FONDAMENTI DEL PENSIERO
POLITICO DI SAN TOMMASO
I - STRUTTURA METAFISICA ED ETICA DELLA REALTA' POLITICA
Ancor oggi, pur nell'autonomia delle singole scienze, ci si sforza di trovare
i rapporti di ciascuna con le altre branche del sapere o dell'attività umana. Tanto
più ciò doveva avvenire nel Medioevo, epoca in cui l'universalismo era una
categoria spirituale. In tutto si cercava l'unità: l'uomo era una realtà integrale,
di cui solo per scopi didattici si poteva distinguere la dimensione metafisica, da
quella morale, da quella sociale.
Strettamente connesse e perfettamente integrantesi sono, nel pensiero di
San Tommaso, metafisica ed etica. Attraverso questa, la politica s'inserisce
nella Metafisica (1). L'atteggiamento di inequivocabile solidarietà tra moralità
e socialità, lo possiamo notare nel fatto che una delle virtù cardinali (la
giustizia ), che pur ha come scopo ultimo la perfezione del singolo, obbliga a
dare agli altri ciò che è loro dovuto ( 2 ). D'altronde lo stesso universo è uno stato.
E', anzi, il primo stato governato dall'autorità divina: « et in toto universo unus
Deus factor omnium et rector » ( 3 ). I singoli stati (come gli individui) hanno
per fine Dio (4).
Ma, per comprendere più a fondo la struttura metafisica e morale che sottostà alla realtà sociale, dobbiamo rifarci un poco a tutta la « Weltanschaung »
tomista, chiedendoci cosa è, a cosa tende, che mezzi ha l'uomo, ossia il protagonista della realtà politica. E un po' il metodo seguito dal Santo: si chiede cosa
sia l'uomo, per trarne tutte le conseguenze. Lasciamo, quindi, la parola all'Aquinate.
(1)
p. VIII.
(2)
(3)
(4)
P. MATHIS, prefazione al « De regimine Principum », Torino-Roma, Marietti, 1948,
GILLET, Le moral et le social d'aprés S. Thomas, in « Mélanges Thomistes », 1923.
« De regimine », 1, 2.
Su questo punto vi è un brano del ROLAND-GOSSELIN (La dottrine politique de
Saint T homas d'Aquin, Paris, M. Riviere, 1928, p. 91), integralmente tradotto dal PUCCI
(introduzione a « La Politica » di San Tommaso, Torino, S.E.I., 1935, p. 24).
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L'uomo è anzitutto « agens per intellectum, cuius est manifeste propter
finem operaci » (5 ), e pure «...homini convenit omnia agere propter finem» (6).
Se principio pratico di ogni (omnia) azione umana è un fine da raggiungere,
questo fine è riguardato sotto l'aspetto di bene « Sicut autem ens est primum quod
cadit in apprehensione practicae rationis, quae ordinatur ad opus. Omne enim
agens agit propter finem, qui habet rationem boni. Et ideo primum principiurn
supra rationem boni; quae est: Bonum est
in ratione practica est quod fundatur
quod omnia appetunt » (7 ). Il primo bene, comune a tutti gli uomini, è Dio
stesso: « Et ideo ex charitate magis debet homo diligere Deum, qui est bonum
commune omnium, quam seipsum » (8). Naturalmente Dio è un bene immensamente superiore agli altri beni relativi, che pure l'uomo attua. Dio e il suo
possesso sono, in poche parole, il fine ultimo dell'uomo: ultimum bonum hominis consistit in hoc quod anima Deo adhaereat, secundum illum psalm. 72, 27:
Mihi adhaerere Deo bonum est » (9); la perfezione consiste quindi nella beatitudine: « ...Deus est ultimus finis hominis et omnium aliarum rerum... beatitudo
nominat adaptionem ultimi finis » (10).
Evidentemente, se la beatitudine ultraterrena è il Bene sommo dell'uomo,
ogni azione e ogni istituzione umana deve essere indirizzata verso tale bene. La
bontà (e quindi la moralità) della « praxis » umana è data dalla rispondenza a
questo bene ultimo. Anche la politica, come il più importante settore dell'azione
umana, deve essere condizionata a questo fine. La differenza fondamentale tra
San Tommaso e Aristotele, e la vicinanza tra quello ed Agostino dipendono proprio dalla diversa concezione del fine ultimo. Il Grabmann nota che « nella
teoria... della felicità si rivela una grande differenza tra Aristotele e Tommaso,
differenza che è data appunto dalla dottrina cristiana del fine ultimo soprannaturale dell'uomo. Aristotele fa consistere il fine ultimo dell'uomo nella theoretiké,
nella contemplazione della verità e osserva nel settimo capitolo del X libro della
sua Etica nicomachea « ...che la filosofia riserva delle gioie di una purezza e di
una stabilità mirabili », ma a questa teoria aristotelica manca il giocondo e speranzoso sguardo verso l'al di là. Tommaso apprezza, sicuro, la beatitudine che si
trova nella "consideratio scientiarum speculativarum"; nonostante, egli vede la
suprema meta dell'uomo e la sua perfetta ed eterna beatitudine nell'al di là, nella
scoperta ed amorosa visione d'Iddio » (11). Il primo fondamento metafisico che
condizionerà la costruzione politica è questa prospettiva cristiana del fine ultimo.
Però Dio, nella sua infinita bontà, ha indicato all'uomo la via per giungere
(5) « De regimine », I, 1.
(6) Summa Th., I.a II.ae, q. I, a. I, c.
(7) ibidem, I.a II.ae, q. 94, a. 2, e. e pure I.a, q. 5, a. I, c.
(8) ibidem, II.a II.ae, q. 26, a. 3, e.
(9) ibidem, II.a II.ae, q. 27, a. 6, ad 3.m e II.a Il.ae, q. 186, a. I, e.
(10) ibidem, I.a II.ae, q. I, a. 8, c.
(11) GRABMANN, La filosofia della cultura secondo Tommaso d'Aquino, Bologna, Studio
Domenicano, 1931, p. 33.
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al fine, che, essendo soprannaturale, difficilmente potrebbe essere raggiunto dall'uomo. Questa via è la legge divina, ossia la stessa ragione di Dio (o Provvidenza) che regge il mondo (12 ). « Manifestum est autem, suppositus quod mundus divina providentia regatur... quod tosa communitas universi gubernatur ratione divina. Et ideo ipsa ratio gubernationis rerum in Deo sicut in principe
universitatis existens legis habet rationem. Et quia divina ratio nihil concepit
ex tempore, sed habet aeternum conceptum, ut dicitur Prov. 8, inde est quod
hujusmodi legem oportet dicere aeternum » (13 ). Quindi, la prima legge che
l'uomo trova davanti a sé è quella del suo Creatore: Dio è il primo legislatore (14). Contrariamente ad ogni altra legge cui l'uomo dovrà sottostare, il fine
di questa è lo stesso Legislatore: « ...lex importat ordinem ad finem active, inquantum scilicet per eam ordinantur aliqua in finem; non autem passive, idest
quod ipsa lex ordinetur ad finem, nisi per accidens in gubernante, cuius finis
est extra ipsum, ad quem etiam necesse est ut lex eius ordinetur. Sed finis divinae gubernationis est ipse Deus; nec eius lex est aliud ab ipso; unde lex aetern a
non ordinatur in alium finem » (15 ). Ogni legge che voglia avere autorità sulla
coscienza umana deve basarsi sulla legge divina (16): solo essa è garante dei
mezzi « legali » attuabili per raggiungere il fine ultimo, che è Dio stesso. A
questo punto dobbiamo rilevare una leggera discordanza di vedute col Flori.
Egli fa scorgere quasi un parallelismo tra legge divina, legge naturale e legge
umana (gli aggettivi hanno senso quando sono riferiti alla fonte prossima da cui
emanano ), parallelismo derivante dalla coesistenza di altrettanti fini paralleli:
« Ma oltre alla legge naturale e la legge umana, fu necessaria al governo della
vita dell'uomo anche la legge divina... Mediante la legge, la creatura umana è
diretta ad azioni coordinate al suo fine ultimo. L'uomo, però, se fosse ordinato
soltanto da un fine che non eccedesse la proporzione della naturale sua facoltà,
non avrebbe bisogno d'una direzione razionale, oltre la legge naturale ed umana.
Ma poiché l'uomo è ordinato al fine della beatitudine eterna, che va oltre le proporzioni della naturale facoltà di lui, così fu necessario che, oltre [sic] la legge
naturale e umana, egli fosse diretto da una legge divinamente rivelata » (17).
Quello che ci sembra mancare nel Fiori è quindi la costruzione piramidale
della concezione tomista della legge. Quello della beatitudine è l'ultimo fine umano, da cui tutti gli altri dipendono ed a cui si debbono coordinare. Così le rispettive leggi: non vi è un semplice rapporto di convivenza della legge divina rispetto alle altre, ma un rapporto di norma a leggi dipendenti. La legge naturale e
J(12) DI CARLO, La Filosofia giuridica e politica di S. Tommaso d'Aquino, Palermo, G. B.
Palumbo Ed., 1945, pp. 47-48.
(13) Summa Th, I.a II.ae, q. 91, a. I, e.
i(14) vedi LA VERSIN, La loi, Paris, Societé S. Jean PEvangeliste, 1395, pp. 7-8.
(15) Summa Th., I.a II.ae, q. 91, a. I, ad 3.m.
(16) LA VERSIN, op. cit., p. 7.
(17) FLORI, Il trattato « De regimine Principum » e le dottrine politiche di San Tommaso,
Bologna, Zanichelli, 1927, p. 56.
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l'umana sono la stessa legge divina, riflessa sul piano della natura e della creatività giuridica dell'uomo, ma l'una e l'altra hanno presente l'ordine dell'universo regolato da Dio, che deve essere rispettato nell'elaborazione dello « jus
positivum ». Da qui deriva la grande importanza che la legge divina ha nella
costruzione della città ideale tomista: tutto si deve riferire a lei, e tutto deve
a lei obbedire.
Altro elemento che è sempre presente nella politica tomista è il valore della
Persona umana. Anche quando qualche struttura statuale sembrerà costringere
l'uomo e la sua «personalità», vedremo che sarà sempre questa ad uscire vincitrice
dal confronto.
San Tommaso accettò e difese la definizione di Boezio (18) divenuta ormai
classica: « Rationalis naturae individua substantia » (19 ), o « la sussistenza individua della natura ragionevole » (20). Crediamo sia utile ricordare l'interpretazione che l'Olgiati ha dato a tale frase (21 ): « Innanzitutto, il concetto di persona implica il concetto di ente, nel suo senso di realtà non accidentale, ma sostanziale, a cui si possono inserire bensì modificazioni diverse, ma che, da parte sua,
non inerisce a nulla: questo ente o sostanza è singolare, individuale, è totale,
completo, sui juris. « Persona nominat quid completum » (I Sent. d. 33, q. I.,
a. 2, ad 4 ). Ed è, per sua natura o essenza, dotato di ragione e di libertà. E',
quindi, un distinctum subsistens in intellettuali natura. La persona è un ente
che può conoscere l'ente in quanto ente (e perciò anche se stessa ), e che può
agire liberamente in funzione delle leggi dell'ente ». Ed in questo « liberamente »
esiste d'altronde l'altissima dignità dell'uomo, il suo massimo valore, da cui si allontana peccando: « homo peccando ab ordine rationis recedit; et ideo decidit a
dignitate humana, prout scilicet homo est naturaliter liber, et propter seipsum
existens » (22 ). Da questo punto di vista, quindi, la persona « cette racine metaphisique... ne se manifeste que par une conquéte progressive de soi par soi,
accomplie dans le temps » (23 ). Tutte le strutture e gli strumenti politici dovranno sempre ordinarsi alla persona umana e ai suoi valori, senza mai rivendicare false priorità. « Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura » (24 ).
Giunti a questo punto, possiamo scorgere l'immensa differenza tra la politica tomista e quella platonica e aristotelica: Platone vede solo lo Stato, Aristotele vede solo un uomo sul piano naturale, l'Aquinate vede una volontà li-
(18) vedi a tal proposito OLGIATI, Il concetto di giuridicità in S. Tommaso d'Aquino,
Milano, Vita e Pensiero, 1955, p. 90.
(19) Summa Th., I.a, q. 28, a. I e nella Quaest. IX De potentia, a. 2.
(20) cosi tradusse il CAPPELLAllI, (La persona nella dottrina di San Tom. d'Aq.,
Siena, Biblioteca del Clero, 1899, p. 68).
(21) OLGIATI, op. cit., p. 91.
(22) Summa Th., II.a II.ae, q. 64, a. 2, ad 3.m.
(23) MARITAIN. L'Idee Thomiste de la liberté, in Rev. Thom. 1939. p. 453.
(24) Summa Th., I.a, q. 29, a. 3, e.
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bera che può essere violata solo da Dio, « Deus, qui est potentior quam voluntas
humana, potest voluntatem humanam movere; secundum illud Proverb., 21, I:
« Cor regis in manu Dei est, et quocumque voluerit, vertet illud ». Sed si hoc
esset per violentiam, iam non esset cum actu voluntatis, nec ipsa voluntas movetur, sed aliquid contra volutatem » (25 ). Quindi, se l'uomo realizza nell'azione
i valori della sua personalità ed in essa li incrementa, la politica non servirà
solo a studiare i mezzi di conservazione di vita, ma di crescita piena e feconda di
valori (26).
La virtù che interessa la politica è la prudenza, poiché questa è una virtù
« media » (« Prudentia dicitur esse media inter virtutes intellectuales et morales ») (27), anche la politica è una realtà media. Anzi la sua materia è integralmente morale: « ...in materia autem totaliter convenit cum moralibus » (28).
Però essa non è completamente sottomessa alla volontà umana come la morale,
pur essendo molto differente dalla realtà fisica: « El orden social parece ocupar
una situacion intermedia entre el fisico y el moral. Es radicalmente, como uno
altro, la perfetta realizacion de la sociedad; pero ni es tan indipendiente de la
voluntad humana como el primiero, ni le està tan sometido come el segundo » (29). Concludendo, quindi, possiamo dire che la politica, pur essendo una
realtà « media », o morale (secondo i punti di vista), nel momento in cui viene
a contatto nella sua azione con elementi come la legge divina e la « persona »,
acquista un aspetto metafisico. D'altronde, rientrando la realtà politica nella
concezione tomista della « finalità », che è « la affirmation d'une destinée essentielle de la personnalité humain e, et dans la necessité de l'adaptation des moyens
à la fin » (30), anche la realtà sociale come mezzo deve adeguarsi al fine ultimo,
trascendente l'individuale attività.
Deriva da ciò lo strettissimo legame di politica e metafisica dell'essere (31)
e la quasi identità di politica e morale, il cui rapporto è quello di una parte al
tutto, non esistendo per San Tommaso una morale individuale e una morale
sociale, ma un'unica morale. Unità fondata sull'unità trascendentale del fine
ultimo, cioè Dio (32).
(25) ibidem, I.a II.ae, q. 6, a. ad I.m. Leggi, inoltre, sul concetto di persona ciò che dice
il MARITAIN (I diritti dell'uomo e la legge naturale, Milano, Ed. Comunità, 1953, p. 67), il
LACHANCE (L'humanisme politique de Saint Thomas, Parigi-Ottawa, 1930, vol. I, p. 157) il
CAPPELLAllI (op. cit., pp. 110-111).
(26) LACHANCE, op. cit., vol. I, p. 93.
(27) Summa Th., II.a II.ae, p. 181, a. 2, ad 3.m.
(28) ibidem, loc. cit.
'(29) ROCAFULL S. M. GALLEROS. El orden social segìtn la dottrina de Santo Tomas
De Aquino, Madrid, Ed. Pax, 1935, p. 36.
(30) CRAHAY Ed., La politique de Saint Thomas d'Aquin, Louvain, Institut Superieur
de philosophie, 1896, p. 148.
(31) GRABMANN, op. cit., p. 148.
(32) GILLET, Le moral et le social d'aprés S. Thomas, in « Melanges Thomistes », Le
Saulchoir, Kain (Belgique), 1923, p. 311; inoltre: ROLAND-GOSSELIN. op. cit., pp. 75-76;
CRAHAY, op. cit., p. VIII; DI CARLO, op. cit., pp. 37 e 145-146.
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Partendo da queste premesse, possiamo quindi giungere alla conclusione che
in San Tommaso l'ordine politico è sollevato ad alta dignità. Infatti esso rientra
nell'attività morale ed ha dei fondamenti di ordine metafisico. In ciò vediamo la
netta originalità del pensiero politico tomista da quelle che sono le sue principali fonti: esso si distanzia dall'aristotelico, perché il greco ignorava ( né poteva
ammettere ) gli aspetti trascendenti della politica, si differenzia dall'agostiniano,
perché l'Aquinate ridà alla politica il valore disconosciuto dal Padre della Chiesa.
« Il dualismo d'Agostino è superato: la "civitas coelestis" non solo non
disdegna, ma esige, ma implica la "civitas terrestris"... » (33 ).
Una rivalutazione che non vuol dire perciò asservimento ad altre realtà, ma
soltanto esigenza di scoprire gli intimi legami che l'essere crea nelle sue manifestazioni e che difficilmente sono scorti da chi non abbia la mente educata a
vedere « le vestigia » dell'Essere in tutta la realtà.
II -
FONDAMENTI NATURALI
Abbiamo già accennato a come siano connesse, nel pensiero politico di San
Tommaso, la speculazione metafisica e la speculazione politica. Questo profondo
substrato metafisico non porta però la politica tomista nel campo delle utopie, in
netto contrasto con le quali (con la platonica, in particolare ) essa si poneva.
Infatti tutto il pensiero sociale di San Tommaso, dopo aver cercato i suoi
punti fermi nell'ordine metafisico, si richiama all'ordine naturale. La politica,
così come non si costruisce se non si tiene presente qual'è il fine ultimo, ugualmente non si può costruire se si ignorano i principi naturali che spingono l'uomo
nella formazione e nella strutturazione della società.
Nel cercare di scoprire l'essenza della comunità, l'Aquinate, come nota il
Della Rocca (34 ), usa due metodi: l'analitico e il sintetico. Il primo serve a
scoprire, attraverso il momento di formazione delle società, l'essenza della forma
associativa; il secondo, partendo dalla cognizione del singolo individuo, ci dà
una intelligenza più profonda dei problemi sociali.
Partendo dall'uomo, notiamo subito che esso è naturalmente portato a vivere
in forme associative. Vari sono i termini che il Santo usa a tal proposito, varissimi i punti in cui lo dice, ma non capiamo la critica del Flori (35) che si
meraviglia delle diversità dei termini che l'Aquinate usa per tradurre quelli aristotelici di « 70), vnyjov a. 6)09 ». Il critico dimentica, forse, che San Tommaso
non legge direttamente in greco l'opera e che il Filosofo usa una diversa termi-
(33) FLORI, op. cit., p. 54.
(34) DELLA ROCCA GUGLIELMO, La politica in San Tommaso, Napoli, E.R.A., 1934,
p. 29.
(35) op. cit., p. 52.
s
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nologia parlando magari di stessi argomenti, in trattati di natura così differente.
Innanzitutto viene messa in risalto la naturalità dell'atto individuale per
cui si forma una moltitudine organizzata: « homo est animai naturaliter sociale in multitudine vivens » (36 ); « Naturale autem est homini ut sit animai
sociale et politicum, in multitudine vivens, magis etiam quam omnis alia animalia » (37).
Gli stessi termini San Tommaso usa nel Commentario alla Politica aristoteRea, quando parla della formazione della moltitudine: « Ostensum est quod homo
est quod ex multis hominibus constituatur una multitudo » (38 ). Pian piano da
questa posizione di partenza che sembra non portare alcuna novità rispetto a
quello che era stato il pensiero politico precedente all'Aquinate, cominciamo a
notare le originalità. La prima è la netta presa di posizione contro chi ( Agostino )
aveva visto l'origine della socialità nel primo peccato. La concezione pessimistica
del vescovo di Tagaste portava questo a considerare la società e la « civitas »
frutto del peccato, quindi come una realtà da cui ci si deve man mano emancipare.
Non è così per Tommaso: la società sarebbe stata anche nello stato di
innocenza: « homo naturaliter est animal social. Unde homines in statu innocentiae socialiter vixissent » (39 ).
Rispetto alla natura della società, è interessante mettere in risalto il contrasto tra l'ottimismo politico dell'Aquinate e la visione pessimistica che avrà
qualche pensatore di molto posteriore a lui. Ci riferiamo, in particolare, alle
teorie hobbesiane che vedranno la società come limitazione dell'individuo e della
sua natura ( « homo hominis lupus »). San Tommaso, al contrario, non vede
nella società una catena, ma il mezzo per la libera esplicazione delle umane
potenzialità. Questo perché San Tommaso parte da una concezione opposta:
« naturaliter homo homini amicus » (40).
Nel provare come per l'uomo sia naturale la vita in comune, San Tommaso
è pratico, dicendo che ciò avviene per l'utilità che ne deriva « ...homines appetunt adivincem vivere et non esse solitarios, etiam si in nullo unus alio indigeret
ad hoc quod ducerent vitam civilem: sed tamen magna utilitas est communis in
communione vitae socialis » (41 ). Nel libro I, capitolo I del « De regimine »
(o « De regno »), l'Aquinate espone in che cosa consista questa « magna utilitas... communis ». Molti animali non hanno bisogno di essere diretti al loro fine
(36) De regimine, I, 12.
(37) ibidem, I, 1.
(38) « In libros Politicorum Ari.stotelis expositio » lib. 1.3, 60 (i numeri che noi metteremo
ad ogni indicazione di detto libro, sono quelli posti nell'edizione Marietti (Torino-Roma,
1951) curata da P. Spiazzi).
(39) «Summa Theol. » 1.a, q. 96, a. 4, c.
(40) « Summa contro Gent. », 4, 54, 4. Il passo è riportato pure dal DELLA ROCCA
(op. cit.), p. 171.
1. 3, 387.
(41) «In libros... » L.
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perchè sono autosufficienti ( « sibi unusquisque rex... sub Deo summo rege » ),
inoltre la natura li ha dotati di ciò con cui possono nutrirsi e difendersi ( denti,
corna, velocità, ecc.). L'uomo, al posto di tutto ciò, ha avuto la « ratio ». Infine,
alcuni animali per istinto conoscono il nocivo ed il giovevole ( es.: l'agnello teme
il lupo ). L'uomo, al contrario, di quelle cose « quae sunt suae vitae necessaria,
naturalem cognitionem habet in communi ». Quindi, se l'uomo ha la ragione
al posto delle « armi naturali », la difesa è efficace solo se egli vive in comunità.
Infatti leggiamo « natura non deficit homini in necessariis, quamvis non dederit
sibi arma et tegumenta sicut aliis animalibus, quia dedit ei rationem et manus,
quibus possit haec sibi conquirere » (42 ), in altro punto troviamo esplicitamente
espresso che la ragione del singolo non basta: « ...per quam (rationem) ) sibi haec
omni officio manuum posset praeparare, ad quae omnis praeparanda unus homo
non sufficit. Nam unus homo per se sufficientem vitam transigere non posset »
e, più avanti, « non est autem possibile, quod unus homo ad omnia huiusmodi
per suam rationem pertingat » (43).
Un altro motivo, da cui il Filosofo deduce la socialità è il linguaggio. Questo è un elemento che si trova tanto nel Commento, quanto nel « De Regimine ».
Nel primo (44) dice « cum ergo homini datus sit sermo a natura [e non solo la
voce che è « signum tristitiae et delectationis »], et sermo ordinetur ad hoc,
quod homines subiinvicem communicent in utili et nocivo, iusto et iniusto, et
aliis huiusmodi; sequitur, ex quo natura nihil facit frustra, quod naturaliter
homines in his sibi communicent. Sed communicatio in istis facit domum et
civitatem. Igitur homo est naturaliter animal domesticum et civile ». Dal linguaggio deduce, nella seconda opera, che l'uomo è l'animale più degli altri portato
a vivere in comunità: « ...est proprium hominis locutione uti, per quam unus
homo aliis suum conceptum totaliter potest exprimere... Magis igitur homo est
communicativus alteri quam quodcumque aliud animai, quod gregale videtur,
ut grus, formica et apis » (45).
Se tante ragioni dimostrano che la socialità è un istinto primordiale dell'uomo, chi non riesce ad inserirsi in una data società si deve considerare estraneo: « Sed quo ad aliquem dicitur esse extraneus qui cum eo non communicat.
Maxime autem homines nati sunt sibi communicare per sermonem: et secundum
hoc, illi qui suum invicem sermonem non intelligunt, barbari ad seipsos dici
possunt » (46). Ma la riflessione tomista procede oltre: se uno si autoesclude
dalla società o è bestia o è un santo: « Sed si aliquis homo habeat quod non
sit civilis, propter naturam, aut nequam est, utpote cum hoc contingit ex corruptione, naturae humanae; aut est melior quam homo, in quantum scilicet
(42) «Summa Theol. », 1.a 2.ae, q. 5, a. 5, a. 5, ad 1.m e vedi pure la 1.a, q. 76, a.
5, ad 4.m.
(43) « De regimine », I, 1.
(44) « In libros... », L. 1, 1. I, 37.
(45) « De regimine », I, 1.
(46) « In libros... », L. 1, 1. 1, 23.
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habet naturam perfectiorem aliis hominibus communiter, ita quod per se sibi
possit sufficere absque hominum societate; sicut fuit in Joanne Baptista, et beato
Antonio heremita » (47). Quindi chi vive al di fuori della società civile: « est
quasi bestia... Est enim quasi quidam deus » (48).
Che la socialità sia naturale, non vuol dire che essa sia arazionale o irrazionale. L'uomo si riunisce in una società, sì, spinto da un istinto naturale, ma
sempre per attuare un fine.
Abbiamo visto come il fine ultimo (il Bene Sommo) per l'uomo è Dio: ma
questo « appetito » di Dio si traduce nelle coscienze umane in appetito del bene
in generale (49). Nel momento in cui questo bene in generale diventa oggetto
diretto della volontà umana, diventa bene particolare, bene proprio. Ascoltiamo Madamoiselle Michel: « Cette dinstinction, saint Thomas semble bien la faire dans
l'Ethique à Nicomaque: "Unumquodque amamus inquantum est bonum nostrum" (Comment. in librum beati Dionisi de diviniis Nomibus c. IV, 19). Ici,
il ne se contente pas de dire "Bonum", mais lui a joute le qualificatif "nostrum",
semblant par là opposer, le Bien en soi, le Bien absolu, an Bien recherché par tel
ou tel » (50 ). D'altronde, vivendo in società, l'uomo necessariamente viene a
contatto con i suoi simili, aventi altrettanti fini individuali, che possono essere
di varia natura. A questo punto si pone per il singolo il problema del raggiungimento di un bene comune agli altri: bene che si può attuare solo in società,
e per la cui attuazione la società vive. Cos'è dunque questo « bene comune »
che nel pensiero politico tomista è assurto al ruolo del primato? (51 ).
San Tommaso ci mostra subito la differenza tra proprio e comune: « non...
idem est quod proprium et quod commune. Secundum propria quidem differunt,
secundum autem commune uniuntur. Diversorum autem diversae sunt causae.
Oportet igitur, praeter id quod movet ad proprium bonum uniuscuiusque, esse
aliquid, quod movet ad bonum commune multorum » (52). Né è giusto dire che
l'uomo è naturalmente egoista: esso è anche inclinato ad agire per il bene comune: « unaquaeque pars naturaliter plus amat commune bonum totius quam particulare bonum proprium: quod manifestatur ex opere; quaelibet enim pars
habet inclinationem principalem ad actionem utilitati totius. Apparet etiam hoc
in politicis virtutibus, secundum quas cives pro bono communi dispendia et propriarum rerum et personarum interdum sustinent » (53 ).
(47) ibidem, L. 1, 1. 1, 35.
(48) ibidem, L. 1, 1. I, 39.
(49) MICHEL SUZANNE, La Notion Thomiste du Bien Commun, Parigi, ed. Vrin,
1932, pp. 15-16.
(50) ibidem, pp. 16-17.
(51) vedi l'articolo di P. SPIAllI, Il Primato del Bene Comune secondo S. Tommaso,
in « Vita Domenicana », 1962, n. 3, e l'opera della MICHEL La Notion Thomiste du Bien
commun (cit.).
(52) « De regimine... » I, 1.
(53) « Summa Theol. », 2.a 2.ae, q. 26, a. 3, e.
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Le prime difficoltà sopraggiungono quando vogliamo ulteriormente definire
il contenuto del bene comune ed i suoi rapporti col bene individuale. Naturalmente ci riferiamo al bene comune immanente, cioè quello sociale, non a quello
trascendente, che è Dio.
Occorre premettere che il bene comune non è un bene meramente collettivo, cioè una somma di beni propri, particolari e personali (54 ): non si differenzia cioè quantitativamente dal bene individuale, ma è diverso nella sua stessa
essenza. Così come i beni propri, anche il bene comune può avere diverse nature:
può essere ad esempio un bene comune economico, o un bene comune morale:
« temperantia est circa concupiscentias naturales cibi et potus, et venereorum,
quae quidem ordinantur ad bonum commune naturae, sicut et alia legalia ordinantur ad bonum commune morale » (55 ).
Più che un contenuto, il Bene comune è uno schema astratto (56 ).
Diversi popoli hanno voluto diversi beni comuni, uno stesso popolo in tempi
diversi ha perseguito diversi beni comuni. Quindi il bene comune è una forma
che lungo le diverse situazioni storiche ha dato origine a varie forme associative.
Infatti, il bene comune di una società è la causa finale per cui essa è sorta. Questo
è un punto importantissimo per tutta la trattazione del pensiero politico tomista:
la società politica non vive per se stessa: essa è sorta come uno strumento verso
il bene comune da attuare. Quindi quest'ultimo non può essere mai sacrificato
ad astratti interessi di una astratta società che si contrapponga al bene comune,
per cui essa ha avuto origine. Questo fondamentale ed attualissimo concetto si
trova espresso in maniera limpida ed inconfutabile in San Tommaso: « Bonum
autem, cum habeat rationem appetibilis, importat habitudinem causae finalis:
cuius causalitas prima est, quia agens non agit nisi propter finem, et ab agente
movetur ad formam: unde dicitur quod finis est causa causarum » (57 ), e più
avanti: « cum bonum sit quod omnis appetunt hoc autem habet rationem finis; manifestum est quod bonum rationem finis important » (58 ). Se da questo presupposto deriva la supremazia del bene comune nella politica di San Tommaso, ne
deriva anche un'altra conseguenza. Poiché il bene comune è uno schema, una
forma, man mano che incontra dei contenuti, realizza diversi beni comuni reali.
Per ognuno di questi beni comuni si forma una società: uno è il bene comune
della famiglia, altro è quello di una corporazione, ancora diverso è quello della
società politica. Quindi già in natura troviamo che a vari beni comuni corrispondono varie società.
E' arrivato, quindi, il momento di uscire dalla astrattezza. E ci chiediamo:
(54)
il 1961),
(55)
(56)
p. 13.
(57)
(58)
RAMIREZ SANTIAGO O. P., Dottrina Politica de Santo Tomas, Madrid, s.d. (dopo
p. 34.
« Summa Theol. », 1.a 2.ae, q. 94, a. 3, ad 1.m.
vedi LACHANCE, L'hutnanisme... (op. cit.) v. 2°, p. 473, e MICHEL op. cit.,
« Summa Theol. », I.a, q. 5, a. 2, ad I.m.
ibidem, I.a, q. 5, a. 4, e.
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qualè il bene comune in vista del quale si forma la società civile? Anche a
questo il Filosofo dà una risposta precisa ed esauriente: « Non est ergo ultimus
finis multitudinis congregatae vivere secundum virtutem, sed per virtuosam
vitam pervenire ad fruitionem divinam » (59 ).
Questo ci conferma ancor più gli strettissimi rapporti che, per San Tommaso, esistono tra politica, morale e metafisica.
Se l'uomo si riunisce in società per attuare un bene comune ( e poiché
comune ai membri della società è un bene anche personale ), ne consegue che la
socialità non è solo una predisposizione naturale, ma anche una partecipazione
volontaria. Il nascere in una società non esclude che giunti a maturità si accetti
volontariamente quel legame che abbiamo con essa. Noi lo accettiamo finché vediamo rispettati
i
nostri diritti naturali, finché vediamo che non è trasgredita
la legge naturale che è in noi (60 ).
Infatti è la legge naturale » la norma che regola i rapporti umani. Nella
formazione e nella vita di una società si debbono tenere presenti le istanze di
questo primo « diritto » innato in noi. Evidentemente il diritto naturale non è
una scoperta di San Tommaso. Anzi, questo è un argomento con cui l'Aquinate
supera, o meglio amplia la tradizione greca, avvicinandosi alla tradizione romana,
quella Giusnaturalistica. In particolare, il Filosofo si rifà allo « jus naturale »
di Ulpiano (61 ). Aristotele si era fermato al concetto di « iusturn naturale »;
San Tommaso procede oltre, rifacendosi alle dottrine dei giureconsulti romani.
L'uomo ha una duplice natura: una animale, un'altra ragionevole. I giuristi
riservano il nome di « ius naturales à ce qui régle les tendances que l'homme
partage avec l'animale. Telle l'union des sexes, l'éducation de la progéniture. Et
pour désigner ce qui régle la vie propement rationelle de l'homme, ces mémes
juristes emploient le nom de ius gentium, puisque ces normes d'action sont Papanage du genre humain: telle la fidélité due aux contrats, le respect &si aux délégués des nations belligérantes » (62 ).
Questo il grande passo avanti compiuto dai romani rispetto alla speculazione
greca. Nel Medio Evo, prima di San Tommaso, c'è molta confusione e poche idee
chiare: i giuristi e i canonisti seguono pedissequamente il diritto romano; i teologi seguono quasi tutti l'insegnamento agostiniano, per cui la natura è qualche
cosa di imperfetto, di deteriore. S. Anselmo e Alberto Magno hanno tentato di
conciliare le due tesi, ma la fusione è allo stato iniziale ( 63 ). Il merito fondamentale di San Tommaso, rispetto alla dottrina del diritto naturale è di aver
identificato la legge naturale con la natura (64 ). Ne derivano due postulati: la
(59) « De regimine... », I, 14.
(60) Accennano a questo aspetto di volontarietà nel naturalismo sociale il ROLAND-GOSSELIN (op. cit.), p. 93, il DELLA ROCCA (op. city, p. 49 e il ROCAFULL (op. cit.), p. 60.
(61) FLORI, op. cit., pp. 54-55.
(62) LOTTIN, Le droit Nature! chez Saint Thomas d'Aquin et ses prédecesseurs, 2.me
edition, Bruges, Ch. Beyaert, 1931, p. 63.
(63) ROLAND-GOSSELIN, op. cit., p. 33 e PUCCI op. cit., p. 18.
(64) LOTTIN, op. cit., p. 103.
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legge naturale non è una norma che si sovrappone alla realtà umana, ma ha un
preciso carattere di interiorità. Secondo: la legge naturale, non in quanto naturale è istintiva ed irrazionale, ma ha sempre carattere di razionalità. Infatti ogni
legge è una norma di ragione, come spiega l'ottima opera del Di Monda (65 ).
Come principio di condotta, era logico che San Tommaso attribuisse la legge ad
un atto essenziale di ragione e non solo di volontà, in quanto, se nell'azione
dobbiamo avere presenti i vari gradi dell'essere e compiere una scelta, questa
scelta deve essere prima intellettiva che pratica. Perciò la legge in generale (e
quella naturale, in particolare) deve guidarci nella nostra attività.
Anche se l'uomo non avesse in sé insita la legge naturale, dovrebbe sempre
rifarsi alla natura, per prendere da essa lo schema della sua azione: « ...intellectus humanus ad quem intellegibile lumen ab intellectu divino derivatur, necesse
habet in his quae facit informari ex inspectione eorum quae sunt naturaliter
facta, ut similiter operetur » (66).
Inoltre San Tommaso pone nella coscienza umana il riflesso dello « ius
aeternum »: nient'altro che questo è la legge naturale.
Questo punto pone un netto divario tra le posizioni di San Tommaso e
quelle di Aristotele e dei giureconsulti romani. « Inter caetera autem rationalis
creatura excellentiori quodam modo divinae providentiae subjacet, inquantum et
ipsa providentiae particeps, sibi ipsi et aliis providens. Unde et in ipsa par ticipatur ratio aeterna, per quam habet naturalem inclinationem ad debitum actum
et finem; et talis participatio legis aeternae in rationali creatura lex naturalis
dicitur... quasi lumen rationis naturalis, quo discernimus quid sit bonum et quid
malum (67 ). Naturalmente, la legge naturale, oltre che identificarsi con la
forma dell'essere, come dice il Lottin (68 ), acquista man mano dei contenuti
specifici che San Tommaso non cessa di richiamare alla nostra attenzione: « inest
homini inclinatio ad bonum secundum naturam rationis, quae est sibi propria;
sicut homo habet naturalem inclinationem ad hoc quod veritatem cognoscat de
Deo, et ad hoc quod in societate vivat: et secundum hoc ad legem naturalem pertinent ea quae ad huiusmodi inclinationem spectant, utpote quod homo ignorantiam vitet, quod alios non offendat, cum quibus debet conversari, et caetera huiusmodi quae ad hoc spectant » ( 69 ). Fanno parte anche della legge naturale tutti
i rapporti tra l'uomo e gli altri oggetti, e tra l'uomo e gli altri animali.
L'essere, essendo l'oggetto primo della volontà, come tale diventa bene. Perciò, il contenuto fondamentale di ogni legge (e quindi anche di quella naturale )
non può essere che: vuoi il bene, non volere il male (70).
(65)
La legge nuova della libertà secondo S. Tommaso, Napoli, 1954, pp. 46-47.
(66) « In libros... », proem., 1.
(67) « Summa Theol. », 1.a 2.ae, q. 91, a. 2, c.
(68) op. cit., p. 71.
(69) «Summa Theol. », 1.a 2.ae, q. 94, a. 2, a.
(70) LA PIRA, Il concetto di legge secondo San Tommaso, in «Riv. di Filosofia Neoscolastica », 1930, pp. 216-217.
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« Hoc est ergo primum praeceptum legis, quod bonum est faciendum et pro-
sequendum, et malum vitandum; et super hoc fundantur omnis alia praecepta
legis naturae » (71 ).
Non cade, quindi, in errore il Lottin quando dice che non tutti gli atti buoni
sono prescritti dalla legge naturale, ma che tutti i cattivi sono vietati da essa (72 )?
Quel « bonum faciendum » ci sembra altrettanto ingiuntivo del « malum vitandum ».
Questi elementi della legge naturale si pongono prima di ogni Stato e sono
condizioni razionali per la vita di esso (73 ). Ripetiamo: questa legge non viola
la libertà della natura umana, in quanto essa coincide con la natura umana stessa.
Inoltre, come nota il La Pira, l'uomo è sempre libero nella scelta dei mezzi che
intende usare per raggiungere il fine (74 ), seguendo la norma che gli indica i
principi generali di azione.
Nel momento in cui l'individuo si pone di fronte a questi principi naturali,
compie un'azione morale. La virtù che regola l'uomo nell'agire secondo i principi
della legge interna a lui (ed a tutta l'umanità) è la giustizia. Il concetto tomista
di giustizia non è nuovo. Dice l'Olgiati: « ...possiamo dire che dal Codice di Hànmurabi alle Leggi di Platone, da Aristotele alla Scuola Pitagorica e Stoica, da Cicerone ai Padri della Chiesa ed agli Scolastici medievali, il concetto di giustizia fu,
non solo comunemente proclamato, ma definito in termini quasi identici » (75 ).
San Tommaso riprende appunto la definizione dei giureconsulti: « Videtur
quod inconvenienter definiatur a jurispetitis quod justitia est perpetua et constans
voluntas jus suum unicuique tribuendi... praedicta justitiae definitio conveniens
est, se rette intelligatur » (76 ). Più avanti lo stesso Filosofo ci dà la giusta
interpretazione della definizione: « ...materia justitiae est operatio exterior, secundum quod ispa, vel res qua per eam utimur, proportionamur alteri personae,
ad quam per justitiam ordinamur. Hoc autem dicitur esse suum unicuique personae quod ei secundum proportionis aequalitatem debetur; et ideo proprius actus
iustitiae nihil aliud est quam reddere unicuique quod suum est » (77). Partendo
dal concetto di « operatio exterior » il Graneris baserà la sua tesi della amoralità
del diritto in San Tommaso (78 ).
La giustizia può avere due aspetti: uno sociale, uno particolare. Quando riguarda i rapporti di un individuo con il bene comune, il Divus la chiama giustizia
(o virtù) generale, quando invece riguarda i rapporti tra individuo e individuo,
(71) « Summa Theol. », 1.a 2.ae, q. 94, a. 2, c.
(72) LOTTIN, op. cit., p. 75.
(73) OLGIATI, op. cit., p. 150.
(74) LA PIRA, op. cit., p. 215.
(75) OLGIATI, op. cit., p. 82.
(76) « Summa Theol. », 2.a 2.ae, q. 58, a. 1, c.
(77) ibidem, 2.a 2.ae, q. 58, a. 11, c.
(78) GRANERIS, L'amoralità del diritto di fronte alla dottrina di San Tommaso, in « Riv.
di Filosofia Neoscolastica », 1940, pp. 138-149.
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si chiamerà giustizia particolare. D'altronde, ogni atto, anche esercitato da individuo a individuo, ha dei riflessi sul bene comune. Perciò possiamo chiamare la
giustizia, virtù generale: « ...bonum cuiuslibet virtutis, sive ordinantis aliquem
hominum ad seipsum; sive ordinantis ipsum ad aliquas alias personas singulares,
est referibile ad bonum commune, ad quod ordinat justitia. Et secundum hoc
actus omnium virtutum possunt ad iustitiam pertinere, secundum quod ordinat
hominem ad bonum commune. Et quantum ad hoc iustitia dicitur virtus generalis ». ( 79 ).
Inoltre la giustizia particolare si divide in commutativa e distributiva: la
prima regola i rapporti tra parte e parte del tutto, la seconda concerne i rapporti
del tutto rispetto alle singole parti: « justitia particularis ordinatur ad aliquam
privatam personam, quae comparatur ad communitatem sicut pars ad totum. Potest autem ad aliquam partem duplex ordo attendi: unusquidem partis ad partem:
cui similis est ordo unius privatae personae ad aliam; et hunc ordinem dirigit
commutativa justitia, quae consistit in his quae mutuo fiunt inter duas personas
ad in vicem. Alius ordo attenditur ad partes, et huic ordini assimilatur ordo eius
quod est commune ad singulas personas: quem quidem ordinem dirigit justitia
distributiva, quae est, distributiva communium secundum proportionalem. Et ideo
duae sunt justitiae specie scilicet distributiva et commutativa » (80). Questo elemento, che in quanto virtù è morale, in quanto connaturato agli uomini ed all'ordine delle cose è naturale, fonderà il diritto positvo umano. L'ordine dell'essere
e dei vari enti in piena armonia: questa è la giustizia. E la sua manifestazione
esteriore è la Pace: « tranquillità dell'ordine » (81 ).
L'ultimo elemento che troviamo in natura a guidarci nella costruzione della
città terrestre, è l'esigenza di una autorità pubblica. L'uomo vive in una moltitudine che deve raggiungere un unico fine. Ma le azioni degli individui si disperderebbero se non ci fosse una guida superiore che indirizzasse tutti verso il bene
comune. Questo è un argomento che l'Aquinate tratta in tutte e tre le opere da
noi considerate e sempre con riferimento ad esempi naturali. Leggiamo l'opuscolo:
« Multis... existentibus hominibus et unoquoque id, quod est sibi congruum, providente, multitudo in diversa dispergeretur, nisi etiam esset aliquis de eo, quod
ad bonum multitudinis, pertinet, curam habens; sicut et corpus hominis et cuiuslibet animalis deflueret, nisi esset aliqua vis regitiva communis in corpore, quae
ad bonum commune omnium membrorum intenderet. Quod considerans Salomon
dicit (Prov. XI, 14): Ubi non est gubernator, dissipabitur populus (82 ). Nel
Commentario ripete, ampliandole, le quattro prove che Aristotele dà per dimostrare che in natura vi è sempre un elemento che comanda. Dapprima vede come le
cose inanimate siano rette dall'armonia, quindi come nell'uomo l'anima comandi
al corpo; come nel genere animale vi sia sempre qualcuno che comandi agli altri.
(79) «Summa Theol. », 2.a 2.ae, q. 58, a. 5, e.
(80) ibidem, 2.a 2.ae, q. 61, a. 1, c.
(81) LA PIRA, op. cit., p. 211.
(82) «De regimine » I, 1; vedi LA VERSIN (op. cit., p. 298).
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Infine, riferendosi alla differenza dei sessi, nota come il maschio comandi, e la
femmina sia soggetta. Conclude dicendo che « naturale et expediens est quod
quidam principentur, et quidam subiiciantur » (83). Il principio generale aristotelico (e quindi tomista) è che in tutte le cose che si costituiscono in unità, come
le membra di un corpo e un esercito di soldati, sia naturale trovare un elemento
principale ed uso soggetto.
E' lecito però chiedersi di che natura è l'autorità che si esercita nella società.
San Tommaso ne parla quando tratta del compito del re: (84). « ...Hoc igitur
rex suscepisse cognoscat, uti sit in regno sicut in corpore anima, et sicut Deus in
mundus! ».
Nella Summa Theologiae definisce ancor meglio questo rapporto di governo
di un uomo su un altro uomo libero: « tunc vero dominatur aliquis alteri ut
libero, quando dirigit ipsum ad proprium bonum commune. Et tale dominium
hominis ad hominem in statu innocentiae fuisset, propter duo. Primo quidem;
quia homo naturaliter est animai sociale: unde homines in statu innocentiae socialiter vixissent. Socialis autem multorum esse non posset, nisi aliquis praesideret, qui ad bonum commune intenderei: non multi enim per se intendunt ad
multa, unus vero ad unum. Et ideo Philosophus dicit, in principio Politic. (e.
2, Lect. 3), quod quandoeumque multa ordinantur ad unum, semper invenitur
unum ut principale et dirigens. Secundo quia, si unus homo habuisset super
alium supereminentiam scientiae et iustitiae, inconveniens fuisset nisi boe exequeretur in utilitatem aliorum; secundum quod dicitur 1 Petr. 4, 10: « Unusquisque gratiam quam accepit, in alterum illam administrantes ». Unde Augustinus dicit, 19 Civ. Dei (cc. 14, 15), quod « iusti non dominandi cupiditate imperant, sed officio consulendi: hoc naturalis ordo praescribit, ita Deus hominem condidit » (85).
Su questi principi naturali si fonda l'autorità pubblica che si concretizza
nelle leggi e nei governanti di un popolo. Ma come su questi elementi ha i suoi
fondamenti, in questi ha i suoi limiti, sorpassando i quali l'autorità cadrebbe in
tirannia e totalitarismo.
Un altro ordine (oltre quello metafisico e morale) fonda la realtà politica.
La natura ed i suoi principi non sono però qualcosa di diverso dai principi metafisici e morali: sono soltanto « la loro riduzione » in termini umani.
Vogliamo appena accennare due motivi, due caratteri che ci sembrano essere
i cardini del pensiero politico tomista.
Ci riferiamo, in particolare, alla concezione finalistica o (ci sia permesso )
piramidale di tutta la realtà tomista: una larghissima base umana, poi alcune
società intermedie, degli Stati, la beatitudine in Dio. Ogni elemento inferiore è
subordinato (pur nell'autonomia interna) al superiore.
(83) « In libros... », L. 1, 1. 2, 61-67.
(84) « De regimine », I, 12.
(85) « Summa Theol. », 1.a, q. 96, a. 4, e.
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Si inizia da un fatto personale: l'uomo che si associa, per giungere infine ad
un altro fatto personale: l'uomo che si unisce a Dio. Questa concezione cuspidale
riesce a giustificare ogni passaggio della politica tomista, che ci sembrerà anche
perciò una politica personalistica, o, come l'hanno chiamata altri, un « umanesimo politico ». Tutto è in funzione della Persona e dei suoi valori, perché essi
sono in funzione di Dio. Lo Stato acquista essere ed autorità proprio per salvaguardare queste realtà preesistenti ad esso.
Il secondo carattere che notiamo nella concezione politica di San Tommaso
è il ripudio di ogni idealismo o utopia politica, e perciò egli si differenzia da
Platone e Agostino, e si pone contro i suoi contemporanei che, pur accettando
la visione finalistica della realtà, la facevano fine a se stessa, senza alcun fondamento reale. San Tommaso fa partire la sua dottrina politica dall'uomo, da quello
che è nelle sue dimensioni fisiche, psicologiche, spirituali e da quello che deve
essere. Un sano realismo fortifica, permea tutta la concezione politica dell'Aquinate. E basterebbe una frase posta da San Tommaso a base della sua esposizione
per annullare tante teorie, sorte magari in polemica opposizione all'Aquinate, una
frase che è stata dimenticata e che potrebbe rivalutare, da sola, tutta una dottrina
politica in gran parte trascurata: « Ad cognoscendum civitatem, oportet considerare
quid sit civis » (86 ).
GIOVANNI INVITTO
(86) « In libros... », L. III, 1. 1, 350.
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fondamenti del pensiero politico di san tommaso