MENSILE DELLA CARITAS ITALIANA - ANNO XXXVI • N. 4 APRILE 2003 • Spedizione in abbonamento postale articolo 2 •comma 20/C • legge 662/96 • filiale di Roma SOMMARIO ITALIACARITAS Mensile della Caritas Italiana Organismo Pastorale della CEI Viale F. Baldelli 41 00146 Roma www.caritasitaliana.it Direttore Don Vittorio Nozza Direttore responsabile Ferruccio Ferrante In Redazione Danilo Angelelli, Paolo Beccegato, Paolo Brivio, Giuseppe Dardes, Marco lazzolino, Renato Marinaro, Francesco Marsico, Francesco Meloni, Giancarlo Perego, Roberto Rambaldi, Domenico Rosati Grafica, impaginazione e fotolito: Editrice Adel Grafica srl Vicolo dei Granari, 10a - 00186 Roma Stampa: Omnimedia Via del Policlinico, 131 - 00161 Roma Sede legale Viale F. 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Gli interessi che maturano dalle somme in transito, vengono utilizzati per interventi di emergenza o per progetti di sviluppo. Le offerte destinate ai Paesi in via di sviluppo sono deducibili ai sensi della Legge n. 49 del 26/2/1987. Non è necessario allegare alla dichiarazione dei redditi la ricevuta: basta conservarla per cinque anni. La Caritas Italiana, su autorizzazione della CEI, può trattenere fino al massimo del 5% sulle offerte per coprire i costi di organizzazione, funzionamento e sensibilizzazione. Le offerte possono essere inoltrate alla Caritas Italiana tramite: • Conto Corrente Postale n. 347013 • Banca Popolare Etica, Piazzetta Forzaté, 2 Padova C/C n. 11113 – Abi 5018 – Cab 12100 • Intesa Bci, Agenzia Rm P.le Gregorio VII C/C 100807/07 – Abi 03069 – Cab 05032 • Cartasì e Diners, telefonando al n. 06/541921, in orario d’ufficio. Anno XXXVI n. 4 – Aprile 2003 3 4 5 La Pasqua e la ragione tradite dalla violenza La tempesta che rivela il Signore accantonato Il Vangelo e i forestieri, ascoltare è annunciare 6 7 EDITORIALE IL PUNTO SU PAROLA E PAROLE IL PUNTO SU DA ESCLUSI A CITTADINI Salute mentale, un Una Corte “visionaria”, la pace diritto che interpella il cristiano affidata alla legge 10 12 Welfare formato Maroni, quattro ombre da fugare Servizio sul doppio binario, i valori da non disperdere VOLONTARIATO E DINTORNI POLITICHE SOCIALI 16 18 “Fuoco amico” sull’Onu, la guerra che frammenta L’Europa amplia Gli Ogm contro la i confini, saprà carestia? Zambia, essere più solidale? lezione di coraggio OSSERVATORIO DI CONFINE OBIETTIVO EUROPA 20 GLOBALCONTINENTI 22 24 Riscoperta e mille crisi, un decennio da testimoni La prigione e il ristorante, Khalil cerca una strada 26 28 Hanno collaborato: Morandi: C’era un ragazzo, purtroppo combatte ancora Donne e malati di Aids, aiuti al Corno d’Africa NON SOLO EMERGENZE A TU PER TU UN VOLTO UNA STORIA IN FONDO AL MESE In copertina: donna in un ospedale iracheno (foto di Carlos Reyes-Manzo per Caritas Internationalis) Davide BERNOCCHI Alberto BOBBIO Livio CORAZZA Manuela GALIZIA Annalisa MAZZELLA Agostino MELONI Cinzia NEGLIA Giovanni SALVINI Segundo TEJADO Marco TOTI editoriale La Pasqua e la ragione tradite dalla violenza Vittorio Nozza È significativo che il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2308), riprendendo la Costituzione pastorale Gaudium et Spes (n. 79), consideri la guerra un dato di fatto storico, inerente alla condizione di peccato, non ancora estirpata dal diritto. E nemmeno si sbilanci nel dire se mai lo sarà. La presuppone quindi, evidentemente condannandola, e legittima l’uso della forza come risposta difensiva a una guerra. Se ne deduce un no all’inizio della guerra e un sì, casomai, a una risposta difensiva, che non è nemmeno qualificata come guerra. Difficile è però stabilire chi sia il vero iniziatore, nelle situazioni storiche concrete, e se sia ammissibile una guerra preventiva di legittima difesa. Qui entrano in gioco elementi di valutazione etica e politica. È evidente che scatenare una guerra per prevenire la guerra è una rottura della ricerca dialogica di soluzione del conflitto, senza la certezza di evitare una guerra più vasta: chi può garantirlo? Più facilmente si può prevedere l’opposto: cioè che una guerra preventiva possa soffocare nell’immediato una guerra ipotetica, ma allarghi lo spirito di rivalsa e quindi l’occasione di una guerra futura. E la legittima difesa previa sembra piuttosto lo strumento per portare a evidenza e innalzare a definizione di guerra un pericolo già esistente e un conflitto latente, per poterli demonizzare e punire, senza affrontarli per la via spossante della ragione, che comunque e sempre dialoga. I luttuosi avvenimenti terroristici degli ultimi tempi ci hanno sbigottito per la loro tragica dimensione e per la loro carica di disumanità. Ma l’angoscia sembra oggi sostituita dalla frustrazione e dall’enfasi della punizione. Una campagna militare insinua l’idea che d’ora in poi bisognerà 3 usare sempre più la forza, che la forza è il mezzo principe per ripristinare la sicurezza e che la tecnica dell’Occidente ha i mezzi per vincere il male. Ma si trascura che il mistero del male è tuttora e sarà fino alla fine dei tempi all’opera, in zone e forme che noi ci limitiamo a rimuovere dalla nostra visuale. Senza scomodare le radici diaboliche del male, occorre ricordare che la brutalità della violenza esprime i suoi effetti nefasti non solo in dolorose conseguenze immediate (la morte di tanti innocenti e immense distruzioni), ma li prolunga nell’accecamento del giudizio, dove rischia di far breccia una logica fondamentalista che coinvolge l’offesa e la risposta. La violenza continua a inquinare i nostri cuori e i rapporti tra gli uomini. I gesti più quotidiani e familiari nascondono e nutrono tentazioni incessanti alla violenza. I rapporti sociali non sono mai senza conflitti. E i rumori di guerra non hanno mai abbandonato le nostre città e il nostro mondo. Non dobbiamo mai addormentarci e abbassare la guardia contro i demoni della violenza che sono dentro noi e attorno a noi. A partire dalla domenica di Pasqua c’è un grande cero accanto all’altare. Nella liturgia esso è il segno del desiderio che il Signore ha di illuminare con la sua Pasqua situazioni chiave della nostra vita e della storia dell’umanità. Se fossimo abbastanza coraggiosi da permettere a Lui di essere la nostra Pasqua, raggiunta la riva che sta al di là del Mar Rosso, al di là della pauraschiavitù che ci rende piccoli, invidiosi, calcolatori, cattivi, disperati, incapaci di accettare i limiti e il grande limite che è la nostra finitezza, noi tutti faremmo come Giovanni. Cadremmo in ginocchio escla■ mando: «È il Signore!». Se fossimo abbastanza coraggiosi da permettere a Gesù di essere la nostra Pasqua, potremmo resistere alla tentazione della brutalità che si fa guerra. E che acceca il giudizio, sottraendoci alla via spossante del dialogo e trasformando l’angoscia in enfasi della punizione aprile 2003 parola e parole La tempesta che rivela il Signore accantonato Giovanni Salvini Gesù messo da parte si addormenta. Ma quando la burrasca coglie la barca dei discepoli, lo svegliano con un rimprovero. Lui replica: «Perché avete calpestato l’alleanza?». Nell’emergenza si rivela quanto è pericoloso confinare Dio ai margini della nostra vita aprile 2003 Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono? (Mc 4,41) C ome spesso avviene nel Vangelo – libro di domande, più che di risposte – l’episodio che conclude il quarto capitolo di Marco culmina con un interrogativo che rimane aperto, rivolto al lettore o meglio all’uditore del Vangelo. La domanda è suscitata da una manifestazione di potenza da parte di Gesù, che doma la tempesta e sgrida il vento, che gli obbediscono immediatamente. Il Signore manifesta in questo modo prerogative che appartengono solo a Dio, Creatore e Signore del mondo e della natura. L’occasione per questa piccola trasfigurazione viene ancora una volta da un’emergenza che coinvolge i discepoli. Siamo sul lago–mare di Galilea. Gesù, quasi in fuga dalla folla che lo pressa da vicino, ordina di passare dall’altra parte e inizia la traversata. I discepoli caricano Gesù sulla barca “così com’era”. L’espressione è piuttosto misteriosa: sembra indicare come la partenza per la traversata non sia preparata, ma improvvisata. Ma si può forse anche intendere che Gesù viene sistemato “alla meglio” sulla barca, caricato e messo da parte, mandato a poppa, lontano dalle zone di manovra della barca, “sul cuscino” dove può addormentarsi. Queste espressioni sembrano sottolineare come Gesù sia accolto sulla barca come passeggero o addirittura come merce trasportata, senza che gli venga assegnato nessun ruolo significativo per la navigazione. Gesù è un peso morto a bordo. E – coerentemente con il ruolo assegnatogli – “muore” cadendo nel sonno. C’è una ricca tradizione nella Bibbia, su Dio che dorme. Si tratta di un’immagine prediletta dai profeti del dopo-esilio per indicare l’apparente indifferenza di Dio alle vicende drammatiche del suo popolo, utilizzata in tono di rimprovero per esigere dal Signore un intervento di salvezza potente di fronte alle sofferenze del popolo dell’alleanza. Al rimprovero «Signore ci sei o dormi?», Dio risponde spesso rinviando la domanda al mittente: «Sono io a dormire o piuttosto dormite voi, che mi avete messo da parte e avete calpestato l’alleanza?». Nell’episodio del lago Marco sembra riproporre lo stesso schema. Gesù dorme durante la situazione di emergenza e viene svegliato con un’esclamazione che ha il tono di un rimprovero: «Maestro, non ti importa che moriamo?». Al rimprovero risponde con un’altra domanda: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?». Alla fine si evidenzia la mancanza di fede dei discepoli, che prima hanno messo da parte il Signore pretendendo di guidare da soli la propria barca, poi di fronte alla violenza delle onde e del vento hanno sperimentato che è impossibile fare a meno di Lui e l’hanno trovato addormentato, apparentemente indifferente alla loro sorte. In realtà l’emergenza provocata dalla tempesta ha semplicemente evidenziato la posizione in cui Gesù era stato messo dai discepoli. L’hanno trovato là dove l’avevano messo. Nell’emergenza si rivela quanto sia pericoloso confinare il Signore ai margini della nostra vita, nelle retrovie del nostro vivere. L’emergenza ci rivela le conseguenze delle nostre scelte di vita con il sapore del “troppo tardi”. Poi il Signore placa la tempesta e salva la barca rispondendo all’invocazione tardiva e disperata dei discepoli. Così coglie l’occasione per manifestare la sua potenza come monito a restituirgli la posizione centrale sulla barca della vita, lasciando aperta una domanda che brucia come una ferita: «Chi è dunque costui, al quale anche ■ il vento e il mare obbediscono?». 4 il punto su Il Vangelo e i forestieri, ascoltare è annunciare Livio Corazza* «E ro forestiero e mi avete ospitato»: come ha vissuto questo Vangelo la chiesa italiana in questi anni? La risposta è positiva. L’accoglienza è stata generalmente pronta e tutto sommato sorprendente, rispetto alla mentalità diffusa di diffidenza verso gli immigrati. Vengo da una diocesi di media grandezza, collocata nel ricco nord est d’Italia. I primi stranieri bussarono alle nostre porte nel 1988. Molte parrocchie e istituti religiosi si diedero subito da fare per aiutarli. Nel 1995 aprimmo un centro di ascolto a Pordenone. Perché un centro di ascolto? Perché l’ascolto è lo stile di Dio, e di conseguenza lo stile del cristiano verso i poveri: «Ho ascoltato la miseria del mio popolo», così risuonano le prime parole di Dio nell’Esodo. Ascoltare il povero è ascoltare Dio, presente nel povero. Chi trovano gli immigrati nel centro? Volontari, obiettori, religiose. I volontari vengono dalle parrocchie. Alcuni sono catechisti. Non hanno chiesto di fare volontariato al centro di ascolto per sentirsi dire bravi. L’ambiente non è molto favorevole agli immigrati. Lo fanno per fede. Perché credono al messaggio del Vangelo, che considera tutti gli uomini, nessuno escluso, figli di Dio. Secondo me tutti costoro sono evangelizzatori. Sono i primi evangelizzatori, che sanno accogliere tutti, cristiani e non cristiani. E sono una testimonianza anche per i cristiani italiani. Ma mi chiedo: come consideriamo questi volontari? È saggio ignorarli quando si parla di evangelizzazione? Non è invece più intelligente valorizzarli come una risorsa pastorale formidabile? Forse, quando parliamo di evangelizzazione, pensiamo solo all’annuncio verbale del Vangelo. Ma sembra che per il magistero della chiesa le 5 cose non stiano così; secondo la Redemptoris Missio (n.42) «la prima forma di evangelizzazione è la testimonianza». È vero che in tutti questi anni al centro di ascolto non abbiamo mai avuto un’esperienza di annuncio diretto del Vangelo. E non abbiamo mai chiesto la religione di appartenenza. La nostra posizione è delicata, non vogliamo far pensare che il nostro scopo sia fare proselitismo, non vogliamo che ci siano discriminazioni. Ma lo scopo è obbedire al comando di Gesù: vivere il Vangelo. Per questo credo che il centro di ascolto sia un centro di evangelizzazione. E ancor più lo sono le Caritas parrocchiali, organismi di evangelizzazione per statuto e per volontà dei vescovi. Loro compito è promuovere la testimonianza della carità di tutti i cristiani, diffondere la consapevolezza che il soggetto dell’evangelizzazione è l’intera comunità cristiana. Ci sono anche dei limiti, naturalmente, nell’esperienza dei centri di ascolto e delle Caritas. Sempre in agguato è il rischio della delega, da parte di coloro che si rivolgono al centro per segnalare casi di bisogno. Altro grave difetto è che talvolta si procede senza pensare, travolti dall’emergenza. E si cade nel famoso assistenzialismo, che significa sostituirsi alla persona. Invece di accompagnarla nel cammino di uscita dal bisogno, si prende il suo posto, la si deresponsabilizza. Ma attenti a non chiamare assistenzialismo tutta la solidarietà concreta! Credo dunque, anche per far fronte a questi rischi, che coloro che già si occupano di immigrati vadano accompagnati con un sostegno formativo: con loro e attraverso loro sarà più facile annunciare il Vangelo. Perché anche i non cristiani preferiscono i testimoni ai maestri. ■ * direttore Caritas diocesana Concordia - Pordenone Si è svolto a fine febbraio il convegno nazionale sulle migrazioni, promosso da Cei e Fondazione Migrantes, sul tema “Tutte le genti verranno a te”. La sintesi dell’ intervento di un direttore Caritas aprile 2003 il punto su Una Corte “visionaria”, la pace affidata alla legge Domenico Rosati Il 12 marzo all’Aja hanno giurato i giudici del Tribunale penale internazionale. Notizia censurata, in tempi di guerra: ma la possibilità di far giudicare in modo imparziale, e non solo dai vincitori, chi compie crimini contro l’umanità è l’embrione di un nuovo ordine mondiale aprile 2003 I l clima dei tempi di guerra ha oscurato la notizia del giuramento, avvenuto a L’Aja il 12 marzo, dei diciotto magistrati della Corte penale internazionale. Molti giornali non ne hanno parlato. Altri lo hanno fatto con parsimonia. Fenomeni di autocensura, ovvero di censura preventiva: se si elogia il tribunale si dà un dispiacere agli Usa che l’hanno osteggiato e tentano di svuotarlo; se si minimizza il suo ruolo si va contro una vasta sensibilità popolare. Il momento scelto per insediare la Corte non è stato il più propizio. L’Onu in frantumi, la legge della giungla ripristinata senza ritegno in Iraq e magari in altre parti del mondo. Che senso ha parlare di diritti umani da difendere anche sotto il profilo penale, con un organismo imparziale, costituito per volontà degli 89 paesi che hanno finora sottoscritto il Trattato di Roma del 1998? Che senso ha far credere al mondo che i crimini contro l’umanità, dal genocidio alla tortura, non sfuggiranno più alla legge dell’umanità e, cosa importante, non saranno più sottoposti al solo giudizio dei vincitori? Ed è davvero possibile confidare nella funzione di giudici “terzi” e “naturali”, nel senso di preesistenti al reato e conosciuti preventivamente da chi un reato stia per commettere? Rispondere sì, con i tempi che corrono, ha il sapore dell’abbaglio visionario. E tuttavia il varo della Corte è stato sostenuto da un numero considerevole di governi e parlamenti. E nella cancelleria del nuovo organismo sono già depositati fascicoli impegnativi, che denunciano delitti compiuti in molti paesi del mondo, alcuni autoritari, altri di facciata liberale. Si manifesta insomma un paradosso che rivela, ci si creda o meno, la presenza della Provvidenza nella storia. Da un lato nulla sembra opporsi alla spirale che prolunga il terrorismo nella “logica di guerra”, dall’altro si dà vita a un organismo basato sul presupposto dell’esistenza di uno stato di diritto minimo a carattere universale. Così è legittimo chiedersi se contro il corso della storia si pongano i “visionari” che hanno costruito la Corte, o i “realisti” prigionieri del recinto dentro il quale i conti si regolano solo con le armi. E ha ragione il noto giurista Giovanni Conso, quando afferma che il Tribunale nasce per tutelare la pace, in quanto ne affida le ragioni al pubblico svolgersi dei confronti processuali e scoraggia, per ciò stesso, il ricorso all’ingiustizia e all’arbitrio come strumenti di governo. Anche le defezioni nella fondazione della Corte (mancano tra gli altri Russia, Cina, India, Corea, Giappone e, naturalmente, Iraq) segnano una demarcazione di campo tra la volontà di sottomettersi a un regime di legalità e la volontà di mantenere una sfera di arbitrio protetta dal principio di non ingerenza. Ma il caso più rilevante è quello degli Stati Uniti: prima, con Clinton, aderiscono al trattato; poi, con Bush, non lo ratificano; infine instaurano con i governi amici speciali rapporti bilaterali, in base ai quali i cittadini Usa che commettano crimini contro l’umanità in un paese aderente al Tribunale saranno affidati alla giustizia “domestica” Usa. Limiti, difficoltà, ostacoli. Tutto va messo in preventivo. Far marciare a pieni giri il nuovo motore non sarà agevole. Così come non sarà dato ai giudici, e al procuratore generale che sarà scelto, di sottrarsi alle pressioni di chi sia interessato a ottenerne i favori. E tuttavia la Corte penale internazionale rappresenta l’embrione di un nuovo sistema mondiale. Nel quale la regola non sarà più “se vuoi la pace prepara la guerra”, ma “se vuoi la pace rispetta la ■ legge”. 6 da esclusi a cittadini Salute mentale, un diritto che interpella il cristiano Cinzia Neglia S non solamente come assenza di malattia, ma come stato di benessere fisico, mentale e sociale. Considerare i tre ambiti risulta importante anche nella definizione della cura e nella individuazione di chi può facilitare processi di guarigione. Il rapporto sulla salute nel mondo 2001, curato dall’Oms, afferma inoltre che “il concetto di salute mentale include un benessere soggettivo, la percezione di una propria efficienza, l’autonomia, la competenza, la dipendenza intergenerazionale, la realizzazione del potenziale intellettuale ed emotivo di ciascuno e molto altro”. «Alcune stime suggeriscono che circa 450 milioni di persone soffrono oggi (otPerché la chiesa si occupa di malattia mentale? Una prima tobre 2001, ndr) di un dirisposta risiede nell’attenzione ai bisogni che la chiesa è sturbo mentale o neurolochiamata a vivere in sintonia con il Vangelo, dando voce a chi gico o di problemi psicosonon ha voce, sostenendo i più deboli, promuovendo la forza della ciali – ha affermato il diretgiustizia. La sofferenza mentale è, tra le povertà, quella che più tore generale dell’Oms, Gro deve interrogarci: chi la sperimenta vive privo di appoggi, di difese, di consensi, lontano dagli altri, separato dagli altri, Harem Brundtland –; la dechiuso in se stesso, estraneo alla vita. È tra gli ultimi della fila, pressione oggi è la causa quelli che non contano, non si sentono, non sanno difendersi, non principale di invalidità gloriescono a pesare nelle decisioni politiche e sociali. bale e si classifica quarta fra A questi concetti si ispira un opuscolo di prossima pubblicazione le dieci principali cause di (la presentazione è prevista tra aprile e maggio) curato da Caritas disturbi. Se le previsioni soItaliana e dall’ufficio di pastorale della salute della Cei e no corrette, nei prossimi 20 pubblicato dalle Edizioni Dehoniane nella nuova collana Caritasanni la depressione avrà il Edb. Partendo da un’analisi di quanto le comunità cristiane dubbio onore di diventare fossero poco attente o poco preparate nel relazionarsi a chi soffre la seconda causa del peso di malattia mentale, si è voluto offrire loro uno “strumento di globale dei disturbi». L’Oms lavoro”. L’opuscolo si offre alle diocesi, alle comunità presenti nel però non si limita a offrire territorio nazionale e a ogni singolo cristiano come un richiamo ai queste allarmanti previsiovalori che vanno concretizzati anche in un territorio aspro, quale è ni, ma dopo aver evidenziaquello della malattia mentale. Vuole essere un accompagnamento to che molti malati soffroper quanti scelgono di vedere e riconoscere come fratello il no in silenzio, da soli – malato di mente, per le comunità che intendono accoglierlo nella spesso vittime dello stigma semplicità e in una quotidianità che rende partecipi tutti, nessuno e dell’esclusione –, e dopo escluso; è dunque un invito rivolto alle comunità cristiane aver esplicitato che la magaffinché si facciano garanti di chi non riesce da solo a tutelarsi. gior parte dei malati non alute: un concetto, un augurio, un diritto. Spontaneamente, per associazione di idee, il termine salute viene abbinato al termine malattia. Se invece si ricorre al dizionario, al termine salute corrisponde la formula “stato di benessere fisico e psichico dell’organismo umano, derivante dal buon funzionamento di tutti gli organi e gli apparati”. Da anni l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) mette in evidenza l’importanza della salute mentale, definendola UN OPUSCOLO PER COLORO CHE ACCOLGONO I MALATI 7 Circa 450 milioni di persone nel mondo soffrono di disturbi mentali. Ma si tratta di una forma di sofferenza troppo spesso non riconosciuta. La cura non va delegata ai soli specialisti: le comunità cristiane chiamate alla vicinanza. In arrivo una pubblicazione Caritas aprile 2003 sono violenti, ricorda che molto spesso le malattie psichiatriche possono essere curate in modo efficace. Il ruolo della comunità cristiana Ma cosa hanno a che fare la malattia mentale, la sua diffusione, la sua guaribilità con le comunità cristiane? La malattia ha bisogno di dottori, di tecnici e di specialisti tanto più è complessa e inintelligibile, tanto meno ci appartiene: così reagiscono i più di fronte al fenomeno. Eppure, sostiene ancora l’Oms affrontando il tema del coinvolgimento della comunità locale, “le convinzioni, gli atteggiamenti e le reazioni della società condizionano numerosi aspetti della cura della salute mentale. I malati mentali sono membri della società e il contesto sociale è un importante condizionamento dello sviluppo della malattia: se è favorevole contribuisce alla guarigione e all’integrazione; se, al contrario, è sfavorevole può rinforzare i pregiudizi e la discriminazione”. Parlando Dalla copertina di “Per non dimenticare”, Ega, Torino,1998 LA SFIDA DELLA “COMUNITÀ CHE GUARISCE”, DA BIELLA A TRAPANI PARROCCHIE IN AZIONE Il disagio è tra noi. Nelle nostre case, intrecciato ai percorsi che ogni comunità, civile e religiosa, compie giorno dopo giorno. A partire da questo presupposto, alcune Caritas diocesane italiane hanno deciso di affrontare in profondità il tema della malattia mentale. Nella diocesi di Biella la commissione Caritas “La comunità che guarisce” lavora su due versanti: parrocchie e territorio. Nelle comunità ecclesiali propone percorsi di accoglienza: un lavoro meticoloso, che richiede tempo. Ma sono già due le parrocchie che hanno aperto le loro strutture ai malati. In una di queste, un giorno alla settimana, un gruppo di persone con sofferenza mentale svolgono attività riabilitanti. «Questo contatto costante – racconta Gianni Pescio, coordinatore della commissione – crea un legame, uno spirito di accoglienza. I parrocchiani sdrammatizzano la malattia e valorizzano la normalità che ancora esiste. Si creano i presupposti per un mutamento culturale, si comincia a pensare il disagio mentale come una malattia tra le tante». In una delle parrocchie sta partendo anche un osservatorio: il parroco ha individuato i responsabili dei vari settori, per esempio aprile 2003 l’oratorio e i gruppi catechistici, che verranno aiutati a cogliere il malessere delle persone con cui hanno a che fare, perché dietro la formula “sofferenza mentale” non stanno solo gli psicotici nevrotici (l’1% della popolazione), ma anche chi vive situazioni difficili, come i depressi, gli anoressici e gli ansiosi (il 14% della popolazione). Sul versante del territorio, la delegazione Caritas Piemonte – Val d’Aosta ha promosso un tavolo per la salute mentale, al quale siedono sette Caritas diocesane, sei dipartimenti di salute mentale, cooperative sociali del settore, associazioni di volontariato e di famiglie, assessori alle politiche sociali. L’obiettivo è sensibilizzare la popolazione e avere la possibilità di incidere sulle politiche sociali. Per fare delle città luoghi di relazioni e diritti, oltre il semplice approccio terapeutico. A Trapani, nell’estrema punta occidentale della Sicilia, la Caritas diocesana ha organizzato una trama d’interventi che s’infittisce con il tempo. «Il 2004 sarà dedicato alla salute mentale», spiega padre Guglielmo Filippi, coordinatore di un progetto che ha il suo perno nella sensibilizzazione e nel monitoraggio del territorio 8 e che prevede un ampio coinvolgimento delle parrocchie. «In diocesi organizziamo incontri, conferenze e corsi di formazione per i futuri operatori pastorali – continua – e i gruppi parrocchiali tengono monitorata la situazione delle famiglie con soggetti malati. In tal modo, gli operatori che l’anno prossimo svolgeranno il lavoro domiciliare saranno competenti, preparati alle situazioni che incontreranno e pronti ad agire». Attraverso i centri di ascolto, inoltre, la Caritas acquisisce informazioni su possibili interventi da attuare. Le risorse del territorio più spesso coinvolte sono il centro diurno “Domenico Amoroso”, che attualmente ospita 15 soggetti in osservazione, e un gruppo di ragazze in servizio civile, che lavorano con 12 persone con lievi problemi di salute mentale, coinvolgendole in piccoli lavori manuali e altre attività. C’è poi l’azione di Rèciclo, una cooperativa locale che collabora con la Caritas diocesana e si occupa del reinserimento lavorativo dei malati mentali, secondo quanto previsto dalle leggi. Infine, è di prossima definizione il protocollo d’intesa con il locale dipartimento di salute mentale, per l’attuazione di diversi progetti già pensati dalla Caritas diocesana. a cura di Manuela Galizia e Danilo Angelelli 9 FOTO ALBERTO MINOIA di misure per accrescere la partecipazione della comunità, l’Oms cita tra le altre il volontariato. Ma quale è e quale può essere l’impegno e la presenza delle comunità cristiane e delle realtà Caritas in un mondo attraversato da una sofferenza così grande? Una sofferenza che spesso non riconosciamo o che, se la individuiamo, ci sconvolge, ci fa sentire inermi, annichiliti, frustrati, a volte arrabbiati nei confronti della nostra e dell’altrui impotenza. In molte realtà locali sono facilmente individuabili risposte di aggiramento del problema: «Qui non ci sono malati di mente, la comunità cristiana non se ne occupa, ci pensa il centro di salute mentale pubblico, se ne occupano le associazioni» (spesso senza sapere che si tratta di associazioni di familiari, composte dunque da persone che non possono non occuparsi del problema, anche se qualcuno parla di volontariato). Davvero in questi casi si manifesta un’incapacità di vedere. O forse si tratta della rinuncia a chiedersi cosa c’è sotto gli sguardi a volte disperati di chi non ce la fa più da solo a reggere una sofferenza tanto grande, e nello stesso tempo non ha la forza, il coraggio o la capacità di chiedere aiuto. Il compito della vicinanza Nelle nostre comunità vivono persone e famiglie che spesso non sanno dell’esistenza di tecnici che possono avviare percorsi di cura e di reinserimento, persone che hanno finito lacrime e danari in un peregrinare tra psichiatri e cliniche private, persone che vorrebbero vedere i loro congiunti avvicinarsi ai coetanei e ad altre persone, senza che gli occhi di queste ultime debbano per forza cercare vie di fuga. Nelle nostre comunità ci sono persone che vorrebbero che qualcuno credesse vere le parole del papa, quando ricordava che l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio sempre, anche se è malato di mente. A tutti, e ai cristiani in particolare, è chiesto di dimostrare con la vicinanza a queste persone che la malattia mentale non crea steccati insuperabili, ma può attivare percorsi di amore. In uno spirito di accoglienza che viene prima della cura specialistica, ma l’accompagna, la completa e talora la rende possibile. ■ aprile 2003 politiche sociali Welfare formato Maroni quattro ombre da fugare Marco Toti La Caritas sta esaminando il “Libro bianco” messo a punto dal ministero. Benessere, cittadinanza, sicurezza, mobilità: emergono opzioni culturali e proposte di politica sociale ispirate a una visione individualista e utilitarista, non personalista e relazionale aprile 2003 I l ministro Roberto Maroni ha presentato a febbraio un “Libro bianco” sul welfare che illustra le linee di sviluppo delle politiche sociali e che ha suscitato ampie reazioni nel mondo del terzo settore. Caritas Italiana e le Caritas diocesane stanno esaminando il testo: appare chiara l’esigenza di approfondire alcuni concetti-chiave che ne segnano la trama. Benessere, dipende dal reddito? Alla radice delle politiche sociali c’è un’azione dell’operatore pubblico (il soggetto politico), orientata a facilitare il raggiungimento del benessere da parte dei cittadini. Le definizioni di benessere possono variare, ma al centro pongono tutte i bisogni della persona. A livello politico e di teoria economica si sostengono due posizioni: secondo la prima, il benessere della persona consiste nell’avere più beni di consumo a disposizione; per la seconda il benessere ha una configurazione multidimensionale, è cioè il risultato di una pluralità di fattori economici, culturali, relazionali. L’opzione culturale scelta dal “Libro bianco” sembra la prima: ne consegue che è necessario favorire lo sviluppo economico perché reddito e ricchezza disponibili si accrescano, cosicché molte persone e famiglie possano raggiungere alti livelli di consumo e quindi avere maggiore benessere. Per chi non ce la fa vengono indicati alcuni strumenti di sostegno, dagli ammortizzatori sociali ai redditi di ultima istanza, mentre le famiglie “meno fortunate”, che hanno una persona non autosufficiente, vanno aiutate alleviando l’onere, ma non si accenna a politiche in grado di prospettare orizzonti di umanità e dignità. La politica sociale, in altre parole, viene concepita come funzionale alla crescita economica. Il “Libro bianco” appare ispirato a un’ottica individualista o utilitarista, anziché a un approccio personalista: la prima considera le relazioni sociali strumentali ai bisogni, il secondo ritiene che esse definiscano l’identità della persona. Anche il concetto di famiglia varia notevolmente. Nel primo caso la famiglia è vista come soggetto completo, autodefinito, la cui rilevanza sociale consiste nella capacità di essere soggetto produttivo, di consumo e riproduttivo. Nel secondo caso la famiglia è il luogo prioritario di realizzazione della personalità dei singoli e non è definita di per sé, ma dalla capacità di essere soggetto di relazione e cittadinanza sociale; cellula della comunità, non corpo autonomo. Cittadinanza, diritti ignorati? L’idea di cittadinanza è una delle conquiste della modernità. L’accezione di cittadinanza sociale garantisce a ogni persona, anche a coloro che non hanno lo status di cittadini di un certo paese ma sono stranieri, il rispetto di diritti sociali fondamentali. L’Italia ha ratificato la Carta sociale europea del Consiglio d’Europa che definisce i “diritti protetti”, veri e propri diritti di cittadinanza (dall’abitazione alla protezione della salute, dall’educazione al lavoro, dalla protezione sociale alla non discriminazione alla libera circolazione delle persone). La distinzione fatta dal “Libro bianco” tra immigrati legali e altri, rispetto ai diritti sociali che appartengono alla persona, è un arretramento rispetto alla legge 328 del 2000, che invece li aveva garantiti a tutti. D’altronde l’intero fenomeno dell’immigrazione è liquidato dal “Libro bianco” con la promozione di corsi di alfabetizzazione per immigrati. 10 Non si coglie la portata epocale del fenomeno migratorio, sempre più concepito come affare di polizia e non di politica sociale. Sicurezza, affare di ordine pubblico? Tra i bisogni prioritari dell’uomo c’è il bisogno di sicurezza. In tempi recenti non era mai prevalsa, in ambito sociale, l’accezione legata all’ordine pubblico, che aveva invece caratterizzato gli interventi sociali nell’’800 e nei primi decenni del ‘900, quando era diffuso il timore del turbamento che i bisognosi potevano creare all’ordine costituito. Ma il “Libro bianco” sembra riecheggiare un’idea di sicurezza, presa a prestito dal dibattito politico prevalente, come bisogno di protezione dalla criminalità comune, soprattutto nei contesti urbani. Va invece recuperata la profonda caratteristica solidaristica della scurezza sociale, concepita non solo come patto tra i cittadini, ma anche come patto intergenerazionale, soprattutto per la previdenza. Lo spettro delle situazioni di insicurezza va inoltre integrato con due realtà sempre più evidenti. Anzitutto la precarietà delle condizioni contrattuali dei lavoratori: se non si assicura un orizzonte dignitoso alle giovani famiglie attraverso un lavoro stabile, non saranno certo gli asili nido o i mutui agevolati per l’acquisto della casa a incentivare autonomia e natalità. Anche l’assenza di reddito che attanaglia molte famiglie alimenta una persistente 11 insicurezza: la soppressione di fatto del reddito minimo di inserimento, tramite l’introduzione di non meglio specificati “strumenti finalizzati”, compreso il cosiddetto “reddito di ultima istanza”, rende ancora più precario l’orizzonte. Mobilità, funzionale al produrre? La mobilità umana è un fenomeno antichissimo, sin dalle origini incentrato sul bisogno: ci si sposta a vivere da una zona all’altra per vivere meglio. È la deprivazione che spinge persone e famiglie a spostarsi. Solo di recente si è diffusa su larga scala, ma solo nei paesi occidentali, la possibilità di spostarsi per fattori diversi dalla sopravvivenza: la volontà di migliorare la propria vita, di cogliere nuove opportunità. Il “Libro bianco” sembra resuscitare la teoria della pressione demografica differenziale: quando un territorio non ha risorse sufficienti a garantire un adeguato standard di vita alla popolazione viene abbandonato, e molti si dirigono verso luoghi dove ci sono maggiori opportunità. Da un punto di vista analitico la realtà rispecchia in parte questo quadro, ma è grave che esso sia assunto come dato politico. C’è una sorta di condanna implicita dei territori meno ricchi e sviluppati, che saranno alleggeriti dal peso di una popolazione in eccesso: il “Libro bianco” teorizza la concorrenza tra territori per permettere ai più efficienti di continuare la corsa, mentre gli altri affannosamente raggiungono, non si sa come, i loro standard. Non c’è cenno alla storia, alla cultura, alla tradizione delle relazioni sociali di un popolo, tantomeno alla necessità che le forze migliori restino nei territori più poveri per guidare uno sviluppo non ancora realizzato. La risorsa umana, anche in questo caso, è considerata semplice fattore produttivo da allocare dove c’è necessità d’impiego, secondo una visione strumentale della ■ persona. aprile 2003 volontariato e dintorni Servizio sul doppio binario i valori da non disperdere Giancarlo Perego La nuova stagione del servizio civile impone nuovi modelli educativi e progettuali. Si aprono opportunità anche per le ragazze, ma non mancano le inquietudini. Il patrimonio dell’obiezione di coscienza non va disperso: non è indifferente servire la pace con o senza armi S abato 8 marzo papa Giovanni Paolo II ha incontrato 8 mila giovani, tra obiettori e volontari (tra cui molte ragazze) impegnati nel servizio civile. Si è trattato di un incontro importante, che ha caricato di un significato in più la tradizionale giornata della donna e ha raccolto anche il desiderio di pace che in quei giorni era alto nella società italiana. Il papa – tra le altre cose – ha parlato del “progetto di istituire corpi civili di pace in ambito europeo e mondiale”: un accenno che è risuonato come un invito a lavorare con impegno per studiare e varare forme alternative alla difesa armata. Riprendendo un’immagine di Giovanni XXIII, il papa ha parlato del servizio civile come di “un segno dei tempi”, cioè un luogo di testimonianza cristiana. Nel mondo ecclesiale da tempo è andata crescendo l’attenzione all’obiezione di coscienza e al servizio civile, ma la stagione attuale impone nuovi modelli organizzativi, educativi e progettuali. Né mancano le inquietudini, legate al “doppio binario provvisorio” che caratterizza attualmente il servizio civile, in attesa della fine della leva obbligatoria. Cinque preoccupazioni Una prima preoccupazione concerne la salvaguardia del patrimonio di idee e valori maturati attorno all’obiezione di coscienza come scelta di difesa non violenta, come traduzione del comandamento dell’amore nei confronti dei nemici. L’obiezione di coscienza, diritto riconosciuto da una legge del 1998, deve trovare forme di espressione evidente anche nel servizio aprile 2003 civile volontario, che chiariscano come non è “indifferente” difendere e servire la pace con le armi o senza le armi. Una seconda preoccupazione riguarda la costruzione di progetti a partire dai giovani, e non considerando i giovani semplici destinatari. Questo impegno dovrà condurre a diversificare i progetti, a non standardizzarli, ad accompagnarli con figure di educatori per verificarne la bontà. Una terza preoccupazione è relativa al varo di progetti che aiutino a incontrare i giovani e i poveri, sapendo che nell’incontro non solo c’è un “di più” di solidarietà, ma c’è anche un “di più” di carattere educativo, un valore aggiunto nel cammino di fede. Una quarta preoccupazione ci muove a tenere aperta la strada della condivisione in un duplice senso: come vita comunitaria tra i giovani che fanno un’esperienza di servizio; come scelta di condivisione con paesi del mondo dove si sperimentano la fame e la guerra. Un’ultima preoccupazione è infine inerente alle modalità tramite le quali coniugare il servizio civile con l’impegno di formazione professionale (crediti formativi), con il volontariato (dopo il servizio), con esperienze di cittadinanza attiva. Tutte queste preoccupazioni fanno guardare al servizio civile come a una sfida educativa, che non solo chiede attenzione e competenza nei rapporti con la realtà istituzionale, ma interpella in profondità anche la pastorale. Nella consapevolezza che i tempi nuovi suggeriscono nuovi strumenti e nuovi spazi per esprimere (educandola) la soggettività ■ umana e di fede dei giovani. 12 IN DIMINUZIONE GLI OBIETTORI DI COSCIENZA, UN FRANCOBOLLO PER “ARRUOLARE” VOLONTARI Dal 1977 a oggi il servizio civile in Caritas ha interessato circa 100 mila giovani. Al 31 dicembre 2002 erano 1.700 gli obiettori in servizio in 191 Caritas diocesane. Nei servizi ecclesiali che fanno riferimento alla Consulta delle opere socio-assistenziali circa 9 mila giovani all’anno, nell’ultimo decennio, sono stati impegnati in servizi alla persona. Le nuove leggi hanno aperto la strada a ulteriori possibilità di impiego: già oltre 500 volontari, ragazzi e soprattutto ragazze, sono stati avviati al Servizio civile volontario in 82 Caritas diocesane; 29 obiettori di coscienza e 39 caschi bianchi “targati” Caritas sono stati invece distaccati all’estero, in aree del mondo dove si vivono situazioni di crisi, conflitti e marginalità. Dal “Quarto rapporto sul servizio civile in Italia”, curato dalla Conferenza nazionale enti per il servizio civile, si apprende che nel 2001 sono stati avviati al servizio 60.141 obiettori contro i 78.841 dell’anno precedente. Nel triennio 19992001, in base alla legge 230/98 la dispensa dal servizio di leva è stata concessa a 79.803 ragazzi, mentre un decreto del governo del febbraio 2001 ha ampliato la possibilità dell’esenzione a chi è in procinto di trovare RAGAZZE IN SERVIZIO, MAESTRE DI RELAZIONE: GENERAZIONE VIRTUALE CHE CERCA LA REALTÀ Si presentano. Sempre più numerose. Sempre più convinte. Con motivazioni tra loro differenti. Ma curiose di sperimentare un’occasione di servizio agli altri che è anche un percorso formativo per se stesse. E un modo per immergersi – loro, generazione virtuale – nelle vicende del mondo reale. Dalle Alpi allo Stretto, cambiano i panorami sociali e le realtà ecclesiali, ma non cambia la voglia delle giovani di misurarsi con la scommessa del Servizio civile volontario. Alessandro Bolzonello è l’incaricato dalla delegazione Nord-Est per la promozione del nuovo servizio. «Le Caritas diocesane aderenti sono state Verona, 13 lavoro: questi provvedimenti, uniti alla scarsa chiarezza legislativa, alla tendenza del settore militare a ridurre sempre più gli effettivi della leva (in vista di un esercito formato da professionisti) e a disponibilità finanziarie costantemente incerte spiegano la diminuzione degli obiettori in servizio. Una diffusione sempre più capillare sta invece conoscendo il Servizio civile nazionale volontario. Una recente indagine, svolta su tremila ragazze, ha confermato che la Tv è il veicolo prioritario (92%) di conoscenza del Scn, seguita da quotidiani e manifesti. Le motivazioni principali di chi sceglie questo servizio? “Fare cose utili per chi ha problemi” (30,8%), “fare cose utili per la società” (19,1%), l’individuazione di possibilità occupazionali (12,3%). Intanto le Poste italiane hanno emesso un francobollo di posta prioritaria (3,5 milioni di esemplari da 0,62 euro) dedicato al Scn: “Cambia la vita, tua e degli altri” è lo slogan suggerito dall’Ufficio nazionale del servizio civile. La scelta del Scn nel 2003 dovrebbe coinvolgere oltre 15 mila volontarie tra i 18 e i 26 anni (28 dal 2004). Pordenone, Treviso, Padova e Trento. L’esordio è stato complesso – avverte –, a causa delle differenti esperienze che caratterizzano ogni diocesi in materia di servizio civile. Alcune realtà si sono attivate velocemente, altre hanno impiegato tempi più lunghi. Ciononostante, abbiamo accompagnato in servizio una ventina di aprile 2003 Un gruppo di volontarie Caritas che attualmente svolgono il Servizio civile L’UFFICIO NAZIONALE: «VERSO L’ACCREDITAMENTO, IL SISTEMA CHIEDE PROGETTI E SERVIZI DI QUALITÀ» Roberto Marino, un passato da obiettore di coscienza. Oggi è vicedirettore dell’Ufficio nazionale per il servizio civile, l’organismo istituzionale chiamato a governare vecchie e nuove forme di servizio. Dottor Marino, che giudizio date della fase di avvio del Servizio civile volontario? Molto positivo. L’adesione degli enti ricalca la geografia del servizio obbligatorio, sia dal punto di vista territoriale (con una prevalenza del nord Italia) sia riguardo ai settori di impiego. Quanto ai volontari – 8 mila nel 2002, secondo le previsioni 15 mila nel 2003, per il 90% ragazze –, sono entrati in gioco fattori socio-economici diversi: le richieste arrivano soprattutto dal sud, sono spesso (ma non esclusivamente) ispirate dal fattore economico, evidenziano il desiderio di una continuità tra studi, servizio e prospettive professionali. Il servizio è recepito come occasione per affacciarsi sul mondo degli adulti e del lavoro: un dato da non scoraggiare, ma da mantenere in equilibrio con altre dimensioni. L’edificio normativo è ancora in via di costruzione. Mancano alcune direttive: sono in arrivo? Non solo gli enti e i giovani, ma anche l’amministrazione si trova in fase di aprile 2003 sperimentazione. È vero che mancano alcuni regolamenti applicativi. Ma il meccanismo delle circolari funzionerà per tutto il periodo transitorio, fino a giugno 2004. In quella data vi sarà il passaggio di numerose competenze alle regioni, poi entrerà in vigore un meccanismo simile a quello dell’accreditamento. La possibilità di avere volontari, in altre parole, sarà riconosciuta solo agli enti che dimostreranno qualità in termini di capacità progettuale, offerta di impiego, livelli di dialogo con i giovani e strumenti formativi. Una recente circolare, a novembre, ha cominciato a delineare questa prospettiva, definendo con maggior precisione i criteri di progettazione e di ingresso. C’è il rischio che enti locali e organismi del terzo settore si accostino al Servizio civile volontario come a un serbatoio di risorse umane a basso costo? Un antidoto è rappresentato dal fatto che ormai sono i ragazzi a scegliere. Nel caso del servizio dell’obiettore si poteva verificare un patto non scritto all’insegna del “ti chiedo poco, fai poco”. Nel caso del servizio volontario, il problema potrebbe verificarsi dove il motivo della scelta è soprattutto economico. Ma in generale, le motivazioni di chi vuole accedere al servizio 14 giovani: un solo ragazzo e per il resto ragazze». A far presa sui giovani sono le peculiarità formative dei progetti Caritas. «Ma soprattutto l’opportunità di entrare in contatto con i margini della società. I giovani manifestano il bisogno di stare accanto alla realtà autentica, sono attratti dalle esperienze che li immergono nella concretezza di storie di vita significative». In passato l’adesione degli obiettori aveva radici ideologiche più profonde. «Oggi ci troviamo di fronte al problema – riconosce Alessandro – di tradurre i valori dell’obiezione nella nuova stagione del servizio. In passato il tema trainante era l’aiuto agli altri, oggi chi chiede di entrare in servizio è molto attento al proprio cambiamento e alla propria crescita. Noi cerchiamo di inserire i giovani in attività che valgono come sfida e come stimolo, per esempio i luoghi della malattia grave o faranno la differenza. Così come la cura e l’incentivazione della qualità dell’offerta progettuale, responsabilità del nostro ufficio. Guardando al passato, comunque, è vero che si sono determinati casi di uso improprio degli obiettori, ma ciò ha supplito a carenze delle politiche dei servizi sociali, ambientali e culturali del nostro paese. In qualche misura è stato inevitabile: occorre impedire che questa situazione divenga la nota dominante del servizio. Il clima culturale oggi è mutato: come aiutare i volontari a far propri i principi costituzionali della solidarietà, della giustizia sociale e del ripudio della guerra, cari alla prima stagione dell’obiezione? Mi auguro, da obiettore in congedo, che il riferimento a quei principi non vada disperso e riesca sempre a innervare il servizio civile. A questo proposito, però, si delinea una precisa responsabilità degli enti, chiamati a gestire al meglio i momenti della progettazione, della formazione e della selezione. A noi compete fissare criteri minimi, ma tocca agli enti combinare queste azioni in modo lungimirante, per far sì che il servizio civile volontario sia vissuto dai giovani non solo come occasione per arricchire il proprio curriculum e percepire un salario di ingresso, ma anche e soprattutto come esperienza umanamente e culturalmente forte, ancorata a un robusto terreno di valori civili. 15 del disagio dei minori: vogliamo aiutarli a innervare di valori profondi il loro percorso di maturazione». Il caso sceglie Francesca Visto con gli occhi di un giovane calabrese, il Servizio civile volontario presenta altri motivi di attrazione. Che non è giusto condannare, ma bisogna educare. «Al sud – ammette Alfonso Canale, responsabile della delegazione Calabria – 355 euro al mese sono una proposta allettante non solo per chi è senza lavoro, ma anche per i molti che hanno un impiego sottopagato. Elaborando i progetti, nei quali sono state immesse 17 ragazze, abbiamo messo a punto criteri di selezione molto seri. Per l’ultimo bando abbiamo sostenuto 57 colloqui e ricevuto altre 22 domande di ammissione, anche da altre regioni del meridione, sovente dalle periferie. Abbiamo selezionato 4 ragazze, puntando sulle loro precedenti esperienze ecclesiali e di volontariato, nonché sulla presenza, nel curriculum, di studi in ambito socio-assistenziale. Ma non abbiamo penalizzato chi ha mostrato una forte carica di umanità e un’aperta disponibilità al servizio». Come Francesca, studentessa di ingegneria, che in Caritas aveva accompagnato il fidanzato che voleva fare domanda di obiezione, e ha letto casualmente un opuscolo sul progetto diocesano. Oggi opera nelle strutture di accoglienza per gli ex pazienti dell’ospedale psichiatrico, opera-segno che costituisce l’approdo privilegiato delle volontarie. «Francesca, come le altre ragazze – sorride Alfonso –, ha dato una scossa benefica all’ambiente delle comunità. Sanno portare freschezza nelle relazioni umane; sanno ascoltare, condividere, accompagnare, anche nei casi in cui l’operatore professionale, a causa della routine, fa fatica a sostenere la relazione. Del servizio, segnalano come positivo il fatto che fa entrare in contatto con realtà territoriali e sociali di grande significato. Insomma, danno e ricevono. E io mi auguro che in futuro il loro servizio possa portare anche più lontano: non sono obiettori, ma saprebbero far bene anche come “corpo di pace”, lavorando per la giustizia e la riconciliazione, la tutela dei diritti umani e la ■ salvaguardia del creato». aprile 2003 osservatorio di confine “Fuoco amico” sull’Onu, la guerra che frammenta Alberto Bobbio La guerra è un terribile collage di catastrofi. Ma anche il periodo che l’ha preceduta ha fatto vittime rilevanti. Gravi colpi sono stati inferti a organismi, istituzioni e alleanze che dovrebbero governare i destini del pianeta. Come ci salveremo dalla tentazione unilaterale? aprile 2003 L re geografico dell’Unione Europea che si a guerra in sé potrebbe apparire anprepara all’ampliamento: la penisola ibeche come un episodio marginale, al rica e l’Italia a sud, gli ex comunisti a est, termine di un periodo di preparagli inglesi a nord insieme alla Danimarca zione (non solo dal punta di vista militae agli indecisi di facciata svedesi e finlanre, ma anche politico, geopolitico e stratedesi, tutti schierati dietro la spada di Wagico) che ha fatto nei mesi scorsi molte shington. Il fronte orientale è presidiato vittime tra le istituzioni, gli organismi e le dai greci, che si astengono, e dai turchi alleanze che governano – o dovrebbero – non ancora europei, ma pedina-chiave gli scenari regionali e planetari. della Nato, che cercano una propria via La prima a essere colpita è stata l’Europa, all’egemonia a est, sempre più affrancata quindi la Nato, poi l’idea della guerra predagli americani. In mezzo il cuore della ventiva ha sparato bordate contro le Na“vecchia” Europa. zioni Unite, quindi contro la Lega Araba e Ma anche nel Nord l’Opec. E addirittuAmerica qualche cora qualche governo sa si è modificato. Il guerrafondaio è Canada, dopo alcustato colpito dal ne settimane di fuoco amico. Il più confusione politica, fedele scudiero di Dopo aver ripetutamente chiesto alle autorità ha deciso di non George W. Bush, competenti di esplorare le vie del dialogo e stare con gli Stati l’inglese laburista scongiurare la guerra, Caritas Italiana ha Uniti, anche se le Tony Blair, farà faattivato, fin dai primi momenti dopo lo scoppio sue relazioni comtica in futuro a stadelle ostilità, iniziative per far fronte alle merciali sono quasi re in sella e a passaconseguenze. Su indicazione della Conferenza interamente con gli episcopale italiana, ha invitato tutte le Caritas re lance e spade al diocesane a raccogliere fondi a favore delle Usa. Sicuramente il suo cavaliere d’olvittime della guerra. Nelle prime ore della Canada non è un treoceano. La rivolguerra ha inoltre messo a disposizione 150 mila fattore chiave della ta tra i laburisti ha euro per gli interventi legati all’emergenza. crisi. Ma negli anni toccato l’apice priCaritas Italiana provvederà a destinare i fondi Ottanta aveva accetma del vertice delle raccolti ai profughi e alle vittime del conflitto, tato sul suo territoAzzorre, che ha nell’ambito della mobilitazione messa in atto rio batterie di missipreceduto di qualdalla rete internazionale Caritas. li Cruise americani, che giorno l’ultiPer sostenere gli interventi in atto (causale nonostante l’oppomatum a Saddam “Emergenza Iraq 2003”) si possono inviare sizione dell’opinioHussein, e uno spaofferte alla Caritas Italiana, viale F. Baldelli 41, ne pubblica. Questa 00146 Roma, tramite: rigliamento delle volta Ottawa ha detcarte tra maggio• conto corrente postale n. 347013 to che la guerra è • conto corrente bancario n. 5000X34 - Abi ranza e minoranza 05696, Cab 03202 – Banca Popolare di inutile e dovrà in conservatrice a Sondrio, agenzia Roma 2 futuro rivedere il Londra non viene Cartasì e Diners telefonando a Caritas Italiana • ruolo che finora si è escluso. 06.54.19.21 (da lunedì a venerdì orario attribuita nei rapL’Euroamerica avvid’ufficio) porti con gli Usa. luppa invece il cuo- SU INDICAZIONE CEI FONDI PER LE VITTIME 16 LE CARITAS MEDIORIENTALI MOBILITATE PER L’EMERGENZA La rete internazionale Caritas si è preparata scrupolosamente, durante i lunghi mesi precedenti la guerra, a portare aiuto alla popolazione irachena, dopo aver sostenuto per oltre un decennio Confrérie de la Charité, la Caritas irachena. Fino a quando ha potuto operare sul territorio nazionale, la Caritas irachena ha fornito ogni anno – a partire dal ’92 – aiuti alimentari a 10 mila famiglie e 20 mila bambini, acqua potabile a 300 mila persone e assistenza medica a 6 mila soggetti vulnerabili, curando inoltre la formazione di medici e volontari. Immediatamente dopo lo scoppio della guerra, in Iraq sono entrati in azione 400 medici e oltre 200 volontari Caritas. In vista dell’emergenza erano state attrezzate 87 chiese come rifugi e centri di protezione per i civili e 14 centri sanitari, riforniti di beni di prima necessità, di attrezzature sanitarie e per la depurazione delle acque, nonché di medicinali salvavita. Ognuno di questi centri, inserito nel piano di protezione civile della Mezzaluna rossa irachena, funge da punto di collegamento con gli ospedali locali. Caritas ha Il Palazzo paralizzato La Nato ha subito qualche colpo per via dei turchi, ma appare l’istituzione che esce con le osse meno rotte dalla preparazione alla guerra. Non è mai entrata nel dibattito, neppure quello militare e strategico. Per la Lega Araba l’analisi si fa più complicata e la presentazione del piano di Bush per la pace in Israele e Palestina, che praticamente ricalca la proposta saudita di un anno fa, allarga ancora di più il solco tra le nazioni arabe. Gheddafi ha rotto molti equilibri, le monarchie del petro-Islam hanno spaccato rapporti tradizionali. L’Egitto, con la sua insistenza sulla necessità dell’unità come valore, è stato messo in un angolo da troppi che sperano di vedere realizzati i propri sogni in un dopoguerra filo-americano. Quella che si ripropone in Medio Oriente è una stagione dei “mandati”, come accadde negli anni Venti del secolo scorso. Resta da stabilire a chi toccherà il compito di interpretare Lawrence d’Arabia, per indirizzare la storia verso obiettivi inconfessabili. Infine l’Onu, la cui esistenza sembra infastidire la politica di Washington. È il Palazzo di vetro l’istituzione più paralizzata. Il suo segretario non è riuscito nemmeno a organizzare un vertice per la pace. Non ha provato nemmeno a fare il gesto che fece nel 1998 per bloccare un’altra guerra, 17 inoltre contribuito ad attrezzare altri 26 centri di altre organizzazioni. La rete internazionale Caritas aveva varato, in vista della guerra, un piano di preparazione da 736 mila euro. Ad Amman, in Giordania, è stato allestito il quartier generale, operativo per l’intera regione. Le Caritas mediorientali si sono preparate soprattutto ad affrontare l’emergenza profughi. Caritas Giordania ha moltiplicando gli sforzi per aiutare i 300 mila rifugiati iracheni presenti nel paese già prima del 20 marzo e per far fronte a nuovi arrivi. Caritas Gerusalemme ha inviato un delegato ad Amman per contribuire alla messa a punto dei piani di emergenza. Anche Caritas Siria, Caritas Libano e Caritas Iran hanno varato o perfezionato programmi per far fronte al flusso dei rifugiati. In Kuwait si opera, tramite il Vicariato apostolico, in collaborazione con la Mezzaluna rossa e le autorità locali. Infine Caritas Turchia ha delineato un piano di aiuti con la Mezzaluna rossa internazionale e la Commissione internazionale cattolica per le migrazioni. quando volò a Baghdad per convincere Saddam ad accettare i controlli degli ispettori. Kofi Annan è restato sul suo alto scranno a osservare le macerie che si accumulavano nell’emiciclo della più importante istituzione multilaterale del mondo. Il segretario generale ha sicuramente un problema personale. Sa bene che il suo nome è stato imposto a tutti dagli Usa, che in cambio hanno pagato all’Onu un miliardo di dollari di contributi arretrati. Ma sa anche bene, però, che le lacerazioni prodotte delle azioni degli Usa non fanno bene al mondo. Sono pochi tuttavia quelli che lo hanno detto. Eppure quasi tutti sono d’accordo sul fatto che bisogna salvare gli Stati Uniti, oltre che le Nazioni Unite, da un unilateralismo che può risultare fatale e a loro e ■ al resto del mondo. aprile 2003 obiettivo europa L’Europa amplia i confini, saprà essere più solidale? Annalisa Mazzella* È necessario prevenire la massiccia povertà che minaccia i paesi dell’Est prossimi membri Ue. L’allargamento deve avvenire all’insegna dell’inclusione sociale. Caritas Europa prepara un documento sull’argomento aprile 2003 C aritas Europa rappresenta 48 Caritas nazionali in 44 paesi europei. Avendo cominciato le sue attività nel ’92, l’organizzazione ha raccolto l’eredità di Eurocaritas, che era nata nel ’71. Caritas Europa è una delle sette regioni di Caritas Internationalis; ha sede a Bruxelles e segue il lavoro delle istituzioni europee, in particolare riguardo a politiche sociali, immigrazione e cooperazione europea. Caritas Europa sostiene i suoi membri dei paesi dell’Est con programmi di training e di formazione specifica (capacity building), nonché, a partire dal ’97, coordinando il processo di raccolta e di distribuzione di aiuti economici destinati a sostenere lo sviluppo delle strutture delle Caritas nazionali (Esf). Ricompense e inasprimenti L’Europa si accinge a raggiungere alcune tappe importanti. Aprile 2003 è il momento della firma del Trattato di adesione all’Unione Europea di un primo gruppo di paesi (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, Malta e Cipro), che entreranno nell’Unione a pieno titolo nel maggio 2004. Più tardi, per il 2008, è previsto l’ingresso di Bulgaria, Romania e Turchia. Il processo di allargamento sembra destinato a generare vincitori e vinti. La crescente prosperità rappresenta la ricompensa per i paesi che saranno capaci di tenere il passo con i cambiamenti e rispondere positivamente alle nuove esigenze del mercato in transizione. Ma il miglioramento delle condizioni di vita non interesserà tutti allo stesso modo. L’attenzione della rete Caritas è concentrata sul pericolo d’inasprimento delle disuguaglianze e sulle conseguenze del processo di allargamento per i poveri e gli esclusi. Alle istituzioni europee Caritas Europa chiede di creare le condizioni per una maggiore partecipazione della società civile. In occasione della tavola rotonda sulla povertà e l’esclusione sociale tenutasi ad Aarhaus il 17-18 ottobre 2002, Caritas Europa si è rivolta alla presidenza danese, nonché alla Commissione Europea (organizzatori dell’evento), al fine di ottenere una raccomandazione ai paesi candidati perché favoriscano un attivo coinvolgimento delle organizzazioni non governative nello sviluppo di politiche sociali atte a favorire l’integrazione dei poveri e degli emarginati nella nuova realtà europea. Le priorità per la politica sociale Caritas Europa ha recentemente organizzato una serie di conferenze dedicate all’allargamento. In particolare, la terza conferenza, tenutasi a Praga dal 7 al 9 ottobre 2002 e cofinanziata dalla Commissione Europea, ha raccomandato ai decisori a livello nazionale ed europeo le seguenti priorità per la politica sociale dei paesi dell’Est prossimi membri dell’Unione Europea: • servizi di formazione e ricollocamento per gli agricoltori; • formazione e training vocazionale per persone con capacità inadeguate alle esigenze del mercato del lavoro; • programmi di formazione per il crescente numero di lavoratori che hanno più di 50 anni; • programmi per la prevenzione dello sfruttamento degli immigrati; • programmi a sostegno di soggiorni all’estero e schemi governativi per incoraggiare persone provenienti dall’Europa dell’Est a utilizzare l’esperienza accumulata in altri stati dell’Unione Europea nel proprio paese d’origine. 18 Caritas Europa sta ultimando un proprio documento ufficiale (Position paper) sull’allargamento, il cui lancio è previsto per giugno 2003. Il documento si propone di illustrare le sfide che l’allargamento pone ai paesi già membri dell’Unione, ai paesi candidati all’adesione e ai paesi che, per effetto dello slittamento ad Est dei confini dell’Ue, costituiranno domani la nuova frontiera orientale dell’Europa. L’attenzione del documento è focalizzata su tre settori fondamentali: flussi migratori, mercato del lavoro e occupazione, servizi sociali. La sua caratteristica fondamentale è l’uso, come già avvenuto per il rapporto 2001 “Povertà in Europa”, di una metodologia mista, che abbina l’indagine “di terreno” con una ricerca approfondita nei settori fondamentali. Una parte dei dati rilevati si basa su questionari inviati alle Caritas nazionali nei paesi candidati; sarà inoltre possibile includere nell’analisi l’esempio di progetti realizzati in cooperazione tra diverse Caritas nazionali, dell’Est e dell’Ovest (tra gli esempi, il progetto Border stores per i rifugiati nella Repubblica Ceca, i centri di consulenza per la promozione all’impiego realizzati dalle Caritas di Polonia e Francia, i progetti di formazione destinati ai Rom che coinvolgono le Caritas di Ungheria, Slovacchia, Romania, Repubblica ceca e Bulgaria). Investire in capitale umano Il messaggio che il documento Caritas intende lanciare è che l’allargamento a Est dell’Europa può dare un valido contributo alla causa di un’Europa più solidale. Basandosi sull’insegnamento sociale della Chiesa cattolica, esso raccomanda di lavorare per il “bene comune” investendo non solo in istituzioni e processi, ma anche in capitale umano. A cominciare dalla prevedibile modifica dei flussi migratori tra Est e Ovest: se infatti è logico temere reazioni di chiusura e discriminazione, d’altro canto – sottolinea il documento – le migrazioni potranno essere fonte di crescita per un’Europa allargata se si sarà in grado di trasmettere le necessarie conoscenze a coloro che, una volta tornati nel loro paese d’origine, fungeranno da “vettori” d’informazione e competenze. I pae- 19 si destinatari di flussi potranno a loro volta trarre vantaggio dai movimenti migratori nella misura in cui riusciranno a eliminare il mercato nero del lavoro e, di conseguenza, a scoraggiare l’immigrazione illegale. La disoccupazione sarà uno dei maggiori problemi in futuro. La Commissione Europea propone la “Strategia europea per l’occupazione”. Al fine di adeguarsi ai nuovi standard del mercato comune, i paesi dell’Est avranno bisogno di curare il passaggio verso un’economia mista, basata non solo sulla produzione di beni, ma anche sul terziario. Anche in questo caso, Caritas Europa insiste sulla necessità di investire in capitale umano, attraverso training e formazioni specifiche. Infine, il documento di Caritas Europa esamina la situazione nel settore dell’assistenza. Nei nuovi membri dell’Unione, l’apporto delle organizzazioni non governative – che fungono talvolta da veri e propri fornitori di servizi assistenziali – può essere fondamentale al fine di favorire la definizione di politiche inclusive e ■ socialmente sostenibili. * responsabile comunicazione Caritas Europa aprile 2003 globalcontinenti Gli Ogm contro la carestia? Zambia, lezione di coraggio a cura dell’Area internazionale Al paese africano erano stati offerti aiuti per battere lo spettro della fame. Ma governo e popolazione hanno detto no al transgenico. La rete Caritas ha lanciato un appello per procurare cibo e sementi naturali. Con l’appoggio, in Italia, anche di Legambiente aprile 2003 D ue anni di siccità hanno messo in ginocchio molti paesi dell’Africa orientale, costretti a fare i conti con una carestia di rilevanti proporzioni: raccolti perduti, allevamenti abbattuti, 13 milioni di persone in stato d’inedia. Nel 2002 il World Food Program (Programma alimentare mondiale dell’Onu) comunicò agli stati colpiti dalla carestia la disponibilità, da parte degli Stati Uniti, di fornire ingenti quantità di alimenti e sementi, comprendenti però varietà geneticamente modificate. L’offerta suscitò vivaci discussioni e reazioni differenti. Mentre Malawi, Swaziland e Namibia la accettarono immediatamente, e Zimbabwe e Mozambico solo dopo aver ottenuto la garanzia che i semi fossero già macinati (utilizzabili quindi per uso alimentare e non per la produzione), a ottobre la Zambia respinse l’offerta. Il governo di Lusaka assunse la decisione anche in conseguenza delle forti pressioni popolari. E la rete internazionale Caritas, incoraggiata dalla presa di posizione della locale Conferenza episcopale, ha deciso di supportare l’orientamento del governo, della società civile e dei produttori zambiani, condensato nel Poverty Reduction Strategy Paper (Prsp), un programma che promuove la crescita agricola – senza far ricorso a sostanze transgeniche – in un paese dove la povertà rurale interessa l’83% della popolazione e solo il 14% della terra coltivabile è realmente utilizzata. Caritas Zambia ha dunque lanciato un Appello d’emergenza (Soa) per raccogliere, tra i membri del network Caritas Internationalis, circa 1 milione di dollari da destinare all’acquisto e alla distribuzione di mais e sementi non transgenici. Il mais serve ai bisogni alimentari di circa 190 mila persone, mentre i semi vengono distribuiti in cambio di un contributo lavorativo alla preparazione dei campi per la prossima semina, ma anche gratis alle persone indigenti, oppure sono venduti a coloro che se ne possono permettere l’acquisto ma non riescono a reperirli. L’Soa ha inoltre previsto la costituzione di una scorta alimentare per prevenire future emergenze. 20 Una scelta di autonomia Alla stesura del Prsp hanno cooperato 90 organizzazioni, tra cui Caritas Zambia, riunite in un cartello denominato Civil Society Poverty Reduction (Cspr), che monitora l’applicazione del programma. «Con questa mobilitazione – afferma Francesco Meneghetti, agronomo e rappresentante dell’Ufficio Africa di Caritas Italiana – la popolazione zambiana ha dato al mondo intero una lezione di lungimiranza. Le coltivazioni di sementi geneticamente modificate richiedono un ambiente fortemente condizionato dalla meccanizzazione e la disponibilità di fertilizzanti, diserbanti, prodotti anticrittogamici e insetticidi, condizioni non individuabili nella Zambia e in generale in Africa. Inoltre le coltivazioni Ogm possono avvenire secondo diverse modalità, ma in ogni caso nel lungo periodo produrrebbero conseguenze negative: scarsi guadagni per i piccoli agricoltori, che non dispongono dei mezzi aziendali che gli Ogm richiedono; riduzione della biodiversità; danni ambientali. In generale, le sementi Ogm possono esprimere al meglio la loro potenzialità produttiva solo se gestite da multinazionali e grandi aziende agroalimentari: ma così si profila il rischio che l’agricoltura di sussistenza tipica di un certo paese venga sostituita da una produzione alimentare intensiva a scopo commerciale, con il risultato di aumentare fame e disoccupazione». La decisione del paese africano ha destato, in Italia, il vivo interesse di Legambiente, che ha deciso di sostenere gli sforzi del governo e della popolazione zambiani promuovendo una raccolta di fondi condivisa anche dagli imprenditori che aderiscono alla campagna “Agricoltura italiana di qualità”, promossa dall’associazione ambientalista per impedire l’introduzione di Ogm nella catena alimentare, evitare la diffusione incontrollata delle biotecnologie in agricoltura e promuovere l’agricoltura biologica. Legambiente e gli agricoltori “bio” hanno raccolto 10 21 «ANCHE SE AFFAMATI SI DEVE POTER SCEGLIERE» Caritas Italiana si sta occupando in Zambia, insieme ad altri organismi ecclesiali, dei progetti susseguenti alla campagna per la cancellazione del debito estero, condotta dalla Cei nell’anno del Giubileo. Caritas Europa ha invece pubblicato, negli scorsi mesi, un documento dedicato alla questione del rapporto tra aiuti alimentari e Ogm. Il testo riconosce anzitutto che “gli Stati Uniti sono stati pronti e generosi nell’offrire una grande quantità di creali per aiutare le operazioni” condotte dagli organismi internazionali per combattere la carestia nell’Africa orientale. Ma afferma poi che “il tragico e impellente problema della fame non può costituire una ragione per imporre a un popolo e ai suoi governanti di soprassedere alle preoccupazioni circa i possibili rischi per la salute e l’ambiente. Persino quando sono affamate, le persone mantengono il diritto umano a compiere scelte”. Caritas Europa ricorda poi che il dibattito sugli effetti degli Ogm è oggi ancora “non concluso”. In linea di principio, essa dunque “si astiene dall’acquisizione e dalla distribuzione di cibi Ogm nei suoi programmi”. L’Unione Europea, ricorda la Caritas continentale, non accetta l’importazione di Ogm: “Conseguentemente, altri stati del mondo devono avere lo stesso diritto”, anche se “qualora non esistano alternative all’uso di Ogm per salvare vite umane, l’imperativo umanitario obbliga le autorità dei paesi coinvolti a consentire la loro distribuzione e il loro transito […] a spese dei donatori e a condizione che i cereali Ogm non entrino nel ciclo agricolo”. mila euro, che hanno deciso di versare a sostegno dei progetti della rete Caritas. In concreto, verranno “adottati” due villaggi da traghettare oltre l’emergenza alimentare: Chalola, dove vivono circa 600 persone, e Chibwe, abitato da 150 persone, la cui principale fonte di sostentamento è la coltivazione del mais. «Con il suo rifiuto la Zambia ha dimostrato di voler scegliere la strada di uno sviluppo sostenibile e consapevole – ha commentato a marzo Francesco Ferrante, direttore generale di Legambiente –. Qualora avesse accettato i semi ogm, essi si sarebbero imposti in breve tempo come coltura dominante, innescando un processo irreversibile di dipendenza. Riteniamo importante aiutare questo paese a superare la carestia, sostenendo la sua scelta di autonomia dalle multinazionali e di tutela della biodiver■ sità». aprile 2003 non solo emergenze La riscoperta e mille crisi, un decennio da testimoni Segundo Tejado* Caritas Albania celebra il suo decennale. Una storia che si inserisce nella rinascita di una chiesa martire. E che ha fatto i conti con i ripetuti rovesci di un paese devastato dalla dittatura comunista. Gli effetti sociali e culturali della urbanizzazione, sfida per il futuro aprile 2003 E soprattutto hanno creato in ogni albaicorre, nel 2003, il decennale di Canese – cristiano, musulmano o ateo – un ritas Albania. Dieci anni sono posentimento di gratitudine per la Caritas, e chi, nella vita di un’istituzione ecquindi per la chiesa: la parola Caritas è diclesiale. Ma in Albania si è trattato di un ventata sinonimo di condivisione e di periodo molto intenso, il tempo della ripresenza di persone disposte all’aiuto. nascita della chiesa albanese. O meglio, Il difficile periodo di transizione affrontadella riscoperta della chiesa, che si è manto dall’Albania a partire dal ’90 è stato tenuta fedele ed è stata martire in un paepunteggiato da crisi periodiche, che hanse retto da una tra le più spietate e assurno investito tutti gli strati della popolade dittature comuniste apparse nella stozione e tutti gli ambienti istituzionali. In ria. questo contesto, la chiesa cattolica ha cerQuesta chiesa è ovviamente “rinata” in cato di organizzarsi con l’arrivo di missiouna situazione profondamente cambiata. nari religiosi: sono stati nominati i primi Il Concilio Vaticano II e le sue novità ecvescovi, si sono costituite molte comuclesiali hanno tardato ad arrivare in nità, si è data prova di ampia generosità, un’Albania chiusa a tutto ciò che veniva esprimendo un sentimento di comunione dall’estero. Ma alla fine della dittatura ape di vicinanza, un grande desiderio di parvero improvvisamente istituzioni e evangelizzare, la volontà di lasciarsi arricrealtà ecclesiali fino a quel momento scochire dalla testimonianza di una chiesa nosciute. Inevitabile che la Caritas e altre martire. organizzazioni nate alla luce del Concilio La Caritas ha cercato di mettere a fuoco il trovassero difficoltà, in un primo mosuo ruolo all’interno di questa chiesa: bimento, a essere comprese nella loro vera sognava collaborare accompagnando una portata ecclesiale. rinascita, e questo non è stato sempre L’ambiente sociale dell’immediato postsenza difficoltà, né sono mancate le logicomunismo era catastrofico; il sistema economico di produzione del regime era crollato, senza che un altro fosse già allestito. La Caritas arrivava con gli aiuti umanitari tanto criticati, ma che hanno sfamato tante persone e hanno alleviato le difficoltà di un popolo che si trovava a soffrire le conseguenze di una situazione assurda. Un’immagine d’archivio dello staff di Caritas Albania R 22 che tensioni. Ma la Caritas è diventata punto di riferimento e modello per la nuova chiesa arrivata e rinata in Albania: una chiesa aperta, una finestra spalancata sui cambiamenti verificatisi nel mezzo secolo durante il quale l’Albania era stata chiusa al dialogo con il mondo. La Caritas ha manifestato una chiesa vicina alla gente, che condivide i suoi problemi, le sue angosce, la sua povertà. Questa testimonianza è stata molto importante, perché la propaganda di regime aveva presentato la chiesa, attraverso film e pubblicazioni, con la faccia oscurantista di chi non è vicino al popolo; anzi, gli è decisamente contro. Solo chi abita in Albania può capire quanto il regime comunista abbia fatto della propaganda anti-cattolica uno dei pilastri della propria esistenza e quanto questa propaganda abbia raggiunto il suo scopo. Il richiamo delle periferie Le emergenze, in un decennio, non sono mancate. Dopo quella iniziale degli anni ’90-’92, con la fuga di molti albanesi all’estero, c’è stato un tempo di relativa pace, che ha però preparato la più difficile crisi di transizione che l’Albania abbia conosciuto: la caduta delle cosiddette “società d’investimento piramidali”, rivelatesi poi società d’investimento fittizie, nel ’97 ha prodotto una tensione senza precedenti. In quel difficile momento la presenza della chiesa è stata più che mai importante: tutti quelli che potevano fuggivano dall’Albania, ma la chiesa è rimasta accanto al popolo, al dolore della nazione, cercando di dare speranza, oltre all’aiuto materiale, e di individuare un senso a quanto accadeva alla luce della fede. Nel ’98 si è verificata un’altra scossa con l’inizio della cosiddetta “guerra del Kosovo”, acutizzatasi poi nel ’99 con l’intervento militare Nato. E di nuovo la chiesa albanese, e la Caritas in primo luogo, si sono messe al lavoro, aiutate da tanti amici delle Caritas internazionali e da tanti collaboratori di Caritas Italiana e delle Caritas diocesane italiane. Ora ci aspetta il futuro, con le sue sfide. A cominciare dal processo accelerato di urbanizzazione che gonfia le periferie delle grandi città, sorgente dei problemi sociali 23 UNA REALTÀ ORMAI SOLIDA, TRE GIORNI PER FESTEGGIARE Caritas Albania festeggerà i dieci anni di fondazione tra l’1 e il 3 maggio. Il programma prevede conferenze, cerimonie e momenti di festa tra Scutari e Tirana, con la partecipazione di rappresentanti della Santa Sede, di membri della “famiglia” di Caritas Europa, di ong cattoliche, autorità governative albanesi, amici e collaboratori. Caritas Albania è oggi presieduta dall’amministratore apostolico di Sapa, monsignor Dodë Gjergji, e diretta da Tom Preku; la sua attività è guidata da un documento di programmazione per il quinquennio 2002-2007 e realizzata grazie a 20 operatori che agiscono nei settori sociale, sanitario, amministrativo e doganale. Le Caritas diocesane sono sette – Pult, Sapa, Scutari, Lezha, Rreshen, Durazzo-Tirana, Sud – che collaborano con i programmi nazionali. Caritas Italiana, liaison agency per l’Albania, ha favorito e sostenuto sin dall’inizio la creazione di Caritas Albania e mantiene alto il suo livello di vicinanza alla consorella albanese tramite personale in loco e supporto ai programmi nazionali. del domani. Il rapido e massiccio esodo verso le città produce lo svuotamento delle aree rurali e crea grandi e caotici agglomerati nelle periferie di Tirana, Durazzo, Scutari, Fier. Questa urbanizzazione accentua l’inevitabile secolarizzazione ed espande le malattie della nostra civiltà, già presenti nell’Albania attuale benché ancora in lotta con i modelli rurali, famigliari e clanici della tradizione. La Caritas dunque cresce, nonostante le crisi che investono l’Albania. Questa crescita ha bisogno di mettere radici ancora più profonde nel cuore dei fedeli albanesi, per arrivare a una piena integrazione del lavoro della Caritas nella vita quotidiana della chiesa locale. Il rischio di fare interventi umanitari prescindendo dell’essere chiesa, trascurando il senso cristiano del proprio agire, è sempre in agguato. Occorre operare nello spirito di testimonianza che fu dell’albanese Madre Teresa di Calcutta: un paese di cui si sente parlare tante volte in modo negativo (anche decisamente a sproposito) ha dato al mondo una donna che credeva veramente possibile cambiare il cuore di ogni uomo con la Grazia di Dio. Può apparire paradossale, ma è un grande segno di speranza e un’indicazione per il cammino. ■ *direttore di Caritas Albania 1995-2002 aprile 2003 un volto, una storia La prigione e il ristorante, Khalil cerca una strada testimonianza raccolta da Davide Bernocchi Un bel ragazzo palestinese, con il sorriso dei vent’anni. Lavora nella Gerusalemme araba, in un piccolo supermarket di quartiere. Racconta davanti a un narghilè: disavventure, ostinazioni e sogni di un clandestino in patria aprile 2003 V engo da un piccolo villaggio non lontano da Hebron, da una famiglia musulmana e decisamente povera. Mio padre ha sempre vissuto facendo il contadino o grazie a lavori saltuari come uomo di fatica. Ho tre sorelle e cinque fratelli maschi, uno dei quali ha dei gravi problemi mentali; per mia fortuna sono l’ultimo dei miei fratelli, per cui ho potuto studiare più degli altri. Avevo 17 anni quando la polizia israeliana è venuta a cercarmi a casa e all’improvviso mi sono ritrovato in prigione, senza una minima idea del perché. Avevo appena iniziato l’ultimo anno della scuola superiore e lo studio per me era tutto: ero tra i migliori, andavo forte in matematica e in inglese. A quel tempo credevo ancora che bastasse fare il proprio dovere senza immischiarsi nella politica, per non avere problemi. Nei due mesi trascorsi in quel posto non potevo avere contatti con l’esterno e la mia famiglia non sapeva dove mi avevano portato. Presto ho capito cosa volevano da me: che collaborassi, che facessi la spia. «Non ti interessa avere ogni mese un buono stipendio e una bella macchina?», mi chiedevano quegli uomini. «È sufficiente che tu ci dica chi dei tuoi amici va abitualmente in moschea, chi sta fuori di casa fino a tardi…». Io non potevo accettare. Dopo le promesse sono arrivate le minacce e poi le violenze: mi picchiavano e mi lasciavano per intere giornate legato, solo e al buio. Quando mi hanno lasciato andare, sono rimasto chiuso in casa per un mese per superare lo choc. A scuola sono tornato per poco tempo, perché i miei compagni erano andati troppo avanti e io non riuscivo più a concentrarmi nello studio. Poi tutti sapevano cosa mi era capitato, senza che lo spiegassi, perché non ero certo il primo… Nessuno si fidava più di me. La mia vita era cambiata da un giorno all’altro, senza che lo volessi. Ho deciso di lasciare il mio villaggio per cercare lavoro a Gerusalemme. *** Come tutti i palestinesi, Khalil ha bisogno di uno speciale permesso, rilasciato dal governo israeliano, per lasciare i Territori che gli accordi di Oslo del 1993 assegnano all’Autorità Nazionale Palestinese. Un permesso quasi impossibile da ottenere è inoltre prescritto a chi intende lavorare in Israele, compresa l’intera città di Gerusalemme. Per quasi un anno ho lavorato a Gerusalemme Ovest come lavapiatti in un ristorante per 15 ore al giorno. Mi davano la metà degli altri, perché ero senza documenti. Mi ero fatto l’idea che Tel Aviv fosse meglio, perché è una città moderna, sul mare. Ci sono andato. All’inizio avevo in tasca qualche shekel, ma i soldi sono finiti presto e ho passato quasi tre giorni senza toccare cibo, dormendo in un parcheggio. Ho chiesto qualcosa da mangiare a un ragazzo arabo che lavorava in un ristorante e lui mi ha aiutato; mi ha fatto fare una doccia e prestato vestiti puliti. Facendomi passare per giordano, ho avuto un piccolo lavoro in quello stesso posto. Anche in giro, quando la polizia mi fermava, fingevo sempre di essere straniero: una volta brasiliano, un’altra egiziano… Mi è sempre andata bene! Quando l’estate è arrivata, il padrone mi ha chiesto di lavorare a tempo pieno come cameriere: io sono uno che sa lavorare seriamente. In quel periodo ha avuto anche una ragazza israeliana, che mi amava davvero: prima del servizio militare molti ragazzi israeliani sono aperti; è durante 24 quei due o tre anni che subiscono un lavaggio del cervello contro tutto ciò che è palestinese e arabo. Visto che i controlli aumentavano, però, il datore di lavoro ha cominciato a chiedermi con insistenza i documenti. Alla fine, per sapere la verità, mi ha imposto di prendere lo stipendio tramite assegno. Ho dovuto dirgli che sono palestinese e, con dispiacere, mi ha chiesto di non tornare. Per un po’ ho campato facendo le pulizie di notte, poi ho trovato lavoro in un bar; lì la gente beveva fino a tardi e spesso dimenticava cellulari, portafogli… Più di una volta ho dovuto cercare i proprietari per restituire quegli oggetti. Ma un giorno, mentre stavo ancora lavorando e avevo in tasca una carta di credito trovata, nel locale c’è stato un controllo e la polizia mi ha accusato di furto. Il giudice non ha voluto credere alla mia storia, tanto più che ero un lavoratore irregolare, per cui mi ha condannato a 8 mesi di prigione. «Perché è la prima volta», mi ha detto. Dico prigione, ma in realtà non era una vera prigione, come quelle per i cittadini israeliani. Per i palestinesi che commettono piccoli reati ci sono campi circondati da reti e filo spinato. Noi stavamo in una tenda in 20, senza nemmeno lo spazio per muoverci; e a un certo punto ha anche cominciato a nevicare! Una volta sono venute delle persone dell’Onu per verificare se ci trattavano bene. «Chi dice che non è contento del trattamento può considerarsi morto», ci hanno minacciato le guardie. Quando mi hanno rilasciato sono tornato dai miei e sono rimasto lì per circa un anno e mezzo, senza poter fare niente, perché di lavoro non ce n’è: mangiavo, dormivo, guardavo la tv… Finché, un giorno, ho deciso di ritentare. Sono tornato a Gerusalemme, questa volta nella parte est, dove ci sono solo arabi. Qui guadagno molto meno che a ovest, ma è meno probabile che mi chiedano i documenti. Lavoro in un supermercato per 12 ore al giorno e guadagno 2.400 shekel al mese (circa 480 euro). Sono qui da dieci mesi e ho pensato di trovare una ragazza palestinese con la residenza a Gerusalemme, che permette di circolare ovunque senza permessi. Insomma, volevo sposarmi per i documenti. So che può sembrare strano, ma ho trovato ben cinque ragazze disposte a sposarmi e sono andato a chiedere la mano al loro padre. Ma ogni volta la stessa storia: «Figlio mio, noi siamo tutti palestinesi e tra noi non c’è differenza. Ma sai: la situazione è quella che è e tu sei irregolare e non hai una casa…». Ora ho cambiato idea: so che ci sono vie per ottenere un permesso di lavoro in Israele pagando; vedrò cosa posso fare, facendomi prestare i soldi dagli amici. Penso a Tel Aviv, ma sogno l’Australia, il Canada o la Scandinavia. Ho 22 anni e una gran voglia di lavorare onestamente. Ma sono clandestino Il mercato alla Porta di Damasco, a Gerusalemme Est, luogo di ritrovo e ■ nella mia terra. lavoro per molti giovani palestinesi 25 aprile 2003 a tu per tu Morandi: C’era un ragazzo, purtroppo combatte ancora Ferruccio Ferrante È stato il volto della campagna Rai-Caritas per i terremotati del Molise. Gianni Morandi parla del suo impegno per la solidarietà: «L’audience è sempre in agguato, ma il pubblico sa distinguere». La sua canzone contro la guerra: «Passano gli anni, gli orrori si ripetono» aprile 2003 Q uarant’anni in palcoscenico, volto e voce della canzone “leggera” italiana. Ma Gianni Morandi interpreta il suo ruolo di personaggio pubblico in maniera vigile, non indifferente. Testimonial (direbbero i pubblicitari) di tante cause di solidarietà. Testimone di problemi e dolori, che talora riescono a far breccia anche nel dorato mondo dello spettacolo. Cinque mesi fa, il terremoto in Molise. Caritas-Rai hanno realizzato un’iniziativa che ha dato ottimi risultati. E lei ne è stato protagonista… In quell’occasione l’emozione e il dolore hanno toccato tutti. È stato un desiderio comune, quello di unirsi in un connubio con gli amici del Molise colpiti dal ter- Gianni Morandi remoto. La Rai ha deciso di sostenere la raccolta di fondi della Caritas Italiana con spazi in varie trasmissioni. Noi abbiamo dedicato una puntata speciale di “Uno di noi”, lo show del sabato sera, ed è stata un’esperienza molto positiva. Anzitutto perché è stata raccolta una cifra ragguardevole, grazie alla quale la Caritas ha potuto portare un aiuto immediato alle popolazioni colpite e continua a sostenerle nel difficile cammino del dopo-emergenza. In secondo luogo perché il servizio pubblico ha potuto svolgere una funzione socialmente utile e di solidarietà concreta. Infine perché i teleu- tenti hanno risposto con grande generosità e partecipazione: sono stati loro, i veri protagonisti. Sempre più spesso si abbinano spettacolo e solidarietà. C’è il rischio di strumentalizzazioni, in nome dell’audience? Può succedere, è un rischio reale. È stato anche sottolineato di recente. Però io penso che certe manifestazioni si distinguano bene dalle altre e credo che la gente riesca a percepire con chiarezza e senza dubbi quello che è autentico, quello che è pulito. Sono sicuro che il pubblico sa riconoscere il respiro del volontariato genuino, della solidarietà senza secondi fini, della gratuità. E sa anche scegliere, capendo bene chi cerca solo pubblicità e chi invece è mosso dal desiderio sincero di fare qualcosa per gli altri, per chi ha bisogno di una mano. L’impegno con la nazionale cantanti, le iniziative per Lourdes, il concerto in Vaticano, il calendario con Famiglia Cristiana, fino al recentissimo concerto per il Mato Grosso. Iniziative concrete, per dare qualcosa al prossimo. Ma cosa ha dato a Gianni Morandi questa assidua frequentazione con i meno fortunati? 26 Molto più di quello che è stato il mio impegno. Tutto sommato, a ben guardare, si può dire che il mio non è stato neanche un impegno. Ho dato solo un poco del mio tempo e ho ricevuto in cambio tanta energia, tanta forza, tanto coraggio da questa gente che pure è meno fortunata di me. L’ho scritto anche in una canzone, “Il mio amico”, in cui parlo del mio rapporto con un disabile. Lui fa fatica a camminare, tutti lo guardano quando passa per strada e lo fanno sentire diverso. Così a volte vive i suoi momenti di tristezza, di disperazione. Eppure è proprio lui che mi insegna quanto è bella la vita. “Era peggio non essere nato – mi dice –, perché non avrei potuto vedere la bellezza del mondo”. Quindi ogni volta mi sento arricchito dall’incontro con l’altro in difficoltà, che sia un disabile, un anziano o un malato terminale. Dalle situazioni più incredibili, e a volte dalle più disperate, mi tornano indietro la gioia e la positività della vita. Ed è molto, molto più di quanto riesco a dare. Il ragazzo della famosissima canzone purtroppo oggi continua a morire. Non più in Vietnam, ma in Terra Santa, in Afghanistan, in Iraq e in troppi conflitti, noti o dimenticati. L’amore, proprio non riesce a cambiarci la vita? Mai come in questo momento dovremmo tutti ricordarci che esiste una parola, “amore”, che non può restare una semplice parola, ma deve essere vissuta nel quotidiano. I potenti – Bush, Saddam, Putin, Blair, Berlusconi, Chirac – e tutti noi dovremmo ricordarci che prima o poi dobbiamo presentarci davanti al giudizio del Signore, perché su questa terra siamo solo di passaggio. È giusto combattere il terrorismo, ma è inutile opporre violenza a violenza. Perché invece non ci chiediamo che cos’è che provoca il terrorismo? Perché non cerchiamo di andare alle radici e alle cause dei problemi? Tutti sappiamo in che condizioni di precarietà vivono intere popolazioni. E che facciamo? Andiamo a bombardare un popolo che non ha nessuna colpa? Purtroppo gli interessi e gli aspetti economici continuano a prevaricare l’amore. La vendetta e l’odio pre- 27 valgono sull’amore. Mi ha fatto un certo effetto risentire durante le recenti manifestazioni per la pace gente che cantava la mia canzone, “C’era un ragazzo”, drammaticamente tornata d’attualità. Purtroppo un effetto non piacevole, perché vuol dire che tanti anni sono passati, ma gli errori e gli orrori si ripetono. Vorrei che un giorno quella canzone possa essere solo un ricordo di situazioni e tempi lontani. L’augurio di “uno di noi” alla Caritas e a quanti credono che un altro mondo è possibile? Un augurio nel nome dell’amore e della solidarietà. Sì, è vero, un altro mondo è possibile. Non solo a parole, ma spendendo tempo ognuno per gli altri nella vita di tutti i giorni, a partire da chi ci sta intorno. Se riuscissimo a fare questo diventeremmo tutti migliori. La Caritas ha ben presenti questi valori e cerca di viverli e testimoniarli sempre, spesso in situazioni di estremo disagio. La sfida è riuscire a coinvolgere sempre più persone. L’augurio è riuscire a rendere contagiosi l’amore ■ e la solidarietà. “IL MIO AMICO” UN VIOLINO FELICE […] vorrei essere anch’io così ingenuo e felice invece corro e da sempre non trovo mai pace il mio amico almeno è una bella persona uno strano violino con le corde di seta in un mondo distratto che cinico suona questo grande concerto che in fondo è la vita il mio amico non parla mai di odio e sfortuna anzi dice era peggio non essere nato non avrei mai potuto vedere la luna e tutte le altre bellezze che Dio ha creato […] dal mio amico ho imparato un milione di cose per esempio ad amare senza essere riamato [...] Il mio amico è il mio amico e non lo cambierei i ricordi più belli ce li ho insieme a lui in questo mondo veloce il mio amico si muove a fatica proprio lui che mi aiuta a capire e ad amare la vita. aprile 2003 progetti Donne e malati di Aids, aiuti al Corno d’Africa glie della Carità, ad Alitena. Il Progetto Etiopia ed Eritrea progetto prevede Etiopia ed Eritrea sono sempre alle prese con inoltre di le conseguenze del conflitto che le ha viste concedere affrontarsi negli anni 1998–2000. Non è analle doncora stata effettuata, in particolare, la demarne, una cazione dei nuovi confini sul terreno: l’operavolta terzione dovrebbe cominciare a luglio con la pominata la sa dei paletti. Inoltre nel 2002 ha piovuto fase di molto poco: la siccità che ne è derivata si riformazione, un piccolo credito per permettetiene possa avvicinarsi, in termini di gravità re loro di avviare attività lavorative. Per condegli effetti, a quella tragica della metà degli tribuire ai progetti, causale Etiopia. anni Ottanta. In collaborazione con le chiese In Eritrea, nella regione dell’Anseba, Caritas dei due paesi del Corno d’Africa, Caritas ItaItaliana sostiene un progetto di prevenzione liana sta conducendo diversi progetti, sia per e assistenza per i malati di Aids realizzato dalrispondere alla situazione di emergenza, sia la Caritas diocesana di Keren. La malattia è nell’ambito dello sviluppo. già molto diffusa nel paese e si prevede che la In Etiopia, nella regione del Tigray, Caritas situazione possa aggravarsi con il rientro dei Italiana già da qualche anno ha costituito un soldati dal fronte. Il progetto è realizzato nelrapporto di partenariato con la diocesi di Adile zone attorno alle cliniche di Keren, Halibgrat, in particolare nel settore della promomentel e Ashera. L’obiettivo è ridurre l’impatzione della donna. Il progetto prevede, nei to del virus Hiv e le sue possibilità di trasmiscentri diocesani di promozione della donna, sione. Vengono dunque sviluppate varie attiil rilancio e lo sviluppo di attività di formavità: supporto psicologico (che prevede la forzione più rispondenti alle opportunità lavoramazione del personale e la creazione di punti tive presenti nel territorio. All’inizio del 2003 di ascolto nelle tre cliniche coinvolte nel prosono cominciati alcuni corsi di formazione: getto); visite ai malati e alle loro famiglie fatnel centro delle suore Orsoline di Wukero te da gruppi di volon(poco più di un viltari adeguatamente laggio) riguardano preparati; assistenza l’allevamento del bePer sostenere i Progetti e gli interventi agli orfani attraverso stiame e la gestione segnalati (specificando sempre la causale) si l’individuazione, l’acpossono inviare offerte alla Caritas Italiana di pollai; nel centro tramite: compagnamento e il delle Figlie della Casostegno delle fami• c/c postale n. 347013 rità, a Makalle (una glie disponibili a cittadina), riguardano • Banca Popolare Etica, Piazzetta Forzatè, 2 prendersi cura dei Padova - c/c n. 11113 - ABI 5018 – Cab preparazione e cottu12100 bambini; attività di ra di cibi locali. Nei educazione sanitaria, • Banca Intesa Bci – p.le Gregorio VII, Roma prossimi mesi altri c/c n. 100807/07 ABI 03069 – CAB in particolare sulle corsi si svilupperanno 05032 malattie a trasmissionei centri delle Figlie • Cartasì e Diners telefonando al numero ne sessuale, per gli di Sant’Anna, a Eda06/541921, in orario d’ufficio. studenti di tutte le gahamus, e delle FiNEL MONDO aprile 2003 28 appuntamenti scuole secondarie della diocesi; attività generanti reddito attraverso un programma di formazione all’attività economica e la concessione di piccoli crediti alle persone malate e alle loro famiglie. Per contribuire ai progetti, causale Eritrea. IN ITALIA Progetto salute mentale Caritas Italiana è impegnata su più fronti per facilitare percorsi che hanno come obiettivo il miglioramento della qualità di vita di quanti soffrono a causa di una malattia mentale. L’impegno si rivolge non soltanto alla situazione dei malati, ma anche alle esigenze delle famiglie. La sede nazionale, in questa prospettiva, offre sostegno e accompagnamento alle Caritas diocesane che operano nel settore della sofferenza mentale. Per esse ha messo a punto, tra le altre cose, uno “strumento di lavoro” (un sussidio di prossima pubblicazione) e momenti formativi che avranno luogo anche in occasione della presentazione di tale sussidio. Caritas Italiana è impegnata, inoltre, attraverso i fondi Cei dell’otto per mille ad accompagnare otto progetti specifici di intervento a favore di malati di mente e delle loro famiglie, i quali hanno tra i loro obiettivi anche la sensibilizzazione dei cittadini in materia; questi otto progetti possono essere sostenuti anche dalle Caritas diocesane e da tutti coloro che desiderano offrire il proprio contributo a favore di persone con problemi psichici. Finora le esperienze approvate hanno preso il via nelle diocesi di Benevento, Messina, Roma, Ventimiglia, Vigevano, Pesaro, Cremona, Como, Brescia e Potenza. L’altra attenzione di Caritas Italiana è inoltre rivolta a quanti sono costretti a vivere la loro malattia all’interno di uno dei sei ospedali psichiatrici giudiziari ancora funzionanti in Italia. Alcuni operatori Caritas hanno cominciato a conoscere tali realtà e ad individuare il contributo di solidarietà che la comunità cristiana può offrire, per migliorare le condizioni di permanenza e terapia. Il primo ospedale psichiatrico giudiziario visitato è stato quello di Castiglion delle Stiviere. Per ■ contribuire, causale Salute mentale. 29 Delegazioni, incontri regionali ☛ Coordinamento nazionale dei centri di ascolto diocesani Venerdì 4 aprile a Roma, nella sede di viale Baldelli, si incontrano gli incaricati diocesani degli Osservatori delle povertà e delle risorse, per la presentazione del nuovo software per la raccolta e la elaborazione dei dati dei centri di ascolto. ☛ Gruppo nazionale servizio promozione Caritas I referenti regionali delle delegazioni delle Caritas diocesane si riuniscono nel gruppo nazionale lunedì 7 e martedì 8 aprile a Roma, nella sede delle Ancelle di Cristo Re, per affrontare il tema della comunicazione nei contesti pastorali e per analizzare il tema della prossima programmazione. ☛ Incontri regionali Da mercoledì 23 aprile a venerdì 16 maggio i rappresentanti di Caritas Italiana incontreranno le sedici delegazioni regionali delle Caritas diocesane per la discussione e la valutazione della programmazione dell’anno pastorale 2003-2004. ☛ Percorsi di formazione Lunedì 5 e martedì 6 maggio, nell’istituto “N. S. Madre della Misericordia”, a Roma, giornate formative per i diaconi permanenti delle Caritas diocesane. I diaconi avranno l’opportunità di riflettere sul rapporto fra diaconato permanente e testimonianza della carità (con particolare riferimento all’azione in Caritas), di condividere esperienze e individuarne i nodi problematici, di delineare percorsi di riflessione e accompagnamento per il loro servi■ zio. aprile 2003 LIBRI Un padre costituente analizza e denuncia l’inutilità della guerra Pensieri di pace: tante firme illustri, miniera di riflessioni di Francesco Meloni “I l vescovo francese Alfred Ancel, esaminando il problema della guerra giusta e ingiusta, ha spiegato come la guerra aggressiva e preventiva sia sempre un crimine”: letta oggi, alla vigilia di un imminente attacco contro l’Iraq, questa frase potrebbe apparire come una dichiarazione pretestuosa di antiamericanismo e una presa di posizione pacifista ad oltranza. In realtà, questa condanna della guerra è contenuta in un libro di Igino Giordani del 1953, un cattolico combattente nel primo conflitto mondiale, deputato alla Costituente e politico di alta levatura morale, giornalista e scrittore certamente non conformista. Quel libro era intitolato L’inutilità della guerra e viene riproposto oggi dalle edizioni Città Nuova (Roma 2003 - pp. 115). Un libro sulla denuncia dell’inutilità della guerra e un invito a ricercare la pace: lo provano gli inequivocabili capitoletti dell’indice generale (“A che serve la guerra?”, “Quanto costa la guerra?”, “I pretesti della guerra”, “È insanabile il conflitto?”, “La causa prima della guerra: l’avarizia”, “Riarmo e disarmo”, “La paura”, “Realismo e utopia”, “C’è un’alternativa all’atomica?”, “Religione e guerra giusta?”, “Il Papa e la pace”), ma lo si può constatare dalla prima all’ultima pagina del testo, che in vari punti definisce la guerra “un omicidio in grande”, “un’inutile strage”, “un macello di uomini”, “la sciagura più grande che possa colpire l’umanità”, “una bancarotta”, “una stupidità suicida”. E afferma ancora: “La pace è difficile, non cadrà dal cielo bell’e fatta, è un’azione paziente da fare insieme, col dialogo, con la distensione”, con le “masse che rifiutano la guerra”, “con la solidarietà”. Per concludere che “se la politica fa quello che fa, la religione dal canto suo non può non fare il suo diverso dovere: cercare la pace, dissolvere l’odio, impedire la guerra”. aprile 2003 S e la guerra è una “inutilità” disumana e antievangelica, al contrario la pace è una assoluta necessità, da costruire, da perseguire, da invocare e da testimoniare. E per averne un’idea, basta scorrere le brevi pagine di Pensieri di pace (EDB, collana “A passo d’uomo”, Bologna 2003 - pp. 96), a cura di Rinaldo Paganelli. Si tratta di un’antologia a tutto campo, di riflessioni sulla pace firmate da importanti testimoni del nostro tempo (tra gli altri: Tonino Bello, Dietrich Bonhoeffer, Helder Camara, Pierre Claverie, Dalai Lama, Gandhi, John F. Kennedy, Martin Luther King, Hans Kung, Giorgio La Pira, madre Teresa di Calcutta, Carlo Maria Martini, Primo Mazzolari, Oscar Romero, David Maria Turoldo), ma anche dei secoli scorsi. Il libro è costruito attorno ai quattro pilastri su cui l’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII fa poggiare la pace: verità, giustizia, amore e libertà. La proposta editoriale si offre anche come piccola miniera per ulteriori ricerche e riflessioni, perché è arricchita, a mo’ di bibliografia, dall’elenco dei temi delle 36 Giornate mondiali della pace e dei pronunciamenti più significativi delle Chiese, nonché dai rimandi ai riferimenti biblici sul tema. Tra i destinatari privilegiati figurano certamente tutti i gruppi che aderiscono a movimenti per la pace, le persone che vogliono arricchire la propria sensibilità sul tema, le comunità che cercano indicazioni per strutturare momenti di preghiera. 30 Rivista on line racconta l’Africa dal doppio volto CINEMA INTERNET RADIO Satellite e web, 200 emittenti nel circuito Inblu Oltre il confine, guerra in Bosnia e vecchie ferite di Danilo Angelelli “U na radio con tante radio dentro”. Lo slogan di Inblu, l’agenzia radiofonica satellitare che unisce più di 200 radio locali in tutta Italia, rende chiara la sua mission. Si tratta di un palinsesto di programmi culturali e musicali in diretta, scandito da notiziari nazionali ad ogni punto ora, elaborato con la certezza che ogni emittente mantenga la propria identità e quel legame con la realtà locale che costituisce la vera forza del circuito Inblu. Informazioni sulla radio locale più vicina che aderisce al circuito si trovano all’indirizzo internet www.radioinblu.it, che dà anche la possibilità di ascoltare i programmi in Real Audio. Tutti i giorni, esclusa la domenica, alle 8.15 parte “Ecclesia” (sul satellite o su internet, poi ogni radio locale lo manda in onda nella fascia oraria che ritiene più opportuna), contenitore di informazione ecclesiale nel quale trovano spazio notizie dalle diocesi, dalle associazioni di volontariato, dal mondo missionario, nonché interviste e approfondimenti sull’attualità. Il lunedì, all’interno del programma, una rubrica curata da Caritas Italiana dà voce, di volta in volta, a svariate iniziative e riflessioni e pone l’accento sulle ricadute nelle Caritas diocesane. 31 S e “il futuro dell’Africa è nero”, come recita il felice slogan di una ong, cominciamo subito a farcelo raccontare dalla voce di chi l’Africa la conosce nel quotidiano. La rivista online www.africansocieties.org vuole aprire il dibattito sulla doppia realtà del continente: la realtà virtuale che ci offrono i mass media, negativa e troppo semplificata, e quella che fa riferimento a una pluralità di complessi gruppi sociali. L’e-magazine ha una periodicità bimestrale ed è redatta in tre lingue – italiano, inglese e francese – da sociologi e sociolinguisti africani e italiani. La modernità, la legittimità e i rischi di un discorso unitario sull’Africa, la necessità di rappresentare il tessuto sociale e culturale, il ruolo storico della diaspora africana: questi i temi forti della rivista, declinati, sull’ultimo numero in linea, negli articoli “Quando il pregiudizio soffoca la realtà”, “L’Africa tra tradizione e modernizzazione” (nella foto, un’immagine emblematica tratta dal sito), “Il contributo africano all’edificazione del mondo moderno”, “Sfidare il digital divide in Africa”. U na proposta coraggiosa, che non insegue le logiche del marketing. È la pellicola italo-svizzera, firmata da Rolando Colla, Oltre il confine. Un pamphlet contro tutte le guerre, che ne rievoca due in particolare: il secondo conflitto mondiale e quello in Bosnia dei primi anni ’90. In primo piano c’è la vicenda di Reuf, un profugo bosniaco, e di Agnese, agiata torinese che molla tutte le certezze per recarsi nella Bosnia lacerata dalla guerra, a salvare la figlia di Reuf. Agnese si ritrova nelle paure della bambina: i ricordi di un’infanzia vissuta durante la seconda guerra mondiale assomigliano al fosco presente della piccola. Cambiano le modalità con cui si combatte una guerra, ma il dolore, il senso di vuoto e di perdita che si imprimono nell’inconscio come marchi infuocati, quelli non li cambia nessuno. Un film di impegno civile, interpretato con amara convinzione da Anna Galiena (nella foto) e da un gruppo di attori bosniaci molto convincenti nel raccontare la verità della disperazione. aprile 2003 Signore, fa’ di me uno strumento della Tua Pace: dove è odio, fa’ ch’io porti l’Amore, dove è offesa, ch’io porti il Perdono, dove è discordia, ch’io porti l’Unione, dove è dubbio, ch’io porti la Fede, dove è errore, ch’io porti la Verità, dove è disperazione, ch’io porti la Speranza, dove è tristezza, ch’io porti la Gioia, dove sono le tenebre, ch’io porti la Luce. Maestro, fa’ che io non cerchi tanto ad esser consolato, quanto a consolare; ad essere compreso, quanto a comprendere; ad essere amato, quanto ad amare. Poiché, così è: dando, che si riceve; perdonando, che si è perdonati; morendo, che si risuscita a Vita Eterna. San Francesco d’Assisi I lettori, utilizzando il c.c.p. allegato e specificandolo nella causale, possono contribuire ai costi di realizzazione, stampa e spedizione di Italiacaritas, come pure a progetti e interventi di solidarietà, con offerte da far pervenire a: Caritas Italiana – c.c.p. 347013 – viale F. Baldelli, 41 - 00146 Roma – sito internet: www.caritasitaliana.it