Hanno scritto di S. Alfonso /3 Alfonso Amarante su S. Alfonso Dinamica pastorale di S. Alfonso nelle missioni popolari del ‘700 Introduzione Situazione socio religiosa nella Napoli del ‘700 Alle origini della missione popolare Dinamica missionaria di S. Alfonso 1. Dimensione psicologica 2. Dimensione pastorale 3. Dimensione auxologica Conclusione Introduzione Alfonso de Liguori, in una lettera datata il 29 luglio 1774, affidava ai Padri e Fratelli della Congregazione il suo testamento spirituale. “… Fin dall’eternità Gesù Cristo vi ha eletto e chiamato in questa Congregazione per amarlo e farlo amare ancora dagli altri. E qual maggiore onore e smezza poteva amare ancora dagli altri. E qual maggiore onore e finezza poteva usarci Gesù Cristo che strapparci di mezzo al mondo per farlo amare da tutti i popoli che continuamente, in ogni anno, per nostro mezzo lasciano il peccato e si mettono in grazia di Dio? Quando arriva una delle nostre missioni in un paese, per lo più la maggior parte di quella gente sta in disgrazia di Dio e priva del suo amore …. ma ecco appena passano cinque o sei giorni che molti, come svegliati da un sonno profondo, cominciano a sentire i sentimenti, le istruzioni e le prediche e vedendosi offrire la divina misericordia, cominciano a piangere i loro peccati, concepiscono il desiderio di stare uniti con Dio; e vedendo aperta la via del perdono, cominciano ad aborrire la via che prima amavano, cominciano a vedere una nuova luce e a sentire una nuova pace… E di chi si serve il Signore se non di noi per fare queste mutazioni così ammirabili? lo sto certo, per questo, che Gesù Cristo riguarda con occhio amoroso la nostra piccola adunanza come la pupilla dei suoi occhi. lo non lo vedrò perché la morte mi è vicina, ma sto in una certa confidenza che la nostra piccola greggia crescerà sempre da tempo in tempo, non già in ricchezze ed onori, ma nel procurare la gloria di Dio ed ottenere con le opere nostre che Gesù Cristo sia più conosciuto ed amato dagli altri” (1). Forse non sarà del tutto inutile risalire alle scaturigini di questo testamento per far luce sulle tecniche pastorali adottate dal Santo. Situazione socio religiosa nella Napoli del ‘700 Nato il 27 settembre 1696 sullo scintillante golfo partenopeo, Alfonso porta nel cuore tutti i segni dell’esuberanza della sua terra. Nel 1723 abbandona il foro napoletano, sensibile all’evangelizzazione dei regnicoli più abbandonati. Appena trentunenne, superando ostacoli di ordine familiare e pastorale, penetra deciso nel difficile mondo dei pescatori, dei lazzaroni, degli esclusi, dei venditori ambulanti, delle masse informi e disprezzate brulicanti nei vicoli periferici della sua città, con un programma ardito ma lineare: una sana, semplice ed efficace istruzione religiosa, tendente a costruire un cristianesimo più autentico e impegnato. Alfonso deve far breccia in un popolo materiato di ignoranza religiosa e vittima delle infiltrazioni giansenistiche e giusnaturalistiche del tempo, nonché arginare forme devozionistiche ed emotive troppo spesso lontane dalla fede più genuina. L’opera di Nicola Caravita Nullum jus Pontificis Maximi in Regnum Neapolitanum dissertatio historico juridica del 1707 che secondo R. De Maio “esprime maturità di coscienza e di libertà cristiana, conoscenza della teologia, della letteratura e della storia della Chiesa con perizia filologica e utilizzazione acuta dei rinnovati concetti e metodi del diritto” (2) – era comunque un’antifona al più spregiudicato Pietro Giannone, lo storico foggiano autore della Istoria civile del Regno di Napoli, tendente a spingere gli Stati ad emanciparsi dal curialismo romano. A qualcuno il giurisdizionalismo fiorente a Napoli, soprattutto con Pietro Giannone e Bernardo Tanucci, potrebbe apparire come una futile disquisizione su problemi prettamente giuridici, o al più una lotta diplomatico religiosa fra governi e Sede Apostolica del tutto estranea al popolo e alla vita concreta. Ci sia consentito dissentire. Il regio placet dilazionava e coartava molte iniziative apostoliche e la diffusione delle Congregazioni religiose dimoranti nel Regno, condizionava l’elezione dei vescovi, spesso proteggeva l’azione disturbatrice dei preti filogovernativi nel normale svolgimento della fede, nel rispetto per le leggi della Chiesa con il conseguente sensibile raffreddamento della pietà cristiana. Il Giansenismo poi incideva più direttamente sulle coscienze. Questo movimento, nato come reazione all’Umanesimo e al Molinismo, presto sconfinò nell’eresia. Col suo Augustinus Giansenio attaccò i Semipelagiani rei di aver alterato la dottrina sulla grazia, rilassato la morale, smarrito il senso dell’autentica pietà. I nuovi canoni per la riforma partivano dai presupposti della natura umana fondamentalmente decaduta, dell’impotenza della volontà umana di fronte al male o al bene, dell’azione necessitante della grazia, della gratuità della predestinazione, della non universalità della Redenzione. Di qui l’indebolimento della speranza di fronte all’inesorabile destino, non sostenuta dal confronto della partecipazione ai Sacramenti, ai quali si scoraggiava in ottemperanza a un puritanesimo e rigorismo senza attenuanti, né da forme di pietà aride e sempre nutrite di timore. È vero che ci furono le condanne da parte di Alessandro VIII (7 dic. 1690) e di Clemente XI (8 sett. 1713), ma gli effetti perduravano. E allora non “sine providentissimo Omnipotentis Dei consilio factum est, come si legge nella lettera apostolica di Pio IX (7 luglio 1871) con la quale proclamava S. Alfonso Dottore della Chiesa universale ut, quum Jansenistarum doctrina Novatorum oculos in se converteret, errorisque species multos alliceret, ageretque transversos, tunc potissimum extaret Alfonsus M. de Ligorio… qui… scriptisque doctis et laboriosis istam ab inferis excitatam pestem radicitus evellendam, et ab agro Dominico exterminandam curaret“. Ma l’impegno di Alfonso fu più risolutivo nella rieducazione del popolo verso una più giusta e sobria fenomenizzazione della fede: le devozioni dovevano nascere da una maturità cristiana e da una più sostenuta riflessione sulle verità della fede. “L’impressione più incisiva che lasciano i documenti sulla vita a Napoli scrive il De Maio a metà del Seicento è che le pratiche devozionali sono inversamente proporzionali alla cultura religiosa. La deficienza è significativa anche da un’altra constatazione; che fra l’ignoranza vasta e, talora, incredibile del ceto plebeo e la dottrina della sparuta élite di intellettuali, mancava una cultura religiosa media” (3). Iniziative che fanno capo ad Antonio Torres, Antonio De Colellis, S. Giovan Giuseppe della Croce, S. Francesco De Geronimo e Alfonso de Liguori, tutte tendenti all’istruzione della plebe, si limitano alle forme più collaudate: scuola della dottrina cristiana, predicazione e missioni popolari. Troppe persone si barcamenavano in una comoda contaminazione di devozionismo (processione, quarantore, benefizi di altari, apologie del miracolo di S . Gennaro) non sorretto da maturità di fede, e di una vita non proprio esemplare (gioco, meretriccio, usura e superstizione). L’immenso Olimpo della chiesa napoletana, sempre disposto a concedere uno stallo a ogni santo, gli innumerevoli Crocifissi di interesse turistico e devozionale, i quadri miracolosi della Vergine, migliaia di reliquie che costellavano altari e pareti, integravano la tipica devozione napoletana del tempo (4). Certo anche questa è ricchezza, è peculiarità indigena che non va stigmatizzata con un giudizio approssimativo che non si sganci dalla troppo facile e consueta matrice di una Napoli tutta folclore e devozionismo. Il popolo napoletano è stato e dev’essere esuberante, perché, da Dio posto in un paradiso terrestre di clima, di colori, di sorrisi e di amori, facilmente si abbandona all’indulgenza del vivere, per dispiegarsi poi nella varietà e molteplicità delle sue manifestazioni sempre ricche di calore e inventività. Tutto questo Alfonso, schietto figlio della sua terra pensò di purificare e valorizzare. e la missione popolare, per i suoi contenuti dottrinali, per la coreografia che comportava, gli offriva il terreno adatto per convogliarvi le proprie esperienze, per appagare la sete di un apostolato costruttivo, teso alla realizzazione di un programma dinamico: portatore la Redenzione alle anime più abbandonate. Comunque Alfonso, forse, non avrebbe potuto muoversi altrimenti nel campo dell’apostolato. In pieno ‘700 infatti Napoli si ritrova terra di missioni popolari, nate all’indomani della Controriforma. Sarà opportuno, a questo punto, per inquadrare e focalizzare l’apostolato alfonsiano, un accenno alle grandi linee di sviluppo e sistemazione della missione popolare. P. Alfonso Amarante, redentorista. Un vero cultore della figura e del messaggio di S. Alfonso. Vive da molti anni a Pagani, il luogo alfonsiano per eccellenza, dove ogni avvenimento alfonsiano lo ha visto attivo protagonista. Alle origini della missione popolare Come per la Riforma Lutero non era stato che il portavoce di un fermento, già avvertito, di revisione della Chiesa, così la Controriforma con il Concilio di Trento (13 dic. 1545 4 dic. 1563) non fu che l’espressione solenne ed ufficiale del rinnovamento sempre vivo all’interno della Chiesa per eliminare abusi e ravvivare la fede nel popolo di Dio. Ai Chierici regolari fu affidata, in gran parte attraverso la missione popolare, l’attuazione delle istanze conciliari. Paolo III infatti nella bolla di approvazione della Compagnia di Gesù Regimini militantis Ecclesiae del 1540 sottolinea come lo scopo di detta Compagnia sia appunto il progresso delle anime, la propagazione della fede attraverso l’annunzio della parola di Dio, gli esercizi spirituali, le opere di carità, la formazione cristiana della gioventù e le confessioni. Altri documenti che confermano la finalità missionaria dei Gesuiti, sono le Regole di quelli che vivono nelle Missioni (7), tendenti appunto a mettere in esecuzione le Costituzioni e i Decreti delle prime congregazioni generali concernenti le missioni; l’Istruzione qui ad Missiones, fructicandi causa, proficiscuntur, in cui è tracciato il metodo e il programma della missione; le molte lettere ai membri della Compagnia inviate dallo stesso P. Acquaviva, nelle quali si insiste sulla utilità delle missioni e sul serio impegno che richiedono. Tra queste lettere emerge quella Del Giubileo e delle Missioni, inviata nel 1590 a tutte le Province della Compagnia, in cui il P. Acquaviva invita i suoi confratelli a girare a due a due, come gli Apostoli, per borgate e villaggi per rimediare all’estrema gravità dello stato della Chiesa afflitta dall’ignoranza e oblio delle grandi verità esterne. In Spagna, dove l’eresia poco aveva attecchito, la missione popolare si sviluppò sulla linea di particolari esigenze tendenti a rinnovare la vita cristiana, a rimuovere il popolo dal peccato, dall’indolenza e indifferenza religiosa. E ai gesuiti spagnoli gli storici riconoscono la paternità di una prima sistemazione della missione popolare. Il P. Gerolamo Lopez S. J. (1589 1658), a partire dal 1619, predicò molte missioni in villaggi e città della Spagna, istituendo l’Atto di contrizione, o Svegliarino, o Sentimento di notte, che consisteva in un vigoroso invito, col terzo tono, alla penitenza e alla partecipazione alla missione, tenuto dal missionario al calar della notte, in diversi punti del paese, dove si recava preceduto da una piccola processione con crocifisso. A lui ancora risale l’uso di presentare al popolo, durante la missione, un quadro rappresentante l’anima dannata o il teschio di morto, col quale il predicatore apriva un dialogo. Il P. Tirso Gonzales S. J. (1624 1705), missionario dal 1665 al 1676 e in seguito Generale dei Gesuiti, ci ha lasciato un piano della missione ben elaborato. La missione si articola tra svegliarini, catechesi, confessione e comunione generali. Temi generali della predicazione erano le ultime verità, le occasioni di peccato, il sesto comandamento, il perdono delle offese, la necessità della preghiera. Come mezzi di perseveranza nel bene operato durante la missione il P. Gonzales consigliava preghiera frequenza ai Sacramenti, meditazione, devozione alla Madonna, S. Rosario. Tra le varie zone d’Italia, per ovvie ragioni politiche la missione spagnola si affermò soprattutto nel Reame di Napoli. Ma anche qui la sistemazione fu progressiva. Il P. Scipione Paolucci S. J. nella sua opera Missioni dei PP. della Compagnia di Gesù nel Regno di Napoli, apparsa nel 1651 in occasione del primo centenario dell’arrivi dei Gesuiti a Napoli, ci delinea lo sviluppo e il sistema delle missioni predicate dai suoi confratelli in una quarantina di diocesi del Reame. Il detto P. Paolucci ci parla di tre momenti nevralgici nella missione. 1. Arrivati i missionari in paese si procede ad una breve adorazione del SS. Sacramento, si salutano le autorità civili e religiose e si annunzia la missione e il giorno del suo inizio (che possibilmente sarà di festa). Nei giorni che precedono la missione sono previsti svegliarini in diverse zone del paese, l’annunzio della missione, l’indulgenza plenaria e la benedizione apostolica per tutti quelli che assisteranno alla missione e si confesseranno e comunicheranno. 2. La missione vera e propria, che durerà dieci o più giorni, si sviluppa attraverso istruzioni, prediche, discipline e processioni di penitenza. L’istruzione durerà mezz’ora e dovrà preparare ad una buona confessione e comunione; la predica sarà come il centro propulsore e il momento più impegnativo dell’intera missione e i temi da trattare, con stile semplice ma vivo, saranno quelli che meglio dispongono alla penitenza: verità eterna, morte, inferno, gravità e pene del peccato mortale. Durante la predica non mancherà l’elemento coreografico emotivo, quale per esempio la presentazione del teschio di morto. La missione si concluderà con la comunione generale, la processione di penitenza e la benedizione papale. 3. Dopo la missione, i missionari sosterranno ancora per un po’ di tempo per confermare i frutti (rinnovazione di spirito), per assolvere gli impegni di carità verso i poveri, visitare gli ammalati, carcerati e religiose. Sorgono frattanto a Napoli diverse congregazioni di preti secolari orientati per la predicazione delle missioni. I Pii Operai fondati dal Carafa nel 1601 a Napoli, annunziavano la salvezza alle anime dei villaggi più abbandonati con un metodo missionario sviluppato all’interno della stessa congregazione dai Padri più rappresentativi: Carafa, Colellis, Torres e Sabbatini: Quest’ultimo, introdusse l’uso, in missione, di erigere delle croci in ricordo della Passione di Cristo. Altra congregazione missionaria è quella fondata dal P. Pavone nel 1611 col nome di Congregazione dell’Assunzione, o, più comunemente, La Conferenza. La congregazione delle Missioni apostoliche o Propaganda della Fede degli Illustrissimi, fondata nel 1646 dal curato della cattedrale di Napoli Sansone Carnevale con l’arduo compito delle missioni estere, ripiegò anch’essa per la predicazione missionaria locale per difficoltà sopraggiunte. Sempre a Napoli il P. Torres, generale dei Pii Operai, dà vita nel 1680 a una congregazione per le missioni popolari sotto il nome di S. Maria della Purità. Il P. De Mura, membro di detta congregazione, nella sua opera Il Missionario istruito (Napoli 1738) ne riporta il metodo che può essere definito il più tecnicamente perfetto tra quelli allora in vigore. Tale metodo prevede nella missione un duplice tipo di esercizi: piccoli esercizi, quali i cinque sentimenti (di notte, di giorno, di semina, di disciplina, di pace), il S. Rosario con la spiegazione dei misteri, il catechismo; grandi esercizi: prediche e meditazioni. Terminata la missione, i missionari si trattengono ancora due o tre giorni per confermare i frutti e dare le assoluzioni differite. Dinamica missionaria di S. Alfonso Quando nel 1732 Alfonso de Liguori, che in precedenza aveva partecipato alle missioni come membro della congregazione degli Illustrissimi, fonda la congregazione del SS. Redentore con chiaro scopo missionario, trova davanti a sé un metodo missionario già maturato e collaudato per anni, le cui grandi linee erano servite di norma ai missionari di tutte le congregazioni. “…Circa gli esercizi di missione scrive Alfonso , già ve ne sono molti libri che ne trattano a lungo, specialmente v’è la bell’opera del R. Sacerdote D. Filippo De Mura, intitolata Il Missionario istruito (dalla quale confesso di aver presa la maggior parte di questa mia Operetta); nulladimeno io per maggior comodità dei giovani della nostra Congregazione, ho fatto il presente Compendio, dove ho posto in breve le regole, e gli esempi di tutti gli esercizi, secondo lo stile delle Missioni che si fanno dalla nostra Congregazione; e per ragione della pratica ch’ ho avuta di 34 anni di Missioni, ho aggiunto molte cose, e riflessioni utilissime al profitto delle anime. E spero che questa Operetta possa riuscir profittevole per gli altri; poiché troveranno posto qui in succinto, e con chiarezza ciò, che si dice diffusamente negli altri libri; tanto più che lo stile pieno e conciso piace al giorno d’oggi, volendo alcuni legger poco, e saper molto” (8). Non possiamo pertanto affermare che Alfonso abbia creato un nuovo metodo missionario; egli ha piuttosto inserito il suo apostolato nel ritmo di quello del Regno di Napoli, arricchendolo di indovinate caratteristiche proprie. Un tipo ecclettico come il suo non poteva che selezionare la parte che a lui sembrava migliorare fra i tanti metodi missionari allora in auge, integrarla continuamente e apportare quelle modifiche che il suo spiccato intuito pastorale via via gli suggeriva. Già nell’agosto del 1733 nella corrispondenza tra Alfonso e il Falcoia si accenna a un abozzo di regolamento delle missioni che il Santo va elaborando e che il suo direttore spirituale desidererebbe conoscere: “… Non mi dispiace il sentire il vostro regolamento nelle Missioni” (9). Prima codificazione scritta sulla prassi missionaria redentorista resta, comunque, quella presentata nella sessione del 20 ottobre 1744 del Capitolo Generale dell’Istituto. In tale data il regolamento fu ampliamente discusso, approvato e inserito negli atti del Capitolo stesso. Lo scritto si compone di un diffuso prologo, ispirato per il suo contenuto al manuale missionario del De Mura, riguardante lo scopo delle missioni, le doti dei missionari, la preparazione immediata e il comportamento dei padri durante il tempo della missione. Nel 1760 Alfonso pubblica a Napoli una Breve istruzione degli esercizi di Missione con le sue regole e pratiche ad uso dei giovani della sua Congregazione, che più tardi inserirà nella più vasta opera Selva di materie predicabili ed istruttive. Finalmente nel Capitolo Generale del 1764 fu nuovamente presentato e approvato il suddetto regolamento .missionario. Nel 1783 apparve il Commentario delle nostre missioni secondo il regolamento regio (10), dove si notano alcuni ritocchi validi e opportune precauzioni dettate da fattori geo politici. Sulla base di questa documentazione si potrebbe ricostruire in modo capillare tutto lo svolgimento di una missione al tempo del Fondatore. Ma siccome il nucleo della missione alfonsiana, come si è osservato, è un facsimile di quello allora in voga e che già abbiamo esaminato nell’opera del De Mura, sarà qui più utile evidenziare quelle componenti che ne caratterizzano il metodo. Della missione Alfonso ritiene il concetto classico del sec. XVII: un corso straordinario di predicazione a tempo limitato, tenuto da due o più missionari, investiti della legittima autorità ecclesiastica per la conservazione e l’accrescimento della fede e dei buoni costumi nel popolo cristiano. Egli, attraverso la missione, vuol raggiungere tutte le anime, specialmente quelle più abbandonate, convertirle attraverso l’annunzio evangelico dei grandi temi rivelati, santificarle con la penitenza, Eucaristia e preghiera continua, trasformarle in missionari e conservarle nel fervore con la rinnovazione di spirito e altre opere adatte. Alfonso, con la sua eccezionale personalità, intende rinverdire gli stereotipati schemi missionari, innestando sul vecchio tronco della tradizione polloni di elementi nuovi e geniali. Egli è pertanto convinto che la missione redentorista ha una fisionomia tutta propria. A due anni infatti dalla fondazione dell’Istituto, nel luglio del 1734, il Santo così si confida a Francesco Mezzocapo: “… In quanto alle missioni, che sono lo scopo principale del nostro Istituto, noi ne abbiamo già date in buon numero e sono tutte riuscite meravigliosamente, perché noi le diamo in una maniera differente da quelle delle altre congregazioni” (11). In che cosa consista poi questa maniera differente di dare le missioni, è difficile dirlo. La fisionomia del metodo alfonsiano va ricercata non tanto nelle particolarità esteriori, bensì nello spirito che lo anima e lo pervade; al limite, potremmo dire che il metodo scaturisca dalle peculiarità del carattere del Santo. Alfonso è un tipo dinamico, votato all’azione; è missionario, scrittore, direttore di anime, artista…; è bruciato da un fuoco che non gli consente riposo; è impaziente, non soffre remore e ostacoli; la sua azione è immediata, e a volte, impetuosa, tipica del carattere meridionale, ma è pur sempre un’azione totalitaria, decisa. Da buon stratega di Dio Alfonso porta un attacco energico e frontale alla cittadella del peccato, convogliando e utilizzando tutte le risorse, senza trascurare nessun focolaio di resistenza. L’ascetica missionaria alfonsiana non si lascia perciò inquadrare in una disciplina ferrea, metodica, quasi militare, ma è pervasa di quella soavità, misura che ha come regola la libera iniziativa individuale, pronta a lasciarsi muovere dal soffio dello Spirito di Dio. Qui, senza pretese definitorie, ma solo per motivi di sintesi, evidenziamo la triplice componente che vivifica tutto l’apostolato del Santo. 1. Dimensione psicologica Il metodo poggia su presupposti di alto valore psicologico. Si pensi al canto delle canzoncine dalla facile linea melodica, sorrette da un testo lineare e di dottrina soda che, articolato tra le austere funzioni della missione, solleva, istruisce e fa pregare. Nella predicazione missionaria nulla va trascurato, ma si fa leva su tutti l’uomo: intelligenza, fantasia, cuore, sentimento, sensi esterni… Le funzioni vengono così condite da quel tanto di coreografia, anche spettacolosa, in modo da avvincere e trasportare le anime su un piano soprannaturale. Ecco perché per il nostro Santo la stessa coreografia (battersi con la fune, presentare il teschio di morto o l’immagine di una persona dannata) deve essere sentita, animata cioè dalla fede e convinzione del predicatore: “… In fine dell’atto di dolore il predicatore due o tre volte durante le prediche si batterà colla fune, dico fune non catena, perché la catena se è di anelli massicci, può far molto nocumento al predicatore, che ritrovandosi nel fervore, facilmente si percuoterà con indiscrezione; se poi è di piastre, questa già ognuno vede, che ad altro non serve che a far rumore, senza dolore. Prenderà dunque la fune in queste due o tre sere, e si batterà per qualche spazio notabile, acciocché non sembri una semplice apparenza. Ma si asterrà di alcuni: il che bene apparisce essere una pura funzione” (12). La missioncina o catechesi ai bambini, infine, tende a portare un’ondata di gioiosa novità. Saranno proprio i piccoli con il loro canto, le loro processioni, i loro racconti in famiglia, i più validi ausiliari dei missionari per recare nelle case un fermento capace di contagiare anche i grandi. “…Pertanto scrive il Santo si è conosciuto spediente, siccome si pratica nelle missioni della nostra Congregazione, di farli (i bambini) uscire dalla chiesa in tempo della predica grande, e ridurli in qualche altra Chiesa, o cappella, dove nello stesso tempo si fa loro prima la Dottrina, e poi un sermoncino con l’atto di dolore. E ciò senza dubbio riesce per li figliuoli assai più profittevole, che il sentire la predica, grande, poiché questo sermoncino si farà secondo la loro piccola intelligenza, e con modi e parole proprie, con cui si parla ai fanciulli, senza sentenze latine, e senza divisioni di punti; ed infine si farà far loro l’atto di dolore col Crocifisso. Prima del sermone si frammenta una canzoncina divota” (13). 2. Dimensione pastorale Il metodo alfonsiano tende alla conversione totale dell’uomo attraverso la via dell’amore secondo le istanze teologico pastorali. Da principe dei moralisti, che non ignora le finezze psicologiche e le norme della pedagogia, Alfonso avverte i missionari a non fondare le prediche sul terrore ma sull’amore: “…Quelle anime che lasciano il peccato, mosse dal solo timore dei divini castighi, finita la missione e cessato lo spavento, appresso facilmente ritornano agli antichi vizi; ma quelle che restano legate a Dio con l’amore, facilmente perseverano… E dico la verità essere una gran miseria il vedere che i predicatori, ordinariamente parlando, di tutt’altro trattano che dell’amore verso Gesù Cristo, dopo che questo Dio ha fatto e patito tanto per farsi amare” (14). Nella sua predicazione missionaria Alfonso, non trattenuto da alcun paradigma, dà libero sfogo all’ispirazione del momento, sostenuto dal prevalere dell’elemento affettivo della sua calda personalità. In lui la fase di ragionamento, base di ogni azione che voglia definirsi umana, tende a far scoccare la scintilla dell’amore: il raziocinio cede al discursus della carità. Si può facilmente osservare come il Santo in tutte le sue opere, anche in quelle strettamente scientifiche, quali le morali e le storiche, sia incapace di procedere a lungo solo per dialettica serrata: presto il suo discorso si inturgidisce di sentimento ed esplode nella preghiera, nell’esclamazione, nell’invocazione di amore. Dalla stessa scelta dei tempi per la predica grande si può arguire l’impegno del Santo nell’armonizzare l’annunzio dell’economia divina dalla salvezza con la psicologia popolare. E a questa simbiosi Alfonso non arrivò in un baleno. In alcuni fogli autografi superstiti sono chiari gli indizi del travaglio per giungere ad una distribuzione di temi più redditizia. Le variazioni rivelano l’itinerario perseguito con alacre passione del bene delle anime. Alfonso non si compiaceva della prima tappa, ma si sottoponeva ad una ferrea autocritica nella ricerca della maggior gloria divina. Nel 1750 a Melfi, in Basilicata, organizzò le prediche grandi in questo modo: impenitenza, misericordia, peccato, tre peccati, scandalo, abbandono, figlio prodigo, confessione, morte, giudizio, inferno, eternità, Maria SS., paradiso, preghiera, benedizione. Nel 1755 a Benevento, nello Stato Pontificio, preferì un ordine diverso: misericordia, peccato, impenitenza, abbandono, confessione, quattro peccati, morte, giudizio, inferno, eternità, Maria SS., preghiera, flagellazione di Gesù Cristo, morte di Cristo, benedizione. Nel 1760, pubblicando gli Esercizi di missione, che formano la terza parte della Selva di materie predicabili, stese la Nota di prediche che sogliono farsi nelle nostre missioni (15), con interessanti osservazioni: malizia del peccato mortale, morte, giudizio, inferno (Novissimi che si debbono sempre fare), confessione (non si lasci di fare prima di cominciare i Novissimi), predica della Madonna (si farà immediatamente dopo quella dell’inferno), predica della preghiera (si faccia in ogni missione), misericordia di Dio, castighi spirituali del peccato, castighi temporali del peccato, divina chiamata, importanza della Salute, vanità dei beni temporali, numero dei peccati o sia dell’abbandono di Dio (di gran profitto per la perseveranza dei peccatori che si convertono), impenitenza finale, scandalo, perseveranza (ultima predica). Circa le ultime dieci prediche il Santo annota: “…sono arbitrarie secondo lo spirito del predicatore” (16). Altra istanza pastorale, oltre i contenuti, è la forma catechetica, lo stile semplice apportato dal Santo in un momento in cui la predicazione risentiva ancora dell’influsso di un marinismo fatuo, altisonante e insieme povero di nutrimento solido per la riedificazione del popolo cristiano. Per la semplicità dello stile Alfonso è fin troppo energico quando scrive: “… E so che i predicatori di spirito, ed amanti di Dio non vanno trovando parole scelte, né periodi sonori, ma vanno trovando il modo più adatto per liberare 1’anime dell’inferno, e per indurle ad amare Dio. I predicatori che tirano la gente, allettandola coi discorsi fioriti, voglio concedere che abbiano concorso, ma il frutto dove è? Dopo tali prediche, chi va a confessarsi compunto, ed intenerito da quelle descrizioni ingegnose rapportate, e da quei periodi rotondi, in somma da quei fiori e frondi, di cui è composto il sermone? …Oh volesse Iddio, che si abolisse nella Chiesa un tal modo di predicare con vanità! È certo che se tutti i predicatori parlassero alla semplice, e all’Apostolica, si vedrebbe mutato il mondo… Il predicar con vanità non serve ad altro che ad invanire chi predica, ed a far perdere il tempo a chi sente, e quel ch’è peggio, a snervare la parola di Dio; poiché il dir fiorito fa perdere la forza, che tengono in sé le Verità eterne esposte con semplicità” (17). Nella Lettera ad un vescovo novello Alfonso dice che il Cardinal Pignatelli si mostrava molto scettico riguardo alla docilità dei missionari, ai quali aveva raccomandato la semplicità dell’eloquio: “…Il Cardinal Francesco Pignatelli arcivescovo di Napoli in un anno, quando vennero i predicatori dei casali a prendere da lui la benedizione, raccomandò loro che avessero parlato alla semplice e popolare in quei luoghi ove andavano a predicare; giacché ivi la massima parte era di rozzi, che dalle prediche nulla ne ricavavano, se non si parla a modo loro. Indi soggiunse: ma voi mi direte: la ricetta è fatta: ed io rispondo: poveri infermi! e così li licenziò. Con molta ragione ciò disse questo santo Prelato, poiché qual utile possono averne gl’infermi per li loro mali da quei rimedi che si trovano scritti a caso dal medico nella ricetta fatta prima di sapere le loro infermità” (18). Il Santo Dottore lo esigerà severamente dai suoi congregati, anche a costo di far interrompere a metà la predica. “Si usi lo stile familiare e semplice” insiste Alfonso in una sua lettere circolare del 27 giugno 1773 col quale le nostre missioni hanno fatto, per divina misericordia, prodigi di conversioni di anime, nei paesi dove si sono fatte a dovere e secondo Dio… Dobbiamo predicare Cristo crocifisso, non già noi stessi; la sua gloria, non la nostra vanità” (19). Per quest’opera missionaria di trasformazione, oltre ai contenuti presentati con un certo stile semplice ma efficace, si richiede anche un adeguato numero di sacerdoti. Alfonso ne prevede almeno quattro per mille abitanti: l’azione missionaria deve giungere nelle più sperdute ed impervie località della parrocchia. Per il numero quindi di missionari e per la durata della missione il Santo è quanto mai elastico: “Almeno quindici giorni per paesi piccoli che siano” (20) si nota nel primo progetto della Regola redentorista , per dare la possibilità a tutta la popolazione di confessarsi dai missionari. Coerentemente a questi principi, nella missione di Boscotrecase (novemila abitanti divisi in quattro parrocchie) lavorarono per un mese (dic. 1741 – genn.1742) dieci missionari. E nella missione di Caiazzo (duemilacinquecento abitanti) del 1734, Alfonso col P. Sarnelli ed altri due sacerdoti ausiliari predicarono per più di un mese. Nelle Riflessioni utili ai Vescovi il Santo stigmatizza le così dette missioni globali: “…Io venero (nei missionari che così operano) il loro buon zelo in voler santificare tutte quelle anime in una volta, ma non approvo la loro condotta; e pregherei i Vescovi, per quanto amano la gloria di Gesù Cristo, a non contentarsi di tali missioni affasciate, ma a procurare che in ogni paese, per piccolo che sia, si faccia la sua missione a parte, almeno di otto giorni; perché sappiamo che in queste missioni di mezzo vi concorrono i meno bisognosi; ma quelli che sono più aggravati di peccati…, quando non si fa nel proprio paese… non si accostano, o rare volte, sotto il pretesto che è lontano, o che la predica finisce a notte, o ch’è mal tempo ecc.; …Io parlo per esperienza” (21). Sollecitato sempre da motivi pastorali il Santo inserisce nella predicazione missionaria, accanto all’impegno catechetico per ogni settore topografico del paese, anche la predicazione specializzata per categorie. Divisi pertanto per sesso, età e categorie tutti hanno modo di ascoltare una parole adatta alla loro cultura, impegni e competenze nell’ambito del paese. I gentiluomini, recepita la buona parola del missionario, saranno poi di benefica testimonianza sull’importanza e validità della missione stessa. “…Assegnerà il superiore scrive Alfonso un altro soggetto per gli esercizi ai preti e un altro che dia esercizi ai seminaristi… Di più assegnerà un altro padre che dia gli esercizi ai gentiluomini a parte nella mattina in qualche congregazione o cappella. Questi esercizi riescono di sommo profitto per le persone colte del paese; poiché in certi luoghi i gentiluomini poco concorrono alle missioni, ma in questi esercizi che si fanno a posta per essi ordinariamente tutti sogliono concorrervi, e, parlandosi ivi familiarmente et ad cor, molti si danno a Dio, ed il loro buon esempio porterà poi seco la riforma di tutto il paese. Assegnerà anche il padre che dia gli esercizi alle monache, se v’è monastero di loro in quel paese e se elle li domandano… Assegni ancora un padre che dia gli esercizi ai carcerati e li confessi” (22). Di tutto questo se ne ha una conferma nella missione di Frosinone, di cui il P. Landi scrive: “…Finalmente è uso della nostra Congregazione di non solo fare la missione grande nelle chiese grandi e nelle chiese particolari con la missioncina, ma eziandio dare gli esercizi particolari a ogni ceto di persone separatamente, come sono gli esercizi agli ecclesiastici, alli signori galantuomini; ad ogni sorta di artisti e congregazionisti, a signore dame e convertite e monache e così degli altri stati e condizioni” (23). Punto importante nell’organico della missione è anche la Vita devota o esercizio divoto, che nel sistema alfonsiano non è un’appendice della missione, come lo era nel pensiero del De Mura: “…L’esercizio divoto è l’ultimo a farsi infra tutti gli esercizi della missione e dopo che al popolo fu data la papale benedizione” (24), ma risulta parte integrante: “L’esercizio divoto è uno degli esercizi più utili della missione” (25) scrive il Santo e occupa almeno lo spazio di tre sere. “…In queste sere continua Alfonso dallo stesso predicatore si farà prima mezz’ora di pratica, o sia d’istruzione, in cui s’insegneranno i mezzi per far una vita divota; e specialmente s’insegnerà il modo di far l’orazione mentale, dimostrandosi prima quanto ella sia giovevole, anzi necessaria ad ogni genere di persone, per conservarsi in grazia di Dio, poiché i cristiani ben sanno le verità della Fede, ma perché non ci pensano, non vivono da cristiani; ed indi si parlerà del modo di farla con facilità, acciocché tutti la possono fare” (26). 3. Dimensione auxologica La missione nel pensiero del Santo non è un punto di arrivo, ma di partenza per un ulteriore sviluppo , crescita o maturazione nella vita cristiana. A questo tenderebbe l’altra caratteristica del sistema alfonsiano: la rinnovazione di spirito. Quattro o cinque mesi dopo la missione, uno o due padri ritornano sul medesimo luogo per rimettere in grazia quelli che nuovamente hanno prevaricato e per risvegliarne il fervore, conservando in una serie di prediche la stessa tematica missionaria e insistendo maggiormente sulla perseveranza nel bene. Negli Statuti Capitolari elaborati nel 1764 a Pagani, con l’intervento del Santo Fondatore, venne raccomandata con finezza psicologica la presenza del missionario istruttore o predicatore nel corso della rinnovazione: “…Le rinnovazioni di spirito si faranno quando si può, dai medesimi padri, che fecero la missione, o almeno ci sarà l’istruttore o predicatore, ma in minor numero e nello spazio di pochi giorni; s’è stabilito che in esso si proceda col massimo rigore della regola che nelle missioni, così nel vitto e viaggio come in ogni altra cosa… Per lo mantenimento di quest’opera di tanto frutto e di tanta gloria a Dio, siano solleciti i rettori locali a scrivere a tempo a chi si deve ed usarsi qualche industria acciò non restino attrassate (arretrate)” (27). Alfonso, lettore assiduo, come il Crisostomo, delle lettere paoline, sarà stato colpito da quel brano degli Atti degli Apostoli dove Luca espone a Barnaba, con la consueta concisione, la tattica usata da S. Paolo, peregrinante per la Siria e la Cilicia, per confermare, corroborare e incoraggiare le comunità cristiane nascenti nel mondo greco romano: “Torniamo a visitare i fratelli nelle varie città, nelle quali noi abbiamo predicato la parola del Signore, per vedere come stanno” (Atti 15,36). Fondata infatti la Congregazione del SS. Redentore nel 1732 con lo scopo di evangelizzare le anime più abbandonate della campagna, Alfonso si rese subito conto che quelle povere popolazioni napoletane, mancanti di aiuti elementari, avevano bisogno di ulteriori incontri con i missionari per essere stimolate a proseguire nel bene o rialzate se recidive, per la fragilità, nelle colpe precedenti. Sembra pertanto che risulti evidente come Alfonso non si prefiggesse fuochi di paglia, o effimeri entusiasmi religiosi, come accadeva nelle solennità dei Patroni con panegirici prolissi e vuoti. Il nostro Santo era convinto di lavorare in profondità: “… Io tengo per certo scrive in una Lettera ad un Vescovo novello che di tutti coloro che sono venuti alle prediche , se alcuno di loro muore fra 1′ anno che è stata la missione, difficilmente si danna. Almeno per uno o due anni si vede durare il frutto delle missioni, e se non dura, avverrà per difetto dei sacerdoti del paese, che non attendono a mantenere il frutto delle missioni coi loro sermoni, con fare adunare il popolo alle meditazioni e alla visita del Sacramento, e con assistere soprattutto al confessionario; altrimenti del profitto della missione fra un anno poco ce ne resta, e perché? per trascuraggine dei sacerdoti che non si vogliono pigliar fastidio” (28). Odiava il terrore ed esigeva che le prediche grandi e le istruzioni formassero cristiani saldi nella fede, autentici testimoni di Cristo con le buone opere in mezzo alla società (29). Con la sua tipica lucidità aveva previsto anche eventuali obiezioni a queste rinnovazioni di spirito e in una lettera del 30 marzo 1746 a un amico di Foggia per patrocinarle presso il Vescovo di detta città, suggeriva la corrispettiva risposta: “…Avverta V. S. che esso dirà che non servono tante missioni l’una sopra l’altra. Gli risponda che questa non è una missione; è solamente ricordare al popolo la missione e le prediche fatte e le loro promesse. Con queste rinnovazioni di spirito molti si confermano nella buona vita. Molte volte farà più bene una rinnovazione di spirito di queste che la stessa missione fatta. E così gli replichi che non è missione, ma un ricordo e perciò bastano due padri e pochi giorni” (30). Due anni più tardi il Santo si prendeva la sua brava ragione e la rinnovazione di spirito doveva risultare un fattore importante, per non dire determinante, per ottenere 1’approvazione della Congregazione da lui fondata. Infatti Alfonso, sottoponendo nel 1748 il testo delle Costituzioni all’esame pontificio, sottolineava che i membri dell’Istituto oltre le missioni rurali avrebbero fatto le rinnovazioni di spirito, delle quali forniva una descrizione sommaria. Il cardinale Besozzi, relatore della causa, analizzò il manoscritto e compiaciuto segnalò nel suo voto favorevole la particolare novità delle rinnovazioni, “quod sane singulare est huius Instituti medium (31) E il P. Landi narra che il Card. Gentili espresse al P. Villani il suo compiacimento per quel punto della Regola ove si parla delle rinnovazioni di spirito (32). L’idea fece colpo nei dicasteri romani, osserva il Gregorio (33), e contribuì non poco ad ottenere tempestivamente il Breve di approvazione da Benedetto XIV nel 25 febbraio 1749, a 17 anni dall’inizio dell’Istituto. P. Alfonso Amarante insieme a P. Paolo Saturno e P. Antonio Di Masi, altri due redentoristi di primo piano per la diffusione del culto di S. Alfonso. Conclusione A distanza di due secoli e più dalla prima affermazione della missione redentorista e a cento anni dalla proclamazione del suo ideatore Alfonso de Liguori a Dottore della Chiesa universale, ci domandiamo se siano ancora urgenti per i cristiani del secolo XX i contenuti del messaggio pastorale alfonsiano. Una risposta positiva ci sembra d’obbligo. La missione popolare secondo il metodo del nostro Santo scuote le coscienze scavando nelle profondità e, destatevi salutari resipiscenze, le orienta a Cristo con la vita devota, al cui centro stanno la passione e la morte del Redentore. La rinnovazione svolta nei termini suggeriti da Alfonso, che sono in fondo quelli paolini, va incontro alle anime ricadute o tentennanti per sollevarle e dare ad esse una spinta con la grazia sacramentale, per farle avanzare risolute tra i pericoli verso le realtà escatologiche (34). I cambiamenti si richiedono, ma non globali e radicali. Si tratta in fondo oggi come oggi di inserire 1’annunzio di queste verità eterne in una visione più unitaria della dottrina cattolica è presentare un cristianesimo integrale, completo dal punto di vista formativo, dottrinale. liturgico, ascetico, caritativo e non sempre distillato di moralismo e terrorismo. Mai come oggi, forse, è necessaria la predicazione missionaria; questa, ringiovanita, ha ancora il suo avvenire apostolico. Quelle missioni, nate per diffondere la riforma tridentina, sono ora chiarate ed impegnate nella diffusione del messaggio del Vaticano II. L’auspicio è che, scostati gli appesantimenti del tempo, i vecchi modi e le tecniche sorpassate, snellite nella forma, più solide, efficaci e complete nel contenuto, con la collaborazione di tutti, nella prospettiva di una pastorale d’insieme, queste missioni, tanto amate dai santi che le hanno ideate e volute, rinverdiscano nel dinamismo della vita di oggi e si adeguino sempre di più, secondo le direttive della Chiesa e del Conc. Vaticano II, nell’annunzio della Salvezza agli uomini del nostro tempo. Per concludere, ci sembrano validi i voti augurali espressi dal Card. Garrone, Prefetto della Sacra Congregazione per l’Educazione Cattolica, in un discorso programmatico (35), del 25 novembre 1971 all’Accademia Alfonsiana, per celebrare il primo Centenario della proclamazione di S. Alfonso Doctor Ecclesiae: “Chi, meglio dei figli di S. Alfonso ha la capacità di uno sforzo, per rinnovare, in questo secolo, l’ispirazione delle Missioni? Si sente dire che esse non hanno più ragione di essere; che i missionari sono in cerca di impiego. E tuttavia questo tempo d’incertezza e di smarrimento, è tipicamente tempo di missioni. No! I figli di S. Alfonso non hanno finito di essere utili alla Chiesa. I piccoli si domandano: che cosa bisogna credere ancora? Che bisogna fare? È l’ora della missione. Ed essa ha il suo Dottore. S. Alfonso, Dottore delle missioni? E perché no?” (35) Alfonso Amarante (da Asprenas, anno XIX, n. 2 aprile giugno 1972, ed. D’Auria, Napoli) Alfonso Amarante – Sacerdote redentorista nato ad Angri (SA), licenziato in teologia, laureato in Filosofia presso l’Università Statale di Napoli, ha insegnato filosofia nello Studentato redentorista della Provincia Napoletana, attualmente vicario parrocchiale, professore ordinario di lettere nelle scuole Statali e docente presso l’Istituto di Scienze Religiose S. Alfonso de Liguori, riconosciuto dalla CEI. Ha scritto per la rivista Asprenas, è collaboratore della rivista In cammino con S. Gerardo, mensile di cultura e formazione cristiana; ha curato vari opuscoli. ————————————— (1) S. Alfonso, Lettere, Roma 1887, II, pp. 284 287. (2) AA. VV: Storia di Napoli, vol. VI, t. I, Napoli 1970, p. 660. (3) Ibidem, p. 635. (4) Ibidem, pp. 694 – 700. Cfr. anche Romeo De Maio, Società e vita religiosa a Napoli nell’età moderna, Napoli 1971, pp. 357 386. (5) Cfr. Institutum S.J., Firenze 1893, t. III, pp. 19 – 22 (6) Ibidem, pp.365-368 (7) Cfr. Epistolae Praepositorum Generalium ad Patres et Fr. S.J., II ed., Roulers 1909, t. I, pp. 223 – 230 (8) S. Alfonso, Selva di materie predicabili ed istruttive, Opere Ascetiche. Vol. III, P. III Degli esercizi di Missione, Napoli 1871, p. 150 (9) Anacleta CSSR, XI (1932), (10) Cfr Spicilegium historicum CSSR, VII (1960), fasc. I, pp. 1 39 (11) S. Alfonso, Pagani 1950, pp. 165 166 (12) Selva…, p. 207 (13) Ibidem, p. 175 (14) Ibidem, p. 202 (15) Ibidem. (16) Ibidem. Cfr. anche R. Telleria, S. Alfonso M. de Ligorio, Madrid 1950, t, 1, pp. 715 – 716. (17) Selva…, pp. 190 191. (18) S. Alfonso, Istruzione ed avvertimenti ai predicatori, Opere Ascetiche, vol. III, Napoli 1871, p. 26. ` (19) S. Alfonso, Lettere, op. cit., II, p. 234. (20) M, De Meulemeester, Origines de la Congregation du Très Saint Rémpteur, Louvain 1953, p. 131. (21) S. Alfonso, Riflessioni utili ai Vescovi, Opere Ascetiche, vol. III, Napoli 1871, p. 14. (22) Selva…, p. 226. (23) G. Landi, Ms. Istoria della Congregazione del SS. Redentore, V, II, c. 43. (24) F. De Mura, Il Missionario istruito, Napoli 1738, vol. I, p. 273. (25) Selva…, p. 202 (26) Ibidem, p. 202 (27) Codex Regularum et Constitutionum CSSR, Roma 1896, n. 149, pp. 88 89. (28) S. Alfonso, Istruzione ed avvertimenti ai predicatori, op. cit., p. 30. (29) Cfr. O. Gregorio, Saggio storico intorno alla rinnovazione di spirito, in Spicilegium historicum CSSR, XV (1967), p. 129. (30) S. Alfonso, Lettere, op, cit., I, p. 117. (31) 0. Gregorio, op. cit., p. 131. (32) G. Landi, op. cit., I, f. 8. (33) 0. Gregorio, op. cit., p. 131. (34) Ibidem, p. 133. (35) G. Garrone, Presenza al tempo, agli uomini e alla verità integrale della Fede di S. Alfonso, Dottore della Chiesa in Osservatore Romano, 4 dic. 1971, pp. 5 – 7. _______________ Riportato in Ermelindo Masone e Alfonso Amarante S.Alfonso de Liguori e la sua opera Testimonianze bibliografiche Valsele Tipografica 1987, pp.219-235.