MENSILE DELLA CARITAS ITALIANA - ANNO XXXVI • N. 4 APRILE 2003 • Spedizione in abbonamento postale articolo 2 •comma 20/C • legge 662/96 • filiale di Roma
SOMMARIO
ITALIACARITAS
Mensile della Caritas Italiana
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dell’8/2/1969 Tribunale di Roma
Chiuso in redazione il 24 marzo 2003
AVVISO AI LETTORI
Italiacaritas viene inviato per due anni a tutti gli offerenti, perché possano verificare concretamente la destinazione delle loro offerte ed essere aggiornati periodicamente su tutte le attività della Caritas Italiana.
Le offerte inviate alla Caritas Italiana vengono destinate secondo le finalità specifiche indicate dagli offerenti. Quelle senza esplicita causale vengono destinate ai bisogni più urgenti. Gli interessi che maturano
dalle somme in transito, vengono utilizzati per interventi di emergenza o per progetti di sviluppo.
Le offerte destinate ai Paesi in via di sviluppo sono
deducibili ai sensi della Legge n. 49 del 26/2/1987.
Non è necessario allegare alla dichiarazione dei redditi la ricevuta: basta conservarla per cinque anni. La
Caritas Italiana, su autorizzazione della CEI, può trattenere fino al massimo del 5% sulle offerte per coprire i costi di organizzazione, funzionamento e sensibilizzazione.
Le offerte possono essere inoltrate alla Caritas Italiana tramite:
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Padova C/C n. 11113 – Abi 5018 – Cab 12100
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C/C 100807/07 – Abi 03069 – Cab 05032
• Cartasì e Diners, telefonando al n. 06/541921, in
orario d’ufficio.
Anno XXXVI n. 4 – Aprile 2003
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4
5
La Pasqua e
la ragione tradite
dalla violenza
La tempesta che
rivela il Signore
accantonato
Il Vangelo e i
forestieri, ascoltare
è annunciare
6
7
EDITORIALE
IL PUNTO SU
PAROLA E PAROLE
IL PUNTO SU
DA ESCLUSI A CITTADINI
Salute mentale, un
Una Corte
“visionaria”, la pace diritto che interpella
il cristiano
affidata alla legge
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12
Welfare formato
Maroni, quattro
ombre da fugare
Servizio sul doppio
binario, i valori
da non disperdere
VOLONTARIATO E DINTORNI
POLITICHE SOCIALI
16
18
“Fuoco amico”
sull’Onu, la guerra
che frammenta
L’Europa amplia
Gli Ogm contro la
i confini, saprà
carestia? Zambia,
essere più solidale? lezione di coraggio
OSSERVATORIO DI CONFINE
OBIETTIVO EUROPA
20
GLOBALCONTINENTI
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24
Riscoperta e mille
crisi, un decennio
da testimoni
La prigione e
il ristorante, Khalil
cerca una strada
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28
Hanno collaborato:
Morandi: C’era un
ragazzo, purtroppo
combatte ancora
Donne e malati
di Aids, aiuti
al Corno d’Africa
NON SOLO EMERGENZE
A TU PER TU
UN VOLTO UNA STORIA
IN FONDO AL MESE
In copertina:
donna in un ospedale iracheno (foto di Carlos Reyes-Manzo
per Caritas Internationalis)
Davide BERNOCCHI
Alberto BOBBIO
Livio CORAZZA
Manuela GALIZIA
Annalisa MAZZELLA
Agostino MELONI
Cinzia NEGLIA
Giovanni SALVINI
Segundo TEJADO
Marco TOTI
editoriale
La Pasqua e la ragione
tradite dalla violenza
Vittorio Nozza
È
significativo che il Catechismo della
Chiesa Cattolica (n. 2308), riprendendo la Costituzione pastorale
Gaudium et Spes (n. 79), consideri la guerra un dato di fatto storico, inerente alla
condizione di peccato, non ancora estirpata dal diritto. E nemmeno si sbilanci
nel dire se mai lo sarà. La presuppone
quindi, evidentemente condannandola, e
legittima l’uso della forza come risposta
difensiva a una guerra. Se ne deduce un
no all’inizio della guerra e un sì, casomai,
a una risposta difensiva, che non è nemmeno qualificata come guerra.
Difficile è però stabilire chi sia il vero iniziatore, nelle situazioni storiche concrete,
e se sia ammissibile una guerra preventiva
di legittima difesa. Qui entrano in gioco
elementi di valutazione etica e politica. È
evidente che scatenare una guerra per
prevenire la guerra è una rottura della ricerca dialogica di soluzione del conflitto,
senza la certezza di evitare una guerra più
vasta: chi può garantirlo? Più facilmente
si può prevedere l’opposto: cioè che una
guerra preventiva possa soffocare nell’immediato una guerra ipotetica, ma allarghi
lo spirito di rivalsa e quindi l’occasione di
una guerra futura. E la legittima difesa
previa sembra piuttosto lo strumento per
portare a evidenza e innalzare a definizione di guerra un pericolo già esistente e un
conflitto latente, per poterli demonizzare
e punire, senza affrontarli per la via spossante della ragione, che comunque e sempre dialoga.
I luttuosi avvenimenti terroristici degli ultimi tempi ci hanno sbigottito per la loro
tragica dimensione e per la loro carica di
disumanità. Ma l’angoscia sembra oggi
sostituita dalla frustrazione e dall’enfasi
della punizione. Una campagna militare
insinua l’idea che d’ora in poi bisognerà
3
usare sempre più la forza, che la forza è il
mezzo principe per ripristinare la sicurezza e che la tecnica dell’Occidente ha i
mezzi per vincere il male. Ma si trascura
che il mistero del male è tuttora e sarà fino alla fine dei tempi all’opera, in zone e
forme che noi ci limitiamo a rimuovere
dalla nostra visuale.
Senza scomodare le radici diaboliche del
male, occorre ricordare che la brutalità
della violenza esprime i suoi effetti nefasti
non solo in dolorose conseguenze immediate (la morte di tanti innocenti e immense distruzioni), ma li prolunga nell’accecamento del giudizio, dove rischia
di far breccia una logica fondamentalista
che coinvolge l’offesa e la risposta.
La violenza continua a inquinare i nostri
cuori e i rapporti tra gli uomini. I gesti
più quotidiani e familiari nascondono e
nutrono tentazioni incessanti alla violenza. I rapporti sociali non sono mai senza
conflitti. E i rumori di guerra non hanno
mai abbandonato le nostre città e il nostro mondo. Non dobbiamo mai addormentarci e abbassare la guardia contro i
demoni della violenza che sono dentro
noi e attorno a noi.
A partire dalla domenica di Pasqua c’è un
grande cero accanto all’altare. Nella liturgia esso è il segno del desiderio che il Signore ha di illuminare con la sua Pasqua
situazioni chiave della nostra vita e della
storia dell’umanità. Se fossimo abbastanza coraggiosi da permettere a Lui di essere la
nostra Pasqua, raggiunta la riva che sta al
di là del Mar Rosso, al di là della pauraschiavitù che ci rende piccoli, invidiosi,
calcolatori, cattivi, disperati, incapaci di
accettare i limiti e il grande limite che è la
nostra finitezza, noi tutti faremmo come
Giovanni. Cadremmo in ginocchio escla■
mando: «È il Signore!».
Se fossimo
abbastanza
coraggiosi da
permettere a
Gesù di essere
la nostra
Pasqua,
potremmo
resistere alla
tentazione
della
brutalità che
si fa guerra.
E che acceca
il giudizio,
sottraendoci
alla via
spossante
del dialogo e
trasformando
l’angoscia
in enfasi
della
punizione
aprile 2003
parola e parole
La tempesta che rivela
il Signore accantonato
Giovanni Salvini
Gesù messo da
parte si
addormenta.
Ma quando
la burrasca
coglie la barca
dei discepoli,
lo svegliano
con un
rimprovero.
Lui replica:
«Perché avete
calpestato
l’alleanza?».
Nell’emergenza
si rivela
quanto
è pericoloso
confinare Dio
ai margini
della nostra
vita
aprile 2003
Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il
mare obbediscono?
(Mc 4,41)
C
ome spesso avviene nel Vangelo –
libro di domande, più che di risposte
– l’episodio che conclude il quarto
capitolo di Marco culmina con un
interrogativo che rimane aperto, rivolto al
lettore o meglio all’uditore del Vangelo. La
domanda è suscitata da una manifestazione
di potenza da parte di Gesù, che doma la
tempesta e sgrida il vento, che gli
obbediscono immediatamente. Il Signore
manifesta in questo modo prerogative che
appartengono solo a Dio, Creatore e Signore
del mondo e della natura. L’occasione per
questa piccola trasfigurazione viene ancora
una volta da un’emergenza che coinvolge i
discepoli.
Siamo sul lago–mare di Galilea. Gesù, quasi
in fuga dalla folla che lo pressa da vicino,
ordina di passare dall’altra parte e inizia la
traversata. I discepoli caricano Gesù sulla
barca “così com’era”. L’espressione è
piuttosto misteriosa: sembra indicare come
la partenza per la traversata non sia
preparata, ma improvvisata. Ma si può forse
anche intendere che Gesù viene sistemato
“alla meglio” sulla barca, caricato e messo
da parte, mandato a poppa, lontano dalle
zone di manovra della barca, “sul cuscino”
dove può addormentarsi. Queste espressioni
sembrano sottolineare come Gesù sia
accolto sulla barca come passeggero o
addirittura come merce trasportata, senza
che gli venga assegnato nessun ruolo
significativo per la navigazione.
Gesù è un peso morto a bordo. E –
coerentemente con il ruolo assegnatogli –
“muore” cadendo nel sonno. C’è una ricca
tradizione nella Bibbia, su Dio che dorme.
Si tratta di un’immagine prediletta dai
profeti del dopo-esilio per indicare
l’apparente indifferenza di Dio alle vicende
drammatiche del suo popolo, utilizzata in
tono di rimprovero per esigere dal Signore
un intervento di salvezza potente di fronte
alle sofferenze del popolo dell’alleanza. Al
rimprovero «Signore ci sei o dormi?», Dio
risponde spesso rinviando la domanda al
mittente: «Sono io a dormire o piuttosto
dormite voi, che mi avete messo da parte e
avete calpestato l’alleanza?».
Nell’episodio del lago Marco sembra
riproporre lo stesso schema. Gesù dorme
durante la situazione di emergenza e viene
svegliato con un’esclamazione che ha il
tono di un rimprovero: «Maestro, non ti
importa che moriamo?». Al rimprovero
risponde con un’altra domanda: «Perché
siete così paurosi? Non avete ancora fede?».
Alla fine si evidenzia la mancanza di fede
dei discepoli, che prima hanno messo da
parte il Signore pretendendo di guidare da
soli la propria barca, poi di fronte alla
violenza delle onde e del vento hanno
sperimentato che è impossibile fare a meno
di Lui e l’hanno trovato addormentato,
apparentemente indifferente alla loro sorte.
In realtà l’emergenza provocata dalla
tempesta ha semplicemente evidenziato la
posizione in cui Gesù era stato messo dai
discepoli. L’hanno trovato là dove
l’avevano messo. Nell’emergenza si rivela
quanto sia pericoloso confinare il Signore ai
margini della nostra vita, nelle retrovie del
nostro vivere. L’emergenza ci rivela le
conseguenze delle nostre scelte di vita con
il sapore del “troppo tardi”. Poi il Signore
placa la tempesta e salva la barca
rispondendo all’invocazione tardiva e
disperata dei discepoli. Così coglie
l’occasione per manifestare la sua potenza
come monito a restituirgli la posizione
centrale sulla barca della vita, lasciando
aperta una domanda che brucia come una
ferita: «Chi è dunque costui, al quale anche
■
il vento e il mare obbediscono?».
4
il punto su
Il Vangelo e i forestieri,
ascoltare è annunciare
Livio Corazza*
«E
ro forestiero e mi avete ospitato»: come ha vissuto questo
Vangelo la chiesa italiana in
questi anni? La risposta è positiva. L’accoglienza è stata generalmente pronta e tutto
sommato sorprendente, rispetto alla mentalità diffusa di diffidenza verso gli immigrati.
Vengo da una diocesi di media grandezza,
collocata nel ricco nord est d’Italia. I primi
stranieri bussarono alle nostre porte nel
1988. Molte parrocchie e istituti religiosi si
diedero subito da fare per aiutarli. Nel
1995 aprimmo un centro di ascolto a Pordenone. Perché un centro di ascolto? Perché l’ascolto è lo stile di Dio, e di conseguenza lo stile del cristiano verso i poveri:
«Ho ascoltato la miseria del mio popolo»,
così risuonano le prime parole di Dio nell’Esodo. Ascoltare il povero è ascoltare
Dio, presente nel povero.
Chi trovano gli immigrati nel centro? Volontari, obiettori, religiose. I volontari vengono dalle parrocchie. Alcuni sono catechisti. Non hanno chiesto di fare volontariato al centro di ascolto per sentirsi dire
bravi. L’ambiente non è molto favorevole
agli immigrati. Lo fanno per fede. Perché
credono al messaggio del Vangelo, che
considera tutti gli uomini, nessuno escluso, figli di Dio. Secondo me tutti costoro
sono evangelizzatori. Sono i primi evangelizzatori, che sanno accogliere tutti, cristiani e non cristiani. E sono una testimonianza anche per i cristiani italiani.
Ma mi chiedo: come consideriamo questi
volontari? È saggio ignorarli quando si
parla di evangelizzazione? Non è invece
più intelligente valorizzarli come una risorsa pastorale formidabile? Forse, quando
parliamo di evangelizzazione, pensiamo
solo all’annuncio verbale del Vangelo. Ma
sembra che per il magistero della chiesa le
5
cose non stiano così; secondo la Redemptoris Missio (n.42) «la prima forma di evangelizzazione è la testimonianza». È vero
che in tutti questi anni al centro di ascolto
non abbiamo mai avuto un’esperienza di
annuncio diretto del Vangelo. E non abbiamo mai chiesto la religione di appartenenza. La nostra posizione è delicata, non
vogliamo far pensare che il nostro scopo
sia fare proselitismo, non vogliamo che ci
siano discriminazioni. Ma lo scopo è obbedire al comando di Gesù: vivere il Vangelo. Per questo credo che il centro di ascolto sia un centro di evangelizzazione.
E ancor più lo sono le Caritas parrocchiali,
organismi di evangelizzazione per statuto
e per volontà dei vescovi. Loro compito è
promuovere la testimonianza della carità
di tutti i cristiani, diffondere la consapevolezza che il soggetto dell’evangelizzazione
è l’intera comunità cristiana.
Ci sono anche dei limiti, naturalmente,
nell’esperienza dei centri di ascolto e delle
Caritas. Sempre in agguato è il rischio della delega, da parte di coloro che si rivolgono al centro per segnalare casi di bisogno.
Altro grave difetto è che talvolta si procede senza pensare, travolti dall’emergenza.
E si cade nel famoso assistenzialismo, che
significa sostituirsi alla persona. Invece di
accompagnarla nel cammino di uscita dal
bisogno, si prende il suo posto, la si deresponsabilizza. Ma attenti a non chiamare
assistenzialismo tutta la solidarietà concreta!
Credo dunque, anche per far fronte a questi rischi, che coloro che già si occupano
di immigrati vadano accompagnati con un
sostegno formativo: con loro e attraverso
loro sarà più facile annunciare il Vangelo.
Perché anche i non cristiani preferiscono i
testimoni ai maestri.
■
* direttore Caritas diocesana Concordia - Pordenone
Si è svolto a
fine febbraio
il convegno
nazionale
sulle
migrazioni,
promosso
da Cei e
Fondazione
Migrantes,
sul tema
“Tutte le genti
verranno a
te”.
La sintesi dell’
intervento di
un direttore
Caritas
aprile 2003
il punto su
Una Corte “visionaria”,
la pace affidata alla legge
Domenico Rosati
Il 12 marzo
all’Aja hanno
giurato
i giudici del
Tribunale
penale
internazionale.
Notizia
censurata,
in tempi
di guerra: ma
la possibilità
di far
giudicare in
modo
imparziale,
e non solo dai
vincitori, chi
compie crimini
contro
l’umanità
è l’embrione
di un nuovo
ordine
mondiale
aprile 2003
I
l clima dei tempi di guerra ha oscurato
la notizia del giuramento, avvenuto a
L’Aja il 12 marzo, dei diciotto magistrati della Corte penale internazionale.
Molti giornali non ne hanno parlato. Altri
lo hanno fatto con parsimonia. Fenomeni
di autocensura, ovvero di censura preventiva: se si elogia il tribunale si dà un dispiacere agli Usa che l’hanno osteggiato e
tentano di svuotarlo; se si minimizza il
suo ruolo si va contro una vasta sensibilità popolare.
Il momento scelto per insediare la Corte
non è stato il più propizio. L’Onu in frantumi, la legge della giungla ripristinata
senza ritegno in Iraq e magari in altre parti
del mondo. Che senso ha parlare di diritti
umani da difendere anche sotto il profilo
penale, con un organismo imparziale, costituito per volontà degli 89 paesi che hanno finora sottoscritto il Trattato di Roma
del 1998? Che senso ha far credere al
mondo che i crimini contro l’umanità, dal
genocidio alla tortura, non sfuggiranno
più alla legge dell’umanità e, cosa importante, non saranno più sottoposti al solo
giudizio dei vincitori? Ed è davvero possibile confidare nella funzione di giudici
“terzi” e “naturali”, nel senso di preesistenti al reato e conosciuti preventivamente da chi un reato stia per commettere?
Rispondere sì, con i tempi che corrono, ha
il sapore dell’abbaglio visionario. E tuttavia il varo della Corte è stato sostenuto da
un numero considerevole di governi e parlamenti. E nella cancelleria del nuovo organismo sono già depositati fascicoli impegnativi, che denunciano delitti compiuti in molti paesi del mondo, alcuni autoritari, altri di facciata liberale.
Si manifesta insomma un paradosso che
rivela, ci si creda o meno, la presenza della
Provvidenza nella storia. Da un lato nulla
sembra opporsi alla spirale che prolunga il
terrorismo nella “logica di guerra”, dall’altro si dà vita a un organismo basato sul
presupposto dell’esistenza di uno stato di
diritto minimo a carattere universale. Così
è legittimo chiedersi se contro il corso della storia si pongano i “visionari” che hanno costruito la Corte, o i “realisti” prigionieri del recinto dentro il quale i conti si
regolano solo con le armi. E ha ragione il
noto giurista Giovanni Conso, quando afferma che il Tribunale nasce per tutelare la
pace, in quanto ne affida le ragioni al pubblico svolgersi dei confronti processuali e
scoraggia, per ciò stesso, il ricorso all’ingiustizia e all’arbitrio come strumenti di
governo.
Anche le defezioni nella fondazione della
Corte (mancano tra gli altri Russia, Cina,
India, Corea, Giappone e, naturalmente,
Iraq) segnano una demarcazione di campo
tra la volontà di sottomettersi a un regime
di legalità e la volontà di mantenere una
sfera di arbitrio protetta dal principio di
non ingerenza. Ma il caso più rilevante è
quello degli Stati Uniti: prima, con Clinton, aderiscono al trattato; poi, con Bush,
non lo ratificano; infine instaurano con i
governi amici speciali rapporti bilaterali,
in base ai quali i cittadini Usa che commettano crimini contro l’umanità in un
paese aderente al Tribunale saranno affidati alla giustizia “domestica” Usa.
Limiti, difficoltà, ostacoli. Tutto va messo
in preventivo. Far marciare a pieni giri il
nuovo motore non sarà agevole. Così come non sarà dato ai giudici, e al procuratore generale che sarà scelto, di sottrarsi alle pressioni di chi sia interessato a ottenerne i favori. E tuttavia la Corte penale internazionale rappresenta l’embrione di un
nuovo sistema mondiale. Nel quale la regola non sarà più “se vuoi la pace prepara
la guerra”, ma “se vuoi la pace rispetta la
■
legge”.
6
da esclusi a cittadini
Salute mentale, un diritto
che interpella il cristiano
Cinzia Neglia
S
non solamente come assenza di malattia,
ma come stato di benessere fisico, mentale e sociale. Considerare i tre ambiti risulta importante anche nella definizione
della cura e nella individuazione di chi
può facilitare processi di guarigione. Il
rapporto sulla salute nel mondo 2001, curato dall’Oms, afferma inoltre che “il concetto di salute mentale include un benessere soggettivo, la percezione di una propria efficienza, l’autonomia, la competenza, la dipendenza intergenerazionale, la
realizzazione del potenziale
intellettuale ed emotivo di
ciascuno e molto altro”.
«Alcune stime suggeriscono
che circa 450 milioni di
persone soffrono oggi (otPerché la chiesa si occupa di malattia mentale? Una prima
tobre 2001, ndr) di un dirisposta risiede nell’attenzione ai bisogni che la chiesa è
sturbo mentale o neurolochiamata a vivere in sintonia con il Vangelo, dando voce a chi
gico o di problemi psicosonon ha voce, sostenendo i più deboli, promuovendo la forza della
ciali – ha affermato il diretgiustizia. La sofferenza mentale è, tra le povertà, quella che più
tore generale dell’Oms, Gro
deve interrogarci: chi la sperimenta vive privo di appoggi, di
difese, di consensi, lontano dagli altri, separato dagli altri,
Harem Brundtland –; la dechiuso in se stesso, estraneo alla vita. È tra gli ultimi della fila,
pressione oggi è la causa
quelli che non contano, non si sentono, non sanno difendersi, non
principale di invalidità gloriescono a pesare nelle decisioni politiche e sociali.
bale e si classifica quarta fra
A questi concetti si ispira un opuscolo di prossima pubblicazione
le dieci principali cause di
(la presentazione è prevista tra aprile e maggio) curato da Caritas
disturbi. Se le previsioni soItaliana e dall’ufficio di pastorale della salute della Cei e
no corrette, nei prossimi 20
pubblicato dalle Edizioni Dehoniane nella nuova collana Caritasanni la depressione avrà il
Edb. Partendo da un’analisi di quanto le comunità cristiane
dubbio onore di diventare
fossero poco attente o poco preparate nel relazionarsi a chi soffre
la seconda causa del peso
di malattia mentale, si è voluto offrire loro uno “strumento di
globale dei disturbi». L’Oms
lavoro”.
L’opuscolo si offre alle diocesi, alle comunità presenti nel
però non si limita a offrire
territorio nazionale e a ogni singolo cristiano come un richiamo ai
queste allarmanti previsiovalori che vanno concretizzati anche in un territorio aspro, quale è
ni, ma dopo aver evidenziaquello della malattia mentale. Vuole essere un accompagnamento
to che molti malati soffroper quanti scelgono di vedere e riconoscere come fratello il
no in silenzio, da soli –
malato di mente, per le comunità che intendono accoglierlo nella
spesso vittime dello stigma
semplicità e in una quotidianità che rende partecipi tutti, nessuno
e dell’esclusione –, e dopo
escluso; è dunque un invito rivolto alle comunità cristiane
aver esplicitato che la magaffinché si facciano garanti di chi non riesce da solo a tutelarsi.
gior parte dei malati non
alute: un concetto, un augurio, un
diritto. Spontaneamente, per associazione di idee, il termine salute viene
abbinato al termine malattia. Se invece si
ricorre al dizionario, al termine salute corrisponde la formula “stato di benessere fisico e psichico dell’organismo umano, derivante dal buon funzionamento di tutti
gli organi e gli apparati”.
Da anni l’Oms (Organizzazione mondiale
della sanità) mette in evidenza l’importanza della salute mentale, definendola
UN OPUSCOLO PER COLORO
CHE ACCOLGONO I MALATI
7
Circa 450
milioni
di persone
nel mondo
soffrono
di disturbi
mentali.
Ma si tratta
di una forma
di sofferenza
troppo spesso
non
riconosciuta.
La cura non
va delegata
ai soli
specialisti:
le comunità
cristiane
chiamate
alla
vicinanza.
In arrivo una
pubblicazione
Caritas
aprile 2003
sono violenti, ricorda che molto spesso le
malattie psichiatriche possono essere curate in modo efficace.
Il ruolo della comunità cristiana
Ma cosa hanno a che fare la malattia
mentale, la sua diffusione, la sua guaribilità con le comunità cristiane? La malattia
ha bisogno di dottori, di tecnici e di specialisti tanto più è complessa e inintelligibile, tanto meno ci appartiene: così reagiscono i più di fronte al fenomeno. Eppure, sostiene ancora l’Oms affrontando il
tema del coinvolgimento della comunità
locale, “le convinzioni, gli atteggiamenti
e le reazioni della società condizionano
numerosi aspetti della cura della salute
mentale. I malati mentali sono membri
della società e il contesto sociale è un importante condizionamento dello sviluppo
della malattia: se è favorevole contribuisce alla guarigione e all’integrazione; se,
al contrario, è sfavorevole può rinforzare i
pregiudizi e la discriminazione”. Parlando
Dalla copertina di “Per non dimenticare”, Ega, Torino,1998
LA SFIDA DELLA “COMUNITÀ CHE GUARISCE”,
DA BIELLA A TRAPANI PARROCCHIE IN AZIONE
Il disagio è tra noi. Nelle nostre case, intrecciato
ai percorsi che ogni comunità, civile e religiosa,
compie giorno dopo giorno. A partire da questo
presupposto, alcune Caritas diocesane italiane
hanno deciso di affrontare in profondità il tema
della malattia mentale.
Nella diocesi di Biella la commissione Caritas “La
comunità che guarisce” lavora su due versanti:
parrocchie e territorio. Nelle comunità ecclesiali
propone percorsi di accoglienza: un lavoro
meticoloso, che richiede tempo. Ma sono già due
le parrocchie che hanno aperto le loro strutture ai
malati. In una di queste, un giorno alla settimana,
un gruppo di persone con sofferenza mentale
svolgono attività riabilitanti. «Questo contatto
costante – racconta Gianni Pescio, coordinatore
della commissione – crea un legame, uno spirito
di accoglienza. I parrocchiani sdrammatizzano la
malattia e valorizzano la normalità che ancora
esiste. Si creano i presupposti per un mutamento
culturale, si comincia a pensare il disagio
mentale come una malattia tra le tante». In una
delle parrocchie sta partendo anche un
osservatorio: il parroco ha individuato i
responsabili dei vari settori, per esempio
aprile 2003
l’oratorio e i gruppi catechistici, che verranno
aiutati a cogliere il malessere delle persone con
cui hanno a che fare, perché dietro la formula
“sofferenza mentale” non stanno solo gli psicotici
nevrotici (l’1% della popolazione), ma anche chi
vive situazioni difficili, come i depressi, gli
anoressici e gli ansiosi (il 14% della
popolazione).
Sul versante del territorio, la delegazione Caritas
Piemonte – Val d’Aosta ha promosso un tavolo per
la salute mentale, al quale siedono sette Caritas
diocesane, sei dipartimenti di salute mentale,
cooperative sociali del settore, associazioni di
volontariato e di famiglie, assessori alle politiche
sociali. L’obiettivo è sensibilizzare la popolazione
e avere la possibilità di incidere sulle politiche
sociali. Per fare delle città luoghi di relazioni e
diritti, oltre il semplice approccio terapeutico.
A Trapani, nell’estrema punta occidentale della
Sicilia, la Caritas diocesana ha organizzato una
trama d’interventi che s’infittisce con il tempo. «Il
2004 sarà dedicato alla salute mentale», spiega
padre Guglielmo Filippi, coordinatore di un
progetto che ha il suo perno nella
sensibilizzazione e nel monitoraggio del territorio
8
e che prevede un ampio coinvolgimento delle
parrocchie. «In diocesi organizziamo incontri,
conferenze e corsi di formazione per i futuri
operatori pastorali – continua – e i gruppi
parrocchiali tengono monitorata la situazione
delle famiglie con soggetti malati. In tal modo,
gli operatori che l’anno prossimo svolgeranno il
lavoro domiciliare saranno competenti,
preparati alle situazioni che incontreranno e
pronti ad agire».
Attraverso i centri di ascolto, inoltre, la Caritas
acquisisce informazioni su possibili interventi
da attuare. Le risorse del territorio più spesso
coinvolte sono il centro diurno “Domenico
Amoroso”, che attualmente ospita 15 soggetti
in osservazione, e un gruppo di ragazze in
servizio civile, che lavorano con 12 persone con
lievi problemi di salute mentale,
coinvolgendole in piccoli lavori manuali e altre
attività. C’è poi l’azione di Rèciclo, una
cooperativa locale che collabora con la Caritas
diocesana e si occupa del reinserimento
lavorativo dei malati mentali, secondo quanto
previsto dalle leggi. Infine, è di prossima
definizione il protocollo d’intesa con il locale
dipartimento di salute mentale, per l’attuazione
di diversi progetti già pensati dalla Caritas
diocesana.
a cura di Manuela Galizia e Danilo Angelelli
9
FOTO ALBERTO MINOIA
di misure per accrescere la partecipazione
della comunità, l’Oms cita tra le altre il
volontariato.
Ma quale è e quale può essere l’impegno e
la presenza delle comunità cristiane e delle realtà Caritas in un mondo attraversato
da una sofferenza così grande? Una sofferenza che spesso non riconosciamo o che,
se la individuiamo, ci sconvolge, ci fa
sentire inermi, annichiliti, frustrati, a volte arrabbiati nei confronti della nostra e
dell’altrui impotenza. In molte realtà locali sono facilmente individuabili risposte
di aggiramento del problema: «Qui non ci
sono malati di mente, la comunità cristiana non se ne occupa, ci pensa il centro di
salute mentale pubblico, se ne occupano
le associazioni» (spesso senza sapere che
si tratta di associazioni di familiari, composte dunque da persone che non possono non occuparsi del problema, anche se
qualcuno parla di volontariato). Davvero
in questi casi si manifesta un’incapacità
di vedere. O forse si tratta della rinuncia a
chiedersi cosa c’è sotto gli sguardi a volte
disperati di chi non ce la fa più da solo a
reggere una sofferenza tanto grande, e
nello stesso tempo non ha la forza, il coraggio o la capacità di chiedere aiuto.
Il compito della vicinanza
Nelle nostre comunità vivono persone e
famiglie che spesso non sanno dell’esistenza di tecnici che possono avviare percorsi di cura e di reinserimento, persone
che hanno finito lacrime e danari in un
peregrinare tra psichiatri e cliniche private, persone che vorrebbero vedere i loro
congiunti avvicinarsi ai coetanei e ad altre persone, senza che gli occhi di queste
ultime debbano per forza cercare vie di
fuga. Nelle nostre comunità ci sono persone che vorrebbero che qualcuno credesse vere le parole del papa, quando ricordava che l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio sempre, anche se è malato di mente. A tutti, e ai cristiani in particolare, è chiesto di dimostrare con la vicinanza a queste persone che la malattia
mentale non crea steccati insuperabili,
ma può attivare percorsi di amore. In uno
spirito di accoglienza che viene prima
della cura specialistica, ma l’accompagna,
la completa e talora la rende possibile. ■
aprile 2003
politiche sociali
Welfare formato Maroni
quattro ombre da fugare
Marco Toti
La Caritas
sta
esaminando
il “Libro
bianco” messo
a punto dal
ministero.
Benessere,
cittadinanza,
sicurezza,
mobilità:
emergono
opzioni
culturali
e proposte di
politica
sociale
ispirate a una
visione
individualista
e utilitarista,
non
personalista
e relazionale
aprile 2003
I
l ministro Roberto Maroni ha presentato a febbraio un “Libro bianco” sul
welfare che illustra le linee di sviluppo
delle politiche sociali e che ha suscitato
ampie reazioni nel mondo del terzo settore. Caritas Italiana e le Caritas diocesane
stanno esaminando il testo: appare chiara
l’esigenza di approfondire alcuni concetti-chiave che ne segnano la trama.
Benessere, dipende dal reddito?
Alla radice delle politiche sociali c’è un’azione dell’operatore pubblico (il soggetto
politico), orientata a facilitare il raggiungimento del benessere da parte dei cittadini. Le definizioni di benessere possono
variare, ma al centro pongono tutte i bisogni della persona. A livello politico e di
teoria economica si sostengono due posizioni: secondo la prima, il benessere della
persona consiste nell’avere più beni di
consumo a disposizione; per la seconda il
benessere ha una configurazione multidimensionale, è cioè il risultato di una pluralità di fattori economici, culturali, relazionali.
L’opzione culturale scelta dal “Libro bianco” sembra la prima: ne consegue che è
necessario favorire lo sviluppo economico
perché reddito e ricchezza disponibili si
accrescano, cosicché molte persone e famiglie possano raggiungere alti livelli di
consumo e quindi avere maggiore benessere. Per chi non ce la fa vengono indicati
alcuni strumenti di sostegno, dagli ammortizzatori sociali ai redditi di ultima
istanza, mentre le famiglie “meno fortunate”, che hanno una persona non autosufficiente, vanno aiutate alleviando l’onere, ma non si accenna a politiche in
grado di prospettare orizzonti di umanità
e dignità. La politica sociale, in altre parole, viene concepita come funzionale alla
crescita economica.
Il “Libro bianco” appare ispirato a un’ottica individualista o utilitarista, anziché a
un approccio personalista: la prima considera le relazioni sociali strumentali ai bisogni, il secondo ritiene che esse definiscano l’identità della persona. Anche il
concetto di famiglia varia notevolmente.
Nel primo caso la famiglia è vista come
soggetto completo, autodefinito, la cui rilevanza sociale consiste nella capacità di
essere soggetto produttivo, di consumo e
riproduttivo. Nel secondo caso la famiglia
è il luogo prioritario di realizzazione della
personalità dei singoli e non è definita di
per sé, ma dalla capacità di essere soggetto di relazione e cittadinanza sociale; cellula della comunità, non corpo autonomo.
Cittadinanza, diritti ignorati?
L’idea di cittadinanza è una delle conquiste della modernità. L’accezione di cittadinanza sociale garantisce a ogni persona,
anche a coloro che non hanno lo status
di cittadini di un certo paese ma sono
stranieri, il rispetto di diritti sociali fondamentali. L’Italia ha ratificato la Carta sociale europea del Consiglio d’Europa che
definisce i “diritti protetti”, veri e propri
diritti di cittadinanza (dall’abitazione alla
protezione della salute, dall’educazione al
lavoro, dalla protezione sociale alla non
discriminazione alla libera circolazione
delle persone). La distinzione fatta dal
“Libro bianco” tra immigrati legali e altri,
rispetto ai diritti sociali che appartengono
alla persona, è un arretramento rispetto
alla legge 328 del 2000, che invece li aveva garantiti a tutti. D’altronde l’intero fenomeno dell’immigrazione è liquidato
dal “Libro bianco” con la promozione di
corsi di alfabetizzazione per immigrati.
10
Non si coglie la portata epocale del fenomeno migratorio, sempre più concepito
come affare di polizia e non di politica sociale.
Sicurezza, affare di ordine pubblico?
Tra i bisogni prioritari dell’uomo c’è il bisogno di sicurezza. In tempi recenti non
era mai prevalsa, in ambito sociale, l’accezione legata all’ordine pubblico, che aveva invece caratterizzato gli interventi sociali nell’’800 e nei primi decenni del
‘900, quando era diffuso il timore del turbamento che i bisognosi potevano creare
all’ordine costituito. Ma il “Libro bianco”
sembra riecheggiare un’idea di sicurezza,
presa a prestito dal dibattito politico prevalente, come bisogno di protezione dalla
criminalità comune, soprattutto nei contesti urbani. Va invece recuperata la
profonda caratteristica solidaristica della
scurezza sociale, concepita non solo come
patto tra i cittadini, ma anche come patto
intergenerazionale, soprattutto per la previdenza.
Lo spettro delle situazioni di insicurezza
va inoltre integrato con due realtà sempre
più evidenti. Anzitutto la precarietà delle
condizioni contrattuali dei lavoratori: se
non si assicura un orizzonte dignitoso alle giovani famiglie attraverso un lavoro
stabile, non saranno certo gli asili nido o
i mutui agevolati per l’acquisto della casa
a incentivare autonomia e natalità. Anche l’assenza di reddito che attanaglia
molte famiglie alimenta una persistente
11
insicurezza: la soppressione di fatto del
reddito minimo di inserimento, tramite
l’introduzione di non meglio specificati
“strumenti finalizzati”, compreso il cosiddetto “reddito di ultima istanza”, rende
ancora più precario l’orizzonte.
Mobilità, funzionale al produrre?
La mobilità umana è un fenomeno antichissimo, sin dalle origini incentrato sul
bisogno: ci si sposta a vivere da una zona
all’altra per vivere meglio. È la deprivazione che spinge persone e famiglie a spostarsi. Solo di recente si è diffusa su larga
scala, ma solo nei paesi occidentali, la
possibilità di spostarsi per fattori diversi
dalla sopravvivenza: la volontà di migliorare la propria vita, di cogliere nuove opportunità.
Il “Libro bianco” sembra resuscitare la
teoria della pressione demografica differenziale: quando un territorio non ha risorse sufficienti a garantire un adeguato
standard di vita alla popolazione viene
abbandonato, e molti si dirigono verso
luoghi dove ci sono maggiori opportunità. Da un punto di vista analitico la
realtà rispecchia in parte questo quadro,
ma è grave che esso sia assunto come dato politico. C’è una sorta di condanna implicita dei territori meno ricchi e sviluppati, che saranno alleggeriti dal peso di
una popolazione in eccesso: il “Libro
bianco” teorizza la concorrenza tra territori per permettere ai più efficienti di
continuare la corsa, mentre gli altri affannosamente raggiungono,
non si sa come, i loro standard. Non c’è cenno alla
storia, alla cultura, alla tradizione delle relazioni sociali di un popolo, tantomeno alla necessità che le
forze migliori restino nei
territori più poveri per guidare uno sviluppo non ancora realizzato. La risorsa
umana, anche in questo
caso, è considerata semplice fattore produttivo da allocare dove c’è necessità
d’impiego, secondo una visione strumentale della
■
persona.
aprile 2003
volontariato e dintorni
Servizio sul doppio binario
i valori da non disperdere
Giancarlo Perego
La nuova
stagione del
servizio civile
impone
nuovi
modelli
educativi e
progettuali.
Si aprono
opportunità
anche per le
ragazze,
ma non
mancano le
inquietudini.
Il patrimonio
dell’obiezione
di coscienza
non va
disperso: non
è indifferente
servire
la pace con
o senza armi
S
abato 8 marzo papa Giovanni Paolo
II ha incontrato 8 mila giovani, tra
obiettori e volontari (tra cui molte
ragazze) impegnati nel servizio civile. Si è
trattato di un incontro importante, che
ha caricato di un significato in più la tradizionale giornata della donna e ha raccolto anche il desiderio di pace che in
quei giorni era alto nella società italiana.
Il papa – tra le altre cose – ha parlato del
“progetto di istituire corpi civili di pace in
ambito europeo e mondiale”: un accenno
che è risuonato come un
invito a lavorare con impegno per studiare e varare forme alternative alla
difesa armata.
Riprendendo un’immagine di Giovanni XXIII, il
papa ha parlato del servizio civile come di “un segno dei tempi”, cioè un
luogo di testimonianza cristiana. Nel
mondo ecclesiale da tempo è andata crescendo l’attenzione all’obiezione di coscienza e al servizio civile, ma la stagione
attuale impone nuovi modelli organizzativi, educativi e progettuali. Né mancano
le inquietudini, legate al “doppio binario
provvisorio” che caratterizza attualmente
il servizio civile, in attesa della fine della
leva obbligatoria.
Cinque preoccupazioni
Una prima preoccupazione concerne la
salvaguardia del patrimonio di idee e valori maturati attorno all’obiezione di coscienza come scelta di difesa non violenta, come traduzione del comandamento
dell’amore nei confronti dei nemici. L’obiezione di coscienza, diritto riconosciuto
da una legge del 1998, deve trovare forme
di espressione evidente anche nel servizio
aprile 2003
civile volontario, che chiariscano come
non è “indifferente” difendere e servire la
pace con le armi o senza le armi.
Una seconda preoccupazione riguarda la
costruzione di progetti a partire dai giovani, e non considerando i giovani semplici
destinatari. Questo impegno dovrà condurre a diversificare i progetti, a non standardizzarli, ad accompagnarli con figure
di educatori per verificarne la bontà.
Una terza preoccupazione è relativa al varo di progetti che aiutino a incontrare i
giovani e i poveri, sapendo che nell’incontro non
solo c’è un “di più” di solidarietà, ma c’è anche un
“di più” di carattere educativo, un valore aggiunto nel cammino di fede.
Una quarta preoccupazione ci muove a tenere
aperta la strada della condivisione in un duplice senso: come vita
comunitaria tra i giovani che fanno un’esperienza di servizio; come scelta di condivisione con paesi del mondo dove si
sperimentano la fame e la guerra.
Un’ultima preoccupazione è infine inerente alle modalità tramite le quali coniugare il servizio civile con l’impegno di
formazione professionale (crediti formativi), con il volontariato (dopo il servizio),
con esperienze di cittadinanza attiva.
Tutte queste preoccupazioni fanno guardare al servizio civile come a una sfida
educativa, che non solo chiede attenzione e competenza nei rapporti con la
realtà istituzionale, ma interpella in
profondità anche la pastorale. Nella consapevolezza che i tempi nuovi suggeriscono nuovi strumenti e nuovi spazi per
esprimere (educandola) la soggettività
■
umana e di fede dei giovani.
12
IN DIMINUZIONE GLI OBIETTORI DI COSCIENZA,
UN FRANCOBOLLO PER “ARRUOLARE” VOLONTARI
Dal 1977 a oggi il servizio civile in Caritas ha
interessato circa 100 mila giovani. Al 31
dicembre 2002 erano 1.700 gli obiettori in
servizio in 191 Caritas diocesane. Nei servizi
ecclesiali che fanno riferimento alla Consulta
delle opere socio-assistenziali circa 9 mila
giovani all’anno, nell’ultimo decennio, sono stati
impegnati in servizi alla persona. Le nuove leggi
hanno aperto la strada a ulteriori possibilità di
impiego: già oltre 500 volontari, ragazzi e
soprattutto ragazze, sono stati avviati al Servizio
civile volontario in 82 Caritas diocesane; 29
obiettori di coscienza e 39 caschi bianchi
“targati” Caritas sono stati invece distaccati
all’estero, in aree del mondo dove si vivono
situazioni di crisi, conflitti e marginalità.
Dal “Quarto rapporto sul servizio civile in Italia”,
curato dalla Conferenza nazionale enti per il
servizio civile, si apprende che nel 2001 sono
stati avviati al servizio 60.141 obiettori contro i
78.841 dell’anno precedente. Nel triennio 19992001, in base alla legge 230/98 la dispensa dal
servizio di leva è stata concessa a 79.803
ragazzi, mentre un decreto del governo del
febbraio 2001 ha ampliato la possibilità
dell’esenzione a chi è in procinto di trovare
RAGAZZE IN SERVIZIO,
MAESTRE DI RELAZIONE:
GENERAZIONE VIRTUALE
CHE CERCA LA REALTÀ
Si presentano. Sempre più numerose.
Sempre più convinte. Con motivazioni
tra loro differenti. Ma curiose di sperimentare un’occasione di servizio agli altri
che è anche un percorso formativo per se
stesse. E un modo per immergersi – loro,
generazione virtuale – nelle vicende del
mondo reale.
Dalle Alpi allo Stretto, cambiano i panorami sociali e le realtà ecclesiali, ma non
cambia la voglia delle giovani di misurarsi
con la scommessa del Servizio civile volontario. Alessandro Bolzonello è l’incaricato dalla delegazione Nord-Est per la
promozione del nuovo servizio. «Le Caritas diocesane aderenti sono state Verona,
13
lavoro: questi provvedimenti, uniti alla scarsa
chiarezza legislativa, alla tendenza del settore
militare a ridurre sempre più gli effettivi della
leva (in vista di un esercito formato da
professionisti) e a disponibilità finanziarie
costantemente incerte spiegano la diminuzione
degli obiettori in servizio.
Una diffusione sempre più capillare sta invece
conoscendo il Servizio civile nazionale
volontario. Una recente indagine, svolta su
tremila ragazze, ha confermato che la Tv è il
veicolo prioritario (92%) di conoscenza del Scn,
seguita da quotidiani e manifesti. Le motivazioni
principali di chi sceglie questo servizio? “Fare
cose utili per chi ha problemi” (30,8%), “fare
cose utili per la società” (19,1%),
l’individuazione di possibilità occupazionali
(12,3%).
Intanto le Poste italiane hanno emesso un
francobollo di posta prioritaria (3,5 milioni di
esemplari da 0,62 euro) dedicato al Scn:
“Cambia la vita, tua e degli altri” è lo slogan
suggerito dall’Ufficio nazionale del servizio
civile. La scelta del Scn nel 2003 dovrebbe
coinvolgere oltre 15 mila volontarie tra i 18 e i
26 anni (28 dal 2004).
Pordenone, Treviso, Padova e Trento. L’esordio è stato complesso – avverte –, a
causa delle differenti esperienze che caratterizzano ogni diocesi in materia di servizio civile. Alcune realtà si sono attivate
velocemente, altre hanno impiegato tempi più lunghi. Ciononostante, abbiamo
accompagnato in servizio una ventina di
aprile 2003
Un gruppo di
volontarie
Caritas che
attualmente
svolgono il
Servizio civile
L’UFFICIO NAZIONALE: «VERSO L’ACCREDITAMENTO,
IL SISTEMA CHIEDE PROGETTI E SERVIZI DI QUALITÀ»
Roberto Marino, un passato da obiettore di
coscienza. Oggi è vicedirettore dell’Ufficio
nazionale per il servizio civile, l’organismo
istituzionale chiamato a governare vecchie e
nuove forme di servizio.
Dottor Marino, che giudizio date della fase di
avvio del Servizio civile volontario?
Molto positivo. L’adesione degli enti ricalca la
geografia del servizio obbligatorio, sia dal punto
di vista territoriale (con una prevalenza del nord
Italia) sia riguardo ai settori di impiego. Quanto ai
volontari – 8 mila nel 2002, secondo le previsioni
15 mila nel 2003, per il 90% ragazze –, sono
entrati in gioco fattori socio-economici diversi: le
richieste arrivano soprattutto dal sud, sono spesso
(ma non esclusivamente) ispirate dal fattore
economico, evidenziano il desiderio di una
continuità tra studi, servizio e prospettive
professionali. Il servizio è recepito come
occasione per affacciarsi sul mondo degli adulti e
del lavoro: un dato da non scoraggiare, ma da
mantenere in equilibrio con altre dimensioni.
L’edificio normativo è ancora in via di
costruzione. Mancano alcune direttive: sono in
arrivo?
Non solo gli enti e i giovani, ma anche
l’amministrazione si trova in fase di
aprile 2003
sperimentazione. È vero che mancano alcuni
regolamenti applicativi. Ma il meccanismo delle
circolari funzionerà per tutto il periodo transitorio,
fino a giugno 2004. In quella data vi sarà il
passaggio di numerose competenze alle regioni,
poi entrerà in vigore un meccanismo simile a
quello dell’accreditamento. La possibilità di avere
volontari, in altre parole, sarà riconosciuta solo
agli enti che dimostreranno qualità in termini di
capacità progettuale, offerta di impiego, livelli di
dialogo con i giovani e strumenti formativi. Una
recente circolare, a novembre, ha cominciato a
delineare questa prospettiva, definendo con
maggior precisione i criteri di progettazione e di
ingresso.
C’è il rischio che enti locali e organismi del
terzo settore si accostino al Servizio civile
volontario come a un serbatoio di risorse
umane a basso costo?
Un antidoto è rappresentato dal fatto che ormai
sono i ragazzi a scegliere. Nel caso del servizio
dell’obiettore si poteva verificare un patto non
scritto all’insegna del “ti chiedo poco, fai poco”.
Nel caso del servizio volontario, il problema
potrebbe verificarsi dove il motivo della scelta è
soprattutto economico. Ma in generale, le
motivazioni di chi vuole accedere al servizio
14
giovani: un solo ragazzo e per il resto ragazze».
A far presa sui giovani sono le peculiarità
formative dei progetti Caritas. «Ma soprattutto l’opportunità di entrare in contatto con i margini della società. I giovani
manifestano il bisogno di stare accanto
alla realtà autentica, sono attratti dalle
esperienze che li immergono nella concretezza di storie di vita significative». In
passato l’adesione degli obiettori aveva
radici ideologiche più profonde. «Oggi ci
troviamo di fronte al problema – riconosce Alessandro – di tradurre i valori dell’obiezione nella nuova stagione del servizio. In passato il tema trainante era l’aiuto agli altri, oggi chi chiede di entrare in
servizio è molto attento al proprio cambiamento e alla propria crescita. Noi cerchiamo di inserire i giovani in attività che
valgono come sfida e come stimolo, per
esempio i luoghi della malattia grave o
faranno la differenza. Così come la cura e
l’incentivazione della qualità dell’offerta
progettuale, responsabilità del nostro ufficio.
Guardando al passato, comunque, è vero che si
sono determinati casi di uso improprio degli
obiettori, ma ciò ha supplito a carenze delle
politiche dei servizi sociali, ambientali e culturali
del nostro paese. In qualche misura è stato
inevitabile: occorre impedire che questa
situazione divenga la nota dominante del
servizio.
Il clima culturale oggi è mutato: come aiutare
i volontari a far propri i principi costituzionali
della solidarietà, della giustizia sociale e del
ripudio della guerra, cari alla prima stagione
dell’obiezione?
Mi auguro, da obiettore in congedo, che il
riferimento a quei principi non vada disperso e
riesca sempre a innervare il servizio civile. A
questo proposito, però, si delinea una precisa
responsabilità degli enti, chiamati a gestire al
meglio i momenti della progettazione, della
formazione e della selezione. A noi compete
fissare criteri minimi, ma tocca agli enti
combinare queste azioni in modo lungimirante,
per far sì che il servizio civile volontario sia
vissuto dai giovani non solo come occasione per
arricchire il proprio curriculum e percepire un
salario di ingresso, ma anche e soprattutto come
esperienza umanamente e culturalmente forte,
ancorata a un robusto terreno di valori civili.
15
del disagio dei minori: vogliamo aiutarli a
innervare di valori profondi il loro percorso di maturazione».
Il caso sceglie Francesca
Visto con gli occhi di un giovane calabrese, il Servizio civile volontario presenta altri motivi di attrazione. Che non è giusto
condannare, ma bisogna educare. «Al sud
– ammette Alfonso Canale, responsabile
della delegazione Calabria – 355 euro al
mese sono una proposta allettante non
solo per chi è senza lavoro, ma anche per i
molti che hanno un impiego sottopagato.
Elaborando i progetti, nei quali sono state
immesse 17 ragazze, abbiamo messo a
punto criteri di selezione molto seri. Per
l’ultimo bando abbiamo sostenuto 57 colloqui e ricevuto altre 22 domande di ammissione, anche da altre regioni del meridione, sovente dalle periferie. Abbiamo selezionato 4 ragazze, puntando sulle loro
precedenti esperienze ecclesiali e di volontariato, nonché sulla presenza, nel curriculum, di studi in ambito socio-assistenziale. Ma non abbiamo penalizzato chi ha
mostrato una forte carica di umanità e
un’aperta disponibilità al servizio».
Come Francesca, studentessa di ingegneria, che in Caritas aveva accompagnato il
fidanzato che voleva fare domanda di
obiezione, e ha letto casualmente un opuscolo sul progetto diocesano. Oggi opera
nelle strutture di accoglienza per gli ex pazienti dell’ospedale psichiatrico, opera-segno che costituisce l’approdo privilegiato
delle volontarie. «Francesca, come le altre
ragazze – sorride Alfonso –, ha dato una
scossa benefica all’ambiente delle comunità. Sanno portare freschezza nelle relazioni umane; sanno ascoltare, condividere,
accompagnare, anche nei casi in cui l’operatore professionale, a causa della routine,
fa fatica a sostenere la relazione. Del servizio, segnalano come positivo il fatto che fa
entrare in contatto con realtà territoriali e
sociali di grande significato. Insomma,
danno e ricevono. E io mi auguro che in
futuro il loro servizio possa portare anche
più lontano: non sono obiettori, ma saprebbero far bene anche come “corpo di
pace”, lavorando per la giustizia e la riconciliazione, la tutela dei diritti umani e la
■
salvaguardia del creato».
aprile 2003
osservatorio di confine
“Fuoco amico” sull’Onu,
la guerra che frammenta
Alberto Bobbio
La guerra
è un
terribile
collage di
catastrofi.
Ma anche
il periodo
che l’ha
preceduta
ha fatto
vittime
rilevanti.
Gravi colpi
sono stati
inferti a
organismi,
istituzioni
e alleanze
che
dovrebbero
governare
i destini del
pianeta.
Come
ci salveremo
dalla
tentazione
unilaterale?
aprile 2003
L
re geografico dell’Unione Europea che si
a guerra in sé potrebbe apparire anprepara all’ampliamento: la penisola ibeche come un episodio marginale, al
rica e l’Italia a sud, gli ex comunisti a est,
termine di un periodo di preparagli inglesi a nord insieme alla Danimarca
zione (non solo dal punta di vista militae agli indecisi di facciata svedesi e finlanre, ma anche politico, geopolitico e stratedesi, tutti schierati dietro la spada di Wagico) che ha fatto nei mesi scorsi molte
shington. Il fronte orientale è presidiato
vittime tra le istituzioni, gli organismi e le
dai greci, che si astengono, e dai turchi
alleanze che governano – o dovrebbero –
non ancora europei, ma pedina-chiave
gli scenari regionali e planetari.
della Nato, che cercano una propria via
La prima a essere colpita è stata l’Europa,
all’egemonia a est, sempre più affrancata
quindi la Nato, poi l’idea della guerra predagli americani. In mezzo il cuore della
ventiva ha sparato bordate contro le Na“vecchia” Europa.
zioni Unite, quindi contro la Lega Araba e
Ma anche nel Nord
l’Opec. E addirittuAmerica qualche cora qualche governo
sa si è modificato. Il
guerrafondaio è
Canada, dopo alcustato colpito dal
ne settimane di
fuoco amico. Il più
confusione politica,
fedele scudiero di
Dopo aver ripetutamente chiesto alle autorità
ha deciso di non
George W. Bush,
competenti di esplorare le vie del dialogo e
stare con gli Stati
l’inglese laburista
scongiurare la guerra, Caritas Italiana ha
Uniti, anche se le
Tony Blair, farà faattivato, fin dai primi momenti dopo lo scoppio
sue relazioni comtica in futuro a stadelle ostilità, iniziative per far fronte alle
merciali sono quasi
re in sella e a passaconseguenze. Su indicazione della Conferenza
interamente con gli
episcopale
italiana,
ha
invitato
tutte
le
Caritas
re lance e spade al
diocesane
a
raccogliere
fondi
a
favore
delle
Usa. Sicuramente il
suo cavaliere d’olvittime della guerra. Nelle prime ore della
Canada non è un
treoceano. La rivolguerra ha inoltre messo a disposizione 150 mila
fattore chiave della
ta tra i laburisti ha
euro per gli interventi legati all’emergenza.
crisi. Ma negli anni
toccato l’apice priCaritas Italiana provvederà a destinare i fondi
Ottanta aveva accetma del vertice delle
raccolti ai profughi e alle vittime del conflitto,
tato sul suo territoAzzorre, che ha
nell’ambito della mobilitazione messa in atto
rio batterie di missipreceduto di qualdalla rete internazionale Caritas.
li Cruise americani,
che giorno l’ultiPer sostenere gli interventi in atto (causale
nonostante l’oppomatum a Saddam
“Emergenza Iraq 2003”) si possono inviare
sizione dell’opinioHussein, e uno spaofferte alla Caritas Italiana, viale F. Baldelli 41,
ne pubblica. Questa
00146 Roma, tramite:
rigliamento delle
volta Ottawa ha detcarte tra maggio• conto corrente postale n. 347013
to che la guerra è
• conto corrente bancario n. 5000X34 - Abi
ranza e minoranza
05696, Cab 03202 – Banca Popolare di
inutile e dovrà in
conservatrice a
Sondrio, agenzia Roma 2
futuro rivedere il
Londra non viene
Cartasì e Diners telefonando a Caritas Italiana
•
ruolo che finora si è
escluso.
06.54.19.21 (da lunedì a venerdì orario
attribuita nei rapL’Euroamerica avvid’ufficio)
porti con gli Usa.
luppa invece il cuo-
SU INDICAZIONE CEI
FONDI PER LE VITTIME
16
LE CARITAS MEDIORIENTALI MOBILITATE PER L’EMERGENZA
La rete internazionale Caritas si è preparata
scrupolosamente, durante i lunghi mesi precedenti la
guerra, a portare aiuto alla popolazione irachena, dopo
aver sostenuto per oltre un decennio Confrérie de la
Charité, la Caritas irachena. Fino a quando ha potuto
operare sul territorio nazionale, la Caritas irachena ha
fornito ogni anno – a partire dal ’92 – aiuti alimentari a 10
mila famiglie e 20 mila bambini, acqua potabile a 300 mila
persone e assistenza medica a 6 mila soggetti vulnerabili,
curando inoltre la formazione di medici e volontari.
Immediatamente dopo lo scoppio della guerra, in Iraq sono
entrati in azione 400 medici e oltre 200 volontari Caritas. In
vista dell’emergenza erano state attrezzate 87 chiese come
rifugi e centri di protezione per i civili e 14 centri sanitari,
riforniti di beni di prima necessità, di attrezzature sanitarie
e per la depurazione delle acque, nonché di medicinali
salvavita. Ognuno di questi centri, inserito nel piano di
protezione civile della Mezzaluna rossa irachena, funge da
punto di collegamento con gli ospedali locali. Caritas ha
Il Palazzo paralizzato
La Nato ha subito qualche colpo per via
dei turchi, ma appare l’istituzione che
esce con le osse meno rotte dalla preparazione alla guerra. Non è mai entrata nel
dibattito, neppure quello militare e strategico. Per la Lega Araba l’analisi si fa più
complicata e la presentazione del piano
di Bush per la pace in Israele e Palestina,
che praticamente ricalca la proposta saudita di un anno fa, allarga ancora di più il
solco tra le nazioni arabe. Gheddafi ha
rotto molti equilibri, le monarchie del petro-Islam hanno spaccato rapporti tradizionali. L’Egitto, con la sua insistenza sulla necessità dell’unità come valore, è stato
messo in un angolo da troppi che sperano
di vedere realizzati i propri sogni in un
dopoguerra filo-americano. Quella che si
ripropone in Medio Oriente è una stagione dei “mandati”, come accadde negli anni Venti del secolo scorso. Resta da stabilire a chi toccherà il compito di interpretare Lawrence d’Arabia, per indirizzare la
storia verso obiettivi inconfessabili.
Infine l’Onu, la cui esistenza sembra infastidire la politica di Washington. È il Palazzo di vetro l’istituzione più paralizzata.
Il suo segretario non è riuscito nemmeno
a organizzare un vertice per la pace. Non
ha provato nemmeno a fare il gesto che
fece nel 1998 per bloccare un’altra guerra,
17
inoltre contribuito ad attrezzare altri 26 centri di altre
organizzazioni.
La rete internazionale Caritas aveva varato, in vista della
guerra, un piano di preparazione da 736 mila euro. Ad
Amman, in Giordania, è stato allestito il quartier generale,
operativo per l’intera regione. Le Caritas mediorientali si
sono preparate soprattutto ad affrontare l’emergenza
profughi. Caritas Giordania ha moltiplicando gli sforzi per
aiutare i 300 mila rifugiati iracheni presenti nel paese già
prima del 20 marzo e per far fronte a nuovi arrivi. Caritas
Gerusalemme ha inviato un delegato ad Amman per
contribuire alla messa a punto dei piani di emergenza.
Anche Caritas Siria, Caritas Libano e Caritas Iran hanno
varato o perfezionato programmi per far fronte al flusso dei
rifugiati. In Kuwait si opera, tramite il Vicariato apostolico,
in collaborazione con la Mezzaluna rossa e le autorità
locali. Infine Caritas Turchia ha delineato un piano di aiuti
con la Mezzaluna rossa internazionale e la Commissione
internazionale cattolica per le migrazioni.
quando volò a Baghdad per convincere
Saddam ad accettare i controlli degli
ispettori. Kofi Annan è restato sul suo alto
scranno a osservare le macerie che si accumulavano nell’emiciclo della più importante istituzione multilaterale del
mondo. Il segretario generale ha sicuramente un problema personale. Sa bene
che il suo nome è stato imposto a tutti
dagli Usa, che in cambio hanno pagato
all’Onu un miliardo di dollari di contributi arretrati. Ma sa anche bene, però,
che le lacerazioni prodotte delle azioni
degli Usa non fanno bene al mondo. Sono pochi tuttavia quelli che lo hanno detto. Eppure quasi tutti sono d’accordo sul
fatto che bisogna salvare gli Stati Uniti,
oltre che le Nazioni Unite, da un unilateralismo che può risultare fatale e a loro e
■
al resto del mondo.
aprile 2003
obiettivo europa
L’Europa amplia i confini,
saprà essere più solidale?
Annalisa Mazzella*
È necessario
prevenire
la massiccia
povertà
che minaccia
i paesi dell’Est
prossimi
membri Ue.
L’allargamento
deve avvenire
all’insegna
dell’inclusione
sociale.
Caritas
Europa
prepara
un documento
sull’argomento
aprile 2003
C
aritas Europa rappresenta 48 Caritas nazionali in 44 paesi europei.
Avendo cominciato le sue attività
nel ’92, l’organizzazione ha raccolto l’eredità di Eurocaritas, che era nata nel ’71.
Caritas Europa è una delle sette regioni di
Caritas Internationalis; ha sede a Bruxelles e segue il lavoro delle istituzioni europee, in particolare riguardo a politiche sociali, immigrazione e cooperazione europea. Caritas Europa sostiene i suoi membri dei paesi dell’Est con programmi di
training e di formazione specifica (capacity
building), nonché, a partire dal ’97, coordinando il processo di raccolta e di distribuzione di aiuti economici destinati a sostenere lo sviluppo delle strutture delle
Caritas nazionali (Esf).
Ricompense e inasprimenti
L’Europa si accinge a raggiungere alcune
tappe importanti. Aprile 2003 è il momento della firma del Trattato di adesione
all’Unione Europea di un primo gruppo di
paesi (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia,
Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria,
Slovenia, Malta e Cipro), che entreranno
nell’Unione a pieno titolo nel maggio
2004. Più tardi, per il 2008, è previsto l’ingresso di Bulgaria, Romania e Turchia.
Il processo di allargamento sembra destinato a generare vincitori e vinti. La crescente prosperità rappresenta la ricompensa per i paesi che saranno capaci di tenere il passo con i cambiamenti e rispondere positivamente alle nuove esigenze
del mercato in transizione. Ma il miglioramento delle condizioni di vita non interesserà tutti allo stesso modo. L’attenzione
della rete Caritas è concentrata sul pericolo d’inasprimento delle disuguaglianze e
sulle conseguenze del processo di allargamento per i poveri e gli esclusi.
Alle istituzioni europee Caritas Europa
chiede di creare le condizioni per una
maggiore partecipazione della società civile. In occasione della tavola rotonda sulla
povertà e l’esclusione sociale tenutasi ad
Aarhaus il 17-18 ottobre 2002, Caritas Europa si è rivolta alla presidenza danese,
nonché alla Commissione Europea (organizzatori dell’evento), al fine di ottenere
una raccomandazione ai paesi candidati
perché favoriscano un attivo coinvolgimento delle organizzazioni non governative nello sviluppo di politiche sociali atte
a favorire l’integrazione dei poveri e degli
emarginati nella nuova realtà europea.
Le priorità per la politica sociale
Caritas Europa ha recentemente organizzato una serie di conferenze dedicate all’allargamento. In particolare, la terza
conferenza, tenutasi a Praga dal 7 al 9 ottobre 2002 e cofinanziata dalla Commissione Europea, ha raccomandato ai decisori a livello nazionale ed europeo le seguenti priorità per la politica sociale dei
paesi dell’Est prossimi membri dell’Unione Europea:
• servizi di formazione e ricollocamento
per gli agricoltori;
• formazione e training vocazionale per
persone con capacità inadeguate alle
esigenze del mercato del lavoro;
• programmi di formazione per il crescente numero di lavoratori che hanno
più di 50 anni;
• programmi per la prevenzione dello
sfruttamento degli immigrati;
• programmi a sostegno di soggiorni all’estero e schemi governativi per incoraggiare persone provenienti dall’Europa dell’Est a utilizzare l’esperienza accumulata in altri stati dell’Unione Europea nel proprio paese d’origine.
18
Caritas Europa sta ultimando un proprio
documento ufficiale (Position paper) sull’allargamento, il cui lancio è previsto per
giugno 2003. Il documento si propone di
illustrare le sfide che l’allargamento pone
ai paesi già membri dell’Unione, ai paesi
candidati all’adesione e ai paesi che, per
effetto dello slittamento ad Est dei confini dell’Ue, costituiranno domani la nuova frontiera orientale dell’Europa.
L’attenzione del documento è focalizzata
su tre settori fondamentali: flussi migratori, mercato del lavoro e occupazione, servizi sociali. La sua caratteristica fondamentale è l’uso, come già avvenuto per il
rapporto 2001 “Povertà in Europa”, di
una metodologia mista, che abbina l’indagine “di terreno” con una ricerca approfondita nei settori fondamentali. Una
parte dei dati rilevati si basa su questionari inviati alle Caritas nazionali nei paesi
candidati; sarà inoltre possibile includere
nell’analisi l’esempio di progetti realizzati
in cooperazione tra diverse Caritas nazionali, dell’Est e dell’Ovest (tra gli esempi, il
progetto Border stores per i rifugiati nella
Repubblica Ceca, i centri di consulenza
per la promozione all’impiego realizzati
dalle Caritas di Polonia e Francia, i progetti di formazione destinati ai Rom che
coinvolgono le Caritas di Ungheria, Slovacchia, Romania, Repubblica ceca e Bulgaria).
Investire in capitale umano
Il messaggio che il documento Caritas intende lanciare è che l’allargamento a Est
dell’Europa può dare un valido contributo alla causa di un’Europa più solidale.
Basandosi sull’insegnamento sociale della
Chiesa cattolica, esso raccomanda di lavorare per il “bene comune” investendo
non solo in istituzioni e processi, ma anche in capitale umano. A cominciare dalla prevedibile modifica dei flussi migratori tra Est e Ovest: se infatti è logico temere reazioni di chiusura e discriminazione,
d’altro canto – sottolinea il documento –
le migrazioni potranno essere fonte di
crescita per un’Europa allargata se si sarà
in grado di trasmettere le necessarie conoscenze a coloro che, una volta tornati nel
loro paese d’origine, fungeranno da “vettori” d’informazione e competenze. I pae-
19
si destinatari di flussi potranno a loro volta trarre vantaggio dai movimenti migratori nella misura in cui riusciranno a eliminare il mercato nero del lavoro e, di
conseguenza, a scoraggiare l’immigrazione illegale.
La disoccupazione sarà uno dei maggiori
problemi in futuro. La Commissione Europea propone la “Strategia europea per
l’occupazione”. Al fine di adeguarsi ai
nuovi standard del mercato comune, i
paesi dell’Est avranno bisogno di curare il
passaggio verso un’economia mista, basata non solo sulla produzione di beni, ma
anche sul terziario. Anche in questo caso,
Caritas Europa insiste sulla necessità di
investire in capitale umano, attraverso
training e formazioni specifiche.
Infine, il documento di Caritas Europa
esamina la situazione nel settore dell’assistenza. Nei nuovi membri dell’Unione,
l’apporto delle organizzazioni non governative – che fungono talvolta da veri e
propri fornitori di servizi assistenziali –
può essere fondamentale al fine di favorire la definizione di politiche inclusive e
■
socialmente sostenibili.
* responsabile comunicazione
Caritas Europa
aprile 2003
globalcontinenti
Gli Ogm contro la carestia?
Zambia, lezione di coraggio
a cura dell’Area internazionale
Al paese
africano
erano stati
offerti aiuti
per battere
lo spettro
della fame.
Ma governo
e
popolazione
hanno
detto no al
transgenico.
La rete
Caritas ha
lanciato
un appello
per
procurare
cibo
e sementi
naturali.
Con
l’appoggio,
in Italia,
anche di
Legambiente
aprile 2003
D
ue anni di siccità hanno messo in
ginocchio molti paesi dell’Africa
orientale, costretti a fare i conti
con una carestia di rilevanti proporzioni:
raccolti perduti, allevamenti abbattuti, 13
milioni di persone in stato d’inedia. Nel
2002 il World Food Program (Programma
alimentare mondiale dell’Onu) comunicò
agli stati colpiti dalla carestia la disponibilità, da parte degli Stati Uniti, di fornire
ingenti quantità di alimenti e sementi,
comprendenti però varietà geneticamente
modificate. L’offerta suscitò vivaci discussioni e reazioni differenti. Mentre Malawi, Swaziland e Namibia la accettarono
immediatamente, e Zimbabwe e Mozambico solo dopo aver ottenuto la garanzia
che i semi fossero già macinati (utilizzabili quindi per uso alimentare e non per la
produzione), a ottobre la Zambia respinse
l’offerta.
Il governo di Lusaka assunse la decisione
anche in conseguenza delle forti pressioni
popolari. E la rete internazionale Caritas,
incoraggiata dalla presa di posizione della
locale Conferenza episcopale, ha deciso di
supportare l’orientamento del governo,
della società civile e dei produttori zambiani, condensato nel Poverty Reduction
Strategy Paper (Prsp), un programma che
promuove la crescita agricola – senza far
ricorso a sostanze transgeniche – in un
paese dove la povertà rurale interessa
l’83% della popolazione e solo il 14% della terra coltivabile è realmente utilizzata.
Caritas Zambia ha dunque lanciato un
Appello d’emergenza (Soa) per raccogliere, tra i membri del network Caritas Internationalis, circa 1 milione di dollari da
destinare all’acquisto e alla distribuzione
di mais e sementi non transgenici. Il mais
serve ai bisogni alimentari di circa 190
mila
persone,
mentre i semi vengono distribuiti in
cambio di un contributo lavorativo
alla preparazione
dei campi per la
prossima semina,
ma anche gratis
alle persone indigenti, oppure sono venduti a coloro che se ne possono permettere
l’acquisto ma non
riescono a reperirli. L’Soa ha inoltre
previsto la costituzione di una scorta alimentare per
prevenire future
emergenze.
20
Una scelta di autonomia
Alla stesura del Prsp hanno cooperato 90
organizzazioni, tra cui Caritas Zambia,
riunite in un cartello denominato Civil
Society Poverty Reduction (Cspr), che monitora l’applicazione del programma. «Con
questa mobilitazione – afferma Francesco
Meneghetti, agronomo e rappresentante
dell’Ufficio Africa di Caritas Italiana – la
popolazione zambiana ha dato al mondo
intero una lezione di lungimiranza. Le
coltivazioni di sementi geneticamente
modificate richiedono un ambiente fortemente condizionato dalla meccanizzazione e la disponibilità di fertilizzanti, diserbanti, prodotti anticrittogamici e insetticidi, condizioni non individuabili nella
Zambia e in generale in Africa. Inoltre le
coltivazioni Ogm possono avvenire secondo diverse modalità, ma in ogni caso
nel lungo periodo produrrebbero conseguenze negative: scarsi
guadagni per i piccoli
agricoltori, che non dispongono dei mezzi
aziendali che gli Ogm richiedono; riduzione della biodiversità; danni
ambientali. In generale,
le sementi Ogm possono
esprimere al meglio la
loro potenzialità produttiva solo se gestite da
multinazionali e grandi aziende agroalimentari: ma così si profila il rischio che
l’agricoltura di sussistenza tipica di un
certo paese venga sostituita da una produzione alimentare intensiva a scopo
commerciale, con il risultato di aumentare fame e disoccupazione».
La decisione del paese africano ha destato, in Italia, il vivo interesse di Legambiente, che ha deciso di sostenere gli sforzi del governo e della popolazione zambiani promuovendo una raccolta di fondi
condivisa anche dagli imprenditori che
aderiscono alla campagna “Agricoltura
italiana di qualità”, promossa dall’associazione ambientalista per impedire l’introduzione di Ogm nella catena alimentare,
evitare la diffusione incontrollata delle
biotecnologie in agricoltura e promuovere l’agricoltura biologica. Legambiente e
gli agricoltori “bio” hanno raccolto 10
21
«ANCHE SE AFFAMATI
SI DEVE POTER SCEGLIERE»
Caritas Italiana si sta occupando in Zambia, insieme ad altri
organismi ecclesiali, dei progetti susseguenti alla campagna
per la cancellazione del debito estero, condotta dalla Cei
nell’anno del Giubileo. Caritas Europa ha invece pubblicato,
negli scorsi mesi, un documento dedicato alla questione del
rapporto tra aiuti alimentari e Ogm. Il testo riconosce anzitutto
che “gli Stati Uniti sono stati pronti e generosi nell’offrire una
grande quantità di creali per aiutare le operazioni” condotte
dagli organismi internazionali per combattere la carestia
nell’Africa orientale. Ma afferma poi che “il tragico e
impellente problema della fame non può costituire una ragione
per imporre a un popolo e ai suoi governanti di soprassedere
alle preoccupazioni circa i possibili rischi per la salute e
l’ambiente. Persino quando sono affamate, le persone
mantengono il diritto umano a compiere scelte”.
Caritas Europa ricorda poi che il dibattito sugli effetti degli Ogm
è oggi ancora “non concluso”. In linea di principio, essa
dunque “si astiene dall’acquisizione e dalla distribuzione di cibi
Ogm nei suoi programmi”. L’Unione Europea,
ricorda la Caritas continentale, non accetta
l’importazione di Ogm: “Conseguentemente, altri
stati del mondo devono avere lo stesso diritto”,
anche se “qualora non esistano alternative all’uso
di Ogm per salvare vite umane, l’imperativo
umanitario obbliga le autorità dei paesi coinvolti a
consentire la loro distribuzione e il loro transito
[…] a spese dei donatori e a condizione che i
cereali Ogm non entrino nel ciclo agricolo”.
mila euro, che hanno deciso di versare a
sostegno dei progetti della rete Caritas. In
concreto, verranno “adottati” due villaggi
da traghettare oltre l’emergenza alimentare: Chalola, dove vivono circa 600 persone, e Chibwe, abitato da 150 persone, la
cui principale fonte di sostentamento è la
coltivazione del mais. «Con il suo rifiuto
la Zambia ha dimostrato di voler scegliere
la strada di uno sviluppo sostenibile e
consapevole – ha commentato a marzo
Francesco Ferrante, direttore generale di
Legambiente –. Qualora avesse accettato i
semi ogm, essi si sarebbero imposti in
breve tempo come coltura dominante, innescando un processo irreversibile di dipendenza. Riteniamo importante aiutare
questo paese a superare la carestia, sostenendo la sua scelta di autonomia dalle
multinazionali e di tutela della biodiver■
sità».
aprile 2003
non solo emergenze
La riscoperta e mille crisi,
un decennio da testimoni
Segundo Tejado*
Caritas Albania
celebra
il suo
decennale.
Una storia che
si inserisce
nella rinascita
di una chiesa
martire.
E che ha fatto
i conti con i
ripetuti rovesci
di un paese
devastato dalla
dittatura
comunista.
Gli effetti
sociali e
culturali della
urbanizzazione,
sfida per
il futuro
aprile 2003
E soprattutto hanno creato in ogni albaicorre, nel 2003, il decennale di Canese – cristiano, musulmano o ateo – un
ritas Albania. Dieci anni sono posentimento di gratitudine per la Caritas, e
chi, nella vita di un’istituzione ecquindi per la chiesa: la parola Caritas è diclesiale. Ma in Albania si è trattato di un
ventata sinonimo di condivisione e di
periodo molto intenso, il tempo della ripresenza di persone disposte all’aiuto.
nascita della chiesa albanese. O meglio,
Il difficile periodo di transizione affrontadella riscoperta della chiesa, che si è manto dall’Albania a partire dal ’90 è stato
tenuta fedele ed è stata martire in un paepunteggiato da crisi periodiche, che hanse retto da una tra le più spietate e assurno investito tutti gli strati della popolade dittature comuniste apparse nella stozione e tutti gli ambienti istituzionali. In
ria.
questo contesto, la chiesa cattolica ha cerQuesta chiesa è ovviamente “rinata” in
cato di organizzarsi con l’arrivo di missiouna situazione profondamente cambiata.
nari religiosi: sono stati nominati i primi
Il Concilio Vaticano II e le sue novità ecvescovi, si sono costituite molte comuclesiali hanno tardato ad arrivare in
nità, si è data prova di ampia generosità,
un’Albania chiusa a tutto ciò che veniva
esprimendo un sentimento di comunione
dall’estero. Ma alla fine della dittatura ape di vicinanza, un grande desiderio di
parvero improvvisamente istituzioni e
evangelizzare, la volontà di lasciarsi arricrealtà ecclesiali fino a quel momento scochire dalla testimonianza di una chiesa
nosciute. Inevitabile che la Caritas e altre
martire.
organizzazioni nate alla luce del Concilio
La Caritas ha cercato di mettere a fuoco il
trovassero difficoltà, in un primo mosuo ruolo all’interno di questa chiesa: bimento, a essere comprese nella loro vera
sognava collaborare accompagnando una
portata ecclesiale.
rinascita, e questo non è stato sempre
L’ambiente sociale dell’immediato postsenza difficoltà, né sono mancate le logicomunismo era catastrofico; il sistema
economico di produzione del regime era crollato,
senza che un altro
fosse già allestito.
La Caritas arrivava
con gli aiuti umanitari tanto criticati, ma che hanno sfamato tante
persone e hanno
alleviato le difficoltà di un popolo
che si trovava a
soffrire le conseguenze di una situazione assurda. Un’immagine d’archivio dello staff di Caritas Albania
R
22
che tensioni. Ma la Caritas è diventata
punto di riferimento e modello per la
nuova chiesa arrivata e rinata in Albania:
una chiesa aperta, una finestra spalancata
sui cambiamenti verificatisi nel mezzo secolo durante il quale l’Albania era stata
chiusa al dialogo con il mondo. La Caritas ha manifestato una chiesa vicina alla
gente, che condivide i suoi problemi, le
sue angosce, la sua povertà. Questa testimonianza è stata molto importante, perché la propaganda di regime aveva presentato la chiesa, attraverso film e pubblicazioni, con la faccia oscurantista di chi
non è vicino al popolo; anzi, gli è decisamente contro. Solo chi abita in Albania
può capire quanto il regime comunista
abbia fatto della propaganda anti-cattolica uno dei pilastri della propria esistenza
e quanto questa propaganda abbia raggiunto il suo scopo.
Il richiamo delle periferie
Le emergenze, in un decennio, non sono
mancate. Dopo quella iniziale degli anni
’90-’92, con la fuga di molti albanesi all’estero, c’è stato un tempo di relativa pace,
che ha però preparato la più difficile crisi
di transizione che l’Albania abbia conosciuto: la caduta delle cosiddette “società
d’investimento piramidali”, rivelatesi poi
società d’investimento fittizie, nel ’97 ha
prodotto una tensione senza precedenti.
In quel difficile momento la presenza della chiesa è stata più che mai importante:
tutti quelli che potevano fuggivano dall’Albania, ma la chiesa è rimasta accanto
al popolo, al dolore della nazione, cercando di dare speranza, oltre all’aiuto materiale, e di individuare un senso a quanto
accadeva alla luce della fede. Nel ’98 si è
verificata un’altra scossa con l’inizio della
cosiddetta “guerra del Kosovo”, acutizzatasi poi nel ’99 con l’intervento militare
Nato. E di nuovo la chiesa albanese, e la
Caritas in primo luogo, si sono messe al
lavoro, aiutate da tanti amici delle Caritas
internazionali e da tanti collaboratori di
Caritas Italiana e delle Caritas diocesane
italiane.
Ora ci aspetta il futuro, con le sue sfide. A
cominciare dal processo accelerato di urbanizzazione che gonfia le periferie delle
grandi città, sorgente dei problemi sociali
23
UNA REALTÀ ORMAI SOLIDA,
TRE GIORNI PER FESTEGGIARE
Caritas Albania festeggerà i dieci anni di fondazione tra l’1 e il 3
maggio. Il programma prevede conferenze, cerimonie e momenti
di festa tra Scutari e Tirana, con la partecipazione di
rappresentanti della Santa Sede, di membri della “famiglia” di
Caritas Europa, di ong cattoliche, autorità governative albanesi,
amici e collaboratori. Caritas Albania è oggi presieduta
dall’amministratore apostolico di Sapa, monsignor Dodë Gjergji,
e diretta da Tom Preku; la sua attività è guidata da un documento
di programmazione per il quinquennio 2002-2007 e realizzata
grazie a 20 operatori che agiscono nei settori sociale, sanitario,
amministrativo e doganale. Le Caritas diocesane sono sette –
Pult, Sapa, Scutari, Lezha, Rreshen, Durazzo-Tirana, Sud – che
collaborano con i programmi nazionali. Caritas Italiana, liaison
agency per l’Albania, ha favorito e sostenuto sin dall’inizio la
creazione di Caritas Albania e mantiene alto il suo livello di
vicinanza alla consorella albanese tramite personale in loco e
supporto ai programmi nazionali.
del domani. Il rapido e massiccio esodo
verso le città produce lo svuotamento delle aree rurali e crea grandi e caotici agglomerati nelle periferie di Tirana, Durazzo,
Scutari, Fier. Questa urbanizzazione accentua l’inevitabile secolarizzazione ed
espande le malattie della nostra civiltà,
già presenti nell’Albania attuale benché
ancora in lotta con i modelli rurali, famigliari e clanici della tradizione.
La Caritas dunque cresce, nonostante le
crisi che investono l’Albania. Questa crescita ha bisogno di mettere radici ancora
più profonde nel cuore dei fedeli albanesi, per arrivare a una piena integrazione
del lavoro della Caritas nella vita quotidiana della chiesa locale. Il rischio di fare
interventi umanitari prescindendo dell’essere chiesa, trascurando il senso cristiano del proprio agire, è sempre in agguato. Occorre operare nello spirito di testimonianza che fu dell’albanese Madre
Teresa di Calcutta: un paese di cui si sente
parlare tante volte in modo negativo (anche decisamente a sproposito) ha dato al
mondo una donna che credeva veramente possibile cambiare il cuore di ogni uomo con la Grazia di Dio. Può apparire paradossale, ma è un grande segno di speranza e un’indicazione per il cammino. ■
*direttore di Caritas Albania 1995-2002
aprile 2003
un volto, una storia
La prigione e il ristorante,
Khalil cerca una strada
testimonianza raccolta da Davide Bernocchi
Un bel
ragazzo
palestinese,
con il sorriso
dei vent’anni.
Lavora nella
Gerusalemme
araba,
in un piccolo
supermarket
di quartiere.
Racconta
davanti
a un
narghilè:
disavventure,
ostinazioni
e sogni di un
clandestino
in patria
aprile 2003
V
engo da un piccolo villaggio non
lontano da Hebron, da una famiglia musulmana e decisamente povera. Mio padre ha sempre vissuto facendo il contadino o grazie a lavori saltuari
come uomo di fatica. Ho tre sorelle e cinque fratelli maschi, uno dei quali ha dei
gravi problemi mentali; per mia fortuna
sono l’ultimo dei miei fratelli, per cui ho
potuto studiare più degli altri.
Avevo 17 anni quando la polizia israeliana è venuta a cercarmi a casa e all’improvviso mi sono ritrovato in prigione,
senza una minima idea del perché. Avevo
appena iniziato l’ultimo anno della scuola superiore e lo studio per me era tutto:
ero tra i migliori, andavo forte in matematica e in inglese. A quel tempo credevo
ancora che bastasse fare il proprio dovere
senza immischiarsi nella politica, per non
avere problemi. Nei due mesi trascorsi in
quel posto non potevo avere contatti con
l’esterno e la mia famiglia non sapeva dove mi avevano portato. Presto ho capito
cosa volevano da me: che collaborassi,
che facessi la spia. «Non ti interessa avere
ogni mese un buono stipendio e una bella macchina?», mi chiedevano quegli uomini. «È sufficiente che tu ci dica chi dei
tuoi amici va abitualmente in moschea,
chi sta fuori di casa fino a tardi…». Io
non potevo accettare.
Dopo le promesse sono arrivate le minacce e poi le violenze: mi picchiavano e mi
lasciavano per intere giornate legato, solo
e al buio. Quando mi hanno lasciato andare, sono rimasto chiuso in casa per un
mese per superare lo choc. A scuola sono
tornato per poco tempo, perché i miei
compagni erano andati troppo avanti e io
non riuscivo più a concentrarmi nello
studio. Poi tutti sapevano cosa mi era capitato, senza che lo spiegassi, perché non
ero certo il primo… Nessuno si fidava più
di me. La mia vita era cambiata da un
giorno all’altro, senza che lo volessi. Ho
deciso di lasciare il mio villaggio per cercare lavoro a Gerusalemme.
***
Come tutti i palestinesi, Khalil ha bisogno di
uno speciale permesso, rilasciato dal governo
israeliano, per lasciare i Territori che gli accordi di Oslo del 1993 assegnano all’Autorità
Nazionale Palestinese. Un permesso quasi
impossibile da ottenere è inoltre prescritto a
chi intende lavorare in Israele, compresa l’intera città di Gerusalemme.
Per quasi un anno ho lavorato a Gerusalemme Ovest come lavapiatti in un ristorante per 15 ore al giorno. Mi davano la
metà degli altri, perché ero senza documenti. Mi ero fatto l’idea che Tel Aviv fosse meglio, perché è una città moderna,
sul mare. Ci sono andato. All’inizio avevo
in tasca qualche shekel, ma i soldi sono finiti presto e ho passato quasi tre giorni
senza toccare cibo, dormendo in un parcheggio. Ho chiesto qualcosa da mangiare
a un ragazzo arabo che lavorava in un ristorante e lui mi ha aiutato; mi ha fatto
fare una doccia e prestato vestiti puliti.
Facendomi passare per giordano, ho avuto un piccolo lavoro in quello stesso posto. Anche in giro, quando la polizia mi
fermava, fingevo sempre di essere straniero: una volta brasiliano, un’altra egiziano… Mi è sempre andata bene!
Quando l’estate è arrivata, il padrone mi
ha chiesto di lavorare a tempo pieno come cameriere: io sono uno che sa lavorare
seriamente. In quel periodo ha avuto anche una ragazza israeliana, che mi amava
davvero: prima del servizio militare molti
ragazzi israeliani sono aperti; è durante
24
quei due o tre anni che subiscono un lavaggio del cervello contro tutto ciò che è
palestinese e arabo. Visto che i controlli
aumentavano, però, il datore di lavoro ha
cominciato a chiedermi con insistenza i
documenti. Alla fine, per sapere la verità,
mi ha imposto di prendere lo stipendio
tramite assegno. Ho dovuto dirgli che sono palestinese e, con dispiacere, mi ha
chiesto di non tornare. Per un po’ ho
campato facendo le pulizie di notte, poi
ho trovato lavoro in un bar; lì la gente beveva fino a tardi e spesso dimenticava cellulari, portafogli… Più di una volta ho
dovuto cercare i proprietari per restituire
quegli oggetti. Ma un giorno, mentre stavo ancora lavorando e avevo in tasca una
carta di credito trovata, nel locale c’è stato un controllo e la polizia mi ha accusato di furto. Il giudice non ha voluto credere alla mia storia, tanto più che ero un
lavoratore irregolare, per cui mi ha condannato a 8 mesi di prigione. «Perché è la
prima volta», mi ha detto.
Dico prigione, ma in realtà non era una
vera prigione, come quelle per i cittadini
israeliani. Per i palestinesi che commettono piccoli reati ci sono campi circondati
da reti e filo spinato. Noi stavamo in una
tenda in 20, senza nemmeno lo spazio
per muoverci; e a un certo punto ha anche cominciato a nevicare! Una volta sono venute delle persone dell’Onu per verificare se ci trattavano bene. «Chi dice
che non è contento del trattamento può
considerarsi morto», ci hanno minacciato
le guardie. Quando mi hanno rilasciato
sono tornato dai miei e sono rimasto lì
per circa un anno e mezzo, senza poter fare niente, perché di lavoro non ce n’è:
mangiavo, dormivo, guardavo la tv… Finché, un giorno, ho deciso di ritentare.
Sono tornato a Gerusalemme, questa volta nella parte est, dove ci sono solo arabi.
Qui guadagno molto meno che a ovest,
ma è meno probabile che mi chiedano i
documenti. Lavoro in un supermercato per 12 ore al giorno e
guadagno 2.400 shekel al mese
(circa 480 euro). Sono qui da
dieci mesi e ho pensato di trovare una ragazza palestinese
con la residenza a Gerusalemme, che permette di circolare
ovunque senza permessi. Insomma, volevo sposarmi per i
documenti. So che può sembrare strano, ma ho trovato ben
cinque ragazze disposte a sposarmi e sono andato a chiedere
la mano al loro padre. Ma ogni
volta la stessa storia: «Figlio
mio, noi siamo tutti palestinesi
e tra noi non c’è differenza. Ma
sai: la situazione è quella che è
e tu sei irregolare e non hai una
casa…». Ora ho cambiato idea:
so che ci sono vie per ottenere
un permesso di lavoro in Israele
pagando; vedrò cosa posso fare,
facendomi prestare i soldi dagli
amici. Penso a Tel Aviv, ma sogno l’Australia, il Canada o la
Scandinavia. Ho 22 anni e una
gran voglia di lavorare onestamente. Ma sono clandestino
Il mercato alla Porta di Damasco, a Gerusalemme Est, luogo di ritrovo e
■
nella mia terra.
lavoro per molti giovani palestinesi
25
aprile 2003
a tu per tu
Morandi: C’era un ragazzo,
purtroppo combatte ancora
Ferruccio Ferrante
È stato
il volto della
campagna
Rai-Caritas
per i
terremotati
del Molise.
Gianni
Morandi
parla del
suo impegno
per la
solidarietà:
«L’audience
è sempre
in agguato,
ma il
pubblico sa
distinguere».
La sua
canzone
contro
la guerra:
«Passano
gli anni,
gli orrori
si ripetono»
aprile 2003
Q
uarant’anni in palcoscenico, volto
e voce della canzone “leggera” italiana. Ma Gianni Morandi interpreta il suo ruolo di personaggio pubblico
in maniera vigile, non indifferente. Testimonial (direbbero i pubblicitari) di tante
cause di solidarietà. Testimone di problemi e
dolori, che talora riescono a far breccia anche
nel dorato mondo dello
spettacolo.
Cinque mesi fa, il
terremoto in Molise. Caritas-Rai hanno realizzato un’iniziativa che ha
dato ottimi risultati. E lei ne è stato
protagonista…
In quell’occasione l’emozione e il dolore hanno toccato tutti. È stato
un desiderio comune,
quello di unirsi in un
connubio con gli amici
del Molise colpiti dal ter- Gianni Morandi
remoto. La Rai ha deciso
di sostenere la raccolta di fondi della Caritas Italiana con spazi in varie trasmissioni. Noi abbiamo dedicato una puntata
speciale di “Uno di noi”, lo show del sabato sera, ed è stata un’esperienza molto positiva. Anzitutto perché è stata raccolta
una cifra ragguardevole, grazie alla quale
la Caritas ha potuto portare un aiuto immediato alle popolazioni colpite e continua a sostenerle nel difficile cammino del
dopo-emergenza. In secondo luogo perché il servizio pubblico ha potuto svolgere una funzione socialmente utile e di solidarietà concreta. Infine perché i teleu-
tenti hanno risposto con grande generosità e partecipazione: sono stati loro, i veri protagonisti.
Sempre più spesso si abbinano
spettacolo e solidarietà. C’è il rischio di strumentalizzazioni, in nome
dell’audience?
Può succedere, è un rischio reale. È stato anche sottolineato di recente. Però io penso
che certe manifestazioni si distinguano bene
dalle altre e credo che
la gente riesca a percepire con chiarezza e
senza dubbi quello che
è autentico, quello che
è pulito. Sono sicuro
che il pubblico sa riconoscere il respiro del
volontariato genuino,
della solidarietà senza
secondi fini, della gratuità. E sa anche scegliere, capendo bene chi
cerca solo pubblicità e
chi invece è mosso dal desiderio sincero
di fare qualcosa per gli altri, per chi ha bisogno di una mano.
L’impegno con la nazionale cantanti, le iniziative per Lourdes, il
concerto in Vaticano, il calendario con Famiglia Cristiana, fino al
recentissimo concerto per il Mato
Grosso. Iniziative concrete, per
dare qualcosa al prossimo. Ma cosa ha dato a Gianni Morandi questa assidua frequentazione con i
meno fortunati?
26
Molto più di quello che è stato il mio impegno. Tutto sommato, a ben guardare, si
può dire che il mio non è stato neanche
un impegno. Ho dato solo un poco del
mio tempo e ho ricevuto in cambio tanta
energia, tanta forza, tanto coraggio da
questa gente che pure è meno fortunata
di me. L’ho scritto anche in una canzone,
“Il mio amico”, in cui parlo del mio rapporto con un disabile. Lui fa fatica a camminare, tutti lo guardano quando passa
per strada e lo fanno sentire diverso. Così
a volte vive i suoi momenti di tristezza, di
disperazione. Eppure è proprio lui che mi
insegna quanto è bella la vita. “Era peggio
non essere nato – mi dice –, perché non
avrei potuto vedere la bellezza del mondo”. Quindi ogni volta mi sento arricchito dall’incontro con l’altro in difficoltà,
che sia un disabile, un anziano o un malato terminale. Dalle situazioni più incredibili, e a volte dalle più disperate, mi tornano indietro la gioia e la positività della
vita. Ed è molto, molto più di quanto riesco a dare.
Il ragazzo della famosissima canzone purtroppo oggi continua a
morire. Non più in Vietnam, ma
in Terra Santa, in Afghanistan, in
Iraq e in troppi conflitti, noti o
dimenticati. L’amore, proprio
non riesce a cambiarci la vita?
Mai come in questo momento dovremmo
tutti ricordarci che esiste una parola,
“amore”, che non può restare una semplice parola, ma deve essere vissuta nel quotidiano. I potenti – Bush, Saddam, Putin,
Blair, Berlusconi, Chirac – e tutti noi dovremmo ricordarci che prima o poi dobbiamo presentarci davanti al giudizio del
Signore, perché su questa terra siamo solo
di passaggio. È giusto combattere il terrorismo, ma è inutile opporre violenza a
violenza. Perché invece non ci chiediamo
che cos’è che provoca il terrorismo? Perché non cerchiamo di andare alle radici e
alle cause dei problemi? Tutti sappiamo
in che condizioni di precarietà vivono intere popolazioni. E che facciamo? Andiamo a bombardare un popolo che non ha
nessuna colpa? Purtroppo gli interessi e
gli aspetti economici continuano a prevaricare l’amore. La vendetta e l’odio pre-
27
valgono sull’amore. Mi ha fatto un certo
effetto risentire durante le recenti manifestazioni per la pace gente che cantava la
mia canzone, “C’era un ragazzo”, drammaticamente tornata d’attualità. Purtroppo un effetto non piacevole, perché vuol
dire che tanti anni sono passati, ma gli errori e gli orrori si ripetono. Vorrei che un
giorno quella canzone possa essere solo
un ricordo di situazioni e tempi lontani.
L’augurio di “uno di noi” alla Caritas e a quanti credono che un
altro mondo è possibile?
Un augurio nel nome dell’amore e della
solidarietà. Sì, è vero, un altro mondo è
possibile. Non solo a parole, ma spendendo tempo ognuno per gli altri nella vita
di tutti i giorni, a partire da chi ci sta intorno. Se riuscissimo a fare questo diventeremmo tutti migliori. La Caritas ha ben
presenti questi valori e cerca di viverli e
testimoniarli sempre, spesso in situazioni
di estremo disagio. La sfida è riuscire a
coinvolgere sempre più persone. L’augurio è riuscire a rendere contagiosi l’amore
■
e la solidarietà.
“IL MIO AMICO”
UN VIOLINO FELICE
[…]
vorrei essere anch’io così ingenuo e felice
invece corro e da sempre non trovo mai pace
il mio amico almeno è una bella persona
uno strano violino con le corde di seta
in un mondo distratto che cinico suona
questo grande concerto che in fondo è la vita
il mio amico non parla mai di odio e sfortuna
anzi dice era peggio non essere nato
non avrei mai potuto vedere la luna
e tutte le altre bellezze che Dio ha creato
[…]
dal mio amico ho imparato un milione di cose
per esempio ad amare senza essere riamato
[...]
Il mio amico è il mio amico
e non lo cambierei
i ricordi più belli ce li ho insieme a lui
in questo mondo veloce
il mio amico si muove a fatica
proprio lui che mi aiuta a capire e ad amare
la vita.
aprile 2003
progetti
Donne e malati di Aids,
aiuti al Corno d’Africa
glie della
Carità, ad
Alitena. Il
Progetto Etiopia ed Eritrea
progetto
prevede
Etiopia ed Eritrea sono sempre alle prese con
inoltre di
le conseguenze del conflitto che le ha viste
concedere
affrontarsi negli anni 1998–2000. Non è analle doncora stata effettuata, in particolare, la demarne, una
cazione dei nuovi confini sul terreno: l’operavolta terzione dovrebbe cominciare a luglio con la pominata la
sa dei paletti. Inoltre nel 2002 ha piovuto
fase
di
molto poco: la siccità che ne è derivata si riformazione, un piccolo credito per permettetiene possa avvicinarsi, in termini di gravità
re loro di avviare attività lavorative. Per condegli effetti, a quella tragica della metà degli
tribuire ai progetti, causale Etiopia.
anni Ottanta. In collaborazione con le chiese
In
Eritrea, nella regione dell’Anseba, Caritas
dei due paesi del Corno d’Africa, Caritas ItaItaliana
sostiene un progetto di prevenzione
liana sta conducendo diversi progetti, sia per
e
assistenza
per i malati di Aids realizzato dalrispondere alla situazione di emergenza, sia
la Caritas diocesana di Keren. La malattia è
nell’ambito dello sviluppo.
già molto diffusa nel paese e si prevede che la
In Etiopia, nella regione del Tigray, Caritas
situazione possa aggravarsi con il rientro dei
Italiana già da qualche anno ha costituito un
soldati dal fronte. Il progetto è realizzato nelrapporto di partenariato con la diocesi di Adile zone attorno alle cliniche di Keren, Halibgrat, in particolare nel settore della promomentel e Ashera. L’obiettivo è ridurre l’impatzione della donna. Il progetto prevede, nei
to del virus Hiv e le sue possibilità di trasmiscentri diocesani di promozione della donna,
sione. Vengono dunque sviluppate varie attiil rilancio e lo sviluppo di attività di formavità: supporto psicologico (che prevede la forzione più rispondenti alle opportunità lavoramazione del personale e la creazione di punti
tive presenti nel territorio. All’inizio del 2003
di ascolto nelle tre cliniche coinvolte nel prosono cominciati alcuni corsi di formazione:
getto); visite ai malati e alle loro famiglie fatnel centro delle suore Orsoline di Wukero
te da gruppi di volon(poco più di un viltari adeguatamente
laggio) riguardano
preparati; assistenza
l’allevamento del bePer sostenere i Progetti e gli interventi
agli orfani attraverso
stiame e la gestione
segnalati (specificando sempre la causale) si
l’individuazione, l’acpossono inviare offerte alla Caritas Italiana
di pollai; nel centro
tramite:
compagnamento e il
delle Figlie della Casostegno delle fami• c/c postale n. 347013
rità, a Makalle (una
glie disponibili a
cittadina), riguardano
• Banca Popolare Etica, Piazzetta Forzatè, 2 prendersi cura dei
Padova - c/c n. 11113 - ABI 5018 – Cab
preparazione e cottu12100
bambini; attività di
ra di cibi locali. Nei
educazione sanitaria,
•
Banca
Intesa
Bci
–
p.le
Gregorio
VII,
Roma
prossimi mesi altri
c/c
n.
100807/07
ABI
03069
–
CAB
in particolare sulle
corsi si svilupperanno
05032
malattie a trasmissionei centri delle Figlie
• Cartasì e Diners telefonando al numero
ne sessuale, per gli
di Sant’Anna, a Eda06/541921, in orario d’ufficio.
studenti di tutte le
gahamus, e delle FiNEL MONDO
aprile 2003
28
appuntamenti
scuole secondarie della diocesi; attività generanti reddito attraverso un programma di formazione all’attività economica e la concessione di piccoli
crediti alle persone malate e alle loro famiglie. Per
contribuire ai progetti, causale Eritrea.
IN ITALIA
Progetto salute mentale
Caritas Italiana è impegnata su più fronti per facilitare percorsi che hanno come obiettivo il miglioramento della qualità di vita di quanti soffrono a causa di
una malattia mentale. L’impegno si rivolge non soltanto alla situazione dei malati, ma anche alle esigenze delle famiglie.
La sede nazionale, in questa prospettiva, offre sostegno e accompagnamento alle Caritas diocesane che
operano nel settore della sofferenza mentale. Per esse
ha messo a punto, tra le altre cose, uno “strumento di
lavoro” (un sussidio di prossima pubblicazione) e momenti formativi che avranno luogo anche in occasione della presentazione di tale sussidio. Caritas Italiana
è impegnata, inoltre, attraverso i fondi Cei dell’otto
per mille ad accompagnare otto progetti specifici di
intervento a favore di malati di mente e delle loro famiglie, i quali hanno tra i loro obiettivi anche la sensibilizzazione dei cittadini in materia; questi otto progetti possono essere sostenuti anche dalle Caritas diocesane e da tutti coloro che desiderano offrire il proprio contributo a favore di persone con problemi psichici. Finora le esperienze approvate hanno preso il
via nelle diocesi di Benevento, Messina, Roma, Ventimiglia, Vigevano, Pesaro, Cremona, Como, Brescia e
Potenza.
L’altra attenzione di Caritas Italiana è inoltre rivolta a
quanti sono costretti a vivere la loro malattia all’interno di uno dei sei ospedali psichiatrici giudiziari ancora funzionanti in Italia. Alcuni operatori Caritas hanno cominciato a conoscere tali realtà e ad individuare
il contributo di solidarietà che la comunità cristiana
può offrire, per migliorare le condizioni di permanenza e terapia. Il primo ospedale psichiatrico giudiziario
visitato è stato quello di Castiglion delle Stiviere. Per
■
contribuire, causale Salute mentale.
29
Delegazioni,
incontri
regionali
☛ Coordinamento
nazionale dei centri
di ascolto diocesani
Venerdì 4 aprile a Roma,
nella sede di viale Baldelli, si incontrano gli incaricati diocesani
degli Osservatori delle povertà e delle
risorse, per la presentazione del nuovo
software per la raccolta e la elaborazione dei dati dei centri di ascolto.
☛ Gruppo nazionale servizio
promozione Caritas
I referenti regionali delle delegazioni
delle Caritas diocesane si riuniscono
nel gruppo nazionale lunedì 7 e martedì 8 aprile a Roma, nella sede delle
Ancelle di Cristo Re, per affrontare il
tema della comunicazione nei contesti
pastorali e per analizzare il tema della
prossima programmazione.
☛ Incontri regionali
Da mercoledì 23 aprile a venerdì 16
maggio i rappresentanti di Caritas Italiana incontreranno le sedici delegazioni regionali delle Caritas diocesane
per la discussione e la valutazione della programmazione dell’anno pastorale 2003-2004.
☛ Percorsi di formazione
Lunedì 5 e martedì 6 maggio, nell’istituto “N. S. Madre della Misericordia”,
a Roma, giornate formative per i diaconi permanenti delle Caritas diocesane. I diaconi avranno l’opportunità di
riflettere sul rapporto fra diaconato
permanente e testimonianza della carità (con particolare riferimento all’azione in Caritas), di condividere esperienze e individuarne i nodi problematici, di delineare percorsi di riflessione
e accompagnamento per il loro servi■
zio.
aprile 2003
LIBRI
Un padre costituente
analizza e denuncia
l’inutilità della guerra
Pensieri di pace:
tante firme illustri,
miniera di riflessioni
di Francesco Meloni
“I
l vescovo francese Alfred Ancel, esaminando
il problema della guerra giusta e ingiusta, ha
spiegato come la guerra aggressiva e preventiva
sia sempre un crimine”: letta oggi, alla vigilia di
un imminente attacco contro l’Iraq, questa frase
potrebbe apparire come una dichiarazione pretestuosa di antiamericanismo e una presa di posizione pacifista ad oltranza. In realtà, questa condanna della guerra è contenuta in un libro di Igino
Giordani del 1953, un cattolico combattente nel primo conflitto mondiale, deputato alla Costituente e
politico di alta levatura
morale, giornalista e scrittore certamente non
conformista. Quel libro
era intitolato L’inutilità
della guerra e viene riproposto oggi dalle edizioni Città Nuova (Roma 2003 - pp. 115).
Un libro sulla denuncia dell’inutilità della guerra e un invito a ricercare la pace: lo
provano gli inequivocabili capitoletti dell’indice
generale (“A che serve la guerra?”, “Quanto costa
la guerra?”, “I pretesti della guerra”, “È insanabile il conflitto?”, “La causa prima della guerra: l’avarizia”, “Riarmo e disarmo”, “La paura”, “Realismo e utopia”, “C’è un’alternativa all’atomica?”,
“Religione e guerra giusta?”, “Il Papa e la pace”),
ma lo si può constatare dalla prima all’ultima pagina del testo, che in vari punti definisce la guerra “un omicidio in grande”, “un’inutile strage”,
“un macello di uomini”, “la sciagura più grande
che possa colpire l’umanità”, “una bancarotta”,
“una stupidità suicida”. E afferma ancora: “La
pace è difficile, non cadrà dal cielo bell’e fatta, è
un’azione paziente da fare insieme, col dialogo,
con la distensione”, con le “masse che rifiutano
la guerra”, “con la solidarietà”. Per concludere
che “se la politica fa quello che fa, la religione
dal canto suo non può non fare il suo diverso
dovere: cercare la pace, dissolvere l’odio, impedire la guerra”.
aprile 2003
S
e la guerra è una “inutilità” disumana e
antievangelica, al contrario la pace è
una assoluta necessità, da costruire, da
perseguire, da invocare e da testimoniare.
E per averne un’idea, basta scorrere le brevi pagine di Pensieri di pace (EDB, collana “A passo d’uomo”, Bologna 2003 - pp.
96), a cura di Rinaldo Paganelli.
Si tratta di un’antologia a tutto campo, di
riflessioni sulla pace firmate da importanti
testimoni del nostro tempo (tra gli altri:
Tonino Bello, Dietrich Bonhoeffer, Helder
Camara, Pierre Claverie, Dalai Lama,
Gandhi, John F. Kennedy, Martin Luther
King, Hans Kung, Giorgio La Pira, madre
Teresa di Calcutta, Carlo Maria Martini,
Primo Mazzolari, Oscar Romero, David
Maria Turoldo), ma anche dei secoli scorsi. Il libro è costruito attorno ai quattro
pilastri su cui l’enciclica Pacem in terris di
Giovanni XXIII fa poggiare la pace: verità,
giustizia, amore e libertà. La proposta editoriale si
offre anche come piccola miniera per
ulteriori
ricerche
e riflessioni,
perché è
arricchita, a mo’
di bibliografia, dall’elenco dei temi delle
36 Giornate mondiali della pace e dei pronunciamenti più significativi delle Chiese,
nonché dai rimandi ai riferimenti biblici
sul tema.
Tra i destinatari privilegiati figurano certamente tutti i gruppi che aderiscono a movimenti per la pace, le persone che vogliono arricchire la propria sensibilità sul tema, le comunità che cercano indicazioni
per strutturare momenti di preghiera.
30
Rivista on line
racconta l’Africa
dal doppio volto
CINEMA
INTERNET
RADIO
Satellite e web,
200 emittenti
nel circuito Inblu
Oltre il confine,
guerra in Bosnia
e vecchie ferite
di Danilo Angelelli
“U
na radio con tante
radio dentro”. Lo
slogan di Inblu, l’agenzia
radiofonica satellitare che
unisce più di 200 radio locali in tutta Italia, rende
chiara la sua mission. Si
tratta di un palinsesto di
programmi culturali e musicali in diretta, scandito da
notiziari nazionali ad ogni
punto ora, elaborato con la
certezza che ogni emittente
mantenga la propria identità e quel legame con la
realtà locale che costituisce
la vera forza del circuito Inblu. Informazioni sulla radio locale più vicina che
aderisce al circuito si trovano all’indirizzo internet
www.radioinblu.it, che dà
anche la possibilità di
ascoltare i programmi in
Real Audio. Tutti i giorni,
esclusa la domenica, alle
8.15 parte “Ecclesia” (sul
satellite o su internet, poi
ogni radio locale lo manda
in onda nella fascia oraria
che ritiene più opportuna),
contenitore di informazione ecclesiale nel quale trovano spazio notizie dalle
diocesi, dalle associazioni
di volontariato, dal mondo
missionario, nonché interviste e approfondimenti
sull’attualità. Il lunedì, all’interno del programma,
una rubrica curata da Caritas Italiana dà voce, di volta in volta, a svariate iniziative e riflessioni e pone l’accento sulle ricadute nelle
Caritas diocesane.
31
S
e “il futuro dell’Africa è
nero”, come recita il felice slogan di una ong, cominciamo subito a farcelo
raccontare dalla voce di chi
l’Africa la conosce nel quotidiano. La rivista online
www.africansocieties.org
vuole aprire il dibattito sulla doppia realtà del continente: la realtà virtuale che
ci offrono i mass media, negativa e troppo semplificata, e quella che fa riferimento a una pluralità di
complessi gruppi sociali.
L’e-magazine ha una periodicità bimestrale ed è redatta in tre lingue – italiano,
inglese e francese – da sociologi e sociolinguisti
africani e italiani. La modernità, la legittimità e i
rischi di un
discorso unitario sull’Africa, la necessità di rappresentare il tessuto sociale e
culturale, il ruolo storico
della diaspora africana:
questi i temi forti della rivista, declinati, sull’ultimo
numero in linea, negli articoli “Quando il pregiudizio
soffoca la realtà”, “L’Africa
tra tradizione e modernizzazione” (nella foto, un’immagine emblematica tratta
dal sito), “Il contributo africano all’edificazione del
mondo moderno”, “Sfidare
il digital divide in Africa”.
U
na proposta coraggiosa,
che non insegue le logiche del marketing. È la pellicola italo-svizzera, firmata
da Rolando Colla, Oltre il
confine. Un pamphlet contro tutte le guerre, che ne
rievoca due in particolare:
il secondo
conflitto
mondiale e
quello in
Bosnia dei
primi anni
’90. In primo piano
c’è la vicenda di
Reuf, un
profugo
bosniaco, e
di Agnese, agiata torinese
che molla tutte le certezze
per recarsi nella Bosnia lacerata dalla guerra, a salvare la figlia di Reuf. Agnese
si ritrova nelle paure della
bambina: i ricordi di un’infanzia vissuta durante la seconda guerra mondiale assomigliano al fosco presente della piccola. Cambiano
le modalità con cui si combatte una guerra, ma il dolore, il senso di vuoto e di
perdita che si imprimono
nell’inconscio come marchi
infuocati, quelli non li
cambia nessuno. Un film di
impegno civile, interpretato con amara convinzione
da Anna Galiena (nella foto)
e da un gruppo di attori bosniaci molto convincenti
nel raccontare la verità della disperazione.
aprile 2003
Signore, fa’ di me
uno strumento della Tua Pace:
dove è odio, fa’ ch’io porti l’Amore,
dove è offesa, ch’io porti il Perdono,
dove è discordia, ch’io porti l’Unione,
dove è dubbio, ch’io porti la Fede,
dove è errore, ch’io porti la Verità,
dove è disperazione, ch’io porti la Speranza,
dove è tristezza, ch’io porti la Gioia,
dove sono le tenebre, ch’io porti la Luce.
Maestro, fa’ che io non cerchi tanto
ad esser consolato, quanto a consolare;
ad essere compreso, quanto a comprendere;
ad essere amato, quanto ad amare.
Poiché, così è:
dando, che si riceve;
perdonando, che si è perdonati;
morendo, che si risuscita a Vita Eterna.
San Francesco d’Assisi
I lettori, utilizzando il c.c.p. allegato e specificandolo nella causale, possono contribuire ai costi di realizzazione,
stampa e spedizione di Italiacaritas, come pure a progetti e interventi di solidarietà, con offerte da far pervenire a:
Caritas Italiana – c.c.p. 347013 – viale F. Baldelli, 41 - 00146 Roma – sito internet: www.caritasitaliana.it
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Imp. Italiacaritas -Aprile 2003