Per il contributo che ci ha permesso la stampa di questo 15°
volume della collana “Storie e racconti di mare”, sentiamo il dovere
di ringraziare il nostro socio onorario Comm. Angelo Di Martino,
Amministratore di una Azienda di Trasporti, Distribuzione e
Logistica di primaria importanza in Italia.
La battitura dei testi, la scansione di foto e documenti, l’impaginazione e la
progettazione grafica sono a cura di Gioacchino Copani
Finito di stampare presso
Eurografica SRL di La Rocca
S. S. 114 Orientale Sicula
Contrada Rovettazzo - 95018 Riposto CT
Tel. 095/931661 - Fax 095/7799108
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Luglio 2010
Tutti i diritti riservati
Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Il Presidente del Circolo
Cap. d. m. Gioacchino Copani
PRESENTAZIONE
DEL XV VOLUME
Sabato 7 agosto 2010, all’interno del porto
turistico “Marina di Riposto”, ha avuto luogo
la cerimonia conclusiva della trentaseiesima
edizione del Premio Nazionale Artemare.
Il progetto, una Rassegna artistico-culturale sul tema “L’uomo e il mare”, è nato
nel 1973 con la prima edizione del concorso “Fatti di bordo”, svolta nel febbraio
del 1975 all’interno della sede del Circolo. Poi negli anni, sono nate, via via, altre
sezioni; in ordine: Pittura (1977), Modellismo navale (1978), Fotografia (1979),
Video documentario (1982), Canzone (1984), Giornalismo (1985), Narrativa (1988),
Gastronomia (1995). L’ultima nata è stata la sezione “Protagonisti del mare”, che dal
1997 raccoglie l’eredità del “Premio Capitani Coraggiosi” organizzato dalla Pro loco
e poi rimasto abbandonato per anni.
Tutte le sezioni tranne la prima, denominata “Fatti di bordo” e che è riservata ai soli
naviganti della Marina militare, mercantile e da diporto, sono aperte gratuitamente
a tutti. Le vicende narrate dagli uomini di mare hanno dato vita ad una collana di
“Storie e racconti di mare”, che con questo raggiunge il numero di 15 volumi. Tutti
gli scritti sono vere testimonianze di vita vissuta ed esaltano, in ogni suo aspetto,
il legame dell’uomo con il mare.
Lo scopo del Premio è di diffondere in Italia lo spirito marinaro, tutelarne le
tradizioni e portare in primo piano i problemi legati al mare. A tale scopo, ogni
appuntamento annuale affronta una questione specifica sulle problematiche
marittime e navali. Il progetto può considerarsi, senza dubbio alcuno, precursore
di una miriade di iniziative che oggi si propongono la tutela dell’ambiente marino:
“Vivere il mare”, “Amare il mare”, “Mare d’amare”, “Linea blu”, “Mare blu”,
“Mare azzurro”, “Andare per mare”, ecc.
Il raggiungimento di 36 anni d’ininterrotta attività, specialmente da parte di una
piccola associazione marinara come la nostra, è certamente un traguardo importante.
Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
È un momento dunque particolarmente significativo che induce a riflessioni, a
fare consuntivi e a prendere decisioni. La manifestazione è vissuta sempre e solo
con i contributi della Regione, della Provincia e, principalmente, del Comune,
perché non abbiamo saputo trovare generosi sponsor privati. In questa nostra lunga
esperienza, abbiamo anche capito che spesso i contributi pubblici si ottengono più
per clientelismo che per il valore in sé dell’iniziativa. Capita di osservare piccole
associazioni, di cui magari non se ne conosce l’esistenza, che riescono ad ottenere
contributi di decine di migliaia di euro per organizzare grosse manifestazioni. E senza
che nessuno si stupisca e si chieda come ciò possa accadere.
Perché una manifestazione possa raggiungere veramente la ribalta nazionale
occorrono: tanta costosa pubblicità, premi molto consistenti, ricchi cachet per gli
ospiti. Ma il nostro budget non ci permette tanto. Il contributo comunale, pur essendo
il più consistente tra quelli assegnati alle associazioni, è modesto per il sostegno della
nostra proposta. E per di più, negli ultimi tempi, è stato annualmente ridotto.
Logica conseguenza è togliere il disturbo. Con sincerità, dobbiamo dire che ci
dispiace che l’impegno speso in questi anni venga perso. Ed è per questo che più
volte ci siamo permessi d’invitare l’Amministrazione comunale a far suo il nostro
progetto. Il porto turistico è ormai una realtà consolidata nella vita ripostese, ed
ogni paese a vocazione turistica deve avere una manifestazione che lo caratterizzi.
Ebbene, il Premio Nazionale Artemare, per la sua storia e per l’importanza acquisita,
può ben rappresentare la nostra città marinara. Attorno a questa “Festa del mare”,
che Riposto celebra dal 1975, possono confluire tante altre iniziative attinenti
all’ambiente “mare”. L’operare in sinergia attorno ad un unico tema porterebbe
certamente ad un risultato migliore di quello ottenuto dalle singole ed isolate
iniziative.
Ci riteniamo giunti alla conclusione di una bellissima avventura nata trentasei
anni fa, che desidereremmo altri proseguissero. Se l’Amministrazione comunale
dovesse ancora una volta ignorare questo nostro appello, vorrà dire che il Circolo si
ritiene autorizzato a cedere il marchio del Premio Nazionale Artemare ad un Comune
marittimo e/o ad un’Associazione marinara che ne faranno richiesta. Se ci saranno
più richieste, il Circolo saprà valutare e scegliere l’Ente più affidabile.
Forse non è superfluo aggiungere che il Premio non lo cederemmo mai ad un
Comune siciliano e/o ad un’Associazione siciliana, perché ritroverebbero le stesse
difficoltà che il nostro Circolo ha incontrato per essere stato sempre coerente al suo
motto: “Il mare, Patria dei liberi”.
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Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania
Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Il Sindaco di Riposto
dott. Carmelo Spitaleri
Sabato 7 agosto 2010 ho partecipato, per
la terza volta in qualità di Sindaco alla 36a
edizione del Premio Nazionale Artemare.
Sono trascorsi più di cento anni dalla posa della prima pietra per la costruzione
del porto: tante cose sono cambiate ma non la vocazione marinara della nostra
gente, non il suo legame indissolubile con il mare e le antiche tradizioni ad esso
collegate.
Il premio Nazionale Artemare esalta e valorizza, con competenza e maestria, le
tradizioni e la cultura marinara della nostra gente, approfondendo le problematiche
sempre complesse e di difficile risoluzione legate al mare.
Dopo il collaudo del 1° bacino una mareggiata di rara potenza nel gennaio dello
scorso anno ha danneggiato parte dei pontili, ritardando il decollo della struttura
sulla quale sono riposte fondate speranze per un rilancio turistico - economico del
nostro territorio.
L’Amministrazione ha provveduto a far realizzare un progetto riguardante la
riparazione dei pontili e la costruzione di un pennello provvisorio sottomarino per
mettere definitivamente in sicurezza l’opera portuale. I funzionari della regione,
dopo un attento esame, riconoscendo la validità delle soluzioni prospettate,
finanzieranno quanto prima il completamento dell’opera.
Una volta riparati i danni, l’Amministrazione ritiene di dover ricoprire un ruolo di
protagonista assoluto, e non di comprimario, nella futura gestione del 1° bacino del
porto turistico. Si perseguirà quest’obiettivo con strenuo ed intransigente impegno
al fine di rappresentare al meglio la collettività ripostese che per storia, tradizione,
cultura e risorse investite, rimane la prima beneficiaria del porto turistico.
Concordo con l’idea espressa più volte dal presidente del circolo il cap.
Gioacchino Copani circa l’opportunità di realizzare una sola ma importante
manifestazione collegata al mare, perché sicuramente una sinergia tra associazioni
permetterebbe di ottenere risultati più lusinghieri ed importanti; ma ritengo sia di
difficile realizzazione perché non in linea con il modo di pensare di molti di noi.
Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
In ogni caso, come consuetudine, anche quest’anno nonostante la scarsezza
di risorse in bilancio, l’Amministrazione è stato l’Ente più sensibile alle esigenze
della manifestazione. A lei, Presidente, riconosco il grande impegno e la grande
passione per la realizzazione del Premio che da sempre, con qualità e competenza,
rappresenta ed esalta le tradizioni e la cultura marinara della nostra gente.
Esso rappresenta uno dei momenti più importanti della mia vita amministrativa
e la sua dignità val bene più di qualsiasi contributo. A noi Amministrazione, al
Circolo e alle componenti sane della nostra società resta affidato il compito arduo di
contribuire con l’esempio alla rigenerazione morale della nostra popolazione. Riposto
senza premio Artemare perderebbe parte della sua storia e delle sue tradizioni.
Marchio del Premio Artemare
dove è possibile sostituire i logotipi degli Enti che
volessero sponsorizzare la manifestazione
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Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania
Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Quindicesimo volume della collana
“storie e racconti di mare”
Contiene opere premiate nelle edizioni 2008 e 2009
del Premio Nazionale Artemare
La Commissione giudicatrice del concorso“FATTI DI BORDO” (riservato
agli uomini di mare) e di quello di “NARRATIVA” (aperto a tutti) - espletati
negli anni 2008 e 2009 - è stata presieduta dal prof. universitario Orazio
Licciardello e composta della dott.ssa Betty Denaro, Segretaria - del Sindaco
del Comune di Riposto e del comandante della Capitaneria di Porto di Riposto
pro tempore - della prof.ssa Sara Martello - del capitano di macchine Mario
Di Pino e del capitano di lungo corso Angelo Leonardi.
Nella commissione del 2008 hanno preso parte il Sindaco on. Carmelo
D’Urso e il Ten Vasc. Francesco Terranova e in quella del 2009 erano presenti
il Sindaco dott. Carmlo Spitaleri e il Ten. Vasc. Cesare Mariano Spedicato.
Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
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Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania
Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Circolo
Ufficiali
Marina
Mercantile
Riposto
Comune
Riposto
Provincia
Regionale
Catania
Regione
Siciliana
Ass. Beni
Culturali
Ambient.
e P.I.
Assess. Turismo
Dipartimento
turismo, sport
e spettacolo
P remio Nazionale
ARTEMARE 2008
XXXIV Edizione
sul tema
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Ingresso libero. Per i posti a sedere del 2 agosto e per ricevere il volume
dei racconti di mare occorre presentare l’invito rilasciato dal Circolo
Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
SEZIONE FATTI DI BORDO 2008 - XIX edizione
1° Premio – Natale Pappalardo – Fiumicino RM – “Sapele 1968”
«C’è il caldo torrido di questi luoghi remoti, così diversi dagli scenari consueti;
c’è la luce impietosa di queste giornate lunghe e monotone; c’è il sentore della
guerra, lontano ma pregnante; c’è il bisogno di comunicazione, di parole, di contatti
fisici, che insopprimibile sovrasta la calura immota dei pomeriggi. Un racconto di
parole rarefatte, pesanti, come sospese nell’aria greve di umidità, che trasuda una
fisicità tangibile e un’esotica sensualità».
2° Premio – Orazio De Maria – Savona - “La luna e la falce”
«Attraverso l’incubo che abita l’incoscienza del corpo disfatto, prende vita
una vicenda fantastica, che pure racchiude e adombra fatti tristemente attuali e
problematiche reali: i clandestini e la loro tragedia umana, la nostra paura del
diverso che si traveste e si camuffa dietro le logiche più inappuntabili, le ragioni
stringenti dei numeri e dell’economia che cozzano contro motivazioni egalitarie
ed umane».
3° Premio – Idamo Rossi – Viareggio LU - “Nostromo-Gente di mare-Petrolio-L’imbarco”
«La voce solitaria e suadente dell’autore ci conduce in una sorta di meditazione
calma e a tratti sconsolata, ci guida in questo spigoloso sgomitare di segni sulla
carta, sospesi sul nulla del foglio bianco, che sembra stritolarli ma cede invece al
loro avanzare, e ci regala nitide immagini di momenti salienti della sua vita sul
mare».
Menzioni
Francesco Castorina di S. Donato Milanese – “Il lavativo”
«Per il tratto scorrevole, l’accuratezza e la lucidità con cui si descrivono momenti
cruciali della vita di bordo».
Giovanni Pagano – Torre del Greco (NA) – “Chernobyl”
«La tragedia di Chernobyl e le rigidità del sistema comunista narrate da una
prospettiva inusuale, quella del navigante che si ritrova nell’ex Unione Sovietica
proprio in ragione del suo lavoro».
Felice Zanghì – Ganzirri Messina – “Crociere del 2000”
«Attraverso il racconto spensierato di una crociera su una nave di lusso,
irrompono i ricordi dei momenti ora lieti ora difficili della vita per mare, e il
contrasto tra gli agi moderni e le difficoltà del passato».
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Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania
Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Natale Pappalardo
SAPELE 1968
D
opo parecchi giorni di navigazione, arrivammo finalmente nei pressi del delta
del Niger. Ormai Lomé era solo un ricordo, soltanto una grande nostalgia
che mi portavo nel cuore, ancora un pezzo di memoria occupata dall’impatto con
l’Africa con tutti i suoi colori, i suoi odori.
Ci fermammo lo stretto necessario per far imbarcare tre piloti o pratici, come
amavano definirsi loro. Dovevamo risalire il Niger per parecchie miglia ed
avventurarci ben all’interno della Nigeria. Il pericolo dei pirati che infestavano
quelle acque era ben noto ma, era niente al confronto con ciò che stava succedendo
nel Paese: la guerra civile col Biafra. La nostra destinazione era Sapele.
Il nome mi sembrava già tutto un programma. Quando poi cominciammo a risalire
il fiume, cercavo di scorgere tra il fogliame degli alberi dal colore di un verde
intenso, strano, differente dal colore di tutti gli alberi che avevo conosciuto fino a
quel momento, qualche animale, che so, una scimmietta, un coccodrillo. Insomma
ero o non ero in mezzo ad una giungla? A volte ci avvicinavamo così tanto alla riva,
specialmente durante le curve del fiume, che mi pareva di essere nell’interno della
foresta intricatissima. Guardando sulla carta nautica, il delta del Niger era tutto una
ragnatela di corsi d’acqua che coprivano un territorio vastissimo. Erano migliaia!
Sulla carta il nostro percorso era segnato, sembrava facile ma, se guardavo di prua,
le biforcazioni mi sembravano tutte uguali, non avrei saputo quale scegliere. Il caldo
umido, appiccicoso era sempre con noi giorno e notte. Specialmente di notte, era
quasi impossibile entrare nella propria cabina e cercare di dormire se non verso le
due o le tre del mattino. Non ricordo quanto durò la navigazione, in ogni modo più
di un giorno sicuramente. Andavamo avanti molto adagio e a volte per seguire una
curva molto stretta del fiume, dovevamo filare l’ancora e fare perno per girare su
noi stessi, per poi riprendere la navigazione in quel mare verde di piante. Credevo
che il Niger dovesse essere limpido, trasparente, azzurrino, invece era color fango
e tutto torbido. Una vera delusione!
Finalmente Sapele! Una cittadina fluviale senza tante pretese. Le comunicazioni
radio erano effettuate tramite una nave inglese ormeggiata sul Niger. Era lei che
fungeva da stazione radio terrestre, infatti, la cittadina era così piccola che non
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
possedeva gran che. Il traffico che si effettuava era esclusivamente dedicato al
carico dei tronchi. Pezzi d’albero giganteschi erano issati in coperta ma più se ne
caricavano più ne arrivavano lungo quell’immenso fiume. Chissà da dove venivano?
Probabilmente avevano navigato un bel po’ prima di giungere da noi. Scesi a terra
appena fu possibile. Beh, mettere il piede all’interno di una piroga, un semplice
tronco d’albero scavato lungo e stretto, non era per niente facile. Era così sensibile!
Bastava un niente per farla rovesciare, anche se, quei ragazzini che le guidavano
parevano incollati ad una specie di sedile ed a proprio agio. Ridevano della nostra
insicurezza e della nostra paura. Non c’era altro modo per scendere a terra, quindi
ci adattammo. Eravamo stati avvisati che a Sapele c’era il coprifuoco. Non si poteva
rimanere in città dopo il tramonto pena……qualsiasi cosa. Tantissimi militari
armati e con la tuta mimetica giravano per tutte le strade e sinceramente, si sentiva
che c’era una brutta aria, specialmente per noi bianchi. La guerra fratricida con il
Biafra (1968) rendeva nervosi tutti, militari e civili. Mi raccontavano delle migliaia
di vittime, delle privazioni e di tutto il sangue che stava scorrendo.
Non avevo toccato con mano la guerra, per fortuna no, però l’avevo vicina, ne
potevo sentire il fetore, la paura e l’angoscia negli occhi della gente anche se era
intenta a fare le cose di sempre……
Il mercato, stupefacente! Non avevo mai visto tanta frutta sconosciuta tutta
insieme. Quei colori intensi quell’odore che ti ubriacava. Vendevano di tutto
ma, rimasi anche deluso perché credevo di trovare qualche oggetto caratteristico
costruito dagli indigeni, ma era tutta roba di plastica con su scritto made in China.
Eppure eravamo nel 1968 e non so a quante miglia all’interno dell’Africa. C’era
perfino una bancarella dove vendevano medicinali. Tutto alla rinfusa e sotto il sole,
come se fossero prodotti non deperibili, scatole di cartone insomma. Un giorno
dovetti comprare una medicina per alleviare il dolore all’orecchio ad un membro
dell’equipaggio e, non essendoci farmacie mi servii del mercato. In realtà ero in
dubbio se comprarlo oppure no però, tornare a bordo senza medicinale, che forse
avrebbe risolto il problema del marinaio, non me la sentivo. Mi avvicinai sospettoso
alla bancarella gettando uno sguardo ai vari prodotti che sembravano provenire da
tutto il mondo. C’erano di russi, cinesi, inglesi. Erano buttati alla rinfusa, e con
quel caldo …… Il farmacista, beh quello che vendeva i medicinali si accorse che
ero interessato a comprare qualcosa e subito mi si avvicinò. Magro, sdentato, con
un sorriso che metteva ancor più in risalto le numerose rughe della pelle del viso.
In qualche modo gli spiegai ciò che desideravo e lui, con una rapidità straordinaria,
tirò fuori, da un mucchio di scatole e scatolette, proprio quella giusta. Quel mucchio
di medicinali non erano, come pensavo, buttati là a caso, dove andavano andavano,
ma erano predisposti in maniera logica e ordinata. Guardai quel tipo dai gesti
veloci con un certo rispetto. Quando poi, dopo solo quarantotto ore, il marinaio mi
affermò che quel prodotto che gli avevo portato era portentoso perché gli aveva
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Sapele 1968
Natale Pappalardo
fatto passare quasi subito il dolore insopportabile all’orecchio, beh mi vidi costretto
a considerare le cose che vedevo da un punto di vista diverso da com’ero abituato.
Dovevo ricordarmi del signor Mattioli. Fu una sorpresa costatare che quel vecchio
ubriacone sempre impataccato, avesse tanta sensibilità ed esperienza di vita. E quel
semplice episodio del medicinale lo prendo ancor oggi da esempio, cercando di non
giudicare più dalle apparenze o da quello che dicono.
Un episodio negativo che non riesco a dimenticare, mi capitò nel pomeriggio
del secondo giorno di permanenza a Sapele. Ero sceso da solo, sempre tramite i
ragazzini che andavano avanti ed indietro con le piroghe. Dopo qualche minuto
ero così sudato ed assetato che entrai nel primo bar che incontrai per rinfrescarmi
un po’. La frescura del locale e la penombra, dopo il caldo ed il sole accecante
mi sembrarono un oasi meravigliosa. Le pale del ventilatore da soffitto giravano
lentamente e la luce, che filtrava attraverso le ampie finestre schermate da tende
svolazzanti, proiettava sulle pareti dei chiaro-scuro intermittenti. Il vociare dei
clienti era quasi coperto da una musica ritmica tipicamente africana proveniente
da un juke-box posto di fronte al bancone..
Subito mi colpì il classico odore caratteristico dei locali chiusi africani: un misto
di selvatico che ti prendeva alla gola. Sulla parete di sinistra, in fondo, c’erano
dei tavolini con sedie di ferro smaltato. Mi sedetti scegliendone una ordinando
contemporaneamente una Coca Cola ad un cameriere indaffarato che si aggirava
rapido tra i clienti.
Cercavo di far durare la bibita il più possibile anche se la tentazione di berla tutta
d’un fiato era forte. Alcune ragazze, frequentatrici abituali del locale, si muovevano
ritmicamente al suono della musica ed intanto, alla ricerca d’eventuali clienti, si
offrivano con le stesse moine che da sempre ha caratterizzato il mestiere più antico
del mondo. Una di quelle, proprio quella che a me pareva la più carina, mi sorrise
e mi si avvicinò. Non riuscivo a capirne l’età, ma era giovanissima e aveva il viso
con lineamenti delicati, quasi europei. Naso piccolo e dritto, e labbra carnose che
avrebbero potuto essere benissimo di una ragazza di razza bianca. Non credevo
esistessero ragazze tanto belle in Africa, ma subito dopo mi diedi dello stupido.
Che cosa avevo visto finora? Che esperienza avevo? Mi ricordai delle attrici e
delle cantanti afro-americane e in special modo mi venne in mente una ballerina
che aveva trovato fortuna in Italia accanto a Rocky Robert. Una bellissima donna
che aveva fatto sognare parecchi italiani: Lola Falana. La guardavo mentre mi si
avvicinava, la pelle nerissima, i capelli coperti da una specie di fazzoletto e le gambe
inguainate da un paio di pantaloni a strisce verticali coloratissimi. Si muoveva in
modo armonioso facendo risaltare i fianchi e facendo alzare ed abbassare, ad ogni
passo, grandi seni appena coperti da una camicetta annodata in vita, non trattenuti da
alcun reggiseno. Era uno spettacolo! Sorrideva, si avvicinava e sorrideva mettendo
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
in mostra una dentatura scintillante. Quei denti le illuminavano il viso tanto era
il contrasto tra il bianco e la carnagione nera. Si sedette accanto a me, posandomi
una mano sul braccio. Una sensazione di freschezza e una ventata di profumo mi
avvolse. Non sopporto gli odori forti ed intensi, anche se profumati ma il suo era
delicato, non prepotente, mi pareva di stare accanto ad un fiore, un bellissimo fiore.
Gli offrì una Coca e cominciammo a parlare dei soliti convenevoli…. Le guardavo
le labbra carnose, la lingua, che intravedevo a tratti di un colore più scuro della
nostra e gli occhi, nerissimi, li muoveva rapidi mentre mi guardava, studiando come
circuirmi il più presto possibile.
Non sapeva che ero già cotto al punto giusto! Improvvisamente qualcosa si ruppe.
Non si sentiva più il vociare solito del bar. Solo la musica era la protagonista del
locale. In mezzo al fumo delle sigarette, che si alzava ruotando come ad inseguire
le pale del ventilatore, vidi quattro militari in tuta mimetica che, dopo essere entrati
nel bar, si fermarono uno di spalle all’altro al centro del pavimento. Tutto si fermò.
I baristi rimasero nella stessa posizione in cui erano quando li videro entrare e tutti
i clienti non mossero un muscolo. L’aria si era fatta densa e la colpa questa volta
non era da imputare né al fumo né al sudore della pelle. In silenzio i quattro militari
si mossero allontanandosi l’uno dall’altro continuando a darsi le spalle. In questo
modo avevano tutto il bar sotto controllo. Uno si diresse verso l’entrata e la bloccò
mettendosi davanti la porta. Era gigantesco! Un altro, con un cappello floscio,
mimetico come il resto della divisa, si diresse verso di me. Sentivo, nonostante il
rullare dei tamburi, la pesantezza dei suoi anfibi che con passi cadenzati colpivano
il pavimento. Avanzava lento verso di me con le braccia che gli dondolavano lungo
i fianchi. Non potei fare a meno di notare il prolungamento del braccio destro.
Sembrava un tutt’uno con il suo braccio il mitragliatore con un caricatore circolare
che avevo visto solo nei film. Il braccio dondolava sempre di più man mano che si
avvicinava tanto che, quando mi giunse vicinissimo gli rimase alzato parallelo al
pavimento e all’altezza dei miei occhi. Non pronunciò nessuna parola, né fece alcun
gesto. Si fermò semplicemente puntandomi l’arma in mezzo agli occhi. Guardai il
buco nero del mitra a pochi centimetri dalla mia faccia e confesso che tutto il resto
non mi interessò più. Non riuscivo a spostare la testa né a parlare. Pensavo a quello
che poteva succedere. Bastava che sfiorasse il grilletto con un po’ più forza e…..
addio Lino. Chi avrebbe saputo che fine avevo fatto? Chi si sarebbe interessato a
me? Ne morivano tanti! Uno più, uno meno, che differenza poteva fare? Ma chi me
lo aveva fatto fare ad andare lì? Perché non me ne rimasto a bordo, tranquillo? Quel
buco nero, profondo, sembrava ingigantirsi sempre più, pareva inghiottirmi tutto.
Quanto tempo passò? Non ne ho idea. I pensieri per risolvere quella situazione me
ne vennero in mente a migliaia, ma li scartai tutti. Non c’è n’era uno che andasse
bene. Il cervello lavorava ad un ritmo incredibile, mi andava a fuoco, sentivo in
testa un caldo esagerato mentre, lungo la schiena, un brivido freddo me la raggelò.
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Comune Riposto - Regione Sicilia - Provincia Catania
Sapele 1968
Natale Pappalardo
Dopo un tempo che mi parve interminabile, il soldato mi fece cenno se poteva
portarsi via la ragazza che era con me. Accennò persino ad un sorriso come a dire:
- tanto a te non importa vero? – Aveva spostato leggermente il Thomson dal mio
volto lasciandomi la possibilità di alzarmi dalla sedia. Mi sollevai lentamente e
mi misi in piedi. La ragazza alla mia destra era terrorizzata, immobile, gli occhi
fissavano un punto davanti a sé che non vedeva. Se avesse potuto sbiancare, quello
era il momento adatto. Il profilo delicato contratto in una smorfia di paura. Terrore,
angoscia, paura, sentimenti che regnavano sovrani in quel momento nel bar. Mi
mossi verso l’uscita con una lentezza esasperata. Un passo dopo l’altro, lento, troppo
lento. Lo sguardo dritto verso l’uscita, verso il gigante nero che fungeva da portiere.
Volevo girarmi per vedere cosa facesse il soldato col cappello moscio ma non
osavo. Temevo che mi sparasse alle spalle e per questo tenevo la schiena contratta,
come a respingere i colpi che mi aspettavo arrivassero da un momento all’altro.
Non avevo neppure finito di bere tutta la Coca Cola e… nemmeno pagata….Ma
che pensieri che mi venivano in quel momento….La gola arsa, secca come se non
avessi bevuto da chissà quanto tempo. Sentivo ansimare, qualcuno era affannato,
qualcuno vicino a me. Non c’era nessuno accanto a me. Ero io! Io, che respiravo
con affanno, io che morivo di paura. Ancora due passi ed ero davanti alla porta. Si
sarebbe scansato per farmi uscire oppure?……Lo guardai dritto negli occhi alzando
la testa. Quel soldato nero non avrebbe avuto bisogno di nessuna arma per uccidermi.
Gli sarebbero bastate le mani. Non c’era niente che potessi fare per difendermi.
Fuggire non potevo, battermi? Era ridicolo solo a pensarlo. Quindi continuai senza
indugio verso di lui. L’odore acre di selvatico si mischiò con quello della paura
che ognuno dei presenti emetteva più o meno intensamente a seconda di dove si
posava lo sguardo dei soldati. Trattenni il respiro e continuai ad avanzare e…. o si
spostava o….. si spostò. Il sole mi colpì con tutto il suo splendore, mi accecò, e un
muro di calore si abbatté su di me. Avanzai in quell’inferno incandescente come
se fossi arrivato in paradiso. Le gambe e tutto me stesso erano proiettate verso il
fiume. Ritornare alla nave, ritornare, solo questo avevo in testa. Quando salii sulla
piroga diretto alla Cumoreana, ancora non volevo credere che me la fossi cavata
così. Cercavo di scorgere sulla riva che si allontanava da me qualche traccia di quei
soldati. Se ci avessero ripensato?
Mi ero visto già morto e buttato come tutti gli altri nel Niger, uno dei tanti cadaveri
che galleggiavano lenti trascinati dalla corrente verso il mare. Io ci sarei arrivato o
sarei finito prima nella pancia dei numerosi pesci e dei coccodrilli? Piano piano ci
avvicinavamo alla nave, alla vecchia carretta nera ormai decolorata dalla ruggine
che spuntava dappertutto. Non m’era mai apparsa tanto bella! Diedi al ragazzo della
piroga il solito pacchetto di Malboro come compenso e salii sullo scalandrone della
nave. Arrivato finalmente in coperta, ancora una volta mi girai con timore cercando di
scorgere sulla riva i soldati federali. Anche se ormai ero al sicuro, la preoccupazione
Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
non mi era affatto passata. Il sole che un attimo prima splendeva con tutta la sua
potenza, adesso era nascosto da nuvole dense e grigie, probabilmente era in arrivo
un violento acquazzone. Sulla riva da dove ero partito non c’era nessuno, tutto era
calmo, in pace, soltanto il cielo brontolava pronto per la tempesta imminente. Era
tutto così rapido in Africa! Non riuscivo a capacitarmi dei subitanei cambiamenti
a cui ero sottoposto. Mi sentivo stanchissimo, come se avessi fatto una lunga e
faticosa franchigia, invece il tutto si era svolto in pochissimo tempo. Mentre mi
avviavo verso la mia cabina con l’intenzione di farmi una doccia qualcuno, non
ricordo chi, mi domandò:- Già di ritorno Marcò? Non ci sono belle ragazze qui a
Sapele? - Neanche gli risposi, continuai a salire come se non lo avessi sentito.
Il radiotelegrafista di bordo Natale Pappalardo riceve il Primo premio per il racconto “Sapele 1968”
dal Presidente della Giuria, prof. Orazio Licciardello
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Orazio De Maria
LA LUNA E LA FALCE
Cap. 1 - Il naufragio
M
i trovo ancora oggi a pensare, guardando il confine tra il deserto ed il mare,
a quella che sarebbe stata la mia esistenza senza che fossero accaduti i fatti
che ora, prepotentemente, mi tornano in mente e che desidero raccontarvi. Ma, anche
adesso, come allora, quella frase torna insistente dentro la mia testa- Ricordare,
di una vita trascorsa in fretta, e adesso piango. Ma per voi che leggete, forse è
meglio partire dall’inizio.
La tempesta arrivo all’improvviso, senza alcun preavviso o nulla che facesse
pensare ad una simile forza della natura. Gli esperti del settore, i meteorologi,
l’avrebbero definita improvviso e repentino cambiamento del fronte barico con
rapido peggioramento delle condimeteo in zona. Qualche bagliore di lampi
all’orizzonte, unitamente ad una grande massa di nuvoloni scuri, prudentemente mi
aveva suggerito una rapida variazione degli assetti di crociera dell’imbarcazione.
Malgrado però la chiusura dei boccaporti e la drastica riduzione del velame, la
condizione di sfavorevolezza nei confronti della natura fosse dovuta al fatto di aver
voluto affrontare il resto della navigazione in solitario, questo aspetto, nonostante
la responsabilità e la perizia nel saper gestire e condurre una barca, nel mio caso un
quasi dieci metri a vela, era stata solo ed esclusivamente colpa mia, del mio carattere
di merda che allora, a questo punto della storia, mai avrei pensato avesse potuto
deviare su strade che per me, almeno sino a quel momento, risultavano sconosciute
ed incomprensibili. La pioggia, fredda ed intensa si abbatteva sulla barca con una
violenza tale da non permettere di scorgere il paesaggio circostante che comunque,
vista l’assenza di luna e stelle dovute alla presenza delle nubi, difficilmente avrebbe
rilasciato alla vista chiarori e dettagli di qualche utilità per la navigazione. Pur avendo
indossato una giacca cerata e malgrado avessi anche occhiali e cappello, l’umidità
dell’acqua si era insinuata fin dentro le ossa, al pari di un asciugamano che, intriso
di acqua, raddoppia il suo peso dovuto alla presenza di quest’ultima. Tutto questo,
impediva al mio corpo, anche se abituato a molte ore di palestra, ad affrontare le
dovute e collaudate manovre che, in altre circostanze, mi sarebbero venute naturali
compiere. L’imbarcazione, sospinta da forti venti, tardava a stabilizzarsi in una
posizione efficace a prevenire le alte onde che andavano ad infrangersi con cadenza
quasi regolare contro le murate laterali e di prora. Il boma, oscillando paurosamente
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dopo aver rotto la cima che lo teneva saldo, rappresentava un ulteriore pericolo
alla mia sicurezza ed alla stabilità della stessa barca. Osservando dal dentro e con
obiettività la realtà in cui mi ero cacciato, cercai di legare al meglio il timone, per
raggiungere l’apparato radio VHF e cercare almeno di comunicare le mie coordinate
fornitemi dal ricevitore GPS ma, dopo la prima chiamata, mi accorsi che l’antenna a
stilo posizionata in testa d’albero oscillava paurosamente staccata dal suo supporto,
questo almeno fu quello che intravidi i cinque secondi che precedettero la folata di
vento che la staccò definitivamente. A questo punto, mi si era volatilizzata anche la
possibilità di richiedere aiuto a qualcuno, mentre contemporaneamente riflettevo a
come sia strano e allo stesso tempo naturale, guardarsi intorno in questi frangenti,
cercando di scorgere qualche debole luce a cui aggrapparsi, verso cui cercare di
fare rotta, o solamente per pensare di non essere completamente da solo in mezzo
al mare. L’ennesima rollata dell’imbarcazione mi fece finire gambe all’aria alla
base del timone e da lì, disteso ed in balia delle onde, con il pensiero mi trasferii,
in un primo gesto di arresa alle mie forzate condizioni, verso quello che era stato
l’inizio di questa storia.
La mia storia con Marilla era nata tre anni prima, complici le splendide rive
del lago di Como ma, soprattutto il locale circolo nautico che entrambi eravamo
portati a frequentare visto il nostro comune amore per la vela. Laureata come
assistente sociale, faceva parte di una famiglia di origini calabre che aveva fatto
fortuna nel campo dell’edilizia. Per me, che gestisco uno studio di odontotecnico,
forse è stata la classica storia di comodo, da iniziare con la ragazza di famiglia
facoltosa, al pari della mia. In questi casi, stessi interessi, stessi denari e stessa
cerchia di amici, facilitano la conoscenza e la convivenza. Malgrado tutto questo,
però, i nostri caratteri erano difformi su alcuni aspetti. Le nostre principali fonti
di dissapori, ad esempio, erano dovuti a motivi di natura politica. Marilla, infatti,
aveva sempre avuto una mentalità sinistroide, che la portava a giustificare tutto
quello che io, a quel tempo, chiamavo avanzata del decadimento morale e dei valori.
Tra i vari motivi socio-politici, inserivo tra questi anche la massiccia presenza di
extracomunitari che oramai stava invadendo e, per certi versi trasformando, le
nostre città. Al contrario Marilla, tendeva a trovare giustificazioni in tutto, anche
a questa rapida trasformazione sociale, giustificandola ed accogliendola non solo
dentro di sé, come profonda convinzione, ma travasandola anche allo studio di
futuri aspetti legali che, a dir suo, dovevano essere potenziati per favorire questi
flussi di “carne umana”. Malgrado queste sottili ma profonde differenze, erano
sempre state da noi, in quanto coppia di fatto, ampiamente superate, quella volta,
seduto sulla cuccetta della cabina matrimoniale posta a prua della barca, sapevo
essere lontane da qualsiasi forma di conciliazione, almeno nel volgersi di breve
periodo. Partiti da Trieste, con tappa finale verso l’isola di Malta, avevamo deciso
di provare l’ebbrezza della navigazione marina dopo le molteplici uscite sul lago,
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La luna e la falce
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navigazioni quelle, che non possono sicuramente avere un paragone di riferimento
se rapportate a quelle condotte negli specchi d’acqua marini mediterranei. Dopo la
partenza triestina, il primo porto di attracco fu presso l’isola dell’arcipelago croato
di Otok Svetac. In quel contesto, dopo una sera passata presso un locale tipico della
zona, in preda ai fumi alcolici frutto di un buon pastoso vino rosso, ebbi l’ardire
di apostrofare in malo modo un cameriere locale. Questa vicenda fu l’inizio di una
lunga serie di discussioni con Marilla, discussioni evidentemente sopite da tempo
e che, malgrado la perizia e la professionalità dovuta per la conduzione della barca
in navigazione, furono portate avanti sino all’approdo successivo, avvenuto presso
l’isola di Paxoi presso l’arcipelago greco. In quel contesto geografico, durante una
sera che si accompagnava ad un cielo stellato e ad una brezza marina piacevole e
appagante, nella cuccetta a prora via della nave, avvenne l’epilogo di quella che
credevo, almeno allora, la nostra momentanea separazione. - Le nostre convinzioni
sono profondamente diverse, il tuo modo di ragionare e concepire la nostra società è
profondamente razzistico e anacronistico. – Ma che anacronismo!, sbottai alla fine
della discussione, tu parli così poichè le origini dei tuoi genitori ti portano a farti
pensare che il nostro Paese, almeno nella parte di contesto più produttivo, possa e
debba avere il lusso di ospitare cani e porci!
Forse, fu il tenore abbastanza aggressivo di questa ultima frase a produrre la
cosiddetta goccia che fece traboccare il vaso. Oggi, con il senno di poi, imputo
anche alle mie origini familiari di produttori terrieri, l’impulsività delle mie idee.
Durante il secolo scorso, infatti, la popolazione a vocazione agricola, facente parte
della zona settentrionale del nostro paese, era alquanto chiusa alla modernità ed
alle iniezioni innovative provenienti dalle culture straniere. Questa caratteristica,
sicuramente presente nel mio dna, penso sia stata la principale forma di ispirazione
delle mie idee di allora. - Le nostre vedute, in questo contesto sono inconciliabili,
proseguì Marilla seduta ai bordi del letto, domattina provvederò a preparare i
miei bagagli e scenderò a terra, aspetterò il primo traghetto verso la terra ferma
e da lì proseguirò il mio viaggio, da sola. Tentai, sapendo che la mia era più una
strenua difesa che un tentativo di convinzione vero e proprio, di farla desistere
dalla sua decisione ma, come immaginai, sapevo che vi erano poche possibilità di
farle cambiare idea. Forse un po’ di lontananza, una pausa di riflessione, avrebbe
sicuramente giovato alle nostre idee, nel capire se vi era qualche possibilità di far
maturare un qualche proponimento utile a far proseguire il nostro rapporto di coppia.
Dopo la sua partenza, ebbi l’ardire di pensare che, malgrado tutto, la conduzione
di una barca a vela di neanche dieci metri, tutto sommato potesse rappresentare
una sfida appagante anche nella navigazione in solitario. Per gli uomini di mare,
d’altronde queste sfide estreme rappresentano anche un ottimo viatico per sfuggire
ai dolori patiti sulla terra ferma, almeno questa fu la mia “giustificazione interiore”
alla prosecuzione del mio viaggio. Appunto, solo una giustificazione interiore, priva
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di alcun valido raziocinio. L’arrivo di una decina di litri di acqua salata, e per di
più fredda, in faccia mi riportò alla cruda realtà. Issandomi in piedi, in un turbinio
di acqua e vento, richiamai verso la mia mente le poche forze fisiche rimastemi
a disposizione, indossai il giubbotto di salvataggio e allentai i cavi del piccolo
gommone da due metri e mezzo che era rizzato sopra l’ingresso del boccaporto
posto in coperta, azione che si rivelò decisiva prima dell’inizio dell’imbarco
copioso di acqua da parte dell’imbarcazione. Con il carico di acqua presente sulla
stiva e in parte della cabina, le oscillazioni diminuirono, ma oramai l’inevitabile
aveva iniziato il suo conto alla rovescia. Attesi quindi, che il lento ed inesorabile
destino della barca giungesse al suo epilogo finale, lottai contro il vento che mi
faceva oscillare paurosamente e che, passando tra l’albero della barca sibilando,
riempiva le mie orecchie di clamori assordanti. Mi aggrappai così alle mie ultime
forze, riuscendo a salire sul tender e a farmi scivolare in mare prima che la barca
affondasse definitivamente e ancora prima che, del tutto stremato, perdessi i sensi
abbandonandomi verso un oblio liberatorio. Allora non sapevo ancora che, visti
gli eventi futuri di cui sarei stato testimone, con la scomparsa tra le onde di quel
relitto, spariva per sempre una parte della mia esistenza e, parimenti, sarebbe stato
varato il corso della mia nuova vita.
Cap.2 - L’incontro
Mi sono sempre chiesto, guardando certe volte qualche film a tema, di come
fosse possibile il repentino cambiamento delle condizioni climatiche in mezzo
al mare. L’inesperienza, mi portava a pensare, che la stessa azione fosse più il
frutto del capriccio di qualche sceneggiatore che, invece, figlia delle possibilità
scientifiche che un campo barico presenta. Ad ogni modo, non riuscii a calcolare
per quanto tempo rimasi privo di conoscenza, di sicuro c’era il fatto che al mio
risveglio mi trovai da solo, sul tender, senza il fuori bordo, (che comunque essendo
da due cavalli non mi avrebbe permesso molta strada), con una sola borraccia di
acqua dolce, quella attaccata sul giubbotto/salvagente, e, quello che più conta, in
mezzo al mare, in uno specchio di acqua che, per quello che potevo sapere, poteva
andare dalla Grecia meridionale sino a Malta. Passare da una condizione di freddo
e pioggia a quella di sole e caldo, comporta, a parte il repentino cambiamento
delle condizioni climatiche, anche un rapido cambiamento di umore fisico. Se la
condizione risulterebbe piacevole a chiunque dinnanzi ad una spiaggia affollata di
bagnanti spensierati, l’essere posti in condizione forzata, come la mia, in mezzo al
mare, comporta un ripensamento a quelle che erano state le condizioni precedenti,
dal freddo ci si può sempre coprire, l’acqua si può sempre raccogliere, ma al caldo
e con l’arsura dovuta alla mancanza di acqua, le condizioni fisiche peggiorano
notevolmente. Riparandomi il corpo ma, soprattutto il capo, con la giacca cerata,
non mi resi conto di essere ricaduto ancora in un sonno profondo e, quando al mio
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La luna e la falce
Orazio De Maria
risveglio, vidi la sagoma di un’imbarcazione di legno a circa mezzo chilometro
dalla mia, ero sinceramente convinto di essere ancora in preda di qualche sogno
frutto di un sonno agitato che, d’altronde, ben si sarebbe conciliato con quelle che
erano le mie condizioni in quel momento. Afferrando l’unico remo che era rimasto
a bordo dopo il naufragio e contemporaneamente urlando in direzione dell’altra
imbarcazione mi spinsi verso quest’ultima. La stessa, rappresentava un barcone in
legno di una quindicina di metri, di colore verde e bianco, chiaramente alla deriva,
visto che il fuoribordo posto a poppavia era silenzioso come un cadavere. Da quella
specie di zattera a forma di barcone, vidi elevarsi una testa che guardò verso la mia
direzione. Quando finalmente giunsi in prossimità della fiancata, mi accorsi con
rabbia ed amarezza, che la speranza di essere posto in salvo da quella condizione,
almeno in quel caso, non si sarebbe potuta avverare. Ero, infatti, alla presenza di un
barcone di disperati alla deriva, una delle tante carrette del mare che quotidianamente
affrontano i viaggi della “speranza” e che, in alcuni e molteplici casi, di speranzoso
non hanno nulla. Dopo la prima testa ne spuntarono altre, poi anche delle braccia
che in maniera decisa mi issarono a bordo dell’imbarcazione. Posto che fui a bordo
di quest’ultima, la mia mente correva col pensiero a cercare di capire quale fosse
stata un’immagine di vita vissuta o studiata sui libri, che potesse rivelarsi consona
a descrivere l’orrore in cui ero capitato. L’unica immagine che mi venne in mente
di associare era quella di qualche girone dantesco descritto dal sommo poeta nella
sua divina commedia. Accatastati e in stato di dormiveglia vi erano una ventina di
corpi umani tutti di colore e di provenienza africana che riempivano in circolo tutte
le paratie del barcone. Mi trovai in mezzo a quelle persone che più avevo odiato
ed evitato nella mia vita, e adesso, andavo con il pensiero a quando affermavo
che, le nostre navi militari, avrebbero potuto consumare un bel siluro da esercizio
per far colare a picco qualche barcone di questi. In quella condizione, nella nuova
condizione in cui ritrovavo, sperai in cuor mio, di trovarmi, qualora fosse accaduto,
di fronte ad un comandante misericordioso e con la testa lontano dalle mie idee
razziste ed estremiste. La “condizione sociale” e logistica a bordo, come è facilmente
intuibile, non era certo delle migliori. Tutto intorno regnava, malgrado fossimo
all’aria aperta, un tanfo che era rappresentato da un misto di sudore e vomito. La
condizione anomala era che, malgrado anche io non brillassi in quel momento in
fatto di igiene personale, ero portato a sentire gli odori altrui piuttosto che il mio.
Oggi, giustifico quella circostanza con il fatto che le mie idee, che erano allora le mie
profonde convinzioni razzistiche, mi portavano a percepire solo quello che volevo
e non ciò invece che fosse frutto della realtà. L’oscurità calò repentina portandoci
in regalo la prima frescura, contornata da un cielo stellato e da uno specchio di luna
curvo come una falce. Posto in essere il fatto che la stanchezza e gli stenti patiti non
ci avevano fatto brillare per loquacità durante le ore diurne, approfittammo delle
ore di buio per analizzare razionalmente la nostra condizione. Uno di loro, che
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parlava l’italiano in maniera discreta, mi si presentò come Azeem, pensando che
la conoscenza del nostro idioma era dovuta a molteplici ore trascorse a guardare i
nostri programmi televisivi satellitari, mi dovetti ricredere nel momento in cui mi
rivelò che era un ingegnere elettronico esperto in apparecchiature elettromedicali.
Proveniva, se così possiamo definire l’origine di questi uomini che, al pari degli
apolidi, sono rimasti senza patria ed affetti familiari, dalla Somalia. Dopo il conflitto
scatenato dai signori della guerra, proseguì con il racconto, sono stato costretto a
lasciare tutto quello che avevo, per evitare di finire anche io dentro la spirale della
violenza che oramai attanaglia la mia nazione, semmai ne fosse mai esistita una.
Mia moglie è stata uccisa e, dopo questo avvenimento, niente mi lega più a quella
terra. La mai speranza era quella, come tutti, di arrivare in Europa per vedere di
iniziare una nuova esistenza. Anche un altro del gruppo, di nome Abdel, parlava
la nostra lingua. Possedevo, una fattoria in Rwanda, ero dedito all’agricoltura e
allevavo una grossa quantità di pecore. Dopo l’indipendenza dal Belgio, sono
scoppiati i conflitti tra gli Utu e i Tutzi, separati durante la colonizzazione europea.
Anche in questo caso, come la storia precedente, anche io ho perso tutto quanto era
in mio possesso, la fattoria, i raccolti, gli animali. Adesso, con un passato azzerato
e senza più neanche un’identità sono partito con la speranza di trovare un futuro
migliore. Ma, per la povera gente, non esiste mai un futuro migliore. – Ok, va bene
le disgrazie ma, allora i terroristi che sbarcano sulle nostre coste, con la scusa dei
viaggi della speranza, dove li mettiamo! Mi rispose, a questo mio stupido quesito
dettato dai canoni dell’ignoranza, Haile, egiziano. – Ma tu pensi che i terroristi
fondamentalisti islamici viaggino sopra queste carrette? Non pensi che, con le
coperture a livello globale, abbiano la possibilità di avere falsi passaporti, viaggiare
comodamente in aereo e avere vitto e alloggio sotto copertura! Quale organizzazione
sacrificherebbe uomini ben addestrati in viaggi che non hanno grandi percentuali di
successo finale? In effetti, questo discorso non faceva una grinza.- Siamo in mare
da tre giorni, partiti da una località a nord di Salun che sta ai confini tra l’Egitto
e la Libia, disse proseguendo, ora distribuiremo l’ultimo litro di acqua rimasta e
dopo: che Allah sia con tutti noi!
In effetti, mi venivano in mente, per trovare un parallelo a tutte queste storie, i nostri
immigrati italiani in Belgio, alla tragedia di Marcinelle accaduta nell’agosto del 1956
ove perirono 262 persone di cui 136 italiani, in fondo in fondo ognuno di noi è stato
migrante. Anche oggi, anch’io sto fuggendo da qualcosa, da qualcuno o da me stesso.
Dopo un altro giorno passato senza scorgere alcunché, ripiombammo nell’oscurità
della notte. Sfinito ed allo stremo delle forze precipitai, quasi senza accorgermene,
in un sonno profondo ed agitato. Mi trovavo presso un paesaggio agreste, ricco
di palme, la luna era alta nel cielo, a forma di spicchio. Poi, improvvisamente,
la luna divenne di color rosso, tutto intorno a me danzavano, in un delirio senza
fine, centinaia di uomini di colore, con i volti dipinti, e in quella danza sfrenata
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La luna e la falce
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mi indicavano con un dito, quasi come a volermi accusare di qualcosa, di qualche
colpa che neanche io sapevo di avere. Poi, tutto ad un tratto, la luna si trasformò in
una falce e si abbatté, come se fosse animata da un braccio invisibile, sopra quegli
uomini, falcidiandoli tutti, donne e bambini compresi, in un turbinio di sangue e
fiamme, maschere sul viso e fuoco. Le urla soffocate da un incessante e ritmato
rullo di tamburi, e poi quella luna, una luna come una falce, che piombava dal cielo
come un castigo divino!
Cap. 3 – L’epilogo
Mi svegliai da quel sogno e da quel sonno agitato, la danza presente dentro la mia
testa si trasformò, quando tornai pian piano alla triste realtà, in una nenia sussurrata.
Uno di loro, che dall’aspetto pareva oramai essere in un profondo stato di delirio,
cantava una canzone in arabo, ove per arabo sto ad identificare qualunque lingua a me
sconosciuta. Azeem, cosa sta dicendo, chiesi tanto per rompere la monotonia che stava
per farci scivolare inesorabilmente incontro alla morte. È una cantilena della sua terra
e recita, nella tua lingua, più o meno così – È notte, un flebile chiarore lunare rischiara
la mia stanza, i miei occhi osservano le scure tonalità. Dormire, perché cancellare
questo momento? Ripensare, ad una vita trascorsa in fretta, e adesso piango!
Non ebbi il coraggio di controbattere nulla a queste parole, riflettendo solo di come,
accomunati dalle disgrazie o da un pericolo imminente, tutti gli uomini diventano
uguali come, in teoria, dinnanzi alla legge. Come nella famosa livella del comico
napoletano. Senza sesso o razza, senza miseria o nobiltà, senza nome e senza età.
La fame e la sete, mi portavano anche a pensare di come, gli innumerevoli
avanzi di pranzi o cene, buttati senza ritegno nelle nostre pattumiere, sarebbero
state accolte, in questa circostanza, come la manna caduta dal cielo nel deserto che
mitigò le bibliche sofferenze del popolo ebreo in fuga dall’Egitto. Ma Mosè, in
questa circostanza, era davvero lontano anni luce.
Azeem, perché, qualora ci salvassimo, non mi dici come faccio a rintracciarti,
magari con le tue qualifiche posso avere la possibilità di segnalarti a qualcuno,
conosco molti rappresentanti di apparati elettro medicali. Pronunciai quella frase
più per farmi coraggio che per convinzione, ritenendo ormai che l’epilogo finale
della nostra storia sarebbe coinciso con una terribile morte che, vista la situazione,
sarebbe stata accolta come il minore dei mali e la fine dei nostri patimenti. Avevo
un punto di contatto a Brescia, però è meglio ti lasci l’indirizzo della casella di
posta elettronica, che è possibile leggere da ogni parte del pianeta. Avevo una
matita nella tasca interna della giacca, e mi segnai il tutto su un pezzo di carta per
la successiva custodia.
Nel corso dell’ultima notte di quella avventura le condizioni meteo mutarono
rapidamente verso il peggio. Impetuosi venti da sud-ovest sollevarono onde
altissime, che ci colpirono improvvisamente. Visto l’esiguità dello spazio presente
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a bordo, decisi, per liberare un po’ di posto ed alleviare il peso che gravava sul
barcone, di trasferirmi sul mio gommone che era ancora legato a poppavia del
barcone, allungando un tantino la cima di rimorchio per evitare di cozzare con
violenza sulla poppa. La forte pioggia ci investi per tutta la durata della burrasca,
e pensando che oramai fosse tutto finito, mi infilai con la testa sotto il piccolo
gavone di prora. Lì, con la vana speranza di aver acquisito un rifugio sicuro, persi
nuovamente i sensi, abbandonandomi, senza ormai alcuna forza, in un mondo
onirico parallelo a quello tristemente reale. Del mio risveglio, ricordo solo le mani
che mi afferrarono, trasbordandomi verso un’imbarcazione che aveva la forma tipica
di una vedetta di altura. Rimasi in stato di incoscienza per i successivi tre giorni,
alimentandomi esclusivamente solo per mezzo di flebo, sino a quando tornai a far
parte del mondo dei vivi.
Il condizionatore accesso al massimo regime possibile, mal attenuava la forte
calura del comando della Coast Guard maltese. Il tenente di vascello Zammitti, con
cui avevo chiesto di conferire dopo essere tornato in possesso di tutte le mie facoltà
mentali e fisiche, raccolse la mia prima testimonianza su come si erano succeduti
i fatti relativi al naufragio sopra descritto. – Devo ancora una volta confermarle,
che non abbiamo trovato alcun barcone, ove lei afferma di essersi legato con il suo
tender dopo il naufragio. – Eppure guardi, sono sicuro, vi erano quindici persone
sopra di esso, è impossibile siano sparite nel nulla!
In quel momento, sentimmo bussare alla porta, ed apparve un sergente con in
mano una busta. – Signor tenente, ecco le foto arrivate dal comando Atlantic di
Sigonella. –Benissimo, grazie sergente. Rispose Zammitti. – Ecco, le uniche foto
di un barcone di colore verde con una striscia bianca lungo la fascia superiore
della barca, sono solo queste, riconosce l’imbarcazione? Mi disse porgendomi
delle foto scattate presumibilmente da un velivolo. - Sì, eccolo è proprio questo,
fu la mia risposta di rimando. –Ne è sicuro, sa, queste barche si assomigliano tutte.
– Sì, sono sicuro c’è anche il motore dietro, quello rimasto senza benzina. - Bene,
sappia comunque che quelle foto sono state scattate più di un mese e mezzo fa,
durante una ricognizione aerea, e sfido che, dopo un mese e mezzo, possa ancora
essere sopravvissuto qualcuno, all’epoca dei fatti, le avverse condizioni meteo
marine non hanno permesso ad alcuna imbarcazione di prendere il largo, dopo di
che di quel barcone non se ne è saputo più nulla. Rimasi senza avere la possibilità
e la voglia di proferire alcuna parola. Nella mia testa, continuarono a emergere i
ricordi di quello che avevo vissuto, sogno o realtà, uomini o ectoplasmi, con chi
e, soprattutto, dove ero stato per tre giorni in mezzo al mare. Ma ero poi sicuro di
essere stato in mare, o magari avevo navigato ai confini di quel limbo che sfocia
nel fiume Acheronte?
Dalla tasca interna della mia giacca cerata tirai fuori il mio portafoglio, dentro il
quale c’era ancora il pezzo di carta con un indirizzo di posta elettronica. Nel corso dei
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La luna e la falce
Orazio De Maria
mesi successivi ho provato ad inviare dei messaggi a quella casella, ma la risposta del
server era sempre la stessa: casella di posta elettronica piena, impossibile recapitare
il messaggio, insaporito in una fredda forma grammaticale cibernetica.
Sono passati molti anni, dall’epoca dell’avvenimento di quei fatti, fatti di cui
sono stato testimone e che ancora rappresentano, per me, un grande mistero. Anche
adesso, passeggiando tra le strade polverose in questo buco del mondo posto in
essere qui in nord Africa, osservando le casette tutte uguali, ad un solo piano, mi
tornano in mente quei ricordi. Dopo la storia di cui sono stato, mio malgrado,
protagonista ho lasciato definitivamente l’Italia, i miei agi, i miei soldi, la mia vita
precedente. Niente poteva essere più lo stesso oramai, insieme a quei disperati
ero sicuramente morto anche io, solo che, probabilmente, non me ne sono mai
reso conto in maniera reale. Girovagando per il mercatino di cianfrusaglie, come
faccio ogni giorno per tornare nella mia casupola, qualcuno, riconoscendomi mi
saluta, apostrofandomi: il dentista. Adesso svolgo qui la mia attività, chi non può
permettersi di pagare con denaro, mi regala un po’ di formaggio, del latte fresco, a
me adesso va bene anche così. Quello che non riesco a non compiere nei miei riti
abitudinari, che fanno oramai parte delle mie giornate, è quello di camminare fino
a raggiungere, con i miei sandali lisi, la spiaggia, posta al confine tra il deserto ed il
mare. Qui, scrutando l’infinita massa d’acqua che mi si para d’avanti allo sguardo,
mi ritorna costantemente in mente, quando il mare infrangendosi con le sue onde
sulla spiaggia pare chiacchierare con gli scogli, ancora, come una litania, quella
nenia: Ricordare, di una vita trascorsa in fretta, e adesso piango.
Il radiotelegrafista di bordo Orazio De Maria, autore del racconto “La luna e la falce”
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Il porto di Riposto e il suo Faro
Il bacino di destra (Amministrazione privata) in piena
attività, il bacino di sinistra (pubblico) da tempo in
attesa di collaudo
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Idamo Rossi
POESIE DEL MARE
NOSTROMO
Due volte
mi chiamasti
ed io salii,
l’inferno ebbi davanti,
mi gettai nell’acqua
verso la vita,
dietro di me,
la morte,
ironia,
con le sue fiamme
correva sul mare.
La tua voce
mi salvò,
seppi di te
che salvo
non fosti.
Nostromo,
ti devo la vita
ed io non ricordo
nemmeno il tuo nome.
Naufragio m/c. Punta Ala - Augusta
04.08.1971
M/n. Jolly Verde Atlantico 05.09.1977
PETROLIO
Sul mare del Nord
dove i cicloni
stanchi dell’oceano
vengono a morire,
dove le onde
non hanno mai pace,
dove il giorno
cede ore alla notte,
uomini
saccheggiano agli abissi
il loro tiranno.
Mdv Capalonga Mar del Nord
30.01.1978
AVARIA
Fermi
sull’Adriatico,
una livella
è il mare
dalla luna piena
illuminato.
Un attimo di pausa,
Stecchetti
mi sei venuto
in mente.
“... Taci lassù c’è Lissa...”
M/c Altari - Adriatico 20.08.1997
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
L’IMBARCO DEL MARINAIO
Stamani all’aeroporto
ti ho vista come
il sole sparire,
prima il tuo corpo
al fine il tuo viso,
la scala mobile
ti toglieva
alla mia vista.
Come raggi
solari all’orizzonte
ho visto per ultimo
i tuoi capelli ancora neri.
Domani, il sole
ancora sorgerà,
ma io sarò
così lontano.
Volo Parigi - Città del Messico 18.10.2000
Il Direttore di macchina Idamo Rossi riceve il suo Premio
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Francesco Castorina
IL LAVATIVO
«Barra dieci a sinistra!». Mi sorpresi io per primo del tono aspro della mia voce, quasi
risentito. La stessa impressione dovette averla il timoniere che mi guardò perplesso.
Pigramente, come un lento, enorme animale preistorico, la gigantesca petroliera
cominciò a muoversi nell’ampia curva dell’accostata che ci avrebbe portato sulla
rotta stabilita.
Osservai la corsa veloce dei gradi sulla girobussola. «Scontra!». Tornai di nuovo
a guardare la girobussola. «Alla via così!».
Una manovra perfetta, senza il minimo accenno di vibrazioni allo scafo. Lanciai
uno sguardo dalla vetrata di poppa alle luci di terra che continuavano ad allontanarsi.
Ci stavamo lasciando alle spalle il canale della Florida, destinazione Rotterdam.
Dissi all’allievo di tenere bene d’occhio le luci al mascone di sinistra e passai
in sala nautica.
«Come va?». Il terzo ufficiale, Giuseppe Gasperini da Termoli, rialzò gli occhi
dalla carta sulla quale stava tracciando le rotte del viaggio con un sorriso.
«Direi bene chief, ho rifatto il calcolo delle coordinate dei vertici. Conferma il
primo; adesso sto provando a tracciare le spezzate».
«Quanto si risparmia rispetto alla rotta lossodromica?» Il terzo ufficiale ci pensò
su un attimo. «A mio parere non più di 200 miglia; ma… ho anche consultato
l’atlante delle tempeste e c’è un buon quaranta per cento di possibilità di beccarne
qualcuna alle latitudini alte. Del resto siamo ancora in primavera». «Ne hai parlato
con il comandante?».
Il terzo ufficiale abbassò gli occhi imbarazzato. «Beh… si…, certo…». «…e
cosa ne pensa?».
Gasperini mi guardò dritto negli occhi; «Ha detto che bisogna fare come ha deciso
lui… si va per ortodromia».
Annuii. «Beh Giuseppe, sono quasi le diciannove, vai a cena e avverti il cameriere
che io stasera non mangio. Ho solo una gran voglia di dormire un po’».
«E io? Quando vado a mangiare io?». La voce fintamente supplichevole
nell’ironica cadenza toscana apparteneva all’allievo di coperta Silvano Filippi, un
simpaticissimo ed arguto livornese non ancora ventenne.
«Infingardo di un cadetto, non sai che dovresti dividere tutti i momenti della tua
inutile vita con il tuo Primo Ufficiale? Non hai ancora imparato che ho patente di
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vita e di morte su di te?».
«Lo so chief, lo so… ma se per caso decidesse di farmi morire questa sera, non
sarebbe meglio che lasciassi questo mondo crudele con la pancia piena?».
Scoppiammo tutti a ridere, quel giovanissimo ribaldo oltre che la risposta pronta
aveva anche il dono della simpatia e non di rado le sue battute folgoranti servivano
a rasserenare gli altri.
Forse si è già capito, era nelle mie grazie, mi piacciono le persone pronte ed
educatamente spiritose. Per questo alle volte facevo in modo di solleticare le sue
risposte, sapendo bene che non si sarebbe mai preso la libertà di imporre una battuta
per primo.
«Vai, vai anche tu, lasciate che a lavorare sia sempre questo povero vecchio…».
I due scomparvero in un battibaleno. Tornai in timoneria e vidi che le luci a sinistra erano
già scadute a poppavia del traverso. Diedi loro una svogliata occhiata. “Pescherecci.”
Nonostante avessimo il radar acceso e fossimo già dotati di GPS, presi alcuni
rilevamenti della costa con il traguardo azimutale (potenza della tradizione!), poi
inserito il pilota automatico uscii sull’aletta di dritta.
Aspirai con voluttà l’aria fresca e salmastra della sera e alzai gli occhi al cielo.
Quale magnificenza! Restai per parecchi minuti a contemplare lo spettacolo di
un cielo stellato del quale è difficile usualmente godere.
Il cielo limpido e pulito faceva sì che la volta celeste sembrasse molto più vicina
ed è facile in momenti simili sentirsi rapiti e perché no dolcemente intimoriti, colpiti
da sensazioni d’immenso. Quando si parla di Dio, si dovrebbe farlo sotto un cielo
così e forse molte cose diverrebbero più facili da capire.
“Che cosa siamo noi? Piccoli esseri imperfetti, vittime di un disegno troppo
grande, oppressi dalla nostra stessa vita. Già…la vita, una battaglia che non si può
vincere, una lotta continua contro le povertà, contro le infermità, una battaglia con
un solo esito, la condanna ad una morte spesso orribile... e di contro l’incredibile
stupidità con cui si spreca ogni piccola occasione di felicità, per vanità, invidia,
gelosia, per falso senso dell’onore, per concetti falsamente razionali... La vita…un
continuo inseguimento verso il nulla. Un inseguimento eterno, parallelo a quello di
un minuscolo granello di polvere che continua ad inseguire una piccola stella nel
cosmo. Le due cose insieme, nel mistero profondo ed irrisolvibile dell’universo.”
«Buonasera chief». La voce del terzo ufficiale mi distolse di colpo dalle mie
meste riflessioni.
«Già di ritorno?». «Sono già le venti chief…».
«Ah…sono così stanco da non essermene reso conto». Arrivò anche Filippi.
Discutemmo così per qualche minuto ancora di ortodromia, del teorema di
Eulero e della regola mnemonica di Nepero. Colsi anche l’occasione per intimare a
Filippi di mostrarmi l’indomani il suo quaderno nautico che supponevo non avesse
aggiornato da giorni e per ricordargli che già dalla sera ventura avremmo ripreso
le osservazioni astronomiche (Va bene il GPS ma se si guasta?).
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Il lavativo
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Poi salutai tutti, lasciando in ambasce il povero Filippi che sicuramente quella
sera avrebbe avuto qualche motivo di apprensione.
Tenevo molto a quella squadra di ottimi ufficiali, completata dal secondo, Flavio
Sinni, un marchigiano affabile, affidabile e particolarmente capace.
Tutti giovanissimi e il vecchio che ero io non aveva ancora compiuto trent’anni.
Anche questo credo avesse contribuito a fare della “Sicilia” una nave felice. Almeno
fino a un paio di mesi prima, quando c’era stato il cambio di comandante.
È veramente singolare come il cambio di una sola persona possa condizionare così
profondamente l’umore di un intero equipaggio sino a influenzarne i comportamenti
e le relazioni sociali.
Ma questo era quello che era avvenuto. Sin dal primo momento i rapporti erano
stati difficili. Improvvisamente nulla più andava bene, gli ufficiali (tutti) erano
divenuti degli “ignoranti esistenziali”; l’equipaggio un “covo di lavativi”.
Tutti i miei tentativi per riportare la situazione a un tasso di normalità accettabile
erano falliti. Di conseguenza ognuno a bordo aveva iniziato a ritrarsi in se stesso. Ci
furono alcuni alterchi nel quadrato in seguito ad arronzate dirette dal comandante
agli ufficiali e anche un paio di episodi di piccineria tanto miserabili da non valere
la pena di rievocarli.
Non che io voglia addossare tutte le colpe di quello che accadde al comandante,
ma spesso, troppo spesso la portata delle sue reazioni anche di fronte ad episodi
di minima o discutibile negligenza fu incredibilmente esagerata. Altre volte le
sue accuse furono totalmente immotivate e questo io per primo non lo accettai.
Le ragioni di quel comportamento? Non voglio ergermi a giudice di alcuno ma
rimane forte la mia convinzione che un uomo debba evitare di cercare la sua forza
d’animo in una bottiglia.
Entrai in cabina e… mi sentii di colpo infinitamente solo.
Su di una nave i rapporti sociali hanno una valenza diversa che sulla terraferma.
Sono improntati ad una disciplina rigida, al rispetto per il grado e a quello
interpersonale.
In una nave però ognuno è solo; il suo unico compagno è se stesso.
Tutti i marinai conoscono questa regola e la rispettano.
Certo si lavora, si parla, si scherza, qualche volta si gioca ma quando si rientra
nella propria cabina si è soli, irrimediabilmente soli; e responsabili di se stessi.
Non è da vedere come un male assoluto però. Rimanere soli con se stessi serve.
Fortifica, insegna a leggere dentro, può far scoprire cose spiacevoli ma può portare
a volte a rintracciare in se stessi aspetti positivi come ad esempio quella vena di
malinconica filosofia esistenziale, così comune in tanti uomini di mare. Mi buttai
sulla cuccetta a peso morto, pensando che non sarei riuscito a prendere sonno, tanto
era il nervosismo che mi opprimeva sin da quando avevamo lasciato il porto di
caricazione. Una caricazione indubbiamente difficile, in boa foranea a Coatzacoalcos
e praticamente in mare aperto. Un mare lungo che impediva la lettura corretta dei
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pescaggi e le sonde delle cisterne che scavallavano di due piedi. Una caricazione
condotta in punta di naso, con l’occhio attento a ogni minimo riferimento che avrebbe
potuto essere d’aiuto. Con il pensiero fisso di terminare al pescaggio appropriato
per arrivare a Rotterdam alla giusta “marca”. E quando dopo due giorni di attesa
dei documenti del carico c’eravamo ritrovati in un mare liscio di un blu delicato
ed uniforme, avevo potuto appurare che avevamo imbarcato appena 60 tonnellate
in meno (su 249.800), il comandante mi aveva rivolto l’osservazione “che avevo
commesso un grosso errore” e “che avevo danneggiato la compagnia”.
Sotto lo sguardo incredulo degli ufficiali presenti e del pilota messicano avevo
sentito l’osservazione crescere di tono sino a trasformarsi in un aspro rimprovero.
Avevo dovuto far ricorso a tutta la mia calma e forza d’animo per replicare con un
educato “Comandante, lei è profondamente ingiusto. In quelle condizioni non si
sarebbe potuto far di meglio”. Le escandescenze però continuarono sino ad arrivare
al punto di richiedere al pilota messicano di riormeggiare la nave per “completare
la caricazione”. Un “usted està loco” chiuse la faccenda ma rimase in tutti noi una
grande amarezza ed una viva preoccupazione per quel comportamento.
Sul prendere sonno mi ero sbagliato. Pian piano le correnti di marea abbandonarono
il mio corpo, lasciando il posto ad una calma piatta e il sonno arrivò puntuale
scomponendo i miei ultimi pensieri. Sonno! Sonno profondo, ristoratore, al quale
mi abbandonai totalmente.
«Chief, chief… si svegli, per favore si svegli». Le parole faticarono a penetrare
la spessa coltre di nebbia che mi ottundeva il cervello. Poi avvertii una mano
ferma che mi scuoteva delicatamente la spalla. Pian piano riemersi dal vortice buio
dell’incoscienza.
«Giuseppe, cosa fai qui? Cos’è successo? Che ore sono?».
«È la mezza chief e Cacciatori sta male». «Oh no! Ancora quel rompicoglioni!».
Cacciatori era un marinaio di mezz’età, piccolo, magro ed abbastanza abile, una
persona a modo tutto sommato, se non fosse per il fatto che ogni giorno accusava
un malessere nuovo e quasi sempre dai sintomi sconosciuti. Mi ero fatto l’opinione
che fosse un ipocondriaco ma i fatti successivi mi avrebbero dato torto. Indossai
comunque in fretta i pantaloncini e la camicia cachi.
«Che diavolo di malessere accusa adesso?». Chiesi scendendo le scale.
Il terzo ufficiale mi guardò dritto negli occhi. «Ha dei forti dolori al petto; credo
che stavolta sia una cosa seria. Gli ho dato un po’ di Micoren alle ventitré».
«Avete avvisato il comandante?». Il terzo ufficiale annuì. «Ci ha detto di dargli un
sedativo e di non chiamarlo per sciocchezze di questo tipo. È stato veramente difficile
svegliarlo. Non rispondeva al telefono e s’era chiuso a chiave. Sinni ha mezzo sfondata
la porta a furia di battere». Accennò ad un sorriso ironico. «Mi è parso…».
Lanciai uno sguardo severo a Gasperini. «Giuseppe…».
Il terzo ufficiale arrossì violentemente. Mi conosceva bene. Sapeva che nemmeno
in presenza di indegnità di quel tipo avrei mai incoraggiato comportamenti o azioni
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che non fossero legali, volte a diminuire l’autorità del Comandante.
Cacciatori stava veramente male. Nella piccola cabina s’era radunata una folla
che sbrigativamente invitai a sgomberare. «Gli state togliendo l’aria, non c’è nulla
di cui preoccuparsi, tornate a dormire». Chiesi però di restare al nostromo. Un uomo
accorto, misurato e intelligente di cui avevo profonda stima.
«È un attacco di cuore», disse il nostromo. Gli feci cenno di tacere ed assentii
con la testa.
«Cosimo mi senti? Riesci a parlare?». Cacciatori annuì muovendo debolmente
la testa. «Puoi dirmi cosa ti senti?».
«Ho… il petto come… come schiacciato da un masso… non riesco a… respirare…
do… dolori… ah… fortissimi…». Vidi che il volto gli si deformava in un’atroce
smorfia di sofferenza, poi svenne.
«Presto, non c’è un momento da perdere, deve essere una forma di angina o
qualcosa di peggio, dobbiamo sedarlo o il dolore lo ucciderà. Gasperini vai a
prendere la morfina e non dimenticarti l’annotazione sul registro degli stupefacenti.
Nostromo accompagnatelo e portate giù pure una bombola d’ossigeno».
Usai il telefono del corridoio per chiamare il ponte: «Sinni, la situazione è grave,
sveglia il marconista ed avvisa il comandante che torniamo indietro, mandami giù
una ricetrasmittente con il marinaio di guardia e tieni l’altra con te, accesa».
«Chief... prima accosto e dopo avverto il comandante o accosto dopo averlo
chiamato?».
Capii subito cosa intendeva dirmi il secondo ufficiale. «Accosta Sinni, è un ordine.
Accosta e poi avverti il comandante. Digli che ho dato io l’ordine. Ma accosta piano
e poi tranquillamente quando sei sulla rotta opposta chiama il comandante». «Roger
chief, inizio subito ad accostare».
Il marconista arrivò pochi attimi dopo, portando lui la ricetrasmittente. «L’ho provata
io, tutto bene e so tutto, ero ancora sveglio». «Bene Pino, cosa dici di fare?».
«Mi metto subito in contatto con il CIRM e cerco di contattare anche la Coast
Guard». «Bene e fammi un favore, dì a Sinni di lanciare una richiesta d’aiuto per
VHF, potrebbero esserci navi con un dottore a bordo nelle vicinanze».
Il marconista sorrise: «Lo sta già facendo, è in gamba quel ragazzo».
Ora locale 1:55. Cacciatori rinvenne mentre gli somministravamo la morfina per
via intramuscolare.
Il secondo ufficiale mi informò che il marconista era entrato in contatto con il
CIRM e che nessuna nave aveva sinora risposto al suo appello.
«Continua… ogni 5 minuti lancia l’appello. Hai avvisato il comandante?».
Silenzio imbarazzato. «Allora Sinni, l’hai avvisato o no?».
«Positivo, chief, l’ho avvisato; ha detto di fare come ci pare…».
«Bene e così faremo! Come ci pare e anche come va fatto! Mi raccomando riporta
sul brogliaccio tutto e segna il punto sulla carta ogni volta che ti è possibile».
Il nostromo arrivò con un bricco di caffè fumante, riempì alcuni bicchierini di
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carta e me ne offrì uno. Mi portai alle labbra la corroborante bevanda gustandone
ogni goccia con senso di vero godimento.
Il terzo ufficiale, con molta delicatezza, provava intanto a far deglutire qualche sorso
d’acqua a Cacciatori che continuava a lamentarsi con frequenza sempre uguale.
Ora locale 2:35 la ricetrasmittente gracchiò. «Chief, sono entrato in contatto
con una nave russa, la Soviet… qualcosa…, hanno il medico a bordo ed anche un
ospedale… sono pronti a dirigere verso di noi ma il loro comandante vuole prima
parlare con il nostro…».
«Ho capito Sinni, arrivo subito».
Feci di volata i quattro piani di scale, evitando l’ascensore, “non si sa mai che si
blocchi proprio ora” ed arrivai sul ponte in debito d’ossigeno “Debbo dimagrire,
dannazione, sto ingrassando troppo.”
Sinni stava parlando con il comandante russo, mi cedette subito la cornetta.
«This is italian ship “Sicilia”, bound to Rotterdam, master speaking. We need
medical assistance, urgently».
La voce calma e rassicurante del comandante russo ci informò che stavano
dirigendo verso di noi a tutta forza. Ambedue ci rendemmo immediatamente
conto che il punto di rendez-vous sarebbe stato raggiunto al più presto in due ore.
Ci scambiammo comunque tutte le informazioni necessarie e convenimmo come
operare quando ci fossimo trovati in vista. Gli ufficiali di guardia si sarebbero
scambiati le rispettive posizioni ogni dieci minuti.
Comunicai al comandante russo che stavamo provando a contattare anche la Coast
Guard e che eravamo già in contatto con il CIRM. Poi egli mi passò il medico cui
feci una breve relazione sullo stato clinico di Cacciatori.
Il dottore confermò che potesse trattarsi di un attacco di cuore e ci chiese se
avevamo a bordo una certa medicina.
La ricognizione in infermeria fu vana, non avevamo quel farmaco. Sentii un senso di
impotenza che mi pervadeva mentre ascoltavo le successive istruzioni del medico.
Le 3:00; tornai nella cabina di Cacciatori con un senso d’oppressione sul cuore.
Il volto ormai grigio dell’uomo, le labbra esangui e il suo flebile ma continuo grido
di sofferenza mi indussero alle più scure previsioni.
D’improvviso avvertii sinistra la presenza della Nera Signora. Arrivò il marconista. «Ho
le istruzioni del CIRM… dicono che dobbiamo iniettargli una dose di morfina per endovena
se vogliamo calmargli un po’ i dolori. Se non lo facciamo, rischiamo di perderlo».
Lo fissai con gli occhi sbarrati, quasi spaventato. «Un’endovenosa… ma chi…
chi è in grado di praticarla a bordo?». Vidi gli occhi dei presenti abbassarsi.
Ripetei la domanda; «C’è qualcuno a bordo in grado di fare un’iniezione per
endovena?».
Rispose il terzo ufficiale; «Non c’è alcuno con il patentino da infermiere…».
Mi resi conto in piena evidenza che rischiavamo di perdere un uomo perché a
bordo non c’era chi potesse praticare professionalmente un’endovena.
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Il lavativo
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La mia voce mi risultò estranea, quasi impersonale. «Bene, la faccio io. Giuseppe
va a prendere l’occorrente… e sveglia Filippi. Dopo va a dormire un po’».
Il terzo mi guardò; «Chief, non potrei prendere sonno…».
«Giuseppe, ti capisco, comunque il servizio è il servizio, non possiamo
rincoglionirci tutti insieme, le guardie bisognerà coprirle anche domani». Annuì e
lasciò di malavoglia la cabina.
L’allievo Filippi arrivò dopo cinque minuti, l’aria perfettamente sveglia e in mano
l’occorrente per l’endovenosa. Il cuore cominciò a battermi forte. Feci appello a
tutte le reminiscenze sull’argomento che avevano preso a vagare in forma caotica
nella mia mente. Mi sforzai di ricordare il brevissimo addestramento che avevo
ricevuto da allievo ai tempi della Esso e soprattutto cercai di calmarmi.
“Devi provarci, devi! La morte se lo sta già portando via. Tu puoi salvarlo, devi!”
Guardai l’orologio, le 3:48, i minuti sembravano correre ancora più veloci verso
un inesorabile appuntamento.
Scacciai quel pensiero dalla mia mente; “È tempo di agire!”, mi dissi.
Cacciatori era nuovamente svenuto, gli auscultai il petto. Il cuore aveva un ritmo
strano, irregolare.
Gli misurai i battiti: quarantadue.
“Debbo far presto!” “Debbo far presto!”.
Fissai un’ultima volta quel volto esangue, poi afferrai il braccio sinistro e lo strinsi
con il laccio emostatico. “Mio Dio… aiutami, fa che ci riesca”.
Come mi è capitato alcune altre volte in vita mia, di fronte a situazioni difficili,
recuperai per intero la calma e i miei nervi divennero di ghiaccio. Lentamente
approssimai l’ago alla vena. La vedevo come sotto una lente d’ingrandimento!
Grande e turgida. Non potevo sbagliare! Infilai l’ago e con leggerissima pressione
premetti con il pollice sul pistoncino della siringa.
“Vita, vita, vita! Fluisci o vita!”.
Erano versi di chi non so quale poeta ma evocate dalla mia mente, salirono rapide
alle labbra e in quel mormorio indistinto terminai l’opera.
Non so cosa avessero capito delle mie parole gli altri, ma vidi che qualcuno si
segnava.
Mi sentii infinitamente sollevato. Se per Cacciatori c’era ancora una possibilità,
essa permaneva intatta. Uscii all’aperto aprendo la porta stagna. La fresca, frizzante,
benefica aria della notte mi venne incontro. Respirai profondamente una, due, tre
volte, riempiendomi i polmoni e beandomi del gusto salino che la permeava.
La ricetrasmittente gracchiò ancora una volta «Chief, chief, il marconista è in
contatto con la Coast Guard, in stazione radio immediatamente prego».
Arrivai in stazione radio ancora una volta con il respiro corto. Immediatamente il
marconista mi mise al corrente della situazione. La Coast Guard aveva risposto ai
nostri appelli, adesso stava identificandoci. Da quel momento in poi gli accadimenti
assunsero un ritmo incalzante.
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La Coast Guard ci fornì le coordinate di un nuovo punto di rendez-vous, una nave
guardacoste ci fu inviata incontro.
Ci fu chiesto se avessimo una pista per atterraggio di elicotteri e quando
rispondemmo di sì, ci fu detto di prepararla.
Feci chiamare il posto di manovra e diedi “l’attenzione in macchina”.
Dopo dieci minuti il primo macchinista mi informò che la macchina era pronta
alla manovra.
Accendemmo i riflettori, mentre gli estintori venivano preparati vicino alla pista
d’atteraggio e la tubazione antincendio veniva messa in pressione.
Chiamammo ancora una volta la nave russa e spiegammo loro che l’operazione di
soccorso era passata in mano alla Coast Guard. Il comandante ci informò di avere
già ricevuto istruzioni dagli americani di restare in zona in panna, sino all’arrivo
dell’elicottero sulla nostra nave.
Le cinque e il sole che emerge dall’oceano con dignità imperiale; i suoi primi
raggi irradiano le lamiere della nave in un breve fulgore gioioso e poi accarezzano
i nostri volti come a recarci conforto.
«L’ho vista, eccola!». L’urlo di Filippi interruppe l’innaturale quiete.
«Filippi, calma!». «Ehm… chiedo scusa signore. Volevo dire nave in avvicinamento
controcorsa, cinque a sinistra».
Puntai il cannocchiale. Un piccolo puntolino grigio all’orizzonte che ad ogni battito
di polso si ingrandiva sempre di più. Senza dubbio una vedetta della Coast Guard.
Anticipando la mia domanda, Sinni esclamò: «Distanza otto miglia punto tre».
«Mezza forza!».
«Mezza forza!». Ripeté Filippi e il trillo del telegrafo di macchina mi sembrò
musicale e meraviglioso.
«Avanti adagio!». «Avanti adagio!». Anche stavolta l’allievo aveva urlato ma
non lo rimbrottai. Capii subito il motivo di tanta eccitazione; dritto di prora i suoi
occhi acuti avevano già intravisto l’elicottero.
Presto esso entrò anche nel mio campo visivo. «Sinni! Tra un paio di minuti ferma
la macchina e poi segui le istruzioni che ti darà la Coast Guard, mantieni il governo
e usa solo poca macchina avanti. Io scendo in coperta. Se hai difficoltà chiamami
con il walkie-talkie e manda il marinaio ad issare le bandiere».
«Macchina ferma tra due minuti, seguire istruzioni della Coast Guard e solo dead
slow ahead per mantenere il governo della barchetta!».
«Sinni, parola mia, tu farai carriera…».
Feci portare Cacciatori in coperta sulla barella metallica, pronta ad essere
agganciata.
Ora aveva il volto disteso ma ogni tanto i muscoli del viso gli si contraevano sotto
l’effetto degli spasmi. Nonostante le buone condizioni meteorologiche la gigantesca
libellula d’acciaio (un Chinook ?), non tentò l’appontaggio. Rimase sospesa sulla
pista mulinando le grandi eliche.
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Il lavativo
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Poi si aprì un portello e lentamente una figura umana appropriatamente imbragata
fu filata con attenta circospezione verso il ponte di coperta.
La targhetta recitava “dr. J.A. Gomez”. Il simpatico, alto e occhialuto dottore mi
strinse la mano.
Mi chiese quali fossero i sintomi e quali farmaci avessimo somministrato al malato.
Gli notificai il mio grado, poi gli passai un biglietto sul quale avevo annotato
i farmaci dispensati e la posologia. Brevemente lo misi al corrente dei sintomi.
Avvicinatosi alla barella visitò per lunghi minuti il paziente e poi mi disse: «lo
portiamo con noi».
Dopo aver colloquiato brevemente con l’elicottero ci fece segno di portare la
barella al centro della pista. Dall’elicottero venne filato un cavo d’acciaio con un
gancio di sicurezza all’estremità.
Il nostromo agganciò con cura, poi guardando verso l’elicottero, roteando l’indice
fece segno di virare. La barella si alzò piano piano e guidata dai nostri marinai con
le cime di ritegno, scomparve nelle viscere del mostruoso insetto metallico.
Fu poi la volta del dottore.
Venne imbragato con la massima cura. Prima di lasciarci ci stringemmo
nuovamente la mano.
«Siete stati bravi», mi disse. Lo fissai per un attimo; «Will he live, doctor?».
«May be, chief, may be…».
Scomparve presto anch’egli e con un agile dietrofront l’elicottero fece rotta
verso terra.
Immediatamente seguito dalla vedetta della Coast Guard che per tutta la durata
dell’operazione aveva stazionato a circa un quarto di miglio di distanza dalla nostra nave.
L’elicottero sparì quasi subito alla nostra vista, lasciandoci leggermente attoniti.
Né il successo dell’operazione aveva risollevato del tutto il nostro spirito, lasciandoci
addosso una strana forma di cupa malinconia.
Però… però era anche bello pensare che non fossimo stati lasciati soli, che altri uomini
si erano impegnati a fondo perché una vita umana non andasse perduta in mare.
Provai un empito di riconoscenza per l’efficientissima Coast Guard, per il
comandante russo e per il medico che dal CIRM ci aveva così ben guidato in
frangenti difficilissimi.
Via VHF la Coast Guard ci comunicò che potevamo riprendere la nostra rotta e
Sinni me ne diede notizia via radio.
Erano le cinque e quarantacinque. Ero ancora in coperta e rabbrividii. Solo allora
mi resi conto; per tutto quel tempo ero rimasto solo con i pantaloncini e la camiciola
di cotone addosso.
Il nostromo mi venne incontro sorridendo, «È ora di andare a fare colazione». Poi
stringendomi la mano aggiunse: «Grazie chief… in nome di tutti, grazie…».
EPILOGO
Il marinaio Cacciatori ebbe salva la vita. L’elicottero lo sbarcò a Miami, da lì
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con un aereo venne portato a Houston dove fu operato al cuore. L’operazione andò
bene e lui si rimise prontamente. Così prontamente, che secondo “Radio Poppa”,
ascoltata negli anni a venire, in convalescenza avrebbe pure fatto cedere alle sue
voglie un’infermiera americana.
Sinni ha fatto veramente carriera. Come Gasperini e Filippi del resto, ma per
tutti e tre la loro vita successiva ha avuto corso lontano dal mare. Nonostante siano
diventati delle persone importanti, ogni tanto si ricordano di me ed è un privilegio
ricevere le loro telefonate e qualche volta le loro visite, specie ora che i miei capelli
sono diventati radi e grigi e che sempre più spesso mi sorprendo a ricordare con
nostalgia lontani episodi della mia gioventù sul mare.
Il marconista Pino Mori ha chiuso anni fa la sua carriera marittima e con un po’
di dispiacere nel rendersi conto che i radiotelegrafisti sono ormai una razza estinta,
si gode la sua meritata pensione in una bella casa alle Cinque Terre.
Quanto a me conclusi a Genova quel non felice imbarco, afflitto da una dolorosa
colica renale, avendo comunque ampiamente terminato il periodo contrattuale.
Non riuscendo però la compagnia a trovare un rimpiazzo, rimasi comunque a bordo
sino al completamento della discarica e lasciai la nave solo dopo averla zavorrata.
Nonostante ciò il Comandante non ebbe pudore di riportare un “lavativo” nelle
mie note caratteristiche, che ebbi aggio di consultare anni dopo. Naturalmente,
nessuno gli prestò credito…
Il Presidente della Giuria consegna il Premio al Cap.l.c. Francesco Castorina
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Giovanni Pagano
CHERNOBYL
I
l mio primo viaggio nella ex Unione Sovietica risale al 1959 quando con una
vecchia petroliera denominata Fransèscu dell’armatore genovese Pittaluga giunsi
nel porto petrolifero di Batumi, nella Repubblica Socialista Sovietica di Georgia.
Il comandante era un camoglino di vecchio stampo che aveva navigato anche con i
bastimenti a vela; il suo nome era prettamente ligure, si chiamava Lorenzo Oneto.
Il porto di Batumi è incastrato in fondo al Mar Nero sotto le montagne del
Caucaso, proprio ai confini della Turchia. Prima di entrare in porto siamo stati in
rada per ben quattro giorni e la prima cosa che mi colpì, e mi sembrò un po’ strana,
erano dei potenti riflettori piazzati a terra che con potenti fasci di luce tenevano
sotto controllo la nave illuminandola a pieno giorno; ne avevo sentito parlare sin
da ragazzo che in URSS era tutto sotto controllo, ma una cosa simile non l’avevo
mai immaginata.
Io che ero cresciuto all’ombra dell’Azione Cattolica ricoprendo anche la carica
di Delegato Aspiranti, ho avuto un attimo di esitazione pensando che forse ero
prevenuto nei confronti dell’URSS. Mi vennero in mente tutte le battaglie elettorali
contro i comunisti del mio paese e le grandi discussioni fino a notte tarda nella
piazza del mio paese.
Dopo la morte di Stalin nel 1953 subentrò Nikita Krusciov e del vecchio regime
staliniano sembrava che qualcosa fosse cambiato (così almeno dicevano al mio
paese). Adesso mi trovavo a contatto con la realtà e devo dire obbiettivamente che
rispetto a quello che mi veniva raccontato molte cose non corrispondevano al vero.
L’ho potuto notare quando la nave fu portata all’ormeggio, dopo i rituali controlli
dei libretti di navigazione e la lista dell’equipaggio. I libretti venivano portati tutti
in saletta, ognuno di noi lo ritirava e se ne andava nella propria cabina, aspettando
la polizia che li ritirava ad uno ad uno, facendo un’ispezione alla cabina da cima
a fondo. Dicevo appunto sembrava che le cose fossero cambiate ma in fondo in
fondo non era cambiata un gran ché, solo che prima non veniva concesso di mettere
piede a terra, adesso si poteva andare in franchigia in città, consegnando il libretto
di navigazione al poliziotto alla scala, che ci rilasciava un pass già precompilato con
il nome ed il numero dell’equipaggio, pass che bisognava custodire gelosamente,
per un eventuale controllo in città. La franchigia era fino alle ore 22. Sembrava di
essere liberi di girare ma, in effetti, non era così. Ogni membro dell’equipaggio
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
aveva il suo angelo custode, agenti segreti del KGB (servizio di spionaggio)
sguinzagliati ad una certa distanza ci seguivano come ombre. La maggior parte
dell’equipaggio veniva instradato all’Interclub (corrispondente ai nostri Seamen’s
Club della Stella Maris) dove la direttrice e delle belle ragazze scelte dal partito
ci davano il benvenuto. Queste ragazze avevano il compito di farci compagnia
onde non poterci dare la possibilità di girare a zonzo per la città e poter curiosare
intorno. Dopo il benvenuto della direttrice, ci intrattenevano con dei balletti tipici
della Georgia e venivano proiettati dei documentari sulle meraviglie del popolo
sovietico e della sua terra, con tutte le realizzazioni del regime. Le ragazze non
erano altro che delle “entrenouses” autorizzate dal partito a riferire tutto ai servizi
segreti. Una di queste ragazze suonava divinamente il piano e ci faceva ascoltare
molte melodie napoletane. Il marconista, un bel giovane di Sorrento, si mise a
cantare e l’Interclub scoppiò in un fragoroso applauso. Svetlana, la suonatrice del
piano, rimase affascinata dalla voce di Antonio Jaccarino e rimase anche attratta e
fulminata dalla sua avvenenza giovanile e dall’eleganza. All’uscita dell’Interclub
schizzò fuori assieme alla ragazza, eludendo la sorveglianza della direttrice per fare
quattro passi nei giardinetti di fronte. Nell’affettuosa intimità vennero sorpresi dal
poliziotto del KGB che strattonò la ragazza per il braccio portandola via, mentre
il povero Antonio rimase interdetto come uno scemo. Arrivò un altro poliziotto e
lo condusse direttamente a bordo consegnandolo al Comandante, dicendo in una
stentata lingua inglese: «Refused». Durante tutta la sosta della nave in porto, rimase
consegnato a bordo non potendo vedere la sua bella Svetlana. Neanche la ragazza
fu vista più all’Interclub. Questo è stato il mio primo impatto in terra Sovietica.
Dopo ben 25 anni, nel 1983, mi è stata offerta l’opportunità di fare dei viaggi
fissi: Italia – Mar D’Azov.
Gli scambi commerciali fra URSS erano talmente cresciuti che il Ministero
del Commercio con l’estero stipulò un contratto di interscambio mettendo sulla
rotta Italia – Mar D’Azov ben dieci navi, cinque navi italiane: Lamone, Montone,
Rubicone, Beatrice e Pietro della COSIMAR con sede a Palermo e della Petrokan
S.p.A. di Ravenna e cinque navi dell’Azov Shipping Company, con sede a Zdanov
(oggi Mariupol, città di Maria).
Porti principali: Ravenna in Adriatico, Savona nel Tirreno. Porti di discarica
Berdiansk e Zdanov nel Mar D’Azov. Fu proprio nel 1983 che in Unione Sovietica
avvenne l’ascesa al potere di Mikhail Gorbaciov, portando una ventata nuova con
la sua Perestroika e la sua Glassnost (cambiamento e trasparenza).
Effettivamente molte cose rispetto al 1959 erano cambiate, non c’era più quella
stretta sorveglianza di una volta, le ragazze dell’Interclub accettavano il regalino
(la bottiglietta di profumo, le calze di nylon), le era concesso di fare la passeggiata
nel parco assieme alle persone dell’equipaggio. Come a Batumi nel 1959, anche
qui le ragazze venivano selezionate e provenivano dall’Istituto Pedagogico
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Chernobyl
Giovanni Pagano
“Valentina Ossipenko” (celebre eroina dell’ultimo conflitto mondiale) di Berdiansk
e dall’Istituto Gregory Corban di Zdanov. Però, sebbene la corda fosse allentata,
ogni venerdì pomeriggio la Direttrice dell’Interclub e le ragazze si riunivano e
venivano interrogate una per una dall’agente del KGB per sapere cosa avevano
ricevuto in regalo dal marittimo che frequentavano, dove erano state in giro, che
discorsi si facevano, insomma volevano sapere tutto, anche le cose più intime. Se
qualcuna mentiva, loro lo sapevano, poiché le ragazze erano spiate da altre ragazze
che magari erano spiate dalle ragazze spiate. Fra loro non sapevano quale era la
ragazza che la teneva d’occhio, tutte si spiavano a loro insaputa. Facendo dei viaggi
fissi, dai oggi, dai domani, si prende una certa confidenza ed io in tre anni sulla
stessa linea di confidenza ne avevo acquisita abbastanza. Mi conoscevano tutti, dai
doganieri ai poliziotti, dai portuali all’agente marittimo, insomma sia a Berdiansk
che a Zdanov ero di casa.
Avevo libertà di portare fuori tutto, cosa che ad alti non era permesso, ero
diventato un personaggio. Sul giornale locale “Rabboccinii Gaziette” (la gazzetta
dei lavoratori) scrissi un articolo ove ho tessuto l’elogio al nuovo capo del Cremlino
Mikhail Gorbaciov, articolo che mi venne pagato con 20 rubli, rubli che spesi
all’Interclub, offrendo da bere a tutti quanti. Un giorno il Dottor Manlio Crilli,
amministratore delegato della Petrokan S.p.A., dopo una riunione con i dirigenti
dell’Azov Shipping Line, si presentò dietro i cancelli del porto di Bardiansk per
venire a bordo. Al varco non lo fecero passare. Andai io a parlare con i doganieri,
spiegando che era l’armatore e così poté venire a bordo.
Un mattino del mese di maggio del 1986, erano circa tre anni che frequentavo
l’Ucraina, era una bella giornata di sole, le tortorelle, svolazzavano sulle betulle
dei viali di Berdiansk, le rosse amarene pendevano fuori dai cortili delle strade
assieme ai salici piangenti.
La primavera è bella anche in Ucraina! In un angolo dei giardinetti vidi i ciuffi di
“ruca” che crescevano rigogliosi ed erano teneri e di un colore verde scuro. Come
tutti sanno la “ruca” non è altro che la famosa “Ruchetta” che cresce negli anfratti
del Foro Romano al Palatino, ed i romani ne vanno matti per mangiarla all’insalata.
Ebbi subito l’idea di farne un bel fascetto e portarla a bordo, a mezzogiorno potevo
condirla assieme ai pomodori all’insalata. Tranquillo tornavo a bordo gingillando,
quando il militare che stava di guardia allo scalandrone mi bloccò dicendo:
«Giovanni tu non puoi portare questa erba a bordo la nave». Pensavo che scherzasse,
invece diceva sul serio. «Ma perché non la posso portare a bordo?», dissi. «Devi
buttarla via», mi rispose con voce perentoria e, vedendo che io facevo finta di non
capire, me la strappò dalla mano e senza tante storie la buttò a terra e la calpestò con
i piedi. Ritornai a bordo un poco frastornato, raccontai l’accaduto al Comandante.
Poco dopo venne a bordo un Colonnello della polizia assieme all’agente marittimo
ed altri due militari. Si rivolse al Comandante della nave dicendo che volevano
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interrogarmi poiché avevo violato le leggi vigenti in Unione Sovietica, riguardando
l’illegittima esportazione di cose e materiali non consentiti.
Si rivolgevano all’agente marittimo per poi tradurlo in italiano. Ma Sasha
(Alessandro), che mi conosceva molto bene, rispose che potevano rivolgermi le
domande direttamente, poiché capivo perfettamente la lingua russa. Incominciò
così l’interrogatorio:
- Perché hai raccolto quell’erba nei giardinetti?
- In Italia quell’erba la usiamo come insalata.
- Dopo tanti anni che vieni in Ucraina ti sei accorto adesso che è un’erba che
si mangia?
- Altre volte non mi ero accorto di questa erba.
- Cosicché voi in Italia la mangiate?
- Certamente, è molto saporita con olio aceto e sale.
- Ma tu lo sai che è proibito raccogliere l’erba nei giardinetti?
- Non lo sapevo.
Mi fecero ancora un sacco di domande e, poiché eravamo con la nave in partenza,
fecero un controllo accurato nella mia cabina, non trovando nulla di strano.
Riferirono al Comandante che avrebbero preso una decisione se potevo o no tornare
il prossimo viaggio in Ucraina, dandone comunicazione direttamente all’armatore a
Ravenna. Poco dopo salpammo con destinazione Livorno per scaricare dei blocchi
di marmo. Appena fuori dal porto, il marconista tolse i sigilli alla radio e prese il
bollettino meteorologico, e poco dopo la stampa dell’ANSA. In porto la stazione
radio veniva sigillata e tutte le notizie arrivavano via terra, tramite agenzia. Fu
appena usciti dal porto che apprendemmo dall’ANSA che il giorno 26 di Aprile
1986 era avvenuto lo scoppio di un reattore della centrale nucleare di Chernobyl.
Eravamo del tutto ignari del disastro che era successo con conseguenze catastrofiche
nel raggio di 200 e passa chilometri.
A Bardiansk nessuno sapeva nulla della disgrazia, forse solo gli alti ranghi delle
autorità militari. Solo adesso riuscivo a capire il senso della loro visita a bordo,
pensavano che io fossi a conoscenza del disastro accaduto ed avevo raccolto la
“ruchetta” per farla esaminare per il controllo della radioattività. Quando arrivammo
a Livorno, ci misero in quarantena, vennero a bordo autorità militari e tecnici della
protezione civile con certe tute bianche che sembravano astronauti. Esaminarono
con degli strumenti ogni angolo della nave. Poi aprirono i boccaporti e scesero in
stiva per controllare la merce, il tutto risultò negativo, poteva iniziare la discarica.
A Ravenna non arrivò nessuna comunicazione quindi potevo regolarmente tornare
in Ucraina. Alla fine di giugno eravamo ormeggiati allo stesso molo del porto di
Bardiansk che avevamo lasciato un mese prima.
Dopo aver fatto la solita pratica d’arrivo con le autorità portuali, la sera verso le
ore 20 mi recai in franchigia. Prima di uscire dal varco bisognava passare da un
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Chernobyl
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“casotto” per il controllo della dogana, ormai erano più di tre anni che frequentavo
il porto ed i doganieri mi conoscevano molto bene. Quella sera c’era Dimitri, un
caro amico che ogni volta che mi vedeva le piaceva parlare di calcio, era tifoso
della Dinamo di Kiev. Quella sera invece un poco rabbuiato mi disse: «Giovanni
prima di uscire vai sopra la palazzina dove c’è una persona della polizia che ti
vuole parlare». Salii le scale con un sussulto al petto, battei alla porta, mi venne ad
aprire Nikolaj Romanenko, un poliziotto che io conoscevo, poiché stava sempre a
gironzolare all’Interclub e lo incontravo quasi sempre nel parco e nelle strade, era
sempre onnipresente dappertutto.
Con fare gentile mi fece accomodare ed incominciò a parlare: «Purtroppo caro
Giovanni ti devo comunicare che tu in Ucraina non potrai più mettere piede, sei
considerata persona indesiderata, hai commesso un reato grave che non si può
tollerare, il fatto di aver raccolto dell’erba ci ha insospettiti che tu possa essere
una spia del controspionaggio dei servizi segreti americani, ne è prova il fatto che
volevi portare l’erba in Italia per fare esaminare la radioattività, per propaganda
contro l’Unione Sovietica». Rimasi allibito nell’ascoltare le sue parole, mi resi
subito conto che ero entrato in un gioco perverso senza sapere nulla di ciò che lui mi
diceva e pensava. Comunque alla fine del discorso cercò di rassicurarmi, vedendo
anche il mio stato di forte agitazione e continuò a dire: «Ma io caro Giovanni ti
voglio aiutare, noi sappiamo che tu ci tieni molto a tornare a Bardiansk e a Zdanov,
sappiamo pure che hai un’amicizia con Irina Dimitrievina e ci tieni tanto a questa
amicizia, ne parlerò con il mio capo del KGB e vediamo se posso convincerlo a
cambiare opinione nei tuoi riguardi, ma tu devi aiutare anche me». Cacciò di tasca
la lista dell’equipaggio della Motonave Lamone incominciando a chiedere notizie
su tutti i componenti, in primis del Comandante della nave Nelio Gianmattei.
Non mi sbilanciai con nessuno, e poi come potevo parlare male del mio
Comandante, un vecchio lupo di mare, una persona veramente a posto sia
moralmente che professionalmente, aveva fatto il Comandante sugli aliscafi della
Caremar nel golfo di Napoli, prima di approdare alla Petrokan di Ravenna. Di
tutti parlai bene, descrivendoli come brave persone e che si trovano a bordo per
lavorare e mantenere dignitosamente le loro famiglie senza altri grilli per la testa
(di questo i miei amici dell’equipaggio non hanno saputo mai nulla perché non ne
parlai con nessuno).
Il viaggio seguente e dopo che la nave aveva sbrigato la pratica d’arrivo, il
rappresentante del partito Valery Krascininikov, membro del comitato centrale del
PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica), che aveva il compito di controllare
sia i doganieri che il personale dell’agenzia, mi chiamò da parte dicendomi che
quando uscivo per la franchigia di recarmi all’hotel Berdiansk dove c’era il solito
amico che mi aspettava, doveva comunicarmi delle cose importanti. Ormai ero
entrato in un circolo vizioso, in un ingranaggio perverso e non potevo rifiutare. Il
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
gioco si faceva sempre più duro e pressante. Andai all’appuntamento, nella sala
d’attesa dell’albergo c’era l’agente segreto Nikolaj che mi aspettava. Prendemmo
l’ascensore che ci portò al 6° piano, si aprì una porta e mi trovai al cospetto di un
alto ufficiale del KGB, che dandomi il benvenuto mi fece subito accomodare e,
senza tanti preamboli, mi fecero vedere delle carte geografiche e topografiche della
Sicilia, dell’Isola della Maddalena.
Volevano sapere quanti missili c’erano nella base missilistica di Comiso, se
effettivamente era vero che parte dei missili erano stati smantellati. Quanti rifugi
c’erano nell’isola di Spargi nell’arcipelago della Maddalena per i sommergibili
atomici americani. Mi chiesero della base aerea americana di Aviano. Alla fine
per concludere volevano sapere quali materie si studiano all’Accademia Navale di
Livorno e se potevo procurar loro dei libri di testo usati dagli Allievi Ufficiali.
Risposi con garbo ma con fermezza che io non sapevo nulla di tutto ciò,
sicuramente, ribattei, siete informati voi più di me. Queste sono cose che non mi
riguardano e non posso esservi di nessuno aiuto, io sono qui per lavorare e non per
fare la spia. Prima di congedarmi regalai una confezione di amaretto di Saronno
che avevo comprato a bordo che accettarono di cuore. Nel salutarmi mi dissero che
io in Ucraina ero sempre il benvenuto.
Ho continuato i viaggi per il Mar D’Azov per altri sette anni fino al 1994 senza
avere più nessun fastidio, anzi ero da tutti rispettato e ben voluto. Tutto questo
equivoco era nato dal sospetto che io potessi fare esaminare l’erba raccolta dopo
lo scoppio della centrale nucleare di Chernobyl.
La dott.ssa Betty Denaro e il prof. Orazio Licciardello consegnano il premio al Direttore di Macchina
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Felice Zanghì
CROCIERE DEL DUEMILA
P
refazione dello stesso autore.
In questo racconto, l’autore coglie gli spunti, partendo dalle situazioni
attuali, per parlare di storie della marineria dei tempi passati, come fatti di bordo
accaduti, realmente vissuti in prima persona, o riferiti da altri naviganti, e far notare
il grande progresso che c’è stato nell’ultimo Secolo, per grazia di Dio, sia delle
condizioni dei Marittimi che del benessere dei trasportati.
Ci siamo, grazie a Dio ci siamo: 30 settembre 2007, “Alea jacta est”. La decisione
rimandata per tanto tempo, finalmente è stata presa: partire per una piccola vacanza
su nave in crociera nel Mediterraneo.
Per quanto ad un Marittimo, quale io sono stato, possa sembrare paradossale dover
pagare per imbarcare, abituato ad essere pagato, e “bene”, per la stessa circostanza,
debbo tuttavia ammettere che andarci da turista è ben altra cosa. Inoltre, cerco di
assolvere, per quanto in debito con mia moglie che per tanto tempo ha atteso paziente
in casa, il compito di farle provare l’emozione di navigare in mare aperto.
Così, adesso siamo qui, nel porto di Civitavecchia, e la nave si staglia immensa,
alla vista, sullo sfondo del mare e lo chiude quasi tutto dietro la sua mole! Vi
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siamo già sotto, mentre il taxi avanza, ed avanza da prora verso poppa, per portarci
all’imbarcadero (barcarizzo)1, sono 315 metri di lunghezza: è un’impressionante
suggestione. Al confronto, mi ritorna in mente il mio primo imbarco sulla “Giorgio
Cini”, nave scuola a vela e motore, di appena 600 tonnellate di stazza, solo la
duecentesima parte di questa che ne vale 120 mila. Quella era un Bastimento, con
scafo in legno, un Barco Best, come nome originale, in quanto costruito in Spagna; in
Italia veniva chiamato Brigantino Goletta2, in virtù dell’armamento di alberi e vele.
Anche allora quella nave mi era sembrata piccolissima; ma in essa si avveravano
i miei sogni giovanili di avventura sul mare, proiettati su quelle vele ed intrecciati
a quei sartiami3. Allora l’imbarco fu semplicissimo: con una valigetta di fibra
marrone, in cui custodivo alcune magliette bianche con la scritta “Istituto Nautico
Caio Duilio”, oltre ai pochi capi di biancheria intima, fui ricevuto dal 2° Uff. di
bordo che mi diede il numero del Rancio4 e dello stipetto per gli indumenti.
Ora, superato un dedalo di transenne sul percorso per il terminal e le procedure
di controllo, veniamo accolti al Cancello d’imbarco, da due meravigliose ragazze
in divisa bianca da Marinaio, che poi risulteranno appartenere al Corpo di Ballo,
le quali ci danno il benvenuto a bordo. Ci viene anche fatta una bellissima foto
con loro al fianco, che credo conserveremo a lungo, perché da essa traspare una
gioiosa emozione.
Saliti a bordo, notiamo un’organizzazione perfetta che ci guida verso gli ascensori:
so di dover raggiungere il ponte 7 Irlanda e mi ci avvio, mentre mia moglie mi
segue intimidita. Camminando ho la sensazione di un lillipuziano del romanzo di
Gulliver. Qui tutto è di grandi dimensioni. Giunto al ponte, ho da vedermela con
trecento metri di corridoio che se non riesco a trovare subito la cabina, rischio di
farmeli tutti a piedi, cosa che è capitata ad un altro ospite, salito dopo di me, che
ho sentito litigare animatamente con la moglie, perché, a sentir lui, l’aveva portato
nella direzione sbagliata. Io invece, dopo aver percorso qualche centinaio di metri,
ho avuto la fortuna d’incontrare un Cameriere filippino che mi ha indirizzato verso la
cabina assegnatami. Non è una Suite, troppo costosa per le mie ragioni economiche,
ma è comoda e confortevole. C’è un piccolo frigobar ed un televisore che dà la
possibilità di vedere tutti i programmi nazionali, internazionali ed interattivi; mentre
un impianto di climatizzazione perfetta esclude la sensazione di stare in un luogo
chiuso. Il primo impulso è quello di buttarmi sul letto, per saggiarne la morbidezza,
e non mi delude. Mentre i muscoli del corpo si rilassano in un saporito riposo, la
mia mente vaga verso lontani ricordi. Mi venite in mente voi, vecchi cari compagni
di scuola, Calcaterra, Ummarino, Giordano, Pino, Trinchera, in quella prima sera,
sul Brigantino Giorgio Cini, nell’unico salone della stiva5 centrale, allorquando
smontati i tavolacci e le panche, che erano serviti per imbandire il pranzo e la
cena, aperti i bastingaggi6 e tirate fuori le amache3, ci cimentavamo ad attaccarle ai
montanti4. Privi di esperienza, dopo averle legate alla bella e meglio, vi saltavamo
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Crociere del duemila
Felice Zanghì
sopra da una parte per ricadere poi dall’altra. E pensare che quella era una crociera
a premio, solo per i più meritevoli, promossi a giugno. Vi ricordate i Marinaretti
della Fondazione Cini? Ragazzini di sette, otto anni, che avevano bisogno del nostro
aiuto, perché non ce la facevano in tante pratiche manuali, data la loro tenera età,
talvolta piangevano. Infondo noi al loro confronto eravamo adulti, lupi di mare,
avevamo superato i quindici anni, la soglia di età alla quale allora si cominciava
ad indossare i pantaloni a gamba lunga, s’imparava a pisciare al muro9 e si tentava
pure di entrare nei casini10, impresa molto ardua, dato che le relative padrone3 erano
molto attente ad espellere in malo modo i ragazzi che non potevano dimostrare di
aver compiuto il diciottesimo anno di età.
Intanto mia moglie è quasi pronta per andare a cena e mi richiama alla realtà. In
un bagno comodissimo e spazioso: già, perché questa è una cabina per disabili, cosa
che mi aveva messo in apprensione al momento di scoprirlo, dopo la prenotazione.
Con mia moglie, scherzando, avevamo fantasticato su chissà quali attrezzature
vi avremmo trovato, oltre ai lettini separati; niente di tutto questo. L’Operatore
dell’Agenzia ci aveva assicurato che si sarebbe trattato di una normalissima
sistemazione, anzi, addirittura, appunto, con un bagno più ampio, come in realtà.
Un’abbondante doccia calda e la morbidezza dell’accappatoio mi rimettono in
sesto e mi danno la carica per la serata. Ci avviamo, e quasi subito l’ascensore ci
porta al ponte 3 Belgio che mi dà la suggestione di un mondo da favola. Come in
un caleidoscopio, le luci piovono da innumerevoli lampadari in cristallo di Murano,
a forma di anemoni di mare e si riflettono sui mosaici policromi dei rivestimenti
e sulle vetrine delle boutiques, gioiellerie, galleria d’arte, del ponte 4 Grecia e del
ponte 5 Italia. Tre ascensori in cristallo volano su e giù senza il minimo rumore. Alla
base di essi, le dolci note di un pianobar diffondono musica d’ascolto ed un anziano
signore ingaggia, con passi incerti, motivi di ballo, con una altrettanto elegantissima
anziana dama. L’effetto complessivo è quello dello stordimento.
Dalle ore 19, nel salone ristorante Roma, un menù di arte culinaria italiana ed
internazionale non delude le aspettative, ed una cena servita con alta professionalità
lo impreziosisce.
Sulle navi il vitto è stato sempre abbondante e di ottima fattura. Mi ricordo di
un’altra crociera, di cinquant’anni fa, sul Transatlantico Vulcania, come viaggio
d’istruzione di fine corso nautico. Allora ero alloggiato in “Classe Turistica”,
eufemismo di Terza Classe, e la cabina era situata in uno dei ponti più bassi della
stiva. Offriva uno spazio angusto accanto a due cuccette a castello, dove ci si stava
appena, mentre il bagno era in fondo al corridoio dove c’era pure un oblò12 appena
sopra la linea di galleggiamento, da cui si vedeva la superficie del mare e si sentiva
il mormorio delle onde. Ciò stimolava i miei sogni facendomi immaginare fantasmi
marini dei dispersi in mare, di cui allora ebbi la sensazione di vedere i volti e di
sentire i lamenti durante la tempesta che incontrammo. Però a tavola era sempre
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un momento di grande ristoro. “Abbondante”, mi ricorda un episodio capitato ad
un nostro caro compagno di Classe. M.M. di cui non dico il nome per ovvi motivi
di riservatezza. Immaginate, in quegli anni, della ricostruzione, dopo il conflitto
mondiale, noi quasi tutti di famiglie operaie, se in casa propria, a tavola, potevamo
trovare da mangiare, non era certo con grande dovizia, per cui, al cospetto di quelle
mense imbandite con tante prelibatezze, eravamo spinti dalla voglia di approfittarne,
non lasciarci sfuggire l’occasione. Un giorno, il Cameriere dopo aver servito la
porzione, come di consueto, pronunciò la frase: «Vuole ancora Signore?» al che,
il Povero Matteo si affrettò a dire: «Abbondante, abbondante!». Non l’avesse mai
detto: i compagni, carogne!, memorizzarono all’istante. Quel nomignolo gli rimase
per sempre, sia pure affettuosamente attribuito.
Nel tempo però, anche qui c’è stata evoluzione: alle cinque portate, antipasto,
primo piatto, secondo piatto, dolce frutta, di cui ognuna di almeno tre diverse
specialità, sono stati aggiunti piatti vegetariani, pesce crudo e dolci senza zucchero.
Mi sovviene ciò che raccontava mio padre, in merito al vitto sulle navi negli Anni
Venti del Secolo scorso, allora ancora chiamate Bastimenti o Vapori13. Il contratto
di arruolamento (di lavoro) prevedeva allora: al mattino, bevanda di caffè e
distribuzione del pane se in porto o delle gallette14 se in navigazione. Il Marittimo
doveva custodire detta razione che poi sarebbe servita anche per il pranzo e la cena.
La bevanda veniva realizzata facendo bollire in un calderone di rame la quantità
necessaria di acqua, nella quale veniva dispersa e rimestata una manciata di grani
di caffè tostato e macinato che le dava il colore ed un certo sapore. In questa il
Marittimo attingeva, riempiendosi la gavetta15, dove a sua volta inzuppava pezzi
di galletta e faceva colazione. Per pranzo, un piatto caldo di minestra fatto con
legumi, patate, pasta e cavoli o rape, in porto o quando disponibili. Per cena, il
secondo piatto detto piatto forte3, in genere brodo con pezzi di carne, fresca in
porto, salata in navigazione, o pesce salato, pesce stocco, baccalà od altra specie
di pesce secco. Le porzioni erano attentamente misurate dal Cuoco e controllate
dal Comandante, che amministrava la Cambusa4 in conto proprio. Da ciò scaturì
il seguente episodio:
Una sera d’estate, c’era tanto caldo, ed un Fuochista18 alla fine del turno di
guardia, ritirata la sua gamella19 abbondantemente piena di brodo, andò a sedersi sul
boccaporto3 della stiva, per un po’ di refrigerio all’aperto. Aveva fame! Quindi si era
provvisto di un buon numero di gallette, unico alimento a consumo libero, e la sua
intenzione era quella, finalmente, dopo una giornata di duro lavoro, di rimpinzarsi.
Si mise alacremente a spezzare gallette, col cucchiaio di legno, immergerle nel brodo
e mangiarne; malauguratamente però, era capitato proprio sotto il finestrone della
plancia. Il Comandante che vi stava affacciato, lo stava osservando, e preoccupato
per lo spreco di gallette, (proverbialmente genovese o lussinese), lo apostrofò:
«bon prò Marù, ma porchè ghe mett tant gallett?» ed il Fuochista, sorpreso ma
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Crociere del duemila
Felice Zanghì
non scoraggiato: «ma perché l’è trop caldu!» credendo d’aver vinto la partita; ma
il Comandante, viepiù indispettito: «ma nun vedi che diven ciù caldu!» e l’altro,
impertinente: «ed io ghe ne mett tant fin che non buge!».
Tanto, può risultare incredibile ai giovani di oggi; ma è così, con quei sacrifici,
che i nostri antenati fecero grande la nostra marineria nazionale.
Dopo cena abbiamo appena il tempo per cambiarci d’abito, e poi di corsa al teatro
“Grecia” per lo spettacolo serale. Una struttura enorme, tanto da fare invidia ai migliori
teatri delle grandi città, con millesettecento posti a sedere su due piani, in ampie
comodissime poltrone, con la fantasmagoria di luci e di colori, dove gli Architetti
hanno profuso il meglio, già al primo impatto crea una certa emozione. Poi gli effetti
speciali sonori, luminosi, piogge di stelle artificiali e bagliori psichedelici, preparano
l’inizio dello spettacolo, presentato da una gasatissima speaker in cinque lingue. Ad un
tratto, si accendono le luci, parte la musica ed irrompe sul palco un corpo di ballerine
dalla bellezza mozzafiato, dalla bravura di livello Las Vegas, per eseguire Musicall
dei più famosi. Ad ogni intervallo gli applausi scroscianti sono incontenibili.
Caro papà, quanto mi stringe il cuore a pensare in quali condizioni disagiate
avete vissuto i vostri tempi sulle navi! Se oggi fossi in vita! Se fossi nato almeno
cinquant’anni dopo!
Ricordo quanto mi raccontavi degli anni della Grande Emigrazione verso le
Americhe. Dicevi che la sera, dopo la distribuzione del rancio21, insieme ad altri
Marinai scendevi nella stiva ancora impregnata di carbone22, sebbene pulita dopo
la discarica, improvvisandovi suonatori. Lì, sistemati su tavolacci si accalcavano
centinaia di disperati che affrontavano l’ignoto in cerca di fortuna, in un viaggio
interminabile che poteva durare 15 giorni o anche un mese, a seconda delle
condizioni meteo marine; e voi cercavate di farli svagare, divertire un poco, portavate
l’allegria suonando la chitarra, i mandolini, qualche zufolo; e pensare che tu ti sei
sempre lamentato di non aver potuto mai imparare a suonare la chitarra perché non
hai avuto la possibilità di pagarti un maestro. Oggi a suonare ci stanno dei musicisti,
veri e propri Maestri.
Sui Pacchetti23 di linea per le Americhe, per l’Australia o per l’Estremo Oriente,
l’allegria non mancava mai. Nella 1^ Classe si poteva ballare tutte le sere al suono di
orchestre da camera, che eseguivano tanghi, valzer e fox-troats. Nella 2^ e 3^ Classe
l’orchestra era organizzata dai Camerieri ed altro personale di bordo che sapesse
suonare uno strumento e la musica era più allegra: jazz, popolare, ritmica. Tanto,
però, non è minimamente paragonabile all’intrattenimento musicale sulle navi di
adesso, dove in numerosi saloni, muniti di pista da ballo, si offrono con diversificati
gruppi canori, i più svariati generi musicali, dal classico al sudamericano, jazz,
rock, discoteca.
Mentre mi avvio verso il salone Berlino, data un’occhiata al mio orologio al polso,
mi accorgo che a quest’ora dovremmo essere già partiti; ma non c’è nulla che me ne
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possa dare la sensazione, né un cigolio, tremolio dello scafo, dondolio di rollio24 o di
beccheggio25. Mi lascio alle spalle le luminarie sfavillanti dell’ambiente, ed aperta
una porta laterale, a sorpresa porto fuori mia moglie, sul ponte lance. M’investe
di colpo il vento dell’abbrivo26 della nave che mi riporta alle narici l’odore acre
pungente del mare, a me tanto familiare. Mia moglie rabbrividisce invece, perché il
vento è sostenuto, e la spuma lungo il fianco della nave tradisce la lotta delle onde di
scirocco, contro lo stesso: si tira indietro per l’emozione, ha quasi paura. Siamo in
mare aperto, nel famigerato “Golfo del Leone” che ha fatto piangere tanta gente di
mare, nel passato. Adesso però è solo un gioco, un’emozione a pagamento. Anche
mia moglie sa di storie marinare; io ne ricordo una che raccontava mio padre.
Anno 1904, all’incirca nello stesso punto, il piroscafo Sileno arrancava a fatica
verso occidente, con la sua macchina a vapore, alternativa a doppio effetto da 600
Cv., con vento di prora e mare forza sei, inseguiva quel pallido sole opaco che stava
calando dietro la foschia per poi tuffarsi nel mare. Il Nostromo, brancolando nel
buio della cala, aveva preso il lume e rifornitolo per bene di petrolio, che doveva
durare per tutta la notte, lo stava attrezzando col lezzino27 per la legatura alla cima
dell’albero. Anche il Mozzo era pronto, lì accanto, tutto intirizzito dal freddo e
bagnato dagli spruzzi delle onde che di tanto in tanto montavano in coperta. Era
un ragazzino di soli dodici anni, ma per quei tempi già adulto. «Tieniti forte!», gli
diceva il Nostromo, «Peppino, ti raccomando, stringi il braccio sempre intorno
all’albero, non farti strappare via!». Le ripeteva sempre queste raccomandazioni,
e la voce gli tremava: non voleva che gli capitasse più, come quella volta che il
colpo di mare s’era portato via il lume ed insieme “u picciriddu”28. Se mai!, questo
fosse accaduto, bisognava comunque mandare su un altro picciriddu, perché il lume
doveva assolutamente essere posto sulla cima dell’albero, prima che fosse notte. Ora
Peppino, legato alla tavoletta, si abbarbicava all’albero, tenendo il lume in mano,
fra un’ondata e l’altra, parandosi con la schiena gli spruzzi, mentre veniva issato
con la ghia29 tirata da quel pancione del Nostromo. A tratti vedeva sotto di sé le
creste delle onde rabbiose che assalivano la nave, dacché col movimento di rullio,
l’albero veniva scaraventato fuori bordo, ora da una parte, ora dall’altra.
Nel Duemila, grazie a Dio, in seguito all’evoluzione scientifica e tecnologica, per
merito degli uomini di scienza, dal Ponte di Comando, all’imbrunire, un addetto
schiaccia alcuni pulsanti, e con effetto magico, all’istante, la nave si corona di stelle
artificiali: dalle luci di via30, a quelle di posizione31, al contorno nave, al pavese32.
Ma le stelle vere? Peccato! Non si vedono più, non servono più nemmeno per
fare il punto nave33: Da dentro una sfera, sistemata sul punto più alto della nave,
sofisticate antenne captano i segnali emessi dal sistema di satelliti geostazionari,
un computer fa il resto, ed in ogni istante, su appositi schermi si può leggere la
posizione della nave, mentre un pennino, come una lumaca sulla foglia di cavolo,
lascia la scia del percorso.
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Crociere del duemila
Felice Zanghì
Rientrati, ci avviamo sul ponte quattro, per una passeggiata lungo le vetrine delle
boutiques; mia moglie vi entra, io la seguo. Facciamo shopping, piccoli acquisti
ricordo da portare agli amici, in particolare, ai nipotini, con un tenero pensiero. Poi
passiamo al Casinò, dove ai banchi di roulette si assiepano giocatori “sfortunati”, che
perdono sempre. Anche noi facciamo alcune puntate, con risultati “da pessimisti”.
Per fortuna che ci sono fisches anche da dieci, cinque ed un Euro. Proseguiamo
attraverso le luminarie dai colori inebrianti, accanto alle innumerevoli slot-machines,
dove, di tanto in tanto si verificano cascate di monetine da 20 cent. che qualche
giocatore “fortunato” raccoglie in un secchiello. Proseguendo la passeggiata, ci
fermiamo davanti ad una galleria d’arte dove stanno esposti alcuni quadri d’Autore,
di ottima fattura e dimensioni interessanti; uno in particolare, piace molto sia a me
che a mia moglie. Rappresenta il vento: le vesti leggere di una mamma che tiene per
mano una bambina, sono sollevate in sintonia dei fili d’erbe, mentre un gabbiano si
libra immobile nell’aria; tutto, su di una spiaggia marina. Viene offerto in un’asta
silenziosa il cui valore è giunto già a 5.400,00 Euro: interessante; ma troppo per
le nostre tasche.
Grande divertimento al salone Berlino, con balli di liscio, animazione, giochi.
Facciamo qualche “giro di lento e di merenghe”; per lo più, stiamo ad ammirare
i ballerini più bravi, “di scuola” che si esibiscono in gruppo. Facciamo nuove
conoscenze: un piccolo Industriale che nel presentarsi mi dà il cognome, perché si
vergogna del nome, troppo lungo, Bartolomeo. È una persona simpaticissima e ricca
d’iniziativa. In breve mi racconta di avere venduto la sua attività, poiché i figli non
hanno voluto continuarla, e di essersi portato in crociera tutti i suoi 50 dipendenti,
che ora sono qua, quasi tutti, e si divertono da matti! Durante l’esercitazione di
abbandono nave, mi capita vicino e scopre che io sono “di mare” perché aiuto gli
sprovveduti nell’indossare i giubbotti salvagente. Allora comincia a farmi tante
domande, avidamente, vuol sapere quante più cose possibili, e mi confessa di avere
una gran paura del mare, perché non sa nuotare. Lo rincuoro, dicendogli che con
queste navi è quasi impossibile ritrovarsi in acqua, e comunque col salvagente non si
va a fondo. Ora, come esperto, tutto il gruppo mi circonda incuriosito; io li rassicuro
e scherzosamente dico loro che se proprio vogliono avere paura, ce l’abbiano del
fuoco e non dell’acqua del mare.
Guardandomi intorno con occhio critico, scopro che la gran parte degli ospiti è
costituita da pensionati e gente di mezza età; l’eleganza non è delle più raffinate,
niente affatto paragonabile a ciò che il regista ci ha fatto vedere nel salone di 1^
Cl. del Titanic, dell’omonimo film. Molti uomini indossano pantalone e camicia,
altri, pochi, l’abito scuro; poche sono le signore in abito da sera. Al ristorante,
stiamo al tavolo con una coppia simile a noi, Insegnante lei, commerciante lui, in
pensione. Con questi abbiamo instaurato una simpatica amicizia, ed ora insieme,
ci spostiamo nel Salone Vienna, dove possiamo rilassarci, prendere un drink ed
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ascoltare piacevoli canzoni da un bravissimo Cantante al pianobar. Ci scambiamo
tante notizie sul presente, il passato, le attività, i figli. Scopro l’affinità che abbiamo
riguardo l’attenzione per questi ultimi, modello “famiglia tradizionale, meridionale”.
Mi viene di fare una battuta ironica: «Vi accorgete che man mano che ci allontaniamo
da casa, ci sentiamo meglio?» che suscita una clamorosa risata di tutt’e quattro.
Avvicinandosi la mezzanotte, sul ponte delle piscine “Riviera Magica”, un
folto gruppo di persone si sta scatenando ai ritmi afrocubani, “sotto le stelle”. Vi
prendiamo parte per qualche minuto, poi desistiamo dato che ci vuole molta energia
ed allenamento che non abbiamo. Poi passiamo accanto ad un buffet imbandito
di dolci, frutta, torte, ed anche pizza, spaghetti, salumi, salsicce e rustici. Ce ne
asteniamo; la stanchezza ci spinge verso la Cabina, comincio a pregustare un dolce
sonno fra le morbide coperte.
Mia moglie si aspetta beccheggio e rullio, dacché il foglio informativo del
Comandante preannuncia “mare agitato”, con spirito quasi masochista, dato che sa
di soffrire il mal di mare, ma resta delusa: il letto è assolutamente immobile, né un
rumore, né una minima scossa, che in fondo denuncerebbero la vitalità della nave,
dell’apparato motore, della propulsione.
Mi fa rammentare i tempi in cui navigavo, ben anche con navi di ragguardevoli
dimensioni, quelle di 30.000 tonnellate di stazza, però in Atlantico, con mare agitato.
Quante volte, per non essere buttato fuori dalla cuccetta, durante il sonno, dovevo
adottare quel sistema che avevo escogitato, ed usavano anche altri: mettere sotto il
materasso, dal lato esterno, alcuni salvagente, in modo da creare una sorta di culla
che mi contenesse.
BARCELLONA
Barcellona si presenta sullo sfondo di un enorme cantiere in atto, in mare aperto,
allo scopo di ampliare il già grande porto esistente. Mi colpisce il fervore dei
lavori, indice di uno sviluppo attivo, percettibile, degno degli Anni Duemila. Mi
viene un po’ di rabbia e di tristezza insieme, pensando all’immobilismo oggi dei
porti italiani rispetto al divario che esisteva appena trent’anni fa, in senso opposto.
Provo ammirazione e compiacimento per quanto hanno saputo fare i nostri “cugini”
spagnoli in così poco tempo.
La visita della città ci offre lo splendore del panorama e della sua estensione; la
bellezza dei giardini e delle opere del Gaudì; l’incanto della facciata della Sagrada
Famillia, unica al mondo. Per un attimo mi riporta ai Santuari indiani, poi noto che
è una fiamma a tre cuspidi che s’innalza verso il cielo, fiamma che denota l’ardore
della fede del suo artefice. Essa si presenta carica di innumerevoli simbolismi
religiosi della Trinità e dell’Ascensione.
La Cattedrale con la sua immensa mole, ci accoglie al suo interno, dove la
possanza delle colonne, delle pesanti cancellate metalliche, del coro, posto al centro
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Crociere del duemila
Felice Zanghì
dell’edificio, mi riporta la visione degli “Eretici” condannati e seviziati in quei
luoghi, dall’Inquisizione, mentre giro intorno, quasi sento giungermi alle orecchie
i loro lamenti.
Durante il viaggio di rientro a bordo, restiamo bloccati con i pullman in prossimità
dell’arrivo, poiché una fiumana di autotreni affluisce dall’autostrada verso le varie
stazioni del porto, per imbarcare sulle numerose navi in attesa. La guida spiega che
l’economia spagnola va molto bene per effetto dell’autonomia degli Stati regionali,
in particolare vantando il privilegio della Catalogna. Durante la gita, Facendo
domande provocatorie ai cittadini, ho potuto notare che effettivamente sono molto
entusiasti del loro Governo, cosa rara in altri Stati, non diciamo in Italia! Inoltre
mostrano gelosia e forte campanilismo nei confronti dei cittadini delle altre Regioni,
ed una signora mi dice: «nosotros non accordemos», riferendosi agli Andalusi.
PALMA DI MAIORCA
Il mattino del quarto giorno, salito sul ponte sole, mi si presenti davanti la visione
di Palma di Maiorca, e sembra un sogno, col suo lungomare dove stazionano migliaia
di panfili di tutte le dimensioni, ed in lontananza, la città vecchia con la mole della
Cattedrale Gotica. Sceso a terra, già in prossimità del porto, i negozi ridondano
di perle di tutte le dimensioni, specialità locale, che qui vengono vendute anche
a chili. Passando lungo l’Avenida del Mar, mi accorgo che tutte le casupole, così
come le avevo conosciute cinquant’anni fa, sono state sostituite da costruzioni
moderne. Grandi edifici ospitano alberghi lussuosi, Uffici e Centri Commerciali.
Anche qui si vedono gli effetti del grande sviluppo economico. Prolungando la
passeggiata, giungo alla Città vecchia, con le sue viuzze bordate dalle botteghe
dell’artigianato etnico.
Il tempo per visitare le altre bellezze dell’isola non è sufficiente; occorre che
qualche volta ci decidiamo a venire per una permanenza più prolungata. Dopo
pranzo, dal ponte 14, il più alto della nave, ci godiamo l’incantevole panorama
della città mentre osserviamo le operazioni della manovra di partenza. Niente
rimorchiatori: potenti eliche di manovra, trasversali, di cui si vedono i gorghi
spumosi delle scie, sistemate all’interno di tunnel sia in prossimità della prora che
della poppa, lentamente spingono il “gigante” e lo fanno ruotare in uno spazio
ristretto, quasi su sé stesso. Non più Nostromi che si sporgano dalle ringhiere34
a prora, centro, poppa gridando a squarciagola, per rimandarsi gli ordini, come
avveniva un tempo; ora soltanto degli operatori muniti di radiotelefono, si atteggiano
a piccoli “Comandanti” nei punti strategici di manovra ormeggi. Poi, per la prima
volta, sento la voce della nave: è un suono possente, profondo, assordante, quasi
fisico, è il fischio della nave che saluta la città, ed incute emozione, anche in me,
nonostante tanti anni di abitudine. Ora il “gigante” si muove, sempre più velocemente
e mette la prora verso il mare aperto. C’è un venticello di Sud-Est che man mano
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aumenta. In breve, alle spalle, gli elementi del paesaggio rimpiccioliscono e si
confondono in una foschia grigia, e noi rientriamo nel ventre del “gigante”.
In cabina accendo il televisore per seguire le notizie del Telegiornale: la ricezione,
sia dell’audio che del video è perfetta. Tornando al tempo in cui navigavo, mi vedo
impegnato a distendere fili volanti, improbabili antenne, attraverso oblò, carruggetti,
il locale caldaie e fino sulla ciminiera, e collegare apparecchi radio a transistor,
per ottenere la ricezione di una voce gracchiante, a tratti interrotta, quasi sempre
disturbata da sovrapposizioni di emittenti più potenti o più vicine. «Tome, tome,
tome cerveza! La cerveza della salù!», ancora mi rimbomba in testa, dopo vent’anni
e più. Era la voce di Radio Barranquilla.
Il Duemila è, senza dubbio, l’era dei satelliti! Ad un tratto mi squilla il telefonino
cellulare e ricevo nitidamente la voce di mio figlio Fabio e quella della nipotina
Sabrina di appena quattro anni, tanto cara, tanto dolce. Non è più necessario prenotarsi
e fare la fila nel carruggetto, davanti alla porta della stazione del Radiotelegrafista,
che “faceva il ponte” con Radio-Roma, per poter parlare con i familiari.
In navigazione verso Tunisi, incontriamo un po’ di mare agitato nel Canale di
Sicilia, ma la nave non accusa movimento di sorta, salvo qualche sobbalzo, appena
avvertito, dovuto alle bolle d’aria accumulate dalle onde ed espulse dall’elica.
Lungo la costa africana, verso Cap Blanc e Ras ali el Mekki, ammiro il paesaggio
della catena dell’Atlante che in questo tratto scende fino al mare e mi sorprende il
verde acceso della vegetazione, ad onta del luogo comune che suppone l’Africa in
gran parte desertica.
Dopo un bellissimo bagno in piscina e relativa breve nuotata, per le limitate
dimensioni della stessa, me ne sto a prendere il sole ed asciugarmi. Vedo che c’è
un gruppetto che ha iniziato una lezione di ballo collettivo, di salsa j merenghe
guidato da un’istruttrice- animatrice, che di per sé è già divertente. È bassina e
grassoccia e quasi comica, goffa nelle movenze della massa adiposa; ma ha degli
occhi intelligenti ed un sorriso spigliato e naturale che suscita una forte simpatia.
Io mi cimento, nel gruppo, mentre mia moglie impazzisce dal ridere e scatta foto
a ripetizione. Poi passiamo sul ponte sole per cercare una sdraio. Io guardo in giro
in cerca di qualcosa che da quando sono a bordo, furtivamente da mia moglie, mi
aspetto di vedere: una bellezza nordica; fin ora senza successo. Ad un tratto, però, su
di una sdraio scopro una ragazza bionda, dal corpo snello, elegante, e dall’incarnato
chiaro, tanto chiaro da sembrare trasparente: si approssima a ciò che aspettavo di
vedere, ma non regge al confronto di quanto è nel mio ricordo.
Era la fine di aprile del 1956, il Transatlantico Vulcania navigava in Adriatico:
aveva iniziato uno dei tanti viaggi fra l’Italia ed il Nord America, sua linea usuale.
Partito da Trieste, dopo il consueto scalo a Venezia, ora dirigeva verso Patrasso.
Gli alunni dell’ultimo anno della classe Capitani e Macchinisti dell’Istituto Nautico
erano a bordo, impegnati in una crociera d’istruzione di fine corso. Sul ponte
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Crociere del duemila
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passeggiata, erano intenti al gioco delle piastre allorché comparve una ragazzina
bionda, alta, bellissima, elegantissima, tipico esemplare di discendenza vichinga,
circondata da alcuni studenti che cercavano di farle la corte. Carmelo subito notò
che ella non si curava di quelli ma stava guardando lui, ed ebbe la sensazione di
avere una visione. I loro sguardi s’incontrarono, egli abbandonò il gioco, si accostò
a lei, e cominciò l’idillio. «Comme t’appelle tu?», «Ingrid» gli rispose, ed a sua
volta: «und du?», «Carmelo» egli disse «wie die Madonna des Carmel»; «Wiefile alt
bist du? Combien des ans ais tu?», «disset» und du?«dis nef». Il colloquio andava
avanti ed a Carmelo, il cuore batteva forte per l’emozione, perché davanti ai suoi
occhi si stava materializzando la fata uscita da una favola. Almeno, questa era la
sensazione che egli provava in quel momento. Chiaramente era stato colpito dal
“colpo di fulmine”, come si usa dire in questi casi. Scoprì che era una principessa
del nord, parlava in francese, inglese, tedesco, niente italiano; egli si arrangiava col
francese ed un poco di tedesco studiato alle Medie. Da sprovveduto corteggiatore, si
lasciò guidare dalla spontaneità tanto che a tratti si sentì ridicolo. Lei per giustificare
la sua timidezza, gli confessò di non aver avuto, fino allora, alcun fianzé, di non aver
mai baciato alcun ragazzo prima di lui. Egli ribatté che era stupito di ciò, perché
già da allora le ragazze del nord erano più libere, potevano uscire con i compagni
di scuola. Lei gli rispose che non frequentava la scuola pubblica poiché riceveva le
lezioni da Professori che andavano a casa sua, al castello. Carmelo la identificò con
Biancaneve; il suo ingenuo amore incontrò il candore di lei. Ingrid portava al collo una
collana con medaglione in cui c’era la fotografia, che egli riconobbe, dell’Imperatore
Francesco Giuseppe, al che le chiese: «che è forse tuo nonno? Maybe is he iour
great father?»; «nein!» rispose lei, e gli spiegò che non era suo nonno; portava quel
medaglione come regalo avuto dalla nonna, che a sua volta lo aveva portato per
riconoscenza dei favori ricevuti dalla famiglia da parte dell’Imperatore.
Durante l’escursione a Patrasso, Carmelo ebbe modo di conoscerne il padre,
nobile di fatto e di aspetto. Questi fu entusiasta si vederlo accanto a sua figlia, come
amico, anzi lo invitò al ballo di gala di quella sera, confidandogli che in prima classe
erano tutti «Vieux, vecchi», e pertanto era bene che la ragazza avesse un cavaliere
giovane per toglierla dalla noia. Povero Carmelo! Non vi poté partecipare per non
essere riuscito a procurarsi un abito da sera, allora indispensabile in tali circostanze,
nemmeno a prestito, visto che anche i compagni ne erano sprovvisti. L’indomani
inventò una scusa: disse che il Professore aveva tenuto una conferenza alla quale
non era potuto mancare.
L’idillio durò per altri giorni ancora, fino all’arrivo a Palermo, e fino a Taormina,
dove si concluse in modo sgradevole, per ambedue, in seguito ad una reazione di
contrarietà della madre di lei al vederli insieme: « Elle è faceuse, faceuse!» gli
ripeteva piangendo. «Vergiss mei nicht!», (non dimenticarti di me), scrivimi! «
Ich nie nicht dich vergessen kann!» Queste furono le ultime parole che egli sentì
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pronunciare da lei: «Io non potrò mai dimenticarti». Una lettera di poche righe
rimase a lungo nel cassetto della scrivania di Carmelo, mai spedita. Forse anche
quelle di Ingrid furono “bloccate” in uscita. Una meteora aveva attraversato il cielo
di un giovane Allievo Nautico, povero e sprovveduto; ma l’amore che travalica le
barriere del mondo reale, ne conserva la traccia per sempre.
Questa storia mi toccò fortemente allora, ed ancora adesso, mi dà una certa
emozione se penso agli spasimi, l’ebbrezza, lo stordimento della prima infatuazione.
Ora sono assalito da un sentimento strano, difficile da decifrare: ho quasi un
inconscio desiderio e, allo stesso tempo paura, al pensiero di potere incontrare quella
vecchia conoscenza. Di certo il suo spirito aleggia in questi ambienti, per quello che
diceva, che con la famiglia erano sempre in viaggio intorno al Mondo. A quest’ora
immagino sia una pur sempre bella! Anziana signora; ma preferisco conservare il
ricordo di quella che conobbi cinquant’anni fa, a dispetto del tempo.
APPRODO IN AFRICA
Tunisi e la Kasbah ci danno l’emozione di conoscere una cultura così tanto
diversa dalla nostra, nonostante la vicinanza territoriale, se appena 300 kilometri di
mare la separano dalla Sicilia. Brandelli delle vestigia della gloriosa Civiltà Punica
ancora presenti in questa terra, non sono in grado di compensare la povertà, se non
miseria, di cui si ha subito la sensazione, appena scesi a terra, in cui oggi vive la
popolazione locale. Già all’uscita dal “terminal”, veniamo assaliti da nugoli di
venditori che insistono nel proporci la loro merce, con stile da “questuanti”; ma
un meraviglioso cammello fa bella mostra di sé, a darci il segno di benvenuti nel
mondo delle dune e dei deserti.
In questo porto le navi approfittano per fare rifornimento di Gasolio. La benzina
per auto costa 30 cent. Di Dinaro, circa 20 cent. di Euro. Come cambia il mondo! E
quale ironia riserva la vita! Penso, con profonda tristezza, ai Caduti in Mare: quante
giovani vite umane furono sacrificate durante le operazioni belliche degli Anni
Quaranta, solo per trasportare il carburante di rifornimento per le truppe impegnate
contro gli Inglesi. Quante navi furono affondate, data l’assoluta necessità, tanto che
alla fine, la Marina Italiana fu costretta ad usare addirittura i sommergibili a tale
scopo. Nessuno allora sapeva del mare di petrolio che esisteva sotto i loro piedi!
Vedere i presidi armati, e non “spall’arm”, bensì “bracci’arm” cioè spianato,
pronto a sparare, presso tutti gli Uffici e le piazze principali, è “un pugno allo
stomaco”; mentre la dignità di cittadini liberi, viene offesa, al contempo, dal divieto
di fotografare gli stessi luoghi e gli Agenti.
La Kasbah, un dedalo di vicoli sporchi, maleodoranti, popolato da un formicolare
di gente, per altro molto laboriosa, dedita ad un tipico artigianato etnico, è un esempio
di caos in cui tanta gente può vivere ammassata. L’esperienza non è gradevole; ma
vale la pena di farla, quantomeno per poter dire: « io ci sono stato!».
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L’ISOLA DI MALTA
Un breve balzo, una nottata di navigazione, ci porta a Malta. Già di buon mattino
l’isola si presenta con la meravigliosa possanza dei bastioni di fortificazione di La
Valletta. Una passeggiata a terra basta per rendersi conto di come qualche secolo
di fortunata dominazione inglese, abbia lasciato un’impronta di alto livello di
civiltà.
I bastioni che furono sedi inespugnabili delle Guarnigioni dei Crociati, oggi sono
meravigliosi posti di osservazione e fotografia per i turisti. Le trecento chiese di
culto Cattolico, Ortodosso ed Anglicano, offrono la ricchezza del loro patrimonio
artistico alla delizia degli occhi dei visitatori.
Una saggia politica di pedonalizzazione della città ha trasformato il corso
principale e le viuzze adiacenti in una sorta di galleria per un itinerario da shopping,
dove una sequela di negozi di lusso espone oggetti d’ogni tipo, dai gadgets da
souvenir, ai gioielli di valore, di cui la città vanta il privilegio.
L’ordine e la pulizia denotano la tradizione anglosassone. L’impressione
complessiva è quella di un “diffuso benessere”.
VERSO LA FINE DEL VIAGGIO
Con la partenza da Malta, comincia il viaggio di ritorno. Approfitto ancora per
godermi tutto ciò che la nave offre, dai bagni in piscina, idromassaggio, lezioni
di ballo, musica, giochi organizzati dagli animatori, alla cena di gala di commiato
offerta dal Comandante, ed ancora spettacoli, musica, svago. Non nascondo che
vorrei provare tutto ciò che c’è ancora da fare; ma mi accorgo che il tempo non
basta, bisogna scegliere, c’ è chi fa una cosa e chi un’altra; a me rimangono ancora
le scarpe da tennis impacchettate, perché non sono riuscito ad andare in palestra.
Al mattino del settimo giorno: il Padreterno, dopo aver creato il mondo, si riposò,
ma ci aveva messo Adamo, l’umanità, perché lo distruggesse nel tempo, perché
tutto ciò che ha un inizio deve avere una fine, forse come il bambino che gioca
sulla spiaggia, costruisce un bel castello di sabbia, e poi sadicamente lo distrugge
con un calcio. Per noi invece è la conclusione della crociera, la fine del viaggio,
l’arrivo al porto di Palermo.
Un vecchio uomo di mare, con le spalle un po’ curve, radi capelli bianchi, a testa
bassa si allontana dalla nave trascinando una grande valigia su rotelle, seguito da una
bella signora. Si gira per dare un ultimo sguardo e gli vengono in mente le tante navi
che abbandonò per non rivederle mai più. In esse c’erano brandelli della sua vita.
Ora non sa se vi ritornerà ancora, se il tempo non sarà tiranno, forse ci tenterà.
PALERMO
Questa città, costola del corpo doloroso dell’Italia, ci accoglie con le sue
contraddizioni. La bellezza delle sue opere d’arte: il Teatro Politeama, il Teatro
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Massimo, il Palazzo Reale, Villa Giulia, il Parco della Favorita, quali vestigia di un
glorioso passato, fanno da contraltare ad una realtà di quartieri degradati, come la
bucceria35, Marinella San Cataldo. Il malessere si percepisce non appena sbarcati
a terra, perché si viene subito aggrediti da vetturini e tassisti abusivi che vogliono
imporre forzosamente il giretto in carrozza, ma poi, alla fine regolarmente, bisognerà
sostenere una lite a meno di farsi scippare una somma tripla, quadrupla di quella
dovuta. Uno di questi mi costringe ad un alterco per riuscire a farmi una passeggiata
in santa pace. Nell’agitazione gli dico che non è questo il modo migliore per fare
turismo; così gli stranieri scappano, cosa che mi addolora molto essendo siciliano
anch’io. Più oltre noto un bus panoramico comunale, mi avvicino ed apprendo che
si può fare un giretto della città, di un’ora di durata, al prezzo di 25 Euro a persona.
Mi viene da chiedermi come mai, a Barcellona, Palma, La Valletta, lo stesso giro
si può fare con la spesa di appena 5 Euro. Il dubbio mi resta.
VERSO CASA
Il ritorno a casa, un po’ malinconico al confronto dell’allegria dei giorni precedenti,
è rinfrancato dalla gioia di rivedere i propri cari. Il cane sembra impazzito nel
vedermi, mi salta addosso, quasi voglia ragione della mia assenza dei giorni passati.
Non so descrivere la gioia della nipotina nello scartare i souvenir, la bambola “con
i capelli gialli, come aveva desiderato, e gli altri regali della Nonna.
Questa volta non ho avuto la sensazione della terra che si muove sotto i piedi, come
quando sbarcavo dalla nave dopo un anno di navigazione; ma se dovessi dire quali
mari ho attraversato, quali panorami costieri goduti, mi trovo un po’ in difficoltà
perché la navigazione avviene quasi esclusivamente di notte, e le distrazioni sono
tante che non danno il tempo di accorgersi dell’arrivo o della partenza. Per parlare
di queste cose, dovrei tornare ai ricordi della crociera sulla Giorgio Cini. Allora
si navigava “costeggiando” e gli Istruttori ci insegnavano a riconoscere i segnali
di terra, le torri con i segnali codificati con i quadretti colorati. Occorreva poi
individuarli sulla Carta Nautica e fare il punto nave con i loro rilevamenti e badare
attentamente agli avvertimenti dei portolani. Con i dati di pressione delle stazioni
meteorologiche si tracciavano le isobare per fare il quadro sinottico sulle carte,
utile per conoscere l’andamento delle condizioni meteo marine. Poi si passava
alle esercitazioni di manovra delle vele, che mi piaceva moltissimo: io manovravo
la randa tirando la scotta col paranco, insieme al Nostromo. I miei compagni,
nel contempo, salivano sui pennoni per manovrare le vele quadre o alle rizze per
manovrare i pennoni.
Bei ricordi, nevvero? Cari vecchi compagni, mai più rivisti: Ummarino, Speranza,
Trinchera, Palomba, Marletta. Si faceva pure il lavaggio in coperta, strofinando il
ponte in legno con spazzoloni, mentre il Nostromo incitava: «Sona! Sona, sona!» in
dialetto veneto. Si lucidavano gli ottoni, tutte le finiture, le campane degli argani, le
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Crociere del duemila
Felice Zanghì
cornici degli oblò; si faceva la nave bella, tanto che sui ponti ci si poteva sdraiare per
terra. Si preparava la nave per la visita, che avveniva all’arrivo in porto. Tante belle
ragazze salivano a bordo, e noi che indossavamo orgogliosi le belle magliette-divisa,
le accoglievamo con cortesia e cercavamo di fare “conquiste”. Ci si scambiavano
indirizzi come indizio dell’approccio per inviarsi poi delle belle cartoline.
IL Duemila è un altro Secolo: si naviga in modo completamente diverso; ma
il mare è lo stesso, per il fascino ed i suoi profondi misteri, sempre artefice delle
fortune degli uomini.
Dedicato: a tutti coloro che amano il mare oggi e che desiderano conoscere storie
del mare dei tempi passati. Alla memoria di coloro che sul mare fecero la nostra
Nazione Grande per mezzo dei loro immensi sacrifici, e lasciarono un inestimabile
patrimonio di esperienza di cui oggi si gode.
Note
1) Barcarizzo: apertura sulla fiancata della nave.
2) Brigantino goletta: bastimento con due alberi, di cui, quello di prora detto
di trinchetto a vele quadre; quello di poppa, mezzana, a vele auriche.
3) Sartiami: insieme dei cordami che sostengono gli alberi nella posizione eretta.
4) Rancio: le vivande; ma anche il gruppo di appartenenza alla tavolata.
5) Stiva: Volume interno della nave destinato al carico delle merci.
6) Bastingaggi: gabbie sistemate lungo le murate (pareti interne) nelle quali
venivano sistemate le brande avvolte, durante il giorno.
7) Amaca: telo di forma rettangolare tesato fra due montanti con cordicelle.
8) Montanti: pilastri tubolari di sostegno del ponte soprastante.
9) Pisciare al muro: espressione con la quale si apostrofavano i minori che per
ingenuità ancora non sapevano farlo.
10) Casini: case di tolleranza, case chiuse.
11) Padrone: tenutarie, direttrici.
12) Oblò: finestrino circolare delle navi.
13) Vapori: navi con propulsione a macchine a vapore,
14) Gallette: specie di pizzette azzime ben indurite che si conservavano bene all’asciutto.
15) Gavetta: specie di grande tazza metallica, di provenienza militare.
16) Piatto forte: così detto perché più ricco di proteine.
17) Cambusa: luogo dove vengono tenuti i viveri, ma anche le vettovaglie.
18) Fuochista: addetto alla conduzione dei forni delle caldaie a vapore.
19) Gamella: secchio metallico di forma prismatica per le vivande.
20) Boccaporto: chiusura superiore della stiva.
21) Rancio: pranzo o cena, termine di derivazione militare.
22) Impregnata di carbone: perché nel viaggio precedente aveva trasportato
carbone fossile dall’America all’Italia.
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Pacchetti: dal francese “paquebot”, nave per trasporto di passeggeri.
Rollio: oscillazioni laterali della nave.
Beccheggio: oscillazioni longitudinali della nave.
Abbrivo: vento dovuto alla scia aerea per la velocità della nave.
Lezzino: cordicella sottile per legature.
Picciriddu: ragazzino, piccoletto.
Ghia: paranco semplice con una sola puleggia.
Luci di via: verde a destra; rossa a sinistra.
Di posizione: poste sulla cima degli alberi; più alta a poppa rispetto alla prora.
Pavese: festone di bandiere o di luci sorretto sulle cime degli alberi.
Punto nave: individua la posizione della nave sulla carta nautica.
Ringhiere: parapetti tubolari sorretti da pilastrini detti “candelieri”.
Ucciaria, bucceria: dall’inglese “butcher” macellare, macelleria.
Il comandante Felice Zanghì ringrazia il prof. Orazio Licciardello e la dott.ssa Betty Denaro
rispettivamente Presidente e Segretaria del Premio “Fatti di bordo”
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L’on.le Carmelo D’Urso consegna la “Targa d’argento al merito” al giornalista de “La Sicilia” di
Catania
Il Sindaco di Riposto dott. Carmelo Spitaleri consegna il“Premio Città di Riposto”, XXVII edizione, al
prof. Giuseppe Vecchio, Preside della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
SEZIONE NARRATIVA 2008 - XIII edizione
1° Premio – Francesco Castorina – S. Donato Milanese MI
“Un fiore sulle onde”
«Un racconto fatto di ricostruzioni storiche e di vicende di fantasia, che come
trine o ricami su quelli si drappeggiano, assecondando l’intento dell’autore di
sottrarre all’oblio nomi, rintracciare colpevoli, ricostruire momenti di storia. Il tutto
con ritmo e grazia, con un linguaggio che si modula sui canoni del giallo storico,
adattandosi senza sforzo sia ai fatti di cronaca che ai passaggi fantastici».
2° Premio – Giovanni Bosia di Asti - “Cinque terre”
«Note brevi, evocative, quasi visionarie, per narrare una storia senza storia in
un tempo senza tempo: l’incontro tra uomo e mare. Attimi dilatati si susseguono e
si accavallano, esaltano un sentimento di ancestrale appartenenza, scandiscono il
ritmo di un incontro dagli accenti quasi sensuali, nella cornice di una natura dai
tratti intensi e maliardi».
3° Premio – Nazario D’Amato di Reggio Emilia - “Il ritorno”
«I due amori tra cui un uomo non sa e non può scegliere, l’insanabile conflitto
tra il richiamo di onde e scogli e i profumi e silenzi insondabili della montagna,
ricondotti infine ad unità da quel legame sotterraneo e misterioso che è la complicità
tra coniugi».
Menzioni
Angelo L. Fornaca di Asti - “Le vie del mare”
«Un racconto autobiografico scanzonato e ironico, ma al tempo stesso intenso,
da cui traspare un grande amore per le proprie origini ed il proprio passato».
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Francesco Castorina
UN FIORE SULLE ONDE
A
ll’alba del 27 settembre 1915 la dreadnought1 “Benedetto Brin” all’ancora
nella rada di Brindisi, fu scossa a poppa da una potente esplosione. In pochi
minuti la grande unità colò a picco, trascinando con sé oltre 400 uomini, tra cui
21 ufficiali, il comandante della nave e l’ammiraglio Rubin de Cervin. Il 6 agosto
del 1916 una seconda dreadnought, la “Leonardo da Vinci”, si inabissava nel
Mar Piccolo di Taranto a causa di un incendio scoppiato nella santabarbara. Parte
dell’equipaggio perì tra le fiamme, compreso il comandante, Sonimi Picenardi.
In ambedue i casi si era trattato di sabotaggi orchestrati dagli austriaci. Fra le
due “imprese” agenti austriaci operarono nei porti di La Spezia, Genova, Ancona
e Napoli, provocando gravi danni alle strutture e numerose vittime. Gli effetti
psicologici furono disastrosi e la psicosi dell’inafferrabile spia austriaca dilaniò
il morale dei combattenti. Ben presto, ci si rese conto che nelle operazioni erano
coinvolti italiani traditori. Il controspionaggio della Marina dopo avere brancolato
a lungo nel buio, finalmente imboccò la pista giusta. Un commerciante di agrumi,
che faceva la spola fra l’Italia e la Svizzera avvisò i nostri servizi segreti che era
stato avvicinato con grandi cautele da agenti austriaci. Il Capitano Ugo Conz che
dirigeva il IV reparto di controspionaggio della Regia Marina, lo convinse a stare
al gioco e nel contempo aprì a Zurigo un’agenzia, di cui fu fatto responsabile il
Capitano di Corvetta Pompeo Aloisi, ufficialmente accreditato come consigliere
presso la Legazione italiana di Berna. Ebbe così inizio una delle più audaci e celebri
azioni di controspionaggio del secolo, nota come “il colpo di Zurigo”. Come viceconsole fu inviato in Svizzera il sottotenente di artiglieria ing. Ugo Cappelletti, un
transfuga triestino laureato a Vienna. Ben presto fu raggiunto in Svizzera da altri
due “disertori” giuliani, l’ingegnere Salvatore Bonnes e il sottotenente Bucevich,
avvocato nella vita civile. Tutti e tre parlavano tedesco ed il loro compito era di
reperire informazioni. Dopo qualche mese ebbero le prove che lo spionaggio
austriaco in Italia faceva capo a una succursale del Consolato Asburgico di Zurigo,
la “Evidenzbureau”, guidata dal Capitano di Fregata Rudolph Mayer. Subito dopo,
con un gran colpo di fortuna entrarono in contatto con un fuoriuscito italiano,
l’avvocato livornese Livio Bini, che condannato per falso in cambiali in Italia, era
scappato e per disperazione s’era venduto agli austriaci, ai cui peraltro aveva, sino
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
allora, smerciato solo fumo. Cappelletti lo convinse a fare il doppio gioco ottenendo
così precise informazioni circa la planimetria degli uffici austriaci e la dislocazione
delle casseforti. Infine arrivarono dall’Italia un meccanico delle Officine Stigler di
Milano, Remigio Bronzin ed un ex scassinatore livornese, Natale Papini, “esperto”
in casseforti. Nella notte tra il 25 e 26 febbraio 1917, mentre a Zurigo impazzava il
carnevale, la squadra diretta da Cappelletti penetrò nell’ufficio dell’”Evidenzbureau”
e riuscì a forzare le casseforti. In una c’era l’elenco dei traditori italiani. Le carte
presero la via di Roma e grande fu lo sconcerto quando furono passati in rassegna i
nominativi, giacché c’erano diversi nomi importanti e tra loro il nome di un ufficiale
di Marina; Ramiro Lacchi. Furono effettuati un centinaio di arresti ed in un colpo
solo la rete spionistica austriaca fu decapitata. Gli austriaci beffati smobilitarono
immediatamente gli uffici di Zurigo.
La Spezia, Carcere militare, 4 aprile 1917
Adorata moglie, non so cosa stia succedendo. Sono stato arrestato con l’accusa di
tradimento. Capisci? Tradimento! Una parola infame che non mi riesce nemmeno
di articolare. Perché? Che cosa è successo?Lo ignoro. Mi si accusa di avere aiutato
spie nemiche a sabotare la “Leonardo da Vinci”. Quale infamia, io che porto ancora
sulla pelle i morsi del fuoco, che ho raccolto tra le mie braccia il comandante
Picenardi morente… Non so come difendermi. Non vogliono ascoltarmi! Tra
un mese comparirò davanti alla Corte Marziale. Sono disperato, il mio onore è
perduto. Prego Dio che illumini gli uomini, ma avverto intorno a me solo un grande
gelo…La censura non mi consente di scrivere di più, bacia per me il nostro amato
Ettore. [Ramiro]
Ancona, 7 aprile 1917 - Mio adorato, il male ottenebra le menti degli uomini.
Basterebbe solo guardarti negli occhi per comprendere che non puoi essere colpevole
del delitto che ti si ascrive… (Le successive otto righe sono state espunte dalla censura
militare. N.d.A.). …sappi che il mio cuore è con te, ogni momento. Qualunque cosa
accada, per tutta la mia vita. Non abbatterti, non cessare di difenderti, di proclamare
la tua innocenza. Presto quest’infamante castello di menzogne cadrà. Ne sono sicura
Scusami per le macchie sulla lettera, ma per quanto mi sforzi di essere forte ogni
tanto l’onda del pianto fa naufragare i miei intendimenti. Buonanotte cuore mio,
ho baciato Ettore per te. [Teresa]
La Spezia, Carcere militare-27 maggio 1917
… (Le prime quindici righe della lettera sono state espunte dalla censura militare.
N.d.A.)…così dunque è andata. Condannato a morte! Non hanno voluto ascoltarmi!
Hanno solo mutato l’impiccagione in fucilazione, alle spalle. Neanche al petto, alle
spalle! Mandato a morire a guisa dei vili… Amore mio, non temo la morte, sai quante
volte ho rischiato la vita per questa Patria che ora mi uccide. Lo sapeva anche chi
ha pronunciato la sentenza e non ha osato alzare i suoi occhi su di me. Temo solo
il disonore, un disonore che non è mio! Che si riverbererà sui miei poveri genitori,
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Un fiore sulle onde
Francesco Castorina
su di te, su mio figlio. Mio figlio! Cosa sarà di lui? Dio solo sa qual è il dolore che
provo perché non potrò vederlo mai più. Credo che questa consapevolezza sia la
cosa più terribile che possa capitare ad un uomo. Fa che non mi dimentichi troppo
presto. Digli che suo padre è morto proclamando la sua innocenza. Non posso
chiedere la grazia, tu lo sai, mi è impedito. L’avrei fatto, non per salvare la mia vita
ma per avere tempo di provare la mia innocenza Adesso ti saluto cara moglie, mi
hanno promesso che potrò riabbracciarti ed anelo quest’attimo, per baciare un’ultima
volta il tuo viso, le tue mani... [Ramiro].
Ettore Lacchi sospirò e posò sulla scrivania quelle lettere ormai consunte. Poco
discosto ce n’erano delle altre. La vita dei suoi genitori. Rivide per un attimo il viso
affilato e dolce della madre ed ebbe la sensazione che i suoi occhi cerulei stessero
indugiando sulle lettere. Le aveva lette centinaia di volte. Ogni volta gli davano
l’illusione di avere parlato con il padre. Quel padre che rammentava appena. Le
lettere gli restituivano la figura di un uomo leale, pervaso da un ostinato amor di
Patria. Eppure era morto da traditore! Aveva quarant’anni Ettore e da quindici era
avvocato. Dopo il praticantato, la guerra, combattuta in Africa. Ad El Alamein
erano sepolti i suoi sogni, quasi tutti i suoi commilitoni ed il suo braccio sinistro.
Quasi ne era stato contento. Aveva creduto così di espiare la colpa che era stata
ascritta al padre, vera o no che fosse. Ma ben presto la sorgente delle sue pene
s’era ricostituita e le nuvole che la alimentavano erano più scure e dense di prima.
Non aveva alcuna colpa. Perché dunque soffrire così? La ragione era celata nella
sua anima, nel profondo dei suoi pensieri. Era l’essenza del suo essere che rigettava
il marchio dell’infamia. Ne aveva parlato con la madre, per ore ed ore. Per tutta
risposta lei gli aveva consegnato le lettere. S’era rivolto alle istituzioni, voleva
sapere, voleva disporre delle carte processuali. Per giustificare i tanti rifiuti una
dicitura; sempre la stessa: “Avvenimento coperto dal segreto di Stato”.Quella
formulazione burocratica voleva nascondere qualcosa? Coprire forse qualcuno?
Alla lunga Ettore se ne convinse.
«Giovanotto, lei mi sta affliggendo da settimane, le premetto che non rilascio
interviste». Ettore si regolò gli occhiali sul naso; «Non sono giornalista, sono
avvocato ma non sono qui per affari legali». Cappelletti lo fissò intensamente,
studiandolo. Poi il suo sguardo si appuntò sull’arto artificiale. «Il braccio, come l’ha
perso?». Ettore si accarezzò la protesi; «El Alamein, ero nella Folgore». «Capisco…e
torna qualche volta laggiù?». Ettore sorrise amaro, «No, mai, d’altronde vi sono ben
rappresentato dal mio braccio…». Cappelletti si alzò e per lunghi istanti rimase in
piedi appoggiandosi all’alto schienale della poltrona, non smettendo mai di fissare
l’altro. «Capisco, adesso per favore, mi dica cosa vuole». «Mi chiamo Ettore
Lacchi, le dice niente il mio cognome?». Cappelletti tornò a sedere: «No, in verità
no». «Sono il figlio di Ramiro Lacchi, l’ufficiale di Marina fucilato per tradimento
dopo il “Colpo di Zurigo”». Gli occhi del vecchio ingegnere divennero di colpo
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
scuri e profondi. «Lacchi, già Lacchi, adesso ricordo… e lei ora, cosa vorrebbe da
me?». «Ingegnere, io ho maturato la convinzione che mio padre fosse innocente.
Vorrei poter ricostruire i fatti, per verificare se questa mia convinzione è giusta e
lei può aiutarmi». «Aiutarla signor mio? Come?». « Ingegnere, la lista delle spie
è rimasta in sue mani quasi 36 ore e i nominativi erano in chiaro…». «Come fa a
esserne così sicuro?». «…perché gli arresti vennero effettuati appena 12 ore dopo
che lei consegnò le carte a Conz. Un’eventuale decrittazione avrebbe portato via
almeno 72 ore, mi sono informato».
Il vecchio non rispose. «…ecco, io pensavo che forse lei avrà avuto modo di
leggere la lista e se anche così non fosse, potrebbe essere a conoscenza di dettagli
significativi». Ettore non avrebbe mai potuto prevedere un simile cambiamento di
umore in quell’uomo all’apparenza così mite e sereno. Il volto del vecchio divenne
paonazzo e la sua voce un ruggito. «Giovanotto! Non le permetto! Sta insinuando
che io avrei potuto mancare alle consegne e per di più mi propone di rivelare fatti
che sono coperti dal segreto di Stato! Vada via e smetta di importunarmi se non
vuole subirne le conseguenze». Ettore attonito si alzò, raccolse il cappello e piegò
accuratamente il cappotto sull’arto artificiale. «Ingegnere, mi avevano parlato di
lei come di un uomo giusto. No! Non è così! Non può essere giusto chi rimprovera
agli altri la loro sete di giustizia. È stato un errore parlarle, ma si ricordi, nessuna
forza al mondo potrà fermarmi finché non avrò modo di conoscere la verità. Buona
sera!». Quindi a passi svelti si diresse verso l’uscita.
La voce roboante del vecchio lo bloccò sulla porta: «Giovanotto! Maledizione,
torni indietro!».
Si sedette e vergò rapidamente qualcosa su un bigliettino con grafia chiara e ferma.
«Ecco a lei. Si rivolga a questa persona. Buona fortuna».
Salisburgo recava ancora le ferite della guerra.
Sui cumuli di macerie era scesa la neve ed alcuni monelli vi scivolavano sopra.
Ettore imboccò la Tillenstraβe, arteria principale della vecchia zona residenziale.
Una strada lunga un tempo fiancheggiata da alberi secolari, che erano stati tagliati
per farne legna da ardere nel terribile inverno tra il 1945 e il 1946. I mozziconi dei
tronchi, ricoperti dalla neve, si ergevano ancora a pochi centimetri dal terreno. La
villetta aveva conosciuto tempi migliori, ma a parte l’intonaco scrostato e qualche
pluviale fuori squadra, sembrava in discreto ordine. Il viale d’ingresso era stato
liberato dalla neve, ma in qualche punto, tra i ciottoli, s’era formata una sottile
crosta di ghiaccio ed Ettore rischiò di scivolare. Sulla targhetta lucida di ottone,
le lettere ormai consunte si leggevano a fatica. “Garstner”. Premette due volte il
pulsante del campanello senza avere risposta. Provò quindi con il battente di ferro.
Dopo un’attesa che gli parve infinita la porta si socchiuse. Nel vano apparve un
vecchio dal viso furbo. Scrutò Ettore con aria interrogativa. «Herr Garstner… vengo
dall’Italia, vorrei parlare con lei…mi scusi per il mio pessimo tedesco». Il vecchio
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Un fiore sulle onde
Francesco Castorina
lo squadrò e poi gli fece cenno d’entrare. Lo fece accomodare su una poltrona di
velluto rosso, ormai liso. «Lei è italiano, ha detto?». Ettore assentì. «Il suo tedesco
non è male, signor…». «Lacchi, Ettore Lacchi». «…dicevo che il suo tedesco è
buono signor Laghi, ma vorrei approfittare di questa inaspettata visita per rinverdire
un po’ il mio italiano. Lei permette vero?». Ettore annuì. L’italiano di Herr Garstner
era corretto e forbito, con punte formali che in Italia erano ormai dimenticate. «Da
giovane ho viaggiato a lungo da voi, Venezia, Roma, Napoli. I suoi occhi si persero
per pochi attimi inseguendo quelle chimere di giovinezza lontana. Mi dica signor
Laghi, in cosa posso servirla?». «Lacchi…herr Garstner, Lacchi». «Già, già, Lacchi,
mi perdoni». Ettore decise di entrare subito in tema. «Herr Garstner, so che lei è
stato un alto funzionario dell’Evidenziebureau…e vorrei chiederle informazioni
circa gli avvenimenti di Zurigo; no…non mi interrompa, …è importante per me».
Garstner sembrava aver perso la bonomia di prima, ma tornò presto a sorridere.
«Lei è un “giornalaio”?». «Un giornalista?…no, no, sono avvocato e sono qui
per parlare di mio padre, Ramiro Lacchi». Il vecchio si batté il palmo della mano
sul capo. «Ramiro Lacchi, già. Ecco perché il suo cognome non mi era nuovo».
Così l’avvocato comprese che la storpiatura di prima del suo cognome era stato un
trucco per guadagnare tempo. Un vezzo da vecchia spia. Herr Garstner ridivenne
di colpo serio, poi lo sguardo si posò sul braccio falso di Ettore. «Com’è successo
prego?». «El Alamein…». Il vecchio scrollò più volte il capo.
«Non la finiscono mai, maledetti idioti, sempre guerre…». Ettore si strinse nelle spalle.
Garstner gli piantò sul viso i suoi penetranti occhi cerulei. «Cosa vuole lei da me?».
«Conosceva mio padre?». Il vecchio si tolse dalla testa la papalina rossa che
copriva i capelli candidi e l’appoggiò sul tavolino. «No, ma mi ricordo benissimo di
lui. So che è stato fucilato». «Mio padre era… una spia? Un traditore?», domandò
Ettore con i sensi in tumulto.
«Mio eccellente signore, su questi fatti grava ancora il segreto di Stato. Mi par
d’intendere però che lei non presta credito alla versione ufficiale. Le posso chiedere
su quali prove fonda il suo dubbio?». «Colonnello, non ho prove e ricordo appena
mio padre, ma “sento” di essere nel giusto. C’è qualcosa in fondo alla mia anima
che rifiuta “quella verità”e che mi spinge ad andare in fondo. Questo pensiero è
sempre stato il mio tormento, ogni giorno, anche quando… mi hanno amputato il
braccio. Ho quarant’anni, mia madre è morta, non ho una donna e non credo più
a niente se non a Dio».
Gli occhi del vecchio militare s’erano ridotti a due fessure, ma i lampi che li
traversavano, facevano intuire il travaglio della sua mente. Dopo un tempo che parve
infinito si alzò, raccolse la papalina e se la rincagnò in testa. «Vede avvocato, tanto
tempo fa io prestai giuramento di essere fedele all’Impero e di non rivelare mai
alcun particolare del mio lavoro. Sono perfettamente conscio delle conseguenze
che esso ebbe e ne provo rimorso. A volte mi sembra di udire nel vento le urla di
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strazio dei moribondi che avevo condannato con le mie azioni. Non mi vergogno
a dirlo, mi capita di piangere. Si era in guerra e la guerra ha le sue regole. Ma si
può giustificare veramente così l’uccisione di uomini inermi per mano di traditori?
“Gott mit uns2”. Non era vero! Prego spesso Dio perché mi perdoni. Lei mi offre
l’occasione per rimediare in parte alla mia colpa. Non c’è giuramento che tenga
di fronte alla verità! Le dirò quanto a mia conoscenza.
Ettore lo invitò a parlare con un sorriso. «No! Signor Lacchi no! Suo padre non
tradì! Qualcun altro usò il suo nome. La spia che rese possibile i sabotaggi». Ettore
avvertì una vampa di calore salirgli dallo stomaco, scontrarsi col petto, ascendere
alle tempie che presero subito a pulsare. Si sentì svuotato, poi come la marea che a
lungo è stata repressa dalle dighe, la forza dell’emozione frantumò le difese e dilagò
inarrestabile per il suo corpo. Sussultò, pianse. Mio Dio, come aveva anelato a quel
pianto. Era la liberazione! Come investiti dalla piena i più segreti recessi della sua
anima si vuotarono delle scorie di anni ed anni di umiliazioni e dolori. «Mio Dio…
Mio Dio, ti ringrazio…». Allarmato il vecchio militare gli si avvicinò. «Non faccia
così, stia calmo, si rilassi. Aspetti di udire il seguito».
«Mi scusi, mi scusi…». Cavò dalla tasca un grande fazzoletto grigio e si deterse le
lacrime. Il pianto aveva spazzato via dai suoi occhi anche la nebbia che gli faceva
vedere il mondo sempre grigio; fu subito investito dagli altri colori. «Non accettavamo
“nom de plume”, ma sapevamo che alcuni “collaboratori” s’erano presentati con
identità fasulle. Naturalmente conoscevamo le loro vere generalità, ma stavamo al
gioco e nelle liste li riportavamo con i nomi di copertura dichiarati da loro».
«Posso prendere qualche appunto?».
«Faccia pure, può pormi anche delle domande se vuole». Ettore ringraziò per
l’ennesima volta il vecchio. «Colonnello Garstner, suppongo che tenevate anche una
lista con le vere generalità dei “collaboratori”. Se così era, perché il commando
italiano non la ritrovò?».
«Il capitano Mayer ci aveva proibito di tenere simili liste, era convinto che
dovessimo salvaguardare a tutti i costi i nostri collaboratori».
Negli occhi dell’anziano ufficiale brillò un lampo di malizia; «…io però non lo
ascoltai…». Ettore sentì una scarica di adrenalina attraversargli il corpo, la bocca gli si
seccò all’istante. «Vuol dire che lei redasse comunque una lista con quei nomi?».
Il vecchio lo fissò maliziosamente negli occhi; «Sì, lo feci e la nascosi». Ettore
lasciò andare le braccia sui fianchi e l’arto artificiale battendo sul bracciolo di legno
della poltrona produsse un rumore che sembrò uno schianto di tuono nel silenzio
innaturale che si era creato.
«Colonnello Garstner, questa questione è tremendamente importante per me,
gliel‘ho già detto, ma non farò nulla per forzare la sua volontà. La supplico però
di aiutarmi, se conosce il vero nome del traditore me lo dica. Le prometto che non
la coinvolgerò!».
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«Giovanotto, sono già le cinque. È il momento della mia passeggiata serale. I vecchi
sono tremendamente abitudinari sa, su usciamo a prendere una boccata d’aria». La
temperatura era ancora calata e il vento gelido portava con sé aghi di ghiaccio che
ferivano il viso, eppure l’anziano ufficiale inspirò quell’aria gelata apparentemente
beandosene. Le sue guance si imporporarono ed il sorriso gli rifiorì negli occhi. «Mi
segua, qui vicino c’è una sala da the, continueremo lì la nostra discussione».
Il locale era in manutenzione, mattoni e sacchi di cemento stavano accatastati
qui e là. Un cameriere altero, calvo come una palla di biliardo, venne loro incontro.
La sua marsina recava segni di rammendo e i polsini della camicia erano lisi. Li
precedette, facendoli accomodare in una pretenziosa saletta. Il servizio era spaiato
ma il the era ottimo. Garstner sorseggiò la bevanda con evidente piacere. «Dopo
gli avvenimenti di Zurigo ero stato destinato ad altro incarico, ma continuai a
seguire con interesse le “vicende italiane”. Quando seppi che avevano condannato
a morte un innocente, mi recai a Vienna da Mayer. Pur se ancora profondamente
depresso per lo scacco subito, da galantuomo qual’era, convenne che non si poteva
lasciar morire una persona incolpevole. Scrivemmo una lettera per l’ufficio di
Controspionaggio della Regia Marina. Decidemmo di appoggiarci alla diplomazia
elvetica per l’invio. Mayer però non volle assolutamente rivelare l’identità del
vero collaboratore. La lettera fu consegnata il 28 maggio 1917, ma suo padre
fu ugualmente giustiziato il 14 giugno successivo. Ho passato anni a chiedermi
perché». Ettore rimestò con il cucchiaino lo zucchero scuro sul fondo della tazza.
«Colonnello, quelle persone per quale motivo tradivano? Era solo per denaro o li
sosteneva qualche altra motivazione?».
«Caro giovane, si tradisce per tanti motivi, spesso il denaro è il meno importante
di essi. In Italia pescammo… si dice così?… bene nella vecchia nobiltà giuliana
che s’era vista mettere da parte nel nuovo Regno. Avevamo veri “amici” nei loro
ranghi, rimpiangevano i tempi dell’ “Austria Felix”. C’era qualche industriale
che scommetteva sulla vittoria degli Imperi Centrali e a modo suo si preparava
un futuro…». Garstner fece una smorfia di disgusto. «Chi tradiva per denaro era
mosso dall’avidità e a volte dal bisogno. Colui che si spacciò per suo padre era
un soggetto difficile da inquadrare. Militare di marina. Lo incontrai due volte
riportandone un’impressione inquietante. Era alto, bello, con due strani occhi grigi
spietati, da serpente. Mi riferivo a lui come al “cobra”. Noi eravamo certi che le
autorità italiane avrebbero scagionato suo padre, ma così non avvenne».
«Colonnello, ci fu un complotto per salvare quest’individuo… il cobra?».
«Non saprei. Forse. Dovrà stare attento, quest’uomo è ancora vivo e potrebbe
rappresentare un grave pericolo per lei».
Ettore sentì un rivolo di sudore freddo percorrergli l’incavo della schiena.
«Colonnello Garstner, può dirmi il suo nome?».
Il vecchio lo fissò intensamente; «Farò di più».
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Si alzò e sparì nella sala adiacente. Ne rinvenne diversi minuti dopo con una grossa
busta azzurra. La porse ad Ettore. «Dentro c’è la lista; a sinistra sono riportati
le generalità dei “collaboratori”. Intendo dire i nomi che avevano dichiarato. A
destra ci sono le loro vere generalità. Noterà che molti corrispondono, alcuni no.
Legga il nome che le interessa, è nella quarta pagina».
«L’aveva conservata qui… intendo dire la lista…».
«Già…si è salvata dai nazisti, dalle bombe americane e dai russi…».
Ammirato, Ettore scorse velocemente gli altri nomi, poi in corrispondenza del
nome del padre lesse il vero nome del traditore. Trasalì impallidendo violentemente.
«Non è possibile… non è possibile…».
Garstner lo fissò attento. Un leggero sorriso gli increspava il viso scarno. «Ma è
così. Capisce perché prima lo invitavo alla cautela?».
Ettore si riscosse. Annuì. «Certo, certo. L’aspetto delle cose però non cambia.
Herr Garstner, è disposto a cedermi questa lista?».
Il vecchio sospirò profondamente. «Lei cosa farebbe al posto mio?».
Ettore ci pensò un attimo su. «Suppongo che non gliela darei».
Il vecchio annuì. «Non possiamo ridare la vita a suo padre, ma gli si può restituire
l’onore. Lei è un militare, mi giuri che impiegherà la lista solo per questo scopo e
che non ne farà usi che possano andare a scapito di altri.
Ettore si alzò di scatto. «No colonnello, non glielo potrei giurare. Se fosse
necessario non avrei scrupoli».
Garstner si lasciò cadere sulla vecchia sedia. «Allora non mi resta che una cosa
da fare. Torni domani alle nove».
Il vento era caduto ed aveva ripreso a fioccare. Fu difficile trovare un posto per
dormire.
La maggior parte degli alberghi erano ancora ridotta in macerie e i pochi agibili
erano stati requisiti dalle Amministrazioni degli eserciti occupanti.
Davanti ad un piatto di minestra fumante si sentì contento di aver trovato posto
in quella piccola locanda. La birra scivolando nello stomaco gli regalò un senso di
benessere. La neve continuava a scendere a larghe falde. “Ho bisogno di dormire”
pensò Ettore grattandosi in riflesso condizionato il braccio di legno.
Il vecchio tram sferragliò adagio rallentando, poi si fermò di colpo. Il conducente
indispettito spiegò che in alcuni punti la neve non era stata spazzata e non si poteva
circolare. I passeggeri scesero bofonchiando. Ettore con le scarpe di vernice si
avventurò in quella specie di taiga, rischiando l’osso del collo a più riprese.
Fortunatamente, visto un negozio di calzature riuscì ad acquistare un paio di
scarponi. Erano un punto più larghi, ma migliorarono decisamente il suo equilibrio.
Alle nove in punto arrivò a casa di Garstner. Stavolta il vecchio colonnello lo stava
aspettando. Al primo trillo di campanello spalancò la porta. «Per favore metta le altre».
«Come prego?».
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Un fiore sulle onde
Francesco Castorina
«Le scarpe, calzi le altre scarpe (indicando l’involto che Ettore teneva sotto il
braccio), i chiodi rovinano il pavimento di legno».
«Ah sì, certo, mi scusi, provvedo subito».
«Gradisce un caffè?». Senza attendere risposta il vecchio soldato aveva già
riempito due tazzine.
Era una brodaglia disdicevole ma Ettore la ingollò senza battere ciglio.
«Cosa ne dice?».
«Di cosa?».
«Ma del caffè, mio caro, del caffè…».
«Ah, il caffè. Eccellente, davvero eccellente».
«Non dica bugie, fa veramente… come si dice… schifo, si certo, schifo… sicuro,
berrei volentieri un bel caffè all’italiana».
Ettore arrossì, cerco di rimediare con qualche frase di circostanza, infine temendo
di peggiorare le cose si zittì.
«Signor Lacchi, ho molto riflettuto sulla situazione. Desidero che suo padre
venga ripristinato…».
«Riabilitato, colonnello?». «Si giusto, riabilitato. Ho preparato una dichiarazione
che giurerò davanti ad un pubblico ufficiale. In Austria la cosa ha valore di prova
nei procedimenti legali. Lei è avvocato, in Italia l’effetto di legge è simile?».
«Credo che potremo utilizzarla come prova, se sarà istruito un processo militare.
In quel caso lei verrà sicuramente citato come teste».
«Intende dire testimone?».
Ettore assentì.
«Bene, nel qual caso mi presenterò».
Le formalità richiesero mezza giornata. Ettore nominò un curatore legale residente
ed insieme comparirono davanti al borgomastro. L’avvocato austriaco sapeva il fatto
suo e riuscì a convincere il titubante borgomastro della legalità del procedimento.
Apposta che fu la firma in calce, il documento fu riempito di timbri in tutti spazi
liberi. Al ristorante, saltarono fuori due bottiglie di vino del Reno e l’atmosfera
scivolò presto nel sereno compiacimento.
«Herr Garstner, non so come ringraziarla».
La vecchia spia sorrise amaramente. «Dovrei essere io a ringraziarla… per avermi
consentito di rimediare un po’ al male che ho fatto… mi saluti l’Italia».
«Colonnello, se lei acconsente, avrei piacere di averla presto mio ospite…».
Un ampio sorriso si allargò sul viso del vecchio.
Si ricompose subito.«Mi piacerebbe…vedremo…». Poi mentre il treno fischiava
iniziando la sua corsa, s’irrigidì nel saluto militare. Ettore lo vide mantenere quella
posa finché non disparve alla sua vista.
I due uomini si fissavano da qualche istante in un silenzio greve, che rendeva più
opprimente la calura della stanza.
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Ettore si grattò la fronte sotto l’attaccatura dei capelli. Si sentiva teso come un
arco. L’avessero toccato, avrebbe urlato. Faticava a mantenere la concentrazione.
Si sforzò di limitare i pensieri che gli offuscavano la mente. Sedevano di fronte.
Il “cobra”, l’uomo responsabile della morte di suo padre e colpevole del dolore
esistenziale suo e di sua madre, lo fissava con quegli strani, ipnotici occhi grigi. Gli
anni avevano aggravato una complessione fisica che in gioventù era stata potente,
ma l’uomo esprimeva ancora un’impressione di forza che preoccupò Ettore. “Come
potrei resistergli con il mio braccio di legno se mi aggredisse?”.
La sua voce lo fece trasalire. Era calma, controllata ma una nota falsa tradì
l’emozione. «Lei mi sta perseguitando da mesi ormai, perché ha voluto questo
colloquio? Cosa desidera?». «Ammiraglio, le dice niente il mio nome?».
L’alto ufficiale abbassò gli occhi sul biglietto da visita, poi lo fissò sorridendo.
«No, in verità nulla, noto però che lei è avvocato. Non rammento di aver mai
richiesto i suoi servigi. Le ripeto, cosa vuole da me?».
«Sono il figlio di Ramiro Lacchi. Tenente di vascello Ramiro Lacchi. Ricorda
qualcosa adesso?».
L’altro non perse la calma ma un leggero fremito delle crudeli labbra sottili tradì
la sua agitazione. «Come posso ricordare? Dopo più di quarant’anni passati in
Marina? Ho conosciuto tante di quelle persone che ormai i loro nomi e i loro volti si
sovrappongono nella mia memoria. Non pretenderà certo che mi ricordi di tutti».
«Ammiraglio lei sta mentendo, lo sappiamo bene tutti e due. Ramiro Lacchi è
l’uomo che fu vittima del suo tradimento. Uno dei tanti, ma l’unico che oltre alla
vita perse pure l’onore». Anche a questo affondo il militare mantenne la calma;
«In fede mia signore lei deve essere pazzo. Si fa ricevere dopo tante insistenze
per dirmi che sono un traditore. Non fosse per il suo braccio offeso, lo avrei già
sbattuto fuori a calci nel sedere. Non mi costringa a chiamare l’attendente e se
ne vada. Investa qualcun altro con le sue farneticazioni, io non sono disposto a
sopportarla un attimo di più».
Ettore sorrise, era proprio come si era aspettato. L’aver previsto il comportamento
dell’altro lo fece sentire più sicuro di sé. «Imbrogli le vele ammiraglio e dia
un’occhiata a questo». La riproduzione fotostatica atterrò sulla scrivania sulle ali
del vento della vendetta.
«So che lei non ha problemi con il tedesco…».
Il graduato prese il documento e dopo pochi attimi il colorito del suo volto virò
al rosso acceso. «Cos’è questo? È un falso, uno spregevole falso. È un cumulo di
menzogne».
«Non urli così ammiraglio, non farà che affrettare la sua fine. Quel documento
lo accompagnerà alla Corte Marziale».
L’ammiraglio si sollevò di scatto dalla poltrona per scagliarsi contro Ettore ma
le gambe gli cedettero di colpo e si afflosciò sulla sedia.
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Un fiore sulle onde
Francesco Castorina
Il viso gli era diventato violaceo e le vene del collo turgide come bastoni, minacciavano
di scoppiare. Allentò i bottoni del colletto ansimando. Riacquistata una parvenza di
lucidità si rivolse ad Ettore. «Perché non addiveniamo ad un accordo?».
«Non vedo in quali termini. Ammiraglio; io voglio rendere a mio padre l’onore perduto.
Voglio la sua completa ria-bi-li-ta-zio-ne». Sillabò l’ultima parola urlandola.
«Perché ha tradito? Certo non per soldi, lei è ricco e nobile! Perché dunque?».
Gli occhi dell’altro divennero duri e cattivi ed i muscoli della faccia si tesero come se
fossero sottoposti ad uno spasmo. «Cosa ne vuol sapere lei dei miei motivi. Piccolo
borghese senza principi. È uno stolto idealista come suo padre? Nella vita conta
una sola cosa; la virtù che ti proviene dalla nascita, dal sangue che scorre nelle
tue vene, dal tuo blasone. Quei poveri, patetici, piccoli italiani, come avrebbero
potuto capire ciò? Avrebbero insudiciato e sporcato quello che ci proveniva per
diritto divino!».
Ettore gli si avvicinò di scatto e gli sputò in faccia. «E cosa ha ottenuto vile bastardo,
facendo morire così tanti uomini? Nulla! Nulla!! Lo stramaledetto resto di nulla!
Dio la maledica! Lei è un traditore ed anche un vile senza coerenza. Si è venduto
anche nell’ultima guerra? Quanti altri uomini ha condannato a morire?».
L’ammiraglio si ripulì la faccia con la manica della divisa. Ettore si diresse verso
la porta. «Tra 48 ore consegnerò il documento alla procura della Marina ed in copia
ai giornali. Non cerchi di agire contro di me, la cosa farebbe comunque il suo corso.
Stavolta non se la caverà. Le auguro di bruciare tra le fiamme dell’inferno».
Gli puntò l’indice contro: «Due giorni, solo due giorni ancora, troppi anni ho
dovuto cedere alla disperazione… due giorni ancora…».
Uscì sbattendo la porta, senza salutare il perplesso piantone.
L’ammiraglio restò immobile alla sua scrivania. Vi restò per alcune ore ancora.
Il calar della sera portò una nota di fresco e le tende presero ad ondeggiare al soffio
della brezza marina.
Prese carta, penna e scrisse di getto una lettera. Dal mare era sorta una splendida
luna, la guardò con ammirazione. Era grande, la più grande che avesse mai visto.
E dietro la luna vide le schiere dei fantasmi, i morti della Benedetto Brin e della
Leonardo da Vinci.
Vide il volto di Ramiro Lacchi… e tutti lo guardavano con disprezzo, senza odio,
senza parlare, senza accusarlo.
Poi dalle tetre schiere si staccò una donna, la riconobbe… sua moglie… «Hanna,
Hanna…». Hanna perduta molti anni prima. La donna avanzò verso di lui, il suo
volto immobile in un gelido riflesso marmoreo.
«Hanna…». Tese le mani verso di lei ma la donna si fermò di colpo fissandolo
con occhi colmi di pietà. Poi dopo interminabili, muti istanti girò su se stessa e
disparve dalla sua vista.
«Hanna! Hanna! Hanna…».
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Il piantone apparve improvvisamente sulla soglia. «Ammiraglio comandi!».
«No…non ho bisogno di nulla, puoi andare».
Si prese la testa tra le mani.
Dal cassetto della scrivania l’acciaio brunito della grossa pistola rimandava cupi
riflessi. Il metallo fresco, dava una piacevole sensazione. Si accarezzò il viso con
essa, passandosi la canna sulle tempie come se il refrigerio potesse mettere fine
alla dolorosa pulsazione.
Poi rivolse lo sguardo al soffitto come a cercare il cielo, avvicinò la pistola alla
bocca e premette il grilletto.
La stagione estiva quell’anno si era prolungata oltre il consueto, cosicché ad
ottobre inoltrato si godeva ancora di un caldo alito di sole. Herr Garstner si accomodò
sulla testa candida il panama che un maligno alito di vento aveva minacciato di
fargli volare in mare. C’era tanta gente sulla tolda della nave, la Marina aveva fatto
le cose in grande; così dopo avere riabilitato con i dovuti onori Ramiro Lacchi,
aveva deciso di commemorarlo con una funzione in mare. Ettore dedicò un lungo
commosso pensiero ai suoi genitori. Si fecero avanti due marinai con una corona
d’alloro. Il vento scuoteva dolcemente le solette delle loro divise. Il cappellano
impartì la benedizione.
Quindi la corona fu lanciata fuoribordo. Uno splendido fiore bianco la seguì.
Volteggiò delicatamente prima di accarezzare le onde, planando nel cavo del serto
d’alloro. Ettore ed il colonnello Garstner si girarono per capire chi l’avesse lanciato
ma sul ponte superiore non videro alcuno. Il primo, rivolse gli occhi al cielo su cui
correvano nuvole bianche non ancora presaghe dell’autunno e iniziò a mormorare
una preghiera.
Il colonnello Garstner allora gli si accostò e battendogli la mano sul braccio sano
gli sussurrò:
«Ben fatto Herr Lacchi, veramente molto ben fatto».
NOTA DI CHIUSURA
Il racconto prende lo spunto da un evento passato alla storia; pertanto una parte
di esso è la ricostruzione del fatto e una parte frutto della “fantasia dell’autore”.
Precisamente è fantasia quella che racconta la “ricerca”della verità da parte di
Ettore Lacchi.
Il protagonista, suo padre Ramiro, il colonnello Garstner e il “cobra” sono
personaggi inventati. Sono invece realmente esistiti i personaggi richiamati nella
prima parte del racconto e l’ing. Ugo Cappelletti alla cui memoria e scusandomi
per questo, dedico il mio banale racconto.
Reale è l’effetto che il “Colpo di Zurigo” produsse; cioè il repentino annientamento
della rete spionistica austriaca in Italia.
C’è tanto di vero anche nelle parole che Garstner pronuncia quando descrive
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Un fiore sulle onde
Francesco Castorina
le tipologie di traditori. Dall’Evidenzie bureau di Zurigo furono asportate quattro
valige di documenti ed una cassetta in cui erano custoditi soldi, gioielli ed un effetto
personale del capitano Mayer.
Le valige presero inizialmente la via di Berna, dove la documentazione contenuta
fu esaminata da Pompeo Aloisi.
Oltre alle liste delle spie dislocate in italia, c’erano cifrari, piani militari e varie
altre cose.
Aloisi venne per primo a conoscenza dei particolari relativi all’affondamento
delle due corazzate italiane e dei nomi di chi materialmente aveva mandato ad
effetto i sabotaggi.
Cosa ancora più importante, venne scoperto un piano per sabotare altre due
corazzate; la “Giulio Cesare” e la “Cavour” che sarebbero dovute saltare in aria
rispettivamente il 5 ed il 17 marzo del 1917.
C’erano in programma anche attentati alla Sede della Banca d’Italia e a
Montecitorio, nonché altre incursioni a Napoli e Firenze.
I protagonisti del “colpo di Zurigo”, come nelle migliori tradizioni italiche furono
tutti dimenticati.
Allo scassinatore Natale Papini fu pagato un premio di quarantamila lire, anche
se per tutta la vita continuò invano a reclamare altre spettanze.
A Bronzin furono pagate solo le spese sostenute. Morì in ospedale in miseria.
L’avvocato Bini fu perdonato e a quel che si racconta divenne un uomo
migliore.
A Salvatore Bonnes ed Ugo Cappelletti fu inviata una lettera di congratulazioni
e quella fu la loro unica ricompensa.
Non fu assegnato ad alcuno un riconoscimento militare di qualche tipo, neppure
una croce al valore! Tutti i valori rinvenuti a Zurigo vennero trattenuti dal Governo
italiano quale “bottino di guerra”, tranne una spilla appartenente al Capitano Mayer
che reclamata, venne restituita dopo la fine della guerra.
…un fiore sulle onde, un fiore per tutti coloro che in pace ed in guerra hanno
trovato riposo nelle profondità del mare…
(Footnotes)
1
Antesignana della corazzata
2
“Dio è con noi”
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Taormina e il suo mare - Foto di Tino Copani
Mare di Riposto - Foto di Tino Copani
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Giovanni Bosia
CINQUE TERRE
P
er qualche anno ho vissuto in riva all’Adriatico, nelle Marche. Dopo il mio ritorno
definitivo in Piemonte sentivo la nostalgia di un angolo di mare solitario.
La Liguria, troppo curata da belletti e interventi dell’uomo, non si prestava al mio
rapporto d’amore con il mare; troppa gente a calpestarmi l’ombra.
Il mio è un rapporto sensuale, coinvolgente, integrale e come tale astioso verso la
presenza innaturale di un certo tipo di folla. I più si sentono autorizzati a trasferire
in spiaggia le chiacchiere cittadine, visi artificiali, creme puzzolenti, colori e vezzi
estranei al luogo. Ti impongono i suoni stridenti delle radioline o rombanti di
moderni strumenti.
D’estate in Liguria non sei mai solo. Il mare lo cercavo all’alba, quando la brezza
soffia leggera da terra e sposa i profumi degli alberi all’afrore della salsedine; sono
considerazioni personali, sensazioni intime, ore di colloquio con me stesso.
Mi assalivano le nostalgie delle piccole spiaggette sassose sotto gli strapiombi
del Monte Conero. Le raggiungevo in barca, a volte dopo lunghe nuotate.
Ora, dovevo trovare una soluzione. Così, un giorno di primavera verso la fine
degli anni sessanta, girando all’azzardo, ho scovato nelle Cinque Terre un angolo di
paradiso, poco oltre Vernazza. In alto, vigne terrazzate circuite da scalinate: gradini
e gradini a perdita d’occhio. Qualche albero piegato nel tempo dal vento.
Lì sul mare, due casette diroccate con i tetti sfondati e una terza abitabile, piccola
e riparata, nascosta in una piccola insenatura disegnata, da ogni lato, da rocce
scoscese. Testarde indagini sul proprietario m’allungarono le ricerche sino a Levante.
Breve: l’affittai sordo alle giustificate rimostranze di mia moglie condannata a un
mese di clausura. Rocce e la collina incombente su di noi, ripida. Ci s’arrivava a
piedi, l’auto lasciata in un’aia distante un migliaio di metri, dietro un costone verso
il paese. Per soddisfare il mio egoismo himalaiano spianai ogni difficoltà con il
proprietario, accettai le sue condizioni per un mese d’affitto e imposi il consenso
a mia moglie. Poveretta, la condannavo a una serie infinita di pediluvi, lei che non
osava avventurarsi in un mare frastagliato di sole rocce.
Tornammo il giorno convenuto. Il tempo incerto non ci diede il benvenuto e
trascorremmo la mattinata nell’organizzazione dei servizi logistici. Forzando il
mio temperamento mi imposi una calma sordità per non ascoltare un femminile
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soliloquio, un sottofondo borbottato, monocorde, pigolante. Le opponevo un silenzio
inattaccabile dalle provocazioni. Sopraggiunse la quiete, per stanchezza.
Nel pomeriggio, da un balconcino fatiscente con sensazione di precaria stabilità,
mi deliziavo nell’osservazione del mio regno. Al mio sguardo si presentava uno
slargo limitato, conchiuso da incombenti rocce enormi e un mare schiumoso color
piombo. Ai margini gli anni e le intemperie avevano depositato una coltre di
vecchiume e terra, poi fecondata dal vento e dalla pioggia. Tra le pietre, erbe a ciuffi
e cespugli, un gatto di randagia magrezza si stiracchiava nella gramigna.
Come esploratore, salgo la collina abbandonando la riva e lesto mi addentro in salita.
Il paesaggio è accigliato, austero, bellissimo. Un accenno di sentiero si sgomitola un
po’ su e un po’ giù. Più in basso balena uno specchio opaco e grigio: il mare.
Procedo e in alto, con il vento, arriva un nuvolone gonfio di tempesta. Comincia
a piovere quassù, in pochi attimi lo spettacolo è irreale. Una metà del mondo
circostante offuscato dalla pioggia e quella al di sotto, la metà del mare, finalmente
azzurra e luminosa di sole improvviso.
M’affiora allo spirito l’eterno conflitto tra il bene e il male, mentre si disegna
timido un arcobaleno a comporre il dissidio, in un uniforme spolverio di sole nell’aria
pulita. Il silenzio è denso, stagnante. Persino il mare laggiù si rivela quasi immobile
e si limita a sciabordare a bassa voce. I gabbiani pigramente paiano immobili sul
filo dell’aria, con eleganza secolare.
Il restante è silenzio, silenzio sospeso su quest’angolo di mondo roccioso. Ad
alta voce esclamo la mia meraviglia nell’esaltazione di scampare alla volgarità di
una villeggiatura scialba, carica di suoni e colori violenti.
Il ritrovato sole mi richiama a bordo mare, agli scogli, al desiderio di frescura in
acqua. Scendo e mi avvolgo nel mio antico amore marino. Il richiamo di lontani anni
bambini ancor oggi eccita ed esalta i miei sensi. Sono attratto dal luccichio inafferrabile
di onde mai eguali, accompagnate dal sottofondo di una nenia di sirena.
Penso: il mare nella solitudine è uno stato d’animo, difficile da descrivere a chi non
ne sente la grandiosità. M’avvicino alla riva e mi allungo su un roccione levigato nel
tempo dalle acque. Immobile, occhi chiusi, supino. Sull’acqua vagamente percepisco
squarci di luce che affiorano come filacci di seta striati d’oro guizzante.
L’azzurro incombe e s’inserisce tra il reticolo delle ciglia. Piccolo mondo di
sensazioni, un microcosmo segreto che sol a me si svela e mi sento in pace, immerso
in pensieri lievi e pigri, come scaturiti dalle membra rilassate. Pensieri sensuali
che sfiorano la carne distratta dal sole, raggi suadenti ad aprire all’immaginazione.
Attendo al fruscio accennato dall’onda incerta, al mormorio sommesso, rivelato da
un fraseggio sempre eguale all’orecchio, eppur sempre rinnovato. Lo scarlatto della
luce si insinua sotto le palpebre grevi, calmo, aspettando l’ispirazione. Il sangue
indirizza al candore cittadino l’irruenza insistita del sole. Alzo leggermente il capo
e lo sguardo si perde al limite grigiastro dell’orizzonte su profili incerti, vaghi.
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Cinque terre
Italo Bosia
Ora tendo l’orecchio all’onda che mi arriva più certa, costante, rinnovata. È un
suono cristallino, quale invito, promessa, lusinga: richiamo di memorie infantili.
Non mi rendo conto e scivolo pigramente nella frescura accogliente. Incorporeo,
senza peso, le mani sfiorano la roccia spingendomi sul fondo con i primi lenti gesti
esitanti. Fusione naturale tra movimento e pensiero, nell’essenza del presente vitale.
Un breve momento staccato dal tempo.
L’aiuto di occhiali, boccaglio e pinne mi proietta in una dimensione indefinita.
Esaltazione dei sensi inebriati, nella sublimazione dell’essere in pura sensazione.
Rinnovo ancora l’inconscia scoperta di perfetto equilibrio tra corpo e pensiero.
Riaffioro alla luce per iniziare un mio collaudato balletto: un respiro, un - due
bracciate, quattro colpi di gamba, in sincronia. Ancora, respiro-bracciate-gambe,
ancora, continuo e il tempo si adatta a scandire i movimenti costanti. Automatismo
riposante, senza fretta seguendo i tempi come un metronomo inconsapevole.
Il sole sulle spalle, sulla nuca. Lo sento come bacio prolungato, caldo e
appassionato di completo possesso. L’onda scivola, mi avvolge e desideri rallentati
sfiorano la fronte leggeri e casti, si prolungano sulla curva del collo, più definiti si
rinnovano senza pause. Il corpo cresce gioioso, si fa possente, dominatore e, su di
esso, sento una progressione serpentina come una liana che mi s’adatta, spire che
m’avviluppano, strisciano come carezze d’amante esigente, mai sazia.
Gli occhi fissi al fondo che scorre senza scosse mentre avanzo ritmando le
bracciate. Lo sguardo incetta, sullo schermo del fondale, ciottoli e rocce grigiastre
possenti, eterne, trapuntate dal nero dei ricci, maculate dalle alghe abbarbicate in
arterie verdazzurre che, con indolenza infinita, si cullano nel movimento.
Esplosioni d’oro sparano d’intorno raggi imprecisi, sciabolate di luce che irridono
ai contorni definiti, alle geometrie razionali. Lenta sfila una lunga teoria di cefali
brunastri e a tratti un guizzo argenteo, subito sopito. Indifferenti alla mia presenza,
ottusi nell’allungato branco, si affidano a misteriose correnti che solo loro indovinano
o sanno. Illusione di camminare leggero e staccato sul variopinto tappeto che si
dipana con improvvise presenze di anfratti, nicchie e terrazze.
Soprattutto luci. Luci già vissute da bambino in un’alba segreta in un dormiveglia
di festa. Dormiveglia in lente bracciate, continue e che si accumulano infinite. Sono
solo con i miei pensieri e proseguo nel balletto: un respiro, un - due braccia, quattro
colpi di gamba. Perdo il senso del tempo trascorso.
Alzo il capo, Io sguardo al sole che sta tracciando la fine della sua curva
all’orizzonte e mi dirigo alla riva, alla casetta, alla mia donna. Torno, ora sollecito
e le pietre mi offendono il passo.
Il primo giorno di un mese quasi perfetto, di luce, sole e amore. Ma su tutto,
nuotare e nuotare, alla scoperta di nuovi angoli, altre insenature, oltre i costoni che
delineavano il piccolo regno.
Ore e ore a infilare i giorni in una collana tutta d’oro. Un continuo rinnovarsi ai
miei occhi d’amante ingordo di mare.
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Alcuni attori della Compagnia Teatrale Ionica” interpretano il racconto “Sul Doria c’ero anch’io”
di Giovanni Conti di Genova che ha vinto il primo premio della prima edizione del Corcorso “Fatti
di bordo”
Il Presidente del Circolo consegna la targa di ringraziamento alla regista della rappresentazione
Francesca Le Mura
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Nazario D’Amato
IL RITORNO
dedicato a Penelope
L
a prima cosa che fa Alfio, la mattina quando si sveglia, è il rito del caffè:
va in cucina, prende dallo stipo il barattolo del caffè, lo apre, si immerge a
narici spalancate nel profumo intenso e sferzante della polvere nera, prende la moca
dallo scolapiatti, apre il rubinetto, fa scorrere per mezzo minuto un sottilissimo
filo d’acqua “di deposito”, che zampilla nel lavello d’acciaio e scivola con sordi
gorgheggi nel tubo di scarico, riempie il barilotto della moca senza superare la
valvola di sfiato, vi immerge l’imbuto d’alluminio, lo riempie di polvere profumata
che preleva, con attenzione e perizia, dall’antico barattolo di latta, chiude la moca
avvitando il bicchiere col beccuccio, deposita la caffettiera sul fuoco piccolo della
cucina e accende il gas. Quindi si avvicina alla porta del balcone affacciato sul porto,
scruta l’orizzonte, osserva gli alberi delle barche ancorate nel porticciolo turistico e
sentenzia fra sé e sé: «oggi scirocco, ci sarà brutto», oppure «libeccio, sarà bello».
Poi risponde al richiamo della caffettiera che gorgheggia, si versa il caffè, ritorna
al balcone e lentamente sorseggia l’insostituibile bevanda, trattenendo, dopo ogni
sorso, la tazzina nella coppa della mano per riscaldarsene. Dopo di che si mette
seduto sul divano posto al centro dell’officina di fronte al balcone, appoggia la
tazzina sul tavolino, prende in mano la pipa che non fuma e se ne sta a pensare per
tutto il tempo che ritiene necessario, finché non decide il da farsi.
L’officina è la stanza non più grande di venticinque metri quadrati della sua casa
sulla rupe, nella quale passa la maggior parte del tempo; un soggiorno, adibito
più che altro a studio, dove si impone un’immensa libreria strapiena di libri,
riviste, classificatori, un teorema multiforme e policromatico di dorsi - nobili e
plebei, borghesi e popolari - di titoli e nomi di scrittori, di poeti, di narratori noti e
sconosciuti del vivere, di luoghi e di anime; un’alzata, che si eleva dal pavimento alla
volta, interrotta trasversalmente a metà altezza da un televisore, uno stereo, dischi,
cassette, DVD, un proiettore super otto, una macchina fotografica disoccupata, un
registratore portatile non più in uso, e una vecchia olivetti 32, cimelio di un tempo
in cui la vita scorreva con un ritmo più lento. Il resto dell’ambiente è occupato da
un grande tavolo di legno massiccio, messo a ridosso della libreria, che funge da
scrivania e sul quale c’è un computer; da un divano, che si allunga al centro della
stanza; da un cavalletto da pittore con una pittura avviata, vicino alla portafinestra,
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rivolto verso la luce naturale; e da un baule di noce addobbato di cuscini colorati,
al cui fianco, su un trespolo, attende una chitarra, con la pazienza dei vecchi, con
il silenzio dignitoso del nobile consapevole del prestigio armonico del faggio
rosso ciliegio della cassa acustica. Alle pareti, oltre a due racchette da neve, con
sobrietà e gusto, sono attaccate targhe, riconoscimenti e quattro quadri di scarso
valore artistico, ai quali - però - è particolarmente legato: la casa di mattoni rossi,
il gabbiano, le farfalle, la tenda a strisce bianche e blu.
Quella mattina, mentre beve il caffè, eretto davanti alla finestra, Alfio non riesce
a concentrarsi su ciò che gli è davanti: la vita che si compone sulla panchina del
porto, il rollio degli alberi delle barche, il faro, i battelli da pesca che sbuffano con
rumori cupi e che si perdono in lontananza fino a scomparire, quando le barche
escono dal porto; la litorale che nascendo dalle acque, dal porto si arrampica con
curve goffe e panciute sulla collina e scompare fra le case del paese. Mentre osserva
quello spettacolo - non con la noia del già visto, con l’abitudine del già conosciuto,
col disincanto del previsto, ma con lo stupore, con la curiosità, con l’incanto della
prima volta, giacché sempre diversa è la rappresentazione in quel teatro di cui
anche egli è attore - è attratto e distratto, inspiegabilmente, dalla sua libreria, che
lo distoglie dal porto e dal mare e verso la quale, tra un sorso e l’altro di caffè,
volge lo sguardo, come per rispondere ad un richiamo silenzioso ma potente, che
non capisce se provenga dai libri in fila negli scaffali di cui conosce ogni pagina
o se, invece, emerga da dentro il suo petto, da un punto imprecisato fra il cuore e
il collo dello stomaco, come un invito insistente e tenace a concentrare lì la sua
attenzione piuttosto che altrove.
Derogando al rito, con esitazione e circospezione, Alfio si avvicina alla libreria,
scruta attentamente i volumi come se li vedesse per la prima volta, come se dovesse
cercare un libro fra centinaia di libri sconosciuti, allunga la mano verso la mensola
e ne estrae “Monti”, il primo libro che ha scritto agli inizi della sua carriera di
scrittore, quando, anzi, neppure immaginava che lo scrivere sarebbe stata la
ragione della sua vita. Lo apre e dal leggero profumo di muffa che lo raggiunge alle
narici emerge un foglio ripiegato e un’achillea nana1, un’erba livida rinsecchita,
inspiegabilmente sopravvissuta alla sua fragilità e al tempo. Non ha bisogno di
aprire quel foglio un po’ ingiallito per conoscerne il contenuto: all’improvviso, come
se gli fosse comparso alla porta un vecchio amico che non vedeva da moltissimi
anni ma che subito riconosce, tutto un passato si apre davanti ai suoi occhi. Per
qualche minuto Alfio trattiene il libro in mano, impacciato, senza sapere di preciso
cosa fare, come reggendo un oggetto prezioso e tema di romperlo, di mandare in
frantumi; poi, recuperando la manualità dell’abitudine e della consuetudine, i gesti
precisi dell’artigiano con i suoi arnesi, chiude il volume con sicurezza nella mano
tenendolo dal fronte e lasciando nella pagina il dito indice per non perdere il sito
della scoperta archeologica del tempo, del suo tempo, e si dirige verso il centro
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Il ritorno
Nazario D’Amato
della stanza. Appoggia la tazzina sul tavolinetto, si accoccola lentamente sul divano
lasciandosi sprofondare fra i cuscini di raso, prende la pipa che non fuma e si mette
a fissare il mare, l’orizzonte aperto, dove passato e presente si incontrano e su
quell’orizzonte deposita i suoi pensieri.
Quando, in gioventù, avevano provato a profetizzargli che un giorno avrebbe
abbandonato i suoi monti, aveva urlato, tanto forte da far correre l’eco della sua voce
per la valle, che mai e poi mai lo avrebbe fatto, perché lì era la sua vita. Molte volte
si era allontanato dal suo paese per lavoro, ma sempre vi aveva fatto ritorno. Nella
sua casa in sasso e legno di Campodolcino, appena fuori dal paese sulla strada per
Motta, poco distante dalla teleferica e dal ponticello sul rio oltre il quale si snodavano
i sentieri verso i boschi, le cime e gli alpeggi, aveva scritto tutti i suoi romanzi, le
novelle, le poesie. La poesia, anzi, prima di ogni altra matura esperienza con la
parola scritta, è stata la forma espressiva alla quale si è affidato, ancora ragazzino,
senza immaginare che da lì a qualche anno essa sarebbe tornata a trovarlo e si
sarebbe insediata in lui come un morbo benefico. Non c’era un altro luogo dove
avrebbe potuto farlo. Diceva ai suoi amici che egli era Ulisse e Campodolcino Itaca;
aveva sempre detto così fin dal suo primo viaggio, anzi da prima, da quando andò
a studiare a Milano e già allora molti pensavano che Alfio avrebbe abbandonato le
sue montagne e la sua gente e che, al massimo, si sarebbe fatto “milanese” e che
come quei cittadini sarebbe tornato come un estraneo su quei monti, di tanto in tanto.
Per prenderlo in giro gli dicevano che aveva cambiato aspetto, aveva modificato
la camminata, che si muoveva non con passo lento, misurato e attento ma veloce e
nervoso ma, soprattutto, che aveva perso il profumo forte di montanaro, di animale
selvatico e di averne acquistato uno leggero e appena percettibile, quasi femminile,
di animale domestico cresciuto fra i parquet, le moquette e i vapori di lavanda di
certe case, di taluni salotti di città. L’odore della sua pelle era mutato, insomma,
come se l’aria insalubre della metropoli, gli odori dello smog e del cemento avessero
spodestato quello dell’ossigeno, della resina, dell’umido muschioso dei boschi, di
legna bruciata nel camino e della cacca di vacca fumante che ogni montanaro si
porta addosso indelebilmente. Ma li aveva sempre smentiti ed era felice di ciò.
«È tornato Ulisse», scherzavano quelli del paese quando lo rivedevano fra loro
dopo una lunga assenza, fieri del paesano famoso che aveva avuto successo ed il
coraggio di non abbandonare la montagna, di non lasciarsi ammaliare dal canto
delle sirene che aveva incontrato sulla via.
«Eh, mi sono fatto legare all’albero maestro della mia nave!» scherzava con ironia
senza, tuttavia, dire il falso.
Erano felici i vecchi e gli amici di Campodolcino - pur per apparenti opposte
ragioni - per la presenza di Alfio fra loro, per averlo sempre come fedele concittadino,
tanto da riuscire a smussare gli angoli retti che squadravano i loro visi e ne
imprigionavano i sorrisi in smorfie di marmo, fino a farsi scuotere le anime di
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granito, che sembravano refrattarie alle emozioni, in vibrazioni di calore. Ed ogni
ritorno non era mai una parentesi breve ma una lunga permanenza, durante la quale
si riconsegnava a mai smarrite abitudini, di cui aveva nostalgia quando era lontano
da lì. Si incontrava con gli amici nei crotti2 a bere vino, a mangiare taragna3 con la
salsiccia, a cuocere carne e pane sulla piotta4, a parlare loro di cose lontane e da loro
farsi raccontare di quelle vicine, aggiornamenti sulla vita del paese, sulle nascite, sui
matrimoni, sulle morti. E con alcuni di loro andava a scarpinare e ad arrampicarsi sui
pizzi, ripercorrendo antichi camminamenti: sullo Stella, sul Groppera, spingendosi
fino al rifugio Chiavenna dove non poche volte ha dovuto passare la notte perché
un temporale non preventivato lo aveva bloccato su quelle altezze intorno al lago
Nero. E dopo che aveva passato quindici o venti giorni là, fra la sua gente e fra i
suoi monti, gli dicevano che si era “bonificato”, che aveva ripreso la camminata
giusta e anche gli odori di una volta; ma poi, come sempre, il lavoro lo chiamava
in qualche parte d’Italia e del mondo e se ne ripartiva.
Un’estate, Alfio decise di passare le vacanze in un posto di mare; si concesse un
paio di giorni per pensare a quale posto scegliere, sfogliò distrattamente delle riviste
turistiche senza che gli andarono in aiuto e, alla fine, scelse una piccola isola nel
golfo di Napoli, quella meno turistica, meno aristocratica, più vera dell’arcipelago,
con un porticciolo commerciale, qualche marina e una manciata di case colorate:
Procida. Aveva da poco compiuto cinquant’anni.
Ci sono eventi nella vita che dentro la veste della normalità nascondono
un’inaspettata eccezionalità, che si occupa di te solo fra mille comparse, come
aspettandoti dalla notte dei tempi; essa ti sconvolgerà la testa e l’anima, e ti ci
consegnerai come se non aspettavi altro che quell’appuntamento.
Dopo di quella vacanza, pur al tranquillo e al riparo delle sue cose nell’appartamento
troppo grande per un singolo della casa milanese, l’autunno si presentò con un
carico di insopportabile grigiore e si rese conto che qualcosa in lui non andava. Un
malessere indecifrabile lo accompagnò ad intermittenza per diversi mesi, finché
non gli venne di pensare all’isola e la sua inquietudine trovò una spiegazione e fu
sostituita dalla nostalgia. L’anno dopo tornò sullo scoglio5 e decise che doveva
stabilirvi la sua seconda dimora. Comprò casa e cominciò una transumanza fra i
monti e il mare. I periodi di permanenza nell’isola diventarono sempre più lunghi e
non era doloroso stare lontano dalle sue montagne, perché in quel fazzoletto di terra
disteso sul Tirreno trovava ciò che gli mancava e che lo completava. Un mattino,
diverso dagli altri, prese la decisione di abbandonare i suoi monti e di trasferirsi
definitivamente sull’isola. Quello scoglio, quella minuscola e viva propaggine
dei campi flegrei, quasi staccata dalla Monte di Procida con uno strappo, con uno
stiramento tettonico dei muscoli della terra; quella minuscola isola a forma di ragno,
piena di cale e di scogliere di tufo ricamate di paretarie e ginestre, quel giardino di
limoni di pane, di arance, di “biancolella” e rosmarino, di gelsomino, di sole, era
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Il ritorno
Nazario D’Amato
casa sua. Fece, quindi, le valigie, in un baule mise le cose più care da portare con
sé - i libri, la pipa di suo nonno che gli lasciò suo padre perché lui la lasciasse al
figlio e le racchette da neve che non usava più da molti anni - e da Milano prese il
treno per Napoli. Tutto il resto, i silenzi delle vette, la sensazione di entrare nella
dimora di Dio e di parlargli dopo le arrampicate e sperimentare, con l’euforia del
successo dopo la difficoltà delle salite, cosa volesse dire esserne parte, tutto questo
se lo portò nel cuore.
Per i suoi amici la ragione di quel trasloco al mare, di quella metamorfosi così
radicale ed improvvisa della sua vita, è sempre stata un mistero. In qualche misura
lo è stato anche per lui anche se, poi, non ne è rimasto così sorpreso, così stupito:
quell’evento, in fondo, non è stato del tutto inatteso. Qualcosa di sconvolgente era
accaduto in lui, se l’esperienza del mare l’aveva coinvolto in modo così intimo, così
totalizzante. Fra le spiegazioni più nobili che si diede ci fu quella dell’esperienza di
Dio la quale, per essere veramente compiuta, vissuta fino in fondo, bisognava che
passasse attraverso l’incontro con il mare e di chi quel mare lo viveva, così come
c’era stato quello con la montagna, e in quel modo, quindi, si chiudesse il cerchio del
suo rapporto con la natura e con l’uomo. Cos’altro era il suo viaggiare per lavoro se
non un modo per soddisfare la sua ricerca di altro, dell’altro sconosciuto, di appagare
le sue curiosità, di dare una risposta alle sue inquietudini? Tuttavia sapeva benissimo
che c’era dell’altro, che ben altre ragioni, non meno nobili, l’avevano spinto a quella
decisione. Qualche anno dopo le interpretò come la “sindrome di Penelope”, con
il fatto, cioè, che nella sua amata Itaca, nella quale tornava dopo ogni viaggio,
non c’era mai stata una saggia e paziente tessitrice ad attenderlo. Alfio non s’era
mai posto questo problema, finché non ha incontrato Penelope su un’altra isola, in
un’altra terra e a nulla gli è valso interrogarsi, arrovellarsi il cervello se fosse stata
Itaca a richiamare Ulisse presso di sé o, invece, Penelope; se Ulisse sarebbe mai
tornato nella sua terra se non ci fosse stata la sua donna là ad attenderlo e, ancora,
quali fossero i numeri primi sui quali si gioca il destino degli uomini: quale la causa,
quale l’effetto, cosa è determinante e cosa, invece, determinato? La risposta che
trovò - visto che sentiva il bisogno culturale, emotivo, psicologico di darsi a tutti
i costi una risposta e archiviare quelle domande - fu che sebbene Itaca e Penelope
convivessero in Ulisse in un indissolubile ed inscindibile rapporto di reciprocità
ed esercitassero su di lui un potente richiamo, ne determinassero l’equilibrio del
vivere fra passato e futuro, fra certezze ed incertezze, tranquillità ed irrequietezza,
sicurezza e incertezza, la terra è là dove c’è l’amore. Itaca è Penelope e, in ciò,
Ulisse fu fortunato.
«Buon giorno vecchio poeta».
Una voce calda e carezzevole raggiunge Alfio e lo riporta al presente. Sicuramente
del caffè saprebbe farne a meno, ma del saluto di sua moglie, della sua voce e delle
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sue grandi mani che un attimo dopo gli toccano le spalle e la testa in una carezza
che gli riscalda il cuore, del suo bacio sulla guancia sinistra mentre lo cinge dalle
spalle in un abbraccio tenero e rassicurante, alla mancanza di tutto questo non
sopravvivrebbe.
«Buon giorno gabbiano ruffiano».
La donna si stacca da lui, gira intorno al divano, si mette seduta al fianco di quel
vecchio con la barba bianca un po’ selvaggia, infila il suo braccio sotto quello di
lui e gli si rannicchia vicino. Poi reclina la testa sulla sua spalla.
Un pomeriggio di quella prima vacanza sull’isola, passeggiando per le stradine
lungo la costa, Alfio imboccò una lunga e ripida scalinata che scendeva al mare
e si trovò in una caletta al riparo dai venti, affacciata sul mare aperto verso sud.
Non c’erano bagnanti, faceva caldo, ma la sera incalzava, le ombre si facevano
oblique, il mare calmo moriva con la sua risacca sulla spiaggia di rena nera, e il
silenzio innaturale era rotto dallo stridio dei gabbiani e da lontani fischi di battelli.
Così gli piaceva il mare, oppure nel suo contrario burrascoso, quando sembrava
volesse inghiottire l’isola e rispedirla nelle viscere della terra. Quel montanaro non
era lì unicamente per cercare riposo dalle fatiche di un anno, no. Voleva conoscere
intimamente quel posto, ascoltarne i silenzi e i rumori, interpretarne le voci, quelle
del vento, del mare, e della sua gente per capire - ancora una volta - cosa unisca gli
uomini di ogni parte del pianeta e li fa simili, pur nelle apparenti diversità. Poiché
nel riconoscersi parti dello stesso creato e dello stesso creatore, si trovano le ragioni
della convivenza e della tolleranza e si comprende meglio se stessi.
Mentre camminava a piedi nudi sulla battigia e assaporava il piacere dell’acqua
che si infilava fra le dita dei piedi e poi ne riusciva come per gioco, si imbatté
in una donna seduta su uno scoglio a ridosso dalla parete di tufo, che dipingeva
su un album da disegno. Fu subito preso da un iniziale imbarazzo; se fosse stato
su un sentiero di montagna e avesse incontrato una donna che procedeva nella
direzione opposta alla sua – come tante volte era accaduto -, l’avrebbe salutata
senza pensarci due volte: così si fa sui monti, non esistono sconosciuti ed estranei
su per i sentieri. Ma superò subito quell’impasse, decise che non poteva ignorarla,
le rivolse un cenno di saluto e sostò un poco presso di lei Si scambiarono poche,
timide battute, si presentarono: «piacere Alfio», «piacere Grazia». Un gabbiano ad
ali spiegate nel volo prendeva forma sul foglio da disegno; Alfio ritenne cortese
esprimere un garbato e cortese apprezzamento dell’acquerello. Pochi minuti dopo
la lasciò al suo disegno e risalì la ripida scalinata che conduceva verso il paese. Il
sole era completamente sparito, inghiottito dalle acque del mare, scomparso dietro
la linea di mare-cielo sulla quale la sua eco, con una corona di bagliore mitigato e
allo stesso tempo esaltato dal nascondimento, si stendeva come un’autostrada di
luce sul mare, fino alla terra ferma. Così gli era parso l’orizzonte, quando si voltò
indietro per l’ultima volta, sulla sommità della scalinata, prima di immergersi nei
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vicoli stretti che portavano al suo albergo.
Il giorno successivo, verso il tramonto, l’uomo tornò su quella spiaggia e lì la trovò
ancora. Il secondo incontro fu affrancato dal timore e dall’imbarazzo del primo e
Alfio si sentì rivolto ad un approccio normale, come fra conoscenti, anche se non
proprio amici. Si fermò con lei e le tenne compagnia, mentre il gabbiano cresceva e
il mare li ascoltava. E ritornò da lei ogni giorno, ad ogni tramonto, anzi, finché non
finì la sua vacanza. Lei dipingeva, lui la guardava e se ne stava in silenzio al suo
fianco ad osservarla, senza che l’assenza di parole si facesse ostacolo all’incontro, al
dialogo. A tratti lei interrompeva la pittura, allora si mettevano seduti l’uno a fianco
dell’altra e parlavano come vecchi amici. Qualcosa di misterioso e d’inspiegabile
spingeva Alfio ad una confidenza precipitosa ma inevitabile, come non aveva mai
sperimentato prima con le donne che aveva incontrato nella sua vita. La pittrice “non
aveva con l’uomo nessuno di quei timori, di quelle riservatezze che si interpongono
nelle relazioni fra un uomo e una donna”6; ella parlava, parlava della sua pittura,
del bisogno di fermare sulla tela tutto ciò che dell’isola pareva infissabile, non solo
e non tanto perché si mostrava nei mille volti cangianti dei riverberi, dei riflessi,
delle ombre, della luce e del calore del sole, delle irruenze e delle carezze delle
onde ma, soprattutto, per come l’animo vedeva di volta in volta tutto quello e ne
interpretava movimenti e vibrazioni. Il gabbiano che stava dipingendo - gli diceva
- le sue ali spiegate, non erano soltanto quelle del pennuto d’argento che si librava
su quell’isola e su quel mare, ma il riflesso del suo desiderio di essere dentro quel
volo affinché, attraverso di esso, potesse meglio conoscere l’isola, esplorarla nei
suoi angoli e anfratti più reconditi, carpirne segreti e misteri oppure osservarne la
normalità da una prospettiva diversa, non quella radente il suolo dei vermi e neppure
da due metri dal terreno come gli umani, ma da un altro punto di vista, quello alto
dell’uccello, il cui orizzonte è infinitamente più ampio, più aperto, più grande di ogni
altro essere vivente. Del gabbiano sognava di condividere l’esperienza di liberarsi
dal peso del corpo e levitare fino a volare e, in ciò, avere la sensazione, la certezza
di un senso di libertà e di purificazione, come liberandosi da una zavorra: questo
era il motivo del suo bisogno di dipingere, gli spiegava la donna. E gli chiedeva
quale era il motore che spingeva lui a scrivere racconti, poesie. L’uomo, sollecitato
da quell’incalzante richiesta, raccoglieva le idee, si sforzava di sintetizzare anni di
domande e di risposte che da sé si rivolgeva, cercava di andare al nucleo centrale
delle ragioni di quel che egli era, e le rispondeva che per lui “la parola era la sola
predestinazione dell’uomo il quale era stato creato per formare pensieri, come
l’albero per produrre i suoi frutti”; che “l’uomo si tormenta finché non ha espresso
al di fuori ciò che lo agita dentro. La sua parola scritta è come uno specchio di cui
ha bisogno per conoscere se stesso e per assicurarsi che esiste”7. Alfio e Grazia si
stupivano, si meravigliavano e si confortavano, si compiacevano e si magnificavano
nel verificare che, se pur con parole e metafore diverse, avevano detto la stessa
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cosa. E ciò intrigava l’uomo e anche la donna giacché si scoprivano sullo stesso
orizzonte ed era piacevole condividerne lo spazio. E, ancora, la procidana parlava al
milanese dell’isola, delle cose che valeva la pena vedere, conoscere; delle piazzette
della sua infanzia, di portoni che nascondevano scalinate che scendevano ripide
al mare o che aprivano su giardini, su vigne. Raccontava di vecchi che, al riparo
d’antichi portici a picco su balconate sul mare, ammiravano la profondità del mare
e ne raccoglievano le voci, spesso le proprie che ritornavano come da un lungo
viaggio nel tempo per farsi riascoltare. L’uomo il giorno dopo, allora, si portava
in quei posti che gli aveva indicati la donna e gli pareva di osservarli, di osservare
l’isola da una prospettiva che diversamente gli sarebbe stata nascosta e avrebbe
avuto di quello scoglio una visione parziale e superficiale, come un qualsiasi turista
distratto e questo gli faceva pensare che la sua vacanza aveva un senso, che ogni
cosa che faceva in quei giorni aveva un senso. Attraversò portoni, visitò androni,
giardini di limoni; si fermò nelle piazzette bianche di calce, incontrò un vecchio
seduto sotto il portico con lo sguardo fisso sul mare. Alfio lo salutò con cortesia, il
vecchio ricambiò il saluto e gli parlò come ad uno di famiglia, ad un nipote, ad un
figlio o ad un amico del paese e gli consegnò la gerla dei ricordi; e lo straniero lo
ascoltò con rispetto ed interesse, gli rimase al fianco finché non terminò di parlare
e anch’egli guardò, da lì, la pianura d’acqua che si perdeva sull’infinito e gli venne
di pensare ai versi “tu sei il mare, ostacolo e legame, strada maestra e insondabile
baratro…”8, e gli parve, finalmente, di capirli.
C’era, in quell’isolana dagli occhi di cielo e di mare, qualcosa di semplice e
di intrigante, di piccolo e di grande, di raggiungibile e di infinito. La poesia e la
pittura si incontravano in loro; tutto diventava verso, parola, tratto, colore, sogno e
realtà. Sperimentava, con lei, la novità dell’esperienza della poesia che si liberava
dall’astrattismo emotivo, dall’architettura formale e si faceva concreta, dava un
senso alle cose: si faceva senso, nuovo e compiuto.
Alla vigilia della partenza Grazia era sulla spiaggia, al tramonto, ad attenderlo.
Non aveva l’album da disegno, ma reggeva un pacchetto; non era seduta sullo
scoglio ma stava in piedi con il viso e lo sguardo rivolti al mare mentre il vento le
scuoteva i capelli.
«Vorrei darti un pensiero da portarti sui monti, così ti ricorderai del mare», gli
disse la donna porgendogli il pacchetto.
Alfio accolse con imbarazzo ed emozione il regalo. Stettero a lungo a parlare;
poi si salutarono. La vacanza era finita. A Campodolcino aprì il dono della donna e
rimase muto: il gabbiano aveva preso il volo e stava sui monti con lui.
«Più silenzioso del solito» dice Grazia, mentre allunga le sue mani grandi su
quelle dell’uomo, carezzandole, e gli sfila il libro di mano, senza che il marito
opponga resistenza. Lo apre dove lui ci tiene il dito, raccoglie nella sua mano, con
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Il ritorno
Nazario D’Amato
estrema delicatezza, il piccolo fiore bianco che ha dimorato per lunghissimi anni
fra quelle pagine e volge uno sguardo comprensivo e affettuoso al vecchio canuto.
Poi prende il foglietto e legge ad alta voce una poesia, datata ottobre 1926, scritta
con una stilografica nera e tratto sicuro:
Il temporale
Che strano, ho paura!
I tuoni, i lampi, il vento
da tanto è lontana la calura
e tra i monti alpini sento
dirompere il fragor della procella
la volta è senza stella.
Che macabro concerto!
Ecco, stavolta più vicino
e par che attenda incerto
l’ultima saetta.
Terminata la lettura, trattiene per un tempo non breve l’antica pagina segnata
dalle pieghe con una profonda croce scura che divide il foglietto in quattro parti
perfettamente uguali; la fissa e par che rilegga quei versi semplici per meglio capirli
o per incontrare, fra quelle parole di un tempo che non le appartiene e che pure
avrebbe voluto conoscere, l’uomo che ha accanto e di cui sa che molte cose le sono
sconosciute. Poi torna a fissare il marito, cerca di leggere nei suoi occhi verdi di
bosco. Lo guarda con indulgenza, con amore, con affetto, vorrebbe parlargli con la
testa e con il cuore, ma rimane muta. Sempre si sono dette le cose più importanti
in silenzio e guardandosi negli occhi.
Facendo violenza al desiderio di stargli accanto per tutta la mattinata, di
tenerlo stretto fra le braccia o di farsi stringere dalle sue, si solleva con risolutezza
dal divano, si avvicina al cavalletto e si dedica alla pittura interrotta la mattina
precedente. Vorrebbe fare qualcosa per portarlo fuori dal guado della malinconia,
per allontanare quel sentimento da quel luogo; vorrebbe dire qualcosa, ma tace, sa
che sarà lui a parlare.
«In estate andavamo, in squadre di ragazzi, a raccogliere quei fiori sulle cime
di Campodolcino. Bisognava prenderne tanti per prepararci infusi e decotti. Erano
miracolosi per la respirazione e per la digestione».
La voce è tremula. Alfio ha bisogno di rischiararsi la gola. Sul divano si sente
a disagio, come imprigionato, stretto da morse che gli vorrebbero impedire ogni
movimento; ha la sensazione che un prurito lo aggredisca alle gambe, che un ragno o
qualcosa di simile gli cammini lungo la schiena. Vorrebbe continuare a stare seduto,
a non mostrare insofferenza, ma un tappo gli chiude la laringe, gli ostruisce la gola
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e non lo lascia respirare. Allora, senza tradire inquietudine, mantenendo la calma
– ora apparente – del rito del caffè, si alza e si avvicina alla finestra. Sull’orizzonte,
che sembra toccarsi con mano, grosse nuvole stanno sedute imponenti sul mare
come i monti sulla pianura. Si sofferma ad osservarle per un tempo interminabile, in
silenzio, appoggiato con l’omero allo stipite bugiardato di pietra; poi, quando sente
la gola libera, capace di produrre parole e respiro, riprende, con una vocazione che
è essa stessa respiro, ossigeno: «Le nuvole lassù e i ruscelli dopo il disgelo…».
Ancora una pausa di silenzio spesso e avvolgente, del quale l’officina si fa
testimone, come dell’incontro fra passato e presente e – forse – del futuro che in
quell’evento si sono incontrati.
Come si vive in profondità un evento, in che modo se ne prende consapevolezza,
coscienza dei suoi esiti, del suo irrompere tra di noi? In che modo narrarli? “La
maggior parte degli eventi sono indicibili; si compiono in uno spazio inaccesso
alla parola”9. Spesso la parola non ha accesso proprio in chi di essa si sente
sacerdote, profeta, artigiano, assiduo frequentatore, e ciò dà un senso di impotenza,
la deprimente e dolorosa impotenza del disarmato di fronte al nemico, che agli
analfabeti e agli incolti è sconosciuta. Forse con questo sentimento di impotenza,
di resa al fragore incombente dell’evento, Alfio continua, quasi balbettando:
«la mia prima poesia…niente d’eccezionale…».
Grazia, come se in quell’affermazione del vecchio montanaro, del soldato
disarmato, dell’uomo ricatturato al sé sopito, avesse intuito una richiesta d’aiuto,
rompe il silenzio e accenna:
«Mi piacerebbe conoscere le tue montagne, la casa di legno, il posto dove sei nato…».
Sicura che le parole trovano accoglienza nel marito, continua:
«La valigia si prepara in fretta, poche cose. Possiamo partire domani con il primo
vapore. Io porterò con me un album da disegno; tu potresti portare la tua vecchia
olivetti 32. Sai, non ho mai disegnato un’aquila, mi piacerebbe incontrane una, se
tu mi accompagnerai sulle cime dove si incontrano i venti e si danno consiglio i
rapaci, come mi hai detto una volta, tanto, tanto tempo fa su quella cala dalla rena
nera. Fu il nostro primo incontro, ricordi?».
Ci sono uomini che non dimostrano mai la loro fragilità, che mai verserebbero
una lacrima, per nessun motivo. Alfio è uno di quelli: un montanaro duro che il mare
ha, solo in parte, addolcito. Tuttavia Grazia, girandosi verso di lui, vede una goccia
scendergli sul viso e, per pudore, torna a guardare la sua tela. Ancora una pennellata
di azzurro e uno scarabocchio sul bordo inferiore destro: la sua firma e la data.
«Questo disegno è finito» dice senza voltarsi verso il marito.
«Ci fermeremo per l’estate», acconsente Alfio.
Grazia sorride, sa che metterà le giacche a vento nelle valige e qualche indumento
pesante.
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Il ritorno
Nazario D’Amato
(Footnotes)
1
piccolo fiore bianco di montagna delle alpi che cresce intorno ai 1550 mt, usato
per ricavarne decotti, infusi.
2
cantine naturali scavate nella roccia per la conservazione del vino e dei
salumi
3
tipica polenta della Valchiavenna e della Valtellina
4
piastra di pietra sulla quale viene cotta la carne
5
così chiamano la loro isola i procidani
6
“Graziella”, di Alphonse de Lamartine, Adriano Gallina editore pg. 82.
7
“Graziella”, di Alphonse de Lamartine, Adriano Gallina editore pg. 78
8
“La traversata dell’oasi”, di Maria Luisa Spaziani, Mondadori editore pg. 77
9
“Lettera ad un giovane poeta” di Rainer Maria Rilke, edizione Oscar Mondadori
- poesia del ‘900 - , pag. 37
L’autore del racconto “Il ritorno” Nazario D’Amato di Reggio Emilia
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
La foto ricordo dei partecipanti alla Sezione “Canzone sul mare 2008” - XXII edizione
Il tavolo della Giuria del Premio Canzone sul mare 2008
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Angelo Luigi Fornaca
LE VIE DEL MARE
GENOVA PER ME
A
lla fine della Seconda Guerra Mondiale, Genova appariva ancora un indefinito
miraggio per i solitari abitanti delle valli astigiane. Allora la grande città
ligure si configurava soltanto come un punto lontanissimo e irraggiungibile anche
per i sogni del piccolo “Tarzan” della Val Cereseto. Tuttavia é del tutto plausibile che
le occulte forze del destino fossero già in procinto di attivarsi per cambiare il corso
della storia dell’irrequieto “selvaggio” quando questi decise di catturare la ribalta
delle cronache dell’epoca cavalcando l’immagine dell’aspirante “legionario” della
Val Rilate; ma è altrettanto verosimile che ad orientare definitivamente gli eventi
futuri abbiano concorso i due durissimi anni di “rieducazione campestre”, con la
terapia dell’olio di “gomiti” e del sudore della fronte sotto le direttive imperiose
della materna genitrice: un lungo periodo valso a marcare un salutare sparti-acque
con il burrascoso passato.
Mentre l’ex “pargolo” ribelle di mamma, nella sottintesa figura del sottoscritto,
era ancora in attesa di confezionarsi una definitiva identità, laggiù, entro le ristrette
mura della casa natia, la vita aveva continuato a seguire il suo inesorabile corso
naturale: i vecchi nonni avevano lasciato per sempre la profonda Val Cereseto e
mamma, dopo oltre dieci anni di solitudine, era approdata ad una nuova unione
coniugale in quel di Genova. Era stata quella la vera svolta epocale che avrebbe
spalancato nuovi ed imprevisti orizzonti al piccolo nucleo familiare: poco dopo, in
un pomeriggio del mese di ottobre, “con la faccia un po’ così, e quell’espressione
un po’ così che avevamo noi quando pensavamo a Genova”, lasciammo la nostra
Val Cereseto e salimmo sul treno diretti proprio al capoluogo ligure, dove avevamo
stabilito la nostra nuova residenza.
Subito, appena ci muovemmo ed acquistammo velocità, mi sentii invaso da una
sensazione di totale abbandono osservando l’antico mondo scivolare via oltre il
finestrino in una sequenza senza fine. Poi, mentre le colline di casa si allontanavano
oltre l’orizzonte, l’onda degli struggenti ricordi dell’infanzia incominciò a gonfiarsi:
lentamente socchiusi gli occhi per vedere comparire nella memoria le immagini
della profonda valle natia: la vecchia casa immersa nel mare di verde, le prime
felici corse nei prati e le esplorazioni nei boschi in compagnia dei fidi Dor e Kadì;
la presenza costante dei vecchi nonni e le visite settimanali di mamma nei giorni
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
festivi; e, lassù, al primo piano, quella finestra chiusa da tanto tempo, quando un
giorno fra i tendaggi apparve la scarna figura di papà ammalato che non avrei mai
più rivisto.
Improvvisamente venni travolto da un mare di tristezza e di sconforto mentre le
immagini del mondo sfuggente sembravano offuscarsi sempre più come sotto un
sottile velo di lacrime.
All’ennesimo sobbalzo del treno rialzai gli occhi e rividi il viso rassicurante di
mamma accanto a me. La sensazione di solitudine scomparve all’istante: lei, pensai,
era l’àncora vivente, il sicuro faro di riferimento che portavo con me lasciando la
profonda Val Cereseto per affrontare il mare aperto della vita. Tutto il resto era ormai
lontano: il piccolo e grande mondo degli amici d’infanzia, ma anche i vecchi ed
inseparabili Dor e Kadì, i due fedeli “Argo” dei primi anni, rimasti laggiù nella casa
di fondovalle ad attendere il ritorno del loro “Ulisse”. Ancora ed a lungo nei loro
occhi, fissi e “muti” nel momento dell’addio, avrei rivisto la cupa rassegnazione di
una lunga attesa senza conforto e senza speranza.
Erano queste le immagini che si rincorrevano nella memoria prima che ogni cosa
fosse oscurata al passaggio delle gallerie; poi, oltre gli Appennini, la lunga discesa
verso il mare e l’arrivo alla Stazione di Genova-Principe. Subito la grande città
si materializzò dinnanzi nelle sue mille forme e colori: un’immensa e variopinta
moltitudine di volti nuovi in continuo movimento, ma anche un mondo sconosciuto
che andavo ad affrontare senza amicizie o conoscenze. Ero smarrito e confuso, ma
sapevo che era una via senza ritorno e la dovevo percorrere fino in fondo.
Dopo il primo contatto con la nuova dimensione mi attendeva ancora un’ultima
corsa in autobus per raggiungere la nostra abitazione a Sestri Ponente. Allora non
sapevo che quella non sarebbe stata la mia destinazione futura, ma già percepivo il
deserto di solitudine in cui ero pervenuto senza conoscere le difficoltà per superarlo.
Più tardi, la notte stessa, nella piccola camera a contatto con la nuova realtà, le forti
emozioni della giornata ebbero il sopravvento fino ad inondare i sogni di immagini
fantastiche della lontana valle natìa, assalita da mostruosi esseri in preda ad una
furia distruttiva. Soltanto nelle prime ore del mattino, con il tempestivo soccorso
dei fidi Dor e Kadì, riuscii finalmente a liberarmi dagli incubi e dalle paure della
notte fuggendo oltre, sulla piatta e sconfinata superficie azzurra del mare, poco
prima del provvidenziale risveglio.
Dai sogni alla realtà quotidiana, già nei giorni successivi le prime uscite furono
mirate alla scoperta del mondo che mi circondava. Subito venni colpito da
quell’immenso “corpo” pulsante di vita della città con i sinuosi contorni di una sirena
adagiata lungo i confini della costa. Un fascino alieno ma attraente ed intrigante
nei tortuosi vicoli e nelle rapide scalinate che si aprivano qua e là alla panoramica
del mare. Da Voltri a Nervi, dall’altura del Righi al porto, per alcuni giorni andai
all’esplorativa scoperta di Genova. Passo dopo passo vivevo i miei giorni con
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Le vie del mare
Angelo L. Fornaca
crescente interesse in totale solitudine. La mia primitiva condizione di timidezza di
piccolo Tarzan della Giungla di fondovalle non mi permetteva di trovare alcun punto
fermo a cui ancorarmi. Solitario e solo con me stesso proseguivo a caso, salendo e
ridiscendendo da un autobus all’altro, andando su e giù per fortunosi vicoli e rapide
scalinate mirando al lontano orizzonte, per approdare infine in prossimità del porto
dove ormeggiavano le grandi Navi di Linea in attesa di salpare per tutti i mari del
mondo. Là, a Ponte dei Mille, erano i momenti in cui sostavo più a lungo lasciandomi
cullare sulle onde della fantasia ad inseguire le rotte dei Transatlantici verso ogni
più esotica destinazione. Forse il mio era soltanto un sogno, ma poteva diventare il
vero sogno della nuova vita fuori dai ristretti confini della lontana valle natia?
Dal sogno alla realtà il passo era obbligato nel momento del ritorno a casa; ed
un giorno, al mio rientro, mamma, non si era persa nei sogni e, con il suo ben
collaudato senso pratico, mi annunciò che aveva già provveduto ad iscrivermi alla
Scuola serale dell’Istituto Tecnico nella Sezione Geometri: il Corso prevedeva il
pieno recupero del tempo perduto durante le mie passate vicende legate alla Legione
Straniera. Il tutto in previsione di un eventuale lavoro da svolgersi nel tempo libero
delle ore diurne! Fantastico!
E così il giorno seguente mi presentai in aula per riprendere gli studi con un pesante
carico di dubbi e preoccupazioni nella prospettiva di un duro impegno di recupero
di un intero biennio. Mamma, e che Dio l’abbia in gloria, era andata giù pesante
nell’innovare la sua “terapia forzata” con una nuova ricetta a “strizza cervello”
del suo unico rampollo; ed alle mie comprensibili rimostranze, lei mi confidò che
i “semi” ad “olio di gomito e sudore della fronte” della Val Cereseto avevano dato
ottimi frutti ed era ormai giunto il momento di un decisivo “salto di qualità”.
L’iniziativa di mamma era indubbiamente meritevole di miglior sorte, ma apparve
quasi subito destinata a non ricevere il dovuto consenso. A scuola, nel collaudare
nuovamente la mia “tenuta” allo studio, ebbi l’amara sorpresa di constatare quasi
subito un preoccupante vuoto di “vocazione” per tutto ciò che concerneva costruzioni,
estimi ed associati vari. Il “conflitto ideologico” si manifestò ben presto durante le
prime lezioni: sempre puntualmente presente in aula, ma con il pensiero assente a
vagare altrove come alla ricerca di un orizzonte ancora indefinito. Le distrazioni
si accompagnavano ad una sempre crescente sensazione di insoddisfazione e nel
“ritornare” in classe dagli intermezzi mentali esterni, ero cosciente che mi stavo
avviando su una china pericolosa con il rischio di un altro clamoroso flop. Lo stato
di difficoltà in cui mi trovavo minacciava di andare a discapito del profitto se non
fosse intervenuto qualche provvidenziale cambio di rotta. Come, dove e quando
sarei riuscito a trovare una risposta al mio montante disagio?
Come, dove e quando? Erano questi i pressanti interrogativi in quel pomeriggio
quando varcai l’ingresso della Biblioteca Comunale di S.P. D’Arena. E proprio là,
nell’ampio Salone di lettura, mentre stavo consultando un volume di Architettura
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
accanto ad altri studenti, a sorpresa sentii pronunciare il mio nome:
«Angelo!» – disse una voce alle mie spalle.
«Si?» – Risposi voltandomi mentre il bibliotecario avanzava verso il mio tavolo.
«Sì!» – disse nel frattempo un ragazzo accanto alzandosi per ricevere un volume.
Ero perplesso e meravigliato! Una coincidenza rara, ma non impossibile: due
“Angelo” erano seduti accanto allo stesso tavolo della stessa Biblioteca senza
conoscersi! Ed ovvia era anche la sorpresa reciproca, perché ci fissammo un istante
con la stessa domanda:
«Angelo?» – domandò l’altro.
«Sì, Angelo!» – risposi.
«Ciao! Sono Angelo Pezzi!».
«Ciao! Angelo Fornaca».
«Sei nuovo, qui?» continuò lui.
«Infatti, è il primo giorno».
«Di quale scuola sei?».
«Istituto Tecnico Geometri. E tu?».
«Istituto Augusto Righi: Radiotelegrafisti».
«Radio...che?» – domandai incuriosito.
«Radiotelegrafisti: Diploma e Brevetto Internazionale di Radiotelegrafista di
Navi» – fu la sorprendete risposta.
«Uauh! Hai detto Radiotelegrafisti di Navi? Un bel colpo!» – commentai.
«Certamente! È un Titolo di Studio che autorizza l’imbarco in qualità di Ufficiale
Radio su Navi di ogni Nazionalità, Tipo e Tonnellaggio in tutti i mari del mondo!»
– confermò lui non senza una punta d’orgoglio.
«E che si fa per iscriversi?» – domandai subito accendendomi di curiosità e di
interesse.
«La scuola ha un Corso diurno e serale. Se ti interessa fai un salto a trovarci. Noi
siamo in via Assarotti. Il Direttore potrà spiegarti le condizioni generali. Adesso
scappo di corsa. Ciao Angelo, arrivederci!» – concluse.
«Ci rivedremo presto. Ciao Angelo!» – conclusi accompagnandolo con lo sguardo
all’uscita.
Era solo una sensazione, ma quell’incontro poteva aver segnato la svolta decisiva.
Era quello il segnale che rispondeva ai miei interrogativi e da quel momento la
mia attenzione si orientò nella nuova direzione. L’improvvisa scoperta del titolo
di Radiotelegrafista di Navi significava la fine della noia e delle distrazioni per
spalancare una invitante finestra su un mondo ancora sconosciuto, ma già invitante.
In conclusione: “dovevo provarci!”.
Così, già il giorno dopo, rispolverando una vecchia ed avventurosa abitudine, misi
in opera la mia ultima “marinata” scolastica della Sezione Geometri per presentarmi
in Via Assarotti al Centro di Radiotelegrafia. Subito all’entrata venni colpito da un
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Le vie del mare
Angelo L. Fornaca
intenso ed intermittente “cicaleccio” di strani suoni, poco prima di essere introdotto
in Direzione alla presenza di un distinto signore: Il Professore Canepa.
Dopo le dovute presentazioni ed aver manifestato il mio interesse ad un eventuale
ingresso nella scuola, il Direttore mi invitò a visitare l’attigua aula dove un gruppo
di allievi dotati di cuffie audio era impegnato a battere sui tasti delle rispettive
macchine da scrivere. Il Direttore mi mise al corrente che il Corso consisteva nella
formazione di futuri Radiotelegrafisti di Navi per le Comunicazioni Radio mediante
il “CODICE MORSE”: il linguaggio dell’Alfabeto a “Linee e Punti”, unico mezzo
a rendere possibile in quegli anni le Comunicazioni fra Navi e fra Navi e Terra, e
viceversa, a tutte le distanze.
«Il Corso - precisò il Prof. Canepa - prevede una fase teorica ed una pratica
della durata minima di 2 anni per accedere all’Esame Statale da sostenere a Roma
presso il Ministero delle Poste e telecomunicazioni. Ovviamente tutto ciò comporta
frequenza, impegno e passione costanti per poter ottenere risultati soddisfacenti.»
Per concludere il Direttore mi consegnò un opuscolo informativo in cui avrei
potuto familiarizzarmi con i temi teorici e pratici del Corso. Subito, sfogliando le
prime pagine, ne rimasi “catturato” ed affascinato allo stesso tempo: in bella mostra,
all’interno trovai il “Codice Internazionale Morse” ed i Segnali convenzionali a
“Linee e Punti” della Radiotelegrafia con i quali avrei dovuto cimentarmi in futuro
nel caso avessi deciso di affrontare l’impegnativa sfida che mi veniva lanciata.
Tutto ciò non aveva ancora un preciso significato pratico, ma già avvertivo
un’attrazione irresistibile. Quello che mi stava accadendo era una forte scossa
emotiva nel segno di Morse, Righi, Marconi, ed altri ancora, con il riaffiorare
nella memoria del ricorrente ricordo dell’infanzia: la lunga antenna sovrastante la
vecchia casa nella lontana Val Cereseto dove un giorno papà aveva costruito con
le sue mani la prima Radio a Galena nella forma di una magica “scatola parlante”
destinata ad accompagnarlo fino agli ultimi confini della vita.
A quel punto ne sapevo abbastanza da convincermi a “scendere in campo”
sulle “orme” degli illustri precursori con l’intento di diventare un allievo di sicura
presenza, impegno e passione.
La pagina “galeotta” decisiva nell’orientare tutto il percorso della mia vita era
schematizzata come risultante dal foglio illustrativo ancora in mio possesso:
“INTERNATIONAL MORSE CODE AND CONVENTIONAL SIGNALS”
A casa, alla notizia delle mie intenzioni, mamma manifestò una sufficiente
apertura al dialogo. A quel tempo, il marito Giovanni era prossimo a “staccare” dal
lavoro per raggiunti limiti d’età ed a breve vi era una prevedibile necessità del mio
contributo economico per sostenere il bilancio familiare. Sulle prime venni spronato
a continuare su entrambi i fronti della scuola: Geometri e Radiotelegrafisti; ma
ben presto mamma, con rinnovato e spiccato senso pratico, lanciò la più realistica
proposta di un unico biennio di studio “Radio” alla mia portata: un tempo accettabile
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
con le scadenze e le attese di riscatto!
Era un autentico guanto di sfida che non potevo non accogliere con entusiasmo.
L’arma “segreta” di mamma era la rinnovata fiducia nel suo inquieto rampollo. E mentre
sentivo risorgere in me la volontà a sedermi su un banco di scuola, sapevo già ciò che
avrei deciso. Così, poco dopo abbandonai definitivamente l’Istituto Tecnico Geometri
e feci il mio regolare ingresso al Centro Augusto Righi di Radiotelegrafia.
A quel tempo i progressi della tecnologia non avevano ancora portato alla luce
Computer, Satelliti e gli associati automatismi. L’unico Sistema Universale di
Comunicazione esistente fra Nave e Terra, e viceversa, era il Codice Morse sulle
onde della Radio: era così nata la nuova figura del Radiotelegrafista, ossia colui che
nelle funzioni di un “Computer Biologico” aveva maturato la capacità di tradurre
istantaneamente in Codice Morse ogni informazione scritta e di decodificare
simultaneamente una comunicazione Morse in linguaggio corrente di qualsiasi
lingua per rendere possibile lo scambio “duplex” sulle onde Radio.
Lo studio teorico e pratico del Codice Morse e di ogni modalità di applicazione
erano lo scopo del Corso di Radiotelegrafia che mi accingevo ad affrontare con
impegno e determinazione per prepararmi a sostenere il decisivo Esame di Stato
per il conseguimento del Titolo di Radiotelegrafîsta Internazionali di Navi, con
estensione al Brevetto Azzurro per Aerei di Linea.
L’ingresso nel nuovo contesto del Righi mi permise subito anche una favorevole
apertura sociale con i vicini di banco: Angelo Pezzi, Raffaele Costa ed altri erano
i nuovi compagni ed i primi amici con cui dividere le ore della scuola, ma pure le
quotidiane incursioni alla scoperta di Genova e dintorni. Ogni sera, da Via Assarotti
a Piazza De Ferrari, scendevamo su Piazza Banchi attraverso tutto il dedalo dei
vicoli e carrugi, fino alla Stazione Marittima, ad ammirare i “mostri sacri” della
Marina Mercantile Mondiale: Saturnia, Vulcania ed Independence erano i ricorrenti
nomi dei grandi Transatlantici in grado di alimentare i fantasiosi sogni dei futuri
Ufficiali Radiotelegrafisti della Stazione Radio di una Nave in partenza sulle rotte
dei mari di tutto il mondo.
Erano questi semplici, ma già arditi sguardi che si proiettavano nel futuro quando
ancora la “rotta” delle speranze doveva passare al vaglio dello studio da perseguire
con impegno e continuità prima di tradursi in realtà.
I primi tempi furono i più duri da superare per l’apprendimento e la
“familiarizzazione” del complesso Alfabeto Morse, anche se potevo riconoscermi
una non trascurabile predisposizione alla nuova e stravagante materia. Senza più
ricorrere alle vecchie marinate del passato, di giorno in giorno e mese dopo mese,
riuscii a superare gli “scogli” del primo periodo fino a giungere al completamento del
primo anno di studio con risultati più che soddisfacenti. E, finalmente, a giugno ero
pronto staccare la scuola per le sospirate e meritate vacanze estive da “consumarsi”
nei dintorni della vecchia casa natìa.
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Le vie del mare
Angelo L. Fornaca
Subito, in quella assolata domenica di giugno, il ritorno nei luoghi dell’infanzia
ebbe l’effetto di riaccendere nella memoria tutto un passato di solitudine. Là, dove
un tempo il piccolo “Tarzan” divideva la “Giungla” di fondovalle con amici a quattro
zampe e un paio d’ali, sembrava essere avvenuta quasi una completa mutazione. Il
cielo era azzurro ma privo delle gioiose frecce dei voli dei colombi, emigrati altrove
alla ricerca di una mano amichevole, colma di granaglie; e, lassù, la lunga antenna
della Radio a Galena non correva più sul tetto della casa, ma giaceva spezzata ai lati
dei due alberi di sostegno; pure quella finestra al primo piano, chiusa da tanti anni,
si era riaperta ad altra vita con l’arrivo dei nuovi abitanti. Anche fra i vecchi “amici
storici” c’era: un vuoto. Il coro di un tempo era diventato una “voce” sola a lanciare
l’avviso di avvistamento: all’istante riconobbi Kadì e mi fermai modulando quello
che era stato il fischio “convenuto” di riconoscimento e di richiamo. Immediatamente
il latrato cessò in posizione di attesa; poi, al secondo fischio, un “proiettile” di pelo:
bianco-nero-nocciola si lanciò in una corsa sfrenata. La mole ed il peso di Kadì si
avventarono su di me scodinzolando in un guaito gioioso nel tentativo irrefrenabile
di leccarmi le mani ed il viso. Lui, il “vecchio amico” era ancora vigoroso di energia
e vivo nei ricordi, ma Dor non c’era più: il freddo dell’inverno non aveva fatto
sconti e se l’era portato via per sempre.
Ancora nei giorni seguenti ritornai in valle a rinnovare il vecchio rito dei segnali
e dei fischi convenuti per riceverne sempre la gratificazione della vecchia amicizia
con il rinnovarsi nei suoi occhi felici l’invito alle sfrenate corse nei prati e sui
tortuosi percorsi nei boschi a scortare l’ex piccolo “Tarzan”.
Poi, inevitabilmente, venne il momento più triste dell’addio. Quel giorno “lui” era
gioioso come sempre nello scodinzolare e nell’incitarmi ancora a nuove avventure
nei prati; ma, a sera, quando mi vide allontanare dopo una prolungata carezza, si
bloccò immediatamente e rimase muto ed immobile a fissarmi: la coda afflosciata
e le orecchie “tese” come a chiedere una spiegazione o per captare ogni possibile
segnale. Purtroppo ancora una volta quella che era stata la nostra “Giungla” natìa
sembrava avviata a compiere un altro inganno: le nostre strade erano in procinto
di dividersi e, forse, per sempre.
Ma, all’improvviso, quando ero già sulla strada del ritorno, fui sorpreso da un
intenso latrare alle mie spalle. Nel volgermi per un ultimo saluto, “la” vidi sfrecciare
nel prato, mentre anche “lui” era scattato per puntare verso la stessa direzione.
Certamente Kadì non era ancora un vecchio ed ansimante Argo; al contrario, i “geni”
mai sopiti dell’ultimo guardiano della valle erano già in movimento a caccia dei
primi approcci con un attraente “gomitolo” dal pelo bianco-nocciola.
Senza dubbio era quello il segno che la vita nella “Giungla” stava per rifiorire
nuovamente grazie all’apparizione di quattro zampe con particolari doti di seduzione;
ed era altresì il segnale che gli ultimi giorni della prima età erano da considerarsi
avviati a conclusione senza ulteriori spargimenti di rimpianti e di melanconie, in
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attesa che l’ex piccolo “Tarzan” della Val Cereseto potesse dispiegare le vele al
vento della vita come moderno navigatore sui mari del mondo.
Dopo la parentesi estiva, il ritorno a Genova segnò la ripresa degli studi al Centro A.
Righi. Il percorso per il conseguimento del “Brevetto-Diploma” di Radiotelegrafista
Internazionale era ormai tracciato in tutti i particolari. Sapevo che mi attendevano
lunghe ore giornaliere di “ascolto” in cuffia a decodificare il rapido “ticchettìo”
del segnale Morse, avviati a velocità sempre più elevate per raggiungere la base
minima di 125 caratteri alfabetici al minuto; ed altrettanto impegno doveva essere
profuso a codificare simultaneamente ogni linguaggio corrente tramite un apposito
dispositivo a tastiera per l’invio dell’informazione a distanza sulle onde Radio. E,
dulcis in fundo, tutto ciò doveva essere integrato con un’approfondita preparazione
teorica in Elettrotecnica e Radiotecnica per il completamento degli studi.
Cavalcata sulle orme di Morse, Righi e Marconi, gli illustri pionieri dell’epoca
recente, l’impresa mi appariva sempre più carica di fascino: la meta cui aspiravo
e puntavo decisamente era la “scalata” al Ponte della Stazione Radio di una
grande Nave in partenza sulle rotte degli oceani. E, nell’attesa di pervenire
all’ambito traguardo, un giorno giunse il momento del primo vero contatto con la
mia immaginaria dimensione futura durante la visita a Bordo del Transatlantico
“Vulcania” ormeggiato a Ponte dei Mille nel porto di Genova.
Quel mattino nel varcare la soglia della Stazione Radio mi trovai improvvisamente
immerso in un mondo irreale e misterioso, costituito da un angusto, ma allo stesso
tempo, sconfinato orizzonte: ovunque pareti di schermi, apparecchiature e strumenti
luminosi pronti ad entrare in attività per proiettarmi nell’etere col premere di un
semplice pulsante. Ero pervenuto al cospetto del mondo invisibile delle onde
elettromagnetiche della Radio, la vasta gamma di fenomeni che avrebbe dovuto
accompagnarmi nella mia futura attività con tutto il corredo di segnali e suoni
provenienti da tutto il mondo.
Quel ristretto angolo della Nave si andava altresì configurando come un autentico
crogiuolo entro cui confluivano incessantemente messaggi e segnalazioni nelle
più bizzarre ed incomprensibili lingue attraverso l’universale Codice Morse.
Da quel momento la mia avventura futura prese ad involarsi sempre più sulle
ali dell’entusiasmo alla conquista delle rotte del mondo a cavallo delle onde
elettromagnetiche della Radio.
Decisamente sull’orizzonte di Genova si andava imponendo una nuova realtà.
Anche se talvolta il pensiero correva ancora a percorrere i sentieri della profonda
valle natia, le immagini dei primi anni apparivano sempre più lontane e sfumate
nel lento scorrere del tempo. Ormai sapevo che la mia vita era fatalmente orientata
verso quella grande superficie azzurra, mentre le immagini del passato andavano
inesorabilmente cedendo il passo al sopraggiungere dei nuovi eventi.
Così sull’onda sempre più crescente dell’entusiasmo, trascorse un altro
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Le vie del mare
Angelo L. Fornaca
anno e giunse il giorno della partenza con destinazione Ministero delle Poste e
Telecomunicazioni in Roma. La prova che mi accingevo a sostenere era l’Esame
di Stato della Repubblica Italiana per il conseguimento del Titolo di “Brevetto
Internazionale di Radiotelegrafista di Navi” riconosciuto convenzionalmente da
tutte le Autorità Mondiali!
L’emozione era grande. Subito alla Stazione Termini, la Città Eterna mi venne
incontro con tutto il suo “bagaglio” storico e culturale per invitarmi alla riscoperta:
Colosseo, Fori imperiali e San Pietro furono soltanto le prime tappe della mia
conquista in attesa dei fatidici “3 giorni 3” durante i quali si sarebbe deciso il futuro
dell’ex piccolo Tarzan della Val Cereseto. Il “Tour” per le vie della città non aveva
soltanto intenti turistici, ma era un furbesco “trucco” per ingannare il tempo, prima
dello scoccare delle ore 08.30 di quel lontano mattino del 15 giugno 1951.
E là, nelle austere aule del Ministero si compì l’atto decisivo della mia “scommessa”
sulle future rotte degli oceani. Per 3 giorni mi sottoposi alle prove teoriche e pratiche
per uscirne fuori in modo più che soddisfacente: «Una prova ottima», come confermò
la Commissione Esaminatrice con conseguente segnalazione all’Albo della “Gente
di Mare” con il Titolo di Radiotelegrafista Internazionale di Navi.
Tutto finito? Nemmeno per sogno! All’iscrizione ufficiale del Titolo appena
conseguito mancava ancora un particolare di primaria importanza per il rilascio del
decisivo “Libretto di Navigazione” ad un uomo destinato alle traversate oceaniche:
la prova mancante era l’Esame di Nuoto e Voga”, senza il quale tutti i precedenti
sforzi sarebbero risultati vani!
Sull’onda della promozione il ritorno a casa venne salutato in famiglia in modo
trionfale con le immancabili celebrazioni di fiori e torte in tavola sotto la regia di
una mamma finalmente appagata dalla piena realizzazione professionale del suo
ex irrequieto figliuolo. Il suo entusiasmo per l’ambito traguardo cui ero pervenuto
non fu minimamente scalfito alla notizia che non tutto era finito, ma occorreva un
ulteriore sforzo per superare ancora un ultimo esame. Lei non aveva mezzi tecnici
per giudicarmi, ma mi aveva visto innumerevoli volte sguazzare d’estate in poco
meno di un metro d’acqua nella piccola “Bula”, il laghetto di fondovalle accanto
alla casa natìa, ed era totalmente fiduciosa.
Tuttavia, il giorno della prova, nel salire sull’imbarcazione della Commissione
esaminatrice, che mi avrebbe portato fuori della diga foranea del porto, non ero
affatto tranquillo, anche se mi ero preparato ad affrontare l’ultima prova con la
dovuta determinazione; poi, al largo, là dove la superficie azzurra, andava tingendosi
di una colorazione sempre più intensa per la crescente profondità, mi giunse l’ordine
perentorio da parte dell’Ufficiale esaminatore:
«Si tuffi!».
Il momento “drammatico” era arrivato. Sapevo che la profondità non era il
solito misero metro della piccola “bula” dove potevo toccare il fondo nei momenti
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più difficili del galleggiamento, ed esitai qualche istante. Vedendomi titubante
l’Esaminatore mi punzecchiò ironicamente:
«Non mi dirà che non sa nuotare!».
«Chi? Io?» - risposi con tono risentito e mi tuffai.
Per qualche minuto annaspai vicino all’imbarcazione tentando di offrire una
decorosa immagine di stile e galleggiamento agli occhi degli esperti che mi stavano
osservando, finché mi giunse l’atteso ordine:
««Stop! Basta così! Può risalire in barca!».
Quando rimisi i piedi sull’imbarcazione venni accolto dal sorriso divertito dei
presenti, mentre l’Esaminatore stilava il giudizio sulla mia prova:
A) Stile e tecnica: in evoluzione.
B) Galleggiamento: deciso istinto di sopravvivenza.
C) Coraggio: smisurato nell’affrontare i flutti del mare.
D) Giudizio finale: positivo.
E) Osservazioni: si raccomanda un’ulteriore intensificazione della preparazione
per un periodo di 3 mesi prima di intraprendere traversate oceaniche!
Subito dopo, con l’esito positivo della prova di “Voga” nelle acque antistanti
al porto di Genova, anche la fase “atletica” degli esami era conclusa. Finalmente
l’attesa “cavalcata” oceanica poteva prendere l’avvio dal Ponte di una grande Nave
in partenza verso una lontana destinazione.
Allora non immaginavo ancora dove la sorte mi avrebbe portato, attraverso quali
mari ed i paesi che avrei toccato. L’obiettivo immediato mirava a varcare l’ignoto
sulla linea dell’orizzonte per andare oltre, sospinto dalla precisa volontà di correre
incontro alla mia avventura nel mondo.
Sicuramente quel giorno, nel salire il ripido scalandrone dell’ “ALBA” nel porto
di Palermo, andavo verso il primo vero traguardo della vita: la realizzazione dei
segreti sogni di libertà cullati in solitudine nei lunghi pomeriggi estivi entro il ristretto
metro d’acqua della “bula”, accanto alla casa natìa della lontana Val Cereseto.
II
LA PARTENZA
Un pallido sole autunnale tenta invano di penetrare il diffuso manto nuvoloso di
questo mattino di novembre mentre il treno scivola velocemente quasi senza rumore.
Viaggio in solitario verso una lontana destinazione. Con me porto soltanto una grossa
valigia ed un intero carico di ricordi e nostalgia: casa ed affetti sono già lontani.
Corro lunga la Riviera Ligure. Ecco: attraverso il finestrino, intravedo il piatto
grigio-azzurro del mare. Laggiù, Genova è la prima tappa. All’ombra della Lanterna
mi attende una giornata frenetica: le “corse” presso la Compagnia di Navigazione,
Sanità, Consolato e Capitaneria di Porto per il disbrigo delle complesse pratiche
d’imbarco sull’ “ALBA”.
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Le vie del mare
Angelo L. Fornaca
A Genova la Nave non c’è, ma le procedure di partenza continuano e si
protraggono fino al pomeriggio inoltrato. A sera, infine, la mia avventura prende la
via della Stazione di Genova-Principe dove è in partenza il treno diretto a Palermo.
Sotto una pioggia sottile le carrozze brillano già di luci riflesse quando salgo sul
“Direttissimo” e mi sistemo accanto ad un finestrino di sinistra. Alcuni attimi di
intensa emozione mentre il treno si muove ed acquista velocità. Fuori osservo le
candeline di luci che appaiono e scompaiono a tratti nel nulla. Alle mie spalle Genova
si sta allontanando: il ritmico scorrere del convoglio è l’ultimo saluto.
Le fermate si susseguono. Corro verso sud superando numerose Stazioni: La
Spezia, Livorno, Roma e Napoli sono altrettante tappe nella notte prima di rivedere
le luci dell’alba; ed oltre ed oltre ancora fino a Reggio Calabria per traghettare lo
Stretto di Messina ed arrivare a sera al capolinea. Dopo 24 ore di viaggio sono
arrivato a Palermo. Laggiù, fra le luci del porto c’è l’ “ALBA” che mi aspetta.
Ormai è tardi e la lascio attendere. A Bordo andrò domani.
Sono circa le 23.00 quando arrivo in albergo. Sono stanchissimo. Una notte ed un
intero giorno di viaggio senza dormire hanno lasciato il segno. Tento un tuffo nella
vasca tiepida per un bagno ristoratore, ma il letto è il mio traguardo più ambito.
Mi stendo e mi addormento all’istante. Lentamente nella notte scivolo nel mondo
dei sogni. Quello che m’invade è inquietante: un’enorme piovra sta allungando
i tentacoli desiderosa di avvinghiarmi. Il primo attacco va a vuoto ed anche il
secondo, ma al terzo assalto vengo abbrancato in una soffocante stretta e trascinato
nelle profondità di un abisso. Lotto con tutte le mie forze per divincolarmi. Poi,
d’improvviso, avverto un lancinante suono ad intermittenza mentre riemergo sullo
stesso letto della stessa camera d’albergo di Palermo con la chiamata dal centralino che
m’informa che sono le 07,30 del giorno 8 del mese di Novembre dell’anno 1951.
Scendo per la colazione ed attendo l’arrivo del Taxi.
Ora è giunto il momento di andare a vedere la mia Nave. Dopo aver percorso
l’intera penisola me la trovo davanti ormeggiata al pontile impegnata in tutta
l’operosità dell’umile “carretta dei mari”.
«Eccola! È Lei!» Nelle arrugginite lamiere scorgo subito le ferite del lungo ed
inarrestabile scorrere del tempo su quella che un giorno aveva preso le vie del mare
come una giovane ed ardita avventuriera. Mi soffermo per qualche attimo titubante
sul pontile ad osservarla, ma “sento” che ormai il dado è tratto e proseguo. Mentre
mi arrampico sullo scalandrone ho già maturato l’azzardata decisione di arrembare
una Nave vecchia, ma sempre valida ed in grado di affrontare ancora le future rotte
degli oceani.
Subito, nel primo impatto con la realtà della nuova dimensione marina, mi trovo a
contatto con il “variegato” mondo dei futuri compagni di viaggio: gente proveniente
dal nord e dal sud della penisola, con i volti “tostati” al sole dei tropici e lo sguardo
un po’ curioso ed un po’ gioioso del Navigatore che ha scoperto un nuovo mondo;
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gente di mare con cui dovrò confrontarmi quotidianamente nelle buone come in
tutte le avverse condizioni che potranno scaturire da quelle forze misteriose che
governano i venti ed i mari del mio pianeta ancora da scoprire.
Nel percorso a salire attacco l’ultima rampa di scale e raggiungo il Ponte di
Comando. Un rapido sguardo al complesso tecno-operativo della Navigazione; poi,
appena oltre, sormontata dalle antenne, mi appare la porta con l’indicazione della
Stazione Radio. È proprio dietro quell’insegna che sono diretto. Là c’è il regno
invisibile delle onde elettromagnetiche, già avviato a conoscere totale visibilità
e spettacolarità nelle future applicazioni delle comunicazioni di massa; ma, in
particolare, è il luogo dove sarò presente quotidianamente per alcuni lunghi mesi.
Ed ora eccomi a Bordo! Per la prima volta imbarco come Ufficiale Radiotelegrafista,
Titolare della Stazione Radio. L’emozione è grande. I sogni di avventura dell’età
infantile si stanno avverando: dalle piccole barchette di carta, costruite e varate sul
minuscolo laghetto della lontana valle natìa negli afosi pomeriggi estivi, al Ponte
Radio di una grande Nave in procinto di salpare per le rotte dei mari.
Infine, il momento della partenza! I primi giri dell’elica, il sussulto dello scafo
sotto la spinta dei motori mentre l’ “ALBA” si scosta dal pontile e si avvia all’uscita
del porto. A poppa la terra si allontana lentamente fino a diventare una linea confusa
ed indistinta con l’orizzonte; e, davanti alla prua, là dove il cielo s’immerge nel
mare, il mistero dell’ignoto ad attendermi.
Era così iniziata la mia avventura sugli oceani ma, ahimè, anche la prima grande
rinuncia della vita: davo l’addio alla casa, alla famiglia ed alla splendida ragazza
che amavo.
Quella notte, la prima nell’angusta cabina di Bordo, mi trovai ben presto a
condividere la cuccetta con coloro che si sarebbero rivelate come le fedeli compagne
sulle rotte dei mari: la solitudine e la nostalgia; e, più tardi, quando i sogni si animarono
di ombre, luci e colori, i ricordi di un lontano passato riemersero e s’imposero fino a
ricondurmi nella profonda valle dell’Astigiano accanto alla casa natìa.
Là, la mia “flotta” scivolava lentamente sulla superficie dell’immaginario oceano,
mentre dal Ponte di Comando dell’ “Ammiraglia” andavo incontro all’avventura:
sospinto dai venti della fantasia e bordeggiando lungo le coste di sconosciuti
continenti, mi inoltravo sempre più lontano fino a raggiungere le più sperdute
isole dei Mari del Sud. Navigatore ardimentoso, ma ancora alquanto ingenuo, non
avrei mai supposto che qualcuno mi avesse preceduto sulle rotte del mondo; ma, in
seguito, sfogliando qua e là sui primi libri di scuola, scoprii che ciò che era accaduto
numerose volte: i nomi di Colombo, Vespucci e Magellano erano un po’ ovunque
su tutti gli oceani della Terra.
L’inattesa scoperta vanificò bruscamente le mie illusioni ed, infantilmente, sentii
lievitare una viva punta di irritazione: «Da dove erano arrivati questi “intrusi”?».
«Dal passato!», mi giungeva l’inevitabile risposta! Essi, dunque, avevano avuto la
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grande “opportunità” di comparire alcuni secoli prima ed era stato tutto fin troppo
facile! Il piccolo ed irriverente “navigatore” che era in me aveva già l’arrogante
“pretesa” di chi avrebbe potuto aspirare al nome di qualche continente, ma la
competizione era avvenuta quando mancava il concorrente più agguerrito! Ero
decisamente seccato!
Nel lungo e tormentato dormiveglia “vedevo” che la mia “Ammiraglia” non
avrebbe mai più avvistato un’isola oppure un continente sconosciuti. Era vero:
avevo perduto sul tempo il primo confronto, ma sentivo maturarmi un bellicoso
spirito di rivincita su tutti coloro che mi avevano preceduto. Poi, al mattino, dopo
una sofferta e tormentata notte, l’improvviso risveglio: subito l’alba mi appare
attraverso l’oblò inondandomi di luci e colori come per annunciarmi il suo invitante
messaggio. Ecco, ora ne sono pienamente cosciente. Il mio non è più un sogno,
ma l’apparire sull’orizzonte di una seducente sfida: la ricerca di altre ed ancora
invisibili rotte è il nuovo traguardo. Nella scia del Passato, ma già proiettato verso
lontani orizzonti, avrei potuto visitare i continenti, le terre e le isole di ieri per
conoscere e cercare di capire quegli strani ed ineguagliabili esseri che vi abitano
alla luce del XX Secolo.
Nell’impugnare la penna per consegnare alla “Storia” l’avventura in corso, il
temerario protagonista che si affacciava sulla tolda dell’ “ALBA” aveva già l’ardita
presunzione di rifiutare il velo di oblìo che minacciava di seppellire gli ultimi
autentici Navigatori dell’Era contemporanea.
Il Sindaco, dott. Carmelo Spitaleri, conclude la cerimonia di premiazioe 2008
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SEZIONE FATTI DI BORDO 2009 - XX edizione
1° premio – Francesco Castorina – “Ci rivedremo in quel porto lontano”
«Se è vero che niente esiste per più di un istante, tranne ciò che custodiamo nella
memoria, allora a maggior ragione dovremmo dire che ciò che davvero rimane
è quello che fissiamo sulla carta. La parola scritta sottrae all’oblio il vissuto, ne
definisce i contorni. E nel ritratto commosso che l’autore traccia di un compagno di
bordo emerge tutto il bisogno di non dimenticare, di far conoscere questa piccola,
triste storia che altrimenti il nulla, inesorabile, inghiottirebbe. Ne vien fuori un
racconto essenziale e toccante, scritto con delicatezza e quasi con pudore, proprio
come se l’autore non potesse più fare a meno di raccontare - anche quando
raccontare fa male, perché significa rivivere».
2° premio – Zeffiro Rossi – “Un giro del mondo un po’ particolare”
«Un viaggio che forse poco differirebbe da tanti altri, se non fosse per le passioni
sanguigne che lo innervano e lo connotano, imprimendogli tratti violenti ed unici. E
mentre la nave segue il suo lungo percorso, toccando luoghi di rara, incontaminata
bellezza, dall’accavallarsi degli eventi e dal groviglio dei destini dei personaggi,
emerge un unico possibile epilogo: la morte».
3° premio – Giovanni Pagano - “L’uovo di Colombo”
«A volte la soluzione più semplice, lineare, forse addirittura più banale, è l’ultima
a cui pensiamo, adusi come siamo ad affidare sempre più spesso il nostro destino
ai calcoli ed alla tecnologia. Ma nonostante gli strumenti sempre più sofisticati,
quella del mare resta una sfida della mente e alla mente, capace di metterci di fronte
a noi stessi, ai nostri limiti ed alle nostre risorse, capace di riportarci alla parte
più istintiva e animale del nostro io».
Menzioni
Idamo Rossi – “Un peso e due misure”
«Due immani tragedie dei nostri giorni poste a raffronto in una riflessione amara,
dai toni apertamente polemici».
Merito di pubblicazione
Anna Bartiromo - “Quando il mare è amaro”
Piera Grassi Pedrelli - “Il primo viaggio di Paola”
Vincenzo Marzullo – “Al largo del nulla”
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Francesco Castorina
CI RIVEDREMO IN QUEL PORTO LONTANO…
L
eonardo Tridente era un uomo grande, grosso e di pochissime parole.
In un’epoca in cui la tecnologia marittima esplodeva e si costruivano navi
sempre più automatizzate, con sempre meno uomini di equipaggio, la sua qualifica
a bordo era quella di carbonaio.
È una tipica ostinazione della Marina essere estremamente conservatrice sotto
taluni aspetti e così agli inizi degli anni settanta ci trovavamo ancora a fare i conti
con denominazioni lavorative che non avevano più alcuna attinenza con la realtà.
A ruolo c’erano ancora il “pennese”, il “fuochista” ed appunto il “carbonaio”.
Ma, Leonardo Tridente non era un “carbonaio” qualsiasi, era “il Carbonaio”.
Ne interpretava il ruolo con il massimo scrupolo e con la massima
convinzione.
Fazzoletto colorato al collo con qualsiasi temperatura, canottiera blu di cotone
e ampi pantaloni di tela.
Non c’era verso di fargli indossare la tuta di dotazione e il sudore faceva risaltare,
lucida, la potente muscolatura delle braccia.
Già, Leonardo Tridente di muscoli ne aveva davvero tanti ed era dotato di una
forza titanica.
Era capace di svitare con le mani bulloni del ventisette cui erano state date sette
mani di pittura e portare a spalla carichi per i quali normalmente si dovevano
attrezzare i paranchi e qualche volta i picchi di carico.
Come tanti uomini della sua corporatura era anche mitissimo e dolce.
Nel tempo libero non si mischiava mai troppo volentieri con i colleghi di lavoro,
non assisteva alle proiezioni cinematografiche, preferendo starsene in cabina a
lavorare pezzi di legno dai quali traeva rozze statuine che pure avevano un certo
fascino.
Insomma era un tipo che non amava molto la compagnia. Del resto, come
asserivano i suoi compaesani, si comportava così anche nei brevi periodi che
passava a terra.
Ore ed ore consumate su una panchina a contemplare il mare, a volte interrotte
da una breve visita al padre, al cimitero.
Questo finché non arrivava il telegramma per l’imbarco.
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Allora la sorella nubile e la madre gli preparavano con infinita cura le valige
e poi insieme a lui prendevano il treno accompagnandolo sino agli uffici della
Compagnia, a Roma.
Veniva affidato per il viaggio a qualche altro marittimo destinato alla stessa nave,
che lo avrebbe portato a destinazione, aiutandolo, se durante il viaggio ci fossero
stati momenti di bisogno.
Lo conoscevano tutti e nonostante la sua natura riservata, tutti gli volevano bene
ed erano contenti di fare qualcosa per lui.
Ah! Dimenticavo. Lo imbarcavano sempre sulla stessa nave.
A tutti, Compagnia inclusa andava bene così, anche perché la volta che l’avevano
imbarcato su una nave diversa era stata una tragedia. Non era riuscito ad ambientarsi e
parecchie volte l’avevano trovato a girare di notte per i carruggetti, piangente e disperato.
Rassegnata, la Compagnia l’aveva fatto trasbordare sulla solita nave, dove il buon
Tridente s’era ritrovato appieno e aveva ripreso serenamente la sua solita vita.
Proprio su quella nave l’avevo conosciuto, due anni prima. All’inizio qualche
saluto scambiato in fretta e poco di più. Poi una volta si era presentato chiedendomi
se in biblioteca ci fosse un libro con figure di fiori.
Gliene avevo recuperato uno con bellissimi disegni, che gli avevano fatto
accendere gli occhi dalla felicità.
Alcuni giorni dopo, a pranzo, mentre eravamo alla fonda, il cameriere mi aveva
servito un’encomiabile cerniotta appena pescata, dono di Tridente. Eh sì, perché
il nostro era un bravissimo pescatore e riusciva sempre a cavare dal mare qualche
preda, anche dove gli altri (me compreso) fallivano.
Alcune volte, nel corso di quell’imbarco, pescammo insieme e non riesco a dimenticare
il miracoloso bottino messo insieme al Northen Anchorage di Ras Tanura. Tra me e lui
almeno duecento chili di pesce, con alcuni esemplari veramente “fuoriserie”.
Ma quella simpatia tra noi, non sfociò durante l’imbarco in una forma d’amicizia;
troppo brevi i contatti e troppo differenti gli orari di lavoro.
Comunque, quando dopo due anni fui riassegnato alla stessa nave, con il grado di
terzo ufficiale, lo trovai ad attendermi ai piedi dello scalandrone. Senza una parola
mi strinse la mano sorridendo, poi sollevò senza sforzo alcuno le mie due pesanti
valige, accompagnandomi sino alla cabina.
Non so perché ma quella strana forma di benvenuto mi scaldò subito il cuore e
fece dissolvere la residua malinconia per la casa appena lasciata.
Conoscevo la nave, conoscevo e stimavo il comandante e c’era anche Tridente;
cosa avrei potuto sperare di meglio?
Viaggi meravigliosi…Singapore, Bombay, Hong Kong, Siracha, Dar Es Salaam,
Durban, Suva nelle Isole Figi…, approdi che ci facevano dimenticare il caldo
insopportabile del Golfo Persico, dove invariabilmente si riceveva il carico.
La mia curiosità geografica veniva sempre più appagata da nuove visioni, da
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Ci rivedremo in quel porto lontano...
Francesco Castorina
nuove conoscenze.
A Singapore avevo acquistato una bellissima radio con un lettore di musicassette
incorporato. Avevo poi rimediato a poco prezzo, un mucchio di musicassette con
ogni tipo di melodia.
Da Burt Bacharach alla musica sinfonica, passando per la musica latina.
Di queste musicassette piaceva particolarmente ascoltarne una, quella con le
registrazioni di alcuni brani della Lakmè di Delibes. Tutte le sere, infatti, ascoltavo
e riascoltavo, senza mai saziarmene e con vero senso di godimento, il cosiddetto
“Duetto del fiore”.
Una di queste sere mentre i divini gorgheggi di Maria Callas accarezzavano le
paratie della cabina, udii bussare alla porta.
Era Tridente ed aveva, stampata sul volto, un’espressione di meraviglia mista a
stupore. Mi spiegò che si trovava a passare da quelle parti ed aveva udito la musica.
Chiese cosa fosse quella “canzone” e chi cantasse così divinamente.
Cercai di spiegargli che era un brano di un’opera lirica francese ma mi accorsi
subito che non mi stava ad ascoltare. Seguiva estasiato le note, dondolando la testa
sul collo, abbandonato in qualche arcana congettura di felicità.
Ad un certo punto gli salirono le lacrime agli occhi.
Naturalmente non capiva le parole, era la musica che lo toccava, commuovendolo.
«È insieme tanto triste e dolce. Mi fa bene al cuore e mi fa venire voglia di piangere».
Credo che fosse uno dei discorsi più lunghi che il buon Tridente avesse mai fatto. Gli sorrisi
e gli battei un colpo sulla spalla. «Quando vuoi venire ad ascoltare di nuovo…».
Mai invito fu accettato con più calore…da quella sera, ogni santa sera, tranne quando
eravamo in manovra o in franchigia, il buon Leonardo alle diciannove in punto si
presentava davanti alla porta della mia cabina ed insieme in quell’ora che precedeva il
mio turno di guardia, di solito con qualche bevanda analcolica in mano, ascoltavamo
musica ed invariabilmente ogni sera ascoltavamo il “Duetto del Fiore”.
Mi piaceva osservare le reazioni del mio compagno d’ascolto; arrovesciava
lievemente la testa, socchiudendo le labbra e serrando gli occhi, in un’espressione
non lontana dal rapimento emozionale.
Quando le note cessavano ripeteva sempre la stessa frase: «Cuore nobile l’ha
scritta, cuore nobile la canta, cuori nobili l’ascoltano». Poi prorompeva in una lieve,
educata risata; sempre della stessa durata, sempre nella stessa tonalità.
Il giorno che cercai di spiegargli cosa significassero le parole (così come mi aveva
spiegato il benevolo comandante…), bonariamente mi zittì. «Non voglio saperlo. Per
me ogni volta dice cose diverse e ogni volta sento le cose che mi piace ascoltare».
Esterrefatto pensai al miracolo della musica, a come può penetrare nei
recessi dell’anima degli uomini, influenzandoli, a volte sino a condizionarne i
comportamenti.
La Musica da sempre esercita il suo fascino sugli uomini per il mistero che è insito
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in Lei, per il suo modo di comunicare le emozioni, direttamente, senza visioni …
Pensai che forse nessuno poteva rappresentare meglio di Leonardo, nella sua
essenza, quel grande, meraviglioso mistero.
Giorno dopo giorno imparai ad apprezzare sempre di più Leonardo Tridente e tra
noi cominciò a germogliare l’amicizia.
In pratica ero la sola persona a bordo, a parte il Direttore di macchina, cui rivolgeva
la parola per motivi diversi da quelli lavorativi.
Venni così a conoscenza di tanti fatti della sua non felice vita e constatai a che livelli
la poesia del vivere ed il senso del bello albergassero in quel corpo da energumeno.
Ogni tanto mi invitava nella sua cabina, “per ricambiare”, ma dovevo portarmi
dietro la radio. Allora ai trilli della Callas rispondeva impettito “Lawrence“ un
pappagallo (credo un parrocchetto del Malabar) dai colori verdi ed azzurri ormai
appannati, che Leonardo aveva acquistato da un marinaio indiano a Ras Tanura, al
prezzo di un orologio Seiko.
“Lawrence” era l’ultimo di una probabile lunga serie di nomi e il pappagallo,
che non era di “prima penna”, doveva già avere navigato per qualche lustro, visto
che articolava comprensibilmente una serie di bestemmie in almeno cinque o sei
lingue, tra cui l’afrikaans.
Non era quel che si dice un “tipo raccomandabile”, al contrario. Un pennuto
cialtrone capace di beccare a sangue chi gli “faceva girare il becco”, ma con
Leonardo si erano subito capiti ed era uno spettacolo vedere come il losco volatile
accoglieva il suo padrone alla fine del turno di lavoro.
Leonardo lo teneva alla catena del trespolo (che problema acquistarne uno a
Siracha…) solo durante gli approdi, per il resto l’inqualificabile pennuto era libero di
svolazzare per la cabina, facendo i bisogni dove gli capitava e costringendo il nostro
buon carbonaio a pulire a fondo ogni santo giorno che Dio mandava in terra.
Per Leonardo il volatile era un affetto, un affetto vero.
Gli dedicava molte cure e passava molte ore a cercare di insegnargli parole gentili.
Ma non c’era verso, non una di queste parole andò ad arricchire il vocabolario del
pappagallo. Il cialtronesco pennuto dimostrò invece un vero talento per imparare
nuovi insulti e bestemmie.
Fatto questo, che suscitò molta ilarità e parecchio divertimento a bordo. Si
sprecarono i consigli; “visto che non si poteva portare in Italia, avrebbe potuto
lasciarlo a pensione in qualche convento di suore. Ne avrebbe avuto di roba da
insegnare alle educande…” o “ vista la conoscenza delle lingue e la fine educazione,
lo si poteva impiegare nella reception di qualche albergo…” e così via.
Ma Leonardo non faceva caso a queste facezie, lui aveva già messo le cose a
posto. Durante la sua “assenza” da bordo per la licenza, il pappagallo sarebbe rimasto
affidato al Direttore di macchina. Lui lo avrebbe ripreso in consegna al suo ritorno
a bordo, perché era certo, su quella nave lo avrebbero rimandato.
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Ci rivedremo in quel porto lontano...
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Come quasi sempre succede in tutti i luoghi del mondo anche sulle navi trovano
posto, in percentuali pari alla media degli altri luoghi, gli imbecilli e fu così che
un giovanotto di macchina, dall’intelligenza pari a quella del pappagallo, se non
inferiore, che spesso lavorava gomito a gomito con il nostro, prese a canzonarlo.
Leonardo non replicò mai alle prese in giro, nemmeno quando queste somigliavano
agli insulti ma qualcuno riferì al Primo Macchinista, che diede al perfido individuo
un’arronzata da lisciare il pelo.
Tutto questo ebbe purtroppo delle conseguenze, che si concretizzarono quando
mancava un solo mese alla fine dell’imbarco di Leonardo.
Una vista stupenda. Il mare profondamente blu e il cielo di un azzurro da
sogno. A separarli la linea dell’orizzonte, dolcemente curva.
Il vento che scompiglia i capelli, inasprendoli con invisibili cristalli di sale.
Era stato un bellissimo giorno e la notte si era mollemente adagiata sulla
nave, foriera di pari bellezza.
Sì, era stato un giorno come un altro dei tanti passati a bordo, giorni adagiati
in un’aurea tranquillità. La tranquillità della vita sul mare, dove non c’è mai
un “momento da perdere” ma dove le ore sono scandite dalla ripetizione rituale
dei gesti, sempre i soliti…dalla ripetizione continua di un cerimoniale sempre
uguale e per questo sempre più rassicurante.
Le mense ad orari precisi, il dolce il giovedì e la domenica. Il punto di
mezzogiorno, la caccia alle stelle nel crepuscolo, le effemeridi, le tavole dei
logaritmi per gli allievi, le tavole rapide per gli ufficiali e “che gli allievi non le
usino finché non imparano…”.
Gli immancabili pettegolezzi: “L’ho visto quasi perdere la nave per stare dietro
a una di quelle lì in Centramerica…”; “Brav’uomo…ma non gli piacciono le
bottiglie piene…”; “Come farà a piacere alle donne quello lì…una faccia da far
venire gli incubi a un gorilla…eppure…”.
Ore 20,42 rotta per Singapore, velocità 13,5 nodi, cielo sereno, stato del
mare “calmo come l’olio”. Mente persa dietro alate chimere, sogni di un futuro
spettacolarmente felice, flashback del viso della ragazza che mi aspetta a casa,
sorriso interiore e senso di compiacimento (non ho ancora capito perché…)
Il trillo del telefono mi fece sobbalzare. «Ponte! In ascolto!». «Francesco, sono il
Primo Macchinista! Chiama subito il Comandante. Tridente è andato fuori di testa,
sta spaccando tutto. La situazione è fuori controllo».
Inebetito composi il numero del Comandante, riferendo il messaggio. «Vai a
vedere cosa succede, ti rilevo io e torna subito a riferire».
Volai di corsa sulla passerella centrale che dal ponte situato a centro nave portava
a poppa e scesi le scale sino al secondo livello. Una piccola folla si era raccolta
davanti alla cabina di Leonardo. Si udivano urla e tonfi. Feci fatica a farmi largo ed
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avvistato il Primo Macchinista gli chiesi cosa fosse accaduto. «Non lo sappiamo.
Pare che sia scappato il pappagallo. Non vuole sentire ragioni. Il pappagallo è stato
cercato per tutta la nave e non si trova».
«Provo a parlargli io» proposi, «No! È troppo pericoloso! È una furia, temo sia
impazzito».
La porta della cabina era stata scardinata, mi feci avanti senza varcare l’uscio.
Leonardo stava nel mezzo della cabina ridotta ad un campo di battaglia. La cuccetta
divelta e rovesciata, il divano spaccato in quattro pezzi, l’armadio sfondato, la
specchiera del bagno in frantumi.
Aveva rotto persino il tavolino e ora brandiva minacciosamente il sostegno di
ferro tubolare, sbattendolo furiosamente contro le paratie. «Leonardo fermati, non
fare così, fermati e lascia che ti parli». Si voltò verso di me. Il suo sguardo non
aveva più nulla di umano, i tratti decisi ma usualmente gentili si erano stravolti,
ricomponendosi in un ghigno di odio puro. Prima che pietà ebbi paura. Urlò.
«Vattene via sei anche tu dei loro, vattene via andatevene tutti. Vi ammazzo, vi
ammazzo tutti». E così urlando si precipitò nel carruggetto affollato, provocando
un fuggi fuggi generale.
Tornato sul ponte di comando, con le lacrime agli occhi riferii al comandante.
Vidi che si torceva le mani. «Non resta che una cosa da fare. Chiama il nostromo
e prendete la camicia di forza». Benché mi aspettassi quell’ordine non potei fare
a meno di trasalire.
Non sfuggì al Comandante la mia inquietudine. «È triste lo so, ma non c’è altro
da fare. Proveremo dopo a sedarlo e metterlo ai ferri». Il nostromo arrivò presto ed
arrivò anche il Capo Macchinista. In seguito ad un rapido conciliabolo fu convenuta
la linea d’azione. Fu formata una squadra di dieci persone scelte fra le più robuste.
La squadra sarebbe stata guidata dal Primo Ufficiale di coperta.
Con il cuore in gola aspettai che tutto finisse.
Le due ore successive furono innominabilmente lunghe e per quanto mi sforzassi
di ricordare le parole di qualche dimenticata preghiera non fui capace di articolarne
nemmeno una strofa. Ero nervoso e mi sentivo agitato.
Il Primo Ufficiale salì sul ponte alle 23.30 per riferire che Tridente “era stato
messo sotto controllo”. Ansimava pesantemente e ciò mi fece subito intendere che
la lotta era stata parecchio dura.
«È completamente impazzito», raccontò. «Gli abbiamo dovuto far passare una
ghia tra le gambe per farlo cadere e poi siamo dovuti saltargli addosso tutti insieme.
Probabilmente ha spezzato un braccio a Celeste».
«Alla fine gli abbiamo infilato la camicia di forza e dopo lo abbiamo sedato. Per
precauzione gli ho fatto legare i piedi. Ho lasciato un marinaio di guardia davanti
alla porta chiusa».
Con il comandante discussero ancora a lungo sul da farsi, mentre io verificavo
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Ci rivedremo in quel porto lontano...
Francesco Castorina
che il caporale di macchina, Giuseppe Celeste, non aveva il braccio rotto ma per
fortuna solo contuso, anche se pesantemente.
L’indomani insieme al primo ufficiale andai a verificare le condizioni di Leonardo.
Giaceva rannicchiato in fondo ad una cabina di rispetto che era stata foderata con
materassi ed era in condizioni di non nuocere ad alcuno, neanche a sé stesso. Un
sottile filo di bava gli colava dagli angoli della bocca e si sentiva uno sgradevole
odore di urina e feci. Sicuramente si era fatto addosso i bisogni.
«Dovremmo lavarlo…». Il primo ufficiale mi lanciò un’occhiata significativa e
non mi rispose.
Non so se avete mai visto un uomo costretto in una camicia di forza. È uno
spettacolo impressionante che non si dimentica facilmente e che produce angoscia
nel pensare come questo mostruoso articolo agisce contro l’uomo che vi è
imprigionato dentro.
Oltre al dispiacere ed alla pietà sentii montare in me una rabbia sorda, inespressa,
priva d’indirizzo ma che era originata da qualcosa che nel coacervo di emozioni
che mi attanagliavano non riuscivo ad isolare né a definire.
Il pappagallo fu cercato in tutti i recessi della nave, ma come prevedibile non
fu trovato.
ETA a Singapore ogni due ore. Scambio frenetico di telegrammi con la
Compagnia. Contatto con l’agenzia di Singapore. “Seaman L. Tridente to be
consigned to specialistic equipe on ship’s arrival. Then he will moved to S’pore
psychiatric hospital.” Almeno mi pare di ricordare fosse scritto così. Una
sentenza… e una mazzata; non solo per me.
Una cappa plumbea aveva avvolto la nave come un cupo sudario.
Ore 12.36 (per i minuti considerare sempre i multipli di sei, per facilitare
i calcoli…) di una grigia, brutta giornata. Rada di Singapore. Pioviggina.
Quattro barche affiancate. Immigration, Polizia, Agenzia ed una quarta
con quattro nerboruti infermieri. Io alla scala reale. Lo trasportano di peso.
Lo imbracheranno e lo fileranno sulla barca. Non lo vedremo mai più…Mi
avvicino, mi guarda, mi sorride. Poi farfuglia qualcosa: «Ci ritroveremo lì, in
quel porto lontano…quello della canzone…». Cerco di sorridere ma capisco
che la mia è una smorfia. Infatti, piango e fingo che sia la pioggia che adesso
scende più fitta a bagnarmi il viso. «Sì, ci ritroveremo lì Leonardo, nel porto
della canzone…».
Ma nella canzone il porto non c’è o forse sì? All’improvviso mentre gli passano
la braca tra le gambe ogni espressione sparisce dai suoi occhi, la luce è di nuovo
spenta. Mentre delicatamente lo filano giù lungo la murata inizia a cantare…
”Dôme épais le jasmin, a la rose s’assemble, rive en fleurs, frais matin, …
Ma…allora… aveva imparato le parole a memoria… «Leonardo, Leonardo!».
Non è più alla mia vista e già la barca si stacca puntando veloce verso riva.
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
I giorni successivi furono tristi per tutto l’equipaggio ma nessuno pareva voler
affrontare la questione, sembrava che ognuno di noi nutrisse un malcelato pudore
a parlare dell’accaduto. Era come se tutti tacitamente si rimproverassero di non
avere saputo o potuto aiutare Leonardo Tridente. Tacevamo tutti; tutti, tranne uno
che continuava a pontificare. «L’ho sempre detto. Era predisposto…».
Mi ci ero quasi bruciato le meningi sopra ma uno dopo l’altro i tasselli del
ragionamento si erano incastrati alla perfezione, andando a comporre una
ricostruzione verosimile. Passo dopo passo mi ero convinto che nella vicenda il
linguacciuto giovanotto di macchina c’entrasse e come! In una serie di ripetuti
flashbacks avevo focalizzato che il pappagallo non lasciava mai la cabina neanche
con la porta e l’oblò aperti.
Più volte l’avevo visto appollaiarsi sull’apertura dell’oblò senza uscire o zampettare
sino alla porta lasciata aperta, affacciarsi sull’uscio e poi tornare indietro. Era un
pappagallo prudente e soprattutto aveva una lunga abitudine di navigazione.
Quindi per innato spirito di conservazione, doveva avere acquisito la necessaria
esperienza per non commettere sciocchezze per lui fatali.
Ne ero certo! Qualcuno lo aveva fatto scappare o meglio doveva averlo
scaraventato di proposito fuori bordo ad una distanza tale che il povero animale
ormai desueto al volo, non poteva coprire per ritornare sulla nave.
Probabilmente, per non correre rischi questo infame lo aveva ammazzato prima
e poi lo aveva gettato fuori bordo.
I miei sospetti sul giovanotto di macchina cominciarono ad assumere consistenza reale.
Era l’unico a bordo che si era comportato male con Tridente e ne aveva pagato
le conseguenze. Era quindi l’unico che avrebbe potuto avere un motivo, per quanto
futile, per perpetrare un’azione così ignobile.
La mia indignazione cresceva ad ogni ora di più.
Mi ero ormai convinto della colpevolezza del giovanotto di macchina ed ero ben
deciso a fargliela pagare. Quando si è ragazzi e si pensa di essere nel giusto non si
riflette sulle conseguenze che le proprie azioni potrebbero avere.
Decisi di affrontarlo. Lo aspettai quindi davanti alla sua cabina. Mi vide;
probabilmente si era preparato ad un’evenienza di questo tipo perché venne avanti
tranquillamente con la solita aria strafottente. «Sta cercando me?». Non risposi
alla sua domanda. «Sei stato tu! Non è vero?», lo apostrofai. «A fare cosa?». «Ad
uccidere e far sparire il pappagallo di Tridente». Forse non si aspettava un attacco
così diretto. Negò agitando la testa, ma il luccichio dei suoi occhi lo tradì. «Avevo
ragione! Sei stato tu sudicio leccapalle bastardo!». La paura lo aveva paralizzato.
Lo sovrastavo in altezza e la mia espressione doveva essere feroce. Non riusciva ad
articolare risposta. Lo afferrai per il bavero sollevandolo letteralmente da terra.
Un paio di braccia robuste mi cinsero immobilizzandomi. «Non si sporchi le
mani, sior, non ne vale la pena con questa merda».
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Ci rivedremo in quel porto lontano...
Francesco Castorina
Era il nostromo che mi trasportò di peso distante, mentre il bieco individuo si
chiudeva precipitosamente in cabina. Così immediatamente capii che anche altri
erano arrivati alla mia stessa conclusione. Tremante di rabbia repressa ringraziai il
nostromo. Mi resi conto che senza il suo intervento mi sarei con ogni probabilità
lasciato andare ad un’esplosione di violenza e me ne vergognai.
Alcuni giorni dopo venni a sapere che in seguito ad una “caduta” dalle scale in
macchina, il giovanotto si era risolto a concludere che la permanenza su quella nave
non faceva per lui e quindi aveva chiesto lo sbarco anticipato.
Ci lasciò al pontile di Ras Tanura, insalutato ospite. Venni poi a sapere che la
Compagnia ebbe a licenziarlo in tronco alcuni mesi dopo.
Giorno dopo giorno, la benefica “routine” di bordo fece sì che tutto l’equipaggio
rientrasse in una quieta normalità, anche se ogni tanto saltava fuori qualche
discussione sulla vicenda.
Il Comandante di tanto in tanto ci comunicava di avere avuto notizie ed
invariabilmente Tridente stava migliorando…
Solo dopo molto tempo ho compreso che egli al pari di noi non aveva avuto alcuna notizia,
ma quelle bugie ci facevano bene e il vecchio ed esperto Comandante lo sapeva.
Arrivò il giorno del mio sbarco; euforico come sempre in questa occasione, ma
passando sul pontile intravidi l’oblò di quella che era stata la cabina di Leonardo e
non potei impedire che mi si stringesse il cuore.
Di Leonardo Tridente ho cercato di non sapere più nulla. Nel mio cuore sono
sempre stato conscio di come sarebbe andata a finire. Ma qualche notizia trova
sempre il modo di girare. Qualcuno mi ha riferito che dopo mesi di degenza a
Singapore l’avevano rimandato in Italia. Da allora la sua vita fu un rosario di dolorosi
ricoveri in un destino d’indifferenza. Una dolorosa catena di brutali cure mediche
e di risultati nulli. È morto parecchi anni fa, di consunzione.
Non avevo mai più ascoltato il “Duetto del Fiore” della Lakmè, quando alcune
settimane orsono cercando un video musicale su internet, per sbaglio sono capitato
nell’esecuzione di questo brano di Montserrat Caballè e di un’altra artista di cui
ora non ricordo più il nome.
Pochi minuti prima avevo visto il bando di Artemare, scoprendo con mio dispiacere
che si tratta dell’ultima edizione.
Ho pensato che fosse un segno del destino e che non potessi più fare a meno di
raccontare questa storia che un tempo, ormai lontano, avevo deciso di tenere per me.
La vita è andata avanti, con i suoi momenti belli e brutti, con le gioie e le
incertezze.
Incertezze che in un mondo sempre più complicato come il nostro, aumentano
di giorno in giorno.
Di una cosa però sono certo. Leonardo ed io ci incontreremo di nuovo, lì in quel
porto lontano quello della canzone…forse incontreremo anche Lakmè e Mallika…
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Il punto è che nell’aria del “Duetto del Fiore” il porto non c’è…o forse sì…del
resto, io non conosco bene il francese…
Dôme épais le jasmin,
A la rose s’assemble,
Rive en fleurs, frais matin,
Nous appellent ensemble.
Ah! glissons en suivant
Le courant fuyant:
Dans l’onde frémissante,
D’une main nonchalante,
Gagnons le bord,
Où l’oiseau chante, l’oiseau, l’oiseau chante.
Dôme épais, blanc jasmin,
Nous appellent ensemble!…
Il com.te della Capitaneria di Porto di Riposto, Ten. Vasc. Cesare Mariano Spedicato, consegna il Primo
premio Fatti di Bordo 2009 al Cap. l.c. Francesco Castorina
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Zeffiro Rossi
UN GIRO DEL MONDO
UN PO’ PARTICOLARE
È
veramente per uno di quegli strani casi della vita, di cui è ricca quella del
marinaio, che nel novembre del 1975, partii alla volta di Freetown in Sierra
Leone per imbarcarmi sulla motonave panamense ”Sealord One”. L’agenzia che
gestiva la nave a Genova, mi diede per certo, tra l’altro, che avremmo caricato nel
vicino porto di Dakar in Senegal per l’Europa, dove avremmo fatto una serie di
lavori necessari alla nave dopo una lunga sosta in rada a Lagos in Nigeria dove era
rimasta diversi mesi in attesa di scaricare 15.000 tonnellate di sacchi di cemento.
Addirittura si prevedeva una sosta di oltre un anno, perché al porto di Lagos erano
arrivate tutte assieme centinaia di navi per scaricare i materiali necessari alla
costruzione del nuovo porto, materiali che le autorità nigeriane avevano ordinato
in un unico blocco senza tener conto di un programma dei tempi di discarica.
L’armatore della nave decise arbitrariamente di abbandonare la rada, poiché aveva
stipulato un contratto sfavorevole, in pratica senza stabilire un tempo di consegna.
Per avere disponibile la nave decise allora di sbarazzarsi del carico gettandolo a
mare al largo delle coste della Sierra Leone.
Per questa particolare discarica furono assoldate varie decine di lavoratori locali.
Un atto illegale quello di non consegnare un carico, gettandolo addirittura a mare,
eppure fu compiuto anche da altre navi di diverse nazioni nelle stesse condizioni,
dopo che alcune avevano atteso in rada fino ad oltre un anno.
Partii da Roma con volo Alitalia per arrivare ad Abidjan in Costa d’Avorio dove
giunti in ritardo persi la coincidenza verso la Sierra Leone. Contattata l’Agenzia in
Italia, fui appoggiato alla Comaf di Abdjan nella persona del Signor Sommariva il
quale mi comunicò che la nave si trovava ora a Bissau in Nuova Guinea, dove avrei
dovuto raggiungerla. Così lunedì alle 14 partii per Dakar dove ad attendermi c’era
un incaricato dell’Agenzia che mi accompagnò in albergo, visto che la partenza
per Bissau era prevista per mercoledì.
In cuore sentivo che quest’imbarco sarebbe stato diverso da tutti gli altri, e che il
rientro in Europa mi puzzava, proprio perché come inizio era già un po’ incasinato
e poi in agenzia sentivo parlare di viaggi alla “busca”. Fino allora non ero un
navigante da “malafora” come si usa dire: conoscevo queste zone dove avevo
già fatto alcuni viaggi di tronchi e merce varia, per arrivare massimo a Duala in
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Camerum. Ero stato in Nord Europa sino in Mar Baltico ma tutto sommato avevo
sempre navigato il Mediterraneo. Inoltre sino ad allora eravamo nel 1975, avevo
volato poco e solo con linee europee. Addirittura una volta in Finlandia, altre a
Londra e Amsterdam, sempre con aerei affidabili come i DC9 di grandi compagnie
aeree. In quell’occasione oltre alla “Gana Air Line”, volai con la “Senegal Air Line”
a bordo di un velivolo bimotore a elica, forse un residuato dell’ultima guerra, con
il quale a volo quasi radente abbiamo raggiunto Bissau. Ci fu uno scalo intermedio
a Zingumchor una pista erbosa sempre in Senegal di cui appresi poi trattarsi di un
importante punto di partenza per safari.
Comunque dopo sei giorni di viaggio arrivai finalmente a bordo del “Sealord
One”, il quale non mi fece una buona impressione, anche se poi mi ricredetti. Un bel
barcone stile “Carrette”, come piacciono a me. Stazzava almeno 15.000 tonnellate,
molto trascurato a causa dell’avventura vissuta in questi ultimi mesi. L’equipaggio
era misto in maggioranza spagnoli, sia comandante, primo macchinista e per fortuna
cuoco e garzone erano italiani. Si trattava di una classica bandiera ombra, un sistema
a quei tempi molto usato da armatori italiani con pochi scrupoli, che sotto bandiere
panamensi e Società di comodo Svizzere potevano evadere tasse e altro.
Da Bissau andammo a Dakar, una piccola sosta tecnica, per far intervenire
una squadra di sommozzatori specializzati nella pulizia delle carene. Intanto fu
avvicendata una parte dell’equipaggio, tra cui il comandante ed il primo macchinista.
La novità? Come dubitavo non si rientrava più in Europa, si andava a far carico di
soia a Rio Grande Do Sul in Brasile per Jakarta in Indonesia e Manila nelle Filippine.
Addio pronto ritorno a casa!
Partimmo da Dakar il 22 novembre del 1975, il 25 passammo la linea dell’Equatore,
per me era la prima volta e perciò assieme ad altri fui costretto ad adempiere ai
consueti riti. Nell’occasione mi fu rilasciato un attestato che conservo sempre tra le
mie carte, dove sopra un pezzo di carta nautica si certificava che Zeffiro Rossi quel
giorno, anno del Signore 1975, aveva felicemente attraversato la linea dell’Equatore
e debitamente sacrificato alle benigne Deità del Mare Atlantico aveva compiuto
tutti i riti prescritti dalle leggi degli oceani. Il certificato corredato dall’immagine di
una sirena e dal sigillo della “Olympus Co Inc” era rilasciato in forza delle autorità
concesse dalle Deità e dalle Leggi del Mare.
La navigazione fu regolare, alcuni normali problemi in macchina, ma niente di
particolare, la mattina del 4 dicembre arrivammo a Rio Grande Do Sul dove ci
fermammo circa una settimana.
Da qui, pur senza saperlo, iniziò il mio primo indimenticabile giro del mondo di
cui racconterò tra l’altro alcuni avvenimenti che vanno al di là della vita normale di
bordo. Non racconterò né di tempeste, né di avarie, ma dei luoghi in cui facemmo
scalo durante quella circumnavigazione del globo e in particolar modo di persone
che furono protagonisti di un avvenimento probabilmente unico almeno nella nostra
marineria, di cui sono stato testimone.
Nella sosta di Rio Grande, chissà perché, acquistai un cucciolo (cachorros) di
pechinese, forse mi parve che un animale così tanto simpatico poteva essere il buon
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Un giro del mondo un po’ particolare
Zeffiro Rossi
compagno di un viaggio che probabilmente era destinato a essere molto lungo,
infatti, il Senti, così lo chiamai, variò il ritmo del passar del tempo nelle lunghe
navigazioni, anche se a dir il vero non ci fu molto di che annoiarsi.
Con il comandante, capitano di Savona, eravamo coetanei e instaurammo subito
un buon rapporto. Passavamo il tempo in lunghe conversazioni, tanto più che
pranzavamo assieme nel salone a centro nave. Discreto uomo sempre sorridente,
era come me un buon chiacchierone e oltre che esperto navigante, era proprio da
“malafora”, aveva una buona cultura generale. Un tipo moderno in possesso di una
buona dose di simpatia, che trovava il tempo di pensare ad altro, oltre che a quello
di essere il comandante. Non era certo come molti altri, tutti d’un pezzo, che se pur
professionalmente bravi, emanano solo il sussiego del comando. Intenditore d’arte,
di sport, tifava Genoa, tra l’altro m’insegnò a giocare al meraviglioso gioco degli
scacchi. Sul ponte di comando m’illustrava la navigazione, le rotte che facevamo e
il perché, i punti salienti, il cielo stellato che nell’emisfero Sud è diverso con meno
stelle e costellazioni dell’emisfero Nord. In poche parole era il comandante che
piaceva a me. Mi ricordava il Partiti di Viareggio, uno dei primi comandanti di lungo
corso che ebbi modo si apprezzare quando ero ancora secondo macchinista.
Il primo e secondo ufficiale di coperta spagnoli erano abbastanza bravi: educato
il primo, un po’ strafottente il secondo. Spagnola era in maggioranza la nazionalità
del personale, inoltre c’erano un indiano, due arabi, un argentino e un brasiliano e
due cinesi. In ogni modo tutto era tranquillo e ci si capiva bene. Mancava il terzo
di coperta perché sbarcato a Rio Grande per malattia, il comandante faceva quindi
la sua guardia. Il marconista, un personaggio curioso con il suo barbone sembrava
uno zombi, eppure era valido e solerte, sempre in stazione radio, curava molto le
notizie degli avvenimenti che giungevano da tutto il mondo, in particolar modo
dalla Spagna e dall’Italia. In macchina, sia il secondo che il terzo erano due giovani
ufficiali volenterosi, uno abbastanza esperto mentre l’altro, al suo primo imbarco
da ufficiale, era sempre un po’ acerbo, ma aveva voglia di imparare e questo per
me era una cosa importante.
La maggioranza degli spagnoli provenivano da Vigo l’importante porto della
Galizia, cuoco e garzone fortunatamente erano italiani e si mangiava benino.
In macchina purtroppo patimmo l’imprevisto sbarco di tre persone, il caporale,
l’elettricista e un ingrassatore, una perdita pesante che bene o male superammo. Il
primo macchinista, cinquant’anni, di Rapallo, un po’ chiacchierone e semplicione,
era comunque un buon collaboratore, anche se un po’ troppo in confidenza col
personale spagnolo che lo avevano in antipatia.
Da Vigo, ci aveva raggiunto a Rio Grande la moglie del secondo macchinista,
che aveva avuto autorizzazione dal comandante e dai armatori di portarsi a bordo
la giovane sposa Beatriz, una bella figliola di 23 anni, mora, non troppo alta, un che
di gitano. Con il marito facevano una bella coppia, felici ed invidiabili. Si erano
sposati da pochi mesi.
Il giorno del Natale, dopo aver percorso circa 3600 miglia, completavamo
la traversata dell’Oceano Atlantico, infatti, alle nove, doppiato Capo di Buona
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Speranza, eravamo al traverso di Capo Agulhas, il punto più meridionale del
continente africano. Da quel punto affrontavamo l’Oceano Indiano con una rotta
verso Nord Est che attraversato il Tropico del Capricorno ci portava verso le più
miti zone equatoriali.
Alle tredici per la ricorrenza del S. Natale, com’è usanza su tutte le navi, pranzammo
tutti assieme nel salone mensa ufficiali, mancava solo il personale di guardia. Il
locale era addobbato con i tradizionali festoni lucenti; un bell’albero di Natale tutto
illuminato rendeva suggestivo l’ambiente. Una volta che tutto l’equipaggio fu a
tavola, il comandante, con un breve e toccante discorso, ricordò le nostre famiglie
lontane. Dopo l’applauso di rito la bella Beatriz c’invitò ad alzarci e...
En nombre del Padre del Hijo y del Espiritu Santo.
Padre nuestro, que estás en el cielo, santificado sea tu Nombre; venga a nosotros
tu reino y hágase tu voluntad aqui en la tierra como en el cielo y en la mar; danos
hoy nuestro pan de cada día y perdona nuestras ofensas, como tambien nosotros
perdonamos a los que nos ofenden; no nos dejes caer en la tentación, y líbranos
del mal. Amén.
Ci fu un momento di commozione anche per chi non era avvezzo alla preghiera.
Poi un ricco pranzo natalizio senza dimenticarci che eravamo in navigazione e che
dovevamo riprendere presto il consueto ritmo della vita di bordo, ognuno con il
proprio lavoro, con i propri pensieri e con le proprie speranze.
Venne così anche la notte dell’ultimo dell’anno, trascorsa in lontananza tra il
Madagascar e gli arcipelaghi delle famose Isole Mauiritius e della Réunion, mentre
ci apprestavamo ad oltrepassare la linea del Tropico Capricorno.
Il tempo era buono, si navigava bene. A mezzanotte, ora locale quattro ore
avanti all’orario italiano, festeggiammo l’arrivo del 1976. Questa volta nella
mensa equipaggio, dove c’era molta allegria animata dai canti degli spagnoli.
A differenza del giorno di Natale ci fu anche qualche bicchiere di troppo bevuto
durante il cenone.
Verso la mezzanotte, Beatriz, che si era assentata da tavola, fece la sua comparsa,
indossando un vestito rosso molto attillato che metteva in risalto tutta la sua bellezza
adornata da un’elegante mantiglia nera. Eravamo al massimo del brio e appena lei
accennò un Paso Doble, si scatenò una danza generale, e fu il finimondo: Ole!, Ole!,
Ole! Tutti divennero dei toreador, sembrava d’esser in una balera di Barcellona, il
tacchettio dei passi del ballo era frenetico, il pavimento della mensa vibrava e tutto
durò fino a quando Beatriz con un salto felino saltò su un tavolo e diede inizio ad
un numero di ballo straordinario. Tutti ci ammutolimmo, probabilmente vinti dalla
stanchezza dovuta al troppo bere, ma sicuramente incantati da quella creatura che
sul tavolo risvegliava in noi i mai sopiti desideri.
Intanto il viaggio proseguiva. Era il 13 gennaio, quando verso sera entrammo
nello Stretto di Sonda, tra Giava e Sumatra. Con un percorso di circa 5000 miglia
avevamo felicemente attraversato anche l’Oceano Indiano. Nello stretto passammo
vicino all’isola di Rakata, famosa per il vulcano Krakatau che il 27 agosto 1883
ebbe l’eruzione definita la più violenta mai registrata a memoria d’uomo. 36.000
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Un giro del mondo un po’ particolare
Zeffiro Rossi
furono i morti causati dagli tsunami generati dal fenomeno; persino il clima terreste
subì rilevanti mutazioni.
A parte il ricordo della tragedia vissuta in quei luoghi neppure cento anni prima,
il panorama era spettacolare, le isole con le loro coste lussureggianti di vegetazione
tropicale erano affascinanti.
La mattina del giorno dopo arrivammo a Jakarta, dove scaricammo 3.000
tonnellate di sacchi di soia, tra un acquazzone e l’altro che mai n’avevo visti di
così violenti.
Per raggiungere Manila nelle Filippine dove arrivammo in poco meno di una
settimana, ci aspettava il Mar di Cina. Rientrati con il passaggio dell’Equatore nel
nostro emisfero, navigando sotto le coste del Borneo e poi nel pericoloso passaggio
del Palawam lungo l’omonima isola, come un molo di 200 miglia, in un cristallino
e meraviglioso mare, giungemmo felicemente nella gran baia di Manila.
Gran bella città Manila, bei locali, belle ragazze. Molte hanno il vezzo di
incapsulare in oro un dente canino. Che strano, ma ho sempre notato questo
particolare sfizio delle genti asiatiche. Forse per questo approfittai della sosta per
sistemarmi i denti e confesso che anch’io fui tentato da questa moda. La sosta durò
oltre dieci giorni per scaricare in rada il carico su barconi con i nostri verricelli, che
ci procurarono tanti problemi.
Un po’ tutti godemmo quindi di alcune belle franchigie. Acquistammo un paio di
camicie bianche ricamate, modello Baron, indossate su pantaloni blu, la divisa simbolo
dei filippini; eravamo molto eleganti nel frequentare locali come ristoranti, e night.
Intanto giunse notizia di andare a Bangkok a caricare zucchero diretto verso i
porti USA.
Nel viaggio per la Thailandia, attraverso il Mar di Cina, navigammo lungo le coste
del Vietnam, dove giusto un anno prima il 30 aprile 1975, era finita una famosa e
cruenta guerra. Il mio pensiero andò alla tragedia che aveva vissuto e continuava a
vivere il popolo vietnamita, anche dopo che Saigon aveva preso il nome di Ho Chi
Minh; infatti, di lì a poco avremmo sentito parlare di questo mare per le famose
Boat People, cariche di gente in fuga. Si sarebbe trattato di almeno 40.000 persone
che tra i flutti del mare sarebbero andate in cerca di una nuova libertà.
A Bangkok ormeggiammo alle boe al centro del fiume Chao Phraya che lambisce
la città. Qui caricammo lo zucchero grezzo che arrivava in sacchi a bordo dei
caratteristici sampang, tipiche barche dove vive tutta la famiglia. I sacchi caricati,
sempre con i nostri verricelli e posti sulle stive chiuse, venivano aperti con il taglio
delle cuciture e scaricati da basso attraverso alcuni boccaporti aperti.
La Venezia dell’Est, come era chiamata in passato Bangkok perché costruita
su un dedalo di canali, ci circondava con il suo folclore, ed era presente anche a
bordo dove era tutto un andirivieni di genti che svolgevano le più disparate attività.
Dai mercanti al commercio minuto, agli addetti al carico e ai punti di ristoro sotto
tendoni inventati nell’occasione, dove era possibile mangiare piccanti bocconcini
di pesce e verdure e bere bevande a base di tè.
Molte giovani offrivano la loro compagnia; probabilmente noi le avremmo
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chiamate prostitute, ma per la loro dignità sembravano qualcosa di diverso. Queste
ragazze non mercanteggiavano, chiedevano solo di farti compagnia e di stare in
cabina per offrire i loro servigi, lavare la biancheria, pulire l’alloggio, cucinare e
perché no, anche per far l’amore.
S’improvvisavano come spose fedeli per tutta la sosta della nave, certo col tempo
potevano essere invadenti, perché come spose erano tanto perfette da esser perfino
gelose e possessive.
Di questo se ne accorse il primo macchinista Giovanni Aste, perfetto ma
sprovveduto donnaiolo che cadde nella tela di Nong, una bella ragazza di circa
18 anni che non gli permise di fare neppure una sera di franchigia e quando una
sera, dopo dieci giorni, lui cercò di liberarsene, e forse lo fece in maniera troppo
rude, lei in risposta fece un gesto inconsulto: preso un coltello, si tagliò le vene di
entrambi i polsi.
A bordo fu il caos, il comandante in attesa che arrivassero i soccorsi medicò con
perizia le ferite riducendo l’abbondante perdita di sangue, certamente questo valse
a salvare la vita a Nong, che finché non perse i sensi ebbe un contegno dignitoso
e senza un lamento.
Bamgkok, il piccolo Senti con un topino
Assieme ai medici giunti con una barca ambulanza, arrivarono un gruppo di
poliziotti che dopo una sommaria inchiesta portarono a terra comandante e il primo
di macchina Aste. Avvertito l’Agente marittimo. Restammo nell’attesa degli eventi.
Era circa mezzanotte, quando due gendarmi rimasti a bordo fecero sbarcare tutti
quelli che non facevano parte dell’equipaggio.
Il giorno dopo la nave era sotto sequestro, nessuna operazione di carico, nessun
evento e neppure notizie del comandante. A bordo era una desolazione. Solo il giorno
successivo, finalmente verso sera una barca accostò sotto bordo e ne discesero il
comandante ed il macchinista. Tutto era chiarito, la ragazza stava bene e di lì a poco la
vita di bordo, che si era fermata così bruscamente, riprese con tutto il suo colore.
Trascorsero appena due giorni e ricomparve Nong, la quale con le evidenti
fasciature ai polsi raggiunse con passi flessuosi il corridoio dove alloggiavano gli
ufficiali di macchina. Rimase col suo compagno sino all’ultimo, per scendere da
bordo alla partenza della nave, addirittura fuori del porto con la barca del pilota.
Il carico di zucchero, per motivi di pescaggio fu completato nell’isola di Ko Si
Chang da dove il 26 febbraio partimmo per San Francisco. Questa volta dovevamo
traversare l’Oceano Pacifico con un viaggio di oltre 8.000 miglia ed un mese circa
di navigazione. Ecco che dopo le movimentate soste in Indonesia, Filippine e
Thailandia, ritornava la tranquilla monotonia della navigazione.
La sosta a Bangkok è stata, per le affascinanti bellezze e caratteristiche del luogo,
uno dei miei più bei ricordi di navigante, anche se purtroppo rattristata dalla storia
d’amore della povera Nong.
Ma come dimenticare questa città anche per le trasgressive franchigie. Il giro
dei bagni turchi dove in un grande locale chiuso da una vetrata stavano sedute su
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Un giro del mondo un po’ particolare
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una gradinata decine di massaggiatrici; ognuna portava sul petto una coccarda con
un numero e tu potevi chiamare la preferita per mezzo di un microfono. E come
dimenticare i tradizionali ristoranti, dove abbondavano squisiti piatti a base di
crostacei.
Erano circa tre mesi che la maggior parte dell’equipaggio era imbarcato e
purtroppo proprio tra il personale di macchina notavo un certo malumore. Ne parlai
con Aste il primo macchinista il quale confermò i miei dubbi, dicendomi che gli
spagnoli ce l’avevano con lui, visto che le malelingue di bordo gli rimproveravano
di aver fatto la corte alla moglie del secondo macchinista. La cosa, visto il tipo,
non mi sorprendeva più di tanto, ma ero certo che a parte il fatto spiacevole e poco
riguardoso verso un collega, la cosa non era andata oltre. Comunque qualcosa
bisognava pur fare, avrei voluto parlarne con il comandante ma tirare ancora in
ballo Aste mi dava fastidio; decisi allora di guardarmi attorno e capire come stavano
veramente le cose per vederle da un’altra prospettiva.
Da tempo a dire il vero avevo osservato che i due giovani sposi, erano troppo
in confidenza con il terzo di macchina Alfonso Galban ed il secondo di coperta
Ramon Ferrà. Va bene che erano paesani, ma tutto ha un limite. Avevo notato pur
distrattamente che Beatriz, di prima sera, quando il marito riposava, perché alla
mezzanotte doveva montare di guardia, “girondolava” per bordo a far chiacchiere
con chiunque. Ogni tanto capitava anche nel mio alloggio per fare le feste a Senti,
così si parlava del più e del meno, del suo paese in Galizia, delle tradizioni, del
Santuario di Santiago de Compostela, dove è sepolto San Giacomo, e dove arriva il
famoso e lungo Cammino percorso dai pellegrini. La cerimonia del “botafumero”,
il tradizionale e particolare turibolo d’argento che oscillando sopra le teste dei
fedeli sparge l’incenso.
Inoltre, spesso quando mi intrattenevo in plancia con il comandante, la vedevo
salire sul ponte di comando non appena montava di guardia Ramon il secondo
Ufficiale di coperta. Noi scendevamo da basso e la ragazza restava sul ponte,
sembra addirittura per tutte le quattro ore di guardia. Il timoniere ebbe a dire che
erano quattro ore di tenerezze. La ragazza aveva dunque un flirt con Ramon, e
la cosa oltre che sorprendente era almeno incomprensibile. Tuttora anche non
volendo parlare di scandalo, non riesco a capire come sia potuto avvenire che una
giovane sposa, sempre in gita di nozze, abbia perduto, direi stupidamente la testa.
Dicono sia l’effetto del mare, dell’aria salmastra, della lontananza dal mondo con
i suoi preconcetti, che può tirare di questi scherzi. Lo sanno bene coloro che hanno
navigato sulle navi passeggeri, ma quelle erano avventure che certo non avevano
conseguenze come in questo caso.
Le cose in macchina non andavano purtroppo come io volevo e, infatti, ero
costretto a stare di più da basso avendo perso un po’ la fiducia in tutti.
Una sera risalendo in cabina non trovai come il solito ad aspettarmi festoso il
Senti, lo chiamai ma niente da fare. Cominciai a cercarlo anche in cucina dove ogni
tanto andava in cerca di cibo, ma nessuno lo aveva visto e la cosa mi sembrava
veramente strana. Lo cercai con la torcia elettrica all’esterno, sul ponte lance,
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attorno all’osteriggio di macchina; lo chiamavo ma non avevo risposta. Partecipava
alle ricerche anche Beatriz. Con una certa angoscia cominciai a pensare che forse
era caduto in mare e lei che in continuazione diceva “qué penas qué penas”,
m’indispettiva e, infatti, le dissi di stare zitta. Fu allora che udii un mugolio, il cuore
mi si rasserenerò; nessun altro segnale, la bestiola taceva, ma ormai ero certo che
era a bordo e continuai nelle ricerche. Finalmente lo investii con il fascio di luce,
fu un caso perché mai avrei pensato fosse sulla piattaforma che sostiene in alto sul
fumaiolo la sirena. Mi arrampicai sulla scala a pioli per portarlo giù; mi sommerse
di feste, tremava impaurito, ma chi lo aveva messo lì? Perché mi si faceva questo
dispetto? Da quel momento lo lasciai sempre chiuso in cabina, quando scendevo
in macchina, ma intanto chiamai Salvador il secondo macchinista, chiusi la porta
e lo affrontai con decisione, ritenendo lui e i suoi paesani responsabili del gesto.
Che parlassero chiaro, dov’era il problema? Mi confermò che i rapporti si erano
guastati con il signor Aste in seguito alle attenzioni rivolte a sua moglie. Gli risposi
che sinceramente mi sembrava un comportamento eccessivo e stupido da parte sua,
perché Aste non pensava minimamente a Beatriz. Forse tempo addietro poteva aver
avuto nei suoi riguardi qualche galanteria o forse un’eccessiva gentilezza, che è
propria di noi latini. Ebbi allora l’ardire, ma ero tanto arrabbiato, di domandargli
se tra lui e sua moglie andava tutto bene, mentre doveva essere felice di questo
particolare viaggio di nozze. Il ragazzo scoppiò in pianto, era a conoscenza del
rapporto tra Beatriz e Ramon il secondo di coperta: era disperato e non sapeva
che pesci prendere. Mi fece pena, ma io come potevo aiutarlo? Difficile dargli dei
consigli, eravamo in alto mare in un oceano sconfinato. Lo rincuorai con la promessa
che noi italiani lo avremmo aiutato e compreso più dei suoi paesani. All’arrivo in
America, mancava ancora una settimana, poteva decidere qualsiasi cosa per risolvere
questo problema, ma intanto che cercasse di stare tranquillo, e non in disaccordo
con noi, che tanto non serviva a niente. Chiamai su da me anche Alfonso il terzo
di macchina. Capii subito il suo ruolo di pettegola comare che soffiava sul fuoco,
chiamai anche Aste. Dopo esserci spiegati e chiarito il disaccordo, promettemmo
al ragazzo che assieme avremmo fatto tutto il possibile per aiutarlo.
Effettivamente già dall’indomani le cose in macchina migliorarono, la relazione
tra i due amanti era divenuta ormai di dominio pubblico, tanto che Beatriz si trasferì
direttamente nell’alloggio dell’amante e non si vide più a poppa. Tra lei che andò
a vivere negli alloggi del ponte di centro e il marito in quelli di poppa, c’erano a
dividerli, per ironia della sorte, due stive piene di zucchero. Pochi metri che erano
come migliaia di miglia.
Il comandante convenne che la situazione era grave tanto che poteva dar luogo a
spiacevoli episodi e l’unica cosa era di stare attenti fino all’arrivo a San Francisco
dove avrebbe provveduto a sbarcarli tutti e tre.
Il 18 marzo passammo da Ovest a Est la linea del 180° meridiano e di cambiamento
di data e ripetemmo così quel giorno. Quante novità per me in questo viaggio che,
nonostante tutto mi stava affascinando come non mai.
Giungemmo in America il 29 marzo, la prima cosa che mi colpì fu il colore del
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paesaggio, il cielo, il mare e la terra non avevano il terzo azzurro dei nostri luoghi,
ma tutto mi appariva di un tenue pastello, come se mi trovassi in un quadro. Era la
prima volta che arrivavo in America, quante volte avevo desiderato questo momento,
da giovane filoamericano, non politicamente s’intende ma affascinato dal sistema
di vivere, visto al cinema, dalle loro canzoni alla moda e da tante altre cose che in
Italia erano ancora tabù.
Che grande emozione quando passammo sotto il Golden Gate, il mitico ponte
sospeso che con i suoi 2700 metri apre l’accesso alla Baia di San Francisco con al
centro l’isola dove si
trova Alcatraz, forse
il più famoso carcere
del mondo.
Passare sotto quel
ponte alto 67 metri
sul mare, con gli
alberi della nave che
sembrava toccassero
Il Golden Gate Bridge
le sue strutture, mi
ricordò le emozioni che avevo provato transitando lo Stretto di Messina, quando
sembra toccare i cavi dell’alta tensione, che vanno dalla Calabria alla Sicilia.
Ormeggiammo al porto di Crockett, dove arrivarono subito a bordo i rappresentanti
dell’Agenzia Marittima con i nuovi dell’equipaggio: i due secondi ufficiali e
finalmente gli altri tre di macchina che mancavano da Rio Grande in Brasile.
Sembrava tutto risolto quando gli sbarcanti ed anche Beatriz che risultava a ruolo
come cameriera, chiesero l’intervento del sindacato I.T.F. e del consolato spagnolo
perché non intendevano sbarcare senza giustificato motivo. Infatti, chi mai si è
trovato a sbarcare qualcuno per adulterio? Questa risoluzione del rapporto di lavoro
non è contemplato in nessun contratto di lavoro.
La situazione era tragico comica, ma da Lugano gli armatori fecero sapere che
dovevamo partire subito perché avevamo cancello a Vancouver in Canada per un
carico di zolfo e non potevamo rischiare di perderlo. Così i tre attori di questa storia
restarono a bordo. Il nuovo ufficiale di coperta arrivato andò comunque a coprire
quello del terzo che già mancava mentre in macchina mi trovai un ufficiale in più.
Arrivammo a Vancouver il 4 aprile per ripartire alla volta di Buenos Aires, carichi
di Zolfo. Durante la sosta il primo macchinista Giovanni Aste sbarcò ammalato,
ironia della sorte Salvador il secondo che doveva essere sbarcato a San Francisco,
passò primo di macchina e tutto a bordo ritornò tutto normale: equipaggio al
completo, la luna di miele tra i giovani sposi definitivamente finita, perché la sposa
rimase nell’alloggio di Ramon, io ed il comandante tornammo alle nostre abitudini
e alle nostre partite a scacchi; in macchina tutto era regolare, il Senti non rimase
più chiuso in cabina.
A tarda sera del 6 aprile si partì da Vancouver. Il pilota sbarcò alle sette del
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mattino dopo a Victoria. Da quel momento si percorse lo stretto di Juan de Fuca
fino al Pacifico per poi intraprendere un lunghissimo viaggio che navigando verso
Sud lungo le due Americhe, ci avrebbe portato attraverso lo Stretto di Magellano in
Oceano Atlantico per giungere poi a Buenos Aires. In quell’anno, infatti, il Canale
di Panama era chiuso per motivi politici.
A bordo tutto procedeva per il meglio a parte le normali problematiche all’apparato
motore che, benché le molte ore di moto si comportava egregiamente.
Il passaggio di Salvador da secondo a primo macchinista mi dava occasione di
parlare più spesso con lui. Alcune volte il discorso cadeva inevitabilmente su sua
moglie e sul comportamento tenuto a San Francisco A mio avviso sarebbe stato
meglio se fosse sbarcato per non continuare a vivere una situazione certamente
insopportabile. Mi diceva che non era più innamorato della moglie, e mi parlava
del gran problema che lo affliggeva, quello di riportare Beatriz a casa. Lo aveva
promesso a suo padre quando da Rio Grande aveva telefonato a Vigo per farla venire
a bordo. Il padre non era per niente contento, nutriva certe preoccupazioni per una
ragazza che così giovane, affrontava una simile esperienza e poi gli dispiaceva
stare tanti mesi senza vedere quell’unica figlia. Lui riuscì a strappargli il consenso,
prendendo l’impegno che l’avrebbe protetta da tutto garantendo che non esistevano
problemi di sorta, e non si doveva preoccupare.
Ora il suo scopo era di riportarla a casa ad ogni costo. Diceva che se fossero
sbarcati in America l’avrebbe persa per sempre. Certamente il ragazzo aveva ragione,
certo mi faceva pena e non so cosa avrei fatto per aiutarlo.
Il 20 aprile oltrepassammo la linea dell’Equatore tenendo al lato dritto le isole
care a Charles Darwin cioè l’arcipelago delle Galàpagos, mentre il 24 effettuammo
uno scalo tecnico a Callao in Perù per operazioni di bunkeraggio. Il primo maggio
un’altra breve sosta a Valparaiso per imbarcare il pilota, perché avremmo navigato
verso Sud alla bonaccia nei fiordi frastagliati della Patagonia Cilena. Questi con
circa 800 miglia conducono fino allo Stretto di Magellano e con altre 300 miglia
saremmo giunti in Oceano Atlantico.
L’isoletta di Clio con la statua della Vergine protettrice dei marinai
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Inizia l’Angostura Englesa
Entrammo nella rotta dei fiordi dalla parte estrema a Nord del golfo di Ancud e
poi, verso quello del Corcovado, e di Penas. Ancora uno stretto e lungo canale tra un
intricato labirinto d’isole e fiordi, che verso Sud presenta un passo molto pericoloso,
largo appena una decina di metri è quello dell’Angostura Englesa, dove le correnti
possono raggiungere anche sei nodi. Proprio al centro nel punto più stretto si trova
Clio, un’isoletta di pochi metri quadrati, dove nel 1949 gli uomini della Marina
Cilena posero la statua della Vergine, Nostra Signora Stella Maris, protettrice dei
marinai che in cerca di riparo dalle tempeste oceaniche si avventurano in questo
tortuoso e pericoloso stretto passaggio.
L’idea che da lì a pochi giorni saremmo “sboccati” in Atlantico riempiva il cuore
di gioia. Sembrava di ritornare nei nostri mari. Dopo esser stati dall’altra parte del
globo completavamo il giro del mondo geografico, vale a dire senza il passaggio
di canali artificiali ed il fatto di concludere questo viaggio ci faceva assaporare la
sensazione del ritorno a casa. Infatti, all’arrivo a Buenos Aires molti di noi sarebbero
sbarcati per avvicendamento dopo circa sette mesi d’imbarco.
Anche Salvador mi diceva che alla conclusione del viaggio probabilmente
sbarcava rientrando in Spagna con la moglie. Il ragazzo era molto fiducioso, Beatriz
nei giorni precedenti in un breve colloquio gli era sembrata pentita e disposta a
ritornare a casa, dove avrebbero deciso del loro futuro.
La navigazione tra i fiordi procedeva tra le meraviglie della natura; i panorami
erano spettacolari. Passammo sotto montagne con i ghiacciai perenni che scendevano
sino al mare. Addirittura si ammirarono isolette gremite di foche.
Il mattino del 6 maggio entrammo nello Stretto di Magellano, con una prima
parte molto stretta, tra monti a picco, poi larghissimo come un mare. A destra la
Terra del Fuoco. Nella notte notammo molti fuochi a terra, ma non erano quelli che
videro gli uomini di Magellano, quelli accesi dagli abitanti per riscaldarsi: erano le
fiamme dei pozzi petroliferi e dei giacimenti di gas.
Dirigemmo verso Punta Arenas dove sarebbe sbarcato il pilota, dopo di che
avremmo continuato da soli la parte rimanente sino all’oceano.
Erano circa le 11 di mattina, le guardie si apprestavano ad andare a tavola, mentre
il comandante, il pilota, il terzo ufficiale eravamo sul ponte di comando. Era tutta
la mattina che dalla cabina dei due amanti alcuni piani più sotto, ci giungevano
accesi litigi, ma in quel momento gli urli anche se non capivamo cosa si dicevano
si fecero più forti, tanto che in seguito ad un urlo esagerato il comandante disse al
marinaio di andare a vedere cosa succedeva e di farli se non altro star zitti.
Il marinaio di lì a poco riapparve stravolto e in preda ad una crisi isterica riuscì
a dire “l’ha uccisa”.
Ci precipitammo a basso e vedemmo sulla cuccetta in un lago di sangue Beatriz,
l’amante aveva sempre in mano il rasoio con il quale le aveva tagliato la gola.
Furono gli ultimi istanti di vita di Beatriz che spirò tra le braccia del comandante
il quale non riuscì a far niente per salvarle la vita.
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Che cosa successe in quegli istanti è indescrivibile, io tolsi il rasoio di mano
a Ramon e lo accompagnai di forza in una vicina cabina libera; poi chiamai un
marinaio perché facesse buona guardia sull’omicida per impedire altri atti inconsulti
e difenderlo dal marito che urlando minacciava di ucciderlo. Tutto l’equipaggio
era accorso al centro, intanto il comandante coadiuvato dal marconista e dal pilota
avvertiva le autorità marittime di Punta Arenas.
Di lì a poco giungemmo in rada a Punta Arenas, dove si diede fondo. Subito arrivarono
numerosi agenti di polizia, un dottore e degli infermieri. Per Beatriz non c’era proprio
più nulla da fare. Qualcuno a poppa aveva già messo la bandiera a mezz’asta. Il dottore
praticò una flebo al marito che era in uno stato di depressione preoccupante, gli agenti
arrestarono subito Ramon portandolo immediatamente via. Passate un paio d’ore anche
il corpo di Beatriz rinchiuso in una bara fu trasportato all’obitorio della città cilena, lo
accompagnava il marito assistito da un medico e dall’agente marittimo.
A bordo scese il più grande sgomento, nessuno pronunciava una parola, qualcuno
piangeva e si domandava perché. Nessuno poteva rispondere a questa domanda.
Era certo che la ragazza, così come avevano sentito dai litigi del mattino, voleva
ritornare con il marito, ma l’amante accecato dall’ira non intendeva saperne.
Passarono due giorni e, completate le indagini, ottenemmo il permesso di ripartire,
non prima di andare a salutare e portar conforto al povero Salvador. Il comandante
dispose che fosse assistito dall’agenzia marittima per ogni necessità e per il rientro
in Spagna della salma una volta espletate tutte le formalità. Ci abbracciammo a
lungo con Salvador il quale nel ringraziarmi mi sussurrò: “La riporto a casa”.
Ramon in prigione, aveva ricevuto la visita del Console spagnolo ed era in attesa di
processo e probabile estradizione. Anche per lui il comandante dispose che fosse assistito:
rimaneva pur sempre un giovane membro dell’equipaggio, vittima di una cieca gelosia.
Si concluse così in maniera tragica questa storia che oltre, alla tristezza ci lasciò anche
un sentimento di colpa: avremmo potuto fare qualcosa perché ciò non accadesse?
Ripresa la navigazione si giunse a Buenos Aires il 14 maggio, dove la vita di
bordo riprese regolarmente. Ci fermammo molto tempo a scaricare lo zolfo. Alcuni
dell’equipaggio furono intanto avvicendati, mentre da parte mia dovetti darmi alle
cattive per sbarcare, perché da Lugano mi chiedevano di fare ancora un viaggio di
granaglie per Taiwan, nell’isola di Formosa.
Sbarcai con Senti a La Plata il 28 maggio, sull’aereo che ci portava a Roma
completammo il giro del mondo, poiché mancava ancora il tratto di circa 250
miglia sino al traverso di Rio Grande Do Sul. Sull’aereo, un volo charter per l’Italia
organizzato dal Ministero degli Esteri Italiano, viaggiava un folto gruppo di friulani
che rientravano in Italia in seguito al terremoto in Friuli di pochi giorni prima.
Non appena l’aereo toccò terra a Roma ci fu un lungo applauso da parte di questi
emigranti che ritornavano in Italia dopo decine di anni. Questo momento fu un
attimo di felicità anche per me, che tutto sommato ero un migrante.
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Giovanni Pagano
L’UOVO DI COLOMBO
N
el 1973 dopo aver completato il mio periodo d’imbarco sulla motonave
Pallade della Flotta Lauro, sbarcai nel porto di Anversa per rotazione sociale,
avendo effettuato navigazione atlantica Nord Europa - Nord America.
Trascorso il periodo di ferie pur essendo in continuità di rapporto di lavoro
da circa dieci anni, non fui assunto più, causa la riduzione del personale, per la
vendita di alcune navi. Ormai la più grande flotta dell’armamento privato stava
per scomparire. Il Cavaliere del Lavoro, Comandante Achille Lauro artefice
dell’immensa fortuna accumulata aveva avuto un sussulto d’orgoglio. Cercò di
rimodernare le due navi passeggeri “Achille Lauro” e “Angelina Lauro” ma come
un presentimento dell’avverso destino (la dea bendata le aveva voltato le spalle),
le due navi si incendiarono una nel porto di Palermo e l’altra alle Isole Canarie a
Santa Cruz de Tenerife. Ma il coriaceo vegliardo non si arrese, emise l’ultimo canto
del cigno con la costruzione delle nuove e modernissime navi da carico: Cervo,
Capriolo, Gazzella, Kudù, Kerenù.
Ma purtroppo, la sua forte fibbra doveva cedere il passo agli anni che si portava
addosso, passando la mano ai figli: Ercole e Gioacchino.
Però non ebbero la fortuna e l’intraprendenza del padre, alcuni debiti contratti,
investimenti sbagliati portarono al fallimento ed al commissariamento della Lauro
Lines. Nel giro di pochi anni il Palazzo di Vetro di via Nuova Marina a Napoli,
sede della società rimase deserta.
Anche la sede della redazione del quotidiano “Roma” giornale di ispirazione
monarchica che era stato il fiore all’occhiello di Don Achille, vivacchierà ancora
alcuni anni fin quando chiuse battenti cessando la pubblicazione.
L’uomo che era stato il simbolo di Napoli, Sindaco della città di Napoli, sindaco
della città di Sorrento, Presidente del Calcio Napoli negli anni cinquanta fu il primo in
Italia a pagare un calciatore svedese Jeppesson per la sbalorditiva cifra di 105 milioni
di lire. Siccome Jeppesson era biondo i napoletani lo chiamarono (Raggio di Sole).
Quando gli eroi cadano dal piedistallo nessuno li ricorda e li osanna più. Cosicché
anche Achille Lauro venne presto dimenticato, solo Sorrento sua terra natia lo
ricorda con stima e benevolenza, intitolando a Lui e alla Moglie una delle principali
piazze della città. Mi son fatto prendere la mano descrivendo il buon ricordo che
ho di un grande uomo che ho conosciuto personalmente, a cui ero particolarmente
affezionato, sia come persona, sia come mio datore di lavoro. Pur essendo stato
licenziato, ho avuto ogni mia spettanza di fine rapporto compreso il preavviso.
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Con me altri marittimi persero il posto di lavoro, ma come si dice dalle mie parti:
“Il Signore, chiude una porta ed apre un porticato”.
La porta aperta la trovai proprio a Torre del Greco, città dove risiedo e vivo.
Fui assunto dalla Deiulemar, una piccola società di navigazione gestita da tre soci
fondatori: Della Gatta, Iuliano, Lembo. Questa società era appena agli albori della
sua costituzione ed aveva appena due navi. Oggi nell’anno 2009 la Deiulemar
S.p.A. di Navigazione gestisce una delle flotte più importanti d’Italia, si può dire
che è diventata una multinazionale avendo interessi in diversi settori economici.
Come dicevo nel 1973 la Deiulemar aveva due navi, su una di queste, la “Gina
Iuliano” imbarcai nel porto di Trieste il 4 Ottobre 1973 assieme al Comandante
Renato Parisio, il Primo Macchinista Speranza Tobia ed il Caporale di Macchina
Formisano Pietro. La Gina Iuliano era una vecchia carretta del mare, comprata nei
cantieri di demolizione di Rotterdam, rimessa a posto alla meglio maniera, rinnovato
il certificato di classe, fu messa in condizione di riprendere il mare.
Quando salii a bordo io ed il Primo Macchinista ci guardammo in faccia,
come per dire; mamma mia! Su che nave siamo capitati. Il Direttore di Macchina
Aniello Vitiello (detto u Ricciulillu) mi passò le consegne di massima. Facemmo
un giro giù in sala macchine, ove il motore principale un vecchio Burmaister and
Wain era in riscaldamento e mi accorsi subito che dagli alloggi dei polverizzatori
fuoriusciva acqua dalle testate. Il Direttore Vitiello cercò di tranquillizzarmi con
una risata dicendomi che, l’acqua veniva fuori e non c’era nessuna preoccupazione
che andasse a finire dentro il cilindro.dei piccoli osteriggi lasciavano a malapena
filtrare uno spiraglio di luce in un locale più nero del carbone. Salimmo sopra in
coperta, dove dentro una casamatta c’era impiantata una piccola officina, dove
l’operaio meccanico Filippo Avola era alle prese con un cuscinetto di banco dei
gruppi elettrogeni. Aveva costruito una specie di forgia di maniscalco dove scaldava
il banco per portarlo a temperatura e sopra con il cannello riportava del metallo
bianco fuso. Mi fu passato per consegne che questo era lavoro di quasi tutti i giorni,
poiché le teste di biella ed i banchi dei motori gruppi elettrogeni erano soggetti a
surriscaldarsi ed a fondere il metallo bianco. Ma la Società lo sa, è a conoscenza
di tutto questo? - Il Direttore sbarcante si fece la solita e grande risata: certo che
lo sa e ne è a perfetta conoscenza, ma l’operaio Avola qui presente detto il re dei
cuscinetti ed il suo aiutante “Giovanni il carrettiere” sono capaci di sfornare ed
aggiustare tre quattro cuscinetti al giorno. Per farla breve, qualunque cosa chiedevo:
non c’erano problemi, tutto era a posto, poi non aveva importanza che tutto non
funzionava come doveva funzionare. A Trieste imbarcammo anche il Super Carico,
Signor Zicic Jasko, poiché la nave era noleggiata dalla Jadraska di Fiume. Ormai
fervevano i preparativi per la partenza con destinazione Est Africa, primo posto
d’approdo Dar Es Salam (Porto della Pace) in Tanzania.
Bisognava ancora una volta circumnavigare l’Africa via Capo di Buona Speranza.
Gli eventi della guerra del Kippur, fra Arabi e Israeliani avevano reso il Canale di
Suez intransitabile, causa le navi affondate lungo il canale e nei Laghi Amari.
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L’uovo di Colombo
Giovanni Pagano
Come nel 1967 con la famosa guerra lampo dei 6 giorni, ci toccò fare giocoforza il
giro dell’Africa. Mi venne in mente un proverbio napoletano “I ciucci s’appiccicano
e i barili si scassano” che corrisponde al detto siciliano “a corda ruppa ruppa ci và
‘nto menzu cu non havi curpa”.
Il viaggio fino a Gibilterra andò abbastanza bene. Mi ero anche rassicurato di
avere un ottimo personale di macchina che, all’occorrenza era abbastanza preparato.
Passato lo stretto di Gibilterra accostammo a sinistra costeggiando il Marocco,
La Mauritania ed il Senegal. Ma all’altezza di Capo Verde, il timone andò tutto a
dritta, non rispondendo più ai comandi. Eravamo in un punto di intenso traffico
dove si intersecano le rotte per il Sud Africa ed il Sud America. Ci mancò poco a
non entrare in collisione con un traghetto diretto alle Isole di Capo Verde. Fermato
il motore, fu subito fatto un accurato controllo di pulizia dei contatti sul controller
trasmettitore e sul ricevitore nel locale agghiaccio timone. Il tutto venne risolto in
breve tempo riprendendo la normale navigazione.
Dopo 4 giorni il guasto si ripresentò nuovamente, quando eravamo attraverso di
Città del Capo. La solita pulitina dei contatti questa volta con più accurata attenzione,
ed il timone riprese le sue normali funzioni.
Ma come si suol dire non c’è due senza tre, in pieno canale del Mozambico con
la fortissima corrente delle Agulhas dritta di prora, il timone si bloccò a centro, e
non si muoveva né a destra né a sinistra. Questa volta non era questione di contatti,
ma tratta vasi di un fusibile bruciato sul circuito comando bobine.
Anche questa volta abbiamo avuto tanta fortuna ed individuare immediatamente
il guasto, sostituendo il fusibile incriminato.
La nave riprese la sua rotta, incuneandosi, fra le Isole Comore e la costa e dopo
qualche girono giungemmo al primo porto di approdo Dar Es Salam.
Ho voluto menzionare le tre brevi soste fatte in mare causa l’avaria del timone,
ma ci sono stati molti altri problemi che ci hanno destato parecchie apprensioni.
Abbiamo avuto delle grosse noie con i gruppi elettrogeni, le porte del carter avevano
una temperatura che oscillava intorno agli 80° centigradi, i cuscinetti di banco e
testa di biella fondevano il metallo bianco come la cera di una candela accesa. Per
evitare lo sbiella mento siamo stati costretti, a manutenzionare a rotazione, ora l’uno
ora l’altro elettrogeno. Abbiamo avuto il nostro gran da fare.
La cosa non poteva andare avanti in questo modo, oltre ad essere impegnati notte e
giorno, eravamo stanchi, distratti, stressati, bisognava escogitare qualcosa di nuovo.
La Gina Iuliano era stata costruita nei cantieri navali di Goteborg (Svezia), nave
destinata a navigare nei mari freddi del Nord Europa ed aveva un particolare sistema
di raffredamento, non era per niente adatta a solcare i mari dell’Africa equatoriale.
Fu così in un baleno quasi per caso che passò per la mia mente la risoluzione del
problema che il secondo Macchinista Tonino Miele sentenziò subito: ma questo è
“L’Uovo di Colombo”.
Ci mettemmo subito al lavoro, e nel giro di pochi giorni realizzammo l’idea con
ottimi risultati. Questa la relazione inviata alla Deiulemar S.p.A. di Torre del Greco.
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È stato risolto il problema di raffreddamento olio di lubrificazione ai cuscinetto
dei Gruppi Elettrogeni. È stato costruito un nuovo circuito ex nono indipendente ad
acqua di mare solamente per i refrigeranti dell’olio. L’acqua dolce di raffreddamento
che prima di entrare ai motori passava attraverso i refrigeranti dell’olio (per
raffreddarlo) è stata apportata la modifica di farla entrare direttamente.
Con tale modifica abbiamo ottenuto dei grandi vantaggi: l’olio non entra ai motori
a temperature elevate che si aggirava sui 70-75° centigradi ed ad una pressione
che arrivava al massimo di 0,3 Kg/cm quadrato. Allo stato attuale l’olio possiamo
regolarlo alla temperatura che vogliamo ed ad una pressione costante di 1,2 Kg/cm
quadrato, consentendo così una lubrificazione perfetta.
Le porte del carter non scaldano più, con grande sollievo nostro e dei cuscinetti
che hanno preso refrigerio. L’operaio meccanico Filippo Avola, ed il suo aiutante
“Giovanni il carrettiere” hanno chiuso la fucina, e riposto nei cassetti i Raschini,
li dedicheremo ad altri lavori di cui la nave ne ha estremo bisogno, ed ha ancora
parecchi problemi da risolvere. A noi lo spirito di volontà che ci anima di sicuro non
manca, l’unico nostro nemico è il caldo. La notte non si può dormire, siamo tutti
alloggiati all’albergo “Luna” con i teli di branda tesati qua e là, questi sono viaggi
molto duri e quindi si ha bisogno di persone preparate, moralmente, fisicamente e
professionalmente ed aggiungerei ancora, votata al sacrificio di sopportazione del
caldo africano. Sulla porta della casamatta che era adibita alla rimetallizzazione
dei cuscinetti scherzosamente è stato affisso un cartello: “chiuso per fine attività,
causa “L’Uovo di Colombo”.
Alla presente relazione si allegano n. 3 schemi dei circuiti, acqua salata, acqua
dolce ed il vecchio circuito, per rendervi edotti di ciò che è stato fatto. Speriamo
che la modifica apportata sia di Vostro gradimento.
Sul giornale di macchina parte 2a d’accordo con il Supercarico Signor Zicic,
abbiamo registrato soltanto un’ora di sosta per le tre fermate dell’avaria al timone,
delle tre effettivamente perse.
In attesa di un vostro cenno di approvazione o di dissenso, inviamo a tutti Voi
carissimi saluti, cordialmente.
Direttore di Macchina
Giovanni Pagano
Abbiamo ricevuto la vostra relazione inviata da Dar Es Sallam, vi ringraziamo
per tutto quello che avete fatto riguardo il guasto al timone. Vi siamo sinceramente
grati, per il Vostro interessamento a tutela dei buoni rapporti tra la nostra Società ed
i noleggiatori. Contentissimi per l’eccellente lavoro eseguito ai Gruppi Elettrogeni.
Con l’augurio di una buona navigazione, ancora grati per il Vostro ottimo lavoro
vogliate gradire i Nostri più distinti saluti.
DEIULEMAR
L’Amministratore Unico
Cap. Iuliano Michele
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Idamo Rossi
UN PESO E DUE MISURE
I
giornali hanno molto scritto in merito al processo per la morte degli operai
nell’acciaieria Tyssen di Torino, oltre alla condanna (che spero sia esemplare)
le famiglie hanno avuto un risarcimento di 2 milioni di euro. La vita di un uomo
non ha prezzo, ma se non altro oltre la disgrazia ed il dolore, i familiari non saranno
costretti ad elemosinare un pezzo di pane ed i figli avranno la possibilità di studiare
e prepararsi alla vita senza preoccupazioni finanziarie.
Non poteva non farmi ricordare, questo fatto, la mia brutta esperienza di 38 anni
fa, quando, imbarcato come 2°macchinista sulla m/c Punta Ala, al pontile di Augusta,
mentre terminavamo un carico di 5 mila tonnellate di vergin nafta, benzina super e
benzina avion, la m/c. Messene in manovra investì il pontile causando un incendio
immane dove entrambe le navi andarono perdute ed insieme 5 marittimi di cui due
diplomandi nautici di anni 18 ed un operaio del pontile.
Sono un uomo di poca memoria, eppure di allora ricordo tutto nei minimi
particolari: il nuoto affannoso e disperato verso l’agognata salvezza, i pompieri
che atterriti ed impotenti guardavano il consumarsi della tragedia (nessuno che
potesse venire in nostro soccorso), le navi che mollavano gli ormeggi e in pochi
minuti la rada fu deserta.
Come non posso fare il paragone tra quei morti e quelli attuali? L’inchiesta (se
così si può chiamare) è stata fatta in maniera abbastanza discutibile: le famiglie
dei marittimi abbandonate a loro stesse. La moglie dell’elettricista che sono stato
a trovare dopo un mese, oltre il telegramma del Presidente della Repubblica, non
aveva avuto alcun aiuto.
La vita continua! Noi marittimi dopo lo sbarco difficilmente riusciamo a mantenere i
contatti, ognuno torna alle proprie città di residenza e il più delle volte difficilmente ci
rincontriamo (infatti non ho più navigato un membro dell’equipaggio della Punta Ala).
Gli anni si accavallano uno dietro l’altro, ma quella tragedia è impressa col fuoco
nel mio intimo, più dell’incendio che uccise quei poveri uomini (ironia) bruciati
nell’acqua.
Questi sono pensieri che durante i vari imbarchi ho trascritto sulla carta.
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
POVERA MADRE
Ci accusasti
di non averli salvati,
noi che dall’inferno
eravamo scampati,
cosa ti si poteva dire
“povera madre”.
Abbassammo gli occhi,
non ti rispondemmo.
M/n Jolly verde -Oceano Atlantico - 20.4.1077
L’INCENDIO
Là c’è la vita,
sforzati, sforzati,
nuota veloce
raggiungi la vita.
Il corpo non risponde.
Perché non sono davanti
dove nuotano gli altri,
loro si salvano.
Quando quella testa
dietro di me,
quando quella
sarà avvolta dalle fiamme,
un attimo
sarà la fine.
Non è possibile
è un sogno.
Padre, padre
salvami.
Aiuto, aiuto,
solo, nessuno osa;
sento che morirò,
che non amerò più,
nuota, nuota,
raggiungi la vita.
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Idamo Rossi
Due pesi e due misue
Il sole è oscurato,
la barriera di fiamme
veloce corre sull’acqua,
esplosioni nell’aria,
ora saltano le caldaie;
è finita, è finita,
28 anni ed é finita.
Raggiungo nudo
la terra,
soccorritori
attoniti, impotenti
guardano l’immane tragedia.
M/n Jolly verde Atlantico 5.9.1977
naufragio M/c. Punta Ala 4.8.1971
MORIRE SULL’ACQUA
È più doloroso:
morire
per una raffica di mitra?
Morire,
ironia,
bruciati sull’acqua?
Marinai della Punta Ala,
arsi,
nell’affannoso, disperato nuoto
verso vana salvezza,
ad Augusta nella rada.
La vostra fine,
negata di soccorso,
accusa.
Di voi, meglio tacere,
non medaglie,
non pubbliche sottoscrizioni,
non congrui assegni ministeriali.
I vostri corpi, recuperati,
nell’acqua sporca, oleosa,
sfigurati,
Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
incassati,
spediti come pacchi,
privati dell’ultimo abbraccio.
Solo
chi muore in piazza
ha diritto agli onori
“del popolo italiano”.
Come le fiamme,
soffocarono le vostre grida,
l’egoismo cancellò la vostra vita.
A Genova, allo stadio,
offendono l’arbitro:
“MARITTIMO”.
M/dv Capalonga Mar del Nord 31.7.1978
Non tutte le morti sono uguali, anche in questo (si fa per dire) ci vuole fortuna,
speriamo che almeno Lui ne tenga conto.
Il Sindaco dott. Carmelo Spitaleri consegna la “Targa d’argento al merito”, XX edizione, al dott. Filippo
Massari “...per la lodevole operosità promozionale delle attività subacquee...”
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Anna Bartiromo
QUANDO IL MARE È AMARO
L
a “Lucrezia d’Amaro”, in navigazione già da alcuni mesi, su rotta Nord
Europa-Tunisi, stava caricando nel porto di Rotterdam, dove, da qualche
giorno c’era un avvicendamento di personale (a bordo).
Un primo di coperta e un cuoco. Entrambi provenienti dalla Sicilia.
In realtà anche il direttore di macchina Benito del Mastro, originario dell’isola
d’Elba aveva chiesto lo sbarco, ma non era stato possibile sostituirlo, così si vide
costretto a continuare. Fu una vera delusione per lui e se ne mostrò apertamente
contrariato con il comandante, sig. Raia, quando nei momenti di libertà, riusciva
a manifestargli tutto il suo disappunto. Il fatto è che quella era la prima volta su
una cargo.
Fino allora, infatti, aveva sempre navigato su linee di lusso toccando le più
invidiate rotte di crociera, godendo di panorami bellissimi e di luoghi incantevoli,
lavorando quasi fosse un gioco...
Poi la depressione, conseguenza di un divorzio non voluto, che gli aveva procurato
attacchi di panico misti a crisi di ansia improvvise che lo avevano tenuto qualche
tempo lontano dal mare, per cui, quell’imbarco, non proprio di suo gradimento,
gli si era reso necessario sia per esigenze economiche che per ricominciare.
Ovviamente non senza aver dovuto rivedere un po’ alcune cose per un minimo di
aggiornamento.
***
Tuttavia, giorno dopo giorno, quel cuore di ferro che batteva in maniera così
assordante per le sue orecchie, impietoso e insopportabile, sembrava quasi voler
scandire apposta per lui, ore senza fine. Allora gli tornava alla mente quel confortevole
silenzio (si fa per dire) dei motori elettrici, certamente meno rumorosi, installati
di solito sulle moderne navi passeggere. Persino i pannelli sinottici, indicatori di
temperatura, livello dell’olio, pressione, allarme e così via, gli pareva avessero colori
più vivaci. A volte i pensieri lo portavano a riflettere di più su tutto questo, specie
quando, di sera, solo nella sua cabina, il rumore cadenzato proveniente dalla sala
macchine, gli disturbava a tal punto il sonno da non farlo quasi affatto dormire per
cui continuava a rigirarsi nervosamente nel letto, per alzarsi, alla fine più stanco di
prima. Ma ciò che più lo irritava erano la calma e l’indifferenza di chi, uso a quel
trambusto, pareva, tuttavia, condurre ugualmente una vita quasi normale.
Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Aggiungasi a ciò che, nonostante avesse intorno a se, un equipaggio palesemente
amicale, non riusciva a socializzare il che non gli facilitava certo la vita. Infatti,
persisteva in lui una sorta di diffidenza globale dovuta, forse, chissà, ai suoi trascorsi
problemi che proprio non gli consentivano di entrare in sintonia con loro.
Al comandante non era certo sfuggito questo suo stato d’animo e, pur essendone
sinceramente preoccupato, non ne aveva parlato a nessuno.
In fondo si era istaurato un buon rapporto con lui con cui si intratteneva piuttosto
sempre a parlare o durante il giorno in momenti di relax, (piuttosto rari a bordo, c’è
da dire), o a pranzo o a cena, toccando gli argomenti più svariati, sia per un normale
scambio di idee necessario a valutare quanto si verificava quotidianamente sulla nave,
come la situazione in macchina, la rotta e così via, sia per farlo sentire meno solo.
Più spesso si incontravano sul ponte, là, dove quando il mare è calmo, (come
può esserlo l’Atlantico in alcuni momenti), sembra quasi possibile provare una
sensazione di assoluto, di incanto speciale che, se hai l’animo sereno e sai che stai
facendo bene il tuo lavoro, respiri profondamente l’odore di salsedine che ti sale alle
narici, quasi spruzzato dagli schizzi delle onde che si sfrangiano sullo scafo, e accetti
umilmente di essere soltanto una pedina nelle mani di qualcuno o di qualcosa, che,
al di sopra e al di fuori di te, può decidere in qualunque momento della tua vita.
Ma alla vista di quegli enormi blocchi di ferro quei grossi containers, abilmente
allineati in perfetto ordine sopra tutta la tolda da formare quasi una nuova piattaforma
trattenuta saldamente dai twist-locks, davano a Benito del Mastro una visione diversa
e alquanto alterata dalla realtà in cui si trovava, mettendogli addosso, piuttosto che
pace maggiore disagio e un acuto senso di sconforto e di impotenza in vera sofferenza
al punto che, di lì a poco, dovette ricominciare a prendere dei sedativi.
* * *
La navigazione proseguiva abbastanza tranquilla...
C’è un cambio di destinazione, disse il capitano quella sera a cena rivolto al
direttore, mentre finiva il suo dessert.
Ci è arrivata una e-mail dalla Compagnia stamattina che ci dice di proseguire
per Odissea, sul mar Nero, dove andremo a scaricare. Così non ci fermiamo più a
Tunisi. Mi dispiace per voi, Signor direttore, che aspettavate il cambio per sbarcare.
Pazienza, comprendo il vostro desiderio di andar via ma ancora pochi giorni, poi...
Tutto sommato Odessa potrebbe pure piacervi, ci avete pensato..., c’è del buon
cibo, grandiosi monumenti, ci sono belle donne, disponibili, servizievoli... Eh,
le dame dell’est lo sono sempre... Aveva parlato lentamente, quasi in una sorta di
meditazione a ritroso, come a cercar qualche ricordo nel suo passato, forse di una
fanciulla in particolare con cui aveva trascorso attimi indimenticabili e non si era
accorto del viso contrariato di chi gli era accanto.
Era comunque stata una giornata faticosa quella, e si era fatto un po’ tardi. Così
si salutarono.
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Quando il mare è amaro
Anna Bartiromo
Rimasto solo nella sua cabina Benito del Mastro si gettò sul suo letto nella vana
speranza di dormire.
Una sorte di frenetica inquietudine, di malcelata rabbia, di bisogno urgente di
alzarsi e andar via il più presto possibile per tornare a casa nonché l’impossibilità
di attuare ciò lo facevano sentire in prigione e una strana ansia, mista ad angoscia
e a batticuore si stavano sempre più insinuandosi in lui.
Prese allora una pillola, ma andò peggio.
Ormai non aveva più il controllo dì sé. Sembrava che le ore fossero interminabili
e che le pareti del suo alloggio gli si avvicinassero lentamente per schiacciarlo.
Sobbalzò, voleva uscire, doveva uscire e allontanarsi da quella gabbia dì ferro
che ormai rappresentava per lui soltanto un’oppressione.
Sentiva come un fuoco devastante ardergli dentro, una strana forza che lo distruggeva
piano piano, impedendogli anche la più piccola visione logica della realtà.
* * *
Era notte, notte fonda. O le prime ore del mattino come è d’uso nel linguaggio
di bordo. Forse le due, le due e un quarto quando qualcuno spinse furtivamente
la porta socchiusa della cabina del comandante ed entrò minaccioso. Il mare era
nero come la pece e non c’erano stelle nel cielo. Le uniche a brillare erano le luci
di posizione di quel gigante buono che accarezzava le onde con il suo scafo… Sul
comodino le foto dei suoi cari, la moglie, i figli, i nipotini.
D’un tratto un grido lacerante ruppe il silenzio; una richiesta di aiuto mista a disperazione
che si ripeté per oltre quattro volte, prima più forte, poi sempre più debolmente.
Che sarà mai gridò qualcuno precipitandosi dal letto nei corridoi della nave . Cos’è
stato? E la risposta fu un agghiacciante inatteso spettacolo di orrore.
Pallido, tremante, madido di sudore, un coltello lordo di sangue stretto tra le mani,
un viso terreo e spaventato come se avesse visto un fantasma, qualcuno usciva
dalla stanza del comandante del tutto fuori di sé biascicando parole senza senso e
poi. È lì per terra, mio Dio, cosa ho fatto... di chi è tutto quel sangue... E intanto si
aggirava inebetito nel corridoio, seminudo e completamente fuori controllo, senza
rendersi affatto conto dell’accaduto, tra l’imbarazzo e il disorientamento generale
di ufficiali e bassa forza prontamente accorsi.
Dal canto suo, in un ultimo soffio di vita, il comandante Raia, morente, si trascinò
fino alla stanza del nostromo per consegnargli in un filo di voce, il nome del suo
assassino: «È stato Del Mastro ad uccidermi», sillabò prima di accasciarsi sul
pavimento senza vita.
Inutile descrivere il caos a bordo, le lacrime a stento trattenute, la rabbia, le mute
domande dalle risposte disattese, lo sconcerto generale. Poi il silenzio. Sulla sua vita,
gli affetti, su tutti gli anni vissuti in mare, su quella professione tanto dignitosamente
espletata che avevano fatto di lui un uomo esemplare e un comandante tanto stimato
e rispettato nonché adorabile padre.
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
E chissà che forse, proprio nello sforzo estremo dì comunicare il nome di
quell’uomo, non ci fosse solo il giusto bisogno di denunciare il proprio assassino bensì
anche il tentativo disperato di proteggere gli altri da un eventuale, possibile errore,
per una inutile indagine che potesse magari sfociare in un’ingiusta accusa infamante
verso un innocente insomma... un ultimo atto di coraggio prima di morire.
* * *
Le onde rallentano la loro corsa quando, esauste, si accartocciano in ricami di
spuma sulla riva; le navi continuano a solcare i mari con il loro carico speranzoso
di uomini e cose.
I marinai si fanno nocchieri della loro vita lavorando proprio nel ricordo del
sacrificio di un uomo come il comandante Raìa, consapevoli che a muoverli e a
spingerli sempre più lontano potrà essere soltanto il coraggio.
Lo spunto del racconto è stato tratto da un fatto realmente accaduto. Tuttavia i
nomi e gli eventi sono di pura invenzione e ogni riferimento a persone o cose è
puramente casuale.
Pubblico della “Premiazione 2009”
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Piera Grassi Pedrelli
IL PRIMO VIAGGIO DI PAOLA
G
iulio, mio marito, amando molto la sua famiglia, appena si presentava
l’occasione c’invitava a bordo. Ricordo in particolare un viaggio in mare,
il primo della mia primogenita. Paola aveva allora tre anni e andando all’asilo,
con l’aiuto delle maestre aveva preparato un delizioso quadretto con le foto dei
genitori, che con molto orgoglio ci avrebbe regalato per Natale. Ma c’erano molte
probabilità che per le feste Giulio fosse lontano da noi. Come moglie di marittimo,
anche se a malincuore, mi ero abituata a questa vita di sacrificio che se da una parte
ci toglie dall’altra ci dà l’opportunità di mantenere il rapporto sempreverde, non
essendo logorato dalla quotidianità e dall’abitudine che alla lunga lo impoveriscono
di quell’alone di romanticismo che io avevo iniziato ad apprezzare.
Festa, come diceva Giulio, era ogni giorno che trascorrevamo assieme
indipendentemente dal numero segnato in rosso sul calendario.
Ma per la bambina, molto affezionata al papa, sarebbe stata una grande delusione
non potergli donare il suo regalo il giorno di Natale.
Quando una sera, ebbi la bella sorpresa di ricevere la telefonata con l’invito di
Giulio ad andare ad Augusta con la bambina, così avremo trascorso le feste assieme,
acconsentii con entusiasmo anche se suoceri e genitori mi diffidavano del fare
intraprendere alla piccola un viaggio tanto lungo.
Paola era molto turbolenta e in quel primo viaggio mi sfinì talmente che arrivati
all’imbarcadero di Augusta desideravo solo una cosa: arrivare al più presto a bordo
per rinfrancarmi con una bella doccia! Dovemmo aspettare una mezz’ora buona
prima d’imbarcarci sull’imbarcazione di servizio che doveva portarci sulla nave in
rada a Priolo e in quel tempo, per nulla stanca, mia figlia rischiò di finire in mare
più volte. Finalmente salimmo sulla barca a motore assieme ad alcuni membri
dell’equipaggio e dovetti star fuori perché, la piccola peste, voleva vedere la scia
che a poppa seguiva la barca “come una coda lunga lunga” diceva.
Il mare piuttosto mosso, che faceva ondeggiare l’imbarcazione, la divertiva
invece d’impaurirla!
Quando dovemmo salire sulla biscaglina il mare era ancora aumentato.
Mentre un robusto marinaio si issava Paola sulle spalle, intimandole di tenersi
ben aggrappata, io guardai preoccupata la barca: ad ogni ondata si allontanava un
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
po’ di più dalla biscaglina e temevo per l’incolumità della bimba; ma il marinaio
con l’agilità di una scimmia prese a salire e d’un balzo la depositò sana e salva
tra le braccia del papa che assisteva dalla nave alla nostra scalata. Ora toccava a
me: temevo che non ci sarei mai riuscita a prendere al volo la cima, sarei finita
in mare facendo oltretutto la figura dell’imbranata, pensavo, quando un marinaio
m’issò, praticamente di forza, e mi trovai sulla nave assieme a marito e figlia che
rideva a crepapelle, la viperetta! Che figura avevo fatto! Mi consolai sapendo che
la moglie del comandante, nel viaggio precedente, era caduta in mare scivolando
dallo scalandrone. La sera stessa partimmo alla volta di Smirne attraversando il
famoso canale dei Dardanelli con il mare agitatissimo che ci impedì di entrare
in porto. Natale lo trascorremmo in rada con il mare forza nove che mise in crisi
quasi tutto l’equipaggio. A tavola gli unici superstiti era la nostra famigliola, il
primo macchinista, il secondo di coperta, il marconista e il comandante. Affinché
i piatti non si rompessero avevamo messo il ferma piatti circolare, siccome dopo
averci servito gli antipasti, anche il cameriere, colto dalle nausee, dovette ritirarsi
in cuccetta, il comandante in persona ed io facemmo le sue veci, servendo a tavola.
Per fortuna il cuoco aveva fatto in tempo a prepararci i vari manicaretti prima di
arrendersi al mal di mare e fu un vero pranzo di Natale, con tanto di regali al suo
termine. Paola stupiva tutti per la sua vitalità, altro che nausea: mangiò di tutto con
vero appetito! Il giorno dopo era una giornata splendida; il cielo terso e il mare
liscio come una tavola, ci permisero di passare parte del pomeriggio, osservando
il marinaio e il cuoco intenti a pescare. Il mare offriva totani in abbondanza e ogni
volta, tirando su la lenza con gli appositi ami a grappolo, essi erano stracarichi
dei prelibati molluschi. Anche Paoletta volle provarci, con l’aiuto del papà, e si
emozionò tantissimo quando vide che anche lei era riuscita a prenderne.
Il giorno dopo entrammo in porto e scendemmo a Smirne. La città turca mi
piacque tantissimo, un po’ meno il cibo devo dire che consumammo in un elegante
ristorante. Le verdure ripiene con riso e uvetta erano talmente piccanti che la piccola
come le assaggiò le sputò, scoppiando a piangere, io resistetti a fatica ma per tutto
il pomeriggio fui tormentata dal bruciore di stomaco. Ben vi sta, commentarono a
bordo: noi, in barba alla cucina locale, abbiamo gustato gli ottimi totani del cuoco
che ci ha preparato in ogni maniera possibile! Il cuoco, un tipo di mezza età di
Molfetta era davvero una persona speciale: sempre di buonumore, disponibile,
raccontava aneddoti divertenti, oltre ad essere un ottimo cuoco pulito e fantasioso.
Spesso per passare il tempo mi recavo in cucina chiedendogli se potevo aiutarlo,
faceva mille difficoltà dicendomi che aveva già chi lo aiutava, due validi garzoni
sui vent’anni, poi dato che insistevo, mi metteva davanti un cinque chili di patate
e io mi mettevo a pelarle, mentre lui raccontava le sue storie che tanto divertivano
anche la nostra bambina.
Terminata la caricazione partimmo alla volta di Palermo. Il carico consisteva in
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Il prino viaggio di Paola
Piera Grassi Pedrelli
sacchi di pistacchi e cassette di fichi secchi e uvetta (la prelibata uvetta di Smirne).
Naturalmente per tutti noi non mancarono assaggi di queste prelibatezze e
Paoletta ne fece pure una leggera indigestione. La navigazione proseguiva con
mare calmo, la temperatura, nonostante il periodo, era piuttosto mite. All’altezza
della Grecia il marconista, portando il bollettino meteo al comandante, ci segnalò
che nel canale di Sicilia avremmo trovato mare forza otto.
Forse c’era un’altra soluzione: passare per lo stretto di Messina ed evitare
il brutto tempo ma il comandante decise di proseguire per il canale. Purtroppo
all’altezza della Sicilia il mare aumentò maggiormente e quindi dovemmo cercare
riparo nell’isola di Malta. Con non poche difficoltà e tanto rollio riuscimmo a
metterci a ridosso per circa ventiquattro ore. La nave era sballottata da onde sempre
più minacciose, per fortuna eravamo a pieno carico: il grande mercantile adibito a
merce varia, aveva stabilità. Dall’oblò della cabina io e Paola assistevamo ad uno
spettacolo affascinante: a tratti tutta la coperta era invasa completamente dalle onde
e sembrava trasformarsi in sottomarino. Per nulla spaventata, la piccola si divertiva
un mondo, strillando eccitata ogni volta.
Visto che le condizioni meteo marine tendevano a migliorare riprendemmo
la navigazione; la nave si comportava ottimamente e presto raggiungemmo la
Conca d’oro e qui attraccammo a sera tardi. Eravamo alla vigilia di Capodanno, le
operazioni commerciali sarebbero iniziate solo il due gennaio. Furono due giorni di
bel tempo che potemmo trascorrere a scoprire la bellissima città ricca di monumenti
e chiese storiche. Per il primo giorno dell’anno potemmo pranzare tutti assieme,
contrariamente al Natale, il mare ce lo permise. Sandro il cuoco, diede il meglio
di sé e alla fine lo applaudimmo invitandolo a brindare con noi al nuovo anno. La
sosta a Palermo si prolungò più del previsto, dopo tornammo ad Augusta e da lì
sbarcammo, io e la piccola, la vigilia della Befana.
La nave a Priolo caricava sacchi di fertilizzanti per la Turchia. Alla mattina del
sei arrivammo a Spezia e alla stazione trovammo mio padre ad aspettarci.
Durante il viaggio verso casa mio padre s’informò dalla nipotina come era stata
a bordo e lei entusiasta esclamò: “Benissimo nonno, la nave ballava tanto, le onde
la coprivano e si trasformava in sommergibile, sono stata in un ristorante dove si
mangiava la verdura con il fuoco dentro, ho pescato i pesci rotondali (li chiamava
così perché li facevo ad anelli per friggerli). Il mio papa comanda la sala dei motori
e ordina alla nave di camminare anche con il mare forte.”
Con questa descrizione, fatta in tono tanto eccitato, penso il nonno si convincesse
definitivamente che tutte le sue paure erano infondate e che davvero quél primo
viaggio di Paola era stata un’esperienza positiva e anche istruttiva e a lungo sarebbe
rimasta tra i suoi ricordi più belli.
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Cofanetto prototipo per raccogliere i volumi della collana “Riposto e il suo mare”
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Vincenzo Marzullo
AL LARGO DEL NULLA
N
el 1950 pochi mercantili erano provvisti di radar e allora buhm… buhm era
il lungo lugubre ululato che ogni cinque minuti la sirena di bordo lanciava,
a tutti e a nessuno, ad evitare un triste incontro.
Si arrancava nel Canale della Manica per Amsterdam da Huston con 30 tonnellate
di benzina avio, nave “Lord Calvert”.
Si navigava in bonaccia piatta e però entro un fitto banco di nebbia con diffusione
solare accecante e tale da rendere nulla la visibilità oltre i 15-20 metri.
Dal belvedere di poppa, il ponte di comando, le vedette e quant’altro sembravano
spariti nel nulla. E sempre il buhm, buhm lamentoso della sirena.
Nei locali di poppa invece sembrava calata la morte, visto il lugubre silenzio che
regnava nei carruggi e rotto solo dall’imprecazione del vecchio, patito, nostromo:
«Preferisco i cicloni a questa benedetta nebbia».
I panni della gente erano distesi puliti ad asciugare sopra le caldaie ma, stante
il mortorio, erano rimasti abbandonati, perché incerta la franchigia e oltretutto
portavano scarogna.
Sospesi i lavori non essenziali. Soltanto lo squillo del primo pasto portò un po’
di movimento per tutti a carruggi; la gente si salutata a viso basso mormorando, e
prevedendo il peggio stante l’alto numero di navi battenti il Canale.
Purtroppo il peggio stava per arrivare e, di fatto, arrivò prima nella saletta ufficiali
scatenando un vero terrore. I quattro ufficiali (autore compreso), che pranzavano
nei posti rivolti verso gli oblò, rimasero bloccati come fossero pietrificati nel
vedere che la luminosità accecante emessa dagli oblò diventava via via sempre più
debole e, in fine, oscurarsi quasi del tutto. Il fenomeno si diffuse per tutta la saletta,
terrorizzando nel contempo la gente dei locali con gli oblò rivolti a manca. Tutti
aspettavano, terrorizzati, l’urto della collisione e con esso quasi la morte sapendo
che nelle tank dormivano 30 mila tonnellate di benzina avio. Fortuna volle che
pochi istanti dopo gli oblò, a poco a poco, ripresero ad illuminarsi. Il tutto durò
appena pochi secondi vissuti, virtualmente, nell’al di là. La gioia per lo scampato
pericolo attraversò tutta la barca, tenuto conto che avevamo lasciato il bancaccio
e, con esso, i soliti giuramenti da marinaio.
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SEZIONE NARRATIVA 2009 - XIV edizione
1° premio – Giovanni Coglitore – “Siamo già in paradiso”
«Spesso il presente ha radici lontane, che si tendono ed affondano in luoghi che
non sono quelli noti e abituali. Ma dal racconto di tante vite (dalla Riposto del
primo Novecento alle avventure nello spazio dei giorni nostri) emerge come ciò che
completa i destini, che li rende unici, è il lampo del genio, il desiderio dell’avventura,
la piccola scintilla di follia – o semplicemente il desiderio di un altrove e di un non
visto – che ci fa deviare dai binari consueti per tracciare nuove rotte e scoprire
nuovi possibili scenari. Un racconto avvincente di largo respiro».
2° premio – Anna Rosa Balducci – “Storie di mare”
«Un’abile tessitrice compone un arazzo di parole. Il lavoro scorre, veloce e
preciso, e dall’intreccio di trama e ordito emerge una storia fatta di storie, un
quadro variopinto il cui filo conduttore è sempre il mare, oggetto – o forse pretesto
– di poesia. E mentre osserviamo le immagini che si delineano, simili a delicati
acquerelli, abbiamo l’impressione di sentire, come musica di sottofondo, il muoversi
dei ciottoli sulla spiaggia, levigati dal continuo andirivieni delle onde».
3° premio – Orazio De Maria - “Il medaglione di ebano scuro”
«Cronaca di fatti realmente accaduti o frutto di fervida fantasia? In fondo, poco
importa: non occorre credere alle storie per amarle, basta che in esse si trasfonda
un soffio di poesia e di eternità, che catturi e fissi l’elemento magico del quotidiano.
Perché, a ben vedere, in questa storia d’amore che si ripete tra generazioni diverse
c’è qualcosa che avvicina i protagonisti al mistero del trascendente, all’essenza
stessa della vita».
Menzioni
“Si può amare il mare anche se...” di Eugenia Pileggi - Catania
«Si può amare il mare anche quando ti porta via un figlio? Una tragedia del
mare narrata da voce di donna e vissuta con cuore di madre».
“Skipper”
di Maria Salemi
- Bolzano
«Fresca e scanzonata, una poesia in musica che suscita voglia di vivere e
desiderio di avventura».
Degna di pubblicazione la poesia
“A mio nonno”
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di Marinella Scordo -
Riposto CT
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Giovanni Coglitore
SIAMO GIÀ IN PARADISO
M
olti, ma molti anni fa, quando ancora non c’era la televisione a colori e le
strade non erano tutte asfaltate, si sentivano allora il rumore degli zoccoli
dei cavalli e le ruote dei carri sul selciato, insemina, in quel mondo che non c’è
più, una notizia fece tutti trasalire: “Hanno lanciato degli uomini nello spazio, alla
conquista della luna!
Alcuni increduli dicevano: “Ma no... ! Non è possibile, ma cosa vogliono farci
credere?”. Altri invece preoccupati, si chiedevano tra loro: “Chissà dove andiamo
a finire di questo passo!”. Li chiamarono “cosmonauti”, (navigatori dello spazio).
Uno di questi, un’italoamericano di nome Ryan Fazio che collaborava con la
N.A.S.A: (Nazionale, Aeronautica, Spaziale, Amministrazione) dall’alto dello
spazio, vide la Terra e la paragonò ad una perla blu; il suo cuore si riempì di nostalgia,
desiderava respirare quell’aria fresca dei boschi, correre sulla risacca e lasciare che
l’alito del vento sfiorasse la sua faccia, godere delle miriadi di colori suscitati dalle
gocce di rugiada lambiti dai caldi raggi del sole, camminare sull’erba verde trapunta
di fiori, guardare le punte innevate dei monti e ammirare nella sera, la volta stellata
che come un manto copre il nostro sfavillante pianeta.
Ryan rifletteva e fantasticava: egli si vedeva nella notte, mentre il suo piacevole
riposo era conciliato dallo sciacquio di un ruscello o al rumore degli animali notturni;
alzarsi la mattina col cinguettio degli uccelli o al canto mattutino di un gallo,
sentire l’abbaiare di qualche cane in lontananza o il rumore delle onde del mare che
s’infrangono sulle coste frastagliate oppure arenarsi sulla sabbia dorata, godere alla
vista delle vastità dei paesaggi, dei villaggi disseminati qua e là, nelle campagne,
con gli spioventi tetti rossi da sembrare campi di papaveri. Ryan annusava come a
voler sentire l’odore della terra lavorata, desiderava allargare le narici agli odorosi
pini, esultare al divampare delle ginestre, egli era ansioso di tornare e vedere quei
tramonti che infiammano il cielo e le ondeggianti oceani agitati dal vento; sentì il suo
cuore battere di gioia, e l’astronauta si rese conto che, “Viviamo già in paradiso”.
Ryan mentre era librato nello spazio aveva molto tempo per riflettere e meditare;
egli diceva: “Ecco, l’uomo ha progredito, ma c’è una netta distinzione tra l’uomo
e la natura che per millenni continua come il primo giorno, la rondine fa sempre lo
stesso nido e la volpe la stessa tana, la notte e il giorno si susseguono perennemente
e le stagioni inneggiano alla vita. L’erba nei campi e la neve sui monti; mentre
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l’umanità dalle passate ere ad oggi è talmente progredita, da dimenticare l’altruismo,
l’amore verso il prossimo e non vedere più il “Nostro Paradiso”. Ryan ricordava
i racconti di suo padre della lontana Sicilia, prima che egli nascesse e conoscesse
sua madre, e nel ricordo le sue labbra s’incresparono in un sorriso nostalgico. Il
lontano passato fluiva nella sua mente ed egli era felice di ricordare.
“Mio padre, Antonio Fazio”, ricordava Ryan: “Seduto vicino al camino con la classica
pipa in bocca mi raccontava delle sue avventure; ed io, ancora poco più di otto anni,
ascoltavo rapito dalla sua bocca. Egli diceva spesso: “Tu non farai il marinaio!”.
Mio padre nacque a Riposto sul litorale Jonico, a pochi chilometri dalla città di
Catania il 20 aprile 1905. Riposto era un paese di pescatori e lo è tutt’ora; anche se
molte cose sono cambiate. Mio padre era la disperazione della nonna che oramai
vedova voleva che suo figlio trovasse una buona moglie e che sì togliesse i tanti
grilli per la testa. E per la verità, mio padre di grilli n’e aveva proprio tanti.
Una vicina di casa, parlò con la nonna perché voleva combinare il matrimonio
con sua figlia; mio padre già ventenne raccontava che si era abituato alle facce del
paese e quando la nonna le prospettò il matrimonio con la figlia della vicina e che gli
avrebbe portato una buona dote, mio padre rispose: “Beh... sposala tu, se ti fa tanto
piacere! Io non sposerò nessuna del paese e non morirò come mio padre facendo il
pescatore per pochi denari; proprio no!” Egli era un avventuroso, un sognatore, a
volte finita la pesca notturna se ne stava per delle ore a contemplare il mare nei suoi
argentei riflessi e il suo cuore si riempiva di qualcosa simile alla nostalgia, egli non
riusciva a comprendere che cosa lo attirava, forse il desiderio di una realizzazione
fantastica, di qualcosa indescrivibile.
Ed io in qualche modo gli somiglio, ecco perché mi ritrovo con i miei colleghi a
guardare il nostro meraviglioso Globo dall’alto dello spazio.
Erano trascorsi una decina d’anni e avevo già ottenuto il meritato diploma di
maturità, conseguito al Cambridge college, uno dei più costosi di Boston, nello
stato del Massachusetts, lambito dall’oceano Atlantico. Ci trovavamo nell’intimità
familiare, ed io chiesi a mio padre: “Come hai conosciuto la mamma?”. Egli sorrise
e guardando nel vuoto come a ricordare iniziò il suo racconto e le sue parole sono
ancora nitide nella mia mente.
In quel periodo, circolava tra i giovani del paese la diceria che le ragazze più belle si
trovavano a Castiglione, anch’esso nella stessa provincia, situato tra l’Etna e il fiume
Alcantara che divide le due province, Catania e Messina. Castiglione è un paese montano
di pochi abitanti dediti alla coltivazione d’uliveti, vigneti, noccioli e pastorizia.
La diceria era nata dalla curiosità e dal desiderio dei giovanotti di evadere, di vedere
facce nuove; la maggioranza della gente, nasceva, cresceva ed invecchiava nello stesso
paese, perciò il desiderio di andare altrove tra i giovani ne accentuava la fantasia. E
cosi s’inventavano dicerie e storie che alimentavano la loro immaginazione.
Anche mio padre, ancora per la preoccupazione di mia nonna, volle avere l’esperienza
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di andare a Castiglione, dove conobbe quella ragazza che poi doveva divenire la mia
mamma. Si accordò con altri due amici e decisero che per la prima domenica di
Maggio, il giorno della festa padronale, si sarebbero recati a Castiglione.
Il paese in quel giorno sarebbe stato addobbato a festa, i balconi fioriti lungo il
viale che porta alla piazza principale sarebbero stati una fantasmagoria di colori.
I festeggiamenti in onore della Madonna della Catena, iniziavano già il sabato
pomeriggio, con la banda musicale e i costumi locali a seguito, e si protraevano sino
alla mezzanotte della domenica, quando la gente sui balconi e nella piazza gremita
di bancarelle e il palco dove la banda suonava per anni la stessa marcia, sarebbero
stati nell’attesa, della conclusione dei festeggiamenti.
I castiglionesi, allora tutti con gli occhi rivolti al ciclo, sarebbero stati pronti ad
assistere ai fuochi d’artificio in una miriadi di colori.
Ogni anno la festa era un avvenimento, soprattutto per le ragazze del paese che
mettevano in mostra i loro vestiti nuovi, ma quello che più contava era la loro
bellezza. I giovani del paese guardavano a muso duro i giovanotti forestieri e non
era raro assistere a qualche rissa dovuta alla gelosia. “Quel sabato di maggio, appena
dopo l’alba, la mattinata splendeva come un diamante”. Raccontava mio padre,
anche se di diamanti non n’e aveva mai visti, ma l’idea era calzante. E continuò
nel suo racconto come neanche un poeta poteva descrivere meglio. Egli diceva:
“II ciclo era di un azzurro cristallino, e i raggi del sole si stagliavano sul mare in
una luce abbagliante con un luccichio argentato; osservavo le barche ondeggiare,
mentre i pescatori tiravano su le reti, scorgevo le loro facce solcate dal sole e della
salinità dell’acqua marina, ma i loro volti erano sorridenti, in quella festosa giornata
non poteva essere diverso. Quel poco pesce che prendevano li faceva gioire; ed
io vestito a festa mentre aspettavo gli amici, guardavo l’orizzonte e l’ansietà mi
assaliva”. Mio padre diceva, che forse somigliava a suo zio, fratello di suo padre che
da giovanotto appena dopo la grande guerra, si era imbarcato clandestinamente per
l’America del nord, si poteva dire che era letteralmente scappato di casa. A Boston
non si sa come, aveva fatto fortuna e dato che, il suo mestiere era fare il marinaio,
non si sa con quali mezzi, egli riuscì a divenire padrone di due pescherecci e dei
marinai che lavoravano per lui, ma non aveva a chi lasciare quella fortuna; perché
era rimasto scapolo e senza figli. Più volte aveva scritto a suo fratello che voleva
adottare il nipote Antonio, e mio padre raccontava che il nonno rispondeva sempre
così: “Non ho figli da vendere io!” E così mio padre dovette continuare la tradizione
di famiglia e fare il pescatore. Con la morte del nonno, mio padre mantenne i contatti
con suo zio, ecco perché, guardava l’orizzonte ansioso; però si era preposto che
sino a quando c’era sua madre non l’avrebbe mai abbandonata. Egli aspettava in
stazione trepidante l’arrivo dei suoi amici, dovevano prendere il treno per Catania
e dopo aspettare la corriera che li avrebbe portati a Castiglione. Avrebbero dormito
in quell’unica locanda dove ospitava pure i carrettieri di passaggio. Mentre egli
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aspettava, ripensò alle raccomandazioni della nonna che sino all’ultimo cercava di
dissuaderlo dicendogli: “Ma dove vai? Perché non sposi una ragazza del nostro paese
che già conosci, e metti quella testaccia a posto?”. Ma lei già sapeva che era come
parlare al vento, non poteva impedirgli di andare e si era rassegnata ad aspettare
con pazienza. La cocciutaggine era nel d.n.a della famiglia e mio padre non era
un’eccezione; però il suo cuore s’intenerì nel pensare a quell’amore premuroso di
sua madre, egli non voleva darle un dolore, ma quella forza interiore che lo spingeva
era come un’esplosione emotiva che non poteva contenere.
Il treno era in arrivo e i suoi amici non erano ancora arrivati, egli sì era quasi
rassegnato a partire da solo, invece arrivarono correndo proprio all’arrivo del treno
in stazione. Mio padre gridò loro: “Presto salite, mi racconterete dopo!” Si riunirono
in quella carrozza di terza classe con i sedili di legno, ma non avevano il tempo di
lagnarsi perché uno degli amici di mio padre affannosamente raccontò: “A stento
sono riuscito a convincere i miei genitori, mia madre non mi avrebbe lasciato uscire
di casa neanche se mi sarei messo in ginocchio, anzi mi disse: “Non ti azzardare
a fare ti testa tua perché al tuo ritorno ti legherò alla cuccia insieme al cane!”. “E
allora?”, chiese mio padre.
E il suo amico, questa volta ridendo esclamò tentennando: “Tutto merito di mio
padre! Egli si mise dalla mia parte ricordando che anche lui era stato giovane e che
qualche scappatella mi avrebbe rafforzato il carattere, e allora ho dovuto subire per tutta
la mattinata le prediche di mia madre che non si stancava con le sue raccomandazioni;
però mio padre mi avvertì dicendomi di non tornare con le teste rotte”.
“Oh bella! E perché?”, chiese l’altro amico.
Ed egli rispondendo disse: “Perché a sentire mio padre, sembrerebbe un diario da
medioevo; pensate un po’, mi disse che non dobbiamo guardare le ragazze, altrimenti
saranno botte da orbi!” Mio padre intervenne dicendo: “Ma allora perché andiamo?”
E l’amico riprese a dire: “Possiamo guardarle, ma non fissarle troppo se non
vogliamo buscarli dai parenti”.
Mio padre con noncuranza esclamò: “Non diamogli retta, non siamo ai loro tempi!
Io sceglierò la più bella del paese e nessuno me lo potrà impedire!”.
Mentre mio padre raccontava, mia madre che si affaccendava in casa, a sentirlo parlare
esclamò: “Sei sicuro che fosse proprio la più bella?” “Perché ci sono dubbi? Da quando
ti ho portata a Riposto, a Castiglione è mancata la luce!”, esclamò mio padre ridendo,
e mentre parlava gli brillavano gli occhi. Mia madre non seppe resistere, si avvicinò e
in un impeto di tenerezza gli scompigliò i capelli e ritornò alle sue faccende.
Mio padre riprese il racconto e disse che per l’altro amico era stato più facile, i
suoi genitori s’informarono con chi andava e lo lasciarono partire.
A Catania, usciti dalla stazione, poco dopo salirono sulla corriera che li avrebbe
portati a Castiglione. Scherzavano e ridevano tra loro, felici, come potevano essere
dei giovani alla loro età. Arrivarono poco prima di mezzogiorno e la loro prima
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esigenza era soddisfare l’appetito, comprarono un panino e seduti su di un sedile
della piazza, mentre mangiavano incominciarono a guardarsi attorno, ma di ragazze
neanche l’ombra. Uno di loro esclamò: “Non si vede una donna in giro!” Mio padre
faceva la parte dell’esperto e rispose: “A quest’orario saranno tutte in casa, ma per
la festa, domani, vedrete che sfilata!” Mangiarono e dopo chiedendo informazioni
si diressero verso la locanda, dove diedero loro una stanza disadorna con appena i
tre lettini e il water fuori in uno stanzino sul balcone, l’unico aspetto positivo era il
panorama, mio padre raccontava estasiato di quello che si vedeva: “Una striscia di
rosso intenso si specchiava sul mare in lontananza. I paesi disposti lungo la costa,
sembravano una cornice ai piedi del monte, mentre tutt’intorno, animali brucavano
nelle terrazze verdi di foraggio. Alzai lo sguardo e riuscì perfino a distinguere la
costa peninsulare, era fantastico poter spaziare e vedere quel magico paesaggio.
Tutti e tre eravamo rapiti da tale vista e tiravamo ad indovinare qual era quel paese o
quell’altro, indicandoli col dito”. Dopo raccontava mio padre, si misero a fantasticare
e fare scommesse, su chi di loro sarebbe riuscito a scegliere una ragazza da sposare.
E sì! Perché a quei tempi era quello l’unico scopo per avvicinare una ragazza, e
facevano progetti per il futuro.
Parlando e fantasticando, la musica li colse di sorpresa e si accorsero che il
sole volgeva al tramonto. La banda con a seguito un gruppo nel costume locale,
s’incamminava verso la piazza e la gente apriva le porte al loro passaggio facendo
ala da una parte e dall’altra della strada. Mio padre e i suoi amici si precipitarono
giù per vedere da vicino, ma il loro scopo era ben altro. S’intrufolarono in mezzo
alla folla, ma di ragazze neanche a pensarci; erano tutti uomini e persone anziane.
“Dove erano finite le donne?”, si chiedevano. Invece le ragazze erano tappate in casa
e se qualcuna lungo la strada si azzardava ad uscire il naso dall’uscio, si riceveva
qualche spintone dalla madre o dal padre, oppure di qualche fratello maggiore.
La loro uscita era per l’indomani, la mattina per andare a messa, seguite dai loro
genitori, il pomeriggio in processione dietro il fercolo sacro, con la veletta e la
candela accesa in omaggio alla Madonna, sino al suo rientro nella basilica. Ed era
impossibile per qualsiasi giovane poterle avvicinare, raccontava mio padre.
Ma riprendiamo dalla sera di sabato, mio padre e i suoi amici si accodarono alla
folla che seguiva la banda e il gruppo nel costume siciliano, con pantaloni alla
zuava di velluto scuro, camicia bianca a larghe maniche, fascia alla vita e foulard
sgargianti per gli uomini; e per le donne, gonna lunga pieghettata alle caviglie,
camicetta bianca e foulard rosso, seguivano la banda a suon di tamburello flauto e
scacciapensieri, ma tra quelle donne neanche una giovane ragazza.
Mio padre, quasi, quasi si era rassegnato, credendo di aver fatto un viaggio a
vuoto, egli e i suoi amici seguivano la folla così, senza nessun interesse, ma notarono
che davanti l’uscio delle case con le porte spalancate, c’era qualche viso fresco di
ragazza che faceva capolino non osando uscire del tutto e il cuore di mio padre
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riprese a battere di qualche possibile speranza.
La serata si concluse con il ballo del gruppo sul palco presentato dal primo
cittadino, il “podestà”, che colse l’occasione per esaltare il regime fascista e poi il
concerto della banda terminò verso mezzanotte, e con il beneplacito delle autorità,
concluse con l’inno di Mameli. Mio padre raccontava che andarono a dormire stanchi
e delusi, sperando nella giornata di domenica. L’indomani mattina era d’obbligo
andare dal barbiere, radere la barba e imbrillantinare i capelli, il barbiere che di solito
era proverbiale la sua loquacità, chiese curioso: “Voi non siete del paese, di dove
siete?”. Mio padre che voleva mantenere l’incognito rispose per tutti: “Veniamo dal
continente, da dove le pietre si chiamano sassi e siamo qui perché abbiamo sentito
dire che le don...”, ma non riuscì a finire la frase perché si ricevette un pizzicotto
dal suo amico; ed egli si riprese dicendo: “Si, abbiamo sentito che le domeniche fate
sempre festa, qui in paese” “Non sempre”, rispose il barbiere e continuò dicendo:
“Ma voi siete capitati bene, perché oggi è la festa della Madonna della Catena e se
non dovete ripartire in fretta, questa sera ci saranno dei fuochi d’artificio che solo
in questo paese si possono ammirare”. E continuo nel suo ciarlare esaltandone le
bellezze. I giovani annuivano senza dargli troppa retta.
Usciti dal barbiere, lucidi e impomatati si diressero verso la basilica, e per strada
il loro cuore sobbalzava di continuo. La strada era disseminata di ragazze vestite a
festa a braccio tra loro e dietro una sfilza di parenti diretti in chiesa. La bellezza era
loro accanto, ed era così tanta, che i loro occhi si alternavano continuamente. “Non
eravamo i soli a guardare”, raccontava mio padre; anche le giovani guardavano
sottecchi facendo sorrisini maliziosi e parlottando tra loro. Tra le tante, mio padre
fece la sua scelta, seduto a distanza vide che anche lei, di tanto in tanto girava lo
sguardo appena percettibile per non incorrere in qualche rimprovero dei suoi genitori
seduti dietro, I suoi amici guardavano, ma non riuscivano a decidersi. Il sacerdote
fece la sua predica che nessuno ascoltava e dopo di che, ogni famiglia fece ritorno
a casa per il pasto speciale della domenica festiva. Mio padre non si lasciò sfuggire
l’occasione e a distanza seguì quella famiglia deciso ad imparentarsi. I suoi amici
ridevano della sua caparbietà dicendo: “Ma sei sicuro che lei dirà di sì? Ti conviene
lasciare stare e dare retta a tua madre; sposati la tua vicina!” Ma come si diceva, mio
padre era partito deciso di farsi fidanzato e nessuno glielo toglieva dalla testa. Era
cocciuto come un mulo e quando egli si poneva una meta, beh..., siamo di famiglia.
Dopo che mio padre vide dove abitava, solo allora diede retta allo stomaco e per
quel mezzogiorno fecero i turisti, andarono a mangiare in osteria, essere serviti fu la
loro prima esperienza, si guardavano l’un con l’altro, soddisfatti. Il pensiero di mio
padre era come potersi dichiarare e si chiedeva: “Come farò a dirle che la voglio
sposare, se non è mai da sola? Con quella ragazza vicino che forse sarà sua sorella,
con i suoi genitori che non la lasciano un istante! Dovrò inventarmi qualcosa”,
rimuginava mio padre. E gli amici se la ridevano vedendolo così pensieroso. Le
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ore passavano e le strade si riempivano di gente festante, la banda era già sul palco
e mio padre aspettava a distanza, che anche quella famiglia uscisse di casa.
Finalmente li vide, lei mano nella mano, con sua sorella minore e i genitori
agghindati dietro, ad un passo da loro. A mio padre il cuore gli pulsava come un
tamburo da guerra, come fare?
Man mano la folla aumentava nelle strade e nella piazza, questo era a suo
vantaggio, perché riuscì ad avvicinarla quasi a spalla a spalla, le disse una sola
parola, ed essa si tolse la scarpa e glie la tirò, non per fargli del male, ma per
far vedere agli occhi degli altri la sua serietà, non ammetteva che le si dicessero
parole in pubblico, anche se non c’era nessun*altra occasione; oppure doveva
farsi rappresentare dinanzi ai suoi genitori. Ma mio padre, impulsivo com’era non
accettava certe regole; egli afferrò la scarpa come fosse un trofeo, se la mise in tasca
e scappò tra la folla, il padre cercò di rincorrerlo e se lo afferrava erano di sicuro
botte. La folla fu sua alleata e mio padre si dileguò. Il futuro suocero e mio prossimo
nonno, non riuscendo a trovarlo, afferrò per il bavero uno dei suoi amici gridando:
“Quello era con voi! Ora mi direte chi è!” La moglie cercava di calmarlo, ma egli
era irremovibile e strattonava con forza il giovane amico che con un’aria serafica
esclamò: “E chi Io conosce! Noi veniamo da Riposto, come facciamo a conoscere
la gente del paese?” “Ma che paese e paese! Chi lo ha visto mai quello!”, gridava
il padre. La moglie infine riuscì a calmarlo, ma dovettero ritornarsene a casa, la
festa per loro era finita, con notevole disappunto della sorella minore Lucia che
si lamentava dicendo a sua sorella Maria: “Per colpa tua siamo dovuti rientrare!”.
“Potevo camminare con una sola scarpa?”, si difese Maria. “E tu perché gli hai
tirata la scarpa?”, rispose risentita la sorella.
“Su smettetela di litigare!”, intervenne la madre e presa la figlia Maria per un
braccio le chiese: “Ma si può sapere che cosa ti ha detto quel giovanotto?”. Maria
esitante disse: “Beh... mi ha detto che sono bella”. La sorella risentita esclamò: “E
per questo gli hai tirato la scarpa? Sei impossibile, tu non ti sposerai mai!”.
La madre portò la mia futura mamma dinanzi allo specchio e le chiese: “Come
ti vedi tu?”. Maria rimirandosi rispose: “Sono bruttissima!”. E la madre sorridendo
esclamò: “E invece quel giovanotto ha detto la verità, sei molto bella, diglielo anche
tu Lucia!”. “Certo che è bella! Magari fossi anch’io come lei”, rispose la sorella. La
madre amorevolmente chiese: “Anche tu? Vi assicuro che siete due belle ragazze e non
passerà molto tempo che purtroppo devo fare a meno di voi!”. “E perché?”, chiese la
mia futura zia. La madre le abbracciò entrambe e sorridendo disse: “Perché i giovanotti
faranno a gara per portarvi via da me. L’esperienza mi dice, che quel ragazzo riporterà
presto la tua scarpa Maria, e magari...”. “E magari?”, ripetè Maria ansiosa. “E magari
richiederà la tua mano, ci puoi scommettere!”, esclamò la madre sicura di sé.
“E se invece l’ha portata via per dispetto?”, chiese Maria con rammarico. La
madre rispose evasivamente: “Vedremo, vedremo!”. Intanto mio padre, finita la
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festa ritornò con i suoi amici alla locanda, con la mano in tasca si teneva stretta a
se quella scarpa. Egli si sentiva un principe, ma non aveva motivo di cercarla tra
la folla, mio padre conosceva bene la sua principessa.
Lunedì, di prima mattina si accinsero a ritornare, la corriera partiva dalla piazza
principale alle sei e dovevano sbrigarsi, sulla strada del ritomo uno degli amici chiese
a mio padre: “Vuoi farmi vedere questa scarpa? Chissà se le puzzavano i piedi?”.
Mio padre si fece serio e rispose: “Non ti permettere più d’insultare la mia futura sposa!”.
E l’amico esclamò: “Eh... come la fai lunga! Hai solo una scarpa! Sei sicuro di
ottenere il resto?”.
“Lo vedremo! Io vi dico, che sabato prossimo sarò fidanzato! Statene sicuri”..
Alla stazione di Riposto, mio padre salutò gli amici e fece ritorno a casa. Mia
nonna l’accolse a braccia aperte, non essendo abituata alla sua assenza, scoppiò in
lacrime e mio padre la rassicurò carezzandole quella testa bianca. Poi ripresosi lei
assunse un tono di rimprovero dicendogli: “Lo vedi che cosa vuoi dire allontanarti
da casa; stamattina tutti hanno fatto una buona pesca, solo la nostra barca è rimasta
in secca!”. “Mi rifarò questa notte, vedrai”. Intanto guarda che cosa ho portato da
Castiglione!”, e mio padre le fece vedere la scarpa, dicendole: “Sabato prossimo
andrò a farmi fidanzato”. “Con una scarpa?”, chiese incredula la nonna. E mio padre
ridendo: “No, vado a riprendermi l’altra”.
“Un’altra volta? Ma dimmi un po’, hai forse perduto la testa? Altri due giorni
fuori di casa?”. “Dovrò pure sposarmi un giorno, no? E poi questa volta, ritornerò
il giorno stesso”. E la nonna mentre si allontanava continuava a ripetere come una
cantilena: “Mogli e buoi, dai paesi tuoi, mogli e buoi dai paesi tuoi”.
Mio padre sorrideva, posò con cura quella scarpa tra le sue cose e si diede da fare
nel preparare le lampare per la notte.
Quella settimana a mio padre gli sembrò un’eternità e il sabato successivo già
di prima mattina si mise in ghingheri per avviarsi alla stazione. Questa volta, la
madre rassegnata sentenziò: “Tu vai a cercare un’erba selvatica, che non è del tuo
campo!” Ma egli sorrise e con la scarpa avvolta con cura in un pacco regalo con
tanto di nastro rosa, si avviò.
Arrivato a Costiglione, prima di recarsi in casa di mia madre volle rilassarsi; egli
raccontava che si sentiva tutto un tremito e tra se disse: “Meglio che prima mangio
un panino, berrò un bicchiere di vino, anzi due, altrimenti lo stomaco mi sobbalzerà
cosi forte che non riuscirei a parlare”.
Dopo che si fu rilassato, tirò un lungo respiro e si presentò dinanzi alla porta
bussando discretamente. Quando sentì dei passi avvicinarsi, il cuore incominciò a
battere come una campana a mezzogiorno; ma egli rimase fermo come un soldato
di fronte al nemico. Venne ad’affacciarsi dalla finestra, la sorella minore che come
lo vide scappò via gridando: “Mamma! Mamma! C’è il giovanotto della festa!”
La mamma annuì e sorridendo guardò la figlia ammiccando. Maria invece presa
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dall’emozione non sapeva cosa fare. La mamma la tranquillizzò e disse di starsene
tutte e due lì che l’avrebbe ricevuto lei. Andò ad aprire chiedendo cosa volesse.
Mio padre con la voce un po’ tremante disse: “Ero venuto a riconsegnare quello
che io ritengo un pegno”.
“Un pegno?”, chiese la mia futura nonna facendo finta di niente. Mio padre non
si perse d’animo e riprese a dire: “Sì, sono venuto a riportare la scarpa e chiedere
la mano di vostra figlia”.
“Ma guarda che combinazione! Noi l’aspettavamo. Sedete qui con comodo che
io vado a chiamare mio marito”.
Le ragazze nella stanza accanto si stringevano le mani emozionantissime, e stavano
attaccate con le orecchie alla porta di mezzo ad ascoltare ogni minimo respiro.
Quando la nonna informò il marito nella vicina campagna, che il giovane della
festa aveva riportato la scarpa, egli andò su tutte le furie e senza ascoltare oltre,
gridando e minacciando diceva: “Una bella faccia tosta! Ma io gliela rompo quella
faccia! Aspetta che arrivo!”. La moglie gli correva dietro dicendogli che era un
bravo giovane e che aveva buone intenzioni. Ma egli non sentiva ragioni e non
appena varcò la soglia di casa, afferrò mio padre gridandogli in faccia: “Io ti spacco
la testa se non te ne vai da dove sei venuto!”. Mio padre s’irrigidì aspettandosi
qualche sganassone. Ma la moglie arrivò in tempo, afferrò per il collo il marito e
con tutte le sue forze lo costrinse a sedere gridando: “Ma la vuoi smettere di fare
il matto? Questo giovane poteva anche non venire, ma se è venuto vuol dire che
le sue intenzioni sono serie! E ora calmati e fai le domande che si addicono ad un
buon genitore”. Il mio futuro nonno, doveva fare la scena di capo famiglia, doveva
far sentire il peso della sua autorità; tossì più volte, si strofinò le mani sui calzoni
e con un tono accomodante incominciò: “Allora, prima d’ogni cosa, voglio sapere
come ti chiami e da dove vieni”.
Mio padre un po’ rasserenato rispose: “Mi chiamo Antonio Fazio e vengo da Riposto”.
A sentire il nome del paese, mio nonno si alzò di scatto ed esclamò: “Ah... brutto malandrino!
Eravate tutti d’accordo?”.
Ma la moglie vigilava, gli mise una mano sulla spalla rifacendolo sedere e le ragazze
nel retro stavano sulle spine. Il nonno riprese le domande: “Qual è il tuo mestiere?”.
E mio padre: “Faccio il marinaio”.
“Eh… no! Non darò mai mia figlia ad un marinaio, i marinai stanno fuori per delle
settimane e lei rimarrà da sola ad aspettare e stare in pena. No, assolutamente no!”.
Mio padre cercò di aggirare l’ostacolo dicendo: “Io non faccio proprio il marinaio,
faccio il pescatore”.
“Ancora peggio! Mia figlia non la sposo per farla diventare vedova, una burrasca
e si ritrova a lutto”. La moglie ascoltava e stava forzatamente zitta, era il marito che
doveva indagare e lei si mordeva le labbra. Mia madre nell’altra stanza pestava i
piedi e stringeva i denti. Mio padre non si diede per vinto e disse: “Allora se morirò
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
sarà colpa vostra, se mi fate sposare vostra figlia, sarò prudente, uscirò quando c’è
bonaccia e non rischierò la vita, perché so che ad aspettarmi c’è la mia famiglia.
Se invece non me la fate sposare, uscirò col maltempo e le burrasche, la barca si
capovolgerà e io annegherò, tanto, non ci sarà nessuno ad aspettarmi, e voi mi
avrete sulla coscienza”.
“Ma guarda questo! Mi vuole incolpare della sua morte!”.
La nonna sbottò: “Ma che morte e morte! Questo giovane è venuto in casa nostra
per la vita, non certo per la morte! E poi i pescatori non sono mai morti di fame,
e in ogni caso noi dove siamo, al polo nord? Non vogliamo vendere nostra figlia,
ma la stiamo solo sposando!”.
Il marito fece un momento di pausa e disse: “Sentiamo la diretta interessata”,
e disse alla moglie di chiamare Maria. La ragazza entrò con gli occhi bassi non
osando guardare e il padre, le chiese: “E allora cosa ne pensi tu? E non dite di che
cosa, perché eri di là che ascoltavi”. Mia madre senza alzare gli occhi rispose: “Mi
piacerebbe vedere il mare da vicino”.
Il padre, la guardò un attimo e disse: “Puoi andare, ai già parlato troppo!”.
E continuò dicendo: “La risposta l’hai avuta, puoi andare”.
La moglie s’intromise ed esclamò: “Lo mandi via così senza dirgli niente?”.
“E che cosa dovrei dirgli? Non lo sa lui che cosa deve fare? E se non lo sa, che se lo
faccia spiegare dai suoi genitori”. Mio padre ancora con il fagotto in mano contenente
la scarpa disse: “Non potrei consegnare la scarpa e salutare la mia fidanzata?”.
Il padre lo guardò torvo ed esclamò: “Tu corri troppo ragazzo mio! Ancora non è
la tua fidanzata, vieni domenica prossima con i tuoi genitori e dopo sì vedrà”.
Mio padre rispose mesto: “Posso portare solo mia madre, il padre mi è morto”.
Negli occhi di mio nonno passò un lampo di tenerezza e disse: “Beh... porta tua
madre; tuo padre è morto in mare?”.
Mio padre si risenti un po’ e rispose: “Ma voi l’avete proprio con il mare? Mio
padre è morto in casa con il conforto dei parenti! E poi domenica non posso venire,
non c’è la corriera, verrò di sabato come oggi”. La nonna lo avvicinò accomodante.
Gli mise una mano sulla spalla e disse:
“Non te la prendere Antonio, mio marito ha i suoi modi, ma è un brav’uomo;
vieni pure di sabato, ti aspettiamo”. Il marito si alzò, stese la mano a mio padre, e
gliela strinse con calore, come a trasmettergli tutta la sua comprensione e ritornò
al suo lavoro.
La nonna lasciò che suo marito andasse via e come tutte le donne il cui cuore di mamma
è tenero, chiamò sua figlia e la presentò a mio padre dicendo: “È giusto che sia tu a
consegnarle la scarpa, ti permetto di stringerle la mano”. I ragazzi si guardarono negli
occhi e mio padre raccontava che non aveva mai provato un sentimento più grande, la
gioia che traspariva dal suo volto era così contagiosa che Maria, sentì gli occhi inumidirsi,
mentre dalla porta socchiusa Lucia guardava e sorrideva felice per sua sorella.
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Siamo già in paradiso
Giovanni Coglitore
La nonna infine disse: “Ora vai Antonio, altrimenti perdi la corriera”. Mio padre
non si sarebbe mai stancato di specchiarsi in quei occhi color nocciola, ma capì
che la madre aveva ragione, staccò con fatica quella mano dalla sua e uscì in strada
diretto verso la piazza.
Mia mamma non sapeva se piangere o ridere; abbracciò sua madre e sua sorella, non
sapeva come esternare la sua gioia, tanto che si mise a cantare: “Amor dammi quel
fazzolettino...”. E mia madre l’intonò dalla cucina facendo indispettire mio padre che
voleva finire di raccontare dicendo: “Smettila di cantare che ancora non ho finito!”.
Mio padre continuò il suo racconto, da quando ritornò a casa con il cuore colmo di
felicità. Non appena, entrò in casa, prese sua madre e la sollevò di peso ruotandola per
la stanza. La madre presa alla sprovvista esclamò: “Ma che ti prende, sei diventato
matto?”. “No mamma, sono felice come non mai, sabato ti porterò a conoscere la
mia futura moglie”. La nonna che non si fidava molto disse: “In montagna io non
ci vengo, quella è gente che non si sa neanche vestire, ti faranno soffrire”.
Mio padre disse accoratamente: “Mamma tu vuoi che io sia felice?”.
E la nonna: “Si capisce! Ed è per questo che io ti dico di guardare altrove”.
E mio padre, pazientemente riprese a dire: “Allora l’unica che mi può fare felice è
Maria e se tu non vieni, io non mi sposerò più; nessuna potrà prendere il suo posto”.
La nonna visto che suo figlio faceva proprio sul serio, addolcì la voce e disse:
“E va bene, verrò a conoscere questa Maria e speriamo che sia per il tuo bene”, e
borbottando aggiunse che non approvava il loro modo di agire.
“Com’è che ti hanno fatto entrare non lo so! Ai miei tempi il compare dovette
fare un mese di viaggi a casa mia, prima di fare entrare tuo padre. Di questo passo
dove andiamo a finire, che le ragazze si fidanzano per strada?”.
“Questo non lo so, ma una cosa è certa: i tempi cambiano mamma”, disse mio
padre tentennando.
Mio padre si fidanzò ufficialmente e per un anno di fila, una volta la settimana, il
sabato, andava a trovare la fidanzata e ripartiva lo stesso giorno; finché il 10 maggio
1926, coronarono il loro sogno d’amore. Nove mesi dopo nacqui io e mi chiamarono
Rino, per tutti ero Rinuccio. Sin da bambino giocavo sulla spiaggia ed ero interessato
ai ciottolini colorati che la risacca faceva rotolare avanti e indietro ed io m’incantavo
a guardare ammirato. Nei giorni di pioggia e specialmente in primavera, quando
l’acquazzone lasciava allo splendore pomeridiano, le formiche uscivano dalla loro tana
cercando pagliuzze e sementi in una fila indiana interminabile; ed io mi divertivo, andavo
sotto la tettoia dove la nonna teneva la crusca per le galline ne prendevo una mangiata e
la portavo alle formiche con gran disappunto della nonna che diceva: “Se ti prendo!”, e
rideva facendo finta di rincorrermi. Io ammiravo per delle ore le formiche che si davano
da fare per riempire i loro magazzini sotterranei, quando c’era qualche rigagnolo, io
mettevo un filo di paglia e vedevo che le formiche apprezzavano il mio suggerimento,
era uno spasso vederli attraversare sul ponte che io avevo loro indicato.
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Avevo già compiuto cinque anni, quando la nonna si ammalò e con mio grande
dolore dopo pochi mesi morì. Mio padre era assillato dallo zio, voleva che partisse
per l’America, era tutto pronto anche l’atto di richiamo firmato e bollato dalle
autorità americane. Anche mio padre era desideroso di partire, non se la sentiva di
fare tutta la vita il pescatore; aveva già i passaporti pronti per tutta la famiglia, ma
a Castiglione quando se ne parlava era un continuo lamento e pianto. Mio padre
cercava di convincerli dicendo: “Che cosa potrò dare a Rinuccio? Farà anche lui il
pescatore tutta la vita, oppure zapperà la terra come voi che avete la schiena curva
e la faccia bruciata dal sole? Per cosa poi, per tirare avanti a mala pena?”.
Il nonno tentennò più volte e poi disse: “Se è per la fortuna di Rinuccio, anche
se forse non lo potrò vedere più, che sia fatta la vostra volontà. Ma voglio che ogni
anno mi mandiate una fotografia”, disse a testa bassa. Quel povero vecchio diceva
la verità. Mia nonna scoppiò in pianto, mia zia, piangeva anche lei e mia madre
ancora di più e fecero piangere anche me, vedendoli così afflitti.
Un mese dopo arrivarono i dollari dello zio per il viaggio. C’imbarcammo a
Messina, i nonni e la zia vollero vederci partire e fu un vero strazio vederli piangere
così a dirotto; tanto che io non volevo staccarmi dalle braccia della nonna che
continuava a baciarmi di continuo.
Il suono della sirena ci chiamava a bordo e il distacco fu straziante, il comandante
della nave, la Lloyd Adriatico, gridava col megafono di appressarsi alla passerella,
ci avviammo con gli occhi gonfi e il cuore a pezzi. I miei nonni e mia zia stettero
lì a sventolare i fazzoletti sino a che, sparimmo all’orizzonte.
Il viaggio durò vent’otto giorni, per tutto quel tempo vedemmo solo mare e cielo,
il cibo era scadente, ma l’ansia e la gioia di mio padre che ci prospettava una vita
comoda e felice, ci compensava dalle difficoltà e inconvenienti del viaggio. Quando
al vent’ottesimo giorno, finalmente si scorse la terra in lontananza, tutti i passeggeri
salirono sul ponte della nave per guardare quella “Terra” di speranza. Tutti ridevano
e gioivano, battevano le mani e puntavano il dito verso la terra ferma.
Lo zio ci aspettava con entusiasmo e quando la nave attraccò, egli guardava i
passeggeri scendere scrutandoli uno per uno; mio padre subito lo riconobbe, era tale
e quale suo padre e alzò le braccia per farsi notare, lo zio a sua volta non stava in sé
dalla gioia, per lui era come se fosse arrivato suo figlio. Si precipitò e con slancio
abbracciò suo nipote. Si fecero le presentazioni, ed egli subito mi prese in braccio
e ci guidò verso la sua macchina. A me sembrò quasi una favola.
Lo zio guidò sino alla periferia di Boston, in una zona residenziale, una villetta
con giardino ci accolse; la mia mamma ne fu entusiasta e mio papà gli batté una
mano sulla spalla come a dirle: “Te lo dicevo io!”.
Lo zio disse con fare cerimonioso: “Questa è la vostra casa, è già stata comprata
a vostro nome, nel frigo c’è cibo in abbondanza e questi sono per i primi giorni”.
E lo zio posò sul tavolo della cucina una cospicua somma. E continuò dicendo:
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Siamo già in paradiso
Giovanni Coglitore
“Riposatevi qualche giorno, domani manderò un mio dipendente, vi farà conoscere
la città e nei dintorni della vostra casa, c’è tutto quello che vi occorre”.
Mio padre dopo un po’ di tirocinio, prese il comando dell’equipaggio dei due
pescherecci, a volte stava lontano anche delle settimane e mia madre in pena,
rimaneva per diverse ore della giornata a guardare l’immenso Atlantico. Con il
felice evento di un altro figlio, mia madre riuscì a riempire la giornata e impegnare
la sua mente. Fu mio fratello che infine raccolse l’eredità dello zio e di mio padre.
Io dopo il diploma di maturità mi sono iscritto all’Harvard University, una delle
maggiori università di Boston. A differenza di mio padre, anche se con lo stesso
entusiasmo, egli guardava il mare ed io lo spazio; per cui mi scrissi alla facoltà di
fisica astronomica.
Più studiavo e ancor di più mi appassionavo alle varie scoperte. Per gli astronauti
è entusiasmante fotografare la Terra da una navetta spaziale, quando la vedono
stagliarsi maestosa nel ciclo. “È la parte più bella dei voli spaziali”, eppure il
nostro pianeta sembra troppo piccolo se lo si paragona con il sistema solare. La mia
riflessione è: “È la terra parte del nostro sistema solare, oppure è il sistema solare che
esiste perché possa esistere la terra in virtù di forze gravitazionali? Comunque sia,
questi fatti relativi all’universo hanno attinenza con la vita e il suo significato. Lo
studio della terra mi affascina, essa è dalle dimensioni giuste, per ovvi motivi è alla
giusta distanza dal sole e i suoi movimenti e la sua posizione nella nostra galassia “la
via lattea”, sono indispensabili. Tutto ciò permette la vita sulla nostra meravigliosa
Terra. Tutto ciò è casuale? Io dovrei dire come disse il grande matematico inglese
Sir Isaac Newton: (1642-1727) “Io non so come mi vede il mondo, ma io mi vedo
come un bambino sulla spiaggia che si diverte a trovare qualche ciottolo più bello,
dinanzi ad un oceano d’inesplorata conoscenza.
Il Dr. Giuseppe Zappalà consegna il 1° Premio Narrativa 2009 al Sig. Giovanni Coglitore
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Cofanetto che raccoglie i volumi della collana “Storie e racconti di mare.
Questo quindicesimo volume completa la collezione. Dai volumi pubblicati e delle copie ancora
disponibili, è stato possibile comporre solo 50 serie complete.
I pochi cofanetti rimasti, con in più 2 copie di questo quindicesimo volume, vengono ceduti con un’offerta
minima di 100 euro.
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Anna Rosa Balducci
STORIE DI MARE
Q
uando si sta vicino all’acqua è difficile non scrivere.
Anche se non si è attrezzati, i pensieri vanno lì, alle parole che si potrebbero
sommare, una dietro l’altra.
Con le parole è facile costruire schemi narrativi, opere, favole o anche solamente
storielle.
La presenza dell’acqua aiuta la fantasia a stare larga, a girovagare, a ritornare e
a ripartire per poi ritornare, esattamente come le onde del mare.
La fantasia deve avere spazio, o almeno la possibilità di fuggire, di muoversi,
andare, e quando trova due sbarre di ferro che vorrebbero tenerla prigioniera, si
insinua tra le fessure aperte, e fugge ugualmente.
Sul mare, o vicino al mare, è tutto più semplice.
La narrazione zampilla sorgiva, gorgoglia insinuante, chiacchiera birichina.
Andando a passeggiare, un pomeriggio qualunque, poi, si riesce sicuramente a
ritrovare la dimensione del tempo.
Sembra, qui detta, una di quelle frasi ripetute per riempire uno spazio, e invece
il tempo è qualcosa che spesso si perde.
Si perde nella paccottiglia degli oggetti, nei cuori infranti dall’abitudine, dai volti
sconsacrati delle false religioni.
Un passo dietro l’altro, regolari, metodici, lungo la linea dell’acqua, e il tempo
comincia a ritornare nella sua preziosa realtà.
Un buon oggetto, con un inizio e una fine, assume consistenza.
Davanti all’acqua, vicino al ritmico, regolare, sciacquio delle onde che sbattono
contro la battigia, i pensieri vanno meglio d’accordo con il ticchettare dei minuti e
possono trasformarsi in parole con più facilità...
Uno, due, i passi vanno, i minuti anche.
Sulla tastiera dei minuti, si può cominciare a raccontare un’altra storiella.
Non importa se di poco conto.
Di storie ce ne sono tante che corrono sulla superficie delle onde, ogni storia è
adatta ad una giornata particolare, solo a quella, ad una particolare fase del tempo
atmosferico e del tempo con la ti maiuscola, quello cui non si sfugge, quello che
crea le giornate, e gli intrecci tra gli esseri umani, e le guerre e le paci.
Prendiamo una giornata come questa, di inizio primavera, una primavera
grigiocalda, con momenti intensi e fuggevoli di freddo ancora invernale ed umido,
vicino alla costa.
Si vorrebbe, in una giornata come questa, che spuntasse qualcosa di caldo e di
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colorato all’improvviso, con una forma naturale e irrefrenabile: una chiazza di fiori,
un raggio di sole forte, una passione, un’idea.
Come questa
STORIELLA COSI’ COSI’, INTORNO A DUE AMICI DI CITTA’
Quella che prese e travolse due amici di un paese del nord del mondo, quando
decisero, di punto in bianco, di avventurarsi in un bel viaggio di emozioni e di
divertimento. Erano due buoni amici, giovani, allegri, con un lavoro sicuro e una
gran voglia di vivere addosso.
Sistemate in fretta e furia due piccole valigie, una per ciascuno, si erano avviati,
di stazione in stazione, di ostello in ostello, proprio come due antichi pellegrini,
in cerca della felicità.
Finché un bel giorno, uno dei due, il più sincero, trovò una ragazza giovane e
dolce di cui innamorarsi.
Lo disse all’amico, al compagno di mille avventure, e lui lo salutò con affetto,
augurandogli buona fortuna e tanta felicità. Avrebbe proseguito da solo il cammino, e
sarebbe arrivato molto lontano, forse addirittura agli estremi paesi del sud del mondo.
E così i due amici per la pelle si erano divisi.
Uno era rimasto solo e aveva continuato a viaggiare.
L’altro si era innamorato e si era fermato.
Quello che aveva continuato a camminare, dopo circa dieci anni, era realmente
arrivato in un povero villaggio dell’ultimo sud del mondo.
A prima vista pareva un villaggio come tanti, né povero né ricco, ma a ben
guardarlo si capiva che qui tanti bambini erano scalzi, tante mamme non avevano
latte per i propri neonati, tanti vecchi, scheletriti, soli e tremanti, stavano ai cigli
delle strade ad aspettare che il giorno passasse.
Le strade, poi, erano trafficatissime, attraversate in largo e in lungo, ad ogni ora del
giorno e della notte, da enormi vecchie automobili che quando erano in moto emettevano
fumi neri e densi, così densi che in quei momenti il villaggio veniva interamente coperto,
e scompariva alla vista di chiunque passasse ad una piccola distanza.
Lì il nostro amico si era fermato, proprio nello stesso momento in cui il suo
compagno di avventure di un tempo diventava babbo per la terza volta.
E...-... ma in verità, cosa ci può essere di fantastico da raccontare, in una storia così?sussurrano le onde tutte in coro-... questa è una storia come ce ne sono tante, né bella né
brutta, una storia qualunque... si può passare ad una storia che abbia del fantastico?
E così, lungo la battigia, vicino al fruscio delle onde, si ricomincia, con
LA STORIA DELLA NAVE PIRATA
che sbarcò in una cittadina moderna, turistica ed attrezzata, all’inizio del nuovo
millennio, proprio durante una notte di luna piena e di gran baldoria.
Erano tutti indaffarati a divertirsi, e i capi della città avevano promesso vino e
birra a fiumi, aranciate frizzanti e altre diavolerie colorate per i più giovani, per
tutta la notte.
E musica, e rumore, e fuochi d’artificio. La città era tutta un tripudio, non c’era
angolo che non fosse invaso da questa travolgente, apparente felicità.
Ma cosa c’era di diverso, dal giorno prima, in quella notte di grande baldoria?
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Storie di mare
Anna Rosa Balducci
Assolutamente nulla, i poveri erano sempre poveri, i malati sempre malati, il
mare e l’aria sempre sporchi, i ragazzi sempre con gli occhi persi, gli adulti sempre
frettolosi e distratti. Niente di nuovo, nonostante le promesse. Eppure, si divertivano
tutti, e mangiavano e bevevano a crepapelle. Così, dello sbarco furtivo della nave
pirata nessuno si accorse.
Uno... due... tre... quattro... cinque... venti... trenta... forse cinquanta pirati veri,
di quelli dei libri di avventure, stavano sbarcando in tutta tranquillità, addirittura
dopo aver sistemato la nave, con tanto di bandiera con un enorme teschio, nera e
paurosa, nel bel mezzo delle altre imbarcazioni turistiche.
“Lucianella ti invita ad uno splendido tour al largo, e vino e canti, e balli e tutto
quello che puoi desiderare in un pomeriggio di vacanza al mare!”.
Accanto alla nave pirata, l’imbarcazione turistica ‘Lucianella’ stava a sonnecchiare,
tranquilla.
I pirati, belli, giovani, silenziosi e determinati, avevano il campo libero, nella città
frastornata, tra le vie piene di balordi, dentro le case semiaperte perché tutti - chissà
perché-si erano convinti di essere in una serata speciale, di bontà ed allegria.
Così i pirati avevano razziato e rubato, saccheggiato e distrutto a volontà, nessuno
li aveva fermati. Anzi, era accaduto di più.
Si erano addirittura confusi con la folla, e dentro la gran sarabanda parevano
personaggi in costume, villeggianti qualunque, un po’ originali.
E verso l’alba se ne erano andati, lasciando la città già abbastanza malconcia per
il rovinio causato dalla festa, immiserita e spoglia.
La luna, scomparendo dal cielo, leggera come un soffio, confondendosi con il
chiarore del giorno, pareva chiedersi il perché di quella brutta avventura.
Ma non aveva parole, per comunicare il suo stupore.
Ciac... ciac... stafaciac...
Le onde si fanno riccioline, birichine, sospettose, ammaliatrici, ma la terza storia
è piuttosto invadente, arriva e scivola sulla secca come una grossa zattera, portata
dal lontano oceano in una risacca di casa.
Eccola, la storia che arriva,
LA STORIA DI UNA MAMMA CHE VUOLE SALVARE LA SUA BAMBINA.
Presto detta, purtroppo il tempo stringe, non ci si può dilungare, ma a questo
punto ce ne sarebbero di cose da dire.
Una mamma ha visto la sua bambina in grande pericolo, ecco, si sta avviando
a correre lungo un crinale che separa il porto cittadino dalla strada, è un crinale
stretto, la bambina si è lanciata per inseguire il suo palloncino che le è scappato
via, per una folata di vento.
Il muricciolo su cui corre è stretto, sconnesso, basta pochissimo perché un piedino
incespichi in un sasso, o in un buco del cemento. La mamma ha il cuore che corre
all’impazzata, le rompe il petto per il tanto battere, non riesce ad essere veloce come
vorrebbe... è un attimo, è solo questione di un attimo, ma è uno di quegli attimi in
cui si concentra tutta una lunga storia, di vita, e di morte e di amici e di nemici, di
principi e di rospi e di principesse e di fate.
Corri, corri, con il cuore che impazza... ecco, un capello, un fragile capello che si
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
attorciglia attorno ad un altro capello, formano un ricciolo... a quel ricciolo la mamma si
aggrappa... ecc... afferra la sua bambina da quel ricciolo ribelle... l’ha presa!!!!!!!!!
Meraviglia, tutto intorno comincia a cantare, è primavera, e le gemme si stanno
muovendo sotto la terra, attaccate alla corteccia delle piante, i pesci dormono sotto
le conchiglie vecchie di millenni... eppure, quando la mamma riesce a salvare la
sua bambina, tutta la natura si risveglia, e comincia a ridere di gioia.
Il mare raccoglie tutte le storie, piccole e grandi, le custodisce, per poi raccontarle
alla prima occasione.
CI SONO MOMENTI MAGICI PER LASCIARE CHE LE STORIE CORRANO SUL MARE.
Quando è caldo e il sole ha battuto e ribattuto a pelo dell’acqua e sulla sabbia bruciata
rimangono impietriti i ricordi dei pensieri, chiunque sia passato ha lasciato un’orma.
Il sole impietrisce i ricordi, poi, quando cala e l’aria si fa più fresca, la brezza di
mare comincia a soffiare e allora i ricordi cominciano a muoversi, ad agitarsi tra
la riva e l’onda. Vanno, vanno, si intrecciano e si incontrano, come vecchi amici
si riconoscono.
L’ora migliore, in questi casi, è all’alba o all’imbrunire, quando il cielo è terso,
l’aria tiepida, il sole dolce e la brezza corre dovunque.
Oppure nei lunghi pomeriggi di nebbia, quando le sirene dei fari chiamano le imbarcazioni
che si sono avventurate al largo, con il loro suono ritmico, monotono, uguale.
Nessuno sa chi siano i marinai che stanno al largo, forse giovani che hanno scelto
quell’avventura per una notte, come se fosse stata una giovane amante. Una notte
in mare, per tornare all’alba con il carico guizzante ed allegro, l’oro del mare, la
ricchezza, la vita.
La pelle scura anche in inverno, i capelli umidi, le membra ingranchite dentro i
giacconi impermeabili, gli occhi gonfi di sonno.
Ma con quel mare dentro, scuro, avvolgente, totale.
La sirena chiama e chiama, sparge il suo ritmo monotono lontano, come un
lamento, vuole che i giovani tornino.
Torneranno. Certo che torneranno, ma è capitato, è capitato, è capitato che non
siano tornati, una due, tre, troppe volte.
C’è un punto, al largo, che non sa contenere l’urlo delle tempeste, imbizzarrisce
le onde, sovrasta qualsiasi imbarcazione, quando capita.
Ci sono storie, ci sono storie... se le sono dette le donne che hanno aspettato invano.
Un altro momento buono per raccontare è durante le notti di luna.
Non importa se di plenilunio o di luna araba, basta che la luna compaia, sbuchi,
si intraveda, anche se tra le nubi, o tra i rami degli alberi sui tetti delle città.
La luna e l’acqua vanno d’accordo, sono in sintonia, si cullano a vicenda, l’una racconta,
l’altra si riflette nello specchio o cupo o argenteo, si ninnano, si rincuorano.
E quante se ne dicono. Spesso ridono.
Ridono delle bizzarrie degli uomini, dei loro affanni, di quel loro correre spesso
senza una meta, di quel loro eterno andare.
Oppure sbirciano tutta la somma dei pensieri che sono rimasti depositati, che
vogliono fuggirsene inquieti.
E ne carpiscono l’intimo segreto, la molla vitale, il meccanismo che muove le avventure.
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Storie di mare
Anna Rosa Balducci
Perché in silenzio la luna ‘vede’, riesce a entrare nei pensieri, soffice e impalpabile,
si insinua negli animi.
Lei ‘sente’ quello che noi umani sentiamo. Le nostre curiose avventure di cuore,
le nostre bizzarre attese, i desideri e i sogni.
Sorride, la luna, perché quasi tutto quello che inseguiamo si dissolve, come neve al sole.
E quando si cammina vicino alla scia dell’acqua, è facile, spesso, che arrivi
prepotente un desiderio.
IL DESIDERIO DELLA CASA
Se è troppo caldo, si desidera una casa ampia, fresca e bianca in cui stare ad
aspettare che la caligine afosa, il torpore del cielo immobile e bianco lasci spazio alla
brezza, se c’è nebbia, quella nebbia fredda e uggiosa di certe giornate novembrine,
o anche di metà febbraio, quando la temperatura della terra è abbastanza calda per
produrla, ma il vento dell’inverno lavora tutto attorno, a gelare le notti e i giorni.
E anche quando il freddo gelido del nord spazza via le sterpaglie che le tempeste
hanno depositato sulla riva, urlano contro i pali di cemento e contro quelle poche
costruzioni rimaste a sfidare la brutta stagione. Urla forte, sferza la pelle, impietrisce
le mani, fa lacrimare gli occhi.
Il desiderio della casa allora si fa forte, intenso, sempre più forte.
Nella casa grande si sogna di tornare, a rincuorarsi, a fare merenda, a sedersi ad
aspettare, a fare tutto quello che si può, in un luogo di riparo e di quiete.
E talvolta ci si acquatta, in riposo e si immagina di essere arrivati a destinazione.
Eccola, la casa grande, bianca, poco più in là della riva, sembra preparata da un
tempo immemorabile.
Nelle linee è elegante, sobria nell’insieme, con un filo di verde che la circonda e
qualche pianta rampicante tutto attorno al recinto. Spunta dalla sabbia, come una
di quelle vecchie ville padronali rimaste legate al loro tempo di decoro e lunghi
bagni di mare, di tramonti sfumati e di albe splendenti, luccicanti di mille pagliuzze
argentee, a pelo dell’acqua.
Immobile, signorile ed accogliente, sa vincere l’atonia dell’ora panica, l’ora del
mezzodì, l’ora del sole allo zenit, del caldo che rende rarefatto il silenzio. Solo fruscio delle
onde, che sciacquano e risciacquano la prima linea della sabbia color ocra e bianco.
La casa sulla spiaggia è l’approdo certo, il riposo, la festa.
È l’allegria delle lunghe tavolate, la compagnia mentre il giorno muore.
È qui che è dolce raccontare le lunghe storie del mare.
Ci si siede, con amici e parenti lontani, con le frutta di stagione, i cibi migliori,
il pane croccante, il vino dei colli e si fanno correre i pensieri, i ricordi, le fantasie,
mentre il mare, fuori, fa i comodi suoi.
È bonaccia, una lunga bonaccia calda, ma le sirene nascondono improvvisi
mutamenti delle correnti bizzarre, oppure pare che l’aria rinfrescata dall’ultimo
temporale duri a lungo, stabile, in un sereno limpido e lungo sull’orizzonte, ma
laggiù una piccola nube insidiosa si prepara a crescere, avanza, s’ingrossa, fino al
tetto della casa sulla sabbia.
Non importa, l’importante è essere dentro, al riparo, e raccontare a lungo, senza
tempo, senza che il tempo avanzi.
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
ECCOLE LE STORIE DI MARE
che ritornano a vivere, saltellano attorno al tavolo, si cercano e si ripetono.
- Racconta, racconta, di quella volta che hanno trovato il corpo della ragazza,
lungo disteso, si era uccisa perché aveva commesso l’omicidio del suo bambino
mai nato... l’avevano lasciata sola, a piangere, con i suoi fantasmi.
Erano i primi anni del secolo ventesimo, il vecchio secolo che ci ha lasciato con
le sue grandi storie, le sue lezioni, siamo qui a raccoglierne le briciole...
- E tu racconta, racconta, di quei cori di libertà e di ardimento, i cori che
raccoglievano i sogni di giovani spersi, nei meandri del proprio futuro, l’eterno
gioco dei figli che si ribellano ai padri... se fosse una cosa nuova...
-... e tu, cosa racconti?
- Ancora di una madre, che salva la figlia, e vorrebbe piangere e implorare, per
un futuro buono... dopo rimane il silenzio, il silenzio del tempo che si assopisce...
un po’ di allegria, nel torpore dell’attesa.
Ecco, si è fatta ancora notte.
La notte trova la grande casa vuota.
Se ne sono andati tutti, ognuno per i propri affari, ognuno alle proprie residenze
temporanee.
Come profughi, appena sbarcati, in cerca di sistemazione.
-Me la trova, per favore, una soluzione?
-Domani, domani, a quell’altro ufficio, per favore...
Domani, domani...
Sì, quando si sta vicino all’acqua è difficile non raccontarselo, poi, il domani.
Il Dr. Giuseppe Zappalà, Amm. Delegato del porto turistico che da anni ospita la Premiazione
Artemare, consegna il 2° Premio Narrativa 2009 alla Signora Anna Rosa Balducci.
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Orazio De Maria
IL MEDAGLIONE DI EBANO SCURO
T
alvolta certe notti, sotto splendidi chiari di luna, sono capaci di fermare il
tempo, congelare certi attimi, in cui, anche le più atroci disgrazie sembrano
dissolversi nel buio dell’eterna tranquillità del paesaggio circostante. Al chiarore di
una splendida luna piena, levatasi in cielo alla fine di quell’estate del 1944, anche
la guerra, seppur oramai lontana da quelle spiagge a sud della Sicilia, pareva non
essersi mai materializzata. I tremendi quanto tragici avvenimenti della seconda
guerra mondiale, parevano aver lasciato il passo, dopo la liberazione per opera
delle forze alleate, ad uno status vivendi che, almeno alle latitudini ove quella
luna brillava, riportava il corso delle cose ad una naturale evoluzione, con la
presenza tra la gente di un senso di apatia e rassegnazione su quello che, almeno
apparentemente, poteva essere il futuro della propria esistenza. Una consapevolezza,
che rappresentava quanto di più positivo potesse esserci rimasto in quel particolare
periodo, era rappresentata dal fatto che, malgrado tutto, si era ancora vivi, che il
peggio era passato e che adesso si poteva re-iniziare una nuova esistenza, senza
le bombe, le corse verso i rifugi, gli sfollamenti. Tutto questo, purtroppo, non era
ancora reale in altre parti del Regno d’Italia. Se fossero quelli i pensieri presenti nei
cuori di quei due giovani, a ridosso di un enorme scoglio presente sulla spiaggia
che li riparava da eventuali sguardi indiscreti, non è certo, ma quella notte, quella
serenità dei luoghi, probabilmente amplificava molte di quelle sensazioni. La storia
dei due giovani, abbracciati l’un l’altro teneramente, poteva essere una di quelle
che il periodo storico poteva anche registrare nel corso naturale degli eventi ma,
come tutte le storie in cui vi sono di mezzo i sentimenti e la natura umana legata
agli stessi, l’unica cognizione era rappresentata dal fatto che, in questi casi, nulla
è mai scritto in maniera definitiva. La giovane donna, presentava una carnagione
chiara, quasi inusuale per quei posti, assunta quasi come per il fatto di essersi
esposta al chiarore della luna, piuttosto che a quello dei raggi solari e difatti, con il
chiarore lunare si fondeva in un’unica luce. I capelli neri lucidi stridevano sia con
lo stesso colore della pelle, sia con quello degli occhi che, al contrario della chioma,
erano di un verde pallido. Al di là comunque dei caratteri somatici, il portamento
e l’intelligenza della giovane, denotavano, anche a chi l’avesse vista per la prima
volta, una superiorità intellettuale fuori dal comune. Di origine nobiliare, discendeva
da una famiglia di marchesi che, come il fato accomuna in questi casi, era stata
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toccata dagli eventi bellici. Al fine di vedere assicurata comunque una vita fatta di
tranquillità economica alla figlia, dopo gli studi effettuati in un collegio del nord,
era stata fatta sposare ad un ricco possessore terriero, bruto di carattere e attivista
fascista. Come tutte le unioni combinate per interessi più che per amore, la stessa,
non era mai stata felice ed anche la figlia, nata dal grembo di quella ragazza, non
era figlia di quella. Il giovane steso di fianco ad ella, la senti muoversi per un attimo
assaporando ancora una volta il profumo che emanavano i suoi capelli, girandosi
lentamente Lucia raccolse il suo sguardo dentro i suoi occhi chiudendosi appena
quando lo stesso rispose al suo bacio appassionato. Vado a fare il bagno, stasera
fa più fresco fuori che in acqua, raggiungimi anche tu, disse la donna alzandosi e
dirigendosi verso il mare. Arrivo subito, rispose di ritorno lui. Lui, giovane dalle
caratteristiche somatiche opposte alla donna, presentava una carnagione abbronzata
e capelli castano chiari. Ufficialmente era un meccanico di macchine agricole al
servizio del marito di lei. Arrivato parimenti all’inizio del conflitto, non si capisce
da dove e come, era stato preso al servizio della casa visto le competenze tecniche
nel settore meccanico. Quello che non era ufficiale, sia per l’anagrafe sia per nessun
altro oltre che per lei, era rappresentato dal fatto che Paolo, nome di copertura, era
in realtà Paul Castiglione, il cui nonno era emigrato in America a lavorare per una
compagnia di posatura di cavi telegrafici che attraversavano l’oceano unendo i due
continenti. Paolo, nome di copertura, era cresciuto in America, laureandosi ingegnere
meccanico, rivestiva il grado di sottotenente quando fu incaricato di emigrare,
stavolta in antitesi di quanto fatto dal nonno, oltre le linee nemiche, conoscendo
benissimo il siciliano che rappresentava la lingua dei suoi avi. Il suo compito era
quello di fornire notizie sul dispositivo bellico posto in essere sull’isola cuore del
Mediterraneo, notizie che forniva per mezzo di comunicazioni radiotelegrafiche.
Il caso volle che trovasse impiego presso la fattoria di Lucia e qui, visto le opposte
peculiarità caratteriali che lo contraddistinguevano dal marito di lei, ebbe inizio la
storia d’amore tra i due, la dolce marchesa e l’uomo venuto al di là del mare. Fu
una sera di questo idillio, che durava oramai da 4 anni, che Lucia scoprì le vere
“mansioni” dello strano meccanico, ma, vuoi per la repulsione al regime fascista,
vuoi per i sentimenti nati tra i due, la stessa non si sognò mai di infrangere quel
segreto, divenendone piuttosto complice consapevole.
Seguendone con lo sguardo i movimenti, Paolo la vide entrare in acqua e, dopo
essersi accertato che non vi fosse anima viva attorno, si alzò e guadagnando la riva
e raggiungendola in acqua. Quando furono nuovamente vicini, alla luce della luna e
tra il lieve ondeggiare del mare, si sciolsero in un profondo abbraccio, appassionato
come il sentimento che provavano l’uno per l’altra e, in un crescendo di passione
il calore dell’unione dei loro corpi travolse in un instante ogni cosa, anche la
freschezza delle acque.
Al riparo dietro lo scoglio, sotto la coperta predisposta quale minimo ricovero,
Lucia inizio a parlare. – La guerra volge alla fine, ringraziando il cielo, anche la
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Il medaglione di ebano scuro
Orazio De Maria
nostra vita spero possa trovare pace.
-Ne abbiamo già discusso, tu ti imbarcherai su una nave diretta in America, per
non destare sospetti poi io e la piccola Angelina ti raggiungeremo quando gli eventi
saranno propizi, e tutto organizzato a puntino, compreso il mio “sganciamento”
dalla missione.
Il piano consisteva nel far partire Lucia da sola, verso l’isola d’Elba, ove i genitori,
che ivi avevano una casa, si erano rifugiati per sfuggire dagli orrori della guerra e
dove, malgrado fosse stata invitata a raggiungerli parecchie volte, Lucia non si era
mai sentita in dovere di raggiungerli. Dalla stessa sarebbe salpata una nave sotto
copertura che avrebbe raggiunto le coste Americane dove, avvisati della traversata,
Lucia avrebbe trovato persone fidate che si sarebbero occupate di lei sul momento.
Avendo studiato la lingua inglese in collegio, Lucia non avrebbe nemmeno trovato
difficoltà di comunicazioni o di inserimento in attesa di Paolo, che sarebbe fuggito
in seguito con la piccola Angelina. Questo era nei sogni e nelle speranze dei due
giovani, una fuga via mare lunga quanto un oceano.
È meglio rientrare, prima che si accorgano della mia assenza e prima che mio
marito torni dalla battuta di pesca, domani sarà un altro giorno che passando
diminuirà il tempo che ci separa dalla nostra futura felicità.
Il capitano Juanito Gonzales era nativo dello Stato Argentino, la sua carriera di
comandante di mercantili si era prevalente svolta su navi da carico che il buon senso
avrebbe sicuramente sconsigliato a chiunque di salirvi sopra. Da considerare che, in
quei particolari periodi, non è che si andasse tanto per il sottile per quel che concerne
la logistica di bordo. La scelta di condurre questo tipo di imbarcazioni non era dovuta
a mancanza di capacità marinaresca ma, al contrario, la lunga esperienza acquisita
poneva in assoluta fiducia la sua persona, e gli armatori, sapevano benissimo,
che se vi fosse stato un uomo capace di condurre navi di quel genere questo era
sicuramente lui. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, considerato il
fatto che le navi mercantili rappresentavano la maggiore fonte di spostamenti a
lungo raggio di mercanzie e quanto di altro si potesse spostare da tutti i continenti,
erano tante le navi che partivano in giro per il mondo, alcune navigando con carico
regolare, altre, il più delle volte con carichi….nascosti. Per tutti questi ordini di
motivi il comandante “Juan” era stato contattato dei servizi militari degli Stati Uniti,
svolgendo anche per conto loro, ed all’occorrenza, trasporti di materiale di vario
genere sotto copertura. Ultimamente i rischi andavano comunque moltiplicandosi,
non tanto per i controlli o la possibilità di essere scoperti, ma per il fatto che il blocco
a causa delle marinerie avverse, soprattutto per opera della componente subacquea,
rendeva pericolosa ogni traversata mettendo seriamente a rischio la possibilità di
arrivare indenni alla destinazione finale. Arrivati a questo punto del conflitto, che si
prospettava stesse per giungere al suo epilogo, era inutile riportarsi con il pensiero
ai pericoli corsi nel passato, semmai lo sforzo nel presente doveva essere profuso
per cercare di portare al termine la missione salvaguardando la nave e le vite che
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su di essa erano presenti. Malgrado fossero questi i pensieri che animavano la
mente del capitano, vi era anche una flebile quanto latente sensazione di oscuro
presagio. Tale ammonizione faceva sempre più prendere in mente la convinzione di
ritirare la propria candidatura verso quel genere di viaggi, volgendo l’intenzione a
quel meritato congedo da quella professione che, seppur appagante, esibiva ormai
inesorabilmente una lunga carriera anagrafica che urlava, dal profondo del cuore,
verso un abbandono quanto mai meritato da quel genere di vita. Il forte richiamo
della lontana casa in riva al mare rappresentava, a quel punto della sua carriera,
la giusta meta a coronamento dei lunghi trascorsi in giro sul mare. Erano questi
i pensieri che, dalla plancia di comando della nave, attanagliavano la mente del
capitano in quella notte scura in navigazione al largo delle isole Canarie dopo la
partenza in sordina dall’isola d’Elba. Altri pensieri, a parte quelli che descrivevano
le sensazioni ora riportate, vennero richiamati nella sua mente alla vista, sul primo
ponte di coperta, da un insolito “carico” rappresentato da quella donna misteriosa
imbarcata sull’isola italiana. Ella, apparve al suo sguardo quasi come un fantasma,
e come tale si muoveva, quasi come se non avesse un corpo, quasi come se non
appartenesse a questa terra ma, al contrario, provenisse da un mondo parallelo
di spettri in fuga da una nave fantasma. La pelle chiara, in netto contrasto con il
vestito scuro, la faceva apparire come un ectoplasma, l’alone di mistero che la
circondava, amplificava queste sensazioni. Lo sguardo volto ancora verso la costa,
quasi a memorizzare nella sua mente gli ultimi istanti in terra natia, la riportavano
con i pensieri verso la lontana isola, ove, costretta dagli eventi e da un susseguirsi
di sentimenti oramai senza controllo, era stata costretta ad abbandonare, in solitaria
fuga, verso un destino dai contorni pressoché ignoti. Il capitano Juan la raggiunse
trovandola in coperta assorta in questo turbinio di pensieri.
- Signora, la serata è molto umida, sarebbe meglio se rientrassimo al coperto.
- Capitano è lei, mi scusi non avevo avvertito la sua presenza, notizie dalla terra
ferma?
- Abbiamo avuto scambio per mezzo di radio telegrafo, l’amico in comune mi ha
chiesto di assicurargli che tutto si svolgesse come previsto.
Tutto come previsto, era questo il punto, cosa volesse dire come previsto. Capitano,
lei ha mai avuto la sensazione nella sua vita di fare sempre la cosa giusta?
Quella domanda, pareva rispondere a tutte le sensazioni che trasparivano dal profondo
della sua anima. Se avessi la risposta giusta a questa domanda, molto probabilmente,
non sarei qui in questo momento, e comunque il destino invisibile di ognuno di noi è
sempre appeso a sottili fili, di cui noi non siamo nella facoltà di muovere o tessere i
contenuti. Venga l’accompagno dentro, staremo sicuramente più al caldo.
Appena rientrata al coperto venne accompagnata da un marinaio nella cabina che
gli avevano riservato per l’occorrenza, ove avevano già posizionato i suoi bagagli.
Solo a questo punto si ricordò delle carte che gli aveva lasciato Paolo, carte di cui
non conosceva il contenuto, ma che preferì mettere al sicuro in un baule stagno che
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Il medaglione di ebano scuro
Orazio De Maria
era predisposto con una chiave di chiusura. Appena chinatasi per ricoverare la busta
sigillata, gli si impigliò il piccolo medaglione che portava al collo, rimasto impigliato
dentro la piccola maniglia. Questo, era un piccolo girocollo con una medaglietta
di ebano scuro, di forma ovale, la cui particolarità consisteva nel fatto di potersi
aprire a metà all’interno della quale erano state incollate due piccole foto, quella
di Paolo e quella della piccola Angelina, le uniche due persone che contavano al di
sopra di ogni cosa per lei. Fu in quel momento che venne sopraffatta dall’emozione,
o forse, dalla stanchezza delle ultime ore e, facendosi sopraffare del susseguirsi
degli eventi, dopo aver riposto la medaglietta nello stesso contenitore, si sciolse in
un lungo e disperato pianto.
Il capitano di corvetta Marthi Backer, era originario della Baviera, durante la
rivoluzione politica che investì la Germania subito dopo la crisi del ventinove, fu
a fianco dei sostenitori politici che appoggiarono le tesi del nazifascismo. Questo
aspetto, unitamente a una grande predisposizione per ciò che aveva a che fare con il
mare, gli fecero presto scalare la catena gerarchica di comando, trovandosi ben presto
al comando di un U-BOAT, i famosi sottomarini tedeschi, che rappresentavano,
insieme alla componente corazzata dei Panzer, una delle più formidabili macchine
da guerra che il genio germanico avesse potuto partorire. Tutto ciò era amplificato
dalla grossa competenza di uomini che, se in condizioni normali erano dotati di
un valido addestramento di superficie, divenivano una valida macchina da guerra
sotto la stessa, trovando una valida collocazione persino alle fredde e basse
profondità oceaniche. Anche se le sorti del conflitto parevano volgere verso una
insperata disfatta, le occasioni di rendere proficue queste macchine da guerra non
mancavano di certo. Osservando la foto della moglie incollata sopra nella paratia
che confinava con la sua branda, il pensiero andava verso la sua casa in quel di
Kiel. Esiste un momento, in ogni conflitto in cui il genere umano abbia espresso
il peggio di se stesso, in cui la stanchezza per tutto lo stato di cose poste in essere
prende il sopravvento, in cui le convinzioni, pur se forti e radicate nelle menti dei
contendenti, iniziano a vacillare. D’altronde, non fummo posti su questo pianeta
per infliggere lutti e distruzioni tra noi simili ma, sicuramente, per più alti e nobili
scopi. A questo punto, si combatteva più per la personale sopravvivenza che per la
gloria di una guerra oramai avviata verso una lenta ed inesorabile disfatta. Forse, non
è dato di saperlo con sicurezza, erano queste le riflessioni del comandante Backer,
riflessioni che vennero interrotte dalla voce dell’ufficiale in seconda proveniente
dall’interfono posto nel suo alloggio.
Comandante, rileviamo traffico mercantile. Vengo subito, rispose il comandante.
La piccola centrale operativa, era illuminata da deboli luci di colore rosso, che si
sommavano al chiarore fornito da quelle che, di rimando, erano accese nelle varie
consolle degli operatori. Secondo, quale rotta seguiamo. Rotta 210, velocità 7 nodi.
Sonar rilevamento del bersaglio. Bersaglio su rilevamento 010 gradi, velocità 12
nodi, prora nemica su rotta 280. Ricevuto, portarsi a quota periscopica. Quello che
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restituì, in fatto di immagini, la lente del periscopio, era formato dalla sagoma di una
media nave mercantile, il cui profilo veniva a tratti illuminato da una serie di lampi
che si stagliavano sull’orizzonte. Presenza di naviglio ostile. Negativo comandante.
Era perfino troppo semplice, come se si andasse per una battuta di caccia in cui
però la preda, non era rappresentata da una belva feroce e famelica, quanto da una
placida mucca al pascolo. Bene, assumere primo grado di combattimento, rotta
di lancio appena lasciata la quota periscopica. Heil Hitler, rispose l’ufficiale di
rotta volgendosi verso il comandante con il braccio destro sollevato. Dalla plancia
di comando della nave il comandante Juan scrutava con l’ausilio del binocolo i
nuvoloni che, in prossimità dell’orizzonte ottico, facevano prevedere una burrasca
che non avrebbe reso certamente tranquilla quella nottata di navigazione. Il timoniere
manteneva la rotta ordinata che prevedeva di passare a largo delle coste di Porto
Santo un’isola vicino alla più grande Madera. Giunti a quel punto, era previsto un
contatto radio telegrafico con una stazione clandestina a terra, per confermare gli
esiti, fino a quel punto, della navigazione. A parte lui ed il timoniere era presente
anche un ufficiale di rotta che, fuori dalla plancia, scrutava l’orizzonte fumando
una sigaretta, la sua attenzione ad un tratto venne attirata verso una scia, che pareva
essere lasciata da un pesce velocissimo. L’esplosione violenta che seguì qualche
istante dopo, arrivò in simultanea con la reale percezione del pericolo che la mente
fu capace di elaborare una frazione di secondo prima dell’impatto. Lucia, dormiva
di un sonno agitato nella cabina posta a poppavia della nave, il violento impatto
ed il relativo spostamento causato dall’esplosione la fecero piombare sul freddo
pavimento dell’alloggio, non riuscì a calcolare il tempo in cui rimase priva di
conoscenza, ma quando riprese i sensi, riuscì a sollevarsi sulle gambe, appoggiando
le mani sul piccolo lavabo presente sulla stanza, l’immagine che gli restituì lo
specchio la vedeva con la faccia insanguinata, in virtù della caduta che gli aveva
procurato una ferita sulla fronte. Quello che risultò ancora più angosciante per lei,
fu l’ascoltare il tremendo rumore prodotto dalla nave agonizzante, era come un
cupo lamento, un grido soffocato, che il metallo torturato emetteva come se fosse
stato vivo, con un’anima dentro. Dalla piccola stazione radio, il capitano Juan
telegrafava alla stazione costiera con cui aveva coordinato di collegarsi, SOS, SOS,
nave colpita da siluro, imbarchiamo acqua affondiamo rapidamente. Questo in un
ultimo gesto disperato primo comunque di reale probabilità di sopravvivenza. Lucia,
tento di aprire la porta della piccola cabina, ma il metallo, deformato dalla violenta
esplosione, oppose un’insopprimibile resistenza, dovuta anche all’enorme quantità di
acqua che ostruiva il corridoio fuori la porta. Oramai priva di forze, Lucia si arrese,
rimanendo seduta dietro la porta, con i vestiti bagnati dall’acqua che iniziava a filtrare
dalle prese d’aria. Fu l’inizio di quei momenti in cui tutta la vita iniziò a trascorrergli
come un romanzo scritto davanti ai suoi occhi. L’infanzia serena e, sotto certi aspetti
agiata, lo scoppio della guerra, il matrimonio infelice con un uomo rude, ignorante
e cattivo nell’animo, l’infelicità annullata dal rapporto d’amore con Paolo, quante
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Il medaglione di ebano scuro
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ore felici avevano passato insieme, la nascita della piccola Angelina, sua figlia, la
cosa più pura e grande che avesse mai avuto. Dove stava adesso Angelina, cosa
stava facendo? La sensazione di profonda oppressione che provava dentro di se,
era annullata sapendola lontana da quel luogo di morte, freddo, buio, umido. Forse
era tranquilla in campagna a dormire di un sonno tranquillo lontano da un infausto
destino. Aveva fatto la cosa giusta? Sì, in fondo ne era valsa la pena, morire nella
convinzione di amare dal profondo del cuore è sicuramente la cosa giusta, al di là
dei disegni oscuri del destino, ma il destino era lontano anni luce da quella tomba
in fondo al mare, adesso era soltanto una luce, accecante, bianchissima e lontana
che vide un istante prima che i polmoni esaurissero l’ultima scorta di aria.
Miami, luogo con alle spalle il golfo del Messico e con lo sguardo rivolto alle
isole Bahamas, rappresenta uno di quei luoghi ove si dovrebbe trascorre gran parte
della giovinezza. Non che qui in Italia non si abbiano bellezze simili, ma, il profondo
senso di selvaggio ed incontaminato delle nostre coste e località turistiche, non si
avvicina, e meno male, minimamente all’assetto organizzativo di quella lunga costa
degli Stati Uniti. Ecco perché possa essere il caso di soggiornarvi dai 20 ai 30 e
ritirarsi degnamente in Italia dopo quella soglia anagrafica. Il gruppo di giovani
impegnati in acrobazie evolutive sulle onde, a bordo delle loro tavole da surf,
parevano degli esseri provenienti da una civiltà che, sicuramente, giaceva in fondo
all’oceano. La naturalezza, quando la spregiudicatezza con cui affrontavano le alte
onde, facevano pensare a tutto questo o, forse, la gioventù e la latitudine dei luoghi
ben si prestavano a queste forme comportamentali. Il primo del gruppo, formato
da una mezza dozzina di giovani che oscillava tra i venticinque ed i trenta, presentava
una corporatura da atleta, tipica dei ragazzi della sua età, capelli castano chiari e di
pelle abbronzata, si giro alla sua sinistra urlando al resto del gruppo: - Allora
vogliamo muoverci o dobbiamo aspettare il resto della giornata per ritornare in
spiaggia! Jim, ebbe il tempo di proferire solo queste parole, non accorgendosi che,
simultaneamente, dalla destra Doris lo affiancava elargendogli una sonora pacca in
quel luogo ove il colore del sole batte di rado a meno che non sia sostituito da
qualcosa di artificiale dentro un centro fitness. Sbilanciato non tanto dal colpo quanto
dalla sorpresa ebbe solo il tempo di vedere la sagoma in bikini della ragazza che,
sorpassandolo dalla destra gli mostrava il suo sinuoso corpo e l’enormità di ricci
scuri presenti in testa, questo prima della susseguente rovinosa caduta tra i flutti
dell’oceano. Quando giunse sulla spiaggia, gli amici di sempre stavano distesi sui
teli da mare, assumendo l’atteggiamento di quelli che è stanno da tempo ad attendere
qualcuno in ritardo ad un appuntamento. Questa volta, il cavaliere senza macchia
e senza paura, il numero uno del gruppo doveva pagare pegno, per colpa di una
donna per giunta.- Buon giorno, dormito bene stanotte, siamo pronti a cavalcare le
onde. Il tono vagamente ironico di John, non esprimeva dubbi su quello che
sarebbero stati le argomentazioni per il prossimo quarto d’ora, almeno, se fosse
andata bene. -Attacco alle spalle, sinonimo di viltà, esordì subito Jim. Eseguito alla
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perfezione sì, ma da esponente del gentil sesso, svantaggio annullato, mi dispiace.
Il gruppo era formato dai soliti sei amici tra cui due donne. Conoscenti dai tempi
della scuola, frequentandosi avevano condiviso amicizia, giochi, scorribande, lauree
e qualche storia sentimentale. Tutti abitavano dalle parti di Sunset Island, in quel
dedalo di ville sospese tra ponti e terra ferma in cui, oltre che con le auto, non erano
impossibili frequenti spostamenti in barca, infatti, come quasi tutti i ragazzi della
loro età, quasi tutti erano dotati di abilitazioni per condurre imbarcazioni. Avevano
specializzazioni in biologia marina e oceanografia, trovando in questo modo, nel
mare un naturale sbocco che non si limitava al puro divertimento. Doris era una
biologa e i numerosi tentativi fatti per conquistare il cuore di Jim, erano classificati
come gli assalti che Giovanna d’Arco conduceva verso le roccaforti dei castelli
francesi. Se si esclude il rogo finale, i suoi successi non potevano certo essere
paragonati alla Pulzella francese. Troppo similitudini, rendevano i due amici uguali
nello spirito libero e nella voglia di emergere nonostante la differenza di sesso. Il
suono del cellulare, fu come la manna caduta dal cielo per gli ebrei in fuga
dall’Egitto, offrendo opportunamente una dignitosa ritirata agli sfottò che gli amici
avevano in serbo per lui. Scusatemi devo rispondere. Passati pochi minuti Jim torno
tra di loro, era l’ospedale si tratta di mio nonno, le condizioni sono peggiorate, devo
andare. Aspetta ti accompagno, disse Doris magari potresti avere bisogno di
qualcosa. Alla guida del piccolo fuori strada giapponese, i pensieri del giovane
andarono verso il nonno Paul, oramai avanti con gli anni ma che aveva offerto a
Jim il massimo affetto possibile, anche dopo la morte dei suoi genitori adottivi,
periti in un incidente aereo quando, il piper pilotato dal figlio di Paul si era inabissato
in mare facendone la tomba dei suoi genitori adottivi. Della sua adozione venne a
conoscenza da suo nonno che, da quel momento sostituì in tutto la figura degli
stessi. Adesso sta riposando, disse l’infermiera al loro arrivo, ma ha avuto un altro
attacco. È molto strano non annettere di abituarsi mai a quella che potrebbe essere
la dipartita dei nostri cari, anche quando questi ultimi sono avanti negli anni. I
sentimenti e gli affetti, quando sinceri, su questa terra rappresentano quando di più
straordinario possa legarci nel nostro breve passaggio che è rappresentato dalla
nostra esistenza. -Potrei vederlo, disse Jim. Sì, ma non lo affatichi rispose di ritorno
l’infermiera. Paul sembrava riposare tranquillo sul suo asettico letto di ospedale,
ma aprì gli occhi quando vide entrare i due giovani. Ciao Jim, ciao Doris, come era
l’oceano stamattina? Come sempre nonno, come quando vai in barca tra le isole
della Florida, anzi vedi di schiodare il tuo bel culo da questo letto che ci organizziamo
una bella battuta di pesca. Caro ragazzo, la cosa che apprezzo in te è che non ti
arrendi mai neanche davanti al fatto compiuto, una caratteristica che ti porti da
quando avevi i calzoni corti. Senti, adesso non ho molto tempo, avvicinati ascoltami
bene, rifletti solo sulle mie parole, a quel tempo mi sembrò tutto perduto, quelli che
mandarono dall’America per liberare la penisola italiana non si rivelarono così
onesti, almeno non quelli che arrivarono in Sicilia, vennero in fatti messi al potere
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Il medaglione di ebano scuro
Orazio De Maria
mafiosi che operavano nei dock di New York, gente che, in cambio della facilitazione
dello sbarco da parte delle nostre truppe, prese in mano il potere politico nell’isola.
-Nonno, ma che stai a raccontare, ancora con queste storie sulla guerra, pensa a
riposarti. –No, stammi a sentire, è tutto scritto, devi cercare il mio diario con la
copertina di pelle, sta nel mio baule militare, in soffitta, sta scritto tutto lì. La
situazione era compromessa, definitivamente, la nave era affondata, il marito si
portò via Angelina, era un appartenente a quei loschi giri mafiosi, lui, lui soltanto,
non ho potuto portare via Angelina, perché, perché, disse iniziando a singhiozzare.
-Nonno riposati adesso ne parleremo poi di questa Angelina, disse Jim guardando
verso Doris. -Si, hai ragione, adesso sono un po’ stanco, trova il diario, leggilo, solo
dopo sarai in grado di capire. - D’accordo, ma adesso vedi di riposare. Guidando
verso casa Jim si rivolse verso Doris dicendo, cosa diavolo avrà voluto dire, chi
sarà mai questa Angelina. Non lo so, ma tuo nonno è sempre stato un uomo brillante
e quelli non mi sembrava fossero dei vaneggiamenti di un pazzo. Giunti di fronte
la villetta di Doris i due amici si promisero di vedersi subito dopo cena per cercare
il diario del nonno e capire quale mistero si celava dietro le parole dello stesso.
Trovarono il baule in soffitta e dentro, celato da un sacchetto di tela, c’era il diario
e uno strano medaglione di forma ovale, di legno che pareva ebano, attaccato a un
collare di cuoio; all’interno di questo strano ciondolo stavano le foto di una donna
e di una bambina. Mai viste, sembrano antiche, chi saranno mai. Penso che la
risposta alle nostre domande si trovi scritta su questo diario, rispose Doris. Finirono
di leggere che erano le due del mattino, la sorpresa di Jim, allo scoprire di quella
lontana storia, accaduta in un paese lontano, tanti anni fa, fu totale. Le lacrime di
Doris furono la reazione di una donna che capì i sentimenti che si celavano dietro
di essa. Mi pare impossibile che per tutto questo tempo non mi avesse rivelato nulla.
Cosa volevi che ti dicesse, tuo nonno ha avuto una brillante carriera qui in America,
adesso, in fin di vita, vedovo e senza più nulla da chiedere alla vita ha voluto,
probabilmente renderti partecipe di questo suo segreto. Pensa quando gli deve essere
costato. Ma perché non dirmi nulla? Ne sei poi così convinto, chi ha stimolato i
tuoi ad adottarti, chi ti ha mantenuto agli studi e sotto la sua ala protettrice in tutti
questi anni, ragiona bene, sei un dottore in oceanografia, questo vorrà dire pur
qualcosa, perché ha insistito così tanto affinché tu studiassi anche la lingua italiana.
Pensavo l’avesse fatto solo per le sue origini, disse Jim. Adesso sai quale verità si
nascondeva dietro a tutto quanto. Cosa dovrei fare. La migliore cosa è andarglielo
a chiedere domani, in ospedale. La mattina, dopo colazione, Doris si recò con la
moto a casa di Jim, suonò alcune volte il campanello e, non ottenendo risposta si
decise ad entrare. Jim, testa di cavolo vuoi schiodarti da quel letto! Lo trovò in
cucina con il telefono ancora in mano, gli occhi ancora umidi come di qualcuno
che avesse appena finito di piangere. - È morto, fu l’unica parola che gli senti
pronunciare. Il funerale si svolse in forma strettamente privata, adesso fu ben chiaro
a tutti il desiderio, espresso in tempi non sospetti, riguardo alla dispersione delle
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sue ceneri in mare. La strana bizzarria di un vecchio, assumeva adesso, contorni e
disegni ben definiti, quelli di tornare a stare di nuovo insieme a Lucia, la misteriosa
marchesa, affondata su un cargo al largo delle coste dell’isola di Porto Santo verso
la fine della seconda guerra mondiale.
Penso sia la migliore cosa da fare, disse John rivolto verso Jim, d’altra parte se
vuoi andare in fondo a questa storia la migliore soluzione è quella della partenza, In
effetti, posso pure prendermi qualche periodo di ferie, possiamo anche approfittare
per consegnare qualche ricerca sui fondali marini di quelle zone all’Università.
Sono d’accordo con te aggiunse Doris. In effetti, qui ho sistemato tutto, documenti
riguardo alla successione e quanto altro la burocrazia richiedesse, io direi di
organizzare il viaggio in aereo sino alle isole della Spagna, lì potremmo noleggiare
una barca e proseguire le ricerche dal punto di latitudine e longitudine che risultava
dall’ultima trasmissione telegrafica intercettata. Allora siamo d’accordo mettiamo
a punto tutti i dettagli del piano di viaggio ed organizziamoci per la partenza.
La barca a vela lunga dieci metri che avevano noleggiato era ancorata alla fonda
sul lato nord dell’isola di Porto Santo, piccola isoletta a nord dell’arcipelago delle
Canarie, le condizioni climatiche favorevoli, avevano favorito una serie di
immersioni svoltesi in relativa tranquillità, intorno alle coordinate geografiche
comunicate dal telegrafista prima dell’affondamento. Le difficoltà della ricerca
consisteva nel fatto che ai tempi in cui si erano svolti i fatti non esistevano ancora
i sofisticati strumenti di cui erano adesso dotate le moderne navi. –Ancora nulla,
disse John riemergendo dai fondali, comunque la zona dovrebbe essere questa,
considerato il fatto che navigavano vicino alla costa per trasmettere i segnali radio,
certo, avessero avuto un GPS, ma a quei tempi era tanto se avevano la radio.
Propongo di spostarci un miglio ad ovest, mi immergerò io stavolta così ti do il
cambio, replicò Jim dalla poppa dell’imbarcazione. Dopo aver ancorato nel punto
prestabilito, si prepararono per un’altra escursione nei fondali. Scendo anche io,
disse Doris, ha desiderio di scattare qualche foto dei fondali. Indossate le mute
abbracciarono dei piccoli macchinari gialli a forma di siluri, questi, erano dotati di
piccoli motori elettrici e di un faro ubicato sulla parte prodiera, avevano il compito
di far muovere chi si immergeva in profondità senza fargli sprecare energie
suppletive per nuotare per mezzo delle pinne, il faro ausiliario forniva la luce
sufficiente ad orientarsi nei luoghi più oscuri. La presenza di variegate specie di
popolazioni ittiche, confermavano la tutela ambientale di quelle profondità cosa
questa, che stava divenendo merce rara, in alcune parti del pianeta. Chissà se
riusciremo mai a trovare questa nave dopo tutto questo tempo, pensava Jim dalle
profondità ove si muoveva in ricerca, d’altronde sono stato testimone di immersioni
in posti in cui ho trovato presenze dei famosi caccia giapponesi abbattuti durante
la seconda guerra mondiale, presume che una nave da 100 tonnellate sia più semplice
da rintracciare. Dopo qualche tempo che si erano immersi, Doris, comunicò di dover
risalire poiché stava in riserva di ossigeno. Ok, fece segno Jim con la mano, io ho
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Il medaglione di ebano scuro
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altri dieci minuti di autonomia ci vediamo su. Passarono alcuni istanti quando,
illuminato dal faro del piccolo mezzo di propulsione, Jim parve scorgere, dietro ad
un piccolo promontorio roccioso quello che sembrava un fumaiolo, avvicinandosi
ancora di più, ebbe la certezza di essere in presenza di quella che poteva essere una
nave da un’antenna radio goniometrica che, seppur rivestita dalle incrostazioni
marine, aveva la classica forma di due cerchi perpendicolari tra di loro. Incurante
della poca autonomia di ossigeno si precipitò alla svelta nella direzione di quanto
aveva scoperto. Superato lo stato delle rocce che ostruivano la visione, si trovò,
nelle profondità del mare, circondata da una folta vegetazione acquatica, immersa
come una silenziosa tomba quella che era stata l’ultima dimora terrena di venti
uomini e di una donna. La nave si presentava spezzata in due tronconi che
interrompevano la continuità delle murate proprio al centro dello scafo. Scartando
l’ipotesi di avventurarsi verso la prora, preferì concentrare la sua attenzione verso
il castello di poppa, ove si trovava la plancia ed erano ubicate le cabine. Entrando
da un portellone laterale si trovò nella sala di comando, ove lasciò il piccolo scafo
di profondità a quel punto di scarsa utilità per l’esplorazione preferendo armasi di
una torcia impermeabile. Alla luce di una sottile lama di luce inizio ad esplorare il
ponte sottostante la plancia. Non sapeva neanche lui cosa cercava di preciso, quello
che sperava, in cuor suo, era ritrovare quella cassetta stagna lunga circa mezzo
metro che la misteriosa marchesa stava portando in America, con i documenti top
secret dell’allora giovane tenente Castiglione. Questa, avrebbe sicuramente
rappresentato la prova tangibile che quella nave rappresentava l’anello di
congiunzione di quella storia, avvenuta a cavallo dell’oceano, una quarantina di
anni prima. Con relativa celerità inizio a perlustrare il ponte degli alloggi che,
nonostante la presenza degli oblò, era rischiarato, dopo tanti anni, dal solo fascio
di luce della torcia che Jim reggeva tra le mani. Il tempo a disposizione era limitato
ed il respiro si faceva sempre più pesante, tra qualche ostante sarebbe sicuramente
entrato in riserva di aria. Forse è il caso di tornare in superficie e tornare con calma,
ma i cinque giorni passati alla caccia di quella nave alimentavano l’incoscienza e
la voglia di capire se fossero giunti alla meta. Quando stava prendendo piede la
convinzione di risalire, da una porta semi aperta, Jim registrò una stranezza, una
fioca luminescenza che filtrava da quella stanza e che pareva attirarlo verso di essa.
Pensò si trattasse del faro del mezzo anfibio di Doris che, riemergendosi per venirlo
a cercare, stava probabilmente facendo filtrare la sua luce da qualche apertura
dall’esterno. Proseguendo con cautela verso quella direzione, riuscì con difficoltà
a spostare la porta, accorgendosi che in quella cabina, ripiombata al buio, non vi
era alcuna apertura che guardasse verso l’esterno. Tra il disordine e la corrosione,
frutto del lungo ed inesorabile lavorio del mare e del tempo, coperta da una fitta
copertura di crostacei ed alghe, notò quello che pareva essere un forziere, che pareva
corrispondere alle misure ricercate. Sollevando con relativa facilità, Jim si stava
accingendo ad uscire dalla cabina, quando ad un tratto, nascosta allo sguardo visto
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che il fascio di luce puntava verso il basso una cernia, disturbata dai movimenti del
subacqueo saltò fuori all’improvviso, urtando il volto di Jim, che, per la sorpresa,
perse il boccaglio del respiratore. Quando riprese i sensi a poppa della barca, i due
amici gli stavano di sopra, con John che lo scuoteva con vigore; Ma che diavolo ti
è saltato in mente! Non pensavi che avresti potuto lasciarci la pelle. Se non fossi
riscesa con una mono bombola di ausilio e non avessi scoperto anche io la nave a
quest’ora eri bello che fritto, aggiunse Doris. Ragazzi, ho trovato la cassa, mi
dispiace di avervi fatto stare in pensiero, ma non ho saputo resistere. Certo, come
tuo solito! Disse John. A proposito l’avete tirata su? -Avendo solo due braccia, io
ho pensato a tirar su te, non sono mica la dea Kali!, rispose la ragazza. - Allora
andiamo a recuperare la cassetta, disse Jim, facendosi forza per rimettersi in piedi.Facciamo invece che tu vai sotto coperta e scendiamo noi due, per oggi ne hai
combinate abbastanza, proferirono all’unisono gli altri due. Al calar della sera le
operazioni di recupero vennero ultimate, facendo rotta verso l’approdo di Porto
Santo, Jim osservava con interesse la piccola cassetta oramai ricoperta dalle
incrostazioni marine, riposta sotto coperta sul piccolo tavolo di rotta. Dopo la
manovra di attracco e una doccia ristoratrice, i tre giovani, iniziarono le operazioni
di apertura del contenitore, lavorando prima con un piccolo scalpellino per rimuovere
i depositi calcarei lungo la linea di separazione dell’apertura e, successivamente
iniziarono a forzare la serratura lavorando con un trapano a batterie. Le operazioni
non furono semplici ma alla fine, rompendo nel frattempo un paio di punte di
trapano, ebbero la meglio sulla serratura. L’apertura del coperchio venne effettuata
come se stessero aprendo un sarcofago egiziano, in effetti, l’aria che ivi era racchiusa
da molti anni rimandava un odore di marcio e stantio, ma la tela di juta cerata che
conservava alcuni documenti di carta aveva operato un’ottima impermeabilizzazione.
Tra documenti di coordinate, nomi e cognomi e altro genere di messaggistica cifrata,
i tre trovano un medaglione, nella forma e fattura simile a quello trovato nel baule
del nonno di Jim. La differenza tra i due consisteva nel fatto che, al suo interno e
perfettamente conservate, stavano le foto di nonno Paul e di una bambina
piccolissima. Ragazzi, questa è la prova che stavamo cercando, adesso non ci sono
più dubbi su quello che accadde quasi mezzo secolo prima a cavallo tra le due
sponde dell’oceano, e il suo tragico epilogo. Siamo stati fortunati, ancora non mi
spiego come abbiamo fatto, solo ora ripenso a quello strano chiarore che usciva da
quella cabina, io pensavo fosse il battello subacqueo di Doris che lo illuminava
dall’esterno, ma la totale mancanza di aperture nello scafo aumentano il mistero,
chi mi aveva fornito quello strano segnale? E perché, pensò tra sé e sé Jim. Seduti
intorno ad un tavolo di una trattoria nelle vicinanze della spiaggia, di fronte ad una
grossa padella di pajella a base di pesce, i tre amici commentavano gli ultimi giorni
vissuti insieme. Arrivati a questo punto ci sono tutti gli elementi per dare fine alla
nostra avventura, esordì ad un tratto John. Bene, in effetti, con il ritrovamento della
nave e della cassetta, si chiude il cerchio su quanto abbiamo letto sul diario di tuo
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nonno, proseguì Doris. Ma come, vi rendete conto di come, al contrario, tutto inizia
proprio adesso. In che senso, fece Doris, nel senso che adesso ho tutte le coordinate,
luoghi, prove della storia che aveva vissuto mio nonno tempo addietro. Per cui,
fece John. Per cui se mi giro indietro mi trovo senza più nessuno, i miei sono morti,
mio nonno anche, non ho fratelli ma, forse, da qualche parte in Italia esiste ancora
qualcuno che è legato, in un modo o nell’altro, con mio nonno Paul, e, forse, quel
qualcuno è il solo che mi rimanga a parte voi, naturalmente. A questo punto, diario
alla mano, devo proseguire le mie ricerche, non vi chiedo di restare, questa storia
interessa solo me direttamente, potete tornare a Miami io, se vi fossero novità vi
terrò aggiornato. Ma come farai a muoverti da solo in luoghi che non conosci
neanche, obiettarono i due amici. In primis, conosco abbastanza bene la lingua, in
secondo luogo è venuto il momento di rispolverare vecchie amicizie e mi riferisco
al mio amico di studi Rick. Chi, quello che sta nei marine. Esatto e, per completare
l’opera, è quello che è di stanza a Sigonella, in Sicilia.
Arrivato presso la sala attesa bagagli dell’aerostazione di Catania Fontarossa,
il pensiero di Jim, andava verso le vicissitudini passate negli ultimi giorni, Tutto
pareva aver abbracciato un arco temporale ampio, ma dalla morte del nonno in
poi, vi erano stati una catena di eventi che, adesso, lo avevano portato in quel
lembo di terra straniera, ove si fondevano le origini della sua famiglia nella notte
di un passato quanto mai remoto. L’incontro con Rick, era stato annunciato a giro
di telefono, l’amico di infanzia, sorpreso dalla sua visita, si dimostro contento nel
rivederlo inaspettatamente dopo così tanto tempo. Nonostante il lungo periodo
di lontananza i due si riconobbero subito e fecero strada, dopo i convenevoli di
rito, verso l’auto di Rick, parcheggiata fuori dall’aeroporto. -Allora, hai deciso
di arruolarti nell’esercito, lo stuzzico l’amico. – Mai dire mai magari, vista la
mia affinità con il mondo marino potrei prendere in seria considerazione il corpo
dei marine. Guidando per le strade cittadine che conducevano al villaggio ove
era ubicata la casa di Rick, i due amici iniziarono a testare i vocaboli in dialetto
siculo che il nonno di Jim, anni prima, aveva provveduto ad insegnare al nipotino,
al pari di nuova lingua. La sera, seduti in un ristorante di fronte ad una pizza che
non aveva niente da spartire a quelle che venivano propinate negli States, Jim
terminò di erudire l’amico sulla storia che lo aveva portato così lontano da casa.
Da quella che mi hai raccontato, e da quello che si evince dalla lettura del diario
di tuo nonno, penso che le ricerche debbano avere inizio partendo dalle coste del
siracusano, sperando di riuscire ancora a trovare qualche traccia di quella famiglia,
approfittando della tua venuta, ho preso qualche giorno di ferie avendo la possibilità,
in questo modo, di accompagnarti per qualche giorno. Non capisco ancora cosa
pretendo di trovare né il perché abbia intrapreso questa ricerca ma capisci bene
che, con la morte di mio nonno, sono rimasto l’unico della famiglia e, benché sia
stato adottato appena nato, il fatto di poter trovare qualcuno che abbia avuto a che
fare con la mia famiglia americana rappresenterebbe un motivo per pensare di non
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essere rimasto da solo al mondo, amici esclusi, naturalmente. Allora propongo per
un sano sonno conciliatore, partendo domani mattina per iniziare le ricerche. La
costa nelle vicinanze di Marzamemi, si presentava con una sabbia finissima, che si
alternava, verso l’interno della costa, a pietre di colore bianco, la vegetazione, a parte
gli immancabili fichi d’india, era composta per lo più da agrumeti e piante di fichi.
Consultando le cartine stradali impiegarono non poco prima di trovare la contrada
che il nonno Paul aveva descritto con dovizia di particolari nei suoi scritti. Furono
comunque questi ultimi a non dare adito a dubbi quando Jim, in lontananza si trovò
di fronte ad una grande casa canonica, circondata da agrumi, che pareva, nella sua
maestà, appena essere uscita dal diario di suo nonno. La casa, di due piani, aveva
sulla facciata principale un lungo balcone che conteneva, al suo interno, tre porte
esterne. Al piano terra, sotto lo stesso, un grosso portone centrale separava altre due
porte finestre. La proprietà era interamente circondata da un muro perimetrale alto
circa un metro costituito da mattoni in tufo bianco, erano presenti anche un pozzo
ed un pergolato. Dopo qualche istante di attesa sbucò fuori, dalla parte posteriore
della struttura quello che pareva essere uno stalliere. Bene, disse Rick, armiamoci
di un buon pretesto per attaccare bottone e, se le indicazioni sono giuste vediamo
cosa riusciamo a scoprire. Buona giornata, abbiamo letto un cartello in cui c’era
scritto che vendete vino, possiamo averne una decina di litri? Certamente, questo è
vino buono, padronale, venite al fresco che ne assaggiamo un bicchiere, si espresse
l’uomo in dialetto siculo facendo strada verso le cantine. La parte opposta della
facciata, riparata dal sole da un pergolato forniva l’ingresso ad una cantina ampia
e spaziosa, avendo i muri perimetrali molto ampi, la stessa si presentava fresca,
con al suo interno una fila di quattro grosse botti da almeno un migliaio di litri di
capienza. Questo è nero di Avola, disse il contadino accompagnando con il bicchiere
l’assaggio dei due ragazzi, voi siete forestieri, vero? – Sì, in effetti, non siamo di
queste parti, stiamo facendo una gita in questi luoghi poiché mio nonno, che era
originario di famiglia di queste zone, è stato qui durante la seconda guerra mondiale,
rispose Jim. E come si chiamava suo nonno, domando il contadino. Paul, cioè Paolo
Castiglione. Minchia! Gridò l’uomo sorpreso dilatando gli occhi.
Alfio, uomo di una sessantina di anni, volle assolutamente che si fermassero a
mangiare, mai e poi mai pensava di poter sentire nominare quel nome dopo tanti
anni. Il pranzo, a base di prodotti tipici locali e di una parmigiana di melanzane,
che Jim era la prima volta che assaggiava, gustandone piacevolmente il sapore, fu
annaffiato dal vino assaggiato poco prima, vino che parve aprire l’animo di Alfio.
Conobbi tuo nonno, che ero ancora “picciriddo”, mio padre era a servizio del padrone
di questa terra come “massaro”, e mi ricordo che tuo nonno sapeva fare molto bene
il meccanico. Era un uomo istruito, mi ricordo che era uno dei pochi che sapesse
leggere e scrivere, un giorno lo scoprii che parlava dinnanzi ad una valigetta che era
collegata ad un filo lungo, lui accorgendosene, mi disse di non dire niente a nessuno
e mi fece ascoltare le musiche che arrivavano da lontano, sapete, a quei tempi era
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proibito ascoltare le radio straniere. Mi ricordo che faceva sempre da autista alla
signora marchesa, in quanto era uno dei pochi che avesse la patente di guida. Sa
che fine fece quella donna, domando Jim. Oh, sapeste, verso il finire della guerra
la marchesa andò a trovare la madre, che stava poco bene. La sua famiglia aveva
una casa in un’isola del nord, l’isola d’Elba. Quando sbarcarono gli americani, i
potenti signorotti locali, come il proprietario di queste terre, dapprima si nascosero,
in quanto erano stati collusi con il regime di Mussolini ma, successivamente, furono
posti dagli stessi alleati al potere o in condizioni tali da poterlo esercitare, in ogni
piccolo comune. Il padrone era un uomo rozzo e violento, così mi raccontava mio
padre. La cosa strana è stata che di quella donna non si seppe mai più nulla, la
madre racconto che venne dichiarata dispersa dopo un bombardamento, ma il suo
corpo non venne mai ritrovato. Ma, adesso che ci penso, anche tuo nonno andò
via in circostanze misteriose, dopo la fuga del padrone che si portò via la figlia
piccolissima, ricordo che di questo fatto sembrava ne fosse rimasto molto addolorato.
Sì, in effetti, mi raccontò che era molto legato alla bambina, cerco di dissimulare
Jim. Mi dispiace aver saputo della sua morte, ma d’altronde anche mio padre, così
come il padrone, sono morti da anni aggiunse Alfio, ad ogni modo la proprietà
adesso è stata affittata dalla mia famiglia che versa quanto dovuto tramite bonifico
bancario. Si salutarono affettuosamente portandosi dietro una bella damigiana di
dieci litri di buon vino.
E adesso cosa si fa, abbiamo sì fatto dei passi avanti ma se vuoi andare alla fine
della storia devi per forza di cose recarti presso l’isola della Toscana, sentenziò
Rick. – A questo punto non vedo altra soluzione aggiunse Jim.
Prima della partenza, avvenuta il giorno successivo, si salutarono affettuosamente
con Rick prima di prendere l’aereo che da Catania lo avrebbe portato a Pisa, con la
promessa di rivedersi presto senza fare trascorrere dei secoli. Giunto a Pisa, avrebbe
proseguito il viaggio verso Piombino e da lì sarebbe salpato verso l’isola d’Elba,
aveva il recapito della residenza della famiglia di Angelina dal diario del nonno e,
sempre se questo non fosse cambiato, poteva continuare le sue ricerche da quello.
Dopo una notte trascorsa in un hotel, la mattina seguente, si imbarcò con la vettura
presa a noleggio alla volta dell’isola d’Elba. Affrontando con la macchina alcune
curve di una strada in salita Jim poté ammirare il panorama circostante, nello stesso
tempo i pensieri che si affacciavano nella mente non riuscivano ancora a fornirgli
tutte le risposte alle numerose domande che aveva in testa. Cosa avrebbe detto, come
avrebbero reagito i suoi potenziali interlocutori, dopo tutti quegli anni qualcuno era
ancora a conoscenza di quella storia. Fermandosi a chiedere le ultime informazioni,
riuscì ad arrivare presso la sospirata meta, rappresentata da una villa stile primi del
novecento, che gli si parò dinnanzi. Suonando il campanello si senti rispondere da
una voce piuttosto avanti negli anni. Varcando la soglia del cancello si trovo in un
piccolo vialetto che immetteva in uno spiazzo circondato da un giardino, non curato
in perfetto stile americano, come quelli che era abituato ad incontrare lungo la sua
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strada, ma piuttosto, invece del classico prato rasato, la presenza di piante a macchia
mediterranea e alberi di pini la facevano da padrone. Senta, io cercavo la signora
Angelina marchesa di Casalrosato. – Oh, la signora è da qualche anno che non c’è
più è morta insieme al marito a seguito della disgrazia del traghetto, no ha saputo?
–No veramente io non sono di queste parti, ma lei, è una parente, rispose Jim. -No
io sono solo la governante, accudisco la casa e la signorina. -Signorina chi? -Ma la
figlia della signora che cercava, la signorina Francesca, precisò l’anziana signora.
- Oh, e adesso dove si trova? Tornerà stasera, ha uno studio commerciale a Follonica.
– Ho capito, senta signora potrebbe lasciargli questa agenda da leggere, io sarei…
bhe, in effetti, non so neanche io cosa sono in questo caso, comunque dica che mi
chiami presso questo albergo, le lascio il biglietto da visita, dietro a penna c’è scritto
il mio nome. L’attesa si prolungò per tutta la giornata di sabato, giorno in cui Jim ne
approfitto per visitare qualche spiaggia nelle vicinanze, d’altronde il fascino che il
mare esercitava su di lui, era quanto mai terapeutico per fargli smaltire la stanchezza
accumulata durante le ultime settimane dedicate alle ricerche sia in mare che sulla
terra ferma. La sera di sabato il telefono in camera squillò distogliendolo dalla
lettura del libro in cui era immerso. Pronto, il signor Castiglione, esordì una voce
femminile dalla cornetta del telefono. – Sì, sono io, rispose Jim. Sono Francesca,
ho letto l’agenda che ha lasciato alla mia governante, vediamoci a casa mia. Dopo
aver percorso il primo tratto di strada che dall’albergo portava alla villa, prima di
salire per le colline, Jim si voltò a guardare il mare dal finestrino della macchina. La
riflessione che fece fu quella di pensare a come questa enorme distesa di acqua, che
ricopre il nostro pianeta per il settanta per cento, possa unire i destini di migliaia di
individui. Forse, anche per la sua continuità, era come un’enorme autostrada, che
metteva in comunicazione non solo popoli diversi, ma sapeva anche intrecciare,
drammaticamente anche i loro destini. Immerso nei suoi pensieri arrivò alla villa e
venne fatto accomodare nel salotto a piano terreno che offriva alla vista il giardino
di fronte, collegato ad esso tramite una porta finestra. Fu da quella che, dopo una
decina di minuti di attesa apparve la donna. Avendo il sole alle sue spalle, Jim
non riuscì da subito a leggerne i contorni del viso ma, attraversata la soglia, con il
corpo posto in ombra apparve innanzi a lui in tutta la sua bellezza. Capelli ricci e
neri, carnagione chiara e occhi di un limpido colore verde. A quella visione, Jim
penso di trovarsi di fronte ad un fantasma, un fantasma venuto da lontano dalle
profondità dell’oceano, tornato malinconicamente sulla terra ferma. Cristo, penso
è uguale a sua nonna. Fu in quel preciso istante, durato una ventina di secondi che
tra i due giovani scoccò qualcosa di indefinibile, qualcosa che avrebbe portato ad
una unione, unione che sarebbe durata quanto una intera vita.
Epilogo
I due ragazzi, non privi di emozione, stavano in piedi a poppa dell’imbarcazione
presa a nolo dopo aver gettato l’ancora. Le coordinate erano le stesse esplorate
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Il medaglione di ebano scuro
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qualche settimana da Jim con i suoi amici, ossia il punto su cui giaceva il relitto
affondato più di quaranta anni or sono. Tra le mani stringevano una piccola cassetta
metallica al cui interno avevano posto il medaglione di ebano scuro, modificato per
contenere adesso, le foto di Nonno Paul da un lato e quella di Lucia dall’altra. – È
strano, riflettevo, di come il mare abbia legato tragicamente i destini delle persone
a noi care, disse Francesca, che a distanza di un mese dalla conoscenza con Jim,
aveva chiuso per ferie il suo ufficio di commercialista per seguire quel ragazzo
americano legato e lei da un sottile filo di cui sconosceva l’esistenza. La morte dei
nostri genitori periti in circostanze diverse ma sempre in mare, la morte di mia nonna
sempre con il contorno dello stesso tragico destino, è come se il mare ci togliesse
quello che amiamo di più. È anche vero però, rispose Jim, che senza questo intreccio
di accadimenti non ci saremmo mai trovati, il mare toglie ma, nel nostro caso, crea
e restituisce. Bene, adesso sarà meglio fare quanto deciso. – Sei sicuro di volertene
separare? Disse Francesca. – Sì, sono sicuro che entrambi avrebbero voluto così,
e così dicendo deposero in mare la piccola cassetta con dentro il medaglione che,
al contatto con le acque, sprofondò rapidamente tra gli abissi. Con un senso di
tristezza, rimasero a guardare la stessa affondare rapidamente, quando si ripresero
Jim disse, adesso andiamo abbiamo tante cose da organizzare, prima tappa casa
mia in America dopo….
Quello che, per tanti anni era rimasto un salone buio e solitario, improvvisamente
sembrò illuminarsi all’improvviso, non si riscontrava traccia di disordine, tutto era
lindo e pulito come se, misteriose mani, avessero ravvivato le vernici, lucidato gli
ottoni, pulito i tavoli. Allora Paul, questo è il primo caso di una sposa che aspetta
sull’altare, ti sei deciso finalmente. Capitano Juan, amico mio, è da una vita che
ho deciso, ma adesso, ora che la morte ha annullato il tempo e riacceso i ricordi,
mi pare che sia solo stato un enorme silenzio, quello che ha accompagnato la mia
esistenza negli ultimi quaranta anni e non mi pare vero che sia passato tutto questo
tempo. La sposa apparve dalla porta che dava dentro il locale mensa, era bellissima,
come se la ricordava, come l’aveva sempre conservata nel suo cuore. A piccoli passi,
con in mano un mazzo di corallo rosso a forma di mazzo di fiori, Lucia raggiunse
il fianco di Paul, con un ritardo di quaranta anni che la morte, aveva annullato in
un solo istante nello stesso momento in cui si strinsero le mani Tutti i membri
dell’equipaggio si strinsero in cerchio intorno al tavolo della cerimonia, vestiti con
gli abiti migliori. Bene, per i poteri che mi concede il diritto marittimo iniziamo la
cerimonia per unire in matrimonio Lucia e Paul. Avete portato gli anelli, disse il
capitano, No, abbiamo voluto fare uno strappo alla regola capitano, ci scambieremo
questi due medaglioni, l’unica cosa che ci collega al nostro ultimo incontro. Per me
va benissimo, così sia. Vuoi tu Paul prendere per sposa Lucia, adesso per l’eternità?
Si lo voglio, rispose il giovane Tenente Castiglione. E tu Lucia, vuoi prendere come
tuo legittimo sposo per la tua vita eterna il qui presente Paul. Sì, lo voglio.
Fu in quel preciso istante che tutta la nave ripiombò in quella oscurità da cui era,
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
per un’ultima volta riaffiorata, per porre fine, stavolta definitivamente, a quella
lunga storia d’amore.
N.d.A.
Sono consapevole del fatto che quanto da me descritto nel racconto, non è quello
che si è abituati a leggere su questa collana di libri. Aggiungo che, probabilmente,
il mio intervento non si sposa con il premio racconti di bordo. Però, sono altresì
consapevole che vi sono delle storie, che hanno come sfondo il mare, che meritano di
essere raccontate, indipendentemente dal fatto che si scriva o no, e non è sicuramente
il mio caso, con il desiderio di inseguire sogni di piazzamento quando si è onorati di
partecipare ad un premio. Quando venni a conoscenza di questa storia, lavoravo in
estate in un ristorante sito nel paese di Acitrezza, ai tempi andavo ancora a scuola
e nel Catania giocavano Pedrigno e Luvanor! Fu in quella circostanza che conobbi
un ufficiale superiore della base Americana, di origini italiane, che mi mise al
corrente della trama di questo racconto. Senza nemmeno avere la pretesa di pensare
di riproporvelo in maniera consona, ho dovuto immedesimarmi nella parte di un
regista che, seduto in prima fila sulle poltrone di un teatro, guarda la compagine degli
attori provare le loro battute. Andando avanti con la storia, mi sono accorto, con
mio stupore, e che io, il regista, il narratore, improvvisamente non contavo più nulla
in quanto gli attori, che in teoria avrei dovuto guidare, e vivevano di vita propria,
con la tremenda consapevolezza che non sarebbero mai potuti uscire dal ruolo che
avevo loro cucito addosso. Questa sensazione è divenuta realtà ogni qual volta che,
alzandomi dalla poltrona, abbandonavo la sala libero di poterlo fare, mentre loro,
fermi sul palco, consapevoli di non poter avere questa possibilità. Questo, per un
attore di teatro, abituato ad intercalarsi in ruoli e personaggi differenti, è una cosa
tremenda, in quanto rimanendo schiavo di un personaggio lo si finisce per acquisirlo
nella realtà. Questo è quanto è accaduto ai protagonisti e, forse, è questa l’unica
caratteristica che li fa sposare con il premio Artemare. La rivalsa a tutto questo da
parte loro è stata quella che, consapevoli del loro ruolo, hanno iniziato a vivere
di vita propria, senza la possibilità da parte mia di intervenire per mutare il corso
degli eventi o delle battute. Al di là del risultato finale sono consapevole del fatto
che laggiù, nel fondo dell’oceano, qualcuno si sarà riconosciuto in questa storia,
sentendosi rincuorato di sapere che alla fine tutto è andato come il destino ha voluto
che andasse, e che voi lettori, spettatori inconsapevoli, abbiate avuto l’opportunità
di applaudire quei personaggi che, in silenzio, oramai liberi da vincoli di scena sono
spariti per sempre dietro un sipario chiuso davanti ai loro occhi. Ho volutamente
modificato, anche se non di tanto, nomi e luoghi presenti nel racconto, anche per
rispettare il desiderio di chi, gentilmente, dimostrandomi amicizia, mi ha messo a
conoscenza della storia.
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Eugenia Pileggi
SI PUÒ AMARE IL MARE ANCHE SE…
S
i può amare tanto il mare anche quando porta via un figlio e lo culla per tre
mesi senza lasciarlo e lo tiene stretto chissà in quale profondità, e poi farlo
riemergere per una degna sepoltura? Sì! Perché lo amava Andrea fin da bambino
quando andava in barca con il padre per la pesca. Anna, la madre di Andrea,
camminava in quella piazza del paese con l’unica figlia Maria, che le era rimasta,
e mettendole la mano sul pancione sentiva già il suo primo nipotino che scalciava
come se dicesse: “Ho fretta di vedere la luce, assaporare la vita!”. Anna, con un
sorriso che voleva essere pianto, disse alla figlia: “L’ho tenuto per nove mesi in
acqua e l’acqua me lo ha portato via!”. Si riferiva al liquido amniotico, ma Anna
non volle aggiungere altro, non voleva turbare più di tanto la figlia in un momento
così magico, così bello, come quello della maternità!
Il marito di Anna faceva il pescatore ancor prima che si sposassero e, nelle belle
serate estive, Andrea preparava la barca con tanto amore e con tanta gioia, scrisse il
suo nome sulla barca e accanto disegnò due ali dicendo al padre: “Con questa barca
voleremo!”. Poi si allontanavano dopo aver fatto il segno della croce, attingendo il
dito in quell’acqua meravigliosa che dicevano benedetta da Dio.
I lumini del ciclo diventavano i loro compagni e la luna generosamente, specie
quando era piena, regalava loro un po’ di luce.
Del mare conoscevano l’umore, lo vedevano azzurro, quando regala serenità e
calma e lo vedevano quando indossava l’abito grigio che mette tristezza, quando
si arrabbiava e metteva loro paura.
L’amore per il mare era grande, Angelo, il papa di Andrea era figlio di un pescatore, quindi, da piccolo sognava che avrebbe fatto lo stesso mestiere del padre, forse
con qualche soldino in più per comprarsi un mezzo più sicuro della barca! Maria,
aveva sofferto tanto per la morte del fratello al quale era molto legata.
“Come lo chiamerai”, disse Anna alla figlia e, sebbene conoscesse già la risposta,
i suoi occhi si illuminarono di gioia quando la figlia pronunciò il nome Andrea.
Il dolore aveva unito ancora di più la famiglia, aiutati anche da una grande fede.
Padre Francesco, il parroco della chiesetta del paese, dove tutta la famiglia si reca
ogni domenica per la messa, non ha mai abbandonato Anna con i suoi cari; anche
oggi, dopo due anni dalla tragedia, spesso lo sentono bussare alla porta. Chi meglio
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di un sacerdote sa trovare parole giuste per dare loro un po’ di sollievo?
Andrea era un giovane che amava la vita, era buono, lo incontravi al bar, in
parrocchia, nelle feste del paese, e poi aveva tanti compagni di scuola perché
aveva frequentato l’istituto nautico, sperando che un giorno, avrebbe lavorato come
ufficiale presso la marina mercantile.
Angelo da due anni non prende più la sua barca per andare a pescare, la tragedia
ha cambiato la sua vita, ama il mare ma nello stesso tempo è bisticciato perché
pensa di essere stato tradito da quelle acque che lo hanno visto crescere. Con
un dolore così grande non riesce ad accettare che Andrea era stato imprudente,
affrontando insieme ad alcuni amici il mare con un cielo che lasciava pensare che
da un momento all’altro un forte temporale sarebbe arrivato di certo. Gli amici che
stavano con lui, impauriti, sono ritornati indietro e non sono serviti i loro consigli,
Andrea avanzava sicuro di farcela!
Angelo compra il pesce da altri pescatori, continua a venderlo in quella piazza
vicino casa, non saprebbe fare altro mestiere né si può andare in pensione a
cinquant’anni. La sera si ferma a parlare con altri pescatori al porticciolo e poi,
prima di rientrare, tocca la barca e la bacia come fosse una reliquia; Anna, invece,
come fosse un rito, la vediamo uscire sul balcone alle ore 8,15 – 8,20 e rimane una
diecina di minuti, con lo sguardo fisso a quelle acque che hanno sentito l’ultimo
grido disperato di Andrea. Nel mese di maggio, giorno del compleanno del figlio,
e nel mese di settembre, giorno della tragedia, Anna attraversa la piazza, arriva al
porticciolo, si siede sul bordo della barca tenendo fa le dita una corona del rosario,
poi si alza e va ad accarezzare alcuni ragazzi che giocano a pallone facendo arrivare
le loro voci in quelle bianche case, addossate una sull’altra come in un abbraccio.
Chi guarda la sera quelle case illuminate sembra di vedere un presepe! Prima di
andare via, Anna si avvicina alla battigia, apre la borsetta e prendendo una piccola
bottiglia di plastica con dentro un biglietto e la fa scivolare in mare; non le basta
portare dei fiori sulla tomba del figlio, ma in quel mare sente ancora la presenza di
Andrea, le gioie che provava quando si tuffava da bambino, e con tanto dolore il
suo ultimo grido disperato!
Un pescatore, trovando un giorno una piccola bottiglia, volle leggere il biglietto
che poi rimise dentro e riconsegnò alle onde, mentre per l’emozione si asciugava
gli occhi. Anna aveva scritto: “Sei sempre con me, sei l’angelo del mare!”.
Tutti, in quel piccolo paese, avevano sofferto per la morte di Andrea e i pescatori
sono stati molto vicini ad Angelo e cercano in tutti i modi di convincerlo a riprendere
la pesca, ma forse è ancora troppo presto.
Andrea, un pomeriggio di settembre, andò in barca con degli amici e Antonio,
l’amico più caro, cadde in acqua per un malore; in un primo momento pensarono
che scherzasse, ma quando capirono che stava male chiamarono il 118; Andrea, per
tre giorni, stette al capezzale dell’amico che sembrava in coma e tenendogli la mano
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Si può amare il mare anche se...
Eugenia Pileggi
gli diceva; “Antonio, svegliati perché abbiamo tante cose da raccontarci e da fare
insieme”. Dopo una settimana, il Signore aveva ascoltato le sue preghiere, Antonio
si era ripreso e la loro amicizia cresceva e si rinsaldava! Ma, al funerale di Andrea
quell’amico del cuore ripeteva senza darsi pace: “Perché mi hai lasciato solo, non
eri tu che mi dicevi che avevamo tante cose da dirci e da fare insieme?”.
Anna, con la sua grande fede, sa che i nostri cari sono con noi, che il dialogo fra
madre e figlio non si interrompe mai, anzi, con la morte si intensifica.
La scrittrice Giusi Liuzzo ha presentato di recente il suo libro, dove racconta della
morte del figlio giovanissimo per una malattia ematologica, un grande dolore che
è riuscita a superare con i messaggi che suo figlio invia attraverso la scrittura automatica. È un mezzo che tanti non condividono, ma per una madre è sentire accanto
la persona più cara, un figlio! Anna e tutti quelli che abbiamo fede sappiamo che la
vita non finisce, ma si trasforma e impariamo a guardare il cielo.
Fra pochi mesi arriverà il piccolo Andrea, conoscerà lo zio attraverso i racconti
della mamma e dei nonni, ma lo zio lo conosce già perché lo vede e diventerà il
suo angelo custode.
Ci facciamo tante domande e tante restano senza risposte, ma è la fede che ci
sostiene, senza di essa non potremmo sopportare le croci. Perché tanti giovani
muoiono e invece tanti vecchi sofferenti e stanchi continuano a vivere nella
sofferenza? Dio ha detto: “Le vostre vie non sono le mie, né i vostri pensieri sono
i miei!”. Noi non lo sappiamo, ma forse Dio ha bisogno di angeli per guidare chi
resta e Andrea veglierà su tutta la famiglia e su quelli che lo hanno amato!
L’autrice del racconto “Si può amare il mare anche se...” Eugenia Pileggi
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Tre intermezzi che hanno allietato la cerimonia di premiazione
Il cantautore G. Pastorello ha cantato due sue canzoni che hanno vinto negli anni il Festival della
canzone sul mare
L’attore Nicola Costa recita brillantemente un brano de “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia
La Compagnia Teatrale Ionica presenzia con la lettura di alcuni brani di racconti premiati in passato
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Maria Salemi
SKIPPER
Skipper,
voglio fare lo skipper,
scivolare sul mare
tra i flutti e i marosi
poter navigare...
vele al vento e sognare,
che sarò uno skipper.
Skipper,
sono quasi uno skipper,
sfiderò le onde nere
scacciando paure
e vivrò d’avventure,
per poter raccontare
le esperienze vissute sul mare...
Di tempeste e di vento
o del grande silenzio che affiora
sulle onde tranquille del mare,
e di voli di bianchi gabbiani,
di rossi tramonti,
di bagliori, di suoni e di canti
di armoniose sirene
che ti sanno ammaliare...
Skipper,
voglio fare lo skipper
perché voglio ascoltare,
capire il sospiro
e il respiro del mare.
................
..............................
Perché voglio ascoltare,
capire il sospiro
e il respiro del mare.
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Marinella Scordo
A MIO NONNO
(Pippinellu napulitanu)
Mi ritrovo a camminarle sopra,
sulla sua pelle di basalto e lacrime.
Lei così orgogliosa nei suoi fiori di zagara,
lei che mi seduce ad ogni nuova alba.
L’avevo amata senza sceglierla,
ritrovandomi già sommersa dal suo canto,
un canto antico di uomini senza vanità,
fedeli tra gli abissi e peccatori sulla terra ferma.
Lo screzio di un ricordo,
riporta i miei piccoli passi su un muretto ormai fantasma,
intrecciata alla mano grande di mio nonno,
che quasi sembrava cingere coralli,
uomo silenzioso e austero come il suo mare,
dagli occhi profondi e lontani,
e il cuore avvolto da una lampara.
Non basterebbe più un faro a farti ritrovare la strada,
e nemmeno la rotta con la quale i pescatori orientano il loro orizzonte.
Tutto è cambiato mio caro nonno,
da quando non ci sei più,
Riposto non ha più confini
e il tuo violino non ha più note da suonare.
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SEZIONE SPECIALE ARTEMARE 2009
DEDICATA AI CADUTI DEL MARE
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MONUMENTO AI CADUTI DEL MARE
Finalmente anche Riposto ha un monumento ai
caduti del mare. La vocazione marinara del Paese ha
comportato il sacrificio della vita di tanti suoi figli
ed era doveroso che ci fosse un posto dove poterli
ricordare. L’Amministrazione comunale ha il merito di
aver saputo individuare le risorse per la realizzazione e
l’installazione del monumento, mentre il nostro Circolo
ha la responsabilità delle scelte del bozzetto e del luogo
dove erigerlo. La statua in bronzo, poggiata su due
colonne di pietra lavica a forma di prua di nave, raffigura
delle onde marine che avviluppano un naufrago. L’opera
monumentale, di oltre 8 metri d’altezza, è stata realizzata
su progetto dello scultore romano Silvio Amelio, autore
di chiara fama e di vasta produzione artistica. L’opera
potrà essere più o meno apprezzata, ma comunque assolverà il suo compito, che è quello
di onorare chi ha sacrificato la propria vita sul mare e di dare conforto a familiari, parenti
e amici. In internet, si possono osservare centinaia di monumenti dedicati ai caduti del
mare. Le foto più significative e meno ripetitive sono state inserite su questo XV volume
della collana “Storie e racconti di mare”. Da un attento esame di queste immagini (pagg.
201/205) si nota una predominanza di ancore, catene, eliche, timoni, marinai al timone,
delfini, gabbiani, madri e moglie in attesa, ecc. Sono poche, invece, anche perché più
difficili da realizzare, le sculture che cercano di esprimere emblematicamente il sacrificio
che si vuole rappresentare. Un’altra cosa che si osserva, in questa enorme rete universale
che è Internet, è la presenza di elenchi di caduti del mare a far parte dei monumenti.
Addirittura, ci sono siti con il monumento virtuale (solo “on line”)
e sfilze di nomi di caduti con tante righe di biografia. Forse perché
al familiare interessa più il nome del proprio caro impresso sul
monumento che il monumento in se stesso. Questo desiderio
dei nomi incisi sui monumenti è stato constatato personalmente
quando si è fatto presente che l’iscrizione sulla base del nostro
monumento, per la sua particolare sagoma, non è appropriata. La
reazione negativa, la delusione degli interessati ci hanno spinti a
studiare una soluzione alternativa. E così si è pensato di riportare
i nominativi su pergamene in ottone, unite poi a formare un
Leggio con l’elenco dei
libro che verrebbe collocato su un leggio di pietra lavica.
nomi dei morti in mare
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In occasione di questo evento, da lungo tempo atteso, il Consiglio direttivo del Circolo
ha deciso di istituire un “Premio speciale alla memoria del sottotenente di vascello
Carmelo D’Urso, decorato al valor militare e disperso in mare”, da assegnare ad un testo
letterario che affrontasse l’attuale tragedia dell’immigrazione clandestina via mare. Si è
ritenuto che l’immane strage di migliaia di migranti morti o dispersi in mare meritasse
un posto sulla lapide del nostro
monumento e uno spazio nella
raccolta “Storie e racconti mare”.
Il Premio è stato conferito alla
dott.ssa Daniela Damigella per il
suo lavoro “Rischi e potenzialità
della mobilità sociale nell’area
del Mediterraneo” ed è stato
consegnato in occasione della
premiazione di Artemare 2009.
Ritrovamento di un’ancora nel mare di Riposto
L’ancora è del tipo «Trotman» ed era in uso sulle navi dal
1846 fino agli inizi del XX secolo. Essa è stata trovata nel mese
di se�embre 2002 dagli operai della di�a «Ira Costruzioni»
dentro lo specchio d’acqua del porto ripostese.
La particolarità del reperto è rappresentata dalle
marre mobili con delle ale�e a forma di «L», che
ruotano a�orno ad una forcella ricavata nella parte
inferiore del fuso. Pesa oltre una tonnellata ed ha
una altezza di 3,50 metri; il ceppo è del tipo fisso
ed ha una lunghezza di 2,40 metri, mentre le marre
si estendono per 1,80 metri.
Certamente deve essere appartenuta
ad uno dei piroscafi che facevano
scalo a Riposto negli anni tra la fine
del 1800 e l’inizio del 1900.
L’ancora è stata ripescata non
molto lontano dal posto dove
è stato ere�o il monumento ai
caduti del mare e sarà collocata
ai piedi di tale monumento.
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SCHEDA BIOGRAFICA DEL COM.TE CARMELO D’URSO
Risulta inserita all’indirizzo www.artemare.it pagina: Marineria di Riposto
Carmelo D’Urso nasce a Riposto (CT) il 16 luglio 1908.
Frequenta le prime due classi della Sezione Capitani dell’Istituto Nautico
«Ruggero di Lauria» di Riposto negli anni scolastici 1921-22 e 1922-23. Per la
soppressione dell’Istituto ripostese, conclude gli studi nell’Istituto Nautico «Duca
degli Abruzzi» di Catania, presso il quale consegue nell’anno scolastico 1924-25
la licenza di Capitano di lungo corso, riportando il massimo dei voti (venti su
venti) nelle materie professionali.
Nel gennaio 1926 comincia la sua vita sul mare con i viaggi oceanici dei piroscafi
«Galatea» ed «Australia».
Presta il servizio militare di leva dal febbraio 1928 al giugno 1930. Da sottocapo
viene promosso sottufficiale col grado di 2° Capo Timoniere «D»; si congeda come
2° Capo Timoniere «D» anziano.
Gli si conferisce nell’ottobre 1930 il grado di Scrivano nella Marina
Mercantile.
Dal marzo 1931 al giugno 1932 ritorna sulle rotte oceaniche a bordo del
«California».
Nel settembre 1932 ottiene il grado di Capitano di lungo corso nella Marineria
mercantile.
Si imbarca, quindi, dal marzo 1933 all’ottobre 1934 come allievo ufficiale,
prima, e come 2° ufficiale, dopo, sul mercantile «Progresso».
Come primo ufficiale naviga dall’ottobre 1934 al febbraio 1936 sul «Risveglio»,
sul «Tenace», sul «Langano», navi della Compagnia di navigazione “Ignazio
Messina & C.” di Genova .
Partecipa, come sottufficiale, al conflitto italo-etiopico, dal maggio al settembre
1936, nella categoria “segnalatori”.
Riprende la sua attività nella Marina mercantile, imbarcandosi come 1° ufficiale
sull’«Ogaden», prima, e sul « Tembien », navi sempre della flotta I. Messina.
Dall’agosto al dicembre 1939 è comandante del piroscafo «Tembien».
Nell’agosto 1939 viene nominato Guardiamarina di Complemento nel corpo di
Stato Maggiore, grazie ai numerosi anni di navigazione in comando di guardia.
Il 26 dicembre 1939 viene chiamato alle armi ed avviato al Corso Sommergibilisti
a Taranto, dove presta giuramento presso il Comando 4° Gruppo Smg. l’8 gennaio
1940.
Nel febbraio 1940 viene assegnato, come ufficiale di rotta, al sommergibile
«Sirena»; successivamente, nell’agosto 1940, viene imbarcato sul sommergibile
«Corallo».
Viene promosso Sottotenente di Vasc. di C. nel maggio 1942 e comandante in 2ª
del «Corallo» nel settembre 1942.
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Il Smg Corallo, entrato in servizio nel 1936, compì complessivamente 48
missioni di guerra attaccando ripetutamente con siluri unità avversarie ottenendo
come risultati certi l’affondamento di tre motovelieri.
Il 10 dicembre 1942 (al comando del Ten. Vasc. Guido Guidi, che ha rilevato
il Com.te Andreani a metà giugno ’42) il CORALLO salpa da Cagliari per
portarsi in agguato sulle coste africane, fra Bona e Biserta. La “tabella ordini”
prevede per la notte sul 13 una puntata offensiva in Algeria, nella rada di Bougie
(in arabo: Béjaïa). Dopo la partenza, però, del sommergibile non si hanno più
notizie, né si hanno risposte alle chiamate radio, ripetute fino al 23 dicembre.
Della sua perdita si avrà conferma solo nel dopoguerra, dalle fonti ufficiali inglesi.
Nella notte fra il 12 e il 13 dicembre, a circa 14 miglia al largo di Bougie, il
CORALLO viene scoperto da unità antisom inglesi e sottoposto ad intenso
bombardamento. Costretto ad emergere, viene speronato dalla cannoniera
ENCHARTRESS (che rimane essa stessa seriamente danneggiata) e affonda
immediatamente nel punto 36°58’N – 05°07’E. Nessun superstite.
Il 23 dicembre 1942 viene dato disperso in guerra.
Al S.T. di Vascello Carmelo D’Urso sono state conferite tre Croci di Guerra al
valor Militare. Fu autorizzato a fregiarsi del distintivo di guerra, di n. 3 stellette sul
nastrino e del distintivo d’onore per il personale imbarcato nei sommergibili. Nel
1953 gli sono state riconosciute le campagne di guerra 1940 – 1941 – 1942 – 1943.
Nel luglio 1955 gli è stata conferita, alla memoria, la Croce al Merito di Guerra.
Carmelo D’Urso, fra l’altro, fu anche studioso di problemi di astronomia applicati
alla navigazione. Nei lunghi anni della navigazione mercantile, egli amplia un suo
lavoro giovanile, arricchendolo di parti teoriche e pratiche fino a farne un vero e
proprio manuale. «Nuova navigazione astronomica» è il testo che egli concepisce
e compila e del quale resta un’edizione provvisoria, rilegata in tela, dattiloscritta e
con disegni a mano molto curati.
Alla sua memoria, il figlio on.le Carmelo D’Urso, da oltre 20 anni, assegna delle
borse di studio agli alunni meritevoli dell’Istituto Tecnico Nautico di Riposto.
Nel 2006, in occasione dell’anniversario del primo centenario del porto di
Riposto, la Commissione costituita dal Com.te dell’Ufficio Circondariale marittimo
ripostese, gli intitola la banchina del molo di ridosso.
Nel 2009 in occasione dell’erezione di un monumento ai caduti del mare a
Riposto, il Circolo degli ufficiali della Marina mercantile, promotore del Premio
Nazionale Artemare, ha indetto un Premio speciale Artemare alla sua memoria con
la motivazione: “ …per le decorazioni e riconoscimenti avuti, per i suoi interessanti
studi sulla ‘Nuova navigazione astronomica’, interrotti dalla prematura scomparsa,
e per la brillante carriera sulle navi della Marina mercantile che lo portò ancora
giovane al grado di Comandante”.
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Giornata della Memoria per i marinai scomparsi in mare
Con la legge 31 luglio 2002 è stata istituita la “Giornata della memoria
dei marinai scomparsi in mare”, da commemorare annualmente il giorno
del 12 novembre presso il Monumento al marinaio d’Italia nella ci�à di
Brindisi. Il giorno 12 novembre è stato scelto come data simbolica perché
nello stesso giorno del 1918, il Capo di Stato Maggiore della Marina
Militare e Comandante delle Forze Navali Mobilitate, Ammiraglio
Paolo Thaon di Revel, firmò il “Bolle�ino della Vi�oria sul Mare”.
Intervento
CAPO DI STATO MAGGIORE
DELLA MARINA MILITARE
Amm. di Squadra Paolo La Rosa
Brindisi, 12 novembre 2008
…Anno dopo anno, dal 12 novembre
del 2002, questa celebrazione propone
l’omaggio ai propri caduti da parte di
tutta la marineria italiana.
Marinai con e senza le stellette, in
servizio ed a riposo, tutti sentiamo forte il
dovere e, al tempo stesso, il bisogno della
memoria dei nostri Caduti in mare.
Non possiamo e non vogliamo
dimenticare chi ha donato la vita per la nostra stessa missione, nella consapevolezza che
ciascuna vita è un contributo al bene comune.
II destino degli uomini che si consuma in mare è particolare, come particolare è il
rapporto dei militari con la morte.
La cerimonia, le onoranze, il monumento e quei nomi scolpiti sul marmo, ci aiutano a
meglio comprendere.
II rischio dell’estremo sacrificio o, più ancora, quello di forzarlo su altri, permea la nostra
condizione, non facile, né agevole, rispetto alla naturale tendenza alla conservazione della
vita quale bene supremo dell’uomo.
Per il militare, la propensione a rimuovere il pensiero della morte si inserisce nel sistema
di valori, alto e complesso, fatto proprio con il giuramento alla Patria.
Sono valori positivi di pace, libertà e giustizia, di dovere e servizio, che esaltano una
concezione etica dell’esistenza in difesa e vantaggio della comunità.
La morte non rappresenta un congedo definitivo, per nessuno.
Tanto meno interrompe l’appartenenza alla Marina.
La continuità di quei valori alimenta la nostra storia, che si arricchisce delle migliaia di
storie individuali, tutte diverse, ciascuna con una sua dignità, e che è collante fra i marinai
di ieri e d’oggi.
Un legame che, auspice l’ANMI, abbiamo celebrato qualche settimana fa a Reggio
Calabria, durante la festa dei Marinai e che, proprio oggi che ricorre il novantesimo
anniversario del bollettino della Vittoria sul mare, al termine della Prima guerra mondiale,
ritroviamo nelle parole del Grande Ammiraglio Thaon de Revel: “tutti gli italiani
conoscono i nomi dei singoli eroi e delle vittorie fulminee, ma non a tutti è nota l’opera
silenziosa, aspra, generosa, compiuta in ogni ora, in ogni evento, in ogni fortuna...”.
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Le onoranze militari che caratterizzano i nostri riti funebri, oltre che esprimere l’affetto
per i cari scomparsi, rendono omaggio alla loro identità collettiva.
Riconoscono i morti per la Patria e per la comunità, che dalla dimensione nazionale
si espande sempre più, per l’ispirazione dei principi di solidarietà e fratellanza che
travalicano i confini dello spazio e del tempo.
Una comunanza speciale, generata dalle difficoltà che si affrontano “sul mare” e “per il
mare” e rafforzata dalla condivisione delle sorti che legano il fato dei naviganti, civili e
militari, nel confronto con la mirabile immensità e la profonda drammaticità del mare.
I reperti navali del Monumento, provenienti da Marine su fronti opposti nei trascorsi
bellici, lo testimoniano: il culto per i caduti non distingue nazionalità diverse e celebra
con pari rispetto il sacrificio di quanti si sono immolati per una missione che è identica
su qualunque mare del mondo.
Con queste considerazioni ci ritroviamo ai piedi di questo Monumento, dalla forma
semplice ed essenziale del timone che governa la nave, simbolo della continuità tra la vita e
la morte, che nella tradizione iconografica cristiana rappresenta il traghetto verso “l’al di là”.
Simbolo del rapporto fra uomo e mare, che nel suo momento più alto si sublima nel
sacrificio della vita tra i flutti. Simbolo del mistero che avvolge i caduti in mare, morti
senza tomba, le loro spoglie raccolte e custodite nel silenzio delle profondità.
Qui non il corpo ma solo i nomi, così strappati all’oblio che il tempo porta con sé. Sono
tutti cari alla nostra memoria, quei nomi.
Quelli, i tanti, che nemmeno hanno un nome, hanno la gloria. Li ricordiamo tutti,
migliaia, senza distinzioni di grado, d’epoca, di gesta, morti in tempo di guerra o di pace.
Questo luogo della rimembranza, al culto dei defunti aggiunge la sacralità della
memoria, che comporta l’impegno non solo di custodirne e tramandarne i valori, ma
soprattutto di prenderli ad esempio.
Così al ricordo dei morti si accompagnano le riflessioni sulla vita, per valorizzarne il
messaggio e porsi nel presente in coerenza e continuità con il passato.
Quel timone diviene un monito contro la concezione del mare come spazio di
separazione, di guerra, di attività criminali.
II dolore per la vita sacrificata induce questioni profonde sulle vicende che hanno visto
e che ancora vedono tante perdite di vite umane in mare e sollecita il ripudio di ogni
forma di violenza.
II mare è primaria fonte di vita che reclama un argine al degrado ambientale ed ai
contrasti fra i popoli, che minacciano l’ecosistema, l’economia del mondo, lo stesso futuro
del genere umano.
La questione della sicurezza marittima si pone tra le massime priorità della Comunità
internazionale.
Fra i fattori più sensibili, i rischi connessi alle attività illecite e criminali negli spazi
marittimi, quali la pirateria, il contrabbando, il traffico di clandestini ed il trasporto di
armi di distruzione di massa, il terrorismo.
Nel mondo globalizzato, il mare si conferma dunque elemento di fondamentale
importanza strategica nel confronto con le sfide alla sicurezza collettiva, su cui devono
concentrarsi gli sforzi nazionali ed internazionali per la stabilità, lo sviluppo economico
e la prosperità dei popoli.
A tutto ciò la Marina è preparata, con mezzi sempre più avanzati, con personale
specializzato ed addestrato, con grande spirito di servizio, e trova giusta ispirazione nella
memoria dei propri caduti in mare: che Loro abbiano meritata pace e che noi sappiamo
trarre forza ed esempio dalle Loro virtù.
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MONUMENTI AI CADUTI DEL MARE IN ITALIA E NEL MONDO
Alassio SV
Diana Marina BR
Ostuni BR
Nave Bersagliere
Bordighera IM
Catanzaro
Camogli GE
Catania
Latisana UD
Manfredonia FG
Marciana Marina LI
Milano
Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto
Pagina 201
Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Isola di Aruba
Dublino - Irlanda
Newlyn - Inghilterra
Belgio
Pegli GE
Pescara
Odessa - Ucraina
Londra - Inghilterra
Parghelia VV
Pizzo Calabro VV
Port Dover - Canada
Port Dover 2 - Canada
Pagina 202
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Venezia
Verona
Montauk NY - USA
Florida
Foto Rousset
Saint Pierre - Francia
Pozzallo RG
Rovereto TN
Savannah
Sirmione BG
Sori GE
Taormina ME
Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto
Pagina 203
Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Hvalba - Isole Faroe
Georgetown Texas - USA San Bartolomeo a mare - IM
Tallinn - Estonia
Galway - Irlanda
Roseto degli Abruzzi - TE
Taranto
Udine
Dunmore East - Irlanda
Gloucester - Inghilterra
Riva del Garda TN
Washington - USA
Pagina 204
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Piraeus - Grecia
Liepaja - Lettonia
Reykjavik -
Islanda
Londra- Inghilterra
Sunshine Coast-Australia Assateague Island - USA
Lunenburg - Canada
Claddagh Galway - Irlanda
Rosses Point - Irlanda
Whittier - Alaska
Alaska
Vigo - Spagna
Foto Sunset
Foto Redbubble
New York - USA
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Pagina 205
Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Fra Riposto e il mare esiste da sempre un rapporto
inscindibile. Dal mare la civiltà del pensiero e dell’arte, la pesca
e il commercio, l’anelito del navigare nell’immenso dell’ignoto,
sono giunti e hanno preso radice nei ripostesi, segnandone il
carattere e la destinazione esistenziale. Non sempre è stato un
rapporto sereno. La rabbia e la fame transitano nelle fibre della
natura e, se improvvisa la furia dei venti ne scuote e sconvolge
le membra, il mare divora i suoi figli come un tremendo
dio pagano. La storia dei marinai di Riposto è tutta qui,
nell’alternarsi di gioie e dolori, per i doni ricevuti e le lacrime
versate, che a loro provengono dalla volontà di perseguire il
benessere e dalla necessità di ripagarlo con la sofferenza. A
volte con la morte.
Vincenzo Di Maria
Targa di commemorazione del Monumento ai caduti del mare ere�o a Riposto all’interno
della banchina di riva del porto turistico pubblico nel 2009
Incerti, su rive inospitali, uomini sconosciuti scrutano il
mare, per cogliere segni di buon auspicio o per fugare oscuri
presagi. In bilico tra la disperazione del presente e il disperato
bisogno di un futuro, sanno che nella distesa marina è l’unica
possibile salvezza; chiudono gli occhi e affidano la loro vita
alla sorte, troppo facili prede dell’avidità e del cinismo altrui.
Nuovi incubi attendono chi sopravvive alle insidie del mare,
ma spesso è sul mare che la tragedia si compie, ed enormi bare
d’acqua si richiudono su corpi senza volto e senza nome.
Noi non possiamo ignorare queste morti, logiche inappuntabili
e ragioni numeriche non valgono a legittimare le stragi.
Mentre passeggi su queste rive, fermati ad ascoltare: nel
profondo dell’abisso non v’è quiete, e forse, nelle sere di vento,
Benedetta Denaro
il mare porterà l’eco delle loro voci.
Targa in ricordo delle migliaia di migranti annegati a�raversando il mare Mediterraneo
alla ricerca di una vita migliore
Pagina 206
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
I VIAGGI DELLA SPERANZA
Quanto segue viene riportato non perché può interessare
più di tanto i lettori di oggi, ma perché potrà essere un
documento storico per quelli di domani
…………………….
L’ultimo barcone della speranza è affondato al largo delle
coste libiche. A bordo erano in 150 egiziani: se ne è salvato
solo uno. Gli altri sono finiti in fondo al mare. Una strage vecchia di nove
giorni. Per questo si pensa che alcuni dei corpi potrebbero essere tra quelli
rinvenuti tra quella data e sabato scorso: un totale di 23 cadaveri.
(Maggio 2005)
Pagina 207
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…………………….
Immigrazione. Mistero su un barcone di extracomunitari
in balia delle onde: forse gettati in acqua cadaveri
Giovedì 4 agosto 2005
…………………….
Fortress Europe - Immigrati morti alle frontiere
dell’Europa
Almeno 5.544 i migranti morti lungo i confini del Vecchio Continente dal
1988 ad oggi, due terzi sono annegati nelle acque del Mediterraneo.
(23/10/2006)
…………………….
29/10/2007 08:42:11
TRAGEDIE DEL MARE, RIPRESE RICERCHE DEI
DISPERSI. 16 I MORTI
Nel naufragio di Roccella Ionica mancherebbero all’appello almeno 20
persone. In Sicilia nuovi sbarchi nella notte.
…………………….
SPAGNA, MORTI O DISPERSI 90 IMMIGRATI PARTITI DA
MAROCCO E SENEGAL
10. Dicembre 2007 - 16:02
…………………….
LAMPEDUSA. Un barcone carico di immigrati è naufragato, nel pomeriggio
di giovedì, al largo delle coste libiche e a 150 miglia a sud dell’isola di
Lampedusa. Il bilancio è di 12 morti, i cui corpi sono stati recuperati dalla
nave Sirio della Marina militare italiana. La “carretta del mare” trasportava
altre 27 persone, che sono sopravvissute alla tragedia grazie all’intervento
dei marinai del peschereccio “Ariete” di Mazara del Vallo. A far rovesciare il
barcone è stata un’onda gigantesca, come raccontato dagli stessi marinai.
Le vittime sono state identificate dagli altri immigrati che erano a bordo
dell’imbarcazione, in maggioranza di nazionalità somala e senegalese.
(Giugno 2008)
…………………….
Clandestini, naufraga barcone: 40 morti e 100 dispersi Pupia. TV
16 giu 2008
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Pagina 208
Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
…………………….
Affonda un barcone, ancora morti e dispersi nel canale
di Sicilia
emanuele rossi
Martedì 29 Luglio 2008
…………………….
Immigrazione, nuova tragedia in mare
naufraga barcone, dispersi 26 tunisini
Repubblica. (19 gennaio 2009)
…………………….
Malta, disperso barcone immigrati
A bordo 120 persone, domenica l’sos
Un barcone con circa 120 migranti, in maggioranza somali, risulta disperso
da domenica scorsa, mentre era in navigazione a circa 80 miglia a Sud di
Malta. Erano stati gli stessi extracomunitari a lanciare l’sos, con un telefono
satellitare, sostenendo di essere in difficoltà a causa del mare in tempesta.
I soccorritori sono stati costretti a interrompere le ricerche, a causa delle
proibitive condizioni meteo.
da Tgcom news CRONACA — 5 febbraio 2009 alle 2:13
…………………….
Affondano tre barconi: «300 dispersi»
29 March, 2009 06:20:00 Ashraf Ramelah
LA GUARDIA COSTIERA CONFERMA: UN RIMORCHIATORE ITALIANO
HA SALVATO 350 PERSONE; Strage davanti alle coste libiche, le barche
trasportavano centinaia di persone, molti egiziani. Recuperati 21 corpi.
…………………….
Strage al largo delle coste libiche: naufraga barcone di
immigrati ...
Mar 30, 2009ý - (Adnkronos) - Duecentocinquasette immigrati risultano
dispersi nel naufragio di un barcone avvenuto a largo delle coste libiche. A
quanto riferisce la radio ...
…………………….
martedì 31 marzo 2009 ORE 13
ALTRI 400 EXTRACOMUNITARI SONO APPRODATI IN SICILIA
NELLE ULTIME ORE
Pagina 209
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
…………………….
IMMIGRATI: IL MEDITERRANEO E’ UN CIMITERO. GIA’
OLTRE 13 MILA MORTI
ASCA - Agenzia Stampa Quotidiana Nazionale - Mar 31, 2009
…………………….
Lunedì, 29 giugno 2009
Affondano due barconi, 500 immigrati dispersi
Tragedia al largo della Libia: centinaia gli extracomunitari a bordo delle
imbarcazioni dirette nel nostro Paese. Altri due pescherecci in difficoltà.
Sabato scorso una nave cisterna italiana ha soccorso 350 clandestini nelle
stesse acque.
…………………….
31 lug 2009
Immigrati, ancora sbarchi: soccorso barcone a largo di Lampedusa ...
... PALERMO (30 luglio) - Riprendono gli avvistamenti di clandestini nel
Canale di Sicilia. Dopo i 14 intercettati ieri a 35 miglia a sud di Lampedusa
(Agrigento) e respinti in Libia e i 25 soccorsi a poche miglia dall’isola, una
nuova imbarcazione è stata soccorsa stamani all’alba.
La turbonave Sansinena della Società Americana “Iunion Oil Company”, con equipaggio italiano di
cui alcuni di Riposto,scoppiata nel porto di San Pedro di Los Angeles (U.S.A.) il 17/12/1976
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Daniela Damigella
Dottore di Ricerca in Fondamenti e Metodi
dei Processi Formativi, Università di Catania
RISCHI E POTENZIALITÀ DELLA MOBILITÀ
SOCIALE NELL’AREA DEL MEDITERRANEO
Premessa
«Il Mediterraneo sarà
come vorranno che sia gli
uomini del Mediterraneo
(Braudel, 1985)»
Il mar Mediterraneo, una sorta di grande lago salato sul quale si affacciano tre continenti, è stato
fin dai primordi un luogo della storia. Le terre che si prospettano sui suoi circa 2.500.000 Kmq di
superficie hanno conosciuto la nascita, la maturazione e la fine delle civiltà fra le più importanti che
hanno segnato la storia dell’uomo (Hamel, 2006) e che, nel corso dei secoli, hanno fatto del bacino
mediterraneo un luogo di incontro, di contaminazione e, talvolta, di scontro tra popoli diversamente
caratterizzati per cultura e tradizioni. Per avere un’idea di quanto sia articolata l’immagine di questo
mare, basti pensare alla natura dicotomica di alcuni suoi volti, attuali e potenziali: ponte che congiunge
popoli e culture ma anche barriera che si frappone a forme di contatto o a tentativi di mobilità sociale;
luogo di conflitti etnico-religiosi e centro di scambi culturali e sociali.
Lo storico Braudel, sebbene giunga alla conclusione che nel Mediterraneo tutto si fonde e si
ricompone in un’unità originale, riconosce che esso è mille cose insieme: “non un paesaggio, ma
innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di
civiltà accatastate le une sulle altre. Viaggiare nel Mediterraneo significa incontrare il mondo romano
in Libano, la preistoria in Sardegna, le città greche in Sicilia, la presenza araba in Spagna, l’Islam turco
in Iugoslavia” (Braudel, 1985/1987, p.7).
In linea con questo pensiero, Matvejeviæ afferma che “non esiste una sola cultura mediterranea,
ce ne sono molte in seno ad un solo Mediterraneo; queste culture sono caratterizzate da tratti
simili e per certi versi differenti, raramente riuniti e mai identici. Le loro somiglianze sono dovute
alla prossimità di un mare vicino e all’incontro sulle sue sponde di nazioni, di civiltà, di forme e di
espressioni comuni. Le loro differenze sono segnate da fatti di origine e di storia, di credenze e di
costumi, talvolta inconciliabili. Né le somiglianze, né le differenze sono assolute o costanti: talvolta
sono le prime a prevalere, talvolta le seconde” (Matvejeviæ, 1999, p.257).
In generale, il fil rouge che accomuna tutto il Mediterraneo sembra rintracciabile nel fitto intreccio
di comunità etniche e religiose che si sono giustapposte e a volte sovrapposte lasciando ciascuna la
propria traccia senza, però, cancellare completamente l’eredità delle civiltà che le avevano precedute.
Nello specifico, il patrimonio culturale che unisce le terre e i popoli che in questo bacino si affacciano
richiama alla mente la logica e la ragione della filosofia greca, il diritto e la forma politico-territoriale
dell’Impero romano, le tre religioni monoteiste (ebraismo, islamismo e cristianesimo), la diffusione
di specifiche colture (vite, ulivo, agrumi) e il clima mite.
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Gli elementi di diversità, invece, si concentrano nell’attuale presenza di differenti modelli politici
(democrazie e regimi stabili o in transizione), nelle disparità economiche e demografiche, nella
strumentalizzazione della religione per fomentare guerre e conflitti tra i popoli e nell’ingerenza e/o
coincidenza della stessa con le leggi dello Stato, ma anche nelle reciproche rappresentazioni negative
operate da chi abita la riva sud e nord di questo mare.
La complessità del Mediterraneo si riflette altresì nel suo essere, oggi, una sorta di ‘ponte’
attraversando il quale sarà possibile migliorare le proprie condizioni di vita ma anche un ‘luogo’ di
morte in cui riposano le speranze di chi, molto spesso, fugge da situazioni di totale negazione dei
diritti umani fondamentali.
Il Mediterraneo, pertanto, non può essere interpretato esclusivamente come luogo fisico/geografico
ma, richiamandoci a Lewin (1935/1965, pp.86-87), esso andrebbe piuttosto inteso nei termini di
un ‘ambiente psicologico’ dinamico, in cui al di là degli aspetti fisici hanno un ruolo di fondamentale
importanza le persone, gli oggetti, le situazioni presenti passate e future, reali, probabili o soltanto
ipotetiche che per l’individuo assumono valenze positive o negative, elicitando sentimenti che possono
essere di attrazione o di repulsione. Seguendo tale impostazione risulta evidente come un medesimo
luogo possa essere rappresentato in modo non soltanto plurale, ma, talvolta, anche dicotomico: lago
di pace Vs. terreno di conflitti; orizzonte di possibilità e porta aperta Vs. barriera fisica e mentale.
La gestione del fenomeno dei flussi migratori nel Mediterraneo sembra oscillare tra l’esigenza di
garantire la sicurezza nazionale e di allontanare il rischio di ‘invasione’, attraverso politiche di chiusura
e di militarizzazione delle frontiere, e la realizzazione di reali politiche di cooperazione internazionale
e di riconoscimento dei diritti umani al fine di evitare la creazione di un Mediterraneo-fortezza.
Affrontare efficacemente il fenomeno dei flussi migratori nel Mediterraneo non può certo
risolversi in politiche di innalzamento delle frontiere e di militarizzazione delle stesse, esso richiede,
piuttosto, interventi che da più parti ed a vari livelli favoriscano la costituzione di società inclusive
e democratiche ed il rispetto dei diritti umani fondamentali.
1. I molteplici volti del Mediterraneo
La letteratura, al fine di delineare la complessità socio-culturale di quest’area, suggerisce di
considerare cinque Mediterranei: l’Arco latino (dalla punta di Gibilterra alla Sicilia); la riva Sud (tra il
Maghreb e l’Egitto); la Conca adriatica (dalla sponda italiana a quella balcanica); la Riva orientale che
aggrega i paesi mediorientali; il Ponte Anatolico-balcanico tra Grecia e Turchia (Clementi, 1995).
La medesima area, così differenziata da un punto di vista geo-culturale, è contrassegnata anche
da elementi che accomunano. È qui che sono state poste le basi per la condivisione e l’integrazione
con altri popoli e culture, di cui l’architettura delle città mediterranee ne presenta i segni laddove gli
spazi condivisi rappresentano un ‘fuori’ che viene introiettato dal ‘dentro’ (Angelini, 2007, p.11).
Braudel propone un’immagine unificatrice del Mediterraneo, sinteticamente rappresentato sia
come “un insieme di vie marittime e terrestri collegate tra loro, e quindi di città che, dalle più modeste
alle medie, alle maggiori, si tengono tutte per mano” (Braudel, 1985/1987, p.51) che come uno ‘spazio
movimento’ in cui le relazioni sviluppatesi nei diversi secoli, non sempre pacifiche, hanno, comunque,
concorso a definire le identità dei diversi popoli che in quest’area si sono sviluppati (Ibidem).
Egiziani, fenici, cretesi, greci, romani, bizantini, arabi, ottomani, spagnoli e popolazioni discese
dal Nord (normanni, svevi, angioini) hanno disseminato in questo territorio presenze di pietre e di
lingue, di credenze religiose e di certezze scientifiche, di costumi e di paesaggi coltivati, di modi di
produzione e di ordinamenti politico-sociali. Si tratta di elementi che costituiscono l’eredità di una
pluralità di civilizzazioni e che fanno da potenziale sfondo per una comune identità mediterranea
(Sgroi, 2007, pp.18-19).
Alla luce di quanto detto, le sembianze che assume la realtà mediterranea sono quelle di un
mondo articolato e differenziato in cui momenti di armonia e di dialogo si alternano a momenti
di rottura e di recrudescenza della guerra, facendo spesso di questo luogo un teatro di rivalità e di
conflitti in cui non sempre l’apertura e l’accettazione dell’altro, del diverso, dello straniero caratterizza
i rapporti tra i popoli.
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Oggi ‘l’altro-mediterraneo’ coincide quasi esclusivamente con l’immigrato che, vissuto come
portatore di una diversità inconciliabile con i propri sistemi di credenze, suscita timori e ansie spesso
gestite attraverso processi, più o meno espliciti, di ghettizzazione o di assimilazione.
Seguendo le dinamiche che sottendono i processi di categorizzazione sociale, l’immigrato
proveniente dalla sponda sud del Mediterraneo tende ad essere interpretato sulla base di quegli
stereotipi che, costituendo un ostacolo alla conoscenza ed un alimento per ignoranza e superbia, lo
rappresentano come sottosviluppato, terrorista, fondamentalista, ecc.
L’Europa, liberatasi del muro di Berlino, rischia di costruire nel Mediterraneo una barriera ancora
più forte, perché culturale e mentale, invisibile ma molto concreta. Per evitare che ciò accada l’UE
da oltre un decennio, attraverso la Dichiarazione di Barcellona del 1995, è chiamata a consolidare i
suoi legami con il mondo mediterraneo, giocando il ruolo di catalizzatore, mediatore e negoziatore
di conflitti al fine di rielaborare le rappresentazioni negative dell’opinione pubblica europea nei
confronti dei paesi del sud del Mediterraneo e di questi ultimi rispetto all’Occidente.
Un’ulteriore possibile fonte di cambiamento, secondo una prospettiva bottom-up, potrebbe
essere rappresentata dagli immigrati di origine sud-mediterranea presenti nei paesi della sponda
settentrionale. Essi potrebbero costituire un importante elemento di collegamento tra le due rive
nella misura in cui modalità di contatto, supporto istituzionale e attività progettuali, realizzate in vari
ambiti e a vari livelli, si ispirino a politiche di apertura e di reciprocità. Nel merito, non bisognerebbe
dimenticare l’importante ruolo di collante che, da sempre, la letteratura e l’arte hanno giocato nel
contribuire a costruire ponti tra culture e popoli. La scrittrice tunisina Belhaj ricorda come nella
Tunisia di quarant’anni fa “le grandi figure dell’arte, della letteratura, della politica e della scienza
diventavano tanto familiari ai nostri spiriti che davano realmente corpo a un universale senza razza,
colore, etnia e in cui i territori dell’interno e dell’esterno non avevano frontiere” (Belhaj & Boubaker,
2003, p.24).
E’ solo rifuggendo gli estremismi che il dialogo, l’apertura e il rispetto reciproco diventeranno le
basi per costituire società future inclusive e democratiche.
Tali obiettivi saranno perseguibili nella misura in cui ciascun individuo sarà disponibile sia ad
abbandonare un pensiero monistico, che costringe ad una visione della realtà che non permette
l’accettazione delle diversità e del conflitto, intesi come elementi di crescita, sia ad accogliere un
pensiero duale che permette di seguire allo stesso tempo due diversi schemi di riferimento o di
interpretazione della realtà, accettando le contraddizioni senza reprimerle o rifiutarle (Spaltro,
1977, pp.28-30).
2. Flussi migratori nel Mediterraneo
Nel corso dei millenni il Mediterraneo ha attratto a sé una moltitudine di uomini che si sono
stabiliti sulle sue sponde contribuendo così a creare un’immagine dello straniero che oscilla tra l’idea
del nemico che si affaccia improvvisamente sulle coste per rapinare, saccheggiare o colonizzare e
quella di colui che affascina per la diversità di cui è portatore.
Tra la fine del XIX e nel corso del XX secolo il Mediterraneo si è caratterizzato per processi
di emigrazione che hanno condotto italiani, nordafricani, spagnoli, portoghesi, iugoslavi, greci e
turchi in America, Germania, Svizzera e Francia. Oggi è la meta di chi intende attuare strategie di
mobilità sociale per fuggire alla miseria, alla guerra, alla marginalità sociale e al mancato rispetto
dei diritti umani fondamentali.
Talune città mediterranee, infatti, diventano luoghi privilegiati di incontro/scontro tra culture
ed identità differenti a seguito di un fenomeno migratorio che assume caratteri del tutto inediti per
intensità e durata dei flussi, natura strutturale e non congiunturale, frequenza e molteplicità delle
occasioni di contatto.
Le moderne migrazioni, che caratterizzano l’area ormai da qualche decennio, hanno assunto,
negli ultimi anni, proporzioni tali da generare continui confronti tra le forze sociali e politiche
caratterizzati dall’adozione di provvedimenti funzionali ad una ‘efficace’ risoluzione del fenomeno.
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
L’orientamento scelto sembra oscillare tra la coerenza con il rispetto dei diritti umani fondamentali e
l’esigenza di fornire risposte immediate al diffuso senso di insicurezza, spesso alimentato dai media,
che dilaga tra la popolazione del paese ospitante.
In Italia, i flussi migratori che utilizzano il Mediterraneo come via per raggiungere l’Europa e i
conseguenti sbarchi sulle coste siciliane sono da più parti rappresentati nei termini di una vera e
propria ‘invasione’.
Rispetto a tale percezione del fenomeno, bisogna precisare che le migrazioni attraverso il
Mediterraneo, nonostante la visibilità e la risonanza mediatica, rappresentano la modalità di ingresso
clandestino meno importante da un punto di vista quantitativo. Infatti, i dati forniti dal Ministero
dell’Interno italiano, rilevano che il 63% degli stranieri residenti in Italia senza permesso di soggiorno
sono coloro che, entrati con visto turistico, vi rimangono oltre la scadenza (i cosiddetti overstayers);
un altro 24% è giunto in Italia in autostrada da Francia, Svizzera, Austria e Slovenia; i 22.016 sbarchi
in Sicilia, Puglia e Calabria costituiscono appena il 13% degli ingressi illegali.
Nell’ambito di questa seppur minima percentuale, l’Osservatorio sulle vittime dell’immigrazione
clandestina, Fortress Europe, rileva che, sebbene i dati censiti rappresentino solo una sottostima, dal
1994 al 2007, 3.118 persone sono decedute nel tentativo di attraversare il Canale di Sicilia (tra Libia,
Egitto, Tunisia, Malta e Italia) e di queste 2.046 risultano disperse. Ad esse bisogna aggiungerne
altre 125 morte navigando dall’Algeria verso la Sardegna e 140 che tentavano di attraversare il
Mediterraneo nascosti nella stiva o nel container di qualche mercantile. Solo nel 2007, sempre
nel Canale di Sicilia, le vittime sono state almeno 556 contro le 302 del 2006, nonostante una
diminuzione degli arrivi del 20% (Cfr. Tab. 1).
Tab.1 I numeri degli immigrati morti/dispersi nel Canale di Sicilia [Fonte: http://
fortresseurope.com]
Anno
2009 (al 04/05)
2008
2007
2006
2005
2004
2003
2002
2001
1998
1997
1996
1994
Totale
Morti
42
119
146
96
78
111
90
127
8
14
6
284
0
1.117
Dispersi
297
1.055
410
206
359
95
323
109
0
2
0
19
2
2.982
Totale
339
1.274
556
302
437
206
413
236
8
16
6
303
2
4.099
L’organizzazione dei ‘viaggi della speranza’ coinvolge, in genere, sia i recruteurs, i reclutatori che
contattano chi vuole partire, prediligendo persone poco istruite, un po’ ingenue e in grado di pagare,
sia i passeurs che si occupano di pianificare la traversata. Ultimamente, per non rischiare anni di
carcere, al timone dell’imbarcazione non siede un uomo della rete ma un volontario tra i passeggeri
a cui vengono date alcune indicazioni sommarie prima della partenza. Così basta la prima onda
arrabbiata per rovesciare la nave ed ingoiare nei flutti del mare tutti coloro che non sanno nuotare
[Del Grande, 2007, pp.26-27].
Il deserto del Sahara è un altro ostacolo da superare per raggiungere il Mediterraneo dall’Africa
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Collana “Storie e racconti di mare” - Volume 15°
Occidentale o dal Corno d’Africa utilizzando camion o fuoristrada. Qui dal 1996 sono morte almeno
1.615 persone, ma si tratta, anche in questo caso, di una sottostima se si considera che, stando alle
testimonianze dei sopravvissuti, quasi ogni viaggio conta i suoi morti.
In altri termini potremmo sostenere che “le coste del Mediterraneo si dividono in due, di partenza
e di arrivo, però senza pareggio: più spiagge e più notti d’imbarco, di quelle di sbarco, toccano l’Italia
meno vite, di quante salirono a bordo. A sparigliare il conto la sventura […]. Eppure l’Italia è una
parola aperta piena d’aria” [De Luca, 2005, p.7].
Al di là della dimensione numerica, è indubbio che quel mare che a lungo è stato considerato la
‘culla delle civiltà’ sta diventando il cimitero di molti immigrati, denominati harrag in lingua araba
(lett. colui che brucia), che decidono di ‘bruciare la frontiera’; un confine che, spesso, assume le
sembianze di una barriera invalicabile per il raggiungimento di nuovi e possibili orizzonti, un muro
d’acqua e l’avamposto di una fortezza.
A denotare i cambiamenti subiti nel bacino mediterraneo è il Museo della memoria del mare,
realizzato autonomamente da un impiegato delle Poste tunisino, Mohasen Lidhiheb, che da undici
anni raccoglie gli oggetti consegnati dal mare: prima l’immondizia del nord, giunta dal Canale di
Sicilia, poi i messaggi in bottiglia che parlano della crisi dell’uomo moderno ed, infine, le vittime
della corsa verso l’Occidente. A ricordare questi ultimi una montagna di almeno 150 paia di scarpe,
nuove, sportive, giovanili. Sono le scarpe dei naufraghi custodite insieme a un centinaio di camicie,
giacche, pantaloni, maglioni e magliette [Del Grande, 2007, p.119].
3. Aspetti psico-sociali del fenomeno
Tali spostamenti di uomini che dalla sponda sud si muovono verso quella nord del Mediterraneo
possono essere considerati come tentativi di mobilità sociale che, troppo spesso, purtroppo, si
risolvono in tragedia.
Nello specifico, richiamandoci alla teorizzazione di Tajfel, la mobilità sociale può essere intesa
come una vera e propria strategia funzionale al cambiamento ed al perseguimento di migliori
condizioni di vita e di una più positiva rappresentazione del proprio Self che rimanda al sentire dei
singoli, alle loro credenze e ideologie, al tipo di aspettative che essi hanno maturato relativamente a
se stessi, al rapporto con il gruppo e con il sociale di riferimento, alle tipologie di relazioni vigenti.
Essa sembra caratterizzarsi per il sistema di credenze personali che pongono al centro dell’attenzione
i bisogni e le opzioni dell’individuo, nonché le possibilità che allo stesso sono date di perseguire e
raggiungere individualmente i propri obiettivi di auto-realizzazione (Licciardello, 2003, p.34). In
altri termini, “la mobilità sociale consiste nella strutturazione soggettiva di un sistema sociale (per
quanto grande o piccolo tale sistema possa essere), in cui l’ipotesi fondamentale è che il sistema
sia flessibile e permeabile e che consenta un movimento molto libero da un gruppo ad un altro dei
singoli individui che lo compongono” (Tajfel, 1981/1985, p.302).
Diversamente, la mobilità sociale può essere limitata o inibita dalla percezione di confini sociali
nettamente delineati ed immutabili, nel senso che è impossibile o almeno molto difficile che gli
individui riescano a spostarsi da un gruppo ad un altro (Ibidem, p.299). Evidentemente, nonostante
la presenza di leggi, regole e sanzioni che limitano i flussi migratori nel Mediterraneo, la percezione
dei protagonisti di questi ‘viaggi della speranza’ è quella di un sistema illegittimo e modificabile in
cui fattori di spinta e di attrazione giocano un ruolo di fondamentale importanza.
Sulla base di tale prospettiva, “partire diventa un’ossessione e la cultura fatalista e feticista
dell’Africa nera aiuta a sedare i timori. Tutti i giovani si portano appresso un grigri. Sono cinturini
di cuoio, oppure braccialetti di pelle e conchiglie. Si comprano dai marabù […] e servono ad attirare
la protezione degli spiriti contro le forze del male e del malocchio. Ne esistono per non annegare,
per non essere colpiti dai proiettili, e addirittura per diventare invisibili in situazioni di pericolo”
[Del Grande, 2007, p.45]. Chi tenta di raggiungere l’Europa si definisce un soldato che combatte
per il suo avvenire, affermando con forza che se “fossimo stati bene a casa nostra, non saremmo mai
partiti. Certo, avevamo una casa ed un piatto caldo ogni sera. Ma a un certo punto un giovane ha
delle necessità. Quando dico che siamo tutti soldati è perché lottiamo contro la nostra miseria. Non
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la stiamo fuggendo, la combattiamo.” [Ibidem, p.103].
Per coloro che riescono a raggiungere la meta desiderata un’altra barriera con cui dover fare i
conti è mentale, fatta di pregiudizi e di stereotipi. Essa ostacola il dialogo tra soggetti appartenenti
a differenti sistemi socio-culturali che si trovano a condividere medesimi spazi in società sempre
più multietniche.
Gran parte degli immigrati provenienti dalle sponde del Mediterraneo possiede, infatti, una
cultura che per taluni aspetti risulta profondamente diversa da quella del luogo che li accoglie. Fatto,
questo, che propone un’ulteriore questione da affrontare: concorrere alla creazione di una società
caratterizzata da processi di integrazione rispettosi dei differenti backgrounds culturali nel rispetto
delle regole del paese di arrivo e dei diritti umani fondamentali.
In altri termini, si tratta di sviluppare competenze funzionali alla gestione di conflitti che non
vanno soffocati ma ‘agiti’ attraverso il dialogo, la negoziazione ed il reciproco confronto. Diversamente
le distanze rischiano di trasformarsi in intolleranza e violenza.
In una tale realtà, il rischio è che si attivino processi di assimilazione e di ghettizzazione a cui fanno
da pendant le trappole implicite dell’antirazzismo assimilazionista (che può tradursi nel razzismo
dell’omologazione) e dell’antirazzismo della differenza (cui corrisponde il razzismo differenzialista)
(Licciardello, 1997, p.124).
L’assimilazione costituisce una strategia di gestione delle relazioni interetniche che si esprime
nella tendenza del gruppo maggioritario a inglobare quello minoritario sulla base di una presunta
superiorità del proprio modello culturale. Essa si traduce facilmente nel “razzismo dell’omologazione,
poco o per niente rispettoso delle specificità culturali che fungono invece da solido referente identitario
per chi si trova in un contesto a lui estraneo” (Ibidem). È come se si postulasse la superiorità di una
cultura sull’altra e si concepisse “la cultura come realtà omogenea, compatta e pura, da preservare da
contaminazioni che ne svilirebbero la valenza. Un’ipotesi paradossale poiché, proprio il concetto di
cultura, contiene in sé l’idea del movimento, dell’apertura, della costante implementazione. Cultura
è, infatti, area di scambio, di narrazioni condivise o contestate dalle stesse soggettualità che ne fanno
parte” (Hamel, 2006, p.67).
Il riconoscimento delle differenze, a sua volta, può tramutarsi in razzismo differenzialista, cioè
nel rifiuto del contatto e in una sorta di ghettizzazione fisica e mentale in base alla quale non si nega
a nessuno il diritto di esistere, ma senza indebite e impossibili contaminazioni. La diversità viene
affermata perché da essa ci si può difendere con indifferenza e distacco, in una convivenza fatta di
gruppi giustapposti in cui si nega l’uguaglianza e si postula il principio della gerarchia.
Si potrà approdare ad un reale pluralismo culturale quando le differenze verranno riconosciute,
rispettate e valorizzate come possibile fonte di arricchimento del patrimonio culturale complessivo,
che sarebbe allora frutto non della fusione indistinta (melting pot), ma del confronto e della pacifica
coesistenza di culture diverse.
Si tratta di una strategia difficile da applicare per diversi motivi. Essa richiede capacità di pensare
al plurale, cioè di orientarsi alla reciprocità, aprirsi consapevolmente al nuovo, leggere l’altro oltre
le appartenenze e interloquire con lui funzionalmente per realizzare le condizioni di reciprocità
indispensabili per la tolleranza e la civile convivenza (Licciardello, 1997, p.128). È necessario,
inoltre, un grosso sforzo di tipo istituzionale per adeguare le strutture della società alle esigenze e
alle caratteristiche delle diverse culture senza cadere nel rischio del relativismo spinto che, in nome
della validità autonoma delle singole culture, porta all’acquiescenza politica e rinuncia a porre valori
assoluti come quelli relativi al rispetto della vita, alla libertà e alla dignità della persona.
Conclusioni
I cambiamenti sociali, alla cui definizione concorrono processi di globalizzazione, di ridefinizione
dei confini territoriali, nonché di mobilità sociale e di costituzione di nuove forme di ‘vicinato’,
delineano nuove realtà all’interno delle quali si pone la questione relativa alla convivenza tra soggetti
appartenenti a differenti sistemi culturali.
Da più parti ed a più livelli si parla del Mondo come di un Grande Villaggio nel quale realizzare
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zone di libero scambio, assicurare la libera circolazione delle informazioni e delle merci e potenziare
il dialogo ed il reciproco rispetto tra le diverse culture. Il discorso si fa più ‘spinoso’ e complesso nel
caso della libera circolazione degli individui. In questo caso, gli orientamenti oscillano tra l’esigenza
di lottare contro la criminalità e il terrorismo, di scongiurare i rischi di ‘invasione’ e di favorire l’ordine
pubblico e l’accoglienza ad individui che fuggono dalla miseria e dalla guerra su imbarcazioni di
fortuna pagando a caro prezzo un viaggio verso l’ignoto o verso una realtà che si pensa di conoscere
attraverso le immagini dei mass-media, ma che, spesso, si rivela fonte di profonde aspettative deluse.
Seguendo il primo approccio si tende sempre più ad elargire somme di denaro per opporsi alle ondate
migratorie, denaro che sarebbe sicuramente più utile ed efficace se speso in progetti di sviluppo locale
nei Paesi d’origine degli immigrati stessi.
In un tale scenario, è forte il rischio di trattare la diversità attraverso meccanismi cognitivi di
semplificazione e di difesa del proprio ‘universo di significati’, nonché di ‘rigidificazione’ (Raviola,
2003, p.66), cioè di accentuazione delle frontiere al fine di conservare e difendere il già noto, al punto
che ogni input esterno non può penetrare all’interno se non per confermare abitudini, consuetudini
ed orientamenti. Tali processi si traducono in stereotipi e pregiudizi che, tagliando a fette il mondo
in bianco e nero, giusto e sbagliato, Nord e Sud, fanno da sfondo ad orientamenti segregazionisti
e differenzialisti.
L’auspicio è che lo scambio, l’apertura e la reciprocità connotino le relazioni con l’Alter, vissuto
come risorsa, ma anche come elemento di confronto rispetto a possibili dimensioni conflittuali da
gestire utilizzando gli strumenti del dialogo e della negoziazione.
Nel merito, il bacino mediterraneo, complesso, irrazionale, seducente e contraddittorio, rappresenta
l’emblema di una pluralità e poliedricità che può essere vissuta come potenziale fonte di arricchimento
o, al contrario, di pericolo, da cui scaturiscono muri e barriere mentali.
Nell’ultimo decennio, attraverso gli obiettivi e gli interventi definiti nell’ambito del partenariato
euro-mediterraneo, si sono poste le basi per la realizzazione di uno spazio di dialogo e di integrazione
nell’area mediterranea, sebbene a tutt’oggi permangano situazioni problematiche di carattere, insieme,
socio-politico, culturale ed economico per cui da più parti si parla di un’occasione mancata e di
aspettative disattese.
Per certi aspetti il Mediterraneo sembra delinearsi come una zona di frontiera, termine che evoca
immagini di guerra, conflitto e divisione ma che, se inteso in termini lewiniani, potrebbe definire
vicinanze e collegamenti più che sbarramenti e chiusure. La rivalutazione delle zone di‘confine’, infatti,
porta a fare di esse i punti di massimo cambiamento, di sviluppo sociale e di stimolo per passare
attraverso (loco:mozione). In un tale processo di trasformazione la dimensione temporale assume
una certa rilevanza, per cui una realtà con tanto passato e tanto futuro ha un’ampiezza ed una forma
nello spazio presente capaci di influenzare il contesto, i legami ed il destino più di ogni altra realtà
con poco passato e meno futuro. L’opzione del futuro, consistente nella capacità di progettare e di
programmare, è di fondamentale importanza in quanto rende la realtà viva, dinamica, pulsante e
sempre sul punto di evolversi (Contessa, 2003, p.42).
In generale, il passato rappresenta una risorsa di fondamentale importanza per comprendere
il presente e per progettare il futuro. Il passato del Mediterraneo, caratterizzato da una storia più
densa e più stratificata che altrove e che lo ha visto culla di civiltà e culture, potrebbe rappresentare
quella comune eredità su cui edificare una progettualità funzionale al superamento del bipolarismo
semplificazionista che contrappone i popoli e che contribuisce a dismettere i ponti per erigere barriere.
In altri termini, come rileva Consolo, “si va indietro, per poter poi esplodere in avanti. In questo
movimento dalla profondità, verso l’esterno, se si rimane prigionieri della profondità, si entra nel
dialettalismo e lì si è in una sorta di compiacenza e di Eden fittizio” (Consolo 1999, p.192).
Il cambiamento, pertanto, sembra inevitabile se si vuole costruire una società in cui la ‘diversità’
venga percepita come fonte di crescita e di arricchimento reciproco e non come una minaccia che
annulla o impoverisce la nostra identità e che può ingenerare comportamenti di intolleranza e di
discriminazione più o meno espliciti.
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Tale cambiamento andrebbe inscritto all’interno di una dimensione progettuale in cui il soggetto
non si percepisca come elemento di una catena deterministica, per cui passato, presente e futuro si
collocano lungo una logica lineare già scritta, in cui ogni possibile muore, ma sia consapevole che
ogni comportamento (individuale e collettivo) è insieme causa ed effetto di ogni altro, all’interno
di un campo di forze reciprocamente influenzanti. Pertanto, è all’interno di una logica circolaregalileiana e di un approccio costruttivista che è possibile pensare ad un individuo protagonista attivo
dei processi di conoscenza e co-costruttore della medesima al punto da concorrere a realizzare quel
senso di appartenenza ad una realtà sociale sovraordinata che ingloba senza per questo negare le
identità di sottogruppo (Gaertner et alii, 2000).
I popoli del Mediterraneo hanno la possibilità di avvalersi di un’appartenenza supplementare e
conciliatrice, quella mediterranea appunto, che senza escludere le altre appartenenze pone le sue
radici in millenni di scambi di vario genere (migrazioni, guerre, culture e cucina) su cui poter far
leva per concorrere a realizzare tale dimensione comune (Maaluof, 1999, p.217).
In un tale contesto, la Sicilia assume un ruolo di fondamentale importanza proponendosi come
un ‘laboratorio’ naturale per sperimentare possibili forme ed esiti di processi di integrazione tra
‘diversi’ nonché di accoglienza. Quest’isola, infatti, fin dagli albori della storia è stata al centro delle
rotte percorse da genti alla ricerca di colonie e mercati divenendo crogiuolo fecondo per la sintesi
culturale di gruppi sociali anche profondamente diversi ed in conflitto tra loro: popoli antichissimi
(Sicani, Elimi, Ausoni, Morgeti), antichi (Greci ,VIII secolo a.c.n., e Fenici -VII secolo a.c.n.), di
epoca alto e basso medievale (Bizantini, Arabi, Normanni), “moderni” (Angioini, Aragonesi, etc),
fondendo elementi e caratteristiche culturali, hanno prodotto una cultura complessa e tuttora
diversificata (molteplicità di dialetti, cucina, etc.). Oggi, la Sicilia è crocevia per genti di cultura, usi
e costumi molto diversi, ‘porta di ingresso’ per l’Europa ma anche luogo in cui gli immigrati scelgono
di stabilirsi per lavorare, studiare o ricongiungersi con i propri familiari.
Il prof. Orazio Licciardello dell’Università di Catania illustra il lavoro presentato dalla dott.ssa Daniela
Damigella
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GRUPPO “DI MARTINO TRASPORTI”
GRUPPO “DI MARTINO TRASPORTI”
GRUPPO “DI MARTINO TRASPORTI”
GRUPPO “DI MARTINO TRASPORTI”
INDICE
Il Presidente del Circolo Cap. d. m. Gioacchino Copani
PRESENTAZIONE DEL XV VOLUME ............................................ Pagina 3
Il Sindaco di Riposto dott. Carmelo Spitaleri
................................... Pagina 5
Quindicesimo volume della collana “STORIE E RACCONTI DI MARE”
Contiene opere premiate nelle edizioni 2008 e 2009 .............................. Pagina 7
SEZIONE FATTI DI BORDO 2008 - XIX edizione
........... Pagina
Natale Pappalardo
SAPELE 1968 ................................................................................. Pagina
Orazio De Maria
LA LUNA E LA FALCE .................................................................. Pagina
Idamo Rossi
POESIE SUL MARE ......................................................................... Pagina
Francesco Castorina
IL LAVATIVO ................................................................................. Pagina
Giovanni Pagano
CHERNOBYL ................................................................................. Pagina
Felice Zanghì
CROCIERE DEL DUEMILA .......................................................... Pagina
SEZIONE NARRATIVA 2008 - XIII edizione
...................... Pagina
Francesco Castorina
UN FIORE SULLE ONDE ............................................................. Pagina
Giovanni Bosia
CINQUE TERRE ............................................................................ Pagina
Nazario D’Amato
IL RITORNO .................................................................................. Pagina
Angelo Luigi Fornaca
LE VIE DEL MARE ........................................................................ Pagina
SEZIONE FATTI DI BORDO 2009 - XX edizione
10
11
17
27
29
39
45
62
63
77
81
93
.......... Pagina 108
Francesco Castorina
CI RIVEDREMO IN QUEL PORTO LONTANO... ..................... Pagina 109
Zeffiro Rossi
UN GIRO DEL MONDO UN PO’ PARTICOLARE ..................... Pagina 119
Giovanni Pagano
L’UOVO DI COLOMBO .............................................................. Pagina 131
Idamo Rossi
UN PESO E DUE MISURE .......................................................... Pagina 135
Anna Bartiromo
QUANDO IL MARE È AMARO .................................................. Pagina 139
Piera Grassi Pedrelli
IL PRIMO VIAGGIO DI PAOLA ................................................. Pagina 143
Vincenzo Marzullo
AL LARGO DEL NULLA ............................................................. Pagina 147
SEZIONE NARRATIVA 2009 - XIV edizione
................... Pagina
Giovanni Coglitore
SIAMO GIÀ IN PARADISO ......................................................... Pagina
Anna Rosa Balducci
STORIE DI MARE ........................................................................ Pagina
Orazio De Maria
IL MEDAGLIONE DI EBANO SCURO ....................................... Pagina
Eugenia Pileggi
SI PUÒ AMARE IL MARE ANCHE SE... ..................................... Pagina
Maria Salemi
SKIPPER ....................................................................................... Pagina
Marinella Scordo
A MIO NONNO ........................................................................... Pagina
148
149
163
169
187
191
193
SEZIONE SPECIALE ARTEMARE 2009
DEDICATA AI CADUTI DEL MARE ........................... Pagina 194
MONUMENTO AI CADUTI DEL MARE ................................... Pagina 195
SCHEDA BIOGRAFICA DEL COM.TE CARMELO D’URSO ......... Pagina 197
GIORNATA DELLA MEMORIA PER I MARINAI
SCOMPARSI IN MARE .................................................................. Pagina 199
MONUMENTI AI CADUTI DEL MARE IN ITALIA
E NEL MONDO ........................................................................... Pagina 201
I VIAGGI DELLA SPERANZA ..................................................... Pagina 207
Daniela Damigella
RISCHI E POTENZIALITÀ DELLA MOBILITÀ SOCIALE NELL’AREA DEL
MEDITERRANEO ....................................................................... Pagina 211
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Racconti XV - SETTIMO CONTINENTE