Dante e la Filosofia II (che poi è Etica II) a cura di Enzo Galbiati [email protected] filosofiacapriate.Enzogalbiati http://www.miknet.it/ Cicerone (1) Marco Tullio Cicerone (Arpino 106 a.C. - Formia 43 a.C.): nato da agiata famiglia equestre, iniziò la sua carriera politica, dopo gli studi in diritto, retorica e filosofia, nell’80 a.C. con la difesa (vittoriosa) di Sesto Roscio Amerino accusato di parricidio per un intrigo a sfondo politico. Nel 75 ottenne la questura per la Sicilia occidentale, durante la quale si guadagnò la gratitudine dei Siciliani, che lo vollero loro patrono nella causa da essi intentata contro Verre. Edile curule nel 69; pretore nel 66 sostenne la legge che dava a Pompeo il comando della guerra contro Mitridate, perché, nonostante i profili di illegalità, rispondeva alle necessità del momento. Questo suo pragmatismo, unito a un innato buonsenso e a un temperamento moderato, lo aveva inizialmente reso avverso all’oligarchia. Ma avversò anche con pari fermezza, nell’anno del suo consolato (63), quelli che riteneva eccessi dei popolari, opponendosi alla legge agraria di Servilio Rullo, difendendo Gaio Rabirio, e, dopo avere stroncato il tentativo di Catilina di giungere al potere per vie legali, reprimendo quello di conseguirlo con la violenza. La congiura nella quale si sapevano implicati personaggi come Crasso e Cesare fu scoperta e soffocata nel sangue, anche per vie illegali, ma certo con coraggio e decisione. Cicerone (2) Da allora la forza stessa delle cose lo spinse nel campo dei conservatori stretti attorno a Pompeo; divenuto un ostacolo fastidioso per i triunviri, Cesare si sbarazzò di lui provocandone l’esilio (58). Il raccoglimento in cui si chiuse negli anni successivi gli permise di comporre il De oratore e il De republica. Si adoperò vanamente per scongiurare la guerra civile e dopo avere a lungo tergiversato si schierò dalla parte di Pompeo; dopo Farsalo (48) si riaccostò a Cesare tributando persino qualche elogio al dittatore. Fu questo il periodo più tormentato della vita di Cicerone; alle angustie politiche si aggiungevano quelle familiari: nel 47 il divorzio da Terenzia, nel 45 la morte della figlia Tullia, e poco dopo il divorzio dalla seconda moglie, la giovane Publilia. Cicerone allora cercò rifugio negli studi. Ed è a questo periodo che risalgono le sue principali opere filosofiche (si ricordano: l’Hortensius oggi perduto, una sorta di introduzione ed esortazione allo studio della filosofia, la cui lettura fu decisiva per Agostino; De finibus bonorum et malorum, Tusculanae disputationes, De natura deorum, Cato Maior de senectute e De officiis). Dopo l’uccisione di Cesare (44) Cicerone abbandonò Roma. Formatosi però il secondo triunvirato, venne sacrificato da Ottaviano alla vendetta di Antonio i cui sicari lo uccisero nelle vicinanze della sua villa di Formia. Cicerone (3) Scritto nel 44 a.C. poco prima del De officiis ed a poca distanza dal Cato maior e come quest'ultimo dedicato all'amico epicureo Attico, il breve dialogo Laelius de amicitia è ambientato da Cicerone nell'anno 129, lo stesso del De re publica. Anche qui, come nell'importante dialogo sullo Stato, gli interlocutori appartengono al cosiddetto «circolo degli Scipioni»: a pochi giorni dalla misteriosa morte di Scipione Emiliano durante le agitazioni graccane, Lelio rievoca davanti a Gaio Fannio e Muzio Scevola la figura dell'amico scomparso e disserta sul valore e le finalità dell'amicizia in se stessa. Il clima è quello di una composta tristezza, ma il tono è combattivo; lo sfondo ritrae una situazione politica estremamente tesa, così com'era tesa la situazione a Roma nell'anno 44, con Cesare da poco assassinato e Cicerone che cercava il rilancio sulla scena politica. Questo in sintesi il contenuto: Lelio intrattiene i propri interlocutori sul valore e sulla natura dell'amicizia stessa (1-17). L'amicizia, lungi dal risolversi in modo esclusivo nella sfera dell'utile e dell'interesse particolare del singolo individuo, deve fondarsi prima di tutto tra i boni cives su una comunione di valori etici condivisi, aventi il loro cardine nel concetto di virtus (18-28). Cicerone (4) L'amicizia è un sentimento nobile che nasce dall'amore reciproco per la virtus, e non già dal bisogno o da una certa cogitatio sulla sua utilità (polemica antiepicurea). L'amicizia non si deve dunque regolare in base all'utilitas ma alla stessa virtus, come aveva affermato già Aristotele, ed è per questo che non si deve assecondare l'amico se il suo comportamento è sbagliato, nel senso che si pone contro la stessa virtù o addirittura contro la patria: questa infatti non è più amicizia, ma complicità (29-44). La vera amicizia deve essere più forte delle avversità contingenti, un concetto che Cicerone esprime citando Ennio (amicus certus in re incerta cernitur = l'amico certo si riconosce nella sorte incerta, ovvero: il vero amico si riconosce nei momenti difficili). Infine Lelio espone alcuni criteri pratici per la scelta degli amici e mette in guardia contro i falsi amici e i simulatori, fra i quali rientrano anche gli adulatori (45-104). Il dialogo nasce sicuramente dalla volontà di superare l'antica e tradizionale concezione romana dell'amicizia come serie di legami personali a scopo di interesse politico, in una logica che oggi definiremmo clientelare. Cicerone, sulla scorta della riflessione sulla filosofia compiuta negli anni di ozio forzato dall'attività pubblica, cerca invece di definire e stabilire i fondamenti etici del sentimento che lega gli uomini. Agostino: vita (1) Sant'Agostino d'Ippona, al secolo Agostino Aurelio (in latino Aurelius Augustinus detto anche Doctor Gratiae), è stato un vescovo, filosofo, teologo, oratore, scrittore, padre e dottore della Chiesa latina. Dopo un travagliato percorso interiore ed intellettuale di ricerca della verità, diventato fermo difensore dell'ortodossia cattolica contro varie religioni ed eresie dell'epoca, con la sua riflessione ha segnato un punto fondamentale per la successiva Tradizione cristiana. Dalla nascita alla conversione (354-386) Agostino, di etnia berbera o punica, ma di cultura fondamentalmente ellenistico-romana, nacque a Tagaste (attualmente Souk Ahras, in Algeria, situata a circa 70 km a sud-est di Ippona - l'odierna Annaba o Bona) il 13 novembre del 354 d.C. Conobbe a fondo la lingua e la cultura latina, non ebbe familiare il greco, ignorò il punico. Educato cristianamente dalla piissima madre, Monica, restò sempre, nell'animo, un cristiano, anche quando, a 19 anni, abbandonò la fede cattolica. La sua lunga e tormentata evoluzione interiore (373-386) cominciò con la lettura dell'Ortensio di Cicerone che lo entusiasmò per la sapienza, ma ne tinse i pensieri di tendenze razionaliste e naturaliste. Poco dopo, letta senza frutto la Scrittura, incontrò, ascoltò e seguì i manichei. Agostino: vita (2) Le ragioni principali furono tre: il proclamato razionalismo che escludeva la fede, l'aperta professione d'un cristianesimo spirituale e puro che escludeva l'Antico Testamento, la soluzione radicale del problema del male che i manichei offrivano. Non fu un manicheo convinto, ma solo fiducioso che gli venisse mostrata la sapienza promessa (De beata vita, 4); fu invece un convinto anticattolico. Del manicheismo accettò i presupposti metodologici e metafisici: il razionalismo, il materialismo, il dualismo. Accortosi a poco a poco, attraverso lo studio delle arti liberali, particolarmente della filosofia, dell'inconsistenza della religione di Mani – la controprova gliela diede il vescovo manicheo Fausto – non pensò di tornare alla Chiesa cattolica, non si affidò a una corrente di filosofi "perché ignoravano il nome di Cristo" (Confessioni 5, 14, 25); ma cadde nella tentazione scettica. Il cammino di ritorno cominciò a Milano, con la predicazione di Ambrogio che dissipava le difficoltà manichee e offriva la chiave per interpretare l'Antico Testamento, continuò con la riflessione personale sulla necessità della fede per giungere alla sapienza, approdò alla convinzione che l'autorità su cui si appoggia la fede è la Scrittura, garantita e letta dalla Chiesa. Si è molto discusso e si discute sul momento della conversione di Agostino e sull'influsso che in essa ebbe la lettura dei platonici. Agostino: vita (3) Se si vuole restare fedeli ai testi agostiniani occorre fare una distinzione importante tra il motivo della fede e il contenuto della medesima: quello lo aveva conquistato prima della lettura dei platonici; questo lo chiarì, in parte, dopo. Nonostante molte questioni gli restassero ancora oscure, aderiva all'autorità di Cristo e, ormai, all'autorità della Chiesa: «rimaneva tuttavia saldamente radicata nel mio cuore la fede nella Chiesa cattolica. Certo una fede ancora rozza in molti punti e fluttuante oltre i limiti della giusta dottrina, però il mio spirito non l'abbandonava, anzi se ne imbeveva ogni giorno di più» (Confessioni 7, 5, 7). I platonici lo aiutarono a risolvere due grossi problemi filosofici, quello del materialismo e quello del male: il primo imparò a superarlo scoprendo nel suo mondo interiore, seguendo appunto il consiglio dei platonici (Confessioni 7, 10, 16), la luce intelligibile della verità; il secondo intuendo la nozione del male come difetto o privazione di bene. Restava il problema teologico della mediazione e della grazia. Per risolverlo si volse a San Paolo, dalla cui lettura comprese che Cristo non è solo Maestro, ma anche Redentore. Superato così il naturalismo, il cammino di ritorno alla fede cattolica era terminato. Ma a questo punto nasceva un altro problema: la scelta del modo di vivere l'ideale cristiano della sapienza. Agostino: vita (4) Se cioè convenisse rinunciare per esso ad ogni speranza terrena, e quindi anche alla carriera e al matrimonio, oppure no. La prima rinuncia, anche se la carriera si annunciava brillante (era vicina la presidenza d'un tribunale o d'una provincia: Agostino aveva studiato per la carriera forense), non gli costava molto; molto invece gli costava la seconda: a 17 anni s'era unito con una donna, da cui aveva avuto un figlio, Adeodato (morto tra il 389 e il 391), e a cui era restato sempre fedele (Confessioni 4, 2, 2). Dopo lunghe esitazioni e drammatici contrasti, non senza uno straordinario aiuto della grazia, la scelta fu fatta secondo il consiglio dell'Apostolo e le più profonde aspirazioni di Agostino: «Mi volgesti a te così a pieno, che non cercavo più né moglie né altra speranza di questo mondo» (Confessioni 8, 12, 30). Era l'anno 386, inizio del mese di agosto. Dalla conversione all'episcopato (386-396) Presa la decisione di rinunciare all'insegnamento e al matrimonio, verso la fine di ottobre si ritirò a Cassiciaco (probabilmente l'odierna Cassago in Brianza) per prepararsi al battesimo, ai primi di marzo tornò a Milano, s'iscrisse tra i catecumeni, seguì la catechesi di Ambrogio e fu da lui battezzato, insieme all'amico Alipio e al figlio Adeodato, nella notte tra il 24 e il 25 aprile, vigilia di Pasqua del 387. Agostino: vita (5) Dopo il battesimo, la piccola comitiva decise di tornare in Africa per attuare laggiù il proposito di vivere insieme nel servizio di Dio. Prima della fine di agosto lasciò Milano e giunse a Ostia dove la madre, Monica, si ammalò improvvisamente e morì. Morta la madre, Agostino decise di tornare a Roma e vi si trattenne fino a dopo la morte dell'usurpatore Massimo (luglio o agosto del 388), interessandosi alla vita monastica e continuando a scrivere libri; partì poi per l'Africa e si ritirò a Tagaste, dove con gli amici mise in opera il suo programma di vita ascetica. Nel 391 scese a Ippona per cercare un luogo dove fondare un monastero e vivere con i miei fratelli, ma vi trovò l'ordinazione sacerdotale, che accettò riluttante. Ordinato sacerdote, ottenne dal vescovo di fondare, secondo il suo piano, un monastero, dove prese a vivere secondo la maniera e la regola stabilita ai tempi dei Santi Apostoli, intensificando l'ascetismo, approfondendo gli studi di teologia e cominciando l'apostolato della predicazione. La consacrazione episcopale intervenne nel 395. Fu per qualche tempo coadiutore d'Ippona, poi dal 397 – vescovo. Lasciò allora il monastero dei laici, dov'era vissuto a capo di quella comunità, e per essere più libero nell'usare ospitalità verso tutti, si ritirò nella casa del vescovo facendone un monastero di chierici. Agostino: vita (6) Dall'episcopato alla morte (396-430) L'attività episcopale di Agostino fu davvero prodigiosa, tanto quella ordinaria per la sua diocesi quanto quella straordinaria per la Chiesa d'Africa e per la Chiesa universale. Tra le attività ordinarie devono annoverarsi: il ministero della parola (si sono conservati più di 500 sermoni); l'audientia episcopi per ascoltare e giudicare le cause, che gli occupavano non raramente tutta la giornata; la formazione del clero; l'organizzazione dei monasteri maschili e femminili; la visita agli infermi. Ancor maggiore l'attività straordinaria: i molti viaggi per esser presente ai frequenti concili africani; la dettatura delle lettere (se ne sono conservate 217) per rispondere a quanti, da ogni parte e di ogni ceto, si rivolgevano a lui; l'illustrazione e la difesa della fede. Quest'ultima esigenza lo indusse ad intervenire senza posa contro i manichei, i donatisti, i pelagiani, gli ariani, i priscillanisti, gli origenisti e i pagani (vedi slide successiva). Morì il 28 agosto del 430, al terzo mese dell'assedio d'Ippona da parte dei Vandali. Le sue ossa, in data incerta, furono trasportate in Sardegna e da qui, verso il 725, a Pavia nella Basilica di San Pietro in Ciel d'Oro, dove riposano tuttora. Agostino: opere (1) Agostino fu un autore molto prolifico, notevole per la varietà dei soggetti su cui scrisse e soprattutto per l’assoluta qualità dello stile. Di seguito un tentativo di classificazione delle sue opere: Opere autobiografiche e corrispondenza Le Confessioni, scritte intorno al 400, sono la storia della sua maturazione religiosa. Il nocciolo del pensiero agostiniano presente nelle Confessioni sta nel concetto che l'uomo è incapace di orientarsi da solo: esclusivamente con l'illuminazione di Dio, a cui deve obbedire in ogni circostanza, l'uomo riuscirà a trovare l'orientamento nella sua vita. La parola confessioni viene intesa in senso biblico (confiteri), non come ammissione di colpa o racconto, ma come preghiera di un'anima che ammira l'azione di Dio nel proprio interno. Le Retractationes (= Ritrattazioni, composte verso la fine della sua vita, tra il 426 e il 428), sono una revisione, un riesame dei propri lavori ripercorsi in ordine cronologico, spiegando l'occasione della loro genesi e l'idea dominante di ognuno. Utili per comprendere l'evoluzione del pensiero. Le Epistolae (=Lettere), che nella raccolta benedettina ammontano a 270 (53 dei corrispondenti di Agostino), sono utili per la conoscenza della sua vita, della sua influenza e della sua dottrina. Agostino: opere (2) Testi di carattere filosofico (dialoghi e trattati abbondantemente ritrattati in seguito dallo stesso Agostino): •a Cassiciaco (novembre 386 - marzo 387): Contra Academicos libri tres, De beata vita, De Ordine libri duo, Soliloquiorum libri duo. •a Milano (prima del battesimo): De immortalitate animae liber unus; •a Roma (autunno 387 - luglio o agosto 388): De quantitate animae liber unus, De libero arbitrio libri tres; •a Tagaste (388 - 391): De musica libri sex, De magistro liber unus. Libri apologetici (sotto questa si classificano le opere in difesa della fede cristiana contro i pagani o contro coloro che negavano la fede in nome della ragione): De vera religione (=La vera religione, 389 – 391); De utilitate credendi (=L'utilità di credere, del 391); De fide rerum quae non videntur (=La fede nelle cose che non si vedono, del 400); De civitate Dei contra Paganos (= La città di Dio contro i Pagani, in 22 libri, iniziato nel 413 e terminato nel 426; esso rappresenta la risposta di Agostino ai pagani che attribuivano la caduta di Roma nel 410 all'abolizione del Paganesimo). Agostino: opere (3) Opere dogmatiche e morali: De Trinitate (=La Trinità, in 15 libri, scritto dal 400 al 416, è l'opera più complessa e profonda di Agostino); Enchiridion de fide, spe et charitate (= Manuale sulla fede, sulla speranza e sull'amore, del 421); De diversis quaestionibus ad Simplicianum (=Diverse domande a Simpliciano, del 397); Quaestiones Evangeliorum (=Domande sui Vangeli); Quaestiones in Heptateuchum (=Domande sull'Eptateuco); Quaestiones septemdecim in Evangelium secundum Matthaeum (=Diciassette domande sul Vangelo secondo Matteo); De diversis quaestionibus octoginta tribus (=Ottantatré diverse questioni); De octo Dulcitii quaestionibus (=Le otto domande di Dulcizio); De octo quaestionibus ex Veteri Testamento (=Otto domande sull'Antico Testamento); De bono coniugali (=Il bene del matrimonio); De bono viduitatis (=Il bene della vedovanza); De coniugiis adulterinis (=Le unioni adulterine); De continentia (=La continenza); De cura pro mortuis gerenda (=La cura che dev'essere riservata ai morti); De mendacio (=La menzogna); De patientia (=La pazienza); De quantitate animae (=La grandezza dell'anima); De utilitate ieiunii (=L'utilità del digiuno); De sancta virginitate (=La santa verginità). Agostino: opere (4) Scritti esegetici (cioè di analisi e commento della Sacra Scrittura): De doctrina christiana (=La dottrina cristiana, iniziato nel 397 e terminato nel 426); De Genesi ad litteram (=La Genesi alla lettera, composto tra il 401 ed il 415); Enarrationes in Psalmos (Commenti ai Salmi); De sermone Domini in monte (=Il discorso del Signore sulla montagna); De consensu evangelistarum (=Il consenso degli evangelisti", scritto nel 400); In evangelium Ioannis (=Nel vangelo di Giovanni, scritto nel 416 e, generalmente, considerato una delle opere migliori di Agostino); Expositio Epistolae ad Galatos (=Esposizione della Lettera ai Galati); Annotationes in Iob (Annotazioni in Giobbe); De Genesi ad litteram imperfectus (=La Genesi alla lettera incompiuta); Epistolae ad Romanos inchoata expositio (=Inizio dell'esposizione della Lettera ai Romani); Expositio quarundam propositionum ex Epistola ad Romanos (Esposizione di alcune frasi dalla Lettera ai Romani); In Epistolam Ioannis ad Parthos (=Nella Lettera di Giovanni ai Parti); Locutiones in Heptateuchum (=Locuzioni nell'Eptateuco). Sono infine da ricordare i numerosissimi testi (una quarantina) relativi alle controversie contro eretici, scismatici e apostati. Intermezzo: manicheismo (1) Il manicheismo è una religione fondata da Mani (216-277). Consapevole della sofferenza del mondo e del vivo contrasto tra bene e male nella persona umana, il manicheismo è indotto a concepire tutta la realtà esistente come espressione di una lotta perenne tra due principi opposti: il Bene (la Luce, lo Spirito, Dio, nel senso proprio della parola) e il Male (le Tenebre, la Materia, lo Spirito demoniaco, il Satana ‘cristiano’). Questi due principi coeterni, prima che il mondo sensibile avesse avuto origine, avevano una loro realtà spaziale, oltre che spirituale: la Luce in pace perfetta si estendeva in tutte le direzioni, circondando a nord, a est e a ovest le Tenebre, che avevano il loro regno al sud, dilaniato da perenni lotte intestine e turbato da passioni. Da questa opposizione ebbe origine la sofferenza nel mondo, secondo il mito: il principe delle Tenebre, vista la sfolgorante bellezza del mondo della Luce, volle impadronirsene e fu contrastato dal Padre della Grandezza (così i manichei designavano il Dio della Luce), il quale, non potendo salvarsi altrimenti, decise di offrire in sacrificio sé stesso per arrestare l’attacco delle forze del male. Principio attivo per eccellenza, il Dio della Luce trae allora da sé la Madre della Vita (cioè la vita come realtà cosmica), che a sua volta trae da sé l’Uomo primordiale. Intermezzo: manicheismo (2) L’Uomo primordiale affronta il male, ma viene sconfitto e si dà in pasto ai figli delle tenebre: in tal modo parti di luce rimangono prigioniere delle tenebre dalle quali attendono di essere liberate. Si rende così inevitabile una lotta tra Luce e Tenebre, le cui fasi, descritte minutamente nel m., si concludono con la creazione del mondo fisico, degli esseri viventi (miscuglio di particelle di luce prigioniere del corpo, creato dalle tenebre) e infine della prima coppia umana, quella di Adamo e di Eva, formata dalle potenze del male perché, riproducendosi tramite il desiderio carnale, tenessero in eterno prigioniere dei corpi le particelle di luce in essi racchiuse. Così il manicheismo legge in chiave fortemente pessimistica la vicenda umana e vede nel desiderio carnale e nella riproduzione la conseguenza prima del peccato e del male intimamente legato alla natura umana. A risvegliare in Adamo la coscienza delle parti di luce in lui racchiuse, le forze celesti mandano Gesù, di cui il Cristo storico è una particolare manifestazione: così Gesù desta in Adamo il desiderio di salvezza. Da questo momento l’uomo può cessare di essere strumento delle forze del male se, seguendo la via della salvezza indicata da Mani, saprà liberarsi di ogni istinto carnale (perciò rifiutando il matrimonio, il mangiare carni, osservando la perfetta castità, ecc.). Intermezzo: manicheismo (3) In tal modo l’uomo diventerà cooperatore delle forze del bene e contribuirà alla liberazione delle particelle di luce chiuse nella materia, fino al giudizio finale che ne segnerà il definitivo riscatto. I manichei costituirono una Chiesa con una propria gerarchia; gli uditori o catecumeni (tale fu Agostino per nove anni), gli eletti, i preti, i vescovi, gli apostoli e sopra tutti un capo, che era considerato il successore di Mani. A prescindere dall’istruzione religiosa e dal canto in comune, il manicheismo aveva una liturgia assai scarsa, anche per l’assenza di sacramenti: tale potrebbe essere considerato solo il rito di ammissione (quando si diventava catecumeni), consistente nella imposizione della mano destra sul neofita. Il manicheismo conobbe, per opera di attivi e abili missionari, la più vasta diffusione, penetrando in poco più di un secolo dall’Africa alla Cina malgrado accanite persecuzioni, adattandosi di volta in volta all’ambiente nel quale doveva operare: assunse così un più chiaro volto gnostico-neoplatonico in Occidente, accettò in Persia espressioni e termini della religione di Zaratustra, mentre in Cina si colorò di buddismo. Mentre però in Occidente il manicheismo si spense, anche nelle sue ultime espressioni, verso il VII secolo, in Oriente, e specialmente in Cina, durò fino oltre il XII secolo, lasciando di sé cospicue tracce letterarie e artistiche. Intermezzo: pelagianesimo (1) Il pelagianesimo è un complesso delle dottrine e movimento ereticale che fanno capo al monaco bretone Pelagio (n. in Inghilterra 354 ca. - m. forse presso Alessandria 427 ca.). La dottrina di Pelagio è improntata a un moralismo ascetico-stoico: l’uomo può, con le proprie forze morali, osservare i comandamenti di Dio e salvarsi; la grazia gli è data soltanto per facilitare l’azione. La grazia poi non è un dono interiore che illumina, trasforma e rafforza l’uomo, ma è solo fatto esterno che opera a modo di esempio; tale il Vecchio Testamento, il Nuovo, la vita e l’insegnamento di Gesù. Ne consegue la negazione del peccato originale e della necessità del battesimo e della penitenza. Il pelagianesimo rappresenta, dopo il donatismo, una delle grandi eresie sorte nella Chiesa occidentale. Dopo la condanna del Concilio di Cartagine (411), esso fu combattuto soprattutto da Agostino che, in questa polemica, viene chiarendo la sua dottrina della grazia e del libero arbitrio, orientata nel senso profondamente pessimistico. Ma in Oriente Pelagio, facendo leva su certi aspetti platonici e ottimistici della teologia orientale, riuscì a raggiungere il sacerdozio, sfuggire condanne, essere assolto dalle accuse; allora i sinodi di Cartagine e Milevi (416) insorsero rinnovando le condanne, e ottenendo conferma dal papa Innocenzo I (417). Intermezzo: pelagianesimo (2) Ma sulla base di una generica accettazione della grazia da parte di Pelagio e Celestio, il greco papa Zosimo si mostrò loro benevolo: allora Agostino intervenne nuovamente (418) e un concilio a Cartagine ne rinnovò la condanna. Ma la controversia dottrinale continuava: Giuliano di Eclano attaccò Agostino sulla dottrina del peccato originale e della concupiscenza. Dal 419 alla morte (430) Agostino rispose con numerosi scritti soprattutto nei confronti dei cosiddetti semipelagiani i quali, rivendicando alla libertà dell’uomo un proprio e autonomo valore, ritenevano che l’initium fidei, il primo desiderio di salvezza, potesse venire dall’uomo senza l’aiuto di Dio, e che la perseveranza finale non fosse un nuovo dono gratuito. Finalmente il Concilio radunato a Orange (529) formulò in 25 canoni la dottrina cattolica sulla grazia contro pelagiani e semipelagiani: ferma l’impossibilità per l’uomo di meritare la grazia, e la necessità assoluta di questa anche per l’inizio della fede e la perseveranza nelle buone opere, affermato il libero arbitrio, anche se non è più sufficiente perché l’uomo possa sollevarsi da solo a Dio e al bene, fu condannata una predestinazione incondizionata e una predestinazione al male. Papa Bonifacio I (530) approvò le definizioni del Concilio. La controversia finì per allora, ma i suoi motivi tornarono nelle polemiche protestanti e gianseniste. Agostino: il pensiero (1) La centralità dell’anima personale L’opera più nota di Agostino sono le Confessiones in 13 libri, scritte intorno al 400, unanimemente ritenute tra i massimi capolavori della letteratura non solo cristiana. In essa Agostino, rivolgendosi a Dio, narra la sua vita e in particolare la storia della sua conversione al Cristianesimo. Si tratta di un’opera complessa, in cui la narrazione si intreccia con la preghiera e con la riflessione filosofica e teologica. Ma soprattutto è un’autobiografia, in cui l’autore parla sinceramente della propria esistenza, giudicandola severamente con l’atteggiamento del peccatore pentito. Il fatto che un filosofo scriva un’autobiografia costituisce una novità nella storia del pensiero: nessun filosofo antico aveva narrato la propria vita e aveva scandagliato la propria anima con tanta profondità. Per questa capacità di scavo interiore le Confessioni sono considerate un’opera di grande modernità. I filosofi antichi non scrivevano sulle proprie vicende biografiche (se non occasionalmente) perché per loro l’esistenza individuale aveva scarso valore. Invece il singolo individuo diventa interessante e acquista un valore infinito per gli autori cristiani, perché per il Cristianesimo ogni individuo è creato da Dio e, soprattutto, è oggetto dell’amore di Dio, quindi nella vita di ogni individuo si manifesta l’azione del Dio eterno. Agostino: il pensiero (2) Infatti la vita di Agostino è contrassegnata da una ricerca inquieta, tormentata, della verità e della felicità, ricerca che lo ha condotto, passando attraverso errori (intellettuali) e colpe (morali), fino alla scoperta di Gesù Cristo. Nella conversione al Cristianesimo Agostino trova finalmente la verità e la pace. Egli capisce però che l’inquietudine, la sete inesausta di verità e felicità, è suscitata nel cuore umano da Dio stesso, che vuole farsi cercare: l’uomo è alla ricerca di Dio perché Dio è alla ricerca dell’uomo. Fede e ragione Per Agostino fede e ragione sono complementari, rimandano l’una all’altra, e anche se la fede in definitiva ha il primato, la posizione di Agostino non è affatto quella di un fideismo irrazionale (del tipo credo quia absurdum). Infatti secondo Agostino la fede illumina il cammino che deve essere percorso dalla ragione, la fede introduce alla verità, che poi deve essere indagata, chiarita e spiegata con la ragione. D’altra parte la ragione spiegando e vagliando criticamente la verità rivelata dalla fede rafforza e giustifica la fede stessa. Questo è il significato della nota formula: «Crede ut intelligas, intellige ut credas» (credi per capire, capisci per credere). Il problema di fondo, per Agostino, è la conoscenza della verità, che trascende l’uomo, e a cui l’uomo tende sia con la fede sia con la ragione. Agostino: il pensiero (3) La conoscenza della verità (1) Il processo di conoscenza della verità chiarisce meglio sia il rapporto tra l’anima personale e Dio sia il rapporto fede-ragione. Agostino parte dalla critica del dubbio scettico: gli scettici dicono che nessuna verità è certa e che bisogna dubitare di tutto, di qualsiasi affermazione. Agostino risponde: «Si fallor, sum» (= se m’inganno, esisto), cioè posso ingannarmi, posso sbagliare nell’affermare qualsiasi cosa, ma certamente per sbagliare, per ingannarmi, per dubitare devo esistere. Quindi nel dubbio è insita la certezza dell’esistere; in altre parole il dubbio presuppone, per sua stessa natura, un rapporto dell’uomo con la verità: «Chiunque comprende di essere in dubbio vede una cosa sicura della quale è certo, pertanto chiunque dubita se la verità esista, ha in sé qualcosa di vero di cui non può dubitare: ora il vero non è tale se non in forza della verità». Ma come e dove ricercare la verità? La risposta di Agostino è sintetizzata nella celebre frase «Non uscire fuori di te, ritorna in te stesso, la verità abita nell’interno dell’uomo, e se troverai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso...». (De vera religione, XXXIX, 72-73 – leggi il brano intitolato Noli foras ire). Agostino: il pensiero (4) La conoscenza della verità (2) Vediamo passaggio per passaggio il significato di questo brano. Agostino segue l’itinerario platonico: la mutevole percezione dei sensi non basta a spiegare il fenomeno della conoscenza, infatti noi conosciamo la realtà perché abbiamo in noi dei criteri con cui giudicarla. Questi criteri contengono un plus rispetto agli oggetti corporei, infatti gli oggetti corporei sono mutevoli e imperfetti, mentre i criteri con cui l’anima giudica sono immutabili e perfetti. E ciò risulta nella maniera più evidente quando giudichiamo gli oggetti sensibili per mezzo di concetti matematici o geometrici: infatti i concetti matematici e geometrici hanno un carattere necessario e immutabile, gli oggetti a cui li applichiamo sono contingenti e mutevoli. Da dove derivano all’anima questi criteri? Non può produrli essa stessa perché anche l’anima è mutevole. Perciò bisogna riconoscere che all’interno dell’anima, ma al di sopra di essa, vi è un criterio immutabile che si chiama Verità. L’anima giudica con la verità che trova in se stessa, ma non coincide con la verità e non la produce, anzi dipende da essa (e infatti la verità si pone come oggetto immutabile della ricerca della ragione). Agostino: il pensiero (5) La conoscenza della verità (3) La verità poi è costituita, in accordo con Platone, dalle Idee che sono i parametri secondo cui sono state fatte le cose. Tuttavia Agostino si discosta da Platone su due punti: 1. le Idee non sono autosussistenti, ma sono i pensieri di Dio (il Verbo di Dio) secondo cui Dio ha creato ogni cosa; 2. secondo Platone l’anima conosce le Idee per reminiscenza; per Agostino invece l’anima dell’uomo conosce le Idee per illuminazione divina. Infatti Dio, che è l’Essere, con la creazione ci rende partecipi dell’essere, e Dio, in quanto è Verità, con l’illuminazione ci rende partecipi della verità (e delle Idee) permettendoci così di conoscere le cose. Precisazione: la verità che riceviamo direttamente da Dio (secondo la dottrina dell’illuminazione) non è la conoscenza della realtà, ma il criterio che permette la conoscenza della realtà, così come la luce non è la vista delle cose, ma permette la vista delle cose. Inoltre la teoria della conoscenza di Agostino presenta comunque il problema di far consistere la conoscenza in un’esperienza interiore e di attribuire alla realtà materiale, corporea, un ruolo marginale non riconoscendo pienamente il valore positivo della realtà materiale, nonostante la dottrina biblica della creazione. Agostino: il pensiero (6) La Trinità Secondo la fede cristiana Dio è un’unica sostanza divina (è quindi confermato il monoteismo ebraico) in tre persone: Padre, Figlio e Spirito Santo, ovvero in termini filosofici, rispettivamente Essere, Verità, Amore. La ragione non può comprendere pienamente questo mistero, però può avvicinarsi ad esso attraverso un’analogia con la realtà creata e in particolare con l’anima umana. Infatti tutta la creazione porta in sé l’impronta, le tracce del suo creatore, e ciò vale in particolare per l’uomo che è stato creato «ad immagine e somiglianza di Dio». Infatti in tutta la realtà Agostino evidenzia strutture triadiche che rimandano appunto alla Trinità creatrice. Ma soprattutto la anima umana è immagine della Trinità, perché anch’essa è una e triplice, in quanto nella sua unità sono congiunte tre facoltà: la memoria (su cui si fonda l’identità dell’anima, cioè il suo essere, nel fluire del tempo), l’intelligenza (con cui l’anima conosce) e la volontà (con cui l’anima ama). Esiste pertanto una corrispondenza fra le facoltà dell’anima e le persone della Trinità divina, la quale, conosciuta per fede, orienta l’analisi dell’anima e l’analisi dell’anima permette a sua volta di penetrare nel mistero dell’unità e trinità divina. (De Trinitate – leggi i brani intitolati Lo spirito umano come memoria, intelligenza e volontà e Lo spirito umano è immagine della Trinità. Agostino: il pensiero (7) La Creazione Volendo chiarire il senso della dottrina biblica secondo cui Dio ha creato tutte le cose dal nulla, Agostino distingue la creazione dal nulla da: 1) la generazione, in cui si produce qualcosa dalla propria sostanza, e il generato è uguale (della stessa sostanza) del generante; 2) la fabbricazione, in cui si produce qualcosa utilizzando sostanze preesistenti. L’uomo può generare e può fabbricare, non può invece creare dal nulla. Dio invece ha creato le cose facendole sorgere dal nulla, donando loro tutto l’essere. Questa spiegazione dell’origine della realtà era del tutto estranea al pensiero greco, e anche Platone, che nel Timeo aveva spiegato l’esistenza del mondo facendo riferimento a una divinità creatrice (il Demiurgo), che plasma una materia preesistente secondo il modello delle Idee preesistenti (quindi non si tratta di creazione ex nihilo). Anche secondo Agostino la creazione avviene secondo dei modelli ideali, che però non sussistono al di fuori di Dio, ma sono i pensieri stessi di Dio. La creazione è un dono gratuito e libero di Dio, dovuto alla sua bontà e alla sua potenza, e poiché tutto deriva da Dio (anche la materia) tutto è buono. La teoria creazionista incontra due problemi: quello del tempo (quando è avvenuta la creazione?) e quello del male (se tutto deriva da Dio, supremo bene, come si spiega il male su questa terra?). Agostino: il pensiero (8) Il Tempo Quando è avvenuta la creazione? Cosa faceva Dio prima di creare il mondo? Questi interrogativi presuppongono una concezione del tempo come dimensione assoluta, che contiene anche Dio, e che quindi sfugge alla creazione. Agostino risponde che il tempo è creato insieme all’universo e quindi deriva anch’esso da Dio. Dio poi esiste al di fuori del tempo, l’eternità di Dio non va intesa come un’estensione infinita del tempo ma piuttosto come un “eterno presente” (quindi l’interrogativo “cosa faceva Dio prima della creazione?” non ha senso). Agostino dimostra la natura creata del tempo attraverso due argomentazioni: 1) il tempo è connesso al movimento: non possiamo percepire il tempo in sé, ma solo attraverso il movimento ed insieme alle cose che si muovono; 2) il tempo è costituito da passato, presente e futuro, e tuttavia il passato non c’è più, il futuro non c’è ancora e il presente è soltanto l’istante inafferrabile in cui il futuro scorre nel passato. Dunque il tempo non ha alcuna consistenza propria. Eppure il tempo esiste, ma esiste nell’anima dell’uomo: esiste nella memoria (=presenza del passato), esiste nell’attesa (=presenza del futuro), esiste nell’intuizione (=presenza del presente). Anche in questo caso il tempo si rivela dimensione della realtà creata. (Confessioni – leggi i brani intitolati Che cosa è il tempo?, Il tempo è riconducibile al movimento e L’anima misura del tempo). Agostino: il pensiero (9) Il Male (1) «Si Deus, unde malum?»: se esiste un unico Dio (che è il bene supremo), da dove deriva il male? Questo problema aveva travagliato Agostino sin dalla giovinezza e lo aveva spinto ad aderire al manicheismo, il quale affermava l’esistenza di due principi divini, il Bene e il Male, in lotta fra di loro nel mondo e anche nell’anima dell’uomo. Successivamente Agostino aveva abbandonato il manicheismo e aveva criticato questa teoria dei principi divini contrapposti: se il Dio-Bene può essere danneggiato o distrutto dal Male, allora non è Dio, perché non è assoluto e incorruttibile, e prima o poi il Male prenderà il sopravvento e rimarrà l’unico Dio. Se invece il Dio-Bene non può essere danneggiato e distrutto dal Male, allora non c’è nessuna vera lotta. La risposta convincente al problema del male Agostino la trovò nella filosofia neoplatonica: il male non è una sostanza, non è essere, ma è mancanza di essere. (Confessioni – leggi il brano intitolato Il male non è una sostanza). Agostino: il pensiero (10) Il Male (2) A partire dal principio che il male è non essere, Agostino esamina le manifestazioni del male distinguendone tre aspetti: A) male ontologico: sul piano ontologico non esiste il male, ma solo diversi gradi di essere. Secondo una prospettiva parziale (pertanto falsa) potrebbe essere considerato un male il limite, potrebbe per esempio essere considerata male l’inferiorità di una creatura rispetto ad un’altra, oppure la finitudine di tutta la creazione di fronte a Dio; ma considerato nel suo insieme, tutto ha un senso e una funzione positiva, tutto (anche ciò che è limitato e inferiore) concorre a formare un’armonia e quindi è bene e non male; B) male morale: il male morale (cioè la colpa e/o il peccato) non consiste nel desiderare il male, ma nel desiderare un bene inferiore più del bene supremo (per esempio l’avidità è un peccato non perché la ricchezza sia un male in sé, ma perché l’avido antepone il valore della ricchezza ad altri valori superiori); C) male fisico: il male fisico (cioè la sofferenza e la morte) è la conseguenza del peccato originale, ma nella storia della salvezza anche questo ha un significato positivo, perché aiuta l’uomo a riconoscere il male morale e ad emendarlo. (Confessioni – leggi il brano intitolato Unde malum?). Agostino: il pensiero (11) La libertà e la grazia (1) Gli antichi greci avevano fatto coincidere la moralità con la sapienza affermando che chi conosce il bene fa il bene e che il comportamento malvagio deriva da ignoranza del bene (intellettualismo morale – vedi Socrate). Agostino invece, sulla scia della cultura latina (che aveva messo in risalto il ruolo della volontà) e dell’insegnamento di San Paolo (Romani, VII, 18-19: «video meliora deteriora sequor» = vedo le cose migliori ma seguo le peggiori), nota che la ragione può conoscere il bene e la volontà può respingerlo, perché ragione e volontà sono facoltà distinte. La volontà dispone del libero arbitrio, cioè della capacità di scegliere fra possibilità diverse, ma la vera libertà è adesione a Dio, alla sua volontà, perché solo questa adesione è il bene per l’uomo, cioè la piena realizzazione umana, la felicità. Agostino ha dedicato profonde analisi alla scissione e alla debolezza della volontà che «vuole e non vuole», che «vorrebbe volere», soprattutto in molte pagine delle Confessioni. (De natura et gratia, 67, 81 – leggi il brano La natura incontra la grazia). Agostino: il pensiero (12) La libertà e la grazia (2) Questa adesione a Dio deve essere volontaria, non obbligata, e quindi il libero arbitrio è la condizione della vera libertà. Il peccato originale però ha corrotto la volontà umana, per cui la volontà non è più capace di aderire pienamente e continuativamente al bene. Per questo la volontà è bisognosa della grazia divina: l’uomo, senza l’aiuto della grazia di Dio non è capace di vivere rettamente. La grazia non abolisce la libertà dell’uomo, al contrario essa rende veramente libera la volontà, poiché le restituisce la capacità di aderire al bene che ha scelto. In questa prospettiva l’amore, cioè la tensione della volontà al bene, diventa più importante della sapienza: «Ama, et fac quod vis». La necessità della grazia è affermata da Agostino in opposizione a Pelagio, il quale sosteneva che tutti gli uomini sono naturalmente liberi e capaci di scegliere il proprio destino e conseguire la virtù cui aspirano; Agostino afferma invece la necessità della grazia a tal punto da svalutare il ruolo della libertà e dell’impegno umano. Ciò ha permesso a Martin Lutero di trovare in questi testi di Agostino una giustificazione e un’anticipazione della sua dottrina sulla salvezza “per la fede e non per le opere. Agostino: il pensiero (13) La città di Dio e la riflessione sulla storia (1) Il De Civitate Dei fu scritto da Agostino in occasione del sacco di Roma del 410 e in risposta alle accuse dei pagani contro i cristiani, imputati di aver attirato su di Roma l’ira degli Dei. Ma l’opera supera il motivo occasionale e sviluppa una grande riflessione sulla storia. Agostino afferma che, come la volontà del singolo è scissa fra opposte aspirazioni, così pure l’umanità nel suo insieme è scissa fra l’amore di Dio e l’amore di sè e nella storia edifica due città contrapposte, la città di Dio e la città terrena. Una è la società dei giusti e dei santi, l’altra la società degli empi. Tuttavia sulla terra queste due città sono sempre intrecciate e mescolate e non si identificano mai con un particolare momento della storia o con qualche istituzione storica, perché esse dipendono soltanto da ciò che ogni singolo uomo decide di essere. La vera storia è quella realizzata dalla città celeste, anche se sulla terra essa appare nascosta o sconfitta. Solo alla fine dei tempi si renderà manifesta la città di Dio e in essa troverà compimento tutta la storia umana, perché la città di Dio costituirà la realizzazione dell’ aspirazione alla giustizia e alla pace presente anche, sia pure in modo distorto, nella città terrena. (De civitate Dei – leggi il brano intitolato Le due Città). Agostino: il pensiero (14) La città di Dio e la riflessione sulla storia (2) Il De civitate Dei è importante anche perché getta le basi della successiva filosofia della storia. Presso i Greci non esisteva ancora una filosofia della storia in senso stretto, perché la loro conoscenza filosofica era rivolta alla forma permanente, a ciò che permane sempre identico, quindi svalutavano il divenire e concepivano la storia come uno svolgimento circolare in cui ritornano sempre le stesse forme. Il cristianesimo invece rifiuta la teoria degli inutili cicli, affermando che ognuno di noi vive e muore una sola volta: alla visione ciclica si sostituisce quella lineare imperniata sulla creazione e sul peccato originale come inizio della storia, sull’incarnazione di Cristo come evento centrale e redentivo, sul Giudizio finale come fine e compimento della storia. In secondo luogo, il cristianesimo, insistendo sull’origine comune che unisce tutti gli uomini, perviene all’idea di un’unica storia universale comprendente tutte le genti. Agostino: il pensiero (15) La città di Dio e la riflessione sulla storia (3) In terzo luogo, il cristianesimo si rapporta alla storia non come a una serie di eventi senza senso ma come a una totalità dotata di significato e di scopo. Per Agostino il principio unificatore degli eventi è dato dalla nozione di Provvidenza, Grazia (l’agire di Dio nella storia) che conferisce alla storia il significato di storia della salvezza che si conclude e si compie nel Giudizio finale e l’avvento del Regno di Dio (escatologia). Si noti che buona parte della successiva filosofia della storia (soprattutto ottocentesca) ha secolarizzato lo schema escatologico ebraico-cristiano, concependo la «salvezza» o il compimento finale della storia in termini immanentistici (= ogni filosofia o corrente ideale secondo la quale non esiste un 'al di là' rispetto alla realtà che conosciamo; avere una concezione immanente della divinità significa identificare Dio con il mondo, la natura o la storia, la scienza) anziché trascendenti (= ogni filosofia che concepisce Dio come un'entità autonoma, separata dal mondo e avente caratteri opposti a esso, ovvero infinito, onnipotente, onnisciente e così via). (De civitate Dei – leggi i brani intitolati Gli stati sono grandi bande di ladri e La pace come valore comune). Abbecedario: le fonti della filosofia medievale Contrariamente alla nascita della filosofia nella Grecia del IV sec. a.C. – sapere nuovo che si stacca nei contenuti e nelle forme dalla sapienza del mito -, nei secoli medievali lo studio e la pratica della filosofia si esercitano a partire da una tradizione filosofica preesistente, che è necessario sia conservare che ripensare criticamente, nel confronto con una tradizione sapienziale e testuale sconosciuta al mondo greco: le scritture sacre di ebrei, cristiani e poi musulmani. All’incrocio delle idee di conservazione e di utilizzazione critica si colloca la nozione di autorità (auctoritas: i filosofi e in genere gli scrittori antichi ed i Padri della Chiesa) e quella di testo autorevole (le loro opere): fu uno dei maestri chartriani, Bernardo, a coniare nel XII secolo, la significativa anche se ambigua metafora dei «nani sulle spalle dei giganti» («dicebat Bernardus nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes»). L’attività filosofica si presenta dunque inizialmente come ripresa e interpretazione di idee e testi autorevoli, e solo alla fine del medioevo comincia a prospettarsi una nozione di autore affine a quella moderna. È importante perciò, per la comprensione dei contenuti e delle modalità di sviluppo della filosofia medievale, delineare sia quali testi e saperi antichi si sono conservati, sia come e in quali contesti sono stati letti nel corso del medioevo. Abbecedario: le arti liberali All'inizio del VI secolo, Cassiodoro aveva raccolto in una compilazione dedicata all’educazione dei monaci l'insieme delle arti liberali che già Agostino nel De doctrina christiana aveva identificato col percorso della filosofia che conduce alla comprensione della Sacra scrittura: le arti del linguaggio (dette sermocinali, o Trivio: grammatica / logica - che insegna come ragionare - la dialettica - che insegna il dialogo in forma di domanda e risposta - e infine la retorica - che insegna come dire le cose bene, in modo conveniente ed elegante) e le arti della misura (dette reali o Quadrivio: aritmetica, geometria, musica, astronomia). Il De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marciano Capella (autore pagano del III secolo), una enciclopedia inserita in una visione cosmologica imbevuta di platonismo, fu uno dei canali di trasmissione più importanti di questa tradizione antica. Boezio e Alcuino scrissero compendi di tutte o alcune delle arti liberali. I testi classici associati a ciascuna di queste arti - sia che fossero semplicemente riassunti, sia che venissero effettivamente letti e commentati rimasero per tutta l'età medievale la base della formazione culturale. Nelle università le arti liberali costituivano l’insegnamento propedeutico alla filosofia impartito nella facoltà di base, che si chiamò appunto Facoltà di Arti. Abbecedario: le enciclopedie Accanto ai trattati sulle arti liberali, il sapere nel Medioevo è trasmesso dalle enciclopedie; la più antica è quella di Isidoro di Siviglia (VII sec.), che si sviluppa in uno schema dilatato e complesso, comprendente fra l'altro il diritto, la medicina, l'architettura, l'agricoltura, la scienza del calendario. Le Etymologiae di Isidoro ebbero una fortuna molto vasta e durevole e costituirono la base per testi analoghi, come il De universo, composto nel IX secolo da Rabano Mauro. Nel XII secolo, grazie alle traduzioni dal greco e dall’arabo, le fonti del sapere filosofico e scientifico si ampliarono in maniera consistente: ciò è visibile nell’enciclopedia Dragmaticon philosophiae di Gugliemo di Conches. Nel XIII secolo compare il monumento enciclopedico del Medioevo, il quadruplice Speculum (Speculum Doctrinale, Naturale, Morale, Historiale) di Vincenzo di Beauvais, precettore dei figli di Luigi IX di Francia. Quest’ultima opera è in parte anche il frutto della necessità di presentare la cultura del proprio tempo ad un pubblico laico. Programmi e testi enciclopedici vengono anche elaborati, in connessione con il suo progetto di riforma culturale, da Ruggero Bacone. Fra la fine del XIII secolo e l’inizio del seguente si assiste alla produzione di altre enciclopedie in lingua volgare, come il francese usato nel Tesoro di Brunetto Latini (maestro di Dante). Abbecedario: le traduzioni I testi dell'antichità greca posseduti nel medioevo occidentale erano pochissimi: le Categorie e il De interpretatione di Aristotele, il Timeo di Platone. Dei testi delle scuole filosofiche tardo antiche, a parte l’Isagoge di Porfirio, si erano conservati quasi solo frammenti, citati in funzione polemica o apologetica nelle opere dei primi Padri cristiani. Molte opere erano però sopravvissute grazie alle traduzioni siriache effettuate nel IV – V secolo da cristiani nestoriani ed erano state in gran parte tradotte in arabo. Nel XII secolo, intensificatisi gli scambi culturali in tutta l'area del Mediterraneo, nelle zone di confine (Spagna, Sicilia, Italia meridionale) alcuni intellettuali dettero impulso ad un'opera di traduzione dei testi scientifici e filosofici, arricchendo i contenuti della cultura occidentale. In particolare veicolarono idee aristoteliche prima della traduzione dei testi dello stesso Aristotele e introdussero l'idea di origine ermetica della possibilità per l'uomo di modificare la natura. Poiché difficilmente si trovavano traduttori che fossero padroni sia della lingua araba che di quella latina, molte volte l'interpretazione del testo era effettuata da un mediatore orale (spesso ebreo), che leggeva testo nella lingua volgare al traduttore; e questi lo traduceva dal volgare al latino, mettendolo per scritto. In altri casi, soprattutto nell'Italia meridionale dove in diversi luoghi la lingua greca era ancora in uso, vennero tradotti direttamente i testi greci. Abbecedario: il corpus aristotelico (1) Fra le traduzioni sia dall’arabo che dal greco rivestono particolare importanza quelle dei testi di Aristotele, auctoritas filosofica di primo piano grazie agli scritti logici fino allora conosciuti, indicati col nome collettivo di Logica vetus. Le prime opere ad essere tradotte in latino furono gli altri scritti dell‘Organon. Le traduzioni dal greco furono opera di Giacomo Veneto (Analitici secondi; parte degli Elenchi sofistici; Fisica; De anima; parte della Metafisica e dei Parva naturalia), di Enrico Aristippo e di un gruppo di traduttori anonimi, d'ambiente italiano (Analitici primi, Topici, De generatione et corruptione, Ethica vetus, Metafisica quasi completa). A Gerardo da Cremona sono invece dovute le traduzioni dall'arabo di Analitici secondi, Fisica, De caelo, De generatione et corruptione, Meteorologica, nonché del più importante degli scritti attribuiti ad Aristotele che circolarono nel Medioevo, il Liber de causis, che era in realtà una compilazione tratto dalla Elementatio theologica di Proclo realizzata nel circolo filosofico di al-Kindi. L'interesse per il completamento dell‘ Organon era legato allo sviluppo della logica nelle scuole, al quale fornì un impulso decisivo sul piano dell'elaborazione epistemologica e delle tecniche di argomentazione. Abbecedario: il corpus aristotelico (2) I libri fisici si inserirono nel dibattito sullo statuto dell'idea di natura, rinnovandone contenuti e metodo. L’insieme delle opere aristoteliche dette impulso alla trasformazione della filosofia da nozione generica a disciplina strutturata, suddivisa nei tre rami della fisica, della metafisica e dell'etica: fu questa la nozione di filosofia posta alla base dell’insegnamento nella Facoltà di Arti delle nascenti università. Nella seconda metà del XIII secolo le traduzioni dei testi aristotelici vennero sottoposte ad un accurato lavoro di revisione e di vero e proprio rifacimento ad opera del domenicano Guglielmo di Moerbeke, collaboratore di Tommaso d'Aquino. Queste traduzioni costituirono lo standard della lettura di Aristotele fino alle nuove versioni dal greco effettuate in età umanistica. Accanto ai testi autentici di Aristotele, si diffusero alcuni testi di origine araba a lui attribuiti: come già detto, il Liber de causis e la Theologia Aristotelis, elaborati nel circolo di al-Kindi; e il Secretum secretorum, un trattato che metteva in scena il filosofo greco come maestro di Alessandro Magno, e che costituì un importante esempio di trattatistica politica (specula principis), ma anche un veicolo di conoscenze astrologiche e alchemiche. Abbecedario: le istituzioni (1) Le scuole monastiche: la sopravvivenza delle arti liberali nell'Alto Medioevo si dovette al fatto che esse venivano utilizzate nella formazione dei monaci come introduzione alla comprensione della Sacra Scrittura. Esse vennero dunque a costituire il nucleo dell'insegnamento nelle scuole di cui i monasteri si dotarono accogliendo il modello proposto da Cassiodoro; fino al XII secolo furono questi l’unica istituzione in cui veniva impartito un insegnamento regolare e completo. Negli scriptoria dei monasteri gli scritti degli autori antichi e quelli dei Padri della Chiesa, che servivano per lo studio e per la meditazione, venivano inoltre copiati: questa produzione di libri manoscritti era una vera e propria attività lavorativa che, secondo la regola benedettina, era essenziale come la preghiera per la vita dei monaci. La diffusione del monachesimo nell'Europa del nord e nelle isole britanniche e l’attività di monaci come Colombano (538 ca.-615) e il suo discepolo Gallo, fondatori rispettivamente dei monasteri di Bobbio e San Gallo, dettero ampio sviluppo a questo modello. In Inghilterra Beda il Venerabile (673-735) elaborò nelle sue opere i materiali della tradizione colta a partire da problemi fondamentali nella vita ecclesiastica e politica dell’epoca. Abbecedario: le istituzioni (2) I monasteri insulari, quelli irlandesi in particolare, svolsero una importante funzione di conservazione e trasmissione nell'epoca più difficile del Medioevo, dalla caduta del regno visigotico agli inizi della rinascita carolingia (VIII-IX secolo), quando su impulso di Carlo Magno venne fondata la scuola palatina ad Aquisgrana, organizzata dall’inglese Alcuino di York. Sulla base di questo modello si sviluppò in pochi decenni una rete di scuole (Laon, Fulda, Tours) orientate alla formazione di funzionari imperiali ed ecclesiastici, in cui il tempo dedicato all’insegnamento era più ampio che nelle scuole monastiche tradizionali. Inoltre in alcune di queste scuole, a partire dalla presenza di maestri particolarmente prestigiosi, cominciò a manifestarsi una tendenza alla specializzazione dell’insegnamento. Le scuole cittadine o capitolari: fra XI e XII secolo, accanto alle tradizionali sedi d'insegnamento emersero nuovi centri, anche monastici ma soprattutto legati ai capitoli vescovili nelle città, che stavano rapidamente crescendo sia demograficamente che come centri d’importanza economica (mercati) e politica. In questi centri vennero presto introdotti nuovi materiali e nuovi nuclei di riflessione. A Parigi l'insegnamento della logica iniziò ad articolarsi e approfondirsi: non si studiava ormai più sui manuali, ma direttamente sui testi di Aristotele (Logica vetus) e di Boezio. Abbecedario: le istituzioni (3) Nella scuola dei canonici regolari di San Vittore, anch’essa a Parigi, si prestò attenzione allo sviluppo delle tecniche (arti meccaniche) e al rapporto fra nuova cultura e vita mistica. A Chartres e in altri centri del nord della Francia l'interesse dei maestri delle scuole capitolari si rivolse ai nuovi testi scientifici e filosofici tradotti dall'arabo. Nelle scuole di carattere laico, caratteristiche della situazione italiana (Ravenna, Salerno, Bologna), si sviluppavano prevalentemente interessi giuridici e medici. L'insegnamento si era dunque fatto sempre più complesso e articolato, autonomizzandosi e dilatandosi anche come durata; nel corso del XII secolo emerse la nuova figura del chierico, ovvero «dell'uomo che per mestiere scrive o insegna - o meglio fa le due cose insieme - l'uomo che per professione esercita un'attività di professore e di erudito, insomma l'intellettuale» (Le Goff). La nascita delle università: nel XIII secolo, con l'affermarsi delle corporazioni, il «mestiere» dell'intellettuale dette luogo ad una propria corporazione, detta universitas scholarium, ovvero quella che oggi chiamiamo università. In poco tempo le corporazioni di maestri e studenti assunsero il monopolio dell'insegnamento, sostituendo nelle città le scuole capitolari, e gettando sulle scuole monastiche l'ombra di residui del passato. Abbecedario: le istituzioni (4) Tuttavia la nascita delle università non si verificò dappertutto allo stesso modo: a Bologna si formò un'associazione di soli studenti, a Parigi di studenti e professori («universitas magistrorum et scolarium Parisiensium»), a Napoli venne fondata nel 1224 per iniziativa diretta di Federico II. La corporazione degli intellettuali costituiva in ogni sede un gruppo sociale vasto e omogeneo, prima di tutto dal punto di vista di genere: le donne, che nell’istituzione monastica avevano come gli uomini accesso alla cultura, non erano invece ammesse nelle università. Docenti e studenti erano infatti generalmente insigniti degli ordini ecclesiastici minori (chierici), anche se non legati dai voti né soggetti alla disciplina monastica. In questo ambiente maschile e celibatario, marginale rispetto alla vita produttiva e ai rapporti sociali della nascente borghesia cittadina, nasce il fenomeno della goliardia; le innovazioni culturali fermentano in un clima vivace che include anche aspetti di contestazione e di violenza, portando fino a clamorose manifestazioni come lo sciopero del 1229-31, quando gli studenti parigini si trasferirono in massa ad Oxford, dove non era proibito far lezione sui testi di Aristotele, favorendo così lo sviluppo della più antica università inglese. Abbecedario: i generi letterari (1) Il commento: la forma in cui era impartito l'insegnamento si riflette nella elaborazione degli scritti filosofici fin dagli sviluppi della scuola carolingia: la lettura e commento (lectio) di un testo autorevole costituisce la forma predominante nella produzione scritta a partire dai secoli IX e X. Nel XII secolo l'arricchirsi del patrimonio testuale e la ripresa di un insegnamento basato sui testi antichi, anziché sui compendi altomedievali, favorirono l'articolarsi del genere letterario del commento. Alla semplice glossa (=spiegazione di termini difficili o breve annotazione su passi particolarmente importanti del testo base) si sostituisce l’analisi del testo frase per frase arricchita, nei punti più rilevanti o difficili, da ampie digressioni e questioni. Questo metodo permette di presentare diversi livelli d’interpretazione per cogliere i diversi strati di significato rintracciabili nel testo, di cui l’esempio più noto sono i quattro sensi della Bibbia: letterale, allegorico, morale e anagogico (il termine indica ciò che solleva, e designa quel procedimento interpretativo per il quale il testo delle Scritture diviene uno strumento di superiore conoscenza, cioè di conoscenza delle cause). Il testo delle lezioni poteva essere redatto dal maestro stesso nella forma di commento, oppure da uno o più discepoli: in questo caso – frequente in ambiente universitario – si ha la cosiddetta reportatio. Abbecedario: i generi letterari (2) La complessità di questo nuovo modo di riferirsi alla tradizione rende necessario chiarirne i criteri metodologici, mediante un’articolata introduzione (accessus ad auctores) che spiega fine e modalità del commento, mentre le discussioni sviluppate attorno alle problematiche giuridiche nei secoli XI e XII e la riflessione sugli aspetti problematici della letteratura teologica accentuarono gradualmente l’importanza del metodo questionativo. La dimensione dell’oralità, che accentua l’importanza della memoria, rimase per tutto il medioevo un aspetto centrale dell’insegnamento e dell’apprendimento, anche a motivo del tempo e del costo che la riproduzione manoscritta dei testi richiedeva. A partire dal XIII secolo, tuttavia, le università favorirono una forma veloce ed economica di riproduzione dei testi che costituivano il canone curricolare: le copie venivano eseguite da copisti specializzati (stationarii) a ciascuno dei quali veniva affidato un singolo fascicolo, detto pecia, da riprodurre in una quantità determinata; i fascicoli delle varie parti di testo, copiati in serie dai diversi copisti, venivano poi rimessi insieme a comporre più copie dell’intero testo. Oltre ai testi veri e propri, circolavano manoscritti altri strumenti utili per docenti e studenti: antologie di citazioni, compendi e manuali che presentavano schematicamente i contenuti essenziali del curriculum, glossari. Abbecedario: i generi letterari (3) La quaestio. All'interno del commento si sviluppa la quaestio: determinati punti del testo, di particolare difficoltà o importanza dottrinale, vengono esaminati secondo una procedura che si fa sempre più rigorosamente strutturata fino a raggiungere la forma standard nei testi universitari della seconda metà del XIII secolo. L’argomento viene presentato – in genere dal magister – come una domanda (utrum) cui sono possibili due risposte contrarie (per esempio, ‘se possa darsi una scienza dell’anima’). Lo stesso maestro o il baccelliere (un grado intermedio fra la condizione di studente e quella di magister) presenta gli argomenti che illustrano la risposta affermativa (quod sic) e quella negativa (quod non, contra). Dopo un accurato esame di tutti questi argomenti il maestro giunge alla determinatio finale, ovvero fornisce una risposta che illustra la sua posizione sull’argomento (respondeo); segue in genere la confutazione degli argomenti contrari. Questa forma di dibattito, nella quale era possibile esporre vere e proprie ricerche filosofiche e scientifiche su argomenti determinati, era parte dell’insegnamento curricolare. Abbecedario: i generi letterari (4) Due volte l'anno però, a Natale e a Pasqua, si disputavano le questioni quodlibetali, nelle quali il maestro si disponeva a rispondere a domande su qualsiasi argomento (= de quolibet) scelto dai suoi interlocutori sul momento: le dispute quodlibetali erano anche un’occasione spettacolare, in cui si manifestava la competizione fra le diverse scuole di pensiero. Le raccolte di quaestiones, disputate o quodlibetali, costituiscono a partire dal XIII secolo uno dei generi più diffusi della letteratura scolastica. La struttura questionativa, in cui si esprime al massimo grado il metodo scolastico, fu utilizzata anche per la stesura delle summae (trattati sistematici su un argomento usualmente di carattere generale: per esempio la Summa Theologia di Tommaso d’Aquino), nonché trattati monografici su argomenti determinati. La formalizzazione estrema cui il metodo espositivo scolastico giunse nel XIV e XV secolo fu uno dei bersagli contro cui si scagliarono le polemiche degli Umanisti e di Cartesio, volte a recuperare forme più libere di discorso: ma il rigore espositivo della quaestio scolastica rimase un modello del discorso scientifico anche oltre la fine del medioevo, identificandosi con la forma basilare dell'insegnamento universitario fino al XVII secolo. La filosofia medievale (1) Il quadro complessivo dei secoli medievali mostra uno sviluppo del pensiero filosofico, teologico e scientifico che inizia con la messa a fuoco dei problemi fondamentali posti dal confronto fra la filosofia classica e le dottrine bibliche (e coraniche per l’Islam): l’esistenza di Dio, la sua relazione con il mondo, la natura dell’essere umano. In Occidente le tappe significative dal punto di vista teorico sono cronologicamente distanziate nei secoli VI-X, mentre successivamente, a partire dall’XI secolo e soprattutto dal rinnovamento culturale del XII, si assiste all’accelerazione dello sviluppo dottrinale, alla moltiplicazione delle figure di spicco, all’elaborazione di veri e propri sistemi filosofici nel XIII secolo, e successivamente all’articolazione di nuovi ambiti di riflessione. Nel mondo islamico la ricerca filosofica e l’elaborazione di dottrine originali hanno inizio più presto, a partire dal IX sec., e procedono in parallelo fino al XII; successivamente lo sviluppo della filosofia islamica prende altre strade e cessa di interagire con il pensiero occidentale, mentre assume maggior rilievo l’apporto della filosofia ebraica. Il lavoro complessivo realizzato nei dieci secoli che classifichiamo come medievali può essere visto come una enorme opera di trasformazione, mediazione e trasmissione dell’eredità classica, sulla cui base si sono sviluppate alcune dottrine originali. La filosofia medievale: dal VI al X secolo (2) Per esempio: la prova ontologica dell'esistenza di Dio (Anselmo d'Aosta), l’etica dell’intenzione (Pietro Abelardo), la dottrina della suppositio nell’ambito della logica, la distinzione fra essenza ed esistenza (Tommaso d'Aquino), la teoria della visione beatifica nella Scolastica. Dal VI al X secolo Il disfacimento del mondo antico, culminato con la caduta dell'impero romano nel 476, ebbe fra le sue conseguenze la scomparsa dell’insegnamento della filosofia. La tradizione filosofica greca tuttavia sopravvisse a Bisanzio con quell’originale frutto del neoplatonismo cristiano denominato pseudo-Dionigi Areopagita, un autore forse siriano del VI secolo le cui opere (De coelesti hierarchia, De ecclesiastica hierarchia, De divinis nominibus, De mystica theologia) avrebbero fortemente influenzato la Scolastica latina. Nel mondo latino Boezio e Scoto Eriugena sono gli unici autori di spessore filosofico di quest’epoca e possono (soprattutto il primo) essere considerati per certi aspetti come ultimi esponenti della filosofia antica. Il cristianesimo, condiviso da conquistati e conquistatori, è ora la base della cultura comune nonostante sia diviso al proprio interno da numerose dispute teologiche fra greci e latini; ed è nell'ambito del cristianesimo occidentale che le problematiche teologiche aprono lo spazio per la riflessione propriamente filosofica che riprenderà, con caratteri originali rispetto alla filosofia tardo-antica, nel secolo XI. La filosofia medievale: dal VI al X secolo (3) Il fattore culturalmente più rilevante nel mondo occidentale è la fondazione del monachesimo (la regola di Cesario di Arles risale al 506, quella di Benedetto da Norcia al 529) e la sua diffusione in tutta l’Europa centromeridionale e nelle isole britanniche. I frutti più importanti della pedagogia monastica basata sulle arti liberali (le Etimologie di Isidoro di Siviglia, 560 - 633; la Historia ecclesiastica gentium Anglorum di Beda il Venerabile, 672-735) non comprendono contributi originali alla filosofia ma trasmettono contenuti essenziali del sapere classico. Nei secoli IX-X, l’età carolingia, il rinnovamento delle scuole crea lo spazio istituzionale per lo sviluppo del dibattito su temi teologici sulla cui base s’innesta la filosofia fino al XII secolo. Le figure più rilevanti dell’epoca sono Alcuino di York (730/5 - 804), cui si deve la riforma dell’insegnamento delle arti liberali e soprattutto l’irlandese Giovanni Scoto Eriugena (810 ca-870 ca), cui si deve la prima costruzione filosofica sistematica del medioevo, il De divisione naturae e che con il trattato De praedestinatione intervenne in modo originale e teoreticamente coerente nel più rilevante dei dibattiti dell’epoca. L’Eriugena aveva tradotto dal greco il corpus dionisianum, gli Ambigua e le Quaestiones ad Thalassium di Massimo il Confessore, il De hominis opificio di Gregorio di Nissa. La filosofia medievale: dal VI al X secolo (4) Giovanni Scoto Eriugena si era quindi servito di queste fonti per l’elaborazione della propria filosofia, che presenta il ciclo neoplatonico della processio e del reditus attraverso le quattro differentiae della natura intesa come totalità del reale. L’opera dell’Eriugena, sospettata di panteismo e condannata alcuni secoli dopo (nel 1210), non ebbe seguaci al suo tempo. Altro filosofo importante del periodo (o meglio: piace moltissimo a me!) è Fridegiso di Tours. Di origine anglosassone, intorno al 796 Fridegiso di Tours accompagnò Alcuino, di cui fu discepolo, alla corte di Carlomagno, dove fu maestro alla scuola palatina. Seguì Alcuino all’abbazia di SaintMartin di Tours, della quale divenne abate nell’804, succedendo al maestro. Fu in seguito abate di Saint-Omer e Saint-Bertin e dall’819 cancelliere di Ludovico il Pio fino all’ 834, anno della sua morte. L’unico dei suoi scritti ad esserci pervenuto è il De substantia nihili et tenebrarum (o Epistula de nihilo et tenebris ad proceres palatii). Il dibattito sulla natura del nulla. Dall’800 all’860 la questione della natura del nulla e delle tenebre che Agostino aveva sollevato nel De Ordine e nel De Genesi fu molto dibattuta tra i maestri della scuola palatina, mettendone in luce gli interessi logici e grammaticali nel metodo utilizzato per l’argomentazione. La filosofia medievale: dal VI al X secolo (5) Nel De substantia nihili et tenebrarum Fridegiso pone la questione del nulla domandandosi non se il nulla esista, bensì se consista in qualcosa e, eventualmente, se sia possibile indagare sulla natura di questo qualcosa. Per provare e sostenere la consistenza del nulla Fridegiso fa ricorso alla grammatica, una delle arti liberali, in particolare al modo in cui i grammatici definiscono il nome. Poiché ogni nome finito significa qualcosa di finito, si deduce che ciò valga anche per il nulla. L’argomentazione procede con la definizione del nome quale vox significativa (il nome che nomina una cosa si distingue dalla significazione, che media fra i due): ogni significazione si riferisce a ciò che significa. Da ciò Fridegiso deduce che il nulla esiste ed è qualcosa. Altra questione è il sapere e il dire in cosa questo qualcosa consista, argomentazione per la quale Fridegiso invoca l’autorità del libro della Genesi, secondo il quale tutto ciò che è creato da Dio è creato dal nulla. Ora, questo nulla è distinto dalla materia informe come dalla causa primordiale delle cose. La conclusione è che non può essere conosciuta la natura del nulla, anche se questa deve essere qualcosa di grande e chiarissimo, dal momento che da esso Dio ha fatto le più grandi creature, cioè gli angeli e gli uomini. La filosofia medievale: XI secolo (6) L’XI secolo E’ un’epoca di assestamento dell’organizzazione feudale e di sviluppo del mondo latino, sostenuto da fenomeni quali l’espansionismo dei normanni, l’inizio della reconquista spagnola, la prima crociata; ed è allora che inizia a manifestarsi l’esigenza di rinnovamento religioso che si esprime nella riforma del monachesimo benedettino, propugnata dall’abbazia di Cluny, e nella nascita di nuovi ordini che seguono la regola di Benedetto ma si prefiggono più radicali intenti riformatori: i certosini ed i cisterciensi. E’ anche il secolo in cui nasce una vera e propria filosofia medievale in lingua latina: la teologia non è ancora divenuta un sapere autonomo, e la discussione fra i cosiddetti dialettici (Berengario di Tours: 1005 ca -1088) ed antidialettici (Pier Damiani, 1007 – 1072; protagonista del canto Pd XXI, 43-142) non verte tanto sulla legittimità dell'uso della dialettica, ma sul suo statuto nei confronti della parola rivelata. Strumento di razionalizzazione del discorso della fede per Berengario, che nega la presenza sensibile del corpo di Cristo nell'Eucarestia sulla base di un'argomentazione logica. Ancella per Pier Damiani, che la utilizza per affrontare il problema della potentia Dei absoluta:rispondendo alla questione se la potenza divina possa contravvenire alle leggi naturali e al principio di noncontraddizione Damiani argomenta che Dio, in quanto sorgente delle leggi naturali, non è sottoposto ad esse. La filosofia medievale: XI secolo (7) Il contributo filosofico più alto e originale dell’XI secolo nasce nel contesto monastico, ad opera di Anselmo d’Aosta (1033/34-1109). Nel frattempo nel mondo islamico si sviluppa la filosofia del persiano Avicenna (980-1037), che mette in relazione temi della sapienza orientale (l'estasi, la profezia) con la filosofia greca sviluppando in modo originale dottrine metafisiche (l’idea dell'essere in quanto essere e la distinzione fra essenza ed esistenza), psicologiche e gnoseologiche (l'anima come sostanza spirituale; la valorizzazione dell'immaginazione) e collegando la cosmologia emanatistica (cioè necessaria e senza creazione) all'angelologia iranica. Altro filosofo arabo importante è Al-Ghazali (1058-1111) che sviluppa una logica non aristotelica e confuta Avicenna e in generale le posizioni dei filosofi ellenizzanti, ma in Occidente viene considerato un aristotelico. Il XII secolo Nel secolo in cui le città tornano ad essere il centro della vita economica e si esplica in tutta la sua ampiezza e profondità il movimento di riforma del monachesimo, due mondi intellettuali si scontrano: il mondo monastico, in cui la filosofia è caratterizzata dalla prevalenza di temi agostiniani di ascendenza platonica; e il mondo urbano, dove l’ insegnamento filosofico comincia ad assumere un rilievo maggiore nelle scuole, pur rimanendo inquadrato nel contesto delle arti liberali. La filosofia medievale: XII secolo (8) Lo sviluppo delle scuole urbane produce quello che è stato definito il Rinascimento del XII secolo, che in realtà ha, nella prima metà del secolo, due aspetti: uno latino autoctono (di derivazione boeziana), che ha luogo nelle scuole di dialettica di Parigi ed è caratterizzato dallo sviluppo delle arti sermocinali (grammatica, logica e sua applicazione alla teologia): esponente principale di questo aspetto è Abelardo (1079-1142), contro cui polemizza il capofila della cultura monastica, Bernardo da Chiaravalle. Le scuole di logica si formano attorno a singoli maestri le cui elaborazioni definiscono le posizioni caratteristiche di ciascuna di esse. Il secondo aspetto, focalizzato soprattutto attorno alle scuole di Chartres e di San Vittore (presso Parigi), è caratterizzato dalla massiccia immissione nell’insegnamento dei nuovi materiali filosofici e scientifici introdotti mediante le traduzioni. La scuola dei canonici agostiniani di San Vittore si caratterizza per l’inserimento delle nuove fonti filosofiche in un contesto mistico centrato sul tema dell’amore di Dio; accanto ai saperi teorici i vittorini valorizzano i saperi pratici (arti meccaniche) nel quadro di un interesse per la vita terrena dell’uomo come percorso di salvezza. Un platonismo fondato sul pensiero ellenistico, nutrito d'esperienza cristiana e fuso intimamente a tesi filosofiche e scientifiche d’origine araba caratterizza invece la scuola di Chartres, i cui rappresentanti di maggior rilievo sono Guglielmo di Conches (m. 1154) e Teodorico di Chartres (1142-1150). La filosofia medievale: XII secolo (9) La posizione degli chartriani, ben sintetizzata nell’affermazione di Guglielmo, che in tutte le cose si deve ricercare la spiegazione razionale (in omnibus rationem esse quaerendam), si esplica soprattutto nell’indagine sulla natura: il Timeo di Platone viene utilizzato per spiegare razionalmente la creazione del mondo secondo la Genesi, ed in questo contesto vengono inseriti gli apporti delle nuove scienze introdotte con le traduzioni dall’arabo. La pluralità degli interessi e l’atteggiamento critico caratterizzano le ricerche chartriane, come mettono in evidenza le opere di Giovanni di Salisbury (1125 ca-1180), in cui la riflessione filosofica si apre alla discussione politica relativa alla sorgente del potere. Nella seconda metà del secolo comincia a manifestarsi un’esigenza di riorganizzazione del sapere ed emerge una concezione nuova della teologia, cui avevano aperto la strada le opere logiche e teologiche di Abelardo e la riflessione dei vittorini sui sacramenti. I quattro libri delle Sententiae di Pietro Lombardo (m. 1160) gettano le basi della teologia scolastica, attraverso la raccolta sistematica delle dottrine patristiche su: la Trinità, la creazione, l'Incarnazione, l'azione dello Spirito Santo e i sacramenti. Quest’opera diventerà il testo base dell‘insegnamento teologico nel XIII secolo. La filosofia medievale: XIII secolo (10) Nella cultura islamica il XII secolo è l’epoca che vede fiorire i grandi pensatori di al-Andalus (Spagna): Ibn Bagga (Avempace, m. 1139), che nel Regime del solitario introduce una lettura politica della ‘vita filosofica’ centrale nell’ Etica Nicomachea di Aristotele; Abdulgualid Mohammed Ibn-Ahmed IbnMohammed Ibn-Rush (un secolo avrebbe impiegato questo lungo nome a divenire Averroè, 1126 -1198), che propone una soluzione innovativa al rapporto fra filosofia e religione e propone la più completa e importante interpretazione complessiva delle opere d’Aristotele nel mondo islamico. Anche Mosè Maimonide (1135/38-1204), il filosofo ebreo che influenzò Tommaso d’Aquino, era nato in al-Andalus, a Cordoba. Il XIII secolo Il XIII secolo vede la trasformazione delle scuole cittadine in università, luogo di produzione (e non di semplice trasmissione) del sapere; le prime università furono fondate a Bologna, Parigi e Oxford. L’università è un’istituzione autonoma, organizzata come le corporazioni dei mestieri, ma con strutture caratteristiche: le facoltà, suddivise secondo le grandi scansioni disciplinari; e le nazioni (qualcosa di analogo agli odierni college), che riflettono la provenienza e la lingua-madre degli studenti, mentre la lingua utilizzata nell’insegnamento continuò per molti secoli ad essere il latino. La filosofia medievale: XIII secolo (11) La facoltà di Arti, propedeutica alle altre tre facoltà (teologia, medicina e diritto) copre l’insegnamento della filosofia che dalla fine del secolo precedente era stata articolata secondo la scansione aristotelica in metafisica, fisica ed etica; nelle tre facoltà superiori si insegnavano la teologia, la medicina e il diritto (romano ed ecclesiastico). Il sapere prodotto nel mondo tutto maschile dell’università si caratterizza per la sua forma competitiva (il genere letterario più rappresentativo è la quaestio), con aspetti ludici che affiancano quelli critici. L’utilizzazione estesa della logica modernorum porta alla produzione di nuove modalità di argomentazione in ambito teologico e scientifico, che verso la fine del secolo cominciano ad aprire varchi sempre più consistenti nel sistema aristotelico. La nascita degli ordini mendicanti (francescani e domenicani) produce un riassestamento delle istanze spirituali e, in particolare con l’ordine domenicano, si propone come baluardo della fede cristiana contro le eresie e contro l’Islam: anche la filosofia viene arruolata contro gli infedeli, come indica il programma del generale domenicano Raimondo di Peñafort a cui si ispira anche la Summa contra Gentiles di Tommaso d’Aquino. La prima metà del secolo si caratterizza per l’iniziale condanna e poi la lenta assimilazione della filosofia aristotelica. La filosofia medievale: XIII secolo (12) Centrale in questo processo è l’atteggiamento dei teologi che iniziano ad articolare un discorso scientifico sulla teologia e sulla sua relazione con la metafisica; e dei magistri Artium, cui si deve l’impostazione della riflessione sulle opere filosofiche di Aristotele mediata dall’utilizzazione dei commenti di Avicenna e di Averroè. Entrambi gli aspetti culminano nell’opera di Alberto Magno (1200 ca.-1280), soprannominato Doctor Universalis per l’ampiezza dei suoi interessi; dal suo insegnamento presero il via sviluppi dottrinali diversi: l’averroismo di Sigieri di Brabante e la sintesi aristotelico - cristiana di Tommaso d’Aquino. Verso la metà del secolo si verificò un’importante novità istituzionale: i due ordini mendicanti, domenicani e francescani, sorti all’inizio del secolo da esigenze spirituali ben definite (rispettivamente: lotta antiereticale e povertà evangelica), si inserirono a pieno titolo nella vita universitaria dopo un periodo di aspra polemica con i maestri secolari. I magistri francescani di Arti e di teologia parteciparono allo stesso processo di trasformazione culturale con una posizione notevolmente diversa, molto più critica nei confronti dei rischi impliciti nell’accettazione della filosofia aristotelica da parte di cristiani. La filosofia medievale: XIII secolo (13) La figura più caratteristica di questa tendenza fu Bonaventura da Bagnoregio (1217-1274), che resse la cattedra francescana di teologia negli stessi anni in cui Tommaso d’Aquino reggeva quella domenicana. Nel contesto della facoltà di Arti aveva avviato la propria riflessione filosofica un altro francescano, Ruggero Bacone (1215 ca -1294), che sviluppò ben presto una posizione originale e fortemente polemica nei confronti dei suoi contemporanei, proponendo una riforma degli studi come base e strumento di una profonda riforma della cristianità. Bacone pone, a questo scopo, l’accento sulla necessità di assumere un atteggiamento d’indagine critica della realtà (scientia experimentalis), non limitandosi al sapere appreso dai libri delle auctoritates. (si veda Guglielmo da Baskerville ne Il nome della Rosa) Negli ultimi decenni del secolo le posizioni filosofiche si diversificano, dando luogo ad un periodo caratterizzato da rilevanti dibattiti dottrinali di cui i principali sono quello contro gli averroisti (centrato su due punti del confronto con la filosofia aristotelica: l’unicità dell’intelletto possibile e l’eternità del mondo) e quelli pro e contro il tomismo (che divenne la dottrina ufficiale dei domenicani solo nel terzo decennio del Trecento), in particolare quello concernente l’unicità della forma sostanziale, che contraddiceva l’ilemorfismo (= la dottrina della filosofia scolastica secondo la quale negli esseri contingenti vi è una composizione ontologica di materia e forma e non solo di forma). La filosofia medievale: XIV e XV secolo (14) Gli ultimi due secoli del medioevo sono un’epoca di conflitti: fra il potere politico e quello ecclesiastico e fra gli stati nazionali (Guerra dei Cent'anni tra Francia e Inghilterra, 1339-1423); e all’interno della chiesa, che vede acutizzarsi la contrapposizione fra una concezione ecclesiologica centrata sul potere del papa e della curia ed una spirituale e comunitaria, a partire dal papato di Avignone fino ai primi decenni del 1400, l’epoca degli antipapi. Il XIV è un secolo di fioritura intellettuale, d'innovazione, di critica che vede l'articolarsi delle posizioni sugli universali, con varie forme di realismo (legato a concezioni platoniche) e di nominalismo; forme diverse di rapporto fra logica, fisica e teologia, in particolare sul tema dell'onnipotenza divina; l'emergere di concezioni della natura alternative a quella aristotelica: la teoria dell‘ impetus elaborata dai fisici nominalisti parigini; lo sviluppo di ipotesi controfattuali da parte dei Calculatores di Oxford; l’idea alchemica di un’integrazione fra creazione e trasformazione del mondo, che si serve della logica dei correlativi. I pensatori più rilevanti dell’epoca elaborano i loro sistemi dopo la crisi determinata dalla condanna del 1277, che mostrò il carattere non definitivo della sintesi aristotelico-cristiana ricercata dagli scolastici e realizzata al massimo livello da Tommaso d’Aquino. La filosofia medievale: XIV e XV secolo (15) A Parigi il francescano Giovanni Duns Scoto (1265 - 1308), pur appartenendo cronologicamente quasi per intero al secolo precedente, si colloca con la sua ricerca nitidamente oltre l’orizzonte tomistico, mettendo al centro della propria filosofia i temi dell’univocità dell’essere, della conoscenza individuale e della potenza assoluta di Dio. Francescano è anche l’inglese Guglielmo di Ockham (1285 ca-1349), la cui carriera di magister nell’università di Oxford fu stroncata dall’opposizione contro le innovazioni filosofiche da lui proposte: la contingenza e l’individualità al posto della catena ontologica di enti, il raccordo fra potenza assoluta di Dio e ordine della creazione (garanzia della possibilità per la ragione umana di riconoscere la regolarità naturale) attraverso la nozione di ‘patto’, l’integrale nominalismo logico, secondo cui l’universale è un puro contenuto mentale (intenzione) che significa l’individuo e la specie, l'idea di conoscenza come intuizione. La dottrina politica dell’indipendenza dell’imperatore dal papa, sviluppata da Ockham dopo la fuga dal carcere papale di Avignone (episodio narrato anche ne Il nome della Rosa) insieme al francescano spirituale Michele da Cesena (1329), si colloca a fianco delle dottrine politiche di Marsilio da Padova (1275 ca-1342) e di Dante Alighieri. Boezio (1) Il filosofo Anicio Manlio Torquato Severino Boezio nacque verso il 480 d.C. da una famiglia senatoriale, fu console e senatore sotto il regno goto–romano e si dedicò agli studi fin dall'età giovanile. Nel 510 venne nominato console e in questi anni tradusse e commentò le Categorie e il De interpretatione, fondamenti dell'insegnamento della logica fino al XII secolo. Scrisse inoltre opere originali di logica: De syllogismis, De divisione, De hypotheticis syllogismis, De differentiis topicis. Molto dibattuto nella storiografia è il problema del platonismo o aristotelismo di Boezio, come ancora aperta è la questione se egli abbia o no aderito al cristianesimo. Al culmine della sua carriera politica, Boezio si trovò coinvolto in una crisi che vide scontrarsi, dopo anni di convivenza tutto sommato pacifica, la corte di Teodorico, il papato romano e l'Impero d' Oriente. Una congiura contro di lui scoppiò infatti nel 523, quando davanti alla corte di Teodorico, a Verona, egli difese il patrizio Albino, accusato di complottare per l'Imperatore d'Oriente. Imprigionato a Pavia con le accuse di tradimento, sacrilegio e magia, Boezio trascorse gli ultimi due anni della vita in carcere, scrivendo qui la sua opera più famosa e celebrata, De consolatione philosophiae. Alla fine del processo, nel 525, venne ucciso per ordine di Teodorico. Boezio (2) L'opera di traduzione e commento dell'ultimo degli Antichi, come universalmente fu definito Boezio, è stata fondamentale per la conservazione e la trasmissione al mondo latino della cultura filosofica greca. La traduzione di Aristotele faceva parte di un programma complesso, che prevedeva anche la traduzione di tutti i dialoghi di Platone, in modo da far emergere la convergenza, nonostante l'apparente discordanza, delle due maggiori filosofie del passato, come lo stesso Boezio spiega nel suo commento al De interpretatione. Di fatto, il progetto di traduzione si limitò alle opere logiche di Aristotele, e la conciliazione dei due massimi filosofi non avvenne. Tuttavia, grazie a Boezio la terminologia logica aristotelica passò alla lingua latina, e la tradizione filosofica medievale se ne servì prontamente: ricordiamo, ad esempio, alcuni concetti universalmente utilizzati in ambito filosofico come atto (actus), potenza (potentia), principio (principium). Boezio influenzò il medioevo anche in merito al problema degli universali. Tenendo presente tanto la tradizione platonica, quanto l'impianto aristotelico, egli introduce una nozione fondamentale per la logica successiva, quella di concetto (intellectus). Gli universali sono concetti, mentre reale è solo l'individuo, secondo la tradizione aristotelica. Ciononostante, il soggetto è universale quando lo si pensa, singolare quando lo si avverte con i sensi nelle cose nelle quali ha il suo essere. Boezio (3) Un altro contributo fondamentale di Boezio al successivo sviluppo della metafisica medievale è la distinzione fra l'esse (cioè l'essere in senso astratto e generale) e l'id quod est (cioè il soggetto esistente, e che è costituito «dalla composizione metafisica tra la sostanza e l'essere che la fa esistere»). In base a questa differenza, l'essere e ciò che è si distinguono in quanto «l'essere stesso, infatti, non è ancora, ma ciò che è, ricevuta la forma dell'essere, è e sussiste». Su tale distinzione Boezio sviluppa una concezione della partecipazione che permette la distinzione sostanziale fra le creature e il creatore: «Poiché [le cose] non sarebbero potute esistere in atto se non le avesse tratte all'essere quello che è il vero bene, per questo il loro essere è buono; e tuttavia non è simile al bene sostanziale ciò che da lui è scaturito». Siamo ormai nell'ambito di quel problema del Sommo Bene e del rapporto fra creatore e creature che caratterizza l'opera principale di Boezio, De consolatione philosophiae (Sulla consolazione della filosofia). Il De Consolatione è un trattato in prosa e in versi, oscuro e doloroso in quanto composto nel periodo più difficile e tragico della vita di Boezio, cioè durante gli anni del carcere. E' una meditazione intima e rivolta a se stesso che mette a fuoco i problemi essenziali del pensiero umano senza altri fini e intendimenti se non dare un senso alla vita, in vista della morte imminente. Boezio (4) I temi dell’opera sono il Bene, il rapporto fra destino e libertà, la ricerca della felicità. La Filosofia è impersonata da una donna anziana ma alquanto vigorosa, vestita di una candida veste tessuta di fili d'oro sottilissimi, ma estremamente robusti: una personificazione allegorica frequente nella tradizione platonica e neoplatonica, ma che qui mette in evidenza, fin dalla descrizione fisica, la profonda venerazione che Boezio aveva per la cultura ed il sapere, e lo sgomento personale per come il pensiero fosse negletto e abbandonato dagli uomini della sua età. L'allegoria sottolinea l'antichità della filosofia e la sua perennità. Il filosofo intreccia un dialogo con Filosofia e il pensiero con cui aveva aperto il suo scritto, l'instabilità della fortuna, dà modo a Filosofia di rammentare, con accenti platonici e stoici, che la felicità va cercata in se stessi, poiché i beni esteriori non sono mai realmente posseduti dall'uomo. Boezio affronta così, in termini essenzialmente platonici, il discorso sul Sommo Bene, che nel carme centrale erompe in una esaltazione del principio creatore e ordinatore dell'universo. Non si tratta del Dio cristiano, ma di un ente supremo al quale Boezio si rivolge con una struggente preghiera. Molti temi della cosmologia platonica del Timeo, come la proporzione matematica dell'universo, l'anima del mondo, il legame fra macrocosmo e microcosmo (l'uomo), fanno sviluppare una discussione sulla bontà, l'essere, il male. Boezio (5) Per Boezio il male è dovuto ai limiti della condizione umana, secondo una prospettiva che già era emersa in Agostino. In tal senso si può tracciare la distinzione fra la provvidenza e il fato: «Come dunque il ragionamento sta alla intuizione, ciò che viene generato a ciò che è, il tempo all'eternità, la circonferenza al centro, così il corso mutevole del fato sta all'immobile semplicità della provvidenza». La possibilità dell'agire libero dell'uomo, che costituirà l'argomento essenziale del libero arbitrio, è l'ultimo tema affrontato da Boezio. La contraddizione fra la libertà umana e la necessità dell'ordine divino si risolve sottolineando la profonda diversità del conoscere umano da quello divino rispetto alla necessità degli avvenimenti futuri. La ragione umana, secondo Boezio, è così limitata che crede che l'intelligenza divina consideri le cose future come lei le considera. Ciò non può essere in quanto l'intelligenza divina è eterna, e dunque fuori dai condizionamenti del tempo. E' errato, allora, parlare della prescienza divina come capacità di conoscere il futuro, perché in Dio c'è un eterno presente. Anche la sua scienza, travalicando ogni mutamento temporale, rimane nella semplicità della propria presenza «e abbracciando tutti gli spazi infiniti del presente e del futuro li contempla nel proprio semplice atto di conoscenza come se avvenissero proprio in quel momento». Ogni evento, apparentemente mutevole, è così un modo in cui si presenta l'infinita totalità dell'essere. Boezio (6) Dante - che nel Convivio chiama Boezio suo consolatore e dottore - si ricorderà delle riflessioni boeziane sulla caducità dei beni terreni in Pd X, 124-129: Dante e Beatrice sono al IV Cielo del Sole, dove vi sono gli spiriti sapienti della prima corona presentati da san Tommaso d'Aquino - fra di essi per l’appunto Boezio - scriverà, riferendosi al De consolatione philosophiae: Per vedere ogne ben dentro vi gode l'anima santa che 'l mondo fallace fa manifesto a chi di lei ben ode. Lo corpo, ond'ella fu cacciata, giace giuso in Cieldauro; ed essa da martìro e da essilio venne a questa pace. Parafrasi: Dice San Tommaso: [Dentro la fiammella] è beata – perché vede Dio fonte di ogni bene - l’anima santa [di Boezio] la quale, a chi ben medita le sue opere, manifesta la vanità dei beni mondani. Il corpo dal quale fu cacciata è sepolto giù in terra nella chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro [a Pavia, dove fra l’altro è sepolto anche Sant’Agostino]; ed essa è giunta nella nostra pace dopo l’esilio terreno e il martirio [cioè la condanna a morte]. Anselmo d’Aosta (1) Anselmo, conosciuto anche come Anselmo di Le Bec e Anselmo di Canterbury, nacque ad Aosta nel 1033 da una famiglia nobile e iniziò gli studi presso l'abbazia di Fruttuaria; dopo la morte della madre si recò in Francia a studiare alla scuola di Lanfranco di Pavia, nel monastero di Bec, dove si fece monaco nel 1060. Nel 1063, alla partenza di Lanfranco, divenne priore di quel monastero, e nel 1078 fu eletto abate. La prima delle opere maggiori di Anselmo, il Monologion, ovvero soliloquio (1076) è una meditazione filosofica nata all' interno di una comunità di monaci. Negli anni immediatamente successivi approfondì la sua speculazione filosofico-teologica nel Proslogion, ovvero colloquio (1077-78) ed in seguito si dedicò a riflessioni logico-grammaticali che risultarono nella stesura del De grammatico e del De veritate nel periodo fra il 1080 e il 1085. A quella stessa data risale anche il primo degli scritti anselmiani che si occupano di questioni teologiche legate all’etica, il De libertate arbitrii. L’anno 1093 segnò una tappa importante nella vita di Anselmo: venne chiamato Inghilterra da re Guglielmo II, per ricoprire la carica di arcivescovo di Canterbury, che era stata lasciata vacante dalla morte di Lanfranco (1089) perché il sovrano potesse disporre dei beni ecclesiastici. Anselmo d’Aosta (2) Ma successivamente si verificarono aspri contrasti con il sovrano, tali da spingere Anselmo ad andare in esilio nel 1097: prima si recò a Lione e poi proseguì per l’Italia, dove nel 1098 scrisse il Cur Deus homo. In seguito tornò a soggiornare a Lione fino alla morte di Guglielmo II, quando nel 1100 fu richiamato in Inghilterra dal nuovo re Enrico. Purtroppo però Anselmo dovette riprendere la via dell'esilio già nel 1103, dato che erano sorti nuovi motivi di contrasto con il sovrano; continuò tuttavia le trattative con la corte inglese finché riuscì a far prevalere il suo punto di vista. Tornato nel 1106 in Inghilterra, morì a Canterbury nel 1109. Una meditazione monastica. Il Monologion nasce dalle riflessioni teologiche che avevano luogo all’interno del monastero di Le Bec: in questo contesto la speculazione filosofica, la ricerca intellettuale diventa un tutt’uno con la preghiera. Anselmo dichiara di aver scritto questo testo in accordo con le argomentazioni dei Padri della chiesa e soprattutto di Agostino, di cui cita il De Trinitate, ma sottolinea l’originalità del proprio approccio: ovvero quello di porsi nell’animo di un uomo che si interroga mentalmente tra sé e tenta di comprendere cose che prima non aveva capito per arrivare a dimostrare la verità della fede senza ricorrere all’autorità delle scritture, ma soltanto attraverso argomenti necessari. Anselmo d’Aosta (3) Fin dai primi paragrafi incontriamo alcuni dei problemi fondamentali del pensiero di Anselmo, che già erano stati al centro della riflessione di autori come Boezio e Scoto Eriugena: l’essenza di Dio, il rapporto fra Dio e le sue creature, il problema del sommo bene e del libero arbitrio. Il metodo usato da Anselmo nella sua meditazione conferisce piena legittimità all’uso della dialettica nelle dispute teologiche, affermando che per mostrare la luce della verità bisogna argomentare attraverso rationes necessariae piuttosto che basarsi sull’auctoritas scritturale. La razionalità per Anselmo non è però uno strumento completamente slegato dalla verità manifesta nelle Scritture: la ragione deve infatti essere utilizzata per approfondire i contenuti di una fede che è già data e che deve soltanto essere compresa più a fondo. Quando l’indagine razionale resta a livello di semplice comprensione della realtà circostante essa ha un valore solo soggettivo; solo quando entra in relazione e tenta di comprendere le verità di fede la ratio umana assume un valore oggettivo ed è capace di fornire conoscenza vera. La funzione principale della ragione è dunque quella di portare il cristiano ad avere una consapevolezza delle verità di fede contenute nelle Scritture, in modo da mettere in grado il fedele di difendere la dottrina cristiana anche all’interno di un dibattito filosofico e di ribattere ad ogni obiezione rivoltagli. Anselmo d’Aosta (4) Il Monologion si concentra sul problema dell’esistenza delle cose buone e della loro origine, il Bene Sommo, strutturandosi attraverso quattro diverse prove, che permettono di comprendere l’esistenza di una natura superiore a ciò che esiste, autosufficiente, beata e dotata di immensa bontà che conferisce l’essere a tutte le altre cose e le rende buone. La prima prova parte dalla constatazione che tutti aspirano a godere delle cose che giudicano buone: poiché si possono confrontare beni tra loro diversi, deve esistere un fondamento comune, un criterio di valutazione, il bene sommo, dal quale tutte le cose traggono la bontà per partecipazione. Nella seconda prova si dimostra che il bene sommo è anche l’essere più grande che possa esistere, dal quale tutto l’ordine delle cose create riceve la grandezza. La terza prova prende le mosse dalla piena comprensione della distanza ontologica fra il creatore e le creature: tutte le cose create esistono in virtù di un qualcos’altro che invece esiste soltanto per se stesso, la somma sostanza che ha fatto tutto l’universo. Il rapporto fra la somma sostanza (l’essere) e gli enti viene descritto efficacemente da Anselmo attraverso la metafora della luce: essenza, essere e ente stanno fra di loro nella stessa relazione che troviamo fra la luce, lo splendere e la cosa che splende. Anselmo d’Aosta (5) La quarta prova si riallaccia alle prime due, considerando il modo nel quale gli enti sono ordinati secondo una scala di perfezione, per concludere che deve esistere una natura somma e pienamente perfetta. Queste quattro prove, dette «a posteriori», hanno caratteristiche molto simili alle cinque vie che Tommaso d’Aquino userà per provare l’esistenza di Dio: sono permeate da una concezione metafisica marcatamente realistica, di stampo platonico e agostiniano che sostiene la «pienezza del mondo» (e quindi la superiorità dell’essere rispetto al non essere) e che ritroviamo alla base di molte altre filosofie del medioevo. Su questa stessa concezione si basa la possibilità di provare le verità di fede attraverso argomenti necessari, che presuppone una analogia fra il modo in cui è strutturata la realtà creata e il modo in cui ragiona la mente umana. La prova ontologica dell’esistenza di Dio. il Proslogion. Le riflessioni del Monologion vengono portate avanti da Anselmo nella sua seconda opera, di pochi anni successiva, il Prosologion: una sorta di preghiera o meglio di dialogo con Dio (come indica il titolo) in cui viene illustrata la ricerca di un argomento che da solo realizzi la prova dell’esistenza di Dio: la celebre prova ontologica. Anselmo d’Aosta (6) Nel Prologo Anselmo descrive questo difficile processo di riflessione, da cui emerge chiaramente la natura nuova ed intuitiva di questa dimostrazione, che presenta un modo diverso da quello del Monologion di arrivare a Dio. La prova ontologica rappresenta il contributo più originale e fecondo di Anselmo alla storia della filosofia, capace di suscitare interesse e attenzione in molti filosofi posteriori, da Tommaso fino a Kant, Hegel e Gödel. Nel passaggio dalle prove del Monologion a quella del Proslogion sembra inoltre darsi un leggero slittamento di prospettiva: il Dio di cui si vuole dimostrare l’esistenza non è più semplicemente il Sommo Bene, ma si caratterizza come il Dio della Bibbia, che può e deve essere dimostrato con l’intelletto, ma solo da chi lo ha prima accolto con la fede, come mostra l’altro titolo del Proslogion, Fides quaerens intellectum (= la fede che cerca l' intelligenza), che riecheggia i versi del profeta Isaia (VII, 9): «se non avrò creduto non potrò capire». Alla negazione dell’esistenza di Dio da parte dello stolto (insipiens) «disse l’insipiente in cuor suo: Dio non esiste» (Salmi, XIV, 2), il filosofo replica che perfino l’insipiente, per poter negare l’esistenza di Dio deve riconoscere di possedere in sé l’idea di Dio, ovvero l’idea di un qualcosa di cui non si può concepire il maggiore. Anselmo d’Aosta (7) Ora, secondo Anselmo se si ammette che l’idea di Dio esiste nell’intelletto, che ha quindi una realtà mentale, è necessario ammettere che esista anche nel mondo reale: infatti, poiché Dio è ciò di cui non è possibile pensare il maggiore, egli deve avere in sé tutte le perfezioni possibili, e dato che l’esistenza nel mondo reale è una perfezione, è impossibile che non la si possa attribuire a Dio, perché in quel caso sarebbe possibile immaginare qualcosa che in virtù della sua esistenza reale è più grande e più perfetto di Dio, cadendo così in una contraddizione logica. Alla base del discorso anselmiano vi è una premessa fondamentale, ovvero l’attribuire un intrinseco valore al puro fatto di esistere: l’esistenza come perfezione dell’essere, secondo il principio della pienezza dell’essere, già ricordato a proposito del Monologion, per il quale una cosa che può essere solo pensata ha un minor valore ontologico di una cosa esistente nella realtà. A questa premessa si aggiungono le considerazioni logiche basate sull’analisi della significatio del termine Dio e sulla possibilità di dedurne la necessità logica della sua esistenza extramentale, passando dal piano del pensiero a quello dell’essere. Ancora con considerazioni logiche si spiega l’apparente contraddizione nel pensiero dell’insipiente. Anselmo d’Aosta (8) Per Anselmo esistono infatti due distinti significati del termine «pensare». «Pensare una cosa» può intendersi come «pensare alla parola usata per riferirsi a tale cosa» e come «pensare all’essenza della cosa», ovvero il pensiero può essere mediato dal piano linguistico o può invece riferirsi direttamente al piano dell’essere: quindi lo stolto può, al livello meramente linguistico del pensiero, negare alla parola Dio l’esistenza, ma neanche lui può pensare che Dio non esista nella seconda accezione (quella più vera) del termine pensare. Come si può notare Anselmo fa già uso in questo testo della distinzione fra appellatio e significatio e della definizione di verità, che verranno esplicitate meglio in testi di poco successivi come il De Grammatico e il De Veritate. Il dibattito sul Proslogion. Questa complessa e innovativa dimostrazione non fu accolta unanimemente: molto presto Gaunilone, monaco nell’abbazia di Marmoutier, la cui biografia ci è quasi del tutto sconosciuta, portò avanti le sue obiezioni alle teorie di Anselmo e scrisse un breve opuscolo in risposta al Proslogion intitolato Liber pro insipiente (= in difesa dell’insipiente / stolto). Gaunilone attacca al cuore l’argomento di Anselmo, negando che il legame tra pensiero e realtà sia sufficientemente stretto da servire come prova dell’esistenza di qualcosa. Anselmo d’Aosta (9) Secondo Gaunilone non è possibile effettuare il passaggio dall’udire e comprendere un concetto, ovvero dall’avere tale concetto nell’intelletto, al suo essere; cioè non si può passare dall’esistenza mentale a quella extramentale: l’esistenza non è una perfezione attribuibile ad un concetto dall’intelletto (l’esempio che egli porta è quello dell’isola perfetta: è possibile immaginarsi un’isola dotata di tutte le perfezioni e tuttavia dubitare della sua esistenza). Per Gaunilone l’insipiente può quindi dubitare dell’esistenza di Dio senza incorrere in contraddizione logica. Gaunilone e Anselmo non stanno qui dibattendo realmente sulla questione della fede nell’esistenza di Dio: il punto di disaccordo è il modo di considerare il linguaggio, la natura del legame fra parole e cose. Nella visione di Gaunilone la distanza fra linguaggio e realtà fa sì che sia possibile conoscere un oggetto soltanto attraverso l’esperienza diretta di esso od il concetto di esso formatosi con l’esperienza. Dio è al di là dell’esperienza sensibile, è ciò di cui non si può pensare il maggiore, è per sua stessa natura al di là di ogni paragone, e, per Gaunilone, è quindi al di là di ogni conoscenza umana che si basi solo sulla ragione. Anselmo d’Aosta (10) Anselmo rispose alle obiezioni del monaco di Marmoutier nel Liber apologeticus contra Gaunilonem, ove esplicita la sua differente interpretazione del legame fra esperienza e linguaggio; il vero significato delle parole si incontra nell’esperienza interiore, che è auto-evidente e tale da fornire da sola la certezza della sua verità. La meditazione monastica su Dio sta pian piano mutando forma, trasformandosi in una riflessione logica sul valore e le possibilità del linguaggio come strumento di comunicazione del pensiero: tema a cui Anselmo rivolgerà la sua attenzione nel periodo successivo. Infatti negli anni fra il 1080 e il 1085, ormai abate di Le Bec, Anselmo compone due dialoghi, il De Grammatico e il De Veritate, in cui si propone di portare avanti le sue riflessioni logico-grammaticali sulla corrispondenza fra pensiero e realtà in rapporto alle arti del trivio. Per cogliere a pieno l’importanza del lavoro di ricerca di Anselmo, bisogna inquadrarlo all’interno di un contesto monastico tradizionale in cui la parola non è mai semplicemente tale: l’uso del linguaggio viene controllato all’interno delle regole monastiche e si trasforma spesso in preghiera, la parola diventa parola sacra, da meditare. Anselmo d’Aosta (11) Con il De Grammatico Anselmo affronta il problema legato alla definizione della parola «grammatico», ovvero se «grammatico» si riferisca ad una sostanza o solo ad una qualità, cercando di determinare la recta significatio (= il vero significato) di questo termine. Per tentare di risolvere questa questione Anselmo distingue due modalità in cui un termine può significare, cioè «stare per», una cosa: l’ appellatio, che rappresenta il nesso non necessario fra parola e la cosa significata nel linguaggio comune, e la significatio, ovvero il legame necessario fra un termine ed il suo portato di significato, che quindi viene ad essere legata e a derivare da una sorta di essenza (nel senso boeziano di quidditas) o di idea platonica dell’oggetto. Nel De Veritate Anselmo va oltre i singoli termini e si pone direttamente la questione di come determinare la verità di una proposizione, giungendo alla conclusione che un enunciato è vero quando corrisponde alla realtà, ad un determinato stato di cose. La realtà qui per Anselmo non significa però l’apparenza superficiale, ma la struttura profonda che costituisce l’essenza delle cose: in questo senso il concetto di verità assume una connotazione quasi morale e viene a corrispondere con una quaedam rectitudo (una sorta di rettitudine, correttezza). Dato lo stretto collegamento che abbiamo osservato fra parole e cose nel De Grammatico, quando un enunciato Anselmo d’Aosta (12) rappresenta uno stato di cose reale si ha dunque recta significatio: la verità di una frase corrisponde alla sua rettitudine, in senso logico-grammaticale certo, ma in un modo che suggerisce implicazioni etico morali. Essere veritieri, onesti, usare la recta significatio delle parole diventa quasi un dovere morale per il filosofo: compito della dialettica è dunque quello di essere strumento che permette alla mente dell’uomo che ricerca di riuscire a raggiungere la verità delle cose. Lo stesso termine di rectitudo gioca un ruolo determinante nella dottrina etica anselmiana, che troviamo esposta nei testi degli anni 1085-1090 (De libertate arbitrii, De casu diaboli), che affrontano temi quali la libertà dell’uomo e di Dio, la questione della predestinazione e della prescienza divina (su cui tornerà negli anni 1107-1108 col De concordia prescientie et predestinationis et gratiae Dei). Altro tema che sta al confine fra l’etica e la teologia propriamente detta è quello della salvezza umana, argomento principale del Cur Deus homo (= perché Dio si è fatto uomo) del 1098, in cui il filosofo di Aosta si pone la spinosa questione del perché il Dio onnipotente abbia preso l’infima forma umana per redimere gli uomini, giungendo alla conclusione che solo un uomo-Dio poteva espiare degnamente fino in fondo i peccati dell’umanità. La questione degli Universali (1) Nel problema degli universali, in cui nel XIX sec. si vedeva il tema centrale della filosofia medievale, si incontra la forma tipicamente medievale del confronto fra platonismo e aristotelismo, che paradossalmente si sviluppò in assenza dei testi platonici. Il problema nasce in relazione al rapporto fra linguaggio e realtà quando, affrontando lo studio della logica, ci si interroga a proposito dei termini universali (quelli indicanti genere e specie) a partire dal testo che per tutto il Medioevo venne letto all’inizio dello studio della logica come introduzione alle Categorie: l’Isagoge di Porfirio tradotta da Boezio. La questione del rapporto fra linguaggio e realtà in generale era stato posto da Aristotele nel De interpretatione: "i suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell’anima, e queste sono le medesime per tutti”. Cosa voleva dire Aristotele: che queste ‘affezioni’ sono un ‘calco’ psicologico di realtà esistenti al di fuori dell’anima, oppure considera la loro universalità mentale come espressione della comune struttura psichica degli uomini? Nel caso dei termini universali le ‘cose’ che essi significano non sono sostanze prime (le uniche esistenti di per sé secondo Aristotele), ma sostanze seconde (genere e specie), ovvero i termini universali, che costituiscono il fulcro della dimostrazione scientifica negli Analitici secondi. La questione degli Universali (2) Porfirio aveva scritto al riguardo: «Non dirò, riguardo ai generi e alle specie, (1) se siano sostanze esistenti per sé, o se siano semplici pensieri; (2) se siano realtà corporee o incorporee; (3) se siano separate dai sensibili ovvero poste in essi. Poiché questa è impresa molto ardua, che ha bisogno di più vaste indagini». La griglia problematica su cui si sviluppa il dibattito medievale sugli universali è tutta contenuta in queste tre domande concatenate: le risposte possibili sono tradizionalmente indicate come realismo, nominalismo e concettualismo. Dell’esistenza di due ‘sette’, o scuole contrapposte, denominate Nominales e Reales, si inizia a parlare nel XII secolo, l’epoca a cui si fa generalmente risalire l’inizio del dibattito sugli universali. Anche se le scuole dei logici furono ben più numerose, ciò che caratterizza i Nominales rispetto a tutte le altre è l’affermazione che ‘genus est nomen’ (che si può tradurre sia come ‘il genere è un nome’; sia, in modo assai più neutro, ‘genere è un nome’, affermazione puramente grammaticale). Nella sua forma più estrema il nominalismo si caratterizzò come ‘vocalismo’, la posizione che considera i termini universali come puri nomi o suoni (flatus vocis), privi di ancoraggio ontologico. La questione degli Universali (3) Dire che i termini universali non hanno un referente ontologico significa considerare reali soltanto gli individui: implica dunque una presa di posizione metafisica. Tale posizione tuttavia rende il discorso logico autonomo rispetto a quello metafisico. Per esempio Roscellino di Compiègne (ca. 1050-1120) negava che le qualità delle cose fossero entità distinte dai soggetti che le posseggono: il colore, ad esempio, non è diverso dal corpo colorato, negando così che gli universali possedessero una qualche realtà. In questo modo Roscellino intendeva escludere che molte cose coincidessero in una realtà unica e quest’affermazione, applicata alla teologia, comportava di invalidare logicamente la formula trinitaria delle tre persone in una sostanza. Roscellino riteneva dunque possibile applicare la dialettica alla teologia. Proprio l'esempio trinitario mostra bene come l’approccio nominalistico connesso all’utilizzazione della dialettica in ambito teologico potesse essere eversivo nei confronti dell'edificio dogmatico. Sul versante opposto, le posizioni dei realisti furono diversificate fra loro: l’esponente più noto dei Reales fu Guglielmo di Champeaux (1070 - 1121), soprattutto a motivo del suo rapporto, dapprima come maestro e discepolo e poi come avversario, con Abelardo (1079 - 1142). La questione degli Universali (4) Come ci mostra appunto Abelardo nel resoconto del suo conflitto con Guglielmo, questi fu indotto a modificare la propria posizione passando dal realismo estremo o teoria dell’essenza materiale, secondo cui generi e specie sono cose (res) e dunque la realtà universale è una e la stessa in ciascuna sua specificazione, alla cosiddetta dottrina della non-differenza, per cui l’universale non è uno essenzialmente in tutte le sue specificazioni, ma è ciò che non differisce in esse. Il cambiamento introdotto da Guglielmo di Champeaux dopo le prime vivaci critiche di Abelardo mirava a salvare la singolarità degli individui appartenenti ad una stessa specie, chiaramente incompatibile con la concezione dell’universale come cosa: la teoria della non-differenza, anziché ridurre tutti gli uomini a varianti accidentali dell’unico universale-cosa 'uomo', sostiene che in tutti gli uomini sussiste in maniera reale un nucleo identico, ma singolare, in virtù del quale essi sono detti uomini. La posizione di Abelardo (concettualismo) si fonda su due elementi, la cui connessione produce una teoria originale: da una parte l’idea che il linguaggio si riferisca sì alle cose reali, ma soltanto attraverso la mediazione dei nomi; dall’altra un modo diverso di intendere il comune riferimento alle forme esistenti nella mente divina. La questione degli Universali (5) I nomi e i verbi, dice Abelardo, significano le idee che generano nell’ascoltatore, ma anche ciò di cui esse sono idee, cioè le cose; i nomi hanno d'altra parte un duplice carattere: in quanto vocabolo o suono fisico essi sono detti vox, in quanto entità linguistica dotata di significato sono detti sermo. Un termine universale, d’altra parte, è tale non per pura convenzione ma in quanto esprime un significato (intellectum), che si basa sulla natura comune ovvero sullo status delle cose da esso indicate, che è prodotto da Dio: scrive infatti Abelardo che i singoli uomini, distinti tra loro, convengono non nell’uomo ma nell'essere uomini. L’umanità non è dunque una ‘cosa’, ma la ragione comune che fonda la possibilità di denominare gli uomini (e le donne) con l’unico nome di ‘uomo’, lo status in cui gli individui-uomo/donna convengono. Da ciò il carattere di astrazione del termine universale, che si forma concependo un’immagine comune e confusa di molti. Scrive Abelardo: «quando odo la parola uomo, mi sorge nell’animo un modello che sta ai singoli uomini come comune a tutti e proprio di nessuno; quando invece odo Socrate, mi sorge nell’animo una forma che esprime la similitudine di una determinata persona». Questa soluzione del problema degli universali viene denominata concettualismo. La questione degli Universali (6) La discussione sugli universali non ebbe sviluppi originali dopo Abelardo: occorrerà aspettare Guglielmo di Ockham (1288–1349) per una ripresa della posizione nominalistica, che divenne preminente nel XIV secolo. Questo non significa che gli autori del XIII secolo non affrontassero la discussione sui termini universali; in ambito logico essa si sviluppò con modalità connesse a quelle del XII secolo all’interno di un’opzione generalizzata per il realismo (così San Tommaso); si parla dunque, in termini molto schematici, dell’universale come essenza della cosa (in re), come forma causante (ante rem), e come concetto (post rem). Ma i nuovi testi di Aristotele portarono all’attenzione le definizioni di universale proposte negli Analitici Secondi (l’universale è uno nei molti ed è uno al di fuori dei molti), nel De anima (l’universale esiste nell’anima), nella Metafisica (l’universale, in quanto universale, non è una sostanza), e così il problema degli universali entrò a far parte di un nesso complesso in cui si intrecciavano problemi di teoria della percezione, formazione dei concetti astratti, ontologia degli oggetti e delle entità generali. Ma è con Ockham che le cose cambiano per davvero. Innanzitutto la scelta logica di Guglielmo presuppone una scelta metafisica (la riduzione degli enti alle sostanze prime e alle loro qualità) e si connette alla concezione della conoscenza intuitiva. La questione degli Universali (7) La logica è concepita da Ockham come pura scienza del linguaggio, senza commistioni con la metafisica, e viene definita come un sapere pratico che verte sulle operazioni mentali e dirige il nostro intelletto, dettando le regole delle sue operazioni, le proposizioni (complexa) composte da termini, i quali sono segni che si riferiscono alle cose, di per sé sempre singole. Egli distingue fra termini mentali (conceptus), linguistici (dictiones) e scritti e, d’altra parte, riformula la teoria della suppositio, permettendo una nuova impostazione del rapporto fra termini universali e contenuto significativo degli stessi. Nota bene: per i logici del Medioevo, la suppositio designa la possibilità di un nome di esprimere un significato che può mutare a seconda del contesto in cui il termine è usato nella proposizione. Se per esempio si dice: «l'uomo cammina» o «l'uomo è razionale», nel primo caso il nome «uomo» esprime una suppositio che riguarda individui reali, mentre nel secondo esempio il significato di «uomo» è riferito ad un concetto universale. Da ciò ne consegue che la suppositio permetterà di distinguere un discorso scientifico basato su una scienza reale o razionale a seconda che i termini utilizzati siano al posto di realtà concrete o mentali. Ockham distinguerà tre tipi di suppositio: La questione degli Universali (8) 1. suppositio materialis, quando un termine si riferisce a se stesso come nome («Cane è un nome di due sillabe»; «abbaiare è un verbo»); 2. suppositio personalis, quando un termine riguarda una realtà individuale («Un cane corre»); 3. suppositio simplex, quando il termine indica un concetto mentale universale («Cane è una specie»). Gli universali secondo Ockham cadono nella suppositio simplex, ove il termine sta per una intenzione dell’anima. Applicando questa concezione ad una virtuale risposta alla prima domanda di Porfirio (se i generi e le specie sono sostanze esistenti per sé, o se sono semplici pensieri), Ockham intende l’universale come una «intenzione o concetto formato dall’intelletto», che non differisce dall’atto singolare di intellezione con cui la mente comprende una pluralità di cose singolari, ed è capace di riferirsi significativamente a (può essere predicato di) una molteplicità di cose, anche se è formato a partire da un atto astrattivo singolo. Nel nominalismo di derivazione ockhamista, l’universale definitivamente spogliato di ogni referente ontologico venne ad essere definito come un termine o contenuto mentale capace per natura di significare, di riferirsi o di essere predicato di più individui. Abelardo (1) Pietro Abelardo (Le Pallet, 1079 – Chalon-sur-Saône, 21 aprile 1142) è il filosofo di maggior rilievo del XII secolo. La sua autobiografia, Historia mearum calamitatum (Storia delle mie disgrazie), scritta quando era ormai in età matura nel 1130, ci rinvia l’immagine di un grande studioso, dotato di vasti interessi intellettuali, ma anche quella di un uomo inquieto, nelle cui vicende personali si leggono tutti i fermenti di un tempo di ‘rinascita'. La storia d’amore con Eloisa, si riflette nell’epistolario (successivo all’autobiografia e databile fra il 1130 e il 1136), in cui i sentimenti si intrecciano alle idee, mostrando tutta la novità di una figura filosofica innovatrice nei principali ambiti di riflessione del suo tempo: la logica, la teologia e l’etica. La vita avventurosa di Abelardo era cominciata da prima di conoscere Eloisa: conformemente all’uso degli studenti di quell'epoca, aveva studiato in diverse scuole di dialettica prima di recarsi a Parigi, dove fu allievo di Roscellino e di Guglielmo di Champeaux. Alla scuola di Guglielmo la passione intellettuale e l’orgoglio del giovane Abelardo (che ci racconta di aver «scambiato le armi della guerra per quelle della dialettica») lo mise in contrasto col maestro, finché, andatosene, fondò una propria scuola. Abelardo (2) Successivamente, dopo aver passato alcuni anni nella natia Bretagna, tornò dal maestro, ma subito lo attaccò su un punto centrale del suo insegnamento, la dottrina degli universali. Infine gli successe nell’insegnamento presso la scuola di logica di Notre Dame di Parigi. Maestro subito famoso, visse in quegli anni la storia d’amore con Eloisa, che a quanto egli stesso ci racconta era elogiata in tutta la Francia per la sua cultura più ancora che per la sua bellezza. I due ebbero un figlio e furono costretti a sposarsi dallo zio e tutore di Eloisa, Fulberto; ma vollero tenere segreto il matrimonio per non danneggiare la fama dello studioso (nelle scuole del tempo i maestri erano esclusivamente uomini, celibi, appartenenti ad uno degli ordini ecclesiastici anche se non necessariamente al più alto, il sacerdozio). Fulberto organizzò allora la sua crudele vendetta, facendo evirare Abelardo che fu così costretto a lasciare Parigi e rifugiarsi presso l’abbazia di Saint-Gildas. Anche Eloisa, per volere dello sposo, prese i voti e divenne badessa in un monastero femminile, il Paracleto. Dopo il 1121, quando Abelardo fu condannato al concilio di Soissons per la concezione trinitaria espressa nel De Unitate et Trinitate Divina, visse per qualche tempo al Paracleto. Abelardo (3) Negli ultimi anni, in conseguenza di contrasti con i confratelli e ad una nuova condanna da parte del concilio di Sens (1140), Abelardo si rifugiò nell’abbazia di Cluny, dove rimase fino alla morte avvenuta nel 1142. Più che sulle opere di logica (Logica ingredientibus - «per i principianti» -, Dialectica, Logica Nostrorum petitioni sociorum e glosse ai testi della Logica vetus) e di teologia (Theologia Summi Boni, Sic et non, Theologia christiana, Dialogus inter Philosophum, Judaeum et Christianum), è opportuno concentrarsi sugli scritti di etica. L’etica. Negli ultimi anni della sua vita Abelardo sistematizzò nello Scito te ipsum (=Conosci te stesso) gli spunti di riflessione morale che aveva già introdotto nelle opere teologiche. L’opera assumeva una posizione innovativa nei confronti del problema del peccato, che tradizionalmente era affrontato essenzialmente in analogia col principio giuridico della condanna commisurata al delitto. La concezione tradizionale della vita morale, notevolmente schematica e legata all’esteriorità tanto del peccato come della penitenza, viene ribaltata da Abelardo, che pone innanzitutto l’accento sulla distinzione psicologica fra vizio e peccato. Abelardo (4) Inoltre Abelardo esplicita il principio che soltanto l'assenso all’inclinazione malvagia costituisce il peccato (principio che ritroviamo formulato nelle epistole di Eloisa, o a lei attribuite, risalenti agli stessi anni in cui Abelardo scriveva il suo trattato di etica). La presenza di una volontà cattiva non è dunque in se stessa peccato, e la vita morale si configura come una lotta interiore, nella quale il principio discriminante è la volontà, l’intenzione retta. Il filosofo dunque inquadrava il problema etico in una prospettiva diversa rispetto alle discussioni tradizionali sulla libertà dell’agire umano; inoltre, sostenendo che l’inclinazione al male rimane al di fuori della definizione del peccato, Abelardo si distacca inoltre dalla posizione etica di Agostino, delineata nella polemica contro Pelagio. Una conseguenza, apparentemente paradossale, è che si può peccare senza commettere azioni apparentemente malvage: ciò che costituisce il peccato non è infatti una qualche realtà sostanziale, ma la decisione interiore di andare contro il volere di Dio. Del peccato si può dare inoltre una definizione negativa: la definizione agostiniana del male come non esistente, fino ad allora considerata valida soltanto sul piano ontologico, si allarga a comprendere il male morale. Abelardo (5) Tuttavia il fatto che le azioni peccaminose possano derivare da una volontà rettamente intenzionata ma debole e sopraffatta dall’inclinazione al vizio non porta a concludere che non debbano essere punite, poiché il giudizio degli uomini deve basarsi sulle azioni esterne, visibili. Il giudizio dell’intenzione è riservato a Dio ‘che scruta il cuore e le reni’. Collocare il principio morale nell’interiorità non significa dunque sottrarre l’uomo alla responsabilità delle proprie azioni; significa però insinuare un principio di relatività, perché ad esempio la persecuzione di Cristo e dei cristiani, effettuata da quegli uomini dell’età antica che ritenevano di doverli perseguitare, non risulta più definibile come peccato nel contesto abelardiano. E ora le Lettere fra Abelardo e Eloisa: «Tutti si precipitavano a vederti quando apparivi in pubblico e le donne ti seguivano con gli occhi voltando indietro il capo quando ti incrociavano per la via […] Quale regina, quale donna potente non invidiava le mie gioie e il mio letto? Avevi due cose in particolare che ti rendevano subito caro: la grazia della tua poesia e il fascino delle tue canzoni, talenti davvero rari per un filosofo quale tu eri […] Eri giovane, bello, intelligente». Bernardo di Chiaravalle (1) Bernardo da Chiaravalle (1091-1153) fondò il monastero di Clairvaux, che ben presto divenne il maggiore centro cisterciense. Dalla sua Schola Christi, fondata nel 1115, si oppose strenuamente contro i due mali che imperavano nella "nuova Babilonia", Parigi: la vendita della scienza nelle scuole e i tentativi di «rendere certa la fede». In questi attacchi ebbe la collaborazione di Guglielmo di Saint Thierry, in prima fila nel concilio di Sens, che fornì all'abate di Chiaravalle una attenta e ampia disamina delle dottrine abelardiane incriminate; e quella di Ildegarda di Bingen, che in una delle sue epistole lo definisce «aquila che guarda verso il sole». La sua opposizione alla cultura delle scuole non era tuttavia quella di un uomo alieno dalle problematiche del suo secolo, né tanto meno quella di un incolto. L'eleganza del suo eloquio gli meritò da parte di Giovanni di Salisbury la definizione di doctor mellifluus (le cui parole sono come miele): definizione che fra l'altro richiama un motivo spesso presente nell'agiografia patristica e altomedievale, dell'uomo santo sulla cui bocca le api fabbricano il miele (il motivo ricorre ad esempio nella biografia di sant'Ambrogio). Oltre che nei Sermoni, scritti dal 1115 all'anno della morte, Bernardo espose le sue idee in opere come il De diligendo deo, il De gratia et libero arbitrio, il De gradibus humilitatis et superbiae e il De baptismo. Bernardo di Chiaravalle (2) Personaggio di grande rilievo nella vita culturale ed ecclesiastica del suo tempo, Bernardo di Chiaravalle aveva una visione di tipo nettamente integralista: la Chiesa deve mantenere e rafforzare il suo primato nella vita del mondo, sia continuando ad affermare i valori teocratici, sia ampliando i confini della cristianità. Bernardo predicò a favore della seconda crociata del 1146 e scrisse una Epistula in laudem novae militiae a sostegno dell' ordine dei Templari. Un'immagine alla quale ricorrono spesso i pensatori politici dell' epoca è quella delle due spade affidate da Cristo a Pietro apostolo, che rappresentano il potere spirituale e temporale: per Bernardo entrambe debbono essere gestite dalla Chiesa, la prima impugnata direttamente, la seconda «a sua difesa e per ordine del sacerdote». La difficoltà esperita nell'affrontare la dottrina trinitaria fece sì che Bernardo si rivolgesse per consiglio a Riccardo di San Vittore, il quale nella sua risposta si appellò alla impossibilità di parlare di Dio con il linguaggio degli uomini (argomento che ha la sua fonte originaria nello pseudo-Dionigi). Questo tipo di soluzione era congeniale all'inclinazione mistica di Bernardo. Il fine della scienza, la salvezza, è quello che definisce limiti e validità del sapere, che in se stesso non è che vana e superba curiosità. Sapientia viene da sapor: dal gusto provato nel momento in cui l'anima è in contatto (afficitur) con il divino. Bernardo di Chiaravalle (3) La riflessione teologica di Bernardo non può dunque che partire dall'amore, fonte di verità e di certezza, e attingere il suo frutto più alto nell' esperienza mistica. L’amore basta a se stesso ed è disinteressato. Il cammino d’amore è scandito in quattro gradi: il primo è quando l’uomo ama se stesso per se stesso (amore carnale); il secondo è quando l’uomo ama Dio per sé; il terzo è quando Dio è amato per se stesso; il quarto grado è esperito solo dai martiri e ai santi, e per un attimo, ed è quel momento della vita spirituale in cui l’uomo giunge di nuovo ad amare se stesso ma solo per Dio. La ricerca mistica non è per Bernardo un modo per ritrarsi dal mondo; rappresenta piuttosto la «filosofia monastica» che avversa profondamente le speculazioni razionali astratte delle scuole volte solo alla vana curiositas. Come noto, nella Commedia Dante trova san Bernardo in Paradiso, di fronte alla candida rosa dei beati, come guida per l'ultima parte del suo viaggio. In Pd XXXI 55 – 63 laddove Dante, che è stato accompagnato da Beatrice fin nell'Empireo e sta contemplando la Mistica Rosa dei beati e degli angeli, si volta per porre una domanda a Beatrice ma si accorge che questa è scomparsa e che al suo posto c'è un sene, Bernardo per l'appunto, che lo invita ad osservare la cima della Rosa, nella sede più luminosa di Maria Vergine: Bernardo di Chiaravalle (4) E volgeami con voglia riaccesa per domandar la mia donna di cose di che la mente mia era sospesa. Uno intendea, e altro mi rispuose: credea veder Beatrice e vidi un sene vestito con le genti glorïose. Il canto Pd XXXIII 1 - 6 si apre con la preghiera che il santo rivolge alla Vergine Maria affinché Dante possa vedere Dio: Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, umile ed alta più che creatura, termine fisso d'etterno consiglio, tu se' colei che l'umana natura nobilitasti sì, che 'l suo Fattore non disdegnò di farsi sua fattura. In Pd XXXIII 49-51, quando la Vergine dimostra di aver accolto la sua preghiera: Bernardo m'accennava, e sorridea, perch'io guardassi suso; ma io era già per me stesso tal qual ei volea. Bonaventura di Bagnoregio (1) Giovanni (nome di battesimo di Bonaventura) da Fidanza, nato intorno al 1217 a Bagnoregio, nell'Italia centrale, oblato nel convento dei francescani di Bagnoregio a 17 o 23 anni, fu poi a Parigi negli anni 1235-1243, studente alla Facoltà delle Arti; nel 1243 entrò effettivamente nell'ordine francescano, e forse iniziò gli studi in teologia sotto la guida di Alessandro di Hales. Nel 1248 iniziò a commentare la Scrittura come baccelliere biblico e nel 1250-1252, come baccelliere sentenziario, scrisse il commento alle Sentenze. Alla fine del 1253 o ai primi anni del 1254 divenne maestro reggente nell’Università di Parigi. Dal 1257 divenne ministro generale dell’ordine francescano da lui interamente riorganizzato. Nel 1273 fu nominato arcivescovo di Albano e cardinale. Bonaventura morì durante il Concilio di Lione del 1274. Lo scritto fondamentale del Doctor seraphicus è senza dubbio l’ Itinerarium mentis in Deum (1259) dove Bonaventura accoglie come punto di partenza il pensiero di Agostino per riassumere tutta la tradizione scolastica. L’ Itinerarium vuol essere una guida per ascendere alla contemplazione di Dio attraverso i gradini scanditi dal carattere di vestigium e di imago Dei della realtà, rispettivamente infraumana e umana, per compiere poi il balzo oltre l'umano (supra nos). Bonaventura da Bagnoregio (2) Bonaventura ravvisa tre occhi o facoltà della mente umana: il primo occhio è rivolto alle cose esterne ed è la sensibilità; il secondo è lo spirito, rivolto a se stesso; l’ultimo, rivolto al disopra di sé, è la mente. Ognuna di queste facoltà può scorgere Dio per speculum, cioè attraverso l’immagine di Dio riflessa negli enti creati, o in speculo, cioè attraverso la traccia che l’essere di Dio lascia nelle cose stesse. Le facoltà determinano sei potenze dell’anima che sono nell’ordine: il senso, l’immaginazione, la ragione, l’intelletto, l’intelligenza, l’apex mentis o scintilla della sinderesi (visione estatica di Dio). Ad ognuna di queste potenze dell’anima corrisponde uno dei sei gradi dell’ascesa dell’anima a Dio. Nel primo le cose sono considerate nel loro ordine, nella loro bellezza e nella loro origine divina. Il secondo grado coincide nella considerazione delle cose nell’anima umana che ne apprende le species e le purifica, astraendole dalle condizioni sensibili, attraverso il giudizio. Nel terzo grado si contempla l’immagine di Dio nella memoria, intelletto e volontà, poteri naturali dell’anima. Nel quarto si contempla Dio nell’anima umana illuminata e perfezionata dalle tre virtù teologali. Nel quinto Dio è contemplato nel suo primo attributo, l’essere. Bonaventura da Bagnoregio (3) Nel sesto Dio è contemplato nella sua massima potenza, il bene, per il quale si diffonde nelle tre persone della Trinità. Al termine di questa fase “attiva” di ascesa a Dio, l’anima completa e perfeziona la sua ascesa mistica attraverso l’attuazione di una sorta di trascendenza radicale rispetto alle cose e a se stessa, e tramite l’abbandono di tutte le operazioni intellettuali per porre tutto l’affetto in Dio. Questa è la condizione di estasi (excessus mentis), descritta da Bonaventura come una sorta di docta ignorantia, un momento non più intellettuale, ma unione vivente dell’uomo con Dio, attraverso la quale l’uomo è ammesso a penetrare l’essenza del suo Creatore. Bonaventura nella Commedia: in Pd XII 127 – 145, Dante è ancora tra gli spiriti sapienti, nel cielo del Sole; dopo la presentazione di San Francesco da parte del domenicano San Tommaso d’Aquino nel canto precedente, ora tocca al francescano Bonaventura da Bagnoregio illustrare la vita di San Domenico; segue poi un breve panorama sulle anime illustri che compongono il cielo in questione (tra cui Agostino e Anselmo d’Aosta). Io son la vita di Bonaventura da Bagnoregio, che ne’ grandi offici sempre pospuosi la sinistra cura. Bonaventura da Bagnoregio (4) Illuminato e Augustin son quici, che fuor de’ primi scalzi poverelli che nel capestro a Dio si fero amici. Ugo da San Vittore è qui con elli, e Pietro Mangiadore e Pietro Spano, lo qual giù luce in dodici libelli; Natàn profeta e ’l metropolitano Crisostomo e Anselmo e quel Donato ch’a la prim’ arte degnò porre mano. Rabano è qui, e lucemi dallato il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato. Ad inveggiar cotanto paladino mi mosse l’infiammata cortesia di fra Tommaso e ’l discreto latino; e mosse meco questa compagnia. Averroè (1) Nativo di Cordova, nella Spagna musulmana, Abu al-Walid Muhammad ibn Ahmad ibn Muhammad ibn Rusd, noto in Occidente con il nome di Averroè (Cordova 1126 - Marrakesh 1198) è il più importante dei filosofi arabi medievali. Tra le principali opere di Averroè ricordiamo la Distruzione della Distruzione, contro la polemica antifilosofica di al-Gazali (che non riteneva possibile la conciliazione tra filosofia e religione, e ristabiliva le prerogative e la preminenza della rivelazione nel processo di acquisizione della verità), le Generalità (conosciute in latino come Colliget, testo di medicina in cui Averroè misura in termini di progressione aritmetica i gradi dei medicamenti composti, opponendosi ad al-Kindi che li calcolava in progressione geometrica sulla base del rapporto tra opposte qualità). Il mondo latino tuttavia ha conosciuto Averroè soprattutto come lettore e commentatore di Aristotele, e gli ha riconosciuto il merito di averlo messo in luce nella sua autenticità, rispetto ai tentativi dei filosofi precedenti che tentarono di conciliarlo con le dottrine islamiche e con i sistemi neoplatonici. Effettivamente egli ha commentato gran parte dell’opera aristotelica, utilizzando molte citazioni esplicite che facilitano il distinguere le parole del filosofo greco da quelle del commentatore. Averroè (2) Tra i commenti rimasti ricordiamo i commenti lunghi alla Metafisica (If IV 144: «Averoìs che ’l gran comento feo») e al De Anima e quelli medi alle Categorie, Retorica, Poetica, De Caelo, De Generatione et Corruptione; il commento breve al De Sensu. Molte opere del filosofo cordovese furono tradotte in ebraico e, successivamente, dall’ebraico al latino. Verità filosofica e Verità rivelata: la convinta assimilazione delle dottrine aristoteliche è possibile per una rivalutazione delle facoltà intellettuali umane. Averroè riconosce alla filosofia anche la possibilità di interpretare allegoricamente i versi coranici oscuri, ambigui o apparentemente contraddittori con la ragione. Tuttavia, proprio dei filosofi è l’argomentare razionale o dimostrativo, che costituisce una delle modalità con cui gli uomini accedono alla verità. Gli altri due tipi di argomentazione, dialettica e retorica, sono proprie, rispettivamente, dei teologi e delle masse. Riconoscere la possibilità di comprendere l’unica verità attraverso diverse modalità non allontana Averroè dalla ortodossia musulmana, in quanto egli ritiene che, laddove la dottrina del Corano è chiara, tutti, anche i filosofi, devono seguirla. Averroè (3) Le verità religiose da accettare come tali sono: Dio come creatore e reggitore del mondo, l'unità di Dio, i nomi divini, la libertà di Dio, la creazione del mondo, la profezia, la giustizia divina, la resurrezione dopo la morte. Nonostante egli fosse sostanzialmente un ortodosso, fu costretto all’esilio e le sue opere distrutte sotto gli Almohadi. La cosmologia: da un punto di vista cosmologico Averroè critica i sistemi emanatistici e riprende alcune categorie aristoteliche per spiegare la formazione del mondo. Il filosofo rileva le contraddizioni cui vanno incontro alFarabi e Avicenna spiegando la nascita della molteplicità dall’unità. Essi, cioè, vengono meno a due principi su cui pure fondano il loro pensiero: 1. L’idea che dall’Uno viene soltanto l’uno; 2. L’identità tra intelletto e intelligibile. Causa della molteplicità è, secondo Averroè, la differenza, per ogni essere esistente, delle quattro cause che lo determinano (formale, materiale, efficiente, finale). L’unione di materia e forma, che è l’origine della esistenza di tutto, è operata direttamente da Dio, Primo Principio. Sia la materia sia le forme intelligibili, che sono nell’Essere Supremo, esistono dall’eternità. Il mondo, al contrario, è stato creato con il tempo dall’azione divina, che ha agito su materia e forma fuori dalla dimensione temporale. Averroè (4) La gnoseologia: riguardo la dottrina dell’intelletto Averroè apporta una fondamentale innovazione nella quadripartizione, di ispirazione aristotelica, sostenuta già da al-Kindi ed elaborata fino ad Avicenna. Egli ritiene, infatti, che non solo l’ Intelletto Agente, di origine divina, ma anche l’ Intelletto materiale o possibile sia unico per tutti gli uomini, in quanto pura potenzialità. Per spiegare poi l’individualità della conoscenza egli sottolinea l’origine sensibile del processo gnoseologico umano. La percezione del sensibile, da cui gli uomini astraggono gli intelligibili, essendo legata alla fantasia e alla immaginazione, varia da uomo a uomo e produce l’individualità della conoscenza. Compito essenziale dell’Intelletto Agente è, in questo contesto, quello di rendere possibile l’astrazione. E’ l’unione dell’Intelletto Agente con l’intelletto possibile a rendere immortale la parte intellettiva dell’anima, cioè l’intelletto speculativo, che costituisce l’attualizzazione della conoscenza nell’uomo. L’averroismo latino. Le interpretazioni latine di Averroè tesero ad accentuare gli aspetti più problematici della sua dottrina, e a risolverli in un modo sostanzialmente estraneo alla reale ispirazione del suo pensiero: il diverso statuto della verità filosofica e della verità rivelata (la cosiddetta doppia verità degli averroisti); l’eternità del mondo; la negazione della immortalità individuale. Sigieri di Brabante (1) Vissuto tra il 1240 circa e il 1284, fu magister artium a Parigi tra il 1266 e il 1276, quando venne denunciato per eresia. Nella Commedia è lo stesso Tommaso d’Aquino a presentare Sigieri a Dante, riconoscendone l’autorità di filosofo (Pd X 133 – 138): «Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, è 'l lume d'uno spirto che 'n pensieri gravi a morir li parve venir tardo: essa è la luce etterna di Sigieri, che, leggendo nel Vico de li Strami, silogizzò invidiosi veri». Fu autore di vari commenti ad Aristotele e di diverse raccolte di questioni; scrisse anche trattati (in particlare il De necessitate et contingentia causarum e il De aeternitate mundi). Contingenza e necessità nel dibattito sull’eternità del mondo. Sigieri sostiene una necessità causale assoluta fra la prima causa e il suo effetto, da cui discende la tesi dell'eternità del mondo e della specie umana, causati dal movimento eterno delle sfere celesti che, ripetendosi in un grande ciclo Sigieri di Brabante (2) cosmico, fa sì che «le cose che furono ritornano nella stessa specie secondo un processo circolare, e anche le dottrine, le leggi, le religioni e tutte le altre cose, in modo che le cose inferiori si svolgano circolarmente in dipendenza della circolazione delle cose superiori, benché di alcuni cicli si sia perduto il ricordo per la lontananza nel tempo». Per questo tutto avviene di necessità sebbene la volontà umana resti libera per l'indifferenza del giudizio della ragione, da cui dipende l'atto di scelta. La struttura della realtà è interpretata nei termini rigorosamente aristotelici di potenza e atto. La materia è principio d'individuazione e ad essa soltanto è dovuta l'introduzione di un elemento di contingenza, perché la materia può non essere disposta a ricevere le forme che necessariamente promanano dalla causa prima. L’unicità dell’intelletto e l’averroismo latino. La tesi che maggiormente caratterizza l'insegnamento di Sigieri è quella dell'unicità dell'intelletto possibile, che egli riprende dal commento di Averroè al De anima: «se vi fossero tanti intelletti quanti singoli uomini, l’intelletto sarebbe una facoltà del corpo». Sigieri di Brabante (3) In virtù di questa posizione egli è considerato, insieme a Boezio di Dacia, uno degli esponenti del cosiddetto averroismo latino. Per salvaguardare la singolarità della coscienza individuale, Sigieri ricorre alla dottrina dell'anima «composta»: le facoltà vegetativa e sensitiva dell'anima, che provengono dalla materia, si uniscono al principio intellettivo che viene da fuori, per cui l’anima non può esser detta semplice. A seguito delle polemiche con Tommaso d’Aquino (De unitate intellectus contra Avveroistas), Sigieri mitiga in seguito la sua proposta: il maestro brabantino distingue così fra due tipi di forme, quelle materiali (che costituiscono il corpo e ne sono costituite: di questo tipo sono le facoltà vegetativa, sensitiva, cogitativa o immaginativa) e quelle che lo costituiscono senza esserne costituite. Fra queste ultime rientrano i motori dei cieli e l'anima intellettiva dell'uomo, che è «forma sostanziale dell'uomo, che costituisce l'uomo nella specie, ma non è costituita dal corpo», e quindi non dipende da esso per la sua esistenza. L'intelletto si unisce infatti ad un corpo già informato dalla facoltà cogitativa (la più alta delle facoltà legate alla materia corporea). Sigieri di Brabante (4) In altri termini: l'anima intellettiva che risulta da questa unione è sì individuale, ma composta da due "semianime", perché costituita dalla unione della facoltà cogitativa con l'intelletto. Nel faticoso tentativo di mediazione di Sigieri percepiamo il tentativo di venire incontro all'esigenza, espressa con vigore polemico da Tommaso d'Aquino, di non negare il carattere individuale della vita intellettiva, pur mantenendo il distacco dell'intelletto dal corpo: «la sostanza intellettiva, benché sia perfezione della materia, sussistendo in sé nel proprio essere non ha bisogno della materia». La felicità intellettuale: da questa concezione dell’intelletto deriva una posizione etica che fa perno sull'idea di felicità intellettuale e che rifiuta di intendere alla lettera il sistema di pene e castighi corporali sostenuto dalla Chiesa cristiana. La felicità consiste, per Sigieri di Brabante, nel congiungimento dell'intelletto con le intelligenze separate e con Dio; secondo tale accezione essa è raggiungibile in questo mondo, come risultato della «vita filosofica» e non della vita ascetica. Tommaso d’Aquino: la vita (1) Nato a Roccasecca (1225-26), oblato (nel Medioevo il termine indicava colui che era consacrato a Dio fin dall’infanzia, per offerta dei genitori a un monastero o a un convento) al monastero di Montecassino, studiò a Napoli. Entrò nell'ordine domenicano nel 1244, contro la volontà della sua aristocratica famiglia. Da Napoli si recò a Parigi per proseguirvi i suoi studi fino al 1248 sotto la guida di Alberto Magno, che poi accompagnò nel suo ritorno a Colonia (1248-1252). Nel 1252, chiamato a Parigi, vi iniziò il suo insegnamento come baccalaureus biblicus (commento della Bibbia) e poi baccalaureus sententiarius (commento al Libro delle Sentenze di Pietro Lombardo). Erano gli anni della polemica contro i regolari che osteggiavano la presenza degli ordini mendicanti nelle Università, che si chiuse con l'intervento del papa Alessandro VI, a cui sia Bonaventura che Tommaso dovettero l'insediamento nelle rispettive cattedre parigine di teologia (1256-57). A questo periodo risale il suo primo trattato filosofico, il De ente et essentia. Fatto ritorno nella provincia romana dell'ordine domenicano insegnò nello studio della Curia Papale, dove si trovarono riuniti filosofi, scienziati, traduttori, tra i quali Guglielmo di Moerbeke, il domenicano fiammingo celebre per aver ritradotto Aristotele dal greco e per essergli stato prezioso collaboratore. Tommaso d’Aquino: la vita (2) In Italia Tommaso iniziò a commentare Aristotele e a scrivere la Summa contra Gentiles, su richiesta del generale dell'ordine domenicano Roberto di Peñafort. Dagli anni italiani fino alla morte egli lavorò inoltre all’opera centrale della sua ricerca filosofica, la Summa Theologiae, rimasta incompiuta. Il ritorno a Parigi, nel 1269, portò Tommaso nel cuore del dibattito universitario sugli argomenti più controversi della filosofia aristotelica, ovvero la dottrina dell'unicità dell'intelletto possibile e quella dell'eternità del mondo. Tornato in Italia, insegnò teologia a Napoli fino al 1273. Non sappiamo che cosa successe durante la messa mattutina celebrata il 6 dicembre 1273, data che segna la cessazione definitiva dell’intensa attività di scrittore di Tommaso. Alle insistenze di Reginaldo da Piperno, suo assitente, perché riprendesse a scrivere e a completare la Summa Theologiae, l’Aquinate rispose: "Reginaldo, non posso, perché tutto ciò che ho scritto è come paglia per me." Convocato a Lione per partecipare alla commissione preparatoria del secondo concilio ecumenico, morì il 7 marzo 1274, a Fossanova, durante il viaggio. Tommaso d’Aquino: le opere (1) Sintesi teologiche Scriptum super libros Sententiarum; Summa contra Gentiles; Summa Theologiae. Commenti ad Aristotele Sentencia Libri De anima, Sentencia Libri De sensu et sensato, Sententia super Physicam, Sententia super Meteora, Expositio Libri Peryermenias, Expositio Libri Posteriorum, Sententia Libri Ethicorum, Tabula Libri Ethicorum, Sententia Libri Politicorum, Sententia super Metaphysicam, Sententia super Librum De caelo et mundo, Sententia super Libros De generatione et corruptione Altri commenti Super Boetium De Trinitate, Expositio Libri Boetii De ebdomadibus, Super Librum Dionysii De divinis nomibus, Super Librum De Causis Scritti polemici Contra impugnantes Dei cultum et religionem, De perfectione spiritualis vitae, Contra doctrinam retrahentium a religione, De unitate intellectus contra Avveroistas, De aeternitate mundi. Trattati filosofico – teologici De ente et essentia, De principiis naturae, Compendium theologiae seu brevis compilatio theologiae ad fratrem Raynaldum, De regno ad regem Cypri, De substantiis separatis, De regimine principum. Tommaso d’Aquino: le opere (2) Questioni disputate [le quaestiones erano esercitazioni scolastiche con le quali i professori testavano la preparazione degli studenti su problemi teologici e filosofici. Modalità: Il professore presentava un casus (lectio), molto spesso preso direttamente dalla realtà, con il quale la classe si doveva cimentare dando fondo alle proprie conoscenze. La quaestio si apriva con la presentazione della controversia, poi seguita dalle argomentazioni (disputatio) a favore dell'una o dell'altra parte. Qui iniziava la fase dialettica, in cui gli studenti facevano le loro osservazioni filosofiche, teologiche o bibliche sotto la supervisione del professore. Quest'ultimo presentava la solutio, ovvero la soluzione più giusta del caso, o almeno quella che riteneva tale]. Quaestiones disputatae De veritate, De potentia, De malo, De virtutibus, De anima, De spiritualibus creaturis, De unione verbi incarnati; Quaestiones de Quodlibet I-XII. Commenti biblici Expositio super Isaiam ad litteram, Super Ieremiam et Threnos, Principium “Rigans montes de superioribus” et “Hic est liber mandatorum Dei”, Expositio super Iob ad litteram, Glossa continua super Evangelia (Catena Aurea), Lectura super Mattheum, Lectura super Ioannem, Expositio et Lectura super, Epistolas Pauli Apostoli, Postilla super Psalmos. Tommaso d’Aquino: il pensiero (1) La teologia come scienza. Secondo Tommaso la distinzione dell’ambito teologico da quello filosofico si accompagna all’introduzione del metodo propriamente razionale in teologia; la filosofia, che insegna tale metodo razionale, è definita «ancella» della teologia, ad indicare che il metodo può solo essere utilizzato al servizio della verità rivelata, e non come strumento di critica nei suoi confronti. L'esegesi tradizionale si trasforma in un sapere teologico costruito con l'applicazione di una rigorosa tecnica filosofica nella sua realizzazione più alta - il metodo scientifico di Aristotele. Il lume naturale della ragione. La struttura di fondo della filosofia di Tommaso è chiaramente leggibile nell’affermazione dell'inevitabile concordanza del «lume della fede» col «lume naturale della ragione» fondata sul fatto che entrambi derivano da Dio. L'atteggiamento di profonda fiducia nelle capacità autonome della razionalità deriva dal superamento del pessimismo circa la natura umana che soggiaceva alla costruzione agostiniana, radicato nell'idea del peccato originale e della successiva decadenza degli uomini dallo stato di perfezione originaria. Tommaso, vero figlio della sua epoca, sembra invece trovare nella filosofia aristotelica l'espressione della positiva perfezione della natura umana, fondata sull'idea della somiglianza originaria con Dio: Tommaso d’Aquino: il pensiero (2) «sicché detrarre alla perfezione delle creature è lo stesso che detrarre alla perfezione della virtù divina». La ragione è la massima espressione di questa somiglianza, e perciò la massima perfezione del genere umano. Ora, la ratio si incarnava storicamente per Tommaso nella filosofia di Aristotele: è pertanto naturale che egli abbia assunto l'opera dello Stagirita come la base della propria filosofia, tesa a definire l'autonomia della ragione e della natura e il loro armonioso accordarsi con la verità rivelata. Dio e natura. La dottrina della fede cristiana si interessa delle creature in quanto in esse si riscontra una certa immagine di Dio: l'errore su di esse può portare all'errore sulle cose di Dio. Se la filosofia umana considera le cose per quello che sono (da ciò emerge la diversità dei generi che si riscontrano nelle varie discipline filosofiche), la prospettiva assunta dalla fede cristiana è differente: considera il fuoco, per esempio, non in quanto fuoco, ma in quanto rappresenta la trascendenza di Dio." Questo "rappresentare" non è però un rinviare ad altro da sé, nel senso in cui l'alterità e la finitezza del simbolo rinviano misteriosamente all'infinito trascendente, o - per usare un termine di Bonaventura - le creature si rivelano "orma", traccia del creatore: la possibilità del "rappresentare" risiede, al contrario, nella partecipazione all'essere, che le creature finite e molteplici ricevono da Dio. Tommaso d’Aquino: il pensiero (3) Per questa ragione, ovvero, per il legame partecipativo dell'essere fondato nella creazione, le creature sono conoscibili in sé, e la loro conoscenza è via alla dimostrazione dell'esistenza di Dio. Tale dimostrazione è possibile in virtù dell'analogia: poiché l'essere conferito alle creature è lo stesso essere di Dio, seppure il modo di essere sia diverso nelle une (per partecipazione) e nell' altro (per essenza). L'analogia è infatti la possibilità di «predicare lo stesso nome di diversi soggetti secondo un significato che in parte è lo stesso e in parte diverso», come Tommaso afferma nel commento alla Metafisica: possibilità che risiede nel fatto che esiste un principio comune ai diversi soggetti. L'analogia può essere di due tipi: analogia attributionis e analogia proportionis: secondo la prima, «qualcosa si predica di due soggetti in riferimento ad un terzo» (per esempio sia un cibo che un corpo può essere detto sano, riferendosi al concetto di sanità); nell'analogia proportionis, invece, «qualcosa si predica di due soggetti in riferimento l'uno all'altro». E' in questo secondo senso che si parla di analogia fra Dio e le creature: «perciò, poiché non c'è niente prima di Dio, ma Egli è prima della creatura, nel parlare di Dio si deve impiegare il secondo modo dell'analogia, e non il primo». E' dunque nell'atto creatore di Dio che risiede il fondamento dell'analogia, attraverso la quale l'esistenza divina può essere provata. Tommaso d’Aquino: il pensiero (4) L’adesione all’aristotelismo. La posizione di Tommaso è quella di un aristotelico schietto; la sua opzione per la filosofia dello Stagirita è determinata dal fatto che in essa l'Aquinate - come la maggior parte dei suoi contemporanei - vede l'espressione compiuta della ragione naturale; e poiché «i principi naturali della ragione non possono essere in contrasto con la verità della fede cristiana», Tommaso ritiene senza alcun dubbio possibile un uso cristiano dell'aristotelismo. Di fatto il lavoro filosofico di Tommaso prende le mosse dalla riflessione su un concetto centrale della filosofia aristotelica, quello di atto, che utilizza come potente strumento nell'elaborazione della distinzione filosofica fra creatore e creatura - problema centrale di tutto il pensiero medievale, come abbiamo avuto modo di constatare più di una volta. Nel De ente et essentia Tommaso presenta la sua dottrina centrale della distinzione fra essenza e atto di essere (actus essendi) o esistenza: Dio è concepito come atto puro di essere che è per sua stessa essenza ("ipsum esse per suam essentiam"), incausato e infinito; mentre si riconosce nelle creature una distinzione reale fra essenza creata ed esistenza. Tommaso d’Aquino: il pensiero (5) L’eternità del mondo. Sulla dottrina dell'eternità del mondo Tommaso sostiene che non si può affermare niente dal punto di vista filosofico: né il suo inizio, cioè, né la sua eternità. E che abbia avuto inizio, cioè sia stato creato, «è credibile, ma non è dimostrabile né conoscibile». La dottrina della creazione non annulla la fisica aristotelica, anzi la fonda e la perfeziona; la realtà e l'autonomia degli esseri creati è garantita dalla libertà della creazione divina e dalla struttura partecipativa dell'essere, per cui le cose sono dotate di una vera e propria causalità. Dio non ha dato alle creature soltanto la sua similitudine quanto all'essere, ma anche «quanto all'agire, in maniera che le creature abbiano le sue proprie azioni». Gli esseri creati si dispongono in una scala, che ha ai suoi estremi Dio, atto puro, e le creature materiali, la cui singolarità è dovuta alla materia quantitate signata (cioè la materia contrassegnata dalla propria estensione), che le individua limitandole. Fra questi due estremi stanno gli angeli (forme pure create) e la creatura umana: infatti l'anima intellettiva, forma di quel sinolo (totalità individuale composta di materia e forma) che è l'essere umano, lo pone al confine fra il mondo materiale e quello delle intelligenze. Tommaso d’Aquino: il pensiero (6) L’essere umano. Per Tommaso l'anima è aristotelicamente forma del corpo: per affermare infatti la piena e concreta individualità dell'uomo, egli ritiene di dover eliminare ogni residuo del dualismo platonico espresso nell'immagine dell'anima come nocchiero della nave che è il corpo dell'uomo. L'immortalità dell'anima, che sembrava andare perduta nel recupero del concetto propriamente aristotelico di entelechia («atto del corpo fisico organico che ha la vita in potenza»), è garantita, per Tommaso, dall'operazione propria dell'anima razionale, l‘intelligere, nella quale si manifesta il carattere spirituale e l'autonomia dell'anima - ciò per cui essa si colloca, appunto, al confine con l'ordine angelico. Egli attacca polemicamente la dottrina della pluralità delle forme affermando che l'anima razionale sussume le funzioni inferiori: «per questa ragione lo stesso Aristotele dice nel secondo libro De anima che 'l'anima vegetativa è in quella sensitiva' e la sensitiva in quella intellettiva 'come il triangolo è nel quadrangolo' e il quadrangolo nel pentagono». L'anima è così l'unica forma sostanziale dell'uomo. Smantellata l'impalcatura delle forme successive, nel De unitate intellectus contra averroistas Tommaso si accinge a combattere l'opinione di Averroè sull'intelletto proprio a partire da questa rigorosa premessa dell'unità sostanziale dell'uomo, cui corrisponde l'individualità dell'atto di intendere, che ha per soggetto non un intelletto separato, ma l'intelletto che è facoltà dell'anima la quale è forma del corpo. Tommaso d’Aquino: il pensiero (7) La conoscenza. La conoscenza è intesa da Tommaso come un caso particolare del passaggio dalla potenza all'atto. Gli intelligibili, che si trovano in potenza nelle immagini formatesi dal contatto dei sensi con le cose, infatti, vengono separati da esse e dunque messi in atto come intelligibili. Questo avviene nel processo astrattivo, in cui l'intelletto si rivolge ad un solo aspetto della «cosa», sia considerandone la natura più universale o comprensiva e lasciando cadere gli aspetti specifici o individuali (quando per esempio si dice che l'uomo è un animale razionale: perché animale è un termine che comprende quello di uomo); sia considerando una singola natura o qualità, distaccata dal soggetto in cui sussiste (quando per esempio si dice che nell’uomo vi è la umanità). Nel primo caso si parla di astrazione totale, o universale; nel secondo, di astrazione formale. Il processo di astrazione è possibile in virtù del lume naturale immesso da Dio nell'anima umana come sua funzione più alta. Tommaso identifica questo lume naturale con l'intelletto agente - che la tradizione avicenniana identificava nel dator formarum e quella agostiniana nell'illuminazione divina - collocato all'interno dell'anima umana. A maggior ragione l'intelletto possibile (o passivo, o materiale: cioè quell'intelletto che «sta agli intelligibili come il senso sta ai sensibili») va inteso come una facoltà individuale, perché in caso contrario non si riuscirebbe, secondo Tommaso, a spiegare come il singolo uomo (hic homo) intenda. Tommaso d’Aquino: il pensiero (8) Intelletto e volontà. Nell'intelletto, saldamente individuale, sta la radice della volontà e della libera scelta. Questa tesi, che segna la radice della rottura con la tradizione agostiniana, è evidentissima nella dottrina morale di Tommaso, cui sembra collegarsi una delle tesi condannate nel 1270, che cioè «il libero arbitrio è una potenza passiva, non attiva, e che è mosso necessariamente dall'oggetto dell'appetito». Il primato dell'intelletto sulla volontà, per cui «la volontà può tendere verso quelle cose che la ragione apprende sotto l'aspetto del bene», viene in qualche modo mitigato da Tommaso attraverso due considerazioni: 1) che la volontà sarebbe necessitata soltanto se l'intelletto potesse presentarle il sommo bene; 2) che nel giudizio pratico la volontà interviene non solo con la scelta (electio) ma anche con la inquisitio e il consilium, cioè con la considerazione delle circostanze particolari che stanno alla base dell'azione. Tuttavia le stesse premesse dell'ottimismo partecipativo di Tommaso, che abbiamo visto all'opera nell'ambito della metafisica, si rendono visibili anche in campo morale, specialmente nella definizione di legge naturale: Tommaso d’Aquino: il pensiero (9) «La legge naturale non è altro che la partecipazione della legge eterna nella creatura razionale». Da essa deriva anche la legge positiva: questa viene definita come «una legge trovata dagli uomini secondo la quale si dispongono in particolare le cose che sono contenute nella legge di natura [che deriva] dai precetti della legge naturale, come da principi comuni e indimostrabili». La politica. Come la ragione e la fede, pur occupando due ambiti separati, non sono fra loro in opposizione, così il fine naturale dell'uomo non può essere, per Tommaso, in contrasto col fine soprannaturale che è oggetto dell'opera divina di salvezza. Per questa ragione egli si distacca dall'agostinismo anche nell'ambito del pensiero politico, muovendo dalla premessa aristotelica della naturale inclinazione dell'uomo alla vita sociale. «Poiché ogni uomo è parte della società (civitas), è impossibile che un uomo sia buono se non partecipa del bene comune». Questa bonitas, che si realizza nella convivenza civile, è il primo gradino per raggiungere la sanctitas, che è il fine ultimo; per questo motivo l'autorità politica preposta alla convivenza civile, il regnum, è in relazione con e subordinata all'autorità preposta alla realizzazione del fine ultimo, il sacerdotium. Tommaso d’Aquino: il pensiero (10) La tradizionale discussione sulla divisione fra i due poteri conosce, all'epoca di Tommaso, una ripresa legata alle mutate condizioni politiche: l'emergere degli stati nazionali e la particolare situazione del papato, ultimo potere universale. Tommaso discute ampiamente la questione nel commento alla Politica di Aristotele e in un trattato scritto negli anni parigini, il De regimine principum - incompiuto e completato da Tolomeo da Lucca, che tende a risolvere l'equilibrio (talvolta ambiguo) di Tommaso fra i due poteri in senso decisamente teocratico. La dimostrazione dell’esistenza di Dio: le «cinque vie». L’impossibilità della visione diretta di Dio ci induce alla necessità di dimostrarne l’esistenza a posteriori: tale dimostrazione rientra nei preambula fidei, verità che la ragione può raggiungere con le sue sole forze e mantenendosi nel proprio ambito. «Che Dio esista si può provare per cinque vie», afferma Tommaso nella seconda questione del primo libro della Summa Theologiae. Muovendo dall’osservazione del mondo creaturale, nella sua multiformità e variegatezza (non dalla contemplazione o meditazione, come in Bonaventura e in Anselmo) si giunge secondo Tommaso a porne la condizione dell'esistenza, che risiede propriamente nel suo creatore. Tommaso d’Aquino: il pensiero (11) Ogni via prende in considerazione una caratteristica della realtà per risalire al principio primo in cui essa si radica. La prima via assume come punto di partenza il movimento osservabile delle cose naturali: inteso non semplicemente come moto di traslazione, ma come modificazione che si realizza attraverso il passaggio dalla potenza all’atto, inderogabile legge cui la realtà mutevole sottostà, questo è il segno dell’esistenza di un principio primo in cui ogni movimento si arresta: se è vero che tutto ciò che si muove è mosso da altro, affinché tale procedere non vada all’infinito (secondo un assunto fondamentale del paradigma aristotelico e in genere del pensiero greco: l'irrazionalità dell'infinito), è infatti necessario arrivare ad un motore primo non mosso da altro. La seconda via prende in analisi l’interazione delle realtà naturali tra di loro: l’una agisce sull’altra in qualità di causa efficiente, producendo effetti. Tenendo fermo il presupposto della fisica aristotelica per cui nessuna cosa può essere causa di se stessa, per il verificarsi di un evento bisogna ripercorrere all’indietro la catena delle cause e degli effetti, giungendo, se non vogliamo accettare che si processo vada all'infinito, ad «ammettere quella prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio». Tommaso d’Aquino: il pensiero (12) La terza via muove dalla contingenza della realtà che ci circonda. Un evento può darsi, o meno. In ogni caso esso non è sempre, ma viene all’essere, per poi cessare. Se ammettiamo che la realtà sia pura contingenza, allora non c’è modo di spiegare come ogni ente venga all’essere, perché dal nulla non si crea nulla. E’ invece necessario postulare l’esistenza di un primo principio, necessario, da cui tutte le cose prendano origine, che è condizione di esistenza delle res naturales nella loro assoluta contingenza. La quarta via prende origine dal fatto osservabile che le cose realizzano delle proprietà secondo gradi differenti. Si può dire infatti che una cosa è più o meno buona, o nobile, di un’altra. Per porre questo paragone è però necessario un termine di riferimento assoluto, in cui tali proprietà sono al massimo grado, che è Dio. La quinta via coglie un aspetto della realtà apparentemente meno evidente: gli eventi, realizzati da corpi ed enti naturali pur privi di intelligenza, sembrano orientati verso un fine di perfezione, che è la realizzazione nel creato dell’ordine e della bellezza. Essendo tali enti privi di conoscenza, è inesplicabile il fatto che essi perseguano tale finalità in modo coerente, a meno che non si ammetta un principio superiore intelligente che ordini la loro attività e lo svolgersi degli eventi in relazione ad tale fine. Opere consultate per il corso (in rosso quelle difficili) 1 Testi sul Medioevo : H. Pirenne: Storia d'Europa: dalle invasioni al XVI secolo, Sansoni, 1984 (1910) J. Huizinga: L' autunno del Medioevo, Sansoni, 1985 (1919) M. Bloch: I re taumaturghi: studi sul carattere sovrannaturale attribuito alla potenza dei re, particolarmente in Francia e in Inghilterra, Einaudi, 1989 (1924) M. Bloch: La società feudale, Einaudi, 1981 (1939-1940) E.H. Gombrich: La storia dell’arte raccontata da Gombrich, Leonardo Arte, 1995 (1950) J. Le Goff : La civiltà dell'occidente medievale, Einaudi, 1983 (1964) J. Le Goff : La nascita del Purgatorio, Einaudi, 1982 (1981) J. Le Goff (a cura): L’uomo medievale, Laterza, 1988 Testi di Dante Alighieri: Opere Volume primo (Rime, Vita Nova, De vulgari eloquentia), Mondadori, 2011 Opere Volume secondo (Convivio, Monarchia, Epistole, Egloge), Mondadori, 2014 Commedia (a cura di E. Pasquini e A. Quaglio), Garzanti, 1987 Testi dei filosofi trattati: Aristotele: Etica Nicomachea (a cura di M. Zanatta), Rizzoli, 1986 Agostino: Le confessioni (a cura di C. Carena), Mondadori, 1992 Abelardo ed Eloisa: Lettere (a cura di I. Pagani), UTET, 2015 Tommaso d’Aquino: Compendio della Somma teologica (a cura di G. Dal Sasso e R. Coggi), Edizioni Studio Domenicano, 1989 Opere consultate per il corso (in rosso quelle difficili) 2 Testi su Dante: E. Auerbach: Studi su Dante, Feltrinelli, 2005 (1929) C.H. Singleton: La poesia della Divina Commedia, Il Mulino, 1999 (1950 -1969) E. Gilson: Dante e la filosofia, Jaca Book, 1987 B. Nardi: Saggi di filosofia dantesca, La Nuova Italia, 1967 B. Nardi: Dante e la cultura medievale, Laterza, 1985 G. Contini: Un’idea di Dante: saggi danteschi, Einaudi, 1976 M. Santagata: Dante. Il romanzo della sua vita, Mondadori, 2013 Testi su Aristotele: W.W. Jaeger: Aristotele: prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, Bompiani, 2003 (1923) W. D. Ross: Aristotele, Feltrinelli, 1982 (1923) I. During: Aristotele, Mursia, 1985 (1966) G. Reale: Introduzione a Aristotele, Laterza, 1987 P. Donini: La filosofia di Aristotele, Loescher, 1982 C. Natali: La saggezza di Aristotele, Bibliopolis, 1989 E. Berti (a cura): Guida ad Aristotele, Laterza, 1997 J. Barnes: Aristotele, Einaudi, 2002 A. Jori: Aristotele, B. Mondadori, 2003 Opere consultate per il corso (in rosso quelle difficili) 3 Testi su Agostino: M. Vannini: Invito al pensiero di Sant‘Agostino, Mursia, 1989 G. Catapano: Agostino, Carocci, 2013 E. Portalié: Sant’Agostino, voce del Dictionnaire de théologie catholique, 1903 Testi su Abelardo: E. Gilson: Eloisa e Abelardo, Einaudi, 1970 Mario Dal Pra: introduzione a Conosci te stesso o Etica, La Nuova Italia, 1976 M. B. Brocchieri Fumagalli: Eloisa e Abelardo: parole al posto di cose, Mondadori, 1987 M. B. Brocchieri Fumagalli : Introduzione a Abelardo, Laterza, 1988 Testi su Tommaso d’Aquino: S. Vanni Rovighi: Introduzione a Tommaso d’Aquino, Laterza, 1990 P. Porro: Tommaso d’Aquino: un profilo storico-filosofico, Carocci, 2014 Manuali e opere di storia della filosofia antica e medievale: M. Dal Pra: Sommario di storia della filosofia, Volume I, La Nuova Italia, 1986. G. Reale: Storia della filosofi antica, Volumi II e III, Vita e Pensiero, 1984. E. Gilson: La filosofia nel medioevo, La Nuova Italia, 1983 (1944) C. Vasoli: La filosofia medievale, Feltrinelli, 1972 M. B. Brocchieri Fumagalli: Storia della filosofia medievale, Laterza, 1996 Manuale di Filosofia Medievale on-line, a cura della facoltà di Lettere - Università di Siena