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REGIONE PUGLIA
Assessorato alla Formazione Professionale - Politiche dell’Occupazione e del Lavoro - Cooperazione - Pubblica Istruzione Diritto allo Studio - Settore Pubblica Istruzione
C.R.S.E.C. - LE/48 Via Minniti, 16
GALLIPOLI
Coordinamento editoriale: CENTRO REGIONALE SERVIZI EDUCATIVI E
CULTURALI
Dirigente Responsabile: PASQUALE SANDALO
La presente pubblicazione è frutto di un progetto di studio e ricerca, coordinato da
Elio Pindinelli, cui hanno partecipato:
ANTONIO MASTORE, MARIA BONSEGNA, LUCIA RIA, MARCELLA MECCA,
COSIMO PERRONE, LAURA LETIZIA, GIORGINA SIMONE.
I testi sono stati curati da Cosimo PERRONE
Foto: Mario Milano, Piero De Vita, Luigi Fumarola, M. Maggio, Elio PINDINELLI,
Cosimo Perrone, G. Perrone.
Materiali fotografici sono stati forniti anche dalle Confraternite.
Impaginazione e grafica by EP
Stampa: Tip. CORSANO - ALEZIO
La presente pubblicazione è destinata a biblioteche pubbliche e private, archivi e centri di documentazione.
Tutti i diritti riservati
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REGIONE PUGLIA - C.R.S.E.C. LE/48 GALLIPOLI
Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli
Tra storia, mito e leggenda
(Testi a cura di Cosimo PERRONE)
GALLIPOLI 2003
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PRESENTAZIONE
Una nuova pubblicazione del C.R.S.E.C. di Gallipoli va ad aggiungersi a quelle già edite negli anni passati. Si rafforza in questo modo una
linea di continuità ed emerge, con sempre maggiore evidenza, lo scavo che
gli operatori del Centro hanno finora condotto e continuano a condurre sul
territorio.
Ha curato i testi di quest’ultimo lavoro, Cosimo Perrone, non
nuovo a questo tipo di interessi. Egli si è avvalso del prezioso lavoro di tutti
i colleghi, nell’ambito di un progetto di approfondimento e ricerca coordinato da Elio Pindinelli con la sua riconosciuta preziosa competenza storica
ed editoriale e al quale va il nostro più sentito ed apprezzato ringraziamento,
ancor più significativo per il suo disinteressato contributo.
La ricerca del C.R.S.E.C. è quindi frutto delle professionalità
maturate in lunghi ed intensi anni di attività. Un patrimonio questo che non
andrebbe disperso ma giustamente valutato e valorizzato. Esso rappresenta
il frutto dell’azione di un gruppo che interagisce intelligentemente, che dialoga
con chi ha conoscenze ed esperienze sugli argomenti trattati, che esplora
nuove possibilità di sistemazione e di interpretazione dei materiali reperiti e
studiati. Un egregio lavoro, dunque, che sono orgoglioso di poter affidare
all’apprezzamento di tutti come contributo del Centro alla crescita
culturale del territorio
IL DIRIGENTE RESPONSABILE
Pasquale SANDALO
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INTRODUZIONE
Il C.R.S.E.C. di Gallipoli continua nella sua attività portando
un’attenzione sempre più vivace su quella che è la realtà e la cultura del
territorio. Tende, in tal modo, a rafforzare sia la consapevolezza della
funzione di agenzia di educazione permanente e di promozione culturale
che esso riveste, sia una rete di iniziative i cui risultati sono leggibili
nella loro continuità dopo anni di lavoro intenso ed appassionato sul suo
territorio di riferimento.
I progetti fin qui realizzati hanno molto spesso trovato interlocutori
attenti e profondamente interessati negli Enti Locali. Un tale ascolto si
spiega con la consonanza che si è prodotta tra le problematiche di volta
in volta affrontate ed iniziative di ampio respiro promosse dai comuni
ricadenti nello spazio operativo del Centro.
L’intento sempre perseguito e, sia detto senza presunzione, felicemente realizzato, è stato quello di interpretare, con profonda umiltà ma
con intelligenza, le esigenze culturali più avvertite di un’area territoriale
limitata ma variegata nei suoi aspetti e di studiare con vigile spirito di
ricerca elementi diversi di una realtà meritevole di approfondite indagini in campi differenti ma rilevanti per significatività.
Il lavoro è sempre complesso e naturalmente nasce dall’impegno
degli operatori della struttura C.R.S.E.C. a tutti i livelli: ne scaturiscono
risultati non solo sostanzialmente confortanti ma spesso lusinghieri come
testimonia l’accoglienza riservata alle iniziative promosse ed alle pubblicazioni prodotte.
Queste in parte, e soprattutto in riferimento alla fase conclusiva,
documentano l’iter dei vari progetti.
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Le pubblicazioni sono state curate dal Centro sotto la guida o con
la consulenza di esperti di sicuro valore e di notevole prestigio e si
offrono come strumento di conoscenza e di approfondimento di aspetti di
vita e di cultura del nostro territorio.
Si possono opportunamente ricordare alcuni degli argomenti documentati dalle nostre pubblicazioni: L’ISOLA DI SANT’ANDREA (si
richiamava l’attenzione sui suoi aspetti paesaggistici ed ambientali cui
oggi, in seguito ad accurate ricerche, quelli archeologici); CIVITAS
CONFRATERNALIS – L’esperienza Confraternale a Gallipoli in età
barocca (studio su un tratto caratterizzante delle strutture del laicato cattolico nell’originale forma dell’istituzione delle “Confraternite”); la presenza di EDICOLE SACRE in tutti i Comuni del distretto(con i problemi
relativi alla loro conservazione); I Messapi ad Alezio e nelle zone circostanti; I grandi palazzi di notevole pregio architettonico nel centro storico di Gallipoli (DAL PARTICOLARE ALLA CITTA’ – Edilizia Architettura e Urbanistica nell’Area Gallipolina in Età Barocca) con attenzione per il loro restauro e per la loro eventuale utilizzazione; la ricerca
(in un certo senso collegata a quella sulla architettura urbana) sulle Ville
Extraurbane presenti nei Comuni su cui ha competenza il Centro; l’indagine a tutto campo su Gallipoli e il suo mare.
Sono, quelli ricordati in maniera molto rapida, ai quali si aggiunge il presente, tutti esempi dell’impegno profuso dagli operatori nell’affrontare argomenti di largo respiro, in perfetta sintonia con le indicazioni dell’Assessorato Regionale alla P.I., e del consolidato e qualificato
ruolo del nostro Centro nella realtà del Distretto.
Quello che nella pubblicazione sulla realtà confraternale di
Gallipoli appariva solo come aspetto particolare di un disegno più vasto
viene, in questa nuova pubblicazione, recuperato in una vasta trama di
riferimenti a riti e tradizioni di origine sacra e profana. Non mancano
supporti storiografici ai quali attingere, ma il lavoro condotto dal
C.R.S.E.C. ha voluto essere ancora una volta una “ricerca sul campo”
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che si è valsa dell’ausilio di preziose, ed ormai sempre più rare, testimonianze orali.
Se i riti della Settimana Santa rappresentano il capitolo fondamentale di una adesione allo spirito di penitenza che trova il suo culmine
nella crocifissione (e i riferimenti sono negli statuti confraternali) , il
rapporto tra sacro e profano, con le sue interferenze, con i suoi aspetti di
intercambiabilità (quale distanza appurabile si pone, talvolta, tra religione e magia?) dà vita ad una miscela di elementi in cui anche l’azione
profana appare permeata dal sacro e trova il suo testimone ed il suo
garante nella figura del santo.
La pubblicazione contiene un interessante corredo iconografico
di pregevole valore documentale.
Questa nuova pubblicazione, infine, continua coerentemente un
discorso che, come si sarà potuto dedurre dai temi indicati, abbraccia
tempi storici diversi ed aspetti multiformi nell’ambiente di riferimento
ma tutto riduce ad unità nella proposta educativa che sottende: di informazione, di conoscenza, di stimolo ad una sempre maggiore consapevolezza dei valori del luogo in cui si vive rapportati a quelli che sono i
problemi della contemporaneità.
Unitario lo spirito che informa la ricerca nel quadro di un “progetto” globale che vuole costantemente riferirsi alla realtà di ieri e di
oggi coniugando passato e presente. Questo per fare sempre più intensamente avvertire come sia possibile raccostare sapienza di ieri ed esigenze dell’oggi: esigenze complesse non spiegabili nella loro complessità
se non si possiede un’idea chiara della propria storia e del cammino
percorso.
Antonio MASTORE
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Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli
Tra storia, mito e leggenda
Nella storia di un popolo il mito e la tradizione, vanno certamente al di là della cronaca. L’uomo trova la sua identità e identificazione in quei segni che lo conducono alle sue radici, alle sue antiche
origini, al concetto primordiale che è nel rapporto civiltà-destino.
E’ così quindi che un popolo si cerca e si conosce attraverso
l’individuazione dei segni, le tradizioni, i riti, il mito, le manifestazioni di culto. Sono queste, espressioni di saggezza maturate dalle
generazioni precedenti e tramandate ai giovani.
L’uomo, quindi, riacquista in un certo modo il suo tempo, per
riappropriarsi della sua stessa memoria. Soltanto ritrovandosi quest’uomo, sia pure avendo dimenticato in qualche modo la sacralità
della festa, il culto dell’adorazione, la religiosità della processione,
potrà entrare in possesso della sua memoria storica. Un popolo che
perde la sua memoria storica è un popolo senza destino, che rischia
l’estinzione.
Occorre perciò recuperare il tempo ancestrale dell’uomo. Ed
ecco allora il Natale, dalle valenze mitico-sacrali, i falò e le feste, la
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tradizione dei fuochi, che riconducono ad un vissuto antico e ricco di
voci e di simboli; riti religiosi come la Quaresima, e la settimana
santa, che toccano aspetti non solo formali ma hanno una acutezza
metafisica significativa.
Da sempre riti e feste hanno scandito l’incedere del tempo.
Gallipoli, per sempre esposta agli influssi di tantissime altre
civiltà, mostra nei suoi segmenti di vissuto le componenti ancestrali
determinate dalla sua storia, dalla posizione geografica, dal clima ed
è perciò che nei riti e nelle manifestazioni di culto, troviamo un
muscuglio di sacro e profano.
Infatti, alcuni di questi affondano le loro radici nei riti di
fertilità, apotropaici, propiziatori, liberatori e contengono elementi
leggendari e storici, nonché elementi profani.
Essi spesso rappresentano occasioni di aggregazione e di liberazione da tabù e inibizioni, con i riti orgiastici, riti di difesa dal
male, dalle calamità naturali ed umane, nonché spesso occasioni per
dare sfogo alla naturale tendenza del popolo alla drammatizzazione,
allo spettacolo, che si esprime nelle Sacre Rappresentazioni, nelle
manifestazioni spettacolari, nelle occasioni agonistiche e di puro divertimento.
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TRA FEDE E SUPERSTIZIONE
Era abbastanza in uso, fino a circa quarant’anni fa, credere
alle streghe e alle malìe. Per proteggere i bambini dal maleficio si
era soliti attaccare sulle loro fasce, con delle spille francesi, dei
cornetti di corallo o conchigliette. Senza trascurare di fare il segno
della croce sul bambino, dopo averlo accuratamente fasciato.
Gallipoli allora assume una dimensione fra rito e magia, fra
rito e tradizione, tra rivalutazione del passato ed un presente vissuto
alla ricerca della memoria storica. In questa realtà anche i culti assumono una dimensione dove la fede viene messa al primo posto.
Una fede che coinvolge la cultura di un popolo, che si
materializza nel momento mitico della festa e che interagisce e dialoga
in un rapporto fra sacro e profano.
I riti magici.
Diciamo subito che essi sono proliferati in un terreno fertile,
pregnante di ignoranza e di miseria psicologica. I riti magico-religiosi relativi alla gravidanza, all’allattamento, allo svezzamento, sono
certamente in rapporto alla carenza di forme assistenziali per la
gestante, la partoriente, la madre del bambino.
Con l’intervento della magia si credeva che tutte le gravidanze
sarebbero state condotte felicemente a termine, tutti i neonati sareb13
bero stati protetti, il latte sarebbe fluito sempre dal seno della madre, ma soprattutto si sarebbe guariti da tutte le malattie, e tutte le
tempeste si sarebbero accanite su luoghi deserti.
Le pratiche magiche più importanti erano rappresentate dagli
scongiuri contro le varie forme di miseria, contro le tempeste che
mettevano a repentaglio la vita dei pescatori o potevano danneggiare
il raccolto, contro le malattie.
Ogni scongiuro era un misto di sacro e profano. Ci si segnava
con il segno della Croce, e si benediceva nel nome del Padre, del
Figlio, e dello Spirito Santo.
Il più delle volte era una filastrocca che l’interessato pronunciava più volte e all’occorrenza facendo attenzione a non variarne la
sequenza.
Altre volte ci si rivolgeva alla “macara” perchè confezionasse
miracolosi intrugli che si spalmavano sulla parte malata o misteriose
pozioni da bere.
Entrambi avevano la potenza di debellare il male o di assecondare i desideri del richiedente.
Ma per scacciare la tentazione spesso ci si rifugiava nelle
invocazioni, come in un porto sicuro al quale fare affidamento per
non ricorrere alle arti magiche.
Ed ecco allora che ai bambini si insegnava a recitare, senza
alcuna paura perché forti della fede:
Santa Margherita si’ bedda e si’ pulita
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Tre angeli a mienzu casa
E doi su’ lu liettu.
La Matonna tegnu an piettu,
Gesù Cristu an capatale.
Fusci fusci tantazione
Ca su’ fiju de Maria,
E Maria m’ha mprumisu
Ca me dae lu Paradisu
Ci nu osci, ci nu crai
Quandu mojuru me lu dai.
Un rimedio contro le fatture o il malocchio era quello di appendere dietro l’uscio di casa il volto di Sant’Anastasio. Questi era
il santo più temuto dalle streghe. Il suo nome in greco, che era poi la
lingua parlata in Gallipoli sino al Medioevo, significa, appunto,
“scacciamento dalla propria dimora”.
Le streghe facevano “le fatture” e chi ne era colpito doveva
preoccuparsi di farsela togliere, non oltre però il sabato successivo.
Bisognava rivolgersi, allora, ad una “macara” che era stata
giubilata. Se non si riusciva a liberarsi subentrava una vera e propria
ossessione.
Le “macare”, o streghe nella tradizione napoletana, si riunivano a mezzanotte di ogni sabato nei pressi del noce di Benevento, e
viaggiavano a cavallo di una scopa.
Le streghe di Benevento sono entrate ormai nella proverbialità.
Danno nome persino ad un liquore e ad uno dei maggiori premi lette15
rari italiani.
Per aizzare il loro strano destriero usavano dire: “Sotta acqua e sotta jentu, sotta lu noce de Minimijentu”.
Guai però a coloro che avessero osato imbattersi in una adunata di streghe.. Si racconta che Chiri, un onesto pescatore gallipolino,
dal cuore buono come il pane, un giorno, anticipasse la sua uscita di
casa alla mezzanotte invece di attendere l’alba come sempre aveva
fatto.
Giunto al largo della Purità, ancora intorpidito per il sonno
perduto, fu subito circondato e travolto da un gruppo di “macare”
intente a ballare.
Dopo l’iniziale spavento e riacquistata tutta la lucidità, il
malcapitato riconobbe tre donne sue vicine di casa. E queste implorò di lasciarlo tranquillamente andare via. Ma loro più insistentemente lo insidiavano chiudendolo sempre più stretto nella loro catena, mentre, prese per mano l’una con le altre, cantavano:
“E balla, balla Chiri,
cu sta curiscia forte,
ca ci scappi te stu chiaccu
nu nci essi cchiui te notte”.
Il povero Chiri non sapeva più a che Santo votarsi quando
all’improvviso si udì sonoro il battere della campana della vicina
chiesa della Purità. Era certamente un intervento divino che ebbe il
potere di far scappare precipitosamente le perfide “macare”.
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Anche i pescatori, a loro modo, seguivano alcune pratiche
magiche e riti propiziatori. Si diceva che alcuni erano capaci di tagliare i fulmini, segreto questo rimasto per sempre custodito nella
mente dell’ultimo che ne ebbe il potere.
Essi sono ancora custodi delle “misteriose parole turchine”,
apprese in tempi lontani in oriente presso il popolo turco.
Mormorandole incomprensibilmente, i pescatori riescono a rendere innocue le punture di pesci velenosi, tra i quali la tracina, volgarmente conosciuta con il nome di “parasaula”.
Nell’ambito della superstizione popolare nessun maleficio è
però più potente del “malocchio”. Il malocchio era opera di persone
provviste di “do’ ninne” (due pupille). Guai, quindi, ad essere guardati da loro.
Si pensa ancora oggi che “pote cchiui occhiu te persone ca
occhiu te scursone”. E di una persona dallo sguardo cattivo si dice
che abbia gli occhi “te basaliscu”.
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Lu moniceddu
Ricca di suggestione e di mistero è la figura “de lu moniceddu”
che si diceva amava accovacciarsi di notte sul petto delle persone
che dormivano, impedendo loro il sonno.
Il monacello, secondo una antica credenza locale, era uno
spiritello, una sorta di folletto che gironzolava di notte per la casa
facendo disperare le persone che vi abitavano con mille dispetti tra
cui quello classico di accoccolarsi sullo stomaco di chi dormiva.
Come tutti gli spiritelli era custode dell’ ”acchiatura”, un tesoro di monete d’oro e d’argento, ma aveva anche il potere di esaudire i desideri degli uomini.
“Lu moniceddu” indossava un cappellino rosso, al quale teneva in modo particolare perchè, senza, avrebbe perduto la sua libertà.
Per neutralizzarlo occorreva, perciò, togliergli quel buffo
copricapo di panno rosso a forma di cuffia. Non era però impresa
facile.
Se il tentativo riusciva, lo spiritello, disperato, implorava pietà,
lasciandosi andare a mille promesse. Taccagno di carattere, esaurite
tutte le implorazioni, si rassegnava a svelare il nascondiglio nel quale custodiva il suo tesoro.
Nei tempi passati, di chi si arricchiva all’improvviso, si diceva giustamente che forse aveva visto “lu moniceddu” o aveva trovato
“l’acchiatura”.
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Il rito del crivello
Tra i riti magici più suggestivi, e praticato fino a qualche anno
fa, vi è quello del crivello o per meglio dire “lu ritu de lu farnaru”.
Si ricorreva a questa pratica per scoprire il nome di un ladro
o per individuare l’innamorato di una amica o la persona che ne ostacolava le nozze.
Si infiggevano le punte di un paio di forbici nel legno del bordo circolare (lu campusu) del crivello.
Due persone, reggendolo con gli indici dalla parte bassa degli anulari delle forbici, invocando i Santi Pietro e Paolo, formulavano la domanda cui si faceva seguire la pronuncia del nome del sospettato di furto, dell’innamorato segreto, “de lu ‘nfame” o del geloso.
La risposta doveva scaturire dal segno che le forbici avrebbero dato facendo ruotare il crivello.
Anche una chiave poteva dare qualche responso. La si infilava tra le pagine di un Breviario che si legava strettamente.
Due persone, tra cui l’interessato al responso, sostenevano il
libro con l’indice, e invocando il nome di S.Pietro, si formulava all’istante la domanda.
Il responso si otteneva solo quando il Breviario avesse cominciato a ruotare.
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Il rito “de lu limbu”.
Quando sulle terrazze si usava gettare “i bivaruni” al fine di
impermeabilizzare le giunture delle “chianche” che coprivano le terrazze e proteggere così la casa dalle infiltrazioni recuperando tutte
le piovane che si raccoglievano nella cisterna ma anche in contenitori di terracotta detti “limbi”, si ricorreva all’oracolo “de lu limbu”.
Quel recipiente doveva essere pieno di acqua piovana e
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L’uso degli oracoli presso i popoli antichi è fin
troppo conosciuto. Esso prendeva il nome anche dal
luogo in cui si praticava o della divinità a cui ci si
rivolgeva per ottenere responsi e vaticini. Nell’antica
Grecia gli oracoli più celebri furono quelli di Apollo a
Delfi e quello di Zeus a Dodona.
Un sacerdote interrogava l’oracolo dopo avere
praticato riti purificatori e dopo aver offerto sacrifici
alla divinità; il responso veniva tradotto attraverso
metodi diversi di divinazione. generalmente si inter-
pretavano i segni, tra cui quelli desunti dal comportamento di animali consacrati alla divinità.
cristallina per farvi specchiare tutti i sospetti di furto, giacchè si pensava che l’acqua si sarebbe turbata alla vista del ladro.
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L’Oracolo di Santa Monica
A Gallipoli, nel medioevo e fino all’800, era praticato l’oracolo di Santa Monica di cui fa cenno, alla fine del ‘600, nel suo
manoscritto il Micetti.
Il Vernole cui piaceva ricucire, talvolta abusando di riferimenti classici, il mondo ellenistico agli usi medioevali, ne tracciò la
storia traducendo dal latino il brano del Micetti.
Depurandolo della impossibile appartenenza del Pantheon, che
era una chiesa diruta ai tempi del Cybo e dedicata a tutti i Santi, ad un
qualche tempio pagano è utile riportarne il gustoso brano del Vernole
La chiave, il breviario, lu limbu e lu furnaru: gli attrezzi per gli oracoli.
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che così scrive:
“Un altro oracolo ancor più originale e complesso e che più di
ogni altro conserva tuttora intero l’organismo dell’epoca ellenica, come
fino a tre secoli or sono conservava finanche il Tempio che n’era la sede”.
“Esso rammenta l’Oracolo di Dodona nel quale si interrogava lo stormir delle foglie, e quello di Mercurio nel quale s’interpretavano i discorsi dei Passanti, e l’oracolo della Dea Notte che
rispondeva con le voci della notte: co1 sopravvenire del Cristianesimo questo oracolo gallipo-lino fu intitolato alla Madonna del
Cassòpo, e poscia (come lo è tut-todì) a Santa Monica. Fino al Cinquecento al sommo dello sperone occidentale dei bastioni turriti di
Gallipoli era la Chiesetta della Madonna del Cassòpo eretta in epoca
Bizantina presso il demolito Tempio pagano del Pantheon; se ne Conserva ancora la vetusta immagine Bizantina e quel nome di Cassòpo ricorda
il nome bizantino della rada di Corfù e i traffici di Gallipoli con l’Oriente. Lo Storico Micetti nel Suo m. s. narra di un’anticà pergame greca, da
lui transunta in latino che in italiano suona così:”
“Chiunque voleva conoscere se il fratello, o il figlio, o il
nepote o il marito, fosse captivo o in mano dei Turchi, o fosse vivo
o morto, o se ritornasse o no, o se fosse sano o infermo, veniva alla
predetta Chiesa della Vergine di Cassopo, da cui si apriva l’adito
ad un delubro vetustissimo dedicato alla Santa vergine; ivi, appena
giunto alla più remota parte, trovava un gradino sul quale saliva
guardando l’immagine della Madonna, e sette volte rivolgeva orazione a Cristo, senza proferir parola né far moto di labbra, ma con
grande intensità di pensiero; ciò fatto si affacciava tosto per una
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finestra al mare, e ad alta voce chiedeva intorno (ed alto vociferabat
percunctando) se di morte, se di vita, se di ritorno, come sopra è
detto, e da Angeli o da demoni riceveva risposta: è vivo, viene, non
viene, è morto, sta bene, è malato; e tale risposta non solo era
intesa dal pregante, ma anche da
chi vi fosse presente... ecc.”.
“Distrutto
il delubro, vi rimase il sito: al titolo s v a n i t o d i
una Santa Vergine, fu sostituito il
titolo d’una Santa
Vedova: e le donnette ancor oggi
consultano l’Oracolo della Santa
Monica, madre di
Sant’Agostino, pro-
Affresco della Madonna del Cassopo.
terve a qualunque anatema lanciato nel corso dei secoli da Vescovi e
Sacerdoti, perchè il rito insinua le sue radici fra le scaturigini elleniche
della stirpe. Ancor oggi, su quello sperone dei bastioni dove sovrasta
il Tempio Francescano della solitudine, ove l’opposto azzuffar di venti
rende deserto il sito, se ti appiatti, alla -mezzanotte vedrai che s’agita la persona
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di una donnetta che vi compie il rito: se essa non può raggiungere quel luogo si
protende da un qualunque angolo dei bastioni, o si sporge dalla finestra di casa
propria se è rivierasca, ma sempre si rivolge al mare. E. sette volte ripete mentalmente l’orazione propiziatoria a Cristo e. a Santa Monica, ed invoca la risposta
dello Spirito dell’Ignoto”
“Santa Monaca mea pietosa, santa Monaca lacrimosa, pe la strata ca facisti te Roma a Milanu, pe
truvare le fiju tou pacanu, ca hai ulutu cu faci
cristianu,; lu truvasti e lu cunvenrtisti; santa Monaca
pe caritate, fanne sacciu la veritate. Ci acqua santimu
manare è segnu te lacreme mare, ci fanesce vitimu aprire segnu bonu te cutire”.
“E la riceve sensibile a sè ed agli astanti, e sarà la voce_d’un
vivente o il romor di cosa morta: e sarà scroscio d’acqua versata che
denota lagrime, e sarà crocchiar di cose che precipitano e denota catastrofe, e sarà miagolar di gatto o ulular di cane che denota sinistra
notizia, e sarà parola o frase casualmente detta da alcuno a distanza,
ed intenzionalmente interpretata perchè nel silenzio della notte fonda
ogni legger romore si ode a distanza, ed ogni discorso pacifico ed
ignaro divien più lungi mistica: risposta inconsapevole ad una domanda ansiosa”.
“Così il paganesimo, avito e incoercibile, sospinge la donnetta
a mezzanotte a protendere il petto sui, bastioni incontro al mare ,che si
sente, incontro al Cielo che non si vede, incontro all’immensità dell’infinito, sul parapetto dell’ignoto, a propiziarsi con la settemplicc
prece il Nume invisibile, ad esprimere l’inchiesta ansiosa, scrutando il
Mistero che .risponde paganamente con le voci della Notte”.
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Gli Oracoli di San Giovanni
Simile all’oracolo della Santa Monaca era quello di San Giovanni, che si teneva la notte tra il 23 e il 24 giugno.
Per conoscere il mestiere del futuro marito, le ragazze in procinto di sposarsi, secondo una antica tradizione popolare, e che abbiamo visto ripetere nel film “L’Anima Gemella”, versavano in una
bacinella piena d’acqua un pezzo di piombo, preventivamente fuso
sul fuoco. Il piombo solidificando, assumeva svariate forme e a seconda di queste si interpretava il mestiere che avrebbe svolto il
marito.
Un’altra variante è quella di interrogare la sorte con l’ausilio
di tre fave verdi.
Ad una fava veniva tolta la buccia per intero, ad un’altra soltanto “l’occhio” e l’ultima lasciata intera. Tutte e tre venivano sistemate sotto il guanciale, e prima che la fanciulla prendesse sonno.
L’indomani mattina, appena sveglia, la ragazza infilata la mano sotto
il cuscino ne ricavava il responso.
Se prendeva quella intera, voleva significare una buona sorte,
se quella senza buccia la sua sorte sarebbe stata avversa, prendendo
invece quella semisbucciata la fanciulla avrebbe avuto una sorte nè
buona nè brutta.
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L’Oracolo di San Pietro e Paolo
Per lo stesso motivo, nel giorno di San Pietro e Paolo, il 29
giugno, in coincidenza con lo svolgimento dell’omonima fiera che si
teneva in piazza De Amicis, le ragazze da marito usavano interrogare il loro futuro buttando agli angoli dei vicoli e delle stradine tre
pietre: una per sapere l’ambasciatore di fidanzamento, l’altra per conoscere l’intermediario e l’ultima per sapere il mestiere del fidanzato.
E si pronunciava la formula rituale :” Pe santu Pietru e pe santu Paulu
e pi cinca passa moi”
Per altri oracoli si affidavano all’albume d’uovo che versato
in un bicchiere d’acqua veniva messo fuori dalla finestra, al freddo
durante la notte.
L’uovo rassodandosi in forme strane, era oggetto di osservazione e di “letture” da parte della donna. Spesso si credeva di vedere
figure di sega, di zappa, martello. Se nell’albume si formava qualche
bolla d’aria era interpretato di cattivo auspicio.
Anche dalla bruciacchiatura di un cardo si potevano trarre segni premonitori. L’ortaggio così combinato si metteva fuori casa, al
fresco. Se l’indomani mattina il cardo rifioriva si traevano buoni
auspici, diversamente sarebbero stati… cavoli amari.
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RITI PROPIZIATORI E DI ESPIAZIONE
Il rito di espiazione veniva solitamente celebrato per espiare
un peccato e riconquistare la giusta relazione con Dio. Esso è l’atto o
l’insieme di riti attraverso i quali l’uomo intende eliminare una colpa
(individuale o collettiva) legata ad un peccato, per riconquistare la
giusta relazione con Dio.
I riti di espiazione sono attestati in molte parti del mondo;
presso le antiche civiltà ittita, greca e romana, emerge come modulo
comune, per l’allontanamento di una colpa che genera nefaste conseguenze, il rito del capro espiatorio.
Propriamente il capro espiatorio proviene però dal mondo religioso ebraico. Nel Nuovo Testamento la morte di Gesù sarà presentata come espiazione del peccato dell’umanità: l’unica vittima, Gesù,
pone fine agli antichi riti sacrificali.
A Gallipoli come in tutto il Salento i riti si rifanno unicamente
a quelli arcaici della fertilità e racchiudono elementi leggendari e
storici collegati alle particolari attività tradizionali.
L’elemento dominante nei riti propiziatori in uso nelle feste
salentine, è quello del fuoco purificatore, propiziatore e liberatorio.
Come nel giorno di Sant’Antonio Abate, detto “de lu focu”, in
cui, con le “focaredde” accese, i giovani, venivano invitati a saltare
sul fuoco per dare prova di coraggio e agilità.
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Il rito del salto sul fuoco nel giorno dell’inizio del Carnevale
rammenta anche il salto che facevano i pagani sul fuoco che era sacro
a Vulcano, per propiziarsi quella terribile divinità. Il fuoco quindi
assume un’azione purificatrice che brucia e distrugge tutti gli influssi
dannosi.
Il fuoco a Gallipoli lo troviamo ancora nel giorno di Pasqua,
con l’accensione della Caremma, oppure con la fine ingloriosa del
“pupu” nella notte del 31 dicembre.
Nei riti di purificazione oltre al fuoco (la candela accesa), c’è
pure l’acqua. Nel battesimo, che per il cristiano è la purificazione
dal peccato originale, si usavano dal popolo molti accorgimenti
che, pur in un contesto di sacralità, rinviavano a pratiche profane ed
esorcizzatorie.
La levatrice pertanto doveva avere cura di sostenere il neonato sul braccio destro, se maschio, a simboleggiare la forza, l’energia
e la risolutezza del futuro uomo, su quello sinistro se femmina, al fine
di propiziare bontà, gentilezza e mansuetudine.
Anche i padrini dovevano ottemperare ad alcune regole
basilari. Innanzitutto il padrino doveva collocarsi alla testa del battezzando, se maschio, e la comare dalla parte dei piedi. Posizione
che veniva scambiata dai padrini in presenza di una battezzanda.
Dovevano poi stare bene attenti a recitare il “credo” senza
mai sbagliare e ciò per evitare che il fanciullo, crescendo, fosse preso dalla balbuzie o diventasse scemo, e peggio ancora, da adulto,
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potesse vedere i lemuri, le ombre tenebrose degli antichi..
Ancora nella tradizione popolare persistono riti di iniziazione,
come nella festa di San Martino. A tutti, fanciulli compresi, è consentito bere un po’ di vino. In questo modo si iniziano alla trasgressione
e solo così possono essere accolti tra gli adulti.
Un rito propiziatorio sicuramente avviene in ogni sposalizio,
lanciando alla fine del rito sacro, sulla testa degli sposi, manciate di
grano e di orzo.
Anche il dono di ceste di fiori e di frutta, spesso di uova,
assumeva il significato di propiziare l’abbondanza,il buon governo
della casa e gli affetti domestici. E la declamazione degli epitalami ,
meglio se da parte degli innocenti bambini, si collocava in chiave
augurale e propiziatoria.
I riti funebri avvenivano secondo usi e costumi generati da una
secolare consuetudine grecanica. Il cadavere veniva pianto “spasmodicamente” dalle prefiche, mentre i parenti, imprecando contro l’infame destino, si strappavano i capelli e mortificavano la carne graffiandosi il volto.
Le prefiche, prese anche a pagamento, avevano il compito di
piangere pubblicamente il morto intonando monodiche salmodie con
riferimenti alla sua vita e alle sue virtù.
Presso i popoli antichi si usava seppellire il cadavere circondato dagli oggetti di uso comune e cari al morto, non dimenticando di racchiudere nella tomba il prezzo del pedaggio che sarebbe
stato pagato a Caronte per attraversare lo Stige, il confine tra il mon29
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L’Approfondimento
La presenza del fuoco nei riti risale però più verosi-
milmente al periodo storico degli antichi popoli indoeuropei.
Ma il suo pieno sviluppo lo ebbe nella Persia antica. Strettamente legata al culto del fuoco era la cerimonia religiosa
di camminare sul fuoco, praticata da molti popoli in ogni
epoca.
Ancora oggi è in uso a Tahiti, Trinidad, nelle isole
Maurizio, nelle Figi, in India e Giappone. La cerimonia include il passaggio di un sacerdote e altri celebranti a piedi
nudi su ampie pietre appositamente arroventate su di un
letto di ceppi ardenti.
Sono state avanzate varie spiegazioni, come l’estasi o
una temporanea insensibilità al dolore, del motivo per cui
costoro apparentemente non patiscono bruciature o dolore,
ma nessuna è considerata esaustiva.
Al fuoco veniva anche riservata una particolare de-
vozione religiosa ed era considerato sacro. La mitologia greca
attribuisce al titano Prometeo l’impresa di averlo rubato
agli dei dell’ Olimpo.
Le tribù indigene americane quanto quelle dell’Africa
occidentale rendevano omaggio ad ancestrali spiriti del fuoco.
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Diversi popoli semitici propiziavano il dio del fuoco
Moloch sacrificando i loro primogeniti; anche gli egizi e altri
popoli antichi tributavano offerte rituali ai loro dei del fuoco.
Il culto del fuoco inoltre, occupò una posizione cen-
trale nei riti religiosi degli antichi popoli indoeuropei. Gli
antichi culti greci di Estia, dea del focolare, ed Efesto, dio
del fuoco, come quelli dei loro omologhi latini Vesta e Vul-
cano, erano caratteristiche integranti della religione classica.
Il fuoco che ardeva in ciascuna casa era un segno vivo
e immanente della divinità e i Lari e i Penati erano i rigidi
protettori della Famiglia, custodi del suo amore, della sua
reputazione, della sua fortuna. Spesso si era soliti affermare
che “Fuoco spento, famiglia spenta”.
Anche presso le antiche religione slave si praticava il
culto del fuoco e i celti pregavano spesso Bridget, protettri-
ce del fuoco, della terra e della fertilità. Ma il fuoco lo troviamo anche nella religione cristiana.
Secondo l’Antico Testamento, Dio si mostrò a Mosè,
sul monte Sinai, attraverso le fiamme di un rovo ardente.
Nella liturgia della Veglia Pasquale è il fuoco il motore del
rito, attraverso l’accensione del cero, che rappresenta Cristo, luce del mondo.
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do dei vivi e quello dei morti.
Sepolto il defunto i familiari si riunivano negli “agapi funebri,
abbondanti di libagioni e vivande ristoratrici”. Un rito, questo, che
ha tuttora, nel “cunsulu” odierno il suo omologo.
Ma attenzione, mangiare e bere in certe occasioni, mai di gusto, bensì “ppe divuzione”. Ed è per questo che nei riti di offerta
venivano consumate le primizie di ogni stagione e sacrificate vittime
“ppe divuzione allu Santu”.
E così a Natale si sacrificava il cappone, a Carnevale si mangiava maiale e salciccia, l’agnello a Pasqua, il pollo per il santo
Patrono del paese, il pesce a Sant’Andrea.
Tra le primizie il vino novello era d’obbligo nel giorno di San
Martino, l’olio nuovo a Natale, le melograne a San Francesco d’Assisi
(San Francescu de le site), il nuovo miele a Santa Teresa, le pigne e
le castagne per l’Immacolata, e le cozze per la Madonna del Canneto.
Un’altra pratica popolare era quella dedicata a coloro che
perivano di morte violenta.
Affinchè le loro anime si placassero e finissero di girovagare
attorno ai luoghi in cui violentemente erano state cacciate dal corpo,
era necessario recitare un triduo notturno a cura di tre comari o parenti, con un settemplice Rosario pei morti e preghiere in suffragio
del defunto.
Se nonostante ciò i loro fantasmi continuavano a turbare il
sonno di una persona, occorreva esorcizzarli:
Jeu te prucettu a nome de Diu,
ci sì anima raspundi e ci sì damoniu spunda.
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IL CARNEVALE A GALLIPOLI
A Gallipoli il 17 gennaio, nel giorno dedicato a Sant’Antonio
Abate, appunto detto “Sant’Antoni de lu focu” o “de lu porcu” iniziava il carnevale con l’accensione delle “focaredde” , cataste di fascine di rami di ulivo ricavati dalla rimonda, ma anche di vecchi mobili
disusati, che venivano bruciate, la sera, nei crocicchi della città, al
suono dei tamburelli e della pizzaca-pizzaca.
Risuonavano allora i canti frizzanti dei giovani e delle comari,
al ritmo della pizzaca-pizzaca e al suono vibrante del tamburello.
E de la ciacora rizza
Lu sangu ci nde scula
A stizza a stizza
A stizza a stizza
E nà e nà
Lu bene meu lu bene mà!
Na e nà e na, nì, nena.
E attorno al falò si consumava il rito antico del salto del fuoco per propiziarsi coraggio ma anche con funzione purificatrice,
avendo il fuoco il potere di bruciare e distruggere tutti gli influssi
dannosi.
Risuonavano allora gli stornelli dialogati che con una punta di
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malizia ma con tanta arguzia venivano mimati nella frenetica danza
corale di tutto il vicinato.
Suspiri ci te core, ahi me vaniti
Sciati alla bedda mea e sospirati
e cusì se fa l’amore e te passa lu dulore
na na na ni nena...
Ulia cu te lu ticu e nu bulia,
ulia cu te lu ‘ntossucu lu core
Quandu teve te nde cali... la candela bruscia l’ali
e palomba vola vola, l’augeddu a la gaggiòla
na na na ni nena
Spento il fuoco, si distribuiva la brace rimasta soprattutto ai
vecchi mettendola nei “coppi”, vasi generalmente di rame o di ferro
che a quei tempi sostituivano i moderni impianti di riscaldamento.
Anticamente la cenere, ritenuta benefica e purificatrice, veniva sparsa al vento dall’alto delle mura, per placare l’ira del mare e
consentire ai pescatori un tranquillo ritorno.
A Gallipoli ad iniziare dal 17 gennaio il Carnevale entrava
nel vivo della allegra e spensierata partecipazione popolare fino
arrivare al penultimo giovedì chiamato “sciuvadia de le cummari” e
all’ultimo detto “sciuvadia de li cumpari”. Erano chiamati così in
quanto in quelle due sere si facevano allegri festini dedicati rispettivamente alle donne e agli uomini.
Il carnevale naturalmente impazzava su Via Antonietta De Pace
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tra il bar del popolo e il bar dello sport. Una marea di gente si accalcava lungo la via a gustarsi i frizzi ed lazzi gustosi delle mille e mille
maschere vestite col “domino”, “te malevita”, “te tialu”, “te
montagnola”, insomma “vandu te susu e vandu te sotta” perchè anche
un lenzuolo od una vecchia coperta serviva a rendersi irriconoscibili,
mascherando così dietro l’anonimato la voglia corale della trasgressione.
Chi poteva, acquistava chili e chili di “cacai, candallini e
mendule ricce”, che in punti prefissati della via sventagliava lontano
sulla testa delle improvvisate mascherate, per la gioia di grandi e
bambini.
E i coriandoli, più alla portata delle tasche del popolo si consumavano a sacchi poichè tutti, ma veramente tutti, dovevano avere il
piacere di lanciare sulla folla “na francata de curianduli”.
“Carniale meu chinu te mbroje, osci carne e crai foje ».
Il motto7 lo si ripeteva spesso e simboleggiava il passaggio tra
il periodo grasso del carnevale e il periodo di digiuno e astinenza
della Quaresima.
Ed era la sintesi di un vissuto culturale e sociale di un popolo
che si riconosceva nella caducità della vita terrena e nelle tribolazioni della condizione umana, ma che, nonostante tutto, non disdegnava la licenza e la gioia del vivere.
Al fondo vi era sempre una nozione didattica della vita da
praticare e da tramandare nello spirito dell’insegnamento cristiano.
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Il carnevale ha rappresentato, soprattutto nel Medioe12345678901234567890123456789012123456789012345678901234567890121234567890123456789012345
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vo, l’inizio del nuovo anno, in quanto coincide con il momento
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in cui la natura, dopo il lungo letargo invernale, si risveglia.
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Etimologicamente l’origine della parola carnevale è an12345678901234567890123456789012123456789012345678901234567890121234567890123456789012345
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cora incerta, alcuni la fanno derivare da “Carne-vale”, altri da
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“carne-levamen” ed altri ancora da “carnem-levare”.
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Se incertezze vi sono sulla etimologia del termine, è
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certo che nelle tradizioni carnascialesche questa festa si cele12345678901234567890123456789012123456789012345678901234567890121234567890123456789012345
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brava per propiziarsi i favori degli dei. Basti ricordare le feste
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dei Babilonesi e degli Egiziani, che durante l’equinozio d’au12345678901234567890123456789012123456789012345678901234567890121234567890123456789012345
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tunno onoravano i Cherubs, buoi importati dai primi sacerdoti
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etiopi.
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Gli Egizi, fin dai tempi delle dinastie faraoniche, furono
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i primi ad ufficializzare una tradizione carnevalesca, con fe12345678901234567890123456789012123456789012345678901234567890121234567890123456789012345
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ste, riti e pubbliche manifestazioni in onore della dea Iside,
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che presideva alla fertilità dei campi e simboleggiava il perpe12345678901234567890123456789012123456789012345678901234567890121234567890123456789012345
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tuo rinnovarsi della vita.
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Il carnevale greco invece veniva celebrato in varie ri12345678901234567890123456789012123456789012345678901234567890121234567890123456789012345
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prese, con riti e sagre in onore di Bacco, dio del vino e della
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vite. I “Saturnali” furono per i Romani la prima espressione
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del Carnevale e gradualmente, perdendo l’iniziale significato
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rituale, divennero semplicemente delle feste popolari.
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Le manifestazioni in onore di Saturno, dio dell’età del12345678901234567890123456789012123456789012345678901234567890121234567890123456789012345
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l’oro, invece, iniziavano il 17 dicembre e si prolungavano dap12345678901234567890123456789012123456789012345678901234567890121234567890123456789012345
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prima per tre giorni fino ad arrivare in seguito fino alla metà di
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gennaio.
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Nella tradizione gallipolina, perciò, anche il rito spettacolo
del carnevale si consumava tra la nascita e la morte, in una sorta di
parafrasi dello svolgersi della umana esistenza.
Il carnevale aveva, infatti, il suo battesimo di purificazione
con il fuoco il 17 gennaio ed il suo funerale il martedì grasso.
La forza del suo simbolismo si impernia ancora oggi attorno
alla morte “de lu Titoru”.
Teodoro, questo il nome della maschera tradizionale
gallipolina, è un giovane soldato, come narra la tradizione, che tenta
di ritornare in famiglia dopo una lunga assenza e dopo aver patito il
freddo, la fame e rischiato la vita in battaglia, in tempo per partecipare alle gozzoviglie del carnevale con i suoi amici e parenti.
Occorreva il tempo necessario per affrontare il lungo viaggio,
ma non sarebbe potuto arrivare mai in tempo nella sua città.
E’ la madre “de lu Titoru”, popolarmente riconosciuta nella
“Caremma”, che si fa interprete di questo desiderio del figlio, non si
sa bene se intercedendo presso Dio o per opera “de macarìa”.
Fatto sta che il carnevale venne prorogato di due altri giorni
che furono, perciò, detti “li doi giurni de la vecchia”.
Teodoro ebbe così la fortuna di ritornare in Gallipoli proprio
quel martedì, ultimo giorno di carnevale, e non si può credere la
gioia pazza che lo avvinse, cercando di recuperare il perduto, ingozzandosi di salciccia e polpette, abbondantemente innaffiate da rivoli
di buon vino rosso.
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Ma tanto s’ingozzò che alla fine “fice‘ngaiu” e ne morì.
Sottile notazione di sapienza popolare che, attraverso la figura di Teodoro, vuole insegnare la moderazione e la vissuta consapevolezza della caducità dei piaceri della vita di fronte alla prospettiva
della morte.
Sulle imprese carnascialesche di Teodoro e sulla sua fine, si
incentrava il funerale, teatralizzato in forme tragicomiche, che percorreva le vie della città, con il suo seguito di prefiche in gremaglie,
di amanti travestiti e compari ubriachi, ironici e beffardi, mentre sulle note di una pizzaca-pizzaca, la mamma “de lu Titoru” cantava
Ci te lu curciu verde
La mamma chiange ca lu fiju perde
Lu fiju perde…..
E lu fiju ca nd’è natu
È partutu allu surdatu
Nà, nà e nà nì nena….
Una folta schiera di bambini, anch’essi col viso nero carbone,
battendo con gran fracasso latte di zinco, seguivano un carretto sgangherato, ricoperto di drappi funerei e rami di palmizio, su cui Titoru
ritrova la propria formale dignità nella morte, vestito con frac e cilindro, ma ancor deriso e sbeffeggiato da una folla di compari ubriachi e “nquatarati de fore e de intra”.
Poi, alle 22 di quel martedì grasso, rintoccava il campanone
di San Francesco d’Assisi. E si avviava una ciurma di improvvisati
banditori con tamburo, grancassa, piffero e tromba, che seguiti da
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“Titoru” d’altri tempi.
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una moltitudine di ragazzi, annunziavano per i vicoli della città l’inizio della Quaresima.
Ma solo a mezzanotte ufficialmente terminava il carnevale,
quando ai rintocchi lugubri del campanone dei francescani una folla
di penitenti in ginocchio e a capo scoperto attestavano la propria
compunzione, nella consapevolezza della labilità della vita e nella
speranza di un perdono divino.
Un altro periodo dell’anno stava per iniziare all’alba del mercoledì delle ceneri, giorno di purificazione e di preparazione al lungo periodo quaresimale.
La Caremma faceva allora capolino nei crocicchi della stradine
del centro storico.
Si brucia “la
C a re m m a ” i n
via Briganti.
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RITI RELIGIOSI E PRATICHE PIE
Accanto ai riti di origine pagana trovano la giusta collocazione quelli sacri in quanto mossi dalla fede. Il periodo quaresimale è
quello in cui si condensano la maggior parte di questi riti, che sono
tutti di natura penitenziale.
Nella Congregazione dei Nobili di San Vincenzo Martire e della
Immacolata Concezione dei Nobili Patrizi, si era soliti nei lunedì di
Quaresima, incluso il lunedì santo, congregarsi “i Confratelli in
chiesa alle ore 21 indi seguiranno a quelle divote funzioni di penitenza ordinate dal rito della Chiesa, il Padre rettore farà la meditazione della Passione del Signore, e dopo estinti i lumi si daranno
la disciplina”.
Nella Confraternita delle Anime durante la pia pratica della
recita della predica , nella quarta domenica di Quaresima “si adornerà pomposamente l’altare nella chiesa maggiore e resterà illuminato nella santa messa cantata e predica, nella quale l’Ill.mo Priore e Confratelli, con i Reali Canonici che saranno invitati a questo
oggetto si farà la questua in detta chiesa per tre volte”.
Terminata la funzione “si anderà parimenti attorno dalli Fratelli Officiali per la cerca, ed il dopo pranzo si farà l’istesso per la
Città. L’elemosina che si raccoglieranno in detta cerca si daranno
a chi deputerà la Congregazione per farne messe in suffragio delle
Anime del Purgatorio, senza che i Vescovi pro-tempore, o altri pos41
sono quelle impedire, e prenderle tutte, o parte per darle a chi loro
piacerà”.
I Confratelli nel periodo quaresimale e in determinate festività erano oggetto di mortificazioni corporali: “stare in ginocchio per
qualche spazio di tempo, baciar la terra, prostrarsi a terra, tenere
in mano il Crocefisso”.
In questa Confraternita fino al primo ventennio del secolo scorso, venivano celebrate le feste di san Domenico di Guzman, Santa
Caterina da Siena, con l’esposizione del Santisimo, San Luigi Conzaga
con procesione per devozione di “alcuni giovani”.
La Confraternita della Purità contemplava durante il periodo
della Quaresima l’adorazione della Santa Croce con l’ufficio in tutti
i venerdì di Quarsima. Il Venerdì santo invece si recitava “l’orazione
della Passione” con i sette soliti Pater ed Ave.
Nella Confraternita delle Anime o della SS. Trinità le
mortificazioni che si praticavano erano “stare inginocchioni per qualche spazio di tempo, baciar la terra, prostrarsi a terra, tenere in
mano il Crocefisso, o qualche teschio fatto di legno, tenere una
croce sopra le spalle, o una corona di spine in testa o qualche fune
al collo, baciare li piedi a Fratelli, vestirsi coll’abito, recitare qualche Salve Regina, De Profundis, o altro e disciplinarsi.”.
Una delle pratiche pie e di carità era quella della raccolta
delle elemosine per devolverle ai bisognosi.
Tale pratica aveva avuto il suo inizio nel 1639 e tornò utile
“verso la metà di Quaresima, facendosi dal predicator quaresimale
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nella chiesa Cattedrale la Predica delle Anime del Purgatorio si
anderà parimenti attorno dalli Fratelli Officiali per la cerca, ed il
dopo pranzo si farà l’istesso per la città, l’elemosina, che si raccoglieranno in detta cerca si daranno a chi deputerà la Congregazione per farne celebrare Messe in suffragio delle Anime de Purgatorio, senza che i Vescovi pro-tempore, o altri possano quelle impedire, e prenderle tutte, e parte a chi loro piacerà”.
Darsi la disciplina era abbastanza in uso in quasi tutte le
Confraternite. Oltretutto era contemplato negli statuti: “Quanto al
dopo Vespero che si reciteranno alcune divozioni si farà Congregazione; nelli ultimi tre giorni di Carnevale, Venerdì di Quaresima,
nei quali dopo la meditazione si faranno le solite consuete funzioni
della Coronella, Disciplina, ed adorazione della Croce.”
Anche nella Confraternita dell’Immacolata si usavano le solite funzioni della Coronella, la mistica adorazione della croce e la
disciplina corporale soprattutto durante il carnevale “per evitare l’occasione del peccato e per piangere anche le nostre colpe”.
In particolare si usava tenere confraternita segreta “per quelli
che si sono vestiti maschere in questo Carnevale”, i quali erano
tenuti a mortificarsi davanti ai confratelli, praticando la disciplina.
Ancora oggi, nell’ Oratorio dell’Immacolata, tutti i venerdì di
Quaresima si è soliti fare la pia pratica delle cinque piaghe del Signore. I confratelli, partendo dalla porta d’ingresso, caricati della
croce o delle “mazzare” (grosse pietre) appese al collo, salmodiando
e recitando le preghiere, raggiungono in ginocchio l’altare.
Il rito spesso scandiva l’incedere del tempo e ne segnava il
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cambio delle stagioni.
Fino a qualche anno fa’, per tradizione da secoli, nell’Oratorio degli Angeli, durante la messa, al Gloria, il Padre rettore celebrante, lanciava in alto la tradizionale colomba bianca, simbolo della discesa dello spirito Santo, ed alla fine della Messa si distribuivano moltissimi grappoli di ciliegie ai congregati, ma soprattutto ai
fanciulli presenti nella chiesa.
Rito questo che caratterizzava il cambio delle stagioni.
LE MANIFESTAZIONI DI CULTO.
Nelle feste religiose il momento più importante e principale è
caratterizato dalle processioni nel giorno di vigilia, con accompagnamento di banda.
La processione è certamente una delle forme più spettacolarizzate
del culto verso i Santi. La ricorrenza del giorno ufficializzato dalla Chiesa
per la solenne celebrazione delle virtù del Santo è motivo di festa popolare con inevitabili contaminazioni di tipo profano.
Anche la drammatizzazione dell’evento era consuetudine di un
tempo che ancora sopravvive in alcune realtà locali.
A Gallipoli la teatralizzazione della ricorrenza religiosa è tipica
nelle processioni della Settimana Santa con l’utilizzo della statuaria con
chiaro riferimento alle fasi della passione di Cristo. Corollario erano
anche “i sciudei de la bara” , devoti vestiti degli abiti della tribù di
Giuda, che in funzione espiatoria sorreggevano le aste della bara del
Cristo morto della Confraternita della Purità.
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Anche il ricco addobbo della “bara”, su cui veniva issata la
statua del santo, era motivo fastoso e festoso di stupore e meraviglia,
avendo cura di evitare, anno per anno le inopportune ripetizioni.
Ma la vera spettacolarizzazione della vita e delle virtù del
Santo festeggiato avveniva mediante la rappresentazione in piazza di
vere e proprie scene teatrali con testi e musiche appositamente composti da letterati e musici locali.
Testimoniata abbondantemente è, a Gallipoli, la serie di scene
liriche e teatrali e gli oratori sacri rappresentati in onore di S. Agata,
S. Sebastiano, di S. Domenico e della vergine Maria.
Lo stesso Giuseppe Castiglione nel romanzo “Roberto il Dia-
EP
Processione di S. Antonio (giugno 1952)
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volo”, che narra le gesta di un pirata gallipolino sullo sfondo della
presa di Gallipoli da parte dei Veneziani nel 1484, descrive la processione di Sant’Agata in modo spettacolare e folkloristico, con la
rappresentazione pubblica di una “tragedia”, sottolineandone il solenne sfarzo processionale e la suggestiva coreografia.
La corale partecipazione popolare veniva sottolineata dalla
partecipazione dei confratelli delle locali confraternite nei loro abiti, dell’intero Capitolo, delle associazioni religiose e laiche, dei bambini spesso figuranti angeli alati.
E il salmodiare dei devoti e le preci del sacerdote, erano spesso
e comunque destinati ad essere sovrastati dagli inni e dalle marce
solenni delle bande che in qualche modo dovevano ricordare, al di là
del rito devozionale, un clima laico e festaiolo ed anticipare la grande festa popolare che si sarebbe tenuta in piazza con le luminarie, la
fiera, la cuccagna ed altre stupefacenti attrazioni popolari.
Processione del Bambino di Praga (Anni ‘50)
46
I SANTI PATRONI DI GALLIPOLI
Tre giorni dopo l’ingresso del periodo carnascialesco, Gallipoli
si adorna a festa per i festeggiamenti dei suoi santi patroni: San
Sebastiano e Sant’Agata.
San Sebastiano è il protettore principale della città di Gallipoli
e lo si festeggia il 20 gennaio. S. Agata oltre ad essere comprotettrice
di Gallipoli è anche titolare della cattedrale e comprotettrice della
diocesi. La sua festa si celebra il 5 febbraio.
Il culto per San Sebastiano è assai diffuso nel Salento. A
Gallipoli è stato venerato fin dal sedicesimo secolo come
comprotettore della città. Il giorno della vigilia il simulacro d’argento viene portato processionalmente per le vie della città vecchia
unitamente a quello della comprotettrice S. Agata che sfila per primo. Vi partecipano tutte le Confraternite con le insegne e gli abiti
confraternali.
Nella processione del 4 febbraio invece, il busto di S.
Sebastiano anticipa quello di S. Agata e ciò in considerazione della
uguale valenza del patrocinio dei Santi nei confronti della città.
E’ un modo anche sfarzoso di esibire solennemente i preziosi
busti argentei dei Santi.
Prima che il santo faccia ritorno in Cattedrale, dal bastione
della Bombarda, viene impartita alla città e al mare, la benedizione
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48
con la reliquia del santo.
A conclusione dei festeggiamenti, dopo il rito religioso, il santo
viene portato a spalla da quattro vigili urbani per le navate della
cattedrale, dove il santo dimora.
Il martire è protettore delle guardie municipali. Arruolato alla
milizia romana, sotto Dioclezano, preferì morire saettato dalle frecce piuttosto che tradire la sua fede.
Sul basamento della sua statua in pietra, posta in una delle due
nicche sulla facciata barocca del duomo gallipolino, si leggeva un
tempo l’invocazione latina a far liberare la città dalla peste.
A Gallipoli la devozione a Sant’Agata è molto remota e data
all’8 agosto 1126, giorno del ritrovamento della mammella della Santa
nella località “Pizzo”.
La sera del 4 febbraio, in uno speciale scambio di cortesie il
busto della santa, preceduto da quello di San Sebastiano, processionalmente fa il giro della città attraverso le viuzze e i vicoli.
Nel solenne pontificale del giorno successivo, celebrato dal
Vescovo, il canonico cantore, intona il vangelo nella liturgia greca, a
memoria del tempo in cui nella chiesa gallipolitana, le manifestazioni di culto venivano ufficiate nella liturgia greca.
Fino a qualche anno fa, in questo giorno, era in uso l’obbedienza canonica.
Il Cancelliere della Curia Vescovile, chiamava prima il clero,
seguito dai Priori delle Confraternite, e successivamente i rappre49
sentanti delle associazioni religiose e laiche.
Tutti erano tenuti ad inginocchiarsi davanti al Vescovo ottemperando formalmente all’obbligo di obbedienza baciando l’anello
vescovile e consegnando quale tributo una candela.
Disegno della reliquia di S. Agata
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Piedistallo argenteo conservato nel
tesoro di S. Agata.
LA SINDONE GALLIPOLINA
L’ostensione della Sacra Sindone custodita nella Cattedrale di
Sant’Agata, come una delle poche copie esistenti al mondo, rappresenta il rito delle piaghe del Signore, che inizia il primo venerdì di
Quaresima e finisce il Venerdì prima della Domenica delle Palme.
La copia della Sacra Sindone di Gallipoli ha una storia che
comincia nel 1500. Il culto risale presumibilmente alla fine del XVI
secolo. L’ostensione del sacro lino (dal greco “sindon”), anticamente
avveniva nel primo altare di sinistra entrando in chiesa, dedicato a
Sant’Isidoro Agricola e che sulla sommità del dipinto ha un crocefiso
con ai lati Maria e Maddalena.
Il diritto di patronato di questo altare è riservato al “Capitolo
Cattedrale”. Per la tradizione cristiana la sacra Sindone corrisponde
al drappo di lino che gli Ebrei impiegavano per avvolgere i cadaveri
prima di dar loro sepoltura. I vangeli parlano della Sindone come del
sudario funebre con cui venne avvolto il corpo di Gesù Cristo, prima
della deposizione nel Sepolcro.
Il telo impresso a tempera con l’effigie del Cristo deposto rilevata dall’impronta della Sindone di Torino, fu portato in città da
monsignor Sebastiano Quintero Ortis, nato a Granada in Spagna e
consacrato Vescovo di Gallipoli il 17 febbraio 1586. Fu vescovo di
Gallipoli fino al 1593..
Si pensa che questa reliquia sia stata poggiata sul suo originale, in occasione del pellegrinaggio che fece San Carlo Borromeo
51
da Milano a Torino nella cappella di San Lorenzo, nel 1578.
La copia di Gallipoli misura metri 4,10 per 1,40. Sul telo si
legge anche la riproduzione dei segni lasciati sulla Sindone dall’incendio avvenuto a San Chambery nel 1532.
Croce dei Misteri con i simboli della Passione di Cristo.
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I RITI DELLA PASSIONE
Affermava il valtellinese Pietro Maisen scrivendo delle qualità civili, morali e religiose della popolazione gallipolina “Molto
ligio alla propria religione è il popolo gallipolino…” aggiungendo
che “Le feste religiose si celebrano in Gallipoli con grande solennità…”.
Giuseppe Castiglione annotava nel 1853: “continue sono le
festività religiose che vengono celebrate con ogni sontuosità” e
“le processioni devote attirano la curiosità dei forestieri …”.
Ma, al di là di tali autorevoli testimonianze. è indubbio il fervore religioso del popolo gallipolino e la sua corale partecipazione
ad una ritualistica codificata attraverso un vissuto religioso sentito e
condiviso in secoli di storia.
Papa Woytila parlando ai Messicani nel lontano 1979 sottolineava come “la pietà popolare non è necessariamente un sentimento vago, carente di solida base dottrinale, come una forma inferiore di manifestazione religiosa... è al contrario, la vera espressione dell’anima di un popolo, in quanto toccata dalla grazia e
forgiata dall’incontro felice fra l’opera di evangelizzazione e la
cultura locale...”.
L’Enciclica “Evangeli Nuntiandi” di Paolo VI insegna che la
religiosità popolare “è ricca di molti valori: manifesta una sete di
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Dio, che solo i semplici e i poveri possono conoscere”.
Essa comporta l’umanizzazione della figura divina. In tal modo
il Dio del popolo ha ben poco in comune col “Deus absconditus” dei
teologi. E’ un Dio che accompagna l’uomo non solo nella scansione
temporale del vivere quotidiano, ma specialmente nella sofferenza e
nella sopportazione.
Più che a Dio Padre, creatore e giudice, il popolo si rivolge a
Cristo e Maria, che rappresentano le due figure più umanizzabili, più
vicine ai problemi terreni.
Non è un caso certamente che siano proprio i “riti della Settimana Santa” a costituire uno degli aspetti più significativi della pietà
popolare.
Ed è evidente che non si può parlare di riti e manifestazioni di
culto a Gallipoli se non si fa riferimento al grande fervore
confraternale che incise porofondamente nella pratica cristiana dei
laici.
La ritualistica della Settimana Santa è perciò tutta codificata
da questo vissuto confraternale e conformato soprattutto ad una immensa venerazione per Maria Vergine Madre di Dio e per suo Figlio
il Dio Redentore.
Qui a Gallipoli è eccezionalmente umanizzato, fino alla corale
condivizione, il dolore di Maria, la madre, e ne è esaltato il suo
tormento di fronte alla morte del Figlio divino, ritenendosi quasi scontato, culturalmente e religiosamente assorbito, il mistero grande della Passione e morte di Cristo per la redenzione del genere umano.
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Ecco perchè qui si anticipa, al Venerdì antecedente la Domenica delle Palme, la grande e solenne ritualistica dell’Addolorata.
Non c’è chiesa o Oratorio a Gallipoli che non possegga un
simulacro di Maria Addolorata e nelle case una folla di devoti custodisce la santa effigie della Vergine. soprattutto in cartapesta. collocata sotto una campana di vetro, a ricordo della particolare devozione delle proprie madri ed oggi testimone di un rinnovato fervore
devozionale corroborato da consolidate convinzioni di fede.
Padre Luigi Tasselli, lo storico autore de “Le antichità di
Leuca” stampata a Lecce nel 1693, sottolineava la grande devozione
della città di Gallipoli verso la Vergine Addolorata ritenendola derivata da quella che gli Aragonesi riservarono nel XV secolo a Maria.
Dal 1838, la solenne celebrazione dell’Addolorata è curata
con grandissima devozione dalla Confraternita di Santa Maria del
Monte Carmelo e della Misericordia avendo, tra i suoi tanti obblighi
statutari, quello di commemorare il Dolori di Maria nel Venerdì precedente la domenica delle Palme.
Quel Venerdì allora diventa per Gallipoli un giorno di mestizia
e di dolore. Non vi è festa di piazza, non bancarelle, non luminarie né
petardi. Ma semplicemente compartecipazione al dolore della Madre
dolente. E’ giorno di lutto e di digiuno.
A mezzogiorno, quando il Simulacro della Vergine esce dalla
“sua” chiesa per essere portato in Cattedrale, la banda alterna marce
composte per la ricorrenza dai compositori locali Ammassari, Bianco, Frisenna, De Somma, Panico, Pindinelli, Cardone.
55
Qualche anno fà, il mercoledì prima dell’inizio della “Settena”
la statua veniva vestita dalla nobile famiglia Ravenna, nella cappella
privata del proprio palazzo, che per antica tradizione godeva di questo privilegio.
Vestire la Madonna è una preghiera, una devozione, un rito
perché gli abiti, la biancheria, gli ori che la coprono sono offerti dai
devoti di ogni categoria sociale, per un voto fatto, per una grazia
ricevuta.
La vestizio-ne della Madonna è riservata alle donne.
Da questo rito non sono esclusi però gli uomini, che con
mani amorose partecipano all’antico rito carico di simbolismo.
Rito della vestizione dell’Addolorata.
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La vestizione delle statue lignee è un rito assai antico e
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risale addirittura al periodo pagano.
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Pausania, un autore del II sec. d.C., descrive i celebri
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Xoana della Grecia Antica, ancora esistenti ai suoi tempi, come
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dei manichini di legno a grandezza naturale che rappresenta123456789012345678901234567890121234567890123456789012345678901212345678901234567890123456
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vano la divinità.
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In Europa nel Medioevo, incominciarono ad addobbare
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le sculture in legno, di bronzo, di pietra con ori e vesti prezio123456789012345678901234567890121234567890123456789012345678901212345678901234567890123456
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se. Nel rinascimento si rafforza il culto mariano e si arricchi123456789012345678901234567890121234567890123456789012345678901212345678901234567890123456
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scono i gardarobe delle Madonne.
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I manichini vestiti sostituiscono le statue in pietra e in
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bronzo perché non idonei al trasporto processionale.
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Possono essere completamente in legno, oppure solo le
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parti visibili, tipo piedi, mani e testa.
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Il corpo era fatto da una struttura lignea imbottita di
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paglia e stoffa. Gli abiti sono arricchiti dalla preziosità dei tes123456789012345678901234567890121234567890123456789012345678901212345678901234567890123456
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suti di un tempo realizzati con disegni, telai e lavoro manuale
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che occupava diverse persone. La biancheria intima è rappre123456789012345678901234567890121234567890123456789012345678901212345678901234567890123456
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sentata da corpetti, manichette, camiciole, sottogonne, sotta123456789012345678901234567890121234567890123456789012345678901212345678901234567890123456
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ne in cotone, lino ricamate ed ornate da merletti realizzati ad
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ago, all’uncinetto e da semplici ricami. Le parrucche delle
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Madonne sono prodotte da capelli veri.
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Lo squillo lacerante della trom-ba e il rullare angoscioso del tamburo, aprono la processione e annunciano l’inizio di una settimana di passione e di fede.
Alle 12 in punto i confratelli in abito confraternale completamente nero e con la candela a quattro luci, accompagnano Maria santissima, nella Basilica Cattedrale, insieme al Vescovo, ai sacerdoti e
alle autorità civili e militari.
Il corteo processionale è aperto dal pennone della confraternita, listato a lutto, seguito dalla croce dei Misteri della Passione
sostenuta da un sacerdote.
La sacra immagine è vestita di nero, all’uso francese, con
veste trapuntata di delicati ricami dorati. Una corona d’argento le
sormonta il capo ricoperto da un lungo velo che Le ricopre le spalle.
La partecipazione della gente è commovente e carica di pathos. Ogni madre si immedesima nel dolore della madre per la perdita del figlio ed ogni uomo riconosce in Maria quell’amore immenso di cui solo una madre può essere capace.
Alla celebrazione eucaristica in Cattedrale segue l’esecuzione
della “Frottola”, una tipica composizione musicale a più voci che
trova la sua origine nell’oratorio sacro, poi influenzato dal genere
melodrammatico.
E’ una drammatica rappresentazione in musica e canto dei dolori di Maria e della Passione e morte di Cristo che verrà ripetuta in
più chiese nel corso del lungo peregrinare della solenne processione
per le vie della città.
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Carico di suggestione e di commozione è il rito della Benedizione del mare, dal bastione della “Bombarda”, comunemente detto
di San Giuseppe, prospicente al porto mercantile.
Maria dall’alto benedice tutti e ne riceve la commossa e partecipata risposta di tutto il suo popolo con prolungati suoni di clacson e delle sirene dei natanti ormeggiati al porto.
E’ devozione nel giorno dedicato a Maria che le donne reciti-
La statua dell’Addolorata.
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no mille “Ave Maria”. Nel momento del bisogno però ecco pronta la
richiesta “Madonna mia famme la crazia, pe quidde Ave Maria ca te
tissi”.
LA FROTTOLA
Tradizionalmente, nel giorno dedicato alla Vergine Addolorata, viene eseguito l’oratorio sacro. Alternativamente, negli anni, avviene l’esecuzione delle frottole “Ahi Sventura”, “L’han confitto” e
“Una Turba di Gente”, composte dal maestro gallipolino Francesco
Luigi Bianco, vissuto tra il 1859 e il 1920. Viene anche eseguito lo
“Stabat Mater” del maestro Monticchio.
La frottola nel linguaggio musicale corrisponde ad una composizione “leggera e scherzosa” che a Gallipoli, a far tempo dal 1697,
fu introdotta da Fortunato Bonaventura nipote del maestro di Cappella Giuseppe Tricarico e per la prima volta tra il 1733 e il 1740 venne
eseguita nella chiesa delle Anime in ricordo dei dolori di Maria.
Svariati sono stati i maestri che nell’ultimo secolo l’hanno diretta. Dal maestro Angelo Schirinzi, Gino Metti, al maestro Giorgio
Zullino il quale insieme a Metti, ha composto un preludio dedicato
alla Madonna, al maestro Gino Ettorre, francescano, professore nel
Conservatorio di Lecce.
L’onore e l’onere di dirigere l’orchestra e il coro composto
dalle scholae cantorum delle Parrocchie di Gallipoli, è toccato anche alla maestra Gabriella Stea e al maestro Enrico Zullino, che l’ha
diretta in questi ultimi anni.
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“I SEPOLCRI” E LE PROCESSIONI DEL VENERDÌ SANTO
Giovedì Santo, la chiesa celebra l’istituzione dell’Eucarestia.
Nelle chiese confraternali e parrocchiali di Gallipoli viene allestito l’altare della Reposizione, comunemente detto “Sepolcro”, addobbato con
ceri, damaschi drappeggiati e piatti di grano, fatto germogliare al buio
dalla quarta domenica di Quaresima.
Le confraternite, ad intervalli una dall’altra, si recano in processione nelle varie chiese a visitare i “sepolcri”. La visita ai “sepolcri” è
una manifestazione di culto che viene sancita da ogni statuto e all’atto
della erezione. La confraternita di Santa Maria del Monte Carmelo lo fa
per “vetusto privilegio confermato il 28 marzo 1772 per il pellegrinaggio nel giovedì santo con speciali insegne di Pellegrini”
La Confraternita dell’Immacolata il rito lo espletava, la mattina
del Venerdì santo con l’obbligo di intervenire “tutti li Confratelli a
vestire il sacco e per la visita de li santi sepolcri processionalmente
con li Religiosi, portando li Fratelli la bara di Cristo morto adornata
di lumi, e della Vergine Addolorata, e chi mancherà senza giusta cagione riceverà dal Priore una competente mortificazione” (22 maggio
1747).
Tale processione fu ferma per parecchi anni. Per svariati motivi.
Nel 1908 per esempio non uscì “a causa delle mozzette sdrucite, rattoppate e scolorite”.
Si tentò di riprendere il rito nel 1923 chiedendo il prescritto
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Visita al “Sepolcro” di S. Teresa.
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benestare alla Curia vescovile “constatando che le Congreghe degli Angeli, Purità e Crocifisso godono di un tale permesso per la
processione di Venerdì santo, rivolgono alla Reverendissima Curia
Vescovile la loro preghiera di accordarli il permesso per la processione di Venerdì Santo con la Statua dell’Addolorata e con quella di Cristo Morto, di cui se ne sono già provvisti”.
Permesso che non fu accordato per il generale divieto espresso
dalla Congregazione dei Sacri Riti, che da tempo intimava la soppressione delle processioni per la visita ai sepolcri con le statue del Cristo
morto e dell’Addolorata.
Era evidente comunque la finalità di tali disposizioni in quanto
occorreva riportare al suo vero significato liturgico la ritualistica dei
“sepolcri” che commemora l’istituzione della Eucarestia e l’inizio della
Passione di Cristo nell’orto di Getsemani .
Nel 1928 il Cardinale Gaetano Sbarretti, prefetto della Sacra Congregazione dei Riti, aveva anche negato il permesso alla Confraternita
della Purità di far uscire la processione per la visita ai Sepolcri, il venerdì santo dalle 4 alle 7 del mattino.
La richiesta del priore indirizzata alla Curia di Gallipoli, aveva
ottenuto il parziale permesso “purchè la processione non porti la statua dell’Addolorata e del Cristo morto essendo ciò vietato dalla S.
Congregazione dei riti. Se poi la Confraternita volesse portare le dette
statue questo si permette solo nel sabato santo nelle prime ore del
mattino in modo di ritirarsi verso le 7”
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Anche la richiesta fatta al Prefetto della Congregazione “allo
scopo di implorare grazia” aveva avuto lo stesso risultato.
Nella sua accorata petizione il priore sosteneva che “da secoli
questo popolo ha affluito insieme con la Confraternita nelle ore mattutine del Venerdì santo per la visita ai Santi Sepolcri, portando in
giro la statua della Pietà con Gesù morto cui il popolo è attaccatissimo”.
Il divieto a portare la Tomba in “detta processione del venerdì
santo” avrebbe “alienato” i confratelli “al punto che centinaia di uomini non fanno più da anni il precetto”.
La Congregazione fu irremovibile e la Purità potè organizzare la
sua processione, ma solo con la statua della Desolata. Processione che
si dismise dopo qualche anno, ma che riprese, con qualche polemica,
nel 1974 e che dura tuttora.
La Confraternita degli Angeli iniziò ad organizzare la processione con il Cristo morto il 29 marzo 1866, anno in cui in detta chiesa
avvenne la benedizione della statua attribuita ad Achille De Lucrezi, il
cartapestaio leccese considerato “il beniamino dei gallipolini”, da usarsi
nella processione della visita ai Sepolcri.
Detta processione fino al 1947 veniva organizzata all’alba del
venerdì santo fino a quando, cioè, il vescovo mons. Margiotta impose
che la processione si svolgesse “nel pomeriggio del Giovedì santo,
anziché all’alba del Venerdì in considerazione dei cattivi tempi che da
sei mesi impediscono la pesca, mentre si spera che venerdì sia buon
tempo propizio per avviarsi al mare”. Un poco di pioggia pomeridiana fece ritardare fino al tramonto l’uscita della Processione, “la
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quale ha visitato le Sette Chiese della città vecchia e le due chiese
del Borgo (Sacro Cuore e Canneto) percorrendo fra l’una e l’altra
visita quasi tutte le strade della città vecchia e della città nuova, e
rientrando nella nostra chiesa verso mezzanotte”.
“Lu ssuppiju” all’alba del Venerdì Santo del 1927 (da un dipinto di G. Pagliano
posseduto da E. Vernole).
Una delle prime Confraternite, di cui è attestata la pia pratica
della visita ai Sepolcri fu quella di San Giovanni Battista, organata
nella chiesetta dove attualmente si venerano i santi Cosma e Damiano.
I fratelli della Confraternita del Monte Carmelo e della Misericordia dal mezzogiorno del Giovedì e fino alle 11 del Venerdì procedevano a coppia, separati e accompagnati dal correttore e si reca-
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vano ai “sepolcri” per l’ora di guardia.
La processione successivamente si ricomponeva e insieme,
dopo essersi salutati, incrociando il bordone, raggiungevano
la
loro chiesa.
Il bordone, o bastone del pellegrino, è privilegio, insieme al
cappello, anche delle Confraternite della Santissima Trinità e di Santa Maria della Neve (o Cassopo).
L’incedere così lento e maestoso dei fratelloni ha infervorato
la fertile fantasia del popolo che ha fatto accostare questi fratelloni
ad esseri fantastici che incutono spavento ai piccoli, indicandoli col
termine dialettale “mai”, che è la sincope della parola italiana mago.
Le nostre nonne usavano l’espressione “ma-mau” per incutere paura verso i bambini.
Anticamente, prima della riforma liturgica, quando cioè Cristo risorgeva il mezzogiorno di sabato, la funzione del Giovedì Santo cominciava fin dalla mattina presto. A mezzogiorno in punto, “per
privilegio secolare” usciva la processione della Confraternita della
SS. Trinità e Purgatorio ( dei nobili) poi di Sant’Angelo (dei nobili
patrizi), indi seguivano quelle del Rosario, Santa Maria del Cassopo,
Sacro Cuore, San Giuseppe, San Luigi, Santi Medici.
Alle 17,30, usciva la processione della Confraternita degli
Angeli “lunghissima e ricca di simbolismo col gruppo statuario di
Cristo morto fra gli Angeli, impugnanti gli arnesi del martirio”.
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La processione era frequentata dai penitenti che procedevano
“an patulu”, cioè scalzi. Nella chiesa sono ancora conservate le
“mazzare” che i penitenti portavano appese al collo.
L’ultima edizione di queste processioni del giovedì è stata nel
1953.
Nella notte tra il giovedì ed il venerdì uscivano le processioni
della Purità e dell’Immacolata. Nell’oratorio dell’Immacolata, ogni
anno il Venerdì Santo, vengono rispolverate e montate su l’altare alcune scenografie della Passione di Cristo, dipinte dai fratelli
Nocera, nei primi anni del 1900.
Confraternita dell’Immacolata, Rappresentazione della Crocifissione.
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LA PROCESSIONE DELL’”URNIA”
Volendo azzardare una tesi, circa l’inizio di questa pratica
devozionale a Gallipoli ed interpretando le annotazioni che chiaramente compaiono sul registro dei conti ,dal 1733 al 1740, della Confraternita delle Anime, potremmo affermare che la prima Congrega
ad organizzare la processione del Cristo Morto nel Venerdì Santo e
l’e-secuzione della Flot-tola in memoria dei Dolori di Maria Addolorata fu proprio questa Confraternita.·
Il Venerdì San-to invece, “tre ore prima del tramonto”, proprio
Processione del Venerdì Santo. L’Addolorata della Confraternita degli Angeli.
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nell’ora in cui moriva Gesù, usciva la processione della “Tomba”, detta “de l’Urnia”, organizzata da sempre dalla Confraternita
del SS Crocifisso.
Nell’atto costi-tutivo di questa Confraternita (1643) si chiede
espressamente che i confratelli celebrino “con viva fede” la Passione di Cristo, attraverso le funzioni e la “significativa processione del
Cristo Morto nel giorno di Venerdì santo”.
A questo sodalizio laico si associavano di regola i bottai,
categoria artigianale che purtroppo non esiste più.
Precedono il Cristo morto, opera lignea del XIX secolo,
una serie di statue in cartapesta, realizzate su committenza del sodalizio, dal contemporaneo cartapestaio leccese Mario Didon-francesco
e raffiguranti i misteri della Passione di Cristo.
Processione del Venerdì Santo del 1953.
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Statua del Cristo alla colonna della Confraternita del Crocifisso.
I fratelli, con sacco, cappuccio rosso e mozzetta azzurra, portano in testa una simbolica corona di spine. Seguono i fratelli degli
Angeli (dei pescatori), con sacco e cap-puccio bianco e moz-zetta
celeste, e accompagnano la statua di Maria Addolorata.
Presumibilmente la statua lignea del Cristo morto risalirebbe
alla prima metà dell’800. Nell’inventario del 1728 dei beni della
Confraternita la statua non compare mentre, invece è citata nella visita pastorale di Mons. Antonio La Scala del 1855, dove si legge tra
l’altro: “adest lignea effigies satis devota Christi jacentis in sepulcro
cristallis clausa”.
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I PENITENTI
Per qualche anno sembrava che fossero stati ormai aboliti. Poi
c’è stato un ritorno di fiamma e si sono riaffacciati a sfilare insieme
ai confratelli.
Tutti rigorosamente incap-pucciati, portando grosse e pesanti pietre appese al collo
(mazzare) o percuotendosi il petto
e la spalla con il
cilicio.
C’è chi cammina scalzo portando sulle spalle
una grossa croce di
legno, mortificando il proprio corpo in segno di penitenza, pratica questa
che trova il suo fondamento nell’ ”imitatio” della Passio- Penitente con la “mazzara”.
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Giovane
penitente
Penitente con la croce
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ne attraverso la “disciplina, intesa co-me penitenza, nella quale l’uomo rivive spontaneamente la sofferenza del Cristo”.
Questa manifestazione penitenziale e spettacolare del popolo,
si esprime inizialmente con il movimento dei “flagellanti” che si
propagarono in Italia, in un irrefrenabile impeto di devozione penitenziale sin dal 1262.
La processione del Venerdì santo è, perciò, l’espressione più
esaltante e più sofferta delle sacre rappresentazioni.
Spesso le Con-fraternite medioevali rappresentavano con cupo,
triste e a volte pauroso
realismo, nei giorni
che ricordano la Passione di Cristo, le sofferenze patite dal Dio
fattosi uomo per redimere dal peccato il genere umano.
Sono queste espressioni penitenziali drammatiche che rendono i riti
della Settimana santa uno
dei momenti religiosi più
significativi di tutte le
celebraioni pugliesi e del
Mezzogiorno d’Italia.
Giovane penitente
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LA PROCESSIONE DELLA DESOLATA CON I “SCIUTEI DE LA
BARA”
L’alba del Sabato Santo saluta la processione di Maria Desolata ad
opera della Confraternita di Santa Maria della Purità, costituita originariamente dai “bastagi” o scaricatori di porto.
La statua, splendito lavoro in cartapesta del ‘XIX secolo, viene
preceduta da Cristo morto, disteso in un’urna dorata. Nei primi del 900
la bara veniva portata a spalla da confratelli che indossavano vestiti
dai colori simili a quelli del popolo ebreo e con le stesse striature
della livrea delle “donzelle”, che il popolo chiama “sciutei”.
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Proprio per questo accostamento, quelli che portavano la bara
del Cristo venivano chiamati “li sciutei de la bara”. In questo modo
si voleva rappresentare l’espiazione della colpa del deicidio perpetrato dal popolo ebraico, secondo un insegnamento della Chiesa, oggi
per fortuna rinnegato.
Il momento più suggestivo e toccante della processione è rappresentato senz’altro dall’incontro della statua della Vergine con quella de
Figlio morto, al largo della Purità, davanti alla chiesa per l’estremo saluto, con il mare sullo sfondo e una folla immensa, commossa, a far da
cornice.
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LA FAMILIARITÀ DEL POPOLO GALLIPOLINO CON LA SACRA
FAMIGLIA
Da Giovedì santo a Sabato santo insomma la città si carica di
un lutto collettivo, che ha come nucleo speciale di riferimento la Chiesa, intesa come casa di Dio.
Il Cristo allora viene pianto e accompagnato con intensa partecipazione corale da uomini e donne, con un rito uguale a quello che
avviene nel privato.
Se da un lato il comportamento dei “fratelli della bara” durante le processioni funebri, potrebbe far gridare allo scandalo, per
l’abbigliamento degli stessi non proprio consono all’evento, (jeans e
scarpette di gomma)dall’altra trova giustificazione, proprio in questo considerare il Cristo morto, uno di famiglia.
E’ per ciò che la Chiesa, investita dalla morte di Cristo, assume tutta la dolente domesticità della casa.
La visita ai sepolcri viene fatta, forse è meglio dire, dovrebbe
essere fatta, silenziosamente, senza scambiare il saluto lungo le strade, fra conoscenti.
Una sorta di “familiarità riverente” si instaura dunque con la
Sacra Famiglia.
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SEGNI PAGANI NELLA PASQUA CRISTIANA
La Pasqua è una festa che ha profonde radici sacre e rituali
che accomuna più popoli. Anticamente la festa era fissata il 14 del
mese dell’anno, che coincideva con l’inizio della Primavera e ricordava la liberazione del popolo Ebraico dall’oppressione dei Faraoni.
La Pasqua cristiana viene celebrata per commemorare la risurrezione di Cristo e risale al II-III secolo.
Il primo retaggio ebraico della ricorrenza lo troviamo già nella data. La Pasqua infatti è regolata dal calendario lunare e cade nel
primo plenilunio, dopo l’equinozio di primavera e si colloca tra il 21
marzo e il 26 aprile.
Su questa data si regolano tutte le altre feste mobili : Ascensione, Pentecoste, Corpus Domini e SS. Trinità.
Nella Pasqua cattolica ricorrono gli stessi elementi della Pasqua ebraica, ma a questi se ne sono aggiunti altri, provenienti dalla
tradizione pagana.
Nell’antico Egitto si celebravano numerose risurrezioni di
Osiride. La leggenda racconta che Iside, sua sorella, lo pianse amaramente e vagò per tutto l’Egitto alla ricerca delle sue spoglie.
Trovatele, le ricompose e durante la veglia germogliò una spiga di grano. La morte di Osiride, morte rituale, era la trasposizione
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della rinascita della Terra, della trasmigrazione delle anime, della
risurrezione attraverso la natura.
Un’altra consuetudine di origini pagane è il rametto di ulivo,
il quale assumeva valore esorcizzante. In epoca pre-romana il ramo
d’ulivo veniva usato per purificare le case dagli spiriti maligni. Per i
cristiani invece il rametto d’ulivo è simbolo di pace.
A Gallipoli e nel salento il rametto benedetto nel giorno della
Domenica delle Palme viene meso o dietro la porta d’ingresso o in
capo al letto.
La Pasqua cristiana continua ancora oggi a conservare i suoi
caratteri fondamentali, poiché diventa assai arduo modificare usanze
e convinzioni che si tramandano da secoli di generazione in generazione, con l’aggiunta di altri di provenienza pagana.
Forme e grandezze di varia misura assumono i “piatti” di grano, fatto germogliare al buio fin dalla quarta domenica di Quaresima,
posti davanti al “sepolcro”.
Nella cultura pagana il grano fatto germogliare veniva usato
per celebrare la risurrezione dalle tenebre di Atis e di Adone o
come simbolo del rinnovarsi misterioso delle messi, dalle quali dipendeva la vita dell’uomo.
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LA CAREMMA
Una manifestazione popolare, caratteristica della Pasqua è l’accensione della Caremma. Un fantoccio di paglia con sembianze femminili in gramaglie rappresentante, nella cultura popolare gallipolina
la mamma “de lu Titoru”, ma in senso figurato la quaresima dal
francesce “Careme” .
E ‘ una figura scaramantica ed sorcizzante, simboleggiando
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l’astinenza e la mortificazione del corpo.
A questo fantoccio il popolo ha assegnato una funzione
calanderiale rappresentandola provvista di fuso al cui filo è agganciata un’arancia nella quale vengono confitte sette penne di cappone.
Ogni penna rappresenta una delle sette settimane di quaresima
e col loro trascorrere ogni penna viene rimossa fino all’ultima, il
giorno di Pasqua.
Questa simbologia con il fuso appeso rimanda ai miti delle
Parche e alla parafrasi della vita che l’una Parca fila e l’altra tronca.
Qui la simbologgia rimanda ad una cultura ancor più profonda
in quanto le Parche rappresentano nella cultura pagana il destino, il
fato, mentre la Caremma è la cultura cristiana dell’aspettazione del
Dio che si è fatto Uomo e che con la sua Passione e morte ha redento
il mondo promettendo la resurrezione dei morti nell’eternità dei cieli.
Bruciare la Caremma quindi è alla fine un rito salvifico e di
purificazione che distruggendo col fuoco il passato prefigura la beatitudine dell’anima.
Questa tradizione viene rinnovata ogni anno da alcune associazioni di tradizioni popolari e lo sparo della Caremma avviene lungo
scarpata del Rivellino.
Anticamente il rito, con le Caremme appese ad ogni incrocio
nelle stradine del borgo antico, veniva celebrato sabato a mezzogiorno, accompagnato dallo scampanio che annunciava la Pasqua di Risurrezione.
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LA PASQUA IN CUCINA
Nel periodo pasquale a fianco delle tradizioni religiose e pagane trovano una loro giusta collocazione quelle gastronomiche.
Spesso si usa mangiare un “piatto” per tradizione e “devozione”. Espressione assai comune tra il popolo, riuscendo così a far
conciliare il sacro con il profano.
Nel giorno dedicato a Maria Addolorata, giorno di digiuno
canonico, è consuetudine mangiare a pranzo fagioli lessi conditi con
olio e limone, un piatto tipico della tradizione carmelitana rigorosamente seguita dai confratelli di Santa Maria del Monte Carmelo e
della Misericordia.
A cena “pasta alla pizzaiola” con acciughe, capperi, tonno e
peperoni sottaceto (allu suzzu).
Durante il ciclo pasquale bisognava astenersi dalle carni e dai
derivati degli animali come il latte ed i formaggi.
A caratterizzare però gastronomicamente il giorno di Pasqua è
lu “spazzatu”. Viene preparato con carne di agnello, uova, formaggio,
pan grattato e prezzemolo.
In questo giorno, alcuni anni addietro, dalla tavola non poteva
mancare “lu benatittu”, un piatto preparato con uovo sodo, un finocchio, un’arancia ed un pezzo di pane, che il sagrestano aveva cura di
portare nelle case, dopo averlo fatto benedire dal parroco.
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Anticamente al posto dell’uovo sodo si preparava l’agnello,
la cicoria al posto del finocchio ed il pane era azzimo secondo l’usanza
ebraica.
In casa poi veniva conservato un pezzo di quel pane benedetto
e nel caso di tempeste lo si gettava in mare per farlo calmare. Questo
rito rievoca il sacro rito ebraico della primavera.
L’uovo sodo, presente nella cucina pasquale gallipolina e del
Salento, nella simbnologia pasquale racchiude il mistero del mondo
nella sua forma finita, tondeggiante.
All’uovo veniva riconosciuto il simbolo della fecondità e della vita. Nel giorno di Pasqua si usava mangiare la “cuddura”, una
sorta di pane con l’uovo sodo, sorretto da due bastoncini a forma di
croce, simbolo della fede e della pace. Anche l’uovo, cucinato a
bagnomaria, assume il significato del ciclo che ricomincia. Tra l’altro l’uovo sodo fu anche uno dei cibi che il popolo ebraico portò con
sé durante la fuga in Egitto.
“Le canne pe le pupe” gridavano un tempo alcuni venditori
ambulanti. In effetti le canne, opportunamente lavorate, servivano alle
massaie gallipoline per confezionare con pasta dolce le “pupe” per
le bambine e i “cadduzzi” per i maschietti.
Il primo morso, tendente a mozzargli la testa veniva dato sabato a mezzogiorno, quando “scapulavene” le campane per annunziare
il Cristo Risorto.
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LA PASSIONE DI CRISTO VISTA DAL POPOLO ATTRAVERSO
ALCUNI CANTI NARRATIVI CHE VENIVANO RECITATI ANTICAMENTE
DAVANTI AL SEPOLCRO.
Le ventiquattr’ore della Passione di Cristo
Prima ora è già sunata
Gesù meu facia la cena
Cu li soi biati apostuli
La facce soa serena.
Alle doi
Lavau li pieti
Comu era ordinatu
Pe liberare Giuda de paccatu.
Alle tre
Mo’ se mbicina lu strumentu
Pe stituire lu Santissimu Sacramentu.
Dopu desciunau
Giuda tradimentu preparau.
Alle quattru
Lu meu Signore
Pe caritate fice nu gran sermone.
Ci Giuda se pantassi (pentisse)
Lu sou Maestru lu critasse.
Alle cinque
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Se ncaminau
Versu l’ortu se n’andau.
Alle sei
Cu Patre Eternu se cquistau
La sua Morte e Pasione cuntemplau.
Alle sette comu nu marfattore foe ttaccatu
Alle ottu
Lu meu Signore cu la sua facce biata
Riciavia na crutele scurisciata.
Alle nove
De li Sciutei foe schiaffisciatu,
Alle dieci
Foe postu carciaratu.
Alle undici
Foe ncusatu
Alle dutici
Lu prucessu e la causa
A Pilatu foe purtatu.
Alle tridici ore
Lu Salvatore te janca veste tuttu schernitu.
Na canna alli mani trattatu te pacciu
E lu nostru re ciujeddi lu canuscesse.
Alle quattordici ore
Tutti critara: Crucifigge, crucifigge
Pilatu nu face nienti e vae all’uffigiu
Alle quindici ore
Li chiovi e li martieddu preparati.
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Le sidici sunate
Le tempie soi divine curunate de spine.
Trapassanti de lu sou visu
Grande Re de Paratisu…
Alle diciassette
Tutti critare : fazzu Diu
Nazarenu Re de li Sciutei.
Alle diciottu ore
Foe spujatu e postu n’croce.
Alle diciannove
Fice nu testamentu
Ca de la Madre soa bia gran turmentu.
Se utau a san Giuvanni;
“Te la raccumandu la mia cara Matre
mentru lu Spiritu meu vae ulandu.
Alle vint’ore
Ciarcau de vivere (bere),
Subitu nde foe tatu citu e fele.
Alle vint’unu
Cumparse Lunginu
E scuperse lu custatu sou divinu
Alle vintitoi
Ncrinau la capu
Alle vintitrè
Su monte Carvariu foe renduttu.
Alle ventiquattru
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Mortu e sebburtu.
Le vintiquattr’ore ci bimu tittu
Suntu la Morte e Passione de Gesù Cristu.
Il popolo recitava ancora davanti al “Sepolcro” nel giorno di
Giovedì Santo….
Caru fiju de Diu, quantu me amasti
Pe la tua cara vergine Maria,
trentatrè anni de mundu caminasti
maraculi facisti notte e dia.
Tutti quanti li toi dascibbuli chiamasti
E li chiamasti pe tua cumpagnia.
A tutti quanti li pieti nde sciacquasti
Pietru sulu foe ci strulacau.
“Maestru nu me li fare sti misteri
ca mo’ piju la via e me nde vau”
“Pietru ci nu mboi sti misteri
nu guadagni la crolia de li celi”.
Subitu la parola riturnau:
“Maestru lavame de capu an pieti
pe guadagnare la crolia de li celi”.
Unu pe unu se li cunfassau
A ringa a ringa se li cumunacau,
benedisse la taula cu tuttu lu sou mangiare
cu tuttu lu sou vivire,
quandu stava a mienzu la cena tisse:
“A cquai nc’è unu de vui ca m’ha tratire”
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Se utau San Giuvanni cu la ucca te viola:
“Te preu Maestru meu me l’aggi dire
quale è de nui ca t’ha tradire ».
Quiddu ci cala a pijare lu primu uccone
Quiddu sarà pe me lu traditore”.
Versu la sua Madre se ne andau:
“Madre” tisse
“tamme la santa benedizione
ca è rrivata l’ora cu me nde vau.
E’ rrivata l’ora de la morte mea”.
“Fiju te sia santa e beneditta
l’acqua ci te manai te capu an pete
quandu me nde fuscì intra l’Ecittu
ci me ncuntrau l’Arcangiulu Cabrieli”.
“Matre, m’hai datu la santa benedizione
ma si’ rumasta spritta cu dulore”.
Versu li soi dascibbuli se n’andau,
e li truvau tutti durmantati.
“zzateve”, tisse “fiji mei e vicilati
c’have banire Giuda traditore.
Vene cu na squatra te surdati
Vene a pijare me, lu gran Signore”.
Se mena Giuda cu malizia piena
A basare Cristu cu fausi nganni
Ma li Sciutei chini te manere
Ci nde tirau la varva e ci li carni.
Se mena Pietru cu la spata a manu
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E taja na ricchia a nu surdatu:
“Quetu Pietru”, disse Gesù Cristu,
“nu cirrire ngannu
ca a cantata te caddu te puru m’hai nacare”.
Pietru lu fariu e Gesù Cristu lu sanau.
Allora Pietru tise:
“scire me nde ulia intra l’Ecittu
mo’ lu chiangerò lu meu paccatu,
parcè lu Maestru meu l’aggiu nacatu”.
Su lu Monte Carvariu foe strascianatu
Ogni ommu critava: “malfattore”
Sinu la sciuteca foe giutacatu.
La Matre soa
A mbrazze tania nu chiascione
Su le razze soi nde foe calatu
Quandu calau tese nu gran sprandore
Quistu è lu veru Diu ca nd’ha criatu.
Ci la tice e ci la sente
Quaranta giurni te ndurgenze,
ci la tice cu veru core
an paratisu quandu more.
Ma il popolo gallipolino animatio da un’ncrollabile fede e aiutato da una fervida fantasia dinanzi a Gesù Sacramentato faceva ancora sentire la sua voce che sgorgava dal profondo del cuore con:
Sapurcu meu gloriosu
Grande sì e de crande amore
Lu corpu tou preziosu
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Stese chiusu quarantott’ore.
De lu populu visitatu
E de la cristianeria
De lacreme vagnatu
De la Vergine Maria.
Oppure con queste tre quartine che esprimono tutto il dolore
di una Madre in cerca del proprio figlio e che lo trova pronto per
salire sul legno di croce :
Chiangi, chiangi Maria, povra donna
Ca lu fiju tou è sciutu alla cundanna,
nu spattare cchiui ca nu nci torna
è sciutu cu se presenta a casa d’Hanna.
Chiangendu se partiu la Matonna
Cu biscia ci lu trova a farci banda,
e lu truvau taccatu a na culonna
cu curona te spine e funi n’canna.
Tre parole nde tise la Matonna:
“Fiju nu te canusce cchiui la Mamma”.
“ Oh mamma mea, va bande a santa pace
ca aggiu murire su stu legnu te croce”
LA VIA DOLOROSA
Praja praja pe’ li Erti
se sentìa nu gran ciriju,
e ci ghera e ci nu ghera?
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era Cristu cu li Sciudèi:
ci nde dava na curteddata,
ci nde dava na curisciata
e lu sangu sde scurria,
intra lu calice se nde scia.
A retu a Santa Chiara
se sentia nu gran rumore,
e ci ghera e ci nu ghera
era Marta e Maddalena
ci chiangiane pe la pena,
caminava pe’ vie e carrare
Gesù Cristu a secutare
- Scindi, scindi, palomba bianca
ci nde nduci intra sta lampa?
- Jeu be nducu l’Oji Santi,
benedicu tutti quanti,
benedicu li travajati.
li scuntenti, li sventurati:
ci la sente e nu la ‘mpara
tre anni de focu se prepara.
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LA MADONNA DEI
FIORI
Il periodo post pasquale scorre lento ed inesorabile verso
l’estate, non prima però di passare attraverso alcune festività come
per esempio quella della Madonna dei fiori, il 31 maggio.
Da sempre questo è il mese delle rose ed è tradizione che in
questo periodo non ci si sposa.
Il popolo credeva che le spine di questi fiori potessero conficcarsi nel cuore degli sposi e amareggiarli per tutta la vita.
E’ tramontata ormai la tradizione secondo la quale, ogni famiglia, ogni giorno doveva recitare il rosario in onore della Madonna,
davanti ad una immaginetta della Vergine, con a fianco una lampada
accesa.
La statua della Madonna dei fiori fu realizzata in Roma nel
1857 ed una copia ne fu fatta nel 1863 per il Santuario della Lizza.
Il 16 aprile del 1948, in piena campagna elettorale, furono in
molti a ritenere che la statua della Madonna avesse mosso gli occhi.
La processione prevede la presenza di numerosi fanciulli vestiti con gli abiti della Prima Comunione, con dei cesti traboccanti di
fiori, in prevalenza gerani.
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LA FESTA DI S. FRANCESCO DI PAOLA
Quaranta giorni dopo Pasqua si festeggia San Francesco di
Paola, che i gallipolini chiamano confidenzialmente “Santu Patre”.
Ad organizzare la feste è da tempi remoti la Confraternita di
Santa Maria della Neve o del Cassopo.
Una volta il santo si festeggiava con musiche e addobbi, poi
pian piano la festa ha modificato la sua struttura.
La chiesa in cui ha sede la Confraternita è quella ex conventuale
dei frati minimi di S. Francesco di Paola, colà trasferita a seguito
della sopprressione durante il decennio francese degli ordini religiosi conventuali. L’antico oratorio era organato nella chiesa del Cassopo
ai piedi del bastione di S. Francesco d’Assisi.
Durante questa festa suggestiva era la messa al Campo, celebrata dal Vescovo, davanti a militari in picchetto d’onore.
San Francesco a Gallipoli è considerato un cittadino d’adozione, perché il suo spirito è stato sempre presente in città ed eccezionalmente qui alcuni decenni fa’ sono state accolte le sacre spoglie ed il mantello.
Si racconta che secoli fa’, per sfamare il popolo gallipolino,
approdò nel porto una nave stracolma di grano, suscitando nel General
Sindaco meraviglia ed incredulità, perché, nessuno ne aveva ordinato il carico.
Il comandante riferì allora che era stato un monaco di Crotone
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a commissionargli quel grano e a pagarlo. Il comandante riconobbe
subito il benefattore nella statua di San Francesco che tuttora campeggia sulla facciata della chiesa, di fronte al porto.
LA FESTA DELL’ASCENSIONE
Il giorno dell’Ascensione potremmo inquadrarlo come giorno
in cui la Divina Provvidenza con tutta la sua bontà si riversa sulla
terra: “Vintiquattr’ore stae lu celu apertu, pe scindire su la terra la
crazia divina”.
Nel giorno dell’Ascensione, si effettuava la raccolta dei fiori
della camomilla.
Le donne si recavano alla processione con in mano ricchi fasci di questi fiori, per farli benedire e una volta essiccati servivano
per farne decotti contro i dolori viscerali.
La processione, con tutti i santi del Pantheon cittadino, girava
lungo le mura fermandosi davanti ad ogni bastione. Il Vescovo impartiva la benedizione al mare e alla campagna invocando per l’abbondanza della pesca e del raccolto.
Chiaro è il riferimento ai riti pagani della antica Grecia o a
quelli più antichi dell’Egitto. Amenolfi IV al compimento del settimo
anno di regno e precisamente nel tredicesimo giorno dell’ottavo mese,
inaugurò Ahtaton, la città del Sole, che lui stesso aveva fondato. Con
una solenne processione tutta la sua corte, cominciò a girare lungo le
mura della città, mandando benedizioni alle contrade, alle acque, agli
uccelli e alle piante.
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LA FESTA DEL SACRO CUORE
La festa del Sacro Cuore a Gallipoli data agli ‘20 da quando
il Can. Sebastiano Natali, nel 1919 pensa di poter erigere, assieme
all’istituto per l’infanzia abbandonata, intitolato a Michele Bianchi,
l’attuale tempio dedicato al Sacro Cuore.
Egli era un grande devoto del Cuore di Gesù avendo ricevuto
gli insegnamenti dell’ordine dei Gesuiti presso cui da sacerdote prestò giuramento tenendo fede al motto: “perseveranter pati pro Te”.
Fu anche promotore di un’Associazione del Sacratissimo Cuore
di Gesù.
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LA FESTA DELLA MADONNA DEL CANNETO.
Il Santuario di S. Maria del Canneto fu edificato nel XV secolo ed annesso ai beni di S. Leonardo della Matina, dei Cavalieri di S.
Giovanni. Più volte distrutto fu ricostruito definitivamente alla fine del sec.
XVII con un impianto simile a quello della della Cattedrale di Sant’Agata.
Presso questa chiesa si è
sempre praticato il culto verso la
Madonna. Vi era organata dal
XVI sec. anche una Confraternita sotto il titolo di S. Maria del
Canneto
A far incrementare il culto a Maria Santissima del Canneto fu il Vescovo Oronzo Filomarini che stimolò il popolo
gallipolino a partecipare con fede
alla sua festività.
Anticamente al largo della Chiesa del Canneto si svolgeva la Fiera dei SS. Apostoli Pietro e Paolo dal 29 giugno al 2 luglio, che in qualche anno si pro-
Statua lignea settecentesca della Madonna del Canneto.
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traeva anche fino al 6 luglio.
Nel 1764 la festa del Canneto fu solennizzata a cura della Confraternita della Purità. In quell’anno fu anche commissionata la nuova statua in legno che, giunta da Napoli il 7 luglio, fu portata per la prima volta
processionalmente per le vie della città.
Per questa festa fu quell’anno costruito da mastro Pasquale
Inguscio di Galatone un “recinto di baracche rinchiuso... con
colonniato e frontespizi, lsciando solamente tre porte per l’entrata
e l’uscita”, dentro cui di fatto si svolse la festa, con esposizione di
mercanzie e delizie del palato.
Processione della Visitazione di Maria (del Canneto).
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Maggiore slancio di fede ci fu dal maggio del 1881 quando la
Confraternita degli Angeli accettò il deliberato del Consiglio Comunale del 19 settembre 1879 assumendosi l’obbligo di garantire l’esercizio di culto.
Nel 1948 la Confraternita degli Angeli con il desiderio di
“ripristinare la consuetudine di secoli”, aveva chiesto al Vescovo
il permesso di organizzare la processione, di fatto dismessa dopo che
don Sebastiano Natali, divenuto parroco,aveva costituito la Confraternita del Sacro Cuore ed organizzato per molti anni la processione.
La Confraternita degli Angeli per qualche anno era stata chiamata a partecipare a quella manifestazione di culto. Il Vescovo allora, per non turbare la cordialità dei rapporti tra le due Confraternita,
alla quale ci tenevano gli amministratori degli Angeli, decise che la
Procesione della Madonna del Canneto venisse organizzata dalla
Confraternita del Sacro Cuore.
FESTA DELLA MADONNA DEL CARMINE
Il sedici luglio ricorre la festa della Madonna del Carmine. I
fedeli si recano con devozione a salutare la Madonna nella chiesetta
all’ingresso di Gallipoli, di antico patronato della famiglia PascaRaimondo.
I gallipolini avevano l’usanza di condurre nella chiesa dei
Carmelitani, i bambini dopo quaranta giorni dalla loro nascita, dove
ricevevano la benedizione e con essa la protezione per tutta la vita dalla
Vergine.
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S. CRISTINA
La festa di Santa Cristina, il 24 luglio, muove ogni anno una
marea di gente. La devozione per questa santa è antichissimo ed attestato oltre che per la cappelluccia che fronteggia il Rivellino, anche
da un altare nella Chiesa del Canneto con un bel dipinto settecentesco.
Il culto fu ripreso dalla Confraternita della Purità il 24 ottobre
1865, ma solo due anni dopo, a causa di una grande epidemia di colera che inperversò in Gallipoli per sei mesi, il popolo riconobbe in
Santa Cristina la protettrice particolare contro i morbi infettivi.
In quello stesso anno fu commissionata la statua in cartapesta,
eseguita dal maestro Achille De Lucrezi.
Il can. Consiglio così annotò nel suo diario: “Il 22 luglio 1867,
giunse da Lecce la statua... a’ 23 detto mese fu benedetta nella
Cattedrale e si fece una grande festa con musica panegirico e Processione, vi fu nel Vespro del 24 l’esposizione del SS.mo nella Cappella del Canneto in forma di Quarant’ore e si chiuse la festa con
fuochi banda ed altro”.
La santa è venerata nella chiesa di Santa Maria della Purità,
sede dell’omonima Confraternita. Nel pomeriggio del giorno di festa, nel porticciolo del Canneto si tiene la cuccagna a mare.
Altrove il palo, sapientemente ingrassato, posto in senso verticale, qui invece viene fatto sporgere sull’acqua dalla prua di una
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paranza. Vince chi per primo riesce ad afferrare la bandierina posta
all’estremità del palo.
Si dice che il giorno di S. Cristina porti “la stedda”, è giorno,
cioè, che porta iella per i bagnanti che dimenticassero il precetto
festivo. Ciò secondo una vecchia superstizione nata nel 1807, quando il figlioletto dei nobili Carlo Rocci e Lucia Indelli, affogò facendo
il bagno il 24 luglio, festa, appunto, di S. Cristina.
ASSUNZIONE DI MARIA
Il 15 agosto si celebra la festa dell’Assunzione di Maria ed in
Alezio la Madonna della Lizza.
Il questo giorno si era soliti recitare cento Ave Maria, e ogni
volta segnarsi con il segno della croce, aggiungendo :
”Fusci tantazione de cquà nnanzi
ca nu mboju be la dau l’anima mia,
Centu cruci sante m’aggiu fare
Ca è lu giurnu de la vergine Maria”.
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ARRIVA LA PASTORALE NELLE VIE CITTADINE E…SUONANDO
SUONANDO….. È GIÀ NATALE
La festa del Natale nel panorama delle tradizioni popolari occupa un posto di primo piano. E’ una festa prettamente di tradizione
cattolica e non subisce influenze di altre culture e civiltà.
La quarta Egloga di Virgilio, in cui il poeta annunciava la venuta di un bambino straordinario e che avrebbe significato la nascita
di una nuova era, è stata a volte interpretata come una profezia della
nascita di Gesù.
La familiarità del popolo gallipolino con la Sacra Famiglia
intanto, ritorna nel Natale, attraverso un frammento di Ninna-Nanna
della Madre verso il Bambinello, ripetuto un tempo dalle nostre mamme:
Dormi dormi, fiju meu
Ca lu latte nu n’è meu,
Me l’ha datu lu Patreternu
Cu te criscu beddu beddu.
Oppure in questo appello che si faceva a Gesù Bambino chiedendone l’intercessione di Maria:
Bambinieddu de Natale
Nu favore m’hai de fare
Oju nde dici alla mamma mea
Cu nu me tescia cchiui mazzate
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LA PASTORALE GALLIPOLINA
Dal 15 ottobre e fino alla Befana, la Pastorale, composizione
musicale di anonimo, echeggerà per stradine, corsi e vicoli della città.
Essa scandisce le tappe del periodo natalizio, che ha inizio
appunto dal giorno che la chiesa dedica a Santa Teresa d’Avila.
Tra gli scritti di Santa Teresa quasi tutti in onore del bambino
Gesù, vi è una composizione: «Nella notte di Natale» nella quale,
come scrive Elio Pindinelli in un opuscolo sulla festa del Natale a
Gallipoli, «è possibile leggere un qualche riferimento al nostro anonimo componimento musicale e alla tradizionale sortita popolare dei
musicanti esecutori”
L’immaginazione popolare ha poi fatto il resto, attribuendo
alla santa il desiderio espresso sul letto di morte di ascoltare la pastorale gallipolina.
Un po’ di anni addietro, ultimata la funzione religiosa, nella
chiesa di Santa Teresa le carmelitane del convento intonavano i canti
natalizi e ai fedeli venivano distribuite attraverso “la ruota” le
“pitteddre ccu lu mele”, quale dono del bambino Gesù.
Le note della Pastorale, eseguite all’organo, facevano da
sottofondo e si dava ufficialmente inizio al ciclo natalizio, anche se
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canonicamente l’Avvento comincia solo quattro settimane prima del Natale.
Questa musica, di autore ignoto, che dona all’evento una magica
atmosfera, è stata trasmessa di generazione in generazione oralmente, a
memoria. La si può tranquillamente considerare la colonna sonora dell’intero periodo natalizio gallipolino.
La pastorale gallipolina viene eseguita preferibilmente nelle vigilie
di Santa Cecilia (22 novembre) , Sant’Andrea (30 Novembre), Immacolata, (8 Dicembre), Santa Lucia (13 dicembre).
Forse la Pastorale è la tradizione che più resiste a qualsiasi trasformazione della nostra società. Prima che la città si stendesse a
macchia d’olio, di notte, un’orchestra composta da artigiani, pescatori, impiegati girava per le vie del borgo antico effondendo nell’aria gelida sferzata dalla tramontana, una dolce nenia.
La Pastorale,prevalentemente eseguita con gli strumenti a corda, veniva suonata fino alle prime luci dell’alba da queste compagnie di musicanti, tra i quali vi erano “Titta Campa”, mesciu Ninu
Trumbetta e Lu Clatinoru.
E così, le luci delle case si accendevano, le porte si aprivano
e si musicanti, invitati ad entrare nelle case, si scaldavano, assaggiando i dolci natalizi, fatti in casa e sorseggiando un bicchierino di
anice e rosolio, generosamente offerti loro.
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I PUPI DEL PRESEPE
Alcuni anni fa’ “li mesci te pupi te crita” esponevano, in piazza i loro capolavori. Gli anziani ricorderanno sicuramente “Mesciu
Peppe Seccia” vecchio portuale.
L’artista modellava la creta come pochi, secondo gli usi e i
costumi gallipolini. Il pescatore con la nassa, con la rete, con il pesce, la vecchietta intenta a filare e “lu macu de la stedda”
Venivano rappresentati anche tutti i personaggi della strage degli Innocenti e con essi si allestivano, con sughero e carta, i presepi,
che si incominciavano a fare la vigilia dell’Immacolata.
IL DIGIUNO DELL’IMMACOLATA
Il giorno che più degli altri viene sentito, è quello della vigilia
dell’Immacolata, con la tradizionale “puccia” con il tonno e le alici”
che si mangia a mezzogiorno.
Essa, così lievitata e con soffice mollica, è unica in tutto il
Salento. La sera invece la cena è caratterizzata da rape affogate, condite con olio e limone, baccalà e “pittule” lievitate con “lu lavatu”,
alla pizzaiola, con i calamari, con la “minoscia” (latterino sardara”,
con le “caire” (gamberetti). Non bisogna però trascurare di fare con
la mano il segno della croce sull’impasto e dire :”crisci lavatu, ca
Gesù Cristu è natu”.
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GASTONOMIA NATALIZIA
Il Natale insomma è un insieme di fede e tradizioni, di sacro e
profano. Ad insaporire ancor di più la festa ci pensano “i
purciadduzzi”, le cartallate, che nella mitologia popolare rappresentano le lenzuola del Bambino.
Le pittedde sono la culla, le cozze il guanciale, li scajozzi i
dolci del battesimo, e il latte di mandorla il latte della Madonna.
La festa del Natale a Gallipoli ha delle precise tradizioni culinarie. A parte le pittule, a fare la parte del leone, sulla tavola
imbandita è il pesce.
La tradizione vuole, però, che dal cenone della notte di Natale
non deve mancare la pastina “cu lu latte de mendula”, cotta nel succo
di mandorle, appunto, pestate e passate al setaccio con un panno e
aromatizzata con una spolverata di cannella o seme di garofano.
La cosa che nella note di Natale non bisogna mai dimenticare
è quella di far assaggiare tutte le pietanze alle bestie domestiche,
perché anche loro sono creature di Dio.
LA LEGGENDA DI S. STEFANO
Il veloce incedere dell’era consumistica ha fatto dimenticare
un’antica fiaba gallipolina, che narra dello stratagemma usato dalla
madre di Santo Stefano, messo in atto per poter vedere da vicino il
Bambino appena nato.
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Lei, molto giovane, per tradizione non poteva avvicinarsi ad
una puerpera. Fingendosi allora madre, nascose nel grembo un pezzo di
legno (un’aschia), come fosse un neonato. Scoperta, quel pezzo di legno
prese vita e cominciò a piangere appena Maria le rivolse la parola. Era
nato per miracolo divino S. Stefano.
Ed è per questo che tra i pupazzi del presepio, sostano davanti
alla grotta di Gesù dei pupazzi con in braccio il proprio figlioletto.
LU PUPU
Con questo rito nel quale si evidenzia la presenza del fuoco, si
conclude il ciclo delle feste a Gallipoli.
Allo scoccar della mezzanotte in punto, in città si da’ fuoco
“allu pupu”: una sorta di gigante in cartapesta o di paglia, quasi
sempre con fattezze grottesche, brutto, vecchio e con un ghigno sulla
bocca.
E in quell’espresione beffarda, quasi spocchiosa, ci sono le
disgrazie che ha collezionato nei suoi 365 giorni di esistenza peggio
ancora se anno bisestile.
Nella tradizione popolare, che si perde nella notte dei tempi,
rappresenta l’anno vecchio che se ne và.
A fianco gli viene piazzato un bambolotto, che rappresenta l’anno nuovo che sta per arrivare. I due si tengono per mano e tutti
sperano che il “nuovo” sia foriero di pace e serenità.
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Al momento di accendere la miccia dei numerosi tric-trac, il piccolo verrà tolto. Di regola il pupazzo indossa abito nero, guanti bianchi,
cilindro “a cannone”, occhiali e barba bianca.
In mano l’immancabile valigia di cartone piena “di capricci e impertinenze, di lezioni fatte male, di bugie e disubbidienze”, recitava una
vecchia poesia.
Oggi in quella valigia ci sono tutti i mali che affliggono il mondo, a
cominciare dalla guerra, che in qualche modo con il fuoco si vogliono
esorcizzare.
Tradizionalmente il pupazzo più
importante era quello “sparato” in piazza Duomo, nel centro
storico, quando il
borgo antico rappresentava il centro
della vita sociale e
commerciale di Gallipoli. Ora i “pupi” si
accendono in varie
zone della città.
Pupo in cartapesta.
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BIBLIOGRAFIA
Archivio Curia Gallipoli
Archivi delle Confraternite
L.A.MICETTI, Memorie storiche della città di Gallipoli, MS,
sec. XVIII, presso Biblioteca Provinciale di Lecce
E. BARBA, Proverbi e motti del popolo gallipolino, Gallipoli, Tip. Stefanelli,
1903.
G. CASTIGLIONE, Roberto il diavolo, ovvero i Veneziani a Gallipoli. Episodio
delle guerre aragonesi nel sec. XV, Capasso, Napoli, 1842.
E. DE MARTINO, Sud e Magia , Milano 1978.
O. CATALDINI, Favole e leggende del popolo gallipolino, Tip. Stefanelli, 1980.
O. CATALDINI, Carnevale d’altri tempi, in “Rassegna salentina”, a.II, n. 6, pp.3945.
O. CATALDINI, Il Natale a Gallipoli, in “Rassegna salentina”, a.III, n. 6, pp.4150.
COMUNITA’ DEL CANNETO, Perle di ieri, (a cura di Luigi Tricarico), Alezio,
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112
Carnevale del 1965.
113
Altarino della Madonna “pellegrina”, presso la famiglia Pindinelli (1954)
114
Processione del Bambino di Praga (anni ‘50 - Prop. Fam. Mega)
Processione di S. Antonio (anni ‘50)
115
Incendio della Caremma in Via Briganti.
116
Sepolcro in S. Teresa.
117
Uscita della processione dell’Addolorata in via Fontò.
118
Particolare della statua dell’Addolorata.
119
In alto, momenti della processione dell’Urnia; in basso, processione della Desolata.
120
I Fratelli delle Anime in abito confraternale.
121
Processione della Desolata. In primo piano i Fratelli della Purità.
G. Pagliano, Alba del Venerdì Santo 1927.
122
Il Cristo morto del Crocifisso in due diversi apparati processionali.
123
In alto le statue argentee di S. Sebastiano e di S. Agata. In basso l’Addolorata della
Confraternita del Carmelo e la statua lignea settecentesca della Purità.
124
L’Addolorata con il Cristo morto al rientro della processione il Sabato Santo.
125
Sabato Santo, benedizione dal bastione di S. Francesco di Paola.
126
INDICE
Presentazione di Pasquale Sandalo
p.
5
Introduzione di Antonio Mastore
p.
7
RITI E MANIFESTAZIONI DI CULTO A GALLIPOLI.
TRA STORIA, MITO E LEGGENDA
p. 11
TRA FEDE E SUPERSTIZIONE
p. 13
I riti magici
p. 13
Lu Moniceddu
p. 18
Il rito del crivello
p. 19
Il rito “de lu limbu”
p. 20
L’oracolo di S. Monica
p .21
Gli oracoli di S. Giovanni
p. 25
L’oracolo di S. Pietro e Paolo
p. 26
Riti propiziatori e di espiazione
Il Carnevale a Gallipoli
RITI RELIGIOSI E PRATICHE PIE
p. 27
p. 33
p .41
Le manifestazioni di culto
p. 44
I Santi Patroni di Gallipoli
p .47
La Sindone gallipolina
p. 51
I riti della Passione
p. 53
La Frottola
p. 60
“I Sepolcri” e le processioni del Venerdì Santo
p. 61
La processione dell’”Urnia”
p. 69
I Penitenti
p. 72
La processione della Desolata con i “Sciudei de la Bara”
p. 75
La familiarità del popolo gallipolino con la Sacra Famiglia
p. 77
Segni pagani nella Pasqua cristiana
p. 78
127
La Caremma
p. 80
La Pasqua in Cucina
p. 82
La Passione di Cristo vista dal popolo attraverso alcuni canti
che venivano recitati anticamente davanti al Sepolcro
p. 84
La Via dolorosa
p. 90
La Madonna dei fiori
p. 93
La festa dell’Ascensione
p. 95
La festa del Sacro Cuore
p. 96
La festa della Madonna del Canneto
p. 97
La festa della Madonna del Carmine
p. 99
S. Cristina
p.100
Assunzione di Maria
p.102
ARRIVA LA PASTORALE NELLE VIE CITTADINE E...
SUONANDO SUONANDO... È GIÀ NATALE
La Pastorale gallipolina
p.104
I pupi del Presepe
p.106
Il digiuno dell’Immacolata
p.106
Gastronomia natalizia
p.107
La leggenda di S. Stefano
p.107
LU PUPU
BIBLIOGRAFIA
Finito di stampare nel mese di luglio del 2003 dalla Tip. F.lli
CORSANO -Alezio Tel. 0833281413
128
P.103
p.108
p.110
129
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