DIREZIONE E AMMINISTRAZIONE - Piazzetta Cariati, 2
80132 NAPOLI - Telef. (081) 414.946.
E-mail: [email protected]
DIREZIONE:
Fabio Ciaramelli - Pasquale Colella (coordinatore) - Nicola
Iasiello - Domenico Jervolino - Ugo Leone - Ugo M. Olivieri
Mario Rovinello
REDAZIONE:
Maria Rosaria Abignente - Giuseppe Avallone - Piero Bellini
Giovanni Benzoni - Gerardo Capone - Nicola Colaianni
Francesco Saverio Festa - Paolo Hermann - Carlo Alberto
Pagnoni - Luigi Parente - Alessandro Parrella - Lucio Pirillo
Mario Porzio - Andrea Proto Pisani - Adriana Valerio
Francesco Zanchini.
Redazione di Roma - Via S. Anselmo, 2 - 00153
»
» Avellino - Via Tagliamento, 2/4 - 83100
»
» Bari - Via Carlo Pagano, 28 - 70123
»
» Ferrara - Via Cappuccini, 41 - 44100
»
» Venezia - Santa Croce 2316 - 30135
Direttore Responsabile: R. RICCARDI
Reg. Tribunale di Napoli n. 1712 del 30-6-1964
ISSN 0495-2219
Rivista associata al Cric (Coordinamento Riviste Italiane
di Cultura)
Condizioni di abbonamento:
Ordinario Euro 55 - Estero e Enti Euro 70 Sostenitore Euro 100 - Un numero Euro 15
- Doppio e Arretrato Euro 20 - Versamento sul
ccp 25801804 intestato a «il tetto».
La collaborazione alla rivista è gratuita. Ogni
collaboratore assume la responsabilità dei
suoi scritti.
Divieto di riprodurre in tutto o in parte gli articoli
senza citarne la fonte.
Il pagamento dellʼIva è incluso ai sensi degli
artt. 1, 31, 71, 74 legge 26 ottobre 1972 n. 633
e succ. mod.
2–
SOMMARIO N. 310
NOVEMBRE-DICEMBRE 2015
5
Nota della Direzione
EDITORIALE
6
Pasquale Colella, Ancora sulla Riforma della Chiesa
CHIESA
13
25
Andrea Proto Pisani, Diritti e doveri per la conservazione della
«casa comune»
Cesare Milaneschi, Luigi Prota Giurleo. Riforma ecclesiale e militanza politica
NAPOLI E IL MEZZOGIORNO
36
Ugo Leone, Se sei mesi
SOCIETÀ CIVILE
40
42
47
55
58
61
Dossier Costituzione
Ugo Olivieri, Introduzione
Luciana Castellina, La lunga erosione della democrazia
Alessandro Pace, Le ragioni del no
Domenico Gallo, La profezia nera di Cossiga
Il coordinamento per la democrazia costituzionale
Un’associazione per il NO
DOCUMENTI
66
Il Patto delle Catacombe di S. Gennaro dei Poveri
–3
SEGNALAZIONI
69
71
74
82
Mario Gaetano Fabrocile, Morte di André Glucksmann
Paola Pariset, Mario Sironi e le illustrazioni per ‘il Popolo d’Italia’
Antonio Piscitelli, «L’onda ‘lunga’ della libertà»
Scuola di Pace, Luci nel buio. Testimoni della nonviolenza del
’900
84
LIBRI
99
QUESTIONARIO
102
INDICE ANNATA (LII)
Se siete interessati a ricevere le comunicazioni di iniziative e di attività
da noi intraprese, forniteci il vostro indirizzo mail scrivendo a
[email protected]
4–
NOTA DELLA DIREZIONE
Ringraziamo quanti hanno collaborato rispondendo al
nostro invito di mettersi in regola con l’abbonamento o, comunque, di disdirlo, se non si desiderava più ricevere la rivista.
A tutti coloro che non hanno dato nessuna risposta, positiva o negativa, ricordiamo che questo è l’ultimo numero che
riceveranno, se non verseranno la quota di abbonamento
entro il 15 febbraio. Ci dispiace, ma gli alti costi di gestione
non ci consentono di fare altrimenti.
Come si legge nella seconda di copertina le quote sono rimaste invariate anche per il 2016.
Troverete nelle ultime pagine del fascicolo un Questionario, compilato dal nostro amico e collaboratore Renato Cervo,
che vi invitiamo a restituirci nel più breve tempo possibile
utilizzando il nostro indirizzo email ([email protected]).
Chi ne fa richiesta riceverà telematicamente il modulo. Altrimenti si possono usare il fax (081 414946) o la posta ordinaria (P. tta Cariati, 2. 80132 Napoli).
La vostra collaborazione ci è preziosa per orientare e sostenere il lavoro del comitato direttivo in questa fase di riorganizzazione della rivista e dell’Associazione.
Infine vi invitiamo tutti a versare in tempo la quota di
abbonamento per il 2016, meglio ovviamente quello straordinario, ed a collaborare inviandoci osservazioni, consigli e
contributi sui temi proposti e dibattuti dalla rivista.
–5
EDITORIALE
ANCORA SULLA RIFORMA DELLA CHIESA
Continuando le riflessioni già aperte nel numero 308-309
de il tetto sembra opportuno soffermaci sugli ultimi tre momenti di questo processo: il viaggio di Papa Francesco in
America Latina nell’ultima decade di settembre 2015 incentrato sugli incontri a Cuba e poi in USA, viaggio che è
stato ampio di nuove prospettive; lo svolgimento del Sinodo
straordinario dei vescovi svoltosi nell’ottobre 2015; il viaggio a Prato ed a Firenze del novembre scorso in occasione
del decennale convegno nazionale della Chiesa italiana. Tali
eventi infatti sono nella loro diversità significativi ed aperti
ad un cammino difficile, ma denso di speranze e di sviluppi.
A Cuba, infatti, Papa Francesco non solo ha confermato
la necessità di porre fine definitiva a tutte le forme di censure e di condizionamenti ma ha rivendicato non solo il
fatto di avere operato per il loro superamento, in passato
posti in essere dagli Stati Uniti, ma ha portato avanti con
coraggio un colloquio ed un confronto aperto con i dirigenti
cubani; tale incontro, che va oltre quanto si era già iniziato
con le visite di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, va oltre a tali risultati in quanto si è ritenuto possibile prospettare in concreto un dialogo fecondo ed innovatore tra la
Chiesa Cattolica ed il governo cubano. Tale dialogo non è
solo una «actio finium regundorum» ma vuole essere qualcosa che possa dare vita ad una convivenza tra diversi che
riesca a scoprire le possibilità di convergenze fondate sul
fatto che quello che può unire è molto più di quello che divide. Non a caso Papa Francesco ha parlato dei problemi
6–
della vivibilità, dell’esigenza di rendere la vita degli uomini
più conforme alla loro dignità e soprattutto si è soffermato
su quei problemi che costituiscono il centro dell’Enciclica
«Laudato si…», problemi che esigono che tutti operino per
rendere il nostro pianeta più vivibile e capace di superare i
pericoli che possono giungere a mettere in discussione l’esistenza stessa della terra. I colloqui tra Papa Francesco e
Raoul Castro, l’incontro del papa con Fidel Castro, i discorsi
rivolti ai fedeli della Chiesa che è in Cuba, sono tutti momenti significativi che indicano che il dialogo va avanti e
che può dare frutti fecondi che vanno oltre l’ambito dei rapporti bilaterali; in tal senso il viaggio a Cuba è un evento che
segna il perseguimento del «bene comune».
Il viaggio negli Stati Uniti rappresenta una tappa ulteriore tanto più significativa dal momento che molti ostacoli
esistevano, ostacoli che sussistevano nella stessa Chiesa Cattolica statunitense circa la possibilità di perseguimento di finalità comuni.
I discorsi tenuti poi innanzi al Congresso unificato degli
Usa e all’assemblea generale dell’Onu del 24-25 settembre
2015 ci sembrano rilevare che il papa ha voluto indicare a
tutti un cammino che si deve portare avanti insieme. Chiedere anzitutto l’abolizione della pena capitale che ancora
sussiste in tanti paesi e parzialmente anche in molti stati
degli Stati Uniti, significa affermare che le punizioni giuste
e necessarie non devono mai escludere le dimensioni della
speranza e delle riabilitazioni; in secondo luogo invitando a
non avere paura degli stranieri ed a non lasciarsi impressionare dal loro numero e dalla quantità del fenomeno migratorio, il papa ha osservato che tali richieste devono essere affrontate insieme e da tutti perché «noi stessi per la
maggior parte siamo stati tutti stranieri ed io stesso sono
stato migrante». In terzo luogo Papa Francesco ha affermato l’esigenza di proteggere comunque la libertà religiosa,
quella di opinione e le libertà personali superando ogni tipo
–7
di fondamentalismi ed «in primis» quello religioso che in
nome della religione ha giustificato e dato vita a tante e svariate forme di oppressione e di violenza.
Nel discorso tenuto, dietro invito ufficiale, all’assemblea
generale delle Nazioni Unite, Papa Francesco non solo ha ribadito che il pluralismo ed il dialogo sono essenziali alla
convivenza ed allo sviluppo ma propone un dialogo di speranza per tutti rivendicando non solo primati bensì mettendo in luce la necessità che nessuna divisione possa sussistere a causa ed in nome di Dio, ritenendo che la Chiesa è
parte di tutto; infatti ciò comporta che la Chiesa deve convivere nella differenza con tutte le altre religioni e le altre
comunità senza pretendere di essere l’unica Arca della salvezza soggiungendo poi che l’essere in ogni modo cristiani
nel mondo non ci esonera dal chiedersi «che cosa posso e
devo fare io?»(cfr. al riguardo Raniero La Valle, I poveri parlano all’Onu, in «Rocca», 15 ottobre 2015, n. 20, 16-18).
Concludendo queste riflessioni sul viaggio si può dire
che esso trascende il successo immediato e soprattutto ci
mostra un papa che vuole procedere nelle riforme, che non
si arresta di fronte alle difficoltà anche se ritiene di andare
avanti sia pure gradualmente.
Il secondo evento riguarda il Sinodo straordinario che fa
seguito a quello ordinario dello scorso aprile. A questo proposito ci sembra opportuno attendere la pubblicazione del
testo definitivo e conclusivo che il Papa dovrà emettere onde
far sì che ci sia una valutazione serena ed anche criticamente fondata sull’esame di tutti i lavori. Tuttavia sembra
opportuno formulare alcune brevi riflessioni; anzitutto in
primo luogo va rilevata la presenza costante di Papa Francesco a tutti i lavori del sinodo, considerando la novità della
partecipazione quotidiana di un pontefice ed il rispetto delle
diversità di opinioni: Ci sembra a tal proposito importante
che la partecipazione del papa non ha condizionato neanche i tentativi interni ed esterni, anche se spesso assai di8–
scutibili, espressi pure in forme grevi ed in qualche caso intimidatorie; il papa infatti ha affermato che le chiusure non
hanno vinto e che i termini «discernimento e misericordia»
non solo esprimono che il rinnovamento non è bloccato e
che la collegialità si realizza faticosamente ma soprattutto
ci dicono che in definitiva «solo il Vangelo sine glossa è
quello che è definitivo» anche se silenzi e stemperamenti
non intaccano il primato della coerenza e della libertà come
espressamente indicato dal circolo di lingua tedesca.
Ci sembra perciò, senza indulgere a facili ottimismi, di
potere dire che la via della gradualità sollecita tutti ad andare avanti ed a superare cristallizzazioni ed arroccamenti
spiacevoli; Tali avvenimenti precedenti ed a volte tentati anche durante il corso dei lavori sinodali non sono riusciti
nemmeno ad isolare ed a rinviare i punti più controversi di
alcune questioni relativi al matrimonio ed la diritto di famiglia né hanno bloccato la necessità delle riforme proprio
perché «Ecclesia est semper reformanda».
Infine una riflessione ulteriore scaturisce anche dagli
eventi scandalistici post-sinodali, eventi che peraltro da
tempo covavano e che sono esplosi come ulteriore tentativo
di usare ogni mezzo ed ogni misura per contestare e tentare
di bloccare le novità di questo pontificato.
In merito si rileva che la fuga di notizie e la pubblicazioni dei due volumi, quali «Via crucis» di Gian Luigi Nuzzi
e «Avarizia» di Emiliano Fittipaldi, indicano chiaramente
«l’esistenza di una rete internazionale che trama contro
Papa Francesco» (cfr. al riguardo Marco Ansaldo in «la Repubblica», 9 novembre 2015, p. 12); come bene ha scritto
padre Spadaro, direttore di «La Civiltà Cattolica», si registrano in questi giorni di novembre tentativi di contestazione che hanno superato ogni limite anche se è pur vero
che la rozzezza degli interventi e dei mezzi usati con l’uso di
tante scorrettezze ed ambiguità sono stati addirittura controproducenti e tali ad non arrestare il processo di rinnova–9
mento ed anche le faticose riforme in atto della Curia romana. Giustamente, come hanno scritto fra i tanti Agostino
Giovagnoli (in «la Repubblica», 8 novembre 2015, pp. 24
ss.) e soprattutto Andrea Riccardi (nell’intervista resa a «Il
Mattino», 9 novembre 2015), i vari tentativi dimostrano che
l’autoconservazione non arresta il cambiamento ma ci permette di dire che «Papa Francesco ha spiazzato tutti, non
tace ed anzi accetta la sfida e non si arresta». Il papa, infatti, con la sua consueta fermezza, senza fare vittimismi
pur considerando severamente le resistenze e le connivenze
provenienti dalla Curia romana ed anche da persone scelte
dal papa stesso rivelatesi infide, ci conferma che la via della
riforma va avanti.
Papa Francesco nella omelia tenuta a Santa Marta il 6
novembre 2015 ha affermato con sincerità e rammarico che
«nella Chiesa ci sono questi che invece di servire e di pensare agli altri si servono della Chiesa: gli arrampicatori, gli
attaccati ai soldi e quanti, sacerdoti, vescovi, religiosi, laici,
abbiamo visto così?»(in «L’Osservatore Romano», 6 novembre 2015); successivamente di fronte all’allargarsi di
fatti spiacevoli e di speculazioni scandalistiche il papa, nell’Angelus Domini dell’8 novembre 2015 ha affrontato il fatto
della sottrazione dei documenti vaticani e della loro diffusione fatta anche attraverso la pubblicazione di atti compiuti da parte di coloro che hanno ricevuto i documenti sottratti e rubati. Papa Francesco al riguardo si è così espresso:
«il triste fatto doloroso non distoglie certamente la Chiesa
dal lavoro di riforma che si sta portando avanti con i miei
collaboratori e con il sostegno di tutti voi, con il sostegno di
tutta la Chiesa perché la Chiesa si rinnova con al preghiera
e la santità quotidiana di tutti i battezzati andando avanti
con fiducia e speranza»; il papa inoltre non ha mancato di
rilevare che la sottrazione dei documenti rubati «non è solo
un peccato grave ma il peccato grave costituisce anche un
10 –
reato penale» che riguarda non solo la chiesa ed il diritto
canonico.
Il papa non si arresta e così a Firenze soggiunge come
indicazione rivolta a tutta la comunità ecclesiale: «non dobbiamo essere ossessionati dal potere, anche quando prende
il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale
della Chiesa. Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e
sporca per essere uscita per le strade piuttosto che una
Chiesa malata per la chiusura e le comodità di aggrapparsi
alle proprie sicurezze; non voglio una Chiesa preoccupata di
essere il centro e rinchiusa in un groviglio di ossessioni»(cfr.
«L’Osservatore Romano», 9 novembre 2015, ed al riguardo
anche tra i tanti: Agostino Giovagnoli, Il cambiamento dentro la Chiesa, in «la Repubblica», 8 novembre 2015, p. 24 e
soprattutto Enzo Bianchi, La chiesa e il nuovo umanesimo,
in «La Stampa», 8 novembre 2015, p. 29).
Senza andare oltre sui problemi che certi eventi provocano e senza prestare il fianco a speculazioni opportunistiche riteniamo che questi nostri sintetici rilievi sono esposti
nella consapevolezza di avere scelto solo alcuni eventi di
questi ultimi mesi e nel desiderio di contribuire al pacato
sviluppo dello svolgimento degli eventi scaturenti da queste
scelte; riteniamo infatti che questi momenti cruciali, ivi
compresi quelli spiacevoli, non ci possano scoraggiare in
quanto il processo profetico di conversione si fonda anche
sul fatto che il papa si fa garante guardando avanti con fiducia.
In conclusione, riteniamo che questi eventi sono positivi
e che in specie anche il Sinodo non è un fallimento ma attraverso il discernimento è il primo passo di una graduale
evoluzione anche se forse ha potuto deludere sia pure immediate ed urgenti attese. L’opposizione minoritaria in definitiva non ha bloccato le riforme e tanto meno non ha intimorito il Papa nel portare avanti il processo di rinnovamento. Come ci ricorda San Paolo nella lettera a Tito (2,11– 11
12) il Papa «crede fermamente che nulla può contraddire il
cammino veramente cristiano di umanizzazione dell’uomo
essendo la fede a servizio di questo processo dal momento
che «è apparsa la umanità di Dio che ci insegna a vivere in
questo mondo» e che si compie nella comunità degli uomini
e delle donne che nelle diversità vivono quotidianamente
sviluppando quella sinodalità che ascolta, dialoga e riscopre le sensibilità culturali di tutti e di ciascuno rispettandole ed armonizzandole «cum Petro et sub Petro» (cfr. al riguardo ancora Enzo Bianchi, op. cit.)».
Pasquale Colella
12 –
CHIESA
DIRITTI E DOVERI PER LA CONSERVAZIONE
DELLA «CASA COMUNE»*
1. La pubblicazione sulla rivista di questa (mini) lettura
laica dell’enciclica «Laudato sì» di papa Francesco dedicata
al richiamo indifferibile dei valori riassunti dalle espressioni
«ecologia» e « solidarietà», rende necessari alcuni chiarimenti.
Nelle «note minime» (su cristianesimo e giustizia, sulla
equità, su Europa e sviluppo etc.) che negli ultimi cinque
anni ho chiesto alla direzione del Foro di pubblicare nella
parte V della rivista vi è una motivazione e una unità di
fondo. La profonda convinzione che nel difficile periodo che
stiamo attraversando sia indispensabile per i giurista (e
quindi anche per le riviste giuridiche) di richiamare con
energia l’attenzione sui valori ultimi della nostra costituzione del 1948 (e delle varie carte internazionali dei diritti
ai quali la parte verde della rivista dedica particolare importanza da oltre quarant’anni).
Limitandomi alla nostra Costituzione, mi sembra che il
suo significato (almeno dei suoi principi fondamentali
(artt.1a11) e di molti articoli della sua parte I(artt. 13a54))
possa essere così sintetizzato: rispetto e promozione della
persona nella prospettiva del valore la solidarietà politica,
economica e sociale.
Questa consapevolezza deve essere alla base di qualsiasi
* Il testo sarà pubblicato anche su Foro Italiano.
– 13
ricostruzione giuridica (anche di quella a prima vista più
arida e tecnica). Come tale essa di tanto in tanto deve essere ricordata ai c.d. operatori giuridici. Per questo è opportuno di tanto in tanto dare sfogo a questi concetti-valvola, a questi veri e propri polmoni racchiusi nella nostra
Carta fondamentale.
Non è certo il caso di richiamare qui e ora tutti questi
concetti o principi giuridici. È sufficiente pensare all’articolo 2 e al suo riferirsi ai «doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale»; all’articolo 3 secondo comma
e al suo richiamo al «pieno sviluppo della persona umana»;
all’articolo 4, secondo comma e al suo affermare il dovere di
ogni cittadino di svolgere un’attività che concorra al progresso materiale e spirituale della società; all’articolo 9, secondo comma che tutela beni comuni quali il paesaggio e il
patrimonio storico e artistico; ancora al comb.disp.artt.9,
secondo comma e 32,primo comma che tutela l’ambiente;
agli artt.10, primo comma e 11 che evidenziano la prospettiva sovranazionale di tali valori o principi giuridici; agli
artt. 41,secondo comma, e 42, secondo comma che individuano nel rispetto della dignità umana i limiti indispensabili dell’iniziativa economica privata e della proprietà;
etc.etc..
Sono quelli ora richiamati, valori universali; e non è un
caso che nella sua enciclica Papa Francesco al punto 157
così si esprima: « Il bene comune presuppone il rispetto
della persona umana in quanto tale con diritti fondamentali e inalienabili ordinati al suo sviluppo integrale.Esige
jùanche i dispositivi di benessere e sicurezza sociale e lo sviluppo dei diversi gruppi intermedi applicando il principio di
sussidiarietà «.
Con frasi come questa papa Francesco fa opera di giurista? Io direi che egli, come in tutte le parti dell’enciclica che
abbiamo ritenuto opportuno riportare, si limita a dare linfa,
a dare contenuto a quei principi (questi sì giuridici) della
14 –
nostra costituzione e di tanta altre carte di diritti a cui accennavo all ‘inizio di questa breve premessa.
2. Prima di passare all’esposizione (breve) dell ‘enciclica
un ultimo rilievo.
Come è stato osservato (da Lucia Capuzzi) «le riflessioni
ecologiche di Francesco sono intimamente unite alla questione sociale. L’intima relazione tra i poveri e la fragilità del
pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è infinitamente
connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere
che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di
intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni
creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti
sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un
nuovo stile di vita, sono i punti cardine dell’enciclica».
***
1. …La nostra casa comune è anche come una sorella,
con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre
bella che ci accoglie tra le sue braccia.
2. Questa sorella protesta per il male che le provochiamo,
a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio
ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi
proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla.
3. …Adesso, di fronte al deterioramento globale dell’ambiente, voglio rivolgermi a ogni persona che abita questo
pianeta.
8. …«Che gli esseri umani distruggano la diversità biologica nella creazione di Dio; che gli esseri umani compromettano l’integrità della terra e contribuiscano al cambiamento climatico, spogliando la terra delle sue foreste naturali o distruggendo le sue zone umide; che gli esseri umani
inquinino le acque, il suolo, l’aria: tutti questi sono peccati».
– 15
Perché «un crimine contro la natura è un crimine contro
noi stessi e un peccato contro Dio».
11. …Se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente
senza questa apertura allo stupore e alla meraviglia, se non
parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza
nella nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti
saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero
sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite
ai suoi interessi immediati.
13. …Desidero esprimere riconoscenza, incoraggiare e
ringraziare tutti coloro che, nei più svariati settori dell’attività umana, stanno lavorando per garantire la protezione
della casa che condividiamo. Meritano una gratitudine speciale quanti lottano con vigore per risolvere le drammatiche conseguenze del degrado ambientale nella vita dei più
poveri del mondo. I giovani esigono da noi un cambiamento.
15. Spero che questa Lettera enciclica, che si aggiunge
al Magistero sociale della Chiesa, ci aiuti a riconoscere la
grandezza, l’urgenza e la bellezza della sfida che ci si presenta.
16. …Questo riguarda specialmente alcuni assi portanti
che attraversano tutta l’Enciclica. Per esempio: l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione
che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al
nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla
tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il
senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e
onesti; la grave responsabilità della politica internazionale
e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo
stile di vita.
19. L’obiettivo non è di raccogliere informazioni o saziare la nostra curiosità, ma di prendere dolorosa coscienza,
osare trasformare in sofferenza personale quello che accade
16 –
al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare.
20. …La tecnologia che, legata alla finanza, pretende di
essere l’unica soluzione dei problemi, di fatto non è in grado
di vedere il mistero delle molteplici relazioni che esistono
tra le cose, e per questo a volte risolve un problema creandone altri.
21. …Molte volte si prendono misure solo quando si
sono prodotti effetti irreversibili per la salute delle persone.
27. …Già si sono superati certi limiti massimi di sfruttamento del pianeta, senza che sia stato risolto il problema
della povertà.
29. Un problema particolarmente serio è quello della
qualità dell’acqua disponibile per i poveri, che provoca
molte morti ogni giorno. Fra i poveri sono frequenti le malattie legate all’acqua, incluse quelle causate da microorganismi e da sostanze chimiche.
30. …L’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto
umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione
per l’esercizio degli altri diritti umani. Questo mondo ha un
grave debito sociale verso i poveri che non hanno accesso all’acqua potabile, perché ciò significa negare ad essi il diritto
alla vita radicato nella loro inalienabile dignità.
43. Se teniamo conto del fatto che anche l’essere umano
è una creatura di questo mondo, che ha diritto a vivere e ad
essere felice, e inoltre ha una speciale dignità, non possiamo
tralasciare di considerare gli effetti del degrado ambientale,
dell’attuale modello di sviluppo e della cultura dello scarto
sulla vita delle persone.
49. …Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che
un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il
grido dei poveri.
– 17
50. …Incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni, è un modo per non
affrontare i problemi. Si pretende così di legittimare l’attuale modello distributivo, in cui una minoranza si crede in
diritto di consumare in una proporzione che sarebbe impossibile generalizzare, perché il pianeta non potrebbe nemmeno contenere i rifiuti di un simile consumo.
52. …Bisogna rafforzare la consapevolezza che siamo
una sola famiglia umana. Non ci sono frontiere e barriere
politiche o sociali che ci permettano di isolarci, e per ciò
stesso non c’è nemmeno spazio per la globalizzazione dell’indifferenza.
53. …Si rende indispensabile creare un sistema normativo che includa limiti inviolabili e assicuri la protezione degli ecosistemi, prima che le nuove forme di potere derivate
dal paradigma tecno-economico finiscano per distruggere
non solo la politica ma anche la libertà e la giustizia.
56. Nel frattempo i poteri economici continuano a giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una
speculazione e una ricerca della rendita finanziaria che tendono ad ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità
umana e sull’ambiente. Così si manifesta che il degrado ambientale e il degrado umano ed etico sono intimamente connessi. Molti diranno che non sono consapevoli di compiere
azioni immorali, perché la distrazione costante ci toglie il
coraggio di accorgerci della realtà di un mondo limitato e finito. Per questo oggi «qualunque cosa che sia fragile, come
l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta»
57. È prevedibile che, di fronte all’esaurimento di alcune
risorse, si vada creando uno scenario favorevole per nuove
guerre, mascherate con nobili rivendicazioni.
95. L’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta
l’umanità e responsabilità di tutti. Chi ne possiede una parte
è solo per amministrarla a beneficio di tutti. Se non lo fac18 –
ciamo, ci carichiamo sulla coscienza il peso di negare l’esistenza degli altri. Per questo i Vescovi della Nuova Zelanda
si sono chiesti che cosa significa il comandamento «non uccidere» quando «un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare alle nazioni
povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno
per sopravvivere»
101. …Vi è un modo di comprendere la vita e l’azione
umana che è deviato e che contraddice la realtà fino al
punto di rovinarla.
106. …L’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la caratteristica
di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle
cose stesse. Si trattava di ricevere quello che la realtà naturale
da sé permette, come tendendo la mano. Viceversa, ora ciò
che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende ad ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi.
Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita
dei beni del pianeta, che conduce a «spremerlo» fino al limite e oltre il limite. Si tratta del falso presupposto che «esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili,
che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti»
107. …Occorre riconoscere che i prodotti della tecnica
non sono neutri, perché creano una trama che finisce per
condizionare gli stili di vita e orientano le possibilità sociali
nella direzione degli interessi di determinati gruppi di potere. Certe scelte che sembrano puramente strumentali, in
realtà sono scelte attinenti al tipo di vita sociale che si intende sviluppare.
109. …Il paradigma tecnocratico tende ad esercitare il
proprio dominio anche sull’economia e sulla politica. L’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del
– 19
profitto, senza prestare attenzione a eventuali conseguenze
negative per l’essere umano. La finanza soffoca l’economia
reale.
111. La cultura ecologica non si può ridurre a una serie
di risposte urgenti e parziali ai problemi che si presentano
riguardo al degrado ambientale, all’esaurimento delle riserve naturali e all’inquinamento. Dovrebbe essere uno
sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma
educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano
forma ad una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico. Diversamente, anche le migliori iniziative ecologiste possono finire rinchiuse nella stessa logica
globalizzata. Cercare solamente un rimedio tecnico per ogni
problema ambientale che si presenta, significa isolare cose
che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più
profondi problemi del sistema mondiale.
113. …Non rassegniamoci a questo e non rinunciamo a
farci domande sui fini e sul senso di ogni cosa. Diversamente, legittimeremo soltanto lo stato di fatto.
114. …Nessuno vuole tornare all’epoca delle caverne,
però è indispensabile rallentare la marcia per guardare la
realtà in un altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e sostenibili, e al tempo stesso recuperare i valori e i grandi fini
distrutti da una sfrenatezza megalomane.
117. …Quando non si riconosce nella realtà stessa l’importanza di un povero, di un embrione umano, di una persona con disabilità per fare solo alcuni esempi, difficilmente
si sapranno ascoltare le grida della natura stessa. Tutto è
connesso.
139. …Non ci sono due crisi separate, una ambientale e
un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire
la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi
cura della natura.
20 –
144. La visione consumistica dell’essere umano, favorita
dagli ingranaggi dell’attuale economia globalizzata, tende a
rendere omogenee le culture e a indebolire l’immensa varietà culturale, che è un tesoro dell’umanità.
È necessario assumere la prospettiva dei diritti dei popoli e delle culture, e in tal modo comprendere che lo sviluppo di un gruppo sociale suppone un processo storico all’interno di un contesto culturale e richiede il costante protagonismo degli attori sociali locali a partire dalla loro propria cultura.
146. In questo senso, è indispensabile prestare speciale
attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni
culturali. Non sono una semplice minoranza tra le altre, ma
piuttosto devono diventare i principali interlocutori, soprattutto nel momento in cui si procede con grandi progetti
che interessano i loro spazi. Per loro, infatti, la terra non è
un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati che
in essa riposano, uno spazio sacro con il quale hanno il bisogno di interagire per alimentare la loro identità e i loro
valori. Quando rimangono nei loro territori, sono quelli che
meglio se ne prendono cura. Tuttavia, in diverse parti del
mondo, sono oggetto di pressioni affinché abbandonino le
loro terre e le lascino libere per progetti estrattivi, agricoli
o di allevamento che non prestano attenzione al degrado
della natura e della cultura.
152. La mancanza di alloggi è grave in molte parti del
mondo, tanto nelle zone rurali quanto nelle grandi città, anche perché i bilanci statali di solito coprono solo una piccola
parte della domanda. Non soltanto i poveri, ma una gran
parte della società incontra serie difficoltà ad avere una casa
propria. La proprietà della casa ha molta importanza per la
dignità delle persone e per lo sviluppo delle famiglie. Si
tratta di una questione centrale dell’ecologia umana.
157. Il bene comune presuppone il rispetto della persona
umana in quanto tale, con diritti fondamentali e inalienabili
– 21
ordinati al suo sviluppo integrale. Esige anche i dispositivi
di benessere e sicurezza sociale e lo sviluppo dei diversi
gruppi intermedi, applicando il principio di sussidiarietà.
159. …Ormai non si può parlare di sviluppo sostenibile
senza una solidarietà fra le generazioni.
Non stiamo parlando di un atteggiamento opzionale,
bensì di una questione essenziale di giustizia, dal momento
che la terra che abbiamo ricevuto appartiene anche a coloro che verranno.
160. …Quando ci interroghiamo circa il mondo che vogliamo lasciare ci riferiamo soprattutto al suo orientamento
generale, al suo senso, ai suoi valori. Se non pulsa in esse
questa domanda di fondo, non credo che le nostre preoccupazioni ecologiche possano ottenere effetti importanti.
Ma se questa domanda viene posta con coraggio, ci conduce
inesorabilmente ad altri interrogativi molto diretti: A che
scopo passiamo da questo mondo? Per quale fine siamo venuti in questa vita? Per che scopo lavoriamo e lottiamo?
Perché questa terra ha bisogno di noi? Pertanto, non basta
più dire che dobbiamo preoccuparci per le future generazioni. Occorre rendersi conto che quello che c’è in gioco è la
dignità di noi stessi. Siamo noi i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile per l’umanità che verrà dopo
di noi. È un dramma per noi stessi, perché ciò chiama in
causa il significato del nostro passaggio su questa terra.
162. …L’uomo e la donna del mondo postmoderno corrono il rischio permanente di diventare profondamente individualisti, e molti problemi sociali attuali sono da porre in
relazione con la ricerca egoistica della soddisfazione immediata, con le crisi dei legami familiari e sociali, con le difficoltà a riconoscere l’altro.
164. Dalla metà del secolo scorso, superando molte difficoltà, si è andata affermando la tendenza a concepire il
pianeta come patria e l’umanità come popolo che abita una
casa comune. Un mondo interdipendente non significa uni22 –
camente capire che le conseguenze dannose degli stili di
vita, di produzione e di consumo colpiscono tutti, bensì,
principalmente, fare in modo che le soluzioni siano proposte a partire da una prospettiva globale e non solo in difesa
degli interessi di alcuni Paesi.
166. …I Vertici mondiali sull’ambiente degli ultimi anni
non hanno risposto alle aspettative perché, per mancanza di
decisione politica, non hanno raggiunto accordi ambientali
globali realmente significativi ed efficaci.
167. …Gli accordi hanno avuto un basso livello di attuazione perché non si sono stabiliti adeguati meccanismi di
controllo, di verifica periodica e di sanzione delle inadempienze.
175. …Abbiamo bisogno di una reazione globale più responsabile, che implica affrontare contemporaneamente la
riduzione dell’inquinamento e lo sviluppo dei Paesi e delle
regioni povere.
179. In alcuni luoghi, si stanno sviluppando cooperative
per lo sfruttamento delle energie rinnovabili che consentono l’autosufficienza locale e persino la vendita della produzione in eccesso. Questo semplice esempio indica che,
mentre l’ordine mondiale esistente si mostra impotente ad
assumere responsabilità, l’istanza locale può fare la differenza.
190. …Bisogna sempre ricordare che «la protezione ambientale non può essere assicurata solo sulla base del calcolo finanziario di costi e benefici. L’ambiente è uno di quei
beni che i meccanismi del mercato non sono in grado di difendere o di promuovere adeguatamente». Ancora una
volta, conviene evitare una concezione magica del mercato,
che tende a pensare che i problemi si risolvano solo con la
crescita dei profitti delle imprese o degli individui. È realistico aspettarsi che chi è ossessionato dalla massimizzazione dei profitti si fermi a pensare agli effetti ambientali
che lascerà alle prossime generazioni? All’interno dello
– 23
schema della rendita non c’è posto per pensare ai ritmi della
natura, ai suoi tempi di degradazione e di rigenerazione, e
alla complessità degli ecosistemi che possono essere gravemente alterati dall’intervento umano.
193. …È arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in
alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa
crescere in modo sano in altre parti.
201. …Si rende necessario un dialogo aperto e rispettoso
tra i diversi movimenti ecologisti, fra i quali non mancano
le lotte ideologiche. La gravità della crisi ecologica esige da
noi tutti di pensare al bene comune e di andare avanti sulla
via del dialogo che richiede pazienza, ascesi e generosità,
ricordando sempre che «la realtà è superiore all’idea».
202. Molte cose devono riorientare la propria rotta, ma
prima di tutto è l’umanità che ha bisogno di cambiare.
Manca la coscienza di un’origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti. Questa consapevolezza di base permetterebbe lo sviluppo di nuove convinzioni, nuovi atteggiamenti e stili di vita. Emerge così una
grande sfida culturale, spirituale e educativa che implicherà
lunghi processi di rigenerazione.
Andrea Proto Pisani
24 –
LUIGI PROTA GIURLEO
RIFORMA ECCLESIALE E MILITANZA POLITICA
Luigi Prota Giurleo, figlio di Silvestro Prota e Rosa Ciurleo (trascritto come «Giurleo» per errore di registrazione
anagrafica) nacque a Roccella Ionica (RC) il 5 febbraio 1827
e compì i primi studi a Stilo, nel convento dei Domenicani,
dove a suo tempo aveva studiato anche Tommaso Campanella.
Nel 1846, compiuti gli studi umanistici e letterari, Luigi
entrò nell’Ordine dei Predicatori e proseguì gli studi teologici a Roma, dove iniziò anche un’intensa attività sociale e
politica, fra l’altro con l’adesione alla «Giovine Italia». A
Roma il Prota Giurleo partecipò ai moti politici del 184849 per cui, con il ristabilimento di Pio IX al potere, nel 1850
fu trasferito a Sebenico (Dalmazia) e in quella sede si mise
in contatto con le «rivendicazioni del popolo» che abbracciavano un ampio programma rivoluzionario di carattere
sociale e soprattutto religioso, che includeva un progetto di
democratizzazione della chiesa e di rispetto in essa dei diritti umani, con l’abolizione del celibato obbligatorio del
clero, l’uso della lingua nazionale nella liturgia, e l’elezione
popolare dei vescovi e dei parroci.
Ritornato in Italia alla fine degli anni ’50, dopo un breve
girovagare per le regioni settentrionali, si mise in contatto
con Giuseppe Garibaldi e con alcuni suoi stretti collaboratori, quali Giuseppe Pisanelli, Raffaele Conforti e Pasquale
Stanislao Mancini. Il nipote Achille Prota Giurleo riferiva
che Garibaldi aveva affidato a Luigi sei milioni di ducati già
– 25
sequestrati ai Borbone, perché li destinasse ai poveri delle
provincie meridionali, e l’onestà dimostrata in quella missione gli avrebbe meritato l’onorificenza di cavaliere dei SS.
Maurizio e Lazzaro. Ulisse Prota Giurleo, figlio di Luigi, riferiva che il padre aveva avuto un ruolo di rilievo anche
nella società massonica dell’area napoletana. La notizia
trova un conferma nella presenza di noti massoni fra i
membri della «Società Emancipatrice e di mutuo soccorso
del clero italiano» fondata dallo stesso Prota Giurleo, i più
noti dei quali erano Francesco De Luca, Luigi Zuppetta e
Ludovico Frapolli. Su proposta di Pasquale Stanislao Mancini, Luigi Prota Giurleo fu insignito anche di importanti riconoscimenti nazionali: nel 1876 fu nominato Ufficiale della
Corona d’Italia e nel 1879 Commendatore della Corona d’Italia.
Insieme all’impegno civile e politico il Prota Giurleo curò
– spesso in modo più intenso e prevalente – anche un impegno di carattere religioso che mirava alla riforma della
chiesa e all’affermazione del suo carattere democratico, prestando molta attenzione sia al clima culturale che si viveva
nel cattolicesimo liberale che alle istanze di riforma religiosa che si erano sviluppate prima in opposizione all’orientamento di Pio IX – che si opponeva alle novità culturali
apportate dall’illuminismo e dalla Rivoluzione francese – e
poi da parte del Vecchio Cattolicesimo tedesco, che si muoveva in senso opposto all’azione dei gesuiti, che premevano
sull’opinione generale della gerarchia e della popolazione
cattolica per la definizione dogmatica dell’infallibilità pontificia nel Concilio Vaticano I.
In quel contesto il Prota Giurleo si mise in rapporto con
altri esponenti del cattolicesimo liberale quali Alessandro
Gavazzi, il vescovo Michele Maria Caputo e molti altri, insieme ai quali fin dal 1862 fondò la «Società emancipatrice
e di mutuo soccorso del sacerdozio italiano» e il periodico
«L’Emancipatore cattolico», che venne pubblicato per l’arco
26 –
di circa 20 anni. Inoltre nel 1875, dopo che in Germania il
movimento vecchio-cattolico si era dato una struttura ecclesiale con diocesi e parrocchie autonome rispetto al papato, anche a Napoli fu creata la «Chiesa Cattolica Nazionale Italiana».
Il Prota Giurleo aveva manifestato l’intenzione di creare
una chiesa nazionale fin dal giugno 1871, cioè ancora prima
che in Germania si tenesse il Congresso internazionale dei
Vecchi Cattolici di Monaco, nel quale si aprì un drammatico confronto fra Ignaz von Döllinger e i suoi discepoli nel
quale, contro la prospettiva avanzata dal maestro, prevalse
l’orientamento di dare all’opposizione cattolica una struttura ecclesiale con parrocchie e diocesi autonome da Roma.
Il Prota Giurleo il 10 giugno 1871, nel contesto di un appello della Lega internazionale della Pace e della Libertà, di
cui il 25 settembre seguente si sarebbe tenuto a Losanna il
V° Congresso, pubblicò un «Appello della Società nazionale
emancipatrice e di mutuo soccorso del sacerdozio italiano
alla carità cristiana»1. A nome della Società emancipatrice
e di mutuo soccorso, il Prota Giurleo dichiarava di aver ricevuto «consigli e fervide esortazioni» a costituire «la nostra chiesa emancipata dal papato scismatico,o infallibile»,
passando dalle «astratte teorie» e dalle polemiche alla «pratica attuazione» di quel progetto di «emancipazione del
clero e del laicato cattolico», che la Società Emancipatrice
aveva perseguito «sin dall’inizio del nostro risorgimento»2.
Le esortazioni e i consigli ricevuti rispondevano al «desiderio ardentissimo» della Società emancipatrice, ma quel desiderio condiviso non rimediava alla mancanza delle risorse
materiali di cui si aveva bisogno. L’Italia infatti era insensi1
L’appello è contenuto in un testo reperito presso la Biblioteca della Facoltà Valdese di Teologia, ma non identificato perché mancante delle pagine di
intestazione – alle pp. 133-136.
2
L. PROTA GIURLEO, Appello della Società nazionale emancipatrice e di mutuo
soccorso del sacerdozio italiano alla carità cristiana, cit., p. 133 s.
– 27
bile verso le necessità della Società emancipatrice perché
era «fondamentalmente papolatra» o «atea e indifferente».
E lo stesso governo aveva come suo scopo la concessione
delle guarentigie al papa e la cessione al cardinale Sisto Riario Sforza, arcivescovo di Napoli, delle chiese che prima, «in
un momento di felice ispirazione, aveva concedute alla nostra Società»3. Di conseguenza la Società emancipatrice si
trovava in condizione di grave precarietà: non disponeva di
un locale per il culto, e i sacerdoti suoi membri, se non rinnegavano la loro propria coscienza, venivano abbandonati
alla miseria: non ricevevano né ospitalità né assistenza sanitaria in caso di malattia, e non disponevano nemmeno di
«un palmo di terra che coprisse le loro ossa dopo la morte».
I membri di quella Società, «abbandonati alle sole forze
individuali», potevano solo «pregare nel santuario della loro
coscienza» chiedendo a coloro che «si sentono e sono veramente cristiani» che li aiutassero «nel compimento della rigeneratrice nostra missione: una chiesa per il culto, una
scuola per l’insegnamento «religioso e scientifico» per i figli dei membri della Società, «l’assicurazione della pace
della nostra spoglia mortale nel luogo della nostra ultima
dimora», che ora è insidiato e maledetto «dal cattolicismo
gesuitico-papale»4.
Nell’ambito dogmatico e teologico i riferimenti erano
quelli essenziali per la prima generazione dei Vecchi Cattolici: le più antiche Confessioni di fede della chiesa cristiana
e l’ordinamento canonico sancito dai primi quattro Concili
ecumenici della Chiesa universale, con la struttura ministeriale di vescovi, presbiteri e diaconi, riconoscendo anche al
vescovo di Roma il ruolo di primate d’Italia, che era stato riconosciuto già dai concili di Nicea e di Costantinopoli.
L’appello concludeva rivendicando la libertà delle co3
4
28 –
ID., op. cit., p. 134.
ID., op. cit., p.135.
scienze individuali, che includeva la non obbligatorietà
della confessione auricolare dei peccati e del celibato dei
preti. I membri della Società si autodefinivano «Protocattolici, cioè confessori del cattolicesimo primitivo»5.
Riforma religiosa e impegno politico-sociale
Il Prota Giurleo unì sempre l’impegno per la riforma religiosa all’attenzione verso i problemi della società, in ambito sociale e politico. L’Archivio della Storia del Risorgimento raccolto a Roma nel Vittoriano contiene fra l’altro
circa dieci lettere da lui inviate a Pasquale Stanislao Mancini, nelle quali manifestava la sua attenzione ai temi più
caldi della politica italiana, come quando, il due marzo
1863, si congratulò con lo statista che aveva sostenuto con
successo la necessità di abolire la pena di morte. In quell’occasione il Prota Giurleo porse al Mancini «un solenne
testimonio dell’alta stima ed ammirazione che tutta la nostra Società a Lei professa»6.
La corrispondenza col Mancini manifestò anche l’amicizia e l’alta stima reciproca esistente fra i due. Circa un anno
dopo il Prota Giurleo proponeva di nominare il Mancini
Presidente onorario della Società nazionale emancipatrice
e di mutuo soccorso del Sacerdozio italiano, e lo invitava a
«continuare la sua benevolenza» verso di essa», dopo che
aveva accettato di essere suo «socio protettore»7.
Il sostegno di persone come il Mancini era di grande incoraggiamento in un tempo in cui, per le sue proposte di
riforma ecclesiastica, era divenuto oggetto di rappresaglie
da parte della gerarchia romana, e in particolare del cardi5
ID., op. cit., p. 136.
Lettera del Prota Giurleo a Pasquale Stanislao Mancini, Napoli, S. Domenico Maggiore, 2 marzo 1865. Archiovio del Risorgimento.
7
L. Prota Giurleo a P.S.Mancini, Napoli, San Domenico Maggiore 13-011866, Archivio della Storia del Risorgimento.
6
– 29
nale Riario Sforza. Le difficoltà incontrate furono rivelate in
parte dallo stesso Prota Giurleo, e in parte si possono dedurre dai continui cambiamenti di indirizzo della Società e
de «L’Emancipatore Cattolico»8. Tuttavia, nonostante le difficoltà incontrate e le lotte sostenute, il Prota Giurleo si impegnò a fondo anche in campo politico, dando vita in un
primo tempo ad un Comitato elettorale delle Provincie del
Sud, e poi assumendo la presidenza del «Comitato dei Danneggiati politici delle Provincie meridionali del Continente9».
Nel luglio 1874 «L’Emancipatore Cattolico» pubblicò il
Programma del «Comitato elettorale» appena costituito,10
che si proponeva di sostenere le candidature di cittadini che
si qualificavano per «indiscutibile probità e coraggio civile
nel sostenere razionalmente i diritti e i doveri annessi al loro
mandato di legislatori»11. Criterio di giudizio sulla candidatura sarebbe stata «la vita pubblica dell’individuo lungamente provata», rispettando allo stesso tempo scrupolosamente «l’impenetrabile santuario della famiglia e della vita
privata dei candidati»12. Il Comitato avrebbe poi invitato
tutti i candidati a visitare ogni anno i singoli comuni del
Collegio elettorale in cui erano stati eletti, «onde prendere
personalmente notizia dei bisogni locali»13. Il Comitato si
proponeva anche la pubblicazione di un Bullettino ufficiale
8
L’indirizzo sia della Società che de «L’Emancipatore Cattolico» era prima
a S.Domenico Maggiore (2-3-1865 e 13-1-1866), poi a Vico Purgatorio ad Arco
(23-1-866 e 2-3-1868), a Strada Atri 23 (28-11-1870), a Vico San Gregorio Armeno n. 12 (27-maggio 1874).
9
Programma, «L’Emancipatore Cattolico», XIII,15 18-7-1874) p. 58; Luigi
Prota Giurleo, Circolare del Comitato dei Danneggiati politici delle Provincie
meridionali del Continente, Napoli, 16-7-1883.
10
Luigi Prota Giurleo, Circolare del Comitato dei danneggiati politici delle
Provincie Meridionali del Continente, Napoli, 16 luglio 1883, p. 4.
11
«L’Emancipatore Cattolico» XIII, 15 (18-7-1874) Programma, p. 18.
12
Programma, cit., Paragrafo II.
13
Programma, cit., Paragrafo IV.
30 –
dei suoi atti, in cui avrebbe esposto le attività politiche dei
suoi candidati14.
Oltre alla creazione del Comitato elettorale, «L’Emancipatore Cattolico» seguì puntualmente gli eventi di maggiore
rilievo nella politica italiana, anche negli anni che seguirono. Per esempio, in vista delle elezioni politiche del 1880
il periodico – divenuto ormai mensile – pubblicò un articolo
che esprimeva la posizione ufficiale della Società emancipatrice: La Società emancipatrice del Sacerdozio e laicato italiano e le imminenti elezioni15. Dopo aver ribadito che l’orientamento della Società Emancipatrice era uno «spirito
di riforma e libertà, principi «che si incarnano nel programma della sinistra parlamentare», precisava di voler rispettare «anche il programma del partito conservatore» e
soprattutto il «personale convincimento» dei suoi esponenti. Tuttavia, date le condizioni politiche ed economiche
sia della Società Emancipatrice che dell’Italia intera, «la sua
attuazione sarebbe rovinosa per gli interessi più gravi della
patria e della regnante dinastia, che ha identificato con essa
i suoi destini»16. Ritornando sullo stesso argomento il mese
successivo, subito dopo le elezioni, constatava: «Il vaticanismo prevale», perché la Sinistra liberale aveva perso «una
ottantina di collegi guadagnati dai conservatori della Destra. La Sinistra aveva sbagliato perché aveva fatta propria
la politica religiosa della Destra, che aveva portato a unire
«l’autoritarismo teocratico coll’organismo delle libertà politiche, i nostri plebisciti, che sono la più completa formola
della sovranità popolare, con i canoni dell’ultimo concilio
14
Programma, cit., Paragrafo VII. Non si ha notizia tuttavia della pubblicazione di questo «Bullettino», che non è presente nell’elenco dei periodici della
Biblioteca Nazionale di Napoli.
15
La Società Emancipatrice e di Mutuo Soccorso del Sacerdozio e laicato Italiano e le imminenti elezioni, «L’Emancipatore Cattolico», XIX, 4 (13-5-1880),
p. 13.
16
Op. cit., «L’Emancipatore Cattolico», XIX, 4 (13-5-1880), p. 13.
– 31
vaticano». La Sinistra, avendo riconosciuto al papa e all’episcopato «maggiori deferenze e larghezze della Destra», si
è «esautorata come partito di governo», per cui l’Italia dei
plebisciti sarebbe stata in futuro «l’Italia del vaticanismo»,
e di conseguenza anche il suffragio universale sarebbe divenuto «l’effetto naturale e necessario… dell’influenza clericale sul partito della libertà e del progresso»17.
Uno dei più significativi interventi politici del Prota Giurleo fu la commemorazione di Raffaele Conforti dopo la sua
scomparsa, dato che con il defunto aveva condiviso quasi
tutte le scelte politiche. Il Conforti infatti era stato Ministro
dell’Interno durante la dittatura di Garibaldi, aveva organizzato il plebiscito di Napoli e ne aveva presentato il risultato a Vittorio Emanuele II. Il Prota Giurleo scrisse che il
Conforti aveva proposto a Garibaldi «la sanzione del nostro
solenne plebiscito, che riunendo le nostre meridionali provincie alla grande famiglia italiana, compiva la nostra unità
nazionale»18. Il Conforti aveva apprezzato la Società Emancipatrice fin dal 1863, per il suo tentativo di riportare la religione «ai suoi principi» e di ristabilirla «in quello stato di
purità» in cui era stata fondata da Cristo. Il riformatore cattolico fa- ceva notare allo stesso tempo che alla generazione
del Conforti era seguita la Sinistra liberale, costituita da
«mediocrità o nullità» propense a creare «nuove relazioni
liberticide stabilite dalla nuova e peregrina sapienza politica col gesuitismo papale»19.
Dopo il clima di apertura politica che si era creato nel
governo italiano con l’elezione di Leone XIII, non ci si poteva aspettare nessuna critica da parte della Sinistra liberale alla classe dirigente. Invece si levarono, sia da destra
17
Il Vaticanismo prevale, «L’Emancipatore Cattolico», XIX, 5 (29-6-1880),
p. 17.
18
Luigi Prota Giurleo, Raffaele Conforti, «L’Emancipatore Cattolico», XIX,
6 (23-8-1880), p. 21.
19
Op. cit., ivi.
32 –
che da sinistra, gravi eccitamenti e censure al Ministro dei
culti «per la politica soverchiamente benevola e condiscendente da lui seguita rispetto al Vaticano», politica che «quasi
annientò i diritti della Corona … nella nomina delle sedi vescovili di patronato regio»20. «L’Emancipatore cattolico»
(dove, presumibilmente gli articoli non firmati erano scritti
dallo stesso Prota Giurleo) osservava ancora che le censure
dei politici non avrebbero conseguito nessun effetto «se
nelle alte sfere del potere non fosse entrata la convinzione
che la sola e reale costituzione di una Chiesa Cattolica nazionale, emancipata dal papato avrebbe potuto offrire «solide ed incrollabili basi delle nuove e legittime relazioni tra
la Chiesa, emanazione della pura fede di Cristo, e lo Stato,
emanazione del diritto della sovranità popolare».
Nonostante che il contesto sociale e politico nel quale
operava rendesse sempre meno probabile l’attuazione del
suo disegno, il Prota Giurleo ci credeva ancora, e si impegnava perché potesse divenire realtà: «Noi affrettiamo coi
nostri voti questo importantissimo avvenimento, alla cui attuazione abbiamo consacrato tutte le nostre forze e l’intera
nostra esistenza». E le «crescenti difficoltà» e i «più crudeli
disinganni – concludeva – non hanno mai potuto scuotere
anche minimamente la nostra fede»21.
Pur non avendo possibilità concrete di attuare il progetto
per cui tanto si era impegnato, il Prota Giurleo non mancò
di spingere il governo a versare due milioni di ducati – che
Garibaldi aveva deposto nelle sue mani – destinate «ai danneggiati politici delle provincie meridionali», a risarcimento
«dei danni politici nella reazione borbonica del 1848-49»22.
«L’Emancipatore Cattolico» terminava la serie delle sue
20
La questione religiosa nel nostro parlamento, «L’Emancipatore Cattolico»,
XIX, 7 (13-12-1880), p. 25.
21
Op. cit., ivi.
22
I danneggiati politici delle provincie meridionali, «L’Emancipatore cattolico» XIX, 7 (13-12-1880), pp. 27 s.
– 33
edizioni con l’assicurazione «ai nostri confratelli ed amici»
che «l’apostolato del nostro pensiero e della nostra missione
si compie da noi con quella stessa intensità di zelo e di
azione, come nel primo giorno in cui abbiamo innalzato innanzi alla coscienza del mondo credente la gloriosa ed incontaminata bandiera della nostra cattolica emancipazione»23.
Dopo il 1880 Luigi Prota Giurleo inviò alcune lettere circolari in qualità di Presidente del Comitato pei Danneggiati
politici delle provincie meridionali24. Nella seconda delle
uniche due circolari di cui abbiamo copia, il Presidente ricapitolava l’operato del Comitato, che fin da 1872 aveva inviato a Roma undici Commissioni, aveva sostenuto due
azioni giudiziarie, aveva pubblicato diciotto Lettere circolari e due opuscoli, e aveva promosso l’informazione sulle
attività del Comitato, sia nella stampa nazionale che in
quella di altri paesi. Nel momento, informava che il Comitato aveva deciso di «presentare esso medesimo le domande e i documenti… di tutti i danneggiati politici» dei
quali, fino a quel momento, aveva rappresentato i diritti e
le ragioni25.
Luigi Prota Giurleo ripercorse l’iter della propria militanza politica e religiosa nel 1887, all’età di 60 anni, in occasione del giubileo sacerdotale di Leone XIII. Dopo aver
apprezzato la legge delle guarentigie per il ruolo che essa riservava al papa, osservava anche che quella legge aveva sacrificato a lui il «patriottico sodalizio»costituito dalla «Società emancipatrice e di mutuo soccorso del sacerdozio e
laicato italiano». A detta società era mancato anche l’ap23
Cronaca interna, «L’Emancipatore Cattolico», XIX, 7, (13-12-1880), p. 28.
Di due Lettere Circolari, che portano le date del 31-5-1883 e del 16-7-1883,
si può trovare copia si presso la Biblioteca Nazionale di Napoli che presso il
Museo del Risorgimento in Roma. Entrambe portano l’indirizzo di provenienza:
Vico Gerolomini, 19 Napoli.
25
Cfr. Circolare del 16-7-1883, cit., p. 2.
24
34 –
poggio, sia diretto che indiretto, del governo italiano, per
cui non era riuscita a creare una chiesa autonoma dal papato, con elezione del «triplice ordine gerarchico» da parte
del clero e del popolo26. Ricordava anche che nel 1867, con
il ministero Ricasoli il governo, mentre si umiliava a chiedere un modus vivendi al papa, per mezzo dei suoi prefetti
aveva imposto al clero emancipatore di conciliarsi con i rispettivi vescovi, e gli aveva tolto alcuni «sussidi miserissimi»
concessi in precedenza «per servigi prestati alla Patria e al
Re»27.
La celebrazione del giubileo sacerdotale di Leone XIII fu
per il Prota Giurleo l’occasione opportuna per «rendere un
servigio alla cara nostra patria Italia….ed anche alla Santità vostra». Perciò offrì al papa il dono di «un umile gioiello
ed un ricordo che traggo dall’immenso tesoro della mia cattolica fede». Il dono consisteva nel testo evangelico di Luca
4, 5-7, sulla base del quale concludeva che tutti i papi che
avevano accettato «il possesso dei regni della terra» erano
divenuti «adoratori del diavolo», mentre Leone XIII era divenuto papa «senza regni terreni, senza oro né argento», per
cui poteva essere il degno successore di quel Pietro pescatore di Galilea che «convertì il mondo alla fede di Cristo»28.
Se invece – concludeva – «volete oltre all’essere Pontefice
essere anche Re; allora vi sovvenga (e questo è il ricordo)
della profetica sentenza» di San Bernardo a papa Eugenio
III: Si utrumque similiter habere velis, perdes utrumque!»29
Cesare Milaneschi
26
L. PROTA GIURLEO, Pensieri di un credente sull’Italia dei plebisciti e cattolica
in rapporto al papato religioso e politico, ed. A. Belisario e C., Napoli 1887, pp.
23 s.
27
ID., op. cit., p.24.
28
ID., op. cit., p. 59.
29
ID., op. cit., p. 60.
– 35
NAPOLI E IL MEZZOGIORNO
SE SEI MESI
Se sei mesi vi sembran molti lasciate perdere l’attenzione
per le elezioni di maggio e pensate ad altro. Si potrebbe dire
così parafrasando in senso opposto un bello e antico canto
popolare (Se otto ore vi sembran poche 1906) che affrontava
così il problema del lavoro per ridurre a otto ore la giornata
lavorativa delle mondine:
Se otto ore vi sembran poche
provate voi a lavorare
e sentirete la differenza
di lavorar e di comandar.
O Mario Scelba se non la smetti
di arrestare i lavoratori
noi ti faremo come al duce
in Piazza Loreto ti ammazzerem.
E noi faremo come la Cina,
suoneremo il campanello,
innalzeremo falce e martello
e griderem viva Mao Tse Tung.
E noi faremo come la Russia,
suoneremo il campanello,
innalzeremo falce e martello
e grideremo viva Stalin.
Altri tempi, altri personaggi (tutti morti), altri problemi.
Quindi questa mia può sembrare una semplice esercitazione «culturale». In parte lo è, ma mi consente di riflettere
sulla situazione napoletana (e chi sa se non anche regionale)
36 –
in vista delle amministrative di maggio e sull’almeno apparente ritardo di preparazione della sinistra (la sinistra?) nel
proporre programmi e candidati. Al di là del quasi quotidiano chiacchiericcio di cui danno conto i quotidiani, con
proposizione di terne e quaterne di nomi che verosimilmente non ci sarà ruota del lotto che ne sancirà la partecipazione.
Questo fino a quando il PD ha deciso che per la scelta
del candidato sindaco di Napoli si faranno le primarie il 7
febbraio 2016 (ma forse a marzo?). È, finalmente, un punto
fermo. Ma tale anche da riproporre anche in questa sede la
politica del «no…». Nel caso specifico è rivolta ad Antonio
Bassolino che da mesi stava allestendo la sua «discesa» in
campo e che ora ha immediatamente dichiarato di presentarsi alle primarie. Discesa? Certamente è più una faticosa
salita che una agevole discesa. Tanto più perché da Roma il
PD è intervenuto subito con una sorta di «Bassolino chi?
non riconoscendolo come sua espressione.
E allora circolano nomi di contendenti i quali, con tutto
il dovuto rispetto, non danno l’impressione di poter impensierire l’ex sindaco e governatore.
Ma, tanto, ci vogliono ancora mesi: quattro per le primarie e sei per le elezioni, un nome uscirà. È un po’ il modo
in cui fu affrontato il tema elezioni per la Regione. Con un
denominatore comune a quella e alla prossima competizione che non è difficile vedere nel sostanziale disinteresse
per Napoli e la Campania: città e terra difficili nei cui problemi politici ancor prima che economici è meglio non metter naso.
Un silenzio quello di Renzi ancora più significativo per
quanto riguarda la Regione e i problemi giudiziari del Governatore De Luca. Lo ricorda bene Ottavio Ragone (Il silenzio del premier, in «la repubblica» Napoli 13 novembre
2015) scrivendo che «Impegnato a La Valletta in un vertice
europeo sull’immigrazione» Renzi ai giornalisti che gli
– 37
chiedevano un commento dei fatti campani ha risposto:
«De Luca? Me lo chiedete qui a Malta?». Certo non era
quello il posto. Ma, se non quello, quale? La risposta è sempre il silenzio. Un silenzio che sembra di comodo se si riflette sul fatto che ricade anche su Napoli il cui destino,
scrive ancora Ragone, «appare ancora una volta nebuloso,
sconvolto dalle folate di una pessima politica» e dove il caso
De Luca «potrebbe spazzare via ciò che resta di un partito
già in difficoltà».
Né il problema è solamente politico. Altri se ne aggiungono e quelli economici e sociali sono certamente di prevalente importanza.
La Campania è una regione estremamente rappresentativa di questi problemi e della mancanza di soluzioni. Ma
con notevole semplicismo e, secondo me, pari assenza di
idee risolutive, gran parte viene riassunta in due problemi
dei quali si parla quasi a livello di slogan: la «terra dei fuochi» e le «ecoballe di Giugliano». Che sono certamente casi
di rilevante gravità, ma comunicati ed enfatizzati in modo
che ritengo non corretto. Auspicando, cioè, la bonifica delle
terre dove si bruciano rifiuti, da una parte; la scomparsa
delle balle, dall’altra. La bonifica è certamente un passaggio obbligato se quelle terre si vogliono recuperare all’agricoltura e bloccarne la pericolosità, ma non si può e deve
ignorare che i tempi sono inevitabilmente lunghi. Per le ecoballe di rifiuti, poi, la confusione mi sembra ancora maggiore perché non v’è chi non ne auspichi la scomparsa, ma
non mi sembra vi sia chi ne proponga in modo chiaro e condivisibile il risultato. Per ultimo il Governatore De Luca che
mettendo la soluzione del problema ai primi posti delle realizzazioni della Giunta che presiede, dice dove non devono
finire, ma non anche come e dove devono essere smaltite.
E il discorso non si esaurisce qui perché non vanno
messi in terzo ordine gli altri problemi che vedo legati soprattutto alla qualità dell’aria e alla sicurezza del territorio:
38 –
inquinamento atmosferico, dissesto idrogeologico, sismicità, vulcanesimo.
Problemi seri che trovano soluzioni concrete e durevoli
nella prevenzione e non certo solo nella auspicata dichiarazione dello stato di calamità – naturale, naturalmente – l’indomani di una sciagura con l’obiettivo di rattoppare gli
strappi dopo aver contato i morti, i feriti, gli sfollati e aver
fatto il calcolo dei danni economici.
Problemi seri che, al di là del chi li dovrà risolvere, impongono chiarezza e rapidità di interventi: da Roma alla
Campania, a Napoli.
Su tutto questo non si può tacere. A meno che non si voglia seguire l’invito di Oscar Wilde ricordato da Gianfranco
Ravasi nel suo «breviario» sul «sole 24 ore» del 15 novembre 2015 «Siano benedetti quelli che non hanno niente da
dire e, malgrado ciò stanno zitti». O, se si preferisce, fare
tesoro del primo dei 14 principi necessari per tacere che l’abate Dinouart suggerisce nella sua opera più famosa, L’arte
di tacere, e, cioè, che: «È bene parlare solo quando si deve
dire qualcosa che valga più del silenzio».
Ma questo mio non è un invito al silenzio. È più un invito al modo in cui si parla e alle cose che si dicono perché
come ammonisce da 2200 anni Qoèlet, «c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare». Per cui l’uomo silenzioso non
è chi non dice nulla, ma chi «sa tacere opportunamente in
base al tempo e al luogo in cui ci si trova».
Ugo Leone
– 39
SOCIETÀ CIVILE
Dossier Costituzione
INTRODUZIONE*
La nostra rivista ha aderito al Comitato per il NO nel referendum per le modifiche costituzionali ritenendo che la stagione referendaria che si apre (che ha appuntamenti plurimi
e varie e complesse scansioni temporali come mostra uno degli articoli che pubblichiamo) è tra i passaggi più importanti
e più delicati della vita italiana degli ultimi vent’anni. La legge
Renzi-Boschi muta profondamente i meccanismi e le forme di
espressione della volontà popolare e in connessione con l’Italicum sposta la democrazia su base parlamentare in direzione
di una centralità legislativa e potestativa dell’esecutivo con
forti venature autoritarie o comunque di democrazia delegata.
La trasformazione del Senato in un organo non più elettivo
ma rappresentativo di secondo grado, composto da membri
scelti e nominati tra gli eletti negli enti locali, non solo ne
muta le attribuzioni e le funzioni ma modifica complessivamente l’espressione della volontà popolare in generale.
La riserva alla sola Camera dei Deputati, peraltro fortemente condizionata nella sua composizione da un premio di
* Ringraziamo il Coordinamento Napoletano per la Democrazia Costituzionale e in particolare Giovanni De Stefanis per averci fornito i materiali documentari tra cui, per ragioni di spazio, abbiamo scelto quelli più significativi
per delineare la nascita del Coordinamento nazionale per la Democrazia Costituzionale e le analisi dei vari aspetti della legge Renzi-Boschi, nonché alcuni interventi, già pubblicati in altre sedi, importanti per comprendere il quadro politico generale in cui s’inserisce la campagna referendaria (Ndr).
40 –
maggioranza sproporzionato rispetto al reale peso dei voti,
comporta una rappresentanza assai distorta della volontà
popolare e, nei casi in cui il Senato interviene con parere
consultivo nell’elaborazione delle leggi, una discrepanza tra
volontà politica generale e volontà legate a interessi locali.
Non si tratta solo di una modifica formale del bicameralismo perfetto quanto complessivamente di una supremazia
del partito del premier che con il premio di maggioranza
previsto dall’Italicum verrebbe, di fatto, ad acquisire una
maggioranza parlamentare non scalfibile e il potere di nomina di molte cariche pubbliche che esercitano una funzione di garanzia e di controllo.
Sono meccanismi spiegati nel dettaglio in molti articoli
del dossier che dovrebbe risultare utile ai nostri lettori per
avere chiari i termini della battaglia referendaria e della posta di libertà in gioco, a fronte di un’informazione nei media carente quando non faziosa.
È chiaro che la campagna referendaria sarà lunga e difficile anche per il «tecnicismo» di certi aspetti della legge,
lontani dalla percezione comune e comunque distanti dai
reali interessi quotidiani delle persone, specialmente in
tempi di crisi economica. È chiaro che si potrà vincerla solo
trattando in una prospettiva politica generale quelli che sembrano problemi esclusivamente d’ingegneria costituzionale,
per giunta presentati sotto la falsa realizzazione di un risparmio e di una razionalizzazione della spesa pubblica. È
chiaro che per vincere occorrerà, quindi, legare la campagna referendaria alla difesa di quei diritti costituzionali e di
libertà che rischiano di essere messi in sordina in nome di
una governabilità e di un decisionismo francamente inquietanti. Sono i valori e le posizioni su cui da cinquant’anni vive
e si batte la nostra rivista. Non potevamo che essere attivamente presenti in questa battaglia referendaria.
Ugo M. Olivieri
– 41
LA LUNGA EROSIONE DELLA DEMOCRAZIA*
25 aprile. L’attacco contro la Costituzione si scatena
perché la nostra società è passiva, privata
di soggettività, estranea alla politica di cui
non si sente, e non è, più protagonista
La celebrazione delle date importanti non è sempre
uguale. Perché la memoria stessa è soggetta alla storia, e le
cose si ricordano in modo diverso a seconda dei tempi. Talvolta si è invece ripetitivi: è quando non ci sono particolari
e nuove ragioni che spingono a ripensare l’evento commemorato. E perciò resta un rituale. Quante volte nei tanti
8 marzo della mia vita mi è accaduto di sbuffare per il fastidio della ripetitività. Poi scoppiò il nuovo femminismo
e quella giornata si arricchì di una carica innovativa che ci
fece tornare con gioia a distribuire mimose.
Per il 25 aprile non ho sbuffato mai, ma è vero che, passato il peggio della guerra fredda – quando i governi dc arrestavano i partigiani, o quando arrivò Tambroni – anche la
Resistenza rimase spesso immobile. Oggi, 2015, è evidente
a tutti che la data è caldissima, un’urgenza attuale nella nostra agenda. Per via di un suo specifico aspetto: non tanto
perché chi ne fu combattente riuscì a cacciare i tedeschi,
che pure non è poco. Piuttosto perché è in quegli anni ’4345 che vennero poste le fondamenta – per la prima volta –
di uno stato democratico in Italia. Che oggi mi pare in pe* Articolo pubblicato sul «Manifesto», sabato 25 aprile 2015.
42 –
ricolo, non perché assalito dai fascisti, ma perché eroso dal
di dentro.
Noi uno stato popolare, legittimato a livello di massa,
non l’avevamo avuto mai: il Risorgimento, come sappiamo,
fu assai elitario e produsse una partecipazione assai ristretta, estranee le classi subalterne; i governi della nuova
Italia nata nel 1860 restano nella memoria dei più per la disinvoltura con cui generali e prefetti sparavano su operai
e contadini. Poi venne addirittura il fascismo.
A differenza del maquis francese o della resistenza danese o norvegese, la nostra non aveva proprio nulla da recuperare, niente e nessuno da rimettere sul trono. Si trattava
di inventarsi per intero uno stato italiano decente, e dunque democratico (Come in Grecia, del resto, dove però una
pur straordinaria Resistenza non ce l’ha fatta).
Non è una differenza di poco. E se la Resistenza italiana
ci ha permesso di riuscirci, è anche perché è stata la prima
volta in cui in Italia le masse popolari hanno partecipato
massicciamente e senza essere inquadrate dai borghesi alla
determinazione della storia nazionale.
E anche per un’altra ragione: perché il dato militare,
e quello strettamente politico – l’accordo fra i partiti antifascisti – pur importanti, non esauriscono la vicenda resistenziale. Un ruolo decisivo nel caratterizzarla l’ha avuto
quello che un grande storico, comandante della brigata Garibaldi in Lunigiana, Roberto Battaglia, chiamò «società
partigiana». E cioè qualcosa di molto di più del tratto un
po’ giacobino, o meglio garibaldino, dell’organizzazione militare più i civili che ne aiutarono eroicamente la sussistenza; e cioè l’autorganizzazione nel territorio, l’assunzione, grazie a uno scatto di soggettività popolare di massa,
di una responsabilità collettiva, per rispondere alle esigenze
della comunità, il «noi» che prevalse senza riserve sull’«io».
L’antifascismo come senso comune, più che nella tradizione prebellica, ha origine in Italia da questo vissuto, nel– 43
l’esperienza autonoma e diretta di sentirsi – «attraverso
scelte che nascono dalle piccole cose quotidiane», come
ebbe a scrivere Calamandrei – protagonisti di un nuovo
stato, non quello dei monumenti dedicati ai martiri, ma
quello su cui hai diritto di decidere, di una patria che non
chiede sacrifici ma ti garantisce protezione, legittima i tuoi
bisogni, ti dà voce. È la comunità, insomma, che si fa Stato,
a partire dal senso di appartenenza.
La Costituzione partorita dalla Resistenza riflette proprio questa presa di coscienza, e infatti definisce la cittadinanza come piena appartenenza alla comunità. Non
avrebbe potuto essere così se, ben più che da una mediazione di vertice fra i partiti, non fosse nata proprio da quella
esperienza diretta che fu la «società partigiana.» E dalle sue
aspirazioni. Per questo ha una ispirazione così ugualitaria
e formulazioni in cui è palese lo sforzo di evitare formule
astratte. È di lì che viene fuori quello straordinario articolo‚
per esempio, che dice come, per rendere effettive libertà
e uguaglianza», sia necessario «rimuovere gli ostacoli che
le limitano di fatto».
Proprio riflettendo su quanto da più di un decennio sta
accadendo, a me sembra che la crisi visibile della democrazia che stiamo vivendo non sia solo la conseguenza del venir meno di quel patto di vertice, e dei partiti che l’avevano
sottoscritto, ma più in generale dell’impoverirsi del tessuto
politico-sociale che ne aveva costituito il contesto. E se è possibile l’attacco che oggi si scatena contro la Costituzione
è proprio perché la nostra società non è più «partigiana»,
ma passiva, privata di soggettività, estranea alla politica di
cui non si sente più, e infatti non è più, protagonista, chiusa
nelle angustie dell’»io», sempre meno partecipe del destino
dell’altro, lontana dal declinare il «noi».
Non ci sarà esito positivo agli sforzi che in molti, e da
punti di partenza anche differenziati, vanno facendo per
uscire dalla crisi della sinistra se non riusciremo a risusci44 –
tare prima soggettività e senso di responsabilità collettiva.
Non riusciremo nemmeno a salvare la Costituzione, e finiremo anche per cancellare la specificità della Resistenza italiana. Quell’attacco mira proprio ad impoverire l’idea stessa
della democrazia che essa ci ha regalato, riducendola a un
insieme di regole e garanzie formali e individuali, non più
terreno su cui sia possibile esercitare potere.
Stiamo attenti a come celebriamo il 25 Aprile. Berlusconi, quando per una volta si degnò di partecipare a una
iniziativa per il 25 aprile – fu ad Onna, subito dopo il terremoto d’Abruzzo – ebbe a dire che sarebbe stato meglio cambiare il nome della festa: non più «della Liberazione», ma
«della Libertà». Proposta furbissima: la sua dizione richiama infatti un valore astratto calato dal cielo, la nostra
dà conto della storia e racconta chi la libertà ce l’aveva tolta
e cosa abbiamo dovuto fare per riconquistarla. Se smarriamo la storia cancelliamo il ricordo delle squadracce fasciste al soldo degli agrari e dei padroni che bruciarono le Camere del lavoro, la violenza contro le organizzazioni popolari; depenniamo la Resistenza stessa e sopratutto il ruolo
che ha avuto nel costruire un nuovo stato italiano democratico.
Rischiamo di dimenticare che per mantenere la libertà
c’è bisogno di salvaguardare la Costituzione e per farlo di
ricostruire una «società partigiana» per l’oggi: uno scatto di
soggettività, di assunzione di responsabilità, un impegno
politico collettivo, rimettere il «noi» prima dell’»io».
Sapendo che oggi il «noi» si è estremamente dilatato. Non
è più quello di chi vive attorno al campanile, e nemmeno
dentro i confini nazionali. Il mondo è entrato ormai nel nostro quotidiano, lo straniero – e con lui la politica estera – lo
incontriamo al supermarket, all’angolo della strada, nella
scuola dei nostri figli. La sua libertà vale la nostra, la nostra
senza la sua non ha più senso. Per questo non è pensabile festeggiare il 25 Aprile senza palestinesi e immigrati, così
– 45
come senza gli ebrei che da qualche parte patiscono tutt’ora
l’antisemitismo. Non è debordare dal tema «Liberazione»
sentirsi parte, vittime e però anche responsabili, di tutti i disastri che affliggono oggi il mondo.
Luciana Castellina
46 –
LE RAGIONI DEL NO*
Onorevoli deputati,
1. la vasta e complessa riforma costituzionale che vi accingete a votare in quarta lettura, ma pur sempre nell’ambito della prima deliberazione, è una riforma che, in
coerenza col nostro sistema di democrazia parlamentare,
avrebbe dovuto procedere dall’iniziativa parlamentare, e
non dal Presidente del Consiglio dei ministri Renzi e dal
Ministro per le Riforme Boschi. Il che ha determinato
inammissibili interferenze da parte dei medesimi sulla libertà di coscienza dei parlamentari in sede referente e in
assemblea; e con modalità di approvazione che se legittime per leggi ordinarie, non lo sono certo per le leggi di
revisione costituzionali. Come, ad esempio, l’asserita non
emendabilità degli articoli approvati sia da Camera che
da Senato, che è bensì un principio valido per le leggi ordinarie (art. 104 reg. Sen.) ma non per le leggi costituzionali.
Contro l’applicabilità di tale norma vi è, infatti, non
solo il precedente della Giunta del regolamento della Camera del 5 maggio 1993 (presidente Napolitano), secondo
il quale nel procedimento di revisione costituzionale pos* Il prof. Alessandro Pace spiega in questa lettera inviata ai Deputati le ragioni
di fondo della opposizione alla contro-riforma Renzi-Boschi del «Comitato per il
NO nel referendum costituzionale sulla legge Renzi-Boschi» (associazione con sede
legale presso Studio Adami - Corso d’Italia 97 Roma).
– 47
sono essere introdotti emendamenti anche soppressivi
pur quando sul testo si sia formata la «doppia conforme»,
ma sussiste l’argomento ulteriore – assorbente e insuperabile – secondo il quale, fino a quando non sia stata definitivamente approvata e promulgata, una modifica non
può prevalere sulla Costituzione vigente e sostituirsi ad
essa.
2. Quella che vi accingete ad approvare in seconda lettura, pur sempre nell’ambito della prima deliberazione,
è una revisione costituzionale che, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014 – dichiarativa dell’incostituzionalità di talune norme del c.d. Porcellum –, non avrebbe dovuto essere nemmeno presentata in questa legislatura.
La Corte costituzionale, nella citata sentenza (v. il n. 7
del cons. in dir.), ebbe infatti a precisare che, a seguito dell’incostituzionalità di tali norme, le Camere avrebbero potuto continuare ad operare grazie ad un principio implicito
– il «principio fondamentale della continuità dello Stato» –
però essenzialmente limitato nel tempo, come esemplificato dalla stessa Corte, in quella sentenza, col richiamo alla
prorogatio prevista negli articoli 61 e 77, comma 2, Cost.,
che prevedono tutt’al più un’efficacia non superiore ai tre
mesi!
3. Ancora: tale legge di revisione costituzionale è disomogenea nel contenuto, e pertanto contraria all’art. 48
Cost., in quanto costringe l’elettore ad esprimere con un
solo voto il suo favore contestualmente a proposito sia delle
modifiche alla forma di governo, sia delle modifiche ai rapporti tra Stato e autonomie locali, ancorché egli sia favorevole solo ad una delle due. Ripetendo così l’errore della
riforma Berlusconi del 2005, che violava per l’appunto la libertà di voto dell’elettore.
48 –
4. Gravi e svariate sono poi le perplessità che sollevano
gli articoli fin qui approvati, molti dei quali – come si dirà
nel prosieguo – ridondano addirittura nella violazione dei
principi supremi dell’ordinamento costituzionale, come
tali non sopprimibili ancorché con legge di revisione costituzionale, sulle quali la Corte, come esplicitamente affermato nella sent. n. 1146 del 1988 (ripetutamente ribadita), si è esplicitamente riservata di dichiararne l’incostituzionalità ove tempestivamente investita della relativa
questione.
I principi supremi che vengono esplicitamente violati dal
d.d.dl. Renzi-Boschi sono, in primo luogo, il principio della
sovranità popolare di cui all’art. 1 Cost. (ritenuto ineliminabile dalle sentenze nn. 18 del 1982, 609 del 1988, 309 del
1999, 390 del 1999 e, da ultimo, dalla sent. n. 1 del 2014, secondo la quale «la volontà dei cittadini espressa attraverso
il voto (…) costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare»). In secondo luogo il principio di eguaglianza e di razionalità di cui all’art. 3 Cost.
(sentenze nn. 18 del 1982, 388 del 1991, 62 del 1992 e 15 del
1996).
4.1. Il principio secondo il quale «la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto (…) costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare») è violato dal «nuovo» art. 57, commi 2 e 5, il quale,
con una formulazione criptica indegna di una Costituzione, da un lato, esclude comunque che i senatori-sindaci non vengano eletti dai cittadini nemmeno in via indiretta, dall’altro prevede che la scelta dei senatori-consiglieri regionali avvenga da parte dei consiglieri regionali,
che dovrebbero però conformarsi al risultato delle elezioni regionali. Per cui, delle due l’una: o l’elezione dei senatori-consiglieri si conformerà integralmente al risultato
delle elezioni regionali e allora ne costituirà un inutile duplicato oppure se ne distaccherà e allora viola il principio
– 49
dell’elettività diretta del Senato sancito dall’art. 1 della Costituzione.
Si badi bene: l’esigenza dell’elettività diretta del Senato
non è fine a se stessa, essa consegue da ciò, che, anche a seguito della riforma Renzi-Boschi, il Senato eserciterebbe sia
la funzione legislativa sia la funzione di revisione costituzionale che, per definizione, costituiscono il più alto esercizio della sovranità popolare.
Di qui l’ineludibilità del voto dei cittadini che, della sovranità popolare, «costituisce il principale strumento di manifestazione».
Senza poi dimenticare che solo l’elezione popolare diretta consentirebbe di svincolare l’elezione del Senato dalle
beghe esistenti nei micro-sistemi politici regionali, come è
stato sottolineato, tra gli altri, dal Presidente emerito della
Corte costituzionale Gaetano Silvestri. Il che, detto più ruvidamente, sta a significare che l’elezione diretta sottrarrebbe, almeno in via di principio, le elezioni dei senatori dal
tessuto di scandali che contraddistingue la politica locale
italiana.
4.2. Passando alle violazioni del principio supremo di
eguaglianza e razionalità (art. 3), la prima e più evidente
consiste nella macroscopica differenza numerica dei deputati rispetto ai senatori, che rende praticamente irrilevante
– nelle riunioni del Parlamento in seduta comune per l’elezione del Presidente della Repubblica e dei componenti laici
del CSM – la presenza del Senato a fronte della soverchiante
rappresentanza della Camera.
Sotto un diverso profilo, la competenza dei 100 senatori
ad eleggere due giudici costituzionali mentre i 630 deputati
ne eleggerebbero solo tre, solleva sia un problema di proporzionalità a svantaggio della Camera, sia un problema di
inadeguatezza tecnica dei senatori nella scelta dei giudici
costituzionali, che finirebbe per essere effettuata dalle segreterie nazionali dei partiti politici.
50 –
Né si può sottacere che, secondo la riforma Renzi-Boschi, i 95 senatori eletti dai consigli regionali continuerebbero ad esercitare part time la funzione di consigliere regionale o di sindaco, per cui è facile prevedere che eserciterebbero in maniera del tutto insufficiente le funzioni senatoriali. Con un’ulteriore evidente violazione del principio di
eguaglianza-razionalità
4.3. Nel sistema federale tedesco – che alcuni parlamentari erroneamente ritengono di aver introdotto in Italia
(sic!) – il Bundesrat, l’equivalente tedesco del nostro Senato
(operante però sin dalla Costituzione imperiale del 1870,
tranne la parentesi hitleriana), è costituito dalle sole rappresentanze dei singoli Länder che, a seconda dell’importanza del Land, hanno a disposizione da 3 a 6 voti per ogni
deliberazione.
Ebbene, a parte l’ovvia considerazione, anch’essa ignorata, che i cittadini dei singoli Länder eleggono bensì il Governo del Land, me non, indirettamente, il Bundesrat, ciò
che deve essere sottolineato è che nel Bundesrat sono presenti i singoli Governi del Länder, con tutto il loro peso politico, nei confronti del Governo federale, derivante dall’elezione popolare.
Ci si deve allora realisticamente chiedere quale mai forza
possa avere il Senato della Repubblica – privo di effettiva politicità (v. ancora G. Silvestri) –, sia nei confronti dello Stato
centrale, sia dei Governatori delle singole Regioni, in quanto
composto da soli 100 senatori part time consiglieri o sindaci.
4.4. Di minore importanza pratica è il problema, che
però testimonia la trascuratezza e superficialità del disegno costituzionale del Governo Renzi, della nomina presidenziale dei cinque senatori che durerebbero in carica
per sette anni, quanto quindi il Presidente che li ha nominati.
A parte le perplessità a proposito del «partitino» del Presidente, che verrebbe così costituito, una cosa sono i sena– 51
tori a vita in un Senato avente finalità generali, altra cosa,
assai più discutibile, sono i senatori eletti in un Senato delle
autonomie (G. Silvestri, S. Mangiameli).
Da questo diverso angolo visuale, volendo a tutti i costi mantenere questo pubblico riconoscimento per chi ha
illustrato la Patria, sarebbe allora più logico (rectius,
meno illogico) che il riconoscimento avvenisse nell’ambito della Camera dei deputati, in quanto essa sola manterrebbe le funzioni di rappresentanza generale del popolo italiano nell’ambito delle quali i deputati «del Presidente» avrebbero una indubbia funzione culturale da
svolgere.
5. Il vero è che tutti questi apparenti errori e apparenti
strafalcioni costituiscono piuttosto dei precisi tasselli che
determineranno lo spostamento dell’asse istituzionale a favore dell’esecutivo
Grazie all’attribuzione alla sola Camera dei deputati del
rapporto fiduciario col Governo, e, grazie all’Italicum – in
conseguenza del quale il partito di maggioranza relativa, anche col 30 per cento dei voti e col 50 per cento degli astenuti,
otterrebbe la maggioranza dei seggi – l’asse istituzionale
verrà spostato decisamente in favore dell’esecutivo, che diverrebbe a pieno titolo il dominus dell’agenda dei lavori parlamentari, con buona pace della citata sentenza n. 1 del
2014 della Corte costituzionale, secondo la quale la «rappresentatività» non dovrebbe mai essere penalizzata dalla
«governabilità».
Il Governo, rectius, il Premier, sarebbe quindi il dominus
dell’agenda parlamentare, anche se un qualche problema la
darà la cervellotica varietà di ben otto diversi iter legislativi
a seconda delle materie (F. Bilancia).
Il Governo, rectius, il Premier, dominerà pertanto la Camera dei deputati cui non potrà contrapporsi, alla faccia del
barone di Montesquieu, alcun potenziale contro-potere: né
52 –
«esterno» – essendo il Senato ormai ridotto ad una larva –
né «interno», grazie alla mancata esplicita previsione dei diritti delle minoranze (né il diritto di istituire commissioni
parlamentari d’inchiesta, né il diritto di ricorrere alla Corte
costituzionale contro le leggi approvate dalla maggioranza
[M. Manetti]).
Il riconoscimento dei diritti delle opposizioni, nella Camera dei deputati, viene, dal «nuovo» art. 64, graziosamente
demandato esclusivamente ai regolamenti parlamentari,
con la conseguenza che sarà il partito avente formalmente
la maggioranza parlamentare e, quindi, il Governo, a precisarne i contenuti.
Con riferimento ai rapporti tra Stato e Regioni, la cartina di tornasole della contrazione delle autonomie territoriale è data dalla previsione della così detta «clausola di
supremazia» (art. 117), con riferimento alla quale l’ex Presidente della Consulta, Gaetano Silvestri, ha osservato
nella già citata audizione dinanzi al Senato, che suscita
perplessità la previsione di una tale clausola, la quale «ingloba in sé non solo la «tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica» pienamente condivisibile, ma
anche la reintroduzione del famigerato «interesse nazionale», che nella prassi anteriore della riforma del 2001, si
era rivelato uno strumento di azzeramento discrezionale
dell’autonomia regionale da parte dello Stato (una «clausola vampiro», secondo la felice espressione di Antonio
d’Atena)».
Onorevoli deputati e senatori, di fronte a questo criticabilissimo quadro normativo, e a maggior ragione discutibilissimo perché pretenderebbe di avere la forza e l’autorità
morale della Costituzione della Repubblica italiana, il Comitato per il NO vi chiede di tentare con decisione di modificare l’attuale testo del d.d.l. cost. n. 2613-B; in subordine, di aderire a questo Comitato, e, infine, qualora tale
d.d.l. cost. venisse definitivamente approvato, di impegnarvi
– 53
fin da ora a richiederne la sottoposizione a referendum popolare. Vi chiediamo di mandarci un cenno di conferma di
questo impegno all’indirizzo:
[email protected]
Roma 20/11/2015
Alessandro Pace*
* Presidente del Comitato per il No.
54 –
LA PROFEZIA NERA DI COSSIGA
Sono troppi anni che in Italia è stata imposta nel dibattito pubblico un’accesa discussione sull’esigenza di profonde riforme costituzionali ed istituzionali, al punto che ormai è penetrato nel senso comune lo stereotipo che la Costituzione del 1948 sarebbe un ferrovecchio di cui bisogna
sbarazzarsi in nome della democrazia per far «crescere» il
nostro paese. Pochi ricordano che questa discussione è partita dal vertice del potere politico, ha una ben precisa data
di inizio ed un suo profeta: Francesco Cossiga. Fu il Presidente della Repubblica dell’epoca che, il 26 giugno del 1991,
mandò un formale messaggio alle Camere istigando il Parlamento ad attuare una profonda riforma della Costituzione, che avrebbe dovuto portare ad una modificazione
della forma di Governo, della forma di Stato, del sistema
dell’indipendenza della magistratura e ad abbandonare il sistema elettorale proporzionale a favore di un sistema maggioritario. Con questo messaggio Cossiga dichiarava obsoleto il modello di democrazia costituzionale prefigurato dai
Costituenti, in quanto frutto della guerra fredda che avrebbe
indotto i Costituenti stessi ad organizzare un potere «debole» custodito da garanzie «forti», anziché un potere forte
e stabile, svincolato da garanzie forti.
Quella che contestava Cossiga, in realtà, era l’impostazione antitotalitaria che aveva guidato le scelte dei Costituenti, determinati ad evitare che in Italia si potesse verificare un’eccessiva concentrazione di potere nelle mani
dei capi politici, a scapito dello Stato di diritto e dei di– 55
ritti dei cittadini, come era avvenuto con l’esperienza del
fascismo.
L’esigenza delineata da Cossiga nel suo «profetico» messaggio alle Camere è quella di dare più potere al potere, di
ridimensionare il sistema di pesi e contrappesi che fa sì che
il potere di ogni organo trovi un limite nel potere di altri organi e che l’esercizio di ogni funzione di governo sia vigilata da robuste istituzioni di garanzia, capaci di assicurarne
la conformità al diritto e di tutelare i diritti inviolabili dei
cittadini. L’aspirazione è sempre stata quella di ricreare nuovamente un governo forte, se non addirittura un uomo forte,
capace di realizzare la sua missione di governo, senza essere ostacolato dalle istituzioni rappresentative e da quelle
di garanzia.
Dare più potere al potere è stato il leitmotiv che ha guidato il ventennio appena trascorso e le riforme che sono
state praticate sia in tema di leggi elettorali che di modifiche formali alla Costituzione. Lungo i binari posti da Cossiga hanno viaggiato tutti i tentativi di riforma della democrazia costituzionale italiana, praticati nel tempo, con esiti
vari, sia attraverso le riforme elettorali, sia attraverso le
riforme della Costituzione del 48.
Il problema è che adesso questo lungo viaggio sta per terminare. Quando andranno a regime la riforma elettorale
(italicum), la riforma del Senato, la riforma della pubblica
amministrazione (che demolisce il principio costituzionale
dell’imparzialità e del buon andamento), la riforma della
scuola (che assoggetta l’istruzione pubblica ad una logica
aziendale), le varie riforme del mercato del lavoro (che riconducono il lavoro a merce), allora si sarà completato un
processo di vera e propria sostituzione del modello di democrazia, del modello di Stato e del modello economico sociale delineati nella Costituzione della Repubblica italiana.
Tutte queste riforme sono convergenti verso la creazione
di un nuovo quadro istituzionale che si realizza con la fi56 –
gura dell’uomo solo al comando e con la sterilizzazione, se
non l’abiura dei principi e dei valori che la Costituzione a
posto a base della vita della Repubblica.
In questo contesto bisogna valutare l’ultima battaglia che
si sta combattendo in questi giorni al Senato, intorno alla
riforma/cancellazione del Senato ed al ridimensionamento
dei poteri della Camera dei Deputati. In questo contesto risalta l’assurdità del compromesso sulla semi-elezione popolare dei senatori che ha fatto alzare bandiera bianca alla
minoranza PD. Si tratta di compromesso che non restituisce ai cittadini il potere di elezione diretta dei senatori e lascia irrisolti tutti gli altri nodi. In particolare: la sottrazione
alle Regioni di ogni possibilità di governo del territorio; la
sostanziale attribuzione al Governo del controllo dell’agenda dei lavori della Camera dei Deputati, già mortificata
e sottoposta alla supremazia dell’esecutivo in virtù della
legge elettorale voluta dal governo Renzi che garantisce al
partito vincitore un premio di maggioranza sproporzionato
come e peggio che nel «porcellum», l’eliminazione della garanzia della doppia lettura per le leggi che riguardano i diritti fondamentali dei cittadini; la sproporzione numerica
fra senatori (100) ed i Deputati (630) che rende irrilevante
il ruolo del Senato nell’elezione del Presidente della Repubblica. La riforma costituzionale è un po’ la linea del Piave
sulla quale si può arrestare la controrivoluzione in atto. Riusciremo ad impedire che si realizzi la profezia nera di Cossiga?
Domenico Gallo
– 57
IL COORDINAMENTO
PER LA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE
Nel nostro paese sono in cantiere profonde modifiche
dell’assetto politico-istituzionale, perseguite dall’attuale governo attraverso una vasta revisione della Costituzione ed
una nuova legge elettorale destinate, purtroppo, ad incidere
negativamente sulla qualità della democrazia e sui diritti dei
cittadini. Ciò avviene ridimensionando la centralità del suffragio diretto e del Parlamento, quale istituzione rappresentativa della sovranità popolare, alterando le garanzie del bilanciamento dei poteri e realizzando una inusitata concentrazione di poteri nelle mani dell’Esecutivo espresso da un
unico partito e in particolare esaltando il ruolo dominante
del Presidente del Consiglio, nel quadro di un generale soffocamento delle autonomie regionali e locali. È inaccettabile
che iniziative come queste, che incidono tanto profondamente sulla democrazia costituzionale avvengano imponendo al Parlamento una marcia a tappe forzate. Questo
strozza il confronto politico impedendo la necessaria partecipazione dei cittadini al processo decisionale su scelte che
determinano un significativo cambiamento del Patto costituzionale sul quale si fonda l’unità del popolo italiano come
comunità politica. Ed è intollerabile che l’Esecutivo pretenda
che la riforma costituzionale sia trattata come un decreto
legge che il Parlamento deve ratificare, e in aggiunta che la
Costituzione sia riscritta da un Parlamento eletto con una
legge dichiarata incostituzionale, senza sentire l’esigenza, almeno, di un largo e democratico confronto preventivo.
58 –
A richiesta di numerose associazioni attive nella società
civile, personalità della cultura, esponenti sindacali, si è costituito, il 24 febbraio, il Coordinamento per la Democrazia
costituzionale (www.coordinamentodemocraziacostituzionale.net) con l’obiettivo di difendere e valorizzare i principi
della democrazia della nostra Costituzione nata dalla Resistenza, operando per attivare l’opinione pubblica, largamente inconsapevole del significato e dei contenuti del processo di riforme istituzionali in atto, e per promuovere un
dibattito politico che consenta la partecipazione di tutti i
cittadini e faccia avanzare la consapevolezza della posta in
gioco per gli anni futuri.
Al Coordinamento hanno dato, finora, la propria adesione le associazioni
l’Ars (Associazione per il rinnovamento della sinistra), Associazione Articolo 21, i Comitati Dossetti, Libertà e Giustizia,
l’Associazione per la Democrazia costituzionale, l’Associazione Giuristi Democratici, La Rete per la Costituzione, il Manifesto in rete, «Agire politicamente» (Coordinamento Cristiano democratico) il Gruppo di Volpedo, Iniziativa 21 giugno, Iniziativa socialista, Sinistra-lavoro, Rete socialista-socialismo europeo, Futura Umanità, Libera cittadinanza, Comitato difesa della Costituzione Ravenna, Comitato Centrale
PCdI, Alleanza Lib – Lab;
nonché le strutture sindacali
la Fiom, l’Usb (Unione Sindacale di Base) e organizzazioni
politiche come l’Altra Europa con Tsipras, Prc, Lavoro e società, parlamentari del gruppo misto, di Sel e della sinistra
Pd; la Cgil e Libera partecipano ai lavori come osservatori;
hanno aderito, inoltre, costituzionalisti e personalità
della cultura
Gustavo Zagrebelsky, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Massimo Villone, Nadia Urbinati, Pietro Adami, Franco Russo,
Anna Falcone, Domenico Gallo, Pancho Pardi, Francesco
Baicchi, Sandra Bonsanti, Felice Besostri, Antonio Caputo,
– 59
Raniero La Valle, Vincenzo Vita, Sergio Caserta, Alfiero
Grandi, Tommaso Fulfaro, Lanfranco Turci, Gim Cassano,
Paolo Ciofi, Cesare Salvi, Antonello Falomi, Giovanni Russo
Spena, Emilio Zecca, nonché i parlamentari Vannino Chiti,
Erica D’Adda, Francesco Campanella, Maria Grazia Gatti, Alfredo D’Attorre, Paolo Corsini, Felice Casson, Loredana De Petris, Stefano Fassina, Stefano Quaranta, Corradino Mineo,
Giorgio Airaudo, Lucrezia Ricchiuti, Walter Tocci.
Roma, 24 febbraio 2015
60 –
UN’ASSOCIAZIONE PER IL NO
Il Senato ha votato il testo della legge costituzionale di
cui al d.d.l. Renzi-Boschi 1429 S. e 2613/b C. e il governo
Renzi è intenzionato a farla approvare al più presto.
Contando sulla possibilità che si svolga il referendum
previsto dall’articolo 138 della Costituzione è stato costituito
il «Comitato per il NO nel referendum sulle modifiche della
Costituzione» il 30 ottobre 2015 a Roma, nella forma di Associazione presso il notaio Atlante.
Il Comitato per il NO nel referendum previsto dall’articolo138 si è costituito sulla base della seguente piattaforma
politica:
«Il disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi di
riforma della Parte II della Costituzione dissolve l’identità
della Repubblica nata dalla Resistenza. È inaccettabile per
il metodo e per i contenuti e lo è ancor di più in rapporto
alla legge elettorale (52/2015) già approvata.
Nel metodo: è stato costruito per la sopravvivenza di un
governo e di una maggioranza privi di qualsiasi legittimazione sostanziale dopo la sentenza con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del «Porcellum».
Molteplici forzature di prassi e regolamenti hanno determinato in parlamento spaccature insanabili tra le forze politiche, portando all’approvazione da parte di possibili maggioranze raccogliticce e occasionali, rese unicamente dal
premio di maggioranza dichiarato illegittimo.
Nei contenuti: la cancellazione della elezione diretta
dei senatori, la drastica riduzione dei componenti — la– 61
sciando immutato il numero del deputati — la composizione fondata su persone selezionate per la titolarità di un
diverso mandato (e tratta da un ceto politico di cui l’esperienza dimostra la prevalente bassa qualità) colpiscono
irrimediabilmente 11 principio della rappresentanza politica e gli equilibri del sistema istituzionale. Non basta l’argomento del taglio del costi, che più e meglio poteva perseguirsi con scelte diverse. Né basta l’intento dichiarato
di costruire una più efficiente Repubblica delle autonomie, smentito dal complesso e farraginoso procedimento
legislativo, e da un rapporto stato-Regioni che solo in piccola parte realizza obiettivi di razionalizzazione e semplificazione, determinando per contro rischi di neo-centralismo. Il vero obiettivo della riforma è lo spostamento
dell’asse istituzionale a favore dell’esecutivo. Una prova si
trae dalla introduzione in Costituzione di un governo dominus dell’agenda dei lavori parlamentari. Ma ne è soprattutto prova la sinergia con la legge elettorale «Italicum», che aggiunge all’azzeramento della rappresentatività del senato l’indebolimento radicale della rappresentatività della camera dei deputati. Ballottaggio, premio di
maggioranza alla singola lista, soglie di accesso, voto bloccato sui capilista consegnano la camera nelle mani del leader del partito vincente — anche con pochi voti nella competizione elettorale, secondo il modello dell’uomo solo al
comando. Ne vengono effetti collaterali negativi anche per
il sistema di checks and balances. Ne risente infatti l’elezione del capo dello Stato, dei componenti della corte costituzionale, del Csm. E ne esce indebolita la stessa rigidità della Costituzione. La funzione di revisione rimane
bicamerale, ma i numeri necessari sono alla Camera artificialmente garantiti alla maggioranza di governo, mentre in Senato troviamo membri privi di qualsiasi legittimazione sostanziale a partecipare alla delicatissima funzione di modificare la Carta fondamentale. L’incontro
62 –
delle forze politiche antifasciste in Assemblea costituente
trovò fondamento nella condivisione di essenziali obiettivi di eguaglianza e giustizia sociale, di tutela di libertà e
diritti. Sul progetto politico fu costruita un’architettura
istituzionale fondata sulla partecipazione democratica,
sulla rappresentanza politica, sull’equilibrio tra i poteri.
Il disegno di legge Renzi-Boschi stravolge radicalmente
l’impianto della Costituzione del 1948, ed è volto ad affrontare un momento storico difficile e una pesante crisi
economica concentrando il potere sull’esecutivo, riducendo la partecipazione democratica, mettendo il bavaglio al dissenso. Non basta certo in senso contrario l’argomento che la proposta riguarda solo i profili organizzativi. L’impatto sulla sovranità popolare, sulla rappresentanza, sulla partecipazione democratica, sul diritto di
voto è indiscutibile. Più in generale, l’assetto istituzionale
è decisivo per l’attuazione dei diritti e delle libertà di cui
alla prima parte, come è stato reso evidente dalla sciagurata riforma dell’articolo 81 della Costituzione. Bisogna
dunque battersi contro questa modifica della Costituzione. Ora facendo mancare i,l voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti in seconda deliberazione. E poi con una battaglia referendaria come quella
che fece cadere nel 2006, con il voto del popolo italiano, la
riforma – parimenti stravolgente – approvata dal centrodestra.
Per queste ragioni il Comitato per il No nel referendum
sulle modifiche della Costituzione ritiene che occorra impedire che questa «riforma» cambi il volto costituzionale
delle nostra Repubblica. Su queste basi si è proceduto a costituire Il Comitato per il NO nel referendum costituzionale
che si propone dí difendere i principi della vigente Costituzione Repubblicana; e si propone inoltre di promuovere
nelle forme previste il referendum previsto dall’art. 138
Cost. contro la legge costituzionale di cui al d.d.l. Renzi-Bo– 63
schi 1429 5. e 2613 – b C. qualora questa venisse definitivamente approvata, sempre che nel frattempo le Camere non
abbiano eliminato o modificato gli articoli palesemente contrari ai principi supremi della Costituzione che al momento
la caratterizzano».
A questo scopo si è costituita una Associazione senza
scopo di lucro denominata:
«Comitato per il No nel referendum sulle modifiche alla
Costituzione».
L’associazione è stata promossa dal Coordinamento per
la democrazia costituzionale. La associazione ha sede in
Roma, Corso d’Italia 97, presso lo studio dell’avvocato Pietro Adami.
L’associazione è regolata dallo statuto ed ha come
scopo immediato quello di promuovere la vittoria dei NO
nel futuro referendum costituzionale. È ammessa l’adesione successiva all’associazione da parte di soggetti che
ne facciano richiesta scritta (anche via mail) al Consiglio
Direttivo (di cui verrà presto fornita la mail dedicata).
Questa richiesta può essere rigettata dal quorum della
maggioranza assoluta dei componenti del Consiglio direttivo.
Il consiglio direttivo dell’Associazione «Comitato per il
No nel referendum costituzionale» è composto da:
Gustavo Zagrebelsky (presidente onorario), Alessandro
Pace (presidente), Pietro Adami, Alberto Asor Rosa, Gaetano
Azzariti, Francesco Baicchi, Vittorio Bardi, Mauro Beschi, Felice Besostri, Francesco Bilancia, Sandra Bonsanti, Lorenza
Carlassare, Sergio Caserta, Claudio De Fiores, Riccardo De
Vito, Carlo Di Marco, Giulio Ercolessi, Anna Falcone (vice
presidente), Antonello Falomi (tesoriere), Gianni Ferrara,
Tommaso Fulfaro (cassiere), Domenico Gallo (comitato esecutivo), Alfonso Gianni, Alfiero Grandi (vice presidente vicario), Raniero La Valle, Paolo Maddalena, Giovanni Palomba64 –
rini, Vincenzo Palumbo, Francesco Pardi, Livio Pepino, Antonio Pileggi, Marta Pirozzi, Ugo Giuseppe Rescigno, Stefano
Rodotà, Franco Russo, Giovanni Russo Spena, Cesare Salvi,
Mauro Sentimenti, Enrico Solito, Armando Spataro, Massimo Villone, Vincenzo Vita, Mauro Volpi.
– 65
DOCUMENTI
IL PATTO DELLE CATACOMBE
DI S. GENNARO DEI POVERI
Il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura
del Concilio Vaticano II, una cinquantina di padri conciliari
hanno celebrato un’Eucaristia nelle Catacombe di Domitilla.
Era il gruppo dei vescovi della «Chiesa dei poveri» che alla
fine del Concilio decisero di scendere nelle catacombe, simbolicamente «ai margini», per firmare il «Patto delle Catacombe». I firmatari si impegnavano personalmente a vivere
da chiesa «povera e dei poveri», ed hanno poi vissuto questo
impegno fino in fondo con scelte concrete.
Il 16 novembre 2015 nel 50° anniversario del Patto delle
Catacombe, laici e laiche, religiosi e religiose, numerosi e provenienti da tutte le parti d’Italia, guidati nella preghiera dal
vescovo Luigi Bettazzi e dai padri Alex Zanotelli ed Antonio
Loffredo, nelle catacombe di S. Gennaro dei Poveri, hanno rinnovato quel «Patto». Chi vuole può firmare collegandosi al
sito: www.catacombedinapoli.it.
Oggi 16 novembre 2015 nel 50° anniversario del Patto
delle Catacombe, entriamo nelle catacombe di S. Gennaro
dei Poveri, nel Rione Sanità (Napoli), ai «margini», per dar
vita ad un rinnovato «Patto» e per impegnarci a dare centralità ad una «Chiesa povera e dei poveri».
Come quei padri conciliari, anche noi, oggi, «nell’umiltà
e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta
la determinazione e la forza di cui Dio vuole farci grazia», ci
vogliamo impegnare.
66 –
Prima di tutto, Signore, ti vogliamo chiedere perdono.
Siamo consapevoli che, attraverso il nostro stile di vita,
siamo causa di tanta sofferenza dei nostri fratelli e sorelle,
nonché dell’«oppressa e devastata terra».
Ci impegniamo a fare l’opzione dei poveri, degli esclusi,
degli «scarti» della società, a riconoscere in loro la «carne di
Cristo», Sacramento vivo della sua Presenza, «a prestare ad
essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro
amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di
loro.»
Ci impegniamo, affinché la nostra azione pastorale porti
i poveri a sentirsi a «casa loro» nelle nostre comunità, nonché ad essere al centro della nostra attenzione.
Ci impegniamo quindi, ad acquisire uno stile di vita sobrio in tutti gli ambiti della nostra vita, nell’abitazione, nel
cibo, nell’abbigliamento, nei mezzi di trasporto e nelle nostre chiese: evitando l’usa e getta, privilegiando l’usato e il
circuito corto e naturale, consumando libero da scorie, riciclando e recuperando i rifiuti.
Ci impegniamo, davanti a Te, Unico Signore, in questa
società che adora l’idolo del denaro, a non arricchirci e a
condividere quello che abbiamo.
Ci impegniamo, ad utilizzare nella nostra quotidianità
fornitori di servizi bancari che scelgono la finanza etica e
alternativa, che combattono la speculazione, che non favoriscono il riciclaggio dei capitali nei paradisi fiscali, frutto
di criminalità o di evasione e che non investono in attività,
come l’industria delle armi, che causa sofferenza e morte.
Ci impegniamo, in questo momento storico, all’accoglienza dei fratelli e delle sorelle, che fuggono da situazioni di
ingiustizia e di morte, perché fare spazio a loro è farlo a Cristo: mettendo a disposizione le nostre case, chiese e conventi.
Ci impegniamo, in solidarietà con i poveri, a rimettere in
– 67
discussione il nostro Sistema economico-finanziario,
«nuova e spietata versione del feticismo del denaro», i cui
effetti devastanti tocchiamo con mano in questo Sud così
martoriato e devastato: sostenendo in maniera nonviolenta,
nella nostra azione pastorale, i movimenti popolari che si
impegnano a favore dei diritti fondamentali dell’essere
umano, «lavoro, casa, terra», ma anche contro le enormi
spese militari che producono sempre più guerre.
Ci impegniamo a lottare contro ogni forma di violenza, di
sopraffazione e di cultura mafiosa che genera criminalità
organizzata, corruzione, inquinamento ambientale e morte.
Ci impegniamo a «curare la nostra casa comune» accettando la sfida di Papa Francesco che, di fronte alla «grave
crisi ecologica», causata dall’uomo e che sarà pagata dai poveri, ci chiama ad una ‘conversione ecologica’, basata su relazioni sane «con il mondo che ci circonda»
Ci impegniamo a costruire comunità cristiane «in
uscita», aperte alla mondialità, all’inclusione, al dialogo ecumenico ed interreligioso, profondamente missionarie e profetiche.
Ci impegniamo, ritornando nelle nostre realtà locali, a
far conoscere questo Patto chiedendo ai nostri fratelli e sorelle di vigilare su questa nostra scelta aiutandoci con la preghiera e la comprensione.
Signore affidiamo questo nostro Patto nelle tue mani,
certi che ci aiuterai a vivere queste scelte, consapevoli che,
insieme, possiamo smuovere le montagne.
«Aiutaci Dio, nostro Papà, ad essere fedeli».
Napoli, 16 novembre 2015
68 –
SEGNALAZIONI
MORTE DI ANDRÉ GLUCKSMANN
Nella notte fra il 9 e il 10 novembre scorso, moriva André Glucksmann, una delle figure più significative del maggio francese del 1968. Egli infatti aveva fondato, insieme
con Bernard Henri Lévy, la corrente dei ‘nouveaux philosophes’, di quei pensatori che – da sinistra – criticavano comunismo e totalitarismo. Suo figlio, il regista Raphael, annunciandone la morte, ha presentato il padre come «il suo
primo e migliore amico… un uomo buono ed eccellente…»,
animato da una fortissima passione civile. Di famiglia
ebraica, André Glucksmann, rimasto presto orfano del padre, crebbe in un ambiente ricco di stimoli intellettuali, soprattutto per l’influenza esemplare della madre, entrata
nelle file della Resistenza. Di qui il suo impegno costante
nella lotta contro ogni forma di sopruso e ingiustizia, senza
che mai egli perdesse la speranza di cambiare il mondo.
Dopo gli studi di filosofia, benché schierato con la rivoluzione maoista in Cina, divenne assistente alla Sorbona del
pensatore libeale Raimond Aron. Si preparava così in lui
una clamorosa rottura col marxismo, culminante – negli
anni ’70 – con la pubblicazione della «Cuoca e il magiauomini: sui rapporti fra Stato, marxismo e campi di concentramento»: un pamphlet di denuncia del marxismo, che a
giudizio dell’autore, «non produce solo dei paradossi scientifici, ma anche dei campi di concentramento». Si ripeteva
in tal modo la denunzia già fatta nel 1947 dai maestri della
Scuola di Francoforte, Adorno e Horkheimer, in «Dialettica
dell’Illuminismo», nei confronti del Socialismo reale del– 69
l’URSS allora guidata da Stalin. Glucksmann assestava così
un colpo letale all’ideologia comunista in Francia, passando,
dopo il crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS, all’antitotalitarismo, battendosi per sostenere i diritti umani e anche l’intervento armato in difesa dei più deboli, come in Kossowo (1999). Sostenne infine, nel suo importante libro «Il discorso della guerra», la giustezza del ricorso alla violenza per fermare il dittatore Saddam: né esitò
in seguito a condannnare il nuovo imperialismo russo rappresentato da Putin, e gli abusi di Mosca nel conflitto in Cecenia. Un intellettuale, Glucksmann, che «veramente ha
speso tutta la sua vita» – per citare il presidente francese
Hollande – al servizio della libertà, «sintetizzando in sé tutti
i drammi del XX secolo».
Mario Gaetano Fabrocile
70 –
MARIO SIRONI E LE ILLUSTRAZIONI
PER «IL POPOLO D’ITALIA»
È aperta fino al 10 gennaio 2016, nei due Musei di Villa
Torlonia a Roma, la mostra «Mario Sironi e le illustrazioni
per ‘Il Popolo d’Italia’ 1921-1940», con denso catalogo di
Palombi editore. È difficile parlare di arte fascista, sebbene
durante il ventennio il regime si impegnasse a costruire
una sua immagine, anche sul piano culturale, favorendo
in ambito artistico quelle tendenze più sensibili al recupero della tradizione romana e classico-rinascimentale. In
quest’ottica, la critica d’arte Margherita Sarfatti sostenne
la formazione del gruppo ‘Novecento’, un insieme di pittori – da De Chirico a Martini, Casorati, Morandi e altri –
che, pur nella loro diversità, si sentirono accomunati dal
rifiuto del Modernismo e dal riferimento alla tradizione
nazionale. Un impegno,quest’ultimo, nel quale si distinse
il talento del pittore e scultore sardo Mario Sironi, che
dopo la retrospettiva sulla sua vasta produzione pittorica
ospitata mesi fa nel Compesso del Vittoriano in Roma, è
tornato all’attenzione del pubblico con la presente mostra.
In Villa Torlonia. Luogo, questo, caro all’artista, perché già
residenza di Mussolini, e perciò naturalmente idoneo a testimoniare il Sironi vignettista. Egli infatti, dal 1921 al
1940, offrì valida testimonianza delle sue doti di disegnatore nelle illustrazioni delle pagine de «Il popolo d’Italia»,
giornale fondato dal Duce stesso nel 1921. Sironi voleva in
tal modo mostrare il proprio convincimento sulla funzione
educativa dell’arte, e contribuire – come giustmente os– 71
servato in catalogo da Claudio Parise Presicce, soprintendente capitolino ai Beni Culturali – alla creazione del
nuovo volto dello Stato-Italia. La sua arma qui è un segno
graffiante e appassionato, proprio del militante che vuole
trasmettere un messggio politico, fortemente sentito.
Spesso i suoi disegni, come è stato scritto da Monica Cioli
sempre nel predetto catalogo, non rinviano «ad un immediato e fruibile fatto di cronaca politica… e la potenza
della satira sironiana risiede tutta nella carica comunicativa, al punto che, come direbbe Theodor W. Adorno, chi
esperisce l’opera d’arte come qualcosa di vivo in sé, ne esce
cambiato, senza forse neanche aver compreso il senso e
l’oggetto vero del disegno». Le illustrazoni pubblicate su
‘Il Popolo d’Italia’ rinviano alla vicenda stessa del quotidiano, nato come giornale personale di Mussolini, più che
come organo di partito, in un’ottica di personalizzazone
del regime. Era insomma il futuro Duce a dettare dal suo
giornale le direttive politiche da seguire, con l’aiuto delle
pungenti vignette sironiane, specie negli anni dello squadrismo. Tale fenomeno poi, esploso nel 1920, avrebbe toccato l’apice nel 1922, ponendo a Mussolini l’esigenza di
controllarlo in qualche modo. Egli infatti, astutmente continuò ad identificarsi più nel suo giornale che nel movimento: e quando i toni della battaglia politica si facevano
molto aspri, l’artista interveniva per attenuarli, come nella
vignetta «Una pretesa assurda», che volendo irridere all’alleanza di Socialisti e Popolari, rappresenta don Sturzo
nelle vesti di un sacrestano incappucciato in un berretto
frigio socialista, con uno spegnimoccoli di grandi dimensioni, incapace tuttavia di spenere la luce del Fascismo,
rappresentata da una lampada più piccola, ma più moderna e potente perché elettrica. E quando lo squadrismo
raggiunse il suo culmine nell’estate del 1922, con violenze
in tutta la penisola, fino alla distruzione a Milano della
sede dell’Avanti, il quotidiano di Mussolini inneggiava al72 –
l’implacabile, travolgente reazione fascista alle inconsistenti provocazioni della cosiddetta Alleanza sovversiva,
con una epigrafica vignetta sironiana, in cui un valoroso
eroe fascista viene ringraziato da una donna, l’Italia, che
gli stringe la mano.
Paola Pariset
– 73
«L’ONDA ‘LUNGA’ DELLA LIBERTÀ»
Finché l’energia dell’Onda della libertà1 non scemerà, la
memoria non correrà il rischio di estinguersi nell’abusata
sequela di tic del nostro presente agire senza riflettere,
senza sapere. Se ci sono gli autori di quest’ottimo libro e,
soprattutto, se esso troverà un buon numero di lettori, significa che il frangente è ben poca cosa nei confronti del
flutto. Per altro verso il gioco vale la candela: se i nostri personali ricordi svaniscono, la memoria collettiva valica l’esperienza del tempo ed è spesso impressa a caratteri di sangue nelle pagine della Storia. Allora va dato merito all’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, dell’Antifascismo e dell’Età Contemporanea «Vera Lombardi»2 per aver
fortemente voluto il libro in occasione del ventesimo anniversario della morte di Nanni Loy, benché non l’uomo soltanto si ricordi, ma anche e soprattutto la materia del suo
lungometraggio3 e il tempo in cui fu realizzato e il contesto
politico e culturale che ne rese possibile l’attuazione e la topografia filmica che gli scenografi affidarono alle riprese.
Si tratta di una sinergia di competenze che illustra al lettore, segnatamente se giovane e scarsamente informato, gli
eventi che videro protagonista la città di Napoli dal 28 set1
L’onda della libertà. Le Quattro Giornate di Napoli tra storia, letteratura e cinema, a cura di Ugo Maria Olivieri, Mario Rovinello e Paolo Speranza, Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli 2015.
2
http://www.istitutocampanoresistenza.it.
3
Le Quattro Giornate di Napoli, regia di Nanni Loy, Titanus, 1962, Pellicola
(oggi in DVD).
74 –
tembre al 1° ottobre del 1943, allorquando il popolo partenopeo insorse contro l’insostenibile occupazione nazifascista, poche ore avanti che le truppe anglo-americane ponessero piede in città e ne assumessero il governo provvisorio.
Le prospettive intratestuale, intertestuale ed extratestuale
dalle quali si legge e interpreta il film di Loy danno una visione a tutto tondo dell’opera e rendono giustizia ad un’operazione di arte e cultura che ebbe un tempo non pochi
detrattori, per contingenze politiche e diplomatiche insieme
come il lettore vedrà.
Certamente il film è fiction e altrettanto certamente commuove, com’è giusto che sia. Risponde pienamente ai requisiti del genere. Cionondimeno, se è forse facile strappare
la lacrimuccia con una struggente storia d’amore, non è altrettanto facile suscitare emozioni con la Storia, soprattutto
se a farla, la storia, non è l’eroe hollywoodiano senza macchia e senza paura, ma un’intera comunità, usualmente paciona e casinista, magari un po’ conservatrice, e tuttavia animata, disperatamente animata dall’orgoglio dell’identità negata, della dignità ferita.
Le Quattro Giornate furono una gloriosa pagina della
Resistenza e un monito per le generazioni future: la libertà
è bene prezioso, nessuno ha il diritto di calpestarne l’istanza
e l’urgenza. Di tal fatta è il messaggio che giunge a noi, in
questi termini occorre recepirlo e divulgarlo. Oggi ce n’è un
gran bisogno, allo stesso modo in cui, nel 1962, produttore,
regista, attori, sceneggiatori, tecnici e la cittadinanza medesima che ne fu protagonista, percepirono prima le riprese, poi l’uscita del film: un inno alla libertà. Questo a
circa venti anni di distanza dai fatti a cui esso si ispira.
Come mai così tardi? Come mai in questi venti anni il
mondo del cinema e delle lettere non si assunse l’onere di
cantare le gesta di Napoli del lontano Quarantatré così
com’era accaduto per tante pagine della Resistenza nell’immediato dopoguerra? Occorre conoscere le vicende italiane
– 75
e le tensioni politiche internazionali di questo ventennio
(1943-1963) per capire le ragioni di un silenzio quasi imposto o della censura su una materia che scottava agli occhi
dei padroni del mondo di allora. La rivolta di Napoli puzzava di bolscevismo e la si guardò con sospetto da parte dei
decisori politici nostrani per via dell’aggettivo che accompagnava la rivolta partenopea dei giorni dopo l’Armistizio:
collettiva. Di tutti! Questo nel clima di tensione della sopravveniente «Guerra fredda». Contingenza politica, insomma, che rese cauto persino il mondo della cultura, persino la sinistra storica che per un quindicennio fu come
ibernata, aggrovigliata in un dibattito interno che la rese
sorda e cieca alle istanze che venivano dalla società e dal
mondo giovanile più accorto, sensibile e preparato.
Emblematico lo scontro generazionale all’interno del
Partito Comunista del tempo. Ce ne riferiscono Mario Rovinello e Ugo Maria Olivieri nel libro che la Esi sottopone
alla nostra attenzione. Si tratta di una riflessione chiara,
veloce ed efficace su alcuni testi fondamentali a «proposito
della» o «intorno alla» crisi del Comunismo napoletano,
con implicazioni nazionali di non poco rilievo, se è vero
che vengono tirati in ballo i vertici romani del partito. È
gioco forza che si parta da Ermanno Rea e dal suo Mistero
napoletano4. Qui sono rappresentate due concezioni politiche antitetiche, quella del «centralismo democratico» e
quella «democratica» tout court, la prima preludente al paternalismo, al leaderismo e, se si vuole, al culto della personalità, la seconda implicante il dibattito e il dissenso. Al
gruppo dei dissenzienti appartengono Francesca Spada e
Guido Piegari5, due giovani «diversi» per essere intelligenti
e colti, ma anche per manifestare apertamente e forse pro4
E. REA, Mistero napoletano. Vita e passione di una comunista negli anni
della guerra fredda, Einaudi, Torino 1995; poi Feltrinelli, Milano 2014.
5
E. REA, Il caso Piegari, Feltrinelli, Milano 2014. Per l’autore questo libro
rappresenta il capitolo mancante a Mistero napoletano.
76 –
vocatoriamente comportamenti giudicati «moralmente»
inaccettabili. L’immoralità, in questo caso, è da ascrivere
alla personalità, all’identità, al sacrosanto diritto di essere
se stessi. Non c’è forse in quegli anni un’analoga frizione
nel mondo cattolico, come a dire nell’avversario tradizionale del comunismo ateo? Mi ci fa riflettere un libro6 recentemente pubblicato in Italia, anche in questo caso con
un ventennio di ritardo rispetto alla prima edizione in lingua francese. Nel libro si parla del conflitto che oppone un
cattolicissimo, piissimo e disciplinatissimo padre a un figlio, benché quest’ultimo ne acquisisca coscienza assai
tardi negli anni, quando il suo modus operandilo contrappone nei fatti agli insegnamenti paterni. C’è una straordinaria coincidenza di tempi tra quello storico preso in
esame da Olivieri e Rovinello e questo biografico (molto
probabilmente autobiografico) dell’accademico francese.
Posso dire che la dialettica generazionale va ben oltre i confini del Partito Comunista Italiano, se è vero, com’è vero,
che negli stessi anni del dopoguerra il fermento democratico agita persino le coscienze del tetragono mondo cattolico, se non altro di quel cattolicesimo di base al quale Giovanni XXIII avrà fortemente pensato quando ha indetto il
Concilio Ecumenico Vaticano II? In altre parole, qualcuno
in Italia, in Europa, nel mondo avrà supposto che «essere»
è assai più vero di «dover essere» secondo canoni ideologici, ma anche religiosi, che altri hanno fissato assai prima
che ciascuno di noi venisse al mondo. Vero è il fatto, qui ed
ora, non la sua prefigurazione! Si tratta del patente conflitto tra ideologia e conoscenza, tra fede e scienza, sia pure
posto in un linguaggio assai più prossimo alla nostra comune esperienza di vita vissuta. Chi sono i protagonisti
della Storia, gli attori o gli spettatori? «In ogni caso» –
scrive Guido D’Agostino – «continuo a ritenere profonda6
F. WEYERGANS, Franz e François, L’Orma, Roma 2015.
– 77
mente ‘politico’ il sociale che si auto-organizza e che decide
di decidere, collettivamente e persino in maniera quasi
istintiva, collocandosi ‘dalla parte giusta’»7.
Riformulo la domanda: chi ha delle buone idee, l’intellettuale che osserva il mondo in maniera pretesa distaccata
o il pensatore che nel mondo vive con passione militante?
Risponde per me Agnes Heller, la quale, in una recente
intervista rilasciata alla giornalista di «la Repubblica» Valentina Tobagi, afferma: «Per porre domande filosofiche originali, devi avere esperienze storiche e sociali intense»8.
Esperienze. Forse per avere idee e opinioni sensate occorre
avere esperienze storiche e sociali intense, come dire che la
vera sapienza si coniuga di necessità con la vita.
Sennonché nel secondo dopoguerra gli spazi dell’esperienza sembrano essersi dilatati, così come nuove opportunità di cultura sono offerte a soggetti sociali tradizionalmente esclusi. Sarà stata la guerra «totale», saranno stati i
mezzi di comunicazione di massa, sarà stata la scolarizzazione a vasto raggio alla vigilia di un progetto inclusivo di
scuola; fatto sta che la pressione dal basso aumenta ed è
pressione democratica e informata, intrisa di «esperienze
sociali intense». Gli intellettuali sono messi alle strette: o
continuare a guardare il mondo dalla finestra e dalle prefigurazioni dei libri o scendere in strada e unirsi alla gran
massa degli esclusi, politicamente esclusi, per nutrire il confuso dibattito in corso.
I migliori di loro accetteranno la sfida, dismetteranno le
toghe e gli allori per impegolarsi nei borborigmi delle loro
città.
… Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare,
7
G. D’AGOSTINO, Introduzione, in L’onda della libertà, cit., p. VIII.
A. HELLER, È un nuovo totalitarismo, la sua ideologia è il terrore, in «la Repubblica», 17 novembre 2015.
8
78 –
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare…9.
Vengono da una poetica di strada gli scrittori napoletani
per nascita o adozione opportunamente ricordati da Olivieri
e Rovinello; si chiamano Anna Maria Ortese, Aldo De Jaco,
Raffaele la Capria, Ermanno Rea, tanto per ricordare i più
citati nel saggio10 dei due studiosi che, con Paolo Speranza,
hanno curato il libro della Esi. I peripatetici oso chiamarli,
perché battono le strade di Napoli e ce la raccontano dal di
dentro, a partire dai suoi «detriti». Uno sguardo che scruta
nelle osterie, nelle case, nei lupanari, ma non disdegna le
redazioni dei giornali, gli istituti di cultura, le biblioteche,
gli archivi storici, i musei, le aule scolastiche. Dentro la società e le sue contraddizioni, come deve fare chi ha qualcosa di serio da dire. Un illustre tradizione che non cessa di
dare buoni frutti, se si deve tener conto degli epigoni viventi
e ben prolifici d’arte e cultura. Non si muove sulla scia di
questa sana consuetudine una scrittrice come Antonella Cilento che, quasi contemporaneamente al libro del quale
stiamo dando notizia, dà alle stampe un eccellente Bestiario
napoletano11 intriso di chiaviche e pantegane, di spiriti e fattucchiere, di miracoli e bestemmie, ma anche di sontuose
architetture e dipinti mozzafiato, di versi preziosi e icastiche drammaturgie? Il tutto condito da una lingua che rivela, prima di ogni altra cosa, la grande passione civile dell’autrice. La prospettiva, come si vede, non è diversa da
quella filmica di Nanni Loy, dai suoi campi lunghi alternati
coi primi piani di volti «autentici» della Napoli del 1962, ancora non distanti da quelli segnati dall’inedia e dalla sofferenza di venti anni avanti.
9
U. SABA, Città vecchia (Trieste e una donna 1910-1912), in Tutte le poesie, a
cura di A. Stara, Mondadori, Milano 1978.
10
Come un pesce in un acquario stagnante, in L’onda della libertà, cit., pp. 23.
11
A. CILENTO, Bestiario napoletano, Laterza, Roma-Bari 2015.
– 79
Il cast internazionale di gran calibro non compare nei titoli di testa o di coda del film, benché si tratti di attori e attrici ben noti al grande pubblico. I loro volti hanno la stessa
dignità della pletora di comparse utilizzate da Loy. Non si
tratta di anonimato, ma di identità collettiva, quella del popolo napoletano come protagonista del suo proprio destino,
benché questo comporti il sacrificio di vite umane, quelle
dei giovani e dei giovanissimi che combatterono con generoso slancio contro la barbarie dell’occupante nazista. Tra
loro molti bambini e adolescenti che un malcelato disprezzo
bolla come scugnizzi, ma che il piùdelle volte erano giovanissimi lavoratori o apprendisti, come ben mostra una preziosa testimonianza raccolta da Mario Avagliano, giornalista e storico della Resistenza. Eccola:
«Era l’alba del 29 settembre del 1943. Avevo compiuto appena 14
anni essendo nato a Marianella (NA) il 14 aprile 1929. Erano le
ore 6 del mattino e transitavo per via S. Teresa degli Scalzi a Napoli per raggiungere il posto di lavoro (ero apprendista in un calzaturificio, proprietario era il sig. Umberto Verde) sito in via Costantinopoli. D’improvviso sentii dei colpi d’arma da fuoco, mi girai e notai tre corpi senza vita all’ingresso di un panificio: una
giovane donna, un uomo e un bambino, diressi lo sguardo dall’altra parte della strada e notai una camionetta tedesca che si allontanava. Fu questo l’evento e il motivo scatenante della mia
partecipazione alla lotta partigiana che era iniziata da poche ore.
[…] La sera di quel giorno, contro il parere di mia madre e mio
padre, mi unii agli insorti che operavano al Frullone, zona a nord
di Napoli, con a capo il celebre ragazzino Gennaro Capuozzo,
poi morto combattendo e decorato di Medaglia d’Oro. Dormivamo nelle campagne circostanti scavando delle buche. Il mattino seguente sapemmo che un plotone di tedeschi aveva appena
fucilato a Mugnano (paese dell’entroterra) dieci persone tra cui
tre donne e tre bambini»12.
12
Uno dei ragazzi delle Quattro Giornate di Napoli: «Ero con Gennarino
Capuozzo e prendemmo prigionieri i nazisti», in «Patria Indipendente», aprile
2011, n. 4, p. 25.
80 –
Così erano i ragazzi guidati da quel Gennaro Capuozzo
al quale il film di Loy è dedicato. Crebbero in fretta, più in
fretta della loro età cronologica: che avremmo fatto noi nei
loro panni allora? Forse la stessa cosa. Non si può resistere
a lungo allo sdegno provocato dallo spettacolo del sangue
innocente versato.
Questo uno dei motivi per cui il libro va sottoposto all’attenzione dei più giovani, nelle scuole o all’Università.
Dallo slancio ideale di allora occorre trarre il coraggio per
combattere i mali presenti, che siano la corruzione e l’illegalità dilaganti o la catena di delitti operati dal crimine organizzato. L’onda lunga della libertà non deve arrestarsi,
neppure in questo nostro sventurato presente.
Antonio Piscitelli
– 81
LUCI NEL BUIO
TESTIMONI DELLA NONVIOLENZA DEL ’900
La nonviolenza è, ogni giorno di più, l’unica possibilità
per non trasformare i conflitti in guerre, per non lasciarci
sottomettere dal meccanismo della reciprocità infinita dell’odio. Qualcuno, osservando la violenza sistemica nella
quale viviamo, potrà pensare che si tratta di una iniziativa
velleitaria. Comprendo bene. Ma la nonviolenza non è una
tecnica o una generica rinuncia, è una concezione del
mondo, ed è questa concezione che si articola e si applica
alla vita ed è essa che permette di tentare di costruire la
pace. Senza la nonviolenza la pace resta la parola svuotata
della propaganda, la parola usata da tutti gli eserciti prima
di partire per ogni guerra che ufficialmente è combattuta
soltanto per «ottenere la pace». I milioni di morti delle ultime guerre, le distruzioni, i saccheggi, i mutilati ci testimoniano con chiarezza i risultati di queste paci ottenute
con la guerra.
Gli amici della nonviolenza seppero guardare più lontano degli industriali di armamenti, dei commercianti di
armi, dei governanti e di molti ministri dei culti ed è oggi
necessario ritornare alle fonti dei loro scritti per aiutare noi
stessi e i giovani che ci sono affidati a discernere e a capire.
L’anniversario dei cento anni dell’ingresso dell’Italia nella I
guerra mondiale è, per esempio, una occasione per cominciare a smascherare le mistificazioni e le menzogne con cui
ci è stata raccontata. Essa fu soltanto una catastrofe immensa le cui conseguenze arrivano, pur a distanza di un se82 –
colo, fino al nostro presente. Nel giudicare una guerra la
nonviolenza non improvvisa, si impegna in una ricerca
scientifica rigorosa senza paura di opporsi alle tradizioni
ufficiali, alla storiografia e alla manualistica asservita al potere, all’uso pubblico della storia.
Sergio Tanzarella*
Il ciclo seminariale, affiancato da incontri laboratoriali con gli
studenti, sarà così articolato:
17 ottobre 2015: Presentazione del volume L. Kocci – V. Gigante
– S. Tanzarella, La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno
raccontato sulla I guerra mondiale (Dissensi, Viareggio 2015)
7 novembre Lev Tolstoj
5 dicembre Mohandas K. Gandhi
16 gennaio Lanza del Vasto
6 febbraio Danilo Dolci
5 marzo Donne per la nonviolenza
2 aprile Martin Luther King
7 maggio Aldo Capitini
28 maggio Lorenzo Milani
ALTRE ATTIVITÀ
La scuola di italiano per immigrati
Laboratorio musicale
Laboratorio teatrale
Associazione Scuola di pace, via Foria 93, 80137 Napoli. Tel/Fax
0817373462, 3333963476
email: [email protected]
* Il ciclo sarà tenuto da Sergio Tanzarella che insegna Storia della Chiesa
alla Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale (Napoli) e all’Università Gregoriana (Roma).
– 83
LIBRI
PIERO DI VONA, Ritorno alla trascendenza ontologica, Giannini, Napoli 2015, pp. 32.
Non è qui il caso di analizzare tutte le complesse questioni
che muovono l’autore a un approfondimento sulle più generali
questioni di teoria filosofica, anche se un approfondimento in tal
senso va certamente richiesto al lettore e allo specialista di argomenti filosofici. Tuttavia, possiamo far emergere alcune questioni
che ci sembrano utili per una riflessione sull’attualità che coinvolge molte domande di carattere anche filosofico.
Secondo l’autore, il nostro pensiero è spesso disperso nelle
cose ed è condizionato da molti pregiudizi e da presupposti non
sempre chiari o certi. Spesso i filosofi stessi non hanno tenuto
presente gli aspetti più generali e profondi delle cose e hanno
dato eccessivo risalto ad aspetti più insicuri e meno condivisibili
della realtà. Ciò non fecero, ad esempio, i Greci che seppero interrogarsi sul significato dell’uomo, sul valore del pensiero e sull’importanza della domanda sull’essere delle cose e di noi stessi.
In molti casi, le scienze sociali e naturali attuali si reggono su
presupposti che andrebbero approfonditi e chiariti. Da questo
senso di insoddisfazione (che potrà essere accettato o messo in
discussione) per gli esiti del pensiero settoriale, ideologizzato o
troppo legato alle mode del momento o a una semplice accettazione degli studi correnti, nasce questo testo. Con franchezza,
esso pone l’esigenza di come superare orientamenti culturali
chiusi in un pensiero scoraggiato e spesso rinunciatario.
Un altro aspetto del discorso può essere proficuamente evidenziato. L’autore si chiede perché e come sia possibile che una
teoria riduzionista dell’intelligenza possa spiegare la capacità di
astrazione della mente umana e la sua libertà nel procedere consapevolmente nei diversi livelli e gradi dell’astrazione, i cui limiti
non ci sono neppure noti. La nozione di ente è il fondamento
della nostra conoscenza delle cose e del mondo. Noi sperimen84 –
tiamo di esistere e tale esperienza costituisce un presupposto di
ogni nostra conoscenza ulteriore. Perciò, si deve intendere la capacità di astrazione come una fondamentale espressione di libertà della mente che permette di superare la semplice condizione animale. Libertà della mente è la capacità di giungere ai livelli dell’interrogazione metafisica, ossia alla domanda dell’essere in quanto essere.
La domanda sull’essere, lungi dal costituire una mera espressione accessoria della mente, ne rappresenta come il fulcro. In
tal senso, l’autore rivaluta la centralità del principio della noncontraddizione e sottopone alla prova della confutazione l’assunto che il nulla sia essenziale per la comprensione del concetto
di ente: se il nulla fosse tale, dovrebbe estendersi anche oltre se
stesso, ed essere nulla di sé stesso. In realtà la conoscenza della
nozione di ente e delle sue «passioni» trascendentali costituisce
il fulcro dell’ontologia, una disciplina complessa che ha trovato la
sua piena sistemazione in età moderna e che è stata spesso ignorata in base all’accettazione della superiorità della visione critica
rispetto a quella ontologica.
Francesco De Carolis
GUIDO DORSO, Appello ai meridionali e altri scritti, a cura di Raffaele Molisse, Aras Edizioni, Fano 2015, p. 158, € 11,00.
Nel giugno del 1923, Piero Gobetti scriveva a Guido Dorso, allora direttore del «Corriere dell’Irpinia», proponendogli di collaborare con la sua rivista, «La Rivoluzione Liberale» (cf. G. Dorso,
Carteggio (1908-1947), a cura di B. Ucci, Ediz. Del Centro Dorso,
Avellino 1992, pp. 15 ss.). Le vicende del «Corriere», giornale di
provincia che ospitava nondimeno in prima pagina pezzi di interesse nazionale, si intrecciarono, così, con quelle del foglio gobettiano, da sempre attento a problematiche di interesse regionale e meridionale. L’Appello ai meridionali, che comparve il 2 dicembre 1924 su «La Rivoluzione Liberale» e che fu sottoscritto da
tredici meridionalisti, è il primo, per molti versi già maturo frutto
di questo intreccio.
A distanza di novant’anni, l’Appello viene per la prima volta
pubblicato in un volume autonomo, nella «collana gobettiana»
– 85
fondata e diretta da Pietro Polito, direttore dell’Archivio Bobbio
di Torino. All’acribia del curatore, Raffaele Molisse, si deve una
visione sinottica che tiene conto sia della versione dell’Appello riproposta così come comparve su «La Rivoluzione Liberale», sia
del testo del manoscritto originale di Dorso, conservato al Centro
studi «Guido Dorso» di Avellino, riportato in nota ogni volta in
cui siano presenti variazioni rispetto al testo pubblicato.
Tra i meriti del curatore c’è però sicuramente anche la scelta
di presentare, insieme all’Appello, altri cinque articoli di Dorso,
apparsi sul «Corriere dell’Irpinia»: La rivoluzione liberale del 31
gennaio 1924, La lotta dei trasformismi del 21 febbraio 1924, L’incontro di Teano del 18 settembre 1924, Il circolo vizioso del 20 dicembre 1924, Noi ci siamo del 14 marzo 1925. Si tratta di articoli
opportunamente selezionati: essi permettono al lettore di avere
una visione quanto più possibile completa e sistematica di quel
segmento di pensiero di Dorso che viene illustrato in maniera rigorosa da Raffaele Molisse nella sua introduzione, e i cui aspetti
problematici, ma al contempo affascinanti, sono messi in luce
nella Prefazione di Pietro Polito e nella Postfazione di Francesco
Saverio Festa, che arricchiscono l’antologia.
Se la figura di Guido Dorso viene delineata, nell’introduzione
di Molisse, nella sua singolarità, essa assume contorni sempre più
definiti grazie alla sapiente raccolta di scritti che lasciano parlare Dorso stesso, facendo emergere i temi che più stanno a cuore
all’intellettuale avellinese e alcuni aspetti fondamentali, neanche
troppo velati, della sua formazione. Innanzitutto una prima
forma implicita e non pienamente matura di quella che Norberto
Bobbio definirà più tardi, in maniera felice, l’«acclimatazione»
della teoria dell’élite politica, di Vilfredo Pareto ma soprattutto di
Gaetano Mosca, in campo democratico [cfr. N. Bobbio, Democrazia ed élites, in «Moneta e credito» 59 (1962), p. 328]. Raffaele
Molisse sembra voler sottolineare come il pensatore meridionale,
benché sia oggi difficilmente affiancato ai grandi nomi della teoria della classe politica (p. 17), possa essere considerato uno
scienziato politico. Guido Dorso, insieme agli altri tredici meridionalisti firmatari dell’Appello, auspicava la formazione di una
élite che potesse scuotere le coscienze del Sud contadino e farsi
interprete delle esigenze delle classi popolari. Per Guido Dorso la
rivoluzione meridionale – che, come precisa Pietro Polito, è l’i86 –
dea, strettamente connessa alla dottrina del meridionalismo rivoluzionario, introdotta dall’intellettuale avellinese nella politica
italiana degli anni Venti (p. 7) – si sarebbe dovuta operare «prima
ancora che nei fatti, nel campo delle idee, e prima ancora che
nelle masse nel ristretto campo dei cenacoli intellettuali, ove germinano e si educano i nuovi condottieri» (p. 108). Essa avrebbe
dovuto rovesciare logiche inveterate e porre fine a quella immobilità peculiare del Mezzogiorno che trovava la sua massima
espressione nel fenomeno del trasformismo.
Nell’accurata disamina storica dell’Appello, Dorso presenta il
trasformismo come l’unica risposta di cui la classe dirigente meridionale fu capace all’indomani del consolidarsi dello Stato italiano: «Il trasformismo fu una specie di lotta di classe della borghesia meridionale, lo sforzo tenace di non rompere la saldatura
d’interessi col centro, per impedire che fermenti spontanei di maturazione od anche soltanto i riflessi dell’azione statale potessero
far comparire alla ribalta della vita pubblica la sterminata classe
dei produttori terrieri, così lungamente ignorati e compressi» (p.
75). Quella di Dorso è un’analisi lucida della realtà, che nondimeno si apre alla possibilità che i guasti provocati dal processo
storico originatosi dalla _ conquista regia _, dal centralismo e
dalla mancanza di autonomia possano essere sanati. Ecco perché l’Appello, rivolto non solo ai meridionali, ma anche alle élites
e ai ceti popolari del Nord industrializzato, risulta tanto più accorato perché redatto in un momento in cui il Mezzogiorno si
trovava in uno «stato di sospensione» (p. 94) – il periodo successivo alla guerra – nel quale, forse, poteva aprirsi ancora lo spazio
dell’azione.
L’Appello – come acutamente nota Francesco Saverio Festa
nella Postfazione – è allora «l’autentica discesa in campo di una
élite nuova di meridionalisti», pronti a lottare «gomito a gomito»
con le nuove élites del Nord industriale in una «inconsueta, originale chiave unitaria». Un modo per ricordare a tutti, ancora
oggi, che «la questione meridionale è tutta la questione italiana»
(p. 98).
Maria Lucia Roviello
– 87
ANTONIO MOCCIOLA, Le belle addormentate. Nei silenzi apparenti delle
città fantasma. Alla riscoperta di un’Italia dimenticata, Betelgeuse Editore, Verona 2014, pp. 188, € 12,00.
«Il viaggio nei paesi abbandonati è qualcosa di più intimo, ci
costringe ad avere a che fare col silenzio, quello vero. E con la
bellezza intatta».
Così, al ritmo di una musica primordiale, trasformando l’umile e quotidiana realtà in un mondo senza tempo, Antonio Mocciola nel suo libro Le Belle Addormentate ci restituisce spaccati di
un Italia dormiente, non contaminata.
Il racconto, nato da orme di viaggi passati che il tempo ha lasciato intatte sulle strade sterrate di tutt’Italia, ha un respiro e
una compiutezza tale che non necessita né di un inizio né di una
fine. È un perenne protendersi verso un oltre che è qui e poco
dopo non c’è più: la realtà della città abbandonate.
Le cittadine, le loro luci, le case sono al contempo carcere e
paradiso; palcoscenico ove si consumano tradimenti, amori, oltraggi, collere, dannazioni e destini: immenso e romanzesco repertorio di emozioni forti…
Sono scintille vacue: come luci lontane appaiono e scompaiono lasciando a bocca aperta chi le osserva, facendo percepire
un senso di lontananza e facendoci raggiungere la consapevolezza che le vite che hanno ospitato sono solo proiezione di un
ricordo.
Una parata di uomini e donne sfilano per strette vie, teatranti
che mettono in scena le repliche del tragicomico spettacolo che
è la vita, si mostrano agli occhi del narratore, raccontando le loro
storie e quelle dei luoghi che hanno abbandonato per seguire il
miraggio della città o per sfuggire alla precarietà edile.
L’intera narrazione, infatti, non è propriamente definibile
come parabola dell’egoismo umano, quanto piuttosto come elogio alla resistenza passata, presente e futura delle abitazioni.
Le storie delle città, nella loro non passiva e struggente tragicità, sono metafora di quel destino cui tutte le cose sono designate, inanimate e non; possono deteriorarsi, cadere su loro
stesse, restando però fedeli al loro passato.
L’Italia descritta non è mai stata così incontaminata, casta di
peccati, pura; è rovescio della medaglia del Belpaese che crea eco88 –
nomia, vendibile ai turisti perché appetibile in apparenza. L’Italia di cui ci parla Mocciola è «una cartina turistica letta al contrario. Non è solo montagna, dissanguata dalla natalità zero e
dall’emigrazione. È anche pianura, o persino isole».
Cancellate dalle mappe e anche dalla Storia, le città non parlano perché a rubare loro la facoltà di proferir parola ci sono i
tramonti e gli odori; perché l’indicibile non può essere detto e
perché non ci sono avverbi che possano contenere l’oblio in cui
sono cadute. Perché si raccontano più nel loro silenzio.
Antonio Mocciola ha la capacità di fermare il tempo, rendere
un istante eterno e popolarlo di gente; la narrazione è poesia non
scritta in versi e i brevi capitoli si susseguono fugaci come fotogrammi che ti scivolano accanto, pregni di vita vissuta.
Lo scrittore ci mostra lo spazio che gli sta intorno, ce lo descrive con i colori di una stagione eterna: le pianure, le stradine
di montagna e gli oggetti quotidiani, che ancora attendono i proprietari.
Il loro è un inno silenzioso, stonato e sincero che ci invita a
guardare dentro, intorno, attraverso le cose e gli ambienti che ci
circondano, seguendo il movimento ribelle dell’immaginazione.
Dopo aver compreso che le abitudini autodistruttive anche di
quell’Italia sono solo state eclissate da una storia dalla potenza
inaudita, facciamo silenzio. Un silenzio che ci porta alla «grande
bellezza» delle cose, per la quale non c’è posto sul foglio.
Maria Francesca Capuano
ANIELLO MONTANO, Ontologia e storia. Vico versus Spinoza, introduzione di Maurizio Cambi e Francesco Piro, Bibliopolis, Napoli 2015, pp. 232, € 17,00.
Un attento confronto con la storia delle riflessioni filosofiche
che hanno segnato la cultura filosofica italiana implica la consapevolezza che la cultura italiana ha delle sue specificità e dei gravi
ritardi, significative connessioni con la filosofia d’Oltralpe e sogni
e pretese di primato. Superando vecchi presupposti e concezioni
ideologiche, appare come la filosofia italiana non è stata sorda ai
maggiori sviluppi della filosofia europea. La ricezione di tematiche e argomenti di dibattito non è stata passiva, ma venne in– 89
fluenzata dai problemi e dalle caratteristiche storiche e culturali
del nostro Paese e contribuì anche all’approfondimento di questioni di grande rilievo. È il caso di ricordare l’importanza dell’influsso di filosofi come Cartesio e Spinoza sulla cultura e la filosofia nel nostro Paese, ma anche l’importanza di filosofie, anzitutto quella di Giambattista Vico, che hanno contribuito a una
maturazione di ampi settori delle scienze dell’uomo, delle discipline giuridiche e degli studi di etica e di filosofia politica. Come
ricordano gli introduttori del volume, la disillusione dell’uomo e
la sua responsabilizzazione e maturazione non si oppongono, ma
costituiscono due aspetti dell’antropologia dei nostri tempi.
Aniello Montano riprende qui vari suoi contributi, editi o inediti, che si strutturano intorno a diversi nuclei tematici significativi. Va detto che le analisi di Montano ci portano a riflettere sugli sviluppi della filosofia nell’età moderna. In quest’orizzonte tematico, le filosofie di Spinoza e di Vico risultano essenziali per
comprendere l’evoluzione della cultura italiana nelle sue diverse
sfaccettature. D’altra parte, l’influsso dei due filosofi nell’età moderna e contemporanea riguarda (in diverso modo) l’Europa, in
quanto, proprio nelle loro complesse e originali riflessioni, si delinea la questione di un sapere che rompe con gli ancoraggi del
passato e con le antiche concezioni antropomorfiche e antropocentriche, ma che fa anche emergere l’importanza di non ridurre
la dimensione umana a uno dei vari aspetti della natura oggettiva
non ancora giunta alla consapevolezza di sé e alla capacità non
solo di formulare valori, ma quanto meno di avvertirne l’urgenza
e gli interrogativi di fondo. La ricezione delle dottrine di Vico e di
Spinoza diviene emblematica per comprendere i problemi del nostro tempo. Va poi detto che una netta contrapposizione dei due
filosofi, quasi come rappresentassero due vie parallele o persino
antitetiche, non può essere del tutto accettata. La riflessione su
Spinoza e Vico riguarda parte cospicua della cultura italiana e risulta utile per comprendere aspetti significativi dell’evoluzione intellettuale e culturale del nostro paese. Insomma, occorre sempre
riconsiderare l’eredità dei due pensatori e comprenderne sia le
convergenze e sia anche le peculiarità. A tal fine, risulta necessario ricostruire il contesto in cui tali filosofie vennero recepite (anche in ambienti almeno apparentemente ostili o critici).
Riferendosi alla cultura napoletana e meridionale dei tempi di
90 –
Giambattista Vico, si può ricordare l’opera di aggiornamento
svolta da molti intellettuali napoletani spesso legati ad ambienti
giuridici d’avanguardia e sensibili a diverse sollecitazioni culturali utili per rinnovare. L’autore ricorda come l’ambiente napoletano fosse caratterizzato dal persistere di spinte conservatrici anche molto ostinate, ma animato dall’apporto di intellettuali come
il D’Andrea, Leonardo di Capua, Giuseppe Valletta che contribuirono a prospettare nuovi orizzonti. La riflessione su Cartesio,
Spinoza e Gassendi costituì un aspetto importante della cultura
napoletana di quegli anni che furono anche quelli dell’elaborazione e della maturazione della filosofia di Vico.
L’autore ricorda anche la complessa ricezione di Spinoza in altri centri culturali e universitari italiani che si dimostrarono anche
attenti all’opera di Vico. La ricezione di Spinoza a Padova, pur
nella polemica contro la filosofia e le dottrine teologiche di Spinoza, portò alla prima prolusione universitaria sul filosofo olandese (ad opera di Bonaventura Luchi, che fu anche un critico di
Vico). L’opera continuava lo studio di Spinoza svolto da Francesco
Maria Leoni, anch’egli studioso di Metafisica e di Sacra Scrittura
a padova. Né a caso, la polemica contro i «novatori» e Spinoza
vide impegnati questi universitari e scrittori ecclesiastici assieme
ad altri studiosi e uomini di lettere (Bonifacio Finetti, Damiano
Romano e altri). Si volle porre il problema dell’inconciliabilità
delle dottrine di Vico con l’interpretazione storica e letterale di alcune vicende bibliche. Ma attraverso lo studio di queste questioni,
legate alla polemica e agli orizzonti culturali del tempo, andava
definendosi un orientamento di critica che voleva comprendere
l’eredità (più o meno congiunta) dei due filosofi. L’autore si sofferma a ricordare l’accostamento di Vico e di Spinoza svolto da
Carlo Sarchi in quattro suoi «discorsi» nei quali egli si confrontava
con il De uno e con il De antiquissima italorum sapientia di Giambattista Vico e con il Trattato teologico-politico di Spinoza.
Vico ha costituito un punto di riferimento per le generazioni
risorgimentali e post-risorgimentali. Sappiamo che la filosofia del
Vico è stata vista come un’anticipazione dell’idealismo o dello storicismo assoluto che ebbe in Gentile e in Croce i maggiori rappresentanti. Non a caso tali autori e significativi rappresentanti delle
loro Scuole dedicarono particolare interesse all’opera del Vico.
Ferma restando quest’eredità, che ci riporta agli scritti vi– 91
chiani di Benedetto Croce, di Fausto Nicolini, di Giovanni Gentile, ci si pone la domanda se tali letture non vadano contestualizzate o anche superate all’interno di una delineazione nuova
della ricerca che voglia valorizzare tutte le diverse componenti
della cultura italiana otto-novecentesca. Possiamo ricordare che
molti sono stati i dibattiti sulla religiosità di Vico, Molte sono le
riflessioni su un’interpretazione idealistica o storicistica di Vico
(si pensi qui alla polemica Croce-Gentile sul significato dell’idealismo e dello storicismo). L’autore analizza così la posizione di
Benedetto Croce che intendeva valorizzare la filosofia di Vico attraverso un orientamento che non si perdesse nuovamente nella
divinizzazione del pensiero assoluto, ma, superando l’attualismo
gentiliano, si aprisse a una considerazione sulla centralità della
storia umana. Montano si dimostra interessato alla complessità
delle interpretazioni di Vico date da pensatori come Giuseppe
Rensi e Capograssi. Nel primo, troviamo farsi strada una critica
alla razionalità assoluta ed unica. Nella drammaticità della riflessione di Rensi sulla condizione umana, emerge il problema
delle diverse ragioni che ogni uomo porta con sé (anche nella sua
stessa dimensione ancipite e conflittuale della sua stessa individualità). Nel Capograssi si nota un chiaro richiamo ad aspetti di
grande interesse che sono presenti anche nella riflessione di Vico.
Capograssi ha il merito di aver evidenziato la necessità di un richiamo a principi comuni che non sfuggano alla storia e non si
separino da essa. La costante riflessione sull’agire umano fa della
filosofia di Capograssi una riflessione sulla comunità umana e
sulla concretezza della storia (nella quale l’uomo faticosamente
guadagna la propria dignità e umanità).
Valide sono anche le riflessioni sull’axiologia e la pedagogia di
Guido Della Valle, che ci porta a riflettere anche sui vari indirizzi
e contributi dati dai filosofi e pensatori appartenenti all’Ateneo
napoletano. Peraltro, Della Valle fu in stretto rapporto con importanti studiosi quali Filippo Masci, Francesco De Sarlo, Wundt,
Ostwald. Nelle riflessioni di Della Valle si delinea una tensione
sincera al valore e alla costruzione della personalità. La sua riflessione va oltre le proposte dell’attualismo e del volontarismo
gentiliano. Egli sente l’esigenza di superare una prospettiva etica
ed educativa che si oppone agli sviluppi del sapere e della scienza.
Anzi, Della Valle cerca un allargamento di orizzonti che è indi92 –
spensabile per delineare il significato della filosofia pratica. La
sua riflessione sull’uomo valorizza un sapere pratico e operativo
e intende puntare alla concretezza. Rispetto a una visione morale
astratta ed esemplaristica, Della Valle tende a valorizzare una
prospettiva più attenta alla complessità e alle diverse aspirazioni
e fisionomie dell’umano.
Francesco De Carolis
ROBERTO SARDELLI, Il neo di Francesco, Edizioni Kurumuny, Lecce
2015, pp 204, € 14.
«Nello spostamento di Bergoglio da Vescovo di Buenos Aires
a Vescovo della chiesa che è in Roma, molti hanno salutato con
soddisfazione l’evento destinato a cambiare l’asse portante della
chiesa dall’eurocentrismo e dal curialismo romano verso nuove
realtà sociali, storiche e religiose. È un po’ come avvenne ai primordi della chiesa quando si decise di spostare il suo asse portante da Gerusalemme a Roma. La decisione non fu indolore e
provocò lacerazioni costose e incomprensioni: si trattava di compiere un’operazione di «incarnazione», in una nuova realtà e cultura, del messaggio inquietante dell’«ebreo marginale».
Fin dal primo momento di quella sera del 2013 don Sardelli ne
restò impressionato, soprattutto quando il nuovo vescovo Francesco rivendicò l’essere stato eletto non tanto «papa» quanto, e
prima di tutto, «vescovo» di un particolare «territorio» (diocesi)
della chiesa. La precisazione non era di poco conto soprattutto se
teniamo presente che all’annuncio pomposo del cardinale dalla
loggia basilicale habemus papam, l’interessato, schernendosi, si
faceva avanti precisando che il conclave aveva «nominato un
nuovo vescovo per la chiesa che è in Roma». L’annotazione ci fece
subito capire che le cose da quel momento in poi potevano cambiare e che nuove realtà, raggelate nel silenzio, sarebbero state
convocate per iniziare a scrivere una «pagina nuova» non solo
per la storia della chiesa romana, ma anche per tessere relazioni
nuove tra i popoli e le realtà socio-culturali considerate nemiche
semplicemente perché non conformi. Era la fine del monocolore
curiale. Ora tutto doveva essere rimodellato: non si cominciava
dal summus pontifex, ma dal dialogo il più corale possibile per ri– 93
portare alla luce una ricchezza e per aprire prospettive nuove fino
allora tenute in salamoia. Tutto doveva essere rimodellato e liberato da incrostazioni e superfetazione. Il vescovo Francesco, in
seguito, ne avrebbe enumerate ben quindici!
Il Neo di Francesco, nasce da questa particolare percezione
degli eventi che si andavano delineando di giorno in giorno, forse
con un carico di novità eccessivo. Il cantiere veniva aperto, e di
lavoro arretrato ce n’era tanto e per tutti. Con la nomina di Francesco veniva aperta una pagina la cui scrittura poteva e doveva essere collettiva. Lo scrittore della nuova pagina non sarebbe stato
più unico. Al «ragazzino» nessuno più poteva impedire di gridare
che «il re è nudo». Aprendo il sinodo dei vescovi, Francesco, con
tono grave e imperioso avrebbe detto: «Parlate chiaro. Nessuno
può dire: questo non si può dire!».
Come è nello stile dell’autore, don Sardelli non separa mai l’esperienza diretta e personale che ha vissuto in prima persona con
i baraccati e ammalati terminali, dagli eventi ecclesiali, sociali e
storici in cui si è trovato coinvolto e dalla riflessione teorica. Per
lui, la prassi è una continua révision de vie in cui teoria e prassi
si interrogano, ci provocano e ci interpellano non solo individualmente, ma anche come comunità e come istituzioni.
L’uso della metafora del neo, aperto a ogni possibilità, racchiude questa speranza e questa ambiguità. Il neo è come un
sasso lanciato nel lago. Se le onde che ne conseguono verranno
accolte si salperà verso un mare aperto, altrimenti si areneranno
sulla riva. Il libro è un interrogativo argomentato che non prevede facili soluzioni miracolistiche o radicali condanne, ma partecipazione attiva dove ciascuno si rende responsabile delle sue
parole e del suo agire.
Anna Chiriatti
FRANCESCO STOPPIGLIA, Vedo un ramo di mandorle…, prefazione di
Leonard Boff e postfazione di Mario Tronti, Macondo – servitium Ed., Milano 2015, pp. 286, € 12,00.
Questo ultimo lavoro di Francesco Stoppiglia, fondatore di
Macondo, associazione che si impegna nel dialogo e nella lotta
per la difesa e l’affermazione dei diritti umani, già parroco di Co94 –
macchio ed attualmente direttore della rivista Madaurada in occasione del suo settantottesimo anno ci presenta il suo ultimo libro che come si legge ha lo scopo primario di «piantare alberi e
costruire altalene…».
L’autore infatti ci propone una serie di riflessioni edite ed inedite «sul mondo e sull’uomo del nuovo millennio». Si tratta in sostanza di un viaggio di lotta contro la società individualistica ed
indifferente» (pp.17-22) che ci propongono «una ricerca dell’amore in Dio dentro l’umanità». Come ha scritto nella prefazione
Leonardo Boff, teologo della teologia della liberazione, questo libro che vale la pena di leggerlo è un contributo significativo e stimolante che ben si colloca «nello spirito e nell’atteggiamento generati dal Vescovo di Roma, il Papa Francesco»(p. 12).
Ci si trova infatti davanti a un libro che parte dalla severa critica al capitalismo, alla indifferenza ed all’oppressione vecchia e
nuova che ci porta a scoprire nella vita quotidiana e nell’impegno «il disegno meraviglioso di Dio Padre che in seguito ci trasforma nell’impegno e nella testimonianza aiutandoci a capire ed
a vivere l’idea che la natura è madre e non matrigna e che costituisce la base per scoprire sempre e dovunque l’amore di Dio». Si
tratta di una idea che si realizza costruendo «un nuovo inizio che
superi l’ottundimento della mente e del cuore»(cfr. soprattutto
pp. 151-164).
Si tratta perciò di un lavoro importante che Mario Tronti nella
postfazione definisce questo contributo del sacerdote Francesco
Stoppiglia «un libro di incontri» che ci aiuta a capire «il tipo di
umanità che il Vangelo ci ha insegnato a guardare con gli occhi
del cuore ed a frequentare con l’assillo del fare»(p. 281. ss), riconoscimento tanto più significativo che proviene da uno scrittore
che ha idee fortemente laicali.
Pasquale Colella
RITA TORTI, … cerco solo di capire. Intervista a Giancarla Codrignani, presentazione di Marinella Perroni, introduzione di Romano Prodi), Aracne Ed., Roma 2015, pp. 114, € 12,00.
L’intervista curata da Rita Torti ci presenta la persona di Giancarla Codrignani, docente, giornalista di area «laica» cattolica per
– 95
tre legislature parlamentare del gruppo storico della sinistra indipendente, dando vita ad un libro che ci fa ragionare «a voce
alta»; infatti come è detto nel titolo della intervista si tratta in sostanza di un libro che ci aiuta a percepire idealmente ed instancabilmente il perché di tante scelte e la libertà di queste operazioni che offrono una testimonianza che non è solo personale ma
ci trascende.
Giancarla Codrignani, attualmente presidente del coordinamento delle teologhe italiane ed esponente di Pax Christi, in questa lunga intervista ci mostra «l’insegnante, la politica, la pubblicista, la cattolica, la femminista che appartiene non solo al suo
mondo privato ma anche al suo mondo pubblico» (p. 7), come
scrive nella presentazione Marinella Perroni. Infatti la Perroni rileva che Giancarla Codrignani «ha scelto di presentare la sua intervista con il lemma cerco solo di capire» (pp. 7-9).
Giustamente Romano Prodi nella sua introduzione incentrata
prevalentemente sulla attività politica e parlamentare di Giancarla Codrignani rileva che le sue risposte all’intervista hanno tra
i pilastri «l’idea della pace» e la conseguente speranza di costruire
«una europa politica unita»; tali idee dimostrano altresì la fede
nella Carta di Ventotene elaborata da Altiero Spinelli nel lontano
1943 la cui forza è stata rinverdita dal fatto che Codrignani e Spinelli divennero colleghi della Sinistra indipendente. Si tratta infatti di idealità tuttora valide che Giancarla Codrignani propone
in tempi duri e difficili come quelli presenti, ideali che hanno
come fondamento l’idea della pace come «aspirazione universale»(pp. 14-15).
Conseguentemente queste risposte non solo ci indicano le
priorità delle scelte della autrice ma ci dicono pure che le crisi
sono opportunità per agire, dialogare, confrontarsi ed andare
avanti anche oggi; non a caso Giancarla Codrignani conclude ritenendo «che la speranza è sempre la più difficile delle virtù teologali» (pp. 111), ma resta sempre una finalità fondamentale per
tutti.
Pasquale Colella
96 –
LIBRI RICEVUTI
AA.VV., Francesco e l’altra Chiesa (numero speciale di Micromega n. 6/2015 dedicato a Fratel Arturo Paoli), Roma
2015, pp. 248, € 15,00
PIERO BELLINI, Tempo di Papi e di antipapi. Crisi scismatica
tardomedioevale e intellettualità organica ed ecclesiastica, ed.
Aracne, Roma 2015, pp. 188, € 12,00
COSIMO CERARDI, Marxismo e crisi ciclica dell’economia capitalistica (con prefazione di Pasquale Folasca), ed La Mongolfiera, Castrovillari 2014, pp. 230, € 18,00
COSIMO CERARDI, Note sulla dialettica: Karl Marx: dall’idealismo al materialismo (con prefazione di Lorenzo Serafini),
ed La Mongolfiera, Castrovillari 2013, pp. 176, € 15,00
IVANA D’AMORE, Cesarino Cecere. Le mie avventure di ragazzo «nu poco… stratanoso», Armando Editore, Roma
2015, pp. 176, € 14,00
SERGIO LARICCIA, Tutti gli scritti, Tomi 5 (I, 1959-1978; II,
1979-1989; III 1990-1996; IV 1997-2006; V 2007-2015) con
prefazione generale di Pietro Rescigno, Luigi Pellegrini Ed.
Cosenza 2015, pagine complessive 4588, € 150,00 per tom
UGO MARIA OLIVIERI, MARIO ROVINELLO, PAOLO SPERANZA (a
cura di), L’onda della libertà. Le Quattro giornate di Napoli
– 97
tra storia, letteratura e cinema, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli 2015, pp.104, € 12,00
COSIMO QUARTA, Homo utopicus: la dimensione storico antropologica dell’utopia, Dedalo Ed. Bari 2015, pp. 280, €
17,00
GIUSEPPE STOPPIGLIA, Vedo un ramo di mandorlo… (Con
prefazione di Leonardo Boff e postfazione di Mario Tronti),
Ed Macondo liber – Servitium, Pove del Grappa (Vicenza)
2015, pp. 286, € 12,00
RITA TORTI, …Cerco solo di capire. Intervista a Giancarla
Codrignani (con presentazione di Marinalla Pezzano, introduzione di Romano Prodi), Aracne ed. Roma 2015, pp. 114,
€ 12,00
98 –
QUESTIONARIO PER I LETTORI
Prima parte
Età…………………
e-mail……………..
Titolo di studio …………………………………………………………
Professione………………………………………………………………
Da quanto tempo conosce la rivista il tetto?………………………
Con quale frequenza la legge? ………………………………………
È abbonato? Sì [ ] no [ ].
Se è abbonato da quando?……………………………………………
È impegnato in un gruppo d’impegno sociale? Sì [ ] no [ ], perché?
……………………………………………………………………………
……………………………………………………………………………..
Se [sì], con quale periodicità lo frequenta?…………………………
Quali argomenti vengono presentati e discussi?
……………………………………………………………………………
Approssimativamente quante persone si ritrovano e si riconoscono in questo gruppo?
……………………………………………………………………………..
Qual è l’età media?…………………………………………………….
Questo gruppo produce documenti e/o realizza attività territoriali?
Quali?……………………………………………………………………..
È impegnato in qualche gruppo ecclesiale? Sì [ ] no [ ], perché?
……………………………………………………………………………
……………………………………………………………………………..
– 99
Se [sì ]: con quale periodicità lo frequenta?………………………...
Quali argomenti vengono presentati e discussi? ..…………………
……………………………………………………………………………..
Approssimativamente quante persone si riconoscono e si ritrovano in questo gruppo?………………………………………………..
qual è l’età media?………………………………………………………
Questo gruppo produce documenti o realizza attività collegate?
Se [sì ] quali…………………………………………………………..…
……………………………………………………………………………..
Seconda parte
Quale dei temi trattati abitualmente dalla rivista le interessano
maggiormente?
• Temi di approfondimento teologico e/o religioso;
• Discussioni sulla situazione della chiesa in italia oggi;
• Dibattito sulle istituzioni e la democrazia ed interventi di tipo
politico generale;
• Interventi sui problemi di Napoli e del mezzogiorno;
• Atti di convegni e/o recensioni di libri e riviste
• Altro (specificare)
Qual e’ l’indice di gradimento?
……………………………………………………………………………..
Ci si riconosce nei contenuti e nella sua impostazione?
……………………………………………………………………………..
** gli articoli, i documenti riportati hanno un riscontro nelle problematiche di ogni giorno?
……………………………………………………………………………
……………………………………………………………………………..
Vengono letti con interesse o per abitudine?………………………
……………………………………………………………………………..
** rispondono alle tue attese?…………………………………………
100 –
Se [no] perche’…………………………………………………………..
C’e’ qualcosa da evidenziare maggiormente, approfondire, eliminare, ridurre? ………………………………………………………..
Ci sono problemi, difficoltà, proposte sui seguenti punti?
** periodicità…………………………………………………………….
** settori nei quali è articolata la rivista…………………………..
………………………….……………….…………………………………
** altro…………………………………………………………………….
……………………………………………………………………………..
Nella molteplicita’ di esperienze sociali, religiose, ambientaliste,
in quali ti riconosci e sei interessato ad acquisirne conoscenze?……………………………………………………………………
……………………………………………………………………………
……………………………………………………………………………..
Quale contributo potrebbe offrire «il tetto»?………………………
……………………………………………………………………………
……………………………………………………………………………..
Quali iniziative riguardanti la vicende attuali a livello ecclesiale
e religioso potrebbero essere opportune e necessarie?
……………………………………………………………………………..
Quali interventi in campo politico e sociale la rivista potrebbe
promuovere? ……………………………………………………………
Il questionario può essere inviato per posta elettronica richiedendo
alla redazione il modulo o per fax o per posta ordinaria fotocopiando il testo (vedi p. 5).
– 101
INDICE DELLʼANNATA 2015 (LII)
INDICE SISTEMATICO
FASCICOLO
P.
EDITORIALI
305
306-307
308-309
310
5
5
5
6
Pasquale Colella, «Chiesa povera e dei poveri»
Pasquale Colella, Papa Francesco. Le ragioni della speranza
Pasquale Colella, Papa Francesco, ancora segnali di speranza
Pasquale Colella, Ancora sulla Riforma della Chiesa
ETICA E POLITICA
305
305
305
306-307
19
33
40
13
Piero Bellini, Libertà di pensiero, libertà di stampa
Guglielmo Forni Rosa, Simone Weil nel XXI secolo
Elio Rindone, Lo slogan della governabilità
Andrea Proto Pisani, Diritti sostanziali e processo nella evoluzione delle relazioni familiari
CHIESA
305
9
308-309
308-309
308-309
308-309
310
13
20
26
30
13
310
25
Cristofaro Palomba, Povertà evangelica in una società violenta
Ugo Leone, Laudato siʼ Francesco
Anselmo Paolini, San Romero de las Americas
Rosanna Ciappa, Un incontro storico
Giovanni Benzoni, Riflessioni su un vescovo, il mio
Andrea Proto Pisani, Diritti e doveri per la conservazione
della «casa comune»
Cesare Milaneschi, Luigi Prota Giurleo. Riforma ecclesiale e
militanza politica
NAPOLI E MEZZOGIORNO
306-307
310
102 –
21
36
Ugo Leone, Se son rose
Ugo Leone, Se sei mesi
FASCICOLO
P.
308-309
61
Eusapia Tarricone, Immigrazione: paura, odio e solidarietà si
fronteggiano
50
71
PUNTO E A CAPO
Pasquale Colella, Guido DʼAgostino, Aldo Masullo, Ermanno
Rea, Laura Capobianco, Corrado Maffia, Annamaria Palmieri,
Ugo Leone, Ugo Maria Olivieri, Mario Porzio, Andrea Proto
Pisani, Mario Rovinello
SOCIETÀ CIVILE
DOSSIER
305
DOSSIER
Atti del Forum sul dono
306-307
25
Ugo Olivieri, Introduzione
Lʼeconomia del dono
306-307
31
Tomaso Montanari, A caval donato
306-307
44
Stefano Consiglio, Lʼinnovazione sociale per il patrimonio culturale
306-307
62
Lorenzo Zoppoli, Lavoro subordinato e dono
306-307
67
Melania Verde, Oltre la teoria economica ortodossa: i beni
relazionali
306-307
72
Margherita Guelfo, Salvatore Rotondi, Federico Pone, Giancarlo Crispino, Prisca Palermo e Brigitta Buglione, Donare
Parti per costruire Insiemi: trasformare oggetti concreti
(taonga) in legami affettivi (hau)
306-307
81
Daniela Falcioni, Il dono della servitù
La rete del dono
306-307
89
Chiara Colasurdo, Gli orizzonti politici dei Beni Comuni produttivi: lʼesperienza dellʼex Asilo Filangieri
306-307
92
Giuseppe Micciarelli, Pratiche di commoning nel governo dei
beni comuni: il caso dellʼex Asilo Filangieri
306-307
96
Rossana Valenti, Le donne per la Scienza
306-307
99
Carmela Maffia, Il dono della lingua
Il dono dellʼarte
306-307
105
Sarantis Thanopulos, Il dono nellʼarte. Il dono nellʼamore
307-308
61
Eusapia Tarricone, Immigrazione: paura, odio e solidarietà si
fronteggiano
DOSSIER
Scuola
307-308
66
Mario Rovinello, Introduzione
– 103
FASCICOLO
P.
307-308
68
307-308
307-308
72
80
307-308
307-308
89
93
DOSSIER
Costituzione
310
310
310
310
310
310
40
42
47
55
58
61
Ugo Olivieri, Introduzione
Luciana Castellina, La lunga erosione della democrazia
Alessandro Pace, Le ragioni del no
Domenico Gallo, La profezia nera di Cossiga
Il Coordinamento per la democrazia costituzionale
Unʼassociazione per il no
308-309
97
Domenico Iasiello, Arturo Paoli, piccolo fratello
305
305
305
305
306-307
49
51
54
57
113
306-307
306-307
115
116
306-307
306-307
308-309
310
118
119
107
66
Alberto Lucarelli, La «Buona scuola». Profili di illegittimità costituzionale
Ednave Stifano, La valutazione dei docenti
Tiziana Drago, Anna Angelucci, La scuola è finita. Su Berlinguer e i suoi epigoni
Ugo Maria Olivieri, Riprendiamoci il nostro presente
Manifesto per la difesa della Scuola pubblica statale libera e
democratica
TESTIMONI
DOCUMENTI
Comitati Dossetti, Nuove elezioni per riforme condivise
Paolo Farinella, Appello a sostegno di Papa Francesco
Alberto Maggi, I dieci comandamenti dopo Benigni
Vittorio Bellavite, Ottopermille e la sua gestione
Domenico Pizzuti, Papa Francesco a Napoli: perché e per
chi
Francesca Avitabile, Quale popolo attende Francesco?
Comunità cristiana di base del Cassano di Napoli, Chiesa di
Napoli e di Scampia «Svegliamoci»
Sergio Sala, Dallo Sri Lanka a Scampia
Giacomo Calvino, Grazie, Francesco…
Ricordare Bonhoeffer
Il Patto delle Catacombe di S. Gennaro dei Poveri
SEGNALAZIONI
305
305
305
104 –
63
66
68
Mario Gaetano Fabrocile, 2014 anno dei Papi Santi
Mario Gaetano Fabrocile, La giornata dei diritti umani
Paola Pariset, Il Werther allʼOpera di Roma
FASCICOLO
P.
306-307
123
306-307
306-307
130
132
306-307
306-307
306-307
134
139
143
308-309
308-309
308-309
308-309
308-309
310
310
111
119
130
135
138
69
71
310
310
74
82
Giovanni B. Benzoni, Roberto Mancini e la dittatura dellʼeconomia
Mario Gaetano Fabrocile, Resistenza illuminata
Mario Gaetano Fabrocile, Settanta anni fa moriva Dietrich
Bonhoeffer
Antonio Piscitelli, Due della Brigata di Miriam Rebhun
Maria Francesca Capuano, La «mia scuola»
Mario Rovinello, Il fascino della narrazione tra passato e futuro
Angelo Bertani, Chi sono io, Francesco?
Giacomo Losito, Scritti in onore di Domenico Jervolino
Giacomo Losito, In memoria di Émile Poulat
Mario Gaetano Fabrocile, 36° Meeting Ciellino
Paola Pariset, Arte islamica a Roma
Mario Gaetano Fabrocile, Morte di André Glucksmann
Paola Pariset, Mario Sironi e le illustrazioni per ʻil Popolo dʼItaliaʼ
Antonio Piscitelli, «Lʼonda ʻlungaʼ della libertà»
Scuola di Pace, Luci nel buio. Testimoni della nonviolenza
del ʼ900
LIBRI
305
306-307
308-309
310
115
147
141
84
– 105
Scarica

paginato310:Layout 1