Dante e la Filosofia II
(che poi è Etica II)
a cura di Enzo Galbiati
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Cicerone (1)
Marco Tullio Cicerone (Arpino 106 a.C. - Formia 43 a.C.): nato da agiata
famiglia equestre, iniziò la sua carriera politica, dopo gli studi in diritto,
retorica e filosofia, nell’80 a.C. con la difesa (vittoriosa) di Sesto Roscio
Amerino accusato di parricidio per un intrigo a sfondo politico. Nel 75
ottenne la questura per la Sicilia occidentale, durante la quale si guadagnò
la gratitudine dei Siciliani, che lo vollero loro patrono nella causa da essi
intentata contro Verre.
Edile curule nel 69; pretore nel 66 sostenne la legge che dava a Pompeo il
comando della guerra contro Mitridate, perché, nonostante i profili di
illegalità, rispondeva alle necessità del momento. Questo suo pragmatismo,
unito a un innato buonsenso e a un temperamento moderato, lo aveva
inizialmente reso avverso all’oligarchia.
Ma avversò anche con pari fermezza, nell’anno del suo consolato (63),
quelli che riteneva eccessi dei popolari, opponendosi alla legge agraria di
Servilio Rullo, difendendo Gaio Rabirio, e, dopo avere stroncato il tentativo
di Catilina di giungere al potere per vie legali, reprimendo quello di
conseguirlo con la violenza.
La congiura nella quale si sapevano implicati personaggi come Crasso e
Cesare fu scoperta e soffocata nel sangue, anche per vie illegali, ma certo
con coraggio e decisione.
Cicerone (2)
Da allora la forza stessa delle cose lo spinse nel campo dei conservatori
stretti attorno a Pompeo; divenuto un ostacolo fastidioso per i triunviri,
Cesare si sbarazzò di lui provocandone l’esilio (58).
Il raccoglimento in cui si chiuse negli anni successivi gli permise di comporre il
De oratore e il De republica. Si adoperò vanamente per scongiurare la guerra
civile e dopo avere a lungo tergiversato si schierò dalla parte di Pompeo; dopo
Farsalo (48) si riaccostò a Cesare tributando persino qualche elogio al
dittatore.
Fu questo il periodo più tormentato della vita di Cicerone; alle angustie
politiche si aggiungevano quelle familiari: nel 47 il divorzio da Terenzia, nel 45
la morte della figlia Tullia, e poco dopo il divorzio dalla seconda moglie, la
giovane Publilia. Cicerone allora cercò rifugio negli studi. Ed è a questo
periodo che risalgono le sue principali opere filosofiche (si ricordano:
l’Hortensius oggi perduto, una sorta di introduzione ed esortazione allo
studio della filosofia, la cui lettura fu decisiva per Agostino; De finibus
bonorum et malorum, Tusculanae disputationes, De natura deorum,
Cato Maior de senectute e De officiis).
Dopo l’uccisione di Cesare (44) Cicerone abbandonò Roma. Formatosi però il
secondo triunvirato, venne sacrificato da Ottaviano alla vendetta di Antonio i
cui sicari lo uccisero nelle vicinanze della sua villa di Formia.
Cicerone (3)
Scritto nel 44 a.C. poco prima del De officiis ed a poca distanza dal Cato
maior e come quest'ultimo dedicato all'amico epicureo Attico, il breve
dialogo Laelius de amicitia è ambientato da Cicerone nell'anno 129, lo
stesso del De re publica. Anche qui, come nell'importante dialogo sullo
Stato, gli interlocutori appartengono al cosiddetto «circolo degli Scipioni»: a
pochi giorni dalla misteriosa morte di Scipione Emiliano durante le agitazioni
graccane, Lelio rievoca davanti a Gaio Fannio e Muzio Scevola la figura
dell'amico scomparso e disserta sul valore e le finalità dell'amicizia in se
stessa.
Il clima è quello di una composta tristezza, ma il tono è combattivo; lo sfondo
ritrae una situazione politica estremamente tesa, così com'era tesa la
situazione a Roma nell'anno 44, con Cesare da poco assassinato e Cicerone
che cercava il rilancio sulla scena politica.
Questo in sintesi il contenuto:
Lelio intrattiene i propri interlocutori sul valore e sulla natura dell'amicizia
stessa (1-17). L'amicizia, lungi dal risolversi in modo esclusivo nella sfera
dell'utile e dell'interesse particolare del singolo individuo, deve fondarsi prima
di tutto tra i boni cives su una comunione di valori etici condivisi, aventi il
loro cardine nel concetto di virtus (18-28).
Cicerone (4)
L'amicizia è un sentimento nobile che nasce dall'amore reciproco per la
virtus, e non già dal bisogno o da una certa cogitatio sulla sua utilità
(polemica antiepicurea). L'amicizia non si deve dunque regolare in base
all'utilitas ma alla stessa virtus, come aveva affermato già Aristotele, ed è
per questo che non si deve assecondare l'amico se il suo comportamento è
sbagliato, nel senso che si pone contro la stessa virtù o addirittura contro la
patria: questa infatti non è più amicizia, ma complicità (29-44).
La vera amicizia deve essere più forte delle avversità contingenti, un
concetto che Cicerone esprime citando Ennio (amicus certus in re incerta
cernitur = l'amico certo si riconosce nella sorte incerta, ovvero: il vero amico
si riconosce nei momenti difficili).
Infine Lelio espone alcuni criteri pratici per la scelta degli amici e mette in
guardia contro i falsi amici e i simulatori, fra i quali rientrano anche gli
adulatori (45-104).
Il dialogo nasce sicuramente dalla volontà di superare l'antica e tradizionale
concezione romana dell'amicizia come serie di legami personali a scopo di
interesse politico, in una logica che oggi definiremmo clientelare. Cicerone,
sulla scorta della riflessione sulla filosofia compiuta negli anni di ozio forzato
dall'attività pubblica, cerca invece di definire e stabilire i fondamenti etici del
sentimento che lega gli uomini.
Agostino: vita (1)
Sant'Agostino d'Ippona, al secolo Agostino Aurelio (in latino Aurelius
Augustinus detto anche Doctor Gratiae), è stato un vescovo, filosofo,
teologo, oratore, scrittore, padre e dottore della Chiesa latina. Dopo un
travagliato percorso interiore ed intellettuale di ricerca della verità, diventato
fermo difensore dell'ortodossia cattolica contro varie religioni ed eresie
dell'epoca, con la sua riflessione ha segnato un punto fondamentale per la
successiva Tradizione cristiana.
Dalla nascita alla conversione (354-386)
Agostino, di etnia berbera o punica, ma di cultura fondamentalmente
ellenistico-romana, nacque a Tagaste (attualmente Souk Ahras, in Algeria,
situata a circa 70 km a sud-est di Ippona - l'odierna Annaba o Bona) il 13
novembre del 354 d.C. Conobbe a fondo la lingua e la cultura latina, non
ebbe familiare il greco, ignorò il punico.
Educato cristianamente dalla piissima madre, Monica, restò sempre,
nell'animo, un cristiano, anche quando, a 19 anni, abbandonò la fede
cattolica. La sua lunga e tormentata evoluzione interiore (373-386) cominciò
con la lettura dell'Ortensio di Cicerone che lo entusiasmò per la sapienza,
ma ne tinse i pensieri di tendenze razionaliste e naturaliste. Poco dopo, letta
senza frutto la Scrittura, incontrò, ascoltò e seguì i manichei.
Agostino: vita (2)
Le ragioni principali furono tre: il proclamato razionalismo che escludeva la
fede, l'aperta professione d'un cristianesimo spirituale e puro che escludeva
l'Antico Testamento, la soluzione radicale del problema del male che i
manichei offrivano. Non fu un manicheo convinto, ma solo fiducioso che gli
venisse mostrata la sapienza promessa (De beata vita, 4); fu invece un
convinto anticattolico. Del manicheismo accettò i presupposti metodologici e
metafisici: il razionalismo, il materialismo, il dualismo.
Accortosi a poco a poco, attraverso lo studio delle arti liberali,
particolarmente della filosofia, dell'inconsistenza della religione di Mani – la
controprova gliela diede il vescovo manicheo Fausto – non pensò di tornare
alla Chiesa cattolica, non si affidò a una corrente di filosofi "perché
ignoravano il nome di Cristo" (Confessioni 5, 14, 25); ma cadde nella
tentazione scettica.
Il cammino di ritorno cominciò a Milano, con la predicazione di Ambrogio
che dissipava le difficoltà manichee e offriva la chiave per interpretare
l'Antico Testamento, continuò con la riflessione personale sulla necessità
della fede per giungere alla sapienza, approdò alla convinzione che l'autorità
su cui si appoggia la fede è la Scrittura, garantita e letta dalla Chiesa.
Si è molto discusso e si discute sul momento della conversione di Agostino e
sull'influsso che in essa ebbe la lettura dei platonici.
Agostino: vita (3)
Se si vuole restare fedeli ai testi agostiniani occorre fare una distinzione
importante tra il motivo della fede e il contenuto della medesima: quello lo
aveva conquistato prima della lettura dei platonici; questo lo chiarì, in parte,
dopo. Nonostante molte questioni gli restassero ancora oscure, aderiva
all'autorità di Cristo e, ormai, all'autorità della Chiesa: «rimaneva tuttavia
saldamente radicata nel mio cuore la fede nella Chiesa cattolica. Certo una
fede ancora rozza in molti punti e fluttuante oltre i limiti della giusta dottrina,
però il mio spirito non l'abbandonava, anzi se ne imbeveva ogni giorno di
più» (Confessioni 7, 5, 7).
I platonici lo aiutarono a risolvere due grossi problemi filosofici, quello del
materialismo e quello del male: il primo imparò a superarlo scoprendo nel
suo mondo interiore, seguendo appunto il consiglio dei platonici
(Confessioni 7, 10, 16), la luce intelligibile della verità; il secondo intuendo la
nozione del male come difetto o privazione di bene. Restava il problema
teologico della mediazione e della grazia. Per risolverlo si volse a San Paolo,
dalla cui lettura comprese che Cristo non è solo Maestro, ma anche
Redentore. Superato così il naturalismo, il cammino di ritorno alla fede
cattolica era terminato.
Ma a questo punto nasceva un altro problema: la scelta del modo di vivere
l'ideale cristiano della sapienza.
Agostino: vita (4)
Se cioè convenisse rinunciare per esso ad ogni speranza terrena, e quindi
anche alla carriera e al matrimonio, oppure no. La prima rinuncia, anche se
la carriera si annunciava brillante (era vicina la presidenza d'un tribunale o
d'una provincia: Agostino aveva studiato per la carriera forense), non gli
costava molto; molto invece gli costava la seconda: a 17 anni s'era unito con
una donna, da cui aveva avuto un figlio, Adeodato (morto tra il 389 e il 391),
e a cui era restato sempre fedele (Confessioni 4, 2, 2). Dopo lunghe
esitazioni e drammatici contrasti, non senza uno straordinario aiuto della
grazia, la scelta fu fatta secondo il consiglio dell'Apostolo e le più profonde
aspirazioni di Agostino: «Mi volgesti a te così a pieno, che non cercavo più
né moglie né altra speranza di questo mondo» (Confessioni 8, 12, 30).
Era l'anno 386, inizio del mese di agosto.
Dalla conversione all'episcopato (386-396)
Presa la decisione di rinunciare all'insegnamento e al matrimonio, verso la
fine di ottobre si ritirò a Cassiciaco (probabilmente l'odierna Cassago in
Brianza) per prepararsi al battesimo, ai primi di marzo tornò a Milano,
s'iscrisse tra i catecumeni, seguì la catechesi di Ambrogio e fu da lui
battezzato, insieme all'amico Alipio e al figlio Adeodato, nella notte tra il 24 e
il 25 aprile, vigilia di Pasqua del 387.
Agostino: vita (5)
Dopo il battesimo, la piccola comitiva decise di tornare in Africa per attuare
laggiù il proposito di vivere insieme nel servizio di Dio. Prima della fine di
agosto lasciò Milano e giunse a Ostia dove la madre, Monica, si ammalò
improvvisamente e morì. Morta la madre, Agostino decise di tornare a Roma
e vi si trattenne fino a dopo la morte dell'usurpatore Massimo (luglio o agosto
del 388), interessandosi alla vita monastica e continuando a scrivere libri;
partì poi per l'Africa e si ritirò a Tagaste, dove con gli amici mise in opera il
suo programma di vita ascetica.
Nel 391 scese a Ippona per cercare un luogo dove fondare un monastero e
vivere con i miei fratelli, ma vi trovò l'ordinazione sacerdotale, che accettò
riluttante. Ordinato sacerdote, ottenne dal vescovo di fondare, secondo il suo
piano, un monastero, dove prese a vivere secondo la maniera e la regola
stabilita ai tempi dei Santi Apostoli, intensificando l'ascetismo, approfondendo
gli studi di teologia e cominciando l'apostolato della predicazione.
La consacrazione episcopale intervenne nel 395. Fu per qualche tempo
coadiutore d'Ippona, poi dal 397 – vescovo. Lasciò allora il monastero dei
laici, dov'era vissuto a capo di quella comunità, e per essere più libero
nell'usare ospitalità verso tutti, si ritirò nella casa del vescovo facendone un
monastero di chierici.
Agostino: vita (6)
Dall'episcopato alla morte (396-430)
L'attività episcopale di Agostino fu davvero prodigiosa, tanto quella ordinaria
per la sua diocesi quanto quella straordinaria per la Chiesa d'Africa e per la
Chiesa universale.
Tra le attività ordinarie devono annoverarsi: il ministero della parola (si sono
conservati più di 500 sermoni); l'audientia episcopi per ascoltare e giudicare
le cause, che gli occupavano non raramente tutta la giornata; la formazione
del clero; l'organizzazione dei monasteri maschili e femminili; la visita agli
infermi.
Ancor maggiore l'attività straordinaria: i molti viaggi per esser presente ai
frequenti concili africani; la dettatura delle lettere (se ne sono conservate 217)
per rispondere a quanti, da ogni parte e di ogni ceto, si rivolgevano a lui;
l'illustrazione e la difesa della fede. Quest'ultima esigenza lo indusse ad
intervenire senza posa contro i manichei, i donatisti, i pelagiani, gli ariani,
i priscillanisti, gli origenisti e i pagani (vedi slide successiva).
Morì il 28 agosto del 430, al terzo mese dell'assedio d'Ippona da parte dei
Vandali.
Le sue ossa, in data incerta, furono trasportate in Sardegna e da qui, verso il
725, a Pavia nella Basilica di San Pietro in Ciel d'Oro, dove riposano tuttora.
Agostino: opere (1)
Agostino fu un autore molto prolifico, notevole per la varietà dei soggetti su
cui scrisse e soprattutto per l’assoluta qualità dello stile. Di seguito un
tentativo di classificazione delle sue opere:
Opere autobiografiche e corrispondenza
Le Confessioni, scritte intorno al 400, sono la storia della sua maturazione
religiosa. Il nocciolo del pensiero agostiniano presente nelle Confessioni sta
nel concetto che l'uomo è incapace di orientarsi da solo: esclusivamente con
l'illuminazione di Dio, a cui deve obbedire in ogni circostanza, l'uomo riuscirà
a trovare l'orientamento nella sua vita. La parola confessioni viene intesa in
senso biblico (confiteri), non come ammissione di colpa o racconto, ma
come preghiera di un'anima che ammira l'azione di Dio nel proprio interno.
Le Retractationes (= Ritrattazioni, composte verso la fine della sua vita, tra
il 426 e il 428), sono una revisione, un riesame dei propri lavori ripercorsi in
ordine cronologico, spiegando l'occasione della loro genesi e l'idea
dominante di ognuno. Utili per comprendere l'evoluzione del pensiero.
Le Epistolae (=Lettere), che nella raccolta benedettina ammontano a 270
(53 dei corrispondenti di Agostino), sono utili per la conoscenza della sua vita,
della sua influenza e della sua dottrina.
Agostino: opere (2)
Testi di carattere filosofico (dialoghi e trattati abbondantemente
ritrattati in seguito dallo stesso Agostino):
•a Cassiciaco (novembre 386 - marzo 387): Contra Academicos libri tres,
De beata vita, De Ordine libri duo, Soliloquiorum libri duo.
•a Milano (prima del battesimo): De immortalitate animae liber unus;
•a Roma (autunno 387 - luglio o agosto 388): De quantitate animae liber
unus, De libero arbitrio libri tres;
•a Tagaste (388 - 391): De musica libri sex, De magistro liber unus.
Libri apologetici (sotto questa si classificano le opere in difesa della
fede cristiana contro i pagani o contro coloro che negavano la fede in
nome della ragione):
De vera religione (=La vera religione, 389 – 391); De utilitate credendi
(=L'utilità di credere, del 391); De fide rerum quae non videntur (=La fede
nelle cose che non si vedono, del 400); De civitate Dei contra Paganos (=
La città di Dio contro i Pagani, in 22 libri, iniziato nel 413 e terminato nel 426;
esso rappresenta la risposta di Agostino ai pagani che attribuivano la caduta
di Roma nel 410 all'abolizione del Paganesimo).
Agostino: opere (3)
Opere dogmatiche e morali:
De Trinitate (=La Trinità, in 15 libri, scritto dal 400 al 416, è l'opera più
complessa e profonda di Agostino); Enchiridion de fide, spe et charitate (=
Manuale sulla fede, sulla speranza e sull'amore, del 421);
De diversis quaestionibus ad Simplicianum (=Diverse domande a
Simpliciano, del 397); Quaestiones Evangeliorum (=Domande sui Vangeli);
Quaestiones in Heptateuchum (=Domande sull'Eptateuco); Quaestiones
septemdecim in Evangelium secundum Matthaeum (=Diciassette
domande sul Vangelo secondo Matteo); De diversis quaestionibus
octoginta tribus (=Ottantatré diverse questioni); De octo Dulcitii
quaestionibus (=Le otto domande di Dulcizio); De octo quaestionibus ex
Veteri Testamento (=Otto domande sull'Antico Testamento); De bono
coniugali (=Il bene del matrimonio); De bono viduitatis (=Il bene della
vedovanza); De coniugiis adulterinis (=Le unioni adulterine); De
continentia (=La continenza); De cura pro mortuis gerenda (=La cura che
dev'essere riservata ai morti); De mendacio (=La menzogna); De patientia
(=La pazienza); De quantitate animae (=La grandezza dell'anima); De
utilitate ieiunii (=L'utilità del digiuno); De sancta virginitate (=La santa
verginità).
Agostino: opere (4)
Scritti esegetici (cioè di analisi e commento della Sacra Scrittura):
De doctrina christiana (=La dottrina cristiana, iniziato nel 397 e terminato
nel 426); De Genesi ad litteram (=La Genesi alla lettera, composto tra il 401
ed il 415); Enarrationes in Psalmos (Commenti ai Salmi); De sermone
Domini in monte (=Il discorso del Signore sulla montagna); De consensu
evangelistarum (=Il consenso degli evangelisti", scritto nel 400); In
evangelium Ioannis (=Nel vangelo di Giovanni, scritto nel 416 e,
generalmente, considerato una delle opere migliori di Agostino); Expositio
Epistolae ad Galatos (=Esposizione della Lettera ai Galati); Annotationes
in Iob (Annotazioni in Giobbe); De Genesi ad litteram imperfectus (=La
Genesi alla lettera incompiuta); Epistolae ad Romanos inchoata expositio
(=Inizio dell'esposizione della Lettera ai Romani); Expositio quarundam
propositionum ex Epistola ad Romanos (Esposizione di alcune frasi dalla
Lettera ai Romani); In Epistolam Ioannis ad Parthos (=Nella Lettera di
Giovanni ai Parti); Locutiones in Heptateuchum (=Locuzioni
nell'Eptateuco).
Sono infine da ricordare i numerosissimi testi (una quarantina) relativi alle
controversie contro eretici, scismatici e apostati.
Intermezzo: manicheismo (1)
Il manicheismo è una religione fondata da Mani (216-277). Consapevole
della sofferenza del mondo e del vivo contrasto tra bene e male nella
persona umana, il manicheismo è indotto a concepire tutta la realtà esistente
come espressione di una lotta perenne tra due principi opposti: il Bene (la
Luce, lo Spirito, Dio, nel senso proprio della parola) e il Male (le Tenebre, la
Materia, lo Spirito demoniaco, il Satana ‘cristiano’).
Questi due principi coeterni, prima che il mondo sensibile avesse avuto
origine, avevano una loro realtà spaziale, oltre che spirituale: la Luce in pace
perfetta si estendeva in tutte le direzioni, circondando a nord, a est e a ovest
le Tenebre, che avevano il loro regno al sud, dilaniato da perenni lotte
intestine e turbato da passioni.
Da questa opposizione ebbe origine la sofferenza nel mondo, secondo
il mito: il principe delle Tenebre, vista la sfolgorante bellezza del mondo
della Luce, volle impadronirsene e fu contrastato dal Padre della
Grandezza (così i manichei designavano il Dio della Luce), il quale, non
potendo salvarsi altrimenti, decise di offrire in sacrificio sé stesso per
arrestare l’attacco delle forze del male.
Principio attivo per eccellenza, il Dio della Luce trae allora da sé la Madre
della Vita (cioè la vita come realtà cosmica), che a sua volta trae da sé
l’Uomo primordiale.
Intermezzo: manicheismo (2)
L’Uomo primordiale affronta il male, ma viene sconfitto e si dà in pasto ai figli
delle tenebre: in tal modo parti di luce rimangono prigioniere delle tenebre
dalle quali attendono di essere liberate.
Si rende così inevitabile una lotta tra Luce e Tenebre, le cui fasi, descritte
minutamente nel m., si concludono con la creazione del mondo fisico, degli
esseri viventi (miscuglio di particelle di luce prigioniere del corpo, creato dalle
tenebre) e infine della prima coppia umana, quella di Adamo e di Eva,
formata dalle potenze del male perché, riproducendosi tramite il desiderio
carnale, tenessero in eterno prigioniere dei corpi le particelle di luce in essi
racchiuse.
Così il manicheismo legge in chiave fortemente pessimistica la vicenda
umana e vede nel desiderio carnale e nella riproduzione la
conseguenza prima del peccato e del male intimamente legato alla
natura umana. A risvegliare in Adamo la coscienza delle parti di luce in lui
racchiuse, le forze celesti mandano Gesù, di cui il Cristo storico è una
particolare manifestazione: così Gesù desta in Adamo il desiderio di
salvezza. Da questo momento l’uomo può cessare di essere strumento delle
forze del male se, seguendo la via della salvezza indicata da Mani, saprà
liberarsi di ogni istinto carnale (perciò rifiutando il matrimonio, il mangiare
carni, osservando la perfetta castità, ecc.).
Intermezzo: manicheismo (3)
In tal modo l’uomo diventerà cooperatore delle forze del bene e
contribuirà alla liberazione delle particelle di luce chiuse nella materia,
fino al giudizio finale che ne segnerà il definitivo riscatto.
I manichei costituirono una Chiesa con una propria gerarchia; gli uditori o
catecumeni (tale fu Agostino per nove anni), gli eletti, i preti, i vescovi,
gli apostoli e sopra tutti un capo, che era considerato il successore di
Mani. A prescindere dall’istruzione religiosa e dal canto in comune, il
manicheismo aveva una liturgia assai scarsa, anche per l’assenza di
sacramenti: tale potrebbe essere considerato solo il rito di ammissione
(quando si diventava catecumeni), consistente nella imposizione della mano
destra sul neofita.
Il manicheismo conobbe, per opera di attivi e abili missionari, la più vasta
diffusione, penetrando in poco più di un secolo dall’Africa alla Cina malgrado
accanite persecuzioni, adattandosi di volta in volta all’ambiente nel quale
doveva operare: assunse così un più chiaro volto gnostico-neoplatonico in
Occidente, accettò in Persia espressioni e termini della religione di
Zaratustra, mentre in Cina si colorò di buddismo.
Mentre però in Occidente il manicheismo si spense, anche nelle sue ultime
espressioni, verso il VII secolo, in Oriente, e specialmente in Cina, durò fino
oltre il XII secolo, lasciando di sé cospicue tracce letterarie e artistiche.
Intermezzo: pelagianesimo (1)
Il pelagianesimo è un complesso delle dottrine e movimento ereticale che
fanno capo al monaco bretone Pelagio (n. in Inghilterra 354 ca. - m. forse
presso Alessandria 427 ca.).
La dottrina di Pelagio è improntata a un moralismo ascetico-stoico: l’uomo
può, con le proprie forze morali, osservare i comandamenti di Dio e
salvarsi; la grazia gli è data soltanto per facilitare l’azione. La grazia poi
non è un dono interiore che illumina, trasforma e rafforza l’uomo, ma è
solo fatto esterno che opera a modo di esempio; tale il Vecchio
Testamento, il Nuovo, la vita e l’insegnamento di Gesù. Ne consegue la
negazione del peccato originale e della necessità del battesimo e della
penitenza.
Il pelagianesimo rappresenta, dopo il donatismo, una delle grandi eresie sorte
nella Chiesa occidentale. Dopo la condanna del Concilio di Cartagine (411),
esso fu combattuto soprattutto da Agostino che, in questa polemica, viene
chiarendo la sua dottrina della grazia e del libero arbitrio, orientata nel
senso profondamente pessimistico. Ma in Oriente Pelagio, facendo leva su
certi aspetti platonici e ottimistici della teologia orientale, riuscì a raggiungere
il sacerdozio, sfuggire condanne, essere assolto dalle accuse; allora i sinodi
di Cartagine e Milevi (416) insorsero rinnovando le condanne, e ottenendo
conferma dal papa Innocenzo I (417).
Intermezzo: pelagianesimo (2)
Ma sulla base di una generica accettazione della grazia da parte di Pelagio e
Celestio, il greco papa Zosimo si mostrò loro benevolo: allora Agostino
intervenne nuovamente (418) e un concilio a Cartagine ne rinnovò la
condanna. Ma la controversia dottrinale continuava: Giuliano di Eclano
attaccò Agostino sulla dottrina del peccato originale e della concupiscenza.
Dal 419 alla morte (430) Agostino rispose con numerosi scritti soprattutto nei
confronti dei cosiddetti semipelagiani i quali, rivendicando alla libertà
dell’uomo un proprio e autonomo valore, ritenevano che l’initium fidei, il primo
desiderio di salvezza, potesse venire dall’uomo senza l’aiuto di Dio, e che la
perseveranza finale non fosse un nuovo dono gratuito. Finalmente il Concilio
radunato a Orange (529) formulò in 25 canoni la dottrina cattolica sulla grazia
contro pelagiani e semipelagiani: ferma l’impossibilità per l’uomo di
meritare la grazia, e la necessità assoluta di questa anche per l’inizio
della fede e la perseveranza nelle buone opere, affermato il libero
arbitrio, anche se non è più sufficiente perché l’uomo possa sollevarsi
da solo a Dio e al bene, fu condannata una predestinazione
incondizionata e una predestinazione al male.
Papa Bonifacio I (530) approvò le definizioni del Concilio. La controversia finì
per allora, ma i suoi motivi tornarono nelle polemiche protestanti e
gianseniste.
Agostino: il pensiero (1)
La centralità dell’anima personale
L’opera più nota di Agostino sono le Confessiones in 13 libri, scritte intorno
al 400, unanimemente ritenute tra i massimi capolavori della letteratura non
solo cristiana. In essa Agostino, rivolgendosi a Dio, narra la sua vita e in
particolare la storia della sua conversione al Cristianesimo. Si tratta di
un’opera complessa, in cui la narrazione si intreccia con la preghiera e con la
riflessione filosofica e teologica. Ma soprattutto è un’autobiografia, in cui
l’autore parla sinceramente della propria esistenza, giudicandola severamente con l’atteggiamento del peccatore pentito.
Il fatto che un filosofo scriva un’autobiografia costituisce una novità nella
storia del pensiero: nessun filosofo antico aveva narrato la propria vita e
aveva scandagliato la propria anima con tanta profondità. Per questa
capacità di scavo interiore le Confessioni sono considerate un’opera di
grande modernità.
I filosofi antichi non scrivevano sulle proprie vicende biografiche (se non
occasionalmente) perché per loro l’esistenza individuale aveva scarso
valore. Invece il singolo individuo diventa interessante e acquista un valore
infinito per gli autori cristiani, perché per il Cristianesimo ogni individuo è
creato da Dio e, soprattutto, è oggetto dell’amore di Dio, quindi nella vita di
ogni individuo si manifesta l’azione del Dio eterno.
Agostino: il pensiero (2)
Infatti la vita di Agostino è contrassegnata da una ricerca inquieta, tormentata,
della verità e della felicità, ricerca che lo ha condotto, passando attraverso
errori (intellettuali) e colpe (morali), fino alla scoperta di Gesù Cristo.
Nella conversione al Cristianesimo Agostino trova finalmente la verità e la
pace. Egli capisce però che l’inquietudine, la sete inesausta di verità e
felicità, è suscitata nel cuore umano da Dio stesso, che vuole farsi
cercare: l’uomo è alla ricerca di Dio perché Dio è alla ricerca dell’uomo.
Fede e ragione
Per Agostino fede e ragione sono complementari, rimandano l’una all’altra, e
anche se la fede in definitiva ha il primato, la posizione di Agostino non è affatto
quella di un fideismo irrazionale (del tipo credo quia absurdum).
Infatti secondo Agostino la fede illumina il cammino che deve essere percorso
dalla ragione, la fede introduce alla verità, che poi deve essere indagata,
chiarita e spiegata con la ragione. D’altra parte la ragione spiegando e
vagliando criticamente la verità rivelata dalla fede rafforza e giustifica la fede
stessa. Questo è il significato della nota formula: «Crede ut intelligas, intellige
ut credas» (credi per capire, capisci per credere). Il problema di fondo, per
Agostino, è la conoscenza della verità, che trascende l’uomo, e a cui l’uomo
tende sia con la fede sia con la ragione.
Agostino: il pensiero (3)
La conoscenza della verità (1)
Il processo di conoscenza della verità chiarisce meglio sia il rapporto tra
l’anima personale e Dio sia il rapporto fede-ragione. Agostino parte dalla
critica del dubbio scettico: gli scettici dicono che nessuna verità è certa e
che bisogna dubitare di tutto, di qualsiasi affermazione.
Agostino risponde: «Si fallor, sum» (= se m’inganno, esisto), cioè posso
ingannarmi, posso sbagliare nell’affermare qualsiasi cosa, ma certamente
per sbagliare, per ingannarmi, per dubitare devo esistere.
Quindi nel dubbio è insita la certezza dell’esistere; in altre parole il dubbio
presuppone, per sua stessa natura, un rapporto dell’uomo con la verità:
«Chiunque comprende di essere in dubbio vede una cosa sicura della quale
è certo, pertanto chiunque dubita se la verità esista, ha in sé qualcosa di
vero di cui non può dubitare: ora il vero non è tale se non in forza della
verità». Ma come e dove ricercare la verità? La risposta di Agostino è
sintetizzata nella celebre frase «Non uscire fuori di te, ritorna in te stesso, la
verità abita nell’interno dell’uomo, e se troverai mutevole la tua natura,
trascendi anche te stesso...».
(De vera religione, XXXIX, 72-73 – leggi il brano intitolato Noli foras ire).
Agostino: il pensiero (4)
La conoscenza della verità (2)
Vediamo passaggio per passaggio il significato di questo brano. Agostino
segue l’itinerario platonico: la mutevole percezione dei sensi non basta a
spiegare il fenomeno della conoscenza, infatti noi conosciamo la realtà
perché abbiamo in noi dei criteri con cui giudicarla.
Questi criteri contengono un plus rispetto agli oggetti corporei, infatti gli
oggetti corporei sono mutevoli e imperfetti, mentre i criteri con cui l’anima
giudica sono immutabili e perfetti. E ciò risulta nella maniera più evidente
quando giudichiamo gli oggetti sensibili per mezzo di concetti matematici o
geometrici: infatti i concetti matematici e geometrici hanno un carattere
necessario e immutabile, gli oggetti a cui li applichiamo sono contingenti e
mutevoli.
Da dove derivano all’anima questi criteri? Non può produrli essa stessa
perché anche l’anima è mutevole. Perciò bisogna riconoscere che
all’interno dell’anima, ma al di sopra di essa, vi è un criterio immutabile
che si chiama Verità.
L’anima giudica con la verità che trova in se stessa, ma non coincide con la
verità e non la produce, anzi dipende da essa (e infatti la verità si pone come
oggetto immutabile della ricerca della ragione).
Agostino: il pensiero (5)
La conoscenza della verità (3)
La verità poi è costituita, in accordo con Platone, dalle Idee che sono i
parametri secondo cui sono state fatte le cose. Tuttavia Agostino si discosta
da Platone su due punti:
1. le Idee non sono autosussistenti, ma sono i pensieri di Dio (il Verbo di
Dio) secondo cui Dio ha creato ogni cosa;
2. secondo Platone l’anima conosce le Idee per reminiscenza; per Agostino
invece l’anima dell’uomo conosce le Idee per illuminazione divina. Infatti
Dio, che è l’Essere, con la creazione ci rende partecipi dell’essere, e Dio, in
quanto è Verità, con l’illuminazione ci rende partecipi della verità (e delle
Idee) permettendoci così di conoscere le cose.
Precisazione: la verità che riceviamo direttamente da Dio (secondo la
dottrina dell’illuminazione) non è la conoscenza della realtà, ma il criterio che
permette la conoscenza della realtà, così come la luce non è la vista delle
cose, ma permette la vista delle cose. Inoltre la teoria della conoscenza di
Agostino presenta comunque il problema di far consistere la conoscenza in
un’esperienza interiore e di attribuire alla realtà materiale, corporea, un ruolo
marginale non riconoscendo pienamente il valore positivo della realtà
materiale, nonostante la dottrina biblica della creazione.
Agostino: il pensiero (6)
La Trinità
Secondo la fede cristiana Dio è un’unica sostanza divina (è quindi confermato il
monoteismo ebraico) in tre persone: Padre, Figlio e Spirito Santo, ovvero in
termini filosofici, rispettivamente Essere, Verità, Amore.
La ragione non può comprendere pienamente questo mistero, però può
avvicinarsi ad esso attraverso un’analogia con la realtà creata e in
particolare con l’anima umana. Infatti tutta la creazione porta in sé l’impronta,
le tracce del suo creatore, e ciò vale in particolare per l’uomo che è stato creato
«ad immagine e somiglianza di Dio».
Infatti in tutta la realtà Agostino evidenzia strutture triadiche che rimandano
appunto alla Trinità creatrice. Ma soprattutto la anima umana è immagine della
Trinità, perché anch’essa è una e triplice, in quanto nella sua unità sono
congiunte tre facoltà: la memoria (su cui si fonda l’identità dell’anima, cioè il
suo essere, nel fluire del tempo), l’intelligenza (con cui l’anima conosce) e la
volontà (con cui l’anima ama). Esiste pertanto una corrispondenza fra le
facoltà dell’anima e le persone della Trinità divina, la quale, conosciuta per
fede, orienta l’analisi dell’anima e l’analisi dell’anima permette a sua volta di
penetrare nel mistero dell’unità e trinità divina.
(De Trinitate – leggi i brani intitolati Lo spirito umano come memoria,
intelligenza e volontà e Lo spirito umano è immagine della Trinità.
Agostino: il pensiero (7)
La Creazione
Volendo chiarire il senso della dottrina biblica secondo cui Dio ha creato tutte
le cose dal nulla, Agostino distingue la creazione dal nulla da: 1) la
generazione, in cui si produce qualcosa dalla propria sostanza, e il generato
è uguale (della stessa sostanza) del generante; 2) la fabbricazione, in cui si
produce qualcosa utilizzando sostanze preesistenti. L’uomo può generare e
può fabbricare, non può invece creare dal nulla.
Dio invece ha creato le cose facendole sorgere dal nulla, donando loro
tutto l’essere. Questa spiegazione dell’origine della realtà era del tutto
estranea al pensiero greco, e anche Platone, che nel Timeo aveva spiegato
l’esistenza del mondo facendo riferimento a una divinità creatrice (il
Demiurgo), che plasma una materia preesistente secondo il modello delle
Idee preesistenti (quindi non si tratta di creazione ex nihilo).
Anche secondo Agostino la creazione avviene secondo dei modelli ideali,
che però non sussistono al di fuori di Dio, ma sono i pensieri stessi di Dio.
La creazione è un dono gratuito e libero di Dio, dovuto alla sua bontà e alla
sua potenza, e poiché tutto deriva da Dio (anche la materia) tutto è buono.
La teoria creazionista incontra due problemi: quello del tempo (quando è
avvenuta la creazione?) e quello del male (se tutto deriva da Dio, supremo
bene, come si spiega il male su questa terra?).
Agostino: il pensiero (8)
Il Tempo
Quando è avvenuta la creazione? Cosa faceva Dio prima di creare il mondo?
Questi interrogativi presuppongono una concezione del tempo come dimensione
assoluta, che contiene anche Dio, e che quindi sfugge alla creazione.
Agostino risponde che il tempo è creato insieme all’universo e quindi
deriva anch’esso da Dio. Dio poi esiste al di fuori del tempo, l’eternità di Dio
non va intesa come un’estensione infinita del tempo ma piuttosto come un
“eterno presente” (quindi l’interrogativo “cosa faceva Dio prima della
creazione?” non ha senso). Agostino dimostra la natura creata del tempo
attraverso due argomentazioni:
1) il tempo è connesso al movimento: non possiamo percepire il tempo in sé, ma
solo attraverso il movimento ed insieme alle cose che si muovono;
2) il tempo è costituito da passato, presente e futuro, e tuttavia il passato non
c’è più, il futuro non c’è ancora e il presente è soltanto l’istante inafferrabile in cui
il futuro scorre nel passato. Dunque il tempo non ha alcuna consistenza
propria. Eppure il tempo esiste, ma esiste nell’anima dell’uomo: esiste nella
memoria (=presenza del passato), esiste nell’attesa (=presenza del futuro),
esiste nell’intuizione (=presenza del presente). Anche in questo caso il tempo si
rivela dimensione della realtà creata.
(Confessioni – leggi i brani intitolati Che cosa è il tempo?, Il tempo è
riconducibile al movimento e L’anima misura del tempo).
Agostino: il pensiero (9)
Il Male (1)
«Si Deus, unde malum?»: se esiste un unico Dio (che è il bene supremo),
da dove deriva il male?
Questo problema aveva travagliato Agostino sin dalla giovinezza e lo aveva
spinto ad aderire al manicheismo, il quale affermava l’esistenza di due
principi divini, il Bene e il Male, in lotta fra di loro nel mondo e anche
nell’anima dell’uomo.
Successivamente Agostino aveva abbandonato il manicheismo e aveva
criticato questa teoria dei principi divini contrapposti: se il Dio-Bene può
essere danneggiato o distrutto dal Male, allora non è Dio, perché non è
assoluto e incorruttibile, e prima o poi il Male prenderà il sopravvento e
rimarrà l’unico Dio. Se invece il Dio-Bene non può essere danneggiato e
distrutto dal Male, allora non c’è nessuna vera lotta.
La risposta convincente al problema del male Agostino la trovò nella filosofia
neoplatonica: il male non è una sostanza, non è essere, ma è mancanza
di essere.
(Confessioni – leggi il brano intitolato Il male non è una sostanza).
Agostino: il pensiero (10)
Il Male (2)
A partire dal principio che il male è non essere, Agostino esamina le
manifestazioni del male distinguendone tre aspetti:
A) male ontologico: sul piano ontologico non esiste il male, ma solo diversi
gradi di essere. Secondo una prospettiva parziale (pertanto falsa) potrebbe
essere considerato un male il limite, potrebbe per esempio essere considerata
male l’inferiorità di una creatura rispetto ad un’altra, oppure la finitudine di tutta
la creazione di fronte a Dio; ma considerato nel suo insieme, tutto ha un senso e
una funzione positiva, tutto (anche ciò che è limitato e inferiore) concorre a
formare un’armonia e quindi è bene e non male;
B) male morale: il male morale (cioè la colpa e/o il peccato) non consiste nel
desiderare il male, ma nel desiderare un bene inferiore più del bene supremo
(per esempio l’avidità è un peccato non perché la ricchezza sia un male in sé,
ma perché l’avido antepone il valore della ricchezza ad altri valori superiori);
C) male fisico: il male fisico (cioè la sofferenza e la morte) è la conseguenza
del peccato originale, ma nella storia della salvezza anche questo ha un
significato positivo, perché aiuta l’uomo a riconoscere il male morale e ad
emendarlo.
(Confessioni – leggi il brano intitolato Unde malum?).
Agostino: il pensiero (11)
La libertà e la grazia (1)
Gli antichi greci avevano fatto coincidere la moralità con la sapienza
affermando che chi conosce il bene fa il bene e che il comportamento
malvagio deriva da ignoranza del bene (intellettualismo morale – vedi
Socrate).
Agostino invece, sulla scia della cultura latina (che aveva messo in risalto il
ruolo della volontà) e dell’insegnamento di San Paolo (Romani, VII, 18-19:
«video meliora deteriora sequor» = vedo le cose migliori ma seguo le
peggiori), nota che la ragione può conoscere il bene e la volontà può
respingerlo, perché ragione e volontà sono facoltà distinte.
La volontà dispone del libero arbitrio, cioè della capacità di scegliere fra
possibilità diverse, ma la vera libertà è adesione a Dio, alla sua volontà,
perché solo questa adesione è il bene per l’uomo, cioè la piena
realizzazione umana, la felicità.
Agostino ha dedicato profonde analisi alla scissione e alla debolezza della
volontà che «vuole e non vuole», che «vorrebbe volere», soprattutto in molte
pagine delle Confessioni.
(De natura et gratia, 67, 81 – leggi il brano La natura incontra la grazia).
Agostino: il pensiero (12)
La libertà e la grazia (2)
Questa adesione a Dio deve essere volontaria, non obbligata, e quindi il
libero arbitrio è la condizione della vera libertà. Il peccato originale però ha
corrotto la volontà umana, per cui la volontà non è più capace di aderire
pienamente e continuativamente al bene.
Per questo la volontà è bisognosa della grazia divina: l’uomo, senza l’aiuto
della grazia di Dio non è capace di vivere rettamente. La grazia non
abolisce la libertà dell’uomo, al contrario essa rende veramente libera
la volontà, poiché le restituisce la capacità di aderire al bene che ha
scelto.
In questa prospettiva l’amore, cioè la tensione della volontà al bene, diventa
più importante della sapienza: «Ama, et fac quod vis».
La necessità della grazia è affermata da Agostino in opposizione a Pelagio,
il quale sosteneva che tutti gli uomini sono naturalmente liberi e capaci di
scegliere il proprio destino e conseguire la virtù cui aspirano; Agostino
afferma invece la necessità della grazia a tal punto da svalutare il ruolo della
libertà e dell’impegno umano. Ciò ha permesso a Martin Lutero di trovare in
questi testi di Agostino una giustificazione e un’anticipazione della sua
dottrina sulla salvezza “per la fede e non per le opere.
Agostino: il pensiero (13)
La città di Dio e la riflessione sulla storia (1)
Il De Civitate Dei fu scritto da Agostino in occasione del sacco di Roma del
410 e in risposta alle accuse dei pagani contro i cristiani, imputati di aver
attirato su di Roma l’ira degli Dei.
Ma l’opera supera il motivo occasionale e sviluppa una grande riflessione
sulla storia. Agostino afferma che, come la volontà del singolo è scissa fra
opposte aspirazioni, così pure l’umanità nel suo insieme è scissa fra l’amore
di Dio e l’amore di sè e nella storia edifica due città contrapposte, la città
di Dio e la città terrena. Una è la società dei giusti e dei santi, l’altra la
società degli empi. Tuttavia sulla terra queste due città sono sempre
intrecciate e mescolate e non si identificano mai con un particolare momento
della storia o con qualche istituzione storica, perché esse dipendono soltanto
da ciò che ogni singolo uomo decide di essere.
La vera storia è quella realizzata dalla città celeste, anche se sulla terra essa
appare nascosta o sconfitta. Solo alla fine dei tempi si renderà manifesta la
città di Dio e in essa troverà compimento tutta la storia umana, perché la città
di Dio costituirà la realizzazione dell’ aspirazione alla giustizia e alla pace
presente anche, sia pure in modo distorto, nella città terrena.
(De civitate Dei – leggi il brano intitolato Le due Città).
Agostino: il pensiero (14)
La città di Dio e la riflessione sulla storia (2)
Il De civitate Dei è importante anche perché getta le basi della successiva
filosofia della storia.
Presso i Greci non esisteva ancora una filosofia della storia in senso stretto,
perché la loro conoscenza filosofica era rivolta alla forma permanente, a ciò
che permane sempre identico, quindi svalutavano il divenire e concepivano
la storia come uno svolgimento circolare in cui ritornano sempre le stesse
forme.
Il cristianesimo invece rifiuta la teoria degli inutili cicli, affermando che
ognuno di noi vive e muore una sola volta: alla visione ciclica si
sostituisce quella lineare imperniata sulla creazione e sul peccato
originale come inizio della storia, sull’incarnazione di Cristo come
evento centrale e redentivo, sul Giudizio finale come fine e compimento
della storia.
In secondo luogo, il cristianesimo, insistendo sull’origine comune che
unisce tutti gli uomini, perviene all’idea di un’unica storia universale
comprendente tutte le genti.
Agostino: il pensiero (15)
La città di Dio e la riflessione sulla storia (3)
In terzo luogo, il cristianesimo si rapporta alla storia non come a una
serie di eventi senza senso ma come a una totalità dotata di significato
e di scopo.
Per Agostino il principio unificatore degli eventi è dato dalla nozione di
Provvidenza, Grazia (l’agire di Dio nella storia) che conferisce alla storia il
significato di storia della salvezza che si conclude e si compie nel Giudizio
finale e l’avvento del Regno di Dio (escatologia).
Si noti che buona parte della successiva filosofia della storia (soprattutto
ottocentesca) ha secolarizzato lo schema escatologico ebraico-cristiano,
concependo la «salvezza» o il compimento finale della storia in termini
immanentistici (= ogni filosofia o corrente ideale secondo la quale non
esiste un 'al di là' rispetto alla realtà che conosciamo; avere una concezione
immanente della divinità significa identificare Dio con il mondo, la natura o la
storia, la scienza) anziché trascendenti (= ogni filosofia che concepisce Dio
come un'entità autonoma, separata dal mondo e avente caratteri opposti a
esso, ovvero infinito, onnipotente, onnisciente e così via).
(De civitate Dei – leggi i brani intitolati Gli stati sono grandi bande di ladri e
La pace come valore comune).
Abbecedario: le fonti della filosofia medievale
Contrariamente alla nascita della filosofia nella Grecia del IV sec. a.C. –
sapere nuovo che si stacca nei contenuti e nelle forme dalla sapienza del
mito -, nei secoli medievali lo studio e la pratica della filosofia si esercitano a
partire da una tradizione filosofica preesistente, che è necessario sia
conservare che ripensare criticamente, nel confronto con una tradizione
sapienziale e testuale sconosciuta al mondo greco: le scritture sacre di ebrei,
cristiani e poi musulmani.
All’incrocio delle idee di conservazione e di utilizzazione critica si colloca la
nozione di autorità (auctoritas: i filosofi e in genere gli scrittori antichi ed i
Padri della Chiesa) e quella di testo autorevole (le loro opere): fu uno dei
maestri chartriani, Bernardo, a coniare nel XII secolo, la significativa anche
se ambigua metafora dei «nani sulle spalle dei giganti» («dicebat
Bernardus nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes»).
L’attività filosofica si presenta dunque inizialmente come ripresa e
interpretazione di idee e testi autorevoli, e solo alla fine del medioevo
comincia a prospettarsi una nozione di autore affine a quella moderna. È
importante perciò, per la comprensione dei contenuti e delle modalità di
sviluppo della filosofia medievale, delineare sia quali testi e saperi antichi si
sono conservati, sia come e in quali contesti sono stati letti nel corso del
medioevo.
Abbecedario: le arti liberali
All'inizio del VI secolo, Cassiodoro aveva raccolto in una compilazione
dedicata all’educazione dei monaci l'insieme delle arti liberali che già
Agostino nel De doctrina christiana aveva identificato col percorso della
filosofia che conduce alla comprensione della Sacra scrittura: le arti del
linguaggio (dette sermocinali, o Trivio: grammatica / logica - che insegna
come ragionare - la dialettica - che insegna il dialogo in forma di domanda e
risposta - e infine la retorica - che insegna come dire le cose bene, in modo
conveniente ed elegante) e le arti della misura (dette reali o Quadrivio:
aritmetica, geometria, musica, astronomia).
Il De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marciano Capella (autore pagano
del III secolo), una enciclopedia inserita in una visione cosmologica imbevuta
di platonismo, fu uno dei canali di trasmissione più importanti di questa
tradizione antica. Boezio e Alcuino scrissero compendi di tutte o alcune
delle arti liberali.
I testi classici associati a ciascuna di queste arti - sia che fossero
semplicemente riassunti, sia che venissero effettivamente letti e commentati rimasero per tutta l'età medievale la base della formazione culturale.
Nelle università le arti liberali costituivano l’insegnamento propedeutico
alla filosofia impartito nella facoltà di base, che si chiamò appunto
Facoltà di Arti.
Abbecedario: le enciclopedie
Accanto ai trattati sulle arti liberali, il sapere nel Medioevo è trasmesso dalle
enciclopedie; la più antica è quella di Isidoro di Siviglia (VII sec.), che si
sviluppa in uno schema dilatato e complesso, comprendente fra l'altro il
diritto, la medicina, l'architettura, l'agricoltura, la scienza del calendario. Le
Etymologiae di Isidoro ebbero una fortuna molto vasta e durevole e
costituirono la base per testi analoghi, come il De universo, composto nel IX
secolo da Rabano Mauro.
Nel XII secolo, grazie alle traduzioni dal greco e dall’arabo, le fonti del sapere
filosofico e scientifico si ampliarono in maniera consistente: ciò è visibile
nell’enciclopedia Dragmaticon philosophiae di Gugliemo di Conches. Nel
XIII secolo compare il monumento enciclopedico del Medioevo, il quadruplice
Speculum (Speculum Doctrinale, Naturale, Morale, Historiale) di
Vincenzo di Beauvais, precettore dei figli di Luigi IX di Francia. Quest’ultima
opera è in parte anche il frutto della necessità di presentare la cultura del
proprio tempo ad un pubblico laico. Programmi e testi enciclopedici vengono
anche elaborati, in connessione con il suo progetto di riforma culturale, da
Ruggero Bacone.
Fra la fine del XIII secolo e l’inizio del seguente si assiste alla produzione di
altre enciclopedie in lingua volgare, come il francese usato nel Tesoro di
Brunetto Latini (maestro di Dante).
Abbecedario: le traduzioni
I testi dell'antichità greca posseduti nel medioevo occidentale erano
pochissimi: le Categorie e il De interpretatione di Aristotele, il Timeo di
Platone. Dei testi delle scuole filosofiche tardo antiche, a parte l’Isagoge di
Porfirio, si erano conservati quasi solo frammenti, citati in funzione polemica
o apologetica nelle opere dei primi Padri cristiani. Molte opere erano però
sopravvissute grazie alle traduzioni siriache effettuate nel IV – V secolo da
cristiani nestoriani ed erano state in gran parte tradotte in arabo.
Nel XII secolo, intensificatisi gli scambi culturali in tutta l'area del
Mediterraneo, nelle zone di confine (Spagna, Sicilia, Italia meridionale) alcuni
intellettuali dettero impulso ad un'opera di traduzione dei testi scientifici e
filosofici, arricchendo i contenuti della cultura occidentale.
In particolare veicolarono idee aristoteliche prima della traduzione dei testi
dello stesso Aristotele e introdussero l'idea di origine ermetica della
possibilità per l'uomo di modificare la natura. Poiché difficilmente si
trovavano traduttori che fossero padroni sia della lingua araba che di quella
latina, molte volte l'interpretazione del testo era effettuata da un mediatore
orale (spesso ebreo), che leggeva testo nella lingua volgare al traduttore; e
questi lo traduceva dal volgare al latino, mettendolo per scritto. In altri casi,
soprattutto nell'Italia meridionale dove in diversi luoghi la lingua greca era
ancora in uso, vennero tradotti direttamente i testi greci.
Abbecedario: il corpus aristotelico (1)
Fra le traduzioni sia dall’arabo che dal greco rivestono particolare importanza
quelle dei testi di Aristotele, auctoritas filosofica di primo piano grazie agli
scritti logici fino allora conosciuti, indicati col nome collettivo di Logica vetus.
Le prime opere ad essere tradotte in latino furono gli altri scritti dell‘Organon.
Le traduzioni dal greco furono opera di Giacomo Veneto (Analitici secondi;
parte degli Elenchi sofistici; Fisica; De anima; parte della Metafisica e dei
Parva naturalia), di Enrico Aristippo e di un gruppo di traduttori anonimi,
d'ambiente italiano (Analitici primi, Topici, De generatione et corruptione,
Ethica vetus, Metafisica quasi completa).
A Gerardo da Cremona sono invece dovute le traduzioni dall'arabo di
Analitici secondi, Fisica, De caelo, De generatione et corruptione,
Meteorologica, nonché del più importante degli scritti attribuiti ad Aristotele
che circolarono nel Medioevo, il Liber de causis, che era in realtà una
compilazione tratto dalla Elementatio theologica di Proclo realizzata nel
circolo filosofico di al-Kindi.
L'interesse per il completamento dell‘ Organon era legato allo sviluppo
della logica nelle scuole, al quale fornì un impulso decisivo sul piano
dell'elaborazione epistemologica e delle tecniche di argomentazione.
Abbecedario: il corpus aristotelico (2)
I libri fisici si inserirono nel dibattito sullo statuto dell'idea di natura,
rinnovandone contenuti e metodo.
L’insieme delle opere aristoteliche dette impulso alla trasformazione
della filosofia da nozione generica a disciplina strutturata, suddivisa nei
tre rami della fisica, della metafisica e dell'etica: fu questa la nozione di
filosofia posta alla base dell’insegnamento nella Facoltà di Arti delle
nascenti università.
Nella seconda metà del XIII secolo le traduzioni dei testi aristotelici vennero
sottoposte ad un accurato lavoro di revisione e di vero e proprio
rifacimento ad opera del domenicano Guglielmo di Moerbeke, collaboratore
di Tommaso d'Aquino. Queste traduzioni costituirono lo standard della lettura
di Aristotele fino alle nuove versioni dal greco effettuate in età umanistica.
Accanto ai testi autentici di Aristotele, si diffusero alcuni testi di origine araba
a lui attribuiti: come già detto, il Liber de causis e la Theologia Aristotelis,
elaborati nel circolo di al-Kindi; e il Secretum secretorum, un trattato che
metteva in scena il filosofo greco come maestro di Alessandro Magno, e che
costituì un importante esempio di trattatistica politica (specula principis), ma
anche un veicolo di conoscenze astrologiche e alchemiche.
Abbecedario: le istituzioni (1)
Le scuole monastiche: la sopravvivenza delle arti liberali nell'Alto Medioevo
si dovette al fatto che esse venivano utilizzate nella formazione dei monaci
come introduzione alla comprensione della Sacra Scrittura. Esse vennero
dunque a costituire il nucleo dell'insegnamento nelle scuole di cui i
monasteri si dotarono accogliendo il modello proposto da Cassiodoro; fino
al XII secolo furono questi l’unica istituzione in cui veniva impartito un
insegnamento regolare e completo.
Negli scriptoria dei monasteri gli scritti degli autori antichi e quelli dei Padri
della Chiesa, che servivano per lo studio e per la meditazione, venivano
inoltre copiati: questa produzione di libri manoscritti era una vera e propria
attività lavorativa che, secondo la regola benedettina, era essenziale come la
preghiera per la vita dei monaci.
La diffusione del monachesimo nell'Europa del nord e nelle isole britanniche
e l’attività di monaci come Colombano (538 ca.-615) e il suo discepolo
Gallo, fondatori rispettivamente dei monasteri di Bobbio e San Gallo, dettero
ampio sviluppo a questo modello.
In Inghilterra Beda il Venerabile (673-735) elaborò nelle sue opere i
materiali della tradizione colta a partire da problemi fondamentali nella vita
ecclesiastica e politica dell’epoca.
Abbecedario: le istituzioni (2)
I monasteri insulari, quelli irlandesi in particolare, svolsero una importante
funzione di conservazione e trasmissione nell'epoca più difficile del
Medioevo, dalla caduta del regno visigotico agli inizi della rinascita carolingia
(VIII-IX secolo), quando su impulso di Carlo Magno venne fondata la scuola
palatina ad Aquisgrana, organizzata dall’inglese Alcuino di York.
Sulla base di questo modello si sviluppò in pochi decenni una rete di scuole
(Laon, Fulda, Tours) orientate alla formazione di funzionari imperiali ed
ecclesiastici, in cui il tempo dedicato all’insegnamento era più ampio
che nelle scuole monastiche tradizionali. Inoltre in alcune di queste
scuole, a partire dalla presenza di maestri particolarmente prestigiosi,
cominciò
a
manifestarsi
una
tendenza
alla
specializzazione
dell’insegnamento.
Le scuole cittadine o capitolari: fra XI e XII secolo, accanto alle tradizionali
sedi d'insegnamento emersero nuovi centri, anche monastici ma soprattutto
legati ai capitoli vescovili nelle città, che stavano rapidamente crescendo
sia demograficamente che come centri d’importanza economica (mercati) e
politica. In questi centri vennero presto introdotti nuovi materiali e nuovi
nuclei di riflessione. A Parigi l'insegnamento della logica iniziò ad articolarsi e
approfondirsi: non si studiava ormai più sui manuali, ma direttamente sui testi
di Aristotele (Logica vetus) e di Boezio.
Abbecedario: le istituzioni (3)
Nella scuola dei canonici regolari di San Vittore, anch’essa a Parigi, si prestò
attenzione allo sviluppo delle tecniche (arti meccaniche) e al rapporto fra
nuova cultura e vita mistica. A Chartres e in altri centri del nord della Francia
l'interesse dei maestri delle scuole capitolari si rivolse ai nuovi testi scientifici
e filosofici tradotti dall'arabo.
Nelle scuole di carattere laico, caratteristiche della situazione italiana
(Ravenna, Salerno, Bologna), si sviluppavano prevalentemente interessi
giuridici e medici. L'insegnamento si era dunque fatto sempre più
complesso e articolato, autonomizzandosi e dilatandosi anche come durata;
nel corso del XII secolo emerse la nuova figura del chierico, ovvero
«dell'uomo che per mestiere scrive o insegna - o meglio fa le due cose
insieme - l'uomo che per professione esercita un'attività di professore e di
erudito, insomma l'intellettuale» (Le Goff).
La nascita delle università: nel XIII secolo, con l'affermarsi delle
corporazioni, il «mestiere» dell'intellettuale dette luogo ad una propria
corporazione, detta universitas scholarium, ovvero quella che oggi
chiamiamo università. In poco tempo le corporazioni di maestri e studenti
assunsero il monopolio dell'insegnamento, sostituendo nelle città le scuole
capitolari, e gettando sulle scuole monastiche l'ombra di residui del passato.
Abbecedario: le istituzioni (4)
Tuttavia la nascita delle università non si verificò dappertutto allo stesso
modo: a Bologna si formò un'associazione di soli studenti, a Parigi di studenti
e professori («universitas magistrorum et scolarium Parisiensium»), a Napoli
venne fondata nel 1224 per iniziativa diretta di Federico II.
La corporazione degli intellettuali costituiva in ogni sede un gruppo sociale
vasto e omogeneo, prima di tutto dal punto di vista di genere: le donne, che
nell’istituzione monastica avevano come gli uomini accesso alla cultura, non
erano invece ammesse nelle università.
Docenti e studenti erano infatti generalmente insigniti degli ordini
ecclesiastici minori (chierici), anche se non legati dai voti né soggetti
alla disciplina monastica.
In questo ambiente maschile e celibatario, marginale rispetto alla vita
produttiva e ai rapporti sociali della nascente borghesia cittadina, nasce il
fenomeno della goliardia; le innovazioni culturali fermentano in un clima
vivace che include anche aspetti di contestazione e di violenza, portando fino
a clamorose manifestazioni come lo sciopero del 1229-31, quando gli
studenti parigini si trasferirono in massa ad Oxford, dove non era proibito far
lezione sui testi di Aristotele, favorendo così lo sviluppo della più antica
università inglese.
Abbecedario: i generi letterari (1)
Il commento: la forma in cui era impartito l'insegnamento si riflette nella
elaborazione degli scritti filosofici fin dagli sviluppi della scuola carolingia: la
lettura e commento (lectio) di un testo autorevole costituisce la forma
predominante nella produzione scritta a partire dai secoli IX e X.
Nel XII secolo l'arricchirsi del patrimonio testuale e la ripresa di un
insegnamento basato sui testi antichi, anziché sui compendi altomedievali,
favorirono l'articolarsi del genere letterario del commento. Alla semplice
glossa (=spiegazione di termini difficili o breve annotazione su passi
particolarmente importanti del testo base) si sostituisce l’analisi del testo
frase per frase arricchita, nei punti più rilevanti o difficili, da ampie digressioni
e questioni.
Questo metodo permette di presentare diversi livelli d’interpretazione per
cogliere i diversi strati di significato rintracciabili nel testo, di cui l’esempio più
noto sono i quattro sensi della Bibbia: letterale, allegorico, morale e
anagogico (il termine indica ciò che solleva, e designa quel procedimento
interpretativo per il quale il testo delle Scritture diviene uno strumento di
superiore conoscenza, cioè di conoscenza delle cause).
Il testo delle lezioni poteva essere redatto dal maestro stesso nella forma di
commento, oppure da uno o più discepoli: in questo caso – frequente in
ambiente universitario – si ha la cosiddetta reportatio.
Abbecedario: i generi letterari (2)
La complessità di questo nuovo modo di riferirsi alla tradizione rende
necessario chiarirne i criteri metodologici, mediante un’articolata
introduzione (accessus ad auctores) che spiega fine e modalità del
commento, mentre le discussioni sviluppate attorno alle problematiche
giuridiche nei secoli XI e XII e la riflessione sugli aspetti problematici della
letteratura teologica accentuarono gradualmente l’importanza del metodo
questionativo.
La dimensione dell’oralità, che accentua l’importanza della memoria, rimase
per tutto il medioevo un aspetto centrale dell’insegnamento e
dell’apprendimento, anche a motivo del tempo e del costo che la riproduzione
manoscritta dei testi richiedeva. A partire dal XIII secolo, tuttavia, le università
favorirono una forma veloce ed economica di riproduzione dei testi che
costituivano il canone curricolare: le copie venivano eseguite da copisti
specializzati (stationarii) a ciascuno dei quali veniva affidato un singolo
fascicolo, detto pecia, da riprodurre in una quantità determinata; i fascicoli
delle varie parti di testo, copiati in serie dai diversi copisti, venivano poi
rimessi insieme a comporre più copie dell’intero testo. Oltre ai testi veri e
propri, circolavano manoscritti altri strumenti utili per docenti e studenti:
antologie di citazioni, compendi e manuali che presentavano
schematicamente i contenuti essenziali del curriculum, glossari.
Abbecedario: i generi letterari (3)
La quaestio.
All'interno del commento si sviluppa la quaestio: determinati punti del testo,
di particolare difficoltà o importanza dottrinale, vengono esaminati secondo
una procedura che si fa sempre più rigorosamente strutturata fino a
raggiungere la forma standard nei testi universitari della seconda metà del
XIII secolo.
L’argomento viene presentato – in genere dal magister – come una
domanda (utrum) cui sono possibili due risposte contrarie (per esempio, ‘se
possa darsi una scienza dell’anima’). Lo stesso maestro o il baccelliere (un
grado intermedio fra la condizione di studente e quella di magister) presenta
gli argomenti che illustrano la risposta affermativa (quod sic) e quella
negativa (quod non, contra).
Dopo un accurato esame di tutti questi argomenti il maestro giunge alla
determinatio finale, ovvero fornisce una risposta che illustra la sua posizione
sull’argomento (respondeo); segue in genere la confutazione degli
argomenti contrari.
Questa forma di dibattito, nella quale era possibile esporre vere e proprie
ricerche filosofiche e scientifiche su argomenti determinati, era parte
dell’insegnamento curricolare.
Abbecedario: i generi letterari (4)
Due volte l'anno però, a Natale e a Pasqua, si disputavano le questioni
quodlibetali, nelle quali il maestro si disponeva a rispondere a domande su
qualsiasi argomento (= de quolibet) scelto dai suoi interlocutori sul
momento: le dispute quodlibetali erano anche un’occasione spettacolare, in
cui si manifestava la competizione fra le diverse scuole di pensiero.
Le raccolte di quaestiones, disputate o quodlibetali, costituiscono a partire
dal XIII secolo uno dei generi più diffusi della letteratura scolastica. La
struttura questionativa, in cui si esprime al massimo grado il metodo
scolastico, fu utilizzata anche per la stesura delle summae (trattati
sistematici su un argomento usualmente di carattere generale: per esempio
la Summa Theologia di Tommaso d’Aquino), nonché trattati monografici su
argomenti determinati.
La formalizzazione estrema cui il metodo espositivo scolastico giunse nel
XIV e XV secolo fu uno dei bersagli contro cui si scagliarono le polemiche
degli Umanisti e di Cartesio, volte a recuperare forme più libere di discorso:
ma il rigore espositivo della quaestio scolastica rimase un modello del
discorso scientifico anche oltre la fine del medioevo, identificandosi
con la forma basilare dell'insegnamento universitario fino al XVII
secolo.
La filosofia medievale (1)
Il quadro complessivo dei secoli medievali mostra uno sviluppo del pensiero
filosofico, teologico e scientifico che inizia con la messa a fuoco dei problemi
fondamentali posti dal confronto fra la filosofia classica e le dottrine bibliche
(e coraniche per l’Islam): l’esistenza di Dio, la sua relazione con il mondo,
la natura dell’essere umano.
In Occidente le tappe significative dal punto di vista teorico sono
cronologicamente distanziate nei secoli VI-X, mentre successivamente, a
partire dall’XI secolo e soprattutto dal rinnovamento culturale del XII, si
assiste all’accelerazione dello sviluppo dottrinale, alla moltiplicazione delle
figure di spicco, all’elaborazione di veri e propri sistemi filosofici nel XIII
secolo, e successivamente all’articolazione di nuovi ambiti di riflessione. Nel
mondo islamico la ricerca filosofica e l’elaborazione di dottrine originali
hanno inizio più presto, a partire dal IX sec., e procedono in parallelo fino al
XII; successivamente lo sviluppo della filosofia islamica prende altre strade e
cessa di interagire con il pensiero occidentale, mentre assume maggior
rilievo l’apporto della filosofia ebraica.
Il lavoro complessivo realizzato nei dieci secoli che classifichiamo
come medievali può essere visto come una enorme opera di
trasformazione, mediazione e trasmissione dell’eredità classica, sulla
cui base si sono sviluppate alcune dottrine originali.
La filosofia medievale: dal VI al X secolo (2)
Per esempio: la prova ontologica dell'esistenza di Dio (Anselmo d'Aosta), l’etica
dell’intenzione (Pietro Abelardo), la dottrina della suppositio nell’ambito della
logica, la distinzione fra essenza ed esistenza (Tommaso d'Aquino), la teoria
della visione beatifica nella Scolastica.
Dal VI al X secolo
Il disfacimento del mondo antico, culminato con la caduta dell'impero romano nel
476, ebbe fra le sue conseguenze la scomparsa dell’insegnamento della filosofia.
La tradizione filosofica greca tuttavia sopravvisse a Bisanzio con quell’originale
frutto del neoplatonismo cristiano denominato pseudo-Dionigi Areopagita, un
autore forse siriano del VI secolo le cui opere (De coelesti hierarchia, De
ecclesiastica hierarchia, De divinis nominibus, De mystica theologia) avrebbero
fortemente influenzato la Scolastica latina.
Nel mondo latino Boezio e Scoto Eriugena sono gli unici autori di spessore
filosofico di quest’epoca e possono (soprattutto il primo) essere considerati per
certi aspetti come ultimi esponenti della filosofia antica. Il cristianesimo,
condiviso da conquistati e conquistatori, è ora la base della cultura comune
nonostante sia diviso al proprio interno da numerose dispute teologiche fra
greci e latini; ed è nell'ambito del cristianesimo occidentale che le problematiche
teologiche aprono lo spazio per la riflessione propriamente filosofica che
riprenderà, con caratteri originali rispetto alla filosofia tardo-antica, nel secolo XI.
La filosofia medievale: dal VI al X secolo (3)
Il fattore culturalmente più rilevante nel mondo occidentale è la fondazione
del monachesimo (la regola di Cesario di Arles risale al 506, quella di
Benedetto da Norcia al 529) e la sua diffusione in tutta l’Europa centromeridionale e nelle isole britanniche.
I frutti più importanti della pedagogia monastica basata sulle arti liberali (le
Etimologie di Isidoro di Siviglia, 560 - 633; la Historia ecclesiastica
gentium Anglorum di Beda il Venerabile, 672-735) non comprendono
contributi originali alla filosofia ma trasmettono contenuti essenziali del
sapere classico.
Nei secoli IX-X, l’età carolingia, il rinnovamento delle scuole crea lo spazio
istituzionale per lo sviluppo del dibattito su temi teologici sulla cui base
s’innesta la filosofia fino al XII secolo. Le figure più rilevanti dell’epoca sono
Alcuino di York (730/5 - 804), cui si deve la riforma dell’insegnamento delle
arti liberali e soprattutto l’irlandese Giovanni Scoto Eriugena (810 ca-870
ca), cui si deve la prima costruzione filosofica sistematica del medioevo, il De
divisione naturae e che con il trattato De praedestinatione intervenne in
modo originale e teoreticamente coerente nel più rilevante dei dibattiti
dell’epoca. L’Eriugena aveva tradotto dal greco il corpus dionisianum, gli
Ambigua e le Quaestiones ad Thalassium di Massimo il Confessore, il De
hominis opificio di Gregorio di Nissa.
La filosofia medievale: dal VI al X secolo (4)
Giovanni Scoto Eriugena si era quindi servito di queste fonti per
l’elaborazione della propria filosofia, che presenta il ciclo neoplatonico della
processio e del reditus attraverso le quattro differentiae della natura intesa
come totalità del reale. L’opera dell’Eriugena, sospettata di panteismo e
condannata alcuni secoli dopo (nel 1210), non ebbe seguaci al suo tempo.
Altro filosofo importante del periodo (o meglio: piace moltissimo a me!) è
Fridegiso di Tours. Di origine anglosassone, intorno al 796 Fridegiso di
Tours accompagnò Alcuino, di cui fu discepolo, alla corte di Carlomagno,
dove fu maestro alla scuola palatina. Seguì Alcuino all’abbazia di SaintMartin di Tours, della quale divenne abate nell’804, succedendo al maestro.
Fu in seguito abate di Saint-Omer e Saint-Bertin e dall’819 cancelliere di
Ludovico il Pio fino all’ 834, anno della sua morte.
L’unico dei suoi scritti ad esserci pervenuto è il De substantia nihili et
tenebrarum (o Epistula de nihilo et tenebris ad proceres palatii).
Il dibattito sulla natura del nulla. Dall’800 all’860 la questione della natura
del nulla e delle tenebre che Agostino aveva sollevato nel De Ordine e nel
De Genesi fu molto dibattuta tra i maestri della scuola palatina, mettendone
in luce gli interessi logici e grammaticali nel metodo utilizzato per
l’argomentazione.
La filosofia medievale: dal VI al X secolo (5)
Nel De substantia nihili et tenebrarum Fridegiso pone la questione del
nulla domandandosi non se il nulla esista, bensì se consista in qualcosa e,
eventualmente, se sia possibile indagare sulla natura di questo qualcosa.
Per provare e sostenere la consistenza del nulla Fridegiso fa ricorso alla
grammatica, una delle arti liberali, in particolare al modo in cui i grammatici
definiscono il nome.
Poiché ogni nome finito significa qualcosa di finito, si deduce che ciò valga
anche per il nulla. L’argomentazione procede con la definizione del nome
quale vox significativa (il nome che nomina una cosa si distingue dalla
significazione, che media fra i due): ogni significazione si riferisce a ciò
che significa. Da ciò Fridegiso deduce che il nulla esiste ed è qualcosa.
Altra questione è il sapere e il dire in cosa questo qualcosa consista,
argomentazione per la quale Fridegiso invoca l’autorità del libro della
Genesi, secondo il quale tutto ciò che è creato da Dio è creato dal nulla.
Ora, questo nulla è distinto dalla materia informe come dalla causa
primordiale delle cose.
La conclusione è che non può essere conosciuta la natura del nulla,
anche se questa deve essere qualcosa di grande e chiarissimo, dal
momento che da esso Dio ha fatto le più grandi creature, cioè gli angeli
e gli uomini.
La filosofia medievale: XI secolo (6)
L’XI secolo
E’ un’epoca di assestamento dell’organizzazione feudale e di sviluppo del mondo
latino, sostenuto da fenomeni quali l’espansionismo dei normanni, l’inizio della
reconquista spagnola, la prima crociata; ed è allora che inizia a manifestarsi
l’esigenza di rinnovamento religioso che si esprime nella riforma del
monachesimo benedettino, propugnata dall’abbazia di Cluny, e nella nascita di
nuovi ordini che seguono la regola di Benedetto ma si prefiggono più radicali
intenti riformatori: i certosini ed i cisterciensi.
E’ anche il secolo in cui nasce una vera e propria filosofia medievale in lingua
latina: la teologia non è ancora divenuta un sapere autonomo, e la discussione
fra i cosiddetti dialettici (Berengario di Tours: 1005 ca -1088) ed antidialettici
(Pier Damiani, 1007 – 1072; protagonista del canto Pd XXI, 43-142) non verte
tanto sulla legittimità dell'uso della dialettica, ma sul suo statuto nei confronti
della parola rivelata.
Strumento di razionalizzazione del discorso della fede per Berengario, che nega
la presenza sensibile del corpo di Cristo nell'Eucarestia sulla base di
un'argomentazione logica. Ancella per Pier Damiani, che la utilizza per affrontare
il problema della potentia Dei absoluta:rispondendo alla questione se la
potenza divina possa contravvenire alle leggi naturali e al principio di noncontraddizione Damiani argomenta che Dio, in quanto sorgente delle leggi
naturali, non è sottoposto ad esse.
La filosofia medievale: XI secolo (7)
Il contributo filosofico più alto e originale dell’XI secolo nasce nel contesto
monastico, ad opera di Anselmo d’Aosta (1033/34-1109).
Nel frattempo nel mondo islamico si sviluppa la filosofia del persiano
Avicenna (980-1037), che mette in relazione temi della sapienza orientale
(l'estasi, la profezia) con la filosofia greca sviluppando in modo originale
dottrine metafisiche (l’idea dell'essere in quanto essere e la distinzione fra
essenza ed esistenza), psicologiche e gnoseologiche (l'anima come sostanza
spirituale; la valorizzazione dell'immaginazione) e collegando la cosmologia
emanatistica (cioè necessaria e senza creazione) all'angelologia iranica.
Altro filosofo arabo importante è Al-Ghazali (1058-1111) che sviluppa una
logica non aristotelica e confuta Avicenna e in generale le posizioni dei filosofi
ellenizzanti, ma in Occidente viene considerato un aristotelico.
Il XII secolo
Nel secolo in cui le città tornano ad essere il centro della vita economica e si
esplica in tutta la sua ampiezza e profondità il movimento di riforma del
monachesimo, due mondi intellettuali si scontrano: il mondo monastico, in
cui la filosofia è caratterizzata dalla prevalenza di temi agostiniani di
ascendenza platonica; e il mondo urbano, dove l’ insegnamento filosofico
comincia ad assumere un rilievo maggiore nelle scuole, pur rimanendo
inquadrato nel contesto delle arti liberali.
La filosofia medievale: XII secolo (8)
Lo sviluppo delle scuole urbane produce quello che è stato definito il
Rinascimento del XII secolo, che in realtà ha, nella prima metà del secolo,
due aspetti: uno latino autoctono (di derivazione boeziana), che ha luogo nelle
scuole di dialettica di Parigi ed è caratterizzato dallo sviluppo delle arti
sermocinali (grammatica, logica e sua applicazione alla teologia): esponente
principale di questo aspetto è Abelardo (1079-1142), contro cui polemizza il
capofila della cultura monastica, Bernardo da Chiaravalle.
Le scuole di logica si formano attorno a singoli maestri le cui elaborazioni
definiscono le posizioni caratteristiche di ciascuna di esse.
Il secondo aspetto, focalizzato soprattutto attorno alle scuole di Chartres e di
San Vittore (presso Parigi), è caratterizzato dalla massiccia immissione
nell’insegnamento dei nuovi materiali filosofici e scientifici introdotti
mediante le traduzioni. La scuola dei canonici agostiniani di San Vittore si
caratterizza per l’inserimento delle nuove fonti filosofiche in un contesto
mistico centrato sul tema dell’amore di Dio; accanto ai saperi teorici i vittorini
valorizzano i saperi pratici (arti meccaniche) nel quadro di un interesse per la
vita terrena dell’uomo come percorso di salvezza.
Un platonismo fondato sul pensiero ellenistico, nutrito d'esperienza cristiana e
fuso intimamente a tesi filosofiche e scientifiche d’origine araba caratterizza
invece la scuola di Chartres, i cui rappresentanti di maggior rilievo sono
Guglielmo di Conches (m. 1154) e Teodorico di Chartres (1142-1150).
La filosofia medievale: XII secolo (9)
La posizione degli chartriani, ben sintetizzata nell’affermazione di Guglielmo,
che in tutte le cose si deve ricercare la spiegazione razionale (in omnibus
rationem esse quaerendam), si esplica soprattutto nell’indagine sulla natura:
il Timeo di Platone viene utilizzato per spiegare razionalmente la creazione
del mondo secondo la Genesi, ed in questo contesto vengono inseriti gli
apporti delle nuove scienze introdotte con le traduzioni dall’arabo.
La pluralità degli interessi e l’atteggiamento critico caratterizzano le ricerche
chartriane, come mettono in evidenza le opere di Giovanni di Salisbury
(1125 ca-1180), in cui la riflessione filosofica si apre alla discussione politica
relativa alla sorgente del potere.
Nella seconda metà del secolo comincia a manifestarsi un’esigenza di
riorganizzazione del sapere ed emerge una concezione nuova della teologia,
cui avevano aperto la strada le opere logiche e teologiche di Abelardo e la
riflessione dei vittorini sui sacramenti.
I quattro libri delle Sententiae di Pietro Lombardo (m. 1160) gettano le basi
della teologia scolastica, attraverso la raccolta sistematica delle dottrine
patristiche su: la Trinità, la creazione, l'Incarnazione, l'azione dello Spirito
Santo e i sacramenti. Quest’opera diventerà il testo base dell‘insegnamento teologico nel XIII secolo.
La filosofia medievale: XIII secolo (10)
Nella cultura islamica il XII secolo è l’epoca che vede fiorire i grandi pensatori
di al-Andalus (Spagna): Ibn Bagga (Avempace, m. 1139), che nel Regime
del solitario introduce una lettura politica della ‘vita filosofica’ centrale nell’
Etica Nicomachea di Aristotele; Abdulgualid Mohammed Ibn-Ahmed IbnMohammed Ibn-Rush (un secolo avrebbe impiegato questo lungo nome a
divenire Averroè, 1126 -1198), che propone una soluzione innovativa al
rapporto fra filosofia e religione e propone la più completa e importante
interpretazione complessiva delle opere d’Aristotele nel mondo islamico.
Anche Mosè Maimonide (1135/38-1204), il filosofo ebreo che influenzò
Tommaso d’Aquino, era nato in al-Andalus, a Cordoba.
Il XIII secolo
Il XIII secolo vede la trasformazione delle scuole cittadine in università,
luogo di produzione (e non di semplice trasmissione) del sapere; le prime
università furono fondate a Bologna, Parigi e Oxford. L’università è
un’istituzione autonoma, organizzata come le corporazioni dei mestieri, ma
con strutture caratteristiche: le facoltà, suddivise secondo le grandi scansioni
disciplinari; e le nazioni (qualcosa di analogo agli odierni college), che
riflettono la provenienza e la lingua-madre degli studenti, mentre la lingua
utilizzata nell’insegnamento continuò per molti secoli ad essere il latino.
La filosofia medievale: XIII secolo (11)
La facoltà di Arti, propedeutica alle altre tre facoltà (teologia, medicina e
diritto) copre l’insegnamento della filosofia che dalla fine del secolo
precedente era stata articolata secondo la scansione aristotelica in
metafisica, fisica ed etica; nelle tre facoltà superiori si insegnavano la
teologia, la medicina e il diritto (romano ed ecclesiastico). Il sapere prodotto
nel mondo tutto maschile dell’università si caratterizza per la sua forma
competitiva (il genere letterario più rappresentativo è la quaestio), con aspetti
ludici che affiancano quelli critici.
L’utilizzazione estesa della logica modernorum porta alla produzione di
nuove modalità di argomentazione in ambito teologico e scientifico, che verso
la fine del secolo cominciano ad aprire varchi sempre più consistenti nel
sistema aristotelico.
La nascita degli ordini mendicanti (francescani e domenicani) produce un
riassestamento delle istanze spirituali e, in particolare con l’ordine
domenicano, si propone come baluardo della fede cristiana contro le eresie e
contro l’Islam: anche la filosofia viene arruolata contro gli infedeli, come
indica il programma del generale domenicano Raimondo di Peñafort a cui si
ispira anche la Summa contra Gentiles di Tommaso d’Aquino. La prima
metà del secolo si caratterizza per l’iniziale condanna e poi la lenta
assimilazione della filosofia aristotelica.
La filosofia medievale: XIII secolo (12)
Centrale in questo processo è l’atteggiamento dei teologi che iniziano ad
articolare un discorso scientifico sulla teologia e sulla sua relazione con la
metafisica; e dei magistri Artium, cui si deve l’impostazione della riflessione
sulle opere filosofiche di Aristotele mediata dall’utilizzazione dei commenti di
Avicenna e di Averroè.
Entrambi gli aspetti culminano nell’opera di Alberto Magno (1200 ca.-1280),
soprannominato Doctor Universalis per l’ampiezza dei suoi interessi; dal
suo insegnamento presero il via sviluppi dottrinali diversi: l’averroismo di
Sigieri di Brabante e la sintesi aristotelico - cristiana di Tommaso
d’Aquino.
Verso la metà del secolo si verificò un’importante novità istituzionale: i due
ordini mendicanti, domenicani e francescani, sorti all’inizio del secolo da
esigenze spirituali ben definite (rispettivamente: lotta antiereticale e povertà
evangelica), si inserirono a pieno titolo nella vita universitaria dopo un
periodo di aspra polemica con i maestri secolari.
I magistri francescani di Arti e di teologia parteciparono allo stesso processo
di trasformazione culturale con una posizione notevolmente diversa, molto
più critica nei confronti dei rischi impliciti nell’accettazione della filosofia
aristotelica da parte di cristiani.
La filosofia medievale: XIII secolo (13)
La figura più caratteristica di questa tendenza fu Bonaventura da Bagnoregio
(1217-1274), che resse la cattedra francescana di teologia negli stessi anni in
cui Tommaso d’Aquino reggeva quella domenicana.
Nel contesto della facoltà di Arti aveva avviato la propria riflessione filosofica un
altro francescano, Ruggero Bacone (1215 ca -1294), che sviluppò ben presto
una posizione originale e fortemente polemica nei confronti dei suoi
contemporanei, proponendo una riforma degli studi come base e strumento di
una profonda riforma della cristianità. Bacone pone, a questo scopo, l’accento
sulla necessità di assumere un atteggiamento d’indagine critica della
realtà (scientia experimentalis), non limitandosi al sapere appreso dai libri
delle auctoritates. (si veda Guglielmo da Baskerville ne Il nome della Rosa)
Negli ultimi decenni del secolo le posizioni filosofiche si diversificano, dando
luogo ad un periodo caratterizzato da rilevanti dibattiti dottrinali di cui i principali
sono quello contro gli averroisti (centrato su due punti del confronto con la
filosofia aristotelica: l’unicità dell’intelletto possibile e l’eternità del mondo) e
quelli pro e contro il tomismo (che divenne la dottrina ufficiale dei domenicani
solo nel terzo decennio del Trecento), in particolare quello concernente l’unicità
della forma sostanziale, che contraddiceva l’ilemorfismo (= la dottrina della
filosofia scolastica secondo la quale negli esseri contingenti vi è una
composizione ontologica di materia e forma e non solo di forma).
La filosofia medievale: XIV e XV secolo (14)
Gli ultimi due secoli del medioevo sono un’epoca di conflitti: fra il potere
politico e quello ecclesiastico e fra gli stati nazionali (Guerra dei Cent'anni tra
Francia e Inghilterra, 1339-1423); e all’interno della chiesa, che vede
acutizzarsi la contrapposizione fra una concezione ecclesiologica centrata sul
potere del papa e della curia ed una spirituale e comunitaria, a partire dal
papato di Avignone fino ai primi decenni del 1400, l’epoca degli antipapi.
Il XIV è un secolo di fioritura intellettuale, d'innovazione, di critica che vede
l'articolarsi delle posizioni sugli universali, con varie forme di realismo
(legato a concezioni platoniche) e di nominalismo; forme diverse di rapporto
fra logica, fisica e teologia, in particolare sul tema dell'onnipotenza divina;
l'emergere di concezioni della natura alternative a quella aristotelica: la teoria
dell‘ impetus elaborata dai fisici nominalisti parigini; lo sviluppo di ipotesi
controfattuali da parte dei Calculatores di Oxford; l’idea alchemica di
un’integrazione fra creazione e trasformazione del mondo, che si serve della
logica dei correlativi.
I pensatori più rilevanti dell’epoca elaborano i loro sistemi dopo la crisi
determinata dalla condanna del 1277, che mostrò il carattere non definitivo
della sintesi aristotelico-cristiana ricercata dagli scolastici e realizzata al
massimo livello da Tommaso d’Aquino.
La filosofia medievale: XIV e XV secolo (15)
A Parigi il francescano Giovanni Duns Scoto (1265 - 1308), pur
appartenendo cronologicamente quasi per intero al secolo precedente, si
colloca con la sua ricerca nitidamente oltre l’orizzonte tomistico, mettendo al
centro della propria filosofia i temi dell’univocità dell’essere, della
conoscenza individuale e della potenza assoluta di Dio.
Francescano è anche l’inglese Guglielmo di Ockham (1285 ca-1349), la cui
carriera di magister nell’università di Oxford fu stroncata dall’opposizione
contro le innovazioni filosofiche da lui proposte: la contingenza e
l’individualità al posto della catena ontologica di enti, il raccordo fra
potenza assoluta di Dio e ordine della creazione (garanzia della
possibilità per la ragione umana di riconoscere la regolarità naturale)
attraverso la nozione di ‘patto’, l’integrale nominalismo logico, secondo
cui l’universale è un puro contenuto mentale (intenzione) che significa
l’individuo e la specie, l'idea di conoscenza come intuizione.
La dottrina politica dell’indipendenza dell’imperatore dal papa, sviluppata da
Ockham dopo la fuga dal carcere papale di Avignone (episodio narrato anche
ne Il nome della Rosa) insieme al francescano spirituale Michele da Cesena
(1329), si colloca a fianco delle dottrine politiche di Marsilio da Padova
(1275 ca-1342) e di Dante Alighieri.
Boezio (1)
Il filosofo Anicio Manlio Torquato Severino Boezio nacque verso il 480 d.C.
da una famiglia senatoriale, fu console e senatore sotto il regno goto–romano
e si dedicò agli studi fin dall'età giovanile.
Nel 510 venne nominato console e in questi anni tradusse e commentò le
Categorie e il De interpretatione, fondamenti dell'insegnamento della logica
fino al XII secolo.
Scrisse inoltre opere originali di logica: De syllogismis, De divisione, De
hypotheticis syllogismis, De differentiis topicis. Molto dibattuto nella
storiografia è il problema del platonismo o aristotelismo di Boezio, come
ancora aperta è la questione se egli abbia o no aderito al cristianesimo.
Al culmine della sua carriera politica, Boezio si trovò coinvolto in una crisi che
vide scontrarsi, dopo anni di convivenza tutto sommato pacifica, la corte di
Teodorico, il papato romano e l'Impero d' Oriente.
Una congiura contro di lui scoppiò infatti nel 523, quando davanti alla corte di
Teodorico, a Verona, egli difese il patrizio Albino, accusato di complottare per
l'Imperatore d'Oriente. Imprigionato a Pavia con le accuse di tradimento,
sacrilegio e magia, Boezio trascorse gli ultimi due anni della vita in carcere,
scrivendo qui la sua opera più famosa e celebrata, De consolatione
philosophiae. Alla fine del processo, nel 525, venne ucciso per ordine di
Teodorico.
Boezio (2)
L'opera di traduzione e commento dell'ultimo degli Antichi, come
universalmente fu definito Boezio, è stata fondamentale per la conservazione
e la trasmissione al mondo latino della cultura filosofica greca.
La traduzione di Aristotele faceva parte di un programma complesso, che
prevedeva anche la traduzione di tutti i dialoghi di Platone, in modo da far
emergere la convergenza, nonostante l'apparente discordanza, delle due
maggiori filosofie del passato, come lo stesso Boezio spiega nel suo
commento al De interpretatione. Di fatto, il progetto di traduzione si limitò alle
opere logiche di Aristotele, e la conciliazione dei due massimi filosofi non
avvenne. Tuttavia, grazie a Boezio la terminologia logica aristotelica passò alla
lingua latina, e la tradizione filosofica medievale se ne servì prontamente:
ricordiamo, ad esempio, alcuni concetti universalmente utilizzati in ambito
filosofico come atto (actus), potenza (potentia), principio (principium).
Boezio influenzò il medioevo anche in merito al problema degli universali.
Tenendo presente tanto la tradizione platonica, quanto l'impianto aristotelico,
egli introduce una nozione fondamentale per la logica successiva, quella di
concetto (intellectus). Gli universali sono concetti, mentre reale è solo
l'individuo, secondo la tradizione aristotelica. Ciononostante, il soggetto
è universale quando lo si pensa, singolare quando lo si avverte con i
sensi nelle cose nelle quali ha il suo essere.
Boezio (3)
Un altro contributo fondamentale di Boezio al successivo sviluppo della
metafisica medievale è la distinzione fra l'esse (cioè l'essere in senso astratto
e generale) e l'id quod est (cioè il soggetto esistente, e che è costituito
«dalla composizione metafisica tra la sostanza e l'essere che la fa
esistere»). In base a questa differenza, l'essere e ciò che è si distinguono in
quanto «l'essere stesso, infatti, non è ancora, ma ciò che è, ricevuta la forma
dell'essere, è e sussiste».
Su tale distinzione Boezio sviluppa una concezione della partecipazione che
permette la distinzione sostanziale fra le creature e il creatore: «Poiché [le
cose] non sarebbero potute esistere in atto se non le avesse tratte all'essere
quello che è il vero bene, per questo il loro essere è buono; e tuttavia non è
simile al bene sostanziale ciò che da lui è scaturito».
Siamo ormai nell'ambito di quel problema del Sommo Bene e del rapporto fra
creatore e creature che caratterizza l'opera principale di Boezio, De
consolatione philosophiae (Sulla consolazione della filosofia).
Il De Consolatione è un trattato in prosa e in versi, oscuro e doloroso in quanto
composto nel periodo più difficile e tragico della vita di Boezio, cioè durante gli
anni del carcere. E' una meditazione intima e rivolta a se stesso che mette a
fuoco i problemi essenziali del pensiero umano senza altri fini e intendimenti se
non dare un senso alla vita, in vista della morte imminente.
Boezio (4)
I temi dell’opera sono il Bene, il rapporto fra destino e libertà, la ricerca della
felicità. La Filosofia è impersonata da una donna anziana ma alquanto
vigorosa, vestita di una candida veste tessuta di fili d'oro sottilissimi, ma
estremamente robusti: una personificazione allegorica frequente nella
tradizione platonica e neoplatonica, ma che qui mette in evidenza, fin dalla
descrizione fisica, la profonda venerazione che Boezio aveva per la cultura ed il
sapere, e lo sgomento personale per come il pensiero fosse negletto e
abbandonato dagli uomini della sua età.
L'allegoria sottolinea l'antichità della filosofia e la sua perennità. Il filosofo
intreccia un dialogo con Filosofia e il pensiero con cui aveva aperto il suo
scritto, l'instabilità della fortuna, dà modo a Filosofia di rammentare, con accenti
platonici e stoici, che la felicità va cercata in se stessi, poiché i beni esteriori
non sono mai realmente posseduti dall'uomo.
Boezio affronta così, in termini essenzialmente platonici, il discorso sul Sommo
Bene, che nel carme centrale erompe in una esaltazione del principio
creatore e ordinatore dell'universo. Non si tratta del Dio cristiano, ma di un
ente supremo al quale Boezio si rivolge con una struggente preghiera. Molti
temi della cosmologia platonica del Timeo, come la proporzione matematica
dell'universo, l'anima del mondo, il legame fra macrocosmo e microcosmo
(l'uomo), fanno sviluppare una discussione sulla bontà, l'essere, il male.
Boezio (5)
Per Boezio il male è dovuto ai limiti della condizione umana, secondo una
prospettiva che già era emersa in Agostino. In tal senso si può tracciare la
distinzione fra la provvidenza e il fato: «Come dunque il ragionamento sta alla
intuizione, ciò che viene generato a ciò che è, il tempo all'eternità, la
circonferenza al centro, così il corso mutevole del fato sta all'immobile semplicità
della provvidenza».
La possibilità dell'agire libero dell'uomo, che costituirà l'argomento essenziale del
libero arbitrio, è l'ultimo tema affrontato da Boezio. La contraddizione fra la
libertà umana e la necessità dell'ordine divino si risolve sottolineando la
profonda diversità del conoscere umano da quello divino rispetto alla
necessità degli avvenimenti futuri.
La ragione umana, secondo Boezio, è così limitata che crede che l'intelligenza
divina consideri le cose future come lei le considera. Ciò non può essere in
quanto l'intelligenza divina è eterna, e dunque fuori dai condizionamenti del
tempo. E' errato, allora, parlare della prescienza divina come capacità di
conoscere il futuro, perché in Dio c'è un eterno presente. Anche la sua
scienza, travalicando ogni mutamento temporale, rimane nella semplicità della
propria presenza «e abbracciando tutti gli spazi infiniti del presente e del futuro li
contempla nel proprio semplice atto di conoscenza come se avvenissero proprio
in quel momento». Ogni evento, apparentemente mutevole, è così un modo in cui
si presenta l'infinita totalità dell'essere.
Boezio (6)
Dante - che nel Convivio chiama Boezio suo consolatore e dottore - si
ricorderà delle riflessioni boeziane sulla caducità dei beni terreni in Pd X,
124-129: Dante e Beatrice sono al IV Cielo del Sole, dove vi sono gli spiriti
sapienti della prima corona presentati da san Tommaso d'Aquino - fra di essi
per l’appunto Boezio - scriverà, riferendosi al De consolatione
philosophiae:
Per vedere ogne ben dentro vi gode
l'anima santa che 'l mondo fallace
fa manifesto a chi di lei ben ode.
Lo corpo, ond'ella fu cacciata, giace
giuso in Cieldauro; ed essa da martìro
e da essilio venne a questa pace.
Parafrasi: Dice San Tommaso: [Dentro la fiammella] è beata – perché vede
Dio fonte di ogni bene - l’anima santa [di Boezio] la quale, a chi ben medita le
sue opere, manifesta la vanità dei beni mondani. Il corpo dal quale fu
cacciata è sepolto giù in terra nella chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro [a
Pavia, dove fra l’altro è sepolto anche Sant’Agostino]; ed essa è giunta nella
nostra pace dopo l’esilio terreno e il martirio [cioè la condanna a morte].
Anselmo d’Aosta (1)
Anselmo, conosciuto anche come Anselmo di Le Bec e Anselmo di
Canterbury, nacque ad Aosta nel 1033 da una famiglia nobile e iniziò gli
studi presso l'abbazia di Fruttuaria; dopo la morte della madre si recò in
Francia a studiare alla scuola di Lanfranco di Pavia, nel monastero di Bec,
dove si fece monaco nel 1060. Nel 1063, alla partenza di Lanfranco, divenne
priore di quel monastero, e nel 1078 fu eletto abate.
La prima delle opere maggiori di Anselmo, il Monologion, ovvero soliloquio
(1076) è una meditazione filosofica nata all' interno di una comunità di
monaci. Negli anni immediatamente successivi approfondì la sua
speculazione filosofico-teologica nel Proslogion, ovvero colloquio (1077-78)
ed in seguito si dedicò a riflessioni logico-grammaticali che risultarono nella
stesura del De grammatico e del De veritate nel periodo fra il 1080 e il 1085.
A quella stessa data risale anche il primo degli scritti anselmiani che si
occupano di questioni teologiche legate all’etica, il De libertate arbitrii.
L’anno 1093 segnò una tappa importante nella vita di Anselmo: venne
chiamato Inghilterra da re Guglielmo II, per ricoprire la carica di arcivescovo
di Canterbury, che era stata lasciata vacante dalla morte di Lanfranco (1089)
perché il sovrano potesse disporre dei beni ecclesiastici.
Anselmo d’Aosta (2)
Ma successivamente si verificarono aspri contrasti con il sovrano, tali da
spingere Anselmo ad andare in esilio nel 1097: prima si recò a Lione e poi
proseguì per l’Italia, dove nel 1098 scrisse il Cur Deus homo. In seguito
tornò a soggiornare a Lione fino alla morte di Guglielmo II, quando nel 1100
fu richiamato in Inghilterra dal nuovo re Enrico.
Purtroppo però Anselmo dovette riprendere la via dell'esilio già nel 1103, dato
che erano sorti nuovi motivi di contrasto con il sovrano; continuò tuttavia le
trattative con la corte inglese finché riuscì a far prevalere il suo punto di vista.
Tornato nel 1106 in Inghilterra, morì a Canterbury nel 1109.
Una meditazione monastica. Il Monologion nasce dalle riflessioni
teologiche che avevano luogo all’interno del monastero di Le Bec: in questo
contesto la speculazione filosofica, la ricerca intellettuale diventa un tutt’uno
con la preghiera.
Anselmo dichiara di aver scritto questo testo in accordo con le
argomentazioni dei Padri della chiesa e soprattutto di Agostino, di cui cita il
De Trinitate, ma sottolinea l’originalità del proprio approccio: ovvero quello di
porsi nell’animo di un uomo che si interroga mentalmente tra sé e tenta di
comprendere cose che prima non aveva capito per arrivare a dimostrare la
verità della fede senza ricorrere all’autorità delle scritture, ma soltanto
attraverso argomenti necessari.
Anselmo d’Aosta (3)
Fin dai primi paragrafi incontriamo alcuni dei problemi fondamentali del
pensiero di Anselmo, che già erano stati al centro della riflessione di autori
come Boezio e Scoto Eriugena: l’essenza di Dio, il rapporto fra Dio e le
sue creature, il problema del sommo bene e del libero arbitrio.
Il metodo usato da Anselmo nella sua meditazione conferisce piena legittimità
all’uso della dialettica nelle dispute teologiche, affermando che per mostrare
la luce della verità bisogna argomentare attraverso rationes necessariae
piuttosto che basarsi sull’auctoritas scritturale.
La razionalità per Anselmo non è però uno strumento completamente slegato
dalla verità manifesta nelle Scritture: la ragione deve infatti essere utilizzata
per approfondire i contenuti di una fede che è già data e che deve soltanto
essere compresa più a fondo. Quando l’indagine razionale resta a livello
di semplice comprensione della realtà circostante essa ha un valore
solo soggettivo; solo quando entra in relazione e tenta di comprendere
le verità di fede la ratio umana assume un valore oggettivo ed è capace
di fornire conoscenza vera.
La funzione principale della ragione è dunque quella di portare il cristiano ad
avere una consapevolezza delle verità di fede contenute nelle Scritture, in
modo da mettere in grado il fedele di difendere la dottrina cristiana anche
all’interno di un dibattito filosofico e di ribattere ad ogni obiezione rivoltagli.
Anselmo d’Aosta (4)
Il Monologion si concentra sul problema dell’esistenza delle cose buone e
della loro origine, il Bene Sommo, strutturandosi attraverso quattro diverse
prove, che permettono di comprendere l’esistenza di una natura superiore
a ciò che esiste, autosufficiente, beata e dotata di immensa bontà che
conferisce l’essere a tutte le altre cose e le rende buone.
La prima prova parte dalla constatazione che tutti aspirano a godere delle
cose che giudicano buone: poiché si possono confrontare beni tra loro
diversi, deve esistere un fondamento comune, un criterio di valutazione, il
bene sommo, dal quale tutte le cose traggono la bontà per partecipazione.
Nella seconda prova si dimostra che il bene sommo è anche l’essere più
grande che possa esistere, dal quale tutto l’ordine delle cose create riceve la
grandezza.
La terza prova prende le mosse dalla piena comprensione della distanza
ontologica fra il creatore e le creature: tutte le cose create esistono in virtù di
un qualcos’altro che invece esiste soltanto per se stesso, la somma sostanza
che ha fatto tutto l’universo. Il rapporto fra la somma sostanza (l’essere) e gli
enti viene descritto efficacemente da Anselmo attraverso la metafora della
luce: essenza, essere e ente stanno fra di loro nella stessa relazione che
troviamo fra la luce, lo splendere e la cosa che splende.
Anselmo d’Aosta (5)
La quarta prova si riallaccia alle prime due, considerando il modo nel quale
gli enti sono ordinati secondo una scala di perfezione, per concludere che
deve esistere una natura somma e pienamente perfetta.
Queste quattro prove, dette «a posteriori», hanno caratteristiche molto simili
alle cinque vie che Tommaso d’Aquino userà per provare l’esistenza di Dio:
sono permeate da una concezione metafisica marcatamente realistica, di
stampo platonico e agostiniano che sostiene la «pienezza del mondo» (e
quindi la superiorità dell’essere rispetto al non essere) e che ritroviamo alla
base di molte altre filosofie del medioevo.
Su questa stessa concezione si basa la possibilità di provare le verità di fede
attraverso argomenti necessari, che presuppone una analogia fra il modo in
cui è strutturata la realtà creata e il modo in cui ragiona la mente umana.
La prova ontologica dell’esistenza di Dio. il Proslogion.
Le riflessioni del Monologion vengono portate avanti da Anselmo nella sua
seconda opera, di pochi anni successiva, il Prosologion: una sorta di
preghiera o meglio di dialogo con Dio (come indica il titolo) in cui viene
illustrata la ricerca di un argomento che da solo realizzi la prova
dell’esistenza di Dio: la celebre prova ontologica.
Anselmo d’Aosta (6)
Nel Prologo Anselmo descrive questo difficile processo di riflessione, da cui
emerge chiaramente la natura nuova ed intuitiva di questa dimostrazione, che
presenta un modo diverso da quello del Monologion di arrivare a Dio. La
prova ontologica rappresenta il contributo più originale e fecondo di Anselmo
alla storia della filosofia, capace di suscitare interesse e attenzione in molti
filosofi posteriori, da Tommaso fino a Kant, Hegel e Gödel.
Nel passaggio dalle prove del Monologion a quella del Proslogion sembra
inoltre darsi un leggero slittamento di prospettiva: il Dio di cui si vuole
dimostrare l’esistenza non è più semplicemente il Sommo Bene, ma si
caratterizza come il Dio della Bibbia, che può e deve essere dimostrato con
l’intelletto, ma solo da chi lo ha prima accolto con la fede, come mostra l’altro
titolo del Proslogion, Fides quaerens intellectum (= la fede che cerca l'
intelligenza), che riecheggia i versi del profeta Isaia (VII, 9): «se non avrò
creduto non potrò capire».
Alla negazione dell’esistenza di Dio da parte dello stolto (insipiens) «disse
l’insipiente in cuor suo: Dio non esiste» (Salmi, XIV, 2), il filosofo replica che
perfino l’insipiente, per poter negare l’esistenza di Dio deve riconoscere
di possedere in sé l’idea di Dio, ovvero l’idea di un qualcosa di cui non
si può concepire il maggiore.
Anselmo d’Aosta (7)
Ora, secondo Anselmo se si ammette che l’idea di Dio esiste
nell’intelletto, che ha quindi una realtà mentale, è necessario ammettere
che esista anche nel mondo reale: infatti, poiché Dio è ciò di cui non è
possibile pensare il maggiore, egli deve avere in sé tutte le perfezioni
possibili, e dato che l’esistenza nel mondo reale è una perfezione, è
impossibile che non la si possa attribuire a Dio, perché in quel caso
sarebbe possibile immaginare qualcosa che in virtù della sua esistenza
reale è più grande e più perfetto di Dio, cadendo così in una
contraddizione logica.
Alla base del discorso anselmiano vi è una premessa fondamentale, ovvero
l’attribuire un intrinseco valore al puro fatto di esistere: l’esistenza come
perfezione dell’essere, secondo il principio della pienezza dell’essere, già
ricordato a proposito del Monologion, per il quale una cosa che può essere
solo pensata ha un minor valore ontologico di una cosa esistente nella realtà.
A questa premessa si aggiungono le considerazioni logiche basate sull’analisi
della significatio del termine Dio e sulla possibilità di dedurne la necessità
logica della sua esistenza extramentale, passando dal piano del pensiero a
quello dell’essere. Ancora con considerazioni logiche si spiega l’apparente
contraddizione nel pensiero dell’insipiente.
Anselmo d’Aosta (8)
Per Anselmo esistono infatti due distinti significati del termine «pensare».
«Pensare una cosa» può intendersi come «pensare alla parola usata per
riferirsi a tale cosa» e come «pensare all’essenza della cosa», ovvero il
pensiero può essere mediato dal piano linguistico o può invece riferirsi
direttamente al piano dell’essere: quindi lo stolto può, al livello meramente
linguistico del pensiero, negare alla parola Dio l’esistenza, ma neanche lui
può pensare che Dio non esista nella seconda accezione (quella più vera) del
termine pensare.
Come si può notare Anselmo fa già uso in questo testo della distinzione fra
appellatio e significatio e della definizione di verità, che verranno esplicitate
meglio in testi di poco successivi come il De Grammatico e il De Veritate.
Il dibattito sul Proslogion. Questa complessa e innovativa dimostrazione non
fu accolta unanimemente: molto presto Gaunilone, monaco nell’abbazia di
Marmoutier, la cui biografia ci è quasi del tutto sconosciuta, portò avanti le
sue obiezioni alle teorie di Anselmo e scrisse un breve opuscolo in risposta al
Proslogion intitolato Liber pro insipiente (= in difesa dell’insipiente / stolto).
Gaunilone attacca al cuore l’argomento di Anselmo, negando che il legame
tra pensiero e realtà sia sufficientemente stretto da servire come prova
dell’esistenza di qualcosa.
Anselmo d’Aosta (9)
Secondo Gaunilone non è possibile effettuare il passaggio dall’udire e
comprendere un concetto, ovvero dall’avere tale concetto nell’intelletto, al suo
essere; cioè non si può passare dall’esistenza mentale a quella
extramentale: l’esistenza non è una perfezione attribuibile ad un
concetto dall’intelletto (l’esempio che egli porta è quello dell’isola
perfetta: è possibile immaginarsi un’isola dotata di tutte le perfezioni e
tuttavia dubitare della sua esistenza).
Per Gaunilone l’insipiente può quindi dubitare dell’esistenza di Dio senza
incorrere in contraddizione logica. Gaunilone e Anselmo non stanno qui
dibattendo realmente sulla questione della fede nell’esistenza di Dio: il punto
di disaccordo è il modo di considerare il linguaggio, la natura del legame fra
parole e cose.
Nella visione di Gaunilone la distanza fra linguaggio e realtà fa sì che sia
possibile conoscere un oggetto soltanto attraverso l’esperienza diretta di esso
od il concetto di esso formatosi con l’esperienza.
Dio è al di là dell’esperienza sensibile, è ciò di cui non si può pensare il
maggiore, è per sua stessa natura al di là di ogni paragone, e, per
Gaunilone, è quindi al di là di ogni conoscenza umana che si basi solo
sulla ragione.
Anselmo d’Aosta (10)
Anselmo rispose alle obiezioni del monaco di Marmoutier nel Liber
apologeticus contra Gaunilonem, ove esplicita la sua differente
interpretazione del legame fra esperienza e linguaggio; il vero significato
delle parole si incontra nell’esperienza interiore, che è auto-evidente e tale
da fornire da sola la certezza della sua verità.
La meditazione monastica su Dio sta pian piano mutando forma,
trasformandosi in una riflessione logica sul valore e le possibilità del
linguaggio come strumento di comunicazione del pensiero: tema a cui
Anselmo rivolgerà la sua attenzione nel periodo successivo.
Infatti negli anni fra il 1080 e il 1085, ormai abate di Le Bec, Anselmo
compone due dialoghi, il De Grammatico e il De Veritate, in cui si propone
di portare avanti le sue riflessioni logico-grammaticali sulla corrispondenza
fra pensiero e realtà in rapporto alle arti del trivio.
Per cogliere a pieno l’importanza del lavoro di ricerca di Anselmo, bisogna
inquadrarlo all’interno di un contesto monastico tradizionale in cui la parola
non è mai semplicemente tale: l’uso del linguaggio viene controllato
all’interno delle regole monastiche e si trasforma spesso in preghiera, la
parola diventa parola sacra, da meditare.
Anselmo d’Aosta (11)
Con il De Grammatico Anselmo affronta il problema legato alla definizione
della parola «grammatico», ovvero se «grammatico» si riferisca ad una
sostanza o solo ad una qualità, cercando di determinare la recta significatio
(= il vero significato) di questo termine.
Per tentare di risolvere questa questione Anselmo distingue due modalità in
cui un termine può significare, cioè «stare per», una cosa: l’ appellatio, che
rappresenta il nesso non necessario fra parola e la cosa significata nel
linguaggio comune, e la significatio, ovvero il legame necessario fra un
termine ed il suo portato di significato, che quindi viene ad essere legata e a
derivare da una sorta di essenza (nel senso boeziano di quidditas) o di idea
platonica dell’oggetto.
Nel De Veritate Anselmo va oltre i singoli termini e si pone direttamente la
questione di come determinare la verità di una proposizione, giungendo alla
conclusione che un enunciato è vero quando corrisponde alla realtà, ad un
determinato stato di cose. La realtà qui per Anselmo non significa però
l’apparenza superficiale, ma la struttura profonda che costituisce l’essenza
delle cose: in questo senso il concetto di verità assume una connotazione
quasi morale e viene a corrispondere con una quaedam rectitudo (una sorta
di rettitudine, correttezza). Dato lo stretto collegamento che abbiamo
osservato fra parole e cose nel De Grammatico, quando un enunciato
Anselmo d’Aosta (12)
rappresenta uno stato di cose reale si ha dunque recta significatio: la verità di
una frase corrisponde alla sua rettitudine, in senso logico-grammaticale certo,
ma in un modo che suggerisce implicazioni etico morali. Essere veritieri,
onesti, usare la recta significatio delle parole diventa quasi un dovere
morale per il filosofo: compito della dialettica è dunque quello di essere
strumento che permette alla mente dell’uomo che ricerca di riuscire a
raggiungere la verità delle cose.
Lo stesso termine di rectitudo gioca un ruolo determinante nella dottrina
etica anselmiana, che troviamo esposta nei testi degli anni 1085-1090 (De
libertate arbitrii, De casu diaboli), che affrontano temi quali la libertà
dell’uomo e di Dio, la questione della predestinazione e della prescienza
divina (su cui tornerà negli anni 1107-1108 col De concordia prescientie et
predestinationis et gratiae Dei).
Altro tema che sta al confine fra l’etica e la teologia propriamente detta è
quello della salvezza umana, argomento principale del Cur Deus homo (=
perché Dio si è fatto uomo) del 1098, in cui il filosofo di Aosta si pone la
spinosa questione del perché il Dio onnipotente abbia preso l’infima forma
umana per redimere gli uomini, giungendo alla conclusione che solo un
uomo-Dio poteva espiare degnamente fino in fondo i peccati dell’umanità.
La questione degli Universali (1)
Nel problema degli universali, in cui nel XIX sec. si vedeva il tema centrale
della filosofia medievale, si incontra la forma tipicamente medievale del
confronto fra platonismo e aristotelismo, che paradossalmente si sviluppò in
assenza dei testi platonici.
Il problema nasce in relazione al rapporto fra linguaggio e realtà quando,
affrontando lo studio della logica, ci si interroga a proposito dei termini
universali (quelli indicanti genere e specie) a partire dal testo che per tutto
il Medioevo venne letto all’inizio dello studio della logica come introduzione
alle Categorie: l’Isagoge di Porfirio tradotta da Boezio.
La questione del rapporto fra linguaggio e realtà in generale era stato posto
da Aristotele nel De interpretatione: "i suoni della voce sono simboli delle
affezioni che hanno luogo nell’anima, e queste sono le medesime per tutti”.
Cosa voleva dire Aristotele: che queste ‘affezioni’ sono un ‘calco’ psicologico
di realtà esistenti al di fuori dell’anima, oppure considera la loro universalità
mentale come espressione della comune struttura psichica degli uomini?
Nel caso dei termini universali le ‘cose’ che essi significano non sono
sostanze prime (le uniche esistenti di per sé secondo Aristotele), ma
sostanze seconde (genere e specie), ovvero i termini universali, che
costituiscono il fulcro della dimostrazione scientifica negli Analitici secondi.
La questione degli Universali (2)
Porfirio aveva scritto al riguardo: «Non dirò, riguardo ai generi e alle specie,
(1) se siano sostanze esistenti per sé, o se siano semplici pensieri; (2) se
siano realtà corporee o incorporee; (3) se siano separate dai sensibili ovvero
poste in essi. Poiché questa è impresa molto ardua, che ha bisogno di più
vaste indagini».
La griglia problematica su cui si sviluppa il dibattito medievale sugli universali
è tutta contenuta in queste tre domande concatenate: le risposte possibili
sono tradizionalmente indicate come realismo, nominalismo e
concettualismo.
Dell’esistenza di due ‘sette’, o scuole contrapposte, denominate Nominales
e Reales, si inizia a parlare nel XII secolo, l’epoca a cui si fa generalmente
risalire l’inizio del dibattito sugli universali. Anche se le scuole dei logici
furono ben più numerose, ciò che caratterizza i Nominales rispetto a tutte le
altre è l’affermazione che ‘genus est nomen’ (che si può tradurre sia come
‘il genere è un nome’; sia, in modo assai più neutro, ‘genere è un nome’,
affermazione puramente grammaticale). Nella sua forma più estrema il
nominalismo si caratterizzò come ‘vocalismo’, la posizione che considera
i termini universali come puri nomi o suoni (flatus vocis), privi di
ancoraggio ontologico.
La questione degli Universali (3)
Dire che i termini universali non hanno un referente ontologico significa
considerare reali soltanto gli individui: implica dunque una presa di
posizione metafisica. Tale posizione tuttavia rende il discorso logico
autonomo rispetto a quello metafisico. Per esempio Roscellino di
Compiègne (ca. 1050-1120) negava che le qualità delle cose fossero entità
distinte dai soggetti che le posseggono: il colore, ad esempio, non è diverso
dal corpo colorato, negando così che gli universali possedessero una
qualche realtà.
In questo modo Roscellino intendeva escludere che molte cose
coincidessero in una realtà unica e quest’affermazione, applicata alla
teologia, comportava di invalidare logicamente la formula trinitaria delle tre
persone in una sostanza. Roscellino riteneva dunque possibile applicare la
dialettica alla teologia.
Proprio l'esempio trinitario mostra bene come l’approccio nominalistico
connesso all’utilizzazione della dialettica in ambito teologico potesse
essere eversivo nei confronti dell'edificio dogmatico.
Sul versante opposto, le posizioni dei realisti furono diversificate fra loro:
l’esponente più noto dei Reales fu Guglielmo di Champeaux (1070 - 1121),
soprattutto a motivo del suo rapporto, dapprima come maestro e discepolo e
poi come avversario, con Abelardo (1079 - 1142).
La questione degli Universali (4)
Come ci mostra appunto Abelardo nel resoconto del suo conflitto con
Guglielmo, questi fu indotto a modificare la propria posizione passando dal
realismo estremo o teoria dell’essenza materiale, secondo cui generi e
specie sono cose (res) e dunque la realtà universale è una e la stessa in
ciascuna sua specificazione, alla cosiddetta dottrina della non-differenza,
per cui l’universale non è uno essenzialmente in tutte le sue specificazioni,
ma è ciò che non differisce in esse.
Il cambiamento introdotto da Guglielmo di Champeaux dopo le prime vivaci
critiche di Abelardo mirava a salvare la singolarità degli individui
appartenenti ad una stessa specie, chiaramente incompatibile con la
concezione dell’universale come cosa: la teoria della non-differenza, anziché
ridurre tutti gli uomini a varianti accidentali dell’unico universale-cosa 'uomo',
sostiene che in tutti gli uomini sussiste in maniera reale un nucleo identico,
ma singolare, in virtù del quale essi sono detti uomini.
La posizione di Abelardo (concettualismo) si fonda su due elementi, la cui
connessione produce una teoria originale: da una parte l’idea che il
linguaggio si riferisca sì alle cose reali, ma soltanto attraverso la
mediazione dei nomi; dall’altra un modo diverso di intendere il comune
riferimento alle forme esistenti nella mente divina.
La questione degli Universali (5)
I nomi e i verbi, dice Abelardo, significano le idee che generano
nell’ascoltatore, ma anche ciò di cui esse sono idee, cioè le cose; i nomi
hanno d'altra parte un duplice carattere: in quanto vocabolo o suono fisico
essi sono detti vox, in quanto entità linguistica dotata di significato sono detti
sermo.
Un termine universale, d’altra parte, è tale non per pura convenzione ma in
quanto esprime un significato (intellectum), che si basa sulla natura comune
ovvero sullo status delle cose da esso indicate, che è prodotto da Dio: scrive
infatti Abelardo che i singoli uomini, distinti tra loro, convengono non
nell’uomo ma nell'essere uomini. L’umanità non è dunque una ‘cosa’, ma la
ragione comune che fonda la possibilità di denominare gli uomini (e le
donne) con l’unico nome di ‘uomo’, lo status in cui gli individui-uomo/donna
convengono.
Da ciò il carattere di astrazione del termine universale, che si forma
concependo un’immagine comune e confusa di molti. Scrive Abelardo:
«quando odo la parola uomo, mi sorge nell’animo un modello che sta ai
singoli uomini come comune a tutti e proprio di nessuno; quando invece odo
Socrate, mi sorge nell’animo una forma che esprime la similitudine di una
determinata persona». Questa soluzione del problema degli universali viene
denominata concettualismo.
La questione degli Universali (6)
La discussione sugli universali non ebbe sviluppi originali dopo Abelardo:
occorrerà aspettare Guglielmo di Ockham (1288–1349) per una ripresa
della posizione nominalistica, che divenne preminente nel XIV secolo.
Questo non significa che gli autori del XIII secolo non affrontassero la
discussione sui termini universali; in ambito logico essa si sviluppò con
modalità connesse a quelle del XII secolo all’interno di un’opzione
generalizzata per il realismo (così San Tommaso); si parla dunque, in termini
molto schematici, dell’universale come essenza della cosa (in re), come
forma causante (ante rem), e come concetto (post rem).
Ma i nuovi testi di Aristotele portarono all’attenzione le definizioni di
universale proposte negli Analitici Secondi (l’universale è uno nei molti ed è
uno al di fuori dei molti), nel De anima (l’universale esiste nell’anima), nella
Metafisica (l’universale, in quanto universale, non è una sostanza), e così il
problema degli universali entrò a far parte di un nesso complesso in cui si
intrecciavano problemi di teoria della percezione, formazione dei concetti
astratti, ontologia degli oggetti e delle entità generali.
Ma è con Ockham che le cose cambiano per davvero. Innanzitutto la scelta
logica di Guglielmo presuppone una scelta metafisica (la riduzione degli
enti alle sostanze prime e alle loro qualità) e si connette alla concezione
della conoscenza intuitiva.
La questione degli Universali (7)
La logica è concepita da Ockham come pura scienza del linguaggio,
senza commistioni con la metafisica, e viene definita come un sapere
pratico che verte sulle operazioni mentali e dirige il nostro intelletto,
dettando le regole delle sue operazioni, le proposizioni (complexa)
composte da termini, i quali sono segni che si riferiscono alle cose, di
per sé sempre singole.
Egli distingue fra termini mentali (conceptus), linguistici (dictiones) e scritti
e, d’altra parte, riformula la teoria della suppositio, permettendo una nuova
impostazione del rapporto fra termini universali e contenuto significativo degli
stessi.
Nota bene: per i logici del Medioevo, la suppositio designa la possibilità di
un nome di esprimere un significato che può mutare a seconda del contesto
in cui il termine è usato nella proposizione. Se per esempio si dice: «l'uomo
cammina» o «l'uomo è razionale», nel primo caso il nome «uomo» esprime
una suppositio che riguarda individui reali, mentre nel secondo esempio il
significato di «uomo» è riferito ad un concetto universale.
Da ciò ne consegue che la suppositio permetterà di distinguere un discorso
scientifico basato su una scienza reale o razionale a seconda che i termini
utilizzati siano al posto di realtà concrete o mentali.
Ockham distinguerà tre tipi di suppositio:
La questione degli Universali (8)
1. suppositio materialis, quando un termine si riferisce a se stesso come
nome («Cane è un nome di due sillabe»; «abbaiare è un verbo»);
2. suppositio personalis, quando un termine riguarda una realtà
individuale («Un cane corre»);
3. suppositio simplex, quando il termine indica un concetto mentale
universale («Cane è una specie»).
Gli universali secondo Ockham cadono nella suppositio simplex, ove il
termine sta per una intenzione dell’anima. Applicando questa concezione
ad una virtuale risposta alla prima domanda di Porfirio (se i generi e le
specie sono sostanze esistenti per sé, o se sono semplici pensieri), Ockham
intende l’universale come una «intenzione o concetto formato
dall’intelletto», che non differisce dall’atto singolare di intellezione con cui la
mente comprende una pluralità di cose singolari, ed è capace di riferirsi
significativamente a (può essere predicato di) una molteplicità di cose,
anche se è formato a partire da un atto astrattivo singolo.
Nel nominalismo di derivazione ockhamista, l’universale definitivamente
spogliato di ogni referente ontologico venne ad essere definito come un
termine o contenuto mentale capace per natura di significare, di riferirsi o di
essere predicato di più individui.
Abelardo (1)
Pietro Abelardo (Le Pallet, 1079 – Chalon-sur-Saône, 21 aprile 1142) è il
filosofo di maggior rilievo del XII secolo. La sua autobiografia, Historia
mearum calamitatum (Storia delle mie disgrazie), scritta quando era
ormai in età matura nel 1130, ci rinvia l’immagine di un grande studioso,
dotato di vasti interessi intellettuali, ma anche quella di un uomo inquieto,
nelle cui vicende personali si leggono tutti i fermenti di un tempo di ‘rinascita'.
La storia d’amore con Eloisa, si riflette nell’epistolario (successivo
all’autobiografia e databile fra il 1130 e il 1136), in cui i sentimenti si
intrecciano alle idee, mostrando tutta la novità di una figura filosofica
innovatrice nei principali ambiti di riflessione del suo tempo: la logica, la
teologia e l’etica.
La vita avventurosa di Abelardo era cominciata da prima di conoscere Eloisa:
conformemente all’uso degli studenti di quell'epoca, aveva studiato in diverse
scuole di dialettica prima di recarsi a Parigi, dove fu allievo di Roscellino e di
Guglielmo di Champeaux.
Alla scuola di Guglielmo la passione intellettuale e l’orgoglio del giovane
Abelardo (che ci racconta di aver «scambiato le armi della guerra per quelle
della dialettica») lo mise in contrasto col maestro, finché, andatosene, fondò
una propria scuola.
Abelardo (2)
Successivamente, dopo aver passato alcuni anni nella natia Bretagna, tornò
dal maestro, ma subito lo attaccò su un punto centrale del suo
insegnamento, la dottrina degli universali.
Infine gli successe nell’insegnamento presso la scuola di logica di Notre
Dame di Parigi. Maestro subito famoso, visse in quegli anni la storia d’amore
con Eloisa, che a quanto egli stesso ci racconta era elogiata in tutta la
Francia per la sua cultura più ancora che per la sua bellezza.
I due ebbero un figlio e furono costretti a sposarsi dallo zio e tutore di Eloisa,
Fulberto; ma vollero tenere segreto il matrimonio per non danneggiare la
fama dello studioso (nelle scuole del tempo i maestri erano esclusivamente
uomini, celibi, appartenenti ad uno degli ordini ecclesiastici anche se non
necessariamente al più alto, il sacerdozio).
Fulberto organizzò allora la sua crudele vendetta, facendo evirare
Abelardo che fu così costretto a lasciare Parigi e rifugiarsi presso
l’abbazia di Saint-Gildas.
Anche Eloisa, per volere dello sposo, prese i voti e divenne badessa in un
monastero femminile, il Paracleto. Dopo il 1121, quando Abelardo fu
condannato al concilio di Soissons per la concezione trinitaria espressa nel
De Unitate et Trinitate Divina, visse per qualche tempo al Paracleto.
Abelardo (3)
Negli ultimi anni, in conseguenza di contrasti con i confratelli e ad una nuova
condanna da parte del concilio di Sens (1140), Abelardo si rifugiò
nell’abbazia di Cluny, dove rimase fino alla morte avvenuta nel 1142.
Più che sulle opere di logica (Logica ingredientibus - «per i principianti» -,
Dialectica, Logica Nostrorum petitioni sociorum e glosse ai testi della
Logica vetus) e di teologia (Theologia Summi Boni, Sic et non,
Theologia christiana, Dialogus inter Philosophum, Judaeum et
Christianum), è opportuno concentrarsi sugli scritti di etica.
L’etica. Negli ultimi anni della sua vita Abelardo sistematizzò nello Scito te
ipsum (=Conosci te stesso) gli spunti di riflessione morale che aveva già
introdotto nelle opere teologiche.
L’opera assumeva una posizione innovativa nei confronti del problema del
peccato, che tradizionalmente era affrontato essenzialmente in analogia col
principio giuridico della condanna commisurata al delitto.
La concezione tradizionale della vita morale, notevolmente schematica e
legata all’esteriorità tanto del peccato come della penitenza, viene ribaltata
da Abelardo, che pone innanzitutto l’accento sulla distinzione psicologica fra
vizio e peccato.
Abelardo (4)
Inoltre Abelardo esplicita il principio che soltanto l'assenso
all’inclinazione malvagia costituisce il peccato (principio che ritroviamo
formulato nelle epistole di Eloisa, o a lei attribuite, risalenti agli stessi
anni in cui Abelardo scriveva il suo trattato di etica).
La presenza di una volontà cattiva non è dunque in se stessa peccato, e la
vita morale si configura come una lotta interiore, nella quale il principio
discriminante è la volontà, l’intenzione retta.
Il filosofo dunque inquadrava il problema etico in una prospettiva diversa
rispetto alle discussioni tradizionali sulla libertà dell’agire umano; inoltre,
sostenendo che l’inclinazione al male rimane al di fuori della definizione del
peccato, Abelardo si distacca inoltre dalla posizione etica di Agostino,
delineata nella polemica contro Pelagio.
Una conseguenza, apparentemente paradossale, è che si può peccare
senza commettere azioni apparentemente malvage: ciò che costituisce
il peccato non è infatti una qualche realtà sostanziale, ma la decisione
interiore di andare contro il volere di Dio.
Del peccato si può dare inoltre una definizione negativa: la definizione
agostiniana del male come non esistente, fino ad allora considerata valida
soltanto sul piano ontologico, si allarga a comprendere il male morale.
Abelardo (5)
Tuttavia il fatto che le azioni peccaminose possano derivare da una volontà
rettamente intenzionata ma debole e sopraffatta dall’inclinazione al vizio non
porta a concludere che non debbano essere punite, poiché il giudizio degli
uomini deve basarsi sulle azioni esterne, visibili.
Il giudizio dell’intenzione è riservato a Dio ‘che scruta il cuore e le reni’.
Collocare il principio morale nell’interiorità non significa dunque sottrarre
l’uomo alla responsabilità delle proprie azioni; significa però insinuare un
principio di relatività, perché ad esempio la persecuzione di Cristo e dei
cristiani, effettuata da quegli uomini dell’età antica che ritenevano di doverli
perseguitare, non risulta più definibile come peccato nel contesto
abelardiano.
E ora le Lettere fra Abelardo e Eloisa:
«Tutti si precipitavano a vederti quando apparivi in pubblico e le donne ti
seguivano con gli occhi voltando indietro il capo quando ti incrociavano per
la via […] Quale regina, quale donna potente non invidiava le mie gioie e il
mio letto? Avevi due cose in particolare che ti rendevano subito caro: la
grazia della tua poesia e il fascino delle tue canzoni, talenti davvero rari per
un filosofo quale tu eri […] Eri giovane, bello, intelligente».
Bernardo di Chiaravalle (1)
Bernardo da Chiaravalle (1091-1153) fondò il monastero di Clairvaux, che
ben presto divenne il maggiore centro cisterciense. Dalla sua Schola
Christi, fondata nel 1115, si oppose strenuamente contro i due mali che
imperavano nella "nuova Babilonia", Parigi: la vendita della scienza nelle
scuole e i tentativi di «rendere certa la fede».
In questi attacchi ebbe la collaborazione di Guglielmo di Saint Thierry, in
prima fila nel concilio di Sens, che fornì all'abate di Chiaravalle una attenta e
ampia disamina delle dottrine abelardiane incriminate; e quella di Ildegarda
di Bingen, che in una delle sue epistole lo definisce «aquila che guarda
verso il sole».
La sua opposizione alla cultura delle scuole non era tuttavia quella di un
uomo alieno dalle problematiche del suo secolo, né tanto meno quella di un
incolto. L'eleganza del suo eloquio gli meritò da parte di Giovanni di
Salisbury la definizione di doctor mellifluus (le cui parole sono come miele):
definizione che fra l'altro richiama un motivo spesso presente nell'agiografia
patristica e altomedievale, dell'uomo santo sulla cui bocca le api fabbricano il
miele (il motivo ricorre ad esempio nella biografia di sant'Ambrogio). Oltre
che nei Sermoni, scritti dal 1115 all'anno della morte, Bernardo espose le
sue idee in opere come il De diligendo deo, il De gratia et libero arbitrio, il
De gradibus humilitatis et superbiae e il De baptismo.
Bernardo di Chiaravalle (2)
Personaggio di grande rilievo nella vita culturale ed ecclesiastica del suo
tempo, Bernardo di Chiaravalle aveva una visione di tipo nettamente
integralista: la Chiesa deve mantenere e rafforzare il suo primato nella vita del
mondo, sia continuando ad affermare i valori teocratici, sia ampliando i confini
della cristianità. Bernardo predicò a favore della seconda crociata del 1146 e
scrisse una Epistula in laudem novae militiae a sostegno dell' ordine dei
Templari. Un'immagine alla quale ricorrono spesso i pensatori politici dell'
epoca è quella delle due spade affidate da Cristo a Pietro apostolo, che
rappresentano il potere spirituale e temporale: per Bernardo entrambe
debbono essere gestite dalla Chiesa, la prima impugnata direttamente, la
seconda «a sua difesa e per ordine del sacerdote».
La difficoltà esperita nell'affrontare la dottrina trinitaria fece sì che Bernardo si
rivolgesse per consiglio a Riccardo di San Vittore, il quale nella sua risposta
si appellò alla impossibilità di parlare di Dio con il linguaggio degli uomini
(argomento che ha la sua fonte originaria nello pseudo-Dionigi). Questo tipo di
soluzione era congeniale all'inclinazione mistica di Bernardo.
Il fine della scienza, la salvezza, è quello che definisce limiti e validità del
sapere, che in se stesso non è che vana e superba curiosità. Sapientia viene
da sapor: dal gusto provato nel momento in cui l'anima è in contatto (afficitur)
con il divino.
Bernardo di Chiaravalle (3)
La riflessione teologica di Bernardo non può dunque che partire dall'amore,
fonte di verità e di certezza, e attingere il suo frutto più alto nell' esperienza
mistica. L’amore basta a se stesso ed è disinteressato.
Il cammino d’amore è scandito in quattro gradi: il primo è quando l’uomo
ama se stesso per se stesso (amore carnale); il secondo è quando l’uomo
ama Dio per sé; il terzo è quando Dio è amato per se stesso; il quarto grado è
esperito solo dai martiri e ai santi, e per un attimo, ed è quel momento della
vita spirituale in cui l’uomo giunge di nuovo ad amare se stesso ma solo per
Dio.
La ricerca mistica non è per Bernardo un modo per ritrarsi dal mondo;
rappresenta piuttosto la «filosofia monastica» che avversa profondamente
le speculazioni razionali astratte delle scuole volte solo alla vana curiositas.
Come noto, nella Commedia Dante trova san Bernardo in Paradiso, di fronte
alla candida rosa dei beati, come guida per l'ultima parte del suo viaggio.
In Pd XXXI 55 – 63 laddove Dante, che è stato accompagnato da Beatrice fin
nell'Empireo e sta contemplando la Mistica Rosa dei beati e degli angeli, si
volta per porre una domanda a Beatrice ma si accorge che questa è
scomparsa e che al suo posto c'è un sene, Bernardo per l'appunto, che lo
invita ad osservare la cima della Rosa, nella sede più luminosa di Maria
Vergine:
Bernardo di Chiaravalle (4)
E volgeami con voglia riaccesa
per domandar la mia donna di cose
di che la mente mia era sospesa.
Uno intendea, e altro mi rispuose:
credea veder Beatrice e vidi un sene
vestito con le genti glorïose.
Il canto Pd XXXIII 1 - 6 si apre con la preghiera che il santo rivolge alla Vergine
Maria affinché Dante possa vedere Dio:
Vergine Madre, figlia del tuo Figlio,
umile ed alta più che creatura,
termine fisso d'etterno consiglio,
tu se' colei che l'umana natura
nobilitasti sì, che 'l suo Fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
In Pd XXXIII 49-51, quando la Vergine dimostra di aver accolto la sua preghiera:
Bernardo m'accennava, e sorridea,
perch'io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea.
Bonaventura di Bagnoregio (1)
Giovanni (nome di battesimo di Bonaventura) da Fidanza, nato intorno al
1217 a Bagnoregio, nell'Italia centrale, oblato nel convento dei francescani di
Bagnoregio a 17 o 23 anni, fu poi a Parigi negli anni 1235-1243, studente alla
Facoltà delle Arti; nel 1243 entrò effettivamente nell'ordine francescano, e
forse iniziò gli studi in teologia sotto la guida di Alessandro di Hales. Nel 1248
iniziò a commentare la Scrittura come baccelliere biblico e nel 1250-1252,
come baccelliere sentenziario, scrisse il commento alle Sentenze.
Alla fine del 1253 o ai primi anni del 1254 divenne maestro reggente
nell’Università di Parigi. Dal 1257 divenne ministro generale dell’ordine
francescano da lui interamente riorganizzato. Nel 1273 fu nominato
arcivescovo di Albano e cardinale. Bonaventura morì durante il Concilio di
Lione del 1274.
Lo scritto fondamentale del Doctor seraphicus è senza dubbio l’ Itinerarium
mentis in Deum (1259) dove Bonaventura accoglie come punto di partenza il
pensiero di Agostino per riassumere tutta la tradizione scolastica.
L’ Itinerarium vuol essere una guida per ascendere alla contemplazione di
Dio attraverso i gradini scanditi dal carattere di vestigium e di imago Dei
della realtà, rispettivamente infraumana e umana, per compiere poi il balzo
oltre l'umano (supra nos).
Bonaventura da Bagnoregio (2)
Bonaventura ravvisa tre occhi o facoltà della mente umana: il primo occhio
è rivolto alle cose esterne ed è la sensibilità; il secondo è lo spirito, rivolto a
se stesso; l’ultimo, rivolto al disopra di sé, è la mente. Ognuna di queste
facoltà può scorgere Dio per speculum, cioè attraverso l’immagine di Dio
riflessa negli enti creati, o in speculo, cioè attraverso la traccia che l’essere di
Dio lascia nelle cose stesse.
Le facoltà determinano sei potenze dell’anima che sono nell’ordine: il
senso, l’immaginazione, la ragione, l’intelletto, l’intelligenza, l’apex mentis o
scintilla della sinderesi (visione estatica di Dio). Ad ognuna di queste potenze
dell’anima corrisponde uno dei sei gradi dell’ascesa dell’anima a Dio.
Nel primo le cose sono considerate nel loro ordine, nella loro bellezza e
nella loro origine divina.
Il secondo grado coincide nella considerazione delle cose nell’anima umana
che ne apprende le species e le purifica, astraendole dalle condizioni
sensibili, attraverso il giudizio.
Nel terzo grado si contempla l’immagine di Dio nella memoria, intelletto e
volontà, poteri naturali dell’anima.
Nel quarto si contempla Dio nell’anima umana illuminata e perfezionata
dalle tre virtù teologali.
Nel quinto Dio è contemplato nel suo primo attributo, l’essere.
Bonaventura da Bagnoregio (3)
Nel sesto Dio è contemplato nella sua massima potenza, il bene, per il quale
si diffonde nelle tre persone della Trinità. Al termine di questa fase “attiva” di
ascesa a Dio, l’anima completa e perfeziona la sua ascesa mistica attraverso
l’attuazione di una sorta di trascendenza radicale rispetto alle cose e a se
stessa, e tramite l’abbandono di tutte le operazioni intellettuali per porre tutto
l’affetto in Dio. Questa è la condizione di estasi (excessus mentis), descritta
da Bonaventura come una sorta di docta ignorantia, un momento non più
intellettuale, ma unione vivente dell’uomo con Dio, attraverso la quale l’uomo
è ammesso a penetrare l’essenza del suo Creatore.
Bonaventura nella Commedia: in Pd XII 127 – 145, Dante è ancora tra gli
spiriti sapienti, nel cielo del Sole; dopo la presentazione di San Francesco da
parte del domenicano San Tommaso d’Aquino nel canto precedente, ora
tocca al francescano Bonaventura da Bagnoregio illustrare la vita di San
Domenico; segue poi un breve panorama sulle anime illustri che
compongono il cielo in questione (tra cui Agostino e Anselmo d’Aosta).
Io son la vita di Bonaventura
da Bagnoregio, che ne’ grandi offici
sempre pospuosi la sinistra cura.
Bonaventura da Bagnoregio (4)
Illuminato e Augustin son quici,
che fuor de’ primi scalzi poverelli
che nel capestro a Dio si fero amici.
Ugo da San Vittore è qui con elli,
e Pietro Mangiadore e Pietro Spano,
lo qual giù luce in dodici libelli;
Natàn profeta e ’l metropolitano
Crisostomo e Anselmo e quel Donato
ch’a la prim’ arte degnò porre mano.
Rabano è qui, e lucemi dallato
il calavrese abate Giovacchino
di spirito profetico dotato.
Ad inveggiar cotanto paladino
mi mosse l’infiammata cortesia
di fra Tommaso e ’l discreto latino;
e mosse meco questa compagnia.
Averroè (1)
Nativo di Cordova, nella Spagna musulmana, Abu al-Walid Muhammad ibn
Ahmad ibn Muhammad ibn Rusd, noto in Occidente con il nome di
Averroè (Cordova 1126 - Marrakesh 1198) è il più importante dei filosofi
arabi medievali.
Tra le principali opere di Averroè ricordiamo la Distruzione della
Distruzione, contro la polemica antifilosofica di al-Gazali (che non riteneva
possibile la conciliazione tra filosofia e religione, e ristabiliva le prerogative e
la preminenza della rivelazione nel processo di acquisizione della verità), le
Generalità (conosciute in latino come Colliget, testo di medicina in cui
Averroè misura in termini di progressione aritmetica i gradi dei medicamenti
composti, opponendosi ad al-Kindi che li calcolava in progressione
geometrica sulla base del rapporto tra opposte qualità).
Il mondo latino tuttavia ha conosciuto Averroè soprattutto come lettore e
commentatore di Aristotele, e gli ha riconosciuto il merito di averlo messo in
luce nella sua autenticità, rispetto ai tentativi dei filosofi precedenti che
tentarono di conciliarlo con le dottrine islamiche e con i sistemi neoplatonici.
Effettivamente egli ha commentato gran parte dell’opera aristotelica,
utilizzando molte citazioni esplicite che facilitano il distinguere le parole del
filosofo greco da quelle del commentatore.
Averroè (2)
Tra i commenti rimasti ricordiamo i commenti lunghi alla Metafisica (If IV
144: «Averoìs che ’l gran comento feo») e al De Anima e quelli medi alle
Categorie, Retorica, Poetica, De Caelo, De Generatione et Corruptione; il
commento breve al De Sensu.
Molte opere del filosofo cordovese furono tradotte in ebraico e,
successivamente, dall’ebraico al latino.
Verità filosofica e Verità rivelata: la convinta assimilazione delle dottrine
aristoteliche è possibile per una rivalutazione delle facoltà intellettuali umane.
Averroè riconosce alla filosofia anche la possibilità di interpretare
allegoricamente i versi coranici oscuri, ambigui o apparentemente
contraddittori con la ragione.
Tuttavia, proprio dei filosofi è l’argomentare razionale o dimostrativo, che
costituisce una delle modalità con cui gli uomini accedono alla verità. Gli altri
due tipi di argomentazione, dialettica e retorica, sono proprie,
rispettivamente, dei teologi e delle masse.
Riconoscere la possibilità di comprendere l’unica verità attraverso diverse
modalità non allontana Averroè dalla ortodossia musulmana, in quanto egli
ritiene che, laddove la dottrina del Corano è chiara, tutti, anche i filosofi,
devono seguirla.
Averroè (3)
Le verità religiose da accettare come tali sono: Dio come creatore e reggitore
del mondo, l'unità di Dio, i nomi divini, la libertà di Dio, la creazione del mondo,
la profezia, la giustizia divina, la resurrezione dopo la morte. Nonostante egli
fosse sostanzialmente un ortodosso, fu costretto all’esilio e le sue opere
distrutte sotto gli Almohadi.
La cosmologia: da un punto di vista cosmologico Averroè critica i sistemi
emanatistici e riprende alcune categorie aristoteliche per spiegare la
formazione del mondo. Il filosofo rileva le contraddizioni cui vanno incontro alFarabi e Avicenna spiegando la nascita della molteplicità dall’unità. Essi, cioè,
vengono meno a due principi su cui pure fondano il loro pensiero:
1. L’idea che dall’Uno viene soltanto l’uno;
2. L’identità tra intelletto e intelligibile.
Causa della molteplicità è, secondo Averroè, la differenza, per ogni essere
esistente, delle quattro cause che lo determinano (formale, materiale,
efficiente, finale). L’unione di materia e forma, che è l’origine della esistenza di
tutto, è operata direttamente da Dio, Primo Principio. Sia la materia sia le
forme intelligibili, che sono nell’Essere Supremo, esistono dall’eternità. Il
mondo, al contrario, è stato creato con il tempo dall’azione divina, che ha agito
su materia e forma fuori dalla dimensione temporale.
Averroè (4)
La gnoseologia: riguardo la dottrina dell’intelletto Averroè apporta una
fondamentale innovazione nella quadripartizione, di ispirazione aristotelica,
sostenuta già da al-Kindi ed elaborata fino ad Avicenna. Egli ritiene, infatti, che
non solo l’ Intelletto Agente, di origine divina, ma anche l’ Intelletto materiale
o possibile sia unico per tutti gli uomini, in quanto pura potenzialità. Per
spiegare poi l’individualità della conoscenza egli sottolinea l’origine sensibile
del processo gnoseologico umano.
La percezione del sensibile, da cui gli uomini astraggono gli intelligibili, essendo
legata alla fantasia e alla immaginazione, varia da uomo a uomo e produce
l’individualità della conoscenza.
Compito essenziale dell’Intelletto Agente è, in questo contesto, quello di
rendere possibile l’astrazione. E’ l’unione dell’Intelletto Agente con
l’intelletto possibile a rendere immortale la parte intellettiva dell’anima,
cioè l’intelletto speculativo, che costituisce l’attualizzazione della
conoscenza nell’uomo.
L’averroismo latino. Le interpretazioni latine di Averroè tesero ad accentuare
gli aspetti più problematici della sua dottrina, e a risolverli in un modo
sostanzialmente estraneo alla reale ispirazione del suo pensiero: il diverso
statuto della verità filosofica e della verità rivelata (la cosiddetta doppia verità
degli averroisti); l’eternità del mondo; la negazione della immortalità individuale.
Sigieri di Brabante (1)
Vissuto tra il 1240 circa e il 1284, fu magister artium a Parigi tra il 1266 e il
1276, quando venne denunciato per eresia. Nella Commedia è lo stesso
Tommaso d’Aquino a presentare Sigieri a Dante, riconoscendone l’autorità di
filosofo (Pd X 133 – 138):
«Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,
è 'l lume d'uno spirto che 'n pensieri
gravi a morir li parve venir tardo:
essa è la luce etterna di Sigieri,
che, leggendo nel Vico de li Strami,
silogizzò invidiosi veri».
Fu autore di vari commenti ad Aristotele e di diverse raccolte di questioni;
scrisse anche trattati (in particlare il De necessitate et contingentia
causarum e il De aeternitate mundi).
Contingenza e necessità nel dibattito sull’eternità del mondo. Sigieri
sostiene una necessità causale assoluta fra la prima causa e il suo effetto,
da cui discende la tesi dell'eternità del mondo e della specie umana, causati
dal movimento eterno delle sfere celesti che, ripetendosi in un grande ciclo
Sigieri di Brabante (2)
cosmico, fa sì che «le cose che furono ritornano nella stessa specie
secondo un processo circolare, e anche le dottrine, le leggi, le religioni e
tutte le altre cose, in modo che le cose inferiori si svolgano circolarmente in
dipendenza della circolazione delle cose superiori, benché di alcuni cicli si
sia perduto il ricordo per la lontananza nel tempo».
Per questo tutto avviene di necessità sebbene la volontà umana resti libera
per l'indifferenza del giudizio della ragione, da cui dipende l'atto di scelta.
La struttura della realtà è interpretata nei termini rigorosamente aristotelici di
potenza e atto. La materia è principio d'individuazione e ad essa soltanto è
dovuta l'introduzione di un elemento di contingenza, perché la materia può
non essere disposta a ricevere le forme che necessariamente promanano
dalla causa prima.
L’unicità dell’intelletto e l’averroismo latino. La tesi che maggiormente
caratterizza l'insegnamento di Sigieri è quella dell'unicità dell'intelletto
possibile, che egli riprende dal commento di Averroè al De anima:
«se vi fossero tanti intelletti quanti singoli uomini, l’intelletto sarebbe una
facoltà del corpo».
Sigieri di Brabante (3)
In virtù di questa posizione egli è considerato, insieme a Boezio di Dacia,
uno degli esponenti del cosiddetto averroismo latino.
Per salvaguardare la singolarità della coscienza individuale, Sigieri ricorre
alla dottrina dell'anima «composta»: le facoltà vegetativa e sensitiva
dell'anima, che provengono dalla materia, si uniscono al principio intellettivo
che viene da fuori, per cui l’anima non può esser detta semplice.
A seguito delle polemiche con Tommaso d’Aquino (De unitate intellectus
contra Avveroistas), Sigieri mitiga in seguito la sua proposta: il maestro
brabantino distingue così fra due tipi di forme, quelle materiali (che
costituiscono il corpo e ne sono costituite: di questo tipo sono le facoltà
vegetativa, sensitiva, cogitativa o immaginativa) e quelle che lo costituiscono
senza esserne costituite.
Fra queste ultime rientrano i motori dei cieli e l'anima intellettiva dell'uomo,
che è «forma sostanziale dell'uomo, che costituisce l'uomo nella specie, ma
non è costituita dal corpo», e quindi non dipende da esso per la sua
esistenza.
L'intelletto si unisce infatti ad un corpo già informato dalla facoltà
cogitativa (la più alta delle facoltà legate alla materia corporea).
Sigieri di Brabante (4)
In altri termini: l'anima intellettiva che risulta da questa unione è sì
individuale, ma composta da due "semianime", perché costituita dalla
unione della facoltà cogitativa con l'intelletto.
Nel faticoso tentativo di mediazione di Sigieri percepiamo il tentativo di venire
incontro all'esigenza, espressa con vigore polemico da Tommaso d'Aquino, di
non negare il carattere individuale della vita intellettiva, pur mantenendo il
distacco dell'intelletto dal corpo: «la sostanza intellettiva, benché sia
perfezione della materia, sussistendo in sé nel proprio essere non ha bisogno
della materia».
La felicità intellettuale: da questa concezione dell’intelletto deriva una
posizione etica che fa perno sull'idea di felicità intellettuale e che rifiuta di
intendere alla lettera il sistema di pene e castighi corporali sostenuto dalla
Chiesa cristiana.
La felicità consiste, per Sigieri di Brabante, nel congiungimento dell'intelletto
con le intelligenze separate e con Dio; secondo tale accezione essa è
raggiungibile in questo mondo, come risultato della «vita filosofica» e non
della vita ascetica.
Tommaso d’Aquino: la vita (1)
Nato a Roccasecca (1225-26), oblato (nel Medioevo il termine indicava colui
che era consacrato a Dio fin dall’infanzia, per offerta dei genitori a un
monastero o a un convento) al monastero di Montecassino, studiò a Napoli.
Entrò nell'ordine domenicano nel 1244, contro la volontà della sua
aristocratica famiglia.
Da Napoli si recò a Parigi per proseguirvi i suoi studi fino al 1248 sotto la
guida di Alberto Magno, che poi accompagnò nel suo ritorno a Colonia
(1248-1252). Nel 1252, chiamato a Parigi, vi iniziò il suo insegnamento come
baccalaureus biblicus (commento della Bibbia) e poi baccalaureus
sententiarius (commento al Libro delle Sentenze di Pietro Lombardo).
Erano gli anni della polemica contro i regolari che osteggiavano la presenza
degli ordini mendicanti nelle Università, che si chiuse con l'intervento del
papa Alessandro VI, a cui sia Bonaventura che Tommaso dovettero
l'insediamento nelle rispettive cattedre parigine di teologia (1256-57). A
questo periodo risale il suo primo trattato filosofico, il De ente et essentia.
Fatto ritorno nella provincia romana dell'ordine domenicano insegnò nello
studio della Curia Papale, dove si trovarono riuniti filosofi, scienziati,
traduttori, tra i quali Guglielmo di Moerbeke, il domenicano fiammingo
celebre per aver ritradotto Aristotele dal greco e per essergli stato prezioso
collaboratore.
Tommaso d’Aquino: la vita (2)
In Italia Tommaso iniziò a commentare Aristotele e a scrivere la Summa
contra Gentiles, su richiesta del generale dell'ordine domenicano Roberto di
Peñafort. Dagli anni italiani fino alla morte egli lavorò inoltre all’opera
centrale della sua ricerca filosofica, la Summa Theologiae, rimasta
incompiuta.
Il ritorno a Parigi, nel 1269, portò Tommaso nel cuore del dibattito
universitario sugli argomenti più controversi della filosofia aristotelica, ovvero
la dottrina dell'unicità dell'intelletto possibile e quella dell'eternità del
mondo. Tornato in Italia, insegnò teologia a Napoli fino al 1273.
Non sappiamo che cosa successe durante la messa mattutina celebrata il 6
dicembre 1273, data che segna la cessazione definitiva dell’intensa attività di
scrittore di Tommaso. Alle insistenze di Reginaldo da Piperno, suo assitente,
perché riprendesse a scrivere e a completare la Summa Theologiae,
l’Aquinate rispose: "Reginaldo, non posso, perché tutto ciò che ho scritto è
come paglia per me."
Convocato a Lione per partecipare alla commissione preparatoria del
secondo concilio ecumenico, morì il 7 marzo 1274, a Fossanova, durante il
viaggio.
Tommaso d’Aquino: le opere (1)
Sintesi teologiche
Scriptum super libros Sententiarum; Summa contra Gentiles; Summa Theologiae.
Commenti ad Aristotele
Sentencia Libri De anima, Sentencia Libri De sensu et sensato, Sententia super
Physicam, Sententia super Meteora, Expositio Libri Peryermenias, Expositio Libri
Posteriorum, Sententia Libri Ethicorum, Tabula Libri Ethicorum, Sententia Libri
Politicorum, Sententia super Metaphysicam, Sententia super Librum De caelo et
mundo, Sententia super Libros De generatione et corruptione
Altri commenti
Super Boetium De Trinitate, Expositio Libri Boetii De ebdomadibus, Super Librum
Dionysii De divinis nomibus, Super Librum De Causis
Scritti polemici
Contra impugnantes Dei cultum et religionem, De perfectione spiritualis vitae, Contra
doctrinam retrahentium a religione, De unitate intellectus contra Avveroistas, De
aeternitate mundi.
Trattati filosofico – teologici
De ente et essentia, De principiis naturae, Compendium theologiae seu brevis
compilatio theologiae ad fratrem Raynaldum, De regno ad regem Cypri, De substantiis
separatis, De regimine principum.
Tommaso d’Aquino: le opere (2)
Questioni disputate
[le quaestiones erano esercitazioni scolastiche con le quali i professori testavano la
preparazione degli studenti su problemi teologici e filosofici. Modalità: Il professore
presentava un casus (lectio), molto spesso preso direttamente dalla realtà, con il
quale la classe si doveva cimentare dando fondo alle proprie conoscenze. La
quaestio si apriva con la presentazione della controversia, poi seguita dalle
argomentazioni (disputatio) a favore dell'una o dell'altra parte. Qui iniziava la fase
dialettica, in cui gli studenti facevano le loro osservazioni filosofiche, teologiche o
bibliche sotto la supervisione del professore. Quest'ultimo presentava la solutio,
ovvero la soluzione più giusta del caso, o almeno quella che riteneva tale].
Quaestiones disputatae De veritate, De potentia, De malo, De virtutibus, De
anima, De spiritualibus creaturis, De unione verbi incarnati; Quaestiones de
Quodlibet I-XII.
Commenti biblici
Expositio super Isaiam ad litteram, Super Ieremiam et Threnos, Principium
“Rigans montes de superioribus” et “Hic est liber mandatorum Dei”, Expositio
super Iob ad litteram, Glossa continua super Evangelia (Catena Aurea),
Lectura super Mattheum, Lectura super Ioannem, Expositio et Lectura super,
Epistolas Pauli Apostoli, Postilla super Psalmos.
Tommaso d’Aquino: il pensiero (1)
La teologia come scienza. Secondo Tommaso la distinzione dell’ambito
teologico da quello filosofico si accompagna all’introduzione del metodo
propriamente razionale in teologia; la filosofia, che insegna tale metodo
razionale, è definita «ancella» della teologia, ad indicare che il metodo può
solo essere utilizzato al servizio della verità rivelata, e non come strumento di
critica nei suoi confronti. L'esegesi tradizionale si trasforma in un sapere
teologico costruito con l'applicazione di una rigorosa tecnica filosofica nella
sua realizzazione più alta - il metodo scientifico di Aristotele.
Il lume naturale della ragione. La struttura di fondo della filosofia di
Tommaso è chiaramente leggibile nell’affermazione dell'inevitabile
concordanza del «lume della fede» col «lume naturale della ragione» fondata
sul fatto che entrambi derivano da Dio. L'atteggiamento di profonda fiducia
nelle capacità autonome della razionalità deriva dal superamento del
pessimismo circa la natura umana che soggiaceva alla costruzione
agostiniana, radicato nell'idea del peccato originale e della successiva
decadenza degli uomini dallo stato di perfezione originaria. Tommaso, vero
figlio della sua epoca, sembra invece trovare nella filosofia aristotelica
l'espressione della positiva perfezione della natura umana, fondata sull'idea
della somiglianza originaria con Dio:
Tommaso d’Aquino: il pensiero (2)
«sicché detrarre alla perfezione delle creature è lo stesso che detrarre alla
perfezione della virtù divina». La ragione è la massima espressione di questa
somiglianza, e perciò la massima perfezione del genere umano. Ora, la ratio
si incarnava storicamente per Tommaso nella filosofia di Aristotele: è pertanto
naturale che egli abbia assunto l'opera dello Stagirita come la base della
propria filosofia, tesa a definire l'autonomia della ragione e della natura e il
loro armonioso accordarsi con la verità rivelata.
Dio e natura. La dottrina della fede cristiana si interessa delle creature in
quanto in esse si riscontra una certa immagine di Dio: l'errore su di esse può
portare all'errore sulle cose di Dio. Se la filosofia umana considera le cose
per quello che sono (da ciò emerge la diversità dei generi che si riscontrano
nelle varie discipline filosofiche), la prospettiva assunta dalla fede cristiana è
differente: considera il fuoco, per esempio, non in quanto fuoco, ma in quanto
rappresenta la trascendenza di Dio." Questo "rappresentare" non è però un
rinviare ad altro da sé, nel senso in cui l'alterità e la finitezza del simbolo
rinviano misteriosamente all'infinito trascendente, o - per usare un termine di
Bonaventura - le creature si rivelano "orma", traccia del creatore: la possibilità
del "rappresentare" risiede, al contrario, nella partecipazione all'essere, che le
creature finite e molteplici ricevono da Dio.
Tommaso d’Aquino: il pensiero (3)
Per questa ragione, ovvero, per il legame partecipativo dell'essere fondato
nella creazione, le creature sono conoscibili in sé, e la loro conoscenza è via
alla dimostrazione dell'esistenza di Dio.
Tale dimostrazione è possibile in virtù dell'analogia: poiché l'essere conferito
alle creature è lo stesso essere di Dio, seppure il modo di essere sia diverso
nelle une (per partecipazione) e nell' altro (per essenza). L'analogia è infatti la
possibilità di «predicare lo stesso nome di diversi soggetti secondo un
significato che in parte è lo stesso e in parte diverso», come Tommaso
afferma nel commento alla Metafisica: possibilità che risiede nel fatto che
esiste un principio comune ai diversi soggetti.
L'analogia può essere di due tipi: analogia attributionis e analogia
proportionis: secondo la prima, «qualcosa si predica di due soggetti in
riferimento ad un terzo» (per esempio sia un cibo che un corpo può essere
detto sano, riferendosi al concetto di sanità); nell'analogia proportionis,
invece, «qualcosa si predica di due soggetti in riferimento l'uno all'altro».
E' in questo secondo senso che si parla di analogia fra Dio e le creature:
«perciò, poiché non c'è niente prima di Dio, ma Egli è prima della creatura,
nel parlare di Dio si deve impiegare il secondo modo dell'analogia, e non il
primo». E' dunque nell'atto creatore di Dio che risiede il fondamento
dell'analogia, attraverso la quale l'esistenza divina può essere provata.
Tommaso d’Aquino: il pensiero (4)
L’adesione all’aristotelismo. La posizione di Tommaso è quella di un
aristotelico schietto; la sua opzione per la filosofia dello Stagirita è
determinata dal fatto che in essa l'Aquinate - come la maggior parte dei suoi
contemporanei - vede l'espressione compiuta della ragione naturale; e
poiché «i principi naturali della ragione non possono essere in contrasto con
la verità della fede cristiana», Tommaso ritiene senza alcun dubbio possibile
un uso cristiano dell'aristotelismo.
Di fatto il lavoro filosofico di Tommaso prende le mosse dalla riflessione su
un concetto centrale della filosofia aristotelica, quello di atto, che utilizza
come potente strumento nell'elaborazione della distinzione filosofica fra
creatore e creatura - problema centrale di tutto il pensiero medievale, come
abbiamo avuto modo di constatare più di una volta.
Nel De ente et essentia Tommaso presenta la sua dottrina centrale
della distinzione fra essenza e atto di essere (actus essendi) o
esistenza: Dio è concepito come atto puro di essere che è per sua
stessa essenza ("ipsum esse per suam essentiam"), incausato e
infinito; mentre si riconosce nelle creature una distinzione reale fra
essenza creata ed esistenza.
Tommaso d’Aquino: il pensiero (5)
L’eternità del mondo. Sulla dottrina dell'eternità del mondo Tommaso
sostiene che non si può affermare niente dal punto di vista filosofico: né il
suo inizio, cioè, né la sua eternità.
E che abbia avuto inizio, cioè sia stato creato, «è credibile, ma non è
dimostrabile né conoscibile». La dottrina della creazione non annulla la
fisica aristotelica, anzi la fonda e la perfeziona; la realtà e l'autonomia degli
esseri creati è garantita dalla libertà della creazione divina e dalla struttura
partecipativa dell'essere, per cui le cose sono dotate di una vera e propria
causalità.
Dio non ha dato alle creature soltanto la sua similitudine quanto all'essere,
ma anche «quanto all'agire, in maniera che le creature abbiano le sue
proprie azioni». Gli esseri creati si dispongono in una scala, che ha ai suoi
estremi Dio, atto puro, e le creature materiali, la cui singolarità è dovuta alla
materia quantitate signata (cioè la materia contrassegnata dalla propria
estensione), che le individua limitandole.
Fra questi due estremi stanno gli angeli (forme pure create) e la creatura
umana: infatti l'anima intellettiva, forma di quel sinolo (totalità individuale
composta di materia e forma) che è l'essere umano, lo pone al confine fra il
mondo materiale e quello delle intelligenze.
Tommaso d’Aquino: il pensiero (6)
L’essere umano. Per Tommaso l'anima è aristotelicamente forma del corpo: per
affermare infatti la piena e concreta individualità dell'uomo, egli ritiene di dover
eliminare ogni residuo del dualismo platonico espresso nell'immagine dell'anima
come nocchiero della nave che è il corpo dell'uomo. L'immortalità dell'anima, che
sembrava andare perduta nel recupero del concetto propriamente aristotelico di
entelechia («atto del corpo fisico organico che ha la vita in potenza»), è
garantita, per Tommaso, dall'operazione propria dell'anima razionale,
l‘intelligere, nella quale si manifesta il carattere spirituale e l'autonomia
dell'anima - ciò per cui essa si colloca, appunto, al confine con l'ordine angelico.
Egli attacca polemicamente la dottrina della pluralità delle forme affermando che
l'anima razionale sussume le funzioni inferiori: «per questa ragione lo stesso
Aristotele dice nel secondo libro De anima che 'l'anima vegetativa è in quella
sensitiva' e la sensitiva in quella intellettiva 'come il triangolo è nel quadrangolo' e
il quadrangolo nel pentagono».
L'anima è così l'unica forma sostanziale dell'uomo. Smantellata l'impalcatura
delle forme successive, nel De unitate intellectus contra averroistas Tommaso
si accinge a combattere l'opinione di Averroè sull'intelletto proprio a partire da
questa rigorosa premessa dell'unità sostanziale dell'uomo, cui corrisponde
l'individualità dell'atto di intendere, che ha per soggetto non un intelletto separato,
ma l'intelletto che è facoltà dell'anima la quale è forma del corpo.
Tommaso d’Aquino: il pensiero (7)
La conoscenza. La conoscenza è intesa da Tommaso come un caso
particolare del passaggio dalla potenza all'atto. Gli intelligibili, che si
trovano in potenza nelle immagini formatesi dal contatto dei sensi con le cose,
infatti, vengono separati da esse e dunque messi in atto come intelligibili.
Questo avviene nel processo astrattivo, in cui l'intelletto si rivolge ad un solo
aspetto della «cosa», sia considerandone la natura più universale o
comprensiva e lasciando cadere gli aspetti specifici o individuali (quando per
esempio si dice che l'uomo è un animale razionale: perché animale è un
termine che comprende quello di uomo); sia considerando una singola natura
o qualità, distaccata dal soggetto in cui sussiste (quando per esempio si dice
che nell’uomo vi è la umanità).
Nel primo caso si parla di astrazione totale, o universale; nel secondo, di
astrazione formale. Il processo di astrazione è possibile in virtù del lume
naturale immesso da Dio nell'anima umana come sua funzione più alta.
Tommaso identifica questo lume naturale con l'intelletto agente - che la
tradizione avicenniana identificava nel dator formarum e quella agostiniana
nell'illuminazione divina - collocato all'interno dell'anima umana.
A maggior ragione l'intelletto possibile (o passivo, o materiale: cioè
quell'intelletto che «sta agli intelligibili come il senso sta ai sensibili») va inteso
come una facoltà individuale, perché in caso contrario non si riuscirebbe,
secondo Tommaso, a spiegare come il singolo uomo (hic homo) intenda.
Tommaso d’Aquino: il pensiero (8)
Intelletto e volontà. Nell'intelletto, saldamente individuale, sta la radice della
volontà e della libera scelta. Questa tesi, che segna la radice della rottura con
la tradizione agostiniana, è evidentissima nella dottrina morale di Tommaso,
cui sembra collegarsi una delle tesi condannate nel 1270, che cioè «il libero
arbitrio è una potenza passiva, non attiva, e che è mosso necessariamente
dall'oggetto dell'appetito».
Il primato dell'intelletto sulla volontà, per cui «la volontà può tendere verso
quelle cose che la ragione apprende sotto l'aspetto del bene», viene in
qualche modo mitigato da Tommaso attraverso due considerazioni:
1) che la volontà sarebbe necessitata soltanto se l'intelletto potesse
presentarle il sommo bene;
2) che nel giudizio pratico la volontà interviene non solo con la scelta
(electio) ma anche con la inquisitio e il consilium, cioè con la
considerazione delle circostanze particolari che stanno alla base
dell'azione.
Tuttavia le stesse premesse dell'ottimismo partecipativo di Tommaso, che
abbiamo visto all'opera nell'ambito della metafisica, si rendono visibili anche
in campo morale, specialmente nella definizione di legge naturale:
Tommaso d’Aquino: il pensiero (9)
«La legge naturale non è altro che la partecipazione della legge eterna nella
creatura razionale». Da essa deriva anche la legge positiva: questa viene
definita come «una legge trovata dagli uomini secondo la quale si
dispongono in particolare le cose che sono contenute nella legge di natura
[che deriva] dai precetti della legge naturale, come da principi comuni e
indimostrabili».
La politica. Come la ragione e la fede, pur occupando due ambiti separati,
non sono fra loro in opposizione, così il fine naturale dell'uomo non può
essere, per Tommaso, in contrasto col fine soprannaturale che è oggetto
dell'opera divina di salvezza. Per questa ragione egli si distacca
dall'agostinismo anche nell'ambito del pensiero politico, muovendo dalla
premessa aristotelica della naturale inclinazione dell'uomo alla vita sociale.
«Poiché ogni uomo è parte della società (civitas), è impossibile che un
uomo sia buono se non partecipa del bene comune».
Questa bonitas, che si realizza nella convivenza civile, è il primo gradino
per raggiungere la sanctitas, che è il fine ultimo; per questo motivo l'autorità
politica preposta alla convivenza civile, il regnum, è in relazione con e
subordinata all'autorità preposta alla realizzazione del fine ultimo, il
sacerdotium.
Tommaso d’Aquino: il pensiero (10)
La tradizionale discussione sulla divisione fra i due poteri conosce, all'epoca
di Tommaso, una ripresa legata alle mutate condizioni politiche: l'emergere
degli stati nazionali e la particolare situazione del papato, ultimo potere
universale. Tommaso discute ampiamente la questione nel commento alla
Politica di Aristotele e in un trattato scritto negli anni parigini, il De regimine
principum - incompiuto e completato da Tolomeo da Lucca, che tende a
risolvere l'equilibrio (talvolta ambiguo) di Tommaso fra i due poteri in senso
decisamente teocratico.
La dimostrazione dell’esistenza di Dio: le «cinque vie».
L’impossibilità della visione diretta di Dio ci induce alla necessità di
dimostrarne l’esistenza a posteriori: tale dimostrazione rientra nei
preambula fidei, verità che la ragione può raggiungere con le sue sole
forze e mantenendosi nel proprio ambito. «Che Dio esista si può provare per
cinque vie», afferma Tommaso nella seconda questione del primo libro della
Summa Theologiae. Muovendo dall’osservazione del mondo creaturale,
nella sua multiformità e variegatezza (non dalla contemplazione o
meditazione, come in Bonaventura e in Anselmo) si giunge secondo
Tommaso a porne la condizione dell'esistenza, che risiede propriamente nel
suo creatore.
Tommaso d’Aquino: il pensiero (11)
Ogni via prende in considerazione una caratteristica della realtà per risalire
al principio primo in cui essa si radica.
La prima via assume come punto di partenza il movimento osservabile
delle cose naturali: inteso non semplicemente come moto di traslazione,
ma come modificazione che si realizza attraverso il passaggio dalla potenza
all’atto, inderogabile legge cui la realtà mutevole sottostà, questo è il segno
dell’esistenza di un principio primo in cui ogni movimento si arresta: se è
vero che tutto ciò che si muove è mosso da altro, affinché tale procedere non
vada all’infinito (secondo un assunto fondamentale del paradigma aristotelico
e in genere del pensiero greco: l'irrazionalità dell'infinito), è infatti necessario
arrivare ad un motore primo non mosso da altro.
La seconda via prende in analisi l’interazione delle realtà naturali tra di
loro: l’una agisce sull’altra in qualità di causa efficiente, producendo
effetti. Tenendo fermo il presupposto della fisica aristotelica per cui nessuna
cosa può essere causa di se stessa, per il verificarsi di un evento bisogna
ripercorrere all’indietro la catena delle cause e degli effetti, giungendo, se
non vogliamo accettare che si processo vada all'infinito, ad «ammettere
quella prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio».
Tommaso d’Aquino: il pensiero (12)
La terza via muove dalla contingenza della realtà che ci circonda. Un
evento può darsi, o meno. In ogni caso esso non è sempre, ma viene
all’essere, per poi cessare. Se ammettiamo che la realtà sia pura
contingenza, allora non c’è modo di spiegare come ogni ente venga
all’essere, perché dal nulla non si crea nulla. E’ invece necessario postulare
l’esistenza di un primo principio, necessario, da cui tutte le cose prendano
origine, che è condizione di esistenza delle res naturales nella loro assoluta
contingenza.
La quarta via prende origine dal fatto osservabile che le cose realizzano
delle proprietà secondo gradi differenti. Si può dire infatti che una cosa è
più o meno buona, o nobile, di un’altra. Per porre questo paragone è però
necessario un termine di riferimento assoluto, in cui tali proprietà sono al
massimo grado, che è Dio.
La quinta via coglie un aspetto della realtà apparentemente meno
evidente: gli eventi, realizzati da corpi ed enti naturali pur privi di intelligenza,
sembrano orientati verso un fine di perfezione, che è la realizzazione nel
creato dell’ordine e della bellezza. Essendo tali enti privi di conoscenza, è
inesplicabile il fatto che essi perseguano tale finalità in modo coerente, a
meno che non si ammetta un principio superiore intelligente che ordini la loro
attività e lo svolgersi degli eventi in relazione ad tale fine.
Opere consultate per il corso (in rosso quelle difficili) 1
Testi sul Medioevo :
H. Pirenne: Storia d'Europa: dalle invasioni al XVI secolo, Sansoni, 1984 (1910)
J. Huizinga: L' autunno del Medioevo, Sansoni, 1985 (1919)
M. Bloch: I re taumaturghi: studi sul carattere sovrannaturale attribuito alla potenza dei
re, particolarmente in Francia e in Inghilterra, Einaudi, 1989 (1924)
M. Bloch: La società feudale, Einaudi, 1981 (1939-1940)
E.H. Gombrich: La storia dell’arte raccontata da Gombrich, Leonardo Arte, 1995 (1950)
J. Le Goff : La civiltà dell'occidente medievale, Einaudi, 1983 (1964)
J. Le Goff : La nascita del Purgatorio, Einaudi, 1982 (1981)
J. Le Goff (a cura): L’uomo medievale, Laterza, 1988
Testi di Dante Alighieri:
Opere Volume primo (Rime, Vita Nova, De vulgari eloquentia), Mondadori, 2011
Opere Volume secondo (Convivio, Monarchia, Epistole, Egloge), Mondadori, 2014
Commedia (a cura di E. Pasquini e A. Quaglio), Garzanti, 1987
Testi dei filosofi trattati:
Aristotele: Etica Nicomachea (a cura di M. Zanatta), Rizzoli, 1986
Agostino: Le confessioni (a cura di C. Carena), Mondadori, 1992
Abelardo ed Eloisa: Lettere (a cura di I. Pagani), UTET, 2015
Tommaso d’Aquino: Compendio della Somma teologica (a cura di G. Dal Sasso e R.
Coggi), Edizioni Studio Domenicano, 1989
Opere consultate per il corso (in rosso quelle difficili) 2
Testi su Dante:
E. Auerbach: Studi su Dante, Feltrinelli, 2005 (1929)
C.H. Singleton: La poesia della Divina Commedia, Il Mulino, 1999 (1950 -1969)
E. Gilson: Dante e la filosofia, Jaca Book, 1987
B. Nardi: Saggi di filosofia dantesca, La Nuova Italia, 1967
B. Nardi: Dante e la cultura medievale, Laterza, 1985
G. Contini: Un’idea di Dante: saggi danteschi, Einaudi, 1976
M. Santagata: Dante. Il romanzo della sua vita, Mondadori, 2013
Testi su Aristotele:
W.W. Jaeger: Aristotele: prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale,
Bompiani, 2003 (1923)
W. D. Ross: Aristotele, Feltrinelli, 1982 (1923)
I. During: Aristotele, Mursia, 1985 (1966)
G. Reale: Introduzione a Aristotele, Laterza, 1987
P. Donini: La filosofia di Aristotele, Loescher, 1982
C. Natali: La saggezza di Aristotele, Bibliopolis, 1989
E. Berti (a cura): Guida ad Aristotele, Laterza, 1997
J. Barnes: Aristotele, Einaudi, 2002
A. Jori: Aristotele, B. Mondadori, 2003
Opere consultate per il corso (in rosso quelle difficili) 3
Testi su Agostino:
M. Vannini: Invito al pensiero di Sant‘Agostino, Mursia, 1989
G. Catapano: Agostino, Carocci, 2013
E. Portalié: Sant’Agostino, voce del Dictionnaire de théologie catholique, 1903
Testi su Abelardo:
E. Gilson: Eloisa e Abelardo, Einaudi, 1970
Mario Dal Pra: introduzione a Conosci te stesso o Etica, La Nuova Italia, 1976
M. B. Brocchieri Fumagalli: Eloisa e Abelardo: parole al posto di cose, Mondadori, 1987
M. B. Brocchieri Fumagalli : Introduzione a Abelardo, Laterza, 1988
Testi su Tommaso d’Aquino:
S. Vanni Rovighi: Introduzione a Tommaso d’Aquino, Laterza, 1990
P. Porro: Tommaso d’Aquino: un profilo storico-filosofico, Carocci, 2014
Manuali e opere di storia della filosofia antica e medievale:
M. Dal Pra: Sommario di storia della filosofia, Volume I, La Nuova Italia, 1986.
G. Reale: Storia della filosofi antica, Volumi II e III, Vita e Pensiero, 1984.
E. Gilson: La filosofia nel medioevo, La Nuova Italia, 1983 (1944)
C. Vasoli: La filosofia medievale, Feltrinelli, 1972
M. B. Brocchieri Fumagalli: Storia della filosofia medievale, Laterza, 1996
Manuale di Filosofia Medievale on-line, a cura della facoltà di Lettere - Università di Siena
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Slides Dante e la Filosofia II