1989-2014: 25 ANNI DI SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALE
olidarietà
RIVISTA BIMESTRALE - ANNO XXV, N. 03 MAGGIO - GIUGNO 2014, € 6,00
internazionale
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POSTE ITALIANE S.P.A. - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - D.L. 353/2003 (CONVERTITO IN LEGGE 27/02/2004 N° 46) ART. 1, COMMA 1, NE/PD
Cosa costa un mondiale di calcio
Giappone: tra segreti e militarismo
Renato Sacco: parroco e nonviolento
STOP TTIP: Iniziativa “Dichiariamo
illegale la povertà” 3/5
Dove
la terra
brucia
ANNO XXV, n. 03 maggio-giugno 2014, € 6,00
Sommario
Solidarietà internazionale
www.solidarietainternazionale.it
Rivista bimestrale di Solidarietà e Cooperazione CIPSI
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07 DOVE LA TERRA BRUCIA
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Direttore Responsabile: Guido Barbera
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Il Comitato Scientifico è composto da: Prof. Guido Barbera,
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Eugenio Melandri, Prof. Nicola Perrone, Prof.ssa Anita Ramasastry. I contributi originali di carattere scientifico proposti per
la pubblicazione in Solidarietà Internazionale sono sottoposti
a procedura di revisione per la valutazione di merito - peer
review - a cura del Comitato Scientifico della Rivista.
Gruppo di lavoro redazionale: Francesca Giovannetti (segreteria di redazione, promozione e abbonamenti), Patrizia
Caiffa, Giancarla Codrignani, Monica Di Sisto, Andrea Fogar,
Andrea Folloni, Rosario Lembo, Luca Manes, Remo Marcone,
Roberto Musacchio, Eleonora Pochi, Niccolò Rinaldi, Patrizia
Sentinelli, Francesca Tacchia, Stefano Trasatti, Graziano Zoni.
Collaboratori: Vinicio Albanesi, Antonietta Buonomo, Cristiano
Colombi, Gianni Caligaris, Khalid Chaoukim, Carlos Ciade Castellanos, Paola Colonello, Fulvia Difonte, Laura Giallombardo,
Mirta Da Pra Pocchiesa, Giuseppe Florio, Tonio Dell’Olio, Giulio
Marcon, Serena Marcone, Ranzie Mensah, Antonio Nanni,
Michele Sorice, Michele Zanzucchi.
Progetto grafico originale: Sezione Aurea
Impaginazione e grafica: Andrea Folloni Foto: CIPSI
LA TERRA
DEI FUOCHI.
© MAURO
PAGNANO
01
Il coraggio della pace
02
Gianni Caligaris
04
Carlos Ciade Castellanos, Giancarla Codrignani,
Ranzie Mensah, Roberto Musacchio.
06
Khalid Chaouki
28
Guido Barbera
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#glialtrisiamonoi
27 Vademecum per gli immigrati di R. Marcone
Rete amici: Di tutti i colori, S. Maria di Occhiobello (Rovigo),
tel. 340.0589269, Emmaus Italia Firenze, tel. 055.6503458, Fondazione Brownsea, Milano, tel. 02 58.314760, Gruppo Amici
Ultimi del Mondo, Paternò (CT), tel. 095.858772 La Colomba,
Modena, tel. 389.1756593 - 327.2261499, Nats per, Treviso, tel.
0422.305008, La Piroga, San Lazzaro di Savena, tel. 051.466171,
S.A.L., Roma, tel. 06.87248124, Terre Madri, Ciampino (RM),
tel. 06.79350066, Tonalestate tel. 0522.580042, Reggio E.
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29 Banning Poverty 2018 3/5 a cura di N. Perrone. Stop TTIP!
di J. Hilary, Perdere o lasciare di M. Di Sisto, L’attacco ai beni
comuni e ai servizi pubblici di M. Bersani, Un trattato segreto
di F. Gallinella, O la borsa o la vita! di R. Lembo, Ferruccio
dalla strada di G. Zoni.
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Stampa: 12/06/2014 presso la tipografia Arte Stampa snc - F.lli
Corradin Editori, via Adige, 605 - 35040 Urbana (PD).
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Parroco e nonviolento
intervista a Renato Sacco di N. Perrone
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Michele Zanzucchi
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a cura di A. Fogar
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Poste Italiane Spa - Spedizione In Abbonamento Postale - D.L. 353/2003
(Conv. In L. 27/02/2004 N° 46) Art. 1, Comma 1, NE/PD.
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Gli articoli possono essere riprodotti citando la fonte; riflettono
le opinioni degli autori e non rappresentano necessariamente il
punto di vista dell’editore.
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Cronaca di una morte annunciata. Intervista
a L. Iavarone a cura di A. Buonuomo
Coltivare la resistenza di L. Iavarone
Il pacco alla camorra di C. Corona
17 #internazionale
17 Il clima delle
contraddizioni
di L. Manes
18 Cosa costa un
mondiale di calcio
di P. Caiffa
19 Tra segreti e
militarismo
di K. Yoshimi
22 Inquietanti confronti di N. Rinaldi
25 Buon ultima l’Italia di S. Burbo
Organismi associati: AINRAM, Associazione Internaz. “Noi
Ragazzi del Mondo” tel. 06.71289053, A.I.S. Seguimi, Associazione di Iniziative Sociali, Roma, tel. 06.6277806, Amistrada,
Rete di Amicizia con le Ragazze e i Ragazzi di Strada Onlus,
Roma, tel. 06.55285543, A.M.U., Rocca di Papa (Roma), tel.
06.94792170, CE.SVI.TE.M., Mirano (VE), tel. 041.5700843
CE.V.I., Udine, tel. 0432.548886, Chiama il Senegal, Imola
(BO), tel. 0542.22880, Chiama l’Africa, Roma, tel. 06.5414894,
CREA, Palestrina (RM ), tel./fax 06.9586002, D.P.U., Campobasso,
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(AP), tel. 0734.858840 GMA, Montagnana (PD), tel. 0429.800830,
Emergenza Sorrisi (ADERENTE), Roma, 06.84242799, IMAGINE
(ADERENTE), Roma tel. 06.43411358, ISI, Reggio Emilia, tel.
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1.
2.
3.
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Ci aiuterai a eliminare la miseria e la fame, assicurare l’istruzione
ai bambini e alle bambine, formare personale locale, combattere le
malattie, ridurre la mortalità infantile, portare acqua a chi non ce
l’ha, garantire il diritto alla vita nei paesi impoveriti.
SENZA FIRMA
Il coraggio
della pace
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e notizie che arrivano parlano di
500.000 persone in fuga da Mossul, in Iraq. Scappano dall’offensiva lanciata da quelli che
sono definiti “ribelli jihadisti”,
che hanno preso la città (la seconda del paese) e si apprestano
a dilagare verso altri luoghi da
conquistare. Prima fra tutte la
città di Samarra, ritenuta sacra
dalla tradizione.
nelle ragioni della forza e non nella forza della ragione.
Debole è chi non riconosce che solo nel dialogo, nella
misericordia, nella nonviolenza e nel perdono si trova la
capacità di superare gli ostacoli e di trovare le falle che
possono definitivamente far cadere i muri di divisione.
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Non è costruendo un muro che divida gli israeliani
dai palestinesi che si raggiungono sicurezza e pace.
Quel muro davanti al quale, con il linguaggio dei gesti
che l’ha contraddistinto nel suo pellegrinaggio in Terra
Santa, papa Francesco ha voluto sostare. Ed è nato forse
in questo contesto quell’invito rivoluzionario rivolto da
Un paese, l’Iraq, che, secondo Francesco a Symon Peres e ad Abu Mazen, ad accettare
quanto ci era stato raccontato ai tempi della presidenza la sua ospitalità per pregare insieme per la pace.
Bush, oppresso da un dittatore che possedeva armi di
Un gesto finalmente rivoluzionario. Qualcuno – pochi
sterminio di massa (mai trovate perché inesistenti) sarebbe
stato finalmente introdotto alla democrazia, naturalmente – ha subito eccepito che la pace non si fa con le preghiere,
attraverso un’azione militare, cioè una guerra. Iniziata ma facendo valere i rapporti di forza. Ma oltre sessant’anni
nel marzo 2003, la guerra si è conclusa formalmente nel di conflitto e di crisi stanno lì a dimostrare il fallimento
della pace costruita con i muscoli. Francesco ha voluto
dicembre 2011, lasciando sul campo solo macerie.
andare oltre: la pace si costruisce guardando anche oltre.
I costi umani di quest’avventura sono stati enormi. La Inserendo nelle trattative anche ciò che può apparire
coalizione anti Saddam ha contato almeno 5.000 vittime impossibile. Assumendo altre dimensioni che non siano
e circa 50.000 feriti. Si tratta sempre di cifre calcolate in soltanto quelle della razionalità fredda e della forza. Ben
difetto. Mentre da una relazione dello stesso Presidente sapendo che, al di là della fede in Dio, la vita ha ben altre
Bush si evince che solo nei primi tempi del confitto ci dimensioni che non siano quelle della fredda razionalità
sarebbero state almeno 30.000 vittime irachene. Senza o degli equilibri di forza: il sentimento, l’intuizione, l’acontare le cifre spese, che superano i mille miliardi di more. Sapendo che nulla deve essere nascosto, nulla si
dollari. E tutto questo per “portare la democrazia”. Quella deve dimenticare delle ingiustizie ricevute, ma anche che
democrazia dalla quale in questi giorni fuggono oltre non ci si può fermare soltanto alla vendetta: “Occhio per
occhio e dente per dente rendono, alla fine, sdentati e cie500.000 persone dopo l’attacco di Mossul.
chi”. Riconoscendo legittimità politica anche al perdono.
Detta in altre parole, la grande guerra fatta per portare
Nei giardini Vaticani l’8 giugno si è celebrato un evento
la democrazia ha destabilizzato completamente il paese.
Favorito odi razziali, rafforzato gli integralismi, messo davvero rivoluzionario. Capace di mettere in moto enerin moto un meccanismo di odi e di vendette dalle quali gie fin qui assopite. In nome di quelle ragazze e di quei
ragazzi che vogliono uscire da 60 anni di una guerra che
pare quasi impossibile uscire.
non ha risolto, bensì complicato i problemi.
Siamo di fronte alla contraddizione denunciata da
Scrive Garaudy: “Gesù non può non essere Dio, perché
sempre da tutti quelli che credono di avere un minimo
di razionalità. Quella razionalità profetica che faceva nella sua vita ha sempre e solo fatto scelte dettate dalla
esclamare a Pio XII, all’alba della seconda guerra mon- fantasia e dalla genialità. È Dio perché non lo trovi mai
diale: “Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con là dove ti aspetteresti che fosse”. Francesco lo segue e si
è fatto trovare a fare l’artigiano di pace nei giardini vala guerra”.
ticani, pregando il Dio di Abramo di Gesù di Nazareth e
Francesco è andato oltre. Non solo ha richiamato al del Profeta Maometto perché ci doni la pace.
valore della pace, ma ha voluto richiamare a quanto sia
Se quel giorno del 2003 Bush, invece che fare la guerra
indispensabile il coraggio per costruire la pace. Perché
ci vuole più coraggio a fare la pace che a fare la guerra. fosse andato a pregare, magari invitando a pregare con
Deboli sono coloro che hanno bisogno delle armi per far lui anche Saddam Hussein, oggi forse non scapperebbero
valere le proprie vere o pseudo ragioni. Debole è chi crede in 500.000 da Mossul.
Solidarietà internazionale 03/2014
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GIORNI E NOTTI
La saga di Antonio Gutierrez (1980/2003)
Gianni Caligaris
([email protected])
Antonio Gutierrez nacque a San Salvador nel 1980. Senza famiglia, fino
all’età di otto anni fu un bambino di strada. Poi incrociò il percorso di una
comunità che ospitava ragazzini come lui e ne fu accolto. Chi lo conobbe
lo ricorda come un bambino socievole, creativo, molto bravo nel disegno.
Ma ogni tanto spariva, tornava un “menino de rua” poiché, come rivelò a
un educatore che era andato a ripescarlo per le strade, cercava sua sorella,
che aveva sì e no conosciuto, ma della cui esistenza era certo. Diventato
grandicello, se ne andò definitivamente, poiché da voci raccolte nel barrio
aveva saputo che sua sorella viveva a nord, negli Estados Unidos. Passò
fortunosamente il confine, come migliaia di altri migranti clandestini, in
quell’incessante flusso tribolato che dall’America latina porta al sogno (o
all’incubo) degli Usa. Trova, alla fine, sua sorella, che nel frattempo ha dato
alla luce un bambino. Tutti clandestini, comunque. Del seguito ci sono poche
testimonianze; quel che è certo è che a ventidue anni si arruola nei marines.
Il premio, alla fine della ferma, sarebbe stato la cittadinanza americana,
il sogno di ogni migrante. Era così che i due Bush, soprattutto lo junior, si
procuravano la carne da cannone. Dopo la conquista di Baghdad, quando
cominciarono le azioni di guerriglia, gli attentati, gli agguati, consultavo un
sito che riportava, mese per mese, l’elenco dei caduti americani. Mi stupivo
dell’alto numero di cognomi “latinos”, mentre ai tempi del Vietnam erano
più frequenti gli afroamericani. Poi ho capito.
Antonio Gutierrez morì in Iraq nel 2003.
Gli americani hanno tuttavia un certo senso dell’equità, anche se spesso
esercitato post factum. Sulla lapide di Antonio c’è scritto “cittadino americano ad honorem” e quella cittadinanza, tanto agognata e guadagnata
a prezzo della vita, si è trasmessa ai suoi unici eredi. Così sua sorella e suo
nipote sono ora cittadini americani. E che Dio li aiuti, affinché il sacrificio
di Antonio non sia stato inutile, una mera pratica burocratica, ma una vera
sorgente di opportunità.
E qui finisce la saga di Antonio Gutierrez, nato in mezzo a una guerra e morto
in un’altra, a migliaia di chilometri, perché voleva essere un uomo libero.
Intorno al vitello d’oro
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Qualche mese fa è stata divulgata l’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” di Papa Francesco. È un
documento articolato, che tocca vari argomenti, ma a me interessa, in questa sede, il capitolo dedicato
alla finanza.
Il Pontefice non usa le mezze misure. Le ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e della
speculazione finanziaria “hanno creato un mondo dove i guadagni di pochi crescono esponenzialmente
e quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere della minoranza felice”. E questa economia dell’iniquità “uccide”. In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta
favorevole” (trickle down theory, ndr), che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero
mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo.
Chi pensa che il mercato si regoli da solo creando equità (“opinione mai provata dai fatti”) esprime “una
fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico”.
Così Papa Bergoglio liquida in un colpo solo Adam Smith e la Thatcher, nonché la loro brutta copia, Reagan.
Dei tre, salvo comunque Smith, che almeno era un pensatore e che è stato ampiamente strumentalizzato,
mentre gli altri due sono stati solo servi duri ma sciocchi del vero potere.
“L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfr Es. 32,1-35) ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo
del denaro e nella dittatura di un’economia senza volto e senza uno scopo veramente umano. La crisi mondiale che investe la finanza e l’economia manifesta i propri squilibri e, soprattutto, la grave mancanza di
un orientamento antropologico che riduce l’essere umano a uno solo dei suoi bisogni: il consumo. (…) Tale
squilibrio procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria. Perciò negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune.
S’instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile,
le sue leggi e le sue regole”. Ovviamente ho dovuto tagliare, ma cercatelo: è stimolante.
Il testo di Papa Francesco mi ha fatto subito tornare alla mente il libro del card. Reinhard Marx, Arcivescovo
di Monaco, “Il capitale. Una critica cristiana alle ragioni del mercato” (Rizzoli, 2009). C’è molta sintonia
fra il pensiero di questo cattolico renano e l’esortazione di Papa Francesco, anche se quest’ultimo viene
“dall’altra parte del mondo”. Forse non è un caso se il Papa l’ha chiamato nel ristretto gruppo di porporati
ai quali affidare la revisione della Curia.
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Solidarietà internazionale 03/2014
GIORNI E NOTTI
La freccia di
Guglielmo Tell
Per salvare qualche migliaio di posti di lavoro la Svizzera ammorbidisce la propria legge sull’esportazione di
materiale bellico, suscitando l’ira degli anti-militaristi e
l’indignazione di Amnesty International. La decisione,
voluta dal Governo, è stata ratificata dal Parlamento
federale, sia pure di misura, poiché i voti a favore sono
stati 94 e quelli contrari 93.
“Le disposizioni attualmente in vigore - ha detto l’esponente dell’Unione Democratica di Centro - hanno
portato a una sensibile diminuzione dei contratti,
per le industrie del settore, con il rischio che 10 mila
dipendenti debbano essere lasciati a casa. Dal nostro
voto non dipende sicuramente la pace del mondo, ma
indubbiamente la serenità di numerose persone, in
Svizzera”.
E, a questo riguardo, va detto che uno degli aspetti
più controversi della revisione legislativa risiede nella
possibilità, data ai fabbricanti di armi, di esportare
anche verso paesi sospettati di violazione dei diritti
umani quali, ad esempio, Egitto, Pakistan, Afghanistan
e Arabia Saudita. “È vergognoso - ha tuonato Amnesty
International - che la Svizzera dia priorità agli interessi
economici, mettendo in pericolo la sua reputazione e il
suo ruolo di pioniere, in materia di diritti umani”. Una
preoccupazione condivisa da uno degli astri nascenti
della destra, la deputata Natalie Rickli, che ha votato
contro gli ordini di scuderia del suo partito, esprimendo
le medesime perplessità degli anti-militaristi.
Ma la lobby dei fabbricanti di armi, alla fine, è riuscita
a far passare la tesi secondo cui la legge restrittiva, in
vigore fino a ieri, comportava “una diminuzione delle
ordinazioni, per l’industria degli armamenti, con conseguente riduzione delle sue capacità”. Addio Lugano
bella, la freccia di Tell è in svendita.
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Poco tempo fa un parlamentare italiano garantì, all’esordio di un suo intervento in aula,
che sarebbe stato “circoinciso”. Al che il vice
presidente di turno dell’assemblea lo corresse
un po’ perfidamente, ma la pezza fu peggio del
buco, poiché affermò che si diceva “coinciso”.
Un vocabolario presente in aula si contorse
e dopo non seppe spiegare se per il dolore o
per il riso.
Ma perché stupirsi? La conduttrice di un noto
programma ha recentemente detto che il Messico è nell’America del Sud, forse scambiando
il Rio Bravo per il Canale di Panama. In un’altra rubrica di attualità, anch’essa di grande
ascolto, uno dei conduttori commentando
la ricetta di una cuoca ha esclamato “che
raffineria!”, come se lo sponsor fosse l’Eni.
Passando ai giornali on line, ricordo quando
una proposta ultimativa fu definita un “outout”, ricordando l’antico “chi è fuori è fuori”
delle giocate a nascondino. Il Campidoglio di
Washington, sede del Congresso, da Capitol
è diventato “Capital Hill”, forse perché negli
Usa tutto deve a che fare col capitale. E infine
l’Umberto, l’unico che nomino perché ormai fa
parte del passato, che ai tempi delle discussioni
sul conflitto d’interessi, assicurò che Silvio
avrebbe risolto il problema creando un “blind
trust”, un fondo blindato, disse. Peccato che
blind significhi cieco.
Ma in fondo, perché prendersela. Solo un
povero innamorato delle parole come me può
intristirsi quando sono strapazzati questi
“fragili ponti di fortuna gettati sul vuoto”,
come le chiamava Italo Calvino.
Quindi chiudo proprio con Calvino, dalle
sue lezioni americane: “... mi sembra che il
linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un
fastidio intollerabile. Non si creda che questa
mia reazione corrisponda a un’intolleranza
per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo
sentendo parlare me stesso. Per questo cerco
di parlare il meno possibile, e se preferisco
scrivere è perché scrivendo posso correggere
ogni frase tante volte quanto è necessario per
arrivare non dico a essere soddisfatto delle
mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni
d’insoddisfazione di cui posso rendermi conto”.
I
Fragili ponti
di fortuna
Solidarietà internazionale 03/2014
Pensierino della sera
Epitaffio politico di Berlusconi (per il resto gli auguro lunga vita):
“Cercò di insegnare a tutti gli italiani a diffidare di lui. Non riuscì
neanche in questo”. •
3
PUNTI DI VISTA
Catene e colore
L
a banana, un frutto che cresce in Africa e nei paesi con un clima tropicale, è diventata
il simbolo globale contro il razzismo. Se Dani Alves fosse uno straniero bianco, gli
avrebbero lanciato una banana? Io credo di no. Il colore di Alves lo rende troppo
diverso. Sì. Siamo tutti uguali, è bella la diversità, ma non dobbiamo essere troppo diversi. Oppure possiamo essere diversi, ma non si deve vedere troppo la propria diversità,
altrimenti disturba. Disturba chi? Disturba che cosa?
Secondo la mia esperienza di vita, mi pare che non dobbiamo disturbare troppo le coscienze. Anche se la scienza afferma che esiste una sola razza umana, i messaggi che
riceviamo dalla nostra educazione, dai cliché pubblicitari e multi-mediali, e dalla mentalità collettiva non stimolano il coraggio di pensare o di essere diversi. Prima
dell’arrivo dell’uomo bianco sulle coste del continente africano nel XV secolo,
l’uomo nero non sapeva di essere nero. Poi, dopo il primo contatto, ha visto che il
colore bianco è sinonimo di benessere materiale, intelligenza, progresso, persino
di salvezza spirituale. Bianco è meglio!
Così appena hanno avuto la possibilità, alcune donne nere hanno iniziato a utilizzare delle creme
per schiarire la propria pelle. Bianchi non possiamo diventare, ma un po’ meno neri va meglio.
Anche alcuni uomini neri preferiscono la donna con la pelle più chiara: allora la donna per piacere all’uomo si schiarisce la pelle, affrontando i pericoli per la salute della pelle utilizzando dei
prodotti che sono in realtà veleni.
Un mio caro amico, Francis Bebey, artista, musicista, scrittore del Camerun, deceduto nel 2001,
mi disse che le vere catene di noi neri sono le catene che sono rimaste nella nostra mente, e quelle
catene saranno più difficili da rompere. Per oltre 400 anni ci è stato inculcato che il colore ebano
è simbolo dell’inferiorità. Che cosa fare? Mangio la banana! In effetti, propongo di mangiare la
banana accettando quello che siamo, come fonte di ricchezza nella diversità sul nostro bellissimo
pianeta, apprezzando nello stesso modo la diversità altrui. Mangiamo la banana immaginando
che un giorno, nel forse non troppo lontano futuro, non esisterà più il concetto di “tu sei di qua,
io sono di là”, perché saremo talmente mescolati e ibridi che nessuna pentola potrà dire che la
padella è nera o bianca o rossa o gialla o di altri colori.
Durante un mio intervento, in un progetto interculturale, in una scuola d’infanzia in Val d’Aosta,
un bambino mi ha chiesto perché ero nera. Ho rivolto la domanda a tutto il gruppo di bambini.
“Bambini, perché Ranzie è nera?”. Una bambina di tre anni, che mi teneva la mano, pronta per
eseguire una danza africana, senza esitazione ha risposto: “Perché hai mangiato troppo cioccolato!”.
Io mangio cioccolato, voi mangiate anche la banana, che va bene lo stesso. ([email protected]) •
Ranzie Mensah
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Messico: il treno della morte
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o chiamano “la Bestia” o “treno della morte”, corre dal sud al nord del Messico, trasporta merci nei suoi vagoni, e sul suo tetto centinaia di migranti senza documenti.
Ha guadagnato questo nome a causa delle stragi di uomini e di donne che perdono
la vita, o gli arti, sotto le sue ruote di acciaio.
È il mezzo di trasporto di migranti centroamericani che cercano di aggirare sia gli agenti
dell’immigrazione, che li trattano come criminali, sia la criminalità organizzata, che
li minaccia continuamente. Il dramma che vivono è estraneo alle autorità, che hanno
intensificato la sorveglianza al confine con il Guatemala con frequenti posti di blocco,
come dimostrano le continue deportazioni che appaiono ogni settimana sui media.
Ai confini del Guatemala e del Salvador ci sono cartelli che
avvertono dei pericoli di salire sul “treno della morte”. Ma né i
manifesti né la Dichiarazione di Comayagua – in cui il governo
del Messico propone il rispetto dei diritti umani dei migranti
e l’installazione di quattro consolati per accoglierli - sono la
soluzione. Perché “la bestia” non passa per i consolati, e nemmeno blocca le estorsioni e le persecuzioni che avvengono in qualsiasi momento sui binari.
Invece, sono le iniziative della società civile - come il gruppo di aiuto umanitario “Las patronas”,
formato da casalinghe che condividono il cibo per chi viaggia sul “treno della morte” - che ora
lavorano per risolvere questa crisi umanitaria, dando voce e visibilità alle persone. José Luis
Hernández, un migrante honduregno che ha incontrato il presidente del Messico, gli ha detto:
“È veramente impossibile che mi ricresca la mano che è stata tagliata dal treno della morte. Ma
vedere e parlare con un altro essere umano, che è come noi, perché è così impossibile?”. In effetti,
può essere difficile, perché si tratta di un lavoro costante, cominciando da se stessi, ma è urgente
e necessario recuperare la dignità umana che “il treno della morte” ci ha strappato. (carlosciade@
gmail.com) •
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Solidarietà internazionale 03/2014
PUNTI DI VISTA
Etty Hillesum
L
a madre iraniana - presente per diritto islamico all’impiccagione dell’uomo che le
aveva ucciso un figlio - che, in preda a pianto improvviso, ha tolto il cappio al condannato, mi ha ricondotto a pensare senza apparente coerenza logica a Etty Hillesum.
Etty avrebbe oggi cent’anni, anche se la giovane ebrea non praticante, che scelse di stare
con il popolo perseguitato e di seguirlo nel destino di morte, era arrivata a un livello di
approfondimento di sé e della vita come se avesse vissuto secoli interi. Ad Auschwitz
sapeva tutto del piano nazista di sterminio, ma si negò l’odio: “Se anche non rimanesse
che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro
quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio
su un popolo intero. Questo non significa che uno sia indulgente
nei confronti di determinate tendenze, si deve ben prendere posizione, sdegnarsi per certe cose in certi momenti, provare a capire,
ma quell’odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia. È una
malattia dell’anima”.
Forse è proprio la possibilità di guarire dal desiderio di vendetta che - in situazioni diverse, ma
ugualmente estreme - collega la madre islamica colta dall’onda inattesa del perdono all’ebrea
olandese che soffre la persecuzione, ma non si ammala di odio. Dice: “Se tutto questo dolore
non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose
superflue di questa vita, è stato inutile”. La radicalità del suo pensiero è - come i sopravissuti
che la conobbero dicevano di lei - luminosa: “Una pace futura potrà esser veramente tale solo....
se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà
superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non
è chiedere troppo”. E nella fede era riuscita a superare qualunque pensiero teologico proprio nel
luogo dove si negava Dio o non se ne capiva più il senso: “Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò
io ad aiutare Dio”.
Anche la mamma iraniana ha aiutato dio, anche quello maleonorato dall’etica della vendetta.
([email protected]) •
Giancarla Codrignani
TTIP? No grazie!
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TTIP - Transatlantic Trade Investiment Partneship è una vera e propria minaccia per
tutti noi. Si tratta di un accordo tra Ue e Usa in materia di commerci e investimenti.
Si propone di abbattere non muri ma regole, diritti, tutele. Cioè l’accordo che si sta
negoziando ha come materia in discussione la rimozione di elementi giuridici, di norme,
regolamenti che possano nuocere alla “libertà” di fare commerci e investimenti tra Ue e
Usa. O, meglio, tra le loro multinazionali, che sempre più si vuole che dettino legge, sostituendosi ai Parlamenti e ai cittadini. E siccome è bene che i Parlamenti e, soprattutto,
i cittadini, non diano troppo fastidio e non pensino di mettersi in mezzo magari a protestare, i negoziati sono, per decisione formale, segreti. Cioè non si deve sapere di che cosa
si stia parlando, perché il “segreto è l’anima del commercio”. Naturalmente
i Parlamenti (quello europeo) hanno dato via libera ai negoziati stessi. I
negoziatori, al massimo, danno delle informative.
Ma poiché c’è comunque una forza della democrazia dal basso, ecco
che gli elementi cardine dell’ipotesi di Trattato vengono allo scoperto.
E si sa, dunque, che su tutta una serie di questioni fondamentali per la nostra vita, dall’acqua,
all’agricoltura, alla cultura, alla scuola, alla sanità e a molto altro si potrebbe aprire la strada a
una sostanziale delegiferazione rispetto agli elementi cardine di tutela, di diritti, di presenza
pubblica. Perché considerati ostativi delle esigenze del commercio e degli investimenti. Con più
il fatto che a giudicare su ciò che sia ostativo sarebbe l’attuale tribunale del WTO, cioè dell’Organizzazione Mondiale del Commercio cui, qui la novità, potrebbero ricorrere non più solo gli
Stati ma direttamente le imprese.
Dunque imprese e commercio si fanno legge al posto delle leggi conquistate in anni di democrazia. Né si può dire che l’Europa, questa Europa, “subisca” la volontà Usa. In realtà la Ue è partner
attivo del negoziato. E ha già ampiamente sperimentato in casa propria una tale dimensione per
cui alle leggi si sostituisce la “libertà” d’affari, come nella famigerata direttiva Bolkenstein. Ora è
possibile, e anzi probabile, che torni in campo un movimento contro questo trattato sciagurato.
In tutta Europa sorgono comitati NOTTIP, ed anche negli Usa c’è fermento. In Italia il comitato si
è insediato in questi giorni. Ne fanno parte molte associazioni e realtà che sono espressione della
critica alla globalizzazione e che stanno preparando documentazione e mobilitazione. Hanno un
proprio sito http://stop-ttip-italia.net/ dove si può trovare ciò che serve a sapere e a impegnarsi.
([email protected]) •
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Roberto Musacchio
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MARE NOSTRUM
Un giorno
in Sicilia
L
o scorso 4 maggio ho trascorso un’intera giornata in Sicilia, dedicandola
a una serie di visite nei centri di accoglienza della Regione. Tra i molti ho
deciso di visitare quelli che fanno parte della prima linea, per verificare il
lavoro e la qualità dell’accoglienza offerta a profughi e migranti.
Devo dire che, nonostante i numeri importanti e, in alcuni casi, allarmanti, la
gestione di queste persone, tutti adulti, è funzionante, merito anche all’operazione Mare Nostrum che in questi mesi ha consentito di salvare, direttamente in
mare, molti disperati che, in fuga da guerre o regimi, intraprendono l’avventura del viaggio in mare.
Le strutture siciliane di prima accoglienza, in particolare quella di Pozzallo che ho visitato, si fanno
carico di ricevere il maggior numero di migranti tratti in salvo, e poi subito smistati e dislocati in
altre strutture, sparse su tutto il territorio nazionale.
È fondamentale però una condivisione della responsabilità e del carico dell’emergenza con i sindaci
di tutti i Comuni d’Italia, perché quella che viviamo non è solo un’emergenza siciliana, ma italiana,
e ancor di più europea.
Il mio giro tra i centri di accoglienza mi ha portato poi ad Augusta, un piccolo paese in Provincia di
Siracusa, città che ha dato i natali allo showman Fiorello e a Roy Paci. Augusta è un paese particolare,
il Comune è stato sciolto per mafia ed è commissariato dallo scorso marzo 2013. Qui ad Augusta, in
una scuola dismessa, l’Istituto “Giuseppe Verdi”, giacciono ‘parcheggiati’ quasi duecento ragazzi,
tutti minorenni, provenienti per lo più dal Mali, dal Gambia, dalla Nigeria, dall’Eritrea e dall’Egitto.
Giovanissimi, poco più che bambini, si sono divisi nelle classi stipate di brandine, i gruppetti che
hanno formato rispettano i paesi di provenienza, “così non litigano”, ci spiega l’impiegato comunale
– uno solo – preposto a sorvegliare la situazione. Quello che colpisce, appena entrati nella scuola, è
l’odore penetrante di muffa, sporco e sudore che aleggia nei corridoi, nonostante le finestre completamente spalancate. Le condizioni igieniche nelle quali vivono questi ragazzi sono preoccupanti e
indecenti, non sono previste visite mediche e, ci dice Mamadou, sedicenne proveniente dal Senegal,
una volta che è venuto un medico volontario “non parlava né inglese né francese e non ho potuto
spiegargli il mio dolore al fianco!”.
Eh sì, perché in questa delicatissima Babele di lingue e culture non c’è un mediatore culturale,
manca qualcuno che conosca l’inglese, che sappia parlare francese e arabo, le tre lingue nelle quali
questi ragazzi si esprimono.
Ci viene incontro un gruppetto di egiziani, tra loro uno, più coraggioso, si fa avanti: “Quando usciamo
da qui?” mi chiede Samir, 15 anni e due occhi verdi che cercano risposte. “Io voglio andare a scuola,
come gli altri, qui non facciamo niente tutto il giorno!”.
Si confida con me in arabo, ed è un fiume in piena, mi racconta del viaggio spaventoso affrontato per
arrivare fin qui, e della speranza di un futuro migliore, delle lacrime di sua mamma e dell’opportunità
che gli era stata concessa di rifarsi una vita in Europa. Ora, qui ad Augusta, deve fare i conti con la
frustrazione di non sapere cosa sarà di lui, e le ore vuote che ogni giorno lo attendono tra le pareti
della scuola Verdi. Visitiamo tutto l’istituto, siamo una piccola delegazione, ci sono anche un paio
di giornalisti della stampa estera che filmano e fotografano stando ben attenti a non inquadrare i
volti dei minorenni. Ci affacciamo nei bagni fatiscenti, sono bagni di una scuola, inadatti a fare una
doccia, con i pavimenti sudici e allagati, mentre saliamo le scale ci accorgiamo che il secondo piano
della scuola è ancora peggio, “lì ci sono gli eritrei”, ci spiega l’impiegato comunale, i ragazzi sono talmente tanti che sono anche nel corridoio con le loro brandine e coperte maleodoranti. Alcuni stanno
male, si lamentano, avvolti nelle pesante coperta marrone, ci chiedono di incontrare un medico.
Questa visita è stata un colpo al cuore, la situazione nella quale vivono questi ragazzi è vergognosa
e non è degna di un Paese civile. Dopo quanto ho visto con i miei occhi, e documentato con foto e
filmati, mi rivolgerò a chi di competenza al Ministero degli Interni e al Ministero del Lavoro, per
trovare immediatamente una sistemazione decorosa a questi giovanissimi profughi. Il mio appello
vuole però giungere anche alle ong e a tutte quelle associazioni e onlus che si occupano di diritti e
infanzia, affinché si adoperino per inviare personale qualificato e alleviare una situazione di cui il
governo deve assolutamente farsi carico. ([email protected]) •
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Khalid Chaouki
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Giovanissimi, poco più che bambini,
si sono divisi nelle classi stipate di brandine.
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LA COPERTINA
LA TERRA DEI FUOCHI. © MAURO PAGNANO, FOTOGRAFO
FREELANCE CHE LAVORA DA MOLTI ANNI SULLA TERRA DEI FUOCHI.
CAMPANIA
Dove
la terra
brucia
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La storia dello sversamento illegale nelle campagne di rifiuti industriali,
anche tossici e nucleari, da parte della camorra e del clan dei Casalesi.
I fumi dei roghi diffondono nell’atmosfera e nelle terre circostanti
sostanze tossiche. Responsabili di un alto tasso di tumori che hanno
colpito soprattutto giovani donne, al seno e alla tiroide, e bambini. E
la nuova legge è una presa in giro.
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1.Cronaca di una morte annunciata
2. Coltivare la resistenza
3. Il pacco alla camorra
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LA COPERTINA
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pur sempre una risposta, è un passo
avanti, ma solo nella direzione di dire:
“Il problema esiste”. Almeno è stato
introdotto il reato di combustione di
rifiuti depositati in aree non destinate
a discarica; ci sono i conferimenti di
poteri speciali al prefetto di Napoli e
mappatura delle aree agricole inquinate, e l’uso dell’esercito per il sequestro e la bonifica di terreni sequestrati
alle ecomafie. È stato diffuso a marzo
c.a. il primo report governativo sulla
terra dei fuochi. Sono stati individuati
51 siti pericolosi, per un totale di 64
ettari di terreno agricolo. Su un’area
di 1.076 chilometri oggetto di mappatura, le aree ritenute sospette sono
il 2 per cento, per un totale di 21,5
chilometri quadrati, di cui 9,2 Km
quadrati destinati all’agricoltura. Dati
rassicuranti, ma non propriamente
veritieri.
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pensi della legge approvata
❝Cosa
❝
recentemente dal governo Letta?
È una presa in giro. I roghi continuano. A dirlo sono i cittadini, con testimonianze dirette, anche attraverso
i social network e sul blog gestito da
Angelo Ferrillo (www.laterradeifuochi.it). Cittadini che verificano sulla
loro pelle l’aumento di neoplasie, malattie respiratorie, patologie tiroidee,
mentre gran parte del mondo sanitario nega la correlazione tra malattie
oncologiche e rifiuti. Eppure gli ultimi
dati sono chiari. Durante i primi mesi
del 2014, l’équipe di epidemiologia
dell’Istituto dei Tumori Pascale di
Napoli ha elaborato i dati Istat relativi
ai trienni 2000-2002 e 2006-2008.
Emerge che in alcuni Comuni del
casertano e del napoletano l’incidenza delle patologie oncologiche,
soprattutto al colon e al polmone, è
più alta rispetto ad altri comuni della
Campania, presentando eccedenze
che in alcuni casi arrivano al 53 per
cento.
La legge è assolutamente un palliativo
e, come sempre, in un’ottica di gestione emergenziale, di straordinarietà.
È stata una risposta molto timida. È
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❝C’è
❝ una Terra dei Fuochi e una
Terra dei Veleni?
La terra dei veleni è quella degli sversamenti di rifiuti relativi soprattutto
ad aziende del Nord Italia. Terra dei
fuochi è un fenomeno più campano, di aziende che lavorano in nero
scarpe, abbigliamento, e che quindi
smaltiscono a nero. Gli scarti vengono
affidati alla criminalità che li porta
nelle campagne e gli da fuoco. Però
sono due facce della stessa medaglia.
Terra dei fuochi e dei veleni vanno di
pari passo. Adesso la terra dei fuochi
può essersi, a vista, ridimensionata,
ma soltanto perché hanno cambiato
strategia, perché stanno smaltendo
altrove, perché stanno bruciando di
notte, perché li stanno mettendo da
qualche altra parte senza dargli fuoco, ma le aziende a nero continuano
ad esistere. Non si è andati a fondo
nel problema. Si è voluto colpire l’esecutore ma non il mandante con la
legge. Allora ecco che arrestano tanti
Rom - perché poi alla fine l’esecutore
del rogo è un Rom, o un extracomunitario o un indigente senza lavoro
pagati 20 euro per bruciare gli scarti.
Ma bisogna puntare alla criminalità
che gli ha commissionato il lavoro e
all’azienda che gli ha dato la materia
prima.
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Lucio Iavarone è portavoce del Coordinamento Comitato Fuochi (CCF),
nato nel luglio 2012 nel territorio denominato “Terra dei Fuochi”, compreso
tra Napoli e Caserta. Il CCF conta
68 associazioni e comitati, e il suo
obiettivo è quello di contrastare la
devastazione ambientale e sociale,
denunciando la mancanza di risposte
da parte delle istituzioni. Il CCF ha
messo in atto iniziative importanti. La denuncia-querela, firmata da
32mila persone e presentata nel 2012,
contro tutte le istituzioni colpevoli del
disastro ambientale in atto. Un atto
simbolico che ha portato al rinvio a
giudizio di molti amministratori per
violazione degli articoli 452 e 328 del
Codice Penale: delitti colposi contro la
salute pubblica, rifiuto di atti d’ufficio
e altri reati connessi. Il DenounceDay (D-Day), per segnalare discariche
abusive e altre forme di illegalità. E le
tante marce sul territorio nazionale,
convegni, dibattiti, che hanno fatto
diventare, in poco tempo, il CCF un
punto di riferimento e un interlocutore
credibile per le istituzioni.
Abbiamo incontrato Lucio Iavarone
nella sede di Legambiente, sezione di
Afragola, uno spazio aperto alle associazioni, simbolo di riappropriazione
di spazi urbani da parte dei cittadini.
Sul piccolo terrazzo, ammucchiati
in un angolo, pneumatici usati. Diventeranno vasi per i fiori e saranno
i bambini a trasformarli, all’interno
di un progetto sul riciclaggio creativo.
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intervista a Lucio Iavarone a cura
di Antonietta Buonomo
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CRONACA DI UNA MORTE
ANNUNCIATA
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1.
La terra dei Veleni è quella degli
sversamenti di rifiuti relativi ad
aziende del Nord Italia. La terra dei
Fuochi è un fenomeno di aziende
che lavorano in nero, e quindi
smaltiscono a nero. Gli scarti vengono
affidati alla criminalità che li porta
nelle campagne e gli da fuoco.
❝È
❝ pericoloso ‘solo’ il 2 per cento
dell’area?
È un’altra presa in giro. Li abbiamo
smascherati subito, nel loro tentativo
di voler lanciare un messaggio falsamente rassicurante. Innanzitutto
hanno incrociato dati che erano anche di 10 anni fa, quindi non aggiornati. Hanno semplicemente preso alcuni
dati, messi insieme con delle mappe,
dati dell’ARPAC (L’Agenzia Regionale
Protezione Ambientale Campania),
dell’AGEA (Agenzia per le erogazioni
in agricoltura), e di vari enti di 57
Comuni. Hanno detto: “Guardate i 21
siti che possiamo considerare contaminati o a rischio contaminazione,
sono il 2 per cento”, e parlavano di
terreni agricoli. Noi abbiamo preso
i 57 Comuni, ne abbiamo visto l’estensione territoriale complessiva,
poi quella invece delle sole aree agricole non urbanizzate, e i numeri non
tornavano. Cioè, quel 2 per cento era
in rapporto all’area totale, comprese
le costruzioni, comprese le aree urSolidarietà internazionale 03/2014
LA COPERTINA
banizzate. Se invece consideravano,
come doveva essere, solo le aree non
urbanizzate, la percentuale sarebbe
salita al 6 per cento. Il 6 per cento
comincia a essere un dato, significa
ben 9 chilometri quadrati di terreno
avvelenato, ed è tantissimo.
Sappiamo con certezza che in quel
decreto almeno una cosa buona c’era: il dover mettere insieme tutti i
dati che avevano i vari enti. E non
è stato fatto, non hanno fatto nulla.
Il Corpo Forestale dello Stato, che a
oggi è l’unico che si sta impegnando
grazie al generale Sergio Costa, ci ha
lanciato un messaggio allarmante.
Loro hanno lo strumento dell’aerofotogrammetria dall’alto che, con le foto
fatte in maniera particolare, riescono
a capire se sotto, in base alla diversa
colorazione, c’è qualcosa che abbia
una temperatura diversa rispetto a
quella normale del terreno. Però il
Corpo Forestale dello Stato ha delle
ortofoto che risalgono al 2008 o 2009.
Ci sono altri enti come AGEA, poi c’è
la stessa ARPAC, c’è l’Università di
Napoli, che hanno delle ortofoto più
recenti, anche del 2012, e il generale
Costa ha dato la disponibilità per incrociare i dati. Non l’hanno fatto e non
lo vogliono fare, e lo dice un generale
del Corpo Forestale dello Stato.
Noi promuoveremo una conferenza
stampa a breve, chiameremo il Ministro. Noi pretendiamo che questa
cosa sia fatta per avere almeno uno
strumento che è a costo zero, perché
il Corpo Forestale dello Stato ha ingegneri e personale a disposizione che
questi dati li possono trattare, li possono verificare e analizzare, quindi si
può fare. C’è una non volontà che può
essere ascrivibile all’incompetenza,
al non avere la volontà di agire, al non
avere una visione di che cosa possa
essere fatto che sia efficace.
❝È
❝ una non volontà da parte degli
enti?
Il problema serio è che tanti di questi
enti, l’AGEA, l’ARPAC, purtroppo sono
carrozzoni politici, sono stati creati e ci sono dentro persone che non
hanno un briciolo di competenza. E
noi l’abbiamo visto qui. Il Comune di
Casoria pretese, pagando 30mila euro,
che fosse l’ARPAC, quindi un ente
regionale, a fare la caratterizzazione
della discarica Cantariello. In quella
discarica che fumava – e, se vai a fare
un buco, fuma ancora perché ci sono
fenomeni di combustione al di sotto,
chissà di che cosa – ha realizzato una
caratterizzazione che dice che lì c’è
soltanto un codice CER 191212, rifiuti
non pericolosi. E il Comune di Casoria ha fatto una gara sulla base di
quella caratterizzazione, cui hanno
partecipato ditte che, nel momento
in cui dovevano istituire il cantiere
per fare la bonifica, si sono ritirate
una dopo l’altra, perché hanno visto
il piano di fattibilità tecnica, hanno
visto che cosa c’era, semplicemente
sono andati a guardare il video che
noi avevamo messo su You Tube in
cui la terra fumava anche in passato.
Adesso non fuma perché c’è una cappa: è stato messo sopra del terreno,
è stato messo in sicurezza per quel
che poteva. E hanno detto di non
ritrovarsi nel bando cui avevamo
partecipato. E stiamo parlando di
una caratterizzazione costata 30mila
euro fatta dall’ARPAC che, per chissà
quali interessi politici, o per totale e
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MANIFESTAZIONE SULLA TERRA DEI FUOCHI.
© MAURO PAGNANO
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LA COPERTINA
assoluta incompetenza, oggi affermano in una relazione ufficiale una
cosa che non è rispondente alla realtà.
❝Cosa
❝
si può fare adesso?
Purtroppo tutta questa storia è una
grande insalata dove la politica, la
sanità, l’imprenditoria, la criminalità
organizzata sono tutte insieme. Il condimento qual è stato? L’indifferenza,
il lasciar correre. Adesso dobbiamo
sottrarre condimento a quell’insalata
e dobbiamo cominciare a sottrarre
anche ingredienti. Per fare questo
ci vuole tempo, una cittadinanza
sempre più attiva, sempre più partecipe. Uno dei punti principali su
cui si fonda l’essenza della rete su un
territorio molto ampio - perché è un
territorio ampissimo, quello di Napoli,
provincia a nord di Napoli, Caserta,
provincia a sud di Caserta - è l’essere
usciti definitivamente dalla logica
Nimby (Not In My Backyard), cioè
“non nel mio giardino”. Noi siamo
in contatto con le altre regioni, dove
si sta spostando buona parte della
Terra dei Fuochi. Lo sappiamo già:
in Puglia, nelle Marche, in Basilicata, in Abruzzo, e stiamo cercando di
allertare le popolazioni, altrimenti
si continua a spostare il problema.
Stanno continuando a smaltire tranquillamente a nostra insaputa. L’esercito dove sta? Hanno solo mutato
strategia. I rifiuti ci stanno perché
le aziende continuano ad esistere,
le aziende campane che lavorano in
nero negli scantinati continuano ad
esistere.
❝E
❝ i danni alla salute? È coinvolto
il mondo della sanità?
Il mondo della sanità è molto interrelato con la questione terra dei
fuochi, è un altro grande problema
d’indifferenza politica. I primari negli
ospedali pubblici sono indicati dai
politici - e il boss della criminalità dei
casalesi Schiavone ha detto che lui
stesso faceva gli esami all’università
di Medicina, ha fatto diventare dottori
quelli lì, che magari oggi sono primari degli ospedali pubblici. Finché
il mondo va in questo modo, non ne
usciremo. Bisogna spazzare via un
intero sistema politico clientelare,
malavitoso, che ormai è totalmente
radicato, ma che non ci scoraggia.
Dobbiamo estirpare la malerba. E ci
riusciamo, ce la possiamo fare. Libera
lo sta facendo con la grande opera
che sta mettendo in campo insieme
alle tante associazioni che si battono
contro il sistema criminale, che è ciò
che sto raccontando.
Ormai il sistema criminale non è più
quello di chi va lì, spara, la coppola,
la lupara, no. Il sistema criminale è
tutto qui, la commistione tra l’imprenditoria, la politica, la malasanità,
la mala gestione degli enti partecipati
pubblici. È questa la nuova camorra,
la nuova mafia, e ancora non si vuole
ammettere che ci sia stata questa mutazione. Gli omicidi sono soltanto la
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LA TERRA DEI FUOCHI. © MAURO
PAGNANO
bassa criminalità. Oggi un omicidio
avviene soltanto quando c’è da contendersi un territorio, una piazza di
spaccio. Invece la vera mafia è quella
che oggi è insediata nei palazzi, nel
Parlamento, nelle Regioni, negli enti,
è quella che ormai ha tappato la possibilità di un normale sviluppo della
vita sociale dei cittadini. È tutto un
sistema che va scalfito e distrutto con
una rivoluzione culturale che deve
partire dalle scuole, che deve partire
proprio dal cambiare il modo di vedere. È una visione di ampio raggio che
sta partendo con i progetti che stanno
nelle scuole. Lo diceva Don Peppino
Diana: “La camorra si combatte nelle
scuole”, ed è nelle scuole che si stanno facendo questi percorsi, e solo se
quei bambini, domani, la penseranno
in maniera diversa rispetto ai loro
genitori, la potremo sconfiggere. È
un lavoro lungo, però lo si deve fare.
La terra dei fuochi è un sunto di tutto
questo. Nella sanità, tranne pochi,
come Antonio Marfella, Antonio
Giordano, Montella, Comella, Luigi
Costanzo, c’è una cupola - dalla Regione fino al semplice medico - che
è pienamente implicata nel discorso
terra dei fuochi. Perché non ci saremmo dovuti arrivare. Quando negli
anni si cominciavano a vedere strani
picchi in determinate zone, se qualche medico avesse denunciato e non
fosse, invece, rimasto chiuso nella sua
stanza nel pensare come curare quella persona, non ci saremmo arrivati.
10
Solidarietà internazionale 03/2014
LA COPERTINA
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Solidarietà internazionale 03/2014
raccolta tutte le associazioni, i comitati della zona. Da lì partì l’idea
di creare il Coordinamento Comitati
Fuochi, oggi siamo 68. Lui ha dato
impulso a questa rivoluzione che è
stata al tempo stesso una rivoluzione
mediatica, sociale, politica.
È importante far capire alla gente la
distinzione che esiste tra le tecniche
e le pratiche di smaltimento dei rifiuti
solidi urbani, rispetto ai rifiuti industriali, tossici o pericolosi. Sono due
cose ben diverse, che però devono
camminare di pari passo. L’obiettivo
delle istituzioni, sino a oggi, è stato
quello di confonderle, far passare
l’una per l’altra. Noi sappiamo che
sui rifiuti urbani si può fare rifiuti
zero, sappiamo che si può fare a meno
di discariche e di inceneritori. Sui
rifiuti speciali è necessario che le
aziende cambino, e che non se ne
producano più.
La nuova legge è
una presa in giro.
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❝Qual
❝
è la vostra posizione sugli
inceneritori?
Se pensiamo banalmente a quante persone lavorano in un ipotetico
inceneritore che distrugge materie,
rispetto a quante troverebbero lavoro
in un’impiantistica eco sostenibile di
recupero e di totale riciclo della materia, siamo in rapporto di 1 a 10. È lì che
dobbiamo pensare di creare lavoro.
È l’unico modo per far sopravvivere
questo pianeta. Se tendiamo solo alla
distruzione di materiale, al depauperamento di risorse, a un paradigma
economico di sviluppo che è fondato
soltanto sul ‘produciamo di più per
consumare di più per dare più lavoro’,
gli scarti dove li mettiamo? Per ora
sono qui nella terra dei fuochi. E ci
stanno distruggendo un territorio.
E di terre dei fuochi, noi lo stiamo
dicendo, ce ne sono tantissime in
Italia, all’estero. Se ci riusciamo, noi
vogliamo convocare una conferenza
mondiale che parta dal basso delle
terre dei fuochi di tutto il mondo e
vogliamo farlo qui, nel luogo simbolo
di rinascita che è la Reggia di Carditello di San Tammaro. C’è in progetto
di farlo diventare un polo della socialità dal basso, un emblema della
riappropriazione dei beni comuni.
Dobbiamo pretendere di riprenderci
quegli spazi, poter vivere finalmente
in piena condivisione, riappropriarci
della nostra terra, dei beni comuni.
I Regi Lagni, ad esempio, erano – lo
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❝E
❝ dall’Africa si è passati in Campania.
Da quel momento lì si fermarono le
navi, ma non si fermarono i rifiuti
che rimasero in Campania. Laddove esistono i vuoti consentiti dallo
Stato, la criminalità organizzata si
va a insediare e dà le risposte. Dà l’offerta alle aziende per poter smaltire
i propri rifiuti a basso costo, anziché
sull’economia sociale?
❝Puntate
❝
Assolutamente sì. O comincia questo
tipo di rivoluzione dal basso, andando a contaminare i vari livelli delle
istituzioni, della politica, dell’imprenditoria, oppure non ne usciamo.
Economia sociale vuol dire anche
“rete”, cosa che il Coordinamento
realizza pienamente. Oggi se si fa
qualcosa a Giugliano andiamo tutti
lì, se si fa a Chiaiano andiamo tutti
lì. Ci sono una forza, una nuova consapevolezza fondamentale dell’importanza della rete. La rete - ma non
solo rete Internet - significa riuscire
a mettere in comune e socializzare le
esperienze, le iniziative, le lotte. Due
anni fa successe che non i medici,
non il mondo sanitario, che vedeva
l’impennata dei tumori, alzò la voce
e cominciò a levare un grido, ma lo
fece un prete, don Maurizio Patriciello, che celebrava troppi funerali,
soprattutto di bambini, e chiamò a
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❝Come
❝
può cambiare lo smaltimento dei rifiuti pericolosi?
Premetto che fino a due anni fa addirittura il governo ci veniva a dire che il
problema non esisteva. Oggi, almeno,
quello non lo possono più dire perché
la terminologia “Terra dei fuochi”
sta in una legge dello Stato, quindi
almeno hanno ammesso il problema. Ben lungi dall’avere la volontà
di risolverlo. Perché bisognerebbe,
una volta connotato il problema concernente lo smaltimento illecito dei
rifiuti, puntare sulle aziende, avere
una possibilità di smaltimento eco
sostenibile degli scarti delle aziende,
creare nuovi piani aziendali. Probabilmente ci vorranno cinquant’anni
per realizzarlo in Italia, nel nostro
paese, ma anche in Europa, perché
questo è un problema europeo. La
terra dei fuochi era la discarica e la
soluzione per le aziende. Prima in
Africa. L’omicidio di Ilaria Alpi risale
a quel periodo lì. Lei stava indagando
proprio sullo smaltimento dei rifiuti
pericolosi che partivano con le navi
dalla Campania e arrivavano in Africa
per essere smaltiti, e lei fu uccisa per
questo. E su questo c’è ancora un
grosso segreto di Stato.
sono le vostre proposte
❝Quali
❝
concrete?
Bisogna cominciare dalle direttive
europee, leggi nazionali, nuovi piani
industriali, che facciano quella che
noi chiamiamo la ‘nuova rivoluzione
industriale’, che deve partire dalla
consapevolezza delle aziende. Per
gli scarti nocivi bisogna trovare una
soluzione: o avere una possibilità di
smaltimento legale con impiantistica eco sostenibile che non sia a sua
volta nociva, oppure quel prodotto
va cambiato. Qui è la rivoluzione,
va cambiato puntando su materie
prime che diano scarti totalmente
recuperabili, riciclabili, e non invece
scarti che per essere smaltiti costano
dieci volte di più. Una rivoluzione
industriale, all’origine, ed è quello
che noi oggi stiamo lanciando proprio
come nuova idea di sviluppo, nuovo
paradigma economico di sviluppo.
PE
❝E
❝ poi c’è l’imprenditoria e la
politica.
Assolutamente sì. Non è possibile
che un imprenditore non si ponesse
un interrogativo, nel momento in
cui sapeva che per smaltire una tonnellata di quella tipologia di rifiuto
nell’impianto in regola gli sarebbe
costato 100, e arriva uno che gli dice:
“Te lo faccio per 10”. “Ok, allora ho 90
di utile”. Se lo doveva porre l’interrogativo. Le bolle erano assolutamente
falsificate. Allora, tu, imprenditore, sei
colluso. Poi, il mondo della politica.
Il cerchio si chiude e tutto diventa,
condito insieme, la terra dei fuochi.
mandarli in impianti costosissimi di
smaltimento in Germania, Francia,
nel resto d’Europa, perché in Italia
non c’erano e continuano a non esserci. Tutto ha concorso nel creare un
sistema strutturato: un tavolino a ‘tre
gambe’ ‘imprenditoria – criminalità
– politica’. Farlo cadere significa amputare almeno una delle tre gambe,
e probabilmente quella che si riesce
ad amputare più facilmente è quella
della politica, l’unica su cui oggi noi
cittadini abbiamo la possibilità di
poter incidere col nostro voto. Non
bisogna più puntare sulla politica
che ha favorito questo sistema negli
ultimi trent’anni. E lottare contro
questo sistema.
A
La prevenzione primaria non esisteva
nel loro vocabolario. Si pensava alla
prevenzione secondaria e alla cura
che, in molti casi, era l’unico modo
per portare soldi a quei primari, chiusi
in quelle stanze, che fanno le visite
anche in nero.
11
LA COPERTINA
❝Avete
❝
anche proposto un ricorso alla Corte Europea dei Diritti
Umani di Strasburgo.
Sì. C’è un gruppo di avvocati volontari - Valentina Centonze, Armando
Corsini e Ambrogio Vallo – che stanno
agendo grazie al grande aiuto che ci
sta dando un avvocato di Strasburgo,
Antonella Mascia, che per prima ha
individuato l’assoluta possibilità di
poter vedere riconosciuto il ricorso
dalla Corte Europea. Al momento
(fine aprile 2014, ndr) partiranno i
2.
primi 50 ricorsi, per la maggior parte di mamme di bambini vittime. Il
presupposto chiave è la violazione del
diritto riconosciuto dalla Carta Europea all’informazione violato dalla
segretazione degli atti per 17 anni, atti
che sono stati desegretati soltanto a
fine ottobre 2013. E da lì poi scaturiscono una serie di altri diritti violati,
come il diritto alla salute. Ci sono
dei margini per poter vedere riconosciuta una sentenza storica che non
darà soldi a nessuno, ma obbligherà
il governo nazionale a prendere delle
misure. Cominceremo a scardinare
un altro versante importante, quello
dei risarcimenti danni alle vittime,
benché non sia ancora riconosciuto
il nesso di causalità.
Da qui deve nascere un progetto di
vero risanamento, di riqualificazione,
di sviluppo, che deve consentire alle
COLTIVARE LA RESISTENZA
❝La
❝ cultura del bene comune è
esattamente l’opposto della mentalità criminale.
Assolutamente sì. Però se si lavora su
una mentalità anticamorra, alla fine è
tutto riconducibile a quello. La tutela
del bene comune, oggi, è il primo
punto su cui lavorare. Bene comune
significa ambiente, significa spazio
a disposizione e in condivisione per
la socialità, per condividere e vivere
insieme nel pieno rispetto degli altri. E
questa è la sfida. E oggi il volontariato
dal basso di questo tipo è l’ultimo
baluardo di democrazia, è la vera
politica di questo paese. È cambiata la
sensibilità della gente, perché quella
che è iniziata è una rivoluzione delle
coscienze. (buonomo.antonietta@
gmail.com) •
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Ci sono grandi responsabilità della Regione Campania perché ancora non si vede un
marchio di qualità, non c’è nulla che garantisca e tuteli i consumatori, e che porti ad
una tracciabilità del prodotto. La legge 152/2006 è totalmente inadeguata. L’unico
modo è quello di fare la mappatura completa, con le analisi certificate di falda, terreno,
prodotto. Terreno per terreno, dare un marchio di qualità, una certificazione di qualità
e la certezza di una tracciabilità del prodotto per la tutela del consumatore. Oggi tutto
questo non c’è, non si vede nessun impegno nel farlo. Con gli agricoltori ci parliamo, ci
dialoghiamo, stiamo tentando anche a fatica di metter su dei meccanismi che possano
essere di consumo a chilometro zero.
Già stanno nascendo tanti gruppi solidali di acquisto dove si può conoscere il prodotto
che si sta acquistando, è certificato, garantito, perché sono state fatte delle analisi e sai
che è un prodotto affidabile. Quindi si crea anche un rapporto di fiducia tra l’agricoltore
il cliente. Il chilometro zero è anche quello un nuovo modo di vedere l’economia sociale.
Ci sono delle realtà che stanno facendo, da questo punto di vista, dei percorsi straordinari, come la Nuova Cooperazione Organizzata (NCO) che ha prodotti certificati,
e anche tutte le associazioni che gestiscono le famose terre di Don Peppe Diana e su
cui, oltre a produrre prodotti certificati, creano una vera e propria economia sociale
dando lavoro ai disagiati. Peppe Pagano, Giuliano Ciano, sono persone straordinarie.
Hanno avuto una visione che stanno portando avanti, e vedono veramente lontano
con il loro modo di agire.
L’esempio più bello, oltre a quello di NCO, è quello di una società che commercializzava
prodotti ortofrutticoli e che, tra i vari prodotti, ogni tanto commercializzava Kalashnikov,
facevano traffico d’armi. E quella è stata affidata in corso di confisca ad Agenda 21 per
Carditello e Regi Lagni. E in quelle mura che trasudavano criminalità, oggi vengono
fatte riunioni per garantire il massimo recupero sociale. Questa è la cosa più bella che
possa esistere, il fatto che su un terreno confiscato possano essere fatte attività del
genere. Questo significa veramente recuperarlo in un’ottica di piena riqualificazione.
Noi ce lo immaginiamo non solo sui beni confiscati, ma anche sui beni bonificati, ad
esempio, delle zone che saranno bonificate, recuperate, e che possono essere date ad
associazioni, possono essere date per attività sociali. Le realtà impegnate non sono solo
Coordinamento Comitati Fuochi, ci sono tante realtà e reti che si sono costituite. C’è Rete
Commons che fa la lotta principalmente su Chiaiano. C’è la Rete dei Cittadini Campani
per un Piano Alternativo di Rifiuti; Rete Campana Salute e Ambiente, il Coordinamento
Regionale Rifiuti della Campania. Esistono tante realtà e l’importante è che aumentino
sempre di più. (Lucio Iavarone) •
future generazioni di essere ottimista
nel poter creare qui il proprio habitat
naturale, anche perché questa era e
rimane la terra felix, era e rimane la
terra della Magna Grecia che era una
delle più floride da tutti i punti di vista
del Mediterraneo. Perché l’idiozia,
l’assurdità e l’irrazionalità dell’uomo
sembra averla avviata verso il completo declino. E da questa consapevolezza oggi dobbiamo rinascere. Ed ecco i
piccoli segnali di rinascita che dicevo
prima, il riottenimento di spazi, di
beni comuni. Quindi, anche un cambio di cultura, di mentalità della gente
che non deve più rimanere rintanata
nella propria proprietà privata, nella
propria casa, all’interno delle mura
di casa propria. Ma piuttosto badare
alla salvaguardia del bene di tutti.
I
sono ancora - l’opera di ingegneria più
mastodontica e spettacolare realizzata nel 1600 ed è diventata la discarica
in cui ancora oggi aziende sversano
rifiuti, liquidi pericolosissimi, soltanto esclusivamente per un profitto, e
gli si è dato agio e possibilità di farlo,
con una politica colpevole.
12
3.
IL PACCO ALLA CAMORRA
Ciro Corona
Un pezzo di storia di Ciro Corona,
portavoce del gruppo Resistenza Anticamorra, che a Scampia è simbolo
di lotta all’illegalità, di presidio sano,
e che gestisce il Fondo Rustico Amato
Lamberti, sequestrato proprio ai clan.
Ciro è la faccia bella di Scampia. Ce
ne sono tanti come lui nel quartiere
diventato simbolo del degrado e che
invece, nell’ultimo decennio soprattutto, ha dimostrato di avere tanto
altro, ricchezza umana inclusa, per
cominciare. Tante persone pulite e
sane, che lavorano per il territorio.
Solidarietà internazionale 03/2014
LA COPERTINA
LA TERRA DEI FUOCHI.
© MAURO PAGNANO
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Solidarietà internazionale 03/2014
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discarica, e quindi insieme ai disordini è arrivato l’esercito, che dormiva nell’agriturismo di fronte al bene
confiscato. E mentre lì c’era l’esercito
che picchiava i manifestanti, i Simeoli
hanno scavato un pozzo di 270 metri
sotto terra, e continuavano a lavorare
sul bene confiscato. Perché nonostante la confisca di tredici anni prima,
loro hanno continuato a lavorare su
quel bene.
Cominciamo ad aprire quei cancelli,
ci prendiamo il bene confiscato, e la
prima cosa che possiamo fare è quella
di portarci a lavorare i figli dei camorristi che stavano con noi: il ragazzino
che tornava a scuola doveva anche
cominciare a lavorare, e così facciamo
la prima raccolta delle pesche con i
figli dei camorristi. Le pesche sono
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attivo, che continua a operare a Marano. Un clan che faceva parte della
cupola di Cosa Nostra siciliana. Sono
i cugini dei corleonesi trapiantati in
provincia di Napoli. È un clan ancora
attivo: un camorrista ha messo su
un’azienda di costruzioni, un’azienda
edile e quindi, oltre a ricostruire la
biblioteca comunale di Parma, hanno 5000 dipendenti in Germania e
stanno riqualificando, ricostruendo,
il quartiere Scampia.
Gli avevamo tolto l’orticello di casa,
mentre gli davano gli altri appalti.
Però perché dimenticarsi quel bene
confiscato? Non solo perché quel clan
è ancora attivo, ma perché su quel
bene, secondo le indagini prima della
confisca, erano affidati all’attuale
sindaco di Napoli, Luigi De Magistris.
E si racconta che, secondo le indagini, su quel bene confiscato, ha fatto
un pezzo di latitanza Totò Riina, c’è
stato anche Brusca. Lì fino a dieci
anni fa, in una parte del boschetto,
ci scioglievano persone nell’acido,
da buoni mafiosi. Perciò un po’ per
paura, un po’ per volontà, quel bene
confiscato se lo sono dimenticati.
E allora lì nasceva la sfida, perché non
si può lasciare un bene confiscato
così. Chiaiano nel 2008 è diventato quartiere militarizzato perché il
governo Berlusconi ci ha regalato la
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bito nel quartiere della
camorra più conosciuto in tutta Europa. Ci
sarà un bene confiscato a Scampia? Ce n’era uno solo, ed era un
bene agricolo, nel quartiere accanto
a Scampia, a Chiaiano. Avevo fatto
il tirocinio presso la cooperativa “Al
di là dei sogni”, dove in quei beni
confiscati parlavano d’inserimento
lavorativo di classi svantaggiate. E io
dico: più svantaggiate di Giggino, il
ragazzo che ho io, dei nostri ragazzi
senza una famiglia, senza un passato,
senza un futuro. Più svantaggiati di
loro non c’è nessuno. Cominciamo a
lavorare anche noi sui beni confiscati,
inserendo i ragazzi, i figli di camorristi. Vado al commissariato di Scampia, vado alla municipalità, presento
la domanda per il bene confiscato e lì
mi dicono: “Ma perché abbiamo i beni
confiscati?”. C’è un bene confiscato
e nessuno sapeva dov’era.
Facendo un percorso insieme alla polizia di Scampia, arriviamo su questo
bene confiscato di 14 ettari di vigneto
e pescheto, un bosco, un piccolo paradiso terrestre. Poi capiamo perché
avevano dimenticato questo bene
confiscato. Nessuno sapeva perché.
Perché quel terreno appartiene al
clan dei Simeoli, che è un clan ancora
Avevano scavato
le tombe, con
tanto di croci.
Quella volta
mi si è fermato
veramente il cuore.
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LA COPERTINA
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Però con cinquecento persone abbiamo dovuto litigare con l’agriturismo
di fronte perché si è bloccato il quartiere, nessuno è andato a mangiare là.
La soddisfazione più grande è stata
quella che dopo due giorni è sceso il
signor Barbato, consigliere provinciale, che possiede la villa che divide
il bene confiscato, un ex monastero
che è diventato casa sua, e ci fa i complimenti. Però ci dice: “Complimenti,
perché finalmente dopo tredici anni
su questi territori è ritornata un po’ di
festa, è ritornata un po’ di gioia”. Da
quel giorno, quando siamo tornati, il
vicinato non ci salutava nemmeno, si
girava dall’altro lato. Da quel giorno
c’è stato chi ha cominciato a portarci
le ciliegie, chi i fagioli, i piselli, insomma siamo diventati parte integrante
di quel territorio.
Semplicemente aprendo i cancelli
e restituendoli al territorio, noi non
abbiamo fatto niente. Questo ha effetti
collaterali, ovviamente, perché tu non
solo stai utilizzando un bene confisca-
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diventate le prime marmellate che
sono andate nell’iniziativa “facciamo
un pacco alla camorra” del 2013. L’idea
che il figlio del camorrista andasse a
lavorare sul bene confiscato, e addirittura facesse il pacco alla camorra,
il pacco gliel’abbiamo fatto al di là di
tutto alla camorra, è una cosa che ci
faceva impazzire.
Ma non potevamo limitarci solo a
questo, perché il bene confiscato va
restituito soprattutto al territorio, e
quindi dovevamo aprire quei cancelli
e rendere il bene confiscato accessibile a tutti. Allora abbiamo cominciato
non solo ad aprire i cancelli, ma abbiamo cominciato anche a inventarci
diverse manifestazioni. E la prima
di queste è stata la prima pasquetta
napoletana sul bene confiscato alla
camorra. Ci aspettavamo che un po’
di amici venissero a festeggiare insieme con noi, invece ci siamo ritrovati
cinquecento persone; si è bloccata
Chiaiano, è finito il vino, è finita la
carne, è finito tutto quel giorno.
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LA TERRA DEI FUOCHI. © MAURO PAGNANO
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to, con un clan che mentre facevamo
la raccolta ci guardava dalle case che
stanno a meno di un chilometro da
là, ma soprattutto lo stai restituendo
al territorio.
Un giorno, mentre stiamo là dentro,
entra una macchina e viene a farci
visita il nipote dei boss. Noi stavamo
negli uffici, si avvicina questa macchina, in mezzo al bene confiscato,
esco da là dentro e dico: “Cercavi
qualcuno?”. Si affaccia questo giovane
dalla macchina e dice: “No, questa è
la terra di mio zio Angelo”. Rispondo:
“Ma Angelo chi?”. “Angelo Simeoli”.
Il cuore si ferma per dieci secondi e
dico: “Guarda, forse non lo sai che è
stata confiscata?”. E lui: “Certo, lo so,
l’hanno data a voi, ho visto che state
potando” perché stavamo facendo la
potatura “e questa è roba nostra, poi
ce la veniamo a prendere”, mise in
moto e se ne andò. Io feci in tempo a
prendere il numero di targa, lo portai
alla polizia, la polizia lo mandò a
chiamare e poi, fortuna nostra sforSolidarietà internazionale 03/2014
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Quella volta si è fermato veramente
il cuore: ma dopo trenta secondi, la
risposta più naturale a quell’intimidazione, è stata quella di farci fotografare di spalle mentre utilizzavamo
quelle fosse come orinatoi. Abbiamo
simulato che li utilizzavamo come
cessi, e poi abbiamo cominciato a
tappezzare il quartiere con queste
foto, su Internet.
Quando fai queste cose, la stampa
subito è pronta a schierarsi con te.
E quindi abbiamo esorcizzato così
le tombe che ci avevano scavato. Il
festival dell’agricoltura sociale, al di là
delle tombe, l’abbiamo fatto lo stesso,
con le tombe la sopra che andavi a
visitare, come gli scavi di Pompei. Il
festival si è fatto, c’erano trenta espositori da ogni parte d’Italia, gente che
arrivava, che ha dormito là in tenda,
settecento persone. È stato bellissimo,
abbiamo piantato un albero che ci
hanno regalato loro, l’ha piantato il
sindaco di Napoli.
Dopo non abbiamo avuto più pro-
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tuna sua, il caso ha voluto che dopo
nemmeno dieci giorni questa persona
si schiantasse contro un palo con la
moto, morto.
Un giorno conosciamo Giuliano Ciano, della cooperativa sociale NCO, e
ci propone di fare sul bene confiscato
il Festival Nazionale dell’Agricoltura
Sociale. Senza sapere nemmeno che
cos’è l’agricoltura sociale, si facciamolo! Una cosa bellissima. Prepariamo
tutto, facciamo la conferenza stampa
insieme al sindaco di Napoli. Dopo
due giorni dalla conferenza, mentre
stavamo lavorando, ci viene a chiamare un amico che stava sul vigneto
e dice: “Ma che sono quelle cose sul
vigneto? Ci stanno tutte quelle cose
tolte”. Andiamo a vedere, io oltrepasso
la catena del vigneto e vedo dei segni
a terra fatti con del terreno aggiunto
sopra. Faccio fatica a capire che cos’è,
sembra una croce, alzo gli occhi e
vedo da lontano due grandi fosse
scavate. Ci avviciniamo: ci avevano
scavato le tombe, con tanto di croci.
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LA COPERTINA
Solidarietà internazionale 03/2014
blemi, fino a quando a settembre,
dopo la raccolta delle pesche, sono
venuti con una fiamma ossidrica e
hanno tagliato tre cancelli, due pali
conficcati a terra, e si sono portati
via un trattore da 40.000 euro e una
cisterna di mille litri. Sono venuti con
un paio di camion a portarsi via tutto
in pieno giorno. Fino ad adesso erano
venuti sempre di notte. Hanno scavato per portarsi via gli alberi, hanno
rubato una cinquantina di alberi. So
che avevano fatto tutto di notte, ma
questa volta di giorno.
Noi però stiamo ancora là. Non solo
perché siamo pazzi, perché siamo
una banda di pazzi e ci sosteniamo a
vicenda, ma perché veramente pensiamo che il bene confiscato, soprattutto in quei territori, non solo è il
volano di sviluppo di quei territori,
ma sono un luogo dove si intrecciano
storie. Noi sul bene confiscato l’anno scorso abbiamo ospitato trecento
ragazzi che venivano da ogni parte
d’Italia, sono venuti a fare i campi
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LA COPERTINA
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DON MAURIZIO PATRICIELLO, PRETE IN
PRIMA FILA NELLA TERRA DEI FUOCHI.
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una promessa fatta a uno dei ragazzi
della prima comunità. È un ragazzo
di Scampia, arrivò con la comunità, i
ragazzi scelgono di andare a lavorare
sul bene confiscato. Io quando lo vidi
là gli chiesi: “Ma che ci fai tu qua?
Io conosco la tua famiglia, so che è
legata a certi ambienti. Io non voglio
avere problemi con la tua famiglia,
che sono problemi legati alla camorra,
ma soprattutto non voglio far avere
a te problemi con la tua famiglia”. E
lui mi dice: “Ciro, ma la camorra ha
ammazzato mio padre, la camorra
ha portato via mio fratello perché
me l’ha ammazzato, la camorra ha
portato via il passato, io non voglio
che si prenda anche il futuro”. Questo
ragazzo deve scontare gli ultimi mesi
di carcere domiciliare, dopodiché
diventerà socio lavoratore della nostra
cooperativa.
L’impegno che abbiamo è cercare di
fare in modo che il bene confiscato
diventi l’alternativa per chi non ha
avuto la possibilità di cambiare vita
nel suo percorso, perché si è trovato
in contesti come i nostri. Questa cosa
la devo dire per forza. I miei zii sono
camorristi, i miei cugini gestiscono
piazze di spaccio di droga, io sono
cresciuto insieme ai miei cugini, e mi
ricordo che loro andavano nei negozi
a prendere gli orologi, i gioielli. Oggi
prendono macchine e motorini senza
pagare nulla. Io quando tornavo a
casa con 100 euro che mi regalavano
i miei zii, mio padre me li strappava
in faccia quei 100 euro.
La differenza è questa: io ho avuto
una famiglia alle spalle che c’è stata,
mi ha detto quanto era importante la
scuola, mi ha fatto studiare. Senza
giustificare. I miei cugini, se mio zio
faceva il boss, non potevano non fare
i camorristi nella vita. Se tuo padre
fa il camorrista e tuo zio fa il camorrista, tuo fratello fa il camorrista, fai
anche tu il camorrista da grande. E
allora se io ho avuto la possibilità di
un’alternativa nella vita, se il bene
confiscato può essere un’alternativa
per i ragazzi, una possibilità di riscatto della propria vita o almeno la
possibilità di scegliere che cosa fare
da grande, e non deve essere sempre
la camorra a scegliere in certi contesti,
io penso che quel bene confiscato
abbia ragione d’esistere e non basteranno croci, non basteranno fosse
scavate, non basteranno nipoti dei
boss e minacce del genere per farci
andare via da là sopra.
(estratto dall’intervento al seminario
ad Aversa del progetto europeo Challenging the Crisis)
([email protected]) •
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Quindi le persone perbene cominciano a sporcarsi le mani su un terreno di
bene confiscato, dove fino a dieci anni
fa si scioglievano le persone nell’acido. E oggi si fanno le marmellate, se
sospirava Totò Riina oggi sospirano
i campi di Libera. Un cambiamento
radicale in quei territori. Oggi quel
posto è protetto dai chiaianesi, oggi
la gente di Chiaiano che viene a cucinare per i ragazzi dei campi estivi,
vengono a farci la festa popolare della
Tammorra, e noi abbiamo questa
parte qui che è gestita addirittura dal
quartiere. Il comitato del quartiere
che oggi viene a proteggere quel bene
confiscato, e lo sente proprio.
Noi, al di là di tutte queste belle cose,
siamo legati da una promessa. Una
promessa fatta a un ragazzo che è
arrivato lì con la prima comunità. Io
sono cresciuto con un tossicodipendente, il soprannome era Tittella,
non lo so perché ma lo chiamavano
così. Io sono cresciuto con l’immagine
di questo tossicodipendente, e ho
un ricordo di lui accasciato a terra,
sotto le scale di casa mia, sempre
tutto drogato e tutto “fatto”. Dopo
trentacinque anni di carcere questo
tossicodipendente me lo ritrovo sul
bene confiscato, e oggi lavora insieme
con noi lì, deve scontare gli ultimi due
anni di carcere, e ha detto: “Io non mi
sono cresciuto i miei figli, oggi i miei
figli mi hanno dato dei nipoti, dammi
la possibilità di veder crescere almeno
i miei nipoti”.
Oggi Tittella lavora insieme con noi
sul bene confiscato alla camorra, abbiamo aperto anche ai maggiorenni,
ma quello che ci tiene legati lì sopra è
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estivi con noi da Bolzano, da Rimini,
da Firenze. Vengono lì, dormono con
noi, stanno con noi una settimana,
sveglia alle sei di mattina, rinunciano
per una settimana alle loro vacanze
per spenderle sul bene confiscato e
lavorare insieme con noi.
E la cosa bella qual è? Che noi su questo bene confiscato abbiamo un protocollo col dipartimento di giustizia
minorile, per cui vengono i ragazzi
delle comunità penali, i ragazzi che
stanno scontando pene alternative
al carcere. Vengono a lavorare ogni
giorno con noi sul bene confiscato,
insieme con noi fanno tutto: il vino, le
marmellate… Il ragazzo, quando sente che stanno arrivando le ragazze da
Bolzano, inizia a farsi problemi: “Ma
io non so parlare manco l’italiano,
come faccio, mi vergogno, non voglio
lavorare”. La ragazza che arriva da
Bolzano dice: “Io vicino al carcerato,
quando mai, ho paura”. Poi a fine
settimana si sono fidanzati e sono
nate delle storie d’amore. Questa è
la cosa più bella, che poi quando se
ne vanno, i ragazzi delle comunità
non ci chiedono se hanno arrestato
a Giggino o a Tonino, ma ci chiedono
come sta quella ragazza di Bolzano.
Quindi la fusione di modelli diversi,
anche per i nostri ragazzi, che stanno
sempre a parlare di piazze di spaccio,
finalmente si parla d’altro su quel
bene confiscato. E l’idea che su quel
bene confiscato si unisca un po’ l’Italia, a Chiaiano terra di camorra,
a Scampia, oggi si lavora sui beni
confiscati, e si riunisce lì una parte
d’Italia cominciando a sporcarsi le
mani.
Solidarietà internazionale 03/2014
#internazionale GIRO DI RADAR
BANCA MONDIALE E COMBUSTIBILI FOSSILI
Il clima delle
contraddizioni
Luca Manes
La Banca mondiale predica bene e razzola
male. Continua a concedere fondi per
combustibili fossili. E le Banche
europee non sono da meno.
Il fallimento dei crediti di carbonio.
L’opposizione di chi ha vissuto
questa tragedia in prima persona.
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Solidarietà internazionale 03/2014
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Finance Unit della Banca Mondiale,
e promossa con i finanziamenti di
diversi governi tra cui Regno Unito
e Svezia, assieme alla Climate Cent
Foundation registrata in Svizzera.
Obiettivo del fondo sarebbe di facilitare la realizzazione di progetti
di carbon credit finalizzati alla “riduzione delle emissioni” e accesso
all’energia su piccola scala nei paesi
più poveri.
Poco importa se proprio i mercati
dei crediti di carbonio si siano rivelati un altro fallimento eclatante,
sia dal punto di vista della lotta ai
cambiamenti climatici che da quello
finanziario.
Il 2013 doveva essere l’anno in cui il
prezzo del carbonio “avrebbe definito il mercato”, guidando gli investimenti verso settori più “puliti” e
contribuendo nei paesi del Sud del
mondo a migliorare le condizioni di
vita tramite il meccanismo di sviluppo pulito (il ben noto e altrettanto
criticato CDM – Clean Development
Mechanism). Niente di più lontano
dalla realtà: invece del prezzo prospettato dai fautori del mercato (30
euro a tonnellata), a dicembre 2012
i permessi di emissione europei stavano a 5,89 euro a tonnellata, mentre
gli “offset” (ossia i crediti di carbonio legati a progetti nelle economie
emergenti, quelli cosiddetti CDM) si
vendevano a 0,31 euro a tonnellata.
([email protected]) •
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E LE BANCHE EUROPEE?
Sebbene la media annuale si sia
all’incirca dimezzata (da 4,7 miliardi
nel 2009 a 2,3 nel 2013), va sottolineato che con un miliardo di dollari
nel 2013 è stato raggiunto il record
assoluto per progetti per l’esplorazione di nuovi giacimenti di gas o
petrolio. Come dire, la via da battere
è sempre quella, a fronte di riserve in
esaurimento in vari angoli del pianeta, bisogna trovarne altre, costi quel
che costi. D’altronde anche le altre
banche multilaterali di sviluppo,
comprese le “nostre” Banca europea
per gli investimenti e Banca europea
per la ricostruzione e lo sviluppo,
concordano in pieno sulla bontà di
questo modus operandi: se si somma
il denaro destinato ai fossil fuels da
parte di queste istituzioni, si arriva
a una cifra esorbitante, 4,5 miliardi
di dollari.
Durante i tradizionali incontri di primavera di Banca mondiale e Fondo
monetario internazionale, tenutisi a
Washington presso le sedi delle due
istituzioni di Bretton Woods pochi
giorni dopo la pubblicazione del
rapporto dell’IPCC nella metropoli
berlinese, invece di prodigarsi per
rivedere le politiche di finanziamento ai combustibili fossili si è pensato
più a lanciare la Carbon Initiative
for Development (Ci-Dev). Ovvero
un’iniziativa finanziaria di 75 milioni di dollari ospitata dalla Carbon
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l nuovo rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC), presentato lo scorso aprile a Berlino, è quanto
mai allarmante e indica in maniera
chiara e netta, se ancora ce ne fosse
stato bisogno, che va dato un drastico
taglio alle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera: almeno il 40
per cento entro il 2050. Per fare ciò, e
quindi evitare un catastrofico incremento della temperatura di oltre due
gradi, un primo e indispensabile passo
sarebbe costituito dal diminuire l’impiego dei combustibili fossili. Eppure
ci sono istituzioni multilaterali, come
la Banca mondiale, che sono ben poco
propense a rivedere la sua tendenza
attuale nel concedere finanziamenti
per progetti estrattivi. E invece tanto
potrebbe fare per limitare gli effetti
del surriscaldamento globale, I dati
parlano chiaro: dal 2008 i banchieri
di Washington hanno concesso fondi per ben 21 miliardi di dollari per
i combustibili fossili. Tanti, troppi.
Per rimanere sulla Banca mondiale,
fa uno strano effetto ripensare a un
suo rapporto del 2012, in cui documentava in maniera attenta ed esauriente i terribili, quasi apocalittici
effetti dell’aumento delle temperature
globali intorno ai quattro gradi. Il
presidente Jim Yong Kim si era affrettato ad affermare che bisognava
assolutamente limitare l’incremento
delle temperature sotto i due gradi.
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GIRO DI RADAR
#internazionale
BRASILE, I CATADORES D’ALLUMINIO
Cosa costa
un mondiale
di calcio
Patrizia Caiffa
Sono girate in rete le foto della pulizia umana
fatta in Brasile in vista dei mondiali.
I poveri fanno scandalo. Qui la storia dei catadores d’alluminio.
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IL RISCHIO DI PROTESTE
Secondo i movimenti sociali la tanto
attesa Copa do mundo 2014, grande
vetrina per rendere famoso il Brasile in
tutto il pianeta, non servirà a migliorare
le condizioni di vita della popolazione.
Per questo già lo scorso anno sono iniziate le proteste, che il governo teme di
nuovo in concomitanza con l’evento.
Molti pensano che l’opinione pubblica
mondiale conoscerà solo il lato allegro e
positivo del Brasile, mentre la povertà e
i problemi sociali rimarranno nascosti.
Quando invece servono investimenti
maggiori nell’educazione, la salute, la
sicurezza. Il governo di Dilma Roussef
sta lavorando abbastanza bene, la classe media sta crescendo, ma gran parte
dei poveri è ancora ai margini della
società e svolge lavori informali come
quello dei catadores, che lavoreranno
giorno e notte per recuperare lattine,
mentre i tifosi esulteranno negli stadi.
Un ambiente di lavoro duro e sporco,
quello dei catadores de lixo, popolato
di poveri spesso drogati o alcolizzati, ai
quali basta rimediare i 5 reais al giorno
(meno di due euro) per procurarsi la
dose quotidiana di crack.
“Ho lavorato due mesi tra 150 catadores
nella città di Vitoria da Conquista”, racconta Roberto Paulo Souza, coordinatore del progetto di economia solidale
per l’organizzazione brasiliana Pangea,
una delle più importanti nello Stato di
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Bahia per il recupero di alluminio e
Pvc. “È stata un’esperienza molto dura
e triste. Mi sentivo sempre sporco. Però
dovevo conquistare la loro fiducia. Alla
fine mi sono abituato anche ai cattivi
odori, non li percepivo più”.
Pangea, fondata a Salvador nel ‘96, collabora anche con ong italiane come
Legambiente, ecc. Ha riunito nella rete
CataBahia una decina di cooperative
che danno lavoro a 300 catadores, e
cercano di garantire loro il salario minimo di 700 reais (250 euro) al mese.
Molti ex catadores, nel tempo, sono
riusciti ad emanciparsi dalla povertà
e diventare leader delle cooperative.
Risale al 2001 il primo convegno nazionale, che ne ospitò 1700. Da allora
la categoria non ha smesso di lottare
per rivendicare i diritti a un salario
dignitoso e al riconoscimento sociale.
Invece di essere considerati lavoratori
a tutti gli effetti sono percepiti dalla
popolazione come mendicanti o straccioni. Purtroppo, invece, la maggior
parte dei catadores che s’incontrano
sulle spiagge di Rio o di Salvador lavorano per conto proprio e guadagnano
molto poco: per 1 kg di lattine ricevono
dagli intermediari privati da 1 a 3 reais,
secondo l’offerta. A Carnevale, quando
è facile trovare lattine, il prezzo si abbassa. “Le cooperative – precisa Souza
– hanno presentato una proposta per
vendere l’alluminio recuperato durante i Mondiali a un prezzo maggiore
-. Ma i catadores individuali, spinti
dall’urgenza di procurarsi denaro per
droga e alcool, venderanno a un prezzo
più basso”. I vantaggi della Copa – ma
questo già si sa - non saranno per tutti.
([email protected]) •
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te 18 tonnellate di lattine. In una sola
cooperativa di catadores arrivano circa
45 tonnellate al mese. Per i Mondiali se
ne prevedono molte e molte di più, in
tutte le città brasiliane che ospiteranno
le partite.
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porchi e vestiti di stracci, sempre curvi con lo sguardo rivolto
a terra o impegnati a rovistare
tra la spazzatura per cercare lattine.
Anziani, giovani, bambini. Molti sono
meninos da rua che vivono in strada per
cercare di sfuggire ad abusi e violenze
familiari. Invece di andare a scuola,
cercano, in questo modo, di contribuire
alla sopravvivenza delle famiglie. La
maggior parte sono afro-brasiliani, in
un Paese dove il razzismo contro i neri
esiste oscuramente, ma è sottaciuto.
Sono i catadores da rua, gli spazzini
più poveri e discriminati tra i poveri,
il cui unico mestiere informale è raccogliere l’alluminio per rivenderlo, per
pochi reais, alle imprese che riciclano
materiali. In Brasile sono stimati dagli
800 mila ad 1 milione di catadores de
lixo che recuperano, rovistando tra la
spazzatura, alluminio, vetro, plastica,
carta, circa il 10 e il 20% dei rifiuti solidi
urbani. L’alluminio, in particolare, è
considerato “l’oro del Brasile”: lo Stato
che quest’anno sarà sotto gli occhi dei
riflettori del mondo per ospitare i Mondiali di calcio è, infatti, il primo riciclatore al mondo di alluminio. È in grado
di dare nuova vita al 99% dell’alluminio
in circolo nel Paese. Anche grazie a
leggi e politiche nazionali orientate al
recupero di materiali riciclabili, giacché
dal 1989 al 2000, mentre la popolazione
brasiliana è cresciuta del 16%, i rifiuti
solidi urbani sono aumentati del 56%.
Nella sola città di Salvador da Bahia
- con i suoi 5 milioni di abitanti, di
cui il 95% afro - brasiliani - durante
la settimana di Carnevale, quando la
birra quasi gratis scorre a fiumi come
la musica e l’allegria, sono state raccol-
Solidarietà internazionale 03/2014
#internazionale GIRO DI RADAR
GIAPPONE: MANOVRE SULLA COSTITUZIONE
Tra segreti e
militarismo
Kaoru Yoshimi
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Il Giappone attraversa un momento critico e involutivo. Il governo Abe,
con il Segreto di Stato, calpesta la legge. Viola la Costituzione. Infrange
la libertà di stampa. La resistenza dei cittadini in tutto il paese. Abe si
sposta a destra, verso il militarismo.
LA COPIA ORIGINALE DI COSTITUZIONE DEL GIAPPONE © HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG/WIKI/FILE:CONSTITUTION_OF_JAPAN_ORIGINAL_COPY.JPG?USELANG=IT
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umani fondamentali e il pacifismo.
Molto spesso, questa legge viene vista
come “legge per il mantenimento
della pace” dell’era Heisei (dal 1989
e tutt’ora in corso).
I funzionari di un dato governo designano i “segreti specifici” (tokuteihimitsu, 特定秘密)” nelle categorie
come: la difesa; gli affari esteri; la
prevenzione di attività considerate
pericolose (ad esempio il controspionaggio) e la prevenzione del terrorismo. Se una persona “rivela” i segreti,
sebbene non intenzionalmente, sarà
sottoposta ai lavori forzati per un
massimo di dieci anni.
Poiché la designazione è lasciata
all’arbitraria discrezione del settore
amministrativo, e la gamma dei cosiddetti “segreti specifici” è ambigua,
tutto ciò che è considerato svantag-
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l 26 novembre del 2013 il regime
di Abe ha promosso la legge sul
Segreto di Stato alla Camera Bassa
e il 6 dicembre alla Camera Alta. In
ultima istanza, il 15 dicembre il Partito
Liberal Democratico (LDP, jiminto
自民党) insieme con un’altra “maggioranza al potere” ha calpestato il
progetto di legge attraverso la Camera
Alta. È successo nel bel mezzo della
notte, alle 23.00. Durante il giorno,
l’edificio della Dieta - organo legislativo del paese - è stato circondato
da decine di migliaia di persone, che
protestavano duramente contro la
legge e chiedevano che fosse respinta.
Questa legge, emanata nonostante l’opposizione di quasi l’80% della
nazione, viola tre dei principi fondamentali della Costituzione: la sovranità popolare, il rispetto dei diritti
Solidarietà internazionale 03/2014
gioso per il governo può diventare
un segreto. Infatti, la comunicazione
delle informazioni riguardanti l’accordo segreto tra il Giappone e gli Stati
Uniti, la guerra in Iraq e la politica
nucleare di TEPCO (la compagnia
elettrica del paese che ha centrali
nucleari), prima dell’incidente della
centrale nucleare di Fukushima Daiichi, a oggi non sono ancora avvenute.
Il termine di designazione dovrebbe
essere fino a cinque anni (rinnovabile) e non superiore ai 30 anni totali,
fino all’approvazione dell’estensione
da parte del governo. Anche in un
caso come questo, il termine non può
essere esteso a più di 60 anni totali,
nell’esclusiva eccezione di quei casi
riguardanti ad esempio informazioni
sulla crittologia e fonti dei servizi
segreti.
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GIRO DI RADAR
#internazionale
UN POSTER DI PROTESTA CONTRO LA LEGGE SUL SEGRETO DI STATO PROMOSSA DAL PREMIER ABE.
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LA RESISTENZA DEI CITTADINI…
Nonostante simili condizioni inumane della nostra società, tuttavia,
la voce dei cittadini contro questa
legge, come anche le proteste da parte
di organizzazioni di ogni tipo, si sono
diffuse ovunque in Giappone. Per
esempio, Mitsuo Nakamura (84 anni),
ex capo bibliotecario di Toyohashi
(una piccola città situata nel sud-est
della prefettura di Aichi), dà voce
alla sua apprensione sulla situazione
attuale del Giappone, simile a quella
verificatasi alla fine degli anni Quaranta. Si tratta di un cittadino che ha
contribuito all’adozione di una dichiarazione innovativa chiamata “Dichiarazione della libertà intellettuale
delle biblioteche giapponesi”, imposta
in Giappone a tutte le biblioteche
nel 1954. Quando scoppiò la guerra
di Corea nel 1950, Mitsuo Nakamura
lavorava come bibliotecario. A quel
tempo il Giappone era sotto la politica
anticomunista, e lui aveva protestato
in maniera molto forte contro la polizia. Avevano controllato gli abbona-
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ti alle riviste di sinistra e chiesto ai
bibliotecari la ricevuta di chiamata
che registrava il nome e l’indirizzo
dell’utente. Scrisse così un articolo e
lo inviò al giornale dell’Associazione
Biblioteche del Giappone, sostenendo
che “un bibliotecario non deve abusare dell’autorità e non deve violare i
diritti umani fondamentali”. Più tardi,
questo avvenimento portò all’adozione della dichiarazione che definiva
chiaramente l’obiezione all’ispezione.
Qui era specificato il compito più
importante della biblioteca: “Fornire
alle persone dei dati e un’istituzione nella libertà riconosciuta come
uno dei diritti umani fondamentali”.
La libertà di raccogliere riferimenti
con la loro relativa offerta e il segreto
dell’utente era mantenuto.
Un altro caso: il 25 marzo, Kenji Yamamoto, presidente della Wakayama
University, durante la cerimonia di
laurea ha criticato duramente questa
legge davanti a tutti i laureati. Ha
detto che essa inaridiva il desiderio
dei giovani studenti alla ricerca della
verità, criticandola aspramente: “Non
posso ammetterlo perché mi è affidata
la gestione dell’università”. È raro in
Giappone che una persona importante di un’università rimproveri apertamente il governo in un’occasione
pubblica come questa - chiaramente
questa notizia non è stata riportata
da nessuno tranne che dal giornale
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debiti. Un’assoluta violazione della
privacy della persona. In una situazione simile, dove tutte le informazioni
sono strettamente riservate e i diritti
di conoscere e parlare sono vietati,
sembra che le persone perdano potere
e diventino infine dei perfetti pupazzi
di chi è al potere.
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UNA VIOLAZIONE DELLA
COSTITUZIONE
Se categorie come l’organizzazione
delle armi diventano segreti speciali,
quell’informazione non sarà mai resa
nota. Per esempio, se il Ministro della
Difesa specifica una materia come
“segreto speciale”, essa sarà comunicata in segreto, sebbene riguardi questioni come la distribuzione all’estero
di Forze di autodifesa giapponesi (jieitai, 自衛隊), o collaborazioni con le
Forze armate statunitensi, violando
l’articolo 9 della Costituzione.
Questa legge scuoterà le basi del pacifismo, dichiarato nel preambolo
della Costituzione: “Noi, popolo giapponese [...] abbiamo deciso che non
vogliamo mai più essere colpiti dagli
orrori della guerra attraverso azioni
del governo”. Inoltre, le persone non
sono informate sulla funzione di un
“segreto specifico”. Pertanto, il diritto civico di conoscere è nettamente
limitato e infrange un diritto umano
fondamentale come la copertura e la
libertà di stampa, la libertà d’espressione e la libertà accademica. In più,
a coloro che trattano informazioni
segrete e temi controllati, è imposto
un sistema d’attitudine relativo non
solo alla persona stessa, ma anche a
genitori, figli, moglie, anche amici e
conoscenti. Sono controllati la storia
clinica della persona, compresi anche
il consumo di alcol e l’esistenza di
Solidarietà internazionale 03/2014
#internazionale GIRO DI RADAR
progressista “akahata 赤旗”.
LA DOPPIA FACCIA DEL
GOVERNO ABE
Il 26 dicembre Abe ha visitato il discusso santuario di guerra Yasukuni (靖国神社), che onora 2 milioni
e mezzo di soldati giapponesi che
morirono in battaglia, inclusi quattordici criminali di guerra di primo
grado, che sono stati processati dal
Tribunale Militare Internazionale
dopo la seconda guerra mondiale.
La visita ha suscitato indignazione
da parte della Cina e della Corea del
Sud, che considerano il santuario, il
simbolo del militarismo giapponese,
e il suo rifiuto a compensare le atrocità commesse nella prima metà del
XX secolo.
La questione sulle “donne di conforto”
è ancora oggi trascurata. Durante la
visita Abe ha commentato: “Ho portato i miei rispetti ai caduti di guerra
che hanno sacrificato le loro preziose
vite per il Giappone, e ho pregato per
le loro anime affinché restino in pace.
Ho pregato anche per le altre anime
di tutte quelle persone le cui vite sono
state prese dalla guerra. Inoltre, ho
promesso di rinunciare alla guerra e
ho promosso la creazione di un organo
di sostegno grazie al quale le vite delle
persone non saranno travolte dalla
miseria della guerra, nel pagarla”. Il
fatto che il leader giapponese abbia
fatto queste osservazioni è un’azione a doppia faccia. Abe ha chiamato
nero il bianco, confondendo l’opinione
pubblica. Da un lato, alcuni politici
giapponesi hanno tenuto un discorso
su democrazia, libertà e pace; dall’altro hanno promosso il militarismo,
abbellendo l’aggressione straniera
del Giappone e la storia della colonizzazione. Quello che succede è una
bestemmia contro la democrazia, la
libertà e la pace.
Il regime di Abe non ha diritto e qualifiche per introdurre questa legge di
segretezza. Noi come cittadini dobbiamo continuare a combattere contro
quest’ingiustizia coscienziosamente.
(Traduzione dall’inglese a cura di Fulvia Difonte) •
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…E DEGLI AVVOCATI
Anche l’Ordine degli Avvocati si è fatto
sentire. Il 12 marzo è stato fondato a
Tokyo il “Consiglio di Difesa della
Legge sulla Protezione del Segreto di
Stato (himitsuhogoho-taisaku-benngodan, 秘密保護法対策弁護団)”, che
fa appello per l’abrogazione di questa
legge. All’incirca 330 avvocati in tutto
il Giappone hanno annunciato la loro
partecipazione. È stato detto che un
consiglio di difesa di circa 1000 persone sarà aggiunto in un prossimo
futuro. Una delle persone dell’appello
è una giovane avvocatessa, Akiko
Yazaki, della società professionale
legale “Nagoya Kita Law Office”. Ha
solo due anni di esperienza come
avvocato. Tuttavia è coraggiosamente diventata una dei promoter dell’
“Incontro di Aichi per opporsi alla
legge sul Segreto di Stato” (istituito
nell’aprile 2012). In quest’incontro ha
fatto appello ai problemi e ai pericoli
di queste leggi da Nagoya (città nel
centro del Giappone), nella prefettura
di Aichi, verso l’intero paese.
Alla conferenza dell’Associazione
culturale per la Pace Internazionale
ONE WAY (corporazione no profit per
la giustizia sociale e la costruzione di
una società in cui le persone siano
tutelate), l’avvocatessa ha detto di aver
capito, dopo aver sentito i contenuti
della legge, che funzionava con certezza come la legge militare. Ascoltando
il lavoro coraggioso di questa giovane
avvocatessa, ho capito che come cittadini abbiamo il dovere di continuare
ad alzare la voce con fiducia.
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La legge sul
Segreto di Stato
viola tre principi
fondamentali
della Costituzione:
la sovranità
popolare, il
rispetto dei
diritti umani
fondamentali e
il pacifismo.
SHINJUKU, TOKYO, DI NOTTE.
HTTP :/ / COMMONS.WIKIMEDIA.ORG / WIKI / FILE: NIGHT_IN_SHINJUKU_3.JPG © WIKIMEDIA UTENTE: MARTIN FALBISONER
Solidarietà internazionale 03/2014
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A VENTI ANNI DAL GENOCIDIO IN RUANDA
Inquietanti
confronti
Niccolò Rinaldi
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La storia dell’umanità è costellata, purtroppo, anche di genocidi.
Ognuno con caratteristiche proprie ma anche con elementi comuni
agli altri. Inquietante il confronto tra shoah e genocidio ruandese.
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KIGALI, RUANDA, IL LUOGO IN CUI 10 SOLDATI SONO STATI UCCISI NEL 1994. © WIKIMEDIA UTENTE: DYLAN WALTERS
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Due lezioni parallele”, primo libro
che esplora le differenze e le tante e
agghiaccianti somiglianze tra i due
genocidi. La Shoah non è stata né il
primo né l’unico genocidio del XX
secolo, ma la sua dimensione e la
sua modalità non hanno precedenti
e sono uniche ‒ la Shoah è una storia
irripetibile.
Il Ruanda non è stato il solo genocidio
PI
sattamente venti anni fa il
Ruanda veniva travolto dal
genocidio dei tutsi e degli
hutu moderati. Cinquant’anni prima toccava nel cuore dell’Europa agli
ebrei. I confronti sono un esercizio
rischioso, e quindi sono grato alle
edizioni Giuntina, massimo referente per la letteratura dell’Olocausto,
di aver pubblicato “Shoah, Ruanda.
del dopoguerra, ma più di ogni altro
ha avvertito che, per dimensione e
modalità, un altro olocausto di un
intero popolo è stato possibile. Anche il Ruanda del 1994 è una storia
irripetibile. Eppure il genocidio si è
ripetuto. Eppure il genocidio non era
così unico. Così ebrei e ruandesi si
sono spesso riconosciuti reciprocamente, vittime di accanimenti che
Solidarietà internazionale 03/2014
#internazionale GIRO DI RADAR
INCREDULITÀ. Le notizie che trapelavano dalla Germania e dal Ruanda
venivano tacciate di esagerazioni, e
anche i liberatori di Auschwitz o delle
colline ruandesi stentarono a credere
ai propri occhi. È una delle leggi del
genocidio: andare oltre l’immaginabile per far perdere di credibilità al
crimine. È accaduto perfino nel 1994,
nell’era dell’informazione globale
immediata.
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PERCEZIONI. In Europa si considerano tutsi e hutu uguali, tutti neri. E
in Ruanda percepiscono ariani ed
ebrei uguali, tutti bianchi. Questione
Solidarietà internazionale 03/2014
nia, prima con le forniture e poi col
riciclo di tutto quanto veniva sottratto alle vittime. In Ruanda ne hanno
approfittato i venditori di machete e
di armi (anche industrie israeliane,
tragico paradosso). Human Rights
Watch denunciò almeno cinque consegne europee di armi da Goma in
maggio e giugno del 1994, e del resto
tra Habyarimana e un paese europeo
pare fosse stato siglato un accordo
per dodici milioni di dollari di armi.
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PAGAMENTI. Dai deportati francesi
coi vagoni piombati per Auschwitz, le
SNCF, la società pubblica delle ferrovie, pretese il pagamento del biglietto
andata e ritorno, per non rimetterci
col rientro dei convogli vuoti. Nel
novembre 1995 il governo egiziano
pretese un milione di dollari per pagamenti arretrati delle armi utilizzate
dall’esercito hutu. E Kigali pagò.
BUROCRAZIA. In Europa, senza gli
elenchi della pubblica amministrazione, i registri delle scuole, le liste
delle stesse comunità ebraiche, e la
solerte cooperazione di tanti colletti
bianchi, non sarebbe mai stato possibile uccidere milioni di persone.
Idem in Ruanda, dove il motore dello sterminio furono le prefetture, le
scuole e le parrocchie.
BUSINESS. Un genocidio è un buon
affare. Industria del lager in Germa-
INSISTENZA. Curioso, ma sia in Europa che in Africa, lo sterminio dei
civili ebrei e tutsi è proseguito fino
all’ultimo, sottraendo risorse militari
al contrasto degli eserciti nemici. La
ragion d’essere dell’estremismo antisemita o anti-tutsi andava affermata
a dispetto di ogni altra priorità, più
NOMI. Dopo il ‘45 non si sono più
chiamati i neonati Adolfo, e neppure Benito. Dopo il 1994 in Ruanda
alcuni bambini figli di madri stuprate sono stati battezzati con il nome
Shumbusho, “il sostituto’’. Oppure
con Umumamarungu, “colei che mi
fa uscire dalla solitudine”.
PI
MINORANZE. Ebrei e tutsi, sempre
“raccontati” da una parte come subumani e dall’altra come subdole minacce per la maggioranza alla loro
paventata “superiorità”. L’odio viene
giustificato con la ribellione verso
lo “sfruttamento” da parte di queste
minoranze. Ha funzionato sia in Germania che in Ruanda.
MEDIA. Durante la Shoah e durante
il Ruanda, pochi pubblicarono su
quanto avveniva durante gli stermini.
Nel primo caso se ne sapeva poco, nel
secondo ci si adagiò sul messaggio
della “guerra tribale”, dove sono tutti
uguali. Nessun perseguitato venne
salvato dalla mobilitazione dei media
internazionali.
Venti anni fa il
Ruanda veniva
travolto dal
genocidio dei
tutsi e degli
hutu moderati.
Cinquant’anni
prima toccava nel
cuore dell’Europa
agli ebrei: due
lezioni parallele.
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PROMISCUITÀ. Non ci troviamo tra
due comunità divise e distanti, ma
tra gruppi di cittadini dello stesso
Paese, con il medesimo passaporto,
gli uni dentro gli altri. Stesse strade,
stesse scuole, stessi posti di lavoro, e
famiglie miste.
MODALITÀ. In Europa tecnologia e
metodi sommari: camere a gas, forni,
sperimentazioni, impiccagioni, morte
per stenti, fucilazioni di massa, soffocamento nei vagoni piombati... In
Ruanda: machete, e roghi di gruppi
di persone chiusi in scuole o chiese.
Quasi nessuna delle forme di omicidio
di uno sterminio si ritrova nell’altro,
ma un paese industriale e uno agricolo hanno proceduto con i propri
mezzi più adatti.
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NESSI. Il rovescio del punto precedente: al di là delle apparenze, in
Germania come in Ruanda il genocidio non è un incidente di percorso
della società, ma un suo prodotto.
Un progetto coltivato per anni, spesso sottotraccia, mai un azzardo. I
massacri degli ebrei e dei tutsi sono
l’esito di una puntuale cronologia
della discriminazione.
RELIGIONE. Rispetto alla Germania,
in Ruanda l’appartenenza alla stessa
religione non ha garantito niente.
Col “tutti cristiani” è caduta anche
quella scusa.
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ACCADE. Un genocidio può accadere
proprio nel cuore dell’Europa o nel
cuore dell’Africa ‒ questa la somigliante collocazione geografica di
Germania e di Ruanda ‒ a dispetto di
secoli di civiltà, di Goethe o dell’antica saggezza popolare. Il genocidio
è capace di presentarsi là dove meno
lo si aspetta, là dove si creda che i
baluardi della cultura siano da tempo
affermati, e pareggia i suoi conti con
la storia sempre nello stesso modo
maniacale: accumulando cadaveri.
TUTTI INSIEME. La caccia agli ebrei
fu un rafforzamento della coesione
ideologica, con l’impegno dichiarato
delle organizzazioni giovanili, del
mondo accademico, eccetera. Così
anche in Ruanda, dove il convolgimento di media, milizie, parte del
clero, contribuirono a un genocidio
come “community building”.
PE
IL LABIRINTO Entriamo allora nel
labirinto, in forma sintetica, lanciando qua solo alcune pietre (tra le tante
possibili) da raccogliere per comporre
una ghirlanda di riflessioni più approfondite.
di prospettive ottiche. Classificazioni
indecifrabili quando sono viste a distanza, ma ribaltate e radicalizzate a
casa propria.
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con i primi hanno reso possibile
l’inimmaginabile, e con i secondi
hanno dimostrato che anche l’inimmaginabile è ripetibile. Ognuno di
loro porta ieri un destino di vittima e
oggi di testimone, e a volte si possono
guardare come in uno specchio per
due lezioni parallele – per due popoli,
due continenti, due epoche, con l’assoluto della Shoah che pare trovare
nel genocidio ruandese una sorta di
sventurato figlio maggiore.
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GIRO DI RADAR
#internazionale
importante della vittoria.
RESISTENZA. Il ghetto di Varsavia
lottò fino all’ultimo. E sulla collina di
Bisesero circa 50.000 fuggiaschi tutsi
resistettero per un mese alle varie ondate di attacchi dei genocidari. Come
a Varsavia, a Bisesero le armi erano
poche e di fortuna, i viveri scarsissimi,
l’isolamento totale. Entrambe queste
fortezze della volontà soccombettero,
ma entrambe furono l’eccezione allo
spadroneggiare della persecuzione.
GIUSTI. Gli alberi di Yad Vashem
raccontano la sola lezione bella di
ogni genocidio: nella sua spaventosa
notte, c’è sempre un anticonformista
che si ribella al dominio del male e
offrendo se stesso crea l’altra umanità,
quella vera, la sola per la quale valga
la pena vivere. Vi sono stati tanti Giusti in Europa, e a Yad Vashem se ne
trovano anche per il Ruanda.
RICONOSCIMENTO. Quarantasei
paesi hanno ufficialmente riconosciuto l’Olocausto come parte della
propria storia nazionale. Nessuno,
ci risulta, lo ha fatto per il Ruanda.
REVISIONISMO. Tanto per la Shoah
che per il Ruanda, si potrebbero citare
innumerevoli esempi di una letteratura ampiamente in circolazione, soprattutto in rete. È un’altra lezione del
genocidio: all’assenza di limite della
crudeltà corrisponde poi l’assenza di
limite della spudoratezza.
GIUSTIZIA. A Norimberga un processo complesso e collettivo, sotto
i riflettori del mondo intero. Dopo
clamorose confessioni e dinieghi, la
conclusione è stata un buon numero
di esecuzioni capitali. Poi, nei singoli
paesi, molte amnistie e gli imperativi
della logica della guerra fredda. Ad
Arusha, un tribunale ONU dai tempi
lunghi e norme comprensibilmente
garantiste. E in Ruanda, l’incontro
tra vittime e carnefici nei tribunali
popolari gacaca, impensabile tra ebrei
e nazi-fascisti nel dopoguerra.
“MAI PIÙ”? Un genocidio è una
lectio magistralis del suo tempo,
e il post-genocidio è sempre il fon-
damento di una nuova era. Niente
è più come prima. L’Europa dopo
la Shoah ha intrapreso una nuova
era, mai conosciuta prima. Dopo il
Trauma, l’imperativo del “Mai più”.
Mai più? L’antisemitismo non è debole, è diverso e più subdolo, ma
persiste, anzi è rinvigorito. E con
esso il revisionismo. Il genocidio
ruandese non ha rappresentato una
cesura della storia africana. Non si
è forgiata una nuova coscienza capace di superare alcuni conflitti che
invece permangono, soprattutto nei
vicini Congo e Sudan. Non è stato
abbastanza? Ci vogliono sei milioni
di vittime e uno solo non basta?
Ma anche questo trauma è un crinale,
nel Ruanda del 1994 l’intera storia
coloniale, la fragilità e la frammentazione dell’Africa si sono date appuntamento per smascherare a loro modo
il vero volto del mosaico africano:
l’eredità dei bianchi, alcuni missionari, i partiti locali, le ambasciate, le
Nazioni Unite, l’Europa, il potere in
quello che è.
Così il mostro è tornato, aggirandosi anche nell’indifferenza di troppi.
Siamo tutti meno tranquilli, ma se
conosciamo, siamo anche tutti più
forti. ([email protected]) •
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SCUOLE. In Europa s’insegna la
Shoah, anche se a volte quasi in sor-
dina. Tuttavia non si insegna il genocidio ruandese. Che pure è più recente, ha visto all’opera anche potenze
europee, e dimostra quanto attuale
sia il pericolo che la storia si ripeta.
AUSCHWITZ, UNA TORRE DI LEGNO IN INVERNO. © WIKIMEDIA UTENTE: JOCHEN ZIMMERMANN
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Solidarietà internazionale 03/2014
#internazionale GIRO DI RADAR
LOTTA CONTRO AIDS, TBC E MALARIA
Buon ultima l’Italia
Stefania Burbo
Il governo, dopo tante mancate promesse, si è impegnato a versare 100
milioni di euro al Fondo Globale per la Lotta contro AIDS, Tubercolosi
e Malaria. Sarà il punto di partenza di un rinnovato impegno o una
nuova promessa mancata?
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LA LOTTA CONTRO
LE PANDEMIE
Il nostro Paese ha giocato un ruolo
fondamentale per il lancio del Fondo
Globale, avvenuto in occasione del
summit G8 di Genova del 2001. Negli
ultimi cinque anni, tuttavia, l’Italia
non ha versato 260 milioni di euro
promessi e non ha più assunto alcun
impegno finanziario nei confronti di
tale organismo. Considerando che i
due terzi del contributo italiano alla
lotta contro l’HIV/AIDS venivano
erogati attraverso il Fondo Globale,
i tagli avevano praticamente azzerato l’impegno profuso dall’Italia per
contrastare la pandemia nei Paesi a
risorse limitate.
Segnali di cambiamento nell’atteggiamento delle istituzioni politiche
verso la lotta contro le pandemie si
sono registrati a partire dal Governo
Monti e si sono concretizzati poi con
la dichiarazione di impegno finanziario di dicembre nei confronti del
Fondo Globale. I 100 milioni promessi potrebbero provenire dal Fondo
di rotazione indicato al comma 249
della legge di stabilità 2014. Il Comitato Direzionale della DGCS MAE di
marzo ha deliberato la concessione
di 30 milioni di euro al GFATM per
l’anno in corso.
I
demie e la salute globale. E anche
che vi sia adesso un ruolo politico
più attivo nella struttura di governo
del Fondo, per monitorare e incidere
sull’efficacia dell’azione, la trasparenza delle procedure finanziarie e
il coinvolgimento della società civile
nei processi decisionali.
PE
R
A
© OSSERVATORIO AIDS.
CO
PI
A
D
opo anni di impegni disattesi
e mancanza di investimenti,
il nostro Paese ricomincia a
finanziare la lotta contro le pandemie.
L’Italia si è impegnata a versare 100
milioni di euro al Fondo Globale per
la Lotta contro AIDS, Tubercolosi e
Malaria (GFATM) nel triennio 20142016. L’annuncio del Vice Ministro per
gli Affari Esteri Pistelli è arrivato lo
scorso dicembre, alla conferenza di
rifinanziamento del Fondo Globale
svoltasi a Washington.
Ci troviamo in una fase cruciale della
lotta contro le pandemie. L’incremento degli investimenti, le recenti
scoperte scientifiche, la riduzione dei
costi e un migliore know-how hanno
prodotto risultati. Le nuove infezioni
da HIV fra gli adulti e gli adolescenti
sono diminuite del 50% in 26 Paesi fra il 2001 e il 2012. Le pandemie,
tuttavia, continuano a imporre un
tributo devastante in termini di vite
umane ed economici. UNAIDS, il
programma delle Nazioni Unite che
si occupa di HIV/AIDS, informa che
nel 2012 vi sono stati 1.6 milioni di
decessi per cause correlate all’AIDS.
Secondo l’Organizzazione Mondiale
della Sanità, 1.3 milioni di persone
sono morte nello stesso anno per la
TBC e 660 mila per la malaria.
I successi ottenuti andranno perduti
se non agiamo con determinazione,
incrementando le risorse. Il costo
della non azione potrebbe essere devastante. Ecco perché il contributo
dell’Italia, pur rimanendo al di sotto
delle aspettative e di gran lunga inferiore a quello di altri Paesi europei, va
considerato come un risultato positivo. L’auspicio è che l’annuncio fatto
a Washington rappresenti il punto di
partenza di un rinnovato impegno
dell’Italia nella lotta contro le panSolidarietà internazionale 03/2014
25
#internazionale
*HIV
/AIDS Accesso alla
terapia antiretrovirale salvavita per
18 milioni di persone che vivono con
l’HIV
*TBC
*MAL
6 milioni di decessi evitati
ARIA
196.000 vite
all’anno in più
salvate rispetto ai livelli attuali
CO
PI
A
LA CONFERENZA DI
RIFINANZIAMENTO DEL
FONDO GLOBALE
Il 2 e il 3 dicembre si è svolta a Washington la IV conferenza di rifinanziamento del Fondo Globale. In
quell’occasione i donatori, pubblici e
privati, sono stati invitati a dichiarare
il proprio impegno finanziario nei
confronti del Fondo per il triennio
2014-2016. Complessivamente, sono
26
(milioni di dollari US) 3/12/2013
—Arabia
—
Saudita 25.0
—Australia
—
182.2
—Belgio
—
51.6
—Canada
—
612.3
—Cina
—
15.0
—Comm.
—
Europea 502.9
—Corea
—
del Sud 12.0
—Danimarca
—
90.2
—Francia
—
1,467.8
—Germania815.4
—
—Giappone
—
800.0
—India
—
13.5
—Irlanda
—
40.8
—Italia
—
135.9
—Kenya
—
2.0
—Kuwait
—
1.5
—Liechtenstein
—
0.2
—Lussemburgo
—
10.2
—Malawi
—
0.5
—Nigeria
—
30.0
—Norvegia
—
277.4
—Paesi
—
Bassi251.4
—Regno
—
Unito1,636.9
—USA4,002.3
—
—Svezia380.8
—
—Thailandia
—
4.5
d’Avorio (*) 6.4
—Costa
—
—Indonesia
—
(**) 4.7
—Indonesia
—
(**) 5.4
*Debt-to-Health, Germany
**Debt-to-Health, Australia
I
Secondo studi condotti dal Fondo e
dai suoi partner, la stima del fabbisogno finanziario globale per combattere le tre pandemie nei Paesi a basso
e medio reddito nel periodo 2014-2016
è di 87 miliardi di dollari. Partendo
dall’ipotesi che tutti investano di più
rispetto al passato, la ripartizione di
tale cifra potrebbe essere la seguente:
37 miliardi coperti dai Paesi a risorse
limitate che realizzano programmi di
lotta contro le pandemie, 15 miliardi
forniti dal Fondo Globale e 24 miliardi da altri canali internazionali di
finanziamento. Si garantirebbe così
il reperimento di quasi il 90% delle
risorse necessarie. Pur mancando
11 miliardi, potrebbe essere attivata
un’efficace azione di contrasto alle
pandemie.
Stima impatto 87
mld dollari investiti
nella lotta contro le
pandemie nei Paesi
a basso e medio
reddito 2014-2016
PAESI DONATORI
Impegno finanziario
a favore del Fondo
Globale 2014-2016
U
TO
R
Grazie ai programmi sostenuti dal
Fondo:
- 6 milioni di persone colpite dall’HIV
hanno accesso alla terapia antiretrovirale
- 11 milioni di casi di TBC sono stati
diagnosticati e curati
- sono stati distribuiti 360 milioni di
zanzariere impregnate di insetticida
per la prevenzione della malaria.
A
I numeri del
Fondo Globale
stati impegnati 12 miliardi di dollari,
tre in meno di quelli richiesti dal Fondo. Vi è stato però un incremento del
30% rispetto ai 9,2 miliardi di dollari
annunciati in occasione della conferenza di rifinanziamento del 2010. E
la cifra può aumentare. Gli Stati Uniti,
infatti, aggiungeranno al contributo
già dichiarato di 4 miliardi 1 dollaro
per ogni 2 versati da altri donatori,
fino a raggiungere 5 miliardi di dollari
per i prossimi tre anni. Alcuni donatori, inoltre, dichiareranno nei prossimi
mesi il proprio impegno finanziario.
A febbraio, la cifra complessiva impegnata dai donatori è salita a 12.214
miliardi di dollari.
Il risultato ottenuto a Washington
è positivo, ma non va considerato
come un traguardo raggiunto, bensì
come il punto di partenza del processo di rifinanziamento del Fondo
Globale. È necessario incrementare
gli investimenti per trasformare AIDS,
TBC e malaria da epidemie a elevata
trasmissione in malattie endemiche
a bassa diffusione, salvando così milioni di vite e risparmiando miliardi
di euro. ([email protected]) •
R
La centralità del Fondo Globale per
contrastare AIDS, TBC e malaria.
Negli ultimi dieci anni il Fondo è
divenuto il principale finanziatore
multilaterale nel campo della salute
globale. Il GFATM ha fondamentalmente modificato la capacità della
comunità internazionale di combattere le pandemie. Nel 2002 la terapia
antiretrovirale per la cura dell’HIV
era praticamente inesistente nei Paesi
a risorse limitate; mentre oggi è garantita a 9,7 milioni di persone, di cui
più della metà grazie ai programmi
sostenuti dal Fondo Globale.
PE
GIRO DI RADAR
Fonte: GFATM, Needs Assessment, aprile
2013, http://www.theglobalfund.org/
documents/replenishment/2013/Repl
enishment_2013NeedsAssessment_Report_en/.
DONATORI SETTORE PRIVATO — & Melinda Gates:
—Bill
Promissory Note 300.0
Cash 200.0
—Chevron
—
5.0
—BHP
—
Billiton 10.0
—Ecobank
—
3.0
—RED40.0
—
—Tahir
—
Foundation39.0
—Takeda
—
Pharmaceutical 3.0
—Vale
—
3.0
——United Methodist Church 19.9
—Altri
—
5.0
—TOTALE
—
12,006.9
Fo nte: GFATM , ht tp: //w w w.
hereiamcampaign.org/wpc o n t e n t / u p l o a d s / 2 0 13 / 0 9 /
Replenishment_2013Pledges_Report_en.pdf.
Solidarietà internazionale 03/2014
#glialtrisiamonoi GIRO DI RADAR
NUOVI CITTADINI NEI QUARTIERI ROMANI
Vademecum per
sopravvivere
Remo Marcone
Presentate a Roma due guide per i migranti. Numeri di telefono,
sportelli, indirizzi, ambulatori, per vivere l’emergenza.
A
PE
R
CITTADINI DEL MONDO
In un’altra zona di Roma, lungo il
Raccordo anulare, alla Romanina, da
vari anni c’è un’occupazione abitativa
di centinaia di migranti provenienti
dal Corno d’Africa (Etiopia, Eritrea,
Somalia, Sudan) dove opera l’onlus
“Cittadini del mondo” con un ambulatorio, ma anche con uno sportello
legale.
Stefania collabora da qualche tempo
con quest’associazione, che a sua
volta è collegata alla rete formata da
altre associazioni e onlus che si occupano di accoglienza agli stranieri. Per
questi l’associazione ha stampato una
“Guida sanitaria per pazienti stranieri - occupazioni e residenze virtuali
PI
CO
Solidarietà internazionale 03/2014
I
come accedere ai servizi sanitari”, con
un contributo della Regione Lazio.
Nella presentazione si spiegano le
virgolette messe a stranieri spiegando
che: “I rifugiati sono stranieri, in altre
parole provengono da un altro Paese.
Ma sono stranieri molto diversi dagli
stranieri presenti nel nostro territorio
per motivi di studio, lavoro e vacanza.
I rifugiati politici non possono tornare nel loro paese di origine, dalle
loro famiglie, né possono spostarsi
all’interno dell’Europa. Sono migranti
cosiddetti ‘forzati’, obbligati ad abbandonare la propria terra e i propri
affetti. In Italia avrebbero diritto a
una totale integrazione, al pari di
un Cittadino italiano. Nonostante
questa loro posizione molto chiara
e trasparente risultano trasparenti
e invisibili alla maggioranza della
popolazione italiana”.
La guida è scritta in modo semplice e
chiaro e le informazioni in essa contenute sono frutto dell’esperienza di
otto anni di lavoro sul campo dell’associazione tra le centinaia di persone
incontrate con le proprie situazioni
sociali e sanitarie. Per facilitare al
massimo la comprensibilità e l’uso
della guida e grazie alla collaborazione di alcuni traduttori, della guida
esistono anche versioni nelle lingue
parlate nel Corno d’Africa: arabo,
amarico, tigrino e somalo.
L’opuscolo è di facile consultazione
e le informazioni sono corredate da
foto che riproducono i documenti da
richiedere: libretto sanitario, codice
fiscale, tessera sanitaria, ricetta per
farmaci.
Ma si parla anche di medico di base,
di pediatra di base, di vaccinazioni,
visite mediche specialistiche, ticket,
servizi di emergenza, consultorio
familiare materno infantile, legge
194, contraccezione. ([email protected]) •
U
TO
R
fornire ai suoi studenti stranieri uno
strumento più definito e completo
d’informazione, una piccola guida,
un vademecum con tutte le informazioni necessarie per affrontare e
tentare di risolvere i loro problemi.
Ha così scritto e stampato da sola
(in attesa che qualche istituzione lo
faccia) alcune copie del “ Vademecum
per cittadini e cittadine migranti”, con
info e indirizzi per servizi a Roma e
nel Municipio VIII (ex XI) Ostiense,
S.Paolo, Garbatella, Tormarancia.
All’indice si trovano tutte le voci
che possono interessare i migranti,
con i relativi indirizzi, orari e numeri di telefono: accoglienza, mense,
documenti, centri di orientamento al lavoro, scuola, cultura, salute,
sportello legale sociale, numeri di
emergenza e cosa portare sempre con
sé - documento di riconoscimento,
tessera sanitaria se hai il permesso
di soggiorno, tessera sanitaria STP
Straniero Temporaneamente Presente
(se non hai il permesso), una scheda
telefonica, un biglietto per i trasporti
pubblici, il numero di telefono di un/
una amico/a italiano/a.
A
S
tefania è insegnante elementare
e da 14 anni insegna nei CTP,
Centri territoriali permanenti,
cioè scuole pubbliche di educazione e
istruzione per adulti (lavoratori e non
dai 16 anni in su). Le lezioni sono di
solito di sera e offrono corsi di lingua
italiana per diversi livelli: corsi di alfabetizzazione per la prima accoglienza, corsi d’italiano e di educazione
civica di livello A1 – A2 – B1. Il corso
di livello A2 d’italiano per stranieri dà
la possibilità di avere un certificato
di conoscenza della lingua italiana
valido per il permesso di soggiorno.
Negli ultimi anni in modo crescente
i corsi sono frequentati soprattutto
dai nuovi immigrati, e ora anche dai
minori non accompagnati.
Stefania racconta che il suo lavoro
d’insegnamento è stato trasformato dall’incontro con questi nuovi
studenti, anche perché le richieste
di partecipazione ai suoi corsi sono
continue, legate alle nuove ondate di
arrivi. Molti iscritti conoscono solo
poche parole della lingua italiana,
ma soprattutto hanno bisogno d’informazioni urgenti legate alla loro
precaria situazione di vita: documenti, salute, abitazione, lavoro, ecc. Così
Stefania si è data da fare e si è messa
in rete con varie realtà che si occupano d’immigrati a diversi livelli:
assistenti sociali, mediatori culturali,
centri di accoglienza, medici, centri
di orientamento al lavoro, ecc. Questo
suo nuovo modo di essere maestra le
ha consentito di stabilire relazioni
più profonde con i suoi alunni, che
hanno trovato in lei un sicuro punto di
riferimento; ma questo ha significato
per lei anche un aumento d’impegni
e di fatica aldilà dell’orario di lavoro.
La conoscenza e l’incontro con l’esperienza di Selam Palace e dell’associazione Cittadini del mondo le hanno
dato l’input per realizzare l’idea di
27
COORDINAMENTO DI INIZIATIVE POPOLARI DI SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALE
Costretti a rubare
per mangiare
A
Milano un pensionato ottantenne è uscito dal supermercato con un sacchetto della
spesa, eludendo il passaggio alle casse. Lo sfortunato anziano, però, è stato immediatamente raggiunto e bloccato dal direttore del supermercato, il quale ha subito
chiamato le forze dell’ordine. All’interno del sacchetto gli agenti vi hanno trovato unicamente generi alimentari. Di fronte all’affermazione del pover’uomo: “Avevo bisogno
di mangiare e non avevo i soldi per comprare del cibo”, il direttore, impietosito ha
umanamente e comprensibilmente deciso di non procedere alla denuncia. È solo
un esempio, uno dei tanti casi reali. Negli ultimi decenni siamo stati sopraffatti
da una mercificazione della vita, che ci ha portati a un modello di sviluppo in cui
è necessario avere sempre di più per far fronte alle necessità, e costi sempre maggiori per vivere.
E così ci troviamo di fronte a casi di miseria e povertà in cui la dignità dell’essere umano lascia il
posto al bisogno e alla necessità di sopravvivenza.
A Casoria, hinterland partenopeo, lo scorso 25 marzo un uomo con pistola in pugno ha rubato
quattro pizze, due margherite, una capricciosa e una quattro formaggi. Bottino: 19 euro. È accaduto
a un professionista: all’uscita da una pizzeria gli si è avvicinato il ladro, volto scoperto e pistola,
ha intimato di dargli le pizze. «Stasera mangeranno i miei figli», ha detto, poi dandosi alla fuga. O
ancora in Calabria, dove una ragazza di 18 anni di Catanzaro è stata sorpresa mentre rubava, in un
negozio di abbigliamento cinese, cinque maglioni per i fratelli che sentivano freddo. La ragazza ha
raccontato ai carabinieri che la sua famiglia ha gravi problemi economici e non avevano soldi per i
maglioni. Il pm di turno ha deciso di non farla arrestare limitando il procedimento a una denuncia
per furto. Dalla Calabria, al nord del paese: Gallarate, nel milanese. Altra regione, altra triste vicenda di miseria. Location: un supermercato dove una madre straniera, disoccupata e senza soldi, ha
tentato di rubare alcuni generi alimentari per un valore di 60 euro. La donna, dopo il colpo, è corsa
all’esterno per non farsi prendere, ma uno dei vigilantes è riuscito a strapparle di mano la borsetta
con la refurtiva. I carabinieri sono arrivati sul posto per arrestarla. Il Pm ha detto no: non si porta in
cella una madre che ruba per fame. E si ruba anche per soli quattro euro! Angela è una donna 51enne
disoccupata, l’azienda per cui lavorava ha dovuto tagliare il personale, e Angela si è trovata senza
lavoro e soldi. Angela per sfamare i suoi due bambini non ha resistito, una volta entrata all’interno
del supermercato, ha fatto il giro dei reparti, poi giunta a quello dei “freschi”, s’è ritrovata di fronte
al formaggio. Non ha resistito e ne ha preso un pezzo. Ma Angela è stata notata. La donna è uscita
dal market, nel frattempo sono stati avvertiti i carabinieri, che l’hanno fermata, recuperando anche
il formaggio: valore € 4,78 centesimi, poi restituito al titolare del market. Portata alla Stazione dei
carabinieri, Angela ha confessato le sue colpe: “È la prima volta, non sono una ladra ma sono senza
lavoro e senza soldi, non abbiamo nemmeno un pezzo di pane da mettere sotto ai denti, oggi mi
trovo qui a rubare un pezzo di formaggio per mangiare, mi vergogno molto”.
Dovremmo tutti vergognarci per “l’inciviltà” che abbiamo costruito in questi decenni, dove per
vivere ci troviamo sempre più spesso di fronte a scelte drammatiche: rubare, migrare, suicidarsi…
La vita è il dono più prezioso per ogni essere umano. Di qualunque razza, religione, credo, nazionalità. Qualsiasi politica che non sia in grado di garantire i diritti fondamentali per tutti gli esseri
umani: lavoro, salute, casa, educazione… in qualunque Paese del mondo, non è Politica, perché la
vera politica deve lavorare per garantire i diritti e la convivenza per tutti e fra tutti gli esseri umani.
Fintantoché ogni persona non avrà le risposte e le garanzie adeguate alla sua sopravvivenza e per
il suo benessere, nessuno potrà fermarla e obbligarla a rimanere a casa sua.
Continueremo a vivere le tragedie del mare, alimentare il grande “cimitero blu”, e le nostre frontiere
saranno sempre più violate e calpestate da persone spinte ogni secondo a partire alla ricerca della
sopravvivenza, dal modello di sviluppo che noi stessi occidentali abbiamo costruito.
Per questo abbiamo bisogno di “Cooperazione”. Di cooperazione vera, non solo di “progetti”. Di
cooperazione che sappia leggere le storie delle nostre miserie con quelle dei migranti e degli emarginati di tutto il mondo, per collocarle in un mondo che non ha abbattuto le barriere geografiche,
ma ha urgente bisogno di una nuova politica al servizio di ogni essere umano e di tutti gli esseri
umani, non della finanza, dell’economia, degli interessi di pochi o di parte. Il nostro domani dipende
da tutti noi. Dalla nostra volontà di vivere insieme. Il domani, siete voi giovani di tutto il mondo.
([email protected]) •
CO
PI
A
PE
R
A
U
TO
R
I
Guido Barbera
Cooperare: unire le storie delle nostre miserie con quelle
dei migranti e degli emarginati di tutto il mondo.
28
Solidarietà internazionale 03/2014
BANNING POVERTY 2018
3/5
A
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TO
R
I
STOP TTIP!
R
PE
S
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PI
iamo al terzo dossier dell’anno dedicato all’iniziativa
“Dichiariamo illegale la povertà” (DIP) – Banning Poverty 2018. Lo dedichiamo –
nello stile dell’iniziativa – a
una delle cause dell’impoverimento,
che intendiamo denunciare con forza. Si tratta del TTIP, il Partenariato
Transatlantico per il Commercio e gli
Investimenti (Transatlantic Trade and
Investment Partnership), un trattato
di libero scambio e investimento, che
l’Unione europea e gli Usa stanno in
questo periodo negoziando in segreto.
Secondo noi è qualcosa di più di una
semplice trattativa di liberalizzazione
commerciale.
È l’ennesimo attacco frontale che vede
lobby economiche, imprese multinazionali, governi e poteri forti accanirsi
su quello che rimane dei diritti del
lavoro, della persona, dell’ambiente e
di cittadinanza dopo anni di crisi economica e finanziaria, con le politiche
di austerity. Un trattato che antepone
la logica del profitto illimitato alla
tutela dei diritti inalienabili. Sono in
pericolo la sicurezza alimentare, l’acqua e la sanità pubblica, l’istruzione,
i beni comuni, i diritti del lavoro, la
democrazia…
A
a cura di Nicola Perrone
Solidarietà internazionale 03/2014
Ci raccontano in modo approfondito
il TTIP: John Hilary, Monica Di Sisto,
Marco Bersani e l’on. Filippo Gallinella. Poi Rosario Lembo approfondisce il
rapporto tra la cooperazione italiana
– che sta aprendo alle imprese private –
e il diritto all’acqua in pericolo, anche
grazie al TTIP.
E, come sempre, una storia positiva
di uscita dalla povertà, da Emmaus.
Ribellarsi al TTIP vuol dire assumersi
la responsabilità di determinare un
cambiamento che sia per tutti, e lottare
contro la povertà.
Anche per questo aderiamo alla Campagna Stop TTIP http://stop-ttip-italia.net/ ([email protected]) •
29
BANNING POVERTY 2018
STOP TTIP!
LA MINACCIA AI DIRITTI:
DAL CIBO AL LAVORO
Un elemento di preoccupazione è
la sicurezza alimentare. L’eliminazione delle normative europee sulla
sicurezza alimentare, comprese le
restrizioni sugli organismi geneticamente modificati (OGM), sui pesticidi e sulla carne bovina trattata con
ormoni e promotori della crescita, è
uno degli obiettivi principali che i
gruppi aziendali delle multinazionali
si sono prefissati nelle trattative TTIP.
Infatti, i produttori di generi alimentari statunitensi non devono attenersi
agli stessi standard di salvaguardia
ambientale, o di salute del bestiame,
delle controparti europee. E aspirano
da lungo tempo all’eliminazione dei
controlli dell’Ue volti a limitare la
vendita dei loro prodotti nei mercati
europei. Fin dall’inizio, il governo
statunitense ha dichiarato esplicitamente l’intenzione di avvalersi
delle trattative TTIP per attaccare le
normative dell’Ue che bloccano le
A
PI
CO
30
I
esportazioni di prodotti alimentari
americani, in modo particolare le
normative sulla sicurezza alimentare
per la cui difesa i cittadini europei si
sono battuti per decenni.
Al centro della disputa c’è il ricorso da
parte dell’Ue al “principio di precauzione”, che stabilisce gli standard di
sicurezza alimentare. Secondo questo principio, è possibile ritirare un
prodotto dal mercato se sussiste il rischio che possa costituire un pericolo
per la salute delle persone, anche nel
caso in cui non ci siano dati scientifici sufficienti sui quali basare una
valutazione esauriente dello stesso
rischio. Il governo americano non
utilizza il principio di precauzione, e
gli interessi degli imprenditori hanno prevalso nella definizione degli
standard di sicurezza alimentare che
sono quindi molto più bassi di quelli
europei.
Per esempio, circa il 70% di tutti gli alimenti trasformati venduti
nei supermercati Usa, contengono
attualmente ingredienti geneticamente modificati (GM). Per contro,
a causa di una notevole resistenza
popolare, praticamente nessun prodotto alimentare GM è venduto nei
supermercati europei, e qualora un
prodotto contenga elementi GM deve
dichiararlo sull’etichetta.
Per quanto riguarda la perdita di posti
di lavoro, derivante di solito da accordi di libero scambio, la Commissione
europea ha confermato la possibilità
che il TTIP comporti per i lavoratori
europei un ricollocamento “dilazionato nel tempo ed effettivo”, poiché
le aziende saranno incoraggiate a
procurarsi merci e servizi dagli Usa
dove gli standard di lavoro sono più
bassi e i diritti sindacali inesistenti.
Si nutrono inoltre timori che il TTIP
possa portare a un peggioramento
delle condizioni lavorative, come ad
esempio i contratti collettivi, considerati come “barriere” al libero scambio.
Il TTIP non mira soltanto ad allentare i divieti normativi in materia
di ambiente e sicurezza alimentare,
U
TO
R
nale a uno status equivalente a quelle
di uno Stato nazionale. Minaccia così
di indebolire i principi più elementari
della democrazia, tanto nell’Unione
europea che negli Stati Uniti.
Il TTIP è visto, a giusto avviso, non
come un negoziato tra due concorrenti commerciali, ma come un tentativo
da parte di compagnie transnazionali
di aprire e deregolamentare i mercati
su ambedue le sponde dell’Atlantico.
Tra i cittadini dell’Unione Europea e
degli Usa sorgono, quindi, preoccupazioni sempre maggiori di fronte alle
minacce costituite dal TTIP, mentre
raggruppamenti della società civile
stanno riunendo attualmente le proprie forze, assieme ad accademici,
parlamentari e altri, per evitare che
funzionari di governo pro-business
decretino la fine degli standard sociali e ambientali fondamentali. Tutti
incoraggiati a partecipare a questa
resistenza, prendendo contatto con le
campagne locali e avviandone anche
di proprie.
A
L’
intenzione di dare il via ai
negoziati TTIP era stata
annunciata inizialmente dal presidente Barack
Obama nel suo discorso
sullo stato dell’Unione
nel febbraio 2013. Il primo ciclo di
negoziati ha avuto luogo tra i funzionari della Commissione europea
e degli Usa nel luglio dello stesso
anno. L’obiettivo è di superare il più
rapidamente possibile la fase delle
discussioni, senza far trapelare dettagli in pubblico. Si spera, infatti, che
le trattative possano essere portate
a termine prima che i cittadini europei e americani scoprano le vere
dimensioni delle minacce costituite
dal TTIP.
Lo scopo principale del TTIP è, come
confermano i funzionari delle due
parti, l’eliminazione di “barriere
normative” che limitano i profitti
potenzialmente realizzabili dalle società transnazionali, a est e a ovest
dell’Atlantico. Tuttavia, queste barriere, rappresentano in realtà alcuni dei
nostri standard sociali maggiormente
apprezzati: le normative ambientali,
i diritti dei lavoratori, le norme per la
sicurezza alimentare (comprese le
restrizioni sugli OGM), i regolamenti
sull’uso di sostanze chimiche tossiche, le leggi sulla privacy digitale e
anche le nuove norme a tutela delle
operazioni bancarie, introdotte per
prevenire una crisi finanziaria come
quella del 2008. La posta in gioco, insomma, non potrebbe essere più alta.
In aggiunta al programma di deregolamentazione, il TTIP mira a creare
nuovi mercati con l’apertura dei servizi pubblici e dei contratti per appalti
governativi alla concorrenza delle
imprese transnazionali, minacciando
così di provocare un’altra ondata di
privatizzazioni in settori chiavi come
la sanità, l’istruzione e l’alimentazione. Ma ciò che desta maggiore
preoccupazione è che il TTIP stia
cercando di concedere agli investitori
stranieri un nuovo diritto di citare in
giudizio i governi sovrani, portandoli
di fronte a tribunali arbitrali creati ad
hoc, qualora le loro società subissero
una perdita di profitti derivante da
decisioni di politica pubblica. Questo
meccanismo di “risoluzione delle
controversie tra investitori e Stato” innalza, di fatto, il capitale transnazio-
R
John Hilary *
Il TTIP è l’ennesimo attacco frontale
che vede lobby economiche, imprese
multinazionali, governi e poteri
forti accanirsi su quello che rimane
dei diritti del lavoro, della persona,
dell’ambiente e di cittadinanza.
PE
STOP TTIP!
Solidarietà internazionale 03/2014
STOP TTIP!
BANNING POVERTY 2018
STOP TTIP, MANIFESTAZIONE DI PROTESTA CONTRO I NEGOZIATI A BRUXELLES.
FONTE: HTTP://WWW.CNAPD.BE/STOP-TTIP-TAFTA-ACTION-A-BRUXELLES795.HTML
I DODICI PRINCIPI
DELL’ILLEGALITÀ
DELLA POVERTÀ
1 Nessuno nasce povero, né
sceglie di essere povero.
2 Poveri si diventa. La povertà è
una costruzione sociale.
3 Non è solo – né principalmente
– la società povera che “produce”
povertà.
4 L’esclusione produce
l’impoverimento.
5 In quanto strutturale,
l’impoverimento è collettivo.
6 L’impoverimento è figlio di una
società che non crede nei diritti
alla vita e alla cittadinanza per
tutti, né nella responsabilità
politica collettiva per garantire
tali diritti a tutti gli abitanti della
Terra.
7 I processi d’impoverimento
avvengono in società ingiuste.
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Solidarietà internazionale 03/2014
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9 Il “pianeta degli impoveriti“ è
diventato sempre più popoloso a
seguito dell’erosione e della
mercificazione dei beni comuni,
perpetrata a partire dagli anni ’70.
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della Comunità Europea e degli Usa,
attraverso il tentativo di ampliare le
vie d’accesso ai mercati e di programmare l’eliminazione di norme che
limitano la realizzazione di profitti. Le
osservazioni di alcuni commentatori,
secondo le quali l’accordo potrebbe
essere trasformato in una forza positiva, capace di elevare gli standard da
una parte e dall’altra dell’Atlantico,
dimostrano di non essere in grado di
capirne l’essenza: ossia la sua origine,
il suo contenuto e gli obiettivi di deregolamentazione. Per questa ragione
l’appello della società civile, come
reazione ai negoziati, è di bloccare il
TTIP sostituendolo con un mandato
commerciale alternativo che ponga i
cittadini e il pianeta in primo piano
rispetto al profitto aziendale. Tutte le
forze progressiste d’Europa, degli Usa
e di qualsiasi altra parte del mondo
sono chiamate a unirsi a quest’appello
per il cambiamento. •
(estratto dallo studio di John Hilary per
conto della Rosa Luxemburg Stiftung,
Bruxelles, http://rosalux-europa.info/
userfiles/file/HILARY_IT_FINAL_WEB.
pdf)
* direttore War on Want e docente
universitario a Nottingham
PI
o a minacciare i posti di lavoro, ma
mira a garantire la liberalizzazione
del mercato dei servizi, estendendo
anche alle aziende private la possibilità di erogare servizi pubblici in
molti settori importanti come la sanità, l’istruzione e l’acqua. In questo
modo il referendum sull’acqua pubblica, vinto in Italia più di due anni
fa, sarebbe invalidato e inesistente.
Questo perché i servizi pubblici saranno consegnati a società con scopo
di lucro. Questo è uno degli effetti
più insidiosi degli accordi di libero
scambio come il TTIP.
Un’altra grande minaccia costituita
dal TTIP sta nel fatto che esso cerchi
di garantire alle società transnazionali il potere di citare in giudizio direttamente i singoli paesi, per perdite subite nelle loro giurisdizioni, in
conseguenza a decisioni di politica
pubblica. In pratica in questo modo
sarebbe concesso alle imprese americane ed europee il potere di impugnare le decisioni democratiche
prese da governi sovrani, e di chiedere
risarcimenti nei casi in cui quelle
decisioni abbiano effetti negativi sui
propri profitti.
In definitiva il TTIP è un accordo
concepito per portare benefici alle
società transazionali e multinazionali
8 La lotta contro la povertà
(l’impoverimento) è anzitutto la
lotta contro la ricchezza
inuguale, ingiusta e predatrice
(l’arricchimento).
10 Le politiche di riduzione e di
eliminazione della povertà
perseguite negli ultimi 40 anni
sono fallite perché hanno
combattuto i sintomi (misure
curative) e non le cause (misure
risolutive).
11 La povertà è oggi una delle
forme più avanzate di schiavitù,
perché basata su un “furto di
umanità e di futuro”.
12 Per liberare la società
dall’impoverimento bisogna
mettere “fuorilegge” le leggi, le
istituzioni e le pratiche sociali
collettive che generano ed
alimentano i processi
d’impoverimento.
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BANNING POVERTY 2018
STOP TTIP!
Perdere o lasciare Oltre 60 - tra i movimenti, le
piattaforme, i comitati, i sindacati, le
ong e le organizzazioni sociali italiane
Monica Di Sisto*
- hanno deciso di mobilitarsi e di
l presidente Obama l’ha definito “il premio per un’intera
lanciare la campagna Stop TTIP Italia.
generazione”. Un’occasione,
per di più, da prendere o la-
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Il TTIP è qualcosa da perdere e lasciare:
un attacco frontale che vede lobby
economiche, governi e poteri forti
accanirsi su quello che rimane dei diritti.
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moda, la meccanica per trasporti,
un po’ meno da cibi e bevande e da
uno scarso +2% per prodotti petroliferi, prodotti per costruzioni, beni di
consumo e agricoltura entro il 2027.
L’Organizzazione mondiale del Commercio ci dice che le imprese italiane
che esportano sono oltre 210mila, ma
è la top ten che si porta a casa il 72%
delle esportazioni nazionali. Secondo
l’ICE, in tutto nel 2012 le esportazioni
di beni e servizi dell’Italia sono cresciute in volume del 2,3%, leggermente
al di sotto del commercio mondiale.
La loro incidenza sul Pil ha sfiorato
il 30% in virtù dell’austerity e della
crisi dei consumi che hanno depresso
il prodotto interno. L’Italia – spiega
sempre l’ICE – è riuscita a rosicchiare spazi di mercato internazionale
contenendo i propri prezzi, senza
generare domanda interna né nuova
occupazione. Anzi: l’ha fatto spostando all’estero processi o attività dove
costavano meno il lavoro o le tecnologie. Per un guadagno esclusivamente
nel profitto di pochi, subiremmo però
ingenti danni. Sempre Prometeia ci
dice, infatti, che nel caso più ottimistico soccomberebbero comunque
il legname, la carta, poi la chimica
farmaceutica e di consumo, la più
penalizzata con 30 milioni di euro
di perdite previste. Altri 10 milioni si
perderebbero tra prodotti intermedi
chimici, altri intermedi e agricoltura,
e molte piccole e medie aziende potrebbero non sopravvivere allo choc.
Oltre 60 tra i movimenti, le piattaforme, i comitati, i sindacati, le ong e le
organizzazioni sociali italiane hanno
deciso di mobilitarsi e di lanciare la
campagna Stop TTIP Italia (www.
stop-ttip-italia.net) per opporsi a un
disegno politico che ha nella mercificazione dei diritti e nella tutela dei
mercati il suo obiettivo principale.
“Ci appelliamo a tutte le forze sociali,
sindacali e politiche del nostro Paese
– si legge nella piattaforma dell’iniziativa - perché convergano su una
mobilitazione comune per fermare il
negoziato TTIP, esattamente come è
successo alla fine degli anni ’90 con
l’Accordo Multilaterale sugli Investi-
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Una condizione che preoccupa tutti in
Europa, fuori e dentro le istituzioni. Il
più grande sindacato europeo, quello
metalmeccanico tedesco, IG Metal,
con i suoi due milioni e mezzo quasi
d’iscritti, ha chiesto al suo Governo
di fermare il negoziato che rischia di
colpire duramente l’occupazione in
Europa, senza vantaggio alcuno per
i cittadini. In Inghilterra i laburisti
e in Francia i Verdi e le parti più a
sinistra dei socialisti fanno sentire il
proprio malcontento per l’esclusione
dei Governi nazionali, legata all’assoluta segretezza del negoziato, da
decisioni che potrebbero portare, tra
l’altro, all’azzeramento graduale degli
standard di sicurezza e di qualità di
beni comuni e diritti come l’acqua, il
cibo e i contratti di lavoro, di servizi
pubblici come sanità e istruzione
e al loro completo affidamento alla
competizione di mercato.
Anche l’Italia, stando ai dati, non
avrebbe granché da guadagnarci,
almeno per la maggioranza dei suoi
cittadini. Il ministero per lo Sviluppo
economico, infatti, ha commissionato
a Prometeia spa una prima valutazione d’impatto mirata all’Italia, che ha
detto alcune cose ben diverse. I primi
benefici delle liberalizzazioni si manifesterebbero non prima di tre anni
dall’entrata in vigore dell’accordo,
nella misura di un modesto 0,5% di
Pil in uno scenario ottimistico entro
10 anni. L’accordo rischia di favorire
soltanto un numero ristretto di soggetti, ovvero quelle imprese italiane
che esportano, molto spesso esternalizzando parti dell’impresa fuori
dal territorio italiano. Parliamo, nello
scenario più favorevole, di 5,6 miliardi
di euro e 30mila posti di lavoro grazie
a un +5% dell’export per il sistema
A
sciare, senza possibilità di
grandi mediazioni, e quindi
imperdibile considerate le nostre
condizioni economiche e sociali attuali. Il TTIP, Transatlantic Trade and
Investment Partnership, il trattato di
libero scambio tra Unione europea
e Stati Uniti d’America, attualmente
oggetto di negoziati volutamente segreti, è, però, qualcosa di più di una
semplice trattativa di liberalizzazione
commerciale. È qualcosa da perdere e
lasciare: un attacco frontale che vede
lobby economiche, governi e poteri
forti accanirsi su quello che rimane
dei diritti del lavoro, della persona,
dell’ambiente e di cittadinanza dopo
anni di crisi economica e finanziaria,
in un più ampio tentativo di disarticolare le conquiste di anni di lotte
sociali con le politiche di austerity e
di redistribuzione del reddito verso
l’alto.
Anche le valutazioni d’impatto condotte dalla stessa Commissione dimostrano che al massimo il TTIP porterebbe a una crescita dello 0,05% del
PIL europeo, a fronte dell’ennesima
ondata di liberalizzazioni ma, quello
che è più grave, porterebbe a un azzeramento progressivo degli standard di
qualità e di sicurezza dei nostri prodotti agricoli, alimentari, industriali,
chimici, della sicurezza sul lavoro,
e quindi delle regole e garanzie che
democraticamente nazioni e territori
hanno conquistato, che sono liquidati
in queste trattative come semplici
ostacoli al commercio di cui liberarsi.
Per negoziare indisturbati e senza
consentire repliche ai cittadini. Per di
più, i testi legali in discussione sono
sottoposti al segreto commerciale, e
dunque non disponibili alla lettura
nemmeno ai Parlamentari europei
regolarmente eletti.
PE
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Solidarietà internazionale 03/2014
STOP TTIP!
BANNING POVERTY 2018
menti, nel decennio scorso con la Direttiva Bolkestein, o più recentemente
con il negoziato Anti-Counterfeiting
Trade Agreement (ACTA), che con
la scusa della lotta alla ‘’pirateria’’
informatica e della salvaguardia del
diritto d’autore avrebbe attentato al
diritto alla privacy e al libero accesso
alla rete dei cittadini”.
La Campagna sta promuovendo da
mesi appuntamenti di confronto,
formazione e mobilitazione con il
fine di informare circa gli effetti che
avrebbe l’approvazione del trattato, e
fare pressione affinché tale rischio sia
scongiurato. Dobbiamo fare il meglio
possibile e il più presto per lasciarci
alle spalle questo ennesimo attacco
ai nostri territori e diritti.
Tutti gli eventi della campagna e gli
aggiornamenti su www.stop-ttipitalia.net e sull’Osservatorio sul
commercio internazionale a cura di
Fairwacth www.tradegameblog.com •
* Fairwatch
L’attacco ai beni
comuni e ai
servizi pubblici
ti all’egemonia internazionale, con il
vecchio partner europeo intrappolato
nella spirale delle politiche monetariste basate sull’austerità, lo stanco
impero statunitense affila le unghie
e adotta una nuova ambiziosa strategia per la riconquista di una nuova
egemonia globale diffusa.
Nasce da questa esigenza degli Usa
l’enorme programma di smantellamento delle residue barriere -commerciali, giuridiche, politiche- al
libero commercio e alla libertà d’investimento messo in campo in direzione dell’Europa, attraverso il TTIP
(Transatlantic Trade and Investment
Partnership).
L’obiettivo è la creazione della più
grande area di libero scambio del
pianeta, che comprenderà economie
per circa il 60% del prodotto interno
lordo mondiale, interamente governata dalle più potenti multinazionali
economiche e finanziarie, agli interessi delle quali andranno sacrificati
tutti i diritti sociali e del lavoro, i beni
comuni e la stessa democrazia.
Se per gli Usa il TTIP rappresenta
la necessità di “legare” alla propria
economia il massimo numero di aree
geopolitiche e commerciali possibili,
per l’Unione Europea si tratta della
più evidente e definitiva dichiarazione di resa di un continente che, già da
tempo, attraverso la scelta della via
L’Europa rinuncia
al proprio
protagonismo
sociale nel
settore dei beni
comuni e dei
servizi pubblici.
rigorista e monetarista in economia,
ha deciso di rinunciare alla propria
originalità - quella di uno stato sociale, frutto del compromesso fra capitale
e lavoro del secondo dopoguerra - per
consegnarsi alle leggi dell’impresa.
È, infatti, nel settore dei beni comuni
e dei servizi pubblici che, in maniera
del tutto evidente, l’Europa rinuncia a
ogni tentativo di esercitare un proprio
protagonismo sociale, per giocare al
totale ribasso la partita della competizione internazionale.
UNA COMPLETA
LIBERALIZZAZIONE
Nei negoziati in corso fra Usa e Ue, per
quanto riguarda il settore dei servizi
pubblici, sono esclusi dalla trattativa
Marco Bersani*
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L
a crisi sovverte e modifica il quadro geopolitico
internazionale, mutando
i rapporti di forza e rimettendo in discussione
egemonie storiche, sinora
date per indiscutibili.
Da una parte le nuove potenze emergenti del Sud del mondo - come il Brasile, l’India, il Sudafrica e il Messico
- continuano a crescere e sviluppare il
proprio mercato interno. Rivelandosi
difficilmente controllabili attraverso
gli strumenti vecchi dei Forum internazionali, come il G20, e, in alcuni
casi, rafforzando la costruzione di
nuove aree commerciali regionali
sottratte all’influenza statunitense,
come l’area Mercosur in America
Latina. Dall’altra, sul versante pacifico, l’asse economico e geopolitico
tra il gigante cinese e la Russia si va
prepotentemente affermando come
epicentro degli equilibri mediorientali e asiatici, in una graduale scalata
al ruolo di leadership globale.
USA: EGEMONIA GLOBALE
Stretto nella morsa dei nuovi candidaSolidarietà internazionale 03/2014
STOP TTIP, MANIFESTAZIONE DI PROTESTA CONTRO I NEGOZIATI A BRUXELLES.
FONTE: HTTP://WWW.CNAPD.BE/STOP-TTIP-TAFTA-ACTION-A-BRUXELLES795.HTML
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BANNING POVERTY 2018
STOP TTIP!
rappresenta anche una grande opportunità: ottenere il ritiro “senza se
e senza ma” di quello che rappresenta
un disegno esaustivo e totalizzante
di un’Europa al servizio dei mercati, metterebbe automaticamente in
campo l’opzione di un’altra Europa
possibile, quella dei popoli, dei beni
comuni, dei diritti e della democrazia.
Fermare il TTIP significa di conseguenza riaffermare i diritti sociali,
riconoscere i beni comuni come diritti umani universali e difendere i
servizi pubblici che garantiscono la
dignità delle persone e costituiscono
il tessuto che permea la vita sociale
delle stesse. ([email protected]) •
* Attac Italia
Un trattato
segreto
Filippo Gallinella*
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he conseguenze avrà
per l’Europa, e quindi anche per l’Italia,
il Transatlantic Trade
and Investment Partnership (meglio noto
col brutto acronimo di TTIP), ossia
l’accordo Usa-Ue per l’integrale liberalizzazione dei rispettivi mercati?
Non possiamo ancora stabilirlo con
certezza matematica, poiché i termini del Trattato sono ancora segreti.
Sappiamo però che riguarderà i prodotti agroalimentari e industriali, il
mercato dei servizi, il trasporto e la
liberalizzazione degli investimenti
privati, che coinvolgeranno anche gli
appalti pubblici, la sicurezza ambientale e alimentare, i farmaci, i diritti
di proprietà intellettuale. In pratica
tutti i settori della nostra società, tutti
gli aspetti della nostra esistenza. E
allora è facile pensare che qualcosa,
per tutti, cambierà.
Cambierà nella direzione di una
globalizzazione ancor più spinta di
quella attuale. Una globalizzazione
senza regole che, a ben guardare,
avrebbe come principale finalità quella di portare a compimento l’Executive Order di Obama, n°13534 dell’11
marzo 2010, con cui gli Usa si sono
impegnati a migliorare gli accessi per
gli scambi oltreoceano relativi alla
manifattura, l’agricoltura e i servizi. E
quale obiettivo migliore del mercato
europeo, costituito da circa 500 milioni di consumatori (perché per le
multinazionali non siamo cittadini
ma consumatori)?
Il libero accesso al mercato non può
voler dire mettere in discussione le
tutele sociali che l’Europa ha conquistato negli anni, e che l’America neanche conosce. Pensare che
un’azienda possa citare in giudizio
uno Stato, e adire un tribunale terzo
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solo quelli per cui non esista una possibilità di gestione privatistica. Siamo
a una riedizione dell’Accordo Generale sul Commercio dei Servizi (Agcs),
portato avanti per anni dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, con l’obiettivo della completa
liberalizzazione di più di 160 settori
legati ai servizi e con l’aggravante,
prevista dal presente Trattato, della
possibilità per le multinazionali di
chiamare direttamente gli Stati e gli
enti pubblici a giudizio presso un Tribunale speciale per violazione dello
stesso, con possibilità di pesantissime
sanzioni a carico dei cittadini. Per fare
un esempio, se il Parlamento italiano
approvasse la legge d’iniziativa popolare sull’acqua per dare finalmente
realizzazione all’esito referendario
del giugno 2011, a Trattato vigente
potrebbe essere chiamato in causa
da qualsiasi multinazionale fosse
interessata alla gestione del servizio
idrico, per ostacolo alla propria “vitalità commerciale” e alla conseguente
possibilità di poter ricavare, in quel
settore, profitti attuali o anche solo
potenziali. Lo stesso varrebbe per
ogni altro servizio pubblico, dalla
scuola alla salute.
Con l’approvazione del TTIP scomparirebbe lo stesso concetto di servizio
pubblico universale e ogni servizio
diventerebbe frutto di uno scambio
privatistico fra l’erogatore e il “cliente”. Non ci sarebbe più alcun diritto
universale ed esigibile all’acqua, alla
scuola e alla salute, ma solo la possibilità basata sul censo di poterlo
ottenere.
Questo fatto rende il TTIP il primo
tavolo intorno al quale si profila la
costruzione a tavolino di un’area planetaria di libero scambio messa in
campo da un’élite transnazionale che,
superando i confini tradizionali fra
Stato e privati, tra governi e imprese,
si sottrae a ogni possibile controllo
democratico.
Si tratta, in tutta evidenza, del tentativo di realizzare l’utopia delle multinazionali, in altre parole la messa
al loro completo servizio dell’intero
pianeta; mentre, per le elite dell’Ue,
rappresenterebbe anche la possibilità
di superare in avanti, attraverso un
“meta-trattato” strutturale, l’attuale
difficoltà nell’imporre, Stato per Stato
e governo per governo, le politiche di
austerità e di smantellamento dello
stato sociale, artificialmente indotte
dalla crisi del debito pubblico.
L’opposizione radicale al TTIP, oltre
che un’inderogabile necessità per le
vertenze e le conflittualità promosse
da qualsiasi movimento sociale attivo,
34
TTIP, FLASHMOB A BRUXELLES IL 24 MAGGIO 2014.
FOTO: PAUL REINHOLZ/CAMPACT HTTPS://WWW.FLICKR.COM/PHOTOS/CAMPACT/14260147355/
Solidarietà internazionale 03/2014
STOP TTIP!
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il Consiglio, che già si è espresso e
quindi sarà favorevole, a decidere.
La stessa Commissione europea ha
piu volte fatto capire che i termini
del Trattato sono riservati.
Se non avessimo portato all’attenzione del Parlamento italiano la questione del TTIP, ci saremmo probabilmente accorti a cose fatte. Senza
più alcun – seppur piccolo – margine
d’intervento.
Il Movimento Cinque Stelle, con interrogazioni, interpellanze e in ultimo un question time al Ministro
per lo Sviluppo Economico, ha chiesto prima al Governo Letta, e poi al
Governo Renzi, che fosse coinvolto il Parlamento anche attraverso
le Commissioni competenti, ma la
risposta ricevuta si può sintetizzare
così: silenzio e indifferenza. Come se
le conseguenze del TTIP non riguardassero l’Italia e gli italiani. Anzi, in
diretta Tv, il ministro Guidi (MISE)
ha risposto: “L’accordo è segreto, ma
possiamo stare tranquilli”. Sì, proprio
tranquilli!
IL DOMINIO DELLE
MULTINAZIONALI
Quest’accordo, come tutti i processi di globalizzazione cui abbiamo
assistito in questi anni, accentuerà
i processi di libero scambio, la concentrazione della potenza produttiva
e la tecnologica nelle mani di pochi,
calcando ancor più la differenza sia
tra nazioni dentro l’Unione Europea,
In diretta Tv il
ministro Guidi
(MISE) ha risposto:
“L’accordo è
segreto, ma
possiamo stare
tranquilli”.
sia tra i cittadini. È chiaro che non
ci possiamo fidare, perché una volta
ratificato quest’accordo cederemo,
di fatto, alle multinazionali la poca
sovranità che ci è rimasta.
Ma la domanda che ci dobbiamo porre è: per volontà di chi si sta chiudendo quest’accordo? Chi lo vuole
davvero? Non certo i cittadini, che
non si sono espressi in merito. E per
questo, allora, dobbiamo opporci non
solo a questo specifico Trattato e alle
sue conseguenze, ma soprattutto a
questo modo oscuro di fare politica:
le decisioni importanti sono prese da
pochi e per garantire gli interessi di
pochi, ma a pagare gli errori saranno
tanti, saranno tutti. I cittadini ignari,
inconsapevoli e impotenti.
Ma non ci arrendiamo e non ci fermeremo, e a breve chiederemo conto,
attraverso i nostri europarlamentari,
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internazionale, significa proteggere
l’investitore: ma chi protegge poi le
comunità locali? Non si può risolvere
una disputa senza che ciascuna parte
possa presentare le proprie osservazioni e senza la possibilità di ricorrere
a un organo di appello.
Il TTIP è un’operazione gigantesca
che va molto al di là della creazione
di un’area di libero scambio, e il suo
impatto è destinato a cambiare per
sempre il commercio internazionale.
Non siamo certo, per definizione,
contro la liberalizzazione degli investimenti: sarebbe come dire non
cogliere le opportunità. Ma il fatto
è che, in questo caso, non possiamo
dire di giocare tutti con le stesse regole, e quindi occorre dire no. Non
dimentichiamo, poi, che gli americani
vengono da anni di deregulation:
come si concilierà questa cosa, che
è anche una “forma mentis” oltre
che un dato di fatto, con un mercato
europeo iper-regolato?
I Governi non sembrano essersi posti questa domanda. Gli incontri tra
vertici Usa e Ue sono già stati quattro. Ma cosa si sia stabilito, almeno
per noi comuni mortali, non è dato
sapere. In Europa, la strada è già stata
scelta - tenendo all’oscuro i cittadini,
altro che Europa dei popoli! Il Consiglio europeo ha già approvato gli
orientamenti utilizzati dalla Commissione per trattare in nome dell’Ue.
Al termine del negoziato, pertanto,
saranno il Parlamento Europeo e
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STOP TTIP!
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di poveri esclusi dal mercato? Questo
era il modello di cooperazione assistenziale, che era proposto e praticato
30 anni fa in Italia.
Per contrastare quest’approccio, per
combattere le cause strutturali e promuovere lo sviluppo integrale delle
persone, fu approvata una legge di
cooperazione, la 49/1987, che riconosceva il ruolo della società civile,
dei volontari e dell’educazione alla
cittadinanza, come attività di cooperazione internazionale.
Ed è ancora utile, per la pacifica
convivenza dei popoli, una cooperazione che garantisca l’accesso ad
alcuni bisogni minimi, attraverso
interventi umanitari temporanei, se
poi le persone e le comunità saranno
costrette a far ricorso al mercato e ai
privati per aver accesso a pagamento
ai diritti di base? Non è forse necessario inventare una nuova mission
della cooperazione internazionale,
finalizzata a contrastare lo smantellamento dei modelli di welfare,
la difesa dei diritti umani universali
per tutti al Nord come al Sud, capace
di sostenere le comunità locali nel
loro impegno ecologico a difesa delle
risorse e i diritti del Pianeta, basata su
principi di giustizia sociale, economia
ambientale ed ecologica?
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opo il fallimento degli obiettivi del Millennio, e mentre è in
corso il processo che
porterà nell’autunno
del prossimo anno
alla definizione dell’Agenda dello
sviluppo sostenibile post-2015, la
società civile e il mondo degli operatori dovrebbero interrogarsi su cosa
significa oggi “cooperare per uno
sviluppo sostenibile”, e soprattutto
con quali “partner” l’associazionismo
e le ong devono associarsi in questa
loro mission.
Per operare insieme, cioè per fare della cooperazione, è necessario prima
definire gli obiettivi comuni, e poi
identificare i partner da associare.
Ci sono due concomitanze. In Italia
è stato avviato l’iter legislativo che
porterà, dopo circa 27 anni dall’entrata in vigore della legge n. 49, il
Paese a dotarsi di una nuova legge di
cooperazione. Legge che si caratterizza per la volontà di riconoscere le
imprese private e i privati come attori
della cooperazione, associandoli alle
istituzioni decentrate dello Stato e
soprattutto alle stesse ong. La secon-
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Rosario Lembo*
L’OMOLOGAZIONE AI PRIVATI
Sono due sfide. Si assiste, con stupore, alla “rassegnazione” da parte del
mondo delle ong all’omologazione
ai “privati” e all’inerzia rispetto a
impegni a difesa del diritto all’acqua.
Com’è possibile, per le ong, accettare
passivamente che la cooperazione
diventi uno strumento al servizio del
libero mercato e dei portatori d’interesse? Anziché essere uno strumento
di solidarietà fra cittadini e comunità,
a difesa dei diritti fondamentali della
persona umana?
Perché le ong non s’interrogano su
quale debba essere l’identità della
cooperazione internazionale, che
i governi e la stessa Commissione
europea dovrebbero mettere in atto
nella nuova Agenda dello sviluppo
sostenibile post-2015, e quindi avviare questo confronto con la società
civile a partire dal Semestre Ue della
Presidenza italiana?
È ancora necessaria una cooperazione finalizzata alla raccolta fondi, fatta
spesso da ong internazionali, che
mostrano bambini e donne affamate,
che sono parte di quei due miliardi
R
O la borsa o la
vita!
da concomitanza è la possibilità, a
distanza di quattro anni dal riconoscimento da parte dell’Onu del diritto
umano all’acqua e ai servizi igienico
sanitari, che questo riconoscimento
trovi formalizzazione fra gli obiettivi
del prossimo millennio.
PE
direttamente al Parlamento Europeo. A Montecitorio invece è pronta
una mozione, e non è detto che come
cittadini ci rivolgeremo al Comitato
europeo dei diritti sociali.
Non ci stancheremo di essere parte
attiva in questa battaglia per portare
i cittadini a conoscenza degli accordi
segreti cui saranno costretti a sottostare, ma soprattutto a scardinare il
sistema affinché i cittadini possano finalmente partecipare alle decisioni e
non soltanto subirle. Non saremo soli
in questa battaglia, insieme a molti
comitati, a iniziare dalla campagna
STOP TTIP, e alle altre forze politiche
che si sono finalmente rese conto
della gravità di quest’accordo per il
nostro Paese. Siamo pronti a unire le
forze per bloccare questo ennesimo
furto della sovranità di un popolo e
della sua libertà. (gallinella_ [email protected]) •
* Commissione Agricoltura,
Camera dei Deputati, Movimento
5 Stelle
COOPERAZIONE ED
ACQUA BENE COMUNE
Riflettiamo attraverso le sfide del
La nuova legge di cooperazione si
caratterizza per il riconoscimento
delle imprese private come attori.
Solidarietà internazionale 03/2014
STOP TTIP!
BANNING POVERTY 2018
zionali, che subito dopo la Conferenza di Rio e il Forum dell’acqua di
Marsiglia del 2012, si sono candidate
ad affiancare gli Stati per garantire l’accesso all’acqua come diritto
umano. A condizione che qualcuno
si faccia carico di coprire il costo del
quantitativo minimo.
Oltre alle multinazionali, ci sono i
paesi che hanno votato contro o si
sono astenuti in sede Onu: Usa, Canada, Cina, Germania, che si sono già
attivati per modificare i contenuti del
diritto all’acqua, inseriti nella Bozza
di Agenda degli obiettivi sostenibili post-2015. I primi tentativi sono
avvenuti nel Gruppo di lavoro che
si è svolto a New York, con la proposta di rendere difficile il ricorso alla
“giustiziabilità del diritto” da parte
dei cittadini.
Sulla stessa lunghezza d’onda si
muovono le Agenzie dell’Onu, che
si limitano ad affermare che il diritto all’acqua è garantito attraverso
il pagamento dei costi (diretti e indiretti), e che è sufficiente rendere i
costi ragionevoli e abbordabili. Inoltre contestano la necessità di nuovi
trattati o convenzioni, per garantire
il raggiungimento degli obiettivi.
Infine va registrato l’approccio del
Consiglio economico e sociale che
propone di ridurre il diritto all’obbligo di garantire l’accesso all’acqua
solo alle categorie sociali vulnerabili.
UNA NUOVA COOPERAZIONE
PER IL DIRITTO ALL’ACQUA
Che fare? È necessaria una forte
mobilitazione per garantire che il
riconoscimento del diritto all’acqua,
sancito dalla risoluzione Onu, sia
confermato e consolidato nell’Agenda
degli obiettivi sostenibili post 2015.
Ottanta associazioni e reti internazionali hanno denunciato il tentativo
di modifica del diritto all’acqua. Il
Contratto Mondiale ha sottoscritto
quest’azione e, insieme a un gruppo
di ong, ha sollecitato il Ministero degli
esteri italiano e la Direzione generale della cooperazione a prendere
posizione. Le ong e le associazioni
ambientaliste devono farsi carico
di monitorare il gruppo di lavoro
intergovernativo, che porterà entro
giugno 2105 alla definizione della
nuova Agenda dello sviluppo post2015.
È rilevante anche il ruolo che l’Italia
può svolgere nel corso del Semestre
europeo, proponendo alla Commissione una nuova politica di cooperazione, a difesa dei diritti umani e del
diritto all’acqua, senza il coinvolgi-
I
UN’EUROPA POSSIBILE. DALLA
CRISI ALLA COOPERAZIONE
A
PE
R
A
U
TO
R
di Bruno Amoroso e Jesper Jespersen, Castelvecchi 2014.
Un appello ai partecipanti che dominano sul dibattito europeo
a ravvedersi. Così viene introdotto il pamphlet scritto a quattro
mani dagli economisti Bruno Amoroso e Jesper Jespersen.
Un’Europa possibile propone una nuova Europa di cooperazione
e solidarietà diversa dall’Europa di oggi che mette l’economia
al primo e unico posto, polarizzando e destabilizzando la cooperazione. L’appello di un’Europa solidale si rivolge a tutta la
comunità, presentata in due schieramenti: l’élite di Bruxelles e
gli euroscettici. I primi sono rappresentati da tutti coloro che
partecipano all’Europa, dalla Commissione ai ricercatori. Essi
pensano che cooperazione significhi più Europa attraverso la centralizzazione del
potere politico. I secondi sono stanchi di parlare di Europa e vogliono rafforzare le
sovranità nazionali. I due autori si appellano ad entrambi gli schieramenti. Vogliono
far capire agli “europeisti” che non è centralizzando il potere che si fa cooperazione, né tanto meno proponendo agli stati di pensare ognuno a sé stesso. Quello
che propone questo pamphlet è un’Europa solidale in cui si agisca insieme, non
pensando ognuno per sé.
Così come si vuole far capire agli euroscettici che l’Europa è l’unico modo per uscire
dalla crisi. Se la crisi che stiamo vivendo è paragonabile a quella degli anni Trenta,
i due autori allertano che senza una reale cooperazione le conseguenze saranno
molto più gravi. Il loro appello dunque si rivolge a tutti coloro che vogliono costruire
un ponte per rimettere al centro la pace e la solidarietà in Europa, perché senza
solidarietà, senza aiuto reciproco tra gli stati membri, l’Unione andrebbe al collasso
e sarebbe una tragedia di tutti. (Fulvia Difonte)
PI
binomio “Cooperazione - Acqua diritto umano, bene comune”, affinché
questa riflessione possa essere estesa
a difesa di tutti gli altri diritti: il cibo,
la salute, l’educazione… che dovrebbero essere alla base della solidarietà
internazionale.
Le sfide “alternative” a quelle proposte dalla cultura dominante a tutti
i livelli sono due. La sfida sociale,
cioè impegnarsi per la difesa dei diritti fondamentali dell’uomo, e in
particolare la concretizzazione del
diritto umano all’acqua per tutti. La
sfida ambientale, cioè salvaguardare
l’acqua come bene comune, introducendo il riconoscimento del diritto
dell’acqua e la difesa dei beni comuni,
cioè contrastando la mercificazione
e monetarizzazione del ciclo naturale dell’acqua e di tutte le risorse
naturali.
C’è stato il riconoscimento del diritto
umano all’acqua e ai servizi igienico
sanitari, da parte prima dell’Onu
(risoluzione 64/92) e poi del Consiglio dei Diritti Umani (15/9/2010). A
queste approvazioni ha fatto seguito
l’iniziativa di 19 Paesi. In America
latina: Messico, Bolivia, Repubblica
Dominicana, Ecuador, El Salvador; in
Africa: Kenya, Repubblica Democratica del Congo, Egitto, Marocco, Niger,
Uganda, Somalia, Tunisia, Zimbawe;
in Europa: Olanda, Belgio; in Asia:
Maldive; in Oceania: Figii. Questi
paesi hanno costituzionalizzato il
diritto all’acqua. Anche in questi casi
l’accesso a una quantità minima di
acqua potabile come diritto non è
garantito, e la risoluzione Onu resta
solo un’affermazione di principio,
senza obblighi verso gli Stati nazionali. La successiva entrata in vigore,
nel maggio del 2013, del Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali
e Culturali (PIDESC), ha costituito un
avanzamento sul piano della “giustiziabilità” teorica e pratica del diritto
all’acqua nei confronti degli Stati in
caso di violazione.
In parallelo, c’è stata la risoluzione
adottata, nel novembre 2013, dalla
3° Commissione delle Nazioni Unite, che ha inserito fra gli impegni
dell’Agenda degli obiettivi sostenibili
post-2015 l’impegno per gli Stati ad
“assicurare la realizzazione del diritto
all’acqua e ai servizi igienico-sanitari
come diritto dell’uomo”.
CO
CHI CONTRASTA?
Purtroppo ci sono anche le azioni
di contrasto da parte di chi si sente
minacciato dalle conseguenze del
riconoscimento del diritto all’acqua.
Prime tra tutti le imprese multinaSolidarietà internazionale 03/2014
37
BANNING POVERTY 2018
STOP TTIP!
E LA COMUNITÀ
INTERNAZIONALE?
La risoluzione Onu sul diritto all’acqua non può rimanere solo un’affermazione di principi, anche a livello di obiettivi post-2015, e deve
trovare concretizzazione prima del
2030. Quest’obiettivo è attuabile sottoponendo all’approvazione - prima
del Consiglio dei Diritti Umani e poi
dell’Assemblea dell’Onu - di un trattato o protocollo internazionale, che
definisca le modalità di concretizzazione diretta e vincolante del “diritto
umano all’acqua e ai servizi igienico
sanitari” da parte degli Stati, introducendo strumenti di giustiziabilità e
sanzionabilità, attivabili nei confronti
degli Stati in caso di violazione del
diritto, ma anche di violazioni del
diritto all’acqua come bene comune.
Questa proposta è stata lanciata dal
Comitato italiano per il Contratto
Mondiale dell’acqua (www.contrattoacqua.it). Si tratta di redigere un
protocollo integrativo del Patto sui
diritti umani che, essendo un Trattato
già sottoscritto, è uno strumento di
diritto internazionale che obbliga
gli Stati a quantificare il minimo di
acqua potabile da garantire a tutti.
Questa scelta costituisce una modalità per garantire la concretizzazione del diritto all’acqua. Associato al
diritto al cibo, questa proposta può
trovare in Expo 2015, se sarà accolta
e sostenuta da alcuni Stati, a partire dal governo italiano, una sede
di lancio o di adesione da parte di
GLI ATTORI DELLA
COOPERAZIONE
La mobilitazione prioritaria è quella
di impedire che i privati e le grandi
imprese siano riconosciuti dagli Stati,
in particolare dall’Italia attraverso la
nuova legge di cooperazione. Ma anche a livello europeo. In forme come
il partenariato pubblico-privato o la
partecipazione a Fondi per garantire
l’accesso all’acqua, al cibo, all’istruzione, ecc. Questo è l’approccio proposto dalla Commissione europea,
che prospetta di affidare il governo
delle risorse idriche, nei prossimi 15
anni, ai “portatori d’interesse” attraverso il Water Partnership.
È rispetto a questi scenari che le ong,
in particolare quelle italiane, sono
chiamate a fare una scelta di campo:
decidere se il diritto all’acqua e i diritti umani sono delegati al mercato,
o restano una competenza del pubblico. Di conseguenza dovrebbero
trovare il coraggio di contrastare il
testo di legge in discussione al Senato,
e denunciare la posizione dell’attuale
governo italiano e delle forze politiche che sostengono questa proposta.
([email protected] ) •
* Comitato italiano Contratto Mondiale dell’ Acqua
U
TO
R
mento degli operatori del privato.
Le ong dovrebbero avere il coraggio
di imporre all’Italia e all’Europa impegni precisi sulla concretizzazione
del diritto all’acqua. Criticando le
politiche di liberalizzazione verso
i privati e il libero mercato, che la
Commissione Europea si accinge a
promuovere in Europa, attraverso
l’Agenda dell’Ambiente e quella sui
Servizi pubblici locali e a livello internazionale. Queste hanno gravi
conseguenze sui paesi ACP, quelli più
poveri, anche attraverso gli accordi
con gli Usa per la liberalizzazione
degli investimenti (TTIP) e i negoziati
CETA con il Canada, che prevedono
per i cittadini la liberalizzazione dei
servizi di tipo sociale, come la salute,
il cibo, il lavoro. C’è anche il riconoscimento per le imprese di rivalersi
sugli Stati in caso d’impedimento
alle concessioni di sfruttamento delle
risorse.
altri Stati o membri della comunità
internazionale.
La strada procedurale e i tempi per
portare a compimento l’approvazione
del Protocollo – in occasione dell’Expo - non sono facilmente prevedibili. Dipende, infatti, dal livello di
consenso degli Stati, e dalle azioni
di advocacy, che i Movimenti dell’acqua saranno capaci di esercitare sui
rispettivi governi.
I
Critichiamo la Commissione europea
che si accinge a promuovere gli accordi
con gli Usa TTIP, che prevedono la
liberalizzazione dei servizi di tipo
sociale, come la salute, il cibo, il lavoro.
A
DICHIARIAMO ILLEGALE LA POVERTÀ - LE TRE CAMPAGNE
C2 - DIAMO FORZA AD UN’ECONOMIA DEI BENI COMUNI
AZIONI PRIORITARIE
Via i rapinatori dal sistema
della finanza (AP1)
Chiudere le fabbriche della rendita
e della speculazione (AP 2)
Per un sistema del credito al servizio
dei cittadini e dell’economia (AP 3)
AZIONI PRIORITARIE
No all’appropriazione privata
del vivente (AP 4)
Il lavoro non è merce,
è un diritto (AP 5)
Dissociare Il reddito dal lavoro (AP 6)
Vogliamo un’Europa
dei beni comuni (AP 7)
CO
PI
A
PE
R
C1 - METTIAMO FUORI LEGGE
LA FINANZA PREDATRICE
38
C3 - COSTRUIAMO LE
COMUNITÀ DEI CITTADINI
AZIONI PRIORITARIE
Per una cittadinanza
attiva (AP8 )
Per una cittadinanza
inclusiva (AP 9)
Per una cittadinanza
mondiale (AP 10)
Solidarietà internazionale 03/2014
STOP TTIP!
BANNING POVERTY 2018
STORIE DA EMMAUS: FERRUCCIO AGOSTINELLI
Ferruccio
dalla strada
Graziano Zoni
❝Ma
❝
Ferruccio, prima mi hai detto
di essere credente, e ti sei anche
chiesto come fanno certe persone di
Emmaus che si dichiarano “atee”,
ma hanno la forza e la costanza di
mettere la propria vita al servizio
degli altri. Allora?
Io credo in Dio, ma non sono, come
si dice, praticante. Pur avendo fede,
sento che la vita si consuma, vedo
l’incoerenza di tanti cristiani, di tanti
preti e cardinali, e soprattutto, vedo il
male che sembra prendere il sopravvento nel mondo, sacrificando troppi
innocenti! Dio resta solo fede. Non si
trasforma in vita! Di fronte alla realtà,
purtroppo ripetitiva, di genocidi, di
guerre, di sterminio di migliaia, milioni d’innocenti, mi chiedo: ‘Dov’è
Dio? Che fa?’. Ripeto: Dio, per me, resta
solo fede!
PE
A
PI
CO
Solidarietà internazionale 03/2014
I
❝E
❝ qui, Ferruccio ha cominciato
tutto un suo ragionamento sulla
situazione mondiale, sulle enormi,
assurde ingiustizie, sull’immigrazione disperata, sulle tecnologie
sofisticate, sull’ingiusta ripartizione della ricchezza e della miseria,
sul Papa e sulla religiosità nel
mondo, su internet e lo sviluppo
tecnologico, sull’egocentrismo,
l’accaparramento del mondo con
guerre e rivoluzioni, sulla degenerata realtà del mondo, per finire
con “fiorite” considerazioni su
Grillo e Berlusconi. Un autentico
fiume in piena che ho tribolato
un po’ ad arginare! Finalmente:
“Ferruccio calmati, per favore. Ritorna con i piedi per terra. I lettori
conoscono le situazioni che tu hai
ricordato. E quindi preferiscono
leggere la tua testimonianza personale, le tue riflessioni su Emmaus,
le tue attese future”.
Ok, scusami. Mi capita spesso di lasciarmi andare così, a ruota libera,
con la mente che viaggia a grande
velocità nel mondo intero. Credo di
averti già accennato alla mia famiglia
sfasciata, mia mamma e mio babbo
alcolisti. Sono andato a trovarlo poco
R
FERRUCCIO AGOSTINELLI. © EMMAUS
tempo fa, mio babbo, ma ora ha anche il morbo di Alzheimer e sta molto
male. Ho il mio padrino, ma anche lui
sta invecchiando (74 anni) e non sta
bene. Prima ti dicevo che i problemi
restano, anche se a Emmaus non si
sta male. Si lavora, ci si mantiene col
proprio lavoro, hai qualche euro per il
“fumo”, per l’alcool si cerca di farne a
meno, però quando ho avuto problemi di salute, sono stato curato come
si deve. Comunque, sinceramente,
credo che vivere in comunità non è
facile. Anche perché devi accettare o
sopportare persone diverse, con età,
studi e cultura, caratteri e problemi
diversi. Emmaus è un po’ come la
“legione straniera”. Si trova di tutto.
Non scendo a specificare, perché tu
conosci Emmaus meglio di me e da
più tempo.
U
TO
R
lo scorso 21 aprile,
❝Ferruccio,
❝
festa di Pasquetta, tutta Emmaus
Italia, comunitari e amici, era a
Piadena per celebrare insieme i 20
anni del Gruppo Emmaus locale.
Che impressione, ritrovarti in mezzo a tanti amici, di cui ne conoscevi
diversi, dato il tuo girovagare nei
‘possedimenti’ Emmaus in Italia?.
Sicuramente, fa sempre piacere rivedere vecchi e nuovi amici, con molti
dei quali si è condiviso il cibo, il lavoro,
il tempo libero, le discussioni, la vita
insomma! Passano gli anni, sì! Ma i
problemi restano. Non so, non riesco
a non pensare alla mia vita sfasciata,
con una famiglia di alcolisti, anch’io
ho bevuto per 20 anni. Finalmente,
ho capito che i problemi si risolvono
col cervello, non con l’alcool! Certo,
ci sono i valori, c’è la fede, c’è Dio. Io
credo, ma ho la sensazione che la mia
fede in Dio non risolva i miei problemi. E nemmeno Emmaus, che pur mi
aiuta, anche negli aspetti più concreti
e mi fa sentire utile, in qualche modo.
Nel mio pellegrinare di comunità in
comunità, ho incontrato, tra i responsabili, tanta gente speciale, veramente
eccezionale. Uno più “speciale” dell’altro. Non faccio nomi; non vorrei creare
“classifiche”.
Ma vedi, Graziano, se non lo si è provato non si può capire: dalla “strada”
è quasi impossibile “venirne fuori”.
Personalmente, non ho mai pensato
che Emmaus potesse risolvere i miei
problemi. Emmaus non mi ha mai
cercato. Sono io che ho cercato Emmaus, anche se, ripeto, sapevo che
non poteva essere Emmaus a risolvere
i miei problemi. E più si va avanti negli
anni, più resta difficile risolvere i propri problemi esistenziali. La situazione
del mondo attuale non ci aiuta.
A
❝Ferruccio
❝
Agostinelli ha 54 anni,
di cui undici vissuti a Emmaus,
“visitando i possedimenti di famiglia”, com’era solito dire l’Abbé
Pierre. Ferruccio, infatti, ha
girato diverse Comunità Emmaus:
Firenze, Padova, Arezzo, Quarrata, Ferrara… e poi, finalmente a
Piadena. È qui che l’incontro, in
una bella giornata di sole, quasi
estivo.
❝“Caro
❝
Ferruccio, così, d’istinto,
posso solo dirti che Dio ha dato a
noi umani, suo popolo da Lui amato, la missione e il potere di “rifare
il mondo, rovinato dal peccato”.
Dio è nelle nostre mani. Dio è la
nostra vita! Non solo la nostra
Fede. Grazie Ferruccio”. (italia@
emmaus.it) •
39
A TU PER TU
A TU PER TU: RENATO SACCO
Parroco e
nonviolento
Nicola Perrone
PE
R
A
❝E
❝ nella tua famiglia?
Io sono nato in una famiglia di contadini molto povera, in una cascina.
Avevamo le mucche, gli animali da
cortile, i campi, per cui ho visto tanto
lavoro e poco riposo nei miei nonni, nei
miei genitori, in mio fratello. L’acqua
in casa nostra è arrivata quando io
avevo già diciassette anni. La lavatrice
non c’era. L’automobile non l’avevamo. Siamo cresciuti così in un clima
di serenità, di povertà, in un piccolo
paese che si chiama Agrate Conturbia.
Quindi un’infanzia fatta di vita molto
semplice.
CO
PI
A
❝Perché
❝
hai scelto di fare il prete?
Io sono andato in seminario a undici
anni, e non avevo ancora una coscienza di vocazione profonda. Poi, come
dice Arturo Paoli: “Camminando si
apre il cammino”. Ci sono stati incontri, persone che soprattutto in età più
adulta hanno fatto sì che maturassi
questa scelta: preti, laici, uomini e donne, conosciuti di persona o leggendo
testimonianze. Ho scelto di giocarmi
la vita in questo modo. Quando ero
piccolo, il modello erano i miei genitori, persone comuni come tante
altre che conoscevo. Poi il seminario,
nonostante le difficoltà, mi ha permesso d’incontrare testimoni, anche
semplici, delle varie parrocchie dove
andavo. Anche preti della mia diocesi,
che mi hanno fatto vedere la gioia di
40
piccolo, ma avvenivano cambiamenti
in seminario. Alcuni studenti di teologia ospitavano barboni, ex carcerati. Esperienze anche molto ricche
d’incontri, belle, sia da un punto di
vista spirituale sia di creatività. Dopo
il liceo ho studiato teologia, e fatto diverse esperienze in varie parrocchie.
Sono diventato prete a 24 anni: la data
dell’ordinazione ha coinciso con la
giornata missionaria. Erano gli anni
dei cambiamenti dopo il Concilio. Il
vescovo Mons. Aldo Del Monte mi
ha ordinato: è colui che aveva curato
tutti i catechismi nuovi, e quindi sicuramente spingeva con questo vento
nuovo del Concilio.
❝Dopo
❝
l’ordinazione hai rilanciato la campagna di obiezione alle
spese militari.
Appena ordinato sono stato prete a
Varallo Sesia, per due anni, all’oratorio. Poi a Cesara, sempre in diocesi di
Novara, e ad Arola. Nel frattempo il vescovo mi ha aggiunto altre parrocchie,
ma da allora sono sempre rimasto qui.
E da lì sono nate varie scelte – insieme
a padre Angelo Cavagna, don Giorgio
Pratesi e altri – come la campagna di
obiezione alle spese militari. Prima
facendo l’obiezione soltanto da un
punto di vista amministrativo, fiscale, come molti facevano. Facendo la
detrazione dalle tasse, ho ricevuto e
subìto diverse volte il pignoramento.
La cosa faceva notizia: perché doveva
essere la polizia municipale a venire a
verbalizzare; allora funzionava così.
In genere si faceva una cosa simbolica.
Si mettevano a disposizione dei libri,
pari al valore doppio della somma che
l’esattoria doveva riscuotere. Poi era
affisso all’albo pretorio e veniva fissata
un’asta. In seconda convocazione convocavamo gli amici, e s’individuava un
acquirente significativo. Per esempio
la biblioteca di una scuola, chi comprava questi libri dava la conferma
U
TO
R
un servizio, di un sogno, di un progetto
di vita. Poi, crescendo, in seminario
è venuto a parlare ad esempio don
Ciotti, i nostri missionari in America
latina con la dittatura, oppure anche i
missionari in Africa. Inoltre io sono del
Piemonte, non lontano da riferimenti
come Adriana Zarri, Enzo Bianchi, e in
modo ancora più forte Luigi Bettazzi,
che è stato presidente di Pax Christi,
una voce conosciuta e un testimone
relativamente vicino a me. Tutte queste
persone hanno segnato la mia crescita.
Penso anche alla mia professoressa di
latino e greco, Angela Frego, che mi ha
fatto conoscere don Milani, il valore
della coscienza, la disubbidienza, la
legge per obbedire a una legge più
grande, l’Antigone di Sofocle. Alcuni
libri come: Lettere a una professoressa,
Esperienze pastorali, L’obbedienza
non è più una virtù. Hanno influito
anche i testimoni incontrati dopo, soprattutto nel mondo della solidarietà,
della pace, i martiri, Romero e tanti
altri, sicuramente hanno confermato,
segnato, spinto in questa direzione.
I
N
onviolento, pacifista, antimilitarista. Sacerdote e parroco,
59 anni. Tenace e coerente,
Don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi, è da sempre
impegnato per portare la pace nel
mondo, là dove c’è la guerra. Con
marce, azioni di sensibilizzazione,
testimonianze personali. Abita a Cesara vicino a Cameri, piccolo centro
del novarese, dove sono stati costruiti
i capannoni per l’assemblaggio e la
manutenzione dei nuovi cacciabombardieri F35. La protesta pacifista
contro l’aereo militare prosegue, e
don Renato ne è un protagonista diretto. È stato tra i primi preti obiettori
alle spese militari, subendo anche
qualche pignoramento, e un processo
penale, con assoluzione, il 4 giugno
1991, per aver invitato a disobbedire
alle leggi dello Stato, invitando a non
spendere soldi per le armi. Ha seguito
per Pax Christi diverse situazioni di
guerra, in particolare in Iraq, dove
è stato molte volte, prima, durante e
dopo la guerra, in Kosovo, in Bosnia,
in Palestina e in Burundi.
❝Come
❝
è stato il periodo in seminario?
Io ho iniziato il ginnasio negli anni
‘68-‘69, si respirava l’aria del movimento del Sessantotto. Io ero molto
Solidarietà internazionale 03/2014
A TU PER TU
CO
Solidarietà internazionale 03/2014
I
Io ero in Iraq, per esempio, contemporaneamente all’attentato di Nassiriya.
A Baghdad abbiamo fatto una celebrazione per ricordare gli italiani uccisi,
carabinieri e militari, e mi ha colpito
molto quella celebrazione, perché è
stata la messa più armata della mia
vita, perché lì davanti alla porta della
chiesa c’era un carro armato che sarà
stato grande come la mia chiesa: nel
mio immaginario era un mostro enorme. Ma quello che mi ha colpito è che
io sono andato col vescovo ausiliare
di Baghdad, con tutte le perquisizioni
giuste, certamente, ma non è stato
recitato neanche l’Eterno Riposo per le
vittime irachene. È stata una celebrazione per le vittime italiane, e va bene,
io e don Fabio Corazzina abbiamo
detto ‘di fronte alla morte si prega, si
fa silenzio’, abbiamo condiviso questa
celebrazione. Mi sarei aspettato almeno una piccola preghiera per tutte
le vittime di tutte le nazioni, di tutti,
compresi gli iracheni. C’era presente
il vescovo dell’Iraq, e a lui non è stata
data neanche la parola. Poi quando
abbiamo visto le immagini in tv da
San Pietro, con il cardinal Ruini che
celebrava in modo solenne, e diceva: “Noi non ci tireremo indietro, noi
continueremo così”, abbiamo spento
la televisione e siamo andati a giocare
a pallone nel cortile con il nipote del
vescovo che frequentava le scuole medie, un ragazzino di 12 anni, che era
più interessato al pallone di calcio che
gli avevo portato io dall’Italia che non
a tante altre cose.
❝In
❝ Iraq hai visto da vicino i soldati Usa?
Sì, ho fatto anche una foto, tutti i soldati
americani avevano e hanno una pistola Beretta legata alla propria gamba. E
uno di questi soldati, non per strada,
perché era meglio non avvicinarsi
troppo, mi ha fatto vedere che la sua
pistola era davvero una Beretta. La
conferma di quello che abbiamo sempre detto: con l’obiezione alle spese
militari, vissuta sul campo, si vedeva
che con le guerre c’è qualcuno che
fa grossi affari. Il vederla nelle mani
di un soldato americano, così come
l’abbiamo vista poi nelle mani anche
dei terroristi, ha il significato che chi
vende le armi ha soprattutto interesse
a venderle, non a farsi tante altre domande. E quindi queste esperienze
mi rafforzano nel continuare il mio
impegno anche di oggi all’Arena di
Verona: la denuncia, lo schierarsi per
il disarmo, perché ho vissuto di persona cosa provoca la guerra, cosa vuol
dire avere la casa distrutta, scappare.
Quando la guerra la vedi da vicino, ti
U
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R
A
❝Poi
❝
sei approdato a Pax Christi.
Dal ‘97 sono diventato consigliere nazionale di Pax Christi, e ho costituito,
insieme con altri, un impegno per
l’Iraq, in nome di Pax Christi, anche
durante la guerra. Molte volte sono
andato in quel paese, anche da solo,
perché intuivo il bisogno di un segno.
C’erano l’embargo e la guerra. Almeno
la presenza per far dire a loro “non
si sono dimenticati di noi”. E quindi
siamo andati in Iraq anche con l’attuale presidente di Pax Christi, nel
2011. Forse proprio monsignor Giudici è stato il primo vescovo italiano
della Conferenza episcopale a venire
in Iraq. Credo sia stato vissuto come
un bel segno. L’amicizia, anche con
l’Iraq, continua.
PI
❝Nel
❝
dicembre del 1992 hai partecipato alla marcia a Sarajevo, con
don Tonino Bello.
Sì, sull’autobus eravamo io, don Tonino
Bello, Alberto Chiara di Famiglia Cristiana, Eugenio Melandri, un giornalista di Avvenire, don Albino Bizzotto
e altri. In tutto eravamo 500 persone
con dieci pullman. Don Tonino era già
molto malato, faceva le chemioterapie,
e sarebbe poi morto il mese di aprile
successivo. Da lì ho appoggiato anche
le iniziative con Beati i costruttori di
pace, a Sarajevo, al punto che un prete
anziano della mia zona, morto qualche
anno fa, mi chiamava ‘don Sarajevo’.
Quest’iniziativa poi è continuata con
legami, con iniziative anche di solidarietà, coinvolgendo molto anche la parrocchia di Cesara. La marcia è stata un
capitolo in sé, molto intensa. Per quello
che voleva dire, perché avevamo una
folle incoscienza, necessaria in quelle
situazioni. Con un viaggio di andata
sulla nave che invece di otto ore è durato ventitré. E poi sicuramente tutte le
❝C’è
❝ un episodio in particolare di
quel viaggio che ti ha colpito?
Sì, la voglia di vita manifestata anche
attraverso piccoli segni. Ti racconto un
particolare. Io non conosco la lingua
bosniaca, e il mio gruppo era guidato
da una signora locale che parlava anche il francese. Ci siamo scambiati un
po’ d’impressioni. E le ho chiesto: “Ma
come, siete da nove mesi sotto assedio
– era una donna abbastanza giovane,
elegante e truccata col rossetto, col fondotinta, in una città senza acqua, luce,
telefono, il giorno prima erano cadute
3000 granate sulla città, colpivano da
far paura - e lei è qui così elegante?”.
Mi ha risposto: “Io a casa ho il rossetto,
la cipria, se non la metto in un giorno
come questo! Cinquecento persone
arrivano da fuori città, sfidando le
bombe, ci accompagnano per dire la
loro vicinanza, e stanno con noi. Per
noi questo è un giorno di grande festa!
E, quindi, ho indossato ciò che ho di
più bello per vivere la gioia, la festa”. A
loro non era garantito di sopravvivere
in mezzo alla guerra.
Tra l’altro a Sarajevo ci siamo tornati
ai primi di giugno con Pax Christi per
il grande meeting internazionale per
la pace, perché quest’anno ricorrono
i 100 anni dall’assassinio dall’arciduca, che è stata la scintilla che ha fatto
scattare la prima guerra mondiale.
C’è questo legame che continua fino
ad oggi, con il cardinale Puljic, con
l’attuale vescovo ausiliare Monsignor
Pero Sudar.
PE
❝Poi
❝
sei stato anche processato.
Sì, sono stato denunciato penalmente
nel 1987, perché durante una conferenza avevo invitato a fare l’obiezione
alle spese militari e a non spendere
soldi per le armi. Il procuratore della
repubblica di Verbania mi ha denunciato per istigazione a disobbedire
alle leggi. Il reato era molto grave. Era
un reato penale che prevedeva dai 6
mesi ai 5 anni di reclusione. Il 4 giugno 1991, nel tribunale di Verbania,
io e altri miei due amici, Giuseppe
e Piergiorgio, siamo stati processati. Era presente una grande folla con
molti striscioni. Erano state spedite
centinaia di migliaia di lettere al direttore del tribunale, da padre Alex
Zanotelli e altri personaggi conosciuti.
Siamo stati assolti. L’accusa era per
il reato d’istigazione a disobbedire,
quindi ero sul banco degli imputati.
Abbiamo dichiarato in quella sede le
stesse motivazioni che potrebbero essere valide ancora oggi, nel 2014, sulla
guerra, sulla pace, sulle spese per gli
armamenti. Purtroppo sono passati
ventitrè anni e non è cambiato molto.
Eravamo nel 1991. Prima Guerra del
Golfo, c’era anche Don Tonino Bello,
io ho avuto la fortuna di conoscerlo,
quindi ancora più vicino a Pax Christi
e ai suoi appelli.
emozioni, la notte vissuta a Sarajevo,
nei sacchi a pelo, in una palestra senza
vetri. L’esperienza delle quattro realtà
religiose: cattolica, ortodossa, musulmana ed ebraica, che abbiamo vissuto
al mattino. Sicuramente sono cose
che mi sono rimaste dentro, hanno
lasciato il segno.
A
che non si voleva evadere le tasse, ma
educare alla pace dicendo no alla guerra. Tutto questo con manifestazioni,
tanta gente, striscioni, con l’imbarazzo
del vigile urbano e dell’esattore, che
ormai era sempre lo stesso.
41
A TU PER TU
❝Uno
❝
dei motivi del fronte favorevole agli F35 è la creazione di nuovi
posti di lavoro: che ne pensi?
È una bugia. Bastava non cominciare.
Quante altre cose per dare lavoro alle
persone si potevano fare? Sia a livello
locale, sia a livello nazionale: pensiamo al nostro territorio dissestato
dalle alluvioni, alle scuole da mettere
in sicurezza… Quegli investimenti
avrebbero creato molti posti di lavoro.
Di fatto a Cameri ci lavoravano già
un po’ di persone prima, perché c’è
la manutenzione dei Tornado e degli Eurofighter: di fatto nessuno può
dire che ha portato posti di lavoro, se
non a livello io dico quasi ridicolo. E
quindi non sono nuovi posti di lavoro.
Quindi, dire oggi che per il territorio
questo investimento crea posti di lavoro, credo che con ragionevolezza non
lo dice proprio più nessuno, neanche
gli amministratori di Cameri, che mi
sembrano anche un po’ arrabbiati. E
poi comunque sono dati ufficiali, non
miei. Gli investimenti nel settore delle
armi, secondo studi europei riconosciuti, creano maggior profitto, ma
nel grafico la linea dell’occupazione
è in netta discesa. Maggior profitto,
meno occupazione. Questo è il settore
militare. Perciò è proprio una grossa
bugia dire che investendo nel settore
delle armi si creano posti di lavoro.
([email protected]) •
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❝Quali
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sono i principali motivi del
tuo dissenso sugli F35?
Il primo è a un livello che ha accompagnato tutta la mia vita. Sostenuto
anche dal Vangelo, dal magistero della
chiesa che dice: “Gli armamenti e la
spesa per gli armamenti costituiscono un crimine perché fanno morire
di fame le persone, che potrebbero
beneficiare di questi investimenti, e
quindi sono un crimine, anche se non
sono usati”. Questa è la valutazione
più importante. Se poi devo discutere
su questo disegno preciso, non sono
da difesa, sono da attacco, non sono
compatibili con la nostra Costituzione. Anche alcuni generali esprimono
molte critiche: sono costosissimi, più
di quello che si pensa, e verranno a
costare ancora molto di più. Perciò
oltre all’aspetto etico, morale, di valore,
c’è proprio una scelta concreta. Noi
andiamo a investire per i prossimi anni
14 miliardi, una cinquantina di miliardi per i prossimi decenni. Qualsiasi
governo sia, da Renzi a Berlusconi,
quel governo dovrà poi sopportare
delle spese folli per un progetto che
gli stessi militari, molti, ritengono impresentabile e con molti interrogativi.
Quindi noi andiamo a investire capitali pazzeschi su una cosa che, per
esempio, gli stessi marines americani
ritengono poco affidabile. È indicativo
che chi vuole fare la guerra davvero
A
❝E
❝ veniamo all’attualità, la tua
opposizione agli F35.
Io abito vicino a Novara, a Cesara,
anche se ufficialmente risulto in provincia di Verbania. Più vicino ancora
c’è questo piccolo paese, Cameri, dove
c’è un aeroporto già vecchio, esistente,
al cui interno sono stati costruiti due
capannoni per l’assemblaggio delle
ali dei famosi F35. Noi sul territorio
è dal mese di luglio del 2006 che abbiamo cercato di attrarre l’attenzione
sugli F35. Nel 2006 era molto faticoso,
io ho fatto parte della Commissione
Diocesana Giustizia e Pace, e quindi
abbiamo battuto il chiodo, con tutti
contro. Eravamo proprio una voce
nel deserto.
Oggi possiamo dire che di strada se
n’è fatta. Oggi parlare degli F35 è dire
una cosa abbastanza conosciuta da
tutti. Vuol dire che è stato un lavoro,
poi diventato campagna nazionale.
Però certo all’inizio avevamo contro tutti: industriali, sindacati, mass
media. Tutti. Perché dicevano: è una
grande opportunità, è un’occasione
industriale, posti di lavoro. E noi con
fatica a dire: “Non è così, proprio non
possiamo dire che è così”. Mi ricordo
che la sindachessa di Cameri, qualche
anno fa, a un giornale, diceva: “Don
Renato la smetta di parlare, prima il
non li voglia, quindi forse converrebbe
congelarli. Noi chiediamo di fermarsi,
di ragionare sia su un modello di difesa, su cosa vuol dire rapporto con
l’Europa, sia sull’aspetto bellico di
investire su questo tipo di aereo.
Le motivazioni per essere contro sono
tantissime. Dal fatto che ci sono alcune
cose che non funzionano, al fatto che
sono predisposti per portare armi nucleari. Gli Usa hanno investito, proprio
negli ultimi mesi, diversi milioni di
dollari per adattare le testate nucleari
presenti anche sul territorio italiano, a
Ghedi e ad Aviano, per renderle compatibili poi con questi F35. Allora vuol
dire che la vera motivazione di chi
vuole gli F35, in realtà, di chi li difende,
non è per una logica di strategia militare, ma per una logica economica e
finanziaria. Il vero business degli F35
non è usarli, è farli! Sono gli appalti.
Basta ricordare che la ditta produttrice si chiama Lockheed Martin, e
chi non è giovanissimo si ricorda gli
altri scandali legati proprio agli armamenti. Quindi il vero guadagno è
il produrli. Se qualche militare dice
‘non funzionano’, lo zittiscono, ma il
vero business è quello affaristico che
c’è dietro.
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Sarajevo e l’Iraq, dove sei
❝Oltre
❝
stato a testimoniare la pace?
Nel ’98 sono stato in Kosovo, prima dei
bombardamenti del ‘99. Noi eravamo
andati proprio per dire: “In Kosovo
dobbiamo salvare la nonviolenza”.
Eravamo stati anche nel 2002 in Palestina, nella Seconda Intifada, quando c’è stata la basilica di Betlemme
occupata per 50 giorni. Siamo andati
con un piccolo gruppo, ed era impressionante vedere tutto quel deserto, il
sepolcro, Betlemme, l’unico pullman
era il nostro. Eravamo in tredici, tra
questi c’erano anche monsignor Bettazzi, monsignor Bona e Monsignor
Bregantini. Tre vescovi di serie B, come
dice don Bettazzi, anche Bello don
Tonino era anche lui di serie B, perché
iniziava con la B. Eravamo andati nei
campi profughi, abbiamo incontrato
Arafat, un segno anche quello. Pax
Christi segue ancora la campagna
che ha lanciato “Ponti e non muri”.
Sono stato anche in Africa, in Burundi,
subito dopo gli avvenimenti del ’94,
perché ci sono alcuni nostri missionari
in quella terra. Mi sembrava giusto
anche per loro, per non farli sentire
dimenticati, dopo tutto quello che
era successo tra Burundi e Ruanda.
lavoro, poi l’etica”. Perché appunto si
diceva qui con gli F35 avremo tanti
posti di lavoro. Sono passati un po’ di
anni, la stessa sindachessa deve ammettere che di persone disoccupate,
nel suo Comune, forse ne avranno
assunte due o tre di numero. Proprio
in questi giorni leggevo che forse l’Inghilterra sta portando via all’Italia
l’appalto per gli F35.
Quindi non i pacifisti, ma la logica del
business, che non guarda in faccia
nessuno, rischia di mandare in fumo
gli investimenti di chi ha creduto che
questo fosse un treno da non perdere.
Di fatto è un treno di morte, come il
treno che porta ad Auschwitz, alla
morte. Costano troppo: gli F35 sono
quotati intorno ai 130 milioni di euro
l’uno. Non si tratta di due soldi, ma
vivere in questa terra vuol dire sentire
un po’ il peso nazionale e internazionale della corsa agli armamenti. In
teoria sono tutti per la pace, in teoria
nessuno vuole la guerra. Quando poi
si dà un nome e un cognome, Tornado,
Eurofighter, F35, cominciano i se, i ma,
i però, i posti di lavoro e tante scuse.
Stiamo lavorando anche su questo.
Certo la mia terra è famosa in questo
periodo per gli F35.
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lascia ancor di più il segno.
Solidarietà internazionale 03/2014
RACCONTI DI MINORANZE
Michele Zanzucchi
Candomblé o cristiani?
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prete nero evangelizza la folla presente di fedeli afrobrasiliani, frammenti a turisti e passanti. Pone domande,
esige risposte, spiega il senso di riti, delle musiche che
verranno suonate, delle pitture esposte nella chiesa, del
senso della santità, dell’amore di Gesù per i poveri e gli
emarginati, dei fondamenti della fede cattolica romana. C’è
una bella confusione. Alle sei la messa ha inizio. La festa
comincia. Le musiche, ritmatissime da tamburi di varie
forme e dimensioni, sono accompagnate con trasporto dai
presenti, spesso e volentieri portati a muovere le mani, le
braccia e tutto il corpo, in ondeggiamenti ed espressioni
che sembrano più da balera che da chiesa, secondo i
nostri parametri eurocentrici. E mi trovo a immaginare
la reazione di un pur fedele devoto della Chiesa cattolica
romana dedito al rito di Pio V. Da ridere e da piangere! Ma,
che lo si voglia o meno, anche questa è la Chiesa di Roma,
che associa tradizionalisti e candomblé.
Cinque sono le processioni, partecipatissime, che scandiscono la celebrazione: quella dell’inizio, quella dell’offertorio, una terza per il Sanctus, una quarta per la distribuzione della Eucaristia e un’ultima per la distribuzione
delle michette di pane benedette. Processioni che hanno
un andamento assai danzante, mentre gli applausi a
scena aperta si susseguono e s’inseguono. C’è trasporto,
coinvolgente, al punto che anche un fedele compassato
come il sottoscritto si ritrova a battere le mani e persino a
danzare. La sorpresa più grande la conosco al momento
della distribuzione dell’Eucaristia, perché ben poca gente
si mette in fila, mentre tutti, nessuno escluso, al termine
della celebrazione si avvicinano all’altare per ricevere
dalle mani di un’anziana signora (che pare una sacerdotessa) il loro pane, che immediatamente sbocconcellano
avviandosi all’uscita. Il fatto è che tanti dei presenti vivono
ancora nella situazione sincretista di una fede tradizionale
ancestrale che tuttora fatica ad assumere tutte le forme e
la sostanza del culto cristiano.
Ma tant’è, il fervore degli astanti è tale che non m’interrogo
più sulla pertinenza teologica delle forme culturali di certo
misticismo emotivo. Qui si prega. E mi presto ben volentieri
all’aspersione finale, all’uscita dalla chiesa, impartita con
un’ampia fronda di palma che è immersa in un bidone di
acqua benedetta: ci ritroviamo tutti inzaccherati ma felici
per la comunione vissuta a Nossa Senhora do Rosário dos
pretos. ([email protected]) •
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ra posta appena fuori dalle mura della città di Salvador da Bahia, capitale del Brasile portoghese,
costruita extra moenia dagli schiavi di origine africana – provenienti da una vasta zona che comprendeva
Angola, Congo e altri territori limitrofi –, perché dentro la
zona bianca per i non-liberi l’accesso era negato se non,
appunto, a schiavi senza diritti né alcuna possibilità di
partecipare ai culti nelle chiese d’oro, come quella di São
Francisco, che si favoleggiava tutta d’oro e azzurra di azulejo provenienti dal Portogallo. Avevano le loro credenze
e i loro riti, quegli africani, ma i frati francescani arrivati
al seguito dei colonizzatori non ne volevano sapere di
autorizzare, erano frutto del demonio e della perversione,
del sottosviluppo e della superstizione. Dovevano invece
partecipare al culto della sola vera religione, quella latina
cattolica romana, e non potevano coltivare riti passati.
Schiavi. Doppiamente esclusi.
La costruzione della chiesa degli schiavi, Nostra Signora
del rosario dei neri, fu un passo in avanti per gli africani,
grazie anche all’azione di alcuni frati, italiani in particolare, che consigliarono agli schiavi di accettare la nuova
fede cristiana, senza tuttavia rinunciare in toto alla loro
fede tradizionale: i francescani spiegavano ai parrocchiani
di pelle nera che Gesù Cristo, Maria, Sant’Antonio e San
Pietro non erano altro che la verità di fede degli dèi che loro
veneravano. Lo si capisce bene, il confine tra sincretismo
e legittima integrazione è strettissimo, e forse impossibile
da individuare.
Fatto sta che il culto candomblé, quello degli schiavi, è
sopravvissuto nei secoli celato nel rito di santa romana
Chiesa, clandestino ma nemmeno troppo, se è vero che
ancor oggi i fedeli di tale forma religiosa tradizionale sono
in crescita in Brasile, a Salvador da Bahia in particolare. È
uno dei tanti casi conosciuti di tradizioni religiose autoctone spezzate via alla fede dei colonizzatori, ma risorgenti
in forme e tempi insospettabili: penso ai culti aymara, in
Bolivia, o a quelli maya in Guatemala. Il cristianesimo,
religione inclusiva per eccellenza, ha potuto più di altre
religioni capire le esigenze e le ritualità delle religioni
tradizionali, cercando di integrare senza eliminare la
centralità di Gesù Cristo. Sì può discutere dei risultati.
Ogni martedì sera, a Nossa Senhora do Rosário dos pretos,
si celebra la “messa dei neri”, cioè quella della comunità
candomblé locale. Un’ora prima della celebrazione, un
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le Segnalazioni
FILM-DOCUMENTARIO
IO STO CON LA
SPOSA. E TU?
Andrea Fogar
FILM-DOCUMENTARIO
THE
SQUARE
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Alcuni ragazzi parlano nell’oscurità, tutto l’Egitto è immerso
in una lunga notte illuminata appena da una flebile candela
che con la sua luce accompagna le parole di uno di essi,
Ahmed, che comincia a raccontarci la Rivoluzione di Piazza
Tahrir. Così comincia The Square, Inside the Revolution, il
documentario della regista egiziana naturalizzata americana Jehane Noujaim, che ci racconta la storia dei primi tre
anni della rivoluzione egiziana dalle prime proteste contro il
regime di Mubarak del gennaio 2011 alla vittoria dei Fratelli
Mussulmani, fino alla destituzione di Mohammed Morsi e al
ritorno al potere dei militari con il golpe dell’estate del 2013.
Protagonista assoluta della pellicola è piazza Tahrir, che
diventa la moderna agorà dove il popolo egiziano alla ricerca
della libertà e del cambiamento riesce a superare le sue
differenze sociali e religiose. È qui che sentiamo le varie voci
e le diverse anime della rivolta.
Sempre in bilico fra documentario e fiction, fra inchiesta civile
e diario dal basso, The Square sa farci sentire il respiro della
piazza e dei suoi protagonisti. È capace di farci affannare nella
ricerca di un rifugio dalle cariche della polizia, di emozionarci
durante il funerale di uno dei martiri della rivoluzione.
Anche se rimane un’opera fortemente partigiana, costruita
in tempo reale e senza sceneggiatura, è un documentario da
vedere, perché immortala e consegna alla storia le immagini
della violenza della repressione dell’esercito egiziano.
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BENVENUTI A PIAZZA TAHRIR.
“Che poliziotto di frontiera oserebbe fermare un corteo
nuziale per chiedere i documenti della sposa?”. Nasce da
questa considerazione in un certo senso molto picaresca,
“Io sto con la sposa”, un film, un documentario, un’azione politica di disobbedienza concreta alle leggi sull’immigrazione.
Che tra l’altro fa rischiare ai tre autori, Antonio Augugliaro,
videoartista, Gabriele Del Grande, giornalista italiano e
autore del blog Fortress Europe e il poeta palestinese
siriano Khaled Soliman Al Nassiry, fino a 15 anni di carcere
per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Perché
al di la del film, il progetto nasce proprio da una necessità
molto umana e pratica, quella di aiutare cinque ragazzi
siriani a raggiungere Stoccolma.
Come in un film di Kusturiza i nostri eroi decidono di inscenare un corteo nuziale e attraversare così, con il salvacondotto della festa più di tremila chilometri. Comincia
tutto un giorno di fine ottobre alla stazione di Milano Porta
Garibaldi, lì due degli autori incontrano Abd, un ragazzo
che come tanti è arrivato in Italia dal mare, che solo 20
giorni prima aveva visto morire al largo di Lampedusa 250
compagni di viaggio. Abd si accosta ai due e chiede del
binario per la Svezia.
Nasce così un film documentario, che è la storia vera di una
messa in scena ma anche un’azione politica vera e propria.
Un film di denuncia, che non sceglie le lacrime come veicolo
politico, ma che fa della festa lo strumento di battaglia,
di chi decide di disobbedire con il sorriso, scegliendo di
indossare “il vestito buono”. “Perché” come raccontano gli
stessi autori “nulla è più potente per esorcizzare la morte
e la sofferenza, di un legame festoso”.
Adesso che il viaggio è stato compiuto e che il film è stato
girato tocca a noi però farlo approdare nelle sale. Il costo
della produzione e della postproduzioine, stimato in 150
mila euro, è
ricercato attraverso una
campagna di
crowdfunding
che ha come
obiettivo quello di raccogliere almeno
la metà della
cifra per finire
il film in tempo
per il Festival
di Venezia a
settembre e distribuirlo in autunno.
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Solidarietà internazionale 03/2014
le Segnalazioni
EVENTI
21 settembre 2014: GIOCA
CON NOI PER LA PACE!
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In ricordo di Dom Tomás Balduíno
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on grande dolore e tristezza riceviamo la notizia della morte dell’amato e tenace
lottatore Dom Tomás Balduíno. Dom Tomás è stato una di quelle persone che
colpivano per la semplicità e la generosità, qualità legate in lui al coraggio,
alla coerenza e alla determinazione nella lotta per le sue idee e impegni di vita. È
stato sempre presente nelle lotte dei popoli indigeni, dei neri e dei contadini. La
giovialità e il sorriso che illuminavano il suo volto riflettevano la grandezza del suo
carattere e la coraggiosa militanza pastorale e politica, che esercitava in una delle
regioni più violente del paese, attaccata prima dal latifondo e poi dall’agrobusiness.
Nella lotta per la Riforma Agraria si è distinto come uno dei suoi più ardenti sostenitori. Non ha esitato a schierarsi sempre dalla parte del popolo, scontrandosi sia con
i governi del regime militare che con tutti quelli che sono venuti dopo. È stato uno
dei più robusti pilastri nella costruzione di una pastorale sociale, che ha avvicinato
la Chiesa Cattolica a tutte le etnie e generi, vittime dell’irrazionalità del capitalismo
di una società elitaria e piena di preconcetti. Sapeva che il popolo doveva essere
protagonista della propria storia. Per questo non risparmiò sforzi perché la classe
lavoratrice, i contadini, i popoli indigeni e i neri costruissero proprie organizzazioni
e conducessero le proprie lotte in modo autonomo.
Abbiamo perso la presenza fisica di Dom Tomás. Abbiamo però un’eredità che
stimolerà noi e le generazioni future alla lotta e a un impegno di vita per la costruzione di una società giusta, solidale, democratica ed egualitaria, socialista!
Movimento Sem Terra
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La storia del cotonificio Honegger di Albino, nella media Valle
bergamasca, e la sua chiusura
dopo 123 anni di attività, per
raccontare il tramonto di un
modello di lavoro e di società e
il vuoto che ne segue. Questo il
progetto di PANE A VITA, il film
documentario del regista padovano Stefano Colizzi nato quasi
per caso durante una ricerca
frutto della collaborazione fra
la Zalab (casa produttrice) e la
Caritas Bergamasca. All’inizio il
film doveva raccontare il fondo
di sostegno ai lavoratori, ma si
è trasformato presto anche in
qualcosa di diverso, nel racconto di quello che è un cambiamento epocale: il cambiamento della
concezione del lavoro stesso.
Per più di un secolo essere assunti al cotonificio Honegger significava aver trovare appunto
“il pane a vita”, cioè il lavoro fino
alla pensione. Il che significava
anche una sicurezza, che era
quella data dalla consapevolezza di far parte di una comunità. Quando nel 2012 il lavoro
finisce, tutto questo finisce,
e allora finisce una cultura, un
mondo.
Della crisi economica vissuta
dai lavoratori è proprio questa
perdita di identità che viene
raccontata nel documentario,
perché, come afferma l’autore, sta avvenendo una vera e
propria trasformazione che
non stiamo affrontando con la
dovuta lucidità.
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C’ERA
UNA VOLTA
IL PANE
A VITA
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FILM-DOCUMENTARIO
Cos’è? Playing for Peace è un evento mondiale che si svolgerà il 21 settembre 2014
da Roma a Kabul, da Buenos Aires a Calcutta, da New York a Sidney, da Helsinki a
Taipei, da Abidjan… alla tua città! Un giorno, un milione di bambini, un’unica comunità
che da ogni angolo del pianeta,giocando insieme, chiedeun mondo di pace! È obiettivo di
Playing for Peace creare nelle nostre città, negli ambienti in cui viviamo, comunità forti
attraverso il gioco, coinvolgendo più persone possibili che altrimenti non avrebbero
occasione di incontrarsi! Come puoi partecipare? Metterti in gioco con noi è semplice.
Tutto ciò che devi fare è impegnarti ad organizzare un gioco con i bambini o i ragazzi
della tua comunità, della tua scuola, del tua gruppo, della tua strada, della tua squadra, ecc – e coinvolgere altri gruppi della tua città per creare un’occasione d’incontro.
Il gioco lo scegliete voi, l’importante è che vi divertiate! Può essere una gara sportiva, un gioco di società, un gioco a tappe o qualsiasi altra cosa la vostra fantasia
vi suggerisca! L’idea migliore sarebbe quella di approfittare per entrare in contatto
con persone con cui normalmente non siete abituati a giocare! Le attività possono
essere dedicate a tutti i bambini e ragazzi fino ai 18 anni. Quali sono i prossimi passi?
1. Facci sapere che vuoi impegnarti a giocare con noi;
2. Dicci quanti bambini o ragazzi vorresti coinvolgere nel tuo gioco (un numero
approssimativo andrà più che bene, ci serve per tener
traccia di quando raggiungiamo il milione!);
3. Crea il tuo gruppo di lavoro ed inizia ad organizzare
la tua giornata Playing for Peace! Non porre limiti
alla fantasia!
4. Se vuoi essere citato sul nostro sito web, inviaci
un paragrafo sull’iniziativa che stai organizzando.
Inizia così: “Nome del tuo gruppo/scuola, ecc.” giocherà a “Nome della città, paese” e
continua raccontandoci quello che vuoi! Cosa te ne pare? Non vediamo l’ora di averti
a bordo! Per qualsiasi domanda, commento o suggerimento contattaci a questo
indirizzo: [email protected]
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FATTI, STORIE E RACCONTI DAL MONDO. DAL 1989.
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Solidarietà internazionale da venticinque anni ci permette di allargare i nostri orizzonti e scoprire il mondo, di leggere i fatti con gli
occhi degli altri, di abbattere ogni muro di separazione, per costruire la convivialità delle differenze e per fare del mondo una sola
famiglia. ABBONATI E SOSTIENI SOLIDARIETÀ Internazionale!
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Solidarietà Internazionale
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