1 Indice Editoriale Domenico Marrone A cinque anni dalla riforma degli Issr: una sfida ancora aperta . .......................... 5 Note Ruggiero Caporusso La catechesi con gli adulti nelle missioni popolari . ..................................................... 11 Antonio Ciaula Comunicazione intellettiva e mentalità massmediale Questioni di comunicazione contemporanea e nessi metodologici di base ................ 29 Daniela Di Pinto Il passato che ritorna. Le Pergamene della Biblioteca Diocesana di Trani (845-1435) ....................................................................................................................... 89 Daniela Di Pinto La Biblioteca e Archivio Diocesano “Pio IX” sezione di Barletta ....................... 97 Paolo Farina Simone Weil. Amare Dio attraverso il male che si odia . .............................................. 103 Paolo Farina Teologia dalla Scrittura. Attestazione e intepretazioni Il XXI Congresso dell’ATI, a Castel del Monte. Il munus del teologo oggi ................ 121 Luigi Lafranceschina L’educazione e la sua natura ...................................................................................................... 129 Luigi Lafranceschina L’Educazione logico-matematica strumento di formazione del pensiero del cittadino d’Europa .................................................................................................................. 135 Ignazio Leone La parrocchia in una società in evoluzione, in una chiesa in cammino . ......... 153 Ignazio Leone La penitenza sacramento pasquale . ....................................................................................... 179 Domenico Marrone Coppia in crisi e l’atteggiamento dei cristiani. “Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito” ..................................................................... 213 indice 2 luglio 2010 - anno X Domenico Marrone Pensare per casi: attualità di un modello epistemologico (parte prima) . ............. 227 Domenico Marrone Il Dio di Marino Piazzolla. A cento anni dalla nascita (1910-2010) .................................................................................... 259 Francesco P. Pasquale Il legislatore, il giudice e la ricerca della verità ............................................................... 273 Percorsi di studio Domenico Marrone Il Consultorio: un servizio alle famiglie alla luce dei valori evangelici Uno studio sul Consultorio E.P.A.S.S. di Bisceglie . ............................................................. 281 Lorenzo Sciascia Consultorio di ispirazione cristiana E.P.A.S.S. e consultorio pubblico di Bisceglie. Specificità, convergeze, prospettive . ............................................................................................ 283 Dissertazioni Dissertazioni per la Laurea in Scienze Religiose ............................................................ Dissertazioni per il Diploma in Scienze Religiose ................................................... Dissertazioni per il Magistero in Scienze Religiose ..................................................... 375 379 383 Documenti Domenico Marrone Chiese nel Sud, Chiesa del Sud. La sfida educativa. Introduzione alla Prolusione dell’anno accademico 2009-2010 ....................................... 395 Domenico Marrone Relazione del quinquennio 2005-2010 .............................................................................. 399 Antonietta Puttilli Dalla ricerca al territorio. Un contributo per la storia di San Ferdinando di Puglia . .................................................. 413 Recensioni Domenico Marrone “Maria. L’Agnella bella” ............................................................................................................... 421 Francesco Sportelli “Scriba velocior” . ............................................................................................................................. 429 editoriale editoriale Salòs, al decimo anno di pubblicazione si presenta in una veste rinnovata nella continuità dell’impostazione contenutistica e delle rubriche. La rivisitazione – oggi conosciuta come restyling – ha riguardato alcune modalità di pubblicazione ma non tutte. Rispettare le scelte metodologiche dell’autore in alcuni casi è sembrata la scelta più opportuna perché il contenuto mentale dell’autore potesse giungere in maniera corretta al lettore. A lui, infatti, è stata rivolta l’attenzione nel rivisitare la veste grafica della rivista. editoriale A cinque anni dalla riforma degli Issr: una sfida ancora aperta I primi cinque anni dalla riforma degli Issr si sono conclusi. Tentiamo un primo bilancio, ma soprattutto uno sguardo al ruolo e alle sfide che pongono questi Centri teologici, che sempre più spesso escono dagli spazi intraecclesiali e offrono la propria ricchezza alla cultura contemporanea appassionando un numero crescente di laici. Gli Issr sono sorti all'indomani del Concilio Vaticano II con l'intento di permettere anche ai laici una formazione nelle ‘scienze della religione’ in quei Paesi, come l'Italia, dove le università statali non insegnano teologia e affini, materie riservate alle facoltà teologiche ecclesiastiche. La soppressione delle Facoltà di teologia nelle università italiane risale, infatti, al 24 gennaio 1873. A distanza di circa cinquant’anni dalla celebrazione del Concilio Vaticano II si è ormai consolidata la consapevolezza che anche i fedeli laici, essendo partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, hanno un ruolo attivo nella missione evangelizzatrice della Chiesa. Ma questa partecipazione consapevole non si può realizzare senza una formazione spirituale e una adeguata conoscenza teologica. Per questo motivo, e non in risposta al calo del numero dei preti, è necessario investire con convinzione, più di quanto non si sia fatto fino ad ora, nella formazione teologica dei laici. Essi non sono chiamati a fare un’opera di supplenza, ma a prendere consapevolezza della loro specifica identità all’interno di una chiesa che voglia essere “estroversa”, con occhi, mente e cuore rivolti al mondo. La più viva coscienza del posto e dei compiti che spettano a tutti i componenti il popolo di Dio stimola anche a ricercare le vie più idonee perché ciascuno possa con maggiore chiarezza e competenza vivere la propria vocazione e partecipare più efficacemente alla missione della Chiesa. * Direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani. Docente stabile di Teologia morale. 5 Domenico Marrone* [email protected] I laici non sono chiamati a fare un’opera di supplenza, ma a prendere consapevolezza della loro specifica identità all’interno di una chiesa editoriale 6 luglio 2010 - anno X Da questo punto di vista il nostro Issr rappresenta per la chiesa diocesana, da oltre quarant’anni, il cuore e la mente di un intenso lavoro di formazione e di ricerca scientifica volto a coltivare, promuovere e approfondire la conoscenza della rivelazione cristiana e di tutto ciò che a essa è collegato, dai temi di fede ai temi e ai problemi sociali, etici e culturali. L’Istituto Superiore di Scienze Religiose “S. Nicola, il Pellegrino” vuole sempre più essere un luogo di riferimento per la riflessione e la progettazione teologica e pastorale e una realtà in grado di dialogare con il mondo alto della cultura, quello universitario. Si tratta di profondere energie e risorse per costruire ponti con le realtà culturali presenti nel territorio. Rispetto a condizioni passate e contesti europei dove la teologia ha un peso pubblico maggiore, sicuramente gli Issr concorreranno a recuperare questo ritardo, quest’emarginazione al privato e al mondo intraecclesiale e rimettere il sapere teologico nel dominio pubblico, sottraendolo al rischio del respiro corto. Ricomprendere questo luogo di formazione teologica è motivo per ridirci la necessità di proporre un itinerario organico per tutti coloro che intendono maturare ed approfondire in modo serio e scientifico la propria fede, nello sforzo di cogliere la stretta connessione tra fede e riflessione matura. Gli interrogativi e gli stimoli che la cultura contemporanea ci pone innanzi, non possono essere affrontati con una preparazione generica o ripetitiva, fatta di semplici formule stereotipate, come non è possibile demandare ad altri le risposte a tali interrogativi, soprattutto se queste, non limitandosi alla sfera intellettuale, coinvolgono l’intera esistenza delle persone. In questo contesto la proposta di una formazione teologica, nell’ambito più ampio di una formazione personale umana e cristiana, si propone di consentire alle persone la capacità di gustare e comunicare in modo significativo per se stessi e per le donne e gli uomini d’oggi il senso dell’annuncio del Vangelo. La riflessione rigorosa sulla fede costringe all’esercizio di molte capacità umane e spirituali e abitua ad un saggio equilibrio che diventerà prezioso nel compito sempre più delicato di un servizio nelle comunità cristiane. La teologia non è materia esclusiva di alcuni specialisti, ma è necessariamente legata alla maturità della fede della comunità cristiana. La dimensione teologica è dunque connaturale all’essere stesso di ogni credente, in quanto coinvolge tutta la comunità ecclesiale verso la comprensione più piena della Parola ad essa affidata, in un cammino di “ricerca credente dell’intelligenza della fede” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, 24 maggio 1990, n. 1). I modi di fare teologia sono diversi: c’è una teologia che accompagna la comunità, una che sente la responsabilità nei confronti della società e un’altra che si preoccupa dell’accademia, come complesso di discipline della scienza. La teologia che si fa negli Issr è caratterizzata soprattutto dai primi due modi e per affrontare i compiti derivanti da questi modi di fare teologia è necessario andare in esplorazione, senza però mai perdere il contatto con la Scrittura e la comunità, ritagliandosi i necessari spazi di libertà e difenderli. I motivi della testimonianza cristiana non vengono sostituiti dalla riflessione teologica, ma da essa indubbiamente rinsaldati e rinvigoriti. Il recupero della tradizione storica della Chiesa, del suo sforzo costante di evangelizzare la cultura e inculturare il Vangelo, delle sue prese di posizione autorevoli in materia di fede e di orientamenti morali, costituisce un allenamento formidabile alla capacità di annunciare anche oggi coraggiosamente il messaggio evangelico mantenendo una costante attitudine al dialogo umano, ecumenico, interreligioso, che appartengono insopprimibilmente al cristiano. Tutto questo è evidentemente una potenzialità sospesa alla disponibilità e all’attitudine di ciascuno, che ne farà tesoro nella misura della sua apertura. E forse anche nella misura consentita dalla freschezza dell’ambiente pastorale in cui verrà inserito e valorizzato. È necessario che le comunità ecclesiali sentano sempre più come obiettivo urgente e prioritario la "formazione alla competenza". La formazione diventa così un "dare forma" alla propria vita, un diventare ciò che si è per dono. La formazione può diventare esperienza reale di umanità e di vita ecclesiale, se si avrà il coraggio di investire coraggiosamente attenzioni ed energie, qualità di servizi e progettualità da condividere con i laici, in un autentico atteggiamento di reciproca stima e complementarità, per accogliere e plasmare le nostre vite sul dono di Dio all'interno di una comune e sempre rinnovata testimonianza per l'annuncio del Regno. È proprio a partire dal Vaticano II (cfr. GS 62; AA 29), che ha sottolineato che la Chiesa è popolo di Dio e tutti i membri hanno una parte attiva sia nei vari ministeri sia nell’animazione cristiana delle varie attività civili, viene riproposto sempre più con viva forza alla Chiesa il problema della formazione teologica dei laici, ed è emersa a più riprese (cfr. i documenti della Conferenza Episcopale Italiana, Magistero e teologia nella Chiesa, 1968; La formazione teologica nella Chiesa particolare, 1985) la volontà dichiarata di dare forza e consistenza alla proposta di formazione teologica dei cristiani nelle nostre comunità. Una realtà, quest’ultima, che trova la sua chiarificazione nella comprensione della presenza del laico all’interno della Chiesa e del ruolo della teologia in ordine alla formazione dei laici. Le iniziative in atto nella diocesi portano in sé il rischio della frammentarietà e sporadicità delle proposte di formazione, e risultano spesso insufficienti per una fede cristiana adulta, specialmente per coloro che sono catechisti o animatori di comunità cristiane. Tutto ciò rileva il bisogno di una formazione personale più matura e più adeguata al livello culturale odierno. Urge necessariamente una formazione teologica, al contempo organica e sintetica, con l’ambizione di assicurare un buon livello teologico, oltre al quale è possibile immaginare forme di specializzazione su specifici ambiti. Si tratta di progettare la formazione dei laici più rispondete alla diffusa domanda di un sapere la fede oltre la catechesi. I laici non sono semplicemente oggetto della pastorale, ma soggetto attivo, parte viva, consapevole e responsabile della missione della Chiesa. In tal modo la necessità di una seria ed organica formazione spirituale e teologica dei laici si impone sempre di più in tutta la sua evidenza, non solo per il naturale dinamismo di approfondimento della loro fede, ma anche per l’esigenza di “rendere ragione della speranza” (1Pt 3,15) che è in loro di fronte al mondo stesso. editoriale 7 editoriale 8 luglio 2010 - anno X Del resto è la stessa situazione contemporanea ad esigere sempre più delle persone che siano veramente all’altezza della complessità dei tempi e siano in grado di affrontare, con competenza e con chiarezza e profondità di argomentazioni, le domande di senso degli uomini d’oggi. Chi è e che cosa spinge un laico a scegliere il percorso formativo teologico? Quali gli aspetti positivi dell’esperienza e quali i “nodi” ancora difficili da sciogliere? I laici che decidono di intraprendere lo studio della teologia presentano una tipologia molto varia: per la maggioranza sono giovani che la scelgono come progetto di vita in vista dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuola, sono motivati e interessati; ci sono poi giovani alla ricerca, che si sentono attratti dallo studio della fede anche se non provengono dai nostri “mondi”, dalle nostre parrocchie o associazioni. C’è chi è interessato al tema teologico e a livello interiore ha anche qualche spinta maggiore. C’è però anche una fascia di adulti che già lavorano o sono in pensione, che studiano per una formazione personale, perché sentono il bisogno di ripensare alla propria fede. Non possiamo non far rilevare che c’è un numero crescente di persone che si iscrivono per il solo desiderio di approfondire il contenuto della Rivelazione, o che avvertono il bisogno di motivare la loro scelta di fede o la necessità di dare consistenza al loro servizio ecclesiale, attraverso la fatica dello studio. Per un laico che decidesse di compiere studi di teologia è possibile immaginare degli sbocchi lavorativi, diversi dalla prospettiva, del resto preclusa per i prossimi anni nella nostra diocesi, dell’insegnamento della religione cattolica? È possibile, anche se bisogna accettare una fase pionieristica. Per creare nuovi sbocchi di lavoro occorre puntare sulla “professionalizzazione” del laicato. Non possiamo non sottolineare che ad oggi un laico che decida di fare la scelta di studiare teologia compie un salto nel buio. La questione economica e occupazionale non è irrilevante in questo discorso. La chiesa italiana non è particolarmente attenta alla qualificazione del lavoro teologico dei laici e raramente si mettono a disposizione mezzi e risorse necessarie per valorizzare i laici formati così da poter eseguire con pertinenza e fedeltà i compiti per i quali sarebbero professionalmente preparati. Oggi la teologia è diventata strumento di formazione serio, scientifico, accessibile a tutti, in modo da offrire a ogni credente la possibilità di testimoniare la fede nel mondo. Anche per questo è giusto che quanti, soprattutto laici, conseguono un titolo accademico non abbiano oggi come unica chance lavorativa quella dell'insegnamento della religione. Si tratta di cominciare a pensare alla possibilità di far rivestire ai laici ruoli competenti e di promuovere nuove figure professionali a servizio della chiesa e del mondo. A fronte di una difficoltà a rendere spendibile il titolo nel mondo civile (e ci sia augura che le competenti autorità dirimano quanto prima la questione del riconoscimento civile dei titoli accademici), si percepisce una ritrosia anche all’interno della chiesa italiana a puntare sulla valorizzazione, non solo in termini di volontariato, di laici “professionalmente” qualificati. La strada è ancora tutta in salita. Ma siamo fiduciosi che la vetta da raggiungere non scompare dall’orizzonte. note note note La catechesi con gli adulti nelle missioni popolari 11 Ruggiero Caporusso* [email protected] Premessa A partire dagli anni ’90 sino ai nostri giorni, nelle diverse aree del Brasile, specialmente nel Nord e nel Nord-Est, le comunità cristiane stanno avvertendo al loro interno l’esigenza di vivere una nuova forma di evangelizzazione: si tratta di varie esperienze di missioni realizzate nei centri urbani, nelle periferie delle città e soprattutto nelle aree rurali. Rispetto alle precedenti esperienze dei secoli XVIII-XIX, legate fondamentalmente alla fase post-coloniale, le nuove Missioni Popolari rispecchiano il mutato contesto politico, sociale ed economico, rispondendo alle nuove sfide della cultura postmoderna. “Sorte in passato per rispondere alle necessità pastorali e sociali di immense aree del Paese difficilmente raggiungibili con i mezzi tradizionali, le nuove Missioni Popolari non sono una semplice ripetizione di esperienze pastorali di altre epoche che, in contesti differenti, hanno conseguito risultati relativamente discreti”.1 Muovendo da una concreta esperienza pastorale, qual è per l’appunto quella delle cosiddette “Sante Missioni Popolari” (SMP) brasiliane, * Sacerdote diocesano dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie e Nazareth, ha conseguito il secondo grado accademico di Licenza in Teologia con specializzazione in Pastorale Giovanile e Catechetica, indirizzo Evangelizzazione, nella Pontificia Università Salesiana in Roma. Parroco “Fidei Donum” in Brasile dal 1994-2000 presso la Parrocchia di S. Helena della Diocesi di Pinheiro. Dal 2000 è Direttore della Commissione Diocesana Evangelizzazione dei Popoli e Cooperazione tra le Chiese. Parroco dal 2002 presso la Parrocchia del SS. mo Crocifisso di Barletta. Componente della Commissione diocesana di studio e del servizio al catecumenato dal 2003. La tematica trattata vuole essere un contributo di riflessione per la Missione Diocesana 2009-2011 in atto nell’Arcidiocesi di Trani–Barletta–Bisceglie e Nazareth. 1 C.C. Silva, Roteiro da Vida e da Morte: um Estudo do Catolicismo no Sertao da Bahia, São Paulo, Atica 1982, 33. Le nuove Missioni Popolari non sono una semplice ripetizione di esperienze pastorali di altre epoche note 12 luglio 2010 - anno X il presente lavoro intende tratteggiare alcuni elementi fondamentali che possano orientare anche il nostro cammino pastorale diocesano. Dopo aver offerto un breve bilancio sul cammino della catechesi con gli adulti in Brasile, si entrerà nel merito dell’esperienza delle Missioni Popolari progettate da Luis Mosconi2 per concludere, infine, con alcune considerazioni sulla fecondità di una prospettiva della catechesi con gli adulti quale proposta di cammino pastorale della Missione Diocesana 2009-2011 in atto nell’Arcidiocesi di Trani –Barletta – Bisceglie. La catechesi con gli adulti nella Chiesa brasiliana Prima di offrire una descrizione dell’esperienza delle SMP progettate da Mosconi, mi sembra opportuno presentare le ragioni e le motivazioni che sono alla base della feconda intuizione di una “catechesi adulta, con gli adulti”,3 eredità storica e teologica del protagonismo laicale promosso soprattutto dalle comunità ecclesiali di base (CEBs) brasiliane. Dal Concilio Vaticano II, la Chiesa ha riaffermato sempre con maggior vigore il ruolo centrale della persona adulta come soggetto privilegiato della sua azione catechetica. Nel 1971, a pochi anni dalla conclusione del Vaticano II, il Direttorio Catechistico Generale (DGC) ribadisce il medesimo concetto. “Si ricordino anche (i pastori) che la catechesi agli adulti, in quanto diretta a persone capaci di un’adesione e di un impegno veramente responsabile, è da considerare come la forma principale della catechesi, alla quale tutte le altre, non perciò meno necessarie, sono ordinate”.4 Nella sua missione evangelizzatrice la Chiesa brasiliana si è sempre contraddistinta, soprattutto nell’ultimo sessantennio, per un’attenzione particolare al contesto storico e sociale, tentando di cogliere le nuove sfide pastorali emergenti dal nuovo panorama culturale. Nel 1983, con il documento Catequese Renovada (CR) della Conferenza Nazionale Episcopale Brasiliana (CNBB) essa privilegia tale opzione quando afferma che “la catechesi comunitaria degli adulti, lungi dall’essere un’appendice o un complemento, deve essere il modello ideale e la referenza, cui si devono subordinare tutte le altre forme di attività catechetica”.5 Luigi Mosconi, ordinato presbitero a Piacenza nel 1964, parte come fidei donum per il Brasile nel 1967. In oltre trent’anni di presenza nelle diocesi del Nordest e del Nord ha avviato numerose Comunità Ecclesiali di Base, dedicandosi in seguito alla formazione dei loro animatori. Dal 1990 è impegnato nelle Missioni Popolari, che fanno delle comunità ecclesiali di base (CEBs) centri di irradiazione del Vangelo 3 “Com adultos, catequese adulta” è il tema della Seconda Settimana Brasiliana di Catechesi, che si è svolta dall’8 al 12 ottobre del 2001 a Itaicí (SP). 4 Sacra Congregazione per il Clero, Direttorio Catechistico Generale Ad normam decreti (11 aprile 1971) in AAS 64 (1972), 97-176, n. 20. 5 CNBB, Catequese Renovada, vol. 26, São Paulo, Paulinas, 1983, n. 120. 2 Negli ultimi anni non sono mancati importanti documenti ufficiali dell’episcopato brasiliano che hanno concentrato l’attenzione su orientamenti pastorali e catechetici ben precisi: le Diretrizes Gerais da Ação Evangelizadora da Igreja no Brasil, che intendono ispirare l’azione della Chiesa all’inizio del nuovo millennio; il documento Missão e Ministério dos Cristãos Leigos e Leigas,6 attento a riconoscere il protagonismo del laicato nella missione evangelizzatrice della Chiesa nel mondo; Brasil – 500 Anos, Dialógo e Esperança7 e Olhando para a frente – o Projeto Ser Igreja no Novo Milênio esplicando as comunidades;8 ed infine, il documento Com adultos, catequese adulta (CA),9 testo base elaborato in occasione della Seconda Settimana Brasiliana di Catechesi, a cui si farà costante riferimento. Nell’ambito della missione evangelizzatrice della Chiesa la catechesi rappresenta una priorità, poiché la sua funzione principale è quella di presentare in forma sistematica e progressiva i contenuti della fede e soprattutto di favorire il processo di educazione alla fede nelle diverse tappe della vita cristiana. La Seconda Settimana Brasiliana si pone come obiettivo principale quello di promuovere un ampio processo di riflessione e di verifica del cammino della catechesi in tutte le comunità della Chiesa in Brasile, dando un rilievo particolare alla catechesi con gli adulti. Si preferisce parlare di catechesi “con” (e non semplicemente “degli” o “agli”) gli adulti per indicare che l’adulto è in grado di partecipare al proprio processo di crescita nella fede in qualità di soggetto attivo. Per diversi decenni i termini “catechesi” e “adulti” non sempre hanno rappresentato un felice binomio: infatti, la catechesi è stata considerata come un’azione destinata fondamentalmente ai bambini e agli adolescenti. Dal punto di vista storiografico, va affermato che la catechesi degli adulti, sia pure in forma implicita, esiste già prima della catechesi dei fanciulli. Nel contesto della nascita delle prime comunità cristiane, infatti, è stato istituito in primo luogo il catecumenato per quegli adulti che aderiscono alla fede, dopo aver accolto l’annuncio della Buona Novella (Kerygma). La Chiesa prepara gli adulti al Battesimo nelle comunità, dove apprendono dalla testimonianza dei fratelli e delle sorelle lo stile di vita evangelico, ascoltano la Parola di Dio e partecipano alle celebrazioni liturgiche. La vita comunitaria fa parte integrale del contenuto della catechesi: essere cristiano significa restare saldi nella fede e nella sequela di Gesù per affrontare le persecuzioni. Secondo la tradizione dei primi tempi della Chiesa, gli adulti desiderosi di essere membri della comunità cristiana intraprendono il cammino di iniziazione cristiana attraverso alcune tappe fondamentali. Più tardi, con l’affermazione dello stretto legame tra potere civile e potere religioso e la relativa nascita del cosiddetto “regime di cristianità” diviene comune la pratica della catechesi dei fanciulli nati in famiglie cristiane. Nel secolo XVI la catechesi dei fanciulli è organizzata sistematicamente; e da quel momento il termine “catechesi” è associato inesorabilmente a quello di “fanciullo” CNBB, Missão e Ministério dos Cristãos Leigos e Leigas, São Paulo, Paulinas, 1999. CNBB, Brasil – 500 Anos, Dialógo e Esperança, São Paulo, Paulinas, 2000. 8 CNBB, Olhando para a frente – o Projeto Ser Igreja no Novo Milênio esplicando as comunidades, São Paulo, Paulinas, 2000. 9 CNBB, Com adultos, catequese adulta, São Paulo, Paulinas, 2001. 6 7 note 13 note 14 luglio 2010 - anno X da preparare al sacramento dell’Eucaristia e della Penitenza. Questa pratica rimane nella Chiesa sino alla metà del XX secolo. L’esigenza di un rinnovamento più radicale riemerge mediante il contributo dell’Azione Cattolica dell’epoca, che suggerisce la necessità di rivedere i programmi della catechesi. In Brasile, suor Teresa Ligiè e Mons. Alvaro Negromante offrono un grande stimolo a tale rinnovamento catechetico. I documenti ufficiali del Concilio Vaticano II prima e della CNBB poi, manifestano la priorità e l’urgenza pastorale di una catechesi con gli adulti. La pubblicazione della Catequese Renovada (CR) nel 1983 favorisce diverse iniziative di rinnovamento nel campo catechetico. Questo documento si caratterizza per la forte responsabilità attribuita alla comunità cristiana in base al principio metodologico dell’interazione fede-vita, prospettando la necessità di una catechesi degli adulti. “È in direzione degli adulti che l’evangelizzazione e la catechesi devono orientare le proprie forze. Sono gli adulti che assumono più direttamente, nella società e nella Chiesa, le scelte decisive che favoriscono oppure ostacolano la vita comunitaria, la giustizia e la fraternità (…). Gli adulti (…) creano, senza dubbio, le condizioni fondamentali per l’educazione alla fede dei fanciulli e dei giovani, nella famiglia, nella scuola, nei mezzi di comunicazione e nella propria comunità ecclesiale” (CR,130). In tale direzione si colloca la costituzione, nello stesso anno, di un Gruppo Nazionale di Riflessione Catechetica (GRECAT) al fine di coordinare il movimento catechetico in ambito nazionale. La Commissione Biblico-Catechetica della CNBB organizza nel 1986 la Prima Settimana Brasiliana di Catechesi, a cui seguono altri Incontri Nazionali che delineano il cammino della catechesi in Brasile. Da quel momento in poi la catechesi in Brasile ha fatto passi significativi per quanto riguarda i metodi, i contenuti, le forme di organizzazione e la formazione dei catechisti, alla ricerca di nuovi cammini per un’azione catechetica che possa integrare il processo di iniziazione e quello di educazione permanente alla fede. Negli ultimi decenni sono stati pubblicati vari documenti che hanno orientato il cammino della catechesi, come ad esempio, il Catechismo della Chiesa Cattolica nel 1992, il Direttorio Generale per la Catechesi nel 1997 e, non da ultimo, il Projeto Rumo ao Novo Milênio. Evangelizzazione, catechesi e formazione permanente degli adulti Come già si è detto, in Brasile il documento Catequese Renovada del 1983 ha polarizzato l’attenzione pastorale sul mondo degli adulti, favorendo tra gli operatori la presa di coscienza che i principali interlocutori della catechesi non possono essere i bambini e gli adolescenti, ma gli adulti. Quali sono gli adulti cui va rivolta l’attenzione? Quale tipo di catechesi è necessaria? In una Chiesa in cui la maggior parte degli adulti ha ricevuto il sacramento del battesimo in età infantile senza aver dato seguito ad una reale partecipazione ecclesiale, è opportuno parlare per essi di catechesi o di annuncio missionario? E che dire degli adulti già catechizzati mediante il processo di iniziazione cristiana, ma di fatto lontani dalla vita ecclesiale? Qual è la differenza tra catechesi e formazione permanente? In altri termini, va chiarito il compito specifico della catechesi adulta come iniziazione, distinta dalla formazione permanente che accompagna il cristiano durante l’arco della sua esistenza. Nell’illustrare il senso della catechesi con gli adulti, il testo base, alla luce dell’Evangelii Nuntiandi (EN), assume la distinzione tra evangelizzazione in senso ampio (l’azione della Chiesa nel suo complesso) e in senso stretto (primo annuncio o azione missionaria). Fino al Concilio Vaticano II il termine “evangelizzazione” designava fondamentalmente l’azione missionaria nei confronti di quelle popolazioni che non avevano ancora avuto alcun contatto con il vangelo di Gesù Cristo. Negli ultimi decenni, invece, il termine ha indicato progressivamente anche l’annuncio evangelico alle popolazioni di antica tradizione cristiana che, pur inserite in un contesto religioso, di fatto vivono la propria fede ai margini della Chiesa, come avviene infatti in molti Paesi europei, tra i quali anche la nostra Italia. Di qui è sorta la necessità di chiarire concettualmente il termine in vista di una più efficace azione pastorale. Così Paolo VI nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (EN) dell’8 dicembre 1975: “per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinati, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza” (EN 19). Anche le Diretrizes Gerais da Ação Evangelizadora da Igreja do Brasil descrivono infatti l’evangelizzazione come un processo che “implichi non solo l’annuncio del Vangelo con parole, ma anche la vita e l’azione della Chiesa; che riguardi non solo gesti sacramentali, all’interno di una comunità viva che celebra il mistero dell’amore di Dio in Cristo, ma anche la promozione della giustizia e della liberazione; che si presenti non solo come un cammino che va dalla comunità cristiana al mondo, ma anche come avvenimento del mondo, all’interno del quale Dio continua la sua opera salvifica, per la vita della Chiesa”.10 Il testo base dà inoltre risalto al n. 49 del Direttorio Generale per la Catechesi (DGC), in cui il processo di evangelizzazione nel senso ampio del termine appare strutturato in tre tappe fondamentali: l’azione missionaria (primo annuncio o annuncio kerygmatico), l’azione catechetica (iniziazione alla fede e approfondimento della conversione) e l’azione pastorale (tutto ciò che non rientra né nell’azione missionaria né in quella catechetica e che riguarda la vita della Chiesa). In questa schematizzazione perciò la catechesi appare come uno dei tre grandi compiti pastorali della Chiesa nel mondo, per realizzare la sua missione salvifica per l’umanità. Si tratta di rivalutare questa azione ecclesiale, infelicemente relegata in passato (e non solo!) ad una semplice forma di apprendistato di una 10 CNBB, Diretrizes Gerais do Ação Evangelizadora da Igreja do Brasil 1999-2002, n. 68. note 15 note 16 luglio 2010 - anno X religione rivolta quasi esclusivamente ai fanciulli e di recuperare il significato legittimo e più consono della catechesi. Tre tappe dell’unica missione evangelizzatrice Alla luce del Direttorio Generale per la Catechesi (DGC), il testo base distingue tre momenti essenziali della missione evangelizzatrice della Chiesa: • l’azione missionaria come evangelizzazione; • l’azione catechetica come iniziazione e maturazione della fede; • infine, l’azione pastorale come formazione permanente. L’azione missionaria11 o evangelizzazione in senso stretto proclama il primo annuncio di salvezza (Kerygma) a persone che non conoscono la persona di Gesù Cristo o che, pur avendone sentito parlare, vivono attualmente lontani dal Vangelo. Si tratta di una chiamata alla fede in vista di una prima adesione a Gesù Cristo, indirizzata sia a persone non ancora evangelizzate sia ad adulti che hanno ricevuto una catechesi insufficiente. “Tutta la catechesi e la pastorale deve essere impregnata di un ardore missionario, puntando ad un’adesione sempre più piena a Gesù Cristo. Tutta l’attività della Chiesa, in modo speciale la catechesi, deve tradurre questa passione, questa mistica missionaria che animava i primi cristiani”.12 A partire dall’adesione alla persona di Gesù Cristo quale frutto del primo annuncio missionario, l’azione catechetica traccia un itinerario di iniziazione alla fede cristiana. La catechesi, come seconda tappa del cammino, ha come finalità peculiare l’approfondimento del messaggio evangelico all’interno della comunità cristiana. Anche la Catequese Renovada presenta la catechesi come un processo di educazione personale e comunitaria alla fede. L’elemento specifico in questa concezione è la presentazione della catechesi come “un processo di iniziazione, preparazione e comprensione vitale e di accoglienza dei grandi misteri della vita nuova rivelata in Gesù Cristo”.13 Il testo base illustra il senso dell’iniziazione, preoccupandosi innanzitutto di liberare la catechesi da quella superficialità che tanto sembra caratterizzare molte attività considerate come catechesi, ma che in realtà sono solo piccoli corsi in vista di una ricezione formale dei sacramenti. Diversamente da una catechesi concepita come insegnamento, il concetto di iniziazione accentua soprattutto il valore e la necessità dell’esperienza nell’educazione alla fede. Congregazione per il Clero, Direttorio Generale per la Catechesi, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1997, n. 51. 12 CA, n. 97. 13 CA, n. 103. 11 “La catechesi, considerata come iniziazione, non significa una superflua introduzione alla fede, una vernice di cristianesimo o un corso di ammissione alla Chiesa. Si tratta di un processo esigente un cammino, un itinerario”.14 La terza tappa del processo di evangelizzazione è l’azione pastorale che la Chiesa realizza “per i fedeli cristiani già maturi, all’interno della comunità cristiana”.15 Gli adulti che, sono stati iniziati sufficientemente alla fede mediante la catechesi, proseguono il proprio cammino di maturazione della fede nel contesto ecclesiale, curando la propria formazione permanente. In altri termini, la formazione permanente è quel processo di approfondimento della fede che accompagna il credente adulto lungo l’intero arco della sua esistenza dopo il processo di iniziazione. Se il ministero della catechesi è affidato ai catechisti, la formazione permanente alla fede è compito di tutta la Chiesa mediante innumerevoli iniziative pastorali. Il compito peculiare dei catechisti, come si diceva, è essenzialmente quello dell’iniziazione alla fede e alla vita ecclesiale, mentre la formazione permanente è di competenza della Chiesa nel suo complesso. È bene che la catechesi abbia il proprio ambito d’azione ben chiaro, per evitare il pericolo di sovraccaricarsi di responsabilità e di perdere la propria identità. “La catechesi, dovrebbe essere riservata solamente alle attività di iniziazione: così la catechesi conserverebbe un campo ed una missione ben delimitata, senza il pericolo di cadere nel pancatechismo. Di fatto, quando tutto è catechesi, nulla è catechesi”.16 La distinzione tra catechesi e formazione permanente è molto sottile, ma è utile, da una parte, ad accentuare la vocazione specifica dei catechisti e, dall’altro, a richiamare l’attenzione di tutta la Chiesa sulla necessità di un’azione educativa permanente che prosegua ciò che la catechesi ha tentato di costruire. È una distinzione anche utile per cogliere l’intimo legame della catechesi con il “prima” (l’evangelizzazione) e con il “dopo” (la formazione permanente). “La catechesi, oltre ad essere (…) legata all’azione missionaria, ha molto a che vedere anche con questo terzo momento, l’azione pastorale (…). I cristiani, una volta iniziati sufficientemente alla fede mediante la catechesi, sono infine affidati alle cure dell’azione pastorale”.17 Il testo base propone di utilizzare l’espressione “catechesi con gli adulti” per l’attività di iniziazione degli adulti che hanno già dato una prima adesione a Gesù Cristo e di coloro che, pur avendo celebrato i sacramenti dell’iniziazione cristiana (battesimo, confermazione, eucaristia) nonché il sacramento del matrimonio, non sono stati sufficientemente introdotti alla fede cristiana e alla vita ecclesiale. L’espressione “formazione permanente” sarebbe riservata alle attività di educazione alla fede degli adulti che abbiano già ricevuto un’adeguata catechesi. 16 17 14 15 CA, n. 103. DGC 97, n. 49. CA, n. 119. CA, n. 114. note 17 18 note luglio 2010 - anno X Le Sante Missioni Popolari: la proposta di Mosconi Il Direttorio Generale per la Catechesi (DGC), affermando che la catechesi “deve proporsi come valido servizio all’evangelizzazione della Chiesa con un accentuato carattere missionario”,18 ne auspica un rinnovamento alla luce del Concilio Vaticano II. Questa nuova esperienza di evangelizzazione comincia nel 1990 su iniziativa di alcuni agenti pastorali delle CEBs dello Stato del Parà (nel Nordest del Brasile): si sceglie come punto di riferimento la parrocchia di Xinguara nella Diocesi di Conceição do Araguaia su indicazione dell’allora vescovo diocesano Dom Josè Patrick. Le comunità di Xinguara accettano la proposta e scelgono come data per la Grande Settimana Missionaria il mese di novembre del 1991. Negli anni successivi altre comunità seguono l’esperienza di Xinguara, contribuendo, di fatto, a diffondere il nuovo modo di realizzare le SMP nella regione. La catechesi nelle SMP brasiliane proposte da Mosconi si pone come obiettivo principale quello di offrire, oltre alla temporanea carica kerygmatica e sacramentale, la realizzazione di una seria e costruttiva progettazione pastorale finalizzata soprattutto alla catechesi permanente degli adulti e all’impegno concreto di liberazione e di trasformazione della società. Missione Popolare e progettazione pastorale vanno di pari passo e s’integrano vicendevolmente. Alla luce dell’ecclesiologia conciliare e del recente magistero, Mosconi ritiene necessario che si passi dalle tradizionali missioni al popolo ad un popolo in stato permanente di missione. Le SMP di Mosconi partono innanzitutto da una conoscenza profonda della situazione sociale, culturale, politica, economica e religiosa del territorio in cui si realizzano, allo scopo di rigenerare il tessuto ecclesiale. Tre sono i tempi di tale Missione Popolare: il tempo della pre-missione (osservazione ed analisi della situazione di partenza, formazione dei missionari laici, sensibilizzazione del territorio); la Grande Settimana Missionaria (tempo speciale di ascolto, di annuncio e di conversione); ed infine, il tempo della post-missione (verifica, approfondimento e ri-progettazione del cammino futuro di fede comunitaria). Nel progetto di Mosconi sono presenti entrambe le forme di “catechesi con gli adulti” prospettate da Alberich,19 ossia quella in chiave di evangelizzazione missionaria e quella più specifica in vista di un approfondimento della fede. Mi sembra si possa affermare che nel tempo della pre-missione prevalga l’annuncio kerygmatico, durante la Settimana Missionaria una forte carica liturgico-sacramentale ed infine, nel tempo della post-missione, una catechesi permanente degli adulti. Pre-missione: osservazione, analisi e progettazione Il tempo della pre-missione (della durata circa due anni) prevede l’osservazione e l’analisi della situazione sociale e religiosa del territorio. Il momento programmatico richiede la DGC 97, n. 33. E. Alberich, Forme e modelli di catechesi con gli adulti, Leumann (To), LDC, 1995. 18 19 ricerca e la formulazione degli obiettivi, la scelta e l’organizzazione dei contenuti, la scelta e la formazione degli agenti missionari, la determinazione dei tempi e delle modalità di attuazione, la sensibilizzazione dell’ambiente ed infine, la definizione degli aspetti organizzativi e finanziari. “Abbiamo deciso di condividere queste proposte con altri agenti pastorali e guide comunitarie. (…) Allo stesso tempo abbiamo preso contatti con alcune esperienze delle Sante Missioni Popolari già esistenti. (…) Una piccola èquipe è stata incaricata di concretizzare e di articolare il progetto. Era necessario fare un’esperienza per poi poter programmare meglio”. 20 In primo luogo, è importante soffermare l’attenzione sull’analisi della realtà sociale ed in particolare sui principali problemi che riguardano la vita quotidiana delle popolazioni locali, tentando di scoprire le cause dell’ingiustizia e soprattutto di delineare nuovi itinerari di cambiamento. Nel momento conoscitivo si parte da un’attenta osservazione della situazione con una descrizione del contesto in cui il nuovo progetto deve essere attuato: ambiente sociale, culturale, politico e religioso, facendo emergere una prima formulazione della domanda operativa. “L’attuazione concreta delle intuizioni e dello spirito delle Sante Missioni Popolari dipende molto dalle situazioni concrete dove esse si realizzano. Le Sante Missioni Popolari realizzate nell’area rurale e nell’area urbana hanno qualcosa in comune e qualcosa di specifico.(…) È per questo motivo che, nel realizzare le Sante Missioni Popolari nella grande città, è importante dare un primo sguardo attento, sincero e profondo alla vita della città e delle persone che abitano nella città”.21 Nel successivo momento interpretativo si passa dall’osservazione della prassi vigente ad una ricerca delle cause e dei significati, interpretando e analizzando la domanda che emerge nel momento conoscitivo. Si tratta di una fase essenzialmente ermeneutica e critica che mira all’individuazione di alcune indicazioni, in vista di una più cosciente analisi degli elementi della situazione di partenza. Mosconi propone al riguardo diversi incontri da tenersi nei vari settori missionari in cui è stato suddiviso il territorio per approfondire l’analisi sociale alla luce del Vangelo. L’obiettivo principale è quello di “rafforzare la convinzione che il nostro Dio è il maggior difensore della vita ed è presente laddove vi sono persone che lottano per la vita e la libertà, come nel caso dell’uscita del popolo ebraico dalla schiavitù d’Egitto, raccontata nel libro dell’Esodo”.22 In secondo luogo, è importante riscoprire il vero senso della religiosità popolare (devozioni, feste patronali, processioni di santi, romarias), purificandola da forme di sincretismo e da superstizioni magiche e sacrali. Mosconi suggerisce di L. Mosconi, Santas Missões Populares, 18. Ib., 43. 22 Ib., 43. 20 21 note 19 20 note luglio 2010 - anno X “promuovere feste popolari in cui tutti, realmente, possano partecipare, condividere gioie e preoccupazioni, sogni e lotte, e nelle quali i poveri e gli esclusi abbiano voce”.23 Dopo aver fatto un monitoraggio dell’intero territorio di missione mediante un’accurata analisi sociale e religiosa, il Consiglio pastorale parrocchiale si deve porre il problema della formazione dei missionari laici, che sono i veri protagonisti della Missione Popolare. “Anticamente, essere missionario era un privilegio quasi esclusivo dei religiosi e delle religiose. Ora molte persone – coniugate, singole, casalinghe, operai ed operaie, pescatori, giovani, disoccupati, professori, padri e madri di famiglia – stanno riscoprendo ed interiorizzando la chiamata missionaria”.24 A questo punto diventa indispensabile l’apporto delle CEBs: infatti, i missionari laici che animano i settori e compiono le visite provengono per lo più dall’esperienza ecclesiale delle CEBs. Si tratta evidentemente di un vantaggio non trascurabile, se si considera l’alto potenziale di evangelizzazione insito in questa feconda esperienza ecclesiale. Al tempo stesso, i membri delle CEBs riscoprono la propria vocazione missionaria, offrendo il proprio servizio ecclesiale di annuncio e di impegno solidale nei confronti dei più poveri e degli emarginati della società: questa è la grande scommessa di Mosconi! I missionari laici durante il tempo della pre-missione visitano il maggior numero di persone e di famiglie per instaurare legami di amicizia e di solidarietà. “Le visite intendono iniettare vita nuova e speranza nelle famiglie, oggi così poco aiutate da una cattiva organizzazione della società, da ideali imposti e da un modello socioeconomico che distrugge i valori”.25 In parallelo allo studio del territorio e alla formazione dei missionari laici occorre dunque sensibilizzare nei circa due anni di pre-missione tutta l’area interessata, valorizzando la feconda esperienza ecclesiale delle CEBs. Poiché durante le visite il missionario laico si trova dinanzi a diverse situazioni sociali e religiose che richiedono risposte specifiche, Mosconi affida loro il compito di offrire il primo annuncio a coloro che non hanno mai avuto alcun contatto con il Vangelo di Cristo ed una nuova evangelizzazione a quei “gruppi interi di battezzati che hanno perduto il senso vivo della fede, o addirittura, non si riconoscono più come membri della Chiesa, conducendo una vita lontana da Cristo e dal suo Vangelo”.26 Primo annuncio ai non credenti e nuova evangelizzazione a coloro che, di fatto, vivono nell’indifferenza religiosa. Nel primo anno della pre-missione, oltre alle visite nelle famiglie, si svolgono nei vari settori alcuni incontri di sensibilizzazione che hanno lo scopo di favorire 25 26 23 24 Ib., 40. Ib., 74. Ib., 46. RM, n. 33. la conoscenza reciproca tra le persone; tali incontri non hanno carattere di sistematicità e sono soprattutto occasioni di dialogo, di condivisione e di ascolto. Nel primo semestre la finalità principale nei centri di ascolto è quella di aiutare la gente a non dimenticare le proprie radici, la propria storia, i propri valori per comprendere meglio il presente e affrontare il futuro. Coltivare la coscienza di far parte di un lungo cammino ecclesiale di fede valorizza il passato e pone le basi per un’evangelica intelligenza del presente. “È necessario mantenere viva la memoria del passato, senza soffermarsi solo a condannare o a criticare, ma valorizzando il passato e traendo spunti per il presente”.27 L’attenzione si sofferma sulla cultura indigena ed in particolare sul modo di festeggiare e di celebrare. L’obiettivo dichiarato è quello di riscattare e di purificare le tradizioni popolari, culturali e religiose valorizzando le capacità artistiche, creative ed organizzative del popolo. Mosconi è convinto dell’importanza e della necessità di “celebrare la nostra fede in Gesù Cristo in un modo ben inculturato”.28 Nel secondo semestre ci si sofferma con lo sguardo ad osservare i problemi che attanagliano l’esistenza quotidiana del popolo, cercando di scoprirne le cause e ipotizzando nuovi possibili itinerari per una prassi di liberazione. L’obiettivo degli incontri è quello di “far crescere la coscienza e il senso del bene comune, debellando la piaga dell’individualismo”.29 Ecco, a titolo di esempio, alcuni interrogativi che accompagnano l’analisi e la riflessione comune alla luce del Vangelo di Gesù Cristo: qual è la situazione del Comune? E della Regione? E del nostro Paese? E del mondo intero? È possibile cambiare tale situazione? Quali le sfide che ci attendono? Come vivere il Vangelo di Gesù Cristo nelle situazioni concrete della quotidianità? Incoraggiare la cultura della solidarietà, far crescere la coscienza e il senso del bene comune, combattere l’individualismo in tutte le sue forme, esigere una maggiore partecipazione del popolo nella gestione della cosa pubblica, ridestare la convinzione che il Dio di Gesù Cristo è il maggiore difensore della vita e della libertà: ecco gli obiettivi principali di questa fase dell’itinerario. Nell’anno che precede immediatamente la Settimana Missionaria i centri di ascolto diventano anche centri di annuncio da intendere come luoghi di pre-evangelizzazione e di evangelizzazione. Tali incontri hanno un compito preliminare alla catechesi kerygmatica e liturgica della Settimana Missionaria e al cammino di catechesi permanente che si svolge nel periodo della post-missione. Nei centri d’ascolto i missionari laici devono essere in grado di valorizzare le potenzialità insite in ciascuno, preparando in tal modo il terreno per proporre l’annuncio del mistero pasquale di Cristo durante la Grande Settimana Missionaria ed una vita di fede incarnata nella storia durante Ib., 39. Ib., 41. 29 Ib., 42-43. 27 28 note 21 note 22 luglio 2010 - anno X il tempo della post-missione. La catechesi biblica nei gruppi punta progressivamente l’attenzione sul momento della conversione della propria esistenza mediante la proposta di un cammino di fede. Mosconi prevede un itinerario di catechesi con gli adulti da svolgersi in due tappe. Nella prima egli propone la lettura del vangelo di Marco che è il vangelo dei catecumeni, di coloro cioè che alle origini del cristianesimo entrano per la prima volta in contatto con la proposta salvifica del Cristo per approfondirne il significato. Nella seconda egli propone il confronto con alcune figure bibliche di forte rilievo vocazionale. La catechesi in questa fase preparatoria alla Settimana Missionaria si configura per Mosconi come catechesi kerygmatica: “una delle caratteristiche fondamentali delle Sante Missioni Popolari è il fatto che i missionari vanno incontro al popolo e non si fermano ad aspettare. È camminare, visitare, ascoltare. Nelle celebrazioni e negli incontri è bene commentare la vocazione (…) di figure importanti della Bibbia, come i profeti Amos, Osea, Isaia, Geremia, Giovanni Battista, Gesù stesso, l’apostolo Paolo, i primi discepoli”.30 L’ultimo mese è dedicato alla preparazione della Settimana Missionaria: i missionari locali intensificano in questa fase le visite a tutte le famiglie presenti nei vari settori del territorio parrocchiale, creando un ambiente sereno e solidale e favorendo negli incontri un clima di positiva valorizzazione delle differenze. La Settimana Missionaria: il momento clou delle Missioni Popolari Una volta che l’intero territorio è stato sensibilizzato in tutti i suoi ambiti grazie all’opera degli animatori missionari laici (visite, incontri e centri di annuncio), si organizza e si celebra il momento clou dell’esperienza: la Grande Settimana Missionaria. Mosconi la definisce “un ritiro spirituale popolare”31 in cui decine di comunità sparse nei vari settori missionari condividono, nello spazio breve di una settimana, una feconda esperienza di vita ecclesiale: si intensificano le visite missionarie e la carica kerygmatica nei centri di annuncio, si celebrano nelle liturgie comunitarie soprattutto i sacramenti dell’Eucaristia, della Penitenza e dell’Unzione degli Infermi ed infine, si testimonia con gesti concreti di solidarietà la vicinanza di Dio soprattutto nei confronti dei poveri, degli esclusi e degli emarginati della società. La Settimana Missionaria è il momento più forte ed intenso dell’esperienza delle SMP, in quanto è possibile cogliere la bellezza del Vangelo di Gesù Cristo che chiama alla conversione permanente. Si tratta di una Settimana speciale vissuta all’insegna di celebrazioni comunitarie, catechesi bibliche, visite alle famiglie, gesti di solidarietà e di condivisione con i più poveri e con gli esclusi. È un tempo di speranza e di conversione in Ib., 33. Ib., 119. 30 31 cui si fa un’esperienza profonda e gratificante dell’abbraccio di Dio nei confronti del suo popolo. Ecco al riguardo un testo significativo: “Si realizzano, nella Settimana Missionaria, molti gesti e fatti significativi, che andranno ad inscriversi per diversi anni nella memoria e nel cuore delle persone. È una settimana speciale, fatta di processioni, di molte visite, di benedizioni, di gesti, di simboli, di celebrazioni vive, di molta condivisione, di solidarietà e di incentivo alle lotte popolari in difesa della vita (…). È una settimana ricca, emozionante che parla al cuore. È veramente un grande ritiro spirituale popolare. È tempo di speranza, di conversione, di ascoltare gli appelli di Dio, che si fa presente in tanti modi. È un’esperienza profonda e gratificante dell’abbraccio di Dio, che è Padre e Madre, nei confronti del suo amato popolo molte volte offeso, ferito e segnato dal peccato”.32 Alla luce del vangelo di Matteo, nei centri di ascolto la catechesi diventa proposta concreta di cammini di fede che portano alla conversione. La proposta di Gesù non riguarda solo l’intimità del singolo credente, ma investe la comunità dei fratelli che condividono la stessa esperienza di fede. La chiamata quindi non significa solo chiamata alla persona di Gesù Cristo, ma anche alle persone che Gesù Cristo ama e che vivono nell’ambiente sociale, politico ed economico in cui di fatto la comunità opera, là dove la comunità è chiamata a salvarsi e a salvare. La conversione significa abbracciare totalmente non solo la proposta di Gesù, ma anche le esigenze degli uomini con cui si è chiamati a vivere per operare le trasformazioni sociali necessarie. Il processo di conversione consiste nel rinnegamento progressivo del proprio egoismo per un’accettazione più radicale dei consigli evangelici proposti da Gesù a tutti i suoi discepoli per una vera metànoia. Durante la Settimana Missionaria la catechesi si svolge, oltre che nei centri di ascolto e di annuncio organizzati nel tempo delle pre-missione, soprattutto nelle celebrazioni liturgiche. Nel programmare la Settimana Missionaria, infatti, Mosconi prevede quotidianamente (generalmente a fine giornata) la celebrazione dell’Eucaristia quale momento culminante di ascolto della Parola, di condivisione delle meditazioni e delle riflessioni personali maturate nei piccoli gruppi e di impegno concreto di solidarietà. Ecco a tal proposito un testo di Mosconi che, a mio avviso, esprime bene il significato e il senso della celebrazione eucaristica: “la celebrazione in serata, nell’ora e nel luogo concordati con il popolo (…) sia ben vissuta, partecipata, condivisa, con canti, bandiere, (…) testimonianze, gesti e simboli, legati al messaggio del giorno; con momenti di silenzio, per sentire, più da vicino, la presenza trasformatrice del Signore (…). Dobbiamo riscoprire la bellezza e il potenziale di liberazione dell’Eucaristia. In essa noi realizziamo il memoriale (…) della vita-morte-risurrezione di Gesù, il Signore”.33 La presenza dell’Eucaristia nella programmazione della Settimana Missionaria assume una forte valenza simbolica soprattutto nella giornata centrale di mercoledì, dedicata alla 32 33 Ib., 49. Ib, 170. note 23 note 24 luglio 2010 - anno X preghiera e alla meditazione personale e comunitaria. Mosconi prevede, infatti, durante l’arco della giornata un’esposizione itinerante del Santissimo Sacramento in abitazioni ben accoglienti e, in serata, una processione eucaristica per le strade del quartiere. “Il Santissimo Sacramento sarà esposto nelle varie case (…). Si suggerisce anche di formare piccoli gruppi per l’adorazione del Santissimo nelle case (…). In serata, all’ora stabilita, i vicini si riuniscono nelle case dove è esposto il Santissimo Sacramento. Pregano, cantano e, in seguito, s’incamminano in processione con il Santissimo sino al luogo della celebrazione. Si può accompagnare il Santissimo con le candele accese, le bandiere, cantando e pregando”.34 Oltre al sacramento dell’Eucaristia, durante la Settimana Missionaria è importante privilegiare anche il sacramento della Penitenza e quello dell’unzione degli Infermi. Anche gli altri sacramenti sono importanti, ma è bene non sovraccaricare ulteriormente di impegni la Settimana Missionaria, rimandando per esempio la Confermazione e il Matrimonio al tempo del post-missione. Il sacramento della Penitenza produce vita nuova, perdono e riconciliazione e rinsalda i vincoli di amicizia tra la gente. “È importante che tutta la Settimana Missionaria sia caratterizzata dal clima di perdono e di riconciliazione (…). All’interno di questo clima di perdono, si realizza il sacramento della confessione (…). La confessione individuale dei peccati con un sacerdote, ministro della misericordia, (…) è un momento speciale, privilegiato, importante”. Di particolare rilievo è il sacramento dell’Unzione degli Infermi, in quanto “riscopre la dignità degli ammalati e degli infermi, così tanto emarginati da una società che privilegia chi produce (…). È un’ottima occasione per rinnovare il nostro impegno in favore della vita, lottando per la salute del popolo”.35 La celebrazione di chiusura della Settimana Missionaria rappresenta un momento particolarmente significativo, in quanto in un’area pubblica nei pressi della parrocchia si concentra una folla immensa di gente giunta dai vari settori missionari a piedi, in barca, in bicicletta, in auto, cantando e agitando bandiere in un clima di festa e di solidarietà. La celebrazione liturgica si conclude con una piccola festa popolare in cui si condivide fraternamente con canti, gesti e simboli l’esperienza mistica e militante vissuta durante l’intera settimana. Come ho già accennato, le celebrazioni liturgiche e sacramentali si svolgono nel contesto della religiosità popolare che si esprime mediante simboli, gesti, canti, devozioni (processioni di santi, feste religiose, romarias, via crucis penitenziali) allo scopo di comunicare visivamente messaggi chiari e semplici e di mantenere viva nelle popolazioni la memoria del passato e le radici della propria storia. “I riti, i simboli, i canti (…) devono essere capaci di veicolare messaggi importanti, profondamente esistenziali e ricchi della presenza di Dio, che salva e libera. Essi devono essere profondamente legati alla vita, alla storia, all’esistenza concreta delle persone che stanno celebrando e partecipando. Devono essere capaci di parlare, senza necessità di molte spiegazioni”.36 Ib., 179. Ib., 157. 36 Ib, 149. 34 35 Post-missione: tempo di verifica e di ri-progettazione I primi due tempi, pre-missione e Settimana Missionaria, sono in funzione di questo terzo tempo che riveste un’importanza determinante nell’itinerario ecclesiale di missione permanente. Come si è visto, il momento clou della Settimana Missionaria è il momento di carica kerygmatica e sacramentale, come “tempo speciale di ascolto e di conversione”.37 La Missione Popolare, infatti, può avere una sua rilevanza pastorale solo nella misura in cui è gravida di un futuro ecclesiale sempre più missionario, ossia progressivamente proteso verso una catechesi permanente con gli adulti e verso la formazione di una comunità ecclesiale sempre più pastoralmente impegnata e dislocata sul territorio. Se il tempo della pre-missione è paragonabile alla durata della gravidanza (osservazione e analisi della situazione di partenza, progettazione, sensibilizzazione) e quello della Settimana Missionaria è paragonabile alla nascita di una nuova vita (attuazione del progetto) il tempo della post-missione è paragonabile alla fase dello sviluppo e della crescita della vita generata (verifica e valutazione della realizzazione del progetto in vista di un nuova progettazione futura38). Terminata la fase preparatoria e celebrativa, comincia la fase permanente e definitiva della missione: il tempo della post-missione. Gli animatori missionari dei centri di catechesi, ricevuto il mandato missionario, animano la catechesi permanente nelle comunità decentrate nei vari settori in cui è stato suddiviso il territorio nel tempo della pre-missione. Nelle piccole comunità, attraverso l’ascolto della Parola di Dio e l’attenzione costante ai problemi del territorio, si vive un cammino permanente di fede e di fedeltà a Dio e all’uomo. Mosconi sottolinea “il valore e l’importanza del vivere in piccole comunità (…) che siano tutte fraterne, ripiene della presenza dello Spirito di Gesù, missionarie, difensori della vita, soprattutto degli esclusi (…) che siano luoghi dove il perdono e la conversione possono realizzarsi (…) che abbiano la Parola di Dio come riferimento costante”.39 A tal proposito egli suggerisce che in ogni comunità ci sia un gruppo di studio del Vangelo e che si faccia: “una lettura attenta, contemplativa, affettiva e militante dei vangeli, che conduca alla sequela di Gesù e del suo progetto di vita e di libertà. Crediamo che lo studio del Vangelo, fatto in un modo organizzato e continuo, sia la base indispensabile di tutte le attività pastorali".40 In questa fase la catechesi con gli adulti si configura come un processo di educazione permanente alla fede da articolarsi in due tappe annuali. Durante il primo anno nei gruppi si leggono alcuni passi del testo di Luca che è da considerarsi come il vangelo del testimone. Nel secondo anno si pone al centro della riflessione biblica il testo degli Atti degli Apostoli. 39 40 37 38 Ib, 121. E. Alberich – Binz A., Adulti e catechesi, Leumann (To), Elle Di Ci, 15. L. Mosconi, Santas Missões Populares, 54. Ib., 55. note 25 note 26 luglio 2010 - anno X Il processo di conversione provoca un cambiamento di vita che si specifica in un itinerario di catechesi permanente in cui ciascun credente riscopre il proprio ministero all’interno della comunità. I responsabili delle comunità di base si assumono la responsabilità di mantenere contatti con gli altri agenti pastorali che hanno partecipato alla pre-missione e alla Settimana Missionaria; i missionari locali continuano a visitare costantemente le comunità sparse sul territorio per coordinare ed orientare il cammino futuro, riproponendo negli incontri di catechesi permanente i seguenti interrogativi di fondo: qual è, a loro giudizio, il frutto delle SMP? Quali appelli vi giungono per la vita personale e comunitaria e per l’azione pastorale? Il vangelo di Luca può rappresentare per la catechesi una buona pista di lavoro in questa fase, in cui è necessario che le nuove acquisizioni maturate nella Settimana Missionaria si concretizzino nel vissuto quotidiano mediante atteggiamenti personali e comunitari a livello sociale, culturale, politico, economico e, non ultimo, religioso. Non può passare in secondo piano la testimonianza di solidarietà e di impegno concreto che, secondo Mosconi, ogni piccola comunità offre nel territorio. Nel momento valutativo della post-missione si procede a una verifica del cammino percorso per rivisitare il progetto, in vista di un miglioramento della sua realizzazione e della sua efficacia. Con il momento riprogettativo si riapre il circolo ermeneutico riflessione-azione-riflessione per un eventuale riordinamento della prassi pastorale e catechetica. A mo’ di conclusione Importanti avvenimenti ecclesiali e direttive pastorali della Chiesa degli ultimi decenni stanno confermando ed incentivando questo lavoro di evangelizzazione rivolto alle moltitudini. Infatti, i documenti del Magistero, profondamente caratterizzati dalla centralità della nuova evangelizzazione, incoraggiano nella maggior parte delle diocesi un nuovo impulso missionario in cui il laicato svolga il ruolo di protagonista attivo nella missione ecclesiale. L’efficacia di questo lavoro di evangelizzazione sta facendo riscoprire il battesimo quale fondamento dell’esistenza cristiana e della dimensione missionaria del popolo di Dio. La Chiesa riconosce e valorizza il sacerdozio dei laici come protagonisti della missione evangelizzatrice nel mondo. Il problema principale che oggi si avverte nelle nostre comunità cristiane è quello di situare la catechesi nel più vasto processo di evangelizzazione della Chiesa nel mondo. In un contesto in cui la maggioranza della popolazione si considera cristiana (magari per il solo fatto di essere già stati battezzati in età infantile) e ritiene la catechesi un’attività indirizzata prevalentemente (se non esclusivamente!) al mondo infantile, emerge la necessità di chiarire concettualmente l’equivoco che ne è attualmente alla base: il mondo degli adulti di oggi, che avrebbe bisogno di una nuova evangelizzazione, non sembra avvertire tale urgenza, mentre le energie della catechesi di fatto si concentrano ancora sul mondo infantile. Mosconi ripropone dunque le Missioni Popolari come un modello di evangelizzazione e di catechesi permanente per il terzo millennio; tale esperienza non dovrà solo procurare momentaneamente ossigeno sacramentale o coinvolgere emotivamente le masse popolari, ma dovrà rivitalizzare il tessuto ecclesiale in vista di un progressivo impegno missionario di tutto il popolo di Dio presente sul territorio. La Chiesa è, se così si può dire, geneticamente missionaria in quanto trinitaria; la missione, infatti, non è una nota aggiuntiva ma, come sottolinea il Concilio, è un elemento originario e costitutivo. E a tal proposito Giovanni Paolo II nella Redemptoris Missio afferma che “la Chiesa è missionaria per sua natura, poiché il mandato di Cristo non è qualcosa di contingente e esteriore, ma raggiunge il cuore stesso della Chiesa” (RM,62). Nella Redemptoris Missio il Papa sottolinea la necessità e l’urgenza di rivolgere l’azione missionaria in tre direzioni tra loro complementari: ad intra (nell’ambito della stessa comunità ecclesiale sempre bisognosa di conversione); ad extra (nell’ambito del territorio entro cui la comunità vive ed opera in vista di una nuova evangelizzazione); ad gentes (nei confronti delle popolazioni ancora bisognose di una prima evangelizzazione). In altri termini, il processo di evangelizzazione è strutturato nelle tre forme in cui la Chiesa esprime l’unico ministero della Parola: il primo annuncio diretto ai non credenti (coloro che non hanno mai avuto alcun contatto con il messaggio evangelico, i battezzati che vivono ai margini della vita ecclesiale, gli agnostici, gli atei, coloro che appartengono ad altre religioni); l’iniziazione catechetica propriamente detta rivolta a chi ha già accolto il kerygma (adulti non ancora battezzati, ma prossimi alla conversione oppure battezzati che intendono riappropriarsi della propria fede); ed infine, l’educazione permanente della fede nei confronti di quanti intendono approfondire ulteriormente il cammino di fede all’interno della comunità ecclesiale, in vista di un impegno soprattutto a favore dei più poveri e degli ultimi. Primo annuncio ai non credenti e nuova evangelizzazione nei confronti di chi vive nell’indifferenza religiosa rappresentano indubbiamente una sfida anche per la nostra comunità diocesana, un compito che vede nel protagonismo dei laici un punto di forza nella missione evangelizzatrice della Chiesa nel mondo. note 27 note Comunicazione intellettiva e mentalità massmediale La capacità di amplificare una notizia e di raggiungere le persone nelle parti più lontane del mondo è la caratteristica dei media che più colpisce. Viene evidenziata meno la loro capacità di influenzare e di formare un’opinione, un’idea. I due aspetti, ovviamente, coesistono e non sono scindibili. La caratteristica di amplificare e raggiungere è quella che appare di più. Nella Chiesa ha avuto una particolare spinta da una visione ottimistica fondata sull’aggettivo “mirifica” usato dal Concilio nelle prime due parole del decreto conciliare Inter mirifica. Giovanni Paolo II spiega con grande precisione i due aspetti soffermandosi in particolare sul secondo: “I mezzi di comunicazione sociale hanno raggiunto una tale importanza da essere per molti il principale strumento informativo e formativo, di guida e di ispirazione per i comportamenti individuali, familiari, sociali. Le nuove generazioni soprattutto crescono in modo condizionato da essi. […] L’evangelizzazione stessa della cultura moderna dipende in gran parte dal loro influsso” (RM, 37c). Presentando uno studio approfondito sulla pericope di Giovanni Paolo II in Redemptoris Missio 37c, Nazareno Taddei sottolinea che nel brano viene messo in evidenza il problema della “nuova cultura” e indica sinteticamente, in termini tecnici, che è “il problema della nuova mentalità (contornuale o massmediale) — prodotta da ‘questi nuovi modi di comunicare’”. E subito si riferisce alle due caratteristiche dei media affermando: “I mass-media sono certamente enorme ‘cassa di risonanza’: (quello che non è fatto conoscere dai mass-media, oggi, è come non esistesse; per contro, la conoscenza e l’importanza di quello che essi fanno co* Docente stabile di Semiologia, Mezzi di comunicazione sociale e Sociologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino Trani. 29 Antonio Ciaula* [email protected] Questioni di comunicazione contemporanea e nessi metodologici di base 30 note luglio 2010 - anno X noscere assume una enorme amplificazione, anche se non sempre corrispondente a verità), perché la quasi totalità delle nostre conoscenze ci arrivano da essi. Essi però sono anche, soprattutto e sempre, formatori di mentalità e di una speciale mentalità, come accennato e come illustreremo. In breve, il dato di fatto — inoppugnabile per quanto spaventoso — è: ciò che convince, oggi, non è la verità, bensì il modo in cui tanto la verità quanto la falsità vengono espresse e recepite”.1 E, passando al rapporto comunicazione – evangelizzazione, rilevando che Giovanni Paolo II indica il mondo della comunicazione come “primo areopago”, afferma: “È facile allora intuire che l’attuale mondo della comunicazione è “il primo areopago” e che la considerazione dei mass-media deve essere la “dimensione” di ogni nostro apostolato: senza badare seriamente a questi “modi del comunicare”, si corre il rischio di essere umanamente sterili. È chiaro che ogni forma d’apostolato - perfino il sacramento della Confessione o l’attività dell’assistenza - presenta i suoi propri problemi nella prospettiva o nel contesto dei mass-media: come possiamo, p. e., aiutare i nostri penitenti, se non riusciamo a renderci conto del perché dei loro peccati, spesso legati alla mentalità che hanno assorbito dalla tv; o se non sappiamo come indirizzare mentalmente un nostro assistito. Per questo si richiede una preparazione specifica e apposita, con opportuno studio ed esercizio”.2 In tale prospettiva e con queste premesse, ci si riferirà ad alcune problematiche della comunicazione contemporanea esaminate alla luce di riferimenti metodologici di base senza la pretesa di essere esaustivi. Ci si riferirà al pensiero di p. Nazareno Taddei ripercorrendo alcune sue opere nell’illustrare alcuni punti della sua metodologia che porta il suo nome. 3 Queste note - da considerare allo stato appunti o bozza per lavori successivi - nascono dall’attività di insegnamento e ad essa principalmente si riferiscono. Metterle su carta è una N. Taddei sj, Papa Wojtyla e la ”nuova” cultura massmediale. Nuova evangelizzazione, nuova comunicazione, Edizioni Edav, 20053, p. 25. 2 Ibid., p. 24-25. 3 Nazareno Taddei (1920 – 2006), gesuita, regista e organizzatore fin dall’inizio e per circa 10 anni delle trasmissioni religiose della Rai-Tv, su incarico del Card. Schuster, acquisendo a questa, con due suoi lavori, i primi due Primo Premio mondiale Unda (Montecarlo 1958 e 1960); Maestro e consulente di insigni registi (come Olmi, Pasolini, Fellini, Blasetti); è stato docente nell’Università Statale di Sassari, nella Pontificia Università Gregoriana e al Seraphicum di Roma, nel gruppo di materie relative alla semiologia della comunicazione di massa, metodologia pastorale, mezzi audiovisivi e linguaggio filmico e TV. Direttore di Schedario Cinematografico e del mensile EDAV - Educazione audiovisiva, ha elaborato su basi scientifiche la metodologia di educazione a l’immagine e con l’immagine. Ha fondato nel 1953 il CiSCS Centro Internazionale dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale che “cura i problemi sollevati dal mondo dei media” (http://www.edav.it/CiSCS.asp). Cfr. A. Fagioli, Nazareno Taddei, un gesuita avanti, p. 124, ed. Edav, giugno 2000; CiSCS-CENTRO INTERNAZIONALE DELLO SPETTACOLO E DELLA COMUNICAZIONE SOCIALE (a cura di), P. Nazareno Taddei, sj, “Salòs”, rivista di fede e cultura, VIII, n. 8, giugno 2008, p. 113-116; A. Ciaula, Padre Nazareno Taddei, mio maestro, in “Salòs, rivista di fede e cultura”, 8, 2008, p. 104-112. 1 tappa intermedia4 per fissare alcuni punti e, per certi aspetti, dare risposte, nell’immediato, ad alcune problematiche consci anche della loro evoluzione. Per alcune questioni pratiche, quindi, più che di risposte definitive, è bene parlare di tentativo di inquadrare metodologicamente le problematiche stesse. Alcuni approfondimenti più ampi riguardano aspetti metodologici fondamentali; altri, invece, sono punti della metodologia di riferimento visti in modo applicato. Certi aspetti sono qui, necessariamente, solo accennati. Il filo rosso è, comunque, la mentalità massmediale. A partire proprio dall’influsso dei media sulla mentalità corrente, ci si sofferma su alcuni punti come la colonizzazione dei cervelli, il mondo del web (in particolare chat,5 forum e socialnetwork, di cui si rilevano alcuni aspetti) con alcune riflessioni finali sul rapporto tra mentalità dell’uomo contemporaneo e nuova evangelizzazione. Nell’uno e nell’altro caso ci si riferirà alle opere di Nazareno Taddei,6 molte delle quali ormai introvabili e di cui sarebbe molto utile un’edizione critica.7 Queste stesse riflessioni nascono anche dal mio tentativo di raccogliere un glossario della Anche se alcuni punti sono solo accennati come da appunti personali, è parso opportuno e necessario pubblicarli nell’attuale stesura per personale riscontro (vedendoli oggettivati e passibili della mia stessa critica per ridurre gli errori le sviste, i buchi e i “bachi”, secondo il linguaggio informatico) ma anche di quanti possono farmi osservare punti oscuri o (non voluta) cattiva esposizione della Metodologia di riferimento. 5 Ci si riferisce, in genere, alle chat con un giudizio prevalentemente negativo. Tra le prime conoscenze di questa modalità comunicativa il mio ricordo personale va ad alcuni docenti dell’Università Carlo Bo di Urbino che, in un’ora prestabilita, erano disponibili a conversare con gli studenti su argomenti della propria disciplina in ambito lavorativo, invece Messenger era usato per comunicare (anche con trasferimento di file) con fornitori di software. Il mio accostamento al social network è stato originato da una pagina di Facebook ideata e gestita dagli allievi di un corso a cui tenevo lezione. 6 L’esperienza ultratrentennale di approfondimento della Metodologia Taddei può essere sintetizzata nel fatto che essa pone in atteggiamento di ricerca continua. Non offre ricette pratiche quanto, piuttosto, utili riferimenti metodologici. Il suo è un “panorama metodologico” come afferma egli stesso nel sottotitolo di una sua opera. In questa sorta di tarlo che funziona come filo di Arianna la mente è continuamente provocata dal tentare di capire certe espressioni, certa mentalità, certi stili di vita (nei media e nella mentalità corrente) senza fermarsi agli aspetti fenomenici (come si vedrà nella “lettura” del linguaggio dell’immagine) ma anche nell’applicare tutti gli aspetti relativi al processo della comunicazione nei momenti più diversi dell’uso del linguaggio per contorni, dalla progettazione di un prodotto concreto all’uso nella comunicazione didattica e non solo. Si procederà secondo un discorso logico nell’esposizione rimandando nelle note non solo i riferimenti ma anche gli accostamenti suggeriti dalla quotidiana riflessione e/o da domande e questioni sorte in ambito non solo didattico. 7 Per le pubblicazioni di Nazareno Taddei si veda l’elenco inserito in CiSCS-CENTRO DELLO SPETTACOLO E DELLA COMUNICAZIONE SOCIALE (a cura di), P. Nazareno Taddei, sj, “Salòs”, rivista di fede e cultura, VIII, n. 8, giugno 2008, p. 113-116. Si veda www.edav.it/ pubblicazioni.asp per i volumi attualmente in commercio. Per esperienza personale il suggerimento per i volumi non più reperibili è quello di rivolgersi al CiSCS che, in qualche modo, provvederà o potrà indicare l’istituzione presso la quale anche la documentazione di p. Taddei può essere reperibile e/o consultabile. 4 note 31 note 32 luglio 2010 - anno X Metodologia Taddei attraverso le definizioni che lui dà – anche in tempi diversi (evidenziando così anche utilissimi approfondimenti di ricerca) – nelle sue numerose pubblicazioni. Qui, in diversi casi si è voluto citare anche riferimenti a Taddei e alla sua Metodologia fatti da studiosi che si rifanno al suo pensiero; si è preferita la strada delle citazioni testuali in modo da conoscere o rivisitare tale pensiero sia pur in modo mediato ma, pur sempre, aderente ai suoi testi originali. Eventuali sviste e connessioni errate sono da addebitare esclusivamente al sottoscritto. Nel richiamare alcuni aspetti metodologici e di riferimento alla scienza della comunicazione ci si riferirà esclusivamente agli aspetti semiologici tipici della comunicazione intellettiva (come meglio specificato più avanti).8 È un modo per osservare e approfondire la comunicazione contemporanea in alcune sue forme con chiavi di lettura di tipo scientifico e non solo culturale o culturalistico.9 Un primo punto, fondamentale, riguarda la differenza tra Teoria dell’informazione e Teoria della comunicazione. 1.La Teoria dell’informazione e la Teoria della comunicazione I mass media e gli audiovisivi in genere sono “ mezzi di comunicazione”; siamo, quindi nel campo della comunicazione intellettiva e non in quello della comunicazione fisica. A tal proposito è utile distinguere tra la Teoria dell’informazione proposta da Shannon L’attenzione a documentare tutti i passaggi, allargando anche il panorama osservato, paradossalmente, può aiutare a fare sintesi a partire da un aspetto vicino alla propria esperienza ed all’oggetto dei propri studi. In alcuni passaggi si fanno, di fatto, riferimento ad altre discipline (come per osservare la mentalità massmediale – che sembra non esistere per alcuni - anche attraverso metodi e tecniche di ricerca sociale e anche con metodi di ricerca di tipo qualitativo). Talvolta anche il tenere lo sguardo troppo rivolto al proprio campo di indagine può portare a svalutare quello degli altri. Nel contempo, il riferirsi a discipline contigue, pur in maniera difettosa, può, come in questo caso, attirare l’attenzione sulla complessità della comunicazione e delle sue problematiche partendo, magari, dal notare che la comunicazione sociale non si riduce all’aumentare il volume del proprio megafono né solo a rincorrere l’ultimo prodotto della tecnologia e che il suo studio, specie sul versante della mentalità, molto ha da dire, ad esempio, sul piano educativo oltre che a capire (cosa basilare) il linguaggio dei media. Talvolta si citano passi per i quali poteva essere sufficiente un semplice cenno con rinvio. L’aver voluto metterli immediatamente a disposizione viene dall’aver notato che i rinvii, da soli, non vengono utilizzati e dal fatto che molti documenti della Chiesa (e, ancor più quelli legati alla comunicazione sociale) risultano sconosciuti anche agli addetti ai lavori. Il rinvio, è stato usato, invece per altri studi o approcci per i quali lo spazio è stato tiranno anche per consentire una breve citazione. 9 Un atteggiamento in tal senso è quello di ridurre tutto ed esclusivamente al solo aspetto della concezione strumentale risolvendo le questioni “in qualcosa che può far bene o male secondo i casi”. Un atteggiamento generalizzato è certamente quello di parlare sui media e dei media senza aiutare a leggerli, a passare direttamente alla valutazione senza aver “letto” il messaggio e, per di più pensando di averlo compreso. Per non parlare dell’uso strumentale dei media che va oltre la concezione strumentale degli stessi utilizzandoli come vere armi improprie. 8 e la Teoria della comunicazione. La prima è molto importante e valida nel campo della comunicazione fisica. La teoria di Shannon10 è detta “dell’informazione” intendendo con tale termine, la misura quantitativa dei segni o dei segnali che devono essere trasmessi. In un circuito elettrico, ad esempio sono delle informazioni11 tecniche di tipo fisico che vengono trasmesse, magari, per chiudere quel dato circuito e far accendere una lampadina; una informazione, insomma, trasmessa anche tra sistemi tecnici diversi. Tale informazione funziona tra sistemi diversi così come tra parti dello stesso sistema. “La ‘fonte’ dello schema di Shannon è il generatore tecnico, e non intellettivo, dei dati da trasmettere; la codificazione e la traduzione (tecnica) di quei dati in altri che possono essere trasmessi (p.e. dati visivi in impulsi elettromagnetici) e che costituiscono il ‘segnale’, cioè il veicolo tecnico su cui viaggiano quei dati e che viaggia in un ‘canale’ (p. e. in cavo elettrico, un’onda portante); e la decodificazione e la ritraduzione del segnale in dati normalmente leggibili secondo la natura della fonte che li ha generati (p.e. da impulsi elettromagnetici in dati visivi). […] Si tratta insomma di ‘ informazioni’, cioè di ‘dati’, di ‘segni’ puramente fisici.”12 La Teoria dell’informazione riguarda anche i mass media (ad esempio, trasmissioni radiofoniche e televisive per l’aspetto tecnico e materiale riguardante il segnale, la sua codificazione, trasmissione, i possibili disturbi e la loro natura ecc.) e, perciò, per tutto quanto riguarda l’hardware necessario a quella data trasmissione radiofonica o televisiva. La Teoria dell’informazione rappresenta il processo come nello schema seguente: fonte – emittente – canale – messaggio – destinatario. Nella Teoria della comunicazione il processo può essere così schematizzato: r(ealtà) C(omunicante) S(egno) R(ecettore) Seguendo le indicazioni fornite anche dalla direzione e verso delle frecce, tale processo viene così descritto: il comunicante (C) conosce la realtà (r) ed esprime il segno (S). Il recettore (R) conosce il S(egno) e non la r(ealtà) della quale ha alcune informazioni: quelle che il comunicante ha voluto comunicare racchiudendole nel S(egno). Come si può notare, qui non si tratta della semplice trasmissione di un impulso elettrico; si è, invece, nel campo della comunicazione intellettiva in cui vengono veicolati i contenuti mentali. Questo vale anche quando una tale comunicazione (intellettiva) viene realizzata C.E. Shannon, The mathematical theory of communication, University of Illinois Press, Urbana, Usa, 1949. 11 Per informazione qui si intende, come è anche detto, la misura quantitativa di un segnale. Va posta attenzione, quindi, all’equivoco che può sorgere con l’altra accezione che il termine ha. 12 N. Taddei s.j., Educare con l’immagine. Panorama metodologico di educazione all’immagine e con l’immagine, 2 vol., Edizioni CiSCS Roma, 1976, vol. 1, p. 71. 10 note 33 note 34 luglio 2010 - anno X attraverso un sistema tecnico.13 Si ricorre, cioè alla Teoria dell’informazione non già per quanto riguarda la comunicazione di contenuti mentali (quella che qui interessa), bensì per quanto riguarda lo strumento tecnico di cui ci serviamo per realizzare quella comunicazione. “In altre parole, la differenza tra Teoria dell’Informazione e Teoria della Comunicazione è quella che passa tra il complesso delle conoscenze circa l’acqua in quanto oggetto di trasporto (in una tubazione) o di contenimento (in una diga) o in quanto soggetto di forza (in un sistema idraulico) e il complesso delle conoscenze circa l’acqua in quanto bevanda o elemento chimico dell’organismo. Come l’ingegnere idraulico non si interessa della potabilità dell’acqua o della sua composizione chimica, per i suoi impianti (se non in quanto tale composizione ne possa alterare le caratteristiche che interessano il fatto tecnico, come incrostazioni, ruggine ecc.) e come chi ha sete si preoccupa se l’acqua - d’una condotta o d’una diga o d’una sorgente naturale, non importa - sia potabile, cosi, di per se, noi possiamo fare comunicazione intellettiva anche senza particolari attrezzature tecniche (p.e. la comunicazione verbale e gestuale d’ogni giorno con le persone che ci stanno vicine) e quindi anche senza Teoria dell’Informazione. Che se noi dovessimo fare una comunicazione di contenuti mentali mediante tali attrezzature (p.e. una trasmissione televisiva; se cioè dovessimo trasportare l’acqua di sorgente alla nostra casa per bere), ancora una volta il principio: la Teoria dell’Informazione ci aiuterà a risolvere i problemi della trasmissione tecnica di quella nostra comunicazione; ma resterà sempre il problema della comunicazione intellettiva in se stessa, il problema cioè che l’acqua potabile alla fonte giunga potabile in casa”.14 Questo schema riguarda sia la comunicazione normale (verbale o iconica) che la comunicazione tecnica che si basa sull’immagine tecnica di cui si dirà più avanti. Nella prima, la conoscenza dell'oggetto passa, attraverso l'espressione verbale o iconica, alla conoscenza del segno. Nella comunicazione tecnica, il comunicante attiva una macchina per realizzare il segno che viene trasmesso al recettore. 14 N. Taddei s.j., Educare con l’immagine. Panorama metodologico di educazione all’immagine e con l’immagine, 2 vol., Edizioni CiSCS Roma, 1976, vol. 1, p. 71. Taddei illustra così la Teoria dell’informazione: “La teoria di Shannon si chiama ‘dell’informazione’ proprio perché per ‘informazione’ egli intende la misura quantitativa dei segni o dei segnali che devono essere trasmessi. Si tratta cioè di dati fisici che un sistema tecnico trasmette tecnicamente a un altro sistema tecnico o che una parte d’un sistema tecnico trasmette a un’altra parte dello stesso sistema. ‘Teoria dell’Informazione’, per intenderci, è quella che regola l’uso dei computers, non nel loro aspetto strettamente tecnico, ma in quello informativo (p.e. il ‘linguaggio della macchina’ da usare; impostazione dell’elaborazione dei dati); e quella che ci indica come ridurre al minimo le possibilità d’errore in una trasmissione di dati (le leggi dell’interferenza e della ridondanza); è quella che permette di formulare un modello psicostrutturale per farlo analizzare da un calcolatore elettronico; ecc. La ‘fonte’ dello schema di Shannon è il generatore tecnico, e non intellettivo, dei dati da trasmettere; la codificazione e la traduzione (tecnica) di quei dati codificazione è la traduzione (tecnica) di quei dati in altri che possono essere trasmessi (p.e. dati visivi in impulsi elettromagnetici) e che costituiscono il ‘segnale’, cioè il veicolo tecnico su cui viaggiano quei dati e che viaggia in un ‘canale’ (p.e. un cavo elettrico, un’onda portante); e la decodificazione e la ritraduzione del segnale in dati normalmente leggibili secondo la natura della fonte che li ha generati (p.e. da impulsi elettromagnetici in dati visivi). I ‘noises’ (= disturbi) sono quelli che il segnale può incontrare nel suo cammino, sempre per ragioni tecniche (p.e. una perdita di corrente d’un cavo; un ostacolo che si frappone alla diffusione in linea diretta d’una portante 13 Sul rapporto tra metodologia e tecnologia Taddei - anche con un inciso “vivace” che è, contemporaneamente, anche una sorta di animata discussione a distanza circa la distinzione tra semiotica e semiologia - nota che “È un angolo visuale - questo della dimensione spirituale dell’uomo in contrasto con quella della macchina - che ci suggerisce, tra l’altro, di usare la parola ‘metodologia’ al posto di ‘tecnologia’, rimettendo questo secondo termine nella sua precisa collocazione di ‘scienza della tecnica’. ‘Metodologia’, invece, è ‘scienza del metodo’. E il metodo dell’istruzione, anche con mezzi o sussidi o impostazioni tecnologici, resta sempre una strada frutto di libere scelte, sia per quanto riguarda il punto d’arrivo, sia per quanto riguarda il percorso, sia per quanto riguarda il modo di procedere o i mezzi tecnici di cui servirsi per camminarvi sopra. Per questo, penso, non bisogna aver paura di usare ancora certi termini che la terminologia tecnologica ha fatto (o ha creduto di far) superare. Terminologia, che è perfetta in sede tecnologica; che spesso è inesatta o ambigua in sede filosofica o metodologica. Ne è un esempio recente quello di voler unificare il termine “semiotico” con “semiologico”, abolendo praticamente il secondo e adducendo a motivo che si tratta solo d’un uso latino di contro a quello anglosassone e che pertanto — data la preminenza (!?!) di questi ultimi — conviene accodarsi ad essi. La cosa sembra perfino una barzelletta - ma tant’è! Fatti la fama; e diranno che sudi anche quando fai pipì a letto! Comunque, il passaggio dalla tecnologia all’interpretazione umana dei fatti anche tecnologici o all’uso umano della tecnologia oggi televisiva, ecc.). Di qui la necessità di ovviare e di prevedere questi inconvenienti con sistemi particolari come quello della ‘ridondanza’. Si tratta insomma di ‘informazioni’, cioè di ‘dati’, di ‘segni’ puramente fisici. Di qui l’interpretazione matematica del processo, la quale costituisce — direi — la nota più caratteristica della Teoria dell’Informazione”. E continua, annotando: “Giustamente osservano Manara e Lucchini (in Momenti del pensiero matematico, Mursia, 1976, pag. 198): ‘Oggi è abbastanza diffusa la consapevolezza che la matematica non può più essere considerata semplicemente come la scienza dei numeri o delle quantità ed è caratterizzata non tanto dai suoi oggetti quanto dai suoi procedimenti, ovvero, prendendo il termine in un senso abbastanza generico, dalle sue strutture. Tra le origini di questa situazione hanno indiscutibile rilievo gli sviluppi della cosiddetta logica simbolica, la quale ha dimostrato, per esempio, che anche certe leggi del pensiero sono soggette a regole formali che, per certi aspetti, sono di competenza della matematica: George Boole (…) analizzò gli aspetti formali delle operazioni del pensiero e dei nostri ragionamenti e rilevò esplicitamente le analogie tra queste leggi formali e le leggi dell’algebra dei numeri (…) Questa algebra traduce i procedimenti di formazione delle nostre idee’. Sottolineando quei ‘per certi aspetti’, ‘aspetti formali’, ‘analogie’, ‘traduce’, si capisce chiaramente che la matematica è un’interpretazione tipica dei processi mentali, senza poterne inferire, per ciò, una comunanza di natura tra aspetti mensurabili (quindi materiali) e aspetti non mensurabili perché spirituali”. (Ibid. p. 73-74 e nota 1 p. 74-75). Sulla differenza tra lo schema della comunicazione elaborato da Roman Jakobson - derivato da quello Shannon e Weaver (1949) – e quello elaborato da Nazareno Taddei si veda l’efficace sintesi in L. Zaffagnini, Comunicazioni sociali, linguaggio e conversione di mentalità, Studio-Dossier, “Edav (Educazione Audiovisiva)”, n. 369, aprile 2009, p. XII. Il dossier è scaricabile da http://www.edav.it/DOCS/ Comunicazione_e_linguaggi.pdf. Molto interessante, in tale studio, anche la breve sintesi riguardante le posizioni di Charles Sanders Peirce, Ferdinand De Saussure, Noam Chomsky, Konrad Lorenz e Nazareno Taddei sulla natura del linguaggio (Ibid, p. II-V). note 35 36 note luglio 2010 - anno X è continuo; e pare necessario - o quanto meno più dignitoso - avere la basilare avvertenza di non confondere campi e dimensioni”.15 1.1Il Segno nella Teoria della comunicazione Taddei non esclude il ricorso alla Teoria dell’Informazione che, afferma, “s’è rivelata preziosissima per i computers, ai quali praticamente spetta il compito di raccogliere e di elaborare il maggior numero di informazioni nel minor tempo possibile, e che quindi si possono collocare anche in un processo cibernetico in cui il fattore tempo sia d’estrema importanza” […] Ma la Teoria dell’Informazione non può essere presa per teoria della comunicazione (intellettiva). Il processo che sottostà alla Teoria dell’Informazione è in tutto simile a quello della comunicazione intellettiva: c’è un comunicante il quale, attraverso un segno, comunica — cioè fa comune — con un recettore un suo contenuto mentale. È questa analogia che forse ha portato più d’uno a credere di poter applicare la teoria dell’informazione anche al campo della comunicazione; e non già per quegli aspetti per i quali essa effettivamente serve, bensì anche per quelli per i quali, non essendo quantitativistici o comunque movendosi in altro ambito, essa non serve. L’informazione della teoria di Shannon è - come detto - la misura quantitativa dei segni. Il segno è il veicolo della comunicazione intellettiva. Il segno dunque - verrebbe fatto di dire - è l’informazione. Il segnale, poi, che non è altro che l’informazione codificata, a sua volta - sempre verrebbe fatto di dire - non è altro che l’informazione e quindi il segno. Di qui la confusione”.16 Per questo ribadisce (anche con una certa forza): “Noi qui rifiutiamo di basarci sulla ‘Teoria dell’Informazione’, poiché questa si riferisce alla comunicazione fisica, quali le trasmissioni telefoniche, radiofoniche, televisive ecc., per il loro aspetto tecnico e materiale (segnale, disturbi, codificazione, decodificazione, ecc.); mentre noi in questa sede ci riferiamo alle comunicazioni intellettive, anche se queste, talvolta, si realizzeranno attraverso un sistema tecnico. Si ricorre cioè alla Teoria dell’Informazione non già per quanto riguarda la comunicazione di contenuti mentali (ch’è quella che a noi interessa), bensì per quanto riguarda lo strumento tecnico di cui ci serviamo per realizzare quella comunicazione”.17 Sulla differenza tra Segno (comunicazione intellettiva) e informazione (come nella relativa teoria) poi evidenzia: “Il segno invece non è l’informazione, se per informazione si intende la misura quantitativa di esso. Il metro che misura il tavolo non è il tavolo, anche se la misura quantitativa del tavolo N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 1, p. 72-73. Sulla differenza tra le due teorie (che sottendono la trasmissione dei dati tra macchine e la trasmissione dei contenuti mentali) inquadrate nel contesto culturale e filosofico e che travalicano la vicenda personale di p. Taddei si veda la posizione del prof. Zaffagnini; cfr. L. Zaffagnini, Metodologia e panorama culturale. Riflessione sul pensiero di padre Taddei, “Edav (Educazione Audiovisiva)”, n. 381, giugno 2010, p. 16-18. 16 N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 1, p. 75-77. 17 Ibid., p. 71-72. 15 (cioè quell’aspetto misurabile dal metro) è del tavolo, pur non essendo il tavolo. Altrettanto il segno - cioè quel fatto materiale in cui il comunicante ha espresso il proprio contenuto mentale e che è diverso a seconda del linguaggio usato - è una realtà quantitativa, misurabile. Ma questo suo aspetto di misurabilità non lo esaurisce come segno, tant’è vero che, p.e., in un’altra lingua quella stessa realtà misurabile potrebbe avere un altro significato: es. “burro” in italiano e in spagnolo (dove vuol dire “asino”). Il misurabile è quel “b-u-r-r-o” (fattore semiotico18); non è il concetto che vi sottosta (valore semantico), diverso in una lingua e nell’altra. In altre parole, alla Teoria dell’Informazione interessa che quel segno sia fatto di una b, una u, due r, una o; non che voglia dire tipo di grasso o asino”.19 La Teoria dell’Informazione studia i sistemi (codici) per cui, applicando precise leggi matematiche, l’informazione non abbia, quanto più possibile, disturbi e deformazioni nella sua trasmissione. Infatti, anche in una situazione ottimale un segno atteso ha solo il 50% di probabilità che venga; per l’altro 50% può anche non venire. Perciò, Taddei evidenzia come “l’informazione di un segno è ciò che misura la possibilità che quel segno venga o che non venga, cioè è la ‘probabilità’ di quel segno” e sottolinea che “in tutto questo studio è interessato il processo stocastico (cioè delle probabilità), ch’è tutt’altra cosa dall’ambito nel quale ci si trova trattando della comunicazione intellettiva. Questi codici sono quindi una convenzione che, basata su processi stocastici, servono per poter utilizzare opportunamente le macchine”. Queste alcune affermazioni e argomentazioni successive: “È poco attento, il voler trasferire il sistema dei codici anche nella comunicazione umana. […] Sarebbe come confondere il tavolo (materia, forma, peso) con la sua misura; il confondere il burro o l’asino con la parola che ne esprime il concetto. Se si guarda alla parte materialmente mensurabile dell’espressione (p.e. le lettere che compongono la parola burro), si può certo stabilire un codice informatico per convenzionarne la mensurabilità; ma se si guarda l’espressione come tale, cioè come un contenuto mentale (il concetto di burro o di asino) che ha trovato un certo modo concreto e materiale per ex-premersi dalla facoltà umana che lo ha concepito e di fatto espresso, il codice informatico non c’entra. […] C’è tuttavia una famiglia di segni circa i quali si può parlare di codice anche nella nostra sede: è la famiglia dei segni concettuali; quei segni, cioè, che sono basati su una convenzione. Non si tratta di codice informatico. […] Il codice informatico è ben altra cosa dal codice considerato nella teoria della comunicazione. Lì il codice è il catalogo di specifiche convenzioni; qui è l’uso di uno specifico criterio. […] Nel codice linguistico è applicato sì lo stesso criterio di base (cioè, il concetto di asino viene espresso, in spagnolo, dal segno lessicale “burro”, mentre in italiano quello stesso segno lessicale significa un certo tipo di grasso), ma tale codice non serve per permettere una trasformazione da segno a segno (p.e. un segno visivo in segno elettromagnetico), bensì per trovare un modo di esprimere convenzionalmente un certo concetto in un certo termine. Dire che la Teoria dell’Informazione, col suo sistema di codici, ci indica il modo secondo il quale dobbiamo intendere anche la comunicazione (ed è quello che fanno molti semiologi moderni, ivi non escluso Umberto Eco pur con le riserve che nota (U. Eco, La struttura 18 19 Cfr. paragrafo successivo. N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 1, p. 77. note 37 38 note luglio 2010 - anno X assente, Bompiani, Milano 1968), è come dire che I’organo elettronico, avendo trovato modo di riprodurre abbastanza fedelmente il suono del violino, ci indica la maniera di costruire degli Stradivari. La Teoria dell’Informazione, quindi, è veramente preziosa e valida, ma va presa nell’ambito nel quale e per il quale è stata formulata”. 20 La differenza tra trasmissione fisica del segnale e il segno trasmesso è, ancora, così sottolineata: “Qui si tratta di vedere come un uomo riesca a esprimere e far comuni ad altri i propri contenuti mentali. E ciò indipendentemente dalla considerazione sul fatto fisico, che tuttavia è quello che rende possibile la trasmissione fisica di quel segno. Quando io, p.e., alla TV guardo il Telegiornale per vedere che cosa mi comunica circa gli avvenimenti del giorno, non mi preoccupo di sapere se il codificatore telecamera-segnale è stato impostato sul codice A o B (p.e. sistema Pal o Secam), bensì cerco di intendere il significato palese o nascosto delle parole che vengono dette. È vero che se la trasmissione è in Pal e io ho un televisore in Secam, dovrò preoccuparmi di avere un televisore in Pal, oppure un adattatore, se mi interessa quella trasmissione. Ma ovviamente si tratta di problema ben diverso e sarebbe ridicolo dire, p.e., che il Telegiornale non ha detto niente o ha detto cose false, solo perché il mio televisore non era adeguato tecnicamente a riceverlo”.21 Interessante anche la particolare distinzione tra segnale e segno: ”Il ‘segnale’ non è propriamente ‘segno’, bensì è quel qualcosa (generalmente fisico, di varia natura) che contiene e supporta materialmente il segno stesso. P.e., i segnali stradali sono costituiti dal palo, collocato in un certo posto, che sostiene il cartello col ‘segno’ p.e. di curva pericolosa o di divieto di sosta; il segnale della radio o della tv è un complesso di radiazioni elettromagnetiche, che non sono il segno (tanto è vero ch’è necessario un apparecchio che ‘codifichi’ il segnale e un altro apparecchio ricevente che lo decodifichi, se vogliamo vedere e sentire), bensì ciò che porta il segno stesso, appunto codificato in partenza e da decodificarsi all’arrivo”.22 2.La comunicazione intellettiva e i tre aspetti secondo i quali si può studiare il Segno: il semiologico, il semiotico, il semantico Segno è ciò che, conosciuto, fa conoscere; è ciò che sta per. Si può affermare che questa è la definizione più sintetica che Nazareno Taddei dà al Segno nella comunicazione intellettiva in cui è usato per trasmettere una informazione, per dire o indicare a qualcuno qualcosa che qualcun altro conosce e vuole che altri conoscano.23 Il Segno è l’azione del Comunicante che vuole esprimere (ex-premere) ad altri il proprio contenuto mentale; e questo lo può 22 23 20 21 Ibid., p. 78-80, passim. N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 1, p. 80. N. Taddei, s.j., Papa Wojtyla e la ‘nuova’ cultura massmediale, cit., p. 56. Cfr. N. Taddei s.j., Nuova evangelizzazione. Nuova comunicazione, Ed. EDAV, Roma, 1994. fare solo concretizzandolo in una materia, il Segno.24 “È il punto d’arrivo dell’esprimere del comunicante e il punto di partenza del recepire del recettore”.25 Il Segno può essere realizzato senza strumenti (parlare, gestire) o con strumenti (scrivere, dipingere) che sono materialmente guidati dal comunicante per poterlo produrre (strumenti grafici), oppure solo indirizzati opportunamente (computer, macchina fotografica, ecc.). Il Segno può essere considerato e studiato sotto tre aspetti diversi della stessa realtà. L’aspetto semiotico, quello semiologico e quello semantico sono approcci (strettamente connessi l’un l’altro) attraverso i quali consideriamo la stessa realtà. Così la semiotica si occupa dello studio del Segno dal punto di vista materiale e fisico di cui è fatto;26 la semiologia studia il segno dal punto di vista del significante (studia il Segno e, in particolare, la sua struttura attraverso la quale esso segno assume la capacità di significare, di esprimere qualcosa)27; la semantica, infine, studia il segno dal punto di vista Per poter comunicare un dato contenuto mentale il Comunicante deve, innanzitutto, conoscere una data realtà, ad un certo livello di quiddità. Si pensi, ad esempio a un docente che deve conoscere (ad un certo livello di quiddità, cioè bene) quella data disciplina. Successivamente egli mette in atto tre fasi interne alla sua mente ed una operazione esterna ad essa consistente nella realizzazione effettiva del Segno. A questi tre passaggi (più uno) è legata la verità della comunicazione e, di conseguenza, la sua testimonianza. Alla prima fase - quella dell’idea della cosa conosciuta - è legata la verità logica che consiste nell’adeguazione tra la mente del conoscente e la realtà conosciuta e rende autentica la conoscenza. Il suo contrario è l’errore. La seconda fase - dell’idea della cosa da dire - è quella della scelta del comunicante di un certo aspetto o parte della cosa conosciuta che si intende comunicare. Ad essa è legata la verità morale cioè l’adeguazione tra quanto si è conosciuto e ciò che si intende comunicare. La verità morale si estende anche al segno e alla sua realizzazione. Il suo contrario è la menzogna o bugia. Un particolare tipo di bugia, tipica dell’immagine tecnica (e diversa dalla normale bugia) è la bugia semiologica, perché si serve di segni veri, strutturati, però, in modo che dicano cose false (ad es. gli slogan). Nella terza fase - quella dell’idea del Segno - si realizza la scelta del segno da usare per esprimere quella data conoscenza. Nell’adeguamento tra l’idea della cosa da dire l’idea del segno e lo stesso segno realizzato (operazione esterna) c’è la verità ontologica. Il suo contrario è la falsità. 25 N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 1, p. 81. 26 Si pensi, ad esempio, alla differenza tra parola parlata e parola scritta. La prima è fatta di onde sonore; la seconda, invece, di tratti grafici impressi su una qualche materia. La differenza è semiotica; differiscono dal punto di vista materiale e fisico con cui sono fatti. Questo vale, ancor più, per i segni frutto di tecnica (immagine fotografica, cinematografica, televisiva, ecc.). Tra le macchine che producono tali immagini attraverso la guida dell’uomo (macchina fotografica, da ripresa per produrre un film o per la tv) c’è una differenza di base legata all’hardware ed ai suoi accessori. Ciascuna macchina avrà un effetto particolare sul segno realizzato. Ad esempio, nella fotografia la risoluzione, gli obiettivi usati per ottenere quel dato effetto, l’uso eventuale di particolari fonti di luce o di filtri sono tutti aspetti semiotici che incideranno sul piano espressivo (e, quindi, sull’aspetto semiologico). Le scelte fatte a livello tecnico sono fatte in funzione di un certo risultato legato al fatto espressivo; sono aspetti materiali tecnici strettamente legati e che condizionano gli aspetti semiologici del segno. 27 La semiologia, attraverso l’esame della struttura del Segno (cioè la disposizione ordinata in un certo modo dei suoi elementi materiali) studia la capacità del segno stesso di significare, di esprimere 24 note 39 note 40 luglio 2010 - anno X del significato (cosa concretamente significa, qual è il preciso significato di quel segno).28 Come si è detto, i tre aspetti sono strettamente connessi ed interdipendenti; l’aspetto semiotico determina e condiziona il semiologico ed, insieme – semiotico e semiologico determinano e fanno nascere il valore semantico del segno. All’aspetto semiologico ci si riferirà nei paragrafi che seguono con brevi accenni a problematiche contemporanee della comunicazione. In maniera esemplificativa (e, certamente, non esaustiva) si esamineranno solo alcuni aspetti (sempre riferiti alla metodologia) rimandando l’approfondimento ad una trattazione più completa. Appare necessario, comunque, qualche altro breve cenno di natura metodologica. Va, però, innanzitutto evidenziato che i riferimento all’aspetto semiologico (in particolare al significato del segno e, in definitiva, alla comunicazione intellettiva che vengono qui fatti) si riferiscono al processo della comunicazione e alla disciplina che li studia e che va distinta da altre contigue come, ad esempio, la sociologia della comunicazione, la sociolinguistica o lo studio sugli effetti sociali dei media. Queste, come altre discipline simili sono assolutamente interessanti ed utili (specie, ovviamente, se affrontate e applicate in modo scientifico) ma sono cosa diversa dall’esaminare il percorso di un contenuto mentale e dai suoi conseguenti effetti. Non se ne esclude, cioè, l’utilizzo (ad es.) per rilevare anche statisticamente aspetti della mentalità massmediale e dei comportamenti indotti ma è cosa diversa dall’analizzare il fenomeno. Come afferma Taddei l’immagine “pone notevoli problemi in sede linguistica, psicologica, sociologica, antropologica, filosofica”.29 Qui ci si riferirà solo agli aspetti legati al processo della comunicazione, alla lettura del segno-immagine con cenni anche al suo uso nel comunicare. Nell’approfondire tali argomenti ci si riferirà, talvolta anche a tali discipline contigue ma l’aspetto prioritario e fondamentale è quello detto. Si preferisce, inoltre, la terminologia taddeiana dell’educazione a ed educazione con (l’immagine) piuttosto che la più generica educazione ai media pur suggestiva nella dizione ma che potrebbe nascondere equivoci di natura metodologica. qualcosa. Studia, in particolare, la disposizione degli elementi materiali del segno in funzione di quel certo significato che il Segno esprime. La struttura può essere definita, infatti, come ciò che porta all’unità (idea) la molteplicità degli elementi materiali che compongono il segno. Per es. nella parola “mamma” i vari elementi “m, a, m, m, a”, disposti in tal modo, portano all’unità della parola mamma. Lo stesso dicasi per i diversi fotogrammi nella sequenza di un film. 28 Un esempio circa il preciso significato di un dato segno può essere dato dalla parola mamma il cui valore semantico è donna genitrice, considerata in un alone di affettività, alone non presente nella parola madre che pure si riferisce anch’essa a donna genitrice, senza l’alone affettivo. Sulla semanticità e quanto ad essa connesso si veda N. Taddei,, Trattato di teoria cinematografica. I. L’immagine, Collana Epoca dell’immagine diretta da Nazareno Taddei, Edizione i7, Milano 1963, p. 221-235. 29 N. Taddei s.j., Presentazione, in F. Cacucci, Teologia dell’immagine. Prospettive attuali, II edizione riveduta, Edizioni i7 – Centro dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale, Roma 1971, p. 12. 3.L’immagine tecnica e il liguaggio contornuale. Cenni L’immagine tecnica è quell’immagine prodotta da una macchina guidata dall’uomo (Es. immagine fotografica, cinematografica, televisiva). Così Taddei ne definisce il concetto: “Per immagine tecnica, intendiamo un’immagine realizzata mediante uno strumento tecnico (frutto, come strumento, di un complesso di tecniche, cioè “macchina” nel senso corrente della parola), tecnicamente capace — proprio perché tale strumento — di realizzare da solo l’immagine. Ciò avviene ovviamente sotto la guida dell’uomo, il quale, però, affinché l’immagine venga prodotta, deve soltanto mettere in moto l’organismo tecnico pur precedentemente disposto. P.e., l’immagine fotografica si ha schiacciando il bottone: è la macchina che fa 1’immagine, benché faccia quell’immagine che il fotografo voleva, avendo egli predisposto la macchina stessa in quel certo modo; ma, se per caso, uno avesse schiacciato per sbaglio quel bottone, la macchina avrebbe fatto egualmente un’immagine di ciò che si trovava di fronte al proprio obiettivo. Lo stesso dicasi per la macchina cinematografica, televisiva, tipografica ecc.”30 Quello dell’immagine tecnica è un linguaggio contornuale. Esso è del tutto nuovo e comunica in maniera sostanzialmente diversa dal linguaggio verbale e, in parte, anche del linguaggio iconico tradizionale.31 Sulla differenza tra linguaggio dell’immagine e linguaggio verbale, con preciso riferimento a Taddei, Francesco Cacucci afferma: “È bene precisare con il Taddei il confronto e le reciproche differenze fra il linguaggio dell’immagine e il linguaggio verbale, il primo tipo di linguaggio è quello che adopera come vocaboli le immagini, cioè le rappresentazioni materiali di oggetti sensibili, esso non esattamente è un linguaggio con immagini visive. Per esempio, un articolo di giornale può costituire un’opera di linguaggio dell’immagine e, al contrario, una storia affrescata, quale si incontra nel medio evo, può non essere un’opera di linguaggio dell’immagine. Essendo l’immagine in senso proprio una rappresentazione visiva, uditiva o tattile di una realtà visiva, uditiva o tattile, sappiamo che i contorni stessi delle parole possono essere visivi, uditivi ed anche tattili ed esprimere qualcosa che va al di là del significato concettuale delle parole stesse. Il linguaggio dell’immagine è infatti quel linguaggio che comunica con segni, che son segni diretti dei contorni delle cose (cfr. N. Taddei, L’immagine, oggi, nella vita, Milano 1967, p. 95-99). È superfluo notare come in questa visuale si superi qualsiasi pericolo di tralasciare nell’immagine il suo aspetto espressivo-comunicativo. Il linguaggio verbale invece si serve di segni che sono direttamente segni di concetti. Le stesse immagini verbali non sono diretta manifestazione di contorni, bensì rappresentano tutt’al più l’oggetto attraverso i concetti dei contorni; perciò le immagini verbali sono sempre immagini in senso traslato e mai in senso proprio”.32 Il linguaggio contornuale, tipico dell’immagine tecnica, “ha cambiato profondamente il modo di recepire e di comunicare”.33 Segno concettuale e segno contornuale differiscono per N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 1, p. 137. G. Neffari, Difendersi dai mass media, Edizioni Edav, Roma s.d., p. 20. 32 F. Cacucci, Teologia dell’immagine. Prospettive attuali, II edizione riveduta, Edizioni i7 – Centro dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale, Roma 1971, p. 143-144. 33 N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 2, p. 259. 30 31 note 41 note 42 luglio 2010 - anno X il fatto che il primo, per convenzione (come la parola, il simbolo, certo tipo di gesti, ecc.), significa direttamente concetti a differenza del segno contornuale che significa direttamente “contorni”. Quest’ultimo, infatti, rappresentando i contorni delle cose rappresentate, ovvero gli aspetti materiali e sensibili delle cose (immagini di vario genere, grafici, certi altri tipi di gesto) comunica “ per naturalità” proprio “ riproducendo nei propri contorni i contorni della cosa di cui è direttamente segno”.34 Così Gianfranco Neffari illustra tali concetti della Metodologia Taddei: “Di questi segni alcuni hanno un dato significato in forza di una convenzione (perché gli uomini si sono messi d’accordo cosi): per es. le parole parlate o scritte, i simboli, alcuni gesti; altri invece, soprattutto l’immagine, esprimono un significato per il modo con cui riproducono i contorni delle cose, cioè in forza di connaturalità (perché le immagini riproducono questi contorni di loro natura e in qualche modo). I contorni sono gli aspetti sensibili (visivi, uditivi, tattili, gustativi, olfattivi) attraverso i quali le cose che ci circondano si manifestano, si fanno conoscere per quello che sono: per es. una sedia si manifesta per ciò che è attraverso la sua forma, quindi i suoi contorni visivi”.35 E Cacucci sottolinea anche altri aspetti: “Il linguaggio verbale invece si serve di segni che sono direttamente segni di concetti. Le stesse immagini verbali non sono diretta manifestazione di contorni, bensì rappresentano tutt’al più l’oggetto attraverso i concetti dei contorni; perciò le immagini verbali sono sempre immagini in senso traslato e mai in senso proprio. In definitiva, giacché sia il linguaggio verbale che quello dell’immagine sono strumenti materiali per la comunicazione di una realtà spirituale, cioè dell’idea intesa in senso largo (per l’idea in senso largo, Taddei intende ‘qualsiasi prodotto dell’uomo in quanto essere intellettivo’; differente è l’idea in senso stretto, cioè il verbum mentis), sussiste sempre una sproporzione tra la realtà che deve essere comunicata (spirituale) e la realtà che comunica (materiale)”.36 Il segno contornuale ha esso stesso contorni “non nel senso in cui anche il segno verbale ha contorni o sonori o grafici (quei contorni, cioè, che tutte le cose hanno e quindi anche N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 1, p. 90. “Analogamente – continua Taddei - il linguaggio concettuale e quello che esprime, strutturando i propri segni secondo una struttura la quale mutua la propria forza espressiva dalla convenzione; mentre il linguaggio contornuale è quello che esprime, strutturando i propri segni secondo una struttura la quale mutua la propria forza espressiva dal modo in cui le cose stesse e la realtà esprimono il proprio significato. È struttura convenzionale (quindi linguaggio concettuale) che p.e. nella lingua tedesca il verbo anteposto al soggetto esprima la forma interrogativa o che, in italiano, le preposizioni debbano precedere e non seguire il sostantivo. È invece struttura di naturalità (e quindi linguaggio contornuale) che due eventi susseguentisi e mostrando un certo tipo di rapporto (p.e. pistola che spara e uomo che cade) esprimano causalità, oppure - con altro tipo di rapporto - contrarietà o incompatibilità. Non necessariamente quindi il linguaggio concettuale è fatto di segni concettuali e non necessariamente il linguaggio contornuale è fatto di segni contornuali”. Ibid. p. 90-91. 35 G. Neffari, Difendersi dai mass media, Edizioni Edav, Roma s.d., p. 20. 36 F. Cacucci, Teologia dell’immagine. Prospettive attuali, II edizione riveduta, Edizioni i7 – Centro dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale, Roma 1971, p. 144. 34 l’immagine, essendo una “cosa”, ha); bensì nel senso che riproduce in se stesso certi contorni delle cose”. Nel “fare doppio” i contorni delle cose (secondo il significato etimologico del termine immagine) il segno contornuale racchiude l’aspetto del riprodurre quei dati contorni in modo che siano riconoscibili e l’aspetto di riprodurli in un certo modo esprimendo, così, i contenuti mentali (contenuto idealogico) del comunicante.37 Sulla differenza tra contorni della cosa rappresentata e contorni dell’immagine Cacucci precisa: “I contorni rappresentati dall’immagine non sono i contorni reali della cosa in se stessa. Chi vede un’immagine crede di vedere la realtà rappresentata, ma in realtà vede qualcosa prodotta da altri allo scopo di comunicare la propria idea. I contorni dell’immagine sono infatti plasmati secondo la mente dell’autore. La risposta, che ora risulta più chiara, al nostra problema è che ’il linguaggio dell’immagine esprime idee attraverso il modo in cui l’opera di linguaggio è costruita’ (N. Taddei, L’immagine, oggi, nella vita, Milano 1967, p. 98)”.38 Il linguaggio dell’immagine (tecnica) “non va confuso con ‘linguaggio di immagini’ (cioè figurative o iconiche), quale ritroviamo p.e. nella cosiddetta catechesi delle cattedrali, nella tradizionale illustrazione di testi stampati od orali (p.e. i cartelloni in uso nelle scuole), nel puro e semplice fatto di far vedere visivamente, anziché descrivere verbalmente, un’azione o una vicenda o un evento o altro”.39 Taddei lo avverte all’inizio della suo Panorama Metodologico (Educare con l’immagine, qui più volte citato) e lo ribadisce successivamente evidenziando, già nel 1976, gli errori di natura metodologica, anche con riferimento alla scuola ove indica due grossi gruppi d’errore metodologico: fermarsi alla tecnica “credendo che ciò sia tutto” e “ignorare che gli audiovisivi comunicano attraverso il linguaggio dell’immagine”.40 “Orbene, ‘linguaggio dell’immagine’ anzitutto non va confuso con ‘linguaggio di immagini iconiche’; in secondo luogo, l’immagine tecnica iconica non va presa solo come ‘rappresentazione’, bensì va considerata soprattutto come ‘espressione’; finalmente anche il suono o il testo verbale vanno considerati ‘immagine’quando vengono proposti da strumenti audiovisivi. Questi due fondamentali gruppi d’errore metodologico stanno affiorando anche da noi, ora che ci si sta aprendo alle nuove tecnologie. Ne sono prova, p.e., certi insegnamenti di ‘materie integrative’ nella scuola dell’obbligo, dove per ‘fotografia’ si intende quasi esclusivamente l’insegnare l’uso della macchina e dei sistemi fotografici (ripresa, sviluppo e stampa); per ‘giornalismo’, si intende più o meno il far fare un giornaletto o il mettere in mano un registratore per interviste; per ‘ televisione’ si intende il far fare delle inquadrature con la telecamera portatile o il servirsi della TVCC (circuito chiuso) solo per far vedere in un’aula quello che Nella Metodologia Taddei, il primo aspetto è chiamato “Contorni uno (C1)” e il secondo “Contorni due (C2)”. Per un approfondimento cfr. N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 1, p. 118-119; 121-135. Si pensi (e si provi, se possibile) a vedere la diversità di “dizione” che l’inquadratura di uno stesso evento assume se è fatta in modo verticale o orizzontale. 38 F. Cacucci, Teologia dell’immagine. Prospettive attuali, II edizione riveduta, Edizioni i7 – Centro dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale, Roma 1971, p. 149. 39 N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 1, p. 9-10. 40 Cfr. N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 2, p. 280-281. 37 note 43 44 note luglio 2010 - anno X succede in un altro luogo o cose del genere. C’è addirittura chi, non solo cade dalle nuvole, ma si acciglia se un insegnante chiede di poter fare qualcosa che sia metodologicamente più conforme a ciò che dovrebbe essere l’introduzione degli audiovisivi nella scuola”.41 Ed ancora “L’immagine è oggi il nuovo linguaggio e non solo più intenso sussidio iconico. Essa pone notevoli problemi in sede linguistica, psicologica, sociologica, antropologica, filosofica. Il linguaggio dell’immagine non è solo linguaggio di immagini, bensì linguaggio per contorni anziché per concetti. L’immagine non è la realtà rappresentata, né esattamente la contiene; talvolta ne è solo rappresentazione materiale. Ma essa è segno della mente dell’autore che se ne serve per esprimerlo”.42 Non è questa la sede per illustrare “grammatica e sintassi” del linguaggio dell’immagine. La Metodologia Taddei della Lettura strutturale e la Strategia dell’Algoritmo contornuale sono le risposte alla necessità sempre più urgente dell’Educazione a l’immagine e di Educazione con l’immagine che sono i due momenti che vanno a coprire l’attività educativa richiesta dalla nuova realtà culturale della società contemporanea. La terminologia specifica è creata da Taddei. Educare a l’immagine significa educare a leggere l’immagine; a cogliere non solo l’informazione materiale (o narrativa) che essa contiene, ma a cogliere il pensiero diretto o indiretto dell’autore dell’immagine. Poiché il linguaggio dell’immagine tecnica ha introdotto un nuovo modo di comunicare (per cui perfino il linguaggio verbale assume una nuova dimensione) ed è come se si parlasse una lingua diversa è necessaria l’educazione a. Alcuni brevi cenni possono aiutare a cogliere qualche caratteristica del linguaggio contornuale. L’esposizione avviene per accostamento o giustapposizione degli elementi (ad es. i fotogrammi di un film l’impaginazione di un giornale, di un telegiornale ecc.) in modo tale che il significato risulti proprio da quell’accostamento. Tramite l’accostamento, ad esempio, viene tradotto nel linguaggio dell’immagine il rapporto di causalità: un’immagine successiva connessa con la precedente in un certo modo esprime di fatto il perché.43 Il significato balza fuori esclusivamente dalla connessione secondo la “struttura di naturalità” precedentemente descritta con le parole dello stesso Taddei che sull’argomento afferma inoltre: N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 2, p. 281. N. Taddei s.j., Presentazione, in F. Cacucci, Teologia dell’immagine. Prospettive attuali, II edizione riveduta, Edizioni i7 – Centro dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale, Roma 1971, p. 12. 43 Dal punto di vista della lettura, oltre al criterio dell’accostamento va anche evidenziata l’importanza della composizione figurativa o figurazione che “è lo schema per così dire geometrico che le forme visive dell’immagine stabiliscono all’interno di essa. Possiamo avere vari tipi di composizione e, di conseguenza, diverse significazioni: circolare - per dare il senso che le persone comunicano tra loro – comunione; a triangolo, per portare l’attenzione verso il vertice del triangolo; a linee parallele, per dare il senso che le persone non comunicano tra loro, incomunicabilità; a linee orizzontali, per dire realtà terrena; a linee verticali, per dire slancio verso il cielo, realtà trascendente. Anche il posto che la cosa rappresentata (cioè il soggetto) occupa nell’immagine contribuisce a conferirle il maggiore o minore peso espressivo” (G. Neffari, Difendersi dai mass media, Edizioni Edav, Roma s.d., p. 48). 41 42 “Nel linguaggio contornuale, le significazioni risultano per giustapposizione di elementi e non per connessioni logiche interne (come invece avviene nel linguaggio concettuale: avverbi, preposizioni, ecc.). In esso, p.e., c’è solo il presente; non ci sono avverbi come ‘perché’, ‘benché’, ‘nonostante’, ‘ieri, oggi, domani’. Tutte queste relazioni di tempo, di modo, di causa, ecc. vanno espresse mediante oggetti, azioni, situazioni che le esprimano a livello narrativo. P.e.: la frase: ‘Sono stanco perche ho lavorato sei ore filate’ in linguaggio contornuale diventerà ‘Sono stanco. Ho lavorato sei ore filate’; oppure ‘Ho lavorato sei ore filate. Sono stanco’ (ma si noti la differenza di significato tra la prima e la seconda versione: questo proprio per la natura del linguaggio contornuale). Il “perché” salta fuori dalla connessione; ma come si vede non ha il rigore logico dell’espressione verbale (avendo tuttavia altri pregi, quale quello della maggiore incisività ed efficacia).”44 Un altro aspetto è la presentazione per contorni del significato di ciascun elemento, oltre a una componente di comunicazione per elementi emotivi o esistenziali e una di comunicazione per risultanza idealogica o per integrazione psicologica soggettiva.45 Altri aspetti riguardano le de/formazioni del segno contornuale che vanno intese come passaggio da forma a forma. Si pensi alle stesse parole di un articolo di giornale scritte a mano, dattiloscritte con un certo carattere o un altro, impaginate in un giornale con le caratteristiche entipologiche assegnate da chi ha la responsabilità di quei dati spazi. In ogni passaggio il testo avrà assunto una forma diversa e chi lo leggerà se lo ritroverà “carico” di tutte quelle modalità che il giornale avrà assegnato (dalla scelta della pagina rubrica/alla collocazione nella pagina, al titolo dato, alla scelta del carattere, al corredo o meno di foto con o senza didascalia).46 Le de/formazioni riguardano, ad esempio, quel certo modo (Contorni 2 o C2) di riprodurre i contenuti mentali. Esse rappresentano il/i come della cosa rappresentata (Contorni 1 o C1). Ovviamente, il discorso ha bisogno di approfondimenti specifici; sono, comunque, i fattori dell’espressività a cui Taddei dedica un intero capitolo del suo Educare con l’immagine.47 N. Taddei, s.j., Papa Wojtyla e la ‘nuova’ cultura massmediale, cit., p. 56. Quanto alla componente emotiva o esistenziale va evidenziato che l’immagine darà una comunicazione tanto più obiettiva circa la conoscenza dei contorni della cosa rappresentata quanto meno essa offre quegli elementi contornuali che suscitano in noi il senso di attrazione/repulsione. Nella componente per risultanza idealogica la comunicazione dipenderà molto dal contesto sia della stessa immagine, sia del modo in cui viene presentata. La componente di integrazione psicologica soggettiva, infine, nasce dal rapporto tra ciò che l’immagine presenta e le conoscenze previe già possedute dal recettore circa quell’argomento. Ad esempio, l’informazione data dalla foto di una donna con un registro scolastico sotto il braccio in un corridoio, può essere integrata dal recettore con maestra oppure bidella, a seconda dell’aspetto generale di quella persona. 46 Tra l’altro, ad esempio, si tenga presente che il prodotto finale di un giornale o telegiornale è l’espressione di un comunicante collettivo. 47 Cfr. N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 1, p. 121-135. Su questo e su altri aspetti si veda la pubblicazione di 29 pagine di Adelio Cola in cui vengono illustrati e spiegati alcuni importanti criteri metodologici. Cfr. A. Cola, Leggere la Realtà. Piccola guida al “comunicare bene”, Milano 2008, consultabile e scaricabile da http://www.edav.it/DOCS/leggere_la_realta.pdf 44 45 note 45 note 46 luglio 2010 - anno X L’importanza e la necessità di una riflessione di tipo scientifico sui vari aspetti della comunicazione è legata anche al fatto che la maggior parte delle conoscenze avviene per comunicazione e non per esperienza diretta. Inoltre, il fatto che l’immagine comunica attraverso i contorni della cosa rappresentata fa scambiare la rappresentazione con la cosa rappresentata ovvero l’immagine con la realtà. È questa la radice del problema:48 “l’equivoco, ch’è alla base anche della massificazione: il recettore crede di conoscere la realtà, almeno per come appare nell’immagine, mentre di fatto egli riceve un’interpretazione di quella stessa realtà, ma non se ne accorge”.49 E, sintetizzando, Taddei ci tiene ad evidenziare, con il primo dei tre assiomi, che “il Segno di una cosa non è quella cosa: la parola mamma non è la mamma; la notizia di un evento non è quell’evento; l’immagine di una pistola non è una pistola; il film di una storia, non è la storia che il film narra”.50 Ed aggiunge: “anche il Segno è una cosa; quindi anche nel Segno troviamo le caratteristiche delle “cose”; p.e. il costo, il peso, la lunghezza ecc. di un film sono aspetti del suo essere ‘cosa-segno’. Se consideriamo invece il Segno come ‘segno-cosa’, la sua ‘quiddità’ è quella di ‘significare’ - cioè esprimere - il contenuto mentale che il suo autore vi ha impresso. Lo si coglie leggendo la struttura dei fattori linguistici tipici di ciascun linguaggio”.51 Vanno anche ricordate le de/formazioni tecniche legate alla macchina e quindi, all’aspetto semiotico che ha ricadute sul piano semiologico per il fatto che l’immagine è autonoma 50 51 48 49 Occorre sempre distinguere, ovviamente, gli aspetti/contorni della realtà da quelli dell’immagine. N. Taddei, s.j., Papa Wojtyla e la ‘nuova’ cultura massmediale, cit., p. 56. Ibid., p. 54. Ibid. Taddei parla di “una varietà di linguaggi specifici: il cinematografico, il fotografico, il televisivo, il, radiofonico, il grafico ecc. Tutti sono linguaggio ‘dell’immagine’ e più precisamente ‘dell’immagine tecnica’, ma non tutti lo sono allo stesso modo. P.e. fotografia, cinematografia e televisione hanno in comune gli elementi connessi col fatto che una macchina sia in grado di riprodurre direttamente i contorni visivi delle cose rappresentate, attraverso un obiettivo, una collocazione della macchina nello spazio nei confronti della cosa ripresa e una posizione angolare sempre nei confronti di questa, ecc. Ma immediatamente la fotografia diverge dalle altre due tecniche perché ha l’immagine fissa (che concentra in un istante il movimento della cosa rappresentata), mentre le altre due hanno l’immagine dinamica (che distende il movimento in una realtà spaziotemporale). Così, la fotografia - per il fatto di essere immagine fissa - si assimila all’immagine grafica o pittorica o altra del genere, le quali però non hanno la caratteristica di riprodurre direttamente i contorni delle cose. Esse infatti riproducono, nei propri contorni, i contorni dell’immagine mentale che delle cose rappresentate s’è fatta l’autore. Esse hanno propri contorni o iconici (disegno, pittura) o grafici (caratteri a stampa), che, dei contorni della cosa rappresentata, sono riproduzione semantica ma non semiotica.” (N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 2, p. 229-230). Sul linguaggio del cinema e sulla lettura strutturale del film si veda N. Taddei s.j., Dalla comunicazione alla lettura strutturale del film, Edav, Roma 1995. Il volume, pubblicato a dispense allegate al mensile Edav, è molto prezioso per la parte metodologica iniziale dalla quale si passa alla lettura strutturale del film; ambedue le parti sono molto chiare e documentate nei diversi passaggi. mente espressiva. Taddei ricorda “l’isolamento che della realtà fa il Primo Piano fotografico, l’alterazione semantica che di un certo evento fa l’uso di una certa musica, l’indicazione informativamente erronea che dà l’uso di un grandangolare o di un lungofocale al posto d’un obiettivo normale” ed aggiunge: “Queste de/formazioni tecniche diventano praticamente, in mano all’autore del segno, gli strumenti dell’espressione, i mezzi concreti dei quali egli si può (e spesso, si deve) servire per poter esprimere in immagini la propria idea. Come si vede, dunque, il discorso delle de/formazioni è basilare nello studio del segno, proprio come segno, cioè come veicolo o strumento d’espressione; mentre quello delle deformazioni diventa importantissimo quando si tratta di studiare la validità di una comunicazione”.52 3.1 Dalle comunicazioni inavvertite alla “lettura” In sintesi davvero estrema, i punti fondamentali per leggere i media sono la lettura del cosa e quella del come (cioè dei modi espressivi con cui il cosa è rappresentato) da cui scaturisce il perché. Di qui è possibile arrivare all’idea dell’autore racchiusa nel segno espresso. Nella lettura del come si passano al vaglio critico le comunicazioni inavvertite legate intimamente ai Contorni 2 ovvero proprio ai come della rappresentazione. Le comunicazioni inavvertite sono idee allo stato d’opinione che fanno mentalità; proprio perché sono inavvertite, il recettore non si accorge di riceverle (né come fatto né come contenuto) e quindi non è in grado di vagliarle. Esse, perciò sono alla base della mentalità massmediale che è spersonalizzante.53 Tali deformazioni ci informano della cosa rappresentata o, comunque, di certe cose in una maniera che non si riscontra nella realtà. Le comunicazioni vengono, così, generalmente ricevute senza essere poste al vaglio critico e, per la loro suggestività, possono produrre una particolare abitudine a considerare la realtà sotto l’angolo di visuale legato a quel modo di essere fittizio; la finzione entra nel nostro modo di vedere le cose; ne sono esempio la pubblicità di vario genere, ma non solo. (Si pensi agli effetti spettacolari usati nei film che stanno diventando anche “modalità espressive” dell’informazione televisiva). Un altro esempio (legato a tutti gli slogan) è la bugia semiologica che, a differenza della normale bugia, consiste nel dire cose false utilizzando elementi veri e, perciò è detta semiologica; esempi di bugia semiologica sono gli slogan e, perciò, occorre essere attenti a non 52 53 N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 1, p. 132-133. Tre sono generalmente i tipi di comunicazione inavvertita che provocano l’effetto di massificazione: 1. comunicazione clandestina: è l’insorgere di un fatto idealogico (cioè, dell’idea) nella mente dello spettatore, senza che questi avverta consciamente di ricevere quella comunicazione, cioè di entrare in possesso di quell’idea; 2. comunicazione di inesistente: consiste nel fatto che il recettore/spettatore colga come esistente - cioè come vero e reale - quello che non lo è. Un esempio è il rapporto di grandezza o distanza in una foto o in un filmato; 3. comunicazione alonata: è la comunicazione ottenuta sfruttando in modo accentuato il fenomeno della de/formazione, come p. es. nelle riprese al rallentatore, nelle angolazioni particolari, nell’uso di obiettivi particolari o in certi accostamenti visivo - sonori (una bella musica a “commento” di immagini normali) ecc. note 47 note 48 luglio 2010 - anno X farsi catturare da essi ma anche ad usarli in qualsiasi campo ed, in particolare, in quello della comunicazione religiosa. La “lettura”, comunque, va fatta ai vari livelli ai quali la comunicazione può avvenire ed in particolare: “a)livello dell’ informazione materiale. È il livello più immediatamente percepibile: […] La lettura si mostra necessaria già a questo livello, poiché l’informazione può essere de/formata a causa del tipo di segno usato. Le de/formazioni sono particolarmente importanti nell’immagine tecnica, poiché - proprio per la sua natura sia semiotica sia semiologica - tale immagine è strutturata in base alle de/formazioni tecniche, che appunto per questa diventano espressive; b) livello della comunicazione tematica: cioè l’idea del comunicante, voluta o non voluta (ma - a questo livello - generalmente voluta), espressa bene o male, buona o cattiva, morale o immorale ecc.; e) livello delle comunicazioni inavvertite, quelle cioè che entrano nello spettatore senza che egli se ne accorga. Non sono propriamente da confondere con le comunicazioni subliminali, che s’appoggiano ad una causa neurofisiologica, mentre quelle di cui noi, qui, parliamo operano in base a una combinazione semiologico-psicologica”. 54 Una brevissima considerazione può essere utile sul piano della comunicazione religiosa: si può capire come il fermarsi al primo livello, quello dell’informazione materiale (immediatamente percepibile) non aiuti a rimandare alla trascendenza. Sarebbe come fermare l’attenzione sul dito e non sull’indicazione che viene data attraverso quel dito. Su tali aspetti (e particolarmente sul secondo), è opportuno richiamare quanto Pio XII, afferma, nel 1955, sulla rappresentazione del male in uno dei due discorsi (purtroppo poco conosciuti) e identificati come Discorsi sul film ideale .55 Se ne riportano alcuni passi rimandando ai due testi integrali. Così Pio XII nel 1955: N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 1, p. 163. Approfondendo il campo della comunicazione subliminale Taddei, dopo aver affermato che “non va confusa con le comunicazioni inavvertite [… e che] la ‘subliminale’ è costituita sostanzialmente da un processo di percezione sensitiva, legata quindi esclusivamente, come origine, al sistema nervoso; mentre le ‘comunicazioni inavvertite’ hanno diretta origine conoscitiva psico-intellettiva”, rimanda a “due ottimi saggi con esempi del Prof. Patrizio Borella dell’Università di Firenze in ‘Edav (Educazione Audiovisiva)’, nn° 45 e 50, 1977, CiSCS, Roma” (N. Taddei, s.j., Papa Wojtyla e la ‘nuova’ cultura massmediale, cit., p. 38, nota 2). 55 Pio XII, nel 1955, tratta della rappresentazione del male in uno dei due discorsi (purtroppo poco conosciuti) e identificati come Discorsi sul film ideale. Il Papa tenne i due discorsi il 21 giugno 1955 Ai rappresentanti dell'Industria Cinematografica Italiana ed il 28 ottobre 1955 Ai rappresentanti dell'Unione Internazionale degli Esercenti Cinema e della Federazione Internazionale dei Distributori di film. I due discorsi sono consultabili http://www.vatican.va /holy_father/pius_xii/ apost_exhortations/documents/hf_p-xii_exh_25101955_ideal-film_it. html. Sull’argomento si veda lo studio approfondito di Dario Viganò. Cfr. D.E. Viganò, Pio XII e il cinema, Ente dello Spettacolo, Roma 2005. 54 “Il secondo quesito circa il contenuto del film ideale di azione riguarda la rappresentazione del male: è permesso scegliere, e con quali cautele si deve trattare il male e lo scandalo, che senza dubbio hanno una parte così importante nella vita dell'uomo? […] Dar forma artistica al male, descrivere la sua efficacia e il suo sviluppo, le sue vie aperte e occulte, con i conflitti che esso genera o attraverso i quali avanza, ha per molti un quasi irresistibile fascino. Si direbbe che, in sede di narrazione e di rappresentazione, molti non saprebbero attingere altrove l'ispirazione artistica né l'interesse drammatico, se non dal regno del male, anche se soltanto come sfondo per il bene, come ombra da cui balzi più netta la luce. A questa attitudine psichica di molti artisti corrisponde una analoga negli spettatori, della quale abbiamo già discorso. Orbene, può un film ideale assumere come contenuto un tale oggetto? I più grandi poeti e scrittori di tutti i tempi e di tutti i popoli si sono occupati di questa difficile e cruda materia, e lo faranno anche in avvenire. Una risposta negativa a tale domanda è naturale, qualora la perversità e il male sono offerti in ragione di loro stessi; se il male rappresentato risulta, almeno di fatto, approvato; se esso è descritto in forme eccitanti, insidiose, corrompitrici; se è mostrato a coloro che non sono in grado di dominarlo e di resistergli. Ma quando non si dà alcuno di questi motivi di esclusione; quando il conflitto col male, ed anche la temporanea sua vittoria, in rapporto con tutto l'insieme, serve alla più profonda comprensione della vita, della retta sua direzione, del controllo della propria condotta, del chiarimento e consolidamento nel giudizio e nell'azione; allora una tale materia può essere scelta e intrecciata, come parziale contenuto, nella intiera azione del film stesso. Si applica a questo il medesimo criterio che deve sovraintendere ad ogni simile genere artistico: la novella, il dramma, la tragedia, e ogni opera letteraria. Anche i Libri Sacri del Vecchio e del Nuovo Testamento, quale fedele specchio della vita reale, ospitano nelle loro pagine le narrazioni del male, della sua azione ed influsso nella vita dei singoli, come in quella delle stirpi e dei popoli. Anch'essi lasciano penetrare lo sguardo nel mondo intimo, spesso tumultuoso, di quegli uomini; raccontano i loro falli, il loro risorgimento o la loro fine. Pur essendo rigorosamente storica, la narrazione ha spesso l'andamento dei più forti drammi, i colori foschi della tragedia. Il lettore resta colpito dalla singolare arte e dalla vivezza delle descrizioni, che, anche soltanto sotto l'aspetto psicologico, sono incomparabili capolavori. Basta ricordare i nomi: Giuda, Caifa, Pilato, Pietro, Saulo. Ovvero dall'epoca dei Patriarchi: la storia di Giacobbe, le vicende di Giuseppe in Egitto in casa di Potifar; dai libri dei Re: I'elezione, la riprovazione, la tragica fine del Re Saul; ovvero la caduta di David e il suo pentimento; la ribellione e la morte di Assalonne; e innumerevoli altri eventi. Là il male e la colpa non sono dissimulati da ingannevoli veli, ma narrati come in realtà accaddero; eppure anche quella porzione di mondo contaminato dalla colpa è avvolta da un'aura di onestà e di purezza, diffusavi da chi, pur fedele alla storia, non esalta, né giustifica, ma evidentemente stimola a condannare la perversità; in tal guisa la cruda verità non suscita impulsi o passioni disordinate almeno in persone mature. Al contrario: il lettore serio diviene più riflessivo, più chiaroveggente; il suo animo, ripiegandosi su se stesso, è indotto a dirsi: "Bada che anche tu non sii indotto in tentazione" (cfr. Gal 6, 1); "Se stai in piedi, bada di non cadere" (cfr. 1Cor 10, 12). Tali conclusioni non sono suggerite soltanto dalla Sacra Scrittura, ma sono anche patrimonio di antica saggezza e frutto di amara esperienza. Lasciamo dunque che anche il film ideale possa rappresentare il male: colpa e caduta; ma che lo faccia con intenti seri e con forme convenienti, così che la sua visione aiuti ad approfondire la conoscenza della vita e degli uomini e a migliorare ed elevare lo spirito. Rifugga dunque il film ideale da ogni forma di apologia, e tanto meno di apoteosi del male, e dimostri la sua riprovazione in tutto il corso della rappresentazione e non solo nella chiusa, che giungerebbe spesso troppo tardi, dopo cioè che lo spettatore è già stato adescato e sconvolto da cattivi incitamenti”. note 49 50 note luglio 2010 - anno X 3.2I tre assiomi della Metodologia Taddei Alcune importanti premesse di carattere generale circa il linguaggio dell’immagine sono racchiuse nei tre assiomi: 1. L’immagine di una seggiola non è una seggiola 2. Dietro ogni segno c’è sempre un’idea o contenuto mentale 3. Un’idea (o conoscenza) è sempre “esistenziale”. Al primo assioma si è accennato in precedenza. Senza tener presente la differenza tra immagine e realtà (l’immagine della realtà non è la realtà) “eppure non si riesce a cogliere nessuna comunicazione o informazione, soprattutto se fatta di immagini”. Importantissimo quanto Taddei aggiunge spiegando che “Ne segue che conoscere qualcosa ‘per comunicazione’ (cioè attraverso segni) non è conoscere direttamente le cose di cui il segno tratta”. L’importanza pratica di questo assioma si capisce pensando che quasi tutte le nostre conoscenze circa quanto avviene nel mondo ci arrivano, oggi, “per comunicazione”, cioè praticamente attraverso i mass-media. Quindi dobbiamo stare ben attenti a credere di conoscere quello che avviene nel mondo: di fatto, noi conosciamo solo “le notizie” di quello che succede; vale a dire, le interpretazioni che qualcuno ci dà su quello che questo qualcuno vuol farci conoscere di quanto avviene nel mondo”.56 Sulla differenza tra la rappresentazione della cosa e la cosa rappresentata nel Trattato di teoria cinematografica (1963) evidenzia la loro distinzione reale e non solo logica, il loro essere “due realtà ontologicamente distinte e diverse [… (che)] vanno prese ciascuna per quello che sono”:57 N. Taddei, s.j., Papa Wojtyla e la ‘nuova’ cultura massmediale, cit., p. 68. Questo primo assioma va “letto” così come è espresso. Non si riferisce direttamente a falsificazioni di vario tipo (fotografiche, audio e video) né ad interventi correttivi come fotoritocchi e o fotomontaggi su foto o anche su video (di uso ormai talmente comune che sul web alcuni ragazzi si offrono di farli anche gratuitamente paghi di dimostrare la loro bravura mentre qualche altro dimostra la propria “professionalità” facendosi pagare, anche se poco). Tali circostanze possono essere ricondotte a questo primo assioma; le prime, in particolare, riguardano patologie della comunicazione (quando non sono censurabili o punibili dal punto di vista legale). In questi casi, comunque, cambia anche l’idea sottesa alla immagine di partenza. 57 Molto interessante il recente intervento di Eugenio Bicocchi sulla differenza, in Taddei, “tra concettualizzazione della sua teoria e il linguaggio al quale affidava il compito di comunicarla”. Come afferma Bicocchi “Brevissimamente: prima le idee, poi il linguaggio” e nota: “Al contrario, Umberto Eco, con l’ultima frase del romanzo Il nome della rosa dà un’esemplare summa di nominalismo: ‘Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus’. La rosa, nel suo senso originario – prima di tutto si potrebbe anche dire – sta nel nome “rosa”, ma noi poi ci troviamo a stringere tra le mani nudi nomi. È evidente la differenza filosofica col Taddei, per il quale i nomi (che vengono dopo il pensiero) contengono idee e quindi non sono nudi. Proseguendo si dovrebbe, a questo punto, parlare delle idee. Non è questa la sede. Basterà un cenno. Per cert’uni le idee sono ‘altro’ rispetto alle cose; quindi noi, potendo conoscere solamente idee non siamo in grado di conoscere il mondo. Per il Taddei il pensiero, pur essendo altro dalla realtà, è fatto per ‘mordere’ la realtà e quindi per conoscerla. Anche se la conoscenza si dispiega in una gamma amplissima di 56 “È quindi necessario ben distinguere tra l’immagine (o rappresentazione) e l’oggetto rappresentato da quell’immagine; distinguere cioè tra rappresentazione della cosa e cosa rappresentata. L’importanza di questa distinzione sta nel fatto che essa è una distinzione reale e non solo logica, il che significa che le due cose (rappresentazione e cosa rappresentata) sono due realtà ontologicamente distinte e diverse. Ne segue che sotto qualsiasi angolo visuale le si considerino, queste due realtà vanno prese ciascuna per quello che sono: come la fotografia di un diamante non potrà mai essere un diamante (anche se in qualche caso eccezionale quella fotografia potrà divenire più preziosa e più costosa dello stesso diamante rappresentato, p. e. perché documento di un’innocenza in un processo o perché fotografia di valore storico o artistico incalcolabile), cosi la fotografia di un reato o di un peccato non potrà mai essere quel reato o quel peccato, anche se - per ipotesi - fotografare un certo reato possa essere reato a sua volta, come potrebbe succedere, p. e., a chi fotografa un segreto militare che consista in un reato contro le leggi internazionali”.58 L’assioma, può richiamare il celebre quadro di René Magritte (1929) in cui è dipinta una pipa a cui, sotto, è accostata la frase “Ceci n'est pas une pipe” (questa non è una pipa). Ovviamente, Magritte si riferiva al rapporto tra la pittura (riproduzione di un’immagine mentale) e la realtà e non alla fotografia (che riproduce i contorni delle cose).59 Un po’ di anni fa una nota casa produttrice di pellicole fotografiche (e non solo) basò la sua pubblicità sull’“effetto di realtà” dato dai suoi prodotti come un cane che aveva in bocca la foto di un osso invece che un osso vero e un gatto che tentava di catturare il pesciolino rosso allungando la zampa sulla foto di un piccolo acquario in cui il pesciolino si muoveva.60 Il secondo assioma evidenzia che “dietro ogni segno, sia esso parola o immagine, c’è sempre l’idea dell’autore del segno; vale a dire l’interpretazione personale che l’autore dà della cosa di cui parla”. Nel segno verbale è più facile accorgersi di questo61 mentre “è più facile cascare nell’equivoco quando si tratta di immagini. Siamo infatti abituati a pensare che il significato di un’immagine consista in ciò che essa rappresenta. Invece, ogni immagine ‘rappresenta’ sì, ma anche ‘esprime’; ed esprime per il fatto di ‘rappresentare’ in 58 59 60 61 livelli”. (E. Bicocchi, La Teoria di Nazareno Taddei: un contributo linguistico, “Edav (Educazione Audiovisiva)”, n. 381, giugno 2010, p. 19, 20. L’intero articolo è alle p. 19-24). N. Taddei, Trattato di teoria cinematografica. I. L’immagine, Collana Epoca dell’immagine diretta da Nazareno Taddei, Edizione i7, Milano 1963, p. 24-25. Sarebbe interessante approfondire una serie di altri aspetti collegati tipo l’accostamento, nel quadro, tra immagine mentale espressa mediante la pittura e le parole (anch’esse dipinte). C’è differenza tra questo tipo di accostamento e quello dato da una foto a cui si aggiunge una didascalia, come nella stampa d’informazione; in questo caso si tratta dell’accostamento di due immagini tecniche. Ma qui il discorso diventerebbe lungo. Taddei utilizzò tali immagini nel suo Come il consumismo vede la famiglia, 47 dia sonorizzate più guida, Vicenza 1980, ed. Cipielle-CiSCS. Per segno verbale qui si intende, tout court, la parola parlata. Essa non va confusa con il sonoro (parlato) di un telegiornale. In quest’ultimo caso si tratta di un’immagine audiovisiva in cui il parlato è un contorno sonoro (uditivo) legato a un contorno visivo. I criteri da applicare, quindi, non sono più quelli della parola parlata ma quelli dell’immagine. note 51 52 note luglio 2010 - anno X un certo modo”. Anche l’importanza di questo secondo assioma appare facilmente: noi crediamo di venire a conoscere una cosa, perche l’abbiamo vista in fotografia o al cinema o alla tv. Di fatto, quello che veniamo a conoscere in tal modo è limitato e, molto spesso, corrisponde solo in piccola parte alla realtà, perché, divenendo immagine, la cosa ha subito una ‘deformazione’ dovuta proprio al fatto di essere rappresentata. Quello che invece ci viene comunicato è l’interpretazione che di quella cosa ci ha dato l’autore dell’immagine.62 È molto opportuno sottolineare la ‘deformazione’ che una cosa subisce divenendo immagine, “una ‘deformazione’ dovuta proprio al fatto di essere rappresentata”, afferma Taddei. Questo è altrettanto importante quanto scambiare l’immagine con la realtà. Si può affermare che l’immagine tecnica, (più semplicemente la fotografia) riesce ad accomunare il linguaggio concettuale (anche iconico come un disegno, un quadro, un’opera d’arte) e il linguaggio contornuale riducendo tutto a quest’ultimo. In breve, riproducendo in foto delle parole (processo, ad esempio, che avviene in modo più complesso nella stampa di informazione o di propaganda) quel testo verbale deve essere “letto” a livello di testo verbale (secondo i canoni del linguaggio concettuale) e a livello di immagine (utilizzando i canoni del linguaggio contornuale). Lo stesso dicasi per un’immagine tecnica che riproduca un disegno o un quadro d’autore. Nel comunicare con l’immagine non sempre può andar bene comunicare un concetto facendo vedere, ad esempio, la foto di un quadro di autore se non lo si fa in modo metodologicamente corretto. Si rischia di dire a parole una cosa ed esprimere, tramite l’immagine tecnica, un altro concetto. Anche questo aspetto sembra banale ma è alla base di tante comunicazioni non corrette e, aggiungerei, eticamente non positive perché non vere. Al di là di tali esemplificazioni, sul piano metodologico, Taddei osserva: “L’immagine è ‘rappresentazione’, ma è anche ‘espressione’: espressione non già della cosa che rappresenta (questa é rappresentazione), bensì dell’idea che l’autore dell’immagine ha voluto esprimere - consciamente o inconsciamente - con quella rappresentazione, fatta in certo modo. Generalmente, ci si ferma a considerare l’immagine per ciò che rappresenta e non per ciò che ‘esprime’; in altri termini, ci si ferma ai C1 e non si bada ai C2, che sono quelli (determinati, consciamente o inconsciamente, dall’autore) che portano la rappresentazione di una cosa ad essere vera espressione di un’idea. L’annotazione è particolarmente importante per i mass-media, che hanno alla base 1’‘immagine tecnica’: il non attendere a questo aspetto che sembrerebbe banale è all’origine delle comunicazioni inavvertite”.63 Il terzo assioma sottolinea il fatto che “un’idea (o conoscenza) è sempre ‘esistenziale’”; l’assioma “rivendica l’esistenzialità sia dell’autore sia del recettore della comunicazione”. L’esistenzialità è definita da Taddei come “tutti i fattori che compongono la nostra personalità” (carattere, grado/tipo di intelligenza, istruzione ed educazione ricevute, ambiente socioculturale, disposizioni psicologiche o fisiche del momento, ecc.). L’esistenzialità, afferma, si può chiamare anche soggettività, ma N. Taddei, s.j., Papa Wojtyla e la ‘nuova’ cultura massmediale, cit., p. 68. N. Taddei, s.j., Papa Wojtyla e la ‘nuova’ cultura massmediale, cit., p. 62. 62 63 “non si deve confondere ‘soggettività’ con ‘soggettivismo’. Quest’ultimo - ch’è un aspetto negativo, mentre la soggettività è un fatto naturale e quindi, di per sé, positivo - si ha quando la soggettività prevale talmente da inquinare o addirittura da compromettere o impedire una conoscenza vera. Non solo; bensì il soggettivismo fa sì che uno sia convinto che le cose stiano come le vede lui e non come sono di fatto”.64 4.Mentalità massmediale e colonizzazione dei cervelli Volutamente si è voluto trattare della mentalità massmediale e della colonizzazione dei cervelli dopo i riferimenti alla “lettura” del linguaggio dell’immagine (comune a tutti i media) e prima dell’educazione con l’immagine. La lettura è la soluzione legata all’educazione a mentre la Strategia dell’Algoritmo è legata all’educazione con. Ambedue sono, per così dire, di liberazione dalla mentalità massmediale e dalla schiavitù mentale. 65 4.1 Mentalità massmediale e massificazione La mentalità massmediale è il prodotto delle comunicazioni inavvertite in quanto, come già detto, è originata dalle idee allo stato di opinione (veicolate proprio dalle comunicazioni inavvertite) che sembrano patrimonio innato sviluppando così una sorta di pseudorazionalità o di a-razionalità: “le ‘comunicazioni inavvertite’ producono mentalità e, di conseguenza, condizionano il comportamento. Tramite le ‘comunicazioni inavvertite’ (informazioni alonate, comunicazioni di inesistente, comunicazioni clandestine) vengono passate le idee ‘allo stato d’opinione’, tipiche della ‘mentalità’”.66 Le idee allo stato d’opinione, quindi, costruiscono la mentalità massmediale.67 Proprio perché sono inavvertite, non ci si accorge di riceverle e non è possibile il discernimento e il vaglio critico; di conseguenza, la mentalità che si forma è spersonalizzante. La comune mentalità imposta dai media (che, per loro natura, producono comunicazioni inavvertite) porta a un comune modo di pensare e di giudicare che sfocia nel fenomeno della massificazione. Taddei definisce la massificazione come Ibid., p. 69. Sulla formazione dell’opinione pubblica si veda N. Taddei s.j., Formazione dell’opinione pubblica in “Edav – educazione audiovisiva, sussidio mensile di educazione all’immagine e con l’immagine – CiSCS”, n. 137-138. 66 Cfr. N. Taddei, s.j., Papa Wojtyla e la ‘nuova’ cultura massmediale, cit., p. 39. Sull’argomento si veda anche CiSCS, Scuola educazione e mentalità massmediale. Atti del Convegno 1988, Edav, Roma. 67 Sulla mentalità massmediale si veda N. Taddei, s.j., Papa Wojtyla e la ‘nuova’ cultura massmediale, cit., p. 74-85; N. Taddei, Mass media, evangelizzazione e promozione umana, Ed. CiSCS, Roma, 1976; G. Neffari, Difendersi dai mass media, Edizioni Edav, s.d., p. 22. 64 65 note 53 54 note luglio 2010 - anno X “il fenomeno per cui, a causa delle comunicazioni inavvertite che creano mentalità, la gente diventa ‘massa’, perché pensa con la mentalità che le è stata praticamente inoculata e imposta dai mass-media. La massificazione non diminuisce le nostre capacità di intelligenza e di critica; però ce le fa esercitare su piani fasulli. E quindi le conclusioni difficilmente sono valide. L’esempio del giornale che attribuisce una varia qualifica di ‘importanza’ alle varie notizie indipendentemente dalla loro importanza effettiva, e che noi recepiamo in maniera assolutamente acritica, è uno dei casi più clamorosi e più frequenti della nostra vita quotidiana”.68 e definisce massa “una moltitudine di persone obbediente a un leader, che si illude d’aver liberamente eletto, caratterizzata da un denominatore comune interiore — a differenza della folla, che ha un denominatore comune esteriore, come il luogo che, nel caso dei mass-media, è un denominatore comune mentale, cioè la ‘mentalità’.69 In particolare, quindi, relativamente ai due termini va evidenziato che il fenomeno della massificazione si realizza quando i media, rivolgendosi a una moltitudine di persone creano massa, cioè creano una mentalità massmediale che accomuna quella moltitudine di persone imponendole un leader (anche se sembra essere liberamente scelto). L’equivoco che è alla base della massificazione è quello che si crede di conoscere la realtà, almeno come appare nell’immagine, mentre, di fatto, il recettore riceve solo un’interpretazione di quella stessa realtà, ma non ce ne se accorge.70 La strumentalizzazione è invece lo sfruttamento della massificazione per far pensare e agire la gente secondo quello che il potere, che attua questo stato di cose, desidera (ad esempio, il consumismo che crea bisogni fittizi per vendere i prodotti del potere commerciale). È una vera e propria schiavitù mentale. La mentalità massmediale “sconvolge i canoni e i parametri della concezione del mondo con i quali siamo cresciuti nella nostra civiltà occidentale, la quale è tipicamente concettuale”.71 Alcuni atteggiamenti e comportamenti conseguenti relativi alla mentalità massmediale possono essere: l’apparire al posto dell’essere; il riferimento a valori che non esistono e che, magari, sono giustificati da un “fanno tutti così”; i comportamenti rispondenti a stereotipi con cui ci si identifica e che funzionano da modelli; capovolgimento della scala dei valori (è buono ciò che è bello ed il piacere al posto del valore, ovvero una cosa vale perché piace); confondere l’educazione e la cura del bambino col suo benessere materiale; superficialità nell’esprimere giudizi; sentimentalismo invece che sentimento e sua predominanza sulla ragione; criteri di scelta in base a valori estrinseci alla cosa e non legati alla sua qualità (ad es., comprare un prodotto non per la sua bontà ma per gli omaggi o in base al messaggio pubblicitario); semplicismo nelle soluzioni del tipo legato a narrazioni e/o alla sua spettacolarità dell’immagine; faciloneria, superficialità, disabitudine 70 71 68 69 N. Taddei, s.j., Papa Wojtyla e la ‘nuova’ cultura massmediale, cit., p. 79. Ibid., nota 5. Cfr. Ibid., p. 59. Ibid., p. 75. allo sforzo, al sacrificio, allo studio, al chiedersi il perché delle cose; pretesa di saper fare una cosa perché la si è vista fare e non perché si è imparato a farla; pretesa di saper già tutto, anche senza essersi applicati e, come conseguenza, difficoltà ad applicarsi nelle cose; informazione rapida con conseguente scarsa obiettività; protagonismo, anche se vuoto; voglia di parlare e di essere ascoltati e non di ascoltare (forse anche frutto di una specie di senso di solitudine); soggettivismo esasperato che porta anche al non-rispetto dell’altro; vedere o tutto bianco o tutto nero, senza possibilità di posizioni intermedie; l’impulso del momento e l’irrazionalità come primo motore del comportamento; il gruppo come scarico delle responsabilità.72 Sarebbe molto interessante collegare in maniera diretta tali elementi/comportamenti connessi con la mentalità massmediale con le modalità espressive dei media e le comunicazioni inavvertite nelle loro concrete espressioni. Sono argomenti e rilevazioni che emergono, di volta in volta, dalla “lettura strutturale” correttamente impostata, durante seminari, esercitazioni, corsi. Ad esempio, il soffermasi su aspetti episodici e/o fenomenologici senza cogliere il contesto e la quiddità può essere certamente messo in relazione con la selezione/isolamento della realtà prodotta dall’obiettivo della macchina fotografica o altra apparecchiatura simile. Molti altri comportamenti sono in relazione diretta alla spettacolarizzazione di qualsiasi cosa dal gioco alle problematiche più serie alla politica e alla religione spesso classificata nel paranormale o nei misteri inspiegabili. Taddei riassume tutti gli elementi caratterizzanti la mentalità massmediale nel prendere il ciò che appare per il ciò che è e il ciò che si sente per il ciò che vale. Afferma inoltre che “combinando poi queste sollecitazioni massmediali con gli istinti (che si combinano anche con alcune ideologie di destra o di sinistra che sono invalse in questi decenni), nasce: cercare il dominio anziché il servizio; rifuggire dal riconoscere l’autorità; ritenersi padroni e non amministratori della propria vita; pretendere tutto dagli altri e niente da sé; quindi solo diritti e non doveri; ecc.”.73 Oggi rispetto al corpo e alla corporeità, un modo di riferirsi è quello legato al fitness piuttosto che al benessere psicofisico della persona; sulla salute è prevalente la mentalità del tenersi in forma (esteriore) per cui è poi difficile farsi capire sui temi bioetici come anche fare pastorale della salute. Né ci si può affidare a risposte manualistiche. Non mancano altre osservazioni in campo civile come in quello ecclesiale: “In campo civile, abbiamo la ricerca a tutti i costi del benessere e dei propri comodi; quindi il prevalere del senso egoistico e di disonestà; il rifiuto di accettare osservazioni anche giuste e il ritenersi padroni di fare tutto quello che si vuole, solo perché se ne ha voglia; il disimpegno, lo sconvolgimento dei valori; la maleducazione intesa come democrazia; l’ordine inteso come autoritarismo; il potere al posto del servizio; la confusione di idee del pubblico come strumento di potere; l’interesse proprio al posto della verità e della giustizia; il tutto diritti e nessun dovere e quindi il senso di irresponsabilità, i disservizi, lo scaricabarili. Ma c’è un Cfr. G. Neffari, Difendersi dai mass media, cit., p. 25; N. Taddei, s.j., Papa Wojtyla e la ‘nuova’ cultura massmediale, cit., p. 74. 73 N. Taddei, s.j., Papa Wojtyla e la ‘nuova’ cultura massmediale, cit., p. 76. 72 note 55 56 note luglio 2010 - anno X punto gravissimo, del quale si stanno facendo responsabili anche molti educatori cattolici: il prendere il dato di fatto come dato di diritto (“Ormai, tutti fanno così…”). Così si diseduca e si corrompe, in buona fede, credendo di educare adattandosi alle nuove circostanze”.74 In Educare con l’immagine, a metà degli Anni Settanta, scriveva: “Questo contenuto della mentalità da mass media deriva - sommariamente - dalla caratteristica del linguaggio contornuale di esprimere per giustapposizione anziché per connessione logica. Le applicazioni di tale caratteristica essendo innumerevoli e continue, e inserendosi esse nel carattere emotivo della comunicazione dei mass media, un po’ alla volta si perde l’abitudine a domandarsi il perché delle cose, a introdurre il criterio della reazione al fatto emotivo e stabilire connessioni in base, non a logica, ma ad accostamenti esteriori. Affine a questo criterio o contenuto di mentalità massificata e quello del ‘vale ciò che piace a me; ciò che non piace a me non ha diritto di valere’ oppure quello del porre ciò che “si sente” come criterio o motivo di comportamento o di decisione. Quante volte, oggi, l’unica ragione che vediamo dare di certe azioni è il ‘mi va’ o il ‘non mi va’!”75 Un giudizio abbastanza articolato sulla mentalità massmediale, sulla cultura di massa sui meccanismi dei media che inavvertitamente diventano modelli e su un certo modo di non soffermarsi sull’evidenza della differenza tra immagine e realtà è contenuto nelle prime pagine del Panorama metodologico parlando di ‘scuola extrascuola’: “… cultura di massa, si noti bene, che sta colorando anche le cosiddette persone di cultura. Queste, nel loro specifico campo di competenza non mutuano comunemente dai mass media i propri contenuti idealogici; ma insensibilmente vengono penetrate sempre più dalla mentalità che promana da quelle fonti. Talvolta ciò può avere influsso perfino sullo specifico campo della loro competenza, offrendo determinati contenuti o determinate angolazioni sulla realtà che li circonda (p.e. il fenomenologismo esagerato, il soggettivismo, l’evasione intellettualistica del gioco ‘realta-finzione’ e ‘finzione-realtà’, il dividersi in ‘i nostri’ e ‘i non nostri’ (si vedano p.e. tutti i giochi politici nei vari settori della vita contemporanea, ecc.; ma comunque li tocca nella vita cotidiana ed esistenziale. Queste persone sanno cogliere generalmente - e con accesa sensibilità - gli aspetti consumistici e deteriori della comunicazione di massa, quindi praticamente il fenomeno della strumentalizzazione; ma molto spesso sono atone all’aspetto cruciale che risiede - in fondo - dietro alla semplicissima e banale e lapalissiana costatazione che l’immagine di una seggiola non è una seggiola”.76 4.2La colonizzazione dei cervelli La colonizzazione dei cervelli può sembrare un fenomeno legato al più recente sviluppo dei media vecchi e nuovi, in particolare per la loro pervasività sempre crescente. Così la schiavitù mentale è presentata nel 1976 (quando, per riferirsi ai tempi della tv, in Italia non erano ancora esplose le tv private): Ibid. N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 2, p. 208. 76 N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 1, p. 18. 74 75 “A causa della tipica natura di tale linguaggio (contornuale o dell’immagine tecnica), i nuovi mezzi di comunicazione di massa (detti appunto “ mass media “) sono massificanti, alienanti, disinformanti. Gli apporti - talvolta meravigliosi - che essi possono dare alla cultura, all’educazione e anche alla pastorale nell’epoca contemporanea si possono avere solo a condizione che vengano ‘letti’, cioè che venga superata la barriera delle de/formazioni e delle comunicazioni inavvertite che essi —. per la tipica natura di quel linguaggio —forniscono al recettore. Altrimenti, non solo si perde la ricchezza che essi possono offrire, bensì si trasformano in causa di schiavitù mentale”.77 Ancor prima, presentando nel 1972 il corso universitario di Teoria della comunicazione di massa, Taddei – allora docente alla Pontificia Università Gregoriana e all’Università di Sassari - nota che “la comunicazione odierna tra gli uomini è fortemente sorretta ma anche condizionata, dalle nuove tecniche capaci di riprodurre e di diffondere rapidamente e in grande quantità immagini e suoni”. In tali tecniche – egli afferma - i media offrono una grande diffusione contemporanea ai propri ‘messaggi’ ma “costituiscono anche fatto semiologico autonomo a causa del ‘linguaggio dell’immagine’ (non: ‘di immagini’) o ‘linguaggio per contorni’ che essi usano di loro natura”. E, quindi, “tale duplice base fa sì che i mass-media - pur congiuntamente ad altri fattori - condizionino il modo di concepire, di pensare e di esprimersi dell’uomo contemporaneo, provocando il fenomeno della massificazione e della colonizzazione dei cervelli. Così, un fatto di linguaggio costituisce la radice imprescindibile del più imponente fenomeno antropologico-sociale della epoca contemporanea, caratterizzandone la cultura, quale quella della schiavitù mentale sotto un effettiva anche se non facilmente individuabile oligarchia. Ciò si verifica di per sé anche indipendentemente dai contenuti ideologici o idealogici dei mass-media come ‘messaggi’ e come organizzazione. Il nostro corso di ‘teoria della comunicazione’ vuol dar ragione di questa situazione reale e sconvolgente, ma spesso inconosciuta nella sua vera natura; e insieme indicare delle ipotesi o delle tesi di soluzione per la liberazione dell’uomo contemporaneo da detta schiavitù”.78 Strumentalizzazione o colonizzazione dei cervelli è il fenomeno per cui il comunicante sfrutta volutamente tale possibilità a proprio vantaggio. Scrive Taddei che “per colonizzazione si intende quel fenomeno storico mediante il quale alcuni popoli (o enti o organizzazioni) sono riusciti a dominare altri popoli, portandovi in qualche modo le proprie istituzioni. Parlando di “colonizzazione dei cervelli”, parliamo di un fenomeno analogo in cui ciò che viene dominato (= occupato, sfruttato) è il cervello delle masse; vale a dire: alcuni (persone o enti od organizzazioni) prendono possesso dei cervelli altrui facendoli pensare ciò che essi vogliono che pensino e sfruttando poi ai loro fini tale possessione. In questo fenomeno pertanto si devono considerare alcuni fattori: a) il ‘dominio’. I colonizzatori dominano nel vero senso della parola i dominati, perché di fatto fanno far loro ciò che essi vogliono; b) il ‘carattere mentale di tale dominio’. Il dominato agisce nel modo impostogli, 77 78 N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 1, p. 9-10. N. Taddei s.j., Mass media e libertà, Corso di teoria della comunicazione di massa. Appunti (Pontificia Università Gregoriana e Università di Sassari), dispensa dattiloscritta ciclostilata, Libreria Dessì, Sassari 1972, p. 1. note 57 58 note luglio 2010 - anno X per il fatto che egli stesso “la pensa cosi” (ora). Egli pertanto non avverte di essere dominato. Crede di essere libero, mentre di fatto non lo è.; c) lo ‘sfruttamento di tale dominio’. I dominatori ricavano una utilità dal dominio che essi esercitano. Il dominato praticamente li serve. Si tratta di una schiavitù vera e propria; inavvertita per di più”.79 In estrema sintesi, parlando di mezzi di comunicazione di massa, si può affermare che il termine massa non solo indica che i media, per loro natura, raggiungono le masse ma anche che essi “fanno massa”, per cui la massificazione è quel fenomeno per cui la gente di oggi è fatta massa dall’opera dei media ed essa avviene perché i media dando, per loro natura, idee allo stato di opinione, formano la mentalità massmediale.80 Tale mentalità da mass media è spersonalizzante (perché offre un bagaglio di idee che non si è potuto vagliare e, quindi fare coscientemente proprie) e schiavizzante (perché la mentalità costituisce per gran parte - l’80% secondo gli specialisti - il criterio principe del modo di agire). Infine la strumentalizzazione sta nell’usare i media per portare l’uomo dove si vuole. Essa può essere di tipo consumistico, ideologico, partitico ecc. 5.Lettura dei media ed uso del loro linguaggio La “lettura” dei media e l’uso del loro linguaggio è la proposta della Metodologia Taddei “per un’ecologia mentale dell’uomo contemporaneo”. Sull’educazione a l’immagine si sono fatti numerosi riferimenti trattando dei diversi aspetti.81 Se serve, è bene chiarire che educare a l’immagine non è, quindi, più genericamente, educare ai media e a usare la tecnologia. I bambini oggi sanno fare meglio; spontaneamente, ad esempio, “usano il pollice” e sanno individuare immediatamente, nel linguaggio iconico, il filo rosso e le finalità di un videogioco.82 Già nel 1976 in Educare con l’immagine Taddei osservava che N. Taddei, Mass media e libertà, Dessì Sassari, 1972, p. 175. Sempre in sintesi, si può affermare che le caratteristiche della mentalità da mass media possono racchiudersi nell’imposizione di criteri di valutazione; nei comportamenti secondo modelli e stereotipi; nel ragionare per emozioni; in una mentalità materialistica di fatto legata ad una visione mensurale, episodica, quantitativistica (e, quindi, materialistica) del mondo. 81 Cfr. N. Taddei s.j., Introduzione alla lettura strutturale dei mass media, Dispensa n. 61, Edizioni CiSCS, Roma 1976. Poderosa e didatticamente molto intelligente, utile ed efficace è l’opera in videolibri finalizzata all’educazione a e con. N. Taddei s.j., Corso di educazione all’immagine e con l’immagine, Videolibro in 8 volumi con 65 nuclei, 255 lucidi e Libro-guida per l’insegnante in 3 voll., Ed. CiSCS, Roma s.d. 82 Quando si parla di educazione immediatamente la mente si sposta sul bambino. L’educazione a l’immagine certamente è una cosa utilissima e doverosa per i bambini come indicano i Programmi della Scuola elementare del 1985 che introducono la nuova disciplina dell’Educazione all’immagine poi diventata una sorta di altra disciplina legata all’espressività del fanciullo. Sarebbe molto interessante approfondire le motivazioni che hanno portato ad allontanarsi dalla finalità originaria per la quale tale disciplina fu introdotta. Un articolo di Scuola Italiana Moderna del 1985 nel 79 80 “sono alunni di quella grande scuola contemporanea che sono i mass media: sono nati nell’epoca dell’immagine, ragionano con la testa (mentalità) loro formata dai mass media; sono in grado, psicologicamente, di cogliere solo un discorso fatto col linguaggio dell’immagine tecnica”.83 Approfondire, insegnare, conoscere la tecnologia della comunicazione è una cosa davvero utile specie se fatto in modo serio senza ridurre il tutto nel rincorrere le novità seguendo l’onda delle comunicazioni inavvertite e della mentalità massmediale. La differenza è chiara dopo quanto illustrato circa la Teoria dell’informazione e la Teoria della comunicazione. Non è questa la sede per illustrare la lettura strutturale dei media, oggetto, ovviamente, di corsi, seminari ed esercitazioni specifiche ed impegno, allo stesso modo di quanto può essere richiesto per comprendere una lingua diversa dalla propria (educazione a) e parlarla (educazione con). Qui, in breve, può essere affermato che la lettura è mezzo indispensabile per neutralizzare (o, almeno, limitare) gli effetti negativi della mentalità massmediale portando, ad esempio, a livello conscio e ragionato quanto le comunicazioni inavvertite fanno passare a livello, appunto, inavvertito essendo criteri mentali inavvertitamente accettati. Leggere vuol dire cogliere il Segno (verbale o iconico o, comunque, l’immagine) non solo nei suoi aspetti materiali, bensì nei suoi aspetti significanti e arrivare cosi all’idea del lungo sottotitolo osservava che “I ragazzi d’oggi hanno più confidenza con il linguaggio delle immagini che con quello verbale. È compito degli educatori aiutarli a prendere consapevolezza del linguaggio che recepiscono ogni giorno (dalla televisione, soprattutto) e a parlare meglio questo linguaggio, a padroneggiarlo. Ciò significa saper esaminare le idee, le emozioni, i contenuti che i produttori audiovisivi, mediante le immagini, impongono quotidianamente ai fruitori di ogni età. La scuola deve insegnare non solo a “leggere” ma anche a “scrivere” il linguaggio audiovisivo”. (L. Castellani, Prima alfabetizzazione audiovisiva. Imparare ad usare il linguaggio delle immagini, “Sim - Scuola Italiana Moderna”, n.5, 15 novembre 1985, p. 20ss.). L’educazione a l’immagine non è solo opera diretta ai bambini ma è necessaria, specialmente oggi, anche a tutte le età vista la continua evoluzione dei nuovi linguaggi. Nei confronti dei bambini sono da lodare le iniziative che veicolano l’adozione di filtri protettivi rispetto al web. Un esempio è davide.it che offre un accesso filtrato ad internet (www.davide.it). Altri programmi di parental control (vengono così denominati i software progettati per la protezione e la sicurezza durante la navigazione sul web dei più piccoli) possono essere scaricati da http://download.html.it/categorie/start/68/windows/ protezione-bambini/. Va anche notato, però, che la protezione, anche efficace, sposta solo nel tempo il problema dell’educazione a l’immagine che, successivamente, va affrontato in termini di “lettura”. A tal proposito, riguardo all’approccio dei minori alla tecnologia e alle sue funzioni ho assistito, con mia moglie, alla “consulenza” che un ragazzo di scuola media (forse seconda media a giudicare dal cambiamento di voce) forniva a due docenti circa l’acquisto di un computer illustrando caratteristiche e funzioni in maniera molto professionale consigliando anche sull’aspetto economico. Significativa la fine del colloquio con l’indicazione del ragazzo ai due docenti: “Studiatevi i tutorial. Ce ne sono un sacco. Scegliete quelli che vi interessano. Magari poi ci risentiamo” (!). 83 N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 1, p. 14. note 59 note 60 luglio 2010 - anno X comunicante senza interpretazioni lasciata alla soggettività, alla sensibilità e alla cultura personale e non alle “regole” della lettura.84 In breve, per fare un esempio concreto, ci si può riferire alla lettura del giornale (di lettura strutturale) il cui punto di arrivo è innanzitutto cogliere l’idea dell’autore di quella data notizia arrivando a conoscere, cioè, l’idea centrale intorno alla quale si è sviluppata l’idea dell’autore dell’articolo e quella del giornale. Questo avviene individuando i come dei due livelli: quello dell’autore dell’articolo (come egli interpreta l’evento di cui parla o ciò che lui intende comunicare con quell’articolo) e quello del giornale (come è fatto il titolo, scelta delle parole, dei caratteri, della collocazione in una data rubrica/pagina, nell’uso di foto e/o grafici, negli articoli collocati vicini ecc.). Oltre all’idea dell’autore, per quanto possibile (e proprio attraverso la notizia e come è data), va colto l’evento di cui la notizia tratta.85 Allo stesso modo (salvo gli aspetti legati alla semiotica diversa) va letto, ad esempio, un telegiornale in cui l’impaginazione è data dalla sequenza delle notizie ed i titoli sono, in genere, annunciati prima dei diversi servizi. Qui, più chiaramente, anche se non ci si fa caso, si può notare la distinzione tra l’intervento della testata - redazione/redattore - e quello dell’autore del dato servizio. Va anche notato quanto Taddei stesso precisa in alcune Note sulla nostra metodologia: “La nostra metodologia non è solo la base di un metodo per leggere i film o i mass media. Bensí è un complesso di criteri che stanno alla base di un metodo per raggiungere un determinato scopo. E lo scopo che noi ci proponiamo è la formazione dell’uomo secondo libertà e dignità nel particolare contesto odierno, in cui – soprattutto per mezzo dei mass media – l’uomo è fatto oggetto di pressioni e oppressioni di vario genere e in particolare dell’oppressione mentale, di cui ci si serve per strumentalizzarlo nei vari settori della vita sociale e individuale e quindi anche economica e politica” (http://www.edav.it/archivio/il_metodo_taddei.asp). 85 Le fasi della lettura sono tre: la lettura del testo verbale e delle eventuali illustrazioni in quanto testo e illustrazioni (lettura della vicenda); lettura degli elementi entipologici cioè dei modi in cui testo ed eventuali illustrazioni sono collocati e stampati (lettura del racconto); lettura dell’evento con il passaggio dal segno-giornale alla realtà conosciuta dal comunicante (nei due passaggi che hanno portato al segno-giornale). Va tenuto presente che tale evento è conosciuto indirettamente (“per comunicazione” e non “per esperienza diretta”). Sono, ovviamente, indicazioni di massima come di un indice generale di un libro; è necessario esercitarsi perché si tratta di liguaggio specifico (appunto dell’immagine o contornuale) anche se - si può dire, per capire il senso di queste affermazioni – “in apparenza” sembra solo italiano. Sulla lettura strutturale del giornale cfr. N. Taddei s.j., Lettura strutturale del giornale, Dispensa n. 71, Edizioni CiSCS, Roma 1982; N. Taddei s.j., Lettura Strutturale del giornale, Ed. CiSCS, Roma 1993; N. Taddei s.j., Lettura Strutturale del giornale, 2a parte, Ed. CiSCS, Roma 1994. Si veda anche una serie di articoli di Taddei pubblicati su Edav - Educazione audiovisiva, sussidio mensile di educazione all’immagine e con l’immagine dal CISCS. Questi i titoli ed i riferimenti: Il giornale nella scuola, (Edav, n. 96, febbraio 1982); Leggere il giornale, (n. 97, marzo 1982); Il giornale e il suo autore, (Edav, n. 98, aprile 1982); Il giornale come testimone (Edav, n. 99, maggio 1982); Il segno e il giornale, (Edav, n. 100, giugno 1982); Scelte delle parole e degli spazi (Edav, n. 103, novembre 1982); Esercitazione di lettura (Edav, n. 104, dicembre 1982). 84 Leggere, in tal modo, sviluppa il senso critico, la capacità di concentrazione e di riflessione e offre la possibilità di liberarsi dalla massificazione e dalla strumentalizzazione. Le conseguenze derivanti dalla mancanza della lettura sono quelle riscontrabili abbastanza comunemente oggi e che si è tentato brevemente di illustrare. “Se l’educazione a l’immagine si presenta dunque come necessità di fine per ridare all’uomo contemporaneo la sua libertà mentale compromessa dalla massificazione e dalla conseguente strumentalizzazione (colonizzazione dei cervelli) indotta dai mass media, l’educazione con l’immagine si presenta quale necessità di mezzo per ogni ulteriore - e necessario - passo educativo, dopo quello appunto dell’educazione all’immagine”.86 Circa l’educazione con l’immagine ci si soffermerà brevemente solo su alcuni riferimenti sintetici utili a completare le problematiche metodologiche di base e a passare a quanto riguarda il fare comunicazione avendo presente, innanzitutto, il contesto educativo – principalmente legato all’istruzione - al quale Taddei si riferisce per la Strategia dell’Algoritmo contornuale. Taddei sottolinea che educazione con l’immagine è argomento diverso da quello dell’educazione a l’immagine anche se i riferimenti metodologici di base sono gli stessi. In particolare va evidenziato che il punto di collegamento tra i due campi, veramente distinti, è quello dell’immagine tecnica che è alla radice dei mass media e dei suoi conseguenti fenomeni (disinformazione, massificazione, strumentalizzazione). Va ricordato, perciò, che le problematiche sono semiologiche (proprio perché legate all’immagine tecnica); diversamente si corre il rischio di contribuire a tutte quelle conseguenze negative precedentemente esposte con il pericolo (e la sicurezza, talvolta) di non essere capiti per il fatto che si parla un linguaggio diverso da quello del recettore. Così, poi Taddei: “Entrando ora nel campo dell’ ‘educazione con l’immagine’, l’angolo prospettico è il seguente: oggi, la gente - e quindi anche e soprattutto i giovani - sono abituati al linguaggio contornuale (quello appunto dell’immagine tecnica) che ha cambiato profondamente il modo di recepire e di comunicare. È quindi necessario servirsi di tale linguaggio se si vuol riuscire a comunicare. E poiché l’istruzione e l’educazione sono sostanzialmente comunicazione, anche in queste è necessario adottare il linguaggio contornuale. Ma in questi specifici campi ci incontriamo non tanto con i mass media, quanto con i group media, cioè con i cosiddetti audiovisivi. Il problema dell’educazione odierna, pertanto, si presenta - sotto questo profilo - nel modo seguente: a) i mass media sono diventati praticamente una scuola extrascuola, che però non può sostituire la vera scuola (per i motivi addotti nelle premesse del primo volume di questo ‘Panorama’); d’altra parte, essi possono dare veri contributi alla formazione culturale degli individui. Di qui la necessità di tener conto anche nell’istruzione e nell’educazione del fenomeno dei mass media e di provvedere a un’educazione a l’immagine. È questa 86 N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 1, p. 13. note 61 62 note luglio 2010 - anno X infatti che permette di annullare, o almeno attenuare, gli aspetti negativi dei mass media e di poterne invece utilizzare e valorizzare i contributi positivi; b) i mass media hanno indotto un nuovo modo di comunicare, legato all’uso del linguaggio contornuale dell’immagine tecnica che essi usano. Di qui la necessità di usare, anche nell’istruzione e nell’educazione, il linguaggio contornuale dell’immagine tecnica, proprio per poter farsi intendere e poter quindi comunicare”.87 E conclude definendo innanzitutto l’educazione con l’immagine: “L’educazione con l’immagine consiste appunto in una comunicazione educativa realizzata con il linguaggio dell’immagine. Per realizzare però tale comunicazione sono necessari i group media, cioè gli audiovisivi. Ma nel contesto di tale azione educativa, si potranno usare talvolta anche i mass media e i self media. Detto questo, è ovvio che dobbiamo tener conto anche di tutte le problematiche che interessano più genericamente i campi dell’istruzione e dell’educazione. L’immagine tecnica e il suo linguaggio, infatti, si riferiscono solo al veicolo comunicativo; anche se questo, come vedremo, ha larga incidenza su tutta la dimensione del fenomeno”.88 Educare con l’immagine significa, quindi, insegnare a usare l’immagine come mezzo espressivo, caricandola, cioè, di quel determinato contenuto mentale. Per questo è necessaria una preparazione adeguata, anche minimale – afferma Taddei - “purché correttamente impostata”. Si tratta di competenza specifica che si acquisisce con lo studio e con l’esperienza. In genere, invece, sono considerati esperti quanti rivestono un particolare ufficio e/o che dicono ciò che uno vuole sentirsi dire. È quello che Taddei definisce l’equivoco della competenza. Tornando all’educazione con l’immagine, è utile soffermarsi su alcuni elementi essenziali della Metodologia Taddei dell’Algoritmo contornuale definendo i termini e rimandando gli approfondimenti ad altri contesti. L’algoritmo è definito come “una serie rigida di operazioni che permettono di risolvere tutti i problemi di una certa classe data”. Di conseguenza, Strategia dell’Algoritmo è quell’insieme di operazioni necessarie per fare comunicazione attraverso l’utilizzazione organica e sistematica dei mezzi a disposizione per raggiungere lo scopo.89 Nel campo dell’istruzione (intesa come comunicazione), tali operazioni sono di insegnamento e i problemi sono di natura didattica e, di conseguenza, l’algoritmo sarà il concreto insegnamento/comunica- N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 2, p. 259-260. Ibid., p. 260-261. 89 Sulla strategia dell’algoritmo cfr. N. Taddei s.j., Educare con l’immagine. Panorama metodologico di educazione all’immagine e con l’immagine, cit., vol. 2, p. 295 - 311. Si veda, inoltre, il recentissimo ed interessante articolo del prof. Gabriele Lucchini, docente di Matematica nell’Università degli Studi di Milano: G. Lucchini, Strategia dell’algoritmo: Storia e attualità di un metodo, Edav, educazione audiovisiva, sussidio mensile di ‘lettura’ dei media e d’uso dei loro linguaggi fondato da p. Nazareno Taddei, n. 381, giugno 2010, p. 25-29. L’articolo è completato da riferimenti bibliografici e sitografici. 87 88 zione di un certo contenuto (nell’insegnamento, tradotto anche in lezioni90) con cui ci si prefigge di ottenere l’apprendimento. Il percorso relativo all’istruzione permette di descrivere la Strategia dell’algoritmo nelle sue parti facilitando, così la sua applicazione in altri campi. Fasi propedeutiche, necessarie alla formulazione del Programma Didattico ed al passaggio dal Programma all’Algoritmo, sono la definizione dell’Obiettivo e quattro Organigrammi (diagramma schematici delle operazioni necessarie per ottenere un certo risultato): l’Organigramma Logico, quello Psicologico, il Pedagogico e l’Espressivo. In particolare: • l’Obiettivo è la specificazione precisa del tipo di apprendimento di una precisa materia (o punto di essa) da parte di una precisa popolazione scolastica.91 L’aggettivo “precisa”, ripetuto tre volte, indica la necessità di stabilire esattamente lo scopo che si vuole raggiungere proprio da quella data popolazione scolastica attraverso quel dato algoritmo. L’Obiettivo, perciò, dovrà essere formulato avendo presente tutto quanto concerne la disciplina e il tipo di apprendimento che si vuol far conseguire all’alunno; • l’Organigramma Logico è uno strumento di lavoro valido per qualsiasi analisi di realtà e non solo per la strategia dell’algoritmo. Avendo come riferimento l’istruzione, l’Organigramma Logico è definito come la materia da apprendere, vista nella sua organicità, come materia, ma in funzione dell’apprendimento. Esso si articola come Organigramma Logico in se stesso (strumento valido per qualsiasi tipo di analisi, dato dal diagramma schematico delle operazioni necessarie a identificare la struttura logica di un dato contenuto di conoscenza), Organigramma Logico per poter fissare con esattezza il preciso contenuto dell’Obiettivo,92 ed, ancora, Organigramma Logico da istituire ad un preciso punto del particolare processo strategico che si sta adottando,93 passaggi che indicano la particolare cura richiesta ai diversi livelli; L’algoritmo può essere applicato sia a un intero corso che a una breve lezione per la quale, ovviamente, si richiede una maggiore precisione. 91 N. Taddei s.j., Papa Wojtyla e la ‘ nuova’ cultura massmediale, cit., p. 108, nota 5. 92 Si realizza attraverso quello che Taddei definisce il gioco del cosa-come-perché. In particolare, considerando il cosa si prende in esame quello che la cosa è diversamente dal come (il modo in cui quella cosa si presenta) e dal perché (la ragione per la quale la cosa si presenta in quel modo, cioè, il suo significato). Ad esempio, il tavolo dal punto di vista del cosa è un mobile (cioè, un manufatto di arredamento); dal punto di vista del come può essere definito come un piano sostenuto da gambe; dal punto di vista del perché è così (il suo significato) il tavolo è quel mobile adatto per appoggiarvi cose, in modo accessibile e comodo per chi gli si sieda a fianco. Cfr. N. Taddei s.j., Papa Wojtyla e la ‘ nuova’ cultura massmediale, cit., p. 47. 93 I criteri precedentemente descritti vanno utilizzati al preciso punto della strategia dell’algoritmo in cui ci si trova ed applicati a quel preciso contenuto previsto dall’obiettivo. Nell’applicazione di tali criteri vanno fissate le precise operazioni (algoritmo) che si dovranno fare per la specifica disciplina o parte di essa. 90 note 63 64 note luglio 2010 - anno X • l’Organigramma Psicologico è il diagramma schematico della situazione psicologica (temperamento, capacità, ecc.) di quella data popolazione scolastica destinataria dell’apprendimento in funzione dell’insegnamento preciso che si intende dare;94 • l’Organigramma Pedagogico riguarda la scelta della strategia didattica più idonea a far apprendere i contenuti di quella precisa disciplina a quella precisa popolazione suddividendo i contenuti secondo un prima e un poi, cioè secondo sistemi/strategie (quali la strategia imitativa, l’euristica, la creativa) scegliendo quale sistema pedagogico da seguire nell’insegnamento di quella data disciplina (tenendo sempre presente la natura della disciplina stessa e quella della popolazione a cui ci si rivolge). • l’Organigramma Espressivo aiuta a stabilire con accuratezza quale mezzo espressivo scegliere per rendere più concretamente accessibile ed efficace la comunicazione/ insegnamento. Frutto della convergenza dei quattro Organigrammi è la formulazione del Programma Didattico. Esso viene espresso nell’algoritmo e realizzato nel complesso dei disegni che attuano l’algoritmo stesso. I passaggi successivi dal Programma Didattico all’Algoritmo riguardano la redazione del programma che consiste nello scrivere le varie operazioni dell’algoritmo e la realizzazione tecnica dei segni-immagine che si prevedono essere necessari. Nel caso, ad esempio, si prevede di utilizzare la sequenza di un film, una serie di immagini con o senza un commento musicale, o qualsiasi altro materiale, occorrerà anche curare la loro concreta preparazione. Nel caso dell’istruzione, inoltre, dovrà essere prevista la parte cibernetica (con feedback opportuni) e quella docimologica almeno per la parte riguardante la verifica del grado di apprendimento (magari, anche attraverso lo stesso feedback stesso).95 5.1 La traduzione e i contenuti puri È molto importante, sotto il profilo metodologico, preparare i momenti comunicativi (nelle lezioni scolastiche come nella comunicazione religiosa) in maniera tale che il loro sviluppo sia secondo un ordine per contorni e non per concetti. È il problema della traduzione. Un discorso concepito secondo linguaggio e struttura concettuale deve essere tradotto in un discorso elaborato secondo il linguaggio contornuale e la sua tipica struttura. Si tratta, Può essere formulato anche attraverso test da effettuare con modalità e in momenti diversi a seconda che si vogliano conoscere alcune o tutte le principali caratteristiche (intelligenza, attitudini, conoscenze pregresse circa quel dato contenuto/disciplina) della popolazione a cui ci si rivolge. 95 A proposito di Organigramma Espressivo e, soprattutto della realizzazione, va tenuto presente il problema linguistico dato dal segno-immagine che de-forma per la natura della cosa, per la natura del mezzo tecnico, ma anche per le eventuali deficienze dell’autore nel tradurre o del recettore nel recepire. In altre parole, occorre sempre fare i conti con la natura tipica dell’immagine stessa. In concreto, non si può fare educazione con l’immagine senza educazione a l’immagine, cioè senza lettura delle immagini che si usano. 94 cioè, di dare contornualità, cioè forza autonoma d’espressione, a un contenuto che ha un significato in forza del linguaggio concettuale. In altre parole, “tradurre, significa esprimere in immagini, cioè in contorni, un’idea la quale non ha contorni”.96 Taddei insiste molto sulla differenza tra traduzione e trasposizione; far vedere la riproduzione di una cosa come “illustrazione” non è traduzione in immagine ma solo trasposizione concettuale. Di fatto, l’uso consueto che viene fatto dell’immagine è quello di illustrare. Si dimentica che l’immagine tecnica è autonomamente espressiva e si incorre, così, negli errori evidenziati da Taddei. Con la traduzione si passa nel campo del linguaggio dell’immagine. Parlare attraverso il linguaggio di immagini senza aver presente la carica espressiva autonoma di ciascuna può, peraltro, far rischiare di essere fraintesi. Taddei, a tal proposito afferma che “fermarsi alla trasposizione, significa non solo rischiare di non essere utili, bensì addirittura di essere controproducenti in campo educativo, collaborando alla disinformazione ed alla massificazione”.97 Con riferimento al linguaggio contornuale, vanno tenute presenti le caratteristiche del linguaggio contornuale: l’esposizione per accostamento o giustapposizione dei vari elementi in modo che il significato risulti proprio dell’accostamento;98 la presentazione per contorni del significato di ciascun elemento (a tal proposito si ricorda la componente di comunicazione per elementi emotivi o esistenziali e la comunicazione per risultanza idealogica o per integrazione psicologica soggettiva).99 È necessario, inoltre, che comunicazione attraverso il linguaggio contornuale venga fatta nei modi che il recettore non cada negli equivoci derivanti da ingiustificate integrazioni psicologiche soggettive; va tenuto sempre presente che l’immagine è in grado di esprimere idee e concetti. Usare il linguaggio dell’immagine può essere impegnativo ma va effettivamente utilizzato. Per i livelli di comunicazione non alti, talvolta può essere utilizzata l’immagine come sussidio di pura rappresentazione; invece di descrivere a parole una città o un oggetto o un animale, se ne mostrano le immagini.100 N. Taddei s.j., Educare con l’immagine, cit., vol. 2, p. 325. Ibid. 98 Con l’accostamento, infatti, viene tradotto nel linguaggio dell’immagine il principio di causalità. Un’immagine successiva, connessa con la precedente in un certo modo, esprime di fatto il perché. Tale significato balza fuori esclusivamente dalla connessione. 99 Quanto alla componente emotiva o esistenziale, l’immagine darà una comunicazione tanto più obiettiva circa la conoscenza dei contorni della cosa rappresentata quanto meno offrirà elementi contornuali che suscitano il senso di attrazione/repulsione. Quanto alla componente per risultanza idealogica la comunicazione dipenderà molto dal contesto sia della foto stessa, sia del modo in cui viene presentata. 100 L’esperienza personale raccontata in Padre Nazareno Taddei, mio maestro (Cfr. Salòs, n. 8, 2008, p. 111-112), può far affermare che, usare il linguaggio delle immagini pensando di usare il linguaggio dell’immagine può essere, talvolta, didatticamente efficace come sforzo per “ex-premere” attraverso contorni invece che attraverso concetti. In definitiva è più uno “sbagliando si impara”, certamente non perseverando (!). Va anche rilevato che nell’uso della riproduzione di un’opera 96 97 note 65 note 66 luglio 2010 - anno X Si pensi al processo della comunicazione e ai tre momenti del comunicante; al livello della “cosa conosciuta” (magari alla sua quiddità) e, da questo, alla decisione circa la “cosa da dire” ed il relativo “segno da fare” per realizzarla. Non si tratta, perciò, solo di scegliere un argomento ma di elaborarlo e “tradurlo”. Taddei a tal proposito sottolinea il problema dei contenuti puri: “È necessario ricorrere a quelli che chiamerò i ‘contenuti puri’, contenuti cioè ‘purificati’ dal veicolo linguistico che li ha trasmessi o li trasmette, per coglierli nella loro genuina “verità” concettuale, onde poterli poi “tradurre” secondo verità nel messaggio e nelle applicazioni opportune e adatte all’uomo contemporaneo”.101 Successivamente aggiunge: “ecco il punto: se quelle conoscenze non vengono spogliate del linguaggio e della mentalità (concettuale) nei quali ci sono state comunicate, il rischio è che si confonda il contenuto linguistico nel quale è stato comunicato e che quindi non si riesca a dare “contornualmente” quella conoscenza oppure la si dia distorta ed erronea”.102 La traduzione rispetta la genuinità della conoscenza, indipendentemente dal linguaggio in cui essa è stata acquisita, e permette di renderla nel nuovo linguaggio.103 Taddei torna spesso a ribadire che occorre evitare la semplice trasposizione o illustrazione con immagini “che è l’operazione con la quale si danno ‘contorni’ visivi a una realtà che è già visiva”.104 d’arte occorre tener presente che ci si trova di fronte ad una immagine tecnica con tutte le conseguenze che ciò comporta; ad es. l’immagine di quella data opera non è quell’opera d’arte; anche l’autore è diverso. Può apparire una questione di dettaglio insignificante ma non è così. Si pensi, a tal proposito, ai livelli di lettura precedentemente esposti. 101 N. Taddei s.j., Papa Wojtyla e la ‘nuova’ cultura massmediale, cit., p. 97. 102 Ibid., p. 99. 103 N. Taddei s.j., Nuova evangelizzazione. Nuova comunicazione, cit., p. 82. 104 Si pensi a quanto sia sterile far rimanere alcune immagini delle nostre chiese, depositarie di un messaggio inculturato, nell’esclusivo campo delle opere d’arte o dei “beni culturali”. Utilizzare la ricchezza del patrimonio di pensiero (e non solo di arte) di tante opere presenti nelle nostre chiese - che, di fatto, illustrano il cammino storico delle nostre comunità ecclesiali e civili - può essere molto utile se fatto secondo il linguaggio dell’immagine e non come semplice illustrazione. È un cammino che richiede studio e impegno scientifico (e non solo passione o hobby). Talvolta ci si troverà nella necessità, ad esempio, di far curare una particolare catechesi visiva (Cfr. D. Marrone, Sposa sublime chiara a tutti per il suo fulgore. Il ciclo pittorico della Chiesa Madre di San Ferdinando di Puglia, Tipolitografia Miulli, San Ferdinando di Puglia 1999). Un’idea di come immagini iconiche fatte di disegni possano essere “trasformate” in immagini contornuali (il disegno – di natura concettuale – è riprodotto come foto, evidentemente contornuale) si può vedere in Centro Internazionale di Studi Gioachimiti, Lo specchio del Mistero. Le tavole del Liber figurarum di Gioacchino da Fiore, Catalogo della Mostra permanente presso l’Abbazia Florense- San Giovanni in Fiore (Cs), Publisfera, San Giovanni in Fiore 2000. Il discorso, diventerebbe davvero lungo e interessante ma l’esempio serve ad evidenziare solo un piccolo aspetto della questione. Questa, in una battuta, può essere così sintetizzata: tutto quanto è rappresentato in immagine tecnica, dal punto di vista della comunicazione segue esclusivamente le leggi e le regole del linguaggio dell’immagine. Si dimentica Un suo esempio riguardante il battesimo chiarisce i termini del discorso. “Far vedere uno che battezza per dire battesimo […] non esprime il concetto di battesimo (sacramento il quale ecc.) bensì dice solo che qualcuno fa un certo rito versando dell’acqua sulla testa di un neonato”.105 E spiega con un altro esempio la differenza: “Il ‘tradurre’ in linguaggio contornuale il ‘deposito’ di conoscenze, che abbiamo avuto per comunicazione verbale è molto analogo al trasformare il movimento lineare in movimento rotatorio o viceversa: ci vuole un qualcosa, una ‘chiave’, che permetta questo. E questo qualcosa è appunto la ‘traduzione’. Non è da confondersi questa ‘traduzione’ con quella che si fa da una lingua a un’altra, la quale deve preoccuparsi solo del passaggio da una convenzione linguistica all’altra. La nostra ‘traduzione’ deve farci passare dalla convenzione linguistica alla connaturalità espressiva contornuale”.106 Con riferimento al battesimo, così sottolinea la necessità di spogliare le conoscenze del linguaggio e della mentalità di tipo concettuale con cui ci sono state comunicate: “prima di poter pensare a comunicare, il comunicatore pastorale deve preoccuparsi di ‘conoscere’ (cioè di sapere bene) quello che comunicherà. Vorrei dire: deve chiedere a sé stesso, p.e. ‘che cos’è il Battesimo’ e non fermarsi fino a quando non ha trovato la risposta ‘essenziale’, non quella pressapochistica;107 e, se necessario, dovrà andare a rivedersi i libri dove il problema è trattato scientificamente (teologicamente). […] In questa ricerca, egli deve cercare di conoscere non tanto l’idea dell’eventuale comunicante che gli ha dato quella conoscenza, quanto piuttosto l’idea della cosa, cioè il vero oggetto della conoscenza”108. Tramite la ricerca dei contenuti puri si giunge alla quiddità, all’essenza della cosa conosciuta e sarà più facile procedere all’opera di traduzione secondo il linguaggio dell’immagine. spesso, ad esempio, che si sta trattando di immagini della realtà, della rappresentazione della cosa e non della cosa in sé (che, in origine, può essere anche di natura concettuale come nel caso di pittura, disegno, scultura ecc.). Ma bisogna anche andare oltre. Occorre tentare nuove strade come quella di comunicare con il linguaggio dell’immagine, anche passando tramite errori ed anche critiche immotivate che scoraggiano. L’unico rischio in un percorso del genere è quello di continuare a confondere i livelli ed essere fraintesi, cosa che già avviene. Da un laboratorio o una bottega non sono venuti fuori capolavori ai primi tentativi. Fatti salvi i Geni. 105 N. Taddei s.j., Nuova evangelizzazione. Nuova comunicazione, cit., p. 82-83. 106 Ibid., p. 83. 107 Spesso si pensa che farsi capire (specie riferito a contenuti scientifici), sia “divulgare” nel senso comunemente inteso a prescindere da una comunicazione impostata con criteri scientifici o che il tutto debba accadere a scapito dei contenuti. Si pensi alla risposta data alla domanda “Chi è il mio prossimo”; nella parabola del samaritano non si fanno sconti sui contenuti. Un altro rischio quando si tratta di comunicazione è che l’argomento può sembrare banale perchè “comunicare lo fanno tutti (…e senza tante elucubrazioni!)”. 108 N. Taddei s.j., Nuova evangelizzazione. Nuova comunicazione, cit., p. 83-84. note 67 68 note luglio 2010 - anno X 6.Alcune ricadute alla luce dei riferimenti metodologici Alcune esemplificazioni possono servire a meglio intendere certi passaggi metodologici attraverso esempi e/o applicazioni. Da brevi cenni su alcuni aspetti del comunicare via web con particolare riferimento a Facebook ad altri riferimenti riguardano la necessità di studiare (avvertire, portare a livello avvertito) la mentalità massmediale anche attraverso modi e percorsi di aspetti da notare durante l’utilizzo del web fino all’indicazione di alcune piste di studio e di approfondimento. Proprio perché solo accennati, sono argomenti da approfondire. A tale scopo qualche spunto potrà provocare riflessioni e un dibattito utile a prendere coscienza di problematiche presenti e reali ma che restano – più o meno coscientemente – inavvertite. 6.1I social network tra comunicazione interpersonale, linguaggio dell’immagine, incrocio di tecnologie e di linguaggi specifici109 La rete web nasce da una rete militare dismessa; Facebook, invece, dal desiderio di mantenere i contatti tra compagni di scuola; di qui il nome: Facebook, letteralmente il libro delle facce. Il socialnetwork - che si presenta come “una piattaforma sociale che ti consente di connetterti con i tuoi amici e con chiunque lavori, studi e viva vicino a te” - è basato su un articolato sito web strutturato in pagine per ciascun utente che può condividere con altri utenti testi, immagini, link e simili. Così vengono condivisi messaggi che descrivono stati d’animo, pensieri, riflessioni con i propri “amici”110 superando anche barriere geografiche e, Per quanto riguarda i linguaggi specifici cfr. N. Taddei s.j., Introduzione alla lettura strutturale dei mass media, Dispensa n. 61, Edizioni CiSCS, Roma 1976. Sulla lettura del giornale si vedano N. Taddei s.j., Lettura Strutturale del giornale. 1. Il Giornale stampato, Ed. CiSCS, Roma 1995; N. Taddei s.j., Lettura Strutturale del giornale, 2. Il giornale radiofonico e televisivo, Ed. CiSCS, Roma 1995. Sulla lettura del film si veda N. Taddei s.j., Dalla comunicazione alla lettura strutturale del film, Edav, Roma 2005. Il volume fu pubblicato a dispense distribuite con la rivista Edav. Sulla lettura del film si veda anche la monografia pubblicata dalla Sezione CiSCS di San Bonifacio (Vr) in occasione di un Corso di educazione all'immagine e con l'immagine dedicato a Ermanno Olmi, tenuto da Olinto Brugnoli. Cfr. O. Brugnoli (a cura di), Ermanno Olmi: cantore della relazione, Edav, 2009, p. 59. È consultabile e scaricabile da http://www.edav.it/DOCS/ ERMANNO_OLMI_CANTORE_DELLA_RELAZIONE.pdf 110 Il prof. Eugenio Zaffagnini rileva che “appare chiaro come, semanticamente, il concetto di amicizia diventi estremamente labile nell’era di Facebook, e con risvolti talvolta paradossali: poiché l’amicizia è l’unica categoria semantica disponibile per entrare in relazione con qualcuno all’interno di FB, tutte le relazioni di conoscenza, rapporto sentimentale, parentela vicina o lontana, vengono immediatamente appiattite su quest’unico significato, senza alcuna percezione della distanza umana che può separare due amici, due conoscenti o due lontani compagni di scuola. Persone separate da decenni, che per strada nemmeno si riconoscerebbero, si trovano così strette da un immaginario vincolo di amicizia estremamente superficiale catapultate in un mondo fatto dai pensieri e dagli stati d animo degli altri, con ben poche possibilità di reale interazione con 109 talvolta, abbattendo muri protettivi innalzati da poteri forti (c’è anche, però, chi si chiede se la rete sia democratica) facilitando anche la comunicazione interpersonale a distanza di tipo tecnico con messaggi privati e chat. Molti aspetti - sia strutturali che legati al suo cattivo uso - sono criticati e criticabili.111 Non è questa la sede per delineare un quadro completo di tutte le problematiche relative a Facebook. Qui basta solo accennare a uno dei più conosciuti fenomeni massmediali sviluppatosi come comunità virtuale.112 Non si entra, quindi, nel fenomeno sul quale ci si spinge in alcune descrizioni solo ai fini di far notare alcuni aspetti semiologici e di linguaggio dell’immagine attraverso la descrizione di alcuni aspetti, regole, modalità anche a beneficio di quanti non conoscono il socialnetwork. Nell’uno e nell’altro caso ci si soffermerà su aspetti generali rimandando a studi specifici di altra natura come quelli che riguardano la socializzazione provocata da tali nuove opportunità. Quanto qui accennato, unito a quanto detto sul linguaggio massmediale ed i linguaggi specifici, possono servire ad usare meglio la rete sia nel ricevere che nel fare comunicazione. Alcuni aspetti della comunicazione tramite Facebook sono simili al modo con cui le stesse cose avvengono sui media più conosciuti. Uno di questi è lo sviluppo per connessione /giustapposizione, modalità con cui vengono proposti, richiamati e/o condivisi edizioni web di quotidiani e riviste, siti di vario genere, foto e filmati della rete o personali, ecc. e per come viene “impaginato” il social network stesso. Come si può notare, si tratta di una serie di linguaggi specifici originariamente legati a semiotiche diverse dovute al mezzo tecnico originario. Tutte vanno a confluire in un unico grande contenitore il cui denominatore comune è il linguaggio contornuale. Di qui la necessità, ancora più urgente, di un’educazione alla lettura strutturale dei media, compresi i diversi linguaggi specifici legati al singolo mezzo tecnico-espressivo. La problematica si può considerare posta dal recente neologismo cross-media e dalla conseguente espressione comunicazione cross-mediale. In Italia il primo convegno italiano sui cross-media - Cross-Media. Da Star Wars al Grande Fratello - veicolato come “il primo convegno italiano sui media ‘trasversali’: quelli che sono videogioco, Internet, Tv e cellulare insieme” tenutosi a Roma a marzo 2006 -, così definiva la comunicazione cross-mediale: essi”. (E. Zaffagnini, Facebook: confusione mentale e protagonismo alla ribalta, “Edav”, n. 369 aprile 2009). 111 All’intervento di Zaffagnini prima citato si rimanda per alcune riflessioni sul social network. 112 Il Corriere della sera del 21 luglio 2010 annuncia che “il re dei social network supera i 500 milioni di iscritti, di cui 100 milioni aggiuntisi negli ultimi sei mesi. Vale a dire che su Facebook può scriversi, chattare, condividere link e foto, una quantità di persone pari alla somma delle popolazioni di Stati Uniti, Giappone e Germania”. Interessante quanto aggiunge il suo fondatore Mark Zuckerberg, 26 anni: “La nostra missione è aiutare a fare del mondo un posto più connesso e più aperto. Non avrei immaginato che tante persone avrebbero usato Facebook quando abbiamo cominciato a lavorarci sopra sei anni fa” (la notizia è consultabile anche su http://www. corriere.it/ cronache/10_luglio_21/facebook_a05ba9e2-94f7-11df-91c3-00144f02aabe.shtml. note 69 70 note luglio 2010 - anno X “La Comunicazione cross-mediale, è il comunicare informazione o spettacolo in un modo che si avvalga, contemporaneamente, della Tv, come di un sito Web, che arrivi sui cellulari e si faccia videogioco, incrociando il tutto all'insegna dell'interattività e della non passività dello spettatore – navigatore/fruitore”.113 All’era cross mediale si è riferito il recente convegno della Cei su Testimoni digitali. Volti e linguaggi nell'era cross mediale tenutosi a Roma dal 22 al 24 aprile 2010.114 Nell’attesa della pubblicazione degli atti, sul web è possibile trovare il testo delle relazioni a partire dal sito del convegno.115 Un quadro descrittivo e completo della problematica – sia pure accennato a grandi linee ma scientificamente impostato - ritrova nel programma dell’insegnamento di Cross media del Corso di Laurea in Ingegneria del cinema e dei mezzi di comunicazione nella terza Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Torino (a.a. 2007/2008): “Il termine Cross-Media assume significati diversi a seconda delle discipline nelle quali viene utilizzato; tuttavia è riscontrabile un fondo comune. Nel mondo della stampa e dell’editoria Il convegno fu promosso dal Link Campus University of Malta e si tenne presso l’Auditorium San Leone Magno, in via Bolzano a Roma come riferisce l’agenzia Zeus News il 13 marzo 2006. Cfr. http://www.zeusnews.it/index. php3?ar=stampa&cod=5303. Cfr anche http://www.cross-media. it/cm1/network.php 114 Nel convegno, tenutosi a otto anni di distanza da un altro dal tema Parabole mediatiche, la Chiesa italiana ha inteso promuovere “un’ulteriore occasione di incontro e di approfondimento, espressione della volontà di capire i mutamenti operati dalle nuove tecnologie nei modelli di comunicazione e nei rapporti umani, per non rimanere meri consumatori, ma testimoni della vivacità della fede cristiana anche in questa nuova cultura”. (http://www. testimonidigitali.it/ home_convegno/presentazione/00000354_Presentazione.html). Nel sito del convegno si definisce la crossmedialità attraverso le parole di Wikipedia: “Con il termine cross-media (o crossmedia, crossmedialità) ci si riferisce alla possibilità di mettere in connessione l’uno con l‘altro i mezzi di comunicazione, grazie allo sviluppo e alla diffusione di piattaforme digitali. Le informazioni vengono emesse, e completate, in virtù dell’interazione tra i media. Per cui assistiamo a performance comunicative nelle quali i principali mezzi di comunicazione interagiscono fra di essi, dispiegando l’informazione nei suoi diversi formati e canali. In questa tendenza internet è il mezzo che meglio si adatta. Nel gioco di rinvii da un mezzo, o un apparecchio, all’altro, spesso è coinvolto il web. Per esempio il web è consultato in diretta nelle trasmissioni televisive; la carta stampa fornisce codici da digitare per entrare in aree riservate dei siti web; la promozione di prodotti avviene lanciando storie che rimpallano dall’offline all’online e viceversa”. http://www. testimonidigitali.it/home_page/wiki/00000275Cross_ media.html 115 Il percorso seguito dalla Conferenza Episcopale Italiana può essere approfondito sulla pubblicazione curata da Vincenzo Grienti, giornalista professionista che collabora dal 1997 con Avvenire e diversi periodici e che attualmente lavora presso l’Ufficio Comunicazioni Sociali della Cei dove si occupa dell’Ufficio stampa e dei rapporti con i media. Cfr. V. GRIENTI, Chiesa e web 2.0. Pericoli e opportunità della rete, Prefazione di Dario E. Viganò, Effata Editrice, Cantalupa (To) 2009. Va segnalato che nella pagina dopo il frontespizio l’autore porge “un grazie di cuore a tutti gli ‘amici’ di Facebook con cui ho avuto modo di confrontarmi sul fenomeno del social networking”. 113 indica l’utilizzo di diversi media per rendere più accessibili i contenuti. Nel settore della produzione per web si riferisce all’ottenere maggior efficienza su più piattaforme tecniche oppure a rendere un processo scalabile per un grande numero di persone o di schermi o di strumenti. Nel marketing il termine è spesso confuso con quello di ‘cross-channel’, che indica piuttosto l’utilizzo di canali multipli per la distribuzione di messaggi pubblicitari. Ma ‘cross-media’ è un termine utilizzato anche nei settori dell’e-Learning e del turismo. Il concetto di cross-media si sviluppa attorno alla presenza contemporanea di più media e di più sistemi di distribuzione, che sostengono in modo coordinato il tema centrale di un progetto di comunicazione. Ai fini del corso, verrà adottata una definizione che può essere descritta mediante quattro criteri: • cross-media implica l’utilizzo di più media e sistemi di comunicazione, tanto analogici che digitali, che si rafforzano vicendevolmente mediante le loro specificità, rispetto a determinati contenuti; • cross-media ha lo scopo di sviluppare modalità integrate di produzione; • i contenuti cross-media sono distribuiti/resi accessibili su diversi strumenti e piattaforme, quali computer (off-line e on-line), telefoni cellulari, televisori, set-top-box, cinema; • cross-media non si giustifica soltanto con la giustapposizione di diversi strumenti e piattaforme, ma diventa rilevante allorché il contenuto comune è diffuso sulle diverse piattaforme con interazioni che continuano e completano il contenuto da una piattaforma all’altra”.116 Come si può notare, la lunga citazione offre un quadro tecnologico avanzato che - come si afferma nel programma dell’insegnamento - ha come ambiti disciplinari di riferimento la “cultura scientifica, umanistica, giuridica, economica, socio-politica”.117 È agevole notare come la problematica ritorni alla distinzione iniziale tra Teoria dell’informazione e Teoria della comunicazione. Il progressivo processo di miniaturizzazione e la tecnologia sempre più perfezionata hanno portato a quel mix tecnologico detto appunto cross-media. Da quanto precedentemente illustrato diventa anche abbastanza agevole (e più immediatamente comprensibile) come i fattori tecnici (nel caso della cross-medialità, veramente di vario tipo integrati in un unico apparecchio) abbiano un’ importante ricaduta sul fattore espressivo. Nel caso di Facebook come di altri social network (MySpace, Orkut, Bebo, Friendster, Netlog, ecc., ma anche Twitter e Youtube) ci sono anche aspetti di tecnologia non basati sull’immagine tecnica. Alcuni, infatti, non sono né mass media, né group media né self media118 ma sistemi tecnici che permettono di comunicare a distanza (si pensi a sistemi di http://didattica.polito.it/pls/portal30/sviluppo.guide.visualizza?p_cod_ins=01KELBF&p_a_ acc=2008. 117 Ibid. 118 In breve, ad esempio, tv, stampa, radio, cinema, televisione (mass media); audiovisivi in genere (group media); macchina fotografica, cinepresa telecamera, registratore e altro di simile utilizzato con “destinazione assolutamente privata” (self media). Non bisogna confondere le comunicazioni di massa con altre tecnologie che servono alla comunicazione a distanza; il telefono è solo un’apparecchiatura tecnica così come uno strumento di amplificazione. Sull’argomento cfr. il capitolo 13 – Mass media e audiovisivi di Educare con l’immagine (p. 165-176). 116 note 71 note 72 luglio 2010 - anno X comunicazione vocale o scritta come l’e-mail, la chat, la videoconferenza ecc. che possono essere integrati in un telefonino da cui si può ascoltare la radio, dei brani musicali come altri media accomunati dal linguaggio dell’immagine e ciascuno con il proprio linguaggio specifico). Sono riferimenti utili a illustrare, sempre più in modo particolareggiato, il fenomeno anche per quanti non lo conoscono né conoscono i suoi meccanismi, possibilità, vincoli. Si può affermare, in breve, che Facebook può essere sinteticamente descritto come il luogo virtuale costruito secondo proprie regole allo stesso modo della vita reale e di un qualsiasi gioco. Si aggiungano le modalità traslate e le alterazioni di tipo semantico (del tipo “amici”) già segnalate. Viene così a crearsi un mix modulare fatto da comunicazione a distanza mediante strumenti tecnici (e-mail, chat, e loro intersecarsi)119 e comunicazione mediatica (foto, video, filmati, pagine di giornali ecc. con i loro linguaggi specifici) e degli schemi utilizzati nei media con effetti di spettacolarizzazione.120 Tale mix, inoltre, si propone ed è vissuto come se si stesse effettuando una reale comunicazione normale interpersonale (comunicazione intellettiva) con una confusione tra la realtà e la sua immagine. L’esigenza naturale e basilare dell’uomo di comunicare può non far riflettere sullo scambio immediato che avviene dal mondo reale a quello virtuale.121 Facebook mette in connessione milioni di persone invitandoli a dire (scrivere) attraverso la domanda posta nel riquadro iniziale di chi vuole “connettersi col mondo”: “A cosa L’e-mail ha la stessa caratteristica della lettera tradizionale. La chat è una modalità nuova di comunicare permessa dalla comunicazione in tempo reale (modalità online) data dalla rete informatica; potrebbe essere paragonata ad una conversazione per telescrivente. L’e-mail, a differenza della chat, non richiede la presenza fisica (modalità offline), in quel dato momento, di chi invia e di chi riceve. Le tecnologie hanno permesso di comunicare e dialogare a distanza. La loro storia evolutiva (non è necessario qui ripercorrerne le tappe) è legata oggi alle reti informatiche e telematiche. 120 Si pensi, ad esempio, ai format di molti programmi e dibattiti televisivi la cui struttura è schematizzata su posizioni contrapposte, anche per questioni futili. Si pensi anche all’impaginazione dei quotidiani, periodici e simili. Di fronte ad una problematica, si riportano le posizioni di due personalità pro o contro un argomento (una posizione ufficialmente pilatesca della testata che viene tradita immancabilmente da altri come espressivi). Di qui, ancora, alcune derive come il rappresentare e mettere in gioco un avversario inesistente facendolo passare per reale; il partire da un dato iniziale di una trasmissione su un argomento banale ma assunto come decisivo (il colore dell’abito da sposa, un determinato uso o costume ecc.) e raccogliere le telefonate pro e contro il quesito posto con l’aggravante di farlo passare per una ricerca sociale “misurando” come si sposta il gradimento in base all’evolversi della trasmissione. Si pensi all’incidenza in percentuale di tre telefonate (due a favore e una contro, pari al 66 e al 33 per cento) che viene facilmente assunta come se tutta la nazione la pensa in quel modo). Effetti spettacolarizzanti di tale tipo stanno entrando anche nel modo di “narrare” le notizie nei telegiornali. Di qui la necessità di portare a livello conscio e ragionato quanto può arrivare in modo inavvertito. 121 Sulla comunicazione virtuale dal punto di vista psicosociale si vedano le ricerche di due docenti dell’Università Cattolica su realtà virtuale, comunicazione, relazioni interpersonali e cyberspazio. Cfr. C. Galimberti, G. Riva, La comunicazione virtuale. Dal computer alle reti telematiche: nuove forme di interazione sociale, Guerrini e Associati, Milano, 1997. 119 stai pensando”. Chi è collegato può così esternare (e condividere) i suoi pensieri, le sue emozioni e stati d’animo con la possibilità di allegare immagini, video o link a siti della rete. Con la pressione del tasto invio della tastiera del computer il tutto viene “postato” (notare il neologismo italiano che richiama la posta tradizionale pur provenendo da altra origine), cioè inviato al server che, in tempo reale (salvo momentaneo sovraccarico della rete), provvede a smistarlo in testa alla pagina di chi scrive ed a quella degli iscritti da lui scelti come “amici”. La scelta precedente avvenuta nelle impostazioni attraverso una serie di “permessi” relativi alla privacy può far vedere il “post” anche agli “amici degli amici” o a chiunque. Ciascuno può rispondere diventando, così, parte di tanti mini talk show, con gli equivoci del caso non solo di tipo linguistico ma anche dovuti proprio alla giustapposizione sequenziale dei diversi post. È facile riscontrare come, molto spesso ognuno segua il suo discorso secondo un soggettivismo esasperato in cui vanno a sfociare anche idee giuste e ragionate. Una situazione che può essere descritta sinteticamente prendendo a prestito il titolo di un saggio di Zygmunt Bauman “Individualmente insieme”.122 Così come spesso accade nei media, tutto viene messo sullo stesso piano senza l’indicazione di una “gerarchia” degli eventi e delle notizie che, nei media, però, è data dall’impaginazione di un giornale e dai suoi caratteri entipologici e dall’impaginazione di un telegiornale con i rispettivi spazi e tempi riservati a una data notizia. Anche questo aspetto può aver contribuito a parlare di “democraticità” della rete. Al solito, si continuerà a rimanere sugli aspetti semiologici. Il tasto “mi piace” (senza alcuna graduazione del gradimento) senza la possibilità alternativa del “non mi piace” (si può solo cancellare il “mi piace” con l’opzione – unica- “non mi piace più”) dà la possibilità di esprimere in modo sintetico il proprio giudizio a cui può seguire il proprio intervento nel talkshow specifico. Queste modalità in modo inavvertito porta a mentalizzare la necessità di schierarsi sia su riflessioni circa sciagure come Haiti che su gradire la Nutella o un brano musicale. Questo porta anche a ritrovarsi tra persone che la pensano allo stesso modo duplicando per gruppi quanto avviene a livello singolo. Stessa modalità per le pagine dei fan che vanno dall’aderire a un dato pensiero, a Gesù, a personaggi pubblici (cantanti, scrittori, persone e personalità di vario genere ma anche aziende commerciali, squadre sportive e. qui l’eccetera limiterebbe le possibilità date dalla fantasia). Il “mi piace” è un modo sbrigativo di schierarsi talvolta pensando di aver capito tutto senza approfondire (come succede per gli articoli di giornale che si pensa di aver letto solo perché si è letto il titolo). Ci si ferma, così, a livello superficiale scambiando il ciò che appare per il ciò che è ed il ciò che è con il ciò che piace come detto prima parlando di mentalità massmediale. Una vita digitale, quindi, legata i più delle volte vissuta a livello di immagine della realtà con una confusione e con equivoci anche linguistici. Oltre ad aspetti relativi a significati, si pensi 122 Z. Bauman, Individualmente insieme, a cura di Carmen Leccardi, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 2008, L’incipit del saggio richiama il titolo dell’ultima opera (pubblicata postuma) di Norbert Elias La società degli individui (Ibid., p. 29). note 73 note 74 luglio 2010 - anno X solo agli equivoci dati dall’intersecarsi di battute in modo non sequenziale. Un sociogramma riguardante una chat (datato 2006) può aiutare a meglio inquadrare il fenomeno. Nella fig. 1 è possibile notare le diverse relazioni tra buona parte dei 47 utenti collegati in chat. Le posizioni-utente che non hanno linee di relazione con altre posizioni-utente possono essere inattive (lontani dal computer in quel momento) ovvero possono essere osservatori delle discussioni e di quanto avviene, specie se si tratta di canali pubblici. Una tale istantanea può essere presa ad esempio (anche se non in modo completo, ovviamente) di una serie di commenti a un solo post. Il social network è il moltiplicarsi in modo esponenziale di una tale situazione simile con la possibilità di non essere collegati in contemporanea (in tal caso, volendo, il social network offre la possibilità di una chat “incorporata”). Fig 1. Sociogramma di una chat (13 aprile 2006) Questi cenni di descrizione di alcuni aspetti possono aiutare a dare elementi generali riguardanti il modo di comunicare di Facebook, del suo cosa e del suo come. Indirettamente il sociogramma precedente può dare anche l’idea dell’evoluzione di questi ultimi anni. Se si pensa che il fenomeno Facebook ha solo 6 anni nel 2010 è facile ipotizzare che l’evoluzione della tecnologia metterà a disposizione una serie di nuove possibilità. Oggi, ad esempio, con la piattaforma denominata Web 2.0, le possibilità tecniche sono moltiplicate con ricadute sugli aspetti espressivi e quanto attiene alla formazione della mentalità (che interessano al di là delle tecnologie). 6.2Un panorama non solo da osservare Per chi pratica il web ed i suoi nuovi modi di comunicare può essere abbastanza utile e semplice) approfondire alcuni aspetti qui descritti attraverso una particolare osservazione “durante l’uso”. È quella osservazione relativa proprio agli aspetti espressivi, al modo di comunicare per connessione, tentando di vagliare tutti gli aspetti (o almeno alcuni, anche gradatamente, ma ogni volta in modo costante). È ovvio che la strada principe resta quella dell’educazione a l’immagine. Applicando la Metodologia Taddei, l’”osservazione” di questo nuovo campo si aggiunge alle esercitazioni di “lettura” di un articolo/pagina di giornale, sequenza di un film, film stesso, ecc. Gli strumenti offerti dal web per comunicare possono diventare, così, un particolare osservatorio della mentalità massmediale. La stessa “confusione” tra realtà e immagine della realtà può essere rilevata in mille modi, aspetti e forme di mentalità massmediale. Può essere utile guardare alle cose del web con lo stesso spirito di osservazione e di interesse con cui ci si può mettere all’angolo di una piazza e osservare le dinamiche di vario tipo; e, magari, lasciare la prima prospettiva e salire su un balcone per avere una panoramica globale di quanto avviene. E, ancora, a distanza ravvicinata, inserirsi nelle conversazioni di una sala d’aspetto di un medico, di un ambulatorio e, in uno spazio più ridotto, nello scompartimento di un treno. E magari essere anche tu a “provocare” un dialogo sull’argomento di interesse attraverso una battuta lanciata, quasi a caso, per iniziare “il gioco”. Può essere descritta così la dinamica di un forum, di una chat, di un post su un social network. La differenza sostanziale rispetto alla realtà, però, è che si sta nel mondo della finzione (e non solo perché spesso si usa uno pseudonimo che una chat chiede di assegnarsi con la domanda “chi vorresti essere oggi”). Lo pseudonimo garantisce l’anonimato e rende liberi di parlare, cosa che non sempre ha aspetti negativi presentando, invece, anche aspetti positivi legati proprio all’anonimato. Nelle risposte a questionari di indagine con domande precostituite come in indagini di tipo qualitativo123 (in cui spesso si richiedono autodescrizioni) il soggetto può essere indotto psicologicamente a presentare se stesso in un certo modo (non solo positivo) quasi anche recitando una parte.124 L’anonimato può garantire da tale tipo di distorsione in quanto Una ricerca condotta “con molteplici soluzioni di tipo qualitativo” è quella che, in Puglia, ha inteso esplorare “il ‘sogno’ dei presbiteri” di Puglia e “l’evolversi della vision di prete nel corso della vita in un numero limitato di presbiteri” come si dichiara nella presentazione del report finale. Il progetto è stato cofinanziato dalla Conferenza Episcopale Italiana, Servizio Nazionale per gli studi Superiori di Teologia e di Scienze Religiose. Cfr. FACOLTÀ TEOLOGICA PUGLIESE, Sogni da prete. Una ricerca sulla Chiesa del futuro tra i presbiteri di Puglia, a cura di Angelo Sabatelli, EDB, Bologna 2009. 124 Un particolare aspetto da approfondire è la contiguità delle nozioni di “anonimato” e di “segreto” (anche professionale) con particolare riferimento al nuovo campo del digitale con le sue connessioni e i suoi possibili sviluppi. Qui ci si riferisce all’anonimato come modalità di ricerca e, comunque, nello specifico, a quella osservazione di persone e cose alla stregua di come avviene nella realtà (ad es. osservare per strada). La finalità rimane quella di osservare la mentalità massmediale e, perciò, tentare – mentre si usa il web – di riflettere su quanto accade. Per strada i comportamenti osservati e le persone restano anonime a chile osserva (e l’osservatore ad esse). Qui si tratta, in particolare, almeno di osservare, saper distinguere, quanto è realtà e quanto è 123 note 75 note 76 luglio 2010 - anno X chi è oggetto di osservazione sta nella sua piena libertà di espressione. È a lui, invece, che, nella circostanza, deve essere garantito l’anonimato.125 Una di tali tecniche è il metodo dell’osservazione partecipante126 usato in diversi tipi di indagine,127 come anche la tecnica del focus group128 che mira a far emergere delle valutaimmagine della realtà. In altra sede questo potrà essere osservato sotto i profili dati dalle diverse discipline (sociologia, psicologia, etica ecc.). qui il riferimento deve essere solo alla comunicazione ed al come certi concetti emergono, ad esempio, attraverso il linguaggio utilizzato. Si pensi, ad esempio, ad alcuni espressioni di tipo contornuale che permettono di interpretare meglio quanto è inespresso verbalmente o espresso male. L’educazione a e l’educazione con darebbero sia gli strumenti ed i percorsi scientifici per un approfondimento del genere come “lettura” del web. Ad uno stadio iniziale tale osservazione anonima, nel rispetto del segreto e della privacy, può essere utile ad “avvertire” (rendere avvertito) il fenomeno. 125 Nella presentazione di un nuovo sito web, è capitato di sentir vantare la soluzione tecnica adottata per il fatto che poteva permettere qualcosa in più della semplice localizzazione degli interventi. Un sito istituzionale, specie di carattere ecclesiale, si deve porre esclusivamente come un servizio. Ci possono essere motivi ben validi che chiedono di poter rilevare la provenienza specie in casi di possibili reati; tali aspetti, però, devono essere disciplinati garantendo la possibilità dell’anonimato. Si pensi alla possibilità di garantire (anche sotto forma anonima) la libertà di esprimere il proprio parere su date questioni. Si pensi alle diverse responsabilità del gestore materiale del sito (web master), eventuali collaboratori e rappresentante legale dell’istituzione a cui il sito fa capo. Si pensi al rischio che, attraverso approssimazioni successive (nella mentalità massmediale i collegamenti, si ricordi, sono per giustapposizione e non per ragionamento) possa essere messo in discussione altro tipo di segreto (nella mentalità massmediale tutto viene messo sullo stesso piano). Sono aspetti che vanno curati nell’impostazione tecnica iniziale specie in presenza di nuove piattaforme tecnologiche che agiscono in modo autonomo (ma pur sempre programmato e programmabile a un livello alto). In genere questi argomenti vengono tutti ricondotti alla “privacy”. L’argomento è abbastanza articolato e delicato per essere affrontato in poche battute. A livello divulgativo (e non solo, perché la materia è poco conosciuta) può essere utile l’opuscolo Social network: attenzione agli effetti collaterali preparato e diffuso dal Garante della protezione dei dati personali sul cui sito può essere consultato il contenuto dell’opuscolo http://www.garanteprivacy.it/garante/doc.jsp? ID=1614258. 126 La tecnica dell’osservazione partecipante (Malinowski, 1922) è usata dagli antropologi per raccogliere informazioni, vivendo il più possibile a contatto con i portatori della cultura studiata e partecipando alla loro vita anche se è stata posta in discussione per quanto riguarda la neutralità dell’osservatore/ricercatore che procede generalmente secondo criteri personali. 127 Si segnala lo studio etnografico sulla periferia di Bari, al Quartiere San Paolo condotto da un gruppo di ricerca promosso dalla Caritas diocesana di Bari Bitonto (Candeloro Angelillo e Mimmo Lieggi) che ha coinvolto anche l’Università di Bari. La pubblicazione finale della ricerca, in collaborazione con la Caritas italiana e l’Università Cattolica di Milano, Dipartimento di Sociologia, rappresentava il report barese di una ricerca più ampia sulle periferie di dieci città italiane. Cfr. CARITAS BARI-BITONTO, Identità forti e politiche deboli. Uno studio etnografico nella periferia del San Paolo, a Bari, a cura di Fausta Scardigno e Francesca Bottalico, Edizioni Idos - Collana Territorio, Roma 2007; CARITAS ITALIANA, La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane, a cura di Mauro Magatti, il Mulino, Bologna 2007. 128 Si tratta di interviste di gruppo che toccano punti precostituiti e, come nel caso dell’indagine dell’Università Cattolica, hanno “una durata variabile tra l’ora e le tre ore” e il cui contenuto viene registrato ed esaminato (CARITAS ITALIANA, La città abbandonata, cit., p. 514). Si zioni attraverso l’interazione dialogica. La tecnica di ricerca prevede l’inserimento di un osservatore all’interno del gruppo oggetto di indagine; egli partecipa a riunioni, osserva le persone, ne annota i comportamenti verbali e non verbali, le eventuali reazioni a determinati contenuti o situazioni. “L’osservatore assume un’identità fittizia congrua con il gruppo in cui si inserisce. In questo caso è più facile rilevare la vita quotidiana spontanea del gruppo, tuttavia la necessità di partecipare attivamente alle attività limita in parte la libertà di osservazione” osserva qualche altro.129 pensi a come una tale osservazione può essere fatta su strumenti come Facebook di cui, almeno per un certo periodo di tempo, può essere seguito quanto avviene. Sui focus group elettronici cfr. L. Stagi (a cura di), Dal face to face al video to video: i focus group elettronici, in “Magma, Rivista elettronica di Scienze Umane e Sociali Specializzata in Approcci e Metodologie Qualitative” consultabile su http://www.analisiqualitativa.com/magma/0103/articolo_08.htm. Interessante quanto si sintetizza nell’abstract: "L'uso di internet per condurre focus group può essere una possibile via d'applicazione nella ricerca sociale? Gli autori sono piuttosto concordi nell'affermare che sia presto per una efficace e reale applicabilità di tale tecnica, poiché occorre aspettare che l'accesso a internet diventi più universalmente diffuso e che i supporti tecnici, come la qualità delle immagini e dei collegamenti, possano essere di qualità superiore; allora - soddisfatte queste condizioni - la conduzione on-line può divenire una possibilità effettiva per utilizzare questo tipo di tecniche". 129 http://www.etnolab.it/strumenti_03.html Alla tecnica del focus group vista come tecnica di marketing applicata alla comunicazione politica si è affidato Silvio Berlusconi per le elezioni politiche da lui vinte nel 1994. “Noi interroghiamo la gente, per capire che cosa ha in testa” si afferma in un articolo di Gianni Riotta del Corriere della sera del 30 marzo 1994, immediatamente dopo le elezioni. Si aggiunge iniziando da alcune affermazioni di Gianni Pilo: “Un ‘focus group’ è costruito raccogliendo in un salotto un campione di individui. Può variare per età, regione, classe sociale, ma rappresenta il Paese. Ne abbiamo organizzati otto. In ogni gruppo c’è uno psicologo che, senza dire a che cosa miri la ricerca, registra gli umori, le intenzioni, i desideri dei presenti. Pian piano si mette insieme, con precisione, l'identikit degli elettori". Dagli otto ‘focus group’ esce un' Italia che desidera ‘onestà, trasparenza, competenza, capacità di comunicare’, ‘l'esatto opposto di quel che sanno fare i politici’ chiosa Codignoni”. […] L’articolo continua parlando dello studio fatto sul rapporto tra opinione pubblica e elettori, di “cosa può danneggiare il leader di ‘Forza Italia’ in un dibattito televisivo, che cosa la gente vuole sentire, a quali sollecitazioni reagisce” e si scoprono alcuni punti di debolezza dei media mentre “un altro ‘focus group’ individua i giornalisti ‘credibili’: primo Funari, secondo Costanzo, terzo Santoro ‘perché parlano e rappresentano i nostri problemi’ […] Si afferma che è “inutile polemizzare sulla Mammì, la gente non se ne cura. Stessa indifferenza per le accuse di piduismo, mafia, rapporti con Craxi, considerate obsolete. In autunno si analizza il caso Mario Segni, ‘primo ministro in pectore’ I ‘focus group’ rivelano che Segni è danneggiato dai troppi passaggi politici, ‘e viene considerato un manipolatore politico’ […]. Si rileva vincente “L’arma dell' ottimismo. ‘Gli elettori vogliono partecipare, non delegare’ calcola un tabulato” […]. L’articolo continua affermando che “gli otto gruppi di controllo, elaborati da Gabriella Allario, suggeriscono a Berlusconi, Pilo e Codignoni una strategia ‘judo’: ‘Spiegarsi, sempre. Lo attaccano sul fratello? Chiarirsi. Parlano di mafia? Spiegare’. Interrogato in diretta, Berlusconi perde le staffe con Wolfgang Achtner della rete Cnn. Ai cronisti sembra una gaffe ‘i focus group’ li contraddicono: era ora che qualcuno alzasse la voce. La decisione finale è ‘Apparire sempre positivi, ottimisti. Gli elettori ci stanno ascoltando, non note 77 note 78 luglio 2010 - anno X Da queste considerazioni emerge in modo rilevante la necessità di uno studio serio che vada al di là della semplice osservazione abbandonando definitivamente le idee “brillanti” e le improvvisazioni. Emerge la necessità di un piano di comunicazione che l’Aetatis novae aveva indicato come Piano pastorale delle comunicazioni sociali. Dopo aver parlato della necessità dell’educazione e la formazione alla comunicazione (n. 18) specifica, al n. 28, i punti che un piano pastorale di comunicazione deve prevedere. È bene evidenziare ancora una volta che non si intende studiare gli effetti sociali dei media né fare analisi sociologiche quanto mettere in evidenza la necessità di leggere la comunicazione carica di mentalità massmediale. Questo può essere visto come un utile strumento anche per quegli altri tipi di analisi che, però, sono tutt’altra cosa dalla lettura né possono sostituirla. L’osservazione a cui ci si riferisce ha come prerequisito una certa dimestichezza con la lettura del linguaggio dell’immagine (non occorre essere “scienziati”); attraverso tale passaggio è possibile poter cogliere le diverse espressioni della mentalità massmediale e acquisire una certa praticità anche nell’uso del linguaggio contornuale. In tal modo si può entrare in quella “nuova cultura” prodotta dai media come afferma il n. 37c della Redemptoris Missio che usa il prezioso verbo: integrare per indicare il modo di inculturare il Vangelo oggi. La pericope fa riferimento anche ai “nuovi atteggiamenti psicologici” che si sviluppano con l’influsso dei media che creano la nuova cultura. Si tratta di coglierne le sfumature, ovviamente, in riferimento ai contenuti mentali. Ogni altro tipo di analisi, scientificamente impostata è certamente lecita; quello che qui si sottolinea è che occorre capire il senso, il significato di una data comunicazione prima di passare a valutazioni di qualsiasi tipo. Si tratta anche di imparare a saper narrare oltre a saper leggere la narrazione. Prendo in prestito da Taddei alcuni riferimenti al neorealismo di cui parla trattando degli elementi essenziali dell’immagine cinematografica. “Il neorealismo è un modo di narrare, che a un dato punto influisce sull’oggetto stesso della narrazione” afferma Taddei che, distinguendo tra i film spettacolari e i film neorealistici, continua: [I film neorealistici] “colgono dalla realtà quello che essa ha di drammatico, ma rispettando il modo con cui questa drammaticità si presenta nella realtà: sono dettagli piccoli, minuti, perdiamoli’.” Si riportano infine alcune considerazioni sulla vittoria: “‘Trionfo?’ conclude Codignoni. ‘Berlusconi non lo considera tale e nemmeno io. Abbiamo commesso ingenuità, perduto un milione di voti tra Puglia e Umbria, proprio al Senato. La prossima volta faremo meglio, sto già rivedendo i gruppi’”. (Gianni Riotta, I "focus group" aiutano le scelte di Silvio (occhiello) - Il segreto della vittoria è "la strategia da judo" (titolo) - Gianni Pilo e Angelo Codignoni spiegano la struttura dei "focus group" e le strategie del marketing applicato alla politica (sottotitolo), Corriere della Sera, 30 marzo 1994, p. 3. Consultabile in rete su http://archiviostorico.corriere.it/ 1994/ marzo/30/segreto_della_vittoria_strategia_judo_co_0_94033013981.shtml). Verosimilmente i desiderata della gente rilevati mediante tale tecnica sono diventati la materia prima del “Contratto con gli italiani” al quale, sul piano della comunicazione, sono state aggiunte altre modalità come quella (di tipo spettacolare) della firma durante una trasmissione televisiva popolare. quotidiani; è in certo senso quello che afferma Zavattini: ‘Il film neorealista è la macchina da presa che osserva una famiglia attraverso un buco nel muro’ (Ma che non basti filmare attraverso il buco nel muro per fare opera d’arte o anche solo opera cinematograficamente valida, è dimostrato proprio dal recente film di C. Zavattini I misteri di Roma, annota Taddei). Del resto il neorealismo è nato cosi: come sono - ci si è chiesto - questi uomini e queste donne che la vita ha buttato in circostanze più grandi di loro? Che poi ci sia stato chi ha limitato - per scopi ideologici e politici - l’osservazione solo a certa realtà e nel riprodurla ne abbia colto solo certi aspetti (tradendo, evidentemente, in tal modo, quella realtà che si voleva conoscere) è un’altra questione”.130 Mi si perdoni l’accostamento così nobile (fatto nella convinzione dell’efficacia del duc in altum) per un’attività che dovrebbe essere di routine nel leggere i media e la realtà. Da notare come l’osservazione finale di Taddei sembra una descrizione della situazione contemporanea. È un ulteriore invito (qui indiretto) a studiare i media sia per leggerli che per esprimersi con il loro linguaggio. Il gesuita p. Antonio Spadaro, de La Civiltà Cattolica, che è stato tra i principali relatori al convegno nazionale Cei su Testimoni digitali. Volti e linguaggi nell’era crossmediale (22-24 aprile 2010) evidenzia la necessità che “sacerdoti, diaconi, religiosi e operatori laici di pastorale dovrebbero studiare i mezzi di comunicazione sociale per comprenderne meglio l’impatto sugli individui e sulla società e aiutarli ad acquisire metodi di comunicazione adatti alla sensibilità e agli interessi delle persone”.131 Nella situazione contemporanea i progressi della tecnologia provocano una serie di nuove situazioni. Sulla rete il Web 2.0 è una nuova e recente visione di Internet caratterizzata da un insieme di approcci che offrono la possibilità di usare la rete in modo nuovo e innovativo132 permettendo, ai dati di essere indipendenti da chi li ha prodotti (persona o sito). L’'informazione “può essere suddivisa in unità che viaggiano liberamente da un sito all'altro, spesso in modi che il produttore non aveva previsto o inteso” permettendo N. Taddei, Trattato di teoria cinematografica, cit., p. 114-115. P. Antonio Spadaro, gesuita, è rettore della comunità de La Civiltà Cattolica; docente presso la Pontificia Università Gregoriana, fondatore e presidente della Federazione BombaCarta (Associazioni e gruppi di espressione creativa e riflessione critica). È stato tra i principali relatori al convegno nazionale Testimoni digitali. Volti e linguaggi nell’era crossmediale tenutosi a Roma dal 22 al 24 aprile 2010. 132 Sull’argomento si veda il recentissimo libro di p. Antonio Spadaro. Cfr. A. Spadaro, Web 2.0, reti di relazione, Edizioni Paoline, Milano, 2010. Si veda anche il volume del giornalista Vincenzo Grienti che ripercorre gli ultimi dieci anni (1999-2010) del rapporto tra la Chiesa e Internet, periodo caratterizzato “dalla crescita della cultura digitale tra gli utenti della Rete sotto il profilo tecnologico, da incisivi mutamenti sociali e da novità come Facebook, My Space, Twitter, Wikipedia e tanti altri fenomeni che, approdati in Italia da qualche anno, coinvolgono soprattutto i giovani ma anche organizzazioni e istituzioni. Una nuova fase della Rete che è destinata a ulteriori sviluppi: non a caso si parla già di Web 3.0”. V. Grienti, Chiesa e Internet. Messaggio evangelico e cultura digitale, Academia Universa Press, Firenze 2010. 130 131 note 79 note 80 luglio 2010 - anno X agli utenti “di prendere informazioni da diversi siti simultaneamente e di distribuirle sui propri siti per nuovi scopi”.133 Sulle problematiche e le opportunità sorte con la a piattaforma 2.0 si è tenuto a Roma, il 19-20 gennaio 2009, il convegno Chiesa in rete 2.0 promosso dall’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali e dal Servizio informatico della Cei e rivolto a webmaster e responsabili dei siti diocesani, direttori degli Uffici per le comunicazioni sociali diocesani, incaricati diocesani per l’informatica, radio, tv e settimanali cattolici diocesani.134 Il Web 2.0 si presenta come una piattaforma di sviluppo che sul piano aziendale è orientata agli affari così come nel marketing è una piattaforma per la comunicazione, per i giornalisti una piattaforma per i nuovi media e per i tecnici una piattaforma di sviluppo software, ecc. Tra le diverse funzioni ce ne sono alcune (tecnologia RSS) che permettono di ottenere aggiornamenti automatici non appena un sito cambia senza doverlo controllare spesso per avere le ultime informazioni. Attraverso tale tecnologia si può “ricercare, filtrare e remixare le notizie, gli articoli ed altri tipi di contenuto in nuovi oggetti di informazione. È proprio nel remixare, nella selezione competente e nella giustapposizione135 del contenuto e delle informazioni esistenti che risiede il grande potenziale di web 2.0”. Si tratta di tecnologie nuove ed in rapida evoluzione che permettono “l'accesso ad ampi database informativi proprietari che ancora una volta possono essere utilizzati per creare nuovi mix e combinazioni che altrimenti non sarebbero possibili […] che permettono agli sviluppatori di inventare e creare nuove applicazioni che migliorano i dati e le informazioni preesistenti”.136 Come già illustrato per Facebook, il Web 2.0 è costituito da un insieme di tecnologie raccolte come in una miscela che permette alle pagine di funzionare come applicazioni abbandonando la ormai classica staticità. Gli utenti, infatti, possono interagire con le informazioni nelle singole pagine come se stessero usando un'applicazione, allontanandosi Si afferma che “non si tratta di derubare gli altri del loro lavoro per il proprio profitto. Anzi, il Web 2.0 è un prodotto open-source, che permette di condividere le informazioni sulle quali è stato creato Internet e rende i dati più diffusi. Questo permette nuove opportunità di lavoro e di informazioni che possono essere costruite sopra le informazioni precedenti. Web 2.0 lascia ai dati una loro identità propria, che può essere cambiata, modificata o remixata da chiunque per uno scopo preciso. Una volta che i dati hanno un'identità, la rete si sposta da un insieme di siti web ad una vera rete di siti in grado di interagire ed elaborare le informazioni collettivamente”. http://www.masternewmedia.org/it/Web_2.0/scopri_tutti_gli_usi_e_le_occasioni_di_business_del_Web_2.0_2005 0710.htm 134 Gli atti del convegno sono pubblicati nel volume Chiesa in rete 2.0, Atti del Convegno nazionale (Roma, 19-20 gennaio 2009), prefazione di S.E. Mons. Mariano Crociata, San Paolo, 2010. 135 Si noti il termine giustapposizione che qui torna, pur sotto altra angolatura. 136 http://www.masternewmedia.org/it/Web_2.0/scopri_tutti_gli_usi_e_le_occasioni_di_business_del_Web_2.0 _2005 0710.htm. 133 dal precedente percorso di navigazione sequenziale fatto di pagine statiche.137 È il solito dilemma tra animazione e cultura (scientificamente e metodologicamente impostata). 6.3 Alcune piste di studio e di approfondimento L’incontro e la comunicazione interpersonale diretta - con la disponibilità a comunicare e quella ad ascoltare scambiandosi anche i relativi ruoli – è alla base della comunicazione tra le persone. Parlare e ascoltare in maniera diretta favorisce la crescita personale, dei rapporti umani, e dà impulso allo sviluppo delle relazioni concrete sul piano comunitario. Il telefono, la posta (ora anche elettronica) e altri sistemi tecnologici permettono una comunicazione a distanza mantenendo le relazioni tra persone che si trovano in luoghi diversi. 137 L’antica esperienza in campo informatico fa ricordare una frase che descriveva un particolare uso dell’informatica utilizzata solo per abbreviare i tempi nell’eseguire quanto era affidato come compito. Tale “modalità” era chiamata in gergo la via dell’acqua intendendo con tale espressione quei progressivi scostamenti dalle procedure finalizzate all’obiettivo prefissato così come i rigagnoli si formano nei punti in cui l’acqua trova più facilità a scorrere. Oltre a non raggiungere lo scopo, si possono provocare così le esondazioni (come oggi si chiamano le alluvioni con un eufemismo). Con i nuovi mezzi tecnologici, fa chic, ad esempio, autodefinire portale un normale sito istituzionale sia in campo civile che ecclesiale lasciando la storica staticità del sito. Allo stesso modo, il non effettuare tappe intermedie necessarie a introdurre nuovi sistemi fidando in una sorta di bacchetta magica (o di ordine forzoso) che poi permetta di risolvere tutto. Le conseguenze non si avvertono subito specie se mascherate da “animazioni” legate alla tecnologia e non all’interazione che un portale richiede. È nella concezione stessa del portale l’offerta (anche interattiva) di una serie di servizi. Il portale è uno strumento pensato per semplificare il rapporto tra utente e istituzione. In campo civile i portali dei comuni (che funzionavano veramente da portali) si sono evoluti in reti civiche e il vecchio portale funziona anche come “portale di portali”. La sfida del Web 2.0 e delle possibili applicazioni integrate come blog, forum, Youtube, più di un social network (Facebook, Twitter ecc.) può essere un importante passo per l’interazione e la condivisione da parte del cittadino, il cui ruolo deve restare centrale in tutti i processi di relazione. Anche nei casi di applicazione di nuove tecnologie va notato che, il più delle volte figure professionali diverse di webmaster e di webcontent sono svolte dalla stessa persona che, in genere è quella che ci sa fare con l’informatica e che, per siti di maggiore impegno, si moltiplicano solo le figure di tipo tecnico. Anche in questo caso ritorna lo squilibrio a svantaggio della cura da porre nella comunicazione dei contenuti. Oltre a porre la questione sull’impostazione e sui contenuti, queste affermazioni intendono attirare l’attenzione su una certo atteggiamento apatico (salvo, ovviamente, alcune eccezioni) con cui si affrontano tali problematiche e sulla cura nel tempo salvo le punte di impegno nella costruzione e nei restyling. Sono sintomi che devono far riflettere. Sull’argomento si veda quanto la relazione tenuta da Claudio Mazza, direttore del portale www. chiesadimilano.it al Vicariato di Roma il 12 febbraio 2005 in cui, nella seconda parte, viene visto il web animator come “figura pastorale al servizio della comunità” senza diventare “il delegato alle cose del computer”. Interessanti, pur nella loro sinteticità, i riferimenti giuridici relativi al web. Cfr. C. Mazza, Un sito Internet con stile pastorale, relazione, Vicariato di Roma, 12 febbraio 2005. La relazione è consultabile e scaricabile da http://www.chiesa dimilano.it/or/ADMI/esy/ objects/docs/287095/intervento_claudio _mazza.pdf note 81 note 82 luglio 2010 - anno X La Chiesa privilegia tale tipo di comunicazione sia interpersonale che assembleare pur non mancando altri tipi di presenza tramite i mezzi di comunicazione sociale. Non si può catalogare tra questi ultimi l’iniziativa di Preti on-line138 che, nella sua finalità, intende, tramite Internet, “dare a chiunque la possibilità di mettersi a contatto con un prete […] e favorire il contatto e lo scambio tra tutti i preti "internettari" che - si nota – “ormai sono veramente tanti!”.139 Si aggiunge che “forse molti hanno il desiderio di parlare con un sacerdote, per i motivi più diversi, ma non sempre ne hanno la possibilità: eccoci a disposizione!”. Sul favorire il contatto tra i preti “internettari" si fa sapere che “c’è l'esperto di Sacra Scrittura, quello di Teologia Dogmatica, quello che si occupa di Scouts, il viceparroco alla prima esperienza,… perché non dialogare ed aiutarsi nello svolgimento del nostro ministero?”.140 Per ogni persona a disposizione vengono indicati regione, diocesi, anni di nascita e di ordinazione, competenze, breve presentazione e i tempi di risposta prima di un’icona su cui si clicca per inviare un messaggio dopo, però, essersi registrati. Come si può vedere, si tratta di una comunicazione interpersonale che viaggia sulla rete senza le modalità tipiche dei media. Diversamente (va rilevato solo ai fini di precisare meglio la distinzione) il sito è strutturato secondo il linguaggio dell’immagine. Sono distinzioni che vanno sempre ricordate evitando confusioni. L’esempio indica come 782 persone (in prevalenza sacerdoti) abbiano pensato di rendersi disponibili ad ascoltare le persone anche attraverso i mezzi che la tecnica mette a disposizione. Il contatore degli accessi al sito mostra poco più di 1.200.000 visitatori in Preti on-line, come si legge nella presentazione, è un “servizio attivato il 15/6/1997 a cura di don Giovanni Benvenuto, con la collaborazione di don Gianfranco Falgari”. Cfr. http://www. pretionline.it/. 139 Al momento della consultazione ne risultavano 782. Se ne documenta anche la presenza per regione e per tipologia. Questa la distribuzione per regione: Abruzzo - Molise 31; Basilicata 17; Calabria 44; Campania 101; Emilia Romagna 42; Lazio 90; Liguria 32; Lombardia 111; Marche 33; Piemonte - Valle d'Aosta 43; Puglia 67; Sardegna 34; Sicilia 102; Toscana 45; Triveneto 84; Umbria 18; Ordinariato Militare 1. Per tipologia, invece, tali presenze sono così suddivise: Preti diocesani 589; Preti religiosi 193; Società di Vita Apostolica 14; Vescovi 1; Religiosi (non preti) 14; Diaconi 5; Diaconi di Istituti Religiosi 2; Diaconi permanenti 64; Seminaristi 21; Studenti di Istituti Religiosi 7. Accanto al nome di ogni iscritto appare un dischetto, colorato a mo’ di semaforo con i colori verde, giallo e rosso ad indicare rispettivamente che “il prete è disponibile a rispondere; il prete è disponibile, ma potrebbe essere momentaneamente occupato: il prete in questo momento è poco disponibile” (http://www.pretionline.it/). Nel contatto a distanza con gli interlocutori sarà utile aver presente come l’immagine del prete è stata rappresentata nella filmografia italiana: “Il prete viene nei vari film considerato come persona, in quanto il riferimento è più diretto ad affrontare una problematica personale; oppure come esercitante un determinato ruolo di rappresentante della chiesa. Prescindendo dall’esattezza ecclesiologica di una simile visione del sacerdote, è più utile cogliere attraverso queste categorie la mentalità che viene riflessa nei film e interpretare le intenzioni tematiche espresse o inespresse degli autori”. (F. Cacucci, Il prete nel cinema italiano, Ecumenica Editrice, Bari, 1980, p. 6). 140 Ibid. 138 12 anni circa. Il dato è significativo anche se riguarda gli accessi e non i contatti tramite i messaggi. È, comunque segno di buon gradimento. Per quanto riguarda i media e la mentalità contemporanea la preparazione specifica e apposita, viene richiesto un opportuno studio ed esercizio non solo a chi comunica attraverso i media ma anche a chi opera in campo educativo e pastorale; ad essi è richiesto “un serio impegno di conoscenza, di competenza, di uso qualificato e aggiornato”. Giovanni Paolo II indica il mondo della comunicazione come “il primo aeropago del mondo moderno” e avverte che “non basta usarli [i media] per diffondere il messaggio cristiano e il magistero della Chiesa, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa ‘nuova cultura’ creata dalla comunicazione moderna… con nuovi linguaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici” (RM 37c). Commentando questo passo Taddei afferma che “È facile allora intuire che l’attuale mondo della comunicazione è ‘il primo areopago’ e che la considerazione dei mass-media deve essere la ‘dimensione’ di ogni nostro apostolato: senza badare seriamente a questi ‘modi del comunicare’, si corre il rischio di essere umanamente sterili”.141 Sulla stessa lunghezza d’onda è il card. Ruini, allora presidente Cei, che, nell’introdurre il Direttorio Comunicazione e missione sulle comunicazioni sociali nella missione della Chiesa, afferma: “Con il Direttorio si intende proporre alla comunità ecclesiale italiana un quadro strutturato dei contenuti e delle prospettive da cui partire per realizzare una pastorale che consideri le comunicazioni sociali non come un suo settore, ma come una sua dimensione essenziale”.142 Il documento, però, ha seguito lo stesso destino degli altri documenti riguardanti le comunicazioni sociali: poco conosciuti e di conseguenza con poca o nessuna incidenza a livello pratico.143 Di alcuni aspetti, presenze, iniziative e problematiche si è parlato nei paragrafi precedenti con ricorrenti ed anche lunghe citazioni. Taddei aggiunge “Dico ‘umanamente’, perché è ovvio che la Fede e la Grazia sono dono di Dio e, di fronte a ciò, noi possiamo dire solo ‘servi inutiles sumus (siamo servi inutili)’; ma vorrei sapere quanti di noi, quando ci siamo dedicati a uno specifico apostolato, o per libera scelta o per obbedienza, si sono proposti di essere inutili; o non è piuttosto che si sono proposti di poter dire ogni sera: ‘quod debuimus facere fecimus, et utinam fecissemus (abbiamo fatto quello che dovevamo fare e magari l’avessimo fatto veramente)’? (N. Taddei s.j., Papa Wojtyla e la ‘nuova’ cultura massmediale, cit., p. 24, nota 5). 142 C. Ruini, Introduzione, in CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, “Comunicazione e missione. Direttorio sulle comunicazioni sociali nella missione della Chiesa”, Libreria Editrice Vaticana, 2004, p. 5. Il documento è consultabile anche su http://www.webcattolici.it/webcattolici/allegati/124/DirettorioComunicazioniSociali.pdf da dove può essere anche scaricato. 143 Non sono mancati (e non mancano) momenti in cui ci si pone il problema in modo più avvertito e determinato. Si veda, ad esempio, la Lettera ai Cercatori di Dio che – come afferma mons. Bruno 141 note 83 note 84 luglio 2010 - anno X Prima di delineare qualche pista di studio e di approfondimento appaiono necessarie alcune brevissime riflessioni. Da quanto illustrato risulta chiaro che non esistono ricette né soluzioni da deus ex machina. Ovvero l’unica ricetta è l’impegno, lo studio e la continua ricerca. È quanto suggerisce l’istruzione pastorale Aetatis novae che al n. 18 afferma: “l'educazione e la formazione alla comunicazione devono far parte integrante della formazione degli operatori pastorali e dei sacerdoti. Numerosi elementi ed aspetti specifici sono da tener presenti per questa educazione e per questa formazione. Nel mondo di oggi, così fortemente influenzato dai media, è necessario, per esempio, che gli operatori pastorali abbiano almeno una buona visione di insieme dell'impatto che le nuove tecnologie dell'informazione e dei media esercitano sugli individui e sulle società. Devono inoltre essere pronti a dispensare il loro ministero sia a coloro che sono "ricchi di informazione" sia a coloro che sono "poveri di informazione". E necessario che sappiano come invitare al dialogo, evitando uno stile di comunicazione che faccia pensare al dominio, alla manipolazione o al profitto personale. Coloro che saranno impegnati attivamente nel lavoro dei media per la Chiesa debbono acquisire sia competenza professionale in materia sia una formazione dottrinale e spirituale” (AN 18). La stessa istruzione indica la necessità di un Piano pastorale di comunicazione che, al n. 28, specifica. Ne parla a proposito di educazione: “le questioni della comunicazione e della comunicazione di massa interessano tutti i livelli del ministero pastorale, compreso quello dell'educazione. Un piano pastorale di comunicazione dovrà sforzarsi: a) di proporre alcune possibilità di educazione in materia di comunicazione, presentandole come componenti essenziali della formazione di tutti coloro che sono impegnati nell'azione della Chiesa, sia che si tratti di seminaristi, sacerdoti, religiosi e religiose oppure di animatori laici; b)di incoraggiare le scuole e le università cattoliche a proporre programmi e corsi in vista delle necessità della Chiesa e della società in materia di comunicazione; c) di proporre dei corsi, laboratori e seminari di tecnologia, di gestione, d'etica e di politica della comunicazione, destinati ai responsabili della Chiesa in questa materia, ai seminaristi, ai religiosi ed al clero; d)di prevedere e di mettere in opera dei programmi di educazione e d'intelligenza dei media da proporre all'attenzione degli insegnanti, dei genitori e degli studenti; e) di incoraggiare gli artisti e gli scrittori a preoccuparsi di trasmettere i valori evangelici nella utilizzazione che essi fanno dei loro talenti per la stampa, il teatro, la radio, le trasmissioni televisive e i film ricreativi ed educativi; Forte nella presentazione - intende “suggerire, evocare, attrarre a un successivo approfondimento, per il quale si rimanda a strumenti più adatti e completi, fra cui spiccano il Catechismo della Chiesa Cattolica e i Catechismi della Conferenza Episcopale Italiana”. Anche in questo caso, però, non si danno ricette pronte e si richiede l’impegno alla ricerca ed all’approfondimento. Cfr. Conferenza Episcopale Italiana - Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede, l’Annuncio e la Catechesi, Lettera ai Cercatori di Dio, 2009. Il testo, in formato pdf, è consultabile e scaricabile dal sito della Cei all’indirizzo http://www.chiesacattolica.it/pls/cci_new/ bd_edit_doc.edit_documento?p_id=14580. f ) di trovare nuove strategie di evangelizzazione e di catechesi rese possibili dall'applicazione delle tecnologie della comunicazione e dei mezzi di comunicazione” (An 28). Parlando della formazione, di chi è chiamato ad insegnare, a predicare come del futuro sacerdote, Taddei indica di “lavorare anzitutto sulla mentalità, trasformandola opportunamente sul piano dei linguaggi e della mentalità contornuale non inquinata” sottolineando che “i nuovi linguaggi comportano anche nuove tecnologie che li conseguono e che non vanno confuse con quelle da cui questi stessi nuovi linguaggi nascono.144 […] È ovvio che si richiede una specifica competenza e che questa specifica competenza va formata”.145 Un’altra riflessione riguarda il fatto che l’educazione a e con, aiutando a demassificare, consente alle persone di essere più libere, le aiuta a saper discernere, a usare intelligenza e volontà. È questa è un’opera molto preziosa di pre-evangelizzazione. Nota Taddei: “Oggi, poi, — e lo si noti bene — ciò che convince, non è la verità, bensì il modo in cui tanto la verità quanto la falsità vengono espresse e recepite. E ciò a causa della mentalità massmediale ottusa e refrattaria a una comunicazione spirituale; e pertanto, all’atto pratico, è necessario un lavoro previo di ‘mentalizzazione’, di ‘demassificazione’ e di decondizionamento”.146 Cacucci, parlando del ruolo dell’immagine nella comunicazione contemporanea, afferma: “Nella dimensione contemporanea del vivere, la rilevanza di più immagini ha aperto nuove e spesso impensate via al comportamento umano. Si parla della funzione educativa, informativa, diversiva dell’immagine. Dalla fusione di queste funzioni principali, difficilmente scomponibili nel loro processo di ricezione, nascono analoghe funzioni della immagine, quali quelle di passatempo, evasione, spettacolo, propaganda di idee, ‘credo’, pubblicità. Si tratta di un rapporto originario che è al di là della odierna evidenziazione psicologica e pratico-pragmatica del mondo delle immagini. Se poi si pensa alla grande diffusione contemporanea dei mezzi di comunicazione, è facile ricavare le notevoli conseguenze del linguaggio dell’immagine. Conseguenze certamente negative si manifestano nel livellamento della mentalità e della cultura delle masse. La prospettiva però di un’educazione a questo nuovo tipo di linguaggio rende più ottimisti specialmente sull’influenza che i mezzi di comunicazione hanno sui giovani.”147 E, riguardo al ruolo del laico nel campo della comunicazione, afferma: Circa la traduzione nel linguaggio contornuale è da approfondire il linguaggio di don Tonino Bello. Si capirebbe la “connaturalità” di tale linguaggio ed il suo uso nel campo della comunicazione ecclesiale. Si capirebbe anche che la “traduzione” non è solo un mero esercizio retorico ma un fatto di vita e di ricerca. 145 N. Taddei s.j., Papa Wojtyla e la ‘nuova’ cultura massmediale, cit., p. 43. 146 Ibid., p. 41. 147 F. Cacucci, Teologia dell’immagine. Prospettive attuali, Edizioni i7- Centro dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale, Roma 1971, p. 150. 144 note 85 86 note luglio 2010 - anno X “I laici quindi sono chiamati a dare il loro contributo nel campo della predicazione. Sarebbe interessante approfondire lo studio sulle modalità con cui i laici possono predicare direttamente, ma questo ci allontanerebbe dal nostro scopo. Preferiamo vedere nel laico il membro della Chiesa più indicato per realizzare un tipo di predicazione indiretta attraverso quei mezzi di comunicazione sociale che adoperano il linguaggio dell’immagine, aiutando cosi ogni cristiano a ‘farsi uomo’. Risponde questo indirizzo alla natura del laicato che si distingue dai membri dell’ordine sacro e dai religiosi per la ‘indoles saecularis’ (Lumen Gentium, n. 31). Essi sono chiamati da Dio a contribuire alla santificazione delle realtà temporali”.148 Non è detto che il compito sia facile ed i risultati garantiti come dimostra quanto accaduto a Paolo dopo il suo discorso all’Aeropago di Atene. Gli esempi possono essere tanti ma è opportuno citare la testimonianza del gesuita p. Massimo Pampaloni, missionario in Brasile che riguarda un “incidente di percorso” (una sua rassegna cinematografica prima approvata e poi vietata) riguardo al quale afferma: “Ci rimasi molto male e mi sfogai con Padre Taddei. La sua risposta fu per me, lì per lì, una mazzata: ‘Sono contento, mi scrisse, sono molto contento. Per due ragioni che Le spiego subito. La prima è che è bene che Lei, caro Pampaloni, si faccia subito le ossa se vuol percorrere questa strada. La seconda è che, in fondo, non deve lamentarsi perché non Le è successo niente. Vada avanti’. Andai avanti e fu un successo: anche perché mi rivolsi allora al pubblico universitario, giovane e lontano dalla chiesa, che mai sarebbe venuto in un ‘giro’ ecclesiale…”149 Al terzo posto più che una riflessione si ritiene opportuno offrire le linee di approfondimento e ricerca che vengono seguite da anni, sull’argomento, presso l’Issr di Trani che possono essere utili ad avere un’idea degli aspetti e implicazioni che il campo della comunicazione sociale può avere andando certamente oltre la nozione di media esclusivamente come “cassa di risonanza”. Il piano di ricerca prevede e comprende vari filoni di approfondimento come è riscontrabile sulla rivista dell’Istituto ove sono presentati proprio alcuni lavori di tesi.150 I percorsi di ricerca riguardano in particolare: gli aspetti di base relativi all’educazione ai media e, da questi, alla comunicazione religiosa; gli aspetti teologico - pastorali e magisteriali compresi quelli relativi all’evoluzione del concetto dei media nella Chiesa italiana e nelle Chiese di Puglia ed alla comunicazione istituzionale della chiesa. Non sono trascurati i sinIbid., p. 225. Con tali affermazioni e con quanto illustrato riguardo alla Metodologia Taddei, siamo lontani dal “sbrigativo” usare le sei funzioni della lingua secondo Jacobson (referenziale, espressiva, poetica, persuasiva, fàtica, metalinguistica). Si tratta di un livello più alto (rispetto a quello stilistico – espressivo) a cui anche il laico è chiamato. Si veda anche A. Ciaula, L’operatore della cultura e della comunicazione. Percorsi formativi e inculturazione nel territorio, in “Salos”, rivista di fede e cultura, Issr Trani, Ed. Rotas, Barletta. n. 8, 2008, p. 81-86. 149 M. Pampaloni, s.j., Un’esperienza personale sul ‘metodo Taddei’, pubblicato su “Gesuiti in Italia”, n. 1, 2004 è stato ripreso recentemente da Edav nel n. 381 di giugno 2010 ((p. 30). 150 Cfr. A. Ciaula, Comunicazioni sociali e comunicazione istituzionale. Percorsi di studio alla luce del Vaticano II, “Salòs” rivista di fede e cultura, Issr Trani, Ed. Rotas, Barletta, n. 7, 2007, p. 139-149. 148 goli media visti in rapporto con il Magistero e/o con la comunicazione religiosa. Sul fronte della comunicazione religiosa (sia didattica che catechetica) ci si spinge anche in ipotesi di “produzione” di audiovisivi catechistici, pur rimanendo in ambito solo metodologico.151 La metodologia di riferimento è quella dell’educazione a l’immagine e dell’educazione con l’immagine del prof. Nazareno Taddei approfondita durante i corsi istituzionali. L’apparente diversità delle piste di approfondimento si compone nella ricerca tipicamente post-conciliare ed in linea con il percorso della Chiesa italiana che può essere così sintetizzato: un quadro strutturato di contenuti e prospettive “per realizzare una pastorale che consideri le comunicazioni sociali non come un suo settore, ma come una sua dimensione essenziale”, secondo l’affermazione, già citata, del card. Ruini. L’immagine tecnica è sempre vista in funzione di comunicazione di contenuti mentali, specie nella comunicazione religiosa.152 Come si può notare, nell’approfondire lo studio e l’esercizio della comunicazione religiosa – per la parte che dipende dal comunicante - i criteri di riferimento non sono quelli della divulgazione quanto, piuttosto, quelli di una comunicazione impostata secondo criteri scientifici in cui lo stile e le modalità di comunicazione sono importanti quanto il contenuto del messaggio stesso. In tale contesto le iniziative – anche a carattere religioso - non vanno pensate a prescindere dal linguaggio dell’immagine per poi volerle veicolare e pubblicizzare attraverso i media (cassa di risonanza) quanto, piuttosto, dovranno essere pensate secondo il contesto e il linguaggio di oggi (in funzione di formazione di mentalità). Questa modalità – molto più vicina alla logica dell’incarnazione - fa la differenza e può essere la cifra distintiva del comunicare cristiano assumendosi la fatica del conoscere, del pensare, dell’esprimere veicolando contenuti mentali. I verbi dell’incipit della prima Lettera di Giovanni possono essere presi a riferimento e modello di una comunicazione che, sul piano scientifico, suona come “idea della cosa conosciuta, idea della cosa da dire, idea del segno, realizzazione del segno” secondo le espressioni della Metodologia Taddei che, in relazione a questi momenti del comunicante pone la questione della verità e testimonianza della e nella comunicazione e, quindi, diremmo, dell’eticità del suo processo. Un’ultima riflessione riguarda la necessità sempre più urgente di conoscere e (studiare) i documenti principali riguardanti le comunicazioni sociali dal Vaticano II in poi compresi Sarebbe molto utile aiutare a far produrre in modo corretto qualsiasi tipo di video. Oggi, con apparecchiature digitali, ognuno può essere chiamato a diventare “regista di se stesso”. Andare oltre la foto o il video – che hanno come idea centrale quella di “ricordo/documentazione di un dato avvenimento” – può essere molto utile anche alla comunicazione religiosa. Ancor più se tali prodotti sono poi veicolati sul web attraverso la pubblicazione su YouTube. 152 Sull’impegno dell’Issr di Trani sul versante della comunicazione si veda anche D. Marrone, Multimedialità e formazione teologica, “Salos” rivista di fede e cultura, Issr Trani, Ed. Rotas, Barletta, n. 8, 2008, p. 77-79. L’Istituto ha anche attivato l’insegnamento di Etica della comunicazione tenuto dal prof. Marrone. 151 note 87 note 88 luglio 2010 - anno X i documenti Cei in materia che culminano nel Direttorio Comunicazione e Missione.153 Potrebbe essere un bell’impegno pratico e reale all’inizio del decennio che la Cei ha dedicato l’attenzione all’educazione.154 Un tale impegno di studio distoglierebbe da altre “tentazioni” come quella della superficialità, del protagonismo e dell’uso della comunicazione come esercizio di un potere e porterebbe ad assumere uno stile di servizio che manifesti un amore per l’uomo. Comunicare è credere all’incarnazione. Ma qui il discorso diventerebbe lungo impegnando anche ad una spiritualità della comunicazione (argomento che necessita di un approfondimento specifico). È anche voler bene all’uomo per il quale l’incarnazione è avvenuta. È lavorare sul letto del fiume più che (soltanto) sugli argini. Se ne indicano i maggiori: il decreto conciliare Inter Mirifica (1963); le istruzioni pastorali Communio et Progressio (1971) ed Aetatis Novae (1992), la lettera apostolica Il Rapido Sviluppo (2005). Quanto ai documenti Cei basterebbe almeno lo studio del Direttorio Comunicazione e Missione che riassume anche il cammino della Chiesa italiana riguardo all’evangelizzazione nel mondo contemporaneo (si pensi all’espressione Comunicare il vangelo in un mondo che cambia focus degli “Orientamenti pastorali per gli anni 2000”). Un’ultima indicazione riguarda l’enciclica Redemptoris missio (1990) che tratta della “permanente validità del mandato missionario” ed il cui n. 37c è diventato punto di riferimento per i documenti successivi e per quanti operano nel campo delle comunicazioni sociali. Per un approfondimento dei vari contenuti e della loro evoluzione cfr. A. Ciaula, Magistero multimediale. Il “Direttorio sulle comunicazioni sociali” nel cammino post-conciliare della chiesa italiana, in “Salòs”, rivista di fede e cultura dell’Istituto di Scienze Religiose “San Nicola il Pellegrino” di Trani (Isrr Trani), Ed. Rotas, Barletta, n. 5, 2005, p. 81-113; A. Ciaula, “Il rapido sviluppo”. Per un primo approccio alla lettera apostolica di Giovanni Paolo II ai responsabili delle comunicazioni sociali, in “Salòs”, rivista di fede e cultura, Isrr Trani, Ed. Rotas, Barletta, n. 5, 2005, p. 115-123. 154 Sull’argomento cfr. A. Ciaula, Emergenza educativa e mentalità massmediale. Una vera sfida. Editoriale, “Salòs, rivista di fede e cultura”, 9, 2009, p. 5-11; G. Grasselli, Educazione e mass media: la rivoluzione di padre Taddei, “Edav”, n. 361, giugno 2008, p. 9-14. 153 note Il passato che ritorna. Le Pergamene della Biblioteca Diocesana di Trani (845-1435)1 89 Daniela Di Pinto* [email protected] La Biblioteca Diocesana di Trani e le altre dell’Arcidiocesi subiscono sostanziali modificazioni a partire dal 1986, anno in cui la Santa Sede decreta la fusione in un’unica Chiesa locale di tre preesistenti Diocesi: l’Archidiocesi di Trani, l’Archidiocesi di Barletta e la Diocesi di Bisceglie. Ma l’anno che segna un punto di profonda trasformazione è il 2008, in cui, con decreto Arcivescovile, è stata istituita l’unica biblioteca dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta e Bisceglie, nonché l’unico archivio, poi ripartita rispettivamente nelle tre sezioni: • Biblioteca Diocesana Centrale “Arcivescovo Giovanni” - Trani • Biblioteca Diocesana “Pio IX” - Sez. di Barletta • Biblioteca Diocesana “San Tommaso d’Aquino” - Sez. di Bisceglie. L’Arcivescovo, secondo le indicazioni dell’Ufficio Nazionale BB.CC. della C.E.I, ha affidato alla Biblioteca di Trani il ruolo di Biblioteca centrale, quale punto di riferimento per le altre Biblioteche diocesane. Essa deve diventare l’Archivio bibliografico della Diocesi, il centro documentario di tutto ciò che in Essa e su di Essa viene pubblicato. La Biblioteca di Trani perciò manterrà una attività di coordinamento * Direttrice delle Biblioteca Diocesana (comprendente le sezioni bibliotecarie di Trani, Barletta e Bisceglie) e Direttrice dell’Archivio Diocesano (comprendente le sezioni archivistiche di Trani, Barletta e Bisceglie). 1 Relazione tenuta il 15 maggio 2010 presso l’Auditorim San Luigi in Trani. L’iniziativa è stata promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Trani in collaborazione con l’Associazione Obiettivo Trani Territorio – Cultura - Turismo, con l’Arcidiocesi di Trani –Barletta - Bisceglie, con la Società di Storia Patria per la Puglia Sezione di Trani “Benedetto Ronchi”. Quelle testimonianze documentano inconfutabilmente una storia ed una civiltà note 90 luglio 2010 - anno X con le altre Biblioteche diocesane, con le biblioteche degli Istituti di Vita Consacrata e manterrà contatti con le biblioteche civiche e statali del territorio. L’Ufficio Beni Culturali, in accordo con i Direttori delle singole Biblioteche, ha riconosciuto la necessità di una “specializzazione” del materiale librario, secondo criteri di scientificità, utilità e ragionato incremento, al fine di evitare duplicazione degli acquisti, di ottimizzare l’offerta dei servizi e di garantire una maggiore diversificazione dei fondi. La Biblioteca di Trani, vivendo in osmosi con l’Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola il Pellegrino, sta via via imprimendo al suo patrimonio librario una specificità nelle discipline teologiche e filosofiche, nel diritto canonico ed ecclesiastico, nella patristica, nelle scienze bibliche e liturgiche, nella storia ecclesiastica. La Biblioteca di Barletta si sta specializzando sul versante delle scienze storiche, con particolare riguardo alla storia patria, alla storia della Chiesa locale e a quella civile ed ecclesiastica del Mezzogiorno d’Italia. La Biblioteca di Bisceglie, essendo la Biblioteca del Seminario Arcivescovile, sta caratterizzando il suo patrimonio librario con opere di psicologia, pedagogia, didattica, spiritualità, agiografia, teologia pastorale, vocazionale e opere relative alla identità e alla formazione del presbitero. La Biblioteca diocesana Centrale di Trani “Arcivescovo Giovanni”, inaugurata nel giugno 1975, è sita nei locali a piano terra dell’ottocentesco palazzo Sardella, al cui primo piano è collocato l’Istituto di Scienze Religiose. Essa offre così una continua opportunità di fruizione agli studenti di teologia del medesimo Istituto. Il patrimonio librario conta circa 30.000 volumi a carattere filosofico, teologico, letterario, storico e artistico, cui si è aggiunta la donazione di circa 5.000 volumi a carattere storico-filosofico appartenuti al compianto professore universitario Savino Blasucci ed ancora una donazione della famiglia Lamura di Trinitapoli; 90 pubblicazioni periodiche di cui la metà correnti. Le tre biblioteche diocesane sono dotate di postazioni reference, per l’accoglienza, l’orientamento e le informazioni per l’utenza, espositori per le riviste, ampie sale lettura e consultazione con libri sistemati a scaffale aperto con possibilità di libera consultazione, schedari cartacei per titoli, autori e per soggetto, postazioni internet, sala convegni, possibilità di riproduzione e foto riproduzione tramite sofisticati impianti per la digitalizzazione dei documenti. Attualmente la Diocesi sta avviando il progetto di catalogazione informatizzata dei beni librari della Biblioteca Diocesana articolata nelle triplici sezioni di Trani, Barletta e Bisceglie. Tale progetto è stato varato dall’Ufficio Nazionale Beni Culturali Ecclesiastici della Conferenza Episcopale Italiana per tutte le Biblioteche Ecclesiastiche del territorio nazionale. Il complesso progetto denominato Cei-Bib è stato predisposto con strumenti tecnici e un'infrastruttura logica che garantisce la presenza del polo delle biblioteche ecclesiastiche italiane in SBN (Sistema bibliotecario nazionale) all’indirizzo internet www.polopbe.it. Per la nostra realtà diocesana sarà creato un catalogo unico, per tutte le biblioteche diocesane con la differenziazione solo inerente alla localizzazione fisica del materiale librario nelle tre sezioni di Trani, Barletta e Bisceglie. Un archivio riflette la storia dell'istituzione che lo ha prodotto: non è fonte storica solo per le informazioni che tramanda, ma anche perché consente di conoscere l'istituzione che operava nella società, i suoi condizionamenti, le sue finalità. L'archivio è un'opera, un monumento, del passato al pari di un edificio o di un reperto archeologico e costituisce in sé oggetto di studio per le sue caratteristiche strutturali e funzionali. Non sono molte le persone che siano in grado di dare una risposta adeguata alla domanda "Che cosa sono gli archivi?". Gli archivi, con i musei e le biblioteche, sono istituti di conservazione e valorizzazione dei beni culturali. Ma i documenti hanno caratteristiche diverse da quelle delle opere d'arte e dei libri. Un’opera d'arte fin dal momento in cui nasce costituisce un fatto culturale e soprattutto può essere fruita. I documenti, invece, non nascono per essere destinati ai futuri utenti degli archivi, nascono con finalità giuridiche e amministrative, strettamente connesse alle funzioni e alle competenze proprie degli enti che li pongono in essere. Ma contemporaneamente, fin dalla loro origine, i documenti sono la testimonianza scritta di atti giuridici o di eventi religiosi e sociali e quindi fin dall'origine hanno rilevanza storica. I documenti non sono strumenti immediati di diffusione della cultura, ma richiedono sempre una mediazione. Il singolo documento o il complesso dei documenti di una serie archivistica non ordinata e priva di qualsiasi mezzo di corredo non hanno alcuna possibilità di fruizione. La valorizzazione è implicita nel concetto di conservazione che, correttamente inteso, comporta studio e ordinamento delle fonti e compilazione di strumenti di ricerca, da cui soltanto può derivare l'allargamento reale della possibilità di accesso e di utilizzazione dei documenti. Gli archivi ecclesiastici e religiosi sono indubbiamente tra le fonti archivistiche più ricche ed importanti esistenti sul territorio nazionale. La Chiesa vanta una antichissima e gloriosa tradizione, che risale ai primissimi secoli dopo Cristo. Per archivi ecclesiastici e religiosi si intendono quelli che riflettono la multiforme attività della Chiesa cattolica: archivi diocesani, archivi delle mense vescovili, archivi parrocchiali, archivi capitolari, archivi delle confraternite, archivi dei monasteri e delle congregazioni religiose, archivi dei seminari. Nucleo essenziale dell'organizzazione ecclesiastica è la diocesi, con a capo il Vescovo; in ogni provincia ha sede una diocesi con poteri primaziali con a capo l'Arcivescovo. Anche le sedi vescovili, fin dall'epoca seguente alla fine delle persecuzioni, organizzarono una propria cancelleria e dunque un proprio archivio. Gli archivi diocesani comprendono l'archivio della curia vescovile, ossia prodotto dall'ufficio del vescovo, e l'archivio capitolare. Nel progetto previsto nell’Accordo di Programma Quadro (A.P.Q.)– Ente DiocesiRegione Puglia, l'intero patrimonio documentario dei tre Archivi Diocesani è stato comple- note 91 note 92 luglio 2010 - anno X tamente: riordinato, inventariato con il programma informatizzato CeiAR e digitalizzato. Come prodotto finale è stato realizzato un inventario informatizzato, uno strumento di corredo che è disponibile in formato elettronico, ma anche in formato cartaceo. Gli Archivi Diocesani conservano documenti a partire dal sec. XII; essi forniscono un importante supporto per ricostruire la storia del territorio diocesano e dei territori limitrofi. I fondi principali che costituiscono l’Archivio Diocesano di Trani sono: il fondo Curia Arcivescovile, il fondo Capitolo Metropolitano, il fondo ACLI, il fondo Parrocchia Cattedrale, il fondo pergamenaceo. L’importanza del fondo pergamenaceo dell’Archivio diocesano di Trani deriva dalla sua consistenza numerica – si tratta di 1162 documenti su pergamena – e dall’esteso arco cronologico che va dal IX al XVII secolo. Per le pergamene più antiche n. 466, dall'845 al 1435, è disponibile un regestario pubblicato nel 1983 dal prof. Luigi Scarano (L. Scarano, Regesto delle pergamene del Capitolo metropolitano e della Curia Arcivescovile di Trani, dai Longobardi agli Angioini (845-1435), Bari 1983). Per l’intero fondo pergamenaceo è stata realizzata la riproduzione digitale che preserva i documenti originali dalla consultazione diretta. Ciascuna pergamena è corredata da una scheda che contiene i seguenti dati: luogo di emissione e data, misura, regesto, bibliografia relativa agli autori che hanno pubblicato per intero o in parte il documento, eventuali note sulle caratteristiche particolari, sulla esistenza dei sigilli ecc. Uno dei più antichi strumenti che elencano parte della documentazione fu edito nel 1877, con i tipi di Valdemaro Vecchi, dal titolo Le carte che si conservano nell'Archivio del Capitolo metropolitano della città di Trani (dal IX secolo fino all'anno 1266) e ne era l'autore il tranese Arcangelo Prologo. Già lo stesso Prologo rilevava con amarezza che, verso la metà del secolo XIV, il numero delle pergamene dell'Archivio del Capitolo Metropolitano ascendeva «a parecchie migliaia» e che la maggior parte di esse, fu depredata e distrutta dagli Ungari. Due secoli dopo, nel 1500 la consistenza era di circa duemila; un'ulteriore gravissima perdita esse dovettero subire nel 1529 e nel 1656, a seguito delle violente pestilenze che funestarono Trani. Si aggiungono, poi, i danni causati all'Archivio del Capitolo nell'aprile del 1799, quando Trani dopo breve resistenza fu occupata e messa a ferro e a fuoco dalle truppe francesi del generale Broussier, e si potrà comprendere come nel 1844, in sede di riordinamento delle carte d'archivio, le pergamene si fossero ridotte. Anche i lavori di restauro della Cattedrale, operato negli anni 1950-60, hanno lasciato il segno nella consistenza delle pergamene, determinandone un ulteriore depauperamento. Altre pubblicazioni sulle pergamene sono già state pubblicate, oltre che dal Prologo, da Giovanni Beltrani e Francesco Carabellese, nonché da Orazio Palumbo, da Lorenzo Festa Campanile, da Giuseppe Simone Assemani e da altri illustri scrittori. Il fondo comprende: una cospicua raccolta di bolle e di brevi papali, di diplomi regi, di atti di donazione di compravendita e di locazione, di testamenti, di diplomi arcivescovili di vario interesse, di atti riguardanti la vita di comunità religiose operanti nell'ambito giurisdizionale dell'arcivescovado di Trani. La più antica delle quali risale al maggio dell'845, quando Trani faceva parte del ducato longobardo di Benevento. È questa l'unica pergamena che si conservi del IX secolo. Tra le pergamene ricordiamo: - la bolla del 1090 con la quale Urbano II stabilisce i luoghi di giurisdizione dell'archidiocesi tranese allora retta dall'Arcivescovo Bisanzio; - la bolla del 1099 dello stesso Papa per la canonizzazione di S. Nicola Pellegrino; - la bolla di Callisto II del 1121 sulla giurisdizione della archidiocesi; - il diploma di Ruggero, duca di Puglia, con il quale si concedono numerosi privilegi alla città di Trani dopo la resa del 1139; diplomi dell'imperatrice Costanza del 1199 e di Federico II del 1210, del 1221 e del 1225; diplomi di Carlo II d'Angiò del 1272; diploma del Re Roberto del 1341; diplomi delle regine Giovanna I e Giovanna II d'Angiò; - diplomi dei re aragonesi e numerose bolle arcivescovili relative alla composizione di vertenze insorte tra il Clero di Trani e quello di Barletta e di Corato; alla concessione di benefici a sacerdoti e religiosi della diocesi; alle competenze dei Capitoli delle varie città ed ai benefici spettanti alle diverse cariche sacerdotali. Non vanno poi trascurate, le pergamene contenenti contratti privati, donazioni, testamenti dai quali è quasi sempre possibile rilevare notizie utilissime sulla topografia urbana e del territorio, sulla genealogia di alcuni noti personaggi, sugli usi e sui costumi delle nostre popolazioni. Data la preziosità di questi documenti, ad essi è stata data la precedenza assoluta per i lavori di restauro, di ordinamento, di conservazione, di custodia. In origine le pergamene erano piegate e ripiegate più volte, deteriorate dal tempo e qualche volta dall'incuria, alcune in precarie condizioni di conservazione. Negli anni 80 esse sono state spianate, restaurate e conservate in cassettiere metalliche dove si conservano tutt’ora. Il restauro (completo delle operazioni di lavaggio, di disinfezione, di stiratura) finanziato dalla Soprintendenza Regionale ai Beni Librari, fu eseguito nell'Istituto di patologia del libro dell'abbazia benedettina di Santa Maria della Scala di Noci. Il documento medievale La necessità di documentare nasce nel Medioevo per due principali esigenze: fissare i fatti della vita attraverso precise coordinate cronologiche, e riconoscere tali avvenimenti attraverso un fitto reticolato di formule, di consuetudini, di liturgie, il cui ritmo era regolato da pochi, ma compreso e osservato da tutti. Strumento essenziale di una simile concezione e di tali pratiche era il documento scritto, del quale i ceti dirigenti della società medievale si servivano per esprimere e per comunicare note 93 note 94 luglio 2010 - anno X non soltanto rapporti giuridici ed amministrativi, ma anche, credenze religiose, concetti politici, ideologie di potenza e sentimenti di pietà. Ma che cos'è un documento medievale? Secondo una definizione di Alessandro Pratesi il documento è un «testo scritto che vale a comprovare il compimento di un'azione giuridica ovvero l'esistenza di un fatto giuridico; ma per raggiungere la prova è indispensabile che il documento obbedisca sia nelle procedure del suo farsi, sia nelle caratteristiche esteriori, sia nella forma del dettato a regole determinate,in grado appunto di conferirgli tale capacità certificante»2. Ogni documento, dunque, è per certi aspetti la testimonianza e/o la prova di un avvenuto accordo o fatto con conseguenze giuridiche; per altri la documentazione di una cultura, di una ideologia, di determinati rapporti di potere. I documenti scritti dell'Occidente medievale possono essere distinti, da un punto di vista diplomatistico, in documenti «pubblici», «semipubblici» e «privati». Sono considerati pubblici i documenti emanati da una pubblica autorità sovrana (imperatore, pontefice, re) attraverso un ufficio particolare, la cancelleria, e redatti secondo determinate procedure e con particolari caratteristiche tendenti a conferire loro autenticità e solennità. Sono considerati semipubblici i documenti emanati da autorità minori laiche ed ecclesiastiche (duchi, marchesi, conti, vescovi, legati) con l'adozione di alcune caratteristiche di solennità. Privati sono i documenti redatti da notai, o operatori analoghi, su richiesta di persone private e privi di ogni caratteristica di solennità. I documenti medievali occidentali sono per la maggior parte scritti su singoli fogli di pergamena. Il processo di lavorazione partiva dalla scelta della pelle animale, più facilmente accessibile nelle singole zone geografiche. Essa veniva poi privata dello strato peloso grazie ad una prolungata immersione in un bagno di calce, frequentemente risciacquata e sottoposta poi a scarnatura. Restava utilizzabile a scopo scrittorio il solo derma, seccato sottotensione su telaio ligneo. Successivamente venivano effettuati i debiti scarti delle parti estreme corrispondenti ai bordi di coda o prossime agli arti della bestia. La scrittura è disposta soltanto sul lato carne; il lato pelo è lasciato vuoto. Un altro elemento fisico che caratterizza i documenti pubblici e semipubblici e costituito dal sigillo, che adempie ad una precisa funzione di corroborazione e di autenticazione del testo documentario, ed anche di segnalazione del valore di autorevolezza del documento cui è applicato. Il sigillo (dal latino sigillum, diminutivo di signum, "segno") è un marchio destinato a garantire l'autenticità di un documento e rendere esplicita la sua eventuale divulgazione o la sua alterazione. A. Pratesi, Nolo aliud instrumentum, in Francesco d'Assisi. Documenti e Archivi. Codici e Biblioteche Miniature, Milano 1952, p. II. 2 I sigilli si distinguono fra loro in ragione della materia (possono essere di cera o di metallo: oro, argento, piombo) o del sistema di applicazione; possono essere infatti sospesi ad un cordoncino di seta o di canapa fatto passare attraverso il lembo inferiore del foglio membranaceo opportunamente ripiegato (plica); oppure applicati direttamente sul documento, di solito nella parte inferiore di esso, secondo tecniche diverse. Dei sigilli si occupa una disciplina specifica, la sigillografia, o sfragistica. La produzione documentaria è stata sempre affidata a personale specializzato, riconosciuto come tale dalla società: i notai per quanto riguarda gli atti privati e il personale di cancelleria per quanto riguarda gli atti pubblici. Rendere la cultura accessibile significa creare le condizioni idonee per la consultazione in termini puramente materiali oppure in una accezione più ambiziosa, accrescere la ‘desiderabilità’ della fruizione culturale; questa fa sì che fonti documentarie, consultate prioritariamente per attività scientifiche, possano essere utilizzate come strumento della storia e della memoria collettive nell’attività didattica, nelle iniziative promozionali del territorio, per incentivare l’attenzione e la sensibilità dei cittadini alla conservazione del patrimonio culturale. La cultura cresce anche attraverso la mobilità delle idee e delle persone e a questa mobilità si devono offrire anche contenuti di elevato livello. Collegandomi per chiudere al titolo scelto per questa conferenza il passato che ritorna vorrei citare un frase di Benedetto Ronchi: “I cittadini di Trani dovrebbero essere particolarmente legati al patrimonio pergamenaceo e non solo per il rispetto verso tante testimonianze del passato della loro città, quanto soprattutto per il fatto che quelle testimonianze documentano inconfutabilmente una storia ed una civiltà che può renderli orgogliosi”. note 95 note La Biblioteca e Archivio Diocesano “Pio IX” sezione di Barletta1 Le biblioteche e gli archivi della nostra Archidiocesi subiscono sostanziali modificazioni a partire dal 1986, anno in cui la Santa Sede decreta la fusione in un’unica Chiesa locale di tre preesistenti Diocesi: l’Archidiocesi di Trani, l’Archidiocesi di Barletta e la Diocesi di Bisceglie. Un’altra data significativa coincide con la creazione dell’Ufficio Diocesano per l’Arte Sacra e i Beni Culturali a seguito dell’Intesa del 13 settembre 1996 tra la Conferenza Episcopale Italiana e lo Stato Italiano. L’arcivescovo Giovan Battista Pichierri si è premurato di approvare uno statuto e un regolamento unici per le tre Biblioteche e i tre Archivi, abolendone i precedenti ed inoltre ha istituito un consiglio unico. L’Ufficio BB.CC., in accordo con i Direttori delle singole Biblioteche, ha riconosciuto la necessità di una “specializzazione” del materiale librario. La Biblioteca di Barletta si sta specializzando sul versante delle scienze storiche, con particolare riguardo alla storia patria, alla storia della Chiesa locale e a quella civile ed ecclesiastica del Mezzogiorno d’Italia. Altro anno importante è stato il 2008, in cui, con decreto Arcivescovile, è stata istituita l’unica biblioteca dell’Arcidiocesi di Trani - Barletta e Bisceglie, nonché l’unico archivio, poi ripartiti rispettivamente nelle tre sezioni: Biblioteca Diocesana Centrale “Arcivescovo Giovanni” – di Trani; Biblioteca Diocesana “Pio IX” – Sez. di Barletta; Biblioteca Diocesana “San Tommaso d’Aquino” – Sez. di Bisceglie. * Direttrice delle Biblioteca Diocesana (comprendente le sezioni bibliotecarie di Trani, Barletta e Bisceglie) e Direttrice dell’Archivio Diocesano (comprendente le sezioni archivistiche di Trani, Barletta e Bisceglie). 1 Relazione tenuta il 18 maggio 2010 presso il Palazzo Arcivescovile di Barletta in occasione della riapertura e inaugurazione della Biblioteca Diocesana "Pio IX" - Archivio Diocesano, Sezione di Barletta dopo radicali lavori di ristrutturazione. 97 Daniela Di Pinto [email protected] Le biblioteche e gli archivi diocesani devono diventare patrimonio culturale comune, istituzioni vive e operanti per la valorizzazione e la fruizione della “memoria” che essi custodiscono note 98 luglio 2010 - anno X L’Arcivescovo, secondo le indicazioni dell’Ufficio Nazionale BB.CC. della C.E.I, ha affidato alla Biblioteca di Trani il ruolo di Biblioteca centrale, quale punto di riferimento per le altre Biblioteche diocesane. Essa deve diventare l’Archivio bibliografico della Diocesi, il centro documentario di tutto ciò che in essa e su di essa viene pubblicato. La Biblioteca di Trani, perciò, manterrà una attività di coordinamento con le altre Biblioteche diocesane, con le biblioteche degli Istituti di Vita Consacrata e manterrà contatti con le biblioteche civiche e statali del territorio. Le nostre Biblioteche diocesane non vogliono configurarsi come deposito di libri ma diventare Istituzioni attive all’interno della comunità ecclesiale e civile, cioè realtà capaci di dialogo con le altre realtà istituzionali, specialmente a carattere culturale; non l’immagine di una “biblioteca – contenitore”, ma centro culturale che possa contribuire alla elevazione umana e cristiana della locale popolazione. La Biblioteca diocesana di Barletta Pio IX fu fondata con Decreto Arcivescovile nel 1978 e successivamente dichiarata di interesse locale con Decreto del Presidente della Giunta Regione Puglia n. 263 del 1984. È ubicata nella nuovissima sede nei locali al piano terra del Palazzo della Curia Arcivescovile di Barletta, in via Nazareth, storico palazzo cinquecentesco già sede della Curia vescovile di Nazareth, poi dell'Arcidiocesi di Barletta, fino al riordino delle sedi vescovili operato nel 1986 da Papa Giovanni Paolo II. La composizione del materiale librario risulta di 10.000 volumi, circa 500 edizioni tra il XVI e il XVIII secolo, 85 riviste, un piccolo settore multimediale; in particolare quattro volumi di notevole pregio: un graduale, un vesperale e due anthiphonarii. Per la sezione libro moderno si conservano trattati di liturgia morale, arte cristiana, esercizi di pietà, edizioni della Bibbia, raccolte di lettere pastorali, svariate edizioni di storia della Chiesa, accanto a trattati di retorica, diritto, filosofia, classici latini, letteratura, libri di storia regionale, dizionari enciclopedici. Nella sezione del libro antico, oltre ai quattro codici miniati musicali del XIII-XIV secolo (un graduale, un vesperale e due anthiphonarii, già citati) ricordiamo 37 volumi di edizioni del Cinquecento tra le quali la Summa di Tommaso d'Aquino del 1567, una traduzione di Benedetto Varchi del De' benefizii di Seneca stampato a Firenze dai Giunti nel 1574, un erbario medico In Dioscoridis Anazarbei de medica materia libros. Il settore emeroteca comprende 90 testate, delle quali 40 correnti; il settore multimediale comprende documenti audiovisivi su audiocassette, videocassette VHS, Floppy disk, CD, CD-Rom e DVD per complessive 300 unità circa. Una raccolta di libri doveva già esistere per l'amministrazione dei beni presso l'Archivio Capitolare, prima che nel 1393 il sacerdote Nicola De Iglesio donasse al clero di S. Maria Maggiore un Liber vocabulorum. Si può sicuramente ammettere che all'inizio del sec. XVI la Biblioteca fosse già organizzata e funzionasse. Una collezione di più vasto impegno sorse, però, verso il 1726 quando, nell'attuale chiesa cattedrale, sacerdoti e laici di varie condizioni sociali fondarono la cosiddetta Confraternita del Pio Transito di S. Giuseppe giusta deliberazione capitolare del 4 marzo di quell'anno, la quale, per il raggiungimento dei suoi fini, sentì la necessità di mettere insieme una raccolta di parecchie centinaia di volumi. Nel 1925 furono restituite dalla Curia Arcivescovile di Trani tutte le carte ed i documenti appartenenti alla soppressa Sede Nazarena già esistente in Barletta. Donazioni di libri e di opere pregevoli sono pervenute in buon numero da mons. Ignazio Monterisi, vescovo di Potenza e da mons. Nicola Monterisi, arcivescovo di Chieti e di Salerno e da altri. Le tre biblioteche diocesane sono dotate di postazioni reference, per l’accoglienza, l’orientamento e le informazioni per l’utenza, espositori per le riviste, ampie sale lettura e consultazione con libri sistemati a scaffale aperto con possibilità di libera consultazione, schedari cartacei per titoli, autori e per soggetto, postazioni internet, sala convegni, possibilità di riproduzione e foto riproduzione tramite sofisticati impianti per la digitalizzazione dei documenti. Gli Archivi Diocesani conservano documenti a partire dal sec. XI. Essi forniscono un importante supporto per ricostruire la storia del territorio diocesano e dei territori limitrofi. Tutti gli archivi in origine si fondavano su due nuclei fondamentali: ovvero l’archivio della Capitolo cattedrale e l’archivio della Curia Arcivescovile, nonché gli archivi della cattedrale inerenti lo stato delle anime e i fondi pergamenacei di cui sono riccamente dotati. Nel progetto previsto nell’Accordo di Programma Quadro tra Ente Diocesi e la Regione Puglia l'intero patrimonio documentario dei tre Archivi Diocesani sono stati completamente: riordinati, inventariati con il programma informatizzato Cei-AR e digitalizzati. La prima fase ha riguardato: il riordinamento e l'inventariazione analitica del materiale documentario complessivo, nel rispetto degli standard descrittivi internazionali ISAD(G) e ISAAR; l'informatizzazione e l'inserimento in rete della documentazione archivistica mediante il software Cei -Ar. La seconda fase, invece, la costituzione di una banca dati diocesana. Attraverso la pubblicazione, la consultazione on -line sarà possibile anche ad utenti remoti; inoltre l'adozione del software Cei-Ar per l’informatizzazione e l'inserimento in rete della documentazione archivistica, che utilizza gli standard archivistici internazionali, nel rispetto anche del progetto SIUSA a cura del CRIBECU (Centro Ricerche Informatiche per i Beni Culturali), mostra un chiaro intento di adeguamento al Sistema archivistico nazionale. La terza fase, infine, ha riguardato la riproduzione digitale del fondo pergamenaceo. Il fondo dell’archivio di Barletta è costituito da 1976 pergamene dal IX al XX secolo. È stata ricostruita attraverso il software una organizzazione logica dei fondi in esame ed è stato realizzato un inventario analitico. Nel progetto nell’ambito dell’Accordo di programma quadro Ente Diocesi-Regione Puglia l’intero fondo è stato completamente digitalizzato e sarà fruibile on –line nel sistema archivistico diocesano. Era indispensabile oltremodo che il progetto rispettasse gli standards internazionali per la descrizione archivistica, si fondasse su un modello descrittivo che ne garantisse il rispetto e che fosse quindi pienamente condiviso ed approvato dalla Soprintendenza Archivistica per la Puglia, naturale referente scientifico. note 99 note 100 luglio 2010 - anno X L’archivio di Barletta risulta formato dai seguenti fondi archivisti: il fondo Curia, il Capitolo di Santa Maria Maggiore, il Monte San Giuseppe, il fondo S. M. Nazareth, la Chiesa del Santo Sepolcro, il fondo pergamenaceo, il fondo musicale. Ricordiamo inoltre i fondi: Prepositura curata di San Giacomo e tra i Monasteri ricordiamo: S. Chiara, S. Lucia, SS. Annunziata. Tra gli archivi delle Confraternite ricordiamo la Confraternita della Morte e la Confraternita di S. Antonio da Padova. L'Archivio diocesano di Barletta fu eretto ad Ente ecclesiastico nel 1981 con un decreto dell'arcivescovo Monsignor Giuseppe Carata in ottemperanza ai dettami del Documento della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) del 16/6/1974. Il 28 febbraio 1984 fu emanata una Dichiarazione di interesse locale dell'Archivio Pio IX ai sensi della Legge Regionale 4 dicembre 1981, n. 58, cui fece seguito la dichiarazione di notevole interesse storico, emanata il 30 luglio 1990, in base alla quale l'archivio è sottoposto alla vigilanza da parte della Soprintendenza Archivistica per la Puglia, ai sensi del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Occorre ricordare che un primo intervento di riordinamento del materiale documentario fu realizzato nel 1982, in collaborazione con l'Archivio di Stato di Bari. Il lavoro si concluse con la realizzazione di un catalogo sommario provvisorio. Prima di passare ad esaminare i vari fondi che compongono l’archivio, occorre ricordare per un senso doveroso di riconoscenza e per la storia dello stesso Archivio, due nobili figure di sacerdoti che con le proprie ricerche e pubblicazioni, hanno dato un contributo notevole alla conoscenza e alla valorizzazione dei documenti storici raccolti nell'Archivio: Mons. Nicola Monterisi (1867-1944) e Mons. Salvatore Santeramo 1880-1969). Si conservano inoltre, tutti i libri manoscritti di battesimi, cresime, matrimoni, censimenti di anime, libri di morti. I libri dei battesimi si iniziano dal 1559, i libri dei matrimoni dal 1588. I 15 volumi di libri delle "anime" partono dal 1808 tino al 1856. Ricordiamo inoltre i documenti dei "processetti matrimoniali", cioè i documenti che bisogna presentare all'autorità ecclesiastica per esser ammessi al sacramento del matrimonio; i più antichi risalgono alla fine del '500. Fondo Archivistico Curia Arcivescovile - Il fondo è costituito dalla documentazione prodotta (o ricevuta) e conservata dalla Curia arcivescovile di Barletta nel corso dello svolgimento delle sue funzioni in materia giuridica e amministrativa. Fondo Capitolo Santa Maria Maggiore - La presenza del collegio dei chierici di S. Maria Maggiore è testimoniata con certezza agli inizi del sec. XII. Le sue vicende sono legate alla chiesa di s. Maria de Episcopio. Nella storia del Capitolo della chiesa sancte Marie Maioris, come si cominciò a denominare la chiesa nel secolo XIV, si riflessero il trasferimento a Barletta del vescovo di Canne nel 1318 (fino alla soppressione del vescovato, avvenuto nel 1455) e dell'arcivescovo di s. Maria di Nazaret nel 1327, fuggiasco dalla sua chiesa in Galilea, nonché il ruolo crescente che Barletta assunse nella storia generale del regno di Napoli, da diventare sede di regie magistrature. L'accresciuto prestigio assecondò la tendenza all'autonomia dalla giurisdizione dell'arcivescovo di Trani. A seguito del concordato del 1818 tra il Regno delle due Sicilie e la Sede Apostolica, da Pio VII fu soppressa la sede epi scopale di Nazaret in Puglia e il suo Capitolo fu incorporato a quello di s. Maria Maggiore da Leone XII, nel 1828. E questo dovette accettare la piena dipendenza dall'arcivescovo di Trani. Tale situazione non fu modificata dalla istituzione della sede arcivescovile in Barletta, anche se essa fu unita aeque principaliter a quella di Trani. Con la bolla Imperscutibili del 21 aprile 1860 Pio IX elevò la chiesa di s. Maria Maggiore da collegiata a chiesa cattedrale, costituendo la arcidiocesi di Barletta, unita aeque principaliter a quella di Trani e Bisceglie. Anche il Capitolo della collegiata fu elevato al rango di capitolo di chiesa cattedrale. Con la riorganizzazione delle circoscrizioni diocesane del 1986, 1'arcidiocesi barlettana è stata unificata a quella di Trani e la sua chiesa maggiore è divenuta concattedrale. Fondo Monte San Giuseppe - Il Monte Parrocchiale di S. Giuseppe fu istituito e amministrato dal Capitolo di S. Maria Maggiore. Potevano iscriversi anche le donne. Le persone “civili” iscritte al Monte pagavano un carlino al mese e godevano delle esequie gratuite. Fondo Archivistico Nazareth - L'Arcidiocesi di Nazareth è stata fondata nel 1327 ed è insignita della descrizione del contenuto giurisdizione arcivescovile metropolitana in seguito alla distruzione della cittadina giudea da parte degli arabi ed alla cacciata dei crociati. Questi eventi favorirono il trasferimento della sede vescovile da Nazareth a Barletta, che comunque, sin dal secolo XII, ospitava una Vicarìa definita Nazareth ultra maris (la costruzione della medievale chiesa di Santa Maria di Nazareth risale infatti al 1169). Nel 1456 papa Callisto IV associò a Nazareth il vescovado di Canne, e nel 1536 papa Paolo III diede il suo consenso all'unione con il vescovado di Monteverde, in provincia di Avellino, ed elesse l'arcidiocesi a sede cardinalizia. L'arcidiocesi di Nazareth, Canne e Monteverde fu soppressa nel 1818, in seguito al Concordato stipulato tra la Santa Sede e il Regno delle Due Sicilie; ma nel 1860 papa Pio IX, con la bolla motu proprio Cunctis ubique pateat, stabilì che l'arcivescovado rivivesse nell'arcidiocesi di Barletta, che di conseguenza assurgeva al ruolo di erede della preziosa tradizione nazarena. Fondo Chiesa del Santo Sepolcro. 1063 - Il priorato del S. Sepolcro, così come quello di S. Giovanni, fu fondato e originato per la difesa della Terrasanta. Le prime notizie sulla chiesa del S. Sepolcro risalirebbero al 1063 ma le notizie di una vera parrocchia, munita di battistero, cimitero e carnaio risalgono al 1162. Pare comunque che la parrocchia abbia funzionato per breve tempo, a causa dei diritti che la chiesa matrice di S. Maria Maggiore godeva sulla città.2 La chiesa fu completata nel XIII secolo, attigui alla chiesa erano l’ospizio, 2 Ibidem, p. 8. note 101 note 102 luglio 2010 - anno X e l’ospedale. Nel 1908 la chiesa del S. Sepolcro fu riabilitata ad avere una parrocchia o vicaria curata, dipendente dalla Cattedrale. Nel 1951 è stata elevata a basilica minore pontificia. Fondo Pergamenaceo - Il fondo pergamenaceo consiste 1976 pergamene che vanno dall'anno 897 al 1919 circa. Le pergamene trattano per lo più di bolle pontificie, lasciti, privilegi, scomuniche, provvedimenti ecclesiastici o reali. Il fondo comprende pergamene di provenienza diversa: a) di chiese e di monasteri soppressi, come S. Chiara, S. Lucia, S. Stefano e S. Sepolcro; b) dell’archivio di S. Maria Maggiore, cattedrale di Barletta; tra queste ultime sono compresi documenti provenienti dalle diocesi soppresse di Canne, Monteverde e Nazareth e dal monastero di S. Giacomo. La più antica è del 897 rogata a Conza dipendente dall'Arcivescovo Nazareno. Tra le bolle pontificie importanti la bolla di Leone X confirmativa dei fatti tra Barletta e Trani, quella di Leone XIII relativa al titolo di arcivescovo di Nazareth, la bolla di Pio IX «Ineffabilis Deus» con la quale Barletta viene eretta archidiocesi (1860). Tra gli editti regi (1412-1774) importante il privilegio di Carlo II D'Angiò relativo all'unione di Barletta e Canne. Le biblioteche e gli archivi diocesani devono diventare patrimonio culturale comune, istituzioni vive e operanti per la valorizzazione e la fruizione della “memoria” che essi custodiscono. note Simone Weil. Amare Dio attraverso il male che si odia** 103 Paolo Farina* [email protected] 1.Si può amare Dio attraverso il male? 11 settembre 2001: l’inizio del terzo millennio cristiano e, nell’immaginario di noi tutti, il simbolo di una nuova era. Io che per la prima volta calco la terra che fu di Abramo Lincoln e di Martin Luther King, sento il dovere di dedicare un pensiero a quei caduti innocenti, destinati a divenire, loro malgrado, il simbolo di chi è vittima dell’impero del male, vittima, come direbbe la Weil, del malheur.1 È forse a partire da quel tragico evento del settembre 2001 che l’interesse di ordine speculativo e metafisico sul perché del male nel mondo sembra essersi risvegliato. Non che questo tema sia nuovo. Caso mai, bisogna fare attenzione a non trattarlo con superficialità, oserei dire, a non parlare del male senza conoscerlo e riconoscerlo.2 * Docente stabile di Antropologia teologica - Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani. **Testo italiano della relazione tenuta al Convegno “Texts and Contexts”, organizzato dal Boston College, il 23 e 24 aprile 2010, in occasione del XXX Colloquio Internazionale della “American Weil Society”. Lo stesso tema è approfondito nel recente saggio P. Farina, Dio e il male in Simone Weil, Città Nuova, Roma 2010. 1 Vi sono autori che hanno già stabilito un nesso tra gli attentati dell’11 settembre 2001 e il pensiero di Simone Weil, in particolare per l’uso della violenza in una società sradicata. Così, ad esempio, M. Cool, nell’articolo Deux femmes face à la barbarie, editoriale di «Témoignage chrétien» (27 settembre 2001), citato in «Cahiers Simone Weil» 4/2001, 355; R. Tiersky, a soli due giorni dal tragico evento (su «Le Monde» del 13 settembre 2001), sostiene che le distruzioni a New York sono in realtà la distruzione simbolica di New York e ricorda che per Simone Weil, nel suo saggio sull’Iliade, la distruzione di una città rappresenta la più grande calamità che possa abbattersi sull’umanità: citato in «Cahiers Simone Weil» 4/2001, 356. 2 Cfr. M.E. Cerrigone, Il male, in M.E. Cerrigone - A. Valenti (a cura di), Il male nella riflessione filosofica ed etico politica. Atti del Convegno del La Creazione, l’Incarnazione, la Passione costituiscono insieme la follia propria di Dio note 104 luglio 2010 - anno X Ad esempio, quando la Weil afferma che bisogna discernere un Dio amabile, pur nella insopprimibile e cieca necessità del male, cosa intende realmente dire? E che significa imparare ad sino ad: “[…] amare Dio attraverso il male che si odia”?3 Ebbene, tenterò di giustificare in questo breve contributo l’originalità di una intuizione weiliana, che a me pare rivelarsi nella sua capacità di scoprire nel malheur «un segno nascosto» della misericordia di Dio nel mondo.4 Al termine del suo saggio su «l’amour de Dieu et le malheur»,5 S. Weil cita un passo paolino e così ci avverte che riflettere sull’imperversare del male nel mondo significa sondare «la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità» dell’amore di Cristo (cfr. Ef 3, 18-19). Ora, tutti sappiamo quale uso rigoroso la Weil facesse delle sue doti naturali ed in particolare delle sue doti intellettuali. Fidandoci e affidandoci alla sua esigente ed intransigente intelligenza proverò a misurare le parole di san Paolo, da lei or ora suggeriteci, con l’interrogativo antico quanto l’uomo: dov’è Dio, se c’è il male? 2.Dio non è un “problema”: colei che ha cercato, è stata trovata Ha scritto G. Bertagni: «Pensare il male attraverso Simone Weil non significa presentare una qualsiasi sorta di discorso filosofico “sistematico” intorno alla questione sul tema, rintracciabile nell’opera della pensatrice francese”.6 Non si può che condividere un tale giudizio, in particolare se si vuol fare attenzione a non ridurre quello che la Weil afferma su Dio ad una sorta di “problema” di Dio, ovvero ad una riflessione astratta e sistematica sull’essere di Dio e sulle sue correlazioni con l’ordine creato. Ecco in che termini ella descrive la “ricerca” di Dio per mezzo dell’attesa: 3 4 5 6 20 ottobre 2000 – Modena, in «Divus Thomas», n° 32/2002, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2002, 9-10. S. Weil, La connaissance surnaturelle, Gallimard, Paris 1950 (edizione italiana: Quaderni, vol. IV, traduzione con saggio introduttivo di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1993; di seguito citato con la sigla QIV),135; cfr. Ibid., passim. In un appunto anteriore si legge: «Non accettare un avvenimento perché è la volontà di Dio. Il cammino inverso è più puro. (Forse…). Accettare un avvenimento perché è, e con l’accettazione amare Dio attraverso di esso. […]. Quando si ama Dio attraverso il male come tale, si ama veramente Dio» (S. Weil, Cahiers, vol. II, Plon, Paris 1972; edizione italiana: Quaderni, vol. II, traduzione di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1991, 233-234; di seguito indicato con la sigla QII). Cfr. QIV 161-162. Cfr. S. Weil, Attente de Dieu, Fayard, Paris 1966 (edizione italiana: Attesa di Dio, a cura di J.-M. Perrin, traduzione di O. Nemi, Rusconi, Milano 1991; di seguito indicato con la sigla AD), 101. G. Bertagni, Pensare il male attraverso Simone Weil, in M.E. Cerrigone - A. Valenti (a cura di), Il male nella riflessione filosofica ed etico politica, cit.,17. “Nelle grandi immagini della mitologia e del folclore, nelle parabole del Vangelo, è Dio che cerca l’uomo. «Quaerens me sedisti lassus». In nessuna parte del Vangelo si parla di una ricerca intrapresa dall’uomo. L’uomo non fa un passo, se non è spinto oppure espressamente chiamato. La parte della futura sposa è l’attesa. Lo schiavo aspetta e veglia, mentre il padrone è alla festa. Il viandante non si invita da sé al pranzo di nozze, non chiede di essere invitato; vi è introdotto quasi di sorpresa; a lui spetta soltanto di indossare un abito conveniente. […] Desiderare Dio e rinunciare a tutto il resto: in ciò soltanto consiste la salvezza. L’atteggiamento da cui viene la salvezza non ha nulla a che fare con l’attività. La parola greca che lo esprime è hypomoné, che patientia traduce piuttosto male. È l’attesa, l’immobilità vigile e fedele che dura all’infinito e nessun evento può scuotere”.7 La riflessione weiliana su Dio, e in particolare la sua teodicea, è dunque sui generis. Potremmo provare a riassumerla così: colei che ha cercato è stata trovata! F. Castellana ha scritto che la Weil non si pone affatto il problema del passaggio dal naturale al soprannaturale: semplicemente, lo vive e ne tira le conseguenze sul piano teorico.8 È questa, io credo, l’esatta descrizione di quanto si è verificato lungo l’intero arco e nelle molteplici e cangianti esperienze dell’esistenza di Simone Weil, sino al sorprendente ed imprevisto «Cristo in persona è disceso e mi ha presa».9 Lei, che aveva licenziato il “problema” di Dio come insolubile per la mente umana, si scopre protagonista, suo malgrado, di un incontro «quaggiù, faccia a faccia» con l’amato da sempre atteso.10 Scrive la Weil: “Per obbedire a Dio occorre ricevere i suoi ordini. Com’è potuto accadere che io li abbia ricevuti nell’adolescenza, quando professavo l’ateismo? Credere che il desiderio del bene viene sempre retribuito – è questa la fede, e chiunque l’ha non è ateo. Credere in un Dio che può lasciare nelle tenebre chi desidera la luce, e inversamente, significa non avere fede”.11 Una fede, giova ribadirlo, che non nasce da una speculazione. Una fede che è il dono di un incontro. Dichiara sempre la Weil: “[…] né i sensi né l’immaginazione avevano avuto la minima parte in questa improvvisa conquista del Cristo; ho soltanto sentito, attraverso la sofferenza, la presenza di un amore analogo a quello che si legge nel sorriso di un viso amato”.12 E ancora: “In un momento di intenso dolore fisico, mentre mi sforzavo d’amare, ma senza credermi in diritto di dare un nome a quest’amore, ho sentito (senza esservi preparata per niente, AD 152. Cfr. F. Castellana, Simone Weil. La discesa di Dio, Edizioni Dehoniane, Napoli 1985, 154; di seguito citato con l’abbreviazione Castellana. 9 AD 42. 10 Cfr. AD 43. 11 QIV 173. 12 AD 43. 7 8 note 105 106 note luglio 2010 - anno X dato che non avevo mai letto i mistici) una presenza certa, più reale di quella di un essere umano, inaccessibile ai sensi e all’immaginazione, analoga all’amore che traspare dal più tenero sorriso di un essere amato. Da quel momento il nome di Dio e di Cristo si sono intessuti sempre più irresistibilmente ai miei pensieri.13 Preciso che non intendo qui dilungarmi sull’autenticità dell’esperienza mistica di S. Weil.14 Come osserva F. Castellana: «L’accezione di questo termine [mistica, ndr] è la più varia nei diversi autori. Alcuni, in prospettiva culturale, sociale, politica, estetica, filosofica, accennano occasionalmente alla sua religiosità e la definiscono mistica. Si parla della “più grande mistica del secolo”; di una «soglia mistica» che solo lei avrebbe oltrepassato; di «grazia improvvisa… del Dio vivente» per cui si sarebbe imparentata con i più grandi mistici; di “caso privilegiato, ideale di esperienza mistica” autentica perché si realizzano gli elementi della mistica vera […]. Altri, studiandola in prospettiva più strettamente religiosa e teologica, hanno ugualmente affermato la natura mistica della sua esperienza religiosa. Parlano di lei come di una discepola di s. Giovanni della Croce, per la notte oscura; di grazia straordinaria, di persona catturata dall’Eucarestia, di familiarità stupefacente col soprannaturale, di Cristo rivelato a lei, di vita mistica autentica; di incontro con Cristo e di cuore preso da Cristo».15 Occorre aggiungere che Simone Weil parlava con grande pudore e prudenza della sua «esperienza di Dio», convinta, com’era, che: “[…] tra due uomini che non hanno esperienza di Dio, colui che lo nega è forse quello a lui più vicino”.16 D’altro canto, G. Gaeta ha distinto tre livelli di lettura dell'opera della Weil: quello estetico, quello filosofico e quello teologico. A suo giudizio, ogni tentativo di stabilire una gerarchia tra questi molteplici piani di lettura risulterebbe arbitrario: "Piuttosto si avverte il continuo sforzo di Simone Weil di stabilire fra essi un rapporto di analogia, che permetta di trasporre la verità colta in un certo ambito di esperienza su un altro che non è né superiore, né inferiore, ma si differenzia per la materia a cui il pensiero deve applicarsi: immagini, concetti, idee, sentimenti, simboli".17 L’analogia consentirebbe alla Weil di accogliere e S. Weil, Lettre à Bousquet, 12 maggio 1942, in IDEM, Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, Gallimard, Paris 1962 (edizione italiana: L’amore di Dio, traduzione di G. Bisacca e A. Cattabiani, con un saggio introduttivo di A. Del Noce, Borla, Torino 1979), 81; di seguito citato con la sigla PSO. 14 Per un tale approfondimento, compiuto peraltro in maniera egregia, rimando al saggio di D. Canciani, Tra sventura e bellezza. Riflessione religiosa ed esperienza mistica in Simone Weil, Edizioni Lavoro, Roma 1998; e a quello di G.P. Di Nicola – A. Danese, Abissi e vette. Percorsi spirituali e mistici in Simone Weil, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002. 15 Castellana 35-37. 16 QII 40-41; cfr. S. Weil, Cahiers, vol. I, Plon, Paris 1970 (edizione italiana: Quaderni, vol. I, traduzione e saggio introduttivo di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1991), 373-374; di seguito citato con la sigla QI. 17 G. Gaeta, Riflessioni sull'opera filosofico-religiosa di Simone Weil in Aa.Vv. La passione della verità, Morcelliana, Brescia 1984, 33. 13 tradurre la Verità in differenti e complementari punti di vista: quello del sogno – ovvero il livello della sensibilità estetica – quello del calcolo – ovvero il livello del ragionamento filosofico – quello della contemplazione – ovvero il livello delle verità teologiche.18 Oggi si è molto più disposti del passato a ravvisare una feconda integrazione tra ragione teologica e intelligenza mistica. Il contatto tra la mistica e la teologia sembra poter purificare l’un l’altra dai rispettivi eccessi: dalle tracimazioni spiritualistiche della prima, come dalle secche formalistiche della seconda. L’esperienza mistica insegna quello che la Weil ribadisce continuamente e cioè che Dio è più grande della nostra ragione, come della nostra immaginazione. Tuttavia, “più grande” non vuol dire “ostile”. Implica semplicemente un superamento che è invocato dalla ragione stessa e che, lungi dal proporsi come una negazione delle ragioni dell’uomo, intende piuttosto assumerle ed illuminarle nella verità di Dio. La teologia è chiamata a farsi carico di questo insegnamento e a renderlo accessibile a tutti.19 È sulla scorta di simili convinzioni che tenterò di condurre la mia «analisi in ascolto»20 di quanto la teodicea weiliana può aiutarci a intuire e capire. 3.Il problema della sofferenza nel mondo: un cuore capace di battere attraverso l’universo Negli stessi anni in cui Auschwitz si avviava ad incarnare l’orrore per antonomasia nella coscienza europea del XX secolo, la Weil scriveva: “Non è possibile contemplare senza terrore l’entità del male che l’uomo può fare e subire”.21 Appena giunta a Londra, alla fine del ’42, Simone Weil scrive a M. Schumann, per confessargli il suo stato d’animo e riconoscere di essere “ossessionata” e persino “schiacciata” dalla realtà della sventura diffusa sul globo terrestre.22 Nell’Attesa di Dio leggiamo: “Nel campo della sofferenza, il malheur è una cosa a sé, specifica, irriducibile. È tutt’altra cosa che la semplice sofferenza. Si impadronisce dell’anima e le imprime in profondità un marchio suo proprio, il marchio della schiavitù. La schiavitù, come era praticata nell’antica Roma, è Cfr. Ivi 25-39; G. Gaeta, Verità e linguaggio: sull’ermeneutica religiosa di Simone Weil, in «Annali di Storia dell’esegesi», n°8/1991, 9-37. Si veda anche QI 150 e QII 96. 19 Sul tema si veda anche M.C. Bingemer (a cura di), Simone Weil e o encontro entre as Culturas, Editora PUC Rio e as Ediçoes Paulinas, Rio de Janerio 2009. 20 Castellana 21. 21 S. Weil, Cahiers, vol. III, Plon, Paris 1974 (Quaderni, vol. III, traduzione di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1988), 281; di seguito citato con la sigla QIII. 22 Lettera a M. Schumann, ora in S. WEIL, Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Paris 1957, 199. 18 note 107 108 note luglio 2010 - anno X solamente la forma estrema della sventura. Gli antichi, che conoscevano bene la questione, dicevano che un uomo perde metà della propria anima il giorno che diventa schiavo”.23 Per questo, Weil è convinta che giungere ad amare Dio attraverso la miseria altrui è ancora più difficile che amarlo attraverso la propria sofferenza. Quando si ama Dio attraverso la propria sofferenza, quest’ultima ne è trasfigurata, diventa, secondo il grado di purezza dell’amore, o espiatrice o redentrice. L’amore non può, tuttavia, trasfigurare la miseria degli altri: quale santo trasfigurerà la miseria degli schiavi morti in croce a Roma e nelle province romane nel corso di tanti secoli?24 È bene precisare che: «Il malheur anche se ne è collegato non coincide con la sofferenza fisica, poiché questa, una volta passata, non lascia traccia, mentre la sventura quando colpisce l’uomo gli imprime un marchio assolutamente indelebile. […] Certamente l’analisi della sventura si radica nelle situazioni esistenziali della Weil, che è rimasta afflitta per tutta la vita da sofferenze fisiche e che aveva una sensibilità estrema per il dolore del mondo intero che le penetrava nell’anima. La dimensione metafisica però – la sua non è una analisi prettamente fenomelogica - la difende dalla disperazione che la minaccia, a volte, mortalmente».25 Ma perché indugiare nel tentativo di precisare quanto, ancora una volta, le parole della Weil definiscono in maniera inequivocabile? Ecco come lei definisce il malheur: “Il grande enigma della vita umana non è la sofferenza, è il malheur. Non c’è da stupirsi che gli innocenti siano uccisi, torturati, cacciati dal proprio paese, ridotti in miseria o in schiavitù, chiusi in campi di concentramento o in carcere, dal momento che esistono i criminali capaci di compiere tali azioni. Non c’è nemmeno da stupirsi che la malattia infligga lunghe sofferenze che paralizzano la vita e ne fanno un’immagine della morte, dal momento che la natura soggiace a un cieco gioco di necessità meccaniche. Ma c’è invece da stupirsi che Dio abbia dato al malheur il potere di afferrare l’anima degli innocenti e di appropriarsene da padrona assoluta”.26 Parole che sono, già di per sé, un terribile j’accuse, reso tanto più acuto dall’esperienza dell’assenza di Dio nel mondo… 4.L’assenza di Dio e la cieca necessità “Nel malheur Dio è assente, più assente di un morto, più assente della luce in un sotterraneo completamente buio. Una specie di orrore sommerge completamente l’anima. Durante questa assenza non c’è nulla da amare. La cosa terribile è che, se in queste tenebre in cui 25 26 23 24 AD 85. Cfr. QII 189-190. Castellana 71-73. AD 87. non c’è nulla da amare l’anima cessa di amare, l’assenza di Dio diventa definitiva. Bisogna che l’anima continui ad amare a vuoto, o almeno a voler amare, sia pure con una parte infinitesimale di se stessa”.27 In effetti, secondo la Weil, Dio è assente nella società, è assente nella religione, in particolare in quella cattolica, è assente nel malheur: Dio è assente nel mondo. E lo è a partire dall’istante in cui ha scelto di creare.28 Si tratta di una assenza apparente e tuttavia reale. Il mondo stesso è reale in quanto “vuoto” di Dio. Se Dio fosse la pienezza nel mondo, il mondo non esisterebbe. Scrive la Weil: “L’assenza apparente di Dio in questo mondo è la realtà di Dio”.29 D’altro canto: “L’assenza di Dio dalla creazione è la testimonianza più meravigliosa d’amore perfetto, ed è per questo che la pura necessità, la necessità manifestamente differente dal bene, è così bella”.30 Dio, infatti, creando, si è “ritirato” da questo mondo, e lo ha lasciato in mano al meccanismo incondizionato della necessità: “La Creazione, per Dio, non è consistita nell’estendersi, ma nel ritirarsi. Egli ha cessato di comandare ovunque ne aveva il potere (N.B. che la nostra autonomia ha come controparte la cieca necessità meccanica)”.31 È la necessità, dunque, che governa il mondo a seguito dell’atto creatore. Si tratta di un atto di amore, che ha concesso agli uomini la loro autonomia e al quale essi possono corrispondere solo riconoscendo la forza cieca da cui dipendono. La necessità, d’altronde, non è altro che uno “schermo” all’amore di Dio, che ha il potere e il compito di proteggerci da Lui. Non si può, infatti, «vedere Dio e restare in vita» (Es 33, 20). È perché l’umanità è in balia della necessità che Dio non può intervenire per diminuire il peso del malheur:32 “Creando, Dio rinuncia a essere tutto, abbandona un po’ d’essere a ciò che è altro da lui. La creazione è rinuncia per amore. La vera risposta all’eccesso d’amore divino non consiste nell’infliggersi delle sofferenze […], consiste soltanto nel consentire alla possibilità del malheur, sia che il malheur si produca effettivamente o no […]. Il consenso alla necessità è puro amore ed anche, in qualche modo, eccesso d’amore”.33 AD 88. Cfr. QII 236. Cfr. A. Taubes, The Absent God, in «The Journal of Religion», Chicago University, n° 1/1955, 6-16. 29 QIII 99. 30 QIII 72. 31 QIII 403-404; il corsivo e il nota bene tra parentesi sono dell’autrice. Cfr. R. Williams, The Necessary Non-existence of God, in R. Bell (a cura di), Simone Weil’s Philosophy of Culture, Cambridge University Press, Cambridge 1993, 52-76. 32 Cfr. QIII 69-70. 33 S. Weil, La source grecque, Gallimard, Paris 1963; Intuitions pré-chretiennes, Fayard, Paris 1967 (edizione italiana: La Grecia e le intuizioni precristiane, traduzione di M.H. Pieracci e C. Campo, 27 28 note 109 note 110 luglio 2010 - anno X Il concetto weiliano del malheur appare, quindi, indissolubilmente legato a quello della creazione. Si direbbe che, per la Weil, il malheur ha la possibilità di esistere dal momento in cui Dio ha rinunciato a “essere tutto”. La sua è stata una rinuncia d’amore. Grazie a quella rinuncia, l’uomo esiste e può cogliere la propria esistenza come dono d’amore. La creazione è anzi un perpetuo atto d’amore, perché ogni istante della nostra esistenza è un atto di amore di Dio per noi.34 Senza tale dono, che è anche un abbandono – perché Dio si rende assente – gli uomini non potrebbero esistere: “La sua presenza li priverebbe dell’essere come una fiamma che brucia una farfalla”.35 Simone Weil sostiene anzi che, a differenza di quanto si pensa comunemente, la distanza tra l’uomo e Dio è in se stessa un bene: “Vi sono persone per le quali è benefico tutto ciò che avvicina loro a Dio. Per me lo è tutto ciò che l’allontana. Tra me e lui, lo spessore dell’universo; e vi si aggiunge quello della croce.36 La croce è per Weil l’evidenza della contraddizione in atto. Sulla croce, Dio creatore è quanto mai assente. Se è contraddittorio che Dio, che è infinito, che è tutto, a cui non manca nulla, faccia qualcosa che sia fuori di lui, che non è lui, pur procedendo da lui, allora la contraddizione suprema è la contraddizione creatore-creatura, che si afferma sulla croce. E Cristo è l’unione di questi contraddittori.37 La Weil scrive: “La contraddizione sperimentata fino in fondo all’essere è lacerazione. È la croce. […] Io provo una lacerazione che si aggrava senza pausa, insieme nell’intelligenza e al centro del cuore, per l’incapacità nella quale sono di pensare insieme nella verità il malheur degli uomini, la perfezione di Dio e il legame tra le due”.38 5.Dio e il male: una teologia della kenosi e della triplice follia In definitiva, il dio della Weil è un dio sofferente per amore, un dio che “con-patisce”, un dio “triplicemente folle” per amore:39 Rusconi, Milano 1974, 119-296), 236-238; di seguito citato con la sigla IP. Cfr. QIII 347. PSO 104. QII 266. QIII 42; cfr. A. Devaux, On the right use of contradiction according to Simone Weil, tr. inglese di J.P. Little, in R. Bell (a cura di), Simone Weil’s Philosophy of Culture, cit., 1993, 150-157. 38 S. Weil, La pesanteur et la grace, con una introduzione di G. Thibon, Plon, Paris 1947 (edizione italiana: L’ombra e la grazia, con una introduzione di J.M. Perrin, traduzione di O. Nemi, Rusconi, Milano 1991), 115-116; di seguito citato con la sigla PG. 39 Su questo argomento si veda il saggio di R. Arp, Suffering as Theodicy, in «Cahiers Simone Weil» 4/2000, 413-425. 35 36 37 34 “La Creazione, l’Incarnazione, la Passione costituiscono insieme la follia propria di Dio”.40 Per la Weil, Creazione, Incarnazione e Passione non sono che tre atti di un unico movimento kenotico. Tre atti distinti per l’uomo, ma concepiti prima del tempo in Dio: si tratta, appunto, di una triplice follia.41 È una follia che ha permesso al male di entrare nel mondo, ma anche a Dio di sconfiggere definitivamente il male attraverso l’azione salfivica di Cristo, di cui l’Agnello senza macchia è figura. È ancora Weil a sostenere: “Il vero capro espiatorio è l’Agnello. Il giorno in cui un essere perfettamente puro appare quaggiù sotto forma umana, la maggior quantità di male diffuso intorno a lui si concentra automaticamente su di lui sotto forma di sofferenza”.42 Ha scritto A. Putino: «Simone Weil vede nella Creazione l’atto con cui Dio si ritrae, abdica: questa rinuncia di Dio è sacrificio, e la creazione è la Passione di Dio».43 Il sacrificio del Padre, come si è visto, consiste nel suo accettare di farsi schiavo della necessità. 44 In questo suo ritirarsi, nella sua abdicazione, il movimento è analogo a quello del Verbo che si abbassa sino a farsi creatura. Con la Weil, si può dire che la creazione è la prima kenosis divina: “Già come creatore, Dio si svuota della sua divinità, prende la forma di uno schiavo, si sottomette alla necessità, si abbassa”.45 Alla Passione del Padre si unisce quella del Figlio incarnato. Cristo discende nella carne come il Padre si è ritirato dallo spazio e dal tempo perché questi esistessero. L’Incarnazione è “il sacrificio per eccellenza”.46 Essa è intimamente legata alla Creazione. Non è difficile riconoscere nella sottolineatura dello svuotamento della divinità da parte di Dio un chiaro riferimento alla kenosis di Cristo presente nel secondo capitolo della Lettera di Paolo apostolo ai Filippesi. Se, infatti, la Creazione è l’abdicazione di Dio dal suo potere illimitato, la nascita di Gesù è una seconda e definitiva abdicazione, fino ad assumere la “condizione di servo, […] fino alla morte di croce” (Fil 2, 7-8).47 Cristo, il Figlio di Dio, è stato crocifisso e il Padre ha lasciato che questo avvenisse, lo Spirito ha gridato in silenzio, con gemiti inesprimibili (cfr. Rm.8,26): è la triplice icona, il trittico dell’impotenza di Dio. Un Dio che creando ha incatenato la sua onnipotenza. Davanti a tanto, Simone Weil non può fare a meno di interrogarsi: 42 43 44 45 46 47 40 41 IP 236. Cfr. QIII 413. AD 147. A. Putino, Simone Weil e la Passione di Dio. Il ritmo divino nell’uomo, EDB, Bologna 1997, 20. Cfr. QIII 72.99-100.403-404. PSO 104. Cfr. PSO 29. Il testo paolino è riportato in QII 125-126. note 111 112 note luglio 2010 - anno X “Perché la creazione è un bene, pur essendo inseparabilmente legata al male? Perché è un bene che io esista, e non Dio soltanto? Che Dio si ami attraverso il mio miserabile intermediario? Non posso capirlo, ma tutto ciò che io soffro, lo soffre Dio per effetto della necessità della quale egli si astiene dal falsare il gioco”.48 L’amore di Dio, però, pur crocifisso o, piuttosto, in quanto crocifisso, non può restare prigioniero del male.49 Il male viene sconfitto proprio in quanto Dio, che è il solo Bene e solamente Bene, viene messo sotto accusa. Rimanendo fedele alla sua originaria scelta d’amore, Dio sconfigge il serpente: “La Passione è la punizione della Creazione. La Creazione è una trappola in cui il diavolo prende Dio. Dio vi cade per amore. Quindi non è preso, perché egli non è altro che amore”.50 Il Verbo incarnato, l’emblema della debolezza di Dio, il Dio-uomo abbandonato da Dio e reso “maledizione”,51 diviene così, per Simone Weil, il punto più alto della manifestazione divina: “Il Cristo sulla croce che grida: Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato? È il linguaggio perfetto della gloria di Dio”.52 Non può che stupire il fatto che Simone Weil, del tutto priva di una formazione teologica e partendo unicamente dalla sua esperienza, abbia ricevuto una luce così forte da anticipare le intuizioni e le direzioni che la teologia andava ancora scoprendo per via dell’approfondimento sistematico.53 Nondimeno, non si dimentichi che la “teologia” di QII 95; il passo è interamente sottolineato dall’autrice. Scrive la Weil: “Dio solo può subire l’ingiustizia senza che questo gli faccia alcun male. Per essere perfettamente giusti, si deve poter subire l’ingiustizia senza riceverne alcun male. Altrimenti si diventa presto ingiusti sotto l’oppressione. Il giusto perfetto può essere solo Dio incarnato” (QIII 364). Infatti, il Dio “che è nei cieli” può distruggere il male solo sulla terra, diventando vittima; subendo in quanto innocente il male, Cristo ricambia la maledizione degli uomini in benedizione di Dio (cfr. QIV 193-194). 50 QIV 300. 51 AD 16. Marianelli pone in evidenza il legame, che la Weil mutua dalla tragedia greca, tra malheur e maledizione. In particolare, Antigone è in Sofocle figura di colei che subisce fino in fondo il male, che le viene imposto dal re Creonte, e così lo trasforma in “dolore puro”. In tal modo, anche Antigone è “figura” del Cristo, o, come dice l’autore, “immagine dell’uomo-Dio”. A differenza di Elettra, altro personaggio sofocleo caro alla Weil, che è invece simbolo della fragilità umana, del suo non bastare a se stessa, della sua esigenza di una liberazione fedelmente attesa e invocata (cfr. M. Marianelli, La metafora ritrovata. Miti e simboli nella filosofia di Simone Weil, Città Nuova, Roma 2004, 81-83.87-89). 52 QIV 27. 53 Per una riflessione sistematica sulla kenosi da un punto di vista teologico si rimanda a: H.U. von Balthasar, Mysterium paschale, in J. Feiner – M. Lohrer (a cura di), Mysterium salutis, n°6, Queriniana, Brescia 1971. Von Balthasar annovera la Weil tra quanti hanno proposto una interpretazione antropologica ed ontologica della croce. Del medesimo autore, circa il rapporto incarnazione-passione in ordine alla discesa di Dio e alla sua morte, cfr. anche Teodrammatica, 48 49 Weil è pur sempre una “antropologia”.54 Ovvero: non solo essa, in quanto pensiero che nasce da un’esperienza, non procede per riflessioni sistematiche sull’essere di Dio, ma, anche quando si concentra su Dio, sempre investe e rilegge il vissuto dell’uomo a partire dalla luce accolta nel vissuto di fede. In altri termini, per Simone Weil la passione di Dio è il dato fondante della passione dell’uomo e la passione dell’uomo è l’ambito in cui pienamente si rivela e compie il senso della passione di Dio. 6.La rinuncia dell’uomo, la rinuncia della Weil In effetti, il malheur rappresenta la possibilità di perdersi definitivamente o di incontrare Dio in Cristo. La prima ipotesi è il compimento del male più grande, la seconda conduce nel cuore di Dio. Ha ragione, dunque, Gabellieri quando – dopo essersi chiesto se, nell’ambito della riflessione weiliana sul malheur si operi «[…] le passage implicite à une métaphysique, non plus seulement des limites de l’homme, mais de la grâce» 55 – conclude che il malheur rivela Dio nell’atto stesso di nasconderlo. Esso, nella lettura che Gabellieri propone e che qui si condivide, si offre «[…] non seulement comme une porte vers le surnaturel mai même, à un niveau supérieur, come un signe caché de la miséricordie divine, «la forme que prend en ce monde la miséricordie de Dieu»».56 Quel “segno nascosto” si rivela compiutamente attraverso la necessità che inchioda ogni uomo alla croce: chi l’accetta per amore, fa della propria croce la Croce di Cristo; chi vi si ribella, è schiacciato dalla forza bruta della necessità. Davanti al rifiuto dell’uomo e alla forza della cieca necessità, neppure Dio può fare qualcosa. Il tutto di Dio già è compiuto. Dio è, infatti, disceso, si è svuotato, si è fatto incontro, ora sta all’uomo fare il cammino inverso, perché il malheur possa condurlo ad amare il Cristo: “Il male è la distanza tra la creatura e Dio. Sopprimere il male è de-creare; ma questo, Dio può farlo solo con la nostra cooperazione”.57 54 55 56 57 vol. 2, Jaca Book, Milano 1981. Sulla riflessione staurologica di Von Balthasar, cfr. M. Jöhri, Descensus Dei. Teologia della Croce nell’opera di Hans Urs von Balthasar, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1981; F. Franco, La passione dell’amore. L’ermeneutica cristiana di Balthasar e Origene, edb, Bologna 2005. Si veda inoltre J. Moltmann, Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia 1973; F. Varillon, L’umiltà di Dio, Paoline, Alba 1978; P. N. Evdokimov, L’amore folle di Dio, Paoline, Roma 1981; W. Kasper, Il Dio di Gesù, Queriniana, Brescia 1984. Sul tema si veda G.P. Di Nicola – A. Danese, (a cura di), Personale e impersonale. La questione antropologica in Simone Weil, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009. E. Gabellieri, Etre et Don. Simone Weil et la philosophie, Éditions de L’Institut Supérieur de philosophie Louvain-La-Neuve / Éditions Peeters, Louvain-Paris 2003, 197-198. Ibidem 204; cfr. OC VI/3 194. QII 201. note 113 note 114 luglio 2010 - anno X È la distanza più grande che postula l’amore più grande. Per questo, per la Weil, è un bene il fatto che noi siamo nella condizione in cui continuare ad amare è “appena possibile”.58 Dio ci ha donato di esistere, rinunciando, Lui per primo, a essere tutto, ad essere l’Unico; la sua rinuncia è un dono d’amore, con la nostra rinuncia noi imitiamo il suo atto d’amore, che fa sì che noi viviamo: “La creatura è niente e si crede tutto. Essa deve credersi niente per essere tutto. Equilibrio tra l’apparire e l’essere; quando l’uno cresce, l’altro decresce. Apparire niente, imitazione di Dio, azione non agente; effetto dell’amore. All’uomo è stata data una divinità immaginaria perché egli se ne potesse spogliare, come il Cristo della sua divinità reale”.59 Trabucco, molto opportunamente, osserva: «Sono molti i testi – soprattutto nei suoi Quaderni – che la Weil dedica alla rinuncia; ma sarebbero fraintesi se non si intendesse la correlazione tra la rinuncia dell’uomo e la qualità della rinuncia stessa di Dio e questa come fondamento di quella».60 È dunque la rinuncia totale, l’accettazione della propria decreazione, l’annullamento della propria dimensione esistenziale che, a giudizio della Weil, spalanca le porte del “regno di verità” e introduce l’uomo nella dimensione dell’eterno. Chi, però, si volge a Dio senza aver rinunciato a tutto, non fa che pregare una falsa apparenza della divinità, costruita a propria immagine e somiglianza. Perché chi non ha rinunciato a tutto, senza fare alcuna eccezione, nell’attimo stesso in cui dice Dio, sta dando il nome di Dio ad uno dei suoi idoli. Detto in altri termini, la nudità di spirito non è solo una condizione dell’amore di Dio, è una condizione necessaria e sufficiente; è amore di Dio. Occorre amare Dio attraverso le proprie gioie, attraverso il proprio malheur, attraverso i propri peccati passati. È necessario amarlo attraverso le gioie, le sventure, i peccati degli altri uomini e senza consolazione.61 Solo così, Dio “discende e ci prende”: “Noi possiamo discendere per indurre Dio a discendere in noi. È questa la virtù dell’umiltà. Solo i movimenti discendenti sono in nostro potere. I movimenti ascendenti sono immaginari […]. Noi abbiamo un po’ di potere. Abdicando, acconsentendo a tutto, diventiamo onnipotenti. Perché allora non può accadere nulla che non abbia il nostro consenso […]. Dio ha abdicato alla sua onnipotenza divina e si è svuotato. Abdicando alla nostra piccola potenza umana diventiamo, nel vuoto, uguali a Dio”.62 Peraltro, come Dio consente alla necessità per amore dell’umanità, così nell’uomo l’amore per l’ordine creato e per la sua bellezza è il complemento dell’amore per il prossimo, verso il quale si deve essere “spinti”:63 Cfr. QIII 351. QII 153. 60 G. Trabucco, Poetica soprannaturale. Coscienza della verità in Simone Weil, Glossa, Milano 1997, 181. 61 Cfr. QIV 248. 62 QIV 349-350. 63 Si legge nei Cahiers: “Non andare al prossimo per Dio, ma essere spinto da Dio verso il prossimo. Come la freccia verso il bersaglio dall’arciere. Essere uno strumento di contatto tra il prossimo e Dio, 58 59 “Con l’amore per il prossimo noi imitiamo l’amore divino che ha creato noi come tutti i nostri simili. Con l’amore per l’ordine del creato imitiamo l’amore divino che ha creato l’universo di cui facciamo parte”.64 L’una e l’altra forma d’amore comportano la rinuncia all’illusione di essere il centro del mondo, il centro del tempo e dello spazio, sapendo che ogni uomo ha diritto quanto ciascuno di noi di dire “io” e consapevoli che il tempo, se è un’immagine dell’eternità, ne è anche un surrogato.65 D’altra parte, Dio, che è il vero centro di tutto ciò che esiste, creando si fa da parte, lasciando regnare da una parte la necessità meccanica, dall’altra l’autonomia essenziale alle persone pensanti. L’uomo, di per sé, non dovrebbe rinunciare ad alcunché, poiché egli non è Dio e di conseguenza non è il centro dell’universo. Ma si crede tale e Dio gli concede la facoltà di rinunciare, per amore, alla sua divinità immaginaria.66 È infatti in forza di quest’ultima che l’uomo vive in una sorta di illusione prospettica che lo situa al centro del tempo e dello spazio. È un po’ quello che accade ai bambini che misurano ciò che esiste su sé stessi e non hanno la reale percezione delle grandezze. Per la Weil, bisogna operare una trasformazione alla radice stessa della nostra sensibilità. È necessario “[…] distaccarsi dalla propria falsa divinità, negare se stessi, rinunciare ad immaginare di essere il centro del creato, riconoscere che tutti i punti del mondo sono altrettanti centri allo stesso titolo e che il vero centro sta fuori del mondo, significa acconsentire al fatto che la necessità domina sulla materia e che la libera scelta sta al centro stesso dell’anima. Questo consenso è amore. Questo amore, in quanto si rivolge alle persone pensanti è carità del prossimo, in quanto si rivolge alla materia è amore per l’ordine creato, oppure – che è poi lo stesso – amore per la bellezza del creato”.67 Libero dalla sua illusoria onnipotenza, l’uomo è in grado, da ultimo, di imparare a riconoscere il limite come dono. Ha la facoltà di scorgerlo in ogni essere creato. Può imparare ad amare ogni creatura in quanto limitata e lasciare “passare” Dio nel mondo: “Conoscere le cose e gli esseri limitati come limitati, con tutta la propria anima, e portar loro un amore infinito. Questo significa veramente lasciare in sé un passaggio per il contatto tra Dio e la creazione”.68 In definitiva, la rinuncia ad essere diviene nella Weil un dono di amore, una restituzione, sul piano mistico, dell’essere che Dio ci ha dato. Essa consente a Dio di incontrarsi “faccia a faccia” con la sua Creazione: 65 66 67 68 64 come la penna tra me e la carta” (QII 323, il corsivo è nel testo). AD 119-120; cfr. Ivi, passim. Cfr. QII 175. Cfr. AD 120-121.138; QI 199, QIV 245. AD 121. QIII 178-179. note 115 116 note luglio 2010 - anno X “Tutte le cose che io vedo, ascolto, respiro, tocco, mangio, tutti gli esseri che incontro, io privo tutto questo del contatto con Dio e privo Dio del contatto con tutto questo nella misura in cui qualcosa in me dice io. Posso fare qualcosa e per tutto questo e per Dio, se so ritirarmi, rispettare il faccia a faccia. L’adempimento rigoroso del dovere semplicemente umano è una condizione perché possa ritirarmi. Esso logora a poco a poco le corde che mi trattengono sul posto e mi impediscono di ritirarmi. Dio mi ha dato l’essere e insieme la possibilità di restituirgli qualcosa cessando di essere”.69 7.L’io ti amo di Dio Come si vede, le riflessioni weiliane partono dal malheur, attraversano la necessità, per approdare all’amore di Dio. È l’amore l’ultima parola che la Weil ha da dire. È anche l’unica in grado di dare speranza nel malheur. Di più: l’amore è ciò che rende il malheur occasione di benedizione e di gratitudine. In quest’ottica, che sempre più assume i tratti di una riflessione mistica, gioia e dolore rappresentano entrambi doni preziosi di Dio. Occorre saperli abbracciare e gustare nella loro totalità, senza confondere l’una con l’altro. Tanto la gioia quanto il dolore fanno sì che la bellezza del mondo entri nella nostra carne. Ed entrambe preparano all’incontro con il Creatore del mondo. Gioia e dolore sono, infatti, angeli di Dio ovvero suoi ambasciatori: “Quando […] si presentano, bisogna aprire loro tutta la nostra anima, come si apre la porta al messaggero di una persona amata. Che cosa importa a una donna che ama se il messaggero che le porge un messaggio è rozzo o cortese?”.70 Si deve, allora, accogliere il male o resistergli? Combatterlo o subirlo?71 Né l’uno, né l’altro. Per Simone Weil, semplicemente, anzi paradossalmente, vi si deve scorgere il tratto di un annuncio divino. Quell’annuncio risuona dal primo istante della creazione ed è sempre lo stesso. Dice “io ti amo”: “Gli avvenimenti della vita, quali che siano, tutti senza eccezione, sono per convenzione segni dell’amore di Dio, così come il pane dell’Eucaristia è carne del Cristo. Ma una convenzione con Dio è più reale di qualsiasi realtà. Dio stabilisce con i suoi amici un linguaggio convenzionale. Ogni avvenimento della vita è una parola di questo linguaggio. Tali parole sono tutte dei sinonimi, ma, come accade nei bei linguaggi, ciascuna ha una sua sfumatura del tutto specifica, ciascuna è intraducibile. Il senso comune di tutte queste parole è: «io ti amo». Uno beve un bicchiere d’acqua. L’acqua è l’«io ti amo» di Dio. Resta per due giorni nel deserto senza trovare niente da bere. L’inaridimento della gola è l’«io ti amo» di Dio. Dio è come una donna importuna che se ne sta incollata al suo amante e gli sussurra all’orecchio per ore, senza fermarsi: «io ti amo – io ti amo – io ti amo…». Quelli che sono dei princi QIII 33-34; cfr. QIII 154-155. AD 98. 71 Cfr. QII 65; si veda anche M. Narcy, Simone Weil, mystique ou politique?, in «Cahiers Simone Weil» 2/1984, 105-119. 69 70 pianti nell’apprendimento di questo linguaggio credono che soltanto alcune di queste parole vogliano dire «io ti amo». Quelli che conoscono il linguaggio sanno che esse racchiudono un solo significato. Dio non ha parola alcuna per dire alla creatura: «io ti odio». In un certo senso la creatura è più potente di Dio. Essa può odiare Dio e Dio non può odiarla a sua volta. […]. Egli è «io amo»”.72 E ancora: “Se il contenuto piacevole o doloroso di ogni minuto è considerato come una carezza di Dio, in cosa il tempo ci separa dal cielo? […] L’abbandono in cui Dio ci lascia diviene così il suo modo di accarezzarci. Il tempo che è la nostra unica miseria è il contatto stesso della sua mano”.73 8.Tra riflessione e speranza, la Weil, un’anima “incinta” di Dio… La Weil ha pregato come ha vissuto: sulla Croce. Desiderandola, abbracciandola, amandola. Non perché strumento di supplizio, ma perché “punto di intersezione” tra Dio e l’umanità, tra l’umanità del Figlio di Dio e lei stessa.74 La passione di Dio è amore, la passione della Weil è stata accettazione del vuoto per amore, per non diffondere il male intorno a sé. Simone Weil è, in qualche modo, Jaffier, il protagonista della sua Venezia salva. Egli è colui che è passato dall’azione alla contemplazione, per non diffondere attorno a sé il male che è in lui e per non contaminare la bellezza che lo circonda.75 Si può dire della riflessione weiliana sul malheur quel che S. Breton asserisce a riguardo delle Intuitions préchretienne. A suo giudizio, centro vitale del fascino che continuano ad esercitare è “[…] la fiamma che le attraversa e la testimonianza che portano di una vita. Il fervore che le anima è quello di un’anima vissuta nello spessore della croce e che ha trovato nella croce la luce decisiva che illumina il dolore del mondo”.76 L’antropologia weiliana si rivela, dunque, un’antropologia eminentemente teologica, una “metafisica della mediazione”,77 che spingendo la sua riflessione “au-delà de l’ontologie”,78 si rivela come una originale “metafisica dell’amore”.79 L’uomo su cui indaga la Weil è l’uomo che si scopre amato da Dio, a sua insaputa e al di là di ogni suo merito. È amato 74 75 72 73 78 79 76 77 QIV 161-162. QIV 179. Cfr. QIII 111-112. “Jaffier prima partecipa, agisce, poi presta attenzione, ascolta il distacco che si è venuto a creare fra l’agire e il contemplare” (D. Segna, Un’estetica della pace: Simone Weil, 109-121, 110, in I. Malaguti, a cura di, Filosofia e pace – Profili storici e problematiche attuali, Fara Edizioni, Santarcangelo di Romagna 2000). S. Breton, La passione di Cristo e le filosofie, Stauros, Pescara 1982, 81-82. Cfr. Gabellieri, Etre et Don, cit., 317. Ivi 332. Cfr. Ivi 369. note 117 note 118 luglio 2010 - anno X da un Dio che è Padre, Figlio, Spirito e che, col suo amore, invita ed ammette l’uomo alla comunione trinitaria.80 È un “invitato degno di essere qui”,81 non per le sue virtù, ma per opera della grazia. A patto che non la rifiuti, che vi corrisponda, che accetti di lasciarsi de-creare per trovare in sé la vera immagine di Dio. Come, infatti, il Dio di Simone Weil deve “perdere” la sua divinità per rapire il libero consenso dell’uomo, per fargli gustare un chicco di melagrana, così l’uomo da lei rivelatoci deve rigettare la sua immaginaria divinità per incontrare in Cristo o, meglio, nell’amore trinitario il modello ed il compimento della sua vera umanità.82 L’antropologia della Weil, come la sua spiritualità, si presenta per tale via come un’antropologia incarnata. Prende luce dall’Incarnazione di Cristo e si esprime solo in una attenzione all’uomo, ad ogni uomo, a partire dal più debole e indifeso, da chi è preda del malheur. In quest’ottica va letta la sua riflessione sulla questione del male e nella medesima luce assume valore la sua riflessione teologica sulla “onnipotente debolezza” di Dio. Un Dio che può tutto, ma solo nell’amore. Un Dio che è Padre e per questo subisce il male, perché, “attraverso” quel male, il mondo e l’umanità siano: esattamente come una madre, attraverso le doglie del parto, dà alla luce un figlio e lo mette al mondo, per amore, pur consapevole che questo significherà che un giorno sarà tradita, commetterà errori, si ammalerà, invecchierà, morirà. Come dire: ogni genitore che dà la vita ad un figlio sa che questo sarà al prezzo di una “triplice follia” che è una triplice morte: quella del figlio e quella dei rispettivi genitori, i quali soffriranno molto più del loro figlio le sofferenze che lo colpiranno. Eppure, scelgono ugualmente di metterlo al mondo. Perché? Per amore, insegna a dire S. Weil; per l’onnipotente debolezza dell’amore che “attraverso il male” dà la vita. Non già perché l’amore vuole il male, neppure perché lo tollera, ma semplicemente perché lo subisce, pur di dare la vita. Nondimeno, ogni volta in cui questo avviene, il male e la morte sono annientati, il bene e la vita risorgono. È questa, a me pare, l’oscura luce che promana dalla riflessione weiliana sulla cieca necessità e sul Malheur presenti nell’ordine creato. Solo così, io credo, è possibile intuire come S. Weil possa ribadire sino all’ultimo il suo proposito di “[…] accettare davvero la sofferenza, scoprendo la gioia attraverso la sofferenza”.83 D’altra parte, lei stessa ammonisce: “Si testimonia meno bene a favore di Dio parlando di Lui piuttosto che esprimendo, in atti o in parole, l’aspetto nuovo che la creazione assume quando l’anima è passata per il Creatore. 82 83 80 81 Cfr. Ivi 504-505. AD 42. Cfr. Gabellieri, Etre et Don, cit., 509-513. S. Weil, Lettre a Antoine Atarés, in «Cahiers Simone Weil», 3 (1984), 215; è una lettera non datata, ma collocabile nel 1942. Cfr. QIV 217. In verità, è solo così che si testimonia. Morire per Dio non è una testimonianza che si ha fede in Dio. Morire per un pregiudicato sconosciuto e ripugnante che subisce un’ingiustizia, questa è una testimonianza di fede in Dio”.84 Dopo Auschwitz, dopo le Torri Gemelle, si può ancora “fare teologia”? Al termine di questa breve investigazione sul pensiero weiliano non si può rispondere in maniera univoca. La risposta è, infatti, “sì e no”. Si tratta di una coppia di contraddittori su cui la Weil insegna a fissare lo sguardo senza distogliere l’attenzione da uno dei due elementi. Alla domanda si deve, allora, replicare con un “no”, se si pensa alla teologia come ad un discorso “ragionevole” su Dio, il che a Simone Weil appare ben più che assurdo. Per lei, Dio è realmente “soprannaturale”; è cioè più grande di ciò che di Lui si può pensare e dire; è un Dio, per l’appunto, “folle” per amore. Ma si deve anche far seguire un sincero “sì”, se si ritiene che non “si fa” il teologo: lo “si è”, ed esattamente nella misura in cui il cuore e l’intelligenza sono conquistati da Dio.85 Di là da ogni ulteriore riflessione, pur necessaria, su quanto questa donna straordinaria ha detto scritto e vissuto, valga per la Weil quanto lei stessa scriveva per ogni uomo di buona volontà, in particolare per coloro i quali, pur non riconoscendo Dio nella propria esperienza, tuttavia sono animati dall’amore e in nome dell’amore non si arrendono al male: “Tutti quelli che possiedono allo stato puro l’amore del prossimo e l’accettazione dell’ordine del mondo, compresa il malheur, tutti costoro, anche se vivono e muoiono atei, sono santi. Quando si incontrano tali uomini, è inutile volerli convertire. Sono tutti convertiti, sebbene non visibilmente; sono stati rigenerati dall’acqua e dallo spirito, anche se non sono mai stati battezzati; hanno mangiato il pane di vita, anche se non si sono mai comunicati”.86 Per giungere ad una simile predisposizione, occorre lasciarsi plasmare sino a divenire un “cuore capace di battere attraverso l’universo”.87 Le condizioni dell’esistenza spesso ci gettano nell’impossibilità di fare il bene, di essere il bene. È necessario fare leva su questa impossibilità, perché essa è la “porta verso il soprannaturale”. Davanti a questa porta occorre attendere e bussare, fissi nella nostra lacerazione, in attesa che ci venga aperto:88 “Il dolore gira la chiave. Permette di superare la porta. Obbliga a passare dall’altra parte”.89 Dall’altra parte: è il termine della ricerca weiliana, l’approdo di un anelito che ha vibrato lungo tutta la sua esistenza. E che supera ogni: “perché il male?”. Finché si è alla ricerca di QIV 181. Si veda la Premessa alla nuova edizione del saggio di P. Coda, Teo-logia. La parola di Dio nelle parole dell’uomo, Lateran University Press, Roma 2005, 9-12. 86 S. Weil, Lettre à un religieux, Gallimard, Paris 1951 (edizione italiana: Lettera a un religioso, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1997), 37-38; cfr. QIII 304. 87 Cfr. S. De Beauvoir, Mémoires, Gallimard, Paris 1969, 236; si veda anche G. Forni Rosa, Tra politica e religione. La compassione secondo Simone Weil, in «Linea d'ombra», n°90/1994, 19-23. 88 Cfr. PG 100. 89 QIII 246; cfr. QIII 294-295; QIV 315-316. 84 85 note 119 note 120 luglio 2010 - anno X una causa del male, si è ancora in questo mondo, non si è varcata la soglia. Ma se si rimane al di qua della “porta”, si deve concludere che Giobbe aveva ragione. Non c’è spiegazione sufficiente davanti al male. Non è rintracciabile nella punizione del giusto, tanto meno nella sofferenza dell’innocente. Troppo spesso è lontana dalla storia del mondo. È del tutto assente dalla cieca necessità che in un medesimo istante dà la vita e può strapparla attraverso un cataclisma. Se non c’è una spiegazione del male, non si può non odiarlo. E, tuttavia, la sofferenza che da esso è generata, pur nella sua assurdità, va amata. Anzi, secondo la Weil, va amata in quanto assurda, non in quanto nobilitata da un’offerta di carattere spirituale: “Fare della sofferenza un’offerta è una consolazione, e quindi un velo gettato sulla realtà della sofferenza. Ma lo è anche considerare la sofferenza come una punizione. La sofferenza non ha significato. È questa l’essenza della sua realtà. Occorre amarla nella sua realtà, che è assenza di significato. Altrimenti non si ama Dio”.90 L’amore della sofferenza, la fede nella sua potenza salvifica, la speranza di giungere attraverso la sofferenza in una gioia compiuta sono verità che, per il teologo e con Simone Weil, trovano senso a partire dalla rivelazione di un Dio che è amore.91 Rischiano, invece, di non averne, se ci si arresta all’idea di un Dio pensato in chiave ontologica, cioè definibile esclusivamente come “essere in quanto essere”. In sintesi, si può rinvenire in Simone Weil quello che lei stessa ci ha insegnato a riconoscere in ogni anima che, nella notte, è rimasta “incinta di Dio”.92 Il “come” questo sia avvenuto conta, ma conta relativamente. Quel che vale veramente è il suo nuovo modo di intendere e testimoniare la presenza di Dio nel mondo. A patto, però, di rimanerne “spezzati”. Non a caso, la Weil avverte: “L’amore è una cosa divina. Se entra in un cuore umano, lo spezza”.93 QIII 109. C’è chi legge in questo rifuggire della Weil da ogni “significato” dell’azione un influsso del formalismo kantiano, in ragione della morale del “dovere per il dovere”. Senza negare l’importanza della lettura di Kant per la Weil, sembra di dover riconoscere che è la ricerca di un amore gratuito e incondizionato ciò che allontana la Weil dal proposito di ricercare ogni forma di consolazione, tanto più se di origine religiosa: cfr. M. Veto, Thèmes kantiens dans la pensée de Simone Weil, in «Cahiers Simone Weil» 1/1985, 42-49; M. Corbascio Contento, Scienza, etica e religione nel pensiero di Simone Weil, Levante Editori, Bari 1992, 178-180. 91 Cfr. QII 205-206. 92 Cfr. QIV 181-186. 93 QIV 225. 90 note Teologia dalla Scrittura. Attestazione e intepretazioni Il maniero federiciano, ben noto per essere, insieme ai trulli di Alberobello, uno dei due beni pugliesi inscritti nel Patrimonio Unesco, ha offerto la suggestiva cornice del XXI Congresso Nazionale dell’ATI, l’Associazione Teologica Italiana. Il tema del congresso era di quelli che subito stimolano curiosità, almeno tra gli esperti della materia: “Teologia dalla Scrittura. Attestazione e interpretazioni”. Due i nodi che emergono, immediati, da una semplice riflessione su un tema simile: in primo luogo, il nesso inscindibile tra teologia e scrittura – tanto più che si rimarca il fatto che la teologia nasce dalla Scrittura, e non già a prescindere da questa; in secondo luogo, la distinzione tra il singolare dell’attestazione e il plurale delle interpretazioni: a ribadire da un lato, l’ephapax, l’una volta per tutte, della Rivelazione,1 dall’altra la necessità che ci siano sempre nuove e continue interpretazioni/assimilazioni del dato rivelato, nonché il bisogno che queste possano realizzarsi in un clima di ricerca caratterizzato da autonomia e fedeltà. Il teologo, infatti, è uno scienziato sui generis. Da un lato, egli è chiamato a condurre la sua ricerca con rigore e libertà, dall’altro, la sua è una funzione ecclesiale che, come tale, comporta l’adesione alla fede ed il vissuto in una comunità di fede. Come si vede, è sufficiente soffermarsi brevemente sulla presentazione sull’assunto del XXI Congresso Nazionale di Teologia, per cogliere Docente stabile di Antropologia teologica - Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani. 1 Si ricorda il dettato della Dei Verbum, 4: “Gesù Cristo […] col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione di Sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio dello Spirito Santo, compie e completa la rivelazione […]. L’economia cristiana dunque, in quanto è alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non è da aspettarsi alcun’altra rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo”. * 121 Paolo Farina* [email protected] Il XXI Congresso dell’ATI, a Castel del Monte. Il munus del teologo, oggi note 122 luglio 2010 - anno X tutta una serie di profonde implicazioni e di conseguenti potenziali arricchimenti.2 Non a caso, già nella sua relazione introduttiva, Marcello Neri ha tenuto a precisare che, una volta chiuso il Canone scritturistico, il cristianesimo non “chiude” a sua volta, ma anzi si apre per sempre al vissuto cristiano, l’unico luogo teologico adeguato che abbiamo per comprendere la Scrittura.3 È dunque bandito, come ha sottolineato Carmelo Torcivia, “[…] ogni pretesa di intellettualismo autoreferenziale”.4 L’interazione tra la Scrittura e la teologia deve essere tale che lo studio della prima costituisca l’anima della seconda, perché “[…] il ruolo della teologia non può che essere al punto di confluenza tra intellectus fidei e regula fidei, con l’abbandono definitivo di ogni schema oppositivo o deduttivistico tra teologia e prassi”.5 Da questo punto di vista, l’auspicio con cui si potrebbe sintetizzare il messaggio della giornata introduttiva è che nella comunità cristiana la lettura, lo studio, la passione per la Scrittura possano tornare ad essere una fonte luminosa per i credenti, siano essi sacerdoti o laici, teologi o semplici christifideles, laddove: “[…] drammatico è piuttosto l’analfabetismo biblico della maggior parte del popolo di Dio e il permanere di una vera e propria diffidenza verso l’esegesi, per non parlare delle difficoltà legate all’uso dell’Antico Testamento”.6 La seconda giornata di studi si è aperta con la celebrazione eucaristica presieduta da mons. Bruno Forte che, nell’omelia, ha avuto parole di forte apprezzamento, ma anche di stimolo per il ruolo e l’impegno dei teologi: “La teologia cristiana è parola su Dio […]. È parola di domanda ed insieme di risposta. Nella Parola essa ascolta il Silenzio; dal Silenzio riceve la Parola; fra Parola e Silenzio muove i suoi passi, linguaggio di frontiera. La teologia sta al confine […]. Due movimenti l’attraversano, fra di loro asimmetrici: quello del pellegrino, assetato di una patria verso cui orientare il cammino […] e quello dell’Inizio, presupposto e fondamento di tutto ciò che esiste, che viene a noi dall’insondabile Silenzio. Il ponte che percorre questa asimmetria è riconosciuto nel Nuovo Testamento in Gesù, il Cristo, la Parola venuta nella carne”.7 Quasi raccogliendo il testimone dalle parole di mons. Forte, Massimo Epis ha iniziato la sua relazione sottolineando: “Per i cristiani, la rivelazione non è qualcosa che va sem Anche per questo non ci si può non rammaricare del fatto che, mentre a Castel del Monte sono giunti teologi di chiara fama da tutta Italia e anche da fuori Italia, non eccelsa è stata l’attenzione e l’adesione dei teologi di casa nostra, ovvero di quanti insegnano e studiano nella Facoltà Teologica e negli Issr pugliesi. 3 Marcello Neri insegna teologia fondamentale e teologia sistematica presso la Facoltà Teologica di Emilia Romagna (Bologna). Il titolo della sua relazione è stato: Il Dio attestato. Strutture e forme del cristianesimo. 4 Cfr. C. Torcivia, Lo studio delle Scritture anima della teologia (DV 24). Un’introduzione, Castel del Monte, 07/09/09, 11. Torcivia insegna teologia pastorale, teologia delle religioni e introduzione alla teologia presso l’Issr di Palermo. 5 Ib., 12. 6 L. Mazzinghi, Parola di Dio e vita della Chiesa, in «Rivista Biblica» LV(2007)4, 422. 7 B. Forte, Omelia, Castel del Monte, 08/09/’09, 1. 2 plicemente «da Dio all’uomo». La forma cristica della rivelazione – che realizza il senso della creazione – è un intreccio di consegne: Dio in Cristo si consegna a noi, perché noi ci consegniamo a Lui”.8 In altre parole, l’intervento di Epis ha chiarito come, a giudizio dell’autore, la Scrittura sia a servizio del nesso originario tra livello teologico e livello antropologico.9 Un livello che, qui si ricorda, ha il suo definitivo compiersi e rivelarsi nella manifestazione teandrica di Gesù Cristo (cfr. GS 22). Coerente con tali premesse la conclusione dello stesso Epis: “Nella res della Scrittura trova legittimazione teologica – e quindi la sua fondazione reale – una teoria della verità per la quale l’appropriazione del soggetto/ lettore è costitutiva della verità cui corrisponde. Proprio perché il discorso che la Bibbia fa di Dio è interno a Dio, il nodo teorico del rapporto verità‐storia non può essere sciolto a monte di una drammatica ch’è norma dell’autenticità di ogni ripresa, anche riflessiva”.10 Il pomeriggio del secondo giorno del Congresso è stato interamente dedicato ai lavori di gruppo. Quattro le tracce per altrettanti gruppi di approfondimento: 1) “Pro multis”: teologi, liturgisti ed esegeti si interrogano; 2) L’uso della scrittura in alcuni documenti ecumenici mariologici. 3) Un conflitto di interpretazioni: “porneia” (Mt. 9,9). Teologia morale matrimoniale, sacramentaria, diritto, questioni ecumeniche; 4) “Quod ubique, quod semper, quod ab omnibus” (Commonitorium, 2): il consensus ecclesiarum come interpretazione delle Scritture.11 Il confronto tra differenti modelli di teologia a partire dalla Scrittura ha interamente occupato la mattina del mercoledì, terzo giorno dei lavori congressuali. Il primo contributo è stato offerto da A. Montanari, esperto del pensiero di Origene, il quale, ponendo l’accento sulla necessità di accostarsi con un sapiente discernimento agli scritti origeniani, ha in primo luogo puntualizzato: “Sorge inevitabile una domanda: è corretto valutare l’esegesi dei commentatori antichi a partire dalle nostre definizioni di senso letterale o di senso storico, quando è risaputo che essi operavano su concetti molto differenti dai nostri?”.12 Quindi, dopo avere fornito un’illuminante presentazione del commento di Origene all’incontro di Gesù con la Samaritana presso il pozzo di Giacobbe,13 ha concluso affermando che: “[…] l’atto di lettura, come lo intende Origene in questo testo, consiste anzitutto in quell’anagogè, M. Epis, Il rilievo sistematico del primato della Scrittura. Per una teologia della Bibbia, Castel del Monte, 08/09/’09, 1. 9 Cfr. Ib., 4. 10 Ib., 10. 11 I gruppi di studio sono stati rispettivamente condotti da Cesare Giraudo (decano della Facoltà di Scienze Ecclesiastiche Orientali, presso il Pontificio Istituto Orientale, Napoli), Giancarlo Bruni (biblista, monaco della Comunità di Bose), Basilio Petrà (ordinario di teologia morale fondamentale e di morale familiare presso la Facoltà Teologica dell’Italia centrale, Firenze) e Cristina Simonelli (docente di patrologia presso l’Issr di Verona). 12 A. Montanari, “Al di là di ciò che è scritto”. Intelligenza delle Scritture e conoscenza di Cristo in Origene, Castel del Monte, 09/09/’09, 3. 13 Il brano è collocato all’inizio del tomo XIII dell’In Iohanmen; cfr. M. Simonetti, Origene e il pozzo di Giacobbe, «Vetera Christianorum» 37 (2000), 113‐126, ora in M. Simonetti, Origene e la sua tradizione, Morcelliana, Brescia 2004, 225‐237. 8 note 123 note 124 luglio 2010 - anno X che permette di «risalire», attraverso una composizione rigorosa ed esatta del testo biblico, al di là della lexis, fino all’incontro con il mistero di Cristo”.14 Ha fatto seguito la relazione di Luigi Alici, che aveva il compito di presentare il nesso tra scrittura e teologia nel pensiero e nelle opere di Sant’Agostino. A suo giudizio, non solo l’opera di Agostino è aperta ad una pluralità di letture, ma persino teorizza e incoraggia in maniera del tutto esplicita un pluralismo interpretativo. Lo stesso Alici ha citato un recente volume di Jean‐Luc Marion, secondo cui il nucleo originario e genetico del pensiero agostiniano sta nel fatto che, per il vescovo di Ippona, la confessione di fede non è un mero atto di assenso razionale, ma si coglie e si rivela a colui stesso che la vive – e quindi anche alla comunità in cui egli vive – come un atto eminentemente auto‐relazionale ed etero‐relazionale: “Je ne dis pas ma confession, je suis ma confession”.15 L’approccio eminentemente fenomelogico di Marion è simmetrico e contrario a quello perseguito da Isabelle Bochet che, come scrive Alici: “[…] tende invece ad espandere l’ottica ermeneutica, facendole assumere quelle credenziali di ordine speculativo rispetto alle quali l’ermeneutica contemporanea tende invece a prendere le distanze”.16 I due antitetici punti di vista sono esempio di quanto, pur essendo davanti ai medesimi scritti agostiniani, questi possano legittimare un approccio del tutto differente e, perciò stesso, non racchiudibile in una sola definizione. Si tratta in verità di una ricchezza che nasce non già dalla pagina di Agostino, ma da quella della Scrittura, di cui ogni scritto agostiniano è pregno. Ecco perché Alici può legittimamente concludere: “Siamo quindi in presenza di una complessa motivazione in favore della polisemia, che è il presupposto indispensabile di ogni ermeneutica aperta: l’impossibile saturazione del campo ermeneutico rimanda, per eccesso, alla trascendenza del Verbo e, per difetto, alla povertà della risposta interpretativa. È qui che il motivo cristologico e quello ecclesiale si rinforzano reciprocamente: In Scripturis discimus Christum, in Scripturis discimus Ecclesiam”.17 È stata, quindi, la volta di Piero Coda che, oltre essere teologo e filosofo di chiara fama, è il presidente dell’ATI e, dunque, una delle menti che hanno ideato il Congresso di Castel del Monte. Il compito a lui affidato era di indagare l’interazione tra Scrittura e teologia in S. Tommaso d’Aquino e Piero Coda ha esordito sottolineando come sia del tutto archiviato, dal punto di vista storiografico, il pregiudizio per cui la riflessione tomista si sarebbe sviluppata secondo un filone autonomamente speculativo, lungi da un contatto vivificante con la Scrittura. Al contrario: “Anche una sommaria conoscenza dei secoli d’oro del Medioevo latino, e in particolare del XIII secolo, sfata decisamente questo pregiudizio: la lettura e il commento, versetto per versetto, della Scrittura […] sono l’attività principe di A. Montanari, “Al di là di ciò che è scritto”, cit., 8. J.L. Marion, Au lieu du soi. L’approche de Saint Augustin, Puf, Paris 2008, 57. 16 L. Alici, «Ea quae obscura aperienda sunt». Scrittura e teologia in S. Agostino, Castel del Monte, 09/09/’09, 5. Alici è ordinario di filosofia morale presso l’Università di Macerata. 17 Ib., 10. 14 15 coloro che, appunto, sono insigniti autorevolmente del titolo di doctores sacrae Scripturae e magistri in sacra pagina”.18 La relazione di Coda ha così indagato la misura in cui il modello tomasiano dà conto non solo della rivelazione come momento fondativo, in cui Dio comunica la verità all’uomo, ma anche del nesso tra attestazione scritturale e argomentazione teologica, che insieme, nel vissuto ecclesiale, debbono tendere alla visio beatifica. Coda ha anche mostrato come in Tommaso tutti gli altri “sensi” (morale o tropologico o anagogico, mistico o allegorico) siano fondati sul primo, ovvero su quello letterale, perché è nella logica del mysterium salutis, dunque attraverso la storia, che si dispiega il sensus spiritualis: fatti e parole intimamente connessi, come insegna anche DV 2, giacchè la res gesta prodit mysterium.19 Folgorante la conclusione di Coda: “Basti dire che, tenendo conto della sua evidente contestualizzazione storica e teoretica, la proposta di Tommaso, da un lato, si vuole radicata nella fedeltà al significato originario e insuperabile della forma oltre che del contenuto dell’attestazione scritturale della rivelazione; e, dall’altro, segna un passo innanzi, nel senso della fedeltà alla res historica della rivelazione attestata dalla Scrittura, rispetto al modello sino ad allora prevalentemente segnato platonicamente o neoplatonicamente dal primato dell’ascensione anagogica allegorizzante tendente ad evacuare lo spessore storico della rivelazione. Resta da chiedersi perché questo guadagno non sia stato valorizzato e sviluppato, ma quasi neutralizzato da un crescente formalismo razionalistico. Ma questo è un altro discorso”.20 La terza giornata si è avviata alla conclusione con l’intervento di Fulvio Ferrario. Il teologo evangelico ha proposto una riflessione su un tema di vitale rilevanza, quale il rapporto tra Parola e Scrittura in Lutero. È noto che il riferimento costante del riformatore alla nozione della Parola di Dio è non di rado dato problematico per chi voglia approfondirne il pensiero. Si tratta, infatti, il più delle volte di affermazioni “mobili” e animate da tensione dialettica. Nondimeno, è indubbio che: “Per Lutero è assolutamente ovvio che la Bibbia è il libro della Chiesa e comprendere il sola Scriptura come eliminazione del momento tradizionale dall’impresa ermeneutica costituirebbe un grave fraintendimento”.21 La comunicazione di Ferrario ha così indagato – nella teologia protestante, in primo luogo, e nella Chiesa Cattolica, in secondo luogo – l’attualità del principio scritturale, un principio in qualche modo P. Coda, «Sacra Scriptura dum narrat textum prodit mysterium». Scrittura e teologia in Tommaso d’Aquino, Castel del Monte, 09/09/’09, 1. 19 Cfr. Ib., 11‐13. 20 Ib., 15‐16. Interloquendo, col dovuto rispetto, con Piero Coda, e in particolare con il suo interrogativo finale, verrebbe da rispondere e da chiedere: forse perché il metodo di Tommaso d’Aquino è, già in sé, autonomo, cioè “altro” dalla forma in cui si dà la rivelazione della Scrittura? Se questo è vero, si spiegherebbe perché il successivo formalismo della Scolastica avrebbe lasciato lentamente prevalere la forma sul contenuto stesso della Scrittura… 21 F. Ferrario, Togli Cristo dalle Scritture, che cosa vi troverai? Parola e Scritture in Lutero, Castel del Monte, 10/09/’09, 3. Fulvio Ferrario è teologo evangelico, professore ordinario di teologia sistematica presso la Facoltà Valdese di Teologia di Roma. 18 note 125 note 126 luglio 2010 - anno X messo in crisi dall’avvento della critica storica. L’esegesi critica, infatti, avrebbe acclarato, una volta per tutte, che non si dà canone biblico senza il portato di un lungo processo della tradizione, confermando così un primato di quest’ultima sulla Scrittura. A giudizio di Ferrario, tuttavia, questo dovrebbe invece confermare che esiste un rapporto innegabile tra Scrittura e tradizione, un rapporto che lo stesso Lutero ha a suo modo valorizzato.22 Di qui la conclusione: “Non credo, dunque, che sia il principio scritturale ad essere in crisi: più probabilmente lo è una chiesa evangelica che non è più all’altezza spirituale che una simile proposta richiede. Del resto lo si è visto: interpretare il sola Scriptura semplicemente come una parola critica antiromana sarebbe del tutto fuori luogo. Esso costituisce invece, anche e proprio per la chiesa evangelica, l’eco della sfida rivoltale da un Dio che non si lascia catturare e addomesticare. Non dalle gerarchie ecclesiastiche, certo: almeno questo i protestanti l’hanno capito bene; ma nemmeno da un tipo di esegesi imbarazzato dalla propria responsabilità teologica e desiderosa di limitarsi alla filologia”.23 Stimolante è stato l’avvio dei lavori della quarta giornata. È stata, infatti, la volta di André Wenin, la cui comunicazione verteva sul tema dell’approccio letterario alla pagina sacra e segnatamente sul ruolo e compito della teologia biblica. Si è trattato di un intervento che ha suscitato un vivo dibattito. Wenin, partendo da una sintetica presentazione dei fondamenti della narratologia biblica, ha voluto offrire un esempio di analisi narrativa del racconto della vocazione di Abramo (cfr. Gen12,1‐3), per tirare una serie di conclusioni. Innanzitutto, Wenin ha tenuto a ribadire che: “La teologia che emerge dall’interpretazione di questi dati narrativi – o, in altre parole, il discorso sul personaggio divino costruito dal racconto – sarà tanto più adeguato quanto una costante preoccupazione di rigore e di obiettività presiederà all’osservazione del racconto e al rispetto delle indicazioni del narratore”.24 È facile immaginare quanto questa ed altre simili affermazioni abbiano attirato l’attenzione dei teologi dogmatici presenti, in larga maggioranza, al Congresso, tanto più quando Wenin ha insistito nel ribadire che in questo tipo di approccio il ruolo del lettore rimane fondamentale e che il suo compito, nell’analisi del testo, non deve aver riguardi nei confronti del personaggio divino così come non ne ha per gli altri personaggi della Scrittura.25 Sono seguiti, nel pomeriggio, i lavori in piccoli gruppi. Sono state, infatti, introdotte quattro comunicazioni, dando ad ognuno dei convegnisti facoltà di partecipare a non più di due di esse. Questi i titoli delle comunicazioni: Linee direttrici della comprensione ratzingeriana della Scrittura, a partire dal “Gesù di Nazaret”;26 Il rapporto ScritturaTradizioneMagistero Cfr. Ib., 6‐9. Ib., 9. 24 A. Wenin, Approccio letterario e teologia biblica. Riflessioni a partire dal primo Testamento, Castel del Monte, 11/09/’09, 16. André Wenin è docente di Antico Testamento e di lingue bibliche alla Facoltà di Teologia dell’Università cattolica di Lovanio. 25 Cfr. Ib., pp. 16‐18. 26 Il lavoro è stato presentato e moderato da Andrea Ballandi. 22 23 nei documenti del dialogo luteranocattolico;27 “L’uno e l’altro Testamento…”. Henri de Lubac e la riscoperta dell’esegesi spirituale;28 Interpretazione sociologica dei testi neotestamentari e riflessione teologicosistematica sulla Chiesa.29 Si è giunti, dunque, al quinto ed ultimo giorno del Congresso. Protagonista dei lavori è stato Giacomo Canobbio, che ha illustrato il tema: Scrittura e teologia. La Chiesa “luogo” dell’interpretazione. Si è trattato, evidentemente, di un contributo che ha provato ad offrire una sintesi d’insieme rispetto alla pluralità degli apporti offerti nei giorni precedenti. In ultima analisi, Canobbio ha provato a porre e a rispondere alla domanda: “L’interpretazione della Scrittura nella Chiesa e per la Chiesa ha bisogno della riflessione critica, ha bisogno, cioè, della teologia?”. Articolata la risposta dello stesso relatore. Da una parte, citando Mazzinghi, egli ha escluso che l’interpretazione della scrittura “nello Spirito” assoggetti la scienza alla teologia: “Si può piuttosto dire: «i criteri ermeneutici di DV12 non sono una gabbia che rinchiude i metodi scientifici asservendoli alla teologia, ma piuttosto la necessaria immunizzazione dell’esegesi scientifica contro i limiti che ogni metodo inevitabilmente contiene in se stesso. Non si tratta più di creare accanto all’esegesi scientifica un’altra esegesi che sarebbe teologica senza essere storica; si tratta piuttosto di esercitare la razionalità esegetica nell’ordine della fede»”.30 31 D’altro canto, Canobbio ha precisato che la fedeltà alla Scrittura non comporta un irrigidimento in un determinato schema ermeneutico. La storia della Chiesa, come la storia di ogni singolo essere umano, contiene in sé la condizione e il luogo teologico in cui la verità della Scrittura, in maniera sempre nuova e attuale, si comunica: “L’interpretazione ha peraltro un carattere sempre dialogico; il ‘lettore’ (sia esso la Chiesa o il singolo credente) vi apporta sempre qualcosa di personale e creativo, come sottolinea H.G. Gadamer, e quindi ogni lettura può portare alla luce qualcosa che nel testo era presente ma non era formulato”.32 Questo non significa che l’interpretazione possa o debba essere arbitraria. Implica piuttosto la necessità di rifondare il giusto rapporto tra Scrittura e sapere critico della fede, includendo in tale sapere tanto l’esegesi quanto la teologia.33 Il lavoro è stato presentato e moderato da Angelo Maffeis, docente di teologia sistematica e di storia della teologia moderna presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e l’Università Cattolica del Sacro Cuore. 28 Il lavoro è stato presentato e moderato da Roberto Repole, docente di ecclesiologia presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – sezione di Torino. 29 Il lavoro è stato presentato e moderato da Serena Noceti, docente di teologia sistematica presso la Facoltà Teologica dell’Italia centrale. 30 G. Canobbio, Scrittura e teologia. La Chiesa “luogo” dell’interpretazione, Castel del Monte, 11/09/’09, 8. Come si potrà ben vedere, le parole di Mazzinghi e di Canobbio contengono un’implicita risposta alle tesi già presentate dal Wenin. 31 L. Mazzinghi, Parola di Dio e vita della Chiesa, cit., 410. 32 Ib., p. 9; per il riferimento a Gadamer, cfr. Verità e metodo, Fabbri, Milano 1972, 150‐152. 33 Cfr. Ib., 10‐13. 27 note 127 note 128 luglio 2010 - anno X E siamo così al punto di partenza: quale rapporto tra attestazione della Scrittura e interpretazioni teologiche? Fino a che punto il teologo può e deve rispondere ad una precisa funzione ecclesiale, quella di essere un “mistagogo”, un testimone critico della fede, capace di introdurre ogni uomo, dunque anche quello contemporaneo, nella contemplazione del mistero? Nel tentativo di individuare non una risposta compiuta, ma un orizzonte di senso, al cui interno identificare il munus del teologo, lasciamo spazio alle parole con cui Piero Coda aveva inteso aprire il Congresso di Castel del Monte: “Il teologo è un intellettuale nascosto, ma ricercato. In Italia la cultura quando vuol fare i conti con il cristianesimo cerca il teologo perché è una riserva di approccio critico e libero. […] Aprirò i lavori del congresso chiedendo un esame di coscienza sulla situazione ecclesiale. Perché la teologia nasce dal battesimo e dall’ascolto della Parola, non da ministero ordinato. Questa è una verità che il Concilio Vaticano II ha rimesso a giorno eppure oggi è oscurata. Il mio è un grido forte e convinto alle nostre comunità e a chi svolge il ministero di guida: quale posto e quali opportunità vengono di fatto offerte e promosse per l’accesso dei laici, uomini e donne, all’esercizio della teologia? C’è il pericolo di un consistente riduzionismo clericale”.34 Le parole di Coda fanno il paio con quelle di Mons. Mariano Crociata, segretario della CEI, il quale, volendo illustrare i compiti del ministero teologico nella Chiesa di oggi, ha individuato tre esigenze. Indiscutibile, la prima: l’esercizio di tale ministero non può mai essere disgiunto dall’ascolto e dall’esperienza credente, in quanto il teologare è “atto secondo” rispetto al vissuto credente ed ecclesiale. Strettamente attuali, la seconda e terza esigenza: “Accompagnare il cammino delle Chiese, in un atteggiamento vigile e paziente allo stesso tempo”; e: “stare dentro il dibattito culturale”, imparando e insegnando a leggere la vita e la storia alla luce della “profondità della Parola di Dio”.35 Che queste parole possano essere di indirizzo e di buon auspicio, ma anche segnare una volontà di riscoprire il dono e compito dell’essere teologo, nella Chiesa e nel mondo, oggi. M. Burini, L’intellettuale ignoto, ne «Il Foglio», del 05/09/’09, 4. S. Mazza, La teologia, ricchezza per il dibattito culturale, in «Avvenire», del 10/09/’09, 25. 34 35 note L’educazione e la sua natura 129 Luigi Lafranceschina* [email protected] Premessa Studiando la natura dell’educazione, i pedagogisti hanno sempre rilevato che l’atto educativo si presenta fondamentalmente come problema di rapporto tra educando e educatore. Nella storia della pedagogia, tuttavia, è stato accentuato ora il valore dell’educatore con la conseguente svalutazione dell’educando, ora il valore dell’educando con la conseguente svalutazione dell’educatore. In rapporto a queste due posizioni contrastanti, l’educazione è stata intesa o come etero-educazione o come auto-educazione. 1.Il concetto di educazione etero diretta Coloro che hanno sostenuto la validità di questo concetto hanno considerato l’educazione come formazione, come azione modellatrice dell’educatore (soggetto attivo che trasmette conoscenze, abilità, regole e comportamenti) sull’educando (soggetto passivo che riceve conoscenze e abilità e accetta regole e comportamenti). In quest’ottica la centralità nel processo educativo spetta, dunque, all’educatore e all’ambiente esterno, anzi l’educazione è possibile e risulta efficace solo se ci sono dei veri maestri che esercitano una continua e proficua azione sul soggetto educando, solo se ci sono degli ambienti positivi (familiare, sociale, scolastico) e dei contesti formativi che funzionano quasi da “stampi” per plasmare l’educando in un certo modo, facendogli acquisire corrette abitudini e sani comportamenti. È questa la tesi sostenuta, ad esempio, dai rappresentanti dell’indirizzo positivista dell’educazione (Spencer, Ardigò, Gabelli, Angiulli, Siciliani) per i quali il processo educativo, che ha per scopo la formazione di modi di pensare e di agire, è il prodotto delle condizioni ambientali: * Docente stabile di Pedagogia - Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani. L’educazione è stata intesa o come eteroeducazione o come autoeducazione note 130 luglio 2010 - anno X famiglia, società, scuola, luoghi d’incontro, istituzioni varie, “matrici” da cui l’educando viene modellato in un modo o nell’altro1. Negata, però, ogni libera attività spirituale, ogni energia creativa, ogni iniziativa personale e funzione attiva del soggetto che si deve educare, non si riesce poi a spiegare perché da genitori e maestri esemplari e in ambienti moralmente sani si “formino”, talvolta, figli o allievi “deviati” (la cosiddetta “pecora nera”), come capita pure, talvolta, che da genitori e maestri poco esemplari e in ambienti negativi si “formino” figli o allievi retti e onesti (la “mosca bianca”). In realtà, il concetto dell’educazione etero diretta capovolge il senso più autentico dell’educazione stessa che consiste nel promuovere e nel far maturare colui che ci sta di fronte e che merita di essere chiamato soggetto dell’educazione. Se l’educazione si riducesse semplicemente ad un’azione esterna sull’educando e, quindi, fosse intesa soltanto come etero-educazione, il soggetto educando diventerebbe l’oggetto dell’educazione, anzi, a ben guardare, non si potrebbe correttamente parlare di educazione (nel suo etimo e-ducere: trarre fuori i germi, le potenzialità, l’energia interiore e profonda che ogni persona umana nascendo porta in sé), ma di modellamento, di forgiatura. E un uomo modellato, plasmato non per se stesso ma secondo la volontà degli altri e per gli altri (genitori o partiti politici o istituzioni sociali o società in generale), diventerebbe un automa, un uomo non libero, omologato o, peggio, plagiato. Pertanto, in pedagogia, è da guardare con sospetto al termine formazione quando vuol significare dare forma dall’esterno, stampare, per cui come un falegname lavora un pezzo di legno, così l’educatore lavora il suo materiale umano plasmando e modellando i suoi allievi secondo la sua volontà. Formazione può avere un significato in educazione solo se intesa alla maniera di Aristotele come promozione della forma, dell’entelechia, dell’essenza dinamica del soggetto, come attuazione dei dinamismi interiori dello sviluppo dell’uomo.2 2.Il concetto di educazione auto diretta Contrapponendosi a questa posizione, molti pedagogisti e educatori (a iniziare da Comenio e da Rousseau) hanno capovolto i termini del rapporto educativo e, considerando l’educazione come auto-educazione, hanno finito per esaltare l’autonomia e la funzione attiva dell’educando, ponendo in ombra o addirittura negando il ruolo e la funzione dell’educatore e l’azione dell’ambiente. Cfr. D. Bretoni Jovine (a cura di), Positivismo pedagogico italiano, UTET, Torino 1973. Cfr. A. Agazzi, Una scuola a misura d’uomo, in G. Rovea, “Educazione e scuola nelle ideologie contemporanee”, La Scuola, Brescia 1982, pp. 35-38. 1 2 L’educazione, pertanto, sarebbe un processo di auto-sviluppo interiore naturalistico e spiritualistico che avviene sempre nel soggetto liberamente, una scelta libera del soggetto che non verrebbe affatto determinata dall’esterno. La centralità nel processo educativo spetterebbe, pertanto, all’educando, alla sua spontaneità, alla sua attività, alla sua libera iniziativa. Nella sua grande opera pedagogica Didattica Magna, Comenio sosteneva che in educazione non c’è bisogno di portar nulla dal di fuori dentro l’uomo, ma soltanto di far germinare e sviluppare le cose delle quali contiene il germe in se stesso: “E invero certuni sono andati più avanti dei loro maestri o (come dice Bernardo) sono andati più avanti ammaestrati dalla querci e dai faggi (ossia passeggiando e meditando nelle selve), che altri ammaestrati nella scuola d’operosi insegnanti. E questo non ci insegna forse che dentro l’uomo c’è davvero ogni cosa? C’è, si vede bene, la lampada e il lume, l’olio e il lucignolo e tutto il necessario: purché sapesse batter bene l’acciarino, far pigliar fuoco all’esca e accendere i lumi, vedrebbe, tanto in se stesso, quanto nel mondo più grande… meravigliosi tesori della sapienza di Dio… Ora che il suo lume interiore non viene acceso, ma all’esterno si fanno girare intorno a lui le lampade delle opinioni altrui…, avviene come se si facessero girare delle fiaccole intorno a un carcere tenebroso chiuso, che per gli spiragli… una luce piena non vi potrebbe entrare”.3 Negare, però, il ruolo e la funzione dell’educatore significa abbandonare l’educando (che non è ancora educato, perché, se lo fosse già, l’educazione non avrebbe senso) al disordine dei suoi impulsi, dei suoi istinti, delle sue tendenze originarie; e da solo e con le sole sue forze non riuscirebbe pienamente a educarsi e a realizzarsi come una personalità completa sul piano fisico, intellettuale, morale, sociale e religioso, le cinque dimensioni che ontologicamente strutturano la persona umana. Si pensi, ad esempio, ai casi di bambini abbandonati e vissuti al di fuori del consorzio umano che, una volta ritrovati e ricondotti nella società civile, hanno dovuto con fatica ripercorrere le tappe e le conquiste fondamentali della cultura, della civiltà e dell’educazione non da soli certamente, ma con l’aiuto necessario, prezioso, insostituibile degli altri. 3.L’educazione come sintesi di auto e etero-educazione L’educazione ha sempre bisogno del rapporto educatore-educando, ma avviene sempre nel soggetto educando. Essa, infatti, se non si attuasse nell’interiorità del soggetto, non avverebbe neppure. L’educazione, pertanto, è essenzialmente auto-educazione; tuttavia, il processo di “crescita” interiore si mette in atto solo se c’è un aspetto di etero-educazione e, quindi, l’apporto di un educatore. 3 G.A. Comenius, Didattica Magna, (a cura di V. Gualtieri e G. Lombardo Radice), Sandron, Firenze 1955, p. 100. note 131 note 132 luglio 2010 - anno X L’educazione è un processo insieme di auto-sviluppo spirituale e naturalistico e di formazione dall’esterno, un processo in cui interagiscono realtà diverse: educatore ed educando, autorità e libertà, volontà e creatività, razionalità e affettività, condizionamenti esterni e energia interiore, sforzo e interesse. Essa, in definitiva, è sintesi di auto e etero-educazione e coinvolge sia l’autorità dell’educatore, sia la libertà dell’educando con la precisazione che la libertà dell’educando è da intendersi non come arbitrio e anarchia, bensì come libertà di obbedire a una legge morale interiore; allo stesso modo l’autorità dell’educatore non è costrizione, imposizione e violenza, ma testimonianza ed esempio vivente della legge morale interiore pienamente attuata. In questo senso l’educatore rappresenta la causalità esemplare dell’atto educativo4. Ogni qual volta nella storia della pedagogia e dell’educazione uno dei due termini è prevalso sull’altro, la scuola e l’educazione sono state caratterizzate da forme deleterie di autoritarismo oppressivo (si pensi agli abusi e alle violenze fisiche e psicologiche sui minori nei sistemi formativi del passato, dal mondo classico fino alla rivoluzione industriale del 17005 e al totale fallimento, ad esempio, dell’educazione “monacale” etero-diretta della Gertrude manzoniana costretta dalla crudeltà del Principe padre e dai pregiudizi del suo tempo alla vita del chiostro che non solo non trova ratifica interiore in lei, ma le provoca disgusto e avversione) o di libertarismo anarchico che è l’altra faccia del lassismo e del permissivismo dell’educatore (si pensi al “naturale disordine” della scuola creata da Tolstoj nel suo palazzo di Jasnaja Poljana in cui “all’alunno è affidata la più completa libertà di scegliere se ascoltare o no l’insegnante, di accettare o no l’insegnamento… Egli si avvia a scuola, la mattina, senza portare nulla con sé, né libri, né quaderni, senza l’obbligo di ricordare o ripetere lezioni già svolte”).6 L’autorità dell’educatore è educativa solo se, connotata di fermezza, dolcezza e intelligenza, si pone come autorità liberatrice, tendente, cioè, a liberare l’educando dal disordine interiore, dall’istinto e dal capriccio per educarlo alla libertà di agire moralmente; l’autorità liberatrice, perciò, non limita la libertà dell’educando, ma tende a farla crescere radicandola nella moralità e rendendola pienamente autonoma. D’altronde la libertà dell’educando (libertà che non possiede ancora pienamente, altrimenti sarebbe già educato e non educando) per essere vera libertà deve porsi come libertà autorevole, come libertà di darsi delle norme, di porsi dei limiti, di accettare regole morali di condotta. Infatti se l’educazione “è chiamata a dare all’uomo il suo significato umano, instaurandolo nella libertà”, è pur vero che non c’è libertà fuori del campo delle scelte morali, che possono essere positive o negative, e che è “educato” solo l’uomo capace liberamente di scegliere tra il bene e il male: scegliendo il bene, evidentemente si “india” e si realizza pienamente come uomo, mentre Cfr., G. Corallo, Pedagogia, S.E.I., Torino 1965, p. 337-341. Cfr. L. Trisciuzzi – F. Cambi, L’infanzia nella società moderna. Dalla scoperta alla scomparsa, Editori Riuniti, Roma 1989. 6 V. Caporale, Descolarizzazione. Origini e prospettive, Cacucci, Bari 2008, pp. 71-72. 4 5 scegliendo il male, si “imbestia” e si depaupera come uomo. È questo, allora, il significato più profondo dell’educazione: una crescita continua, permanente, sia pur graduale, della capacità di ciascuno di agire liberamente e rettamente (per il bene), autodeterminandosi verso la sfera dei valori perenni dello spirito.7 4.L’educazione come comunione di anime Si può, allora, definire il rapporto educativo come un processo di identificazione, di compenetrazione, di immedesimazione nell’altro, una comunione immediata di anime, una relazione di simpatia e di empatia: l’educando si compenetra nell’educatore e l’educatore nell’educando e in questa compenetrazione da anima a anima, da spirito a spirito, da pensiero a pensiero si ritrova l’essenza più profonda dell’educare. La mamma educa il figlio efficacemente senza aver studiato pedagogia e psicologia e questo perché sa praticare l’educazione del cuore, sa stare con lui “cuore a cuore”.8 L’educazione è relazione inter-personale (da persona a persona), inter-soggettiva (da soggetto a soggetto)9 e si realizza solo se, come scriveva Dante, “tu t’immei e io m’intuo”, solo se due anime empaticamente riescono a compenetrarsi. È evidente che tutto ciò è possibile solo se tra educatore ed educando si instaura un rapporto, sia pur sempre asimmetrico, di stima, di fiducia, di rispetto reciproco e, da questo punto di vista, l’educazione è propriamente un atto d’amore e di donazione, che si realizza “per virtù di affetto”, perché essa, come affermava Gino Capponi, resta essenzialmente un “mistero di affetti”10. Cfr. G. Corallo, Pedagogia, cit., pp. 146, 188-189, 209. Cfr. A. Agazzi, Educazione e scuola…,. cit., p. 38; V. Caporale, Mauro Carella, Cacucci, Bari 2005, pp. 31- 34; G. Modugno, Prefazione a M. Carella, Bisbigli d’anime, La Scuola, Brescia 1952. 9 A. Agazzi, Educazione e scuola…, cit., p. 38. 10 Cfr. G. Capponi, Pensieri sull’educazione, La Nuova Italia, Firenze 1969. 7 8 note 133 note L’Educazione logico-matematica strumento di formazione del pensiero del cittadino d’Europa 135 di Luigi Lafranceschina* [email protected] Premessa Troppo spesso si crede che la disposizione all’apprendimento della matematica, la voglia di operare con numeri, forme e problemi siano condizioni originarie o che scendano sugli alunni per Pentecoste; la comune convinzione che si nasca con il “bernoccolo” per la matematica è solo una leggenda metropolitana ancora dura da sfatare. Una certa disposizione per la disciplina potrebbe pre-esistere all’intervento scolastico per azione delle famiglie, ma è una possibilità che non può essere data per scontata oggi che il nostro sistema scolastico è a base sociale molto allargata. Pertanto, l’interesse - per non dire l’amore per la matematica - deve essere indotto, sottolineo indotto, perché è una operazione che richiede intenzionalità, sicuri requisiti professionali, affinate competenze metodologiche e didattiche da parte dei docenti. Il problema vero, dunque, è quello di motivare gli alunni all’apprendimento della matematica, perché il piacere per questa disciplina si può “contagiare”, “attaccare” ai discenti solo se i docenti sono portatori della “malattia”. Che il “sapere matematico” degli studenti della scuola italiana sia precario e superficiale è ormai una realtà acclarata da numerose indagini e ricerche e dagli stessi risultati conseguiti dalle “eccellenze” nostrane nelle diverse “Olimpiadi di matematica” che li vede agli ultimi posti nelle classifiche europee e internazionali. Vero è che la gran parte degli studenti manifesta un certo disagio, spesso repulsione o autentica idiosincrasia nei confronti di questa di* Docente stabile di Pedagogia - Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani. Il piacere per questa disciplina si può “contagiare”, “attaccare” ai discenti solo se i docenti sono portatori della “malattia” note 136 luglio 2010 - anno X sciplina, un fatto che dovrebbe far riflettere molti insegnanti, provetti esperti disciplinari, ma inesperti nel padroneggiare i “ferri del mestiere”: metodi e strategie didattiche. Come le doti della creatività non sono appannaggio del “genio”, ma un potenziale presente democraticamente in tutti sin dalla nascita, che la frequenza scolastica può valorizzare o disperdere, allo stesso modo sono presenti in ciascuno le potenziali risorse intellettive necessarie per apprendere serenamente la matematica. Nel 1631 Giovanni Amos Comenio pubblicò una delle sue grandi opere pedagogiche: Ianua linguarum reserata, pansoficamente sostenendo che la porta per l’apprendimento delle lingue è aperta a tutti, nessuno escluso, a patto che si segua il metodo giusto; allo stesso modo,oggi, esperti di didattica della matematica vanno pubblicando numerose opere i cui vari titoli possono tranquillamente riassumersi in: Ianua mathematicae reserata.1 Tutti, dunque, possono proficuamente apprendere questa disciplina, nessuno è negato per lo studio, che potrebbe diventare piacevole e gioioso se si facesse ricorso a strategie didattiche motivanti e gratificanti, che partano dall’esperienza per arrivare ai concetti tramite games, simulazioni, manipolazioni, esplorazioni, osservazioni, nel rispetto delle caratteristiche cognitive, degli interessi, dei vissuti, dei bisogni formativi degli alunni. A questo proposito, Jean Piaget notava che nell’esperienza conoscitiva il “motore” è l’affettività e a tale regola non si sottrae neppure chi studia matematica, spinto ad approfondirne la conoscenza dal desiderio e dal piacere.2 Fondamenti psico-pedagogici dell’educazione logico-matematica Nei vigenti programmi didattici della scuola primaria le discipline di studio non sono il fine dell’insegnamento, ma “mezzi di formazione”; relativamente alla matematica si afferma che essa “contribuisce alla formazione del pensiero nei suoi vari aspetti: di intuizione, di immaginazione, di progettazione, di ipotesi e deduzione, di controllo e quindi di verifica o smentita” al fine di sviluppare concetti, metodi, atteggiamenti, capacità per misurare, interpretare criticamente, intervenire consapevolmente su fatti e fenomeni della realtà.3 Questa disciplina, inoltre, come tutte le altre, è formativa non solo per il fine e per quello che insegna, ma anche per come favorisce, nel rispetto del “vissuto”, dell’affettività e del “sapere di sfondo” dell’alunno, un apprendimento “significativo”, non meccanico, in Tra le tante ricerche sulla didattica della matematica, preziose quelle di I. Candela, C. Di Comite, Z.T. Dienes, L. Faggiano, G. Mialaret, G. Melzi, M. Pellerey, M. Pertichino, J. Piaget, G. Polya,G. Prodi, Progetto RICME, T. Varga a cui si fa riferimento nel testo. 2 Cfr. J. Piaget, La psicologia dell’intelligenza, Universitaria, Firenze 1954 e I meccanismi percettivi, Giunti-Barbera, Firenze 1975. 3 I Nuovi Programmi Didattici per la Scuola Elementare, D.P.R. 12 febbraio 1985, La Scuola, Brescia,1985, p. 25. 1 linea con il naturale sviluppo del pensiero, capace di attivare le abilità cognitive attraverso modalità diverse di rappresentazione.4 Un contributo decisivo alla conoscenza dello sviluppo cognitivo e delle modalità di rappresentazione degli alunni in età scolare è stato offerto dalla ricerca di noti studiosi come J.S. Bruner, Z. Dienes, H. Gardner, D.R. Olson, J. Piaget. Secondo Piaget lo sviluppo dell’intelligenza avviene in quattro fasi:. • fase sensorio-motrice (0 – 2 anni): il bambino, attraverso schemi percettivi e di azione, assimila le prime conoscenze, si prospetta i primi problemi, organizza i ricordi, operazioni che preludono al pensiero; • fase pre-operatoria (2 – 7 anni): il lavoro mentale cerca di stabilire rapporti tra esperienza e azione; il pensiero è essenzialmente intuitivo e le prime rappresentazioni del mondo (pre-concetti) sono legate all’egocentrismo; • fase delle operazioni concrete (7 – 12 anni): il pensiero diventa reversibile, capace di eseguire operazioni che sono azioni reali interiorizzate e per ciò stesso reversibili. L’alunno di questa età, arriva ai concetti solo sperimentando, eseguendo azioni/manipolazioni sugli oggetti (ordinare, contare, classificare, seriare, iterare…). Il pensiero, legato al concreto, è, pertanto, di carattere induttivo-sperimentale, i concetti sono operativi, non ancora compresi o spiegati sul piano logico-formale del linguaggio. • fase delle operazioni formali (da 13 anni in poi): il pensiero diventa logico-deduttivo, capace di astrarre dal particolare il generale o di dedurre dal particolare il generale, di porre relazioni,di comprendere e spiegare verbalmente. La conoscenza secondo Piaget è una costruzione graduale, lenta, delicata, che coinvolge in maniera solidale il soggetto e l’oggetto, la realtà e la mente.5 Collegandosi alle ricerche di Piaget, J.S. Bruner ha messo in evidenza il fatto che la conoscenza non si amplia per un processo di accumulazione, ma di organizzazione strutturale che avviene in tre fasi successive e attraverso tre modi di rappresentazione: • fase attiva o rappresentazione mediante l’azione; • fase iconico-figurativa in cui la realtà è rappresentata mediante immagini, disegni, figure; • fase simbolica o rappresentazione mediante simboli, segni, grafemi, numeri. Sul versante didattico, Zoltan P. Dienes nelle sue due opere più importanti6 ci offre una sintesi delle ricerche in atto intorno all’insegnamento della matematica moderna. Lo psicologo di origine ungherese si sofferma, in particolare, su tre tipi di attività necessarie Cfr. G. Franchi, La matematica nella scuola elementare, La Scuola, Brescia 1987, p. 5-6. Cfr. J. Piaget, La psicologia dell’intelligenza, cit. 6 Si tratta di Costruiamo la matematica, Os, Firenze-Imola 1968 e di Uno studio sperimentale sull’apprendimento della matematica, Feltrinelli, Milano 1968. 4 5 note 137 note 138 luglio 2010 - anno X per la interiorizzazione delle operazioni concrete sugli oggetti e per la costruzione dei concetti matematici: • gioco preliminare, finalizzato a presentare in forma ludica gli elementi del futuro concetto matematico; • gioco strutturato che tende a far scoprire il concetto in forma iconica e figurativa; • astrazione e gioco di applicazione con cui il concetto viene colto in forma simbolica, fissato e generalizzato con specifiche attività ludiche. Il gioco, attività naturale e “risorsa privilegiata di apprendimento”,7 svolto con materiale strutturato e non, ha una funzione essenziale nel processo di formazione logico-matematica. Esso può essere di tipo esplorativo-manipolativo, manipolativo-immaginativo e manipolativo-regolativo, basato su regole.8 Un ulteriore contributo alla conoscenza dei fondamenti psico-pedagogici della didattica della matematica viene offerto da D. R. Olson e H. Gardner. Analizzando le diverse modalità di apprendimento, Olson distingue un apprendere dall’esperienza da un apprendere dai media, un apprendimento diretto per tentativi di azione ed errori da un apprendimento mediato tramite l’osservazione dell’azione altrui o l’informazione codificata verbale o scritta: “Si può imparare che la stufa è calda - scrive - toccandola, vedendo che qualcuno si rifiuta di toccarla o perché ci viene detto che è calda”.9 Circa l’apprendere dall’esperienza, occorre chiarire che non tutte le esperienze sono educative: nel lavoro scolastico, ricorda J. Dewey, si deve fare appello al criterio della continuità, per cui è educativa soltanto l’esperienza che produce un incremento dell’esperienza stessa, in quanto “stimola nuove vie di osservazione e di giudizio che allargheranno il campo dell’esperienza futura”.10 L’attività di apprendimento,tuttavia, resta pur sempre strettamente correlata alle personali capacità intellettive. Se Bruner parlava di una “mente a più dimensioni”,11 si deve a Howard Gardner la teoria di una pluralità di forme di intelligenza. Lo psicologo statunitense distingue una intelligenza logico-matematica da una linguistica, spaziale, musicale, corporeo-cinetica, interpersonale, intrapersonale, precisando che “ogni intelligenza è relativamente indipendente dalle altre, e che le doti intellettuali di ogni individuo… non possono essere inferite dalle sue abilità matematiche o linguistiche o dalla sua capacità di comunicare con altre persone”.12 J. Dewey, Esperienza e educazione, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 65. Cfr. Z. Dienes, Costruiamo la matematica, cit. 9 Cfr. D.R. Olson, Linguaggi, media e processi educativi, Loescher, Torino 1979, p. 104-135. 10 J. Dewey, Esperienza…, cit., p. 65. 11 Cfr. J. S. Bruner, La mente a più dimensioni, Laterza, Bari 1988. 12 H. Gardner, Forma mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Feltrinelli, Milano 1987, p. 11-12. 7 8 Tutte queste ricerche psico-pedagogiche, inoltre, hanno messo in luce il ruolo determinante che concetti e procedimenti di pensiero di tipo scientifico hanno nello sviluppo cognitivo. Lo stesso atteggiamento degli alunni nei confronti della realtà che li circonda, peraltro, è un atteggiamento di curiosità e di ricerca di spiegazioni molto vicino a quello dello scienziato quando si pone domande e formula ipotesi; e, come lo scienziato, l’alunno della scuola primaria può arrivare ai concetti, alle regole, alle leggi solo osservando e sperimentando. Il lavoro scolastico dovrebbe inserirsi molto presto in questo naturale processo di apprendimento degli alunni con il ricorso a un tipo di insegnamento della matematica non di carattere sistematico e logico-deduttivo, bensì induttivo-sperimentale. Questo approccio al sapere matematico deve essere un approccio a un “sapere ricerca”, a un “sapere vissuto” fatto di comprensione e di verifica, piuttosto che a un “sapere saputo”, trasmesso già classificato e codificato: assolutamente da evitare, infatti, a questa età scolare una modalità di apprendimento basato unicamente sulla trasmissione. È possibile far acquisire agli alunni questo sapere matematico e scientifico a condizione che si offra loro l’opportunità di operare con un metodo di lavoro capace di sviluppare le abilità cognitive di base quali: osservare, classificare, mettere in relazione, misurare, valutare fatti, individuare e controllare variabili, formulare ipotesi esplicative di fenomeni osservati, scoprire concetti e regole da fissare in codici simbolici. Questo metodo di studio è quello della ricerca13 che utilizza tecniche di indagine di tipo osservativo e procedimenti sperimentali, realizzando un rapporto sempre più stretto tra il fare e il pensare; un metodo legato alla concreta operatività del fare, alla manualità che è il supporto indispensabile dell’educazione logico-matematica e scientifica.14 Il problema didattico di fondo è, dunque, quello di fidanzare l’apprendimento della matematica e delle scienze all’induzione e alla sperimentazione. L’induzionismo, il momento in cui da fatti e fenomeni della realtà quotidiana si “induce” la regola generale, è praticamente una tappa obbligata all’interno del metodo scientifico e questo, sottolinea Giuseppina Rinaudo docente di fisica all’Università di Torino, è tanto più vero quanto più giovane è l’età di chi studia matematica e scienze. Parlando, poi, di ragazzini della scuola primaria non dovrebbe esserci alcun dubbio: è ben noto, infatti, che il modo di imparare a questa età è tipicamente quello di chi va dal concreto del fenomeno verso l’astrazione della legge, anziché in senso inverso.15 I momenti essenziali del metodo induttivo-sperimentale sono: l’osservazione, la formulazione di ipotesi, la sperimentazione e l’induzione; il primo e il terzo momento tendono a conoscere un fenomeno, il secondo e il quarto tendono a scoprire concetti, regole, leggi. Cfr. A. Giunti, La scuola come “centro di ricerca”, La Scuola, Brescia 1972. Cfr. I Nuovi Programmi Didattici per la Scuola Elementare, cit., p. 35. 15 Cfr. G. Rinaudo, Vedere le scienze. Corso di educazione scientifica per la scuola media, Loescher, Torino 2007. 13 14 note 139 note 140 luglio 2010 - anno X A ben guardare, tuttavia, l’osservazione non è mai il primo momento del metodo scientifico, in quanto si osserva scientificamente se c’è un problema da risolvere, una domanda a cui le convinzioni, le conoscenze acquisite, gli schemi culturali posseduti non riescono a dare una risposta. Pertanto, un itinerario più articolato del metodo induttivo-sperimentale è il seguente: • problematizzazione di fatti reali che affiora da osservazioni empiriche e discussioni; • osservazione scientifica metodica, rigorosa, precisa; • raccolta di dati ricavati dalle osservazioni mediante disegni, schizzi o tabelle; • formulazione di ipotesi che spieghino i fatti osservati: è il momento della riflessione sull’insieme dei dati raccolti, sulla loro regolarità o variabili, al fine di trovare una o più spiegazioni provvisorie. Le spiegazioni possibili possono essere molte, anzi occorre lasciar liberi gli alunni di formulare le proprie ipotesi senza scartare nessuna a priori; in un secondo momento il loro numero va ristretto, per accogliere, con molto tatto, quelle verificabili o non arbitrarie o assurde, nella consapevolezza, comunque, che quelle spiegazioni restano pur sempre provvisorie e che vanno accolte con beneficio di inventario; • verifica o controllo delle ipotesi con nuove esperienze, con osservazioni ripetute e sempre più accurate, con veri e propri esperimenti e con l’eventuale ricorso a sussidi e strumenti didattici, perché con un termometro si può stimare più esattamente che con il tatto la temperatura dell’acqua, con un metro si può misurare meglio che con i passi una distanza, con un orologio o una bilancia misurare più facilmente tempi e pesi che con il battito del polso o la tensione di un elastico; • induzione o formulazione di un concetto o di una regola: se le ipotesi di spiegazione avanzate dagli alunni trovano conferma nelle nuove esperienze, osservazioni, esperimenti, si possono “indurre” delle conclusioni generali dei fatti e fenomeni particolari osservati. Queste conclusioni rappresentano i concetti, le regole, le leggi utili a spiegare fatti e fenomeni analoghi, senza per questo da accettare come verità assolute, pur sempre provvisorie, valide fino a quando nuove esperienze e nuovi controlli non le falsifichino. D’altronde è questo il carattere peculiare dell’epistemologia contemporanea che al rigore scientifico, fondato sul principio della verificazione,del neopositivismo logico del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein ha contrapposto il principio della falsificazione, secondo la proposta di Karl Popper, per cui una legge scientifica è sempre provvisoria, congetturale, relativa a un contesto storico. L’ultimo momento del metodo scientifico non può, pertanto, essere l’induzione di una legge, ma la sua eventuale falsificazione sulla base di ulteriori verifiche o scoperte.16 I vigenti programmi didattici della scuola primaria delineano chiaramente le tappe dell’induzionismo quando evidenziano il fatto che le attività di indagine matematica e scientifica devono partire “ogni volta da situazioni-problema molto semplici …e devono Sul principio della falsificazione, fondamentale è l’opera di Karl Popper “Logica della scoperta scientifica” edita nel 1934. 16 essere svolte principalmente attraverso esperienze pratiche attuabili, oltre che in appositi locali scolastici, nella classe che può essere utilizzata come laboratorio o attraverso attività di esplorazione ambientale”.17 Un ulteriore, necessario momento di questo metodo non può non essere che quello della riflessione sulle osservazioni, verifiche, esperimenti compiuti, in modo che il fare sia strettamente correlato al pensare. È attraverso le conversazioni, le discussioni di gruppo, gli approfondimenti che si possono scoprire concetti, regolarità, proprietà, leggi che spieghino i fatti osservati, senza, tuttavia, fare ostracismo a un approccio non direttamente sperimentale per comprendere fatti e fenomeni. Non tutte le conoscenze matematiche e scientifiche, infatti, possono essere acquisite induttivamente e sperimentalmente, spesso si deve ricorrere all’esperienza degli altri, alle “informazioni su libri o con mezzi audiovisivi, volti ad ampliare il patrimonio di conoscenze dell’alunno… al di là della sua diretta esperienza”.18 Vero è che nella scuola, oltre alla diretta esperienza e all’induzione, non va ignorato il momento dell’integrazione culturale del libro e dell’esperienza altrui, a patto, però, che non si attinga l’apprendimento solo da queste fonti del sapere. Qualsiasi attività didattica induttiva e sperimentale non può, infine, non concludersi con il momento della produzione sia scritta che orale; giustamente i vigenti programmi della scuola primaria ricordano che “l’insegnante curerà che la raccolta e la registrazione dei dati risultino una pratica regolare e costante che si conclude con una relazione orale o scritta”.19 La nuova didattica della matematica in… azione Un contributo importante nel mettere a punto una didattica della matematica di carattere induttivo- sperimentale viene offerto da oltre un trentennio dal Nucleo di Ricerca in Didattica della Matematica dell’Università di Bari, coordinato dal Prof. Claudio Di Comite. A partire dall’anno accademico 1984/85, in incontri periodici con docenti di scuola primaria presso il Dipartimento di Matematica, questo Nucleo si è impegnato a presentare e a illustrare del materiale didattico sui vari temi dell’area matematica, al fine di una successiva sperimentazione in classe. Questa ricerca-azione ha dato l’abbrivio alla pubblicazione di preziose guide che hanno sollecitato numerosi docenti all’aggiornamento e alla ricerca di modalità di insegnamento meno trasmissive e più operative.20 I Nuovi Programmi Didattici per la Scuola Elementare, cit., p. 39. Ibidem. 19 Ivi, p. 40. 20 Tra queste guide, edite dal Dipartimento di Matematica dell’Università di Bari, è utile ricordare: C. Di Comite, Geometria e misura. Il piano, 1985; C. Di Comite, Geometria e misura. Lo spazio, 1986; M. Pertichino, Aritmetica, 1986; L. Faggiano, Probabilità e statistica, 1985; I. Candela, La logica matematica, 1986. 17 18 note 141 note 142 luglio 2010 - anno X Una esemplificazione del metodo induttivo-sperimentale in… azione è l’unità didattica di geometria e misura, di seguito illustrata; essa è relativa al calcolo dell’area di una superficie piana secondo le canoniche,successive tappe del confronto diretto tra grandezze omogenee, del confronto indiretto con campioni arbitrari, del confronto indiretto con unità di misura convenzionali. Si presentano agli alunni due cartoncini quadrati di dimensioni molto diverse tra loro e si domanda quale dei due è più grande. La risposta da parte di tutti è naturale. Si è usato il termine “grande”,ma si precisa subito la nomenclatura: quando si parla di pezzi di piano o superfici è più corretto usare il termine “esteso”. Di seguito si presentano due cartoncini rettangolari aventi la stessa altezza, ma uno più lungo dell’altro, e si domanda quale dei due è più esteso, La risposta è ancora molto semplice. Per mettere gradualmente gli alunni in difficoltà, si presentano due cartoncini rettangolari quadrettati di estensione abbastanza simile tra loro e si chiede qual è più esteso; probabilmente qualcuno dirà che è più esteso il primo, altri il secondo. Per verificare chi ha ragione, qualcuno potrà suggerire di contare i quadretti e, a questo punto, si preciserà il linguaggio: il numero dei quadretti si chiama area, una definizione molto rigorosa, senza, peraltro, che i quadretti siano necessariamente centimetri quadrati o metri quadrati; per cui il primo cartoncino rettangolare avrà l’area di x quadretti, il secondo di y quadretti. Si sarà così scoperto in modo induttivo il concetto di area e si discuterà con gli alunni, si faranno altri esercizi, si assegneranno lavori per casa. Il passo successivo è la presentazione dei due soliti cartoncini rettangolari non più divisi in quadretti, ma in triangolini; per verificare quale sia più esteso, si conteranno i triangolini; l’area sarà il numero dei triangolini, un triangolino sarà l’unità di misura e gli alunni non cadranno nella falsa convinzione di noi adulti che l’unità di misura delle superfici sia il quadrato; invero, una qualsiasi figura, purchè sia comoda, può essere scelta come unità di misura, e l’area di un pezzo di piano può essere un numero di quadratini, di rettangolini, di triangolini, di cerchietti. Si presenta, quindi, una figura rettangolare su carta centimetrata e ogni quadratino con il lato di un centimetro è diviso in due rettangolini uguali. Si può precisare ulteriormente il linguaggio e introdurre la nomenclatura ufficiale dicendo che ogni quadratino con il lato di un centimetro si chiama centimetro quadrato. Si inviteranno gli alunni a calcolare l’area usando come unità di misura ora il centimetro quadrato, ora il rettangolino; chiaramente essi troveranno una diversa misura numerica della superficie di quella stessa figura e si renderanno conto che una stessa porzione di piano si può misurare con unità di misura diverse, cogliendo in questo modo, facilmente e induttivamente, il concetto di convenzionalità dell’area di una superficie, la cui misura può variare con il variare dell’unità di misura convenzionale scelta. A questo punto è opportuno mettere gli alunni di fronte a un problema di maggiore difficoltà, presentando un altro rettangolo su carta centimetrata non formato da un numero di quadretti interi, ma anche da mezzi quadretti e quarti di quadretti. Senza dare la soluzione, ma dialogando, essi arriveranno a calcolare l’area contando i quadretti interi, aggiungendo i mezzi quadretti riuniti a due a due e i quarti di quadretti riuniti a quattro a quattro e comprenderanno che è possibile calcolare l’area anche se i quadretti non sono tutti interi. Fase successiva: sempre su carta quadrettata si presenta un pezzo di piano limitato da una curva chiusa; per calcolare l’area, gli alunni si imbatteranno in un nuovo, più complesso problema: dovranno contare tutti i quadretti interi contenuti nel piano e si renderanno conto che l’area di questo piano è chiaramente maggiore del numero dei quadretti interi; contando e aggiungendo a essi anche i quadretti tagliati dalla linea curva, capiranno che l’area della superficie di quel piano è senza alcun dubbio minore del numero di tutti i quadretti inscritti e circoscritti alla linea curva chiusa. Sempre dialogando, essi arriveranno alla conclusione che l’area di quel pezzo di piano sarà un numero compreso tra il numero dei quadretti inscritti e il numero dei quadretti circoscritti. Usando, poi, le forbici e un po’ di fantasia, potranno anche ritagliare tutti i pezzetti di quadretti interni tagliati dalla linea curva per formare quadretti interi da aggiungere ai quadretti interni interi già contati; avranno calcolato così, sia pure in modo approssimativo, il numero dell’area di quella figura irregolare presentata e compreso operativamente il concetto e la definizione di area come elemento di separazione tra il numero dei quadretti inscritti e il numero dei quadretti circoscritti, una definizione rigorosa, valida dalla scuola primaria all’Università. Usando carta quadrettata, gli alunni potranno esercitarsi a calcolare l’area di altre figure di questo tipo, sempre contando i quadretti interi e ritagliando o facendo la media approssimativa di quelli tagliati dalla linea curva. Vero è che per un simile approccio al concetto di area si perderà tanto tempo in classe, ma il problema didattico reale non è di guadagnare tempo, bensì, Rousseau insegna,“perderlo”, consapevoli che non è tanto importante che gli alunni imparino regole e definizioni, quanto che padroneggino concetti e procedimenti che portano a quelle regole e definizioni: acquisiranno in questo modo una chiarezza di idee che resterà per tutta la vita. Ulteriore sviluppo di questa unità didattica sarà la presentazione di un rettangolo quadrettato con l’invito a calcolare l’area usando come unità di misura il quadretto. Gli alunni saranno ormai capaci di farlo contando i quadretti, ma la matematica deve insegnare loro a farlo in minor tempo e fatica: basta, pertanto, fare osservare da quante righe di quadretti è formato il rettangolo, da quanti quadretti è formata una riga e moltiplicare il numero dei quadretti di una riga per il numero della righe. Usando carta centimetrata, si può tranquillamente passare dal quadretto come unità di misura non convenzionale al centimetro quadrato (quadretto con il lato di un centimetro) come unità di misura convenzionale. Pertanto, facendo disegnare un rettangolo con i lati AB e AD di un certo numero di centimetri e chiamando base il numero dei quadretti sulla prima riga (ad esempio 10) e altezza il numero delle righe (ad esempio 6), essi scopriranno la formula dell’area del rettangolo: base x altezza (10 x 6 = 60) in maniera induttiva e sperimentale; contando,misurando, confrontando, ragionando, comprenderanno chiaramente il senso note 143 note 144 luglio 2010 - anno X e il modo con cui si perviene a quella formula e, soprattutto, impareranno a ragionare e a esercitare le loro capacità logico-deduttive. Padroneggiare, poi, la tecnica di calcolo dell’area del rettangolo è presupposto fondamentale per calcolare l’area delle superfici di tutte le altre figure geometriche piane, in quanto non diventa complicato ricavare le relative formule attraverso esercizi di scomposizione del rettangolo in triangoli (triangolarizzazione) e di composizione dei triangoli (rettangolarizzazione) nei diversi poligoni (quadrato, rombo, trapezio, pentagono, esagono, ottagono, ecc.) che possono essere scomposti in triangoli. Molto importante è assegnare agli alunni esercizi appropriati e intelligenti, quali, ad esempio: dividere un poligono in triangoli e calcolare l’area. Probabilmente essi opereranno in modi diversi, utilizzeranno strategie diverse e perverranno a misure diverse, approssimative, ma questo è normale quando si segue un procedimento induttivo-sperimentale. Affinché tutti arrivino, infine, allo stesso, risultato, occorre abituarli a fare sempre un esame critico dei diversi procedimenti seguiti per poter scegliere quello più opportuno e più corretto.21 Sussidi didattici e materiale strutturato e non Nella scuola primaria, ma anche oltre, una funzione molto importante nell’apprendimento di questa disciplina hanno alcuni sussidi e materiali strutturati appositamente ideati e realizzati come insieme di modelli fisici di concetti e procedimenti matematici astratti e formali, i quali, per essere realmente appresi e compresi, richiedono la necessaria e naturale manipolazione. L’utilizzo di questi materiali specifici, finalizzati allo sviluppo, all’esercizio e alla organizzazione del pensiero, non esclude, tuttavia, l’impiego di materiale didattico “povero”, le “cianfrusaglie senza brevetto” di memoria agazziana, cosi come i sussidi didattici più moderni non escludono quelli più tradizionali. E questo perché, soprattutto nelle fasi iniziali dell’apprendimento, il ricorso a sussidi e materiali non strutturati può essere molto utile per la loro facile reperibilità, per il costo contenuto, per la familiarità che hanno presso gli stessi alunni (spesso scrigni preziosi sono le loro tasche!). I materiali strutturati più comuni impiegati nella didattica della matematica sono: i Blocchi logici, i Blocchi Aritmetici Multibase (B.A.M.), i Regoli o numeri in colore, i TAN; quelli non strutturati: palline, gettoni colorati, bastoncini, figurine, pedine, tappi, ecc. Tra i sussidi didattici, oltre a quelli più moderni come il geopiano, gli abaci multibase, il quadrilatero mobile, sono spesso utili anche quelli tradizionali come il pallottoliere. I numeri in colore di Gattegno-Cousinaire sono dieci Regoli di sezione uguale ma di lunghezza ciascuno multiplo del primo, il cui valore numerico è strettamente correlato Cfr. C. Di Comite, Geometria e misura. Il piano, cit., p. 74-81, 105-115. 21 sia alla lunghezza, sia al colore: il bianco vale 1, il rosso 2, il verde chiaro 3, il ciclamino 4, il giallo 5, il verde scuro 6, il nero 7, il marrone 8, il blu 9, l’arancione 10. Essi sono impiegati per molteplici giochi finalizzati a far acquisire e padroneggiare concetti e strutture matematiche, a operare “fisicamente” con i numeri, a esercitare il pensiero in operazioni logiche di classificazione, seriazione, successione secondo regole stabilite, iterazione, che è l’operazione-base dell’addizione (iterare tante unità dopo il primo numero quante ne indica il secondo), della moltiplicazione (iterare addendi uguali), dell’elevazione a potenza (iterare fattori uguali). Con i Regoli, inoltre, gli alunni possono essere avviati praticamente: alla composizione/scomposizione di quantità numeriche (cambiare un regolo con altri di colori diversi o più regoli con l’equivalente di colore diverso); alle addizioni e alle sottrazioni; alle moltiplicazioni; alle divisioni di contenenza; alle proprietà delle quattro operazioni (commutativa, invariantiva, associativa, distributiva); all’acquisizione del concetto di frazione (il doppio, il triplo, la metà…); alla scoperta della proprietà transitiva e all’uso dell’implicazione logica “Se…allora”, un esercizio fondamentale per la maturazione del pensiero, in generale, e di quello matematico, in particolare. I Blocchi Aritmetici Multibase (B.A.M.), ideati da Z. Dienes, sono dei materiali strutturati in legno costituiti da cubetti con il lato di un centimetro che rappresentano le unità (U) e che si possono raggruppare in nove Basi (2 – 10) per costituire rispettivamente: a)listelli o lunghi con valore di duine, treine, quattrine, cinquine, seine, settine, ottine, novine, decine; b)tavolette o piatti con valore di quattrine, novine, sedicine, venticinquine, trentaseine, quarantanovine, sessantaquattrine, ottantunine, centinaia; c)cubi o blocchi con valore di ottine, ventisettine, sessantaquattrine, centoventicinquine, duecentosedicine, trecentoquarantatreine, cinquecentododicine, settecentoventinovine, migliaio. I B.A.M. sono utili per raggruppare/numerare in basi diverse e per apprendere in maniera ludica e operativa i procedimenti e le tecniche di calcolo; in particolare, essi facilitano i cambi (riporto/prestito delle unità con i lunghi, dei lunghi con i piatti, dei piatti con i blocchi, e viceversa) secondo la base in cui si opera. Nelle basi minori di dieci i cambi sono continui. Manipolando questo materiale, inoltre, gli alunni possono facilmente comprendere il valore posizionale delle cifre numeriche. Un accorgimento: al lavoro con i B.A.M. (contare, raggruppare, fare cambi, addizionare, sottrarre, moltiplicare, dividere), al fine di aiutare il pensiero a distaccarsi gradualmente dalla “materialità” dell’operare, far seguire sempre la rappresentazione grafica (disegnare i B.A.M. su carta quadrettata è molto semplice) e, quindi, la rappresentazione simbolica con i numeri. I Blocchi Logici, anch’essi ideati da Z. Dienes, sono costituiti da 48 pezzi di plastica o cartoncino (sarebbe opportuno farli costruire dagli stessi alunni) distinti per: forma: 12 triangoli, 12 cerchi, 12 quadrati, 12 rettangoli; colore: 16 rossi, 16 gialli, 16 blu; grandezza: 24 piccoli, 24 grandi; spessore: 24 sottili, 24 spessi. note 145 note 146 luglio 2010 - anno X Ciascun Blocco può essere definito per quattro attributi positivi (esempio: triangolo rosso piccolo sottile) e sette attributi negativi (il Blocco dell’esempio precedente non è: cerchio,quadrato, rettangolo, giallo, blu, grande, spesso). Con i Blocchi Logici è possibile organizzare numerosi giochi e attività finalizzati a dare definizioni, costruire successioni, a fare classificazioni (insiemi, sottoinsiemi, intersezioni), a manipolare i connettivi logici (e – o- non) e i quantificatori (tutti, ogni, molti, alcuni, uno, almeno uno, al massimo uno, nessuno). Tra le possibili attività ludiche, una è il gioco del treno o del serpente: si tratta di costruire una successione di Blocchi Logici che si differenziano uno dall’altro per uno o più attribuiti. Il treno può essere realizzato, in base alla consegna dell’insegnante, con vagoni a una, due, tre, quattro differenze; ad esempio, il secondo vagone-Blocco è rosso, quadrato, grande come il primo, ma non è spesso come il primo (una differenza: lo spessore, oppure il colore, o la grandezza, o la forma). Un altro gioco divertente, utile per esercitare le capacità logico-deduttive, è quello del pezzo nascosto (che blocco è): l’insegnante nasconde un Blocco e gli alunni con opportune domande (minimo quattro, al massimo sette) sulla forma, sul colore, sulla grandezza e sullo spessore devono, ragionando e riportando le risposte su una tabella, indovinare il pezzo nascosto. I TAN sono sette pezzi con i quali è possibile esercitarsi in un gioco cinese sulla equiestensione e che consiste nel costruire “tan gram”, ossia figure di persone, animali, oggetti, forme geometriche piane equiestese, accostando tra loro, nei modi più diversi, tutti i sette pezzi del gioco. Si possono ricavare i TAN da un cartoncino quadrato con il lato di 8 cm da scomporre nei sette pezzi: due triangoli grandi e due piccoli equiestesi, un triangolo medio, un quadrato e un rombo. Con i sette TAN si possono comporre circa un migliaio di figure secondo la libera creatività di ciascun alunno. Tra i sussidi didattici più in uso, l’abaco multibase consente di operare “materialmente” calcoli in basi diverse e di esercitarsi nei cambi (composizione/scomposizione di quantità numeriche) necessari per eseguire le quattro operazioni. Esso, usato per i calcoli già dagli antichi, è costituito da una base di legno con appositi fori in cui si inseriscono, secondo la base, aste di lunghezza diversa in cui si fanno scorrere palline forate (al massimo una per la base 2, due per la base 3, tre per la base 4, e così via); ogni asta indica da sinistra a destra il valore posizionale crescente della cifra numerica. Ideale è abbinare all’attività didattica con i B.A.M., in particolare i cambi e le quattro operazioni, il lavoro con l’abaco multibase. È opportuno che le operazioni “ materiali” eseguite su questo sussidio siano anche rappresentate sia graficamente su carta quadrettata, sia, a seguire, con i simboli numerici. Il Geopiano, ideato dal matematico e pedagogista inglese Caleb Gattegno, è un sussidio didattico utile per le esperienze di geometria. Esso è costituito da una tavoletta di legno o di plastica sulla quale è disegnato un reticolo ai cui nodi o incroci sono piantati dei chiodi; tra essi si possono tendere degli elastici di diverso colore e tracciare figure diverse, forme simmetriche, ingrandimenti e rimpicciolimenti, disegni di oggetti. Sul Geopiano, inoltre, diventa possibile rappresentare e studiare varie situazioni geometriche. Aumentando il numero dei chiodi, aumentano anche le situazioni che si possono proporre e studiare: proprietà, dimensioni, equiestensioni delle figure, problemi di simmetria, di similitudine, di classificazione, ricerca di casi possibili, costruzione di angoli, teorema di Pitagora, primi concetti relativi al piano cartesiano. Se innumerevoli sono le attività che si possono svolgere con questo sussidio, gli alunni vanno sollecitati a riprodurre sempre graficamente sul quaderno i risultati realizzati sul Geopiano. Sembra superfluo, in conclusione, ricordare che questi sussidi e questo materiale strutturato non hanno valore in sé, ma solo per l’utilizzo che se ne fa, per il lavoro di manipolazione di concetti e di procedimenti matematici, di analisi e di ricerca che con essi è possibile condurre e che soltanto in questa ottica gli alunni ne trarranno sicuro giovamento. I problemi I vigenti Programmi Didattici per la scuola primaria sottolineano che “ il pensiero matematico è caratterizzato dall’attività di risoluzione dei problemi e ciò è in sintonia con la propensione del fanciullo a porre domande e a cercare risposte. Di conseguenza le nozioni matematiche di base vanno fondate e costruite partendo da situazioni problematiche concrete, che scaturiscono da esperienze reali”.22 Chiaro l’invito a privilegiare nella didattica della matematica il metodo induttivo-sperimentale e un tipo di insegnamento/ apprendimento per “problemi”. Capita talvolta, però, che non sempre si sappia chiaramente che cosa sia un problema e che molti alunni siano convinti che “un problema è quando si hanno dei numeri in mezzo alle parole e si devono fare delle operazioni con quei numeri”.23 Vero è: il problema, come ricorda Dario Antiseri, è “il primum nella scienza…ed è sempre un’aspettazione delusa. Si ha, infatti, un problema allorchè diciamo: “Strano, non me l’aspettavo!”; “Questo fatto mi sorprende,non lo sospettavo!”. Ma perché non ci “aspettavamo” o non “sospettavamo” l’accadimento di un qualche evento o fatto? Ecco, perché le nostre teorie (esplicite o inconsapevoli) sono entrate in collisione con la realtà. La realtà ha smentito cioè le nostre teorie (abitudini, speranze, sospetti). Questa è appunto la natura del “problema”: si ha un problema quando la realtà contraddice una delle nostre teorie”.24 L’insegnamento/apprendimento della matematica e delle scienze, pertanto, deve partire sempre dai “problemi”, vere crepe nel sapere che pensavamo di avere, delle domande per I Nuovi Programmi Didattici per la Scuola Elementare, cit., p. 26. Risposta di un alunno di undici anni alla domanda “Che cos’è un problema” riportata in un articolo di P, Boero su “Il problema dei problemi aritmetici nella scuola elementare”. 24 D. Antiseri, Dal positivismo all’epistemologia contemporanea, in Antiseri–Bertoldi- Mencarelli–Titone, Alle radici culturali dell’esperienza educativa e didattica, La Scuola, Brescia 1976, p. 105. 22 23 note 147 note 148 luglio 2010 - anno X le quali nella scienza o nella mente dell’uomo non c’è ancora una risposta e, per questo, scatenano un vero e proprio processo di ricerca attraverso la formulazione di ipotesi, tentativi di soluzione e errori, costruzione di strumenti, verifiche, scoperta induttiva di una regola o di una legge. In breve, il “problema” non è un dato reale, ma psicologico, una difficoltà che crea disagio e bisogno di uscirne; risolverlo, impresa specifica dell’intelligenza umana, significa cercare e trovare una strada per uscire da quella difficoltà. In classe privilegiare un tipo di insegnamento/apprendimento per problemi vuol dire ricorrere a una strategia didattica che fa lavorare attivamente gli alunni, li abitua a ragionare per cercare la soluzione, consente loro di padroneggiare i procedimenti che portano alla scoperta di un concetto, di una regola, di una formula da applicare a casi analoghi. Se questa è la natura e il significato del “problema”, si comprende facilmente il limite dei problemi scolastici tradizionali assegnati, ancora oggi, agli alunni della scuola primaria, tradizionali in quanto solo numerici, sempre risolvibili, con soluzione unica, semplice esercizio di calcolo o applicazione di regole e formule non scoperte, ma trasmesse e semplicemente memorizzate. Con questo non si vuol dire che essi debbano essere banditi dalla quotidianità didattica, bensì che si devono sapientemente armonizzare con i “problemi” configurabili come “rompicapo”, vere situazioni problematiche proposte con o senza numeri, di carattere anche pratico, con eventuali elementi di disturbo (dati mancanti o sovrabbondanti), non sempre risolvibili, con soluzione unica, con più soluzioni possibili o con soluzione impossibile, problemi finalizzati anche alla scoperta di concetti o regole. Occorre, inoltre, fare in modo che gli alunni apprendano un strategia, un algoritmo per risolvere i problemi proposti che, attraverso l’attenta analisi/sintesi del testo, potrebbe articolarsi nelle seguenti, graduali, successive fasi: • Matematizzazione o schematizzazione: mettere da parte tutto ciò che non serve ai fini della soluzione e conservare in modo schematico ciò che serve; • Precisazione del linguaggio: guidare gli alunni ad acquisire un minimo di nomenclatura o di definizioni al fine di potersi intendere in maniera più univoca e meno ambigua; • Ricerca della soluzione con il dialogo, attività sperimentali, tentativi organizzati, compilazioni di tabelle, indagini statistiche, confronti, errori e scoperte; • Scoperta della soluzione in termini non solo numerici, ma anche logico-linguistici, statistici o grafici, scoperta come conquista attiva e personale dell’alunno; • Esame critico del risultato per convalidarne l’attendibilità attraverso il ragionamento o prove di verifica; • Esercizi di applicazione della regola appresa per risolvere analoghi, nuovi problemi.25 L’algoritmo è stato proposto e illustrato dal prof. Claudio Di Comite nei diversi corsi di aggiornamento da lui diretti sulla didattica della matematica nella scuola primaria. 25 Un tipo di insegnamento/apprendimento per problemi può indubbiamente presentare degli svantaggi, quali i tempi lunghi dell’apprendimento, la difficoltà di trovare problemi intelligenti e significativi, la vivace,attiva confusione in classe, ma, a guardar bene, sono svantaggi abbastanza trascurabili, largamente compensati dai vantaggi che può apportare, perché può realmente contribuire alla formazione del pensiero e della mentalità logicoscientifica degli alunni, suscitare vivo interesse in loro, gratificarli nello scoprire da sé le soluzioni, farli lavorare piacevolmente in gruppo. È auspicabile, pertanto, che questo modo di condurre il lavoro scolastico si diffonda sempre più nella scuola di ogni ordine e grado, superando modalità didattiche esclusivamente trasmissive per dare maggiore importanza alla costruzione “genetica” del sapere (matematico e non), ossia al processo di formazione delle conoscenze piuttosto che alla loro tacita, supina, mnemonica acquisizione. Conclusioni Questo breve itinerario all’interno dell’educazione logico-matematica non aveva la pretesa di esaurire il discorso relativo ai temi e agli aspetti peculiari della disciplina (non si è fatto riferimento alcuno all’aritmetica, alla geometria spontanea, euclidea e non euclidea, alle diverse grandezze e alla loro misura, alla logica, ai grafici e alle schematizzazioni, alla statistica e ai relativi strumenti di indagine per analizzare, rappresentare e interpretare la realtà, all’informatica, alla probabilità e alle previsioni in condizioni di incertezza); né si proponeva di evidenziare tutti i problemi e le aporie di carattere metodologico e didattico che incontra il suo insegnamento scolastico da molti considerato arido, astratto e formale; si è voluto solo accennare agli orientamenti e alle prospettive più attuali della didattica della matematica che, in linea con l’antica saggezza latina del rem tene, verba sequentur, sollecita i docenti a partire sempre dal concreto, in quanto l’astrazione non è il punto di partenza nell’apprendimento ma il punto di arrivo, e a considerare questa disciplina una attività creativa, una opportunità importante per potenziare le abilità logiche degli alunni, dato lo stretto parallelismo esistente tra le strutture matematiche e le strutture cognitive dell’individuo.26 Nella storia della scuola italiana i diversi programmi didattici hanno sempre assegnato alla matematica compiti e finalità tecnico-pratiche: capacità di eseguire le operazioni aritmetiche fondamentali, risolvere problemi di compravendita, calcolare perimetri e aree di figure geometriche regolari; sono stati gli studi psicopedagogici più recenti, rivolti alla ristrutturazione della matematica, insieme alla ricerca didattica, a sottolineare la valenza formativa di questo sapere, di questa conoscenza del mondo che, come notava Galileo Galilei, non si può conoscere, se non si conoscono i caratteri nei quali è scritto, ed “ egli è 26 U. Avalle – V. Cassola, Elementare: una scuola che cambia, Paravia, Torino 1990, p. 460 – 461. note 149 note 150 luglio 2010 - anno X scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile intendere umanamente la parola”. Pertanto, se è vero, come è vero, che la matematica deve “educare quelle forme che costituiscono la caratteristica specifica della natura umana che è, appunto, la razionalità”,27 si vede bene come essa può diventare, oggi, prezioso strumento di formazione del pensiero dei cittadini d’Europa e del mondo. L’augurio, però, è che il suo apprendimento non sia per tanti alunni, nella tediosa scuola dei banchi, il “pondus diei,”, il suo insegnamento, come auspica M. Pellerey, abbia un volto umano,28 e le giornate scolastiche, per magia dei docenti, possano trasformarsi in una continua, serena “festa dello spirito”. A. Fiozzi, Matematica, in C. Scurati (a cura di), La nuova scuola elementare, La Scuola, Brescia 1986, p. 114. 28 M. Pellerey, Per un insegnamento della matematica dal volto umano, in M. Laeng (a cura), “I Nuovi Programmi della Scuola Elementare”, Giunti–Lisciani, Firenze 1986. 27 Bibliografia Antiseri D., Dal positivismo all’epistemologia contemporanea, in Antiseri – Bertoldi – Mencarelli – Titone, “Alle radici culturali dell’esperienza educativa e didattica”, La Scuola, Brescia 1976 Avalle U. – Cassola V., Elementare: una scuola che cambia, Paravia, Torino 1990. Bruner J.S., La mente a più dimensioni, Laterza, Bari 1988. Candela I., La logica matematica, Dipartimento Matematica Università, Bari 1986. Dewey J., Esperienza e educazione, La Nuova Italia, Firenze 1968. Di Comite C., Geometria e misura. Il piano, Dipartimento Matematica Università, Bari 1985. Di Comite C., Geometria e misura. Lo spazio, Dipartimento Matematica Università, Bari 1986. 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Il primo aspetto è quello della società tecnologicamente avanzata, che stenta a trovare un suo assetto di stabilità, mancando punti qualificanti di riferimento (valori credibili, ideali nobili, pensiero stabile e forte). Se tutto scorre (Eraclito), abbiamo anche dimenticato la sorgività da cui proveniamo e per un certo verso siamo. A ciò fa riferimento il relativismo sostenuto dal “pensiero debole”,1 filosofia che ha creato non una nuova etica, ma un'etica senza etica, senza assiologia, senza apertura alla trascendenza e quindi destinata a ricadere su se stessa. L’atteggiamento di potenza salvifica si mostra al contrario debolezza che non salva. Il superuomo è più tecnologico che illuminista. Il secondo aspetto è la società multietnica che se costituisce una ricchezza, con il dialogo e l’accoglienza dell'altro, può anche creare dei quartieri ghetto o dei separati pur stando insieme agli altri. La vita di questa società ha un suo principio fondante: il bene di tutti, il bene Docente di Teologia Sacramentaria e Pneumatologia - Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani. 1 Cfr. G. Sgubbi, Pensiero debole, cristianesimo e spiritualità postmoderna, in RTE (Rivista di teologia dell’evangelizzazione), VI (2002)12, pp. 297-326. La convivenza è frutto di condivisione di beni, altrimenti è scontro e violenza note 154 luglio 2010 - anno X della stessa società a cui non può derogare, pena la stessa sua vita2. La convivenza è frutto di condivisione di beni, altrimenti è scontro e violenza. Il terzo aspetto è quello della società plurireligiosa. Non sarà facile far vivere, convivere queste esperienze religiose. Il mantenere fede ai propri principi e valori religiosi, è una nota fondamentale attinente la propria identità e idealità che il vivere sociale può forse addolcire ma non sradicare. Pertanto tutte le forme religiose, di là dal proprio credo strettamente professato, debbono rispettare la sacralità della vita e del suo realizzarsi con gli altri: l'io religioso, l'io famiglia, e quindi l'io sociale, cioè il minimo comune denominatore. La multietnicità e la plurireligiosità hanno quindi un fondamento comune che è quello antropologico. L’uomo è essere sociale, ciò è nella costitutività della sua persona, ed è anche religioso fin dal suo inizio3. La persona umana, ha una sua inderogabilità sociale e pertanto essa stessa costituisce e ne garantisce diritti primari4 che sono inalienabili5, imprescrivibili ed imprescindibili e sono cogenti sia interiormente che esternamente come valori non negoziabili6. Se ad ogni diritto corrisponde poi un dovere come è naturale, ciò attiene alla persona e alla società per la sua crescita e sviluppo. La società scopre i diritti fondamentali della persona, non li crea sia perché è un'entità astratta, sia perché trova il suo luogo fondamentale sulla dignità della persona. La struttura societaria deve garantire la inviolabilità dei diritti della persona e ne deve sapere difendere in ordine al vivere comune. Essendo la persona la fonte originaria originante dei diritti, chiede che gli si riconosca e che lei sappia riconoscere quelli degli altri. In altri termini il giusnaturalismo è la prima fonte del diritto, è il diritto dei diritti sia di quello naturale-positivo che positivo. La nostra società, in breve tempo, ha superato la modernità, per divenire tecnologicamente avanzata, ogni giorno aperta alle novità che produce. Noi tutti che la componiamo, siamo diventati dei famelici, dei consumatori di tutto e di più. Siamo degli affamati a livello dell'ultima idea-moda, dell'ultimo vocabolo e del locale "in". Saziata questa fame che alcuni hanno offerto alla nostra mente e stomaco, si ricomincia daccapo. Siamo degli eterni insoddisfatti. La domanda che ci si pone non è la tecnologia, ma l'uomo, centro e fulcro della società, se ha un pensiero, se ha un'idea che sottenda e raggiunga la qualità del vivere Cfr. Ferrajoli, Quali sono i diritti fondamentali? in "A tutti i membri della famiglia umana" per il 60° anniversario della Dichiarazione universale, Giuffrè, Milano 2008, p. 65. 3 Cfr. J. Ries, L’Homo religiosus nell’opera di Eliade e la storia comparata delle religioni, in Confronto con Mircea Eliade, Archetipi Mitici e identità storica (a cura di L. Arcella, P. Pisi, R. Scagno), Jaca Book (Di Fronte e Attraverso) 482, Milano 1998, pp. 355-361. 4 Cfr. U.Villani, La dichiarazione 60 anni dopo, in "A tutti i membri della famiglia umana" per il 60° Anniversario della Dichiarazione universale, Giuffrè, Milano 2008, pp. 63-83. 5 Cfr. GE: EV1/820 – DICHIARAZIONE SULL'EDUCAZIONE CRISTIANA: tutto il documento conciliare pone il tema della formazione umana e cristiana chiedendo a tutti, a iniziare dalla famiglia ad essere responsabili e collaboratori di tutte le agenzie educative. 6 Cfr. M. Ivaldo, La chiesa e i politici, «Valori non negoziabili» e mediazione, in Il Regno attualità, 4 (2007), pp. 75-78. 2 personale e sociale. L'evoluzione tecnologica, se non è sorretta e guidata da uno spirito nobile, aperto alle vere attese e che si incarna in atteggiamenti credibili e veri (il valore), produce e consuma, si esalta e si annienta. L'uomo si autocondiziona, si limita, si richiude in una sfera in cui esaltando se stesso (l'idea di un superuomo di Nietzsche), decreta la sua povertà o anche la sua stessa fine. La tecnologia non illumina il volto dell’uomo e non riscalda il suo animo, crea solo surrogati. Lo spettro di annientamento oggi sembra all’orizzonte della storia, più che mai. “L’urlo”, il famoso quadro di E. Munch (1863-1944)7, rispecchia la constatazione del momento storico e la sua contestazione, il tragico presente e la richiesta di aiuto. Ma chi lo ascolta? Con quale risposta? Analoga è l'attesa dei due protagonisti della commedia di S. Beckett, Aspettando Godot. Quelli ingannano se stessi, il tempo che stanno vivendo, aspettando non sapendo chi e che cosa, eppure attendono. Sembra proprio la tragica situazione dell'uomo che ha perso e si è perso nei meandri della sua stessa realtà. L'illusione e la speranza si alternano senza dare un vero sbocco a quella che è la dimensione più profonda del proprio spirito. La nostalgia di qualcosa che sia più grande e che superi se stessi. Nulla e nessuno può rimanere indifferente, fermo o nostalgico di fronte alla società che si evolve. Si voglia o no, si è presi dentro e fuori e si è chiamati ad essere o incudine (dimensione passiva e quasi amorfa di una parte consistente della società) o martello (piccolo arnese che battendo sull'incudine trasforma e modella). “Dappertutto e in ogni tempo, l’etica d’amore di Gesù è una luce radiosa che rivela tutta la bruttura del nostro conformismo stantio. A dispetto di questo imperativo appello a vivere diversamente, noi abbiamo coltivato una mentalità di massa e siamo passati dall’estremo di un rozzo individualismo all’estremo ancora peggiore di un rozzo collettivismo. Noi non siamo artefici della storia, siamo fatti dalla storia. Longfellow diceva: « In questo mondo, un uomo deve essere incudine o martello », intendendo che egli è un modellatore della società, o è modellato dalla società. Chi potrebbe dubitare che oggi la maggior parte degli uomini sono incudini e sono formati sui modelli della maggioranza? O, per cambiare immagine, i più, e in particolare i cristiani, sono termometri che trascrivono e registrano la temperatura dell’opinione della maggioranza, non termostati che trasformano e regolano la temperatura della società. Molti temono sopra ogni altra cosa il prendere una posizione che si distingua nettamente e chiaramente dall’opinione prevalente. La tendenza dei più è di adottare un punto di vista così ambiguo da includere tutto e così popolare da includere tutti. È inoltre aumentato un disordinato culto della mole: viviamo in un’epoca di ‘elefantismo’, in cui gli uomini trovano sicurezza in ciò che è grande ed esteso: grandi città, grandi edifici, grandi corporazioni. Questo culto delle dimensioni ha indotto molti a temere di essere identificati con un’idea 7 In una bella pagina dei suoi scritti egli afferma che la sua pittura “è un esame di coscienza ed un tentativo di comprendere il mio rapporto con l’esistenza. Essa dunque per certi aspetti è una forma di egoismo, ma spero sempre di riuscire per il suo tramite ad aiutare gli altri a vederci più chiaro”. E dobbiamo riconoscere che questo “Urlo”, pur essendo un personalissimo autoritratto, possiede davvero una intensità unica, tale da fargli assumere una valenza come da icona del dolore universale. note 155 156 note luglio 2010 - anno X minoritaria. Non pochi uomini, che pure coltivano elevati e nobili ideali, li nascondono sotto il moggio per timore di essere considerati diversi”8. La parrocchia nel recente passato La visione della parrocchia giunta al Vaticano II era quella di luogo di aggregazione quasi esclusivo. Esprimeva la necessità di incontrarsi e di socializzare, ma con un forte impegno di catechesi e di liturgia vista anche come esercizio di pietà9. C'era l'oratorio con la sala giochi, il teatrino, la gita fuori città ecc. Era un luogo educativo umano e di fede, con un dispendio di forze intellettive, morali e organizzative straordinario e che ha prodotto frutti impareggiabili. Il catechismo con i vari gruppi, le gare di catechismo tra i gruppi parrocchiali, tra parrocchie e tra Diocesi, era un’esperienza emulativa, che guardava alla formazione futura, agli uomini e donne da inserire nella chiesa e nella società. Non ultimo il racconto (catechesi delle parabole con varie rappresentazioni)10, le biografie di santi (piccoli e grandi, noti e meno noti)11, le catechesi spirituali (quaresimali ed altro) davano un forte impulso e soprattutto una costante attenzione al cammino di fede. L'Azione Cattolica era il segno più rappresentativo ed il luogo più partecipato della vita della parrocchia. Dai più piccoli ai più grandi, dai figli ai genitori, tutti avevano un posto che felicemente occupavano. Anche la messa in latino, le varie devozioni, tridui e novene che quasi si accavallavano, formavano ad uno spirito di fede. I momenti più intensi della liturgia (quarantore, settimana santa, festa parrocchiale ed altre ricorrenze) erano vissuti da tutti in un coinvolgimento di fede, emotivamente giustificato perché segno di un impegno profuso da parte di tutti i gruppi. Questa breve anamnesi della vita parrocchiale, non implica un ritorno a questa esperienza di vita certamente gloriosa, ma a mantenere la memoria del nostro passato da cui noi siamo nati, ma anche con cui forse dobbiamo confrontarci. La storia della nostra fede e delle esperienze pastorali, sono delle tracce, delle indicazioni profonde perché legate ad un tessuto umano spirituale non lontano dalle esigenze e realtà d’oggi. M.L. King, La forza di amare, SEI, Torino 19689, p. 34 (assassinato il 4 aprile 1968). L’oratorio, luogo di socializzazione, con la catechesi e la liturgia, sono le strutture portanti della pastorale della parrocchia. 10 La catechesi come racconto è uno strumento didattico-pedagogico di grande importanza ed efficacia. La ripresa di questa metodologia è indicata e suggerita dalla Congregazione per il Clero, Direttorio generale per la catechesi, n. 39; EV 16/786. Il Vangelo raccontato, si porge all’udito e alla vista ed è immediatamente accessibile al cuore che muove l’intelligenza a scelte consequenziali. Il mistero del Verbo incarnato (la Parola si è fatta Carne) chiede anche questa pedagogia a favore dell’uomo in vista del Regno. 11 Ciò è suggerito da Benedetto XVI, Discorso alla veglia con i giovani per la XX giornata mondiale della gioventù, Colonia, 20.8.2005, in Il Regno–doc. 15(2005)398. Anche nell’ultima Enciclica: Spe Salvi, nn. 3.8.10.12.15.29.32.37, il Pontefice suggerisce la conoscenza di santi recenti e non, per acquisire la virtù della fede, nell’operare secondo il vangelo. 8 9 Processo evolutivo della teologia pastorale parrocchiale Il passaggio da un’identità ed idealità generalizzata ed accolta, nonché stabile della vita parrocchiale, ad una più fluida nel senso di maggiore opportunità di esperienze pastorali ed anche liturgiche, voluta dal Vaticano II, frutto ed effetto di una società fortemente in evoluzione culturale economico-sociale, è quello che si è vissuto e stiamo vivendo. La parrocchia, non è più il luogo esclusivo di aggregazione. Sono nate strutture sociali che hanno inglobato all'inizio questa presenza, ma anche l'hanno esclusa ed emarginata perché non omologata a quegli interessi e finalità. Il passaggio epocale da una società sacrale a quella desacralizzata e scristianizzata, ha inciso anche sulla struttura, non solo pastorale, della parrocchia. L’ateismo pratico è frutto di una antropologia priva di trascendenza e di metafisica. La società che ne deriva è laica nella sua accezione di indifferente e nichilista, capace solo di progettualità fattuale. Nei discorsi formativi12 che si stanno recuperando, sollecitati da una continua denuncia dell’emergenza educativa molto spesso solo verbale13, si dà giustamente importanza e spazio alla famiglia14 e alla scuola15. Poco si dice della chiesa anche perché suo compito primario non è la formazione dell'uomo ma il portare Dio all'uomo e l'uomo a Dio16. Il vangelo non chiede l’uomo perfetto di Diogeniana memoria, ma l’uomo desideroso di più perfezione, capace di vedere nello stesso limite umano, la verità da cui non prescindere, da colmare col dono di grazia. Questa suppone la pienezza dell'uomo e non si sostituisce alle sue doti, capacità e volontà. Gratia non tollit naturam sed perficit: il dono di Dio chiede la certezza della collaborazione dell’uomo, e non la sua sostituzione, sarebbe una grave offesa alla dignità e capacità dell’uomo. “Il vangelo non sta accanto alla cultura. No il Vangelo è un taglio, una purificazione che diviene maturazione e risanamento. È un taglio che esige paziente approfondimento e comprensione, cosicché esso sia fatto nel momento giusto, nella fattispecie giusta e nel modo giusto, che esige quindi sensibilità, comprensione, della cultura dal suo interno, dei suoi rischi e delle sue possibilità nascoste o palesi”17 Cfr. CEI, Una pastorale educativa, gli orientamenti per il decennio 2010-2020, in Il Regno-attualità (12/2010), p. 378-380. 13 Cfr. N. Valentini, Una speranza affidabile, in L’arte di educare, le sfide culturali del presente (a cura di P. Triani – N. Valentini), Ed. Messaggero, Padova 2010, pp. 3-6 14 Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie, n. 16. Cfr. P. Triani, L’impegno educativo della comunità cristiana di fronte alle sfide della cultura contemporanea, in L’arte di educare, le sfide culturali del presente (a cura di P. Triani – N. Valentini), Ed. Messaggero, Padova 2010, pp. 35-37. 15 F. Lambiasi, Le sfide odierne dell’educazione, in L’arte di educare, le sfide culturali del presente (a cura di P. Triani – N. Valentini), Ed. Messaggero, Padova 2010, pp. 8-10. 16 Cfr. GS 41-42: EV 1/1446.1449-1453. 17 J. Ratzinger, «Il Logos e l’evangelizzazione della cultura», in CEI, Parabole medianiche, fare cultura nel tempo della comunicazione, EDB, Bologna 2003, 179; Regno-doc. (21,2002),662, in C. Giuliodori, Quale umanesimo nella cultura digitale?, in Regno-doc. (9, 2010), 278. 12 note 157 note 158 luglio 2010 - anno X Che la parrocchia possa svolgere un ruolo pedagogico, è inevitabile, ma è un servizio solo di supporto ed un contributo al generale sviluppo dell'uomo integrale18. Stranamente si è realizzata un’anomalia: la società chiede alla chiesa di essere presente con il suo carisma nella realtà sociale, e contemporaneamente rinunzia, e forse osteggia, lo specifico della chiesa, ossia la presenza del divino evangelico, e così chiede la presenza ma le nega lo specifico della stessa presenza. Sembra importante ed urgente per la società come anche per la chiesa, un atto forte e motivato che prenda tutto l'essere, intelligenza e volontà: la conversione. La conversione laica19: l’orizzonte antropologico per vivere Si può pensare ed auspicare, una conversione laica della società ossia la nostalgia del bene, del bello, del diritto e della giustizia, del vivere in serenità, così da dare il giusto valore a quelle realtà e virtù che fondano la vita interiore di un uomo e la sua spiritualità. “Dio non dice: " Questo cammino conduce fino a me, mentre quell'altro no "; dice invece: " Tutto quello che fai può essere un cammino verso di me, a condizione che tu lo faccia in modo tale che ti conduca fino a me ". Ma in che cosa consista ciò che può e deve fare quell'uomo preciso e nessun altro, può rivelarsi all'uomo solo a partire da se stesso”20. L’agere sequitur esse, l’agire, l’operare, il vivere quotidiano deve essere l’affermazione della personalità, l’esternazione di un mondo interiore ricco di virtù e di profonde aspirazioni che esaltino la dignità e la nobiltà dell’animo. “Ogni agire serio e retto è speranza in atto”21. Tale affermazione riporta alla coscienza dell’uomo la sua primordiale verità. L’agire secondo retta, fondata ed illuminata coscienza è il primo e primitivo atto umano22. La fame dello spirito non è saziata dall’ultima generazione tecnologica, né da cose materiali, ma da valori e testimonianze che superano la fattualità e l’urgenza. La ricerca tecnologica con i suoi esilaranti risultati è come un paradiso perduto: offerto, goduto ma solo per un attimo perché si perde immediatamente. È un paradiso che supera sempre se stesso, si consuma ma non sazia, lusinga ma rende inquieto l'animo dell'uomo. Anche per la conversione laica occorre che si ponga un valore che superi la dimensione materiale. Ci si converte solo se si va oltre la conversione ossia se c’è qualcosa per cui valga la pena convertirsi23. Cfr. GS 42: EV 1/1450-1453; cfr. J. Maritain, Umanesimo integrale, Borla, Torino 19694. Cfr. Benedetto XVI, Spe salvi, n. 24: il retto uso delle cose e della libertà sono al fondamento della conversione laica in quanto valori inscritti nel proprio essere. 20 M. Buber, Il cammino dell’uomo, Magnano 1990, pp. 28-29. 21 Benedetto XVI, Spe salvi, n. 35. 22 P. Stefani, La laicità dei credenti, non si è nella fede una volta per tutte, in Il Regno- attualità (12,2010), p. 427-428. 23 Cfr. CEI, Lettera ai cercatori di Dio, Leumann 2009, p. 9. 18 19 È la fede nell’uomo, almeno come primo dato consistente, come certezza inalienabile, come valore che faccia riflettere sulla vita, sull’operare, sulla sua spiritualità, non come fatto intimistico, ma coinvolgente e totalizzante, a dare un primo impulso alla conversione. La banalità della vita a cui assistiamo impotenti, è segno di una desacralità generalizzata. Sembra che nulla e niente abbia più valore. Anche il male con il suo potenziale distruttivo, è stato banalizzato a semplice scorrettezza a vantaggio di un dilagante permissivismo. La conversione laica deve tendere a porre la vita al vertice della sua fatica che inizia in un aggancio di pensiero meditato e riflesso. Conversione laica significa quindi vera promozione umana che parte da una cultura, da un pensiero forte validamente ancorato a ideali spirituali emergenti da una sana coscienza e scienza. Se è così, sarà facile cogliere nella vita i segni di una presenza divina che dia speranza. “Che valore può avere una speculazione sottile se prima non si è intuita la sacralità della vita, una intuizione da tradurre poi nei termini razionali della filosofia, in un modo di vivere religioso, nelle forme e nelle visioni dell’arte?”24. La presenza di una fede e di una sana spiritualità umana, è proiezione esistenziale teleologica da cui non si può derogare. L'uomo deve credere a se stesso, ossia deve riporre fiducia in ciò che è la sua alta idealità essendo al centro e sopra tutto il creato25. Questo crea ordine, armonia e perfezione. Uno sguardo attento a questo, renderebbe l’uomo più sensibile alla ricerca della sua perfezione, ad atteggiamenti che siano coerenti con la propria naturalità. Si ha paura di parlare di mistero, di pensare il mistero. Eppure noi siamo non solo fasciati dal mistero, ma siamo anche in e parte del mistero. “«Pensare il Mistero» non è innanzitutto un’urgenza di tipo religioso, anche se connota essenzialmente la dimensione religiosa dell’uomo, ma esistenziale e antropologica: infatti, una visione rigidamente deduttiva dell’essere e di conseguenza incapace di salvaguardare realmente la differenza e l’alterità, come è accaduto nell’idealismo, coincide necessariamente con una logica della necessità e, dunque, con la negazione della libertà”26. “(…) «Pensare il Mistero», è l’orizzonte che ispira e sostiene l'intera riflessione. «Mistero» (…) non è però sinonimo di assurdo, irrazionale od oscuro, quanto piuttosto lo sfondo più originario e remoto e, al tempo stesso, più immediato dell'umano pensare, una «cosa» che «non ha nulla a che vedere con vaghe istanze “mistiche”, ma con l'essenza stessa della filo-sofia e del suo fare». (…) L'«Inizio» e la «Cosa ultima» sono l'Ab-solutus, cioè l'abissale Gratuità originaria che può essere pensata, ma non posseduta; saranno questi oltre ad alcuni dati, i nomi qualificanti di ciò che abbiamo chiamato «il Mistero»”27. A. J. Heschel, L’uomo non è solo, una filosofia della religione, Rusconi, Milano 19714, p. 24-25. Cfr. CEI, Lettera ai cercatori di Dio, Leumann 2009, pp. 24-28. 26 G. Sgubbi, Per una mistica della gratuità, intorno al pensiero «teologico» di Massimo Cacciari, in RTE, IX (2005)17, p. 122; cfr. G. Sgubbi, L’evangelizzazione e la filosofia italiana contemporanea. Uno sguardo, in RTE, X (2006)19, pp. 41-44. 27 G. Sgubbi, Per una mistica della gratuità, cit., p. 121. 24 25 note 159 note 160 luglio 2010 - anno X È vero il monito di Dante che pone sulle labbra di Ulisse e che riporta l’uomo alla genesi pura e alla sua etica: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”28. La risposta del “L’urlo” (di E. Munch) è da ricercare nell’uomo stesso e nel suo cuore puro. L’uomo con la sua carica umana, con la ragione illuminata dal desiderio di bene, dai dieci comandamenti, può riuscire a creare una convivenza, una polis degna di nobile umanità. Pertanto, dall’ordine soggettivo-personale, si passa a quello relazionale-sociale. Solo la ricchezza e la nobiltà di animo può porre l’uomo in ricerca di qualcosa di più vero, nobile e giusto. Se prevenire è meglio che curare, ciò è vero ed utile anche in campo pedagogico-sociale dove virtù e vizi, intolleranza, permissivismo, trasgressione e licenziosità, avrebbero dovuto trovare un’adeguata proposta assiologica alternativa che fosse valida risposta o che almeno arginasse questo fiume melmoso che straripa. Conversione è allora ritornare sui propri passi, chiedersi se c'è una via più autentica da percorrere anche se più impegnativa. L'essenziale si fa più urgente, perché è importante e vitale. Rientrare in sè per uscire da sé, accogliere il bonum del sé, per diffonderlo. “Ma per essere all’altezza di questo grande compito, l’uomo deve innanzitutto, al di là della farragine di cose senza valore che ingombra la sua vita, raggiungere il suo sé, deve trovare se stesso, non l’io ovvio dell’individuo egocentrico, ma il sé profondo della persona che vive con il mondo. E anche qui tutte le nostre abitudini ci sono di ostacolo. Vorrei concludere questa riflessione con un divertente aneddoto antico ripreso da uno zaddik. Rabbi Hanoch raccontava: “C’era una volta uno stolto così insensato che era chiamato il Golem (Nei Pirqe ‘Avoth (“Massime dei Padri”) Golem significa stupido, uomo senza intelligenza). Quando si alzava al mattino gli riusciva così difficile ritrovare gli abiti che alla sera, al solo pensiero, spesso aveva paura di andare a dormire. Finalmente una sera si fece coraggio, impugnò una matita e un foglietto e, spogliandosi, annotò dove posava ogni capo di vestiario. Il mattino seguente, si alzò tutto contento e prese la sua lista: ‘Il berretto: là’, e se lo mise in testa; ‘I pantaloni: li’, e se li infilò; e così via fino a che ebbe indossato tutto. ‘Sì, ma io, dove sono? - si chiese all’improvviso in preda all’ansia - dove sono rimasto?’. Invano si cercò e ricercò: non riusciva a trovarsi. Così succede anche a noi”, concluse il Rabbi”29. Pensare l’inizio, come ad una continua fonte, come un essere principiante in un apprendistato perenne, ma che sa di raggiungere un traguardo 30. Paolo di Tarso, delinea bene la sua fatica di rispondere all’anelito, al desiderio di perfezione umana, ma non può riuscire da solo. Ha ali per volare ma è appesantito da troppi fardelli. D. Alighieri, Inferno, Cant. XXVI, 118-120. M. Buber, Il cammino dell’uomo, Magnano 1990, pp. 47-48. 30 Cfr. M. Cacciari, Della cosa ultima, Adelfi, Milano 2004, 105, in G. Sgubbi, Per una mistica della gratuità, cit., p. 129. 28 29 “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rm 7, 15-18). Urge intraprendere un cammino iniziatico alla scoperta dell’uomo, ma questo cammino ha un itinerario ben preciso: ascoltare se stesso per riscoprire la propria verità di essere. Nascondere la verità del male, primo ed originario fardello, non è solo un inganno esistenziale, ma narcotizza l’essere evitando un cammino di purificazione e di conversione. Così il male nelle sue varie manifestazioni si esorcizza, ma non si combatte. Negare la verità del male, non è semplicemente negare qualcosa (il male ridotto ad uno sbaglio mentre è un dis-orientamento spirituale e morale molto pesante e per nulla banale) ma negarsi, ossia misconoscere a sé e per sé la consapevolezza di un impegno morale negato, di grande portata. Come affermare l’esigenza del bene nella sua più ampia accezione, comporta quasi un superamento di sé, cogliere l’universale bisogno di pace che tocca il cuore e non solo la ragione31. All’uomo di oggi non si può risparmiare la fatica di essere persona e di formarsi a questa verità. Il dramma che si consuma nella sua coscienza, la ricerca del bene e del giusto, il desiderio del più nobile, deve essere coscientizzato per uscire dalla banalità. Occorre ridare l'uomo all'Uomo32, fare dell’uomo una persona e persona pensante, sganciarla da quella trappola infernale che la lega al materialismo. Questo riduzionismo antropologico è effetto di una filosofia nichilista e proiezione di un relativismo dai contorni distruttivi. “Alla fine delle riduzioni antropologiche avverrà o la decomposizione nel nulla o il riconoscimento -nella fede- dell'uomo come «microcosmo e microtheos », immagine di Dio, unica creatura capace di decifrare il senso dell'universo”33. L’uomo manca del pensiero e del pensare e ciò lo porta ad ingolfarsi in contingenze immediate. È vietato pensare seriamente, potrebbe essere l’indicazione che emerge subdolamente da alcune parti, mentre tutti possono esprimere giudizi inconsistenti su tutto. La forza del potere non è nel potere del più forte, ma nel convincimento. Questo, senza discernimento, diventa opinione e poco importa se è amorale o immorale. La moralità quindi deriva dall’uso plebiscitario della stessa opinione. È questa una nuova tendenza culturale-religiosa. Così Cfr. B. Pascal, Pensieri, nn. 144,146,148. GS 22: EV 1/1385: “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione”. 33 O. Clément, La storia di una filosofia religiosa: Berdjaev (a cura di A. Dell’Asta), Jaca Book (Di fronte e attraverso) 629, Milano 2003, p. 26, riporta il pensiero di Berdjaev sull’antropologia, dall’opera: Il senso della creazione. 31 32 note 161 note 162 luglio 2010 - anno X il soggetto è diventato individuo, l’eteronomia è diventata autonomia dai toni esasperati e dirompenti, altri portano il “carro” della propria vita. È indicativo per tutto il tema della bioetica e come questo venga offerto, usato e manipolato sia dai ricercatori che dai mass-media per fini pubblicistici più che per serie indicazioni finalizzate a promuovere e custodire la vita. Più che essere un fermo alla ricerca scientifica, la dottrina della chiesa, chiede che questa ponga al primo posto la vita della persona intesa non come individuo ma come luogo morale di attesa e di speranza, di ricerca e di bene. La dottrina della chiesa è la dottrina della persona che vuole salvaguardare non solo i principi-diritti-doveri, ma ciò che gli è di più caro: la sua dignità di essere umano nel suo essere integrale34. Il bonum della conversione emerge invece, da ciò che l'uomo ha più di importante e nobile: la verità e la bellezza che si incontrano e si richiamano come la luce dice il sole e viceversa. La verità non s’impone, si testimonia e questo può determinare la sua debolezza. “La capacità di soffrire per amore della verità è misura di umanità”35 “Nel mondo la verità è debole. Basta una piccolezza per oscurarla. Il più stupido degli uomini può ferirla. Ma arriva sempre l’ora che le cose cambiano”36. Questo bonum allora è l'esplicitazione di ciò che l'uomo ha sopito e nascosto in sé ed oggi esige intelligenza e forza per farlo emergere37: la verità e la bellezza non sono solo valori etici, ma manifestano e si rapportano a Qualcuno. “Il giovane nichilista Ippolit condannato a morte dalla tisi a vent'anni pone la domanda al principe Myškin (l'idiota): «è vero principe, che una volta diceste che il mondo sarà salvato dalla Bellezza? (…) Quale bellezza salverà il mondo?»”38. L’uomo con la sua retta coscienza, la legge naturale, i comandamenti per poi giungere alla legge evangelica, ha strumenti ineguagliabili per una conversione laica. L’auspicio di un nuovo umanesimo, si dà solo se l'uomo è capace di apertura, di dischiudersi ad altro, di essere assetato di un cammino che pur partendo dal sé, tende ad altro. Questo è ciò che la chiesa e la parola di Dio continuamente offre all'uomo credente e non39. Il bonum lo riporta all’inizio, al sé in sé, prima di esporlo esternamente. “Pensare l’Inizio (…) è come un apprendistato perenne, un «principiare» sempre”40. Paolo così descrive il bonum: Cfr. Istruzione della congregazione per la dottrina della fede su alcune questioni di bioetica, 'Dignitas personae' (23-XII - 2008) in Il Regno- doc. (1,2009) pp. 10-22. 35 Benedetto XVI, Spe salvi, n. 39. È quanto mai valido l’assioma: Pro veritate adversa diligere – per amore della verità, scegliere i cammini più impegnativi. 36 R. Guardini, Virtù, temi e prospettive della vita morale, Brescia 19802, p. 32. 37 Cfr. S. Weil, Attesa di Dio, Rusconi, Milano 19914, p. 69. 38 F.M. Dostoevskij, L'idiota. 39 Cfr. V. Paglia, La sete della parola, in Il Regno documenti e 1 (2009) pagina 39-52. 40 M. Cacciari, Della cosa ultima, Adelfi, Milano 2004,105, in G. Sgubbi, Per una mistica della gratuità, cit., p. 129. 34 “In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi!” (Fil 4, 8-9)41. Il bonum chiede condizioni per realizzarsi. La legge e la libertà non sono in antitesi ma si cercano e si rafforzano nella verità. L'uomo libero trova nella legge la pedagogia della sua libertà. Ma la legge è per i trasgressori (cfr. 1Tim 8-11)42 perché gli uomini liberi hanno la legge spirituale che dona alla stessa libertà una valenza impareggiabile di saggezza. La legge, foro esterno, è – o almeno dovrebbe essere – richiesta attuativa di quella interna che l’uomo sente spontaneamente emergere dalla sua coscienza e che coltiva, purifica e confronta con la verità. È vero che la libertà, il massimo dei beni che l'uomo possiede, pone dei limiti all’essere e all'agire, poichè come tutti i beni e valori trova argini che gli consentono di crescere e di svilupparsi armonicamente. “La libertà, Sancio, è uno dei più preziosi doni che i cieli abbiano mai dato agli uomini né i tesori che racchiude la terra né che copre il mare sono da paragonare a essa; per la libertà, come per l'onore, si può e si deve mettere a repentaglio la vita”43. Pertanto, non c'è la libertà libera44, ma ogni valore trova la sua massima espressione e compimento nell’edificazione della totalità, dell'insieme dell'essere. Così le piccole verità, appunto perché piccole, hanno bisogno di ragioni e non solo di decisioni per armonizzarsi nella verità dell’uomo, pena un compromesso strisciante. Non è la prassi che giustifica il pensiero, ma è questo che forgia l’uomo ad uno stile. Sentire l’esigenza della formazione e dell’educazione, è provare a disincantare l’uomo dai modelli inflazionati. Il vero, il bello ed il buono albergano, in modo straordinario, in una coscienza aperta alla trascendenza. Se uno spicchio d'arancia volesse diventare enorme, sproporzionato, credendosi superiore agli altri, non sarebbe organico agli altri, usurperebbe i beni degli altri, limiterebbe proprio la libertà degli altri in nome di una malintesa sua libertà. E l'arancia non sarebbe più tale ed esteticamente sarebbe uno obbrobrio (certamente non naturale). Così la libertà nella sua estrema assunzione concettuale, produce la non libertà. La libertà chiede delle Il commento della Bibbia di Gerusalemme a questo testo di Paolo dice: “Paolo raccomanda (v 8) un ideale di condotta di cui tutti i termini erano correnti presso i moralisti greci del suo tempo (è la sola volta che usa la parola «virtù», cfr. Sap 4,1, Sap 5,13), ma invita (v 9) a metterlo in pratica secondo gli insegnamenti e soprattutto l’esempio che egli ne ha dato (Fil 3,17; cfr. 2Ts 3,7)”. 42 “8Certo, noi sappiamo che la legge è buona, se uno ne usa legalmente; 9sono convinto che la legge non è fatta per il giusto, ma per gli iniqui e i ribelli, per gli empi e i peccatori, per i sacrileghi e i profanatori, per i parricidi e i matricidi, per gli assassini, 10 i fornicatori, i pervertiti, i trafficanti di uomini, i falsi, gli spergiuri e per ogni altra cosa che è contraria alla sana dottrina, 11secondo il vangelo della gloria del beato Dio che mi è stato affidato”. 43 M. de Cervantes, Il fantastico hidaigo don Chisciotte della Mancia, BUR, Milano 2005, p. 471. 44 “La libertà deve sempre di nuovo essere conquistata per il bene. La libera adesione al bene non esiste mai semplicemente da sé”: Benedetto XVI, Spe salvi, n. 24. 41 note 163 note 164 luglio 2010 - anno X risposte, dei coinvolgimenti che la rendono vera. Il bene che la libertà produce è la vera nostalgia umana45. Se la tensione spirituale porta l'uomo all'esercizio della virtù quale nobile aspirazione di vita, tanto più questa tensione trova il suo compimento in ciò che supera il bene con il meglio, con la grazia, con l'incontro con il Divino personale, con la santità. La conversione nella fede, fa incontrare Cristo con l’uomo Ma la conversione è termine specifico della teologia, della nostra fede. Indica un’inversione di marcia sulla direttiva del vangelo. Vivere la vita in una dimensione di fede teologale. “La fede conferisce alla vita una nuova base, un nuovo fondamento sul quale l’uomo può poggiare e con ciò il fondamento abituale, l’affidabilità del reddito materiale, appunto, si relativizza. Si crea una nuova libertà di fronte a questo fondamento della vita che solo apparentemente è in grado di sostenere, anche se il suo significato normale non è con ciò certamente negato”46. La nostalgia del bene (dimensione antropologica) diventa nostalgia di santità (dimensione teologica), desiderio di maturare, nella e con la chiesa, il dono di Dio ricevuto nel santo battesimo e confermato negli altri sacramenti. L’iniziativa è totalmente dono di Dio che mi viene a cercare; è dono anche la possibilità della mia accoglienza e di rimanere nel suo dono (Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato suo Figlio…1Gv 4,10). Da una fede antropologica si passa quindi ad una fede teologica fondata sul kerigma. Conversione significa anche prendere coscienza del dono ricevuto e portarlo a compimento. Il cristiano è l’uomo più libero, la sua libertà, vertiginosa e pur fragile, come tutti i doni, comporta una corresponsabilità: l'accoglienza, l'esperienza di vita, in cui tali doni fruttificano secondo le proprie capacità (A ognuno secondo la propria capacità: Mt 25, 15). La chiesa, ed in particolare la parrocchia che sperimenta nella sua quotidianità tale dinamismo di grazia, si pone verso il regno di Dio in una continua conversione. “La Chiesa non risiede là dove la capacità dell'uomo non ce la fa più, ai confini, ma in mezzo al villaggio”47. Non è il peccato che impedisce l'incontro con la misericordia e la riabilitazione con Dio, ma la durezza del cuore ad impedire l'incontro che Dio desidera con il peccatore. Un proverbio rabbinico dice: “Quando gli Israeliti sono costretti a mangiare carrube, si convertono” (bTa’ anit 24 b; cfr. Lc 15,16). E ciò non è assolutamente smentito. Ne è Cfr. C. Schönborn, Scegli la vita, la morale cristiana secondo il catechismo della chiesa cattolica, Jaca Book (Già e non ancora) 356, Milano 2000, p. 47. 46 Benedetto XVI, Spe salvi, n. 8. 47 D. Bonhoeffer, Resistenze e Resa, Lettera del 30 aprile 1944. 45 testimonianza la storia di santi che dopo le carrube hanno rivolto il loro cuore al vero e sommo Bene (cfr. Sant'Agostino, Conf., X, 27). Questa parola, conversione, e più ancora sul concetto assiologica, chiede di essere ripresentato in ogni ambiente a iniziare dai luoghi di potere culturale a quelli economici, a finire alla famiglia e alle persone. Anche la stessa dottrina economica così spregiudicata nei suoi profitti, dopo gli ultimi eventi catastrofici chiede di essere convertita più che a nuove regole di mercato ad un ritorno del valore della persona preminente su tutto. Anche la comunità cristiana deve riappropriarsi del significato e valore teologico della conversione che non attiene solo il tempo di Quaresima, ma sempre48. Anche per la chiesa gli ultimi eventi negativi in ordine alla morale sessuale e all'uso dei beni materiali, si chiede e con forza (Benedetto XVI non manca di sottolineare una maggiore corresponsabilità di tutti cristiani e in particolare dei ministri del culto ad appropriarsi della parola di Dio quale fonte unica di rinnovamento interiore insieme alla penitenza), non nuove regole disciplinari ma solo un "semplice" ritorno alle origini: la parola di salvezza: Cristo Signore morto e risorto (cfr. 1 Cor 1,21-25). Per la chiesa inoltre si sta manifestando una realtà non sempre chiara ed omogenea49 sia in ordine alla fede (cristiani fai da te) sia credenti senza conoscenza ed accoglienza del mistero di Cristo (nella professione di fede diciamo di credere alla resurrezione dei morti) sia in ordine alla stessa morale della chiesa a cui pochi pongono seriamente attenzione e fiducia, sia l'azione liturgico-sacramentale che è il cuore stesso della vita di fede dei veri credenti, spesso diventata una semplice religione di stato chiamato a " celebrare " essenzialmente un momento sociale caratterizzato da un motivo emotivo. Conversione allora deve ricordare alla chiesa che ha in sé tutta la sapienza da offrire all'uomo e da riproporre con forza a se stessa non disegnando di offrire il kerigma nella sua pienezza di verità in un contesto di sincretismo culturale e religioso, di fede che poco si relaziona al mistero di Cristo e ad una comunità che spesso è fatta di cristiani pendolari, girovaghi e " homeless"50. Occorre conversione e testimonianza più che atteggiamenti irenici, per essere alla stessa chiesa e all'uomo che vede ancora in essa l'unica forza di rinnovamento. Cfr. S. Magister, Da Wojtyla a Ratzinger, via crucis continua, in L’espresso, 15 luglio 2010, pp. 58-60. 49 Tra le tante difficoltà che la chiesa-parrocchia si trova a vivere, vi è una doppia pseudo identità: un immanentismo attivistico e uno spiritualismo cristocentrico dimentico dell’uomo: cfr. S. Vitiello, Dal dialogo delle idee al dialogo tra uomini, in Alla ricerca di una sana laicità, libertà e centralità dell’uomo (a cura di G. Quagliariello), Siena 2007, p. 90. 50 Una radiografia dell'attuale situazione religiosa dell'Italia è emersa da una ricerca commissionata dalla rivista Il Regno e condotta da P. Segatti e da G. Brunelli. Il titolo: " Da cattolica a genericamente cristiana", traduce il passaggio in atto della società e di persone che hanno reso la fede cristiana ad un semplice credere privo di oggettività misterica e quindi di possibili esperienze di vita di fede. Ciò emerge ancora più evidente dal campione preso in esame: la ricerca riguardava i nati fino al 1972 e quelli a partire dallo stesso anno. Il divario è consistente e sarà ancora maggiore per una mancanza di informazione culturale e non solo. Ciò viene anche evidenziato da P. 48 note 165 166 luglio 2010 - anno X note La parrocchia, locus theologicus di offerta del dono di Dio nell’oggi Il tempo in cui viviamo è un kairos, ossia tempo di grazia. La chiesa-parrocchia è il luogo dell’incarnazione del Verbo nell'oggi storico. Il chronos è così diventato kairos51. L’oggi salvifico (hodie) si offre come la perfetta sintesi del tempo e dell’eternità, del presente e del futuro escatologico. Ciò che è avvenuto un giorno, ora misticamente è ripresentato. Nel dinamico essere della chiesa, si svolge il principio dell'incarnazione: il dono di Dio, Cristo Gesù morto e risorto, è offerto a noi; nell'accoglienza del dono, la chiesa ne diviene testimone corresponsabile del mistero. Ciò avviene anche per il fedele: il dono di Cristo, che è Cristo stesso, gli è offerto dalla chiesa. Se è accolto inizia un processo vitale: il cammino di fede52. Questa non è l'acquisizione di una ideologia53, di principi morali, di un appello all’amore generalizzato, di appartenenza ad una associazione, o ad una evangelizzazione «leggera»54 ma è la vita di Cristo in ciascuno. Pertanto, l’ethos cristiano è la derivazione di un incontro come quello di Cristo con Paolo sulla strada di Damasco (cfr. At 9,2-8)55. “La fede è fondamentalmente l’incontro tra singolarità. Questa è l’esperienza nel senso più radicale. Ed è un incontro - stando anche a quello che ci dice S. Paolo nel Nuovo Testamento - che implica non semplicemente il conoscere nel senso razionale del termine, il sapere, ma l’esserci, l’appartenere. La fede non consiste nel credere in Gesù Cristo, ma nell’essere in Gesù Cristo”56. Paolo così ci comunica la sua esperienza di fede: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). 51 52 53 54 55 56 Ignazi nell'articolo: " Chiesa flop, pochi fedeli alle messe. Crisi delle vocazioni. Matrimoni religiosi in calo. Indicazioni etiche disattese. E un allarmante perdita di consensi di prestigio " in L'espresso, 28 (15 luglio 2010), pp. 54-57. Cfr. H.CH. Hahn, Kairós, in Dizionario dei concetti biblici del nuovo testamento (a cura di L.Coenen - E. Beyreuther - H. Bietenhard), Bologna 19802, pp. 1828-1831. Cfr. P. Caspani, La pertinenza teologica della nozione di iniziazione cristiana, Glossa, Milano 1999, 865-866. “Il Cristo invita a camminare al suo seguito. Credere non è soltanto aderire intellettualmente a ciò che dice: è impegnarsi con lui”: Les Évêques de France, Catéchisme pour adultes, n. 486, in Conférence des Évêques de France, La catechesi in Francia, III, 2, in Il Regno-doc. 21(2007), p. 704. Cfr. G. Sgubbi, L’evangelizzazione e la filosofia italiana contemporanea. Uno sguardo, in RTE, X(2006)19, pp. 37-40. Cfr. R. Penna, Il DNA del cristiano, l’identità cristiana allo stato nascente, Cinisello Balsamo 2004, pp. 223-232. G. Bonaccorso, L’approccio alla liturgia è un evento catecumenale, in “Venite e vedrete”. L’itinerario catecumenale per rendere viva la liturgia (Atti del XLVII Convegno liturgico-pastorale dell’Associazione Opera della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo), Milano 2006, p. 17. La fede non si possiede (avere la fede) ma si vive (essere in fede) 57, si sperimenta (evento dinamico e perdurante nel tempo) in un atto continuo e sempre presente di conversione profonda e dialogante tra il Divino e la persona umana58. È questa la fede che Cristo nutre verso il Padre, tanto da affermare: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30; “Filippo, chi ha visto me, ha visto il Padre”Gv 14,9). “Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo «informativo», ma «performativo». Ciò significa: il vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita”59. La chiesa-parrocchia è luogo dell'incontro tra Dio e chi lo desidera incontrare. Dio ha posto in ogni cuore (in modo eminente nel battezzato) il desiderio di far comunione con lui. La chiesa è luogo di offerta del mistero di Dio perché essa è, per assoluta gratuità divina, segno e strumento sacramentale del mistero. La ragione della chiesa è solo in Cristo e nel suo mistero Pasquale. In essa si compone l'uomo: mente e cuore, corpo e anima, presente e futuro, sacramenti ed eternità beata, trovano unità, consistenza e compimento perché essa è in Cristo Signore. “Per sua natura alla Chiesa interessa il senso della vita, per sua natura alla Chiesa interessa la parola di verità che dà senso e significato pieno all’esistenza, che non investe analiticamente tutti i problemi ma che va al cuore dell’uomo e dà al cuore dell’uomo il suo senso, il suo significato, la sua verità e la sua bellezza: Cristo rivela all’uomo tutta la verità su di lui. Allora la cultura - nel senso forte, sostanziale della parola - è una questione della Chiesa, è una questione della fede. La Chiesa proponendo il mistero di Cristo morto e risorto, misteriosamente cioè sacramentalmente presente in essa, attraverso la struttura sacramentale e autoritativa e attraverso la vita della tradizione, dice la verità sull’uomo, dice la verità su Dio e la verità sull’uomo. In questo senso è la «cultura adeguata», l’espressione è stata spesso usata da Giovanni Paolo II. Che la Chiesa offra la «cultura adeguata» non significa che sia negatrice di ogni sforzo compiuto dalle altre culture per arrivare al senso ultimo della vita, ma che completa, compie, perché se Cristo è la verità di Dio, del mondo e dell’uomo, è anche il punto di attrazione, il punto di valorizzazione di tutto ciò che le culture umane hanno tentato di conoscere in ordine al mistero, ed è anche il giudizio su tutti i tentativi che gli uomini hanno fatto di idolatrare il contenuto delle proprie mani”60. L’uomo religioso è per natura simbolico61 e pertanto non può fare a meno della sacramentalità della stessa chiesa. L’azione sacramentale è indispensabile perché è l'accesso Cfr. E. Fromm, Avere o essere? (Saggi 87), Milano XVI ed. febb. 1979, pp. 65-72; E. Fromm, L'arte di amare, Il Saggiatore, Milano nov. 1981, pp. 116-121. 58 Cfr. Conférence des Évêques de France, La catechesi in Francia, II, 4, in Il Regno-doc. 21(2007), p. 702. 59 Benedetto XVI, Spe salvi, n. 2; vedi anche nn. 4 e 10 in cui è ripetuta la stessa terminologia a favore della verità testimoniale della fede. 60 L. Negri, Il volto di una chiesa educante, in L'arte di educare nella fede, le sfide culturali del presente (a cura di P. Triani – N. Valentini), ED. Messaggero, Padova 2008. p. 157. 61 Cfr. T. Federici, Cristo Signore risorto amato e celebrato, I, Commento al lezionario domenicale cicli A,B,C (Quaderni di «Oriente cristiano» studi 11), Palermo 2001, p. 55-56. 57 note 167 note 168 luglio 2010 - anno X misterico-simbolico al soprannaturale. I tempi del nascere e del morire (sacramenti naturali), della sofferenza e della gioia sono sperimentati e vissuti nella comunità parrocchiale come momenti unificati dalla fede in Cristo62. Questa è l’esperienza pastorale. La comunità parrocchiale diviene il luogo mistico dell'incarnazione. Questa è sì storicizzata nello spazio e nel tempo, ma diviene metastorica nel suo mistero attualizzato63. La chiesa è il locus theologicus precipuo, in cui incarnazione e redenzione, cristologia e soteriologia si realizza, si sperimenta e si vive. Il kerigma è il DNA64 non solo della fede ma della chiesa. Il mistero della fede, di cui la chiesa stessa è partecipe, trova il suo fondamento originante nel mistero Pasquale. “Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana la vostra fede” (1Cor 15,14), noi avremmo creduto ad un uomo saggio, benefattore dell'umanità che simbioticamente ha condiviso in toto la nostra vita fino alla morte. Ma di questi esempi, la storia presenta tanti volti. Paolo aggiunge che la resurrezione, effetto del compiacimento del Padre per l'opera che Cristo ha realizzato, è l'atto soteriologico che ci appartiene altrimenti saremmo ancora nei nostri peccati: “ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti…” (1Cor 15,20) e lui ne ha fatto esperienza sulla strada di Damasco (cfr. At 9,3-6; 22,6-11). La chiesa è solo questo luogo che annuncia a tutti, con libertà ma con verità, Cristo salvatore, speranza per l'uomo. Il dono-Cristo se accolto, si attualizza nella vicenda della storia in cui la chiesa è collocata, ma che aspira alla pienezza del Regno. La chiesa-parrocchia: identità e missione kerigmatica La parrocchia, quale identità giuridico-pastorale, è l'incarnazione della chiesa una, santa, cattolica e apostolica65. La chiesa, grande comunità, vive nella chiesa piccola comunità in una simbiosi di grazia e di partecipazione dello stesso mistero. Tale incarnazione e missione si esplica in quattro modalità. La chiesa persona. “Tutte le Chiese sono i popoli cristiani. Ogni uomo in Cristo è un solo uomo, e l’unità di tutti i cristiani è un solo uomo”66. Dio considera il suo popolo Cfr. J. Ratzinger, Il fondamento sacramentale dell'esistenza cristiana, Brescia 20055. “Questa filosofia dei sacramenti è elaborata particolarmente nello studio su Chomjakov: «I sacramenti, vi scrive Berdjaev, sono la presenza della creazione trasfigurata, del mondo nuovo nel quale il cibo diviene eucaristia, l’incontro dell’uomo e della donna diventa unione nuziale, l’elemento spaventoso dell’acqua diventa battesimo […]. La vita nella sua totale pienezza deve diventare sacramento […], i sacramenti sono la via verso la trasfigurazione di tutta la carne del mondo»: N.A. Berdjaev, Aleksej Stepanovii Chomjakov, p. 111, in O. Clément, La storia di una filosofia religiosa: Berdjaev, cit., p. 26. 64 Cfr. R. Penna, Il DNA del cristiano, cit.,pp. 243-246. 65 Cfr. CIC, can. 515 §1; LG 13: EV1/318-321. 66 S. Agostino, Spiegazione sui salmi 29,2.5. 62 63 un’identità personale con cui poter dialogare e stabilire la prima alleanza, l’AA e poi la NA attraverso la persona di Cristo67. La chiesa sposa68. La chiesa è sposa di Cristo (cfr. Ap 19,7) in quanto è associata al mistero stesso di Cristo sposo (cfr. Ef 5, 24-32) e ne forma un unico corpo: il corpo mistico di Cristo69. La chiesa madre70. Dal mistico sposalizio di Cristo con la chiesa, per volontà del Padre e in forza dello Spirito nascono i figli della fede. “Non può avere Dio per Padre chi non ha la chiesa per madre” (S. Cipriano, Sull’unità della chiesa 6,8). La maternità della chiesa è la verità spirituale che ci appartiene. Non si può non amarla. “Noi amiamo la chiesa così com’è, perché è la Chiesa di Cristo e la Chiesa dei santi. Siamo legati alla sua storia perché è la storia della santità, spesso nascosta dietro l’umiltà della vita quotidiana: la fede sa scoprire il Dio che sempre si rinnova nel cuore dei santi”71. “Vi è dunque all’opera tutta la chiesa madre, che è nei Santi; la chiesa tutta intera genera tutti e ciascuno in particolare”72; ed ancora: “La funzione della chiesa è di essere madre e figlia: infatti se la si considera nell’insieme dei membri che la costituiscono è madre; tuttavia presi individualmente essi sono figli”73. La chiesa madre “sulle cui ginocchia tutto impariamo” (P. Claudel, La mia conversione), mi genera ma non mi abbandona se io non l'abbandono. Continuamente mi offre il cibo solido della parola e dell'eucaristia che mi rendono forte contro i marosi del male: “dal suo grembo nasciamo, dal suo latte siamo nutriti, dal suo Spirito siamo vivificati” (S. Cipriano, Sull’unità della chiesa 4,5). Ma anche quando mi allontanassi, sarà sempre pronta ad accogliermi se, pentito, desiderassi di incontrarmi nuovamente con il Risorto74. La maternità della chiesa, che bisogna sentire in un modo forte e partecipativo, si accompagna al suo ruolo di grande pedagoga. La chiesa maestra75. La chiesa mi è madre e mi educa, mi forma al pensiero, alla forma e modello di Cristo (cfr. 1Cor 2,16), mi educa alla fede e alla vita di fede. Cfr. LG 9: EV1/310; cfr. T. Federici, Cristo Signore risorto amato e celebrato, cit., p. 46; cfr. R. Mayer, Israel, in Dizionario dei concetti biblici del nuovo testamento, cit., pp. 877-888. 68 Cfr. T. Federici, Cristo Signore risorto amato e celebrato, cit., p. 40-41. 69 Cfr. LG 6: EV 1/295; LG 4: EV1/ 287; LG 7: EV 1/303; LG 39: EV 1/387. 70 LG 6: EV1/295; LG 64: EV 1/440: LG 15: EV 1/325. 71 Les Évêques de France, Il est grand le mystère de la foi, 66-67, in Conférence des Évêques de France, La catechesi in Francia, III,4, in Il Regno-doc. 21(2007), p. 705. 72 S. Agostino, Lettera sul battesimo dei bambini, Ep. XCVIII, a Bonifacio, 5; cfr. Commento ai Salmi, 98,5. 73 S. Agostino, Questioni sui Vangeli, 1,18. 74 Cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXIII, l'Innominato. 75 Giovanni XXIII, Mater et magistra, Prologo, EE 7/ 222-225. 67 note 169 170 note luglio 2010 - anno X “Quando si pronuncia la parola «fede» si ode il suono di due sillabe: la prima deriva da fare, la seconda da dire. Ti domando dunque. Credi tu? Mi rispondi: credo. Fa ciò che dici, e questo è già fede”76. “Ricordate che avere fede significa far fruttare la moneta che è stata posta nelle vostre mani. E non dimenticate che Dio vi chiederà conto di ciò che vi è stato donato”77. La maternità della chiesa si celebra e si esalta nella notte di Pasqua78 in cui essa genera i nuovi figli (neofiti) da acqua e da Spirito nella fede della Trinità e nell’abiura del male e del demonio. Queste note ecclesiologiche sono unitamente presenti nella cattolicità della chiesa e ne delineano la sua instancabile diaconia in favore del fedele. Il mistero di Cristo morto e risorto celebrato dalla chiesa nella notte di Pasqua, sottende tre momenti concomitanti della sua vita: la celebrazione del mistero Pasquale, la sublimità della ricchezza della liturgia, il culmine della vita della chiesa: l'anno liturgico. La chiesa-parrocchia è locus epifanico del Kerígma La chiesa-parrocchia proclama l’evento del Risorto. La comunità parrocchiale è il luogo celebrativo dell'evento personale di Gesù Cristo morto e risorto, è il luogo dove nasce, cresce e matura il regno di Dio celebrato e iniziato con il santo battesimo in ciascun fedele; è luogo dove si incontra la santità e la debolezza, la misericordia e la miseria79, dove la maternità della chiesa, si fa anche correzione fraterna, richiesta di conversione e quindi chiesa pedagoga. Credere in Gesù di Nazareth non è poi difficile. La discriminante della fede inizia quando si afferma che Gesù, morto come tutti i nati, è risorto (scandalo per gli ebrei, pazzia per i greci: cfr. 1Cor 1,23). Non fa difetto la festa del Natale, diventata una festa di tutti, cristiani e non, ma in crisi è la Pasqua. “Il vanto della fede dei cristiani non consiste nel creder che Gesù è morto, ma nel credere che Cristo è risorto”80. Questa è l’unica verità che rende la fede cristiana e quindi la chiesa che s’incarna in ogni più piccola comunità parrocchiale ed in ogni battezzato, faro di salvezza per tutti gli uomini. Si può accogliere Gesù di Nazareth, ma si può non con-dividere e con-vivere con il Risorto. La fede, da enunciato propositivo, diventa comunicazione di esperienza 78 79 80 76 77 S. Agostino, Discorso 49,2. S. Cirillo di Gerusalemme, Catechesi 5 sulla fede e il simbolo, 12-13. Cfr. S. Agostino, Discorsi 72 A,8; 192,2; La verginità consacrata, 5,5. Cfr. S. Agostino, Commento al Vangelo di San Giovanni 33,4-6. S. Agostino, Commento al salmo 101,d.2,7. di vita in cui l'incontro con Cristo risorto è evento convertitivo per tutta la persona81. Esperienziare deve essere il nuovo atteggiamento che la chiesa chiede a se stessa e a ciascun fedele. L’esperienza è la verifica della verità offertaci in Cristo dal Padre. È il mistero che diventa storia, si incarna nella persona per espandersi nella molteplicità del suo essere ed agire (cfr. CCC, 1085). Ricevuto il dono, questo va coltivato. Questo è ciò che la chiesa compie nella sua missione e ciò che ciascun battezzato deve continuamente apprendere: il dono di Dio (i talenti: cfr. Mt 25, 14-30) deve coltivarsi per crescere. Tolta la centralità della risurrezione di Cristo, la chiesa è solo una associazione volontaristica. La liturgia è il locus eminente della vita parrocchiale La chiesa-parrocchia celebra la gloria del Cristo risorto. Nella liturgia si celebra sacramentalmente il mistero Pasquale, dall'incarnazione alla Pentecoste. “La vita scaturisce dalla tomba, più limpida che dal costato trafitto, più vivificante che dal seno della vergine Maria. Nella tomba dove incessantemente si estingue la sete dell’uomo, la sete di Dio è venuta ad accoglierla. Non è più soltanto la sete che cerca la sorgente, è la sorgente che è divenuta sete e scaturisce in essa. (…) La tomba resta il segno dell’amore estremo con cui il Verbo ha sposato la nostra carne, ma non è più il luogo del suo corpo (…). In questo giorno di nascita, il fiume di vita, diffondendosi dalla tomba fino a noi nel corpo incorruttibile di Cristo, è divenuto liturgia”82. Celebrare il mistero di Cristo (Annunciare la sua morte, proclamare la sua resurrezione, nell'attesa della sua venuta: Canone della liturgia), significa che la chiesa si è resa parte e diacona del mistero. Quando Paolo parla del mistero nascosto e che ora è svelato (cfr. Rm 16, 25; Col 1, 26), afferma l'esplicitazione del principio incarnazionistico: la chiesa (nella sua umanità) accoglie il figlio di Dio e lo dona a chi, mosso dallo Spirito, lo cerca e lo accoglie (cfr. Col 1,25-27). L'essere madre e maestra della chiesa, si epifanizza nella celebrazione del mistero83. La celebrazione della liturgia (sacramenti e lodi) è l'essere stessa della chiesa che comunica a sè e a ciascun figlio il dono di Dio (Se tu conoscessi il dono di Dio…Gv 4, 10)84. Il dono In teologia la distinzione tra fides qua (contenuto oggettivo della verità rivelata) e fides quae (dimensione soggettiva con cui si aderisce liberamente al contenuto della fede), non sono separabili pena la sclerosi del cammino personale ed ecclesiale. Purtroppo si nota una certa accoglienza delle verità di fede, senza che abbia una incidenza nella vissuto personale. C’è la verità, ma non c’è la testimonianza: cfr. E. Castellucci, Pluralismo, magistero e teologia, in RTE, VII (2003)13, p. 85. 82 J. Corbon, Liturgia alla sorgente, Magnano 2003, pp. 49-50. 83 Cfr. SC 102: EV 1/183-185. 84 Cfr. C. Giraudo, La liturgia custode e garante della tradizione di fede, in RPL 234 (5/2002) pp. 28-38. 81 note 171 note 172 luglio 2010 - anno X (mistero) lo conosco solo dopo che l’ho accolto. Accoglienza non significa conoscenza completa, se così fosse non sarebbe più mistero. L'uomo quando ascolta solo la sua intelligenza e razionalità cercando di appropriarsi del mistero, lo offende85. Se non è in grado di capire se stesso se non accogliendosi, come potrà capire il mistero, se lo accoglie come sfida! La chiesa è la madre che mi dona il mistero celebrato e vissuto nella sua più alta e vera spiritualità. Il mistero della fede, Cristo morto e risorto, non può essere taciuto ma predicato e proclamato (Cfr. 1Cor 15, 51). Il mistero nascosto (Dio-Amore-Trinità) ora svelato da Cristo Signore è donato alla chiesa perché lo proclami nel tempo a ogni uomo (Mt 28,18-20). Nella celebrazione, il mistero viene comunicato in primis attraverso la Parola. Questa nella liturgia, non è una parte ma è la verità della Verità che è il mistero Pasquale (E il Verbo si fece carne: Gv 1,14). “«L’ignoranza delle sacre scritture, infatti, è ignoranza di Cristo». Come si può infatti, celebrare colui che non si conosce? ”86. La Parola è il veicolo del mistero e chiede la sua potenzialità per celebrarlo integralmente. La parola letta, con quella meditata dal mystês (il ministro ordinato), non è semplice catechesi, né spiegazione esegetica del testo, ma parola che si dona nel mistero alla chiesa e a ciascun fedele, al pari del dono dell'Eucaristia87. Parola e pane sono dono del Signore88 e parte dello stesso mistero. L’actio liturgica è profondo atto di fede nel mistero che si celebra. “Noi siamo e possediamo solo quanto celebriamo. (…) La legge di pregare (lex supplicandi) stabilisca la legge del credere (lex credendi). La Lex orandi afferma che «come si celebra si deve credere» e non viceversa. I fedeli nella Chiesa Sposa e Madre e Orante non celebrano le loro «idee». (…) Bensì celebrano sempre e solo la Realtà, che è Cristo risorto con il suo Mistero, lo Sposo divino”89. La chiesa, attraverso il fascino della liturgia (che contempla anche un aspetto estetico), comunica ciò che celebra, ossia il mistero di salvezza. Questa mi viene offerta come dono in un contesto di intensa spiritualità ed interiorità di fede, offrendomi uno stile di vita (lex vivendi). “Serve una liturgia insieme seria, semplice e bella, che sia veicolo del mistero, rimanendo al tempo stesso intelligibile, capace di narrare la perenne alleanza di Dio con gli uomini”90. Cfr. A. J. Heschel, L’uomo non è solo, cit., p. 105. DV 25: EV1/908. 87 Cfr. La Parola di Dio nella vita della Chiesa, Lineamenta per la XII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi (5-26.10.2008), in Il Regno-Documenti (9/2007), in particolare la Parte II: La parola di Dio nella vita della chiesa, pp. 266-270; si veda anche Sacramentum Caritatis. Esortazione apostolica postsinodale sull’Eucaristia (XI Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, Roma 2-23.X.2005), La catechesi mistagogica, n. 64. 88 Cfr. DV 21: EV1/904. 89 T. Federici, Cristo Signore risorto amato e celebrato, cit., p. 40-41. 90 CEI, Comunicare il vangelo in un mondo che cambia, n. 49; cfr. G. BOSELLI, L’anima” della liturgia, in “Sapendo queste cose, sarete beati”.L’esperienza del mistero pasquale nella celebrazione 85 86 L’anno liturgico è il chronos-kairos celebrativo del mistero L’anno liturgico è il canto mistico della Sposa per il suo Sposo nel tempo, in attesa dell’eternità. Il mistero di Cristo è proclamato nell'anno liturgico, l’oggi-qui della storia, nella catechesi e nella testimonianza di vita. Se il mistero si accoglie e si conosce, si deve servire gli altri: azione diaconale della chiesa e di ciascun suo membro. La testimonianza è solo questa semplice e grande verità(cfr. Mt 28,19). L'anno liturgico è il luogo-tempo che il Risorto ci ha affidato per celebrarlo nella storia91. La Pasqua è l'evento centrale della vita della chiesa, della parrocchia perché in essa nascono e si ritrovano i figli di fede. Tutto ciò si ritrova centripetamente e centrifugamente nella celebrazione. I figli di fede nati nella notte di Pasqua si ritrovano nella domenica, Pasqua della settimana. Così la liturgia nell'anno liturgico, diviene una “monotonia magnifica”92, è l’“oggi” misterico in cui si celebrano episodi che storicamente si sono realizzati in tempi distinti, ma eternati nella persona del Cristo glorioso. Mistero, mistica e mistagogia. La santa e magnifica monotonia della liturgia, è animata e sostenuta dal mistero che genera la mistica e la mistagogia. L’assenza del mistero non genera solo una prassi liturgica, arida e finalizzata a coreografia sociale, ma è mistificante e non eleva lo spirito (la mistica) ed invalida la mistagogia che i padri della chiesa offrivano come primo nutrimento ai neofiti e a tutta la comunità. Il sacerdote nel suo essere celebrante, non è lo stregone, ma il mystês ossia il diacono93 del mistero, che porta il mistero all'uomo in un contesto sacrale e che apprende solo nella comunione con Dio94. Il mistero donato è affidato alla chiesa e al sacerdote, sullo stile di Paolo che è ministro del mistero (cfr. Ef 3,2-3; 1Cor 4,1; Col 1,2429). La celebrazione del mistero nella liturgia è il momento più denso di comunione tra Dio e la comunità e ciascun fedele. Il Sacerdote con l'assemblea vive nella santa liturgia, un'esperienza simbiotica: insieme vivono sacramentalmente, l'incontro con il Glorioso in attesa della gloria futura. Tutta la comunità parrocchiale deve tralucere di questa esperienza densa e forte: partecipare all’azione liturgica è vivere del mistero di Dio in Cristo Gesù. “I santi misteri non sono opera delle nostre mani, sono dati dall’alto. Il tempio del Corpo di Cristo è in costruzione da secoli, non siamo noi a porre la prima pietra”95. 93 94 95 91 92 liturgica (Atti del XLVIII Convegno liturgico-pastorale dell’Associazione Opera della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo), Milano 2007, pp. 30-38. Cfr. J. Corbon, Liturgia alla sorgente, Roma 1983, Parola e liturgia, 9, pp. 28-29. R. Guardini, in T. Federici, Cristo Signore risorto amato e celebrato, cit., p. 104. Diákonos: amministratore di beni non propri, ma che gli sono stati affidati per grazia. Cfr. PO 5: EV 1/1252-1254. N.A. Berdjaev, La crisi spirituale dell’intelligencija, p. 5, in O. Clément, La storia di una filosofia religiosa: Berdjaev, cit., p. 23. note 173 note 174 luglio 2010 - anno X Il mistero celebrato nel giorno del Signore (la Domenica) è sufficiente alla vita della chiesa, perché in esso si trova tutto il nutrimento di grazia per la vita di ciascun fedele e dell'intera comunità96. La comunità parrocchiale, nell'Eucaristia domenicale, trova la ragione della sua vita, l'incontro salvifico con il Risorto, l'alimento per tutta la settimana, il ringraziamento, la misericordia per la sua fragilità, la pregustazione del regno futuro. “È a Cristo risorto che ormai la Chiesa guarda. Lo fa ponendosi sulle orme di Pietro, che versò lacrime per il suo rinnegamento, e riprese il suo cammino confessando a Cristo, con comprensibile trepidazione, il suo amore: «Tu lo sai che ti amo» (Gv 21,75.17). Lo fa accompagnandosi a Paolo, che lo incontrò sulla via di Damasco e ne restò folgorato: «Per me il vivere è Cristo, e il morire un guadagno» (Fil 1,21)”97. Così la testimonianza dei martiri di Abitene: “Ma Emerito rispose al proconsole: «Non potevo, perché senza la Pasqua domenicale non possiamo essere». (…) “Il proconsole disse: «Anche tu, Saturnino, fosti presente?». Gli rispose Saturnino: «Sono cristiano». «Non ti chiedo questo -replicò- ma se hai partecipato alla celebrazione della Pasqua domenicale». Gli rispose Saturnino: «Ho partecipato alla celebrazione della Pasqua domenicale perché Cristo è nostro salvatore»”98. “Non potevo perché senza la Pasqua domenicale non possiamo essere” non è uno slogan ma l'affermazione dei martiri di Abitene, dei veri fedeli, di fronte alla necessità spirituale: l'incontro sostanziale con il mistero fascinoso del Dio vivente, che accade nella e con la liturgia domenicale. La liturgia allora non è uno spettacolo, non è una rappresentazione (mìmesis) ma è la memoria attualizzata (anàmnesis) del mistero salvifico di Cristo contemplato nell'accoglienza della fede99. Il mistero celebrato, se è contemplato, conduce ad un atteggiamento spirituale: la mistica. Il mistero accolto e adagiato nella profondità della spiritualità di ciascuno, produce contemplazione, meraviglia estatica (ékstasi100). È l'affermazione di Pietro di fronte a Cristo trasfigurato sul Tabor: “Signore, come bello per noi stare qui; (…) non sapeva, infatti, che cosa dire poiché erano presi dallo spavento” (Mc 9, 4-6). Analoga è la conclusione dei due di Emmaus: “ed essi si dissero l’un l'altro: «non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre Cfr. Commissione congiunta della Conferenza Episcopale Tedesca e delle Chiese Ortodosse in Germania, La domenica, festa dei cristiani, in Il Regno-doc. (9/2010), pp. 295-298. 97 Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, n. 28: EV 20/56. 98 G. Micunco, Sine Dominico non possumus. I martiri di Abitene e la Pasqua domenicale, Ecumenica Editrice, Bari ottobre 2004: XI p. 55; XIV p. 61; cfr. anche: VII p. 47; X p. 51; XII p. 57. 99 Cfr. C. Giraudo, La messa: ripresentazione o rappresentazione, <anàmnesis> o <mimesis> ?, in RdT (Rassegna di Teologia), 30 (1989) pp. 52-67. 100 Cfr. J. Schattenmann, Estasi, in Dizionario dei concetti biblici del nuovo testamento, cit., pp. 582-585. 96 conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le scritture?»” (Lc 24, 32). Se l'Eucaristia domenicale non produce ed alimenta il fuoco nel cuore, la meraviglia contemplativa della resurrezione e del Risorto, è solo un atto pragmatico e prima o dopo non ha più senso parteciparvi. La ragione di molte assenze, di sbadigli ecc, è forse da ricercare in questa motivazione: la messa, ma senza il Risorto, la messa come abitudine, la messa senza desiderio e fascino, la messa come incontro sociale101. Il mistero pasquale produce la mistica e questa spinge ad una liturgia mistagogica. Da un po' di tempo si sente pronunciare questa parola. Ma la sua verità conoscitiva riporta ai Padri della chiesa e alle loro catechesi postbattesimali. Famose sono le catechesi mistagogiche di Cirillo di Gerusalemme, di Giovanni Crisostomo, Ambrogio di Milano e Teodoro di Mopsuestia102. Queste erano catechesi liturgiche, ossia la liturgia della parola nelle messe dei neofiti, era una ripresentazione teologica del mistero celebrato nella notte di Pasqua (il battesimo, la cresima, l'Eucaristia), con la ricchezza della parola biblica dell’A. e N. Testamento, e con la sapientia cordis del celebrante103. I neofiti accolti nella comunità ne sperimentavano la ricchezza umana e di fede ed insieme vivevano testimoniando l’azione misterico-sacramentale celebrata. “Entrare nell’esperienza cristiana richiede un «bagno di vita ecclesiale»104 La mistagogia afferma il principio teologico: ciò che ti è stato donato, accoglilo coscientemente; ciò che hai gustato, richiedilo ancora; ciò che hai sperimentato, testimonialo. “I cristiani dei primi secoli l’hanno chiamato (il periodo di catechesi post-sacramentale) «mistagogia»: si tratta di basarsi su ciò che è stato vissuto nel sacramento per interiorizzare la percezione dell’amore gratuito che Dio vi ha manifèstato. Questo periodo di catechesi dopo la celebrazione di un sacramento permette anche d’inserirsi pienamente nella comunità dei fedeli. Si tratta di una via catechistica di grande fecondità, che non raccomanderemo mai a sufficienza”105. La mistagogia non è quindi cosa devo fare dopo aver ricevuto un sacramento106, ma come devo gustarlo e viverlo. Ciò implica che alla domanda: cosa ho ricevuto?, deve seguire: Per un’attenta spiritualità liturgica in cui si pone in massima evidenza il mistero cristocentrico, cfr. A. Donghi, La vita spirituale e mistica come assunzione della mentalità di Cristo attraverso la celebrazione liturgica, in “Sapendo queste cose, sarete beati”, cit., pp.198-207. 102 Cfr. A. Zani, I padri della chiesa, maestri nella comprensione contemplativa della liturgia, in “Sapendo queste cose, sarete beati”, cit., pp. 83-98. 103 Cfr. Conférence des Évêques de France, La catechesi in Francia, III,6, in Il Regno-doc. 21(2007), p. 706. 104 Conférence des Évêques de France, La catechesi in Francia, II,3, in Il Regno-doc. 21(2007), p. 702. 105 Conférence des Évêques de France, La catechesi in Francia, III,5, in Il Regno-doc. 21(2007), p. 706. Ib. III, 5. 106 Cfr. E. Mazza, La mistagogia, una teologia della liturgia in epoca patristica (Studi di liturgia- Nuova serie/17, CLV, Roma 1988; cfr. D. Sartore, Mistagogia ieri e oggi: alcune pubblicazioni recenti, in Ecclesia Orans 11(1994) 181-199. 101 note 175 note 176 luglio 2010 - anno X chi ho incontrato, cosa mi ha detto, cosa mi ha donato, dove e con chi l’ho ricevuto… Il gusto del dono di Dio è frutto dello Spirito e dei suoi doni di cui il primo è proprio la sapienza (sàpere = gustare, assaporare ciò che si è ricevuto). La mistagogia oggi107 è nella misura in cui si pone con forza e coerenza la presenza del mistero, del Dio amore che è dono nella persona di Cristo Gesù (dimensione cristologica) e mistero di salvezza attraverso la sua morte redentrice (dimensione soteriologica). La catechesi mistagogica deve riscoprirsi, per diventare parte dell’anno Liturgico e quindi dall’iniziazione alla fede e al mantenimento di questa108. La catechesi mi prepara a celebrare, la mistagogia mi fa gustare, godere e testimoniare l'opera della salvezza celebrata nel mistero sacramentale. La comunità parrocchiale deve apprendere il metodo mistagogico, azione liturgico-catechistica, per poi condurre se stessa alla testimonianza109. Questa è il frutto della fede. La fede nasce per essere testimoniata: il dono ricevuto deve offrirsi agli altri. Conclusione Il nuovo contesto sociale in cui vivrà la chiesa-parrocchia, chiederà una presenza qualitativa emergente da una rinnovata spiritualità teologica. Ma prima ancora si impone una nuova mentalità che ponga la persona di fronte a se stessa e quindi a scelte che devono essere espressione di coscientizzazione e di opzione fondamentale. “Oggi più che mai la fede cristiana è una questione di scelta e decisione personali. In un contesto missionario la catechesi ha bisogno di far vivere un processo di trasformazione”110. “Nei prossimi decenni (…) si sarà costretti a diminuire, se non a rinunciare e a smettere molte delle attività ecclesiali, ma l’ascolto della Parola e la frazione del pane, la celebrazione dossologica della fede, sono l’unum necessarium e l’optimam partem, la parte migliore dell’agire della Chiesa che, secondo la promessa di Gesù, «non le sarà tolta». Credere alla liturgia della Chiesa, significa allora credere che solo Dio può fare di un uomo un cristiano e non il nostro agitarci per tante cose. Solo la parola dell’Evangelo può chiamare qualcuno alla sequela di Gesù e non i nostri tanti discorsi su Gesù. Solo lo Spirito Santo può convertire i cuori e portarli a pentimento e non le nostre strategie pastorali”111 Cfr. L’Eucarestia: fonte e culmine della vita e della missione della chiesa, Lineamenta, alla XI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, ottobre 2005: Parte V. La mistagogia eucaristica per la nuova evangelizzazione, nn. 45-58, in Il Regno-doc. 11(2004), pp. 332-334. 108 Cfr. E. Mazza, Liturgia e pastorale nella mistagogia antica, in RPL 236 (4/2007) p. 6; cfr. Liturgia e catechesi: il modello mistagogico, RPL, 236 (4/2007) pp. 3-26. 109 Cfr. G. Cavagnoli, Il senso della mistagogia nel RICA, in “Sapendo queste cose, sarete beati”,cit., pp. 99-116. 110 Conférence des Évêques de France, La catechesi in Francia, II,4, in Il Regno-doc. 21(2007), p. 702 111 G. Boselli, L’“anima” della liturgia, in “Sapendo queste cose, sarete beati”, cit., pp. 23-24. 107 Pertanto, “Non si può cominciare da capo, non si può semplicemente continuare come prima”112. Non si rinnova un’ecclesiologia senza riproporre, sine glossa, la centralità della cristologia; non si improvvisa una teologia pastorale senza l’accoglienza in toto della soteriologia; non c’è testimonianza-martirio senza il carisma dello Spirito113. In questo modo si recupera la “rilevanza salvifica” del mistero di Cristo affidato alla chiesa con la pentecoste114. “Quando l'identità cristiana si costruisce a partire dal mistero pasquale, la vita cristiana diventa risposta di gratitudine, azione di grazie per il dono totale e incondizionato della pasqua di Cristo. In essa la pedagogia dell'iniziazione trova il suo punto d'appoggio nell'ordine etico e introduce a una vita di condivisione in risposta al dono di Dio, anche se tale risposta non è mai all'altezza del dono ricevuto. Ma la morte e risurrezione di Cristo fanno anche vivere il cristiano nella promessa che il dono di Dio già ricevuto diventerà per lui vita eterna”115. La parrocchia, piccola porzione del popolo di Dio in cammino verso il Regno, ha in sé tutto ciò di cui necessita per vivere la fede del Risorto: dalla parola ai sacramenti, dall’anno liturgico come cammino catecumenale alla evangelizzazione, alla testimonianza, alla escatologia paradisiaca116. Al pericolo di una implosione si impone la certezza di una esplosione, effetto dell'azione dello Spirito che anima la chiesa dal giorno di Pentecoste, perché è dono del Risorto a noi. “La forza attrattiva (centripeta) della domenica rimane la memoria della Parola di Dio che ci ha creati, del Verbo fatto carne, morto e risorto per la nostra salvezza, dell'effusione dello Spirito sulla Chiesa. L'energia diffusa (centrifuga) della domenica viene dalla celebrazione eucaristica, al cui centro sta Cristo che è morto per tutti ed è diventato il Signore di tutta l'umanità; i fedeli, di Lui nutriti, usciranno dalla chiesa con un animo apostolico, aperto alla condivisione e pronto a rendere ragione della speranza che abita i credenti. (…) Recuperare la centralità della parrocchia quale luogo – anche fisico - a cui la comunità fa costante riferimento e rileggere la sua funzione storica concreta a partire dall'Eucaristia, P. Sequeri, «Non c’è nessun partito di Dio. Evangelizzazione, Occidente, Parrocchia», in Rivista del Clero Italiano, 94 (2004), 565; cfr. G. Ziviani, Parrocchia, annuncio del vangelo e nascita della Chiesa. Uno sguardo ecclesiologico ai recenti documenti CEI, in RTE IX (2005), pp. 157-205; il presente articolo ben elaborato, è una buona riflessione teologico-ecclesiale sulla parrocchia con indicazioni e riflessioni su quella che può essere la teologia pastorale nel prossimo futuro. 113 Il documento della Chiesa italiana più attento a questa trasformazione in atto, è la Nota Pastorale della Pentecoste del 2004 (30 maggio) che ha per titolo “Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia”. Di tale documento rilevo i nn. 6-8: ECEI 7/1440-1461, quali aspetti teologici e metodologici che possono riposizionare la parrocchia in una qualificata azione pastorale. 114 Cfr. F.J.V. Cormenzana, Stimolati dai rumori di un silenzio leggero, in Concilium 41 (3,2005) p. 166. Tutto l’articolo riflette la situazione dell’ecclesiologia in un contesto societario in ricerca di senso e continuamente frastornato da clamori contrastanti. 115 Conférence des Évêques De France, La catechesi in Francia, III,6, in Il Regno-doc. 21(2007), p. 706. 116 Cfr. Sono utili a tale riguardo gli Studi della Rivista di Pastorale Liturgica: Liturgia e catechesi: metodi a confronto, in RPL, 261, 2 (2007) pp. 7-25; Liturgia e catechesi: il modello catecumenale, in RPL, 262, 3 (2007) pp. 3-31; Liturgia e catechesi: l’anno liturgico, in RPL, 264, 5 (2007), pp. 3-34; Liturgia e catechesi: itinerari, in RPL, 265,6(2007), p. 5-25. 112 note 177 178 note luglio 2010 - anno X fonte e manifestazione del raduno dei figli di Dio è vero antidoto alla loro dispersione nel pellegrinaggio verso il Regno”117 La comunità parrocchiale riproponendo a sé il kerigma, manifesta la sua missione missionaria di annuncio (cfr. Mt 28,19), di lievito e sale della società (cfr. Mt 5,13-16)118. Solo i testimoni santi lasciano il segno ed una scia nella storia. “Il mondo ha bisogno di santi che abbiano genio come una città dove infierisce la peste ha bisogno di medici. Dove c’è necessità, c’è obbligo”119. Il binomio, vita attiva (attività pastorale e a volte attivismo) e vita contemplativa (esperienza di fede e a volte intimismo spirituale) sono due aspetti della stessa verità di fede presenti nella chiesa parrocchiale. Marta e Maria (cfr. Lc 10, 38-42), la scelta dei Diaconi da parte degli Apostoli (cfr. At 6, 2-4) e soprattutto Gesù impegnato nella catechesi del Regno e nella sua orazione (Gesù in preghiera si trasfigura: Lc 9, 29; prega per lui e prega per i suoi: Gv 17, 1-26; annuncia il regno di Dio: Mc 1,15. 36-38) ci indicano che i due aspetti sono possibili nella pastorale solo se si coniugano nella finalità: la santità della chiesa e il regno di Dio. La vita pastorale e l'evangelizzazione sarà la testimonianza del mistero contemplato nella liturgia. Non equilibrismi dialettici e pastorali, non il giusto mezzo potranno dare vita e consistenza alla chiesa parrocchiale, ma certezza della verità, della fede e della speranza che Cristo ci ha donato e che dobbiamo testimoniare ogni giorno. Se l’uomo ascolta la chiesa è perché questa dice il Vangelo e lo testimonia con la vita. “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”120. La chiesa parrocchiale, prima d’ogni altra verità ed attività, si pone come luogo di incontro interpersonale tra il Dio Padre di Gesù Cristo e la persona umana. Questo è il primo carisma e ministero. “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”121. L’auspicio è che l’azione certa dello Spirito122 trovi accoglienza in ciascuna comunità e fedele per la costruzione del regno di Dio. G. Genero, Iniziazione alla liturgia e cultura odierna: problemi e prospettive, in “Venite e vedrete”. L’itinerario catecumenale per rendere viva la liturgia (Atti del XLVII Convegno liturgico-pastorale dell’Associazione Opera della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo), Milano 2006, p. 35. Tutto l’articolo è una possibile risposta alla domanda sul futuro della parrocchia da un punto di vista liturgico-pastorale. 118 Cfr. CEI, Comunicare il vangelo in un mondo che cambia, Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del Duemila, n. 7: ECEI 7/ 147, nn. 44-50: ECEI 7/ 206-220. 119 S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 70. 120 E N 41: EV 5/1634. 121 Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 1. 122 Cfr. J. Corbon, Liturgia alla sorgente, Magnano 2003, pp. 167-187. 117 note La penitenza sacramento pasquale 179 Ignazio Leone* [email protected] 1.Introduzione Circa il nome Il sacramento della penitenza è stato chiamato molto variamente: sacramento della riconciliazione, della penitenza, seconda tavola di salvezza, battesimo delle lacrime, confessione.1 Ognuna di queste definizioni sottende un aspetto del sacramento che possono rientrare tutte nell’espressione paolina: "lasciatevi riconciliare con Dio" (2 Cor 5, 20) in cui si evidenzia l'azione della chiesa che riconcilia Dio con il fedele. Questi, da parte sua dev'essere accogliente di questo dono ed incrementarlo. "Acqua e lacrime non mancano alla chiesa: l'acqua del Battesimo e le lacrime della penitenza" (S. Ambrogio, Epist., 41,12) Crisi del sacramento 1. La crisi di questo sacramento viene da lontano.2 In tempi recenti il modo di approcciarsi ai sacramenti anche da un punto di vista del linguaggio, è fortemente cambiato, tanto da chiedersi se ciò che si celebra è un atto di fede o un atto burocratico e/o di consuetudine sociale. Infatti il linguaggio è: “ho fatto il battesimo, la cresima, il matrimonio…”. Mentre si dovrebbe parlare di celebrare Docente di Teologia Sacramentaria e Pneumatologia - Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani. 1 Cfr. G. Padoin, «Molti altri segni fece Gesù» (Gv 20,30), Sintesi di teologia dei sacramenti, Bologna 2006, pp. 111-129. 2 Cfr. D. Bourgeois, La pastorale della chiesa (Amateca 11), Milano 2001, p. 513; cfr. J.-P. Van Schoote, Il sacramento della penitenza, in J.-P. Van Schoote.- J.-C. Sagne, Miseria e misericordia, perché e come confessarsi oggi, Magnano 1992, pp. 11-33. * Il sacramento del perdono è dato da Cristo lo stesso giorno di pasqua note 180 luglio 2010 - anno X e di celebrazione del sacramento3 del battesimo, della confermazione, dell’eucaristia ecc. il modo diverso di parlare il sacramento, non è un fatto formale. In particolare i sacramenti medicinali (battesimo, penitenza, unzione dei malati) oggi vivono una loro problematicità: il battesimo è diventato un atto sociale, la penitenza è un atto da quasi psicologo, l'unzione dei malati: chi l'ha visto? Una prima riflessione teologica sul sacramento della penitenza non può prescindere da quella del battesimo.4 Il sacramento del battesimo e della penitenza indicano e sviluppano un itinerario di natura catecumenale sorprendente. • Il battesimo è il sacramento originario del perdono; la penitenza continua questa azione di grazia nella vita del fedele. • La fede nel perdono dei peccati ci riporta a quella battesimale; il sacramento del perdono è dato da Cristo lo stesso giorno di pasqua, a sottolineare la sua unitarietà con il Mistero Pasquale. • Con la celebrazione penitenziale sacramentale è il battesimo che si manifesta con un rinnovato perdono. Il sacramento del perdono, sebbene fuori della triade sacramentale dell'iniziazione cristiana, è fortemente radicato nella parola di Dio e nel cammino ecclesiale della conversione,5 in attesa di condividere il regno di Dio di cui l'eucaristia è l'anticipazione.6 2. È indubbio che la crisi del nostro sacramento conduce a quella antropologica. La domanda, perché i sacramenti? dice perché credere, chi credere, perché la salvezza? e quindi è facile passare dal piano soteriologico (perché la salvezza!), a quello cristologico (perché e chi credere) nella misura in cui l'uomo ha piena coscienza delle sue azioni e si pone l'interrogativo di come raggiungere il bene. I concetti di liberazione dal male e di salvezza o non hanno più la semeiotica biblica, o sono del tutto inesistenti da un punto di vista morale, o hanno un significato solo antropologico-culturale non più incisivo sull'etica ed esperienza religiosa odierna. Il peso del male sulla coscienza del soggetto e della collettività7 e il senso di colpa e il senso di peccato8 si sono molto sfilacciati fino a non essere più presenti. Cfr. J. Ratzinger, Il fondamento sacramentale dell'esistenza cristiana, Brescia 20052, pp. 47-51. R d P, Premesse, 2. 5 Cfr. R. Rossi, La formazione del sacramento della Penitenza, un ritorno alla prassi battesimale della tradizione antica (Secoli II.VII), Chirico, Napoli 2004, pp.15-29. 6 "Coloro che si accostano al sacramento della penitenza ottengono dalla sua misericordia il perdono delle offese fatte a Dio e insieme si riconciliano con la Chiesa, alla quale peccando hanno inflitto una ferita e che coopera alla loro conversione con la carità, l’esempio e le preghiere" LG 11; EV1/314. 7 Cfr. E. Drewermann, Il vangelo di Marco immagini di redenzione, (BTC,78) Brescia 1994, p. 120. 8 Cfr. G. Sovernigo, Senso di colpa, peccato e confessione, aspetti psicopedagogici, Bologna 2000. 3 4 Quindi la domanda, perché confessarsi?, dal momento che manca la res, l’oggetto della stessa confessione ossia la consapevolezza del male-peccato trova la sua conseguente risposta. L'altro concetto è quello della riconciliazione che mutuato dalla fede, è divenuto solo significativo ad es. di un interesse che va dalla ecologia (riconciliazione con la natura) ad altro che la società e cultura odierna evidenzia come "moda", o "tendenza" del momento ma che non riconcilia perché non intende porre itinerari educativi. Infine il concetto di riconciliazione, come dato cristiano, appare sbiadito perché non omologato al discorso culturale generale e perché fuori dal suo naturale motivo. Una proposta di lettura teologico-pastorale del sacramento comprende: * unitarietà nella proposta educativa della fede (troppi individualismi che si sposano a troppe mode)9. Non siamo noi ad educare alla fede,10 questo è compito primario di Dio (cfr. Eb 12,5-13; Pr 3,11-12; Ap 3,19; Dt 4,5) che pure chiede la nostra collaborazione.11 * evangelizzare il sacramento (ritornare alla dottrina più che alla prassi) il che significa, * cristificare lo stesso sacramento e se ciò si può dire di tutti i sacramenti, in particolare si deve dire del nostro, in quanto noi facciamo esperienza di che cosa è la nostra umanità nella sua dimensione di fragilità, e nello stesso tempo della nostra grandezza davanti al mistero di Dio, in quanto ci poniamo con umiltà e gli chiediamo di essere salvati. La salvezza è solo opera del testimone-Cristo veicolata dalla chiesa-pneumatica, in cui i sacramenti sono segni-testimoniali di una verità ontologica (Dio-Amore) che ora è economica per effetto dell'incarnazione. Cristo è sacramento ed esemplarità in ordine alla salvezza.12 Se la teologia non è pensata può diventare un non senso. Il liturgista Triacca, diceva: chi sposa una moda, anche teologica, rimane presto vedovo. "L’azione educativa della comunità ecclesiale si basa sull’esperienza fondante di un dono ricevuto; sull’esperienza di uno sguardo fiducioso sull’uomo che è vissuto e compreso come fondamento dell’esistenza. «Dio è in mezzo a noi. Dio ha educato ciascuno di noi e tutti noi. Dio continua a educare. Noi educatori siamo suoi alleati: l’opera educativa non è nostra, è sua. Noi impariamo da lui, lo seguiamo, gli facciamo fiducia ed egli ci guida e ci conduce» (MARTINI, Dio educa il suo popolo, p. 402). (…) L’azione educativa della Chiesa è azione collaborativa e comunitaria in quanto l’uomo è teologicamente un essere in relazione. «Dicendo che Dio educa il suo popolo si vuoi dire che Dio è educatore di ciascuno di noi, di ogni uomo e donna che vengono in questo mondo, ma sempre nel quadro di un cammino di popolo, di una comunità di credenti; Dio educa un popolo nel suo insieme, con attenzione privilegiata per il cammino di ciascuno»" Martini, Dio educa il suo popolo, p. 415, in P. Triani, L'impegno educativo della comunità cristiana di fronte alle sfide della cultura contemporanea, in L'arte di educare nella fede, le sfide culturali del presente (a cura di P. Triani-N. Valentini (ed. Messaggero Padova), Padova 2010, p. 29. 11 X. Lèon-Dufour, Educazione in Dizionario di Teologia Biblica (pub. sotto la direzione di X. Lèon-Dufour), Genova 1992 VIII rist., Col 314-320; cfr. G E, EV 1/822: tutto il documento conciliare è un invito ad una maggiore responsabilità in ordine alla persona e al credente circa l’impegno formativo. 12 Cfr. J. C. Janowski. Redenzione, B. punto di vista evangelico, in: I concetti fondamentali della teologia (P. Eicher, Ed.) Vol. 3, (BTC 141), Brescia 2008, p. 501. 9 10 note 181 182 note luglio 2010 - anno X “Una fede che non diventa cultura non è stata pienamente accolta, interamente pensata, fedelmente vissuta”13 3. La riflessione sul sacramento della penitenza si può quindi argomentare in quattro momenti: 1.Dimensione Cristologica (Cristo al paralitico: Ti sono rimessi i tuoi peccati -Mt 9,2: il Mistero Pasquale (MP), evento originante la salvezza. Cristo icona della misericordia del Padre. 2.Dimensione pneumatologica (ricevete lo Spirito Santo (cfr. Gv 20,22): epiclesi sacramentale –pentecoste giovannea e lucana) Lo Spirito icona del dono di amore del Padre. 3.Dimensione ecclesiologica (la sacramentalità della chiesa nella sua diaconia salvifica, inizia dopo la pentecoste con il dono del battesimo: cfr. At 2,38) La chiesa, maestra e madre di misericordia, icona della debolezza amorosa della Trinità. 4.Qualche indicazione di teologia pastorale: (la penitenza di devozione14 e la formazione della coscienza: direzione spirituale). 2.Dimensione Cristologica del sacramento della penitenza (At 2,22-24.32-33.36; 38.41) Cristo icona della misericordia del Padre La frase evangelica di Marco: Convertitevi e credete al vangelo (1, 15)15 significa entrare nell'orbita della persona di Cristo e cercare di rimanervi e quando con il peccato ne siamo usciti, con il sacramento cerchiamo, nel più breve tempo possibile, di ritornarci. Dinanzi ai suoi compaesani a Nazareth, Gesù riprende le parole del profeta Isaia (cfr. Is 61,1): • «Lo Spirito del Signore è sopra di me; • per questo mi ha consacrato con l'unzione • e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, Giovanni Paolo II, Discorso al Congresso nazionale del movimento ecclesiale di impegno culturale, 16 gennaio 1982, in L. NEGRI, Il volto di una chiesa educante, in L’arte di educare nella fede, le sfide culturali del presente (a cura di P. Triani - N. Valentini, ed. Messaggero Padova 2008, p. 157.: tutto l’articolo di Negri è una buona riflessione sul compito della chiesa in rapporto alla cultura e alla formazione. 14 R d P, Premesse, 7 15 Cfr. J. Goetzmann, Conversione-penitenza-pentimento, in Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, (a cura di L. Coenen - E. Beyreuther - H. Bietenhard), Bologna febbraio 19802, pp. 373-4 13 • a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, • a rimettere in libertà gli oppressi, • a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19). Questo discorso, secondo l’evangelista, è la prima dichiarazione messianica, a cui fanno seguito fatti e parole, attraverso i quali Gesù rende presente la volontà del Padre che intende ripristinare l'alleanza interrotta dal peccato. Tale dimensione messianica si è celebrata al battesimo al Giordano, teofania trinitaria in cui Cristo investito e consacrato Messia dallo Spirito inizia l'opera di evangelizzazione e di salvezza. L'annuncio comprende sia la predicazione che tutta l'attività di Cristo, in quanto in lui teandricamente si esprime e si celebra l'evento di grazia per l'uomo. Cosa significa entrare nell'orbita di Cristo. Il primo aspetto è l’annuncio della persona di Cristo e del suo mistero: il kerigma. “Nella cristologia si decide tutto” (K. Barth). Questa frase del grande teologo svizzero sottolinea l’importanza originante e permanente della cristologia come riflessione teologica sull’autorivelazione di Dio in Gesù Cristo: in Gesù di Nazareth, nel quale “abita corporalmente la pienezza della divinità” (Col 1, 9) e nella sua missione, Dio non solo comunica con l’uomo, ma comunica Sé stesso all’uomo facendosi uomo. Nell’evento escatologico e singolare di Gesù si realizza quell’“admirabile commercium” umano-divino che costituisce la definitiva e irrevocabile nuzialità tra Dio e l’uomo. Quando Pietro parla nel giorno di Pentecoste, annuncia Gesù vivente – il kerigma - e dice: 1 quel Gesù che voi avete ucciso (kenosi della croce e della tomba) 2 Dio lo ha risuscitato dai morti (la Kadōb-doxa che proviene dal Padre per mezzo dello Spirito). L'abbassamento fino alla morte e la gloria dono del Padre per mezzo dello Spirito sono facce della stessa medaglia. La doxa rivela la compitezza della kenosi davanti al Padre. 3 Noi siamo testimoni (affermiamo e non neghiamo ciò che abbiamo visto, udito, toccato (cfr. 1Gv 1,1-4). 4 Gesù innalzato alla destra del Padre (‘ricomposizione’ della Trinità) 5 e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli ha promesso 6 lo ha effuso, come voi stessi potete vedere ed udire (cfr. At 2, 23-24.32-33.36.38.41). In questo testo Pietro non racconta ma presenta il kerigma che è annuncio assertivo per testimonianza di fede che Gesù è morto, risorto, asceso al Padre e ha inviato lo Spirito. Quindi un Gesù vivo e vivente.16 Il Kerigma ci rapporta alla persona ed al suo operato. Questa persona è Gesù Cristo. 16 Cfr. Dives in misericordia, cap. V, nn. 7-9 note 183 note 184 luglio 2010 - anno X Ora è vivente nella gloria del Padre e nella nostra storia per mezzo dello Spirito. La sua missione è stata quella di portare Dio a noi e noi a Dio attraverso la sua mediazione sacrificale e gloriosa: “colui che non aveva conosciuto peccato17 (ossia conoscere solo Dio con una decisione unica e totale di sé), Dio lo trattò da peccatore in nostro favore” (2Cor 5,21), “per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,5). Se la morte in croce di Cristo è scandalo, per i fedeli è dono di grazia. “A quest’opera dell’umana Redenzione e della perfetta glorificazione di Dio, cui preludevano i divini prodigi nel popolo dell’antico testamento, ha dato compimento Cristo Signore, specialmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata Passione, Risurrezione dagli inferi e gloriosa Ascensione, con il quale “morendo ha distrutto la nostra morte e risorgendo ha dato a noi la vita”18. Infatti dal fianco di Cristo addormentato sulla Croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa”19 (SC 5; EV1/7). Dire Cristo Signore è affermare l'evento cardine della sua vita. 1.Il Mistero Pasquale: è l’evento del giorno di Pasqua ed è la pasqua,20 è la verità ontologica della nostra fede, è la scaturigine della salvezza, è il tempio mistico da cui nasce il fiume che sana, irriga e fa vivere (cfr. Ez 47, 1-12), è l’archè del nostro vivere di fede. "La pasqua riguarda l'inconcepibile"21 ossia la frantumazione delle nostre categorie e nel contempo l'assunzione dell'uomo presso Dio. 2. Nella pasqua (MP) c’è l'effusione dello Spirito (Pentecoste giovannea: cfr. Gv 20,22-23), ossia la certezza dell'azione divinizzante dello Spirito, perché l'effetto del mistero pasquale raggiunga tutta la storia. Il dono dello Spirito con la pace divina è donato ai dieci discepoli la sera della resurrezione e ridonato all'ottavo giorno. Amart…a. Per Paolo i peccati è il peccato, questi li assume e ne raccoglie tutti. Peccato è una opzione fondamentale, è una scelta, libera e consapevole contro o a favore di Cristo; contro se stessi o a favore di sé. Sono disposizioni profonde del nostro spirito, della nostra anima, del nostro amore. Se noi non amiamo il male, non lo facciamo (facciamo solo quello che amiamo!). Il peccato è questa vera e tragica realtà. Ecco perché è lo Spirito che ci concede l’intelligenza e la scienza per conoscere e per riprovare il male e orientare la nostra vita verso il bene. 18 Cfr. Messale romano, Prefazio pasquale [I]. 19 Cfr. S. Agostino, Enarr. in Ps. 138, 2; Corpus Christianorum, 40, Turnholti 1956, p. 1991, e l’orazione dopo la seconda lettura del Sabato santo, nel Messale romano, prima della riforma della Settimana santa [nel Messale di Paolo VI, Orazione sopra le offerte della Messa Pro Ecclesia, B; ediz. italiana, Per la Chiesa universale, 2]. 20 C'è la Pasqua di Cristo: dalla morte alla vita. C'è la pasqua dello Spirito: ecco la chiesa. C'è la nostra pasqua, il passaggio da una condizione spirituale negativa ad una positiva, l'essere in Cristo. 21 J. Ratzinger, Guardare al crocifisso (Già e non ancora 231) Milano maggio 20063, p. 100. 17 A chi [voi chiesa] perdonerete i peccati (è indicato il mandato agli apostoli di perdonare); a chi [soggetto ricevente] perdonerete i peccati (è indicata l'azione di grazia divina e l'azione della chiesa che deve discernere a chi può perdonare i peccati). Soggetto-ministro agente e ricevente sono nella stessa celebrazione pasquale. Sono espressioni che non possono essere separate, perché il perdono è dato a chi è pentito e desidera convertirsi dal peccato. 3. Cosa significa presentare i sacramenti?22 Presentare i sacramenti significa presentare Cristo e il suo e nostro mistero pasquale con la pentecoste.23 Infatti è Cristo stesso che delinea l’essere e l’attività apostolica con la missione, il metodo, il contenuto che nasce dal suo mistero pasquale. È lo stesso Cristo che si pone come catechista esemplare nell'annunciare lo stesso kerigma e lo fa verso i due discepoli di Emmaus (cfr. Lc 24,13-35) e che conferma con la sua teofania gli altri apostoli il giorno di pasqua. Allora [il Risorto] aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse: 46«Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno 47e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni. 49E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto» (Lc 24, 46-47). 45 Pietro nel suo primo discorso alla folla dopo la Pentecoste, presenta la persona di Gesù con il suo operato a favore degli uomini (cfr. At 2, 22), ma voi lo avete ucciso e Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr. At 2, 23-24) e noi siamo i suoi testimoni fedeli (cfr. At 2, 32). Questo annuncio chiaro e severo produce nella folla un autentico atto penitenziale: All’udir tutto questo si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». 38E Pietro disse: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo. 39Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro» (At 2). 37 con conseguente richiesta del sacramento, ossia il battesimo. Anche Paolo annuncia nella sua predicazione il kerigma partendo proprio dalla sua esperienza che ha fatto del Risorto: “… per opera di lui [Cristo morto e risorto] viene annunciata la remissione dei peccati” (At 13, 38); “Cristo morì per i nostri peccati secondo le scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le scritture” (1Cor 15,3-4); “crediamo in colui che ha risuscitato Cfr. A. Grillo, L’azione rituale, ovvero «ciò che precede e sopravanza la ragione». Sacramenti e liturgia nell’insegnamento teologico; C. Scordato, Sacramento e azione. Teologia dei sacramenti e liturgia, in ATI, Sacramento e azione, teologia dei sacramenti e liturgia (a cura di G. Tangorra e M. Vergottini, Glossa, Milano 2006, p. 179-192; 193-205). 23 Cfr. J. Ratzinger, Il fondamento sacramentale dell'esistenza cristiana, Brescia 20052, p. 37. 22 note 185 note 186 luglio 2010 - anno X dai morti Gesù Cristo nostro Signore, il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione” (Rm 4,24-25). Da questo scorgiamo subito gli elementi costituenti la teologia del sacramento: 1.Il mistero pasquale24 è la ragione, la "cardo", direbbe Tertulliano, del sacramento. 2.La presenza dello Spirito Santo, primo dono ai credenti emanante dal mistero pasquale. 3.La chiesa nata dalla pentecoste, celebra tutti i sacramenti per mandato di Cristo quale sacramento primordiale ed essa stessa sacramento universale di salvezza. 4.Il ministro è il diacono dello Spirito a sevizio della chiesa sacramento universale di salvezza, è chi ha ricevuto il dono dello Spirito per essere dispensatore del dono di Dio (episcopo e presbitero) a favore del soggetto penitente. 5.Lo Spirito è l'alito di vita che con il sacramento ci consente di riprendere il cammino di fede. I sacramenti sono atti vitali di una persona vivente che acquistano tutto il proprio valore e specificità perché posseggono la vis dello Spirito effuso il giorno di Pasqua e di Pentecoste. Tutti i sacramenti nascono e vivono dal e nel mistero pasquale.25 “Solo chi si immerge nel mistero del Risorto può sperimentare nella propria vita il senso della riconciliazione cristiana. Il Risorto è il passaggio obbligato per superare la crisi che avvolge il credente di fronte al mistero della riconciliazione; dall'immersione pasquale scaturisce il cammino di conversione del credente. Infatti, «la centralità del kerigma pasquale: “Cristo morì per i nostri peccati secondo le scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le scritture" (1Cor 15, 34), determina l'esistenza dei fedeli e la qualifica in tutta la sua identità: “Crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione” (Rm 4, 24-25). [… ] Se la radice malvagia del peccato sta nell'iniquità, la vittoria sul peccato risiede solo in un continuo cammino di fede e nel vivere da figli di Dio, in un passaggio dalla morte alla vita ad “imitazione” di Cristo. (…) "Per il discepolo di Cristo la salvezza non è altro che un'immersione sempre più profonda nella comunione al mistero della pasqua di salvezza; qui si realizza la morte dell'uomo vecchio e si sviluppa il processo della resurrezione per creare l'uomo nuovo chiamato alla vita secondo lo Spirito. Colui che è risorto è colui che è morto e noi entrando nella sua morte godiamo sempre dell'espandersi della potenza della resurrezione”.26 I Sacramenti non sono res (delle cose) ma gesta et signa che si rapportano ad una persona e sono di quella persona, significano e danno ciò che quella persona ha inteso e voluto offrirci. Il sacramento presenta: il medico e la medicina, l'ammalato - il peccatore, e la guarigione - la grazia. Mistero pasquale e penitenza: R d P, Premesse, 24b. 26 A. Donghi, Ecco, io faccio nuove tutte le cose. La pastorale della penitenza della conversione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1996, pp. 48-49, in: A. Mariani, Il perdono, cuore dell'esperienza morale, Città del Vaticano 2007, p. 19-20. 24 25 I sacramenti hanno quindi una dimensione antropologica ed assiologica che emerge dalla verità ontologica della persona di Cristo, nella sua teandricità. I sacramenti sono per noi segni del grande mistero donato ma non totalmente compreso. Se fosse diversamente non sarebbe più mistero. La chiesa allora celebra il mistero di Cristo sempre, in ogni sua parola, gesto ed evento. La chiesa, celebrando i sacramenti, non si appropria di Cristo e della sua salvezza, ma come sposa (cfr. Ef 5,25-32; SC 7; EV1/10; LG 6; EV1/295), fedele e santificata, celebra i misteri ricevuti da Cristo e li pone a servizio di sè e dei fedeli per la santità (cfr. SC 59; EV1/107108). Gesù Cristo morto e vivente, è il soggetto agente che agisce in ogni sacramento e nel sacramento della penitenza (cfr. SC 7; EV1/9-12). Ma non è solo il gesto che conta, quanto attraverso questo passa tutta la potenza salvifica e santificatrice di Cristo e del suo mistero. "Tutti i sacramenti sono partecipazione della nostra vita a quella di Cristo. Essi rinviano al cuore incandescente del Vangelo, alla Pasqua di Cristo che va fino in fondo nel dono di sé e così vince la morte. Attraverso i sacramenti, la vita nei suoi vari passaggi (nascita e morte, salute e malattia, amore di coppia e servizio alla comunità, peccato e perdono…) viene inserita nell’evento pasquale di Gesù, da cui riceve forza e senso. E Cristo stesso mediante i sacramenti a entrare nella nostra vita, agendo in essa con la potenza del suo amore. Lo esprime incisivamente questo bel testo di un antico scrittore cristiano: «Sebbene tale ufficio [la celebrazione dei sacramenti] appaia esercitato per mezzo di uomini, l’azione tuttavia è di colui che è autore del dono ed è egli stesso a compiere ciò che ha istituito. Noi compiamo il rito, egli concede la grazia. Noi eseguiamo, egli dispone. Ma suo è il dono, anche se nostra è la funzione. Noi laviamo i piedi del corpo, ma egli lava i passi dell’anima. Noi immergiamo il corpo nell'acqua; egli rimette i peccati. Noi immergiamo; egli santifica. Noi sulla terra imponiamo le mani; egli dal cielo dona lo Spirito Santo» (San Cromazio di Aquileia, Sermone XV: La Lavanda dei piedi, 6)".27 La Cristologia culmina e si compie nella soteriologia, ossia Cristo è il mistero pasquale, è mistero e ministro di salvezza e di riconciliazione di Dio con l’uomo. “Gesù quindi non semplice intermediario, un commissario che farebbe la spola tra due parti. È mediatore perché appartiene alle due parti da unire: nella sua persona umanizzata Dio ha veramente incontrato l'uomo; in lui si è compiuta la prima riconciliazione. Per questo, Gesù può essere insieme Dio presso gli uomini e uomo presso Dio. In lui viene vissuto il mirabile scambio tra Dio e l'uomo: quello scambio che rende possibile la comunicazione di vita fra la trinità e l'intera umanità".28 Se il mistero pasquale è la fonte della salvezza, come il rimettere i peccati prima di questo evento, possa avere la sua efficacia?29 CEI, Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede, l'Annuncio e la Catechesi, Lettera ai cercatori di Dio, Leumann 2009, p.81. 28 B. Sesboué, Riconciliati in Cristo, Queriniana, Brescia 1990, pp. 97-98, in: A. MARIANI, Il perdono cuore dell'esperienza morale, Città del Vaticano 2007, p. 20. 29 Cfr. R. Rossi, La formazione del sacramento della Penitenza, un ritorno alla prassi battesimale della tradizione antica (Secoli II.VII), Chirico, Napoli 2004, p. 24 27 note 187 note 188 luglio 2010 - anno X I vari momenti della vita di Cristo, dalla nascita al ritorno al Padre, dal prepasquale alla pasqua, è da intendere come un unicum, un Christus totus. Il peso teologico del prepasquale è da porlo nella visione e nella realizzazione dell'evento pasquale. Ma tale evento celebrato da Cristo, è da inserirlo nella volontà e nell'amore del Padre in cui il Figlio da sempre è in profonda comunione tanto da essere l'Amato.30 In Gesù Cristo, si coglie questa unità di intendi, di volere in rapporto al Padre da cui lui continuamente dipende e a cui fa continuamente riferimento nel suo essere ed agire. Gesù riprese a parlare e disse: “In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa. 20 Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, e voi ne resterete meravigliati (Gv 5). 30 Io e il Padre siamo una cosa sola”31 (Gv 10). 36 Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato (Gv 5). 25 Gesù rispose loro: “Ve l’ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza (Gv 10). 19 Se così non fosse avremmo snaturato l'unitarietà e l'identità della sua persona teandrica a nostro danno. La dimensione cristologica e soteriologica sono categorie nostre, ma in Cristo il suo operare è atto salvifico dall'incarnazione fino all'escatologia parusiaca. Il liturgista T. Federici, afferma che già nella festa della circoncisione, è presente il segno anticipativo della salvezza attraverso il primo spargimento di sangue assimilato al sacrificio dell’alleanza.32 Gesù Cristo, dal battesimo al Giordano, al Tabor, al ritorno al Padre con la resurrezione ed ascensione, è inteso come una sola teofania. Il parlare e l’agire, il divino e l’umano, il prepasquale e pasquale con la pentecoste, è il Christus totus, è l'unico e solo Cristo. Ciò che è prepasquale, guarda al suo compimento che è la pasqua e questa alla pentecoste.33 Scrive sant’Agostino: “Le persone divine sono tre: la prima che ama quella che da lei nasce, la seconda che ama quella da cui nasce e la terza che è lo stesso amore” (De Trinitate 6, 5, 7). Questi tre sono uno: non tre amori, ma un unico, eterno e infinito amore, l’unico Dio che è amore. È ancora sant’Agostino ad affermare: “Vedi la Trinità, se vedi l’amore” (ib., 8, 8, 12). E aggiunge di quest’unico Dio, che è amore: “Ecco sono tre: l’Amante, l’Amato e l’Amore” (ib., 8, 10, 14), il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. 31 Nota della Bibbia di Gerusalemme: [Gv 10,30] Secondo il contesto, questa affermazione riguarda in primo luogo la comune potenza di Gesù e del Padre; ma, volutamente indeterminata, lascia intravedere un mistero di unità più ampio e più profondo. I giudei, che vi vedono la pretesa di Gesù di essere Dio, non si ingannano (v 33; cfr. Gv 1,1, Gv 8,16, Gv 8,29, Gv 10,38, Gv 14,910, Gv 17,11, Gv 17,21 e Gv 2,11+). 32 Cfr. T. Federici, Cristo Signore Risorto Amato e Celebrato, I. Commento al lezionario domenicale cicli A,B,C, Palermo 2001, p. 988. 33 Quando la comunità degli undici deve sostituire Giuda, la condizione che viene richiesta è quella dell'essere stati con gli apostoli, dal battesimo al Giordano fino alla resurrezione di Cristo (cfr. 30 Ciò implica che l'opera di Gesù manifesta l'attuazione dei tre titoli concomitanti e non escludenti, pena la non verità della sua persona e del suo operato: Gesù-Cristo-Signore: l’uomo, il messia, il risorto costituito Kyrios dal Padre. Cristologia e soteriologia sono un unico evento della salvezza che accade nella stessa persona del Verbo. Cristo è Salvatore e redentore, ossia ci ha liberati e affrancati34 davanti al Padre attraverso il suo sacrificio innocente, ma soprattutto segno di un grande amore. L'amore è la ragione dell'incarnazione fino alla passione, culminante nella resurrezione. In questo amore si sostanzia tutto il bene del Padre che l'uomo ricambia in Cristo. L'amore è la sola ragione teologica per noi in quanto è la sola verità che ci salva. La sofferenza, priva di questo valore, non è occasione di salvezza. Infatti è l'amore fino al dono totale di sé che salva. L'amore è forza centripeta e centrifuga. 1. Dio [Padre] infatti ha tanto amato il mondo da dare (donare, offrire) il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. 17Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. (Gv 3) 16 2. Il Figlio si è offerto al Padre in nostro favore (cfr. Gal 3,13) causandoci la salvezza, che è accesso alla comunione trinitaria e alla santità, venuta a mancare con il nostro peccato. La salvezza contempla un duplice atto d’amore (le due braccia della croce sono significate da questo atto bivalente di amore): l’apertura verso il Padre (la parte verticale) e l’accoglienza dell'uomo "che giunge fino alla fine ed è senza fine"35 (la parte orizzontale). Come Cristo si rapporta con il peccatore.36 È questo un atto fondamentale ai fini di ciò che si chiede, di ciò che è donato e di ciò che segue all'evento del sacramento della penitenza. La dinamica dell'incontro di Cristo con il peccatore contempla: 1.la fede del chiedente (la tua fede ti ha salvato) 2.la parola autoritativa di Cristo (ti sono perdonati i peccati) 3.la conclusione bene augurante da parte di Cristo (va in pace)37 4.la nuova condizione di vita spirituale ingloba anche la salute fisica che per molti è ciò che si vede esternamente, ma per Cristo è il segno del peccatore rinato (cfr. Lc 7, 48-50). Esaminiamo qualche aspetto: 35 36 37 34 At 1,22) e che deve offrire nella verità tale testimonianza. Cfr. A. Mariani, Il perdono cuore dell'esperienza morale, Città del Vaticano 2007, p. 21 J. Ratzinger, Guardare al crocifisso (Già e non ancora 231) Milano maggio 20063, p. 93. R. Guardini, La realtà umana del Signore, Brescia, 1970-9 ris., p. 56. La parola pace (cfr. R d P, Premesse, 20.47), ci riporta al dono che Cristo offre il giorno di pasqua gli apostoli, quando apparendo dice shalom, la pace sia con voi (Gv 20, 19-23). Questa è l'effetto del mistero salvifico, della comunicazione della stessa presenza di Dio, è la condizione originaria ritrovata, è l'archè dell'uomo creato da Dio, è la ritrovata realtà battesimale dove la pace con Dio-chiesa-fratello-creato è ripresa e compiuta. Cfr. J. Ratzinger, Guardare al crocifisso (Già e non ancora 231) Milano maggio 20063, p. 93. note 189 note 190 luglio 2010 - anno X 1."La tua fede ti ha salvato" ossia Cristo pone l’accento sull’atto di fiducia-fede che il chiedente manifesta verso la sua persona e che ne riconosce carisma ed exousia.38 La fede è l'elemento spirituale ma anche esterno che crea il rapporto con Cristo. La fede è andare verso l'altro, porsi nell'altro (atto di fiducia in …), è chiedere per benevolenza un beneficio, è entrare in un rapporto profondo che coinvolge tutta la vita. Se si pone una richiesta ad una persona è perché si conosce la possibilità che venga accolta. Credere (dal sanscrito kred-dhe) significa atto di fiducia che implica la risposta affermativa alla richiesta. Quindi ci si affida certi di essere esauditi. Questo è il significato dell’espressione la tua fede ti ha salvato. Ed ecco perché Cristo proclama solennemente la forza e la capacità della fede del chiedente e ne proclama la beatitudine (cfr. Lc 1,45). 2.L'autorità di perdonare i peccati gli deriva dal Padre e attraverso lo Spirito, rinnova il peccatore credente e pentito. Ma a ben considerare ciò ora è dato “come caparra”, ed è in previsione di ciò che lui avrebbe realizzato con la sua morte e resurrezione. Ma l’opera di Cristo è grazia santificante fin dal suo nascere. Anche per la vergine Maria la chiesa dice che la sua Immacolata concezione è dono “ante previsa merita”.39 Il dono del perdono prepasquale è segno anticipativo dell'effetto salvifico di cui il peccatore è beneficiario e dell'autorità di Cristo in previsione della sua morte e della sua gloria. La fede del chiedente è come se guardasse al crocefisso risorto da cui scaturisce la salvezza e ne riceve il frutto. Solo questa fede vera, causa il perdono del peccato e la riconciliazione. L'espressione di Gesù: “ti sono perdonati i tuoi peccati” (Lc 7, 48, Mc 2, 1-12)40 dice un'azione precipua di Cristo che è quella di perdonare i peccati. “Gesù incarna il perdono dei peccatori”.41 - Il perdono è come la vera fede: ha bisogno di essere collocata nell’exusia e nella vis del mistero pasquale. Tanto è vero che non è sufficiente avere fede, ma la fede nella persona di Cristo. - Il perdono è dato ed è certo perché frutto anticipato della passione e resurrezione, e in vista del mistero pasquale. Chi può perdonare i peccati se non Dio solo? Certamente Cristo e solo lui perché figlio di Dio benedetto dal quale tutto ha ricevuto. Cfr. P. J. Rosato, Introduzione alla teologia dei sacramenti, Casale Monferrato, I ristampa, novembre 1993, p. 73-76. 39 Cfr. Pius IX, Bulla Ineffabilis, 8 dic. 1854, DENZ. 1641(2803). 40 "La conoscenza del peccato dell'uomo, infatti, suppone che l'uomo abbia abbastanza amore da essere sensibile alle sue inadeguatezze rispetto all'esigenza dell'amore. Proprio la rivelazione di un amore infinito getta una luce incomparabile sulla debolezza dell'uomo. In questo senso quindi il perdono e la misericordia di Dio svelano il peccato: più l'uomo si avvicina a Dio più si scopre peccatore. Ma c'è un legame ancora più intimo e profondo tra l'amore e il peccato; in un unico atto Dio perdona e l'uomo conosce e si scopre peccatore: il perdono fa conoscere il peccato": A. Mariani, Il perdono cuore dell'esperienza morale, Città del Vaticano 2007, p. 92. 41 A. Mariani, Il perdono cuore dell'esperienza morale, Città del Vaticano 2007, p. 91. 38 3.La croce è la via dell’admirabile commercium (mirabile comunicarsi di Dio all'uomo),42 è l'atto comunicativo del Padre con l'uomo attraverso il Figlio messo sulla croce. È il gesto comunicativo di tutto l'amore e la misericordia che prova il Padre verso il Figlio e che deborda a nostro favore. «[Gesù] È mediatore perché appartiene alle due parti da unire: nella sua persona umanizzata Dio ha veramente incontrato l’uomo; in lui si è compiuta la prima riconciliazione. Per questo, Gesù può essere insieme Dio presso gli uomini e uomo presso Dio. In lui viene vissuto il ‘mirabile scambio' tra Dio e l’uomo: quello scambio che rende possibile la comunicazione di vita fra la Trinità e l’intera umanità».43 Il Padre non è soltanto l’Amore che crea il mondo, l’Amore che libera e salva, l’Amore che perdona, ma anche l’Amore che invita a partecipare alla sua stessa vita attraverso Cristo suo figlio. • La croce di Cristo sul Calvario sorge sulla via di quel «meraviglioso scambio», di quel mirabile comunicarsi di Dio all'uomo, in cui è al tempo stesso contenuta la chiamata rivolta all'uomo "egli prese su di sé i nostri peccati e li portò nel suo corpo sulla croce" (1Pt 2,24). • Colui che era senza peccato, "Dio lo trattò da peccato in nostro favore" (2Cor 5,21). • La croce è il più profondo chinarsi di Dio sull'uomo; la croce è come un tocco dell'eterno amore sulle ferite più dolorose dell'esistenza terrena dell'uomo, è il compimento del programma messianico, che Cristo, aveva formulato nella sinagoga di Nazareth (cfr. Lc 4,14-21) e ripetuto poi dinanzi agli inviati del Battista (cfr. Lc 7,18-23). • Cristo, appunto come crocifisso, è la parola che non passa, è l’amore più forte di ogni difficoltà ed ostacolo, è colui che sta alla porta e bussa al cuore di ogni uomo (cfr. Ap 3,20). • Anche nella Pasqua del Risorto continua ad esser presente la croce attraverso i segni presenti nella carne gloriosa, che parla e non cessa mai di parlare del Padre, assolutamente fedele al suo eterno amore verso l'uomo, a dispetto di tutto, in attesa che il primo sguardo di misericordia, prima di incontrare altri sguardi, sia rivolto dall’uomo proprio a Dio. • Anche qui sta l’admirabile commercium. La misericordia domanda misericordia: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37). Dio con la croce si è totalmente coinvolto nella debolezza umana iniziata con l'incarnazione, che consapevole di fragilità, è attento alla richiesta di perdono.44 Cfr. Dives in misericordia, 7 B. Sesboué, Riconciliati in Cristo, Queriniana, Brescia 1990, pp. 97-98, in A. Mariani, Il perdono cuore dell'esperienza morale, Città del Vaticano 2007, p. 20-21. 44 Cfr. Dives in misericordia n. 8. 42 43 note 191 note 192 luglio 2010 - anno X Le braccia della croce, quella verticale congiunge Dio all'uomo e l'uomo a Dio, in Cristo morto e risorto, diviene la nuova scala che Giacobbe vide in sogno (cfr. Gen 28,12); e quella orizzontale porta e lega tutti gli uomini nella misericordia frutto del sacrificio. La croce e più ancora il crocefisso, è la via, verità e vita di questo dono di Dio all'uomo. Il cuore di Cristo trafitto da cui sgorga il sangue e l'acqua, è l'elemento pulsante di amore. Quel cuore non conosce la morte perché continua a palpitare in una profonda comunicazione attraverso lo Spirito con noi. Il Cristo sulla croce è sintesi di un processo che si svolge dinanzi al Padre in nostro favore. “È l’evento del Figlio di Dio che sulla croce è insieme Innocente (segno di quanto male fa il male), Colpevole (ora è Lui il ‘Maledetto’, l’oggetto della riprovazione da Dio cfr. Gal 3,13; Dt 21,23), Giudice (con la sua morte, quando emette lo Spirito, realizza quanto aveva detto, e cioè che lo Spirito ci avrebbe, tra le altre cose, ‘convinto di peccato’), e Giudice nella sorprendente forma di Redentore (il giudizio di condanna colpisce Lui al posto di noi. Egli è stato ‘fatto peccato al nostro posto’ (admirabile commercium!). Per un cristiano il peccato prende una forma particolarmente scandalosa, perché è una persona che è entrata nella salvezza definitiva di Dio attuata nel mistero pasquale, e nondimeno riesce a disprezzare il Sangue che lo ha salvato, a rendere vana la croce, a rifiutare sempre nuovamente il dono che il Padre ha fatto della cosa più cara che ha, il Figlio”.45 Cristo alla comunità degli apostoli (cfr. Gv 20, 23) sottolinea una corrispondenza tra il perdono concesso per mezzo degli apostoli (la chiesa) e quello di Dio stesso. Dio perdona oggi normalmente attraverso la chiesa. Questo è il suo pensiero e volontà. Il sacramento del perdono allora richiama il dono amoroso e sofferto di Cristo, ci inserisce in questo evento pasquale, ci trasforma facendosi ritornare creature nuove per Dio, per la chiesa. "Egli [l'Agnello di Dio] con l'offerta volontaria della sua vita al suo Signore e Dio redimerà tutti gli uomini peccatori, avendo «posto la sua anima [=vita ] quale espiazione», così che la sua morte sacrificale è unica e definitivamente redentrice (Is 53, 10-12). Così il Figlio ha adempiuto l'intero Disegno del Padre nell'immediata e personale e cosciente obbedienza filiale alla Volontà paterna. Ribadisce tutto questo S. Cirillo Alessandrino, In Giovanni 2, che commenta Giovanni 1, 29, in P G 73, 192A -193A".46 R. Carelli, Il sacramento della penitenza, da Internet. T. Federici, Cristo Signore Risorto Amato e Celebrato, I. commento al lezionario domenicale cicli A,B,C, Palermo 2001, p. 364. Sul valore del sangue sacrificale dell'A e del N T: "dall'analisi di testi biblici dell'A del NT si possono individuare alcuni valori simbolici del sangue, con le loro funzioni e conseguenze. Si tratta di valori «misterici» sacramentali. Qui si usano il suggestivo linguaggio teologico dei padri greci e la sua traduzione" p. 365. Per l'AT si ha il valore del sangue come preservazione in quanto respinge il male; valore di purificazione in quanto il sangue purifica; valore propiziatorio in quanto il sangue propizia la benevolenza divina; in quanto valore riconciliatorio, in quanto il peccato è allontanamento purificandolo i fedeli al favore divino; valore di comunione poiché il sangue come vita porta alla comunione con il Signore e ci rende consanguinei; valore vivificante perché ci rende vivi del dono di Dio; valore consacratori per il santuario, per i sacerdoti per i leviti; valore santificante poiché il sangue dona e 45 46 Dal Cristo morente in croce per amore, ne scaturisce il dono del per-dono. Nel giorno di pasqua Cristo ci fa dono del per-dono quando effonde sugli apostoli lo Spirito e dà mandato a questi (la chiesa) di celebrare il perdono. I sacramenti per noi sono la traduzione della cristologia e soteriologia. L'incontro con il Cristo che ci offre la salvezza, avviene attraverso i sacramenti che sono l'oggi dello Spirito, il kairos di Dio. Il peccato ha prodotto l'invio di Cristo Figlio di Dio sulla terra, per liberare l'uomo dal male (felice colpa che meritò un così grande Redentore -Preconio Pasquale). Cristo ha portato noi peccatori alla salvezza attraverso il dono del suo amore fino al sacrificio. Questo è l'evento della nostra redenzione e santificazione. 4.Nell'evento drammatico47 della morte di Cristo confluisce: lo sguardo del Padre, giudice-misericordioso, che incrocia con amore ineffabile quello di Cristo in croce (cfr. Lc 18, 18); in quel momento il peccatore pentito è oggetto della misericordia divina. “Ma chi ha visto l'agnello -Cristo in croce- sa: Dio ha provveduto. Il cielo non viene squarciato, nessuno di noi ha scorto «gli invisibili santuari della creazione e i cori degli angeli». Tutto ciò che noi possiamo vedere, è -come per Isacco- l'agnello, del quale l'apostolo dice che fu predestinato «già prima della fondazione del mondo» (1Pt 1, 20). Ma lo sguardo sull'agnello-sul Cristo crocifisso-ora coincide proprio con il nostro sguardo sul cielo, con il nostro sguardo sull'eterna provvidenza di Dio. In questo Agnello tuttavia intravediamo lontana, nei cieli, un'apertura; vediamo la mitezza di Dio, che non è né indifferenza né debolezza, ma suprema forza".48 Lo sguardo possiede una particolare forza spirituale, morale, affettiva capace di trasmettere tutte le potenzialità e debolezze dell'animo all'altra persona più che le parole. È Cristo stesso che ci ha rivelato la densità dello sguardo paterno di Dio, denso d’amore, quando incontra il giovane ricco: lo guarda con amore, passione, dilezione: “allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse:…” (Mc 10,21).49 Cosa può racchiudere la comunicazione di uno sguardo è comprensibile solo dalla intensità di amore dei due. restituisce la santità. Per il NT oltre a tutti quanti questi aspetti abbiamo il sangue come bevanda divina e quindi partecipare all'Eucaristia; partecipazione alla morte di Cristo con il valore della redenzione santificazione; valore del memoriale del Signore; valore della divinizzazione. Solo Cristo Signore porta nel NT tutti e per intero tali valori sacrifici (cfr. T. Federici, Cristo Signore Risorto Amato e Celebrato, I. commento al lezionario domenicale cicli A,B,C, Palermo 2001, p. 365-6). 47 "In questo attimo (quello della croce) è diventato manifesto che la storia universale non è una tragedia, non è un irrisolvibile e tragico dramma di potenze che sono in lotta tra di loro, ma divina commedia: colui che aveva gettato uno sguardo sulla realtà ultima, poteva ridere": J. Ratzinger, Guardare al crocifisso (Già e non ancora 231) Milano maggio 20063, p. 103. 48 J. Ratzinger, Guardare al crocefisso (Già e non ancora 231) Milano maggio 20063, p. 105. 49 "Lo amò" ºγάπησεν αÙτÕν per comprendere bene il significato di questo termine occorre rileggere 1Gv dove si presenta il Dio amore in tutte le sue sfumature: 1Gv 3,1: guardate quale grande amore note 193 note 194 luglio 2010 - anno X L'evangelista Marco narra più volte che Gesù “sentiva viscere di commozione"50 che indica il “movimento dell'amore materno del Signore verso gli uomini” (cfr. Mc 1, 41; 6, 34; 8, 2; 9, 22).51 Cristo ha espresso questa straordinaria affettività materna verso l'uomo peccatore, indice e manifestazione di quella paterna. La croce è l'attimo in cui la giustizia si converte in misericordia. "La perfetta giustizia fu perfetta misericordia".52 È l'attimo in cui il grano diventa farina per il pane e l'uva diventa vino, cibo materiale segno di quello mistico. È l'attimo in cui noi guardando Cristo che ci ama fino alla massima sofferenza, converte il peccato in giustizia clemente, da giustizia penale a giustizia misericordiosa. Sulla croce vale più lo sguardo che le mani, i piedi e le parole. La croce è l'attimo celebrativo di questo sguardo. “Nella Croce è rapportato il nesso tra verità e amore. La croce come espiazione, la croce come modo del perdono e della salvezza non si adatta a un certo schema del pensiero moderno. Solo quando si vede bene il nesso tra verità e amore, la croce diventa comprensibile nella sua vera profondità teologica. Il perdono ha a che fare con la verità e per ciò esige la croce del Figlio ed esige la nostra conversione. Perdono è appunto restaurazione della verità, rinnovamento dell'essere e superamento della menzogna nascosta in ogni peccato. Il peccato è per essenza un abbandono della verità del proprio essere e quindi della verità del creatore, di Dio”.53 (¢γάπην); 4,9-10: Dio è amore (¢γάπη); in latino viene tradotto con dilexit: Mc 10,21; 1Gv 4,19. * Lo stesso accade a Pietro quando dopo il tradimento, Gesù lo fissa e fa nascere in lui il pentimento che si manifesta con il pianto (cfr. Lc 26,61). Sguardo di Cristo, pentimento e lacrime di Pietro sono un solo momento e in quell'unico sguardo: l'amore del Maestro che incontra Pietro smarrito e pentito, e gli dona la sicurezza di essere ancora amato e perdonato. ** Lo stesso significato produce lo sguardo del Centurione quando vede morire Gesù in quel modo, ossia molto diversamente da tutti gli altri, e fa professione di fede che è atto profondo di conversione nella persona di Cristo. 50 "Nella rivelazione sorgono differenti prospettive dell’intimità di Jahveh: l’amore misericordioso che sente per il suo popolo non è qualcosa di superficiale ed emotivo, ma parte dal più intimo del suo essere (rahamim) ed è in relazione con l’Alleanza stipulata sul Sinai (hesed). Questo amore, che sgorga dall’intimità di Jahveh e chiama a conversione, è plasmato con il termine “rahamim”, che letteralmente traduce “viscere di misericordia” ed esprime il sentimento interiore di misericordia, tenerezza o compassione, legato all’idea di maternità, di trasmissione della vita (Ger 1,5). In questo modo si evocherà il ricco contenuto materno di Jahveh, che creando e dando vita a Israele, lo considera un figlio cui è profondamente legato e del quale si duole per il traviamento dei suoi peccati: “Come potrei abbandonarti, Efraim? Come consegnarti ad altri, Israele?… Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Os 11,8). Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il fìglio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai (Is 49,15; cfr Ger 31,20): R. Rossi, La formazione del sacramento della Penitenza, un ritorno alla prassi battesimale della tradizione antica (Secoli II-VII), Chirico, Napoli 2004, p. 16-17. 51 Cfr. T. Federici, Cristo Signore Risorto Amato e Celebrato, I. commento al lezionario domenicale cicli A,B,C, Palermo 2001, p. 1557. 52 T. Federici, Cristo Signore Risorto Amato e Celebrato, I. commento al lezionario domenicale cicli A,B,C, Palermo 2001, p.253. 53 J. Ratzinger, Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità, Jaca Book, Milano 1989, pagina 75-76, in: A. Mariani, Il perdono cuore dell'esperienza morale, Città del Vaticano 2007, p. 95. Il miracolo della croce è nel volgere lo sguardo a colui che hanno trafitto (cfr. Gv 19,37; Zc 12,10); l'ecco l’Agnello di Dio (cfr. Gv 1,36) più che essere indicato con la mano, è lo sguardo e la parola che indica e comunica qualcosa che va oltre il semplice detto: la persona di Cristo. "La visione dei cieli dell'Apocalisse dice ciò che noi vediamo a Pasqua attraverso la fede: l'agnello ucciso vive. Poiché vive, il nostro pianto termina e viene mutato in riso (cfr Ap 5, 4s.). La visione dell'agnello è il nostro sguardo nei cieli spalancati. Dio ci vede e opera, benché diversamente da come pensiamo e di come noi vorremmo imporgli. Solo a partire dalla Pasqua possiamo in realtà pronunciare in modo completo il primo articolo di fede; solo a partire dalla Pasqua esso è compiuto e consola: io credo in Dio, Padre onnipotente. Infatti, solo a partire dall'Agnello sappiamo che Dio è realmente il Padre ed è realmente onnipotente".54 La croce è l'elemento materiale e mistico di un incontro storico e sempre attuale: il Padre, il Cristo ed il peccatore perdonato in grazia dello Spirito. Nell’AT il segno e simbolo di questa duplice verità e realtà è il serpente di bronzo (cfr. Nm 21,8-9) che Cristo stesso ripropone quale segno efficace di mediazione: toglie il peccato e rende perfetti per sempre quelli che vengono santificati. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, 15perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,14).55 14 Il guardare il serpente di bronzo posto sull’asta, significava guarigione e salute; guardare il Cristo con occhi di fede con il pentimento del proprio peccato, con il desiderio di una metanoia, significa essere salvati e rigenerati. Il crocefisso con la sua teandricità presenta il divino e l'umano; nella sua storia di amore sofferente, fa incontrare Dio con la sua giustizia e l'uomo con la sua povertà. L'incontro tra due verità opposte conduce ad un inizio tragico. Ma è solo l'amore che si comunica tra il Padre e Figlio, a risolvere la contrapposizione in un incontro di comunione. Sulla croce si celebra la più grande conversione: J. Ratzinger, Guardare al crocefisso (Già e non ancora 231) Milano maggio 20063, p. 106-7. 55 Commento della Bibbia di Gerusalemme: [Gv 3,14] bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo: il Figlio dell’uomo (cfr. Dn 7,13+, Mt 8,20+, Mt 12,32, Mt 24,30) deve essere «innalzato», messo sulla croce e nello stesso tempo introdotto di nuovo nella gloria del Padre (Gv 1,51, Gv 8,28, Gv 12,32-34+, Gv 13,31-32). Per essere salvati, bisognerà «guardare» il Cristo «innalzato» sulla croce (Nm 21,8, Zc 12,10+, Gv 19,37+), cioè credere che egli è il Figlio unico (Gv 3,18, Zc 12,10). Allora si sarà purificati dall’acqua del suo costato trafitto (Gv 19,34, Zc 13,1). Il titolo «Figlio dell’uomo» denota in Gv una chiara insistenza sull’umanità di Gesù, sebbene sia fortemente sottolineata anche la sua origine divina (Gv 3,13, Gv 6,62) che motiva gli atti in cui si anticipano le sue prerogative escatologiche (Gv 5,26-29, Gv 6,27-53, Gv 9,35). 54 note 195 note 196 luglio 2010 - anno X • il Padre si converte nel vedere con quanto amore il Figlio difende presso di sé l'uomo pentito: e ne nasce la misericordia (il Padre che accoglie il Figlio: cfr. Lc 15) • l'uomo si converte nel guardare quest’Amore sulla croce, donato al Padre in suo favore, nella persona di Cristo: e ottiene la salvezza. La conversione della giustizia in misericordia da parte del Padre, e quella del peccatorepentito in uomo graziato, è solo frutto dell’eterno atto di amore del Figlio e che il Padre accoglie non solo dandogli la vita con la resurrezione, ma donandoci la vita di grazia.56 La resurrezione di Cristo interessa sì la sua vita, ma interessa anche noi perché ci ha restituito nella dignità filiale persa con il peccato di origine. Lo scambio avvenuto sulla croce è ciò che noi celebriamo con il sacramento del battesimo e riviviamo con la penitenza sacramentale. 57 Perché accade questo ed in questo modo? Perché il Padre, solo per la gloria del suo nome (la fedeltà di Dio è per se stessa) e per la sua santità, compie questo. Non guarda ai nostri peccati, ma la fede della chiesa quella dei santi e dei santi pellegrini. Ecco la motivazione teologica della conversione della giustizia in misericordia. Dio si manifesta all'uomo, gli fa grazia del per-dono e l'uomo diventa la gloria di Dio stesso. “Infatti la gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo consiste nella visione di Dio” (S. Ireneo, Contro le eresie 4,20,5-7), e ciò è quanto noi diciamo grazia. La croce, l'essere innalzato da terra, non è l'apice della disfatta,58 ma il culmine della gloria, della santità, della vita di Dio che glorificando il Figlio, glorifica se stesso. “È giunta l'ora in cui sarà glorificato il Figlio dell'uomo” (Gv 12, 23.27-28; 13, 31-32). Nella Sequenza di Pasqua si canta in sintesi il Mistero Pasquale che causa la salvezza. "L’Agnello ha redento il suo gregge (ecco l’Agnello di Dio, quello della pasqua). L’Innocente ha riconciliato noi peccatori con il Padre: (Cristo si è addossato da innocente i nostri peccati). Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello: (Passione e gloria) il Signore della vita era morto, ma ora vivo trionfa: (la tomba è la fornace che purifica). Raccontaci, Maria: cosa hai visto sulla via? (alla prima testimone del Risorto si chiede di fare memoria dell'evento: la teofania del Risorto): La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto … (il terreno ha prodotto il germoglio: la nuova Vita) Tu, Re vittorioso, portaci la tua salvezza" (la salvezza è il dato ontologico del mistero trinitario). Cfr. RdP, Premesse, n.6. Cfr. Y. Congar, il mistero de tempio, l'economia della presenza di Dio dalla genesi all'apocalisse, Roma 19942, p. 170. 58 "Con le sue ferite mortali ci dice che alla fine i vincitori non saranno coloro che uccidono; il mondo vive piuttosto di colui che si sacrifica. Il sacrificio di colui che diviene l'agnello sgozzato tiene unito cielo e terra. In questo sacrificio è la vera vittoria. Da esso deriva la vita, che, attraversando tutte le atrocità, dà senso alla storia e la trasforma alla fine in un canto di gioia" J. Ratzinger, Guardare al crocefisso (Già e non ancora 231) Milano maggio 20063, p. 102. 56 57 Nella fine (la morte di croce), c'è l'inizio: la resurrezione e la parusia. Sono gli estremi eventi che danno senso alla nostra vita in quanto la convertono continuamente. La Pasqua, la resurrezione di Cristo, è quanto Abramo dice al Figlio Isacco mentre salgono al monte del sacrificio “Dio provvederà…” (Gn 22, 8). L'ultimo atto e l'ultima parola è quella del Padre: la vita nuova, quella eterna. Il Padre è provvidenza verso suo Figlio con la pasqua di resurrezione. Per analogia dobbiamo dire che ciò è valore anche per noi. Al nostro peccato, pentimento e richiesta di perdono, sentiamo nascere nel nostro cuore la risposta: Dio provvederà. Dio in Cristo ha veramente provveduto. Dio ti donerà il prezzo sostitutivo per la tua grazia: l'amore di Cristo crocifisso. Il riso di scherno e di dubbio davanti alla croce, si converte in riso gioioso, risus paschalis.59 Il crocifisso diventa allora la mistica chiave che il Padre ci ha concesso per accedere alla sua paterna misericordia. Senza questa non c’è remissione dei peccati e non si accede al Padre (sine effusionem sanguinis non fit remissio (Ap 1,5; Eb 9,22): “in lui, per il suo sangue, noi abbiamo la redenzione”: Ef 1,7).60 Il libro della Sapienza si pone l’interrogativo: “Chi si potrebbe costituire contro di te come difensore di uomini ingiusti? (Sap 11, 14). Solo il Santo ci può ottenere la santità ad “una sola condizione: il perdono, il pentimento sincero ed accogliente nella condizione unica ed indispensabile per accedere alla misericordia” (cfr. Sap 11, 20-12, 2.11 b-19). Cristo sulla croce ha raccolto tutta "la miseria", la nostra estrema povertà morale e spirituale. Il Padre lo guarda con dilezione e gli concede "la misericordia" per tutti i peccatori di cui Cristo si è fatto carico. È questo anche il significato di “e quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Il guardare con amore Cristo crocefisso, significa entrare nello sguardo di amore che il Padre gli rivolge, giacché l'Amore si incontra con l'Amore e ne viene il per-dono. Cristo con la sua morte ha vinto la nostra morte spirituale (cfr. Is 25, 8; Os 13, 14; Rm 6, 9; 1Cor 15, 54; 2 Tim 1, 10; Eb 2, 14; Ap 1, 18) donandoci la vita di figli di Dio. Il peccato assunto da Cristo e passato attraverso la croce, diventa non occasione di giustizia divina, ma atto di rahamim, misericordia senza paragone alcuno da parte del Padre. L'amore sacrificale di Cristo in croce è il prezzo perché la giustizia sia convertita in misericordia. Ciò si costata nel breve ma intenso dialogo tra Cristo e il ladro pentito. Questi dice: "ricordati di me quando entrerai nel tuo regno". Gesù risponde “In verità ti dico,oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23, 42-43), l'oggi della sofferenza e della morte diventa l'oggi della pasqua di Cristo e del ladrone. Anche ora, sulla croce Cristo offre il perdono. È come se Cristo dicesse: "ti sono perdonati i tuoi peccati, la tua fede ti ha salvato…" oggi sarai nella gloria del Padre. Cfr. J. Ratzinger, Guardare al crocefisso (Già e non ancora 231) Milano maggio 20063, p. 102-3.106. Cfr. A. Mariani, Il perdono cuore dell'esperienza morale, Città del Vaticano 2007, p. 21. 59 60 note 197 note 198 luglio 2010 - anno X Il ladro pentito, anche fisicamente, passa con Cristo dalla morte fisica alla Vita, dal peccato alla comunione di grazia. Tutto avviene contemporaneamente. Per noi invece non c'è nulla di fisico e di materiale. L'imitazione è solo mistica e spirituale. L'essere immersi in Cristo ed in particolare l'essere con lui nella sofferenza della croce per poi nella sua gloria, è evento per noi spirituale.61 Il ladro pentito ha seguito Cristo e lo ha imitato anche fisicamente morendo sulla stessa croce. La nostra è un’imitazione che nasce dalla contemplazione del Cristo che ci conquista, che ci porta con sé nel passaggio dalla morte alla gloria, e noi dal peccato alla grazia. Il senso del peccato noi lo percepiamo solo se ci poniamo nella sequela di Cristo crocifisso - risorto. In ogni celebrazione penitenziale si celebra tale evento. Il Cristo dice al peccatore pentito: oggi sei entrato di nuovo nella perfetta comunione con la Trinità, nella carità della chiesa e nella pace della tua anima. Il peccatore perdonato,è un fedele libero perché liberato dal fardello del peccato, è proteso verso tappe ulteriori di conversione e di santità, è un nuovo "neofita", un rinato come il Siriano lebbroso (cfr. 2Re 5). "Pertanto la liberazione dal peccato non si riduce ad un semplice cambiamento di comportamenti, non consiste nel disattendere quelli qualificati come negativi per attuare quelli positivi, è vivere in Cristo, non opporre resistenza a lui e all'opera che in Lui il Padre porta avanti, è consentire allo Spirito di vivere da figli di adozione".62 La penitenza sacramentale è l'oggi pasquale, in cui si evidenzia la relazione con il battesimo. In ogni celebrazione penitenziale noi riscriviamo e riviviamo quella battesimale,63 si rivive lo stesso percorso penitenziale, per celebrare la stessa festa: l’Eucarestia. Nel sacramento della penitenza si rinnova quanto misticamente è avvenuto nel battesimo: è la riproposizione della teologia Paolina circa il battesimo: morti-con, risorti-con (cfr. Rm 6,3-11); l'essere con Cristo sulla croce per essere guardati con sguardo di amore dal Padre e ricevere la misericordia.64 Ecco perché tra il battesimo e la penitenza c'è un legame ed un rapporto profondo ed esistenziale. Noi siamo passati dalla morte del peccato, alla vita divina, dal peccato alla grazia attraverso il nostro essere in Cristo. Sulla croce e con la resurrezione noi entriamo nell'orbita di Cristo, ciò che per lui è accaduto nella sua persona, per noi è avvenuto ed avviene spiritualmente tutte le volte che celebriamo questo sacramento: muore l'uomo vecchio e rinasce l'uomo nuovo. Cfr. A. Miralles, I sacramenti cristiani, trattato generale, Roma 1999, p. 91-92. A. Mariani, Il perdono cuore dell'esperienza morale, Città del Vaticano 2007, p. 21. 63 R. Rossi, La formazione del sacramento della Penitenza, un ritorno alla prassi battesimale della tradizione antica (Secoli II-VII), Chirico, Napoli 2004, p. 25-29. 64 Cfr. R d P, Premesse 7b: rapporto battesimo penitenza. 61 62 Il battesimo ci ha resi creatura nuova in Dio, siamo figli del Padre per adozione cristica, non siamo più carnali ma spirituali (cfr. 1Cor 2,14-16; 3,1). Purtroppo il peccato ha prodotto una situazione contraria. Battesimo e penitenza hanno un identico rapporto di causalità e di effetto. Tutti e due danno la grazia: quella battesimale è l'originante, originaria e prima grazia, quella penitenziale ripristina quella grazia perduta con il peccato. La causa è nel punto di partenza dei due sacramenti: il peccato quello dell'origine e fondamentale, e quello personale e derivato dal primo. Il battesimo causa la grazia65 quale inserimento nel mistero di Cristo (morti con Cristo, sepolti con Cristo, cfr. Rm 6, 1-11); la penitenza, può diventare mistagogia convertitiva del battesimo, ossia ripercorrere nell'oggi penitenziale il cammino iniziatico e vissuto col santo battesimo. Proclamare la fede battesimale è un ritornare alla fonte primordiale della salvezza:66 3.Dalla Cristologia pneumatologica al sacramento della penitenza: l'azione dello Spirito in ordine al perdono Lo Spirito icona del dono di amore del Padre "I nostri misteri, dice s. Giovanni Crisostomo, non sono commedie: là [nei misteri] tutto è regolato dallo Spirito" (Hom. In 1Cor, 41,4). La pentecoste giovannea e lucana, sono emanazione del mistero Pasquale e del Cristo glorioso. Il risorto è presenza del dono dello Spirito. Giustamente si deve parlare di una Cristologica pneumatologica in cui si collocano tutti i sacramenti. "… Per Giovanni il Dono dello Spirito è plurimo, di seguito, perenne. Il Padre Lo versa dal costato trafitto della Bontà del Figlio «subito», ossia già il Venerdì della Parasceve, all'ora nona, dalla Croce, luogo della Pentecoste «stavrotica» (staurós, la croce) sotto la forma del Sangue e dell'Acqua che «subito» creano la Sposa d'amore di sangue" (Gv 19, 34 e 30).67 Dall'atto di amore sacrificale nasce lo Spirito per la remissione dei peccati. Amore e Spirito sono la forza del mistero pasquale che cambia e converte il peccatore nel santo. Gesù Cristo, Battezzato al Giordano nello Spirito Santo, cresimato nello Spirito al Tabor, è corroborato per la missione finale della croce per essere risuscitato dallo Spirito a pasqua.68 Cosa significa grazia? Cfr. A. Miralles, I sacramenti cristiani, trattato generale, Roma 1999, p. 113. Nella liturgia rinnovata della penitenza (cfr. SC 72; EV1/125), non si fa cenno alla professione di fede battesimale che contempla sia il ripudio del male, sia l'adesione alla vita di grazia che scaturisce dalla Trinità sia nella prima misericordia che nella seconda. 67 T. Federici, Cristo Signore Risorto Amato e Celebrato, I. commento al lezionario domenicale cicli A,B, C, Eparchia di Piana degli Albanesi, Palermo 2001, p.1346. 68 Cfr. T. Federici, Cristo Signore Risorto Amato e Celebrato, I. commento al lezionario domenicale cicli A,B, C, Eparchia di Piana degli Albanesi, Palermo 2001, p. 1525. 65 66 note 199 note 200 luglio 2010 - anno X Ora si può leggere teologicamente e misticamente l'ultima parola di Cristo sulla croce: “tutto è compiuto!” (Gv 19, 30) in cui si evidenzia la fine della vita terrena dell'uomo, e l'inizio, il fine, il telos, la ragione del suo sacrificio. "Il Signore come punto d'arrivo della sua vita terrena, del suo stesso ministero messianico, ha la croce, e come meta finale la Resurrezione".69 È l'inizio della fine: l'ultimo atto di Gesù è stato quello del perdonare il ladro pentito (cfr. Lc 23, 39-43); ed il primo atto da Risorto è quello della piccola Pentecoste Giovannea con il mandato di perdonare i peccati. Come non scoprire in questo la volontà di amore del Padre di salvare l'uomo per mezzo di Cristo e quello dell'uomo pentito di essere accolto nel grembo dell'amore trinitario? Il Padre ha atteso da sempre questo momento, ed ora non può che donare a piene mani il per-dono causato dall'amore oblativo del Figlio. I sacramenti sono presenza salvifica di Cristo risorto. Il Cristo glorificato e glorioso fa dono dello Spirito e ci concede il dono della salvezza attraverso i segni sacramentali. "Nel sacramento della penitenza lo Spirito Santo che «è più pronto alla misericordia che alla severità» (S. Ambrogio, De Paen., 1, 2), fa sì che la «miseria» dell'uomo diventi occasione e via per sperimentare Gesù, la «misericordia» incarnata e personificata di quel Padre che è «ricco di misericordia» (Ef 2, 4), e che si è riposato, come scrive s. Ambrogio, solo dopo aver creato uno cui poter perdonare i peccati: «Creò il cielo, ma non leggo che si riposò; creò la terra, ma non leggo che si riposò; creò il sole, la luna, le stelle neppure qui leggo che si riposò; leggo invece che creò l'uomo, e allora si riposò, avendo in lui uno cui poter perdonare i peccati»" (Hexaem., 6,67).70 1.Il sacramento della penitenza ci rapporta al MP e alla pentecoste: quindi un nuovo battesimo (seconda tavola di salvezza). Cristo possiede la pienezza dello Spirito, dono del Padre, che lo ha resuscitato dai morti. Ora Cristo risorto lo può donare agli Apostoli e quindi alla chiesa. La sera di quello stesso giorno [ giorno di pasqua ], il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». 20Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. 21Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi». 22Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; 23a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20). 19 "Non c'è invio dello Spirito santo (dopo il peccato originale) senza la Croce e la Resurrezione (Gv 16,6). (…) La missione dello Spirito «attinge» alla redenzione“ (Gv 16,15). 71 È T. Federici, Cristo Signore Risorto Amato e Celebrato, I. commento al lezionario domenicale cicli A,B, C, Eparchia di Piana degli Albanesi, Palermo 2001, p. 1521. 70 F. Lambiasi - D. Vitali, Lo Spirito Santo: Mistero e presenza, per una sintesi di pneumatologia (Corso di teologia e sistematica 5), Bologna 2005, p. 294 71 Dominum et Vivificantem. n. 24 69 il Cristo risorto che dà il potere di rimettere i peccati in forza dello Spirito Santo (epiclesi) e ciò avviene proprio nel giorno di pasqua (cfr. Gv 20,20-23). Se Cristo prima di Pasqua perdonava i peccati, ora lui non esercita più questo potere perché lo ha demandato allo Spirito sia quello donato il giorno di Pasqua, che quello della Pentecoste (cfr. At 2,1-4). Con la Pasqua di Cristo, ossia il suo passaggio da questa all'altra Vita e con la comunione con il Padre, termina il suo operare e lo demanda allo Spirito, all'altro Consolatore (cfr. Gv 14, 16) e quindi agli apostoli e alla chiesa.72 Infatti lo Spirito ha il compito di accogliere quello che Cristo ha realizzato in tutta la sua vita dalle parole, ai segni, ai gesti fino alla sua morte redentiva e di comunicarlo agli apostoli e alla chiesa nel mistero. Infatti lo Spirito ricorderà tutto ciò che ha detto Gesù, anzi Gesù afferma che è importante, anzi necessario che lui vada al Padre (resurrezione e ascensione) perché lo manderà (cfr. Gv 16, 7) e perché lo Spirito abbia ad agire continuando l'opera salvifica di Cristo allora insegnerà quello che Cristo ha detto (Gv 14, 26), e vi guiderà alla verità. L'azione dello Spirito è a partire dalla Pentecoste a cui Cristo demanda tutta la sua opera di salvezza e di santificazione. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. 14Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà. 15Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve l’annunzierà (Gv 16, 13-15). 13 L'exusia di Cristo, la doxa di Cristo risorto ora passa alla chiesa per il dono dello Spirito. Oggi, è l'eterno presente che lo Spirito realizza a nostro favore; l'oggi è quello del Kerigma mistero di grazia, oggi sei con me in paradiso. Ora si coglie tutta l'importanza della pneumatologia in ordine alla vita della chiesa e della stessa chiesa. Dire i sacramenti significa affermare la presenza viva e operante della Trinità ed in particolare dello Spirito. Ciò che Cristo ha realizzato attraverso la sua morte e resurrezione, lo Spirito lo rende presente, attuale ed operativo. Infatti 1.senza lo Spirito Cristo non è risorto; 2.senza lo Spirito non c'è il mistero pasquale in noi; 3.senza lo spirito non c'è chiesa;73 4.senza lo Spirito non c'è battesimo e quindi la rinascita spirituale, non c'è conversione, non c'è perdono; 5.senza lo Spirito l'acqua ci lava ma non dal peccato e quindi non ci santifica; 72 73 Cfr. A. Miralles, I sacramenti cristiani, trattato generale, Roma 1999, p. 233. Dov'è la Chiesa, è anche lo Spirito di Dio; e dov'è lo Spirito di Dio, è la Chiesa e ogni grazia” (Sant'Ireneo di Lione, Contro le eresie III, 24, 1-2); … Perché la Chiesa è detta tempio dello Spirito Santo?… La Chiesa non se li conferisce da se stessa; è Cristo che, per mezzo dello Spirito… note 201 note 202 luglio 2010 - anno X 6.senza lo Spirito non c'è grazia ossia la presenza viva del Risorto; 7.senza lo Spirito non c'è parusia, l'escatologia gloriosa finale. La presenza dello Spirito è per l' invocazione della chiesa. L'epiclesi nel sacramento non è accessorio, ma è parte sostanziale del sacramento, è l'invocazione-presenza che compie la conversione del peccatore pentito (dal peccato alla santità). Dimenticare lo Spirito significa rendere magico l'atto e inefficace il segno sacramentale. I doni cresimali sono doni dello Spirito anche in ordine alla penitenza, si pongono quale luce che illumina la vita interiore del penitente. Infatti è lo Spirito che guida il penitente nel cammino di riconversione verso Dio. “E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre” (Gal 4, 6). Ora è lo Spirito che riporterà il peccatore pentito di nuovo alla preghiera del Padre nostro. 2.Lo Spirito compie il prezioso lavoro di conversione, infatti: 1.ci fa riconoscere il nostro peccato (cfr. SC 109; EV1/196), 2.ci convince circa il peccato (cfr. Gv 16, 8), "… Per cui non è tanto il peccato in sé a costituire un ostacolo alla salvezza, ma l'ostinazione nel rifiutare l'invito divino alla conversione, all'accoglienza di un amore che la logica umana tiene «eccessivo», come nel caso del Figlio maggiore della parabola di Lc 15, 11-32"74, 3.ci fa desiderare l'incontro con il Cristo che ci dona la grazia, 4.ci spinge ad andare alla penitenza sacramentale, 5.ci riporta alla condizione post battesimale, 6.rende presente in noi la vita della Trinità, 7.ci dispone all'incontro escatologico. È ancora lo Spirito che ci apre alla conversione e alla remissione dei peccati. Nel credo noi affermiamo: “credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita” riferendosi a quella battesimale che ci viene ridonata con il sacramento della penitenza. Il tempo di pasqua è tempo Pneumatico, tempo in cui lo Spirito è l'artefice del perdono. La chiesa così infatti prega: “Venga, Signore, il tuo santo Spirito e disponga i nostri cuori a celebrare degnamente i santi misteri perché egli è la remissione di tutti i peccati”.75 e Giovanni Crisostomo afferma: “Dove è lo Spirito, ivi è la remissione dei peccati”.76 I sette doni dello Spirito, al pari dei sette sacramenti sono per la santità della chiesa e per ogni fedele. Ogni sacramento ci riporta alla presenza dello Spirito donato, perché operi in ciascuno. C. Ginam, Gesù e la buona notizia del perdono, in «Credere oggi» 16 (1996)5, p. 14, in A. Mariani, Il perdono cuore dell'esperienza morale, Città del Vaticano 2007, p. 39. 75 Sabato VII settimana del tempo di Pasqua, Orazione sopra le offerte. 76 Hom. in Pent. (P G 63 /995). 74 A.Formula assolutoria della celebrazione sacramentale77 Dopo la confessione materiale del penitente, il ministro pronuncia la formula sacramentale: • Dio Padre di misericordia (il padre è la fonte della grazia e della santità) • che ha riconciliato a sé il mondo nella morte e resurrezione del suo Figlio (il Battesimo è il primo frutto del Mistero Pasquale da cui scaturisce l'unica salvezza) • e ha effuso lo Spirito santo per la remissione dei peccati (nel giorno di pasqua, lo Spirito è per la remissione) • ti conceda, mediante il ministero della chiesa (l'exusia che il Cristo ha ricevuto dal Padre ora in forza dello Spirito è data alla chiesa per il ministero della riconciliazione) • il perdono e la pace. (sono i doni prettamente pasquali). • E io ti assolvo dai tuoi peccati (il ministro in nome Christi e in mente Ecclesiae, celebra il sacramento del perdono) • nel nome del Padre e del Figlio + e dello Spirito santo. (formula trinitaria come nel battesimo). • Amen. (è l'adesione del cuore e della mente, che il riconciliato deve proclamare con un assenso di fede per il dono celebrato e ricevuto). La preghiera di assoluzione ci pare la migliore sintesi di questa presenza trinitaria in cui la presenza dello spirito svolge un'azione di consapevolezza circa il penitente e lo muove alla grazia del perdono. In questa preghiera la chiesa manifesta il suo potere di donare il perdono effetto del mistero Pasquale attraverso lo Spirito. La liturgia usa lo stesso termine per l'Eucaristia e per la penitenza: effusione con il gesto epicletico sul capo del penitente. Occorre che questa presenza pneumatica sia più visibile, sia facendo ascoltare al penitente la preghiera, sia imponendo il gesto della mano, infatti la invocazione epicletica chiede la formula-invocazione con il gesto-imposizione della mano. Se ciò è assolutamente importante per l'Eucaristia perché non dovrebbe essere visibile ed udibile per la penitenza? Nell’eucaristia la potenza dello Spirito cambia il pane ed il vino in Cristo, qui cambia il giudizio di condanna in atto di misericordia attraverso il MP ed il peccatore pentito è santificato. La preghiera che concede il perdono dovrebbe altresì essere proclamata e non sussurrata. Il penitente con il celebrante fanno professione di fede in chi dona la grazia perduta con il peccato. 77 Cfr. A. Miralles, I sacramenti cristiani, trattato generale, Roma 1999, p. 215. note 203 note 204 luglio 2010 - anno X In tutti i sacramenti c'è la professione di fede. Questa viene proclamata proprio dalla preghiera del ministro che dovrebbe far cogliere al penitente non solo l’origine trinitaria del perdono ma il credere in chi ci perdona: il mistero di Dio effuso dallo Spirito. B. Il ministro è colui che porge la grazia della misericordia di Dio ma: la sua non è una mera presenza, non è un mero strumento nelle mani della chiesa non è un infastidito per ciò che sta celebrando e ascoltando non è un frettoloso. Sta celebrando la liturgia del sacramento della penitenza, al pari di tutti gli altri sacramenti. "Il colloquio con il ministro è essenzialmente teologico ed ecclesiale, che vede nello Spirito Santo l'agente principale e nella chiesa il luogo teologico".78 L'abito liturgico ed il luogo devono riflettere l'azione della chiesa che celebra i divini misteri: ripresenta l'azione di Cristo morto e risorto e non atti privati (Cfr. SC 26: EV 1/42-43). La nostra disinvoltura nella celebrazione, non può essere anche causa di disaffezione o di allontanamento dal sacramento? Il ministro è il mystês79 ossia chi in persona Christi e su exusia et in nomine della chiesa (cfr. PO 13: EV 1/1288), conduce a celebrare la rahamim. Quindi, il Ministro celebrando il sacramento: 1.mi re-introduce nel mistero pasquale di Cristo, mi immerge misticamente nella vasca battesimale Pasquale, 2.mi riconduce alla madre chiesa perché possa celebrare la cena del Signore 3.lui con me, ed io con lui celebriamo la rahamim ossia le viscere della misericordia divina, il suo cuore, che si commuove di fronte a me peccatore pentito che ha infranto la berit e per grazia del Dio fedele, viene ad essere ristabilita. Se il ministro per primo non fa esperienza di misericordia, avvolto nel manto della chiesa madre, sarà molto impegnativo celebrare la misericordia per il fratello. In casa di Simone il fariseo (Lc 7,36-50) abbiamo la metodologia sacramentale. La peccatrice: - si auto denuncia e si pente del peccato - si avvicina a Cristo con amore umile e confidente (atto di fede implicito) - le vengono perdonati i peccati (Chi può perdonare se non Dio solo?) - l'amore e la fede che ha dimostrato verso il Cristo, l'ha salvata.80 A. Mariani, Il perdono cuore dell'esperienza morale, Città del Vaticano 2007, p. 113-114. S. Giovanni Crisostomo, "dice di sé di essere un iniziatore sacro, un mysêts, un pedagogo, colui che conduce i catecumeni al mistero della Iniziazione e i fedeli dentro il mistero già ricevuto" cfr. O. Pasquato, Catechesi ecclesiologica nella cura pastorale di Giovanni Crisostomo, in: Ecclesiologia e catechesi patristica, Roma 1982, pagg. 137-172, in V.M. Sirchia, Mistagogia dei misteri sacramentali nella chiesa bizantina, Eparchia di Piana degli Albanesi 2002, p. 39. 80 Nella teologia del sacramento si poneva l'accento sulla giuridicità della formula e dell'atto, ed il penitente era più un sottoposto al regime giuridico della chiesa (che lo giudicava, lo rimandava, 78 79 Perché non pensare che alla perdonata non le sia concesso di partecipare al banchetto con Cristo? Come nella parabola lucana (15) il padre prepara il banchetto per il figlio, perché non sottindenderlo per la perdonata? 4.Dimensione ecclesiologica del sacramento, l'oggi della salvezza: il tempo della chiesa è tempo dello Spirito e dei sacramenti per la salvezza La chiesa, maestra e madre di misericordia,81 icona della debolezza amorosa della Trinità. "Ed ecco allora che colui che non commise peccato e sulla cui bocca non fu trovato inganno, può dire: «Pietà di me, o Signore: vengo meno» (Sal 6,3), perché colui che ha la debolezza di lei, ne abbia anche il pianto e tutto sia comune allo sposo e alla sposa. Da qui l’onore della confessione e il potere della remissione, per cui si deve dire: «Va’ a mostrarti al sacerdote» (Mt 8,4). Perciò nulla può rimettere la Chiesa senza Cristo e Cristo non vuol rimettere nulla senza la Chiesa. Nulla può rimettere la Chiesa se non a chi è pentito, cioè a colui che Cristo ha toccato con la sua grazia; Cristo nulla vuol ritenere per perdonato a chi disprezza la Chiesa. «Quello che Dio ha congiunto l’uomo non lo separi. Questo mistero è grande lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa» (Mt 19,6; Ef 5,32). Non voler dunque smembrare il capo dal corpo. Cristo non sarebbe più tutto intero. Cristo infatti non è mai intero senza la Chiesa, come la chiesa non è mai intera senza Cristo" 82. La chiesa è il soggetto celebrante la penitenza in nomine ed in persona Christi (cfr. SC 7: EV1/ 9-12). “Ricordare”(far ritornare al cuore) queste verità, al fedele, caduto nell'amartìa, o che abitualmente vive nel male o nell’indifferenza, significa fargli venire la nostalgia della santità, che inconsciamente porta nel cuore, e fargli prendere coscienza della sua dignità. Significa fargli capire che il peccato non può essere il suo stile di vita, ma solo un incidente di percorso. Solo allora brillerà nella sua vita la luce della conversione: la metànoia".83 L'incontro di Gesù con i peccatori si concludeva sempre con questa espressione: lo riaccoglieva, dopo averlo sottoposto a penitenza, nel giovedì santo da parte delle chiesa-vescovo per poter celebrare la Pasqua) più che un samaritano da fasciare e da prendersi cura di lui rispettando i tempi di Dio, quelli della conversione personale e della fatica di essere accolti che la formula giudiziaria. Quanto è vero ciò che diceva Agostino, meglio zoppicare camminando sulla strada evangelica che correre ed essere fuori dal vangelo. 81 Cfr. J.-C. Sagne, "Ti sono perdonati i tuoi peccati", in J.-P. VAN Schoote.- J.-C. Sagne, Miseria e misericordia, perché e come confessarsi oggi, Magnano 1992, pp. 57-75. 82 Isacco Della Stella, Discorsi 11. 83 V.M. Sirchia, Mistagogia dei misteri sacramentali nella chiesa bizantina, Eparchia di Piana degli Albanesi 2002, p. 77. note 205 note 206 luglio 2010 - anno X “la tua fede ti ha salvato, ti sono perdonati i tuoi peccati.84 La conseguenza è una festa di santità in seno alla chiesa intera come Corpo Mistico, chiesa dei santi e chiesa dei santi pellegrini: "Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione" Lc 15,7). "C’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte" (Lc 15,10). L'opera salvifica di Cristo, che si compie nell'oggi della chiesa attraverso questo sacramento, si espande a tutta l'ecclesiologia del Corpo Mistico (SC 7:EV1/11-12). È Cristo stesso che apre alla gioia l'intera chiesa per l'avvenuta conversione. I sacramenti sono sempre manifestazione della pasqua di Cristo nella chiesa e della maternità di lei verso il peccatore pentito. Marco nel miracolo al paralitico di Cafarnao dice:”Gesù vedendo la loro fede disse al paralitico: «Figliolo ti sono rimessi i tuoi peccati»” (2,5). La loro fede comprende sia quella del paralitico che dei suoi portatori. In una lettura spirituale si può notare che la fede del paralitico è sopportata da quella dei portatori e viceversa. Perché non vedere nella fede dei portatori la fede della chiesa che accompagna, sostiene e rende più forte, pura ed ardimentosa quella del paralitico che rappresenta il peccatore? La chiesa non si sostituisce, ma offre la propria testimonianza di adesione al mistero di Cristo, lei è la sposa (cfr. Ef 5,24-30) a cui lo Sposo, il Risorto non può negarle nulla, "poiché siamo membra del suo corpo" (Ef 5,30). È questa la massima garanzia che ci viene data dal Signore. Senza la chiesa noi non siamo. • “Non può avere Dio per Padre chi non ha la chiesa per madre" (S. Cipriano, Sull'unità della chiesa, 6,8) • “La funzione della chiesa è di essere madre e figlia: infatti se la si considera nell'insieme dei membri che la costituiscono è madre; tuttavia presi individualmente essi sono figli" (S. Agostino, Questioni sui Vangeli, 1,18). La parabola del Figlio prodigo potremmo definirla come la lettura spirituale (nel senso più ampio e completo del sacramento del perdono-Lc15, 11-32). Nel testo si parla del Figlio che da peccatore (Agostino direbbe la miseria) si rivolge al Padre (la misericordia). Il Figlio denuncia la sua condizione di peccatore, ritorna pentito ed attende di essere accolto. L'abbraccio e il bacio del Padre sono il “segno sacramentale“ del perdono. il banchetto è segno dell'eucaristia a cui si è destinati dopo aver ricevuto il santo perdono, che a sua volta è il segno del banchetto escatologico. La parabola sottende l'azione sacramentale in modo ampio e completo. Morte e vita richiamano il concetto paolino di Rm 6, 1-11: morti-con Cristo e viventi-con lui, risorti-con lui, e sebbene ciò sia specifico del sacramento del battesimo ciò può essere riferito molto bene al sacramento della penitenza in cui avviene lo stesso procedimento e passaggio spirituale. 84 • Come nel battesimo e in tutti i sacramenti, la presenza della chiesa è fondamentale: "l'intera chiesa madre che è nei santi agisce: tutta genera tutti e ognuno genera tutti" (S. Agostino, Commento ai Salmi, 98,5). La realtà del Corpo Mistico della chiesa, soffre e gioisce per ogni conversione. "Cristo ha trasformato la storia del mondo più con la sua morte e resurrezione che con il suo insegnamento. È dopo essere morto e risorto che si è sprigionata la sua potenza di Signore. Come Cristo, anche i morti in comunione con lui, dalla loro dimora eterna, esercitano il massimo della loro influenza perché conservano un rapporto radicalmente personale con la chiesa che ancora ha dimora sulla terra”.85 Il ruolo della chiesa è fondamentale nell’economia del sacramento della penitenza e nel rapporto con lo stesso penitente. Nessuno si può dare la vita da solo. "Quando il cristiano chiede perdono, non pretende di strappare un'assoluzione al cuore di Cristo, ma sa di celebrare il Perdono che Dio stesso gli ha offerto donandogli la presa di coscienza del suo peccato, segno misterioso dello sguardo perdonante di Cristo. Pertanto, l'esperienza del per-dono di Dio va al di là della semplice logica umana: fa parte del suo mistero".86 Quanto è confortante conoscere il ruolo della Chiesa verso il peccatore!87 “Il mio peso, altri lo portano, la loro forza è la mia. La fede della chiesa viene in soccorso della mia angoscia, la castità altrui mi sorregge nelle tentazioni della mia lascivia, gli altrui digiuni tornano a mio vantaggio, un altro si prende cura di me nella preghiera e così posso menar vanto dei beni altrui come dei miei propri… grazie a questo amore, faccio miei non solo i loro beni, ma essi medesimi. Credere che la chiesa è santa che altro vuol dire se non che essa forma la comunione dei santi. E anche se dovessi andare verso la morte, devo essere certo che non sono io che muoio o che almeno non muoio solo, perché Cristo e la comunione dei santi soffrono e muoiono con me. Nella via che conduce alla passione e alla morte siamo sempre accompagnati dalla Chiesa tutta” 88. Il testimone non sospetto di questa proclamazione di fede è Lutero. Le note peculiari della chiesa89 sono di essere una persona, di essere sposa perché è di Cristo sposo, madre perché ci ha generati a Dio, maestra perché è educatrice in ordine al regno di Dio. Tutte si ritrovano nella celebrazione sacramentale. CEI, Signore da chi andremo? Il catechismo degli adulti (Ed. per la consultazione e la sperimentazione), Roma 1981, p. 310. 86 A. Mariani, Il perdono cuore dell'esperienza morale, Città del Vaticano 2007, p. 94. 87 Cfr. A. Miralles, I sacramenti cristiani, trattato generale, Roma 1999, p. 211. 88 Lutero, Opera Omnia, W.A., VI,13ss., in: CEI, Signore da chi andremo? Il catechismo degli adulti (Ed. per la consultazione e la sperimentazione), Roma 1981, p. 311. 89 Cfr. T. Federici, Cristo Signore Risorto Amato e Celebrato, I. commento al lezionario domenicale cicli A,B, C, Eparchia di Piana degli Albanesi, Palermo 2001, pp. 40-44. 85 note 207 note 208 luglio 2010 - anno X La chiesa nella celebrazione del sacramento: 1.accoglie il peccatore pentito e desideroso di conversione 2.lo conduce alla fonte della misericordia (mistero pasquale-battesimo) 3.lo riabilita donandogli ciò che lo stesso penitente desidera: “riconciliarsi con il Signore”,“fare pace con Dio, con la chiesa e con i fratelli”, riannodare il filo spezzato con il peccato, entrare nella berit, partecipare alla gloria-Kabod 90 del Risorto 4.non lo abbandona ma lo sostiene con la sua preghiera, con la testimonianza, con il suo amore. Il penitente deve lasciarsi riconciliare, ossia occorre non resistere a Dio non opporre resistenza, dimostrare una profonda umiltà (il Signore guarda con umiltà gli umili) 1. Il soggetto penitente è il fedele battezzato che ora è in rottura con tutti (dimensione del peccato): ha vissuto il peccato come fatto traumatico all'interno della sua coscienza e nei rapporti con Dio e con la chiesa (occorre avere coscienza del peccato più che avere coscienza dei tanti peccati). Paolo parla sì di peccati, ma soprattutto di peccato ¡μαrτία (cfr. Rm 5,12) quasi che tutte le singole colpe fossero racchiuse in un solo evento negativo che ha prodotto la morte di Cristo.Prendere coscienza del peccato è dono dello Spirito. Già crismati nel battesimo è lo stesso Spirito che ci illumina e ci fa prendere coscienza del nostro stato di peccatori. Il peccato è stato convertito-giustificato per mezzo del sangue di Cristo e quindi siamo stai riconciliati con Dio e con gli uomini (cfr. Rm 5,10-11). 2. Il penitente ora esprime il desiderio della conversione (desiderio di rinnovarsi spiritualmente recandosi alla celebrazione sacramentale). Il ritorno a Dio è voce dello Spirito, è voce della chiesa. Quello Spirito che ci ha resi figli di Dio ora ci chiede di ritornare a lui (cfr. Rm 8, 9-17). Se con il battesimo siamo immersi nel Mistero Pasquale di morte e resurrezione, con la penitenza noi siamo rigenerati attraverso lo Spirito. Ogni celebrazione penitenziale è memoria battesimale per origine e nuova Pentecoste, perché produce lo stesso effetto: la santificazione. 3. Il soggetto penitente ora si pone con fiducia davanti alla misericordia di Dio che la chiesa celebra con una larghezza di animo. "Il perdono è la rivelazione piena, lo svelamento radicale della carità di Dio".91 Occorre quindi una duplice fede perché si celebri e si ottenga il sacramento del perdono: la fede della chiesa e la fede del penitente. Cfr. S. Aalen, Gloria, onore, in Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, (a cura di L. Coenen - E. Beyreuther - H. Bietenhard), Bologna febbraio 19802, pp. 809-813. 91 G. Piana, Sapienza e vita quotidiana. Itinerario etico-spirituale. Interlinea, Novara 1999, p. 80 in: A. Mariani, Il perdono cuore dell'esperienza morale, Città del Vaticano 2007, p. 23. 90 "La confessione del peccato è possibile nella misura in cui si confessa la fede nella grazia. [… ] La confessione del peccato è confessione della fede nella grazia, la quale è grazia che salva, che perdona. Il perdono è il luogo proprio in cui il peccato può essere confessato"92. Come in tutta l'azione sacramentale, la fede deve sostenere questo itinerario: • la fede antecedente in quanto muove il peccatore alla misericordia di Dio; • ma la fede è richiesta anche per la stessa celebrazione sacramentale in quanto il sacramento è atto e segno di fede (fede concomitante- celebrante); • infine c'è una fede conseguente alla celebrazione del sacramento, questa non è solo garanzia di vita di fede, ma soprattutto forza spirituale, irrobustita dal dono stesso sacramentale che consente al fedele di crescere nel cammino verso Cristo93 la fede diventa mistagogia del sacramento. I sacramenti vivono in pienezza, dal giorno in cui vengono celebrati. La fede della chiesa è quella Pasquale e del giorno di Pentecoste, è quella di Pietro convertito che diventa testimone del risorto, è quella nel tempo della storia dei santi, lavati nel sangue dell'agnello che ora sono alla presenza del risorto. 1.Fede vera ma da verificare sempre, 2.Fede santa ma da risantificare partecipando al mistero di Cristo, 3.Fede vivificante, divinizzante che ci incorpora nel mistero della Santissima Trinità. 4.La fede di chi celebra il sacramento deve far leva su quella della chiesa ed essere inserita su quella, deve crescere e maturare nella testimonianza di quella. 5.Fare professione di fede (la mia fede in quella della chiesa), significa celebrare la fede Pasquale. Non ci sono sacramenti senza ritornare mistagogicamente a quella fede. È ancora il Cristo risorto e vivente che noi celebriamo in ogni sacramento. "A ciò lo spinge il suo amore, per cui l'atto culturale va inteso come gesto d'amore che attrae, invita, si offre e che in tal modo è efficace (E. Schillebeeckx, Cristo, sacramento dell'incontro con Dio, 1960, 89s.). Tale amore esige una corrispondente risposta d'amore in chi lo riceve: l'impegno interiore di fede è parte costitutiva dell'evento sacramentale (ibid., 135). Senza l'impegno personale di risposta il rito sarebbe un «segno menzognero» (ibid.,)".94 A. Fumagalli, La riconciliazione nella vita di comunità. Riflessione teologico-morale, in Aa.Vv., Riconciliazione. Dono per la chiesa, Àncora, Milano 1999 pp. 96-98, in A. Mariani, Il perdono cuore dell'esperienza morale, Città del Vaticano 2007, p. 22. 93 Ogni sacramento chiede l'actuosa participatio – l'attiva partecipazione, che comporta un impegno ed un esercizio-virtù che devono produrre un atteggiamento esterno e spirituale sì da rendere proficuo al massimo la celebrazione (cfr. SC 11,21/2,27/1,48,50/1). 94 A. Ganoczy, Sacramenti in: I concetti fondamentali della teologia (P. Eicher, Ed), (Biblioteca di teologia contemporanea, 142), Brescia 2008, vol 4, p. 25. 92 note 209 210 luglio 2010 - anno X note 5.Qualche indicazione di teologia pastorale95: la celebrazione della penitenza e la direzione spirituale96 1.Nel sacramento della penitenza, la chiesa celebra l'iniziativa salvifica del Padre in Cristo, in forza dello Spirito, mi riporta al dono del Padre, quando io non ne sono degno, e che mi viene elargito solo per magnanimità e cuore di Dio. Dono-gratis ma comunque a caro prezzo (cfr. 1 Cor 6,20; 7,23). Il sacramento della penitenza chiede un cammino che il penitente deve porre in vista dello stesso incontro con Cristo, il mistero pasquale, la sua gloria. Il ministro è l'educatore della coscienza della fede. “Il ministro della riconciliazione è chiamato a manifestare il suo essere educatore. Il confessore può divenire così un accompagnatore spirituale di colui che si accosta al sacramento della Riconciliazione. «Pastoralmente parlando, è un errore costruire una artificiosa contrapposizione tra confessione sacramentale e direzione spirituale».97”98 2.Legare la celebrazione del sacramento della penitenza ai tempi liturgici in un'azione coordinata pastoralmente. Preparare la celebrazione sacramentale in ordine ai misteri da celebrare. Il sacramento della penitenza deve precedere i tempi forti per vivere meglio il mistero che si va a celebrare: 1.la penitenza sacramentale della Quaresima-Pasqua diventa mistagogia del sacramento del battesimo, e fa scoprire, in quanto è lo Spirito che educa alla responsabilità circa il peccato, e conduce ad un rinnovamento nel cammino di fede in vista della celebrazione del MP. La celebrazione del MP nel suo triduo di passione, morte, sepoltura e resurrezione, è il telos e l'archè dell'Iniziazione cristiana e del cammino di santità. Se il sacramento della penitenza era solo per i peccatori pubblici e celebrato dal vescovo99, in verità tutto il tempo quaresimale tendeva ad una maggiore spiritualità e conversione. 2.la penitenza del Tempo pasquale-Pentecoste, fa scoprire il cammino di conversione alla luce dei doni dello Spirito in seno alla chiesa e fuori di essa. La Costituzione sulla sacra liturgia (n.12) sottolinea l'aspetto complementare che deve assumere tutta l'attività della chiesa in ordine alla formazione e santificazione. Il sacramento della penitenza, come tutti i sacramenti non possono vivere da sé e per sé, ma sono frutto e seme di tutta l'azione dello Spirito che si manifesta nell’armonia della celebrazione liturgica. 96 Cfr. D. Bourgeois, La pastorale della chiesa (Amateca 11) Milano 2001, pp. 626-629. 97 L. Casto, La direzione spirituale come paternità, Effatà, Cantalupa, 2003, p.219, in: A. Mariani, Il perdono cuore dell'esperienza morale, Città del Vaticano 2007, p. 118. 98 A. Mariani, Il perdono cuore dell'esperienza morale, Città del Vaticano 2007, p. 118. 99 Cfr. R. Rossi, La formazione del sacramento della Penitenza, un ritorno alla prassi battesimale della tradizione antica (Secoli I I-VII), Chirico, Napoli 2004, pp. 59-69. 95 3.la penitenza del tempo di Avvento-Natale, educa all’attesa dello Sposo per entrare con lui alle nozze eterne (cfr. Mt 25,1-13). La celebrazione della penitenza in questo tempo deve saper guardare all’evento storico della nascita di Gesù (primo avvento) ma anche a quello escatologico, della parusia di gloria (secondo avvento). Pertanto non è una semplice celebrazione in ordine alla festa del Natale, incarnazione-nascita di Gesù, ma è celebrazione-attesa, preparazione all’evento finale che ogni battezzato dovrà affrontare. 3.Vivere la doppia verità del sacramento ossia, la virtù della penitenza che precede e ne segue il sacramento e la stessa celebrazione in vista di un maggior coinvolgimento spirituale del mistero di Cristo nell'oggi della chiesa attraverso la liturgia. La celebrazione della penitenza ha un suo telos, una teleologia. Se il cammino penitenziale quaresimale era l'ultima tappa del catecumenato in vista della celebrazione del sacramento pasquale (battesimo-cresima-eucarestia)100, perché non proporre la stessa celebrazione sacramentale in ordine alla Pasqua, alla Pentecoste, al Natale come tappe di un cammino esperienziale penitenziale in cui si celebra il dono di grazia dell’opera di Cristo? Nella storia del sacramento, circa i peccatori pubblici, il cammino quaresimale diventava l'esercizio della virtù della penitenza sostenuta della parola di Dio, dalla preghiera della chiesa, dalle opere di giustizia di carità. Il peccatore veniva così accolto nella comunità chiesa dal celebrante-vescovo e gli veniva offerto il perdono perché potesse celebrare il mistero pasquale. Perché allora non fare rifiorire nelle nostre comunità questa attenzione teologicopastorale del sacramento, valorizzando l'anno liturgico con le tre solennità che ci presenta! Qui si colloca la riflessione sulla teologia pastorale che nulla ha a che vedere con la prassi ossia con ciò che si è fatto o si è fatto sempre così. Per comprendere bene quindi il sacramento della penitenza occorre comprendere bene o riprendere con l'aiuto dei padri della chiesa, la mistagogia del sacramento battesimale. Valorizzando il sacramento pasquale per eccellenza, il santo battesimo, si comprende e si vive meglio il dono della penitenza che ha come motivazione la stessa del battesimo e come finalità l'eucaristia. Se il sacramento della penitenza mi rinnova e riconduce a quello battesimale, anche quello sarà sacramento pasquale. Da ciò si evince come la strada maestra da seguire per il nostro sacramento è in fine l'anno liturgico, vera scuola di conversione e di santità. 6.Conclusione Se si vuole cogliere la portata del sacramento della penitenza, occorre ritornare al battesimo; per gustare la gioia del perdono penitenziale, occorre ritornare al fonte battesimale; 100 Cfr. Rito dell'iniziazione cristiana degli adulti(RICA), Introduzione nn. 27-36. note 211 note 212 luglio 2010 - anno X la mistagogia del santo battesimo è la migliore catechesi e preparazione al sacramento penitenziale. 1.Lì c'è la vasca? Qui l'inginocchiatoio. 2.Lì c'è la madre chiesa che ti genera? Qui c'è la stessa madre chiesa che ti offre il perdono e ti riaccoglie nel suo grembo. 3.Il ministro è lo stesso: Cristo Signore che ti concede la grazia offerta dalla chiesa. 4.Lì la veste della nuova dignità di figlio di Dio e la fiamma della fede, qui la veste purificata dal sangue di Cristo e la luce resa più viva dalla grazia riconquistata. 5.Il battesimo come la penitenza è ordinato per l'Eucaristia. Diceva il S. Curato D'Ars: "È più sollecito Dio a perdonare ad un peccatore pentito che non una madre a liberare suo Figlio dal fuoco".101 La Spiritualità del sacramento è impegno della teologia pastorale e liturgica. Se non si vuole vanificare la grazia e la gioia del sacramento, e la potenza del MP, della forza dello Spirito, è necessario che terminata la celebrazione sacramentale, si abbia il congruo tempo per il ringraziamento, per la preghiera di lode, per benedire la chiesa che attraverso il suo ministro ci ha riconciliati. Un’anziana signora, quando desiderava celebrare il sacramento diceva: “voglio fare pace”. Contemplare questa “pace ritrovata” davanti a Dio, a sé, alla chiesa e agli altri è importante tanto quanto saperla custodire102. Al termine della celebrazione del sacramento della penitenza è doveroso rendere grazie al Padre nel Figlio per lo Spirito, il modo migliore è immergersi nella celebrazione del mistero eucaristico, il banchetto che il Padre prepara al figlio che torna è tipo del sacramento eucaristico e del banchetto eucaristico. Riparare il male in tutti i modi possibili e impegnarsi a non farlo più (ricordiamo l'atteggiamento di Gesù nei confronti dell'adultera: s'incontrano la miseria e la misericordia e Gesù attraverso la misericordia congeda la donna incoraggiandola a non peccare più cfr. Gv 8,1-11). Molto opportunamente si chiede di presentare, secondo la dottrina non ancora smentita, la contrizione e la soddisfazione. Quest’ultima ridotta ad un puro gesto formale, rende evanescente l’impegno del sacramento103. Riparare il male ed il peccato commesso, significa ricostruire con il perdono l’alleanza con Dio, con la chiesa ed i fratelli. Con la fatica si sperimenta la gioia. La dolcezza della parola di Dio diventa il primo balsamo che lenisce le ferite del peccato confessato e perdonato. B. Bro – M. Carrouges, Il Curato D'Ars, Brescia 1986, p. 63. Cfr. R. Rossi, La formazione del sacramento della Penitenza, un ritorno alla prassi battesimale della tradizione antica (Secoli II.VII), Chirico, Napoli 2004, p. 164. 103 Cfr. D. Bourgeois, La pastorale della chiesa (Amateca 11), Milano 2001, p. 515. 101 102 note Coppia in crisi e l’atteggiamento dei cristiani. “Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito”** 213 Domenico Marrone* [email protected] Lo scenario Questa sera affrontiamo un tema complesso e controverso. Prima di affrontare il tema specifico, può essere utile considerare brevemente i profondi mutamenti socio-culturali che hanno interessato la concezione e l’esperienza della famiglia. Di fatto, le recenti ricerche sociologiche mostrano una famiglia più instabile, che privilegia nuove soluzioni, nuove forme, nuovi assetti relazionali, nuovi partner, rispetto a valori più tradizionali come la stabilità, la fedeltà, la durata, l’impegno reciproco. Innanzitutto, assumo come punto di partenza quello che è chiamato da molti studiosi il “paradigma della provvisorietà”. È certo che l’imposizione di questa realtà porta alla fine del valore della “durata delle cose”, con il conseguente rifiuto delle scelte “definitive e per tutta la vita”. Tutto diviene rimpiazzabile e sostituibile. Sembra non esistere una verità oggettiva a cui far riferimento, il metro di ogni verità resta il soggetto; ognuno costruisce la sua verità. Esiste frammentazione senza fondamento. Non esiste e non può esistere un principio unificatore, tutto è relativo e opinabile. La conseguenza più evidente è che si scambia il valore oggettivo ed universale con il punto di vista soggettivo. Non esiste segno che lasci percorsi ben evidenti, ma tutto diventa, come nella fiaba di Pollicino che ha disposizione, * Direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani. Docente stabile di Teologia morale. **Conferenza tenuta a Barletta presso la parrocchia S. Giovanni apostolo il 17 aprile 2010, promossa dalla Commissione Diocesana Famiglia e Vita. Parlare di coppie ferite significa parlare di una categoria particolare di cristiani che ritengono di essere giudicati, condannati ed emarginati dai loro fratelli note 214 luglio 2010 - anno X per segnare il sentiero, solo briciole di pane, che vengono mangiate dagli uccelli. E quindi con il rischio di perdersi e non ritrovarsi.1 Ci rendiamo conto che parlare di coppie ferite significa parlare di una categoria particolare di cristiani che ritengono di essere giudicati, condannati ed emarginati dai loro fratelli. La Chiesa non vuole essere un giudice che condanna, ma una comunità che si adopera a tracciare per essi un cammino di salvezza. L’esperienza del fallimento coinvolge ormai, coppie di ogni età anche quelle che si ritenevano solide e ben attrezzate contro ogni difficoltà, coppie che hanno compiuto articolati e robusti cammini di preparazione al matrimonio cristiano, persone impegnate nella vita ecclesiale a vari livelli, nella catechesi, nei Consigli pastorali, nell’animazione dei percorsi formativi per fidanzati. La realtà dei fedeli separati e dei divorziati risposati, è sempre più presente nella comunità civile e nella comunità cristiana. È una realtà di sofferenza che non può non interessare e interrogare la Chiesa in tutte le sue articolazioni e la stessa comunità cristiana. È di fondamentale importanza far sentire la solidarietà, la vicinanza, l’amore di Dio verso le persone che hanno vissuto il trauma del fallimento del loro legame di amore e che chiedono di essere aiutate a ritrovare, in questa loro nuova situazione, sia essa subita o provocata, la strada della speranza e della relazione con Dio e con la Chiesa. La chiesa non è innanzitutto un’agenzia morale, ma luogo di annuncio di una speranza che ha in Cristo risorto il suo fondamento. Di fronte alla crescente e inquietante presenza di coppie e di persone separate e divorziate, il magistero di singoli vescovi, della conferenza episcopale italiana (CEI) e dello stesso Papa si è più volte interrogato e sono stati emessi molti documenti.2 Cfr. Grandis-Tosoni, Coniugi in crisi matrimoni in difficoltà. Teologia, magistero e pastorale si confrontano, Ed. Effatà, Cantalupa 2003, pp. 106-112. 2 DOCUMENTI MAGISTERIALI: Concilio ecumenico Vaticano II, Gaudium et Spes, costituzione pastorale, 7 dicembre 1965, nn. 47-52; CEI, Matrimonio e famiglia oggi in Italia, documento pastorale, 15 novembre 1969, n. 16; Conferenza Episcopale Tedesca, Assemblea plenaria di Fulda, 18-22 settembre 1972); CEI, Evangelizzazione e sacramento del matrimonio, documento pastorale, 20.06.1975, n. 106; CEI, La pastorale dei divorziati risposati e di quanti vivono in situazioni matrimoniali irregolari o difficili, nota pastorale, 26.04.1979; Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, esortazione apostolica, 22 novembre 1981. nn. 77-85; Codice di diritto canonico 1983, can. 1141-1155; CEI, Decreto generale sul matrimonio canonico, 5 novembre 1990, nn. 36-66; Catechismo della Chiesa cattolica, 1992, nn.1640, 1649-1651, 2380-2386; CEI, Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia, 25 luglio 1993 (cfr. in particolare il cap. VII); Congregazione per la Dottrina della Fede, Sulla pastorale dei divorziati risposati; documenti, commenti e studi, Ed. Vaticana 1998; Pontificio Consiglio per l'interpretazione dei Testi Legislativi, Dichiarazione (in merito al can. 915), 24 giugno 2000; Pontificio Consiglio per la Famiglia (a cura del), Enchiridion della Famiglia: documenti magisteriali e pastorali su famiglia e vita 1965-1999, EDB, 2000; Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, (n. 27-29) Libreria Editrice Vaticana, 22 febbraio 2007; Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi della 1 Prima di tutto desidero richiamare alla mente parole di speranza che Giovanni Paolo II rivolse alle famiglie provenienti da tutto il mondo in occasione del loro Giubileo nel 2000: "Di fronte a tante famiglie disfatte, la Chiesa si sente chiamata non ad esprimere un giudizio severo e distaccato, ma piuttosto ad immettere nelle pieghe di tanti drammi la luce della parola di Dio, accompagnata dalla testimonianza della sua misericordia". La prospettiva La mia riflessione, più che un approfondimento teologico o dottrinale, mira a cogliere la positività della proposta magisteriale per capire che cosa si chiede alla comunità cristiana in rapporto ai fedeli divorziati risposati. A tal proposito gli interrogativi che seguono, potrebbero sollecitarci nella riflessione: • Qual è l’atteggiamento della comunità cristiana nei confronti delle persone divorziate risposate? • Quali iniziative potrebbe essere utile sperimentare, per favorire l’accompagnamento dei divorziati risposati? • Quale ruolo possono vivere nella comunità ecclesiale? • Come coniugare l’insegnamento autorevole del magistero con la carità e la misericordia evangeliche? Il mio intento, dunque, è quello di offrire alcuni punti di riferimento essenziali, per individuare i criteri guida dell’azione pastorale, senza alcuna pretesa di essere esaustivo. Per pastorale qui intendo l’impegno delle nostre comunità parrocchiali di tradurre nel concreto del vissuto quotidiano le esigenze del Vangelo di Gesù Cristo che rivela e annuncia ad ogni uomo di buona volontà la bellezza e la bontà del matrimonio. Il termine pastorale, conferenza episcopale del Brasile (Nordeste 1 e Nordeste 4) in visita «ad limina apostolorum», 25 settembre 2009. MAGISTERO VESCOVI DIOCESANI: Diocesi di Montreal - Ufficio della famiglia, La pastorale delle famiglie divise, in “Regno Documenti”, 40 (1995), p. 375-383; Diocesi di Vicenza, Per una pastorale di accoglienza dei divorziati risposati, Vicenza 1997; Diocesi di Bergamo, Cammini di fede per divorziati risposati, Bergamo 1997; Diocesi di Bolzano-Bressanone, Il colloquio dell’operatore pastorale con i divorziati risposati, Bolzano 1998; Arcidiocesi di Milano (a cura del Servizio della famiglia), La sfida della speranza oltre i fallimenti: l’attenzione pastorale alle famiglie in situazioni difficili e irregolari, Centro Ambrosiano, Milano 2005; Grampa Pier Giacomo (Vescovo di Lugano), Non hanno più vino, settembre 2006; Tettamanzi Dionigi (Arcivescovo di Milano), Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito (Sal 34,19), Lettera agli sposi in situazione di separazione, divorzio e nuova unione, Milano 6 gennaio.2008; Consulta Regionale Lombarda per la Pastorale della Famiglia (a cura), Secondo il cuore di Cristo, riflessioni, confronti e orientamenti per accompagnare nella Chiesa fratelli in situazione di separazione, divorzio o nuova unione, Ed. Centro Ambrosiano, 2009. note 215 note 216 luglio 2010 - anno X prima di indicare cose da fare, suggerisce un atteggiamento e un modo di essere nel contesto sociale ed ecclesiale.3 Mi preme subito dire che la comunità cristiana è invitata a non giudicare l’intimo delle coscienze e a manifestare una vera e propria sollecitudine pastorale mediante la stima, il rispetto, l’aiuto e la comprensione. Atteggiamento fortemente ribadito dal Direttorio di pastorale familiare al n. 215: “Ogni comunità cristiana eviti qualsiasi forma di disinteresse o di abbandono e non riduca la sua azione pastorale verso i divorziati risposati alla sola questione della loro ammissione o meno ai sacramenti: lo esige, tra l’altro, il fatto che la comunità cristiana continua ad avere occasioni di incontro con queste persone, i cui figli vivono l’esperienza della scuola, della catechesi, degli oratori, di diversi ambienti educativi ecclesiali…”: • Data questa realtà appena descritta quale azione pastorale viene richiesta? • Qual è il compito della comunità ecclesiale? • Quale spazio hanno i fedeli divorziati risposati all’interno della comunità? • Quali i compiti e i doveri che spettano a questi fedeli? Giovanni Paolo II, il 24 gennaio 1997 alla XII Assemblea Plenaria del pontificio Consiglio per la Famiglia, dedicata alla pastorale dei divorziati risposati, dopo aver ribadito i principi dottrinali afferma: “Occorre innanzitutto porre in essere con urgenza una pastorale di preparazione e di tempestivo sostegno alle coppie nel momento della crisi. I pastori devono, con cuore aperto, accompagnare e sostenere questi uomini e donne facendo loro comprendere che, quand’anche, avessero infranto il vincolo matrimoniale, non devono disperare della grazia di Dio: occorre avvicinarli all’ascolto della Parola di Dio e alla preghiera, inserirli nelle opere di carità che la comunità cristiana realizza nei riguardi dei poveri e dei bisognosi e stimolare lo spirito di pentimento con opere di penitenza. Un capitolo molto importante è quello riguardante la formazione umana e cristiana dei figli della nuova unione”. Ci sembra opportuno, a questo proposito, citare che cosa afferma la Commissione Episcopale francese per la famiglia: "Un'attenzione alla verità richiede che si vada al di là delle classificazioni sommarie. Al di là della situazione contraddittoria del divorzio, si devono vedere le persone. La "situazione" non racchiude tutto, perché le persone non si possono identificare con la situazione e considerare tutti i divorziati come una categoria uniforme. Ogni fallimento coniugale rappresenta una storia, una storia dolorosa. Anche le responsabilità sono diverse: uno si lascia trascinare da una passione egoista, un altro abbandona e tenta di ricostruire un focolare per i suoi figli; uno si era sposato con ben poca maturità, un altro ha subito delle pressioni dell'ambiente. Come distinguere il colpevole dalla vittima? Un giudizio vero, deve essere attento, personalizzato". Cfr. Grandis-Tosoni, Coniugi in crisi matrimoni in difficoltà. Teologia, magistero e pastorale si confrontano, Effatà, Cantalupa 2003, p. 100. 3 È altresì importante richiamare quanto afferma la Nota pastorale della CEI del 1979 ai nn. 30b e 31: “Non manca chi tende ad accusare la Chiesa di non essere, nella storia, il segno credibile dell’amore misericordioso che Dio ha per tutti, nessuno escluso, e di non vivere la sua maternità di grazia verso quei figli che sono più sofferenti e bisognosi per la loro stessa situazione morale. In realtà la Chiesa è Madre dei cristiani solo e nella misura in cui rimane sposa vergine di Cristo, ossia fedele alla sua parola al suo comandamento: l’amore della Chiesa verso le anime non può concepirsi se non come frutto e segno del suo stesso amore verso Cristo, suo sposo e Signore”. Il dramma La fine di un rapporto sponsale per la maggior parte delle coppie ferite non è stata decisione presa con facilità, tanto meno con leggerezza. È stato piuttosto un passo sofferto della loro vita, un fatto che le ha interrogato profondamente sul perché del fallimento di quel progetto in cui avevano creduto e per il quale avevano investito molte loro energie.4 Per molte coppie, che hanno alle spalle sfibranti esperienze d’incomprensioni, conflitti, litigi, la separazione è sperimentata come una liberazione da una situazione divenuta ormai insopportabile. Essa comunque rimane un dramma, sia per i protagonisti, sposi e figli, sia anche per la comunità cristiana che nella esperienza della separazione dei suoi figli vede venir meno il sacramento dell’amore di Cristo per la sua Chiesa, di cui il matrimonio dei cristiani è un simbolo reale. La sofferenza che sempre accompagna la separazione è anche la sofferenza della comunità cristiana. Quando due giovani si uniscono con il sacramento del matrimonio, non rientra certo nei loro pensieri la prospettiva che il loro amore possa un giorno finire e fallire. Rientra nei piani di una coppia che si forma la progettazione di un futuro insieme per realizzarsi come persone, per vincere la solitudine, per amare e donarsi al proprio coniuge in maniera piena, per fare dell’amore coniugale la culla del dono della vita. Ma i bei progetti poi, non mancano di scontrarsi con le difficoltà della vita, con ciò che non si era ipotizzato, con la scoperta di aspetti inediti e sconosciuti del carattere e della personalità del proprio coniuge che solo con la convivenza vengono a galla. E allora tutto sembra crollare, il cammino progettato insieme, il desiderio di una comunione piena e la propria buona volontà. Tutto è messo alla prova dalle difficoltà impreviste. Esse, nei primi anni di matrimonio, sono spesso superate con l’entusiasmo, con la buona volontà, con il sacrificio. Ma poi, in alcune coppie che non vanno alla radice del disagio, i problemi rischiano di erodere progressivamente la reciproca fiducia e stima, fino ad una soglia oltre la quale il matrimonio entra irrimediabilmente in crisi. Quando questo accade – e purtroppo ciò accade sempre più spesso e per un numero 4 Cfr. Tettamanzi D., Lettera agli sposi in situazione di separazione, divorzio e nuova unione, Milano, 6 gennaio 2008. note 217 note 218 luglio 2010 - anno X sempre maggiore di coppie – si arriva alla rottura del legame matrimoniale e alla decisione di separarsi presa per l’iniziativa di uno dei coniugi. La separazione è un dramma dagli ampi risvolti. Esso va compreso in tutta la sua complessità e nelle sue fondamentali implicazioni. Dal lato psicologico intravediamo al di là delle parole una vita che si spezza, sofferenze che penetrano nel profondo, incomunicabilità con l’“altro” con il quale pur si era vissuto bene e che si era amato, pessimismo sul passato e pessimismo sul futuro. Non di rado subentra un senso di depressione e disistima, con la conseguente difficoltà a riorganizzarsi la vita, a mantenere il ruolo di genitore nonostante sia terminato quello di marito o moglie, a continuare come prima i rapporti con i parenti e amici. Dal lato educativo se, nella coppia senza figli, l’esperienza della separazione provoca spesso il crollo della fiducia in se stessi e la riduzione della stima di sé, nella coppia con figli si aggiunge anche il venir meno dell’ideale di sé come genitori. Come rimanere genitori per i figli anche quando non si è più sposi? I problemi educativi si complicano ulteriormente quando si costruisce una nuova relazione con un nuovo compagno, il quale a sua volta ha anch’egli dei figli. Inoltre, sotto l’aspetto sociale se la società moderna ha aperto a molte famiglie l’accesso ad un certo benessere, quando avviene una separazione molti equilibri anche in questo campo si rompono. Chi si è separato ci testimonia la gran difficoltà a mantenere i medesimi impegni di prima. Si va incontro a nuove difficoltà economiche, ci sono mutui da finir di pagare, c’è il problema di una nuova casa, l’impoverimento delle relazioni sociali a seguito della crisi col proprio coniuge, la perdita spesso di efficienza nel proprio lavoro. Si deve correre per arrivare dappertutto dovendo fare da soli quello che prima si faceva condividendolo col coniuge. Infine, dal punto di vista ecclesiale, talvolta, assistiamo da parte di alcuni ad un atteggiamento che loro giudicano di chiusura e di giudizio da parte di chi si pensa a posto solo perché forse è stato più fortunato di altri nella vita matrimoniale e ha incontrato meno difficoltà. È vero che alcuni esagerano nel sentirsi giudicati ed esclusi. Ma, talvolta, quest’esagerazione è indotta da modi di fare che esprimono indifferenza, poca attenzione, disinteresse per queste situazioni. La estraneità dei divorziati risposati ci crea smarrimento, non sappiamo che cosa fare e che cosa aspettarci da loro. La difficoltà è che essi non vogliono andar via ma reclamano diritto di cittadinanza. Non sono visitatori delle nostre comunità ecclesiali, macchie scure sulla superficie trasparente della realtà quotidiana, che si possono sopportare nella speranza che domani verranno lavate via. Non si può evitare di prendere atto della loro presenza: vederli, udirli, talvolta, rivolgere loro la parola o sentirsela rivolgere. Il peccato più grande per una comunità cristiana è quello di sentirsi troppo a posto, troppo giusta, delegando il problema a chi lo vive già sulla propria pelle. Indicativi, in questo senso, sono gli interrogativi posti dalla già citata Commissione episcopale francese: "Alcune coppie stabili hanno tenuto perché non hanno incontrato delle grandi difficoltà. Altre, invece, che non avevano meno buona volontà hanno incontrato degli ostacoli: ma- lattia, miseria, separazioni, che sono apparse a loro insormontabili. In simili circostanze, i primi avrebbero tenuto? Se fossero stati meno provati, i secondi non sarebbero rimasti fedeli? Sarebbe troppo semplice, e spesso anche ingiusto, separare le coppie in due gruppi: i buoni che sono rimasti insieme, i cattivi che si sono separati per passare a nuove nozze. Vi possono essere delle coppie stabili che vivono ripiegate su se stesse nell'indifferenza e nell'egoismo. Viceversa, vi possono essere delle coppie che, dopo il fallimento della loro prima unione, cercano di vivere nella loro seconda unione valori autentici di amore, di fedeltà di apertura verso gli altri e si sforzano di rispondere al Vangelo secondo le loro possibilità attuali". Matrimonio ed esigenze di radicalità Non possiamo, d’altro canto, ignorare che Gesù ha parlato anche del matrimonio, e ne ha parlato con una radicalità tale da sorprendere gli stessi primi discepoli, molti dei quali probabilmente erano sposati. Gesù afferma che il legame sponsale tra un uomo e una donna è indissolubile (cfr. Matteo 19,1-12), perché nel legame del matrimonio si mostra tutto il disegno originario di Dio sull'umanità, e cioè il desiderio di Dio che l'uomo non sia solo, che l'uomo viva una vita di comunione duratura e fedele. Questa è la vita stessa di Dio che è Amore, un amore fedele, incancellabile e fecondo di vita, che viene mostrato, come in un segno luminoso, nell'amore reciproco tra un uomo e una donna. E così, afferma Gesù, "non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi" (v. 6). Da quel giorno la parola di Gesù non cessa di provocarci e anche di inquietarci. Già in quel momento i discepoli rimasero scandalizzati dalla prospettiva di Gesù, quasi protestando che, se il matrimonio è una chiamata così alta ed esigente, forse "non conviene sposarsi" (v. 10). Ma Gesù ci incalza e ci dà fiducia: "Chi può capire, capisca" (cfr. v. 11), capisca che questa esigenza non è fatta per spaventare, ma piuttosto per dire la grandezza cui l'uomo è chiamato secondo il disegno di Dio creatore. Questa grandezza è esaltata poi quando il patto coniugale viene celebrato nella Chiesa come sacramento, segno efficace dell'amore sponsale che unisce Cristo alla sua Chiesa. Gesù non ci chiede l'impossibile, ci offre se stesso come via, verità, vita dell'amore. Le parole di Gesù e la testimonianza di come egli ha vissuto il suo amore per noi sono il riferimento unico e costante per la Chiesa di tutti i tempi, che mai si è sentita autorizzata a sciogliere un legame matrimoniale sacramentale celebrato validamente ed espresso nella piena unione, anche intima, degli sposi, divenuti appunto "una carne sola". Ed è in questa obbedienza alla parola di Gesù la ragione per cui la Chiesa ritiene impossibile la celebrazione sacramentale di un secondo matrimonio dopo che è stato interrotto il primo legame sponsale. “L’indissolubilità del matrimonio non è un bene di cui si possa disporre a suo piacimento, ma è un dono e una grazia che essa (la Chiesa) ha ricevuto dall’alto per custodirlo e amministrarlo” (DPF, n. 195). note 219 note 220 luglio 2010 - anno X Il cammino di salvezza dei divorziati risposati A questo punto ci chiediamo quale può essere il cammino di salvezza dei divorziati risposati. Possiamo articolare questo cammino in più tappe. Anzitutto il divorziato deve esaminare con sincerità se stesso e la sua storia, per vedere se ha avuto una parte di responsabilità nella separazione, e pentirsi del male col quale ha contributo a provocare la separazione. In secondo luogo deve deporre ogni forma di astio, odio, risentimento nei confronti della coniuge dal quale si è separato. È la richiesta che Gesù fa ad ogni suo fedele. "Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra in buoni, e fa pioverli cammino e sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il vostro saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?" (Mt 5,43-47). In terzo luogo deve sentirsi ancora responsabile della vita e della salvezza del coniuge dal quale si è separato, ma al quale un giorno aveva promesso amore e fedeltà. È vero che non può più agire sul coniuge attraverso i gesti del quotidiano perché si è rifatto una vita con un’altra persona, ma può agire attraverso i gesti del Corpo Mistico. Infatti i cristiani possono influire gli uni sugli altri con la preghiera, il merito, l’espiazione vicaria, perché tutti sono uniti nel Corpo Mistico come i tralci sono uniti alla vite, e in tutti circola la stessa linfa divina. Ma soprattutto devono far nascere in sé un sincero desiderio di Dio, e alimentare questo desiderio con i doni che Dio ha dato alla Chiesa e che la Chiesa mette a loro disposizione: il dono della Parola di Dio, del Sacrificio eucaristico, della Preghiera, della Fraternità. La via che la chiesa propone per fare questo recupero è stata ben sintetizzata nel n. 34 del documento "Reconciliatio et Poenitentia" del 1983: "Cercheranno la misericordia di Dio per altre vie, non per quella dei sacramenti della Penitenza e della Comunione". In questa affermazione si dicono due cose. La prima - la più importante - consiste nel rassicurare questi fratelli dicendo che per essi c’è possibilità e speranza di salvezza. La seconda invece sottolinea il fatto che sono venuti meno all’insegnamento di Gesù sull’amore, per cui non sono più in armonia perfetta con Lui. Però possono riprendere il rapporto con il Dio della salvezza e rivitalizzare la loro vita facendo un cammino che è fatto di penitenza, di sincero desiderio di Dio, di responsabilità nei confronti del coniuge dal quale si sono separati, e di utilizzazione viva dei doni che la Chiesa continua ad offrire. A questa situazione potrebbero rimediare radicalmente se trasformassero il loro rapporto da coniugale in fraterno, cioè se vivessero come fratello e sorella. Qualcuno si ribella a questa soluzione tacciando la chiesa di sessuofobia. Non si tratta dell’esclusione dell’uso della sessualità, ma della richiesta di trasformare il loro amore da coniugale in fraterno: un amore che può essere intenso e profondo, ma che non coinvolge la sessualità. La Chiesa ha sempre insegnato che il frutto dei sacramenti può essere ottenuto anche senza passare attraverso il rito sacramentale. Questa dottrina è stata ribadita ancora una volta nell'esortazione apostolica "Reconciliatio et Poenitentia" (1984): "Per un cristiano il sacramento della penitenza è la via per ottenere il perdono e la remissione dei suoi peccati gravi commessi dopo il battesimo"; ma "il Salvatore e la sua azione salvifica non sono così legati ad un segno sacramentale, da non potere in qualsiasi tempo e settore della storia della salvezza operare al di fuori e al di sopra dei sacramenti" (n. 31, I). E nel n. 34 troviamo l’applicazione di questo principio al caso dei divorziati risposati, quando invita i divorziati risposati “ad avvicinarsi alla misericordia di Dio per altre vie non però per quella dei sacramenti della penitenza e dell'eucaristia". Lo stesso S. Tommaso quando si chiede se l'Eucaristia sia indispensabile per la salvezza (de necessitate salutis, S.Th. III, q.73, a.3) risponde distinguendo tra sacramentum e res sacramenti, "ora la realtà (res) di questo sacramento è l'unità del corpo mistico senza la quale non può esserci salvezza"; e "si è visto precedentemente che la realtà di un sacramento può essere ottenuta prima della recezione rituale di questo sacramento, per il solo fatto che si aspira a riceverlo. Di conseguenza si può ottenere la salvezza prima di ricevere questo sacramento per il fatto che lo si desidera". Pertanto ci chiediamo: il "votum sacramenti" può essere efficace se i fedeli non sono in grazia? Questa domanda è legittima, perchè il desiderio può sostituire il sacramento quando i fedeli sono in grazia e sono impediti da riceverlo solo da un fatto esteriore. Ed è vero. Ma chi autorizza a pensare che i divorziati risposati siano sempre e tutti in stato di peccato escludente la grazia? L'Episcopato italiano nel documento del 1979 raccomanda che i fedeli non si arroghino il diritto di esprimere giudizi sullo stato di grazia dei divorziati risposati: “i discepoli del Signore nel qualificare la situazione dei divorziati risposati come disordinata, non giudicano l'intimo delle coscienze, dove solo Dio vede e giudica (.) lascino volentieri alla sapienza e all'amore del Signore il giudizio sulla responsabilità personale” (n.18). La loro esclusione dalla vita sacramentale non è un giudizio sulla soggettiva indegnità. Non è improbabile che alcuni divorziati risposati possano sentirsi incolpevoli sia per il modo con cui la separazione è avvenuta, sia per il modo con cui è stata maturata la decisione di risposarsi. Inoltre troviamo persone che sono certe (di certezza morale) della invalidità del matrimonio precedente e che non sono in grado di dimostrarla giuridicamente. Altre si sentono giustificate dal fatto che la loro decisione di risposarsi è avvenuta per una vera incapacità a reggere una vita di solitudine (anche per i figli), o da altre situazioni che la vita di oggi - estremamente avara di interpersonalità e prodiga invece di possibilità di rapporti episodici e di avventure senza futuro - offre a chi è solo, senza peraltro che esistano correttivi e aiuti veri. La stessa comunità cristiana (compresi i pastori d'anime) è note 221 note 222 luglio 2010 - anno X spesso impreparata ad accogliere e sostenere queste persone, e si limita a esprimere voti nelle riviste, nei convegni, nei seminari di studio, senza tradurre questi voti in un'azione efficace. Queste considerazioni, non dispensano i divorziati risposati dal rispettare le indicazioni pastorali date dal Magistero. Però possono essere il fondamento per vivere in modo diverso e costruttivo l'esclusione dai sacramenti e per fare un vero cammino spirituale di crescita nella grazia, sapendo di potersi avvicinare "alla misericordia di Dio per altre vie non però per quella dei sacramenti della penitenza e dell'eucaristia". A proposito d’inserimento nella comunità ecclesiale. Suggerimenti pastorali 1.Urgenza della presa di coscienza nella comunità cristiana e nei suoi operatori pastorali che anche questi cristiani continuano ad appartenere alla Chiesa. La CEI nel Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia del 25 luglio 1993 ha ribadito: “Occorre richiamare l’appartenenza alla Chiesa anche dei cristiani che vivono in situazione matrimoniale difficile o irregolare: tale appartenenza si fonda sul battesimo e si alimenta con una fede non totalmente rinnegata. È una consapevolezza che deve crescere anche dentro la comunità cristiana: è in tale consapevolezza che la comunità cristiana può e deve prendersi cura di questi suoi membri; è nella stessa consapevolezza che essi possono e devono partecipare alla vita e alla missione della chiesa, sin dove lo esige e lo consente la loro tipica situazione ecclesiale” (n. 196). “Insieme col sinodo, esorto caldamente i pastori e l’intera comunità dei fedeli affinché aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si considerino separati dalla chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita” (FC 84). 2.Presa di coscienza in questi fedeli perché non si ritengano automaticamente fuori dalla Chiesa. 3.Diversi atteggiamenti della comunità cristiana verso questi fedeli: • non giudicare; • non escludere; • condividere i loro problemi. 4.Il sostegno che la comunità cristiana può offrire: • fare in modo che si sentano chiesa; • aiutarli a crescere nell’amore di coppia; • sostenerli nel vivere il valore del servizio e della solidarietà; • sviluppare in loro la responsabilità educativa anche nei riguardi della fede; • sviluppare in loro il valore della riconciliazione. 5.Circa l’ammissione ai sacramenti, ritengo necessario ricordare alcune indicazioni: • La chiesa, custode ed amministratrice fedele dei segni e mezzi di grazia che Gesù Cristo le ha affidato non può ammettere alla riconciliazione sacramentale e alla comu- nione eucaristica quanti continuassero a permanere in una situazione esistenziale in contraddizione con la fede annunciata e celebrata nei sacramenti. • È necessario proclamare l’esigenza del pentimento e della conversione: è necessario cioè un reale cambiamento della condizione di vita in cui ci si trova come premessa insostituibile per la riconciliazione e la piena comunione sacramentale con la Chiesa. • La Chiesa, avendo presente l’atteggiamento pastorale di Gesù, mantiene e sviluppa un’azione pastorale accogliente e misericordiosa verso tutti. Ma questa azione pastorale accogliente e misericordiosa richiede un’attenta opera di discernimento, capace di distinguere adeguatamente tra le varie forme di irregolarità matrimoniali e tra i diversi elementi che stanno alla loro origine. “Sarà cura dei pastori e della comunità cristiana conoscere tali situazioni e le loro cause concrete, caso per caso”: non certo per esprimere un giudizio positivo o tollerante circa la “irregolarità ”, ma per giungere ad una valutazione morale obiettiva della responsabilità delle persone, per individuare adeguati interventi e cure pastorali e per suggerire concreti cammini di conversione ”(DPF 169). 6.Azione pastorale davvero “ecclesiale”: “I pastori d’anime per primi, specialmente nel loro ministero di confessori, di consiglieri e di guide spirituali dei singoli e delle famiglie, superando ogni individualismo, ogni arbitrio e ogni approccio meramente emotivo, sappiano accostarsi con sincera fraternità a chi vive in situazioni matrimoniali difficili o irregolari, offrendo valutazioni e indicazioni fondate unicamente sulla fedeltà della Chiesa al suo Signore e che sappiano arrivare al cuore delle persone” (DPF 171). 7.Eventuali casi di nullità: “Quando, in alcune situazioni di irregolarità matrimoniale, si manifestassero indizi non superficiali dell’eventuale esistenza di motivi che la Chiesa considera rilevanti in ordine ad una dichiarazione di nullità matrimoniale, verità e carità esigono che l’azione pastorale si faccia carico di aiutare i fedeli interessati a verificare la validità del loro matrimonio religioso” (DPF 171). Si tratta di un aiuto da condurre: “con competenza e con prudenza, e con la cura di evitare sbrigative conclusioni, che possono generare dannose illusioni o impedire una chiarificazione preziosa per l’accertamento della libertà di stato e per la pace della coscienza” (DPF 171). Conclusione La fine del legame coniugale non è sempre il risultato di processi volontari e intenzionali. La fine di una storia d’amore, inoltre, non è ordinariamente il risultato di lussuria o dissolutezza nei costumi sessuali e non sempre le coppie che rimangono unite sono meno fallite delle altre che si separano. È ancora troppo diffusa l’idea che le nuove nozze siano note 223 note 224 luglio 2010 - anno X segno di una vita dissoluta e irresponsabile e troppo spesso c’è un giudizio di condanna nei confronti di persone con matrimoni falliti alle spalle. Il fallimento di un matrimonio è appunto un fallimento, non vince nessuno, tutti perdono Tutti hanno il dovere di impegnarsi per alleviare queste sofferenze e per aiutare queste persone a fare scelte che sono secondo il vangelo. La Chiesa intera, data questa realtà, si deve sentir chiamata, come afferma la Conferenza episcopale lombarda nella Lettera alle nostre famiglie: “non ad esprimere un giudizio severo e distaccato, ma piuttosto ad immettere nelle piaghe di tanti drammi umani una luce della parola di Dio, accompagnata dalla testimonianza della sua misericordia”. Consegna Prevenire è sempre meglio che curare. La prima forma di prevenzione è certamente una pastorale del fidanzamento più oculata e più adeguata ai cambiamenti culturali in atto,5 secondo i quali l’amore è pensato, proposto e vissuto senza un significativo riferimento a Dio6 e nel contesto di una esperienza sempre più frammentata, in cui agli ideali romantici delle generazioni passate è subentrata, nelle nuove generazioni, la paura per un impegno che continua nel tempo, senza il quale è difficile attraversare indenni tutte le stagioni dell’amore che una coppia oggi è chiamata a superare.7 A tale riguardo, l’affermazione del Direttorio di pastorale familiare è quanto mai perentoria: “Se questa è la situazione, non sono necessarie altre considerazioni per avvertire come la pastorale prematrimoniale, in ogni sua articolazione, costituisca uno dei capitoli più urgenti, importanti e delicati di tutta la pastorale familiare. Tale pastorale si trova di fronte a una svolta storica. Essa è chiamata a un confronto chiaro e puntuale con la realtà e a una scelta: o rinnovarsi profondamente o rendersi sempre più ininfluente e marginale. Di qui, in particolare, la necessità di una cura pastorale del fidanzamento che aiuti a riscoprirne e a viverne il senso umano e cristiano e di una preparazione immediata o particolare al matrimonio più attenta, puntuale e articolata” (DPF 40). Cfr. a tale riguardo gli studi raccolti dall’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Famiglia e per la Pastorale Giovanile: Cei, Il fidanzamento. Tempo di crescita umana e cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1998. 6 Cfr. Muraro G., Amori senza Dio, in «Famiglia Oggi», 11(2002). 7 Sulla paura di amare, cfr. Trentacoste N. (a cura di), Paura di amare nei contesti più problematici. Riflessioni ricerca prospettive, Cittadella editrice, Assisi 2002. Sulle possibilità, invece, di un amore a vita nella società del disincanto, cfr. Di Nicola G.P.,-Danese A., Amici a vita. La coppia tra scienze umane e spiritualità coniugale, Città Nuova, Roma 1997. 5 Molti operatori e molti pastori si sono fatti la convinzione che molte delle cause che portano al fallimento di un matrimonio hanno la loro radice in problemi irrisolti durante il periodo del fidanzamento, quando andavano esaminati in ordine alla valutazione della idoneità della coppia e alla decisione di legarsi in maniera definitiva. Si ha l’impressione che molti dei nostri corsi intercettano i fidanzati quando i giochi sono fatti, e poche sono le coppie che, alla luce dei contenuti che vengono approfonditi durante il corso, rivedono i criteri secondo i quali hanno deciso di sposarsi e per di più religiosamente. A motivo di ciò, la pastorale del fidanzamento dovrebbe muoversi dai corsi ai per-corsi, in cui i futuri sposi iniziano il loro cammino di preparazione al matrimonio all’inizio del fidanzamento e non al termine. A questa che può essere definita prevenzione remota, vi è anche una prevenzione prossima. Si tratta di un’azione pastorale finalizzata a far sentire la vicinanza della comunità alle coppie che avvertono di avere difficoltà di relazione e il cui legame coniugale comincia a mostrare delle crepe. Spesso, molte coppie – che non danno molta importanza ai piccoli fatti che segnalano il sorgere di difficoltà che cominciano a minare la loro relazione – quando si accorgono che il loro rapporto è in seria crisi, solo allora si decidono di chiedere aiuto, ma è ormai troppo tardi. La carenza di una salutare vicinanza alle coppie in difficoltà è frutto anche di una debole e insufficiente pastorale di accompagnamento delle coppie, specialmente di quelle giovani, che nei primi anni di vita devono superare la prova di un collaudo della loro stabilità che possa durare per tutta la vita.8 Di un’azione d’assistenza e di prevenzione parla il Direttorio là dove rileva che la pastorale, affinché possa essere accogliente e misericordiosa, “dovrà comprendere insieme l’aspetto dell’assistenza e quello della prevenzione. Senza dubbio, è necessario intervenire nei casi di vera e propria crisi ed offrire contributi puntuali e specifici per cercare di risanare, o almeno di avviare ad un qualche miglioramento, le situazioni matrimoniali irregolari. Ma ancora più importante e indispensabile è svolgere un’azione preventiva: attraverso una sapiente e incisiva opera educativa” (DPF 201). 8 “I primi anni di vita – avverte il Direttorio –, oltre ad essere determinanti per l’intero cammino coniugale e familiare, sono tempo di avvio e insieme di assestamento per quanto riguarda sia l’esperienza dell’amore coniugale sia l’incontro con la nuova vita del figlio” (DPF 101). note 225 note Pensare per casi: attualità di un modello epistemologico 227 Domenico Marrone* [email protected] (parte prima) Introduzione L’ondata di critiche, spesso impietose, riversatesi sulla casistica ha impedito di comprendere ed utilizzarne la grande lezione. Riparlarne oggi può sembrare, quanto meno, un’idea talmente anacronistica, da suscitare facili ironie. Da qualche tempo però assistiamo alla riabilitazione metodologica del pensare per casi.1 Pensare per casi è un modello epistemologico * Direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani. Docente stabile di Teologia morale. 1 Si pensi alla “bioetica casistica” che consiste nel proporre all’attenzione dello studente o, il più delle volte, di un gruppo di studio un caso clinico (caso di studio) avente implicanze di ordine bioetico per poi discuterne secondo le metodologie del “problem solving”. Tale metodologie comprende quattro fasi: definizione del problema, analisi del problema, ricerca della soluzione, attuazione della soluzione. Tale metodo è analogo all'approccio seguito dalla medicina. Si pensi anche ai “trolley problems” in uso presso gli psicologi americani. Sono quiz ben congegnati per mettere alla prova intelligenza e convinzioni morali dei lettori. Derivano il loro nome dal fatto che sono quasi sempre ambientati in una stazione. Gli psicologi americani li sottopongono al pubblico di Internet, per poter arrivare a stabilire se esiste al mondo una morale universale, e se è innata oppure si forma con l'esperienza e con la cultura. Ecco il più semplice: “Mike deve andare nel Maine a fare da testimone al matrimonio di un suo amico. Ha con sé le fedi ma, alla stazione, gli rubano il portafoglio con il biglietto. Prega i ferrovieri e i presenti di prestargli i soldi per un altro biglietto. Nessuno lo ascolta. Accanto a lui c'è un signore ben vestito, dalla cui giacca spunta proprio un biglietto per il Maine. Per non mandare a monte il matrimonio del suo amico, Mike potrebbe rubare quel biglietto. È lecito che lo faccia?”. Eccone un altro sotto forma di dilemma morale: “Anna si trova su una banchina della Com’è possibile operare delle generalizzazioni a partire dalla descrizione di casi singolari? note 228 luglio 2010 - anno X al quale non si era prestata finora sufficiente attenzione. Il problema epistemologico dell’autonomia dei principi e dei metodi di descrizione del mondo solleva oggi, in modo esemplare, l’interrogativo sul ruolo del pensiero delle singolarità. Com’è possibile operare delle generalizzazioni a partire dalla descrizione di casi singolari? Si tratta allora di ridare una nuova dignità al “caso” nelle scienze umane, sulla scia della tradizione epistemologica weberiana. Basandosi sulla ricchezza delle tradizioni casistiche (morale, giuridica, religiosa) e sulla specificità delle discipline fondate sul caso clinico (medicina, psicanalisi, ecc.), si tratta di elaborare una terza via fra deduzione necessaria e descrizione arbitraria, fra sperimentazione oggettiva e osservazione soggettiva, disegnando una nuova figura di razionalità, intermedia, ma perfettamente adatta alle scienze dell’uomo. Il pensiero per casi propone semplicemente di riportarle sulla buona strada.2 stazione e sta osservando una squadra di sei operai impegnati nella manutenzione della ferrovia. Improvvisamente sopraggiunge un treno che corre senza controllo; i freni non funzionano più. Se vuole salvare i sei uomini, Anna ha solo due possibilità: azionare una leva (che lei si trova a portata di mano) e deviare il treno su un binario morto, sul quale però sta lavorando un altro operaio; oppure spingere sotto il treno che arriva un signore che è accanto a lei, e così - rallentando la corsa del convoglio - dare ai sei operai il tempo per mettersi in salvo”. A questo dilemma, già inevitabilmente cinico (servono infatti casi-limite, situazioni teoriche estreme), se ne aggiunge un altro che appare decisamente da grand-guignol. Dina, chirurgo d'ospedale, ha cinque pazienti in punto di morte. Hanno bisogno di un trapianto urgente a causa di una malattia che, in ognuno di loro, ha colpito un organo diverso. Dina avrebbe un solo modo per salvarli: uccidere un visitatore sano che entra nell'ospedale e trapiantarne subito gli organi ai pazienti in fin di vita. 2 La polemica feroce di Pascal con Le provinciali, dirette contro i Gesuiti ha delegittimato per secoli il metodo “casistico” in teologia morale come un modo evasivo e sofistico di trattare l’etica, riducendo al minimo le esigenze del dovere morale. Con Pascal e il grande successo di “Lettres Provinciales”, il lettore francese è abituato a vedere la casistica come una tappa sfortunata della teologia morale cattolica. In questo modo, la casistica, si vede imporre molti limiti. Limite nel tempo: il XVII sec.; nello spazio: quello che ricopre le nazioni cattoliche e ne vede l’evangelizzazione; limite in un campo molto preciso: quello della confessione e delle difficoltà dell’assoluzione: per non sbagliare, questa immagine è pertanto incompleta. In effetti, la casistica si trova già nei testi della Grecia antica, si incontra in altre culture come quella dell’Occidente cristiano; essa scopre altri settori d’applicazione come quello dell’etica medica, e più precisamente quello della clinica medica oltre Atlantico. Ma è ancora troppo poco a dirsi. La casistica come “processo di risoluzione dei casi” si incontra in molti altri campi oltre a quello della morale: la giurisprudenza per il Diritto continentale, le procedure dell’antico Diritto francese, la “Common Law”, i metodi del caso (La Harvard Business School). Da una definizione restrittiva nel tempo e nello spazio di una cultura, la casistica si trova proiettata in un campo immenso, quello della considerazione di ogni caso in generale, caso di cui essa prende in carica l’identificazione e la risoluzione. Di recente (fino alla rivalutazione recente, nel contesto della bioetica contemporanea), è avvenuta una rivalutazione della casistica appunto da parte di Albert Jonsen e Stephen Toulmin: The abuse of casuistry. A history of moral reasoning, 1988. La capacità della retorica di trattare la pluralità dei casi è quanto di più affine possiamo immaginare alla medicina, per esempio, che si propone di curare dei malati, non delle malattie. Bisogna notare che si tratta di pensare per casi e non di pensare il caso, si tratta cioè di ragionare a partire dalle singolarità e non sulle singolarità. Questo non significa che il pensiero per casi riguardi qualcosa di diverso rispetto al particolare o al singolare. Non ci si propone tanto di riflettere sullo scopo, da tempo perfettamente identificato, quanto soprattutto sul metodo. La casistica è prima di tutto un metodo originale, un metodo dunque iscritto in una tradizione. La trattazione casistica è attenta agli eventi particolari dell’esperienza umana; riflette, più che sui principi, sui fatti in cui i principi sono presenti in actu exercitu; rivaluta il valore concreto e la ricchezza dell’esperienza, indefinitamente molteplice e mai identicamente ripetuta.3 Le sue modalità logiche sono quelle di un ragionamento che, per fondare una descrizione, una spiegazione, un’interpretazione, una valutazione, procede attraverso l’esplorazione e l’approfondimento di una singolarità osservabile. E questo, non allo scopo di limitare l’analisi ad essa, o pronunciarsi su di un caso unico, bensì per trarne un’argomentazione di portata più generale, le cui conclusioni saranno cioè ulteriormente utilizzabili. Se è vero che esistono due tradizioni del pensiero per casi, quella della casistica (morale, giuridica, religiosa), che si è sviluppata dalla filosofia e dalla retorica antica fino ai dibattiti etici contemporanei, e quella della clinica (la tradizione medica), che si è opposta e mescolata nell’Ottocento al metodo sperimentale, è per impulso di quest’ultima che il pensiero per casi ha incontrato le scienze sociali, nel momento in cui queste ultime venivano liberandosi delle ambizioni universalizzanti delle metodologie nomologiche per riscoprire il ruolo della narrazione nella spiegazione di un caso. La casistica non è, essenzialmente, una “teoria”, bensì un metodo ed una tecnica, e come tale è ambivalente. Di questa ambivalenza la sua storia costituisce una testimonianza di grande interesse. Come ogni tecnica, anche la casistica può essere uno strumento di liberazione o una pastoia di confusione: la casistica è stata l’uno e l’altra, non perché è casistica, ma perché è tecnica. La conoscenza teorica dei principi di morale non basta a metterci in grado di trovare, facilmente e prontamente, il punto di incontro tra il “caso” e i “principi”. È necessario un giudizio “pratico”, per applicare la conoscenza speculativa al caso particolare, e mettere in evidenza la conformità, o difformità, di una possibile scelta rispetto alla legge morale. La decisione non può essere presa se non dalla coscienza individuale, la quale deve compiere l’opzione necessaria, senza, però, lasciarsi condizionare da interessi individuali. La casistica ha il compito di facilitare questa scelta, prendendo i “casi” possibili e fornendo elementi di chiarezza per la loro soluzione. Da una parte la casistica sembra essere un momento del tutto morale, dall’altra si tratterebbe di capirsi su questa démarche casistica: ogni esitazione della coscienza su ciò che 3 Cfr. Nicolosi S., Casistica e probabilismo nella crisi della coscienza morale Europea, in “Aquinas” XXXI (1988), p. 279-310. note 229 note 230 luglio 2010 - anno X è moralmente dovuto può essere chiamato un caso? La casistica, si preoccupa di cose di ordinaria amministrazione, delle nostre incertezze, di come usare una parola per un’altra allo scopo di non dire tutto senza tuttavia commettere una menzogna? Si occupa di risolvere gli imbarazzi sollevati da situazioni inedite, nuove? L’opposizione non è di pura forma. La casistica sarebbe a volte una forma di buon costume, declinando tutte le interpretazioni possibili e legittime di una norma morale prima di tutto conosciuta. A volte, sarebbe una démarche prospettiva, che propone nuove norme per le situazioni inedite, o, e significa andare più lontano, che propone delle norme a partire da situazioni difficili incontrate. Appaiono allora le scommesse filosofiche: le relazioni della norma e del caso, la natura del caso (eccezione, singolarità), le difficoltà sollevate dal problema detto “problema di Hume”. Entrare nella storia della casistica sarebbe entrare nella storia delle morali e nella storia delle abitudini. Ogni morale conosce un momento del caso: il Talmud, il buddismo, il confucianesimo. La casistica, è un metodo di risoluzione dei casi. Ora, ogni approccio casistico attraversa questi tre momenti: un caso deve essere identificato; esso richiede un trattamento e richiama una soluzione. Come si distingue il caso da tutte le altre forme di singolarità o di ogni episodio di tensione morale (la guerra del Golfo è un caso morale?) Come la casistica tratta il caso, e come la casistica l’ha trattato? Come la soluzione proposta può essere una risoluzione del caso? Noi vorremmo dimostrare al termine della nostra riflessione che la casistica è stata una forma di auto comprensione di una cultura: essa illustra come, a un certo momento della sua storia, una certa procedura è stata elaborata per identificare, trattare e risolvere i problemi morali. Riteniamo che tale procedura, con le dovute differenze può ancora rivelare potenzialità inedite come modello epistemologico per “navigare” nella “fluidità” delle problematiche del nostro tempo. 1.Identificare il caso Tradizionalmente la casistica si presenta come la scienza dell’applicazione delle norme morali a una soluzione attraverso la quale un soggetto non sa quale norma legittimamente applicare. In questo senso molto largo, la casistica è connaturale ad ogni sforzo morale per entrare nel mondo dell’azione. Il caso sarebbe l’espressione di una tensione della norma, tensione interna se una stessa norma si presta a più interpretazione, tensione esterna se la norma si rivolta ad una reale che non saprebbe piegarsi alle ingiunzioni di questa norma. Così il caso prende la norma nella sua capacità di determinare un soggetto ragionevole ad agire conformemente a ciò che essa prescrive. Il caso è l’espressione di un dissenso del soggetto e di una dissonanza della norma morale che mal si accorda con tutti gli obblighi morali che gravano su un soggetto. Il caso è un’emozione profonda (o una sensazione) di una persona, - questo perché fu detto per molto tempo caso di coscienza. Si tratterà di dimostrare che il caso può essere tanto collettivo che comunitario: collettivo quando abbraccia una società di uomini (la guerra del Golfo), comunitaria quando porta a rifletter sui valori morali che unificano e identificano una cultura attraverso le generazioni. Il casus designa l’avvenimento fortuito ed imprevisto. Il caso non è un fatto ma un avvenimento: capita o succede. Non esiste in modo perenne e non esiste solo in se: la sua realtà viene da altri fattori che lo determinano. Ma non esiste più attraverso se stesso: il casus accade quando il progetto o l’intenzione di un soggetto incontrano un ostacolo. Il caso è un campione della norma: se la norma si manifesta nella singolarità, la singolarità è un campione della norma; l’esistenza della singolarità non resiste alla norma. Il caso dimostra la norma. Il caso è il luogo dove le norme si provano e si misurano. Di qui la definizione della forma semplice del caso: il detto che rappresenta l’universo come un oggetto che si valuta secondo delle norme, e nel quale le norme stesse si pesano. Gli elementi del detto del caso tendono a sottolineare come le norme utilizzate non sono sufficienti a valutare la singolarità che esse esprimono. Questo svela quest’ altro carattere della disposizione mentale del caso: l’inadeguatezza tra lo spirito e la lettere delle norme. Ma che cos’è un caso? La prima definizione del caso, soggettiva e negativa, è quella di un effetto sorpresa. Infatti, il caso interrompe improvvisamente lo svolgimento abituale di una percezione, di un discorso descrittivo, argomentativo o prescrittivo, di una decisione, di una prova. Perciò l’identificazione di un caso come tale implica un’esperienza di disadattamento mentale”. “La forza di un caso non rinvia mai ad un’unica origine: il caso nasce spesso da un conflitto fra alcune regole e le applicazioni che dovrebbe essere possibile dedurne, e dalla situazione d’indecidibilità che ne risulta”. Che cos’è la generalità del caso? Bisogna evidenziare tre aspetti: il caso fa problema, esso richiede un approfondimento della descrizione, e il suo trattamento argomentativo non è agevole. Il caso richiede l’approfondimento della descrizione, benché questa non possa pretendere di esaurirne la singolarità. Infatti il caso resiste ad ogni tentativo di dissoluzione (per astrazione o sintesi) nell’anonimato di uno dei tipi già normati o formalizzati appartenenti al pensiero del generale o dell’universale. Quali che siano i tratti generici enumerati, è sempre un deittico (dimostrativo) ad indicare ciò che rende particolare questo caso, e che gli impedisce di essere soltanto la variante di una struttura, la specificazione di una norma, l’istanza di una legge, l’esemplificazione di una generalità. Infine, il caso sembra richiedere un trattamento argomentativo specifico. Infatti, le descrizioni di casi hanno uno statuto epistemico ambiguo, dal momento che il caso, indefinitamente descrivibile, non si presta ad un’inferenza necessaria. La questione del suo statuto argomentativo divide i pensatori da Aristotele in poi. Infatti, il pensiero per casi sembra ammettere una semi-formalizzazione “sensibile al contesto”, ma non un regime sperimentale della prova. note 231 note 232 luglio 2010 - anno X La singolarità che “fa caso” instaura la perplessità nel cuore del giudizio rompendo il filo della generalizzazione; essa forza l’attenzione costringendo a sospendere lo svolgimento di un ragionamento precostituito, e ad imporgli un mutamento di regime. Per questo motivo essa suscita allo stesso tempo la riflessione. Ora, riflettere su un caso significa inventare il percorso di una generalizzazione propria. Per questa ragione ogni casistica ha inventato i propri mezzi logici: casistica morale dei peccati nelle religioni, casistica dei tipi-ideali nelle opere di Max Weber, case studies della sociologia americana o della Scuola di Chicago. Al di là di questa diversità, due tratti caratterizzano un caso: la singolarità e l’utilizzazione della narrazione per descrivere questa singolarità e precisare il suo contesto d’apparizione. Il legame fra questi due aspetti costituisce precisamente il nodo logico e metodologico dell’operazione di giudizio consistente nel qualificare un avvenimento come “caso”. Un caso non è un esempio, nel senso di una semplice illustrazione di una teoria più generale, dell’applicazione singolare di una norma, dell’istanza particolare di una legge. Pensare la positività del caso implica procedere esattamente al contrario, cercando di rivelare il valore insostituibile della singolarità. Ciò che fa sì che un caso non sia semplicemente un esempio, è il fatto che esso costituisca da sé la norma della propria verità e del proprio significato. Il caso non è una singolarità come le altre, ma una singolarità unica. A rigor di logica, indubbiamente ogni singolarità è unica; tuttavia il caso è unicamente unico, cioè è esso stesso il criterio della propria unicità. In questo senso, esso non è una particolarità che potrebbe essere superata o trascurata, ma un enigma persistente, resistente: “il caso è l’ostacolo” (p. 18). Questa è la ragione per cui il caso richiede un’interpretazione. Il caso non solo richiede un’interpretazione, bensì produce anche una costruzione teorica. Lo dimostra bene la casistica, i cui ostacoli sono altresì enigmi, per quanto sempre in relazione a un corpo di regole date: il caso paradigmatico rientra perfettamente sotto la regola, ma altri casi sono coperti soltanto in parte da una norma, o da più norme allo stesso tempo. Di fronte a questi casi di coscienza si elabora un lavoro di riflessione, che si conclude con una decisione, ossia una costruzione problematica sensibile alle circostanze e alla singolarità. La riflessione non si pone allora nei termini di una deduzione nomologica, bensì in quelli di un’argomentazione pratica soggetta a revisione. Spiegare un caso significa necessariamente prendere in conto una situazione, un contesto. Sono le particolarità della storia, in cui si inseriscono le circostanze, a rendere singolare il caso. Questo procedimento singolarizzante è egualmente presente in seno ai metodi casistici (giuridici, morali, religiosi), dove la narrazione serve ad esporre la situazione e a fare comprendere come si è giunti al punto che costituisce il problema, e ciò si verifica anche nella storia dell’arte (v. Vasari). La dimensione narrativa è costituiva del caso in tre sensi: come forma privilegiata (se non esclusiva) dell’espressione dell’esperienza umana del tempo, come ha sottolineato Ricoeur;4 Tracciando esplicitamente un parallelo tra giudizio psicanalitico e giudizio storico (Ricoeur, 1985), Ricoeur sottolinea come il racconto non sia un semplice mezzo di esposizione, bensì 4 come produzione, e non semplice restituzione, di una storia, dove lo scopo dichiarato di fare “presa sulla realtà” può passare attraverso la finzione; infine, come tratto caratteristico del modo di operare delle scienze umane,5 dove la narrazione viene a indicare la parentela dei metodi clinici e storici, che procedono attraverso la riconfigurazione orizzontale delle collezioni di casi e non attraverso la sussunzione verticale di un caso sotto una regola. Il pensiero per casi delinea una razionalità alternativa inventando una procedura di generalizzazione originale, irriducibile tanto all’induzione quanto alla deduzione necessaria. Adottare un procedimento “caso per caso”, ben lontano della “tirannia dei principi”, il cui valore assoluto è applicato a tutti i casi. Si tratta di valorizzare un’altra razionalità: quella intermedia, attenuata, della ragione pratica. Il campo della pratica richiede un tipo d’argomentazione diverso dalla deduzione. Infatti, mentre i ragionamenti teorici sono formali, atemporali e necessari, quelli pratici sono concreti (hanno un contenuto intuitivo), temporali (dipendono del contesto in cui sono impiegati) e presuntivi (mai certi). Avendo il compito d’inventare la soluzione, questi ragionamenti pratici costituiscono dei metodi di risoluzione dei casi e richiedono, di conseguenza, una descrizione completa ed esaustiva del caso. La validità del ragionamento non dipende della sua appartenenza ad una catena deduttiva, ma della nitidezza della somiglianza fra i due casi che vengono accostati tra loro. Il ragionamento per casi prova a contrario che non esiste una spinoziana “geometria morale”, bensì una semplice saggezza pratica – la “prudenza” aristotelica. La casistica è fondata sulla convinzione che dei tipi di casi servano da referenze ultime, e che questi paradigmi creano delle presunzioni che costituisco la base per la risoluzione dei futuri casi simili. Cosi facendo, essa si appoggia inevitabilmente su di un’arte clinica della diagnosi che avvicina la morale alla medicina. Il paradosso della casistica sta nel fatto di avere sempre avuto l’ambizione di pensare per casi, senza tuttavia mai tentare di definire il “caso”,6 né i procedimenti di risoluzione dei anche quanto unisce i frammenti separati di una storia, dandole un ordine e una forma. Ciò dà ragione del fatto che, in entrambi i casi, le conclusioni non siano separabili dal racconto che le sostiene; esse lo sono ancor meno se si considera che la coerenza narrativa è inseparabile dal vincolo della dimostrazione. 5 Alcuni recenti dibattiti epistemologici vertono su questo statuto insuperabile della narrazione nelle scienze umane (v. Grenier, Grignon, Menger, 2001). Non vi sono dubbi che, per Passeron e Revel, quest’ambito di razionalità e di conoscenza delimitata dal modello e dal racconto corrisponda esattamente al campo in cui opera il pensiero per casi. 6 Il caso non è mai definito nei manuali di confessione. Tuttavia, è possibile trovarne le caratteristiche alla luce di ciò che ne scrivono i dizionari contemporanei dell’espansione della casistica. Emergono tre orientamenti: la contingenza, il rapporto alla legge, la relazione alla coscienza. Furetière (1690) parla di tredici tipi di significato di cui il primo è quello della contingenza; l’esempio dato è quello dell’esenzione da ogni responsabilità nei casi fortuiti. La prima edizione del Dizionario Accademia francese (DAF, 1694) riconosce dieci significati della parola. Il primo significato, l’occorrenza accidentale, dà nascita ad un aggettivo (casuale) e a un avverbio (casualmente) per designare ciò che è fortuito o ciò che accade in maniera fortuita. Trevoux note 233 234 luglio 2010 - anno X note casi esplicitati. Nella collezione di casi dei Dizionari7 e delle Raccolte8 di problemi morali, (1752) aggiunge alla nozione del caso ciò che capita per forza maggiore. Il caso è contingente, imprevisto, strano, straordinario come se ciò che sfugge al potere delle leggi o dell’applicazione di queste leggi alla previsione, desse vita ad una forma mostruosa. Innovazione: il caso indica tanto bene la scadenza incerta quanto il fatto veramente accaduto. Littré (1873) censisce dodici famiglie di significati principali di cui la prima, quello della contingenza, non distingue il fatto che c’è stato da quello che si può verificare. 7 La comparsa del genere dizionario si rifà all’inizio del XVIII sec. attraverso il pubblicista e storico Francesco Morenas (1702-1774). Egli conobbe una fama così grande che l’opera incompiuta di Andrien-Augustin di Lamet di Bussy (1621-1691) e di Germain Fromageau (1640-1705), che aveva la forma di una raccolta di casi di coscienza, fu rivista e ripubblicata sottoforma di un dizionario (prima ed., Paris, 1733, 2 vol. in-fol.). Fra i più celebri dei dizionari di casi di coscienza, quello di Jean Pontas (1638-1728) si stacca dal grande numero di riedizioni, dalla sua autorità incontestata, dalla eco che conobbe e che testimoniano le abbondanti citazioni che gli furono ascritte nei successivi dizionari (prima ed., Paris, 1733, 2 vol. in-fol.). Il dizionario non innova: Pontas è convinto di non fare niente di nuovo e non intende innovare. Il dizionario richiama le norme le applica a dei casi coniugando ai soggetti di questi casi le diverse interpretazione della norma. Ma queste interpretazioni sono sempre garantite da autorità riconosciute. Il redattore del dizionario è preso fra due risentimenti: l’originalità necessariamente stravagante e il plagio. Tutta le difficoltà del dizionario è di trovare la norma o l’interpretazione della norma che potrà rendere conto del caso. Il caso fa eccezione alla norma perché la norma non è chiaramente conosciuta dal confessore, chiarimento per il quale il dizionario trova la sua ragione di esistere. Il redattore del dizionario diventa autore quando deve scegliere fra più interpretazioni, quando deve rendere conto della scelta dell’interpretazione. il Dizionario segue un ordine alfabetico. Il confessore può andare incontro al mondo della storia e delle piccole storie private, avrà trovato principalmente nel Dizionario la loro soluzione. Tuttavia tre impedimenti ostacolano l’ambizione del Dizionario. L’interpretazione della norma non è eliminata; essa entra in un contesto storico. Come ogni dizionario, è possibile arricchirlo senza tregua. Lontano dal riportare l’eccezione alla regola, il Dizionario consacra l’eccezione: gli riconosce uno statuto e un posto nell’economia della confessione. I casi possono variare all’infinito in quanto il Dizionario può mutare in tante combinazioni. Per sopperire a questi due difetti, l’autore propone una soluzione: la costituzione di casi specifici e il ricorso a un metodo che fa della casistica altra cosa che una morale applicata. Il caso è così eccezionale che per risolverlo occorrerà spersonalizzarlo dal ricorso a delle situazioni fittizie, imprecise, dall’uso di pseudonimi, ritirargli tutto ciò che li rende singolari. Così che, la relazione del caso lo trasforma in caso esemplare e per la risoluzione di questo è possibile un metodo. 8 Le Raccolte sono di uno spirito e di una preoccupazione molto diversi. Uno delle più celebri raccolte di casi di coscienza è quello di Jacques de Saintbeuve (1613-1677). A differenza del procedimento del Dizionario che va secondo casi fittizi e tipici, la raccolta pone delle soluzioni che si rifanno a avvenimenti reali, singolari. È l’incontro di un uomo con la sua storia: si tratta di consultazioni e dei loro risultati. La raccolta è un’opera artificiale di casi reali mentre il Dizionario è un’opera premeditata, che presenta casi fittizi. Il caso delle raccolte è una circostanza eccezionale: è successo, ma perché è successo, quanto meno non si riprodurrà all’identico. La raccolta non è più solamente la collezione di casi singolari, definiti dalle condizioni di luoghi, di persone, e di azioni. La risoluzione del caso singolare dispone di un potere euristico. Allo stesso modo il redattore non ha solo mostrato la sua sagacia; le sue risoluzioni esprimono la competenza di un o nei Corsi9 di teologia morale, il caso, messo in relazione con altre singolarità diverse, è considerato come un’eccezione a una norma preesistente, riconosciuta e professata dalla tradizione cristiana. Ma se la casistica si fosse limitata alla singolarità del caso, la lista si sarebbe allungata a dismisura. Per ritrovare la generalità presente in ogni caso essa ha tentato di superare la singolarità, al fine di estendere la soluzione di un caso ad altri casi simili. Attraverso la comparazione di casi simili, la casistica poteva costituire dei casi tipici, paradigmatici, esemplari e immaginare di estenderne la soluzione ad altri casi di coscienza. Questa seconda figura della casistica ha soddisfatto la preoccupazione di coerenza, anche se i casisti non hanno cercato di esplicitare la propria metodologia. La terza figura della casistica consiste nel trattare il caso come vincolo, ossia come cosa che gli uomini devono trattare collettivamente, al fine di elaborare una soluzione intorno alla quale si possa trovare un accordo. È questa la forma contemporanea della casistica, che privilegia la concertazione: comitati di esperti, giurie, conferenze di cittadini… Si tratta di passare da una casistica in cui l’esistenza di un sistema di norme costituite (Decalogo, Patristica…) precedente la deliberazione, riduceva la riflessione a monologo, a un sistema in cui la casistica promuove un sistema di norme, le quali trovano il proprio fondamento unicamente nell’accordo raggiunto in una situazione il cui senso è legato ad una cultura particolare.10 Si tratta di una transizione da una casistica monologica e specializzata, a una casistica dialogica e democratica, nella quale la competenza è distribuita. Insomma, se i cittadini possono utilizzare un metodo casistico per trattare le situazioni difficili sul corpo di Dottori. Mentre il Dizionario annuncia la costituzione di casi tipici, e concepiti come esemplari, con il genere delle raccolte quelli che si dibattono in una situazione morale difficile la sottomettono ai più competenti per poterne discutere. Il caso non ha soluzioni pronte, è ciò che va incontro agli uomini e ciò che è al di là di conoscenze acquisite dal passato. Così facevano Saintbeuve e Lamet. 9 La presentazione dell’opera si distingue dai Dizionari così come dalle Raccolte: né ordine alfabetico né successione di casi secondo il loro ordine di sottomissione all’autorità del casista. L’autore procede attraverso domande e risposte, alla maniera di un catechismo; appoggerà le sue decisioni su delle autorità (Scrittura, Concili, Canoni, Padri della Chiesa, Santi Dottori). Il Corso redatto alla maniera di Etienne Le Camus (1632-1707), vescovo di Grenoble, intende dapprima formare gli ecclesiastici agli insegnamenti della chiesa, dopo dargli il metodo per risolvere i casi di coscienza. Il corso deve: facilitare la risoluzione dei Casi di coscienza. La composizione dell’opera ne risente: I casi non appaiono. Si tratta di determinare la responsabilità dell’uomo nel peccato. L’autore espone ciò che può togliere all’uomo il peso del peccato: l’ignoranza, il timore, l’assenza di volontà. Le differenze fra questi tre generi; il dizionario, la raccolta, il corso non devono essere forzate. Sarebbe più giusto parlare per quanto gli riguarda di tipi di approccio. Attraverso queste tre forme di trattamento casistico, ne vien fuori che il caso è prima il racconto del caso, racconto strutturato secondo le prescrizioni dei manuali di confessione, racconto redatto dai teologi e racconto consegnato nei tipi di opere che sono state presentate. Una mediazione supplementare s’interpone fra il caso vissuto e il caso effettivamente discusso. In effetti il caso era prima di tutto esposto nei casi di dei seminari, e sarà dibattuto in conferenze ecclesiastiche. 10 Cfr. Boarini S., Introduction a la casuistique, Harmattan, Paris 2007. note 235 note 236 luglio 2010 - anno X piano morale, non esiste più, invece, una dottrina casistica che ne fissa il modo d’impiego definitivo, nemmeno nella forma contemporanea della perizia. Infatti vi sono diverse forme di ragionamento per casi, e ciascuna richiede una spiegazione specifica. Il primo tipo concerne i ragionamenti che vanno dal generale al particolare, e viceversa. Le diverse fasi del ragionamento consistono allora nel sussumere un caso singolare sotto una regola generale o un concetto universale, nel collocarlo in una classe, ed eventualmente nel mostrare le difficoltà di queste operazioni. Il ragionamento percorre la lista di tutti i casi classificati. Il caso come elemento che mette in crisi le inferenze normali (e non come il falsificatore rigido di Popper). Si può infine voler rimontare dal particolare al generale facendo del caso uno strumento di revisione delle regole. Il secondo genere riguarda i ragionamenti a partire da prototipi. I ragionamenti del terzo tipo, che procedono per revisione, normalità ed eccezione, affrontano un problema che i due primi non sono in grado di trattare. L’errore dei casisti è stato quello di aver voluto costruire una sistema unico, costruendo delle ramificazioni di sotto-regole a partire da regole fondamentali. Ma la morale non è fissa, ed è possibile volerla modificare, e rivedere la nostra morale presente proiettandosi in una morale futura: questo problema è esaminato dall’ultimo tipo di caso. Il fatto che le scienze umane “allineino” oggi il loro sapere sullo studi di casi, è segno di una rivoluzione epistemologica silenziosa di cui non si può ignorare la posta in gioco. Il caso configura così un insieme di avvenimenti applicandovi una diversità di discipline complementari. Esso costituisce un sapere empirico che non procede per saturazione documentaria, e che resta interessato più alla giustezza del proprio approccio che alla decisione. Il caso appartiene ad una modalità giuridica di conoscenza, ma di un giudizio svincolato dal rigido fondamento kantiano dell’“esperienza”. Riprendendo qui le intuizioni di Foucault, Claude Imbert mostra che la rottura è avvenuta in riferimento alla questione centrale dell’antropologia, divisa fra la doppia preoccupazione di oggettivazione dei comportamenti e di soggettivazione di quello che conferisce loro intelligibilità e normatività. Il pensiero per casi copre un campo d’indagine assai vasto, dato che esso riguarda la morale, ma anche il diritto e le scienze formali. Bisogna constatare che il pensiero per casi riguarda tutti i domini dell’azione umana, del comportamento umano: infatti essa è oggetto di una sapienza etica, di una prescrizione giuridica, di una conoscenza oggettiva (storica, sociale, psicologica). Il pensiero per casi è, forse, l’altro nome della ragione pratica, questa ragione del probabile, del fragile, del provvisorio, spesso messa in ombra dalla potenza del pensiero formale, senza tuttavia che la sua logica possa mai dissolversi.11 Non va ignorata un’altra dimensione del pensiero per casi, la dimensione pedagogica. C’è una tendenza alla rivalutazione degli aspetti più validi del casuismo.12 Di fatto, gli Albert R. Jonsen et Stephen Toulmin, The abuse of casuistry. A history of moral reasoning, Berkeley-Londres, University of California Press, 1988. 12 Cfr. F. Derhange – E. Fuchs, Une nouvelle casuistique menace-t-elle l’ethique, in Etudes theologiques et religieuses 70 (1995), 377-389; J. F. Keenan – T.A. Shannon (edd.), The context 11 educatori morali, soprattutto quelli legati alla scuola di L. Kohlberg,13 usano la categoria dei “dilemmi etici”,14 metodo abbastanza simile a quello della casuistica. Per esempio, una comprensione adeguata della teologia della legge esige uno sguardo alla peculiarità e al ruolo della casistica. Si può costatare un'ambivalenza palese proprio nel suo non sospettato intento pedagogico. Con senso di responsabilità essa getta un ponte tra l'inevitabile astrattezza del testo della legge e la sua applicazione pratica nella situazione concreta, contemporaneamente l'esperienza entra in gioco con tutto il suo peso. Avendo immagazzinato materiale cognitivo acquisito dalle applicazioni quotidiane, la casistica compila dei modelli comportamentali che donano un primo orientamento nella confusione del vivere. Le vie per trovare le decisioni vengono accorciate avendo a portata di mano il deposito di un sapere di vita sperimentato e collaudato. Ciò che vuole la legge lo si apprende dalla casistica. La prassi comprovata diviene quindi luogo ermeneutico della teoria che vi sta alla base. Da soluzioni artificiali di casi, prese dal vivere quotidiano, si può apprendere come trattare le leggi in modo eticamente responsabile, poiché tali soluzioni offrono un insegnamento metodico. La responsabilità delle proprie decisioni non viene sostituita, ma solo alleggerita. of Casuistry, Washington 1995, J.F. Keenan, The return of Casuistry, in Thological Studies 57 (1996), 123-139 (bollettino bibliografico); J.F. Keenan, Applying the Seventeenth Century Casuistry of Accomodation to HIV Prevention, in Thological Studies 60 (1996), 492-512; R.B. Miller, Casuistry and Modern Ethics: a poetics of Pratical reasoning, Chicago 1996; H. Schlogel, Tugend – Kasustik – Biographie, in Catholica 51 (1997), 187-200, in particolare 193-197. 13 Lo sviluppo del giudizio e della condotta morale sono stati oggetto di molteplici approfondimenti, in ambito educativo, condotti secondo prospettive differenti. Alcuni hanno posto l'accento sui fattori esteriori, di natura socio-culturale, inducenti all'assunzione di norme etiche e di condotte moralmente accettabili. Altri hanno rivolto l'attenzione soprattutto alle componenti intrinseche dello sviluppo individuale, sottolineando la stretta connessione fra le tappe della maturazione mentale e le fasi della crescita morale. Cfr. R. Viganò, Psicologia ed educazione in L. Kholberg, Vita e Pensiero, Milano 1998. 14 Il dilemma morale è situazione in cui entrano in conflitto almeno due interessi o valori e che generalmente implica contrasto tra norme giuridico-sociali ed il soddisfacimento di bisogni individuali. Kohlberg propone dei dilemmi morali rappresentati da vicende nelle quali il protagonista può prendere diverse decisioni. Il soggetto, alle prese con i dilemmi, deve affermare che cosa, secondo lui, il protagonista dovrebbe fare, e spiegarne le ragioni. Riportiamo il noto dilemma di Heinz: “Una donna sta per morire a causa di un tumore, ma potrebbe essere salvata con un farmaco. Questo farmaco è un particolare tipo di radio scoperto da un farmacista che vive nella stessa città e lo vende ad un prezzo dieci volte maggiore di quanto gli costa fabbricarlo. Il marito della donna malata ha cercato di prendere a prestito il denaro, ma è riuscito a procurarsi solo la metà della somma. Quindi ha detto al farmacista che sua moglie stava morendo e gli ha chiesto di vendergli la medicina a minor prezzo o almeno di permettergli di pagarlo in futuro; ma il farmacista ha rifiutato. Il marito disperato ha scassinato la farmacia per rubare la medicina necessaria a sua moglie. Avrebbe dovuto farlo?”. I soggetti della ricerca devono commentare il comportamento di Heinz, dire se secondo loro avrebbe dovuto comportarsi così e spiegarne la ragioni. note 237 note 238 luglio 2010 - anno X Ma le condizioni storiche conflittuali dell'agire morale insegnano che le soluzioni casistiche non vanno mai così lisce, essendo tali condizioni qualcosa di più che il punto d'intersezione di rette geometriche. La casistica quindi, messa alle strette, deve garantire una limitazione dei danni. Giudicando con una buona dose di realismo e a occhio e croce, cerca di calcolare le prevedibili conseguenze dell'agire buono. Chi è pratico di casistica acquisisce una certa cultura del concreto, per cui, conoscendo bene la complessità dei casi di particolari costellazioni decisionali, non si lascia sedurre dalle grandi parole e dagli alti ideali che sfumano la differenza con le norme conformi alla realtà. La pedagogia che vi alberga è al di sopra di ogni sospetto, però non tocca il nocciolo del problema etico, il cui obiettivo è quello di risolvere al meglio casi di confusione e di negatività. Non si tratta solo di agire in condizioni conflittuali, ma di superarle progressivamente raggiungendo, nonostante tutte le limitazioni e le resistenze, un optimum di umanità. Vista così la casistica è una scuola di umanità in condizioni difficili. Essa non si accontenta di un'analisi realistica della situazione, ma allarga la visuale all’ essere-situato dell'agente, ai limiti e alle promesse di conoscenza e di libertà, È richiesto quindi un discernimento degli spiriti. Nella casistica si incontra anche un atteggiamento di responsabilità per il percorso fatto insieme. Comunque un dilemma rimane irrisolto: i conflitti vengono sì attenuati, ma il circolo vizioso continua a riprodursi senza vie di scampo. Bisognerebbe parlare di radicale tragicità dell'etico, da cui non sfugge nemmeno l'impegno più determinato.15 Nelle pagine dei casisti e dei probabilismi c’era il dramma della coscienza cristiana, che cercava di capire il mondo nuovo e di portare in questo mondo nuovo il messaggio eterno del Vangelo, pur tra inevitabili deviazioni la casistica e il probabilismo si avviavano ad offrire al mondo cristiano un altro esempio mirabile di sistemazione della morale, dopo le grandi sintesi della patristica e della scolastica. Un aspetto estremamente interessante della casistica era l’affermazione della libertà di coscienza e l’importanza del giudizio morale del singolo di fronte alle varie scelte. In realtà la casistica imponeva una scelta responsabile in una gerarchia di valori. La casistica non nasce dall’esigenza di un ambiente o di un’epoca, ma è da un’esigenza che è dell’uomo ed è di sempre: l’esigenza di cogliere nella complessità degli aspetti dell’azione umana l’aspetto essenziale o, quanto meno, preminente. La casistica nasce dalla necessità di semplificare la scelta morale, anche se talvolta può dare l’impressione di creare una complessità fittizia, tale da far perdere la visione di ciò che è essenziale. Il giudizio morale deve sempre essere una “scelta” di ciò che è essenziale, in rapporto ad un “criterio” posto dalla ragione o dalla rivelazione. Gli abusi della casistica erano abusi “nel sistema” e non “del sistema”. La casistica, come tentativo di costituire una scienza dei “casi di coscienza” è uno degli atteggiamenti inelimi Demmer K., Fondamenti di etica teologica, Cittadella, Assisi, 1999, 65-66. 15 nabili dell’uomo di fronte alle scelte morali. In un certo senso, ogni fatto particolare, sulla cui liceità o illiceità può sorgere un dubbio, costituisce un caso di coscienza, e diventa una delle mille possibili applicazioni della “casistica”. La necessità di applicare i principi generali della morale ai casi della vita, che ci si presentano nella loro irripetibile varietà, fa nascere la perplessità della scienza e ci pone, di volta in volta, di fronte a un “caso di coscienza”. La casistica come scienza, parte dal presupposto, più o meno esplicito, di un ordine morale universale e inderogabile. Essa, almeno nell’esigenza fondamentale secondo cui si costituisce, non vuole frantumare in mille casi particolari l’unità della scienza morale, ma, al contrario, vuol ricondurre l’apparente polverizzazione delle mille circostanze della vita all’unità dei principi universali. La conoscenza speculativa dei principi della morale non è sufficiente per dirigere praticamente gli atti umani verso il fine: occorre un giudizio pratico che applichi una tale conoscenza a casi concreti, perché solo dalla percezione della convenienza o sconvenienza dell’atto concreto con la norma morale sorge e si avverte l’obbligo di fare o non fare quell’azione. La casistica allora non fa che mettere a fuoco dei principi eterni l’agire umano – individuale e sociale – che dinamicamente, e, alle volte, febbrilmente si muove. Si può e si deve dire veramente che la visione morale dell’attività umana non è statica, ma in movimento; è orientata, cioè, concretamente secondo i bisogni del tempo, soggetta anche, se si vuole, come ogni scienza, alla legge del progresso: ma si ricordi, non sono i principi che mutano, sono invece nuovi i problemi che sorgono ed esigono una nuova soluzione in luce delle verità eterne. Che la casistica, poi, si presti ai mille trabocchetti della “evasione morale”, questa è la conseguenza non dei suoi principi, ma dell’atteggiamento che gli uomini spesso assumono di fronte alla legge, quando vogliono eluderla. Non c’è legge che non si presti ad applicazioni e a conseguenze che appaiono assurde, in quanto in contrasto con i principi e i valori che essa vuole tutelare. Per ogni legge, per ogni principio morale, sorge il conflitto tra la lettera e lo spirito, conflitto spesso messo in evidenza drammaticamente da S. Paolo. La casistica si fonda sulla certezza che non esiste “l’accidentale” irriducibile all’unità della scienza, che non esiste “l’eccezione” che sfugga al rigore unitario della legge morale. L’inderogabilità di ogni tipo di legge universale sta a fondamento della casistica. Ma se l’inderogabilità della legge fisica non ammette “l’eccezione” – a parte il problema del miracolo – giacché si tratta di nature “determinate a uno”, ed ogni apparente eccezione si riduce ad un monstrum su cui la scienza continua a indagare, l’inderogabilità della legge morale, invece, è di tutt’altra natura, in quanto è inderogabilità di “urgenza” della legge, e perciò può essere sempre elusa nella effettiva applicazione dalla libera decisione dell’uomo, il quale cerca spesso il limite estremo dell’applicabilità attraverso il cavillo legalista. La casistica ha come oggetto immediato l’applicazione dei principi universali ai casi concreti. La casistica scientifica è una “scienza applicata”. Suppone dei principi universali note 239 note 240 luglio 2010 - anno X – e cioè la legge naturale, la legge positiva divina, la legge positiva umana – e degli eventi particolari, il cui rapporto con i principi generali non sia immediatamente evidente.16 La casistica ha un metodo: quello della concretezza. Se c’è una scienza che deve orientarsi alla pratica, è proprio la teologia morale che tende a orientare, a dirigere l’attività umana verso il fine. Proprio qui s’intende il valore della casistica la quale usa il metodo della concretezza. Metodo e non tipo nuovo di conoscenza, è la concretezza: un ideale, cioè, un orientamento da attuarsi mediate il concetto astratto: un metodo che orienta alla conoscenza del divenire, dello sviluppo, dell’attività, insomma della storia dell’uomo, nella luce della morale speculativa. Le esperienze e le conquiste della moderna concretezza propongono nuovi problemi alla morale speculativa, la quale, donando la soluzione secondo i principi intrinseci e immutabili, viene arricchita di vita nuova, di materiale elaborato, e non finisce in un astrattismo formalistico, privo di contenuto. 2.Genesi di un genere letterario a. Gli albori della “scienza” casistica La storia della casistica come “scienza” comincia a partire dall’inizio del secolo XIII. Prima di questa epoca si può parlare di una lunga “preistoria” della casistica, che va dagli scritti sub-apostolici, come la Didachè,17 sino agli inizi del secolo XIII. Si tratta di una “preistoria”, che precede la casistica vera e propria, anticipandone all’atteggiamento di attenzione ai casi concreti. Possiamo affermare che l’inizio della morale come disciplina indipendente coincide con la comparsa della morale casistica. La morale casistica ha i suoi antecedenti storici nei Libri penitenziali18 e nelle Summae per i confessori.19 Nicolosi S., Le “provinciali” di Pascal e la casistica, in “Rivista di Teologia Morale” 19/1072, 381-384. 17 Il primo testo di carattere precettistico, e perciò, in certo senso “casistico”, viene considerato il trattato dal titolo Didachè, che nei primi cinque capitoli contiene alcune improntati applicazioni pratiche dei principi della morale cristiana. Altro testo, risalente al secolo secondo dell’era cristiana, è l’opera il Pastore di Erma. Quest’opera compendia, nella seconda parte, in dodici precetti i principali doveri del credente, scendendo ad esemplificazioni pratiche sulle elemosine, la maldicenza, la menzogna. 18 I Libri penitenziali riempiono il periodo che va dalla fine dell’epoca patristica al sec. XII. Registrano il loro apogeo tra gli anni 650 e 800. I penitenziali sono delle opere che censiscono delle liste di peccati ai quali è assegnata ad ognuno di loro una sanzione o tariffa- spesso il digiuno: il libro penitenziale consiste dunque in una lista dei peccati sottoposti ad una tariffa di espiazione. Storicamente, essi si sono sviluppati nei monasteri celtici e anglosassoni che sembrano non aver conosciuto la penitenza canonica (Tentler, 1977, 9-10) – da dove il nome di penitenza isolana. I penitenziali si sono diffusi in Europa continentale grazie a San Colombano e ai missionari venuti dalle isole. Il loro autore è a volte anonimo o meglio si pone sotto l’autorità di un santo. 19 Le Summae per confessori costituiscono l’anello di passaggio tra i libri penitenziali e le Istituzioni di morale casistica. Cominciarono a diffondersi nel sec. XII, si svilupparono nel sec. XIV, rag16 Fu la comparsa delle Institutiones Morales20 del gesuita spagnolo Juan Azor (1536-1603)21 a segnare la nascita del nuovo genere letterario casuistico in teologia morale. Senza alcun dubbio, il fatto era importante. Per la prima volta nella storia della teologia, la morale aveva conquistato la sua autonomia. Molti furono i fattori che contribuirono alla nascita del nuovo genere letterario. Non si può non riconoscere l’influsso del nominalismo nella genesi della morale casistica. Fu soprattutto il concetto del “singolare” a dare una tonalità individualista, estrinseca, volontarista e legalista a tutta l’etica. Si sopravvaluta l’atto singolare (di fronte alla valutazione tomista delle abitudini) e, come giustificazione della bontà morale delle azioni, si indica la bontà di Dio. Tali orientamenti esercitarono un grande influsso sulla morale, soprattutto dal punto di vista metodologico. I teologi morali si dedicarono ad analizzare l’atto singolo, sia nelle sue condizioni oggettive che in quelle soggettive. giunsero il loro apogeo nel XV ed ebbero termine nel sec. XVI. La maggior parte di loro segue un ordine alfabetico; altre adottano una forma sistematica. Sono un vademecum, non un manuale di teologia morale, poiché fino allora non esisteva altro che una teologia indivisa di cui la morale continuava a far parte. 20 Le Institutiones Morales segnano il compimento di un’evoluzione della morale che si era snodata per vari secoli. La riflessione teologica di questi nuovi manuali si svolge in tre momenti fondamentali: 1) “Principia” – 2) “unde resolves” (applicazione a casi pratici) – 3) ergo quaritur” (domande su casi controversi). Qual è il piano adottato dalle Institutiones Morales, che ben presto si intitolarono semplicemente Teologia moralis? La I-II della Summa theologiae di Tommaso fornì il quadro della prima parte (ma con un contenuto e uno spirito ben differenti). Innanzitutto fu necessario sopprimere due trattati considerati speculativi, quello sul “fine ultimo”(che in Tommaso presiedeva a tutto lo sviluppo della morale, ma che non poteva servire per i penitenti) e quello sulla “grazia” (di cui non si vedeva l’utilità pratica, e che veniva lasciato alle discussioni dei teologi). Si collocò il primo trattato sulla “coscienza”. Nei capitoli successivi si raggruppavano gli elementi tecnici utili per conoscere i casi di coscienza, tralasciando ogni questione speculativa sugli atti umani, le passioni, gli habitus, le virtù, i peccati, la legge. La morale speciale si articola attorno al decalogo (che nelle Summae per confessori serviva a preparare l’interrogatorio dei penitenti), di cui le virtù teologali sono considerate come un preambolo. Alla fine delle Institutiones Morales vengono collocati i trattati sulle censure e sugli stati di vita. nacque così un nuovo genere letterario di teologia morale, la cui produzione continuò praticamente fino ai nostri giorni: cfr. G. Renzo, Storia della morale. Interpretazione teologica dell’esperienza cristiana. Periodi e correnti, autori e opere, Dehoniane, Bologna 2003, 354-356. 21 Nato a Lorca, morto a Roma. Entrato nella Compagnia di Gesù nel 1559, insegnò filosofia e teologia in vari colleghi. Nel 1584 fu chiamato a Roma dal generale Claudio Acquaviva, per collaborare alla stesura della Ratio studiorom e insegnare teologia morale nel Collegio romano. Nel 1600 uscì il primo volume delle Istituzioni, un’opera di sintesi, che si caratterizza per l’equilibrio e il rispetto della tradizione. Gli altri volumi uscirono postumi. Azor raccoglie gli elementi necessari allo studio dei casi morali, soprattutto con la finalità di preparare al ministero della penitenza i futuri sacerdoti. note 241 note 242 luglio 2010 - anno X Possiamo segnalare altri fattori che ebbero un’importanza decisiva nella comparsa delle Institutiones Morales: la rinascita del tomismo, la riforma tridentina, soprattutto in relazione al sacramento della penitenza, e l’organizzazione degli studi nella Compagnia di Gesù. I decreti del Concilio di Trento, specialmente quello sull’amministrazione del sacramento della penitenza, esigendo esatta dichiarazione dei peccati con il numero, la specie e le circostanze che mutano la specie, condussero all’approfondimento delle questioni di teologia morale. Negli anni Ottanta del Cinquecento comparivano intanto in Italia le prime raccolte di casi di coscienza né alfabetiche né sistematiche, frutto della pratica diretta di lettura di casi per il clero secolare in un contesto diocesano o per il clero regolare nei conventi. Sono i Cento casi di coscienza del domenicano Serafino Razzi (Firenze 1582), le Decisioni d’alcuni casi di coscienza dell’agostiniano Agostino Guerrieri (Venezia 1584), le Responsiones casuum conscientiae di un altro agostiniano, Luis Beja de Perestrelo.22 L’estrema forma di volgarizzazione della casistica percorreva negli anni Ottanta del Cinquecento le vie battute dalla casistica tardomedievale, che d’altronde imperava allora sul mercato, e, probabilmente, nelle biblioteche del clero obbediente alle disposizioni vescovili. A partire dalla fine del Cinquecento tutti i casuisti dovettero in qualche modo misurarsi con il sistema probabilistico, ma ci fu chi rivendicò la necessità di lavorare in direzione di una maggiore certezza. Nel loro laboratorio i casuisti immaginarono uno scontro di opinioni non soltanto interno ad una coscienza, proiettata nelle loro pagine, ma anche tra i due soggetti della confessione, penitente e confessore. Anzi, le tappe fondamentali del probabilismo sono segnate proprio a proposito di questo fittizio confronto, di questo casus, la cui soluzione diventa generatrice di regole generali. Le radici del casus possono ritrovarsi in una disputa quodlibetale di un discepolo di Henri de Gand, Godefroid de Fontaines (morto nel 1306), che pone il problema del penitente autore di un peccato mortale del quale non è cosciente e del quale non si accusa di fronte ad un confessore che ne è invece a conoscenza. I Cento casi di coscienza di Serafino Razzi sono, come dice il titolo, la raccolta di cento soluzioni date dall'autore ad altrettante questioni morali. Alla proposizione del caso, ad esempio «se, e quali pescagioni siano lecite», «se è lecito a i chierici esercitare la mercatura», «se ad uno che si truovi prigione, condemnato alla morte, è lecito fuggirsi», segue l'esame della questione con eventuali citazioni di auctoritates nel testo. Le Decisioni del Guerrieri seguono lo stesso metodo, mentre le Responsiones del Beja per proporre i casi adottano la forma drammatizzata; «Henrìcus artifex in omni confessione accusavit se in rebus sui officii confìciendìs et vendendis fraudem et mendacia immiscere; nec ob familìam alendam et rerum omnìum poenuriam poste exercere recte, iuste et sine peccato aliquo suum officium, idque ipsum in hac ultima confessione refert. Queritur an sii Henrico iniungendum ut relinquat dictum officium, et si non, quid taciendum sit a confessore». I casi risolti si susseguono nell'opera del Beja secondo l'ordine cronologico della loro discussione nelle congregazioni mensili dei curati e penitenzieri alla presenza del Paleotti. Per ogni congregazione vengono risolti tre casi. 22 Deve quest'ultimo renderglielo noto ed esigere che si penta e se ne accusi? Un senso “forte” della probabilità sta alla base della soluzione di Godefroid. Se il peccato non è tale con certezza, se su di esso la discussione è aperta, il confessore inviterà il penitente ad informarsi. Se il penitente rimarrà convinto di non aver peccato, accertato che ciò proceda da una ragione probabile e non da ostinazione, il confessore potrà dare l'assoluzione. Ma se il peccato è tale nel giudizio comune, qualsiasi confessore dovrà avvisarne il penitente, che riceverà l’assoluzione solo se rinuncia al suo parere. Da notare però che in caso discusso il penitente può aderire al parere del confessore. L’insieme della casuistica a partire da fine Cinquecento porta in sé i segni di una instabilità continua, di un accanimento a dire e a sciogliere dubbi che sembra sempre risolversi in un niente di sicuro. Un sistema aperto, al quale tra l’altro si accede in tanti modi grazie ai numerosi indici, che pare non condurre a niente se non a stare al gioco che in esso si svolge. Il conflitto di opinioni che incessantemente vi si attua vuole essere la palestra di un conflitto che si prospetta reale nel confronto tra il confessore e il penitente, ma anche nel ragionamento della coscienza trasformata in senso intellettualistico. La casuistica si presenta come un gioco, quel gioco che Josè Antonio Maravall23 delinea come caratteristica di un mondo barocco “contraddittorio, incerto, ingannevole, profondamente insicuro”, nel quale l’uomo vivrebbe la sua esistenza in un modo tra l’agonistico e il ludico, sapendo di poter trarre vantaggi da un “abile gioco” manipolatorio. Un gioco che nascerebbe dalla scoperta del mutevole, del fenomenico, dell’occasionale, del singolare. La casuistica dimostra l’accentuarsi dell’aspetto giurisprudenziale nella concezione della coscienza. I manuali di casistica, sul versante dello scritto, le letture dei casi di coscienza o le discussioni dei casi nelle congregazioni del clero, nel mondo dell’oralità, proponevano una rappresentazione del lavoro della coscienza individuale, un modello per il suo operare. Un esercizio casuistico continuo, sempre più diffuso, che costruisce un modo di concepire le procedure della scelta nell’agire morale. In questo senso, nell’ambito dell’attenzione alle tecniche procedurali, non in quello dei contenuti, la casuistica probabilistica ha un andamento sostanzialmente concorde, e nel suo largo dispiegarsi, una funzione “disciplinatrice”, nel senso che diffonde una disciplina morale. Non è più offerta di materiali per l’esercizio di un ministero, ma in qualche modo un soggetto che dibatte, nello stesso tempo l’auctor e il lettore.24 D'altra parte la spiritualità individualista si concentrò sempre più sul corrispondente esame di coscienza per ricevere il sacramento della penitenza. La controriforma inoltre obbligò i pastori d'anime a un'azione più profonda sulle anime, che si realizzò soprattutto in questo sacramento. Di qui la necessità di una conoscenza più esatta della moralità cri Cfr. J. A. Maravall, La cultura del barocco. Analisi di una struttura storica, Il Mulino, Bologna 1985, 261.316. 24 M. Turrini, La coscienza, le leggi. Morale e diritto nei testi per la confessione della prima età moderna, Il Mulino, Bologna 1991, 143-188. 23 note 243 note 244 luglio 2010 - anno X stiana, specialmente per ciò che riguarda la parte pratica e positiva. Gli sforzi per rimediare a questa necessità iniziarono nei secc. XVI e XVII da parte della Compagnia di Gesù. L’esigenza portata avanti dai gesuiti era soprattutto quella della concretezza della precettistica morale, che deve tener conto della molteplicità e della continua novità delle situazioni concrete in cui l’uomo si trova ad operare, iniziando – possiamo dire – lo studio della psicologia dell’atto umano, ossia le condizioni concrete e soggettive della moralità: una vera novità questa, di fronte allo studio medievale, prevalentemente orientato a indagare le condizioni oggettive della moralità.25 L'organizzazione degli studi nella Compagnia di Gesù prevede due classi di professori: gli uni che, spiegando la Summa di san Tommaso, dovevano occuparsi esclusivamente dei principi generali della teologia morale, e gli altri che dovevano trattare ex professo i "casi di coscienza". Ma le "teologie morali" di questi ultimi si distinguono dalle precedenti "somme per i confessori" per il fatto che lo scopo che perseguono è di determinare e proporre la dottrina che regola la soluzione dei casi di coscienza.26 Lo sviluppo storico della morale casistica va dal sec. XVII fino al Concilio Vaticano II.27 Cfr. Ceriani G., La Compagnia di Gesù e la Teologia morale, in “La Scuola cattolica” 69 (1941), 463-475. 26 B. Haring, La legge di Cristo, I, Morcelliana, Brescia, 58-59. 27 Le principali deficienze che sono state avvertite nell’esposizione dei manuali di morale casistica possono venire schematizzate nel modo seguente: a) Svincolamento dalla sintesi teologica. Non si tratta della separazione in quanto disciplina autonoma, ma dello svincolamento reale dalle fonti autentiche da dove deve scaturire l’impegno cristiano: svincolamento dalla sacra Scrittura; svincolamento dalla teologia (cristologia, ecclesiologia, teologia sacramentarla). b)Eccessivo legalismo. La morale casistica nacque e si sviluppò in un ambiente legalista. Questo ha dato luogo a un carattere legalista alla configurazione del cristianesimo degli ultimi secoli. Il legalismo della morale casistica appare in modo particolare: nell’importanza conferita all’obbligo (al dovere, all’obbedienza); nell’importanza ricevuta dalla legge positiva, soprattutto ecclesiastica (giuridicizzazione della morale). c) Positivismo teologico e pragmatismo morale. Il positivismo morale pratico ha dominato: nel concedere un posto privilegiato all’argomento di autorità (una citazione biblica, un documento del magistero, la somma di opinioni unanimi di teologi morali); nel sottoporre a revisione le impostazioni e le soluzioni: la grande preoccupazione era di dedurre applicazioni da alcuni principi accettati in modo indiscutibile, ma non di dare fondamento ai valori morali. d)Svincolamento dalla filosofia. Mentre san Tommaso costruì il suo edificio morale in un dialogo continuo con Aristotele, i casisti quasi non tennero conto delle correnti ideologiche della loro epoca. Non contengono quasi mai principi generali, ma quasi unicamente definizioni logiche, elementi di casistica o i principi generali, ma quasi unicamente definizioni logiche, elementi di casistica o i principi dottrinali indispensabili per determinare la gravità della trasgressione. Si tratta di una Grenzmoral (morale di confine), come dicono i tedeschi, poiché il cammino verso la perfezione spirituale o morale è competenza di altre discipline, quali la mistica, l’ascetica o la filosofia morale. 25 La casistica, quindi, nel suo vero concetto teologico, è come una scienza d'applicazione, che si basa sopra i principi e sopra le conclusioni già solidamente provate dai sommi moralisti e dalla morale apologetica, che dimostra primieramente la base della morale naturale e soprannaturale come principio rivelato della obbligazione. Perciò la vera casistica si fonda principalmente sull'autorità della S. Scrittura e della tradizione cattolica, per comprovare come i nostri atti (nel fatto particolare o “caso”) siano o no conformi alle regole divine intimamente manifestate dalla coscienza, e concludere quindi alla liceità od illiceità delle particolari azioni. In questa scienza di applicazione, così vasta e nel medesimo tempo così eccellente (perché non è sempre facile il discendere dai principi ai casi particolari), è necessario che il casista, oltre ad una perfettamente equilibrata ragione, abbia una conoscenza non comune della teologia morale e delle leggi non solo ecclesiastiche ma anche civili, ed altresì dei diritti e dei privilegi particolari e locali: conosca insomma perfettamente tutti gli obblighi dell'uomo e del cristiano, per essere in grado di togliere via i dubbi che possano nascere nella coscienza dei fedeli intorno al proprio indirizzo e stato morale. Il termine è per se stesso indice di diversità e distinzione dalla teologia morale puramente speculativa: è dunque impropriamente, anzi erroneamente usato per significare l'insieme delle opere teologiche di quegli autori o scrittori che trattarono di teologia morale dopo il secolo XV. La casistica, non come nome ma nel fatto, è antica quanto la Chiesa. Come tutte le altre scienze e discipline così sacre come profane, venne a formarsi a poco a poco e gradatamente. Senza dir nulla delle Sacre Scritture, nelle quali (come p. es. nelle Lettere di s. Paolo) già s'incontrano qua e là delle vere prescrizioni casistiche; certo e che i SS. Padri alle questioni particolari pratiche, nelle quali venivano consultati, rispondevano con cura e praticità. Questioni di tal genere, ad esempio, erano nei primi tempi della Chiesa: se ai cristiani fosse lecito militare nell'esercito degli imperatori pagani o infedeli; nascondersi o fuggire in tempo di persecuzione; uccidere per giusta difesa l'ingiusto aggressore; se sia mai lecito il mentire, ecc, ecc. Così si sa che s. Agostino in due opere complete, De mendacio e Contra mendacium, scritte in una forma chiaramente casistica, ricerca e spiega ciò che sia menzogna; se possa essere mai un gioco o una figura; se la buona intenzione scusi dalla colpa di menzogna; se sia lecito mentire per evitare un male, per soccorrere un bisognoso o un infermo, e cosi via. Elementi casistici li troviamo altresì in molti decreti dei vari concili o piuttosto sinodi e) Legame eccessivo con la “prassi penitenziale”. La morale casistica ha avuto un relazione diretta e immediata con la prassi penitenziale. Ha dato alla morale casistica alcuni aspetti molto particolari: la predilezione per la determinazione dei peccati. È una morale del peccato, una morale del limite, una morale del minimo; l’insistenza sul caso concreto, ma questi pensavano al di fuori della realtà, senza tener conto dell’analisi delle scienze antropologiche, la prevalenza dei punti di vista pratici in ordine alla prassi penitenziale. Cfr. Vidal M., Manuale di etica teologica 1, Cittadella, Assisi 1994, 125-130. note 245 note 246 luglio 2010 - anno X regionali celebrati qua e là nei primi secoli: di quello di Cartaginc (251), dell'Elvirense (306), dell'Ancirano (314), dell'Arelatense (314); ed abbondano nei libri penitenziali dei secc. VII, VIII, IX. Nel sec. XIII le materie pertinenti alla casistica si unirono in parte allo studio del diritto, in parte alla dottrina generale trattata nella teologia. Primi nel trattare queste materie rifulsero sopra tutti s. Tommaso e s. Bonaventura, e da essi attinsero copiosamente i casisti posteriori. In questo periodo s. Raimondo da Penafort (m. nel 1275), insigne maestro nella teoretica e nella pratica del sacramento della Penitenza, scrisse una Summa de casibus poenitentialibus divisa in quattro libri, che, come attesta egli stesso, compilò dalle opere di autori insigni, affinché potesse essere utile ai sacerdoti nello sciogliere i casi più difficili occorrenti nel confessare. Il sec. XVI fu poi ricchissimo di simili somme casistiche, alcune delle quali in forma alfabetica, altre in forma sistematica: tutte aventi lo scopo di servire ai sacerdoti nell'amministrare il sacramento della Penitenza. Così si venne a stabilire gradatamente quella netta divisione della teologia morale dalla dogmatica, che prese pieno campo nei secoli seguenti. Nel sec. XVII la trattazione della teologia morale va divenendo meno scientifica, tralascia di occuparsi estesamente dei principi della vita cristiana e dei mezzi pratici per l'acquisto e la custodia delle varie virtù, e si aggira soprattutto intorno a ciò che si richiede per evitare il peccato. Il sorgere dell'eresia giansenistica e poi le lotte intorno al probabilismo fecero sì. che non pochi trattatisti rendessero lo studio della morale cattolica quasi un semplice problema di «grave o leggero», di “proibito o tollerato”, lasciando quanto riguardava l'acquisto e l'esercizio delle virtù cristiane alla trattazione dei maestri di “ascetica”. Ridotta pertanto la teologia morale a poco più che uno scheletrico catalogo di peccati e di casi, il nome stesso casistica divenne odioso, perché in realtà si scopriva in alcuni “casisti” quasi un'ignoranza o un oblio delle S. Scritture, della tradizione e delle decisioni conciliari, come se bastasse al teologo moralista ed al confessore il semplice uso del buon senso e della ragione umana. Non per questo, si debbono dire meritevoli di lode quegli eccessivamente rigorosi censori (capitanati da B. Pascal, verso la metà del sec. XVII), che perseguitarono la troppo facile morale di pochi o molto oscuri casisti. Anche nel secolo che sembrerebbe, a prima vista, quello della decadenza nella teologia morale per abuso di casistica si ebbero dei sommi e pii autori che seppero stare nei limiti del giusto e del retto, usando un conveniente e sano metodo casistico, senza minimamente sdrucciolare o cadere in quegli eccessi dei quali si vuole accusare la casistica. Basti ricordare un Francesco Toledo (m. nel 1596) di cui lo stesso s. Francesco di Sales raccomandava al suo clero la Summa casuum conscientiae; un Emmanuele Sa, grandemente stimato da Pio V, i cui Aphorismi confessariorum in 30 anni ebbero trenta ristampe. Poi posteriormente un Giovanni Azor, un Martino Bonacina, un Beniamino Elhel, e moltissimi altri che s. Alfonso pone tra gli autori gravi e classici. È certo che il metodo casistico ha le sue difficoltà; ma d'altra parte la vera e soda cognizione dei principi morali non può e non deve disgiungersi dal criterio equilibrato che si forma per mezzo della pratica soluzione dei casi (siano essi reali o immaginari) senza che si lasci trascinare il confessore dall' “ipse dixit” di chiunque primo pronunci un giudizio.28 “Ogni morale che si sviluppa e vuole applicarsi interamente alla vita deve prolungarsi nella determinazione di problemi pratici e nella ricerca di soluzioni concrete, cioè in una casistica”.29 La casistica che applica le leggi e i principi ai “casi di coscienza”, reali o fittizi, per determinare ciò che è permesso o proibito, peccato veniale o mortale, è il prolungamento naturale della morale, come lo è di ogni scienza pratica, per esempio del diritto e della medicina. Se la morale è la scienza dei principi, la casistica è la scienza, o più esattamente, la disciplina, l'arte dell'applicazione dei principi alle contingenze della vita reale, spesso assai complesse. La casistica non è la morale ma il complemento. Quelli che non fanno mai della casistica, sono proprio coloro che non si impicciano granché della morale; per chi crede permesso tutto ciò che giova e che riesce, non ci sono casi di coscienza. Per i preti, incaricati del ministero del confessionale e chiamati a illuminare con i loro consigli i fedeli, i quali ricorrono a loro, questo complemento della morale teorica è indispensabile. Per determinare un caso particolare, ciò che è permesso o proibito, non basta la conoscenza generale dei principi e delle regole, ma bisogna applicarli, dedurne la linea di condotta conforme alle situazioni particolari della vita concreta. Nella vita morale d'ogni uomo sorgono conflitti tra il dovere e l'interesse, tra le fredde esigenze della ragione e i caldi appelli del cuore, tra l'imperativo categorico della legge e le sollecitazioni pressanti della passione. I casisti pensano a questi conflitti. b. Formazione del clero e “casi morali” Il Magistero ecclesiastico attraverso i secoli ha esortato i sacerdoti a riunirsi per parlare delle cose di Dio in apposite assemblee che con termine tecnico si chiamano collationes, che sono riunioni di sacerdoti per discutere su determinate materie che si riferiscono alle scienze sacre. La teologia morale è una di queste scienze. I casi di morale sono le riunioni o adunanze dei sacerdoti che trattano a suggeriscono orientamenti pratici sulle varie situazioni che riguardano il comportamento umano alla luce della rivelazione e delle leggi divino-positive. È utile sapere che si parla già di queste riunioni ancor prima del XIII secolo nelle fonti del diritto canonico e anche se nei secoli successivi non ci fu molto disinteresse, simili riunioni, non mancarono però dei vescovi, come l’arcivescovo di Milano San Carlo Borromeo (1538-1584) che, seguendo le direttive del Concilio di Trento (1545-1563), esortò in uno dei sinodi diocesani i suoi sacerdoti con uniformità di comportamento riguardo alla condizione delle anime. Tarocchi I., Casistica, in Aa.Vv., Enciclopedia Cattolica III, Sansoni, Firenze 1949, coll. 981983. 29 Brouillard P., La casuistique catholique, in “Études”, 1925, p. 311. 28 note 247 note 248 luglio 2010 - anno X Era proprio la conoscenza della teologia morale uno degli elementi cardine, per non dire il perno, della formazione richiesta al clero a partire dal periodo post-tridentino.30 Ad essa furono finalizzate istituzioni nuove e per essa fu scritta e in buona parte pubblicata un’ingente mole di testi. Il concilio di Trento innescò, infatti, con i suoi decreti, l’avvio di un sistema di controllo della formazione del clero che trovò gli strumenti privilegiati negli esami per gli ordinandi, i confessori e gli aspiranti ai benefici curati.31 Materia di esame per tutti furono i cosiddetti “casi di coscienza”, ossia il sapere indispensabile per esercitare quella funzione di giudice dei peccati del penitente che il concilio tridentino aveva così fortemente sottolineato riguardo al confessore.32 Il clero secolare, o chi aspirava a farne parte, si trovava in realtà sprovvisto di occasioni di istruzione per tale sapere. Il vuoto fu colmato in vari modi, per iniziativa episcopale e privata. I vescovi diedero vita a due nuove istituzioni: le letture dei casi di coscienza affidate ad un esperto e le congregazioni dei casi di coscienza in diocesi. Si diede così origine anche a una consistente produzione a stampa per tutto il periodo, sotto forma di raccolte di soluzioni dei casi di coscienza illustrati dal lettore o dibattuti nelle congregazioni diocesane.33 L’esempio di San Carlo Borromeo fu seguito da molti altri pastori della Chiesa, tanto che nel secolo XVIII si celebrò, sotto il pontificato di Benedetto XIII (1649-1730), il Concilio Romano (1725) al quale partecipò, come canonista, l’Arcivescovo di Bologna Prospero Lambertini, futuro papa Benedetto XIV (1675-1758). Costui fu una mente enciclopedica. Il Concilio Romano deplorò la decadenza del comportamento del clero e il poco interesse nei riguardi delle cerimonie liturgiche e per colmare queste deficienze stabilì: “Per la qual cosa i vescovi si impegnino e non desistano di adoperare ogni cura e diligenza, fino a quando si abbiano le riunioni tanto nelle città, quanto nelle diocesi, per tutti quelli che fanno parte del clero, gli iniziati alle cose sacre, i canonici, i parroci e i confessori (anche i regolari eccetto che non si abbiano le lezioni morali nei loro conventi, altrimenti si devono sospendere dall’udire le confessioni) una volta la settimana in un giorno determinato da stabilirsi e sotto una pena pecuniaria fissata contro i contumaci, nelle quali (congregazioni) M. Turrini, Le letture di casi di coscienza e di teologia morale nello studio bolognese del sei-settecento. La definizione di una disciplina e la formazione del clero, in Aa.Vv., Sapere e/è potere. Discipline, dispute e professioni nell’Università medievale e Moderna. Il caso bolognese a confronto. Atti del 4° Convegno. Bologna, 13-15 aprile 1989. Vol. III, Dalle discipline ai ruoli, Istituto per la Storia di Bologna, Bologna 1990. 31 Cfr. M. Turrini, Morale e diritto nella prima età moderna. La coscienza, le leggi e il disciplinamento sociale, Tesi di dottorato in Storia della società europea, Università degli Studi di Venezia, 1989. 32 Cfr. D. Borobio, Il modello tridentino di confessione dei peccati nel suo contesto storico, in “Concilium”, XXIII (1987), n. 2, 42-64. 33 Cfr. G. Strazzari, Confessione e casi di coscienza nella Bologna post-tridentina, tesi di laurea, Università di Bologna, a.a. 1982-1983. 30 alternativamente si propongono, si discutano e si esercitino praticamente i casi di coscienza e di liturgia con un metodo sinodale da osservarsi che si legge nell’appendice”. Stando a quanto decretarono i Padri conciliari, le riunioni per le soluzioni dei casi di morale dovevano essere due al mese e due per i casi di liturgia, e, per renderle obbligatorie, vi fu annessa una pena pecuniaria per il clero diocesano. Era questo un modo per vincolare gli ecclesiastici. Dopo questo Concilio, vari sinodi si preoccuparono di favorire, di instaurare e di regolare le riunioni.34 Un altro richiamo notevole tra gli altri, prima della pubblicazione del Codice di Diritto canonico, è quello del Vaticano I (1869-1870) in cui i vescovi francesi e tedeschi richiesero che “In tutte le diocesi siano istituite le adunanze ecclesiastiche e si devono tenere almeno sei o sette volte all’anno, tutti i sacerdoti dello stesso distretto devono frequentare e che in esse si debbano trattare, secondo un programma proposto dal vescovo, tanto a voce quanto per iscritto, quelle questioni che fan parte delle scienze sacre e che sembrano essere utili massimamente al clero. La richiesta è chiara, come d’altronde è chiaro il numero minimo di riunioni che bisogna tenere ogni anno: tale numero all’incirca è rimasto in uso fino al 27 novembre 1983, data di entrata in vigore del nuovo Codice di Diritto Canonico. Infine la Chiesa sentì il bisogno di regolamentare la mole di leggi che si erano accumulate attraverso i secoli e il 27 maggio 1917, giorno di Pentecoste, il papa Benedetto XV (1854-1922) pubblicò il Codice di Diritto Canonico. Quello che era stato il lavoro dei Concili, di Sinodi, di Congregazioni, di capitoli generali veniva riassunta nel can. 131 in questi termini: “1.Nella città vescovile (con sede episcopale) e nei singoli vicariati foranei, spesso durante l’anno, in giorni da stabilirsi dall’Ordinario del luogo, sui tengano le riunioni che si chiamano collazioni o conferenze, circa questioni morali e liturgiche; cui si possono aggiungere altre esercitazioni (argomenti) che l’Ordinario stimerà opportuno per promuovere la scienza e la pietà dei chierici. 2. Se sarà difficile il tenere le riunioni, si mandino per scritto le questioni risolte, secondo le norme da stabilirsi dall’Ordinario. 3. Devono intervenire alla riunione, o, non tenendosi la riunione, mandare la soluzione scritta dei casi, eccetto che precedentemente non abbiano ottenuta espressa licenza di esenzione dall’Ordinario del luogo, tanto tutti i sacerdoti secolari, tanto i religiosi, benché esenti, che hanno cura delle anime, e così pure gli altri religiosi che hanno ottenuto la facoltà di ascoltare le confessioni dall’Ordinario, se nelle loro case non si tiene la soluzione dei casi”. In pratica sono riassunte in particolare le decisioni del Concilio romano e del Vaticano I. Il numero di questi incontri in cui si devono trattare argomenti di morale e di liturgia è 34 Cfr. Dimatteo L., I casi di morale di P. Pio, Edizioni Padre Pio da Pietrelcina, S. Giovanni Rotondo 1991, p. 29-34. note 249 note 250 luglio 2010 - anno X a scelta del vescovo, almeno di sei o sette volte; a questi argomenti si possono aggiungere altri a discrezione del vescovo. Per facilitare poi la partecipazione dei sacerdoti alle riunioni si provvede a dar loro anche la possibilità di convenire nelle singole foranie i cui vicari hanno l’obbligo di riunire i sacerdoti della zona per la soluzione dei casi. Tutti i sacerdoti sono obbligati a parteciparvi e se qualcuno non potesse andare, deve inviare la soluzione scritta. Sono dispensati dall’intervenirvi solamente i sacerdoti religiosi nei cui conventi si svolgono i casi. Il fine che si propongono queste adunanze è di far crescere i sacerdoti nello spirito e di impegnarli nello studio delle varie discipline teologiche. Ogni legge acquisisce la forza di essere osservata e rispettata, in quanto vi è annessa una pena per i trasgressori. Il CJC commina una pena piuttosto blanda tanto per il clero secolare, quanto per quello regolare: di fatti il can. 2377 così recita: “I sacerdoti che agiscono contro il disposto del can. 131, 1) L’ordinario punisca i contumaci a suo prudente arbitrio: se saranno religiosi confessori non aventi cura d’anime, li sospenda dall’ascoltare le confessioni dei secolari”. Il can. 131 obbliga alla partecipazione alle conferenze,35 tenute più volte all'anno su questioni morali e liturgiche, tutti i sacerdoti diocesani e i sacerdoti religiosi a cui è affidata la cura delle anime, come pure quelli che hanno ricevuto la facoltà di ascoltare le confessioni dall'ordinario del luogo, se tali conferenze non si tengono nelle loro case. L'ordinario può aggiungere altri esercizi intesi a promuovere la scienza e la pietà dei chierici. Dove è difficile tenere simili riunioni, i sacerdoti devono spedire la soluzione dei casi proposti, in iscritto, secondo norme stabilite dall'ordinario. Il codice da soltanto le linee maestre: il diritto particolare ne deve tracciare i dettagli. Inoltre, il codice parla soltanto dei sacerdoti.36 II 4 novembre 1969 la S. Congregazione per il Clero spedì una lettera circolare ai presidenti delle varie conferenze episcopali circa la formazione permanente del clero, specialmente giovane.37 La lettera ribadisce le prescrizioni del can. 130 intorno agli esami triennali, opportunamente però aggiornati per quel che riguarda contenuto e metodo da eventuali norme particolari dei singoli vescovi e conferenze episcopali. Si fa riferimento espresso al fatto che questi esami devono coprire non soltanto aspetti dottrinali ma anche aspetti pratici del ministero. La lettera, oltre ad incoraggiare le varie iniziative di vescovi e conferenze episcopali in materia, ricorda altri sussidi per la formazione permanente del clero, che vengono ripresi dallo schema del nuovo codice: l'anno pastorale subito dopo l'ordinazione (ES I, 7; cfr. CD 16 e PO 19-21); corsi d'aggiornamento per il clero, che possono essere obbligatori per Per le riunioni mensili del clero vedi. Morgante H., Collationes menstruae, in “Monitor Ecclesiasticus”, 93 (1968), p. 535-543. 36 Cfr. Depasquale A., Stati e funzioni del popolo di Dio, Aa vv., Il diritto nel mistero della chiesa. II. Il popolo di Dio e la sua struttura organica, PUL, Roma 1981, 142-143. 37 AAS, 62(1970), p. 123-134. 35 alcuni anni dopo l'ordinazione, e lasciando possibilità di accesso a tutti i sacerdoti (PD e. 139); sessioni di studio aperte a tutto il clero, sotto la direzione delle facoltà di teologia, e che possono essere rese obbligatorie per i sacerdoti dopo 10 e 25 anni dall'ordinazione; le conferenze decanali regolate dal e. 131, ma opportunamente aggiornate per lasciare spazio ai sacerdoti di condividere le loro esperienze e di crescere nella carità fraterna e mutua comprensione; la costituzione di biblioteche su base decanale o regionale per mettere a disposizione dei sacerdoti libri di solida dottrina che favoriscano lo sviluppo della scienza teologica, spirituale e pastorale; la concessione di vacanze da altri impegni per permettere ai sacerdoti di dedicarsi allo studio; la costituzione di istituti pastorali su base diocesana o regionale. Queste disposizioni sono state osservate, in pratica, da tutte le diocesi fino alla pubblicazione della Presbiterorum ordinis, decreto del 7 dicembre 1965 sul ministero e la vita sacerdotale. c. I “casi morali” nella diocesi di Trani-Barletta-Bisceglie I casi apparsi sul Bollettino Interdiocesano coprono un arco di tempo che va dal 1916 al 1960, con interruzioni negli anni: 1919, 1920, 1924, 1939-1941; 1945-1946; 1951-52; 1954-56; 1958-1959. Riportiamo il prospetto sintetico in tabella 1. Dobbiamo subito precisare che l’autore più citato è Noldin.38 NOLDIN Hieronymus (1838-1922), moralista gesuita fu professore di teologia morale e pastorale all'università di Innsbruck. Oltre a numerosi articoli, scrisse la Summa theologiae moralis in tre volumi, pubblicata la prima volta a Innsbruck nel 1897; vide varie edizioni fino alla 30a(1951). È un'opera notevole per la limpida stesura, per la logica ripartizione della materia e per la serenità equilibrata di giudizio. II nucleo primitivo del NSH si trova nella sintesi di H. Noldin, Summa Theologiae moralis, Innsbruck 1901 (Schmitt, 1923: 1). H. Noldin, gesuita, (Miller J. 1962:1019), si ricollega al modo particolare di concepire la teologia morale rappresentato nel secolo XIX da A. Lchmkuhi (Vermeersch,1929: 864) Per capire questa peculiarità occorre ricordare l'intervento bellicoso di A. Lehmkuhi, nel 1901, a favore di quello che è stato descritto come l’«integralismo ecclesiastico»: una concezione che già allora era vista come destinata a portare a «un ristagno completo» (Ziegler, 1970: 265). Un indicatore indiretto degli ampi spazi occupati dall’ integralismo ecclesiastico» all'interno del cattolicesimo romano fino al Vaticano II è il grande numero di edizioni del NSH. In concreto è degno di nota il fatto che NSH, a partire dalla sua origine centroeuropea, riuscì a conquistare parti importanti di mercato all'interno del cattolicesimo nordamericano (McKeever, 1965: 24) e di quello spagnolo, spiazzando, rispettivamente, manuali come il SBC e il GFM, che godevano di una posizione molto buona. H. Noldin (1838-1922), prima di morire, potè curare il primo adattamento del suo manuale al nuovo Codice di Diritto Canonico. Un elemento che spiega la longevità editoriale, del NSH è l'abilità del Noldin nel circondarsi di un gruppo di collaboratori (continuatori). Le responsabilità editoriali del NSH non si limitano alle persone i cui nomi corrispondono alle tre lettere della sigla NSH: appartengono anche ad altri gesuiti legati all'insegnamento della teologia morale e 38 note 251 note 252 luglio 2010 - anno X Tabella 1 I “casi morali” nel Bollettino Interdiocesano della diocesi di Trani-Barletta-Bisceglie (1916-1960) ANNO 1916 1916 1916 1916 1916 1916 1916 n. 1 2 3 5 5 7 8 pp. 13-14 26-30 44-47 76 86-91 102-106 121-126 1917 1917 1917 1917 1917 1917 1917 1917 1917 1917 1917 1 2 3 4 5 6 7 9 10 11 12 8-13 24-29 39-44 53-59 76 * 86-91 106-111 137-138 154-157 171-176 183-188 1918 1918 1918 1918 1918 1918 1 2 3 4 5 6-7 17-21 36-38 50-52 63-65 75-79 84-88 1921 1921 1921 1921 1921 1921 1 2 3 4 5 6 3-11 39-46 55-61 74-83 88-90 96-104 1922 1922 1922 1922 1922 1 2 3 4 5 4-14 30-38 50-54 65-70 74-85 1923 1923 1923 1923 1923 1 2 3 4 5 24-31 39-47 58-67 86-89 95-102 1925 1925 1925 1925 1925 1925 1 2 3 3 5 6 6-9 11-15 52-58 52-58 98-99 129-134 ANNO 1926 1926 1926 1926 1926 n. 1 2 3 4 5 (6?) pp. 19-20 34-43 62-68 88-91 115-123 ANNO 1934 1934 1934 1934 1934 n. 1 2 3 5 6 pp. 20-24 47-50 68-71 143-147 170-174 1927 1927 1927 1927 1 2 3 4 25-31 63-71 105-106 132-144 1928 1928 1928 1928 1928 1 2 3 4 App. 21-27 61-68 94-99 111-117 1-9 1935 1935 1935 1935 1935 1935 1 2 3 4 5 6 9-13 42-45 57-60 74-75 95-96 113-117 1929 1929 1929 1929 1929 1 2 3 4 5 12-14 24-29 50-54 69-70 83-87 1936 1936 1936 1936 1936 1936 1 2 3 4 5 6 17-19 44-47 62-64 82-83 95-96 109-111 1930 1930 1930 1930 1930 1930 1930 1930 (?) Dic. 1 2 3 4 5 6 I - VIII I – VIII 20-23 41-45 61-64 86-88 106-108 126-130 1937 1937 1937 1937 1937 1 2 3 4 5 13-15 30-32 45-48 61-62 99-100 1938 1938 1938 1938 1 2 3 4 10-18 35-37 52-53 69-83 1931 1931 1931 1931 1931 1931 1931 1 2 3 4 Suppl. (?) 5 6 7-10 31-35 59-62 86-88 I – VIII 110-111 128-131 1942 1942 9 12 13-15 1-8 1943 8-12 81-84 1944 11-12 63-66 1947 1-2 9-12 1932 1932 1932 1932 1932 1932 1 2 3 4 5 6 6-9 38-41 57-60 79-80 89-91 102-105 1948 3-4 25-26 1949 9-12 33-35 1950 Appendice 1-4 1953 12 1-4 1933 1933 1933 1933 1933 1 2 5 6 Supp. (?) 17-22 30-33 92-94 110-118 I - VIII 1957 11-12 78-80 1960 1-2 21-23 Ecco come veniva affrontato un caso morale.39 Si possono distinguere tre momenti principali: 1.presentazione del caso; 2.studio del caso; 3.discussione della soluzione, secondo una traccia che può essere così delineata: - nei comportamenti delle persone operanti nella situazione esposta nel caso, vengono individuati i problemi in questione. Problemi, cioè interrogativi a cui la risposta non appare subito ovvia e scontata. Per esempio, interrogativi su: • la valutazione morale di certe scelte: risultano lecite oppure illecite? • le ragioni eventualmente addotte dalle varie persone sono valide oppure no? E perché? • il da farsi per uscire da una situazione moralmente inaccettabile e, quindi, per un cammino di conversione (è l'aspetto più propriamente pastorale). - tra i vari problemi si individua poi qual è quello centrale. Di solito è uno solo, mai comunque più di due; - vengono indicati, quindi i punti di dottrina morale da tener presenti per la soluzione del problema e richiamarne sinteticamente l’essenziale. Si fa perciò riferimento anzitutto a quanto in proposito viene proposto in documenti del Magistero; in assenza di ogni insegnamento su qualche punto, si ricorrere a testi di Teologia Morale; - viene poi data una soluzione motivata al problema. È evidente che il caso si autonomizza, durante gli anni, che perde il suo valore esemplare nella norma per diventare ciò che è nell’ostacolo. Si passa dunque da una casistica dei dizionari del caso di coscienza a una casistica nelle conferenze ecclesiastiche40 dove il caso sfida il potere normativo. del diritto canonico nel cattolicesimo austriaco. Le edizioni si ripetono, curate tra l'altro con particolare autonomia da imprenditori-editori che dispongono di una ben organizzata rete internazionale di vendite. Questi tipografi-editori rieditavano il NSH in base alla domanda, in volumi separati. 39 Cfr. Ciccone L., L’inconfessabile & il confessato. Casi & soluzioni di 30 problemi di coscienza, Ares, Milano 2007, 5-11. 40 Ereditiere forse delle antiche Calende, rimesse in ordine dopo il concilio tridentino dall’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo (1538-1584), le conferenze ecclesiastiche, riunivano i preti di una diocesi a richiesta del vescovo. L’organizzazione di queste conferenze rispondeva ad un insieme molto stretto di raccomandazioni- la maggior parte emanate dal vescovo stesso. Durante queste conferenze, fra i diversi compiti, i curati erano invitati a proporre le loro soluzioni su dei casi che gli erano stati presentati. Un segretario di seduta era incaricato di annotare le risposte date, di redigere un verbale secondo le intenzioni del vescovo, di riempire a volte un modulo che era il resoconto della decisione presa dall’assemblea. Il vescovo si riservava il diritto di proporre a sua volta, durante la prossima seduta, la soluzione classica, annunciava i casi da trattare durante l’assemblea seguente, univa a volte qualche indicazione di lettura in modo che la riflessione fosse note 253 254 luglio 2010 - anno X note Emergono i tre momenti della letteratura casistica cattolica: l’incontro con la norma tanto sapiente quanto pietosa. Di queste conferenze, non abbiamo altre testimonianze stampate, almeno per la Francia, tranne le opere che i vescovi facevano pubblicare- eco delle conferenze effettivamente tenute, anche di giudizi resi durante le assemblee. Le più celebri di queste Conferenze sono servite, da sempre, per la formazione dei preti. Naturalmente le risposte date si conformavano ai dogmi della fede, ai test ecclesiastici. Esse compongono tante opere erudite sui sacramenti o esegesi dei vangeli. Ma di ciò che si è detto effettivamente durante queste assemblee, le opinioni contraddittorie, le ragioni antagoniste, le testimonianze, sono più rare. Le conferenze ecclesiastiche assicurano in un altro modo i compiti dei sinodi (educativo, pastorale e sociale) attraverso la collaborazione degli sforzi durante la conferenza, attraverso la preparazione richiesta ad ognuno prima di queste conferenze. La sanzione delle decisioni prese, viene dopo la conferenza ad opera del vescovo ed è proclamata nella prossima assemblea. La prima preoccupazione è quella della formazione e dunque l’informazione dei confessori confrontate a situazioni che presentano delle difficoltà morali. Al fine di poter assolvere i peccati confessati o poter differire legittimamente questa assoluzione, i curati dovevano avere nelle loro biblioteche delle opere che servivano per guidarli e dovevano riferirsi al Penitenziario per i casi a proposito dei quali le loro conoscenze non potevano essere sufficienti. Le conferenze intendevano dunque completare le conoscenze dei curati, particolarmente per i curati delle contrade isolate, senza dubbio poco portati alla speculazione- particolarmente su dei punti di morale. Strettamente regolamentate, le disposizioni possono cambiare secondo le diocesi. Molto spesso, le assemblee erano mensili. Il vescovo di Grenoble, Lecamus, espone la tenuta di queste conferenze (Lecamus, 1690, 135-147) e impone la lettura di questo regolamento due volte all’anno. Dopo aver richiamato l’utilità di questa pratica per l’uniformità della dottrina e soprattutto in materia di amministrazione del sacramento di penitenza, aggiunge che i partecipanti dovranno venire con le loro risposte scritte. Ogni assenza dovrà essere giustificata. Il vescovo di Alet espone con cura tutte le forme di dispensa (Pavillon, 1675, 28-29) e prevede un appello (32). Nella prescrizione di Lecamus, ogni mancanza sarà punita con una elemosina o con una sospesa dopo tre assenze non giustificate lo stesso anno. Esse saranno tenute mensilmente nei mesi d’inverno. La seduta sarà preparata da una lettura della scrittura, dai Padri e dai teologi universalmente approvati. La riunione inizierà alle otto per l’estate, otto e trenta in inverno. Sono di rigore le sottane e le tonsure. Una messa precede la prima conferenza che verterà su un soggetto di pietà, l’altra che sarà nel pomeriggio, riguarderà la dottrina. La riunione si farà in chiesa in assenza di ogni laico. Il pasto, preso da uno degli ecclesiastici, sarà frugale, tutti parteciperanno alle spese. Sarà letto un libro di pietà: nessuna donna entrerà e dovrà regnare il silenzio. Dopo la conferenza di dottrina, saranno evocate le diverse questioni riguardanti lo stato delle anime del cantone. La questione XXII riguarda i casi coscienza: questi casi saranno scelti fra quelli effettivamente riscontrati nella pratica e saranno coperti da anonimato. L’Assemblea è presieduta da un Arciprete o un Promotore scelti fra i curati del Cantone. Un segretario della seduta prenderà nota di ciò che si dirà, trasmetterà un verbale con l’aiuto delle note scritte da ognuno dei membri presenti. Ma leggerà il primo giorno i risultati della conferenza precedente e le risoluzioni del vescovo sulle questioni che saranno state trattate. La materia delle conferenze era trasmessa, a volte, attraverso gli stampati. Le conferenze erano strettamente regolamentate- ne segue che lo svolgimento effettivo non doveva derogare da ciò che era previsto. Borromeo chiedeva ai curati di fondare con delle ragioni le decisioni che avrebbero reso. Il vescovo di Alet, Papillon, usa per due volte l’espressione di parere della morale (le raccolte di casi di coscienza), l’iscrizione sotto la norma (i dizionari), l’incontro con le altre coscienze (le conferenze ecclesiastiche). Resta tuttavia la scoperta che il caso è al di là della legge non per mancanza ma per eccesso in ciò che nessuna norma lo avesse premeditato. Il caso deve essere preso sul serio non solo nel dramma interiore della coscienza, nell’intimo della confessione, ma anche nelle strategie del linguaggio per così dire e in quelle della discorsività per giungere all’invenzione della soluzione con gli altri membri della comunità. La casistica è dapprima un affare di linguaggio. Il caso di coscienza appare in un enunciato: i confessori erano preparati nei seminari a questa arte dell’interrogazione abile che fa dire senza dire se stesso. Si tratta in effetti di far dire la colpa commessa senza suggerire Compagnia e di parere dell’assemblea mentre le conferenze di senso non menzionano che il parere di colui che interviene (1686,260). Lecamus iniziava la redazione del processo della conferenza alla maniera di un formulario (1690,147) Appaiono tre caratteri notevoli: le risposte devono essere adottate alla pluralità delle voci; le risposte sono sospese alla convalida della parola autorizzata; esse sono argomentate. Ne segue che un voto deve chiudere il dibattito fra le ragioni scambiate, che era atteso un accordo fra i membri, augurato e forse provocato dal presidente, e richiesto in tutti i casi dalla necessità di non scindere l’assemblea. La decisione non ha niente di definitivo: l’assemblea decreta su un caso secondo le ragioni che gli sono apparse. Autorità della competenza e autorità della gerarchia poiché il Formulario di Puy fa avvicinare la lista degli assenti e la lista delle risoluzioni. C’è dunque una dialettica incerta fra le pluralità delle voci e la validità delle ragioni apportate dai curati, fra la competenza decisiva del Vescovo e la competenza provvisoria dell’assemblea. Il quantitativo e il qualitativo, il valido, l’autorizzato e il competente devono idealmente coincidere alla fine della riunione, secondo un dispositivo descritto nei risultati più che nel suo percorso. Ai casi dibattuti e sottomessi all’assemblea si aggiungono i casi quelli sollevati dai membri stessi durante la riunione. I curati dispongono così della capacità legittima di valutare ciò che è moralmente difficile da ciò che non lo è; essi dispongono ugualmente della capacità d’invenzione dei casi: scoprono quelli che sarebbero stati lasciati nell’ombra dalle questioni scritte; possono suscitarli se la loro esperienza gli mostra a cosa la loro formazione non li aveva preparati. Il giornale di Alessandro Dubois trasmette una testimonianza vivente di queste conferenze. Di questi ricordi, ne emerge che le questioni erano date il giorno stesso senza una preparazione. I curati rispondevano subito sia oralmente che per iscritto. Il segretario conservava tutte le risposte che trasmetteva in seguito al vescovo con il compito di fargli conoscere le risoluzioni. La presidenza era assicurata di diritto dal prelato graduato in teologia quando se ne trovava (Platelle, 1965, 79). Dubois insiste sul contenuto delle conferenze alle quali ha partecipato piuttosto sui vantaggi di tale pratica: prende subito il posto dell’autorità legittima; legittima una pratica dalle conseguenze che produce senza testimoniare ciò che essa è stata. Le conferenze sono prima di tutto un luogo dove si livellano i saperi più che un luogo dove sono prodotte le norme. Il più informato incoraggia colui che lo è di meno; gli spiriti convergono in un quadro predefinito di norme, le norme cristiane, e di regole, le regole del formulario. La produzione della decisione è predeterminata dalla padronanza di un sapere delle norme, più che dalla padronanza dell’esperienza delle situazioni difficili vissute. La produzione della decisione è affare dell’autorità prima di essere affare della competenza venuta dall’esperienza. note 255 note 256 luglio 2010 - anno X l’idea, e anche svegliare la tentazione di una colpa sconosciuta del penitente. La casistica è qui affare di parole: parole provocate, capite, rapportate al superiore per i casi riservati. Ma prima di ciò, è un affare di linguaggio perché la confessione della colpa è sottomessa agli obblighi di una tecnica della formulazione. Non esistono dei casi precedenti alla pratica della confessione auricolare, né alla formulazione della confessione: il caso è dunque, prima di tutto, un enunciato perché è il fatto di una enunciazione. La confessione è un enunciato che ha un valore referenziale: essa si rapporta principalmente ad una successione causale di fatti prima che questa successione sia ulteriormente elaborata secondo le regole codificate del dire bene e della realizzazione delle circostanze. Confessare è un atto del linguaggio che produce la colpa, e in tutti i sensi di questa parola. La confessione rivela tre dimensioni della parola: secondo una funzione referenziale, la confessione rivela il peccato designandolo; esso lo fa esistere sul piano del linguaggio e della rappresentazione, secondo una funzione illocutoria. I confessori ed in seguito i casisti daranno una estrema importanza alle circostanze41 che sono tanto delle categorie grammaticali della lingua che delle categorie assiologiche La distinzione aristotelica fra atto involontario e atto non volontario (Eth. Nic. III, 2, 1111 a, 3-6) è stato il punto di partenza di una teoria delle circostanze che avrà il suo posto prima nella retorica greca e latina, poi, nel XII sec. Nei commenti delle opere di Cicerone e di Boezio (Tentler, 1977, 118), prima di arrivare nel campo delle teologia cristiana. Nella retorica greca e latina, la Circumstantia indica a proposito dell’arringa la situazione completa, il caso singolare che è l’oggetto dell’arringa, in opposizione alla Tes, o problema astratto che può interessare lo studioso. Gli elementi della situazione, le circostanze, sono sette: la persona, la cosa fatta, lo strumento, il luogo, il tempo, la maniera, il mobile (Principia rhetorices. IV; Boezio, De differentis topicis. IV; Nemesius. De natura hominis. XXXI). Nel De confessione mollitiei, Jean Gerson (1363-1429) riprende lo stesso esempio di quello di Nemesius d’Emèse, un padre colpito da suo figlio, per sviluppare il suo commento delle circostanze. In teologia morale, l’elaborazione concettuale della nozione di circostanza è dovuta a S. Tommaso; essa è passata dai manuali all’uso dei confessori. Le liste più lunghe delle circostanze ne numerano più di una decina. Ma S. Tommaso darà una divisione che è quella più conosciuta: con Cicerone (I Rhet. 24), ne numera più di sette. Saranno le circostanze canoniche: Chi, che cosa, dove, attraverso quali mezzi, perché, come, quando. A volte erano aggiunti, la frequenza, la durata, il numero dei peccati simili commessi. La formula era diventata un verso di cui Gerson dà un primo commento nell’Appendice De confessione mollitiei. La nozione di circostanza conserva della sua origine retorica i caratteri connessi alle necessità dell’enunciazione. La circostanza deve dare sufficientemente i caratteri di un’azione perchè essa possa entrare nella griglia d’identificazione e di valutazione dei confessori. Le circostanze non appartengono all’azione ma forniscono i mezzi per riconoscerla; esse non danno il valore intrinseco dell’azione ma indicano i contorni esatti della sua valutazione: esse aumentano o attenuano le colpe. Esse non sono delle proprietà dell’azione, ma delle determinazioni dell’azione portata dall’enunciazione di questa azione. Ecco l’importanza della confessione e la necessità di dire bene. La retorica del caso permette di superare la singolarità dell’occorrenza vissuta per formare un caso generale o tipico capace di dare la sua soluzione a tutti i casi futuri. 41 dell’azione: secondo l’enunciato descrittivo che la produce, l’azione costituita sarà colpevole o permessa. L’azione è inserita in un enunciato che deve produrre le circostanze; essa è iscritta in un ordine del linguaggio poiché queste circostanze sono precisamente quelle ereditate dalla retorica greco-romana. La casistica non tratta dunque un fatto ma un caso. Il caso è l’elaborazione nel e attraverso il linguaggio di questo fatto per mezzo di una descrizione particolare e strettamente codificata. Ciò che è proprio del caso è di apparire in una strategia di linguaggio. Il caso non entra nel campo degli studi che con l’introduzione della confessione. La confessione della colpa non è un incidente a partire dal quale nasce il caso. Il caso è rintracciabile nel campo degli studi dalla nascita della confessione. Si tratta di far dire la colpa: i manuali in uso dai confessori insistono su questa necessità del dire e del dire bene. Strategia del linguaggio nella misura in cui dire il caso significa inserirlo nell’ordine del linguaggio attraverso un insieme di parametri capaci di esaminarne la portata. La teoria delle circostanze largamente attinta alla retorica contribuisce a determinare se l’azione è colpevole poiché questa incombe nella norma morale. Il caso richiede dunque un’operazione di descrizione dell’azione. Questa descrizione costituisce la colpa mettendo l’azione sotto gli auspici della valutazione. note 257 note Il Dio di Marino Piazzolla A cento anni dalla nascita (1910-2010) 259 Domenico Marrone* [email protected] Marino Piazzolla, personalità complessa e sanguigna, ha vissuto una vita intensa e spesso tribolata,1 che attraversa gran parte del Novecento. Bisogna notare che nella storia della poesia italiana il poeta è stato sottovalutato dalla critica. Nonostante il suo indiscutibile valore, è stato rimosso e dimenticato e non è stato inserito in nessuna importante antologia. Sicuramente la celebrazione del centenario del suo genetliaco con le molteplici iniziative in atto concorrerà a farlo leggere di più e ad essere più conosciuto. Piazzolla non ha aderito a nessuna delle linee e a nessuno dei movimenti della poesia italiana, sviluppando una poetica originalissima.2 * Direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani. Docente stabile di Teologia morale. 1 Marino Piazzolla - all’anagrafe Pasquale, Marino, Falerio Piazzolla - nacque a San Ferdinando di Puglia (FG) il 16 aprile 1910. Nel registro di battesimo presente nell’archivio parrocchiale risulta nato il 20 marzo 1910. Quest’ultima data è da ritenersi quella certa a motivo del fatto che in quegli anni si era soliti denunziare la nascita all’anagrafe parecchi giorni dopo la data effettiva. Nel 1931, in seguito alla morte della madre si trasferisce a Parigi, dove entra in contatto con gli intellettuali e i movimenti artistici più significativi del tempo. Nel 1936 esordisce con un saggio su Pirandello e nel 1938 si diploma alla Sorbona in Filosofia. Nel 1939 pubblica in francese le raccolte di versi Horizons perdus e Caravanes. Nel 1940 dà alle stampe italiane la silloge Ore bianche e il poemetto mitologico Pérsite e Melasia. Tornato in Italia, a Roma, entra in contatto con Vincenzo Cardarelli e inizia la sua collaborazione con la Fiera Letteraria. La sua vasta produzione comprende poesie, saggi, articoli e interventi di vario genere e interesse, fu anche un pittore e un grafico eccellente. Fra i suoi scritti citiamo Lettere alla sposa demente, Esilio sull’Himalaya, Le favole di Dio, Gli occhi di Orfeo, I detti immemorabili di R. M. Ratti, Quando gli angeli ascoltano, Viaggio nel silenzio di Dio, Sugli occhi e per sempre, Parabole dell’angelo di cenere, Il pianeta nero. Cfr. Frattini A., Piazzolla Marino, in Aa.Vv. Dizionario della letteratura mondiale del XX secolo, Paoline, Roma, 1968, 446-447. 2 Cfr. Piazza R., Marino Piazzolla: Lettere alla sposa demente. Recensione, 4 luglio 2008. Eppure siamo soli e tu non odi quando chiamiamo tanto è il tuo silenzio note 260 luglio 2010 - anno X Non si legò mai a gruppi politici, come erano soliti fare alcuni poeti negli anni Sessanta, ma cercava la sua libertà e questo lo ha penalizzato. L’inizio poetico di Piazzolla risale al decennio francese 1928-1939, a contatto con la Parigi degli anni trenta.3 Era così entrato in contatto con l’humus generativo della pittura e della poesia europee, divenendo egli stesso poeta e pittore.4 Si registrano oltre 45 titoli del poeta. Ha avuto una lunga e fervida esperienza di poesia, ma è stato anche critico letterario, critico d’arte, traduttore, saggista e polemista, grafico e pastellista. Non intendo esaminare l’intera produzione di Piazzolla nel breve spazio di questo contributo e soprattutto perché non ho la competenza per scandagliare tutta la produzione artistica di Piazzolla, non essendo né letterato né critico. Non potendo neppure limitare l’esame critico a qualche sua opera, senza far torto alla complessità dell’autore, ritengo opportuno in questa sede fare una panoramica generale sulla sua poesia, partendo da un angolo prospettico “teologico”, andando alla ricerca del “numinoso” e del “trascendente” racchiuso nell’esperienza poetica del nostro autore. Prima di procedere, non posso non precisare che la storia del rapporto poesia/teologia, che ha attraversato periodi estremamente drammatici e esclusioni irreversibili, è la storia della cultura occidentale, perché riassume in sé il crinale fra due atteggiamenti, estetico e gnoseologico, e fra due linguaggi, spesso considerati inconciliabili. La consapevolezza di questo connubio tormentato non può esimerci dal tentativo di ripercorrere la vicenda poetica di Piazzolla, ma deve essere monito per evitare qualsiasi deriva teologizzante del linguaggio poetico. Si tratterà di far parlare soprattutto le sue opere, delineando un profilo del Dio di Piazzolla attraverso i suoi versi e l’afflato poetico che da essi traspare. La prima osservazione riguarda la fusione perfetta di due spinte apparentemente antitetiche nella personalità di questo autore. Da un lato, infatti, Piazzolla è un libertario irridente, uno spirito ribelle, insofferente dei soprusi del potere, dall’altro è attratto irresistibilmente, verso la trascendenza e verso il divino. Possiamo registrare in lui uno spessore di mistica anarchia, capace di scagliarsi contro il potere di qualunque tipo, laddove questo potere (meglio strapotere) offenda la dignità dell’uomo. A ben guardare, il ripudio delle umane malvagità, non può che far nascere, per contrasto, uno struggente desiderio di purezza e di assoluto. Scrive Piazzolla: Il mio fare poesia deriva essenzialmente dal pormi in rapporto con l’uomo, la natura e Dio che ritengo tre realtà trascendenti la mia persona. Più che nelle correnti artistiche, credo nelle opere che hanno una loro compiutezza sia storica che metastorica. Tutto quello che di autentico un poeta riesce a rappresentare non lo attinge che dal “Sacro”; perciò l’arte che ha una maggiore durata Cfr. Motta A., La poesia di Marino Piazzolla, in “La Capitanata”. Rassegna di vita e studi della provincia di Foggia, Anno XIII (1975), 1-6 (genn-dic.), 60-119. 4 Cfr. Testi M., Manca il nome di Marino Piazzolla nella «lista aurea» dei massimi poeti, in “L’Osservatore Romano”, 9 luglio 2004, p. 3. 3 storica ed un valore universale discende direttamente, o per vie misteriose, dalla trascendenza. Siamo nell’Essere e non possiamo evadere da questa totalità. I grandi poeti di un’epoca storica non sono perciò funzionari passivi dello spirito dell’epoca, ma obbediscono, come afferma Hans Sedlmayr, direttamente all’Assoluto.5 Dobbiamo altresì subito precisare che mai del Dio di Piazzolla riusciamo completamente a farcene una idea. Proprio per quel continuo sentirlo vicino e lontano. E questo andare tra cielo e terra fa slittare la prosa in un lirismo, caratteristico del Piazzolla-poeta, che si estrinseca in preghiera. E la preghiera è tutt’uno con l’uomo Piazzolla, in quanto essa non nasce da un’analisi esistenziale (e pensiamo a Papini): non è il volume un diario di un uomo finito o tanto meno provvisorio: né frutto di un’estasi mistico-contemplativa. La preghiera gli si configura come possibilità d’incontro e di tensione verso l’assoluto.6 Non mancano però venature di umore surreale, grondante una sottile tristezza: Da quando prego Dio di darmi il pane quotidiano, ricevo sempre la mia pena quotidiana. ………. Quando lampeggia È certamente Dio Che si diverte a fotografarmi In tutte le pose.7 La dimensione religiosa nella poesia piazzolliana non è un fatto marginale e tanto meno di poco peso; in effetti l’intera sua produzione sottintende (e come non lo potrebbe la poesia) una presenza costante: Dio. Tutta l’opera del poeta pugliese è attraversata da spirito libertario, sia pure nell’intreccio con un ricorrente sentimento religioso e del numinoso,8 anche se Piazzolla non è un poeta dichiaratamente religioso almeno nel senso confessionale del termine. Ha però un cuore affascinato dall’oltre, dal mistero – che è sete e sgomento – dell’Assoluto e dell’Eterno.9 E se la dimensione religiosa resta per così dire nascosta sotto un apparente disimpegno idillico-elegiaco fino a Elegie doriche e alle Lettere della sposa demente esplode in Esilio sull’Himalaya. A proposito delle Lettere a una sposa demente non è mancato chi ha apparentato l’autore ad esperienze letterarie dell’islam, al poeta mistico Giàlal-ad-Din-Rùmi del Duecento (nato Piazzolla M., Intervista, in A. Frattini e M. Uffreduzzi, Poeti a Roma, Bonacci Editore, Roma 1983. 6 Cfr. Motta A., La poesia di Marino Piazzolla, in “La Capitanata”. Rassegna di vita e studi della Provincia di Foggia, Anno XIII (1975), 1-6 (genn-dic.),65. 7 Camillucci M., Alter ego, in “L’Osservatore Romano”, 11 luglio 1970, 3. 8 Cfr. Frattini A., Omaggio a Marino Piazzolla, Fermenti, Roma 1995, 11-22. 9 Cfr. Frattini A., Poesia e trascendenza, in “L’Osservatore Romano”, 11 settembre 1981, 3. 5 note 261 note 262 luglio 2010 - anno X nel territorio dell’attuale Afghanistan), autore di un vasto poema spirituale, il Mathnawi, un classico del sufismo (corrente mistico-ascetica sviluppatasi principalmente in Persia). In questo poeta islamico emerge una visione della realtà eterna che si conosce nel riflesso delle realtà dei simboli: i poli dell’universale ossimoro sono in Dio che lavora e inventa nel Nulla e nell’Amore, in cui l’uomo sale dal Nulla all’Eterno. Motivi, questi, che circolarmente si intrecciano nell’ispirazione di Piazzolla.10 La sua poesia religiosa nasce da un’insoddisfazione umana, da uno stato di irrequietudinesolitudine comune a tutta la sua produzione artistica. Insomma Dio non si pone come alternativa ad un mondo dominato dall’ingiustizia o dalla barbarie. La sua preghiera nasce proprio dal bisogno di sentirlo vicino giorno per giorno: Mi dispero perché non potrò mai ricordarmi di Dio. Ci sfuggiamo da sempre… Eppure batte col mio cuore e si colloca in me come una dimensione su cui è vano ragionare. Mi è necessario come l’aria e come la luce del sole dopo il sonno.11 In Piazzolla c’è Dio, un Dio misterico che ha anche un colore. Pensiamo ai versi iniziali dell’opera Sugli occhi per sempre: Prima della parola c’era l’aria Con tutto il colore di Dio E tante carovane di nubi Inseguivo la mia voce Prima che fosse suono.12 Queste parole, che sono l’incipit dell’opera, riecheggiano il prologo del quarto vangelo: “In principio era il Verbo” (Gv 1,1) e dimostrano il per sempre, di quella vita che non può finire, alla quale il poeta è attaccato molto fortemente.13 In Piazzolla c’è un forte amore per tutto ciò che è vivente, anche se sottoposto alle inevitabili leggi del tempo e dello spazio. Egli coniuga naturalismo e misticismo e Dio viene spesso nominato, nonostante i dubbi del poeta nella sua esistenza: nella sua concezione della vita e dell’universo c’è un barlume di speranza in una prospettiva trascendente. Non è difficile riscontrare in Piazzolla una propria religiosità naturale, a volte languente, e un forte senso creaturale nella contemplazione estatica di piante e animali.14 Molto forte è il misticismo in lui, un misticismo che pare coniugarsi con tutte le specie animali e vegetali nominate, e che, per questo, ha un forte afflato creaturale. Conserva spesso autentici sfondi mistici, omologando scatti che si trasformano in preghiera e nel presagio dell’attesa di Dio. Lo dimostra l’originale concezione del Natale, Cfr. Giancane D., Omaggio a Marino Piazzolla, Fermenti, Roma 1995, 442. Piazzolla M., E l’uomo non sarà solo, Fermenti, Roma 1960, 27. 12 Piazzolla M., Sugli occhi e per sempre, Fermenti, Roma 2003. 13 Cfr. Piazza R., Marino Piazzolla: Sugli occhi per sempre. Recensione, 8 aprile 2004. 14 Cfr. Piazza R., Marino Piazzolla: La bellezza ha i suoi fulmini bianchi. Recensione, 4 dicembre 2007. 10 11 specie quando l’autore approda alla visione del mistero divino, sorpreso a infiammare l’ansia della redenzione dell’effimero.15 Ti accompagna dall’alto un’Iride stellare e l’eco delle valli morbide alla luce fioca d’una Cometa Intanto sul tuo capo si adagia il riflesso d’una angelica scia vista e non vista in fuga dall’occhio di Dio.16 Fondamentalmente è per Piazzolla il bisogno di sentirsi radicato in Dio, di non averlo cercato invano che anima le sue pagine. Ce ne fa certi il finale dell’ultimo capitolo dell’opera E l’uomo non sarà solo: La speranza è questo sentirsi assolutamente vivi nel pensiero costante della morte. Gli uomini di domani scopriranno questa tenera dimensione del tempo. Faranno un coro, come lo fanno, da sempre, i morti di tutte le latitudini che ci vengono dietro come tante foglie secche e non ce ne accorgiamo. Per questo, senza sapere perché, ogni morto è vestito a festa. E sale dove siamo tutti fratelli; dove Dio solo parla per tutti, col suo silenzio da sempre.17 Alla domanda postagli da Antonio Motta se si considerava un poeta religioso, Piazzolla non esita a rispondere: Le mie poesie, anzi in quasi tutte le mie raccolte, il rapporto uomo Dio o è presente o è alluso con quel pathos che il sentimento autentico della religiosità comporta. Per me, tutta la vera poesia è mitica e religiosa. L’arte attinge dal Sacro e spinge il poeta verso la trascendenza. È una mia antica convinzione.18 Piazzolla può e deve essere considerato uno spirito religioso. Secondo l’autore, il genio non può che lamentarsi o raccontare il pellegrinaggio dell’uomo intorno alla beatitudine di Dio. La sua è una religio a tratti di tipo cosmico19 e animistico ed egli mostra di credere in un principio divino unitario, diffuso tuttavia in ogni angolo dell’universo e del creato. Si tratta di riconoscere il Dio nascosto che palpita nel cosmo, sapendolo un Dio dell’immanenza, Cfr. Gandolfo G. B. – Vassallo L., Natale dei poeti, cento modi di leggere il natale nella poesia italiana del Novecento, Ancora, Milano 2001, 131. 16 Piazzolla M., Un saio nell’infinito, Umbria Ed., San Marino 1981. 17 Piazzolla M., E l’uomo non sarà solo, Fermenti, Roma 1960, 160. 18 Cfr. Motta A., La poesia di Marino Piazzolla, in “La Capitanata”. Rassegna di vita e studi della provincia di Foggia, Anno XIII (1975), 1-6 (genn-dic.), 106. 19 Cfr. Frattini A., Poesia e trascendenza, in “L’Osservatore Romano”, 11 settembre 1981, 3. 15 note 263 note 264 luglio 2010 - anno X non della provvidenza. Un Dio nascosto, ma visibile ed operante in ogni minuscola parte del cosmo, in ogni singola creatura vivente. Dio compare e dispare: ora vento, ora silenzio, ora morte in questa cosmogonia universale. Ma Dio vive e parla sommessamente in ognuno di noi, occorre porsi in ascolto per poter ritrovare in fondo all’uomo l’immagine di Dio. Piazzolla è anche il poeta del silenzio. “Il silenzio è angelico, il rumore è satanico”, era un aforisma contrastivo che Marino ripeteva agli amici passeggiando per Roma. E il silenzio è vissuto non come segno dell’assenza, ma della presenza della divinità. Piazzolla ci invita a riflettere che tale misura è insita nell’uomo stesso, purché quest’uomo non ami il rumore, ma silenziosamente cerchi di scendere dentro di sé. Il rapporto tra silenzio e presenza di Dio è in germe in Pèrsite e Melasia:20 Pèrsite: Tu tremi nell’aria di questa sera propizia e vorresti penetrare in te stessa, farti più buona d’un angelo; cogliere il tuo Dio nel silenzio di un’ora furtiva e abbandonarti all’avvenire solo per essere più umana. Quel rapporto costituirà una coordinata laicamente esistenzialistica, mai ciecamente mistica, nelle opere degli anni Settanta. Diventerà più vissuto e sofferto, papinianamente gridato inonderà soprattutto il Viaggio nel silenzio di Dio: Forse Dio è silenzio o vento che si racconta la nostra umana presenza e ritorna con noi, dove più si tace in umiltà, fra lumi e voli d’immagini senza storia, grumo d’amore non svelato sull’oscuro pianeta, che lo nega e lo cerca.21 In quest’opera la contrapposizione tra regno di Dio e regno dell’uomo diventa totale. Ad un mondo metatemporale dove la natura partecipa della gloria di Dio Piazzolla contrappone il mondo terreno: Caotico è questo mondo, che si fa scatto dove la forma erompe e la parola si fa storia per l’uomo. E così vibra il pianto, abisso dì spazio contratto, dove il segno si fa colore di cosa ferma, o forza in movimento nel viso d’un’immagine, che vergine può insorgere e far diversa la terra in moto, fra gli alti soli nota. Piazzolla M., Pèrsite e Melasia, Paganelli, Trani 1940. Piazzolla M., Viaggio nel silenzio di Dio, Fermenti, Roma 1973. 20 21 Il pessimismo raggiunge punte altissime e Dio è sempre più distante da noi. E voler trovare uno spiraglio di luce è vano, di là dei mondi percepiti dall’uomo, comparirà Dio. E il finale è tutto biblico: Tacerà la terra; il vento nelle ossa scenderà dall’Orsa esatta sulla fronte; e infine sarà il tempo a tacere, fra i lumi più soli d’ogni essere solo sul pianeta. Verrà l’impeto che squarcia il vortice, sanguinerà la crosta cozzando contro un sole nero, che si nasconde dalla eternità. Si vedrà Dio, di là d’ogni silenzio, Occhio solo nell’occhio ed infinito. Certo è che la Resurrezione quale ci è trasmessa dai Vangeli è tenuta presente in tutti i suoi particolari (il silenzio, il vento che scuote le membra dell’uomo, il tempo che si oscura fino a fermarsi. Poi il fulmine in mezzo a tanta oscurità, anticipo di un evento più grande: Dio. Piazzolla non dice vedremo, ma si vedrà. Indeterminazione che accresce la sua potenza e ce lo fa sentire ancora lontano. In Esilio sull’Himalaya,22 il dialogo con Dio accenna a farsi serrato e perfino angoscioso. Infatti Dio è qui luce, come il mondo è tenebre. “Qui la poesia di Piazzolla risulta tutta tesa nel filo di una concitazione dolce, di uno slancio che si fa preghiera, presagio, sete di Dio, in un discorso schivo di eventi e moventi esteriori, sospeso tra il rifiuto della mortificante contingenza e il lievito febbrile dell’estasi”.23 T’immagino vestito con il raggio che abbaglia dove non sei che favola di luce Pensarti è vestirsi di luce Io torno alla tua luce. E ancora dantescamente Dio è guida, abisso, sapienza, pietà, rifugio. Un dialogo sempre riferito ad una condizione umana precaria: 22 23 Piazzolla M., Esilio sull’Himalaya, Edizioni del Canzoniere, Roma 1953. Frattini A., Piazzolla Marino, in Aa.Vv. Dizionario mondiale della letteratura del XX secolo, Paoline, Roma 1968, 446. note 265 266 note luglio 2010 - anno X Io brucio e tu m’inchiodi a questa magra terra. Così consumo i giorni senza mai fissarti mentre vai più lontano. Nell’Esilio sull’Himalaya la preghiera domina come punto di partenza e d’arrivo dell’inquietudine piazzolliana, in quest’ultima Dio è al centro di un canto più vasto, al centro di una natura redenta dal suo sacrificio. Piazzolla in questo senso rifà la storia di tutti gli uomini in ascesa verso Dio. La sua storia individuale qui conta ben poco. All’io si è sostituita la coralità del noi: Ti offriamo le mani crudeli. Ti offriamo le vecchie parole … E ora basta di vederci assassini! Te lo chiede il fiore che si sente fratello e il tronco che ti saluta … Ce lo dice il monte che chiude a sera un mare di ginestre. Ce lo dice il sole che batte ai vetri, come un usignolo di scintille, all’alba. E la memoria di Dio è certezza del perire delle cose umane: Quaggiù esatto è il solo perire in una gelida penombra di stagioni. Se tu non fossi che parola vuota io avrei la morte certa. Con Le favole di Dio24 il dialogo subisce una brusca svolta. Il linguaggio si offre a spunti filosofici su una linea di interrogazioni in cui il dialogo-preghiera di Esilio si arrende all’ipotesi di un monologo-assenza. Dio è relegato nella concavità di mondi favolosi, dove ogni voce umana sembra perdersi nella immensità degli astri: Eppure siamo soli e tu non odi quando chiamiamo tanto è il tuo silenzio. … Ma sei dove nessuno potrà giungere: sei dove nessuno può pensarti. Piazzolla M., Le favole di Dio, Edizioni Albatros, Roma 1954. 24 Qui il recupero di Dio avviene all’interno di un discorso che lo nega in tutti i suoi attributi, sentiti dal poeta troppo lontani. Piazzolla, così ci sembra, non ipotizza un mondo senza Dio quanto lo nega nella sua infinità per recuperarlo come possibilità realmente umana. È una sfida che non ha altro significato se non quello, anche se non mancano sfumature ironiche, di accentuare la fragilità della condizione umana: Il passo tuo guida fanciulli uccisi. La tua parola è per i sordi che sognano. … tu non sei mai morto sulla croce per la troppo innocenza che ti preserva dai millenni. … Tu sei troppo eterno per venire quaggiù come un’eco sulle labbra. Il Mattutino delle tenebre25 resta uno dei punti più alti della tensione lirico-religiosa di Piazzolla. Tutta l’acerbità, il tormento, i singulti de Le favole di Dio si sono rasserenati nel ritmo composto e disteso della confessione. Allora Il mattutino delle tenebre è il limiteconfine dove l’uomo scopre Dio. Questa felice condizione di dialogo s’interrompe nel volumetto Per archi impazziti.26 In Gesù muore ogni giorno27 l’ordito intellettualistico è maggiormente evidente in una inventio che fa lampeggiare le immagini: Ardi come fiocco d’alba e scendi alle spelonche, tu, invisibile. La luna è vela sull’occhio. L’angelo t’asciuga parole; lo scheletro è radice sotto il buio e tutta la tua carne schizza stille come gerani. Il tuo volto è un incrocio di rughe improvvise: paesaggio di vecchio pianto spremuto all’agonia. Piazzolla M., Il Mattutino delle tenebre, La Soffitta, Pisa 1964. Piazzolla M., Per archi impazziti, Veutro, Roma 1960. 27 Piazzolla M., Gesù muore ogni giorno, La Soffitta, Pisa 1964. 25 26 note 267 note 268 luglio 2010 - anno X La morte è l’ultimo atto per chi cerca Dio. Troviamo in Piazzolla un’estrema lucidità escatologica:28 Ad ogni ora che passa mi cresce la morte dentro.29 Il pensiero della morte come ricongiungimento, come svelamento della presenza di Dio ritorna più volte come nel capitolo quindicesimo dell’opera E l’uomo non sarà solo: «Quando verrà la morte, spero di scoprirmi definitivamente… Pare che la morte si avvicini proprio come un alito in cui la memoria può scoprire tutto ciò che nasconde. Pensate di ritrovare tutta la vita in pochi istanti. È il miracolo del tempo che soccombe davanti all’eternità di Dio, venuto a visitarci in un momento così terribile da farci tacere per sempre».30 In conclusione, il sacro concepito da Piazzolla arriva a Dio attraverso un percorso profondamente profano e umanamente attuale. Il cuore della poesia di Piazzolla è permeato da un senso di casta solitudine, di abbandono, di fiducia nell’eterno, distante dal fraseggio quotidiano. Troviamo incastonata nel Viaggio nel silenzio di Dio questa definizione del sacro: Sacro è ciò che allo stupore avvia e si rivela quasi come ferita in ogni gemma del creato. Ecco la conformazione del sacro piazzolliano nella sua fase primordiale, prima e fuori del creato e del tempo. Con la precisazione della sua natura informe: Era prima del cielo intatto era la pura sostanza permanente nell’anonimato di tutte le cose impazzite. Era molto prima del movimento a cicli di ritorni e di stagioni sfregiate da tutti gli impulsi che non hanno nome quaggiù. E della sua sede umana in fase storica: Il sacro è dentro al cuore ci salva fino alla vita. Ci salva fino alla morte. È la nostra razione d’eternità. Il sacro è la bellezza il sacro è la verità. Camillucci M., Alter ego, in “L’Osservatore Romano”, 11 luglio 1970, 3. Cfr. Piazzolla M., I detti immemorabili di R.M. Ratti, 2 voll., Roma, Ippogrifo, 1965 e 1966. 30 Piazzolla M., E l’uomo non sarà solo, Fermenti, Roma 1960, 48. 28 29 Troviamo nello svolgimento poetico di Piazzolla una fenomenologia del sacro che va dalla primitiva funzione terrificante, in orbita con un universo originariamente caotico e indifferenziato, alla sua autosalvazione con la liberazione e individualizzazione dell’uomo. Allora, ecco la sua laica profezia, un Dio-uomo verrà a liberarlo dall’orrore dell’informe, dall’angoscia dell’illimitato, dell’indefinito e dell’indistinto: Tanto più il sacro sarà relegato nel profondo, e nascosto, tanto più alto in cielo si alzeranno gli Dei; quando in noi il sacro sarà ridotto a un punto vivo ma remotissimo, a un centro solo e celato, il Dio unico si nasconderà al di là delle nuvole, fuori del tempo e dello spazio, nella assoluta trascendenza. E quando anche quel punto remoto sarà dimenticato, e della massa sarà fatta persona, anche Iddio perderà l’esistenza, e i cieli azzurri dei giorni e le notti nere muteranno il loro colore d’occhi che guardano, per diventare campi sereni a contemplare, o umanamente tempestosi, aerei specchi dell’anima.31 Ritornano costanti nella riflessione poetica di Piazzolla anche la concezione ciclica del tempo in sincronia con il ritmo della natura e il corso delle stagioni, il mito dell’eterno ritorno che si oppone al moto irreversibile della storia e il tema della fine del mondo. L’angoscia della fine del mondo nella scena senza riparo e senz’antidoto morale di Un po’ di Apocalisse, la lirica finale de Il pianeta nero che illumina di luce sinistra il pianeta terra e ne arresta con impeto il motore celeste: Suonerà il sole le sue trombe di fuoco sull’uscio del cielo raccolte getteranno fiamme le nubi gli alberi bruceranno come torce. […] Udremo tuoni dovunque si prosciugheranno i mari si urlerà dappertutto. Sarà cancellata la terra sarà cancellato con un solo tuono lo stesso Dio. Piazzolla, a differenza di Dante, amò rimanere suddito nel girone di terra. E volle disperarsi coi propri simili, accomunandosi ad essi fraternamente, offrendo loro il dono più alto della vita: la bellezza. Il percorso poetico di Piazzolla è tutto un esercizio di conoscenza, che, pur pervaso da pessimismo, riesce a trovare nella poesia una grande luminosità, un varco per salvarsi dal dolore e aprirsi allo stupore della vita.32 “Nella sua poesia il dolore si decanta come vitale e necessario strumento di quella scoperta di Dio nel cui segno la natura e le creature e l’intero universo si illuminano nella loro misteriosa 31 32 Piazzolla M., Pianeta nero, Fermenti, Roma 1985. Cfr. Piazza R., Marino Piazzolla: I fiori del dolore. Recensione, 1 maggio 2009. note 269 note 270 luglio 2010 - anno X trama”.33 Il dolore del vissuto si decanta in una magnetica mediazione con l’al di là, che da luce e speranza all’umana avventura.34 Alla poesia tocca mettere ordine nel caos dei fenomeni e, ricreando il cosmo, consentire all’uomo di conoscere il mondo vero. Solo la poesia ci potrà salvare. Ma non basta interpretare il reale, il poeta deve sapere anche esprimere il risultato dell’interpretazione con la parola adeguata. «La parola è tutto: è il Verbo. È il segno primario del divino nell’uomo. (…) La parola è la via per trasmettere ad altri il capitale di sapienza umana acquisito che consente di progredire» (M. Luzi). Il poeta è colui che si propone di decifrare per tutti la parola che è scritta nelle cose, e orientare con un messaggio positivo chi non sa leggere il libro del mondo. È quanto ci aiuta a fare Marino Piazzolla. L’espressione fondamentale del sacro in Piazzolla è quella della confessio oris che diviene preghiera, e tutto è sacro per colui che si concede alla quotidianità, qualsiasi civiltà lo aggredisca e qualsiasi monito lo sorprenda, come ben documenta la spontaneità di questa preghiera: «Non te ne andare, Signore; non smettere di sognarci anche se tutta la terra è colma di fanciulli uccisi. Lasciaci pregare almeno senza il tuo nome, se tu sai che siamo assassini: se ci pesa la carne e questo antico sangue che ci brucia… Non lasciarci quaggiù se vanno più lontane le tue stelle, da sempre. Dacci l’amore quotidiano e la ragione e il sole; fallo per i fanciulli e le farfalle che scendono dal tuo riposo a dirci che la vita può essere un volo… Colma il nostro abisso almeno con un tuo raggio e torna nelle parole a dar senso alla vita. Da tempo il nulla ci chiama con tutto il buio e l’uomo non sa se è vero più il tuo cielo o la sua fine. Parlaci una volta del tuo paese intatto. Che domani l’aurora sia colma delle tue colombe, Frattini A., Piazzolla Marino, in Aa.Vv. Dizionario mondiale della letteratura del XX secolo, Paoline, Roma 1968, 446. 34 Cfr. Frattini A., Poesia e trascendenza, in “L’Osservatore Romano”, 11 settembre 1981, 3. 33 colma della tua luce e di silenzio».35 Possiamo affermare che spesso Dio entra nella letteratura contemporanea da porte lasciate socchiuse, come problema o come ricerca sotterranea di autori che potremo definire non praticanti e comunque senza alcuna storia religiosa particolare. Essi registrano ansie e domande diffuse, vedono (o lasciano che noi vediamo) in questo Dio introvabile una possibile spiegazione dei timori e delle insicurezze del nostro tempo. Non possiamo tacere che per il nostro autore Dio costituisce, un problema come altri più che una soluzione, un dubbio più che una convinzione, una domanda più che una risposta. Da Piazzolla Dio viene cercato come un varco. Egli ha fatto della poesia una possibilità di riscatto dalla terrestrità e quotidianità per sublimare le proprie qualità di spirito e genio, per attingere l’assoluto, l’universale, l’eterno ed è stato capace dell’inattingibile, dell’inesprimibile. 35 Piazzolla M., E l’uomo non sarà solo, Fermenti, Roma 1960, 150-152. note 271 note Il legislatore, il giudice e la ricerca della verità Il diritto della Chiesa si fonda sostanzialmente sulla Parola di Dio, ossia sul diritto divino che costituisce l’ineludibile parametro su cui si fonda qualsiasi legge umana diretta a disciplinare ed organizzare il Popolo di Dio. Per tale motivo, rappresentando le norme di diritto divino l’esempio ed il paradigma a cui ciascuna norma di diritto canonico deve necessariamente far riferimento, sarà compito del legislatore, dopo averle esattamente comprese, interpretarle in modo tale da renderle, non solo comprensibili a tutti fedeli, ma anche consentirne l’applicazione da parte degli operatori del diritto, come ad es. i giudici. Tale interpretazione - nei limiti che la natura stessa delle norme di diritto divino necessariamente impone - sarà pur sempre frutto di un’attività meramente umana. 1.Il diritto divino ed il legislatore Se è vero che, da un lato, il diritto divino, in quanto “anima” dell’ordinamento canonico, ne costituisce la ragione della sua stessa esistenza, dall’altro, l’interpretazione fatta dal legislatore rappresenta, sicuramente, un valido strumento per comprendere la stessa ragion d’essere della realtà. Infatti, relativamente a ciò, per interpretare correttamente la legge divina e comprendere meglio la realtà, il Concilio Vaticano II ha stabilito, nel Decreto sull’Attività missionaria Ad Gentes divinitus, l’importanza delle conoscenze teologiche: «necesse est, ut in unoquoque magno territorio socio-culturali, uti aiunt, ea consideratio theologica stimuletur qua, prelucente Traditione universalis * Docente di Diritto Canonico - Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani. 273 Francesco P. Pasquale* [email protected] Il diritto divino, in quanto “anima” dell’ordinamento canonico, ne costituisce la ragione della sua stessa esistenza 274 note luglio 2010 - anno X Ecclesiae, facta et verba a Deo revelata, in Sacris litteris consignata et ab Ecclesiae Patribus et Magisterio explicata, novae investigationi subiiciantur. Sic clarius percipietur quibus viis fides, ratione habita philosophiae vel sapientiae populorum, quaerere possit intellectum, et quibus modis consuetudines, vitae sensus et socialis ordo, cum moribus revelatione divina significatis componi queant» Inoltre, continuando, nel medesimo Decreto si pone in rilievo come tali conoscenze giovino a tutto l’ambito della vita cristiana: «Inde patebunt viae ad profundiorem aptationem in toto ambitu vitae christianae».1 Tuttavia, vale la pena sottolineare che, nonostante la diversità di popoli, culture, lingue e nazioni, il diritto canonico, pur nel rispetto del diritto divino, è dotato di una “certa” flessibilità (si pensi all’equitas canonica). Tale flessibilità gli consente di adattarsi alle diverse e mutabili circostanze di tempo e di luogo ma – si badi bene - nonostante le possibili diversità interpretative del diritto, nella Chiesa esiste e sussiste un’unica Chiesa fondata su Cristo e, quindi, un unico diritto divino. 2.Il diritto divino ed il giudice È alla luce di tali premesse che i giudici dei Tribunali della Chiesa sono tenuti, nell’emanazione delle sentenze, a rispettare le norme certe di diritto divino. Ciò non significa che tali giudici non debbano tener conto delle diversità di luogo, di tempo e delle diverse circostanze ma semplicemente che, essendo la sentenza un atto teoretico del giudice, lo stesso deve, innanzitutto, attraverso un’operazione dell’intelletto comprendere la realtà alla luce della verità e, solo in un secondo momento, esprimere quella volontà volta a definire la realtà conosciuta. Infatti, attraverso la ricerca e la dichiarazione della volontà oggettiva (quindi della volontà divina per il caso concreto), si persegue la salvezza delle anime, si attua la giustizia e si raggiunge la certezza del diritto che non possono prescindere dalla Verità. A questo proposito, il can. 1608, §1 CIC stabilisce: «Ad pronuntiationem cuiuslibet sententiae requiritur in iudicis animo moralis certitudo circa rem sententia defininiendam». In altre parole, il giudice, nell’accertamento del fatto, nella comprensione del diritto divino e nell’applicazione di esso al caso concreto, deve conseguire la cosiddetta certezza morale. Concilium Vaticanum II, Decretum Ad Gentes divinitus n. 22 b, in AAS, 58 (1966), p. 973974. 1 L’importanza di ciò è data dal fatto che il grado della certezza richiesta dalla legge nell’animo del giudice per la risoluzione della controversia costituisce garanzia sicura per l’affermazione della verità oggettiva. Tuttavia, la certezza morale richiesta si oppone tanto alla certezza assoluta che alla quasi certezza. Infatti, ciò che conta è che, nell’interpretare la norma, il giudice consegua la certezza morale che si caratterizza, dal lato positivo, per il fatto che esclude ogni fondato e ragionevole dubbio che in relazione al caso concreto si possa avere una diversa interpretazione, dal lato negativo, perché lascia sussistere la possibilità assoluta che una diversa e contraria interpretazione sia possibile, distinguendosi così dalla certezza assoluta. Più precisamente, il Sommo Pontefice Pio XII nel suo Discorso ai Prelati Uditori e agli altri Ufficiali della Rota Romana del 1942 ha spiegato: «est certitudo absoluta, in qua omne possibile dubium circa veritatem facti et non-exsistentiam contrarii est totaliter exclusum. Talis autem certitudo absoluta non est necessaria ad proferendam sententiam. In multis casibus ab hominibus acquiri nequit; eam exigere idem esset ac requirere rem irrationabilem a iudice et a partibus; secum ferret gravamen iustitiae administrandae ultra mensuram tolerabilem, immo administrationi magna ex parte viam occluderet. Contrariam huic supremo gradui certitudinis, modus loquendi communis haud raro ‘certam’ nuncupat cognitionem quandam, quae stricte loquendo tali appellatione non meretur, sed edici debet maior minorve probabilitas, quippe quae non excludat omne rationale dubium nec tollat omnem prudentem formidinem errandi. Haec probabilitas vel quasi-certitudo non offert fundamentum sufficiens ad sententiam iudiciariam eliciendam circa veritatem obiectivam facti».2 3.Il libero convincimento del giudice Ma in quale modo si può conseguire la debita certezza morale? La certezza morale deve essere raggiunta attraverso la ricostruzione del fatto mediante la libera valutazione delle prove ed il c.d. libero convincimento del giudice. Infatti, il can. 1608 §3 CIC stabilisce: «probationes autem aestimare iudex debet ex sua conscientia, firmis praescriptis legis de quarundam probationum efficacia». In altri termini, spetterà al giudice decidere, secondo propria scienza e coscienza, se le prove fornite siano sufficienti ad acquisire la necessaria certezza morale per giudicare in merito alla verità del caso. 2 Pius XII, Allocutio ad Prelatos auditore ceterosque officiales et Administros Tribunalis S. Romanae Rotae necnon eiusdem Tribunalis Advocatos et Procuratores, diei 1 oct. 1942, in AAS 34 (1942), p. 339. note 275 note 276 luglio 2010 - anno X Il giudice, però, non potrà effettuare questa libera valutazione delle prove in modo arbitrario ma dovrà, secondo coscienza, ricercare la verità valutando bene il caso e pronunciarsi secondo una logica giusta. Infatti, a tale riguardo, giova sottolineare che il concetto di certezza in ambito canonico, non può essere ridotto ad un mero criterio formale ma, piuttosto, sostanziale, in quanto tale certezza non può basarsi sull’osservanza di singole prescrizioni autoritative ma, in modo più radicale, sulla coerenza tra sistema giuridico ed i principi fondamentali posti dal diritto divino dato che l’equitas canonica, insegna che, a volte, bisogna sacrificare la certezza formale delle norme positive rispetto alla verità sostanziale dei valori fondamentali. 4.I limiti all’interpretazione del giudice Il giudice, sebbene sia libero nella formazione del suo convincimento, deve acquisire la certezza morale riguardo al singolo caso mediante un corretto uso dello strumento interpretativo. Infatti, l’interpretazione del giudice non è senza limiti, in quanto essa può avere valenza creatrice nei confronti della norma umana solo qualora questa non incarni il diritto divino nel caso concreto ma mai in caso contrario, in quanto, in realtà, essa può costituire solo una specificazione del diritto divino e nei suoi confronti può avere soltanto una valenza dichiarativa. In questa difficile opera interpretativa, la discrezionalità del giudice troverà, inoltre, il suo limite nell’obbligo di razionalità del processo logico (il c.d. sillogismo probatorio) che, partendo dall’analisi delle prove, consente al giudice di trarne le conseguenze giuridiche. Inoltre, qualora vi fosse un’eventuale mancata applicazione della norma umana, e questa non incarni il diritto divino, in realtà, disattendendo tale norma umana, non si svilirebbe la norma divina ma, al contrario, tale interpretazione da parte del giudice rappresenterebbe una garanzia per la riaffermazione e la vigenza della norma divina sempre e dovunque. Va, infine, sottolineato un ulteriore limite alla discrezionalità del giudice, dato che, contro i pericoli di parzialità e di arbitrio, il can. 1611 prescrive l’obbligo a carico del giudice di motivare la sentenza: «Sententia debet: n. 3 exponere ratione seu motiva, tam in iure quam in facto, quibus dispositiva sententiae pars innititur». Conclusioni In conclusione possiamo sostenere che opera del giudice sarà quella di trarre dalla legge divina la norma più adeguata al caso concreto. Tenuto conto che il significato della giustizia nell’ordinamento canonico deve essere compreso in relazione alla Verità e, quindi, al diritto divino, perché si realizzi la giustizia, non solo, la norma umana (creata del legislatore), ma anche l’applicazione concreta di essa da parte del giudice deve rispecchiare la Verità, ossia, il diritto divino. In ragione di ciò, affinché sia perseguita la salus animarum, tutte le volte che vi sia il periculum animarum, la norma umana non deve essere applicata ma, attraverso il ricorso all’equitas canonica, deve essere disattesa. Infatti, se per certezza del diritto ci riferiamo alla stabilità della legge umana, non si può che affermare che essa non può trovare applicazione nell’ordinamento canonico. Diversamente, se per certezza del diritto si intende la certezza sostanziale che supera e va oltre la legalità formale, in tal caso, essa identificandosi con la Verità e la Giustizia, assurge al massimo grado nell’ordinamento canonico. Alla luce di tutto ciò, l’acquisizione della certezza morale sulla verità del fatto accertato si attua sostanzialmente attraverso la libera valutazione delle prove ma, è pur vero, che il Codice stabilisce che la certezza morale processuale necessaria per la decisione deve essere conseguita «ex actis et probatis» (can. 1682 §2) e che il giudice dovrà accettare l’interpretazione del diritto che stimi ex sua conscientia maggiormente aderente al caso concreto. In definitiva, potremmo concludere con le parole del Sommo pontefice Benedetto XVI, augurandoci che l’“amore verso la verità” costituisca sempre l’imprescindibile chiave di lettura del diritto. Infatti, nel suo Discorso al Tribunale della Rota Romana, in occasione dell’anno giudiziario del 2006, il Santo Padre ha puntualmente sottolineato l’importanza della carità affermando: «il criterio di ricerca della verità, come ci guida a comprendere la dialettica del processo, così può servirci per cogliere l’altro aspetto della questione: il suo valore pastorale che non può essere separato dalla verità».3 3 Benedictus PP XVI, Discorso al Tribunale della Rota Romana, in occasione dell’anno giudiziario, 28 gennaio 2006, in Osservatore Romano, Edizione settimanale in lingua italiana, n. 5, 51 (2006), 3. note 277 note 278 luglio 2010 - anno X Fonti DOCUMENTI DEL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II Concilium Vaticanum II, Decretum Ad Gentes divinitus, in AAS, 58 (1966). DOCUMENTI PONTIFICI Pius PP XII, Allocutio diei 1 octobris 1942, in AAS 34 (1942). Ioannes Paulus pp. II, Codex Iuris Canonici, auctoritate Ioannis Pauli PP II promulgatus die 25 ianuarii 1983, in AAS, vol. LXXV (1982), pars. II. Benedictus PP XVI, Allocutio diei 28 ianuarii 2006, in Oss. Rom., Edizione settimanale in lingua italiana, n. 5, 51 (2006), p. 3. Bibliografia Capograssi G., La certezza del diritto nell’ordinamento canonico, in Eph. Iur. Can., vol. V (1949), p. 9-30. Guissani T., Discrezionalità del Giudice nella valutazione delle prove, Città del Vaticano 1977. Llobell J., Sentenza: decisione e motivazione in: Il processo matrimoniale canonico (Studi giuridici n. XVII), Città del Vaticano, 1988, p. 303-329. Pompedda M.F., Il processo matrimoniale canonico: legalismo o legge di carità?, in Ius Eccl. Vol. I, (1989), p. 423-447. Stankiewicz A., Le caratteristiche del sistema probatorio canonico, in Apollinaris, 67 (1994), p. 89-122. percorsi di studio percorsi di studio Percorsi di studio. La rubrica, è in riferimento all’attività di studio e di ricerca che l’Issr di Trani svolge in particolare con i lavori di tesi degli alunni nelle diverse discipline. In questo spazio sono pubblicati alcuni di questi lavori sotto l’indicazione e la guida del docente di riferimento. La pubblicazione, oltre alla gratificazione per chi si è impegnato, intende offrire un servizio ai lettori della rivista e, in particolare, alla Chiesa locale e agli stessi alunni dell’Issr che potranno avere fonti ed esempi dei lavori e dei percorsi di studio che altri hanno già sperimentato. Il termine percorso, inoltre, intende sottolineare il/i cammini di ricerca per le diverse discipline di cui nella rubrica il docente stesso può dar conto nelle eventuali brevi presentazioni dei lavori. percorsi di studio Il Consultorio: un servizio alle famiglie alla luce dei valori evangelici 281 Domenico Marrone* [email protected] Uno studio sul Consultorio E.P.A.S.S. di Bisceglie “Tra le strutture non propriamente pastorali, ma piuttosto finalizzate alla promozione umana della coppia e della famiglia, si pongono i consultori familiari. Con le strutture di pastorale familiare essi hanno in comune la finalità del vero bene della persona, della coppia e della famiglia e l'attenzione alla sessualità e alla vita. Diverse, invece, sono la prospettiva e la metodologia. La pastorale agisce per la promozione della vita cristiana e per l'edificazione della Chiesa e privilegia le risorse dell'evangelizzazione, della grazia sacramentale, della formazione spirituale e della testimonianza ecclesiale. I consultori, nell'ottica di un'antropologia personalistica coerente con la visione cristiana dell'uomo e della donna, guardano piuttosto ai dinamismi personali e relazionali e privilegiano l'apporto delle scienze umane e delle loro metodologie” (CEI, Direttorio per la pastorale familiare, 249). L’impegno di ricerca di Lorenzo Sciascia è stato orientato a descrivere la struttura del Consultorio familiare in senso generale ma in modo particolare ha avuto di mira la vicenda del Consultorio familiare di ispirazione cristiana E.P.A.S.S. di Bisceglie, frutto di un progetto nato più di trent’anni fa ad opera di un gruppo di laici cattolici impegnati sotto la guida del compianto don Pierino Arcieri per offrire un servizio di sostegno e accompagnamento alle famiglie alla luce dei valori evangelici. Un servizio che ha trovato corrispondenza nell’urgenza avvertita dalla Chiesa locale di essere più vicina alla nostra società attraverso strumenti specifici. Il Consultorio – come ben attesta la ricerca di * Direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose San Nicola, il Pellegrino - Trani. Docente stabile di Teologia morale. I consultori guardano piuttosto ai dinamismi personali e relazionali e privilegiano l’apporto delle scienze umane e delle loro metodologie percorsi di studio 282 luglio 2010 - anno X Sciascia - esprime una grande sensibilità in tutti coloro che lo hanno reso possibile e segnala un’esigenza crescente, e a volte perfino allarmante, nel tessuto sociale e religioso della città di Bisceglie e dell’intera diocesi. In particolare, il lavoro di Sciascia sottolinea come lo strumento del Consultorio si sia rivelato quanto mai utile ed efficace in un contesto in cui spesso la famiglia appare fragile, abbandonata a se stessa, se non addirittura ostacolata nelle sue funzioni e finalità vitali da meccanismi sociali, economici e sempre meno raramente anche da misure legislative che ne ignorano la presenza se non arrivano addirittura a stravolgerne la configurazione e la presenza sociale e umana. L’autore passa in rassegna i servizi offerti lungo questi anni dal Consultorio quali interventi di consulenza alla persona, alle coppie e alle famiglie in difficoltà, interventi di prevenzione attraverso iniziative di formazione e di impegno culturale sul territorio. Molteplici sono stati gli ambiti di intervento in questi trent’anni di vita del Consultorio: vita di relazione, comunicazione e dialogo; sessualità e problematiche inerenti alla vita sessuale; regolazione della fertilità e accoglienza della vita nascente; educazione degli adolescenti e dei giovani all’amore, alla sessualità e alla loro maturazione psicosessuale e relazionale; preparazione dei fidanzati al matrimonio. Interessante è l’indagine comparata che l’autore svolge tra i servizi e gli ambiti di intervento del Consultorio di ispirazione cristiana e il Consultorio pubblico presente nella città di Bisceglie, evidenziando come l’approccio degli interventi di quest’ultima struttura si caratterizza più sotto un profilo socio-sanitario, che non psico-pedagogico, tipico del Consultorio E.P.A.S.S. Il lavoro si presenta organicamente strutturato e scientificamente ben documentato. È un contributo di ricerca più che apprezzabile che concorre a dotare di strumenti di lettura del territorio diocesano, caratterizzato da una varietà e molteplicità di elementi che richiedono un’indagine accurata e sistematica per poterne definire il profilo nel modo il più possibilmente completo e dinamico al contempo. L’impegno profuso da Sciascia in tale direzione, pertanto, è degno di nota. percorsi di studio Consultorio di ispirazione cristiana E.P.A.S.S. e consultorio pubblico di Bisceglie. 283 Lorenzo Sciascia* [email protected] Specificità, convergenze, prospettive Introduzione Nel giugno 1975, in occasione della XII Assemblea generale, i vescovi italiani deliberarono di promuovere consultori familiari “professionalmente validi e di sicura ispirazione cattolica”.1 È utile fare riferimento al contesto in cui presero avvio i consultori cattolici per richiamare la collocazione originaria di tali strutture. Sono nati, infatti, come presidi socio-sanitari, regolati dalle leggi e dai criteri definiti dallo Stato, ma nello stesso tempo ispirati e guidati, nelle finalità e nelle modalità operative, da motivazioni etiche che attingono al patrimonio morale della Chiesa Cattolica. Questa particolare fisionomia storica e strutturale resta sostanzialmente valida anche dopo trent’anni, pur se molte cose sono cambiate. La riforma sanitaria, il passaggio di alcune competenze ai servizi sociali del territorio, il trasferimento di responsabilità dagli organismi centrali a quelli regionali, hanno avuto ripercussioni sui consultori familiari e pongono l’urgenza sulla loro riorganizzazione. Tesi di Magistero in Scienze Religiose difesa presso l’Issr “S. Nicola il Pellegrino” - Trani. Relatore prof. Mons. Domenico Marrone. Correlatore prof. Antonio Ciaula. Difesa il 30 settembre 2009. Anno Accademico 2008-2009. 1 Cei, L’impegno per l’evangelizzazione del sacramento del matrimonio, Deliberazioni conclusive della XII assemblea generale della CEI, Roma 20 giugno 1975, in Enchiridion della Conferenza Episcopale Italiana 2, 1973-1979, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1985, n. 2 (2219). * La riforma sanitaria, il passaggio di alcune competenze ai servizi sociali del territorio, il trasferimento di responsabilità dagli organismi centrali a quelli regionali, hanno avuto ripercussioni sui consultori familiari e pongono l’urgenza sulla loro riorganizzazione percorsi di studio 284 luglio 2010 - anno X “Consultori familiari: l’ora della grande svolta!”.2 Con queste parole, in un articolo pubblicato sul sito del quotidiano Avvenire, il giornalista Luciano Moia, sottolinea come i consultori familiari stiano vivendo, negli ultimi anni, una grande svolta. Infatti non si possono più considerare solamente come strutture che dispensano servizi e informazioni di carattere quasi esclusivamente sanitario o assistenziale, ma vanno considerati come centri culturali di vasto respiro in cui si sostiene e si promuove la famiglia nella globalità delle sue funzioni e dei suoi bisogni. Inoltre devono diventare spazi aperti al dibattito e alle sollecitazioni che giungono dalla società, sostegni educativi, spazi di solidarietà e strumenti giuridici sempre più adeguati. In particolar modo, i nuovi consultori dovranno operare nell’ambito della formazione, rinnovando le proposte per corsi rivolti ai fidanzati, alle giovani coppie, ai genitori3. In particolare, “resta da lavorare perché il consultorio sia visto e utilizzato come servizio per la normalità, più che per la patologia; centro di aiuto a coniugare in termini produttivi di felicità le risorse umane nelle relazioni interpersonali”.4 Per questi motivi, l’obiettivo del presente lavoro è di verificare come il consultorio familiare di ispirazione cristiana E.P.A.S.S. di Bisceglie è proiettato verso quel servizio globale alla persona, prospettato dal giornalista Moia, e di dimostrare come, in trent’anni di attività, tale consultorio si sia strutturato come “un originale servizio di promozione umana”,5 rispondente ai bisogni dell’uomo in situazione e animato dall’ispirazione cristiana, che è il riferimento costante di ogni intervento ed iniziativa. Il lavoro è suddiviso in quattro capitoli. Il primo analizza le indicazioni magisteriali dal Concilio Vaticano II ad oggi circa le strutture di sostegno alla famiglia. Il secondo è dedicato ad offrire un quadro essenziale del consultorio familiare di ispirazione cristiana E.P.A.S.S., attraverso la presentazione della sua storia, l’analisi dello statuto, una relazione dettagliata circa le finalità e i risultati delle attività nelle diverse aree di intervento, ed infine una indagine statistica circa l’utenza in due periodi: 1985-1994 e 2001-2007,6 per evidenziare come, nel corso di trent’anni, tale servizio si sia continuamente rimodellato in base alle mutazioni della società e della famiglia. Moia L., Il nuovo consultorio: l’ora della grande svolta, in www.avvenire.it, 11 ottobre 2002. Cfr. Ibidem. 4 De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio di promozione umana, in F. Santovito (a cura di), Fragmenta - Quaderno di cultura e formazione n. 8, Istituto di Scienze Religiose – Trani,, Vivere In, Roma, 1996, p. 114. 5 Cei, Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia, I consultori familiari sul territorio e nella comunità, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1991, intitolazione al n. 22. 6 Nella estrapolazione dei dati dall’archivio dell’E.P.A.S.S. circa l’utenza e le attività, non è stato possibile risalire ai dati precedenti il 1998 poiché ogni dieci anni l’archivio cartaceo viene eliminato e prima di tale data non esisteva un archivio computerizzato. Un’altra lacuna è relativa 2 3 Nel terzo viene presentato il consultorio familiare pubblico di Bisceglie come un servizio di promozione della vita e della famiglia, evidenziandone natura e compiti, rivisitandone, in sintesi, il contesto storico-sociale e legislativo delle sue origini; individuando gli elementi che caratterizzano un consultorio pubblico, con un particolare riferimento all’analisi circa l’utenza e le attività che vengono svolte, per evidenziare eventuali convergenze o specificità rispetto al consultorio familiare di ispirazione cristiana E.P.A.S.S. Infine il quarto capitolo analizza le nuove prospettive dei consultori familiari, partendo dall’analisi del quadro giuridico ed economico in cui, oggi, la famiglia si trova a vivere, ponendo l’attenzione sulla situazione di quella pugliese e mettendo in evidenza le modalità con cui tali strutture possono contribuire alla riscoperta della famiglia riorganizzando il proprio lavoro (anche in base alle indicazioni che verranno dalla nuova proposta di legge sui consultori familiari al vaglio del Parlamento italiano)7 e ridefinendo il loro rapporto con la comunità ecclesiale. 1. Strutture di sostegno alla famiglia: indicazioni magisteriali dal Concilio Vaticano II ad oggi 1.1L’attenzione alla famiglia nella Gaudium et Spes Il 7 dicembre 1965, il giorno prima della solenne conclusione del Concilio Vaticano II, veniva approvato l’ultimo documento: la Gaudium et Spes, che sarà identificato come il testo pastorale fondamentale e più ampio del Concilio, al punto di ricevere la denominazione di costituzione pastorale.8 Lo schema della GS, tratta della Chiesa che rivolge il suo sguardo sulla civiltà e sulle necessità e le aspirazioni degli uomini del suo tempo, sulle trasformazioni e gli orientamenti che caratterizzano la società contemporanea. Così facendo, il Concilio intende esprimere la volontà di dialogo della Chiesa con il mondo contemporaneo.9 “Nella costituzione pastorale c’era un po’ tutto il cammino del Vaticano II, la sua evoluzione, il suo spirito riformatore. E c’era la nuova immagine di una Chiesa che, dopo secoli di ai dati del 2002, in quanto un allagamento ha distrutto l’archivio multimediale e gran parte di quello cartaceo. Pertanto i dati relativi all’attività del consultorio nel decennio 1985-1994 è stato possibile ricavarli dalla pubblicazione: De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., pp. 103-113 e da: E.P.A.S.S., 10: 1979-1989. Presenza, accoglienza e servizio, Mezzina, Molfetta, 1988, pp. 19-38; mentre i dati dal 2001 al 2007 sono stati estrapolati dalle relazioni che l’ente invia ogni anno all’ ufficio Consultori Familiari dell’Assessorato alla Sanità Regione Puglia. 7 In appendice la nuova proposta di legge sui consultori familiari. Cfr. http://legxv.camera.it 8 Cfr. Hummes C., Una Chiesa del dialogo. Per il 40° anniversario della Gaudium et Spes, in «Il Regno documenti» n. 11, 2005, p. 316. 9 Cfr. Hummes C., Una Chiesa del dialogo, cit., p. 317. percorsi di studio 285 percorsi di studio 286 luglio 2010 - anno X conflitti, si proponeva di riannodare i fili del dialogo con il mondo contemporaneo. «Non ha avuto paura di abbassare i suoi ponti levatoi» dirà il cardinal Etchegaray”.10 Già nelle prime parole della GS, è presente, in maniera esplicita, la volontà della Chiesa di mettersi in cammino con l’intera famiglia umana, infatti nel prologo sono espresse parole di profonda simpatia, nel senso etimologico del termine, nei confronti dell’uomo a servizio del mondo: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”.11 Dio si fa conoscere agli uomini mediante la sua azione nella storia e si fa presente in essa e agisce amorosamente e si rivela per la salvezza dell’umanità. Tale prospettiva ci permette di valorizzare le realtà terrene, come viene evidenziato nel n. 36 del testo conciliare in esame: “È dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l'uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o tecnica. Perciò la ricerca metodica di ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la fede. Anzi, chi si sforza con umiltà e con perseveranza di scandagliare i segreti della realtà, anche senza prenderne coscienza, viene come condotto dalla mano di Dio, il quale, mantenendo in esistenza tutte le cose, fa che siano quello che sono”.12 Con il riconoscimento chiaro dell’autonomia delle realtà terrene, il Concilio Vaticano II ha compiuto un grande passo che lo ha messo in sintonia con la modernità. Ha guardato con ammirazione il mondo per le sue conquiste e i suoi progressi e riconosce espressamente il loro valore di fronte al Vangelo. In realtà la fede non si oppone alle scienze poiché: “Se per autonomia delle realtà terrene si vuol dire che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di una esigenza d'autonomia legittima: non solamente essa è rivendicata dagli uomini del nostro tempo, ma è anche conforme al volere del Creatore”.13 Le prime realtà che il documento conciliare addita come bisognose di essere ricomprese sono quelle del matrimonio e della famiglia e come evidenzia il n. 47: “si propone di illuminare e incoraggiare i cristiani e tutti gli uomini che si sforzano di salvaguardare e promuovere la dignità naturale e l'altissimo valore sacro dello stato matrimoniale”.14 12 13 14 10 11 Svidercoschi G. F., Un concilio che, cit., p. 149. GS 1 (1319). GS 36 (1431). Idem, 36 (1432). Idem, 47 (1468). La GS ha messo matrimonio e famiglia al primo posto tra i cinque problemi del nostro tempo ritenuti come “particolarmente urgenti”15 e meritevoli di particolari attenzioni. Gli altri quattro sono: la cultura, la vita economico-sociale, la vita politica, la solidarietà tra le nazioni e la pace.16 Per quanto riguarda il matrimonio, questa realtà, così profondamente umana e altrettanto profondamente inserita nel mistero salvifico dell’alleanza d’amore tra Dio e l’umanità, tra Cristo e la Chiesa, il Concilio cercherà di valorizzare anzitutto quello che nella Rivelazione cristiana può illuminare matrimonio e famiglia, ma valorizzerà pure apporti validi e utili che la riflessione umana, quella scientifica ed empirica, possono offrire.17 Il capitolo sul matrimonio è suddiviso in sei paragrafi, dal n. 47 al n. 52. Il n. 47 affronta “l’altissimo valore sacro dello stato matrimoniale”18 e viene presentata la situazione del matrimonio e della famiglia nella società contemporanea. Nel n. 48 il matrimonio è definito come “intima comunità di vita e d’amore”19 da cui nasce la famiglia. Essa non si fonda solo sul riconoscimento giuridico connesso all’adempimento di determinati obblighi, bensì sul libero consenso personale e sul volere di Dio.20 Il matrimonio, poi, è “dotato di molteplici valori e fini”21, tra i quali possono essere annoverati il reciproco amore, la fedeltà, la procreazione ed educazione dei figli come espressione e partecipazione dello stesso amore che Dio nutre verso l’umanità. Nei numeri 49 e 50 si approfondiscono rispettivamente due aspetti: l’amore coniugale22 e la fecondità del matrimonio.23 È l’amore coniugale che condurrà gli sposi ad una mutua e libera donazione di sé stessi, che esprimendosi attraverso gesti e sentimenti di affetto sarà aperto ad una fecondità vissuta con umana e cristiana responsabilità.24 Al n. 50, la GS mette in luce il vero valore e l’alto significato del generare come «procreare», cioè creare per conto di Dio stesso. Questa è una concezione chiaramente presente già nell’Antico Testamento fin dalle sue prime pagine.25 Nel testo della GS nel secondo paragrafo del n. 50 si sottolinea che: 17 18 19 20 15 16 23 24 25 21 22 GS 46 (1466). Cfr. Ciccone L., Il matrimonio nella Gaudium et Spes, in “La Famiglia” n. 173, 1994, p. 43. Cfr. Idem, p. 45. GS 47 (1470). GS 48 (1471). Cfr. Losappio R., La recezione nell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie di alcuni valori della “Gaudium et spes”, in A 25 anni dal Concilio Vaticano II - Quaderno di cultura e formazione n. 4, Istituto di Scienze Religiose – Trani, a cura di F. Santovito, Vivere In, Roma, 1990, p. 30. GS 48 (1471). Cfr. Idem, 49 (1475-1477). Cfr. Idem, 50 (1478-1480). Cfr. Losappio R., La recezione nell’Arcidiocesi, cit., p. 32. Cfr. Ciccone L., La famiglia nella Gaudium et Spes, in “La Famiglia” n. 174, 1994, p. 28. percorsi di studio 287 percorsi di studio 288 luglio 2010 - anno X “Nel compito di trasmettere la vita umana e di educarla, che deve essere considerato come la loro propria missione, i coniugi sappiano di essere cooperatori dell'amore di Dio creatore e come suoi interpreti”.26 La novità sta nel termine «interpreti» che apre la via al discorso sulla responsabilità nella procreazione.27 Essere interpreti vuol dire cercare di conoscere ciò che Dio vuole dai coniugi in un determinato momento, in modo che la decisione di dare o meno il via ad un processo generativo abbia il senso della realizzazione non di un progetto personale, ma di un progetto di Dio. Quindi la decisione diviene responsabile perché si connota della dimensione di risposta a Dio nell’adempimento della missione da lui affidata: “siate fecondi e moltiplicatevi” (Gen 1, 28). Tale decisione, quindi, non deve essere dell’uno o dell’altro coniuge, ma deve essere maturata insieme in quello stile di coppia che deve essere abituale in ogni ambito. Solo così i coniugi cristiani adempiono al loro compito di procreare con generosità e responsabilità cristiana, atto che va oltre il limite razionalmente calcolato, mettendo in conto anche una prudente fiducia nella Provvidenza. Tutto ciò vuol dire decidere responsabilmente se volere o no un figlio.28 Al n. 51 la GS prosegue nel discorso sulla responsabilità nel procreare. Il Concilio si impegnò a formulare un criterio per risolvere il problema di quali comportamenti sessuali sono leciti a sposi che responsabilmente hanno maturato la decisione di non procreare per un certo tempo o anche per un tempo indeterminato. Tale criterio è così formulato: “il carattere morale del comportamento non dipende solo dalla sincera intenzione e dalla valutazione dei motivi, ma va determinato secondo criteri oggettivi, che hanno il loro fondamento nella dignità stessa della persona umana e dei suoi atti, criteri che rispettano, in un contesto di vero amore, il significato totale della mutua donazione e della procreazione umana”.29 Il Concilio parla di «criteri oggettivi» cioè che appartengono alla realtà da tutti osservabile e verificabile, diversa dunque da quella soggettiva delle intenzioni e dei motivi per cui uno agisce. Questi criteri debbono avere come fondamento le strutture essenziali della persona umana, di cui è parte a pieno titolo il corpo con quanto lo caratterizza nella sua mascolinità e femminilità. Tali criteri, così fondati, dovranno poi essere tali da non intaccare in nulla l’atto coniugale sia come rapporto di vicendevole donazione degli sposi sia come atto aperto alla procreazione.30 GS 50 (1479). Cfr. Marrone D., Comunicare la vita. La procreazione come esperienza etico-religiosa., in «Salos», Rivista di fede e cultura dell’Istituto di Scienze Religiose “S. Nicola il Pellegrino” di Trani, n. 3, 2003, pp. 63-71. 28 Cfr. Ciccone L., La famiglia nella, cit., p. 32. 29 GS 51 (1483). 30 Cfr. Hummes C., Una Chiesa del dialogo, cit., p. 319. 26 27 La GS parla di «criteri»; Paolo VI, invece, poco più di due anni dopo cercherà di formulare, in conformità alle direttive date dal testo Conciliare, un unico criterio, presente al n. 12 dell’Humanae Vitae,31 quello della inscindibilità dei due significati propri dell’atto coniugale, quello unitivo e quello procreativo.32 Il n. 52 della GS tratta dell’impegno di tutti per il bene del matrimonio e della famiglia. Infatti sarà bene, sul versante pastorale, che i cristiani si adoperino per sviluppare diligentemente i valori del matrimonio e provvedano ai bisogni e agli interessi della famiglia, in accordo con i tempi nuovi.33 In tal senso saranno validi ed efficaci gli apporti che le scienze umane, “soprattutto biologiche, mediche, sociali e psicologiche, possono portare al bene del matrimonio e della famiglia e alla pace delle coscienze se, con l'apporto convergente dei loro studi, cercheranno di chiarire sempre più a fondo le diverse condizioni che favoriscono un'ordinata e onesta procreazione umana”.34 Solo così la Chiesa vivrà il dialogo, il modo più efficace per confrontarsi positivamente e costruttivamente con la società. Un dialogo con l’umanità contemporanea, con le scienze, i progressi delle biotecnologie, e tutto ciò che concerne i diritti umani, la solidarietà e la giustizia sociale. Un dialogo che allo stesso tempo sappia annunciare la verità poiché la Chiesa dialogante promossa dalla GS è una Chiesa che assumendo la missione di Gesù è presente nel mondo non per giudicare l’umanità, ma per amarla e servirla.35 1.2Paolo VI e l’Humanae Vitae L’enciclica di Papa Montini, promulgata il 25 luglio 1968 ad appena tre anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II, mira a difendere il valore primario della vita umana, attraverso una riflessione sulla regolazione della natalità, perché essa costituisce uno degli atti più importanti della nostra esistenza.36 Il figlio deve entrare nella vita «amato» e «voluto», come espressione di «amore» e di «scelta responsabile». È in questa linea che è emerso nel documento il nuovo significativo concetto di “paternità responsabile”37, traducibile in un assoluto rispetto della vita e delle sue fonti, in un adeguato controllo delle capacità procreative e del corrispettivo impulso sessuale, in chiarezza di idee intorno alla vita matrimoniale e ai suoi doveri di fronte a Dio, Paolo VI, Humanae Vitae, Lettera enciclica sulla retta regolazione delle nascite, Roma, 25 luglio 1968, in Enchiridion Vaticanum 3, Documenti ufficiali della Santa Sede 1968-1970, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna, 1982, nn. 587-617. 32 Cfr. Idem, 12 (598). 33 Cfr. GS 52 (1487). 34 Idem, 52 (1488). 35 Cfr. Hummes C., Una Chiesa del dialogo, cit., p. 320. 36 Cfr. Perico G., L’enciclica Humanae Vitae. Riflessioni morali, in “La Famiglia” n. 15, 1969, p. 214. 37 HV 10 (596). 31 percorsi di studio 289 percorsi di studio 290 luglio 2010 - anno X alla famiglia e alla società, in una giusta gerarchia di valori.38 Ecco quanto afferma Paolo VI in quella enciclica: “Nel difendere la morale coniugale nella sua integralità, la Chiesa sa di contribuire all’instaurazione di una civiltà veramente umana; essa impegna l’uomo a non abdicare alla propria responsabilità per rimettersi ai mezzi tecnici; difende con ciò stesso la dignità dei coniugi”.39 Il Papa apre la sua enciclica sottolineando le questioni nuove che erano dibattute da decenni tra gli studiosi delle scienze umane e teologiche e molte riguardanti proprio la dottrina morale e matrimoniale. Tra le più importanti “si assiste ad un mutamento, lento nel modo di considerare la persona della donna e il suo posto nella società, anche nel valore da attribuire all’amore coniugale nel matrimonio, e nell’apprezzamento da dare al significato degli atti coniugali in relazione con questo amore”.40 Il magistero non ha ignorato questi aspetti nuovi del problema, infatti il n. 4 dell’enciclica sottolinea come: “tali questioni esigevano dal magistero della Chiesa una nuova approfondita riflessione sui principi della dottrina morale del matrimonio”.41 Nello schema dell’HV, fondamentale importanza assume la concezione dell’ “amore coniugale”42 da cui il documento dedurrà importanti conseguenze. Proprio sulla linea del Concilio Vaticano II, l’enciclica attribuisce a questo valore un posto di primato: l’amore è sostanzialmente donazione di sé, è ansia di assimilazione e di fusione di ideali, è volontà di perfezionarsi insieme. Questa tensione si traduce nel gesto esterno della fusione fisica procreatrice, nell’ansia di perpetuarsi nel tempo mediante una nuova vita, che resti un simbolo permanente della loro unità e segno visibile del loro essersi amati.43 Il n. 8 del documento è: “uno splendido inno all’amore coniugale. Non un inno lirico e patetico, ma un carme che proietta su di esso un faro di luce e di verità che aiuta gli sposi a non scambiare per amore qualcuna tra le sue tante falsificazioni e caricature, abilmente mascherate dalle dominante cultura materialistica ed edonistica”.44 Cfr. Zizola – Franceschini – Gherardi, Il popolo cristiano davanti all’Humanae Vitae, in “Il Regno attualità” n. 164/15, 1968, p. 307. 39 HV 18 (604). 40 Idem, 2 (588). 41 Idem, 4 (590). 42 Idem, 8 (594). 43 Cfr. Perico G., L’enciclica Humanae Vitae, cit., p. 214. 44 Ciccone L., Nel XXX dell’Enciclica “Humanae Vitae”, in “Consultori Familiari Oggi” anno 7 n. 3, 1999, p. 5. 38 Ed è proprio contro questa cultura materialistica ed edonistica cha aveva portato la sessualità ad essere dissociata dalla persona per poter essere asservita ai miti del divertimento e del piacere, che l’HV afferma il valore della sessualità a partire da quella totalità unificata che è l’essere umano: la sfera corporea, quella psichica e quella spirituale costituiscono un tutt’uno inseparabile. Il riconoscimento di questa unitarietà impedisce di considerare la sessualità come una parte o una espressione della persona, quasi dissociata da essa e dal suo progetto di vita. Infatti, come sottolinea il documento della Congregazione della dottrina della fede: Persona Humana45 del 1975 la sessualità è espressione della persona, anzi realtà che svela la persona in tutte le sue dimensioni.46 Solo inserendo la sessualità in questa unitarietà, come afferma il n. 9 del documento, la persona può far propri e realizzare quei valori di autentica umanità, di donazione totale, di legame fedele e fecondo che sono elementi essenziali dell’amore umano.47 Inevitabile conseguenza della dissociazione tra persona e sessualità è la scissione dei significati unitivo e procreativo dell’atto sessuale. Di fronte a questa separazione prende posizione Paolo VI nell’affermazione centrale del documento, quando ribadisce che esiste una “connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo”.48 Chi rispetta l’unitarietà dei due significati si comporta correttamente come amministratore della fecondità e non come arbitro.49 Per cui ogni iniziativa che tenda ad eliminare o il frutto del concepimento o gli organi della generazione, o tenda a deviare le tensioni dell’atto procreativo, sono da ritenersi disordini morali, in quanto ogni uso del matrimonio deve per sé rimanere aperto alla procreazione e alla vita.50 Di conseguenza non può essere legittimata l’iniziativa anticoncezionale, non tanto per il rifiuto della prole, quanto per la scissione fra i due elementi costitutivi dell’atto matrimoniale: unitivo e procreativo. Se poi la natura ha stabilito che il congegno procreativo abbia un periodo di infecondità, in maniera che l’atto coniugale risulti fecondo solo per brevissimi periodi di tempo, da nessun punto di vista morale appare disordine il tentativo di inserirsi nel sistema di fecon- Congregazione per la dottrina della fede, Persona Humana, Dichiarazione circa alcune questioni di etica sessuale, Roma, 29 dicembre 1975, in Enchiridion Vaticanum 5, Documenti ufficiali della Santa Sede 1974-1976, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna, 1982, nn. 1717 – 1745. 46 Cfr. Idem, 5 (1723). 47 Cfr. HV 9 (595). 48 Idem, 12 (598). 49 Cfr. Giuliodori C., A trent’anni della “Humanae Vitae”: conferme e sviluppi, in “Consultori Familiari Oggi” anno 7 n. 3, 1999, p. 95. 50 Cfr. Perico G., L’enciclica Humanae Vitae, cit., p. 215. 45 percorsi di studio 291 percorsi di studio 292 luglio 2010 - anno X dità periodica naturale, anche se il compiere calcoli di tempi e di condizioni fisiologiche per attuare questo inserimento può avere un certo sapore di tecnicismo e di artificiosità.51 L’enciclica HV ha permesso di guardare con occhi nuovi ai metodi di regolazione naturale della fertilità, perché: “non è una questione di metodo migliore per regolare le nascite, ma di una scelta che parte dall’amore e dal servizio alla vita e non dal suo rifiuto, che guarda alla globalità del rapporto di coppia e non solo ad una sessualità senza inconvenienti”.52 La via dei metodi naturali di regolazione della fertilità, diventa fonte di crescita per la coppia nella sua globalità perché, oltre a far maturare un atteggiamento di sostanziale e permanente disponibilità alla vita, impegna la coppia ad una affettività diffusa e continuamente ravvivata dall’esercizio della castità. I periodi di eventuale astinenza in una coppia che vive la globalità della relazione affettiva diventano un’occasione per riscoprire linguaggi e forme di comunicazione che spesso il ricorso esclusivo al linguaggio sessuale rischia di impoverire o far scomparire.53 A tal scopo è significativo l’incoraggiamento che Paolo VI al n. 19 dell’enciclica offre alle coppie, cioè di perseguire nella conoscenza e nell’utilizzo di tali metodi, ben sapendo che la dottrina della Chiesa sulla regolazione della natalità sarebbe apparsa “a molti di difficile o addirittura di impossibile attuazione”.54 Ecco perché è necessario che, negli ambiti parrocchiali, associativi o in quelli particolarmente qualificati come i consultori, venga sviluppata una costante formazione sui temi della sessualità, dell’affettività, sulla dottrina della regolazione della natalità e si offrano occasioni concrete per acquisire competenze sui metodi naturali, specialmente per le coppie di fidanzati prossimi al matrimonio.55 In conclusione è possibile sottolineare come l’HV prima di essere la conferma di una norma di morale coniugale, essa è un forte appello, non ai cristiani soltanto, ma a tutti gli uomini di buona volontà, perché percepiscano l’urgenza di un serio e convinto impegno nel difendere la vita umana. Infatti, l’HV ha dato stimolo e incoraggiamento al fiorire nella comunità credente, di iniziative concrete a vari livelli: di ricerca scientifica, di studio e divulgazione, di operosità creativa e generosa. Si pensi, ad esempio, alle ricerche sugli aspetti biologici del processo procreativo umano e sui metodi diagnostici del periodo fertile e di quello infertile nel ciclo femminile, alle scuole per la formazione di insegnanti di metodi naturali e di regolazione Cfr. Dal Ferro G., I metodi naturali nell’ Humanae Vitae e nella Familiaris Consortio, in “La Famiglia” n. 102, 1983, p. 22. 52 Giuliodori C., A trent’anni della “Humanae Vitae”, cit., p. 96. 53 Cfr. Giammancheri E., Considerazioni sull’enciclica Humanae Vitae, in “La Famiglia” n. 11, 1968, p. 406. 54 HV 19 (606). 55 Cfr. Giuliodori C., A trent’anni della “Humanae Vitae”, cit., p. 97. 51 della fertilità, ai vari movimenti per la vita, ai vari centri di aiuto e sostegno alle famiglie come i consultori familiari.56 Per questi motivi resta sempre attuale l’appello che Paolo VI, a conclusione della lettera enciclica, rivolgeva ai vescovi: “Considerate questa missione come una delle vostre più urgenti responsabilità nel tempo presente. Essa comporta, un’azione pastorale concertata in tutti i campi della attività umana, economica, culturale e sociale: solo un miglioramento simultaneo in questi vari settori permetterà di rendere non solo tollerabile, ma più facile e gioconda la vita dei genitori e dei figli in seno alle famiglie, più fraterna e pacifica la convivenza nell’umana società, nella rigorosa fedeltà al disegno di Dio sul mondo”.57 Così facendo la Chiesa testimonia la propria fedeltà al disegno del Creatore e al servizio della persona umana, la quale resta il principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali.58 1.3Il magistero a sostegno della famiglia durante il pontificato di Giovanni Paolo II Nel quarto anno del suo pontificato, Giovanni Paolo II donò alla comunità cristiana l’Esortazione apostolica Familiaris Consortio59, riguardante i compiti della famiglia cristiana nel mondo di oggi. Essa fu pubblicata a conclusione del Sinodo dei Vescovi celebratosi a Roma nel 1980 e avente come specifico tema di riflessione la famiglia. Il documento si divide in quattro parti. La prima parte offre una veloce descrizione della situazione della famiglia nella società. È una situazione segnata da luci ed ombre. Giovanni Paolo II le passa in rassegna richiamando l’attenzione di tutti sul bisogno di discernimento evangelico, perché: “non raramente all'uomo e alla donna di oggi, in sincera e profonda ricerca di una risposta ai quotidiani e gravi problemi della loro vita matrimoniale e familiare, vengono offerte visioni e proposte anche seducenti, ma che compromettono in diversa misura la verità e la dignità della persona umana”.60 Ogni visione e proposta sul matrimonio e sulla famiglia va dunque confrontata con la verità di Cristo. Significativo è il bisogno di sapienza per far fronte ai problemi della fami Cfr. Ciccone L., Nel XXX dell’Enciclica, cit., p. 4. HV 30 (616). 58 Cfr. Caprile G., A dieci anni dalla Humanae Vitae, in “La Civiltà Cattolica”, quaderno n. 3063, 1978, pp. 179-181. 59 Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, Esortazione apostolica sui compiti della famiglia cristiana nel mondo di oggi, Roma, 22 novembre 1981, in Enchiridion Vaticanum 7, Documenti ufficiali della Santa Sede 1980-1981, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna, 1983, nn. 15221810. 60 Idem, 4 (1534). 56 57 percorsi di studio 293 percorsi di studio 294 luglio 2010 - anno X glia. Non basta affidarsi ai progressi delle scienze e della tecnica ma “la scienza è chiamata ad allearsi con la sapienza”.61 È la sapienza che sa esprimere un giudizio sui problemi della famiglia alla luce del senso ultimo della vita e dei suoi valori fondamentali.62 La seconda parte è fondativa di tutto il documento perché tratta del disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia. Importante è il riferimento all’amore di Dio: “Dio è amore e vive in se stesso un mistero di comunione personale d'amore. Creandola a sua immagine e continuamente conservandola nell'essere, Dio iscrive nell'umanità dell'uomo e della donna la vocazione, e quindi la capacità e la responsabilità dell'amore e della comunione. L'amore è, pertanto, la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano”.63 Per poter giungere alla comprensione dell’amore è necessario rivolgere lo sguardo sull’uomo. L’amore investe la persona umana nella sua totalità di anima e corpo. Ecco perché solo se viene inteso come dono di sé può abbracciare il bene integrale della persona dei coniugi e dei figli. Il dono di sé è l’elemento dinamico dell’amore, della comunione, della fecondità e dell’educazione, ma anche del rispetto e della promozione della dignità di tutti i componenti della famiglia.64 È sempre alla luce di questa concezione integrale dell’amore che la FC analizza, nella terza parte, i vari compiti della famiglia. Tale analisi costituisce l’obbiettivo principale dell’esortazione apostolica: “i compiti, che la famiglia è chiamata da Dio a svolgere nella storia, scaturiscono dal suo stesso essere e ne rappresentano lo sviluppo dinamico ed esistenziale. Ogni famiglia scopre e trova in se stessa l'appello insopprimibile, che definisce ad un tempo la sua dignità e la sua responsabilità: famiglia, «diventa» ciò che «sei»!”.65 Dall’invito alla famiglia a diventare ciò che è, derivano quattro compiti: • la formazione di una comunità di persone: l’amore tra i membri della famiglia conduce “ad una comunione sempre più profonda ed intensa, fondamento e anima della comunità coniugale e familiare”.66 Successivamente Giovanni Paolo II afferma che la famiglia cristiana come “Chiesa domestica”67 è una rivelazione ad attuazione specifica della comunione ecclesiale e ciò equivale ad attribuirle un ruolo di primo piano nell’edificazione della Chiesa;68 FC 8 (1549). Cfr. Miralles A., Famiglia, diventa ciò che sei! in Prendete il largo con Cristo. Esortazioni e lettere di Giovanni Paolo II, Cantagalli, Siena, 2005, p. 34. 63 FC 11 (1557). 64 Cfr. Bresciani C., La Familiaris Consortio 20 anni dopo, in “La Famiglia” n. 209, 2001, p. 10. 65 FC 17 (1579). 66 Idem, 18 (1583). 67 Idem, 21 (1590). 68 Cfr. Miralles A., Famiglia, diventa ciò che sei!, cit., p. 37. 61 62 • il servizio alla vita: si sviluppa in due tappe consecutive: procreazione ed educazione. La dottrina sul compito procreativo degli sposi è messa in continuità con l’insegnamento del Concilio Vaticano II nella GS e di Paolo VI nell’enciclica HV. Il Pontefice al n.30 dell’esortazione apostolica deplora il sorgere di una mentalità contro la vita, perché la “Chiesa sta dalla parte della vita”,69 Dal compito procreativo consegue quello educativo, che è un diritto-dovere dei genitori e che si qualifica anche come “originale e primario, rispetto al compito educativo di altri, per l'unicità del rapporto d'amore che sussiste tra genitori e figli; come insostituibile ed inalienabile, e che pertanto non può essere totalmente delegato ad altri, né da altri usurpato”;70 • la partecipazione allo sviluppo della società: nei nn. 44-48 si espongono diversi modi di interazione positiva tra la famiglia e la società. Le famiglie, sia sole che associate, non soltanto possono dedicarsi a molteplici opere di servizio sociale, ma “devono crescere nella coscienza di essere protagoniste della cosiddetta «politica familiare» ed assumersi la responsabilità di trasformare la società”.71 Dal canto suo, la società è chiamata a rispettare e a promuovere la famiglia stessa, specialmente nei suoi diritti;72 • la partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa: alla base di questo suo compito ecclesiale sta il fatto che essa, a suo modo, è “viva immagine e storica ripresentazione del mistero stesso della Chiesa”.73 Infatti la comunione ecclesiale si manifesta e si attua nella comunione all’interno della famiglia cristiana. Ciò determina la modalità propria della sua partecipazione missione della Chiesa: non assume un compito che le venga dall’esterno, ma esso è frutto della sua dinamica interna in quanto famiglia fondata sul matrimonio sacramentale.74 Nella quarta parte dell’esortazione apostolica, Giovanni Paolo II trae la conseguenze operative per tutta la Chiesa, affinché la famiglie cristiane possano assolvere i loro compiti. Essa è dedicata alla pastorale familiare e sottolinea: tempi, strutture, operatori e situazioni. I tempi sono determinati dallo sviluppo della famiglia come realtà vivente: preparazione al matrimonio come momento sorgivo, celebrazione e pastorale successiva. Particolare attenzione è posta alla preparazione che, sottolinea il Pontefice al n. 66, non è da circoscrivere agli ultimi mesi e settimane, ma ha inizio dall’infanzia con l’esperienza di famiglia, e continua durante tutte le tappe educative fino alla preparazione immediata in vista della celebrazione del sacramento.75 71 72 73 74 75 69 70 FC 30 (1614). Idem, 36 (1639). FC 44 (1668). Cfr. Miralles A., Famiglia, diventa ciò che sei!, cit., p. 40. FC 49 (1678). Cfr. Miralles A., Famiglia, diventa ciò che sei!, cit., p. 41. Cfr. FC 66 (1724). percorsi di studio 295 296 luglio 2010 - anno X percorsi di studio La pastorale familiare ha come protagonista responsabile la Chiesa stessa, attraverso le sue strutture e i suoi operatori. Le strutture sono le chiese particolari e le parrocchie, le stesse famiglie e le associazioni impegnate a favore della famiglia. Il Pontefice, quindi, passa in rassegna i diversi operatori della pastorale familiare: oltre i componenti di ogni famiglia, i vescovi e i presbiteri, i religiosi e le religiose, particolare attenzione è posta al n. 75 ai laici specializzati: “Non poco giovamento possono recare alle famiglie quei laici specializzati (medici, uomini di legge, psicologi, assistenti sociali, consulenti, ecc.) che sia individualmente sia impegnati in diverse associazioni e iniziative, prestano la loro opera di illuminazione, di consiglio, di orientamento, di sostegno. Ad essi possono bene applicarsi le esortazioni che ebbi occasione di rivolgere alla Confederazione dei Consultori familiari di ispirazione cristiana: «È un impegno il vostro, che ben merita la qualifica di missione, tanto nobili sono le finalità che persegue e tanto determinati, per il bene della società e della stessa comunità cristiana, sono i risultati che ne derivano. Tutto quello che riuscirete a fare a sostegno della famiglia è destinato ad avere un'efficacia che incide sulla società. Il futuro del mondo e della Chiesa passa attraverso la famiglia»”.76 L’ultima sezione, i nn. 77-85, riguarda la pastorale familiare nei casi difficili. Giovanni Paolo II si sofferma specialmente sui matrimoni tra cattolici ed altri battezzati, fra cattolici e non battezzati, le unioni libere e di fatto, i cattolici uniti solo col matrimonio civile, i separati e i divorziati non risposati. L’esortazione apostolica si conclude con un accorato appello rivolto a tutti i figli della Chiesa “ad amare in modo particolare la famiglia”.77 Per far ciò è, dunque, indispensabile ed urgente che ogni uomo di buona volontà si impegni a salvare ed a promuovere i valori e le esigenze della famiglia.78 Negli anni successivi alla FC, alcuni gravi e nuovi problemi hanno richiesto altri interventi magisteriali. Un primo intervento è l’istruzione Donum Vitae79 del 1987. L’oggetto di tale istruzione della Congregazione per la dottrina della fede è il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione. Era difficile, nel 1980, quando veniva elaborata la FC prevedere l’evoluzione delle tecniche di procreazione assistita, la loro velocissima diffusione e l’impatto disgregativo che hanno avuto sulla famiglia sia come custode della vita nascente, sia come collaboratrice di Dio nell’opera procreativa.80 La DV, ha quindi dovuto esplicitare molto più chiaramente di quanto avesse fatto la FC, il rapporto tra matrimonio e procreazione. 78 79 FC 75 (1762). Idem, 85 (1806). Cfr. Miralles A., Famiglia, diventa ciò che sei!, cit., p. 42. Congregazione per la dottrina della fede, Donum Vitae, Istruzione sul rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione, Roma, 22 febbraio 1987, in Enchiridion Vaticanum 10, Documenti ufficiali della Santa Sede 1986-1987, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna, 1989, nn. 1152 – 1253. 80 Cfr. Bresciani C., La Familiaris Consortio, cit., p. 14. 76 77 In risposta alle richieste del Sinodo sulla famiglia,81 accettate da Giovanni Paolo II nella stessa FC, la Santa Sede ha elaborato una “Carta dei diritti della famiglia”82 indirizzata soprattutto ai governi, e avente lo scopo non di riprendere l’esposizione teologica dogmatica o morale sul matrimonio e sulla famiglia, ma di presentare a tutti, cristiani e non, una formulazione dei fondamentali diritti inerenti a quella società naturale ed universale che è la famiglia. Giovanni Paolo II ha anche promosso un Pontificio Consiglio per la Famiglia83 con il compito di seguirne l’evoluzione nella nostra società. Si può dire che il Pontificio Consiglio sia una delle ricadute più visibili del Sinodo sulla famiglia, insieme all’esortazione FC. Il Papa ha continuato il suo magistero sulla famiglia con la lettera alle famiglie Gratissimam sane,84 del 2 febbraio 1994 nell’ambito dell’anno della famiglia che egli ha voluto indire per la Chiesa ed inaugurare il 26 dicembre 1993, giorno della festa della Sacra Famiglia di Nazareth. È il secondo documento di particolare rilievo che il Santo Padre offre alla Chiesa e al mondo su questo argomento. È un testo singolare nell’ambito dei documenti del magistero, sia per la sua destinazione diretta alle famiglie, sia per il tono confidenziale. Tuttavia il messaggio contenuto in questa lettera è forte e ricco, perché fa appello alle realtà più grandi: la storia delle generazioni, la storia della salvezza, il combattimento fra il bene e il male, tra la vita e la morte, tra l’amore e quanto all’amore si oppone.85 Tra i contenuti teologico-morali-pastorali della lettera, insistente è il richiamo alla questione del fondamento della famiglia, in quanto: “la coscienza diffusa nel mondo secolarizzato ha creato l’incertezza più profonda sul fondamento della famiglia, specialmente da quando le società occidentali hanno legalizzato il divorzio”.86 Non può certo dirsi famiglia, qualsiasi relazione umana caratterizzata da intimità, empatia, buona comunicazione o qualsiasi forma di convivenza sotto lo stesso tetto. La famiglia non può diventare una relazione confusa, che annulla la differenza tra i sessi. Essa per sua natura richiede un patto tra un uomo e una donna, sulla base della reciproca scelta, Celebratosi a Roma dal 26 settembre al 25 ottobre 1980. Santa Sede, Carta dei diritti della famiglia, Roma, 22 ottobre 1983, in Enchiridion della famiglia. Documenti magisteriali e pastorali su famiglia e vita 1965-2004, a cura del Pontificio Consiglio per la famiglia, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna, 2004, nn. 1489-1506. 83 Istituito con il Motu Proprio Familia a Deo instituta, 9 maggio 1981. Cfr. Enchiridion Vaticanum 7, Documenti ufficiali della Santa Sede 1980-1981, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna, 1983, nn. 1214-1227. 84 Giovanni Paolo II, Gratissimam Sane, Lettera alle famiglia, Roma, 2 febbraio 1994, in Enchiridion Vaticanum 14, Documenti ufficiali della Santa Sede 1994-1995, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna, 1997, nn. 158-344. 85 Cfr. Sgreccia E., I contenuti dottrinali più salienti della “Lettera”, in “La Famiglia” n. 164, 1994, p. 11. 86 Ibidem. 81 82 percorsi di studio 297 percorsi di studio 298 luglio 2010 - anno X patto che per i cristiani è fondato sul sacramento del matrimonio.87 Quindi il fondamento è costituito dal progetto di Dio, un progetto narrato dalle pagine della Bibbia, ma insito nella struttura dell’essere umano. Il Santo Padre affronta in modo pedagogico l’essere e il dover essere della famiglia, come identità e come missione. È una risposta forte al fenomeno preoccupante che concepisce la famiglia come un progetto fatto per mano di uomini e quindi modificabile, come se si trattasse del frutto di un consenso sociale. È la risposta pastorale ad una crisi che sottrae la natura e il contenuto al matrimonio come istituzione naturale, responsabile, duratura, indissolubile, aperta al dono prezioso dei figli.88 Significativo è l’invito del Papa, al n. 7 della lettera, di avvalersi del ricorso ai consultori familiari: “L'esperienza insegna che l'amore umano, per sua natura orientato verso la paternità e la maternità, viene toccato a volte da una profonda crisi ed è pertanto seriamente minacciato. Sarà da prendere in considerazione, in tali casi, il ricorso ai servizi offerti dai consultori matrimoniali e familiari, mediante i quali è possibile avvalersi, tra l'altro, dell'aiuto di psicologi e psicoterapeuti specificamente preparati”.89 Un altro tema rilevante presentato nella catechesi di questa lettera è quello della procreazione responsabile. Viene ribadito il suo radicamento nell’espressione dell’atto coniugale che implica la inscindibilità della dimensione unitiva e della dimensione procreativa. La novità è che il Papa inserisce questo tema nel quadro ampio della civiltà dell’amore.90 Essa esige “la valorizzazione della dignità del matrimonio e della famiglia”91 che sono pienamente valorizzati quando c’è apertura alla vita e rispetto della pienezza dell’amore sponsale, ed è da questo rispetto che nasce la civiltà dell’amore. L’amore sponsale che non è aperto alla vita, non è più amore vero ne amore pieno, non è più sponsale, non è più totale.92 Infatti, come afferma il Santo Padre al n. 12: “ogni uomo ed ogni donna si realizzano in pienezza mediante il dono sincero di sé e, per i coniugi, il momento dell'unione coniugale costituisce di ciò un'esperienza particolarissima. È allora che l'uomo e la donna, nella «verità» della loro mascolinità e femminilità, diventano reciproco dono”.93 Il n. 12 della lettera si conclude con un incoraggiamento ai coniugi, ai pastori, ai teologi, ai filosofi, agli scrittori e in particolar modo agli esperti: medici, educatori e laici, che aiutino i coniugi a realizzare la paternità responsabile.94 Cfr. Scabini E., Identità e compiti della famiglia, in Prendete il largo con Cristo. Esortazioni e lettere di Giovanni Paolo II, Cantagalli, Siena, 2005, p. 274. 88 Cfr. Trujillo L. A., La “lettera alle famiglie” di Giovanni Paolo II, in “La Famiglia” n. 164, 1994, p. 9. 89 Giovanni Paolo II, Gratissimam Sane, cit., 7 (183). 90 Cfr. Sgreccia E., I contenuti dottrinali più salienti, cit., p. 13. 91 Giovanni Paolo II, Gratissimam Sane, cit., 12 (213). 92 Cfr. Sgreccia E., I contenuti dottrinali più salienti, cit., p. 14. 93 Giovanni Paolo II, Gratissimam Sane, cit., 12 (220). 94 Cfr. Sgreccia E., I contenuti dottrinali più salienti, cit., p. 15. 87 Giovanni Paolo II conclude la lettera richiamando, nella terza ed ultima parte, la verità di fede propria del matrimonio-sacramento: la presenza di Cristo stesso nella famiglia, quella che il Papa definisce «presenza dello Sposo». Da questa verità nasce e si corrobora quel mistero di unione vera con il Cristo vivo che costituisce il segreto, la speranza e la forza della famiglia cristiana.95 Il magistero di Giovanni Paolo II a sostegno della vita e della famiglia, troverà ampio sviluppo nell’enciclica Evangelium vitae96, in cui viene fortemente accentuato il carattere attivo che deve assumere la difesa della vita: non solo proteggerla da ogni minaccia, ma promuovere con coraggio “una nuova cultura della vita umana”.97 Il primo capitolo vede riprodotta nell’umanità di oggi la vicenda di Caino e, come sottolineato dal card. Ratzinger nella conferenza stampa di presentazione dell’enciclica, mette in evidenza come “l’eclissi del valore della vita ha origine dall’eclissi del senso di Dio, e da essa scaturisce un’idea perversa di libertà fatta di indifferenza verso la vita dell’altro e di angoscia verso la propria”.98 Per cogliere la lieta notizia che l’enciclica contiene è necessario avere quello sguardo che il documento al n. 83 definisce: “sguardo contemplativo”99 cioè un modo di guardare che va al di là del modo con cui gli uomini guardano persone e avvenimenti, per cogliere la sostanza più profonda dei fatti. Solo questo modo di guardare permette di capire perché la vita sia un bene e come debba essere vissuta. Essa è un bene perché è la partecipazione in noi della stessa vita di Dio; ed è vissuta bene quando è caratterizzata dalla dimensione del dono, a imitazione di Dio, per il quale vivere è donarsi.100 Attraverso questo sguardo contemplativo si riscopre la bellezza e la grandezza della vita guardandola con gli occhi di Dio. È lo sguardo di chi vede l’esistenza nella sua profondità, cogliendone le dimensioni di gratuità, di provocazione alla libertà e alla responsabilità e non si arrende sfiduciato di fronte a chi è nella malattia, nella sofferenza, nella marginalità, e alle soglie della morte.101 Il secondo capitolo tratta del Vangelo della vita, cioè la concezione propriamente cristiana della sua sacra mentalità. Nella vita si fa visibile Dio. Di conseguenza è sacra in ogni suo momento.102 Cfr. Trujillo L. A., La “lettera alle famiglie”, cit., p. 10. Giovanni Paolo II, Evangelium Vitae, Lettera enciclica sul valore e l’inviolabilità della vita umana, Roma, 25 marzo 1995, in Enchiridion Vaticanum 14, Documenti ufficiali della Santa Sede 1994-1995, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna, 1997, nn. 2167-2517. 97 Idem, 78 (2426). 98 Mattè M., Evangelium Vitae: epoca dei lumi, ombre di morte, in “Il Regno attualità” n. 747/8, Bologna, 1995, p. 200. 99 EV 83 (2443). 100 Cfr. Muraro G., La «lieta notizia» dell’Evangelium Vitae, in “La Famiglia” n. 172, 1994, p. 10. 101 Cfr. Idem, p.11. 102 Cfr. Mattè M., Evangelium Vitae: epoca dei lumi, cit., p. 200. 95 96 percorsi di studio 299 percorsi di studio 300 luglio 2010 - anno X Il terzo capitolo è quello che ribadisce la condanna, espressa da Sacra Scrittura, tradizione e magistero, di ogni attentato alla vita umana innocente. L’ultimo capitolo prospetta le modalità attraverso le quali l’uomo adempie la missione di annunciare, celebrare e servire il “vangelo della vita”.103 Ha un intento più pastorale, invitando i credenti a farsi promotori di una svolta culturale. Un ruolo primario compete alla famiglia, ma sono molti i titoli per i quali si è chiamati a collaborare: operatori sanitari, volontariato, educatori, operatori dei mass media, politici, ed infine un ruolo fondamentale, per il Papa, lo rivestono i consultori familiari: “i consultori matrimoniali e familiari, mediante la loro specifica azione di consulenza e di prevenzione, svolta alla luce di un'antropologia coerente con la visione cristiana della persona, della coppia e della sessualità, costituiscono un prezioso servizio per riscoprire il senso dell'amore e della vita e per sostenere e accompagnare ogni famiglia nella sua missione di «santuario della vita»”.104 Tale possibilità di intervento ha portato il Santo Padre a parlare di “segni positivi operanti nell’attuale situazione dell’umanità”105 ricordando non solo le opere dei cristiani ma di tutti gli uomini di buona volontà: “quante iniziative di aiuto e di sostegno alle persone più deboli e indifese sono sorte e continuano a sorgere, nella comunità cristiana e nella società civile, a livello locale, nazionale e internazionale, ad opera di singoli, gruppi, movimenti ed organizzazioni di vario genere!”.106 Nella solidarietà per l’uomo possiamo trovare il terreno comune da cui è possibile partire per creare non solo una cultura di vita che si oppone alla cultura di morte, ma un’azione di vita che contrasta l’azione di morte. Ed uno degli ambiti ottimali in cui è possibile ritrovare il senso, il rispetto e la promozione della vita è la famiglia, infatti dove regna l’amore è più facile riscoprire la bellezza della vita come realmente è.107 1.4 La CEI e il sostegno alla famiglia La Chiesa cattolica, tra la fine degli anni sessanta e la prima metà degli anni settanta, assiste a sconvolgimenti culturali che mettono in crisi le strutture portanti della società: la famiglia e il matrimonio. Per questo si sente interpellata e rinsaldare le strutture pastorali di sostegno alla famiglia è un suo dovere. In tale contesto l’immagine dei consultori familiari si presenta come una figura indispensabile per affiancare e accompagnare l’attività pastorale.108 Ecco perché i vescovi italiani, riuniti in assemblea generale dal 2 al 7 giugno EV 2 (2170). Idem, 88 (2458). 105 EV 26 (2250). 106 Idem, 26 (2251). 107 Cfr. Muraro G., La «lieta notizia», cit., p. 17. 108 Cfr. Serra A., Venti anni: 1975-1995, in “Consultori Familiari Oggi” anno 3 n. 3, Roma, 1995, p. 1. 103 104 1975, affrontarono il tema della pastorale del matrimonio. Nel documento finale, tra le «raccomandazioni e voti» così si espressero: “sostenuti dalle Chiese locali e collegati con gli altri organismi della pastorale familiare, sorgano a livello diocesano, o almeno interdiocesano o regionale, consultori familiari professionalmente validi e di sicura ispirazione cattolica”.109 L’esigenza di tali strutture che accompagnassero la famiglia in disagio e la preparassero al recupero dei veri valori era pressante. Lo riafferma con forza Giovanni Paolo II, rivolgendosi il 29 novembre 1980 ai partecipanti al II convegno dei consultori familiari di ispirazione cristiana: “mai come ora si è avvertita l’urgenza di un intervento più adeguato e puntuale in questo settore dell’esperienza umana, che le trasformazioni culturali della nostra epoca hanno scosso e messo in crisi in modo particolarmente profondo. Uno dei modi concreti con cui la comunità cristiana si rende presente accanto alla coppia nella sua crescita e maturazione è costituito indubbiamente dall’istituto dei consultori familiari”.110 Tali interventi hanno dato una spinta fondamentale alla pastorale familiare affinché sorgesse, possibilmente in ogni diocesi, almeno un consultorio familiare di ispirazione cristiana. Gli interventi magisteriali dell’episcopato italiano circa la pastorale familiare e le strutture di sostegno alla famiglia, trovarono il loro culmine con la promulgazione, il 25 luglio 1993, del Direttorio di pastorale familiare.111 Esso vide la luce nel giorno del 25° anniversario della pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae. Tale collegamento stabilisce un ideale rapporto tra i due documenti, non certo per l’identità di contenuto (dottrinale l’enciclica e pastorale il direttorio), ma perché sottolinea una continuità nella cura del magistero per il matrimonio e la famiglia, cosa di cui si era fatta carico chiaramente la Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II.112 Infatti il Direttorio non è un nuovo documento pastorale, ma una ripresa sintetica e organica del magistero e degli orientamenti pastorali degli ultimi venticinque anni in materia, un utile strumento di consultazione e un “vademecum o manuale per le Chiese locali”.113 Esso è rivolto: Cei, L’impegno per l’evangelizzazione del sacramento del matrimonio, Deliberazioni conclusive della XII assemblea generale della CEI, Roma 20 giugno 1975, in Enchiridion della Conferenza Episcopale Italiana 2, 1973-1979, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna, 1985, nn. 2219 – 2239. 110 Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al II Convegno Nazionale della Confederazione dei Consultori Familiari di ispirazione cristiana, Roma, 29 novembre 1980, in Confederazione italiana dei consultori familiari di ispirazione cristiana (a cura di), Consultori familiari di ispirazione cristiana. Perché e come, Edizioni Salcom, Brezzo di Bedero, 1983, pp. 43-47. 111 Cei, Direttorio di pastorale familiare, Fondazione di Religione “Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena”, Roma, 1993. 112 Cfr. Bresciani C., A 10 anni dal Direttorio di Pastorale Familiare, in “La Famiglia” n. 221, 2003, p. 5. 113 Cei, Direttorio di pastorale familiare, cit., n. 3. 109 percorsi di studio 301 percorsi di studio 302 luglio 2010 - anno X “ai diversi operatori pastorali per favorire un cammino più unitario e condiviso e per orientare la formazione degli stessi operatori, quale esigenza prioritaria di tutta la pastorale familiare”.114 Il Direttorio richiama, organicamente, tutti i pronunciamenti e le indicazioni sulla pastorale familiare proposti dal Concilio fino al momento della promulgazione e raccoglie i più importanti documenti dell’episcopato italiano. “Di fronte ad una pastorale familiare frammentata, con variazioni anche sensibili da diocesi a diocesi e con più della metà delle diocesi ancora ai primi passi, se non indifferenti, l’esistenza di un Direttorio di pastorale familiare costituisce una piattaforma comune da cui tutti possono partire; una sintesi stabile cui riferirsi; e insieme, nella parte operativa, rende patrimonio comune di tutta la chiesa italiana le esperienze positive dell’una o dell’altra chiesa particolare”.115 Fino al Direttorio, la preoccupazione prevalente dal punto di vista pastorale era la preparazione immediata dei fidanzati al matrimonio, attraverso «mini corsi» attivati allo scopo o nelle singole parrocchie o nelle zone pastorali della diocesi. Il Direttorio, invece, invita a rivalorizzare in pieno il tempo del fidanzamento, come tempo di grazia e di crescita nella fede dei due fidanzati.116 Il testo non parte da una prospettiva ecclesiocentrica (la famiglia nella Chiesa) tale da significare quale visione del rapporto Chiesa-mondo sottostà alla pastorale familiare proposta, ma preferisce seguire una andamento storico-evolutivo (la famiglia e la Chiesa).117 Infatti dopo la descrizione nel I capitolo dei fondamenti teologici della pastorale familiare, dal II capitolo “Chiamati all’amore”118 ha inizio una lunga sessione che si può definire «evolutiva», perché accompagna la crescita prima del ragazzo, poi dei ragazzi-ragazze in coppia, in seguito dei fidanzati, infine degli sposati e delle famiglie. È costituita, infatti, da tre parti: il III capitolo dal titolo: “Fidanzamento tempo di grazia”,119 il IV capitolo: “La celebrazione del matrimonio”120 ed infine il V ed ultimo capitolo di questa sezione dal titolo: “Una pastorale per la crescita della coppia e della famiglia”.121 Uno spazio ampio è dedicato nel capitolo VI alla formazione della coppia e della famiglia in due ambienti esterni ad essa: la Chiesa e la società.122 Ibidem. Mocellin G., Direttorio di Pastorale Familiare: immagine perfetta, destinatari smarriti, in “Il Regno attualità” n. 715/20, 1993, p. 587. 116 Cfr. Bresciani C., A 10 anni dal Direttorio, cit., p. 6. 117 Cfr. Mocellin G., Direttorio di Pastorale Familiare, cit., p. 588. 118 Cei, Direttorio di pastorale familiare, cit., nn. 23-36. 119 Idem, nn. 37-78. 120 Idem, nn. 69-91. 121 Idem, nn. 92-133. 122 Questo capitolo si intitola: La missione della famiglia nella Chiesa e nella Società. Cfr. Cei, Direttorio di pastorale familiare, cit., nn. 134-188. 114 115 Il VII capitolo, affronta “La pastorale delle famiglie in situazione difficile o irregolare”:123 persone separate, divorziate risposate e non, sposate solo civilmente e conviventi. L’ultimo capitolo, l’VIII, è dedicato alle “Strutture e gli operatori della pastorale familiare”.124 È in questo capitolo che troviamo quanto si riferisce ai consultori familiari, dal n. 249 al 254. I consultori vengono chiamati in causa perché diano un loro specifico contributo nella realizzazione di tutti i principali obiettivi della pastorale familiare: nella educazione sessuale (n.32), nella preparazione al matrimonio (n.57), nel caso che si prospetti un matrimonio tra minorenni (n. 91), nel sostegno alle giovani coppie (n. 110), e alle coppie in difficoltà (n. 104) specialmente se a rischio di separazione, per cercare di evitarla (n. 207), nella verifica della eventuale nullità di un matrimonio (n. 205), e infine nella formazione degli operatori di pastorale familiare (nn. 57 e 259).125 Il Direttorio porta autorevolmente chiarezza sulla collocazione e sui compiti dei consultori. I vescovi recepiscono una ricca serie di elementi finora contenuti in un sussidio di studio, curato dall’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia: “I consultori familiari sul territorio e nella comunità”126 del 1 novembre 1991. I punti essenziali del sussidio sono entrati nel Direttorio, talvolta riportati letteralmente. Anzi, come affermava Giuseppe Anfossi, l’allora direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia, “nulla di sostanzialmente nuovo offre il Direttorio rispetto al sussidio, anche perché esso oltre a toccare molti altri punti rispetto a quelli recepiti nel Direttorio, offre di questi un’espressione più ampia e particolareggiata”.127 È utile fare ora, una rapida rassegna dei punti principali del Direttorio circa i consultori familiari, quali emergono dal blocco dei paragrafi da 249 a 254. • Consultori familiari e strutture di pastorale familiare (n. 249). L’aver collocato i consultori nella parte dedicata alle strutture pastorali può far ricadere nella confusione un punto attentamente chiarito nel sussidio, inducendo a pensare che i consultori siano una delle strutture pastorali. Il Direttorio, pertanto, previene tale possibile confusione sottolineando che: “tra le strutture non propriamente pastorali, ma piuttosto finalizzate alla promozione umana della coppia e della famiglia, si pongono i consultori familiari”.128 Il testo, quindi, prosegue precisando gli aspetti che accomunano e quelli che differenziano i consultori familiari e le strutture di pastorale familiare: Idem, nn. 189-234. Idem, nn. 235-270. 125 Cfr. Ciccone L., I Consultori familiari nel “Direttorio di Pastorale Familiare”, in “Consultori Familiari Oggi” anno 2 n. 1, 1994, p. 16. 126 Cei, Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia, I consultori familiari sul territorio e nella comunità, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna, 1991. 127 Anfossi G., Il direttorio di pastorale familiare, in “La Famiglia” n. 162, 1993, p. 18. 128 Cei, Direttorio di pastorale familiare, cit., n. 249. 123 124 percorsi di studio 303 304 luglio 2010 - anno X percorsi di studio “con le strutture di pastorale familiare essi hanno in comune la finalità del vero bene della persona, della coppia e della famiglia e l’attenzione alla sessualità e alla vita. Diverse, invece, sono la prospettiva e la metodologia. La pastorale agisce per la promozione della vita cristiana e per l’edificazione della Chiesa e privilegia le risorse dell’evangelizzazione, della grazia sacramentale, della formazione spirituale e della testimonianza ecclesiale. I consultori […] guardano piuttosto ai dinamismi personali e relazionali e privilegiano l’apporto delle scienze umane e delle loro metodologie”.129 • Obbligo di promuovere, valorizzare e sostenere consultori familiari diocesani o interdiocesani (n. 250). “In ogni diocesi siano promossi, valorizzati e sostenuti consultori familiari professionalmente validi e di sicura ispirazione cattolica”.130 Come «raccomandazione» è tornata più volte nei documenti della CEI, a partire dal 1975. Ora sono i vescovi stessi a darle la forza di norma giuridica più vincolante. È importante sottolineare come non si esaurisce al «promuovere» e al «valorizzare» il compito della comunità diocesana, ma esso si sostanzia anche della necessità di preparare altri operatori e del sostegno finanziario del consultorio.131 • Duplice tipo di intervento del consultorio familiare (n. 250). Il consultorio intervenendo su situazioni di difficoltà nella vita dei singoli, di coppie e di famiglie, non può disinteressarsi delle cause da cui derivano. Alla consulenza deve, perciò, affiancarsi l’azione di prevenzione “attraverso iniziative di formazione e di impegno culturale sul territorio e nella comunità”.132 • Il contributo dei consultori nella preparazione dei fidanzati al matrimonio (n. 250). Il Direttorio indica con chiarezza come evitare dannose confusioni di competenze su un terreno di incontro con le strutture e l’azione strettamente pastorale, nella cui ottica questo impegno va visto come aiuto nella preparazione ad un sacramento. È compito del consultorio integrare la preparazione al matrimonio in quegli aspetti comunemente attribuiti alle scienze umane, specialmente quelle psicologiche, mediche sessuologiche e giuridiche, che lo stesso Direttorio riconosce “molto importanti per la vita coniugale e familiare”.133 Inoltre, in questi stessi ambiti, il consultorio può essere chiamato a dare un suo specifico contributo nella formazione degli animatori degli itinerari di preparazione dei fidanzati al matrimonio e alla famiglia.134 • Ispirazione cristiana dei consultori (nn. 250-251). Il Direttorio sottolinea come il servizio dei consultori nell’educazione alla sessualità e alla famiglia, abbia un “chiaro e indiscusso Idem, n. 249. Idem, n. 250. 131 Cfr. Ciccone L., I Consultori familiari nel, cit., p. 17. 132 Cei, Direttorio di pastorale familiare, cit., n. 250. 133 Cei, Direttorio di pastorale familiare, cit., n. 250. 134 Cfr. Ciccone L., I Consultori familiari nel, cit., p. 17. 129 130 riferimento ai contenuti del magistero della Chiesa”.135 Così facendo essi testimoniano in modo originale e concreto che “il messaggio cristiano non è contro l’uomo, ma è per l’uomo, per la sua vita, per il suo amore, nella pienezza della loro verità”.136 Per questo è fondamentale il legame dei consultori con la comunità ecclesiale, espresso dall’attività del vescovo che nomina sia il consulente etico che un sacerdote come consulente ecclesiastico a cui spetta il compito di mantenere i rapporti tra il consultorio e la comunità cristiana e garantire la dichiarata ispirazione cristiana del consultorio stesso.137 • La formazione degli operatori consultoriali (n. 250). Tenendo presente l’esigenza formulata nella norma giuridica di partenza, circa le due qualità caratterizzanti i consultori: «professionalmente validi» e «di sicura ispirazione cristiana», si richiede agli operatori del consultorio: il possesso di un titolo professionale tra quelli richiesti nella vigente legge istitutiva dei consultori familiari, del 25 luglio 1975 n. 405, art. 3, che siano dotati di competenza scientifica aggiornata, di disponibilità al lavoro d’équipe e al metodo della consulenza tipici del consultorio stesso.138 Infine, affinché l’ispirazione cristiana sia una realtà vissuta e non una semplice dichiarazione di principio, si richiede negli operatori una “formazione morale necessaria per promuovere sempre la verità nella carità”.139 Per avere una tale formazione è indispensabile una buona conoscenza della dottrina morale cristiana, ecco perché ha un ruolo importante il consulente etico: “a lui, infatti, spetta aiutare tutti gli altri operatori a far sempre riferimento corretto e inequivoco ai valori della morale cattolica nell’affrontare i vari problemi che si presentano e nel prospettare una loro soluzione”.140 Altri punti da sottolineare riguardano: la collaborazione e la valorizzazione tra i consultori di dichiarata ispirazione cristiana e gli altri consultori familiari di iniziativa cristiana (nn. 252-254).141 Il Direttorio fa riferimento poi ai consultori interdiocesani come strutture che utilizzano le risorse di più diocesi e si pongano a servizio delle Chiese locali qualora le forze e le disponibilità delle singole diocesi fossero limitate e insufficienti (n. 253). Infine, il Direttorio sostiene la presenza dei cattolici nei consultori familiari pubblici (n. 254), perché possano Cei, Direttorio di pastorale familiare, cit., n. 250. Idem, n. 251. 137 Cfr. Anfossi G., Il direttorio di pastorale, cit., p. 19. 138 Cfr. Ciccone L., I Consultori familiari nel, cit., p. 19. 139 Cei, Direttorio di pastorale familiare, cit., n. 250. 140 Cei, Direttorio di pastorale familiare, cit., n. 250. 141 Tra questi vanno ricordati. I consultori del Centro Italiano Femminile (CIF) e quelli aggregati all’UCIPEM (Unione dei Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali). Tale Unione è nata nel 1968 e la sede attuale è a Milano. Raggruppa una settantina di strutture in Italia. 135 136 percorsi di studio 305 percorsi di studio 306 luglio 2010 - anno X “difendere il più possibile il vero significato del consultorio, quello cioè di un servizio soprattutto psicologico e sociale alla coppia e alla famiglia, nella linea di un aiuto positivo all’amore coniugale e alla vita”.142 A tale scopo, le comunità cristiane hanno il compito di sostenere e di offrire solide motivazioni perché essi possano vivere la loro non facile testimonianza.143 L’analisi del Direttorio ed in particolare del VII capitolo dedicato alle strutture di pastorale familiare e ai consultori, porta a compimento questo excursus all’interno del magistero della Chiesa iniziato con l’analisi dei numeri della GS dedicati al matrimonio e alla famiglia. In conclusione sembra di poter dire, che la “pastorale familiare è un cantiere aperto perché ha davanti a sè una costruzione non finita e con ancora molto da lavorare”.144 In questo ambito ciascun cristiano guarda con realismo al suo mondo, ai suoi bisogni e alle complesse problematiche che presenta, ma sa anche discernere la silenziosa opera di Dio e in essa pone la sua fiducia, ecco perché segni di speranza per una proficua pastorale a favore del matrimonio e della famiglia ci sono e vanno realizzandosi.145 2. Consultorio familiare di ispirazione cristiana E.P.A.S.S.: trent’anni di presenza, accoglienza e servizio 2.1Presenza Storia ed identità - Il consultorio familiare E.P.A.S.S.146 è sorto ufficialmente nel 1979, alla fine di un periodo storico molto travagliato per il matrimonio e per la famiglia. Infatti gli anni ‘70 sono caratterizzati da una radicale dialettica socio-culturale-politica che, a partire dalla ventata contestatrice del 1968, investe beni e valori tradizionalmente istituiti e riconosciuti come, appunto, il matrimonio e la famiglia. Emblematici, al riguardo, sono: la legge (1970) e il referendum (1974) sul divorzio; il nuovo diritto di famiglia (1975); ed infine la legge (1978) e il referendum (1980) sull’aborto. In questo periodo si moltiplicaCei, Direttorio di pastorale familiare, cit., n. 254. Cfr. Ciccone L., I Consultori familiari nel, cit., p. 19. 144 Tettamanzi D., La pastorale familiare dopo il Concilio Vaticano II, in “La Famiglia” n. 100-101, 1983, p. 121. 145 Cfr. Bresciani C., A 10 anni dal Direttorio, cit., p. 14. 146 L’E.P.A.S.S., Ente Promozionale di Assistenza Socio-Sanitaria, ha personalità giuridica e opera in Bisceglie (BA). È l’Ente gestore del consultorio familiare di ispirazione cristiana, il quale è sorto ufficialmente il 20 Marzo 1979, al termine di un iter burocratico che dà spessore giuridico al precedente lavoro informale iniziato nel 1976. È riconosciuto dalla Regione Puglia, come struttura autorizzata alle attività consultoriali in base alla Legge regionale n. 30 del 1977, con atto deliberativo della Giunta Regionale n. 3478 del 21 Maggio 1980. Ha sede in Bisceglie, in Piazza Gen. C.A. Dalla Chiesa, 12. È componente della Federazione Pugliese e della Confederazione Nazionale dei Consultori Familiari Cristiani che conta circa 170 strutture associate. 142 143 rono i dibattiti animati, i pubblici comizi e gli accesi schieramenti di forze ideologiche di varia ispirazione nel tentativo di salvare o affossare la famiglia.147 Fu in questo contesto che, per iniziativa di alcuni credenti148 della diocesi di Bisceglie,149 incoraggiati dall’allora vicario generale Mons. Paolo D’Ambrosio e dall’Arcivescovo Giuseppe Carata,150 rispondendo all’appello lanciato dai vescovi italiani nel 1975,151 venne costituito il primo gruppo operativo che diede vita al consultorio familiare,152 secondo le disposizioni legislative nel frattempo approvate a livello nazionale153 e regionale.154 L’identità del consultorio familiare biscegliese è chiarita dal nome dell’ente: E.P.A.S.S., abbreviazione di: Ente Promozionale di Assistenza Socio-Santitaria. Ogni termine è finalizzato a chiarire gli obiettivi e lo spirito che anima l’attività consultoriale. L’E.P.A.S.S. infatti è una comunità di persone unite dalla condivisione dei valori umani e cristiani che si impegna per la promozione della vita e l’assistenza del «prossimo», perseguendo la cultura della giustizia e dell’amore. Tale assistenza non è finalizzata solo ad un intervento Cfr. E.P.A.S.S., 10: 1979-1989. Presenza, accoglienza e servizio, cit., p. 7, nota 6. I soci fondatori dell’E.P.A.S.S. furono: don Mauro Cozzoli, sacerdote; Giulia Di Leo Belsito, assistente sociale; Domenico Laganara, medico neurologo; Pasquale Laganara, medico ostetricoginecologo; Vito Ventura, magistrato. Cfr. AEB, Atto costitutivo dell’Associazione “E.P.A.S.S. – Ente Promozionale di Assistenza Sociale e Sanitaria” e Statuto: denominazione – sede – scopo, Bisceglie, 7 fogli dattiloscritti, firmati dai soci fondatori, 20 marzo 1979. 149 Fino al 1986 Bisceglie è stata diocesi a sé, poi con decreto della Santa Sede fu accorpata con le diocesi di Trani e di Barletta, formando la diocesi unitaria di Trani-Barletta-Bisceglie. 150 Arcivescovo di Trani-Barletta-Bisceglie dal 28 Agosto 1971 al 15 gennaio 1990. 151 Tra le “Raccomandazioni e Voti” della XII assemblea generale dei Vescovi italiani del 2-7 giugno 1975, è presente l’invito a far sorgere in ogni diocesi o a livello interdiocesano, dei consultori familiari di ispirazione cristiana. Cfr. Cei, L’impegno per l’evangelizzazione del sacramento del matrimonio, Deliberazioni conclusive della XII assemblea generale, cit., n. 2237. 152 Mi sembra opportuno riportare la descrizione della nascita dell’E.P.A.S.S. così come è stata presentata nella pubblicazione celebrativa dei 10 anni di attività del consultorio familiare, perché permette di evidenziare come, già dalle sue origini, i soci fondatori avessero in mente un progetto ben definito e con obiettivi chiari e precisi per rispondere alla crisi che aveva colpito il matrimonio e la famiglia negli anni Settanta: Cinque “audaci” decidono di sottrarsi al valzer delle parole e delle pie intenzioni. La comune vocazione cristiana li esorta ad un impegno più concreto per la promozione del matrimonio e della famiglia nei mutati contesti socio-culturali. Dapprima operano in maniera informale, unendo competenza professionale a disponibilità; successivamente danno spessore giuridico ad un’azione di per sé promettente, visti i primi incoraggianti riscontri. Uno statuto, un notaio ed in mente un preciso progetto: dar vita al consultorio familiare. È il 20 marzo 1979: nasce l’E.P.A.S.S. E.P.A.S.S., 10: 1979-1989. Presenza, cit., p. 7. 153 Legge n. 405 del 29-07-1975. 154 Legge Regione Puglia n. 30 del 05-09-1977. 147 148 percorsi di studio 307 percorsi di studio 308 luglio 2010 - anno X medico e sanitario, ma il fine dell’attività consultoriale è la persona nella unitotalità fisicopsichico-spirituale e la famiglia.155 Il consultorio familiare E.P.A.S.S. si caratterizza come ente di ispirazione cristiana,156 in quanto i valori che animano l’attività consultoriale sono quelli del Vangelo coniugati con le fonti del magistero. Tale vocazione cristiana si esplica secondo questi orientamenti: attenzione all’uomo come “sacramento di Dio”157; condivisione da parte di tutti gli operatori di valori propriamente cristiani anche se non esplicitamente da tutti riconosciuti e professati per tali. Ne scaturisce pertanto un arricchimento reciproco, frutto di percorsi culturali diversi ma convergenti nella prassi; volontariato come scelta profondamente motivata in quanto la gratuità è un’opzione etica e culturale che permette di veicolare con più efficacia i valori della solidarietà e del servizio. Secondo questi orientamenti, l’ispirazione cristiana diventa motivo ed anima dell’operato e mai un fattore discriminante nei confronti dell’utente.158 Il contesto territoriale - Le concrete proposte operative, la scelta delle varie opzioni metodologiche e i risultati ottenuti dall’attività consultoriale, non sarebbero pienamente valutabili se non si tenesse conto del contesto sociale nel quale esso opera. Pertanto è necessario descrivere, attraverso i dati demografici, la composizione sociale della città di Bisceglie, per offrire un quadro di riferimento del bacino di utenza dei due consultori presenti in città: quello pubblico gestito dalla ASL e il consultorio E.P.A.S.S. Si riporta integralmente la spiegazione della sigla E.P.A.S.S.: ENTE: l’E.P.A.S.S. è una comunità di persone unite da una fondamentale coscienza di valori umani e cristiani, che si impegnano per “l’altro” secondo uno stile di servizio. PROMOZIONALE: promozione vuol essere una doppia azione di strutturazione ed emancipazione. Strutturazione come traduzione organica, organizzativa e istituzionale dei valori portanti, all’interno della città di cui ci si sente parte e responsabili: per cui i valori si traducono in strutture di servizio e di accesso. Emancipazione come rinnovato impegno per consentire a tutti più umane e umanizzanti possibilità di vita, con attenzione preferenziale ai più deboli. DI ASSISTENZA: assistere è farsi “prossimo” agli altri; assumere lo stile della presenza, della compresenza, nel superamento di ogni solidarietà divisoria e strumentale e nel perseguimento della cultura della giustizia e dell’amore. SOCIALE: la società è il campo della vita in cui ciascuno si rivela agli altri e interagisce. In essa si riproducono incessantemente possibilità e bisogni. Investire le prime e rispondere ai secondi è lo scopo operativo dell’Ente. Il che comporta attenzione ai segni dei tempi, spirito di discernimento, libertà autocritica, amore della vita, passione del possibile. SANITARIA: in senso non riduttivamente medico-organicistico ma integrale-personalistico. Si tratta della qualità della vita da veicolare culturalmente e da ricercare strutturalmente, come promozione della persona nella unitotalità fisico-psichico-spirituale e della famiglia e della comunità in cui la persona si auto realizza. Il che avviene secondo un’azione primariamente profilattica e solo secondariamente terapeutica. E.P.A.S.S., 10: 1979-1989. Presenza, cit., pp. 8-9. 156 Cfr. AEB, Statuto: denominazione – sede – scopo, articolo 3, Bisceglie, 7 fogli dattiloscritti, firmati dal presidente e dal notaio, 21 novembre 1988. 157 E.P.A.S.S., 10: 1979-1989. Presenza, cit., p. 10. 158 Cfr. Ibidem. 155 Lo studio e l’analisi attenta del tessuto sociale, economico e culturale per gli operatori del consultorio, cioè per chi si vuole mettere al servizio dell’uomo in un particolare contesto, è indispensabile ed è sottolineato anche dai vescovi, i quali affermano: “è richiesta al consultorio, oltre ad una spiccata sensibilità nei confronti dei mutamenti sociali e delle condizioni socio-ambientali riguardanti la famiglia, anche una capacità creativa e propositiva nell’individuare e organizzare la prevenzione”.159 La necessità di rispondere più incisivamente alle istanze del tessuto sociale e culturale biscegliese propone il consultorio familiare E.P.A.S.S. come “luogo di prevenzione dei bisogni e strumento privilegiato di promozione umana”.160 I dati demografici della città di Bisceglie161 descrivono una realtà sociale costituita da 54.276 abitanti, classificati per sesso secondo il grafico n. 1: Grafico 1. Popolazione residente suddivisa per sesso Proseguendo nella descrizione della comunità cittadina, nel grafico 2, viene rappresentata la distribuzione della popolazione residente secondo fasce d’età,162 in maniera tale da evidenziare il potenziale bacino d’utenza delle attività del consultorio familiare E.P.A.S.S. considerando tre aspetti: prevenzione, promozione e sostegno della famiglia. Cei, Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia, I consultori familiari, cit., n. 7. E.P.A.S.S., 10: 1979-1989. Presenza, cit., p. 15. 161 Estrapolati dall’Ufficio Anagrafe della città di Bisceglie. Aggiornati al 03 Novembre 2008. 162 I dati percentuali riportati in questo secondo grafico, sono calcolati facendo riferimento ad un totale di 52.670 abitanti e non ai 54.276 menzionati precedentemente. La differenza è di 1.606 abitanti. Questo perché il software dell’ufficio anagrafe del comune di Bisceglie aggiorna questo tipo di classificazione alla fine di ogni anno. Pertanto questi dati risalgono a Dicembre 2007. Cfr. Ufficio Anagrafe di Bisceglie, Grafico distribuzione della popolazione residente per età,1 foglio, 3 novembre 2008. 159 160 percorsi di studio 309 310 percorsi di studio luglio 2010 - anno X Grafico 2. Distribuzione della popolazioneper fasce d’età I dati percentuali riportati nel grafico n.2 evidenziano come l’attività di prevenzione svolta dal consultorio familiare circa le tematiche dell’educazione all’affettività e alla sessualità, del disagio e della devianza giovanile, che interessano principalmente la fascia adolescenziale, può contare su un bacino d’utenza del 7%,163 mentre l’attività di promozione della famiglia attraverso, per esempio, i corsi di preparazione al matrimonio o dei metodi naturali di regolazione della fertilità, interessa principalmente la fascia d’età che va dai 19 ai 30 anni, rappresentata dal 14% della popolazione.164 Infine le varie attività di sostegno alla famiglia attraverso consulenze, scuole di e per genitori, ecc., interessano le fasce d’età che vanno dai 31 ai 65 anni e rappresentano il 50% della popolazione.165 Un quadro complessivo circa la descrizione della realtà sociale di Bisceglie viene delineato attraverso la tabella n.1 e il grafico n.3 che rappresentano com’è suddivisa la popolazione residente in base allo stato civile. Tab.1 Popolazione residente suddivisa per stato civile166 Celibi/Nubili Coniugati Vedovi Già coniugati167 Uomini 12.173 13.977 553 148 Donne 10.640 14.076 2.492 217 Totale 22.813 28.053 3.045 365 Circa 3.600 cittadini. Circa 7.140 cittadini. 165 Circa 26.760 cittadini. 166 Cfr. Tabella popolazione residente suddivisa per sesso e stato civile, 1 foglio, 3 novembre 2008. (Ufficio Anagrafe di Bisceglie) 167 Si intendono i cittadini residenti che sono divorziati e risposati. 163 164 Grafico 3. Popolazione residente suddivisa per stato civile Facendo un confronto tra il grafico n. 2 in cui la popolazione residente fino ai 30 anni rappresenta il 34% della popolazione,168 e il grafico n. 3 in cui la percentuale di celibi e nubili è del 42%, si ha orientativamente l’indicazione che molti uomini e donne decidono di contrarre matrimonio in età superiore a 30 anni, segno che anche il tempo del fidanzamento, in molti casi, è aumentato. Tale trend è confermato anche dall’età dei nubendi che partecipano ai corsi prematrimoniali organizzati dal consultorio E.P.A.S.S: nel periodo 1985-1994, il 38% dei fidanzati era compreso nella fascia d’età tra 21-26 anni e l’1,35% erano i nubendi oltre i 45 anni;169 mentre nel periodo 2001-2007 si constata un aumento significativo dell’età dei fidanzati della fascia 27-32 anni che comprende il 45,40%, sia in quella oltre i 45 anni che si sostanzia del 4,29% dei nubendi. La tabella n. 2 riporta nel dettaglio i dati del periodo 2001-2007.170 Tab.2 Nubendi partecipanti ai corsi prematrimoniali E.P.A.S.S. dal 2001 al 2007171 Fasce d’età Minore di 20 anni 21-26 anni 27-32 anni 32-45 anni maggiore 45 anni Utenti in % 1,55% 25,44% 45,40% 23,33% 4,29% Circa 17.640 cittadini. Cfr. De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., p. 113. 170 AEB, Dati relativi ai nubendi partecipanti ai corsi prematrimoniali dal 2001 al 2007, 1 foglio manoscritto, estrapolati dall’archivio computerizzato dell’ente, firmato dalla responsabile al trattamento dei dati personali secondo l’ex. Art. 23 D.Lgs. 196/03. 171 Il numero totale dei partecipanti ai corsi prematrimoniali in questo periodo è di 1423 nubendi. 168 169 percorsi di studio 311 percorsi di studio 312 luglio 2010 - anno X Questo dato invita il consultorio familiare ad organizzare la propria attività di promozione della famiglia anche attraverso corsi per fidanzati non prossimi al matrimonio, per poter accompagnare ed aiutare le coppie a vivere questo percorso in maniera più attenta, puntuale e articolata e non limitato al tempo che precede immediatamente la celebrazione delle nozze, in maniera tale da valorizzare il fidanzamento come tempo di crescita, di responsabilità e di grazia.172 “È un tempo di formazione, momento privilegiato per vivere e crescere nella grazia. […] È un tempo carico della presenza di Dio, che chiama i giovani fidanzati a dare inizio ad una nuova tappa della loro vita, caratterizzata da un serio discernimento progettuale da fare in “due” in vista del progetto familiare da costruire insieme in modo stabile e definitivo nel matrimonio. […] È un tempo di responsabilità che si esprime nutrendo e potenziando il fidanzamento con un amore casto, attraverso la futura promozione di una sessualità umana al servizio dell’amore totale e fecondo, tipico della vita coniugale”.173 Per quanto riguarda la realtà socio-economica174 della città di Bisceglie, essa si muove lungo due sensi di marcia: il primo è rappresentato dal settore primario (agricoltura e pesca) che coesiste accanto a quello delle imprese artigianali e delle piccole e medie industrie (specialmente del settore tessile); il secondo riguarda l’area del pubblico impiego e dei servizi che beneficia della presenza di strutture pubbliche (Comune, Casa della Divina Provvidenza, Ospedale). Il prof. De Pinto sottolinea come la compresenza dei tre settori produttivi, richieda al consultorio prospettive operative di notevole ampiezza in quanto coesistono concezioni di vita diverse, ciascuna caratterizzata da schemi culturali e comportamentali ben individuabili. Per esempio la cultura contadina è chiusa e fedele ai valori della tradizione; la cultura artigiano-industriale è proiettata sul mercato ed è intenta a massimizzare i profitti; la cultura del terziario, pur essendo molto eterogenea al suo interno, è orientata a chiedere allo Stato sempre più servizi.175 Il tessuto sociale ed economico descritto, lascia trasparire una forte domanda di informazione e di formazione che la presenza dell’E.P.A.S.S. raccoglie, in modo da alimentare, in questo territorio, la speranza nella vita e sollecitando al protagonismo la famiglia. Cfr. Cei, Direttorio di pastorale familiare, Fondazione di Religione “Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena”, Roma, 1993, nn. 41-44. 173 Pichierri G.B., Fidanzamento preludio del matrimonio. Lettera ai fidanzati, Documenti pastorali dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie, n.13, Editrice Rotas, Barletta, 2005, pp.9-11. 174 Non essendo la professione un dato obbligatorio per l’ufficio anagrafe, ciò non permette di avere una stima precisa circa l’occupazione dei cittadini residenti in Bisceglie. Pertanto il dato che viene fornito è da ritenersi orientativo. 175 Cfr. De Pinto L., Il Consultorio familiare: centro che educa alla vita, in “Consultori Familiari Oggi” anno 5 n. 1, Roma, 1997, pp. 29-30. 172 2.2Accoglienza Il consultorio familiare E.P.A.S.S. ha fatto suoi ed ha accolto i bisogni e le richieste di aiuto del suo bacino di utenza ed ha cercato di redigere una risposta “chiara, incisiva e rigenerante, con le lettere cubitali della cultura della vita”.176 Tradotta in obiettivi, la risposta ha portato a configurare il consultorio familiare come “centro che educa alla vita”177, sia quella nascente che già nata, promuovendola in tutte le sue forme, in modo da accrescerla, valorizzarla e migliorare le sua qualità. Tale finalità è espressa in maniera chiara nello statuto costitutivo dell’ente,178 dove all’articolo 3 si dichiara che: “l’associazione, di ispirazione cristiana, ha lo scopo di prestare assistenza alla persona e alla famiglia, anche in formazione, promuovendone lo sviluppo dei valori morali e sociali. L’associazione è apartitica e non ha fini di lucro”.179 Per perseguire tale finalità, il consultorio E.P.A.S.S. si è organizzato e strutturato in modo tale da essere “sede di studio delle dinamiche familiari e osservatorio culturale della realtà territoriale”180 tramite la puntuale analisi delle tendenze evolutive, il rapporto con l’utenza e lo stretto legame con le altre istituzioni. In questo modo riesce a prevedere in anticipo i cambiamenti di modelli e costumi, in maniera tale da intuire le esigenze e prevenire i bisogni dell’utenza. De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., p. 101. Ibidem. 178 Lo statuto, redatto in conformità alle norme del Codice Civile, dopo aver indicato all’art. 3 le finalità dell’ente, prevede e disciplina: - l’assemblea sociale che è il massimo organo deliberativo (art. dal 14 al 18); - il consiglio direttivo, composto da tre a sette membri eletti dall’assemblea, è il massimo organo di gestione sociale (art. dall’ 8 al 13); - le regole di accesso e di esclusione dei soci dall’Associazione (art. 6 e 7); - la figura del presidente del consiglio direttivo, che ha la legale rappresentanza dell’Associazione nei confronti dei terzi e in giudizio, cura l’esecuzione delle delibere dell’assemblea sociale e del consiglio direttivo (art. 13). Lo statuto, nel corso del tempo, è stato modificato per essere adeguato alle maggiori attività intraprese dall’Associazione. Nell’archivio E.P.A.S.S. sono presenti gli statuti del 1979 e quello del 1988, resosi necessario in seguito alla donazione, da parte dell’Arcivescovo Giuseppe Carata, dei locali del piano seminterrato (circa 1200 mq) della Parrocchia di Santa Maria Madre della Misericordia, previo beneplacito del parroco don Giovanni Ricchiuti e del consiglio pastorale. Cfr. Atto di donazione del piano seminterrato della Parrocchia di Santa Maria Madre della Misericordia all’Associazione E.P.A.S.S., 4 fogli dattiloscritti, firmati dall’Arcivescovo Giuseppe Carata e dal notaio Ivo Bonito, Bisceglie, 4 novembre 1988 in Archivio Parrocchia Santa Maria Madre della Misericordia; e AEB, Statuto: denominazione – sede – scopo, Bisceglie, 7 fogli dattiloscritti, firmati dal presidente e dal notaio, 21 novembre 1988. 179 AEB, Statuto: denominazione – sede – scopo, articolo 3, Bisceglie, 7 fogli dattiloscritti, firmati dal presidente e dal notaio, 21 novembre 1988. 180 De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., p. 102. 176 177 percorsi di studio 313 percorsi di studio 314 luglio 2010 - anno X È un “laboratorio di promozione familiare”181 in cui si progettano e si sperimentano concreti itinerari didattici, tesi ad eliminare l’improvvisazione con cui la persona diventa prima partner nella relazione di coppia e successivamente genitore. Per far ciò è necessario coniugare esperienze e conoscenze per dar vita a proposte ed itinerari operativi in grado di favorire relazioni interpersonali e familiari più aperte e significative. Il consultorio E.P.A.S.S. è anche “centro di formazione per educatori e animatori di gruppo”182 poiché le competenze acquisite nella teoria e nella pratica dell’attività consultoriale diventano patrimonio elargito a favore della collettività, in particolare a chi esercita la funzione educativa si offrono cognizioni e indicazioni di metodo. Infine è strutturato in modo tale da fornire “servizio di assistenza”.183 Questo è il compito più immediato dell’intervento consultoriale poiché assicura sostegno psicologico e assistenza socio-sanitaria in casi di urgente necessità, con particolare attenzione verso le donne in gravidanza, ai giovani disadattati, alle coppie in difficoltà. Si è evidenziato come il campo d’azione del consultorio E.P.A.S.S. è articolato nella duplice prospettiva della consulenza e della prevenzione.184 La consulenza si inserisce nel contesto della relazione d’aiuto, cioè quel particolare modo di “relazione interpersonale in cui un soggetto chiede, in forma spesso indiretta e implicita, di essere aiutato a far chiarezza in sé, ad uscire da una situazione che avverte come ingovernabile e fortemente frustrante”.185 Il consulente è sollecitato a compiere le azioni dell’accogliere, ascoltare, conoscere, sostenere, aiutare il soggetto nel suo percorso di chiarificazione e di recupero della fiducia perduta. La prevenzione richiede tecniche e metodologie proprie delle scienze pedagogiche e sociali e concentra la sua attenzione su ciò che può produrre cambiamenti culturali a breve e medio termine. Pertanto un progetto si traduce in informazione, formazione, studio, promozione, lavoro di rete, inserimento sociale e integrazione.186 Si potrebbe concludere sottolineando come l’attività del consultorio familiare E.P.A.S.S. privilegi la dimensione socio-psico-pedagogica, rispetto a quella bio-medica, specie se quest’ultima è limitata al solo rapporto tra paziente e medico tra le mura asettiche di un ambulatorio. Al contrario, la dimensione bio-medica riacquista valore, senso e centralità Ibidem. De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., p. 102. 183 Ibidem. 184 Anche i vescovi italiani nel sussidio dedicato ai consultori familiari sottolineano questa duplice prospettiva: intendere i consultori in questo modo, significa dare spazio alla consulenza dei singoli, delle coppie e delle famiglie. Ma non basta. Taluni fenomeni sociali (instabilità coniugale, difficoltà nei rapporti genitori-figli, specialmente l’aborto) richiedono interventi di prevenzione, anzitutto con iniziative sul territorio di formazione e promozione. Cei, Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia, I consultori familiari, cit., n. 7. 185 De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., p. 102. 186 Cfr. Idem, p. 103. 181 182 operativa ogni qual volta essa si coniuga con le istanze psicologiche degli utenti, in modo tale da evitare di trascurare aspetti incidenti sulla condizione familiare e minorile. È in questo senso che il consultorio E.P.A.S.S. manifesta la sua accoglienza verso i bisogni dell’uomo e si propone come riferimento forte per la società. 2.3 Servizio Il servizio del consultorio familiare E.P.A.S.S. si realizza all’interno di alcune aree di intervento, proposte dalla legge-quadro e in stretto riferimento ai bisogni emersi dall’analisi della situazione di partenza. L’attività è realizzata da piccoli gruppi di lavoro, ciascuno tendente a specializzarsi nell’area di propria competenza, al fine di offrire un servizio più idoneo e più efficace. Per ciascuna area si descrivono obiettivi, attività e risultati ottenuti.187 Promozione della famiglia - Le finalità principali che il consultorio intende perseguire, circa la promozione della famiglia, riguardano la formazione di una comunità di persone, il servizio alla vita e la partecipazione allo sviluppo della società. Per perseguire tali obiettivi, il consultorio mette in atto le seguenti attività: corsi prematrimoniali costituiti da incontri formativi per fidanzati, in piccolo gruppo, che mirano a definire valori, contenuti, metodi e ambiti di impegno della coppia.188 Si organizzano percorsi formativi ed «inform-attivi» sulla genitorialità in una società che cambia;189 corsi di formazione e aggiornamento per famiglie affidatarie, consulenza in materia d’affido A causa dei problemi evidenziati nell’introduzione di questo lavoro di tesi, per le informazioni relative al decennio 1985-1994 si fa riferimento a: De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., pp. 103-113, e a: E.P.A.S.S., 10: 1979-1989. Presenza, cit., pp. 19-38; mentre quelle relative agli anni 2001-2007 sono ricavate dalle relazioni annuali che l’E.P.A.S.S. invia all’Assessorato alla Sanità della Regione Puglia. Un’altra lacuna è relativa ai dati del 2002, in quanto un allagamento ha distrutto l’archivio multimediale e gran parte di quello cartaceo. Il dato numerico, di volta in volta riportato, si riferisce soltanto all’utenza che abbia richiesto interventi di consulenza, debitamente registrati prima su schede anagrafiche e poi su supporti magnetici o che abbia partecipato a corsi formativi in loco, in cui è stato possibile documentare la presenza. Non è possibile, invece, far riferimento con precisione al numero dei partecipanti ai corsi seminariali o ad incontri/dibattito, realizzati in loco o all’esterno, in quanto la loro presenza non viene registrata. Tale dato non certificato è orientativamente quantificato intorno alle 300 utenze all’anno. Pertanto il dato numerico riferito nei grafici e nelle tabelle, va considerato come un’indicazione per difetto della prestazione offerta. 188 Il corso completo prevede dieci incontri di approfondimento sui vari aspetti della vita matrimoniale. Il programma del corso è il seguente: insieme per crescere; la comunicazione nella coppia; il linguaggio della sessualità; fecondazione e fecondità; i mezzi contraccettivi e i metodi di regolazione della fertilità; il cammino dell'amore; maschio o femmina? L'importante è che sia sano; rapporti personali e patrimoniali tra coniugi; affidamento e adozione: il ruolo dei consultori familiari oggi. Cfr. AEB, Programma del percorso di preparazione al Matrimonio, Bisceglie, un foglio, senza indicazione di data. 189 Si intendono le scuole di e per genitori, realizzate secondo la metodologia dell’animazione di gruppo in cui si esaminano le dinamiche evolutive dei fanciulli e degli adolescenti per acquisire conoscenze e abilità spendibili nel rapporto genitori-figli. 187 percorsi di studio 315 percorsi di studio 316 luglio 2010 - anno X familiare e di adozione; viene realizzata una collaborazione attiva con il consultorio ASL ed il Servizio di Igiene mentale di Bisceglie ed infine si organizzano incontri-dibattito su temi di interesse collettivo inerenti la tutela e promozione della famiglia. Circa i risultati ottenuti in questo ambito, nel decennio dal 1985 al 1994 sono stati organizzati 60 corsi prematrimoniali,190 6 scuole per genitori191 e si è promosso il gruppo operativo per l’affido familiare. Dal 2001 al 2007 si sono organizzati 35 corsi prematrimoniali animati dagli operatori, su argomenti connessi alla vita coniugale e familiare e 7 scuole per genitori alla quale hanno partecipato circa 330 persone. Si è curata la formazione dei componenti del gruppo delle famiglie affidatarie, con incontri bimensili. Dal 2004 al 2007 si sono curate circa 40 consulenze per l'adozione. Infine si è offerta consulenza familiare a 432 utenti.192 Servizi di medicina preventiva - Il consultorio familiare E.P.A.S.S. si muove principalmente verso due direzioni: quella della genetica e prevenzione dell’handicap e quella dell’educazione sanitaria. Per quanto riguarda la prevenzione dell’handicap gli obiettivi che si intendono perseguire riguardano l’individuazione del rischio tramite l'accertamento delle malattie e malformazioni,193 individuazione della popolazione a rischio e studio anamnesico dei soggetti e della coppia.194 Per quanto riguarda l’educazione sanitaria, l’attività è finalizzata a favorire l’informazione e la promozione di un corretto rapporto tra salute, ambiente e società ed a sviluppare la cultura della prevenzione dei tumori della mammella e dell’apparato genitale femminile. In questi campi, l’attività del consultorio familiare è intenta a sviluppare un’adeguata informazione nei confronti dei singoli ed eventualmente della coppia circa le varie malattie e malformazioni genetiche, favorisce la promozione e la consulenza terapeutica e offre assistenza etico-religiosa a cura del consulente etico. Viene offerto anche il servizio di visite ginecologiche, senologiche e pap-test. Nel corso dei trent’anni di servizio del consultorio, sono stati organizzati anche corsi per docenti e/o discenti sulle tematiche dell’educazione sanitaria.195 Per un totale di 1.200 ore di servizio e 3.021 partecipanti. Cfr. De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., p. 104. 191 Pari a 60 ore di servizio, per un totale di 180 partecipanti. Cfr. Ibidem. 192 Cfr. AEB, Relazioni sull’attività svolta dal 2001 al 2007, firmate dal direttore del consultorio. 193 Malattie causate da infezioni che colpiscono la madre durante la gravidanza come toxoplasmosi, cito-megalovirus, rosolia, ecc.; malattie generate da cause ambientali; malattie conseguenti anomalie cromosomiche; malattie derivate da pregressa infezione materna; malattie da alterazione del metabolismo su base ereditaria; malattie da alterazione ereditaria riguardante l’ematopoiesi ed infine altre generate da varie affezioni morbose. 194 Anamnesi accurata a partire dai singoli e dalla coppia e indagine fino ai genitori, collaterali, per quanto possibile in linea parentale orizzontale e verticale. 195 Le tematiche affrontate in questi corsi sono state le seguenti: fondamenti culturali dell’educazione sanitaria; igiene personale ed ambientale; igiene mentale: rapporti insegnante-alunno e criteri di valutazione comportamentale; prevenzione dei paramorfismi; educazione alle attività motorie. 190 Dai risultati ottenuti dal 1985 al 1994 emerge che 915 coppie di fidanzati hanno eseguito screening prematrimoniale o perinatale e negli anni 1993-1994 sono state sottoposte al pap-test 53 donne ed è stata effettuata la visita senologica a 100 donne.196 Negli anni 2001-2007, il servizio informativo circa le malformazioni e le malattie genetiche, è stato inserito all’interno dei corsi di preparazione al matrimonio, con successivo colloquio di anamnesi familiare e personale solo su richiesta della coppia. Pertanto non è possibile stabilire con precisione il numero degli screening prematrimoniali effettuati. Per quanto riguarda il servizio di prevenzione dei tumori, sono transitate presso l’ambulatorio 744 donne di età compresa tra i 22 e i 70 anni, di varia estrazione sociale e livello culturale per effettuare il pap-test. Sono stati effettuati prelievi eso ed endo-cervicali, che nella maggior parte dei casi hanno dato esito negativo. La visita senologica è stata effettuata a 1189 donne mediante palpazione della mammella. Sessuologia ed etica sessuale - L’intervento nel campo dell’educazione affettiva e sessuale, da parte del consultorio familiare, mira alla formazione ed informazione relativa alla fecondazione e alla fecondità, ai metodi di regolazione della fertilità, alla paternità e maternità responsabile, all’educazione socio-affettiva e sessuale. Le attività svolte dall’ente, si strutturano in: visite ginecologiche; corsi di educazione socio-affetiva e sessuale per gruppi di pre-adolescenti ed adolescenti, genitori, educatori e animatori di gruppo;197 corsi di studio sui metodi naturali di regolazione della fertilità;198 I servizi di pap-test e di visita senologica, hanno avuto inizio nel 1993. Ciascun corso, specifico per i singoli destinatari, è solitamente articolato in incontri di gruppo, a carattere seminariale, secondo il seguente programma: 1. I modelli culturali: il sesso come merce; 2. La sessualità umana: l’essere uomo, l’essere donna; 3. Anatomia e fisiologia della riproduzione umana; 4. Sessualità e fecondità: contraccezione, sterilità e sterilizzazione, aborto; 5. Sessualità e fecondità: metodi naturali, ingegneria genetica, ricerca fetale, amnioanalisi, inseminazione artificiale, fecondazione in vitro, embriotransfert; 6. Le malattie trasmesse sessualmente; 7. Le anomalie e le devianze sessuali; 8. La sessualità come valore della persona. Cfr. De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., p. 106. 198 Con questo termine vengono designati tutti quei metodi, cioè stili di vita sessuali, che si basano sull’alternarsi, nella donna, di periodi di naturale fertilità e periodi di naturale sterilità e sull’astensione dai rapporti durante i primi. Per la comprensione di questi metodi è importante precisare che dopo l’ovulazione l’ovulo può vivere, se non fecondato, non più di 12-24 ore, mentre gli spermatozoi, al di fuori del periodo ovulatorio, muoiono dopo poche ore dalla loro emissione; prima dell’ovulazione, invece, possono vivere anche fino a 4-5 giorni. Pertanto il periodo di fertilità nella donna è di circa una settimana (da alcuni giorni prima dell’ovulazione al giorno ad essa successivo). Oggi sono principalmente tre i metodi naturali utilizzati: Il metodo della temperatura basale, il metodo Billings e il metodo sintotermico. Metodo della temperatura basale: l’ovulazione è preceduta da un aumento della temperatura corporea di alcuni decimi di grado. Pertanto, misurando ogni giorno la propria temperatura interna, 196 197 percorsi di studio 317 percorsi di studio 318 luglio 2010 - anno X consulenza ginecologica; consulenza in materia di paternità e maternità responsabili; e corsi di formazione per consultori in educazione socio-affettiva e sessuale; consulenza inerente ai problemi etici, connessi alla sessualità. la donna può sapere se e quando ha ovulato. Dopo alcuni giorni di temperatura «bassa» (in genere al di sotto dei 37°), questa di innalza di almeno 5 decimi di grado, mantenendosi elevata fino alla mestruazione successiva. Dal quarto giorno di temperatura elevata (1 di avvenuta ovulazione + 1 relativo alle 24 ore di vita ovulare + 1 di «sicurezza») fino alla mestruazione successiva, la donna è certamente in un periodo sterile e può avere rapporti senza rischio di gravidanza. Metodo Billings: nel collo dell’utero vi sono alcune ghiandole che secernono una sostanza detta «muco cervicale», il cui aspetto varia nelle diverse fasi del ciclo. In alcuni giorni, questo muco è denso, opaco, appiccicaticcio, colloso. In altri, invece, è limpido, trasparente, filante. Il primo tipo, non permette la sopravvivenza degli spermatozoi, a differenza del secondo. Pertanto il primo viene definito «muco non fertile»; il secondo come «muco fertile». In un normale ciclo mestruale, subito dopo la mestruazione, si ha in genere una sensazione di perfetta asciuttezza. Dopo alcuni giorni, tale tipo di muco non fertile si fluidifica trasformandosi in muco fertile. Tale fluidità raggiunge un picco di massima intensità, dopodiché scompare e torna ed essere di tipo non fertile. Qualora la coppia voglia evitare una gravidanza, deve sospendere i rapporti non appena la donna nota la comparsa di muco; può riprendere i rapporti dopo tre giorni dal picco e può averli liberamente fino alla mestruazione successiva senza limitazioni temporali; può avere rapporti nei giorni asciutti che seguono la mestruazione, ma solo alla sera (tempo in cui la donna può essere sicura di non aver avuto muco tutto il giorno) e mai per due sere consecutive (poiché il liquido seminale residuo potrebbe mascherare l’iniziale presenza di muco). Cfr. Leone S., Etica della vita affettiva, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna, 2006, pp. 248-250. Il metodo sintotermico (tra i vari metodi naturali è quello che viene insegnato dai docenti del consultorio familiare E.P.A.S.S.): questo metodo si basa sull’osservazione combinata di diversi sintomi della fertilità: il muco cervicale, la temperatura basale, la cervice uterina ed i sintomi minori. La donna attraverso l’osservazione di più segni e sintomi registrati tutti i giorni su un’apposita scheda, può individuare il tempo fertile e il tempo non fertile che si alternano nel ciclo femminile. Questo metodo permette alla donna di disporre di più elementi da confrontare per identificare la fase fertile e non fertile. Il periodo fertile inizia il giorno in cui compare il muco cervicale sui genitali esterni o in cui la donna senta il muco anche prima che si manifesti all’esterno; nello stesso momento sono ravvisabili anche le prime modificazioni della cervice uterina. Nei giorni successivi, il muco e la cervice uterina, subiscono delle modificazioni graduali fino a raggiungere un quadro di piena fertilità. Il giorno di massima fertilità viene chiamato “giorno del picco”: con questo termine si indica l’ultimo giorno con presenza di muco con caratteristiche di fertilità (cioè trasparente, filante ed elastico) e/o con una sensazione di lubrificato o bagnato a livello vulvare. La donna può individuare bene il picco del muco perché è facile avvertire un netto cambiamento delle sue caratteristiche rispetto a quelle osservate nei giorni precedenti. La temperatura basale misurata dalla donna in questo periodo fino al giorno del picco si presenta con un andamento basso. La fine della fertilità viene individuata dopo 3 giorni di temperatura alta, successivi al giorno del picco: la temperatura si innalza di qualche decimo di grado, e rimane alta fino al giorno in cui compare la mestruazione successiva; la cervice uterina si rimodifica rispetto alla fase precedente e il muco cervicale scompare o si riduce notevolmente. Cfr. Confederazione Italiana dei Centri per la Regolazione Naturale della Fertilità, Un amore così, mi piace. I metodi naturali: un’opportunità da scoprire e vivere, a cura di Pezzini P. e Grandi S., San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 2004, pp. 29-30. In questo ambito, negli anni 1985-1994, sono stati attivati 22 corsi di educazione all’affettività e alla sessualità, pari a 264 ore di servizio, per un totale di 605 partecipanti. Si sono progettati e animati 2 corsi di aggiornamento su “La didattica dell’educazione all’affettività”199 per docenti di scuola media inferiore, pari a 80 ore di servizio e per un totale di 180 partecipanti. Si è organizzato un seminario di studio sui metodi di regolazione della fertilità, pari a 32 ore di servizio, per un totale di 16 partecipanti e un corso di informazione sull’A.I.D.S. per 19 partecipanti. Infine si è prestata consulenza ginecologica a 87 donne. Dal 2001 al 2007 è stata offerta consulenza sui metodi naturali di regolazione della fertilità a 132 utenti. Si sono organizzati corsi di educazione all’affettività e alla sessualità per gruppi di adolescenti e giovani di comunità parrocchiali diocesane. La consulenza e l’informazione in materia di paternità e maternità responsabili è stata offerta a 2.073 utenti. Il servizio di visita ginecologica è stato reso a 476 donne. Disagio giovanile - L’attività del consultorio familiare in questo ambito, è finalizzata a fornire indicazioni, chiarimenti, informazioni, orientamenti ai giovani in difficoltà e alle loro famiglie. Il consultorio E.P.A.S.S. è organizzato per fornire accoglienza e ascolto dei giovani in fase di devianza acuta; offre un servizio di terapia sistemico-relazionale familiare tesa a modificare comportamenti che inducano a situazioni di devianza; lavora in sinergia con comunità di accoglienza e/o terapeutiche per l’inserimento di soggetti idonei ed infine offre consulenza di supporto al lavoro di prevenzione del disagio e della tossicodipendenza dei centri operativi territoriali;200 ed infine offre consulenze psicologiche e sociali. De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., p. 106. Presso l’ente E.P.A.S.S., nel corso dei trent’anni di presenza nel territorio biscegliese, si sono realizzati vari progetti di prevenzione del disagio giovanile e recupero dei tossicodipendenti. Nella seconda metà degli anni ottanta, il consultorio familiare era di supporto al lavoro del centro giovanile “Metropolis”. Tale centro operava per prevenire il disagio sociale tra i giovani e gli adolescenti, proponendo uso alternativo del tempo libero attraverso occasioni di aggregazione e di socializzazione, processi di formazione della personalità, potenziando capacità e doti relazionali secondo progetti di apertura ad altri, impiego del tempo libero in attività o «centri di interesse», capaci di sviluppare la creatività e assecondare armonicamente la crescita psicomotoria, preparazione e avvio al mondo del lavoro. Le principali iniziative, realizzate nei centri di interesse furono: workshop-teatro sul lavoro dell’attore, concerto di musica rock con la presenza di gruppi composti da giovani biscegliesi, corsi di teoria musicale, cicli di ascolto musicale di autori contemporanei, corsi di tennis, giochi senza frontiere, «palla al centro»: incontri con i protagonisti della domenica calcistica biscegliese con l’intento di evidenziare legami tra sport, cultura e società, corsi di economia, animazione del tempo libero per i bambini del quartiere Salnitro, concorsi di poesia, corso base di primo soccorso. Cfr. E.P.A.S.S., 10: 1979-1989. Presenza, cit., pp. 35-49. Dagli anni novanta fino al duemila, presso l’E.P.A.S.S. si è realizzato il “Progetto P.O.R.T.A.” (Prevenzione, Orientamento, Recupero dei Tossicodipendenti e Ascolto) in conformità con quanto previsto dalla legge per la lotta alla droga, n. 162 del 26 giugno 1990. Questo progetto puntava 199 200 percorsi di studio 319 percorsi di studio 320 luglio 2010 - anno X Negli anni 1985-1994, si è data assistenza psicologica e sociale a 27 tossicodipendenti e alle loro famiglie. Mentre dal 2001 al 2007, si sono effettuate 109 consulente riguardanti i problemi dell’adolescenza e 4 consulenze a tossicodipendenti. Tutela della salute peri-neonatale e dell’infanzia - La lotta all’abuso dell’infanzia,201 la prevenzione della malattia perinatale e infantile, l’assistenza socio-sanitaria in ordine allo sviluppo fisico, psichico e sociale, all’igiene e alla dietetica; sono i principali obiettivi del consultorio in questo ambito. L’attività si articola in consulenza pediatrica; corso di puericultura, consulenza psicologica, visite domiciliari, individuazione delle forme di abuso dell’infanzia presenti sul territorio a livello di famiglia, scuola, gruppi di appartenenza, società e progettazione di proposte educative alternative. In questo ambito si sono attivati 2 corsi di puericultura pari a 20 ore di servizio, per un totale di 28 partecipanti, si sono attivati 2 corsi di psicoprofilassi del parto con la partecipazione di 16 utenti. Si sono animati incontri-dibattito sul tema della lotta all’abuso dell’infanzia con la partecipazione di 500 soggetti. essenzialmente su tre azioni: culturale (valorizzare i minori non in quanto soggetti destinatari di servizi, ma in quanto soggetti attivi del processo della costruzione di sé e del mondo circostante e a trasferire ai minori la fiducia in sé e nelle proprie risorse), sociale (eguagliare le condizioni di partenza dei minori, in relazione alla loro crescita e benessere psico-fisico e relazionale. Valore fondamentale di ogni azione di prevenzione primaria è l’integrazione di soggetti provenienti da contesti sociali e culturali diversificati), educativo (costruire una forma di sostegno e di aiuto alla funzione educativa genitoriale e scolastica, tendente sempre alla crescita e al benessere del minore). Il progetto si è realizzato attraverso quattro tipologie di attività: ludoteca “Ludolandia”; centro diurno socio-educativo “Metrojunior”; ludo bus itinerante “Sotto questo sole”; supervisione, ascolto e mediazione. Cfr. AEB, Progetto P.O.R.T.A. annualità 2000, Bisceglie, 7 fogli firmati dal direttore del progetto e dal presidente dell’ente, 17 gennaio 2000. Dal febbraio 2007, l’E.P.A.S.S. sta collaborando con l’Associazione Comunità Oasi 2 di Trani, nella realizzazione del progetto SHARE, finanziato dall’Assessorato alla Sanità della Regione Puglia. Tale progetto si propone come una iniziativa di prevenzione primaria del disagio giovanile, con una modalità diversa rispetto ai progetti realizzati nel passato. Infatti l’operatività concreta è strutturata in base ai cambiamenti del mondo giovanile, ritenendo ormai superata l’idea di un centro di aggregazione giovanile classicamente inteso. Quindi tale progetto si struttura nella direzione di un centro di aggregazione giovanile “esploso” con laboratori e attività nel centro (presso la sede dell’E.P.A.S.S.) e presso diversi luoghi di aggregazione e socializzazione giovanile (scuola, parrocchia, associazioni, luoghi di incontro nel tempo libero, ecc.). La prima parte del progetto (febbario 2007-febbraio 2008)è stata caratterizzata da una serie di interventi all’interno delle scuole con percorsi di educazione socio-affettiva. Cfr. AEB, Progetto SHARE, relazione annuale febbraio 2007-febbraio 2008, Bisceglie, 17 fogli firmati dal direttore del progetto, senza indicazione di data. 201 Per abuso dell’infanzia s’intende ogni atto o inazione, deputato a singoli, gruppi e istituzioni, che impediscono la reale promozione del bambino. De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., p. 106. Disadattamento psicologico - Il consultorio familiare si propone di fornire sostegno psicologico alle situazioni di disadattamento individuale e familiare.202 L’attività che viene svolta ruota attorno alla consulenza e al sostegno psicologico. Negli anni 1985-1994 è stata prestata consulenza psicologica a 227 soggetti, incontrati più volte. Mentre dal 2001 al 2007 si è prestata consulenza a 276 soggetti in situazione di particolare disagio individuale e familiare. Indagini conoscitive sul territorio - I mutamenti della società e l’attenzione ai bisogni dell’uomo inserito in un particolare contesto culturale e sociale, invitano il consultorio familiare ad analizzare il territorio individuando le principali dinamiche familiari. Questa attività si svolge attraverso la raccolta, classificazione, tabulazione dei dati e degli indici demografici, mediante definizione dei trends evolutivi e dei bisogni sottesi e anche effettuando un censimento delle unità di servizio alla famiglia. Nel corso degli anni di servizio del consultorio, periodicamente vengono raccolti, codificati e classificati e tabulati gli indici demografici relativi alla popolazione biscegliese. Diritto di famiglia - Il consultorio familiare sostiene anche le coppie dal punto di vista giuridico, fornendo informazioni relative al diritto di famiglia attraverso la consulenza legale. Nel corso degli anni si è prestata consulenza e assistenza giuridica in materia di affido e di adozione, di separazione e di conflittualità nella coppia. Formazione continua degli operatori - Periodicamente il consultorio familiare E.P.A.S.S. cura la formazione dei nuovi operatori della prima accoglienza. Nel 2001 e nel 2007 si è organizzato ed avviato un corso di formazione di 2° livello, articolato ciascuno in 6 incontri teorici, pari a 12 ore e da un periodo di tirocinio pari a 30 ore con supervisione dell’attività. Hanno partecipato attivamente 52 volontari. Attività del consultorio in cifre - Si propone qui di seguito la tabella ed il grafico relativi alle varie tipologie di consulenze svolte dal 2001 al 2007,203 per evidenziare sia lo sviluppo nel tempo delle varie attività, ma anche quale tipologia di intervento viene richiesto maggiormente. Ciò può rappresentare anche un indice di riferimento circa il bisogno dell’utenza. In particolare i disagi psicologici di origine ansiosa, i disturbi della comunicazione interpersonale, i disturbi dell’inserimento dell’individuo nel gruppo sociale. Il sostegno ha lo scopo di aiutare il soggetto ad analizzare la propria situazione e ad elaborare le strategie idonee ad avviare un cammino risolutivo. Cfr. AEB, Relazioni sull’attività svolta dal 2001 al 2007, firmate dal direttore del consultorio. 203 Si ricorda che non vengono riportati i dati del 2002 perché per motivi logistici sono andati tutti persi. 202 percorsi di studio 321 luglio 2010 - anno X Cons. affido e adozioni Cons. prob. adol. 15 66 35 314 0 0 0 2003 65 11 57 26 50 30 498 0 0 20 2004 131 18 110 43 47 24 338 0 10 88 2005 209 151 130 52 68 17 273 1 14 1 2006 216 120 104 60 89 14 304 1 12 0 2007 144 135 121 80 112 12 346 2 4 0 Totale 1189 476 744 276 432 132 2073 4 40 109 Cons. toss. Inf. Procr. resp. 222 Cons. fam. 41 Cons. psicol. 424 Pap-test 2001 Ginec. Ins. metodi naturali Tab. 3 Tipologie di intervento dal 2001 al 2007204 Senol. percorsi di studio 322 Dalla tabella emerge che l’intervento consultoriale che impegna maggiormente l’E.P.A.S.S. è rappresentato dall’informazione sulla procreazione responsabile, mentre sono numerosi, e con un leggero incremento negli anni, gli interventi di medicina preventiva del pap-test e della visita senologica.205 Interessante è il dato che riguarda le visite ginecologiche perche si è avuto un significativo incremento negli ultimi tre anni, dal 2005 al 2007. Per quanto riguarda invece l’area delle consulenze, gran parte di tale attività si focalizza attorno a quelle familiari che, dal 2001 al 2007, sono quasi raddoppiate. Mentre per quanto riguarda quelle psicologiche, si attesta un notevole aumento nel corso di questi anni, infatti si è passati dalle 15 consulenze del 2001 alle 80 del 2007. Infine un leggero calo si è avuto nelle consulenze circa i metodi naturali di regolazione della fertilità, infatti rispetto al 2001 il numero degli utenti si è più che dimezzato. Il grafico n. 4 evidenzia l’andamento degli interventi realizzati dal consultorio, negli anni 2001-2007. In questa tabella il numero dei nubendi che ogni anno partecipa ai corsi prematrimoniali rientra nella voce: «Informazione procreazione responsabile». Mentre non sono indicati i partecipanti ai vari convegni, seminari o attività svolte fuori sede presso scuole, parrocchie, associazioni, ecc. di cui non è possibile certificare la partecipazione. 205 Si può notare nel grafico un picco maggiore di questi interventi nel 2001. Ciò è dovuto al fatto che negli anni successivi, la sanità pubblica ha incentivato maggiormente la possibilità di usufruire di queste analisi presso gli ospedali civili. Pertanto, il consultorio nell’ottica di una maggiore collaborazione con le varie strutture sanitarie presenti nel territorio, ha indirizzato molti utenti presso gli ambulatori dei nosocomi pubblici. 204 Grafico 4. Tipologie di intervento dal 2001 al 2007 L’utenza - I dati generali,206 riprodotti nelle tabelle e nei grafici, documentano il servizio reso, per la sola area della consulenza, a 4177 utenti dal 1985 al 1994 e a 4405 utenti negli anni dal 2001 al 2007. A questo dato, vanno sommati i partecipanti ad altre attività relative ad incontri a carattere seminariale e laboratoriale di prevenzione, promossi dal consultorio, anche presso sedi decentrate (scuole, parrocchie, associazioni culturali, club), rientranti nell’attività di prevenzione e di promozione della famiglia.207 Come per i dati relativi alle attività realizzate dal consultorio, anche in questo caso, per i dati circa l’utenza nel periodo 1985-1994 ci si riferisce a: E.P.A.S.S., 10: 1979-1989. Presenza, cit., pp. 19-38; e a De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., pp. 112-113; mentre quelli relativi agli anni 2001-2007 sono ricavati dalle relazioni annuali che l’E.P.A.S.S. invia all’Assessorato alla Sanità della Regione Puglia. 207 Sono da considerare significative le attività realizzate a favore degli animatori e dei gruppi organizzati di pastorale. Più volte l’équipe del consultorio E.P.A.S.S. è stata chiamata ad offrire la propria competenza scientifico-professionale all’animazione dei campi scuola di Azione Cattolica, nella formazione dei catechisti, dei gruppi di adolescenti, dei gruppi famiglia dell’intero territorio dell’Arcidiocesi. Spesso alle esperienze di gruppo sono seguiti, come naturale conseguenza, inter206 percorsi di studio 323 percorsi di studio 324 luglio 2010 - anno X Il grafico n. 5 registra la prevalenza della componente femminile su quella maschile in entrambi i periodi presi in considerazione. La prevalenza della componente femminile è data soprattutto dall’aumento dei servizi consultoriali destinati prevalentemente alla donna.208 Grafico 5. Utenti registrati dal 1985 al 1994 e dal 2001 al 2007 Negli anni 1985-1994 è sovrarappresentata la fascia d’età compresa tra i 21 e i 26 anni, mentre nell’ultimo periodo, cioè dal 2001 al 2007, si evidenzia un aumento nelle fasce più adulte. Infatti un notevole incremento si registra nella fascia compresa tra 27 e 32 anni, in cui si è passati dal 13% al 34,02%, e anche nella fascia oltre i 32 anni si è avuto un aumento dal 5,8% al 48,49%. Il grafico n.6 evidenzia questo trend appena descritto. Altro parametro da prendere in considerazione riguarda il tasso di scolarità. Negli anni 1985-1994, quello prevalente corrisponde al conseguimento del ciclo dell’obbligo209 (71,4%), mentre negli anni 2001-2007 si registra un significativo aumento della percentuale riguardante i soggetti con diploma di scuola superiore (34,14%). Quest’ultimo dato, sommato a quello relativo ai laureati (7,01%), documenta la presenza dei soggetti maggiormente acculturati e l’accresciuta capacità del consultorio di proporsi come struttura di servizio anche per una fascia di popolazione particolarmente esigente e culturalmente preparata. venti più propriamente di consulenza per la soluzione di casi di disagio individuale e familiare. Vanno citate anche le iniziative realizzate di comune accordo con l’Azione Cattolica diocesana e la Commissione per la pastorale della famiglia e della vita, per celebrare alcuni momenti significativi della vita della Chiesa come le Giornate della Pace e le Giornate della Vita. Cfr. De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., p. 113. 208 Profilassi al parto, Pap-test, visite senologiche e ginecologiche. 209 Corrispondente alla licenza elementare e media inferiore. Grafico 6. Utenti classificati per fasce d’età: confronto 1985-1994 e 2001-2007 Il grafico n. 7 evidenzia questo cambiamento circa il tasso di scolarità nel due periodi che si stanno considerando. Grafico 7. Utenti classificati secondo il titolo di studio: confronto 1985-1994 e 2001-2007 La classificazione per stato civile, dal 2001 al 2007, evidenzia una prevalenza di utenti coniugati e celibi o nubili.210 210 Tale dato consente di sottolineare come il consultorio familiare E.P.A.S.S. sostanzia la maggior parte della propria azione nell’ottica della prevenzione. Questo perché molti degli utenti celibi o nubili sono quelli che partecipano ai corsi di preparazione al matrimonio, mentre gran parte percorsi di studio 325 percorsi di studio 326 luglio 2010 - anno X Grafico 8. Stato civile degli utenti registrati dal 2001 al 2007 Il grafico n. 9, è relativo ai soggetti classificati secondo il tipo di utenza. Emerge in maniera evidente una prevalenza per l’utenza di coppia, pari al 54,6%, e l’utenza per la donna del 34,76%. Grafico 9. Soggetti classificati secondo il tipo di utenza degli utenti coniugati sono coloro che richiedono una consulenza finalizzata a sperimentare tutte le possibilità di sostegno e di mediazione dei conflitti di coppia. Proseguendo nell’analisi circa l’utenza del consultorio familiare E.P.A.S.S., la classificazione per professione presenta una distribuzione ampia e variegata, con alcune differenze tra i periodi che si stanno analizzando. Nel 1985-1994 è prevalente il settore terziario,211 mentre nel periodo 2001-2007 le casalinghe costituiscono il 39,06% degli utenti, a motivo dei servizi del consultorio esclusivamente riservati alle donne. Si registra in questo secondo periodo un crescente interesse suscitato dalle iniziative del consultorio presso i ceti medio-alti della popolazione, infatti rispetto al 1985-1994 in cui imprenditori, docenti e dirigenti non erano inseriti tra le professioni degli utenti del consultorio, nel 2001-2007 costituiscono il 5,65% dei soggetti che usufruiscono di un servizio. Tali considerazioni si possono dedurre dal grafico n. 10. Grafico 10. Utenti classificati secondo attività o professione Per concludere la descrizione dell’utenza del consultorio familiare E.P.A.S.S., è necessario soffermarsi a sottolineare le tipologie di problematiche evidenziate nelle consulenze familiari e di coppia.212 Dal grafico n. 11 emerge che la problematica principale è costituita dalla difficoltà di comunicazione all’interno della coppia. Altre problematiche significative, come evidenzia 211 212 Impiegati, operai e commercianti costituiscono il 49,4% dell’utenza. Ci si riferisce ai dati presentati nel 2007 dal direttore del consultorio, il dott. Antonio Di Gioia, in occasione del convegno promosso dall’ente, dal titolo: La coppia tra crisi ed opportunità. percorsi di studio 327 percorsi di studio 328 luglio 2010 - anno X il grafico n. 11, sono il disimpegno e la mancata condivisione, l’infedeltà coniugale, gli abusi e le violenze intrafamiliari e i disagi della sfera sessuale.213 Grafico 11. Tipologia di problematiche Infine l’ultimo dato circa l’utenza è quello relativo alla residenza dei soggetti che richiedono una consulenza di coppia.214 Il grafico n. 12 sottolinea come l’E.P.A.S.S., oltre ad essere un punto di riferimento per la popolazione residente a Bisceglie, lo è anche per un numero significativo di soggetti residenti nel territorio dell’Arcidiocesi. Grafico 12. Residenza degli utenti che hanno usufruito di una consulenza di coppia Tali dati riguardano solo gli anni dal 2004 al 2006. Anche per questo dato ci si riferisce al convegno: La coppia tra crisi ed opportunità. 213 214 In riferimento alla dimensione religiosa, i dati riportati nelle relazioni dell’ente non riportano alcuna indicazione. Il prof. De Pinto, nel suo studio relativo all’attività del consultorio nel decennio 1985-1994, sottolinea che in media l’utente: “è credente, non sempre praticante e quasi sempre poco inserito nel tessuto della vita parrocchiale. Sostanzia la propria fede di contenuti tradizionali e di pratiche religiose di tipo ritualistico-popolare, è attento alle indicazioni dogmatiche del magistero ma respinge o trova difficoltà ad accettare le norme in materia di etica sessuale coniugale”.215 I dati sin qui riportati, evidenziano come il consultorio familiare E.P.A.S.S. è un sicuro punto di riferimento per i ceti culturalmente più bassi e più deboli della famiglia e della società, come è attestato dalla richiesta costante di consulenza da parte e a favore di bambini e adolescenti. Tuttavia si sta affermando sempre più incisivamente nel tessuto sociale medio alto e con soggetti maggiormente scolarizzati come sede di confronto e di approfondimento specializzato in materia di educazione familiare. Gli operatori e le modalità di conduzione del servizio - La configurazione del consultorio familiare come centro educativo, richiede oltre ad una équipe stabile, anche una serie di consulenti specializzati nelle varie aree: medica, psicologica, legale, etica e di consulenza familiare.216 Figura centrale e cardine operativo è il consulente familiare, impegnato nell’accoglienza, nell’individuazione dei bisogni dell’utente, nella presentazione dei singoli casi al consulente specialista e all’équipe per la discussione e soluzione interdisciplinare. Si può definire come “operatore perno”217 sul quale ruota tutta l’attività di consulenza: è il primo ad affrontare il caso e ad orientarlo verso una soluzione. Assicura una presenza continua nella struttura. Il consulente specialista (medico, psicologo, consulente etico, avvocato), fornisce prestazioni dietro esplicita richiesta del consulente familiare, su appuntamento. Il consulente formatore funge da elaboratore e/o esecutore di piani educativi. Con particolare riferimento alle aree prescelte, analizza i fenomeni, promuove indagini, interpreta i dati, predispone gli interventi soprattutto in termini di prevenzione del bisogno. Il compito di ancorare puntualmente gli interventi degli operatori e i progetti formativi ai valori e alle responsabilità dell’ispirazione cristiana è svolto dal consulente etico. La sua presenza è garanzia per il soggetto-utente e sostegno per gli operatori: l’uno si sente aiutato nel riconoscere il valore morale come premessa per la maturazione della propria De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., p. 113. Nella relazione annuale del consultorio familiare del 2007, l’organico del consultorio consta di 4 medici (1 generico, 2 ginecologi e 1 oncologo), 11 psicologi (di cui 4 anche psicoterapeuti), 4 consulenti familiari, 2 consulenti etici, 2 avvocati, 1 assistente sociale e 5 operatori per la prima accoglienza. Cfr. AEB, Relazione sull’attività svolta nel 2007, Bisceglie, 8 fogli firmati dal direttore del consultorio, 29 febbraio 2008. 217 De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., p. 109. 215 216 percorsi di studio 329 percorsi di studio 330 luglio 2010 - anno X libertà responsabile, gli altri sono sollecitati a scorgere i limiti delle proprie competenze disciplinari e a considerare la rilevanza della dimensione etica in ogni problema umano.218 Resta fondamentale l’attività di aggiornamento sia dei singoli operatori che dell’équipe nel suo complesso. Lo richiedono la deontologia professionale, il rispetto ai soggetti di servizio, l’attenzione ai continui mutamenti socio-culturali, l’impegno a servire l’uomo nella verità. In tal senso il consultorio organizza periodicamente incontri e stages di formazione e di verifica del lavoro svolto, sentendo il bisogno di riesaminare la propria azione alla luce dei valori ispiratori. La funzionalità del servizio reso dal consultorio, dipende dalla circolazione e dell’integrazione delle rispettive competenze all’interno dei gruppi di lavoro, strutturati per aree, della équipe stabile219 e dalla équipe allargata,220 nonché dal legame logico e cronologico tra le fasi di studio, di progettazione, di esecuzione e verifica dei piani elaborati. A ciascun livello operativo è richiesto l’uso del metodo interdisciplinare.221 Pur riconoscendo autonomia programmatica in materia di contenuti, attività e tempi di realizzazione, il direttore responsabile dell’équipe coordina e periodicamente convoca l’intero staff per verificare che i piani particolari siano stati consoni agli indirizzi generali.222 In quanto al metodo si mira al ripristino della capacità decisionali della persona223 e si esclude l’indottrinamento; si enfatizza il fine della consultazione più della diagnosi e si ricerca il raccordo di rete tra servizi del territorio e utenti. Rapporti del consultorio familiare E.P.A.S.S. con il territorio - Se la famiglia è il referente privilegiato del lavoro consultoriale, il territorio è il contesto indispensabile e irrinunciabile all’interno del quale va pensato, realizzato e verificato l’intervento, esso è lo sfondo su cui si colloca qualunque progetto di aiuto, sostegno e formazione. Ciò comporta la necessità di raccordarsi con le altre istituzioni di base del territorio, oltre alla già ricordata esigenza di analizzare la situazione di partenza e di individuare i bisogni, di scegliere opportunamente strumenti, modalità e tempi di esecuzione. A tal fine, come sottolineato dal prof. De Pinto, il consultorio si pone come: Cfr. De Pinto L., Il Consultorio familiare: centro che educa, cit., p. 35. L’équipe stabile è formata da psicologo, medico e consulente familiare. Cfr. AEB, Relazione sull’attività svolta nel 2007, Bisceglie, 8 fogli firmati dal direttore del consultorio, 29 febbraio 2008. 220 L’équipe allargata è costituita dai componenti dell’équipe stabile e da quelli delle singole aree d’intervento. 221 Riunioni periodiche che garantiscono la circolazione delle rispettive competenze e verificano l’operato all’interno dei gruppi di lavoro, strutturati per aree. Cfr. E.P.A.S.S., 10: 1979-1989. Presenza, cit., p. 25. 222 Cfr. De Pinto L., Il Consultorio familiare: centro che educa, cit., p. 35. 223 Metodo non direttivo, ma bidirezionale: dal soggetto-utente al consulente e viceversa. Cfr. De Pinto L., Il Consultorio familiare: centro che educa, cit., p. 35. 218 219 “punto di mediazione e strumento di integrazione tra famiglia e territorio, abilitato soprattutto nel lavoro di drenaggio delle risorse socio-economiche e istituzionali a favore della famiglia”.224 Rientra nei compiti del consultorio sollecitare l’interesse e l’intervento dei vari servizi sociali verso la famiglia ed educare quest’ultima ad una partecipazione più attiva e responsabile alla vita civile, perché gli organismi decisionali possano orientarsi a favorire una politica di autentica promozione del bene-famiglia. In tal senso, il consultorio E.P.A.S.S. ha contribuito a realizzare un lavoro di rete tra le varie associazioni e cooperative del privato sociale, presenti ed operanti sul territorio, e le istituzioni pubbliche. Un importante risultato ottenuto da questo lavoro di rete è stato la costituzione, agli inizi degli anni ’90, di una consulta cittadina dei soggetti che si occupano di interventi socio-assistenziali a favore della famiglia, della coppia e dei singoli.225 Una particolare collaborazione si è realizzata con il consultorio gestito direttamente dalla ASL nella città di Bisceglie; al fine sia di una intelligente economia di risorse, sia per testimoniare in concreto e sul campo l’adesione al valore del pluralismo. Essa dice, soprattutto, attenzione agli altri, confronto con altre posizioni, cooperazione per i comuni fini rappresentati dal bene della persona e della famiglia. Tale collaborazione diventa obbligo istituzionale per i consultori riconosciuti ufficialmente dalle competenti autorità regionali. È quanto si cercherà di dimostrare attraverso l’analisi del consultorio familiare pubblico di Bisceglie nel secondo capitolo di questo lavoro di ricerca. 3. Il consultorio familiare pubblico di Bisceglie: struttura di sostegno alla famiglia 3.1 I consultori familiari: strutture sociali, servizi sanitari e agenzie di pro- mozione della salute pubblica Il consultorio familiare226 nasce in un momento di profondo travaglio sociale, che coinvolge in primo luogo la famiglia. Infatti, con il passare del tempo, dal dopoguerra De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., p. 110. Cfr. Idem, p. 111. 226 Il primo consultorio familiare di istituzione pubblica, in Italia, nasce il 15 febbraio 1948 da Paolo Liggeri, presso l’Istituto «La Casa» a Milano. Di seguito il racconto di Liggeri per spiegarne l’origine: “Dopo le incursioni aeree che avevano semidistrutto Milano, nell’agosto 1943, nel generale sfollamento di uomini, avvertì come un dovere che qualcuno rimanesse nella città devastata, in soccorso di coloro che non avevano la possibilità di cercare riparo altrove. Così con un gruppo ridottissimo di collaboratori, fondai l’Istituto «La Casa», un centro di iniziative di emergenza a favore di coloro che erano rimasti privi di risorse. Ci occupammo di profughi della zona di combattimento, di prigionieri fuggiti dai campi di concentramento in seguito all’armistizio dell’8 settembre, di perseguitati politici e razziali. Ma nel marzo 1944, venni arrestato e 224 225 percorsi di studio 331 percorsi di studio 332 luglio 2010 - anno X è avvenuta un’autentica “rivoluzione familiare”227, che partendo dalla “famiglia solidale ricostruttiva”228 (anni ’50) giunge alla “famiglia multiproblema”229 (anni ’70). Si può dire che è avvenuta una vera e propria “morfogenesi sociale”230. In quanto multiproblema, la famiglia presenta caratteristiche riassumibili nel seguente quadro: a. si chiude in se stessa; b.privatizza e soggettivizza al massimo i comportamenti sessuali, affettivi e morali, con crescenti patologie nelle relazioni interpersonali; c. delega l’educazione dei figli ad agenzie pubbliche o collettive; d.ha difficoltà ad affrontare la generazione di bambini; e. attende che sia la società ad occuparsi dei membri deboli.231 Anche gli indicatori demografici degli anni ’70, confermano e delineano un profilo della famiglia italiana molto diverso da quello di qualche decennio precedente; infatti sono significativi: la riduzione della natalità verso livelli di «crescita zero», la diminuzione del tasso di nuzialità e la contrazione del numero medio dei componenti della famiglia. Infatti aumentano famiglie con uno o due componenti e diminuiscono le famiglie patriarcali, aumentano le forme di patologia sociale inerenti alla famiglia: la devianza minorile, le separazioni e i divorzi, l’aborto e altre nuove povertà.232 Quindi negli anni ’70 la coppia rimane l’ideale di vita prevalente, tuttavia tende a configurarsi come “pura coppia espressiva”233: i partner sono inclini a costruire la relazione deportato nel campo nazista di concentramento di Dachau. Quando, al termine della guerra, sopravvissuto, tornai a Milano, ebbi la consolazione di riscontrare che i miei collaboratori avevano continuato generosamente e rischiosamente a prodigarsi. Ma avvertì che l’Istituto «La Casa», doveva inoltrarsi in un programma nuovo e più specifico di attività e di sostegno alla famiglia. Negli anni dell’immediato dopoguerra, c’era un grande impegno per la ricostruzione del Paese e decisi di dedicarmi alla ricostruzione della famiglia, in quanto quelle sconquassate o pericolanti si manifestavano numerose come gli edifici sinistrati sui quali si esauriva l’impegno nazionale della ricostruzione. Sorsero così varie iniziative: pubblicazioni specifiche, corsi di preparazione al matrimonio, corsi di riorientamento per sposi e genitori, ecc. Ecco che l’idea del consultorio scaturiva da una serie di iniziative specificamente orientate all’aiuto della famiglia”. Cfr. Liggieri P., Il consultorio in Italia: storia, legislazione, fisionomia, finalità e struttura, in Vella G. C. (a cura di), Gli operatori dei consultori familiari, Città nuova editrice, Roma, 1980, pp. 10-11. 227 Donati P., Famiglia e politiche sociali. La morfogenesi familiare in prospettiva sociologica, Angeli, Milano, 1981, p. 44. 228 Ibidem. 229 Donati P., Famiglia e politiche sociali, cit., p. 45. 230 Per morfogenesi, etimologicamente, si intende il continuo modificarsi di forma che un gruppo/ istituzione come la famiglia assume, nello spazio e nel tempo, in relazione al modificarsi delle strutture e valori organizzativi basilari di una società. Cfr. Idem, p. 9. 231 Cfr. De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., p. 87. 232 Cfr. De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., p. 88. 233 Ibidem. interpersonale quasi esclusivamente intorno alla componente affettivo-sessuale, più che alla condivisione di valori e scelte fondate su un comune progetto di vita. Di conseguenza misurano, giudicano e determinano durata, validità e solidità del rapporto di coppia soprattutto col metro della gratificazione affettiva e del benessere sessuale.234 Considerazioni simili sostanziano il dibattito sulla natura e sul valore del matrimonio che segna proprio in quegli anni momenti decisivi sul piano giuridico con la promulgazione della legge sul divorzio, successivamente confermata col referendum, sul diritto di famiglia, sull’aborto e successivo referendum.235 In questo contesto di accresciute difficoltà che le coppie e le famiglie incontrano nell’affrontare e risolvere i loro problemi in tema di sessualità, di amore, di comunione di vita, di regolazione della fertilità, di rapporti interpersonali; come pure in seguito al dibattito alimentato in quegli anni per la riscoperta e l’approfondimento dei valori e delle responsabilità che il matrimonio implica per la crescita individuale e sociale della persona, si sono sviluppati i consultori familiari. Essi si pongono come servizio di assistenza alla famiglia che cambia e che interpella la società in termini di formazione, informazione, sostegno, difesa e promozione della vita.236 Si tratta di funzioni che privilegiano l’area psicologica e sociale e che sollecitano precisi interventi educativi a favore della famiglia e dei suoi componenti. Questo compito è affidato ad un organico di operatori, suddivisi in équipe stabile e di consulenti, chiamati ad affiancare la famiglia nel suo percorso formativo. La metodologia del lavoro d’équipe garantisce l’apporto delle diverse competenze disciplinari a conferma che soggetto dell’azione consultoriale è la persona nella totalità e integrità delle sue dimensioni e nella variegata articolazione delle sue esperienze individuali, familiari e sociali, infatti: “il consultorio è aderenza al problema familiare, il che vuol dire essere vigili al «perchè», essere disponibili a sapersi giocare nel rapporto con l’altro impegnandosi tutto. Quindi è un servizio alla persona in quanto tale: come individuo in relazione con altri”.237 Il consultorio ha come funzione quella di rispondere alle richieste e alle esigenze circa i bisogni «speciali» che non vengono presi in considerazione dai servizi tradizionali. Pertanto, è evidente che per dare risposte adeguate, il consultorio deve essere in grado di inserire il servizio sia nel contesto dell’ambiente e dell’humus culturale, politico ed etico in cui opera Cfr. Campanini G., Realtà e problemi della famiglia contemporanea. Compendio di sociologia della famiglia, Edizioni Paoline, Cinisiello Balsamo (Mi), 1989, p. 26. 235 Legge sul divorzio: n. 898 del 1 dicembre 1970; referendum confermativo: maggio 1974; Legge sul diritto di famiglia: n. 151 del 19 maggio 1975; Legge sull’aborto: n. 194 del 22 maggio 1978; referendum confermativo: 1981. 236 Cfr. Confederazione italiana dei consultori familiari di ispirazione cristiana (a cura di), Consultori familiari di ispirazione cristiana. Perché e come, Edizioni Salcom, Brezzo di Bedero, 1983, p.7. 237 Cecere F. - Brescia E.M., Contenuti, modelli operativi e figure professionali, in Il consultorio familiare. 10 anni di attività. Atti della conferenza regionale, Regione Puglia, Ass. alla Sanità, Bari 1987, p. 33. 234 percorsi di studio 333 percorsi di studio 334 luglio 2010 - anno X e nel quale vivono ed operano gli stessi utenti, sia nel piano strutturale dell’intero progetto assistenziale e del servizio sociale.238 In questa prospettiva, l’aiuto alla persona dell’utente è orientato all’aiuto per tutta la società. Il consultorio, dunque, proprio per la sua stessa natura di «consultazione» è integrativo e complementare rispetto a tutti gli altri servizi e alle strutture socio-sanitarie, quali le condotte mediche ed ostetriche, gli ambulatori e i centri di controllo e di assistenza pediatrica, geriatrica, per minorati, ecc; ma è anche fondamentale per la sua funzione di supporto a livello psicologico, etico, educativo e divulgativo.239 Così inteso il consultorio diventa un’occasione importante per svolgere a fondo un lavoro di prevenzione e di educazione, in cui il pedagogista e il ginecologo, l’ostetrica e il pediatra lavorano strettamente in équipe con gli utenti, per fornire loro una precisa coscienza della propria sessualità e delle molte questioni collegate alla problematica familiare. 3.2 L’intervento legislativo dello Stato a favore dei consultori familiari A distanza di ventisette anni dalla fondazione del primo consultorio italiano,240 frutto di una particolare sensibilità di un gruppo privato di esperti, nonché del mutato contesto sociale e giuridico degli anni ’70 e della conseguente crisi del valore del matrimonio e della famiglia, viene approvata in Italia una legge-quadro sui consultori familiari, seguita da leggi regionali tese a stabilirne localmente le norme applicative.241 Con la legge n. 405 del 29 luglio 1975, sono stati istituiti i consultori familiari in qualità di “servizi sociali di assistenza alle coppie, prima e dopo il matrimonio”.242 Infatti nel testo legislativo il consultorio familiare viene definito come “servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità”243 e alle prime lettere del comma 1 dell’art. 1, al consultorio sono affidati i seguenti compiti: “a.l’assistenza psicologica e sociale per la preparazione alla maternità e alla paternità responsabile e per i problemi della coppia e della famiglia, anche in ordine alla problematica minorile; b. la somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile nel rispetto delle convinzioni etiche e dell’integrità fisica degli utenti; c. la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento; d. la divulgazione delle informazioni idonee a promuovere ovvero a prevenire la gravidanza consigliando i metodi e i farmaci adatti a ciascun caso”.244 Cfr. Idem, p. 35. Cfr. Liggieri P., Il consultorio in Italia, cit., pp. 30-31. 240 Mi riferisco all’Istituto «La Casa» di Milano, fondato da Paolo Liggieri nel 1948: vedi p. 58, nota 88. 241 Cfr. Tettamanzi D., Consultori e problemi morali. I diritti della legge e le responsabilità della coscienza, Libreria della famiglia, Milano, 1978, p. 15. 242 Tettamanzi D., Consultori e problemi morali, cit., p. 15. 243 Legge n. 405 del 29 luglio 1975, art. 1. 244 Ibidem. 238 239 È necessario precisare ulteriormente alcuni aspetti dell’intervento legislativo dello Stato a favore dei consultori familiari. A tal fine è fondamentale il riferimento al concetto di bene comune familiare, in particolare al suo contenuto e alla sua forma concreta di attuazione, perché ciò rende possibile un giudizio più puntuale sulla legge-quadro de quo. Circa il contenuto del bene comune familiare proposto dalla legge, prevale l’aspetto igienico-sanitario, infatti: “anche se nel suo primo articolo, enunciando gli scopi del servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità, la legge apre sufficiente spazio per l’assistenza psicologica e sociale dei soggetti direttamente interessati, e, nella stessa linea, prevede tra gli operatori figure di educatori e di assistenti sociali, nel suo insieme, soprattutto nella parte programmatica e operativa, tradisce una certa prevalente preoccupazione igienico-sanitaria, la quale potrebbe indurre le regioni a restringere eccessivamente l’orizzonte delle iniziative più qualificanti della consulenza”.245 Tale considerazione, ha portato a ritenere sempre più il consultorio pubblico, cioè istituito dai comuni, come un ente creato per assicurare determinati servizi sanitari ed assistenziali, travisando l’idea originaria di affidare ad esso compiti specifici di assistenza psicologica e sociale alla famiglia e ai singoli membri della collettività.246 Per far fronte a tale carenza, la legge-quadro ha previsto un’altra forma, oltre quella dei consultori pubblici, attraverso la quale attuare il bene comune familiare. Infatti l’articolo 2 della medesima legge, prevede l’istituzione di consultori privati fondati sia da enti pubblici, che non siano comuni, sia da istituzioni private.247 La legittimità dell’esistenza dei consultori privati deriva innanzitutto dal principio di sussidiarietà248 per il quale lo Stato può e deve intervenire solo se e nella misura in cui i singoli cittadini e le singole comunità e corpi intermedi da soli non bastano. In altri termini, lo Stato, nello stimolare i cittadini a farsi concretamente servitori del bene di tutti, deve favorire la libera e responsabile partecipazione dei cittadini mediante iniziative e interventi lasciati alla loro libertà. L’applicazione di tale principio conduce logicamente ad affermare la legittimità dei consultori privati o, secondo la definizione di Tettamanzi, “consultori liberi”.249 Ed è una legittimità riconosciuta dalla stessa legge, perché dando agli enti privati la facoltà di istituire consultori, si riconosce al cittadino un vero e proprio diritto di scegliere tra servizi consultoriali alternativi, svolti da enti sia pubblici che privati con contenuti e motivazioni che qualificano diversamente lo stesso servizio. Tettamanzi D., Consultori e problemi morali, cit., p. 19. Cfr. Vella G. C., Il consultorio familiare tra «pubblico» e «privato», in Vella G.C. (a cura di), “Gli operatori dei consultori familiari”, Città Nuova editrice, Roma, 1980, p. 38. 247 Cfr. Legge n. 405 del 29 luglio 1975, art. 2. 248 Cfr. Tettamanzi D., Consultori e problemi morali, cit., p. 22. 249 Idem, p. 23. 245 246 percorsi di studio 335 percorsi di studio 336 luglio 2010 - anno X La legge, però, richiede la presenza di alcune condizioni di validità e di agibilità ai consultori privati che intendano inserirsi nel sistema consultoriale da essa istituiti per poterne godere i benefici. Sono le stesse condizioni, peraltro, alle quali sono sottoposti anche i consultori pubblici: l’esclusione dello scopo di lucro, la gratuità delle prestazioni, la capacità di assicurare all’utente quel determinato tipo di servizio di cui ha bisogno mediante la presenza delle figure professionali volute dalla legge, la somministrazione dei mezzi riguardanti la procreazione responsabile nel rispetto delle finalità liberamente scelte dagli utenti, delle loro convinzioni etiche e della loro integrità fisica. Per la verifica e l’osservanza di questi requisiti, in ordine all’inserimento del consultorio privato o libero nel sistema consultoriale, si rende necessario un atto di riconoscimento che dichiari inequivocabilmente la sua abilità: ciò risulta dalla competenza che la leggequadro riconosce alla regione per ciò che riguarda la programmazione, il funzionamento, la gestione e il controllo del servizio.250 Tra i consultori liberi, ci sono quelli che si ispirano agli ideali cristiani e fanno riferimento al magistero della Chiesa.251 3.3 Il Consultorio Familiare Pubblico di Bisceglie Cenni storico-evolutivi - I consultori familiari si connotano sin dalla nascita come struttura dinamica, versatile e flessibile, aperta ai mutamenti sociali e culturali, poiché concepita proprio per aderire direttamente alle nuove istanze di salute, che emergevano all’attenzione dell’opinione pubblica, del mondo politico e della scienza ufficiale. Infatti in Italia, all’inizio degli anni settanta, si imponeva il riconoscimento della problematicità della condizione delle donne, della loro centralità nelle relazioni familiari e sociali e dei bisogni connessi all’identità di genere. Allo stesso tempo mutava il concetto di salute e si affermava l’esigenza di un nuovo e diverso orientamento nell’assistenza sociale e sanitaria, che ponesse in risalto l’azione preventiva dei servizi pubblici e recuperasse l’approccio globale alla persona e all’insieme delle condizioni che producono disagio, in contrasto alla frammentazione verificatasi nell’evoluzione delle branche specialistiche della medicina e dei servizi alle persone.252 Cfr. Legge n. 405 del 29 luglio 1975, art. 2. Bisogna precisare che i consultori di ispirazione cristiana sono una realtà nata ben prima della legge 405, tant’è vero che tra i primi consultori italiani ad essere riconosciuti in campo internazionale vi sono proprio quelli cristiani. Anzi, se nella 405 è stata posta in evidenza l’assistenza psicologica e sociale per i problemi della coppia e della famiglia (art. 1), lo si deve all’intervento dei cristiani che operavano nei consultori liberi. Del resto, qualche mese prima della promulgazione della legge 405, nel febbraio 1975, anche i vescovi italiani avevano ribadito la necessità della presenza cristiana nei consultori, nella delibera dell’assemblea generale della CEI del 20 giugno 1975. Cfr. Vella G. C., Il consultorio familiare, cit., p. 53. 252 Di Franco V., Il linguaggio simbolico nei servizi sociosanitari: presentazione di un modello possibile di codifica, relazione in occasione del corso di perfezionamento sulla qualità dell’assistenza 250 251 A questo scopo è nato, il 30 aprile 1981, il Consultorio Familiare Pubblico di Bisceglie, istituito con la legge n. 405/75 e chiamato a rispondere a queste peculiari esigenze della collettività, attraverso un ordinamento proprio, ulteriormente precisato da normative e regolamenti regionali.253 Nasce su delibera della Giunta Comunale e diventa un servizio gestito dall’Assessorato ai Servizi Sociali del Comune di Bisceglie. Tuttavia la Regione Puglia manteneva la prerogativa di tutelare la corretta costituzione del consultorio attraverso il controllo degli atti amministrativi e la definizione dei contributi finanziari, assegnati su acquisizione dei dati di struttura, di servizio ed attività.254 La programmazione annuale degli obiettivi consultoriali veniva formulata con relazione tecnica di un operatore dell’équipe stabile a cui erano affidate le funzioni di direzione del servizio e dell’équipe, nonché di coordinamento delle attività. L’aderenza degli obiettivi alle esigenze del territorio comunale veniva definita, in sintonia con le indicazioni nazionali e regionali, in sede di Consiglio di Gestione del CFP, organismo per la gestione sociale e rappresentativo di tutte le parti coinvolte nell’azione consultoriale.255 Il Consiglio di Gestione del consultorio familiare, attraverso periodiche adunanze, operava un’azione diretta di analisi delle istanze sociali convogliate dai diversi membri, di verifica dei processi di servizio, di formulazione, valutazione e approvazione del bilancio preventivo e consuntivo delle risorse necessarie per il funzionamento della struttura e lo svolgimento delle attività. “Pertanto la caratteristica prioritaria del CFP risultava essere l’orizzontalità della relazione tra operatore ed utente e la circolarità dei processi organizzativi e di programmazione dei servizi”.256 sanitaria, organizzato dalla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Bari, A.A. 1999-2000, p. 10. 253 Di Franco V., I servizi del consultorio familiare pubblico nel DSS 5 e nel Comune di Bisceglie, relazione in occasione del convegno promosso dall’E.P.A.S.S. dal titolo: La coppia tra crisi ed opportunità, Bisceglie, maggio 2007, p. 14. 254 La Regione Puglia ha affrontato l’istituzione dei consultori familiari con la L.R. n. 30/77, specificando finalità, interventi, programmazione, organico, piano regionale, contribuzione, rapporti tra consultori e altre strutture socio-sanitarie, gratuità ed oneri delle prestazioni, gestione sociale, allestimento delle strutture, vigilanza e coordinamento, qualificazione e specializzazione degli operatori, disposizioni finanziarie. Cfr. Di Franco V., I servizi del consultorio familiare, cit., p. 5. 255 La Regione Puglia, con l’art. 12 delle L.R. n. 30/77, prevedeva la partecipazione al Consiglio di Gestione dei consultori familiari di 15 componenti: tre rappresentati del Consiglio Comunale, tre cittadini utenti, tre rappresentanti designati delle organizzazioni sindacali più rappresentative, due donne designate dalle organizzazioni femminili operanti sul territorio, tre rappresentati degli organi collegiali delle scuole operanti sul territorio, un rappresentante degli operatori del servizio consultoriale. La nomina di tutti i componenti era affidata al Consiglio Comunale. 256 Di Franco V., Il linguaggio simbolico, cit., p. 11. percorsi di studio 337 percorsi di studio 338 luglio 2010 - anno X Su decreto ministeriale, dal 1 gennaio 1981, tutti i consultori pubblici transitarono dalla gestione dei comuni a quella delle USL. Pertanto il CFP di Bisceglie diventò struttura socio-sanitaria dell’ex BA/4 (attuale ASL BAT/1).257 Tale transazione inflisse una battuta d’arresto ai fermenti comunali che cominciavano a catalizzarsi nei consultori intorno ai temi più generali dell’assistenza, della salute pubblica e del benessere sociale e significò, per la maggior parte dei consultori familiari pubblici, organici incompleti, instabilità e precarietà del personale e una progressiva medicalizzazione dell’attività consultoriale, a discapito dei servizi di assistenza sociale e psicologica.258 “Gran parte dei consultori familiari divennero pseudo sedi ambulatoriali in cui ogni operatore concorreva a testimoniare la propria attività con il numero di prestazioni erogate, privilegiando il momento di cura rispetto a quello preventivo e sottraendosi al lavoro multidisciplinare d’équipe”.259 In definitiva, negli anni ottanta, si è manifestata una graduale involuzione di tutte le attività di servizio del CFP di Bisceglie e la struttura consultoriale ha finito per organizzarsi come presidio sanitario di raccolta delle domande di cura non evase altrove, restando per lo più scollegato dagli altri servizi di cura e riabilitazione.260 “Dell’aspetto sociale del consultorio restava solo la gratuità delle prestazioni, la capacità di ascolto e di accoglienza sviluppata dagli operatori e l’attenzione per le problematiche relazionali, spesso in sostituzione alle carenze dei servizi psichiatrici del territorio e di quelli preposti alla valutazione del rischio in età evolutiva, come la medicina scolastica e la pediatria di base”.261 Nel corso degli anni, l’Assessorato alla Sanità della Regione Puglia, ha perorato la causa dei consultori familiari pubblici, attraverso varie forme di sensibilizzazione sul territorio, ma soprattutto con la promozione di corsi di formazione e incontri di aggiornamento per gli operatori del settore. Negli atti della conferenza regionale sui consultori familiari, del 17 marzo 1987, si legge che: “il consultorio familiare deve esprimere una identità che lo definisce meglio ed in modo complessivo sul versante socio-sanitario e ne caratterizzi, in modo più specifico, l’ambito degli interventi. Il medesimo deve dare una risposta ai bisogni dell’utente garantendo: Cfr. Di Franco V., I servizi del consultorio familiare, cit., p. 14. Nel nuovo assetto sanitario, ai consultori familiari pubblici, furono destinati spazi ridottissimi per l’esame degli atti di programmazione e per la valutazione delle necessità operative; la stessa attività dei Consigli di Gestione dei consultori familiari andò riducendosi agli interessi formali di bilancio per l’ottenimento dei fondi di contribuzione regionale; non furono più attuate rielezioni per sostituire i membri decaduti dei Consigli di Gestione e tutto il sistema organizzativo dei consultori familiari risultò incapace di proseguire l’azione di controllo dal basso verso l’alto. Cfr. Di Franco V., Il linguaggio simbolico, cit., p. 12. 259 Di Franco V., Il linguaggio simbolico, cit., p. 13. 260 Ibidem. 261 Di Franco V., I servizi del consultorio familiare, cit., p. 12. 257 258 a. il superamento di una ormai artificiale distinzione tra prevenzione e cura-riabilitazione; b. gli interventi psicologici e sociali collegati strettamente alle aree procreative, sessuali e relazionali; c. interventi promozionali e di educazione sanitaria sulle aree di proprio riferimento che lo caratterizzano specificatamente sul piano informativo ed educativo; d. una omogenea identificazione dei compiti consultoriali, distinguendoli a seconda degli obiettivi, dei contenuti e delle fonti di finanziamento in due grosse aree: quelli a valenza sanitaria e quelli a valenza sociale”.262 Pertanto la sfida che gli operatori consultoriali del CFP di Bisceglie hanno dovuto svolgere in questi anni è stata quella di non disperdere la specificità delle funzioni e delle esperienze maturate nel corso degli anni, nel lavoro diretto con le persone, in nome di un mandato sociale ricevuto a livello nazionale e regionale e meglio definito anche nel Piano Sanitario Nazionale 1998-2000.263 In base a tale piano, si pone la necessita di avviare un processo di umanizzazione nell’organizzazione dei consultori familiari pubblici, recuperando l’integrazione tra aspetto sociale e sanitario e ponendo attenzione ai bisogni di salute dei cittadini. In questa prospettiva si apre una nuova stagione in cui, il CFP di Bisceglie, come tutti i consultori pubblici, deve ripristinare nel territorio quel rapporto di coinvolgimento e di partecipazione dei cittadini, come avveniva tramite i Comitati di Gestione e che appartiene all’identità istituzionale di tale servizio per l’assistenza alla famiglia e per l’educazione alla maternità e paternità responsabile.264 L’équipe consultoriale - La prima équipe stabile265 del CFP di Bisceglie era costituita da uno psicologo e da un assistente sanitario, con l’aggiunta di due consulenti medici Di Cillo C. – Barnaba P., L’attività consultoriale in Puglia: esperienze, verifiche e obiettivi, in Il consultorio familiare. 10 anni di attività. Atti della conferenza regionale, Regione Puglia, Ass. alla Sanità, Bari, 1987, p. 21. 263 Il Progetto Obiettivo materno-infantile, relativo al Piano Sanitario Nazionale 1998-2000, adottato dal Ministero della Sanità con D.M. del 24-04-2000, chiarisce in modo inequivocabile le funzioni e la gestione dei consultori familiari pubblici. Il consultorio familiare è definito come servizio di base, fortemente orientato alla prevenzione, informazione ed educazione sanitaria e viene riaffermata la peculiarità del lavoro in équipe. Le finalità attribuite agli interventi consultoriali sono quelle istituzionali a tutela della salute della donna più globalmente intesa e considerata nell’arco dell’intera vita, nonché a tutela della salute dell’età evolutiva e dell’adolescenza, e delle relazioni di coppia e familiari. Cfr. Di Franco V., La pratica della salute, relazione in occasione della “Conferenza dei servizi ASL BAT”, Trani, 24 novembre 2008, p. 2. 264 Cfr. Di Franco V., Il linguaggio simbolico, cit., p. 19. 265 La legge regionale 30/77 stabiliva, all’art. 6, che l’équipe stabile dei consultori familiari doveva essere costituita da uno psicologo o assistente sociale più un assistente sanitario o ginecologo. Pertanto nel caso specifico del CFP di Bisceglie, la prima équipe stabile (cioè incaricati a tempo pieno) fu costituita da uno psicologo e dall’assistente sanitario. Successivamente, la legge regionale n. 39 del 22-05-1985, modificò l’art. 6 della legge 30/77, prevedendo un’équipe stabile com262 percorsi di studio 339 percorsi di studio 340 luglio 2010 - anno X specialisti in ostetricia-ginecologia e in pediatria (per 6 ore settimanali).266 Attualmente l’équipe del consultorio risulta composta da uno psicologo,267 da un assistente sociale, un’ostetrica, un infermiere professionale,268 da un consulente ginecologo ospedaliero,269 dal ginecologo del DSS 5270 ed infine da un ausiliare.271 Per quanto riguarda la figura del pediatra, dagli anni novanta tale necessità riusciva ad essere evasa dalla medicina pediatrica di base del servizio sanitario pubblico che copriva completamente la domanda di bisogno sull’intero territorio cittadino. Pertanto l’attività del pediatra, nel consultorio familiare, si era ridotta a controllo e prevenzione attraverso progetti di informazione ed educazione sanitaria e non più a visite. Ecco perché dal 1991 tale figura medica non fa più parte dell’équipe ed è stata sostituita dal ginecologo.272 Attualmente nel CFP di Bisceglie non è presente un consulente legale,273 che però ha fatto parte dell’équipe per due brevi periodi nell’arco di questi 27 anni di attività. Nel 2008 ha svolto il suo servizio nel CFP un mediatore culturale274 per persone straniere con e senza permesso di soggiorno. Tale figura professionale svolgeva il compito di facilitatore dell’integrazione dei soggetti stranieri e per la fruizione dei servizi socio-sanitari sia del Comune di Bisceglie che della ASL. Attività e servizi del CFP nel DSS 5 e nel Comune di Bisceglie - Nel DSS 5 sono operativi due consultori familiari pubblici per i Comuni di Trani e di Bisceglie, con una popolazione totale di oltre 103.000 Abitanti. Le due strutture sono costituite da ambienti corrispondenti agli standard regionali con sistemazione logistica in zona centrale, di facile fruibilità per i cittadini. Tuttavia la sistemazione logistica del consultorio familiare di Trani, in una struttura polifunzionale del DSS 5, risulta più agevole sotto il profilo dell’organizzazione dei servizi e della migliore fruibilità per gli utenti.275 posta da tre operatori e non più due. Nel caso del CFP di Bisceglie, la nuova équipe stabile fu composta dallo psicologo, dall’assistente sociale e dall’assistente sanitario o ostetrica o infermiere professionale. Cfr. Di Franco V., Il linguaggio simbolico, cit., p. 10. 266 Tutto il personale, ad eccezione dello psicologo, proveniva dalla disciolta ONMI (Opera Nazionale Maternità Infanzia). Cfr. Di Franco V., I servizi del consultorio familiare, cit., p. 14. 267 38 ore settimanali con funzioni di dirigenza. 268 Personale a tempo pieno (36 ore settimanali). 269 3 ore settimanali. 270 15 ore settimanali. 271 Con funzioni di prima accoglienza dell’utenza, servizio di segreteria e di sistemazione logistica degli ambienti. 40 ore settimanali. 272 Cfr. Di Franco V., I servizi del consultorio familiare, cit., p. 15. 273 Svolgeva una funzione consulenziale e di supporto nelle scelte di separazione dei coniugi e per l’affidamento dei figli. 274 Figura promossa dal progetto regionale “PASSI”. 275 Cfr. Di Franco V., I servizi del consultorio familiare, cit., p. 21. Pur considerando la presenza in Bisceglie del CFC E.P.A.S.S., il rapporto 3 consultori familiari per 103.000 abitanti non corrisponde alla previsione normativa di 1 consultorio familiare ogni 20.000 abitanti.276 In effetti, l’affluenza della domanda sui bisogni di salute che investe direttamente i consultori familiari sia per l’accesso diretto e gratuito, sia per l’approccio preventivo, globale e non medicalizzante degli interventi, è così elevata da rendere necessaria la progettazione e il potenziamento strutturale e professionale dei due consultori familiari, con l’ampliamento delle discipline specialistiche corrispondenti ai bisogni emergenti e latenti delle famiglie (andrologo, consulente legale, nutrizionista per gli adolescenti, mediatore culturale, ecc.).277 Per quanto riguarda in maniera specifica il CFP di Bisceglie, gli interventi sono erogati per accesso diretto degli utenti, con accoglienza socio-sanitaria, filtro della domanda e prenotazione degli appuntamenti, su invio di altri servizi aziendali sanitari, su segnalazione e/o richiesta delle scuole e delle istituzioni giudiziarie, mediante offerta attiva dei servizi con invito diretto alle persone o alle donne per lo screening oncologico, oppure con proposta progettuale per target mirati di popolazione adolescenziale.278 Presso il CFP di Bisceglie si effettuano i seguenti servizi: • informazione ed educazione socio-sanitaria per la salute sessuale e relazionale dei cittadini, per la promozione e divulgazione di corretti stili di vita nelle diverse tappe evolutive dell’individuo, per la maternità e paternità responsabile, ecc.279 In maniera specifica, per gli adolescenti si effettuano consulenze per analizzare le condizioni socio-familiari o ambientali predisponenti alla devianza o al disagio; si promuovono programmi per la salute in età adolescenziale (fisiopatologia della riproduzione, alimentazione, educazione all’affettività, prevenzione delle malattie sessualmente trasmesse, informazione e formazione degli adulti sulle problematiche adolescenziali della sessualità, comunicazione adolescente-adulto, ecc.); e si programmano interventi sociosanitari concordati con altre istituzioni come i servizi sociali, la pubblica istruzione, la giustizia, ecc.280 Cfr. Legge Regionale 30/77. Cfr. Di Franco V., La pratica della salute, cit., p. 9. 278 Cfr. ACB, Foglietto informativo sull’attività svolta dal CFP di Bisceglie, Bisceglie, 1 foglio dattiloscritto, senza indicazione di data. 279 Cfr. Di Franco V., I servizi del consultorio familiare, cit., p. 24. 280 Il CFP di Bisceglie organizza ogni anno scolastico il progetto “SPAZIO GIOVANI”: un ciclo di incontri di educazione alla salute rivolti agli adolescenti delle classi di scuola media inferiore dei tre istituti scolastici della città, regolarmente inserito nei POF delle diverse scuole. Si tratta di un’azione psico-socio-sanitaria che coinvolge in partnership formativa la famiglia, la Scuola e il CFP con l’obiettivo generale di stimolare i giovani a conoscere le strutture socio-sanitarie del territorio ed educarli alla fruizione dei servizi in forma organizzata e partecipata. Gli incontri sono strutturati per singoli gruppi classe e si svolgono nella sede del consultorio secondo un calendario di lavoro condiviso tra gli operatori scolastici e sanitari, previa autorizzazione da parte dei genitori. 276 277 percorsi di studio 341 percorsi di studio 342 luglio 2010 - anno X • Nel campo delle relazioni di coppia, di famiglia e di disagio familiare si realizzano progetti di ricerca attiva e valutazione dei casi di grave ritardo o evasione vaccinale e dei casi di basso profitto o abbandono scolastico; si crea il collegamento con i pronto soccorsi per consulenza e aiuto in caso di violenze domestiche (specie per bambini e donne); si effettua il monitoraggio del disagio giovanile, specie in rapporto alla famiglia, alla scuola, ecc, si offrono supporti al singolo e alla famiglia per superare le difficoltà relazionali; si garantisce il supporto psicologico e sociale al singolo e alla famiglia nelle situazioni di crisi; ed infine si garantisce il collegamento con l’autorità giudiziaria per le situazioni più a rischio.281 • Diagnosi precoce dei tumori femminili dell’apparato riproduttivo.282 Il CFP in questo ambito promuove l’offerta attiva di pap-test per tutte le donne tra 25-64 anni, con periodicità triennale, nell’attuazione dei programmi di screening regionali o aziendali sul tumore del collo dell’utero e della mammella; offre un supporto psicologico alla donna con patologia oncologica, prima e dopo la terapia, anche attraverso la promozione di gruppi di mutuo aiuto ed infine svolge la presa in carico e l’indirizzo verso servizi specialistici di diagnosi e cura, facilitando percorsi ed accessi a strutture ospedaliere.283 • Consulenza ginecologica per la pianificazione familiare, la sterilità, l’infertilità e i disturbi della menopausa e della sfera sessuale.284 Nello specifico il CFP di Bisceglie si occupa del controllo della fertilità e della procreazione responsabile promuovendo l’offerta attiva alle coppie per colloqui prematrimoniali, anche in incontri di gruppo, su tematiche riguardanti: fisiologia della riproduzione, procreazione responsabile, salute riproduttiva, responsabilità genitoriali, dinamiche relazionali, accertamenti delle condizioni di rischio per cui necessiti la consulenza genetica e l’invio al servizio specifico, prevenzione immunitaria e non, diagnosi prenatale precoce.285 Le tematiche affrontate sono quelle di maggiore interesse per i giovanissimi e per le loro famiglie: la maturazione socio-affettiva e sessuale nell’uomo e nella donna, gli stili di vita degli adolescenti e la prevenzione sanitaria, la maternità e paternità responsabile e le metodiche contraccettive. Gli argomenti sono sviluppati in contenuto, linguaggio e strategie corrispondenti alla fascia di età degli studenti. Il modello psico-pedagogico adottato stimola la partecipazione attiva dei ragazzi, promuove la consapevolezza sulle scelte funzionali al proprio benessere relazionale e sostiene l’acquisizione di comportamenti autonomi e responsabili attraverso la corretta informazione sui comportamenti a rischio in campo sessuale. Cfr. ACB, Progetto Spazio Giovani, offerta di progetto di educazione alla salute per studenti di scuola media inferiore, Bisceglie, 11 fogli dattiloscritti, senza indicazione di data. 281 Cfr. Di Franco V., I servizi del consultorio familiare, cit., p. 43. 282 Cfr. Idem, p. 23. 283 Cfr. Di Franco V., I servizi del consultorio familiare, cit., p. 48. 284 Cfr. Idem, p. 24. 285 Cfr. Idem, p. 44. Per quanto riguarda gli interventi di consulenza ginecologica in età post fertile, il CFP si occupa di sensibilizzare le donne in menopausa (anche in modo complementare all’offerta attiva di pap-test) alla prevenzione e al trattamento delle terapie degenerative proprie dell’età, anche ricercando soluzioni personalizzate; facilitare ed organizzare gli opportuni controlli strumentali periodici per le donne in corso di trattamento con terapia ormonale sostitutiva; promuovere l’aggiornamento professionale di ginecologi, medici di base, ostetriche e fisioterapisti sulle problematiche e sui possibili trattamenti della menopausa; incentivare la consapevolezza delle donne circa la possibilità di migliorare il proprio stile di vita e la sessualità della vita post fertile.286 • Accertamento e procedure per l’interruzione volontaria della gravidanza con la presa in carico psico-socio-sanitaria della donna, della coppia e di soggetti minorenni. 287 In particolare il CFP offre il colloquio per garantire il supporto psicologico e sociale; successivamente invia ed accompagna la donna che richiede l’IVG verso le strutture specialistiche; offre interventi finalizzati alla procreazione consapevole post IVG e alla prevenzione della ripetitività dell’IVG ed infine offre sostegno sanitario e psicologico delle minorenni, senza reti familiari o parentali, che intendono affrontare l’IVG, predisponendo la relazione per il giudice tutelare.288 • Consulenza ostetrica e preparazione al parto e alla nascita.289 Circa i servizi di assistenza in gravidanza il consultorio di Bisceglie, offre informazioni su: preparazione alla nascita, facilitazioni per congedi lavorativi, promuove l’offerta attiva di corsi per la preparazione al parto,290 alla nascita, al ruolo genitoriale, all’assistenza post parto;291 promuove la prevenzione delle malformazioni congenite e predispone programmi di assistenza alla gravidanza con individuazione di quelle problematiche a rischio e offre interventi per situazioni di gravi difficoltà sociali (donne extracomunitarie, nomadi, ecc.); adotta una cartella ostetrica ambulatoriale con linee guida condivise; monitora la crescita e il benessere fetale anche mediante prestazioni di tipo strumentale; cura il collegamento con i centri di diagnosi prenatale per i casi che lo richiedono; offrire sostegno psicologico individuale e di coppia per i parti in anonimato; stabilisce contatti permanenti con i Cfr. Di Franco V., I servizi del consultorio familiare, cit., p. 49. Cfr. Di Franco V., I servizi del consultorio familiare, cit., p. 24. 288 Cfr. Idem, p. 47. 289 Cfr. Idem, p. 24. 290 I corsi di preparazione al parto sono costituiti da 6 sedute ciascuno, per un massimo di 12 gestanti per corso. 291 Circa l’assistenza alla puerpera e al neonato, il CFP di Bisceglie offre assistenza ostetrica e pediatrica a domicilio nella prima settimana di vita, specie in caso di dimissioni precoci (in attesa che il neonato sia registrato tra i clienti del pediatra di libera scelta); tutela la salute fisica e psichica della madre e del neonato e le esigenze relazionali ed organizzative del nucleo familiare, con la presa in carico complessiva, in concerto con i servizi sociali, specie per soggetti a rischio sociale o sanitario (extracomunitari, nomadi, ecc.). Cfr. Di Franco V., I servizi del consultorio familiare, cit., p. 46. 286 287 percorsi di studio 343 percorsi di studio 344 luglio 2010 - anno X reparti ospedalieri per il parto e realizza programmi di formazione congiunta per operatori ospedalieri e territoriali; offre sostegno e presa in carico psicologico e sanitario per le gestanti minorenni senza rete di appoggio familiare e parentale e facilita i percorsi di accesso ai servizi pubblici e privati, con riduzione dei tempi di attesa.292 Altri interventi realizzati in maniera interdisciplinare dall’équipe del CFP di Bisceglie riguardano l’assistenza sociale, ed in particolare: • valutazione psico-sociale per l’autorizzazione a contrarre matrimonio da parte di soggetti minorenni; • indagine, valutazione e sostegno psico-sociale per l’adozione nazionale e internazionale e per l’affidamento familiare di soggetti minorenni; • consulenza psico-socio-sanitaria, diagnosi e intervento precoce o trattamento psicoterapico del disagio psicofisico, sociale e relazionale nei rapporti interpersonali (genitori-figli, alunni-docenti, coppia coniugale e genitoriale, situazioni familiari multiproblematiche, minori abusati o a rischio di devianza, ecc.); • consulenza psicologica e sociale e assistenza all’ascolto protetto di minori con procedimenti di tutela dell’Autorità Giudiziaria e/o con affidamento ai Servizi Sociali dei Comuni.293 Il grafico n. 13 evidenzia le varie attività svolte dal CFP di Bisceglie, in relazione ai bisogni dell’utenza.294 Emerge che la domanda di bisogno nel settore socio-sanitario è elevatissima. Ciò è testimoniato anche dall’incremento nel 2007-2008 del numero di gestanti ai corsi di training prenatale e l’incremento del numero di interventi di consulenza e prevenzione ginecologica. Ciò comporta un carico di lavoro ininterrotto per gli unici due consulenti sanitari dell’équipe consultoriale dedicati al settore: il ginecologo e l’ostetrica.295 Un dato significativo circa la peculiarità dell’attività del CFP deriva dall’intreccio dei dati del grafico n. 13 con quelli del n. 14. Idem, p. 45. Cfr. Di Franco V., I servizi del consultorio familiare, cit., pp. 25-26. 294 È necessario sottolineare che, i CFP non sono tenuti ad essere organizzati con un archivio computerizzato, in quanto le ASL di riferimento non richiedono un resoconto dettagliato delle attività e degli utenti. Tuttavia è stato possibile accedere a questi dati grazie alla buona organizzazione della dirigenza del consultorio che dal 2000 ha organizzato in maniera computerizzata l’archivio. Pertanto, i dati numerici che si riportano in questo lavoro di tesi sono da considerarsi come degli indici di riferimento che evidenziano dei trends. Inoltre non è stato possibile risalire ai dati del 2006. Cfr. ACB, Dati relativi attività svolta dal 2001 al 2007, Bisceglie, 16 fogli dattiloscritti, estrapolati dall’archivio computerizzato dell’ente, firmati dalla dott. Di Franco V. psicologadirigente del consultorio, 21 Luglio 2009, pp. 1-23. 295 Cfr. ACB, Dati relativi attività svolta dal 2001 al 2007, cit., p. 13. 292 293 Grafico 13. Tipologia di attività realizzate dal CFP di Bisceglie nel periodo 2003-2008 Grafico 14. Distribuzione delle attività per aree di intervento. Dati in % percorsi di studio 345 percorsi di studio 346 luglio 2010 - anno X Tale grafico rappresenta la distribuzione delle attività per aree di intervento e si evidenzia come l’area sanitaria (assistenza sanitaria, ginecologica ed ostetrica) rappresenta quasi il 70% delle attività che vengono realizzate nel CFP di Bisceglie. Questo dato è in controtendenza rispetto a quanto emerso dall’analisi del consultorio familiare E.P.A.S.S. Infatti nel grafico n. 15 si può evidenziare che, per il consultorio di ispirazione cristiana l’area di consulenza psicologica e di sostegno alla famiglia, rappresenta quasi il 22% dell’attività complessiva (rispetto all’11% del CFP); mentre l’area sanitaria, per l’E.P.A.S.S. rappresenta il 78% dell’attività,296 mentre per il CFP è quasi dell’ 89%. Ciò testimonia la peculiarità del CFC E.P.A.S.S. di essere una struttura con la vocazione alla prevenzione psicologia e sociale, soprattutto di sostegno alla famiglia, in continuità con le indicazioni della legge 405/75, ma soprattutto in relazione alle indicazioni del Direttorio di pastorale familiare. Mentre il CFP di Bisceglie, si caratterizza maggiormente per interventi medicalizzanti e della prevenzione in campo sanitario. Grafico 15. Comparazione tra interventi realizzati dal CFP di Bisceglie e dall’E.P.A.S.S. (periodo 2003-2007) È importante sottolineare che questo 78% è costituito da interventi propriamente sanitari (consulenze ginecologiche, pap test, visite senologiche, ecc.) ma soprattutto dai corsi prematrimoniali (attività assente nel CFP). 296 Per concludere la panoramica circa l’attività del CFP di Bisceglie, si forniscono di seguito i dati relativi al progetto “Spazio Giovani” negli anni scolastici dal 2004/2005 al 2007/2008.297 Grafico 16. Attività di prevenzione-educazione sanitaria “SPAZIO GIOVANI” per le classi di Scuola Media Inferiore di Bisceglie Tale grafico evidenzia la popolazione annualmente informata con l’attività ad offerta attiva per l’educazione alla salute su tematiche di interesse adolescenziale e intergenerazionale, quali la maturità sessuale ed i comportamenti di prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, la maternità e paternità responsabile, la contraccezione, ecc.298 I dati si riferiscono agli anni scolastici nel periodo 2004-2008 e segnalano la costanza applicativa del modello operativo utilizzato, che consente annualmente di raggiungere una media di 600 studenti delle classi medie inferiori, distribuiti nei tre istituti scolastici biscegliesi.299 È interessante confrontare tali dati con gli accessi spontanei degli utenti giovani presso il CFP negli stessi anni in cui è stato realizzato il progetto “Spazio Giovani”.300 Cfr. ACB, Relazione sul Progetto Spazio Giovani 2008-2009, per l’archivio del DSS 5, Bisceglie, 2 fogli dattiloscritti, senza indicazione di data. 298 Cfr. ACB, Progetto Spazio Giovani, offerta di progetto di educazione alla salute per studenti di scuola media inferiore, Bisceglie, 11 fogli dattiloscritti, senza indicazione di data. 299 Cfr. ACB, Relazione sul Progetto Spazio Giovani 2008-2009, per l’archivio del DSS 5, Bisceglie, 2 fogli dattiloscritti, senza indicazione di data. 300 Cfr. Ibidem. 297 percorsi di studio 347 percorsi di studio 348 luglio 2010 - anno X I dati dei grafici n. 17-18-19, segnalano la ricaduta positiva sulla fruizione responsabile del servizio ad assistenza consultoriale da parte dei giovani, ovvero degli incrementi di accessi diretti e spontanei nelle fasce di età successive alla somministrazione dell’intervento educativo. Tale trend positivo è confermato anche dal grafico n. 20 che evidenzia il numero delle richieste di IVG e della pillola del giorno dopo. Grafico 17. Accessi spontanei MASCHI al CFP Grafico 18. Accessi spontanei FEMMINE al CFP Grafico 19. Accessi spontanei TOTALI al CFP Grafico 20. Dati relativi all’IVG e alla Pillola del giorno dopo presso il CFP di Bisceglie L’aumento di richiesta di IVG e della pillola del giorno dopo, presso il CFP, è da spiegarsi anche tenendo presente la ricaduta positiva di questi corsi di educazione sanitaria che fanno conoscere alle giovani ragazze la realtà del consultorio familiare e permettono di sviluppare una certa mentalità e fruizione responsabile di tale struttura, anche in casi come quello dell’IVG e della pillola che, fino a qualche periodo fa, erano evasi in maniera privata.301 301 Cfr. ACB, Dati relativi attività svolta dal 2001 al 2007, cit., p. 19. percorsi di studio 349 percorsi di studio 350 luglio 2010 - anno X L’utenza - L’analisi sull’utenza del CFP permette di delineare la figura dell’utente tipo che fruisce dei servizi consultoriali.302 Il grafico n. 21 documenta il servizio reso a 4252 utenti303 nel corso di sei anni di attività. C’è una netta predominanza nella fruizione da parte delle donne a motivo dei servizi consultoriali sanitari destinati prevalentemente al sesso femminile. Grafico 21. Utenti CFP classificati per sesso, registrati dal 2000 al 2005 Nel grafico n. 22 si mette a confronto l’utenza dei due consultori familiari di Bisceglie. Il dato interessante riguarda l’utenza maschile, che nel consultorio E.P.A.S.S. rappresenta il 32% del totale, rispetto al 12 % del CFP. Questa differenza è da spiegarsi considerando la partecipazione delle coppie di fidanzati ai corsi di preparazione al matrimonio organizzati dal consultorio di ispirazione cristiana.304 Come per i dati relativi alle attività realizzate dal consultorio, anche in questo caso, per i dati circa l’utenza ci si riferisce a: ACB, Dati relativi all’utenza dal 2001 al 2008, Bisceglie, 3 fogli dattiloscritti, estrapolati dall’archivio computerizzato dell’ente, firmati dalla dott. Di Franco V. psicologa-dirigente del consultorio e responsabile al trattamento dei dati personali secondo l’ex. Art. 23 D.Lgs. 196/03, 24 Luglio 2009. Non sempre è stato possibile prelevare i dati di tutto il periodo interessato, pertanto in qualche grafico si farà riferimento solo ai dati del 2008. Tuttavia, ciò permette di avere comunque delle indicazioni di tendenza circa l’utenza del CFP. 303 Nel grafico n. 21 ci si riferisce agli utenti che hanno richiesto almeno 1 servizio nel corso dell’anno. Non si riportano gli interventi successivi al primo, nel caso in cui lo stesso utente abbia fruito di più servizi consultoriali. 304 È da ricordare che, il servizio dei corsi di preparazione al matrimonio è peculiare solo dei consultori di ispirazione cristiana in quanto, il n. 57 del Direttorio di pastorale familiare lo richiede come uno degli interventi caratterizzanti di queste strutture di sostegno alla famiglia. Cfr. Cei, Direttorio di pastorale familiare, Fondazione di Religione “Santi Francesco d’Assisi e Caterina da 302 Grafico 22. Utenti registrati dal CFP e dall’E.P.A.S.S. in sei anni di attività Nel grafico n. 23 emerge che sono sovrarappresentate le fasce d’età compresa tra 33 e 45 anni e oltre i 45 anni.305 Grafico 23. Utenti CFP classificati per fasce d’età Siena”, Roma, 1993, n. 57. Infatti è compito del consultorio cristiano, integrare la preparazione al matrimonio in quegli aspetti comunemente attribuiti alle scienze umane, specialmente quelle psicologiche, mediche sessuologiche e giuridiche, che lo stesso Direttorio riconosce come molto importanti per la vita coniugale e familiare. Cfr. Idem, n. 250. 305 Insieme rappresentano oltre il 70% dell’utenza totale. percorsi di studio 351 percorsi di studio 352 luglio 2010 - anno X Nel grafico n. 24, confrontando i dati circa le fasce d’età degli utenti che affluiscono ai due consultori, emerge che l’E.P.A.S.S. svolge un servizio più mirato verso una fascia di utenza mediamente giovane (27-32 anni), rappresentata in gran parte dalle giovani coppie che si preparano al matrimonio. Grafico 24. Utenti classificati per fasce d’età: confronto tra CFP ed E.P.A.S.S. in cinque anni di attività. Dati in % Altro parametro da prendere in considerazione riguarda lo stato civile degli utenti del CFP di Bisceglie.306 Il grafico n. 25 evidenza una prevalenza degli utenti coniugati (oltre il 70%) e celibi e nubili (il 23%).307 Grafico 25. Stato civile degli utenti CFP registrati nel 2008 In questo caso ci si riferisce solo ad un anno di attività. Il 2008 per il CFP e il 2007 per l’E.P.A.S.S. Nel grafico gli utenti celibi e nubili sono indicati dalla voce “liberi” in quanto sono inclusi anche gli utenti minori di 12 anni. 306 307 Anche in questo caso, il confronto con il consultorio familiare E.P.A.S.S. fa emergere une leggera controtendenza. Infatti nel grafico n. 26 si evidenza che, il 52% dell’utenza del consultorio di ispirazione cristiana è rappresentato dai celibi e nubili. Questo dato conferma il trend che si è evidenziato sin dall’inizio di questa analisi sull’utenza, e cioè che, mentre il CFP pone in essere un’azione di tipo prevalentemente sanitario per un’utenza femminile, l’E.P.A.S.S. svolge un’azione più sul piano della prevenzione e della formazione umana delle giovani coppie. Grafico 26. Stato civile degli utenti registrati in un anno di attività dai consultori E.P.A.S.S. e CFP L’ultimo parametro che si è considerato, riguarda il tasso di scolarità. Nel grafico n. 27 si registra una prevalenza dei soggetti con diploma della scuola media inferiore, tuttavia la somma tra i soggetti con diploma della scuola superiore e dei laureati rappresenta il 37% di tutta l’utenza. Questo dato, che è perfettamente sovrapponibile alla tendenza circa la scolarità dell’utenza E.P.A.S.S., dimostra l’accresciuta capacità di queste strutture consultoriali di porsi al servizio di una fascia di popolazione culturalmente elevata.308 308 Il crescente interesse suscitato dalle iniziative del CFP di Bisceglie presso i ceti medio-alti della popolazione è confermata anche dalle professioni prevalenti per ogni titolo di studio. Tra i soggetti con nessun titolo di studio e con la licenza elementare, prevalgono le professioni di: casalinga, collaboratrice domestica e studente. Tra gli utenti con la licenza media, la maggior parte sono casalinghe, operai meccanici e di confezione, estetiste, parrucchiere e studenti. Tra i diplomati della scuola superiore, le professioni prevalenti sono: commerciante, infermiere, insegnante e casalinghe. Infine tra gli utenti laureati la quasi totalità sono impiegati, insegnanti ed infermieri. percorsi di studio 353 percorsi di studio 354 luglio 2010 - anno X Grafico 27. Utenti CFP classificati secondo il titolo di studio. Dati relativi al 2008 In conclusione, è evidente come il consultorio E.P.A.S.S. ha inteso modellare il proprio servizio in senso integrativo e non sostitutivo o competitivo nei confronti del consultorio pubblico. Grafico 28. Utenti CFP classificati secondo il titolo di studio: confronto tra CFP ed E.P.A.S.S. C’è anche una buona percentuale di avvocati, medici ed educatori professionali. Non è stato possibile fornire un dato numerico ben preciso e supportato da un grafico, perché l’archivio computerizzato del consultorio non permette una estrapolazione di questo dato. Pertanto è solo possibile indicare una tendenza di orientamento. Lo attestano, sia l’ampliamento delle possibilità di scelta in relazione ad orari di apertura al pubblico,309 di contenuti e di progetti310 e sia di particolari interventi all’interno delle singole aree di competenza.311 4. Nuove prospettive dei consultori familiari di ispirazione cristiana 4.1 La famiglia oscurata: alle radici della crisi I consultori familiari, a trent’anni dalla loro istituzione legislativa, stanno vivendo una nuova stagione caratterizzata da mutamenti organizzativi al fine di essere un punto di riferimento per la riscoperta della famiglia, considerando le profonde trasformazioni culturali e sociali che hanno portato all’oscuramento dell’istituto familiare nella società contemporanea.312 A differenza dei tanti cambiamenti che si sono verificati nella storia dell’umanità, quelli attuali hanno alla loro radice una vera e propria mutazione nella visione dell’essere umano. Molteplici e convergenti sono le spinte verso un approccio non più legato alla natura ontologica dell’uomo ma più semplicemente riferito ai dati esperienziali e a quelli Il consultorio E.P.A.S.S. è volutamente aperto nelle ore pomeridiane, dal lunedì al venerdì dalle 16.00 alle 21.00, per non contrapporsi al servizio del consultorio pubblico che è aperto al mattino con una sola possibilità pomeridiana. 310 In alcune circostanze, come sottolinea il prof. De Pinto, la collaborazione tra gli operatori delle due strutture si è tradotta in corsi di formazione progettati e realizzati insieme, come nei casi dei corsi di approfondimento sui problemi dell’età adolescenziale, e nella formazione delle coppie interessate all’affido familiare. Cfr. De Pinto L., Il Consultorio Familiare Cristiano: un servizio, cit., p. 111. 311 L’E.P.A.S.S. evita di proporre identiche iniziative del consultorio pubblico e soprattutto non in concomitanza. 312 I vescovi italiani, nel documento sulla Chiesa italiana dopo il Convegno Ecclesiale di Palermo richiamavano l’attenzione su questa situazione di crisi della famiglia: “D’altra parte dobbiamo constatare anche in Italia una crisi sempre più evidente della famiglia. È in questo ambito che gravano in modo particolarmente distruttivo gli elementi negativi della cultura di oggi. La mentalità individualistica e refrattaria agli impegni duraturi incide sulla diminuzione dei matrimoni, sull’alto numero delle separazioni, dei divorzi e delle convivenze di fatto. Il ritmo frenetico della vita, creando impegni e interessi divergenti, impoverisce il dialogo e la comunicazione tra i coniugi. La ricerca delle soddisfazioni intense ed effimere porta ad enfatizzare la sessualità genitale, dissociandola dall’amore. La mancanza di progettualità e di speranza influisce sulla scarsità delle nascite. Il soggettivismo, incurante della verità e dei valori oggettivi, porta a giustificare l’aborto e ne facilita la diffusione; misconosce la stessa famiglia come realtà radicata nella nostra natura e la riduce a mutevole prodotto culturale. Da più parti si assiste con indifferenza, quando non addirittura con compiacimento, alla disgregazione di questo istituto basilare per l’esistenza stessa della società”: Cei, Con il dono della carità dentro la storia. La Chiesa in Italia dopo il Convegno di Palermo, nota pastorale, Roma 26 maggio 1996, in Enchiridion della Conferenza Episcopale Italiana 6, 1996-2000, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2002, n. 35 (175). 309 percorsi di studio 355 percorsi di studio 356 luglio 2010 - anno X culturali. Si diffondono e si radicano visioni distorte e parziali dell’essere umano, veicolate ed amplificate da agenzie culturali, da gruppi sociali, dai media e in non pochi casi dai responsabili della cosa pubblica.313 Il progressivo oscurarsi di valori fondamentali, quali il significato della sessualità e della dualità uomo-donna, del matrimonio come istituto su cui si fonda la famiglia, della procreazione quale dimensione intrinseca dell’amore coniugale, della inviolabilità della vita umana, è l’esito di quella che è stata definita una vera “mutazione antropologica”.314 La crisi della famiglia deriva, infatti, da un radicale rovesciamento della visione dell’uomo: “Non si tratta più solamente di una messa in discussione di singole norme morali di etica sessuale. All’immagine di uomo/donna propria della ragione naturale e, in particolare, del cristianesimo, si oppone un’antropologia alternativa. Essa rifiuta il dato, inscritto nella corporeità, che la differenza sessuale possiede un carattere identificante per la persona; di conseguenza, entra in crisi il concetto di famiglia fondata sul matrimonio indissolubile tra un uomo e una donna, quale cellula naturale e basilare della società”.315 L’antropologia alternativa a cui fa riferimento il Santo Padre Giovanni Paolo II, presenta dei connotati molto precisi. Infatti quale inesorabile esito di una modernità costruita sulla separazione e sulla sostanziale contrapposizione tra fede e ragione, spiritualità e materialità, progressismo scientifico e conservazione religiosa, questa visione antropologica vanta la messa tra parentesi o il rifiuto della dimensione trascendente dell’essere umano. “L’uomo si ritrova a vivere nell’esaltazione della sua immanenza da cui derivano tutte le forme di mitizzazione: del potere come del guadagno, del divertimento come dell’apparire, inclusa anche la religiosità intesa come auto elevazione e autorealizzazione”.316 Alla vita come dono ricevuto che si realizza nel suo donarsi, si è sostituito il principio dell’autosufficienza, per cui ciascun essere umano si pone come centro e misura di tutte le cose. Come afferma Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis Splendor: “In alcune correnti del pensiero moderno, si è giunti ad esaltare la libertà al punto da farne un assoluto, che sarebbe la sorgente dei valori. In questa direzione si muovono le dottrine che perdono il senso della trascendenza o quelle che sono esplicitamente atee”.317 Cfr. Giuliodori C., Per la riscoperta della famiglia: il ruolo dei consultori familiari di ispirazione cristiana, in “Consultori Familiari Oggi” anno 8 n. 3, 2000, p. 170. 314 Ibidem. 315 Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, Roma 27 Agosto 1999, in “L’Osservatore Romano”, 28 Agosto 1999, p. 5. 316 Giuliodori C., Per la riscoperta della famiglia, cit., p. 172. 317 Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor, Lettera enciclica su alcune questioni fondamentali della dottrina morale della Chiesa, Roma, 11 agosto 1993, in Enchiridion Vaticanum 13, Documenti ufficiali della Santa Sede 1994-1995, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna, 1997, n. 32 (2620). 313 La perdita dell’orizzonte soprannaturale porta con sé una visione relativistica anche della stessa struttura sessuata e della polarità uomo-donna. Se non è più rintracciabile un disegno iscritto nella corporeità umana, perde di significato la struttura sessuata dell’essere umano e di conseguenza le istituzioni ad essa collegate, come il matrimonio e la famiglia. Temi come quelli della reciprocità complementare, di un amore che implica la totalità, la fedeltà e l’indissolubilità sembrano non trovare più spazio in un quadro in cui l’unico elemento di valutazione è il sentire individuale e l’ebbrezza del momento. Un fenomeno emblematico che fa esplodere le contraddizioni di una tale antropologia è riscontrabile nel crollo demografico. Non è mera questione di numeri. Ma si è di fronte ad una visione dell’essere umano così ripiegato su se stesso, da non riuscire a vedere oltre. È l’esito di un’antropologia senza vera relazionalità, quindi senza fecondità e, alla fine, senza speranza.318 “Per la riscoperta della famiglia, non possiamo che lasciarci guidare da Colui che ha rivelato la verità sull’uomo e sul suo destino. Per mostrarci i cardini su cui si fonda un’autentica antropologia, come ci ricorda il Concilio, Gesù Cristo santificò le relazioni umane, innanzitutto quelle familiari, dalle quali trae origine la vita sociale”.319 4.2 La famiglia in Puglia: una realtà in cambiamento La scelta di diventare famiglia: luoghi comuni, ipotesi, certezze - Gli studi sulla famiglia costituiscono, rispetto all’insieme delle esperienze di ricerca sulla società contemporanea, un elemento centrale in quanto l’analisi dell’universo domestico offre la possibilità di individuare i dinamismi portanti del cambiamento sociale. Tale studio, quanto più limitato geograficamente, aiuta a mettere in chiaro le domande di partenza di chi vuole conoscere ed operare a vario titolo al servizio delle famiglie, perché possano essere prodotti elementi di analisi relativi all’intreccio di relazioni affettive ed educative, all’elaborazione e trasmissione dei valori e modelli culturali, alla costruzione di schemi interpretativi di senso, cui consegua la possibilità di strutturare forme di accompagnamento ed interventi sociali efficaci che sostengano i nuclei domestici nel laborioso processo di approdo ad una identità consapevole. Limitando il campo all’analisi della Regione Puglia e comparando la situazione con le linee di tendenza nazionali, è possibile evidenziare alcune trasformazioni cruciali.320 La prima considerazione che emerge da tale studio è che “fare famiglia costituisce ancora un riferimento fondamentale sul piano ideale e come aspettativa per una vita sensata”.321 Cresce il numero delle famiglie (+8,6% negli ultimi venti anni; il valore nazionale è +9,5%), Cfr. Giuliodori C., Per la riscoperta della famiglia, cit., p. 172. Giuliodori C., Per la riscoperta della famiglia, cit., p. 173. 320 I dati a cui si farà riferimento di seguito, sono estrapolati da: Pacucci M., La famiglia in Puglia. Una realtà in cambiamento, relazione al Convegno della Federazione CFC Puglia: “Ripensare i Consultori Familiari in Puglia”, Bari, 16-17 gennaio 2009, in originale presso l’autore. 321 Idem, p. 4. 318 319 percorsi di studio 357 percorsi di studio 358 luglio 2010 - anno X si tratta però di una scelta caratterizzata da una minore disponibilità a formalizzarla come permanente celebrando un rito religioso o civile. Infatti il quoziente di nuzialità nel 2002, in Puglia era del 5,4% (contro il 4,7% a livello nazionale), con una riduzione percentuale negli ultimi dieci anni di circa il 15% (il trend italiano è del -13,5%). Il numero dei matrimoni religiosi rappresenta l’86,9% del totale (il 71,1% in tutto il Paese), ma vi è una contrazione di circa il 20% negli ultimi dieci anni, mentre i matrimoni civili aumentano del 36,7%, anche per effetto dei nuovi vincoli contratti dopo un divorzio.322 Insieme alla struttura familiare, mutano sensibilmente anche altri elementi fondamentali: l’innalzamento dell’età in cui ci si sposa323 (in media intorno ai trent’anni) e si hanno figli (al 2004 lo 0,9% delle madri non superava i 18 anni, il 50% apparteneva alla generazione tra i venti e trent’anni, il 43% a quelle tra i tenta e i quarant’anni ed infine il 3,5% oltre quell’età). La minore convinzione con cui si accede alla vita coniugale è fra i fattori che pesano sulla fecondità della coppia: nel 2005 il numero dei figli per donna era 1,27 (contro 1,60 rilevato nel 1992). La situazione pugliese delle situazioni matrimoniali che registrano una crisi irreversibile appare meno drammatica che nel resto dell’Italia, se si considera il dato relativo ai divorzi (circa 15%), ma a questo vanno aggiunte le separazioni esplicite e quelle implicite. Un’esperienza negativa non comporta necessariamente la rinuncia a “rifarsi una famiglia”,324 infatti nella Regione Puglia le seconde unioni regolate da un vincolo esplicito rappresentano il 3,2% (6,8% in Italia).325 La persistenza della famiglia nel territorio pugliese, pur nelle evoluzioni e nelle crisi finora evidenziate, sottolinea che, nelle diverse generazioni, la famiglia è in vetta alla gerarchia dei riferimenti esistenziali e che la sua valorizzazione viene trasmessa a livello educativo con una certa continuità. Altre rilevazioni statistiche evidenziano come “fare famiglia”326 è La celebrazione di una cerimonia pubblica indica la volontà di un legame stabile, ma la minore disponibilità a ricorrere al rito cattolico sottintende la difficoltà di considerare la scelta del partner come irreversibile. Cfr. Idem, p. 5. 323 La decisione di sposarsi coincide sempre di più con l’adultità anagrafica e fa pensare ad una certa consapevolezza della responsabilità assunta, anche se occorre tener presente i condizionamenti sociali che portano a rinviare il matrimonio e, di conseguenza, la difficoltà di adattarsi alle necessità della convivenza in età più avanzata. Cfr. Pacucci M., La famiglia in Puglia. Una realtà in cambiamento, cit., p. 5. 324 Ibidem. 325 Andrebbero considerate nel conteggio anche le unioni di fatto, che nel 2001 costituivano l’1,7% e che erano per i 2/3 caratterizzate da nuclei con figli. Nelle libere convivenze, peraltro, si riproducono tendenzialmente le stesse tipologie delle famiglie coniugali, il che fa supporre che l’esistenza o meno di un rapporto giuridico non modifica in modo particolare l’organizzazione del vissuto familiare e le problematiche ad esso connesso. Cfr. Pacucci M., La famiglia in Puglia. Una realtà in cambiamento, cit., p. 5. 326 Idem, p. 6. 322 una necessità legata all’orizzonte della quotidianità, alla cura delle persone, alla possibilità di affrontare gli impegni di lavoro e di garantire la formazione del reddito. Queste due conclusioni non sono in contraddizione tra di loro; piuttosto occorre riflettere su quale rapporto intercorre fra la sperimentazione del bisogno di famiglia e la visione valoriale di questa esperienza. Da questo potrebbero dipendere gli interventi che il sistema sociale predispone a tutela e come incentivo dell’affettività domestica e la possibilità di rendere sempre più presente alle nuove generazioni l’idea che “la famiglia è il fondamento di ogni espressione di civiltà”.327 Uno sguardo sulla famiglia pugliese - La tenuta familiare in Puglia è data sostanzialmente da diversi fattori. In primo luogo il senso della tradizione come riferimento portante per la trasmissione e l’elaborazione dei modelli di comportamento e dei significati fondamentali dell’esistenza. Tuttavia il rischio è che col passare del tempo il vissuto diventa stereotipato e occorre fare i conti con l’insufficienza degli automatismi familiari, ecco perché: “la custodia e l’utilizzo del passato funzionano bene nell’ordinaria amministrazione, non quando insorgono eventi straordinari, che si generano dentro la stessa realtà familiare o nell’impatto con il mondo circostante”.328 Un altro elemento importante consiste nell’insieme delle risorse che convergono negli impegni della cura parentale. Infatti il desiderio di una presenza in casa, soprattutto per l’assistenza dei minori e degli anziani; l’esigenza di risolvere particolari problemi in modo stabile e senza esternalizzazione alla società, portano a considerare l’azione istituzionale un ripiego e non commensurabile con quanto il nucleo familiare può fare per se stesso. Infine le famiglie pugliesi vivono, sul piano culturale, la paura e il fascino del nuovo; determinano i propri comportamenti mescolando nuovi valori e vecchi comportamenti e così sperimentano la flessibilità e la reversibilità come criteri dell’innovazione familiare. “Si tratta però, tranne per i gruppi sociali più attrezzati dal punto di vista culturale, di itinerari in cui prevale l’improvvisazione, con il rimpianto dei tempi passati che appaiono più coerenti”.329 Da quanto detto fin ora, consegue che non sono poche le famiglie che diventano, temporaneamente o definitivamente, problematiche. Tali situazioni si addensano, in buona misura, intorno a precise configurazioni morfologiche: famiglie dove vi sono minori, anziani, disabili o situazioni di forte incertezza nella formazione del reddito (19,4%), soprattutto se in corrispondenza di un numero elevato di componenti (2,9%). In queste realtà, i fattori che accentuano malessere e squilibri sono il progressivo invecchiamento delle famiglie (61,7% sono le famiglie in cui si parte dai 65 anni); il numero rilevante di Pacucci M., La famiglia in Puglia. Una realtà in cambiamento, cit., p. 6. Cfr. Idem, p. 8. 329 Pacucci M., La famiglia in Puglia. Una realtà in cambiamento, cit., p. 8. 327 328 percorsi di studio 359 percorsi di studio 360 luglio 2010 - anno X anziani autosufficienti (15,9%); la coincidenza tra solitudine abitativa e la condizione di divorziato o separato (quasi il 6%) o di vedovo (54,3%, con una netta preponderanza delle donne, soprattutto nelle classi d’età più anziane).330 “Tutte queste situazioni appaiono tanto più dolorose quando si presentano con il carattere di straordinarietà; se provocano effetti cumulativi; nei casi in cui le risorse della famiglia sono già insufficienti. La difficoltà maggiore, in Puglia, è che molti di questi eventi vengono vissuti in modo discreto e silenzioso e dunque qualsiasi intervento di sostegno e di cura appare dirompente, a meno che non viene canalizzato mediante rapporti fiduciari e reti solidaristiche preesistenti: un’indicazione, questa, preziosa per quanti devono agire sul piano istituzionale per prevenire e/tamponare le situazioni di disagio”.331 Proseguendo nell’analisi, a rendere alquanto statica l’immagine della famiglia pugliese, concorre anche il modo in cui i nuclei domestici impostano la loro presenza e partecipazione alla vita del contesto sociale. “I ritmi della socialità familiare sono spesso, in Puglia, lenti, occasionali, informali, selettivi e strumentali”.332 Infine, all’interno della regione si evidenziano situazioni di povertà e di esclusione sociale e, soprattutto, si vanno allargano fenomeni di diseguaglianza nell’accesso alle risorse materiali e culturali necessarie per un dignitoso standard di vita.333 Elementi chiave per decodificare il sommerso familiare - Da tutti gli elementi fin ora presentati, risulta molto difficile intervenire efficacemente nel mezzo di una crisi familiare non esplicitata, tuttavia è sempre più urgente operare in modo tempestivo con azioni preventive o di accompagnamento sociale. Pertanto risulta fondamentale la “decodifica del Cfr. Pacucci M., La famiglia in Puglia. Una realtà in cambiamento, cit., p. 9. Ibidem. 332 Se si esclude il campo religioso, dove si evidenziano segno di maggiore disponibilità e coinvolgimento, le altre occasioni utili per esprimere una cittadinanza attiva appaiono poco frequentate e perfino poco conosciute. Bassa risulta l’affluenza alle forme istituzionali legate alla vita scolastica dei figli, quasi inesistenti le forme di militanza sindacale o politica o anche quelle legate alla vita della città o del quartiere. Idem, p. 16. 333 La situazione di povertà delle famiglie del sud (25%) è quantitativamente doppia rispetto ai valori nazionali e quadrupla se si confronta la realtà del nord. A rischio di povertà, in Puglia, sono soprattutto le famiglie più ampie per il numero di componenti, quelle anziane, quelle culturalmente modeste e caratterizzate da occupazioni precarie. Un fenomeno significativo è quello dei giovani andati via di casa e costretti successivamente a chiedere aiuto alla famiglia di origine per periodi prolungati di disoccupazione o di insufficienza del reddito. Non sono pochi i nuclei che nel corso del 2002 (anno di riferimento statistico) hanno sperimentato la difficoltà di pagare le bollette (11,3%) o spese mediche (8,5%). Un cenno va fatto anche alle famiglie di stranieri o con stranieri: il loro numero è modesto (0,8% al 2001, ma progressivamente in espansione, senza tener conto delle presenze illegali) però pongono la problematica dell’integrazione tra identità e vissuti culturali e sociali differenti. Cfr. Pacucci M., La famiglia in Puglia. Una realtà in cambiamento, cit., p. 16. 330 331 sommerso”334 analizzando tre elementi chiave che pesano particolarmente sulla costruzione delle storie familiari: i percorsi e gli orizzonti dell’adultità, lo sviluppo del valore della responsabilità e l’attenzione al benessere affettivo. Per costruire una famiglia, è necessario aver conquistato una condizione di adultità. Allo stesso tempo, il compito fondamentale della famiglia è orientare i suoi membri a raggiungere la maturità, superando un primo elemento di difficoltà che è dato dal fatto che le diverse fasi della vita scorrono in modo sempre più fluidificato; infatti i ritmi della vita quotidiana portano a momenti di accelerazione e di decelerazione dell’evoluzione individuale, così da creare figure ibride: ragazzi precocemente adultizzati, adulti infantilizzati, adolescenti invecchiati e anziani che insistono in una pretesa di gioventù.335 I ritardi e gli anticipi vengono poi ad incrociarsi con alcuni stereotipi sull’adultità: le reciproche aspettative comportano una elaborazione faticosa e spesso incoerente dei ruoli familiari e sociali e, talvolta, generano o accentuano forme di disagio, comportano delusioni e rivendicazioni, sensi di inadeguatezza e incertezze comportamentali. Tale situazione, figlia della complessità sociale, che appare un problema insolubile, può diventare una risorsa, cioè un’occasione importante per avviare una riflessione più consapevole sul proprio profilo esperienziale e per allargare l’orizzonte dei riferimenti culturali cui attingere per dare senso alla prop