La Shoah nella letteratura tedesca del secondo dopoguerra Letteratura Tedesca II – MOD2 Anno Accademico 2015/2016 – Prof. Raul Calzoni 1. Introduzione • Dibattiti culturali dal 1945 a) La questione della colpa collettiva e della responsabilità individuale per i crimini contro l’umanità compiuti dai nazisti e dai civili negli anni del regime hitleriano. b) Le ricadute sullo spirito tedesco della divisione in zone d’influenza occidentale e orientale e la conseguente guerra fredda fra USA e URSS, che ebbe come drammatico e spesso subdolamente silente teatro delle ostilità la Germania; c) Le strategie di rielaborazione attraverso dei traumi inflitti e subìti dai tedeschi durante il terzo Reich e gli anni del secondo conflitto mondiale, nonché la loro proposizione in “un paese senza lutto”, come è stata definita la Germania dell’Ovest negli anni Sessanta. • Tre fasi della cultura contemporanea 1. il periodo delle macerie e della ricostruzione (1945-1961), così definito per riferirsi a due concetti chiave dell’epoca: la Trümmerliteratur (“letteratura delle macerie”, Heinrich Böll) e il Wiederaufbau (“ricostruzione”) fisico e intellettuale del Paese. 2. il tempo della nazione divisa (1961-1989), il cui simbolo e precipitato visuale è stato il Muro di Berlino, caratterizzata dal “passato che non passa”, per richiamarsi al titolo di un’opera fondamentale dedicata alle annichilenti ricadute del secondo conflitto mondiale e del regime hitleriano sulla cultura tedesca 3. l’epoca della Riunificazione (1989-2010), da un lato caratterizzata dalla “coscienza inquieta” della Germania contemporanea nei confronti della sua storia più e meno recente, ovvero nei riguardi degli accadimenti verificatisi durante il dodicennio nero e nei ventotto anni di divisione del Paese, e dall’altro lato segnata da una netta e opposta tendenza all’escapismo dalle problematiche storiche, politiche e culturali che è peculiarità di alcuni scrittori appartenenti alla più giovane generazione. • • Il prisma della Seconda guerra mondiale Seconda guerra mondiale - Inizio: 1 settembre 1939 con l'invasione della Polonia da parte della Germania (Blitzkrieg). - Termine: nel teatro europeo, 8 maggio 1945 con la resa tedesca; nel teatro asiatico, 2 2 settembre con la resa dell'Impero giapponese a seguito dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. 1945 • - Nullpunkt (“punto zero”) politico, economico e culturale della Germania. - Stunde null (“ora zero”) della Germania, entusiasticamente celebrata da molti intellettuali come momento di definitiva rottura con il terzo Reich, - “una leggenda, nata dalla coscienza sporca dei tedeschi, ma anche dalle speranze degli anni futuri. Se mai c’è stato in Germania un punto zero storico, quello è stato il 1933. Nondimeno, il 1945 sarebbe potuto certamente essere un nuovo inizio, però quest’opportunità è andata sprecata, anche a causa degli interessi delle grandi potenze”.(Michael Dallapiazza, Claudio Santi, Storia della letteratura tedesca, vol. 3 (Il Novecento), Laterza, Bari 2001, p. 179). 1949 • - Inverno 1948 - 1949: blocco posto dai russi a Berlino nell’intento di diventarne gli unici amministratori (Berliner Blockade). - Settembre: fondazione della Bundesrepublik Deutschlands (BRD, Repubblica Federale Tedesca) con capitale Bonn. - Ottobre: Deutsche Demokratische Republik (DDR, Repubblica Democratica Tedesca) con capitale Berlin Pankow. • 02.02.1943 • • • • GUERRA AL FRONTE: Disfatta di Stalingrado Operazione Barbarossa (17.07.1941 - 02.02.1943) 6a Armata del generale Friedrich Paulus 64a Armata del generale Mikhail sconfigge i tedeschi a Stalingrado (31 gennaio 1943: Operazione Urano – Operazione Saturno) • «I nazionalsocialisti cancellano la politica estera tedesca di prima della guerra e l’annullano. Noi iniziamo dal punto in cui si fermò 600 anni fa. Finiamo l’eterno cammino tedesco verso il sud e l’ovest e guardiamo i territori posti all’est. Facciamola finita con la politica coloniale e commerciale di prima della guerra e passiamo ad una politica di espansione nel futuro. Ma allorché diciamo di nuovi spazi europei, dobbiamo tenere in considerazione innanzitutto l’Unione Sovietica e le Nazioni satelliti ad essa affiliate». H. Hitler, Mein Kampf [19251927], München 1938, p. 742; trad. it. Mein Kampf (la mia battaglia), Roma 2000, pp. 232233. 27.01.1945 • - La 60a Armata del maresciallo Konev localizza la rete di campi di concentramento attorno ad Auschwitz. - «Quando venne il mio turno di salire sul carretto di Yankel, non ero in grado di reggermi in piedi. Fui issato sul carro da Charles e da Arthur, insieme con un carico di moribondi da cui non mi sentivo molto dissimile. Piovigginava, e il cielo era basso e fosco. Mentre il lento passo dei cavalli di Yankel mi trascinava verso la lontanissima libertà, sfilarono per l’ultima volta sotto i miei occhi le baracche dove avevo sofferto e mi ero maturato, la piazza 3 dell’appello su cui ancora si ergevano, fianco a fianco, la forca e un gigantesco albero di Natale, e la porta della schiavitù, su cui, vane ormai, ancora si leggevano le tre parole della derisione: “Arbeit Macht Frei”, “Il lavoro rende liberi”». (P. Levi, La tregua [1965], Milano 1992, pp. 17-18). • 30.01.1945 - FLUCHT: Operazione Hannibal - Il Wilhelm Gustloff, il più grande transatlantico della Kraft durch Freude, salpa dalla costa baltica con a bordo più di diecimila profughi. Alle ore 21:10 la nave viene colpita da tre siluri lanciati dal sommergibile sovietico S-13 affidato al capitano Alexander Marinesko. Il transatlantico affonda dopo un’ora circa; in quella notte persero la vita 9363 tedeschi e solamente 1252 profughi furono tratti in salvo dall’incrociatore pesante Admiral Hipper. • 13/14.02.1945 - • LUFTKRIEG: Distruzione di Dresda Operazione Thunderclap Rappresaglia nei confronti dei bombardamenti tedeschi sull’Inghilterra del 1940 (Operazione Leone Marino) e sulla Russia del 1941 (Operazione Barbarossa). 30.04.1945 - Hitler si suicida con Eva Braun nel Bunker della Cancelleria. I loro corpi vengono bruciati, per volontà del Führer, nel giardino della Cancelleria. - Il giorno seguente, 1 maggio 1945, Magda Goebbels si uccide con i figli e il marito Joseph Goebbels nel Bunker. • 20.01.1942 - Wanseekonferenz: Conferenza di Wannsee alla quale parteciparono 15 alti ufficiali nazisti, per decidere come attuare la "Soluzione finale della questione ebraica" (Endlösung der Judenfrage). - «Adesso, nell’ambito della soluzione finale, gli ebrei dovrebbero essere utilizzati in impieghi lavorativi a est, nei modi più opportuni e con una direzione adeguata. In grandi squadre di lavoro, con separazione dei sessi, gli ebrei in grado di lavorare verranno portati in questi territori per la costruzione di strade, e non vi è dubbio che una gran parte verrà a mancare per decremento naturale» (Verbale della conferenza di Wannsee, p. 7). 08.05.1945 - A Karlshorst, nel quartiere berlinese di Lichtenberg, il feldmaresciallo generale Wilhelm Keitel (1882-1946) sottoscrive per la Germania la resa incondizionata. - «Berlino era ancora un esplosivo, fumante e bruciante vulcano che eruttava morte […] un luogo spaventoso e indicato per procedere alla ratifica del documento sulla resa incondizionata». (Fritz Oppenheimer, Bericht des amerikanischen Majors Fritz E. Oppenheimer über die Reise des OKW Keitel nach Berlin zur Unterzeichnung der Kapitulationsurkunde am 8./9. Mai 1945, in Manfred Overesch (hrsg.), Deutschland 1945-1949: Vorgeschichte und 4 Gründung der Bundesrepublik, Athenäum-Verlag, Düsseldorf 1979, p. 117). 19.03.1945 - Operazione Nerone - «Se la guerra sarà perduta, anche il popolo sarà perduto. Questo destino è ineluttabile […] è meglio che si sia noi stessi a distruggere ogni cosa, poiché il popolo ha dimostrato di essere il più debole e l’avvenire appartiene esclusivamente al popolo dell’Est, che è il più forte. Del resto, quelli che sopravvivranno a questa lotta non saranno che gli infimi, perché i migliori saranno caduti» (Adolf Hitler a Albert Speer) 2. La denazificazione della Germania e la questione della «colpa collettiva» - Säuberung (epurazione) - Bestrafung (condanna) - Umerziehung (rieducazione) - Affidate a occidente alla Information Control Division (ICD) e a oriente alla Sowjetische Militäradministration in Deutschland (Amministrazione militare sovietica in Germania, SMAD) - Ernst von Salomon, Der Fragebogen, Rowohlt, Hamburg 1951. • Processi di Norimberga - Ottobre 1945 - ottobre 1946: sotto accusa 22 fra i maggiori esponenti delle SA (abbreviazione di Sturmableitung, “battaglioni” o “squadre” d’assalto” del partito), delle SS (abbreviazione di Schutzstaffeln, “reparti di difesa” paramilitari d’élite del partito nazista) e della Gestapo (abbreviazione di Geheime Staatspolizei), la “polizia segreta di stato” del terzo Reich che a partire dal 1934 fu controllata dalle SS. - Accusa: avere preso fattivamente parte alla Endlösung der Judenfrage, la “soluzione finale della questione ebraica” programmata durante la Conferenza di Wannsee. - Pene comprese fra la reclusione e l’impiccagione che giunsero in chiusura di un processo al quale parteciparono un giudice per ciascuna nazione vincitrice del conflitto. - Testimoniarono 240 vittime del regime nazista e vennero rese circa trecentomila deposizioni. - Le condanne a morte furono eseguite già il 16 ottobre 1946. - Impiccati: il Ministro degli esteri Joachim von Ribbentrop (*1893), Wilhelm Keitel, Ernst Kaltenbrunner (*1903), Alfred Rosenberg (*1893), Hans Frank (*1900), il Ministro degli interni Wilhelm Frick (*1877), Julius Streicher (*1885), Fritz Sauckel (*1894), Alfred Jodl (*1890) e Arthur Seyß-Inquart (*1892). • • • Karl Jaspers, Die Schuldfrage, Heidelberg/Zürich 1946 (trad. it. e cura di R. De Rosa, La colpa della Germania, Edizione Scientifiche Italiane, Napoli 1947; trad. it di A. Pinotti, La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, Raffaello Cortina, Roma 1996) Hannah Arendt (1906-1975): contributo apparso sulla rivista americana Jewish Frontier e intitolato German Guilt (La colpa tedesca, 1945); trad. it. Colpa organizzata e responsabilità universale (in Archivio Arendt 1. 1930-1948, a cura di S. Forti, trad. it. di P. Costa, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 157-167). Hannah Arendt, Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil (La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, 1963; trad. it. Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Fetrinelli 1964. 5 • «I gerarchi nazisti, sgravata la coscienza da ogni peso grazie all’organizzazione burocratica dei loro atti, avevano smesso di temere perfino Dio. Tutto ciò che provavano era solo un senso di responsabilità nei confronti della propria famiglia. La trasformazione del padre di famiglia da membro responsabile della società, interessato a tutti gli affari pubblici, in un ‘borghese’ concentrato solo sulla propria esistenza privata ed estraneo ad ogni virtù civile, è un fenomeno internazionale tipicamente moderno» (Arendt, Colpa organizzata e responsabilità universale, cit., pp. 164-165). • Dwight MacDonald, The Responsibility of Peoples, in Politics 2 (March 1945), pp. 86-87. • Tipologie della colpa secondo Jaspers (Die Schuldfrage): - • «colpa criminale» «colpa politica» «colpa morale» «colpa metafisica» Eugen Kogon, Der SS-Staat. Das System der deutschen Konzentrationslager, Verlag der Frankfurter Hefte, Frankfurt am Main 1946) (Lo stato SS. Il sistema dei campi di concentramento tedeschi):«cosa era davvero un campo di concentramento tedesco. Un mondo a sé, uno stato a sé – un ordinamento senza diritto, in cui l’individuo […] combatteva per la nuda esistenza e per la cruda sopravvivenza». 3. La lingua dei carnefici • l’«essenza della propaganda consiste nel far sì che le persone abbraccino un’idea tanto sinceramente e tanto fortemente che alla fine soccombono a essa e non possono più fuggirvi» (Joseph Goebbels, Congresso annuale del partito nazionalsocialista svoltosi a Norimberga nel settembre 1934) • Victor Klemperer (1881-1960) - Ich will Zeugnis ablegen bis zum letzten (Testimoniare fino all’ultimo. Diari 19331945, a cura di W. Nowojski con la collaborazione di H. Klemperer, trad. it. di A. Ruchat e P. Quadrelli, Mondadori, Milano 2000) LTI. La lingua del terzo Reich; taccuino di un filologo, trad. it. di P. Buscaglione, La Giuntina, Firenze 1996: «le parole possono essere come pasticche di arsenico: vengono inghiottite senza accorgersene; sembra che non abbiano alcun effetto – dopo un po’ di tempo però manifestano il loro venefico effetto». • Per quanto mi riguarda, sempre più mi rendo conto d’essere diventato assolutamente inutile, sono il prodotto di un’acculturazione eccessiva, incapace di sopravvivere in ambienti meno civilizzati. […] Io non potrei nemmeno diventare insegnate di lingua, sono in grado solo di tenere lezioni di scienze dello spirito, ma solo in lingua tedesca e con un taglio assolutamente tedesco. Non posso che vivere e morire in questo paese. (Klemperer, Testimoniare fino all’ultimo. Diari 1933-1945) • La lotta più dura in difesa della mia natura tedesca la sto combattendo ora. Devo insistere su questo punto: io sono tedesco, sono gli altri che non lo sono, devo insistere su questo punto: è lo spirito che non decide, non il sangue. Devo insistere: il sionismo da parte mia sarebbe una commedia, il battesimo non è stata una commedia. (Klemperer, Testimoniare fino 6 all’ultimo. Diari 1933-1945) 4. La «rielaborazione del passato», la «ricostruzione della cultura» e la Scuola di Francoforte • • • • • • Max Horkheimer. Theodor Wiesengrund Adorno Walter Benjamin Erich Fromm Leo Löwenthal Zeitschrift für Sozialforschung • Lo sviluppo della Scuola è riconducibile a tre fasi. alle quali coincidono altrettante generazioni di filosofi afferenti all’Istituto: 1. il decennio fra la fondazione dell’Istituto e l’ascesa al potere di Hitler. 2. il periodo fra l’esilio statunitense dei francofortesi e il loro rientro in patria nel 1949 di Adorno e Horkheimer. 3. fase caratterizzata dalla Dialettica negativa di Adorno fra primi anni Cinquanta e la morte del filosofo avvenuta nel 1969. • Quest’ultima è fase fondamentale per i successivi sviluppi del pensiero della Scuola, in particolare per l’elaborazione del metodo di studio della comunicazione di Jürgen Habermas. • La riflessione di Adorno e Horkheimer attorno alla società tedesca del Novecento, ispirata al pensiero di Marx, Hegel e Freud, si attuò sin dagli esordi attraverso un approccio dialettico e totalizzante alla società. • La critica fu affinata durante l’esilio in almeno due opere centrali per discutere la possibilità e le modalità di ricostruzione della cultura tedesca dopo il nazismo: 1. Dialektik der Aufklärung (Dialettica dell’illuminismo, 1947) di Adorno e Horkheimer. 2. Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben (Minina moralia. Riflessioni dalla vita offesa, 1951) di Th. W. Adorno e prima di esse la celebre Dialettica dell’Illuminismo (1947) • «la conoscenza del perché l’umanità, anziché entrare in una condizione veramente umana, sprofondi in una nuova sorta di barbarie» • Due critiche fondamentali: 1. concezione della civiltà occidentale come risultato di una progressiva razionalizzazione 2. razionalizzazione della natura vista come condizione del mondo occidentale. • «l’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura». • l’illuminismo decade a positivismo: strumento del dominio industriale, soprattutto a fronte della sua tendenza antimitologica e della coincidenza fra verità e sistema scientifico. 7 • Odissea: Ulisse viene riconosciuto «uno dei primi rappresentanti della civiltà borghese occidentale». • Rinuncia e negazione del proprio “io”: Polifemo e l’incontro con le sirene • Ulisse «ode, ma impotente, è legato all’albero della nave, e più la tentazione diventa forte, e più strettamente si fa legare, così come, più tardi, anche i borghesi si negheranno più tenacemente la felicità quanto più – crescendo la loro potenza – l’avranno a portata di mano». • Società occidentale borghese caratterizzata dall’«umiliazione dell’impulso alla felicità intera, universale, indivisa». • Sacrificio di tutto ciò che è vitale a favore della costruzione di un io irrigidito: alienazione • l’antisemitismo viene concepito in rapporto dialettico con la natura, la felicità, la civiltà e la ragione. • “Nelle grandi svolte della civiltà occidentale, dall’avvento della religione olimpica fino al Rinascimento, alla Riforma e all’ateismo borghese, ogni volta che nuovi popoli e ceti soppiantano più decisamente il mito, il timore della natura minacciosa e incontrollata, conseguenza della sua stessa materializzazione e oggettivazione, fu abbassato a superstizione animistica, e il dominio della natura interna e esterna a scopo assoluto della vita” • Fallimento della civiltà occidentale: 1. «il processo di disincanto, razionalizzazione, rischiaramento, civilizzazione, non si è svolto sotto il segno della realizzazione di quella felicità che, vista retrospettivamente, sembrava caratterizzare il mondo primitivo». 2. progressiva distruzione di qualsiasi forma di felicità e angoscia che ricordasse all’uomo moderno il mondo primitivo e non civilizzato. • “I segni dell’impotenza, i movimenti ansiosi e scomposti, l’angoscia della creatura, l’agitazione, provocano la voglia di uccidere. La dichiarazione di odio contro la donna come creatura spiritualmente e fisicamente più debole, che reca in fronte il marchio del dominio, è la stessa dell’odio contro l’ebreo. […] Vivono, mentre sarebbe possibile eliminarli, e la loro angoscia e debolezza, la loro maggiore affinità alla natura per la continua pressione a cui sono sottoposti, è il loro elemento vitale. Ciò suscita il furore cieco dell’uomo forte, il quale paga la propria forza con la tensione del distacco dalla natura, e non può mai permettersi l’angoscia. Egli si identifica con la natura, moltiplicando per mille nelle sue vittime il grido che non gli è dato di emettere”. • Relazione fra antisemitismo e impulsi umani originari, dei quali gli ebrei sarebbero fra gli ultimi depositari nell’epoca della “riproducibilità tecnica”. • Questa relazione si esplicita attraverso una mimica che, all’uomo occidentale votatosi al culto della ragione, «suscita furore, poiché ostenta, nei nuovi rapporti di produzione, l’antica paura, che si è dovuta dimenticare per sopravvivere in essi». 8 • Una direttrice critica sviluppa argomentazioni contenute in Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (L’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1935) di Walter Benjamin: L’arte, la perdita di unicità dei prodotti artistici, ciò che Benjamin definisce “aura”, la cultura di massa sono gli obiettivi polemici del pensiero critico dei francofortesi che si confrontano con la sfera del consumo, il feticismo delle merci e le loro ricadute sull’alienazione e la libertà dell’individuo. Da questo bacino critico nascerà nel dopoguerra il concetto di “industria culturale”, frequentemente problematizzato da Adorno e punto di partenza per la critica ai mezzi di comunicazione di Hans Magnus Enzensberger (“Industria della coscienza”). • «Industria culturale»: la cultura standardizzante che proviene da Hollywood e attraverso i nuovi mass media si è fatta strada nel mondo. • «industria culturale»: atteggiamento passivo del consumatore nel processo di industrializzazione e standardizzazione della conoscenza attraverso «l’impero dei mass media», il quale rappresenta il più subdolo strumento di manipolazione delle coscienze, perché è impiegato da qualsiasi sistema di potere con l’intento di conservare se stesso e tenere sottomessi gli individui. • «L’industria culturale, la società ultraorganizzata, l’economia pianificata hanno beffardamente realizzato l’uomo come essere generico: privo di coscienza individuale, di iniziativa morale autonoma, manipolato a piacere, […] la forma massificata ha trattenuto tutti nello stadio della mera essenza generica». • Risultato è l’alienazione dell’individuo nel lavoro • Hans Magnus Enzensberger: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. Bewußtseins-Industrie (1962) Gli elisir della scienza (2002) Ah, Europa! Rilevazioni da sette paesi (1987) Eurocentrismo controvoglia (1980) Periferia europea (1965) La lista eurocentrica (2001) Europa in macerie (1990) I revenant di Hitler (1997) Minima moralia (1951) • Non è opera di etica filosofica: impossibile elaborare una dottrina etica dopo la seconda guerra mondiale, poiché nella civiltà contemporanea è ormai irrimediabilmente iscritta la traumatica cesura che Adorno riassume nella cifra di «Auschwitz», luogo che nella sua riflessione diviene sinonimo di Shoah. • In seguito alla lacerazione nazista, l’uomo ha definitivamente perso ogni forma di autonomia e «la vita è diventata apparenza», mentre «la nullità dimostrata ai soggetti nei campi di concentramento investe ormai la forma stessa della soggettività». 9 • Minima: occupazioni e oggetti banali della vita quotidiana che esprimono lo spirito di un’età totalitaristica, organizzata e globale, dove regna l’incapacità dell’individuo di servirsi del proprio intelletto in autonomina. • Moralia: Con quest’opera Adorno mosta le strategie di penetrazione del capitalismo nelle sfere più intime della vita quotidiana, laddove l’uomo e la macchina si incontrano e i confini fra i due diventano a tal punto labili che persino la morale – i moralia – finisce per ricadere nelle questioni industriali che concernono la «produzione del mondo». • Utopia: liberare gli uomini e gli oggetti dal dominio contemporaneo della tecnologia e della ragione. • Nelle forme estetiche tradizionali, nella lingua tradizionale, nel materiale tramandato della musica, ma anche nello stesso universo concettuale filosofico del periodo compreso fra le due guerre, non risiede più alcuna forza autentica. Diventano tutte menzogne condannate dalla catastrofe di quella società da cui sono provenute. (T. W. Adorno, Die auferstandene Kultur, 1949). • Was bedeutet: Aufarbeitung der Vergangenheit (Che cosa significa elaborazione del passato, 1959): «se la tanto menzionata elaborazione del passato non è fino ad oggi avvenuta, ma si è tramutata nella sua caricatura, il vuoto e freddo oblio, è perché continuano a sussistere le oggettive premesse sociali che generarono il fascismo». • «l’affermazione che Hitler avrebbe distrutto la cultura tedesca non è che un trucco reclamistico di coloro che vorrebbero ricostruirla dai telefoni dei loro uffici» (Th. W. Adorno, Ritorno alla cultura, in Minima moralia) • «Uno sguardo alla produzione letteraria di quegli emigrati che – attraverso una severa disciplina e una rigida suddivisione - sono riusciti a “rappresentare” lo spirito tedesco, dice tutto su quello che dobbiamo aspettarci da un’allegra ricostruzione: l’introduzione dei metodi di Broadway sul Kurfürstendamm, che fin dagli anni ’20 se ne distingueva solo per l’inferiorità dei mezzi, ma non per la superiorità degli scopi» (Th. W. Adorno, Ritorno alla cultura, in Minima moralia) • “L’idea che, dopo questa guerra la vita potrà riprendere «normalmente» o la cultura «ricostruita» – come se la ricostruzione della cultura non fosse già la sua negazione – è semplicemente «idiota». Milioni di ebrei sono stati assassinati. E questo dovrebbe essere un semplice intermezzo, e non la catastrofe stessa. Che cosa aspetta ancora questa cultura?” (Adorno, Minima moralia). • «la vita si è trasformata in una successione atemporale di chochs, separati da intervalli vuoti, paralizzati» (Ibidem). • “Nach Auschwitz ein Gedicht zu schreiben, ist barbarisch”(«Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie», T. W. Adorno, Critica della cultura e società, in Prismi. Saggi sulla critica della cultura, trad. it. di C. Mainoldi, Einaudi, Torino 1972, p. 22). • T. W. Adorno, Erziehung nach Auschwitz, in Id., Gesammelte Schriften, Vol. X, 2 (Kulturkritik und Gesellschaft II), op. cit.; T. W. Adorno, , Erziehung zur Mündigkeit. 10 Vorträge und Gespräche mit Hellmut Becker 1959-1969, a cura di G. Kadelbach, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1971. 5. L’eredità culturale della Repubblica di Weimar. Gottfried Benn, Bertolt Brecht, Alfred Döblin, Thomas Mann e Ernst Jünger dopo il 1945 • Durante il dodicennio nero, agli scrittori che non si allinearono al regime si prospettavano due sole alternative: 1. l’esilio: Letterati intellettuali, artisti, pensatori di origine ebraica (Döblin, Peter Weiss, Adorno, Horkheimer) e politicamente impegnati contro il regime (Thomas e Heinrich Mann, Bertolt Brecht) 2. l’emigrazione interna: Gottfried Benn, Ernst Jünger, Frank Thiess e Arno Schmidt. • “Là, dove si bruciano i libri, si finisce col bruciare anche gli uomini” [Heinrich Heine, Almansor (1821), monumento al rogo del 10 maggio 1933 sul Bebelplatz a Berlino] • Fine della guerra : le voci dell’esilio, dell’emigrazione interna e dell’opposizione cifrata al regime dettero un impulso decisivo alla rinascita della letteratura tedesca dell’età contemporanea. • Obiettivo: ricostruire dalle fondamenta una cultura irrimediabilmente danneggiata dalla cesura nazista. A questo progetto contribuirono anche autori più giovani, come Wolfgang Borchert (1921-1947) e Heinrich Böll (1917-1985), che avevano avuto esperienza diretta della guerra al fronte e si sarebbero imposti come voci della «letteratura delle macerie». • “Nel 1945, […] in una situazione di tabula rasa, si era letteralmente abbandonati a se stessi: non c’era assolutamente più nulla di positivo, nessun valore da rigettare – persino il linguaggio era profanato. In tale situazione, la posa avanguardistica poteva apparire, tutt’al più, una mascherata inoffensiva, un cinismo da burattino. Dov’era, ormai, il borghese contro cui si potesse scendere in campo, dove si erano rifugiati i padri, di fronte ai quali si dovesse propugnare la causa dei figli? Invece di misurarsi con gli avi, si cercava il loro aiuto e il loro appoggio; sintesi, sembrava la grande parola del tempo; che rimaneva da fare, del resto, poiché le mani erano vuote , se non andare a scuola dai maestri, imparare dall’estero, fare propria la posizione degli emigrati?” (Walter Jens, Quattro tesi sulla letteratura tedesca oggi, 1961). • Gottfried Benn • Morgue, 1910 • 1933-1934: Presidenza della sezione poesia dell’Accademia Prussiana delle Arti • 1935 -1945: medico fra le fila dell’«esercito», dove trovò la «forma aristocratica dell’emigrazione» (G. Benn, Doppia vita, 1950). • «Poesia assoluta»: l’artista «vive solo per la sua sostanza interiore, è freddo, la sua materia deve essere mantenuta fredda, egli infatti deve dare forma all'idea, alle ebbrezze cui gli altri possono umanamente abbandonarsi [...]. È cinico e sostiene di non essere altro, mentre gli 11 idealisti siedono fra gli uomini di cultura e le classi produttive». (G. Benn, Doppia vita, 1950). • • • • • • Statische Gedichte (Poesie statiche, 1948) Trunkende Flut (Flutto ebbro, 1949) Fragmente (Frammenti, 1951) Distillationen (Distillazioni, 1953) Aprèslude (1955) Probleme der Lyrik (Problemi della lirica, 1951): «la poesia senza fede, la poesia senza speranza, la poesia non diretta ad alcuno, la poesia fatta di parole che voi montate in maniera affascinante». G. Benn Poesia statica, “smalto del nulla” Staticità è la profondità del saggio, i figli e i figli dei figli non lo toccano, non possono turbarlo. Professare opinioni, agire, arrivare e partire sono il segno di un mondo che non ha idee chiare. Davanti alla mia finestra – così dice il saggio – c'è una valle in cui si raccolgono le ombre, due pioppi segnano la strada tu sai – per dove. Prospettivismo è un'altra parola per la sua statica: porre alcune linee, continuarle secondo legge di tralci – sprizzare tralci –, e stormi e corvi gettare nel primo rosso di cieli di inverno, e lasciar tutto cadere – tu sai – per chi. • “Artistik” di Benn: «il tentativo dell'arte, in mezzo alla generale decadenza dei contenuti, di vivere se stessa come contenuto e di formare da questa esperienza un nuovo stile; è il tentativo di contrapporre al generale nichilismo dei valori una nuova trascendenza: la trascendenza del piacere creativo». (Benn, Problemi della lirica) • Scrittori provenienti dall’esilio si insediarono nel settore orientale (Johannes R. Becher, Anna Seghers e Arnold Zweig), quando non decisero di vivere in Svizzera come Th. Mann. 12 • Esponenti dell’emigrazione interna nella parte occidentale (Weinheber, Benn, Carossa, Britting, Bergengruen, Schröder, Seidel e Jünger). 6. Il Kahlschlag • • • Kahlschlag, ovvero «disboscamento» della lingua tedesca dalla pompa retorica del nazismo. Wolfgang Weyrauch (1904-1980) si avvalse per primo dell’ideale del Kahlschlag applicandolo alla letteratura del dopoguerra nella postfazione all’antologia Tausend Gramm (Cento grammi, 1949). L’ideale del «disboscamento» aveva già trovato con la lirica di Günther Eich un modello da seguire: Inventur (Inventario, 1948) apparsa per la prima volta nell’antologia Deine Söhne, Europa (I tuoi figli, Europa) dedicata da Hans Werner Richter (1908-1993) alla poesia dei detenuti nei campi di prigionia alleati. Dies ist meine Mütze, dies ist mein Mantel hier mein Rasierzeug im Beutel aus Leinen. Questo è il mio berretto, questo è il mio cappotto qui le mie cose per fare la barba nel sacco di lino. Konservenbüchse: Mein Teller, mein Becher, ich hab in das Weißblech den Namen geritzt. Scatola di latta: Il mio piatto, il mio bicchiere, ho inciso sulla latta il nome. Geritzt hier mit diesem kostbaren Nagel, den vor begehrlichen Augen ich berge. Inciso con questo prezioso chiodo che nascondo agli occhi invidiosi. Im Brotbeutel sind ein Paar wollene Socken und einiges, was ich niemand verrate, Nel mio sacco ci sono delle calze di lana e altre cose che non dico a nessuno, so dient er als Kissen nachts meinem Kopf. Die Pappe hier liegt zwischen mir und der Erde. di notte fa da cuscino alla mia testa. Questo cartone sta tra me e la terra. Die Bleichstiftmine lieb ich am meisten: Tags schreibt sie mir Verse, die nachts ich erdacht. Ciò che amo di più è la mina della matita: di giorno mi scrive i versi che ho pensato di notte. Dies ist mein Notizbuch, dies meine Zeltbahn, dies ist mein Handtuch, dies ist mein Zwirn. Questo è il mio quaderno Questa la mia tela, questo il mio asciugamano, questo è il mio refe. 7. Poesia della natura e dell’impegno politico 13 • • • • • Bertolt Brecht Svendborger Gedichte (Poesie di Svendborg, 1934) Finnische Epigramme (Epigrammi finlandesi, 1941). Bertolt Brecht: Buckower Elegien (Elegie di Buckow, 1953). Schlechte Zeiten für Lyrik (Tempi grami per la lirica), composta in Danimarca nel 1938: Lo so bene: solo chi è felice è amato. La sua voce la si ascolta volentieri. Il suo volto è bello. L’albero tutto storto nel cortile addita il suolo cattivo, ma i passanti gli danno dello storpio e hanno ragione. I battelli verdi e le allegre vele del Sund non vedo. Di tutto vedo soltanto la rete sdrucita dei pescatori. Perché parlo solo di questo: della bracciante che a quarant'anni cammina tutta curva? I seni delle ragazze sono caldi come una volta. Nel mio canto una rima mi parrebbe quasi un atto protervo. Dentro di me si affrontano l'entusiasmo per il melo in fiore e l'orrore per i discorsi dell'imbianchino. Ma solo il secondo impulso mi spinge alla scrivania. • Lirica di Brecht testimonia le due tendenze della poesia dopo Auschwitz: poesia della natura e dell’impegno politico • Günter Kunert • • • • • Scetticismo nei confronti della possibilità dell’uomo di imparare dal passato. Immagini apocalittiche tipiche della produzione del poeta: Wegschilder und Mauerinschriften (Segnaletica e Scritte murali, 1950) Warnung vor Spiegeln (Attenzione agli specchi, 1969). La lirica di Kunert elegge in modo definitivo a proprio tema dominante le minacce insite nella storia e nel progresso con la raccolta Verkündigung des Wetters (Annuncio del tempo, 1966), come testimonia Die niedrigen grünen Hügel: Nel vento, cui nessuno porge ascolto, bisbigliano le grida degli uccisi. Nel forno sussurrano voci tanto atrocemente note quanto sconosciute. Sulla città si raccoglie una nuvola: il Passato… • Peter Huchel • • • • Raccolta di liriche magico-naturalistiche Gedichte (Poesie, 1948) Chaussen, Chaussen (Strade, strade, 1963) Gezählte Tage (Giorni contati, 1972) Die neunte Stunde (La nona ora, 1979) A sera si appressan gli amici, le ombre delle colline. Incedono lente oltre la soglia, 17 oscurano il sale, oscurano il pane, e tengon discorsi col mio silenzio. Fuori nell’acero si muove il vento: mia sorella, l’acqua piovana nella conca calcarea, imprigionata insegue con gli occhi le nuvole. Va con il vento, dicon le ombre. L’estate ti punta la falce di ferro sul cuore. va via, prima che nella foglia dell’acero brucino le stimmate dell’autunno. Sii fedele, dice la pietra. Il mattino albeggiante si alza, dove luce e fogliame abitano l’un dentro l’altro ed il viso svanisce in una fiamma. 8. Schreiben nach Auschwitz • “Tutti noi, allora giovani poeti negli anni Cinquanta – ricordo qui a titolo esemplificativo Peter Rühmkorf, Hans Magnus Enzensberger, anche Ingeborg Bachmann – eravamo consci, al punto di esserne confusi, di non appartenere affatto come colpevoli alla ‘generazione di Auschwitz’, ma di farne parte nelle circostanze dei colpevoli […]; ma di tanto eravamo anche consci: che il precetto di Adorno – se mai – doveva essere confutato scrivendo”. (G. Grass, Scrivere dopo Auschwitz, 1990). • • • • • • • Nelly Sachs (1891-1970) In den Wohnungen des Todes (Nelle dimore della morte, 1947) Sternverdunkelung (Oscuramento siderale, 1949) Flucht und Verwandlung (Fuga e metamorfosi, 1959) Fahrt ins Staublose. Gedichte (Al di là della polvere, 1961) Zeichen im Sand (Segni sulla sabbia, 1962) Chor der Geretteten (Coro dei superstiti) in Al di là della polvere: Noi superstiti, dalle nostre ossa la morte ha già intagliato i suoi flauti, sui nostri tendini ha già passato il suo archetto – I nostri corpi ancora si lamentano Col loro canto mozzato. Noi superstiti, davanti a noi, nell’azzurra aria, pendono ancora i lacci attorti per i nostri colli – le clessidre si riempiono ancora del nostro sangue. Noi superstiti, 18 ancora divorati dai vermi dell’angoscia – la nostra stella è sepolta nella polvere. Noi superstiti Vi preghiamo: mostrateci lentamente il vostro sole. Guidateci piano di stella in stella. Fateci di nuovo imparare la vita. Altrimenti il canto di un uccello, il secchio che si colma alla fontana potrebbero far prorompere il dolore a stenti sigillato e farci schiumar via – Vi preghiamo: non mostrateci ancora un cane che morde potrebbe darsi, potrebbe darsi che disfiamo in polvere davanti ai nostri occhi. Ma cosa tiene unita la nostra trama? Noi, ormai senza respiro, la nostra anima è volata a lui a mezzanotte molto prima che il nostro corpo si salvasse nell’arca dell’istante. Noi superstiti, stringiamo la vostra mano, riconosciamo i vostri occhi – ma solo l’addio ci tiene ancora uniti, l’addio nella polvere ci tiene uniti a voi. • Paul Celan (1920-1970) • • • Der Sand aus den Urnen (La sabbia dalla urne, 1948). Mohn und Gedächtnis (Papavero e memoria, 1952) Todesfuge in Papavero e memoria. 19 Paul Celan - Todesfuge Schwarze Milch der Frühe wir trinken sie abends wir trinken sie mittags und morgens wir trinken sie nachts wir trinken und trinken wir schaufeln ein Grab in den Lüften da liegt man nicht eng Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den Schlangen der schreibt der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland dein goldenes Haar Margarete er schreibt es und tritt vor das Haus und es blitzen die Sterne er pfeift seine Rüden herbei er pfeift seine Juden hervor läßt schaufeln ein Grab in der Erde er befiehlt uns spielt auf nun zum Tanz Nero latte dell’alba lo beviamo la sera lo beviamo al meriggio e mattino lo beviamo la notte beviamo e beviamo scaviamo una tomba nell’aria nessuno sta stretto un uomo abita la casa gioca con le serpi scrive scrive appena fa buio in Germania d’oro i capelli Margaréte lo scrive e cammina di fronte alla casa lo dicono a lampi le stelle comanda col fischio i suoi lupi stana col fischio gli ebrei a scavare una tomba nella terra ordina adesso suonate adesso si balla Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts wir trinken dich morgens und mittags wir trinken dich abends wir trinken und trinken Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den Schlangen der schreibt der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland dein goldenes Haar Margarete Dein aschenes Haar Sulamith wir schaufeln ein Grab in den Lüften da liegt man nicht eng Nero latte dell’alba ti beviamo alla sera ti beviamo al meriggio e mattino ti beviamo la notte beviamo e beviamo un uomo abita la casa gioca con le serpi scrive scrive appena fa buio in Germania d’oro i capelli Margaréte di cenere i tuoi Sulamìt scaviamo una tomba nell’aria nessuno sta stretto Er ruft stecht tiefer ins Erdreich ihr einen ihr andern singet und spielt er greift nach dem Eisen im Gurt er schwingts seine Augen sind blau stecht tiefer die Spaten ihr einen ihr andern spielt weiter zum Tanz auf Grida più giù nella terra voi e voi cantate suonate estrae dal fianco la spada la leva celesti i suoi occhi più giù quelle zappe e voi e voi ancora suonate si balla Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts wir trinken dich mittags und morgens wir trinken dich abends wir trinken und trinken ein Mann wohnt im Haus dein goldenes Haar Margarete dein aschenes Haar Sulamith er spielt mit den Schlangen Er ruft spielt süßer den Tod der Tod ist ein Meister aus Deutschland er ruft streicht dunkler die Geigen dann steigt ihr als Rauch in die Luft dann habt ihr ein Grab in den Wolken da liegt man nicht eng Nero latte dell’alba ti beviamo la notte ti beviamo al meriggio e mattino ti beviamo la sera beviamo e beviamo un uomo abita la casa d’oro i capelli Margarete di cenere i tuoi Sulamìt gioca con le serpi grida suonate più dolce la morte e la morte è Maestro Tedesco grida più a fondo i violini ché andate nel fumo nell’aria ché avrete una tomba per voi tra le nubi nessuno sta stretto Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts wir trinken dich mittags der Tod ist ein Meister aus Deutschland wir trinken dich abends und morgens wir trinken und trinken der Tod ist ein Meister aus Deutschland sein Auge ist blau er trifft dich mit bleierner Kugel er trifft dich genau ein Mann wohnt im Haus dein goldenes Haar Margarete er hetzt seine Rüden auf uns er schenkt uns ein Grab in der Luft er spielt mit den Schlangen und träumet der Tod ist ein Meister aus Deutschland Nero latte dell’alba ti beviamo la notte beviamo al meriggio la morte è Maestro Tedesco beviamo la sera e mattino beviamo e beviamo la morte è Maestro Tedesco celesti i suoi occhi ti coglie con palle di piombo preciso ti coglie un uomo abita la casa d’oro i capelli Margaréte aizza i suoi lupi su noi ci dona una tomba nell’aria gioca con le serpi e sogna la morte è Maestro Tedesco dein goldenes Haar Margarete dein aschenes Haar Sulamith D’oro i capelli Margaréte di cenere i tuoi Sulamìt1 1 Paul Celan, Fuga della morte, in Papavero e memoria, in Poesie, a cura e con un saggio introduttivo di Giuseppe Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998, pp. 62-65. 20 • “Ammetterei volentieri, quasi come ho detto, che dopo Auschwitz non si possa più scrivere alcuna poesia – frase con cui ho voluto indicare il vuoto della cultura risorta –, d'altra parte, si debbono però ancora scrivere delle poesie, […] finché tra gli uomini c'è una coscienza del dolore, ci deve essere appunto anche l'arte come forma oggettiva di questa coscienza”. (Theodor W. Adorno, Metafisica. Concetto e Problemi). • «Il dire che dopo Auschwitz non si possono scrivere più poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un’arte serena» (Theodor W. Adorno, Note sulla letteratura 19611968). • «il dolore che si perpetua ha lo stesso diritto a esprimersi che ha il martoriato a urlare; può dunque essere sbagliato affermare che dopo Auschwitz non si potrebbero più scrivere poesie», Theodor W. Adorno, Dialettica negativa) • Von Schwelle zu Schwelle (Di soglia in soglia, 1955). • Sprachgitter (Grata di parole, 1959), • Niemandsrose (La rosa di nessuno, 1963) • Atemwende (Svolta del respiro, 1967) • Weggebeizt (Corrosa e scancellata, 1967) di Svolta del respiro: In fondo al crepaccio del tempo, presso il favo di ghiaccio, attende, cristallo di respiro, la tua irrefutabile testimonianza. • «cristallini angeli di lettere» (Così Nelly Sachs, si riferì in una lettera a Celan del 3.9.1959 al linguaggio di Grata di Parola) • «le mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte» (Celan, Il meridiano, 1960) • “il Lenz büchneriano, la büchneriana figura, la persona che avevamo avuto modi di conoscere nella prima pagina del racconto, il Lenz che «al 20 di gennaio andava attraverso i monti», egli – non l’artista, non il disputante su cose dell’Arte, egli in quanto un io” (Celan, Il meridiano, 1960) . • Tübingen, Jänner (Tubinga, Gennaio, 1961), apparsa ne La rosa di nessuno, in cui Celan si riferisce a Friedrich Hölderlin: 21 Tübingen, Jänner Zur Blindheit über redete Augen. Ihre - ‘ein Rätsel ist Reinentsprungenes’–, ihre Erinnerung an schwimmende Hölderlintürme, möwenumschwirrt. A cecità convinti occhi. Il loro – “enigma è un’origine pura” – , il loro ricordo di torri Hölderlin riflesse, tra gabbiani sfreccianti. Besuche ertrunkener Schreiner bei diesen tauchenden Worten: Visite di marangoni affogati con queste inabissanti parole: Käme, käme ein Mensch, käme ein Mensch zur Welt, heute, mit dem Lichtbart der Patriarchen: er dürfte, spräch er von dieser Zeit, er dürfte nur lallen und lallen, immer-, immerzuzu. Venisse, venisse un uomo, venisse al mondo un uomo al mondo, oggi, con la barba di luce che fu dei patriarchi: potrebbe, se parlasse di questo tempo, solamente bal- balbettare conti-, conti-, nuamente, mente. (‘Pallaksch. Pallaksch.’) (“Pallaksch. Pallaksch.”) 22 • « sono incontri, vie che una voce percorre incontro a un tu che la percepisce, vie creaturali, forse progetti di esistenza, un proiettarsi oltre di sé per trovare se stessi, una ricerca di se stessi … un rimpatrio» (Celan, Il meridiano, 1960) 9. Luoghi della memoria • Glas (1974) di Jacques Derrida: “monumémoire” = lo spazio mentale in cui vengono involontariamente preservati i ricordi di un evento. • Les lieux de mémoire (1984-1992) di Pierre Nora • Tre tipologie di “luoghi della memoria”: 1) luoghi materiali: i monumenti, i musei, gli archivi e le biblioteche, ovvero quegli spazi delimitati nei quali prevale la relazione della memoria con la storia; detto con le parole di Nora i “luoghi materiali” rappresentano “la materia di cui è costituita la storia”. Anche i luoghi commemorativi, come i memoriali e i cimiteri di guerra, rientrano in questa prima suddivisione, seppure con differenti accezioni religiose e sacrali in base all’episodio collettivo che sono chiamati a ricordare. “Si tratta, qui, di testi della memoria culturale, di ‘mnemotopi’,” (Jan Assmann) che contribuiscono alla fondazione dell’identità nazionale e hanno anche una funzione pedagogica, nel momento in cui, gettando luce sul passato, hanno il compito di istruire le generazioni future. 2) luoghi simbolici: gli anniversari e i pellegrinaggi che hanno lo scopo di cartografare la geografia mentale del ricordo di una collettività. Questi luoghi astratti intendono rievocare episodi fondativi dell’identità nazionale e, per questo motivo, si richiamano alle intuizioni di Walter Benjamin relative al verbo “Eindenken”, inteso come atto di “rimemorazione” con intensa partecipazione emotiva di momenti importanti del vissuto soggettivo o collettivo. Essi trovano anche corrispondenza nella lezione di Paul Ricoeur relativa al “tempo del calendario”, secondo la quale l’iterazione a scadenze fisse della commemorazione di avvenimenti ha il compito di sedimentarne il ricordo dell’accadimento stesso nella memoria collettiva di un determinato gruppo sociale. 3) luoghi funzionali: le autobiografie, i diari collettivi, ‘volumi di inchiesta’ che problematizzano la relazione fra memoria e scrittura, dall’altro, le istallazioni, i film, i radiodrammi (Wolfgang Borchert, Draussen vor der Tür, 1947), le rappresentazioni teatrali e le esposizioni artificialmente allestite per ricordare un evento (Pietre d’inciampo / museo ebraico: faccette). Per la prima tipologia di “luoghi funzionali” della memoria un esempio paradigmatico è riconoscibile in Haben Sie davon gewusst? e nei diari collettivi, relativi ad episodi cruciali della seconda guerra mondiale, del progetto-Echolot (1993-2005) di Walter Kempowski. Sono per la seconda è indicativo il monumentale film Shoah (1985) di Claude Lanzmann (LaCapra 1998, pp. 95-138). • Spazi urbani come Berlino, Dresda, Amburgo, Londra e Coventry si impongono all’attenzione della cultura contemporanea come luoghi della memoria controversa, 23 soprattutto per il fatto che “gli abitanti di una città prestano un’attenzione sicuramente molto diseguale al suo aspetto materiale” (M. Halbwachs, La mémoire collective 1950). Sui luoghi metropolitani, che sono stati teatro della distruzione causata dal secondo conflitto mondiale, si sono, infatti, sedimentate stratificazioni di diverse memorie di gruppo: vincitori e vinti, vittime e carnefici (Assman, Frevert, Geschichtsvergessenheit - Geschichtsversessenheit: Vom Umgang mit deutschen Vergangenheiten nach 1945: 1) 2) 3) 4) Opfergedächtins Tätergedächtnis Verlierergedächtnis Sigergedächtnis • In questi luoghi si impone una modalità diversa per interrogare e ritrovare il tempo perduto, andandolo a cercare soprattutto nelle ferite ancora aperte del paesaggio, nelle fratture, nei suoi spazi vuoti che, con i loro silenzi carichi di assenza, con il loro senso di precarietà, sanno evocare allusivamente ciò che non è più e richiamarlo dentro il presente. • L’operazione di recupero dei ricordi latenti nei luoghi della memoria è possibile affidandosi all’aiuto di quegli “stabilizzatori di memoria” che Aleida Assmann, in un recente contributo intitolato per l’appunto Three Stabilizers of Memory: Affect - Symbol - Trauma (2003), ha individuato nell’emozione, nel simbolo e nel trauma. • Fra i lieux de mémoire, Auschwitz ricopre una posizione centrale, in quanto bacino paradigmatico di cristallizzazione della “memoria delle vittime” della storia. Luogo della memoria fisico e simbolico del più efferato crimine contro l’umanità, Auschwitz ha assunto diverse declinazioni nella scrittura del dopoguerra, che si è riproposta di attribuire al ricordo di questo campo di concentramento il valore di monito per il futuro. • Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone (1998) di Giorgio Agamben: “zona grigia” in cui, argomentando in merito alle modalità proposte da Primo Levi per testimoniare la Shoah, è riconosciuto un luogo “in cui si sonda la ‘lunga catena di congiunzione fra vittima e carnefici’, dove l’oppresso diventa oppressore e il carnefice appare a sua volta come vittima”. A fronte dell’esistenza di questa “zona di irresponsabilità e di ‘impotentia judicandi’”, lo studio di Agamben approda a sancire l’impossibilità di documentare la Shoah. Secondo Agamben, la vera testimonianza relativa alla persecuzione degli ebrei sarebbe custodita dai milioni di innocenti sterminati dai nazisti nelle camere a gas dei campi di concentramento. • 1965: Peter Weiss ha ricostruito nella pièce teatrale Die Ermittlung. Oratorium in 11 Gesängen, ovvero in un “luogo funzionale” della memoria, la topografia del campo di Auschwitz. • • • Modello dantesco della Divina commedia e collocando in spazi fisicamente delimitati le vittime, i carnefici e i fiancheggiatori della Shoah. Questi luoghi materiali del ricordo, come la banchina di arrivo dei treni speciali immagine con cui si apre l’opera di Weiss -, non sono però entrati nella memoria collettiva e culturale solamente attraverso le testimonianze dei sopravvissuti, ma anche tramite i documenti ufficiali e i protocolli nazisti relativi alla Shoah. Come lo scrittore ha compreso, è possibile ricostruire il ricordo effettivo della persecuzione ebraica a patto che ci si affidi alla sinergia fra fonti storico-documentarie 24 • • d’archivio (“luoghi materiali”) e memorie collettive (“luoghi simbolici”); significativo che Weiss si sia avvalso della voce dei sopravvissuti e dei carnefici, dopo averla ascoltata come auditore ai processi di Francoforte celebrati fra il 1963 e il 1965, per descrivere Auschwitz in una forma letteraria che oscilla fra l’allegoria e il protocollo. Undici canti, in cui la pièce è strutturata, si svolgono così in luoghi differenti del campo di concentramento che si caricano di un valore simbolico e/o traumatico, che differisce in base al fruitore della rappresentazione (Il giudice, il difensore, il procuratore, diciotto accusati e nove testimoni anonimi, ognuno dei quali impersona piú di un testimone reale): 1) il canto della banchina descrive l'arrivo ad Auschwitz dei treni piombati e la successiva selezione dei prigionieri tra coloro che furono destinati alla morte immediata e quelli destinati al lager; 2) il canto del lager è la panoramica del campo, descritto tecnicamente nelle sue installazioni e dimensioni, con freddezza documentaristica; 3) il canto dell'altalena descrive alcune delle innumerevoli torture, tra cui quella del titolo, particolarmente crudele; 4) il canto della possibilità di sopravvivere descrive i meccanismi con cui ad alcuni era data possibilità di rimandare la propria morte, in cambio di un certo grado di collaborazione con i carnefici; 5) il canto della fine di Lili Tofler, unica tra le vittime a mantenere nel testo la propria identità, acquistando una valenza simbolica; 6) il canto del sottufficiale Stark descrive i crimini di questo militare, che partecipò alle selezioni, gassificazioni e fucilazioni, e il suo atteggiamento durante il processo, in cui rifiutò ogni critica al suo operato. 7) il canto della parete nera si riferisce al muro utilizzato per le fucilazioni; 8) il canto del fenolo descrive le sperimentazioni dolorosissime effettuate sui prigionieri e le iniezioni mortali di fenolo; 9) il canto del bunkerblok descrive i canili utilizzati come celle di punizione, in cui i detenuti venivano rinchiusi fino alla morte; 10) il canto del Zyklon B descrive le camere a gas; 11) il canto dei forni descrive la cremazione dei cadaveri. 12) Le scene di Die Ermittlung di Weiss veicolano così con particolare efficacia il carattere liminale dei luoghi della memoria, che assumono connotazioni differenti a seconda del soggetto o del gruppo sociale che si rapportano ad essi. • i reparti di guardia ricevere cibo e caffè da personale femminile I nostri bambini non si lamentavano più quando l’ultima notte passammo dalla linea principale in un binario di raccordo Avanzammo su un terreno piano illuminato da riflettori Poi ci accostammo a un edificio allungato che sembrava un fienile C’era una torre e sotto un portale ad arco Prima d’oltrepassare il portale la locomotiva fischiò II treno si fermò CANTO DELLA BANCHINA TESTIMONE 3 Viaggiammo 5 giorni Il secondo giorno avevamo esaurito le provviste Nel carro eravamo 89 più valige e fagotti Facevamo i nostri bisogni sulla paglia Avevamo molti malati e 8 morti Dalle prese d’aria potevamo vedere nelle stazioni 25 Gli sportelli dei carri furono spalancati Comparvero Häftlingecon vestiti a strisce e ci gridarono Fuori svelti svelti II dislivello era d’un metro e mezzo C’era pietrisco I vecchi e i malati cadevano sui sassi taglienti Morti e bagagli furono scaraventati fuori Poi ordinarono Non toccate nulla Donne e bambini di qua Uomini dall’altra parte Persi di vista la mia famiglia La gente gridava dappertutto i nomi dei congiunti Li investivano a colpi di bastone I cani abbaiavano Dalle torri di guardia proiettori e mitragliatrici erano puntati su noi In fondo alla banchina il ciclo era colorato di rosso L’aria era piena di fumo Un fumo riarso e dolciastro Era il fumo che da allora in poi sarebbe rimasto caricare sui camion e ci rallegrammo che andasse così Noi dovemmo continuare a piedi su strade fangose TESTIMONE 5 Tenevo per mano il bimbo di mia cognata Lei portava in braccio il figliolo più piccolo Mi si accostò uno Haftling e mi chiese se il bimbo era mio Risposi di no e quello disse che dovevo darlo alla madre Lo feci pensando forse la madre è trattata meglio Quelli andarono tutti a sinistra io andai a destra L’ufficiale che ci aveva diviso era molto gentile Gli chiesi dove andavano gli altri rispose Vanno a fare il bagno tra un’ora vi rivedrete giudice Signora testimone Può indicarci l’imputato Dottor Capesius TESTIMONE 4 Sentii mio marito chiamarmi ancora una volta Fummo messi in riga e non potemmo cambiare più posto Eravamo un gruppo di 100 donne e bambini Ci misero in fila per cinque Poi dovemmo passare davanti a degli ufficiali Uno di essi teneva la mano all’altezza del petto e con il dito faceva segno a sinistra e a destra I bambini e le donne anziane andavano a sinistra io andai a destra Il gruppo di sinistra dové traversare i binari e incamminarsi lungo una strada Per un attimo vidi mia madre coi bimbi fui tranquilla pensai una volta ci ritroveremo Una donna vicino a me disse Quelli avranno un trattamento di favore Indicò i camion fermi sulla strada un’auto della Croce Rossa Li vedemmo GIUDICE Signora testimone Può indicarci l’imputato Dottor Capesius sa chi era quell’ufficiale TESTIMONE 5 Seppi in seguito che si chiamava dottor Capesius giudice Signora testimone può indicarci l’imputato dottor Capesius TESTIMONE 5 Se guardo quelle facce m’è difficile dire di riconoscerle Ma quel signore là non mi è sconosciuto giudice. Come si chiama? TESTIMONE 5 Dottor Capesius IMPUTATO 3 La testimone deve scambiarmi per un altro Io non feci mai selezioni sulla banchina. TESTIMONE 6 24 Conoscevo il dottor Capesius dal mio luogo d’origine Lavoravo là come medico e prima della guerra m’aveva visitato parecchie volte come rappresentante della Bayer Lo salutai e gli chiesi cosa sarebbe stato di noi Disse Andrà tutto bene Gli dissi che mia moglie non era in buone condizioni Allora si metta qui • disse lui Qui la cureranno E indicò il gruppo dei vecchi e dei malati Dissi a mia moglie Va’ là e mettiti in fila Lei andò con la nipote e qualche altro parente verso il gruppo dei malati Partirono tutti su camion giudice Lei non ha dubbi che si trattasse del dottor Capesius Shoah (1985): insuperata rappresentazione cinematografica di Claude Lanzmann della persecuzione degli ebrei 1) dialogo e sovrapposizione di voci dei testimoni dell’Olocausto. 2) Auschwitz si connota come luogo della memoria attraverso la sinergia dei ricordi dei tedeschi, che hanno partecipato attivamente allo sterminio, degli ebrei, che sono sopravvissuti dall’Olocausto, e dei polacchi, che hanno assistito ai crimini del nazismo in silenzio. • Come dimostrano questi due esempi, attorno ad Auschwitz si sono cristallizzate memorie collettive di gruppi differenti, ma l’indecidibilità semantica di questo luogo della memoria non dipende solamente dalla compresenza di tali sedimentazioni di ricordi. L’eccezionalità di Auschwitz, inteso come lieu de mémoire, risiede paradossalmente in ciò che non è mai stato ricordato e che non potrà mai esserlo. Alle memorie collettive di coloro che vissero nel campo da carnefici e da torturati, si deve aggiungere quella dei testimoni radicali della Shoah, cioè degli ebrei che non tornarono da Auschwitz. In questo spazio simbolico del non detto e dell’indicibile, in limine fra “luogo della memoria” e “di transito” risiede l’unicità di Auschwitz. 10. W.G. Sebald: Storia naturale della distruzione (1999) e Austerlitz (2001) • Kurt Gerron, Hitler schenkt den Juden eine Stadt, 1944 • Charles Lewinsky, Un regalo del Führer (Einaudi, 2014) • «Quel giorno [...] Austerlitz parlò ancora a lungo delle tracce di sofferenza che, come lui dava per certo, attraversano la storia con infinite linee sottili» (Austerlitz, op. cit., p. 21) • “Così, ad esempio, la tecnica della fortificazione, per cui Anversa fornisce uno dei modelli più straordinari, ci mostra anche a chiare lettere come noi, per premunirci contro l’irruzione delle forze nemiche, siamo costretti a circondarci, in fasi successive, di sempre nuove opere di difesa, e questo finché l’idea degli anelli concentrici, che si spostano vieppiù all’esterno, non urta nei suoi limiti naturali”. (W.G. Sebald, Austerlitz, p. 21. • • • A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l’impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano 25 soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d’animo, e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l’aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce”. (W.G. Sebald, Austerlitz, p. 199). • W. G. Sebald, Gli anelli di Saturno. Un pellegrinaggio in Inghilterra, pp. 39-40: «Non appena capì di dove ero, iniziò a raccontare che, negli ultimi anni di scuola e nel successivo periodo di apprendistato niente lo aveva appassionato di più delle incursioni aeree contro la Germania che partivano dai sessantasette campi d’aviazione predisposti dopo il 1940 in East Anglia. Ormai, diceva Hazel, non si ha più un’idea esatta delle dimensioni di quell’impresa. […] Addirittura, quando all’inizio degli anni cinquanta mi trovavo a Lüneburg con le truppe di occupazione, appresi il tedesco in qualche misura, per poter leggere i resoconti scritti dai tedeschi stessi sulle incursioni aeree e sulla vita nelle città distrutte. Con mio grande stupore dovetti in seguito constatare che la ricerca di tali cronache non portava mai a nessun risultato. Sembra che nessuno allora abbia sentito o ricordato qualcosa. E anche se si chiedeva alla gente, era come se nelle loro teste fosse stato cancellato tutto». • «Ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza in una zona che si estende lungo il margine settentrionale delle Alpi, zona largamente risparmiata dalle immediate conseguenze delle cosiddette operazioni militari. Alla fine della guerra avevo appena un anno ed è quindi difficile che, di quell’epoca segnata dalla distruzione, io possa avere serbato impressioni fondate su eventi reali. Eppure ancora oggi, quando guardo fotografie o documentari del periodo bellico, ho come la sensazione di esserne il figlio, come se di là, da quegli orrori che non ho vissuto, cadesse su di me un’ombra alla quale non potrò mai sfuggire del tutto». (W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione, p. 74-75) • W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione, p. 77: «Tali sono gli abissi della Storia: tutto vi giace alla rinfusa e, se si cala lo sguardo per arrivare al fondo, si è colti da un senso di orrore e di vertigine». • W. G. Sebald Vertigini, op. cit., p. 166: «In quasi tutti i cinegiornali, poi, si vedevano i cumuli di macerie di cui erano disseminate città come Amburgo e Berlino, e che per lungo tempo non avevo collegato ai bombardamenti degli ultimi anni di guerra, dei quali io nulla sapevo, ritenendoli piuttosto una circostanza per così dire naturale, tipica delle grandi città». • «Ci spostammo dalla stazione centrale verso Marienplatz e mi ricordo di avere percorso l’intero tragitto passando per lo Stachus attraverso montagne di macerie e che questi mucchi di detriti erano molto alti, sempre dalla prospettiva di un bambino; e che né mio padre né alcun altro ha speso una parola a tale riguardo. Perciò l’ho sempre ritenuta una condizione naturale delle grandi città». (V. Hage, Hitlers pyromanische Phantasien: W. G. Sebald, in Id., Zeugen der Zerstörung. Die Literaten und der Luftkrieg, p. 261). • W. G. Sebald, Gli emigrati, pp. 33-34: «Nel dicembre 1952 noi ci trasferimmo dal villaggio W. nella cittadina di S., a diciannove chilometri di distanza. […] Quando infine attraversammo il ponte sull’Ach entrando a S., che allora non era ancora affatto una città vera e propria, ma semplicemente una borgata un po’ migliore, di forse novemila abitanti, ero ricolmo della chiarissima sensazione che lì per noi avrebbe avuto inizio una vita nuova, dinamica e metropolitana, i cui segni infallibili credetti di riconoscere nei cartelli stradali smaltati in blu, nell’orologio gigantesco del vecchio edificio della stazione e nella facciata, per me assolutamente imponente, del Wittelsbacher Hof. Particolarmente promettente 24 tuttavia mi sembrò il fatto che le file delle case fossero interrotte qua e là da terreni ricoperti di rovine, perché nulla, da quando ero stato una volta a Monaco, si collegava per me chiaramente alla parola città quanto le macerie, i muri bruciati e i vani delle finestre attraverso i quali si poteva vedere l’aria vuota». • Realismo magico (Hermann Kasack, Hans Erich Nossack, Gert Ledig e Peter de Mendelssohn) • Realismo (Wolfgang Koeppen, Heinrich Böll, Martin Walser, Günter Grass e gli esponenti della celebre “Gruppe 47” riunitasi attorno a Hans Werner Richter) • Documentarismo (Peter Weiss e Alexander Kluge) • Sperimentazione (Helmut Heißenbüttel, Hans Magnus Enzensberger e Friedrich Dürrenmatt). • Hermann Kasack, Die Stadt hinter dem Strom. Eine Selbstkritik [1947], Frankfurt a. M. 1978, trad. it., La città oltre il fiume, Milano 1952. • Hans Erich Nossack, Nekyia. Bericht eines Überlebenden [1947], Frankfurt a. M. 2000. • Gert Ledig, Vergeltung, Frankfurt a. Main 1952. • Peter De Mendelssohn, Die Kathedrale, Hamburg 1983. • «L’azione di distruzione, senza precedenti nella Storia fino allora, è entrata negli annali della nazione che si stava ricostruendo soltanto in forma di vaga generalizzazione, sembra quasi non avere lasciato traccia di dolore nella coscienza collettiva, è rimasta esclusa completamente dall’autocoscienza retrospettiva dei testimoni, non ha mai avuto un ruolo di rilievo nelle discussioni sviluppatesi sulla struttura interna del nostro Paese, non è mai, come avrebbe poi costatato Alexander Kluge, diventata una cifra leggibile pubblicamente; un fatto del tutto paradossale, se si pensa a quante persone giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno furono esposte a questa campagna». (W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione [1999], Milano 2004, p. 12) • «Invece di provare rimorso per la colpa che gravava, invece di provare vergogna e dolore per l’offesa e la perdita dei propri ideali, i tedeschi avrebbero rinnegato il loro passato, voltandogli emotivamente le spalle, e investito tutte le energie nella ricostruzione del loro Paese distrutto. La mancata rielaborazione del lutto avrebbe tuttavia generato un immobilismo psicologico che con effetto paralizzante avrebbe influenzato nel presente la vita politica». (G. Butzer, Fehlende Trauer. Verfahren epischen Erinnerns in der deutschsprachigen Gegenwartsliteratur, München 1998, p. 49). • «Il lutto è un processo psichico in cui un individuo impara lentamente a sopportare e rielaborare la perdita attraverso l’aiuto di un ripetuto e doloroso processo di rimemorazione, per essere in grado poi di riallacciare rapporti vitali con le persone e le cose del suo ambiente». (M. Mitscherlich, Erinnerungsarbeit. Zur Psychoanalyse der Unfähigkeit zu trauern, Frankfurt a. M. 1987, p. 114) • A. Kluge, Geschichte und Eigensinn, Frankfurt a. M. 1981. • H. M. Enzensberger, Europa in Trümmern. Augenzeugenberichte aus den Jahren 19441948, Frankfurt a. M. 1990. 25 • A. Döblin, Schicksalsreise. Bericht und Bekenntnis, Solothurn/Düsseldorf 1993. • «In virtù di una tacita intesa, per tutti valida allo stesso modo, lo stato di annichilimento materiale e morale in cui versava l’intero paese, non doveva essere descritto. L’atto conclusivo della distruzione – quale fu vissuto dalla quasi totalità dei tedeschi – restò così, nei suoi aspetti più foschi, un infamante segreto di famiglia, su cui gravava una sorta di tabù, un segreto che probabilmente non si poteva confessare nemmeno a se stessi». (W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione, op. cit., p. 23) • «Già durante la notte e alle prime luci dell’alba erano arrivati i primi sfollati. Alcuni scalzi e in pigiama, così come erano saltati dal letto per scappare in strada. Con sé portavano un silenzio sinistro. Nessuno osava dare domande mentre sedevano muti sul ciglio della strada. Anche solo a volere offrire loro aiuto sembrava di fare troppo rumore. […] Non si sentiva un lamento, non una lacrima, scendevano senza una parola e si lasciavano condurre via». (H. E. Nossack, La fine. Amburgo 1943 [1948], Bologna 2006, p. 49). • «Queste opere compilatorie servirono […] a depurare o smaltire un sapere eccedente le normali capacità di un’intelligenza media e non a comprendere meglio quale incredibile bravura nell’anestetizzare se stessa avesse dimostrato una comunità che pareva uscita da quella guerra di annientamento senza particolari danni psicologici». (W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione, op. cit., p. 24) • «la corrente di energia psichica […] che ha la sua fonte nel segreto – di cui nessuno parla – dei cadaveri murati nelle fondamenta del nostro edificio statale: un segreto che compattò strettamente i tedeschi nei primi anni del dopoguerra e che ancor oggi li unisce più di quanto non sia mai riuscito a fare un fine positivo, quale potrebbe essere, ad esempio, la realizzazione della democrazia». (W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione, op. cit., p. 25) • Si tratta di romanzi «dei mondi lemurici», in cui «i traumi, iscrivendosi nel corpo e così pregiudicando la verbalizzazione dell’esperienza fisica e mnemonica, riemergono nell’individuo come risultato della rimozione del dolore in sintomi come l’insonnia, le allucinazioni, gli stati di trance, la depressione, ma anche la cecità e la sordità». (L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, III [Dal fine secolo alla sperimentazione (1890-1970)], Torino 1978, S. 1566) • Documentarismo • Alexander Kluge, Der Luftangriff auf Halberstadt am 8. April 1945, in Id., Neue Geschichten. Hefte 1-18 ›Unheimlichkeit der Zeit‹, Frankfurt a. M. 1977; trad. it. L’incursione aerea su Halberstadt. 8 aprile 1945, in A. Kluge, Nuove Storie. Spaesato nel tempo, Milano 1982. • V. Klemperer, Ich will Zeugnis ablegen bis zum letzten – Tagebücher 1942-1945, Berlin 1995; trad. it., Testimoniare fino all’ultimo. Diari 1933-1945, Milano 2000. • Friedrich Reck, Tagebücher eines Verzweifelten, Frankfurt a. M. 1994. • Stig Dagerman, German Autumn, London1988. • Solly Zuckerman, From Apes to Warlords, London 1978. 26 • «Da che cosa sarebbe dovuta cominciare una storia naturale della distruzione? Da uno sguardo d’insieme sulle premesse tecniche, organizzative e politiche che consentono di realizzare attacchi aerei su larga scala? O da una descrizione scientifica del fenomeno – sino allora sconosciuto – delle tempeste di fuoco, che tracciasse la mappa, in termini patologici, delle specifiche cause di morte? Oppure da studi comportamentali sull’istinto di fuga e su quello del ritorno?» (W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione, op. cit., p. 43). • «Ratti e mosche avevano preso possesso della città. Pingui e insolenti, i ratti scorrazzavano per le strade. Ma ancora più disgustose erano le mosche. Grosse, di un verde iridescente, come mai si erano viste. A Grumi si voltolavano sul selciato, so posavano sulle rovine per accoppiasi e si riscaldavano, pigre e satolle, sui vetri in frantumi delle finestre. Quando ormai non riuscivano più a levarsi in volo, strisciavano dietro di noi attraverso le piccole crepe, imbrattando ogni cosa. E a colpirci per primi l’udito al nostro risveglio erano il loro fruscio e il loro ronzio. Andò avanti così fino a ottobre» (H. E. Nossack, La fine. Amburgo 1943, op. cit., p. 80). • «E poi quell’odore di suppellettili carbonizzate, di marcio e di putrefazione che aleggiava sulla città. Un odore che era visibile nella forma di una polvere di malta secca e rossiccia che soffiava sopra ogni cosa. Dentro di noi si svegliò d’improvviso un desiderio di profumo» (H. E. Nossack, La fine. Amburgo 1943, op. cit., p. 80). • Heinrich Böll, Bekenntnis zur Trümmerliteratur [1952], in Id., Zur Verteidigung der Waschküchen. Schriften und Reden 1952-1959, München 1985 trad. it., Adesione alla letteratura delle macerie, in H. Böll, Rosa e Dinamite. Scritti di politica e di letteratura 1952-1976, Torino 1979 • Heinrich Böll, Der Engel schwieg. Roman, Köln1992; trad. it., L’angelo tacque, Torino 1996. • Realismo – Gruppo 47 • Settembre 1947: incontro Hans Werner Richter e Alfred Andersch • Kahlschlag, ovvero «disboscamento» della lingua tedesca dalla pompa retorica del nazismo. • Wolfgang Weyrauch (1904-1980) si avvalse per primo dell’ideale del Kahlschlag applicandolo alla letteratura del dopoguerra nella postfazione all’antologia Tausend Gramm (Cento grammi, 1949). • L’ideale del «disboscamento» aveva già trovato con la lirica di Günther Eich un modello da seguire: Inventur (Inventario, 1948) apparsa per la prima volta nell’antologia Deine Söhne, Europa (I tuoi figli, Europa) dedicata da Hans Werner Richter (1908-1993) alla poesia dei detenuti nei campi di prigionia alleati. • I primi tentativi letterari della nostra generazione dopo il 1945 sono stati definiti letteratura delle macerie, e con questa etichetta si è cercato di liquidarli. Noi non ci sia-mo opposti a tale qualifica, perché era giustificata: effettivamente gli uomini di cui scrivevamo vivevano tra le macerie, tornavano dalla guerra, uomini e donne feriti nella stessa misura, anche bambini. […] Scrivemmo dunque sulla guerra, sul ritorno a casa e su ciò che avevamo visto durante la guerra e che trovavamo tornando a casa: ed erano macerie. Ne nacquero tre slogan, che vennero affibbiati alla giovane letteratura: letteratura di guerra, del reduci e delle macerie. (H. Böll, Adesione alla letteratura delle macerie, in Id., Opere scelte, vol. ii, a cura e con un saggio introduttivo di L. Borghese, Mondadori, Milano 2000, p. 749). 27 • • • • • Wanderer kommst du nach Spa… (Viandante, se giungi a Spa…, 1950) Und sagte kein einziges Wort (E non disse nemmeno una parola, 1953) Dr. Murkes gesammeltes Schweigen (Il silenzio raccolto del dottor Murke, 1958) Haus ohne Hüter (Casa senza custode, 1954) Das Brot der frühen Jahre (il pane degli anni verdi, 1955) • Ideale dello «Einfachwerden», il «diventare semplici» per essere accessibile al lettore di qualsiasi strato sociale, e muovendo alla ricerca di «una lingua abitabile in un paese abitabile», Böll scrive questo suo romanzo che possiede appieno le caratteristiche della «letteratura delle macerie»: da un lato, esso ricorre a un paesaggio urbano in rovina i cui abitanti praticano una morale dubbia e, dall’altro, si richiama al destino dei soldati mandati alla guerra. (Id., Lezioni francofortesi, trad. it. di M. Maderna, Linea D’Ombra, Milano 1990, p. 37) • Billiard um halb zehn (Biliardo alle nove e mezzo 1959) • Ansichten eines Clowns (Opinioni di un Clown, 1963) • Gruppenbild mit Dame (Foto di gruppo con signora, 1971) • • • • • 1959: svolta del romanzo Biliardo alle nove e mezzo di Heinrich Böll Halbzeit (Dopo l’intervallo) di Martin Walser Mutmaßungen über Jakob (Con-getture su Jakob) di Uwe Johnson Die Blechtrommel (Il tamburo di latta) di Günter Grass • «Ma forse nulla è più fatale per l’avvenire del fatto che, letteralmente, presto nessuno sarà più in grado di ripensarci, perché ogni trauma, ogni choc non superato di coloro che torneranno è un fermento di prossima distruzione» (Th. W. Adorno, Fuori tiro, in Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, p. 45). • • “L’idea che, dopo questa guerra, la vita potrà riprendere «normalmente» o la cultura «ricostruita» – come se la ricostruzione della cultura non fosse già la sua negazione – è semplicemente «idiota». Milioni di ebrei sono stati assassinati. E questo dovrebbe essere un semplice intermezzo, e non la catastrofe stessa. Che cosa aspetta ancora questa cultura?” (Th. W. Adorno, Ritorno alla cultura, in Minima moralia, p. 44). • «la poesia mi è sempre sembrata lo strumento più preciso per conoscere di nuovo me stesso e prendermi ancora le misure» (G. Grass, Die Verzweiflung arbeitet ohne Netz. Günter Grass im Gespräch mit Heinz Ludwig Arnold, p. 171). • «fare il passo dell’oca al di fuori della lingua tedesca, tirarla fuori dai suoi idilli e dalle sue annebbiate introspezioni» (G. Grass, Continua nella prossima puntata…, pp. 24-25). • «contro natura, come se qualcuno avesse preteso, con il tono di Dio padre, di vietare il canto agli uccelli» (G. Grass, Schreiben nach Auschwitz. Frankfurter Poetik-Vorlesung, p. 15). • «tutti noi, allora giovani poeti negli anni cinquanta – cito a titolo d’esempio Peter Rühmkorf, Hans Magnus Enzensberger, anche Ingeborg Bachmann – eravamo a tal punto 28 consci, da essere confusi, di non appartenere affatto ai colpevoli della «generazione di Auschwitz», ma di farne parte nelle circostanze dei colpevoli […]; tuttavia eravamo anche consci del fatto che il precetto di Adorno – se mai – doveva essere confutato scrivendo» (G. Grass, Schreiben nach Auschwitz. Frankfurter Poetik-Vorlesung, p. 17). • «bambini che si erano bruciati le dita […] gli assolutismi, l’ideologia del bianco o nero. Il dubbio e lo scetticismo erano i nostri padrini e la moltitudine di toni del grigio il loro regalo per noi» (Grass, Continua nella prossima puntata…, pp. 24-25). • «oggetti tangibili da ogni possibile residuo ideologico; smonto e ricompongo tali oggetti, collocandoli in contesti dei quali è difficile mantenere la gravità abituale e chi vuole dipingersi in viso un’espressione solenne deve cedere al riso» (Grass, Continua nella prossima puntata…, p. 25). • «venne fuori un lungo componimento nel quale un certo Oskar Matzerath che ancora non si chiamava così faceva la sua bella figura nei panni di un santo stilita» (G. Grass, Rückblick auf die Blechtrommel – oder der Autor als fragwürdiger Zeuge, p. 326). • «Questo era l’ascetismo che mi ero imposto prima di scoprire la ricchezza di un linguaggio che troppo a lungo avevo dichiarato colpevole: la sua dolcezza che si lascia sedurre, la sua tendenza ad esplorare le profondità, la sua durezza assolutamente flessuosa, per non parlare della lucentezza dei suoi dialetti, la sua naturalezza e la sua artificiosità, le sue eccentricità, e la bellezza che sboccia dai suoi congiuntivi. Riguadagnato questo capitale, lo abbiamo investito per farlo fruttare. A dispetto del verdetto di Adorno, o proprio per quello. L’unico modo di scrivere dopo Auschwitz, in poesia o in prosa, era farlo mantenendo il ricordo ed evitando che il passato giungesse a conclusione». (G. Grass, Continua nella prossima puntata…., p. 25) • «l'immane compito di rivisitare la storia contemporanea ricordando i dimenticati: le vittime, i perdenti, le bugie che la gente vuole scordare perché una volta ci ha creduto». • «Questa mia nonna materna, dunque, Anna Bronski, sedeva in un tardo pomeriggio d’ottobre, dentro le sue gonne, al margine di un campo di patate. Nella mattinata si sarebbe potuto constatare come fosse abile a rastrellare le piante appassite in mucchi ben ordinati; a mezzogiorno mangiò due fette di pane con in mezzo del grasso e ad-dolcite con sciroppo, poi ripassò un’ultima volta con la zappa il campo, e finalmente era seduta nelle sue gonne fra due ceste quasi colme di patate. Davanti alle suole dei suoi stivali, tenute in posizione verticale con le punte convergenti, bruciava un fuoco di piante di patate che a tratti dava dei guizzi asmatici e mandava un fumo piatto e capriccioso sulla superficie appena inclinata del campo. Era l’anno novantanove, e lei sedeva lì, nel cuore della Casciubia, vicino a Bissau, ma più vicino ancora alla mattoniera, davanti a Ramkau sedeva, dietro Viereck verso la strada di Brenntau fra Dirschau e Karthaus, alle sue spalle il cupo bosco di Goldkrug, e spingeva patate sotto la cenere calda, con una verga di nocciolo dalla cima carbonizzata» (G. Grass, Il tamburo di latta, p. 11). • «sono stato educato nella religione cattolica e so riconoscere il tanfo della Chiesa cattolica. Mi sono allontanato presto dalla religione, ma l’impressione è rimasta» (G. Grass, La storia con gli occhi dei perdenti, p. 53). • «Ti avevano o Ti eri fatto quello stupido taglio a spazzola, con i capelli lunghi quanto un 29 fiammifero, che allora incorniciava il viso delle reclute e oggi conferisce agli in-tellettuali con la loro pipa in bocca l’apparenza di una moderna ascesi. Eppure, nonostante tutto, l’espressione da redentore: l’aquila fissa sul berretto che stava inchiodato al tuo cranio Ti si allargava come la colomba dello spirito Santo» (G. Grass, Gatto e topo, p. 148). • «con i picchetti dello Spirito Santo e del ritratto di Hitler» (G. Grass, Sbucciando la cipolla, p. 10). • «La cipolla ha molte pelli. Se ne parla al plurale. Appena sbucciata si rinnova. Tagliata butta lacrime. Solo quando la si sbuccia dice la verità. Quello che accadde prima e dopo la fine della mia infanzia bussa con i fatti e si svolse peggio di quanto si sarebbe voluto, chiede di essere raccontato ora in un modo ora nell’altro e induce a storie menzognere» (G. Grass, Sbucciando la cipolla, p. 5). • «La storia visita dal basso, e non dagli occhi di chi ha fatto la storia, ma da quelli della gente comune, che la storia comunque rigetta, inevitabilmente. E quelle persone si sono trasformate in viaggiatori, in vittime e carnefici, e hanno reagito di conseguenza. Questi sono stati sempre i miei temi, da Il tamburo di latta a Il mio secolo» (G. Grass, La storia con gli occhi dei perdenti, p. 42). • «può essere invocata solo la più discutibile di tutte le testimoni, la Signora Reminiscenza, una figura capricciosa, spesso sofferente di emicrania, e che inoltre gode della fama di essere comprabile a seconda della situazione di mercato» (G.Grass, Sbucciando la cipolla, p. 49). • «A poco a poco la fermata si riempì di gente; non si capiva da dove veniva, sembrava crescere dalle colline, invisibile, silenziosa, sembrava risorgere da questa piana dal nulla, fantasmi con un percorso e una meta incomprensibili: figure con pacchetti e sacchi, cartoni e scatole, la cui unica speranza sembrava essere l’insegna di cartone giallo con la grande H verde; comparivano senza far rumore e si radunavano mute in un blocco compatto, che si animava soltanto quando si udivano il cigolio e lo scampanellio del tram…». (H. Böll, L’angelo tacque [1992], Torino 1996, p. 46) • Stig Dagerman, German Autumn, London 1988. • Victor Gollancz, In Darkest Germany, London 1947. • «Nel deserto che si stendeva sotto di noi si distingueva solo il portale del Konventgarten. Proprio lì, ad aprile, avevamo sentito i concerti di Brandeburgo. E una cantante cieca aveva intonato i versi: “Ecco, il tempo del duro soffrire principia di nuovo”. Semplice e sicura, stava in piedi appoggiata al cembalo, e i suoi occhi spenti guardavano di là dalle cose senza importanza per le quali noi già allora tremavamo, forse rivolti al punto in cui ci ritroviamo adesso. E ad avvolgerci, ormai, è solo un mare di pietre». (H. E. Nossack, La fine, op. cit., p. 88) • Hermann Kasack, Die Stadt hinter dem Strom. Eine Selbstkritik [1947], Frankfurt a. M. 1978, trad. it., La città oltre il fiume, Milano 1952. • Hans Erich Nossack, Nekyia. Bericht eines Überlebenden [1947], Frankfurt a. M. 2000. • Peter De Mendelssohn, Die Kathedrale, Hamburg 1983 • «Se avesse un senso stabilire quale forma di letteratura sia oggi indispensabile, 30 indispensabile a un uomo che sa e non chiude gli occhi, si dovrebbe dire: è questa». (E. Canetti, Il diario da Hiroschima del dottor Hachiya, in Potere e Sopravvivenza. Saggi, Milano 1974, p. 148) • Hubert Fichte, Detlevs Imitationen ›Grünspan‹, Frankfurt a. M. 1982. • «Un serbatoio d’alcol sepolto ritornò alla luce, si srotolò come mica in una mano ardente, e si liquefece in un un Halemaumau (da esso colavano ruscelli di fuoco: un poliziotto pose costernato un freno a quello di destra e vaporizzò in servizio. Una grassa nuvola si drizzò sul deposito, gonfiò la pancia sferica e ruttò verso l’alto la testa di torta, fece una risata gutturale: omamma!, e gloglottò braccia e gambe sottosopra, si voltò in qua steatopigia, e spezzettò intere carrettate di tubi di ferrò, senza fine, la connaisseuse, tanto che i cespugli accanto a noi riverirono e cicalarono». (A. Schmidt, Dalla vita di un fauno [1953], Caserta 2006, p. 98) • «È solo nell’approccio documentario – il cui precursore è il Nossack di Der Untergang - che la letteratura tedesca del dopoguerra acquista davvero coscienza di sé e affronta seriamente lo studio di materiali non valutabili con i criteri dell’estetica tradizionale». (W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione, op. cit., pp. 64-65). • «si vede come la storia dell’industria e ciò che è diventato esistenza oggettiva dell’industria sia come un libro aperto delle forze della coscienza umana, come sia la psicologia umana di cui disponiamo sensibilmente». (A. Kluge, L’incursione aerea su Halberstadt. 8 aprile 1945 [1977], in Nuove storie, Milano 1982, p. 80). • «E tuttavia perfino in lui – in lui che è il più spregiudicato fra tutti gli scrittori -, si affaccia il sospetto che la disgrazia di cui siamo noi stessi causa non possa insegnarci nulla: ecco perché continuiamo ad avanzare, incorreggibili, su piste battute che si ricollegano – appena accennate – all’antica rete di comunicazione». (W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione, op. cit., p. 72). • Documentarismo • Realismo • Realismo magico • «E proprio in questi fenomeni irreali […] in questo balenio dell’irreale nel mondo reale, in questi particolari effetti luminosi nel paesaggio che si stende davanti a noi o nello sguardo di una persona amata, proprio qui si accendono i nostri sentimenti o, in ogni caso, quelli che noi riteniamo tali». (W. G. Sebald, Austerlitz, p. 104). • «Sa, la meticolosità con cui questa gente negli anni successivi alla distruzione ha taciuto, nascosto e, a quanto a me pare, davvero dimenticato tutto, è solo il rovescio della medaglia del modo in cui, per esempio, il proprietario del caffè Schöferle di S. aveva fatto notare alla madre di Paul, che si chiamava Thekla e per un certo periodo aveva calcato le scene del teatro civico di Norimberga, che la presenza di una signora sposata con un mezzo ebreo sarebbe potuta riuscire sgradita alla sua clientela borghese e quindi la pregava con la massima gentilezza, com’è ovvio, di desistere dalla sua quotidiana frequentazione del caffè. Non mi meraviglia che le siano rimaste ignote le azioni vili e meschine alle quali era esposta 31 una famiglia come quella dei Bereyter in un miserabile buco di provincia quale allora era S., che è rimasto immutato a dispetto del cosiddetto progresso; non mi meraviglia perché è nella logica dell’intera storia» (W. G. Sebald, Gli emigrati, op. cit., p. 52). • W. G. Sebald, Austerlitz, p. 232: «E io cercai di nuovo di spiegare a lei e a me stesso quali incomprensibili sentimenti avessero continuato a opprimermi negli ultimi giorni; come un folle non vedevo altro intorno a me se non misteri e segni; mi sembrava che persino le mute facciate delle case sapessero su di me qualcosa di negativo, e se da sempre ero stato convinto che il mio destino fosse una vita solitaria, adesso, nonostante il mio desiderio di lei, lo ero più che mai». • W. G. Sebald, Austerlitz, p. 82: «Tutti noi, e anche persino quelli che ritengono di avere badato persino ai minimi dettagli, ci accontentiamo di elementi scenici mobili, che già altri hanno fatto girare a sufficienza in su e in giù sulle tavole del teatro. Cerchiamo di riprodurre la realtà, ma quanto maggiore è l’impegno in tal senso, tanto più si impone al nostro sguardo quel che da sempre si è visto sulla scena della storia. […] Il nostro rapporto con la storia – questa era la tesi di Hillary - è un rapporto con immagini già definite e impresse nella nostra mente, immagini che noi continuiamo a fissare mentre la verità è altrove, in un luogo remoto che nessun uomo ha ancora scoperto». • W. G. Sebald, Austerlitz, p. 31: «l’oscurità non si dirada, anzi si fa più fitta al pensiero di quanto poco riusciamo a trattenere, di quante cose cadano incessantemente nell’oblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi e oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengano udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno». • W. G. Sebald, Austerlitz, pp. 152-153: «Fu un brutto sogno, che non finiva mai, e la sua azione principale era spesso interrotta da altri episodi nei quali io, dalla prospettiva di un uccello in volo, vedevo un paesaggio buio in cui correva via un treno piccolissimo, dodici vagoni in miniatura color della terra e una locomotiva nera come il carbone sotto un pennacchio di fumo rivolto all’indietro, la cui cima, per la forte velocità, si agitava continuamente da una parte, simile a una grande piuma di struzzo. E poi, ancora, attraverso il finestrino dello scompartimento, vedevo abetaie scure, una valle fluviale profondamente incassata, nuvole cumuliformi all’orizzonte e mulini a vento, sovrastanti di gran lunga i tetti delle case che vi si affollano attorno e le cui larghe pale suddividevano, giro dopo giro, il cielo grigio dell’alba. Durante tali sogni, disse Austerlitz, egli aveva avvertito dietro agli occhi come quelle immagini, rapinose nella loro immediatezza, si proiettassero letteralmente fuori di lui, ma al risveglio non era risuscito a trattenerne neanche una, neppure nei suoi vaghi contorni». • W. G. Sebald, Austerlitz, pp. 153-154: «Per me il mondo si era concluso con la fine del XIX secolo. Oltre non osavo avventurarmi, benché, in fondo, l’intera storia dell’architettura e della civiltà nell’epoca borghese, cui dedicavo i miei studi, corresse verso quella catastrofe che già allora andava profilandosi. Non leggevo i giornali, perché, come oggi so, temevo le cattive notizie, accendevo la radio solo a determinate ore, perfezionavo sempre più i miei meccanismi di difesa creando intorno a me una specie di cordone sanitario, in grado di immunizzarmi da qualsiasi cosa avesse un pur remoto legame con la preistoria della mia persona, che si era adeguata a vivere in uno spazio sempre più stretto. Al di là di questo, ero altresì costantemente preso da quella gran mole di sapere che avevo continuato ad accumulare per decenni e che fungeva da memoria surrogata e di compenso, e se ciò nonostante capitava – e non poteva non capitare – che una notizia pericolosa mi giungesse a 32 dispetto di ogni misura precauzionale, ero capacissimo di fingermi sordo e cieco e di dimenticare subito la cosa come una sciocchezza qualunque». • V. Hage, Hitlers pyromanische Phantasien: W. G. Sebald: «Come un vortice, un vortice della Storia. [...] È un sentimento di assoluta assenza, un’immagine post-storica, e non si sa con precisione in quale direzione il vortice ti porti, indietro nel passato, oppure avanti nel futuro. Ma si sa che ciò che viene indicato come destino collettivo dell’umanità ha molto a che fare con queste cose, con questa follia organizzata della nostra specie». • W. G. Sebald, Austerlitz, p. 155: «Ciò che udivo erano le voci di due donne, le quali nella loro conversazione ricordavano come nell’estate del 1939, quando ancora erano bambine, fossero state mandate in Inghilterra con un convoglio speciale. Esse menzionarono una serie di città: Vienna, Monaco, Danzica, Bratislava, Berlino, ma solo quando una delle due cominciò a raccontare che il suo gruppo – dopo un viaggio durato due giorni attraverso la Germania e l’Olanda, dove lei dal treno aveva visto le grandi pale dei mulini a vento, e dopo aver superato infine il Mare del Nord – era arrivato a Harwich da Hoeck con il traghetto PRAGUE, solo allora seppi con assoluta certezza che quei frammenti di ricordo appartenevano anche alla mia vita». • «Nel migliore dei casi lo [il Palazzo di Giustizia di Bruxelles] si guarda meravigliati, e questa meraviglia è una forma preliminare di terrore, perché naturalmente qualcosa ci dice che gli edifici sovradimensionali gettano già in anticipo l’ombra della loro distruzione e sin dall’inizio, sono concepiti in vista della loro futura esistenza di rovine». 11. Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz • «Quel giorno [...] Austerlitz parlò ancora a lungo delle tracce di sofferenza che, come lui dava per certo, attraversano la storia con infinite linee sottili» (Austerlitz, p. 21) • “nel 1940 i Tedeschi, subito dopo averlo costretto alla resa per la seconda volta nella sua storia, vi avevano organizzato un lager, che rimase in attività sino all’agosto del 1944”. W.G. Sebald, Austerlitz, p. 26. • “spaventosa vicinanza fra vittima e carnefice, della tortura cui egli era stato sottoposto a Breendonk”. Ivi, p. 33. • “nei confronti di Jean Améry non è diretto tanto all’analisi delle sue opere, quanto a riflettere sullo storicismo con cui egli ha affrontato a posteriori il pensiero della tortura e delle umiliazioni che gli sono state inflitte nei campi di concentramento, e a riconoscergli il merito di avere rotto il silenzio sui crimini nazisti in Germania dopo un lungo periodo di apparente amnesia”. (E. Agazzi, Riti antichi e persistenza del passato. Il percorso interrotto nell’opera-testamento Campo Santo, in Id., La grammatica del silenzio di W.G. Sebald, Roma 2007, p. 126). • Intellettuale ad Auschwitz (Jenseits von Schuld und Sühne. Bewältigungsversuche eines Überwältigten, 1977) • L'inizio fu solo nel 1935 quando, in un caffè di Vienna, sfogliando un giornale iniziai a studiare le leggi di Norimberga appena emanate laggiù, in Germania. Mi bastò scorrerle per 33 rendermi conto che riguardavano anche me. La società, che si riconosceva nello stato tedesco nazionalsocialista, che il mondo a sua volta accettava come legittimo rappresentante del popolo tedesco, mi aveva formalmente e senza mezzi termini, trasformato in ebreo; o meglio aveva dato una dimensione inedita alla mia coscienza di essere ebreo, che senza gravi conseguenze era esistita anche in passato. Non si trattava di una dimensione immediatamente sondabile. Dopo aver letto le leggi di Norimberga non ero più ebreo di quanto non fossi stato mezz'ora prima. I tratti del mio volto non erano più mediterraneosemitici di prima, la mia sfera associativa non si era magicamente colmata di riferimenti ebraici, l'albero di Natale non si era per incanto trasformato in un candelabro a sette bracci. Se la condanna pronunciata nei miei confronti dalla società aveva un senso tangibile, questo era che da quel momento in poi avrei dovuto considerarmi in balìa della morte. La morte. Certo, presto o tardi ci raggiunge tutti. Ma l'ebreo che da quel momento ero - per legge e decisione della società - le era stato saldamente promesso nel bel mezzo della vita, i suoi giorni erano una sorta di grazia provvisoria, revocabile in qualunque momento. Nel fare oggi queste mie riflessioni non credo di illecitamente collocare a ritroso, già al 1935, Auschwitz e la soluzione finale. Sono anzi certo che quell'anno, nell'istante in cui lessi la legge udii effettivamente la minaccia di morte, anzi la condanna a morte; non era del resto necessaria una particolare sensibilità storica (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 140). • Avevo diciannove anni quando appresi che esisteva una lingua yiddish, sebbene d'altra parte sapessi benissimo che la mia famiglia, che a livello religioso ed etnico aveva conosciuto numerosi incroci, dai vicini era considerata ebrea e nessuno in casa mia si sognava di negare o celare l'incontrovertibile. Ero ebreo, allo stesso modo in cui uno dei miei compagni di scuola era figlio di un ristoratore fallito: quando il ragazzo era solo con sé stesso, il tracollo economico della famiglia per lui poteva forse non avere alcuna importanza; quando si mescolava a noi si arroccava al pari nostro, in un astioso imbarazzo. Se essere ebreo è dunque sinonimo di patrimonio culturale, di vincolo religioso, allora non ero, né mai sarò, ebreo. Si potrebbe certo controbattere che un patrimonio lo si può conquistare, che un vincolo lo si può costruire e che quindi essere ebreo potrebbe essere il risultato di una libera scelta. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 138). • Da quel momento in poi, essere ebreo per me significò essere un morto in licenza, un morituro, che solo per caso ancora non era dove secondo la legge avrebbe dovuto essere, e questo stato d'animo, con molte varianti, con diversi gradi d'intensità, si è conservato sino ad oggi. Nella minaccia di morte che per la prima volta avvertii con tutta evidenza leggendo le leggi di Norimberga, era implicita anche quella che abitualmente viene definita la sistematica «privazione della dignità» degli ebrei da parte dei nazisti. Detto altrimenti, nell'essere privati della dignità si esprimeva la minaccia di morte. Per anni lo avevamo letto e sentito quotidianamente: eravamo pigri, malvagi, brutti, capaci solo di misfatti, astuti solo nell'imbrogliare il prossimo. Eravamo incapaci di creare uno stato, e tuttavia non adatti a integrarci nei popoli ospiti. Con la loro semplice presenza i nostri corpi pelosi, grassi e dalle gambe storte, lordavano le piscine, addirittura le panchine nei parchi. I nostri volti orrendi, alterati e corrotti dalle orecchie a sventola e dai nasi adunchi suscitavano ribrezzo nel prossimo, nel concittadino di ieri. Non eravamo degni di amore e dunque nemmeno di vivere. Toglierci noi stessi di mezzo era il nostro unico diritto, il nostro unico dovere. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 142). • Sono stato arrestato dalla Gestapo nel luglio 1943. Una storia di volantini. Il gruppo del quale facevo parte, una piccola organizzazione di lingua tedesca all'interno della Resistenza belga, cercava di svolgere opera di propaganda antinazista fra gli appartenenti alle forze 34 d'occupazione tedesche. Producevamo del materiale propagandistico abbastanza primitivo, con il quale ci illudevamo di poter convincere i soldati tedeschi della crudele follia di Hitler e della sua guerra. Oggi so, o almeno credo di sapere, che le nostre scarne parole si rivolgevano ai sordi: ho motivo di pensare che i soldati tedeschi quando davanti alle caserme trovavano i nostri volantini, ligi al dovere li consegnassero immediatamente ai loro superiori, i quali a loro volta con la stessa scattante dedizione avvisavano gli organi di sicurezza. Non a caso questi ultimi assai presto furono sulle nostre tracce e infine ci scovarono. In uno dei volantini che al momento dell'arresto avevo con me, affermavamo con molta stringatezza e altrettanta imperizia propagandistica: «A morte i banditi delle S.S. e i boia della Gestapo!» (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 61). • Chi, trovandosi in possesso di materiale consimile, si vedeva puntate addosso le pistole degli uomini con i cappotti di pelle, non poteva farsi alcuna illusione. Io infatti non me ne feci in nessun momento, poiché mi ritenevo - oggi mi rendo conto, a torto - un vecchio e scafato conoscitore del sistema, dei suoi uomini, dei suoi metodi. A suo tempo lettore della «Neue Weltbühne» e del «Neue Tagebuch», conoscitore delle pubblicazioni dell'emigrazione tedesca sui campi di concentramento sin dal 1933, credevo di sapere a cosa stessi andando incontro. Sin dai primi giorni del Terzo Reich avevo sentito parlare delle cantine della caserma delle S.A. nella General-Pape-Strasse di Berlino. Qualche tempo dopo avevo letto quello che credo sia stato il primo documento tedesco sui campi di concentramento, l'opuscolo di Gerhart Segers intitolato "Oranienburg". Da allora ero venuto a conoscenza di una tale quantità di resoconti di ex detenuti della Gestapo che ritenevo non potessero esserci sorprese in questa direzione. Quanto mi sarebbe accaduto avrebbe soltanto arricchito la letteratura sull'argomento. Prigione, interrogatorio, percosse, tortura, e al termine probabilmente la morte: così era scritto e così sarebbe avvenuto. Quando, dopo l'arresto, un tale della Gestapo, sapendo che i prigionieri tentavano spesso di spalancare la finestra e, con le mani legate, di raggiungere con un balzo il davanzale più vicino, mi ordinò di spostarmi, mi sentii in un certo senso lusingato per la risolutezza e l'agilità attribuitemi; obbedendo alla sua esortazione, feci tuttavia un cenno di gentile diniego; non ero, dissi, fisicamente in grado, né avevo intenzione, di sottrarmi in maniera così avventurosa al mio destino. Sapevo cosa mi attendeva; si sarebbe potuto contare sul mio assenso. • E' giunto il momento di tener fede a una promessa: devo motivare perché sia mia profonda convinzione che la tortura è stata l'essenza del nazionalsocialismo, o più precisamente, perché il Terzo Reich proprio in essa si è realizzato in tutta la sua pienezza. Abbiamo già detto che la tortura è esistita, e tuttora esiste, anche altrove. Certo. Nel Vietnam dal 1964. In Algeria nel 1957. In Russia probabilmente tra il 1919 e il 1953. In Ungheria nel 1919 usarono la tortura sia i bianchi che i rossi, nelle prigioni spagnole fu impiegata dai franchisti come dai repubblicani. Negli anni fra le due guerre gli aguzzini sono stati all'opera anche negli stati semifascisti dell'Europa orientale, in Polonia, Romania, Iugoslavia. La tortura non è stata inventata dal nazionalsocialismo. Tuttavia ne ha rappresentato l'apoteosi. Al seguace di Hitler non bastava essere veloce come uno scoiattolo, resistente come il cuoio, duro come l'acciaio Krupp per realizzarsi compiutamente. Per fare di lui un rappresentante completo del Führer e della sua ideologia non era sufficiente il distintivo del Partito in oro, non bastava un "Blutorden" [ordine del sangue] o una Croce di guerra di prima classe. Egli doveva "torturare", distruggere, per «essere grande nel sopportare l'altrui sofferenza». Perché Himmler gli conferisse un diploma di maturità che fosse riconosciuto dalla storia, doveva essere in grado di maneggiare gli strumenti di tortura: le generazioni future avrebbero ammirato la sua capacità di annullare la propria misericordia. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 69-70). 35 • Lo si sa davvero? Solo in parte. «Rien n'arrive ni comme on l'espère, ni comme on le craint», scrive a un certo punto Proust. Nulla in effetti avviene come noi speriamo, né come temiamo avvenga. Non tuttavia perché l'avvenimento «supera ogni immaginazione» come spesso si dice (non è una questione quantitativa), ma perché è realtà e non immaginazione. Si può dedicare tutta la vita a raffrontare immaginato e realtà, ma non si arriverà mai a un risultato. Molte cose in effetti avvengono all'incirca come si era pensato dovessero avvenire: gli uomini della Gestapo con i loro cappotti di pelle, le pistole puntate contro la vittima, è tutto vero. Poi però si rimane allibiti quando ci si rende conto che quei tizi oltre ai cappotti di pelle e alle pistole hanno anche dei volti: non i classici «volti da Gestapo», dai nasi storti, dalle mascelle volitive, segnati dal vaiolo o da ferita da coltello. Al contrario: volti simili ad altri. Volti comuni. Ed è l'immane cognizione di una fase successiva, in grado ancora una volta di distruggere ogni rappresentazione che permetta un'astrazione, a spiegarci come questi volti comuni possano infine trasformarsi in volti da Gestapo e come il Male si sovrapponga e superi la banalità. Non esiste infatti la «banalità del Male» e Hannah Arendt, che ne parlò nel suo libro su Eichmann, conosceva il nemico dell'uomo solo per sentito dire e lo osservava solo attraverso la gabbia di vetro. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 62-63). • Quando un avvenimento c'impegna sin nell'ultima fibra, non si dovrebbe parlare di banalità, perché a quel punto l'astrazione risulta impossibile e nessuna immaginazione può anche solo accostarsi alla realtà. Che qualcuno venga portato via in macchina con le manette ai polsi, è «normale» solo quando si legge la notizia sul giornale; mentre si stanno impacchettando volantini, giudiziosamente ci si chiede: va bene, e allora? Qualcosa di simile può accadere anche a me e un giorno forse accadrà veramente. Ma quando accade, ci si accorge che la macchina è diversa, che la pressione delle manette non era stata presentita, che le strade sono estranee, che l'ingresso del quartier generale della Gestapo, di fronte al quale pur si è passati infinite volte, ha prospettive diverse, ornamenti diversi, è fatto di pietra diversa, se lo si oltrepassa da prigioniero. Tutto appare scontato e nulla è normale non appena siamo scaraventati in una realtà la cui luce ci acceca e ferisce nell'intimo. Ciò che abitualmente definiamo la «vita normale», può anche risolversi in rappresentazione anticipatrice e nell'espressione banale. Compro un giornale e sono «un uomo che compra un giornale»: l'atto non si distacca dall'immagine in cui l'avevo anticipato e io stesso non mi differenzio quasi dai milioni che l'hanno compiuto prima di me. Ciò accade perché la mia immaginazione non è riuscita a comprendere in toto la realtà di un simile atto? Non per questo, ma perché la cosiddetta realtà del quotidiano anche nell'esperienza immediata altro non è che astrazione cifrata. Solo in rari momenti della nostra vita guardiamo direttamente negli occhi l'avvenimento e quindi la realtà. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 6364). • Perché il nazionalsocialismo - che se non proponeva alcuna idea possedeva tuttavia un intero arsenale di confuse idee negative - è stato l'unico sistema politico di questo secolo ad avere non solo praticato il dominio dell'opposto, come fecero anche altri regimi del terrore rossi e bianchi, ma ad averlo espressamente innalzato a principio. Odiava la parola umanità come i devoti odiano il peccato, e perciò parlava di "Humanitätsduselei"! [esasperato spirito umanitario]. Sterminava e rendeva schiavi: lo dimostrano non solo i "corpora delicti" ma anche numerose conferme a livello teorico. I nazisti torturavano al pari di altri perché grazie alla tortura volevano entrare in possesso di importanti informazioni politiche. Parallelamente tuttavia torturavano nella buona coscienza della malvagità. Martoriavano i loro prigionieri per scopi precisi, di volta in volta esattamente specificati. Ma torturavano soprattutto perché erano aguzzini. Si servivano della tortura. Ma con fervore ancora più profondo la servivano. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 71-72). 36 • Alla fine ci accorgeremo forse che non erano solo i miei tormentatori a riferirsi marginalmente a una filosofia sadica, ma che il nazionalsocialismo nella sua globalità era caratterizzato non tanto dal marchio di un «totalitarismo» difficilmente definibile, quanto da quello del "sadismo". (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 75). • Con tutta l'anima svolgevano il loro incarico che implicava potere, dominio sullo spirito e sulla carne, trasgressione nell'illimitata autoespansione. Non ho dimenticato anche che vi furono momenti in cui provai una vergognosa ammirazione per la torturante sovranità che esercitavano sulla mia persona. Chi è in grado di ridurre un uomo così completamente a corpo e a piagnucolante preda della morte, non è forse un dio o almeno un semidio? (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 67). • La speranza di soccorso, la certezza del soccorso è effettivamente una delle acquisizioni fondamentali dell'essere umano e a quanto pare anche dell'animale; lo hanno spiegato in maniera assai convincente il vecchio Krapotkin, che parlava del «soccorso reciproco in natura», e l'etologo Lorenz. La speranza di soccorso è una componente costitutiva della psiche, al pari della lotta per la sopravvivenza. Abbi pazienza un momento, dice la madre al bambino che piange per il dolore, ti porto subito il biberon caldo, una tazza di tè, non ti lasciamo soffrire! Le prescrivo una medicina, assicura il medico, le farà bene. E le ambulanze della Croce Rossa riescono a raggiungere i feriti anche sul campo di battaglia. In quasi tutte le situazioni di vita il danno fisico viene vissuto insieme alla speranza di soccorso: il primo trova una compensazione nel secondo. Il primo pugno sferratoci dalla polizia invece, contro il quale non può esservi possibilità di difesa e che nessuna mano soccorritrice potrà parare, pone fine a una parte della nostra vita che non potrà mai più essere ridestata. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 43). • I confini del mio corpo sono i confini del mio Io. La superficie cutanea mi protegge dal mondo esterno: se devo avere fiducia, sulla pelle devo sentire solo ciò che io "voglio" sentire. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 66). • Qui ho avuto la consapevolezza che stavo sprofondando nelle ultime profondità ancora raggiungibili della mia esistenza. Le fiamme non era qui certo visibili: dai camini usciva solo un fumo nero e scavava le tombe nel cielo; non riesco a liberarmi dall’immobilismo linguistco che mi preclude la realtà […]. Sopportare era una cosa assurda. (Jean Améry, Lefeu oder der Abbruch, 1974, pp. 124-131). • Ad Auschwitz invece l'uomo dello spirito era isolato, del tutto abbandonato a sé stesso. Il problema dell'impatto tra spirito e orrore vi si poneva in maniera più radicale e, mi sia consentita l'espressione, in forma "più pura". Ad Auschwitz lo spirito non era che sé stesso e non vi era alcuna possibilità di collegarlo a una qualche struttura sociale, per quanto precaria, per quanto clandestina. L'intellettuale si trovava quindi solo con il suo spirito che altro non era se non pura consapevolezza, e non poteva rinfrancarsi e rafforzarsi al contatto con una realtà sociale. Gli esempi adducibili in questo senso sono in parte banali, in parte invece riferiti a un vissuto esistenziale solo difficilmente comunicabile. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 36). • In generale si può dire che gli esponenti delle professioni dell'ingegno per quanto concerne il lavoro si trovavano in una pessima situazione. Non a caso molti cercavano di celare la loro attività originaria. Chi aveva un minimo di abilità pratiche, chi era magari capace di fare qualche lavoretto si spacciava arditamente per operaio, rischiando tuttavia la vita nel caso la 37 bugia fosse stata scoperta. La maggior parte comunque cercava di salvarsi sminuendo la propria posizione. Interrogato circa la propria professione, il professore di liceo o universitario rispondeva timidamente «insegnante», onde non provocare la furia selvaggia della S.S. o del Kapo. L'avvocato si trasformava nel più modesto contabile, il giornalista poteva magari spacciarsi per tipografo, tanto più che difficilmente avrebbe corso il rischio di dover dimostrare le sue capacità artigianali. Ed era così che docenti universitari, avvocati, bibliotecari, storici dell'arte, economisti, matematici si ritrovavano a portare rotaie, tubi e legname per costruzione. La loro abilità e la loro forza fisica erano di norma limitate e solitamente non si doveva attendere a lungo prima che fossero eliminati dal processo produttivo e trasferiti nell'adiacente campo principale, dove vi erano le camere a gas e i forni crematori. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 31-32). • Si poteva "essere" affamati, "essere" stanchi, "essere" ammalati. Affermare semplicemente che si "era", non aveva senso. E l'Essere poi, era un concetto definitivamente imponderabile e quindi vuoto. Andare con le parole al di là dell'esistenza reale, ai nostri occhi divenne un lusso a noi vietato, un gioco privo di valore, addirittura beffardo e malvagio. Il mondo fenomenico ci dimostrava in ogni istante che alla sua insopportabilità si poteva rispondere solo con mezzi ad essa immanenti. Detto altrimenti: in nessun altro posto al mondo la realtà possedeva una tale forza operante come nel Lager, in nessun altro luogo essa era così fortemente realtà. In nessun altro luogo il tentativo di oltrepassarla si è dimostrato tanto vano e scontato. Al pari dei muri muti e delle banderuole che stridono al vento della poesia, anche le asserzioni filosofiche smarrivano la loro trascendenza e di fronte a noi si trasformavano in parte in constatazioni oggettive, in parte in vacuo cicaleccio: dove ancora significavano qualcosa, apparivano banali, e dove non erano banali, non significavano più nulla. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 53). • E' evidente che di fronte a simili possibilità non ci si occupava quasi più del "se" o del fatto "che" si dovesse morire, ma solo del "come" sarebbe avvenuto. Si discuteva di quanto tempo impiegasse il gas a fare il suo effetto. Si speculava sulla dolorosità della morte provocata da iniezioni di acido fenico. Era preferibile un colpo sul cranio o la lenta morte per sfinimento in infermeria? E' significativo dell'atteggiamento dei prigionieri nei confronti della morte che solo pochi abbiano deciso di «correre verso il filo», ossia di suicidarsi toccando il filo spinato attraversato dall'alta tensione. Il filo era in fondo una soluzione buona e abbastanza sicura, sebbene vi fosse la possibilità di essere scorti anzitempo, e di finire quindi nel bunker, il che significava morire con maggiori difficoltà e sofferenze. Il morire era onnipresente, la morte si sottraeva. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 50-51). • Ebbene, nel campo "esisteva" il problema dell'incomunicabilità tra l'uomo dello spirito e la maggior parte dei suoi compagni: si poneva in ogni istante in maniera reale, direi tormentosa. Il prigioniero abituato a un modo di esprimersi relativamente differenziato, solo al prezzo di un grande sforzo su sé stesso riusciva a dire "Hau ab!" [levati di torno!] o ad apostrofare esclusivamente con "Mensch" [tipo] il suo compagno di prigionia. Rammento sin troppo bene il disgusto fisico che mi afferrava perché un compagno, per altri versi dabbene e socievole, si rivolgeva a me usando esclusivamente l'espressione "mein lieber Mann" [caro mio]. L'intellettuale era insofferente a espressioni come "Küchenbulle" [letteralmente: toro da cucina; cuoco], "organisieren" [organizzare; termine con il quale si definiva l'appropriazione illecita di oggetti], e persino formulazioni come "auf Transport gehen" [essere trasferiti], le proferiva molto malvolentieri. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 34). • Io non ho sonno, o per meglio dire il mio sonno è mascherato da uno stato di tensione e di ansia da cui non sono ancora riuscito a liberarmi, e perciò parlo e parlo. Ho troppe cose da 38 chiedere. Ho fame, e quando domani distribuiranno la zuppa, come farò a mangiarla senza cucchiaio? e come si puo avere un cucchiaio? E dove mi manderanno a lavorare? Diena ne sa quanto me, naturalmente, e mi risponde con altre domande. Ma da sopra, da sotto, da vicino, da lontano, da tutti gli angoli della baracca ormai buia, voci assonnate e iraconde mi gridano: - Ruhe, Ruhe! Capisco che mi si impone il silenzio, ma questa parola è per me nuova, e poiché non ne conosco il senso e le implicazioni, la mia inquietudine cresce. La confusione delle lingue è una componente fondamentale del modo di vivere di quaggiú; si è circondati da una perpetua Babele, in cui tutti urlano ordini e minacce in lingue mai prima udite, e guai a chi non afferra avolo. Qui nessuno ha tempo, nessuno ha pazienza, nessuno ti dà ascolto; noi ultimi venuti ci raduniamo istintivamente negli angoli, contro i muri, come fanno le pecore, per sentirci le spalle materialmente coperte. (P. Levi, Se questo è un uomo, p. 33) • «Anche Amery afferma di aver sofferto per la mutilazione del linguaggio», scrisse, «eppure lui era di lingua tedesca. Ne ha sofferto in modo diverso da noi alloglotti ridotti alla condizione di sordomuti: in un modo, se mi è lecito, più spirituale che materiale. Ne ha sofferto perché era di lingua tedesca, perché era un filologo amante della sua lingua, come soffrirebbe uno scultore nel veder deturpare o amputare una statua». Quindi ancor più di Levi, ancor più di molti deportati ebrei. La corrispondenza tra Levi e Amery si interruppe tragicamente nel 1978, quando anche Amery decise di togliersi la vita. Tre anni prima di Engert, nove anni prima di Levi. Amery, considerato un «teorico del suicidio», al tema aveva dedicato un illuminante saggio, intitolato «Levar la mano su di sé». Queste sono le ultime righe del testo: «Non dovremmo negar loro [ai suicidi] il rispetto che il loro agire merita, né privarli della nostra partecipazione, tanto più che noi stessi non facciamo una figura troppo brillante. Siamo degni di compassione, tutti se ne accorgono. Chinando il capo, vogliamo quindi sommessamente e con dignitoso contegno piangere colui che ci lasciò nella libertà». (P. Levi, I sommersi e i salvati, pp. 108-109). • Dal Lager uscimmo denudati, derubati, svuotati, disorientati e ci volle molto tempo prima che riapprendessimo il linguaggio quotidiano della libertà. Ancora oggi del resto nel parlarlo siamo a disagio e senza un'autentica fiducia nella sua validità. E tuttavia per noi - e dicendo noi intendo gli intellettuali privi di fede e non impegnati in una dottrina politica - la permanenza nel Lager spiritualmente non fu del tutto priva di valore. Vi abbiamo infatti tratto l'incrollabile convinzione che lo spirito in gran parte è effettivamente un "ludus" e che noi non siamo, o meglio, prima di entrare nel Lager, non eravamo che "homines ludentes". Ci siamo così spogliati di parecchie presunzioni, di parecchia boria metafisica, smarrendo però anche gran parte della nostra ingenua gioia spirituale, e qualche fittizio senso della vita. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 54). • “Di quanta patria ha bisogno l'uomo?” (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 83). • soffrivo, e tuttora soffro, di nostalgia di casa, una nostalgia dolorosa, struggente, lontana dall'intimità della canzone popolare, non consacrata da convenzioni sentimentali, una nostalgia della quale non si può parlare nei toni cari a Eichendorff. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 85). • Per la prima volta l'avvertii in maniera acuta quando, con in tasca quindici marchi e cinquanta pfennig, mi ritrovai ad Anversa davanti allo sportello dei cambi; da allora non mi ha più lasciato, come non mi ha lasciato il ricordo di Auschwitz o della tortura o del ritorno dal campo di concentramento, quando mi ritrovai collocato nel mondo con quarantacinque chili di peso vivo e con indosso un vestito a righe, tornato ancora una volta a sentirmi più 39 leggero dopo la morte dell'unica persona per la quale avevo tenute deste per due anni le mie forze vitali. Che cos'era, cos'è la nostalgia di casa provata da coloro che dal Terzo Reich erano stati cacciati allo stesso tempo a causa delle loro opinioni e del loro albero genealogico? (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 87) • L'ebreo errante aveva più Heimat di me. Se mi è consentito dare a questo punto una prima, provvisoria risposta al nostro quesito iniziale, direi che l'uomo ha tanto più bisogno di Heimat quanto meno può portarne via con sé. Esiste infatti qualcosa come una Heimat mobile o quanto meno un surrogato della Heimat. Può essere la religione, come quella ebraica. «L'anno prossimo a Gerusalemme», si promettono sin dai tempi antichi gli ebrei durante il rito pasquale, ma non era importante raggiungere veramente la Terra Santa, era sufficiente che si pronunciasse insieme la formula e ci si sapesse uniti nella magica cerchia patria di Yahweh, il Dio della stirpe. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 87) • Noi invece non avevamo perso il paese: dovevamo riconoscere di non averlo mai posseduto. Ciò che riguardava questo paese e la sua gente rappresentava per noi l'equivoco di un'intera esistenza. Quello che ciascuno di noi pensava fosse stato il suo primo amore era, come dicevano laggiù, "Rassenschande" (contaminazione razziale). (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 95) • Heimat vs. Vaterland • Noi - e forse non parlo solo a nome della generazione ormai in fase declinante, di coloro che come me sono intorno alla cinquantina - abbiamo bisogno di vivere in mezzo a cose che ci narrano storie. Abbiamo bisogno di una casa della quale sapere chi l'ha abitata in passato, di un mobile, nelle cui piccole irregolarità riconosciamo l'artigiano che vi mise mano. Abbiamo bisogno di una silhouette nella città che, sia pure vagamente, richiami alla memoria l'incisione vista in un museo. Per gli urbanisti del domani, ma anche per gli abitanti che solo provvisoriamente si stabiliranno in determinati punti topografici, la realtà di una città consisterà nelle tabelle statistiche che anticipano l'evoluzione demografica, nei piani urbanistici e nei progetti di nuove strade. La nostra coscienza invece nella sua globalità percepisce la realtà urbana ancora attraverso l'occhio - la cara fenestrella del vecchio Gottfried Keller! - e la rielabora in un processo mentale che chiamiamo "ricordare". (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 94-95). • Mi sono ritirato nel passato, in lui ho trovato un rifugio, vivo in pace; grazie, non me la passo male. Queste all'incirca le parole di chi ha diritto al proprio passato. L'esule dal Terzo Reich non potrà mai pronunciarle, nemmeno pensarle. Volge indietro lo sguardo essendo il futuro qualcosa cui vanno incontro solo i giovani e che quindi spetta solo a loro - e non riesce a scorgersi in nessun luogo. Giace irriconoscibile fra le rovine degli anni che vanno dal 1933 al 1945. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 106). • La Heimat è il paese dell'infanzia e della giovinezza. Chi l'ha smarrita, resta spaesato, per quanto all'estero possa avere appreso a non barcollare come un ubriaco e ad appoggiare il piede in terra senza troppi timori. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 93). 12. Fotografia e memoria • Siegfried Kracauer (1889-1966): La fotografia (1927) 40 • Walter Benjamin (1892-1940): - Piccola storia della fotografia (1931) - L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (1936) • Kurt Tucholsky (1890-1935) : Deutschland, Deutschland, über alles (1929) • Maurice Halbwachs (1877-1945): - I quadri sociale della memoria (1925) - La memoria collettiva (1950) • Aby Warburg (1866-1929): Mnemosyne (1924-1929) • Gerhard Richter, Atlas (1961) • “il passato non getta la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità”. (W. Benjamin, I “passages” di Parigi) • “come bisogna introdurre un germe in un ambiente saturo perché questo cristallizzi, allo stesso modo in [un] insieme di testimonianze a noi esteriori bisogna poter aggiungere come un seme di rimemorazione, perché esso si rapprenda in una massa consistente di ricordi”. (M. Halbwachs, La memoria collettiva) • La fotografia “appartiene a quella classe di oggetti fatti di strati sottili” (Barthes, La camera chiara, 1980): a) evoca a un individuo o una collettività un evento vissuto nel passato; b) richiama alla mente un episodio di cui non esiste più “ricordo vivente”, configurandosi come traccia della memoria storica; c) immortala il lacerto di un patrimonio, di una temperie culturale o di un evento epocale. • una fotografia può essere l’oggetto di tre pratiche (o tre emozioni, o tre intenzioni): fare, subire, guardare. L’Operator è il Fotografo. Lo Spectator, siamo tutti noi che compulsiamo, nei giornali, nei libri, negli archivi, nelle collezioni fotografiche. E colui, o ciò che è fotografato, è il bersaglio, il referente, sorta di piccolo simulacro, di eidòlon emesso dall’oggetto, che io chiamerei volentieri lo Spectrum della Fotografia, dato che attraverso la radice questa parola mantiene un rapporto con lo ‘spettacolo’ aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto. (R. Barthes, La camera chiara) • “si direbbe che la Fotografia porti sempre il suo referente con sé, tutti e due contrassegnati dalla medesima immobilità amorosa e funebre” (R. Barthes, La camera chiara) • Punctum: “puntura, piccolo buco, macchiolina, piccolo taglio, (...) fatalità che, in essa, mi punge (ma anche mi ferisce, mi ghermisce)” (R. Barthes, La camera chiara) • Studium: “il vastissimo campo del desiderio noncurante, dell’interesse diverso, del gusto incoerente” (R. Barthes, La camera chiara) • “ogni fotografia è un memento mori […] un rito sociale, una difesa dall’angoscia e uno 41 strumento di potere”(S. Sontag, Sulla fotografia, 1977) • “guardando le immagini in esso contenute avevo e ho tuttora l’impressione che i morti ritornino o che siamo noi in procinto di recarci da loro” (W.G. Sebald, Gli emigrati) • le immagini sono al tempo stesso modelli, esempi e una sorta di dottrina. In esse si esprime l’atteggiamento generale del gruppo; esse non riproducono soltanto la sua storia, ma definiscono anche la sua natura, le sue qualità e le sue debolezze. (M.Halbwachs, La memoria collettiva) • “ri-conoscere per immagini significa ricollegare l’immagine (percepita o evocata) di un oggetto ad altre immagini che con esse formano un insieme, come un quadro, è ritrovare i legami di questo oggetto con altri oggetti che possono essere anche dei pensieri o dei sentimenti” (M. Halbwachs La memoria collettiva) • “È la realtà che viene esaminata e valutata secondo la sua fedeltà alle fotografie […]. Invece di accontentarsi di registrare la realtà, le fotografie sono diventate il modello di come ci appaiono le cose, modificando così il concetto stesso di realtà, e di realismo.” (S. Sontag, Sulla fotografia) • “la riproduzione infatti finisce per sostituirsi totalmente al ricordo che abbiamo di qualcosa, anzi, si potrebbe addirittura dire che lo distrugge” (W.G. Sebald, Vertigini) • "Non siamo davanti all’immagine come davanti a una cosa di cui possiamo tracciare le frontiere esatte. Un’immagine, ogni immagine, è il risultato di movimenti provvisoriamente sedimentati o cristallizzati al suo interno“ (Georges Didi-Huberman L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell'arte, 2002) • La Fotografia è inclassificabile perché non c'è nessuna ragione di contrassegnare tale o talaltra delle sue occorrenze […] le fotografie sono segni che non si rapprendono bene, che vanno a male, come il latte. Qualunque cosa essa dia da vedere e quale che sia la sua maniera, una foto è sempre invisibile: ciò che noi vediamo non è lei. (Roland Barthes, La camera chiara) • La scritta "Arbeit mach frei" significa Auschwitz, Auschwitz significa la Shoah: e queste sono le colonne d'Ercole oltre le quali l'umanità intera è entrata in una nuova storia, ha scoperto il paesaggio devastato del mondo nuovo, ha saputo che Dio era morto. A chi voleva continuare a vivere in un mondo dove si respirava un'aria densa delle ceneri di milioni di morti, si impose un solo comandamento: ricordare. Uno solo: ma non fu facile accettarlo. Adriano Prosperi, Le colonne d’Ercole del Novecento, in “La Repubblica”, 19/12/2009. 42