RASSEGNA STAMPA lunedì 16 giugno 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO REDATTORE SOCIALE PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA del 16/06/14, pag. 21 L'Arci per la prima volta elegge un presidente donna Sarà una donna a guidare la più grande associazione culturale italiana, l'Arci. Ed è la prima volta. Dopo aver trovato un'intesa che mancava da tre mesi è stata eletta alla presidenza Francesca Chiavacci, che per dieci anni ha guidato l'Arci Firenze, Chiavacci, 53 anni, ex deputata e relatrice del ddl sull’obiezione di coscienza, è stata votata da 160 dei 168 nuovi esponenti del Consiglio nazionale eletto dall'assemblea congressuale, su proposta unitaria. Chiamata alla «sfida del cambiamento — commenta la neo presidente— nei prossimi anni l'Arci dovrà avere un rinnovato protagonismo, a cominciare dalla questione dei diritti civili e della promozione della cultura, e per questo ci attende un profondo lavoro di riorganizzazione della nostra struttura nazionale, a partire dalla valorizzazione dei territori, autentico punto di forza». La scelta di una donna, frutto di «una convergenza molto ampia—ha aggiunto — è un passaggio importante per noi e la società italiana». Il Consiglio nazionale, su proposta della neo presidente, ha inoltre eletto Filippo Miraglia vicepresidente, mentre l'assemblea congressuale ha scelto per acclamazione Luciana Castellina come presidente onorario. del 16/06/2014, pag. 7 «Anche l’Arci si rinnova nell’era dei social media» L’intervista Francesca Chiavacci La neopresidente del colosso associativo: «I tempi sono cambiati, i soci in calo, abbiamo bisogno di nuova visibilità e di riorganizzarci» Tre mesi hanno portato consiglio. L’Arci, colosso associativo da 1 milione 100 mila soci e quasi 5 mila circoli, ritrova l’unità, il congresso sospeso a marzo a Bologna si è riunito di nuovo e ne esce presidente Francesca Chiavacci, 53 anni, fiorentina, già deputata Ds e consigliere comunale a palazzo Vecchio. Per la prima volta in 57 anni di storia una donna raggiunge il vertice dell’Arci. E promette un rinnovato impegno sui diritti civili, «su cui non si può mediare». Messaggio rivolto anche al governo Renzi: «Più che per unioni civili io sarei per i matrimoni omosessuali tout court». Presidente, l’hanno votata 160 membri su 168 del consiglio nazionale. Proprio sui criteri di formazione del consiglio vi eravate spaccati,tre mesi fa. Cosa è cambiato? «Abbiamo deciso di avere un confronto, come si è visto dalle due candidature (una novità, prima c’era sempre stata convergenza su un solo nome prima del congresso ndr). Si trattava di capire come anime diverse a livello territoriale possano riconoscersi in un’identità nazionale. Ad esempio ci sono regioni come Piemonte, Toscana ed Emilia2 Romagna dove la storia dell’associazione è stata più legata al movimento operaio e dove c’è un patrimonio di circoli radicato, altre in cui l’Arci è una realtà più militante, caratterizzata da battaglie su ambiente o legalità. Si trattava di tenere insieme queste storie diverse... ». Il suo avversario Filippo Miraglia, oggi vicepresidente,chiedeva appunto un riequilibrio della rappresentanza delle realtà con meno circoli ma grande vivacità, soprattutto al Sud. Come è andata? «Siamo arrivati a una proposta unitaria, con un consiglio che offre più spazio a questi territori al di là del numero effettivo dei soci. Ma non era solo questo l’oggetto del contendere, dietro c’era una discussione politica più ampia: una volta che abbiamo trovato una sintesi sulla gestione occorre riflettere sulla funzione di un’associazione quale è la nostra – laica, di promozione sociale e della partecipazione, per la cultura e il tempo libero – nella società dei social media, in cui sono mutati rappresentanza sociale e corpi intermedi, politica e partiti, in cui ad esempio si punta a una relazione diretta tra leader e cittadino. La difficoltà che tutti abbiamo individuato è come avviare un rilancio e avere più visibilità, anche mediatica ». Per questo lei promette una “profonda riorganizzazione della struttura”? In che direzione? «Parlo di rilancio perché, ad esempio, per quanto l’Arci rimanga una grande realtà cala il numero dei soci e quello dei nuovi circoli aperti, c’è l’abitudine a fare la tessera per frequentare un certo spazio mentre forse si indebolisce quella di aderire a un progetto. Dobbiamo rinnovarci. E per farlo occorre anche distribuire ai territori maggiori risorse, oggi in gran parte impegnate dalla struttura nazionale. Un altro tema è quello della comunicazione, non sempre abbastanza veloce all’interno della nostra organizzazione. Siamo una rete di realtà non del tutto collegate tra loro, basti pensare che la banca dati dei nostri soci non è completa... e anche il consiglio di cui abbiamo discusso si riunisce 4-5 volte l’anno: dobbiamo immaginare altri strumenti di dialogo. Anche con l’esterno. Quanto alla visibilità, è legata anche ai mutamenti della politica, oggi ad esempio accanto alle nostre battaglie per solidarietà pace e contro il razzismo c’è quella per la lotta alla povertà, che però dobbiamo potenziare. E c’è quella per la promozione dei diritti civili: un’associazione così radicata e popolare come la nostra può avere un ruolo importante nella formazione e nella crescita delle coscienze, ad esempio sui diritti delle persone omosessuali, anche più di realtà che si occupano specificamente di questo. Oggi c’è un’emergenza diritti, è un tema rimosso dalla politica su cui invece non si dovrebbe mediare». A proposito, Renzi all’assemblea Pd rilancia le unioni civili... «È sicuramente positivo che se ne torni a parlare, il punto è come poi si applicheranno. Il mio timore è che un Parlamento come quello attuale non riesca poi a produrre un risultato concreto, che non si arrivi insomma a una vera parificazione dei diritti delle coppie omosessuali, come invece in altri paesi europei. Io sarei perché fosse riconosciuto loro il matrimonio tout court. Ripeto, vedremo come si muoverà il Parlamento. Finora registro che certi temi rimangono sempre in secondo piano, anche il fine vita su cui pure riceviamo tante sollecitazioni». Il governo ha elaborato le linee guida per la riforma del Terzo settore e del servizio civile. Che giudizio ne dà? «È molto importante che ci si metta mano, l’ultima volta fu fatto con il governo Prodi. Poi anche qui si tratterà di vedere a cosa si arriva. Quello sul servizio civile è un segnale sicuramente molto positivo, il nodo concreto è che per pagare 100 mila giovani l’anno ci vogliono molti soldi, l’esecutivo ha trovato di recente quelli necessari all’attuale Sc che ha 3 numeri molto ridotti... Aspettiamo settembre quando la riforma si configurerà in modo più concreto». Come vede il rapporto tra Arci e Pd? «Nella reciproca autonomia, immagino un dialogo su singoli contenuti, come con tutti gli altri partiti. Il Pd ora è al governo, quindi ci si misurerà sulle sue proposte concrete. Anche se a oggi mi sembra che l’azione dell’esecutivo sia legata più all’emergenza, in particolare con proposte di riforma per il lavoro, che a una prospettiva di lungo termine. Le tematiche a noi vicine sono state poco trattate: penso alla necessità di investire sulla cultura, al diritto all’accesso alla cultura». Da Corriere Sociale del 16/06/2014 L’Arci per la prima volta elegge un presidente donna ROMA - Sarà una donna a guidare la più grande associazione culturale italiana, l’Arci. Ed è la prima volta. Dopo aver trovato un’intesa che mancava da tre mesi è stata eletta alla presidenza Francesca Chiavacci, che per dieci anni ha guidato l’Arci Firenze. Chiavacci, 53 anni, ex deputata e relatrice del ddl sull’obiezione di coscienza, è stata votata da 160 dei 168 nuovi esponenti del Consiglio nazionale eletto dall’assemblea congressuale, su proposta unitaria. Ripartire dai territori Chiamata alla «sfida del cambiamento – commenta la neo presidente – nei prossimi anni l’Arci dovrà avere un rinnovato protagonismo, a cominciare dalla questione dei diritti civili e della promozione della cultura, e per questo ci attende un profondo lavoro di riorganizzazione della nostra struttura nazionale, a partire dalla valorizzazione dei territori, autentico punto di forza». La scelta di una donna, frutto di «una convergenza molto ampia – ha aggiunto – è un passaggio importante per noi e la società italiana». Il Consiglio nazionale, su proposta della neo presidente, ha inoltre eletto Filippo Miraglia vicepresidente, mentre l’assemblea congressuale ha scelto per acclamazione Luciana Castellina come presidente onorario. http://sociale.corriere.it/2014/06/16/larci-per-la-prima-volta-elegge-un-presidente-donna/ Da Radio2 – Miracolo Italiano In apertura della trasmissione intervista alla presidente dell’Arci Francesca Chiavacci Domani il link del podcast. del 15/06/2014 Arci, Chiavacci presidente, Miraglia numero due Associazionismo. A due mesi dal congresso l’associazione ritrova l’unità. Castellina presidente onorario. I delegati si erano divisi sui due linee. Decisiva la rinuncia del responsabile immigrazione Riccardo Chiari 4 Ritrovata l’abituale capacità di fare sintesi politica in un macrocosmo popolato da un milione e 150mila soci in quasi cinquemila circoli, l’Arci elegge Francesca Chiavacci alla guida della più grande associazione laica italiana. Ad affiancarla come vicepresidente, anche lui eletto a stragrande maggioranza, sarà Filippo Miraglia. Mentre Luciana Castellina diventa, per acclamazione, presidente onoraria. Si chiude così il sedicesimo congresso dell’associazione, a tre mesi dalle complicate giornate bolognesi di marzo, quando a palazzo Re Enzo i lavori furono congelati. Per evitare che il confronto fra i due candidati Chiavacci e Miraglia si trasformasse in uno scontro all’ultimo voto, in uno scenario ben poco consono alla personale sensibilità di molti delegati, fedeli al principio «le diversità sono ricchezze» coniato dall’indimenticabile Tom Benetollo. Allo stallo congressuale ha cercato di porre rimedio un comitato di reggenti formato dai 17 responsabili regionali dell’associazione e dal presidente uscente Paolo Beni. Ma è stata soprattutto la disponibilità di Filippo Miraglia a ritirare la sua candidatura a permettere una efficace mediazione. Che si è tradotta, nell’appuntamento di ieri al circolo bolognese di San Lazzaro, in un voto che ha premiato sia Chiavacci (160 sì su 168 delegati presenti) che lo stesso Miraglia (142 sì). Voti espressi da un appena nominato Consiglio nazionale di 185 membri, eletti con un nuovo meccanismo elettorale che ha previsto un 76% di quota proporzionale e un 24% a tutela delle regioni «di frontiera». Quelle più lontane dal tradizionale insediamento dell’Arci in Emilia Romagna, Toscana, Piemonte e Lombardia. La neo presidente, prima donna alla guida dell’associazione, ha spiegato: «Abbiamo di fronte la sfida del cambiamento che vive il nostro paese e intendiamo viverla da protagonisti, cominciando dal nostro interno. Nei prossimi anni dovremo svolgere il nostro ruolo con un rinnovato protagonismo, a cominciare dalla questione dei diritti civili e della promozione della cultura, e per questo ci attende un profondo lavoro di riorganizzazione della nostra struttura nazionale, a partire dalla valorizzazione dei territori, nostro punto di forza, e dalla relazione della presidenza nazionale con essi». Il ragionamento fatto da Chiavacci, 53 anni, fiorentina, due volte deputata con il Pds ed ex presidente dell’Arci di Firenze, sembra andare nella direzione auspicata nel marzo scorso da Luciana Castellina: «Non è un peccato che ci siano due linee – aveva osservato la nuova presidente onoraria — che da un lato guardano alla vita quotidiana dei circoli e al radicamento sociale che ne viene prodotto, e dall’altro alle mobilitazioni, ai momenti di lotta che si legano ai conflitti politici e sociali, tanto necessari oggi come lo sono stati ieri. La forza dell’Arci è quella di avere al suo interno entrambe le modalità di azione. C’è chi vorrebbe che ne fosse accentuata una, e chi invece pensa che andrebbe privilegiato l’altro aspetto. Il ruolo del ‘centro’ è quello di stimolarle tutte e due». Nell’ordine del giorno unitario che ha chiuso il congresso, elaborato dai presidenti regionali e integrato dalla stessa Chiavacci, viene ribadita la necessità del cambiamento, di fronte a una crisi economica e sociale che non accenna a finire. Al tempo stesso la neo presidente ha osservato: «In una fase i cui i corpi intermedi sono sotto attacco, ora più che mai è necessario andare controcorrente. Perché per l’Arci la partecipazione è democrazia». Da ilfattoquotidiano.it del 14/06/2014 Arci, Francesca Chiavacci prima donna eletta alla presidenza nazionale 5 La vittoria è arrivata a distanza di tre mesi dal congresso che si era concluso con la nomina di un comitato di reggenti. A suo favore si sono espressi 160 membri su 168 Una donna alla guida dell’Arci per la prima volta nella sua storia. Francesca Chiavacci, infatti, è stata eletta presidente nazionale dell’associazione culturale da 160 membri sui 168 presenti. Il voto è arrivato a distanza di tre mesi dal congresso che si era svolto a Bologna e che si era concluso con la nomina di un comitato di reggenti. Il ballottaggio era tra la Chiavacci e Filippo Miraglia, già responsabile immigrazione per l’Arci, cui ora spetta la carica di vicepresidente. Come da statuto, a eleggere il Presidente nazionale dell’associazione è stato il nuovo Consiglio Nazionale, che poco prima era stato votato dall’assemblea congressuale sulla base di una proposta unitaria sui criteri di composizione. “Abbiamo di fronte la sfida del cambiamento che vive il nostro Paese e intendiamo viverla da protagonisti, cominciando dal nostro interno”, ha commentato Francesca Chiavacci subito dopo la sua elezione. “Nei prossimi anni – aggiunge la neo presidente dell’Arci – dovremo svolgere il nostro ruolo con un rinnovato protagonismo, a cominciare dalla questione dei diritti civili e della promozione della cultura, e per questo ci attende un profondo lavoro di riorganizzazione della nostra struttura nazionale, a partire dalla valorizzazione dei territori, autentico punto di forza del nostro associazionismo, e dalla relazione della Presidenza nazionale con essi”. La Chiavacci vanta una lunga militanza nel movimento pacifista e nell’associazionismo di sinistra, responsabilità da amministratore locale ed era nota a Palazzo Vecchio per essere una delle più forti oppositrici del presidente del Consiglio. Alla Camera, negli anni in cui è stata eletta deputata, è stata relatrice del disegno di legge sull’obiezione di coscienza. “Credo che la scelta di una donna alla guida dell’Arci sia un passaggio davvero importante per noi e per la società italiana, anche perché è il risultato di una convergenza molto ampia all’interno della nostra associazione” ha concluso. http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/06/14/arci-francesca-chiavacci-prima-donna-eletta-allapresidenza-nazionale/1027813/ Da Repubblica.it (Firenze) del 14/06/2014 Arci, Chiavacci prima donna presidente nazionale Per dieci anni alla guida della sezione di Firenze: "Un passaggio davvero importante" Arci, Chiavacci prima donna presidente nazionalePer la prima volta sarà una donna a guidare la più grande associazione culturale italiana: l'Arci ha trovato l'intesa che era mancata tre mesi fa e ha eletto Francesca Chiavacci alla presidenza. Per dieci anni presidente di Arci Firenze, 53 anni, ex deputata e relatrice del ddl sull'obiezione di coscienza, Francesca Chiavacci è stata votata da 160 dei 168 nuovi esponenti del Consiglio nazionale eletto oggi dall'assemblea congressuale, su proposta unitaria. Chiamati alla "sfida del cambiamento", commenta la neo presidente, nei prossimi anni l'Arci dovrà avere un "rinnovato protagonismo, a cominciare dalla questione dei diritti civili e della promozione della cultura, e per questo ci attende un profondo lavoro di riorganizzazione della nostra struttura nazionale, a partire dalla valorizzazione dei territori, 6 autentico punto di forza". La scelta di una donna risultata da una "convergenza molto ampia" - ha aggiunto - è "un passaggio davvero importante per noi e per la società italiana". Il Consiglio nazionale, su proposta della neo presidente, ha inoltre eletto Filippo Miraglia come vicepresidente, mentre l'assemblea congressuale ha scelto per acclamazione Luciana Castellina come presidente onorario. Si chiude dunque il 16/o Congresso dell'Arci, ringraziando l'uscente Paolo Beni che ha guidato l'associazione per dieci anni e tributando un applauso alla memoria di Tom Benetollo, presidente fino al 2004, in vista del decennale della scomparsa il 20 giugno. http://firenze.repubblica.it/cronaca/2014/06/14/news/arci_chiavacci_prima_donna_preside nte_nazionale-88955299/ Da Repubblica.it (Bologna) del 14/06/2014 L'Arci trova l'intesa ed elegge il primo presidente donna: è Francesca Chiavacci Per dieci anni è stata presidente Arci a Firenze BOLOGNA - Per la prima volta sarà una donna a guidare la più grande associazione culturale italiana: l'Arci ha trovato l'intesa che era mancata tre mesi fa e ha eletto Francesca Chiavacci alla presidenza. Per dieci anni presidente di Arci Firenze, 53 anni, ex deputata e relatrice del ddl sull'obiezione di coscienza, Francesca Chiavacci è stata votata da 160 dei 168 nuovi esponenti del Consiglio nazionale eletto oggi dall'assemblea congressuale, su proposta unitaria. Chiamati alla "sfida del cambiamento", commenta la neo presidente, nei prossimi anni l'Arci dovrà avere un "rinnovato protagonismo, a cominciare dalla questione dei diritti civili e della promozione della cultura, e per questo ci attende un profondo lavoro di riorganizzazione della nostra struttura nazionale, a partire dalla valorizzazione dei territori, autentico punto di forza". La scelta di una donna risultata da una "convergenza molto ampia" - ha aggiunto - è "un passaggio davvero importante per noi e per la società italiana". Il Consiglio nazionale, su proposta della neo presidente, ha inoltre eletto Filippo Miraglia come vicepresidente, mentre l'assemblea congressuale ha scelto per acclamazione Luciana Castellina come presidente onorario. Si chiude dunque a Bologna il 16esimo Congresso dell'Arci, ringraziando l'uscente Paolo Beni che ha guidato l'associazione per dieci anni e tributando un applauso alla memoria di Tom Benetollo, presidente fino al 2004, in vista del decennale della scomparsa il 20 giugno. http://bologna.repubblica.it/cronaca/2014/06/14/news/l_arci_trova_l_intesa_ed_elegge_il_ primo_presidente_donna_francesca_chiavacci_-88954580/ Da Redattore Sociale del 14/06/2014 Francesca Chiavacci eletta nuovo presidente nazionale dell'Arci E' stata eletta oggi, nel corso del Consiglio nazionale di Bologna, con 160 voti su 168. Dopo tre mesi, l'associazione ha trovato un'intesa. La neo eletta: "Abbiamo di fronte la sfida del cambiamento che vive il 7 nostro Paese e intendiamo viverla da protagonisti, cominciando dal nostro interno" ROMA - L'Arci ha il suo nuovo presidente. Si tratta di Francesca Chiavacci, eletta quest'oggi quasi all'unanimità nel corso del Consiglio nazionale al circolo San Lazzaro di Bologna. Per la prima volta una donna alla guida della più grande associazione culturale del nostro Paese. Attiva nei movimenti pacifisti, presidente per 10 anni dell'Arci di Firenze, Chiavacci è stata eletta a maggioranza con con 160 voti su 168. Le prime dichiarazioni. “Abbiamo di fronte la sfida del cambiamento che vive il nostro Paese e intendiamo viverla da protagonisti, cominciando dal nostro interno – ha spiegato Francesca Chiavacci subito dopo la sua elezione -. Nei prossimi anni dovremo svolgere il nostro ruolo con un rinnovato protagonismo, a cominciare dalla questione dei diritti civili e della promozione della cultura, e per questo ci attende un profondo lavoro di riorganizzazione della nostra struttura nazionale, a partire dalla valorizzazione dei territori, autentico punto di forza del nostro associazionismo, e dalla relazione della Presidenza nazionale con essi”. Chi è Francesca Chiavacci. Nata nel 1961, per dieci anni presidente di Arci Firenze e componente della Presidenza Nazionale, Chiavacci vanta una lunga militanza nel movimento pacifista e nell'associazionismo di sinistra, responsabilità da amministratore locale. Alla Camera, negli anni in cui è stata eletta Deputata (nel 1994 e nel 1996), è stata relatrice del disegno di legge sull'obiezione di coscienza. “Credo che la scelta di una donna alla guida dell'Arci sia un passaggio davvero importante per noi e per la società italiana, anche perchè è il risultato di una convergenza molto ampia all'interno della nostra associazione”, ha concluso Chiavacci dopo la sua elezione. http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/462620/Francesca-Chiavacci-elettanuovo-presidente-nazionale-dell-Arci Da Radio Città del Capo del 14/06/2014 Arci. Francesca Chiavacci nuovo presidente E’ la fiorentina Francesca Chiavacci la nuova presidente nazionale di Arci. Succederà a Paolo Beni e guiderà per i prossimi anni la più grande organizzazione di promozione sociale in Italia. Filippo Miraglia sarà invece il vicepresidente. Lo ha deciso il consiglio nazionale Arci, riunito a Bologna per la seconda volta dopo il nulla di fatto dello scorso marzo quando le mozioni Miraglia e Chiavacci si scontrarono di fronte ai 600 delegati arrivati in città. Questa volta le cose sono andate diversamente. Miraglia ha ritirato la propria candidatura chiedendo il voto per Chiavacci, che a sua volta ha proposto la vicepresidenza per Miraglia. Segno che la mediazione dei garanti, che hanno guidato Arci da marzo ad oggi, ha dato i suoi frutti. Per la prima volta sarà una donna a guidare la più grande associazione culturale del nostro Paese. “Abbiamo di fronte la sfida del cambiamento che vive il nostro Paese e intendiamo viverla da protagonisti, cominciando dal nostro interno – ha spiegato Francesca Chiavacci subito dopo la sua elezione”. “Nei prossimi anni – aggiunge la neo presidente dell’Arci – dovremo svolgere il nostro ruolo con un rinnovato protagonismo, a cominciare dalla questione dei diritti civili e della promozione della cultura, e per questo ci attende un profondo lavoro di riorganizzazione della nostra struttura nazionale, a partire dalla valorizzazione dei territori, autentico punto di forza del nostro associazionismo, e dalla relazione della Presidenza nazionale con essi”. 8 A favore di Francesca Chiavacci si sono espressi 160 membri del nuovo Consiglio nazionale su 168 membri presenti. Nata nel 1961, per dieci anni presidente di Arci Firenze e componente della Presidenza Nazionale, Chiavacci vanta una lunga militanza nel movimento pacifista e nell’associazionismo di sinistra, responsabilità da amministratore locale. Alla Camera, negli anni in cui è stata eletta Deputata, è stata relatrice del disegno di legge sull’obiezione di coscienza. “Credo che la scelta di una donna alla guida dell’Arci sia un passaggio davvero importante per noi e per la società italiana, anche perchè è il risultato di una convergenza molto ampia all’interno della nostra associazione”, conclude Chiavacci. Nella mattinata l’assemblea congressuale dell’associazione aveva eletto per acclamazione alla carica di Presidente onorario Luciana Castellina. Giovanni Stinco http://www.radiocittadelcapo.it/archives/arci-la-nuova-presidente-e-francesca-chiavacci141807/ Da SmartIt del 13/06/14 La musica in mezzo al guado Christina Elisha Il 18 Giugno festeggiamo anche noi la Festa della Musica, nata a Parigi per promuovere in ogni piazza e strada la pratica dello strumento musicale e l’ascolto di ogni tipo di musica. Anche il mondo della musica soffre del periodo di crisi che sta attraversando l’Italia. La fotografia del Paese fatta dall’Istat, presentata il 28 maggio 2014, certifica ancora una volta una contrazione dei consumi e degli investimenti. La musica è uno dei settori più interessanti del sistema culturale del nostro Paese. Settore che cerca di trovare una sua sostenibilità economica e nuovi percorsi per sostenere la pratica, la formazione musicale, l’aumento della partecipazione culturale delle persone. Progetti innovativi e grande capacità di adattamento contrastano la debolezza dovuta a gravi ritardi del settore e alla diminuzione del sostegno pubblico. L’appuntamento si volgerà a Roma alle 10:30 presso la Sala Convegni dell’Istituto di Santa Maria in Aquiro, Senato della Repubblica, Piazza Capranica 72. Il Governo, già dallo scorso decreto legge “Valore Cultura”, ha posto le basi per nuove opportunità come quella di usufruire di spazi demaniali per la nascita di luoghi dedicati alle arti, performative e non solo, sgravi alle opere prime dei giovani musicisti, semplificazione dei live di piccoli concerti, un rinnovamento del FUS , un aggiornamento dell’equo compenso per la creatività, la depenalizzazione del reato di disturbo di quiete pubblica. Si registrano anche interessanti iniziative legislative del parlamento per questo settore come la proposte di legge sulla formazione musicale, sulla raccolta dei proventi da diritto d’autore, sulla creatività giovanile. L’ ”Agenda digitale Italiana” potrebbe diventare uno dei volani per rafforzare il settore della musica digitale, sia per la sua fruizione che per la possibilità di sviluppo di nuovi servizi per progetti innovativi a sostegno del mondo della musica. Una riflessione importante va fatta sulla musica e i media, sapendo che la musica italiana è spesso poco valorizzata e che è in corso la definizione del nuovo contratto di servizio tra RAI e Stato italiano che sarà adottato nel 2016 e avrà effetti importanti sulla cultura musicale del nostro Paese. Per questo l’Arci, AudioCoop e gli Amici della Musica, in collaborazione con il Mei – Meeting delle Etichette Indipendenti, Cemat, Forum Nazionale per l’Educazione Musicale, I-Jazz, Rete dei Festival, SMartIt, Left e altri promuovono un incontro tra gli operatori del settore e i parlamentari di Camera e Senato per fare il punto sulla legislazione in atto, 9 rafforzare percorsi legislativi e promuovere provvedimenti puntuali, sviluppare nuovi ambiti di intervento. L’apertura dei lavori sarà alle ore 10.30 a cura di Carlo Testini, responsabile nazionale delle politiche culturali dell’Arci, insieme a Roberto Pietrangeli degli Amici della Musica. Alle ore 12 Giordano Sangiorgi del MEI presenterà Mei 2.0 – Il Meeting delle Etichette Indipendenti festeggia i suoi 20 anni. Tra i parlamentari di Camera e Senato hanno già confermato la loro partecipazione: Corradino Mineo (Senato-PD),Umberto D’Ottavio (Senato-PD), Stefano Collina (SenatoPD), Elena Ferrara (Senato-PD), Alessia Petraglia (Senato-SEL),Francesca Puglisi (Senato-PD), Paolo Beni (Camera-PD), Celeste Costantino (Camera-SEL), Giulia Narduolo (Camera-PD), Matteo Orfini (Camera-PD), Veronica Tentori (Camera-PD), Andrea Romano (Camera-Scelta Civica), Stefano Fassina (Camera – PD), Josefa Idem (Senato – PD). Interverranno: Carlo Testini (Arci), Giordano Sangiorgi (MEI – Meeting degli Indipendenti), Roberto Pietrangeli (Amici della Musica), Stefano Boeri (#PiùMusicaLive), Donatella Coccoli (#Cambiamomusica/Left), Luca Fornari (Presidente ATCL-Associazione Teatrale fra i Comuni del Lazio), Claudio Formisano (Dismamusica), Francesco Galtieri (Forum Nazionale per l’Educazione Musicale), Andrea Miccichè (Nuovo Imaie), Gianni Pini (IJazz), Vincenzo Santoro (ANCI), , Vincenzo Spera (Assomusica), Giulio Stumpo (SMartIt), Gianni Trovalusci (CEMAT/Movem), Tommaso “Piotta” Zanello e molti altri. Sono stati invitati Rappresentanti di Siae e Radio Rai. E’ necessario iscriversi all’evento inviando una mail a [email protected] o a [email protected] Si rammenta che per accedere alle sale del Senato è obbligatoria la giacca e la cravatta per gli uomini. Sarà possibile seguire l’evento in video streaming sui siti: www.arci.it , www.audiocoop.it, www.retedeifestival.it e sulla web radio Radio Cemat www.radiocemat.org Per info: - Arci ([email protected], 06.41609501) - Audiocoop ([email protected]) – Amici della Musica ([email protected]) – Giuseppe Ministeri ([email protected] , 06.67063180) Share on facebookShare on twitterShare on emailShare on pinterest_shareMore Sharing Services0 http://smart-it.org/blog/la-musica-mezzo-al-guado/ 10 ESTERI Del 16/06/2014, pag. 14 Iraq, esecuzioni di massa e cadaveri decapitati le foto dell’orrore sul web Gli “uomini neri” dell’Isis: “Giustiziati 1700 soldati” Gli Stati Uniti evacuano personale dall’ambasciata MARCO ANSALDO DAL NOSTRO INVIATO ZAKHO (KURDISTAN IRACHENO) «QUESTA è la sorte che attende gli sciiti mandati da Nuri a combattere contro i sunniti». Quando nel ristorante del piccolo hotel sulla via principale di Zakho, nel nord dell’Iraq, la tv nazionale eclissa le immagini dei Mondiali di calcio per dare spazio alle notizie dal vicino fronte di guerra, un brivido percorre la sala. Il commento minaccioso accompagna foto di teste tagliate e esecuzioni di massa compiute dai miliziani jihadisti sugli ufficiali iracheni del premier Nuri al Maliki. Fra i tavoli, tutti finiscono di colpo per lasciare sul piatto gli spiedini fumanti e nessuno ha più voglia di dire niente. Le immagini sono scioccanti e ognuno capisce che quelle scene sono state riprese a sole due o tre ore di macchina da qui. Arrivano dalle zone dalla nuova entità fantasma dallo Stato islamico dell’Iraq e della Siria (Isis), che comincia a Mosul. Proprio dove finisce il Kurdistan iracheno. «Su Twitter — riferisce ancora lo speaker — è stata diffusa la foto della testa decapitata di un ufficiale di polizia con un commento in inglese riferito ai Mondiali di calcio che si svolgono in Brasile: “Questa è la nostra palla. È fatta di pelle WorldCup”». Gli scatti, diffusi da un sito militante, sono una sessantina. Ci sono immagini di decine di corpi di persone giustiziate all’impronta da combattenti a volto coperto. I soldati erano quelli catturati il primo giorno dell’offensiva fondamentalista, il 10 giugno, appena una settimana fa, nella provincia di Salahuddin, capoluogo Tikrit. Il portavoce dell’esercito ne ha confermato l’autenticità. In alcune foto si vedono i militanti mascherati dell’Isis caricare i prigionieri sui furgoni, poi costringergli a mettersi volto a terra in un canale poco profondo con le braccia legate dietro la schiena. L’ultimo scatto mostra i corpi dei prigionieri nel sangue dopo essere stati raggiunti dai colpi di fucile. Le didascalie vorrebbero spiegare la ragione di queste azioni atroci. Sono una vendetta — si legge — per la morte di un comandante dell’Isis caduto in battaglia poco prima che il gruppo prendesse il controllo di Mosul e Tikrit, martedì e mercoledì scorso. Per la maggior parte i soldati appaiono vestiti con abiti civili, le uniformi spuntano a volte da sotto, indicando che alcuni hanno provato a travestirsi in fretta per tentare la fuga. E in effetti diversi militari e agenti di polizia avevano lasciato all’improvviso gli equipaggiamenti nel momento in cui i miliziani entravano nelle città, uccidendo e bruciando. Spietati sì, ma tutt’altro che ingenui nell’uso delle nuove tecnologie. I fanatici della nuova Al Qaeda hanno subito comunicato via Twitter di «aver giustiziato 1.700 soldati iracheni». C’è chi mette in dubbio il numero delle vittime. Se fosse vero, si tratterebbe della peggiore atrocità di massa perpetrata sia in Siria, sia in Iraq negli ultimi anni, superando anche gli attacchi con armi chimiche alla periferia di Damasco dello scorso anno, con 1.400 persone uccise. L’efferatezza degli jihadisti impressiona tutti in Iraq. Dopo la conquista di Mosul, gli “uomini in nero” guidati da Abu Bakr al Baghdadi controllano adesso in Iraq un’area vasta quanto la Giordania, che si estende da Aleppo fino a Bagdad. E dove vivono 6 milioni di persone alle quali sono state imposte tasse e un codice islamico di rara severità. I 11 qaedisti, partiti poco più di un anno fa dalla Siria, hanno conquistato lo snodo strategico della città di Raqqah, dove hanno sfruttato i vicini pozzi petroliferi accumulando risorse formidabili sequestrando cittadini siriani e stranieri. È questa la zona dove fu rapito il gesuita Paolo Dall’Oglio. Tra i 6 mila combattenti in Iraq, i 5 mila in Siria, ci sono anche 3 mila stranieri: un migliaio di ceceni e di cinquecento o più europei, provenienti per lo più dalla Francia e dalla Gran Bretagna. Il progetto finale è un califfato che si estenda lungo i confini meno controllati dell’Iraq e della Siria. Ma le forze irachene sanno tutto questo e sono pronte alla controffensiva totale. Dopo le zone curde riassicurate dai peshmerga locali, tocca ora ai governativi riprendere il controllo di Tikrit e Mosul. Raid aerei stanno preparando il terreno per le truppe di terra. Compito tutt’altro che facile: ieri i fondamentalisti hanno provato a prendere il controllo di Tal Afar, nel nord, abitata soprattutto dalla minoranza turcomanna, lanciando razzi. A Bagdad un’autobomba ha causato 10 morti e 21 feriti. Un’escalation di attacchi suicidi, nella capitale, con obiettivo i quartieri sciiti vicini al premier o le forze di sicurezza. Sul fronte diplomatico il segretario di Stato americano, John Kerry, ha parlato al telefono con il ministro degli Esteri di Bagdad, Hoshyar Zebari, ribadendogli che l’assistenza degli Stati Uniti «avrà successo solo se i leader iracheni vorranno mettere da parte le differenze e applicare un approccio coordinato per forgiare l’unità nazionale». Intanto l’ambasciata Usa di Bagdad rafforza le misure di sicurezza e fa andar via una parte dello staff. Al Cairo la Lega Araba si è riunita rifiutando di mischiarsi nelle questioni interne dell’Iraq e sottolineando il proprio rispetto per la sovranità e l’integrità territoriale del Paese. La penosa situazione è sotto lo sguardo attento di Papa Francesco. Ieri Bergoglio ha invitato i fedeli a unirsi alla preghiera «per la cara nazione irachena, soprattutto per le vittime e per chi soffre maggiormente le conseguenze dell’accrescersi della violenza, in particolare per le molte persone, tra cui tanti cristiani, che hanno dovuto lasciare la propria casa». Al termine, Francesco ha lanciato un appello per «un futuro di riconciliazione », chiedendo di recitare assieme a lui la preghiera dell’Ave Maria per il popolo iracheno. Immagini subito rimbalzate sulle tv irachene, dove l’attenzione del Papa cattolico di Roma stupisce e commuove in questo momento di grande difficoltà. Del 16/06/2014, pag. 17 Grano, petrolio e fede Sei anni di preparativi dietro l’avanzata dei jihadisti dell’Isis TIM ARANGO, KAREEM FAHIM E BEN HUBBARDJUNE ERBIL QUANDO i militanti islamici sono entrati a Mosul la settimana scorsa e hanno rapinato le banche di centinaia di milioni di dollari, aperto i cancelli delle prigioni e bruciato i mezzi militari, una parte della popolazione li ha accolti come liberatori, con tanto di lancio di pietre ai soldati iracheni in ritirata. Ma sono bastati due giorni ai combattenti dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria per imporre le dure norme della legge islamica in base alla quale intendono governare e per procedere a esecuzioni sommarie di agenti di polizia e operatori governativi. Il blitz ad opera di poche migliaia di combattenti spintisi fino a Mosul e più a Sud sembra aver colto di sorpresa i militari iracheni e americani, ma si tratta in 12 realtà dell’esito di un strategia di state building che il gruppo porta avanti da anni senza farne alcun mistero, anzi, promuovendola pubblicamente. «Oggi in Iraq assistiamo alla realizzazione degli obiettivi che l’Isi si è posta dalla sua fondazione, nel 2006», spiega Brian Fishman, esperto di antiterrorismo della New America Foundation. L’organismo di cui parla, lo Stato Islamico dell’Iraq, è il predecessore dell’attuale Isis. Il gruppo estremista sunnita si è prefisso di ritagliarsi un califfato, cioè uno stato religioso islamico, che comprenda le regioni irachene e siriane a maggioranza sunnita, documentando ampiamente i progressi realizzati e addirittura pubblicando rapporti annuali sull’avanzamento della strategia. Sotto la guida di Abu Bakr al-Baghdadi, in passato prigioniero in una struttura di detenzione americana, il gruppo si è dimostrato violento e risoluto nel perseguire i propri obiettivi religiosi, ma anche pragmatico nello stringere alleanze e nel conquistare e cedere territori. È del 2007 un opuscolo che espone la visione del gruppo per il futuro dell’Iraq. La religione ha la precedenza sull’amministrazione e uno dei principali compiti dei militanti è liberare i sunniti dalle prigioni. Ai tempi della guerra settaria iniziata nel 2006, i jihadisti si inimicarono la cittadinanza con i loro tentativi di imporre la legge islamica e subirono una serie di sconfitte per mano dei combattenti tribali aderenti alla campagna americana di controinsurrezione, che li costrinsero a ritirarsi dall’Iraq occidentale alle regioni attorno a Mosul. Ma con lo scoppio della guerra civile oltreconfine in Siria tre anni fa, il gruppo individuò nuove opportunità di crescita. Lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria «ha invaso la Siria da Mosul ben prima di invadere Mosul dalla Siria», dice Fishman. Il gruppo si è rafforzato in Siria grazie a una doppia strategia che prevede da un lato attacchi con l’obiettivo di conquistare risorse come depositi di armi, pozzi di petrolio e granai, evitando dall’altro gli scontri prolungati con le forze governative che hanno polverizzato gli altri ribelli siriani. In Iraq, la resistenza del governo è crollata in molte zone conquistate. A sorpresa, come nel blitz su Mosul, il gruppo ha consolidato il proprio controllo su Raqqa, in Siria, da più di un anno e su Falluja, nell’Iraq occidentale, da sei mesi. Nei primi mesi dell’anno Al Qaeda ha ripudiato il gruppo, dopo che il leader dell’organizzazione, Ayman al Zawahiri, ne aveva ordinato il ritiro in Iraq per lasciare le operazioni in Siria all’organizzazione locale affiliata ad Al Qaeda, il Fronte Nusra. La frattura ha portato a un’aspra rivalità tra i due gruppi e lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria è entrato in competizione con Al Qaeda per le risorse e per un ruolo preminente nella più ampia comunità jihadista internazionale. Illuminante per comprendere l’idea che il gruppo ha di se è un video promozionale pubblicato recentemente dal titolo “Il suono delle sciabole”. Vengono mostrati combattenti barbuti, armati, provenienti da tutto il mondo arabo che ripudiano il loro paese d’origine strappando i passaporti, oppure in preghiera nelle moschee o manifestanti la propria fedeltà a Baghdadi. In altre scene si vedono i combattenti che sparano contro presunti appartenenti all’esercito iracheno, li inseguono per i campi, li catturano e quindi li giustiziano. Il gruppo porta avanti strategie diverse calibrate per la Siria e per l’Iraq. In Siria si è concentrato soprattutto sulla conquista di territori già strappati al governo ma scarsamente controllati da altri gruppi ribelli. In Iraq ha sfruttato la delusione diffusa tra i sunniti rispetto al governo di Al Maliki, per allearsi con altri gruppi militanti sunniti, come un’organizzazione guidata da ex funzionari del partito baahtista di Saddam Hussein. Benché molti di questi gruppi, inclusi i baahtisti ed altre milizie tribali si siano apparentemente unite all’Isis per combattere il comune nemico, l’organizzazione e le risorse del gruppo potrebbero invogliarle a stringere un’alleanza più duratura, rendendo ancor più arduo per il governo di Maliki ristabilire il controllo. 13 del 16/06/14, pag. 11 A 11 anni dall’attacco nessun ripensamento “Non è colpa nostra” Il gran ritorno di Blair (che chiama alle armi) Fabio Cavalera Alle armi. «Laddove gli estremisti islamici combattono, noi dobbiamo contrastarli con durezza e con forza». Tony Blair si rimette in marcia e chiama l’Occidente alla mobilitazione contro i terroristi che minacciano l’Iraq e proclamano di volere occupare Bagdad. Non è un leader da capriole politiche, l’ex inquilino laburista di Downing Street, specie quando di mezzo c’è l’interesse «di tutti noi» a spegnere le velleità e i disegni di chi pianificò e realizzò l’11 Settembre alle Torri Gemelli. I suoi compagni di partito, gli stessi laburisti, sono spiazzati e fra loro c’è chi (Clare Short, ex deputata e ministro proprio del governo Blair) l’accusa di usare un linguaggio da «neoconservatore americano». Ma Tony Blair incalza. «L’ideologia che stava dietro a quell’attacco non è scomparsa». I gruppi della jihad non si sono arresi. Dunque, spiega Blair, «la nostra battaglia non è finita». Vanno fermati. E qualsiasi opzione «dagli attacchi aerei all’utilizzo dei droni» (comunque senza un intervento diretto di truppe) è preferibile all’immobilismo. Pende sulla testa dell’ex premier britannico la relazione finale, con pubblicazione dei documenti, della commissione Chilcot che ha indagato per lungo tempo sulle ragioni che determinarono Londra ad affiancare l’America di George Bush nella guerra contro Saddam nel 2003 e sulle bugie allora utilizzate per giustificarla. Il via libera al rapporto è stato dato e conterrà, probabilmente dopo l’estate, una censura forte nei confronti di chi sposò la linea della Casa Bianca. Ma Tony Blair, allora come oggi, ha sempre difeso e con passione la sua condotta. Fu giusto nel 2003 andare in Iraq e cacciare Saddam. Ed è altrettanto giusto adesso bloccare i jihadisti dell’Isis. Prima dal suo sito Internet (tonyblairoffice.org ) poi chiamando le telecamere della Bbc e di altre emittenti, Tony Blair allontana le suggestioni di un ripensamento e di un’autocritica sull’alleanza del 2003 con gli Stati Uniti. E se a quei tempi, pur a malincuore come ha sempre sostenuto, fu convinto da George Bush alla mobilitazione militare anche ora, e con maggiore e piena convinzione, ritiene che le parole di condanna non bastino. «L’Iraq è in pericolo mortale. L’intero Medio Oriente è sotto minaccia». Liberiamoci dall’idea, scrive Blair, che questa precarietà e questa minaccia siano state create «da noi», dall’Occidente. «Non è vero. Possiamo discutere se l’azione o l’inazione siano state o siano la migliore politica. Ma la causa fondamentale della crisi è nella regione, non fuori». C’è chi sostiene che rimuovere Saddam sia stato un errore e che la sua destituzione abbia contribuito a destabilizzare l’area. «Una posizione bizzarra». Saddam aveva in passato fatto uso di armi chimiche contro il suo popolo, «se ne era poi sbarazzato ma manteneva intatta la capacità di produrle»: siamo sicuri che lasciandolo al potere non le avrebbe di nuovo riportate in produzione? Nessun passo indietro: intervenire in Iraq fu la corretta soluzione. La situazione è oggi a un punto di svolta. Il Medio Oriente è «in un’ampia, lunga e ora agonizzante transizione». L’instabilità è dovuta a un mix di fattori endogeni: «istituzioni deboli, governi oppressivi, abuso della religione». 14 Le «cosiddette primavere arabe» sono state una rivoluzione ma una rivoluzione, dice Blair, che ha tolto il tappo alle tensioni etniche, tribali, religiose e che non ha dato risposta alla domanda di lavoro delle nuove generazioni. Per cui la ricostruzione dei Paesi interessati ai cambiamenti sta diventando un sfida difficile, anche perché, in un quadro di grande confusione riemergono gli estremismi con le stesse ideologie dell’11 settembre 2001. Il «che fare» è un tema sensibile. Gli avvenimenti dell’Iraq di questi giorni sono la spia della pericolosa degenerazione. «Piaccia o no», l’Occidente non può stare a guardare: l’attacco militare ai jihadisti è nell’interesse di tutti, «mettiamo da parte le differenze del passato e operiamo per salvare il futuro», nell’indifferenza vince il terrorismo. È l’ultima lezione del laburista scomodo Tony Blair, non più amato in patria, specie dai suoi ex amici di partito. È ancora in trincea. Del 16/06/2014, pag. 1-26 LA COPERTINA Sarajevo la biblioteca della rinascita LUCA RASTELLO SARAJEVO AVOLTE i simboli accecano. Paradossalmente, soprattutto a guardarli da lontano. Certo, è impossibile tenere a freno l’emozione, all’annuncio della riapertura della Biblioteca Nazionale di Bosnia ed Erzegovina, la Vijesnica bruciata nel 1992 sotto i bombardamenti di una notte di agosto. Oltre due milioni di volumi perduti, l’epopea dei cittadini che lavorarono settimane sotto il fuoco per mettere in salvo quel che restava delle collezioni, la storia del poliziotto Fahruddin Cebo, che portò al sicuro una preziosa Haggadah ebraica del XV secolo, l’immagine malinconica e severa di Vedran Smajlovic in frac che si ostinava a suonare il violoncello fra i calcinacci: la Biblioteca divenne subito un simbolo. Di ciò che nella tragedia di questa città stava andando perduto, non solo per la Bosnia, ma per l’umanità. Un marchio in stile neomoresco da imprimere nelle coscienze di tutto il mondo. Ovvio quindi che la riapertura suoni come un risarcimento. Costato 18 anni di lavori, 11,5 milioni di euro e tanto scrupolo filologico: «Abbiamo lavorato — racconta l’architetto capo Ferhad Mulabegovic — incrociando vecchie foto e documenti ritrovati a Sarajevo, Zagabria e altre città. E per ricreare lo stile turcheggiante abbiamo dovuto cercare artigiani dai saperi dimenticati ». Eppure alla cerimonia per l’annuncio della riapertura spicca l’assenza di Ismet Ovcina, il direttore della Biblioteca, che dichiara: «Non accettiamo di tornare da ospiti in casa nostra, dopo esserne stati cacciati a colpi di proiettili incendiari » . Ospiti: perché il Consiglio della Città si è appropriato dell’edificio per usarlo a scopi di rappresentanza, e alla Biblioteca viene offerto soltanto un minuscolo spazio, simbolico, inadeguato anche per una collezione insignificante. Il Consiglio si fa forte della destinazione d’uso di epoca austroungarica, che assegnava lo stabile al Municipio, mentre Ovcina si appella agli accordi di Dayton che, a fine guerra nel 1995, prevedevano la restituzione degli immobili distrutti. Da simbolo a “brand” il passo è breve: si preparano le elezioni, e la Biblioteca, come le vittime delle alluvioni di metà maggio, passa nel tritacarne della propaganda mentre i cittadini sanno che Vijesnica, non riaprirà mai. Va perso un simbolo multiculturale? «Ma quale multiculturalità?» l’artista Zoran Herceg si inalbera: «Qui c’è sempre stata una sola cultura, quella bosniaca, resa ricca da mille influenze. Le tre tradizioni sono un racconto expost, che puzza di nazionalismo. Meglio chiusa: ora sarebbe solo un simulacro gestito da un potere inaffidabile. Chi selezionerebbe i volumi in un paese dove a scuola si usano libri di storia diversi a seconda dell’appartenenza 15 nazionale? ». E il nazionalismo torna a farsi ingombrante in vista del 28 giugno, San Vito, data dell’inaugurazione ufficiale (ma il giorno dopo verrà chiusa di nuovo per inagibilità), inquadrata nelle celebrazioni per il centenario dell’attentato che diede il via alla prima guerra mondiale: «Non sfilerò davanti a una lapide che definisce aggressore il popolo serbo!», tuona il premier serbo Aleksandar Vuèiæ, che invece in un primo tempo aveva accettato l’invito delle autorità bosniache. Festeggerà il suo San Vito ad Andricgrad, la nuova Disneyland neo-tradizional-nazionalista di Emir Kusturica a Visegrad. In questo clima potrebbe finire per sempre la storia della Biblioteca, sequestrata due volte: dalle bombe e dalla politica politicante. Ma lo spirito cosmopolita che quella storia incarnava è vivo: si è solo trasferito sulla riva opposta della Miljacka, in un magazzino del vecchio Centro Olimpico dove, fra trucioli e pallet stanno, fintamente accatastate in un allestimento provvisorio di grande efficacia, decine di opere dei più grandi artisti contemporanei. È Ars Aevi, “arte dell’epoca”, qualcosa che cambierà la storia della città. Molti giornalisti ricordano l’uomo gentile che nel 1992 li avvicinava all’Holiday Inn per esporre il suo sogno: «Di guerra non parlava. Solo del museo che voleva costruire», racconta il fotoreporter Mario Boccia, «pensavamo fosse un po’ matto ». Era Enver Hadziomerspahic, direttore degli eventi culturali alle olimpiadi del 1984 e direttore di Ars Aevi, il gentiluomo che ora mi accoglie sotto la pioggia e mi offre una maglietta di ricambio: «Sarei a disagio a lasciarla con la camicia bagnata». E racconta una storia che sarebbe incredibile, se non fosse testimoniata da una collezione del valore di almeno 20 milioni di euro: «La notte in cui fu distrutto il Museo Olimpico mi venne l’idea di chiedere ai massimi artisti del mondo di donare opere per Sarajevo. Una follia, dato che in città nessuno sapeva neanche se si sarebbe svegliato la mattina dopo». Ma il sindaco Kresevljakovic ci credette e riuscì a portare Enver in Italia per promuovere l’iniziativa alla Biennale di Venezia ‘93. Le risposte furono superiori alle aspettative: con Enrico Comi, direttore di “Spazio Umano” a Milano, Enver ideò la serie di esposizioni le cui opere sarebbero andate ad Ars Aevi. Taglio cosmopolita: in ogni mostra opere di artisti di almeno dieci paesi. Dopo Milano arrivarono le massime istituzioni artistiche europee con le collettive di Lubiana, Venezia, Vienna, Istanbul, per citarne solo alcune, che portarono opere, fra gli altri, di Pistoletto, Kounellis, LeWitt, Kapoor, Viola, Boetti, Beuys: quanto basta a togliere il fiato al visitatore che in mezzo al truciolato capisce di trovarsi in un secondo Guggenheim, in grado di sottrarre l’immagine di Sarajevo all’accostamento con sangue e guerra. Enver incassa poi anche il patrocinio Unesco, il sostegno del governo italiano e l’entusiasmo di Renzo Piano, che progetta gratuitamente il nuovo museo destinato a sostituire il “magazzino concettuale”: i lavori partono quest’estate e in quattro anni sarà aperto al pubblico il primo modulo. C’è già un partner privato: l’italiano Illy. «È anche una storia vostra», dice Enver. Molte delle opere usciranno dal magazzino per «invadere la città», una è destinata proprio a Vijesnica, come una specie di vendetta: arte al posto dei libri scacciati. In fondo è una storia ben sintetizzata nel motto di Ars Aevi, una frase del 1793 di rabbi Avigdor Pawsner: «Se cerchi l’inferno, chiedi la strada a un artista. Se non trovi artisti sei già all’inferno». Un perfetto biglietto da visita per la città irriducibile che oggi archivia con una risata i tanti reporter che continuano a rappresentarla fotografando le buche dei proiettili e il minareto allineato con il campanile, e guarda altrove. Del 16/06/2014, pag. 25 LE CONTRADDIZIONI DEL BRASILE LUCIO CARACCIOLO 16 IL BRASILE conta molto in un subcontinente che conta poco. Domina il Sudamerica, spazio secondario nel planisfero geopolitico presente e passato. È uno Stato di dimensioni continentali al centro di quell’ AmericaMinor, tra Rio Grande e Patagonia, che vista da Washington resta periferia imperiale. Può dunque sentirsi “gigante per sua propria natura”, come vuole l’inno nazionale, e insieme soffrire del “complesso del bastardino”, stigma coniato sotto l’effetto della “Hiroshima brasiliana”: il Maracanaço , l’inconcepibile sconfitta casalinga contro l’Uruguay nella finale della Coppa del Mondo del 1950, quando l’intera nazione precipitò dalla festa al lutto. Essere il centro di una periferia implica qualche sbalzo d’umore. A seconda delle fasi e delle occasioni l’accento cade sul primo o sul secondo riferimento. Il saggista José Miguel Wisnik è arrivato a stabilire una legge storica, per cui «la memoria collettiva brasiliana è demarcata e suddivisa (…) dalle Coppe del Mondo di calcio». Il gioco èla realtà. Spiega Wisnik: «Invece di sottoporre il piacere alla prova della realtà, è la realtà a essere sottoposta alla prova del piacere». Vittorie e sconfitte calcistiche ritmano la storia del Brasile. (…) «Una squadra brasiliana all’attacco — ciò che fa quasi sempre — sembra una banda di ballerini a carnevale. I giocatori sono talmente intossicati dalle proprie brillanti manovre da dimenticare talvolta che scopo dell’esercizio è segnare gol». Così Henry Kissinger, con il pragmatismo strategico e la competenza calcistica che lo distinguono, coglie fascino e limiti dell’approccio brasiliano al futebol, dunque alla realtà. Tale diagnosi si può applicare con profitto alle stagioni di crescita dell’economia e quindi delle ambizioni geopolitiche del Brasile — come durante i sei anni del “miracolo brasiliano” (1967-73), quando il pil crebbe a tassi superiori al 10% — regolarmente finite in coda di pesce. Intossicati dal successo, invece di cavalcare l’onda per incardinare nel corpo sociale e politico del Paese le fondamenta di un progresso duraturo, i brasiliani cedono all’autocompiacimento, quasi una regia interiore li inducesse a riprodurre schemi e atteggiamenti destinati a negare entrambi i princìpi ricamati sulla bandiera verdeoro: Ordem e Progresso . Sintesi del motto di Auguste Comte — «l’amore come principio, l’ordine per base, il progresso quale scopo» — il cui positivismo fondato sull’indagine razionale delle leggi sociali non pare aver troppo penetrato la mentalità brasiliana. Certo, sotto la pressione degli eventi, di tanto in tanto i leader promettono svolte epocali. Il presidente Juscelino Kubitschek (1956-61), che legò il suo nome alla fondazione di Brasilia, varò l’ambiziosissimo piano di riforme “Cinquant’anni in cinque”, neanche camminasse sulle acque. E la presidenta uscente, Dilma Rousseff, incalzata dalle proteste dello scorso giugno, si è lasciata scappare la promessa di un’assemblea costituente di cui si sono perse le tracce. Ma gli annunci non fanno politica. Di qui il senso di frustrazione che offusca il cielo sopra Brasilia dopo i memorabili anni di Lula, nel segno della crescita, della perequazione sociale e del protagonismo internazionale. Il rallentamento dell’economia, le fiammate inflattive, gli scandali politici e gli scontri di piazza che colorano di tinte scure la parabola finale del primo (ultimo?) mandato di Dilma, precipitano il paese nella prigionia del già visto. (…) Sopra tutto e prima di tutto, la radice razziale delle diseguaglianze sociali. Quando Pelé condusse la Seleção al trionfo mondiale di Città del Messico, si volle attribuire alla “perla nera” il compimento dell’integrazione dei brasiliani d’ascendenza africana, avviata dalla principessa Isabela nel 1888 con l’abolizione della schiavitù. Eccesso di ottimismo. Vari decenni più tardi, la stella massima della Seleção dopo (lui dice prima) Pelé, Ronaldo, ha spiegato che il razzismo resiste, eccome, «e quando ero nero ne ho sofferto anch’io». Tradotto: adesso non sono più colorato, perché sono ricco. 17 INTERNI del 16/06/14, pag. 2 Bonus e tagli alla burocrazia, La doppia velocità del governo Le misure entrate già in vigore e quelle soltanto avviate In 113 giorni 14 decreti, 12 fiducie e 7 disegni di legge Di Enrico Marro ROMA - Il governo Renzi ha superato i 100 giorni di vita. Oggi è al 113esimo. Insediatosi il 22 febbraio, in 16 settimane ha riunito per 20 volte il Consiglio dei ministri. Ha approvato finora 14 decreti legge e 7 disegni di legge, a riprova della difficoltà anche per questo esecutivo di limitare il ricorso alla decretazione d’urgenza. Non solo. Più si affollano i decreti e più sale il ricorso ai voti di fiducia per assicurare la loro conversione in legge entro il termine perentorio di 60 giorni. Sono già 10 le fiducie che il governo ha chiesto (oltre le 2 d’obbligo sulle dichiarazioni programmatiche). Tra le altre: sul disegno di legge Delrio che elimina le Province elettive, sul decreto Poletti che liberalizza i contratti a termine, sul bonus irpef di 80 euro. Le riforme All’inizio Renzi aveva promesso per febbraio la riforma della legge elettorale e delle istituzioni (bicameralismo perfetto, federalismo), per marzo la riforma del lavoro (il cosiddetto Jobs Act), per aprile quella della Pubblica amministrazione, per maggio quella del Fisco e per giugno quella della giustizia. Rispetto a questo cronoprogramma il premier viaggia con qualche ritardo nella presentazione dei vari provvedimenti. Ma non è tanto questo il problema. A rallentare l’azione di governo è piuttosto il lavoro parlamentare che non riesce, a causa del bicameralismo perfetto e di regolamenti inadeguati, a tenere il ritmo delle decisioni dell’esecutivo. Il quadro inoltre è complicato dalle tensioni interne al Pd, esplose in particolare sulla riforma del Senato. Da tutto ciò discende l’abuso del ricorso alla fiducia. Che da un lato appunto serve per accorciare la distanza tra le due velocità, quella del governo e quella del Parlamento, e dall’altro per superare le resistenze che di volta in volta si formano in Parlamento per ragioni diverse (battaglia interna al Pd, ma anche interessi di lobby e corporazioni rappresentate trasversalmente nell’arco delle forze politiche). Vediamo comunque le principali cose fatte, quelle in itinere e quelle ancora sulla carta. CUNEO FISCALE Gli 80 euro sono arrivati, ma finanziati solo per il 2014 È tra le decisioni più importanti prese dal governo Renzi. Ottanta euro in più al mese, che dallo stipendio di maggio corrono nelle tasche di 10 milioni di lavoratori dipendenti con redditi compresi tra 8 mila e 24 mila euro lordi l’anno (tra 24 e 26 mila il bonus decresce rapidamente fino ad azzerarsi). Il decreto legge, annunciato il 12 marzo nella discussa conferenza stampa delle slide col pesciolino, è stato approvato dal Consiglio dei ministri il 18 aprile ed è stato convertito col voto di fiducia il 5 giugno. A questa manovra il governo affida le speranze di spingere i consumi e la crescita dell’economia. Per capire se avrà funzionato bisognerà aspettare i dati sul Prodotto interno lordo del secondo trimestre. Nel primo trimestre il Pil è di nuovo arretrato (- 0,1%), per il secondo l’Istat prevede una leggera ripresa, tra 0,1% e 0,4%. Molto dipenderà dalla capacità del governo di convincere le famiglie che il bonus non è una tantum, cioè solo per il 2014, ma permanente. Questo potrà avvenire solo con la legge di Stabilità che l’esecutivo presenterà entro il 15 ottobre. 18 Solo in questo caso, infatti, sarà più facile che il bonus venga speso anziché risparmiato È importante ricordare, infatti, che per ora il bonus è coperto solo per il 2014. Per il 2015 il governo ha promesso di estenderlo anche a incapienti (redditi fino a 8 mila euro), pensionati e partite Iva, come sarebbe giusto. Ma proprio ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha frenato: si farà se verranno trovate le necessarie coperture. FATTO LAVORO Contratti a termine liberi, cassa in deroga senza risorse L’occupazione è grande vittima della crisi internazionale. Negli ultimi 4 anni si sono persi più di un milione di posti di lavoro e gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione, indennità di mobilità e di disoccupazione) hanno interessato, per periodi più o meno lunghi, circa 4 milioni di lavoratori l’anno. Il governo è intervenuto con due provvedimenti. Un decreto legge che allunga da un anno a tre la durata massima dei contratti a termine senza causale e che elimina una serie di vincoli per le aziende sui contratti di apprendistato. Il provvedimento è stato convertito con la fiducia il 13 maggio. Il secondo provvedimento è un disegno di legge delega che prevede, tra l’altro, la riforma degli ammortizzatori sociali (cassa integrazione, mobilità, ecc.) e l’introduzione del contratto di inserimento a tutele progressive. Dopo l’approvazione del Parlamento il governo avrà circa un anno per emanare i decreti di attuazione della delega. Attualmente il ddl è all’esame della commissione Lavoro del Senato. Nel frattempo, l’esecutivo non ha ancora risolto il problema delle risorse in più che servono nel 2014 per finanziare la cassa integrazione in deroga. Secondo le Regioni serve con urgenza almeno un miliardo. Il governo non sa dove trovarlo. Per il momento ha sbloccato 400 milioni per pagare gli arretrati della cassa 2013. Ma questo ha scoperto ancora di più il 2014, ha spiegato lo stesso ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, in attesa di una risposta dal collega dell’Economia, Pier Carlo Padoan, su come fronteggiare l’emergenza anche quest’anno. IN ITINERE (FATTO AL 50%) PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Permessi sindacali dimezzati Riforma dei dirigenti nel 2015 Venerdì il Consiglio dei ministri ha approvato la riforma della Pubblica amministrazione, suddividendola in due provvedimenti, un decreto legge e un disegno di legge delega. I testi definitivi si conosceranno non prima di martedì. La necessità di far passare il maggior numero di norme prima che il Parlamento chiuda per le ferie ha indotto il governo ad approvare due decreti omnibus, in uno dei quali appunto, c’è un pezzo della riforma della Pa. Dovrebbero partire subito, tra l’altro, il dimezzamento dei distacchi sindacali, l’abolizione del trattenimento in servizio (possibilità di restare al lavoro oltre l’età di pensione) che aprirebbe lo spazio all’assunzione di 15 mila giovani nei prossimi anni, secondo il governo. Nel decreto anche: le incompatibilità per i magistrati che, se nominati dirigenti (per esempio nei ministeri) dovranno mettersi in aspettativa; la mobilità obbligatoria entro 50 chilometri; il dimezzamento della tassa d’iscrizione alle Camere di commercio; l’unificazione delle scuole di formazione per dirigenti. Con un decreto ministeriale si dà il via al pin per i cittadini per dialogare online con la Pa. Nella delega, che vedrà i decreti applicativi nel 2015, finiscono invece la riforma della dirigenza e il taglio delle prefetture. Non ci sono alcune novità che erano state annunciate: la retribuzione dei dirigenti legata al Pil, i poteri sostitutivi di Palazzo Chigi verso i ministri che non fanno i decreti attuativi, la possibilità, anche per gli uomini, di andare in pensione a 57 anni con 35 di contributi, ma con l’assegno contributivo. E non c’è nemmeno l’accorpamento di Aci, Pubblico registro automobilistico e Motorizzazione civile. IN ITINERE (FATTO AL 35%) RIFORME ISTITUZIONALI 19 Legge elettorale e Senato, traguardo ancora lontano Il tempo passa ma i due provvedimenti intorno a cui ruotano le riforme istituzionali, cioè la riforma elettorale e l’abolizione del Senato elettivo, non vedono ancora l’uscita dal tunnel. Su entrambi Renzi, ancor prima di entrare a Palazzo Chigi, aveva raggiunto, un accordo con il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi (il cosiddetto patto del Nazareno). La tabella di marcia iniziale prevedeva l’approvazione entro aprile dell’«Italicum », la nuova legge elettorale che introdurrebbe per la prima volta nelle elezioni politiche la possibilità del ballottaggio tra le prime due liste o coalizioni se nessuna supera il 37%. Sempre entro aprile, era ipotizzata l’approvazione in almeno uno dei due rami del Parlamento del disegno di legge costituzionale per l’abolizione del Senato elettivo. Le cose sono andate diversamente. L’Italicum, frutto dell’integrazione e correzione di progetti di legge già in discussione in Parlamento, approvato alla Camera, è sempre fermo in commissione al Senato. La partita potrebbe riaprirsi dopo che Grillo e Casaleggio si sono fatti avanti chiedendo un incontro a Renzi. Il disegno di legge costituzionale, che oltre al bicameralismo perfetto corregge anche il Titolo V della Costituzione (federalismo), è stato varato dal Consiglio dei ministri il 31 marzo. Attualmente è sommerso da 4.750 emendamenti in commissione Affari costituzionali del Senato. Il Pd si è diviso. Il dissenziente Corradino Mineo è stato sostituito in commissione, provocando l’autosospensione di 14 senatori del Pd. Renzi è sicuro di farcela, ma il traguardo si è oggettivamente allontanato. IN ITINERE (FATTO AL 20%) PAGAMENTI ALLE IMPRESE La garanzia della Cassa depositi per sbloccare i versamenti Sui pagamenti dei debiti commerciali alle imprese l’obiettivo del presidente del Consiglio è ambizioso. «Entro luglio pagheremo 68 miliardi di debiti arretrati con le imprese», aveva annunciato Matteo Renzi il 12 marzo presentando il disegno di legge in materia approvato in Consiglio dei ministri. Poi, con il decreto legge 66 del 24 aprile, il governo ha accelerato. Un nuovo meccanismo, attraverso la garanzia della Cassa depositi e prestiti, favorisce la cessione alle banche dei crediti vantati dalle imprese nei confronti della Pubblica amministrazione. Nei 68 miliardi, indicati da Renzi, erano compresi i 22 già pagati nel 2013 sui 47 miliardi messi a disposizione dai provvedimenti del governo Letta per il biennio 2013-2014. A questi 47 miliardi Renzi ne ha aggiunti 13 con il decreto. Il totale sale così a 61 miliardi, un po’ meno dei 68 annunciati. Ma il pagamento effettivo è fermo a 23,5 miliardi, secondo l’ultimo monitoraggio del ministero dell’Economia fermo al 28 marzo. Il sito del Mef ha promette ancora: «Il prossimo aggiornamento è previsto per il 23 aprile 2014», ma ad oggi non è arrivato. Anche ipotizzando un’accelerazione, l’obiettivo dei 61 miliardi resta lontano. Misure importanti a favore delle imprese sono comunque arrivate venerdì con uno dei due decreti legge approvati: detassazione degli investimenti, taglio del 10% della bolletta elettrica, rafforzamento dell’Ace (sgravi sulla patrimonializzazione). IN ITINERE (FATTO AL 50%) NOMINE Cambi di poltrona, molti in rosa Tetto agli stipendi dei manager L’ultima infornata è arrivata con il Consiglio dei ministri di venerdì: cinque nomine di peso a partire dal nuovo direttore dell’Agenzia delle Entrate, con Rossella Orlandi che l’ha spuntata sul magistrato Francesco Greco e sul numero due dell’Agenzia Marco Di Capua. Nella stessa seduta il governo ha indicato anche Anna Genovese alla Consob, Giorgio Alleva, presidente dell’Istat, e Cristiano Radaelli, commissario straordinario dell’Enit, l’Ente per il turismo. Confermato, invece, il direttore dell’Agenzia del Demanio, Stefano Scalera. Un’eccezione, perché nella partita delle nomine il governo ha scelto quasi sempre di cambiare uomini. Nello stesso Consiglio dei ministri il governo ha anche formalizzato la 20 scelta del magistrato Raffaele Cantone alla guida della nuova Autorità anticorruzione. Tutte le volte il governo ha tenuto conto del fattore rosa. Anche quando ha cambiato i vertici delle società partecipate, dove però sono state dirottate verso la poltrona di presidente e non verso quella più importante di amministratore delegato. All’Eni è andata Emma Marcegaglia con amministratore delegato Claudio Descalzi, alle Poste Luisa Todini con ad Francesco Caio, all’Enel Patrizia Grieco con ad Francesco Starace. Solo per Finmeccanica una coppia di uomini: Mauro Moretti ad con la conferma di Gianni De Gennaro presidente. Alle Ferrovie, al posto di Moretti, è arrivato l’interno Michele Elia. Per i manager pubblici, con l’eccezione delle società quotate, c’è il nuovo tetto agli stipendi: 240 mila euro lordi l’anno, come il capo dello Stato. FATTO SPENDING REVIEW A rilento il taglio della spesa, servono risparmi per 14 miliardi Alla revisione della spesa pubblica è legato il successo della politica economica del governo. Alcuni tagli, per lo più di natura simbolica, avevano entusiasmato il premier. Per esempio la vendita all’asta online di 152 auto blu. Ma l’operazione, secondo un’inchiesta del settimanale Panorama, è stata un mezzo flop: a fine maggio erano state vendute solo 7 vetture per un incasso di 50 mila euro. Un altro piccolo segnale, che non dovrebbe essere smentito dai fatti, è la chiusura di 4 ambasciate (Honduras, Islanda, Santo Domingo, Mauritania). Più importante, invece, l’approvazione definitiva, con il voto di fiducia, della legge Delrio (presentata sotto il governo Letta) che abolisce le province elettive, anche se i risparmi possibili non sono forti (i 60 mila dipendenti delle Province passeranno infatti agli altri enti locali). Più consistenti i tagli per 3,1 miliardi di spesa pubblica nel 2014 messi tra le coperture del decreto bonus: 2,1 dovrebbero venire da tagli a carico di ministeri, Regioni ed enti locali (700 milioni ciascuno). Risparmi apprezzabili, dice il governo, dovrebbero arrivare anche dalla riforma della Pubblica amministrazione. In particolare dalla riorganizzazione dello Stato sul territorio (riduzioni uffici e strutture) che però è prevista dalla delega ed è difficilmente quantificabile. E nessuno ha capito dove il governo troverà i 14 miliardi di euro di tagli di spesa annunciati per il 2015 e da decidere con la prossima legge di Stabilità per confermare il bonus di 80 euro. Sarà questo anche il banco di prova del commissario Carlo Cottarelli, che, assicura il governo, non è stato emarginato. IN ITINERE (FATTO AL 25%) PRIVATIZZAZIONI Avviata la cessione di Enav e Poste, ma gli immobili restano al palo Il 16 maggio il Consiglio dei ministri con due Dpcm, decreti del presidente del Consiglio, ha dato il via alla privatizzazione di Poste italiane e dell’Enav, la società per l’assistenza al volo. Per le Poste si prevede la vendita di una quota non superiore al 40% mentre per l’Enav massimo il 49%. La maggioranza delle due società resterà quindi in mano pubblica. La cessione del 40% delle Poste potrà avvenire anche in più fasi attraverso un Opv, offerta pubblica di vendita, che potrà contenere forme di incentivazione all’acquisto per i dipendenti della società. Modalità simili sono previste per l’Enav. Come ha detto il nuovo amministratore delegato di Poste, Francesco Caio, la privatizzazione entro l’anno, come vorrebbe il governo, rappresenta «una grande sfida». Sono stati selezionati gli advisor e si sta mettendo a punto il piano industriale. Ancora non è stata conclusa la nuova convenzione con Cassa depositi e prestiti. Il Tesoro punta ad incassare 4-5 miliardi da Poste e circa un miliardo da Enav. Somme che, anche se arrivassero entro l’anno, non sarebbero in grado di soddisfare l’obiettivo complessivo del governo: incassi da privatizzazioni pari allo 0,7% del Pil all’anno (circa 11 miliardi di euro) nel periodo 2014-17, cioè 11 miliardi. Una mano potrebbe venire dalle dismissioni immobiliari, ma su questo 21 fronte, nonostante i ripetuti annunci del governo, non c’è ancora nulla da segnalare. IN ITINERE (FATTO AL 20%) Del 16/06/2014, pag. 1-25 MAPPE La paura della solitudine ILVO DIAMANTI BEPPE Grillo e Gianroberto Casaleggio si sono detti disponibili a confrontarsi sulla legge elettorale con Renzi. Legittimato dal voto europeo. Così, Grillo è uscito dall’isolamento, in cui si era rifugiato per inseguire un elettorato eterogeneo. DAL punto di vista sociale e ancor più politico. Equamente distribuito fra sinistra, destra e antipolitici. Anche se la polemica con Renzi e il Pd l’aveva spinto, sempre più, verso destra. Per questo, comunque, Grillo ha sempre evitato di scegliere un alleato stabile. Accettando il rischio di finire fuori gioco. Di apparire, comunque, dis-interessato ad assumersi responsabilità, a influenzare scelte e decisioni. Soprattutto, insieme ad altri soggetti politici. Così ha pagato un prezzo alto, alle elezioni europee. Ma anche alle amministrative. Alle europee. Aveva “minacciato” il sorpasso ai danni del Pd di Renzi. Con il risultato di convincere molti elettori di centro, ma ancor più di sinistra, incerti se e per chi votare, a recarsi alle urne. E a raccogliersi intorno a Renzi. Non solo, ma la stessa, aggressiva “profezia” statistica di Grillo — vinciamo noi! — ha trasformato un risultato ragguardevole, il 21%, in una sconfitta. Mentre il 40,8% ha fatto del Pd di Renzi il primo partito in Europa. Alle amministrative, i successi conseguiti a Livorno, anzitutto, ma anche a Civitavecchia e in due altri comuni, sono significativi. Ma anche molto marginali, di fronte al successo del Pd, e del Centrosinistra. Che hanno vinto in 167 comuni (con oltre 15 mila abitanti) su 243. Mentre prima ne amministravano 128. Restare nell’ombra, per questo, è divenuto molto più rischioso che “prendere posizione”. Soprattutto di fronte alla prossima discussione — e decisione — in merito alla legge elettorale. Orientata, come prevede l’Italicum, verso un proporzionale con premio di maggioranza al partito o alla coalizione che ottenga più voti. Oppure vinca il ballottaggio. Se davvero si realizzasse, per quanto riveduta e corretta, questa scelta metterebbe, davvero, fuori gioco il M5s. Protagonista del singolare sistema politico italiano. Un bipartitismo imperfetto. Perché oggi il Pd supera il 40%. E otterrebbe la maggioranza dei seggi in Parlamento, senza bisogno di ricorrere a ballottaggi. Perché, la principale alternativa, il M5s, almeno fino a ieri, ha sempre, decisamente negato ogni “compromesso” con i partiti e i politici nazionali. Si è, dunque, posto e imposto come partito anti-partiti. Da ciò il suo successo, nel passato. Ma anche il suo limite. Perché non è credibile come “alternativa”, vista la sua indisponibilità ad assumersi responsabilità di governo. Vista, inoltre, la sua vocazione all’isolamento e la sua allergia verso ogni alleanza. Tanto più perché la logica maggioritaria spinge alla coalizione. E potrebbe indurre il Centrodestra a ricomporsi. Per necessità, anche se non per affinità. Mentre oggi è diviso, frammentato e rissoso. Decomposto dall’esilio e dalla marginalità di Berlusconi. È questo il vantaggio competitivo del M5s, a livello nazionale, ma anche locale. Visto che, dove riesce a superare il primo turno, intercetta gran parte del voto di centrodestra (come ha rilevato ieri Roberto D’Alimonte sul Sole 2-4 Ore ). Ma se il Centrodestra si aggregasse di nuovo, indotto, o meglio: costretto, dalla Legge elettorale, allora il quadro cambierebbe profondamente. Per il M5s. Perché, insieme, le liste di Centrodestra (cioè, Fi, Ncd, Fdi, Lega e Udc), alle elezioni europee, hanno superato il 31%. Cioè, 10 punti più del M5s. Mentre, se passiamo all’ambito comunale, i 22 limiti della solitudine del M5s appaiono ancor più espliciti. Infatti, se consideriamo i tre principali schieramenti (ipotetici), i rapporti di forza negli 8057 Comuni italiani, in base ai risultati delle recenti europee, appaiono molto evidenti. La coalizione di Centrosinistra prevarrebbe in 5238 Comuni (65%), quella di Centrodestra in 2585 (32%), il M5s in 95 (1,2%). Naturalmente, queste stime (realizzate in base a simulazioni a cura dell’Osservatorio Elettorale del Lapolis-Università di Urbino) sono del tutto ipotetiche. Hanno, cioè, finalità esemplari e servono a discutere sugli scenari politici del Paese. Ma per questo sono utili. A sottolineare il “problema” del M5s. Che ha grande capacità di attrazione, se marcia da solo. Tanto che è primo partito in 303 comuni (3.8% sul totale) e secondo in 3981 comuni (49.4%). Tuttavia, appare svantaggiato in una competizione che preveda e, anzi, imponga le coalizioni. Dove il Centrodestra, oggi scomposto e anonimo, potrebbe riemergere e “scendere in campo” di nuovo. Anche senza Berlusconi. Per questo Grillo e Casaleggio hanno ri-aperto il gioco. Cercando alleanze, in ambito (anti) europeo, dove si sono accordati con l’Ukip. Secondo la logica: meglio male accompagnati piuttosto che soli. Mentre in Italia si sono rassegnati al confronto con il Pd e, anzitutto, con Renzi. In parte, riprendendo il discorso avviato con la partecipazione di Grillo a “Porta a Porta”, insieme e accanto a Bruno Vespa. Il testimonial in grado, più di ogni altro, di “sdoganarlo”, di normalizzarlo sul piano politico. Come oggi, a maggior ragione, può avvenire incontrando, in forma ufficiale, Renzi. Con, oppure meglio, senza streaming. Per rientrare nel gioco politico, da cui si era, fino ad oggi, auto- escluso. E, prima ancora, per promuovere una legge elettorale diversa. Non maggioritaria. Che non favorisca le coalizioni. E non ri-evochi il Centrodestra, come avverrebbe con l’Italicum — e i suoi derivati. Negoziato da Renzi, non a caso, con Berlusconi e con gli alleati di centrodestra della maggioranza. Grillo e Casaleggio, per restituire un ruolo e un peso al M5s, rivendicano una legge elettorale di impronta “proporzionale”. Com’è, in fondo, quella attuale, dopo la sentenza della Consulta. Per non rischiare l’espulsione dal gioco politico. Isolati, in Europa, insieme a Farage. In Italia, soli contro tutti. Dunque, semplicemente soli. Del 16/06/2014, pag. 2 LA GIORNATA “Hai vinto, incontriamoci” Grillo apre a Renzi La replica: niente giochini Il leader Cinquestelle: governo legittimato dal voto adesso discutiamo della nostra legge elettorale ROMA .“Renzie” non c’è più. Al suo posto ora c’è un premier «legittimato da un voto popolare e non a maggioranza dai soli voti della direzione del Pd». Per questo i due leader del movimento cinque stelle, Grillo e Casaleggio, spiazzano tutti aprendo a una trattativa sulla legge elettorale proprio con l’odiato Pd. La novità è contenuta in un lungo post a doppia firma sul blog del comico: «Se Renzi ritiene che la legge M5S possa essere la base per una discussione comune, il cui esito dovrà comunque essere ratificato dagli iscritti al M5S, Renzi batta un colpo. Il M5S risponderà. All’incontro eventuale con il Pd, che speriamo ci sia, parteciperanno i due capigruppo M5S di Camera e Senato, oltre a Danilo Toninelli, estensore tra altri della versione definitiva della legge e Luigi Di Maio come massima rappresentanza istituzionale in Parlamento nel suo ruolo di vicepresidente della Camera». All’offerta dei grillini risponde subito positivamente Lorenzo 23 Guerini, vicesegretario del Pd. «Pronti a confrontarci con tutti, nel rispetto dei ruoli e delle posizioni diverse, sapendo bene che per noi la priorità restano le riforme istituzionali, Senato, titolo V e legge elettorale che garantisca governabilità, potere dei cittadini di scegliere da chi essere governati, certezza di chi vince e chi perde, secondo il percorso che abbiamo individuato». Il premier non si tira indietro di fronte alla novità pentastellata, dice sì ad un incontro (dovrebbe svolgersi già in settimana), ma avvisa beffardo: «Stavolta, magari, lo streaming lo vogliamo noi». È un modo per mettere in chiaro che «non ci saranno patti segreti né giochini strani». Il Pd sulle riforme — aggiunge al Tg5 — è pronto «a discutere con tutti», anche con Lega. Quanto all’enigma Berlusconi, Renzi professa ottimismo sulla tenuta del patto del Nazareno: «Io credo che l’accordo che abbiamo siglato regga. Se la Lega e Grillo vogliono sedersi intorno ad un tavolo sono i benvenuti». Nel Pd tutti, da Serracchiani a Bonafé, plaudono al nuovo fronte di trattativa con i cinque stelle. Ospite di Maria Latella su Sky, anche il ministro Maurizio Martina, bersaniano, si dice favorevole: «Se davvero questa apertura di Grillo è sincera sarebbe impossibile sottrarsi. Se Grillo ha deciso di scongelare i suoi voti e di metterli veramente a disposizione di una discussione sul merito dei cambiamenti necessari per questo Paese, bisogna andare a vedere le carte, verificare fin dove vuole arrivare e sperare che non sia un bluff». Il disgelo lascia invece scettica Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d’Italia invita a riflettere sul fatto che «Beppe Grillo — mentre ha sempre rifiutato qualunque forma di confronto e collaborazione con le altre forze politiche su temi che interessano i problemi concreti degli italiani — offra oggi la sua disponibilità a trattare sulla legge elettorale, ovvero su una questione che interessa soprattutto il partito e la sopravvivenza dei parlamentari. Come dire... Tanto rumore per nulla». Del 16/06/2014, pag. 6 Pensioni, giudici in rivolta Responsabilità, si cambia Orlando: “Niente punizioni” Restano le tutele per i magistrati, anche se la rivalsa dello Stato verrà portata dal 30 al 50% dello stipendio LIANA MILELLA ROMA È profondo l’allarme tra i giudici su responsabilità civile ed età pensionabile. Toghe «stupefatte» per come il governo Renzi ha gestito il fine carriera, perché «se il principio è giusto, realizzato così si risolve in un danno». Basti pensare all’azzeramento dei vertici del palazzo di giustizia di Milano (via Canzio, Minale, Pomodoro, Bruti) e alle toghe della Cassazione ridotte della metà. Ma c’è anche «la grave preoccupazione» per le notizie che filtrano dal ministero della Giustizia sulla riforma della responsabilità civile. Per dirla in sintesi, pare già al tramonto la luna di miele tra Renzi e le toghe, e non bastano i super poteri a Cantone per indorare la pillola. Due fatti importanti delle prossime ore sono documentabili. Rodolfo Maria Sabelli, il presidente dell’Anm, chiederà oggi un incontro urgente al Guardasigilli Andrea Orlando per parlargli di entrambe le questioni «perché non possiamo accettare misure punitive, ai limiti, se non oltre la costituzionalità e la ragionevolezza, che assestano un colpo grave al funzionamento degli uffici e che rischiano di compromettere i processi». Al Csm si muove Riccardo Fuzio, il presidente della commissione Incarichi direttivi, che chiede «di esprimere subito un parere sul 24 decreto» e ne delinea le conseguenze devastanti, che comporteranno perfino la decadenza di uno dei prossimi candidati alle elezioni dello stesso Csm. E il Guardasigilli Andrea Orlando? Com’è nel suo stile, con chi gli ha parlato, sdrammatizza. Innanzitutto perché «questo governo non è contro i magistrati, e quello che sto facendo in via Arenula lo dimostra ». A partire dalla responsabilità civile, dove il ministro è orientato a intervenire con le modifiche al testo Buemi che, in commissione Giustizia al Senato, è già in fase di emendamenti. «Orientato» è la parola giusta, perché per ora Orlando «sta a guardare» e se dovesse rendersi conto che, com’è avvenuto alla Camera per l’emendamento Pini che introduce la responsabilità diretta dei giudici, la discussione dovesse volgere al peggio, è pronto a un intervento con un suo disegno di legge. I paletti del ministro sono già chiari: «Il problema principale è sbloccare il filtro arbitrario previsto dalla legge Vassalli che produce l’assurdo di soli 6 ricorsi in tutto il 2013». Nessuna decisione invece sull’ipotesi, fatta dagli uffici legislativi, di una procedura accelerata se si configura un dolo grave, per la semplice ragione che in quel caso ci sarebbe una responsabilità penale per la toga in questione. Altro paletto certo è un aumento della rivalsa dello Stato sul giudice, oggi un terzo dello stipendio, ma che verrebbe portata al 40 o addirittura al 50%. Ma Orlando garantisce che «non ci sarà mai una responsabilità diretta». Sul ddl del Senato assicura il dem Felice Casson: «Finora, con M5S, abbiamo sventato i tentativi dei forzisti per introdurre la responsabilità diretta integrale o per alcuni casi, ma la vecchia legge dell’88 va sottoposta a un serio tagliando perché il filtro è troppo rigido e la rivalsa troppo debole ». Con Orlando, Sabelli metterà i suoi tre paletti: «No a una legge che limiti l’interpretazione del diritto, no alla responsabilità diretta, no all’uso di una pregressa azione civile per rivalersi su di noi». Ma è sull’età pensionabile che lo scontro rischia di infuocarsi. Il primo allarme è arrivato dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce («Ufficio ridotto a metà»). A Milano una falcidia. Sabelli mette in fila tre questioni: «Innanzitutto la scopertura degli uffici, oltre 200 posti, e la difficoltà di coprirli per l’effetto a catena che si determina. Poi la disparità di trattamento tra chi ottiene la proroga di due anni e chi no. Nel novero anche le conseguenze gravi sulla pensione per una categoria che entra in servizio tardi». Orlando dà garanzie: «In sede di conversione, mi impegno a verificare l’impatto sugli uffici». Ancora: «Sono intenzionato a togliere il blocco dei 4 anni di permanenza che un magistrato deve garantire per ottenere un incarico direttivo ». Ma il Csm «deve garantire tempi rigidi per nomine e trasferimenti». L’allarme resta. E nessuno dimentica che l’età pensionabile fu portata a 75 anni quando Berlusconi voleva trattenere una toga della Cassazione che riteneva utile, né che fu fatta una norma ad hoc per bloccare Caselli. Ma qui si rischia, nell’ordine, di lasciare gli uffici senza capi, di bloccare i processi, di intasare i Tar per i ricorsi dei non direttivi che non potranno restare in servizio come i capi. Dicono che Orlando si sia battuto fino all’ultimo per una gradualità anno per anno, ma che non l’abbia spuntata. Del 16/06/2014, pag. 7 Mercoledì il plenum del Csm sul caso Robledo dopo tre mesi di veleni Il decreto previdenza complica le cose Procura di Milano si decide il futuro Bruti chiederà di essere prorogato PIERO COLAPRICO 25 MILANO «Grandi manovre sul palazzo di giustizia di Milano», si sente ripetere tra avvocati e magistrati. Il riferimento è alla polemica bruciante di questi mesi, il cosiddetto caso BrutiRobledo: era cominciato a marzo e si ritrova dopodomani davanti al plenum del Consiglio superiore della magistratura. Lo scontro nella procura milanese viene insomma “letto” anche come il capitolo di una questione ben più ampia. Innanzitutto fino a ieri l’unico magistrato che sapeva di essere a fine mandato era il presidente del tribunale, Livia Pomodoro. Febbraio 2015. Degli altri, nessuno fino a ieri pensava di essere prossimo alla pensione. Né Giovanni Canzio, Presidente della corte d’appello, né Pasquale Nobile De Santis, della Sorveglianza. E anche Manlio Minale, procuratore generale, pensava di restare un altro anno e mezzo. Ma il decreto del governo che porta a 70 anni l’età pensionabile dei magistrati potrebbe accelerare per tutti il congedo. I quattro, con personalità e culture diversissime, hanno un tratto comune: sono «impermeabili» alla politica e fieramente legati all’indipendenza della magistratura. A Milano, ironicamente, i loro colleghi parlano di «Toga Milano pride », temendo però il ripetersi di un rischio che pende periodicamente sul palazzo di giustizia protagonista della recente storia d’Italia - Tangentopoli, processi Berlusconi dai reati fiscali al bunga bunga, infiltrazione mafiose al Nord, nuovi terrorismi - e che viene chiamato «normalizzazione ». Con l’invio a Milano di magistrati più vicini alla politica? Utilizzando forse il recente decreto legge sull’età pensionabile? È in questo scenario che una figura-chiave, come quella del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, si ritrova al centro dell’esposto-denuncia dell’aggiunto Alfredo Robledo. Dopo tre mesi, pochi giorni fa la prima commissione del Csm ha dato torto a Robledo, proponendo l’archiviazione del suo esposto. Senza però mettere la parola fine: è stata infatti proposta la «trasmissione degli atti» emersi. Sia «alla quinta commissione », che si occupa delle carriere, delle conferme negli incarichi. Sia «ai titolari dell'azione disciplinare», ministro della giustizia e procuratore generale della Cassazione. E la trasmissione riguarda «entrambi i magistrati». Al di là del prossimo giudizio del Csm e di altri, la commissione ha aggiunto qualche indicazione. Sottolineando che sul caso Sea, Bruti ha sì dimenticato il fascicolo in cassaforte, ma Robledo, pur consapevole, non gliel’ha mai chiesto (lasciando scorrere tre mesi). Che sul caso Expo, Bruti ha reagito accusando Robledo di avere messo a rischio (più volte) la segretezza dell’inchiesta coordinata da Ilda Boccassini. Che sul caso Ruby, Bruti avrebbe potuto motivare meglio le decisioni, ma nonostante ci siano - parole della commissione del Csm «asprezze personali e discutibili scelte organizzative interne (...) non risulta essere stato turbato l'esercizio dell'attività giurisdizionale ». Quindi, dimenticanza Sea a parte, non esiste per Bruti, come per nessuno, la sanzione disciplinare per l’«insufficiente motivazione del provvedimento organizzativo» (non c’è traccia nei codici). Mentre il trasmettere, anche se al Csm, atti d’indagine secretati, può comportare valutazioni non raramente negative. Lo si capirà nelle prossime settimane, ma nel frattempo Bruti, che ha 69 anni, chiederà (può farlo, non è un primo incarico, ma un rinnovo) la proroga del suo mandato (scade il 7 luglio). Contando sull’ipotesi che alla fine il decreto verrà corretto introducendo una attuazione graduale dell’andata in pensione, senza che spariscano, dall’oggi al domani, circa trecento magistrati anziani ed esperti. Non farà comunque alcuna domanda - il dato è certo - per lasciare l’accusa, o passare all’incarico di procuratore generale. 26 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Del 16/06/2014, pag. 11 A Palermo 800 migranti «La Ue deve aiutarci» Arrivati in città i superstiti salvati dalla Marina Militare. La Procura della città apre un’inchiesta sul naufragio. Il grido di allarme del sindaco Orlando Sulla nave Etna sono giunti tutti. Tutti sulla stessa imbarcazione, vivi e morti. Quelli del naufragio di tre giorni fa - che al largo del canale di Sicilia ha provocato dieci morti certi, 41 dispersi e 39 superstiti - e chi invece è stato recuperato dalla Marina Militare. In tutto 777. Chi ce l’ha fatta ha raccontato le ore di terrore trascorse a bordo di due gommoni che dalla Libia facevano rotta verso la Sicilia. Secondo le ricostruzioni uno dei due gommoni si è bucato durante la traversata. In Libia, ha spiegato un superstite, «siamo stati divisi su due gommoni, anche le nostre famiglie sono state divise. Un gommone è partito per primo, poi è partito il secondo, dopo qualche ora dal viaggio siamo stati raggiunti da una motovedetta. I migranti a bordo del primo gommone si sono spostati tutti sullo stesso lato e il gommone si è capovolto e si è bucato ». Da lì il panico e il terrore in acqua, molti degli occupanti del gommone sarebbero morti. Tra i migranti salvati, alcuni hanno ustioni da contatto con il carburante. «Non c’è stato alcun incendio a bordo - ha ricostruito uno degli ustionati - siamo tutti caduti in mare». Tra le testimonianze più toccanti quella di un naufrago che, per le gravi ustioni chimiche questa notte è stato portato a Mazara del Vallo. L’uomo, sotto shock, ha raccontato di avere perso nel naufragio la moglie e il figlio. «L'arrivo di questa nave è la conferma della gravità della situazione. Nell’ultima settimana a Palermo sono arrivati 2mila migranti. L’Europa continua a guardare dall'altro lato» ha detto il sindaco di Palermo Leoluca Orlando che ieri è andato al porto ad accogliere la nave Etna. «Abbiamo organizzato aggiunge - un gruppo unico di gestione dell'emergenza, da un punto di vista dell'organizzazione tutta funziona, quello che non funziona è l'indifferenza dell'Europa, tutto si è scaricato sulla cultura dell'accoglienza dei siciliani ». Sulla riunione con il ministro Alfano il sindaco di Palermo dice: «Abbiamo chiesto un tavolo come Anci sull’emergenza immigrazione. Servono tante cose. Abbiamo apprezzato la sua denuncia nei confronti dell'Europa, in tre ore di lavoro abbiamo predisposto un dossier che è sul tavolo del presidente del Consiglio. L'operazione Mare Nostrum ha funzionato ma è impensabile che a farsene carico sia solo l'Italia. Perché i migranti non devono essere distribuiti in tutta Europa? E perché non ci sono le navi degli altri paesi europei?». La Procura di Palermo aprirà un'indagine per far luce sul naufragio. «Sarà aperto un fascicolo - spiega il procuratore Francesco Messineo- perché Palermo è stato il primo porto di approdo dei profughi. Cercheremo di far luce sulle circostanze dell’affondamento sulla base delle pochi fatti che si conoscono ». Al momento non ci sono ipotesi di reato specifiche. Gli investigatori dovranno ascoltare i superstiti dell'ennesima tragedia del mare con l'aiuto dei mediatori culturali per raccogliere informazioni su quante persone vi fossero a bordo del gommone naufragato ed accertare la presenza tra i sopravvissuti di eventuali scafisti. Sull'imbarcazione affondata, secondo le prime testimonianze raccolte dai soccorritori, vi sarebbero state una novantina di persone, di cui solo 39 sono state tratte in salvo, mentre dieci corpi senza vita sono stati recuperati. All'appello, dunque, mancherebbero 40 persone. Numeri, però, su cui gli investigatori dovranno fare luce. Per chi ce l’ha fatta l’arrivo a Palermo è stato una liberazione. Lacrime e gioia sulla banchina tra i migranti 27 arrivati vivi ma che in mare hanno perso i loro cari. Le forze dell'ordine hanno deciso di chiudere la zona con alcuni container «per assicurare che la sistemazione dei corpi delle vittime avvenisse lontano dai fotografi». Al cimitero dei Rotoli saranno eseguite le perizie medico- legali. Grosso dispiegamento di soccorritori per il primo intervento al porto con gazebo, sette ambulanze, un centinaio tra forze dell'ordine, medici dell' Asp, Protezione civile, l’Unhcr, la Caritas e i medici e i volontari del 118. Diciannove i feriti, tra loro una donna incinta, portati negli ospedali cittadini: 7 al Civico, 6 al Policlinico, 2 all'Ingrassia, 2 a Villa Sofia, uno al Cervello e uno al Buccheri La Ferla. Segnalati casi di scabbia e tubercolosi. I naufraghi sono originari di Costa d’Avorio, Ghana, Mali, Guinea. Del 16/06/2014, pag. 11 I barconi partono da una Libia che non c’è più Fuggono da uno Stato che non c’é. Da un Paese in mano a miliziani qaedisti, trafficanti di armi, di droga e di esseri umani. Fuggono per sopravvivere. Ma in migliaia trovano la morte in fondo al mare. È la Libia oggi. Una nuova Somalia alle porte di casa nostra. In Libia le bande armate di jihadisti e di criminali comuni si moltiplicano: forze disgreganti e centrifughe che, dalla fine della Jamahiriya di Muammar Gheddafi nell'ottobre 2011, stanno smembrando il Paese. Finita la guerra, la concentrazione di sacche di fondamentalismo è aumentata di mese in mese. E in un Paese frammentato da oltre 350 milizie, il controllo del petrolio in mano a signori della jihad e a gruppi criminali farebbe precipitare la Libia nell' anarchia dell'Iraq e della Somalia. Ed è quello che sta avvenendo. SCENARIO DA INCUBO La Libia del post-Gheddafi è un Paese ingovernato e ingovernabile. Un Paese in mano ad oltre 350 gruppi armati, alcuni dei quali autoproclamatisi «governo » (in Cirenaica). Da quando è caduto Gheddafi, i gruppi jihadisti hanno preso il sopravvento. Uno di questi è la Libyan Revolutionary Operations Chamber, che alla fine del 2013 ha rivendicato il sequestro delll’allora premier Ali Zeidan. L’azione è avvenuta dopo la dichiarazione di John Kerry sulla cattura di AbuAnas al-Liby, della quale era a conoscenza il governo libico. Un’altra fazione coinvolta nel sequestro era la Brigade for the Fight against. Le milizie di Zintan e di Misurata, invece, si sono pronunciate a favore dei jihadisti radicati a Bengasi e nella Cirenaica. E il porto di Misurata è uno dei luoghi prescelti dai trafficanti di essere umani per il loro sporco, ma miliardario, «lavoro»: far partire le carrette del mare. Un passaggio costa migliaia di dollari. E spesso si conclude tragicamente. A gestire il tutto sono grandi holding criminali e milizie jihadiste che si arricchiscono con questo business disumano. Un recente articolo apparso sulla rivista Foreign Affairs, illustra l’ambiguità dei rapporti tra le milizie e le nuove istituzioni politiche. Da un lato, infatti, il governo di Tripoli ha attivato alcuni programmi per disarmare e smobilitare le milizie e integrare le «brigate» rivoluzionarie nella struttura del nuovo esercito nazionale e nei servizi di sicurezza. Dall’altro, proprio l’assenza di efficaci forze di polizia, ha fatto sì che lo stesso governo si affidasse ad alcune milizie per garantire il controllo delle zone più difficili del paese. Milizie sono state usate, per esempio, per intervenire in una disputa tribale nelle zone di Kufra e Sabha, nel deserto, ma anche per garantire, con un regolare contratto dal ministero della Difesa, la protezione di alcune installazioni petrolifere e dei valichi di confine più remoti. Una mappa più dettagliata della geografia delle milizie libiche è stata prodotta dal centro di ricerca svizzero Small Arms Survey. In sette mesi di lavoro sul campo, i ricercatori hanno valutato che esistono almeno quattro tipi diversi di gruppi armati: brigate rivoluzionarie, brigate irregolari, brigate postrivoluzionarie e milizie. In termini di cifre, secondo questo rapporto, tra il 75 e l’85 per 28 cento degli uomini armati e una percentuale simile delle armi negli arsenali, sono fuori dal controllo del governo centrale. In termini di numeri, per fare un esempio, nella sola provincia di Misurata, ci sono almeno 236 gruppi armati, per un totale di circa 40 mila uomini. Un’ultima annotazione. Che chiama in causa l’Europa. La sua vergognosa inazione. Da tempo i segnali che giungono dai Paesi della sponda Sud del Mediterraneo, come dal devastato Corno d’Africa, avrebbero dovuto determinare nelle cancellerie europee uno scatto di responsabilità e un’azione condivisa. Così non è stato. Non lo è stato per la Libia del dopo-Gheddafi, non lo è stato per la martoriata Siria, distrutta da oltre tre anni di guerra che ha trasformato il popolo siriano in un popolo di sfollati (oltre 5 milioni). Un popolo entrato nel mirino dei trafficanti di esseri umani. Trafficanti di morte. 29 SOCIETA’ Del 16/06/2014, pag. 2 Coppie gay, stessi diritti del matrimonio Mano alle adozioni A settembre la legge del governo sulle unioni civili Il modello è il civil partnership tedesco: adottabile il figlio del partner Per gli etero non sposati previsti invece i «patti di convivenza» «Alle unioni civili tra persone dello stesso sesso si applicano tutte le disposizioni previste per il matrimonio...» escluso il diritto di poter adottare. È questo il principio fondamentale che regolerà i rapporti fra coppie omosessuali. Principio contenuto nella disciplina che da settembre il Parlamento si troverà ad approvare. Come promesso dal premier. Renzi le aveva già messe fra i suoi obiettivi alla Leopolda (sia quella delle primarie poi perse contro Bersani che l’ultima vincente). Poi, da segretario Pd, l’aveva chieste (assieme allo ius soli) al governo Letta e, una volta diventato premier, le aveva scritte nel proprio programma spiegando, nel discorso sulla fiducia che andavano fatte ascoltandosi e poi trovando un compromesso. Dunque adesso sembra che il momento delle unioni civili sia arrivato visto che sabato all’assemblea del Pd Renzi ha annunciato che a settembre, chiusa la pratica Italicum, verrà portata in Parlamento e approvata una legge sulle partnership. «Dobbiamo realizzare quell’impegno che abbiamo preso durante la campagna delle primarie» ha spiegato il premier spiegando che cercherà ovviamente un accordo «con gli esponenti della nostra maggioranza» e col Parlamento ma ribadendo che non ci sarà spazio per ripensamenti. Il modello a cui fa riferimento il premier quando parla di civil partnership è quello nato in Gran Bretagna (dove poi è decaduto in quanto il governo Conservatore Cameron ha introdotto il matrimonio gay) e in Germania. Sostanzialmente prevede che la coppia omosessuale che decide di “sposarsi” possa iscriversi all’ufficio dello stato civile in un apposito registro delle unioni civili. Da quel momento sono una coppia ufficiale con tutti i diritti e i doveri simili a una coppia eterosessuale unita in matrimonio. Quindi ad esempio sarà previsto il diritto alla reversibilità della pensione in caso del decesso del compagno/compagna. Il diritto alla successione e quelli in materia assistenziale e penitenziaria. E a cascata tutti quei diritti e doveri che dipendono dalle legislazioni regionali come ad esempio la possibilità di partecipare ai bandi di assegnazione delle case popolari. Del resto questa normativa, che andrà a modificare il codice civile nel libro primo, quello cioè dedicato a regolare i diritti e doveri della persona e della famiglia, è figlia diretta dell’articolo 2 della Costituzione che riconosce e tutela i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali, tra cui appunto anche la coppia, in cui si svolge la sua personalità. Diritti che oggi a chi voglia vivere in una coppia omosessuale non sono garantiti. E infatti la Corte Costituzionale con due sentenze, la prima del 2010 e la seconda di pochi giorni fa sull’uomo diventato donna e rimasta unita in matrimonio alla moglie, ha sottolineato questo vuoto legislativo invitando il Parlamento a intervenire. Intervento che però non potrà essere l’estensione del vincolo matrimoniale alle coppie gay. Daqui appunto le unioni civili che forniscono una condizione omologa ma non uguale al matrimonio. La differenza più grande è che la coppia omosex non potrà adottare bambini. Tuttavia verrà introdotto l’istituto della «stepchild adoption» preso dal sistema inglese. Cioè sarà 30 possibile a uno dei soggetti della coppia gay adottare il figlio (anche adottivo) dell’altra parte dell’unione. Potrà portarlo e andarlo a prendere a scuola, accompagnarlo e assisterlo in ospedale e continuare a fargli da padre/ madre nel caso in cui il genitore naturale dovesse venire a mancare. In Germania ad esempio è stata introdotta anche la totale equiparazione fiscale. Il che significa che se in Italia si arriverà al quoziente familiare, come promesso dal premier sabato, riguarderà anche le future unioni civili. Tutta questa disciplina riguarderà solo le coppie omosex e non le coppie etero che convivono e non si vogliono sposare. Perché la filosofia è che mentre le coppie omosessuali non possono unirsi in matrimonio, le coppie etero possono sposarsi e quindi se non si sposano è perché non lo vogliono fare e quindi non possono essere estesi a loro i diritti ma anche i doveri che discendono dal matrimonio. Per queste coppie (anche dello stesso sesso) sarà prevista un’altra forma, più lieve, di unione: i cosiddetti patti di convivenza. Con doveri (e diritti) meno “pesanti” di quelli matrimoniali. Al momento, almeno, questa è la strada che hanno imboccato in commissione giustizia del Senato dove le varie proposte avanzate (soprattutto da Lumia, Marcucci e Lo Giudice del Pd) i sono state riunite in due testi separati (ma che poi potrebbero ritornare a far parte di un unica proposta di legge) dalla relatrice Daniela Cirinnà. La discussione partita lo scorso marzo, il 6maggio s’è fermata. «Ma i testi sono pronti per andare in aula» sottolinea la democratica Cirinnà che spiega che nel momento in cui il governo deciderà politicamente il via tutta la procedura subirà una accelerazione. Il nodo quindi resta politico. È vero che su questi temi i senatori del Pd hanno trovato sponde anche nei 5Stelle, tuttavia servirà un’intesa col Nuovo centrodestra (in commissione c’è Giovananardi) che nutre dubbi sulla possibilità di far adottare al partner il figlio naturale del proprio/a compagno/a. Perplessità coltivate anche nella parte cattolica del Pd che ritiene anche che i più lievi patti di convivenza non possano riguardare le coppie omosex che già avrebbero a disposizione la più vincolante unione civile. Del 16/06/2014, pag. 2 Dall’Europa agli Usa, tutte le «nozze» del mondo Francia, Regno Unito, Spagna hanno legiferato da anni sulle unioni gay Ad aprire la strada la Danimarca, nel 1989 In moltissimi Stati le unioni civili sono riconosciute per legge da diversi anni. In Francia i primi Pacs, i patti civili di solidarietà, risalgono al 1999: si trattava di contratti tra partner maggiorenni (etero o omosessuali) che consentivano di acquisire gli stessi diritti delle coppie etero sposate, ma era esclusa la possibilità di poter adottare dei bambini. L’11 aprile del 2013 è stata approvata una nuova legge che regola anche le adozioni. Il 29 maggio 2013 è stato celebrato a Montpellier il primo matrimonio gay in base alla nuova legge. In Germania esiste dal 2001 la possibilità di registrare un “contratto di vita comune”, sia per le coppie etero che per quelle gay. Nel 2009 la Corte costituzionale federale ha esteso tutti i diritti e i doveri del matrimonio alle coppie dello stesso sesso registrate: i partner possono scegliere di assumere un unico cognome o tenere ciascuno il proprio; i parenti della coppia diventano parenti acquisiti; sono previste diverse soluzioni per l’eredità e la tassazione. Nel Regno Unito è dal 2005 che il “civil partnership act” ha disciplinato le unioni civili, anche omosessuali, equiparandole a quelle delle coppie unite dal matrimonio. Tra le “nozze” più celebri, quella di Elton John. Il 4 giugno scorso la Camera dei lord ha approvato un nuovo disegno di 31 legge sul “same sex marriage” già licenziato dalla Camera dei comuni il 21 maggio 2013: al via libera definitivo manca una terza lettura. Nella cattolica Irlanda, dal 2011, sono riconosciute le coppie di fatto. In Spagna le unioni gay sono riconosciute da luglio 2005 e le coppie possono adottare bambini. Il Portogallo nel 2010 ha abolito il riferimento al «sesso diverso»» nella definizione di matrimonio, male coppie gay non possono adottare. In Svizzera sono riconosciute le unioni civili. Nel 2007 è stata introdotta la “unione domestica registrata” anche per le coppie di fatto omosessuali. Anche in Austria, dal 2010, le unioni civili sono pssibili per legge. La Danimarca, nel 1989, è stata invece il primo Paese al mondo ad aver autorizzato le unioni civili tra omosessuali, che dal giugno 2012 possono sposarsi davanti alla Chiesa luterana di Stato. In Olanda esiste dal 2001 una legge sul matrimonio civile per coppie gay ed etero, con la possibilità di adozioni. Anche in Norvegia, ma dal 2009, le coppie omosessuali e etero sono equiparate davanti alla legge in materia di matrimonio, adozione e procreazione medicalmente assistita. In Svezia le coppie gay possono sposarsi con matrimonio civile o religioso dal maggio 2009; mentre l’adozione era già legale dal 2003. In Finlandia sono semplicemente riconosciute le unioni civili. In Ungheria le unioni civili etero sono riconosciute dal 2007, quelle gay dal 2010. Persino nella cattolicissima Polonia c’è una legge sulle coppie di fatto dal 2004. In Slovenia sono state riconosciute nel 2005 le convivenze civili,ma al solo fine di regolare gli aspetti ereditari e finanziari. Anche in Croazia, dal 2003, una legge disciplina gli aspetti finanziari ed ereditari per le unioni civili, sia etero che gay. Unioni civili registrate anche in Repubblica Ceca, dal 2006. Nella lontana Nuova Zelanda, dal 2004, la legge garantisce alle coppie omosessuali gli stessi diritti di quelle etero. In Brasile, nel maggio 2011, la Corte Suprema ha riconosciuto alle coppie gay gli stessi diritti delle coppie etero, ma manca un’apposita legge. I giudici si sono espressi all’unanimità a favore dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, sottolineando come «nessuno dovrebbe essere privato dei propri diritti sulla base dell’orientamento sessuale ». Anche il Messico riconosce le coppie di fatto. L’Uruguay, nel 2008, ha approvato una legge per l’«unione concubinaria»: le coppie di fatto (sia etero che omosex) dopo cinque anni di convivenza possono formalizzare la propria unione. Negli Stati Uniti sono possibili le nozze gay in 12 Paesi, così come in Canada, a partire dal 2005. Del 16/06/2014, pag. 3 Le associazioni: «Adesso serve una buona legge che dia risposte chiare» Le associazioni gay accolgono con favore l’annuncio del premier. «Da Renzi viene un primo segnale positivo, da quando è presidente del Consiglio, sul fronte della regolamentazione delle unioni civili quando dice che il Parlamento sarà chiamato a lavorare sulla proposta di civil partnership del Pd», afferma Fabrizio Marrazzo, portavoce di Gay Center. «In Parlamento - aggiunge Marrazzo - può esserci una maggioranza trasversale che potrebbe finalmente far approvare una legge. È importante, però, che questa non sia l’ennesima promessa e che dalle parole si passi ai fatti. Peccato che Renzi non parli di matrimonio, ma se è pronto per far discutere una legge sul modello di altri Paesi europei siamo pronti a un rapido confronto». Dopo tanti anni di dibattito e polemiche, con un percorso lunghissimo, travagliato, e infine interrotto, per la legge sulle unioni civili, la nuova svolta disegnata da Renzi desta entusiasmo ma anche appelli affinché stavolta si arrivi davvero al traguardo. «Che il Pd sappia conciliare la rapidità con 32 il pieno principio di uguaglianza nel legiferare sulle unioni tra persone dello stesso sesso», è l’auspicio di Flavio Romani, presidente di Arcigay. «I tempi sono in realtà dettati dall’alto - sottolinea Romani - in particolare dalla sentenza della Corte costituzionale di pochi giorni fa, che ha messo in luce l’assenza di strumenti legislativi per definire vicende concrete. Un vuoto dinanzi al quale la Suprema Corte ha nei fatti posto un ultimatum, che ha i tempi di quel percorso processuale. Ora che la scadenza è già stata in qualche modo scritta prosegue Romani - occorrerebbe concentrare gli annunci sulla qualità dello strumento legislativo. Ci si farà guidare dal principio di uguaglianza, cioè dall’articolo 3 della nostra Costituzione, o ancora una volta si tenterà di definire i nostri amori come meno importanti e perciò meno degni di fronte alla legge? Che risposte verranno date alle tantissime famiglie omogenitoriali italiane che da anni attendono un riconoscimento pieno? Su questi punti bisogna essere chiari e inequivocabili: per noi non c’è possibilità di mediazione. La data l’abbiamo già segnata da qualche giorno in agenda - chiosa Romani - non mancheremo all’appuntamento di settembre». Anche per il presidente di Equality Italia, Aurelio Mancuso, quello di Renzi è «un annuncio importante, che impegna tutto il Partito democratico a trovare nel prossimo periodo un testo unitario su cui poi impegnarsi nelle aule parlamentari. Prendiamo sul serio la promessa fatta e segniamo la data - appunta Mancuso - che speriamo non si sposti nel tempo, perché sono decenni che in Italia si attende una normativa che superi l’odiosa assenza di diritti. È importante che il testo sia avanzato, coerente con la legislazione presente in alcuni Paesi europei, che riconosca tutti i diritti e doveri, e in particolare tuteli i bambini delle famiglie omogenitoriali ». Solo pochi giorni fa il leader di Sel Nichi Vendola, in viaggio in Inghilterra, era tornato sulla necessità di legiferare su questi temi. «Qui nel Regno Unito la legge sui matrimoni gay l’ha voluta un governo conservatore - rifletteva - mentre in Italia noi abbiamo la destra culturalmente più arretrata d’Europa, e l’Italia è un Paese fuori contesto, un Paese prigioniero da troppi decenni di un potere culturale che impedisce di fare i conti con le richieste di civiltà e di diritti». Ma ora sembra davvero arrivato il momento. del 16/06/14, pag. 11 Ospedali, rapporto choc: apparecchiature vecchie ed edifici a rischio crolli Nord e Sud Italia uniti da ritardo tecnologico e sprechi Paolo Russo Roma Che l’Italia non sia proprio un Paese per giovani è risaputo. Ma la cosa si fa preoccupante se alla terza, anzi, alla quarta età, appartiene anche la maggioranza dei nostri ospedali. Vecchi fuori e pure dentro. Perché la maggior parte di loro è stata costruita prima della guerra e quasi uno su dieci ha visto passare persino le truppe napoleoniche. Mentre le apparecchiature per gli accertamenti sanitari basilari non tengono il passo con l’innovazione tecnologica. Colpa dell’assenza cronica di investimenti in sanità e degli sprechi. Gli strumenti Un’indagine condotta da Assobiomedica, l’associazione delle imprese che producono apparecchiature elettromedicali, rivela che quasi il 40% delle Tac hanno più di dieci anni, quando non dovrebbero superare i 7 anni di vita. Sono ancora a 16 strati, ossia riescono a leggere molto meno in profondità nel nostro corpo, visto che quelle più moderne di strati 33 arrivano a visionarne 200. Stesso discorso vale per i mammografi. Dovrebbero essere ricambiati ogni sei anni e invece il 66,8% è lì da oltre 10 anni: non sanno cosa sia la tecnologia digitale. A doppia cifra è anche l’età dell’84,7% degli apparecchi per le radiografie al torace, mentre va meglio per chi deve dare una controllatina a vene e arterie, visto che in questo caso gli angiografi ultradecennali sono «solo» il 30,7% del totale. Le risonanze magnetiche non dovrebbe superare i 5 anni, ma circa il 60% delle apparecchiature ha alle spalle più «anzianità di servizio» e il 23,2% supera i 10 anni di età. Poi c’è anche il rovescio della medaglia. Nella terra degli sprechi e delle liste d’attesa infinite, la Sicilia, lo scorso anno sono state ritrovate Tac, risonanze, mammografi e altre apparecchiature costose acquistate e rimaste imballate nei sottoscala o attivate dopo anni. E casi del genere, qua e là, sono spuntati anche in altre parti d’Italia. Ma questo appartiene al capitolo «sprechi» della nostra sanità, che in parte spiega anche perché poi scarseggino i soldi da destinare al ricambio tecnologico dei macchinari. O alla ristrutturazione dei nostri ospedali. La manutenzione Basta incrociare i dati della Commissione parlamentare d’inchiesta sul nostro sistema sanitario e quelli della Protezione civile per rendersene conto. Il 9% delle strutture (ovvero 75) risalgono all’era napoleonica, nel 15% dei nostri nosocomi la prima pietra è stata messa quando i nostri bisnonni combattevano la prima guerra mondiale, mentre il 35% è stato costruito prima che finisse il secondo conflitto mondiale. In pratica 6 ospedali su 10 hanno più di 70 anni di vita alle spalle. E nemmeno ben portati. La Protezione civile denuncia che di manutenzione se ne fa ben poca è così il 60% rischia di venire giù con un terremoto nemmeno troppo violento. Oltre alle statistiche quelli della Protezione hanno buttato giù anche una piccola black list degli ospedali pericolosi. Casi esemplificativi e non esaustivi, come quello del “Ss. Annunziata” di Napoli, classe 1889, senza manutenzione e investimenti, definito il più pericoloso della Regione. Ed è tutto dire, visto che sempre in Campania sorge l’Ospedale del Mare, che in realtà è a soli 7 chilometri dal Vesuvio, ossia in «zona rossa» per la Protezione civile. Ma anche il nord ha le sue perle. Come la clinica pediatrica dell’Ospedale Maggiore di Parma. Inaugurata nel 1920, nel febbraio del 2013 ha generato una pioggia di calcinacci che solo per miracolo non ha fatto vittime. Anziché provvedere a opere di ristrutturazione si è preferito chiuderne un’ala. Storie di ordinaria follia che hanno origine anche da una carenza cronica di investimenti. «Da dieci anni la spesa per investimenti in conto capitale è ferma per carenza cronica di risorse» denuncia Valerio Fabio Alberti, Presidente della Fiaso, la Federazione di Asl e ospedali. «Come quota di investimenti pubblici su quelli privati siamo oramai ultimi in Europa, ci batte solo la piccola Irlanda», rimarca sciorinando numeri. Tutto questo nonostante un Piano di investimenti per l’edilizia sanitaria da quasi 17 miliardi di euro, messi a disposizione della Stato negli anni, ma utilizzato solo al 40%, denuncia la Corte dei conti. Che individua le colpe nelle procedure farraginose e nell’incapacità di realizzare progetti da parte delle amministrazioni locali. Gli stessi mali che ci fanno perdere decine di miliardi di cofinanziamenti europei. 34 del 16/06/14, pag. 4 IL CORPO CONCESSO PER POCHI EURO DECINE DI OFFERTE ALLA SETTIMANA. APPELLI SU INTERNET, MESSAGGI ALL’ISTITUTO DI SANITÀ. PRIMA SI ANDAVA IN SVIZZERA, OGGI ANCHE IN ITALIA CI SI PRESTA PER SPERIMENTARE I FARMACI. PER 200 EURO AL GIORNO. NEL NOSTRO PAESE IL 19% DEGLI ESPERIMENTI EUROPEI “Io cavia umana per pagare l’affitto” di Alessandro Madron Non sto qui a dire perché, ma ne ho bisogno urgente, mi servono i siti dove posso trovare le offerte per cavie, no moralisti grazie”. Questo è solo uno dei tanti messaggi postati in rete da persone che, in cambio di denaro, sono disposte a sottoporsi a sperimentazione farmaceutica. Cavie umane, insomma. Persone spinte dal bisogno o attratte dai guadagni facili che scelgono di candidarsi. Bastano pochi clic per capire come fare. Un computer e una connessione: “Come diventare volontario sano”. Le possibilità ci sono. Non solo in Svizzera (Canton Ticino) ma anche in Italia. Si scopre presto che i centri che effettuano ricerche su volontari sani sono un po’ ovunque. Verona, Milano, Pavia, Cagliari, ma non solo. Si compila un modulo fornendo informazioni su abitudini alimentari, malattie pregresse, allergie, farmaci assunti. Si forniscono i dati, compreso il contatto del proprio medico curante, e il gioco è fatto. “Chiaramente –ci racconta Gianluca, ex cavia in Svizzera - non basta compilare un’informativa in maniera dettagliata, occorre sottoporsi a una visita accurata, la selezione è seria, se non sei sano non ti prendono, quando lo racconto qualcuno lo trova inconcepibile, ma sempre più spesso mi chiedono i contatti”. L’istituto di Sanità coperto di richieste Che il tema sia più che mai attuale lo dimostra anche un “avviso urgente” pubblicato lo scorso 6 febbraio sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità: “Facendo seguito a ripetute richieste di informazioni relative all’arruolamento di volontari sani per sperimentazioni cliniche, si precisa che l’Istituto Superiore di Sanità non conduce sperimentazioni cliniche e pertanto non arruola volontari per le stesse”. Insomma, la spinta verso questo tipo di attività è così forte da indurre gli aspiranti volontari a cercare informazioni direttamente all’Iss, anche per candidarsi. Difficile ricostruire con precisione l’entità del popolo delle cavie in Italia (secondo CMR International 2013 Thonson Reuters siamo il ventitreesimo paese al mondo con meno di 5 mila soggetti arruolati in sperimentazione, ma non esistono dati disaggregati che distinguano cavie sane e malati). Il fenomeno trova però conferme che vanno oltre i messaggi postati nei forum online. Ad esempio all’associazione Difesa consumatori raccontano come ogni settimana decine di persone chiedano informazioni ai loro centralini su come diventare volontari sani. Se è pacifico che ai centri di ricerca servano volontari (le norme internazionali lo impongono), lo è meno l’idea che siano in molti, sempre di più, a guardare con interesse alla possibilità di prestare il proprio corpo alla sperimentazione. Non per amore della ricerca, si intende, ma con la speranza di racimolare qualche euro in un periodo in cui i soldi sono un miraggio. Poche centinaia di euro a titolo di “rimborso spese” possono fare gola a chi si trova in condizioni di bisogno, anche solo per arrotondare stipendi che non bastano più. “Mai avuto problemi di salute – racconta Francesco, 28 anni, quattro vissuti da cavia e sette test all’attivo - Sono soldi facili, con una settimana mi pago due mesi di affitto, lo faccio una o due volte l’anno e continuerò finché mi chiameranno o finché non 35 interferirà con la mia vita lavorativa”. Una settimana in clinica può valere 1200 euro, circa 200 euro al giorno, questo lo standard europeo dei rimborsi riconosciuti ai volontari come risarcimento per il tempo trascorso in clinica: “Dimmi un lavoro che ti fa guadagnare così tanto senza fare nulla!”. In Italia si effettua oltre il 16% delle sperimentazioni di tutta Europa (XII rapporto sperimentazione clinica Aifa) e i dati raccontano di un progressivo spostamento della ricerca verso le fasi precoci. Nel nostro paese le sperimentazioni di Fase I (quelle che richiedono il reclutamento volontari sani) nel 2007 erano solo il 2,9% del totale, nel 2011 la percentuale era salita al 6,8. Tuttavia i posti disponibili per le aspiranti cavie sono in numero limitato: “Non esiste una banca dati puntuale che raccolga i volontari sani in Italia – ha spiegato la dottoressa Patrizia Popoli dell’Istituto Superiore di Sanità -, si tratta di poche decine di soggetti all’anno, dai 10 ai 20 per ogni studio”. Nel 2012 in Italia sono stati effettuati 41 studi di Fase I: “Va però precisato – continua Patrizia Popoli – che ci sono studi di Fase I che non si avvalgono di soggetti sani, ad esempio per gli antitumorali e per tutti i principi attivi con un elevato profilo di tossicità ci si rivolge a soggetti con una patologia specifica in atto già nelle prime fasi di sperimentazione”. Ora tocca a Cina e India Il Bengodi delle cavie italiane, soprattutto nei territori di confine, è sempre stata la vicina Svizzera. Negli anni passati si era arrivati a toccare la quota dei mille volontari sani all’anno a disposizione dei tre centri un tempo operativi in Canton Ticino (oggi ne sopravvive uno solo). “Nel 2013 i volontari sani che hanno partecipato a studi clinici con medicamenti in Ticino sono stati 403 (85% gli italiani)” ha spiegato il farmacista cantonale Giovan Maria Zanini, un numero in netto calo rispetto al passato: “L’offerta di studi è diminuita. Anche l’in - dustria farmaceutica risente della crisi e ha meno farmaci da sviluppare. È possibile che il numero di persone interessate a mettersi a disposizione oggi sia maggiore, ma qui la domanda non ha proprio nessun influsso sull’offerta”. Una valutazione che forse vale nel ristretto mercato elvetico, ma i dati e le stime sugli investimenti globali delle industrie farmaceutiche indicano invece un trend in costante aumento. Gli investimenti mondiali ammontavano a 88 miliardi di dollari nel 2004 e sono arrivati a 136 nel 2013. Per il 2018 sono stimati in 149 miliardi (dati EvaluatePharma 2013). L’indicatore dell’attrattività della sperimentazione nei vari paesi (A.T.Kearney Clinical Trial Attractiveness Index) racconta della crescita di nuove realtà come la Cina o l’India, che stanno rosicchiando posizioni su posizioni al colosso americano, facendo perdere terreno anche ad altri storici protagonisti dell’industria farmaceutica (come Germania, Inghilterra o Francia) in una classifica che non contempla il nostro paese entro le prime trenta posizioni mondiali. Quindi in Italia il mercato delle cavie non decolla perché il paese non è sufficientemente attrattivo per la sperimentazione. Troppo complesse le procedure burocratiche, troppo alti i costi, così gli investimenti restano relativamente bassi. L’esercito delle aspiranti cavie deve quindi mettersi l’anima in pace: il contesto non gioca a loro favore e il futuro della sperimentazione sarà sempre più lontano dal vecchio continente. 36 INFORMAZIONE Del 16/06/2014, pag. 1-9 IL CASO Per il piano Rai a luglio una consultazione popolare ALBERTO D’ARGENIO SULLA Rai Matteo Renzi accelera. Tra due settimane partirà il primo step della riforma annunciata, anche l’altro ieri, dal premier. Un lavoro che si perfezionerà entro fine anno. Si tratta di un cambio di passo che in pochi mesi toccherà tutti i pilastri del sistema televisivo di Stato. Sulla Rai Matteo Renzi accelera. Tra due settimane partirà il primo step della riforma annunciata, anche l’altro ieri, dal premier. Un lavoro che si perfezionerà entro fine anno. Si tratta di un cambio di passo che in pochi mesi toccherà tutti i pilastri del sistema televisivo di Stato: la governance, il canone e la legge Gasparri. La rotta ormai è tracciata e alla svolta lavorano il sottosegretario Antonello Giacomelli e, a Palazzo Chigi, Luca Lotti. La riforma allo studio del governo sarà poi implementata nel 2015 dall’azienda, che ad aprile avrà nuovi vertici - presidente, direttore generale e Cda - nominati con i nuovi criteri in gestazione che nelle intenzioni dell’esecutivo Renzi dovranno svincolare i timonieri di Viale Mazzini dalla politica. Come confermava ieri il segretario della commissione di vigilanza Michele Anzaldi, il quale nell’assicurare che Renzi manterrà le promesse di riforma sottolineava: «Questo è il momento in cui, con l'aiuto di gente competente e disinteressata, si potrebbe finalmente disegnare la Rai del futuro». Si parte dunque ai primi di luglio, con il lancio da parte del governo di una «grande consultazione pubblica», così la chiamano a Palazzo Chigi, che coinvolgerà non solo politica e addetti ai lavori, ma (su decisione di Renzi) anche i cittadini. La consultazione partirà da alcune linee guida, dagli obiettivi che il governo vuole raggiungere, e conterrà una sorta di questionario su come arrivare al meglio ai traguardi prefissati. I punti cardine saranno la nuova governance che renda la Rai indipendente dal mondo politico, un nuovo modello di servizio pubblico con la trasformazione dell’azienda in una media company in grado di produrre contenuti per tutte le piattaforme, la valorizzazione della produzione culturale Rai e l’esportazione dei contenuti sul mercato internazionale. Il governo tirerà le somme in autunno ed entro fine anno varerà il decreto per la nuova convenzione Rai che conterrà anche la riforma. Una forte accelerazione, visto che il contratto di servizio scadrebbe nel 2016, voluta da Renzi per uscire dalla palude della lottizzazione di Viale Mazzini. Contemporaneamente, quindi sempre entro fine anno, il governo varerà anche la riforma del canone che mirerà a risolvere alla radice il problema dell’evasione rendendolo medio odioso e più equo, con la determinazione dell’imposta legata anche alla capacità di spesa dei singoli abbonati. Il pacchetto sarà completato, negli stessi tempi, mettendo mano alla legge Gasparri, che sarà modificata nella parte relativa alla governance Rai (non è ancora stato deciso lo strumento per la revisione della legge cara a Berlusconi, o un intervento diretto sul testo o un passaggio ad hoc nel decreto sulla convenzione). L’obiettivo è di permettere già ai nuovi vertici aziendali, che saranno nominati nell’aprile del 2015, di essere del tutto indipendenti dal Palazzo. Già, perché saranno proprio loro a dover declinare in decisioni concrete e puntuali la riforma del governo, che volutamente lascerà a Viale Mazzini ampi margini di manovra nelle specifiche decisioni. 37 ECONOMIA E LAVORO Del 16/06/2014, pag. 13 Entro oggi il pagamento di diversi tributi, dall’Irpef alla prima rata sulla casa Abitazioni, ecco le differenze con il 2012: aggravi più frequenti se la rendita è bassa Lunedì di supertasse: 54 miliardi nel 70% delle famiglie con figlio Tasi più cara della vecchia Imu ROBERTO PETRINI ROMA Giorno del salasso per la Tasi che nel 71,1 per cento delle famiglie con un figlio, secondo un rapporto della Uil servizio politiche territoriali, costerà più dell’Imu del 2012. Ma non solo: quello che si profila come un «lunedì nero» prevede anche il pagamento di una serie di saldi e tasse sulle imprese che raggiungeranno, secondo la Cgia di Mestre, i 54,5 miliardi. L’attesa maggiore per circa 5,5 milioni di contribuenti in 2.265 Comuni è comunque per l’ultimo giorno utile per pagare la Tasi sulla prima casa e già i primi conteggi emanano il profumo della stangata. Secondo lo studio della Uil servizio politiche territoriali che ha preso in esame 180 famiglie- tipo, con abitazioni in A/2 e A/3, le più diffuse, in 45 Comuni che hanno già pubblicato l’aliquota, la Tasi per più della metà delle famiglie (52,8 per cento) costerà più dell’Imu del 2012 (ultimo anno in cui si pagò interamente la tassa). Infatti da un confronto tra i bollettini del 2012 e quelli pronti per il pagamento di oggi risulta che nella categoria A/2 nel 49 per cento delle famiglie con un figlio nei Comuni presi in considerazione il costo della Tasi sarà superiore a quello sostenuto per l’Imu. Nella categoria A/3 le cose vanno anche peggio: in questo caso nel 71,1 per cento delle famiglie con un figlio, collocate nei Comuni-campione, ci sarà un appesantimento dei costi del fatidico bollettino. Se si guarda alla categoria A/2 e si prendono in considerazione le famiglie con un figlio si scopre che sono particolarmente penalizzati Comuni come Mantova (dove si pagheranno 174 euro in più), Lucca (136 euro in più), Siracusa (98 euro in più), Venezia (80 euro in più), Vibo Valentia (61 euro in più). A fare la differenza naturalmente sono le detrazioni per i figli che con l’Imu erano in misura fissa e con la Tasi sono a discrezione dei Municipi. Senza contare che molti Comuni oltre a toccare il tetto massimo dell’aliquota al 2,5 per mille hanno aggiunto la cosiddetta addizionale mobile dello 0,8 per mille, indispensabile se si vogliono trovare risorse per le detrazioni. In alcuni casi un vero e proprio circolo vizioso: l’addizionale consente le detrazioni ma rende il carico della tassa più pesante. Se si guarda ad alcune grandi città, rilevate dallo studio Uil servizio politiche territoriali, emerge inoltre che in termini assoluti l’esborso per una abitazione A/2 arriverà fino a superare i 400 euro mangiando buona parte del bonus- Renzi che per gli otto mesi dell’anno raggiungerà i famosi 640 euro. Sarà cosi ad esempio, ad Ancona, Parma, Torino, Piacenza, Cremona, Rimini e Reggio Emilia. Tornando all’«ingorgo» che è previsto per la giornata di oggi, secondo la stima effettuata dalla Cgia, l’imposta più onerosa sarà l’Ires, ovvero l’imposta sui redditi pagata dalle società di capitali: il gettito dovrebbe aggirarsi attorno ai 14,7 miliardi di euro. Di tutto rispetto anche l’importo che dovrebbe arrivare dal pagamento dell’Imu e della Tasi: 10,8 miliardi di euro. Sul terzo gradino del podio le ritenute Irpef: l’importo dovrebbe aggirarsi sui 9,7 miliardi. 38 Del 16/06/2014, pag. 8 Riforma Pa, pensionamenti per far spazio ai giovani In tre anni le uscite potrebbero essere 60mila Il turn over sarà progressivamente ripristinato La mancanza del sempre annunciato decreto legge, fa della riforma della Pubblica amministrazione un cantiere aperto. La scelta di preferire un solo strumento legislativo - un disegno di legge delega - allunga i tempi di attuazione del piano. In attesa del testo definitivo, conosciamo per ora i titoli e le misure più importanti. Il ddl «delega al Governo per la riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche» ed è composto da 12 articoli, di cui 8 contenenti deleghe legislative da esercitare in gran parte nei dodici mesi successivi all'approvazione della legge. La prima norma che entrerà in vigore è quella sul dimezzamento - il taglio del 50 per cento - dei distacchi sindacali, cioé il numero dei dipendenti pubblici che lasciano il loro posto nella Pa per fare i sindacalisti: la norma entrerà in vigore dal primo agosto. A fine ottobre invece toccherà allo stop al trattenimento in servizio: non sarà più possibile restare al lavoro nella Pa dopo aver raggiunto l’età pensionabile. Una deroga è stata prevista per i magistrati: potranno continuare a rimanere in servizio fino al 2015: un anno in più rispetto ai 5 di oggi. I rigidi criteri di carriera legati all’anzianità infatti rendevano difficile un’applicazione stringente della norma: a Milano ad esempio si sarebbe trovato praticamente sguarnito di giudici l’intera Corte di Appello. Nei piani del governo l’abolizione al trattenimento in servizio è la prima di una serie di norme che favorirà l’entrata in servizio di giovani nella Pa. Se Matteo Renzi nella conferenza stampa di venerdì ha parlato di 15mila assunzioni da qui al 2018, ilministro Marianna Madia ha stimato in 60mila il personale che andrà in pensione nel triennio 2014-2017 grazie ad una seconda norma: quella che consente alle amministrazioni di mettere in pensione i dipendenti che hanno raggiungendo la contribuzione piena. Si tratta dell’estensione di una norma finora riservata alle sole donne dalla riforma Fornero che consente di andare in pensione a 57 anni con 35 di contributi, ma con l’assegno pensionistico calcolato totalmente con il meno vantaggioso sistema contributivo. Nella giornata di ieri era circolata la notizia che la stessa norma allargata per la Pa potesse essere usata dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti nella questione esodati. Niente di tutto ciò: sono pochissimi gli esodati che si trovano in queste condizioni, proprio perché hanno perso il lavoro, non hanno tanti anni di contributi. Anzi, invece di usare una norma fatta per la Pa, il ministro Poletti ha di fatto bloccato l’idea di utilizzare i pre-pensionamenti per i soli dipendenti pubblici. Già giovedì aveva dichiarato: «Sono contrario a trattamenti diversi tra pubblico e privato». La norma che dovrebbe avere l’impatto maggiore sia come innovazione che come effetti sull’entrata al lavoro dei giovani è quella che riguarda il part time. Nel disegno di legge si prevede l’introduzione del part time al 50 per cento per i dipendenti della Pa che si trovano a cinque anni dai requisiti per la pensione. Per incentivarne l’uso - naturalmente facoltativo - il governo ha deciso di garantire ai lavoratori i contributi pieni, come continuassero con il full time. Sempre per favorirne l’uso, il Consiglio dei ministri ha deciso di accantonare l’esonero dal servizio - inizialmente previsto - per chi si trova a due anni dalla pensione. Le assunzioni di giovani dunque avranno uno spazio maggiore. Il turn over per tutto il comparto pubblico resta al 20 per cento per quest’anno, ma sale al 40 per cento del 2015, arriva al 60 per cento nel 2016 e all’80 per 39 cento nel 2017, e tornerà al 100 per cento dal 2018. Il paradosso è che si tratta di paletti più larghi rispetto a quelli definiti l’anno scorso nel decreto D’Alia per la stabilizzazione dei 160mila precari della pubblica amministrazione. GIOVEDÌSCIOPEROUSB Proprio su questo si basa una delle principali critiche dei sindacati, assieme al mancato rinnovo del contratto scaduto nel 2009. Che difatti avevano proposto il blocco del turn over per i soli dirigenti: rinunciando ai loro pesanti stipendi avevano stimato che si potevano far entrare ben 100mila precari nell’arco di un triennio. Il primo sindacato a mobilitarsi sarà l’Usb. Dopo il presidio sotto il ministero durante l’incontro con tutti i sindacati, l’Usb ha confermato lo sciopero già proclamato per l’intero settore pubblico per giovedì 19.Ma, sebbene sabato dalla festa Cisl di Firenze, Raffaele Bonanni abbia parlato di protesta ghandiana, Cgil e Uil non escludono «forme di mobilitazione forti». del 16/06/14, pag. 8 Boom delle crisi aziendali, + 41% in un solo anno L’ECONOMIA REGIONALE sta attraversando la crisi più lunga della sua storia. Dal 1973, inizio delle indagini camerali, non era mai accaduto che per sei trimestri consecutivi la produzione industriale registrasse una contrazione su base congiunturale, nemmeno durante la recessione del 2008-2009”. Inizia così il Rapporto “La situazione economica del Veneto”, redatto dall’Unionecamere. Pil negativo del 2,3% rispetto al 2011, in linea con quella delle altre principali regioni italiane. Quindi, senza alcuna specificità nerdestina. Le previsioni sul 2013 parlano di una contrazione su base annua più lieve ma comunque pari a -1,2 per cento. La crescita nel 2014 sarà limitata solo a un +0,9 per cento. Giù gli investimenti aziendali dell’8,5%, e crescita del 41% delle crisi aziendali. La caduta dei livelli produttivi ha riguardato tutte le tipologie aziendali, con flessioni più accentuate nel segmento delle micro e piccole imprese. È proseguito per il sesto anno consecutivo, il calo della produzione nel settore delle costruzioni, col pendo maggiormente le imprese artigiane di piccole dimensioni. 40