma “Ant. Ma. Garbi F.”. Antonio Maria Garbi (Tuoro 1718 – Perugia 1797) è un pittore umbro formatosi a Roma presso la bottega del marattesco Placido Costanzi, durante il regno di Clemente XII. Poiché la cappella del Santissimo Sacramento fu costruita sotto il vescovo Giovanni Antonio Bacchettoni che guidò la diocesi tra il 1749 e il 1767, si può presumere che il dipinto sia stato eseguito in anni non lontani da quel periodo; esso mostra infatti richiami alla pittura di Sebastiano Conca nei colori e nelle abbondanti panneggiature con fitte pieghe che sono caratteristici delle opere del Garbi datate tra il 1770 e il 1775.52 RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 185 NOTE Calcagni 1711, p. 288. “RMS D.A.CAD./ RACANATI OBIIT XXI JU / NIY A.D. MCCCCII / CS AIA SIT I. PACE”. Pesarini 1933, p. 61, n. 14; p. 62 - 64, n. 15. 3 Mazzalupi 2007; pp. 117-118; Mazzalupi 2008a, pp. 115-116. 4 Ciaconius, Vitae, et res gestae pontificum romanorum, Mazzalupi 2008a, p. 116, fig. 4. 5 “MAXIM. EC. PRINCEPS SUMQ. MONARCHA / ORDINE GREGORI. BISSENO CLAUDIT. ARCHA / HIC PR. PACE DATUS CELESTI NUME SEMPER / FERBUIT ETHNEOS SUPERIS UNIR.DECENTE / AST BIS SCISM. MALU FCA HEC DEMTIA PISIS / IPE PI. RELEVAT PURA E CONSTATIA TESTIS / CARDINE BIS SACRO PASTORIS COSCIA TED./ MACHIA SUSCEPIT RACANAT FLAVI EDE / SUB ANNO DNI MCCCCXVII”; Raffaelli 1877; Pesarini 1933 pp. 62-64, n. 15, con bibliografia precedente per la trascrizione e interpretazione dell’iscrizione. 6 Mocchegiani, doc. in appendice, c.68. 7 Lanzi 1782-1794, c. 16r in Mazzalupi 2008a, p. 115. 8 A Parigi, presso l’antiquario Giovanni Sarti; De Marchi 2006, p. 42, fig. 100, pp. 44-45; Mazzalupi 2008a, p. 115, fig. 2, pp. 134-135, scheda n. 12. 9 Ricci 1834, I, p. 184; Mazzalupi 2008a, p. 114. 10 Calcagni 1711, pp. 136-138; ASDR Accenni sull’Origine della Città e del Vescovato di Recanati e sulle persone che sino ad oggi hanno tenuto ed occupato la Nostra Sedia Vescovile e di Loreto, Recanati 1902, ms. s.c., XX, cc. 165-169, Niccolò d’Aste. 11 “SEPULCRU.OLI.REVEREM. DNI / NICOLAI EPI RAC. ET MAC. QD / FIERI FECIT FRAT.AS S. LUCIE / MCCCCLXX” Pesarini 1933, pp. 72-73, n. 26. 12 “1443 TPE. D. NICOLAI DE ASTIS D RLIO, EPI. RACAN ET MACERAT. JACOB RECAN.PIX”. Pesarini 1933, p. 64; Mazzalupi 2008b, p.160, scheda n. 10. 13 Moccheggiani, doc. in appendice, c. 68. 14 Bisogni 1973, p. 50 e F. Bisogni in Fioritura tardogotica, pp. 284-287, schede nn. 111-112; Mazzalupi 2008b, pp. 160-164, schede nn. 10-15. 15 Mazzalupi 2008b, p. 167, scheda n. 18. 16 “A.D. M.CCCC.XLIIII. HOC OPUS / FECIT FIERI REVERENDISSIMUS IN /CHRISTO PATER ET DOMINUS DOMINUS / NICOLAUS DE ASTIS DE FOROLIVIO / EPISCOPUS RECANATENSIS ET MACERATENSIS / DE MENSE JUNII”. Pesarini 1933, p. 65, n. 18. 17 Riferite dubitativamente all’Urbani da Venturi 1915, p. 203; P. Dal Poggetto in I pittori del Rinascimento a Sanseverino, pp. 94-95, scheda n. 3. 18 Potrebbero essere le due tavole che Spezioli 1898, p. 154 segnala nell’Archivio della cattedrale, essendo facile confondere san Flaviano con san Ludovico di Tolosa, entrambi vescovi di solito rappresentati con splendidi piviali. 19 Riunite da Zeri 1948b, ed. 2000, pp. 123-127. 20 Spezioli 1898, ed. 1968, p. 143. 21 Fini 1990, p. 34. 22 Raffaelli 1877, pp. 13.16. Trionfi Honorati 1992, pp. 212-213. “ANNO DNI MDCXX / BIS CECIDIT MLE FULTA PRIVS LATERITIA MOLES / EN NOVA PRO VETERI FORNICE TECTA DOMVS / SQVALLVIT IN TENEBRIS LOCVS: EN SPECVLARIA PVROS / QVAE SPARGANT RADIOS LVMINE PLENA SVOS / ALME PATER FLAVIANE PIVM CAPE MVNVS AMORIS/ SI QVA OPERI MERCES TOTA SIT IPSE DEVS / FR. AVGVST / CARDIN. ARAE COELI EPS. REC ET LAVRET DED POS DIC”. 25 Vedi Mocchegiani in appendice; Pauri 1915, p. 88. 26 Lo riferisce Pauri 1915, p. 88, nota 3 sulla base di una copia del documento di allogagione allora posseduto dal conte Marzio Politi Flamini di Recanati. Leopardi 1945, p. 312, art. 3, 1620 dice invece che “il Comune concorse a quest’opera somministrando 250 scudi”. 27 Il Libro di memorie di Pietro Paolo Jacometti era allora, secondo Pauri 1915, p. 86, nota 1, “in casa dei Sigg. Podaliri di Recanati”. 28 Calcagni 1711, p. 288. 29 Mocchegiani, doc. in appendice, cc. 66-67. 30 Sugli Jacometti, Massinelli 1992b, pp. 255-259; Arcangeli 1993, pp. 378-379. 31 Baldinucci 1681-1728, ed. 1846, III, pp. 598-599, IV, p.325. 32 Pauri 1915, p. 86, nota 1 riporta, traendolo dal Libro di memorie di Pietro Paolo Jacometti citato qui alla nota 27, l’elenco delle opere di pittura dello stesso Pier Paolo, eseguite per vari committenti di Recanati e Loreto e Osimo. 33 ASDR, Visite pastorali, b. 1, c. 18v, visita del 23 ottobre 1640. 34 Pauri 1915 35 Radcliffe 1984, p. 25. 36 Pauri 1915, p. 89, nota 1. 37 J. Montagu in Ori e argenti 2007, p. 222, scheda n. 20. 38 Calcagni 1711, p. 288; Spezioli 1898, ed. 1968 p. 144; Fini 1990, p.34. 39 Moccheggiani, doc. in appendice, c. 59r. 40 Narducci 1870, p. 125 41 Bertolotti 1877, ed. 1884, p. 184 42 Pampalone 1977, pp. 554-555 43 Pampalone 1977, pp. 554-555 44 Titi 1674, ed. 1987, p. 191. 45 Descrizione e Inventario del 1733, Mocchegiani in appendice, c. 60. 46 Descrizione e Inventario del 1733, Mocchegiani in appendice, c. 62. 47 Per le notizie sull’artista vedi il mio saggio su Cingoli in questo volume. 48 Descrizione e Inventario del 1733, Mocchegiani in appendice, c. 66. 49 Lo Spezioli 1898 ed. 1968, p. 146 la definisce “di buona mano ma d’ignoto autore”. 50 Calcagni 1711, p. 288. 51 Barroero, Casale, Falcidia, Pansecchi, Toscano 1980, pp. 94-95; Mancini 1981, p. 371; Barroero 1989, p. 882. 52 Delogu 2005-2006, pp. 195-207. 1 23 2 24 RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 187 ‘ARTI RARE’ NEL TESORO DELLA CHIESA DI SAN FLAVIANO A RECANATI Gabriele Barucca “Abbiamo pianto abbastanza. Il Castigo del Signore è stato terribile. Esso ha incominciato dalla stessa sua Casa. Sarà di una eterna memoria ai nostri nipoti lo squallore delle nostre Chiese, nel quale leggeranno il successivo del giorno 20 Febbraio, in cui restarono forzatamente spogliate non che delle divote Immagini, ma ancora dei vasi sagri perché d’argento. Speriamo, che sia finalmente placato questo Dio terribile. Se non lo fosse ancora che sarebbe mai di noi, non restandoci che poco più dell’esistenza. Non è egli vero. Il Clero ha quasi perduta ogni sua influenza. Nel giorno 29 dello stesso mese di Marzo 1798 si presenta in Sagrestia dopo Compieta il Signor Carlo Gigli, il quale per ordine dell’Agente Francese del Dipartimento del Musone fece il seguente inventario degli Argenti rimasti alla nostra Cattedrale. Per Altari n° 12. Calice di Argento dorato n° 1; Calici di mistura dorata e inargentata con coppe simili n° 3. Un Ostensorio di rame dorato con Angeli, e nuvole d’Argento con alcune pietre false colorate. Una Pisside con la sola coppa d’Argento. Un incensiere; una caldarola con aspersorio di mistura inargentata. Tale nota, ed inventario, fù sottoscritto da Monsignor Proposto Mazzagalli il quale attestò come siegue Al Nome di Dio Amen. Recanati questo dì 29 Marzo 1798. Io sottoscritto Proposto della Cattedrale di questa città di Recanati richiesto della quantità degli Argenti che esistono nella medesima Chiesa Cattedrale, assicuro non esservi né tampoco l’occorrente, riconosciuto per tale dall’Agente Francese del Dipartimento del Musone, giacché dallo Spoglio fatto nell’Anno scorso le Sagre Particole per mancanza del vaso opportuno in cui collocarle, si tengono in un Corporale, dentro il Ciborio, e per dodici Altari non vi sono che quattro Calici. Settimio Professo Mazzagalli mano propria Li predetti pochi pezzi di Argento sono il miserabile avanzo dello spoglio fatto dalli Commissarj Francesi nel giorno 20 Febbraio dell’Anno… 1797 di tutti gli Argenti, Altare, Espositorio, Semibusti, Reliquiari, Vasi Sagri, Croce Capitolare, Candelieri, Incensiere, Pastorale, Catini… Caldarola… tutti alla nostra Chiesa Cattedrale nella vistosa quantità di libbre 368. Li tre Calici poi di mistura dorata ed inargentata, l’incensiere, la caldarola, e l’aspersorio similmente di mistura inargentata sono gli utensili e vasi sagri provveduti insieme con un piattino, e due campanelli consimili per servire immediatamente al bisogno con la spesa di scudi 70 circa Così è Filippo Fontini Canonico Sagrista”.1 Così si legge nel verbale della seduta dell’Assemblea Capitolare della cattedrale di Recanati tenutasi il 4 aprile 1797 subito dopo i tragici sviluppi della discesa napoleonica nello Stato della Chiesa. Pochi decenni prima nella Descrizione e inventario della chiesa cattedrale2 recanatese del 1733 sono comprese liste lunghissime d’ogni sorta di suppellettile ecclesiastica. Si rimane impressionati dalla ricchezza del tesoro di reliquie, dalla consistenza dei pezzi d’argento, dal corredo di libri liturgici e, soprattutto, dalla straordinaria quantità de’ Pluviali, Pianete, Tonicelle, Stole, Manipoli, Borse e Veli bianchi, rossi, verdi, violacei e di colori diversi. Come già attestato dal sagrista il patrimonio di argenterie è solo “il miserabile avanzo dello spoglio fatto dalli Commissarj Francesi” nel 1797,3 mentre la collezione delle reliquie è ancora in gran parte superstite, custodita nel Sancta sanctorum.4 Questo fenomeno si giustifica considerando la pietà di cui erano oggetto le reliquie custodite gelosamente nei “sacri astucci” e mostrate solo in determinate date del calendario liturgico. Nella vita, nella cultura e nell’arte fino a pochi decenni fa le reliquie avevano acquistato un’importanza straordinaria che difficilmente noi possiamo ora immaginare. La promozione del culto delle reliquie con intenti essenzialmente didascalici, regolato da norme dettate volta a volta dai sinodi locali spiega lo straordinario successo dei reliquiari, peraltro esclusi dalle rigide prescrizioni canoniche circa la forma e i materiali. Del resto questo successo venne alimentato dalla quasi inesauribile disponibilità di reperti sacri frutto delle indagini e delle riscoperte di ‘corpi santi’ nelle catacombe romane. Il connesso traffico di ‘reliquie’, la loro circolazione e distribuzione da Roma, determinò fenomeni vistosi di collezionismo e di ostentazione quantitativa, a cui appunto conseguì lo sviluppo di una enorme produzione di contenitori in le- 188 Gabriele Barucca Sancta sanctorum gno scolpito, intagliato, dipinto e dorato o argentato, che per motivi di economicità venne progressivamente a sostituire o integrare la realizzazione dei ben più preziosi reliquiari in metalli nobili. Nella cattedrale recanatese i reliquiari per lo più lignei, ma anche in lamina d’argento sono riposti dentro gli armadi e sulle scansie che rivestono completamente le pareti del Sancta sanctorum, un piccolo sacello coperto da una volta a ombrello, realizzato su disegno del canonico Matteo Prosperi e posto tra il presbiterio e gli ambienti della sagrestia nei pressi del vestibolo dove nel 1793 furono definitivamente sistemate le tombe a parete di Angelo Cini da Bevagna, Gregorio XII e Niccolò delle Aste.5 Nel sacello, voluto fortemente dai canonici Alessandro e Matteo Prosperi, che nel 1793 “mossi dal zelo e dalla pietà” convinsero il preposto Settimio Mazzagalli a trasformare la sacrestia del duomo in cappella delle reliquie, trovarono degna collocazione i corpi santi “che da trecento anni scorsi stava nascosti nella chiesa catedrale al Duomo”, lì lasciati da papa Gregorio XII “fugitivo da Roma” e morto a Recanati il 17 novembre 1417, dopo aver rinunciato al papato e aver accettato l’amministrazione delle diocesi di Recanati e Macerata.6 Dalla sua solenne inaugurazione, avvenuta il mercoledì santo del 1794, “nel Sancta Sanctorum al Duomo ogni festa de Santi Martiri in quel giorno che accade il Reverendo capitolo fa sonare le campane al doppio, e la sera con li tocchi della campana grossa invita le divote genti a bagiare la reliquia, e con varie orationi e preci dà la Santa Beneditione del Santo che corre la festa”.7 Il nucleo di arredi lignei ancora conservato nel Sancta sanctorum è piuttosto consistente ed è costituito da varie tipologie di reliquiari: a ostensorio, a tabella, a urna, a cassetta, antropomorfi a braccio e, soprattutto, a busto. La datazione di questi pezzi, di qualità mediamente piuttosto alta, va dai primi del Seicento all’Ottocento attestando una tradizione consolidata e continuativa nel tempo di RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO Lorenzo Petroncelli, reliquiario di san Flaviano Museo Diocesano, sala II botteghe locali dotate di capacità artistico-artigianali fondate sulle competenze collegate di abili intagliatori e di esperti doratori. Accanto a questi manufatti lignei si conservano ancora una grande stauroteca argentea ottocentesca collocata nell’armadio, rivestito all’interno di damasco rosso e posto dietro l’altarolo, sollevato su due gradini e al centro della parete di fondo del Sancta sanctorum, e alcuni reliquiari a ostensorio in lamina d’argento fissata a un supporto ligneo. Tra questi merita segnalare quello contenente un osso di san Flaviano che reca impresso un punzone quasi illeggibile, ma forse corrispondente a quello dell’argentiere romano Lorenzo Petroncelli (Roma, 1724-1801, pat. maestro 1758). Il resto del tesoro della cattedrale di Recanati, comprendente i vasi eucaristici e le altre suppellettili sacre superstiti, nonché i paramenti liturgici più preziosi, è conservato dalla metà del secolo scorso nel Museo Diocesano. È opportuno a questo punto raccontare brevemente le vicende costitutive del Museo Diocesano di Recanati, primo nel suo genere nelle Marche. Venne infatti aperto al pubblico il 24 novembre 1958, dopo alcuni anni di preparazione necessari per completare il restauro del vecchio Episcopio trecentesco e procedere all’allestimento dello spazio espositivo, in un primo tempo limitato al grande salone del piano superiore dell’edificio con la bella copertura a capriate. Si dava in tal modo compimento all’iniziativa del vescovo Aluigi Cossio (1924-1955) che iniziò il recupero dell’antica residenza vescovile prescelta come sede adeguata ad ospitare la raccolta di oggetti sacri. Ma il principale artefice della costituzione del Museo Diocesano di Recanati fu monsignor Attilio Moroni (Porto Recanati, 1909 – 1968), prevosto del Capitolo della cattedrale, il quale riuscì a realizzarlo con il consenso e l’incoraggiamento del vescovo Emilio Baroncelli (1955-1968) 189 e con l’aiuto e i consigli tecnici di Luigi Benedettucci, Rodolfo Ceccaroni, Clara Niutta Donati e Arturo Politi. Il nucleo fondamentale del museo era costituito da opere appartenenti appunto alla cattedrale di San Flaviano con l’aggiunta di una scelta selezione di pezzi provenienti da altre chiese di Recanati e da donazioni di privati. Intorno al 2003-2004 la necessità di una completa riorganizzazione dell’allestimento originario del Museo Diocesano, affascinante ma ormai datato e inadeguato a presentare e valorizzare gli oggetti che vi erano stati riuniti, nonché l’obbligo di tenere conto delle moderne esigenze di adeguamento normativo, sicurezza, accessibilità e fruizione delle sedi museali hanno reso necessario lo spostamento del museo dagli ambienti dell’antico Episcopio alle sale del piano nobile del nuovo Palazzo Episcopale.8 Il progetto del nuovo allestimento9 ha preso avvio con un ampio programma di restauri mirato alle decorazioni delle volte 190 Gabriele Barucca Arte paleologa, reliquiario a dittico delle varie sale e alla maggior parte delle opere da esporre.10 Queste sono state riunite nelle singole sale a seconda dei temi affrontati, come la devozione alla Beata Vergine di Loreto, e dei criteri diversi: per classe, per tipologia, per cronologia. La definizione del nuovo percorso espositivo ha comunque tenuto conto del carattere specificamente ecclesiologico del museo diocesano, che è insieme storico, teologico e liturgico con finalità pastorali. Questi oggetti, belli e preziosi, continuano pertanto ad avere una funzione pastorale e insieme raccontano la lunga storia religiosa e devozionale della comunità cristiana di Recanati, ci parlano dei donatori, papi, vescovi, canonici, illustri visitatori, del loro gusto e degli artefici cui si erano rivolti. Tra gli oggetti più preziosi e rari appar- tenenti al tesoro della cattedrale e ora nel Museo Diocesano è certamente un piccolo reliquiario a dittico in legno e pastiglia dorata con al centro della specchiatura di entrambe le valve due placche rettangolari di steatite con tracce di policromatura e doratura raffiguranti la Natività e la Presentazione al tempio, circondate da cornici in argento dorato incise con un motivo a tralcio e decorate con perline e gemme colorate incastonate. Intorno è ricavata una fascia che su ciascun lato presenta ricettacoli protetti da vetrini con i filatteri in pergamena recanti le indicazioni della reliquia, e agli spigoli altre placchette rettangolari pure di steatite raffiguranti busti di santi. Nella valva destra mancano le due placchette superiori. Una fascia in argento dorato impreziosita da castoni con gemme colo- rate definisce esternamente entrambe le specchiature delle due valve incernierate tra loro. La lavorazione della steatite, un minerale dal colore verde pallido, è tipica dell’arte bizantina, dove veniva impiegata soprattutto per realizzare icone portatili.11 Le splendide e preziose placchette che ornano il reliquiario a dittico recanatese presentano caratteri stilistici riferibili all’arte paleologa del XIV secolo e furono realizzate probabilmente in una raffinata officina di Costantinopoli o di Tessalonica, dove operavano, com’è noto, artefici attivi anche nella capitale e per la medesima ristretta élite di committenti. La presenza di questo prezioso oggetto bizantino nella cattedrale di Recanati non è così sorprendente: inventari e documenti scritti attestano infatti che queste tavolette insieme alle icone a mi- RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 191 Arte umbra, dittico con Natività e Crocifissione cromosaico facevano parte, sebbene in un numero limitato di esemplari, delle più importanti collezioni italiane del Quattrocento, come, per fare un solo esempio, quella del cardinale veneziano Pietro Barbo, papa col nome di Paolo II dal 1464 al 1471. Un altro nucleo di oggetti di grande interesse e fascino è costituito da alcuni vetri dorati e graffiti di elevata qualità, il cui recente restauro, condotto magistralmente nei laboratori dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro,12 ha consentito di esaminarne approfonditamente la tecnica esecutiva nonché di rimuoverli dalle teche lignee di gusto neogotico non pertinenti che li racchiudevano, quando erano ancora esposti nel Sancta sanctorum. Si tratta di un dittico raffigurante nelle due valve la Natività e la Crocefissione,13 sormontate dall’Annunciazione nelle 192 cuspidi, di cui si conserva solo il vetro con la Vergine, una tabella rettangolare con la Crocefissione e due mezze figure di santi e un tondo con la Natività. Ecco di seguito la descrizione dei pezzi e la loro fortuna critica redatte da Daila Radeglia:14 “La valva sinistra del dittico raffigura in un pannello rettangolare la Natività, comprendente l’annuncio ai pastori, racchiusa entro un’elegante incorniciatura trilobata con fitta decorazione a elementi geometrici e foglie, descritta con vivacità con una narrazione spigliata che mostra gli elementi consueti e variamente declinati di un gruppo nutrito di vetri umbro-marchigiani:15 l’iconografia della Madonna seduta con il bambino strettamente fasciato, la mangiatoia a colonne, il pastore che si ripara la vista e le pecore. In particolare il motivo dei capri affrontati compare anche in un vetro del Victoria and Albert Museum di Londra. Insolito invece è il letto con cuscino sul quale siede Maria. Nella Crocefissione della valva destra l’apparato decorativo dell’incorniciatura triloba varia nella foggia dei capitelli, che poggiano su colonnine tortili, e nella decorazione a foglie. Al Cristo si affiancano le figure degli angeli piangenti (quello a sinistra si straccia le vesti), al di sotto sono le figure della Madonna e di S. Giovanni. La tabella rettangolare16 presenta la Crocefisione cuspidata, e nei triangoli superiori entro medaglioni circolari a sinistra una figura di martire che, per gli attributi della bandiera, palma del martirio e veste foderata di vaio potrebbe identificarsi con S. Orsola,17 a destra S. Pietro con chiave e libro, mentre la campitura del fondo è rossa con larghe foglie a oro che occupano tutto lo spazio. Analogo senso di horror vacui è nella scena principale, il cui fondo scuro è decorato da una serie di fiori a otto petali. Al di sopra del braccio verticale della croce un fiore e ai lati le figurazioni del sole e della luna. Ai Gabriele Barucca Arte umbra, Crocifissione piedi del Cristo a sinistra la scena dello svenimento di Maria sorretta da tre donne, a destra la disperazione di S. Giovanni, che con gesto drammatico si torce le mani. I piedi del Cristo sono trafitti da un unico chiodo, e ad accentuare il patetismo della raffigurazione il sangue che sgorga dalle ferite e inonda il terreno è dipinto in rosso. Non sembrerebbe pertinente alla tabel- la con la Crocefissione, alla quale era sovrapposto, il tondo con la Natività entro un medaglione d’argento,18 eseguito con grande finezza. La Madonna distesa allatta il bambino, avvolto nel suo stesso mantello, con un gesto di infinita tenerezza. Nello sfondo la mangiatoia con la tipica foggia architettonica, alla quale si affacciano come di consueto le teste del bue e dell’asino, un angelo in cielo RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO reca un cartiglio con iscrizione. Purtroppo una lacuna interessa la testa di San Giuseppe, del quale si conserva la figura drappeggiata. Il piccolo spazio appare stipato, l’artista non manca di inserire nel cielo una grande stella e sotto la figura della Madonna un arbusto decorativo, il che contribuisce a conferire al tondo l’aspetto di un medaglione inciso nel quale prevale la preziosità dell’oro delicatamente modulato”. I vetri recanatesi, dopo essere stati pubblicati da Serra19 con una datazione verso la metà del Trecento per il dittico, di alcuni decenni posteriore per la tabella con la Crocefissione, e citati brevemente dalla Pettenati20 in relazione ad altre opere ascritte agli ultimi decenni del XIV secolo o all’inizio del XV, sono stati pubblicati da Liana Castelfranchi,21 che li connette con sicurezza al cantiere assisiate, attribuendo il dittico a un artista umbro “non scarso … all’opera entro una data abbastanza precoce del Trecento”,22 e gli altri vetri forse addirittura ai maestri che si muovono intorno alla basilica inferiore di S. Francesco nel primo ventennio del secolo. La presenza ab antiquo di questi vetri a foglia d’oro graffita trecenteschi nel tesoro della cattedrale di San Flaviano attesta la fortuna e l’ampio raggio di diffusione di questi oggetti la cui produzione presenta strette relazioni con i conventi francescani umbri, dove nel corso del XIV secolo ne venivano realizzati in notevole numero per essere impiegati in “anconette o vero in adornamento di orliquie”, come dice Cennino Cennini (fine del sec. XIV), per lo più destinate alla devozione privata. Tra i pezzi più antichi e preziosi del tesoro sono senz’altro alcuni ricami di grande qualità, databili tra la fine del Trecento e il primo Quattrocento, realizzati su cartoni riconducibili a pittori veneziani.23 Il disegno delle figure e delle composizio- 193 Arte umbra, Natività ni dei ricami applicati sulla pianeta appartenuta secondo la tradizione al beato Girolamo Gherarducci,24 un eremitano vissuto nel convento agostiniano di Recanati e morto prima del 1369, è riconducibile a modelli prossimi al Maestro del polittico di Torre di Palme della fine del Trecento. Può essere invece “ascritto allo stretto ambito di Zanino di Pietro, riflettendo il suo linguaggio ormai post-gentiliano”25 il cartone utilizzato dai ricamatori che realizzarono le applicazioni figurative del cosiddetto piviale di Gregorio XII. Di questi ricami ne sopravvivono solo nove frammenti, raffiguranti l’Incoronazione della Vergine, san Girolamo, san Bartolomeo, san Giacomo maggiore, altri tre apostoli, tutti inquadrati sotto edicole con archi mistilinei. Verosimilmente nel corso dell’Ottocento questi riquadri ricamati in oro e sete policrome, di diverse dimensioni, furono applicati su un frammento di velluto da cui sono stati separati in occasione di un recente restauro. Così è ora possibile apprezzare appieno anche la straordinaria qualità del frammento di velluto rosso cremisi a due altezze di pelo e di vedere compiutamente il motivo tessile broccato d’oro bouclé, su fondo di teletta d’oro.26 Questo motivo riprende uno degli schemi compositivi fondamentali della produzione tessile quattrocentesca, definito generalmente con il termine “a griccia” e destinato a uno straordinario successo sia in Italia, che nel resto d’Europa. L’elemento caratterizzante della tipologia a “griccia”, o con termini più moderni 194 Gabriele Barucca Arte veneta, ricami della cosiddetta pianeta del beato Gherarducci Arte veneta, ricamo del cosiddetto piviale di Gregorio XII a “tronco” o “ramo serpentinato”, è il “motivo a melagrana”, che definisce nella terminologia corrente le forme simili alla melagrana, alla pigna, alla palmetta o al fiore di loto o di cardo. Nel frammento di Recanati l’intreccio vegetale mosso e articolato, impreziosito da tutti i motivi fitomorfi usati nel Quattrocento, crea un effetto d’insieme naturalistico e prezioso e consente di datare il velluto probabilmente alla seconda metà del secolo, quando cioè lo schema semplice a serpentina, con unico sviluppo in verticale, viene arricchito da un più elaborato disegno. Anche per questo velluto risulta problematica l’attribuzione, in quanto presenta un impianto modulare e caratteristiche decorative ampiamente diffuse e proposte da tutti i più importanti centri manifatturieri italiani in una infinità di varianti. Comunque la splendida qualità del frammento parrebbe indirizzare verso la pregiata produzione dei maestri veluderi di Venezia o, più probabilmente, di Firenze dove, secondo quanto ricorda Benedetto Dei nella sua Cronaca scritta nel 1472, tra le cose più belle che vi si producevano c’erano i “brochati d’oro, d’argento, e damaschini, e velluti”. Peraltro sia la produzione veneziana che quella fiorentina erano largamente esportate e vendute nei mercati e nelle fiere di tutta Europa. E’ documentato, per fare un esempio, che il setaiolo fiorentino Andrea Banchi già prima del 1454 aveva incaricato Simone di Niccolò della Tosa di partecipare quale suo rappresentante alle fiere di Lanciano, Pesaro e per l’appunto Recanati per vendere tessuti, vesti liturgiche, nastri e cinture. Non è possibile stabilire la provenienza e l’utilizzo d’origine del frammento recanatese. Questo tipo di velluto con il motivo della melagrana era impiegato sia per vesti sacre e profane sia per rivestire pareti di grandi dimensioni e per realizzare tendaggi e drappi; comunque questi preziosi manufatti, che per la loro particolare qualità ebbero grande fortuna e ampio utilizzo, furono ricercati da un pubblico di alto livello sociale e divennero emblematici di lusso, potere, sacralità. Nella Cappella dell’ex episcopio nuovo, ampliata nel 1822 per volere di monsignor Stefano Bellini, vescovo di Recanati e Loreto dal 1807 al 1831, e dotata di una pala d’altare raffigurante l’Immacolata commissionata al pittore Giovanni Gallucci (Ancona 1815 – Malta ?)da suo fratello monsignor Tommaso Gallucci, vescovo di Recanati e Loreto dal 1867 al 1897, è esposta una selezione delle più importanti oreficerie superstiti del tesoro della cattedrale di San Flaviano. Tra i pezzi più antichi della raccolta recanatese sono due croci astili, databili rispettivamente alla seconda metà del Quattrocento e all’inizio del Cinquecento, che costituiscono gli ultimi esiti dell’influsso veneto nella produzione orafa marchigiana. La prima croce,27 in rame fuso, sbalzato, cesellato e dorato, è RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 195 Manifattura fiorentina o veneziana, frammento di velluto, secolo XV ricordata nel 1883 da Severino Servanzi Collio28 tra le poche opere d’arte antiche ai suoi tempi ancora conservate presso il duomo di Recanati. Lo studioso ne fa una descrizione accurata, comprendente un elaborato nodo, di fattura cinquecentesca, oggi non più esistente. La croce presenta un profilo mosso, con bracci a estremità espanse, potenziamento all’incrocio e terminazioni mistilinee. Qui sono applicati sul recto dei rilievi raffiguranti, ai lati della statuina del Crocifisso, i Dolenti mentre in alto è l’Eterno e in basso la Maddalena: sono microsculture sbalzate con le figure a mezzo busto, definite entro una tipica forma ovoidale, secondo una soluzione tipica dell’oreficeria marchigiana del XV secolo. Il verso con i simboli degli evangelisti sbalzati sulle quattro terminazioni è caratterizzato dalla presenza all’incontro dei bracci di san Rocco, raffigurato a figura intera, secondo la tradizionale iconografia, in abito da pellegrino e in atto di mostrare la piaga sulla coscia sinistra. La presenza del santo depulsor pestilentiae sulla croce suggerisce la sua originaria appartenenza al corredo di suppellettili spettanti all’altare dedicato a san Rocco nella cattedrale recanatese. La presenza della figura intera di un santo sul verso delle croci astili non è inconsueta e si ritrova anche nell’altra croce del Museo Diocesano di Recanati. La forma di quest’ultima29 propone una struttura tipicamente veneta e di origine tardo-trecentesca, ma il gusto delle decorazioni a grottesche e dei sottili ramages dei bracci, così come il modellato delle figure sbalzate nelle terminazioni, rivelano un’esecuzione ormai cinquecentesca. In questo caso la figura sbalzata all’incrocio dei bracci sul verso è probabilmente identificabile con san Domenico per la tipologia dell’abito con manto e cappuccio a suggerire l’originaria provenienza della croce dalla chiesa di San Domenico di Recanati. Anche la raccolta di suppellettili sacre della cattedrale recanatese conserva alcuni magnifici esemplari della produzione orafa romana del Settecento. Sono sedute sulla base di uno splendido calice settecentesco le statuine a fusione di san Giovanni Battista con l’agnello e la croce, della Vergine Immacolata a mani giunte che schiaccia il serpente avvinghiato alla falce di luna e di san Giuseppe con la verga fiorita.30 Questo calice, come testimonia la scritta incisa nella lamina aggiunta e avvitata sotto la base, fu donato il 13 febbraio 1887 dal clero recanatese a monsignor Tommaso Gallucci, vescovo di Loreto e Recanati, in occasione del suo giubileo sacerdotale. Naturalmente di tratta di un’opera la cui data di esecuzione risulta ben più antica, a giudicare dall’analisi stilistica e dall’individuazione dei due bolli che vi sono impressi. In realtà il bollo camerale assai abraso appare di lettura piuttosto incerta, mentre quello personale dell’artefice è senza dubbi attri- 196 Gabriele Barucca Arte veneto-marchigiana, croce astile, recto e verso buibile a Giuseppe Achen, argentiere di origine tedesca, nato a Recanati nel 1687 ma attivo a Roma, dove è documentato a partire dal 1730. Giuseppe Achen ottenne la patente di maestro nel 1737 e morì nel 1741. Pertanto la datazione del calice di Recanati va sicuramente inserita nei soli quattro anni di attività ufficiale del maestro. Maestro di indiscutibile talento che rivela nell’insistita ricerca di un effetto marcatamente scultoreo una notevole bravura di fonditore e di sbalzatore. Come abbiamo visto nelle altre cattedrali prese in esame, nel corso del Settecento si segnalano nello sforzo di arricchimento degli arredi sacri e degli apparati cerimoniali soprattutto i vescovi, che si susseguirono alla guida della diocesi, e i canonici. Alcuni pezzi molto belli sono per fortuna superstiti. Iniziamo da due calici che presentano i bolli rispettivamente degli argentieri Girolamo Maltraversi (Roma 1676 – 1740; patentato maestro nel 1698) e Nicola Francois (nato a Roma ca. 1675, patentato maestro nel 1699, attivo fino al 1756). Quest’ultimo pezzo venne donato dal vescovo Lorenzo Gherardi, come attesta il suo stemma inciso sotto la base. A questo vescovo, che resse la Chiesa di Recanati e Loreto dal 1693 fino al 1727, anno della sua morte, si deve anche la commissione intorno al 1702 di un nuovo reliquiario d’argento per custodire i sandali di giunco intessuti da santa Chiara per san Francesco, una delle reliquie più insigni donate da Gregorio XII alla cattedrale recanatese.31 At- tualmente il reliquiario è stato smontato e nel Museo Diocesano si conserva la grande cornice argentea che ne costituiva il prospetto. Questa cornice è definita dal susseguirsi simmetrico di rigogliosi girali che alla base inquadrano lo stemma papale di Gregorio XII e alla sommità una tabella con sbalzata la scena delle stimmate di san Francesco. Esiste un’altra cornice identica che si distingue per recare sbalzato in basso lo stemma vescovile del Gherardi e nella cartella superiore la figura di san Lorenzo con la graticola. Quest’ultima cornice doveva circoscrivere una teca con le reliquie del santo diacono, omonimo e patrono del vescovo Lorenzo Gherardi. Sulle due cornici non sono stati rilevati i bolli personali dell’argentiere che comunque riprende con una RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 197 Giuseppe Achen, calice Lorenzo Petroncelli, calice Lapide commemorativa del vescovo Ciriaco Vecchioni. certa abilità esecutiva il consueto repertorio decorativo di ispirazione botanica che ebbe straordinaria fortuna nell’arte orafa dell’età barocca fino ai primi del Settecento. Splendidi sono gli oggetti acquistati o commissionati dal munifico monsignor Ciriaco Vecchioni, vescovo di Recanati e Loreto dal 1767 fino al 1787, anno della sua morte, tutti segnati dalla presenza delle sue insegne sbalzate sulle lamine d’argento delle suppellettili liturgiche, impresse in oro sulle legature in cuoio dei messali e ricamate sui suoi paramenti sacri. Uno dei primi doni che monsignor Vecchioni fece alla cattedrale recanatese appena eletto vescovo è un ricchissimo calice in argento interamente dorato con inciso sotto il piede il suo stemma vescovile.32 Sull’oggetto è infatti impresso il bollo camerale in uso nel biennio 1767-1769 accompagnato da quello personale dell’argentiere romano Lorenzo Petroncelli. Il calice di preziosa fattura corrisponde a un modello diffuso, con diverse varianti, nella produzione secondo i dettami dello stile rocaille in voga a Roma nella seconda metà del Settecento. L’armonia strutturale dell’insieme nonché la sontuosità raffinata e leggera della decorazione rivelano le qualità di sbalzatore e fonditore del Petroncelli, uno degli argentieri preferiti dalle più illustri casate del patriziato marchigiano e dai più eminenti prelati, come per esempio il cardinal Mario Compagnoni Marefoschi. Insieme al calice monsignor Ciriaco Vecchioni donò anche una coperta di messale in lamina d’argento sbalzata, traforata, cesellata e incisa, applicata sul velluto rosso che ricopre l’anima lignea della legatura.33 Su ciascun piatto della coperta festoni di fiori circondano una grande cartella centrale profilata da palme e recante rispettivamente san Flaviano in abiti episcopali e una scena del suo martirio. Alla base della cartella compare sbalzato lo stemma vescovile del Vecchioni. Sulla decorazione argentea della coperta di messale compare il bollo camerale in uso nel biennio 17671769 accompagnato da quello personale dell’argentiere Vincenzo Belli. La squisita fattura della decorazione argentea, che con soluzione estremamente raffinata inserisce accanto al consueto repertorio rocaille le simboliche palme alludenti al 198 Gabriele Barucca Vincenzo Belli, coperta di messale, recto e verso martirio di san Flaviano, titolare della cattedrale nonché compatrono di Recanati, conferma la grande reputazione goduta presso i contemporanei da Vincenzo Belli, fornitore tra l’altro della corte portoghese di Giovanni V. Dalla avviatissima bottega diretta dal Belli, proviene anche un altro dono del Vecchioni, vale a dire uno scultoreo ostensorio raggiato particolarmente d’effetto per le tre Virtù teologali, fuse a tutto tondo e sedute sulla base, e per la profusione di gemme colorate intorno alla teca. Non sappiamo invece a quale argentiere romano si sia rivolto monsignor Ciriaco Vecchioni per la sua commissione più importante e onerosa. Scrive Nicola Tempesta il 3 giugno 1787, “per la Cattedrale ha fatto molte e assai cose sagre et ha adobbato l’altare del coro di scalinata d’argento buono, e il davanti l’altare de argento, e poi si dice che fa il tabernacolo ancora d’argento”; si tratta di un tabernacolo “bello ma bello lavorato a Roma con il costo di passa duemila scudi” che verrà collocato sull’altare soltanto nel 1791, quattro anni dopo la morte del vescovo.34 Monaldo Leopardi aggiunge che l’altare d’argento donato dal vescovo Vecchioni “era per ricchezza e per lavoro la meraviglia di chiunque lo vedeva. Il solo espositorio alto 17 palmi costava seimila scudi. Tutto perì nella prima invasione francese del 1797.”35 Alle opere che i vescovi commissionarono direttamente alle botteghe degli argentieri romani si aggiungono nel corso della prima metà dell’Ottocento alcuni pezzi realizzati da argentieri operanti in loco, ma che solitamente ripetono i prototipi romani. In particolare alla straordinaria operosità di Antonio Piani (1747 – 1825), argentiere maceratese formatosi dapprima nella bottega del padre Domenico e in seguito a Roma presso Luigi Valadier, si devono una pace a tavoletta raffigurante sbalzata la Pietà con decori di gusto ancora rocaille e un calice donato alla cattedrale nel 1806 dal canonico Tommaso Ramponio, che nella struttura e nel repertorio decorativo denota la piena adesione al lessico neoclassico. Una pisside e un calice datati 1822 sono opera dell’argentiere recanatese Paolo Bonessi. Un piccolo nucleo di opere do- RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 199 pontefice, avvenuta pochi mesi dopo, furono distribuiti a numerose chiese, soprattutto delle Marche, terra d’origine di Pio IX. Resta infine da ricordare la selezione di indumenti liturgici provenienti dal tesoro della cattedrale e ora esposta in una sala del Museo Diocesano. Si tratta soprattutto del settore delle sopravvesti: piviali con relativa mitra, pianete corredate dalle insegne liturgiche della stola e del manipolo e da parati accessori come la borsa, la palla e il velo da calice. La materia tessile impiegata per questi parati è generalmente la seta policroma, i ricchi motivi ornamentali sono invece realizzati a ricamo in oro e argento lamellare, filato e riccio, con applicazioni di altre materie preziose (paillettes piatte, borchie dorate, perle). Quanto ai colori delle stoffe, essi furono impiegati in un primo momento senza particolari intenti semantici, Antonio Piani, calice e pace cumenta l’attività di un altro recanatese, Giacomo Braccialarghe (1829-1922), di certo uno dei migliori orafi e argentieri attivi nelle Marche tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del secolo successivo. La sua produzione riprende modelli quasi serializzati e improntati all’eclettismo in voga in quegli anni, ma con una grande perizia esecutiva. Realizza oggetti sovraccarichi di simboli e di figure a fusione, come quelle sedute sul piede dei due calici della cattedrale. In uno di questi esemplari compare la scenografica soluzione del fusto costituito da un tempietto circolare cinto da colonne e sormontato da una cupola, all’interno del quale vi è la statuina della Vergine. É inoltre da ricordare la presenza di due servizi di ampolline in metallo dorato, realizzate da botteghe orafe tedesche. Si tratta di due dei numerosi doni fatti nel 1877 a Pio IX dalla diocesi di Monaco di Baviera in occasione del suo Giubileo episcopale. Doni che dopo la morte del Museo Diocesano, sala VIII 200 Gabriele Barucca come avveniva per il vestiario comune. In seguito il canone stabilì un uso secondo il principio della corrispondenza tra il carattere psicologico attribuito ai vari colori (gioia per il bianco, tristezza per il viola, lutto per il nero e così via) e il tono spirituale delle diverse festività e tempi del calendario liturgico. Questi preziosi paramenti liturgici furono donati per lo più tra la fine del Seicento e la prima metà dell’Ottocento dai vescovi che si avvicendarono in quel periodo a governare la diocesi di Recanati e Loreto. Spesso i loro stemmi, cimati dal cappello vescovile con le prescritte nappe di seta verde, sono applicati a decorare i lati inferiori dello stolone dei piviali, le infulae delle mitre e la colonna posteriore delle pianete. Peraltro gli stessi stemmi vescovili si ritrovano impressi in oro sulle legature in cuoio degli innumerevoli libri liturgici ancora conservati nella cattedrale di San Flaviano. San Flaviano, secolo XIV. Museo Diocesano, dalla facciata della cattedrale. RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO 201 NOTE ASCCR, Atti Capitolari dal 1 luglio al 22 gennaio 1800. Capitolo Generale del 4 aprile 1797, cc.n.nn. 2 Vedi la trascrizione del documento in appendice. 3 Così Filippo Raffaelli in un raro opuscolo racconta la vicenda delle distruzioni degli argenti in età napoleonica: “Dei ricchi utensili d’argento disgraziatamente oggi non ne rimane alcuno, poiché se di essi nella requisizione degli argenti fatta dalla S. Sede nel 1796 molti furono rilasciati per rispetto all’antichità, ed al meito artistico, dal commissario Francese li 20 Febraio 1797 furono tutti sottratti e distrutti. Dai processi originali di quel tempo rileviamo, che il Francese Commissario dalla Cattedrale Basilica di Recanati prendesse libre romane 368 di argenti lavorati. Che alcuni di questi poi, tra quali un Turribolo e Navetta fossero di assoluto merito artistico, oltre alla loro antichità, lo impariamo dalle sopracitate sacre Visite dei Vescovi Cardinali Araceli, Roma, non che da quella che nel 1637 fece il Vescovo Mons. Amico Panici. Invenit, si legge negli atti di Visita del primo, invenit turibulum argenteum valde antiquum et pretiosum, et quod est nimis onerosum, idea mandavit illud reduci in meliorem formam. Il non mai abbastanza encomiato Canonico Bartolomei Cartocci suppone che il decretato restauro sia stato eseguito a cura dello stesso Cardinale Araceli, e che per quest’atto di liberalità fosse stato aggiunto nel Turribolo lo stemma gentilizio di lui – Nella Visita del Cardinale Roma si ricorda un Turribolo di argento con la figura di S. Flaviano, l’arme di Papa Gregorio XII, e l’arme del Card. Araceli; la Nvicella d’argento con lo stemma dello stesso Pontefice, ed il Cucchiarino – In quella finalmente del Vescovo Panici – Vidit turibulum argenteum valde pretiosum quod in se habet figuram S. Flaviani, et insignia Papae Gregorii XII, et bo. me. Card. De Aracaeli una cum sua navicella cum insigni bus ejusdem Pontificis, una cum suo cobleario.” Raffaelli 1877b, pp. 22-23. 4 Diego Calcagni così descrive il tesoro di reliquie della cattedrale di San Flaviano: “Si conservano nella Sagrestia di questa Chiesa dentro un Armario molte Reliquie insigni. Due pezzi della Ss. Croce di N. S. in uno di essi si scuopre una vena, che mostra un cuore trafitto con 3. chiodi. Una spina della Corona di N. S. Un pezzetto della veste inconsutibile, & alcuni Capelli della Beatissima Vergine. Queste Reliquie sono chiuse in una Croce d’argento di grãdezza di 4. palmi. Un pezzo d’osso del Braccio di S. Flaviano chiuso in un Reliquiario d’argento. Le Scarpe di S. Francesco fatte per le mano di S. Chiara, e si vedono alcune stille di Sangue del Santo, ornate con bel Reliquiario d’argento. Un Piede d’uno de’ Santi Innocenti. La Testa di S. Margarita dentro un busto di rame dorato con la Testa d’argento. Sonovi altre Reliquie, che si tralasciano per brevità. Le più riguardevoli sono state dono di Gregorio XII. sepolto in questa Chiesa.” Calcagni 1711, p. 289. 5 Raffaelli 1877b, pp. 17-19. 6 Traggo queste notizie da Moroni 2004a, pp. 444-446, a cui rimando anche per le citazioni riportate. 7 N. Falcioni, Memorie patrie (1771-1794), 25 maggio 1794. Ms. conservato presso ASDR, Fondo Capitolo dei canonici, Confraternite, b. 2. 8 Il nuovo Museo Diocesano di Recanati è stato inaugurato il 23 maggio 2006. 9 Il progetto scientifico e museologico del nuovo Museo Diocesano di Recanati è stato realizzato da Gabriele Barucca; il progetto di allestimento è opera del Centro Ricerche e Sviluppo Poltrona Frau, di Gabriele Barucca e di Gianfranco Ruffini. A quest’ultimo si deve anche il progetto degli impianti di sicurezza e di illuminazione. 10 L’allestimento museale e il restauro delle opere sono stati eseguiti con il finanziamento del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e diretti da Gabriele 1 Barucca della Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici e Etnoantropologici delle Marche-Urbino. 11 Kalavrezou-Maxeiner 1985; Nikolajević 1992; Effenberger 2004, pp. 212214. 12 Radeglia, Huber, Artioli, Santopadre, Sidoti, Verità 2006, pp. 73-91. In particolare vedi la descrizione e l’analisi critica di Daila Radeglia (pp. 73-77), a cui si fa continuo riferimento nel testo. 13 Le dimensioni delle lastre sono 14,5 x 9,6 cm circa, mentre le dimensioni delle cuspidi sono 7,5 x 5 cm. 14 Radeglia 2006, pp. 74-76. 15 Un primo elenco di alcuni di questi dittici di ambiente umbro è stato stilato da Swarzenski 1940, III, pp. 55-68. 16 Le dimensioni della lastra sono circa 15 x 20 cm. 17 Identificazione dubitativamente avanzata da Serra 1929, p. 320. 18 Il diametro della lastra è circa 6,5 cm. 19 Serra 1929, pp. 320-321. 20 Pettenati 1978, pp. XXX-XXXII. 21 Castelfranchi 1998, pp. 36 ss. 22 Castelfranchi 1998, p. 37. 23 De Marchi 2008, p. 55. 24 I ricami raffigurano la Natività, la Presentazione al Tempio, la Disputa di Cristo fra i dottori, le Nozze di Cana, il Battesimo, l’Ultima Cena, l’Orazione nell’orto, la Cattura, la Flagellazione, la Derisione e la Crocefissione. Vedi Serra 1934, pp. 512514, con un riferimento alla fine del Quattrocento. 25 De Marchi 2008, p. 55. 26 Frammento di tessuto composto di dieci pezzi, cm 81 x 149. Vedi G. Barucca, scheda 37, in Il Rinascimento a Urbino 2005, pp. 154-155. 27 Croce astile in rame fuso, sbalzato, cesellato, inciso e dorato, su supporto ligneo; 46 x 31 cm. Vedi B. Montevecchi, scheda 34, in Ori e argenti 2001, p. 124. 28 Servanzi Collio 1883, pp. 26-30. 29 Croce astile in rame fuso, stampato, sbalzato, cesellato, dorato e argentato, su supporto ligneo; 62 x 36 cm. Vedi B. Montevecchi, scheda 52, in Ori e argenti 2001, pp. 145, 148. 30 Calice in argento e argento dorato, altezza 28,5 cm, diametro del piede 16 cm, diametro dell’orlo della coppa 10 cm. In una lamina avvitata sotto la base è la seguente iscrizione: “THOMAE GALLUCCI EPISCOPO SUO ANNO L SACERDOTII EXACTO FELICITER KLERUS RECINETENSIS OFFERT XIII. KAL FEBR. A. MDCCCLXXXVII”. Vedi G. Barucca, scheda 53, in Ori e argenti 2007, p. 232. 31 Raffaelli 1877b, pp. 19-20. Raffaelli trascrive anche un passo del resoconto della Sacra Visita condotta da monsignor Gherardi il 13 maggio 1703 in cui si parla anche della realizzazione del reliquiario che “fuit constructum partens ex pretio retracto ex venditione aliquor. corallorum et margaritarum…”. 32 Calice in argento dorato, altezza 28 cm, diametro del piede 16 cm, diametro dell’orlo della coppa 9 cm. Vedi G. Barucca, scheda 71, in Ori e argenti 2007, p. 238. 33 Coperta di messale in lamina d’argento sbalzata, traforata, cesellata e incisa applicata su velluto rosso, legno, coperta e dorso 38 x 25 cm. Vedi G. Barucca, scheda 58, in Ori e argenti 2007, pp. 233-234. 34 I passi tratti dalle Memorie del muratore recanatese Nicola Tempesta sono tratti da Moroni 2004a, pp. 429-430. 35 Leopardi 1828, pp. 215-216. Cingoli Pagine precedenti: Intagliatore marchigiano, paliotto con l’Assunta e quattro santi CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA 205 LA STORIA RELIGIOSA DELLA CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA DI CINGOLI Egidio Pietrella La pieve antica successivamente collegiata di Santa Maria Cingulum “quod oppidum Labienus constituerat suaque pecunia exaedificaverat”1 era situato sul ripiano dell’attuale Borgo San Lorenzo a nord est del centro abitato odierno. L’insediamento romano risaliva alla metà del III° secolo a.C., sorto in seguito alla conquista del Piceno da parte di Roma. Il cristianesimo, pur in mancanza di notizie specifiche in merito, vi dovette giungere assai presto, come avvenne in genere in altri centri romani. Cingoli fu sede vescovile, di cui esiste documentato con certezza il vescovo Giuliano, che prese parte con papa Vigilio nel 553 al secondo Concilio di Costantinopoli e che fu successivamente destinatario di due lettere di papa Pelagio I negli anni 556-561. Molto dubbia l’esistenza di altri vescovi che una certa tradizione poco attendibile, nomina, quali Teodosio, Formario. Anche sulla figura di Sant’Esuperanzio, venerato come vescovo e patrono di Cingoli, esiste tuttora la vexata quaestio circa la veridicità della Vita sancti Exuperantii del secolo XIV, negata già nel secolo XVIII dal Fanciulli e non accettata dalla critica recente di Serafino Prete e di Giuseppe Avarucci,2 mentre, sempre nel ‘700 altri storici, quali F. M. Raffaelli e H. Cristianopulo, e nel secolo XX Adriano Pennacchioni l’hanno ritenuta autentica e veritiera.3 La critica storica più recente o ipotizza la provenienza del culto di S. Esuperanzio dall’Umbria, da dove sarebbe stato por- Portale del Santo Salvatore tato dai monaci avellaniti tra il secolo XII e XIII nella loro chiesa priorale la quale assunse il nome di Sant’Esuperanzio4 o individua in Sant’Esuperanzio vescovo e patrono di Cingoli, un vescovo di Ravenna di tal nome e santo, la cui memoria liturgica si celebrava il 29 giugno, come fino al 1495 in quella stessa data Cingoli venerava Sant’Esuperanzio suo patrono.5 Cadrebbe anche la tesi che la primitiva cattedrale di Cingoli sia sorta presso il sepolcro di Sant’Esuperanzio, risalente addirittura al III secolo d. C. (Avicenna), o al VI secolo (Raffaelli), o al VII o XI secolo.6 Dati certi sono che Cingoli, perduta, con l’invasione dei Longobardi, la sede vescovile – della cui esistenza testimonia, come detto, la figura storica del vescovo Giuliano – ha avuto il suo territorio diviso dalla linea di confine tra la Pentapoli ravennate e il Ducato di Spoleto longobardo, e annesso ecclesiasticamente alla diocesi di Osimo quello più esteso verso la pianura, e alla giurisdizione del vescovo di Camerino quello montano, di estensione minore.7 Fuori della cinta muraria sorse, in età a noi ignota, la pieve di “Santa Maria”. Di essa si hanno notizie solo dall’inizio del secolo XIII, ma se ne può ragionevolmente ipotizzare un’origine ben anteriore, come per altre pievi. Nel 1273 vi fu ordinato sacerdote San Nicola di Tolentino, dal vescovo, francescano e futuro santo, Benvenuto da Osimo.8 Nel 1461 il vescovo di Osimo la dichiarò prepositura e collegiata, ma non validamente, mancando l’autorizzazione del papa. Nel frattempo, verso la fine del secolo XV (1481-1495) per iniziativa del pievano Giovanni Giacomo Castellani di Parma e di suo fratello Andrea e con contributi finanziari del Comune, la chiesa fu sottoposta a ristrutturazioni e alla ricostruzione del campanile, di cui resta solo la base addossata all’abside. Successivamente la bolla pontificia Idibus Junii MDXXX apud S. Petrum di Clemente VII del 13 giugno 1530 la elevò formalmente a prepositura e collegiata, costituendovi il Capitolo composto dal Prevosto, che fu la prima “Dignità” (assegnata al pievano 206 Benedetto De Santi) e da dieci canonici, prebendati con rendite della pieve e della parrocchia di San Giovanni di Villa Strada, unita e incorporata alla pieve stessa. I membri del collegium avevano l’obbligo del servizio quotidiano del Coro (Ufficio divino) e della cura animarum (affidata ad uno dei canonici o ad un prete secolare, e ciò rimase in vigore fino al 1735) delle due parrocchie, cioè della pieve e di San Giovanni di Villa Strada, le cui due chiese dipendenti ricevevano la nomina di rettori dallo stesso Capitolo della collegiata. Col passare del tempo, fin dal 19 marzo 1564, la chiesa collegiata si rivelò troppo angusta per la popolazione che vi affluiva, soprattutto per la predicazione quaresimale, e inadeguata per tenervi solenni funzioni e quindi si avvertì l’esigenza di un edificio più ampio. Solo nel 1615 l’Autorità pubblica decise di farne costruire uno nuovo a proprie spese sulla piazza maggiore davanti al palazzo comunale, ottenendo conferma dal papa Paolo V il 19 agosto 1618. Se ne iniziò la costruzione il 7 luglio 1619 su disegno dell’architetto Ascanio Passari di Pergola. I lavori procedettero lentamente e per mancanza di fondi e per il crollo del tetto e della cupola abbattuti dai forti venti occidentali. Finalmente essa fu ultimata e benedetta insieme all’altare dal vicario generale di Osimo il 27 ottobre del 1654; vi si celebrò la messa e cominciò ad essere officiata dal prevosto e dai canonici. Fu consacrata, infine, dal vescovo di Osimo cardinale Opizio Pallavicini. Il 10 maggio 1660 l’Autorità pubblica concesse ufficialmente la nuova chiesa al Capitolo per il semplice e mero uso dell’ufficiatura e con l’obbligo, come atto di gratitudine, dell’offerta annuale di vari mazzetti di fiori di seta, da donarsi la mattina della festa di Maria Assunta al Magistrato pro tempore con tre libbre di cera bianca che poi si restituivano dall’Autorità pubblica al Capitolo in elemosina per la festa Egidio Pietrella Ritratto del cardinale Agostino Pipia, secolo XVIII. Cingoli, Museo civico Ritratto del cardinale Giacomo Lanfredini, secolo XVIII. Cingoli, Museo civico (1 marzo) di San Candido, “riserbandosi nel resto la Comunità donatrice di avere sempre in detta chiesa una perfetta e assoluta padronanza… in maniera che mai per alcun tempo il prevosto, l’arciprete e i canonici possano acquistare ragione sul diretto dominio della medesima, eccetto che nell’usufrutto e nei luoghi che loro si devono per recitare i divini uffizi e sentire le prediche”.9 Dopo tali realizzazioni la precedente chiesa collegiata nel 1664 passò ai Padri dell’Oratorio di San Filippo Neri. Essa nell’interno fu totalmente modificata su disegno dell’architetto romano Giambattista Contini. Furono conservate solo alcune strutture esterne romaniche (parte inferiore della facciata e parete destra) e rinascimentali (base del campanile, che fu pure modificato). Venne consacrata dal vescovo osimano Opizio Pallavicini nel 1694 e assunse il titolo di San Filippo Neri. Recentemente (1994-1998) restaurata, questa chiesa si presenta ricca di arte e di ornamenti tipici delle chiese filippine.10 La cattedrale di Santa Maria Assunta Dopo reiterate istanze presentate ai sommi pontefici, il papa Benedetto XIII il 20 agosto 1725 con la bolla Romana ecclesia reintegrò la sede vescovile in Cingoli, unita aeque principaliter con quella di Osimo, per cui la nuova collegiata di Santa Maria Assunta, dopo circa 70 anni dalla sua costruzione, divenne cattedrale, di cui prese possesso il giorno 8 giugno 1726 il vescovo di Osimo e Cingoli, il cardinale Agostino Pipia, dopo il preventivo accordo con i deputati della Comunità circa l’obbligo ad essa spettante del mantenimento materiale e formale della cattedrale in perpetuo, come è stato osservato fino ad oggi. E da allora vi si svolsero anche numerosi Sinodi diocesani.11 La forma della chiesa, nella sua struttura, è quella che si osserva ora. “Ha un impianto ad aula unica, in cui si innesta una sorta di capocroce trilobato costituito da tre absidi a perimetro poligonale”.12 È dedicata a Santa Maria Assunta e ha otto altari, in origine tutti di privati cittadini cui spettava l’obbligo del completo CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA mantenimento. La planimetria dell’interno riportata nelle visite pastorali del Settecento, a partire da quella del 1726172713 (la prima e più vicina all’elevazione della chiesa al ruolo di cattedrale), corrisponde fondamentalmente a quella odierna, anche se nel corso del tempo sono sopravvenuti dei cambiamenti e innovazioni non tanto nella struttura, ma nei titoli delle cappelle o degli altari e aggiunte varie, soprattutto di lapidi e monumenti. Una sintetica presentazione degli altari è utile per cogliere l’aspetto religioso del culto e delle devozioni praticate. L’altare maggiore, ampio e solenne era – per concessione della Comunità risalente al 25 novembre 1655 – della Confraternita del Santissimo Sacramento, che vi costruì l’altare di marmo con contributi del vescovo Compagnoni, il quale lo consacrò il 30 agosto 1758. La Confraternita era tenuta ad una sua completa manutenzione. La terza domenica d’ogni mese il Capitolo vi doveva cantare la santa messa e svolgere la processione col Santissimo Sacramento e impartire la benedizione. Dietro l’altare c’è il coro di noce, dove officiavano il prevosto e i canonici. Nei due coretti laterali a sinistra vi era l’organo, poi sostituito (1773) con quello di Gaetano Callido, recentemente (2004) restaurato. Nella cappella o abside di sinistra era collocato il trono del vescovo (costruito a spese del Comune), ora non più esistente; in mezzo è l’altare con la tela del Santissimo Salvatore, in ricordo della chiesa del Santo Salvatore di proprietà della nobile famiglia Simonetti, demolita per ricavarne lo spazio per la nuova chiesa. La cappella è ricca di ben 6 epigrafi: sul restauro dell’altare del Santissimo Salvatore (1535), sul giuspatronato Simonetti (1626), in onore del cardinale Raniero Simonetti (1750), in memoria di Luigi Simonetti (1790), in onore di Pio VIII (1830), in ricordo della visita delle reli- 207 Lapide in memoria del cardinale Raniero Simonetti Monumento a Pio VIII quie di San Nicola da Tolentino (1968). Indubbiamente meritano una particolare attenzione il monumento al papa cingolano Pio VIII e il testo dell’epigrafe.14 Nella navata di destra la grande cappella o abside era del marchese Silvestri. In essa si leggono quattro lapidi: sulla ricostruzione dell’altare maggiore (1758); sull’abbellimento della chiesa ad opera di Stefanucci (1939); sul 12° reggimento Cavalleria di Podolia (Polonia) (1946); sulla costruzione della nuova vetrata della facciata (1983). Alla sagrestia si accede dall’abside (o cappella) di sinistra: essa era detta cappella interna, dove officiavano i canonici nel periodo invernale; ora è utilizzata per le celebrazioni liturgiche nei giorni feriali. Annessa era una seconda sagrestia usata come luogo di preparazione al servizio liturgico e deposito di arredi sacri. Da essa si passa nel piano superiore alle stanze del predicatore quaresimale, del curato e degli ospiti. Nella sala capitolare ora si custodisce il “tesoro” del chiesa. Il 31 luglio del 1769 la cattedrale fu aggregata alla basilica vaticana con concessione da parte del papa Clemente XIV di numerose indulgenze (plenarie, stagionali, di 100 giorni ecc.). Nel corso del tempo essa è stata soggetta a vari interventi di ricostruzioni, come si legge in un elenco della visita pastorale del 1827.15 Risalgono al 1939 i lavori di abbellimento della chiesa, come testimonia l’epigrafe situata nell’abside di destra.16 Ne furono artefici il pittore cingolano Donatello Stefanucci, i maestri decoratori Luchetti e Natalini di San Severino, l’architetto Cesare Emidio Bernardi cingolano e Giulio Cesare Giuliani vetraio romano autore delle vetrate. In epoca più recente nella storia religiosa della cattedrale di Cingoli sono da ricordare i due congressi eucaristici diocesani che come sede centrale vi si tennero negli anni 1932 e nel 1968. In quest’ultima data, la diocesi di Cingoli, dopo la morte del vescovo Domenico Brizi (11.2.1964), era passata sotto la giuri- 208 Egidio Pietrella Coperta di libro liturgico con l’arme di Pio VIII Lapide col legato di Francesco Cima, 1671 sdizione dell’Amministratore apostolico, “sicut episcopus sede plena”, divisa dalla diocesi di Osimo, Silvio Cassulo, vescovo di Macerata e Tolentino. In occasione del congresso eucaristico del 1968 venne trasferito in venerazione nella Cattedrale di Cingoli il “Sacro Corporale del miracolo eucaristico” avvenuto a Macerata il 25 aprile 1356 e che si conserva nell’altare del Santissimo Sacramento della Cattedrale di S. Giuliano. Si effettuò anche la peregrinatio del corpo di San Nicola da Tolentino, che fu ordinato sacerdote nell’antica pieve cingolana di Santa Maria. Una lapide posta nell’abside di sinistra ne ricorda l’evento.17 Il giorno 11 febbraio del 1976 la diocesi di Cingoli ha di nuovo il suo vescovo nella persona di Francesco Tarcisio Carboni che è eletto unico pastore delle cinque diocesi autonome di Macerata, Tolentino, Recanati, Cingoli, Treia. La riforma completa delle cinque circoscrizioni avvenne con il decreto della Congregazione dei Vescovi del 30 settembre 1986 che stabilì la loro “piena unione” sotto la giurisdizione del solo vescovo Carboni, decreto reso esecutivo dallo stesso il 30 gennaio 1987.18 Anche quella di Cingoli divenne concattedrale e fu una delle chiese della diocesi unificata dove si potè lucrare l’indulgenza giubilare dell’anno duemila. Il Capitolo e la Parrocchia Il Capitolo della cattedrale nella sua prima istituzione risale al tempo della elevazione dell’antica pieve di Santa Maria al titolo di collegiata, con la ricordata Bolla Idibus Junii MDXXX apud S. Petrum del 1530, che costituì anche il Capitolo composto da una “Dignità”, cioè il prevosto e da dieci canonici. Per il necessario sostentamento il papa unì alla nuova collegiata i benefici esistenti nelle chiese di San Girolamo entro le mura, di San Biagio e di San Vitale nel contado; al canonico teologo furono assegnati i benefici di San Paterniano e di Santo Stefano. Il preposto veniva eletto dalla Sede Apostolica ed era per autorità secondo dopo il vescovo, ma ricopriva un ruolo importante anche nella vita civile, come vari fatti della storia socio-politica di Cingoli testimoniano. Nel 1543 fu eretta la se- conda “Dignità” col nome di “Arciprete”. Il 15 dicembre del 1752 con Bolla del papa Benedetto XIV furono istituiti altri tre canonicati, in base al testamento di Nicola Simoncelli (1748-1749). Una terza “Dignità”, quella dell’“Arcidiacono”, fu eretta il 18 maggio 1754, istituita per testamento del canonico Alessandro Antonio e di sua sorella. Un Rescritto della Sacra Congregazione del Concilio negli anni 1735-36 stabilì quattro mansionarie perpetue, tre delle quali di giuspatronato della Compagnia di Santa Maria del Gonfalone e un’altra della Compagnia di Sant’Antonio abate. Nel 1735 il vescovo cardinale Lanfredini eresse col consenso del Capitolo e approvazione della Congregazione del Concilio una “vicaria curata” perpetua con l’obbligo della residenza ed esercizio della cura animarum, consentendo al Capitolo il diritto di nominare il vicario perpetuo in tempo di sede vacante. Alla suddetta “vicaria perpetua” fu aggiunto un cappellano curato per coadiuvare il parroco nella cura animarum. In complesso il Capitolo era composto da tre CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA dignità: prevosto, arciprete, arcidiacono, e tredici canonici, compresi quelli detti “Simoncelli” dal nome del fondatore. La serie dei prevosti nel corso del tempo registra n. 26 titolari, a cominciare dal primo, Benedetto Santi (eletto il 13 giugno 1530); il 12° fu Francesco Saverio di Carlo Castiglioni (1795-1800), futuro papa Pio VIII; e il 26° (ultimo) don Enzo Buschi (1985-1987). Nel 1973 il Capitolo, oltre il prevosto, contava 10 canonici e 4 mansionari. Con la unificazione delle cinque diocesi il nuovo statuto approvato dal vescovo Conti (6 gennaio 1998) costituì – come già detto per le altre diocesi – un solo Capitolo nella Cattedrale di Macerata, di cui fanno parte i canonici dei precedenti Capitoli cattedrali con l’ufficio di presenza nelle varie solennità liturgiche e nelle feste dei patroni delle cinque vicarie.19 La primitiva pieve di Santa Maria, come chiesa unica, matrice di tutte le altre chiese o cappelle, esercitava già la cura animarum nell’ambito del suo territorio. Costituita collegiata nel 1530, al servizio della quale era il Capitolo di 10 canonici e il prevosto, continuò e organizzò ancor più la guida spirituale dei fedeli. Al Capitolo fu dato il privilegio di eleggere i “vicari curati” addetti esplicitamente alla cura animarum della nuova collegiata e della parrocchia di San Giovanni di Strada e delle sue rispettive chiese dipendenti. Essa era l’unica parrocchia della città e comprendeva anche una parte del contado. Secondo lo stato d’anime dell’anno 1817, a distanza di circa un secolo dalla erezione della cattedrale (1725), essa comprendeva i sette quartieri della città (Duomo, San Domenico, San Sebastiano, San Francesco, San Girolamo, San Giuliano, San Niccolò) per complessive 1747 anime; inoltre, assisteva gli abitanti del Borgo (di 128 abitanti) e della campagna (324 abitanti): dunque aveva un totale di 2199 anime.20 Si è visto come 209 di 10.000 abitanti. Nel suo territorio si contano ben 20 luoghi di culto, tra cui la chiesa di Santa Sperandia delle monache benedettine, dove si conserva il corpo della santa compatrona di Cingoli; e altre chiese che erano già di ordini religiosi espulsi dalle leggi civili del 1866 e non più ritornati o che hanno chiuso di loro iniziativa le rispettive sedi. Il monumento religioso più importante, sul piano artistico e spirituale, è indubbiamente la chiesa di Sant’Esuperanzio, un tempo parrocchia recentemente annessa a quella della cattedrale. Tommaso Martelli, disegno del frontespizio di libro col ritratto di Pio VIII nel 1735 in atto di visita pastorale il cardinale Lanfredini, vescovo di Osimo e di Cingoli, eresse nella cattedrale con il consenso del Capitolo e l’approvazione della Congregazione del Concilio una “vicaria curata perpetua” con l’obbligo della residenza ed esercizio della cura d’anime, per il cui sostentamento fu stabilita una quota annua di venticinque scudi, con l’aggiunta di tutti gli emolumenti certi ed incerti provenienti dal servizio ed esercizio di cura delle anime. Inoltre, alla suddetta vicaria curata nel 1769 fu aggiunto per decreto dalla Congregazione del Concilio un cappellano curato amovibile ad nutum Capituli, per coadiuvare il parroco nell’amministrazione dei sacramenti e in tutto ciò che riguarda l’esercizio della cura delle anime.21 Nel 1973 la parrocchia contava 2.800 abitanti; nel 1985, 3000; nel 2000, 3600 abitanti, con accorpamento della parrocchia di Sant’Esuperanzio (1986); e tale resta il numero delle anime su una popolazione totale del Comune di poco più Eventi principali e personaggi illustri Nella cattedrale si tennero vari sinodi diocesani. Ricordiamo tra gli altri quelli che si svolsero con maggiore frequenza in prossimità della ricostituzione della diocesi: il 17 agosto 1725; il 20 luglio 1726; il 6 agosto 1736; il 24 settembre 1737 e 1738; 1741; 30 agosto 1788. L’ultimo fu compiuto, con la partecipazione attiva della parrocchia della cattedrale e dell’intera comunità di Cingoli, unitamente a tutta la diocesi “unificata”, negli anni 1988-1995 e promulgato solennemente il giorno 11 maggio 2000, nel corso del Giubileo nella cattedrale di Macerata. Nel 1765 fu istituito in prossimità della cattedrale, il seminario vescovile, che restò aperto fino al 1964. Altri fatti importanti sono ricordati dalle epigrafi esistenti nella chiesa: la cessione da parte della nobile famiglia Simonetti dello spazio per la costruenda chiesa di Santa Maria Assunta (1626); la ricostruzione in marmo dell’altare maggiore ad opera dei confratelli del Santissimo Sacramento, realizzata anche con l’apporto di generosi sussidi finanziari del vescovo Pompeo Compagnoni (1758); la collocazione nell’abside destra dell’immagine della Madonna di Ostra Brama (Polonia) da parte del 12° Reggimento Lancieri di Podolia di stanza a Cingoli nel passaggio del fronte bellico 210 Egidio Pietrella Custodia degli oli santi, sacrestia della seconda guerra mondiale, come si legge nella scritta: “In questo tempio ha pregato il 12° Reggimento Lancieri di Podolia durante il suo soggiorno negli anni 1945-46 in Cingoli nella sua marcia verso la Polonia”; il rifacimento della vetrata del finestrone della facciata eseguito durante l’episcopato di Francesco Tarcisio Carboni (1983). Dopo il sisma degli anni 1997-1998, gli interventi di restauro fu- rono eseguiti con i contributi statali. Tra i personaggi ecclesiastici illustri di Cingoli si ricorda in ordine di tempo il cardinale Raniero Simonetti, che vissuto tra il 1675 e il 1749 ricoprì numerosi e prestigiosi incarichi per la Santa Sede: nominato dal papa Clemente XI uditore di nunziatura a Parigi e a Napoli, fu internunzio a Torino e governatore di Masserano in Piemonte. Creato canonico di San Pietro in Roma e votante di Segnatura, fu consacrato arcivescovo di Nicosia nel 1728 da papa Benedetto XIII e ammesso tra i consultori del Sant’Ufficio. Altre tappe del suo curriculum furono la nunziatura a Napoli, il Governatorato a Roma, il Cardinalato (10 aprile 1747). Morì il 20 agosto 1749 a Viterbo dove era stato nominato vescovo.22 Il secolo XIX fornì a Cingoli quattro vescovi e un papa. Filippo Appignanesi (Villa Torre di Cingoli 1781- Ripatransone 1837), già canonico teologo della cattedrale e rettore del seminario di Cingoli; pro vicario generale e vicario capitolare della diocesi; vicario generale del cardinale Giovanni Antonio Benvenuti, fu eletto vescovo di Ripatransone, dove curò particolarmente la formazione dei seminaristi e dei sacerdoti, nonché la vita spirituale dei fedeli. Felice Paoli (Cingoli 1738-Loreto 1806), Priore di Sant’Esuperanzio, pro vicario generale, vicario capitolare della diocesi, fu nominato nel 1779 vescovo di Fossombrone e membro della commissione dei vescovi esaminatrice del sinodo giansenista promosso dal vescovo di Pistoia Scipione de’Ricci; fu incaricato dalla Congregazione dei Riti di esaminare la vita e gli atti del servo di Dio Fra Benedetto Passionei; dal papa Pio VI inviato a comporre le discordie tra Ebrei e gli altri cittadini di Ancona. Fu trasferito, infine, alla diocesi di Recanati-Loreto. Domenico Cavallini Spadoni (Cingoli 1804-1879) fu nominato arcivescovo di Spoleto, dove favorì, promosse e approvò la società dei “Missionari della Sacra Famiglia”, dedita soprattutto alle missioni al popolo e agli esercizi spirituali per il clero. Luigi Bruschetti (Villa Strada di Cingoli 1826-1881) fu diplomatico (a servizio della Nunziatura in Brasile, a Vienna; reggente di nunziatura in Brasile) e pastore (vescovo titolare di Abido, vicario apostolico di San José in Costarica). Dedicò molta cura al CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA Collegio Pio Latino-Americano eretto in Roma. Morì nel 1881, dopo 33 anni di sacerdozio, 31 di diplomazia e 5 di vescovado; dispose dei suoi beni a favore dei poveri, del Papa, del seminario vescovile di Cingoli, del seminario pio latino-americano. A Cingoli l’ente morale “Opera Pia Bruschetti” è tuttora amministrata dal Municipio.23 La gloria più fulgida di Cingoli fu certamente Francesco Saverio Castiglioni, eletto papa con il nome di Pio VIII.24 Nacque a Cingoli da nobile famiglia di lontane origini lombarde il 20 novembre 1761. Fu educato a Osimo e successivamente studiò diritto canonico a Bologna e a Roma. Divenuto esperto in materia giuridica, fu segretario della commissione incaricata di svolgere indagini sul sinodo giansenista di Pistoia (1786); in seguito ebbe la carica di vicario generale di alcuni vescovi. Divenuto prevosto di Cingoli (1795-1800), fu successivamente nominato vescovo di Montalto e mentre ricopriva questa ufficio fu imprigionato dal 1808 al 1814 per aver rifiutato di giurare fedeltà al regime napoleonico in Italia. Pio VII lo creò cardinale e vescovo di Cesena nel 1816 e nel 1821 lo chiamò a Roma, conferendogli la sede vescovile di Frascati e nominandolo penitenziere maggiore. Il papa, che lo stimava molto, sperava che egli sarebbe stato il suo successore: infatti, poco mancò che venisse eletto pontefice nel 1823. Nel conclave del 1829, egli, candidato dei moderati e appoggiato dalla Francia e dall’Austria, fu eletto pontefice, malgrado il suo grave stato di salute. Volendo egli continuare la tradizione di Pio VII, ne adottò anche il nome. Non molto interessato alla politica, si preoccupò ben più vivamente dei problemi dottrinali e pastorali. Nella sua unica enciclica (Traditi humilitati nostrae, del 24 maggio 1829) fece risalire il crollo della religione, oltre che dell’ordine sociale e politico, all’indifferentismo in materia di fede, all’attività delle società bibliche protestanti, ai nefasti interventi delle società segrete, ai minacciosi e subdoli tentativi di dissacrare il matrimonio e, infine, agli attacchi aperti ai dogmi della Chiesa. In un Breve del marzo 1830 condannò sia l’influenza della massoneria sull’educazione, sia l’eccessiva libertà morale della nuova generazione. Ma pur sostenendo inflessibilmente le posizioni tradizionali, Pio VIII era talvolta accomodante. Così mitigò il regime di polizia instaurato da Leone XII nello Stato Pontificio e introdusse un certo numero di intelligenti cambiamenti in campo economico e sociale. Restò sempre molto legato a Cingoli, di cui fu munifico benefattore, come dimostra soprattutto il dono, eccezionalmente concesso, alla chiesa cattedrale e al Capitolo della sua città di origine, della Rosa d’oro, fatta da lui recapitare dal vescovo di Ripatransone, il cingolano Filippo Appignanesi.25 Morì a Roma il 30 novembre 1830 e fu sepolto nella basilica di San Pietro sotto il monumento funebre, di stile neoclassico, progettato da Pietro Tenerani nel 1857. Santi e Patroni Oltre il patrono Sant’Esuperanzio, la cui festa si celebra il 24 gennaio, Cingoli venera la compatrona Santa Sperandia. Originaria di Gubbio, dopo vita eremitica in vari luoghi, entrò nel monastero di San Michele a Cingoli dove vestì l’abito benedettino e fu eletta badessa. Favorita da visioni celesti e dedita alla vita di preghiera e di ascesi fu di esempio di perfezione per la comunità monastica e la città. Morì l’11 settembre del 1276. Nel 1325 gli abitanti di Cingoli la elessero loro compatrona. Il suo corpo incorrotto si venera nel santuario che porta il suo nome e che è meta di devoti pellegrinaggi e centro di spiritualità e di preghiera. Se ne celebra la festa il giorno 11 settembre. Compatrono di Cingoli 211 Stallo del coro del canonico Francesco Saverio Castiglioni è anche San Bonfilio, vescovo e monaco. Nato in Osimo, visse tra il 1050 e il 1115. Fu abate di Santa Maria di Storaco (Osimo) e vescovo di Foligno. Dopo una lunga esperienza in Terra Santa, dove si era recato al seguito della crociata, desideroso di condurre vita eremitica, rinunziò all’episcopato e visse solitario nella località di Santa Maria della Fara, presso Cingoli. San Silvestro gli dedicò il monastero da lui ivi fondato e ne scrisse la vita. La festa si celebra il 28 settembre. Infine si ricorda il 22 marzo San Benvenuto, vescovo. Nato in Ancona nel 1188, Benvenuto Scotivoli studiò diritto a Bologna; fu cappellano pontificio, arcidiacono d’Ancona, Governatore della Marca e vescovo di Osimo (1264), la cui circoscrizione comprendeva Cingoli. Appartenne al primo Ordine dei Frati Minori. Uomo di governo, di riforma e autentico pastore, a Cingoli nel 1274 ordinò sacerdote San Nicola da Tolentino. Morì nel 1282. Il suo corpo si conserva nel mausoleo della cattedrale di Osimo.26 212 NOTE Cesare, De bello civili I, XV, 2. Fanciulli 1762; Prete 1983, pp. 177-183; Avarucci 1986, pp. 201-212, passim. 3 Raffaelli 1762; Christianopulus 1771; Pennacchioni 1978. 4 Prete 1983, pp. 183-185. 5 Avarucci 1986, pp. 212-216. 6 Santarelli 2007, p. 223. Anche l’ipotesi formulata da Pennacchioni circa la presenza di un tratto di muro romano nella parete destra della chiesa di Sant’Esuperanzio appare non accettabile, perché il materiale lì osservato sembra essere materiale di spoglio riportato e utilizzato in quel luogo. 7 Cfr. Chiesa Cattedrale di Santa Maria 1994, p. 57. 8 Raponi 2002, vol. II, p. 1489. 9 ASCC, vol. 55 (1617-1622); ASCC, vol. 65 (1654-1); Sacre visite 1726-1858 1979, p. 166. Le notizie relative alla costruzione della nuova chiesa sono desunte da questo volume che contiene gli atti delle visite pastorali. 10 Grimaldi 2002. 11 Sacre visite 1726-1858, 1979, pp. 166-167. 12 Cruciani 2009, p. 48. 13 Sacre visite 1726-1858, 1979. 14 Si fornisce il testo dell’epigrafe nella traduzione italiana: “A Pio VIII Pontefice Massimo / illustre cittadino protettore emerito / per la cui cura il collegio dei canonici / ha acquistato nuovo prestigio, / la cattedrale è stata dotata di numerosi doni sacri, / l’eredità della famiglia Cima arricchita di redditi, / ogni cosa, infine, innalzata alla somma dignità, / il Capitolo dei Canonici / nobilitato e accresciuto per la sua benevolenza e liberalità / al padre comune benignissimo / che per più anni ha onorato / come suo prevosto / per aver egli recato per la prima volta in patria / il lustro della sacra potestà, / per i molti altri onori ricevuti, / perché all’uomo famoso dovunque / non mancasse l’onore nella sua patria / dedicò questa memoria dopo la morte.” 15 Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1827, pp. 332-333. 16 “Nell’anno millenovecento trentanovesimo dopo la nascita di Cristo, / diciassettesimo della rivoluzione fascista, / questa chiesa cattedrale per tanti secoli 1 2 disadorna / ora risplende con arte di dipinti, decorazioni e vetrate, / auspici il vescovo Monalduzio dei conti Leopardi e il prevosto Gaetano Costantini / uniti nel cuore e nelle spese con il collegio dei canonici, / con gli amministratori comunali e con i concittadini. / Quest’opera insigne dedicata alla Patrona di Cingoli / nel giorno consacrato alla Madre di Dio Assunta in cielo, / è affidata all’animo grato dei posteri.” 17 “A Dio Ottimo Massimo. / Rendiamo grazie a San Nicola da Tolentino / che ritornò a Cingoli dove fu ordinato sacerdote e qui rimase dal 17 al 27 aprile 1968 / ed ebbe tutta la diocesi pronta ad apprendere dalle parole di Dio / ciò che con spirito e virtù ammirabili / i missionari della “Pro civitate Christiana” / predicarono prima del secondo congresso eucaristico diocesano / nel XX anno dell’episcopato dell’eccellentissimo Silvio Cassulo / Amministratore apostolico della Diocesi di Cingoli.” 18 Per il decreto della Congregazione dei vescovi cfr. Archivio Storico della Cancelleria Vescovile di Macerata: Nuova Diocesi, documenti 1986. Congregatio pro episcopis Maceratensis, Tolentinae, Recinetensis, Cingulanae et Treiensis de plena dioecesium unione decretum. Per il decreto esecutivo del vescovo Carboni, cfr. Archivio Storico della Cancelleria Vescovile di Macerata: Unione delle Diocesi, Decreto di unione delle diocesi, 30 gennaio 1987. 19 Sacre visite 1726-1858, 1979, pp. 175-177; Pennacchioni 1994, p. 75-77; Annuario Interdiocesano 1973. 20 Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1827, p. 335. 21 Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1777, pp. 175-176. 22 Alfei, Gozzoli 2007, p. 38. 23 Fusi Pecci 2005. 24 Le brevi note che seguono sono desunte da Kelly 1995, pp. 511-512. Cfr. gli ampi studi di storici locali: Fusi Pecci 1965; Pennacchioni 1994; e più recentemente Marozzi 2000, pp. 305-308, con ampia e aggiornata bibliografia. 25 Pennacchioni 1994, pp. 235-245. 26 Per queste brevi biografie cfr. I Santi delle Marche 1967, pp. 43-44; 94-95; 91; 127-128; cfr. anche Cartechini 2001, pp. 269-314. CRONOLOGIA 553-561 Cingoli è sede vescovile con la presenza del vescovo Giuliano. Alto Medioevo (?) La “pieve di Santa Maria” è costruita fuori dalla cinta muraria. 1538 (13 giugno) La pieve di Santa Maria è elevata a prepositura e collegiata da Clemente VII. 1619-1654 Costruzione a spese del Comune di una nuova chiesa sulla piazza maggiore su disegno di A. Passari di Pergola. 1664 La collegiata di Santa Maria passa ai Padri dell’Oratorio di San Filippo Neri (attuale chiesa di San Filippo recentemente restaurata). 1725 (20 agosto) Cingoli riottiene la sede vescovile è unita aeque principaliter con Osimo; la Collegiata è elevata a cattedrale, restando sempre proprietà del Comune. 1769 La cattedrale è aggregata alla Basilica di S. Pietro in Vaticano con la concessione di molte indulgenze da parte del papa Clemente XIV. 1795-1800 Il canonico Francesco Saverio Castiglioni (futuro Pio VIII) è prevosto del Capitolo della cattedrale. 1932 Congresso eucaristico diocesano. 1939 Abbellimento della cattedrale ad opera del pittore cingolano Donatello Stefanucci e dei sanseverinati Olivio Luchetti e Umberto Catalini. 1964-1975 La diocesi di Cingoli, separata da quella di Osimo, è retta dai vescovi di Macerata e Tolentino Silvio Cassulo ed Ersilio Tonini, quali Amministratori Apostolici. 1968 Congresso eucaristico diocesano. 1976 Cingoli ritorna diocesi autonoma con il vescovo Francesco Tarcisio Carboni. 1986 (30 settembre) Cingoli è unita insieme alle altre quattro diocesi limitrofe per formare un’unica diocesi; la cattedrale assume il titolo e ruolo di concattedrale. CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA 213 UNA CHIESA DELLA CONTRORIFORMA A CINGOLI: SANTA MARIA ASSUNTA Stefano D’Amico La pieve di Santa Maria L’esistenza della diocesi di Cingoli è documentata fin dal VI secolo,1 ma della primitiva cattedrale, che probabilmente sorgeva all’interno della città romana di Cingulum sita sul pianoro di Borgo San Lorenzo a sud della città, non abbiamo notizie.2 Nel secolo successivo, durante le invasioni longobarde, la città progressivamente decadde e venne abbandonata perdendo la sede vescovile a favore delle diocesi di Osimo e Camerino. Il castrum vetus, ricostruito in posizione più elevata intorno all’attuale piazza Vittorio Emanuele II, ebbe al suo interno una pieve con il titolo di Santa Maria di cui si ha notizia fin dal 1230 e i cui resti – parte della struttura muraria esterna, il portale e frammenti di affreschi – sono attualmente inglobati nella chiesa di San Filippo. Era la chiesa più importante della città e il 1° settembre 1461 il vescovo Gaspare Zacchi, con lo scopo di rendere più solenne il culto divino, la elevò a Collegiata minore aggregandovi un Capitolo composto da sei canonici.3 Il 13 agosto 1530, per volere di papa Clemente VII, i canonici diventeranno dieci più due ‘dignità’ e la Collegiata sarà dichiarata insigne.4 A partire dal 1481 la chiesa fu ristrutturata e dotata di un nuovo campanile, di cui resta la base addossata all’abside, ma con il passare del tempo, “per l’accresciuta popolazione, poiché molte famiglie dei castelli cingolati si erano trasferite in città, era addivenuta troppo piccola in modo speciale nel tempo della predicazione quaresimale, ed era comune Pianta della città di Cingoli con l’antica Cingolum desiderio che se ne erigesse un’altra nella piazza maggiore, luogo molto centrale e comodo per la popolazione”.5 L’occasione che dette l’avvio alla costruzione della nuova chiesa fu il quaresimale tenuto in città nel 1564 da fra Giovanni Maria Rustichelli di Firenze seppe trovare le parole giuste tanto da indurre il Consiglio di Credenza del Comune di Cingoli, nella seduta del 19 marzo, a nominare una commissione per la scelta del luogo più idoneo e dell’architetto cui affidare il progetto. Fu scelta l’area più rappresentativa della città, la zona sud della piazza pub- blica, proprio davanti al quattrocentesco Palazzo comunale e alla trecentesca torre civica, occupata da alcune case e una piccola chiesa dedicata al Santo Salvatore di proprietà del consigliere comunale Raffaele Simonetti che pubblicamente dichiarò di accontentarsi, quale compenso per la cessione, “delle perizie che si fossero state fatte”.6 I lavori tuttavia non iniziarono per il sopraggiungere di altre più urgenti necessità – di cui ci dà conto il canonico Guglielmo Malazampa – obbligando la Comunità cingolata a differire il progetto di circa mezzo secolo. 214 Stefano D’Amico Facciata principale, 1654 La cattedrale di Santa Maria Il Consiglio Generale di Cingoli tornò sull’argomento il 1° maggio 1615 quando ripropose all’ordine del giorno la costruzione di una “nuova chiesa d’onesta grandezza e magnificenza nella piazza ove oggi è San Salvatore”. Di questa piccola chiesa, forse un oratorio della famiglia Simonetti, non conosciamo l’origine, ma sappiamo che era stata restaurata nel 1535 con inserti rinascimentali in facciata: un portale rettangolare in pietra, una nicchia con il busto in marmo del Salvatore e lo stemma gentilizio dei Simonetti.7 Fu immediatamente costituita una “commissione di autorevoli cittadini” che aprì una pubblica sottoscrizione, quantunque il Comune di Cingoli, che volle la chiesa, la finanziò continuamente con assunzione di mutui, cessione di terreni incolti a privati e la vendita di una casa a Loreto che era a disposizione dei cittadini che si Lato est, facciata della chiesa del Santo Salvatore, restauro 1535 recavano in pellegrinaggio al Santuario.8 Il progetto della chiesa fu affidato all’architetto – o forse, più correttamente, al capomastro – Ascanio Passeri di Pergola, presumibilmente al suo primo incarico di una certa rilevanza. Demolite le preesistenze, ad eccezione della facciata della chiesa che sarà inglobata in una parete dell’abside orientale della nuova fabbrica,9 il 7 luglio 1619, monsignor Rutilio Matuzio, vicario generale del vescovo di Osimo, poteva presenziare la cerimonia della posa della prima pietra della nuova chiesa.10 Problemi di ordine economico incisero probabilmente sulla qualità strutturale dell’edificio e ne rallentarono la costruzione, ma il peggio doveva ancora venire, ed infatti, ultimata la cupola e la copertura del tetto, quando i lavori erano praticamente conclusi, un rovinoso crollo, dovuto a “non meglio specificate scelte eccessivamente ardite del progettista”, costrinse i cingolani a ricominciare da capo. Non è possibile stabilire quali siano state queste “scelte ardite”, il Malazampa dice che probabilmente si trattò di un incidente annunciato “perché anche i periti dell’arte ne avevano parlato prima che avvenisse la rovina della chiesa” e comunque ne scaturì una causa tra il Comune e l’architetto Ascanio Passeri, ritenuto responsabile del crollo, intentata davanti alla Sacra Congregazione di Roma di cui non conosciamo l’esito.11 Il Malazampa ci informa anche dello “spostamento del muro perimetrale nel lato ovest” che causò la perdita di “una cuppola di pianta esagonale con nervature simili a quelle che sono nelle volte delle vicine Cappelle del SS. Sacramento del Redentore e del presbiterio” e continua dicendo che “probabilmente per togliere la spinta esercitata verso la parte perico- CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA 215 Veduta di Cingoli, in Avicenna 1644 lante, essa venne abbattuta lasciandosene però quasi intatta la struttura inferiore la quale presenta traccie di stucchi”.12 Il crollo probabilmente si verificò prima del 1634 perché da questa data, e fino al 1644, Ascanio Passeri sarà impegnato nel cantiere per la ricostruzione della chiesa di San Medardo ad Arcevia e poiché sembra poco probabile che abbia potuto seguire contemporaneamente due fabbriche di tale impegno, così come sembra poco plausibile che sia potuto tornare dopo il 1644, possiamo dedurne che fu esautorato dalla comunità di Cingoli. La parte strutturale dei lavori furono conclusi, dopo trentacinque anni di lavoro, nel 1654 e il 27 ottobre il vicario del vescovo di Osimo, con una solenne messa celebrata nell’altare maggiore aprì la chiesa al pubblico pur mancando il coro, la decorazione degli altari e il previsto rivestimento in pietra della facciata.13 Non abbiamo i disegni dell’epoca – che forse giacciono nell’archivio della diocesi di Osimo – ma l’edificio è già registrato nella Pianta topografica di Cingoli pub- blicata nel 1644 da Orazio Avicenna in Memorie della Città di Cingoli14 dove con il numero 17 – su 104 edifici o luoghi segnalati – è identificata “S. Maria chiesa Matrice, ò Domo nuovamente edificato”. Il 3 agosto 1659 la chiesa fu concessa in uso perpetuo ai canonici di Santa Maria della Pieve che, dopo lunghe trattative con il Comune, vi si trasferirono alla fine di maggio del 1660. Il 30 agosto 1693 il cardinale Opizzo Pallavicini, vescovo di Osimo, la consacrò ufficiale ed infine, il 20 agosto 1725, papa Benedetto XIII la 216 Stefano D’Amico elevò a cattedrale della reintegrata Diocesi di Cingoli e a ricordo dell’evento fu posta sopra al portale principale una cartella in pietra con iscrizione.15 La decorazione barocca Dalla vecchia collegiata furono trasportate nella nuova le pale degli altari di San Carlo, di San Albertino e della Madonna, i vecchi sedili del coro, la reliquia di San Candido e le suppellettili, ma il Comune di Cingoli, che restava proprietario dell’edificio, per completare la decorazione della chiesa emanò avvisi pubblici invitando i cittadini a ornare le cappelle in cambio del giuspatronato sulle stesse.16 Fu così che, tra la fine del XVII secolo e per tutto il successivo, le cappelle furono completamente rivestite da sontuosi apparati decoratavi di gusto barocco con ampio uso di legno intagliato e soprattutto di stucco, materiali poveri, preferiti ai più costosi marmi, che nelle chiese di Cingoli avrebbero dato risultati di sorprendente bellezza.17 All’appello risposero le famiglie più importanti della nobiltà cingolata – Raffaelli (cappella di San Gaetano, 1662), Silvestri (cappella delle Reliquie, 1665), Silvestri, Puccetti e Crescioni (cappella di S. Liborio, 1666), Cima (cappella del Santissimo Crocifisso, 1669) – e la Confraternita del Santissimo Sacramento che nella cappella omonima pose la pala d’altare con Santa Caterina d’Alessandria proviene dalla Pieve di Santa Maria.18 L’apparato decorativo barocco fu completato con due scenografici altari sulle pareti di fondo del transetto, con statue ed esuberanti fastigi in stucco, e un dossale in legno intagliato e dorato sopra l’altare maggiore databile al 1758 con la statua della Madonna di Loreto e sei scene della Vita della Vergine.19 Altro elemento interessante della cattedrale sono i monumenti funebri che, in assenza delle navate laterali, dove in genere restavano più ‘nascosti’, sono stati Portale principale con cartella del 1725 Navata, particolare dello stemma della famiglia Raffaelli costruiti sui pilastri tra le cappelle, contribuendo a ‘muovere’ l’austera spazialità manierista dell’impianto architettonico esprimendo in modo esemplare uno dei punti programmatici dell’estetica barocca: l’unione delle tre arti maggiori nella definizione degli spazi architettonici. Per la pittura si dovrà attendere il XX secolo, mentre la scultura entrò in gioco fin dalla seconda metà XVIII secolo, con il suo festoso apparato di materiali diversi e forme svolazzanti, cornici mistilinee, volute, festoni, mensole, stemmi e statue. Particolarmente interessanti sono i monumenti in onore di Francesco Cima delle Stelle (terzo pilastro a sinistra, 1746) e del gesuita Luigi Simonetti (parete sinistra dell’abside orientale, 1790) ai quali corrispondono, simmetricamente, quello del conte Ugolino Francesco Benvenuti (1760) e quello del cardinale Raniero Simonetti (1750). L’ultimo ad essere realizzato, e con un iter che si prolungò dal 1830 al 1838,20 fu il monumento in CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA 217 onore di papa Pio VIII Castiglioni (31 marzo 1829 - 30 novembre 1830) posto sull’ultimo pilastro a sinistra. Veduta della cappella del Santissimo Crocifisso Gli ultimi interventi Con l’elezione al soglio pontificio del Castiglioni si pose mano al completamento del rivestimento esterno della facciata. I lavori iniziarono immediatamente, ma la morte prematura del papa comportò la definitiva sospensione dei lavori.21 Da quel momento non si hanno più notizie della cattedrale fino al 1937-1939 quando il Capitolo decise di completare e rinnovare l’interno con la costruzione della balaustra del presbiterio, del pavimento, delle vetrate e soprattutto con la decorazione pittorica affidata ai decoratori Olivio Luchetti e Umberto Natalini di San Severino Marche e al pittore Donatello Stefanucci di Cingoli.22 Ai primi spettarono la dignitosa decorazione in monocromo, vagamente baroccheggiante, delle volte dell’aula e del transetto con specchi mistilinei, cartelle, festoni e gli stemmi di Pio XI e del vescovo Monalduzio Leopardi sulla controfacciata; al secondo le deboli pitture del catino absidale. La figura e l’opera di Ascanio Passeri è ancora tutta da studiare, l’esigua bibliografia che lo riguarda lo indica quasi sempre come capomastro-imprenditore e direttore dei lavori. E proprio in questa veste, tra il 1634 e il 1644, dopo l’infelice prova data a Cingoli, è impegnato nella ricostruzione della Collegiata di San Medardo ad Arcevia, progettata dall’architetto Michele Buti, per la quale nel 1636 diede dei disegni – una pianta, una sezione e un prospetto – segno che le sue competenze erano superiori a quelle di un semplice muratore.23 Nel 1649 lo troviamo a Modena nel cantiere per la costruzione della cupola della chiesa teatina di San Vincenzo, progettata da Bartolomeo Avanzino (1608-1658) e con la direzione dei lavori affidata al 218 Stefano D’Amico Monumento funerario di Luigi Simonetti, 1790 giovanissimo architetto modenese Guarino Guarini (1624-1683) al suo primo importante incarico. Nel 1651 Ascanio fece un esposto al duca Francesi I d’Este esprimendo seri dubbi sulla stabilità della struttura e anche in questa occasione propose un suo disegno che “fu accettato dai Padri et anco approvato dal Avanzini”, ma per disaccordi sul compenso, i lavori furono sospesi e il capomastro, volendo il saldo delle opere realizzate e sicuro che il disegno dato era “bonissimo”, chiamava a testimone lo stesso “Padre Guerrini”.24 Nel mese di maggio del 1671 “Ascanio Passeri e nipoti, ingegneri” – il nostro doveva avere quasi ottanta anni – furono chiamati ad Urbino nella fabbrica del duomo per “esaminare i fondamenti della facciata e fare il disegno”, ma il progetto non ebbe seguito perchè nel mese di agosto risultano pagamenti ad un architetto riminese.25 Sembra che il Passeri sia intervenuto Veduta della navata verso il presbiterio anche nella ristrutturazione del palazzo Pubblico di Castel Colonna in provincia di Ancona,26 ma non è dato sapere altro. La cattedrale di Cingoli è una esemplare chiesa della controriforma cattolica che fonde lo spazio longitudinale della grande aula unica con tre cappelle per lato, con lo spazio centrale della crociera cupolata a pianta quadrata che si dilata nel transetto e nell’abside. Il modello di questa tipologia, che successivamente sarà sviluppato da Pietro Berrettini da Cortona, è unanimemente riconosciuto nella chiesa dei gesuiti del Gesù a Roma progettata da Giacomo Barozzi da Vignola nel 1568. Ascanio Passeri, quando progetta la cattedrale di Cingoli, è certamente al corrente di tali ricerche – d’altra parte era passato quasi mezzo secolo – ma sembra voglia risalire fino all’origine del CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA Veduta delle arcate delle cappelle laterali rinascimento e recuperare uno schema sperimentato già alla fine del XIII secolo da Arnolfo di Cambio, e poi ampliato da Francesco Talenti a metà del secolo successivo, nella chiesa fiorentina di Santa Maria del Fiore. L’architetto senese, staccandosi da tutte le precedenti esperienze medievali, e ispirandosi al Battistero di San Giovanni che probabilmente riteneva di epoca tardo-antica, aggiungeva alle classiche tre navate della tradizione cristiana una immensa cupola a pianta ottagonale dilatata in tre nicchioni-absidi a profilo semiottagonale sporgenti dal perimetro, tipica dell’antica architettura romana. Nelle Marche l’unico modello a disposizione di Ascanio poteva essere la Basilica della Santa Casa di Loreto impostata fin dal 1470, con la non irrilevante differenza che le absidi lauretane, come 219 quelle della chiesa di San Francesco ad Ascoli, sono trilobate e quindi sostanzialmente ancora gotiche. A Cingoli, Ascanio, media l’impianto arnolfiano con i più ortodossi schemi vignoleschi e bramateschi, copre la navata unica con una volta a botte a tutto sesto, imposta la crociera a pianta quadrata e la copre con una volta a vela, molto simile alla classica cupola, copre le absidi con catini ed infine scandisce le pareti con un filologico ordine architettonico dorico addossato a poderosi pilastri in muratura che inquadrano gli archi a tutto sesto delle cappelle. Anche il fregio dell’imponente trabeazione, correttamente alternato con metope e triglifi, richiama la grandezza, la solidità e l’austerità delle architetture romane, ora simbolo non dei Cesari, ma del primato di Pietro e della Chiesa, ed è funzionale al programma estetico e teologico del manierismo accademico dei papi della controriforma – almeno fino a Gregorio XV (1621-1623) – che consideravano l’arte un indispensabile strumento per la restaurazione cattolica dopo il periodo di crisi connesso alla Riforma protestante. La grande navata unica accoglie quanti più fedeli possibili e permettere loro si sentire e vedere comodamente la catechesi e la manifestazione del divino, l’imponente macchina dell’altare maggiore in fondo all’abside ha la funzione di creare una cornice di gloria per la celebrazione, mentre le cappelle laterali, ognuna dedicata ad un santo, sono luoghi propizi alla celebrazione delle messe private e alla preghiera. Il gusto barocco, più gaio e sensuale, espressione di una chiesa oramai sicura di se e che tradizionalmente inizia a diffondersi con il pontificato di Urbano VIII (1623-1644), si affermerà nella cattedrale di Cingoli solo nelle sei cappelle e nei due altari del transetto con abbondanza di angeli svolazzanti, colonne tortili, cartocci fluenti, nastri sinuosi e arabeschi fiammeggianti. 220 Veduta della crociera Stefano D’Amico CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA 221 NOTE Avicenna 1644. Zaccaria 1764. Christianopulus 1771. Compagnoni 1782. Osservazioni critiche 1796. Cappelletti 1848. 2 Beni archeologici 2004 pp. 81-82. Materiale romano di reimpiego è riconoscibile nelle pareti nord e sud dell’antica Chiesa di San Lorenzo che ha dato il nome al borgo, ma non è possibile dire altro. 3 Il termine pieve (da plebs, plebis = plebe) indicava una chiesa con battistero (detta anche chiesa matrice o plebana) posta a capo di una circoscrizione territoriale civile e religiosa alla quale erano sottoposte altre chiese e cappelle prive di battistero. Le pievi si diffusero nel V secolo, soprattutto nelle aree di campagna, ma il fenomeno interessò anche centri abitati di una certa importanza lontani dalla sede vescovile, per venire incontra al popolo che lì poteva ricevere tutti i sacramenti più importanti, a partire dal battesimo, cosa che in origine ciò era possibile solo nella cattedrale. Il termine capitolo indicava la riunione giornaliera dei monaci nella Sala capitolare dove si leggeva un “capitolo” della regola dell’ordine e si discuteva dei problemi della comunità. In seguito passò ad indicare un gruppo di sacerdoti del clero diocesano al servizio della cattedrale che si dava una regola comune allo scopo di rendere più dignitoso e solenne il culto divino. I membri di un capitolo si chiamavano canonici (dal greco kanón, “regola”) e tra i vari obblighi che avevano vi era quello di recitare insieme la liturgia delle ore, o per lo meno alcune delle sue parti, secondo quanto stabilito dai propri statuti. Per estensione il termine indicava anche la riunione ufficiale dei canonici. La collegiata era una chiesa di una certa importanza, diversa dalla cattedrale e in genere in città prive di sede vescovile, nella quale era istituito un Collegio o Capitolo di canonici, sempre allo scopo di rendere più solenne il culto a Dio. I canonici avevano diritto alle insegne, allo scranno in coro e ad alcuni privilegi tra i quali una rendita (beneficio) individuale. Molto spesso le famiglie nobili erigevano un canonicato destinando una parte delle loro proprietà alla rendita ecclesiastica, riservandosi il diritto di patronato, ossia la possibilità di scegliere a chi spettava il beneficio (molto spesso un membro della famiglia stessa). 4 Pennacchioni 1978 p. 75. 5 Malazampa 1929 p. 5. 6 ASCC 1325-1808, Riformanze, vol. 38 1563-1565. Malazampa 1939 p. 6. Un’iscrizione, datata 1626 e murata sulla parete destra dell’abside orientale, ricorda la cessione dell’area. D.O.M./ AEDE S.MI SALVATORIS/ AD DEIPARAE TEMPLVM CONSTRUENDVM/ A SIMONETTIS PATRONIS/ VNIVERSITATI PATRIAE CONCESSA/ SACELLVM HOC IN EIVS AEDIS LOCVM/ SVBSTITVI ET ANTIQVVM IVS PATRONATVM/ TRANSFERRI/ ABB. ANNIBAL SIMONETTVS RECTOR/ IO. PETRI 1 FVNDATORIS EX FRATRE/ TRINEPOS/ CAVIT CVRAVITQ/ ANNO D. MDCXXVI. 7 Malazampa 1929 p. 9 lo attribuisce, con dubbio, a Girolamo Lombardo. L’architrave reca l’iscrizione SALVATOR. MVNDI. SALVA. NOS. 8 Malazampa 1929 p. 10. 9 Malazampa 1929 pp. 8, 9. Perrone/ Vignati 1979 p. 92. Maran 1979 p. 165. 10 ASCC 1325-1808, Riformanze, vol. 55 1617-1622. Malazampa 1929 p. 9. 11 Malazampa 1939 p. 12 dice: “Quale esito abbiano avuto le indagini, quali fossero i responsabili non ci è dato conoscere poiché, né le Riformanze, né i verbali del Capitolo, né altri documenti ne parlano”. Tuttavia nuove ricerche presso l’Archivio Diocesano di Osimo e l’Archivio Segreto Vaticano potrebbero colmare questa lacuna. 12 Malazampa 1939 pp. 17,18. 13 ASCC 1325-1808, Riformanze, vol. 655, anni 1651-1655. Malazampa 1929 p. 12. Maran 1979 p. 166. Stessa sorte toccherà, nel secolo successivo, alla cattedrale di Macerata. 14 Avicenna 1644. 15 Malazampa 1929 pp. 12-16. L’iscrizione dice: BENEDICTO XIII/ B. CINGVLANA (illeggibile)/ DIGNITATI (illeggibile) ISSIME RESTI (illeggibile) / S.P.Q.C. AN. (illeggibile) MDCCXXV/ P. P. 16 Malazampa 1939 pp. 16,17. 17 Ricordiamo la straordinaria ristrutturazione interna della chiesa di San Filippo ad opera di Gianbattista Contini, e i coretti a balconcino, la cantoria e gli altari delle chiese di Santa Caterina e di Santo Spirito. 18 Malazmpa 1929 pp. 16, 17. 19 Vedere iscrizione sul pilastro a destra dell’arco trionfale che immette nel presbiterio. 20 Pennacchioni 1994 p. 108. 21 Pennacchioni/ Corbella 1979 p. 378. 22 ACC, busta 74, fasc. Restauri della Cattedrale 1938. Malazampa 1929 p. 18. Pennacchioni/ Corbella 1979 p. 378. Vedere la lapide nell’abside occidentale. Le vetrate furono realizzate dal romano Giulio Cesare Giuliani su disegno dall’architetto cingolano, ma residente a Roma, Cesare Emidio Bernardi. 23 Costanzi 1997 pp. 7-8. Montevecchi 1997 p. 141. Santini 2005 pp. 207, 211. I disegni sono conservati nell’Archivio storico comunale di Arcevia in un manoscritto del 1636. 24 Carboneri 1970 pp. 51-52. 25 Negroni 1993 p. 120. 26 Cruciani 2009 p. 48. CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA LE CAPPELLE GENTILIZIE DELLA CHIESA DI SANTA MARIA ASSUNTA A CINGOLI: DIPINTI, STUCCHI E INTAGLIO LIGNEO Silvia Blasio Per la decorazione della nuova chiesa di Santa Maria Assunta, eretta con l’autorizzazione concessa il 19 agosto del 1619 da papa Paolo V Borghese1 nel luogo in cui sorgevano l’antica pieve di Santa Maria Assunta e la chiesetta di San Salvatore, e terminata nel 1654, il contributo delle nobili famiglie cingolane fu determinante: il Consiglio Comunale infatti, su proposta di Francesco Simonetti deliberò la pubblicazione di avvisi che invitassero i cittadini a far decorare le cappelle della chiesa, di cui avrebbero ottenuto il giuspatronato.2 Cinque delle otto cappelle vennero assegnate tra il 1662 e il 1669 durante le sedute del Consiglio Comunale verbalizzate nelle Riformanze.3 Per le botteghe artistiche locali, spesso di ottima pratica e particolarmente attive fin dalla metà del Cinquecento specialmente nell’ambito dello stucco e dell’intaglio ligneo, si trattò di una nuova e stimolante occasione per dimostrare la qualità artistica dei propri manufatti, molti dei quali, in parte anche documentati, sono ancora presenti nella cattedrale. Essi attestano nell’orientamento stilistico sostanzialmente classicista degli artefici cingolani la predilezione per un barocco moderato, ancora condizionato dalla maniera tardocinquecentesca, che filtra gli esempi romani da cui spesso dipende con la stessa sobrietà che caratterizza le linee severe dell’architettura di Ascanio Passari di Pergola, autore del progetto della chiesa. Secondo una tendenza condivisa anche dagli artefici di altre aree geografiche della regione, le maestranze Sant’Albertino e una devota, secolo XVII; Giuseppe Antonio Mogliani, cornice in stucco 223 224 cingolane attive nella cattedrale sfuggono al principio tipicamente barocco dell’unità delle arti visive, pur nella profusione di scagliole e marmi colorati nei monumenti a parete e negli altari, disciplinando l’esuberanza decorativa della scultura in stucco con schemi simmetrici spesso stilizzati ed evitando il suo prevalere sulle linee architettoniche. La topografia dei giuspatronati, a trent’anni di distanza dalla consacrazione della nuova chiesa seicentesca, è efficacemente sintetizzata nel Tomo degli alberi genealogici delle Famiglie Cingolane4 di Francesco Maria Raffaelli in cui, alla data 1683, gli otto altari della chiesa di Santa Maria Assunta e i nomi delle famiglie cui essi spettavano sono elencati a partire dalla cappella maggiore, e poi nelle due navate, in cornu evangelii e in cornu epistolae, talvolta menzionando sinteticamente alcuni dei loro arredi, o eccezionalmente, anche il nome di un artista, in questi casi con brevi aggiunte successive o note a margine: “Altar Maggiore Compagnia dei nobili del SS. Sacramento due quadri moderni later[ali] / Vang. San Salvatore famiglia Simonetti / SS. Crocifisso Cima di Strada Maggiore / S. Liborio Silvestri e Crescioni / Pist. Assunta Marchesi Silvestri / Madonnina Cima S. Spirito /S. Gaetano Rafaelli del Fanelli / S. Albertino Comune di Cingoli / In Sagrestia S. Tommaso d’Aquino Campelli del Fanelli”. La cappella di Sant’Albertino è l’unica sotto il patronato pubblico della comunità di Cingoli, mentre non viene menzionata la cappella del Battesimo, spettante al Capitolo della Cattedrale. Per il resto la situazione del 1683 si rispecchia abbastanza fedelmente nella chiesa attuale e nei suoi arredi, che rispetto alla seconda metà del Seicento hanno subito cambiamenti non radicali e spesso documentabili anche con l’aiuto dei resoconti delle visite pastorali. Partendo dall’ingresso la prima cappella Silvia Blasio Pier Simone Fanelli, Morte di san Gaetano sulla destra è appunto quella dedicata a Sant’Albertino abate, appartenente alla comunità di Cingoli; la tela sull’altare forse fu tra le prime a decorare la nuova chiesa subito dopo la consacrazione, es- sendovi stata trasportata nel 1659 dalla chiesa di San Filippo insieme ad altre opere.5 Poiché Albertino, priore dell’abbazia di Fonte Avellana morto nel 1294 era considerato protettore contro le malattie CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA 225 Santa Rosalia, stucco, secolo XVII epatiche e le ernie inguinali e ombelicali, è probabile che il quadro, come una sorta di grande ex voto, rappresenti una devota che invocando il santo, canonizzato però solo nel 1782, avesse ottenuto una miracolosa guarigione per il figlio. L’elegante figura serpentinata della donna, l’incisiva angolarità dei panneggi modellati dalla luce nel candido abito camaldolese di Albertino e la raffinata gamma di tinte fredde lasciano intravedere una componente emiliano-parmense nella cultura di questo anonimo artista seicentesco. Solamente nel 1719 tuttavia il dipinto fu ornato della magnifica cornice in stucco costituita da un rigoglioso doppio tralcio vegetale a foglie d’acanto dallo sviluppo simmetrico abitato da tre putti, opera di Giuseppe Antonio Mogliani, uno scultore noto fin dal 1687 anche per lavori d’intaglio ligneo.6 Giacomo Barteloni, pulpito, 1743; intagliatori cingolani, bancone per il magistrato, secolo XVII La seconda cappella entrando in cornu epistolae è dedicata a San Gaetano e fu concessa nella seduta consiliare del 14 marzo 1662 a Nicola Antonino Raffaelli, il quale in cambio si impegnava a spen- dervi cento scudi in tre anni e a farvi dipingere un quadro raffigurante il santo.7 Sull’altare rivestito di marmi colorati tra due colonne corinzie vi è infatti una tela di Pier Simone Fanelli con la Morte di 226 san Gaetano, la Vergine col Bambino, san Giuseppe, san Pietro, san Paolo e angeli. Il Fanelli (Ancona 1641-Recanati 1703) anconetano di nascita e di formazione, essendo allievo di Domenico Peruzzini, si trasferì presto a Recanati dove visse fino alla morte e dove secondo Diego Calcagni “aprì l’Accademia del disegno nella città per mantenere in essa il buon gusto di sì nobil arte”.8 Di fatto Fanelli fu attivissimo soprattutto nel basso maceratese, dove la sua pittura capace di coniugare originalmente influssi romani ed emiliani fu particolarmente apprezzata dai committenti locali. L’attività a Cingoli ruota intorno all’importante incarico degli affreschi e di una tela nella chiesa di San Filippo, lavori condotti tra il 1691 e il 1694 e a questi anni, o al decennio precedente, risalgono anche le altre opere del Fanelli nelle chiese cingolane. Nella ricerca di “risoluzione, e grandiosità di comporre, e di disegnare”9 ma facendo resistenza al dinamismo barocco, Fanelli nella Morte di san Gaetano definisce plasticamente le figure dai nitidi contorni e le affastella in uno spazio angusto senza che il movimento trascorra dall’una all’altra. È molto difficile datare questa opera su basi stilistiche, visto che lo sviluppo della carriera artistica del pittore è ancora tutto da ricostruire, soprattutto ai suoi esordi; qualche affinità si nota con il San Filippo nelle catacombe in San Filippo a Recanati, anteriore al 166610 e questa cronologia avvicinerebbe il dipinto al 1662, anno della concessione del giuspatronato ai Raffaelli, ponendolo tra i più antichi finora noti. Tuttavia, poiché Fanelli a quel tempo aveva solo ventun’anni e iniziava allora la sua attività autonoma a Recanati, mentre i suoi rapporti con Cingoli si situano in anni più avanzati, è opportuno al momento ritenere questa data solo un termine post quem per l’esecuzione del quadro. La cattedrale di Cingoli è ricca di monu- Silvia Blasio Stuccatori cingolani, altare del Santo Salvatore, 1721 menti e lapidi a parete dedicati ai personaggi più illustri della città, nei quali si esprime la fantasia decorativa dei maestri specializzati nella lavorazione del marmo e della scagliola. Il primo lo si incontra tra la seconda e la terza cappella della na- vata destra ed è una lapide in memoria del conte cingolano Ugolino Francesco Benvenuti datata 1760, una lastra in marmo bianco profilata di grigio su cui è l’iscrizione,11 con cornice mistilinea in marmo giallo e coppie di volute che for- CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA mano in alto un fastigio con al centro lo stemma gentilizio. La terza e ultima cappella della navata destra, sotto il giuspatronato Cima di Santo Spirito è così descritta nel resoconto della Visita del 1726: “Nella navata Cornu Epistolae vi è una Cappella ben lavorata di stucco con diverse statue coll’altare, in cui vi è l’Immagine della SS.ma Vergine dipinta nel muro detta la Madonnina, con ornamento d’intaglio di Legno dorato d’avanti, ed è del Sig. Gaetano Cima”.12 Sull’altare in scagliola sovrastato da un nuvolario in stucco con cherubini e con al centro la colomba dello Spirito Santo, vi è un’immagine della Madonna addolorata in una ricca cornice in legno intagliato e dorato, con due piedi a zampa di leone poggianti sulla mensa, e nelle nicchie laterali dall’elegante disegno tardo manierista ornate da conchiglie, due statue in stucco raffiguranti santa Rosalia (?) a sinistra e santa Margherita d’Antiochia a destra, opera di maestranze locali. La nuova immagine della Madonna addolorata fu collocata nella cappella nel 1857: essendo ormai l’antico dipinto sul muro molto rovinato e quasi invisibile “nella Quaresima del 1856, predicando D. Domenico can.co Cavallini Spadoni gli Esercizi al popolo, pose in d.o altare un quadro dell’Addolorata in terra la cornice fu fatta eseguire in S. Severino e dorare a Macerata. Fu consegnato in dono e collocato il 31 gennaio 1857”.13 Al termine della navata, addossato alla parete, vi è il pulpito ligneo, la cui esecuzione ad opera di artefici locali è documentata dai pagamenti. I documenti d’archivio, particolarmente riguardo all’intaglio ligneo, hanno infatti restituito per Cingoli il quadro di un’attività molto fervida, purtroppo solo in parte comprovata da manufatti tuttora conservati, e sostenuta sia dal mecenatismo delle famiglie nobili, sia come in questo 227 Memoria di Luigi Simonetti, 1790 (particolare) caso, dalle commissioni delle autorità comunali. Il pulpito in noce dal parapetto mosso e definito da semplici specchiature a profilo mistilineo, sorretto da due ampie volute, fu costruito nel 1743 dietro il pagamento di trenta scudi, da Giacomo Barteloni, capostipite di una famiglia di maestri lignari attivi per tutta la seconda metà del secolo. Allo stesso maestro potrebbero spettare anche i due confessionali con timpano spezzato situati nel braccio sinistro del transetto, forse identificabili con quelli citati nei pagamenti emessi nel 1789 in favore degli eredi del Barteloni.14 Risalgono invece alla seconda metà del Seicento il bancone per il magistrato collocato sotto il pulpito e il coro ligneo, forse realizzati da Giulio Antonucci o da Marino e Giovan Battista Ceteroni, attivi in quegli anni per il Comune. Opera certa di Nicola Gigli falegname sono invece un altro bancone a sei stalli per i salariati del pubblico diviso in due parti – attualmente disposte sui due lati del pilastro angolare verso il cappellone sinistro – eseguito nel 1752, e infine due canterani per conservare i pontificali in Sacrestia, pagati ventinove scudi nel 1744.15 Nel braccio destro del capocroce, detto anche cappellone, vi è l’altare dell’Assunta, sotto il giuspatronato della famiglia Silvestri, ottenuto dal marchese Federico il 21 settembre 1665,16 una grandiosa struttura architettonica in stucco con profilature dorate costituita da due coppie di colonne corinzie, tra le quali si affacciano due statue di profeti; le colonne sorreggono un architrave mistilineo su cui siedono due angioletti, al centro del quale, sullo sfondo di un nuvolario, due angeli ad ali spiegate reggono una corona e un medaglione affiancato in alto da altri due angioletti, entro cui a rilievo sono raffigurati Dio Padre e Gesù; sopra il medaglione, a completare la Trinità, vi è una raggiera dorata con la colomba dello Spirito Santo. La fastosa ornamentazione plastica doveva dunque in origine integrare iconograficamente il tema 228 della pala d’altare raffigurante l’Assunta, oggi sostituita dal dipinto novecentesco di Donatello Stefanucci con il Discorso della montagna. Il paliotto d’altare è una copia in marmo dell’originario paliotto ligneo, oggi conservato in sacrestia, che esaminerò più oltre. Sulle pareti del cappellone in cornu epistolae, l’una di fronte all’altra, vi sono due edicole in stucco costituite da un drappo a frange dorate ricadente ai lati in ampie pieghe piatte, la cui descrizione appare per la prima volta nel resoconto della Sacra Visita del 1734: “A Cornu Evangelij di d.o Cappellone vi è l’Immagine della S:ma Vergine, con il Bambino in braccio sotto l’Invocazione della Misericordia ornato all’intorno di stucchi di parti posti in oro, e parte di marmo pareo [sic] bruniti […] A Cornu Epistolae vi è un altro consimile ornamento, con nicchia con fondo rosso, ornamento consimile parimente con oro come al descritto: dentro la detta nicchia vi si conserva il Corpo di San Candido Martire collocato in Urna ricoperta di velluto cremise con galloni all’intorno e cristalli avanti e negl’angoli, qual nicchia viene custodita da tre chiavi esistenti una presso il Capitolo, e l’altra presso il Publico, e la terza presso detto Sig.r Marchese Silvestri, e detto ornamento l’ha fatto fare il sig.r Marchese Raimondo Silvestri di proprie spese”.17 L’immagine della Madonna della Misericordia, nel primo dei due “ornamenti” riprende un’iconografia molto diffusa in tutto il territorio marchigiano il cui prototipo è un dipinto del fiorentino Carlo Dolci.18 Al centro del braccio sinistro del capocroce vi è l’altare con il giuspatronato della famiglia Simonetti, sul lato ove sorgeva l’antica chiesetta di San Salvatore quasi interamente demolita per fare spazio alla nuova collegiata. L’altare in stucco bianco con paliotto in scagliola sotto il quale corre la scritta RAIJNERI- Silvia Blasio Ancona lignea con la Vergine di Loreto VS SIMONETTVS F.F. MDCCXXI è una bella struttura architettonica con colonne dal fusto riccamente decorato con motivi fogliacei, grottesche e maschere che sorreggono un mosso architrave e un fastigio formato da una tabella al centro col monogramma IHS, circondata da tre vivacissimi putti reggenti festoni. La pala d’altare, menzionata nella relazione della Sacra Visita del 1726 come “tela con l’Immagine del S. Salvatore”,19 in realtà rappresenta la Trinità con la figura del Salvatore in particolare evidenza circondato da un coro di angeli; sullo sfondo appare un sintetico paesaggio al tramon- to, – forse una veduta idealizzata del panorama marchigiano su cui si spazia da Cingoli – opera seicentesca di un certo effetto, che riecheggia il potente naturalismo di Giovanni Lanfranco. Sulle pareti del cappellone vi sono due memorie in marmi colorati: a destra, l’iscrizione in onore del cardinale Raniero Simonetti, del 1750, è una semplice targa di marmo nero incorniciata di giallo, con finti drappi e volute ai lati, con in cima lo stemma cardinalizio, mentre a sinistra il monumento in onore di Luigi Simonetti, del 1790, ha un disegno più elaborato e una ricca ornamentazione al- CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA legorica e araldica: tra due lesene in marmi policromi vi è la cartella con l’iscrizione dedicatoria che sta sopra allo scudo accartocciato in marmo con lo stemma gentilizio fiancheggiato da due teschi alati in stucco; sopra la cartella, al centro, una complessa composizione in stucco formata da un triregno, un galero cardinalizio e una mitra, con una clessidra alata e un teschio, il tutto sormontato da vasi fiammati con ghirlande che si riuniscono al centro intorno al ritratto del defunto in ovato.20 Alla base il monumento è sostenuto da due mensole in forma di bellissime teste di leone in stucco, figura araldica della famiglia Simonetti. La cappella maggiore, assegnata il 25 novembre del 1665 alla Compagnia dei nobili del Santissimo Sacramento, che si impegnava a decorarla con una spesa di 50 scudi21 ha conservato in parte il suo arredo seicentesco, per esempio il coro in legno di noce e, all’entrata, le due grandi statue di legno dipinte a finto bronzo raffiguranti san Pietro e san Paolo, modelli per le sculture che dovevano essere collocate nelle nicchie della facciata non finita. Per quanto riguarda l’altar maggiore, fino alla Sacra Visita del 1734 risulta ancora in loco il vecchio altare ligneo, descritto dettagliatamente: “L’altare Maggiore è della V:e Compagnia del S:mo Sacram:o in detta Chiesa, et in detto Altare situato in mezzo al Cappellone vi è una Scalinata a due gradi di legno con intagli messi in oro, e fondo giallo, a Cornu Evangelij, et Epistole vi sono due festoni per parte d’intaglio messi à oro con un Medaglione rappresentante il Simbolo del S:mo Sagram:o parimen:e messi à oro, sopra d:a Scalinata vi sono tre candelieri per parte di legno dorato, et in mezzo vi è la Croce consimile, quale posa sopra un piedestallo consimile alla Scalinata; dietro al pred:o Altar Maggiore vi è posto sopra un piccolo Tavolino un Tabernacolo grande fatto uniforme Assunta, secolo XVIII, deposito alla Scalinata coperto di tela turchina, dalla quale si cuopre ancora la Scalinata, vi sono due scaletti per commodo d’accendere le candele […]”.22 Nel 1777 troviamo invece già descritto l’altare attuale in marmi policromi: “A spese poi della med:a Compagnia [del Santissimo Sacramento], che ha il mantenimento totale, fu costruito il moderno Altare di marmo, in cui restano appesi nè due Lati della Mensa due piccioli Stemmi Gentilizi della bo:me: di Mons:r Compagnoni, che somministrò per d.a costruzione la somma di scudi cencinquanta in sussidio di ciò, che mancava alla Compagnia, e che sotto li 30. Agosto 1758. consecrò solennem:te […].23 Tuttavia i due scudi accartocciati in marmo bianco su cui è applicato un ostensorio raggiato in rame 229 dorato, visibili ai due lati della parte inferiore dell’altare, sono sicuramente gli emblemi della Compagnia del Santissimo Sacramento. Sempre i resoconti delle Sacre Visite permettono di seguire nel tempo la decorazione del muro dell’abside. Nel 1726 “in mezzo del prospetto di esso Cappellone vi è un Quadro al muro coll’Immagine della SS.ma Concezione”, ma nel 1734 viene invece descritta al suo posto “una cona di legno tutta messa à oro con nicchia in mezzo, dentro cui posa una Statua di legno messa à oro rappresentante la S:ma Vergine di Loreto” e nel 1777 si aggiunge che la nicchia “vien chiusa da un quadro coll’Imagine di Maria SS:ma Assunta in Cielo”.24 La grande ancona in legno dorato fu dunque realizzata tra il 1726 e il 1734, prendendo a modello il prospetto ovest del rivestimento marmoreo della Santa Casa nella Basilica di Loreto. È costituita da un alto zoccolo con decoro neomanierista a cartelle e volute su cui si elevano quattro colonne corinzie scanalate sulle quali fino a un terzo dell’altezza si avvolge un tralcio di vite, motivo ricorrente negli altari lignei marchigiani sei settecenteschi; al centro si apre la nicchia dipinta di azzurro e punteggiata di stelle d’oro con la statua lignea della Vergine di Loreto, rivestita della dalmatica rituale e montata su un basamento processionale con quattro candelieri a un braccio, mentre ai lati vi sono sei dipinti raffiguranti Storie della Vergine25 e in basso a destra, un pontefice; la trabeazione è percorsa da un tralcio classicheggiante a girali d’acanto con al centro una testa di putto e il timpano spezzato è fiancheggiato da due volute e da due vasi su alti basamenti. La statua seicentesca della Vergine, proveniente dalla chiesa di Sant’Antonio abate, demolita intorno alla metà del Settecento, è paragonabile ad altri esemplari molto simili presenti sul territorio marchigia- 230 Silvia Blasio Pittore napoletano, I santi Michele arcangelo, Bonfilio e Francesco Borgia no e potrebbe forse essere identificata in quella di cui si dispone l’esecuzione in un documento del 1657.26 Ai lati dell’ancona con la Vergine lauretana vi sono due tele segnalate nel manoscritto jesino del Raffaelli come “due quadri moderni lat[erali]”,27 opere descritte con precisione nella relazione della sacra Visita del 1734: “à cornu Evangelij di detta Cona vi è un quadro con ferro, e tendina di tela gialla con cornice dorate in tela ove sono dipinte l’Immagini dell’Assunta, de Santi Esuperanzio, e Sperandia Padroni della Città fatto in Roma dà un Pittore Napoletano, à Cornu Epistole un altro quadro consimile con tela come so:a ove sono Pittore napoletano, Assunta e i santi Sperandia ed Esuperanzio dipinti S. Michele Arcangelo, S. Bonfiglio Protettori, e S. Francesco Borgia con alcuni Angioli fatta parimen:e dal med:o Pittore”.28 Sarà necessario approfondire le ricerche su questi due dipinti di qualità elevata e verificarne l’attribuzione più che plausibile ad un pittore napoletano attivo a Roma nel secondo Seicento, palesemente di cultura marattesca. Riprendendo il percorso nella navata a sinistra entrando, la prima cappella è quella del Battistero, spettante al Capitolo della Cattedrale. Menzionata nel resoconto della Sacra Visita del 1726 e più accuratamente descritta in quella del 1777,29 la decorazione consiste in un finto drappo in stucco con frange d’oro appeso al col- mo dell’arco alla sommità della parete di fondo, che ricadendo ai lati con ampie pieghe piatte si apre come un sipario a scoprire l’enorme raggiera dello Spirito Santo e più sotto, il Battesimo di Cristo e il fonte battesimale dissimulato entro finte rocce. La seconda cappella, sullo stesso lato, è dedicata a San Liborio, con il giuspatronato di Eurialo Silvestri, Giuseppe Puccetti e Taddeo Crescioni che lo ottennero dal Consiglio di Credenza l’8 agosto del 1666, in cambio dell’obbligo a provvedere alla decorazione e a porvi il quadro raffigurante san Liborio descritto al suo posto nei resoconti delle visite pastorali a partire dal 1726.30 La tela seicentesca CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA 231 Cappella del Battistero sull’altare raffigura infatti l’anziano vescovo francese nella consueta iconografia, cioè accompagnato da un angelo che regge un piatto con piccole pietre, essendo San Liborio protettore dei malati di calcoli renali. Il santo indossa un piviale rosso e oro con un’ampia bordura ricamata in cui si riconoscono le immagini di san Pietro, san Paolo e sant’Andrea. La cappella, chiusa da una balaustra in marmo, è rivestita di marmi policromi e il dipinto, entro un’elegante incorniciatura mistilinea in stucco dorato, viene presentato ai fedeli da due grandi angeli, riprendendo un fortunato motivo di origine berniniana; l’insieme decorativo è dunque caratterizzato da elementi barocchi uniti a residui di cultura manierista, come le doppie volute che affiancano la cornice e il vivace putto seduto al centro del fastigio. Nelle nicchie laterali sovrastate da cartelle vi sono due statue in stucco raffiguranti san Carlo Borromeo e san Luigi Gonzaga. Nel pilastro tra la seconda e la terza cappella nella navata sinistra vi è il monu- Cappella di San Liborio mento in onore di Francesco Cima delle Stelle, morto nel 1746, lavoro in scagliola del plasticatore Ampelio Mazzanti, autore anche di una serie di busti di santi modellati in stucco:31 l’iscrizione è racchiusa in una doppia cornice dal profilo superiore mistilineo sorretta da mensole dalle quali parte un doppio festone vegetale raccordato al centro ad una protome femminile; sopra di essa si erge una piramide coronata da un serto di alloro e sostenuta da due sfere, entro la quale, 232 Silvia Blasio Ampelio Mazzanti, monumento Cima su un drappo giallo bordato di nero, un putto tiene sulle spalle un clipeo con il busto del Cima.32 La terza cappella del lato sinistro è intitolata al Crocifisso, con “l’Immagine del SS.mo Crocifisso fatto di stucco, ed è ornato di bellissimi stucchi con diverse statue e con Balaustri avanti detta Cappella”.33 La ricca decorazione plastica della cappella dovette essere compiuta tra il 14 marzo 1669 quando Ubaldo Cima, cui veniva concesso il giuspatronato, si impegnava a farla portare a termine nel giro di tre anni con una spesa di 200 scudi34 e il 1726, quando è citata nella relazione della Sacra Visita. Il Crocifisso è circondato da una cornice mossa e sinuosa che in alto si allarga per comprendere la raggiera con Dio Padre; all’esterno della cornice vi sono due grandi angeli adoranti, quello di destra semi-inginocchiato e ai lati le belle statue pienamente barocche di san Nicola di Bari a destra e san Pietro a sinistra, ampiamente panneggiate Cappella del Santissimo Crocifisso e fortemente aggettanti dal profilo delle nicchie che dovrebbero contenerle. Sul pilastro angolare verso la navata sinistra vi è il monumento in onore di Pio VIII Castiglioni, del 1830: la parte inferiore è costituita da un basamento con un elegante motivo a doppia voluta con palmetta centrale inciso su marmo bianco al di sopra del quale vi è l’iscrizione dedicatoria in lettere d’oro su una lastra di marmo grigio;35 nella parte centrale si apre un clipeo circondato da volute e palmette angolari incise, con il busto del pontefice in marmo bianco, opera di Pietro Tenerani.36 Il monumento è coronato dallo stemma del papa Castiglioni. L’arredo della sacrestia, alla quale si accede dal cappellone sinistro del capocroce, si richiama alla funzione svolta da questo ambiente a partire dal 1694. Infatti “Attesa poi l’ampiezza della […] chiesa Cattedrale posta in luogo più eminente della città; e per conseguenza soggetto a maggior rigidezza dell’incostanza dell’aria in tempo d’inverno, in cui non senza qualche pregiudizio di salute poteasi ufficiare il Coro Maggiore, fu supplicata la Sagra Cong:ne del Concilio per l’Indulto di poter recitare i Divini Uffizi ne’giorni feriali nella sagristia di essa Cattedrale, CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA in cui fu costruito a tal effetto l’altro Coro di noce lateralm:te all’altare, come in appresso si dirà, e ne fu ottenuto l’Intento con favorevol Rescritto fin dai 13 novembre 1694”.37 Dopo questa data fu dunque costruito il secondo coro di noce, collocato a sinistra dell’ingresso e l’altare della parete di fondo, sul quale, stando a tutte le descrizioni nelle relazioni delle Sacre Visite, si trovava il quadro raffigurante san Tommaso d’Aquino di Pier Simone Fanelli, ora sulla parete sinistra. Il dipinto rappresenta un episodio di cui san Tommaso fu protagonista nel 1273, nella cappella di San Nicola in San Domenico a Napoli: mentre pregava davanti al Crocifisso, il Santo fu visto elevarsi in estasi e si udì il Cristo approvare la sua dottrina con le parole “Bene scripsisti de me Thoma”. Il Fanelli tuttavia modifica semplificandola, l’iconografia di questo evento miracoloso e rappresenta il Santo mentre scrive, e non in preghiera e in elevazione, e affida all’angioletto un filatterio con le parole pronunciate da Cristo crocifisso. La composizione incentrata sulla figura del Santo raggiunge così una più severa essenzialità e chiarezza didascalica, eliminando altri aspetti narrativi di solito presenti nei dipinti con questo soggetto, come i frati domenicani testimoni dell’avvenimento. L’altare, in origine spettante al Capitolo, fu da questo donato alla famiglia nobile dei Datti “al presente dimorante in Roma” il 3 marzo del 1726.38 Sul dipinto però, si vede in basso a destra lo stemma della famiglia Campelli, la stessa indicata dal Raffaelli nel Tomo jesino39 come detentrice del giuspatronato dell’altare, con l’iscrizione A.C. D.D.D. abbreviazione di “Antonio Campelli Dat Donat Dedicat”. Questo personaggio fu aggregato alla nobiltà cingolana e fu nominato gonfaloniere nel 1688 ed è probabile che l’opera su cui fece apporre lo stemma sia stata eseguita in prossimità di quella data e poi 233 Pier Simone Fanelli, San Tommaso d’Aquino donata alla chiesa quando l’altare apparteneva ancora al Capitolo. Come già accennato, in sacrestia si conserva anche il paliotto in legno intagliato e dorato dell’altare dell’Assunta, nel cappellone sinistro, sostituito in chiesa da una copia moderna in marmo. Il paliotto, la cui realizzazione si colloca dopo il 21 settembre del 1665, anno in cui il marchese Federico Silvestri ottenne dal 234 Silvia Blasio Giovanni Antonio da Pesaro, Madonna col Bambino e santi Consiglio di Credenza il giuspatronato dell’altare impegnandosi a curarne la decorazione e il mantenimento,40 presenta un pannello centrale rettangolare in cui tra simmetrici rami di rose dorate, disposti in forma di girali, due putti sostengono un medaglione circolare con una cornice a perline dorate, foglie e rosette con la rappresentazione dell’Assunta con i santi vescovi Esuperanzio e Bonfiglio che presentano il modellino di Cingoli, santa Sperandia e san Francesco Borgia (?); affiancano il pannello rettangolare sei lesene figurate, tre per lato, quella centrale con un putto a cariatide che poggia i piedi su un mascherone e sorregge un capitello a doppia voluta e le due laterali con teste di cherubini su volute e motivi vegetali; lo zoccolo inferiore è sagomato e girali dorati corrono lungo la trabeazione. I confronti istituiti con altri manufatti identici per soluzioni tecnico-esecutive, vigore dell’intaglio ed esuberante fantasia decorativa e compositiva come il paliotto della chiesa di San Francesco a Matelica e di Santa Croce a Sassoferrato, dai quali il paliotto di Cingoli differisce solo per l’iconografia, hanno permesso di raggruppare un piccolo nucleo di opere ascrivibile con certezza ad un medesimo artefice attivo nella seconda metà del Seicento;41 nonostante generiche somiglianze, lo stile vigoroso e robusto di questo intagliatore ancora anonimo, si distingue decisamente dall’eleganza nervosa delle figure di Leonardo Scaglia cui spesso i tre paliotti sono stati avvicinati. Nel “quadro antico dipinto in Tavola con diverse Immagini”, ricordato nel 1726 nella “seconda sacrestia”,42 si deve senz’altro riconoscere il polittico di Giovanni Antonio da Pesaro raffigurante la Madonna in trono col Bambino e un donatore inginocchiato e, negli scomparti laterali i santi Caterina d’Alessandria, Pie- CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA tro, Esuperanzio vescovo e Bonfilio vescovo; nelle cuspidi, i quattro Dottori della Chiesa e al centro la Crocifissione. Non si hanno documenti sulla provenienza antica del polittico, ma vista la presenza della figura di santa Caterina è probabile che esso si trovasse su un altare dedicato alla santa nella vecchia pieve di Santa Maria Assunta,43 demolita per far posto alla nuova fabbrica. Il nome di Giovanni Antonio da Pesaro (Pesaro 1415 ca.- ante 1478) fu pronunciato per quest’opera da Federico Zeri che nel 194844 diede forma alla personalità dell’artista, discendente da una famiglia di pittori originari di Parma, i Bellinzoni separandola da quella di Antonio da Fabriano, cui anche il polittico del duomo di Cingoli era stato precedentemente riferito da Berenson.45 Si tratta di un pittore ripetitivo e arcaizzante, attivo per le città della costa e del primo entroterra adriatico, che tende a replicare anche a distanza di anni le formule apprese nel corso della sua prima educazione tardo-gotica in Emilia e i modelli gotico-internazionali di Nicolò di Pietro, Jacobello del Fiore e Michele Giambono, a cui si aggiungono gli influssi dagli artisti operosi nelle Marche nel pieno Quattrocento, dai pittori camerinesi a Bartolomeo di Tommaso da Foligno. L’attività di Giovanni Antonio da Pesaro ruota intorno a pochissime opere datate46 e le caratteristiche del suo stile privo di evoluzione consentono di definirne una cronologia solo congetturale. Anche le ripetitive figure di Cingoli appaiono caratterizzate da rigidezza e frontalità ieratica, gestualità debole e inespressiva, ma si distinguono per una solidissima tecnica esecutiva e un’abile manipolazione delle superfici decorate, come si vede nel sontuoso piviale del san Bonfilio la cui stoffa presenta il motivo della melagrana in argento e blu, e nel pur rovinatissimo manto della Vergine. In sacrestia si conserva anche un tritti- 235 Zanino di Pietro, I santi Nicola di Bari, Andrea e Lucia co di Zanino di Pietro, pittore di origine francese attivo a Venezia e Bologna almeno fino a tutto il quarto decennio del Quattrocento, raffigurante i santi Nicola di Bari, Andrea e Lucia, proveniente da Valcarecce, nell’alta valle del Musone. Esso costituisce la parte superstite di un polittico a due registri il cui pannello centrale è probabilmente una Madonna col Bambino della Pinacoteca Nazionale di Ferrara.47 I tre scomparti, che denotano la diretta conoscenza del polittico di Valle Romita di Gentile da Fabriano, sono stati completati da un frontoncino e da una predella posticci, per farli assomigliare ad un dipinto così compiuto.48 236 NOTE La pergamena è in ASCC, Pergamene, n. 158. Vedi L’archivio storico 1995, p. 38, n. 77. 2 Malazampa 1939, p. 16. Il mecenatismo artistico del patriziato cingolano emerge nei diciotto volumi di Memorie compilati dal conte Niccolò Vannucci tra il 1675 e il 1715, conservati in BCR, Fondo Benedettucci, 5BI-1 / 5BI-5 e 5BI-7 / 5BI-18. 3 Malazampa 1939, pp. 16-17. 4 BCPJ, Filippo Maria Raffaelli, Tomo degli alberi genealogici delle Famiglie Cingolane, 1683, ms. 11, p. 174. 5 Malazampa 1939, p. 16; Fava 1999, p. 143, nota 3, che indica la fonte della notizia in ASCC, Riformanze, vol. 68, cc. 117r, 120r. 6 Fava 1999, pp. 137, 143, nota 2: “Offerendosi il signor Giuseppe Antonio Mogliani di fare per soli scudi quindici a tutte sue spese l’ornamento di stucco nella cappella di S. Albertino nella nostra chiesa collegiata, nella guisa appunto del disegno, che fa vedere al presente consiglio, come anche vi è persona che riattarà il quadro di detto santo per soli giulij quindici, però quid. Per dare esecuzione à riveriti ordini dell’eminentissimo signor cardinale Spada nostro degnissimo vescovo, direi che si prendesse il partito, che si fa dal Signor Giuseppe Antonio Mogliani, rispetto all’ornamento di stucco da farsi nell’altare di S. Albertino, si anche l’altro di riattare il quadro di detto santo”, ASCC, Riformanze, vol 79, cc. 129r, 130r. 7 Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1777, p. 171 per la data e il nome del beneficiario della concessione, ma l’attribuzione al Fanelli è segnalata solo nella Sacra Visita del 1734 (p. 95); Malazampa 1939, p. 17. Le relazioni delle Sacre Visite citate in questa nota e nelle successive, tutte pubblicate dal Maran, sono in ASDC, buste conservate presso la chiesa di Sant’Esuperanzio. 8 Calcagni 1711, p. 258. 9 Ricci 1834, p. 274. Secondo Ricci Pier Simone Fanelli eseguì anche “con maggiore correzione ed eleganza una tavoletta per uno della famiglia Raffaelli, figurandovi la Vergine, che riceve da Cristo medesimo l’Eucarestia”, donato nel 1701al Santuario lauretano da Pietro Paolo Raffaelli. L’opera è tuttora conservata nell’Archivio della Santa Casa di Loreto. Molti dei dipinti donati da Pietro Paolo Raffaelli alla santa Casa di Loreto sono esposti nell’anticamera della cappella del Tesoro e le loro magnifiche cornici barocche in legno intagliato e dorato con rigogliosi girali fogliacei simmetricamente spartiti sono probabilmente da riferirsi a maestri di legname cingolani (Blasio 2007, pp. 219-221). Nella busta denominata Cingoli. Dipinti e oreficerie esistenti nelle chiese di Cingoli (BCR, Fondo Benedettucci, Carte recanatesi, busta 173, c. nn.) sono citati molti altri dipinti eseguiti dal pittore anconetano per i Raffaelli a Cingoli e per altre chiese della città. Delle opere per Cingoli parla estesamente anche Ferretti 1883, pp. 46-50, grazie alle informazioni fornitegli dal marchese Filippo Raffaelli. 10 La data si ricava da Calcagni 1711, p. 345. 11 Trascritta in Alfei, Gozzoli 2007, p. 35. 12 Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, p. 2. 13 Maran 2000, p. 39. 14 Fava 1999, p. 140. 15 Fava 1997, pp. 34-35. 16 Malazampa 1939, p. 16. 17 Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1734, p.95. 18 Vedi nota 9 del mio saggio sulla con cattedrale di Treia. 19 Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, p. 2. 20 Le iscrizioni dei due monumenti sono trascritte in Alfei, Gozzoli 2007, rispettivamente p. 37 e p. 38. 21 Malazampa 1939, p. 16. 22 Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1734, p.95. 1 Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1777, p. 167. Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, p. 2; sacra visita del 1734, p. 94; sacra visita del 1777, p. 168. Si tratta di un dipinto settecentesco di autore ignoto attualmente in un deposito della cattedrale. 25 Le storie occupano gli spazi tra le colonne ai due lati della nicchia: in alto, in formato quadrato a sinistra Vergine annunciata e a destra Angelo annunciante; al centro, in forma centinata a sinistra Natività della Vergine, a destra Assunzione, in basso a sinistra, di nuovo in formato quadrato Fuga in Egitto. 26 Fava 1997, p. 40, doc. 35. La statua di Cingoli è schedata in La Madonna di Loreto 1998, p. 178. Per confronti stilistici, S. Papetti in L’iconografia della Vergine di Loreto 1995, p. 188. 27 Vedi nota 4. L’annotazione è stata aggiunta a margine. 28 Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1734, p. 94. 29 Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, p. 2 e sacra visita del 1777, p. 170: “Presso a detta Pila trovasi costruito il fonte battesimale contornato di stucchi colle statue rappresentanti S. Gio: Batt:a in atto di battezzare, e Gesù Cristo in atto di ricevere dal medesimo il Battesimo”. 30 Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, p. 2 “vi è anche la cappella con l’Altare di s. Liborio dipinto in Tela, che parim.te è ornata di bellissimi stucchi”. 31 Tali busti sono attualmente in un deposito in attesa di essere restaurati e appartengono alla cattedrale; si conservano, pur danneggiati, i busti di san Pietro, santa Sperandia, san Giovanni Battista, san Bonfiglio, san Benvenuto vescovo. Presentano tutti una base quadrangolare con l’iscrizione che identifica il santo rappresentato e sono plasmati in stucco bianco levigato, ad imitazione del marmo. 32 L’iscrizione è trascritta in Alfei, Gozzoli 2007, p. 39. 33 Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, p. 2. 34 Malazampa 1939, p. 17. 35 L’iscrizione dedicatoria è trascritta in Alfei, Gozzoli 2007, p. 39. 36 Lo scultore carrarese eseguì nel 1866 il monumento funebre di papa Pio VIII nella navata sinistra della basilica di San Pietro. Per Tenerani vedi nota 20 al mio saggio sulla concattedrale di Treia. 37 Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1777, p. 173. 38 Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, p. 174. 39 Vedi nota 4. L’annotazione riguardante l’altare della sacrestia fu aggiunta dopo la data 1683 che compare nell’intestazione della pagina, infatti si inserisce nell’elenco sovrapponendosi alla riga sottostante. 40 Raffaelli 1762a, p. 284; Malazampa 1939, p. 16. 41 G. Barucca in La cultura lignea 1999, pp. 148-149, scheda n. 89. 42 Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, p. 3. 43 Berardi 1988, p. 101. 44 Zeri 1948, pp. 164-167, dove il soggetto è indicato come “Maddalena e quattro santi”; id. 1976, pp. 59-62. 45 Berenson 1932. 46 Da ultimo Marchi 2009, pp. 29-59. 47 De Marchi, Franco 2000, p.72, fig. 24. 48 Nella sala Capitolare si trovavano due dipinti, ora in un deposito della cattedrale, raffiguranti il Martirio di san Sebastiano e il Martirio di san Bartolomeo; nel retro di quest’ultimo un cartellino antico incollato sulla tela riporta la scritta “J. M. J. Dello Spagnoletto Pittore eccellente, e di sua propria mano gli ha lavorati tutti due cioè S. Bartolomeo e S. Sebastiano stimati da periti dieci zecchini l’uno senza le cornici, quali ci feci fare io Don Carlo Bartolomeo Frosi; e ciò per memoria”. L’attribuzione allo Spagnoletto, di cui le due tele riflettono debolmente la maniera, ripresa anche dal Malazampa (1939, pp. 21,22) è tuttavia assolutamente infondata. 23 24 CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA 237 DONATELLO STEFANUCCI E LA CHIESA DI SANTA MARIA ASSUNTA DI CINGOLI Elisa Mori Donatello Stefanucci nel suo studio, Cingoli, Pinacoteca Comunale Donatello Stefanucci Epigono del tolentinate Francesco Ferranti, nonché pittore largamente apprezzato, Donatello Stefanucci al pari del suo maestro frequenta negli anni della formazione l’Accademia di Belle Arti di Roma, conseguendo l’abilitazione all’insegnamento del disegno sotto la guida del celebre ritrattista Cesare Tallone. Negli anni Venti, accanto ai più noti Giorgio de Chirico, Carlo Carrà, Filippo Tommaso Marinetti, Gherardo Dottori e ai marchigiani Anselmo Bucci, Adolfo De Carolis, Napoleone Parisani, Dante Ricci e Biagio Biagetti, partecipa alle maggiori esposizioni della Capitale, quali la Biennale d’Arte Romana e le rassegne annuali della Società Amatori e Cultori di Belle Arti. Ben presto emergono le sue qualità di fine paesaggista e ritrattista, oltre che di raffinato frescante di soggetti religio- Modello in scala del catino absidale della Chiesa di Santa Maria Assunta raffigurante l’Assunzione al cielo di Maria (1939 c.), Cingoli, Pinacoteca Comunale Donatello Stefanucci si, come testimonia ampiamente il ciclo decorativo che campeggia all’interno del Duomo di Cingoli e concattedrale della Diocesi di Macerata – Tolentino – Recanati – Cingoli – Treia. Il ciclo pittorico, commissionatogli dal Capitolo del Duomo, fu realizzato da Stefanucci in concomitanza con i lavori di abbellimento che hanno interessato la chiesa nel 1939, a testimonianza dei quali è stata giustapposta, nell’abside a destra dell’altare, un’iscrizione in latino che riporta il seguente testo: “Nell’anno Millenovencentotrentanovesimo dalla nascita di Cristo, diciassettesimo dell’era fascista, questa chiesa cattedrale, per tanti secoli disadorna, ora è abbellita con arte da dipinti, da decorazioni e da vetrate, auspici il Vescovo Monalduzio dei conti Leopardi e il preposto Gaetano Costantini uniti nel cuore e nelle spese con il collegio dei canonici, con gli amministratori comunali e con i concittadini nel giorno consacrato alla madre di Dio assunta in cielo, patrona di Cingoli. Questa opera, dedicata all’animo grato dei posteri, è ad esso affidata. Ne furono artefici il concittadino Donatello Stefanucci illustre pittore dell’abside, i signori Luchetti e Natalini di San Severino decoratori, l’architetto Cesare Emidio Bernardi di origine cingolana e Giulio Cesare Giuliani vetraio romano, autori delle vetrate”.1 Le decorazioni dell’artista cingolano interessano principalmente il catino absidale e l’abside destro dell’edificio. Nel primo, suddiviso in cinque spicchi intervallati da leggiadri costoloni in cui si 238 Elisa Mori L’Assunzione al cielo di Maria nel catino absidale che sormonta l’altare maggiore intravede la fisionomia dello stesso pittore, vi è raffigurata l’Assunzione al cielo di Maria accompagnata dai Ss. Esuperanzio e Sperandia, entrambi patroni della città, seguiti dai dodici del Ss. Sacramento, confraternita della cattedrale, che tengono lampioni e indossano sacco bianco e rocchetto rosso, mentre nel secondo è raffigurato il Discorso della montagna. Nella vela centrale, dunque, che sovrasta l’altare maggiore, campeggia in “un cielo di agosto di un’azzurrità intensa, pieno di calura chiude in anello solare la Vergine «umile ed alta più che creatura». Da un cespo di gigli, simbolo dell’avello fiorito, Ella sale luminosa, quasi «Auro- ra consurgens», in atto di accogliere la preghiera dei Protettori S. Esuperanzio e S. Sperandia i quali la guardano col pensiero che, Custode amorosa, vigilerà dall’alto”.2 Dell’abside si conserva, nella pinacoteca comunale intitolata all’artista, un modellino in scala ridotta nel quale il pittore CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA 239 Discorso della montagna, altare del Sacramento già delinea con grande chiarezza e abilità tecnica quelli che saranno i personaggi riprodotti nella volta che sormonta l’altare principale. Lo studioso Mario Valentini, riferendosi ai lavori della Cattedrale eseguiti dal pittore cingolano, lo ricorda “nel suo studio, intento tra modelli e costruzioni in miniatura, creare quel gioiello che, più tardi inaugurato, costituì un vanto per la nostra città. Maestro insigne guidò e consigliò una maestranza di decoratori regionali accentrando tutte le sue capacità nella creazione di un motivo pittorico che, come diadema, splenderà nel catino dell’abside”.3 A testimonianza del lavoro svolto da Stefanucci per la Cattedrale nel 1939 vi sono due documenti, rintracciati presso l’Archivio Storico del Capitolo di Cingoli, che attestano il pagamento di £ 4.000 per il “dipinto-abside” e il montaggio dell’armatura “necessaria per il restauro e la decorazione di tutto l’interno della 240 Cattedrale nella maniera richiesta dal Prof. Donatello Stefanucci”.4 L’artista dimostra un particolare interesse anche per gli aspetti prettamente tecnici della sua pittura utilizzando la “tempera d’uovo, studiata a fondo per la saldezza dell’intonaco nei rapporti di sabbia silicea e calce. Il disegno vi fu eseguito e [sic!] sanguigna e il colore disteso non a tutto corpo, ma con semplici velature. L’intensità tonale della tempera e la trasparenza dipendono dalla buona acquosità delle tinte e dal sobrio uso della biacca. Ma la tavolozza fu quasi l’identica di quella per l’affresco e cioè composta in prevalenza di colori naturali e ossidi di ferro, con qualche sulfuro di Cadmio, alluminato e stampato cobalto”.5 Non meno significativa dell’apparato de- NOTE Alfei, Gozzoli 2007, p. 36. Malazampa 1939, p. 22. 3 Valentini 1961, p. 137. 4 ASCCC, Busta 0074, Capitolo Cattedrale. Curia. Documenti vari (1892-1960), Restauri della Cattedrale (1938) (fogli sciolti): Conto... 1939; Privata scrittura... 5 Strinati 1940, p. 4. 6 Valentini 1961, p. 138. 7 Topa 2002, p. 259. 1 2 corativo riprodotto nel catino absidale è la grande tela del Discorso della montagna che si staglia nell’abside destro della chiesa, meglio noto come l’altare del Sacramento, nella quale è effigiata l’imponente figura del Cristo dalle bianche vesti nell’atto di accogliere un manipolo di persone in adorazione.6 Di questo dipinto esiste una copia, in formato ridotto e con qualche piccola variazione nel personaggio femminile sulla destra, forse un primo bozzetto dello stesso, della quale non si conosce l’ubicazione ma ne è documentata l’esistenza da una riproduzione fotografica conservata nella biblioteca comunale di Cingoli. La stessa fisionomia del Cristo, in questo caso benedicente e accompagnato dai simboli dei quattro evangelisti, la ritro- viamo anche nella grande decorazione parietale realizzata da Stefanucci per la cappella funeraria della nobile famiglia Mattioli Pasqualini sita nel cimitero cittadino nelle vicinanze della chiesa di Sant’Esuperanzio.7 Parimenti al Discorso della montagna, il protagonista manifesta una grande spiritualità unita a una forte componente di umanità e realismo, favorendo un intimo dialogo tra l’osservatore e l’argomento narrato. I temi sacri di Stefanucci, dunque, al pari della più nota produzione di paesaggi e ritratti, non mancano di testimoniare il suo grande talento e la sua singolare capacità espressiva, senza tuttavia manifestare eccessi o sbavature. CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA 241 IL TESORO DELLA CONCATTEDRALE DI CINGOLI E I DONI DI PIO VIII Gabriele Barucca Nella relazione della Sacra Visita compiuta il 7 novembre 1726,1 il tesoro di suppellettili sacre “spettanti alla suddetta Chiesa Catedrale” non risulta particolarmente consistente: sono elencati solo tre calici d’argento, un servizio per incensazione, uno per aspersione, qualche ostensorio; seguono poi altre suppellettili meno pregiate in rame e in ottone. Quasi nessuno di questi oggetti risulta superstite. È invece certamente riconoscibile “una croce con anima di legno, e ferro ricoperta di lastra di argento dorata, col Cristo di getto parimente di argento col piedestallo di Rame dorato, e Palla con fascie di argento di peso libre trè, e once otto”,2 che ancora si conserva seppur priva del supporto e del nodo sferico di raccordo.3 La croce è appunto rivestita di lamine d’argento dorato, cesellato e inciso con rigogliosi girali vegetali lisci su fondo satinato. Le terminazioni quadrilobate dei bracci sono prive di doratura e presentano figurazioni incise. Sul recto, al centro, è la statuetta del Crocifisso, realizzata a fusione in argento, con i capelli e il perizoma dorati. Nella terminazione superiore è incisa la figura della Madonna assunta in cielo, circondata da tre testine angeliche, che risalta su un fondo lavorato a minuto reticolo. Questa presenza conferma che la croce era destinata ab origine all’antica pieve dedicata appunto a Santa Maria Assunta, in seguito demolita insieme alla chiesetta di San Salvatore per far posto all’odierna cattedrale, che ha mantenuto la stessa intitolazione. Sulle due terminazioni laterali Arte orafa umbro-marchigiana, croce astile Disegno della croce, 1770. Cingoli, archivio diocesano sono incise le figure dell’Annunciazione, mentre in quella inferiore compare un santo vescovo, forse da identificarsi con sant’Esuperanzio, patrono della città. Il verso della croce ripropone un’identica scelta decorativa, con le placchette quadrilobate delle terminazioni raffiguranti i simboli degli evangelisti che risaltano sul fondo a reticolo. La cornice dello spessore è costituita da un nastro d’argento inciso a stampo con un motivo fitomorfo costituito da un’inflorescenza che si diparte da un’anfora ripetendosi senza soluzione di continuità. Le tre terminazioni superiori sono ornate ciascuna da tre sferette di argento dorato. L’apparato decorativo della croce non ha previsto dunque l’inserimento di microsculture, tranne quella del Crocifisso, realizzato a fusione, ma è affidato alla lavorazione a cesello e bulino, impreziosita solo dal contrasto cromatico tra la doratura dei bracci e l’argento delle terminazioni. Queste presentano figurazioni condotte con un segno rapido ed elegante, evidente in particolare nelle due formelle componenti la vivace scena dell’Annunciazione, che riecheggia modelli pittorici centro italiani di primo Cinquecento. Questo dato stilistico unito all’accurato trattamento grafico delle figurazioni rifinite a niello suggeriscono di avvicinare la croce alla produzione orafa umbra della prima metà del XVI secolo. Nell’Archivio diocesano di Cingoli esiste un foglio che sul recto presenta il disegno acque- 242 Gabriele Barucca Giovanni Francesco Arrighi, riccio di pastorale Bottega degli Arrighi, calice Antonio Arrighi, ostensorio raggiato rellato della faccia anteriore della croce e sul verso la dichiarazione di copia conforme all’originale attestata dal notaio Gian Francesco Torretani di Cingoli in data 24 agosto 1770.4 Non sappiamo perché sia stato fatto il disegno della croce e soprattutto sfugge per ora il senso di questa dichiarazione di conformità dello stesso alla croce originale. Un nucleo importante di suppellettili sacre della cattedrale di Cingoli proviene da una bottega di argentieri romani, gli Arrighi, la cui ampia produzione è stata recentemente studiata da Jennifer Montagu,5 che anche grazie al riemergere di una cospicua documentazione d’archivio ha ricostruito l’organizzazione di questa importante bottega attiva a Roma dalla seconda metà del Seicento fino alla fine del secolo successivo, per una clientela in massima parte costituita dai ranghi inferiori del clero e dalla nobiltà minore o provinciale. A Cingoli sono presenti opere dei principali esponenti di questa ‘dinastia’. È utile dunque riportare il breve riassunto che consente di conoscere i loro nomi e la successione nella direzione della bottega. “Giovan Francesco Arrighi nacque nel 1646. Dal 1665-1666 lavorò come “fattore” nella bottega di Bartolomeo Colleoni e ottenne la patente nel 1683. Alla sua morte, il 5 settembre 1730, il figlio maggiore Agostino (16721762) assunse la direzione della bottega insieme alla madre, ma il 14 maggio 1733 cedette il diritto di ereditare la patente paterna al fratello più giovane Antonio (1687-1776) che, superata la prova nello stesso giorno, ricevette la patente il 19 giugno. Alla morte di Agostino, Antonio, pur riservandosi il controllo finale dei lavori, passò la direzione della bottega a Mattia Venturesi (1710-1776) e solo nel 1776 rinunciò a questa supervisione, cedendogli gli interi profitti (o perdite) dell’impresa, anche se ciascuna delle parti aveva il diritto di rescindere il contratto. Alla sua morte, sei mesi dopo quella di Antonio, Venturesi lasciò la bottega a Girolamo Francescoli (1739?-1802).”6 Dei pezzi conservati nella cattedrale di Cingoli il primo è un riccio di pastora- le che reca impresso il bollo di Giovanni Francesco Arrighi.7 Una nota del 6 maggio 1726 nei libri di bottega degli Arrighi pare riferirsi a quest’oggetto: “E più deve dare per aver fatto fare di novo un Pastoralle il Sig.re Pier Lorenzo Datti tutto lavorato sopra in cima di fiori di un dentro laltro, che girano, con il suo vasetto, e cordone tutto lavorato dove à il suo nascimento, e quatro canne per il bastone con sue cornice dove incastrano, una canna con laltra, e giu da basso la sua punta, con viera, e vitte e madre vitte tutte tornite, che pesano lb. 5. o.7. che alla ragione di s.16 per ogni libra cioe arg.to e fatura inporta s.89:35 Per lasta [? cambiato] del bastone, che sta per di dentra che serve per anima di tutto il Pastoralle, e tutto agiustatto, che incasino adoso le canne d’arg.to s.-:50.”8 La descrizione sembra dunque corrispondere con ragionevole sicurezza al riccio esistente, che purtroppo ha perduto il suo bastone originario. Nel riccio di CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA 243 Bottega orafa romana, ostensorio raggiato, 1752 Mattia Venturesi, braccio reliquiario di sant’Emidio Bottega orafa romana, calice, 1794 Arrighi il girale di foglie d’acanto che lo costituisce è rigoglioso e mosso secondo l’interpretazione barocca, di gusto ancora tardo seicentesco. La famiglia Datti di Cingoli ordinò argenterie sia a Giovanni Francesco, sia ad Antonio Arrighi, fino al momento in cui Mattia Venturesi assunse la direzione della bottega. Pier Lorenzo risiedeva a Roma e richiese agli Arrighi argenti sacri e profani. Nello stesso periodo in cui commissionò il pastorale, ordinò anche “una bugia da vescovo”, “una Lanpana di arg.to lavorata al usansa con li spichi, e Angioli, e le tre catene…un Piatino centinato liscio per le anpoline della Messa”,9 oggetti purtroppo perduti. Queste prime donazioni di argenti furono certamente effettuate in occasione della concessione ai Datti del giuspatronato dell’Altare con “Quadro dipinto in Tela rappresentante S. Tommaso di Aquino con ornamenti di Stucco” nella sagrestia della cattedrale. Come risulta nei resoconti della Sacra Visita del 1777 effettuata dal cardinale Calcagnini: “Detto Altare spetta alla No- bil Famiglia Datti, al presente dimorante in Roma in virtù di Donazione fattale dal Capitolo li 3 Marzo 1726”.10 In realtà questi arredi sacri non sono i primi ad essere citati nei libri di bottega degli Arrighi come commissionati dalla famiglia Datti; in precedenza il 20 aprile 1723 viene annotato che Pier Lorenzo diede dell’argento e prese un calice con la patena.11 Esiste la possibilità che questo sia identificabile con un calice inedito, rinvenuto nella sagrestia della cattedrale cingolana.12 Questo calice, purtroppo integrato malamente in corrispondenza del nodo centrale del fusto, reca un punzone purtroppo non perfettamente impresso tanto da rendere incerta la corrispondenza con quello di Giovanni Francesco Arrighi o del figlio Antonio. Di fatto il calice è identico a quello che Antonio Arrighi realizzò per un ecclesiastico della famiglia urbinate dei Riviera intorno al 1737-1738, ora nel Museo Diocesano di Urbino.13 L’unica differenza tra i due pezzi consiste nel fatto che l’esemplare urbinate è completamente dorato e di fattura più accurata. Considerando però che per questo genere di oggetti erano a disposizione nelle botteghe degli argentieri dei modelli che, in base alle richieste della clientela, venivano replicati anche a distanza di decenni, non possiamo escludere che il calice di Cingoli corrisponda a quello ricordato nella nota del 1723, quando la bottega era ancora diretta da Giovanni Francesco. Fu invece certamente realizzato sotto la direzione di Antonio il terzo pezzo cingolano degli Arrighi, vale a dire un ostensorio raggiato con impresso un bollo camerale, di difficile decifrazione, che dovrebbe comunque risultare quello in vigore tra il 1736 e il 1738.14 Nel resoconto di una visita pastorale si legge: “Un ostensorio d’Argento con sua Lunetta d’argento dorato, e donato dal Signor Datti. Altro Ostensorio d’argento con un Angelo, Raggio dorato e Lunetta d’argento”.15 Manca la lunetta d’argento sull’ostensorio in questione, tuttavia l’assenza di raggiera dorata attesta la commissione da parte di un esponente della 244 Bottega orafa romana, navicella, 1776 famiglia Datti non individuato però col nome di battesimo. Sempre alla cattedrale lo stesso Datti, insieme al conte Petroni, regalò una muta di tre lampade d’argento. I Datti apparteneva alla nobiltà minore di Cingoli. Nel 1735 un loro membro, Alessio, divenne gonfaloniere. Suo padre Pier Lorenzo, di cui s’è detto, era stato cliente di Giovanni Francesco Arrighi fin dal 171516 e suo zio Raimondo almeno dal 1718.17 Alessio e suo fratello Egidio continuarono a comprare dagli Arrighi numerose argenterie, sia sacre che secolari, fino al 1767.18 Nel 1739 Egidio pagò 79.20 scudi per un “Estensorio d’arg.to con metalli riportatti di forma triangolatto, con delle testte di Cherubini et altre lavori con della fatura asai che peso d’arg.to efetivo libre lb. 3 o.8 d.2 bolatto con il bollo del Tre Regnio”,19 più 20 scudi per la doratura e 2 per il bronzo; inoltre Antonio Arrighi incastonò sedici pietre “intorno alla luce”. Si trattava di un pezzo evidentemente diverso, ma sembra comunque che Egidio sia l’esponente della famiglia Datti che con maggiore probabilità aggiunse l’ostensorio ancora conservato al corredo di suppellettili sacre dell’altare di giuspatronato famigliare nella sagrestia Gabriele Barucca Roberto Tombesi, vaso per la purificazione e vassoio della cattedrale. È stato giustamente rilevato che “per quanto appaia gradevole, l’oggetto non mostra grande fantasia nel disegno e non è particolarmente raffinato nell’esecuzione. Le teste di cherubini sulla base sono di qualità più alta: sono fuse probabilmente da modelli di una mano più esperta, già presenti nella bottega. I raggi che circondano l’ostia, di un tipo che l’argentiere definisce “alla Bernina”, sono poco numerosi, pur ammettendo che alcuni di essi si siano spezzati.”20 L’ultimo pezzo proveniente dalla bottega romana degli Arrighi, nel frattempo passata sotto la direzione di Mattia Venturesi, non risulta invece essere legato alla committenza di qualche esponente della famiglia Datti. Si tratta del braccio reliquiario di sant’Emidio, che presenta impresso il bollo personale di Mattia Venturesi e quello camerale usato nel biennio 1765-1767.21 A conferma della corretta identificazione di questo bollo, è stato giustamente ipotizzato che la realizzazione dell’oggetto sia da mettere in relazione con i fenomeni sismici che colpirono la zona di Cingoli nel corso del 1766: com’è noto infatti a sant’Emidio si chiedeva protezione contro i terremoti.22 La valenza essenzialmente devozionale dell’oggetto sacro e la sua appartenenza a una tipologia quasi seriale ne spiegano la qualità piuttosto ordinaria. Prima di passare all’illustrazione del nucleo principale del tesoro della cattedrale cingolana, costituito da oggetti legati alla memoria del papa Pio VIII Castiglioni, occorre almeno menzionare alcuni altri pezzi che nel corso del Settecento ne hanno accresciuto la consistenza. In particolare sono tre oggetti liturgici con impressi marchi illeggibili di argentieri romani, recanti comunque iscrizioni che ne tramandano la data e i nomi degli oblatori. Il primo oggetto in ordine di tempo è un ostensorio raggiato donato nel 1752 da Teresa Castiglioni, esponente di una delle famiglie eminenti della nobiltà locale.23 In esso una successione di cornici architettoniche e volute a forte aggetto incurvate verso l’alto e verso il basso si strutturano a dar forma alla base a sezione triangolare, che quasi senza soluzione di continuità si raccorda al fusto su cui è innestato il ricettacolo raggiato. La decorazione è affidata a una profusione di teste di cherubini ben modellate sul piede, sul fusto e nel nuvolario intorno alla teca. Il secondo oggetto è una navicella in argento di fattura piuttosto ordinaria.24 Essa presenta la base rigonfia scompartita da membrature decorate da CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA Bottega orafa romana, mazza cerimoniale conchiglie di fantasia, la coppa coperta interamente da sbaccellature nascenti da un motivo a volute e il coperchio decorato su entrambe le valve da scudi sbalzati. Sui bordi della valva fissa è incisa un’iscrizione che ricorda la donazione dell’arredo sacro nel 1776 da parte del Capitolo della cattedrale. Infine resta da ricordare un calice caratterizzato da una decorazione particolarmente ricca, in cui si affastellano tutti i motivi del consueto repertorio rococò: volute, conchiglie, motivi vegetali e teste di cherubini. Come risulta da un’iscrizione il calice venne donato alla cattedrale cingolana nel 1794 dal cardinale Guido Calcagni- 245 Pianeta del cardinale Francesco Saverio Castiglioni Pietro Paolo Spagna, pisside ni, vescovo di Osimo e Cingoli.25 Di ben più alta e raffinata qualità sono i doni che fece alla cattedrale cingolana Francesco Saverio Castiglioni, sia da cardinale sia, soprattutto, da pontefice nell’arco del suo breve regno che va dal 31 marzo 1829, quando venne eletto papa col nome di Pio VIII, al 30 novembre 1830, giorno della sua morte. Vanno inoltre ricordati altri oggetti appartenuti a Pio VIII che dopo la sua morte furono “generosamente donati al Rev.mo Capitolo dagli Eredi del Marchese Filippo Avv. Castiglioni, sigg. Guido, Ottavio, Giulia, Stefanina.”26 Le biografie di Francesco Saverio Castiglioni lo tratteggiano come una figura austera, impegnato nella coraggiosa resistenza alla dominazione francese, poco incline alle manifestazioni di fasto, che caratterizzavano spesso lo stile di vita dei suoi colleghi del Sacro Collegio, e da papa avverso al nepotismo famigliare. Ma in realtà sarebbe un errore credere Castiglioni un personaggio disinteressato alle vicende della sua famiglia e della sua città natale, che anzi gratificò di una costante e autorevole attenzione, testimoniata anche dall’invio di preziosi doni alla chiesa di Sant’Esuperanzio e in particolare alla cattedrale, dove aveva peraltro ricevuto il battesimo il 21 novembre 1761 dallo zio, l’arcidiacono Francesco Castiglioni, ed era stato Proposto del Capitolo dal 1795 al 1800. Al periodo del cardinalato, che va dal 1816, quando venne nominato da Pio VII col titolo di Santa Maria Traspontina, al 1829, quando Castiglioni fu eletto papa, risale la donazione di una sontuosa pianeta bianca ricamata in oro siglata con il suo stemma (di rosso al leone d’argento sorreggente con le branche anteriori una torre d’oro, merlata alla guelfa, chiusa e finestrata di nero), timbrato con il cappello e le nappe esprimenti la dignità cardinalizia. È questo forse il primo di una serie di doni di paramenti liturgici che in seguito Pio VIII inviò a Cingoli e che comprende due zucchetti, un camice ornato di merletti a fuselli del Settecento, una veste talare con mantellina in 246 Gabriele Barucca Lorem ipsum dolor sit amet, consectetuer Pietro Paolo Spagna, servizio per aspersione damasco bianco, un paio di guanti e due paia di scarpe pontificali, ancora custoditi in cattedrale, nonché uno splendido parato in raso bianco con ricami in oro composto da una pianeta, due tonacelle, stole e manipoli fregiati con lo stemma pontificio, fatto recapitare alla chiesa di Sant’Esuperanzio.27 Sono databili agli anni in cui Castiglioni era cardinale anche alcuni pezzi che, secondo quanto afferma Malazampa, pervennero nel tesoro della cattedrale per lascito della famiglia, dopo la morte del pontefice. Il primo e più spettacolare di questi oggetti è una monumentale mazza cerimoniale, che doveva probabilmente servire per essere portata da un mazziere al seguito del cardinale in occasione delle processioni solenni. Malazampa afferma che la mazza fu donata al Castiglioni da Giuseppe Andrea Albani, potente cardinale che peraltro ebbe un ruolo decisivo per l’elezione di papa Castiglioni, che a sua volta lo ricompensò con la nomina a Segretario di Stato. La struttura dell’oggetto è in lamina sbalzata d’argento di titolo inferiore, mentre le decorazioni sono in bronzo fuso e dorato. Alla sommità siede su un basamento circolare un putto alato, recante uno scudo con lo Bottega orafa degli Spagna, fornimento di sei candelieri con la croce d’altare stemma di papa Pio VII. Al di sotto si sviluppa un elemento a forma di vaso a balaustro di gusto neoclassico scompartito al centro da una fascia decorata da scanalature, che definisce un gradino su cui siedono le tre figure dorate a tutto tondo delle Virtù teologali. La pancia del grande vaso è decorata da applicazioni bronzee costituite da festoni vegetali e nastri che scandiscono tre scudi con lo stemma cardinalizio del Castiglioni. Cespi di foglie d’acanto, collarini fitomorfi e nastri pendenti da testine di cherubini completano la decorazione del vaso e del sottostante fusto, che funge da impugnatura della mazza. La presenza sull’oggetto degli stemmi di Castiglioni, timbrato con le insegne cardinalizie di cui si poteva fregiare a partire dal 1816, e di papa Chiaramonti, morto nel 1823, segna gli estremi cronologici entro i quali va datata la mazza processionale. Appartennero certamente al cardinale Castiglioni, seppur prive delle sue insegne, altre suppellettili sacre di grande qualità che probabilmente furono do- CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA 247 Pietro Paolo Spagna, servizio per pontificale nate alla cattedrale dopo la sua morte. Il primo pezzo è un piccolo vaso per la purificazione in argento dorato, che serviva al sacerdote per detergere le dita ogniqualvolta toccava extra missam le particole eucaristiche.28 Il contenitore, chiuso da un coperchio e poggiante su un vassoio, è alzato su una base circolare e ha due manici costituiti da una foglia ricurva nascente dalla base della coppa; il coperchio è rialzato, con scanalature sulla fascia montante, ed ha per pomolo un putto alato in piedi su una placca a fusione con un delizioso prato fiorito. Un cespo di foglie lanceolate cinge alla base la coppa, mentre lungo il ciglio e sulla modanatura del piede gira un serto di alloro. Il vassoietto circolare si orna di una cornice a losanghe lungo il ciglio e presenta volute fitomorfe a segnare il cavetto per alloggiare il piede del contenitore. Quest’opera, di eccelsa fattura, ha impresso il bollo corrispondente a quello assegnato nel 1815 a Roberto Tombesi, che lo usò fino al 1822, anno della sua morte. Questo argentiere, nato a Mon- tepulciano nel 1765, ottenne la patente di maestro a Roma nel 1801 e prima di aprire una bottega in proprio era stato dal 1785 al 1792 capo-lavorante nella celeberrima bottega di Giuseppe Valadier. È legato al Valadier, essendone cognato, anche Giuseppe Spagna, a capo della bottega orafa a cui andarono certamente le preferenze dello stesso Castiglioni, che ne divenne il più prestigioso e affezionato cliente. Gli Spagna erano un vera e propria dinastia, che aveva profonde radici nella storia dell’oreficeria romana. 248 Pietro Paolo Spagna, calice In quegli anni era protagonista Giuseppe (III) che nel 1791 aveva ereditata dal padre Paolo la patente di maestro. Di lui si sa che all’inizio della carriera era subentrato nella bottega paterna in via del Pellegrino, e in seguito si era trasferito in via del Corso dove rimase ad abitare fino al 1811. L’anno seguente passò a dirigere proprio la bottega del cognato Giuseppe Valadier in via del Babuino. Bottega che insieme al figlio Pietro Paolo rilevò ufficialmente nel 1817. In quello stesso anno rinunziò alla patente in favore del figlio pur restando attivo fino alla mor- Gabriele Barucca te, avvenuta nel 1839, e lasciando che le opere fossero bollate col marchio di Pietro Paolo. Questo naturalmente rende estremamente difficile distinguere le opere di padre e figlio. Sono punzonati appunto col marchio corrispondente a quello di Pietro Paolo Spagna altri due pezzi inediti che credo siano giunti nel tesoro del duomo cingolano o come dono del Castiglioni quando era ancora cardinale o come lascito della famiglia dopo la sua morte. Si tratta di una pisside29 e di un servizio per aspersione,30 entrambi in argento dorato e privi dello stemma papale, a suggerire appunto che la donazione sia avvenuta negli anni precedenti l’ascesa al soglio pontificio. In ogni caso sono oggetti di squisita raffinatezza che confermano l’elegante eclettismo della produzione della bottega diretta da Pietro Paolo Spagna. La struttura estremamente controllata sia della pisside sia del secchiello è impreziosita dal repertorio ornamentale che accosta alle foglie lanceolate e ai serti di alloro ancora di sapore neoclassico, naturalistici cespi di foglie d’acanto e cornici percorse da rigogliosi girali, motivi eseguiti con straordinaria perizia tecnica a conferma della fama e del prestigio goduti da questa bottega orafa romana. Il 31 marzo 1829, Francesco Saverio Castiglioni, venne eletto papa e assunse il nome di Pio VIII. Nello stesso giorno scrisse una lettera ai fratelli Bernardo Arcidiacono, Alessandro e Filippo con la quale comunicava che “L’immensa Misericordia e Bontà di Dio ci ha oggi scelti a sedere sulla Cattedra di S. Pietro” ma contestualmente si preoccupò anche di far pervenire attraverso monsignor Paolo Polidori, segretario del Conclave, la notizia della sua elevazione al pontificato sia al Gonfaloniere e Anziani di Cingoli sia al Capitolo e Canonici della Cattedrale di Cingoli, segno della sua costante attenzione verso la città d’origine.31 Il 10 giugno 1829, dopo nemmeno quattro mesi dall’elezione, è documentato il primo dono di papa Castiglioni alla cattedrale cingolana. Si trattava di un fornimento di sei candelieri con la croce in bronzo dorato, destinati all’altare maggiore. Gli arredi mostrano un basamento alzato su piedini a zampa leonina, con facce trapezoidali dove compaiono, profilati da una perlinatura, lo stemma papale, l’immagine della Vergine Assunta in cielo, quella di sant’Esuperanzio e l’iscrizione dedicatoria: “PIVS. VIII.P.M./TEMP. PRIN.CINGVL./PIGNVS.AMORIS./ PONT.AN.I”. Il fusto, scandito da un nodo centrale decorato da testine angeliche da cui si dipartono festoni fitomorfi, presenta una struttura e un repertorio ornamentale tipico della produzione orafa di quegli anni in cui foglie di alloro e di ulivo, perlinature, rosette segnano i punti di innesto dei nodi e i profili della base, costituendo un insieme che pur denotando un’attenzione al lessico neoclassico non rinuncia a una profusione decorativa di gusto ancora tardo barocco. Il fornimento d’altare cingolano ha un prototipo in quello eseguito per la chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma nel 1825, che a sua volta replicava con i dovuti aggiornamenti neoclassici, la muta d’altare secentesca con lo stemma di casa Borghese, conservato nella stessa Basilica romana. Dati i confronti stringenti, sia per l’identità delle misure sia per la stessa qualità esecutiva, tra il fornimento cingolano e quello del 1825, documentato come opera di Giuseppe (III) Spagna, è stata giustamente avanzata l’ipotesi che si tratti dell’opera della stessa bottega orafa.32 È certamente opera degli Spagna il calice dorato, recante impresso il marchio di Pietro Paolo Spagna e lo stemma papale inciso sotto la base, che Pio VIII inviò alla cattedrale cingolana contestualmente alla muta d’altare o poco dopo.33 Nel calice la raffinatissi- CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA Bottega orafa degli Spagna, Rosa d’oro e particolare ma qualità dell’esecuzione esalta le forme improntate al gusto tutto romano degli anni della Restaurazione per un classicismo già venato da inflessioni neorinascimentali e neobarocche. Questo modello di calice con figure a tutto tondo sulla base – siano queste le allegorie delle Virtù teologali, i profeti, i padri della Chiesa o, come nel calice di Pio VIII, gli angeli con i simboli della Passione –, inventato dagli Spagna e replicato con varianti nella loro bottega in numerosi esemplari, trovò larghissimo seguito fra gli argentieri romani e poi di tutta Italia nel secondo quarto dell’Ottocento, caratterizzando una precisa corrente di gusto. A questi pezzi appositamente commissionati per la cattedrale cingolana dopo l’ascesa al soglio pontificio Pio VIII volle aggiungere un dono che doveva esser- 249 gli particolarmente caro. Si tratta di un magnifico servizio per pontificale non omogeneo composto da un calice con la patena, due ampolline col relativo vassoietto, un campanello, una palmatoria e un porta ostie. Tranne quest’ultimo pezzo, che reca impresso il bollo usato dall’argentiere romano Matteo Chiocca nel suo primo periodo di attività fino all’incirca al 1808, gli altri oggetti del servizio sono marchiati da Pietro Paolo Spagna. Sono molto eleganti le ampolline di forme squisitamente neoclassiche, mentre è spettacolare il calice che svilup- 250 Gabriele Barucca pa il tema della Passione di Cristo nelle scene lavorate con straordinaria maestria nei dischetti applicati nel nodo e nel sottocoppa e nei grandi medaglioni ovali, uniti da un festone e fissati quasi in perpendicolare sulla base. Peraltro un’iscrizione incisa al di sotto del piede del calice consente di datarlo e di conoscere la circostanza della sua realizzazione. Si legge infatti: “PIVS. VIII. D.D. AEDI BAPTISMATIS. SVI CALICEM QVO. CARDINALIS CONSECRANS. XX EPISCOPOS. FECIT. DEO”. Era dunque il suo calice personale, realizzato nella bottega degli Spagna intorno al 1820 in occasione del ventesimo anniversario della sua nomina a vescovo, avvenuta nel 1800 quando all’età di soli trentotto anni Pio VII lo assegnò alla cattedra di Montalto. Intendendo far recapitare il calice e gli altri pezzi del servizio per pontificale alla chiesa dove era stato battezzato, Pio VIII fece realizzare un apposito bauletto, dove ancora si conservano, rivestito in pelle marrone con le insegne papali impresse in oro sul coperchio. Ma il dono più prestigioso che il papa cingolano fece al Capitolo della sua città natale è certamente la rosa d’oro. Questa preziosa onorificenza il 21 marzo 1830, IV domenica di Quaresima, fu solennemente consegnata alla cattedrale di Cingoli da monsignor Filippo Appignanesi, su incarico dello stesso Pio VIII, che accompagnò il dono con una sua lettera in cui spiegava il significato che intendeva dare a questo oggetto “Simbolo di Cristo Re dei Re, e Signore dei dominanti” espresso dalla purezza dell’oro e dal crisma della consacrazione. Il papa fece inoltre allegare un fascicolo, datato 15 aprile 1830, in cui erano contenute le indicazioni precise riguardo alla cerimonia da svolgersi a Cingoli in occasione della consegna della rosa d’oro, che su suo suggerimento doveva poi essere custodita nel monastero di Santa Caterina.34 Lo splendido og- getto35 è costituito da una cespo di rose, montato su un vaso, foggiato ad anfora, e su un basamento a sezione triangolare. Il tutto poggia, mediante tre piedini a disco, su un gradino liscio, che funge da supporto al basamento. Questo elemento in bronzo dorato presenta tre zampe leonine desinenti a voluta fogliacea alla base, spigoli smussati percorsi da festoni, e le raffigurazioni delle Virtù teologali, Fede, Speranza e Carità sulle tre facce. Dal bordo superiore del basamento, caratterizzato negli smussi angolari da tre teste di caprone, si diparte poi un ulteriore piedistallo su cui poggia un vaso, finemente decorato nella parte inferiore da un cespo di foglie d’acanto e, nel corpo centrale, da una cornice a girali e da festoni fogliacei pendenti da due protomi leonine. Dalla bocca del vaso, adorna tutt’intorno di palmette stilizzate, esce il cespo di rose. I fiori sono imitati con perfetta verosimiglianza, tutti in oro laminato sottile, con le foglie assai fitte. Le rose sono tredici: quella alla sommità ha una teca interna chiusa da un piccolo coperchio bucherellato che serviva per sprigionare profumi, le altre dodici, uguali, sono più piccole. Pare volessero significare Cristo e gli apostoli. Sulle foglie del cespo di rose si rilevano due bolli a garanzia della bontà superiore dell’oro a ventidue carati. La presenza di questi bolli non è usuale, visto che di regola non venivano mai bollate le oreficerie di provenienza papale. Quanto all’autore del raffinatissimo oggetto, data la mancanza di marchi personali, non è possibile avere certezze. Andrà comunque ricercato nell’ambito degli orafi ufficiali della corte pontificia, a cui venivano tradizionalmente affidati gli incarichi per l’esecuzione di queste particolarissime onorificenze. Comunque è logico supporre che anche questo spettacolare oggetto sia stato realizzato nella bottega orafa di Giuseppe e Pietro Paolo Spagna, a cui Pio VIII, come s’è Bottega orafa romana, calice visto, era solito rivolgersi per commissionare le preziose suppellettili sacre. Nel corso dell’Ottocento il tesoro si arricchirà poi di altri arredi sacri però di una qualità non paragonabile a quella degli oggetti finora descritti. L’unico pezzo che merita di essere citato è un bel calice d’argento con angeli a tutto tondo seduti sulla base e in piedi sul nodo centrale del fusto, recanti i simboli della Passione.36 Il calice venne lasciato per testamento da monsignor Luigi Bruschetti, morto nel 1881. Nato nel 1826 a Villa Strada, nel Comune di Cingoli, Bruschetti ebbe prestigiosi incarichi diplomatici per la curia romana, fino ad essere elevato a vescovo titolare di Abido nel 1876.37 CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA 251 NOTE Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, pp. 1-5. Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, pp. 3-4. 3 B. Montevecchi, scheda 54, in Ori e argenti 2001, pp. 148-149, con bibliografia precedente. 4 ASDC, busta 997. Sul verso del foglio si legge: “Nel nome di Dio. Amen. Questa è una pubblica, ed autentica copia della parte anteriore/della Croce Stazionale, di cui fassi uso nelle pubbliche Processioni dal R(everendissi)mo Capitolo, e/clero della Cattedrale di Cingoli, la qual Croce e tutta ricoperta di lastra di Argento,/e le figure che in essa si vedono sono impresse col Bolino, e questa Copia confron=/ ta diligentemente, e nelle più minute parti è uniforme col suo Originale, siccome à/ciaschuno è visibile. In Fede di che ne hò fatta la presente dichiarazione inscrita/ col mio publico segno di notaio. Cingoli questo dì 24. Agosto 1770./Così a Gian Francesco Torretani notaro publico Collegiale di Cingoli rogato.” 5 Montagu 2009. 6 Montagu 2007, p. 13. 7 Riccio di pastorale in argento, altezza 32 cm. 8 J. Montagu, scheda 4, in Ori e argento 2007, p. 218, con il riferimento archivistico. Montagu 2009, pp. 402-403. 9 Montagu 2009, p. 402. 10 Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1777, p. 174. 11 Montagu 2009, p. 385. 12 Calice in argento, altezza 27 cm, diametro del piede 14,2 cm, diametro dell’orlo della coppa 9,3 cm. 13 J. Montagu, scheda 8, in Ori e argento 2007, p. 219; Montagu 2009, pp. 107109. 14 Ostensorio raggiato in argento, altezza 66 cm. 15 S. Bini, J. Montagu, scheda 9, in Ori e argento 2007, p. 219, con il riferimento archivistico. 16 Montagu 2009, p. 381. 17 Montagu 2009, p. 369. 18 Montagu 2009, p. 407. 19 Montagu 2009, p. 266. 20 S. Bini, J. Montagu, scheda 9, in Ori e argento 2007, p. 219. 21 Braccio reliquiario in argento con anima in legno, altezza 51 cm. Vedi G. Barucca, scheda 126, in Ori e argenti 2001, p. 229. 1 2 S. Bini, scheda 17, in Ori e argento 2007, pp. 221-222, con bibliografia precedente. 23 Ostensorio raggiato in argento. Altezza 73,5 cm. In una cartella della base è incisa la seguente iscrizione: “Ob Immunitatem officiorum sibi indultam D. Anna Teresia Castiglioni dono dedit ann 1752”. 24 Navicella in argento. Altezza 16,6 cm, diametro del piede 9,2 cm. Intorno alla valva fissa del coperchio è incisa la scritta: “Ecclesiae Cingulanae anno MDCCLXXVI Capitulum Cathedralis”. 25 Calice d’argento, altezza 27 cm, diametro dell’orlo della coppa 9 cm, diametro della base 15cm. Iscrizione:”G S R E Praes Card Calcagnini Episc Auxim MDCCXCIV”. 26 Malazampa 1939, pp. 24-25. 27 Peri 1992, s.p. 28 Guglielmo Malazampa inserendo questo servizio da purificazione tra gli oggetti donati alla cattedrale cingolana dalla famiglia Castiglioni dopo la morte di Pio VIII, lo definisce: “Tazza con piattino e coperchio di argento, sormontato da un angelo di metallo dorato”. Malazampa 1939, p. 25. 29 Pisside in argento dorato, altezza 24 cm, diametro del piede 8,5 cm, diametro dell’orlo della coppa 8,5 cm. 30 Servizio per aspersione composto da aspersorio e secchiello per l’acqua benedetta in argento dorato. Secchiello, altezza 13,5 cm, diametro del piede 8 cm, diametro dell’orlo della coppa 15 cm. 31 Pennacchioni 1994, pp. 189-192. 32 Nardinocchi 1992, s. p. 33 Calice in argento dorato, altezza 31 cm, diametro del piede 13 cm, diametro dell’orlo della coppa 8 cm. Vedi G. Barucca, scheda 145, in Ori e argenti 2001, p. 249, con bibliografia precedente. 34 Pennacchioni 1994, pp. 234-245. 35 Rosa d’oro, altezza 102 cm. Vedi G. Barucca, scheda 146, in Ori e argenti 2001, p. 252, con bibliografia precedente. 36 Calice in argento, altezza 32 cm, diametro del piede 14 cm, diametro dell’orlo della coppa 9 cm. Al di sotto del piede è incisa la seguente iscrizione: “Ex-Legato Aloisii Bruschetti episcopi Abidensis qui decessit sexto Kal nov: MDCCCXXXI” 37 Malazampa 1925, pp. 18-19. 22 Treia Pagine precedenti: Gloria di angeli, stucco, trabeazione del presbiterio TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA 255 LA STORIA RELIGIOSA DELLA CONCATTEDRALE DI TREIA Egidio Pietrella Dalla antica “pieve di S. Maria de Trea” alla “collegiata” di Montecchio La romana Trea (uno dei distretti prefettizi dell’agro piceno costituiti con la conquista romana del 268 a.C. e dalla metà del 1° secolo a. C. municipio a costituzione duovirale, ascritto alla tribù “Velina”), era ubicata sul pianoro dell’attuale contrada del Santissimo Crocifisso. Anche se non possediamo una documentazione esplicita, ratione analogiae con gli altri centri romani raggiunti presto dalla predicazione evangelica, Trea pure ricevette ben presto il cristianesimo e si può supporre che sia stata anche sede vescovile. Fu distrutta da Alarico nel 404; seguirono poi la guerra greco-gotica e il grave dominio bisecolare dei Longobardi. Tutti questi sconvolgimenti provocarono, come in altri centri limitrofi del Piceno, distruzioni e inesorabile decadenza che, per la nostra città, raggiunse il culmine verso la fine del sec. VII - inizio sec. VIII. I centri cristiani che avevano perduto la sede vescovile furono affidati alla guida dei vescovadi superstiti: Trea fu sotto la giurisdizione dei vescovi di Camerino. Successivamente Saraceni e Ungari ne accentuarono il declino. Con l’arrivo dei Franchi, in seguito alle ripetute donazione effettuate a favore del patrimonio di San Pietro, Trea passò sotto il potere temporale dei Papi.1 Tra le rovine dell’antica Trea sorse nell’alto medioevo (VII-VIII sec.) la “pieve”, che, secondo il Turchi2 sarebbe stata la prima cattedrale, ma certamente elemento principale di aggregazione, conti- Lapide dedicatoria del vescovo Cosimo Torelli, in ricordo del Sinodo del 1726 nuità e frequentazione dell’antico luogo romano e a cui gli storici locali3 dànno il titolo di “Santa Maria”, mentre più recentemente Fabrini la chiama “Ecclesia Sancti Johannis plebis de Trea”, fondandosi su una pergamena del 1157, dove, tra l’altro, riapparirebbe per la prima volta in epoca post- romana il nome antico di Trea. La medesima studiosa sostiene - in base a documenti da lei citati - che negli anni 1268-1275 coesistono la pieve di San Giovanni a Trea e la pieve di Santa Maria in Montecchio, nome della nuova Trea, costituitasi sul vicino “piccolo monte”; ma sul finire del sec. XIII e per tutto il sec. XIV ed oltre, la pieve di Santa Maria di Montecchio, con pievano e canonici, documentati sin dal 1272 (che sarebbe la più antica data che testimonia l’esistenza della pieve di Montecchio) si afferma sempre più come la chiesa urbana principale, ovvero “collegiata”; mentre quella di “S. Giovanni de Trea” va incontro ad una più o meno graduale irreversibile decadenza.4 Tradizionalmente si sostiene, in base alla citata iscrizione, secondo cui nel “1460 fu costruita la domus dedicata a San Gio- 256 Egidio Pietrella restauri: nel 1304; 1545; 1732. L’importanza che essa aveva acquisito si deduce dal fatto che fu sede nei giorni 2-3-4 giugno 1726 di un sinodo della diocesi di Camerino, come risulta da un’epigrafe fatta scolpire dal collegio dei canonici:5 “D. O. M. / Cosmo Torelli Episcopo Meritiss./Ob Dioeces. Sinodum / In hac insigni Collegiata / Trid. ante Non. Jun. celebr. / A. MDCCXXVI/Archip. et Can. M. PP.” L’edificio sacro, rivolto verso occidente, aveva tre navate, la maggiore delle quali terminava con l’altare maggiore e il coro composto di quattordici seggi. Conteneva sette cappelle: due ai lati del coro; tre nella navata in cornu evangelii (dedicate all’Immacolata; alla Vergine del Rosario; a San Rocco); due in cornu epistolae (Cristo deposto dalla croce; S. Anna e sua figlia Maria). I titoli cui erano dedicate informano ovviamente sul culto e le devozioni allora praticate in essa. Era dotata di sagrestia, di fonte battesimale e di torre campanaria costruita nel 1459, sotto la reggenza del pievano Giacomo de Nigris, che è quella tuttora esistente. In questa chiesa tenne sacra predicazione il celebre San Leonardo da Porto Maurizio, che, secondo la tradizione, parlando al popolo nella piazza maggiore, rimase a lungo elevato in alto.6 Luigi Romagnoli, Annunciazione, da Guido Reni vanni, il quale battezzò Cristo, e il dottore e superiore De Nigris di Montecchio diede il fonte battesimale”, che solo in quell’anno sia stato trasferito il battistero nella chiesa “collegiata” di Montecchio. Nonostante le diverse interpretazioni sul titolo, la chiesa urbana di Montecchio era ormai emergente e soppiantava la pieve antica dell’ex area romana; era de facto una “collegiata”, costituita cioè nei suoi membri da un “collegio” di presbiteri che conducevano una vita comune, presieduto da un superiore (canonico). Tale collegiata ebbe vari ampliamenti e Dalla collegiata alla cattedrale della Santissima Vergine Annunziata (1782-1814) Nella metà del Settecento era giunto il tempo di dare alla chiesa collegiata una struttura migliore e più ampia. Con il consenso del papa Pio VI (che fu generoso di sussidi materiali per l’erigenda nuova chiesa), la prima pietra fu posta il 29 marzo 1782 e ne fu architetto Andrea Vici, di Arcevia, discepolo di Vanvitelli. Tutto il popolo contribuì generosamente con offerte alla sua costruzione, e lo stesso san Benedetto Giuseppe Labre, nei TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA suoi frequenti passaggi nella città di Treia durante i pellegrinaggi a Loreto, trasportò di persona i mattoni per la su edificazione. Ma i tempi si fecero lunghi per la sua definitiva costruzione. Nel frattempo un fatto veramente notevole riguardò Treia. Infatti, il 2 luglio 1790 con la bolla Enixum animi nostri studium il papa Pio VI conferì a Montecchio il titolo di città, restituendo ad essa l’antico nome di Treia. Varie e ripetute richieste i Treiesi avevano avanzato ai papi a questo fine. Nel 1785 essi eressero nella piazza maggiore della città un tempietto destinato a contenere un busto di bronzo di Pio VI, modellato dal romano Tommaso Righi e fuso in bronzo dal treiese Antonio Calamanti. All’inaugurazione si accompagnarono tre giorni di festeggiamenti. La bolla dell’erezione a titolo di città sintetizzava la storia di Treia: dall’antica sede romana - vi si legge - gli abitanti fuggirono sul vicino colle di Montecchio, che progressivamente giunse a tale rinomanza da essere annoverata tra le più importanti città della Provincia Picena. Gli abitanti ammontano ora a 7000 unità; numerosi edifici pubblici e privati l’adornano, e vi si trovano molte nobili famiglie; il territorio è vasto, il clima è clemente. La Bolla così continua: “Accresce particolarmente il decoro del Castello [di Montecchio] l’insigne chiesa collegiata, dedicata all’Annunciazione della Beata Vergine Maria e a San Giovanni Battista, prima del XII secolo dell’era volgare, istituita nello stesso tempo come si tramanda; in essa si tenne anche il Sinodo Diocesano nell’anno 1726, e oltre la Dignità di un arciprete attendono assiduamente al culto divino quattordici canonici, ornati di mozzetta violacea e di rocchetto, fra i quali uno adempie ai doveri di penitenziere e un altro di teologo e alcuni mansionari addetti al tempio. Tre sono le parrocchie nel Castello [e verosimilmente: la colle- 257 Romano Miccinelli, Madonna della Misericordia giata dell’Annunziata, la Prepositura di San Michele Arcangelo, la Curia Priorale di San Giacomo e di Sant’ Egidio, unite insieme] e i Rettori di esse si occupano della cura delle anime; nella campagna sono quattro le chiese parrocchiali. In esso si contano quattro case di religiosi regolari [e cioè i Minori Conventuali, i Minori Osservanti Riformati, i Cappuccini, Agostiniani] e un’altra dei Presbiteri della Congregazione dell’Oratorio di S. Filippo Neri e due monasteri femminili [delle monache Benedettine e delle Clarisse]. Inoltre, sono stati istituiti ospedali 258 Egidio Pietrella Pietro Tenerani, busto di Pio VII La sacrestia per i malati, i derelitti, i pellegrini e la pia casa del Monte di Pietà e le altre dei Monti Frumentari per il sollievo dei poveri e ultimamente una Casa di Correzione per i giovani. Non mancano svariati sodalizi di laici per svolgere opere pie, istituiti in forma regolare…non da molto tempo sono stati aperti a tutti pubblici ginnasi letterari e quattro cattedre dalle quali si insegnano le scienze superiori…sono in vigore anche università delle arti e fabbriche di tele di lino e di cotone erette da noi per mezzo delle Lettere Apostoliche del 15 settembre 1781.”7 Come si legge, Il testo presenta un importante quadro generale della situazione religiosa, culturale e sociale della città. Finalmente, dopo circa trenta anni, la nuova chiesa fu portata a termine nel 1814; fu benedetta l’11 aprile, domenica delle Palme e solennemente consacrata il 29 settembre 1814 da Vincenzo Maria Strambi vescovo di Macerata e Tolentino. Una lapide in stile solenne ne tramanda debita memoria:“Ciò che i pubblici voti auspicavano / Treia / perché restasse memoria visibile/della sua pietà e venerazione / verso Maria Santissima Madre di Dio, / rimossa l’antica chiesa consacrata al medesimo Nome, / dedicò un secondo tempio/elevato con un meraviglioso e ampio sopraelevato piano dell’abside / e riedificato dal suolo, / alla Vergine grande Madre / il tre aprile 1814 / nella domenica della Settimana santa”. La chiesa è dedicata alla Vergine Annunziata, la cui immagine, copia dell’originale dipinto di Guido Reni in Roma (Quirinale), sovrasta ora l’altare maggiore. L’edificio ha un’ampia cubatura e una notevole capienza. Esso, oltre l’altare maggiore aveva (ed ha) cinque cappelle, con gli stessi titolari (di allora), salve alcune modifiche anche nella struttura e nei monumenti aggiunti. A partire dal fondo della navata destra, la prima cappella è dedicata alla Madonna del Rosario con i misteri raffigurati all’intorno. Proseguendo si incontra la cappella della Madonna della Misericordia, dipinta da Romano Miccinelli, che fu incoronata dal papa Pio VII di ritorno dall’esilio napoleonico nel santuario di San Nicola di Tolentino il 17 maggio del 1814. Presso l’altare si ammira il busto del pontefice, opera di Pietro Tenerani, scultore neoclassico allievo del Canova. Dell’evento la seguente epigrafe, tradotta in italiano dice: “A Pio VII Pontefice Massimo,/protettore, difensore invitto e martire della fede cristiana,/nel suo ritorno a Roma dalla prigionia al trionfo,/che sostando a Tolentino il 17 maggio 1814/incoronò con serto aureo la sublime immagine della Vergine Madre di Dio,/venerata in questo tempio principale con il titolo della Misericordia/ed accrebbe verso di Lei il culto perenne/i canonici, l’autorità e il popolo di Treia/posero”. La devozione e la riconoscenza dei Treiesi al papa Pio VII furono motivate soprattutto dalla concessione tanto attesa della diocesi e della conseguente elevazione della collegiata a cattedrale, provvedimento che fu stabilito mediante la bolla TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA Il coro ligneo Cappella del Preziosissimo Sangue Pervetustam locorum originem dell’8 febbraio del 1816; che la unì aeque principaliter a Camerino, e non a San Severino come si desiderava. Una epigrafe voluta dal cardinale Grimaldi attesta il fatto tanto atteso: “A Pio VII Pontefice Massimo/che ha ristabilito la sede episcopale di Treia/Il cardinale Nicola Grimaldi pose/nell’anno 1834”. Presso l’altare si conserva anche il busto del papa marchigiano Sisto V che aveva avuto intenzione di restituire a Treia la diocesi, ma vanamente per le discordie degli stessi abitanti. Una lapide fatta apporre dal cardinale Grimaldi ricorda la benevolenza del papa marchigiano con queste parole tradotte in italiano: “A Sisto V Pontefice Massimo/per i grandissimi meriti verso la città e i cittadini/ Nicola Grimaldi di Treia/Governatore di Roma e Camerlengo della santa Chiesa di Roma/dedicò nell’anno 1833”. Il terzo altare proseguendo sempre nella navata di destra è dedicato ora al Sacro Cuore (il cui culto si intensificò soprat- tutto nell’800 e quindi fu introdotto successivamente), mentre allora era dedicato a Sant’ Anna, madre della Madonna. In fondo alla navata si entra nella sagrestia, vero scrigno di tesori d’arte. Dalla sagrestia si accede al Coro dell’emiciclo absidale, opera come anche i dieci portoni dell’edificio, di pregiata falegnameria locale realizzata nel 1813. Gli inginocchiatoi ai lati dell’altare maggiore provengono dal vecchio convento dei padri Agostiniani. La balaustra in ferro battuto e i pomelli di ottone delimitanti il presbiterio furono eseguiti all’inizio dell’ ‘800. In alto, sulla parete nord del presbiterio era collocato l’organo di Gaetano Callido del secolo XVIII. Dal coro si passa a sinistra alla cappella del Preziosissimo Sangue, dove nell’arca sottostante l’altare si conserva il simulacro del Cristo Morto, donato alla cattedrale il 15 marzo 1884 da Pietro Testa, utilizzato nella liturgia del venerdì santo. Avanzando nella navata di sinistra, si incontra la cappella della Madonna della 259 Colonna, già dell’antica collegiata (sec. XV). Le statue di San Pietro e San Paolo, di marmo statuario, opera dello scultore Andrea Bregno (1418-1506), provenienti dall’antica basilica costaniniana di San Pietro in Roma, fiancheggiano il monumento in onore del cardinale treiese Niccolò Grimaldi (1768-1845), personaggio illustre e munifico benefattore di Treia e della sua cattedrale. Egli ebbe prestigiosi incarichi da Pio VII, Leone XII, Pio VIII e Gregorio XVI, che lo nominò Governatore di Forlì. Una lunga iscrizione ne numera le benemerenze con queste parole tradotte dal latino: “A Nicola Grimaldi uomo eccellentissimo/Governatore di Forlì/poiché/il tempio episcopale della Chiesa di Treia,/la cui realizzazione dell’opera fin dall’inizio della sua costruzione/quando ancora viveva in patria da privato cittadino,/(e) nella carica pubblica di Governatore/sosteneva e spronava;/ scelto tra i vescovi della città di Roma,/ sebbene dedito attivamente ad impegni importantissimi/a lui affidati dai Sommi Pontefici Pio VII Leone XII Pio VIII Gregorio XVI,/tuttavia mai dimenticò/e ornò con pietoso zelo di munificenza mediante pregevoli statue di Sisto V e di Pio VII/ultimamente poi con la statua argentea di San Patrizio vescovo Patrono Celeste/i canonici di Treia/in memoria di così grandi benefici/dedicarono al grandissimo cittadino/nell’anno 1838”. Proseguendo verso l’uscita, si incontra l’altare del Santissimo Sacramento, opera del sec.XVII, acquistata dai Padri Agostiniani di Sant’ Angelo in Pontano e, restaurata, collocata qui il 17 dicembre 1840. L’ultima cappella era (ed è) dedicata a san Rocco, la cui statua e il quadro sono stati nel frattempo trasferiti altrove per custodire nella cappella la statua di san Patrizio patrono della città. Come si può osservare, pochi sono stati i mutamenti verificatisi nella planime- 260 Egidio Pietrella Cenotafio del cardinale Nicolò Grimaldi Lapide in onore del cardinale Nicolò Grimaldi, 1838 Monumento funebre di Grimaldo Grimaldi tria e nella titolazione delle cappelle; essi sono stati introdotti in base allo sviluppo delle devozioni e al verificarsi di eventi e dell’opera dei personaggi successivi alla originaria costruzione. L’edificio sacro è fornito anche di una ampia cripta alta circa sei metri, con una superficie pari alla metà della chiesa superiore.8 Il restauro della chiesa per iniziativa del Capitolo della cattedrale fu eseguito nel 1875, come si legge in un’epigrafe tradotta dal latino: “Questo tempio/della Madre di Dio Annunziata/costruito dalle fondamenta dall’architetto Andrea Vici / sul finire del secolo XVIII/e consacrato con rito solenne/da S. Vincenzo Maria Strambi vescovo di Macerata/nell’anno della Redenzione 1814/il Capitolo dei Canonici/restaurò nel 1875”. Nel 1959, su iniziativa del vescovo Ferdinando Longinotti che in quell’anno celebrava il 25° del suo episcopato, il pittore e restauratore professore Turoldo Conconi di Como portò a termine il restauro e la decorazione della chiesa, come testimonia la seguente lapide:“Ferdinando Longinotti/Vescovo di S. Severino/ Amministratore perpetuo della Diocesi di Treia/Nel 25° anno del suo ufficio episcopale/A 100 anni dall’apparizione a Lourdes/della Vergine Immacolata,/alla fine del pontificato di Pio XII/e all’inizio di quello di Giovanni XXIII/fece restaurare egregiamente questo tempio/per opera di Turoldo Conconi di Como./Il Capitolo dei canonici/pose a ricordo perpetuo dell’evento./Anno 1959.” Più recentemente, in seguito al sisma del 1997-98, furono eseguiti lavori di consolidamento e di restauro portati a termine il 22 maggio 2001. zio della cura animarum, e, quindi, con la guida pastorale della parrocchia. Riguardo al Capitolo (della Collegiata e poi Cattedrale) di Montecchio non esistono documenti anteriori al secolo XVI. Si ritiene, tuttavia, che i primordi della sua origine e organizzazione risalgano già all’antica pieve di Trea.9 Nel costituirsi successivamente del nuovo centro collinare di Montecchio, l’originario collegium di presbiteri si trasferì intra moenia, avendo come sede una “canonica” sita in prossimità di una chiesa (chiamata appunto “collegiata”) derivante, come sembra, da due chiese preesistenti, dedicate a San Giovanni Battista e a San Nicola da Bari.10 Da alcuni documenti esistenti nell’Archivio Capitolare e risalenti agli anni 1516-1578; e 1530-1630, e dalla “Scrittura fatta a vantaggio del Capitolo vecchio nell’anno 1810 sull’atto della soppressione del Capitolo nel 1810” da parte del governo napoleonico, redatta da Fortunato Benigni; e dalla “Risposta ai 25 quesiti” proposti dal Benigni al se- Il Capitolo e la parrocchia Alla cattedrale sono connesse la presenza e l’attività liturgica del Capitolo dei Canonici, nella sua triplice funzione di “senato del vescovo”, nella celebrazione quotidiana in maniera corale del culto divino, e con lo svolgimento dell’eserci- TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA 261 Lapide con memoria del restauro della chiesa nel 1959 Lapide con memoria del restauro della chiesa nel 1875 gretario del Capitolo dell’epoca Milone Meloni, “si ricava la fisionomia di un Collegio, costituito già anteriormente alla prima decade del secolo XVI e composto in quest’epoca da sette canonici, compreso il pievano, riuniti intorno alla chiesa detta appunto “collegiata”, tutti con cura d’anime, percettori di decime dai parrocchiani a ciascuno assegnate, con vita, casa e patrimonio comune - presumibilmente di pertinenza della chiesa- certamente fino al 1564, cioè fino al decreto della riforma generale attuata dal Concilio di Trento, che tra l’altro, assicurava ai Capitoli la pienezza di potere nell’amministrazione dei beni propri”.11 Il Capitolo aveva una “Dignità”, prima chiamata “pievano”, poi “arciprete”; dei sei canonici uno nel 1734 ebbe l’ufficio di “penitenziere” e un altro, nel 1754, di “teologo”. Nel corso del tempo, dal 1600 fino al 1800, il numero dei canonici si accrebbe fino a contare quindici membri, e in più un’altra “Dignità”, l’Arcidiacono, istituita nel 1859.12 Il Capitolo fu progressivamente dotato di quattro mansionari; arricchito di benefici e legati pii. Il beneficio di “Sagrestia”, dapprima quale organo del Capitolo, amministrava la “Massa Comune”; poi finì per gestire – tramite un prefetto scelto e gremio Capituli – il complesso dei diritti e doveri dei canonici. Nel 1867 il nuovo Stato Italiano incamerò i beni del Capitolo e soppresse tre canonicati. Statuti, Costituzioni e Decreti relativi al Capitolo sono documentati in un atto notarile del 1543; in un decreto del cardinale Franzoni visitatore apostolico (1670); in un testo manoscritto del 1740; in un altro del 1822; del 1844; del 1905. Altre Costituzioni risalgono al 1930 in un opuscolo a stampa. Secondo l’annuario interdiocesano del 1973, il Capitolo della Cattedrale di Treia era costituito dall’Arcidiacono e da otto canonici e due mansionari. In seguito alla unificazione delle cinque diocesi autonome, nel 1998 il Vescovo Luigi Conti approvò (6.01.1998) un nuovo Statuto. L’unico Capitolo della Cattedrale di Macerata costituito dai canonici provenienti dalle precedenti cattedrali autonome ha un compito prettamente liturgico con l’impegno di partecipare alle solenni liturgie del vescovo e alle feste dei Patroni delle cinque Vicarie. Il ruolo di affiancare il Vescovo nel governo della diocesi è passato al Collegio dei Consultori e al Consiglio Presbiterale diocesano. Al Capitolo spettava anche la cura animarum del territorio, che non si limitava al solo ambito urbano (dove esistevano un tempo l’altra parrocchia della Prepositura di San Michele Arcangelo, e la Prepositura di San Martino vescovo, ben presto annessa alla pieve di Santa Maria, il cui rettore o plebano, era chiamato anche prevosto; quest’ultima chiesa fu abbattuta all’inizio del secolo XIX), ma si estendeva anche nell’ampia campagna circostante. Per questo la parrocchia della Santissima Annunziata della Cattedrale nel secolo XIX subì vari smembramen- 262 Egidio Pietrella Pergamena con la Tabella degli obblighi dell’insigne collegiata di Treia, Archivio Capitolare di Treia ti. Nel 1828 nel borgo di Passo di Treia fu istituita la parrocchia di Sant’ Ubaldo; nella metà dell’800 nella zona detta “Le Breccie” fu creata la parrocchia dei Santi Vito martire e di Patrizio vescovo; nel 1882 fu eretta la parrocchia di Santa Lucia nella zona di Camporota. Il De Mathia nel 1900 elenca sei parrocchie rurali esistenti nel territorio treiese costituenti tre “Curie Foranee”: quella di San Lorenzo, con la parrocchia omonima e quelle dei Santi Angelo e Carlo; di Santa Maria di Paterno; l’altra Curia foranea di Chiesanuova comprendeva la parrocchia dei Santi Vito e Patrizio, di Santa Lucia (Camporota), la cappellania (quasi parrocchia) di Santa Maria in Selva; la terza vicaria foranea era costituita soltanto dalla parrocchia di Sant’ Ubaldo, del medesimo borgo.13 Nel 1973 la parrocchia contava 3200 abitanti; nel 1985, 3.028; nel 2000, 3.953 anime per accorpamento (1986) delle parrocchie di San Michele e di Santa Maria di Paterno. Confraternite Nel corso del tempo la collegiata e poi cattedrale di Treia ha avuto sette confraternite. La Confraternita del Santissimo Sacramento fu eretta all’inizio del secolo XVI, per promuovere il culto all’Eucaristia; nel 1537 fu aggregata all’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento di S. Maria sopra Minerva. Gestiva anche un monte di pietà. La Confraternita del Santo Rosario fu eretta nel 1594. La Confraternita di San Giuseppe fu istituita – su richiesta dei falegnami – nel 1639. Dalla Collegiata fu trasferita successivamente in altra sede. La Confraternita del Preziosissimo Sangue di nostro Signore Gesù Cristo fu eretta in cattedrale alla fine del sec. XVIII per promuovere nei fedeli la venerazione verso la Passione e la morte del Redentore; fu aggregata all’Arciconfraternita della Basilica di San Nicola in Roma. Nella cattedrale aveva la sua cappella con il giuspatronato il Capitolo, con un canonico Priore. La Confraternita della Beata Vergine Maria della Misericordia fu eretta nel 1728 ed è legata alla venerazione dell’ immagine della Madonna della Misericordia, insigne per fama di miracoli e per frequenza di popolo. E’ invocata anche per ottenere una buona morte. La sacra immagine fu incoronata dal papa Pio VII il 17 maggio 1814 in Tolentino nella Basilica di San Nicola; ed ebbe la Messa e l’ufficio propri nell’anniversario dell’Incoronazione. La confraternita fu associata a quella degli Agonizzanti fruendo di numerose indulgenze. La confraternita della Beata Vergine del Suffragio eretta nel 1696, aggregata nel 1718 alla Congregazione della Santissima Trinità per la redenzione degli schiavi, in un primo tempo ebbe la sede nella collegiata; poi fu trasferita altrove. La confraternita di Sant’ Antonio di Padova fu eretta nel secolo XIX. Nel 1798 sotto il periodo napoleonico furono abolite le confraternite di Sant’ Antonio di Padova; di Santa Maria Maggiore, di Santa Maria della Misericordia, di Santa Maria del Suffragio, di Santa Maria Assunta in cielo, di Santa Maria del Buon Consiglio.14 Attualmente sono attive cinque Confraternite: del Preziosissimo Sangue; del TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA Santissimo Sacramento; del Santissimo Crocifisso; della Misericordia; della Madonna del Buon Consiglio.15 Personaggi ed eventi principali Treia vanta personaggi illustri: tra i tanti si ricordano, non solo Carlo Didimi (1798-1877) di nobile famiglia, grande campione nel gioco del bracciale (cantato da Giacomo Leopardi nell’ode Ad un vincitore nel gioco del pallone) ed anche esponente convinto e attivo del Risorgimento secondo l’ispirazione mazziniana); ma soprattutto il padre Ilario Altobelli (1560-1637) dei Francescani Conventuali, religioso dotto e pio, dedito all’arte oratoria, allo studio delle lingue e delle scienze matematiche e fisiche; il gesuita Luigi Lanzi, nato a Treia nel 1732 ed ivi vissuto fino a dodici anni, archeologo, filologo, storico dell’arte; Bartolomeo Vignati, fondatore dell’Accademia letteraria-umanistica dei “Sollevati” e vescovo di Senigallia (1431); Francesco Ansaldo Teloni vescovo di Macerata e Tolentino (1824-1846) definito “specchio dei Vescovi. Teologo, giurista, letterato, prosatore e poeta affettuoso; eruditissimo; per affabilità e filantropia e per tutte le virtù ricordevole, di cui Macerata si dà vanto ancora e sente desiderio non perituro”. A lui una lunga lapide elogiativa si legge a destra della cappella del Santissimo Sacramento nella cattedrale di Macerata. Da non passare sotto silenzio è la prestigiosa “Accademia Georgica”, che segnò ripresa e sviluppo (dal 1778) sul piano dell’agricoltura e dell’industria di quella dei “Sollevati”, rifondata dai fratelli Callisto e Fortunato Benigni e dall’abate Luigi Riccomanni. L’importante istituto culturale-scientifico ha tuttora una sede propria in un elegante edificio, opera dell’architetto Giuseppe Valadier, e giuridicamente è Ente Morale costituito con Decreto Presidenziale n. 1230 del 16 ottobre 1954. Esso conserva tutto il Domenico Ciaramponi, Visione del beato Pietro da Treia patrimonio librario e documentario del Comune, compreso quello delle case religiose, con millecentonovantasei pergamene, incunaboli e una ricca biblioteca di oltre quindicimila volumi. Sul piano ecclesiastico si ricordano i sinodi diocesani del 1837 indetto dal vescovo Nicola Mattei; del 1901 dal vescovo Celestino Del Frate. Soggiornarono nel territorio di Treia i papi Nicolò V nel 1449, sostando presso il monastero di Valcerasa già dei “Fraticelli”, dalla cui eresia esortò i Treiesi a guardarsi; e il papa Pio II, essendo diretto ad Ancona per intraprendere la spedizione contro i Musulmani e riprendere i territori da loro occupati, si fermò a Valcerasa il 13 e il 14 luglio del 1464, accolto calorosamente dai Treiesi. Sempre sul piano più strettamente religioso non minori sono i meriti di Treia. Essa ha come patrono della città e diocesi san Patrizio vescovo, apostolo e patrono dell’Irlanda (385-461). Fu scelto dai Treiesi come loro patrono alla fine del secolo XV o all’inizio del secolo seguente. Infat- 263 ti, nel 1482 la Patrona principale di Treia era ancora la Beata Vergine Maria Madre di Dio. Nel corso del tempo, la sua festa ha cambiato più volte data. Ora si celebra secondo il calendario universale il 17 marzo. Compatrona di Treia è la Vergine Lauretana. Immagini della Madonna di Loreto si trovano nella cripta della concattedrale (olio su tela, seconda metà del sec.XVIII); nella chiesa dell’ospedale (plastico del sacello lauretano, XIX secolo); nel monastero delle Visitandone di S. Chiara; sulla facciata del palazzo comunale.16 Tra i santi oriundi o vissuti a Treia si ricordano: il beato Pietro Marchionni, più comunemente detto “beato Pietro da Treia”, di cui si conserva la statua, opera della ditta Collini di Faenza (4 settembre 1904), uno tra i primi seguaci di san Francesco d’Assisi, facente parte del gruppo degli “zelanti” Clareni, rigidi osservanti della povertà francescana, che ebbero sede in Valcerasa. Il corpo del beato si venera a Sirolo (AN), dove il santo morì. Nel 2005, V centenario della morte, si è svolta nella città di Treia e nelle parrocchie della vicaria una peregrinatio con le venerate spoglie del santo francescano. Inoltre, santa Veronica Giuliani, canonizzata nel 1830: era nata ex antiqua Julianorum Trejensi familia, Tipherni Monialis cappuccina. Obiit anno MCCCXXVII. Meno ricordato, perché nato a Siena, ma detto da Montecchio, fu il beato Antonio, dell’Ordine Agostiniano, per la lunga permanenza in questa città, dove morì il 13 agosto 1495 a 72 anni. Sotto l’aspetto religioso non si può dimenticare di Treia il santuario del Santissimo Crocifisso, sito sul luogo della Trea romana, e dell’antica pieve cristiana che ne continua, in certo modo, la tradizione storica e religiosa. I documenti più antichi della chiesa risalgono al XII secolo e si conservano nell’archivio dell’Accademia Georgica. Nell’ex area romana 264 prese crescente vigore la venerazione al Santissimo Crocifisso, raffigurato, dal volto molto espressivo, in una scultura di legno policromo, del secolo XV. In un primo tempo (1519) furono chiamati a reggere la chiesa i Padri della Congregazione Fiesolana di San Girolamo. Sciolta tale congregazione dal papa Clemente IX, subentrarono nel 1671 i Francescani Minori Riformati. Dopo la loro espulsione nell’epoca napoleonica (1810) e del nuovo Regno d’Italia (1867), vi ritornarono e vi reggono tuttora il santuario e il convento. Il complesso architettonico è costituito da due costruzioni di epoca diversa: a sinistra la chiesa è del secolo XX su disegno di Cesare Bazzani; a destra il convento è del secolo XVII-XVIII. Il santuario è ancora oggi molto frequentato; in esso si svolgono numerose cerimonie e feste liturgiche.17 NOTE Fabrini 2004a, pp. 69-71. Turchi 1762, cap. IV, apud De Mathia 1901, p. 183. 3 Turchi 1762, p. 46; De Mathia 1901, p. 73; Meriggi 1978a, p. 49. 4 Fabrini 1990, pp. 140-141. Per la Fabrini la costruita domus sacrata Joanni di cui parla un’antica epigrafe non sarebbe la chiesa dedicata a S. Giovanni Battista esistente in Montecchio, restaurata o ricostruita, come gli altri storici intendono, ma la casa del collegium dei canonici: da qui deriva la divergenza sul titolo della “pieve” dell’antica Trea, ivi, passim. 5 De Mathia 1901, pp. 174.185. Traduzione: “A Dio Ottimo Massimo. A Cosmo Torelli molto benemerito / per il Sinodo celebrato / in questa insigne collegiata / nei tre giorni 2-3-4 giugno1726 /. L’arciprete e i canonici in memoria posero”. 6 De Mathia 1901, pp. 174-176. 7 Meriggi 1978a, p. 245; da questa pubblicazione si è attinto per tutto l’argomen1 2 to della erezione di Treia a città (pp. 239- 248, passim). Per la planimetria Cfr. De Mathia 1901, pp. 177-181; 187-10; Treia 2000, pp. 28-33. 9 De Mathia 1901, pp. 125-126. 10 ASCCTr, dattiloscritto di R. Cervigni, 2000? 11 ASCCTr, dattiloscritto di R. Cervigni, 2000? pp. 2-3; De Mathia 1901, pp. 126-127. 12 De Mathia 1901, pp.127-128; ASCCTr, dattiloscritto di R. Cervigni, 2000? p. 3. 13 De Mathia 1901, p. 102. 14 De Mathia 1901, pp. 273-291. 15 Annuario Diocesano 2004, p. 116. 16 Cfr. La Madonna di Loreto nelle Marche 1998, pp.38; 230-231. 17 De Mathia 1901, pp. 236-240; Concetti 1998; Treia 2000, pp. 48-53. 8 CRONOLOGIA VII-VIII sec. Fondazione della “pieve di S. Maria” nell’area dell’antica Trea romana. 1272 Esistenza sul nuovo nucleo urbano collinare di Montecchio di una collegiata dedicata alla Vergine Maria Annunziata e a S. Giovanni Battista. 1304.1545.1732 Ampliamenti e restauri della collegiata di Montecchio. 1790 (2 luglio) Montecchio riceve dal papa Pio VI il titolo di città e il nome antico di Treia. 1814 (29 settembre) La nuova chiesa costruita (1782-1814) su progetto di Andrea Vici di Arcevia viene consacrata dal vescovo di Macerata e Tolentino Vincenzo Maria Strambi. 1816 (8 febbraio) Treia (ri)diventa diocesi sotto l’amministrazione apostolica dell’arcivescovo di Camerino e la collegiata è elevata al ruolo di cattedrale. 1914 La diocesi di Treia passa sotto l’amministrazione apostolica del vescovo di S. Severino. 1959 Completamento dei lavori della decorazione dell’interno della chiesa ad opera del pittore Turoldo Conconi. 1968-1975 La diocesi di Treia è retta dagli amministratori apostolici Silvio Cassulo ed Ersilio Tonini vescovi di Macerata e Tolentino. 1975 La diocesi di Treia diventa autonoma sotto la reggenza del vescovo Francesco Tarcisio Carboni. 1986 (30 settembre) Treia è unita all’unica diocesi unificata di Macerata-Tolentino-Recanati-Cingoli, per il decreto della Congregazione dei vescovi. La cattedrale assume il titolo e il ruolo di concattedrale. 2001 Completamento dei lavori di restauro dopo il terremoto 1997/98. TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA 265 TRA SPAZIO LONGITUDINALE E SPAZIO CENTRALE: LA CHIESA DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA DI TREIA DI ANDREA VICI Stefano D’Amico La Pieve di Trea Gli storici locali del XVIII e del XIX secolo,1 purtroppo senza il conforto di fonti documentali attendibili, disputarono a lungo sulla presenza di una sede vescovile nel municipio romano di Trea che si estendeva sul pianoro a ridosso dell’attuale convento del Santissimo Crocifisso.2 Tuttavia, nel corso dei secoli, forti di una consolidata tradizione popolare, i treiesi aspirarono sempre a vedersi ‘riconosciuto’ l’antico titolo di diocesi, che in effetti, papa Sisto V (1585-1590) stava per concedere se alcune questioni legate ai benefici e la morte precoce del pontefice non avessero fatto sfumare l’accordo.3 Senza entrare nel merito della questione, notiamo solo che il sostenitore più convinto dell’esistenza della Diocesi di Trea, “il censore per le Arti nella Società Georgica”, Nicola Acquaticci, nel 1890 concludeva un suo ponderoso studio dicendo: “con quanto abbiamo esposto se non si è evidentemente provata l’esistenza dell’antica Chiesa Treiese, confidiamo almeno aver sollevato nella mente del lettore un dubbio che inclini a risolversi in una ragionevole probabilità”.4 Di sicuro sappiamo solo che sui resti di un edificio dell’antica città romana fu eretta una chiesa che, nell’alto medioevo, aveva il titolo di pieve ed era dotata di ricchi benefici e di un fonte battesimale ricavato in un antico capitello corinzio. La pieve, continuamente restaurata e ingrandita, nel 1519 fu concessa ai Padri Girolimini ai quali subentrarono, nel 1671, i Frati Minori – che ancora la detengono – per Veduta da sud essere infine ricostruita ex-novo su progetto dell’architetto Cesare Bazzani dopo l’incendio del 26 giugno 1902.5 Anche il titolo della pieve fu oggetto di una controversia perché nei documenti del XIII secolo coesistono due pievi, quella di Trea e quella di Monticulo - poi Montecchio, la città sorta sulla collina dopo l’abbandono della città romana – e un solo pievano - tale Jordanus – creando una certa confusione. Gli storici antichi erano propensi ad attribuire alla pieve di Trea il titolo di Santa Maria e a quella di Monticulo il titolo di San Giovanni, ma Giovanna Maria Fabrini, in un suo recente studio, ha rovesciato tale conclusione.6 La Collegiata di Montecchio L’abate Giuseppe Colucci (1752-1809) sosteneva che quella attuale fosse la terza chiesa: la prima sarebbe stata annessa ad un edificio, sede di un Capitolo di canonici, e basava la sua ipotesi dall’analisi “della materiale struttura della casa Canonicale annessa alla Chiesa, che tuttora conservasi nella stessa forma, in cui credo, che fosse fatta nella sua origine (secolo undecimo, n.d.a.) prescindendo da qualche variazione (…) ha essa la forma di un chiostro col suo porticato, e cortile. Ha le sue stanze, che bastar poteano ai rispettivi Canonici, ed ha la sala di competente grandezza (…) anche il Vescovo aveva la stanza sua, di cui forse faceva 266 uso, quando colà si portava per qualche causa”.7 Questa chiesa, secondo quanto attestava un’iscrizione che il Colucci vide murata in un angolo del campanile, fu ricostruita tra la metà del XIII e l’inizio del XIV secolo. L’iscrizione infatti diceva: In Dei nomine amen. Anno MCCCIIII. Indictione II. tempore Domini Bonifacii Papae VIII. peractum fuit dictum opus sub dict. Indictione tempore Potestatis, et nobilis viri Domini Antonii… onorabilis Potestatis Monticuli8 e se dunque il campanile fu ultimato nel 1304 – dice il Colucci - è presumibile che la chiesa sia stata edificata a partire almeno dalla metà del secolo precedente. Vi era poi una seconda iscrizione, murata all’interno della vecchia chiesa, che diceva: Virginis a partu sacrae labentibus annis/ Mille quadrigentis sex deciesque simul/ Dum constructa fuit domus haec sacrata Joanni/ Qui Christum lavit fluminis ante vadum/ Doctor et Antistes de Nigris Monticulanus/ Edidit hanc Jacobus et lavacrumque dedit e, secondo l’abate, ricordava il pievano Giacomo de Nigris che nel 1416, dopo avere riedificato “in più magnifica forma la Chiesa” vi trasportò il fonte battesimale che era ancora nella Pieve di Trea.9 Nicola Acquatici, viceversa, era convinto che un collegio di canonici già esisteva nella chiesa di Santa Maria di Trea, riedificata “dopo la prima rovina patita da Treia circa il 405” in sostituzione di una basilica più antica, ed eretta cattedrale della diocesi. Nell’VIII secolo, persa la sede vescovile, la chiesa divenne una pieve mantenendo il collegio di canonici (quello ricordato nei documenti del XIII secolo). Nel 1304, all’interno della città murata – secondo l’Acquaticci - sarebbe invece stata ultimata la chiesa di San Giovanni dove, nel 1416, si trasferirono i canonici di Santa Maria con il fonte battesimale.10 Più attendibile ci sembra la ricostruzione della Fabrini, secondo la quale il Stefano D’Amico Cristo pantocratore, campanile, lato sud Angelo con turibolo, campanile, lato sud fonte battesimale era presente nella pieve di Montecchio fin dal XIII secolo e nel 1416 fu costruita solamente “una domus (del Capitolo) dedicata a San Giovanni (Battista), ad opera del Pievano Giacomo de Nigris, che provvide altresì ad assegnare un (nuovo) fonte battesimale”.11 Di tutta questa antica storia resta, unico testimone inglobato nel nuovo edificio, il campanile romanico che ha conservato, a differenza di quello della cattedrale di Macerata, la cuspide conica e due bassorilievi, murati sul fronte sud a livello della cella campanaria e rappresentanti un Cristo pantocratore e un Angelo con turibolo. I caratteri stilistici dei due bassorilievi sono riferibili ad età alto medievale, e potrebbero effettivamente provenire da una struttura preesistente – confermando in tal caso l’ipotesi del Colucci - o da un altro edificio non individuato.12 scientifico13 che culminò nel 1778 con la fondazione dell’Accademia Georgica, geniale espressione dell’aristocrazia terriera locale che seppe radunare un gruppo d’intellettuali i quali, consapevoli dell’arretratezza dell’agricoltura nello Stato pontificio e convinti assertori delle correnti progressiste europee, sostenevano il rinnovamento delle colture e delle tecniche di produzione agricole. Questo spirito nuovo, ben visto anche in alcuni settori della curia romana, candidò Montecchio quale sede di un importante progetto di sviluppo sociale ed economico, sostenuto dal governo centrale e inserito in un più vasto programma di riforme avviato già all’inizio del Settecento.14 Si trattava delle cosiddette Case di lavoro e correzione, una via di mezzo tra il carcere e la manifattura di tessuti che, mentre dava lavoro a masse di bisognosi utilizzando nuove materie prime, come cotone e lino, prodotte in loco, toglieva dalla strada, attraverso il ricovero coatto, mendicanti e piccoli delinquenti. Il Settecento a Montecchio Il XVII e il XVIII furono secoli caratterizzati da un forte impulso culturale e TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA 267 Veduta di Treia nel XVIII secolo, in Colucci 1780 La richiesta per avere queste innovative strutture sociali fu accolta da Pio VI nel 1781 e già l’anno successivo l’architetto camerale Andrea Vici era a Montecchio con il progetto di una Casa di lavoro – attuale edifico ASUR – e una Casa di correzione – poi demolito.15 I risultati a medio termine non furono esaltanti, ma il favore del papa e il finanziamento ottenuto indussero i montecchiesi ad elevare al pontefice un monumento sulla piazza pubblica (1782-85), su progetto del Vici, con la speranza, neanche tanto segreta, di ottenere finalmente l’agognato titolo di città e la restituzione dell’antico nome di Treia. Titoli che puntualmente arriveranno il 2 luglio 1790 in considerazione non solo del fervore imprenditoriale che animava la città, ma anche e soprattutto del clima culturale, con gli accademici georgici impegnati nel campo degli studi storici, scientifici e archeologici che porteranno alle prime campagne di scavi nel sito dell’antica Trea.16 A conclusione di questo felice secolo mancava solo la (ri)concessione della sede vescovile che Pio VI non fece in tempo ad accordare, ma che, passata la bufera napoleonica, il 1° settembre 1816 fu “restituita” dal nuovo pontefice Pio VII (1800-23) “per vetustam locorum originem”.17 La Cattedrale In questo nuovo contesto, la vecchia collegiata non poteva più rispondere alle esigenze rappresentative di una comunità che aspirava ad un ruolo di primo piano, sia in Italia che in Europa, ed era chiaro a tutti che occorreva costruirne una nuova. D’altra parte, in quello scorcio di secolo, Macerata e Recanati avevano già preso la stessa decisione e Tolentino lo avrebbe fatto poco dopo.18 A sfavore della vecchia pieve c’era anche la questione dello stile: un’architettura romanico-gotica, in una comunità di eruditi impegnati attivamente nella riscoperta dell’antico, era percepita ancora più “barbara” e lontana da quella mitica classicità che stava affa- scinando i centri più importanti e vitali d’Italia e d’Europa. Fu così che nel 1775, dopo che il vescovo di Camerino Luigi Amici aveva promesso di concedere alcuni benefici, “incominciossi a parlare d’intraprendere la fabbrica di questa Insigne Collegiata di Montecchio”19 e l’anno successivo “fu risoluto di tentare l’impresa”.20 All’inizio del 1782 Andrea Vici21 fornì il progetto definitivo, molto apprezzato dagli accademici georgici che elogiarono l’architetto romano con espressioni di questo tipo: “l’eleganza e sodezza del Disegno, riuscito di comune soddisfazione specialmente degl’intendenti di architettura mostrano il buon gusto, e perizia del suo Autore”.22 Purtroppo i disegni con la pianta e la sezione della chiesa inferiore, la sezione longitudinale della chiesa superiore e le due soluzioni dell’uscita dell’interno, pubblicati da Andrea Busiri Vici nel 197423 e in parte riproposti da Angela Montironi e Loretta Mozzoni nel 2009,24 non sono più reperibili, mentre 268 Stefano D’Amico Disegno allegato alla perizia per la sopraelevazione di casa Meloni, Andrea Vici, 1797, in ASCCTr Pianta di progetto, Andrea Vici, 1782, in ASCCTr il disegno con la pianta della chiesa superiore e uno di minore importanza, allegato ad una Risposta al quesito se l’Ill.mo Sig. Meloni possa alzare la sua Casa a ridosso dell’insigne Collegiata di Treia datata 8 luglio 1797,25 sono ancora conservati nell’Archivio del Capitolo della Catte- drale. Il 27 aprile 1782 si pose la prima pietra della fabbrica e i lavori iniziarono sotto la direzione dall’architetto Carlo Rusca che dal 1798 sarà impegnato nella progettazione del teatro condominiale della città.26 Anche per lui ci furono parole d’encomio per “l’esatta esecuzione della fabbrica condotta a questo punto (dopo più riprese per i tenui assegnamenti di essa) colla maggior solidità e fermezza, che dà una ben giusta lode al Sig. Carlo Rusca che con assidua attenzione ha diretto i Capomastri e lavoranti anche nelle cose più minute (…) e si è acquistato questo soggetto ottimo credito, sì per la pratica e conoscimento nelle materie d’Architettura che per la sperimentata sua abilità e diligenza”.27 I deputati scelti per seguire i lavori della fabbrica chiesero immediatamente di contenere i costi di quella che si preannunciava una fabbrica raddoppiata rispetto a quella esistente, prevedendosi anche una chiesa inferiore.28 Dalle Memorie raccolte dal Sig. Giuseppe e Federico Castellani, un manoscritto conservato nell’archivio dell’Accademia Georgica, e dai vari documenti dell’archivio del Capitolo, sappiamo che i lavori furono affidati all’impresa dei capimastri De Mattia29 e procedevano con lentezza e lunghe interruzioni a causa del gravoso onere finanziario. Nel 1801, a quasi venti anni dall’inizio dei lavori, TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA mentre era ancora in corso la demolizione di parte della chiesa, “si fece il piantato dei piloni per tutta l’estensione”30 e nuovo impulso si ebbe nel 1804, quando l’architetto Alessandro Vassalli e il capomastro Patrizio De Mattia firmarono una perizia per “osservare, riconoscere e precisare la spesa occorrente per il compimento detta Chiesa dietro il Disegno formato dall’architetto Andrea Vici”.31 A questo punto, per dare una svolta ai lavori, i deputati della fabbrica chiesero ai concittadini di sottoscrivere un atto pubblico con il quale si impegnavano ad offrire giornate di lavoro, o il corrispettivo in moneta, per un certo numero di anni32 e nel giro di tre anni il rustico della chiesa sarebbe stato completato. Il 15 ottobre 1807 fu terminata la parte muraria della chiesa e il 4 dicembre, “col suono delle campane a festa si compì di coprirla coi coppi”. Il 9 aprile 1809 l’orologio posto in opera sul campanile da Pietro e Antonio Petrini (o Pietrini) di Treia, “sonò la prima volta l’ora tredici”,33 ma il completamento del “lavoro sottile” (decorazione, pittura e finiture)34 richiederà altri sei lunghi anni di impegno e solo il 3 aprile 1814, Domenica delle Palme,35 la chiesa fu aperta al pubblico, mentre la cerimonia della consacrazione ufficiale fu rinviata al 29 settembre. Nel progetto del Vici non compare la cappella del Santissimo Sacramento perché l’area era occupata dalla vecchia canonica-episcopio e solo quando la città sarà elevata a diocesi, rendendosi necessario un nuovo palazzo vescovile, si deciderà di costruirla sul lato sinistro. Nel 1818 il vescovo di Camerino chiese una perizia preventiva della spesa per il nuovo episcopio all’ingegnere Domenico Biaschelli di Camerino che presentò anche alcuni disegni, ma nel 1821 il progetto passò all’architetto Giuseppe Marini, inviato da Roma dal cardinale Nicola Grimaldi, che elaborò altri disegni. 269 Pianta di progetto dell’episcopio, Giuseppe Marini (?) 1821 (?), in AGT I lavori di costruzione furono appaltati nel 1827 a Vincenzo Prenna di Treia, e in corso d’opera furono apportate “diverse e importanti variazioni, la maggior parte delle quali necessarie a correggere i difetti del Disegno ed assegnare una più esatta ed adatta distribuzione dei vani”.36 Il Marini, ritenuto responsabile dei difetti fu esautorato e il cantiere passò al “Sig. Francesco Dionisi”, deputato della fabbrica e direttore dei lavori, che il cronista delle Memorie del Capitolo treiese definisce anche “autore del disegno”. Le stesse Memorie c’informano che la cappella del Santissimo Sacramento fu “spiccata” il 6 agosto 1827 e inaugurata il 18 giugno 1829, festa del Corpus Domini.37 L’attività dell’architetto Andrea Vici è stata ampiamente ricostruita in numerosi studi, soprattutto con la pubblicazione dell’Atlante delle opere in occasione della recente mostra a lui dedicata, che ha permesso alla critica di chiarire il valore teorico e pratico del suo pensiero e delle sue opere.38 Nacque il 9 novembre 1743 in località Palazzo di Roccacontrada – attuale Arcevia in provincia di Ancona – da una famiglia di capomastri e architetti da lungo tempo attiva nelle Marche. Nel 1760 era a Roma per completare la sua formazione di pittore e qui, frequentando lo studio di Carlo Murena e Luigi Vanvitelli (1700-1773) - di cui diventerà collaboratore e amico - incontrò invece l’architettura. Nella sua lunga carriera si occuperà di idraulica, di ingegneria e di architettura; sarà a capo di importanti uffici pubblici a Loreto e a Roma che gli procureranno numerosi incarichi privati; sarà membro di prestigiose istituzioni culturali, tra cui l’Accademia di San Luca, della quale fu presidente e professore di architettura, e diventerà “a Roma uno dei grandi maitre a penser, un vero intellettuale eclettico, noto alla gran parte degli studiosi, stimato, riverito e ossequiato”.39 Morì a Roma il 10 settembre 1817 e fu sepolto nella chiesa di Santa Maria in Vallicella, vicino a Luigi Vanvitelli. In provincia di Macerata operò dal 1773, quando il cardinale Mario Compagnoni 270 Stefano D’Amico Raccordo tra la facciata e il muro laterale Marefoschi gli affidò il progetto della biblioteca davanti al palazzo di famiglia appena completato nel capoluogo: l’opera non sarà mai realizzata, ma il suo nome uscì dalla cerchia ristretta di Arcevia-Offagna e da quel momento sarà uno degli architetti più attivi e ricercati tra Marche, Umbria e Lazio.40 La critica è concorde nel definirlo un epigono del maestro Luigi Vanvitelli, un architetto che seppe operare la perfetta mediazione tra la recente esperienza barocca di Bernini e Borromini, la grande tradizione italiana del manierismo cinquecentesco e il linguaggio nuovo del razionalismo neoclassico che stentava ad entrare nell’ambiente romano dell’epoca. Andrea Busiri Vici41 - un suo discendente che fin dagli anni ’50 del secolo scorso lo ha fatto conoscere – a proposito della cattedrale di Treia notava che “nella metrica (…) e per il michelangiolesco ritmo delle colonne sorreggenti architravature lineari” richiama la chiesa vanvitelliana del Gesù di Ancona. Più recentemente Veduta verso il presbiterio TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA 271 Veduta della volta della campata centrale Jorg Garms,42 esperto studioso del Vanvitelli, ha individuato con precisione gli elementi stilistici che il Vici deve al suo maestro e che ricorrono anche nella cattedrale di Treia: la tendenza a trasformare uno spazio quadrato o rettangolare in uno ottagonale, circolare o curvilineo; il vano centrale coperto a vela con costoloni che accentuano le diagonali; le colonne libere inserite nelle campate tra la navata principale e le navate laterali o tra navata e abside e poste a sorreggere la trabeazione continua; l’accentuazione della decorazione dei costoloni, dei sottarchi e delle fasce intrecciate delle volte con cornici e lacunari di varia figura; gli altari classicheggianti; le glorie nelle absidi che si sovrappongono all’architettura ed infi- ne le facciate concave. La chiesa inferiore della cattedrale di Treia, con due absidi semicircolari e le ampie cappelle laterali polilobate delineate dal susseguirsi di pareti rettilinee e curvilinee, denota una chiara ispirazione barocca, la stessa che ritroviamo anche nella facciata principale con le due ali laterali concave che permettono di dare ‘visibilità’ ad un prospetto che altrimenti non ne avrebbe, affacciandosi su una via lunga e stretta. Nella chiesa superiore il Vici riesce invece a fondere lo spazio centrale con quello longitudinale – tipico del barocco - inserendo una croce greca, con quattro cappelle angolari, in un impianto complessivamente rettangolare. Ciò è ottenuto attraverso piccoli accorgimenti che denotano un perfetto controllo della composizione architettonica: man mano che procede dall’ingresso verso il coro dilata la pianta con leggeri aggetti laterali;43 riduce gli spazi quadrati a spazi ottagonali delimitando il vano centrale della croce greca e delle cappelle angolari con quattro pilastri smussati, accentuandoli con volte a vela e a padiglione costolonate chiuse da un cerchio o da un’ellisse; prosegue la navata centrale con un profondo presbiterio separato dall’abside con due colonne libere sopra le quali corre, ininterrotta, la trabeazione sormontata da una imponente gloria in stucco. L’influsso neoclassicismo è evidente nel regolare contrapporsi di linee verticali (paraste accentuate da finte scanalature e colonne) 272 Stefano D’Amico e linee orizzontali (trabeazione che corre ininterrotta nell’aula centrale e nel transetto); nelle specchiature geometriche che segnano le volte della copertura o nei finti cassettoni con rosette dei sottarchi; nella rigorosissima facciata ‘tipo palazzo’ segnata da lesene angolari e da paraste giganti che sorreggono un timpano appena accennato. Questa perfetta unione, quasi illusionistica, di due concezioni spaziali completamente diverse ha fatto dire a Fabio Mariano che la cattedrale di Treia è “l’ultima importante chiesa tardobarocca in clima di Neoclassicismo avanzato”.44 La cappella del Santissimo Sacramento è un elemento architettonico che nell’evoluzione tipologica della chiesa compare relativamente tardi. Nelle basiliche paleocristiane l’Eucaristia era conservata in sacrestia e solo a partire dal XII-XIII secolo acquistarono importanza le custodie eucaristiche, in genere nicchie scavate nel muro e chiuse da una porticina. Il tabernacolo fisso su un altare, in genere quello maggiore, comparirà solo nel XVI secolo, ma occorrerà attendere il Concilio di Trento per vedere comparire questo nuovo ambiente, separato e nello stesso tempo in diretta comunicazione con la chiesa. Il concilio tridentino, infatti, sviluppò una forte “teologia dell’Eucarestia” invitando i fedeli alla comunione frequente e all’adorazione eucaristica, due pratiche45 per le quali viene istituita una Veduta della volta della cappella angolare apposita cappella, fastosa e solenne per accentuarne l’importanza, ma anche raccolta e silenziosa per la meditazione personale. Si impostarono quindi organismi centralizzati, in genere quadrati con una nicchia sul fondo o a croce greca, coperti da una cupola, con o senza tamburo e lanterna, più o meno imponente. In questo senso la cappella del Santissimo Sacramento nella cattedrale di Treia, con la sua semplice volta a padiglione, è meno imponente, ma gli angoli stondati delimitati da due paraste sui quali si aprono quattro nicchie con statue e una sobria decorazione di gusto classico le conferiscono una riuscita unità compositiva. TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA Veduta della campata tra navata centrale e navata laterale 273 274 NOTE Turchi 1762. Colucci 1790. Acquaticci 1890. Turchi 1762 p. 46 a proposito della chiesa francescana dice “esser fama che vi fosse l’antica cattedrale di Treia”. La diocesi sarebbe stata eretta a metà del IV secolo per decadere tra la fine del VI secolo (Colucci e Acquatici) e la metà del VII secolo (Turchi). Il nome di Trea non compare nell’elenco delle sedi vescovili in Lanzoni 1927. Fabrini 1990 p. 123. 3 Nella cappella della Madonna della Misericordia esiste un busto del pontefice con la seguente iscrizione: SIXTO V PONT. MAX/ DE. PATRIA. DE. CIVIBVS. OPTIME. MERITO/ NICOLAVS. GRIMALDI, TREJENSIS/ URBIS. PRAEFECTUS. ET. S.R.E. VICE. CAMERARIVS/ DEDICAVIT. ANNO. 1833 4 Acquaticci 1890 p. 245. Meriggi 1978 p. 52. Fratini 2001 p. 67. 5 Concetti 1998. 6 Fabrini 1990 pp. 133-143. 7 Colucci 1790 p. 189. 8 Colucci 1780 pp. 188, 189, 191, 195. Cita comunque un documento del 1379. 9 Colucci 1790 pp. 194-195. 10 Acquaticci pp. 235-244. “D’altronde – aggiunge l’Acquaticci – non si saprebbe concepire l’esistenza più remota di un capitolo collegiato in Montecchio col suo Pievano, (quello istituito secondo il Colucci nell’XI secolo, n.d.a.) e per tre secoli privo del Fonte Battesimale (…) che sarebbe così rimasto abbandonato nella vecchia chiesa quasi per tre secoli”. 11 Fabrini 1990 p. 141. 12 Il campanile è tutto in laterizio, ma il prospetto sud, a livello della cella campanaria, presenta numerosi inserti in pietra che potrebbero confermare le ipotesi del Colucci. 13 Ricordiamo l’astronomo e matematico padre Ilario Altobelli (1560-1637) e il filosofo, matematico e letterato Giulio Acquatici (1603-1688). 14 La cosiddetta “politica del buon governo”, messa in campo dai pontefici di fine Seicento, fu fatta propria da papa Clemente XI (1700-21) che incentivò il rinnovamento dell’agricoltura, lo sviluppo dell’industria manifatturiera e l’assistenza ai poveri con la costruzione di granai, magazzini, fabbriche, ospedali, collegi ecc. Anche i pontificati di Clemente XIII (1758-69) e di Pio VI (1775-99) saranno caratterizzati da progetti di riforma di ispirazione fisiocratica che si integreranno perfettamente con l’obiettivo di promuovere le arti recuperando la memoria dell’antico. Per gli aspetti generali: Curcio 2000, Kieven 2000, Rossi Pinelli 2000. Per gli aspetti locali: Meriggi 1978, Moscatelli 1978, Paci 1978, Navazio 1978. 15 Navazio 1978. Mozzoni 2009b pp. 204-207 16 Treia diede i natali all’abate Luigi Lanzi (1732-1810), il padre della moderna storiografia artistica italiana, anche se la sua formazione e la sua attività avvennero fuori dalla terra d’origine. 17 Nella cappella della Madonna della Misericordia esiste un busto del pontefice con la seguente iscrizione: PIO. VII. PONT. MAXIMO/ RESTITVTORI. EPISCOPATVS. TREJENSIS/ NICLAUS. CARD. GRIMALDVS. POSVIT/ ANNO. MDCCCXXXIV. 18 Moroni 1856 p. 242. L’autore del monumentale Dizionario di eruduzione storico-ecclesiastica, 109 volumi ancora oggi fonte irrinunciabile di notizie, dice che la collegiata non era “sufficiente alla numerosa popolazione smisuratamente accresciuta” 19 AGT, Archivio degli accademici, Zibaldone di memorie raccolte sulla Chiesa di S. Maria della Pieve o sia Collegiata, sull’antica Canonica e membri del Capitolo e sulle antiche Chiese di S. Nicolò e S. Giovanni annesse e incorporate alla Pieve medesima colle notizie della riedificazione della odierna magnifica Collegiata, busta 25, fasc. 1 20 ASCCTr, busta 420. 21 Mozzoni 2009a, pp. 198-203. La proficua collaborazione del Vici con Treia proseguirà con gli incarichi privati per la Casa di Fortunato Benigni (1806) e la Villa Votalarca per il marchese Niccola Luzi (1815). Montironi 2009b pp. 208-211 e Mozzoni 2009c pp. 256-259 22 ASCCTr, busta 404, fascicolo 6.1. 23 Busiri Vici 1974 pp. 591-593. 24 Montironi, Mozzoni 2009 p. 200. 25 ASCCTr, busta 422, fascicolo 02. 26 ASCCTr, busta 420, fascicolo 01. Il suo nome ricorre spesso negli Esiti della fabbrica 1 2 dell’Insigne Collegiata di Treja 1797 fino al 1805. 27 ASCCTr, busta 404, fasc. 6.1. 28 Mozzoni 2009, p. 198. Il perimetro della vecchia collegiata è delineato con una linea rossa e la lettera V nella pianta del progetto. 29 Nelle note di spesa e pagamento ricorrono i nomi di Francesco, Patrizio, Filippo e Luigi De Mattia. Patrizio e il figlio Filippo dal 1825 saranno impegnati a Tolentino nella ristrutturazione della cattedrale di San Catervo. 30 ASCCTr, busta 404, fascicolo 6.1. 31 ASCCTr, busta 422, fascicolo 2, perizia del 17 agosto 1804. 32 ASCCTr, busta 422, documento del 17 marzo 1804: “Noi qui sottoscritti e sottosegnati artieri della città di Treia per concorrere quanto giova alla ultimazione della fabbrica della Collegiata per nostra divozione e buon desiderio ci obblighiamo alle seguenti gratuite o somministarzioni o ripsettive prestazioni di nostre arti annualmente e cioè:” segue elenco con impegni del tipo “pagare baiocchi dieci l’anno per tre anni” o “dare giornate sei per anni dieci”. 33 ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo treiese, c. 25v. ASCCTr, busta 422, pagamenti. 34 ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo treiese, c. 54; ASCCTr, busta 438, fascicolo 25. Tra i nomi ricordiamo quello dello stuccatore Giuseppe Mazzanti che firma ricevute di pagamento tra il 1810-1811 e il pittore Giorgio Pampilj di Fermo che decorò il catino. Federico Domizi di Macerata nel 1884 realizzò la balaustra del presbiterio; il pittore Nicola Didimi e il doratore Paolo Paoloni opereranno nel 1893. 35 ASCCTr, busta 404, fasc. 6.1. La seguente iscrizione sarà posta nel 1825 sulla controfacciata: TEMPLUM HOC/ DEIPARAE AB ANGELO SALUTATAE/ ANDREA VICIO ARCHITECTO/ LABENTE SAECULO XVIII/ A FUNDAMENTIS EXTRUI COEPTUM/ ET A VEN. VINCENTIO MARIA STRAMBIO/ EPISCOPO MACERATENS ET TOLENT./ ANNO R.S. MDCCCXIV/ SOLENNI RITU DEDICATUM/ COLLEGIUM CANONICORUM/ INSTAURAVIT/ ANN. MCCCLXXV. 36 AGT, busta 39, Palazzo Vescovile, pratica di ricostruzione, Collaudo del 1 agosto 1838. Del Biaschelli si conservano tre piante e un prospetto; del Marini quattro piante, un prospetto e una sezione. Anche Patrizio De Mattia, ad un certo punto, fornì tre piante, un prospetto e una sezione. Uno studio più approfondito potrà gettare nuova luce su questa fase. 37 ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo treiese, c. 31 r. e v.. “A dì 18 giugno 1829 giorno di Giovedì festa del Corpus D.ni sulle ore undici della mattina il R.mo Sig. Can.co Conte Broglio pro Vicario G.le di questa nostra Città benedì la nuova Cappella del S.mo Sagramento coll’assistenza di vari canonici e del Deputato Can.co Meloni, fatta apparare solennemente dal sud.to Can.co, ci disse per il primo la Santa Messa e così fu aperta con gran magnificenza e siccome il Sig. Francesco Dionisi fu l’autore del disegno, e fu ancora l’esecutore di esso e che la sud.ta Cappella lavorata dai Prenna treiesi sotto la sua direzioe riuscì felicemente come al presente si vede, e così fu il primo a ricevere la SS.a Comunione nella sud.ta Cappella e nella sud.ta messa. Il Sig. Can.co Broglio donò dieci scudi per uso della Cappella sud.ta.”. 38 Busiri Vici 1956. Busiri Vici 1974. Boccanera 1975. Montironi 1978. Andrea Vici Architetto 2009. 39 Busiri Vici, Paoluzzi 2009 p. 47. 40 In provincia di Macerata ricordiamo la ristrutturazione della Cappella della Madonna della Quercia nel convento dei Passionisti a Morrovalle (1788), il coro e forse la ristrutturazione dell’aula della chiesa di Santa Chiara a Montelupone (1789), la cattedrale di Camerino (1800). 41 Busiri Vici 1974 p. 591. 42 Garms 2009 pp. 31,32. 43 L’atrio, che ha a destra il vecchio campanile e a sinistra il battistero, è raccordato con due ali concave alla prima campata della chiesa. Un secondo aggetto permette di contenere la testa delle cappelle della seconda campata (che sono anche il braccio trasversale della croce greca), mentre un nuovo aggetto racchiude i vani delle scale e i corridoi che portano alle sacrestie poste ai lati del presbiterio. 44 Mariano 1995, pp. 396-402. 45 In quel periodo l’Eucaristia non si distribuiva durante la messa e i fedeli dovevano recarsi presso la cappella apposita. TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA 275 DIPINTI E SCULTURE NELLA CHIESA DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA Silvia Blasio “Questa chiesa Collegiata fabbricata nel piano et in sito elevato in cima di una piccola piazza riguarda da una parte il mezzo dì, e dall’altra il settentrione. A’ tre porte, la principale volge al mezzo dì avanti la suddetta piazza, la men principale all’occidente, l’inferiore al settentrione. E’ composta di tre navi tutte coperte a volta e sostenute da sei colonne le quali prima erano alla gotica di figure diverse, ridotte poi alla moderna quadrate con nuovi capitelli e piedestalli. La nave di mezzo che ha in cima il presbiterio l’altare maggiore e dietro il coro ….fabbricato e composto di quattordici stalli canonicali resta illuminata da un gran fenestrone da piedi, da un’ampia finestra sopra l’arco dell’altare maggiore, et il coro da un occhio nel muro anteriore e due finestre alla gotica ne muri laterali tutta fatta di vetri congiuntamente. Le altre due navi laterali restano illuminate da due finestre una posta per nave poste in cima d’ogni nave fatte parimente co’ vetri. Costa di sette cappelle, due laterali al coro, tre nella nave a cornu Evangelii e due nella nave a cornu Epistole”1 Circa cinquant’anni prima che Andrea Vici progettasse il maestoso tempio a croce greca la cui prima pietra fu posta nel 1782, l’edificio sacro si presentava ancora sotto le forme gotiche vividamente descritte nella relazione fatta dai deputati del Capitolo in occasione della Visita pastorale il 20 maggio del 1737 del vescovo Ippolito de’ Rossi; attraverso queste carte la storia della vecchia pieve demolita riemerge e si intreccia con quel- Madonna del Rosario, secolo XVI la della nuova cattedrale. Solo immaginando l’interno dell’antica chiesa di San Giovanni Battista, poi della Santissima Annunziata,2 forse fondata nel 1303, o anche prima3 si possono idealmente ri- collocare molte delle opere d’arte che hanno trovato una nuova ambientazione negli ampi e solenni spazi neoclassici della fabbrica del Vici. Nella situazione attuale, la prima cappella 276 a destra entrando dall’ingresso principale è dedicata al Santissimo Rosario, mantenendo l’antico titolo presente anche nella vecchia chiesa nella seconda cappella della navata “a cornu Evangelii”: “La seconda cappella dentro la nave suddetta è sotto il titolo del Ss.mo Rosario, alla compagnia del quale appartiene di essa il mantenimento, vi è l’altare col quadro, dove in cima è dipinto il Padre Eterno con un coro di angeli, più sotto l’Immagine della Madonna del Rosario in atto di stendere il rosario a S. Domenico dipinto alquanto più basso a mano destra e vicino ai santi Tommaso d’Aquino e Catarina da Siena, siccome a mano sinistra coll’ordine suddetto si veggono dipinte le immagini dei santi Niccolò da Bari, Francesco d’Assisi e Girolamo e infine Angeli che spargono rose. Nell’ornamento di esso altare di petra bianca si veggono, da capo e dai lati dipinti li quindici misteri di esso SS.mo Rosario, e da piedi nel medesimo ornamento la iscrizione seguente: Rosaria coloris faciendum curavit Anno…4 Il quadro è una copia con varianti della grande pala con la Madonna del Rosario di Lorenzo Lotto per l’altar maggiore della chiesa di S. Domenico a Cingoli. Il pittore della tela di Treia ne riprende alla lettera la figura della Vergine - con la veste rossa e non blu - che porge il rosario a san Domenico e di san Tommaso d’Aquino, sostituendo a destra la Maddalena lottesca con Santa Caterina da Siena. Il gruppo di figure sulla destra però, è cambiato radicalmente: qui, in luogo di Sant’Esuperanzio, santa Caterina da Siena e san Pietro martire troviamo san Girolamo inginocchiato in primo piano, san Nicola di Bari e san Francesco. I putti che spargono petali di rosa si riducono da tre a due. Inoltre nella parte superiore l’imponente roseto lottesco da cui fioriscono i quindici medaglioni circolari con i misteri del rosario diviene un Silvia Blasio Annunciazione, da Federico Barocci, secolo XVII più modesto cespuglio che lascia spazio nel cielo all’apparizione dell’eterno circondato da angeli, uno dei quali, a destra, reca in mano il modellino di Treia. I misteri, che secondo la descrizione settecentesca incorniciavano la pala anche lungo il margine superiore, nella nuova sistemazione si dispongono lungo due file verticali ai lati di essa. È da notare che il quadretto con il mistero gaudioso dell’Annunciazione è una copia in piccolo dell’Annunciazione di Federico Barocci per la cappella dei duchi Della Rovere a Loreto.5 Riguardo alla datazione di questa interessante variazione sul tema dell’illustre prototipo lottesco, all’anno 1594 nello Zibaldone di memorie si annota che “adì 4 ottobre fu emanata la Bolla pontificia per la erezione della confraternita del SS.mo Rosario in collegiata […]. La Cappella del Rosario può credersi fabbricata tra il 1596 e il 1601 poiché in essa si vedeva scolpito lo stemma di monsignor Gentile Delfini, che secondo il parere del Turchi fu vescovo dal 18 dicembre del ’96 sino al 1601.6 Seguitando sul lato destro della chiesa vi è l’altare della Madonna della Misericordia, un’immagine veneratissima che nella vecchia chiesa si trovava in una cappella dedicata a San Giovanni Battista, comunicante nella navata in cornu epistolae con la cappella della Madonna della Colonna di cui si parlerà più oltre. La storia dell’edificazione della cappella di San Giovanni e della sua successiva intitolazione alla Madonna della Misericordia è dettagliatamente narrata nella Relazione del 1737:7 “Alla deferita Cappella unita (cioè appunto alla cappella della Madonna della Colonna), e che insieme mediante uno piccolo porticello communicano, vi è l’altra cappella detta cioè di San Giovanni che fabbricata molto rozzamente fu poi rimodernata col ritratto de’ cementi e altro della chiesa di S. Pietro demolita colle debite licenze, come dalla Bolla della f.m. di mons. Bellucci vescovo di Camerino coll’oracolo della S. Congregazione e coll’entrate della detta Cappella della Colonna come nella suddetta Bolla spedita lì 30 marzo 1708 et esistente nell’archivio di questa collegiata. E perché nella suddetta chiesa di S. Pietro vi era fondato un Benefizio sotto titolo di tal nome di cui erano rettori i Padri Cappellani perpetui Confessori delle monache del monastero di S. Caterina di Caldarola, perciò […] fu il Benefizio trasferito nella suddetta cappella di San Giovanni col consenso del Capitolo celebrato il 4 luglio 1706, con gli infrascritti patti concordati […] cioè che i padri cappellani donassero per la riformazione della suddetta cappella il ritratto dal sito e cementi come anco tutte le sacre suppellettili e di più si obbligassero di pagare ogni anno al Capitolo di questa Collegiata baii cinquanta, il qual Capitolo all’incontro si obbligherà di mantenere tanto nel formale quanto nel materiale la suddetta cappella […]. Oggi però mutato titolo col consenso de’ medesimi Cappellani si chiama detta TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA cappella con quello della Madonna della Misericordia. V’è in essa l’altare con quadro della Madonna di tal nome, fatto dipingere in Roma, e collocato dentro d’un vago ornamento d’intaglio e posto a oro con proporzionato cristallo davanti. Il detto ornamento colla detta immagine sta situato dentro d’una nicchia e l’altare parimente è di legno con doppie colonne poste ad oro co’ suoi capitelli et piedistalli a proporzione, tutto fatto et provveduto colle elemosine di persone diverse. A’ detta cappella si hanno quattro finestre di vetro, due verso l’oriente, due verso la suddetta cappella della Colonna. In essa Cappella vi è l’obbligo perpetuo di una messa nel giorno di San Pietro fatta celebrare dalli suddetti Cappellani perpetui di Caldarola”. Il quadro opera di un certo Romano Miccinelli, portato a Treia da Roma dal padre gesuita Giovan Battista Scaramelli nel 1715,8 è ancora adorno della sontuosa cornice in legno intagliato e dorato descritta nella Relazione: è costituita da una raggiera con nuvole, teste di cherubini e cinque angioletti, uno dei quali in alto al centro, al di sopra della corona, regge il cartiglio con l’iscrizione Mater Misericordiae. Iconograficamente questa immagine della Madonna a mezza figura, seduta e rivolta verso sinistra, che sostiene con entrambe le mani il Bambino in piedi sulle sue ginocchia in atto di benedire, è molto diffusa nelle chiese delle Marche e risale ad un importante prototipo del pittore fiorentino Carlo Dolci, noto in varie redazioni, ma probabilmente dipinto per la prima volta dal maestro tra il terzo e il quarto decennio del Seicento.9 La venerazione tributata dal popolo treiese all’immagine della Madonna della Misericordia, ancora oggi adorna della ricchissima cornice in legno dorato e intagliato menzionata nella relazione, culminò nella solenne incoronazione avvenuta il 17 maggio del 1814: “Adì 17 277 Bastiano Torrigiani o Taddeo Landini, Busto di Sisto V Maggio 1814 Il Santo Padre Pio Settimo nel ritorno che fece dalla Francia dove stette rilegato per lo spazio di quattro anni per Roma, nel passare per Tolentino nella Basilica di San Nicola con solenne visita, vestito in Pontificale incoronò l’Immagine miracolosissima della Madonna della Misericordia, che si venera in questa nostra Chiesa Collegiata.”10 Sulla parete destra di questa cappella, posto in alto su una mensola, vi è il busto di bronzo di Papa Sisto V. Quest’opera, insieme al busto marmoreo di Pio VII di Pietro Tenerani nella stessa cappella sulla parete sinistra e a due statue raffiguranti i santi Pietro e Paolo montate sul monumento Grimaldi nel lato opposto della chiesa non figurano nei documenti 278 riguardanti l’antica collegiata in quanto sono doni del cardinale treiese Nicolò Grimaldi alla cattedrale della sua città di origine. Il cardinale Nicolò Grimaldi (Treia 1768-Roma 1845), appartenente ad una nobile famiglia, dopo lunghi studi presso il Seminario di Frascati e l’accademia pontificia de’ nobili ecclesiastici in Roma, intraprese una lunga carriera costantemente in ascesa, favorita dalla stima goduta presso i papi Pio VII, Leone XII, Pio VIII e Gregorio XVI. Dai pontefici egli ottenne numerosi incarichi prestigiosi nei quali profuse le sue estese e profonde conoscenze nell’ambito della giurisprudenza. Nel 1832 fu nominato Governatore di Roma e nel 1834 divenne cardinale con la diaconia della chiesa di San Nicola in Carcere e legato apostolico di Forlì, esercitandovi la propria autorità con le doti di saggezza, prudenza ingegno e fermezza universalmente riconosciutegli. Fu sepolto nella chiesa della nazione marchigiana di San Salvatore in Lauro nel 1845, ma volle che il suo cuore fosse trasportato a Treia, città per la quale ebbe sempre particolare affezione. Si interessò infatti alla riedificazione della cattedrale, fu protettore dell’ospedale e lasciò per testamento una cospicua somma di denaro all’orfanatrofio della città, mentre e i paramenti sacri e nobili di sua proprietà volle che fossero divisi tra le sacrestie della cattedrale di Treia, di S. Nicola in Carcere, della cattedrale e della chiesa di San Mercuriale a Forlì e infine della chiesa di Valcerasa.11 I vari doni offerti alla cattedrale in diversi momenti della sua vita si iscrivono nell’ambito della costante e attiva presenza del cardinal Grimaldi nella città natale, ma anche del suo amore per le opere d’arte e gli oggetti preziosi di cui fu collezionista. Il magnifico busto in bronzo di Sisto V, ritratto con un sontuoso piviale con rifiniture dorate fermato al centro da una fibbia a volute e decorato da due cartelle Silvia Blasio Andrea Bregno, San Pietro e San Paolo con figure allegoriche, fu donato alla cattedrale nel 1833, come ricorda l’iscrizione sottostante, quando Grimaldi non era ancora stato nominato cardinale.12 Costituisce il prototipo del fortunato filone iconografico della ritrattistica sistina, che annovera vari busti del pontefice e dopo una alterna vicenda attributiva nel corso della quale sono stati proposti i nomi di Giambologna, Vincenzo Danti, Antonio Calcagni, Tiburzio Vergelli e Bastiano Torrigiani13 è stato più recentemente riferito a quest’ultimo sulla base di fonti e documenti.14 Ne danno infatti notizia Giovanni Baglione che lo ricorda tra le opere del Torrigiani “ne la bellissima vigna de gli eccellentissimi Peretti, dentro il Casino verso Termine”15 e gli inventari e le guide del palazzo che lo menzionano collocato sopra uno sgabellone di noce almeno fino al 1784, quando fu venduto insieme ad altri arredi. Fu in seguito forse requisito da Napoleone, ma dovette tor- nare a Roma nel 1815, perché nel 1836 il conte Camillo Massimo lo ricorda di nuovo nella villa: “questo celebre lavoro di Bastiano Torrigiani, detto il Bologna, essendo stato venduto (1784) insieme con altre rarità della Villa fondata da quel Pontefice, dopo essere passato in più mani, pervenne in quelle dell’Eminentissimo Cardinal Grimaldi […] ma questo degno porporato, dopo averlo conservato qualche tempo presso di sé, ed aver permesso a Monsignor Massimo di farne cavar delle copie in gesso colorito a bronzo […] generosamente si privò dello stesso busto di bronzo […] per farne dono nello stesso 1835, alla cattedrale di Treja sua patria, in memoria dell’intenzione che ebbe Sisto V di erigere quella città in vescovato, e che fu posta in esecuzione da Pio VII.”16 Come si deduce dall’iscrizione tuttavia, il busto non giunse a Treia nel 1835, ma nel 1833. La testimonianza non sembra lasciare TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA 279 Iscrizione dalle catacombe di San Callisto dubbi e tuttavia è importante rilevare che nel manoscritto delle Memorie del Capitolo trejese, in cui si conferma la provenienza del busto di bronzo dalla villa di Termini, esso è riferito ad un altro allievo del Giambologna, lo scultore fiorentino Taddeo Landini:17 “Il busto in bronzo rappresentante SistoV esisteva nella villa fatta costruire da questo Pont. a Termini è lavoro di Taddeo Landini scultore fiorentino, e celebre fonditore di bronzi, quale fece tra le altre sue opere la statua colossale in bronzo rappresentante Sisto V nella sala dei Conservatori di Roma. L’altro busto in marmo rappresenta Pio VII, che ripristinò la cattedra Vescovile in Treja.”18 Il busto in marmo situato oggi in alto sulla parete sinistra della cappella della Misericordia rappresenta Pio VII e, come ricorda l’iscrizione, fu donato alla cattedrale nel 1834, anno in cui Niccolò Grimaldi fu eletto cardinale.19 Scultore carrarese allievo a Roma di Canova e di Thorvaldsen, il Tenerani (Torrano di Carrara 1789-Roma 1869),20 proseguì bene addentro nell’Ottocento e in direzione purista, lo stile neoclassico appreso dai suoi maestri soprattutto nelle opere a soggetto mitologico, ma dimostrando nei migliori tra i suoi busti-ritratto una penetrante capacità di approfondimento fisiognomico e psicologico. Il busto di Pio VII, tuttavia, non è esente da una certa freddezza dovuta alla semplificazione dei tratti del volto impassibile e alla resa meccanica dei capelli ai lati della testa. Secondo il manoscritto delle Memorie del Capitolo trejese “le due statue in marmo rappresentanti i SS. Apostoli Pietro e Paolo spettavano al sepolcro di Ottone II esistente nella vecchia basilica di S. Pietro ad Portam Paradisi”,21 cioè il sepolcro dell’imperatore Ottone II, morto a Roma nel 983, che era collocato in origine nel portico dell’antica basilica costantiniana di San Pietro e che fu smontato con la demolizione della parte anteriore di essa all’inizio del Seicento per la realizzazione del progetto della facciata dell’architetto Carlo Maderno. Tale provenienza è ripetuta dal Moroni, che la riprende da quanto afferma lo stesso prelato nel suo testamento.22 Pervenute in possesso di Niccolò Grimaldi, di cui attestano ulteriormente il raffinato gusto collezionistico, le due sculture, giunte a Treia, furono montate ai lati di un’urna in porfido su Fonte battesimale un alto basamento in marmo bianco, un monumento di gusto neoclassico eretto alla morte del cardinale per contenere il suo cuore, secondo le sue stesse volontà, e situato in fondo alla navata sinistra, nella cappella di giuspatronato della famiglia Grimaldi. Le due statue sono state riconosciute da Luigi Serra allo scultore lombardo Andrea Bregno (Osteno 1418-Roma 1503), che escludendo la loro provenienza dal sepolcro di Ottone II, ne ha proposto l’originaria collocazione in uno degli altari eretti dal Bregno per Guglielmo de Pereviis sempre nelle Grotte Vaticane.23 Giunto a Roma probabilmente intorno ai primi anni sessanta del Quattrocento, Bregno divenne ben presto il più richie- 280 sto e stimato maestro di marmo della città, come evidenzia la lunghissima sequenza di monumenti funebri realizzati per committenti illustri, talvolta in collaborazione con altri scultori come Giovanni Dalmata e Mino da Fiesole. Il san Pietro e il san Paolo di Treia nel percorso stilistico del Bregno si situano in quello stadio di acquisita padronanza della norma classicheggiante romana che egli raggiunse intorno alla fine dell’ottavo decennio, e si possono confrontare con gli stessi santi nelle nicchie del primo ordine dell’ancona del cardinale Rodrigo Borgia ora nella sacrestia della chiesa di Santa Maria del Popolo.24 Proseguendo il percorso, si incontra la terza e ultima cappella sul lato destro, dedicata a Sant’Anna. Nella vecchia chiesa, la cappella dedicata a sant’Anna si trovava lateralmente al coro, in cima alla navata in cornu Epistolae: “Nell’altra a cornu Epistole vi è l’Altare col quadro in tavola che rappresenta S. Anna colla Bambina in mano contornato parimente con colonne di stucco come sopra. V’è una piccola statua di Sant’Antonio da Padova: sopra lo stemma della famiglia Virgilii et in cima l’occhio co’ vetri. In esso altare sono fondati più benefizi […]. Il pavimento è di mattoni interi.”25 Oggi sull’altare vi è una statua moderna del Redentore e murata nella parete a sinistra vi è un’ epigrafe cristiana in lingua latina scritta con caratteri greci proveniente dalle catacombe romane di san Callisto,26 mentre non si hanno più notizie del dipinto con Sant’Anna e Maria bambina, ancora in loco all’inizio dell’Ottocento. A sinistra dell’ingresso, prima di percorrere la navata sinistra c’è il fonte battesimale così descritto nel 1737: “In fondo di questa chiesa Collegiata, et a mano sinistra entrando dalla porta, che guarda l’Occidente, vi è il Battisterio, in una nicchia dipinta a guazzo con figure rappresentanti la Natività di Nostro Si- Silvia Blasio Scultore marchigiano, San Rocco gnore chiusa da un rastrello di legno: il piedistallo e la vasca di esso è di pietra; l’archetto dove si conservano i vasetti degli ogli sagri e che copre la detta vasca è di legno scorniciato, e si apre con due porticelle. L’archetto suddetto di dentro è coperto di carta turca […].27Il Benigni, nell’Estratto rielaborato sulla Relazione del 1737 precisa che “La tazza del Battisterio è incavata in una Colonn’antica […] era chiusa dentro un’arca di legno, dove si serbavano i vasetti d’argento degli oli sacri e le custodie di argento delle tre borse destinate a portare il Viatico agl’In- fermi […]28 e poi nelle Memorie del 1815 che “E’ degno di rimarcarsi che il bacino del Battisterio della nostra Pieve di figura concava emisferica è incavato con sommo artificio nell’abaco, a campana, di un antico capitello di marmo bianco di ordine corinzio a foglie di quercia alto palmi tre ed once sei […].29 La copertura di legno intagliato, databile tra la fine del Cinque e l’inizio del Seicento,30 presenta sei specchiature, due delle quali nella parte anteriore sono gli sportelli apribili decorati al centro dalla raggiera dello Spirito Santo, mentre le altre quattro sono lisce; le specchiature sono separate da lesene, di cui solo due sono decorate da un fregio a volute e motivi vegetali che si ripete anche in alto lungo il margine superiore. Il capolino che chiude in alto la struttura, dall’intaglio corsivo, è sicuramente un’aggiunta posteriore. Passando alla navata a sinistra entrando, la prima cappella che si incontra è quella di San Rocco, di giuspatronato della famiglia Broglio Massucci, oggi di San Patrizio. Anche l’intitolazione a San Rocco era già presente nella collegiata vecchia e la storia e l’arredo della cappella sono ben descritti nei documenti treiesi. Nello Zibaldone di memorie, all’anno 1533 si legge: “Dalle carte dell’Archivio Segreto rilevasi che in detto anno era già diruta la piccola chiesa di S. Niccolò annessa alla Collegiata e in luogo della Cappella di detto Santo fu dagli eredi di Giovanni di Pietro Brogli costrutta la Cappella di S. Rocco col diritto di giuspatronato ottenuto dal Vescovo Anton Giacomo di Camerino sotto il dì 3 marzo 1533.”31 L’aspetto della cappella originaria e il suo arredo si apprendono invece dalla Relazione del 1737: “Infine nella medesima nave sta la cappella di S. Rocco, con un altare, et in esso la nicchia colla statua di legno di esso Santo. La suddetta Cappella, illuminata da un fenestrone co’ vetri, appartiene alle famiglie de’ Brogli, TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA descendenti dal quondam Latino, dalle quali calcinante fu ristaurata con un pilastro fatto nella pubblica strada e in riparo di essa cappella, la quale anco al presente si trova in parte diruta, e quindi resta l’altare da più anni sospeso, in [?] del decreto ed occasione di Sacra Visita dalla f.m. di mons Torelli. In esso altare vi è fondato il Benefizio sotto il titolo di Santa Lucia, goduto presentemente dal S. Can. Giovanni Maria Fantoni da Urbino, con obbligo di una messa il mese.”32 La data di edificazione della cappella fornisce il terminus post quem per l’esecuzione della statua che si trova attualmente nella chiesa di San Filippo a Treia, e risulta perfettamente coerente con il suo aspetto stilistico e con l’abito indossato dal Santo, coi calzoni alla tedesca trinciati verticalmente e introdotti in Italia dai lanzichenecchi. Una foggia molto simile si vede nei costumi dei soldati in uno degli affreschi di Raffaellino del Colle nella Villa Imperiale di Pesaro, dipinti intorno al 1530. L’attrattività del San Rocco risiede soprattutto nel brillante rivestimento policromo che lo rende realistico e concreto oggetto di devozione e nell’imponenza del suo solido impianto, pur con qualche sproporzione, che si apprezza 281 Tabernacolo ligneo, secolo XVII particolarmente nella visione frontale.33 Sempre sullo stesso lato si apre la cappella del Sacramento, un ampio vano non previsto dall’originario progetto del Vici, e costruito più tardi nell’Ottocento,34 “sacellum, ornamentis, statuis, ac praesertim tabernaculo elegantissimum.”35 Infatti al centro della cappella, ornata agli angoli da statue in stucco rappresentanti i Quattro Evangelisti eseguiti da Pietro Martini da Pausola, dal 17 dicembre del 1840 vi è un maestoso tabernacolo in legno intagliato e dorato che il capitolo della cattedrale acquistò dagli eremitani del cenobio di Sant’Agostino in Sant’An- gelo in Pontano. Nelle Memorie del Capitolo trejese, infatti, alla data suddetta si legge: “Fu eretto il magnifico ed elegante tabernacolo nella Cappella del SS.mo Sacramento. Questo è un vario lavoro del mille e cinquecento, come può notarsi dallo stile, ed in doratura. Detto tabernacolo fu comprato dagli agostiniani di Sant’Angelo in Pontano, che da qualche tempo l’avevano tolto dalla lor chiesa e dismesso, quasi abbandonato, perché era di tal maniera deteriorato e maggiormente in tempo di soppressione da non potersi ristaurare senza una fortissima spesa. Il Canonico d. Pacifico Demattia anima- 282 to in prima dal Sig. Marchese Tommaso Castellani, e dal R.mo Capitolo ne fece acquisto e quindi fattolo ristaurare, indorare in una gran parte ec. dopo un anno dalla compra oggi è stato posto sull’altare appositamente avolto di nuovo. L’Altare, il Tabernacolo, e la Balaustra di ferro non è costato di meno di scudi duecento e quattro. Tale spesa a carico del Capitolo scudi cento trenta: pel resto contribuirono alcuni canonici complessivamente al d Canonico dematia [sic].”36 Nella chiesa di San Nicola da Tolentino a Sant’Angelo in Pontano da cui fu sgomberato per le cattive condizioni in cui versava, il tabernacolo si trovava originariamente nella cappella Colucci, affrescata all’inizio del Seicento da Domenico Malpiedi. Fu probabilmente realizzato tra il 1617 e il 1619, anni in cui il padre generale dell’ordine degli Agostiniani Nicola Giovanetti curò l’arredo della chiesa.37 Il tabernacolo è costituito da una struttura architettonica piramidale a tre ordini, sostenuta ai quattro angoli della base da quattro angeli; il primo ordine sulla fronte e sul lato posteriore, è scandito da colonne corinzie scanalate che affiancano quattro nicchie contenenti statuette di santi, e al centro sostengono un timpano, sopra la porticina del ciborio, con la scritta “panis angelorum”; nei due lati sono dipinti i due santi vescovi “S. Tomasso” e “S. Hilarius”; nello sportello sul retro è invece dipinto sant’Agostino, indizio della chiesa d’origine; il secondo ordine, definito da colonne binate a fusto liscio e da due nicchie con statuette per lato, termina con un attico con balaustra su cui si erge il tempietto a cupola che funge da coronamento. La scenografica struttura lignea della cappella del Sacramento, in cui le statue di angeli sono da intendersi come trasposizione figurata di sostegni architettonici, ha un posto di rilievo nell’ambito del processo di trasmissione iconografica Silvia Blasio Madonna della Colonna, secolo XV avviato nell’età della Controriforma dal tabernacolo di Pirro Ligorio, donato da Pio IV e posto nel 1564 sull’altar maggiore del duomo di Milano, costituito da un ciborio a cupola sorretto agli angoli da quattro angeli inginocchiati, uno schema che poco dopo si ritrova nel grandioso ciborio a forma di tempietto in bronzo dorato sostenuto da quattro angeli nella Cappella Sistina di Santa Maria Maggiore a Roma, opera di Ludovico Scalzo, del 1586-88 circa; ma già prima del Concilio di Trento, il vescovo di Verona Matteo Giberti progettava di far sorreggere il tabernacolo della cattedrale da quattro angeli di bronzo.38 Sulla scorta di tali precedenti formali milanesi e romani, anche il tabernacolo ligneo di Treia partecipa dell’intenso movimento promosso dalla chiesa nella seconda metà del Cinquecento allo scopo di restituire la massima evidenza e centralità all’altare e al Sacramento dell’Eucarestia, come evidenziano sia le Instructiones di Carlo Borromeo, sia uno specifico trattato sulla forma e struttura dei tabernacoli pubblicato nel 1628 da Giovanni Battista Montano.39 La cappella seguente, dedicata al Beato Pietro da Treia e sotto il giuspatronato della famiglia Grimaldi, ospita a sinistra il cenotafio marmoreo di Grimaldo Grimaldi, morto nel 1853 e a destra, come si è detto, il monumento di Niccolò Grimaldi con le statue del Bregno. Sull’altare al centro vi è un dipinto su tavola rappresentante l’Assunta che dona la cintola a san Tommaso e i santi Pietro, Girolamo, Giovanni Battista, Patrizio vescovo (?), Biagio vescovo e Caterina d’Alessandria. Di questa bella pala cinquecentesca non vi sono notizie nei documenti; si trovava nella cripta fino a quando non fu ritirata per il restauro, per essere poi ricollocata in chiesa dove oggi si vede.40 Un indizio che tuttavia potrebbe forse indicarne la collocazione originaria nella stessa antica collegiata, già dedicata a San Giovanni Battista,41 è la posizione preminente del Precursore inginocchiato in primissimo piano. Il santo vescovo in secondo piano, di cui è visibile solo la testa e il bellissimo pastorale con il riccio d’oro, si può tentativamente identificare con San Patrizio, protettore della città, anche se è impossibile esserne certi perché il santo non reca alcun attributo iconografico. Per quanto concerne l’autore della tavola, non vi è dubbio sull’attribuzione ad Antonio da Faenza, di cui richiama inequivocabilmente impianto compositivo, fisionomie, gesti ed espressioni, colorito morbido e pesanti panneggi, fino al bel paesaggio di sfondo che per l’ acutezza grafica degli alberetti nervosi e delle rocce zoomorfe afferisce al Lotto e ai modelli nordici circolanti in Italia al principio del Cinquecento. La paternità42 si evince facilmente dal confronto con le altre pale d’altare lasciate dal pittore nel territorio marchigiano dove fu attivo per circa quindici anni, come quelle per Loreto, Polverigi, Montelupone, Cingoli, e per la stessa Treia, dove in San Michele è uno Sposalizio di Santa Caterina.43 Da tutte TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA Antonio da Faenza, Assunta che dona la cintola a san Tommaso e santi 283 284 Giovan Battista Foschi (?), Annunciazione queste opere che costituiscono il nucleo più consistente di attività del faentino, la poco nota pala di Treia si differenzia tuttavia nettamente per essere priva dell’inquadramento architettonico, altrimenti motivo ricorrente nelle sue pitture, al quale è costretto qui a rinunciare per poter dipingere Maria sulle nuvole circondata da angeli musicanti nell’atto di porgere la cintola a san Tommaso. La perizia prospettica altrove ampiamente dispiegata, qui si esercita solo nel perfetto scorcio del sepolcro marmoreo. Anche Antonio da Faenza, come Vincenzo Pagani cui la pala di Treia era stata in passato attribuita,44 fa parte della schiera Silvia Blasio Giovan Battista Foschi (?), Visitazione dei proto-classicisti attardati che tennero fede, ancora nel nuovo secolo inoltrato, ai principi compositivi di equilibrio e simmetria compositiva, di pacata e dolce religiosità elaborati nell’Italia centrale sullo scorcio del Quattrocento e che il ricorso a spunti raffaelleschi e lotteschi o da artisti più moderni come Girolamo Genga riesce solo superficialmente a rinnovare. Per le affinità con la pala d’altare con la Madonna e santi della collegiata dei Santi Apostoli Pietro e Paolo di Montelupone, del 1525, alla tavola treiese si addice una datazione nella seconda metà del terzo decennio. Dietro la tavola di Antonio da Faenza e quindi non visibile attualmente, è un piccolo dipinto murale raffigurante la cosiddetta Madonna della Colonna, un’immagine trecentesca raffigurante la Madonna col Bambino benedicente, che nella chiesa antica dava il nome alla cappella omonima situata nella navata in cornu Epistolae e comunicante con quella contigua della Madonna della Misericordia: “Nella nave a cornu Epistole seguitando il giro della Chiesa verso la Sacrestia vi è la Cappella della Madonna della Colonna, illuminata da due finestre, una laterale verso ponente, l’altra sopra l’altare, sopra del quale vi è la cupola con altre due finestre, et in cima il cupolino TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA Giovan Battista Foschi (?), Natività con finestrini. La Cappella suddetta fu fabbricata in tempo dell’eminentissimo Franzoni coll’elemosina contribuita dal popolo. A’ presentemente le sue entrate, le sue suppellettili anco preziose, e ne tiene l’amministrazione il Can.co Lorenzo Didimi. L’altare ha l’ornamento di legno dorato con due nicchie, dove sta disposta l’immagine di essa Vergine, detta della Colonna, parte segata dalla Colonna dove oggi vi appoggia il pulpito. In essa è fondato il benefizio sotto il titolo de’ Ss. Fabiano e Sebastiano goduto presentemente dal Canonico Girolamo Brogli coll’obbligo di due messe ogni mese.”45 La cappella era sotto il giuspatronato 285 Giovan Battista Foschi (?), Fuga in Egitto della famiglia Bonomi. Sopra le quattro porte angolari della chiesa sono collocati quattro dipinti seicenteschi su tela raffiguranti Storie della Vergine. In essi si possono con certezza riconoscere le tele che ornavano la cappella della Concezione, o del Sacramento, con il giuspatronato della famiglia Santamariabella Posci nella vecchia pieve: “Dentro la nave a cornu Evangelii scendendo dal deferito altare a cornu Evangelii verso al Battistero vi è la Cappella della Santissima Concezione ereditaria della famiglia SantaMaria Bella Posci, vi è l’altare col quadro che rappresenta la medesima Immacolata Concezione, ovato di stucchi a disegno corinto, come anco i laterali della Cappella con quattro quadri di ottimo pennello, due cioè a cornu epistole, uno rappresentante l’Annunziata, l’altro la Visita di S. Elisabetta et in mezzo un finestrone co’ vetri, a cornu Evangeli due altri, uno cioè rappresentante la Natività di N. S., l’altro la Fuga in Egitto […] Nei lati dell’altare vi sono due statue di stucco una di S. Fran. co di Assisi, l’altra di S. Antonio da Padova. Il volto tutto fregiato di stucco e dipinto a guazzo. Il pavimento è di mattoni ed in cima dell’arco lo stemma della suddetta famiglia Posci. […].46 Il dipinto sull’altare con l’ Immacolata Concezione e le due statue in stucco raffiguranti san 286 Silvia Blasio Giovanni di Corraduccio, Visione del beato Corrado da Offida Francesco e sant’Antonio da Padova sono andati perduti, ma i quattro quadri che ornavano le pareti della cappella sono stati riutilizzati per l’arredo della nuova cattedrale. Ciascuno di essi presenta in basso a destra uno stemma comitale partito: nella parte destra si può riconoscere l’arme della famiglia Santamariabella Posci,47 mentre la destra non è per ora possibile identificarla. In margine alla descrizione della cappella nell’Estratto del Benigni, in grafia diversa, si legge la seguente annotazione: “Si credono di Simon Cantarino. Il Sig. Maggiori di Fermo ha delle notizie su tal proposito, e dell’epoca precisa in cui furono dipinti.”48 Se il nome di Simone Cantarini si può serenamente escludere, i quadri appaiono veramente “di ottimo pennello” come dicono i documenti, tanto da aver attirato l’attenzione di un raffinato collezionista e studioso come Alessandro Maggiori. I dipinti tutti certamente della stessa mano, rappresentano l’Annunciazione, la Visitazione, la Natività e la Fuga in Egitto e evidenziano una cultura figurativa composita e interessante, in cui le varie tendenze seicentesche, dal naturalismo, al classicismo di impronta reniana, fino all’enfasi barocca si mescolano o prevalgono l’una sull’altra nelle singole scene: la Fuga in Egitto, ambientata sullo sfondo di un denso bosco, minaccioso e protettivo insieme, mostra come pienamente assimilata la lezione del paesaggismo seicentesco, soprattutto per lo stretto rapporto emotivo tra figure e ambiente naturale ma denota una capacità notevole di approfondimento su brani di verità, come nello straordinario muso dell’asino e negli arbusti che delimitano il proscenio. Il volto preoccupato della Vergine, cui il Bambino si aggrappa cercando al contempo lo sguardo di Giuseppe che si volge indietro, indica la ripresa di un modello di Guido Reni e questo evidente richiamo bolognese potrebbe allora facilmente spiegare l’antica ipotesi del riferimento a Simone Cantarini. L’Annunciazione appare invece una sorta di esperimento barocco non perfettamente riuscito che si limita ad un agitarsi di panni spiegazzati - come nel manto di Zaccaria nella Visitazione - intorno al corpo dell’Arcangelo dal volo impacciato. Brani di profondo naturalismo tornano anche nella Natività, nel cestino in primo piano e nella paglia che sfuggita dalla mangiatoia si sparge al suolo. Il modulo allungato delle figure dalle teste piccole, i volti squadrati degli angioletti, gli effetti di penombra sui colori brillanti e l’illuminazione radente, la sobrietà compositiva nonché alcune evidenti carenze nel disegno potrebbero suggerire il nome dell’anconitano Giovan Battista Foschi,49 formatosi probabilmente presso il Pomarancio e aggiornato sulla cultura romana, specialmente Caravaggio e Lanfranco. La proposta ha solo il valore di un’ ipotesi di lavoro, visto che del pittore non si conoscono gli estremi biografici e che le sue poche opere note sono tutte comprese entro gli anni Venti. Per la stessa ragione non si deve nemmeno escludere che i dipinti trejesi possano rappresentarne la fase matura, segnata da esperienze più moderne e barocche, e che quindi la sua attività si sia protratta sino agli anni Quaranta inoltrati. Infatti “questa Cappella fu fatta con consenso del Capitolo e beneplacito di Monsignor Altieri […] li 13 aprile 1647 edificare dal fu Giuliano Posci nel sito ove anticamente era la Sagrestia vecchia.”50 Alcune notizie tratte dalle Memorie del Capitolo Trejese riguardano l’allestimento decorativo del presbiterio della nuova cattedrale. “Adì 14 aprile 1810 si stabilì il contratto per pitturare il sud.o catino TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA 287 Vincenzo Pagani, Deposizione di Cristo al Sig. Giorgio Panfilj di Fermo per il prezzo di scudi 22.”51 […] “Adì 13 gen 1813 furono collocati i banconi nel Presbiterio, avuti in dono dal Sig. Luigi Angelini, che comprò dal demanio essendo del Refettorio degli ex Padri Agostiniani di Treia Raffaele Sparapani, e Nicola Bartoloni falegnami della nostra chiesa li collocano in detto luogo […]”52 1881 30 settembre. In questo giorno venne collocato nell’altare Maggiore il novello Quadro della Vergine Annunziata, copia squisitamente eseguita, sullo impareggiabile Originale di Guido Reni, dal Pittore Romano Luigi Romagnoli. Argeo Can. co De Mathia Reggente.”53 Nel 1893 il pittore Nicola Didimi e lo stuccatore Paolo Paoloni furono incaricati di eseguire decorazioni nell’abside;54 nel 1959 la ditta Conconi di Como ha ridipinto l’intera chiesa, affrescando le volte. Tra i dipinti della sagrestia, una piccola pinacoteca sacra, si segnalano la Visione del Beato Corrado da Offida, sulla parete d’ingresso a sinistra, proveniente dal convento francescano osservante della Santissima Annunziata di Forano, la cosiddetta “Porziuncola delle Marche” e donata al capitolo della cattedrale di Treia nel 1812 dalla famiglia Grimaldi, che l’aveva acquistata dai frati al tempo delle soppressioni napoleoniche. Pochi anni prima di questo evento, il 5 marzo 1792, la tavola, ancora nella sua collocazione originaria fu sottoposta al giudizio dei due pittori Giuseppe Lucatelli di Tolentino e Giacomo Falconi di Recanati, alla presenza di Romolo Grimaldi e Patrizio Castellani come testimoni, che nella lunghissima perizia ne descrivono con precisione le caratteristiche tecniche, morfologiche e materiali, il complesso soggetto e ne trascrivono le numerose iscrizioni indicandola come “Quadro che al presente si conserva in fondo al corridore che conduce alla chiesa nel convento di Santa Maria di Forano de’ Padri Minori Osservanti Riformati, e che anticamente stava collocato nell’Oratorio, detto del Beato Corrado d’Offida posto nel più folto della Macchia di detto Convento”.55 Si tratta di una tavola gravemente lacu- nosa dalla singolare morfologia a centina ribassata, a lungo riferita a Giacomo di Nicola di Recanati ma oggi ritenuta concordemente opera del pittore folignate Giovanni di Corraduccio, insieme alla tavola gemella della Pinacoteca Civica di Macerata raffigurante la Madonna col Bambino e i santi Pietro, Paolo, Giovanni Evangelista, Giovanni Battista e Francesco. Il programma iconografico è strettamente legato al sito di Forano: al centro la Madonna porge il Bambino al Beato Corrado da Offida, secondo la visione che egli ebbe nella selva di Forano, narrata nel capitolo XLIII dei Fioretti di San Francesco, a sinistra appare il beato Pietro da Treia che assistette di nascosto alla visione. Vi sono poi i santi Giovanni Evangelista e Francesco che apparvero al beato Pietro da Treia mentre questi nella meditazione si domandava chi nella Passione di Cristo avesse sofferto di più. Infine, inginocchiato davanti al beato Pietro è il beato Giovanni da Monte di Santa Maria, anch’egli vissuto a Forano. Alle due estremità della tavola vi sono due 288 personaggi più piccoli: a destra un laico e a sinistra un frate, probabilmente il guardiano del convento che commissionò il dipinto; il suo nome era forse Lorenzo, visto che si è fatto rappresentare davanti a questo martire. La tavola potrebbe essere stata eseguita nel 1403.56 Sulla stessa parete, a destra, è visibile l’Estasi del beato Pietro da Treia, del pittore treiese Domenico Ciaramponi (Treia, 1734-1792), canonico della cattedrale e allievo di Gaetano Lapis di Cagli,57 da cui trasse il senso di perfezione formale che in questo dipinto si unisce a richiami barocceschi nelle figure di proscenio. In basso a destra si legge: “Beatus Petrus a Treia obiit Siroli 1304.” Infine sulla parete destra vi è la lunetta con la Deposizione di Cristo nel Sepolcro, considerata uno dei capolavori di Vincenzo Pagani, databile nel secondo decennio del Cinquecento.58 La grande tavola, concepita probabilmente come cimasa di una pala d’altare, si può forse riconoscere nella descrizione della cappella della Pietà nella vecchia chiesa, sotto il giuspatronato della famiglia Carinelli: “Nelle due Cappelle laterali al Coro, in quella a cornu Evangelii vi è l’Altare col quadro che rappresenta un Cristo deposto dalla Croce con le quattro Marie, un busto di S. Ant. Abate ed un altro di S. Fran.co d’Assisi, contornato con colonne di stucco ad uso Corinto e collo stemma sopra della famiglia Carinelli.”59 Particolare attenzione fu dedicata, nel corso dei secoli all’organo della chiesa. Nelle Riformanze del 1609 “[…] fu decretato di accordare scudi 60 in tre rate, cioè in principio, nel mezzo a fine dell’opera per la costruzione dell’organo fatto sempre di Paolo V Borghese, che aveva per arme un drago e un’aquila apposta in detto organo.”60 Ancora, nel 1737 si annota che nella chiesa vecchia “v’è l’organo et è de’ migliori che sono nella Provincia sta situato in mezzo della Silvia Blasio Organo di Gaetano Callido nave a cornu Evangelij. Vi è il maestro di Cappella e musici”61 e più tardi: “Maggio 1813 I Sig. deputati della Fabbrica tanto il Sig. Canco Conte Broglio Massucci, che il can.co Meloni, e i Fabbricieri Sig. Luigi Grimaldi e Lattanzio (?), fecero istanza al Demanio in Macerata per avere un organo per la loro chiesa Matrice, giacché il vecchio organo non era in stato di potersi collocare nella nuova chiesa in luogo preparato. Il demanio notificò per mezzo d’una sua lettera che v’era un organo alla Rocca Contrada del Monastero di Santa Lucia soppresso, ma che prima fosse fatto visitare se potesse esser buono per la nuova chiesa. Il Sig. Lattanzio si trasferì in detto luogo e conobbe che sebbene era piccolo pure essendo autore di detto organo Callido veneziano, lo comprò per il prezzo di scudi 200.”62 Infine “Adì 31 luglio 1813 giunse a Treja l’organo già riferito verso mezza ora di giorno portato da tre carretti, due de’ quali diede il Sig. Luigi Angelini e l’altro fu trovato gratis, come gratis furono i due primi. Il sud. Sig. Luigi Angelini diede anche le vitture gratis per il Sig. Lattanzio e l’organaro, che doveva venire per ricomporlo, ma attesi varij lavori non potette venire unitam. con il sig. Lattanzio, ma bensì il giorno 3 di agosto di detto anno fu spedito a prendere Vici organaro, che venne li 4 detto, e per li 11 di detto mese fu compito il lavoro sull’ora di terza. Riesce molto bene, ed è buono assai.”63 TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA 289 NOTE ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.6-7. Della nuova dedicazione della chiesa dà conto anche la visita del 1737: “L’insigne nostra Collegiata ne’ tempi antichi era dedicata al glorioso Precursore S. Gio. Battista. Tanto si deduce specialmente da una lapide antichissima posta in cima del Portone che dal chiostro conduce alle abitazioni unite alla chiesa” e più oltre “Oggi però vien detta sotto il nome della Santiss.ma Annunziata, e se ne celebra nel suo giorno la festa co’ vespri e messa solenni in musica del nostro maestro di Cappella […]. ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.3. 3 “Se ne ignora la prima erezione e sul fondamento della Lapide del 1303 […] si dice ampliata in detto anno. […]; ma l’altra lapide più antica scoperta nella demolizione di detta chiesa per la costruzione della odierna fa rimontare la fabbrica al 1227”. AGTr, AA, Estratto del Libro del R.mo Capitolo intitolato “Memorie” (Fortunato Benigni), 1815ca. busta 25, fasc. 1, cc. nn. 4 ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.9. Nella descrizione della pala risultano invertite tra destra e sinistra le posizioni dei due gruppi di figure. 5 Roma, Pinacoteca Vaticana. 6 AGTr, AA, Zibaldone di memorie raccolte sulla Chiesa di S. Maria della Pieve o sia Collegiata, sull’antica Canonica e membri del Capitolo e sulle antiche Chiese di S. Nicolò e S. Giovanni annesse e incorporate alla Pieve medesima colle notizie della riedificazione della odierna magnifica Collegiata, busta 25. 7 ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.11-12. Le stesse notizie sono anche in AGTr, AA, Estratto del Libro del R.mo Capitolo intitolato “Memorie” (Fortunato Benigni), 1815ca. busta 25, fasc. 1, cc. nn. 8 Per la storia della devozione treiese a questa sacra immagine vedi Meloni 1914. 9 Vedi Baldassari 1995, pp. pp. 45-48,schede nn. 15-18. 10 ASDTr, Incoronazione della Sacra Immagine della Madonna della Misericordia, 405/1.2. Vedi anche Meloni 1914, pp. 8-13 11 Per le notizie sul cardinal Grimaldi vedi Moroni, XXXIII, 1845, pp. 32-35. 12 Al di sotto della mensola in marmo si legge la seguente iscrizione: “SIXTO.V.PONT.MAX / DE.PATRIA.DE.CIVIBUS.OPTIME.MERITO / NICOLAUS.GRIMALDI.TREJENSIS / URBIS.PRAEFECTUS.ET.S.R.E. VICE.CAMERARIUS.DEDICAVIT.ANNO.1833 13 Scultore bolognese attivo a Roma a partire dal 1573 e morto nel 1596, rilevò la bottega romana di Guglielmo Della Porta e divenne responsabile della Fonderia della Camera Apostolica, introducendo secondo Baglione 1642, p. 324 importanti innovazioni nella tecnica della fusione in bronzo. 14 Massinelli 1992, pp. 37-39. 15 Baglione 1642, p. 324. 16 Massimo 1836, p. 64; Massinelli 1992, p. 39. Tra i due scultori, Torrigiani e Landini, oscilla l’attribuzione di un altro busto in bronzo di Sisto V oggi nella Skulpturensammlung im Bode-Museum di Berlino, che differisce da quello di Treia per la base in marmo, tuttavia con un similissimo motivo a ghirlanda, per la diversa soluzione del piviale e perché la testa è fusa a parte e poi fissata al collo, mentre il busto di Treia è fuso in un solo pezzo. 17 Taddeo Landini, nato a Firenze intorno al 1550 e morto a Roma nel 1596, fuse il monumento di Sisto V in Campidoglio, ora perduto. Gl è stato attribuito anche un busto di papa Gregorio XIII in bronzo nel Musei di Berlino, in coppia con quello di Sisto V citato alla nota precedente. 18 ASDTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403, c. 40, Memoria de’ Semibusti dati in dono dall’Em.o signor Cardinale Grimaldi alla nostra chiesa. 19 “PIO.VII.PONT.MAXIMO / RESTITVTORI .EPISCOPATVS.TREJENSIS / NICOLAVS.CARD.GRIMALDVS.POSVIT / ANNO.MDCCCXXXIV. Sempre in ADTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403, c. 35 si legge che i due busti “vennero collocati in alto per ordine del medesimo (il cardinale Grimaldi), nell’Atrio della Chiesa, cioè sopra la porta il primo, che conduce alla torre, ed il secondo dirimpetto al primo, sopra quella che introduce al Battisterio. 20 Sullo scultore vedi Raggi 1880; Scultura a Carrara 1993. 21 ASDTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403, c. 40, Memoria de’ Semibusti dati in dono dall’Em.o signor Cardinale Grimaldi alla nostra chiesa. 1 2 Moroni 1845, vol. XXXIII, p. 35: Ciò che resta della sepoltura di Ottone II, una gigantesca urna ovoidale, è oggi nelle Grotte vaticane vecchie, all’inizio della navata sinistra. Sulle antiche sepolture nella basilica di San Pietro vedi Caglioti 2000, III, pp. 359-365. 23 Misurano rispettivamente cm 84 e cm 90. Serra le menziona dapprima senza autore come “Arte dell’Italia centrale f.sec. XIV-pr.XV:statuine in pietra di S. Pietro e S. Paolo” (Serra 1925, p. 67), in seguito le pubblicherà come opere di Andrea Bregno provenienti da san Pietro (Serra 1929b, pp. 224-228; Serra 1935, pp. 391-393). 24 Per il percorso di Andrea Bregno vedi da ultimo Caglioti 2005, pp. 386-481; Gallavotti Cavallero 2008, pp. 203-207. 25 ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.7. 26 Vi si legge MATRONA / FILIAE SUAE / MATRONE. 27 ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.12. 28 AGTr, AA, Estratto del Libro del R.mo Capitolo intitolato “Memorie” (Fortunato Benigni), 1815ca. busta 25, fasc. 1, cc. nn. 29 AGTr, AA, Memoria sull’antichità e pregi della Insigne Collegiata di Treja con suo sommario di Fortunato Benigni trejese, Dottor di Leggi e Socio Corrispondente dell’Accademia Archeologica Romana, e Reale agraria di Torino e Storiografo della Patria 1815, busta 16, fasc. 3/2. 30 Vedi R. Vitali in La cultura lignea 1999, pp. 155-156, scheda n. 95. 31 AGTr, AA, Zibaldone di memorie raccolte sulla Chiesa di S. Maria della Pieve o sia Collegiata, sull’antica Canonica e membri del Capitolo e sulle antiche Chiese di S. Nicolò e S. Giovanni annesse e incorporate alla Pieve medesima colle notizie della riedificazione della odierna magnifica Collegiata, busta 25, cc. nn. 32 ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.10. Le stesse notizie più dettagliatamente, sono anche AGTr, AA, Estratto del Libro del R.mo Capitolo intitolato “Memorie” (Fortunato Benigni), 1815ca. busta 25, fasc. 1, cc. nn. 33 Per alcuni dati tecnici sulla scultura e ulteriori notizie vedi S. Blasio in La cultura lignea 1999, pp. 85-87, scheda n. 46. La nicchia in cui si trovava il san Rocco era chiusa anteriormente da una tela scorrevole con lo stesso soggetto. Attualmente il dipinto è in un deposito della cattedrale, in attesa di essere restaurato (comunicazione del parroco, don Vittorio Fratini). Per la statua lignea vedi anche De Mathia 1901, p. 176. 34 Vedi il saggio sull’architettura di Stefano D’Amico in questo volume. 35 De Mathia 1901, p. 177. 36 ASDTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403, c. 36v. 37 K. Del Baldo, in Cultura lignea 1999, p, 158, scheda n. 98. 38 Per questo filone iconografico, in cui si inseriscono anche altri manufatti lignei marchigiani vedi Blasio 2002, pp. 147-159, anche per la bibliografia relativa ai tabernacoli milanesi e romani qui citati. 39 Montano 1628. 40 Il restauro curato dalla Soprintendenza di Urbino fu eseguito nel 1986 da Giuliano Rettori; il dipinto fu ricollocato in chiesa nel 1996. 41 Vedi infra, nota 2. Si deve inoltre ricordare anche che la cappella della Madonna della Misericordia era intitolata a San Giovanni e che fu restaurata con materiali provenienti dalla demolita chiesetta di San Pietro di cui acquisì anche tutte le suppellettili. Nell’Inventario di tutti gli Oggetti, Sagri Arredi, che sono di pertinenza della chiesa Cattedrale di Treja fatto il 31 maggio 1839 e rinnovato il dì 1 marzo 1846, nel paragrafo Quadri si menziona “Una tavola rappresentante Maria Vergine assunta in cielo destinata pel maggiore altare della chisa sotterranea” (ADTr, busta 420, 24/1.1. 42 Correttamente indicata in Treia 1998, p. 34, in cui la pala viene datata 1529. 43 Su Antonio da Faenza cioè Antonio Liberi, detto anche Antonio Domenichi o di Mazzone (Faenza 1456/ 57- [?] 1534-35, documentato a Loreto e Montelupone 1513-1525) vedi Battistini 1981, pp. 143-147, scheda n. 25, 243-244, schede nn. 51-52; Colombi Ferretti 1988, II, p. 627; Gelli 2005, pp. 45-47; A. Marchi in Vincenzo Pagani 2008, p. 228, scheda n. 46. In nessuna di questa voci bibliografiche si fa tuttavia menzione della pala di Antonio da Faenza nella cattedrale di Treia. 22 290 Espunta dalle opere del Pagani da Scotucci Pierangelini 1994, p. 212, che riferiscono di una diversa attribuzione (“viene attualmente spostata nel catalogo di Francesco di Mazzone da Faenza”) e riprodotta in corso di restauro, la tavola era stata precedentemente riferita al pittore di Monterubbiano da Serra 1925, p. 67; Serra 1932, pp. 137-139; Serra 1934 e Berenson 1932. 45 ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.10. 46 ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.8. Vedi anche De Mathia 1901, p. 175. 47 Meriggi 1978a, p. 217. 48 AGTr, AA, Estratto del Libro del R.mo Capitolo intitolato “Memorie” (Fortunato Benigni), 1815ca. busta 25, fasc. 1, cc. nn. 49 Per Giovanbattista Foschi vedi Blasio 2007, pp. 205-213. 50 AGTr, AA, Estratto del Libro del R.mo Capitolo intitolato “Memorie” (Fortunato Benigni), 1815ca. busta 25, fasc. 1, cc. nn. Su questo punto la relazione del 1737 è confusa e riporta la data 1748. 51 ASDTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403, c. 25r. 52 ASDTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403, c. 25v. 53 ASDTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403, c. 93. L’originale di Guido Reni 44 è la pala d’altare della Cappella dell’Annunciata nel Palazzo del Quirinale. 54 I contratti sono in ADTr, busta 438/03. 55 Grimaldi 1794, pp. 79-81. 56 Mazzalupi 2008, pp. 146-150. 57 Sul Ciaramponi, Toni 1978, pp. 130-131. 58 Da ultimo W. Scotucci, P. Pierangelini in Vincenzo Pagani 2008, p. 138, scheda n. 10. 59 ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.7. Vedi anche De Mathia, 1901, p. 175. Nell’ Inventario del 1839 (vedi nota 41) si cita “altra tavola che rappresenta il Sepolcro di N. S. esistente in Sagristia” 60 AGTr, AA, Zibaldone di memorie raccolte sulla Chiesa di S. Maria della Pieve o sia Collegiata, sull’antica Canonica e membri del Capitolo e sulle antiche Chiese di S. Nicolò e S. Giovanni annesse e incorporate alla Pieve medesima colle notizie della riedificazione della odierna magnifica Collegiata, busta 25, cc. Nn. 61 ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.16 62 ASDTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403/1, c. 25. 63 ASDTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403/1, c. 25. TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA 291 IL TESORO DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA DI TREIA Gabriele Barucca Arte veneta, croce reliquiario astile Nell’Archivio storico della concattedrale di Treia esiste un Inventario di tutti gli oggetti, e Sagri Arredi, che sono di pertinenza della Chiesa Cattedrale di Treia fatto il dì 31 Maggio 1839, e rinnovato il dì 1 Marzo 18461 in cui sono elencati, distinti secondo le diverse categorie, innumerevoli oggetti, che fortunatamente in gran parte ancora si conservano. Si tratta di suppellettili ecclesiastiche e soprattutto di parati liturgici che arricchirono in maniera davvero notevole il tesoro della chiesa di Santa Maria in particolare dopo che la vecchia pieve lasciò spazio alla nuova chiesa elevata nel 1815 al rango di cattedrale. Ciò risulta evidente dal confronto con un Inventario di tutte le robbe mobili, paramenti, et Argenti della Sacrestia della chiesa di S. Maria detta Pieve di Montecchio2, stilato il 14 novembre 1666 e assai Turibolo e navicella, fine del XVI – inizio del XVII secolo meno consistente di quello ottocentesco. Peraltro alcuni pezzi citati nel vecchio inventario risultano ancora superstiti. È il caso di “una croce piccola di Argento con coralli attorno”, senz’altro da identificare con la croce-reliquiario3 tuttora esistente e descritta con precisione ai primi dell’Ottocento in un foglio che ne reca anche uno schizzo, nell’Archivio dell’Ac- cademia Georgica di Treia: “L’altra Croce Stazionale della nostra Cattedrale certamente più antica di quella già descritta a tergo della lunghezza di palmi uno ed once cinque, e della larghezza di palmi uno ed once due è formata di legno coperto interamente anche nelle fiancate con lastre di rame indorato senza alcune immagine di Crocefisso ne altra qualsiasi 292 Gabriele Barucca Filippo Tofani, ostensorio raggiato Matteo Chiocca, calice Ludovico Barchi, reliquiario a ostensorio figura di rilievo ma tutta impestata intorno intorno, nel mezzo, e per fino nella grossezza del legno sì nella parte anteriore, che posteriore di ambre, coralli, ametisti, e grossi pezzi di cristallo ovato con cinque circhi incavati nella profondità del legno, come nella sopraposta figura munito di cristallo, e contenenti altrettante sacre reliquie distinte ognuna interiormente col suo cartellino in minuti caratteri longobardi. Il rovescio è in tutto simile alla parte anteriore si nell’ornato, che negli incavi, e la Croce è del genere delle Immisse.”4 E’ stato giustamente rilevato che la croce presenta caratteri tipologici e stilistici veneziani, evidenti nell’espansione gigliata delle terminazioni e nella profusione decorativa. Va forse rivista la datazione proposta al secolo XV e anticipata alla fine del Trecento, in ra- gione di un rapporto molto stretto con un’analoga croce trecentesca conservata nel monastero di San Marco di Offida, riconosciuta come prototipo da cui far derivare una “serie di croci quattrocentesche, tipologicamente affini, ma assai meno preziose e di fattura quasi seriale, opere forse d’importazione, anche se non è da escludere una produzione locale su influsso veneziano”5. Tra gli oggetti sacri più antichi, appartenuti alla vecchia pieve di Santa Maria e ancora conservati, merita segnalare inoltre un servizio per incensazione omogeneo, costituito da turibolo e navicella6, databile stilisticamente tra la fine del Cinquecento e il primo quarto del Seicento. Sono infatti riferibili al repertorio ornamentale di quel periodo le baccellature e i piccoli festoni fitomorfi sbalzati sulle rispettive coppe, mentre il disegno del coperchio del turibolo, traforato a giorno, esemplifica col susseguirsi di trifore e pinnacoli, il persistere di modelli tradizionali e codificati, tipico di questo genere di suppellettili liturgiche. Al di là del rilievo artistico, “è da notarsi”, come scrive il canonico Giuseppe Meloni “che il nostro Turibolo d’argento richiesto dal Capitolo della Cattedrale di Recanati fù adoprato dal sommo Pontefice Pio Settimo nell’incensazione al Santissimo Sagramento allorquando fece ritorno da Francia in Roma che seguì il sudetto 16 maggio 1814”7 La richiesta dei canonici recanatesi non deve sorprendere, riflette infatti la situazione verificatasi a causa delle requisizioni napoleoniche nonché della complessa e dolorosa operazione di confisca degli argenti ordinata dallo stes- TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA so governo pontificio per far fronte alle onerose contribuzioni di guerra imposte dai Francesi. I corredi liturgici delle chiese vennero così quasi per intero distrutti e spesso, come nel caso del duomo di Recanati, non rimase neanche lo stretto necessario per la celebrazione dei riti. Nel caso di Treia, si riuscì evidentemente a sottrarre alla requisizione qualche oggetto in più che ancora si conserva. Seguendo l’ordine del citato Inventario del 1839 il primo pezzo della lista degli argenti è ”un ostensorio lavorato a cisello con raggi di getto dorati, e con vari rabeschi egualmente dorati”. L’oggetto8 ha impresso un bollo identificabile con qualche dubbio con quello usato dall’argentiere romano Filippo Tofani da circa il 1753 alla morte avvenuta nel 1764, anni entro cui si data dunque l’oggetto. Il secondo pezzo elencato e tuttora esistente è “un calice di getto offerto fin dal 1700 dal Signor Carlo Carinelli”. Sotto il piede del calice d’argento fuso corre infatti l’iscrizione: “D. CAROLUS CARINELLVS DONAVIT ECCLESIAE COLLEGIATAE ANNO IVBIL’ 1700”. Sono poi presenti altri due calici settecenteschi. Il primo9 è caratterizzato da una struttura molto semplice con piede tondo e fusto con nodo piriforme, e da un apparato decorativo affidato a naturalistici cespi di foglie d’acanto che cingono nodo e sottocoppa. Questa tipologia affermatasi nella seconda metà del Seicento fu destinata a un enorme successo e venne replicata serialmente fin oltre la metà del secolo successivo. Infatti il calice di Treia reca incisa sotto il piede la data 1747 nonché impresso il bollo del maestro Matteo Chiocca (Roma, 1702 – 1758; pat. 1734), capostipite di una dinastia di argentieri attivi a Roma fino alla metà dell’Ottocento10. Il secondo11 con bollo illeggibile presenta il consueto repertorio di decorazioni di gusto rocaille con teste di cherubini, conchiglie, cartelle architettoniche entro cui sono sbalzati i simboli della Passione. Se la qualità della lavorazione associa questo calice ad una produzione quasi seriale è invece un autentico capolavoro dell’arte orafa romana del Settecento il magnifico reliquiario a ostensorio12, costituito da lamine d’argento sbalzate, cesellate e incise, applicate su un’anima lignea, che ha impresso il marchio dell’argentiere Ludovico Barchi13. Nato a Modena intorno al 1678 ma già alla fine del Seicento documentato a Roma, dove nel 1713 ottenne la patente di maestro, Ludovico Barchi operò fino al 1731, quando si suicidò. La presenza del bollo camerale in uso a Roma nel biennio 1725-1727 consente di circoscrivere con certezza la datazione dell’oggetto. L’opera, ispirata nella concezione dell’insieme alle ridondanze del barocco architettonico romano, è realizzata con straordinaria perizia tecnica, a conferma dell’abilità di Ludovico Barchi, argentiere assai reputato nella Roma del primo quarto del Settecento, legato a prestigiosi committenti, come ad esempio la famiglia Pallavicini. Agli oggetti provenienti direttamente da botteghe orafe romane si aggiungono nel tesoro della cattedrale di Treia alcuni pezzi realizzati da argentieri attivi localmente. È opera di Sebastiano Perugini una 293 Sebastiano Perugini, croce processionale di confraternita e particolare grande croce processionale che, come indica la scritta incisa alla base del montante, fu realizzata nel 1702 su commissione di Muzio Castellani e Simon Giovanni Pancotti, deputati della confraternita di Santa Maria Maggiore di Treia.14 Il bollo con le iniziali GP, che si rileva sulla lamine d’argento della croce, attesta che Sebastiano Perugini continuò a usare il merco del padre Giuseppe con cui certamente condivise dagli ultimi anni del Seicento la conduzione della bottega di famiglia. Bottega, la cui attività è attestata nel corso del XVII secolo fino al primo quarto del Settecento. La “bellissima croce processionale” di Treia, come la definisce il Bulgari15, conferma la buona reputazione che Sebastiano deve aver goduto presso i committenti dell’epoca e che gli 294 Gabriele Barucca Dionisio Boemer, reliquiario a ostensorio Dionisio Boemer, reliquiario a ostensorio Antonio Piani, calice procurò la nomina nell’agosto del 1695 a “orefice e argentiere della Santa Casa di Loreto”: carica di prestigio, riconfermata nel luglio del 1701, e ricoperta probabilmente fino al 170616. Tra i reliquiari, del tipo a ostensorio, presenti in gran quantità e in svariati modelli nel tesoro di Treia, si segnalano due pezzi che si distinguono dagli altri piuttosto corsivi per l’originalità del disegno e la resa esecutiva. Entrambi sono marcati da Dionisio Boemer, argentiere nato a Münster, giunto in Italia ai primi del Settecento con le truppe tedesche dirette a Napoli e in seguito stabilitosi a Macerata, dove aprì bottega a partire almeno dal 171117. Della sua cospicua produzione, di cui si sono rintracciati nelle chiese del maceratese innumerevoli pezzi, i due reliquiari di Treia costituiscono un’in- teressante aggiunta. Il primo è definito dal susseguirsi di volute fogliacee, fiori e festoncini di frutti di gusto ancora tardo seicentesco sbalzati sulla lamina d’argento, che dà forma al piede, al fusto e alla mostra con la teca ovale contenente le reliquie18. Nella lastra d’argento, fissata all’anima lignea, che costituisce il secondo reliquiario prevalgono invece motivi afferenti a forme architettoniche e, in ossequio alla reliquia della vera Croce contenuta nella teca centrale, la mostra è definita da una croce con intorno una fitta raggiera a dardi uniti, tipica della produzione del Boemer, e il campo centrale del piede presenta sbalzati a bassissimo rilievo i simboli della Passione19. Reca il bollo personale di Antonio Piani, quello della bottega di famiglia (la Torre) e quello di garanzia del distretto di Macerata, usato dal 1785 al 1790 circa, il bel calice con sbalzato sotto il piede un cuore fiammato, simbolo dei Filippini ad indicare nella chiesa treiese di San Filippo la sua originaria destinazione20. Se è giusta la lettura del bollo di garanzia il calice di Treia, che presenta caratteristiche formali e decorative tipiche del Settecento ormai inoltrato, è da ritenersi un’opera della produzione giovanile di Antonio Piani, esponente della più nobile e famosa dinastia di argentieri maceratesi, la cui prolifica attività arriva fino al 1825, anno della morte. Fino a qui sono stati illustrati gli oggetti sacri preesistenti alla costruzione della nuova chiesa collegiata, iniziata nel 1782, consacrata il 29 settembre 1814 e un anno dopo “esaltata alla cattedra vescovile”21. Proprio per le necessità li- TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA 295 Pianeta del cardinale Nicolò Grimaldi Antonio Cappelletti, reliquiario a busto di san Patrizio Bottega romana, reliquiario architettonico, secolo XIX turgiche legate al nuovo status di cattedrale il corredo di suppellettili sacre si accrebbe in modo cospicuo nel corso dell’Ottocento grazie alle donazioni di munifici oblatori. Tra questi la figura più prestigiosa e generosa è senz’altro quella di monsignor Nicolò Grimaldi (Treia 1768-Roma 1845), discendente da una antica famiglia del luogo che, come tanti altri esponenti della nobiltà delle piccole città marchigiane, percorse nella Curia romana un cursus honorum brillante e illuminato nel 1834 dall’ingresso nel Sacro Collegio cardinalizio.22L’illustre porporato mostrò un costante interesse per la sua città d’origine, considerando strettamente doveroso e legato al proprio ruolo gratificarla di autorevole attenzione. Questo si manifestò in particolare nella fase di ricostruzione della cattedrale, alla quale in seguito destinò munifici doni. Nel “1838. Grimaldi Sua Eminenza, e Legato in Forlì nel giorno 10 Giugno, dedicato alla Solennità della Santissima Trinità, colla mediazione del Reverendissimo Signor Canonico D. Domenico Ciaramponi, fece trovare improvvisamente nella Sagristia della nostra Chiesa Cattedrale esposto un magnifico semibusto di argento, rappresentante il Glorioso nostro Protettore S. Patrizio Vescovo, la di cui Mitra è tempestata di preziose Gemme, e dorata a perfezione, ed il Piedistallo in egual maniera dorato, e dinanzi al medesimo una sua lettera diretta a questo nostro Capitolo, che aperta alla presenza di più Canonici, con somma sorpresa fu letto, essere questo semibusto un pegno dell’attaccamento, che S. Eminenza conserva al Capitolo Trejese, a cui lo donava interamente ed in assoluta proprietà, nonché un effetto della sua divozione verso il Protettore della sua Patria.”23 Così leggiamo nelle Memorie del Capitolo Trejese dove più oltre si attesta che “Il Semibusto in argento rappresentante S. Patrizio Protettore della nostra Città è lavoro del celebre argentiere Borgognoni romano.”24A guardar bene però quest’ultima notizia non risulta confermata dall’analisi del punzone dell’artefice impresso sulla lamina d’argento del reliquiario a busto.25 Infatti sull’opera compare accanto al bollo camerale quello assegnato nel 1815, per effetto del riordino di tutto il sistema della bollatura, all’argentiere Antonio Cappelletti. Originario di Caserta dove nacque nel 1772, Cappelletti ottenne a Roma la patente di maestro nel 1804 e in seguito operò fino al 1838, anno della sua morte. Il reliquiario a busto di san Patrizio di Armagh è dunque un’opera della fase estrema di attività dell’argentiere che pur sostenuto da una tecnica esecutiva assai 296 Gabriele Barucca Bottega orafa romana, calice Paolo Bonessi, croce processionale di confraternita Carlo Montini (?), calice raffinata non si discosta nell’elaborazione del busto da uno schema ormai convenzionale e raggelato. L’uso consueto di apporre a questi oggetti devozionali lo stemma del committente in questo caso inciso su uno scudo argenteo, applicato sulla fronte del basamento in bronzo dorato del busto - consente di individuare senza dubbio altri doni del Grimaldi alla cattedrale. In particolare merita citare un reliquiario architettonico ad edicola (altezza 56,5 cm) impiallacciato d’ebano e decorato da pietre dure, gemme colorate, cristallo di rocca e filettature d’argento. Il sacro arredo si presenta come un piccolo altare alzato su un basamento a carattere architettonico, al centro del quale è applicata tra ovali di agata una placca d’argento con l’arma del cardinale. L’edicola superiore include nel- la specchiatura centrale, fiancheggiata da due colonne d’agata, una teca cruciforme contenente un frammento del legno della Santa Croce e uno della colonna della Flagellazione. Alla sommità è un timpano con un’edicola centrale includente un ovale di corniola. Di severa struttura architettonica vivacizzata dagli inserti colorati delle pietre dure e delle gemme, nonché impreziosita dalle filettature d’argento, parzialmente perdute, questo arredo sacro costituisce la riproposizione ottocentesca di un genere di oggetti che ebbe straordinaria fortuna nell’ambiente artistico romano a partire dal primo Seicento, quando ebanisti e orafi, per lo più nordici, insieme a esperti lapicidi realizzarono innumerevoli reliquiari, studioli, casse di orologi notturni e pendole. Questa produzione che connotò il gusto dell’epoca barocca, evidentemente si protrasse fino all’Ottocento, replicando un repertorio superato ma gradito alla committenza con esiti formali meno eleganti e con una resa esecutiva meno raffinata. Lo stemma del cardinale Grimaldi (troncato: nel primo di rosso all’aquila di argento con ali spiegate, e posata sulla partizione; nel secondo scaccato di rosso e di argento), timbrato con il cappello e le nappe esprimenti la dignità cardinalizia, è ricamato e applicato su “una ricca pianeta di lana d’oro di colore rosso del prezzo di scudi 70”, che nel “1844. Sua Eminenza reverendissima il Signor Cardinale Niccola Grimaldi sempre generoso colla nostra chiesa ai 12 ottobre portò in dono”.26 La pianeta Grimaldi in taffetas rosso laminato è solo uno dei numerosissimi paramenti sacri di ogni for- TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA 297 Bottega orafa romana, servizio da lavabo, secolo XIX Bottega orafa romana, ostensorio raggiato, secolo XIX ma e colore liturgico, che, puntualmente elencati negli inventari della cattedrale, ancora fortunatamente si conservano nelle cassettiere e negli armadi della sala capitolare, sebbene dismessi quasi del tutto dall’uso liturgico. Risale agli anni immediatamente successivi alla consacrazione della nuova chiesa la realizzazione della grande croce processionale della Confraternita del Corpus Domini che presenta su un fondo rivestito di seta gialla una decorazione in lamina d’argento traforata con tralci di vite e all’incrocio dei bracci il calice con l’ostia. Il punzone impresso sulla croce corrisponde a quello usato a partire dal 1817 dall’argentiere Paolo Bonessi, la cui attività è documentata a Recanati dal 5 aprile 1809 al 19 febbraio 1819. Pertanto la croce della Confraternita è databile alla fine del secondo decennio dell’Ottocento. Inoltrandosi nel corso del secolo si aggiunsero al patrimonio di suppellettili sacre della cattedrale altri due monumentali calici. Il “10 settembre 1844. Il Illustrissimo Canonico don Giovanni de’ Conti Broglio Massucci i nostri vantaggi fatti alla nostra chiesa vi aggiunse anche quello di donare in dono un calice di bronzo d’orato di sopraffino lavoro. Il Sommo Pont. Gregorio XVI d’un simile Calice si serve a dir Messa ogni giorno nella sua privata Cappella”.27 Il calice28 dorato a sezione circolare presenta una base a gradino con doppia cornice perlinata e cesellata a foglie, su cui siedono tre putti fusi a tutto tondo, recanti i simboli della Passione. Il motivo a foglie d’acanto e a festoncini di fiori alternati a medaglioni coi simboli della Passione che ricopre il nodo centrale a vaso e il sottocoppa rappresenta un’evoluzione ottocentesca della sintassi decorativa neoclassica. Il calice ripropone uno dei modelli più fortunati dell’oreficeria sacra romana dell’Ottocento, che si ispira ai prototipi degli Spagna, gli argentieri più prestigiosi dell’epoca. Il bollo apposto sul calice non è leggibile pertanto è impossibile conoscere l’identità dell’autore. Non è perfettamente impresso neanche il marchio Bottega orafa romana, calice, secolo XIX sul secondo calice, ma con ogni probabilità corrisponde a quello usato da Carlo Montini, maestro orefice e argentiere di Macerata, la cui attività è documentata dal 1818 al 1863. Il piede a sezione circolare presenta un alto gradino su cui siedono le statuette a tutto tondo delle tre Virtù teologali; al centro sul plinto di colonna sono figurati simboli della Passione entro corone di alloro. Il nodo a vaso del fusto è decorato da erme femminili a forte aggetto. Nel sottocoppa è un girotondo di putti alati che reggono tralci intercalati da medaglioni con i simboli della Passione. Il calice riprende sia nella decorazione che nell’impostazione architettonica, un modello assai diffuso nell’argenteria romana del XIX secolo, che com’è noto influenza anche la produzione degli argentieri operanti in loco. 298 Gabriele Barucca Sala Capitolare Negli ultimi anni dell’Ottocento sono annotate nelle Memorie del Capitolo Trejese altre donazioni di oggetti tuttora esistenti. Si inizia con un servizio da lavabo in argento decorato da una profusione di motivi fitomorfi sbalzati e incisi. La nota di riferimento recita: “21 nov. 1894. In questo giorno il Signor Marino Rainaldi fece dono alla Cattedrale di un boccale con piatto di argento di squisito lavoro per uso dei Pontificali”.29 Sui due pezzi di cui si compone il servizio non compare il marchio dell’argentiere, mentre sul cavetto del bacile è inciso lo stemma della famiglia Rainaldi. Nel “luglio 1896. Il can. D. Giuseppe Tomassoni fece dono a questa Sagrestia di un piccolo ma bello ostensorio di argento, sostenuto da un angelo, che appartenne già alla Monache di S. Chiara di questa città”.30 L’ostensorio raggiato31 presenta un bollo malamente impresso non identificabile, ma in ogni caso il suo modello è assai diffuso nell’oreficeria romana della prima metà del XIX secolo e si basa su un prototipo di Vincenzo II Belli ultimo esponente della celebre dinastia di argentieri romani. L’oggetto è caratterizzato dal piede a sezione circolare, dal fusto costituito dalla statuetta di un angelo paludato all’an- tica, poggiante sul globo e con le braccia levate a indicare la soprastante raggiera a dardi irregolari. Infine l’anno seguente si annota: “9 marzo 1897. In questo giorno verso la mezzanotte passò agli eterni riposi munito dei conforti ultimi della Religione il Canonico D. Niccola Bordoni nella grave età di anni 78 compiuti. Egli tenne il canonicato Raccamadori, che dopo le attuali vicende politiche fu soppresso. Morendo fece dono alla Sagrestia di un pregevole calice d’argento.”32 Il patrimonio di suppellettili sacre del tesoro della concattedrale di Treia comprende, oltre ai pezzi in metalli nobili TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA Ambito degli Scoccianti, completo di cartegloria sopra illustrati, un ricchissimo corredo di oggetti in legno intagliato, dorato e policromato, riposti dentro e sopra gli armadi della bellissima sala del Capitolo. Si tratta di fornimenti di candelieri, di completi di cartegloria, come quello bellissimo riferibile all’ambito degli Scoccianti databile tra la fine del Sei e il principio del Settecento,33 e soprattutto di reliquiari nelle più svariate tipologie. La questione delle reliquie e l’importanza nella vita delle popolazioni dei culti instaurati attorno alla presentazione dei reliquiari e dei pii ricordi sono argomenti oggetto di approfonditi e numerosi studi di antropologia religiosa. La promozione del culto delle reliquie con intenti essenzialmente didascalici, regolato da prescrizioni dettate volta a volta dai sinodi locali spiega lo straordinario successo di questo genere di suppellettili ecclesiastiche. Peraltro questo successo venne alimentato dalla quasi inesauribile disponibilità di reperti sacri frutto delle indagini e delle riscoperte di ‘corpi santi’ nelle catacombe romane. Il connesso traffico di ‘reliquie’, la loro circolazione e distribuzione da Roma, determinò fenomeni vistosi di collezionismo e di ostentazione quantitativa, a cui appunto conseguì lo sviluppo di una enorme produzione di contenitori in legno intagliato, dipinto e dorato o argentato, che per motivi di economicità venne progressivamente a sostituire o integrare la realizzazione dei ben più preziosi reliquiari in argento. Per quanto riguarda il caso specifico di Treia sono stati rintracciati documen- 299 ti negli archivi della concattedrale e dell’Accademia Georgica34 che consentono di seguire il costituirsi della cospicua raccolta di reliquie. Dal Libro delle Riformanze risulta infatti che nel 1611 monsignor Alfonso Bianchi donò alla pieve di Santa Maria numerose particole sacre per la cui degna collocazione la comunità promosse una raccolta pubblica di denaro. Nel 1630 il Comune infatti si fa carico della doratura delle custodie eseguite. È proprio a questo periodo che risalgono il maggior numero di reliquiari a urna e a tabella tuttora presenti nel tesoro. Si tratta di oggetti esemplificati su modelli ancora tardo cinquecenteschi realizzati con una buona qualità artistico-artigianale fondata su competenze collegate di abili intagliatori e di esperti doratori. Nei decenni successivi sono documentati ulteriori interventi per abbellire la cappella delle Reliquie in collegiata: in particolare, nel 1682, il Comune promosse la realizzazione di un nuovo gradino d’altare, di candelieri e tabernacolo, apponendovi lo stemma del cardinal Franzoni, arcivescovo di Camerino. Nel 1755 venne costruito l’altare in marmo e nel 1775, il 3 ottobre, monsignor Cosimo Macolani, vescovo di Terni, consacrò l’altare maggiore dedicato a san Patrizio, ponendovi le reliquie di san Giusto e san Quirino. Nel 1778, per lascito testamentario dei marchesi Carlo e Giuseppe Castellani, giunsero nella collegiata i resti di santa Giustina, mentre il braccio di santa Chiara martire fu inviato nel 1806 da Nicolò Grimaldi. Infine nella nuova cattedrale furono trasferite nel 1818 dalla soppressa chiesa di Sant’Agostino le ossa di san Orso, portate a Treia nel 1661 da Giovanni Teloni. Tra le varie tipologie di reliquiari un ruolo assolutamente unico lo rivestirono fin dal tardo medioevo quelli a busto. Di questa tipologia se ne conservano ancora numerosi esemplari lignei nella concat- 300 Gabriele Barucca Bottega marchigiana, reliquiario a tabella, secolo XVII Bottega marchigiana, reliquiario a tabella, secolo XVII Bottega marchigiana, reliquiario a ostensorio, secolo XVII Bottega marchigiana, reliquiario a urna, secolo XVII Bottega marchigiana, reliquiario a tabella, secolo XVII TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA tedrale di Treia. Il pezzo più interessante della raccolta è quello di san Fabiano papa e martire. 35 Si tratta di un oggetto realizzato intorno alla fine del XVII secolo con grande maestria tecnica in cui è evidente l’intenzione dell’artefice di emulare i manufatti metallici nel contrasto cromatico della doratura, riservata al piviale decorato con raffinati motivi vegetali punzonati o in pastiglia, con l’argentatura della veste e del volto del santo. La stessa in- tenzione mimetica traspare nella resa del triregno in cui risaltano sulla doratura gli inserti colorati a suggerire le gemme incastonate. Sul retro della base trapezoidale del reliquiario a busto si legge: “GREGORIVS / ACCVRSIVS / DE / MONTE MILONO” a indicare il nome del probabile committente, figura non altrimenti nota, ma appartenente a una delle più antiche e potenti famiglie della vicina Monte Milone, oggi Pollenza. Scultore marchigiano, reliquiario a busto di San Fabiano, secolo XVII NOTE ASCCTr, Inventario di tutti gli oggetti, e Sagri Arredi, che sono di pertinenza della Chiesa Cattedrale di Treia fatto il dì 31 Maggio 1839, e rinnovato il dì 1 Marzo 1846, busta 420, fasc. 24/1. 2 ASCCTr, Archivio Capitolare di Treia, Inventario di tutte le robbe mobili, paramenti, et Argenti della Sacrestia della chiesa di S. Maria detta Pieve di Montecchio, busta 404, fasc. 1, cc. 1-4. In questo inventario risultano poche suppellettili in argento, qualche pezzo in ottone, ma una innumerevole serie di parati sacri di ogni tipo. 3 Croce in rame punzonato e dorato su supporto ligneo, corallo, cristallo di rocca e gemme colorate. 31 (45,5 con l’innesto) x 25,5 cm. Vedi B. Montevecchi, scheda 32, in Ori e argenti 2001, p. 121. 4 AGTr, AA, busta 25, fasc. 3/03. 5 Montevecchi 2006, p. 40. 6 Argento; altezza del turibolo 31 cm; altezza della navicella 16,5 cm. 7 ASCCTr, busta 404, fasc. 4, c. 50. 8 Ostensorio raggiato in argento e argento dorato, altezza 64 cm. 9 Calice in argento e argento dorato, altezza 22,5 cm, diametro del piede 10,7 cm, diametro dell’orlo della coppa 8,6 cm. 10 Bulgari Calissoni 1987, pp. 144-145. 11 Calice in argento e argento dorato, altezza 25,6 cm, diametro del piede 14,5 cm, diametro dell’orlo della coppa 8,7 cm. 12 Il reliquiario a ostensorio è in lamina d’argento sbalzato, cesellato, inciso, con anima e base in legno parzialmente dorato, altezza 62 cm, base 27,5 cm, larghezza della mostra 26,5 cm. 13 G. Barucca, scheda 41, in Ori e argenti 2007, pp. 228-229, con bibliografia precedente. 14 La grande croce processionale di Confraternita della Madonna Addolorata (279 x 137 cm; barra 10 x 4,8 cm) è in argento sbalzato, cesellato e inciso; la struttura in legno è rivestita di velluto azzurro. Sul recto, alla base del montante è la seguente iscrizione: AERE EXUBERAT/SEN. SOCIET./S. MARIAE MAIOR TREIEN/EX DECRET. D. D. CONFRAT./D. D. MVTIVS CASTELLANI. SIMON IO:PANCOTTI. DEP(vta)TI/M.DCCII. SEBAST. PERUG. ARGENTAR. MACER. Cfr. G. Barucca, scheda 83, in Ori e argenti 2001, pp. 181, 183-184, con bibliografia precedente. 15 Bulgari 1969, p. 151. 1 301 Grimaldi 1977, p. 14. Cfr. Barucca 2008, p. 201, con bibliografia precedente. 18 Reliquiario a ostensorio in lamina d’argento sbalzata e cesellata, fissata su supporto ligneo. Altezza totale 48 cm. 19 Reliquiario a ostensorio in lamina d’argento sbalzata e cesellata, fissata su supporto ligneo. Altezza totale 54 cm. 20 Calice in argento e argento dorato, altezza 26,8 cm, diametro del piede 14 cm, diametro dell’orlo della coppa 8 cm. 21 “Adì 25 settembre 1815 si seppe la nuova, che la nostra Chiesa Collegiata fù esaltata alla Cattedra Vescovile”. ASCT, Archivio Capitolare di Treia, busta 403, Memorie del Capitolo Trejese, c. 26r. 22 Sulla figura del cardinale Nicolò Grimaldi vedi il saggio di Silvia Blasio in questo volume. 23 ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo Trejese, cc. 35r e v. 24 ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo Trejese, c. 40. 25 Reliquiario a busto in argento sbalzato, cesellato, inciso, fuso e parzialmente dorato; gemme colorate sfaccettate; anima in legno. Altezza: 116 cm; base: 25x25. Vedi G. Barucca, scheda 147, in Ori e argenti 2001, pp. 252-253. 26 ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo Trejese, c. 37v. 27 ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo Trejese, c. 38r. 28 Calice in argento dorato, altezza 28,6 cm, diametro del piede 13,2 cm, diametro dell’orlo della coppa 8,6 cm. Sotto il piede è la seguente iscrizione: ECCLESIAE CATTH. TREJEN/IOAN. CAN. BROGLIO MASSUCCI/P.VIC. GLIS/1844/D. D. 29 ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo Trejese, c. 109. 30 ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo Trejese, c. 111. 31 Argento, argento dorato e gemme colorate. Altezza 53 cm. 32 ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo Trejese, c. 111. 33 Vedi P. Fava, scheda 114, in La cultura lignea 1999, p. 178. 34 Le ricerche archivistiche furono condotte da Debora Roccetti in occasione della preparazione della mostra La cultura lignea nelle alte valli del Potenza e dell’Esino (1999) e sono state rese note da E. Nardinocchi, scheda 113, in La cultura lignea 1999, pp. 176-178. 35 Il busto reliquiario in legno intagliato, dipinto e dorato è alto 87 cm. Cfr. S. Blasio, scheda 58, in La cultura lignea 1999, pp. 96-97. 16 17 APPARATI 305 LA STORIA DELLE CATTEDRALI DALLO STUDIO DEI DOCUMENTI. SAGGIO DOCUMETARIO Laura Mocchegiani Si è ritenuto importante pubblicare un saggio di edizione di alcune delle fonti documentarie, alcune delle quali utilizzate negli studi qui pubblicati, per illustrare uno dei principali strumenti su cui è basata la ricerca storica. Sono stati trascritti testi conservati presso gli archivi diocesani e capitolari, e, per quanto riguarda Tolentino, presso l’archivio storico comunale dove si trova la bolla con cui Sisto V istituisce la diocesi. Gli archivi diocesani e capitolari sono fondamentali per la conoscenza delle strutture della chiesa secolare e dell’assetto ecclestiatico di un intero territorio: pievi, parrocchie, cappelle, abbazie, ospedali, conventi e confraternite. Anche se ciascuno di questi enti fu infatti, produttore e conservatore di scritture, è solo attraverso la tradizione vescovile che si può avere una visione sintetica delle istituzioni e dell’andamento ecclesiastico. Le visite pastorali con il loro articolato itinerario, i registri dei benefici, le elencazioni in funzione di decime, censi, collette e tasse diverse, i nudi elenchi di chiese e cappelle compilati periodicamente, le registrazioni di entrata e uscita, le lettere e i bollari, gli istrumenti concernenti trasferimenti, usi o diritti dei beni fondiari come donazioni, compravendite, permute, locazioni, ci forniscono una ricca e variegata trama incrociata di informazioni dalle quali emerge la fisionomia storica di una struttura o di un territorio. Con le disposizioni del Concilio di Trento questa funzione normativa conferita al vescovo diviene ancora più pressante e sistematica tramite i concili diocesani e provinciali, le inquisizioni episcopali e le visite pastorali non più episodiche ma sistematiche e regolari. Per ben comprendere la tipologia degli archivi ecclesiastici e la ricchezza delle serie documentarie che vi confluiscono un essenziale punto di riferimento è costituito dal Codice di Diritto canonico con l’elenco dei vari archivi che ricadono sotto la giurisdizione del vescovo; se si considera che il Codice del 1929 è ancora fortemente intriso dello spirito tridentino e dell’opera riformatrice di Benedetto XIII, la tipologia è sostanzialmente quella tradizionale che è poi in definitiva collegata agli enti ecclesiastici che costituiscono la struttura istituzionale della chiesa. La costante è che comunque l’archivio viene considerato sempre strettamente inserito entro un ente ecclesiastico che ha il suo centro in un edificio di culto. Gli archivi ecclesiastici legati alle chiese cattedrali sono: I Archivio diocesano Nell’archivio diocesano confluiscono atti, documenti e istrumenti strettamente collegati all’espletamento dei compiti giurisdizionali della Chiesa locale. Tenuto conto che il carisma episcopale si esplica in triplice forma: il governo, o munus regendi, l’amministrazione dei sacramenti, o munus sanctificandi e il magistero, o munus praedicandi, si comprende come gli atti contenuti nell’archivio diocesano riguardino questa vasta gamma di funzioni. L’ordinamento delle serie dei documenti non è assolutamente uniforme anzia varia da diocesi a diocesi in rapporto alla tradizione, alla estensione territoriale, e alla pluralità delle situazioni personali e patrimoniali degli enti e del clero. In ogni caso vi sono alcune serie nelle quali si riscontra una certa uniformità tra i documenti conservati negli archivi diocesani, come quelli riguardanti i sinodi, le visite pastorali, gli atti relativi ai rapporti con la sede apostolica, le ordinazioni sacre, i monasteri femminili, la mensa vescovile, i benefici e i legati. Solo per la serie di documenti conservati nell’Archivio segreto vengono dettate norme di segretezza, cautela e custodia; questa serie riguarda documenti di natura personale e carte processuali in materia morum che devono essere bruciate o in seguito alla morte del condannato o in caso di sentenza assolutoria. II. Archivio della chiesa cattedrale Si tratta di un’istituzione di origine medievale legata all’introduzione dei collegi canonicali deputati all’espletamento degli uffici liturgici nella Matrix Ecclesia della diocesi. Il consolidarsi delle prerogative dei Capitoli cattedrali che assunsero le funzioni di Senato del Vescovo il quale per alcuni atti doveva adire Capitulum, l’acquisizione di un notevole patrimonio proveniente da donazioni e legati, l’introduzione del sistema delle prebende e dei benefici portarono questi Collegi ad assumere la personalità 306 giuridica e a disporre di una propria “mensa” distinta da quella del vescovo. Questa pluralità di funzioni è rispecchiata dalla serie di documenti confluiti nell’archivio della chiesa cattedrale: i titoli di proprietà dei beni, i verbali delle sedute dei Capitoli, gli atti della Mensa capitolare, quelli del sistema beneficiario, ecc. III Archivio delle Chiese collegiate. Le chiese collegiate sono quelle officiate da un collegio di canonici che espleta le medesime funzioni liturgiche dei Capitoli delle cattedrali. Anche in questo caso le serie documentarie sono strettamente collegate alla natura di queste istituzioni che sono prevalentemente quelle connesse al culto, al sistema beneficiario, agli affari economici, alla vita e organizzazione interna. L’edizioni di fonti qui riportata non ha pretesa di compiutezza rispetto al lavoro svolto dai ricercatori: si è scelto tra le tante carte utilizzate, un campione ritenuto significativo per la particolare solennità del documento, per la ricchezza di informazioni storicoartistiche riportate o per la curiosità e particolarità della sua redazione. Tra le tante serie documentarie sono state privilegiati, quando presenti e ben esaurienti, i verbali delle visite pastorali per la completezza delle informazioni fornite; tra queste sono state trascritte le visite del 1685 per Macerata, del 1694 per Cingoli e del 1621 per Recanati. Altra ricchissima fonte di informazione è costituita dagli inventari, sia quelli redatti per volontà di Benedetto XIII nella prima metà del XVIII secolo, sia quelli stesi per contingenze temporanee come, ad esempio, il trasloco dei beni mobili per la ristrutturazione della chiesa. Tra questi sono presenti gli inventari della cattedrale di Cingoli del 1726, di Recanati del 1733, e l’inventario dei quadri e degli oggetti presenti nella vecchia cattedrale di Macerata redatto nella seconda metà del XVIII secolo, al momento del loro trasferimento per la costruzione della nuova chiesa. Per quanto riguarda Macerata si è scelto di riportare anche la documentazione inerente i lavori di rifacimento della cattedrale come la Relazione e perizia della chiesa metropolitana della città di Macerata dell’architetto fiorentino Luigi Sgrilli del 1787, il Mastro della nuova fabbrica della cattedrale del duomo di Macerata dal 1772 al 1838 interessante perché compaiono i nomi di tutti coloro che vi hanno lavorato, e un parere inviato da Giuseppe Valadier nel 1826. Relativamente a Treia si è scelto la cronaca degli avvenimento dal 1810 al 1829 molto interessante perché emerge un quadro di vita cittadina tutta intenta alla costruzione della cattedrale: da chi si prestava a fare i facchini per la fabbrica, comprese le donne di cui vengono riportati anche i nomi, a chi si offriva per formare il cordone per il trasporto dei mattoni che venivano trasportati di mano in mano, a chi andava a prendere il legname a Porto Recanati a chi cucinava per i lavoranti. Il documento costituisce una preziosa e rara testimonianza di una comunità rappresentata in tuti i suoi ceti sociali unita e solidale nel perseguimento del comune obiettivo di avere una propria cattedrale. Sempre per Treia è stata riportata anche altra documentazione relativa alla costruzione della chiesa con le perizie relative alla fabbrica e lettere di chi inviava doni. Per Tolentino si è scelto di riportare la bolla con cui Sisto V erige in cattedrale la collegiata di S. Maria interessante non solo per il valore giuridico ma anche perché vengono illustrati tanti particolari della città, come la posizione geografica, i personaggi in essa nati o vissuti, la descrizione della cinta muraria e delle chiese e comunità religiose in essa esistenti. La bolla rappresenta l’unico esemplare di documento non conservato presso gli archivi diocesani ma presso l’Archivio storico del comune di Tolentino. Per una migliore comprensione del testo delle visite pastorali si ritiene opportuno precisare che erano sempre predisposte dall’ordinario e che potevano poi essere compiute o dal vescovo stesso o dal suo vicario o anche, a volte, da più delegati. Il vescovo preparava un libellus di questioni da sottoporre in prima istanza ai parroci, da integrare successivamente con quesiti o richieste di testimonianza ai laici. Le visite, minuziosamente regolate da normative e trattati, erano incentrate sulla richiesta di informazioni relative alla formazione e condotta del clero, alla consistenza patrimoniale delle chiese, alla situazione degli edifici, paramenti, arredi e suppellettili e al modus vivendi della comunità. Essendo estrapolate dai registri dei verbali, le visite qui trascritte dagli originali sono incomplete per quanto concerne gli elementi atti a produrre effetti giuridici come le sottoscrizioni dei testimoni e del cancelliere vescovile. Per quel che concerne i criteri di trascrizione, pur essendo i testi riportati al di fuori della tradizione paleografica latina per la loro tarda collocazione cronologica, si è scelto di seguire la normativa scientifica della scienza diplomatica in modo da poter fornire una lettura quanto più possibile rigorosa e fedelmente aderente alla matrice originaria. 308 MACERATA L’Archivio Diocesano di Macerata è conservato presso la curia vescovile in Piazza Strambi. Il fondo ha subito ha subito alterne vicende con gravi conseguenze sulla documentazione da esso conservata. E’ stato recentemente schedato ed è in fase di inventariazione. L’Archivio funge anche da soggetto conservatore dei seguenti fondi qui depositati: - Archivio del Capitolo della cattedrale - Archivio della parrocchia della cattedrale - Archivio della parrocchia di S. Maria della Porta - Archivio della parrocchia di S. Giovanni - Archivio della parrocchia di S. Stefano - Archivio della chiesa di Rambona Visita della cattedrale 2 settembre 1685 In Dei nomine amen. Die dominice secunda septembris 1685 de mane. Hec sunt acta visitationis facte ab illustrissimo et reverendissimo Fabritio Paulutio Dei et apostolice sedis gratia episcopo Macerate et Tolentini de ecclesia cathedrali civitatis Macerate. [...] Reverendus Fabritius Paulutius episcopus maceratensis et tolentinensis [...] accessit ad ecclesiam cathedralem et ad cappellam nuncupatam visitationis Beate Marie Virginis juris familie de Compagnonis de Stella, in qua asservatur sanctissimum eucaristie sacramentum in pixide argentea intus deaurata et invenit esse bene et diligenter reteantur, [...] pixides ista adest coperta cum conopeo serico albi coloris [...] invenit tabernaculum ipsum ligneum ordine corintio elaboratum, dictum tabernaculum fuit asportatum in dicta ecclesia cathedrale de ordine felicis memorie illustrissimi et reverendissimi Cini episcopi predecessoris collocatum in dicta cappella que est in ordine prima navate a cornu evangelii altaris maioris. In summitate cappelle adest stegma familie de Compagnonis de Stellis cum inscriptione: Patronatus familie Compagnoni. Cappella ista in parte interiori ornata est variis et diversis figuris ut dicitur di stucco. In parietibus lateralibus adest in marmore sculptura eminentissimi et reverendissimi cardinalis Centini et similiter in marmore sculptura illustrissimi et reverendissimi domini Papirii et Silvestris olim episcopis Macerate. In pariete a cornu evangelii prope altare adest cellula seu fenestrula in muro que clauditur janua lignea cum serra cuius clavis retinetur a reverendo archiepiscopo in qua asservatur reliquiarium argenteum cum cruce in summitate et cum vistris seu cristallis in circuitu ad effectum inspiciendi reliquia una ex spinis sanctis corone Domini nostri Jesu Christi, et cum aliis reliquis. Et alterum reliquiarum argenteum cum vitro seu christallo ante in cuius summitate adest statua argentea angeli, intus reliquiarium sunt reliquie. Retinetur etiam bracchium ligneum deauratuum in quo asservatur reliquia sancti Justini martiris. Cappella ista habet ante cancellum ligneum depictum. Visitavis baptisterium quod est ante forum ecclesie. In cellula constructa eleganter elaborata stucchis cum diversis immaginis circumcirca S. Johannis Baptiste baptizantis Christum. Fons baptisimalis sculptus in petra cum suo tabernaculo de ligno elaborato et depicto ad formam lapidis et in summitate adest crux adest etiam intus tabernaculum fons cum aqua benedicta. Pro abluenda aqua retentur conchilia argentea intus deaurata. Mandavit fieri armarium in pariete dextera cum sua janua et serra et ornatum interiori et exteriori ad effectum in eo conservandi sacra olea. Mandavit fieri umbellam et lanternam novam. Visitavit confessionalia in eadem ecclesia et mandavit in illo purificationis restaurari scabellum. Visitavit sacras reliquias existentes in altare beate Conceptionis et mandavit apponi cristallum amovibile in capsula argentea in qua asservatur reliquia S. Christophori. Mandavit armarium in quo servantur reliquie depingi et cellulam reaptari. Visitavit sacras reliquias: S. Bartholomei, S. Lucie, S. Felicite, S. Sixti, S. Clementis, S. Catarine et mandavit apponi capsulam. Visitavit altare maius in quo mandavit depingi et fieri crucem in altaris prospectu. Visitavit altare S. Bernardini in quo mandavit auferri tabulam ligneam supra altare et mensa, provideri de novo pallio. Visitavit altare seu capella Immaculatissime conceptionis et mandavit apponi immaginem crucifixi in cruce; provideri de tela cerata super altare, coloris picturis decrustatas in cappella repuliri. Visitavit cappellam Visitationis et mandavit apponi telam ceratam super petra, reaptari fenestras vitreas. Visitavit altare sanctissimi Crucifixi et mandavit renovari petram sacratam, provideri de candelabris et cruce cum imagine sanctissimi crucifixi. Visitavit altare [-] Maris Vallis Viridis et mandavit complanari mensas altaris, apponi novam tabulam ligneam et in eius medio collocari petram sacratam. Visitavit altare seu cappella Societatis sanctissimi Corporis christi et mandavit amoveri arcam sacram, removeri crucem super tabernaculo et apponi crucifixum ex auricalco cum suo pedestallo, fieri pedem calicis tabernaculi, reaptari seu fieri ex argenteo clavis hostiole et iterum depingi imagines in angulo altaris a cornu evangelii fieri diligentias ad effectum inveniendi documenta S. Rocchi. Visitavit cappellam S. Petri de jurepatronatus Caroli de Ferris in qua mandavit apponi imaginem sanctissimi crucifixi in cruce et candelabra depingi ad formam crucis. Visitavit altare et cappellam sanctissimi crucifixi magni seu S. Claudi in qua mandavit januam depingi figuratam. Visitavis cappellam S. Angeli custodis nuncupatam Annunciationis et mandavit provideri de tabella secreta. Visitavit cappellam et altare S. Johannis Baptiste et mandavit quamprimam amoveri aram sacratam et provideri de tela cerata ad illam, mandavit apponi immaginem sanctissimi crucifixi in cruce, reaptari scabellum et gradus altaris. Visitavit cappellam et altare S. Andree Apostoli in quo mandavit amoveri petram sacratam, fieri pallium ligneum omnibus coloribus depictum. Visitavit altare S. Hieronimi seu Caroli in quo mandavit provideri de tela cerata super petram, reaptari picturam S. Caroli et gradus altaris. […] (ASDM, Visite pastorali, n. 4) Relazione e perizia della chiesa cattedrale dell’architetto Luigi Sgrilli, 1787 ottobre 11 Relazione e perizia della chiesa metropolitana della città di Macerata diretta ai nobili uomini signori cap. Nuzio Ilari e Giovan Battista Nelli [1r.] Nobili uomini sig. cap. Nuzio Ilari e Giovan Battista Nelli deputati dal Magistrato della città di Macerata per la visita della nuova Fabbrica del Duomo. In ordine alla commissione partecipatami dalle sig. ill.me di visitare la fabbrica della nuova cattedrale di Macerata con riferire l’occorrente per ciò che riguarda la sicurezza e la nobiltà della medesima. A tale effetto però ho diligentemente visitata ed esaminata la fabbrica della catedrale suddetta che fu cominciata a costruirsi intorno a sedici anni fa e che è ridotta nello stato in cui si trova fino da dieci anni avendo esaminato i fondamenti, mura, volta, tettoia ed essendo pure intervenuti nei rispettivi giorni della visita le sig.rie loro ill.me che oltre all’aver dato tutti gli schiarimenti possibili sono stati sempre assidui e presenti ed hanno dimostrato il loro vero zelo per adempire la commissione ingiuntali dalla città. La chiesa suddetta è costruita a tre navate con archi, e intercoloni, volta sotto ed altra chiesa sotterranea fabbricata in oltre in un suolo che ha una pendenza un poco risentita, ma avendo principalmente esaminato la posizione della [1v.] fabbrica al di sotto della tribuna dell’altar maggiore vi esistono più e diverse fabbriche in oltre le mura castellane che stabiliscono e rendono fermo il terreno su cui è fabbricata la chiesa che è il principale riquisito che si richiede per la stabilità e sicurezza delle fabbriche. Ho osservati primariamente i fondamenti delle mura maestre degli intercoloni che sono legati con archi che formano le navate delle pilastrate della tribuna e della tribuna medesima, come pure ho esaminato i fondamenti delle colonne che sostengono la volta della chiesa sotterranea e l’intiera costruzione, l’ho ritrovata della maggiore stabilità si per le dimensioni su di cui sono stati fabbricati quanto ancora per la qualità del materiale che è stato impiegato avendo fatto ancora dei saggi ove ho creduto. 309 Ne ho tralasciato di esaminare alcuni squarci o peli, che si osservano nella muraglia principale verso la parte di mezzo giorno e nelle mura della tribuna potrei qui dire che nelle fabbriche più rispettabili e le più antiche e che per più secoli hanno risistito al tempo e che [2r.] sono state costruite dai più celebri architetti, si osservano ma esaminando questi peli o squarci per mezzo della ragione e della regola dell’arte soggiungerò che non v’ha dubbio alcuno che tali squarci non siano provenuti o perché abbia un poco ceduto il suolo su cui sono fabbricati i fondamenti o perché abbia in qualche parte ceduto il fondamento medesimo attesa la costruzione e la mano di opera che vi è stato impiegata ma questi cedimenti non solo sono da trascurarsi quando si sono stabiliti i fondamenti medesimi, ma osservo di più che la resistenza delle muraglie è tale da contare per un niente per così dire questo piccolo cedimento talché con le regole dell’arte posso asserire che suddetta chiesa è ben fondata. Ho esaminato la volta grande del sotterraneo che ho ritrovata della miglior costruzione, la volta fra le quattro pilastrate che formano la croce che è impostata in tante pietre che for/ [2v] mano un architrave piano fra le colonne ed ancor essa ho riconosciuto sicura. Ho esaminato in oltre il restante della volta della chiesa sotterranea che è sostenuta da colonne con archi fra loro contrastati pinte e intercoloni con architravi piani di legno di cerro o quercia che resistono senza veruna eccezione. Che nell’atto di diramargli allorché furono costruiti ve ne sono alcuni dei divisi ma avendo combinato la forza dell’arco distirbuita nelle differenti lunghezze dell’architrave la gravità che vi è sopra i medesimi sono di sentimento e posso asserire essere sicurissimi. Sopra detta volta vi è un’altra volta ove vi è il coro, il presbiterio per l’altar maggiore. Le mura esteriori della detta chiesa essendo state da me esaminate l’ho trovate costruite tutte in piombo e di grossezza anche maggiore talché formano la fabbrica anche in questa parte della maggiore stabilità. [3r] Ho inoltre esaminato i quattro intercoloni delle colonne con architravi piani di pietra e cornice architravate su di cui sono impostati gli archi che formano le navate e sopra i quali sono stabilite il restante delle mura della navata maggiore e la volta della navata suddetta e sono impostate ancora nelle suddette cornice architravate le volte delle cappelle delle navate minori. Primieramente ho esaminato la costruzione delle suddette colonne composte di pietre la gravità che vi è della fabbrica sopra le medesime, ho notato inoltre il ringrosso del muro lavorato a arco per l’impostatura della volta ed ho osservato che sopra ciascuno intercolonio vi sono due catene di ferro in piano con altre due catene di legno che sono internate al livello della sommità degli archi delle navate, un’altra catena di legno inclinata ed altra catena pure di legno in piano, una tal difesa diversifica di poco [3v] nei quattro intercoloni suddetti. La maggior forza che vi è in questa parte di costruzione di fabbrica è la gravità e il peso superiore e l’unione degli archi interni delle navate che non sono aggravati, mentre la resistenza di esse è tale che secondo l’esperienza di più anni non vi si scorgono quei mancamenti allorché le colonne non sono sufficienti per sostenere il peso superiore, quelle catene poi non solo giovano per la gravità della fabbrica ma ancora giovano per gli archi delle navate. Gli architravi di pietra degli intercoloni sopra di cui vi sono le cornici architravate sono alcuni divisi ma atteso la gravità e l’equilibrio del peso superiore sono stabili e sicuri. Ho trovato inoltre che sono pelati nel suo maggior rigoglio gli archi interni delle navate minori e questo è accaduto per essere un poco cedute le colonne nell’atto di essere disarmata la fabbrica, ma ciò non gli fa un pregiudizio [4r] per la stabilità che si richiede considerata la grossezza delle colonne medesime e la difesa delle catene apposte superiormente. In alcuno di detti intercoloni non ho trovato bisogno di lavoro e gli ho ritrovati sicuri talché combinata la costruzione della fabbrica suddetta nella parte degli intercoloni la giudico sicura e stabile avvalorata ancora dal tempo. Ho visitato l’arco della tribuna dell’altar maggiore che è sul mezzo cerchio sopra al quale sono stati custroiti altri archi ed inoltre un sesto acuto sopra cui vien sostenuto il tetto, ed ho riconosciuto che nel maggior rigoglio dell’arco del mezzo cerchio se ne è staccata una parte per la lunghezza di palmi quattordici ed è pelato il restante. Si rende necessario di riparare prontamente con armare ed assicurare il detto arco, ed in oltre per non demolire il muro che vien sostenuto propongo di costruire sopra un arco a rottura fatto sul punto fermo e ripigliarlo in quella [4v] parte ove ha ceduto e si è staccato con apporvi alcuni tiranti di ferro per sostegno assicurati al nuovo arco a rottura che toglierà la forza attuale dei due rami del sesto acuto essendo un lavoro che richiede la maggior abilità dell’esecuzione per assicurarlo e risestarlo tanto più che oltre alla necessaria sicurezza forma anche una delle parti migliori della fabbrica. Ho esaminato in oltre il secondo arco della tribuna medesima sopra del quale vi è stato custroito un muro per sostenere la tettoia ed ho riconosciuta la sua costruzione tale da poter resistere senza veruna eccezione ne il peso del muro superiore gli apporta pregiudizio perciò in questa parte sono di sentimento che sia sicuro e stabile. Ho visitato pure il terzo arco della tribuna sopra di cui vi è costruito il solito muro per sostenere la tettoia ed ho trovato non esservi verun cedimento, adunque considerata non tanto la [5r] strottura dei suddetti archi considerato inoltre che sopra archi sul mezzo cerchio e sul punto fermo si assicurano e si alzano delle fabbriche di riguardevoli altezze quando vi è una spinta proporzionata ai loro diametri mentre nei suddivisati archi sono a contrasto di due grandi sproni che sono fondati sopra due sesti acuti, perciò i muri soprapposti non sono di alcun pregiudizio e resta sicura e stabile anche in questa parte la fabbrica. Ho esaminata inoltre la tettoia della tribuna che è sostenuta da tanti saettili il di cui tratto viene interrotto da tre monachi che posano sopra una trave ove nei due laterali vi sono due sproni ed al di sotto nel tratto intermedio vi è una contrasticciola anche in questa parte ho riconosciuta sicura la detta tettoia ma per maggior sicurezza propongo di apporvi una contro asticciola di maggior grossezza di quella che vi è con alcune fasciature di ferro. Ho esaminato in oltre il primo arco della navata [5v] della chiesa ed ho ritrovato che ancor esso nella maggior curvatura ha ceduto e si è allentato e che nel restante vi sono delle pelature ho veduto che al di sopra vi sono stati costruiti due altri archi ed un terzo arco sesto acuto che imposta sulle curvature dell’arco medesimo similmente propongo di assicurare sopra un arco a rottura bene impostato nei due laterali, ed in oltre con apporvi alcuni tiranti di ferro. Ho visitato il secondo arco della navata sopra di cui vi è stato costruito un pilastro per sostenere la tettoia ed ancor esso ho ritrovato e riconosciuto in buon grado come pure nell’arco secondo dalla parte della facciata della chiesa vi è costruito un arco per sostegno della tettoia ed un peso tale non gli aha apportato verun danno anzi di più gli archi che non sono stati caricati dimostrano di esser pe/ [6r] lati nel rigoglio della superficie loro esterna, mentre negl’archi che sono stati caricati non vi si scorge verun pelo. Ho riconosciuto ben costruita la volta della chiesa come pure in buon grado e di buona costruzione la tettoia. Ho esaminato in oltre i quattro coretti che formano quattro intercoloni nei quattro angoli della croce della chiesa che essendo costruiti di legname con travi ricoperte di stoia sono ancor’essi sicuri in quella parte che riguarda il pavimento o il solaro dei medesimi. Ma nel coretto di contro all’ingresso della sagristia ho ritrovato che l’arco piano della sua luce, che è composto di mattoni, è slentato e diviso perciò è necessario che sia ricostruito similmente è da rivedersi l’altro architrave della luce del medesimo dalla parte opposta. Nel mezzo della croce della chiesa potrà ricostruirsi la tettoia con adattarvi al di sotto una [6v] vela di stoia bene armata con quattro peducci nei quattro angoli delle pilastrate tutti composti di stoia per renderla anche in questa parte completa. Dalla descrizione di tutte le parti che compongono la nuova fabbrica della chiesa del duomo di Macerata consideratone la strottura in tutte le sue parti è sottoposta all’esame più scrupoloso ed inoltre allorché sarà ridotta al suo termine resulta la sicurezza di una tal fabbrica avvalorata ancora dall’esperienza del tempo di diece anni dalla sua costruzione che posso asserire a forma della mia perizia mentre con il più profondo ossequio ho l’onore di confermarmi delle signorie loro illustrissime. Macerata li 11 ottobre 1787 Devotissimo obbligatissimo servidore Luigi Sgrilli architetto fiorentino. 310 Io Pietro Tartuferi fui testimone manu propria Io Giovan Francesco Bartocci fui testimone manu propria (ASDM, Fabbrica della cattedrale, 1) Contabilità dei lavori per la fabbrica della cattedrale, 1772 - 1838 “Mastro della nuova fabbrica della cattedrale del duomo di Macerata dal 1772 al 1838 compilato dal ragioniere Gaudenzio Stramazzi sulla scorta dei giornali e libri al medesimo consegnati e relazione e sentenza sindicatoria del contabile suddetto” Parte passiva I Architetti 1772 novembre 2 Al sig. Luigi Morelli con ordine diretto a Giovan Battista Mareotti, lire 30 1772 novembre 20 Al suddetto come sopra, lire 35 1790 dicembre 31 all’architetto venuto da Firenze per riconoscere lo stato della fabbrica nuova lire 163,14 1825 agosto 18 a Innocenzi pel disegno e perizia fatta dell’atrio da farsi nella nuova cattedrale, lire 4 1826 agosto 16 Al suddetto pel prezzo convenuto del disegno, pianta e perizia dell’atrio e facciata della cattedrale, lire 25 Totale pagato lire 257,14 [...] III Provista di materiali ed ornamenti 1775 giugno 8, bonificati a mons. Vescovo per la provvista di n. 12 colonne di travertino, lire 756 1776 settembre 6, passati in entrata a credito di mons. Vescovo per spese di calce, mattoni ed altro, lire 105,80 1790 dicembre 31, spesi da Mareotti per provista di gesso, lire 372,19 Simile dal suddetto per mattoni, pianelloni, pianelle e coppi, lire 420,05 Simile per quadri rotatura e tagliatura, lire 247,73 Simile per legname comprato, lire 113,54 Simile per canna, lire 12,92 Simile per sabbione, lire 46,93 Simile per fare ricolare la campana, lire 76,25 Simile per la balaustra e cancelli di ferro, lire 496,67 Simile per i due putti di marmo al Piani, lire 200 Simile per la calce, lire 93,60 Simile per la tela, tintura e fattura delle tendine, lire 167,58 Simile per l’organo, lire 750 Simile per porlo in opera, lire 66,24 1791 dicembre 20, Pianelloni arrotatura e tagliatura, lire 92,50 1795 agosto 31 Chiodetti nelle colonne per li parati ferri nella scala per i medesimi, legname ed opera di muratore, lire 10, 75 1802 novembre 17 a mastro Domenico Zaccheo per sbassare il pulpito della chiesa, lire 4,99 1802 dicembre 13, al sig. canonico Pietro Mornatti per la costruzione del pulpito della fabbrica della cattedrale, lire 67 1802 dicembre 16 al suddetto pagati all’organaro in fine di decembre 1802, lire 25 1802 dicembre 17 a Luigi Giorgetti per il pulpito, lire 2,60 1803 settembre 5, a Pietro Cervini pel bussolone, lire 100 1803 dicembre 16 a Callido organaro, lire 30 1804 gennaro 28, per una corda per il telone dell’organo, 0,14 1804 gennaro 31, ottone filato grosso palmi 3,5 per un contrabbasso, 0,16 1804 febbraro 4 A Pietro Cervini a conto del bussolone lire 50 1804 marzo 5, A Zaccheo per lavori fatti per la nuova bussola, lire 3,05 1804 marzo 6 a A Ferrari ottnaro per due ragnole di metallo per la bussola lire 2,5 1804 marzo 6 a Zacchini per trasporto ed aiuto nel porre le bussole lire 0,20 1804 marzo 17 a Petrucci vetraro per vetroni messi nella medesima 1,32 1804 marzo 17 a Ferrari per quattro pomi di ottone per la medesima 0,80 1804 aprile 7, a Cervini per tintura di panno verde e giallo per il telone della bussola, lire 5 1804 aprile 7 a Giorgetti ferraro per conto lavori della medesima 15 1804 giugno 25 a Fioravanti per lavori fatti per le due portiere della nuova bussola 8,40 1804 luglio 5 a Giorgetti ferraro a saldo lavori per la bussola 20 1804 agosto 4 a Fioravanti per disegno, direzione e lavori fatti per la bussola 50 1804 ottobre 24 Vetroni 13 pel nuovo bussolone 5,45 1804 novembre 28 a Cervini per la controbussola nella porta della chiesa 11 1804 novembre 29 a Baglioni per vernice nella controbussola 5 1804 dicembre 30 a Giorgetti per lavori da ferraro 10,22 1805 gennaro 10 a saldi per una molla d’acciaio per la bussola 0,40 1805 gennaro 14 ad Ambrosini fattura di due storoni 1,30 1808 novembre 10 a Moretti per due porticine nuove per il bussolone 19,91 311 1810 luglio 15 a Baglioni in saldo pittura a olio del bussolone Lire 157,20 1811 agosttto 20 due tendine ai finestroni che conducono al sotterraneo 39,10 1827 luglio 24 al sig. Felice Cruciani per tanti improntati per il prezzo della terza campana comprata dalla cattedrale di Tolentino lire 150 a Pennesi muratore per lavori fatti per collocare la nuova campana ed in chiesa 8,70 a Giorgetti ferraro per lavori fatti pel servizio della chiesa e nuova campana 5,80 a Cervini falegname per diverse opere da lui eseguite 1,70 al sig. Felice Cruciani per rinfranco di trasporto della campana da Tolentino a Macerata 1,35 1828 aprile 1 al canonico Roberti in rimborso di spese fatte per le 4 nuove tendine nel coro 29 1828 aprile 4 per prezzo di cardini comprati per le suddette tendine e manualità per collocarle 2 1828 maggio n10 al sig. Saverio Caterbini agente di mons. Vescovo per terza parte di spesa occorsa per una nuova cisterna scavata nell’interno dell’orto del palazzo vescovile a comodo di mons. Vescovo e della cattedrale 68,66 1828 agosto 12 a Mignardi per una verga di ferro per cavare l’acqua dalla cisterna del palazzo vescovile per uso della cattedrale 2,95 1830 luglio 5 al canonico Roberti per tanti spesi per la rifusione della terza nuova campana, spese per la benedizione, opera de’ muratori e manuali per collocarla sulla torre 1830 dicembre 18 a Santini per la nuova portiera alla Porta Maggiore e ristauri delle due interne 8,87 1832 giugno 27 Per braccia 120 panno di canapa per la nuova tenda al portone di mezzo a Zampi Nicola 10,80 1832 agosto 2 al suddetto spese residuali per il tendone suddetto e porta della sagrestia 9,60 1834 novembre 14 al Santini sellaro prezzo di due portiere fatte nuove nel bussolone della cattedrale compresa la robba 10,50 1836 aprile 4 a Pelatelli per spese occorse per le tendine rifatte di nuovo nei finestroni delle scale della chiesa di sopra e nella porta prinicpale della chiesa di sotto 11,95 1837 gennaro 8 A Santini sellaro spesa e fattura di due portiere nell’interno del bussolone 10,70 1837 aprile 5 Al canonico Capanna per braccia 58 panno a scacchi per ricoprire la portiera grande nella porta maggiore e per le altre due interne al bussolone 9,57 1838 gennaro 15 A Santini sellaro per manifattura della nuova portiera della porta maggiore e per le altre due interne 8,45 IV Artieri 1790 decembre 31 Per opera di scalpallino, lire 350,92 Simile per il falegname, 388,64 Simile per il ferraro, 484,12 Simile per il vetraro 154,76 Simile per fattura delle maniglie delle porte, ornamento nell’altare di marmo e doratura di essi, 59 Simile per l’imbianchini, 89,33 Simile per lo stuccatore 297,75 Simile per l’ottonaro 35,70 Simile per le vernici 106,90 1791 febbraro 21 a mastro Alessandro Cervini in conto de’ suoi lavori 182 Dicembre 20 al ferraro Pantaleoni per lavori fatti, 11,75 1792 agosto 31 a mastro Pietro Fontana per opere de muratura del sotterraneo, 390,29 Al ferraro Domenico Salvi , 30,99 Al ferraro Pantaleoni, 2,50 Al vetraro Petrucci 16,42 Al falegname Venturi, 7,50 Al verniciaro Baldelli 5,40 A mastro Pietro Fontana per opera de scalpellino, 7,41 1796 agosto 23 Al pittore Antonio Giacomini per tre iscritioni lapidarie sopra la porta della chiesa 81,84 (ACM, Libro mastro) Inventario degli oggetti presenti nella vecchia cattedrale trasportati altrove per i lavori seconda metà sec. XVIII. Nella cappella di S. Carlo un quadro con S. Giuliano, S. Diego, la Madonna in mezzo, dipinto in tavola, antico della ven. sagrestia portato in Seminario; due altri quadri lunghi senza cornici uno vi è S. Agata, l’altro S. Girolamo senza cornici. Un altro quadro largo con la sagra Famiglia con cornice marmorata portati in Seminario di palmi sei di lunghezza e di larghezza 12 circa. Il quadro di S. Carlo di altezza palmi 12 circa e di larghezza palmi otto circa, carteglorie, candelieri, paliotto, predella, candele di legno, tutto portato in casa Compagnoni/ Nella cappella di S. Andrea due quadri laterali rappresentante in uno di essi il martirio del medesimo santo, nell’altro il martirio di S. Sebastiano con cornicette indorate tutte e due di palmi dieci e dita sei in circa. Una Madonna che sta in sedia che cuzzina il bambino con due angeli laterali con ornato indorato presi dal sig. Giuseppe Mornati ed una credenza quale tiene in deposito Luigi Rossi. Il quadro grande di S. Andrea di palmi [spazio bianco] di altezza e di larghezza di palmi [spazio bianco] circa con cornice indorata presa dal suddetto sig. Giuseppe Mornati. E più scalinata, paliotto, candelieri e croce parimente prese dal sig. Giuseppe Mornati con la ferrata e finestra di pietra avanti l’altare, vetrata, di più la cassettiera del braccio di S. Vito, il reliquiario d’argento e capelli di Maria ss.ma ed il braccio di S. Maccario 312 trasportata a S. Carlo con poliza esistente in cancelleria vescovile./ Nella cappella di S. Giuliano: un quadro di S. Emidio con cornice indorata di palmi [spazio bianco] e suo ornato di palmi [spazio bianco]. Un altro quadro de santi Giovanni Battista e Giacomo di lunghezza palmi 12 circa portata in Seminario. Il cancello indorato con lo stemma della città e il cartello che vi è “Hic est qui multum orat pro populo” portata a S. Pietro del’Ospidale. Il quadro grande di s. Giuliano con cornice intagliata ed indorata trasferito nella chiesa delle rr. monache Cappuccine cioè a S. Vincenzo ed anche li due ornati, li è stata consegnata una lampada di rame inargentato con la custodia di cartone. Nella cappella dell’angelo custode: un quadro con cornice intagliata indorata con la Vergine di Loreto. Altro quadro con cornice grande indorata e di figura larga di palmi 12 circa rappresentante la ss.ma Annunziata lunghezza palmi 9 in circa. Una Madonna di legno che tiene il bambino che stava sopra ad una credenza. Altare di legno con il quadro dell’angelo custode, scalinate, candelieri, carteglorie, paliotto tutto indorato et predella. Un altro ornamento indorato piccolo da una parte laterale con vetrata e ramata che cuopre una Madonna dipinta in un muro ed un crocefisso grande tutto portato nel Monte Ulisse. E più S. Elena e S. Biagio protettore con suo ornato indorato e color perla con vetrata portata in Seminario. Un paliotto con la Madonna in mezzo che ricopre il paliotto indorato portato tutto nel Monte Ulisse./ Nella cappella di S. Pietro: il quadro grande di palmi 13 di lunghezza e di larghezza palmi 9 con cornice indorata, altri due quadri laterali della larghezza di palmi tredici e di lunghezza di palmi noce circa consimili nel quadro grande il Signore che consegna le chiavi a S. Pietro, in uno de’ laterali il martirio di S. Pietro e nell’altro rappresenta quando l’ombra del Santo risanava l’infermi, fatti prendere dai sig. Ferri. La scalinata dipinta turchina e filettata d’oro buono con li otto candelieri compagni, carteglorie, paliotto di legno dipinto co la figura di S. Pietro e predella di legno./ Nella cappella del SS.mo vecchio: due quadri laterali in uno rappresentante la Cena e nell’altro l’andata del Signore in Emmaus, una Madonna in sedia ed un angelo in atto di annunziare indorati e due credenze portati dal fattore dell’ospidale, li quadri laterali l’altezza di palmi otto circa, larghezza di palmi 11 circa, una credenza l’ha consegnata a Don Giuseppe Ganasini che la trasportò nella Madona della Misericordia. Il quadro dell’altare rappresentante la medesima della Pietà parimente portato all’ospidale dal fattore Filati quale è di palme [spazio bianco] di lunghezza e di larghezza palmi [spazio bianco]/ Nella cappella de’ Sette Dolori: il quadro grande della Madonna ss.ma con la corona d’argento indorata portata in Seminario. S. Cosmo protettore de’ signori barbieri con piedestallo e quadro avanti, lo prese in deposito sig. Giovan Battista Micheli. S. Claudio protettore de muratori con piedestallo e ornato con vetrata ed iscrizione. S. Claudio lo ha auto in deposito Francesco Romagnoli muratore con la credenza, altra credenza laterale quale tiene in deposito Francesco Federici. Due quadri in uno rappresenta S. Liborio ed in un altro S. Niccolò da Bari consimili portato in Seminario./ Nella cappella del Crocifisso Piccolo: un quadro grande col crocifisso, altro quadro laterale con la Madonna ed altro con S. Giovanni, altro quadro grande consimile ma non rilevato rappresentante in aria la Madonna, da una parte una santa Vergine e da un’altra una santa martire, di sotto un santo vescovo s. Bartolomeo e sia o s. Diego o S. Antonio, due stelle grandi laterali in una vi è un santo martire tirato da quattro cavalli, nell’altra Santa Margherita col drago; un cartello sopra la cornice del crocifisso con l’iscrizzione, altro quadretto sopra la finestra ed un albereto in cornu epistole significante lo stemma Aurispa portato a S. Antonio abbate nel mercato, una tela dipinta con nuvoli ed aria di lontananza della luce, del quadro e del crocifisso./ Nell’altare della ss.ma Concezione: un quadro laterale rappresentante S. Giuseppe col bambino con la croce in mano, ed un pomo ed un angelo da parte che tiene la sega di palme dieci di lunghezza in circa e cinque di larghezza in circa con cornice piccola indorata, lampada, candelieri e carteglorie e tutto che si teneva di argenti, paliotti e tutto è stato portato in casa della sig. priora Angelucci, fiori, bandinella della finestra e vetrata, vasetti candelieri, carteglorie e fiori feriali. Tutto in casa Angelucci la ferrata di ferro e ramata in sagrestia grande./ Nella cappella del santissimo: la ricopertura della custodia cioè quattro cartoni ricoperti di ganzo auti dalla sig. marchesa Anna Ricci ed uno di essi cartoni quale serviva per celo con una stella, la bandinella di broccato d’oro e gallonato di merletto buono d’oro con anelletti e ferretto, la ricopertura dello sportello di lama trinato con fettuccia d’oro buono lo sportellino con cornice indorata e vi è la figura ella Madonna col bambino quale sta nel credenzone della biancheria in seminario./ Il quadro di S. Francesco d’Assisi che stava nella cappellina della saletta lo ha ripreso mons. Vescovo./ ASDM, Fabbrica della cattedrale, 1. Lettera di Giuseppe Valadier al vescovo Teloni, Roma 22 agosto 1826 Quantunque per massima non ami di censurare le altrui produzioni, pur è, perché vennero senza limiti i comandi di V. S. illustrissima, e debolmente mi adatterò a derogare a questo mio pacifico sistema e dirò il mio parere che valuterà anche sul nuovo progetto della facciata della cattedrale di Macerata del quale V. S. illustrissima e reverendissima ha voluto onorarmi d’interrogarmi. Non posso primieramente abbastanza io dare lo zelo di quel rev. Capitolo il quale sembra che abbia penzato e voluto immaginare per adornare a gloria di Dio il principale tempio della loro città, ed altrettanto lodevole trovo la premura che si dà d’avere un’opera per quanto sia possibile degna della città e dell’arte pur troppo crollanti, onde trovo ben giusto che dandosi una si cara occasione, sia veramente necessario come seriamente procurano di non aumentare cattivi esempi in architettura ma procurare d’avere in fine un’opera del gusto più puro e ragionato come magistralmente venne insegnatoci da tanti celebri monumenti antichi e maestri del secolo XV. Intanto debolmente dirò quello che ne penzo del progetto inviatomi tanto in generale quanto in specie. A me sembra che prima di fare un’opera si dignitosa dovrebbe darglisi uno spazio proporzionato e comodo alla popolazione, perché intervenendo ancora alle sacre funzioni avrebbe quel largo che è necessario e che la facciata del primario tempio non restasse così trascurata in un angolo di una medesima piazza; onde la demolizione proposta in pianta della piccola porzione di caseggiato del Seminario vecchio non farebbe che una spesa senza il minimo vantaggio poiché la nuova torre si prossima venendo alla principal strada che tende alla Piazza, non si vederebbe se non quando si fosse quasi al primo gradino della nuova gradinata e però troppo sotto e da vicino e tutta la facciata sarebbe sacrificata per mancanza di punto di veduta. Questa parte che la giudico per la principale, mi sembra che per non sacrificare tutto dovrebbe tagliarsi una porzione del fabbricato del Seminario, detto nuovo, di una cinquantina di palmi circa fino al filo del fabbricato di S. Agostino in modo che la strada che viene dalla piazza restasse in qualche relazione simmetrica dell’area della piazza del duomo. A taluno sembrerà un accessorio inutile alla cosa generale ma in pratica, e ben ragionando, si riconoscerà per la principale e per la operazione la più necessaria e dignitosa per quale a me sembra che dovrebbe unirsi la città e tutti quelli che o direttamente, o indirettamente vi hanno parte, e la spesa qualunque fosse a poco all’anno combinarla in modo praticabile senza ammetterla. Seguendo ora le osservazioni particolari sulla pianta e prospetto della nuova facciata seguirò debolmente a pronunciarle. Trovo lodevole il volere del Capitolo di voler conservare la torre attuale perché ben collocata e che ornata opportunamente coll’altra nuova da farsi nell’altr’angolo della facciata potrebbe fare una massa imponente, ragionata ed utile. Non trovo però quel carattere nel prospetto si necessario a mantenersi nel tutto e in ogni parte, poiché a parte inferiore con porte, pilastri, rifalti, finestre d’ogni specie piuttosto gentili, nulla hanno che fare colla parte sovrapposta ben pesante e molto meno col resto delle due torri con pesantissimi finali, rapporto alli miserabili architetti, sopra alli quali ornati solo con due festoncini senza un ragionato e consecutivo rapporto. Lo sporto del portico addosso ad uno degli angoli delli detti campanili farebbe un odiosissimo effetto ricoprendo il nascimento delli medesimi e sembrerebbe una cosa addossata all’altra senza ragione, ciò venne fatto per avere un inutile portico un poco più grande di quello sarebbe stato se la facciata si fosse tenuta a filo di quelli, ovvero lo sporto maggiore avesse rivestito i campanili da ogni parte, cosa che non permetteva l’arca verso il vicolo del Duomo. Le due piccole porte laterali messe 313 proprio nell’angolo del portico medesimo non è immaginazione lodevole e riesce incomodo alla sortita ed entrata del portico; peggio ancora sono quei corridori che dal portico passano alle porte delle navatelle del tempio con finestre che non restano nel mezzo delle porte medesime cose riescono odiose all’occhio d’ogn’uno. Nelle parti e modini trovo una monotonia che riesce opera miserabile come lo è il fenestrone che nota solo nel gran spazio liscio fra le due torri. Ecco debolmente le mie osservazioni provenienti da giusti principi e che se forse la mia insufficienza non avrà saputo adattare alla circostanza sarò meritevole del suo comportamento sarà peraltro sempre di somma lode e necessario allontanare da un opera si interessante questi ed altri difetti e per quanto sarà possibile cercare il meglio pur non gettare danaro, onore e diligenza da quelli che ne hanno l’incarico. Roma 22 agosto 1826 Giuseppe Valadier architetto (ASDM, Fabbrica della cattedrale, 1) TOLENTINO L’Archivio vescovile di Tolentino è coservato nell’ex Palazzo vescovile in piazza Strambi. E’ ben conservato ed è stato recentemente riordinato ed inventariato. L’Archivio funge anche da soggetto conservatore dei seguenti fondi qui depositati: - archivio del Capitolo della Cattedrale, - archivio della confraternita della Carità, - archivio di S. Maria Nuova - archivi delle parrocchie di S. Angelo, Regnano e Paterno - archivio del seminario - parte dell’archivio della congregazione di Carità Sisto V, eleva Tolentino alla dignità di città e diocesi unita a Macerata e conferire alla chiesa di S. Maria della Pieve la dignità di chiesa cattedrale, 1586 dicembre 10 Sixtus episcopus, servus servorum Dei, ad perpetuam memoriam. Super universas orbis ecclesias, eo disponente qui cunctis imperat, et cui omnia obediunt, quamquam sine Nostris meritis constituti, levamus in circuitu agri Dominici oculos Nostrae mentis/ more pervigiliis pastoris inspectoris quid provinciarum et locorum quorumlibet statui congruat ac desuper disponi debeat: unde divino fulti praesidio, dignum quin potiusdebitum/ arbitramur in irriguo militantis Ecclesiae agro novas episcopales sedes et ecclesias plantare, ut per huiusmodi novas plantationes popolaris augeatur devotio, divinus cultus floreat/ et animarum salus subsequatur, loca insignia, praesertim quorum incolae benedicente Domino multiplicari noscuntur, dignioribus titulis et condignis favoribus illustrentur, ispisque/ incolae, honoratorum praesulum adsistentia, regimine et doctrina suffulti, in via Domini magis magisque in die proficiant. Sane attendentes oppidum Tolentini, Camerinesis diocesis,/ in agro Piceno et territorio fructifero ac loco satis ameno et pervio situm, admodum celebre ac muris firmiter cinctum plurium aedificiorum ornatu decorum nec non copioso/ incolarum numero habitatum, ac mille ad minus, ultra castra Colmurani sibi suppositi, focularia sive domus continere, ac in eo unam S. Mariae , cum campanilis, campanis,/ organo, choro, sacristia, plebano ac canonicis et aliis ad carhedralem ecclesiam requisitis, ac alteram ecclesiam collegiatam sancti Jacobi cum priore et canonicis, praeterea sancti/ Catervii et sanctae Septimiae ac sancti Bassi corpora reperiuntur, necnon sancti Nicolai de Tolentino/ nuncupati, Fratrum Eremitarum eiusdem sancti Augustini, in qua existit unum brachium Innocentium et corpus eiusdem sancti Nicolai, qui ob vitae sanctimoniam et in vita/ et post eius obitum miraculis coruscans numero sanctorum meruit adscribi, cuius etiam festum nuperrime in toto stato ecclesiastico celebrari et custodiri mandavimus, ad haec/ Francisci Fratrum Minorum Conventualium et sanctae Mariae Cisoloni Fratrum Minorum de Observantia ac sancti Petri Fratrum Minorum Cappuccinorum nuncupatorum necnon sancti/ Hieronimi Fratrum eiusdem sancti Hieronimi, ac sanctae Agnetis monialium, sanctae Clarae Ordinum monasteria et regulares domos ac quamplures alias ecclesias, ac duo hospitalia/ pro pauperibus et infirmis recipiendis satis commode extructa adesse, et ex eo cardinales, episcopos, referendarios, et strenuos milites, capitaneos et duces generales Status Ecclesiastici,/ aliosque illustres et egregios ac religione et doctrina praeclaros viros prodiisse. Nos cupientes oppidum Tolentini praefatum, cuius dum cardinalatus honore fungeremur protectores/ et fautores fuimus, cuiusque dilectos filios, communitatem et homines singulari dilectione prosequimur, necnon collegiatam ecclesiam sanctae Mariae huiusmodi dignioribus/ titulis ac nominibus decorari. Nos habita super his cum Fratribus nostris deliberatione matura, de illorum consilio et assensu ac de Apostolicae potestatis plenitudine, ad omnipotentis Dei/ laudem et gloriam ac eiusdem beatae Mariae virginis honorem et Christi fidelium devotionis augmentum, oppidum et castrum huiusmodi ac villa comitatus Tolentini eorumque/ territoria a dicta diocesi, cui in spiritualibus subiecta sunt, Apostolica auctoritate tenore praesentium perpetuo separamus, ac illorum incolas,/ habitatores, ecclesiarum rectores, beneficiatos, priores et alios inibi beneficia ecclesiastica obtinentes, monasteria, domos regulares aliaque pia loca omnia ab omni iurisdictione episcopi Camerinesis/ necnon solutione decimarum eidem Episcopo, et per eos debitarum de caetero facienda, auctoritate et tenore praedictis etiam perpetuo eximimus et liberamus. Insuper oppidum Tolentini in civitatem/ Tolentini, et collegiatam ecclesiam sanctae Mariae huiusmodi in cathedralem sub invocatione eiusdem sanctae Mariae, ac in ea dignitatem, sedem, et mensam Episcopalem pro uno Episcopo Tolentino/ nuncupando, qui eidem Ecclesiae Tolentinae praesit ac iurisdictionem episcopalem habeat et exerceat, cum omnibuss privilegiis, honoribus, iuribus et insignibus debitis et consuetis, ac quibus/ alii episcopi de iure vel consuetudine, aut alias quomodolibet in spiritualibus utuntur, potiuntur et gaudent ac uti, potiri et gaudere quomodolibet poterunt in futurum, necnon plebaniam/ illius in archidiaconatum, qui perpetuo erigimus et instituimus, ipsamque ecclesiam in cathedralem erectam Sedi Apostolicae immediate subiicimus ac sub protectione beati Petri et Pauli apostolorum suscipimus. Praetera canonicis eiusdem ecclesiae sic in cathedralem erecte ut almutis pe[-]/ canonicos aliarum cathedralium ecclesiarum deferri solitas deferre libere et licite valeant auctoritate et tenore predictis erigimus et instituimus ipsam ecclesiam sic in cathedralem/ cum ecclesia Maceratense unimus, ita ut pro tempore existens Episcopus maceratensis sit ambarum ecclesiarum unitarum huiusmodi Episcopus et licet vocetur Episcopus maceratensis tamen in litteris[-]/ pertinentibus ad civitatem et diocesim Tolentini ordinarie se subscribere. Debeat Episcopus Maceratae et Tolentini teneanturque retinere unum vicarium in dicta civitate Tolentini qui no[n recognos]/cat superiorem nec ab eo habeantur recursus ad vicarium dicte civitatis Macerate sed tantum ad ipsum Episcopum eidem ecclesie Tolentinensi sic in cathedralem erecte pro illius mense episcopalis/ dote, redditum quadrigentorum scutorum monetae Marchiae per episcopum Tolentinensem propria auctoritate percipiendum de semestri in semestre, et in fine cuiuslibet semestris vel in fine/ cuiuslibet mensis pro rata, arbitrio ispisu episcopi quem praefata communitas Tolentini eidem ecclesiae sic in cathedralem erectae super redditibus molendini ipsius communitatis quousque tot predicta/ Communitas emat, et eidem ecclesiae sic in cathedralem erectae consignet, quorum fructus ad dictam summam quadrigentorum scutorum ascendat, constituerunt et assignarunt, ac/ domum contiguam dictae ecclesiae Tolentinensi pro usu et habitatione ipsius Episcopi Tolentini applicamus, ac ipsi ecclesiae sic in cathedralem erectae Civitatem Tolentini eiusque incolas et habitatores/ pro civitate et in civibus, necnon terras, villas et castrum Colmurani praefata eorumque territoria pro eius Diocesi ac etiam clerum et populum civitatis et diocesis Tolentinensis pro clero et populo,/ auctoritate et tenore 314 paredictis, etiam perpetuo assignamus. […] Datum Romae apud Sanctum Petrum, anno incarnatione Dominicae MDLXXXVI, quarto Idus decembres, pontificatus Nostri anno secundo. (ASCT, Pergamene, Bolle e Brevi, 73) RECANATI L’Archivio Diocesano di Recanati è coservato nell’ex Palazzo vescovile nel Piazzale del Duomo. Il fondo ha subito ha subito alterne vicende con gravi conseguenze sulla documentazione da esso conservata; attualmente una parte è conservata presso l’Archivio di Stato di Macerata. L’archivio è stato recentemente schedato ed è in fase di inventariazione. L’Archivio funge anche da soggetto conservatore dei seguenti fondi qui depositati: - archivio del Capitolo della cattedrale - archivio della confraternita di S. Giacomo - archivi parrocchiali - parte dell’archivio della Curia vescovile di Loreto - parte dell’archivio della Delegazione apostolica di Loreto Visita pastorale, 1621 dicembre 1 In Dei nomine amen. Anno ab eiusdem domini circumcisione millesimo/ sexcentesimo vigesimo primo, indictione quarta tempore sanctissimi/ in Christo patris et domini nostri domini Gregorii divina providentia pape XV/ die vero prima decemris./ Illustrissimus rev. Dominus Julius sancte romane ecclesie presbiter cardinalis episcopus recanatnsis et lauretanus volens ad laudem et gloriam om/nipotentis Dei sanctissimeque trinitatis ac gloriosissime Marie/ semper virginis visitationis initum dare iuxta tenore [...] ad cathedralem dicte civitatis [Recanatensis] ecclesiam/ sub titulo sancti Flaviani sitam prope antiquum palatium episcopatus/ a parte septemtrionali a parte vero meridionali aliud palatium dicti/ episcopatus in quo ad presens residet dominatio s. illustrissima et reverendissima/ (eiusdemque) dictam ecclesiam ingressus fuerit [...] [9r.] die veneris tertia mensis decembris 1621 de mane ill.mus et rev.mus/ cardinalis Roma episcopus episcopus recanatensis et lauretanus prosequendo/ visitationem ab eo iam centam iterum accessit ad eamdem ecclesiam/ cathedralem sub titulo Flaviani positam et lateratam ut/ supra eamquem ingressus accepto [...] et progrediendo ante altare maius genuflexus/ [9v.] sanctissimum eucaristie sacramentum adoravit et aliquanto/ oravit postea una cum predictis consumpsit presnte clero in/cepit visitationem altarium eiusdem ecclesie/ Et primo predicti altaris maioris existentis in capite dicte ecclesie/ versus orientem in quo retinetur sanctissimum eucaris/tie sacramentum die prima decembris visitatum dictumque altare/ adinvenit cum [-] ut dicitur de [-] absque ulla pictura/ sed solummodo cum quadam tabella dipicta cum immagine con/ceptionis beatissime semper virginis et a manu dextera fe/nestram vitream et ante dictum altare pallium albi coloris/ telute inargentate cum trinis aureis et sericis cum tribus/ tobaleis seu (mappis) cruce et candelabris sese crucis seu ex auri/calco nec non duobus angelis ex ligneo deauratis gectantibus/ in eorum manibus cero foraria unum a dexteris et alerum a sinis/stris supra dictum tabernaculum. Item de supra dictum altare umbellam/ rubri coloris panni sericei ante vero habet suam planitiam bradel/ lam ligneam et firmam et quinque gradus per quoas ascendit et quia/ nonnulli ex clero asseruerunt totum lapidem marmoeram/ existentem desuper dictu altare esse totam conservatam prout et tota/ dicta ecclesia ill.mus dominus domandavit capi summarias informatio/nes per dominum archidiaconum super conservationem dicte ecclesie/ mandavit prepterea conopeia, pallia, mapas, pulvinaria/ [10r.] et alia ad ornatum dicti altaris spectantia (ispici) dmi et vocari/ mulieres nuncupate priorisse deputate a confraternitate sanctissimi/ Corporis Christi curam habentes predictarum rerum ad dictum altare/ spectantium ad effectum ordinandi necessaria. Interim ero mandavit/ fieri tela seu choriu ponendum supra dictu atare ad ad ascendam/ pulveram item fieri duo ceroforaria maiora ad privata sacrificia/ que tamen ammoveantur quoties solemniter celebrabitur a/ d. illustrissimo./ Cumque audiverit alteram ex tribus lampadibus que retinentur ante dictum/ altare accensis in honore sanctissimi Sacramenti spectare et ardere debent/ sumptibus beneficiatorum ecclesie sub titulo sancti Petri alias vero/ duas sumptibus fraternitatis corporis Christi in dicta cathedralis exci/ta illmus mandavit ut curetur a sacrista pro tempore quod sin/gulo quoque mense primo anni contribuatur leum ab iis ad quos/ spectat et si non fuerit contributum centioretur dominus ill.mus alias sumptibus/ ipsiusmet sacriste provideatur quod tres ampades continuo/ ardeant/ Postea accessit ad altare erectum in eadem ecclesia ex parte dextera dicti/ altaris maioris confectum seu constructum sumptibus ut asseritur/ (q. excelens) d. Thome de Recaneto cum columnis et lapidibus Beate/ Marie Virginis sanctorum Ubaldi episcopi Ludovici regis Gallie/ Nicolai de Tolentino, Thome Acquinatis, Francisci et Honofrii/ [10v.] ornatumque pallio chorii aurati satis decenti cum insignis de/ confaloneriis ivenit pariter in dicto altari crucem et duo can/delabra ex auri calco tabellam continentem secreta missae mappas/ iussit moneri excellentem dominum Petrum Politum curatorem domini/ Nicole confalonerii in camera ad ostendendum juspatronatus dicti/ minoris super dicti altaris et interi provideri de alis sex mappis/ ad prescriptum dictorum executorum visite et confici nova allia ex ma/teria eisdem executoribus bene visa et cum pulvinaria reperta/ in dicto altari sint ecclesie provideri salte de duobus ac de uno/ missale et demum de tela seu corio ad ascendum pulveram super dictum/ altare. Item latere epistole dicti altaris mandavit/ fieri fenestellam cum portam lineam sera et clave ad conservandas/ ampullas vitreas, campanulam et baccilem et hec omnia fieri per/ quos de iure et ita/ Accessit postea ad aliud altare prope sopradictum in quo adest imago sancte Marie de/ Laureto intus quoddam ornamentum ligneum depictum et quia illustrissimus/ mandavit annotari visitationem alias factam ab illustrissimo et rev.mo domino/ cardinali de Araceli ideo visitationis facta verba describuntur videlicett quod/ crux lignea cum crucifixo et duobus candelabris et auricalco in/ dicto altari reperto sunt ipsius ecclesie ex quo dictum altare non est/ dotatum sed tantum illius gubernium ad devotionem fuisse susceptum/ per dominum Bernardinum canonicum et Joannem Hyeronimum/ [11r.] Meolum eiusdem ecclesie altaristam cumque in dicto altari diver/sa titula beneficiorum inesse audierit decrevit reservavit cognitionem/ ipsorum titulorum ad visitationem particulariter faciendam benefi/ciorum dicte ecclesie et interim dictum altare adequari cum illo de/ confaloneriis et in eo etiam fieri fenestellam similem a parte/ epistole cause de qua supra/ Deinde accessit ad aliud altare prope visitatum quod invenit gubernio fraternitatis sancti Rocchi in quo est icona lignea antiqua/ deaurata\cum immagnibus depictis sanctissimi Chrucifixi, beate virgi/nis sanctorum Petri et Pauli nec non sancti Flaviani et Viti et aliorum/ prout in ea desuper duo candelabris ex auricalco cum cruce, tabella/ in qua continentur secreta misse duo pulvinaria et ante dictum/ altare palliu panni serici albi coloris cum imagine sancti/ Rocci i medio. Invenit etiam supra dictum altare statuam sancti Rocci/ ex ligneo portatilem depictam cum pallio velluti rubri./ Quod altare mandavit pariter sominus illustrissima adequari cum alio altari de/ confaloneriis et ornamentum lapideum in eo fieri simile ad esiudem/ latitudinis et altitudinis cum icona sancti Rocci et pictura ad arbitri/um confraternitatis cum participatione tamen dictorum deputatorum/ executorum visite/ Et interim moneri prout monita fuit dicta confraternitas in camera dominus / llustrissime ad docendum de jure a dicta confraternitate pretenso et de aliis/ ad dictum altare spectantibus et ita./ 315 [11 v.] Postmodum acessit ad aliud altare prope januam ecclesie versus meridiem/ in quo invenit immaginem Beate Marie Virginis cum filio et sancti Josephi/ in quodam ornamento ligneo deaurato et circumcirca chorio pariter deaurato et quia super jure patronatus dicti altaris et controversia mandavit/ moneri in camera dominos de Anticiis et dominum Antonium Jacobum/ Lunarium ad docendum et ad effectum providendi necessaria./ Deinde accessit ad aliud altare prope supradictum quod adinvenit ut dicitur/ stuccatum cum icona depicta et immaginibus Pietatis et sancte Cathe/rine virginis et martiris in quo adinvenit candelabra et crucem/ ex auri calco i parte devastata et propterea mandavit provide/ri de aliis candelabris et cruce aliisque omnibus [-] et intima/ri dominos de Faminiis assertis patronis et ita./ Accessit postea ad altare sancti Caroli prope predictum in quo invenit im/maginem eiusdem sancti depictam in tela et quia habet candelabra/ non decentia mandavit renovari seu provideri de aliis et moneri dominum/ Valerianum Jacobellum pro certa die ad effectum ut docet de suo jure/ et interim paru parietem ex parte epistole admoveri et demoliri et in uno quoque altari deusper visitatio fieri fenestellam/ ut supra ac de omnibus aliis provideri./ Accessit ad alterum altare juxta preditctum visitatum in quo invenit quod/dam ornamentum ut dicitur stuccatum cum imaginem sancti Andree apostoli ex eadem materia formatum et deauratum ex parte cumque i dicto al/tari desint plura necessaria et precipue lapis sacratus sit/ [12r.] nimis paruus mandavit provideri de alio decenti et interim in eo/ nullo modo celebrari. Mandavit preterea per eos ad quos spectat de jure/ provideri de omnibus necessariis iuxta decreta desuper facta i vi/sitatione aliorum aliorum altarium cumque prope dictum atare sit nonnulla monu/menta in parte eminenti ecclesie erecta. Mandavit in executione scri/ concilii tridentini eadem monumenta demoliri./ Postea visitando tribunam ecclesie eam adinvenit bene dispositam forni/catam et dealbatam in parte adest chorus et ante cum altare/ maius iam visitatum in cuius latere dextero posita est sedes ponti/ficalis lignea ornata ex raso rubei et albi coloris cum baldachino/ seu umbella ex eademmet materia cum insigniis ill.mi et rev.mi d./ cardinalis de Araceli ad quam quinque gradus viridi panno/ coopertas ascenditur a lateribus vero iisdem sedis sunt duo/ scanna depicta rubei cloris cu predictis insignis. Habet/ et suam planitiam post prefatos quinque gradus i qua com/mode debitum ossequium prestari potest parietes quoque eius/dem tribune ornate sunt ex choris ante dictu altare positum in/ quo invenit decem et octo sedes ex ligneo nucis constructas/ valde antiqua positas hinc et hinc cilicet novem pro qualibet/ parte./ Servatur in sedendo a dignitatibus et canonicis ordo dignitates/ primo postea canonici deinde altariste eorum promotionem/ [12v.] ac dignitatem sedent servantur preterea debite cerimonie in divi/niis officiis standi sedendi genuflectendi capita tegendi et detegendi/ a choro discedendi et redeundi./ Suscipens postea visitavit tctum ipsius ecclesie quod invenit supra chorum et totam mediam ecclesiam sive mediam navatam/ habere (lagnearium) nuper constructum smptibus ill.mi et rev. Domini/ cardinalis de Araceli eiscopi predecesoris pulcherrim auro variis co/loribus ornatum et depictum cum insignis ligneis deauratis felicis/ recordationis predicti cardinalis de Araceli et n medio ispisus (laqueariis) cum ima/gine integra et stante sancti Flaviani episcpi et martiris eiusdem/ ecclesie patroni./ Vidit preterea organum collocatum in medio ecclesie ex parte dextera/ quod cum sit valde antiquum et egeat ultis in partis restauratio/nemandavit restaurari et ad locum commodiore transferri/ cum ad presens d. Nicolas Melatus de Tolentino preest qui ultra/ beneficium annexum dicto organo habet pro sua mercede scuta sese/decim quolibet ano et tenetur singulis diebus festivis ecclesie/ inservire./ Ex latere sinistro et sic ex parte epistole in medio ecclesie et contra/ dictu organum vidit adesse (supestum) in loco conspicuo/ cu immagine sanctissimi Chrucifixi apte/ e bene accomodate atque desuper habet (laqueare) seu baldacchinum/ [13r.] illius ligneum./ Vidit preterea fontes aque benedicte unius prope januam maiorem/ alterum vero prope minorem a latere dextro utriusque janue/ invenit esse marmoreos expolitos et decentes cum sua acqua/ munda que singulis sabbati diebus lavatur per sacristam/ Visitavit et confessionaria que habent suas grates cum aliis necessariis , pavimentum ecclesie et sepulcra quia egent in multis restauratione/ restaurari mandavit./ Fenestras eiusdem ecclesie pariter vidit bene confectas in suis vi/treatis ab ill.mo carinali de Araceli seu sumptibus ipsius construc/tas./ Demum portas eiusdem ecclesie visitando quia illa que est versus/ oriente eget bussula i parte intus ecclesiam mandavit eam fieri quamprimum et ita./ Die martis septima mensis decembris 1621 de mane./ ill.mus et rev.mus dominus cardinalis Roma associatus a predictissumptis et a clero/ ecclesie cathedralis Recanatensis contulit se ad sacristiam ipsius/ ecclesie que sita est prope altaremaius ex cornu dextero versus/ septemptrionem latreatam ab una parte a palatio epicopali et ab altera/ ab abitatione psius sacriste i qua invenit tres fenestras/ quarum due impannatis ligneis cu telis int concluse. Habet/ portam versus dictam ecclesiam et facta prius per dictum cardinalem oratione/ [13v.] more solito accensis intortitiis mandavit aperiri ocum in quo re/liquie sanctorum reconduntur situm in dicta sacristia in ingressu ip/sius ad manum dexteram in quadam arca seu credentia in muro/ posita ex ligneis […] (ASDR, Visite Pastorali, 1) Inventario della cattedrale 1733 [59r.] Descendosi ora alla descrittione di essa cattedrale dedicata già a S. Flaviano patriarcha di Costantinopoli eletto protettore del clero recanatese da cui se ne celebra solenne festa li 24 novembre li 17 febraio se ne fa l’offitio del martitio. Fu questa chiesa honorata del titolo di cathedrale l’anno 1240 da Gregorio IX et da altri sommi pontefici, sotto diversi vescovi ristabilita, la di cui consecratione si dice seguisse la seconda festa di Pentecoste ma perché una sollennità era di qualche impedimento all’altra fu transportata la festa alli 20 di ottobre nel qual giorno in oggi se ne fa la festa e se ne recita l’offitio si da secolari che da regolari col doppio di prima classe. Qual chiesa si vede posta in fine della città appresso la porta romana da piedi; ha il palazzo del vescovo che la cinge ancho da un lato, dall’altro la strada pubblica et da capo una piccola piazza. Dentro è grande et magnifica et dimostra gran ricchezza di chi l’ha fabbricata è divisa in tre navi con architettura gotica con cinque archi per parte, chiusi però l’ultimi due, che formano il presbiterio; nelle due navi laterali vi sono per soffitto le volte reali ed in quella di mezzo v’è un bellissmo soffitto intagliato con varii lavori quasi tutto messo a oro con belle pitture di mano di eccellente pittore, dicesi venetiano, in mezzo del quale si vede in rilievo la statua di S. Flaviano, sotto e sopra di essa l’arma di Paolo V e del cardinal Araceli che fece fare si nobile ornamento alla sua cathedrale. Nella nave poi laterale dalla parte del vangelo dell’altare chorale a piedi della medesma v’è la cappella de ss.mo quale descriveremo in appresso che lascia libero il presbiterio [60] nelle sue funtioni. Ascendendosi poi dal piano della chiesa per cinque gradini al presbiterio si vede al capo di questo il bello e magnifico choro fatto come si è detto dal fu eminentissimo Roma diviso in due ordini fabricato di legno di noce ove spicca un nobil disegno dove fra gl’altri intagli si vedono dodici statue rappresentanti i dodici apostoli tramezzate con gigli che sembrano alludersi allo stemma del medesimo cardinale come pure si vede la tribuna di questo tutta adornata con nobili stucchi e vaghe pitture, come nel lato destro il martirio di S. Flaviano e l’annuntiatione della beatissima Vergine, nel lato sinistro il martirio di S. Vito e la natività della ss.ma Vergine e sopra il fenestrone la suddetta casa di Loreto, più sopra il padre eterno ed un scherzo di angeli con diverse altre pitture fatte tutte, come si dice, dal pennello del Carosio; in mezzo di detto presbiterio vi è l’infrascritto altare de choro ne lati di detto altare, alquanto verso la chiesa grande, vi sono due belli organi di sette registri per ciascheduno, lavorati col colore di pietra mischiandosi a oro, l’ornamento de’ quali fu fatto da mons. Panici, già vescovo, benché l’organi uno fosse fatto dall’eminentissimo Roma e l’altro dicesi preso nella chiesa di Castel Nuovo; come pure subito salito i gradini di detto presbiterio a cornu evangelii di detto altare v’è il trono per il vescovo, dall’altro lato un bel sedile di noce per il celebrante e finalmente in mezzo l’infrascritto altare. L’Altare del choro proveduto d’una bella scalinata d’un sol gradino con suoi bracciuoli da capo e piedi con cornice dorate di sei candelieri d’ottone alta quasi quattro palme con la sua / 316 [61] croce fatti dall’eminentissimo Roma il di cui stemma si vede in detti candelieri e proveduto di carteglorie con cornice intagliata et indorata, d’altri sei candelieri con carteglorie di lastra d’argento e due statuette parimenti d’argento come meglio si dirà nella nota degl’argenti, di due statuette di legno indorato rappresentanti S. Pietro e S. Paolo, di altri sei vasetti con dodici rame di fiori, sei delle quali sono a mazzetto, proveduto di tovaglie e paliotti. In detto altare si fanno le sacre funtioni prescritte da sacri riti alle cathedrali [...] Nella nave laterale di essa chiesa a cornu evangelii dell’altare del choro vi sono l’infrascritti altari: L’Altare del santissimo a piedi di essa nave ove si vede un bello e gran tabernaculo tutto messo a oro che si copre con un padiglione di tela guarnito di francie nel qual tabernaculo si tiene di continuo il venerabile; l’altare è biancho di rilievo, con mattoni circondato da una bella balaustrata di noce e proveduto di [62] due mute di carteglorie delle quali una è biancha con cornice dorata, l’altra negra con franciotte ornamento d’argento bono. Vi sono in detto altare sei candelieri d’ottone, alti due palmi incirca, dissuguali, con la sua croce parimenti in ottone, sei altri candelieri indorati, con dodici vasetti parimenti indorati di legno, dodici rame di fiori delle quali sei sono mazzi di tolipani di tela di vari colori e l’altri sei di seta garofoli et altri fiori; altre quattro rame di fiori ordinarie, altri sei vasetti parimenti ordinari, vi sono la tela per coprire l’altare, o altarino, dicesi tutto fatto dalla q. sig. Margherita Flammini già priora e benefattrice della congregazione del ss.mo Sacramento. Sopra detto altare v’è il suo baldacchino ed è proveduto esso altare di paliotti. Vi sono ancora due candelieri di legno da tenersi ne’ lati di esso altare con l’arma della confraternita del ss.mo Sagramento la qual confraternita ha il suo jus in detto altare, come pure vi sono tre lampade d’ottone che continuamente ardono avanti il venerabile il giorno e la notte ne ardono altre due sole, sono sostenute da un bell’intaglio di legno dorato nel quale si vede lo stemma della bona memoria di mons. Gherardi. L’altare dedicato a S. Rocco nel quadro vi sono l’imagini di S. Rocco, S. Filippo Neri e della beatissima Vergine col putto, ed è diviso il quadro in due parti e perché si apre si vede dentro il commodo per ponervi le reliquie della chiesa come dicesi volere fare mons. Panici, ma perché dubitò che non fossero ben difese dall’humido non ve le fece riponere. La [63] pittura del quadro si dice del Carosio copia del Lotto. Il detto altare è biancho di rilievo con mattoni, nelle basi delle colonne si vede l’arma di mons. Panici, la scalinata è di mattoni col prospetto di tavola colorita, è proveduto di carteglorie la prima con cornici torchine venata in oro, per ogni giorno, la seconda indorata per le feste, di quattro candelieri torchini indorati et altri sei tutti indorati di sei rame di fiori ordinarie, quattro vasetti torchini indorati e sei di miglior qualità indorati con una croce tutta d’ottone. Sopra la scalinata vi è una statuetta mobile di rilievo rappresentante la vergine di Loreto. [seguono messe che vi vengono officiate] L’altare dedicato a S. Antonio di Padova nel di cui quadro vi sono l’imagini di S. Antonio, S. Michele, della vergine col [64] bambino e vi sono molti putti, la pittura è di Giovanni Antonio Carosio genovese, il detto altare è biancho di rilievo con mattoni, in oggi è proveduto dalla famiglia Galamini, il di cui stemma si vede alle basi delle colonne, vi sono dodici candelieri indorati, sei vasetti parimenti indorati, una bella croce negra col crocifisso d’ottone, v’è la scalinata di matoni bianchi dodici rame di fiori di bona qualitàe quattro ordinarie per ogni giorno, due carteglorie una delle quali è con cornice torchina e dorata, l’altra con cornice indorata; vi sono due cartelline con voti d’argento, v’è la sua lampada avanti. L’altare dedicato a vari santi mentre nel quadro vi sono l’imagini di S. Luigi re di Francia, di S. Ubaldo, S. Nicolò di Tolentino, di S. Honofrio, S. Tomasso d’Aquino e di S. Francesco d’Assisi, opera del Scaramuccia Perugino, allievo del Pomarancio conforme si dice, l’altare è di rilievo fatto di pietra scura ha una muta di quattro candelieri con croce inargentati, la scalinata è d’un sol gradino, vi sono le carteglorie di bona qualità con cornici negre ornate con franciotte quale d’argento bono e quale d’ottone indorato è mantenuto dalla famiglia di Matteo Confalonieri; vi sono altri quattro candelieri con sei vasetti inargentati quattro rame di fiori di bona qualità e altri quattro ordinarie, una lampada. Nell’altra nave di essa chiesa dalla parte dell’epistola dell’altare chorale vi sono gl’altari infrascritti: L’altare da piedi di essa nave dedicato a S. Giuseppe vi sono due quadri con cornici dorate in uno de’ quali v’è l’imagine della vergine santissima col bambino e l’imagine di S. Giuseppe, delle quali imagini/ [65] non se ne vedono altro che i volti essendo coperti da una veste; nell’altro quadro v’è l’imagine di S. Francesco di Paola. L’altare è di stucco biancho fatto con mattoni ed è proveduto d’una bella scalinata a tre gradini con cornicette dorate, dipinta color di pietre alla musaica, di sei candelieri indorati con una croce nigra e Cristo d’ottone indorato, sei vasetti con quattordici rame di fiori ordinarie. Vi sono e cartaglorie con cornici negre nelle quali cornici vi sono franciotte a ornamento d’argento bono e tovaglie e paliotti. V’è la sua lampada d’ottone e campanella nel muro appesa. Vi è stata poi controversia se quest’altare spettava alla famiglia Lunatii o Antici ed in oggi è libero della chiesa. L’altare dedicato alla Madonna della Pietà nel quadro si vede la vergine ss.ma Addolorata col Christo morto avanti e vi si vede ancho un semibusto di S. Catherina d’Alessandria. La pittura è lodata da periti ma non si sa l’autore di essa. L’altare è biancho di rilievo fatto con mattoni ed è della famiglia Flammini essendoci anco il suo stemma è proveduto d’una scalinata a due gradini, di carteglorie con cornici intagliate e sei candelieri con la sua croce, il tutto inargentato; di tovaglie e paliotti. D’avanti v’una bella e grossa lampada d’ottone e v’è la campanella al muro [seguono messe officiate] L’altare dedicato a S. Carlo nel quadro v’è dipinto S. Carlo che fa oratione avanti un crocfisso, pittura del Carosio, ma/ [66] non sapendosi da divoti di S. Liborio in che altare far mettere la sua imagine alla fine la fecero mettere in questo quadro dalla mano di Pietro Simone Fanelli, pare ora che S. Carlo avanti S. Liborio stia genuflesso. L’altare è di rilievo di legno quasi tutto indorato, è proveduto di quattro candelieri con sua croce, torchini et indorai, avanti la sua lampada, di tovaglie e paliotti. V’è la sua campanella a muro. L’altare sotto la volta nell’ingresso della chiesa è dedicato a S. Gaetano. Tieni come nel quadro si vede l’immagine di esso santo e di Gesù Christo, d’alcuni angioli, la pittura si dice esser di Pietro Andrea Briotti presa da una stampa del Romanelli. L’altare non è gran tempo che fu fatto con l’elemosina di varie persone divote ed è proveduto d’una bella scalinata di tre gradini dipinta color di pietra alla musaica, di cartegloria indorate, di dodici candelieri indorati con croci negre e Christo d’ottone, di sedici rame di fiori delle quali sei sono di seta sei di tea, l’altre quattro ordinarie, di tovaglie e paliotti; v’è la sua lampada e campanella al muro. Da piedi la chiesa sta il battisterio o fonte battesimale circondato da una bella cancellata di ferro ornata con sei rami d’ottone, essa fonte è tutta di marmo biancho adornata con più statue di bronzo rappresentanti Gesù Christo che/ [67] riceve il battesimo da S. Giovanni, altri angeli e cherubini adornato ancho con colonne di mattoni bianchi, stucchi e pitture con nobil baldacchino di sopra di legno in più luoghi indorato come pure in detta fonte battesimale vi sono due arme una del cardinal Roma e l’altra della città. Vi sono sei para di candelieri d’ottone alti quasi un palmo e mezzo con dieci coppie di boccagli per le candele parimenti d’ottone. In ciascheduno altare v’è il suo suppedaneo di legno e legivo da tenere il messale; per l’altare del choro oltre il legivo ordinario ve n’è un altro co alcuni intagli indorati e stemma di mons. Gherardi. Nel pilastro poi verso l’altare di S. Carlo v’è il pulpito con il suo baldacchino il tutto di legno di noce con nobil disegno e stemma dell’eminentissmo Roma con un crocifisso assai miracoloso al quale i divoti spesso fanno ardere le candele e la lampada appresso al quale vi sono due cartelline piene di voti d’argento. Come pura in detta chiesa v’è un grande e nobil credenzone ove si conservano i paramenti più nobili, un altro ove si ripongono i paliotti degl’altari, un altro più piccolo ove si ripone il tabernacolo portatile, un altro ove si ripongono i paliotti dell’altare del ss.mo et altro della compagnia del Sagramento. Un cassone d’abete vecchio ove si pone la robba del bancho del magistrato, una credenza nova ove si ripongono i candelieri e rame di fiori fatte per uso dell’altare di S. Antonio et alcune credenze per 317 commodo dell’altari e loro utensili. A cornu evangelii dell’altare di S. Rocco v’è la statua di S Rocco di cui ne tiene cura la confraternita del medesimo, a cornu evangelii/ [68] dell’altare di S. Carlo v’è un semibusto di sotto la volta verso la sagrestia nel muro vi sono tre depositi sepolcrali nel primo v’ il corpo di S. Niccolò d’Asti, già vescovo, nel secondo di Gregorio XII e nel terzo di [spazio bianco] Nel lato destro di essa chiesa nel’ingresso alla sagrestia v’è il campanile fabricato a botte con il suo cartozzo nel quale vi sono tre campane, una grossa una mezzana e l’altra piccola. Passato il campanile s’entra nella sagrestia in mezzo alla quale v’è una colonna in mattoni che sostiene la volta di sopra e detta sagrestia ha altra volta di sotto. Vi sono le credenzette tutte uguali per le dignità e canonici e cassette parimente uguali per gl’altaristi, credenzoni per gl’utensili della chiesa. Vi sono alcuni quadri con diverse pitture cioè di S. Carlo, della Pietà, del ritratto di mons. Niccolò d’Asti, di S. Pietro dipinto in tavola con diverse indorature come ancho vi sono tutte l’imagini che sono molte, con gl’ornamenti indorati dell’altare maggiore anticho di essa chiesa che era situato ove in oggi sta il fenestrone del choro come pure v’è un cassone di noce del quale si servono i canonici per l’archivio. Sopra la sagrestia v’è altrettanto vano diviso in tre stanze/ [69] con molti involti di cartoni dipinti per li sepolcri che si mettono la settimana santa con 34 corncopii del sagrestano Nota de’ paliotti Uno per l’altare del choro, un di lametta d’argento novo con trina e francia d’oro della bona memoria di mons. Gherardi; uno di damascho biancho con guarnimento doro con stemma della città; un altro damascho biancho con trina d’oro, uno rosso di lametta d’oro guarnito con trina e francia d’argento novo cl stemma del suddetto Gherardi; uno di ganzo d’oro e velluto rosso figurato con riccami e francia d’oro fatto con un pluviale d Gregorio XII; uno di damaschetto rosso con francia d’oro e seta; due di damascone antico rossi con fondo giallo e francia di seta in uno v’è lo stemma del fu emintenitssim Roma; uno di damasco verde con trina e francia d’oro con lo stemma del suddetto card. Roma; uno di damaschetto violaceo con trina e francia d’oro con stemma ne’ due lati dell’eminentissimo Araceli ed in mezzo un riccamo con l’imagine di S. Flaviano; un altro di damasco violaceo co’ una francia di sopra di seta e con guarnimento d’argento, uno giallo verde con velluto color oro con francia di seta anticho. Un altro di due facce da una negro di lametta d’oro ornato con trine d’oro bono ed è robba nova, dall’altra parte è di damasco antico color d’or con francia di seta verde e color oro con stemma, robba antica; un paliotto di damasco biancho guarnito con trine d’oro bono novo; [70] un altro rosso di seta o taffetano guarnito con trina d’argento di bona qualità. Per l’altare del ss.mo Sacramento un paliotto biancho di raso ricoperto di riccami rappresentanti varii fiori con diversi colori novo, con piccolo stemma della famiglia di Marco Confalonieri; un altro di damasco biancho vecchio, con trina d’oro; un altro vecchio di cordellone biancho con trina d’oro; un atro di damasco rosso con merletto d’oro; un altro di broccatone rosso con francia, ordinario; un altro di damasco verde con guarnimento d’oro ed in mezzo l’insegna della confraternita del ss.mo Sagramento; un altro violaceo di broccato co fiorettini e guarnimento d’oro. Per il tavolino di detto altare: uno biancho di damaschetto guarnito con trina d’oro; un altro che accompagna in tutto simile al suddetto paliotto. Per li sei altari che stanno sotto le navi laterali vi sono l’infrascirtti paliotti, cioè sei paliotti bianchi ne’ quali v’è framezzato un poco di color ceruleo con guarnimento d’argento, sei altri rossi di buona qualità guarniti con [71] trina e francia gialla; sei altri verdi con fascia di sopra violacea e guarnimento d’oro con l’immagine di S. Flaviano in mezzo e stemma della città, vecchi. Per l’altare di S. Giuseppe oltre li suddetti vi sono l’infrascritti: un paliotto con fiori verdi e rossi guarnito d’oro falso; un altro senza guarnimenti, un altro dipinto con fiori diversi. Per l’altare di S. Gaetano vi sono l’infrascritti: uno biancho con fiori di diversi colorie trina d’oro; un altro di bavellino rosso guarnito con trina d’argento; un altro di due facciate, in una delle quali vi è il bavellino di diversi colori e trinetta d’oro falso, l’altra facciata è di fondo rosso e fior bianchi con un quadro in mezzo con fiori bianchi e fondo torchino co trina d’oro falso. Per l’altare di s. Liborio oltre li soprascritti, essendo uno dei sei citati altari, vi sono l’infrascritti: uno con fondo biancho, fiorato rosso, ordinario. Per l’altare di S. Antonio oltre li soprascritti, essendo uno dei sei citati altari, vi sono l’infrascritti: uno di damascho biancho con francia d’oro fatto con l’elemosine, novo; e più per il tavolino dell’altare del choro oltre li sopraddetti ve n’è uno di corame rosso e fascia color d’oro con fondo biancho, ordinario, per ogni giorno. In ogni altare poi v’è una cornice di legno di noce per uso de palliotti./ [72] Nota della biancheria Tovaglie d’altare di tela e di bona qualità numero sette, nella settima v’è un merletto d’oro buono; Tovaglie ordinarie n. 33; quattro altre tovaglie per l’altare d S. Gaetano, altre due tovaglie per l’altare di S. Antonio; tovaglia una per l’altare di S. Giuseppe di tela fatta con elemosina; una tovaglia stretta per dietro la scalinata dell’altare del choro; una tovaglia per l’altare della cappella. Camisci di tela di bona qualità con merletti diversi n. 19; camisci ricciati della felice memoria di mons. Gherardi n. 2 uno de’ quali è col merletto girato; ammitti boni n. 40, ammitti di tela n. 5 uno de’ quali è ricciato, di Gherardi; cordoni n. 3 di seta novi, de’ quali uno è biancho, uno è rosso e verde della felice memoria di mons. Bussi; cordoni n. 2 de’ quali uno di seta bianco con filetti d’oro e fiocchetti di seta rossa, l’altro di filo biancho; cordone uno violaceo di seta con fili d’oro; cordoni due di seta con fili d’oro ne’ fiocchi; cordoni due rossi di seta con fili d’oro ne’ fiocchi; cordoni due verdi di seta con fil d’oro ne’ fiocchi;/ [73] cordoni n. 14 bianchi ordinari; corporali di bona qualità n. 37; corporali due con merletti di mons. Gherardi; purificatori n. 110, palle di tela n. 25; palle riccamate n. 3 una delle quali è violacea con tavoletta e rovescio in biancho riccamata tutta con oro ed in mezzo vi è l’imagine della vergine santissima col putto e l’altre usuali, della bona memoria di mons. Gherardi; tovaglioli di panno n. 4, uno di tela; asciuttamani di bona qualità n. 14 e due ordinari; asciuttamani di tela n. 6 ricciati parte con merletti e parte senza del suddetto mons. Gherardi; fazzoletti per le messe boni n. 14; fazzoletti ricciati con merletti n. 4 del detto Gherardi; una tovaglia per l’altarino o credenza che era del Gherardi e molt’altri ammitti, fazzoletti e purificatori laceri. Nota de’ Libri” Antiphonarium romanum de tempore et sanctis di bona qualità. Graduale romanum de tempore et sanctis di bona qualità. Psalterium romanum di bona qualità. Psalterium romanum come sopra di miglior qualità. Psalterium romanum come sopra usato./ [74] Manuale chorale ad formam quasi novo. Manuale chorale ad formam come sopra quasi novo. Manuale chorale ad formam come sopra usato. Breviarum romanum decreto sacrosanti concilii Tridentini di bona qualità. 318 Breviarum romanum come sopra. Tutti li suddetti libri sono coperti di corame. Un pontificale romano diviso in tre tomi coperti di corame rosso indorati di fettuccie rosse e con stemma della bona memoria di mons. Bussi. Un pontificale coperto con corame rosso indorato e con segnali rossi del suddetto Bussi. Tre pontificaletti uno de’ quali è coperto di pelle e l’altri due con coperta pergamena della bona memoria di mons. Gherardi. Un pontificaletto con coperta di corame scuro. Tre pontificali con coperte di corame usati. Un canone con coperta di corame rosso indorato con segnali rossi e stemma di mons. Bussi. Un canone con coperte rosse indorate, fettucce rosse e stemma di mons. Gherardi. Un altro canone del suddetto Gherardi. Quattro canoni con coperte di corame indorati due de’ quali con lo stemma di mons. Cordella, il terzo con lo stemma di mons. Guarnieri et il quarto di mons. Panici. Un messale novo con coperte piene di riccame oro con stanghetta ne’ segnali d’argento e stemma in riccame d’oro di prefato mons. Bussi. Un messale con coperte di corame roso indorato con segnali/ [75] e stemma di mons. Busi. Un messale indorato con coperte di corame rosso indorato con fettuccie rosse per segnali. Un altro messale di mons. Ghepardi. Sei messali con coperte di corame indorate. Quattro altri messali sospesi. Un altro con coperte di corame rosso del detto Bussi, quasi novo. Un messaletto de’ morti con coperte di corame mezzo indorate e con segnali ne’ quali vi sono certi godetti d’argento Otto mesaletti de’ morti 4 de’ quali sono con coperte di corame rosso e l’altri 4 di cartoncino giallo. Un altro messale de’ morti sospeso. Un cerimoniale episcopale con coperte di corame rosso indorate. Tre martirologi romani uno de’ quali è bono ad operar, un altro è usato il terzo è vecchio. Nota delle reliquie e degl’argenti Una croce di lastra d’argento alta palme tre e mezzo e larga ne’ bracci due palma incirca e nel mezzo della quale si vede una spina della corona di Nostro Signore, ne’ bracci due belli pezzi di legno della santa croce; sepolto in questa chiesa da piedi essa croce v’è un pezzo della veste inconsuntile e sponga da capo una crocettina d legno della S. Croce dicesi lasciata da S. Pietro martire,/ [76] due reliquiarii uguali con prospettiva di lastra d’argento d’altezza palmi tre e mezzo, larghe un palmo e mezzo in circa, in una delle quali si vede l’arma di Gregorio XII e vi sono racchiuse le sandale di S. Francesco con le quali prendé le stimmate tessute di gioncho marino dicesi da S. Chiara; nell’altro si vede lo stemma del fu mons. Gherardi e v’è racchiuso un osso d’un braccio con un pezzo di cranio di S. Giustina martire. Due reliquiari uguali d’argento con piede rotondo come di calice, ciascuno due palma alto, uno largo incirca, in uno de’ quali sotto il piede si vede lo stemma del card. Crescenzio già vescovo, v’è racchiuso un osso d’un braccio di S. Flaviano martire, titolare, e un pezzo di bastone col quale fu martirizzato, nell’altro sotto il piede si vede lo stemma del fu mons. Gherardi è v’è racchiusa una coscietta e gamba d’uno de’ santi Innocenti, quali reliquiari hanno anche un piede stallo di legno indorato. Due reliquiari uguali con facciata di lastra d’argento, d’altezza un palmo e mezzo incirca, in uno de’ quali è racchiuso un reliquiario d’argento dorato con scrittura gotica dietro che dicessi la portasse in petto Gregorio XII con del capo di S. Thommaso apostolo, del capo di S. Lorenzo, del capo di S. Ursola; del capo di S. Appliano del braccio di S. Macchario, del corpo di S. Giulio; nell’altro v’è la reliquia di S. Rocco e del pluviale di S. Gaetano, questo fu dato dall’arcidiacono Galamini. Un reliquiario con facciata d’argento alto più d’un palmo nel quale v’è racchiusa la reliquia di S. Liborio data al card. Massucci. [77r] Un semibusto di rame dorato la testa e il collo del quale è di lastra d’argento v’è racchiusa la testa di S. Margherita vergine e martire. Una coperta di damasco forgiata di galloni d’oro ornata dentro di vari fiori con cristallo davanti e ne’ lati dentro la quale si vede la testa di S Colomba martire, un osso di gamba di S. Vittoria martire, un osso di gamba di S. Placido martire, un osso di gamba di S. Innocentia martire. Quattro reliquiari uguali di legno dorato ed intagliato rappresentanti un angolo per ciascuno che sostiene il reliquiario nel primo si racchiude la reliquia di S. Lucia vergine e martire,nel secondo la reliquia di S. Biagio, nel terzo la reliquia di S. Ignazio di Laiola, nel quarto di S. Christina vergine e martire. Due reliquiarii uguali di legno dorato in uno si vede lo stemma nella base del fu mons. Rutilio Benzoni con le reliquie di S. Sebastiano martire, di S. Catherina vergine e martire de santi Cosmo e Damiano, di S. Lorenzo, di S. Giorgio dell’undecimila vergini, di S. Niccolò et altre. Nell’altro vi sono le reliquie di S. Filippo apostolo, di S. Giacomo, di S. Cornelio, di S. Paolo primo eremita, di S. Agnese, di S. Gregorio. Tutte le sopraddette reliquie si espongono. Tre reliquiaretti da collocarsi d’argento ne’ quali vi sono le reliquie di S. Antonio da Padova e di S. Franceso di Paola, donate quella di S. Francesco dal preposto Centofiorini e l’altre due dall’arcidiacono Galamini/ [78] In una testa di legno dorata et inargentata il ricordo di S. Filippo Neri. Vi sono ancho in un cassone di noce posto in sagrestia tre scattoloni differenti nella grandezza pieni di varie reliquie involte con charta sopra delle quali ed in ciascheduna di esse vi è scritto il nome sempre, per il passato conservate sotto diverse chiavi tenute da diversi preti di essa chiesa, delle quali reliquie non se ne ritrova l’autenthica tutto che nelle dette scattole vi siano sigilli e segni di cordelle che denotano per l’antichità essersi tolte. Queste pure tuttora si conservano con l’istessa diligenza se bene non si espongono in pubblico per mancanza d’autenthica et ornamento. Le suddette reliquie che si espongono co i tre suddetti reliquialetti da collocarsi, si conservano in un armadio in sagrestia chiuso con tre chiavi una delle quali la tiene il preposto la seconda il canonico Condulmati e la terza Filippo Giorni altarista e maestro di cerimonie. Una croce d’argento per le processioni, che ha da una parte il crocifisso ed altre figure dall’altra parte la concezione ed altre figure con l’asta vestita di cinque canneli d’argento che formano l’altezza di otto palmi e mezzo incirca col pomo da capo l’asta parimente d’argento e si vede vicino al pomo la figura di S. Flaviano. Un pastorale di quattro cannelli d’argento che formano l’altezza di sei palma e mezzo in circa con la ciambella da capo ritorta d’argento indorato con figure et ornamenti/ [79] sei candelieri d’argento alti quattro palma con la sua croce dorati dalla bona memoria di mons. Gherardi. Due statuette d’argento di getto, alte due palme incirca rappresentanti S. Pietro e S. Paolo, le chiavi che porta S. Pietro sono indorate et in dette statue v’è lo stemma del suddetto Gherardi. Una muta di cartaglorie di lastra d’argento quelle di mezzo alte due palme e mezzo in circa e larga tre palma parimenti incirca, fatte dal detto Gherardi. Due candelieri d’argento per li capoferrri d’altezza di due palme e mezzo ne quali in un lato v’è l’imagine d S. Flaviano in un altro lato il medesimo nel terzo la descrittione come appartengono alla dignità e canonici. Una lampada d’argento alta tre palma e mezzo larga a proportione con lo stemma di mons. Gherardi la immagine di S. Flaviano e l’inscritione infrascritta: “in honore S. Flamini episcopi Gherardi et charitatis flamma fulget et ardet”. Un ostensorio grande d’argento 319 d’altezza tre palma incirca con la lunetta indorata con lo stemma di mons. Guarnirei et insegna della confraternita del ss.mo Sarmento. Una pisside grande d’argento Un’altra pisside più piccola parimenti d’argento col piede di rame indorato. Un calice grande con putti e fiorami d’argento con/ [80] coppa indoata entro e fuori, con stemma sotto il piede di mons. Cordella con sua patena d’argento dietro la quale è indorata e vi si vede la cena del Signore foderata di tela biancha e cassata. Un calice con sua patena d’argento con fiorami e stemma di mons. Guarnieri incassato. Un calice con sua patena d’argento con fiorami e stemma di mons. Gherardi coperto con un fazzoletto e con cassa. Un calice molto pesante con fiorami con sua patena d’argento e stemma di [spazio bianco]. Un altro calice con fiorami con sua patena d’argento. Un calice e patena d’argento, il calice è liscio. Due altri calici uguali lisci d’argento e loro patene fatti con guasti. Due calici con coppe d’argento e piedi d’ottone indorato uno più grande dell’altro, nel grande v’è la patena d’argento, nel piccolo di rame indorato. Due turiboli uno più bello e più grande dell’altro, nel più grande v’è l’imagine di S. Flaviano, lo stemma di Gregorio XII e lo stemma del card. Araceli; nell’altro niente. Due navicelle d’accompagno de’ suddetti turiboli in una delle quali vi è in due luoghi lo stemma di Gregorio XIII e cocchiarini. Una caldarola per l’acqua santa col suo d’argento nel quale aspersorio v’è lo stemma del fu mons. Benzoni e si legge certa descrittione si nella caldarola che nell’aspersorio./ [81] Un piattino d’argento bislungo per l’impuline con stemma di mons. Guareri. Una Pace o sia istromento di Pace d’argento con l’imagine di Gesù Cristo che porta la croce. Una lampada piccola d’argento donata da una divota per il crocifisso del pulpito. Una bugia con lo stemma di mons. Gherardi. Una campanella d’argento con l’imagine di S. Flaviano dicesi fatta con i quarti. Alcuni piccoli rottami d’argento de’ candelieri. Nota de’ Pluviali, Pianete, Tonicelle, Stole, Manipoli, Borse e Veli color bianco Un pluviale di lametta d’argento con trine d’oro attorno e nel cappuccio con stemma della felice memoria di mons. Gherardi. Quattro pluviali di damasco con trine d’oro d’avanti e nel cappuccio con stemma del suddetto Gherardi. Un pluviale di damasco guarniti con trine d’oro bono fatto con i quarti. Una pianeta di lametta d’argento ricamata in mezzo con oro con merletto d’oro attorno e con lo stemma del card. Crescenzi, con manipolo e stola./ [82] Una pianeta con suoi galloni d’oro e d’argento di veletta biancha di broccato d’oro foderata di taffetano con lo stemma di mons. Gherardi di riccami d’oro, co stola e manipolo. Una pianeta di lama d’argento ricamata tutta d’oro con manipolo e stola e stemma del suddetto Gherardi. Due pianete di lametta d’argento con trina d’oro nel mezzo ed attorno piccol merlettino d’oro con manipoli e stole e stemma di mons. Cordella. Una pianeta di lametta d’oro guarnita con trine d’oro con manipolo e stola di mons. Panici. Tre pianete di damasco uguali con trina in mezzo d’oro bono e trenette attorno con manipoli e stole. Una pianeta di amoer ondato trina d’oro i mezzo e attorno [-] oro con stemma di mons. Guarnierei con manipolo e stola. Tre pianete bianche d’amoer una delle quali è guarnita in mezzo ed attorno con trine d’oro l’altre due i mezzo solamente, con manipoli e stole. Una pianeta di tabino biancho ondato con galloncini d’oro con manipolo e stola ne quali vi sono ancho francie d’oro ed il cordone con fioccho d’oro nel manipolo di mons. Bussi. Due tonicelle di lametta d’argento con manipoli e stole e guarnito di trona d’oro col stemma di mons. Gherardi, di bona qualità. Due tonicelle di damasco con manipoli e stole e parimente/ [83] di trina d’oro, con stemma di mons. Gherardi. Due altre tonicelle di damasco con manipoli e stole guarnite con trine d’oro e con cordoni di seta et oro. Due tonicelle d’amoer con manipoli e stole guarnite con trine d’oro, fatte con i quarti. Due borse uguali di lama d’argento guarnite con galoni d’oro con fiocchi bianchi fatte dalla bona memoria di Gherardi. Una borsa tutta ricamata con trine e fiocchi e la Madonna in mezzo, usata. Un’altra borsa ricamata parimenti con oro e seta. Una borsa vecchia di lametta guarnita d’oro. Sei borse di damasco uguali, quattro delle quali sono ancho uguali nel guarnimento di trine d’oro bono e l’altre due con merletto parimente d’oro. Due borse d’amoer una delle quali è nova con trina d’oro bono e fiocchi bianchi, l’alra con trina d’oro, usata. Una borsa di tabino con galloni d’oro e fiocchi di seta d’accompagno alla sopra descritta pianeta di mons. Bussi. Un velo di fondo biancho tutto ricamato con oro e seta finto con diversi colori con l’Assunta in mezzo in riccame e trina d’oro intorno con federa biancha. Una velo di fondo biancho quasi tutto ricamato con oro e seta fiorato con croce in mezzo in riccame e attorno una trenetta d’oro con fodera biancha./ [84] Un velo con fondo biancho di raso ricamato d’oro attorno e ne’ spicoli con oro e seta di diversi colori e con il bon Gesù in mezzo foderato di taffetano color d’oro. Un altro velo di raso biancho con fodera di taffetano color d’oro ricamato intorno fatto con i quarti. Sei veli di damasco uguali con francie attorno di seta e fili d’oro. Quattr’altri di taffetano uguali con con francie d’oro attorno Colore rosso Un pluviale di lametta d’oro guarnito con trine e francie d’argento con stemma d’argento di mons. Gherardi. Un pluviale di lametta d’oro guarnito con trine d’oro con stemma di mons. Panici, di bona qualità. Un pluviale di lametta d’oro ondato con sue trine d’oro. Quattro pluviali di broccatone antico guarniti con trina di seta color d’oro con stemma del card. Roma. Un pluviale di damaschetto guarnito con trenette d’oro bono e francie d’oro e seta. Una pianeta di lametta d’oro col fondo rosso, ricamata d’argento e ne lati, con manipolo e stola e stemma fatto con filo d’argento di mons. Gherardi./ [85] Una pianeta di lametta d’oro con manipolo e stola con guarnimenti d’oro e stemma di mons. Panici. Una pianeta di broccati d’oro con manipolo e stola e guarnimenti d’oro fatta con i quarti. Una pianeta di damasco con manipolo e stola e guarnimento d’oro fatte con i quarti. Due pianete di damasco con manipoli e stole e guarnimento d’oro ancho di francia d’oro nel manipolo e stola e stemma di mons. D’Asti. Una pianeta di damasco con manipoli e stole e guarnimento d’oro fatta con i quarti. Una pianeta d’amoer con manipolo e stola e guarnimento d’oro ancho di francia d’oro nel manipolo e stemma di mons. Cordella. Una pianeta di damasco con manipolo e stola e guarnimento d’oro falzo, ancho nel di francia nel manipolo e stola e guarnimento d’oro. Una pianeta d’ormiscino con manipolo e stola e guarnimento e nel manipolo e stola vi sono francie diseta e sono guaste. Una pianeta di tabino e vermisce ondato con manipolo e stola e guarnimento di galloncini d’oro e con codone di seta e fiocco d’oro nel manipolo della bona memoria di mons. Bussi. Due tonicelle di lama d’oro con manipoli e stole e e guarnimento d’oro fatte dal prefato Gherardi, quale accompagnano la suddetta pianeta fatta dal medesimo. Due tonacelle di broccatino d’oro con manipoli e stole e/ [86] guarnimento d’argento quale accompagnano la suddetta pianeta di broccatino fatta parimente con i quarti. Due tonicelle d’amoer con manipoli e stole e guarnimento d’argento fatte con i quarti. Due tonicelle con manipoli e stole e guarnimento d’oro. Una tonacella sola di seta col suo manipolo e stola e guarnimento d’oro. Una borsa di lama d’oro quasi tutta ricamata con argento con croce del medesimo ricamo e fiocchi rossi, acompagna la pianeta del suddetto Gherardi. Una borsa di lametta d’oro con guarnimento d’oro. Una borsa da una parte rossa quasi tutta ricamata in oro ed in mezzo l’agnello pasquale formato con perline bone, d’altra parte biancha con Gesù Cristo in mezzo che resuscita in riccame d’oro co fiocchi rossi. Una borsa di tabino con galloncini d’oro e fiocchi di seta d’accompagno della suddetta pianeta di mons. Bussi. Una borsa d’amoer ondato guarnita con trina d’argento d’ambo le parte è fatta d’amoer. Due altre d’amoer con trine d’argento bono, d’ambo le parte fatta d’amoer. Due altre di damasco con trina d’oro bono. Due altre d’amoer con trine d’argento bono d’amoer d’ambo le parte, le trine d’una parte sola. Una borsa di damasco con trina d’oro, usata./ 320 [87] Una altra borsa di damasco usata guarnita d’oro ed ha da una parte certi guarnimenti antichi e merletti d’oro. Una altra borsa di seta usata con merlettino e splendori d’oro. Un velo col rovescio di taffetano tosso tutto ornato con fila d’oro. Quattro veli rossi di damaschetto uguali tre de’ quali guarniti con francie di seta, il quarto con merlettino d’oro. Un velo di taffetano rosso o sia doppio con guarnitione d’oro attorno e con una croce fatta di filo d’oro che va da uno spicolo all’altro. Tre veli di taffetano rosso, il primo liscio, il secondo con merlettino d’oro, il terzo con trenetta d’oro. Colore verde Tre pluviali, uno de’ quali è di damasco co’ guarnimento d’oro bono e stemma del card. Roma, l’altri due sembrano fiorati guarniti co trina di seta verde co stemma del suddetto cardinale. Una pianeta di lametta d’oro con fondo ondato verde con manipolo e stola e guarnimento d’oro ancho di francia d’oro nella stola e manipolo e con stemma del card. Cordella. Una pianeta di lametta d’oro con manipolo e stola e guarnimento d’oro./ [88] Una pianeta di tabino verde ondata con manipolo e stola e galloncini d’oro, nel manipolo e stola vi sono altre francie d’oro e cordone di seta co fioccho d’oro nel manipolo della bona memoria di mons. Bussi. Una pianeta di damasco con manipolo e stola e suo guarnimento col stemma dell’emintenitssimo Roma. Una pianeta di damasco con manipolo e stola e guarnimento di trina e francia di seta verde col stemma del card. Della Rovera. Una pianeta di damasco con manipolo e stola e guarnimento d’oro col stemma del fu mons. Benzoni. Una pianeta ondata con manipolo e stola e guarnimento d’oro e stemma del fu mons. Cardella. Quattro pianete uguali con manipoli e stole e guarnimenti di seta ordinarie. Due tonicelle con manipoli e stola di damasco con guarnimento d’oro e con settam dell’eminentissimo Roma. Due tonicelle di damasco con manipoli e stole guarnite con trine, francie e fiocchi di seta verde col stemma del suddetto card. Della Rovera. Due tonicelle di seta con manipolo e stola e guarnimento d’oro. Una borsa di tabino con galloncini d’oro e fiocchi di seta d’accompagno della suddetta pianeta di Bussi./ [89] Una borsa di lametta d’argento con merlettino d’oro bono con splendori e tre fiocconi. Due borse uguali con trine d’oro e fiocchi. Tre borse uguali guarnite con trine d’argento e oro con fiocchi di seta verde ed oro. Un velo di taffetano riforzato foderato quasi tutto guarnito con fila d’oro co un merlettino attorno d’oro, in mezzo il bon Gesù, il tutto d’oro bono. Tre altri di taffetano uguali con francie attorno d’oro et argento. Due altri di seta. Color violaceo Un pluviale di lama d’oro guarnito con trine e francie d’argento col stemma di Gherardi. Un pluviale di broccato d’avanti figurato. Un pluviale di damasco con guarnimento d’oro e stemma del fu emintenitssimo Araceli. Un pluviale di seta guranito con trine di seta e oro con lo stemma di mons. Benzoni. Una pianeta di lama d’oro con manipolo e stola tuta ricamata d’argento con lo stemma di mons. Gherardi. Una pianeta di lametta d’oro con manipolo e stola e guarnimento d’oro con lo stemma del fu card. [spazio bianco] Una pianeta di lametta d’argento con manipolo e stola e guar/ [90] nimento d’oro. Una pianeta di damasco con manipolo e stola e guarnimento d’oro con lo stemma del suddetto Araceli. Una pianeta di damasco con manipolo e stola e guarnimento d’oro falzo con lo stemma di mons. Guarnieri. Una pianeta di damasco nova con manipolo e stola e guarnimento d’oro con lo stemma della città. Due pianete di damaschetto uguali con manipoli e stole e guarnimenti di seta gialla. Una pianeta d’amoer con manipolo e stola e guarnimento d’oro con lo stemma di mons. Caldarola. Due pianete d’amoer in mozzetto con manipolo, stola e stolone. Tre altre pianete uguali di [spazio bianco] con guarnimento di seta gialla e arancione, manipoli e stole. Una pianeta di tabino ondato senza manipolo e stola e con guarnimento di galloncini d’oro di mons. Bussi, novi. Due pianete uguali con guarnimento di seta foderate bianche senza manipoli e stole, Una pianeta di boccaiano con manipolo e stola e trina di seta. Un’altra di boccaiano con trina biancha e manipolo, la stola non si trova. Un’altra parimente di boccaiano con trina di seta bianche violacea il cui manipolo e la stola non si trova. Due tonacelle di damasco con manipoli e stole e guarnimento d’oro./ [91] ancho di cordoni a fiocchi mischi con oro quale tonacelle sono d’accompagno della sopraddetta pianeta fatte dal card. Araceli. Una stola sola di damasco con la croce di gallone d’oro della bona memoria di mons. Gherardi. Una borsa con facciata di lametta d’argento con trina e splendori nella croce d’oro e fiocchi violacei. Una borsa di tabino violacea con galloncini d’oro e fiocchi di seta d’accompagno della suddetta pianeta di mons. Bussi, nova. Una borsa di broccato fiorato guarnita con trina d’oro e con fiocchi bianchi e rossi, in una partita manca la trina. Una borsa di damasco con trina d’oro e fiocchi. Un’altra di damasco guarnita con trina d’oro buono e con fiocchi d’oro e con seta torchina. Due altre uguali di damaschetto con trina di seta gialla. Una borsa di damasco con trina e splendori d’oro. Un velo di damasco foderato di tela rossa guarnito con trina d’oro bono attorno, novo. Due altri di damasco uguali con merlettino attorno d’argento. Due altri veli di damasco uguali con francie attorno di seta d’argento. Un altro di seta foderato di taffetano quasi tutto guarnito con trina di seta color d’oro. Un altro velo che si dice il sospeso./ [92] Color negro Un pluviale di damasco con guarnimento d’argento fatto con i quarti. Un pluviale di stamigna con guarnimento di seta di diversi colori. Una pianeta di damasco con manipolo e stola e guarnimento d’argento fatta con i quarti. Quattro pianete di boccaiano con manipoli e stole delle quali una è guarnita con oro falzo, un’altra con oro et argento parimente falzo, la terza con trina di seta biancha e la quarta con trina di seta biancha e violacea. Tre pianete uguali di cataluffo con manipoli e stole e guarnimento d’argento. Due altre pianete di robba uguale con manipoli e stole una delle quali una è guarnita con oro falzo, e l’altra con trina di seta biancha. Una pianeta di stamigna con manipolo e stola e guarnimento di seta biancha. Due tonicelle di damasco con manipoli e stole e guarnimento d’argento Due tonicelle di boccaiano con manipoli e stole e guarnimento d’argento. [93] Una borsa di lametta d’oro con trina e fiocchi d’argento. Due borse di damasco guarnite d’argento falzo usate. Un’altra di seta usata con trenetta d’oro e fiocchi. Tre borse uguali ordinarie di ta ffetano negro con trina d’argento e fiocchi. Una borsa di boccaiano guarnita d’oro e fiocchi gialli, nova. Un velo di damasco negro guarnito con trina d’argento. Tre altri di taffetano con francie attorno d’argento. Un altro di taffetano liscio. Due altri di taffetano uguali guarniti di seta biancha. Due altri di taffetano lisci. Colori diversi Quattro pluviali di bavellino col fondo rosso e foderati bianchi con guarnimento d’argento fatti con i quarti. Due pluviali con fondo violaceo foderati con guarnimento di trine di seta color violaceo col stemma del fu emintentissimo Roma. Cinque pianete di bavellino verde e rigate di più colori tutte d’argento in mezzo, in due delle quali v’è attorno francie d’argento, manipoli e stole con l’istesse guarnitioni. Tre pianete bianche di diversi colori con manipoli e stole e guarnimento d’oro falzo. Tre altre pianete guarnite con trine/ [94] di seta e francie. Una pianeta con manipolo e stola e guarnimento d’oro falzo. Una pianeta d’amoer foderata con taffetano verde con galloni d’oro et argento et stemma con riccame d’oro con manipolo e stola di mons. Gherardi. Una pianeta con manipolo e stola con trina falza. Una pianeta di diversi colori della bona memoria del card. Aguini. Otto pianete ordinarie con guarnimento d’oro et argento falzo. Due stole sole delle quali rossa e verde di seta l’altra di bavellino con fioretti e merletto d’argento falzo. Una borsa di diversi colori con trina attorno d’oro e merlettino croce e fiocchi. Un’altra con con trina e fiocchi di seta gialla. Tre borse con fondo biancho con fiorami di diversi colori guarnite d’oro, uguali e con fiocchi, usate. Diecinove borse sospese. Un velo di vari colori di taffetano con frangetta di seta gialla. Un velo di diversi fiorami con trenetta d’oro foderato. Tre veli si dicono sospesi./ 321 [95] Nota de’ troni o sogli per il vescovo Un soglio di seta fiorato biancho e rosso con francie di seta biancha e rossa con guarnimento di seta e faldistorio con francie e stemma e con cugini per il faldistorio novo. Un altro fiorato rosso e fondo giallo con francie di seta gialla e rossa con sedia e faldistorio con cugini con stemma del fu mons. Guarnieri. Un altro di raso color violaceo con tutt’altro come sopra usato con stemma del fu card. Roma. Un altro di raso di seta violacea con tutt’altro come sopra lacero con stemma del fu mons. Guarnieri in questo non vi sono cugini e faldistorio.Un altro rosso di seta piccolo con francie rosse e tutt’altro come sopra fatto dalla felice memoria di mons. Gherardi fatto per mettersi entro la cappella del Santissimo./ [96] Nota de’ paramenti entro la chiesa Sedici pezzi di broccatone di Venezia rosso gremisce novo […] [97] Quattordici pezzi di taffetano rinforzato novo venuto da Bologna […] [98] Quattro pezzi di freggi o fascie di damasco ben condizionato foderati per il presbiterio co’ francia rossa e gialla […] Tutti li sopraddetti paramenti sono stati fatti della bona memoria di mons. Gherardi. Quattro pezzi di serini rossi e gialli per la cappella del Santissimo […] Due panni o strati per l’altare del Santissimo rossi uno de’ quali è novo, largo tre braccia e tre quarti lungo sei [99] fatti dalla sig. Laura Flamini per elemosina de’ quali la medesima uno ne tiene in casa e l’altro nell’altare. Un tappeto per l’altare del choro. Un panno verde per il medesimo altare di robba fatta in casa onato dal canonico Mazzoni. Un altro piccolo dell’istessa robba del suddetto donato dal medesimo per il soppedaneo del sedile del celebrante. Un panno rosso nuovo per il trono del vescovo. Due panni verdi con francie per li canonici quando stanno fuori del choro. Più pezzi di panno rosso per coprire il pavimento del presbiterio dell’altare del choro fino a gradini. Nota degl’utensili per la persona del vescovo ne’ pontificali Una mitra biancha di lama d’argento d’ambo le parti ricamata con oro e seta di diversi colori con gallone d’oro attorno galloncini e francia d’oro con lo stemma della felice memoria di mons. Gherardi. Una mitra biancha di lama d’argento con trinetta d’oro attorno e nelle calate trine e francie e stemma del suddetto Gherardi. Un’altra mitra di lama d’argento tutta ricoperta d’ambo le parti/ [100] di riccame d’oro con trina e francia d’oro della felice memoria di mons. Panici. Un’altra mitra di lama d’oro con trina d’oro attorno e francie d’oro. Due dalmatiche di taffetano bianche guarnite con trina d’oro fatte fare dalla felice memoria di mons. Gherardi. Due dalmatiche di taffetano bianche. Due altre di taffetano guarnite con trina d’argento fatte dal suddetto Gherardi. Due dalmatiche di taffetano rosso. Due dalmatiche verdi di taffetano guarnite con i galloncini d’oro della felice memoria di mons. Bussi. Due altre dalmatiche di taffetano verde. Due dalmatiche di taffetano violaceo. Due altre di taffetano violaceo color oro. Un paro di sandali bianchi di lametta d’argento con trina d’oro da capo della felice memoria di mons. Bussi. Un paro di sandali bianchi di damasco della felice memoria di mons. Gherardi. Un altro paro di taffetano biancho. Due altre para di damasco biancho. Un paro di sandali rossi di damasco con trina d’oro da capo del suddetto mons. Bussi. Un altro paro di color violaceo di damasco del suddetto Gherardi. Un altro paro di taffetano violaceo./ [101] Un altro paro verdi di taffetano con trina d’oro del predetto Bussi. Un altro paro di damaschetto rosso. Un paro di scarpe coperte di lama d’argento guarnite con trina d’oro del predetto Bussi che accompagnano li suddetti sandali. Un altro paro di damasco biancho con trinettina d’oro del predetto monsignore. Un altro paro di scarpe coperte di damasco biancho lacere. Un paro di scarpe coperte con damasco rosso ed ornate con trina d’oro del suddetto mons. Bussi. Un altro paro di scarpe parimente coperte con damasco rosso. Un altro paro coperte verdi con galloncini d’oro del suddetto mons. Bussi che accompagnano i suddetti sandali del medemo e dalmatiche. Un paro di scarpe coperte con damasco violaceo del suddetto mons. Gherardi che accompagnano i sandali del medemo. Un paro di guanti di seta biancha tramezzata con fili d’oro del Bussi. Un paro di guanti di seta biancha tramezzata con oro col bon Gesù del suddetto Gherardi. Un paro di guanti di seta cremisce tramezzata come sopra del suddetto Bussi. Un paro di guanti rossi con oro tramezzato col bon Gesù con merlettino da piedi e cordoncini. [102] Un paro di guanti verdi con oro tramezzato come sopra del precitato Bussi. Un altro paro violacei con oro come sopra e bon Gesù. Due para di guanti uno violaceo e l’altro biancho con fili d’oro. Un tovagliolo biancho di taffetano doppio con merlettino da capo e da piedi d’oro, d’argento et altro merlettino ne’ lati. Un tovagliolo rosso di seta ondato con merlettini come sopra. Un tovagliolo e velo biancho per sopra l’altare di taffetano rinforzato e trina d’oro attorno. Un velo di lamettina con merlettino attorno color d’oro per chi tiene la mitra. Quattro veli humettati per li sudiaconi di taffetano de quali uno è biancho uno rosso, uno verde et uno violaceo, nel verde vi sono le francie d’oro, negl’altri merletti d’oro. Un gremiale foderato rosso fiorato con francie di seta et oro. Una gioia pettorale per il pluviale di rame indorato consistente in pietre falze della firma di mons. Bussi con sua cassetta per riporla. Un’altra gioia pettorale come sopra anticha. Tre mantili di seta di diversi colori cioè bianco, rosso e violaceo con merletti d’oro. Due copritori di messale uno de’ quali è di raso rosso riccamato d’argento, con lo stemma di mons. Gherardi foderato di taffetano torchino e l’altro di fondo biancho foderato rosso fiorato con seta et oro antico./ [103] Robbe diverse Un tabernacolo portatile. Un crocifisso con croce e base negra il Christo è d’ottone indorato della felice memoria di Gherardi. Un baldacchino di damasco bianco con francie di seta e foderata di tela color d’oro con quattro aste bianche et indorate dato alla compagnia del Santissmo sacramento. Un umbella di damasco rosso con fodera e francie di seta che è fatta per le communioni. Una cassa per riporre i paramenti boni, coperta di vacchetta brocchiettta con bollettin d’ottone con vetrature e chiave. Cinque scattole da tener hostie una delle quali è di teletta d’oro biancha, una violacea con alcune granatine due altre di seta. Due para d’impolline di cristallo con suoi piattini. Due pezzi di robba per due copritori di calice. Due braccia incirca di damasco biancho, da una parte tagliato Una scattola per tener mitrie. Le suddette robbe, eccetto il tabernacolo sono della felice memoria di mons. Gherardi. Due scattole da tener hostie una delle quali è d’ottone l’altra di filo d’argento./ [104] Un ostenzorio di rame indorato. Un istromento di pace d’ottone indorato con l’impronta della Pietà. Un legivo per tenere il messale al diacono nelle messe cantate ricoperto di velluto rosso et ornato con bollettine d’ottone con lo stemma di [spazio bianco]. Tre para di ferri da far hostie che sono della Sagrestia. Due torcietti di ferro per li funerali. Un torcietto di tavole di noce. Un focone grande di rame con piede e padella parimente di rame dato al capitolo dal s. archidiacono Galamini. Due vestatelle rosse per li chierici di sagrestia di bona qualità e due lacere. (ASCR, Registri) 322 CINGOLI L’Archivio Diocesano di Cingoli, oggi denominato “Archivio ecclesiastico di Cingoli”, è conservato presso la Collegiata di S. Esuperazio. E’ ben conservato ed è stato recentemente schedato. L’Archivio funge anche da soggetto conservatore dei seguenti fondi qui depositati: - Archivio del Capitolo della Cattedrale - Archivio della Parrocchia di S. Maria Assunta - Archivio della Parrocchia della Collegiata di S. Esuperanzio - Archivio della Parrocchia pievanale di S. Elena in Avenale - Archivio della Parrocchia priorale di S. Maria Assunta in Troviggiano - Archivio della Parrocchia di S. Pietro Apostolo in villa Torre - Archivio della Parrocchia di S. Giovanni Apostolo in villa Strada - Archivio della Parrocchia pievanale di S. Nicolò in Moscosi - Archivio della Parrocchia di S. Michele Arcangelo - Archivio della Parrocchia di S. Giorgio in Castreccioni - Archivio della Parrocchia di S. Maria Candelora - Archivio della Parrocchia di S. Maria del Rosario in Cervidone - Archivio della Parrocchia di S. Stefano - Archivio della Pontificia Opera Assistenzsa e ONARMO Inventario della chiesa cattedrale, 1726 novembre 7 In nomine Domini Jesu Christi amen. Questo è l’inventario di tutti li beni mobili, stabili, semoventi, frutti, rendite, ragioni, azioni e pesi di qualsivoglia sorte, spettanti alla chiesa cattedrale e capitolo della città di Cingoli colla cura di anime fatto il di 15 dicembre da noi infrascritti canonici Alessandrus Antonius Fortini e Giuseppe Antonio Crescioni deputati. Dì 7 novembre 1726. Primieramente la nostra chiesa cattedrale è fatta in forma di croce greca ed è sotto l’invocazione della ss.ma Assunta Maria sempre Vergine la quale sta situata nella piazza grande di detta città a capo di essa ed è d’intorno circondata da strade pubbliche benché abbia annessa a cornu evengelii una casa che parte serve per il predicatore della quaresima e parte per il curato ed ha la communicazone in detta chiesa, la qual chiesa fu fatta edificare a spese del pubblico di Cingoli essendo per prima il capitolo, cioè il prevosto e dieci canonici nella chiesa, ove presentemente si ritrova la congregatione dell’oratorio de’ padri di S. Filippo Neri li quali danno ogn’anno al capitolo mezza libra di cera bianca per il diretto dominio di detta chiesa come per istromento di Ottavio Floriani 29 maggio 1664 nell’atto di concessione di essa fatta dal detto Capitolo alli medesimi padri dell’oratorio e nell’anno 1654 fu principiata ad officiare dalli detti prevosti e canonici essendone poi stato fatto dal detto pubblico istromento rogato dal q. Giambattista Parenti li 10 maggio 1660 nel quale si obbliga al mantenimento materiale di essa chiesa la quale fu consacrata l’anno 1693 li 30 agosto dall’eminentissimo Pallavicini già vescovo d’Osimo. La detta chiesa fu nuovamente eretta in collegiata dalla santa memoria di Clemente VII coll’unione della chiesa parrocchiale di s. Giovanni della Villa di Strada, distretto di Cingoli, come per sua bolla in data 13 giugno 1530 e sempre il capitolo ha hauto et ha il jus di nominare e presentare al vescovo il vicario curato pro tempore perpetuo per detta chiesa parrocchiale di S. Giovanni e li rettori parimente perpetui per le due chiese filiali di S. Maria della Villa di S. Flaviano e della chiesa del ss.mo Crocifisso. Fu poi la detta nostra chiesa ultimamente reintegrata et quatenus opus sit eretta in cattedrale da n.s. papa Benedetto XIII felicemente regnante, eque principaliter, colla chiesa cattedrale di Osimo/ [1v.] come per bolla spedita in Roma l’anno 1725 die 20 agosto e nell’istromento celebrato in Osimo tra detto nostro vescovo e li deputati a tale effetto mandati da questa comunità rogato dalli sig. Felice Andrea Bonifazi notaro cingolano, e Brandimarte Antonio Bianconi, notaro vescovile di Osimo li 5 febraro 1726. Li detti deputati obbligarono la medesima comunità al mantenimento materiale e formale di essa chiesa cattedrale come si legge nel capitol quarto di detto istromento che dice “Il sommo pontefice commenda e vuole che li padroni della chiesa e rispettivamente degli altari siano obligati al mantenimento materiale e formale dell’una e degl’altari. Nella medesima chiesa sono altari n. 8 tutti de’ particolari che hanno l’obligo del mantenimento di essi. L’altare maggiore è della venerabile compagnia del ss.mo Sacramento eretta in detta chiesa, che deve mantenere in tutto, ed ha ancora l’obbligo di mantenere il tabernacolo e pisciale per conservare il Santissimo che sempre è stato conservato in detto altare ed adesso è stato trasportato in altro per rendere libero il medesimo altare maggiore si nelle cappelle pontificali che che nelle altre fonzioni sacre e deve detta compagnia dare ogn’anno metri tre d’oglio per la lampada del Santissimo, due e due libre d’incenzo, ed il capitolo deve cantare ogni terza domenica di ciascun mese la messa e fare la processone del ss.mo e dare la benedizzione […] è detto altare situato in mezzo al cappellone principale e dietro di esso vi è un bellissimo coro di noce dove officiano li detti prevosti e canonici ed in mezzo del prospetto di esso cappellone vi è un quadro al muro col’immagine della ss.ma Concezzione. In detto cappellone vi sono due coretti di noce in quello cornu evangelii vi è l’organo e nell’altro cornu epistole vi è un quadro senza cornice coll’effigie di s. Carlo Borromeo e negli angoli di detto cappellone vi sono due statue di legno color di bronzo rappresentanti li ss. Apostoli Pietro e Paolo. Nel cappellone, cornu evangelii vicno alla statua di S. Pietro vi è il trono episcopale fatto a spese del pubblico vi è poi in mezzo di esso l’altare col quadro dipinto in tela coll’immagine di S. Salvatore. La detta cappella ornata di bellissimi stucchi ed è delli sig. Simonetti a quali spetta/ [2r.] in tutto il mantenimento di detto altare. Tanto da una parte che dall’altra di detto cappellone vi sono due confessionarii. Nella navata poi della chiesa, cornu evangelii, vi è una cappella coll’altare e nel medesimo vi è l’imagine del ss.mo Crocifisso fatto di stucco ed è ornato di bellissimi stucchi con diverse statue e con balaustre avanti detta cappella ed è delli sig. Cima, a quali spetta in tutto il mantenimento di essa. V’è anche la cappella coll’altare di S. Liborio dipinto in tela che parimente è ornato di bellissimi stucchi ed è de’ sig. Silvestri, Crescioni e Puccetti a quali spetta in tutto il mantenimento di esso ed ha parimente li balaustri di pietra d’avanti. In altra cappella vi è il fonte battesimale lavorato di stucco spettante al capitolo. Nel cappellone, cornu epistole, vi è l’altare col quadro dipinto in tela coll’immagine della ss.ma Assunta ed altre immagini di santi. Il detto quadro è ornato con bellissimi stucchi e con diverse statue parimenti di stucco. Presentemente vi è il tabernacolo ove si conserva il ss.mo Sacramento; detto altare è delli sig. Silvestri ai quali spetta il mantenimento di esso in tutto. Vi sono due confessionari; nella facciata verso il cappellone maggiore vi è un quadro con cornice dorata coll’immagine di S. Francesco Saverio. Nella navata cornu epistole vi è una cappella ben lavorata di stucco con due statue in cui vi è l’immagine della ss.ma Vergine dipinta nel muro, detta la Madonnina, con ornamento d’intaglio di legno dorato d’avanti ed è del sig. Gaetano Cima a cui spetta in tutto il mantenimento di esso;e vi è la balaustra di pietra d’avanti. Vi è doppo la cappella con altare e quadro dipinto in tela coll’effigie di S. Gaetano, S. Giuseppe ed altre figure colla balaustrata d’avanti di pietra ed è del sig. Filippo Antonio Raffaelli a cui spetta in tutto il mantenimento del medesimo. Vi è anche la cappella coll’altare e quadro dipinto in tela coll’effigie di S. Albertino abbate. Il detto altare è ornato di stucco ed è del pubblico di Cingoli al quale spetta in tutto il mantenimento di esso. Nella detta cappella vi è la porta per andare nella torre del campanile ove sono due campane una di libre mille in circa sana e l’altra di libre 323 seicento in circa, rotta. Nella seconda colonna della navata cornu evangelii tra l’altare del ss.mo Crocifisso e quello di S. Liborio vi è il pulpito/ [2v.] di legno co diversi intagli con concessionario di sotto con banchi parimente di legno in tutte le altre colonnate e bancone di noce ben lavorato per il magistrato. Nella detta chiesa vi sono tre porte una da piede in mezzo alla navata, con sua bussola, […] et un’altra porta per ciascun cappellone laterale parimente con sue bossole di legno. Nel cappellone cornu evangelii dirimpetto alla porta della chiesa vi è la porta della sagrestia o cappella interiore ove officiano li detti prevosti e canonici col rescritto della sacra congregatione in data li 13 novembre 1694 dal giorno dopo la commemorazione de’ morti fino al sabbato avanti la domenica delle palme. Vi è in faccia l’altare col quadro dipinto in tela coll’effigie di S. Tommaso di Aquino ed è ornato di stucco e detto altare è del capitolo e di qua e di là a detto altare vi sono due credenzoni fatti fare dal pubblico, per conservare li pontificali; ne’ muri laterali vi sono li sedili , da piedi vi sono due credenzoni per conservare le suppellettili sacre spettanti al capitolo. Vi è ancora un cassone di quercia in cui si conserva l’argenteria serrato a tre chiavi. Vi sono alcuni quadri nelle pareti ordinarii, nella facciata di detta sacristia ove si apparano li cappellani et altri che hanno obblighi di messe particolari. Vi è in essa la porta che corrisponde nel coro della chiesa, un’altra che conduce al coretto dell’organo et un’altra che risponde nelle stanze del predicatore e curato che per il primo sono stanze tre e per il secondo sono stanze due tutte nel secondo piano di detta casa […] Vi è poi in detta seconda sacristia un bancone ove si apparano li detti sacerdoti con sopra un quadro antico dipinto in tavola con diverse imaghi, una credenza di legno che serve per archivio ove si conservano libri e le scritture del Capitolo, vi sono due inginocchiatori di noce co’ sopra due preparazioni in cornice dorate per la s. messa; sopra di esse vi sono due quadretti con conice dorati coll’effige dell’ecce homo, in mezzo a dette preparazioni nella facciata vi è un quadro dipinto in tela co la ss.ma Assunta co’ cornice dorata, in altra facciata vi è un crocifisso grande di cartapesta in una croce di legno co’ sei altri quadretti nelle pareti. Vi è anche un lavamano di marmo ben lavorato. In mezzo poi di detta sacristia vi è un focone di rame co’ piede di ferro per l’inverno. Li mobili, suppellettil iet altro spettanti alla suddetta chiesa cattedrale sono li seguenti cioè: una calice novo di argento co’ sua patena di oncie 22,85; altro calice di argento co’ sua patena di peso libre 2 oncie una ottavi uno, altro calice parimente d’argento co’ sua patena di peso oncie 15 e mezza; un aspersorio di argento di peso oncie 4 un turibolo di argento di peso libre 3 et oncie 7, una navicella con suo cucchiaro d’argento di peso oncie 14 et ottavi 5, una croce con anima di legno e ferro ricoperta di lastra di argeno dorato col Cristo di getto parimente d’argento col pidestallo di rame dorato e palla con fascie d’argento di peso libre 3 e oncie 8. Un’asta di rame argentato a fuoco per detta croce, un ostensorio col raggio d’argento e lunetta di argento dorata con un angelo di getto d’argento che sostiene detto raggio co ale di rame dorato e piedestallo di rame dorato di peso libre 8 e oncie 4, il detto ostensorio fu fatto fare dalla ven. compagnia del ss.mo Sacramento e la nostra chiesa contribuì per la spesa del nuovo ostensorio, l’ostensorio vecchio della chiesa e sempre il nuovo ostensorio è stato in mano del capitolo come anche sta presentemente e si conserva colli sopraddetti argenti come anche sta presentemente e si conserva dal nostro sacrestano che ne ha la consegna come di tutto quello si dirà in appresso. Un ostensorio di rame dorato con alcuni serafini d’argento d’intorno con il calicetto e scattulino d’argento entro del mdesimo ostensorio che serve per portare la ss.ma comunione agl’infermi. Tre calici d’ottone co sue patene dorati e coppe d’argento uno de’ quali è sospeso. Una chiavetta d’argento fatta fare dal capitolo per il tabernacolo, un piattino di rame et un campanello di ottone argentati a fuoco; una caldarella di rame per cavare acqua, un brocchetto con suo coperchio di rame, una pace di rame argentata a fuoco, quattro piattini di stagno per l’ampolline con quattro campanelli d’ottoe; un piattino di cristallo con sue ampolline; una caldarella d’ottone per tenere l’acqua benedetta; un paro di ferri per fare l’ostie; due scattole di filigrana per tenere l’ostie con due coperchini per l’ampolline della stessa materia; cinque messali per le messe de santi; otto per quelle di requiem; un pluviale con pianeta ,due tunnicelle con loro stuole e manipoli di lama d’oro tutti foderati di seta;una mitra, un paio di scarpe; due zandali; una borza tutti di lama oro il tutto guarnito con liste di oro e galloni con l’mpronta della ss.ma Assunta. Un velo da calice; due dalmatiche di taffetano doppio di color oro, il tutto mandato in dono a questo capitolo dal sig Pierlorenzo da Cingoli abitante in Roma il primo marzo 1726. Un piviale di raso ricamato con oro e seta con sua stuola, borsa e velo da calice; due piviali di seta di color bianco con liste d’oro; tre piviali di seta di color rosso con liste d’oro; un piviale di seta di color violaceo co’ guarnigione di seta; un piviale nero con guarnigione di seta; due tonicelle di damasco bianco con stuola e manipoli guarnite con galloni di oro; due tonacelle di color rosso guarnite con gallone di oro di metà con stuola e manipoli; due tonicelle di color violaceo di robba ordinaria con stuola e manipoli con guarnigione di seta; due pianete bianche di broccato con stuole, manipoli, borse e veli guarnite di oro; due pianete broccaglione bianche con stuole e manipoli; una pianeta di seta fiorata di più colori co’ stuola, manipolo e borsa guarnita con lista d’oro falsa; sette pianete di color rosso con stuole, manipoli, veli e borse; cioè 4 di seta con guarnigione di oro falso e 3 ordinarie; 4 pianete di color violaceo co’ stuole e manipoli cioè due di seta e due di baccagliano con veli e borse guarnite con liste di seta e di filo; 6 pianete di color verde cioè 3 di seta e 3 ordinarie guarnite di lista di seta ; 6 pianete negre cioè due di seta e 4 di baccagliano le prime guarnite di oro et argento falso, l’altre di lista di filo di più colori;una pianeta di seta di più colori che serve per li sacerdoti defunti, due stuole et un manipolo di damasco rosso senza guarnigione; 4 borse di diversi colori; tre stuole e due manipoli di damasco violaceo guarnite di seta per canatre il passio; nu velo umerale di taffetano bianco con pizzetti d’oro nell’estremità;un velo rosso parimenti umerale con pizzetti d’oro; un velo umerale di taffetano violaceo; tre libri per il coro cioè salterio, antifonario e graduale; camici di tela n. 8; camici ordinari n. 23; amitti n. 30; purificatori n. 55; cordoni n. 20, fazzoletti n. 30; asciugamani n. 14, corporali 23, palle 60; un panno verde per ricoprire il sedile che serve per le messe e vespri solenni; due cuscini di damaschetto rosso; 3 cuscini di velluto verde, un altarino portatile di legno con suo baldacchino e candelieri dorati con 4 vasette di legno parmenti dorati con quattro rame di fiori; borsa di velluto cremisci e tovaglie che servono per posare il ss.mo Sacramento nella stanza degl’infermi quando gli si porta la commonione; due tovaglie e due sottotovaglie per l’altare di s. Tommaso situato in sacristia dove si officia solo l’inverno. La nostra sacristia non ha avuto mai assegnamento alcuno […] Ha anche la nostra sacristia due parati di broccato guarniti d’oro cioè uno bianco donato al capitolo dalla chiara memoria dell’em. Bichi e l’altro di color rosso donato dalli sig. Simonetti. Nella detta sacrestia nel credenzone dorato appiedi di essa vi sono le reliquie cioè due semibusti di legno dorati in uno vi è le reliquie di S. Tommaso apostolo, nell’altro vi è le reliquie di S. Luca evangelista vi è ancora un ostensorio di ottone dorato con dentro il pane moltiplicato da N. S. e vi sono due gugliette di legno dorate in una dele quali vi è la reliquia di s. Pancrazio nel’altra di S. Concordia vi è ancora una cassettina ricoperta di velluto cremisci dentro di cui vi è il corpo di S. Candido martire quali reliquie si espongono in tempo proprio alla venerazione de’ fedeli. [Segue l’elenco dei beni immobili posseduti] (ASDC, S. Visite 1, Diocesis Cingulanae status patrmonialis et spiritualis pape Benedicti XIII jussu 1726-1727) 324 TREIA L’Archivio Diocesano, di modesta consistenza, è conservato nell’ufficio dell’ex vicario generale della Diocesi, oggi delegato vescovile per la vicaria di Treia, in Piazza Marconi. Si presenta ben conservato ed è stato schedato in anni recenti. Nella sala del Capitolo, sempre nello stesso Palazzo, è conservato in apposito armadio l’archivio del Capitolo della cattedrale. Relazione sulla fabbrica della cattedrale del canonico Meloni, prima metà sec. XIV Istruzione su tutto l’operato della fabbrica della chiesa in oggi cattedrale fatta dal canonico Giuseppe Meloni. Il disegno della suddetta chiesa fu fatto dal sig. Andrea Vici romano, i deputati, due ecclesiastici e due secolari dettero esecuzione a tale disegno. Li deputati ecclesiastici furono eletti dal capitolo in persona del canonico Meloni adì 22 aprile 1795 e depositario eletto li 3 giugno 1797. L’altro deputato ecclesiastico eletto egualmente dal capitolo in persona del sig. canonico Govanni Broglio Massucci nel 1806. I deputati eletti dalla comune furono i sig. Francesco Dionisi e Luigi Didimi. Il lavoro era ben ordinato e sotto l’impegno di questi quattro soggetti riuscì felicemente e tutto il pagamento si faceva cogl’ordini dei due deputati. Il suddetto disegno fu eseguito dal capo mastro sig. Carlo Vusca milanese ma stazionato in Treia. Prima della sua morte furono piantati tutti i fondamenti di essa e dopo la sua morte fu affidata l’opera al capo mastro Patrizio Demattia il quale continuò con impegno e terminò l’edificio con somma maestria e lode comune. Il suddetto capo mastro lavorò come muratore e aveva in ogni giorni baiocchi 35. Due suoi figli, Filipp e Nicola, seguendo l’arte del padre lavoravano in detta fabbrica con ancora un altro parente per nome Luigi De Mattia ed Arcangelo di Maria Franco. Tutti questi eran fissi quotidianamente a lavoro e in caso che l’uno o l’altro escisse dalla fabbrica subentrarono altri muratori […] Facchini addetti alla fabbrica: Giuseppe Noè giovane robusto ed abile a qualunque fatica esso preparava il materiale e lo trasportava al lavoro. Esso era addetto al rotare per alzare due grandi cassette pel trasporto dei materiali alle alte murature. Francsco Bacci altro facchino addetto a far la calce quotidiana, altri contadini dati in aiuto dai sig. cittadin giornalmente. Donne facchine per trasportare mattoni, calce, ciucaglia, acqua ed altro bisognevole. Due erano le più robuste per nome Maria e Valentina e trasportavano barili di acqua in luogo dei brocchi, alle armature ed anche per fare la calce e per tutti gli usi convenevoli. Una facchina per nome Loreta Braccù era mantenuta continuamente durante la fabbrica dalla famiglia Grimaldi. Antonio Sileoni e Luigi Tiberiolo ed altri questi lavoravano annualmente le fornaci durante la fabbrica nel campo della fiera ceduto dalla comune per quest’oggetto e confermato da Pio VII sommo pontefice, durante la fabbrica. […] Qui è da notarsi che venuto a predicare il padre Severino riformato da San Severino esso si prestò a far trasportare da tutta la popolazione tanto le pietre che i mattoni col fare le processioni ed animare tutti a compire si bel lavoro e così senza dispendio si trovava preparato il materiale al lavoro. Guinta la fabbrica al punto di esser coperta si provvedette tutto il legname al porto di Recanati avuto da Crispino Crispiiani come dalle ricevute qui accluse. Seguito lo stabilimento del tetto si incominciò il lavoro della volta e del catino il quale fu fatto pitturare da un pittore per nome [spazio bianco] da Fermo per il prezzo di scudi 18. Giunto il lavoro dello stabilimento al cornicione fu chiamato il sig. Giuseppe Mozzanti il quale lavorò quasi tutto il cornicione facendo pagar un paolo per rosa e modiglione. I fascioni poi 18 paoli , i capitelli delle colonne 6 scudi l’uno e i pilastri 15 paoli l’uno e lavorò ancora il nome di Maria ss.ma della Misericodia per il prezzo di scudi 18. Fece ancora l’altare della famiglia Grimaldi per il prezzo di scudi 12. le basi delle colonne furono lavorate dal muratore Filippo di Mattia come ancora due altari uno della famiglia Broglio Massucci e l’altro delle Pie Case di Lavoro. In questo tempo si rotavano i quadri per il piancito di tutta la chiesa in numero di 14.000 da Francesco Bacci suddetto e Francesco Raballini per il prezzo di baiocchi 28 al centinaio. Nell’estate di nottte tempo dai suddetti muratori si tagliarono gratuitamente tutti i sudetti quadri e fu incominciato il piancito. Lo stabilmento del piancito del coro lo lavorò gratis il capomastro Patrizio Di Mattia, il resto della chiesa a conto della fabbrica. Il gesso veniva proveduto da un certo Zura sanseverinese ed altri e qui è da notarsi che in un anno di gran secca nell’estate per smorzare cento some di calce per mancanza dell’acqua si prestassero tutte le donne di ogni quartiere e co’ brocchi dalle fonti vicine alle città trasportavano le acque in copia abbondante per detto effetto. I falegnami addetti al lavoro della fabbrica erano Giuseppe e figli Sparapani per nome Antonio e Raffaele ed ancora Nicola Bartoloni i quali fecero tutti i lavori e del coro dei finestroni e porte e portone principale. Qui è da notarsi che la sig. Angelna Fraticelli diede scudi 30 per lavorare il portone principale. Il ferraro era Mattia Agostani il quale colla sua famiglia faceva tutti i lavori appartenenti alla suddetta fabbrica escluse le serrature delle porte interne ed esterne che furono fatte lavorare dal sig. Antonio Nuzi di Macerata per il prezzo discretissimo di scudi 4. Lo scalpellino era un certo mastro Piero Pascucci da Cingoli i quale fece tutti i lavori di pietra facendo pagare due paoli al palmo i gradini degl’altari. […] Si deve notare il zelo e premura di tutta la popolazione anche in affare di lavori donneschi perché le tre tendine di tela furono fatt gratis in lavoro quella della sagristia dalla sig. Nicola Tochinati le due del coro una della famiglia Grezzi e l’altra della famiglia Sala. Le altre tendine dei finestroni sopra al cornicione si ebbero gratis da ogni famiglia nobile treiese. Il tendone poi della porta principale si diede a filare le canape a tutte le artigiane gratis e fu tessuto ancora gratis dalle due sorelle Anna ed Angela Santanatoglia dette Mozzacoda. Giuseppe canonico Meloni. (ASCT, Memorie sulla fabbrica della chiesa cattedrale ed altri documenti) Lettera inviata dal card. Grimaldi, Forlì 1838 giugno 1 il dono che io faccio di un semibusto di argento rappresentante il nostro protettore san Patrizio vescovo a cotesta cattedrale intendo che sia un attestato della devozione mia verso il santo non solo ma una nuova prova del mio attaccamento verace verso di Lei. Iddio si degni di spogliare questa offerta di ciò che può sentire di umano e cotesto reverendissimo Capitolo preghi per me. Con ossequiosa stima mi ripeto Forlì 1 giugno 1838 Car. Grimaldi (ASCT, Memorie sulla fabbrica della chiesa cattedrale ed altri documenti) Cronaca della costruzione della cattedrale del canonico Meloni, 1807 - 1829 Notizie riguardanti la fabbrica della nostra chiesa cattedrale. Nel mese di giugno 1807 al giorno 11 furono spediti al Porto di Recanti 24 carri per trasportare i legnami comprati da Crispino Valentini per il tetto della chiesa matrice e collegiata di Treia. La famiglia Tomassoni diede una soma di vino gratis a cavallo per spedirlo coi coloni rispettivi dei carri per riporto al viaggio. I sig. Pietro Pancioni vicario curato della nostra chiesa si assunse il carico di andare ancor lui in persona per presiedere ad una operazione si grande tanto per avere buoni legnami e caricarli bene e tutto riuscì felicemente. Per il ritorno poi di tanta gente dal detto viaggio fu fatto preparare il pranzo per 50 persone che erano andate coi birocchi e in sussidio dei carichi fatti acciò tutto riuscisse bene. Pietro Petrini treiese cucinò nella casa Crescioni più vicina alla chiesa suddetta e dove furono soddisfatti. 15 ottobre 1807 verso l’ora di terza fu terminata la fabbrica della suddetta chiesa in quanto risguarda al solo muratore a rustico e nel dì poi 4dicembre di questo istesso anno si compì il lavoro appartenente al tetto verso un’ora di giorno e col suono delle campane a festa si pubblicò il compimento di un’opera si grande. Giuseppe canonico Meloni./ 325 Adì 12 aprile 1810 fu compito il lavoro a rustico del catino della nostra chiesa. Per formare i centini appartenenti all’armario del suddetto lavoro del catino, giacché è stato fatto a mattoni vi vollero 230 tavole di bidollo e 120 libre di caviglie e 50 libre di chiodi e 40 bidolli in piedi avuti tutti gratis. Il suddetto armario fu formato dal capo mastro Patrizio Demattia con somma attenzione e premura. Il primo centino doveva sostenere tutti gli altri fu lavorato nella piazza principale giacche era molto grande non essendovi luogo capace in altra parte di Treia. Adì 14 aprile 1810 si stabilì il contratto per pitturare il suddetto catino col sig. Giorgio Panfili di Fermo per il prezzo di scudi 22. Adì 17 marzo 1811 Il sig. Antonio Saluti di Montolmo predicatore per la quaresima dal suddetto anno in questa città, per questo 17 marzo giorno di domenica e terza domenica di quaresima ricorrendo la predica delle anime del purgatorio per dar luogo alla gran gente che suole concorrere per suffragare colle elemosine le anime purganti, volle predicare nella nuova chiesa non essendo capace a contenere tanto popolo la chiesa dei padri filippini dove era trasferita l’ufficiatura e fece di questua scudi 38. Dopo la predica vi fu l’ultima messa in questa istessa chiesa detta dal Padre abbate d. Sisto Benigni, nostro cittadino, con molta soddisfazione di tutta la popolazione treiese. Similmente il dì ultimo di Pasqua 14 aprile vi fu la predica in detta chiesa nuova e l’elemosina fu ceduta alla fabbrica di scudi 7,50. La predica fu in lode di Maria santissima e fu collocata l’immagine di Maria santissima della Misericordia nell’altare maggiore. L’ultima messa fu detta dal sig. curato d. Giuseppe Pancioni per ordine ed assistenza di mons. Niccolò Grimaldi. Nell’anno 1812 il padre Vassalli ex religioso agostiniano di S. Giusto,/ nel dì 31 marzo ultimo giorno di Pasqua predicò nella nuova chiesa e raccomandò con tanto impegno l’elemosina a vantaggio della fabbrica che fu trovato dodici scudi.. Adì 13 gennaro 1813 furono collocati i banconi nel presbiterio, avuti in dono dal sig. Luigi Angelici di Treia. Raffaele Sparapani e Nicola Bartoloni, falegnami della nostra chiesa, li collocarono in detto luogo. Adì 19 genaro 1813 fu cominciato lo scialbo della cappella. Adì 8 marzo 1813 fu incominciato il lavoro delle porte interne della chiesa e delle due cantorie. Le suddette porte in numero di diece a scudi sei l’una fu improntato scudi 60 per la sola fattura. Cantone in numero di due a dodici scudi l’una , scudi 24 per la sola fattura. Al primo aprile 1813 fu incominciata l’armatura della volta della cappella di S. Rocco delle due famiglie conti Broglio Massucci e d’Ajano. 1813 maggio i sig. deputati ecclesiastici tanto il sig. conte Broglio Massucci e il canonico Meloni e i fabbricieri sig. Luigi Grimaldi fecero istanza al demanio di Macerata per avere un organo per la loro chiesa matrice, giacché il vecchio organo non era in stato di potersi collocare nella nuova chiesa e luogo preparato. Il demanio notificò per mezzo di una sua lettera che v’era un organo alla Roccacontrada del monastero di S. Lucia soppresso ma che prima fosse fatto visitare se potersi servire per la nuova chiesa. Il sig. Lattanzio si trasferì in detto luogo e conobbe che, sebbene era piccolo, pur essendo autore di detto organo Callido Veneziano, lo comprò per il prezzo di scudi 200./ Adì 17 luglio 1813. Il suddetto sig. Lattanzio si portò alla Roccacontrada per smontar l’organo suddetto e trasportarlo in Treia. Adì 13 luglio 1813 giunto a Treia l’organo verso mezz’ora di giorno portato da tre carretti due de quali dette il sig. Luigi Angelini gratis, come ancora fu trovato gratis anche il terzo. Il sig. Luigi Angelini diede anche le vitture gratis per il sig. Lattanzio e l’organaro che doveva venire per ricomporlo, ma attesi vari lavori non potette venire unitamente con il sig. Lattanzio ma bensì il giorno 3 di agosto di detto anno fu spedito a prendere il sig. Vici organaro, che venne li 4 detto e per li 11 di detto mese di agosto fu compito il lavoro sul’ora di terza. Ora riesce molto bene ed è buono assai. Adì 26 maggio 1813 furono poste al loro posto due porte interne. La prima che conduce alla fabbrica sotterranea verso il ss.mo Sacramento, la seconda verso il palazzo del vescovo. Nei giorni seguenti anche le altre furono collocate nei loro posti. Il primo giugno di detto anno fu posta collo stipite nella sagristia. Adì 26 giugno di detto anno fu compito il lavoro delle porte. È da rimarcarsi che il nostro torribolo d’argento richiesto dal capitolo della cattedrale di Recanati fu adoprato dal sommo pontefice Pio VII all’incensazione al ss.mo Sagramento allorquando fece ritorno da Francia in Roma che seguì il dì 16 maggio 1814. Giuseppe canonico Meloni deputato/ Adì 29 settembre 1819 fu consacrata la nuova chiesa da monsignor Strambi vescovo di Macerata. L’istromento di detta consacrazione rimane in archivio capitolare entro una cassetta bollata. Si diede in dono al suddetto monsignore una bucia d’argento del valore di scudi 25. Giuseppe canonico Meloni deputato/ 1827 adì 6 agosto fu spiccata la nuova cappella del ss.mo Sacramento lavorata dai capomastri Prenna, treiesi. Adì 18 giugno 1829 giorno di giovedì, festa del Corpus Domini fu aperta la suddetta nuova cappella del ss.mo Sacramento si legga nel libro intitolato “Libro in cui si trascrivono i nomi dei padri cappuccini coll’aggiunta di varie notizie” fatto da me canonico Meloni./ Si nota in scritto tutto ciò che si è fatto in uso della chiesa cattedrale dopo l’apertura di essa, che seguì li 3 aprile 1814: prolungazione del presbiterio con gradini laterali di pietra; trono rispetto a legno e fattura e damasco per ricoprire il trono; due coperte verdi per i banconi sotto le cantorie; strali per l’altare maggiore e trono e vi furono impiegate pezze due di panno rosso avuto da Matelica; altri strati di panno rosso di minor spesa; altri strati verdi di panno uguale; damaschi con trono per i pilastri della chiesa; quattro banchi di noce per assistere alla predica in uso ai sopraddetti canonici; Due nuovi stalli nel coro; due paliotti dorati ad oro buono; riattare l’ornato in Sagristia e pittura; stabilimento della cappella del preziosissimo sangue colla sua finestra e due porte di noce e due altre di legno bianco; stabilimento del corridore unito a detta cappella con volto e piangito e due nuove finestre e due altre porte e camino; riattamento del volto macchiato dall’acqua della cappella della colonna; due finestroni nuovi sulla navata di mezzo che guardano Ponente; del battesimo con sua finestra; stabilimento e volta della stanza superiore al battesimo con sua finestra; ornati ai due quadri dei Pontefici sopra la porta del battesimo e campanile; nuova bandinella e croce collocata sulla torre; riattamento del campanile e torre; riattamento del quadro di Maria ss.ma Annunziata; pittura dell’altare maggiore; piancito nuovo nel corridore che conduce alla sagristia; scala di pietra per calare nel piano di sotto o sia sagristia canonicale; stabilimento di altre stanze per uso della sagristia e sue finestre; riattamento di tetto mille volte; una nuova finestra nel coro a tramontana. Apertura della nuova chiesa Adì 3 aprile 1814. Finalmente dopo una lunga serie di anni si è potuto adempiere al voto generale di tutto il popolo di Treia, di vedere cioè riaperta la chiesa matrice dell’insigne collegiata, sin oggi cattedrale. Sotto la deputazione ecclesiastica i signori canonici Giuseppe Meloni, e Giovanni conte Broglio e secolare i signori Francesco Dionisi e Luigi Didimi, la cui nuova edificazione era stata incominciata da anni trenta quattro indietro circa. Altrettanto più gradita è riuscita la riapertura perché ognuno disperava quasi di vedere il compimento per la deficienza degli assegni necessari; mercé però la pietà di molti benefattori che con pie ed incessanti largizioni hanno concorso quasi a gara, chi più chi meno, all’occorrente necessaria spesa si è accelerata la ricostruzione e con comune applausi e gioia universale si è veduto questo tempio magnificamente adornato e con concorso dei limitrofi paesi, non meno che dell’intera popolazione treiese si è trasportato l’augustissimo Sacramento circa le ore 22 italiane, oggi domenica delle palme, preceduto da tutti i sacerdoti in solenne pompa vestiti di pianete ed i canonici con pluviali con l’intervento dell’autorità pubbliche si amministrati che giudiziali, seguito da immenso popolo in mezzo allo sbarco di mortali, della banda musicale ed esposto alla pubblica adorazione dove resterà per lo spazio di 40 ore alla vista dei fedeli e al canto dell’inno ambrosiano. Sarebbe qui da notarsi che in mezzo a tanta gioia doveva vedersi una luttuosa circostanza ed è che la campana più grande nel sonare a festa espolse il martello e per divina provvidenza se non voglia attribuirsi a miracolo cadde nell’interno del campanile tanto che se fosse caduto al di fuori sarebbe stata la disgrazia di quei individui sopra i quali fosse piombato./ […] (ASCT, Memorie sulla fabbrica della chiesa cattedrale ed altri documenti) 326 CRONOTASSI DEI VESCOVI DELLA DIOCESI DI MACERATA - TOLENTINO - RECANATI - CINGOLI - TREIA Egidio Pietrella L’intento di questa cronotassi è di ricostruire diacronicamente l’organizzazione ecclesiastica delle diocesi e di compilare, dalle origini del cristianesimo fino alla situazione attuale, l’elenco dei vescovi succedutisi nel territorio dell’odierna diocesi unificata (30 settembre 1986), sulla base di fonti storiche, le quali purtroppo per il periodo delle origini del cristianesimo e per l’alto medioevo sono scarse e incerte. Ci si attiene, comunque, per quanto possibile, alla documentazione esistente negli archivi e agli studi storici più recenti e attendibili che trattano questa materia. Si premette una sintesi, quasi “chiave di lettura”, utile, si spera, per comprendere meglio il successivo prospetto sinottico elaborato. Scomparse nei secoli VI-VII le sedi vescovili esistenti nelle città romane di Tolentino, Urbisaglia, Potenza, Cingoli e, verosimilmente, di Treia, i cristiani di questi territori nell’alto medioevo furono sotto la guida spirituale delle vicine sedi vescovili superstiti: Camerino, Fermo, Numana, Osimo. Con il procedere del tempo, nel Basso Medioevo in questi luoghi furono costituite nuove sedi vescovili: a Recanati nel 1240 e a Macerata nel 1320; e più avanti furono ristabilite le antiche sedi di Tolentino (1586), Cingoli (1725), Treia (1816). In ordine di tempo, la prima sede vescovile ad essere eretta ex novo fu quella di Recanati (22 dicembre 1240), il cui territorio precedentemente era stata sotto la giurisdizione dei vescovi di Numana (e anticamente forse anche di Potenza): la nuova istituzione avvenne per soppressione della sede di Osimo che parteggiava per l’imperatore Federico II. Ma Recanati a sua volta fu soppressa e sottoposta nuovamente a Numana (1263-1289) per la stessa ragione di Osimo; riebbe nel 1289 la sede vescovile, ma essa fu trasferita trenta anni dopo a Macerata (18 novembre 1320) eretta città e diocesi; la riottenne poi nuovamente nel 1357, quando le due sedi di Recanati e Macerata furono unite aeque principaliter sotto l’autorità di un unico “vescovo di Recanati e Macerata”. Nel 1516 le due diocesi di Recanati e Macerata furono staccate, anche se la separazione era fondamentalmente nominale, più che reale, in quanto per il patto del cosiddetto “accesso e regresso” il vescovo di una delle due diocesi, al trasferimento o alla morte del vescovo dell’altra sede, assumeva il governo anche di questa: ciò durò fino al 1573. Nel 1586 con la riforma del papa marchigiano Sisto V fu creata la diocesi di Loreto e soppressa quella di Recanati, che la riebbe nuovamente nel 1592 unita a Loreto ad essa aeque principaliter su cui Recanati ebbe il diritto di precedenza. Tale nuovo ordinamento rimase in vigore fino al 1934, quando Loreto fu divisa nuovamente da Recanati, restando con quest’ultima i Comuni di Porto Recanati, Castelfidardo, Montecassiano, Montelupone. Alla rinuncia del vescovo Emilio Baroncelli (1968), e dopo la guida del Vicario Capitolare mons. Alessandro Donini (1968-1970), la diocesi di Recanati ebbe come amministratori apostolici Ersilio Tonini, vescovo di Macerata e Tolentino (1970-1975) e Vittorio Cecchi vescovo ausiliare di Macerata (1975-76); e come vescovo residenziale Francesco Tarcisio Carboni dal 1976 al 1986, quando fu emanato il decreto della Congregazione dei Vescovi sulla “piena unione” delle cinque diocesi autonome (30 settembre 1986). In conclusione, fino alla “piena unione”, Recanati ha avuto ventidue vescovi (documentati) di Numana, sette vescovi residenziali propri; venti vescovi di “Recanati e Macerata”; ventiquattro vescovi di “Recanati e Loreto”. In totale settantatre vescovi; in più, eventualmente, due vescovi attestati dell’antica Potenza, che poterono essere stati alla guida di una parte del suo futuro territorio. L’organizzazione ecclesiastica di Macerata non fu così varia e complessa. Fino al 1320 il territorio della futura diocesi fu retto, in parte, dai vescovi di Camerino e in parte, dai vescovi di Fermo. Creata diocesi ed elevata a grado di città il 18 dicembre 1320, essa ebbe dapprima quattro vescovi residenziali propri (1320-1357); poi diciannove “vescovi di Recanati e Macerata”, sia pure con la formale e non sostanziale divisione dovuta al cosiddetto patto di “accesso e regresso”(1516-1573); successivamente venticinque “vescovi di Macerata e Tolentino (1586- 1976), cui seguì ancora un vescovo proprio (mons. Tarcisio Francesco Carboni, 19761986) fino alla “piena unione” delle diocesi. In totale: quarantanove vescovi, da sommare con quelli di Camerino e di Fermo che guidarono spiritualmente parte del territorio futuro. Tolentino, dopo i due (?) vescovi dei secoli IV-V, passata sotto la giurisdizione di quarantanove vescovi di Camerino, il 10 dicem- 327 bre 1586 riottenne la diocesi unita aeque principaliter con Macerata ed ebbe venticinque “vescovi di Macerata e Tolentino”, cui seguì come vescovo proprio mons. Tarcisio Francesco Carboni (1976-1986) fino alla “piena unione” delle diocesi. In complesso n. 78 vescovi (compresi i primi due delle origini). Cingoli, dopo il vescovo Giuliano sicuramente esistito nel VI secolo, essendo stato sottoposto il suo territorio ai cinquantadue vescovi di Osimo dal VII secolo fino al 1725 (salvo rare interruzioni sotto tre vescovi di Recanati, 1240-1250; e, in spiritualibus, sotto tre priori di S. Esuperanzio, 1250-1264), riottenne la diocesi nel 1725 unita aeque principaliter a quella di Osimo con ventuno “vescovi di Osimo e Cingoli”, cui seguirono mons. Tarcisio Carboni come vescovo proprio (1976-1986) e la “piena unione” delle diocesi. In totale settantanove vescovi, compreso il vescovo Giuliano del VI secolo. Treia, probabile sede vescovile (IV-VI secolo), ebbe il suo territorio soggetto alla cura pastorale di sessantacinque vescovi di Camerino (secolo VI-1816); (ri)diventò diocesi nel 1816 sotto l’amministrazione apostolica di Camerino fino al 1913 con sei vescovi; poi dal 1913 al 1966 sotto l’amministrazione apostolica di S. Severino con quattro vescovi; fu retta infine, da mons. Tarcisio Carboni come vescovo proprio dal 1976 al 1986, fino alla “piena unione” delle diocesi: totale settantasei vescovi. Da notare ancora che Cingoli dal 1964 al 1976; Treia dal 1966 al 1976; Recanati dal 1970 al 1976 passarono attraverso un periodo di “transizione” con una serie di amministratori apostolici. Infine il 30 settembre 1986 la Congregazione dei vescovi emanò il Decreto della “piena unione” delle cinque diocesi precedentemente autonome. Da allora la diocesi “unificata” di Macerata -Tolentino - Recanati - Cingoli - Treia ha avuto finora tre vescovi: mons. Francesco Tarcisio Carboni (1986-1995); mons. Luigi Conti (1986-2006); e attualmente, dal 30 marzo 2007 mons. Claudio Giuliodori. 328 CRONOTASSI SINOTTICA DEI VESCOVI DELLE CINQUE DIOCESI UNITE Cingoli Recanati Potenza Macerata UrbisagliaTolentino Treia IV sec. Territorio Territorio Probabile sede sotto Numana sotto le diocesi vescovile fino e Osimo di Camerino al 600 circa; e Fermo mancano nomi di Vescovi e riferimenti espliciti 380(?) Probiano V sec.Territorio sotto la diocesi di Camerino 467 – 487 418 – ? Filippo Faustino 494 – ? 494 – ? CostantinoAnonimo 465 – ? Geronzio 499 – ? Lampadio 487 – 502 Basilio VI sec. parte sotto Territori sotto la giurisdizione della diocesi Camerino di Camerino parte sotto Fermo 548 – 549 551 – ? 580 – ? Giuliano Romolo Fabio 553 – ? 598 – ? QuodvultdeusPassivo 595 – ? Grazioso VII sec.Territorio sotto Osimo 501 – ? Bonifacio 560 – ? Severo Territorio sotto Fermo ? 649 – ? Lacuna 649 – ? Glorioso LeopardoGermano di 265 anni 681 – ? Felice 649 – ? 680 – ? circa Fortunato Adriano Lacuna di 130 anni circa 680 – ? Giovanni Interruzione per circa un secolo 329 Cingoli Recanati Territorio sotto Osimo Territorio sotto Numana e Osimo Macerata Urbisaglia, Tolentino, Territorio sotto CamerinoTreia Territorio sotto Fermo Territorio sotto Camerino VIII sec. 743 – ? Vitaliano IX sec. 826 – 835 – 853 – 887 – ? ? ? ? Germano Leone Andrea Pietro I 826 – 853 – 861 – 887 – ? ? ? ? Cosimo 879 – 887 Edoisio Sergio Giuliano Lacuna di 110 anni circa Roberto 811 – ? 844 – ? 850 – 868 Arvinus Fratello Santo Ansovino X sec. ? Attingo 970 – ? Benedetto 960 – 995 Gaidolfo 996 – ? Cloroaldo 986 – 1044 Uberto 944 – ? Eudo 963 – 967 Pietro I 967 – 1027 Romualdo XI sec. 1022 – 1057 Ghislerio 1038 – ? Giovanni 1066 – 1096 Lotario 1044 – ? Guido 1051 – 1069 Guglielmo Interruzione 1056 – 1057 1057 – 1074 1074 – 1075 1076 – 1079 1083 – 1089 1089 – 1119 Ermanno Ulderico Pietro I Gualfarango Ugo di Candido Azzone 1029 – ? Azo 1049 – ? Atto I 1058 – 1094 Ugo I 1122 – ? 1126 – 1127 1128 – 1145 1145 – 1167 1174 – 1178 1179 – 1183 1184 – 1202 Grimoaldo Alessandro II Liberto Bolognano Alberico Pietro II Presbitero 1103 – 1119 1122 – 1135 1135 – 1146 1146 – 1166 1171 – 1186 1192 – 1223 XII sec. 1118 – ? Guarniero 1126 – 1146 Ugo 1151 – 1157 Grimaldo 1179 – 1197 Giordano 1157 – 1205 Gentile 1199 – 1235 Sanguineo Lorenzo Terramondo Ugo II Todino Accettabile Atto II 330 Cingoli Recanati Territorio sotto Osimo Territorio sotto Numana e Osimo Macerata Urbisaglia, Tolentino, Territorio sotto CamerinoTreia Territorio sotto Fermo Territorio sotto Camerino XIII sec. 1208 – ? Lotario 1235 – 1240 Jacopo 1205 – 1213 1211 – ? Anonimo 1214 – 1216 1218 – 1239 baldo 1216 – 1223 1223 – 1227 1240 – 1264 1240 – 1264 1229 – 1250 Osimo aggregata Recanati sede vescovile a Recanati e diocesi 1250 – 1272 1240 – 1244 Rinaldo 1272 – 1300 1244 – 1249 Pietro 1249 – 1250 Matteo 1250 – 1264 3 Priori di s.Esuperanzio in Spiritualibus 1264 Osimo sede vescovile 1264 – 1282 Benvenuto Scotivoli 1283 – 1288 Berardo Berardi 1289 – 1292 Monaldo 1295 – 1320 Uguccione di Giovanni Atenolfo 1124 – 1226 Ugo II 1226 – 1230 Pietro III 1230 – 1246 Rinaldo 1247 – 1251 Filippo di 1251 – 1259 Monte dell’Olmo 1259 – 1274 Gerardo 1275 – 1306 Filippo III Rinaldo Pietro II Filippo Giovanni Guglielmo Guido Rambotto Vicomanni 1263 – 1289 Recanati sottoposta a Numana 1254 – 1267 fra Arnolfo 1280 – 1285 Bernardo 1285 – ? fra Gerardino 1289 Recanati ritorna sede vescovile 1289 – 1300 Salvo XIV sec. 1320 – ? Berardo di 1300 – 1320 Federico 1301 – 1315 Alberico Visconti Uguccione 1318 – 1325 Francesco da 1326 – 1342 Sinibaldo II Mogliano O.F.M. 1342 – 1347 Alberto Bosoni 1320 Sede vescovile 1320 Macerata sede O.P. trasferita a Macerata vescovile e diocesi 1347 – 1356 Luca Mannelli 1320 – 1323 Federico O.P. 1323 – ? Beato Pietro 1356 – 1381 Pietro II Mulucci 1381 – ? Pietro III 1342 – 1348 Guido da Riparia 1382 – 1400 Giovanni 1357 – 1369 Diocesi 1349 – 1369 Nicolò da Rousselli O.P. restituita con Nicolò S. Martino da S. Martino Vescovo di Recanati e Macerata Recanati e Macerata 1369 – 1374 Oliviero da Verona 1374 – 1383 Bartolomeo Zambrosi 1383 – 1412 Angelo Cino da Bevagna 1307 – 1310 Andrea 1310 – 1327 Berardo Varano 1328 – 1355 Francesco Monaldi 1355 – 1360 Gioioso Chiavelli 1360 – 1374 Marco Ardinghelli 1374 – 1387 Benedetto Chiavelli 1390 – 1407 Nuzio Salimbeni 331 Cingoli Recanati e Macerata XV sec. Territorio sotto Osimo Urbisaglia, Tolentino, Treia Territorio sotto Camerino 1400 – 1419 Giovanni 1415 – 1417 Angelo Correr, card. (Papa Gregorio XII) 1407 – 1432 Giovanni Grimaldeschi 1417 – 1429 Marino di Tocco 1432 – 1437 Pandolfo Conradi 1419 – 1422 Pietro IV Laio 1429 – 1429 Benedetto Guidalotti 1437 – 1445 Alberto O.F.M. 1431 – 1435 Giovanni Vitelleschi degli Alberti 1422 – 1434 Nicola Bianchi 1435 – 1440 Tomaso Tomassini 1445 – 1449 Battista Enrici O.S.B. 1440 – 1469 Nicolò dall’Aste 1449 – 1460 Malatesta Cattani 1434 – 1454 Andrea 1471 – 1476 Andrea de’Pili 1460 – 1463 Alessandro Oliva da Montecchio 1477 – 1507 Girolamo Basso della Rovere 1463 – 1464 Agapito Rustici 1454 – 1460 Giovanni 1464 – 1478 Andrea Veroli De Prefectis 1478 – 1479 Raffaele Riario 1460 – 1474 Gaspare Zacchi 1479 – 1481 Silvestro de Labro O.S.B. 1482 – 1508 Fabrizio Varano 1474 – 1484 Luca Carducci 1484 – 1498 Paride Ghirardelli 1498 – 1515 Antonio Ugolini Sinibaldi XVI sec. RecanatiMacerata Accesso - Regresso con Macerata Accesso - Regresso con Recanati 1515 – 1547 Giovan Battista 1507 – 1516 Teseo de Cuppis 1507 – 1519 Teseo de Cuppis 1508 – 1509 Francesco Sinibaldi 1516 – 1520 Luigi Tasso 1519 – 1520 Luigi Tasso della Rovere 1547 – 1551 Cipriano Senili 1520 – 1548 Giovanni 1520 – 1535 Giovanni 1509 – 1535 Antongiacomo 1551 – 1574 BernardinoDomenicoDomenicoBongiovanni de Cuppis de Cuppis de Cuppis 1535 – 1537 Giandomenico 1574 – 1588 Cornelio 1548 – 1552 Paolo de Cuppis 1535 – 1546 Giovanni Leclerc de Cuppis Fermani 1553 – 1553 Giovanni 1546 – 1553 Filippo 1537 – 1574 Berardo 1588 – 1591 TeodosioDomenicoRiccabellaBongiovanni Fiorenzi de Cuppis 1553 – 1573 Gerolamo 1574 – 1580 Alfonso Binarini 1591 – 1620 Antonio M. 1553 – 1571 Filippo Melchiorri Gallo card. Riccabella 1573 – 1586 Galeazzo Morone 1571 – 1573 Gerolamo Melchiorri 1573 – 1586 Galeazzo Morone 332 XVI sec. Cingoli Territorio sotto Osimo Recanati Macerata e Tolentino 1586 – Territori e Diocesi interessate dalla riforma di Sisto V Treia Territorio sotto Camerino 1586 Loreto costituita diocesi, Recanati soppressa 1586 – ? Francesco Cantucci (vescovo di Loreto) 1586 – 1592 Rutilio Benzoni (vescovo di Loreto) 1586 1580 – 1596 Girolamo Vitale Tolentino città e diocesi De’ Buoi unita aeque principaliter 1596 – 1601 Gentile Delfini a Macerata con unico vescovo, giurisdizione su Colmurano 1586 – 1613 Galeazzo Morone 1588 Macerata ottiene Pollenza e Urbisaglia già di Camerino XVII sec. 1592 Recanati riottiene la diocesi con diritto di precedenza su Loreto 1592 – 1613 Rutilio Benzoni Recanati e Loreto 1620 – 1639 Agostino 1613 – 1620 Agostino 1613 – 1641 Felice Centini, 1601 – 1606 Innocenzo Del Galamini O.P.,Galamini O.P.,card.Bufalo Cancellieri card. card. 1642 – 1656 Papirio Silvestri 1606 – 1622 Giovanni 1642 – 1652 Girolamo Verospi, 1621 – 1634 Roma Giulio, 1659 – 1684 Francesco Cini Giovannini card.card. 1685 – 1698 FabrizioSeverini 1652 – 1655 Lodovico Betti 1634 – 1661 Amico Panici Paolucci 1622 – 1623 Cesare Gherardi 1656 – 1691 Antonio Bichi, 1666 – 1675 Giacinto 1698 – 1734 Alessandro 1624 – 1627 Giovanni Battista card. di PrenesteCordellaVaranoAltieri 1691 – 1700 Opizzo 1676 – 1682 Alessandro 1627 – 1666 Emilio Altieri Pallavicini, card.Crescenzi(papa Clemente X) 1682 – 1689 Guarniero 1666 – 1697 Giacomo Franzoni Guarnieri 1697 – 1702 Francesco Giusti 1690 – 1692 Raimondo Ferretti 1693 – 1727 Lorenzo Gherardi 333 Cingoli Recanati e Loreto Macerata e Tolentino XVIII sec. Territorio sotto Osimo Treia Territorio sotto Camerino 1702 – 1712 Michele Conti, 1727 – 1728 Benedetto Bussi 1735 – 1756 Ignazio Stelluti 1702 – 1719 Bernardino card. (papa 1728 – 1746 Vincenzo 1756 – 1777 Carlo Augusto Bellucci Innocenzo XIII)Antonio MariaPeruzzini 1719 – 1736 Cosma Torelli 1714 – 1724 Orazio Filippo Muscettola 1777 – 1796 Domenico 1736 – 1746 Ippolito Rossi Spada 1746 – 1749 Giovan Battista Spinucci 1746 – 1768 Francesco Vivani 1724 – 1725 Agostinio Pipia, Campagnoli 1796 – 1800 Alessandro 1769 – 1795 Luigi Amici O.P. card. 1749 – 1767 Giovan Antonio Alessandretti 1796 – 1816 Angelico BacchettoniBenincasa 1725 1767 – 1787 Ciriaco Cingoli ritorna diocesi, Vecchioni unita a Osimo 1787 – 1796 Domenico 1725 – 1727 Agostino Pipia Spinucci, vescovo 1728 – 1729 Pietro Radicati di Macerata, 1729 – 1734 Ferdinando A. Vicario Bernabei, O.P.Apostolico 1734 – 1740 Giacomo Lanfredini, card. 1796 – 1800 sede vacante 1740 – 1774 Pompeo per invasione francese Compagnoni 1776 – 1807 Guido Calcagnini, card. XIX sec. 1808 – 1815 Giovanni 1800 – 1806 Felice Paoli 1801 – 1823 San Vincenzo 1816 Castiglioni, card. 1806 – 1831 Stefano Bellini Maria Strambi Treia (ri)diventa diocesi, 1815 – 1822 Carlo Andrea 1831 – 1846 Alessandro 1824 – 1846 Francesco amministrazione apostolica Pelagallo, card.BernettiAnsaldo Teloni di Camerino 1823 – 1824 Ercole Dandini, 1846 – 1855 Gian Francesco 1846 – 1851 Luigi Clementi 1816 – 1842 Nicola Mattei card. Colonna 1851 – 1864 Amadio Zangari 1842 – 1845 Gaetano Baluffi 1824 – 1827 Gregorio Zelli, 1855 – 1861 Gian Francesco 1867 – 1881 Gaetano 1845 – 1847 Stanislao Vincenzo O.S.B.MagnaniFranceschiniTomba 1827 – 1828 Timoteo M. 1867 – 1897 Tommaso 1881 – 1888 Sebastiano 1847 – 1893 Felicissimo Salvini Ascenzi,GallucciGaleati 1894 – 1908 Celestino O. Carm. 1898 – 1903 Guglielmo 1888 – 1895 Roberto Papiri Del Frate 1828 – 1838 Giovanni A. Giustini 1895 – 1902 Giambattista Benvenuti, card.Ricci 1829 – 1856 Giovanni Soglia Ceroni, card. 1856 – 1861 Giovanni Brunelli, card. 1863 – 1871 Salvatore Nobili Vitelleschi 1781 – 1888 Michele Seri Molini 1888 – 1893 Egidio Mauri, O.P. 1894 – 1916 Giovan Battista Scotti 334 XX sec. Cingoli Recanati e Loreto Macerata e Tolentino Osimo e Cingoli Treia Diocesi amm. di Camerino 1917 – 1924 Pacifico Fiorani 1903 – 1911 Vittorio Amedeo 1902 – 1916 Raniero Sarnari 1909 – 1913 Pietro Paolo 1927 – 1944 Monalduzio Ranuzzi 1916 – 1919 Romolo Molaroni Moreschini Leopardi 1911 – 1923 Alfonso Maria 1919 – 1919 Augusto Curi, 1945 – 1964 Domenico Brizi Andreoli amministratore 1913 – 1966 1923 – 1924 Monalduzio apostolico Treia Amministrazione Leopardi, 1919 – 1923 Domenico Pasi Apostolica di San Severino amministratore 1924 – 1934 Luigi Ferretti 1913 – 1926 Adamo Borghini apostolico 1935 – 1947 Domenico 1927 – 1930 Vincenzo 1924 – 1934 Aluigi CossioArgnaniMigliorelli 1948 – 1968 Silvio Cassulo 1932 – 1934 Pietro Tagliapietra 1934 –1986 1968 – 1969 Aurelio 1934 – 1966 Ferdinando Recanati diocesi senza Loreto Sabattani, Longinotti 1934 – 1955 A. Cossio amministratore 1956 – 1968 Emilio Baroncelli apostolico 1969 – 1975 Ersilio Tonini 1975 – 1976 Vittorio Cecchi, amministratore apostolico Amministratori Apostolici (fino al 1976) Cingoli Recanati 1964 – 1968 Silvio Cassulo* 1970 – 1975 Ersilio Tonini* 1968 – 1969 Aurelio 1975 – 1976 Vittorio Cecchi*** Sabattani** 1969 – 1975 Ersilio Tonini* 1975 – 1976 Vittorio Cecchi*** Amministratori Apostolici (fino al 1976) Treia 1964 – 1968 1968 – 1969 1969 – 1975 1975 – 1976 Silvio Cassulo* Aurelio Sabattani** Ersilio Tonini* Vittorio Cecchi*** Vescovo unico per le cinque Diocesi autonome di Macerata, Tolentino, Recanati, Cingoli, Treia 1976 – 1986 Francesco Tarcisio Carboni 30 settembre 1986 – Unificazione delle cinque Diocesi di Macerata – Tolentino – Recanati – Cingoli – Treia 1986 – 1995 Francesco Tarcisio Carboni 1996 – 2006 Luigi Conti 2007 – Claudio Giuliodori * vescovo di Macerata e Tolentino ** vescovo di Loreto *** amm. apostolico di Macerata e Tolentino 335 BIBLIOGRAFIA ABBREVIAZIONI OPERE A STAMPA ACSSM per Archivio Confraternita SS. Sacramento Macerata AGTr per Accademia Georgica Treia AMCPP per Archivio Marefoschi Compagnoni Potenza Picena ANM per Archivio Notarile Macerata ANR per Archivio Notarile Recanati APCM per Archivio Parrocchiale Cattedrale Macerata APCT per Archivio Parrocchiale Cattedrale Tolentino ASDR per Archivio Storico Diocesano Recanati ASDTr per Archivio Storico Diocesano Treia ASDC per Archivio Storico Diocesano Cingoli ASDT per Archivio Storico Diocesano Tolentino ASCCM per Archivio Storico del Capitolo Cattedrale Macerata ASCCR per Archivio Storico del Capitolo Cattedrale Recanati ASCCTr per Archivio Storico del Capitolo Cattedrale Treia ASCCC per Archivio Storico del Capitolo Cattedrale Cingoli ASCCT per Archivio Storico del Capitolo Cattedrale Tolentino APM per Archivio Priorale Macerata ACSNT per Archivio Storico del convento di S. Nicola Tolentino ASCT per Archivio Storico del Comune Tolentino ASCC per Archivio Storico del Comune Cingoli ASCTr per Archivio Storico del Comune Treia ASCR per Archivio Storico del Comune Recanati BCM per Biblioteca Comunale Macerata BCPJ per Biblioteca Comunale Planettiana Jesi BCR per Biblioteca Comunale Recanati IDSCMc per Istituto Diocesano Sostentamento Clero Macerata Acquaticci 1890 N. Acquaticci, Il mio paese, compendio della storia di Treja. Parte prima. Treia Antica, Tolentino 1890 Acquaticci 1897 N. Acquaticci, Carità e beneficienza, Macerata 1897 Acquaticci 1905 N. Acquaticci, Religione ed arte: Treia, 24 settembre 1905, Treia 1905 Alcuni Antenati 1890 Alcuni antenati di Monaldo Leopardi, illustri per cristiana pietà, Città di Castello 1890 Aleandri 1905 V. Aleandri, Documenti per la storia dell’arte nelle Marche (sec. XV), in “Rassegna bibliografica dell’Arte italiana”, n. 8-10, 1905, pp. 150-152 Alfei, Gozzoli 2007 P. G. Alfei, F. Gozzoli, Quattro passi alla scoperta di Cingoli. Il “Balcone delle Marche”. Guida alle bellezze architettoniche, storicheartistiche e naturali, Cingoli 2007 Andrea Sacchi 2000 Andrea Sacchi (1599-1661), catalogo della mostra (Nettuno 1999-2000) a cura di R. Barbiellini Amidei, L. Carloni, C. Tempesta, Roma 2000 Andrea Vici Architetto 2009 Andrea Vici. Architetto e ingegnere idraulico. Atlante delle opere, a cura di M. L. Polichetti, Cinisello Balsamo 2009 Angelita 1601 G. F. Angelita, Origine della città di Ricanati e la sua historia e discretione, Venezia 1601 (ed. anast. Sala Bolognese 1981) Annuario interdiocesano 1973 Annuario interdiocesano della Diocesi di Macerata, Macerata 1973 Annuario diocesano 1985 Annuario diocesano della Diocesi di Macerata, Macerat