GLI STATUTI DELLA CITTÀ’ DI CORNETO NEL 1545 NEL QUADRO DELLO SVILUPPO DEL CENTRALISMO AMMINISTRATIVO DELLO STATO PONTIFICIO La pubblicazione degli Statuti della città di Corneto del 1545 a cura di Massimo Ruspantini - un volume che fa onore al curatore e alla Società Tarquiniense di arte e storia che lo ha edito - è avvenuta in un momento di rinnovato interesse per gli statuti comunali, almeno nella nostra Regione. Ricordo qui gli Statuti di Orte, pubblicati nel 1981 ; gli Statuti di Rocca Priora, pubblicati nel 1982 ; lo Statuto di Sant’Oreste, pubblicato nel 1982 ; è probabile che ancora altri studi siano stati redatti sugli statuti del nostro territorio in questi ultimi anni, altre pubblicazioni che non hanno avuto adeguata notorietà e che con ogni probabilità contengono notizie utili e indicazioni valide. Questo nuovo interesse per gli Statuti - ricordo una prima grande stagione di ricerche sugli statuti comunali - ha caratterizzato gli anni sul finire dell’Ottocento: basti per tutti il nome di Carlo Calisse ; poi una seconda stagione certamente molto importante è stata quella tra la Prima e la Seconda guerra mondiale . Questo rinnovato interesse dicevo, muove da nuovi impulsi che vengono dati alla ricerca storica locale. Vi sono studiosi e appassionati della ricerca storica che operano oggi con maggiore frequenza in questo campo proseguendo nella via tracciata dalla significativa storiografia sopra ricordata, grazie proprio ai modelli che sono stati offerti da quelle ricerche. Vi sono giovani e studiosi affermati che trovano stimoli ad avviare o a riprendere studi negli archivi comunali dal constatare che, seppur limitatamente e con effetti ancora troppo limitati rispetto all’ampiezza del problema, le istituzioni di governo a livello locale (la Regione Lazio, la Provincia di Viterbo, alcuni Comuni per citare i casi che conosco direttamente) hanno promosso e condotto operazioni di ordinamento e di inventariazione di archivi comunali e di archivi di interesse locale . E interventi di questo tipo stanno operando anche istituzioni culturali private, in collaborazione con la Soprintendenza Archivistica per il Lazio per gli archivi comunali, in accordo con le autorità ecclesiastiche per gli archivi diocesani, capitolari, parrocchiali . I primi archivi sono già stati sistemati, ordinati e inventariati: probabilmente avremo modo di vedere presto non solo nuovi studi sugli statuti comunali ma anche altre indagini che utilizzeranno le carte, preziose e per così lungo tempo trascurate, che si conservano negli archivi comunali. Un’altra novità di questi anni comincia a produrre i suoi effetti anche nel settore delle ricerche storiche locali: l’istituzione e il funzionamento delle biblioteche pubbliche nei diversi comuni della nostra Regione. Non è raro trovare in questi centri di lettura e di studio un angolo dedicato alle opere che trattano la storia dello Stato pontificio, di Roma e del suo territorio, dei singoli Comuni: vi sono studi di altissimo valore scientifico, indagini prevalentemente divulgative, opere di propaganda turistica. Tutto comunque contribuisce o può contribuire a destare l’interesse nei lettori per una storia più legata al territorio, alle sue tradizioni, alla sua religiosità, ai suoi tesori artistici e architettonici. E talvolta accade che, anche per il sapiente lavoro svolto da alcuni bibliotecari e da alcuni insegnanti, l’interesse suscitato porti ad abbozzare ed a realizzare ricerche nuove, su materiali inediti, che si riferiscono a momenti della storia di un paese, ai suoi personaggi, ai suoi costumi. Ma lo studio delle carte degli archivi locali e degli statuti in primo luogo trova oggi nuovi motivi di interesse del fatto che si stanno incrociando e talvolta scontrando impostazioni storiografiche profondamente differenti, sia sul problema generale del significato dell’operazione storica (cosa significa cioè una ricerca storica), sia su quello più specifico ma egualmente assai ampio della nascita e dello sviluppo dello Stato pontificio nell’avvento dello Stato moderno. Su entrambi i fronti le verifiche che si possono condurre sulle carte degli archivi locali sono di grandissima importanza e ciò li pone nell’”occhio del ciclone”. A fronte di una storia politica, di una storia appoggiata prevalentemente agli avvenimenti, di una storia delle classi dominanti e degli uomini che ne sono stati le guide e i condottieri, si sta facendo strada una storia che analizza le trasformazioni e le permanenze, che si occupa, anche se non esclusivamente, di coloro che sono stati dominati, della gente, che ha compiuto quella grande impresa che è vivere su questa terra. Insomma una storia attenta alle vicende della società, una storia che si propone di cogliere i mutamenti ma anche ciò che dura, che non cambia e sembra anzi rimanere quasi immobile, una storia che tende alla storia totale, alla storia globale dell’uomo e degli uomini. Il tempo di questa storia è radicalmente diverso da quello della storia politica: ora si analizzano i “tempi” nelle vicende degli uomini, quelli lunghi e lunghissimi delle lente trasformazioni della mentalità e dei costumi e quelli più ridotti delle crisi economiche, delle epidemie, di una ventata di rinnovamento religioso. E’ una nuova storia. E di questa storia avvertiamo il bisogno, per capire meglio il nostro passato ed anche per comprendere di più il nostro presente, mentre verifichiamo l’inadeguatezza, l’insufficienza di una storia che era spesso una successione di avvenimenti e di nomi e che non ci aiutava a leggere le cause, a cogliere la realtà che scorreva accanto ai fatti ed alle persone. Queste esigenze del resto non sono una scoperta originale della nostra epoca se già due secoli e mezzo fa Voltaire, nelle sue Nouvelles considerations sur l’histoire affermava: “Forse accadrà presto nel modo di scrivere la storia quanto è accaduto nella fisica. Le nuove scoperte hanno fatto cadere in disuso i vecchi sistemi. Si vorrà conoscere il genere umano in quei particolari interessanti che costituiscono oggi la base della filosofia naturale.... E’ bene che vi siano archivi di tutto, onde li si possa consultare in caso di necessità; e attualmente io considero tutti i grossi libri alla stregua di dizionari. Ma dopo aver letto tre o quattromila descrizioni di battaglie, e il contenuto di alcune centinaia di trattati, ho trovato che in fondo non ne sapevo molto più di prima. Così non imparavo altro che avvenimenti. Studiando la battaglia di Carlo Martello non imparo a conoscere i francesi e i saraceni, più di quanto non conosca i tartari e i turchi per mezzo della vittoria ottenuta da Tamerlano su Bayazid. Vorrei sapere quali erano le fiere di un paese prima della guerra, e se questa le ha aumentate o diminuite. La Spagna era più ricca prima della conquista del nuovo mondo che non oggi? Di quanto era più popolata al tempo di Carlo Quinto che sotto Filippo IV? Perché ad Amsterdam vivevano appena ventimila persone duecento anni fa? Perché oggi conta duecentoquarantamila abitanti? E come facciamo a saperlo con certezza? Di quanto è più popolare oggi l’Inghilterra di quanto non lo fosse sotto Enrico VIII? Sarebbe vero quanto si dice nelle Lettere persiane che alla terra mancano gli uomini e che il mondo è disabitato rispetto a come era duemila anni fa?.... Ecco già alcuni oggetti della curiosità di chiunque vuol leggere la storia di un cittadino e da filosofo. Costui sarà ben lontano dal limitarsi a questa conoscenza; cercherà quale è stato il vizio principale e la virtù dominante di una nazione; in che modo e sino a che punto si è arricchita da un secolo in qua; i registri delle esportazioni possono insegnarlo. Vorrà sapere come le arti, le manifatture si sono stabilite; seguirà il loro passaggio e il loro ritorno da un paese all’altro. Infine il suo grande obiettivo saranno i cambiamenti nei costumi e nelle leggi. Saprebbe così la storia degli uomini anziché conoscere una piccola parte della storia dei re e delle corti. Invano leggo gli Annali di Francia: i nostri storici tacciono tutti su questi particolari. Nessuno ha per divisa: Homo sum, humani nil a me alienum puto” . Questa nuova storia, per esistere, ha bisogno di tutti quei documenti che sino ad oggi non sono stati utilizzati per scrivere la storia: a cominciare dai registri dei battezzati, degli sposi e dei defunti, dagli “stati delle anime” alle visite pastorali, dalle “relationes ad limina” ai sinodi, dalle carte delle confraternite a quelle dei monti frumentari, dei monti di pietà, degli ospedali, per parlare delle carte presenti negli archivi ecclesiastici. E poi ha bisogno degli Statuti dei Comuni, dei registri dello Stato Civile, degli atti notarili, dei libri dei verbali dei consigli della Comunità, dei libri degli introiti e degli esiti, dei catasti dei terreni, delle carte riguardanti l’amministrazione della giustizia civile e criminale, insomma di tutte quelle carte che sono ancora conservate negli archivi comunali o negli archivi notarili e negli altri archivi locali. Dunque è una storia che ha bisogno dei nostri archivi, che trova nei nostri archivi il materiale per alimentarsi e per dare le risposte alle domande che si trova sulle labbra. E’ e ancora di più costituirà un impulso potente per entrare negli archivi, per riprendere in mano gli statuti, molto spesso per considerarli secondo prospettive del tutto nuove. Se ancora cinquant’anni addietro, lo studio degli statuti - le uniche carte dei nostri archivi comunali che erano tenute in una certa considerazione - era fatto per dimostrare la maggiore o minore consistenza del processo di centralizzazione del potere nei diversi Stati moderni, ora lo Statuto, oltre che per questo aspetto, è diventato uno strumento di grande rilevanza per cominciare a conoscere quella società locale che era unita dall’osservanza delle stesse regole, è una finestra che si apre su un mondo per tanti versi ormai lontano e qualche volta incomprensibile. Lo statuto è poi un momento di verifica per un’altra questione storiografica che ci interessa molto da vicino: il ruolo che lo Stato pontificio ha avuto nella nascita dello Stato moderno, o meglio in quella nuova forma di gestione del potere e di organizzazione sociale che prende piede nel corso del Rinascimento e che arriva con successivi adattamenti sino alle soglie dell’età contemporanea. E’ un problema che si ripropone in termini nuovi, anche sorprendenti. Non più di cinque anni fa un’opera di sintesi sulle vicende dello Stato pontificio tra Martino V e Pio IX, firmata da Mario Caravale e Alberto Caracciolo, affermava che la mancanza di un esercito permanente, di una diplomazia stabile e di una struttura di burocrati al servizio del monarca dello Stato pontificio, autorizzava a sostenere che, certamente ancora alla fine del Cinquecento, quello non poteva essere considerato alla stregua dei nuovi Stati del Rinascimento . Ulteriore conferma veniva poi dal persistere di un sistema di autonomie signorili e feudali delle comunità nella zona di dominio diretto tali da rendere improbabile la tesi di una progressiva realizzazione di un sistema istituzionale sul modello di quanto realizzato dagli altri Stati moderni, anche nello Stato pontificio. A questo proposito Caravale a conclusione della prima parte del volume ribadiva che: “A nostro parere le istituzioni temporali della Chiesa al fine del pontificato di Gregorio XIII si differenziano solo in pochi punti da quelle restaurate da Martino V all’inizio del Quattrocento. Rispetto ad allora, la Romagna e Camerino sono tornate al governo diretto della Santa Sede, il Comune di Roma ha perso gran parte della sua antica libertà, e qualche altra città, come Perugia, ha subito una riduzione della sfera di autonomia. Ma il sistema istituzionale è rimasto inalterato. Come allora, esso continua a basarsi sull’esistenza di due tipi di terre, quelle mediate subiecte e quelle di dominio diretto. L’estensione delle prime non si è ridotta di molto, dato che le terre feudali non sono diminuite e quelle signorili, se hanno perso le zone romagnola e camerinense, hanno acquistato quelle di Parma, Piacenza e Castro. Immutate, anzi rafforzate, risultano le potestà dei feudatari e signori, i quali si comportano in modo affatto indipendente dalla S. Sede e nei loro domini esercitano in pieno le potestà pubbliche. Nei comuni delle zone di dominio diretto ovunque esiste un governo diarchico composto, come già ai tempi di Martino V, dal rappresentante pontificio e dai magistrati municipali. Per lo più il rapporto interno alla diarchia risulta in equilibrio e a favore dei rappresentanti della comunità cittadina; solo in pochi comuni è a vantaggio del legato. Anche sotto il profilo del sistema fiscale, le novità introdotte specialmente a partire da Clemente VII non hanno modificato le precedenti immunità, né hanno spezzato il diaframma tradizionale della finanza comunale. Il passaggio alla Camera Apostolica delle entrate di alcune città, disposto da Martino V, non è stato esteso a nessun altro Comune; soggetti passivi dei tributi continuano ad essere le comunità e non i singoli sudditi; così che le modifiche introdotte nel Cinquecento consistono esclusivamente nell’aumento del numero dei contributi richiesti alle varie collettività della S. Sede” . E Caracciolo, parlando ancora del rapporto tra le città e il governo centrale nello Stato pontificio, affermava che nel XVI e nel XVII secolo: “La tendenza generale nelle provincie, non a Bologna soltanto, è dunque verso il rafforzamento di oligarchie ben circoscritte, che nella protezione del governo romano trovano garanzie di sicurezza sociale e di limitato ma stabile dominio sulle “cento città” e sulle terre, castelli, baronie che compongono i Domini pontifici. Tornano alla mente le vicende di Perugia e di Fermo, di Viterbo e di Ancona, fra i municipi più gelosi della propria indipendenza, verso i quali il Governo romano è largo di concessioni, che rendono quanto mai frastagliato il sistema istituzionale dello Stato. E si è portati a rileggere studi antichi e recenti dedicati a singoli luoghi delle Marche e di Urbino - da Gualdo Tadino a Gubbio - per riconoscere quanto contrastato e vario sia stato il processo di stabilizzazione della magistratura e delle loro competenze sotto la pressione dei commissari, dei legati, dei governatori nominati da Roma. Se il settore militare - soprattutto con evidenza nelle terre di confine e nelle fortezze come Civitavecchia e Ancona - è fra quelli dove un po' più di progressi ottiene l’intervento del governo centrale, per la maggioranza delle materie resta in atto il massimo particolarismo, su basi consuetudinarie o statutarie, ben al di là del pur vistoso proliferare di dogane interne e di pedaggi, di esenzioni e di uffici privilegiati. Ma è proprio da meravigliarsi di ciò? Non vediamo forse questa medesima mancanza di uniformità, questa persistenza di privilegi e particolarismi, sopravvivere accanto alle moderne strutture unificate anche nelle grandi Monarchie più tipiche di un moderno centralismo, come la Francia? E’ ben comprensibile come assai più lento, contraddittorio, spesso soltanto epidermico, debba essere, al confronto, il processo di uniformazione amministrativa nei Domini della Chiesa nella stessa età”. Le ultime parole del Caracciolo, quel riferimento alla persistenza di privilegi e di particolarismi che si riscontrano lungo la strada dell’affermazione delle nuove strutture centralizzate di gestione del potere che negli Stati moderni, aprono un fronte di nuove considerazioni circa la gradualità di processi che una esperienza plurisecolare di Stato moderno ci fa spesso trascurare. Siamo tentati di misurare il cammino di queste realizzazioni con nostro passo di oggi; e quando verifichiamo che il loro progresso è decisamente lento, ci può sembrare addirittura che non vi sia stato alcun progresso. Come se ogni epoca, ogni società potesse essere valutata con lo stesso metro, come se la storia avesse la stessa unità di tempo, come se ogni cultura dovesse essere considerata in relazione della nostra cultura e l’uomo medioevale letto attraverso la mentalità e la visione del mondo dell’uomo del XX secolo. Sul tema specifico del rapporto tra affermazione dello Stato temporale della Chiesa e nascita dello Stato moderno è stato pubblicato nel 1982 uno studio di Paolo Prodi, uno dei più acuti e profondi conoscitori delle vicende dello Stato Pontificio , che propone una analisi nuova di alcuni nodi che la storiografia specializzata non ha saputo liberare: il primo riguarda “lo sviluppo del nuovo modello monarchico del papato dopo la conclusione della crisi conciliarista”, il secondo “l’esercizio concreto del potere nella Chiesa universale durante il tramonto della “repubblica Cristiana” medievale e l’ascesa irresistibile del sistema politico degli Stati moderni e della nuova economia” . L’indagine non si basa sugli scritti dei teologi e dei canonisti ma sull’ideologia operante sul costume della corte romana, nella letteratura, nell’arte, nell’oratoria, nella liturgia. Essa considera lo sviluppo della centralizzazione del potere ecclesiastico come una risposta data da Roma alle tendenze centrifughe che la minacciavano da ogni parte, e valuta essenziale il carattere bi-dimensionale, spirituale e temporale, “della sovranità papale sulla Chiesa universale e sul proprio dominio, lo Stato pontificio” per comprendere il processo di assunzione dei metodi della società secolarizzata all’interno della Chiesa, che portano alla costituzione di una immagine, di una gerarchia, di una organizzazione della Chiesa fatta a somiglianza di quanto avviene contemporaneamente nella società laica. Non seguirò il Prodi nel suo lavoro ampio e articolato. Su un punto mi interessa però richiamare l’attenzione, un momento centrale della sua indagine. A partire dalla metà del Quattrocento i pontefici sono diventati anche principi temporali, signori di uno Stato che si sta irrobustendo e consolidando: queste novità sono ricche di conseguenze per le vicende della istituzione papale nel suo complesso e portano ad innovazioni nella dottrina teologica relativa al potere temporale del pontefice ed a modifiche che si registrano a livello della produzione normativa sia in quella riferita allo Stato che in quella riferita alla Chiesa. La doppia persona del pontefice - sovrano di uno Stato e capo della Chiesa - ha come conseguenza più diretta una “commistione” e una “mixstura” di poteri nell’esercizio del governo all’interno del territorio dello Stato pontificio che fa di questo ben presto un modello conosciuto e largamente imitato dalle monarchie europee del tempo, perché nello Stato pontificio prende presto piede un apparato burocratico stabile, una rete di rapporti diplomatici permanenti, un sistema fiscale efficiente pur se insufficiente rispetto alle sempre crescenti esigenze della corte e della Curia, un controllo sui centri di potere autonomo all’interno dello Stato, in particolare sulle autonomie feudali e sulle autonomie cittadine. Si può affermare dunque che, dalla metà del XV secolo, è “possibile cogliere nell’azione politica del papato una linea di continuità in ordine alla costruzione dello Stato che non nega certamente gli evidenti e gravi momenti di riflusso e di sbandamento (ma quale Stato non li ebbe in questo periodo?) ma li comprende nel lungo ciclo che in questa esperienza si consuma” ; che “lo Stato pontificio della prima età moderna ha fornito alla politica europea un anello forse essenziale (e certamente da tenere in considerazione) nella concatenazione di elementi che porta ad un nuovo modo di concepire e di vivere la politica e l’attività di uno Stato che viene ad invadere con la sua presenza ingombrante e protettiva settori e nodi vitali della realtà nuova che antecedentemente erano ritenuti del tutto estranei alla sfera del pubblico inteso come politico” . Un potere centrale che è il fondamento di fatto del nuovo Stato a fronte del quale gli altri poteri dello Stato riconoscono la loro subordinazione. I baroni sono venuti mano a mano perdendo il loro potere politico e giuridico all’interno dello Stato, così che quella distinzione ancora valida del XV secolo tra le terre immediatamente soggette e quelle mediatamente soggette va perdendo di significato: tutto il territorio è sotto il dominio diretto del sovrano pontefice. Il potente ceto aristocratico è trasformato in nobiltà cortigiana ed è attirato a Roma, sotto il più diretto controllo della corte papale, allettato da grandi concessioni sul piano economico, dal prestigio e dal privilegio sociale invischiato in una rete di politica matrimoniale che salda i suoi interessi con quelli dell’aristocrazia papale e cardinalizia, ma sostanzialmente privato di un potere alternativo o contrapposto al potere statale. Un disegno analogo va fatto per il rapporto tra il potere centrale e le autonomie cittadine. Per un verso vi sono concessioni di autonomia finanziaria ed organizzativa, finalizzata a rendere più duratura e solida la sottomissione della classe dirigente cittadina, per l’altro verso lo Stato accentua il suo controllo e la sua presenza attraverso le funzioni svolte dai governatori e dai podestà in quei settori della vita sociale che sono essenziali per la prosecuzione del processo di consolidamento del potere: il governo locale, l’amministrazione della giustizia, la struttura fiscale. “Da una parte gli statuti preesistenti sono sottoposti all’approvazione delle autorità statali, centrali o periferiche, il cui assenso diviene vincolante anche per l’emanazione di nuove normative statutarie; dall’altra le riforme sono introdotte a partire dai primi decenni del Cinquecento, mediante costituzioni apostoliche che innovano, senza l’impaccio di consultazioni preliminari, le norme statutarie. Ma l’aspetto più importante è il formarsi di una nuova piattaforma legislativa di norme generali nel campo della giustizia penale, della giustizia civile e del diritto commerciale, piattaforma che fa cadere in desuetudine senza ricorrere ad una abolizione formale le norme statutarie. E l’allargarsi graduale dell’intervento dello Stato nel monopolio della forza e della conservazione dell’ordine pubblico, nella politica fiscale e in quella annonaria, nell’urbanistica, nello sviluppo della rete stradale etc. che si consolida poco a poco in nuovo ordinamento, dai lineamenti ancora confusi ma in cui il vecchio diritto municipale soltanto di luce riflessa.” . Se le linee generali di questo processo di espropriazione del potere dei baroni e delle città sono sufficientemente definite, quello che il Prodi sollecita è una serie di indagini particolari per verificare come e in quale momento il processo si sia avviato localmente, attraverso quali vicende sia passato, quali ne siano stati gli esiti per l’assetto dei nuovi equilibri all’interno dei ceti dirigenti nell’apparato dello Stato e nell’amministrazione delle città. E intanto, per parte sua, dice che: “l’impressione è che questo processo si sia avviato, che lo sviluppo del centralismo politico e amministrativo si sia accompagnato allo sforzo di costruire un ordinamento comune in parallelo o in anticipo con quanto avveniva contemporaneamente negli altri Stati europei. Punto centrale è l’espressione con la bolla di Sisto IV Etsi de cunctorum del 30 maggio 1478, a tutto lo Stato pontificio delle costituzioni emanate dal Cardinale Egidio Albornoz nel 1357 per la Marca Anconitana.... Con Sisto V appare consolidata, almeno per quanto riguarda il diritto penale, una gerarchia precisa di norme: costituzioni pontificie, statuti approvati dai pontefici da Paolo IV in poi (si è visto il senso di questa approvazione a proposito degli statuti di Roma): ‘quod si ea valide non extiterint, debeant judicare, procedere, absolvere, condemnare, et sententias ferre juxta tenorem constitutionum Provinciae Marchiae...’: soltanto nei rimanenti casi osservino i bandi e gli editti pubblicati localmente”.... Anche per quanto riguarda i bandi e gli editti... Si passa dalla fase dell’emanazione di bandi in modo occasionale nella prima parte del periodo qui esaminato da parte delle autorità periferiche (legati, vicelegati e governatori) sino alla formazione, verso la metà del Cinquecento, dei “bandi generali” in cui il nuovo legato e governatore riepilogava le principali norme di ordine pubblico in modo quasi programmatico, sino all’emanazione nel 1599 del bando che il cardinale nepote Aldobrandini fece pubblicare per tutto lo Stato (e che costituì poi il modello per tutto il secolo successivo) per garantire l’uniformità e la chiarezza delle norme: ‘essendo molto ragionevole, che i popoli sudditi dello stesso Principe si governino con leggi quanto più conformi, che si può, ed essendosi anco trovato che molti dal tempo si sono ridotti superflui, e molti altri non sufficienti per provvedere alle cose che occorrono’. A questo punto si può affermare che queste indagini particolari divengono decisive non solo per differenziare eventualmente i processi riguardanti la storia delle diverse città, ma prima ancora per valutare nel complesso le contrastanti conclusioni cui giungono ricerche quali quella di Caravale e Caracciolo, ma c’è una lunga e concorde tradizione che la precede, e ricerche come quella del Prodi appena riferita o di Jean Delumeau, al quale il Prodi fa spesso riferimento, ricerca sull’economia e la società a Roma nella seconda metà del XVI secolo. Ecco dunque la centralità di studi e ricerche sulle carte degli archivi storici locali, carte che possono consentire verifiche sull’effettivo funzionamento delle istituzioni di governo, di quelle giudiziarie, di quelle fiscali, così da poter sostenere eventuali conclusioni non solo con il testo di una norma generale e valida per ogni situazione (una costituzione apostolica che aveva vigore per tutto lo Stato o un bando generale che riguardava l’intera provincia) ma basandosi su di una norma specifica, quale quella contenuta in uno statuto comunale e, ancora meglio, sui reali comportamenti prodotti da quella norma specifica che possiamo conoscere attraverso le carte dei consigli generali e particolari, gli atti dei priori, le carte del camerlengo, i fascicoli del giudice. In questa luce, a mio parere, si può comprendere il valore di lavori di analisi e di pubblicazioni di testi di statuti, com’è il caso del volume curato dal Ruspantini per la città di Corneto. Tarquinia è ricca di storia e, per sua fortuna, è anche ricca di documenti che potranno consentire approfondite analisi sulla vita delle sue istituzioni, sull’organizzazione della sua popolazione, sulle manifestazioni della religiosità, sui comportamenti e sui costumi dei suoi cittadini, sulle strutture economiche e sulla realtà aspra delle condizioni del lavoro e dei lavoratori. Penso non solo ai fondi conservati in archivi pubblici ma alle carte che giacciono presso le istituzioni ecclesiastiche, locali e romane, a quelle ancora in possesso di singole famiglie ed a quelle, per esempio già ordinate e sistemate dalla Società Tarquiniense d’Arte e Storia. Rispetto a tutto questo materiale, per le vicende di Tarquinia in età moderna, il volume degli statuti è una prima, importante chiave di lettura. Abbiamo una ipotesi di organizzazione amministrativa, giudiziaria, fiscale, economica che dovremo verificare ma che ci consentirà senza dubbio di muovere i primi passi e che ci aiuterà certamente a capire meglio, a collocare con maggiore cura le fasi della vita della città nel quadro della sua crescita e dei suoi rapporti con altre città, con le istituzioni superiori del governo statale ed ecclesiastico. C’è un capitolo della “Introduzione” del Ruspantini al testo latino e alla traduzione italiana dello statuto che rappresenta una importante innovazione nel panorama degli analoghi lavori introduttivi che accompagnano gli statuti. E’ il VII, che riguarda “Gli statuti comunali di Corneto del sec. XVI nell’ambito della produzione statutaria dei comuni del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia con riguardo agli organi di Governo” . L’obiettivo è quello di ricondurre lo statuto di Tarquinia, le sue modifiche, la sua pubblicazione alle vicende che caratterizzarono il dominio pontificio nel periodo successivo all’applicazione delle Costituzioni Egidiane all’intero territorio dello Stato. Lo statuto è parte della storia della città, ma questa non vive in un deserto: è mossa e condizionata dal tipo di organizzazione istituzionale, economica, ambientale, culturale, religiosa che caratterizza un territorio più o meno ampio, il territorio che gravita sulla città e il territorio al quale la città si volge per collocare i suoi prodotti, per pagare i suoi tributi, per presentare le sue querele o i suoi ricorsi. Tarquinia ha un’area, più ampia del suo territorio comunale, che gravita sulla città e che dalla città riceve norme o direttive economiche. Tarquinia è però in rapporto con Civitavecchia per i commerci, con Viterbo per i problemi di governo, con Montefiascone per alcune questioni religiose, con Roma per tutte queste cose insieme. La vita di Tarquinia risente nel bene e nel male l’influenza di quelle città con le quali ha più frequenti rapporti. Il suo statuto riflette questioni e provvedimenti che non riguardano solo la città, come quando ad esempio quando accenna alle tasse che dovevano essere riscosse dalla comunità per conto dello Stato, come quando tocca il diritto del rettore e governatore della Provincia del Patrimonio a nominare il podestà per esercitare per suo tramite un controllo sull’attività svolta dai magistrati e dai consigli della città. Il Ruspantini sviluppa in modo interessante questi collegamenti e va ancora più avanti quando esamina comparativamente gli statuti di Viterbo, di Tuscania, di Orvieto, di Orte, di Civita Castellana, di Bagnoregio, di Castro e di Ronciglione. “Gli Statuti esaminati coprono dunque un arco di tempo di quattro secoli, dal XIII al XVI. La distanza delle date di compilazione non ci è sembrata tuttavia di ostacolo ad un raffronto fra i testi, dal momento che gli Statuti a noi pervenuti in redazioni tarde risentono inevitabilmente di compilazioni precedenti risalenti solitamente al secolo XIII, e delle quali non rappresentano il più delle volte che una riedizione, riveduta, corretta e ampliata. Così è anche per lo Statuto di Corneto, che, seppure ci è giunto in una redazione della prima metà del secolo XVI, ha, come si è visto, precedenti storici risalenti sicuramente ai primi anni del sec. XIII e forse alla prima metà del sec. XII..... Nella comparazione dei testi dei vari Statuti ci siamo soffermati in particolare sulla materia del diritto pubblico, ossia sulla struttura del regimen comunale, con la previsione degli organi costituzionali del Comune e del loro funzionamento, materia solitamente contenuta nel primo libro degli Statuti: così come ci siamo soffermati ad illustrare il primo libro degli Statuti cornetani, che tale materia prevedono. D’altronde è proprio nella normativa riguardante gli organi costituzionali del Comune che le affinità - e le differenze - si fanno più palesi, e che più puntuale si fa il controllo dell’autorità centrale, attenta a non permettere abusi o atti contrari agli interessi della Chiesa: tale controllo si esplicava in particolare nei riguardi del Podestà, supremo magistrato del Comune” . La conclusione dell’esame comparativo è la verifica delle numerose e sostanziali affinità tra i diversi statuti: identica la ripartizione in cinque libri che trattano rispettivamente delle magistrature; delle cause civili; delle cause penali o criminali, come si diceva un tempo; dei danni dati, cioè i danni provocati alle attività agricole; degli straordinari, cioè tutto ciò che riguardava la vita quotidiana e i doveri ed i diritti di ciascuno. Identiche le magistrature, la loro durata, le loro funzioni, il controllo esercitato sulle loro attività. Un complesso di Statuti che non risente affatto nemmeno di un certo numero di differenze ambientali e storiche presenti tra la Tuscia longobarda e la Tuscia romana. L’elemento unificante, afferma il Ruspantini, è proprio l’intervento costante dell’autorità centrale: “Il fatto che proprio nel costante intervento dell’autorità centrale debba ravvisarsi l’elemento unificante di cui dicevamo ci sembra convalidato dalla circostanza che caratteri comuni si riscontrano tra Statuti di regioni diverse del Patrimonio di Tuscia, due delle quali, già appartenute alla Tuscia longobarda, avevano per capoluogo Orvieto e Viterbo, e le rimanenti due, già facenti parte della Tuscia romana, si estendevano lungo il Tevere con la città di Orte e sul mare con Civitavecchia, poco più a nord della quale, ma nel territorio dell’antica Tuscia longobarda, era Corneto. Se dunque tale influenza della Chiesa si riscontra già prima della pubblicazione delle Costituzioni Egidiane, dopo di queste diviene elemento fondamentale di tutta la normativa statutaria: ma è proprio tale costruita uniformità che segna il momento del declino delle autonomie comunali. Gli stessi Statuti sottoposti a sempre più pressanti limiti e condizionamenti, perdono il valore di vessillo di libertà e divengono uno strumento di cui l’autorità centrale si serve per esercitare sempre più capillarmente il proprio controllo sui residui delle antiche autonomie comunali.... Riteniamo dunque che, nell’ambito dei Comuni liberi del Patrimonio di Tuscia il momento unificante della produzione statutaria sia da ricercare nella stessa genesi storica della provincia, e nell’intervento papale nella vita dei Comuni stessi, elementi questi che possono a parer nostro render legittimo il pensare al Patrimonio di Tuscia come a una grande area statutaria, certo non avulsa dal contesto delle vicine esperienze di Roma e delle province umbre e toscane, ma senza dubbio configurantesi con caratteri propri e definiti: a quest’area appartiene la storia comunale di Corneto, ed il suo Statuto.” In tal modo il Ruspantini con il suo lavoro, fornisce una prima risposta valida non per la sola Tarquinia ma per l’area degli statuti esaminati, alla questione posta da Caravale-Caracciolo e da Prodi e Delumeau: nel momento della promulgazione di questi statuti, tra la metà del XV e la fine del XVI secolo, al particolarismo municipale si è sostituito il centralismo dello Stato moderno, anche nello Stato pontificio, con i suoi controlli sull’attività amministrativa, giudiziaria e fiscale. Rimane da vedere se e in che misura questo centralismo, questa presenza sempre più consistente e concreta di un’autorità centrale fosse avvertita anche nelle altre province, anche in quelle più lontane da Roma. Tutto da verificare è il diverso trattamento che può essere stato applicato a quelle comunità ove restava attiva una presenza baronale, sia laica che ecclesiastica; l’impressione che si trae dalle prime indagini è che anche lì la presenza dell’autorità del sovrano pontefice e dei suoi rappresentanti nel governo delle province fosse consistente. Gli statuti in quei casi, sono concessi o approvati dall’autorità baronale del luogo: ma la concessione e l’approvazione appaiono più un omaggio alla forma che una manifestazione di effettivo potere. E sino a quando non avremo potuto condurre non una, ma una serie di ricerche su quegli atti che contengono l’applicazione delle norme di quegli statuti non saremo in grado di arrivare più in là con le nostre conclusioni. La strada aperta dal Ruspantini e da tutti quegli appassionati di memorie storiche locali che si sono dedicati alla pubblicazione degli statuti, quella strada ora resa ancor più praticabile dall’ordinamento e dall’inventariazione di un numero sempre più cospicuo di archivi locali, quella strada ora attende nuovi appassionati e nuovi studiosi che si propongano di percorrerla per offrire a tutti noi nuove conoscenze e per dare alla ricerca storica nuove interpretazioni, nuovi problemi, nuovi traguardi da raggiungere. Luciano Osbat IL DIALETTO CORNETANO Buona parte delle lingue europee s’innesta nel comune ceppo dell’idioma latino. Chi più, chi meno. Le cause storiche sono da ricercare in quella legge inflessibile che Roma imponeva ai vinti riguardo alla conoscenza e all’uso della propria lingua. Dopo secoli di dominio, con la caduta dell’Impero Romano, si risvegliarono nei popoli sottomessi quei mai sopiti sentimenti di autonomia e di ritorno alle tradizioni. Cosicché ogni popolo riscoprì il valore delle rispettive culture, forgiando un linguaggio che rispondesse di più alle ancestrali origini, senza rinnegare, nello stesso tempo, quelle conquiste lessicali e grammaticali che erano oramai entrate nell’uso comune del discorrere e dello scrivere. In Italia avvenne press’a poco la stessa cosa. L’antica lingua romana, nobile ed aulica, assorbita lentamente da popolazioni incolte, finì col divenire prima volgare, poi dialetto. E là dove s’erano insediati greci, etruschi, normanni, liguri, franchi, bizantini, arabi, lanzichenecchi e frisoni, presero corpo quelle regioni che hanno costruito, più che steccati etnici, veri e propri tessuti linguistici. Fra questi va annoverato il dialetto cornetano che del latino ha conservato la costruzione sintattica, la prosodia e le espressioni più comuni del periodare; per cui è ancora rintracciabile, specie nell’eloquio, una qual certa “latinitas” che ci proviene da quella lingua arcaica per discendenza più che per l’acquisizione di studio. Se escludiamo certe espressioni ed alcuni vocaboli, incerti come origine e misteriosi come etimologia, il dialetto cornetano non ha inflessioni regionali rimarchevoli, essendo maturato fra la Toscana e Roma. Per cui, chi lo ascolta, può scambiarlo nel peggiore dei casi per romanesco, nel migliore per toscano; ma di un toscano nient’affatto lezioso, senza aspirazioni di consonanti di sorta, senza inflessioni falsamente musicali; e di un romanesco meno accentuato e soprattutto meno spaccone. Il dialetto cornetano, a volte, è liberamente greve, specie in bocca a chi vive e opera nelle campagne, essendo mancati, fino a qualche decina di anni fa, rapporti col centro abitato: a causa anche del grave stato di analfabetismo che in passato coprì zone le più impervie e le più lontane del vasto territorio, un tempo Patrimonio di San Pietro e, fino al 1870, Stato della Chiesa. Ma ancor prima di questo definitivo passaggio, diciamo pure, di dominio, avvenne che dopo il 1860, quando a Castelfidardo il generale dell’esercito piemontese Cialdini sconfisse le truppe pontificie, promuovendo frettolosamente l’annessione plebiscitaria delle Marche al Regno d’Italia, i buoni marchigiani, un po' per bisogno di lavoro un po' per non venire usati come carne da cannone dai nuovi conquistatori, presero alla chetichella la via dell’esilio e si fermarono in Maremma, dando inizio ad una vera e propria diaspora; cosicché bonificarono in primo luogo questa nostra terra dando vita alle campagne del tutto spopolate e tristemente note per l’insalubrità dell’aria. E accostandosi col più assoluto rispetto alle tradizioni locali, pur mantenendo il loro costume, le loro abitudini e il loro eloquio, si distinsero per l’uso che essi facevano dell’articolo “lu” davanti a tutti i nomi maschili singolari (come lu pane, lu sgriciolo, lu vino ecc.) e della lettera B, deformata in V, leggermente aspirata, così che la bocca diventa la vocca, alla maniera dei napoletani dove la Beta era divenuta Vita come nella moderna lingua greca. Siccome i cornetani, almeno in passato, non avevano mai saputo assuefarsi ad una vita stanziale sui campi, preferendo rientrare, ancor prima che calasse il sole, entro le proprie mura, la colonia marchigiana famigliarizzò con se stessa; cosicché il proprio dialetto e la propria pronuncia rimasero come segno di distinzione e di riconoscimento fra la popolazione indigena. Né le nuove generazioni rurali hanno assorbito e conservato quelle usanze e quel linguaggio tipico del maceratese, grazie alla diffusione dei mezzi di apprendimento e degli altri mezzi di comunicazione. In questi ultimi tempi, poi, il vernacolo ha subito qualche evoluzione (od involuzione, a seconda dei punti di vista) per l’obbligatorietà dell’istruzione che se da un lato è servita a diffondere una certa conoscenza della cultura e a diradare il buio dell’ignoranza, dall’altro ha danneggiato e ucciso un patrimonio di tradizioni che gli proveniva dalle antiche invasioni e scorrerie di popoli barbarici che hanno lasciato tracce, oltre che nel sangue, nei modi di vita, nel costume, nell’architettura e nel linguaggio. Infatti esistono qua e là antiche espressioni popolari come “magna e beve peggio de ‘n catalano”, oppure “cocciuto come ‘n tedesco” oppure “slavato come ‘l grano del sepolcro”, detti che rivelano appunto la conoscenza di usi e costumi di gente straniera che ha sostato e trascorso qualche tempo fra le nostre mura. Ma ad influire maggiormente nel dialetto cornetano, sono stati i francesi, sbarcati a Civitavecchia nel 1820, per presidiare lo Stato della Chiesa e quindi sottrarlo alle mire espansionistiche del regno sabaudo che, nel 1870, credette di por termine a tante divisioni, portando il nostro paese a quell’unità nazionale e territoriale che, nonostante ogni sforzo, non è stata ancora raggiunta in senso vero e proprio. Nei cinquant’anni di presidio francese, il gergo andò via via arricchendosi di parole nuove, adattate sì alla nostra pronunzia ma inevitabilmente storpiate da un’emissione errata. A tal proposito si racconta che la guarnigione francese, appena sbarcata nel porto di Civitavecchia, prendesse stanza a Corneto, scegliendo come luogo di dimora quel sito compreso fra il Convento di San Francesco e la Porta Clementina, conosciuto ancora sotto il nome di “Cancellone”. Chiuso il quale, la guarnigione si sentiva ben protetta, avendo alle spalle la parte più impervia delle mura castellane. Collocatevi le soldataglie e appostati i cannoni in quella parte che è la più alta del paese, il comandante della guarnigione invitò a visitare l’accampamento i maggiorenti della città per render edotti i cornetani della qualità e quantità delle armi al fine di scoraggiare qualche testa calda verso un tentativo di rivolta. Tale ricevimento dovette avvenire nell’ora in cui i campagnoli rientravano nell’abitato ancor prima che venissero chiuse, ad un’ora di notte, le porte di accesso. Uno di questi cercò di curiosare all’interno dell’acquartieramento. Ma si vide impedito dalla maniera brusca di un soldato francese che gli gridò sul muso: - Avez-vous la permission? - dato che per essere ammesso, occorreva un regolare lasciapassare. A tale ingiunzione, del resto incomprensibile, quel buon uomo replicò in dialetto: - Che vôe? - per sapere cosa intendesse quel soldato. Ma questi, senza frapporre indugi, gli replicò ancora più decisamente: - Avez-vous la permission? Al che il campagnolo, alzando le mani e le spalle in segno di stizza e disprezzo, se ne tornò sui suoi passi, bofonchiando: - Un córpo a te e Napole! - convinto che quel soldato, per essere incomprensibile, non poteva essere che napoletano. Riprendendo il discorso interrotto da questo aneddoto, nel dialetto cornetano si usa sempre anteporre a tutti i nomi comuni al plurale, sia maschili che femminili, l’articolo “le”, alla maniera propria dei francesi che hanno, al plurale, di tutti i nomi comuni, l’unico articolo determinativo “les”. Tanto che per questa nostra stranezza vernacola, è stato coniato un detto che è come un passe par tout per la conoscenza del nostro dialetto. Esso dice: “Le carabbignere co’ le baffe le faciole co’le sasse”. che vorrebbe significare: “I carabinieri con i baffi i fagioli con i sassi”. Cosicché tutti i nomi maschili al plurale, invece dell’articolo determinativo “i” oppure “gli”, si fanno precedere dall’articolo “le” o “l” apostrofato, mentre la desinenza del sostantivo diviene “e” anziché “i”. Esempio: “le bicchiere” in luogo de “i bicchieri” “l’occhie” in luogo “gli occhi” L’articolo determinativo “il” diventa a volte “er” come nella forma romanesca: oppure “el” quasi una forma spagnola: o addirittura ‘l”. Esempio: el sale in luogo de il sale ‘l mi pa’ in luogo de il pappone. er pappone in luogo de il pappone. Gli articoli indeterminativi “uno e una” vengono usati in forma contratta, vale a dire si sopprime la vocale “u” per diventare, come nel romanesco, ‘’no” oppure “na”, In quest’ultimo caso, “na” viene anche apostrofata. Esempio ho fatto ‘no strappo ho comprato ‘na matita ho pescato n’anguilla Davanti alle parole maschili che cominciano per “z” o per “s” impura, si usa l’articolo indeterminativo un, anziché uno, oppure ‘n. Esempio: un zampetto o ’n zampetto un zoccolo o ‘n zoccolo. Tutti i nomi comuni maschili, nella forma plurale, anziché avere la desinenza “i”, diventano, come sopra già detto, tutti femminili. Per cui. i palazzi diventano le palazze i cavalli diventano le cavalle i tetti diventano le tette, e così via. Il nome comune “mano” rimane invariato al plurale, per cui si ha: la mano e le mano. Il nome “grotta” diventa “la grotte” e al plurale “le grotti”. Infine i nomi (e tutte le altre parole) che hanno la lettera “l” davanti ad altre consonanti, come selce, palmo, palma, salto, pulce, dolce ecc. diventano: sercio, parmo, parma, sarto, purce o purcia, dorce ecc. ecc. ********************************************************************************* ************ DI UNA LETTERA RITROVATA (della quale però si ignora lo scrivente ed il destinatario) ovvero I PROMESSI SPOSI DI CORNETO Caro Alessandro, affinché dal mio prolungato silenzio non prendiate sospetto di un raffreddamento della mia amicizia, voglio significarvi che sono stato lontano da Roma ed ora, appena al mio ritorno, vi scrivo per raccontarvi una storia di cui sono venuto a conoscenza proprio in conseguenza del mio viaggio. Gli avvenimenti che vi riferirò sono avvenuti a Corneto, un paesello arroccato in cima a un colle, appena ai confini della Maremma, a circa dodici miglia da Civitavecchia e a una sessantina da Roma. Un paese di belle strade e case medioevali e dove ogni tanto vanno trovando sarcofaghi più antichi di quelli romani e che si dice appartengano a una popolazione formata dagli etruschi. Ma non sono qui a parlarvi di questi antichi abitatori del Lazio, bensì di una vicenda accaduta appena qualche mese fa. Voi sapete la mia passione per lo scrivere: ho già pubblicato (a mie spese s’intende), alcuni canti epitalamici che hanno riscosso qualche successo, e mi sembra che anche voi abbiate una qualche predilezione per la letteratura. La zia Margherita infatti, mi ha detto che avete composto dei commoventissimi poemetti in versi che hanno ottenuto molte approvazioni nei salotti di Milano. Orbene dalla vicenda che vi esporrò vorrei trarre una trama per un romanzetto da scrivere nelle mie ore dedicate alla letteratura, appunto, e che il mio lavoro spesso abbonda in lasciarmi. Ma è ora di tornare all’argomento di questa lettera che spero servirà almeno a divertirvi e a farvi conoscere qualche aspetto della vita della nostra regione, e sulla cui trasformazione in romanzo vorrò poi sentire il vostro parere, dato che me ne vengono molti dubbi per la frivolezza del suo contenuto. Nella Città Eterna, mi erano già arrivate le voci di un certo accadimento il cui protagonista, Filippo, è il componente, forse un po' imbecille, di una nobile famiglia appunto di Corneto, e che io indicherò con le sole iniziali B.F. Dato il loro censo hanno amicizie anche presso la Reverenda Camera Apostolica e ciò, aggiunto alla protezione di uno zio Cardinale e di una sorella, Superiora in un Convento di Viterbo, ha avuto molto peso nella vicenda che sto per narrarvi. In questo paese (Corneto) non esiste neppure una locanda e ho dovuto cercare ospitalità presso una famiglia (che si picca anch’essa di una certa nobiltà) e alla quale mi sono fatto presentare per lettera da un mio parente piuttosto noto per una sua aureola di giacobinismo, il che ha volto a mio favore le simpatie del capo di casa che è noto rivale della famiglia coinvolta nel delizioso “affaire” di cui vi parlerò. Per suo tramite sono diventato amico del segretario del Notaro della Curia Vescovile per cui, attraverso le sue chiacchiere, è come se avessi assistito a tutti gli interrogatori e, grazie anche al fatto che arrotonda il suo stipendio (ben magro!) tenendo in ordine la corrispondenza di Francesco, il fratello maggiore di Filippo, e capo riconosciuto di casa B.F., ho potuto raccogliere una serie di informazioni che mi hanno messo in condizione di tentare una ricostruzione dei fatti che ritengo assai vicina alla realtà. Si tratta nientemeno che di un matrimonio clandestino, tentato soltanto per alcuni, del tutto valido per altri. Forse saprete che un matrimonio clandestino ha luogo quando due persone, presentatesi con dei testimoni davanti ad un sacerdote, pronunciano ambedue, tenendosi per mano, le frasi “Questa è mia moglie” e “Questo è mio marito”. La Santa Romana Chiesa che condanna e punisce una tale forma di matrimonio, è dovuta intervenire più volte (vedi il Concilio Tridentino), dato che ogni tanto, qualche buon cattolico, anche di rango molto elevato, viene in esso coinvolto. Vorrei qui ricordarvi uno dei più famosi, quello che il 26 marzo 1729 avvenne tra Alessandro, il rampollo della nobile famiglia degli Orsini, e Anna Confiantini che, in piena notte e con la scusa di un malato, si presentarono al Parroco di S. Lorenzo in Lucina a Roma, e che ho trovato elencato insieme a tanti altri nel promemoria di uno dei legali del processo. Ed ora, esaurite le premesse, pur necessarie, eccoci all’avvenimento vero e proprio, una vicenda che assume toni al confine tra il boccaccesco, il comico e il tragico, a seconda dell’angolo dal quale la si giudichi ed alla quale vorrei attribuire il seguente titolo (che spero possa piacervi): “I PROMESSI SPOSI DI CORNETO” La sera del sabato 7 luglio 1804 è come tante altre che l’hanno preceduta in questa calda estate: il sole si è già coricato e con lui quasi tutti gli abitanti di Corneto in vista del lavoro che gli aspetta l’indomani. La mietitura è cominciata e chi va a lavorare in campagna segue l’orario del sole, levata e tramonto. C’è una bella luce lunare che rischiara le vie e le piazze ormai deserte. Fa caldo e qualcuno prima d’andare a letto, indugia ancora nella speranza di un alito di fresco che stemperi l’afa. La Signora Maria Antonia A., cerca un po' di refrigerio appoggiata al davanzale della finestra, dietro le persiane chiuse a libretto per isolare l’intimità della sua camera da letto dalla grossolonità della piazza che si apre sotto di lei. D’un tratto la sua attenzione viene attirata da strani rumori che le facciate delle case riverberano nel silenzio della notte. Un uomo che dall’ombra di un vicolo si è immerso nella lunarità della piazza, sta recitando un monologo di frasi smozzicate, inintellegibili per la signora Maria Antonia, ma i gesti che le accompagnano sono inequivocabili. “.... Viddi passare il Signor Filippo B.F., e quando fu vicino al Portone dell’Ergastolo si rivolse per ritornare indiestro, stette alquanto sospeso, rivolgendosi alzando gli occhi, e le mani al Cielo sospirò, e poi proseguì il suo cammino verso la Piazza. Avendo veduto fare simili atti, dissi fra me medesima: gran cosa bisogna che gli sia accaduta”. Scorrendo la denuncia che il Canonico Don Sebastiano Forcella, Parroco di S. Giovanni Gerosolomitano diligentemente presenta alla Curia Vescovile il giorno dopo, incominciamo ad assistere al dipanarsi del filo degli avvenimenti. Sono le due ore di notte, sempre del giorno 7, quando D. Sebastiano torna a casa. La vecchia madre, che con lui convive, gli dice che già due volte sono venuti a cercarlo per un infermo gravissimo in casa di Domenico A. Senza neanche cambiarsi, il Curato torna immediatamente ad uscire, ancora vestito del suo “abito di campagna” e si precipita in casa di quello che crede un suo fedele parrocchiano, e dove, a sua insaputa, è in attesa anche Filippo B.F. che la signora Maria Antonia A. ha visto comportarsi in quel modo tanto agitato e pittoresco e che poi descriverà così bene nella sua deposizione. Ignaro della procella che si addensa sulla sua testa, d. Sebastiano bussa alla porta di Domenico A. che gli viene immediatamente aperta dal padrone di casa. - Dov’è l’infermo? - Gli infermi sono di sopra Il parroco, sempre di fretta, si avvia al piano superiore senza essersi minimamente allarmato per quel plurale rivelatore. In cima alle scale si apre una stanzetta nella quale ci sono quattro persone, l’identità di una delle quali lo fa sobbalzare di immediata apprensione. Il sospetto si fa certezza quando dopo un lungo momento di silenzio e di imbarazzo che sembra aver contagiato i presenti, si scatena il finimondo e tutto sembra succedere contemporaneamente. Uno dei presenti grida: - Che aspettate, datevi la mano!Filippo allora stende la mano verso una donna nella quale il curato ha riconosciuto Agata B. e di cui gli è nota “l’amicizia antecedente” per il predetto. Giura il degno sacerdote che, temendo di cooperare all’attentato matrimonio, in quell’istante volta la faccia e si slancia giù per le scale, senza poter vedere se il “toccamento” tra i due sia stato completato. Quello di cui egli è sicuro è che nessuno dei due “proferì parola”. Filippo lo segue ed è subito in strada anche lui. In casa di Domenico A. rimangono la promessa sposa, ormai chiaramente di un “attentato matrimonio clandestino” si tratta, ed i mancati testimoni. La promessa sposa, anzitutto, della quale ancora non abbiamo fatto conoscenza: Agata B. di anni trentuno. Fa la “Caporala” per la casa B.F. in campagna, “trovando le donne per fare i lavori”. Una donna molto volitiva “accorta e scaltra nei suoi affari” e piuttosto chiacchierata, se si dà ascolto ai testimoni dell’accusa che depongono sui suoi rapporti piuttosto intimi con uomini del paese che poi si sono ben guardati dallo sposarla. Per di più, secondo altre testimonianze per l’accusa, essa viene da una famiglia tristemente nota in quanto una sua zia fu coinvolta in un fatto di sangue concluso con “sedici o diciassette cortellate”, sembra per motivi di gelosia, e un suo cognato sarebbe stato giustiziato a Roma per “Crassazione”. Gli altri presenti alla scena sono oltre il padrone di casa Domenico A., la di lui moglie Maria Domenica, sorella di Agata, e Giovanni S., di lei cognato e che lì si trova per essere andato a ritirare “certi sacchi e le bisacce che prima ci avevo lasciato”. Dal giorno seguente, domenica otto luglio, la macchina del “Fisco” si mette in moto, non solo alla ricerca della verità dei fatti e per fare giustizia del delitto di “attentato matrimonio clandestino”, palesato dall’accennata denuncia di don Sebastiano Forcella, ma certamente anche sollecitata dai parenti di Filippo che si troverebbero gravemente colpiti e offesi dall’intrusione nella famiglia e nell’asse ereditario di una donna che, dal loro punto di vista, non è altro che una scaltra avventuriera. Tant’è che le testimonianze prendono subito corpo a favore dei dubbi e della mancanza di volontà di Filippo ad accondiscendere di sua libera scelta a un simile matrimonio. In prima linea quella che la Signora Maria Antonia A. rende lo stesso otto luglio su quanto essa ha visto dalla sua finestra (dando così una grande prova di civico senso che grandemente la onora). La tesi della famiglia di Filippo è che quel matrimonio clandestino, fatto a quel modo, non può essere valido e che si debba dichiararne la nullità a tutti gli effetti; Agata e i suoi parenti chiaramente sostengono il contrario. Comincia così la causa per l’annullamento del “matrimonio cornetano” che vede schierati su campi opposti l’intera popolazione del paese. Avanti l’Illustrissimo e Reverendissimo Signor Canonico D. Serafino Rocca, Pro Vicario Generale di Corneto e reggitore della causa suddetta, inizia la sfilata dei testimoni che dichiarano: a - Che Filippo B.F. è “uomo di pochissimo spirito” (per non dire poco intelligente) b - Che hanno sentito dire che Agata B. ha avuto per parente una zia immischiata in un assassinio e che un cognato è stato giustiziato a Roma. Asseriscono inoltre che è una donna “accorta e molto scaltra nei suoi affari”. c - Che hanno sentito dire che ha avuto rapporti di conoscenza e d’amore con alcuni uomini del paese con i quali è stata vista in luoghi solitari e che poi non l’hanno sposata. A queste vanno aggiunte d - La testimonianza di Maria Antonia A. sul comportamento esteriore di Filippo B.F. che chiaramente quella sera palesava la sua interiore decisione. e - La testimonianza di un frate Minore del Convento Francescano di questa città al quale lo stesso Filippo, due giorni dopo il fatto, apparve all’esterno “angustiato ed afflitto”, confidandogli poi che sino all’ultimo momento, quella fatidica sera in casa di Domenico A., aveva sperato che il Parroco Forcella non sarebbe venuto e che ivi si era recato non avendo il coraggio di opporre rifiuto alle richieste di Agata che ve lo aveva sollecitato. f - La testimonianza del Rev. Sig. Canonico D. Gaetano Cesarej che riferisce di aver saputo dalla Signora Sinfarosa B. quanto ad essa aveva confidato in una conversazione, il mattino dell’8 luglio, Giovanni S., presente agli avvenimenti svoltisi in casa di Domenico A.. g - La testimonianza della Signora Sinfarosa B. che conferma quanto sopra, per averlo sentito dire da Giovanni S. al quale, su istigazione di D. Cesarej, si era rivolta mentre passava davanti alla di lei abitazione, recandosi ad abbeverare il somaro. Chiarite in tal modo (e vi prego di notare in qual modo), le premesse del fatto e alcune delle circostanze accessorie, la Corte si immege nell’analisi dei fatti accaduti la sera del 7 luglio, basandosi finalmente sulle testimonianze dei presenti. Quello che ha detto il Parroco è già noto, ed è bene chiarire sin d’ora che la sua testimonianza è il fondamento sul quale le decisioni della Corte si baseranno, insieme con quanto dirà Filippo B.F., sugli interrogatori del quale peseranno sempre più l’influenza e i suggerimenti dei parenti. Dalla prima testimonianza di Filippo nasce la storia dei suoi rapporti con Agata che risalgono a circa tredici, quattordici anni prima, non lo ricorda bene. Invitato a dire di che tipo fosse l’amicizia che lo aveva legato alla donna: - Amicizia particolare ed intrinseca che ha consistito nell’aver avuto con la stessa commercio carnale, circa trenta o quaranta volte... (e qui si attarda a descrivere i vari modi e dettagli di tale commercio)... mentre da due anni in qua circa, io non l’ho più carnalmente conosciuta. Interrogato a dire se egli avesse fatto promesse di matrimonio ad Agata: - A dire la verità, diverse volte.... Interrogato a dire se in seguito alle promesse di cui sopra, abbia fatto dei passi per mantenere la parola data: - Circa quindici giorni prima del 7 luglio corrente, mi disse Agata B. essergli stato detto che noi potevamo sposarci in un sito da combinare alla presenza di due Testimoni con chiamare il Curato sotto qualche pretesto, acciocché vi fosse stata la presenza del medesimo. Io risposi ad Agata che anche a me, era stata detta la stessa cosa, ed incombenzai la stessa Agata a concertare il tutto, e che poi mi avrebbe avvisato. Dopo aver raccontato di un certo turbamento che lo prese quando fu avvisato di andare per quella sera in casa di Domenico A., Filippo si addentra in una confusa descrizione: - Dopo aver avuto il Curato un momento di sorpresa avendo conosciuto di essere stato ingannato col pretesto di un ammalato, cominciò a rimproverarci tanto più che Domenico A. e Giovanni S. e Maria Domenica A., che non ho precisa memoria di chi loro fosse stato, sebbene uno di essi certamente, disse al Curato “Questi si vonno sposare”. Rispose il Curato che non poteva farlo, che era peccato mortale e che lui non avrebbe mai prestato il consenso.... Allora Maria Domenica A., se non erro, ma certamente fu essa, nel vedere che niente si concludeva, disse “Che aspettate, datevi la mano”. Allora io mi trovai ugualmente confuso e feci atto di stendere la mano, ma io non posso asserire di averla toccata ad Agata perché in verità io ero in uno stato che per il turbamento non capivo più niente, quello però che è certo che io nell’atto sopraccennato e in tutto il tempo che vi fu presente il Curato, non proferii la minima parola e neppure in tutto il tempo sopra espresso proferì parola alcuna Agata. Poi il Curato se ne partì, ed io immediatamente lo seguitai giù per le scale. Di ben altro tenore l’interrogatorio di Agata, che pur conferma a grandi linee il suo rapporto con Filippo e la descrizione delle loro intimità, ma che intanto esordisce davanti alla Corte dicendo: - TANTO PIU’ CHE DA DODICI ANNI A QUESTA PARTE, IO E LE MIE SORELLE MANGIAMO IL PANE DI CASA B.F. mediante le mercedi che ci competono nelle lavorazioni che andiamo a fare nei rispettivi terreni di detta Casa. Dopo aver raccontato come con l’assenso di Filippo fosse andata più di una volta dal Curato a sollecitare la possibilità di celebrare un matrimonio segreto e che questi, altrettante volte, aveva addotto l’impossibilità di farlo sempre insieme con Filippo divisò di tentare un matrimonio clandestino. La sua descrizione della serata non arreca alcuna novità sino all’arrivo del Curato. - Allora tutti ci alzassimo in piedi ed il signor Filippo B.F. disse al Curato “Noi siamo disposti a sposarci” e il Curato alzò la voce e disse che non poteva e non aveva tali facoltà, ciò però nonostante il Signor Filippo distese la mano e lo stesso feci io toccandocele insieme uno con l’altra. Il signor Filippo disse in detto momento “Questa è la mia sposa” ed io risposi “Questo è il mio sposo” e ciò disse bello forte. A questo punto si delineano chiaramente le linee di intervento dei vari legali e, di fronte a Filippo che negli interrogatori (evidentemente sotto la spinta dei fratelli) sembra cercare di offrire ai suoi avvocati l’occasione di impugnare la validità del matrimonio, Agata e i suoi congiunti testimoniano in senso diametralmente opposto. Questi ultimi, infatti, sostengono unanimi che i due promessi manifestarono sia a parole, sia col gesto di toccarsi le mani, la loro volontà di sposarsi. Mentre si svolge la causa, Francesco, fratello maggiore di Filippo, si rivolge per aiuto al suo Signor Zio Cardinale a Montefiascone (e di quale grosso personaggio si tratta!), il quale però con lui così si lamenta. Montefiascone 27 agosto 1804 Secondo la regola ero obbligato a far carcerare il di Lei (perdoni) imbecilissimo Fratello, come lo sono stati i complici dell’accaduto. A riguardo della Famiglia ho usato a suo favore di una parzialità della quale potrò essere rimproverato. La mia intenzione era ch’egli vi passasse un mese al Ritiro dei Passionisti. Se però la di lui salute vi è compromessa, mi rimetto alla di Lei discrezione con l’intelligenza del mio Vicario. Ma vi prego l’uno e l’altro di un non fare uso senza necessità della mia condiscendenza, giacché qualche avvocato, facendo stampare in Roma che ho due pesi, e due misure, bramo poter rispondere, che un mese di ritiro di un galantuomo è equivalente a un mese di carcere per i Birboni”. Poi, ancora, lo Zio Cardinale, si preoccupa di rivolgersi ad amici e teologi della Reverenda Camera Apostolica per chiedere pareri ed anticipare giudizi. Le risposte, nonostante le proteste di amicizia e di rispetto, sono piene degli abituali distinguo, quando addirittura non contengono argomentazioni contrarie. Il fatto che i due sono restati in silenzio e non hanno palesato a parole il loro consenso al matrimonio, dà luogo a molti dubbi sulla validità del Sacramento. E’ vero, citano alcuni, che se la necessità della parola fosse perentoria i muti ad esempio non potrebbero sposarsi, ma è anche vero incalzano gli oppositori che il consenso non è stato manifestato nemmeno con la stretta di mano che, se certamente vi è stata per Agata e i suoi testimoni, è messa invece in dubbio dallo stesso Filippo e dal Curato Forcella che afferma di non aver potuto vederla conclusa a causa del suo repentino volger di spalle. Dice nella sua deposizione Sinfarosa B. che le avrebbe detto Giovanni S., in contrasto con quanto egli ha deposto sotto giuramento: - Certo, la matassa è imbrogliata, perché il Signor Filippo non essendo libero di lingua disse “FLO’, FLO’ e finì con questo FLO’ FLO’ senza aver mai più parlato...” Fino ad oggi mio caro amico, come ben potete vedere da quanto vi ho narrato, nessuno è riuscito a venire a capo di questo rompi... capo, se cioè il matrimonio è valido o no. La Corte Episcopale di Corneto ha però emesso proprio pochi giorni fa, il 18 giugno 1805, la sentenza di primo grado nella quale si dichiara nullo il matrimonio, tanto da consentire ad Agata e a Filippo la facoltà di convolare in qualsiasi momento ad altre nozze, ed infligge le seguenti condanne: Quanto a Filippo, dovrà pagare a titolo di riparazione dei danni, trecento scudi ad Agata e seicento scudi a favore dei Seminari di Corneto e di Montefiascone; quanto a Giovanni S. e Domenico A., dovranno pagare una multa di scudi ottanta cadauno a favore dell’Ospedale S. Giovanni di Dio di Corneto. Qui si chiude la nostra storia, anche se poi la sentenza definitiva è ancora lontana da venire in quanto la lite è stata portata in seconda istanza, davanti alla Sacra Rota. Dal punto di vista della verità, essa ha tante sfaccettature e tante realtà quante ne sono quelle dei protagonisti e dei testimoni e credo che ormai nessuno potrà più conoscerla, tante sovrastrutture le hanno create la malafede e gli interessi degli uomini. In mezzo a questa bufera di sentimenti e di interessi, di verità e di menzogne, di mezze verità e di mezze menzogne, la figura così disperatamente sola e patetica di Filippo, fosse raggirato, indubbiamente violentato nei suoi sentimenti, semplici ed elementari che possano essere. Ho avuto modo di gettare uno sguardo indiscreto a certe sue lettere, scritte in una calligrafia rozza e persino infantile (di contro alle lettere del Cardinale o alle copie degli scrivani di bella calligrafia) che però mettono a nudo la sua bontà, la sua ingenuità e un disperato dolore. - La prima è indirizzata alla sorella Suor Teresa Maddalena del Convento di S. Rosa in Viterbo: Corneto 4 9mbre 1804 ... Sto presentemente aspettando la sentenza, sanza far niuno passo, io non so che abbia da fare di più e che cosa pretendete di più presentemente da me aggitato da mille continui pensieri, salutatemi Rosa Celeste (altra sorella monaca di Filippo n.d.r.) e ditegli che non si scordi di me e particolarmente nel raccomandarmi e farmi raccomandare al Signore in questa per me fatale circostanza, nella quale tutti si lagniano di me, chi per non mantenere la parola li Fratelli, e avanti, ed altri perché temono che la mantenga, tutti pare mi guardino, io sono il ritratto della disperazione e da niuno compatito, questa è la vera mia pittura più espressiva di quella del famoso Raffaello... Altre tre lettere le scrive ad Agata e basterebbero esse, forse a risolvere ogni nostro quesito, se si potesse essere sicuri che egli spontaneamente le scrive, senza che una volontà estranea si sovrapponga alla sua, così debole e fragile sempre. Non portano data e nel corso dell’istruttoria divennero pubbliche, ma a quanto sembra non bastarono a influenzare le decisioni della Corte: - Questa subito letta strappatela. E’ possibile, che non mi vogliate capire, cioè che io desidererei di essere sentenziato dal Vescovo, che DICHIARASSE VALIDO IL MATRIMONIO, acciò restassero meno disgustati i Fratelli, e per questo vi ho dato le armi in mano, ma servitene con prudenza, indirizzandovi al Difensore del Matrimonio, cioè al Decano Venturi di Montefiascone, CON FARGLI VEDERE IL MIO ANIMO, acciò il Vescovo con segretezza dia la sentenza, contenti noi, e così non restano disgustati i miei suddetti..... - Vi riconfermo quel tanto che vi ho scritto in altra mia, che se ho mancato nelle parole, non è stato né per malizia, né per mancanza di volontà, MENTRE IO CREDEVO CHE FOSSE STATO.... Dell’animo credo che se il vostro è angustiato, il mio è altrettanto, e vi confermo il di più vi scrissi in altra mia. DUNQUE DIFENDETEVI, E SIATE CERTA DELL’ANIMO MIO PROPENSO PER VOI, e delle altre cose, quando ritornerò, che spero presto, rimedierò e di qui servono a maggiormente tormentarmi e non posso qui rimediarci. Addio in fretta. - IL MIO GENIO PER VOI E’ STATO SEMPRE SINCERO, E SARA’; non ho avuto mai intenzione di farvi il minimo pregiudizio, né a Voi, né alli Parenti, e se avessi saputo questo, non l’avrei fatto; e come mi protestai con voi di non essere prattico di questa cosa; IO CI VENNI DI MIA VOLONTA’, ebbi qualche ribrezzo pensando all’inquietezze, che andavo incontro per quelli di Casa, MA TUTTO SUPERO’ IL GENIO, E LO SCRUPOLO DI COSCIENZA..... Nell’atto poi io ho detto di non ricordarmi di aver detto parola, e questo non è stato per malizia, non sapendo che fosse necessario, CREDENDO, CHE BASTASSE DI DARVI LA MANO, ED IO CREDEVO CON CIO’ FOSSE FATTO, e se mi fosse stato suggerito, AVREI PROFERITE LE PAROLE, il mio animo era agitato, ma sempre PRONTO A MANTENERVI LA PAROLA..... E per mantenere la parola, scrive anche al Difensore del Matrimonio, evidentemente sfuggendo alla sorveglianza dei fratelli e dei parenti, rimettendosi completamente nelle mani di questo: - ILLUSTRISSIMO SIG. PADRONE COLENDISSIMO Approfittandomi dell’occasione, non manco renderla intesa de’ sinceri sentimenti del mio animo avuti nella circostanza del MIO FATTO MATRIMONIO, O ALMENO DA ME CREDUTO TALE, affidato alla sua presenza, e segretezza, e sono, che io sono andato nella già nota Casa, di MIA VOLONTA’, SENZA FORZARMI NIUNO, CON VOLONTA’ DI SPOSARE la persona già cognita; venuto il Curato, e dopo un poco di tempo, a detto della Sorella GLI DETTI LA MANO, con dire ECCOLA, e poi Gio, uno de’ Testimonj disse al Curato, questo è lo sposo, e questa è la Sposa, e noi siamo i Testimoni, ed il Curato disse, E QUESTO E’ FATTO.... In ultimo dico, che per una sola volta è stato da noi consumato il detto Matrimonio, qual cosa, costì ne meno lo sanno, non avendolo io detto, parendomi sì i miei parenti, e qualcun’altro troppo fanatici in dire, che tutto si puole annullare in buona coscienza, volendolo io; pertanto prego lei a dirmi il suo sentimento, giacché conoscendo di aver errato fin quà per causa d’ignoranti Confessori, non vorrei fare il massimo sbaglio, quale sarebbe ingannarsi l’Anima in eterno per un rispetto mondano... Di V.S. Illma Corneto 16 Ottobre 1804 Filippo Maria B.F. - ***** Chiudo qui la mia lettera, caro amico, scusandomi per la sua prolissità, ma ho preferito attardarmi nella descrizione di questo piccolo mondo chiuso entro le mura di una cittadina come Corneto, dove mentalità e modi di vita, sono ben lontani da quelli della vostra Milano, nella quale voi avete la fortuna di avere in mezzo a salotti letterari e personaggi di cui noi conosciamo soltanto i racconti che qualche viaggiatore ci fa. A presto carissimo, e ricordatemi alla cara zia Margherita ed alla vostra famiglia tutta, servitor vostro umilissimo. Casimiro...... NOTA - Ho ritrovato, tra i tanti documenti di un archivio storico di Corneto la copia di questa lettera. Non ho però potuto accertare da chi sia stata scritta, in quanto l’ultimo foglio appare tanto danneggiato e rosicchiato dai topi, da non permettermi di accertarne la firma. Anche la data non esiste più, ma dai precisi riferimenti a cui ci si rifà nel testo dovrebbe essere facile collocarla tra la fine di giugno e il luglio del 1805. In calce c’è un’annotazione dell’autore, anch’essa danneggiata, che dice Copia della let ta ad Alessandro Ma e ritornatami ind feritosi a Parigi con glia. Proverò a spedirla dirizzo. Ho potuto così ricostruire questo appunto e credo di non essere lontano dal giusto: Copia della letTERA SPEDIta ad Alessandro Ma..... e ritornatami indIETRO PERCHE’ TRAsferitosi a Parigi con LA FAMIglia. Proverò a spedirla AL NUOVO INDirizzo. L’unica incognita che perciò mi resta da chiarire è il cognome del destinatario. Dopo le lettere M A, si intravvede forse una N, ma non posso esserne sicuro. Il resto non si legge assolutamente. Ci terrei molto a risolvere questo dubbio perché mi aiuterebbe senz’altro nella ricerca dello sconosciuto autore di questa acuta indagine su una storia che ai suoi tempi deve aver sconvolto la nostra tranquilla città. Mi impegno sin d’ora a darne ulteriori notizie, qualora le mie ricerche dovessero approdare a qualcosa, dalle pagine di questo stesso bollettino. Giuseppe Scoponi I CORNETANI VOLEVANO LA FERROVIA PIU’ VICINO ALLA LORO CITTÀ’ La linea ferroviaria Roma-Civitavecchia, gestita dalla Società “Pio Centrale” viene collaudata il 25 Marzo 1859 con un convoglio con 240 viaggiatori, che parte da Civitavecchia alle ore 6,30. Il treno si arresta alla stazione di Palo per consentire il carico del pesce da portare in dono a Pio IX e giunge a Porta Portese alle 9,30. Alla sera, pavesato da bandiere pontificie, il convoglio riparte da Roma per Civitavecchia. Il 16 aprile 1859 ha luogo l’inaugurazione ufficiale alla stazione di Porta Portese con Messa e benedizione di Monsignore Vicegerente di Roma Antonio Lagi Bussi ed alla presenza del Duca Massimo, Commissario Generale delle Strade Ferrate Pontificie, mentre ugual cerimonia aveva luogo contemporaneamente alla stazione di Civitavecchia. L’opera è così realizzata in meno di tre anni di lavoro con l’impiego di 800 operai che si dice siano tutti abruzzesi. Il costruttore Debrousse aveva consegnato la linea prima del previsto ed è premiato, secondo il contratto, con un milione di lire. Il costo del percorso Roma-Civitavecchia e ritorno in 1ª classe è di scudi 1,83 mentre in 2ªclasse è di scudi 1,17. Il 24 settembre 1863 si inaugura il ponte di ferro di San Paolo lungo il tronco che collega la linea Roma-Civitavecchia alla stazione centrale provvisoria di Roma-Termini, ed ha inizio il pubblico servizio della detta stazione Termini delle linee per Civitavecchia, Frascati e Ceprano fino al confine napoletano. Il Governo italiano cede alla Società Generale delle Strade Ferrate Romane, provenienti dalla fusione delle più importanti Società di costruzioni ferroviarie per legge del 14 Maggio 1865, anche il tronco Roma - Civitavecchia (Km. 81) - Chiarone (Km. 50) “totalmente nello Stato Pontificio” che completa finalmente il sistema ferroviario tirrenico pontificio a nord di Roma. Il tratto di ferrovia Civitavecchia- Confine Toscano alla Nunziatella Chiarone è pronto il 22 giugno 1867 ed il 27 giugno la linea è aperta al traffico e si può raggiungere La Spezia da Roma. Il 1° settembre è inaugurata la stazione di Montalto. Il treno diretto parte da Roma alle 6, è a Corneto alle 8,57 ed alle 9,42 raggiunge Montalto. Riparte da Montalto alle 4,50 ed è a Roma alle 9.1) Questa la storia della ferrovia; ma vediamo quali furono le reazioni dei cittadini di Corneto a queste nuove iniziative che portavano nello Stato Pontificio una ventata di ammodernamento e di progresso tecnico. Ho trovato fra le carte della mia famiglia2) alcune lettere che il signor Domenico Boccanera di Corneto3) scriveva a mio bisnonno marchese Urbano Sacchetti4) , a proposito del tracciato della ferrovia, dei tentativi fatti dalla popolazione di Corneto affinché la linea ferroviaria passasse il più possibile vicino alla città. La prima lettera di Domenico Boccaleria ad Urbano Sacchetti è del 23 ottobre 1864 da Corneto. La riporto testualmente: “Eccellenza col mezzo del sig. Giansanti ho appreso che V.E. è tornata in Roma con l’intiera Famiglia in ottimo stato di salute, e che ha avuto la bontà di domandare le nostre notizie che sono ugualmente ottime. Lo stesso signore mi ha aggiunto che l’E.V. gli ha mostrato qualche meraviglia per non aver veduto mia lettera dopo l’infausta perdita della C.m. del di Lei Genitore5) . Avendone io avuta partecipazione dal Sig. Villetti, pregai lo stesso di fare in mio nome a V.E. le più sentite condoglianze. Dopo ciò non avevo avuto motivo di incomodarLa con mia lettera; oggi mi si presenta la circostanza dovendola aggiornare sullo stato attuale della Ferrovia. Sarà noto a V.E. che il Consiglio d’Arte per ragioni tecniche escluse la linea bassa, (l’attuale tracciato della ferrovia N.d.R.) e sembrava con ciò assicurata l’esecuzione di quella vicino a Corneto. Siamo stati in questa lusinga tutta la scorsa settimana in cui si è cominciato a studiare una linea di mezzo, soltanto dal Mignone alla Marta, da eseguirsi qualora il nostro Comune non si sottoponga all’impossibile sacrificio di sc. 40.000 richiesti dalla Società eseguitrice6) . Sebbene Mons. Delegato7) speri di poter ottenere che abbia effetto la linea alta senza gravi sacrifici non ostante abbiamo aperto trattative con la Società suddetta. Occorre però che V.E. ci aiuti presso il Governo con la valevole di Lei influenza per conoscere fino a qual punto i Concessionari siano arbitri di scegliere la linea per esserci di norma nelle trattative che avranno luogo. Se occorre siamo pronti a nuove Deputazioni pregando fin d’ora V.E. di esserne il Capo. Le serva infine che la linea che studiano per passare distante da Corneto, divide la Piana della Marruca già Marefoschi, traversa l’intera Portaccia, lasciando libero Vallegata. Quella alta divide la Marruca ed il piccolo terreno al Poderino. Di là nella Marta, se non nascono variazioni, è attraversata la Vaccareccia e l’Arrone8) . Dopo ciò colgo questo primo incontro per assicurare V.E. che, se vorrà onorarmi della stessa fiducia accordatami dal defunto di Lei Padre, proseguirò nello stesso sistema, per ciò che la riguarda in Corneto, e ne profitto ecc.” Segue una seconda lettera da Corneto del Boccanera al Sacchetti, in data 3 maggio 1865: “Profitto del ritorno in Roma del figlio D. Francesco9) per far giungere all’E.V. i Contratti della Rimessa Petrighi uno dei quali da me firmato. Le accuso in pari tempo ricevimento del Conto annuale a tutto settembre 1864 da Lei approvato. E’ nostra cognizione che il S. Padre ha fatto intendere al Signor Ministro dei Lavori Pubblici10) essere suo desiderio che la Ferrovia sotto Corneto ci si avvicini il più possibile. Il detto Signor Ministro per secondare questo desiderio di Sua Santità ha condisceso la costruzione dei Ponti in ferro quasi in corrispettivo di qualche spesa maggiore che potesse incontrare nell’innalzamento della linea. I studi che si fanno definitivamente ci rendono certi che tutto ciò non attraversa la Portaccia. Questo è il momento opportuno per far conoscere a Sua Santità quanto sopra. Se non credesse di farlo in voce V.E., si potrebbe mandare una supplica in nome di questa Popolazione per presentarsi ed officiandosi dall’E.V. Passo ecc.”. A queste due lettere risponde il Sacchetti da Roma: “Carissimo Boccanera, col mezzo di vostro figlio Don Francesco ricevetti i due originali del contratto della rimessa Petrighi, l’uno dei quali da Voi firmato, ritengo presso di me, l’altro ve lo ritorno da me firmato affinché lo riteniate per vostra garanzia. Riguardo a ciò che mi fate conoscere in rapporto alla Ferrovia che passerà vicino a Corneto, credo migliore partito che mi rimettiate un memoriale di codesta Magistratura dettagliatamente concepito perché possa presentarlo al Santo Padre. Credo inutile di avvertirmi che siccome ritengo che tale memoriale sarà dal S. Padre rimesso al Ministro del Commercio cosi è opportuno che in esso memoriale non vi sia alcuna espressione che possa urtare la suscettibilità del Ministro”. Il 23 maggio 1865 di nuovo il Boccanera scrive al Sacchetti: “Non ho potuto rimettere prima di oggi la nota Istanza, essendomi stata consegnata ieri. E’ stata evitata qualunque espressione offensiva per il Sig. Ministro del Commercio. Non mancherà maniera a V.E. di far conoscere in voce a Sua Santità che al suddetto Sig. Ministro si era presentata occasione favorevole d’imporre per patto alla Società l’avvicinamento a Corneto, quando questa per ottenere un sensibilissimo risparmio richiese di fare i ponti in ferro. Noi poco speriamo dal Ministro a meno che V.E. possa superare ogni difficoltà influendo direttamente sopra il Sovrano. Le serva intanto che si stanno facendo le stime di espropriazione per la linea che spacca la Marruca, la Portaccia, la Vaccareccia ed Arrone e forse un piccolo tratto della Piana del Capitolo e Vallegata”. Ed ancora una lettera del Boccanera del 28 maggio 1865. “Il signor Conte Pietro Falzacappa11) reduce ieri da Roma fece conoscere che V.E. desidera qualche schiarimento sulla nota istanza da presentarsi al S. Padre. A me sembra che nella detta istanza siano chiaramente esposti tutti i fatti che riguardano la nostra Ferrovia. Non ostante a norma di V.E. li ripeterò con maggior dettaglio. La prima Istanza che presentata al S. Padre dalla nostra Deputazione di cui era Capo la c.m. del marchese Girolamo (padre di Urbano Sacchetti N.d.R.) ebbe un favorevole rescritto col quale si ordinava al Ministro del Commercio di soddisfare i giusti desideri di Corneto per il maggiore possibile avvicinamento alla Città. In seguito di ciò il Ministro suddetto fece conoscere alla Società costruttrice tal volontà di Sua Santità. Fu allora nuovamente studiata la linea che passa a breve distanza da Corneto, e quella che oggi vorrebbe eseguirsi sotto Vallegata, e ciò si fece travedere che la maggiore spesa per eseguire la Linea alta sarebbe ascesa a scudi 60.000 circa, somma che non potremmo sostenere quantunque non siasi trattato mai ufficialmente. Prima per fissare definitivamente la linea fu dalla Società richiesta al Ministero la facoltà di costruire i Ponti di ferro invece che di muro come stabiliva il Capitolato. Il Ministro annuiva alla domanda e con ciò apriva la strada a vistosissimo risparmio. Era questa la circostanza per imporre l’avvicinamento a Corneto. Il Ministro però si è limitato a far nuove preghiere di soddisfare i desideri del Santo Padre. La Società, senza avere a calcolo quanto sopra, ha seguito in tutto lo sviluppo della strada la Linea Alta, e nel solo tratto molto al di qua del Mignone alla Marta, ha seguito la Linea bassa facendo quasi una curva per evitare Corneto. Come dissi con mia precedente qui poco si spera nel Ministero del Commercio, e l’unica strada potrà essere un nuovo tentativo al Trono Sovrano. Credo che la presentazione della Supplica avvalorata dagli uffici di V.E. sia bastante. Se però occorresse una nuova Deputazione con certezza di buon resultato, ottenga dal Santo Padre, l’udienza, ce ne avvisi, se occorre col telegrafo, e noi saremo subito in Roma. In tale intesa, sono con il dovuto ossequio ecc.” Urbano Sacchetti risponde da Roma il 4 giugno 1865 al Boccanera. “Non mancai per quanto è a me di nulla lasciare intentato affinché la ferrovia si avvicini quanto possibile a Corneto. Egli è perciò che ieri sera mi condussi da questo Signor Ministro del Commercio per impegnare anch’esso affinché i comuni desiderii siano appagati. Ad esso narrai la benigna accoglienza del Santo Padre ed a lui fece conoscere che io confidavo che codesto comune non sarebbe forse alieno dall’offrire alla Società imprenditrice de’ lavori qualche somma perché la strada ferrata si avvicini d’avvantaggio. Ei mi parve poco soddisfatto dei procedimenti della Società, e a noi invece promise tutto il suo favore, e mi dette a sperare che questo forse non sarebbe privo di effetto; anche in vista delle concessioni ulteriori del Governo per permettere la costruzione dei ponti di ferro in luogo dei ponti di muro come erasi la Società anteriormente obbligata nel contratto. Vi prego comunicare questo mio ulteriore operato agli altri colleghi signori Falzacappa e Mariani, mentre in attenzione di buon esito delle nostre premure ho il bene di confermarmi ecc.” Il 18 giugno 1865 il Boccanera risponde a Urbano Sacchetti: “Ebbi con il pregiato Foglio del Signor Marchese Camillo12) notizia delle pratiche fatte da V.E. presso il signor Ministro del Commercio, che avendole comunicate a questo Sig. Gonfaloniere13) e Colleghi di Deputazione mi incaricano di farLe i dovuti ringraziamenti. Il sig. Conte Falzacappa tornato ieri in Roma verrà a darLe il dettaglio di quanto appresso. In seguito del desiderio esternato nuovamente dal Santo Padre il Signor Ministro suddetto chiamò l’ingegnere Monti, che trovavasi in Roma, e volle dal medesimo un parere sulla Linea che si poteva tenere per favorire possibilmente Corneto. Il detto signore che è stato sempre per la giustizia della nostra già stata fissata d’accordo con gli Intraprendenti la Linea più vicina a Corneto. Dallo stato delle trattative poi si persuasero che la costruzione dei Ponti no era definitivamente commutata, e che perciò vi era luogo ad imporre per patto l’avvicinamento a Corneto. Da ciò V.E. vedrà che la nostra Deputazione non è stata inutile mentre senza di questa la Linea bassa si sarebbe accordata. Occorre però che V.E. seguiti ad interessarsi di questa pendenza e presso il Santo Padre e presso il Ministro del Commercio..... ecc.” Qui finisce la corrispondenza fra il Boccanera ed il Sacchetti. Evidentemente le istanze dei Cornetani tendenti a portare la strada ferrata più vicino alla Città non ebbero successo. La ferrovia, e la vediamo ancora oggi, fu costruita secondo la soluzione più lontana dal centro cittadino. Così finirono le aspirazioni degli abitanti di Corneto! Giulio Sacchetti CRONACA CORNETANA Decisamente gli archivi cornetani non finiscono mai di sorprendere! La loro ricchezza e la varietà e consultazione dei documenti custoditi chiariscono sempre di più la vita dei nostri avi. Notizie, relazioni, atti ed annali vengono continuamente alla luce, anche svolgendo indagini o ricerche superficiali. Nell’Archivio della Società Tarquiniense d’Arte e Storia è conservata la “Cronica Cornetana”, redatta da Pietro Falzacappa nel 1826. E’ un manoscritto di circa 50 pagine legate in quinterni, contenente notizie della vita cornetana del 1826 al 1832. Pietro Falzacappa era nato nel 1788 da Ranieri e Margherita Querciola. Proveniva da una delle Famiglie maggiorenti di Corneto. Sposò nel 1834 Vittoria Avvolta, dalla quale ben presto rimase vedovo: Vittoria morì di parto. Una passione senile sconvolse la vita del nostro cronista, il quale dopo il 1860 - a 72 anni suonati - si unì nuovamente in matrimonio con Carolina Vitelli, una non meglio identificata dama di compagnia o domestica. Morì il 16 aprile 1875. Pietro fu uomo del suo tempo, sempre disposto ad acquisire nuove cognizioni, a conoscere popoli e lingue. Nell’Archivio della STAS si conservano due suoi passaporti con visti di accesso per la Francia e l’Inghilterra. Fu proprio in questi soggiorni che il Falzacappa conobbe ed approfondì gli ideali della Rivoluzione Francese e questi soggiorni all’estero gli svilupparono il notevole senso dell’humor che permea le sue note di cronaca. In verità, a ben guardare, si sente in questi annali più lo spirito carbonaro, che non l’ideale giacobino. Nelle brevi note emerge l’insofferenza per il Potere Costituito per la Curia Vescovile e per le piccole perfidie e rancori dell’epoca. C’è nel Falzacappa un desiderio di rinnovamento, di affrancazione, di libertà e uno spirito troppo spesso settario, ma manca la volontà di rinunciare a tutti i privilegi acquisiti negli anni grazie al proprio censo. Il tempo ormai ha spento la crudezza dei termini e l’acredine, ma restano queste note fresche di una Corneto “codina”, di una Corneto che non accetta più passivamente i dettami del potere; il mugugno comincia a diventare protesta. Di questa Cronaca Cornetana mi sono limitato a trascriverne i primi tre anni; se incontrerà il favore dei lettori, nei prossimi bollettini darò seguito a questi annali quasi risorgimentali. Mario Corteselli MEMORIE DI CORNETO Ecco una cronaca di Corneto, mia Patria. Cosa scriverò nella medesima? Tutto quello che mi parrà degno di memoria e che potrò sapere. Io getterò i miei pensieri su la carta senza prevenzione, cercandovi qualche riflessione che per lo più saranno critiche. Non pretendo di essere istorico, ma solo di fare poche memorie che sussidino la mia stessa memoria. Non scrivo dunque che per me solo e perciò mi sarà lecito di esprimere i miei pensieri senza pentimenti come mi si affacciano alla mente: se qualcuno arriverà a vedere questo scritto lo taccerà forse di critico e maldicente, ma in questo caso lo pregherò solo di riflettere che la nuda verità sembra alle volte essere una critica e che ogni buon quadro abbisogna di qualche cornice. Più non aggiungo perché scrivo per me solo e non voglio far la difesa per me da me stesso. 14 GENNAIO 1826 = MORTE DI PIETRO CATALINI Doppo una penosa malattia di orina, alle ore 18, è morto Pietro Catalini, lasciando una sola sorella. Fu uomo di semplici costumi: buon cattolico, galantuomo in tutta l’estenzione della parola ed è morto con il desiderio ed il dispiacere di non veder terminato “l’affare delle tenute libere”. La sua eredità sarà di circa duemila scudi. Essendo “Anziano”, sonò al suo accompagno il Campanone e li Servitori di Palazzo accompagnarono il cadavere che fu tumulato al Duomo, nella Cappella dell’Assunta. 31 GENNAIO 1826 = DISPUTA TEOLOGICA Un certo P. Porceddu, Agostiniano, ha tenuto conclusioni in S. Marco. Con apparato di discorsi, o dispute combinate, secondo il solito, si è messo in questione quello che è più chiaro del giorno, si è diviso quello che è indivisibile, si è negato quello che si doveva negare. Una moltitudine d’ignoranti e di donne facevano molto cerchio alli disputanti latini, sembrandogli che fosse più bravo quegli che più arringava. Cosa solita! 7 FEBBRAIO 1826 = INDULTO La presente Quaresima è stata dispensata ai latticini con qualche riserva. Si è ordinato alli Macellari di non uccidere bestie di alto fusto. Quali dunque saranno le carni salubri? Forse la capra? E’ una gran disgrazia che in ogni anno, ad onta dell’esperienza, vi sia una tal minchioneria da fanciullo. 12 FEBBRAIO 1826 = ANZIANO Angelo di Luca Falzacappa ebbe la nomina di Anziano provvisorio per la morte di Pietro Catalini. Si continua così con li provvisori. Questo giovane è buon savio e di non tardi talenti; si desidererebbe peraltro che fosse meno pedissequo o meno pretino. 21 MARZO 1826= STAGIONE La stagione d’inverno che terminiamo non è stata cattiva ed abbondanti piogge in gennaio hanno ribagnata un poco la terra inaridita dalle passate secche. Il bestiame peraltro ha molto sofferto tanto per il cattivo autunno, quanto per i pochi fieni che si avevano. I grani ancora sono deboli, nella loro apparenza pare che secondo il solito la ventura Primavera debba essere asciutta. 28 MARZO 1826 = PREDICATORE Il P. Angelo da Civitaducale, Cappuccino ha predicato l’Anno corrente. Senza essere un oratore, né sottile, né sublime è stato però dotto e chiaro. Nei suoi pregi non era l’ultimo quello di essere breve. 9 APRILE 1826 = L’INDULTO DEL GIUBILEO L’indulto non ci ha fatto aver. Il genio della Magistratura attuale ha trovato così un’ottima scusa nel non dare alcun divertimento. 27 APRILE 1826 = MORTE DI ISABELLA QUERCIOLA Nella notte morì Isabella Querciola, di anni 83, ultima del ramo della sua Famiglia. Passò di male di vecchiaia e senza avere avuto marito. Soffrì con rara rassegnazione per 22 anni l’inabilità a camminare per cui non sortì più di casa per effetto di una caduta. 15 GIUGNO 1826 = FIENATURA Il raccolto del fieno è stato molto differente. I primi prati sono stati scarsi, gli ultimi abbondanti e particolarmente li prati nuovi. Acque continue hanno imbarazzato i lavori e la mano d’opera salì nell’ultimo a forte prezzo. Nell’insieme peraltro si suol dire che il raccolto del fieno sia stato buono. Noterò anche una cosa straordinaria: che la Chiusa Gabrielli, falciata alli primi di maggio, si rifalciò in giugno, dando un buon fieno: cosa che memoria d’huomini non ricordava in Corneto una seconda falciatura. 29 GIUGNO 1826 = PROCESSIONE Noto come una cosa straordinaria una Processione di Penitenza per ottenere la serenità. Con tutte le Corporazioni religiose si andò dalla Cattedrale a Valverde. Fu anche una cosa straordinaria che il nostro Eccellentissimo Vescovo facesse un fervorino molto breve. 30 GIUGNO 1826 = MIETITURA Oggi si è terminato di mietere il grano nel territorio, essendosi generalmente cominciato doppo la metà del mese. Le apparenze fanno vedere che vi sia del patimento. La maggior parte delli seminati sono stati infetti di rugine. Vi fu abbondanza di mietitori ed a prezzo discreto per conseguenza. 16 LUGLIO 1826 = ORDINAZIONE DI ANGELO QUAGLIA Dall’Eccellentissimo Gazola, nostro Vescovo, è stato questa mattina ordinato sacerdote Angelo Quaglia, figlio di Giacomo e Vittoria. Esso è il primo delli maschi. Per quello che si puol giudicare dall’aspettativa ed apparenza sarà un buon prete. Ha fatto gli studi in Montefiascone, in regola, ma circa il talento pare che vi sia a desiderare qualche cosa. La sua Famiglia ha dato alla sera un superbo rinfresco con invito generale veramente abbondante. Vi si sono osservati tutti li Frati che per la causa “ad manducandum” sravano tardi fuori di convento. 18 LUGLIO 1826= CAMPANA DELLA CATTEDRALE Finalmente, alla quarta fusione, la campana maggiore della nostra Cattedrale è venuta bene. Gli artefici sono stati li fratelli Goccini di Modena. Questa mattina è stata benedetta dal Vescovo. Farò una sola osservazione. I canonici strepitano per la forte spesa che hanno dovuto fare, ma qualcuno ha osservato che essendosi fatti avanzare 1550 libbre di metallo, rimpicciolendo la campana, hanno utilizzato qualche cosa, mentre agli occhi dei gonzi fanno comparire le loro spese per la chiesa. 18 AGOSTO 1826 = FESTA DI S. AGAPITO La festa del protettore si è solennizzata secondo il solito con Processione e Messa cantata. Facendo uno sforzo, la Magistratura ha pagata una giostra. Ciò però si deve più al genio dell’”Anziano” Angelo Falzacappa che all’inclinazione del Gonfaloniere Francesco Bruschi. 22 AGOSTO 1826 = DISUMAZIONE DI CADAVERE Il cadavere della fu monaca benedettina Angela Francesca Bovi, morta sono 14 anni, nell’epoca francese e sepolta in Cattedrale nella Cappella dell’Assunta, è stato desumato e trasportato in S. Lucia. Si è aperta la cassa ed esposto il cadavere in Chiesa. Gli abiti si erano conservati, ma non così il corpo, la di cui testa non esibiva più ne alcuna somiglianza nè alcuna forma. La monaca Bovi fu una buona religiosa, ma miracoli non ne conosco, nè in vita, nè doppo. Requiescat. 30 SETTEMBRE 1826 = MATRIMONIO DI COSTANTINO FORCELLA Costantino di Vincenzo Forcella ha sposato Anna Maria del fu Vincenzo Bruschi. Il padre dello sposo ha fatto tutto quello che poteva per impedire un matrimonio di non suo piacere, ma inutilmente. Si desidera allo sposo qualche fortuna per poter vivere con la sua consorte. 15 OTTOBRE 1826 = FESTA ALLA TRINITA’ La Confraternita della Trinità, avendo fatto venire l’immagine della Madonna di Guadalupe, ne ha celebrata la festa consistente in un numerosa ed edificante Processione in buona paratura, in un piccolo fuoco, in giostra ed in due corse a vuoto ed a piedi. Chiuse il divertimento un’Accademia di poesia, recitata con poca devozione nella stessa Chiesa. La prosa fu fatta da don Angelo Quaglia cui seguirono molti componimenti latini ed italiani. Si osservò tra le altre cose non essere l’ultimo dei prodigi della Madonna, quello di aver fatto nascere all’improvviso alcuni poeti che nel paese non si conoscevano per tali. 7 NOVEMBRE 1826 = TEATRO Molti dilettanti di Corneto volevano recitare nel pubblico Teatro. Già tutto era preparato e la distribuzione delle parti era fatta. La Segreteria di Stato rimise al Cardinale Vescovo il memoriale per il permesso. Fu questi visitato dai principali comici. Promise favorirli, dopo una lettera ripiena di sciocchezze. La conseguenza peraltro fu che scrisse in Segreteria di Stato non esser tempi da pensare al Teatro, regnando in varie Province un’epidemia bovina. La licenza fu negata. Quante riflessioni potrei aggiungere a tale articolo? Dirò solo: che se in Corneto il Vescovo non avesse li principali dal suo partito non si azzarderebbe a disgustare tante persone. Che è una fortuna che l’Imperatore del Mogol non sia cristiano, altrimenti se si ammalasse staressimo senza divertimenti per pregare per lui. Che finalmente queste soverchierie si soffrono nel solo Corneto. 24 NOVEMBRE 1826 = NASCITA DI GIUSEPPE BRUSCHI Da Costantino di Giuseppe Bruschi e da Arcangela di Bartolomeo Bustelli oggi è nato il primo maschio, che dal nome del nonno si è chiamato Giuseppe. Possa il fanciullo imitare la sua stirpe nel galantonismo, ma non nella malignità. 13 DICEMBRE 1826 = CONSIGLIO DI SANTA LUCIA Tre provisionali hanno corso: il Segretario Avvolta ed il Chirurgo Valentini furono confermati all’unanimità. Il Dott. Gotti ebbe 10 voti favorevoli e 7 contrari. Mentre bisogna dire che è un bravo medico, si deve aggiungere essere molto pettegolo: il suo compagno Dott. Liberali, mentre però ne sa meno, non è niente meglio di lui. 15 DICEMBRE 1826 = OLIVI E SEMENTA Le olive nella corrente stagione si può dire che non vi siano state affatto e il risultato lo prova, mentre un solo molino è stato aperto. Le semente sono state interrotte dalli cattivi tempi e dalla molla che avevano presi li terreni. Come peraltro si era cominciato a buon’ora, così non sono terminate molto tardi, meno che dalli padroni negligenti. 26 DICEMBRE 1826 = PREDICATORE Il Padre Luigi da Bagnaia, Provinciale dei Cappuccini, ha predicato l’Avvento. Essendo questo uno de’ migliori predicatori, non ne tesso gli elogi. Alcuni peraltro hanno notato la “fiatata”, ma forse saranno lingue cattive. 27 DICEMBRE 1826 = MESSA NOVELLA DI DON TOMMASO DE SANCTIS Questa mattina il novello sacerdote, Don Tommaso De Sanctis, ha detto la prima Messa alle Monachelle. Questo giovane ha fatto molto bene li suoi studi a Montefiascone e da quello che ripromette sarà per riuscire un buon prete, se non si guasta. 10 GENNAIO 1827 = ACQUISTO DI BENI DELLA COMUNITA’ Il pizzicarolo Benedetto Stinchelli ha comprato in Roma all’asta pubblica il canone di Roccaccia e Selvaccia per 900 scudi ed altri piccoli canoni comunitativi. Nessuno lo faceva così forte in denaro ed ha sorpreso la sua compra. Bisogna dire che per far denaro bisogna fare il pizzicarolo ed essere nato villano. 27 FEBBRAIO = CARNEVALE Con dispiacere di chi non poteva godere, il Carnevale di quest’anno è riuscito brillantissimo. Doppo due anni di forzato riposo, la popolazione di Corneto ha fatto vedere che non era quella zotica e noncurante che si vuol far credere. Feste da ballo al Teatro ed altrove, due corse di anello e molte maschere hanno contribuito al pubblico divertimento. Vari curiosi aneddoti hanno fatto parlare di loro. Il più bello è stato che il Vicario non voleva si ballasse nell’ore che in Cattedrale si faceva “il Carnevale Santificato”. Ma, essendosi fattosi petto a tale innovazione, si sono seguitati a fare i festini anche il doppo pranzo. Se trovassero sempre resistenza non domanderebbero tanto. 2 MARZO 1827 = INDULTO Nella presente Quaresima è stato toccato il cuore de’ nostri Superiori. Si è permesso mangiare i latticini, condire con lo strutto a riserva di alcuni giorni. Si potrà dire che ne abbiamo indovinata una. 26 MARZO 1827 = MATRIMONIO DI MARGHERITA PANZANI Margherita del fu Domenico Panzani e della fu Maria Barboncini ha sposato questa mattina Giovanni di Iacomo di Napoli. Sembrava che questo matrimonio non dovesse più aver luogo per le lingue malediche che avevano cercato guastarlo; ma finalmente si è concluso e per parte dello sposo sembra che più l’impegno che l’amore ve lo abbia condotto. 29 APRILE 1827 = FIERA Due corse a vuoto, due giostre, un pallone, un fuoco d’artificio, un girello ed una illuminazione alla Fontana sono state le feste della nostra Fiera. Abbiamo però avuto uno scarso concorso particolarmente di persone proprie. In quest’anno almeno si è sfuggita la solita soverchieria di astenersi da ogni divertimento. 6 MAGGIO 1827 = MORTE DI VITTORIA PETRIGHI Circa le ore quindici è passata al numero delli più Vittoria, moglie di Giovanni Petrighi, di circa 61 anni, doppo aver sofferto una lunga malattia. Fu figlia di Agostino Mastelloni ed a lei sono sopravvissuti tre figli: Luigi, Antonietta e Giacomo. Ebbe un matrimonio di circa 36 anni nella quale epoca, avendo contentato suo marito, scontentò tutti e si rise delle lingue cattive. Il suo cadavere si seppellì nella Cattedrale, alla Cappella Gentilizia della Famiglia Petrighi. 14 GIUGNO 1827 = NASCITA DI VINCENZO QUERCIOLA Circa le ore dieci è nato Vincenzo Querciola, figlio di Egidio e di Marianna di Candido Mastelloni. Questo è il terzo maschio che nasce da un tale matrimonio. Se somiglia a suoi, non sarà uomo di gran coraggio. 17 GIUGNO 1827 = GROTTI ETRUSCHE Nel ricercare nelle grotti alli Montarozzi se ne trovarono tre dipinte superbamente. Keister, ministro d’Inghilterra a Roma e due compagni, essendo venuti a vederle, le hanno copiate. La dabenaggine de’ Cornetani così ha fatto levare copia d’una cosa bella che presso noi esisteva: ciò prova a che grado siamo di civilizzazione. Le sole grida di tutti hanno nel fine indotto la Magistratura ad ordinare la chiusura con porte, le quali forse avrebbe fatte il Vescovo per impadronirsene ed avere la chiave d’una proprietà appartenente alli Agricoltori. Non so se questo esempio, tanto di copia che di chiusura, gioverà di lezione in appresso. Dio lo faccia! 3 GIUGNO 1827 = RECITA Un comico ben cattivo ed una comica pessima si presentavano per recitare. Domandato il Teatro, le fu giustamente ricusato. Si collocarono in un magazzino ed ottennero dalla Curia Vescovile quel permesso che si era ricusato ai dilettanti cornetani. Si posero vicino il Monastero delle Passioniste, ove ai galantuomini si ricusò di fare li festini per l’anzidetta vicinanza. In più recitarono, uniti alla feccia di cornetani, anche la Vigilia della Pentecoste. Si può dire che la nostra Curia non vuole che cose birbe e che gode nel far sentire il peso del suo arbitrario potere ai galantuomini. Questi riflessi ed altri molti che potrei aggiungere hanno fatto si che una scempiata avesse luogo in queste memorie, nel leggere le quali qualcuno forse mi caratterizzerà per satiro maligno. 10 LUGLIO 1827 = MATRIMONIO DI MARGHERITA BRUSCHI Il Medico Condotto, Bartolomeo Gotti di Tivoli, ha sposato questa mattina Margherita di Pietro Sante Bruschi e di Anna Maria Querciola. In una stagione così calda ci vuole molto coraggio per andare con l’antico proverbio e trattandosi particolarmente di sposi.... 15 LUGLIO 1827= MURA CASTELLANE Il nostro Consiglio comunitativo si è coperto d’infamia accordando alle Monache Passioniste la permuta con Agapito Avvolta del suo canone su le Mura a Porta Clementina. Eccoci perciò spogliati di una proprietà e passata in mani privilegiate, per cui la Magistratura non potrà osservare nemmeno quelle mura che una volta salvarono Corneto. Il solo Costantino Bruschi ha avuto il coraggio di arringarci contro, mentre in favore il Gonfaloniere, Francesco Maria Bruschi, ha fatto pompa della sua eloquenza stucchevole. 17 LUGLIO 1827 = NASCITA DI FILIPPO MARIA BRUSCHI Dal matrimonio d’Ippolito di Filippo Bruschi e Teresa d’Orvieto è nato il primo figlio che si è chiamato Filippo Maria. Se è legittimo, non puol mancare di non avere uno spirito di contraddizione. 23 AGOSTO 1827 = FESTA DI SANT’AGAPITO Oggi c’è stata giostra: in questo è principiata e terminata tutta la festa. Anche la Statua del Santo protettore è passata di notte. 30 SETTEMBRE 1827 = MESSA NOVELLA DI DON FRANCESCO CALVIGIONI Nella chiesa di San Giuseppe ha detto la Prima Messa Francesco di Saverio Calvigioni, muratore. Dal suo aspetto non ripromette male, dalla sua dottrina una cappellania di Confraternita. Nel tutto insieme il giovane ha pensato bene di maneggiare il calice invece della cucchiara. 1 OTTOBRE 1827 = MUTAZIONE ALL’ERGASTOLO Per molti disordini introdottisi all’Ergastolo, si licenziarono li custodi tutti e, surrogati altri, vennero anche sette soldati di linea per miglior custodia. Molti dicono che li disordini provenissero dalla dabbenaggine del Rettore, canonico De Dominicis. 26 DICEMBRE 1827 = PREDICATORE L’Avvento è stato predicato dal P. Mariano di Roma, Minore Osservante. Cosa dirò di lui? Poche parole. Non aveva nessun numero, ma è stato pagato e per questa solo ragione il frate predicava. 1 GENNAIO 1828 = NUOVO GONFALONIERE Francesco Bruschi Falgari, vecchio Gonfaloniere provvisorio, avendo dato la sua rinuncia, gli fu surrogato il primo Anziano, Costantino Bruschi. Non so chi fosse più stanco: il Popolo del continuo Gonfaloniere o lui del popolo e della carica. Dirò solo che, sebbene da pochi e da se stesso fosse creduto necessario, pure si farà di meno di lui e niente di disgrazia succederà nella Patria. 14 GENNAIO 1828 = NASCITA DI FILIPPO FALZACAPPA Da Giuseppe del fu Ascanio Falzacappa e da Geltrude Lenzi di Civitavecchia è nato il bambino. Se rassomiglierà alli suoi sarà galantuomo. ma ben ristretto di testa. 18 FEBBRAIO 1828 = CARNEVALE Il Carnevale è riuscito meno clamoroso dell’anno passato, ma non per questo malinconico. Si sono avute varie feste da ballo in Teatro ed una data gratis con innumerevole concorso di popolo. Noterò che in quest’anno si è dato principio nell’ultimo giorno alli così detti “moccoletti”: cosa ancora affatto nuova per Corneto. Si spera che, prendendo piede quest’uso, possa riuscire un altro anno di molto effetto. 19 FEBBRAIO 1828 = INDULTO L’indulto della presente Quaresima è stato simile all’anno scorso. Vi sono però delle questioni sul condire o con lo strutto. Non è questa la prima disputa di moralisti che, doppo secoli e secoli, resti ancora indecisa. 8 MAGGIO 1828 = VENUTA DEL CARDINALE FALZACAPPA Il Cardinale Giovanni Francesco Falzacappa, doppo un’assenza di 14 anni, oggi è tornato a rivedere la Patria. Esso non è stato ricevuto con piacere, ma dirò con entusiasmo da tutta la popolazione che per due sere con illuminazioni generali, tanto delle chiese che delle case, ha mostrato il suo giubilo. La Commune, col mezzo della sua Magistratura, lo ha soprattutto distinto, avendo fatto incendiare un fuoco d’artificio e avendo fruttato un magnifico rinfresco per essere andato a dire la Messa nella Cappella di Palazzo. Ogni ceto di persone, tutte a gara, hanno mostrato quanto volentieri rivedevano in Patria un cittadino che onore le arreca. 18 MAGGIO 1828 = MAGISTRATURA Finalmente si è resa completa la Magistratura di Corneto. Il Gonfaloniere, Costantino Bruschi, fu installato col cominciare dell’anno. Il I° Anziano, Egidio Querciola, lo fu nel sabato della fiera ed il II° Anziano dovrebbe essere stato Domenico Ricci, ma, ammessa la sua rinuncia, fu nominato Tommaso Marzoli, che oggi per la prima volta ha indossato il “Giubone”. Essendo anziano, dalli cittadini si pretendeva fargli avere qualche variazione nel vestiario, ma questa idea, essendo cornetana, si è risposto dalli Superiori che, nulla essendovi di nuovo, si continuasse secondo il solito. 24 MAGGIO 1828 = TEATRO Una pessima compagnia diretta da una tale Straccia ha avuto l’imprudenza e la fortuna di dare varie rappresentazioni in Teatro, miste ad alcuni sufficienti balletti. Lo stare quì a ripetere che mille opposizioni si sono fatte per la parte ecclesiastica, sarebbe un replicare quello che altre volte ho detto: che si sia proibito il Teatro per le Quattro Tempora e permesso il Sabato di Pentecoste è questa ancora una delle cose belle della nostra Curia. Tornerò soltanto a ripetere che comici bricconi come questi sarà molto difficile poterli accozzare insieme. Non avevano alcun numero di abilità, né alcun numero di fantasia. 22 GIUGNO 1828 = INCENDIO AI QUERCIOLA Con dispiacere registro una infamità che da circa 29 anni non più si conosceva nel nostro territorio. Questa notte sono stati incendiati a danno della fratelli Egidio e Luigi Querciola due fienili alla lestra Selvaccia e la capanna della medesima. Inoltre si è incendiata ugualmente la capanna nella chiusa Nardeschi, in parte di loro proprietà. Possa lo scellerato che ha commesso questo delitto ricevere il meritato castigo. 3 AGOSTO 1828 = TRITATURA La tritatura della presente stagione è stata più lunga del solito per la molta paglia che aveva. Il raccolto di questo anno sarà più volte da tutti richiamato, perché veramente abbondante: da 20 anni a questa parte rammentiamo i soli raccolti del ‘12 del ‘24 e del ‘28 come eccellenti, ma il presente pare abbia superato gli altri. 7 AGOSTO 1828 = MATRIMONIO DI AGOSTINO MASTELLONI E MARIA BOCCANERA Doppo molto tempo di amore frenetico, si è celebrato il matrimonio fra Agostino di Candido Mastelloni e Maria del fu Benedetto Boccanera. Se questi sposi avessero pensato alle conseguenze del matrimonio forse oggi non lo avrebbero contratto. 18 AGOSTO 1828 = FESTA DI SANT’AGAPITO Zero, via zero, nulla è stata la festa di S. Agapito. 1 SETTEMBRE 1828 = RINUNCIA DEL DOTT. BARTOLOMEO GOTTI Un tratto della più sfacciata e decisa soverchieria ha obbligato il Dott. Bartolomeo Gotti a dare la sua rinuncia. Questo uomo, medico eccellente e di cattiva grazia, aveva incontrata la disgrazia del Cardinal Vescovo e della Famiglia Bruschi Falgari, dai quali si portava a partito sfacciatamente il suo collega, Dott. Liberali, che l’8 dello scorso luglio tentò un suicidio. Vedutosi da questi potenti che, avendo perduta la pubblica opinione del favorito loro, andava il Gotti a divenire il tutto di tutti, decisero la sua perdita. Cominciarono col calunniarlo alla Sacra Consulta, ma questo Tribunale, avendo riconosciuto la sua innocenza, fece conoscere che non voleva pretesti alle cardinalizie istanze per condannare un innocente. Vedutasi preclusa questa strada, il Vescovo si rivolse alla Congregazione di Vigilanza, esponendo che quest’uomo turbava la pace della Diocesi, talché se non erano allontanato, esso avrebbe rinunciato il Vescovato. La Vigilanza, più facile della Consulta, ordinò che fosse obbligato alla rinuncia. Il che oggi, con dispiacere universale, ha eseguito. Dirò solo che, mentre si proibiva a tutti li Preti di rilasciargli attestati a suo favore, si prendevano con gioia da quelli che li facevano contro. 12 SETTEMBRE 1828 = SOVERCHIERIA AL GONFALONIERE Avrei creduto non parlare più di soverchieria doppo la precedente, ma, pensando da galantuomo, mi sono ingannato. Dal Cardinal Vescovo si è sorpreso un ordine della Vigilanza con il quale è sospeso il Gonfaloniere e si è obbligato andare a Monte Fiascone per chiedere scuda a chi non la meritava. Non accenno i motivi che si sono addotti, perché sarei troppo lungo, ma garantisco la loro insussistenza. Mi asterrò altresì da molte osservazioni che sul proposito potrei fare. Dirò solo che con costoro quegli non è coverchiato chi non vogliono soverchiare. 28 SETTEMBRE 1828 = MESSA NOVELLA DI MICHELE BRUSCHI “More pauperum” e senza invito, ha detto il novello sacerdote la Messa in S. Giovanni. Da un lato ha fatto bene a non farsi mangiare il suo, dall’altro dirò che sono cose che si fanno una volta sola nella vita di un uomo. I studi del nuovo prete sono stati a Montefiascone, onde, se non farà altro, starà benissimo nel capitolo Cornetano. Esso ha goduto nel Seminario della grazia del Consiglio (Comunale) come patrizio. Ad onta di ciò, se nascesse una piccola cosa tra la Commune ed il Presbiterio, sarebbe, per gratitudine, contro la prima. 10 NOVEMBRE 1928 = ELEZIONE DEL GIOVANE AL SEMINARIO Avendo terminati li studi, il Canonico Don Michele Bruschi si ebbe luogo un concorso per un posto al Seminario Diocesano riservato ai giovani patrizi. Tre furono i concorrenti: Ferdinando di Giuseppe Falzacappa, Luigi di Giuseppe Dasti, Luigi di Pietro Sante Bruschi. Con voto pubblico venne nominato Ferdinando di Giuseppe Falzacappa. Una cosa degna di menzione devese aggiungere ed è che, radunati per il soopradetto oggetto i Consiglieri, la prima volta esclusero tutti li concorrenti perché il certificato di studi e di poter concorrere erasi rilasciato dal Vicario. Il che in buoni termini circoscriveva a suo piacere i concorrenti, per cui, radunati di nuovo i scrutini, furono divisi come sopra accennato. Questo tratto inaspettato del Consiglio di Corneto fà conoscere che, sebbene lentamente, pure vi s’introduce lo spirito del secolo. 17 DICEMBRE 1828 = NASCITA DI GIOVANNI FORCELLA Questa notte ha veduto la luce Giovanni Forcella, nato dal matrimonio di Costantino, figlio del vivente Vincenzo, con la figlia del q. Vincenzo Bruschi. Augurio da farsi al neonato si è che un onorifico e lucroso impiego provveda il suo genitore per poter sostenere li pesi dell’educazione. 21 DICEMBRE 1828 = CONSIGLIO DI SANTA LUCIA Non ebbe luogo il giorno 13 il solito Consiglio perché si dovette attendere la risoluzione di Roma se il Dott. Liberali potesse o non correre. Ma, essendosi con soverchieria risposto di no, si tenne il Consiglio nel presente giorno. Corsero il solo Segretario Avvolta ed il chirurgo Valentini. Al primo toccò un voto nero ed al secondo ne toccarono quattro. Chiuse il Consiglio la lettura di una lettera della Congregazione di Vigilanza con la quale si minacciavano tutti li Consiglieri perché volevano rieleggere il Dott. Gotti ed escluedere i Liberali, al che da nessuno si era pensato. Bisogna ben dire che il Consiglio di Corneto sia stato insultato e soverchiato in tutta l’estenzione della parola. 21 DICEMBRE 1828 = AFFITTO PESCA E MISURE A Giovanni Battista Marzi è stato deliberato l’affitto della pesca per 15 scudi. Una discussione così forte è nata per la proibizione di pescare con erbe venefiche, ma si è limitata alle sole reti. A Pietro Cherubini si sono affittati li pesi e misure per 25 scudi annui. 24 DICEMBRE 1828 = INCENDIO A BRUSCHI E DE SANCTIS Questa notte circa le ore 7 si è manifestato il foco nelle stalle e fienili di Bruschi Falgari, in parrocchia S. Giovanni ed alla stalla e fienile di De Sanctis, in Parrocchia S. Leonardo. La nottata quieta ed umida, come ancora i pronti soccorsi, hanno impedito la dilatazione del fuoco, nonostante il danno dei Bruschi si valuti a circa 1000 scudi, quello di De Sanctis a scudi 150. Questo genere di nuove sceleraggini comincia ad introdursi nella città ed il nuovo esempio pare che si vada estendendo, forse perché non si sono adoprate energiche misure per castigare i rei. Possa essere questa l’ultima volta che contamino la mia cronaca con esempi e racconti tanto luttuosi. 26 DICEMBRE 1828 = PREDICATORE Don Luigi Santi, Arciprete di Toscanella, ha eseguita la predicazione dell’Avvento. Esso aveva buoni esempi e cattive parti. Ma per essere di Toscanella non vi è stato male. 28 DICEMBRE 1828 = MORTE DELL’ARCIDIACONO FALZACAPPA Circa le ore 23 è spirato l’Arcidiacono Giovan Battista Falzacappa, figlio di Giuseppe e di Marianna Bovi. Esso aveva compìti, li 75 anni. Esercitò per molti anni la carica di Gestore dell’Ergastolo e, sebbene di scarsi talenti, la sua condotta irreprensibile gli aveva meritato il rispetto generale. La sua morte è stata compianta sia per lui che per la Famiglia di suo nipote Giuseppe, della quale era il sostegno ed il secondo padre. Il suo cadavere, accompagnato dal Capitolo e dalla Confraternita della Misericordia, fu portato alla Cattedrale ed ivi sepolto. 31 DICEMBRE 1828 = OLIVI Tutto il rovescio dell’anno passato è stato il raccolto di olive e, per quanto quello fu ottimo, questo è stato pessimo, perché niente affatto si è avuto né si raccolse un acino per mangiarne almeno come frutto. La tramontana ha quasi sempre dominato nel decorso mese di dicembre, quale perciò si può chiamare assolutamente asciutto ed i bisogni di acqua per tutti li oggetti si sono aumentati. GLI AFFRESCHI DELLA CAPPELLA DEL CORO NEL DUOMO DI TARQUINIA Dai documenti che il Pinzi ritrovò nel 1890 nell’Archivio di Viterbo si ha certezza che le pitture fatte nella Cappella del Coro della Cattedrale di Corneto sono opera di Antonio del Massaro detto il Pastura1) Lo Steinmann, nel suo Antonio da Viterbo, scrive che l’Arcidiacono Vitelleschi ebbe particolari meriti per l’esecuzione degli affreschi, e fa notare che lo stemma dei Vitelleschi è presente per ben due volte nelle pareti del Coro. Lo stesso Prelato, ottenuta poi la presidenza del Consiglio degli Arcidiaconi, carica già ricoperta da Alessandro Farnese, Vescovo di Corneto più tardi divenuto Papa Paolo III, - fece eleggere gli arbitri per la stima delle pitture che Mastro Antonio aveva già dipinte nel Coro. Il Pastura, avendo veduto a quale arditezza di concetti e drammaticità di forme era salito Luca Signorelli nei suoi meravigliosi e terribili affreschi del Giudizio Universale nel Duomo di Orvieto, si pose all’opera senza ormai alcuna perplessità, convinto che finalmente era capitata l’occasione per lasciare nella storia dell’arte qualcosa d’imperituro. E dette inizio al murale. Su tre vele della volta raffigurò, in un cielo intensamente turchino, Profeti e Sibille con in mano papiri svolazzanti che contengono sentenze profetiche. I tre angoli delle vele furono occupati ciascuno da tre teste di “cherubo”, fra nubi e stelle. Nella quarta vela dipinse l’Incoronazione della “Madonna e il grande triangolo è quasi totalmente occupato dalla “Mandorla”, incompleta, a fondo turchino con teste di “cherubi”. Entro la “Mandorla”, che posa su strisce di nubi, sono assisi a sinistra la Vergine e a destra il Redentore. Nella parete di destra l’Autore compose lo Sposalizio della Vergine, forse la più bella parete del ciclo, anche se ricorda lo Sposalizio della Madonna che si trova nel Museo delle Belle Arti di Caen, dipinto da Pietro Vannucci, detto il Perugino. Nella parte sottostante, alcuni resti di affresco, sembra raffigurino il Presepio2) . Nella parete di sinistra, rappresentà diversi episodi evangelici: la Nascita della Madonna, affresco di bella prospettiva ma di minor valore dell’altro, sia per cromatismo che per composizione: un bel Compianto sul Cristo Morto, dove si nota, tra il Cristo e la Maddalena, un San Giovanni che fa pensare per la morfologia della figura al San Sebastiano del Perugino ubicato nel Museo del Louvre; la Vergine col Bambino è chiusa da una “Mandorla” proiettante raggi dall’interno che, pur conservando il cromatismo originale - riacquistato dopo gli ultimi restauri - è però mancante di parti che sono state rifatte con il solo arricciato a tinta neutra. La data iniziale dei lavori fatti dal Pastura nella Cappella del Coro della Cattedrale di Corneto non si conosce, si sa però che nella primavera del 1509 erano già terminati e che il Capitolo non intendeva pagare i 450 ducati d’oro chiesti dal pittore senza che prima fossero sottoposti ad una stima. Infatti, il giorno 4 maggio 1509 le due parti contendenti s’incontrarono nella Cattedrale di Corneto: il Capitolo riunito e presieduto dall’Arcidiacono Antonio Vitelleschi e il Maestro Antonio da Viterbo detto il Pastura. Per valutare con coscienza gli affreschi in questione furono prescelti i pittori Costantino Zelli e Monaldo Corso, il primo viterbese e il secondo “Habitator Viterbii”. Prima di dare inizio alla stima, i due si sottoposero ad un giuramento; se poi i loro pareri fossero risultati discordi si sarebbe dovuta nominare una terza persona, quale arbitro riconosciuto dalle parti; infatti venne nominato supervisore “nessun altro che il Maestro Luca Signorelli da Cortona”, il quale si presentò in Corneto soltanto nell’agosto dello stesso anno, trattenendosi quattro giorni per visionare e stimare le pitture del Coro. Un documento datato Viterbo 11 agosto 1509 conferma il giuramento fatto dai due pittori e la partecipazione del terzo stimatore, Luca Signorelli. Un secondo atto, con la stessa data del primo, fa conoscere finalmente il valore dato dai tre illustri artisti agli affreschi del Pastura: il Maestro Costantino Zelli lì valutò 450 ducati d’oro, il maestro Monaldo Corso 300; Luca Signorelli, dopo lunga riflessione, dette ragione alla stima fatta da Zelli in pieno accordo con l’esecutore dei lodevoli lavori. Così fu accettata da tutti la paga dovuta di 450 ducati; e lo stesso Pastura poi pagò al pittore di Cortona due ducati d’oro al giorno, quale parcella onoraria per la stima fatta. Proprio in questi giorni mi sono stati segnalati dal Dott. Alberto Porretti, Direttore dell’Archivio di Stato di Viterbo, due atti notarili riguardanti le pitture della Chiesa di S. Margherita di Corneto. Tali documenti datati 23 settembre e 15 ottobre 1509, del Notaio Domenico di Matteo di Curzio, da Orte - credo mai pubblicati - riguardano un obbligo di pagamento che il Vicario di S. Margherita, a nome del Capitolo, s’impegna a versare ratealmente al Pastura come residuo d’una maggiore somma dovuta per le pitture eseguite nella Chiesa di S. Margherita di Corneto3) , ed una procura fatta dal Pastura ad un mercante Viterbese per la riscossione del primo rateo4) . A questo punto si può pensare che chi sostenne l’onere del pagamento al Pastura per gli affreschi eseguiti sia stato l’Arcidiacono Antonio Vitelleschi ed il Capitolo. Infatti, nelle pitture, oltre agli stemmi dei Vitelleschi, è ben rappresentato, al centro della volta del Coro, lo stemma in marmo dorato del Capitolo della Cattedrale. Nel 1643, quando la Chiesa subì l’incendio, gli affreschi furono ricoperti dalla patina del fumo, mentre il calore in quella circostanza arrivò a fondere perfino le lamine d’oro che erano state messe in alcune parti decorative. Per ridare chiarore alla Cappella si pensò, allora, di ricoprire soffitto e pareti con abbondanti strati di calce, e tutto rimase così fino al 1877, quando durante il restauro Dasti fu rimossa qualla calce che, tuttavia, era servita a coprire ma soprattutto a conservare, inconsapevolmente, le pitture nel tempo. C’è poi da aggiungere che il restauro Dasti, progettato già nel 1852 con alcuni suoi disegni, non teneva in considerazione gli affreschi nascosti dalla calce. Quando questi vennero in luce, i lavori di restauro erano già a buon punto e il Presbiterio nelle linee architettoniche era previsto, secondo il progetto, come continuazione della navata centrale senza alcun rispetto degli elementi gotici visibili anche allora. Se ancora oggi possiamo ammirare gli affreschi del Pastura nella Cappella del Coro, lo si deve al Canonico Marzi, noto cultore d’arte, il quale, forse da solo, seppe imporsi a tutto il Capitolo affinché non venisse cancellata per sempre questa preziosa memoria cornetana. Un opuscolo del tempo ne rende testimonianza: “Non si era lontani dal sacrificare queste pitture all’uniformità del nuovo disegno, se il Canonico Marzi, noto apprezzatore dell’arte antica, non si fosse interposto a procurare un ordine superiore di lasciarle intatte, scoprendole dalla soprattinta”. Le più svariate attribuzioni si dettero a questi affreschi del Coro che, prima del ritrovamento dei documenti ad opera del Pinzi, furono riportati da cataloghi, guide turistiche, visite pastorali con la paternità dei più impensati pittori di tutte le epoche. “I pregevoli affreschi del Pastura, che decorano il Presbiterio della Cattedrale di codesta Città, sono ridotti in tale stato di deterioramento che un restauro di essi s’impone urgentemente per salvarli da sicura rovina”. Così il Soprintendente Luigi Serra si rivolgeva al Podestà del Comune di Tarquinia in data 14 gennaio 1939. Gli affreschi furono, di fatto, restaurati nella primavera dello stesso anno dal Prof. Giovanni Leonardo Zamola, che eseguì un restauro integrale sotto la Direzione della Regia Soprintendenza alle Gallerie e alle Opere d’Arte Medioevali e Moderne di Roma5) . Nel 1979, ad opera del Prof. Igino Cupelloni, direttore del Laboratorio del Restauro dei Musei Vaticani, fu ripetuto altro restauro: vennero consolidati tutti gli intonaci, rimosse a bisturi tutte le dipinture che nei precedenti interventi erano state aggiunte, proseguendo infine con un restauro scientifico e riportando il colore degli affreschi alla trasparenza primitiva. In quell’occasione, nella parte di destra in basso, in una zona neutra dell’arricciato e in simmetria con lo stemma del Cardinale Giovanni Vitelleschi, fu dipinto uno stemma cardinalizio che porta la seguente scritta: “Sergius, S.R.E. Card. Tarquiniensis in pristinum restituit, 31 Martii 1979”. Lorenzo Balduini BIBLIOGRAFIA - C. Pinzi, - I principali Monumenti di Viterbo - Viterbo 1905, pp. 191 ss. - E. Steinmann, - Antonio da Viterbo - Monaco 1901, pp. 8 ss. - Archivio di Stato di Viterbo - Prot. n. 306 del notaio Domenico di Matteo di Curzio, da Orte, c.n 19 v - 20 r - L. Dasti, - Notizie Storiche Archeologiche di Tarquinia e Corneto - Roma 1878, pp. 416 ss. - Archivio chiesa cattedrale di Tarquinia, - Disegni preparatori fatti dall’Arch. Francesco Dasti per il Restauro della Cattedrale di Corneto - 1852 - Omaggio a Mons. Giovanni Beda Cardinale, Civitavecchia 1907, p. 11 - E. La Valle, - Corneto e i suoi Monumenti - Corneto Tarquinia, 1910, p. 12 - cf. E. La Valle, - Corneto Monumentale, - Corneto Tarquinia, 1914, pp. 39 ss. - U. Ferranti, - La Tuscia Artistica - Roma, s.d. p. 230 - L. Marchese - Tarquinia nel Medio Evo - Civitavecchia, 1974, p. 35 MAREMMA DI SEMPRE LA CACCIARELLA L’appuntamento, per tutti, è sul limitare del bosco, nella prima ora lucana. Cacciatori e cani sopraggiungono alla spicciolata, le narici fumiganti nel freddo invernale, ed il luogo d’incontro, già cheto, si tramuta via via in una babele di tenute venatorie, di canne da fuoco singole, appaiate e sovrapposte, di cani soprattutto. Ve n’è d’ogni razza e varietà, mole e manto, frutto, i più, di chissà quali liberi amori e miscugli e tuttavia accomunati nell’indole da un attributo deciso ed essenziale: il coraggio. Siamo, infatti, in cacciarella, e non si tratta di far levare una starna o di riportare, in bocca, l’allodola abbattuta. Occorre, come da sempre in Maremma, stanare il cinghiale dal folto scuro delle forre, braccarlo implacabilmente e sospingerlo verso le poste, e non è impresa da poco, per uomini e bestie, giacché il selvatico è fiero e pugnace, accorto e guardingo, e nella sembianza sgraziata ed irsuta cela finezze sorprendenti. Il raduno è al completo e, scorte le orme fresche “in entrata” della preda, che ne assicurano la presenza e ne dicono, all’occhio aduso, sesso, età e peso vivo, si procede secondo un cerimoniale che ha il sapore dei secoli, impone ineludibili funzioni e gerarchie, tuttora distinte da appellativi antichi, ed esige rispetto assoluto da ognuno. La cacciarella, ch’è insieme caccia alla scova, all’aspetto e in braccata, ha il suo gran sacerdote e “dominus” indiscusso nel capocaccia, a volte illetterato ma, immancabilmente, conoscitore autorevole della selva, zoologo, quanto basta, per tutto ciò ch’essa contiene di animale, perito balistico a modo suo. A lui compete di fiutare il vento e stabilire i settori di macchia da battere, vantando l’ungulato, in rimedio d’una vista corta, incredibili capacità olfattive e uditive; a lui spetta di piazzare i cacciatori alle poste, da basso o sugli alberi, tirate poc’anzi a sorte a scanso di liti e sgravio di responsabilità; a lui, infine, appartiene di armare gli appostamenti, per il tiro a palla, e dichiarare aperta la battuta. Dall’orlo opposto della selva, i bracchieri, sciolte le mute nervose, le guidano a ventaglio, in direzione delle poste schierate sottovento, attraverso intrichi di verde, sterpeti, balze muschiose e scoscendimenti e radure brevi. Qui, direbbe il Carducci, “è un gran bello stare”, discoprendosi allo sguardo, più in alto, profili dolci di colline, rocche declinate ed arcane, ove s’intuisce, posato e vigile, il barbagianni, e giù sulla piana smozzicate torri di vedetta, contro l’azzurro della marina. L’ambiente terso e il nitore dell’orizzonte restituiscono, per un attimo magico, tutt’un mondo passato, che i battitori e gli stessi canattieri presto ricacciano addietro, o forse perpetuano, pestando con impegno su bidoni, lanciando castagnole nei roveti ed aizzando i cani con ogni altro possibile clangore. Nel fracasso assordante, la torma, eteroclita e variopinta, si lancia naso a terra sull’usta e supera in corsa asperità, acquitrini, grovigli spinosi e tufi dirupati sinché riesce ad avvistare il suide, e gli uomini seguono affannati ed ansanti. Il contatto eccita irrefrenabilmente gli animali, che prendono a manifestare esultanza, ansietà e mille altre sensazioni come loro si conviene. “Mai non ho udito un più musicale disaccordo, mai un più dolce rotolìo di tuono”, fa dire Shakespeare all’Ippolita del “Sogno di una notte di mezza estate” a proposito d’una caccia al cinghiale coi segugi di Sparta, e pare davvero che l’universo circostante si unisca al concerto. Da adesso, la battuta può assumere regole diverse di svolgimento, ed aprirsi a diverse soluzioni, a seconda del sito della scovata e dell’eventuale esistenza di un branco, includente scrofe, cinghialotti e porcastri, oppure solo verri. Se costretto nella sua tana vegetale, senza possibilità di sortita dal cerchio ringhiante della canizza, il pachiderma, femmina o maschio, giovane o vecchio, oppone infatti una resistenza strenua ed eroica, che trova nel grifo, e nelle sue zanne ricurve e taglienti, l’arma principale. I cani, al massimo dell’eccitazione, l’affrontano allora abbaiando da fermo, ed il più generoso e tenace spesso soccombe, squarciato, sotto i colpi dei canini affilati. Eccelle, in tali confronti, che privato dai verri della sua autorità sul branco e scacciatone, conduce un’esistenza solitaria e raminga di vecchiardo, suscitatore di leggende, ed è già irato e rabbioso per suo conto. Ad evitare inutili stragi, i bracchieri sono autorizzati a tirare sulla preda, la quale, incassatrice formidabile, non sempre stramazza alla prima palla e carica con furia sino all’estremo. Se sorpreso in cammino, il selvatico, che ha già percepito di lontano il rumorìo insolito e s’è posto all’erta, prosegue dapprima silenziosissimo, con atavica astuzia e, quindi, incalzato sempre più da presso dalla muta, comincia una corsa sfrenata, sfrascando e travolgendo, e non v’è ostacolo che possa spegnerne lo slancio se non il piombo del cacciatore in attesa. Questi, a sua volta allertato ma impedito di mirare con precisione dalla velocità del porco, tirerà d’imbracciata e da corto, ciò che non è affare da tutti. Se in branco, gl’individui tendono inevitabilmente a disperdersi, scompaginando la muta in più gruppi, ed allora la macchia rintrona di fughe in rotta, di rincorse e di schianti, ed ogni posta finisce con l’avere il suo premio. Smorzatasi l’eco degli spari, l’adunata dei cacciatori, bracchieri e battitori si ripete, dopo che un pianale ha raccolto le prede sulle poste o nei dintorni, ove s’è arrestata la fuga e compiuto il destino. La ricognizione dei selvatici può riservare non poche sorprese. Vecchie ferite, d’arma o da morso, e lacerazioni ispessite appaiono, sovente, sulla cotenna, tra il pelame setoloso e striato, e qualcuno si rammemora d’altre battute e si convince e proclama d’aver chiuso un conto pendente. Per inveterata costumanza, i capi vengono sbuzzati, e le interiore gettate ai cani, che contendendosele se ne saziano. Seguirà l’equa ripartizione delle spoglie tra la brigata, con l’unica eccezione dei trofei, appannaggio esclusivo degli abbattitori. In tale incombenza, è invero ben raro cogliere quei sintomi di spietatezza, atrocità e truculenza denunciati da ecologi improvvisati e dimentichi di Sant’Umberto. Anche il vagheggiato mondo bucolico viveva, per altro, eventi siffatti, e non staremo, qui, a scomodarne gl’illustri cantori. La moderna scienza, dal canto suo, ha ammesso che solo la caccia tempera la smisurata prolificità del rustico e ne rende tollerabile la presenza, ma questa è, comunque, altra questione. Liberati i cani dagli spini, per gli abili epigoni della grandissima tradizione venatoria della cacciarella, che rimonta alla notte dei tempi, giunge il momento del riposo, cosiccome per Ercole dopo la cattura del cinghiale d’Erimanto, devastatore dell’Arcadia. Al levar del campo, ciascuno, aristocratico o bifolco, erudito od incolto, si volge quasi all’unisono alla selva, di nuovo tacita e misteriosa, ed i volti stanchi palesano un moto di riconoscenza per quest’integra natura laziale che riserva emozioni ed avventure esaltanti. Ancora una volta, l’uomo ha vinto sull’animale e, certamente, schioppi automatici, archibugi di precisione e doppiette gloriose non hanno contato granché nella lotta. Del resto, sui dipinti a fresco e sulle decorazioni vascolari degli ipogei etruschi, disseminati in terra di Maremma, il cinghiale figura trafitto da lancie e frecce. Ha, dunque, vinto l’uomo, ora come allora, perché così è esattamente scritto che sia. Romeo Manfredi Rotelli SUI PROVERBI CORNETANI C’è a Tarquinia, sulla bocca di molti, un detto che suona così: “I proverbi vengono prima del Vangelo”. Quasi a voler confermare la giustezza di una sentenza e rafforzare l’altrui convincimento. Tale detto però ha una sua logica, un suo fondamento di verità perché chi lo pronunciò per primo, sapeva assai bene della fondatezza storica e bibliografica di simile affermazione. Chi infatti ha una modesta cognizione della Sacra Scrittura, avrà avuto anche modo di accorgersi come il Libro dei Proverbi sia stato scritto ancor prima del Vangelo che chiude, con gli Atti e le Lettere degli Apostoli e con l’Apocalisse, i testi della Bibbia. Se è vero che “i proverbi sono la sapienza dei popoli”, abbiamo voluto fermare l’attenzione anche sui proverbi tarquiniesi (o cornetani che dir si voglia) perché essi sono frutto di osservazione paziente, di meditazione profonda, di pensiero popolare: comprendono cioè quel genere letterario, detto gnomico, per i suoi significati religiosi, morali, vaticinanti, con incisi a volte caustici a volte arguti: e che oggi l’alfabetizzazione a tutti i costi (che è pure ottima cosa) sta distruggendo, con un livellamento pseudo-culturale di puro stampo politico. Ne dà testimonianza la soppressione del latino e del greco nelle scuole per un graduale allontanamento dei giovani dagli studi umanistici verso quelli tecnologici e scientifici, diversamente da altre nazioni che consentono tuttora e con una serietà ammirevole lo studio di queste che troppo superficialmente vengono definite “lingue morte”. Cosicché le tradizioni e le radici culturali della nostra gente sono state distolte verso un unico obiettivo, la macchina, in funzione sostitutiva della ragione umana. E’ vero che è in atto uno sforzo di recupero di queste culture popolari e tradizionali; ma poiché, tanto per restare in argomento, è inutile chiudere la stalla quando i buoi se ne sono andati, abbiamo i nostri dubbi che, almeno per il momento, possa accadere un secondo Umanesimo e un secondo Rinascimento sia pure tecnologico e scientifico, ma non disgiunto da quello artistico e letterario. Del resto Colombo e Leonardo, Raffaello e Machiavelli, Galileo e Pierluigi da Palestrina, Michelangelo e Tasso, sono gli emblemi di una cultura rinascimentale che ha sviluppato la ricerca umana e riscoperto i valori classici di un passato che a nessuno venne mai in mente di rinnegare, ma solo di trasformare ed evolvere. Se Colombo da un lato e Galileo dall’altro hanno stravolto la visione tolemaica di Dante, nessuno dei due ha mai pensato di aver sotterrato per sempre la Divina Commedia, che esiste e resiste al di là di ogni errore astronomico, geografico e scientifico. Nè altri hanno mai rinnegato il valore dell’opera poetica di Omero e di Virgilio sol perché impostata su credenze religiose oggi considerate fallaci e superate. Ma non lasciamoci prendere la mano da un discorso che potrebbe suscitare reazioni polemiche. Solo abbiamo creduto che stampando questi nostri detti popolari o proverbi, si possa fare opera di recupero di quella cultura contadina di cui i politici oggi si riempiono la bocca (e solamente quella). Così non andrà perduta una messe di tradizioni che, forse, in tempi meno convulsi, troverà lettori, studiosi e ricercatori: fino a quando - come disse pessimisticamente parlando il Foscolo - “il Sole risplenderà su le sciagure umane”. E di sciagure, veramente, se ne profilano parecchie sull’orizzonte del nostro futuro. Si ringrazia il socio Augusto Belli che ci ha fornito l’estro e l’occasione di queste considerazioni e parte del materiale che andiamo qui di seguito pubblicando. PROVERBI CORNETANI. Intorno ai venti: - Tramontana de bon core dura tre o sei o nove. - Levante quajjie tante ponente quajje gnente. - Levante si nun piove è ‘n gran birbante. - Libeccio come trova, lassa. - Se voe che la staggione sia valente la notte tramontana e ‘l dì ponente. - Tanto vento tanta acqua. - Aria rossa o piove o soffia. - Si s’annuvola su la brina aspetta l’acqua domani mattina. - Ponente caval de tramontana - La tramontana de marzo nun se l’è magnata ‘l gatto. Intorno alle stagioni e ai mesi dell’anno: - Pe’ l’Innocentini so finite le feste e li quatrini. - La pasqua Epifania tutte le feste se le porta via Arisponne sant’Antogno: “Trucci là che c’è la mia. - Marzo asciutto ma non tutto. - Alta la Pasqua lungo l’inverno. - Trama d’aprile ojjo a barile; trama de maggio ojjo p’assaggio. - Lumaca d’aprile bocca gentile: lumache de maggio làssele anna ‘n viaggio. - Fave in fiore acqua a rumore. - Se piove pe’ san Marco prepara la pala e ‘l sacco. - Se piove li quattro d’aprilanti quaranta dì duranti. - A maggio se risentono li somari. - Quanno canta el cucco la mattina è mollo e la sera asciutto. - Maggio ortolano tanto pajja e poco grano. - Bono maggio quann’è fresco. - Lero lero lero el carciofolo ha messo ‘l pelo e l’ha messo de vantaggio doppo aprile, viene maggio. Se piove pe’ l’Ascensione ogni spiga perde ‘n cantone. Pe’ san Giovanne verde o secco, tajja le canne. - L’ombra dell’estate fa dolè la panza l’inverno. - Giugno, luglio, agosto mojje mia nun te conosco. - A settembre l’uva è fatta e ‘l fico pende. - Pe’ san Martino ogni castagna vale ‘n quatrino. - Quanno Monte Argentaro mette ‘l cappello sciojje biforco e scarta monello. - Santa Lucia la giornata più corta che ci sia. Pe’ Natale ‘na zampa de cane. Pe’ sant’Antogno ‘na zampa de porco. Natale al sole Pasqua al tizzone. Intorno alle vicende umane: - Le quatrine mannono l’acqua per l’insù. - L’acqua va sempre al mare. - Mejjo puzzà de merda che de miseria. - Fa quel che ‘l prete dice e non quel che’l prete fa. - Beata quella casa ‘ndo ce sta la chierica rasa. - Fino a la morte ogni cojjon ci arriva. - L’acquacotta la panza abbotta. - Pasqua la butteresca tanto pane e gnente ventresca. - Consòlate poeta fino a Pasqua che doppo Pasqua ogni poeta abbusca. - Chi magna la polenta e beve l’acqua alza la coscia e la polenta scappa. - Gli anni come li bicchieri del vino nun se contono mai. - Chi canta per amore e chi pe’rabbia dice l’ucello chiuso ‘nde la gabbia. - A levata de sole canta ‘l gallo. - L’ospite è come il pesce doppo un giorno, puzza. - Omo de vino nun vale un quatrino. - Li quatrini so’ come li dolori: chi che l’ha, se li tiene. - Uscio uscio e ognuno a casa sua. - Chi bello vuol comparì qualche cosa bisogna soffrì. - Chi beve l’acqua de Fontana Nova sempre a Corneto se ritrova. - Marmetta rintronata cent’anni va per casa. - Del bene che tu fai nun devi avè vergogna che tanto ‘l più pulito ci ha la rogna. - Chi nun fa la novena de Natale fa la morte come ‘n cane. - Chi nun è bono pe ‘l re manco pe’ la reggina. - L’omo saggio nun se leva la majja fin’ a maggio. - Quel che para ‘l freddo para pure ‘l callo. - Chi magna solo se strozza: chi magna accompagnato more strozzato. - A l’ucello ‘ngordo je crepò ‘l gozzo. - Il somaro careggia ‘l fieno e magna la pajja. - La processione da ‘ndo esce, entra. - Li soldi fatti col finfirinfì se ne vanno col finfirinfà. - Metteje la frocetta al villano. - Chi more va a la fossa chi resta se conforta. - Commanna e fa da te sei servito come ‘n re. - Chi guarda troppo la carne dell’altri la sua je la magnono li cani. - Chi ride de venerdì piagne, sabbato, domenica e lunedì. - Brutta ‘n fascia bella in piazza. - Persona nominata lontano ‘na sassata. - Na madre è bona pe’ cento fijji cento fijji nun so boni pe’ na madre. - Lavora vecchio che la pelle è dura. - L’omo è cacciatore si nun caccia è ‘n gran minchione. - Pe piove e pe’ cacà nun se deve mae pregà. Ci ha li guanti, ci ha le ghette ma li buchi a le carzette. Nun c’è peggio sordo de quello che fa finta. - Li confetti nun so’ fatti pe’ li somari. - Tre pe’ la prescia e quattro pe’ la paura. - Come me soni, te canto. - Il troppo, stroppia. - E’ tutta voce e penne come ‘l cucco. - Chi nunbecca ha beccato. - Mòrono più agnelli che pecore. - Lassa fà a Dio ch’è un santo vecchio. - Panza piena nun penza a quella vòta. - Le ricotte vengono come le fuscelle. - Chi maneggia ‘l mèle se lecca le dita. - Chi amministra amminestra. - Va’ con chi è più di te e fajje le spese. - Chi nun mostra nun vénne. - Ci ho da fà più io che chi more de notte. - Io vo del passo mio e tu la vacca tièlla. - Cerchio vicino acqua lontana. Cerchio lontano acqua vicina. (+) _________________ (+) Riferito all’alone della luna nel cielo, quando c’è nebbia. - Gobba a ponente luna crescente, gobba a levante luna calante - Chi pecora se fa - l lupo la magna. Bruno Blasi CRONACA DELL’ANNO 1983 Nel periodo compreso fra la primavera e l’autunno sono state effettuate, a favore dei nostri Soci, alcune gite turistico-culturali nelle Marche, con soggiorno e visita a S. Benedetto del Tronto, ad Ascoli Piceno, a Macerata, a Pesaro e ad Ancona, per un periodo di sette giorni. Altre visite, della brevità di una giornata, sono state effettuate a Palestrina per la visita al famoso “Tempio della Dea Fortuna”; a Roma, per la visita ai Musei Capitolini e a S. Maria di Aracoeli; a Talamone per ammirare il frontole fittile di età etrusca; e a Vulci per visitare il Castello della Badia e l’annesso Museo Etrusco. Frattanto il nostro archivio-biblioteca si è arricchito di due nuove vetrine, dono alla Società dei Soci, architetti proff. Sandro Benedetti e Gaetano Miarelli Mariani. All’inizio dell’estate si sono svolte le elezioni per il nuovo Consiglio Comunale e per quello Provinciale. Al termine delle votazioni, la nuova Amministrazione Comunale è stata concordata fra i partiti del PSI, della DC e del PSDI; il PCI, dopo anni e anni di governo della città, è passato all’opposizione insieme al PRI e al MSI. Sindaco della città è stato riconfermato il signor Meraviglia Roberto, socialista, mentre la Giunta Esecutiva è stata formata dai sigg. Chiatti Corrado, Ceccarini Alberto, Mazzola Sandro della DC; dai sigg. Fanelli Antonio e Zanoli Giuseppe del PSI; e dal sig. Castellini Giuseppe del PSDI. Lo stesso sindaco Meraviglia è stato anche eletto consigliere provinciale. Fra i mesi di luglio e agosto, sono ripresi i lavori di scavo alla Civita di Tarquinia da parte di un gruppo di giovani archeologhe, sotto la direzione della prof.ssa Maria Bonghi Jovino, ordinaria di Etruscologia e Archeologia Italica all’Università di Milano; mentre nell’ottobre sono stati effettuati, sotto la sorveglianza della Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria Meridionale, alcuni saggi sulla parte antistante l’Ara della Regina, per accertare l’esistenza o meno di altri frammenti di terracotta per la ricomposizione del frontone di cui si conoscono solamente il gruppo fittile dei Cavalli Alati. Essendo stato lo scavo di breve durata, sono emersi pochissimi reperti. Lo scavo è stato tralasciato in attesa forse di una ripresa nell’estate 1984. La nostra Società, in collaborazione con il Comune e l’Etrusculudens, ha allestito una Mostra nelle sale della propria sede, come 1ª Biennale di Ceramica Moderna, per la durata di un mese. Dopo la quale, in collaborazione con i “Remanders” di Roma ha allestito una Mostra del Libro presso la Sala Sacchetti della STAS in via dell’Archetto e all’interno della cosiddetta Torre di Dante, al viale Luigi Dasti. Nell’Auditorium di San Pancrazio è avvenuta la proclamazione delle opere di poesia e di giornalismo in occasione della X Edizione del Premio “Vincenzo Cardarelli” a cura dell’Assessorato Regionale al Turismo di Roma e dell’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo dell’Etruria Meridionale. Si è tenuto nella nostra Sede un Convegno per la proclamazione da parte della CEE dell’anno 1984, come Anno Internazionale dell’Etrusco. Fra gli altri, era presente l’on. Puletti, deputato del PSDI presso il Parlamento Europeo. Il convegno era stato promosso dal Presidente dell’AASTEM, prof. Remo Castellini. Poiché nell’anno 1983 veniva a ricadere il 2° Centenario della nascita di Stendhal, che fu console generale a Civitavecchia e appassionato cultore dell’Archeologia, la nostra Società, in collaborazione con la Cassa di Risparmio di Civitavecchia, ha tenuto nella nostra Sede un Convegno per rammemorare l’avvenimento. Oratore ufficiale è stato il prof. Giancarlo Vigorelli, presidente degli Scrittori Europei e del Centro Studi Manzoniani di Milano. Ha partecipato anche il dott. Gian Franco Grechi, della Biblioteca Comunale di Milano. Al termine della manifestazione è stata scoperta una lapide sulla facciata del Palazzo Falzacappa, in via dello Statuto, a ricordo della permanenza dello scrittore francese a Corneto nel 1840, ospite dei Conti Falzacappa. Nel pomeriggio è stato tenuto un concerto pianistico di musiche chopiniane nel salone del Palazzo Bruschi; esecutore il pianista Andrea Serafini di Roma. Alla commemorazione erano presenti il Presidente della Cassa di Risparmio di Civitavecchia, dott. Enrico Vittorio Tito che ha tenuto il discorso di apertura della manifestazione, il Console Generale dell’Ambasciata di Francia a Roma che ha ringraziato a nome dell’Ambasciatore della Repubblica Francese, il Cardinale Sergio Guerri, presidente della S.T.A.S., e molte altre Autorità di Tarquinia, Civitavecchia e Viterbo. A tutti i convenuti è stata offerta una “plaquette” contenente, altre notizie bibliografiche e biografiche di Stendhal, anche un saggio inedito dal titolo “Les Tombeaux de Corneto”, tradotto per la prima volta dal nostro socio Bruno Blasi. Il Vescovo Diocesano, mons. Antonio Mazza, è stato assegnato alla Diocesi di Piacenza: a sostituirlo come Amministratore Apostolico è stato nominato dalla Curia Romana il Vescovo di Grosseto, e successivamente S.E. Girolamo Grillo, è divenuto titolare della nostra Diocesi. L’ultimo avvenimento culturale della nostra Società è stata la presentazione di un libro dal titolo “Corneto com’era” scritto e curato dai Soci Mario Corteselli e Antonio Pardi: volume che è stato molto apprezzato dal numeroso pubblico presente nella nostra Sede. Chiudiamo queste cronache con due notizie assai interessanti per la conoscenza urbanistica e archeologica della nostra città: la prima riguarda la scoperta di un elegante loggiato di un antico palazzo sito in via S. Leonardo, adiacente alla stessa chiesa, venuto casualmente alla luce durante i lavori di restauro. La riapertura del loggiato, camuffato e avvilito da murature posticce e deturpanti, dà decoro e dignità ad una costruzione già disabitata e abbandonata. La seconda scoperta riguarda i resti di un antichissimo muro castellano, emerso dal sottosuolo durante i lavori di adattamento di un magazzino su piazza Soderini, nelle adiacenze di Palazzo Vitelleschi. Tale muro castellano si differenzia da quello medievale perché più antico, e si trova sull’allineamento dell’altro muro perimetrale del Palazzo Luzi, in Piazza Cavour e di cui si parlò in un nostro articolo sul Bollettino dell’anno 1981, sotto il titolo de “Il Castello di Corneto”. Tale reperto conferma sempre di più la presenza di un Castello di Corneto in epoca precedente alla costituzione in Municipio della nostra città, ancor prima della creazione dell’Arme della Comunità che ha creduto far provenire il nome di Corneto dall’arbusto del corniolo. Questi, per sommi capi, e sotto forma di cronaca, i fatti e gli avvenimenti che hanno caratterizzato a Tarquinia l’anno di grazia 1983. Gli statuti della città di Corneto MDXLV, a cura di Massimo Ruspantini, (Fonti di storia cornetana - 2), Tarquinia Società Tarquiniense d’Arte e Storia, 1982. Ente Ottava Medioevale di Orte, Statuti della città di Orte, [ a cura di] Delfo Gioacchini, Aulo Greco, Maria Teresa Graziosi, s. l. [Viterbo], 1981. L’anno successivo poi è apparso il volume di don Delfo Gioacchini, La comunità ortana nei secoli XV e XVI e con particolare riferimento agli Statuti del 1584, Orte 1982. - Lo Statuto di Roma Priora del 1547, a cura di Renato Lefevre (Testimonianze del Lazio antico e moderno - I e II) Roma 1982. - Lo Statuto di Santo Resto, a cura di Francesco Zozi, Roma 1982. - Ricordo, per la nostra regione di C. Calisse, Statuti della città di Civitavecchia, Roma 1885 e Statuto inedito di Veiano. Partecipazione alla storia del diritto Statutario nella Provincia Romana, Roma s.d. - Cfr. ad esempio gli Statuti della Provincia Romana, in Fonti per la storia d’Italia...., a cura di V. Federici, Roma 1930. Gli interventi sono stati determinati, in buona parte, dallo sviluppo del Piano di censimento dei beni culturali promosso dalla Regione Lazio nel 1978. Ne danno notizie i nn. 3 e 4 della “Rassegna degli Studi e delle attività culturali nell’Alto Lazio” (3-82, 4-83) Da La nostra storia, a cura di J. Le Goff, Milano, Mondadori, 1980, pp. 23-24. M. Caravale - A. Caracciolo, Lo Stato Pontificio da Martino V a Pio XI, Torino 1978, pp. 352356. Ivi, pp. 353-354. Ivi, pp. 395 - 396. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 1982. - Ivi, p. 8. - Ivi, p. 88. - Iv, p. 117. Ivi, p. 155. Ivi, pp. 148-150. J. Delumeau, Vie economique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVI siècle, Paris, 1957-1959. Gli Statuti, cit., pp. 97-106. Ivi, pp. 100-101. - Ivi, pp. 106. 1) Francesco Ogliati - Franco Sapi - Partiamo insieme - Storia dei trasporti Italiani - Lazio Abruzzi - Molise - Molina 1974 pag. 178 e s. 2) Archivio Sacchetti, Roma. 3) Domenico Boccanera. 4) Urbano Sacchetti figlio di Girolamo nato a Roma 25-5-1835 morto a Roma 2-2-1912 - Era Foriere Maggiore dei Sacri Palazzi Apostolici ed in tale veste aveva modo di avvicinare il Pontefice. 5) Il m.se Girolamo Sacchetti era morto in Roma il 13 giugno 1864. 6) La Società delle strade ferrate Romane. 7) Monsignore Delegato di Civitavecchia - Mons. Ferdinando Scapitta dal 1865 al 1870 - Lo aveva preceduto dal 1860 Mons. Lorenzo Randi. La Delegazione di Civitavecchia insieme con la Delegazione di Viterbo formava la Provincia del Patrimonio. La Delegazione di Civitavecchia comprendeva oltre al capoluogo Corneto, Tolfa, Toscanella, Cerveteri, Montalto, Allumiere, Civitella Cesi, Manziana e Monteromano. 8) Lo scrivente elenca le aziende di proprietà di Urbano Sacchetti che, nelle due soluzioni, verrebbero ad essere attraversate dalla nuova linea ferroviaria. 9) Don Francesco Boccanera. 10) Ministro del Commercio, Belle Arti e Lavori Pubblici era il Barone Comm. Pier Domenico Costantini Baldini. 11) Conte Pietro Falzacappa. 12) Camillo Sacchetti n. Roma 2-8-1836 morto a Roma 26-02-1909 era il fratello di Urbano. 13) Era Gonfaloniere di Corneto il signor Giuseppe Dasti. 1) Antonio da Viterbo, Antonio del Massaro detto anche il Pastura (Viterbo 1450 c. - prima del 1506), pittore Italiano. Lasciò affreschi a Roma (appartamento Borgia in Vaticano, con il Pinturicchio) a Orvieto (tribuna del duomo e a Tarquinia coro del duomo), riprendendo, in un’aura raffinatamente estatica, motivi del Perugino e del Pinturicchio. (Enciclopedia dell’Arte Garzanti, Milano 1979, pag. 20). 2) Potrebbero essere resti di pitture più antiche fatte prima del ciclo del Pastura. 3) Archivio di Stato di Viterbo. Prot. n. 306 del Notaio Domenico di Matteo di Curzio, da Orte c.n. 18. r. - 19 r. 23 settembre 1509. L’atto è rogato in Viterbo nel Palazzo del Card. Farnese presso la porta Salcicchia (S. Pietro). Controversia tra il Capitolo e i Canonici della Chiesa di Corneto da una parte e il Pastura pittore viterbese dall’altra sopra il prezzo convenuto relativo alle pitture nella chiesa di S. Maria Margherita della città di Corneto dipinta dallo stesso Pastura. Presentatosi personalmente davanti a me Notaio il Venerabile uomo Don Francesco d’Arezzo Vicario della chiesa cornetana, che asserisce di essere mandato dal Capitolo e dai Canonici per comporre la lite col Pastura, come risulta dettagliatamente dall’atto rogato dal Notaio cornetano Belverde, (1) riguardo al prezzo di detta pittura per il residuo della somma totale. Davanti al Rev . Don Bartolomeo da Lucca uditore del Card. Farnese, il Pastura dichiara di dover avere dai Canonici e dal Capitolo di Corneto dei soldi. Francesco d’Arezzo dichiara di essere debitore nei confronti del Pastura del residuo della somma totale per la pittura suddetta e precisamente di ducati d’oro larghi 160, il quale pagherà in tre rate, e s’impegna, 1° a pagare qui a Viterbo nella prossima festa di Tutti i Santi ducati d’oro larghi 50, 2° nella festa di Pasqua di Resurrezione di N.S.G.C. prossima, altrettanti, e nella festa di S. Giovanni Battista del mese di giugno prossimo, altri 60 ducati d’oro larghi. Nel caso che il Vicario Don Francesco d’Arezzo, non pagasse qualcuna delle suddette rate, incorrerà nella pena di 25 ducati d’oro larghi per ogni insolvenza, che il Pastura potrà pretendere nella Curia di Viterbo, in quella di Corneto ed in qualsiasi altra Curia egli crederà opportuna, davanti a qualsiasi giudice. Il Pastura da parte sua è tenuto a rispettare le seguenti condizioni: Se in tutto il tempo del pagamento delle tre rate, la pittura o verosia le pitture predette, per un qualche difetto derivante dall’incapacità del Maestro esecutore ex magisterio o per materiali impiegati non idonei, le pitture saranno danneggiate, lo stesso Pastura a sue spese dovrà optare et dipingere et in bona et laudabili detta pittura. Verificandosi altresì e precisamente per un accidente fortuito e imprevedibile, il Pastura non sarà tenuto ad alcun adempimento. Don Francesco si obbliga a pagare quanto sopra con giuramento sacerdotale davanti ai testi e a me Domenico Curzio ortano Per questo atto non ho avuto nessun compenso. (1) Nell’Archivio dei Notai di Corneto, l’atto del Notaio Cornetano Belverde, non esiste. 4) Archivio di Stato di Viterbo. Prot . n°306 del Notaio Domenico di Matteo di Curzio da Orte c.n. 19 v. - 20 r. 15 ottobre 1509. L’atto è rogato in Viterbo davanti a porta S. Angelo verso la casa di Giovanni Cordelli. Si è presentato davanti a me il discreto uomo Antonio detto il Pastura, pittore viterbese, il quale nomina suo procuratore Gerolamo di Pietro de la Donata mercante viterbese, per riscuotere in suo nome 50 ducati d’oro da Don Francesco d’Arezzo Vicario della Chiesa cornetana, in occasione di un accordo raggiunto, come dall’atto precedente, in relazione al prezzo di una pittura che lo stesso Pastura ha fatto nella chiesa cornetana, come prossima paga dovuta nella prossima festa di Tutti i Santi. Con questa condizione: Gerolamo può rilasciare quietanza a Don Francesco e può trattenere il denaro a titolo di deposito; dovrà restituire il denaro ad Antonio al momento che questi lo richiederà. 5) Il restauro fatto nel 1939 agli affreschi, comportò una spesa di lire 6.000. A detta somma, contribuirono con L. 4300 il Comune di Tarquinia, con L. 1000 il Capitolo della Cattedrale, L. 500 furono messe da S. E. Mons. Luigi Drago, Vescovo di Tarquinia e Civitavecchia, e L. 200 furono messe dal Banco di Santo Spirito.