Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali
Edizione nr. 62 del 20/10/2014
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Iscrizione presso il Tribunale di Padova n. 2187 del 17/08/2009
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INDICE
IL MERAVIGLIOSO MONDO DI SIDDHARTHA
Luigi la Gloria
pag.
2
LA MOLECOLA DELLA VITA
Anna Valerio
pag.
12
SANGUE MISTO
Umberto Simone
pag.
16
LE IMMAGINI DELLA FANTASIA 32
pag.
19
NEL SEGNO DI CARLO SCARPA
pag.
22
CORCOS. I SOGNI DELLA BELLE ÉPOQUE
pag.
24
ROBERTO FLOREANI: LA CITTÀ IDEALE
pag.
27
PIER PAOLO MITTICA. ASHES/CENERI
pag.
29
Direttore Responsabile
Luigi la Gloria
[email protected]
Vice Direttore
Anna Valerio
[email protected]
Grafica e Impaginazione
Claudio Gori
[email protected]
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IL MERA VIGLIOSO MONDO DI SIDDHA RTHA
Luigi la Gloria
Quando la sapienza Indiana fluisce verso occidente a
partire dal XVIII secolo produce un lento ma
fondamentale mutamento nel pensiero europeo. Pur
tuttavia è soltanto alla fine del XVIIII secolo che il
buddhismo giunge alla nostra attenzione grazie alla
monumentale opera di traduzione del Canone pāli da
parte di Karl Eugen Neumann 1865-1915.
Prima di allora la conoscenza dei libri sacri del
buddhismo era riservata ai pochi estimatori del
sanscrito, del pāli e delle lingue asiatiche. Ma la mirabile
opera di Neumann ci ha consentito di immergerci in
quell’immenso mare di conoscenza che è il BuddhaDarma. Schopenhauer diceva.. che il sublime è quella
sorta di estremo della bellezza, in cui immediatamente si
avverte la negazione del temporaneo e l’affermazione
dell’eterno e che costituisce l’essenza della bellezza. Certamente è questa l’impressione che si
prova leggendo e meditando i discorsi di Gotama Buddha.
Il luogo dove è collocata la colonna con la grande iscrizione di Ashoka, III secolo a.C.,
contenente la lapidaria affermazione: qui nacque il Buddha Sakyamuni, si trova nel cuore di uno
dei più grandiosi e solenni paesaggi della terra, assai adatto ad essere stata la culla di colui che
insieme pochi altri uomini ha illuminato le coscienze dell’intera umanità. A settentrione si
staglia maestosa la più grande catena montuosa della terra: l’Himalaya le cui cime nevose, il
Devalagiri,il Gaurisankar, il Kangchenjunga,l’Annapurna si ergono giganteschi tra gli ottomila e
i novemila metri, ai piedi dei quali, tra i colli boscosi del Nepal, si trova il luogo di nascita del
Buddha. A sud scorre parallelamente per altri duemila kilometri il sacro Gange che, con un
ritmo immenso, scorre a versare la sua enorme massa di materiale di disgregazione
dell’Himalaya nel gorgo profondo del Mare del Bengala. E nel Gange si versano dall’Himalaya
gli altri sacri affluenti e poco lontano scorrono i cinque fiumi vedici, che confluiscono nell’Indo e
con esso portano l’acqua delle gelide vette al caldo Oceano indiano, scosso dal grande respiro
del monsone. E fruendo del principio buddhista dell’interdipendenza: il monsone porta per la
valle del Gange il vapore dell’acqua esalato dal caldo oceano il quale precipita poi con diluvi di
piogge e neve sull’Himalaya e nel sottostante Terai nepalese e qui fa germogliare la rigogliosa
vita vegetale e animale della giungla indiana e sulle sparse rovine delle antiche città dove
nacque e morì Gotama Buddha.
Questo paesaggio del Terai che Kurt Boek, l’intrepido viaggiatore tedesco che negli anni venti
del novecento, fu tra i primi a visitare l’Himalaya, definisce di strabiliante bellezza, che Kipling
descrive con parole di straordinaria poesia, sono rimasti come soli baluardi e solenni testimoni
della vita e della civiltà dalla quale sorse lo splendido fiore del Buddha.
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Egli stesso descrive la sua terra e la sua
famiglia di origine; nel Grande Libro,
Sattanipāto. In esso si racconta come
Gotama in cammino alla volta della città di
Rājagaham, ora Rajgir capitale del Bihar,
dopo avervi elemosinato cibo, uscì dalla
città, ritirandosi sul monte Corno Grigio. Il
re Bimbisāra che regnò in quella regione
tra il 537 e 485 a.C. vide dal suo palazzo
passare un asceta mendicante e, colpito
dal suo aspetto e dal suo andare regale,
inviò sulle sue tracce alcuni messi che
tornarono annunziandogli:- Il mendicante,
o gran re, s’è ora fermato al Corno Grigio e
riposa come una tigre reale, come un leone innanzi la sua caverna.- Il re fece subito preparare il
carro e parti veloce alla volta della montagna. Quando fu dinnanzi all’asceta si fermò e
inchinatosi con riverenza disse:- Così giovane, forte e fresco, nel primo fiore della virilità, di nobile
aspetto, di bella figura, tu sembri di nascita un guerriero che risplendere davanti all’esercito,
seguito dalle schiere di elefanti. Io ti donerò tesori se mi sarai amico. Dimmi a quale gente
appartieni.- Gotama gli indirizza uno sguardo pacato e colmo di dolcezza:- Mio re, nel
settentrione, al confinante con il Kosala, vi è una terra che si estende ai piedi dell’Himalaya, essa è
forte e ricca. Nacqui nel regno degli Sakaya, e Sakya è il nome della mia famiglia. Il re
Suddhodāna, che regna in Kāpilavatthu, è mio padre e mia madre era la regina Māhamaya. Ero
principe ereditario ma, scegliendo di diventare un monaco per cercare la Via, sono ormai tre anni
che ho lasciato genitori moglie e figlio.
Nel corso dei secoli intorno alla nascita di Siddhartha, i vari popoli hanno intessuto un velo di
leggenda, infatti si narra che la madre lo partorì in piedi appoggiata ad un tronco d’albero di
salā, come la madre di Apollo come si legge nell’inno omerico tradotto da Goethe. Così come
Apollo, Siddhartha saltò immediatamente al suolo e dopo aver fatto sette passi e aver guardato
in tutte le direzioni disse che avrebbe vissuto l’ultima vita e di non riessere più.
La nascita, prosegue la leggenda, come prima la concezione e come poi i grandi avvenimenti
spirituali della sua vita, fino alla morte e all’estinzione, fu accompagnata da un
incommensurabile splendore, che offuscò non solo i mondi di luce ma anche quelli oscuri dove
non c’è sole ne luna, con un fremito che pervase di luce l’universo.
Quando la lieta novella si sparse tra cielo e terra, scese dalle falde dell’Himalaya il vecchio vate
Asito il quale prese in braccio il bambino, che splendeva come oro puro nel crogiuolo, e pianse
pensando che essendo troppo vecchio, non avrebbe avuto il privilegio di vedere il momento in
cui il bambino, diventato uomo, avrebbe, con la sua
dottrina, aperto la Via che interrompe il sāmsara, per
salvarsi dalla morte e dalla vita.
Sugli anni trascorsi da Gotama nel grandioso paesaggio del
Nepal himalayano, prima di darsi alla vita ascetica e le
circostanze che lo portarono a quella scelta sono contenute
nel Majjhimanihāyo, poche righe, semplici, marmoree sulle
quali nel corso dei secoli si è sviluppata tutta la ricca
architettura della leggenda romantica di Buddha, che
dall’India è poi passata nel Tibet, in Cina, nel Giappone per
poi diffondersi nei due emisferi della terra.
Molti tratti di questa leggenda sono pieni di poesia e di
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pensiero. Così come quello in cui si descrive il principe Siddhartha il futuro Buddha, valente in
tutte le arti del nobile guerriero, abile come nessun altro nel tiro con l’arco, in una gara, come
l’antico eroe indiano Arjuna e il greco Odisseo, vinse su tutti gli avversari, conquistandosi il
diritto a sposare la bellissima Yaśodharā. Dal matrimonio nacque Rāhula che fu salutato con
gioia in tutto il regno. La notizia della nascita del figlio gli giunse mentre, sulla sponda del
fiume, ascoltava la cugina cantare .- Beato il padre, beata la madre… La parola beato gli chiamò
subito alla mente la beatitudine dell’asceta che rinunzia al mondo. Per il giovane principe quella
parola fu una rivelazione e grato alla cugina le regalò una collana di perle. Tempo dopo accade
qualcosa a causa della quale decise di abbandonare il mondo e dedicarsi all’ascesi. Narra la
leggenda che Siddhartha, tenuto dal padre fuori dal mondo reale, tra delizie, giochi e i piaceri
che un giovane principe può godere, uscendo un giorno a passeggio sul carro con il suo auriga,
incontrò, spettacolo mai visto prima, un vecchio canuto, curvato e appassito. Colpito da quella
apparizione chiese all’auriga cosa avesse fatto quell’uomo per essere ridotto in quelle
condizioni. Il giovane rispose che era la vecchiezza a causare il decadimento del corpo e
aggiunse con tono grave che tutti, nel tempo in prossimità della morte, sarebbero caduti preda
di quella sofferenza. In una seconda passeggiata incontrò un infermo che gli presentò un’altra
faccia del dolore della vita. In una terza uscita si imbatterono in un funerale che diede luogo ad
un dialogo simile a quello tra Amleto ed Orazio al cimitero:- Questo, altezza, è un morto e, come
si dice, egli non sarà più visto dalla madre o dal padre e da tutti gli altri suoi parenti ed amici ed
anch’egli non vedrà più sua madre o suo padre e gli altri parenti.- - Come.- Rispose il principe.Anche io sarò soggetto alla morte e non sarò più rivisto dai miei parenti ed anch’io non rivedrò più il
re mio padre e la regina e tutti i congiunti?. – Anche tu Altezza e tutti noi siamo soggetti alla morte.
Da allora non trovò più alcuna gioia e non ebbe più pace, se non quando scoprì la Via per
mettere fine alla vecchiezza e alla morte, al dolore del mondo, alla nascita da cui deriva la vita
ed il dolore. Diventò così un pellegrino alla ricerca del vero bene, investigando per
l’incomparabile sentiero della pace si unì ai due più famosi asceti e valenti maestri brāhmani del
tempo. Lo guidarono per un cammino spirituale che conduceva alla sfera della non esistenza
poi a quella della non coscienza. Ma egli, dopo aver fatto proprio quel massimo sapere, si avvide
che nessuna delle due sapienze portava al distacco, al dissolvimento, al risveglio e come egli
steso dice:- Mi rimisi in cammino cercando il vero bene , investigando per l’incomparabile sentiero
di pace, passai per la terra di Magadhā, di luogo in luogo giunsi nelle vicinanze del borgo di
Uruvelā. La io vidi un delizioso pezzo di terra: un sereno fondo boschivo, un limpido fiume corrente
e tutt’intorno prati e campi. Ciò basta all’ascesi. Mi sedetti allora laggiù.
Proprio in quel luogo che Gotama iniziò con straordinario zelo tutti gli esercizi ascetici che gli
eremiti e penitenti Yoga di quel tempo praticavano. Cominciò cosi la sua esperienza di
mortificazioni, penitenze, digiuni prolungati fino quasi a morire. Attratti dal suo immenso
fervore si erano raccolti intorno a lui cinque discepoli i quali credevano di aver trovato
finalmente il maestro, che aver conquistato con tali sforzi la verità, li avrebbe resi partecipi
secondo l’uso brahmanico. Ma Gotama un giorno, essendo rimasto, dopo un estremo digiuno,
quasi morto per terra, si accorse che nemmeno quella era la via:- Allora mi venne il pensiero: quel
che mai asceti o sacerdoti hanno provato nel passato o proveranno in futuro o provano nel
presente, di sensazioni amare, dolorose, cocenti: questo è il massimo, più oltre non si può andare.
Eppure con questa amara ascesi di dolore io non raggiungo la sopraterrena, santa dovizia della
chiarezza del sapere! Vi è forse un’altra via per il risveglio. Allora mi venne un pensiero. Una volta,
durante il lavoro nei campi presso mio padre, sedendo sotto la fresca ombra di un albero di
melarosa, assai lontano da desideri, da cose non salutari, immerso in una beata serenità, raggiunsi
il grado della prima contemplazione. Sorse allora in me la coscienza che quella era la via per il
risveglio.
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Giunto a questa consapevolezza decide di abbandonare l’ascesi
esteriore, corporale e dedicarsi interamente agli esercizi
spirituali. I cinque discepoli credendolo crollato lo
abbandonarono. Ma Siddhartha non perde mai di vista il suo
scopo persistendo così, fermo, instancabile nella meditazione
che lo porta ad ascendere di grado in grado le quattro successive
sante contemplazioni; scorge chiara l’unità dell’esistenza
universale attraverso le miriadi di forme e dei fenomeni
moltiplicatisi nel tempo e nello spazio; percepisce la legge ferrea
della morale a cui sono sottoposte tutte le manifestazioni della
vita e del mondo. Giunge così, in fine, alla concezione
dell’origine e della fine del mondo, dall’origine e della fine della
sofferenza che al mondo è fatalmente, inestricabilmente,
ineluttabilmente congiunta.
[Siddhartha analizzando il contenuto della via di mezzo, giunge alla formulazione delle Quattro
Nobili Verità: sofferenza, l'origine della sofferenza, la cessazione della sofferenza, la via che
porta alla cessazione della sofferenza e dell'Ottuplice Sentiero, ovvero la base del
comportamento etico come causa imprescindibile per il conseguimento del Risveglio,.
La prima verità è quella del dolore: l'unione con quel che non si ama è dolore, la separazione da
quel che si ama è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore. Vivere vuol dire soffrire.
Nel corso della vita si sopportano sofferenze fisiche come il dolore, la malattia, vecchiaia, e
infine la morte. Si patisce tristezza, paure, frustrazioni, amare delusioni. E benché ci siano vari
stadi di sofferenza e allo stesso tempi gioie ed esperienze positive, la vita, nella sua totalità
resta imperfetta ed incompleta, perché il mondo è subordinato all’impermanenza. Questo
significa che non si è mai in grado di mantenere permanentemente quello che si possiede o si
ama perché, insieme alla vita, tutto giorno finirà.
L’origine della sofferenza è l’attaccamento alle cose transitorie e l’ignoranza della stessa. Le
cose transitorie non sono solo gli oggetti fisici che ci circondano, ma anche idee, e in un certo
senso, tutti gli oggetti della nostra percezione. L’ignoranza è la mancanza di comprensione di
come la nostra mente è fissata alle cose impermanenti. Le ragioni della sofferenza sono il
desiderio, la passione, l’ardore, la ricerca della ricchezza. Poiché gli oggetti del nostri desideri
sono transitori, la loro perdita è inevitabile, e così insorge la sofferenza. Oltre agli oggetti di
attaccamento anche l’idea di un sé è un inganno. L’ego è solo una entità immaginata, e noi
siamo solo una parte del incessante divenire dell’universo Questa sarebbe poi stata
ampiamente discussa e analizzata dal Buddha nel corso di tutta la sua predicazione, fino a
trovare la sua formalizzazione nella paṭicca samuppāda, in cui ogni causa ha un effetto in una
spirale apparentemente invincibile.
La cessazione della sofferenza può essere raggiunta attraverso nirodha. Nirodha è il
disfacimento della brama sensuale e l’attaccamento concettuale. La terza nobile verità esprime
l’idea che la fine della sofferenza può essere ottenuta mediante il conseguimento del distacco.
Questo significa che la sofferenza può essere superata semplicemente rimuovendo la causa
della sofferenza. Il raggiungimento ed il perfezionamento del distacco è un processo composto
da molti livelli che in ultima analisi è lo stato di Nirvana. Esso significa libertà da tutte le
preoccupazioni, le paure, o qualsiasi forma di idea concettuale, ma rimane incomprensibile per
chi non l’ha raggiunto.
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C’è un percorso per la fine della sofferenza, un percorso graduale, che viene descritto più
dettagliatamente nell’Ottuplice Sentiero. Esso è la via di mezzo tra i due estremi di un eccesso di
auto indulgenza, l’edonismo, e auto-mortificazione, l’ascetismo, che conduce alla fine del ciclo
delle rinascite. Questi sono gli otto punti: retta cognizione, retta intenzione, retta parola, retta
azione, retta vita, retto sforzo, retta meditazione, retto raccoglimento.]
Dunque, riassumendo, la
prima verità consiste nel capire
la natura reale della vita. La
seconda nella comprensione
precisa
dell’origine
della
sofferenza. La terza nel
comprendere che esiste un
modo
per
estirpare
il
desiderio. La quarta nel
percorrere il sentiero che porta
alla comprensione totale che è
il Nirvana
Così ai piedi di un albero di
pippāla
raccolse
il suo
formidabile
potere
di
concentrazione nell’esame del corpo. Vide così che ogni cellula è come una goccia d’acqua
immersa nel fiume infinito della nascita, esistenza e morte, senza riuscire a trovare nel corpo
una sola cosa che rimanga immutata o da cui sia lecito dire che costituisca un sé separato.
Mescolato al fiume del corpo scorre il fiume delle sensazioni in cui ogni goccia è una
sensazione. E anche queste gocce si accavallano in un processo di nascita e di morte. Investigò
poi il fiume della percezione, che scorre intrecciato al fiume del corpo e delle sensazioni. Le
gocce del fiume delle percezioni si inframischiano influenzandosi luna con l’altra in un identico
processo di nascita esistenza e morte. Gli uomini sono preda della sofferenza a causa delle
percezioni distorte, essi credono permanete ciò che è impermalente, dotato di un sé ciò che è privo
di un sé, soggetto a nascita e morte ciò che non soffre di nascita né morte e dividono ciò che non si
può dividere. Scrutò quindi, gli stati mentali che causano sofferenza: ira, odio, arroganza,
gelosia, avidità e ignoranza e la consapevolezza divampò in lui come un sole radiante.
Un giorno Siddhartha seduto sotto lo stesso albero osservò una foglia ondeggiare verso di lui
come se volesse attirare la sua attenzione. Osservandola in profondità vi distinse chiaramente
la presenza del sole e delle stelle: perché senza sole, senza luce e calore, quella foglia non
sarebbe esistita. Anche le nuvole vide nella foglia, perché senza nuvole non c’è pioggia e senza
la pioggia, quella foglia non poteva esistere. E vide poi la terra, il tempo, lo spazio, la mente:
tutti presenti nella foglia. In verità, in quel preciso momento, l’universo intero si manifestava
nella foglia; quella realtà era un miracolo stupefacente. Gotama comprese che la foglia e il suo
corpo erano la stessa cosa. Nessuno dei due possedeva un sé permanente e separato, nessuno
dei due poteva esistere indipendentemente dal resto dell’universo. Comprese così che la chiave
della liberazione si trovava nei principi dell’interdipendenza e del non sé. Se le nuvole non
fossero prive di un sé e impermalenti, non potrebbero trasformarsi in pioggia. Senza una natura
impermalente un bambino non potrebbe diventare adulto. Quindi, pensò, accettare la vita
significava accettare l’impermanenza e l’assenza si un sé. Giunse così alla conclusione che non
c’è ne nascita ne morte, ne creazione ne distruzione, ne grande ne piccolo, ne puro ne impuro,
solo false distinzioni create dall’intelletto. Dunque nella natura vuota delle cose, le barriere
mentali vengono scavalcate e ci si libera del ciclo della sofferenza. Gli occhi della sua mente
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videro i mondi che nascono e che muoiono, che vengono creati e distrutti. Vedeva l’infinita
linea dell’umanità passare attraverso nascite e morti incalcolabili. Vide che le nascite e le morti
non sono che apparenze, così come milioni di onde si alzano senza sosta dalla superficie del
mare e vi sprofondano, mentre l’oceano è aldilà di nascita e morte. Se le onde potessero
comprendere di essere anch’esse acqua, trascenderebbero la vita e la morte e
raggiungerebbero la pace interiore superando tutte le paure.
Dopo che Gotama ebbe conquistato il suo nuove sapere sorse in lui il dubbio se fosse meglio
tenerlo per se o parteciparlo con altri e dopo una matura riflessione egli, per carità e pietà,
decide di condividere con il mondo le verità così eroicamente conquistate. Decise così di far
partecipi i primi maestri poi i cinque discepoli che lo avevano abbandonato e che ora
soggiornavano presso Varanasi nel bosco della Pietra del Vate.
In quel luogo Gotama tenne il celebre
discorso di Varanasi, in cui insegnò come
bisognava tenersi lontano tanto dalla via
dei piaceri e del mondo, quanto da quella
della
dell’ascesi
grossolana
della
mortificazione,
entrambe
estreme,
entrambe dannose e seguire la via di
mezzo, solo essa porta all’annientamento
del dolore. Intorno a questo primo nucleo
crebbe, poco a poco, la schiera dei
discepoli e dei seguaci, che gradatamente
si estese in tutto in popolo, abbracciando
guerrieri, sacerdoti, borghesi, artigiani e
contadini. Celebri tra essi sono i nomi di alcuni discepoli: Sāriputta , colui che eguaglia il maestro,
Ânando, il conoscitore della parola della dottrina, Kassapa, l’eremita del bosco, Moggallāna,
l’oratore della dottrina.
Da Varanasi, la città sacra dell’India Gotama cominciò l’insegnamento che durò quasi mezzo
secolo ed ebbe un’eco profonda e lontana attraverso il tempo e lo spazio. Dal gigantesco
bastione dell’Himalaya, fino alla pendici dei Vindhyā, dalla città di Varanasi fino all’oceano
indiano, durante quarantacinque anni egli percorse il lungo e in largo tutta la bassa valle del
Gange, diffondendo la sua dottrina con i suoi mirabili discorsi. In quei quarantacinque anni di
pellegrinaggio ed insegnamento, sui monti e nei dintorni delle città e dei villaggi, tra genti
straniere o tra i suoi concittadini di Kāpilavattha, la figura di Gotama Buddha appare sempre
alta e serena, senza turbamenti ne ombre, dal giorno del risveglio a quello dell’estinzione, egli
và, con solenne e sublime monotonia per il camino del sole porgendo il suo sorriso pietoso alla
miseria e al dolore della vita.
Approfondimento
Nell’universo buddhista non c’è un dio creatore. Gli dei sono
sottoposti al destino e al samsara*, come gli uomini. Il
Buddha, in quanto perfettamente illuminato, è superiore agli
dei, ma neppure lui può essere paragonato al Dio creatore
delle religioni monoteistiche. È difficile anche parlare di un
rapporto personale fra il fedele buddhista e il Buddha,
paragonabile al rapporto con Dio nelle religioni monoteistiche.
La devozione al Buddha passa spesso attraverso i più
accessibili bodhisattva, coloro che sono sulla via dell’illuminazione, anche se l’etimologia del
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termine è controversa. I bodhisattva, che appaiono originariamente in testi sulle precedenti
incarnazioni di Gautama Buddha, sono personaggi che hanno fatto voto di rimanere
nell’universo per liberare tutte le creature dalla sofferenza, e che sono sulla strada per diventare
futuri Buddha. In diverse scuole mahayana** sono previste cerimonie in cui si fa voto di
diventare bodhisattva e di iniziare il lunghissimo cammino che, dopo miliardi di anni, potrà
portare a diventare un Buddha. I grandi bodhisattva svolgono anche una funzione di protettori
delle persone umane, e alcuni sono particolarmente venerati, come Maitreya, che diventerà il
prossimo Buddha, e Avalokitesvara, in versione femminile, anche se il genere resta in qualche
modo ambiguo, in Cina come Guanyin e in Giappone come Kannon, in Tibet, Cenresig, prende
forma umana attraverso la successione dei Dalai Lama che ne sono la manifestazione.
Alcuni sostengono che il vero principio supremo nel buddhismo sia il dharma ***, il secondo dei
tre gioielli insieme allo stesso Buddha e al sangha, o comunità dei credenti. Tuttavia il dharma è
anche l’Ente impersonale che regola l’universo piuttosto che il soggetto che sta al centro delle
religioni monoteistiche. Sulle fonti del dharma, naturalmente, le scuole si dividono: il
buddhismo theravada**** accetta come autorevoli solo i testi più antichi, mentre le scuole
mahayana si sono trovate all’origine a dover difendere la loro legittimità spiegando come fosse
possibile che testi ritenuti fondamentali emergessero soltanto molti secoli dopo la scomparsa
del Buddha. Di qui le leggende secondo cui testi in realtà antichi sarebbero stati
miracolosamente scoperti in uno stupa*****, o nelle profondità della Terra dove i primi
discepoli li avrebbero sepolti in attesa che i tempi fossero maturi perché venissero alla luce. Al
di là delle leggende, l’emergere di testi in un’epoca molto successiva a quella della vita di
Gautama Buddha è giustificato dal fatto che il buddhismo dà rilievo alla tradizione e alla
trasmissione orale. Questo non significa che le scritture non siano oggetto di grande
venerazione. In alcune scuole mahayana la recitazione di versi delle scritture, o la venerazione
dei supporti fisici che le contengono, è considerata efficace di per sé, quasi a prescindere dal
loro contenuto informativo e dottrinale.
Il terzo gioiello è il sangha, parola che originariamente designava la comunità monastica
maschile e femminile, ma che si è estesa fino a indicare il popolo dei credenti o praticanti nel
suo insieme. L’atto fondante con cui un uomo o una donna entrano a fare parte della comunità
è il cosiddetto prendere rifugio, che in alcune tradizioni presuppone una precisa cerimonia alla
presenza di un lama o di un monaco. Si tratta, in effetti, di un impegno preso personalmente
nei confronti dei Tre Gioielli, il Buddha, il dharma e il sangha che è esplicitato di fronte alla
comunità dei praticanti. I voti sono importanti nella vita del buddhista in genere, e aiutano ad
acquisire meriti tramite buone azioni compiute con piena consapevolezza. Il sistema di voti è
formalizzato per i monaci, sia itineranti, sia che vivono in monasteri. La vita monastica assume
una grande varietà di forme nel mondo buddhista, e, attraverso numerose traversie storiche,
rimane ancora oggi al centro di molte comunità. O, almeno, questo è vero per il monachesimo
maschile, mentre quello femminile si è ridotto fino quasi a sparire, e mantiene un’importanza
centrale quasi solo nel buddhismo cinese. Tra i voti dei laici, particolare importanza assumono
nel mondo mahayana quelli che avviano a diventare bodhisattva, e che si configurano come
iniziazioni. A questi, particolarmente nelle scuole vajrayana, si affiancano iniziazioni di tipo
tantrico. Alcune di queste, praticate generalmente in modo simbolico, implicano l’unione
rituale con una persona dell’altro sesso, e un’ampia discussione si è sviluppata, particolarmente
in Tibet, se queste pratiche debbano essere aperte ai monaci, in linea di principio votati al
celibato.
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Il buddhismo include regole etiche, riassunte
nel trinomio retta parola, retta azione e retta
condotta di vita. Nella pratica l’etica buddhista,
qualunque sia la tradizione di appartenenza, si
fonda sui cosiddetti cinque precetti , panca sila,
accompagnati da cinque atti propositivi, panca
dharma, : non uccidere esseri viventi e
proteggere la vita in tutte le sua forme; non
rubare e prendere solo ciò che si è
onestamente guadagnato; non dire menzogne
ma utilizzare la parola in modo misurato e
sincero; non commettere atti sessuali illeciti,
sostenere la fedeltà nei rapporti, non assumere
sostanze intossicanti, droghe, alcol e medicine usate in modo non accorto e lasciare la mente
sgombra e attenta. Il buddhismo non ha propriamente espressioni di culto della divinità, nel
senso giudeo-cristiano del termine, ma piuttosto sessioni di meditazione in cui i partecipanti,
silenziosi, sono guidati nella pratica da maestri, spesso monaci. Queste sessioni hanno un
valore tanto spirituale, di ricerca del divino insito in se stessi e nella propria coscienza, quanto
psicologico, di conseguimento della calma e della serenità. Non mancano, naturalmente,
riunioni per l’insegnamento della dottrina e cerimonie, particolarmente nel mondo mahayana,
caratterizzate dall’offerta simbolica di fiori e incenso, con canti e preghiere, iniziazioni che
prevedono l’entrata dell’adepto in una determinata pratica. Mancano cerimonie assimilabili ai
sacramenti cristiani, a eccezione, da un certo punto di vista, delle ordinazioni di monaci e delle
iniziazioni in cui un maestro abilita un discepolo a ricevere gli insegnamenti più avanzati.
Una curiosità: negli anni sessanta molte coppie che aderivano ai vari movimenti new age si
sposavano con un presunto rito buddhista, in realtà, non esiste propriamente un matrimonio
buddhista, cioè un’unione matrimoniale tra un uomo e una donna con valore religioso. Per il
praticante buddhista, il matrimonio è un impegno reciproco di amore, rispetto e attenzione
amorevole ai bisogni dell’altro fondato esclusivamente sull’etica.
* Sāmsara: Ciclo della vita, l'oceano dell'esistenza. Rappresentato anche come una ruota.
** Mahayana: la scuola Mahayana, che sostituì la lingua Pali con il Sanscrito,
costituisce lo sviluppo del Buddismo in senso filosofico, mistico e gnostico. Essa
riconosce un gran numero di divinità, fra le quali annovera lo stesso Buddha.
Anzi, Siddartha Gotama non sarebbe che uno dei Buddha: ne esisterebbero altre
centinaia, sovrani del paradiso, del futuro, del mondo ecc. Concezione, questa,
che permetterà al Buddismo di assimilare facilmente altre religioni.
Oltre ai Buddha vi sono i santi, cioè coloro che, pur avendo acquistato il diritto
d'immergersi nel Nirvana, hanno deciso di restare ancora un po' di tempo sulla terra per salvare
gli uomini. I mahayanisti, a differenza degli hinayanisti, credono anche negli spiriti maligni e in
altri esseri soprannaturali, nonché nella differenza tra paradiso e inferno, e negano l'esistenza
dei dharma come entità a se stanti. Nel paradiso si trovano le anime dei giusti, anche laici, che
devono incarnarsi ancora una volta sulla terra prima di raggiungere il Nirvana. Questa corrente,
che praticamente non ha nulla del Buddismo originario, che, nonostante tutto, era rimasto un
movimento elitario, si è diffusa tra il II e il X sec. nell'Asia centrale, nel Tibet, in Cina, Vietnam,
Corea e Giappone, Mongolia e Nepal.
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*** Dharma: indica gli insegnamenti del Buddha. La pratica di tali insegnamenti ovvero, la via
verso l'Illuminazione, rappresenta il Buddhismo stesso.
**** Theravada: buddhismo theravada, la scuola degli anziani, è una delle
prime scuole nate dall'insegnamento di Gotama Sakyamuni, il Buddha
storico. Di natura prettamente monastica e ascetica, fa riferimento al
cosiddetto Canone Pāli quale testo dottrinale fondamentale. Il nome dello
stesso canone si riferisce all'antica lingua indiana pāli, strettamente
imparentata al sanscrito, ritenuta una delle lingue in cui il Buddha Sakyamuni
espresse il suo insegnamento orale. Il buddhismo theravada è anche
conosciuto con il nome di hinayana, o "piccolo veicolo", ma tale
denominazione oggi è desueta e criticata dagli studiosi. Il buddhismo theravada è oggi la forma
di buddhismo prevalente nello Sri Lanka, Birmania, Thailandia, Laos e Cambogia. La
parola thera in pāli significa vecchio, autorevole. La parola sanscrita sthavira vuol dire la stessa
cosa. Per questa ragione gli adepti venivano anche chiamati sthaviravadi. Indica la dottrina dei
monaci anziani e venerandi, quelli che più s'avvicinano al Buddha, che più di tutti rifuggono da
ogni innovazione di tipo teorico. Erano, insomma, i più conservatori. Ancora oggi i theravadin
asseriscono che la loro ideologia sia proprio quella enunciata dal Sublime e a più riprese si sono
eretti come paladini contro ogni tipo di eresia. Il Kathavattu è l'opera che dovrebbe contenere
l'insegnamento puro del maestro. Il maestro da loro ritenuto il più autorevole è Buddhaghosha,
che fu un prolifico scrittore. Il buddhismo Theravada si rifà fondamentalmente ai testi in genere
ritenuti più arcaici nella loro elaborazione, raccolti nel Canone Theravada compilato nella lingua
pāli e detto pertanto anche "Canone Pali".Il pali è simile al più noto e aristocratico sanscrito, ma
di levatura volgare rispetto a quest'ultimo. Il Canone Pali è tradizionalmente ritenuto contenere
brani dell'originale predicazione del Buddha, sebbene siano innegabili elementi aggiunti in
epoca tarda, manipolazioni e vari elementi fantastici e agiografici difficilmente databili ma con
ogni probabilità successivi di secoli rispetto alla base degli insegnamenti originali. La
predicazione del Buddha e le sue vicende terrene furono per secoli tramandate oralmente, di
volta in volta convocate riunioni dei monaci in cosiddetti concili per determinarne la forma e il
contenuto originale, depurandolo da quanto si riteneva introdotto successivamente, finché,
circa nell'anno 80 a.C., furono per la prima volta messe per iscritto nella prima redazione del
Canone nell'isola di Sri Lanka. Questa redazione originale è purtroppo andata persa, il Canone
Pali ci è tuttavia giunto integro, a meno di successive edizioni e revisioni difficili da identificare,
tramite le successive copie che ne furono fatte nei monasteri cingalesi ed esportazioni e
traduzioni compiute in altri paesi dell'area.
*****
Stupa:
è
un monumento buddhista,
originario
del subcontinente indiano, la cui funzione principale è quella di
conservare reliquie
Bibliografia:
La letteratura sul buddhismo in lingua italiana è ormai molto vasta. Si potrà partire da HenriCharles Puech, Storia del Buddhismo, trad. it., Laterza, Bari-Roma 1984;
Walpola Rahula, L’insegnamento del Buddha, Paramita, Roma 1994 utili opere introduttive
sono quelle di Stephen Batchelor, Il risveglio dell’Occidente. L’incontro del Buddhismo con la
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cultura europea, trad. it., Ubaldini, Roma 1995; Buddhismo senza fede, ( consigliato ) trad. it.,
Neri Pozza, Vicenza 1998. Sull’espansione nel mondo e in particolare in Occidente cfr. Mario
Bergonzi, “Il Buddhismo in Occidente”, in H.-C. Puech (a cura di), op. cit., pp. 305-396; Martin
Baumann, “Il Buddhismo in Occidente”, in Giovanni Filoramo (a cura di), Storia delle religioni. 4.
Religioni dell’India e dell’Estremo Oriente, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 483-497; James William
Coleman, The New Buddhism. The Western Transformation of an Ancient Tradition , Oxford
University Press, New York 2001; Charles S. Prebish - Martin Baumann (a cura di), Westward
Dharma. Buddhism Beyond Asia, University of California Press, Berkeley - Los Angeles - Londra
2002; Linda Learman (a cura di), Buddhist Missionaries in the Era of Globalization, University of
Hawaii Press, Honolulu 2005. Sull’Italia cfr. Costanzo Fiore - Maria Angela Falà, Ricerca sulla
presenza buddhista in Italia, RES, Roma 1993; Giampiero Comolli, Buddisti d’Italia. Viaggio tra i
nuovi movimenti spirituali, Theoria, Roma 1995.
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LA MOLECOLA DELLA VITA
Anna Valerio
Si narra che la sera del 28 febbraio
1953 nell’Eagle Pub di Cambridge
Watson e Crick annunciassero agli
amici di aver scoperto “il segreto
della vita”. Il 25 aprile dello stesso
anno il loro studio sulla struttura
della molecola del DNA fu
pubblicato sulla prestigiosa rivista
Nature in un articolo di meno di
mille parole firmato James Watson
e Francis Crick. Si dice anche che la
successione dei nomi se la fossero
giocata a testa e croce e questo era senz’altro nel loro stile!
L’articolo esordisce in tono estremamente discreto e per nulla “accademico”: «E’
nostro desiderio suggerire una struttura per il sale dell'acido desossiribonucleico
(DNA). Tale struttura ha caratteristiche particolari che presentano notevole interesse
biologico» e prosegue, dopo la consueta breve visitazione della letteratura
sull’argomento, direttamente con la proposta di una struttura radicalmente nuova
che, se in parte risultava giustificata da evidenze scientifiche, in altra parte è frutto
di una loro intuizione, solo successivamente dimostrata da altri.
Ma procediamo con ordine. James Watson, zoologo di Chicago, passato nel 1946
dall’interesse per l’ornitologia a quello per la genetica, dagli Stati Uniti si trasferì in
Europa negli anni ’50 dove ebbe contatti diretti con molti ricercatori tra i quali
Maurice Wilkins il quale stava studiando il DNA con la tecnica della diffrazione a
raggi X. Questa è una metodica che si basa su un principio fisico che consente di
individuare la disposizione degli atomi nelle molecole grazie al principio di far
passare, tra gli interstizi delle stesse, un fascio di raggi X che impressioneranno una
lastra fotografica posta oltre la molecola da esaminare. Sulla lastra verrà
evidenziata un’immagine dalla quale sarà possibile dedurre la struttura
molecolare. Un po’ come una radiografia, ma eseguita ad una molecola!
Negli anni ’50 questa tecnica nuova era molto utilizzata per esempio da Linus
Pauling negli Stati Uniti che otterrà nel ’54 il Nobel per aver dimostrato, grazie ad
essa, la struttura secondaria ad alfa-elica delle proteine ed ancora in Europa
proprio nel laboratorio di Maurice Wilkins dove una sua collega stava studiando
l’acido desossiribonucleico con questa tecnica. Watson era molto interessato ad
apprenderla per poi utilizzarla nello studio della struttura del DNA; a questo scopo
nell’ottobre del 1951 iniziò la sua collaborazione al Cavendish Laboratory, il
Dipartimento di fisica dell'Università di Cambridge, dove ebbe modo di conoscere
Francis Crick. Questi era un fisico delle particelle che aveva subito il fascino di una
breve pubblicazione divulgativa Cos'è la vita? di Erwin Schrödinger, uno dei padri
della fisica quantistica, nella quale l’autore cercava di descrivere gli eventi che
avvengono all'interno degli organismi viventi in termini fisici e chimici. In
particolare la sua idea era che eredità e riproduzione fossero legate alla presenza
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nelle cellule di una struttura ordinata nella quale fossero depositate le informazioni
genetiche: un cristallo quasi periodico, per dirlo con le sue parole. Crick, dopo aver
letto il piccolo libro, abbandonò la fisica delle particelle per studiare chimica e
biologia e dedicarsi a ricercare un modello per la struttura del DNA; a tal fine nel
1949 era entrato nel Cavendish Laboratory a Cambridge. Così, accomunati da uno
stesso interesse, i due studiosi si incontrarono ed avviarono subito un’intensa
collaborazione intellettuale che portò alla risoluzione della struttura del DNA in
meno di un anno e mezzo.
C’è da dire che Watson e Crick non furono i primi ad interessarsi al DNA. Già di
questa grande macromolecola si avevano non poche informazioni, si sapeva che
era formata da molecole di uno zucchero un po’ particolare, da gruppi fosfato e da
strutture complesse chiuse ad anello, molto ricche di azoto, chiamate “basi
azotate” che erano di quattro diversi tipi: adenina e guanina (chiamate purine)
timina e citosina (pirimidine). Nel 1949 Erwin Chargaff, un biochimico austriaco
che lavorava negli Stati Uniti, aveva dimostrato una caratteristica fondamentale
per la comprensione della struttura della molecola di DNA e cioè che la
composizione delle basi azotate presenti, pur variando moltissimo da specie a
specie, presentava sempre una caratteristica fondamentale: la concentrazione
totale di purine e quella di pirimidine era sempre uguale (50%). In quello stesso
periodo la dott.ssa Rosalind Franklin, una vera fuoriclasse della ricerca che operava
nel laboratorio del dott. Wilkins, dopo aver modificato i propri macchinari fino ad
ottenere un fascio estremamente sottile di raggi X con il quale colpire campioni
piccolissimi di DNA, era riuscita ad ottenere “le più belle foto del DNA” della
letteratura. E nel 1951 queste foto furono rese pubbliche nel corso di un seminario
dalla Franklin stessa che arrivò ad ipotizzare una forma elicoidale per il DNA, quasi
come una scala a chiocciola. A questo seminario era presente Watson che non capì
molto, per sua stessa ammissione, ma che fu conquistato dall’argomento. Dunque
nel 1952 gli studiosi del DNA sapevano che si trattava di una molecola
estremamente lunga ma non molto spessa, una sorta di cilindro, caratterizzata da
una struttura ripetitiva. C’erano forti suggestioni per una struttura elicoidale ma
probabilmente non si trattava di un solo filamento avvolto ad elica perché,
secondo la Franklin, gli atomi della struttura erano troppo numerosi per far parte di
in un solo filamento: i filamenti dovevano essere almeno due ed aggiungeva che
probabilmente avessero direzioni opposte! Alcuni studiosi (Pauling in primis)
pensavano fossero addirittura tre, analogamente a quanto era stato dimostrato
per il collagene. In ogni caso i filamenti dovevano essere molto ben compenetrati
tra loro dato che occupavano poco spazio.
Ma in definitiva quanti erano e come erano disposti questi filamenti tra loro? Un
altro tassello importante nel mosaico della ricostruzione della struttura del DNA lo
aveva fornito qualche anno prima William Asbury dimostrando come il DNA
generasse una diffrazione ai raggi X tale da indicare una struttura regolare che si
ripeteva ogni 2.7 nanometri nella quale le basi azotate si disponevano impilate a
0.34 nanometri l'una dall'altra. Ed infine sempre la Franklin aveva dato un grosso
contributo nella ricerca ipotizzando che nella molecola i gruppi fosfato e gli
zuccheri fossero collocati esternamente alla struttura con funzione di supporto.
Watson e Crick a questo punto avevano molti dati sui quali lavorare e decisero che
si dovesse tentare di combinare tutte le informazioni disponibili in un modello del
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tipo “fai da te”, che poteva essere una costruzione di fili di ferro e cartone come a
suo tempo aveva fatto Pauling per individuare la struttura del collagene. Scrive
Watson nelle sue memorie: «Era impossibile che mi togliessi dalla testa una possibile
chiave risolutiva del segreto della vita. Mi pareva indubbiamente meglio immaginarmi
famoso che invecchiare nella forma di un accademico represso che non ha mai
rischiato un pensiero».
Nonostante i dati in loro possesso fossero molti, Watson e Crick ebbero
indubbiamente alcune intuizioni geniali che li portarono a risolvere il rompicapo
prima degli altri.
Decisero di partire dall’ipotesi che i filamenti dovessero essere due per molecola,
che il complesso zucchero-fosfato fosse esterno al cilindro e che le basi azotate
fossero all’interno e infine che la molecola avesse la forma di elica, come suggerito
dalla Franklin.
Ma intuirono che i due filamenti corressero in direzioni opposte e ipotizzarono che
ognuno fosse il negativo dell'altro. In tal modo le basi azotate dei due filamenti si
trovavano affrontate le une alle altre ed ogni timina si legava ad una adenina, ogni
citosina si legava ad una guanina. Le coppie di basi potevano interagire tra loro per
mezzo di legami a idrogeno. In questo modello avevano tra l’altro dato forma, in
maniera ingegnosa e convincente, alla scoperta di Chargaff. Ben presto con i
modelli in cartone riuscirono a visualizzare la possibilità di due legami idrogeno tra
adenina e timina e di tre legami idrogeno tra guanina e citosina: tali legami, molto
deboli singolarmente, potevano fornire il collante della struttura grazie alla loro
elevata numerosità nella molecola finale.
Ma c’era di più: proprio l’accoppiata Adenina-Timina e Guanina-Citosina
consentiva alla molecola di avere una dimensione costante, infatti ogni coppia era
formata da una pirimidina (molecola ad un anello) e da una purina (molecola
formata da 2 anelli condensati). Due pirimidine avrebbero avuto una sezione molto
più stretta di due purine, che sono grandi quasi il doppio.
Così con filo di ferro, sagome di cartone e moltissima pazienza i due ricercatori,
come Watson ci racconta nella sua autobiografia “La Doppia Elica”, costruirono
modelli su modelli, sino a che tutte le informazioni disponibili non furono
soddisfatte. E quando finalmente ebbero costruito la “doppia elica”, di 2 nm di
diametro, con le basi appaiate distanziate di 0.34 nm, il passo dell’elica pari a 10
coppie di basi (3.4 nm), e le due eliche antiparallele (cioè che corrono in direzioni
opposte mantenendo tra loro una distanza costante), capirono che “era troppo
bella per non essere vera”. In tutto questo l’unica idea originale era la
complementarietà tra due eliche antiparallele, ma l’insieme del modello costituiva
una novità assoluta!
Era il 7 marzo 1953 e la sorella di Watson trascorse il sabato dattilografando un
manoscritto che fu spedito alla rivista Nature. Gli editori della rivista accettarono di
pubblicare il lavoro sul modello di struttura del DNA congiuntamente a due altri
brevi articoli sperimentali firmati rispettivamente da Wilkins e i suoi colleghi e dalla
Franklin e il suo assistente. Non solo ma, senza avvisare nessuno, il redattore
all’ultimo decise di invertire l’ordine prestabilito e di pubblicare per primo l’articolo
sul modello. Il primo, il più importante, di cui gli altri erano conferma sperimentale,
era firmato James Watson e Francis Crick.
L’articolo a suo modo è un capolavoro della letteratura scientifica: una sola pagina
con una sola figura: il disegno della doppia elica; ma è come dovrebbe essere un
vero articolo scientifico: la scelta di ogni termine è perfetta, ogni parola è
necessaria e sufficiente, non vi è nulla di ridondante. Infine, con una modestia che
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rasenta l’esibizionismo, si conclude che “non è sfuggito” come la tipologia della
struttura a doppia elica suggerisca in sé il meccanismo stesso di replicazione del
DNA. La complementarità dei due filamenti risolveva infatti anche un altro aspetto
cruciale del problema: quello di come il DNA potesse copiare sé stesso durante la
riproduzione delle cellule, garantendo la trasmissione ereditaria dei caratteri.
Tale meccanismo che noi ora chiamiamo “semiconservativo” fu dimostrato
sperimentalmente da Meselson e Stahl successivamente nel 1958. Nel modello di
Watson e Crick vi era un solo aspetto non sostenuto da prove sperimentali e cioè
l’antiparallelismo delle due eliche, che fu poi dimostrato sperimentalmente da
Arthur Kornberg (e collaboratori) nel 1961. Watson, Crick e Wilkins furono insigniti
del Premio Nobel per la Medicina nel 1962. Rosalind Franklin era morta di leucemia
già da alcuni anni.
Oggi nessuno nega che Watson e Crick abbiano effettuato una scoperta geniale
ma molti sottolineano come l’abbiano ottenuta senza fare neanche un
esperimento, usando dati prodotti da altri ed assemblando le informazioni che
comunque erano disponibili a molti degli studiosi del tempo. Alcuni si potranno
chiedere perché la gloria perenne di questa scoperta sia da ascriversi soltanto a
loro. Certo il loro fu un tocco di genio, la pennellata finale, la capacità di una
visione distaccata e di insieme che solo due giovani menti libere da vincoli
accademici e poco rispettosi delle gerarchie, un tantino sfrontati e disinvolti forse
fino all’ostentazione seppero dare e con essa far fare un salto in avanti enorme
all’umanità intera.
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SANGUE MISTO
Umberto Simone
Considero una grande fortuna il fatto di
avere avuto un padre pugliese e una
madre istriana. Che i miei genitori per
mettermi al mondo non si siano limitati
ad attraversare la piazzetta del borgo
natio, ma abbiano, cercandosi, solcato
l’intera penisola ha sempre avuto in me
una risonanza vagamente mitologica.
Per questo forse non mi ha mai
nemmeno sfiorato il complesso del
meticcio, dell’ibrido: anzi, al contrario,
ho sempre provato l’orgoglio dell’esotico, del non etichettabile. Ė un dono avere
radici flessuose e aeree come gomene, e non restie e serrate come ceppi: sentirsi
collegati alle proprie origini da un cordone ombelicale non strozzante come un
guinzaglio, ma lungo e sciolto quanto un filo d’aquilone.
Certo, da bambino, gli amici scimmiottavano spesso il mio accento non del tutto
indigeno; poi però avevo la più ampia rivincita quando quei puristi da quattro soldi
sgranavano gli occhi e salivavano senza pudore davanti ai manicaretti di casa mia,
dove vigeva la più appassionata Unità d’Italia gastronomica: dal timballo, che la
mamma yankee aveva adottato per accontentare il papà terrone, alle sarde in
tortiera secondo la ricetta triestina, dallo strudel (la madre di mia madre era
trentina!) alle squisitezze natalizie baresi, forgiate nella pasta di mandorle o
gocciolanti di vin cotto. Le variegate gioie del palato erano naturalmente solo la
punta dell’iceberg, quella che sul momento colpiva maggiormente un animo
infantile: ma in qualunque altro campo ero esposto ad influssi di provenienza
diversa, a volte persino opposta, e sono cresciuto praticamente nella corrente
d’aria, all’incrocio fra due modelli, due tradizioni, addirittura due linguaggi.
Persino di dialetti infatti ne conosco due, benché in maniera diversa, e non poteva
essere altrimenti, visto che in maniera diversa mi sono arrivati. I miei, quando
avevo tre anni, da Monfalcone, dove sono nato, si sono trasferiti in Puglia e il
dialetto settentrionale l’ho perciò imparato in famiglia, da mia madre e dalle mie
sorelle maggiori: un dialetto di serra dunque, e che potevo ovviamente parlare solo
in casa, e questo mi piaceva moltissimo, mi faceva sentire speciale, era una sorta di
codice, un che di cifrato, di riservato a una ristretta cerchia di consanguinei, e
felicemente misterioso e incomprensibile per tutti gli altri. Inutile dire quanto, con
tale particolare esperienza alle spalle, io trovi stravagante la proposta,
recentemente avanzata, di insegnare il dialetto a scuola. Forse generalizzo il mio
vissuto personale, ma a mio parere il dialetto non in un’aula linda e asettica lo si
impara, ma in una cucina piena di odori e di sfrigolii, nella Cucina per antonomasia,
la prima della nostra infanzia, che, per quanto misera e angusta in realtà sia, col
tempo diverrà nei nostri ricordi labirintica e favolosa come quella del castello di
Fratta descritta dal Nievo. E quanto al cosiddetto corpo insegnante, me lo aspetto,
come l’ho avuto io, tutto al femminile: un tiaso di madri nonne tate domestiche, un
collegio di sacerdotesse che tramandino riti venerandi con altrettanto venerande
cantilene e leggende e formule, e lo facciano non da una pomposa cattedra ma
intorno alla tavola sulla quale si sgranano i piselli o si gioca a briscola e a tombola, e
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non davanti a una fredda lavagna, ma a qualcosa il più somigliante possibile ad una
stufa, o almeno il più differente possibile da un televisore.
Per quanto riguarda il pugliese, invece, l’ho imparato più tardi e fuori di casa (e
perciò un po’ meno bene) dai compagni di classe e di calcetto, non da mio padre:
lui con noi usava prevalentemente l’italiano, un italiano che tuttavia di continuo
debordava in una specie di lingua franca, come quella che si parlava anticamente
sulle navi e nei mercati del Mediterraneo (dopo tutto, era per l’appunto un ufficiale
di Marina) riecheggiante cioè, anche con una punta di parodia, i termini
monfalconesi del resto della famiglia, e al bisogno insaporita qua e là da
espressioni e proverbi in pugliese che tradotti avrebbero perso sia in cantabilità che
in vis comica. Anche questo secondo dialetto ha comunque sin dall’inizio assunto
in me risvolti circospetti, confidenziali, intimi, non tanto perché allora era
vietatissimo, condannato alla clandestinità da maestri e professori, che additavano
spietatamente al ludibrio universale gli ausiliari stravolti e i costrutti caserecci,
quanto perché nella mia memoria è indissolubilmente collegato a vicende molto
private e viscerali. Ė proprio in dialetto pugliese, per esempio, che il ragazzino del
secondo piano mi ha rivelato una sera il segreto dei segreti, cioè in quale maniera
nascessero i bambini: in dialetto pugliese e, come un Mefistofele formato ridotto,
sussurrando nell’ombra.
Ora pubblicamente adopero perlopiù l’italiano in punta di forchetta, ma quando
(perché negarlo?) parlo da solo, fra me e me, come lo scemo del villaggio, entrambi
i miei dialetti rivivono e si danno automaticamente il cambio, a seconda delle loro
differenti origini e disposizioni. Quello del nord, materno, femmineo, pregno di
liquide dolcezze come un’enorme tetta calda, affiora spontaneo se mi invade un
empito inatteso e irrefrenabile di tenerezza; viceversa, un’improvvisa crisi di rabbia
preme all’istante l’interruttore di quello pugliese, maschio, irto di suoni pungenti
come un nido di vespe, e se un oggetto caro mi sfugge di mano e si fracassa sul
pavimento, si può essere sicuri che lo maledirò con gli stessi epiteti coi quali, secoli
fa, durante le partitelle improvvisate, apostrofavo un compagno di squadra reo
d’avere mancato un goal facilissimo e tutte le sue ignare ed incolpevoli parenti
prossime.
Questo dualismo, che io sto qui svolgendo esclusivamente in chiave linguistica, ma
che in realtà concerne molti altri punti della mia vita, non mi spiazza, non mi
disorienta, non lo avverto come disagio o contrasto, ma come abbondanza,
ricchezza, accrescimento. Sono felice di godermela sia con Eduardo che con i
rusteghi di Goldoni. E non posso dimenticare quale spasso sia stato, durante il
servizio militare, assistere al battibecco fra un commilitone di Vicenza e uno di
Taranto, che continuavano a insultarsi elaboratamente ciascuno nel proprio
idioma, interrompendosi solo per rinfacciarsi l’un l’altro, a intervalli regolari, con i
tempi perfetti di una gag quasi studiata a tavolino: “ Ma chi ti capisce? Perché non
parli tricolore?”: un vero e proprio dialogo fra sordi, del quale io ero forse l’unico dei
presenti a possedere la pietra di Rosetta.
Ben più di queste occasioni di divertimento, comunque, ritengo di aver
guadagnato dalla mia origine bifida: credo di doverle una componente del mio
carattere a volte temeraria ma più spesso fruttuosa, cioè una buona dose di
disponibilità. Chi si è sviluppato nella corrente d’aria si sente soffocare se capita in
una stanza ermeticamente sprangata, e per lui ogni spiffero è uno spiraglio, una
tentazione, un invito alla libertà.
Così, quando mi imbatto in altri ambienti, altri concetti, altri cibi, altri vocaboli,
provo d’istinto più curiosità che diffidenza, più simpatia che timore: sono attratto
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dal nuovo, e mai respinto dal diverso. E chi mi conosce bene mi prende in giro per il
mio uso improprio, deformato del termine “strano”: infatti quando dico che una
ragazza ha gli occhi strani non intendo con questo che sia strabica, ma al contrario
le attribuisco un colore d’occhi speciale, oppure uno sguardo particolarmente
languido o intrigante; e quando definisco strano un luogo, significa che lo trovo
suggestivo, pieno di fascino e di atmosfera; insomma strano è per me sinonimo di
singolare, di insolito, ma in senso sempre positivo, elogiativo, mai denigratorio: è
un complimento!
Inoltre quando mi reco all’estero mi sforzo sempre di imparare qualche frase nella
lingua locale, tanto è forte la mia continua voglia di mischiarmi, di impicciarmi, di
non costeggiare le barriere. Naturalmente, questa, se è, come spero, una qualità, si
accompagna a un difetto almeno altrettanto grande: non avendo ancora trovato
un guru che mi corregga, sono estremamente intollerante con gli intolleranti, ho in
uggia gli schifiltosi, e di fronte ai più marchiani pregiudizi o ai più biechi
manicheismi mi sento ribollire peggio di una marmitta, con tutta la mia parte di
sud a stento trattenuta da tutta la mia parte di nord.
Nella Spagna del Siglo de Oro, i letterati (e che letterati! Cervantes, Lope de Vega,
Calderon, Gòngora, Quevedo…) erano continuamente costretti a difendersi
dall’accusa di scarsa limpieza de sangre, come se ci fossero antenati “sbagliati” e
l’evenienza di averne avuto uno potesse in qualche modo inquinare l’adamantina
bellezza di un sonetto, o degradare la solenne grandezza di un auto sacramental, o
addirittura fermare il vento che ormai soffierà per sempre in mezzo ai mulini della
Mancha. Non mi sarebbe piaciuto vivere a quel tempo, né tanto meno mi
piacerebbe essere uno dei tanti che ancora al giorno d’oggi usano simili criteri di
giudizio. Al contrario, gradirei parecchio, in una futura reincarnazione, nascere
dagli amori di un giovanotto lappone con una brunetta di Isfahàn, per
barcamenarmi a sazietà fra aurore boreali e cupole smaltate d’azzurro, ora
accarezzando il muso di una renna ora facendomi accarezzare io la pianta dei piedi
da un tappeto fiorito come un prato, un giorno ascoltando raccontare del bisbisnonno sciamano che comandava agli spiriti e l’indomani leggendo nel testo
originale qualche melodiosa quartina di Omar Khayyām. Ma chissà quante altre
reincarnazioni ci vorranno, prima di non dover più avere a che fare con certa gente
sempre asserragliata, sempre abbarbicata, e caparbiamente convinta che l’arte di
coltivare il proprio giardino consista nel mummificarsi le radici, e non nello
scapricciarsi con gli innesti.
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Edizione nr. 62 del 20/10/2014
LE IMMAGINI DELLA FANTASIA 32
Sarmede (TV), Casa della Fantasia
26 ottobre 2014-18 gennaio 2015
Le immagini della fantasia, Mostra Internazionale d’Illustrazione per l’Infanzia di
Sàrmede, alla trentaduesima edizione, assume la fisionomia di un vero e proprio
festival sempre più internazionale, dedicato a quanto di meglio, di più stimolate,
innovativo offre il settore dell’illustrazione per bambini a livello planetario. Il
programma di quest’anno evidenzia una effervescenza tutta particolare affiancando
alla mostra tradizionale che dà il titolo stesso alla manifestazione, ovvero a le
immagini della fantasia, altri importantissimi appuntamenti di rilievo con grandi
protagonisti del settore. Dal 26 ottobre al 18 gennaio Sàrmede si conferma come
vero “Paese della Fiaba”, grazie ad un calendario fitto di laboratori creativi, incontri
con autori, proiezioni, letture animate e tanti altri eventi. Nell’arco dell’intero anno
corsi estivi di illustrazione riservati ad adulti che intendono specializzarsi nel settore,
corsi condotti dai grandi illustratori e che, in questi anni, hanno formato, con
successo, decine di nuovi talenti internazionalmente riconosciuti dell’illustrazione.
Poi l’itineranza che porta le mostre di Sarmede in altre città italiane e del mondo.
Ma cominciamo da Le immagini della fantasia, che, come avviene da 32 anni,
propone il meglio del meglio dell’editoria internazionale per l’infanzia. La peculiarità
di questo progetto è di offrire uno sguardo sul mondo del libro illustrato unico nel
suo genere, per varietà degli approfondimenti e della qualità estetica e letteraria dei
contenuti proposti. E’ una gioia per gli occhi poter osservare, dal vero anziché solo
sulle pagine stampate, le tecniche, le finezze stilistiche, le invenzioni che i grandi
illustratori mettono in atto a favore dei loro giovanissimi lettori. La Casa della
fantasia, dove è allestita la Mostra, propone un focus su “Trenta libri dal mondo” per
conoscere i protagonisti del Panorama internazionale - libri pluripremiati, scrittori e
illustratori - a disposizione dei lettori, pubblicati in Italia e all’estero. Gli illustratori
della 32° edizione: Jorge Gonzalez, Mariana Ruiz Johnson (ARGENTINA), Anton Van
Hertbruggen (BELGIO), Yara Kono, Renato Moriconi (BRASILE), Cho Won hee,
JooHee Yoon (COREA), Isabelle Arsenault, Delphine Chedru, Gaetan Doremus,
Vanessa Hie, Magali Le Huche, Frederick Mansot (FRANCIA), Satoe Tone
(GIAPPONE), Bhajju Shyam (INDIA), Nooshin Safakhoo (IRAN), Gianni De Conno,
Marina Marcolin, Eva Montanari, Giulia Orecchia, Arianna Papini, Maurizio Quarello,
Giovanna Ranaldi, Giulia Sagramola (ITALIA), Andre Letria (PORTOGALLO), Jesse
Hodgson (REGNO UNITO), Emilio Urberuaga (SPAGNA), Erin E. Stead (STATI
Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009
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UNITI), Piet Grobler (SUD AFRICA), Adrienne Barman (SVIZZERA).
La mostra personale dedicata all’Ospite d’onore, quest’anno vede
protagonista Giovanni Manna. “Il suo lavoro di illustrazione sembra essere soggetto
ad un duplice destino. Da vent’anni, spaziando fra fiabe, grandi classici della
letteratura, testi sacri, riscritture di miti e leggende, l’illustratore crea universi visivi
che il lettore accoglie nella loro assoluta e purissima semplicità: pagine chiarissime e
terse attraversate dall’acquerello di Manna, che vanno incontro a chi guarda,
camminano verso lo spettatore, in quella che potremo definire come una costante
ricerca di leggibilità e immediatezza. Esattamente nello stesso momento però le
tavole di Manna vibrano di eco distanti, difficili da captare tutte e da comprendere.
Sono illustrazioni lontane dal clamore e dalla velocità della civiltà – e dell’editoria –
contemporanea; è un disegnare che presuppone e restituisce un senso del tempo
(quello del farsi dell’immagine - ovvero quello tecnico - quello ‘interno’ della
narrazione e quello ‘esterno’ della lettura) dilatato, dai confini molto fluidi e
permeabili. Questa nozione di tempo porta con sé il senso dell’eredità del passato e
di una molteplice schiera di ‘precedenti’ iconografici fra i quali Manna traccia
costantemente legami, riannoda fili” racconta Ilaria Tontardini nel catalogo della
32° edizione.
Un altro, fortunatissimo, filone delle proposte di Sarmede riguarda la scelta, anno
dopo anno, di una area geografica, estesa o più limitata, nella quale si siano
sviluppati nuclei autonomi di fiabe. La scelta quest’anno è caduta sulla Scozia, terra
di castelli sulle scogliere, di misteri, di mostri e folletti. Il progetto è per molti versi
particolare.
Sia perché frutto della collaborazione con alcune prestigiose istituzioni culturali
scozzesi, tra le quali lo HYPERLINK www.tracscotland.org/scottish-storytellingcentre Scottish Storytelling Centre, l’Edinburgh College of Art, un importante
centro universitario, gli Edinburgh Printmakers, centro specializzato in tecniche di
stampa, sia per la partecipazione della notissima e attivissima autrice scozzese
Vivian French (pubblicati oltre 200 libri illustrati) e infine perché la collana
editoriale Le immagini della fantasia nata dalla collaborazione con la Franco Cosimo
Panini raggiunge con Il Canto delle Scogliere, fiabe e leggende dalla Scozia il suo
decimo volume su fiabe tradizionali scozzesi trascritte da Luigi Dal Cin e con l’art
director di Monica Monachesi. Evento a se è l’omaggio a due grandi
dell’illustrazione, Stepan Zavrel, fondatore della Mostra di Sarmede, e Emanuele
Luzzati uniti da La Gazza Ladra. Il capolavoro dell’animazione italiana di Giulio
Gianini e Emanuele Luzzati, nato nel 1964 su musica di Rossini, festeggia i suoi
cinquant’anni e la Gazza Ladra danza nella Casa della fantasia dopo essere stata al
Museo del Cinema di Torino. “Coadiuvati da un giovane Stepan Zavrel, per il quale
questa esperienza fu un ricordo indelebile e fonte di ispirazione per i suoi lavori
futuri, e con il quale Gianini e Luzzati strinsero una duratura amicizia,” racconta
Carla Rezza Gianini, “realizzarono un’opera da funamboli, in cui seguiamo incantati
le evoluzioni spettacolari di un piccolo uccello nero, attraverso il quale gli autori
svelano il loro animo, affermando il valore della libertà e della giustizia. Gianini e
Luzzati consideravano La Gazza Ladra la loro opera più riuscita: a guardarla e
riguardarla non riuscivano a trovarle difetti. D’altro canto, come dargli torto? Basta
assistere a una sola proiezione per rendersi conto di essere di fronte a un’opera
d’arte totale, in un crescendo di gioia per gli occhi e per la mente.” In mostra
i rodovetri della danza della Gazza Ladra restaurati dall’illustratrice Antonella
Abbatiello. Sempre a Sàrmede sarà presentato Il ladro di colori, un capolavoro di
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Mafra Gagliardi e Stepan Zavrel del 1972 fino ad oggi edito solo in lingua
giapponese fresco di stampa per Bohem Press Italia.
Quest’anno per l’inaugurazione della mostra oltre ad alcune personalità della
cultura di Edimburgo arriveranno a Sàrmede anche due piper scozzesi con le loro
cornamuse, grazie alla collaborazione del Comune di Cappella Maggiore gemellato
con la cittadina di Earlston.
Per tutta la durata della mostra un ricco programma di incontri con illustratori e
autori che presentano libri e parlano di come si racconta con le illustrazioni e con le
parole; inoltre travolgenti letture animate per abbandonarsi all’ascolto di storie
sempre nuove, e poi laboratori, musica, tour tra gli affreschi, corsi d’illustrazione
specializzati e laboratori per adulti, nella Casa della fantasia. Con Antonella
Abbatiello e Carla Rezza Gianini, Giacomo Bizzai, Ass. Maga Camaja, Luigi Dal Cin,
Eleonora Cumer, Else - Edizioni Libri Serigrafici e altro, Marta Farina, Svjetlan
Junakovic, , Marina Marcolin, Giovanni Manna, Octavia Monaco, Dino Maraga e
Mary Dal Cin, Monica Monachesi, Eva Montanari Arianna Papini, Marco Paschetta,
Giulia Sagramola, Marco Soma, Giovanna Ranaldi, Ilaria Tontardini, Marina
Marcolin e Silvia Vecchini.
Nella Casa della fantasia ogni venerdì appuntamento radiofonico con Radio
Magica, la prima radio-biblioteca online, con le letture dal libro Il Canto delle
Scogliere, fiabe dalla Scozia.
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NEL SE GNO DI CA RLO SCARPA
quattro incontri di approfondimento sull’attualità della lezione del maestro
Fondazione Querini Stampalia,
Venezia 16 e 30 ottobre, 13 e 27 novembre 2014, ore 18
Gli spazi della Querini Stampalia ridisegnati da Carlo Scarpa sono stati fertili, fin
dall’inizio, di contaminazioni luminose. Scarpa vi ha impresso un segno antico e
moderno insieme, talmente carico di energia precorritrice, che la sua spinta
propulsiva non si è esaurita. Come per gemmazione, ha generato tutt’intorno gli
interventi architettonici di Valeriano Pastor e di Mario Botta.
La Fondazione Querini Stampalia con la mostra “nel segno di Carlo Scarpa”, in
corso fino al 23 novembre, ripercorre la lezione del maestro e ora propone un ciclo
di quattro incontrisull’attualità di quell’esperienza creativa con gli architetti che ne
sono stati partecipi e l’hanno fatta propria e con gli studenti della Scuola di
dottorato dell’Università Iuav di Venezia, che con la sua eredità si misurano.
16 ottobre – ore 18
Valeriano Pastor e Maura Manzelle
L’incontro indaga in chiave interrogativa le vie della progettualità, che Carlo
Scarpa apre con la sua opera: forme, forma, formatività, estetica, etica e altro
ancora. “Un giardino dei sentieri intrecciati", percorso e sofferto dal primo tra i
collaboratori d'un tempo che ha ripreso il piccolo, straordinario intervento del
Maestro alla Querini Stampalia.
30 ottobre – ore 18
Mario Botta e Mario Gemin
Mario Botta e la Querini Stampalia. Un percorso progettuale nel territorio della
memoria
A vent’anni dalla pubblicazione dell’opuscolo “Un fiore per Le Corbusier”, dedicato
alla casa unifamiliare di Stabio (Canton Ticino), Mario Botta suggella il suo lavoro
ventennale all’interno di Palazzo Querini. Un progetto che è un omaggio alla
Venezia prefigurata da Giuseppe Mazzariol proprio con Scarpa e Le Corbusier ed è
occasione di confronto sul magistrale intervento di Carlo Scarpa per la Fondazione
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e sulla complessità dell’operare all’interno della città storica.
13 novembre – ore 18
Renata Codello
Antico e contemporaneo possono convivere a Venezia?
E' la domanda che nel 2007 le pose Tadao Ando, prima di progettare la
ristrutturazione degli spazi di Punta della Dogana. In quel contesto venne data
concretezza a una seria riflessione che, da tempo, era presente nel dibattito più
attento e innovativo sui temi della tutela della città antica e in particolare di
Venezia. Il tema è di straordinaria importanza per l'architettura e dev’essere
ancora molto approfondito, ma alcuni aspetti paiono oggi già messi a fuoco e le
occasioni di studio e discussione possono portare a significativi passi avanti.
27 novembre – ore 18
Silvia Bertolone, Vito Ciringione, Lorenzo Mingardi, Alessandra Rampazzo
Scuola di dottorato, Università Iuav di Venezia. Fra Storia e Progetto. Quale futuro
per la professione?
E’ duplice il confronto fra Carlo Scarpa e gli studenti dell’Università Iuav: con la
memoria viva di Scarpa, docente all’Istituto Universitario di Architettura di
Venezia, negli anni che hanno fatto dell’ateneo una ribalta internazionale di
dibattito e sperimentazione, e con la sua opera, divenuta essa stessa argomento
di studio e di ricerca. La Scuola di dottorato rivisita quel lavorio del maestro,
fecondo di spunti fra esperienza professionale e insegnamento.
Un'occasione per parlare, anche in chiave provocatoria, di sostenibilità e di
committenza, tra i temi cardine del fare architettura oggi.
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CORCOS. I SO GNI DELLA BELLE ÉPOQUE
6 settembre - 14 dicembre 2014
Palazzo Zabarella
Padova
L’antologica più completa mai dedicata al pittore livornese presenterà oltre 100
dipinti, in grado di ripercorrere la sua vicenda artistica, attraverso i suoi più noti
capolavori, e a numerose opere inedite.
Dopo il successo della mostra dedicata a Giuseppe De Nittis, Fondazione Bano, in
collaborazione con il Comune di Padova e la Regione Veneto, prosegue il suo
progetto decennale sulla pittura dell’Ottocento italiano, con un’iniziativa che
analizza l’universo creativo di uno dei protagonisti della cultura figurativa italiana
fra Otto e Novecento.
L’esposizione, curata da Ilaria Taddei, Fernando Mazzocca e Carlo Sisi,
presenterà oltre 100 dipinti, in grado di ripercorrere la vicenda del pittore
livornese, attraverso un considerevole nucleo di capolavori, affiancati a numerose
opere inedite, provenienti dai maggiori musei e dalle più importanti collezioni
pubbliche e private, che attesteranno la crescente fortuna critica dell’artista,
documentata anche dalla frequente esibizione di suoi dipinti in recenti iniziative
nazionali.
La fama di Corcos era peraltro già notevole nella prima metà del secolo scorso.
Ugo Ojetti, nel 1933, ebbe modo di scrivere: “Chi non conosce la pittura di
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Vittorio Corcos? Attenta, levigata, meticolosa, ottimistica: donne e uomini come
desiderano d’essere, non come sono”, e Cipriano Efisio Oppo, nel 1948, “Una
pittura chiara, dolce, liscia, ben finita: la seta, seta, la paglia, paglia, il legno,
legno, e le scarpine lucide di copale, lucide come le so fare soltanto io, diceva
Corcos”. Il percorso ruoterà attorno al grande capolavoro Sogni, l’opera più
celebre di Corcos, proveniente dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma. Si tratta
del ritratto, davvero particolare per l’epoca, di una ragazza moderna, Elena
Vecchi. Grazie alla forza del gesto e dello sguardo, come alla suggestiva
ambientazione, è diventato l’immagine più emblematica della cosiddetta Belle
Époque di cui ben rappresenta l’atmosfera sospesa tra i sogni dorati e una sottile
inquietudine.
Esposto per la prima volta alla
Festa dell’Arte e dei Fiori di
Firenze 1896, il quadro aveva
destato
un
“chiasso
indiavolato” e provocato un
acceso dibattito sul significato
da attribuire a quell’intenso
ritratto di giovane donna, ora
definito “spiritualista” ora
“realista”,
ma
infine
universalmente ammirato per
l’originalità
della
composizione e l’inquieto
carattere della protagonista. A Palazzo Zabarella, i visitatori saranno accolti
dall’unico Autoritratto realizzato nel 1913 per la serie dei ritratti di artisti della
Galleria degli Uffizi di Firenze, a fianco del Ritratto della moglie, conservato al
Museo Giovanni Fattori di Livorno. La prima sezione analizza i luoghi che hanno
visto scorrere l’esistenza di Corcos, gli amici e le importanti personalità che ha
frequentato, tra cui l’Imperatore Guglielmo II di Germania, Giosuè Carducci,
Silvestro Lega e molti altri, dei quali ha tramandato l’immagine ai posteri. Di
particolare rilievo sono i ritratti dell’editore milanese Emilio Treves (1907) della
Collezione Franco Maria Ricci, e quello del critico Yorick (1889), ora al Museo
Giovanni Fattori di Livorno. Un capitolo particolare sarà dedicato a Parigi, città in
cui visse dal 1880 al 1886 e che lo vide uno dei maggiori interpreti della cosiddetta
pittura della vita moderna, assieme a Boldini e De Nittis.
Straordinari a tal proposito sono
alcune opere in mostra, come Ore
tranquille (1885-1890 ca.) e Jeune
femme se promenant au Bois de
Boulogne, o come i ritratti en-plein air
de La signora col cane e la Figlia di
Jack La Bolina (1897). Le istitutrici ai
Campi Elisi del 1892, uno dei vertici
dell’artista livornese, che raffigura
una scena ambientata in una dorata
giornata d’autunno in uno dei luoghi
più affascinanti di Parigi, testimonia quanto Corcos abbia mantenuto costanti
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rapporti con la capitale francese, ma anche con l’Inghilterra, e come la sua pittura
si evolva verso soluzioni sempre più raffinate in un continuo dialogo con la pittura
europea. Una serie di dipinti, alcuni di grandi dimensione, confermano come,
anche dopo il 1900, Corcos continui a elaborare la fortunata formula del ritratto
mondano, qui rappresentato da autentici capolavori come Ritratto della Contessa
Carolina Sommaruga Maraini del 1901, conservato alla Fondazione per l’Istituto
Svizzero di Roma, o il Ritratto di Lina Cavalieri (1903), la ‘Venere in terra’, come la
definì d’Annunzio. L’ultima sezione, La luce del mare, rivela come i suoi soggiorni
a Castiglioncello, a partire dal 1910, sembrano riportarlo all’osservazione della
realtà e alle gioie della pittura en plein air. Esemplari sono In lettura sul mare
(1910 ca.) o La Coccolì (1915), il ritratto della nipotina sorpresa sulla spiaggia. Non
mancherà, all’interno del percorso di Palazzo Zabarella, un confronto con artisti
quali Giuseppe De Nittis, Léon Bonnat, Ettore Tito e altri, coi quali Corcos ha
intrattenuto un rapporto di lavoro e di amicizia.
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ROBE RTO FLOREANI: LA CITTÀ IDEALE
Verona, palazzo della Gran Guardia
23 novembre-31 gennaio
Palazzo della Gran Guardia di Verona, dopo le mostre dedicate a Paolo Veronese, a
Monet e il paesaggio e alla Collezione Panza di Biumo, ospita nel piano nobile
Roberto Floreani (Venezia, 1956) con suo nuovo progetto titolato La Città
ideale (dal 23 novembre 2014 al 31 gennaio 2015). L’invito che il Comune di Verona
ha voluto rivolgere a Floreani costituisce un importante riconoscimento alla
carriera ultratrentennale di un artista, a ragione considerato uno dei più maturi e
convincenti della sua generazione. La mostra veronese viene dopo oltre sessanta
personali tenute dall’artista in Italia e all’Estero, di cui sedici realizzate, negli ultimi
vent’anni, in spazi pubblici e museali, tra le quali, oltre a quella al Padiglione Italia
della Biennale di Venezia nel 2009 e la partecipazione alla Quadriennale di Roma
nel 2005, quella alle “Stelline” di Milano nel ’99; ai Musei di Stato di San Marino nel
2001; al Museo Revoltella di Trieste nel 2003; in Germania, ad Aschaffenburg e
Gelsenkirchen e alla Mestna Galerija di Lubiana nel 2007; al MaGa di Gallarate nel
2011; al Centro Internazionale di Palazzo Te nel 2013.
L’imponente spazio espositivo accoglierrà un progetto di pittura appositamente
realizzato da Floreani site specific, caratterizzato da una grande installazione
composta da oltre sessanta opere su tela e integrato dalla novità della presenza di
una decina di sculture, che saranno posizionate a semicerchio nel salone centrale.
Completerà la mostra, nelle altre quattro sale, un'ampia antologica con altre trenta
opere selezionate, anche di grande formato. Nel suo complesso quindi, con le oltre
cento opere esposte, la mostra alla Gran Guardia è la più importante esposizione
personale realizzata da Floreani fino ad oggi. Le tematiche della mostra
riguarderanno l’evoluzione della presenza tematica del Concentrico, autentica
“sigla” espressiva dell’artista, abbinato ad una nuova ricerca sul pattern geometrico
e sulle tonalità cromatiche (con un importante inserimento del blu Klein), che
evocano anche suggestioni legate all’Oriente delle arti marziali, praticate
dall’artista da quasi cinquant’anni.
Il progetto La Città ideale prende lo spunto dalla celeberrima opera rinascimentale
conservata nel museo di Urbino e considerata l’immagine dell’utopia e della
perfezione. In questa scelta, appare evidente l’intenzione da parte di Floreani di
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ribadire la centralità della pittura nell’ambito del contemporaneo, la sua continuità
storica, il superamento degli stili, l’importanza della tecnica, la rilevanza espressiva
riferibile alla Bellezza, alla Misura e alla possibilità che l’opera d’arte possa
contenere anche un messaggio di natura spirituale.
Quest’ultimo aspetto in particolare, suscita, da anni, grande interesse da parte
dell’artista che, attivo nell’ambito della ricerca astratta dal 1981, intende
attualizzare le tematiche espresse dallo “Spirituale nell’Arte” di Kandinskj, già nel
1912, riprese poi dai Sublime Optics di Josef Albers, fino alla sacralità cromatica di
Ettore Spalletti o alle astrazioni di Sean Scully, Peter Halley e Lawrence Carroll,
riconducibili al medesimo ambito tematico. Completerà il progetto la
pubblicazione di una monografia, arricchita da un’estesa antologia critica dedicata
all’artista in questi ultimi anni. L’evento è patrocinato dalla Regione Veneto, dal
Comune e dalla Provincia di Verona e realizzato in collaborazione con le
associazioni culturali La Centrale e Quinta Parete.
Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009
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PIE R PAOLO MITTICA. ASHE S/CENE RI
Racconti di un fotoreporter. Pordenone Galleria Harry Bertoia
13 settembre 2014 -11 gennaio 2015
Mittica nelle sue immagini non fa sconti. Racconta quanto di assurdo e di
terribile l’uomo fa contro se stesso. In luoghi che per molti sono sinonimo di
disastri non casuali, di guerre, nuove schiavitù e di abbruttimento; e che per
altri non sono altro che usuali condizioni di esistenza, o meglio di tragica
sopravvivenza. Per questo la dura, emozionante mostra di 150 sue immagini
che la pordenonese Galleria comunale Harry Bertoia propone da settembre
2014 al gennaio 2015, è di quelle che è necessario vedere. Non per osservare
una altra faccia del mondo ma per essere coscienti che quello è esattamente il
nostro mondo, perché quelle immagini raccontano ciò che anche a noi
consente di godere uno status di privilegiati, anche in un momento storico che
viviamo come difficile. La mostra si intitola Ashes / Ceneri. Un titolo che certo
fa riferimento ai devastanti effetti sociali e/o ecologici causati dallo
sfruttamento degli uomini e dell’ambiente in varie parti del mondo. Ma, in
positivo, indica l’urgenza di una svolta epocale e di una rinascita, proprio a
partire dalla conoscenza di ciò che, anche negli ultimi decenni, è stato
provocato da ciniche scelte politiche ed economiche. Pierpaolo Mittica è un
fotografo particolarmente attento alle tematiche sociali e ambientali. Si è
occupato soprattutto degli oppressi, degli ultimi e delle persone che non
hanno diritto di parola nei luoghi più difficili del terzo mondo. E, negli ultimi
anni, ha iniziato a indagare sui più gravi disastri ecologici che hanno afflitto
l’umanità e distrutto l’ambiente. Per questa mostra, promossa ed organizzata
dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Pordenone, Mittica ha scelto di
documentare 10 ordinarie emergenze:Balcani: dalla Bosnia al Kosovo, 19971999, Incredibile India, 2002-2005; Chernobyl l’eredità nascosta 2002-2007; Vite
riciclate, 2007-2008; Kawah Ijen – Inferno, 2009; Piccoli schiavi, 2010;
Fukushima No-Go Zone, 2011-2012; Karabash, Russia, 2013; Mayak 57, Russia
2013; Magnitogorsk, Russia 2013. Dieci indagini che rappresentano altrettanti
violenti squarci di realtà, notissime o quasi sconosciute, dove la sofferenza,
l’abbruttimento, la violenza sono regolare, accettata quotidianità. Dieci storie
di contasti emozionali, di mondi dove “l’altro mondo”, quello dei ricchi, fa
comunque capolino in un cartellone pubblicitario, in un marchio che propaga
lontani status symbol. Luoghi, o meglio “non luoghi”, fatti di violenze, dove il
sorriso di un bimbo dal davanzale di un tugurio sembra comunque esprimere
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speranza. O forse solo temporanea illusione. Mittica viene definito come
“fotografo umanista”, dove l’aggettivo si presta a interpretazioni affatto
diverse. E’ pordenonese (qui è nato nel 1971) e qui, al CRAF ha ricevuto la sua
preparazione scolastica proseguita con docenti come Charles - Henri Favrod,
Naomi Rosenblum e Walter Rosenblum, che egli considera il suo mentore. Ma
egli è ormai cittadino del mondo. Le sue fotografie sono state esposte in
Europa, negli Stati Uniti e nel 2011 alla Biennale di Venezia; pubblicate da
quotidiani e riviste italiani e stranieri, tra cui l’Espresso, Alias del Manifesto,
Vogue Italia, Repubblica, Panorama, il Sole 24 ore, Photomagazine, Daylight
Magazine, Japan Days International, Asahi Shinbum, The Telegraph, The
Guardian. La mostra Chernobyl l’eredità nascosta è stata scelta nel 2006 dal
Chernobyl National Museum di Kiev in Ucraina come mostra ufficiale per il
ventennale del disastro di Chernobyl. L’elenco dei riconoscimenti che gli sono
stati assegnati è lunghissimo e di assoluto prestigio, alle sue opere sono state
dedicate monografie edite da editori specializzati di diversi Paese, così come
le sue immagini sono patrimonio di grandi musei e collezioni internazionali.
Mittica si potrebbe correttamente definire come un fotografo “arrivato”. Ma,
da grande reporter, egli è sempre in partenza. Per luoghi del pianeta in cui si
consumino violenze, contro l’uomo o contro la Terra, che alla fin fine sono la
medesima cosa.
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