La Shoah
nella letteratura tedesca del secondo dopoguerra
Letteratura Tedesca II – MOD2
Anno Accademico 2015/2016 – Prof. Raul Calzoni
1. Introduzione
•
Dibattiti culturali dal 1945
a) La questione della colpa collettiva e della responsabilità individuale per i crimini contro
l’umanità compiuti dai nazisti e dai civili negli anni del regime hitleriano.
b) Le ricadute sullo spirito tedesco della divisione in zone d’influenza occidentale e orientale e la
conseguente guerra fredda fra USA e URSS, che ebbe come drammatico e spesso subdolamente
silente teatro delle ostilità la Germania;
c) Le strategie di rielaborazione attraverso dei traumi inflitti e subìti dai tedeschi durante il terzo
Reich e gli anni del secondo conflitto mondiale, nonché la loro proposizione in “un paese senza
lutto”, come è stata definita la Germania dell’Ovest negli anni Sessanta.
•
Tre fasi della cultura contemporanea
1. il periodo delle macerie e della ricostruzione (1945-1961), così definito per riferirsi a due concetti
chiave dell’epoca: la Trümmerliteratur (“letteratura delle macerie”, Heinrich Böll) e il
Wiederaufbau (“ricostruzione”) fisico e intellettuale del Paese.
2. il tempo della nazione divisa (1961-1989), il cui simbolo e precipitato visuale è stato il Muro di
Berlino, caratterizzata dal “passato che non passa”, per richiamarsi al titolo di un’opera
fondamentale dedicata alle annichilenti ricadute del secondo conflitto mondiale e del regime
hitleriano sulla cultura tedesca
3. l’epoca della Riunificazione (1989-2010), da un lato caratterizzata dalla “coscienza inquieta”
della Germania contemporanea nei confronti della sua storia più e meno recente, ovvero nei riguardi
degli accadimenti verificatisi durante il dodicennio nero e nei ventotto anni di divisione del Paese,
e dall’altro lato segnata da una netta e opposta tendenza all’escapismo dalle problematiche storiche,
politiche e culturali che è peculiarità di alcuni scrittori appartenenti alla più giovane generazione.
•
•
Il prisma della Seconda guerra mondiale
Seconda guerra mondiale
- Inizio: 1 settembre 1939 con l'invasione della Polonia da parte della Germania (Blitzkrieg).
- Termine: nel teatro europeo, 8 maggio 1945 con la resa tedesca; nel teatro asiatico, 2
2
settembre con la resa dell'Impero giapponese a seguito dei bombardamenti atomici di Hiroshima
e Nagasaki.
1945
•
- Nullpunkt (“punto zero”) politico, economico e culturale della Germania.
- Stunde null (“ora zero”) della Germania, entusiasticamente celebrata da molti intellettuali come
momento di definitiva rottura con il terzo Reich,
- “una leggenda, nata dalla coscienza sporca dei tedeschi, ma anche dalle speranze degli anni
futuri. Se mai c’è stato in Germania un punto zero storico, quello è stato il 1933. Nondimeno, il
1945 sarebbe potuto certamente essere un nuovo inizio, però quest’opportunità è andata sprecata,
anche a causa degli interessi delle grandi potenze”.(Michael Dallapiazza, Claudio Santi, Storia
della letteratura tedesca, vol. 3 (Il Novecento), Laterza, Bari 2001, p. 179).
1949
•
- Inverno 1948 - 1949: blocco posto dai russi a Berlino nell’intento di diventarne gli unici
amministratori (Berliner Blockade).
- Settembre: fondazione della Bundesrepublik Deutschlands (BRD, Repubblica Federale
Tedesca) con capitale Bonn.
- Ottobre: Deutsche Demokratische Republik (DDR, Repubblica Democratica Tedesca) con
capitale Berlin Pankow.
•
02.02.1943
•
•
•
•
GUERRA AL FRONTE: Disfatta di Stalingrado
Operazione Barbarossa (17.07.1941 - 02.02.1943)
6a Armata del generale Friedrich Paulus
64a Armata del generale Mikhail sconfigge i tedeschi a Stalingrado (31 gennaio 1943:
Operazione Urano – Operazione Saturno)
• «I nazionalsocialisti cancellano la politica estera tedesca di prima della guerra e l’annullano.
Noi iniziamo dal punto in cui si fermò 600 anni fa. Finiamo l’eterno cammino tedesco verso
il sud e l’ovest e guardiamo i territori posti all’est. Facciamola finita con la politica coloniale
e commerciale di prima della guerra e passiamo ad una politica di espansione nel futuro. Ma
allorché diciamo di nuovi spazi europei, dobbiamo tenere in considerazione innanzitutto
l’Unione Sovietica e le Nazioni satelliti ad essa affiliate». H. Hitler, Mein Kampf [19251927], München 1938, p. 742; trad. it. Mein Kampf (la mia battaglia), Roma 2000, pp. 232233.
27.01.1945
•
-
La 60a Armata del maresciallo Konev localizza la rete di campi di concentramento attorno
ad Auschwitz.
-
«Quando venne il mio turno di salire sul carretto di Yankel, non ero in grado di reggermi in
piedi. Fui issato sul carro da Charles e da Arthur, insieme con un carico di moribondi da cui
non mi sentivo molto dissimile. Piovigginava, e il cielo era basso e fosco. Mentre il lento
passo dei cavalli di Yankel mi trascinava verso la lontanissima libertà, sfilarono per l’ultima
volta sotto i miei occhi le baracche dove avevo sofferto e mi ero maturato, la piazza
3
dell’appello su cui ancora si ergevano, fianco a fianco, la forca e un gigantesco albero di
Natale, e la porta della schiavitù, su cui, vane ormai, ancora si leggevano le tre parole della
derisione: “Arbeit Macht Frei”, “Il lavoro rende liberi”». (P. Levi, La tregua [1965], Milano
1992, pp. 17-18).
•
30.01.1945
- FLUCHT: Operazione Hannibal
- Il Wilhelm Gustloff, il più grande transatlantico della Kraft durch Freude, salpa dalla costa
baltica con a bordo più di diecimila profughi. Alle ore 21:10 la nave viene colpita da tre siluri
lanciati dal sommergibile sovietico S-13 affidato al capitano Alexander Marinesko. Il
transatlantico affonda dopo un’ora circa; in quella notte persero la vita 9363 tedeschi e
solamente 1252 profughi furono tratti in salvo dall’incrociatore pesante Admiral Hipper.
•
13/14.02.1945
-
•
LUFTKRIEG: Distruzione di Dresda
Operazione Thunderclap
Rappresaglia nei confronti dei bombardamenti tedeschi sull’Inghilterra del 1940
(Operazione Leone Marino) e sulla Russia del 1941 (Operazione Barbarossa).
30.04.1945
- Hitler si suicida con Eva Braun nel Bunker della Cancelleria. I loro corpi vengono bruciati, per
volontà del Führer, nel giardino della Cancelleria.
- Il giorno seguente, 1 maggio 1945, Magda Goebbels si uccide con i figli e il marito Joseph
Goebbels nel Bunker.
•
20.01.1942
- Wanseekonferenz: Conferenza di Wannsee alla quale parteciparono 15 alti ufficiali nazisti, per
decidere come attuare la "Soluzione finale della questione ebraica" (Endlösung der Judenfrage).
- «Adesso, nell’ambito della soluzione finale, gli ebrei dovrebbero essere utilizzati in impieghi
lavorativi a est, nei modi più opportuni e con una direzione adeguata. In grandi squadre di
lavoro, con separazione dei sessi, gli ebrei in grado di lavorare verranno portati in questi territori
per la costruzione di strade, e non vi è dubbio che una gran parte verrà a mancare per
decremento naturale» (Verbale della conferenza di Wannsee, p. 7).
08.05.1945
- A Karlshorst, nel quartiere berlinese di Lichtenberg, il feldmaresciallo generale Wilhelm Keitel
(1882-1946) sottoscrive per la Germania la resa incondizionata.
- «Berlino era ancora un esplosivo, fumante e bruciante vulcano che eruttava morte […] un
luogo spaventoso e indicato per procedere alla ratifica del documento sulla resa
incondizionata». (Fritz Oppenheimer, Bericht des amerikanischen Majors Fritz E. Oppenheimer
über die Reise des OKW Keitel nach Berlin zur Unterzeichnung der Kapitulationsurkunde am
8./9. Mai 1945, in Manfred Overesch (hrsg.), Deutschland 1945-1949: Vorgeschichte und
4
Gründung der Bundesrepublik, Athenäum-Verlag, Düsseldorf 1979, p. 117).
19.03.1945
- Operazione Nerone
- «Se la guerra sarà perduta, anche il popolo sarà perduto. Questo destino è ineluttabile […] è
meglio che si sia noi stessi a distruggere ogni cosa, poiché il popolo ha dimostrato di essere il più
debole e l’avvenire appartiene esclusivamente al popolo dell’Est, che è il più forte. Del resto,
quelli che sopravvivranno a questa lotta non saranno che gli infimi, perché i migliori saranno
caduti» (Adolf Hitler a Albert Speer)
2. La denazificazione della Germania e la questione della «colpa collettiva»
- Säuberung (epurazione)
- Bestrafung (condanna)
- Umerziehung (rieducazione)
- Affidate a occidente alla Information Control Division (ICD) e a oriente alla Sowjetische
Militäradministration in Deutschland (Amministrazione militare sovietica in Germania,
SMAD)
- Ernst von Salomon, Der Fragebogen, Rowohlt, Hamburg 1951.
•
Processi di Norimberga
- Ottobre 1945 - ottobre 1946: sotto accusa 22 fra i maggiori esponenti delle SA (abbreviazione
di Sturmableitung, “battaglioni” o “squadre” d’assalto” del partito), delle SS (abbreviazione
di Schutzstaffeln, “reparti di difesa” paramilitari d’élite del partito nazista) e della Gestapo
(abbreviazione di Geheime Staatspolizei), la “polizia segreta di stato” del terzo Reich che a
partire dal 1934 fu controllata dalle SS.
- Accusa: avere preso fattivamente parte alla Endlösung der Judenfrage, la “soluzione finale
della questione ebraica” programmata durante la Conferenza di Wannsee.
- Pene comprese fra la reclusione e l’impiccagione che giunsero in chiusura di un processo al
quale parteciparono un giudice per ciascuna nazione vincitrice del conflitto.
- Testimoniarono 240 vittime del regime nazista e vennero rese circa trecentomila deposizioni.
- Le condanne a morte furono eseguite già il 16 ottobre 1946.
- Impiccati: il Ministro degli esteri Joachim von Ribbentrop (*1893), Wilhelm Keitel, Ernst
Kaltenbrunner (*1903), Alfred Rosenberg (*1893), Hans Frank (*1900), il Ministro degli
interni Wilhelm Frick (*1877), Julius Streicher (*1885), Fritz Sauckel (*1894), Alfred Jodl
(*1890) e Arthur Seyß-Inquart (*1892).
•
•
•
Karl Jaspers, Die Schuldfrage, Heidelberg/Zürich 1946 (trad. it. e cura di R. De Rosa, La
colpa della Germania, Edizione Scientifiche Italiane, Napoli 1947; trad. it di A. Pinotti, La
questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, Raffaello Cortina,
Roma 1996)
Hannah Arendt (1906-1975): contributo apparso sulla rivista americana Jewish Frontier e
intitolato German Guilt (La colpa tedesca, 1945); trad. it. Colpa organizzata e
responsabilità universale (in Archivio Arendt 1. 1930-1948, a cura di S. Forti, trad. it. di P.
Costa, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 157-167).
Hannah Arendt, Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil (La banalità del
male. Eichmann a Gerusalemme, 1963; trad. it. Hannah Arendt, La banalità del male.
Eichmann a Gerusalemme, Milano, Fetrinelli 1964.
5
•
«I gerarchi nazisti, sgravata la coscienza da ogni peso grazie all’organizzazione burocratica
dei loro atti, avevano smesso di temere perfino Dio. Tutto ciò che provavano era solo un
senso di responsabilità nei confronti della propria famiglia. La trasformazione del padre di
famiglia da membro responsabile della società, interessato a tutti gli affari pubblici, in un
‘borghese’ concentrato solo sulla propria esistenza privata ed estraneo ad ogni virtù civile, è
un fenomeno internazionale tipicamente moderno» (Arendt, Colpa organizzata e
responsabilità universale, cit., pp. 164-165).
•
Dwight MacDonald, The Responsibility of Peoples, in Politics 2 (March 1945), pp. 86-87.
•
Tipologie della colpa secondo Jaspers (Die Schuldfrage):
-
•
«colpa criminale»
«colpa politica»
«colpa morale»
«colpa metafisica»
Eugen Kogon, Der SS-Staat. Das System der deutschen Konzentrationslager, Verlag der
Frankfurter Hefte, Frankfurt am Main 1946) (Lo stato SS. Il sistema dei campi di
concentramento tedeschi):«cosa era davvero un campo di concentramento tedesco. Un
mondo a sé, uno stato a sé – un ordinamento senza diritto, in cui l’individuo […]
combatteva per la nuda esistenza e per la cruda sopravvivenza».
3. La lingua dei carnefici
•
l’«essenza della propaganda consiste nel far sì che le persone abbraccino un’idea tanto
sinceramente e tanto fortemente che alla fine soccombono a essa e non possono più
fuggirvi» (Joseph Goebbels, Congresso annuale del partito nazionalsocialista svoltosi a
Norimberga nel settembre 1934)
•
Victor Klemperer (1881-1960)
-
Ich will Zeugnis ablegen bis zum letzten (Testimoniare fino all’ultimo. Diari 19331945, a cura di W. Nowojski con la collaborazione di H. Klemperer, trad. it. di A.
Ruchat e P. Quadrelli, Mondadori, Milano 2000)
LTI. La lingua del terzo Reich; taccuino di un filologo, trad. it. di P. Buscaglione,
La Giuntina, Firenze 1996: «le parole possono essere come pasticche di arsenico:
vengono inghiottite senza accorgersene; sembra che non abbiano alcun effetto –
dopo un po’ di tempo però manifestano il loro venefico effetto».
•
Per quanto mi riguarda, sempre più mi rendo conto d’essere diventato assolutamente inutile,
sono il prodotto di un’acculturazione eccessiva, incapace di sopravvivere in ambienti meno
civilizzati. […] Io non potrei nemmeno diventare insegnate di lingua, sono in grado solo di
tenere lezioni di scienze dello spirito, ma solo in lingua tedesca e con un taglio
assolutamente tedesco. Non posso che vivere e morire in questo paese. (Klemperer,
Testimoniare fino all’ultimo. Diari 1933-1945)
•
La lotta più dura in difesa della mia natura tedesca la sto combattendo ora. Devo insistere su
questo punto: io sono tedesco, sono gli altri che non lo sono, devo insistere su questo punto:
è lo spirito che non decide, non il sangue. Devo insistere: il sionismo da parte mia sarebbe
una commedia, il battesimo non è stata una commedia. (Klemperer, Testimoniare fino
6
all’ultimo. Diari 1933-1945)
4. La «rielaborazione del passato», la «ricostruzione della cultura» e la Scuola di Francoforte
•
•
•
•
•
•
Max Horkheimer.
Theodor Wiesengrund Adorno
Walter Benjamin
Erich Fromm
Leo Löwenthal
Zeitschrift für Sozialforschung
•
Lo sviluppo della Scuola è riconducibile a tre fasi. alle quali coincidono altrettante
generazioni di filosofi afferenti all’Istituto:
1. il decennio fra la fondazione dell’Istituto e l’ascesa al potere di Hitler.
2. il periodo fra l’esilio statunitense dei francofortesi e il loro rientro in patria nel 1949 di
Adorno e Horkheimer.
3. fase caratterizzata dalla Dialettica negativa di Adorno fra primi anni Cinquanta e la
morte del filosofo avvenuta nel 1969.
• Quest’ultima è fase fondamentale per i successivi sviluppi del pensiero della Scuola, in
particolare per l’elaborazione del metodo di studio della comunicazione di Jürgen
Habermas.
• La riflessione di Adorno e Horkheimer attorno alla società tedesca del Novecento, ispirata al
pensiero di Marx, Hegel e Freud, si attuò sin dagli esordi attraverso un approccio dialettico e
totalizzante alla società.
• La critica fu affinata durante l’esilio in almeno due opere centrali per discutere la possibilità
e le modalità di ricostruzione della cultura tedesca dopo il nazismo:
1. Dialektik der Aufklärung (Dialettica dell’illuminismo, 1947) di Adorno e Horkheimer.
2. Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben (Minina moralia.
Riflessioni dalla vita offesa, 1951) di Th. W. Adorno e prima di esse la celebre
Dialettica dell’Illuminismo (1947)
•
«la conoscenza del perché l’umanità, anziché entrare in una condizione veramente umana,
sprofondi in una nuova sorta di barbarie»
•
Due critiche fondamentali:
1. concezione della civiltà occidentale come risultato di una progressiva razionalizzazione
2. razionalizzazione della natura vista come condizione del mondo occidentale.
•
«l’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da
sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra
interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura».
•
l’illuminismo decade a positivismo: strumento del dominio industriale, soprattutto a fronte
della sua tendenza antimitologica e della coincidenza fra verità e sistema scientifico.
7
• Odissea: Ulisse viene riconosciuto «uno dei primi rappresentanti della civiltà borghese
occidentale».
• Rinuncia e negazione del proprio “io”: Polifemo e l’incontro con le sirene
• Ulisse «ode, ma impotente, è legato all’albero della nave, e più la tentazione diventa forte, e
più strettamente si fa legare, così come, più tardi, anche i borghesi si negheranno più
tenacemente la felicità quanto più – crescendo la loro potenza – l’avranno a portata di
mano».
• Società occidentale borghese caratterizzata dall’«umiliazione dell’impulso alla felicità
intera, universale, indivisa».
•
Sacrificio di tutto ciò che è vitale a favore della costruzione di un io irrigidito: alienazione
•
l’antisemitismo viene concepito in rapporto dialettico con la natura, la felicità, la civiltà e la
ragione.
• “Nelle grandi svolte della civiltà occidentale, dall’avvento della religione olimpica fino al
Rinascimento, alla Riforma e all’ateismo borghese, ogni volta che nuovi popoli e ceti
soppiantano più decisamente il mito, il timore della natura minacciosa e incontrollata,
conseguenza della sua stessa materializzazione e oggettivazione, fu abbassato a
superstizione animistica, e il dominio della natura interna e esterna a scopo assoluto della
vita”
• Fallimento della civiltà occidentale:
1. «il processo di disincanto, razionalizzazione, rischiaramento, civilizzazione, non si è svolto
sotto il segno della realizzazione di quella felicità che, vista retrospettivamente, sembrava
caratterizzare il mondo primitivo».
2. progressiva distruzione di qualsiasi forma di felicità e angoscia che ricordasse all’uomo
moderno il mondo primitivo e non civilizzato.
• “I segni dell’impotenza, i movimenti ansiosi e scomposti, l’angoscia della creatura,
l’agitazione, provocano la voglia di uccidere. La dichiarazione di odio contro la donna
come creatura spiritualmente e fisicamente più debole, che reca in fronte il marchio del
dominio, è la stessa dell’odio contro l’ebreo. […] Vivono, mentre sarebbe possibile
eliminarli, e la loro angoscia e debolezza, la loro maggiore affinità alla natura per la
continua pressione a cui sono sottoposti, è il loro elemento vitale. Ciò suscita il furore cieco
dell’uomo forte, il quale paga la propria forza con la tensione del distacco dalla natura, e non
può mai permettersi l’angoscia. Egli si identifica con la natura, moltiplicando per mille nelle
sue vittime il grido che non gli è dato di emettere”.
•
Relazione fra antisemitismo e impulsi umani originari, dei quali gli ebrei sarebbero fra gli
ultimi depositari nell’epoca della “riproducibilità tecnica”.
•
Questa relazione si esplicita attraverso una mimica che, all’uomo occidentale votatosi al
culto della ragione, «suscita furore, poiché ostenta, nei nuovi rapporti di produzione, l’antica
paura, che si è dovuta dimenticare per sopravvivere in essi».
8
•
Una direttrice critica sviluppa argomentazioni contenute in Das Kunstwerk im Zeitalter
seiner technischen Reproduzierbarkeit (L’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica, 1935) di Walter Benjamin:
L’arte, la perdita di unicità dei prodotti artistici, ciò che Benjamin definisce “aura”, la
cultura di massa sono gli obiettivi polemici del pensiero critico dei francofortesi che si
confrontano con la sfera del consumo, il feticismo delle merci e le loro ricadute
sull’alienazione e la libertà dell’individuo. Da questo bacino critico nascerà nel dopoguerra
il concetto di “industria culturale”, frequentemente problematizzato da Adorno e punto di
partenza per la critica ai mezzi di comunicazione di Hans Magnus Enzensberger (“Industria
della coscienza”).
•
«Industria culturale»: la cultura standardizzante che proviene da Hollywood e attraverso i
nuovi mass media si è fatta strada nel mondo.
•
«industria culturale»: atteggiamento passivo del consumatore nel processo di
industrializzazione e standardizzazione della conoscenza attraverso «l’impero dei mass
media», il quale rappresenta il più subdolo strumento di manipolazione delle coscienze,
perché è impiegato da qualsiasi sistema di potere con l’intento di conservare se stesso e
tenere sottomessi gli individui.
•
«L’industria culturale, la società ultraorganizzata, l’economia pianificata hanno
beffardamente realizzato l’uomo come essere generico: privo di coscienza individuale, di
iniziativa morale autonoma, manipolato a piacere, […] la forma massificata ha trattenuto
tutti nello stadio della mera essenza generica».
•
Risultato è l’alienazione dell’individuo nel lavoro
•
Hans Magnus Enzensberger:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Bewußtseins-Industrie (1962)
Gli elisir della scienza (2002)
Ah, Europa! Rilevazioni da sette paesi (1987)
Eurocentrismo controvoglia (1980)
Periferia europea (1965)
La lista eurocentrica (2001)
Europa in macerie (1990)
I revenant di Hitler (1997)
Minima moralia (1951)
• Non è opera di etica filosofica: impossibile elaborare una dottrina etica dopo la seconda
guerra mondiale, poiché nella civiltà contemporanea è ormai irrimediabilmente iscritta la
traumatica cesura che Adorno riassume nella cifra di «Auschwitz», luogo che nella sua
riflessione diviene sinonimo di Shoah.
• In seguito alla lacerazione nazista, l’uomo ha definitivamente perso ogni forma di
autonomia e «la vita è diventata apparenza», mentre «la nullità dimostrata ai soggetti nei
campi di concentramento investe ormai la forma stessa della soggettività».
9
• Minima: occupazioni e oggetti banali della vita quotidiana che esprimono lo spirito di un’età
totalitaristica, organizzata e globale, dove regna l’incapacità dell’individuo di servirsi del
proprio intelletto in autonomina.
• Moralia: Con quest’opera Adorno mosta le strategie di penetrazione del capitalismo nelle
sfere più intime della vita quotidiana, laddove l’uomo e la macchina si incontrano e i confini
fra i due diventano a tal punto labili che persino la morale – i moralia – finisce per ricadere
nelle questioni industriali che concernono la «produzione del mondo».
• Utopia: liberare gli uomini e gli oggetti dal dominio contemporaneo della tecnologia e della
ragione.
• Nelle forme estetiche tradizionali, nella lingua tradizionale, nel materiale tramandato della
musica, ma anche nello stesso universo concettuale filosofico del periodo compreso fra le
due guerre, non risiede più alcuna forza autentica. Diventano tutte menzogne condannate
dalla catastrofe di quella società da cui sono provenute.
(T. W. Adorno, Die auferstandene Kultur, 1949).
• Was bedeutet: Aufarbeitung der Vergangenheit (Che cosa significa elaborazione del passato,
1959): «se la tanto menzionata elaborazione del passato non è fino ad oggi avvenuta, ma si è
tramutata nella sua caricatura, il vuoto e freddo oblio, è perché continuano a sussistere le
oggettive premesse sociali che generarono il fascismo».
• «l’affermazione che Hitler avrebbe distrutto la cultura tedesca non è che un trucco
reclamistico di coloro che vorrebbero ricostruirla dai telefoni dei loro uffici» (Th. W.
Adorno, Ritorno alla cultura, in Minima moralia)
•
«Uno sguardo alla produzione letteraria di quegli emigrati che – attraverso una severa
disciplina e una rigida suddivisione - sono riusciti a “rappresentare” lo spirito tedesco, dice
tutto su quello che dobbiamo aspettarci da un’allegra ricostruzione: l’introduzione dei
metodi di Broadway sul Kurfürstendamm, che fin dagli anni ’20 se ne distingueva solo per
l’inferiorità dei mezzi, ma non per la superiorità degli scopi» (Th. W. Adorno, Ritorno alla
cultura, in Minima moralia)
• “L’idea che, dopo questa guerra la vita potrà riprendere «normalmente» o la cultura
«ricostruita» – come se la ricostruzione della cultura non fosse già la sua negazione – è
semplicemente «idiota». Milioni di ebrei sono stati assassinati. E questo dovrebbe essere un
semplice intermezzo, e non la catastrofe stessa. Che cosa aspetta ancora questa cultura?”
(Adorno, Minima moralia).
• «la vita si è trasformata in una successione atemporale di chochs, separati da intervalli vuoti,
paralizzati» (Ibidem).
• “Nach Auschwitz ein Gedicht zu schreiben, ist barbarisch”(«Scrivere una poesia dopo
Auschwitz è un atto di barbarie», T. W. Adorno, Critica della cultura e società, in Prismi.
Saggi sulla critica della cultura, trad. it. di C. Mainoldi, Einaudi, Torino 1972, p. 22).
• T. W. Adorno, Erziehung nach Auschwitz, in Id., Gesammelte Schriften, Vol. X, 2
(Kulturkritik und Gesellschaft II), op. cit.; T. W. Adorno, , Erziehung zur Mündigkeit.
10
Vorträge und Gespräche mit Hellmut Becker 1959-1969, a cura di G. Kadelbach, Suhrkamp,
Frankfurt a. M. 1971.
5. L’eredità culturale della Repubblica di Weimar. Gottfried Benn, Bertolt Brecht, Alfred Döblin,
Thomas Mann e Ernst Jünger dopo il 1945
• Durante il dodicennio nero, agli scrittori che non si allinearono al regime si prospettavano
due sole alternative:
1. l’esilio: Letterati intellettuali, artisti, pensatori di origine ebraica (Döblin, Peter Weiss,
Adorno, Horkheimer) e politicamente impegnati contro il regime (Thomas e Heinrich
Mann, Bertolt Brecht)
2. l’emigrazione interna: Gottfried Benn, Ernst Jünger, Frank Thiess e Arno Schmidt.
• “Là, dove si bruciano i libri, si finisce col bruciare anche gli uomini” [Heinrich Heine,
Almansor (1821), monumento al rogo del 10 maggio 1933 sul Bebelplatz a Berlino]
• Fine della guerra : le voci dell’esilio, dell’emigrazione interna e dell’opposizione cifrata al
regime dettero un impulso decisivo alla rinascita della letteratura tedesca dell’età
contemporanea.
• Obiettivo: ricostruire dalle fondamenta una cultura irrimediabilmente danneggiata dalla
cesura nazista. A questo progetto contribuirono anche autori più giovani, come Wolfgang
Borchert (1921-1947) e Heinrich Böll (1917-1985), che avevano avuto esperienza diretta
della guerra al fronte e si sarebbero imposti come voci della «letteratura delle macerie».
• “Nel 1945, […] in una situazione di tabula rasa, si era letteralmente abbandonati a se stessi:
non c’era assolutamente più nulla di positivo, nessun valore da rigettare – persino il
linguaggio era profanato. In tale situazione, la posa avanguardistica poteva apparire, tutt’al
più, una mascherata inoffensiva, un cinismo da burattino. Dov’era, ormai, il borghese contro
cui si potesse scendere in campo, dove si erano rifugiati i padri, di fronte ai quali si dovesse
propugnare la causa dei figli? Invece di misurarsi con gli avi, si cercava il loro aiuto e il loro
appoggio; sintesi, sembrava la grande parola del tempo; che rimaneva da fare, del resto,
poiché le mani erano vuote , se non andare a scuola dai maestri, imparare dall’estero, fare
propria la posizione degli emigrati?” (Walter Jens, Quattro tesi sulla letteratura tedesca
oggi, 1961).
• Gottfried Benn
•
Morgue, 1910
•
1933-1934: Presidenza della sezione poesia dell’Accademia Prussiana delle Arti
•
1935 -1945: medico fra le fila dell’«esercito», dove trovò la «forma aristocratica
dell’emigrazione» (G. Benn, Doppia vita, 1950).
•
«Poesia assoluta»: l’artista «vive solo per la sua sostanza interiore, è freddo, la sua materia
deve essere mantenuta fredda, egli infatti deve dare forma all'idea, alle ebbrezze cui gli altri
possono umanamente abbandonarsi [...]. È cinico e sostiene di non essere altro, mentre gli
11
idealisti siedono fra gli uomini di cultura e le classi produttive». (G. Benn, Doppia vita,
1950).
•
•
•
•
•
•
Statische Gedichte (Poesie statiche, 1948)
Trunkende Flut (Flutto ebbro, 1949)
Fragmente (Frammenti, 1951)
Distillationen (Distillazioni, 1953)
Aprèslude (1955)
Probleme der Lyrik (Problemi della lirica, 1951): «la poesia senza fede, la poesia senza
speranza, la poesia non diretta ad alcuno, la poesia fatta di parole che voi montate in maniera
affascinante».
G. Benn
Poesia statica, “smalto del nulla”
Staticità
è la profondità del saggio,
i figli e i figli dei figli
non lo toccano,
non possono turbarlo.
Professare opinioni,
agire,
arrivare e partire
sono il segno di un mondo
che non ha idee chiare.
Davanti alla mia finestra
– così dice il saggio –
c'è una valle
in cui si raccolgono le ombre,
due pioppi segnano la strada
tu sai – per dove.
Prospettivismo
è un'altra parola per la sua statica:
porre alcune linee,
continuarle
secondo legge di tralci –
sprizzare tralci –,
e stormi e corvi gettare
nel primo rosso di cieli di inverno,
e lasciar tutto cadere –
tu sai – per chi.
• “Artistik” di Benn: «il tentativo dell'arte, in mezzo alla generale decadenza dei contenuti, di
vivere se stessa come contenuto e di formare da questa esperienza un nuovo stile; è il
tentativo di contrapporre al generale nichilismo dei valori una nuova trascendenza: la
trascendenza del piacere creativo». (Benn, Problemi della lirica)
• Scrittori provenienti dall’esilio si insediarono nel settore orientale (Johannes R. Becher,
Anna Seghers e Arnold Zweig), quando non decisero di vivere in Svizzera come Th. Mann.
12
• Esponenti dell’emigrazione interna nella parte occidentale (Weinheber, Benn, Carossa,
Britting, Bergengruen, Schröder, Seidel e Jünger).
6. Il Kahlschlag
•
•
•
Kahlschlag, ovvero «disboscamento» della lingua tedesca dalla pompa retorica del nazismo.
Wolfgang Weyrauch (1904-1980) si avvalse per primo dell’ideale del Kahlschlag
applicandolo alla letteratura del dopoguerra nella postfazione all’antologia Tausend Gramm
(Cento grammi, 1949).
L’ideale del «disboscamento» aveva già trovato con la lirica di Günther Eich un modello da
seguire: Inventur (Inventario, 1948) apparsa per la prima volta nell’antologia Deine Söhne,
Europa (I tuoi figli, Europa) dedicata da Hans Werner Richter (1908-1993) alla poesia dei
detenuti nei campi di prigionia alleati.
Dies ist meine Mütze,
dies ist mein Mantel
hier mein Rasierzeug
im Beutel aus Leinen.
Questo è il mio berretto,
questo è il mio cappotto
qui le mie cose per fare la barba
nel sacco di lino.
Konservenbüchse:
Mein Teller, mein Becher,
ich hab in das Weißblech
den Namen geritzt.
Scatola di latta:
Il mio piatto, il mio bicchiere,
ho inciso sulla latta
il nome.
Geritzt hier mit diesem
kostbaren Nagel,
den vor begehrlichen
Augen ich berge.
Inciso con questo
prezioso chiodo
che nascondo
agli occhi invidiosi.
Im Brotbeutel sind
ein Paar wollene Socken
und einiges, was ich
niemand verrate,
Nel mio sacco ci sono
delle calze di lana
e altre cose
che non dico a nessuno,
so dient er als Kissen
nachts meinem Kopf.
Die Pappe hier liegt
zwischen mir und der Erde.
di notte fa da cuscino
alla mia testa.
Questo cartone
sta tra me e la terra.
Die Bleichstiftmine
lieb ich am meisten:
Tags schreibt sie mir Verse,
die nachts ich erdacht.
Ciò che amo di più
è la mina della matita:
di giorno mi scrive i versi
che ho pensato di notte.
Dies ist mein Notizbuch,
dies meine Zeltbahn,
dies ist mein Handtuch,
dies ist mein Zwirn.
Questo è il mio quaderno
Questa la mia tela,
questo il mio asciugamano,
questo è il mio refe.
7. Poesia della natura e dell’impegno politico
13
•
•
•
•
•
Bertolt Brecht
Svendborger Gedichte (Poesie di Svendborg, 1934)
Finnische Epigramme (Epigrammi finlandesi, 1941).
Bertolt Brecht: Buckower Elegien (Elegie di Buckow, 1953).
Schlechte Zeiten für Lyrik (Tempi grami per la lirica), composta in Danimarca nel 1938:
Lo so bene: solo chi è felice è amato. La sua voce
la si ascolta volentieri. Il suo volto è bello.
L’albero tutto storto nel cortile addita il suolo cattivo, ma
i passanti gli danno dello storpio e hanno ragione.
I battelli verdi e le allegre vele del Sund non vedo. Di tutto
vedo soltanto la rete sdrucita dei pescatori. Perché parlo solo di questo:
della bracciante che a quarant'anni cammina tutta curva? I seni delle ragazze
sono caldi come una volta.
Nel mio canto una rima
mi parrebbe quasi un atto protervo.
Dentro di me si affrontano l'entusiasmo per il melo in fiore
e l'orrore per i discorsi dell'imbianchino. Ma solo il secondo impulso
mi spinge alla scrivania.
•
Lirica di Brecht testimonia le due tendenze della poesia dopo Auschwitz: poesia della natura
e dell’impegno politico
•
Günter Kunert
•
•
•
•
•
Scetticismo nei confronti della possibilità dell’uomo di imparare dal passato.
Immagini apocalittiche tipiche della produzione del poeta:
Wegschilder und Mauerinschriften (Segnaletica e Scritte murali, 1950)
Warnung vor Spiegeln (Attenzione agli specchi, 1969).
La lirica di Kunert elegge in modo definitivo a proprio tema dominante le minacce insite
nella storia e nel progresso con la raccolta Verkündigung des Wetters (Annuncio del tempo,
1966), come testimonia Die niedrigen grünen Hügel:
Nel vento, cui nessuno porge ascolto, bisbigliano
le grida degli uccisi. Nel forno
sussurrano voci tanto atrocemente note quanto sconosciute.
Sulla città si raccoglie una nuvola: il
Passato…
•
Peter Huchel
•
•
•
•
Raccolta di liriche magico-naturalistiche Gedichte (Poesie, 1948)
Chaussen, Chaussen (Strade, strade, 1963)
Gezählte Tage (Giorni contati, 1972)
Die neunte Stunde (La nona ora, 1979)
A sera si appressan gli amici,
le ombre delle colline.
Incedono lente oltre la soglia,
17
oscurano il sale,
oscurano il pane,
e tengon discorsi col mio silenzio.
Fuori nell’acero
si muove il vento:
mia sorella, l’acqua piovana
nella conca calcarea,
imprigionata
insegue con gli occhi le nuvole.
Va con il vento,
dicon le ombre.
L’estate ti punta
la falce di ferro sul cuore.
va via, prima che nella foglia dell’acero
brucino le stimmate dell’autunno.
Sii fedele, dice la pietra.
Il mattino albeggiante
si alza, dove luce e fogliame
abitano l’un dentro l’altro
ed il viso svanisce in una fiamma.
8. Schreiben nach Auschwitz
• “Tutti noi, allora giovani poeti negli anni Cinquanta – ricordo qui a titolo esemplificativo
Peter Rühmkorf, Hans Magnus Enzensberger, anche Ingeborg Bachmann – eravamo consci,
al punto di esserne confusi, di non appartenere affatto come colpevoli alla ‘generazione di
Auschwitz’, ma di farne parte nelle circostanze dei colpevoli […]; ma di tanto eravamo
anche consci: che il precetto di Adorno – se mai – doveva essere confutato scrivendo”.
(G. Grass, Scrivere dopo Auschwitz, 1990).
•
•
•
•
•
•
•
Nelly Sachs (1891-1970)
In den Wohnungen des Todes (Nelle dimore della morte, 1947)
Sternverdunkelung (Oscuramento siderale, 1949)
Flucht und Verwandlung (Fuga e metamorfosi, 1959)
Fahrt ins Staublose. Gedichte (Al di là della polvere, 1961)
Zeichen im Sand (Segni sulla sabbia, 1962)
Chor der Geretteten (Coro dei superstiti) in Al di là della polvere:
Noi superstiti,
dalle nostre ossa la morte ha già intagliato i suoi flauti,
sui nostri tendini ha già passato il suo archetto –
I nostri corpi ancora si lamentano
Col loro canto mozzato.
Noi superstiti,
davanti a noi, nell’azzurra aria,
pendono ancora i lacci attorti per i nostri colli –
le clessidre si riempiono ancora del nostro sangue.
Noi superstiti,
18
ancora divorati dai vermi dell’angoscia –
la nostra stella è sepolta nella polvere.
Noi superstiti
Vi preghiamo:
mostrateci lentamente il vostro sole.
Guidateci piano di stella in stella.
Fateci di nuovo imparare la vita.
Altrimenti il canto di un uccello,
il secchio che si colma alla fontana
potrebbero far prorompere il dolore a stenti sigillato
e farci schiumar via –
Vi preghiamo:
non mostrateci ancora un cane che morde
potrebbe darsi, potrebbe darsi
che disfiamo in polvere
davanti ai nostri occhi.
Ma cosa tiene unita la nostra trama?
Noi, ormai senza respiro,
la nostra anima è volata a lui a mezzanotte
molto prima che il nostro corpo si salvasse
nell’arca dell’istante.
Noi superstiti,
stringiamo la vostra mano,
riconosciamo i vostri occhi –
ma solo l’addio ci tiene ancora uniti,
l’addio nella polvere
ci tiene uniti a voi.
•
Paul Celan (1920-1970)
•
•
•
Der Sand aus den Urnen (La sabbia dalla urne, 1948).
Mohn und Gedächtnis (Papavero e memoria, 1952)
Todesfuge in Papavero e memoria.
19
Paul Celan - Todesfuge
Schwarze Milch der Frühe wir trinken sie abends
wir trinken sie mittags und morgens wir trinken sie nachts
wir trinken und trinken
wir schaufeln ein Grab in den Lüften da liegt man nicht eng
Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den Schlangen der
schreibt
der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland dein goldenes
Haar Margarete
er schreibt es und tritt vor das Haus und es blitzen die Sterne
er pfeift seine Rüden herbei
er pfeift seine Juden hervor läßt schaufeln ein Grab in der
Erde
er befiehlt uns spielt auf nun zum Tanz
Nero latte dell’alba lo beviamo la sera
lo beviamo al meriggio e mattino lo beviamo la notte
beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell’aria nessuno sta stretto
un uomo abita la casa gioca con le serpi scrive
scrive appena fa buio in Germania d’oro i capelli Margaréte
lo scrive e cammina di fronte alla casa lo dicono
a lampi le stelle comanda col fischio i suoi lupi
stana col fischio gli ebrei a scavare una tomba nella terra
ordina adesso suonate adesso si balla
Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts
wir trinken dich morgens und mittags wir trinken dich abends
wir trinken und trinken
Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den Schlangen der
schreibt der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland dein
goldenes Haar Margarete
Dein aschenes Haar Sulamith wir schaufeln ein Grab in den
Lüften da liegt man nicht eng
Nero latte dell’alba ti beviamo alla sera
ti beviamo al meriggio e mattino ti beviamo la notte
beviamo e beviamo
un uomo abita la casa gioca con le serpi scrive
scrive appena fa buio in Germania d’oro i capelli Margaréte
di cenere i tuoi Sulamìt scaviamo una tomba
nell’aria nessuno sta stretto
Er ruft stecht tiefer ins Erdreich ihr einen ihr andern
singet und spielt
er greift nach dem Eisen im Gurt er schwingts seine Augen
sind blau
stecht tiefer die Spaten ihr einen ihr andern spielt weiter zum
Tanz auf
Grida più giù nella terra voi e voi cantate suonate
estrae dal fianco la spada la leva celesti i suoi occhi
più giù quelle zappe e voi e voi ancora suonate
si balla
Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts
wir trinken dich mittags und morgens wir trinken dich abends
wir trinken und trinken
ein Mann wohnt im Haus dein goldenes Haar Margarete
dein aschenes Haar Sulamith er spielt mit den Schlangen
Er ruft spielt süßer den Tod der Tod ist ein Meister aus
Deutschland
er ruft streicht dunkler die Geigen dann steigt ihr als Rauch in
die Luft
dann habt ihr ein Grab in den Wolken da liegt man nicht eng
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al meriggio e mattino ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
un uomo abita la casa d’oro i capelli Margarete
di cenere i tuoi Sulamìt gioca con le serpi
grida suonate più dolce la morte e la morte è Maestro
Tedesco
grida più a fondo i violini
ché andate nel fumo nell’aria
ché avrete una tomba per voi tra le nubi nessuno sta stretto
Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts
wir trinken dich mittags der Tod ist ein Meister aus
Deutschland
wir trinken dich abends und morgens wir trinken und trinken
der Tod ist ein Meister aus Deutschland sein Auge ist blau
er trifft dich mit bleierner Kugel er trifft dich genau
ein Mann wohnt im Haus dein goldenes Haar Margarete
er hetzt seine Rüden auf uns er schenkt uns ein Grab in der
Luft
er spielt mit den Schlangen und träumet der Tod ist ein
Meister aus Deutschland
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
beviamo al meriggio la morte è Maestro Tedesco
beviamo la sera e mattino beviamo e beviamo
la morte è Maestro Tedesco celesti i suoi occhi
ti coglie con palle di piombo preciso ti coglie
un uomo abita la casa d’oro i capelli Margaréte
aizza i suoi lupi su noi ci dona una tomba nell’aria
gioca con le serpi e sogna la morte è Maestro Tedesco
dein goldenes Haar Margarete
dein aschenes Haar Sulamith
D’oro i capelli Margaréte
di cenere i tuoi Sulamìt1
1
Paul Celan, Fuga della morte, in Papavero e memoria, in
Poesie, a cura e con un saggio introduttivo di Giuseppe
Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998, pp. 62-65.
20
• “Ammetterei volentieri, quasi come ho detto, che dopo Auschwitz non si possa più scrivere
alcuna poesia – frase con cui ho voluto indicare il vuoto della cultura risorta –, d'altra parte, si
debbono però ancora scrivere delle poesie, […] finché tra gli uomini c'è una coscienza del
dolore, ci deve essere appunto anche l'arte come forma oggettiva di questa coscienza”. (Theodor
W. Adorno, Metafisica. Concetto e Problemi).
• «Il dire che dopo Auschwitz non si possono scrivere più poesie non ha validità assoluta, è
però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile,
non ci si può più immaginare un’arte serena» (Theodor W. Adorno, Note sulla letteratura 19611968).
• «il dolore che si perpetua ha lo stesso diritto a esprimersi che ha il martoriato a urlare; può
dunque essere sbagliato affermare che dopo Auschwitz non si potrebbero più scrivere poesie»,
Theodor W. Adorno, Dialettica negativa)
• Von Schwelle zu Schwelle (Di soglia in soglia, 1955).
• Sprachgitter (Grata di parole, 1959),
• Niemandsrose (La rosa di nessuno, 1963)
• Atemwende (Svolta del respiro, 1967)
• Weggebeizt (Corrosa e scancellata, 1967) di Svolta del respiro:
In fondo
al crepaccio del tempo,
presso il favo di ghiaccio,
attende, cristallo di respiro,
la tua irrefutabile
testimonianza.
• «cristallini angeli di lettere» (Così Nelly Sachs, si riferì in una lettera a Celan del 3.9.1959 al
linguaggio di Grata di Parola)
• «le mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte» (Celan, Il meridiano, 1960)
• “il Lenz büchneriano, la büchneriana figura, la persona che avevamo avuto modi di
conoscere nella prima pagina del racconto, il Lenz che «al 20 di gennaio andava attraverso i
monti», egli – non l’artista, non il disputante su cose dell’Arte, egli in quanto un io” (Celan,
Il meridiano, 1960) .
• Tübingen, Jänner (Tubinga, Gennaio, 1961), apparsa ne La rosa di nessuno, in cui Celan si
riferisce a Friedrich Hölderlin:
21
Tübingen, Jänner
Zur Blindheit über
redete Augen.
Ihre - ‘ein
Rätsel ist Reinentsprungenes’–, ihre
Erinnerung an
schwimmende Hölderlintürme, möwenumschwirrt.
A cecità convinti occhi.
Il loro – “enigma
è un’origine pura” – , il loro
ricordo di
torri Hölderlin riflesse, tra
gabbiani sfreccianti.
Besuche ertrunkener Schreiner bei
diesen
tauchenden Worten:
Visite di marangoni affogati
con queste inabissanti
parole:
Käme,
käme ein Mensch,
käme ein Mensch zur Welt, heute, mit
dem Lichtbart der
Patriarchen: er dürfte,
spräch er von dieser
Zeit, er
dürfte
nur lallen und lallen,
immer-, immerzuzu.
Venisse,
venisse un uomo,
venisse al mondo un uomo al mondo,
oggi,
con la barba di luce che fu
dei patriarchi: potrebbe,
se parlasse di questo
tempo, solamente
bal- balbettare
conti-, conti-,
nuamente, mente.
(‘Pallaksch. Pallaksch.’)
(“Pallaksch. Pallaksch.”)
22
• « sono incontri, vie che una voce percorre incontro a un tu che la percepisce, vie creaturali,
forse progetti di esistenza, un proiettarsi oltre di sé per trovare se stessi, una ricerca di se
stessi … un rimpatrio» (Celan, Il meridiano, 1960)
9. Luoghi della memoria
•
Glas (1974) di Jacques Derrida: “monumémoire” = lo spazio mentale in cui vengono
involontariamente preservati i ricordi di un evento.
•
Les lieux de mémoire (1984-1992) di Pierre Nora
•
Tre tipologie di “luoghi della memoria”:
1) luoghi materiali: i monumenti, i musei, gli archivi e le biblioteche, ovvero quegli
spazi delimitati nei quali prevale la relazione della memoria con la storia; detto con
le parole di Nora i “luoghi materiali” rappresentano “la materia di cui è costituita la
storia”. Anche i luoghi commemorativi, come i memoriali e i cimiteri di guerra,
rientrano in questa prima suddivisione, seppure con differenti accezioni religiose e
sacrali in base all’episodio collettivo che sono chiamati a ricordare. “Si tratta, qui, di
testi della memoria culturale, di ‘mnemotopi’,” (Jan Assmann) che contribuiscono
alla fondazione dell’identità nazionale e hanno anche una funzione pedagogica, nel
momento in cui, gettando luce sul passato, hanno il compito di istruire le generazioni
future.
2) luoghi simbolici: gli anniversari e i pellegrinaggi che hanno lo scopo di cartografare
la geografia mentale del ricordo di una collettività. Questi luoghi astratti intendono
rievocare episodi fondativi dell’identità nazionale e, per questo motivo, si
richiamano alle intuizioni di Walter Benjamin relative al verbo “Eindenken”, inteso
come atto di “rimemorazione” con intensa partecipazione emotiva di momenti
importanti del vissuto soggettivo o collettivo. Essi trovano anche corrispondenza
nella lezione di Paul Ricoeur relativa al “tempo del calendario”, secondo la quale
l’iterazione a scadenze fisse della commemorazione di avvenimenti ha il compito di
sedimentarne il ricordo dell’accadimento stesso nella memoria collettiva di un
determinato gruppo sociale.
3) luoghi funzionali: le autobiografie, i diari collettivi, ‘volumi di inchiesta’ che
problematizzano la relazione fra memoria e scrittura, dall’altro, le istallazioni, i film,
i radiodrammi (Wolfgang Borchert, Draussen vor der Tür, 1947), le rappresentazioni
teatrali e le esposizioni artificialmente allestite per ricordare un evento (Pietre
d’inciampo / museo ebraico: faccette). Per la prima tipologia di “luoghi funzionali”
della memoria un esempio paradigmatico è riconoscibile in Haben Sie davon
gewusst? e nei diari collettivi, relativi ad episodi cruciali della seconda guerra
mondiale, del progetto-Echolot (1993-2005) di Walter Kempowski. Sono per la
seconda è indicativo il monumentale film Shoah (1985) di Claude Lanzmann
(LaCapra 1998, pp. 95-138).
•
Spazi urbani come Berlino, Dresda, Amburgo, Londra e Coventry si impongono
all’attenzione della cultura contemporanea come luoghi della memoria controversa,
23
soprattutto per il fatto che “gli abitanti di una città prestano un’attenzione sicuramente molto
diseguale al suo aspetto materiale” (M. Halbwachs, La mémoire collective 1950). Sui luoghi
metropolitani, che sono stati teatro della distruzione causata dal secondo conflitto mondiale,
si sono, infatti, sedimentate stratificazioni di diverse memorie di gruppo: vincitori e vinti,
vittime e carnefici (Assman, Frevert, Geschichtsvergessenheit - Geschichtsversessenheit:
Vom Umgang mit deutschen Vergangenheiten nach 1945:
1)
2)
3)
4)
Opfergedächtins
Tätergedächtnis
Verlierergedächtnis
Sigergedächtnis
•
In questi luoghi si impone una modalità diversa per interrogare e ritrovare il tempo perduto,
andandolo a cercare soprattutto nelle ferite ancora aperte del paesaggio, nelle fratture, nei
suoi spazi vuoti che, con i loro silenzi carichi di assenza, con il loro senso di precarietà,
sanno evocare allusivamente ciò che non è più e richiamarlo dentro il presente.
•
L’operazione di recupero dei ricordi latenti nei luoghi della memoria è possibile affidandosi
all’aiuto di quegli “stabilizzatori di memoria” che Aleida Assmann, in un recente contributo
intitolato per l’appunto Three Stabilizers of Memory: Affect - Symbol - Trauma (2003), ha
individuato nell’emozione, nel simbolo e nel trauma.
•
Fra i lieux de mémoire, Auschwitz ricopre una posizione centrale, in quanto bacino
paradigmatico di cristallizzazione della “memoria delle vittime” della storia. Luogo della
memoria fisico e simbolico del più efferato crimine contro l’umanità, Auschwitz ha assunto
diverse declinazioni nella scrittura del dopoguerra, che si è riproposta di attribuire al ricordo
di questo campo di concentramento il valore di monito per il futuro.
•
Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone (1998) di Giorgio Agamben: “zona
grigia” in cui, argomentando in merito alle modalità proposte da Primo Levi per
testimoniare la Shoah, è riconosciuto un luogo “in cui si sonda la ‘lunga catena di
congiunzione fra vittima e carnefici’, dove l’oppresso diventa oppressore e il carnefice
appare a sua volta come vittima”. A fronte dell’esistenza di questa “zona di irresponsabilità
e di ‘impotentia judicandi’”, lo studio di Agamben approda a sancire l’impossibilità di
documentare la Shoah. Secondo Agamben, la vera testimonianza relativa alla persecuzione
degli ebrei sarebbe custodita dai milioni di innocenti sterminati dai nazisti nelle camere a
gas dei campi di concentramento.
•
1965: Peter Weiss ha ricostruito nella pièce teatrale Die Ermittlung. Oratorium in 11
Gesängen, ovvero in un “luogo funzionale” della memoria, la topografia del campo di
Auschwitz.
•
•
•
Modello dantesco della Divina commedia e collocando in spazi fisicamente delimitati le
vittime, i carnefici e i fiancheggiatori della Shoah.
Questi luoghi materiali del ricordo, come la banchina di arrivo dei treni speciali immagine con cui si apre l’opera di Weiss -, non sono però entrati nella memoria
collettiva e culturale solamente attraverso le testimonianze dei sopravvissuti, ma anche
tramite i documenti ufficiali e i protocolli nazisti relativi alla Shoah.
Come lo scrittore ha compreso, è possibile ricostruire il ricordo effettivo della
persecuzione ebraica a patto che ci si affidi alla sinergia fra fonti storico-documentarie
24
•
•
d’archivio (“luoghi materiali”) e memorie collettive (“luoghi simbolici”); significativo
che Weiss si sia avvalso della voce dei sopravvissuti e dei carnefici, dopo averla ascoltata
come auditore ai processi di Francoforte celebrati fra il 1963 e il 1965, per descrivere
Auschwitz in una forma letteraria che oscilla fra l’allegoria e il protocollo.
Undici canti, in cui la pièce è strutturata, si svolgono così in luoghi differenti del campo
di concentramento che si caricano di un valore simbolico e/o traumatico, che differisce in
base al fruitore della rappresentazione (Il giudice, il difensore, il procuratore, diciotto
accusati e nove testimoni anonimi, ognuno dei quali impersona piú di un testimone
reale):
1) il canto della banchina descrive l'arrivo ad Auschwitz dei treni piombati e la
successiva selezione dei prigionieri tra coloro che furono destinati alla morte
immediata e quelli destinati al lager;
2) il canto del lager è la panoramica del campo, descritto tecnicamente nelle sue
installazioni e dimensioni, con freddezza documentaristica;
3) il canto dell'altalena descrive alcune delle innumerevoli torture, tra cui quella del
titolo, particolarmente crudele;
4) il canto della possibilità di sopravvivere descrive i meccanismi con cui ad alcuni
era data possibilità di rimandare la propria morte, in cambio di un certo grado di
collaborazione con i carnefici;
5) il canto della fine di Lili Tofler, unica tra le vittime a mantenere nel testo la
propria identità, acquistando una valenza simbolica;
6) il canto del sottufficiale Stark descrive i crimini di questo militare, che partecipò
alle selezioni, gassificazioni e fucilazioni, e il suo atteggiamento durante il
processo, in cui rifiutò ogni critica al suo operato.
7) il canto della parete nera si riferisce al muro utilizzato per le fucilazioni;
8) il canto del fenolo descrive le sperimentazioni dolorosissime effettuate sui
prigionieri e le iniezioni mortali di fenolo;
9) il canto del bunkerblok descrive i canili utilizzati come celle di punizione, in cui i
detenuti venivano rinchiusi fino alla morte;
10) il canto del Zyklon B descrive le camere a gas;
11) il canto dei forni descrive la cremazione dei cadaveri.
12)
Le scene di Die Ermittlung di Weiss veicolano così con particolare efficacia il carattere
liminale dei luoghi della memoria, che assumono connotazioni differenti a seconda del
soggetto o del gruppo sociale che si rapportano ad essi.
•
i reparti di guardia
ricevere cibo e caffè
da personale femminile
I nostri bambini non si lamentavano più
quando l’ultima notte passammo
dalla linea principale in un binario di raccordo
Avanzammo su un terreno piano
illuminato da riflettori
Poi ci accostammo a un edificio allungato
che sembrava un fienile
C’era una torre
e sotto un portale ad arco
Prima d’oltrepassare il portale
la locomotiva fischiò
II treno si fermò
CANTO DELLA BANCHINA
TESTIMONE 3
Viaggiammo 5 giorni
Il secondo giorno
avevamo esaurito le provviste
Nel carro eravamo 89
più valige e fagotti
Facevamo i nostri bisogni
sulla paglia
Avevamo molti malati
e 8 morti
Dalle prese d’aria
potevamo vedere nelle stazioni
25
Gli sportelli dei carri furono spalancati
Comparvero Häftlingecon vestiti a strisce
e ci gridarono
Fuori svelti svelti
II dislivello era d’un metro e mezzo
C’era pietrisco
I vecchi e i malati cadevano
sui sassi taglienti
Morti e bagagli furono scaraventati fuori
Poi ordinarono
Non toccate nulla
Donne e bambini di qua
Uomini dall’altra parte
Persi di vista la mia famiglia
La gente gridava dappertutto
i nomi dei congiunti
Li investivano a colpi di bastone
I cani abbaiavano
Dalle torri di guardia
proiettori e mitragliatrici
erano puntati su noi
In fondo alla banchina
il ciclo era colorato di rosso
L’aria era piena di fumo
Un fumo riarso e dolciastro
Era il fumo
che da allora in poi sarebbe rimasto
caricare sui camion
e ci rallegrammo che andasse così
Noi dovemmo continuare a piedi
su strade fangose
TESTIMONE 5
Tenevo per mano il bimbo
di mia cognata Lei portava in braccio il figliolo
più piccolo
Mi si accostò uno Haftling
e mi chiese se il bimbo era mio
Risposi di no e quello disse
che dovevo darlo alla madre
Lo feci pensando
forse la madre è trattata meglio
Quelli andarono tutti a sinistra
io andai a destra
L’ufficiale che ci aveva diviso
era molto gentile
Gli chiesi
dove andavano gli altri
rispose
Vanno a fare il bagno
tra un’ora vi rivedrete
giudice
Signora testimone
Può indicarci l’imputato
Dottor Capesius
TESTIMONE 4
Sentii mio marito
chiamarmi ancora una volta
Fummo messi in riga
e non potemmo cambiare più posto
Eravamo un gruppo
di 100 donne e bambini
Ci misero in fila per cinque
Poi dovemmo passare
davanti a degli ufficiali
Uno di essi teneva la mano all’altezza del petto
e con il dito faceva segno
a sinistra e a destra
I bambini e le donne anziane
andavano a sinistra
io andai a destra
Il gruppo di sinistra dové traversare i binari
e incamminarsi lungo una strada
Per un attimo vidi mia madre
coi bimbi
fui tranquilla pensai
una volta ci ritroveremo
Una donna vicino a me disse
Quelli avranno un trattamento di favore
Indicò i camion
fermi sulla strada
un’auto della Croce Rossa
Li vedemmo
GIUDICE
Signora testimone
Può indicarci l’imputato
Dottor Capesius
sa chi era quell’ufficiale
TESTIMONE 5
Seppi in seguito
che si chiamava dottor Capesius giudice
Signora testimone può indicarci l’imputato dottor
Capesius
TESTIMONE 5
Se guardo quelle facce m’è difficile dire di
riconoscerle Ma quel signore là non mi è
sconosciuto giudice. Come si chiama?
TESTIMONE 5
Dottor Capesius
IMPUTATO 3
La testimone deve
scambiarmi per un altro
Io non feci mai selezioni
sulla banchina.
TESTIMONE 6
24
Conoscevo il dottor Capesius
dal mio luogo d’origine
Lavoravo là come medico
e prima della guerra m’aveva visitato parecchie
volte
come rappresentante della Bayer
Lo salutai e gli chiesi
cosa sarebbe stato di noi
Disse
Andrà tutto bene
Gli dissi
che mia moglie non era in buone condizioni
Allora si metta qui
•
disse lui
Qui la cureranno
E indicò il gruppo
dei vecchi e dei malati
Dissi a mia moglie
Va’ là e mettiti in fila
Lei andò con la nipote
e qualche altro parente
verso il gruppo dei malati
Partirono tutti su camion
giudice
Lei non ha dubbi
che si trattasse del dottor Capesius
Shoah (1985): insuperata rappresentazione cinematografica di Claude Lanzmann della
persecuzione degli ebrei
1) dialogo e sovrapposizione di voci dei testimoni dell’Olocausto.
2) Auschwitz si connota come luogo della memoria attraverso la sinergia dei ricordi
dei tedeschi, che hanno partecipato attivamente allo sterminio, degli ebrei, che sono
sopravvissuti dall’Olocausto, e dei polacchi, che hanno assistito ai crimini del
nazismo in silenzio.
•
Come dimostrano questi due esempi, attorno ad Auschwitz si sono cristallizzate memorie
collettive di gruppi differenti, ma l’indecidibilità semantica di questo luogo della memoria
non dipende solamente dalla compresenza di tali sedimentazioni di ricordi. L’eccezionalità
di Auschwitz, inteso come lieu de mémoire, risiede paradossalmente in ciò che non è mai
stato ricordato e che non potrà mai esserlo. Alle memorie collettive di coloro che vissero nel
campo da carnefici e da torturati, si deve aggiungere quella dei testimoni radicali della
Shoah, cioè degli ebrei che non tornarono da Auschwitz. In questo spazio simbolico del non
detto e dell’indicibile, in limine fra “luogo della memoria” e “di transito” risiede l’unicità di
Auschwitz.
10. W.G. Sebald: Storia naturale della distruzione (1999) e Austerlitz (2001)
• Kurt Gerron, Hitler schenkt den Juden eine Stadt, 1944
• Charles Lewinsky, Un regalo del Führer (Einaudi, 2014)
• «Quel giorno [...] Austerlitz parlò ancora a lungo delle tracce di sofferenza che, come lui
dava per certo, attraversano la storia con infinite linee sottili» (Austerlitz, op. cit., p. 21)
• “Così, ad esempio, la tecnica della fortificazione, per cui Anversa fornisce uno dei modelli
più straordinari, ci mostra anche a chiare lettere come noi, per premunirci contro l’irruzione
delle forze nemiche, siamo costretti a circondarci, in fasi successive, di sempre nuove opere
di difesa, e questo finché l’idea degli anelli concentrici, che si spostano vieppiù all’esterno,
non urta nei suoi limiti naturali”. (W.G. Sebald, Austerlitz, p. 21.
•
•
• A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del
passato, e tuttavia ho sempre più l’impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano
25
soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra
i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d’animo, e
quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo
agli occhi dei morti l’aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni
atmosferiche e di luce”. (W.G. Sebald, Austerlitz, p. 199).
• W. G. Sebald, Gli anelli di Saturno. Un pellegrinaggio in Inghilterra, pp. 39-40: «Non
appena capì di dove ero, iniziò a raccontare che, negli ultimi anni di scuola e nel successivo
periodo di apprendistato niente lo aveva appassionato di più delle incursioni aeree contro la
Germania che partivano dai sessantasette campi d’aviazione predisposti dopo il 1940 in East
Anglia. Ormai, diceva Hazel, non si ha più un’idea esatta delle dimensioni di quell’impresa.
[…] Addirittura, quando all’inizio degli anni cinquanta mi trovavo a Lüneburg con le truppe
di occupazione, appresi il tedesco in qualche misura, per poter leggere i resoconti scritti dai
tedeschi stessi sulle incursioni aeree e sulla vita nelle città distrutte. Con mio grande stupore
dovetti in seguito constatare che la ricerca di tali cronache non portava mai a nessun
risultato. Sembra che nessuno allora abbia sentito o ricordato qualcosa. E anche se si
chiedeva alla gente, era come se nelle loro teste fosse stato cancellato tutto».
• «Ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza in una zona che si estende lungo il margine
settentrionale delle Alpi, zona largamente risparmiata dalle immediate conseguenze delle
cosiddette operazioni militari. Alla fine della guerra avevo appena un anno ed è quindi
difficile che, di quell’epoca segnata dalla distruzione, io possa avere serbato impressioni
fondate su eventi reali. Eppure ancora oggi, quando guardo fotografie o documentari del
periodo bellico, ho come la sensazione di esserne il figlio, come se di là, da quegli orrori che
non ho vissuto, cadesse su di me un’ombra alla quale non potrò mai sfuggire del tutto». (W.
G. Sebald, Storia naturale della distruzione, p. 74-75)
• W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione, p. 77: «Tali sono gli abissi della Storia:
tutto vi giace alla rinfusa e, se si cala lo sguardo per arrivare al fondo, si è colti da un senso
di orrore e di vertigine».
•
W. G. Sebald Vertigini, op. cit., p. 166: «In quasi tutti i cinegiornali, poi, si vedevano i
cumuli di macerie di cui erano disseminate città come Amburgo e Berlino, e che per lungo
tempo non avevo collegato ai bombardamenti degli ultimi anni di guerra, dei quali io nulla
sapevo, ritenendoli piuttosto una circostanza per così dire naturale, tipica delle grandi città».
• «Ci spostammo dalla stazione centrale verso Marienplatz e mi ricordo di avere percorso
l’intero tragitto passando per lo Stachus attraverso montagne di macerie e che questi mucchi
di detriti erano molto alti, sempre dalla prospettiva di un bambino; e che né mio padre né
alcun altro ha speso una parola a tale riguardo. Perciò l’ho sempre ritenuta una condizione
naturale delle grandi città». (V. Hage, Hitlers pyromanische Phantasien: W. G. Sebald, in
Id., Zeugen der Zerstörung. Die Literaten und der Luftkrieg, p. 261).
• W. G. Sebald, Gli emigrati, pp. 33-34: «Nel dicembre 1952 noi ci trasferimmo dal villaggio
W. nella cittadina di S., a diciannove chilometri di distanza. […] Quando infine
attraversammo il ponte sull’Ach entrando a S., che allora non era ancora affatto una città
vera e propria, ma semplicemente una borgata un po’ migliore, di forse novemila abitanti,
ero ricolmo della chiarissima sensazione che lì per noi avrebbe avuto inizio una vita nuova,
dinamica e metropolitana, i cui segni infallibili credetti di riconoscere nei cartelli stradali
smaltati in blu, nell’orologio gigantesco del vecchio edificio della stazione e nella facciata,
per me assolutamente imponente, del Wittelsbacher Hof. Particolarmente promettente
24
tuttavia mi sembrò il fatto che le file delle case fossero interrotte qua e là da terreni ricoperti
di rovine, perché nulla, da quando ero stato una volta a Monaco, si collegava per me
chiaramente alla parola città quanto le macerie, i muri bruciati e i vani delle finestre
attraverso i quali si poteva vedere l’aria vuota».
• Realismo magico
(Hermann Kasack, Hans Erich Nossack, Gert Ledig e Peter de Mendelssohn)
• Realismo
(Wolfgang Koeppen, Heinrich Böll, Martin Walser, Günter Grass e gli esponenti della
celebre “Gruppe 47” riunitasi attorno a Hans Werner Richter)
• Documentarismo
(Peter Weiss e Alexander Kluge)
• Sperimentazione
(Helmut Heißenbüttel, Hans Magnus Enzensberger e Friedrich Dürrenmatt).
• Hermann Kasack, Die Stadt hinter dem Strom. Eine Selbstkritik [1947], Frankfurt a. M.
1978, trad. it., La città oltre il fiume, Milano 1952.
• Hans Erich Nossack, Nekyia. Bericht eines Überlebenden [1947], Frankfurt a. M. 2000.
• Gert Ledig, Vergeltung, Frankfurt a. Main 1952.
• Peter De Mendelssohn, Die Kathedrale, Hamburg 1983.
• «L’azione di distruzione, senza precedenti nella Storia fino allora, è entrata negli annali della
nazione che si stava ricostruendo soltanto in forma di vaga generalizzazione, sembra quasi
non avere lasciato traccia di dolore nella coscienza collettiva, è rimasta esclusa
completamente dall’autocoscienza retrospettiva dei testimoni, non ha mai avuto un ruolo di
rilievo nelle discussioni sviluppatesi sulla struttura interna del nostro Paese, non è mai, come
avrebbe poi costatato Alexander Kluge, diventata una cifra leggibile pubblicamente; un fatto
del tutto paradossale, se si pensa a quante persone giorno dopo giorno, mese dopo mese,
anno dopo anno furono esposte a questa campagna». (W. G. Sebald, Storia naturale della
distruzione [1999], Milano 2004, p. 12)
• «Invece di provare rimorso per la colpa che gravava, invece di provare vergogna e dolore
per l’offesa e la perdita dei propri ideali, i tedeschi avrebbero rinnegato il loro passato,
voltandogli emotivamente le spalle, e investito tutte le energie nella ricostruzione del loro
Paese distrutto. La mancata rielaborazione del lutto avrebbe tuttavia generato un
immobilismo psicologico che con effetto paralizzante avrebbe influenzato nel presente la
vita politica». (G. Butzer, Fehlende Trauer. Verfahren epischen Erinnerns in der
deutschsprachigen Gegenwartsliteratur, München 1998, p. 49).
• «Il lutto è un processo psichico in cui un individuo impara lentamente a sopportare e
rielaborare la perdita attraverso l’aiuto di un ripetuto e doloroso processo di rimemorazione,
per essere in grado poi di riallacciare rapporti vitali con le persone e le cose del suo
ambiente». (M. Mitscherlich, Erinnerungsarbeit. Zur Psychoanalyse der Unfähigkeit zu
trauern, Frankfurt a. M. 1987, p. 114)
• A. Kluge, Geschichte und Eigensinn, Frankfurt a. M. 1981.
• H. M. Enzensberger, Europa in Trümmern. Augenzeugenberichte aus den Jahren 19441948, Frankfurt a. M. 1990.
25
• A. Döblin, Schicksalsreise. Bericht und Bekenntnis, Solothurn/Düsseldorf 1993.
•
«In virtù di una tacita intesa, per tutti valida allo stesso modo, lo stato di annichilimento
materiale e morale in cui versava l’intero paese, non doveva essere descritto. L’atto
conclusivo della distruzione – quale fu vissuto dalla quasi totalità dei tedeschi – restò così,
nei suoi aspetti più foschi, un infamante segreto di famiglia, su cui gravava una sorta di tabù,
un segreto che probabilmente non si poteva confessare nemmeno a se stessi». (W. G.
Sebald, Storia naturale della distruzione, op. cit., p. 23)
• «Già durante la notte e alle prime luci dell’alba erano arrivati i primi sfollati. Alcuni scalzi e
in pigiama, così come erano saltati dal letto per scappare in strada. Con sé portavano un
silenzio sinistro. Nessuno osava dare domande mentre sedevano muti sul ciglio della strada.
Anche solo a volere offrire loro aiuto sembrava di fare troppo rumore. […] Non si sentiva
un lamento, non una lacrima, scendevano senza una parola e si lasciavano condurre via».
(H. E. Nossack, La fine. Amburgo 1943 [1948], Bologna 2006, p. 49).
• «Queste opere compilatorie servirono […] a depurare o smaltire un sapere eccedente le
normali capacità di un’intelligenza media e non a comprendere meglio quale incredibile
bravura nell’anestetizzare se stessa avesse dimostrato una comunità che pareva uscita da
quella guerra di annientamento senza particolari danni psicologici». (W. G. Sebald, Storia
naturale della distruzione, op. cit., p. 24)
• «la corrente di energia psichica […] che ha la sua fonte nel segreto – di cui nessuno parla –
dei cadaveri murati nelle fondamenta del nostro edificio statale: un segreto che compattò
strettamente i tedeschi nei primi anni del dopoguerra e che ancor oggi li unisce più di quanto
non sia mai riuscito a fare un fine positivo, quale potrebbe essere, ad esempio, la
realizzazione della democrazia».
(W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione, op.
cit., p. 25)
• Si tratta di romanzi «dei mondi lemurici», in cui «i traumi, iscrivendosi nel corpo e così
pregiudicando la verbalizzazione dell’esperienza fisica e mnemonica, riemergono
nell’individuo come risultato della rimozione del dolore in sintomi come l’insonnia, le
allucinazioni, gli stati di trance, la depressione, ma anche la cecità e la sordità». (L. Mittner,
Storia della letteratura tedesca, III [Dal fine secolo alla sperimentazione (1890-1970)],
Torino 1978, S. 1566)
• Documentarismo
• Alexander Kluge, Der Luftangriff auf Halberstadt am 8. April 1945, in Id., Neue
Geschichten. Hefte 1-18 ›Unheimlichkeit der Zeit‹, Frankfurt a. M. 1977; trad. it.
L’incursione aerea su Halberstadt. 8 aprile 1945, in A. Kluge, Nuove Storie. Spaesato nel
tempo, Milano 1982.
• V. Klemperer, Ich will Zeugnis ablegen bis zum letzten – Tagebücher 1942-1945, Berlin
1995; trad. it., Testimoniare fino all’ultimo. Diari 1933-1945, Milano 2000.
• Friedrich Reck, Tagebücher eines Verzweifelten, Frankfurt a. M. 1994.
•
Stig Dagerman, German Autumn, London1988.
• Solly Zuckerman, From Apes to Warlords, London 1978.
26
• «Da che cosa sarebbe dovuta cominciare una storia naturale della distruzione? Da uno
sguardo d’insieme sulle premesse tecniche, organizzative e politiche che consentono di
realizzare attacchi aerei su larga scala? O da una descrizione scientifica del fenomeno – sino
allora sconosciuto – delle tempeste di fuoco, che tracciasse la mappa, in termini patologici,
delle specifiche cause di morte? Oppure da studi comportamentali sull’istinto di fuga e su
quello del ritorno?» (W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione, op. cit., p. 43).
• «Ratti e mosche avevano preso possesso della città. Pingui e insolenti, i ratti scorrazzavano
per le strade. Ma ancora più disgustose erano le mosche. Grosse, di un verde iridescente,
come mai si erano viste. A Grumi si voltolavano sul selciato, so posavano sulle rovine per
accoppiasi e si riscaldavano, pigre e satolle, sui vetri in frantumi delle finestre. Quando
ormai non riuscivano più a levarsi in volo, strisciavano dietro di noi attraverso le piccole
crepe, imbrattando ogni cosa. E a colpirci per primi l’udito al nostro risveglio erano il loro
fruscio e il loro ronzio. Andò avanti così fino a ottobre» (H. E. Nossack, La fine. Amburgo
1943, op. cit., p. 80).
• «E poi quell’odore di suppellettili carbonizzate, di marcio e di putrefazione che aleggiava
sulla città. Un odore che era visibile nella forma di una polvere di malta secca e rossiccia
che soffiava sopra ogni cosa. Dentro di noi si svegliò d’improvviso un desiderio di
profumo» (H. E. Nossack, La fine. Amburgo 1943, op. cit., p. 80).
• Heinrich Böll, Bekenntnis zur Trümmerliteratur [1952], in Id., Zur Verteidigung der
Waschküchen. Schriften und Reden 1952-1959, München 1985 trad. it., Adesione alla
letteratura delle macerie, in H. Böll, Rosa e Dinamite. Scritti di politica e di letteratura
1952-1976, Torino 1979
• Heinrich Böll, Der Engel schwieg. Roman, Köln1992; trad. it., L’angelo tacque, Torino
1996.
• Realismo – Gruppo 47
• Settembre 1947: incontro Hans Werner Richter e Alfred Andersch
• Kahlschlag, ovvero «disboscamento» della lingua tedesca dalla pompa retorica del nazismo.
• Wolfgang Weyrauch (1904-1980) si avvalse per primo dell’ideale del Kahlschlag
applicandolo alla letteratura del dopoguerra nella postfazione all’antologia Tausend Gramm
(Cento grammi, 1949).
• L’ideale del «disboscamento» aveva già trovato con la lirica di Günther Eich un modello da
seguire: Inventur (Inventario, 1948) apparsa per la prima volta nell’antologia Deine Söhne,
Europa (I tuoi figli, Europa) dedicata da Hans Werner Richter (1908-1993) alla poesia dei
detenuti nei campi di prigionia alleati.
• I primi tentativi letterari della nostra generazione dopo il 1945 sono stati definiti letteratura
delle macerie, e con questa etichetta si è cercato di liquidarli. Noi non ci sia-mo opposti a
tale qualifica, perché era giustificata: effettivamente gli uomini di cui scrivevamo vivevano
tra le macerie, tornavano dalla guerra, uomini e donne feriti nella stessa misura, anche
bambini. […] Scrivemmo dunque sulla guerra, sul ritorno a casa e su ciò che avevamo visto
durante la guerra e che trovavamo tornando a casa: ed erano macerie. Ne nacquero tre
slogan, che vennero affibbiati alla giovane letteratura: letteratura di guerra, del reduci e delle
macerie. (H. Böll, Adesione alla letteratura delle macerie, in Id., Opere scelte, vol. ii, a
cura e con un saggio introduttivo di L. Borghese, Mondadori, Milano 2000, p. 749).
27
•
•
•
•
•
Wanderer kommst du nach Spa… (Viandante, se giungi a Spa…, 1950)
Und sagte kein einziges Wort (E non disse nemmeno una parola, 1953)
Dr. Murkes gesammeltes Schweigen (Il silenzio raccolto del dottor Murke, 1958)
Haus ohne Hüter (Casa senza custode, 1954)
Das Brot der frühen Jahre (il pane degli anni verdi, 1955)
• Ideale dello «Einfachwerden», il «diventare semplici» per essere accessibile al lettore di
qualsiasi strato sociale, e muovendo alla ricerca di «una lingua abitabile in un paese
abitabile», Böll scrive questo suo romanzo che possiede appieno le caratteristiche della
«letteratura delle macerie»: da un lato, esso ricorre a un paesaggio urbano in rovina i cui
abitanti praticano una morale dubbia e, dall’altro, si richiama al destino dei soldati mandati
alla guerra. (Id., Lezioni francofortesi, trad. it. di M. Maderna, Linea D’Ombra, Milano
1990, p. 37)
• Billiard um halb zehn (Biliardo alle nove e mezzo 1959)
• Ansichten eines Clowns (Opinioni di un Clown, 1963)
• Gruppenbild mit Dame (Foto di gruppo con signora, 1971)
•
•
•
•
•
1959: svolta del romanzo
Biliardo alle nove e mezzo di Heinrich Böll
Halbzeit (Dopo l’intervallo) di Martin Walser
Mutmaßungen über Jakob (Con-getture su Jakob) di Uwe Johnson
Die Blechtrommel (Il tamburo di latta) di Günter Grass
• «Ma forse nulla è più fatale per l’avvenire del fatto che, letteralmente, presto nessuno sarà
più in grado di ripensarci, perché ogni trauma, ogni choc non superato di coloro che
torneranno è un fermento di prossima distruzione» (Th. W. Adorno, Fuori tiro, in Minima
moralia. Meditazioni della vita offesa, p. 45).
•
• “L’idea che, dopo questa guerra, la vita potrà riprendere «normalmente» o la cultura
«ricostruita» – come se la ricostruzione della cultura non fosse già la sua negazione – è
semplicemente «idiota». Milioni di ebrei sono stati assassinati. E questo dovrebbe essere un
semplice intermezzo, e non la catastrofe stessa. Che cosa aspetta ancora questa cultura?”
(Th. W. Adorno, Ritorno alla cultura, in Minima moralia, p. 44).
• «la poesia mi è sempre sembrata lo strumento più preciso per conoscere di nuovo me stesso
e prendermi ancora le misure» (G. Grass, Die Verzweiflung arbeitet ohne Netz. Günter
Grass im Gespräch mit Heinz Ludwig Arnold, p. 171).
• «fare il passo dell’oca al di fuori della lingua tedesca, tirarla fuori dai suoi idilli e dalle sue
annebbiate introspezioni» (G. Grass, Continua nella prossima puntata…, pp. 24-25).
•
«contro natura, come se qualcuno avesse preteso, con il tono di Dio padre, di vietare il
canto agli uccelli» (G. Grass, Schreiben nach Auschwitz. Frankfurter Poetik-Vorlesung, p.
15).
• «tutti noi, allora giovani poeti negli anni cinquanta – cito a titolo d’esempio Peter
Rühmkorf, Hans Magnus Enzensberger, anche Ingeborg Bachmann – eravamo a tal punto
28
consci, da essere confusi, di non appartenere affatto ai colpevoli della «generazione di
Auschwitz», ma di farne parte nelle circostanze dei colpevoli […]; tuttavia eravamo anche
consci del fatto che il precetto di Adorno – se mai – doveva essere confutato scrivendo» (G.
Grass, Schreiben nach Auschwitz. Frankfurter Poetik-Vorlesung, p. 17).
• «bambini che si erano bruciati le dita […] gli assolutismi, l’ideologia del bianco o nero. Il
dubbio e lo scetticismo erano i nostri padrini e la moltitudine di toni del grigio il loro regalo
per noi» (Grass, Continua nella prossima puntata…, pp. 24-25).
• «oggetti tangibili da ogni possibile residuo ideologico; smonto e ricompongo tali oggetti,
collocandoli in contesti dei quali è difficile mantenere la gravità abituale e chi vuole
dipingersi in viso un’espressione solenne deve cedere al riso» (Grass, Continua nella
prossima puntata…, p. 25).
• «venne fuori un lungo componimento nel quale un certo Oskar Matzerath che ancora non si
chiamava così faceva la sua bella figura nei panni di un santo stilita» (G. Grass, Rückblick
auf die Blechtrommel – oder der Autor als fragwürdiger Zeuge, p. 326).
• «Questo era l’ascetismo che mi ero imposto prima di scoprire la ricchezza di un linguaggio
che troppo a lungo avevo dichiarato colpevole: la sua dolcezza che si lascia sedurre, la sua
tendenza ad esplorare le profondità, la sua durezza assolutamente flessuosa, per non parlare
della lucentezza dei suoi dialetti, la sua naturalezza e la sua artificiosità, le sue eccentricità, e
la bellezza che sboccia dai suoi congiuntivi. Riguadagnato questo capitale, lo abbiamo
investito per farlo fruttare. A dispetto del verdetto di Adorno, o proprio per quello. L’unico
modo di scrivere dopo Auschwitz, in poesia o in prosa, era farlo mantenendo il ricordo ed
evitando che il passato giungesse a conclusione». (G. Grass, Continua nella prossima
puntata…., p. 25)
• «l'immane compito di rivisitare la storia contemporanea ricordando i dimenticati: le vittime,
i perdenti, le bugie che la gente vuole scordare perché una volta ci ha creduto».
• «Questa mia nonna materna, dunque, Anna Bronski, sedeva in un tardo pomeriggio
d’ottobre, dentro le sue gonne, al margine di un campo di patate. Nella mattinata si sarebbe
potuto constatare come fosse abile a rastrellare le piante appassite in mucchi ben ordinati; a
mezzogiorno mangiò due fette di pane con in mezzo del grasso e ad-dolcite con sciroppo,
poi ripassò un’ultima volta con la zappa il campo, e finalmente era seduta nelle sue gonne
fra due ceste quasi colme di patate. Davanti alle suole dei suoi stivali, tenute in posizione
verticale con le punte convergenti, bruciava un fuoco di piante di patate che a tratti dava dei
guizzi asmatici e mandava un fumo piatto e capriccioso sulla superficie appena inclinata del
campo. Era l’anno novantanove, e lei sedeva lì, nel cuore della Casciubia, vicino a Bissau,
ma più vicino ancora alla mattoniera, davanti a Ramkau sedeva, dietro Viereck verso la
strada di Brenntau fra Dirschau e Karthaus, alle sue spalle il cupo bosco di Goldkrug, e
spingeva patate sotto la cenere calda, con una verga di nocciolo dalla cima carbonizzata» (G.
Grass, Il tamburo di latta, p. 11).
• «sono stato educato nella religione cattolica e so riconoscere il tanfo della Chiesa cattolica.
Mi sono allontanato presto dalla religione, ma l’impressione è rimasta» (G. Grass, La storia
con gli occhi dei perdenti, p. 53).
• «Ti avevano o Ti eri fatto quello stupido taglio a spazzola, con i capelli lunghi quanto un
29
fiammifero, che allora incorniciava il viso delle reclute e oggi conferisce agli in-tellettuali
con la loro pipa in bocca l’apparenza di una moderna ascesi. Eppure, nonostante tutto,
l’espressione da redentore: l’aquila fissa sul berretto che stava inchiodato al tuo cranio Ti si
allargava come la colomba dello spirito Santo» (G. Grass, Gatto e topo, p. 148).
• «con i picchetti dello Spirito Santo e del ritratto di Hitler» (G. Grass, Sbucciando la cipolla,
p. 10).
• «La cipolla ha molte pelli. Se ne parla al plurale. Appena sbucciata si rinnova. Tagliata butta
lacrime. Solo quando la si sbuccia dice la verità. Quello che accadde prima e dopo la fine
della mia infanzia bussa con i fatti e si svolse peggio di quanto si sarebbe voluto, chiede di
essere raccontato ora in un modo ora nell’altro e induce a storie menzognere» (G. Grass,
Sbucciando la cipolla, p. 5).
• «La storia visita dal basso, e non dagli occhi di chi ha fatto la storia, ma da quelli della gente
comune, che la storia comunque rigetta, inevitabilmente. E quelle persone si sono
trasformate in viaggiatori, in vittime e carnefici, e hanno reagito di conseguenza. Questi
sono stati sempre i miei temi, da Il tamburo di latta a Il mio secolo» (G. Grass, La storia con
gli occhi dei perdenti, p. 42).
• «può essere invocata solo la più discutibile di tutte le testimoni, la Signora Reminiscenza,
una figura capricciosa, spesso sofferente di emicrania, e che inoltre gode della fama di
essere comprabile a seconda della situazione di mercato» (G.Grass, Sbucciando la cipolla, p.
49).
• «A poco a poco la fermata si riempì di gente; non si capiva da dove veniva, sembrava
crescere dalle colline, invisibile, silenziosa, sembrava risorgere da questa piana dal nulla,
fantasmi con un percorso e una meta incomprensibili: figure con pacchetti e sacchi, cartoni e
scatole, la cui unica speranza sembrava essere l’insegna di cartone giallo con la grande H
verde; comparivano senza far rumore e si radunavano mute in un blocco compatto, che si
animava soltanto quando si udivano il cigolio e lo scampanellio del tram…». (H. Böll,
L’angelo tacque [1992], Torino 1996, p. 46)
• Stig Dagerman, German Autumn, London 1988.
• Victor Gollancz, In Darkest Germany, London 1947.
•
«Nel deserto che si stendeva sotto di noi si distingueva solo il portale del Konventgarten.
Proprio lì, ad aprile, avevamo sentito i concerti di Brandeburgo. E una cantante cieca aveva
intonato i versi: “Ecco, il tempo del duro soffrire principia di nuovo”. Semplice e sicura,
stava in piedi appoggiata al cembalo, e i suoi occhi spenti guardavano di là dalle cose senza
importanza per le quali noi già allora tremavamo, forse rivolti al punto in cui ci ritroviamo
adesso. E ad avvolgerci, ormai, è solo un mare di pietre». (H. E. Nossack, La fine, op. cit.,
p. 88)
• Hermann Kasack, Die Stadt hinter dem Strom. Eine Selbstkritik [1947], Frankfurt a. M.
1978, trad. it., La città oltre il fiume, Milano 1952.
• Hans Erich Nossack, Nekyia. Bericht eines Überlebenden [1947], Frankfurt a. M. 2000.
• Peter De Mendelssohn, Die Kathedrale, Hamburg 1983
• «Se avesse un senso stabilire quale forma di letteratura sia oggi indispensabile,
30
indispensabile a un uomo che sa e non chiude gli occhi, si dovrebbe dire: è questa». (E.
Canetti, Il diario da Hiroschima del dottor Hachiya, in Potere e Sopravvivenza. Saggi,
Milano 1974, p. 148)
• Hubert Fichte, Detlevs Imitationen ›Grünspan‹, Frankfurt a. M. 1982.
• «Un serbatoio d’alcol sepolto ritornò alla luce, si srotolò come mica in una mano ardente, e
si liquefece in un un Halemaumau (da esso colavano ruscelli di fuoco: un poliziotto pose
costernato un freno a quello di destra e vaporizzò in servizio. Una grassa nuvola si drizzò sul
deposito, gonfiò la pancia sferica e ruttò verso l’alto la testa di torta, fece una risata
gutturale: omamma!, e gloglottò braccia e gambe sottosopra, si voltò in qua steatopigia, e
spezzettò intere carrettate di tubi di ferrò, senza fine, la connaisseuse, tanto che i cespugli
accanto a noi riverirono e cicalarono». (A. Schmidt, Dalla vita di un fauno [1953], Caserta
2006, p. 98)
• «È solo nell’approccio documentario – il cui precursore è il Nossack di Der Untergang - che
la letteratura tedesca del dopoguerra acquista davvero coscienza di sé e affronta seriamente
lo studio di materiali non valutabili con i criteri dell’estetica tradizionale». (W. G. Sebald,
Storia naturale della distruzione, op. cit., pp. 64-65).
• «si vede come la storia dell’industria e ciò che è diventato esistenza oggettiva dell’industria
sia come un libro aperto delle forze della coscienza umana, come sia la psicologia umana di
cui disponiamo sensibilmente». (A. Kluge, L’incursione aerea su Halberstadt. 8 aprile 1945
[1977], in Nuove storie, Milano 1982, p. 80).
• «E tuttavia perfino in lui – in lui che è il più spregiudicato fra tutti gli scrittori -, si affaccia il
sospetto che la disgrazia di cui siamo noi stessi causa non possa insegnarci nulla: ecco
perché continuiamo ad avanzare, incorreggibili, su piste battute che si ricollegano – appena
accennate – all’antica rete di comunicazione». (W. G. Sebald, Storia naturale della
distruzione, op. cit., p. 72).
• Documentarismo
• Realismo
• Realismo magico
•
«E proprio in questi fenomeni irreali […] in questo balenio dell’irreale nel mondo reale, in
questi particolari effetti luminosi nel paesaggio che si stende davanti a noi o nello sguardo di
una persona amata, proprio qui si accendono i nostri sentimenti o, in ogni caso, quelli che
noi riteniamo tali». (W. G. Sebald, Austerlitz, p. 104).
• «Sa, la meticolosità con cui questa gente negli anni successivi alla distruzione ha taciuto,
nascosto e, a quanto a me pare, davvero dimenticato tutto, è solo il rovescio della medaglia
del modo in cui, per esempio, il proprietario del caffè Schöferle di S. aveva fatto notare alla
madre di Paul, che si chiamava Thekla e per un certo periodo aveva calcato le scene del
teatro civico di Norimberga, che la presenza di una signora sposata con un mezzo ebreo
sarebbe potuta riuscire sgradita alla sua clientela borghese e quindi la pregava con la
massima gentilezza, com’è ovvio, di desistere dalla sua quotidiana frequentazione del caffè.
Non mi meraviglia che le siano rimaste ignote le azioni vili e meschine alle quali era esposta
31
una famiglia come quella dei Bereyter in un miserabile buco di provincia quale allora era S.,
che è rimasto immutato a dispetto del cosiddetto progresso; non mi meraviglia perché è nella
logica dell’intera storia» (W. G. Sebald, Gli emigrati, op. cit., p. 52).
• W. G. Sebald, Austerlitz, p. 232: «E io cercai di nuovo di spiegare a lei e a me stesso quali
incomprensibili sentimenti avessero continuato a opprimermi negli ultimi giorni; come un
folle non vedevo altro intorno a me se non misteri e segni; mi sembrava che persino le mute
facciate delle case sapessero su di me qualcosa di negativo, e se da sempre ero stato
convinto che il mio destino fosse una vita solitaria, adesso, nonostante il mio desiderio di
lei, lo ero più che mai».
• W. G. Sebald, Austerlitz, p. 82: «Tutti noi, e anche persino quelli che ritengono di avere
badato persino ai minimi dettagli, ci accontentiamo di elementi scenici mobili, che già altri
hanno fatto girare a sufficienza in su e in giù sulle tavole del teatro. Cerchiamo di riprodurre
la realtà, ma quanto maggiore è l’impegno in tal senso, tanto più si impone al nostro sguardo
quel che da sempre si è visto sulla scena della storia. […] Il nostro rapporto con la storia –
questa era la tesi di Hillary - è un rapporto con immagini già definite e impresse nella nostra
mente, immagini che noi continuiamo a fissare mentre la verità è altrove, in un luogo remoto
che nessun uomo ha ancora scoperto».
• W. G. Sebald, Austerlitz, p. 31: «l’oscurità non si dirada, anzi si fa più fitta al pensiero di
quanto poco riusciamo a trattenere, di quante cose cadano incessantemente nell’oblio con
ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le
storie, legate a innumerevoli luoghi e oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengano
udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno».
• W. G. Sebald, Austerlitz, pp. 152-153: «Fu un brutto sogno, che non finiva mai, e la sua
azione principale era spesso interrotta da altri episodi nei quali io, dalla prospettiva di un
uccello in volo, vedevo un paesaggio buio in cui correva via un treno piccolissimo, dodici
vagoni in miniatura color della terra e una locomotiva nera come il carbone sotto un
pennacchio di fumo rivolto all’indietro, la cui cima, per la forte velocità, si agitava
continuamente da una parte, simile a una grande piuma di struzzo. E poi, ancora, attraverso
il finestrino dello scompartimento, vedevo abetaie scure, una valle fluviale profondamente
incassata, nuvole cumuliformi all’orizzonte e mulini a vento, sovrastanti di gran lunga i tetti
delle case che vi si affollano attorno e le cui larghe pale suddividevano, giro dopo giro, il
cielo grigio dell’alba. Durante tali sogni, disse Austerlitz, egli aveva avvertito dietro agli
occhi come quelle immagini, rapinose nella loro immediatezza, si proiettassero letteralmente
fuori di lui, ma al risveglio non era risuscito a trattenerne neanche una, neppure nei suoi
vaghi contorni».
• W. G. Sebald, Austerlitz, pp. 153-154: «Per me il mondo si era concluso con la fine del XIX
secolo. Oltre non osavo avventurarmi, benché, in fondo, l’intera storia dell’architettura e
della civiltà nell’epoca borghese, cui dedicavo i miei studi, corresse verso quella catastrofe
che già allora andava profilandosi. Non leggevo i giornali, perché, come oggi so, temevo le
cattive notizie, accendevo la radio solo a determinate ore, perfezionavo sempre più i miei
meccanismi di difesa creando intorno a me una specie di cordone sanitario, in grado di
immunizzarmi da qualsiasi cosa avesse un pur remoto legame con la preistoria della mia
persona, che si era adeguata a vivere in uno spazio sempre più stretto. Al di là di questo, ero
altresì costantemente preso da quella gran mole di sapere che avevo continuato ad
accumulare per decenni e che fungeva da memoria surrogata e di compenso, e se ciò
nonostante capitava – e non poteva non capitare – che una notizia pericolosa mi giungesse a
32
dispetto di ogni misura precauzionale, ero capacissimo di fingermi sordo e cieco e di
dimenticare subito la cosa come una sciocchezza qualunque».
• V. Hage, Hitlers pyromanische Phantasien: W. G. Sebald: «Come un vortice, un vortice
della Storia. [...] È un sentimento di assoluta assenza, un’immagine post-storica, e non si sa
con precisione in quale direzione il vortice ti porti, indietro nel passato, oppure avanti nel
futuro. Ma si sa che ciò che viene indicato come destino collettivo dell’umanità ha molto a
che fare con queste cose, con questa follia organizzata della nostra specie».
• W. G. Sebald, Austerlitz, p. 155: «Ciò che udivo erano le voci di due donne, le quali nella
loro conversazione ricordavano come nell’estate del 1939, quando ancora erano bambine,
fossero state mandate in Inghilterra con un convoglio speciale. Esse menzionarono una serie
di città: Vienna, Monaco, Danzica, Bratislava, Berlino, ma solo quando una delle due
cominciò a raccontare che il suo gruppo – dopo un viaggio durato due giorni attraverso la
Germania e l’Olanda, dove lei dal treno aveva visto le grandi pale dei mulini a vento, e dopo
aver superato infine il Mare del Nord – era arrivato a Harwich da Hoeck con il traghetto
PRAGUE, solo allora seppi con assoluta certezza che quei frammenti di ricordo
appartenevano anche alla mia vita».
•
«Nel migliore dei casi lo [il Palazzo di Giustizia di Bruxelles] si guarda meravigliati, e
questa meraviglia è una forma preliminare di terrore, perché naturalmente qualcosa ci dice
che gli edifici sovradimensionali gettano già in anticipo l’ombra della loro distruzione e sin
dall’inizio, sono concepiti in vista della loro futura esistenza di rovine».
11. Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz
• «Quel giorno [...] Austerlitz parlò ancora a lungo delle tracce di sofferenza che, come lui
dava per certo, attraversano la storia con infinite linee sottili» (Austerlitz, p. 21)
• “nel 1940 i Tedeschi, subito dopo averlo costretto alla resa per la seconda volta nella sua
storia, vi avevano organizzato un lager, che rimase in attività sino all’agosto del 1944”.
W.G. Sebald, Austerlitz, p. 26.
• “spaventosa vicinanza fra vittima e carnefice, della tortura cui egli era stato sottoposto a
Breendonk”. Ivi, p. 33.
• “nei confronti di Jean Améry non è diretto tanto all’analisi delle sue opere, quanto a
riflettere sullo storicismo con cui egli ha affrontato a posteriori il pensiero della tortura e
delle umiliazioni che gli sono state inflitte nei campi di concentramento, e a riconoscergli il
merito di avere rotto il silenzio sui crimini nazisti in Germania dopo un lungo periodo di
apparente amnesia”. (E. Agazzi, Riti antichi e persistenza del passato. Il percorso interrotto
nell’opera-testamento Campo Santo, in Id., La grammatica del silenzio di W.G. Sebald,
Roma 2007, p. 126).
• Intellettuale ad Auschwitz (Jenseits von Schuld und Sühne. Bewältigungsversuche eines
Überwältigten, 1977)
• L'inizio fu solo nel 1935 quando, in un caffè di Vienna, sfogliando un giornale iniziai a
studiare le leggi di Norimberga appena emanate laggiù, in Germania. Mi bastò scorrerle per
33
rendermi conto che riguardavano anche me. La società, che si riconosceva nello stato
tedesco nazionalsocialista, che il mondo a sua volta accettava come legittimo rappresentante
del popolo tedesco, mi aveva formalmente e senza mezzi termini, trasformato in ebreo; o
meglio aveva dato una dimensione inedita alla mia coscienza di essere ebreo, che senza
gravi conseguenze era esistita anche in passato. Non si trattava di una dimensione
immediatamente sondabile. Dopo aver letto le leggi di Norimberga non ero più ebreo di
quanto non fossi stato mezz'ora prima. I tratti del mio volto non erano più mediterraneosemitici di prima, la mia sfera associativa non si era magicamente colmata di riferimenti
ebraici, l'albero di Natale non si era per incanto trasformato in un candelabro a sette bracci.
Se la condanna pronunciata nei miei confronti dalla società aveva un senso tangibile, questo
era che da quel momento in poi avrei dovuto considerarmi in balìa della morte. La morte.
Certo, presto o tardi ci raggiunge tutti. Ma l'ebreo che da quel momento ero - per legge e
decisione della società - le era stato saldamente promesso nel bel mezzo della vita, i suoi
giorni erano una sorta di grazia provvisoria, revocabile in qualunque momento. Nel fare
oggi queste mie riflessioni non credo di illecitamente collocare a ritroso, già al 1935,
Auschwitz e la soluzione finale. Sono anzi certo che quell'anno, nell'istante in cui lessi la
legge udii effettivamente la minaccia di morte, anzi la condanna a morte; non era del resto
necessaria una particolare sensibilità storica (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p.
140).
• Avevo diciannove anni quando appresi che esisteva una lingua yiddish, sebbene d'altra parte
sapessi benissimo che la mia famiglia, che a livello religioso ed etnico aveva conosciuto
numerosi incroci, dai vicini era considerata ebrea e nessuno in casa mia si sognava di negare
o celare l'incontrovertibile. Ero ebreo, allo stesso modo in cui uno dei miei compagni di
scuola era figlio di un ristoratore fallito: quando il ragazzo era solo con sé stesso, il tracollo
economico della famiglia per lui poteva forse non avere alcuna importanza; quando si
mescolava a noi si arroccava al pari nostro, in un astioso imbarazzo. Se essere ebreo è
dunque sinonimo di patrimonio culturale, di vincolo religioso, allora non ero, né mai sarò,
ebreo. Si potrebbe certo controbattere che un patrimonio lo si può conquistare, che un
vincolo lo si può costruire e che quindi essere ebreo potrebbe essere il risultato di una libera
scelta. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 138).
• Da quel momento in poi, essere ebreo per me significò essere un morto in licenza, un
morituro, che solo per caso ancora non era dove secondo la legge avrebbe dovuto essere, e
questo stato d'animo, con molte varianti, con diversi gradi d'intensità, si è conservato sino ad
oggi. Nella minaccia di morte che per la prima volta avvertii con tutta evidenza leggendo le
leggi di Norimberga, era implicita anche quella che abitualmente viene definita la
sistematica «privazione della dignità» degli ebrei da parte dei nazisti. Detto altrimenti,
nell'essere privati della dignità si esprimeva la minaccia di morte. Per anni lo avevamo letto
e sentito quotidianamente: eravamo pigri, malvagi, brutti, capaci solo di misfatti, astuti solo
nell'imbrogliare il prossimo. Eravamo incapaci di creare uno stato, e tuttavia non adatti a
integrarci nei popoli ospiti. Con la loro semplice presenza i nostri corpi pelosi, grassi e dalle
gambe storte, lordavano le piscine, addirittura le panchine nei parchi. I nostri volti orrendi,
alterati e corrotti dalle orecchie a sventola e dai nasi adunchi suscitavano ribrezzo nel
prossimo, nel concittadino di ieri. Non eravamo degni di amore e dunque nemmeno di
vivere. Toglierci noi stessi di mezzo era il nostro unico diritto, il nostro unico dovere. (Jean
Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 142).
• Sono stato arrestato dalla Gestapo nel luglio 1943. Una storia di volantini. Il gruppo del
quale facevo parte, una piccola organizzazione di lingua tedesca all'interno della Resistenza
belga, cercava di svolgere opera di propaganda antinazista fra gli appartenenti alle forze
34
d'occupazione tedesche. Producevamo del materiale propagandistico abbastanza primitivo,
con il quale ci illudevamo di poter convincere i soldati tedeschi della crudele follia di Hitler
e della sua guerra. Oggi so, o almeno credo di sapere, che le nostre scarne parole si
rivolgevano ai sordi: ho motivo di pensare che i soldati tedeschi quando davanti alle caserme
trovavano i nostri volantini, ligi al dovere li consegnassero immediatamente ai loro
superiori, i quali a loro volta con la stessa scattante dedizione avvisavano gli organi di
sicurezza. Non a caso questi ultimi assai presto furono sulle nostre tracce e infine ci
scovarono. In uno dei volantini che al momento dell'arresto avevo con me, affermavamo con
molta stringatezza e altrettanta imperizia propagandistica: «A morte i banditi delle S.S. e i
boia della Gestapo!» (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 61).
• Chi, trovandosi in possesso di materiale consimile, si vedeva puntate addosso le pistole degli
uomini con i cappotti di pelle, non poteva farsi alcuna illusione. Io infatti non me ne feci in
nessun momento, poiché mi ritenevo - oggi mi rendo conto, a torto - un vecchio e scafato
conoscitore del sistema, dei suoi uomini, dei suoi metodi. A suo tempo lettore della «Neue
Weltbühne» e del «Neue Tagebuch», conoscitore delle pubblicazioni dell'emigrazione
tedesca sui campi di concentramento sin dal 1933, credevo di sapere a cosa stessi andando
incontro. Sin dai primi giorni del Terzo Reich avevo sentito parlare delle cantine della
caserma delle S.A. nella General-Pape-Strasse di Berlino. Qualche tempo dopo avevo letto
quello che credo sia stato il primo documento tedesco sui campi di concentramento,
l'opuscolo di Gerhart Segers intitolato "Oranienburg". Da allora ero venuto a conoscenza di
una tale quantità di resoconti di ex detenuti della Gestapo che ritenevo non potessero esserci
sorprese in questa direzione. Quanto mi sarebbe accaduto avrebbe soltanto arricchito la
letteratura sull'argomento. Prigione, interrogatorio, percosse, tortura, e al termine
probabilmente la morte: così era scritto e così sarebbe avvenuto. Quando, dopo l'arresto, un
tale della Gestapo, sapendo che i prigionieri tentavano spesso di spalancare la finestra e, con
le mani legate, di raggiungere con un balzo il davanzale più vicino, mi ordinò di spostarmi,
mi sentii in un certo senso lusingato per la risolutezza e l'agilità attribuitemi; obbedendo alla
sua esortazione, feci tuttavia un cenno di gentile diniego; non ero, dissi, fisicamente in
grado, né avevo intenzione, di sottrarmi in maniera così avventurosa al mio destino. Sapevo
cosa mi attendeva; si sarebbe potuto contare sul mio assenso.
• E' giunto il momento di tener fede a una promessa: devo motivare perché sia mia profonda
convinzione che la tortura è stata l'essenza del nazionalsocialismo, o più precisamente,
perché il Terzo Reich proprio in essa si è realizzato in tutta la sua pienezza. Abbiamo già
detto che la tortura è esistita, e tuttora esiste, anche altrove. Certo. Nel Vietnam dal 1964. In
Algeria nel 1957. In Russia probabilmente tra il 1919 e il 1953. In Ungheria nel 1919
usarono la tortura sia i bianchi che i rossi, nelle prigioni spagnole fu impiegata dai franchisti
come dai repubblicani. Negli anni fra le due guerre gli aguzzini sono stati all'opera anche
negli stati semifascisti dell'Europa orientale, in Polonia, Romania, Iugoslavia. La tortura non
è stata inventata dal nazionalsocialismo. Tuttavia ne ha rappresentato l'apoteosi. Al seguace
di Hitler non bastava essere veloce come uno scoiattolo, resistente come il cuoio, duro come
l'acciaio Krupp per realizzarsi compiutamente. Per fare di lui un rappresentante completo del
Führer e della sua ideologia non era sufficiente il distintivo del Partito in oro, non bastava
un "Blutorden" [ordine del sangue] o una Croce di guerra di prima classe. Egli doveva
"torturare", distruggere, per «essere grande nel sopportare l'altrui sofferenza». Perché
Himmler gli conferisse un diploma di maturità che fosse riconosciuto dalla storia, doveva
essere in grado di maneggiare gli strumenti di tortura: le generazioni future avrebbero
ammirato la sua capacità di annullare la propria misericordia. (Jean Améry, Intellettuale ad
Auschwitz, pp. 69-70).
35
• Lo si sa davvero? Solo in parte. «Rien n'arrive ni comme on l'espère, ni comme on le
craint», scrive a un certo punto Proust. Nulla in effetti avviene come noi speriamo, né come
temiamo avvenga. Non tuttavia perché l'avvenimento «supera ogni immaginazione» come
spesso si dice (non è una questione quantitativa), ma perché è realtà e non immaginazione.
Si può dedicare tutta la vita a raffrontare immaginato e realtà, ma non si arriverà mai a un
risultato. Molte cose in effetti avvengono all'incirca come si era pensato dovessero avvenire:
gli uomini della Gestapo con i loro cappotti di pelle, le pistole puntate contro la vittima, è
tutto vero. Poi però si rimane allibiti quando ci si rende conto che quei tizi oltre ai cappotti
di pelle e alle pistole hanno anche dei volti: non i classici «volti da Gestapo», dai nasi storti,
dalle mascelle volitive, segnati dal vaiolo o da ferita da coltello. Al contrario: volti simili ad
altri. Volti comuni. Ed è l'immane cognizione di una fase successiva, in grado ancora una
volta di distruggere ogni rappresentazione che permetta un'astrazione, a spiegarci come
questi volti comuni possano infine trasformarsi in volti da Gestapo e come il Male si
sovrapponga e superi la banalità. Non esiste infatti la «banalità del Male» e Hannah Arendt,
che ne parlò nel suo libro su Eichmann, conosceva il nemico dell'uomo solo per sentito dire
e lo osservava solo attraverso la gabbia di vetro. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz,
pp. 62-63).
• Quando un avvenimento c'impegna sin nell'ultima fibra, non si dovrebbe parlare di banalità,
perché a quel punto l'astrazione risulta impossibile e nessuna immaginazione può anche solo
accostarsi alla realtà. Che qualcuno venga portato via in macchina con le manette ai polsi, è
«normale» solo quando si legge la notizia sul giornale; mentre si stanno impacchettando
volantini, giudiziosamente ci si chiede: va bene, e allora? Qualcosa di simile può accadere
anche a me e un giorno forse accadrà veramente. Ma quando accade, ci si accorge che la
macchina è diversa, che la pressione delle manette non era stata presentita, che le strade
sono estranee, che l'ingresso del quartier generale della Gestapo, di fronte al quale pur si è
passati infinite volte, ha prospettive diverse, ornamenti diversi, è fatto di pietra diversa, se lo
si oltrepassa da prigioniero. Tutto appare scontato e nulla è normale non appena siamo
scaraventati in una realtà la cui luce ci acceca e ferisce nell'intimo. Ciò che abitualmente
definiamo la «vita normale», può anche risolversi in rappresentazione anticipatrice e
nell'espressione banale. Compro un giornale e sono «un uomo che compra un giornale»:
l'atto non si distacca dall'immagine in cui l'avevo anticipato e io stesso non mi differenzio
quasi dai milioni che l'hanno compiuto prima di me. Ciò accade perché la mia
immaginazione non è riuscita a comprendere in toto la realtà di un simile atto? Non per
questo, ma perché la cosiddetta realtà del quotidiano anche nell'esperienza immediata altro
non è che astrazione cifrata. Solo in rari momenti della nostra vita guardiamo direttamente
negli occhi l'avvenimento e quindi la realtà. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 6364).
• Perché il nazionalsocialismo - che se non proponeva alcuna idea possedeva tuttavia un intero
arsenale di confuse idee negative - è stato l'unico sistema politico di questo secolo ad avere
non solo praticato il dominio dell'opposto, come fecero anche altri regimi del terrore rossi e
bianchi, ma ad averlo espressamente innalzato a principio. Odiava la parola umanità come i
devoti odiano il peccato, e perciò parlava di "Humanitätsduselei"! [esasperato spirito
umanitario]. Sterminava e rendeva schiavi: lo dimostrano non solo i "corpora delicti" ma
anche numerose conferme a livello teorico. I nazisti torturavano al pari di altri perché grazie
alla tortura volevano entrare in possesso di importanti informazioni politiche. Parallelamente
tuttavia torturavano nella buona coscienza della malvagità. Martoriavano i loro prigionieri
per scopi precisi, di volta in volta esattamente specificati. Ma torturavano soprattutto perché
erano aguzzini. Si servivano della tortura. Ma con fervore ancora più profondo la servivano.
(Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 71-72).
36
• Alla fine ci accorgeremo forse che non erano solo i miei tormentatori a riferirsi
marginalmente a una filosofia sadica, ma che il nazionalsocialismo nella sua globalità era
caratterizzato non tanto dal marchio di un «totalitarismo» difficilmente definibile, quanto da
quello del "sadismo". (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 75).
• Con tutta l'anima svolgevano il loro incarico che implicava potere, dominio sullo spirito e
sulla carne, trasgressione nell'illimitata autoespansione. Non ho dimenticato anche che vi
furono momenti in cui provai una vergognosa ammirazione per la torturante sovranità che
esercitavano sulla mia persona. Chi è in grado di ridurre un uomo così completamente a
corpo e a piagnucolante preda della morte, non è forse un dio o almeno un semidio? (Jean
Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 67).
• La speranza di soccorso, la certezza del soccorso è effettivamente una delle acquisizioni
fondamentali dell'essere umano e a quanto pare anche dell'animale; lo hanno spiegato in
maniera assai convincente il vecchio Krapotkin, che parlava del «soccorso reciproco in
natura», e l'etologo Lorenz. La speranza di soccorso è una componente costitutiva della
psiche, al pari della lotta per la sopravvivenza. Abbi pazienza un momento, dice la madre al
bambino che piange per il dolore, ti porto subito il biberon caldo, una tazza di tè, non ti
lasciamo soffrire! Le prescrivo una medicina, assicura il medico, le farà bene. E le
ambulanze della Croce Rossa riescono a raggiungere i feriti anche sul campo di battaglia. In
quasi tutte le situazioni di vita il danno fisico viene vissuto insieme alla speranza di
soccorso: il primo trova una compensazione nel secondo. Il primo pugno sferratoci dalla
polizia invece, contro il quale non può esservi possibilità di difesa e che nessuna mano
soccorritrice potrà parare, pone fine a una parte della nostra vita che non potrà mai più
essere ridestata. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 43).
• I confini del mio corpo sono i confini del mio Io. La superficie cutanea mi protegge dal
mondo esterno: se devo avere fiducia, sulla pelle devo sentire solo ciò che io "voglio"
sentire. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 66).
• Qui ho avuto la consapevolezza che stavo sprofondando nelle ultime profondità ancora
raggiungibili della mia esistenza. Le fiamme non era qui certo visibili: dai camini usciva
solo un fumo nero e scavava le tombe nel cielo; non riesco a liberarmi dall’immobilismo
linguistco che mi preclude la realtà […]. Sopportare era una cosa assurda. (Jean Améry,
Lefeu oder der Abbruch, 1974, pp. 124-131).
• Ad Auschwitz invece l'uomo dello spirito era isolato, del tutto abbandonato a sé stesso. Il
problema dell'impatto tra spirito e orrore vi si poneva in maniera più radicale e, mi sia
consentita l'espressione, in forma "più pura". Ad Auschwitz lo spirito non era che sé stesso e
non vi era alcuna possibilità di collegarlo a una qualche struttura sociale, per quanto
precaria, per quanto clandestina. L'intellettuale si trovava quindi solo con il suo spirito che
altro non era se non pura consapevolezza, e non poteva rinfrancarsi e rafforzarsi al contatto
con una realtà sociale. Gli esempi adducibili in questo senso sono in parte banali, in parte
invece riferiti a un vissuto esistenziale solo difficilmente comunicabile. (Jean Améry,
Intellettuale ad Auschwitz, p. 36).
• In generale si può dire che gli esponenti delle professioni dell'ingegno per quanto concerne il
lavoro si trovavano in una pessima situazione. Non a caso molti cercavano di celare la loro
attività originaria. Chi aveva un minimo di abilità pratiche, chi era magari capace di fare
qualche lavoretto si spacciava arditamente per operaio, rischiando tuttavia la vita nel caso la
37
bugia fosse stata scoperta. La maggior parte comunque cercava di salvarsi sminuendo la
propria posizione. Interrogato circa la propria professione, il professore di liceo o
universitario rispondeva timidamente «insegnante», onde non provocare la furia selvaggia
della S.S. o del Kapo. L'avvocato si trasformava nel più modesto contabile, il giornalista
poteva magari spacciarsi per tipografo, tanto più che difficilmente avrebbe corso il rischio di
dover dimostrare le sue capacità artigianali. Ed era così che docenti universitari, avvocati,
bibliotecari, storici dell'arte, economisti, matematici si ritrovavano a portare rotaie, tubi e
legname per costruzione. La loro abilità e la loro forza fisica erano di norma limitate e
solitamente non si doveva attendere a lungo prima che fossero eliminati dal processo
produttivo e trasferiti nell'adiacente campo principale, dove vi erano le camere a gas e i forni
crematori. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 31-32).
• Si poteva "essere" affamati, "essere" stanchi, "essere" ammalati. Affermare semplicemente
che si "era", non aveva senso. E l'Essere poi, era un concetto definitivamente imponderabile
e quindi vuoto. Andare con le parole al di là dell'esistenza reale, ai nostri occhi divenne un
lusso a noi vietato, un gioco privo di valore, addirittura beffardo e malvagio. Il mondo
fenomenico ci dimostrava in ogni istante che alla sua insopportabilità si poteva rispondere
solo con mezzi ad essa immanenti. Detto altrimenti: in nessun altro posto al mondo la realtà
possedeva una tale forza operante come nel Lager, in nessun altro luogo essa era così
fortemente realtà. In nessun altro luogo il tentativo di oltrepassarla si è dimostrato tanto
vano e scontato. Al pari dei muri muti e delle banderuole che stridono al vento della poesia,
anche le asserzioni filosofiche smarrivano la loro trascendenza e di fronte a noi si
trasformavano in parte in constatazioni oggettive, in parte in vacuo cicaleccio: dove ancora
significavano qualcosa, apparivano banali, e dove non erano banali, non significavano più
nulla. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 53).
• E' evidente che di fronte a simili possibilità non ci si occupava quasi più del "se" o del fatto
"che" si dovesse morire, ma solo del "come" sarebbe avvenuto. Si discuteva di quanto tempo
impiegasse il gas a fare il suo effetto. Si speculava sulla dolorosità della morte provocata da
iniezioni di acido fenico. Era preferibile un colpo sul cranio o la lenta morte per sfinimento
in infermeria? E' significativo dell'atteggiamento dei prigionieri nei confronti della morte
che solo pochi abbiano deciso di «correre verso il filo», ossia di suicidarsi toccando il filo
spinato attraversato dall'alta tensione. Il filo era in fondo una soluzione buona e abbastanza
sicura, sebbene vi fosse la possibilità di essere scorti anzitempo, e di finire quindi nel
bunker, il che significava morire con maggiori difficoltà e sofferenze. Il morire era
onnipresente, la morte si sottraeva. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 50-51).
• Ebbene, nel campo "esisteva" il problema dell'incomunicabilità tra l'uomo dello spirito e la
maggior parte dei suoi compagni: si poneva in ogni istante in maniera reale, direi
tormentosa. Il prigioniero abituato a un modo di esprimersi relativamente differenziato, solo
al prezzo di un grande sforzo su sé stesso riusciva a dire "Hau ab!" [levati di torno!] o ad
apostrofare esclusivamente con "Mensch" [tipo] il suo compagno di prigionia. Rammento
sin troppo bene il disgusto fisico che mi afferrava perché un compagno, per altri versi
dabbene e socievole, si rivolgeva a me usando esclusivamente l'espressione "mein lieber
Mann" [caro mio]. L'intellettuale era insofferente a espressioni come "Küchenbulle"
[letteralmente: toro da cucina; cuoco], "organisieren" [organizzare; termine con il quale si
definiva l'appropriazione illecita di oggetti], e persino formulazioni come "auf Transport
gehen" [essere trasferiti], le proferiva molto malvolentieri. (Jean Améry, Intellettuale ad
Auschwitz, p. 34).
• Io non ho sonno, o per meglio dire il mio sonno è mascherato da uno stato di tensione e di
ansia da cui non sono ancora riuscito a liberarmi, e perciò parlo e parlo. Ho troppe cose da
38
chiedere. Ho fame, e quando domani distribuiranno la zuppa, come farò a mangiarla senza
cucchiaio? e come si puo avere un cucchiaio? E dove mi manderanno a lavorare? Diena ne
sa quanto me, naturalmente, e mi risponde con altre domande. Ma da sopra, da sotto, da
vicino, da lontano, da tutti gli angoli della baracca ormai buia, voci assonnate e iraconde mi
gridano: - Ruhe, Ruhe! Capisco che mi si impone il silenzio, ma questa parola è per me
nuova, e poiché non ne conosco il senso e le implicazioni, la mia inquietudine cresce. La
confusione delle lingue è una componente fondamentale del modo di vivere di quaggiú; si è
circondati da una perpetua Babele, in cui tutti urlano ordini e minacce in lingue mai prima
udite, e guai a chi non afferra avolo. Qui nessuno ha tempo, nessuno ha pazienza, nessuno ti
dà ascolto; noi ultimi venuti ci raduniamo istintivamente negli angoli, contro i muri, come
fanno le pecore, per sentirci le spalle materialmente coperte. (P. Levi, Se questo è un uomo,
p. 33)
• «Anche Amery afferma di aver sofferto per la mutilazione del linguaggio», scrisse, «eppure
lui era di lingua tedesca. Ne ha sofferto in modo diverso da noi alloglotti ridotti alla
condizione di sordomuti: in un modo, se mi è lecito, più spirituale che materiale. Ne ha
sofferto perché era di lingua tedesca, perché era un filologo amante della sua lingua, come
soffrirebbe uno scultore nel veder deturpare o amputare una statua». Quindi ancor più di
Levi, ancor più di molti deportati ebrei. La corrispondenza tra Levi e Amery si interruppe
tragicamente nel 1978, quando anche Amery decise di togliersi la vita. Tre anni prima di
Engert, nove anni prima di Levi. Amery, considerato un «teorico del suicidio», al tema
aveva dedicato un illuminante saggio, intitolato «Levar la mano su di sé». Queste sono le
ultime righe del testo: «Non dovremmo negar loro [ai suicidi] il rispetto che il loro agire
merita, né privarli della nostra partecipazione, tanto più che noi stessi non facciamo una
figura troppo brillante. Siamo degni di compassione, tutti se ne accorgono. Chinando il
capo, vogliamo quindi sommessamente e con dignitoso contegno piangere colui che ci
lasciò nella libertà». (P. Levi, I sommersi e i salvati, pp. 108-109).
• Dal Lager uscimmo denudati, derubati, svuotati, disorientati e ci volle molto tempo prima
che riapprendessimo il linguaggio quotidiano della libertà. Ancora oggi del resto nel parlarlo
siamo a disagio e senza un'autentica fiducia nella sua validità. E tuttavia per noi - e dicendo
noi intendo gli intellettuali privi di fede e non impegnati in una dottrina politica - la
permanenza nel Lager spiritualmente non fu del tutto priva di valore. Vi abbiamo infatti
tratto l'incrollabile convinzione che lo spirito in gran parte è effettivamente un "ludus" e che
noi non siamo, o meglio, prima di entrare nel Lager, non eravamo che "homines ludentes".
Ci siamo così spogliati di parecchie presunzioni, di parecchia boria metafisica, smarrendo
però anche gran parte della nostra ingenua gioia spirituale, e qualche fittizio senso della vita.
(Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 54).
• “Di quanta patria ha bisogno l'uomo?” (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 83).
• soffrivo, e tuttora soffro, di nostalgia di casa, una nostalgia dolorosa, struggente, lontana
dall'intimità della canzone popolare, non consacrata da convenzioni sentimentali, una
nostalgia della quale non si può parlare nei toni cari a Eichendorff. (Jean Améry,
Intellettuale ad Auschwitz, p. 85).
•
Per la prima volta l'avvertii in maniera acuta quando, con in tasca quindici marchi e
cinquanta pfennig, mi ritrovai ad Anversa davanti allo sportello dei cambi; da allora non mi
ha più lasciato, come non mi ha lasciato il ricordo di Auschwitz o della tortura o del ritorno
dal campo di concentramento, quando mi ritrovai collocato nel mondo con quarantacinque
chili di peso vivo e con indosso un vestito a righe, tornato ancora una volta a sentirmi più
39
leggero dopo la morte dell'unica persona per la quale avevo tenute deste per due anni le mie
forze vitali. Che cos'era, cos'è la nostalgia di casa provata da coloro che dal Terzo Reich
erano stati cacciati allo stesso tempo a causa delle loro opinioni e del loro albero
genealogico? (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 87)
• L'ebreo errante aveva più Heimat di me. Se mi è consentito dare a questo punto una prima,
provvisoria risposta al nostro quesito iniziale, direi che l'uomo ha tanto più bisogno di
Heimat quanto meno può portarne via con sé. Esiste infatti qualcosa come una Heimat
mobile o quanto meno un surrogato della Heimat. Può essere la religione, come quella
ebraica. «L'anno prossimo a Gerusalemme», si promettono sin dai tempi antichi gli ebrei
durante il rito pasquale, ma non era importante raggiungere veramente la Terra Santa, era
sufficiente che si pronunciasse insieme la formula e ci si sapesse uniti nella magica cerchia
patria di Yahweh, il Dio della stirpe. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 87)
• Noi invece non avevamo perso il paese: dovevamo riconoscere di non averlo mai posseduto.
Ciò che riguardava questo paese e la sua gente rappresentava per noi l'equivoco di un'intera
esistenza. Quello che ciascuno di noi pensava fosse stato il suo primo amore era, come
dicevano laggiù, "Rassenschande" (contaminazione razziale). (Jean Améry, Intellettuale ad
Auschwitz, p. 95)
• Heimat vs. Vaterland
• Noi - e forse non parlo solo a nome della generazione ormai in fase declinante, di coloro che
come me sono intorno alla cinquantina - abbiamo bisogno di vivere in mezzo a cose che ci
narrano storie. Abbiamo bisogno di una casa della quale sapere chi l'ha abitata in passato, di
un mobile, nelle cui piccole irregolarità riconosciamo l'artigiano che vi mise mano.
Abbiamo bisogno di una silhouette nella città che, sia pure vagamente, richiami alla
memoria l'incisione vista in un museo. Per gli urbanisti del domani, ma anche per gli abitanti
che solo provvisoriamente si stabiliranno in determinati punti topografici, la realtà di una
città consisterà nelle tabelle statistiche che anticipano l'evoluzione demografica, nei piani
urbanistici e nei progetti di nuove strade. La nostra coscienza invece nella sua globalità
percepisce la realtà urbana ancora attraverso l'occhio - la cara fenestrella del vecchio
Gottfried Keller! - e la rielabora in un processo mentale che chiamiamo "ricordare". (Jean
Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 94-95).
• Mi sono ritirato nel passato, in lui ho trovato un rifugio, vivo in pace; grazie, non me la
passo male. Queste all'incirca le parole di chi ha diritto al proprio passato. L'esule dal Terzo
Reich non potrà mai pronunciarle, nemmeno pensarle. Volge indietro lo sguardo essendo il
futuro qualcosa cui vanno incontro solo i giovani e che quindi spetta solo a loro - e non
riesce a scorgersi in nessun luogo. Giace irriconoscibile fra le rovine degli anni che vanno
dal 1933 al 1945. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 106).
• La Heimat è il paese dell'infanzia e della giovinezza. Chi l'ha smarrita, resta spaesato, per
quanto all'estero possa avere appreso a non barcollare come un ubriaco e ad appoggiare il
piede in terra senza troppi timori. (Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, pp. 93).
12. Fotografia e memoria
• Siegfried Kracauer (1889-1966): La fotografia (1927)
40
• Walter Benjamin (1892-1940):
- Piccola storia della fotografia (1931)
- L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (1936)
• Kurt Tucholsky (1890-1935) : Deutschland, Deutschland, über alles (1929)
• Maurice Halbwachs (1877-1945):
- I quadri sociale della memoria (1925)
- La memoria collettiva (1950)
• Aby Warburg (1866-1929): Mnemosyne (1924-1929)
• Gerhard Richter, Atlas (1961)
• “il passato non getta la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma
immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una
costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità”. (W. Benjamin, I
“passages” di Parigi)
• “come bisogna introdurre un germe in un ambiente saturo perché questo cristallizzi, allo
stesso modo in [un] insieme di testimonianze a noi esteriori bisogna poter aggiungere come
un seme di rimemorazione, perché esso si rapprenda in una massa consistente di ricordi”.
(M. Halbwachs, La memoria collettiva)
• La fotografia “appartiene a quella classe di oggetti fatti di strati sottili” (Barthes, La camera
chiara, 1980):
a) evoca a un individuo o una collettività un evento vissuto nel passato;
b) richiama alla mente un episodio di cui non esiste più “ricordo vivente”, configurandosi
come traccia della memoria storica;
c) immortala il lacerto di un patrimonio, di una temperie culturale o di un evento epocale.
• una fotografia può essere l’oggetto di tre pratiche (o tre emozioni, o tre intenzioni): fare,
subire, guardare. L’Operator è il Fotografo. Lo Spectator, siamo tutti noi che compulsiamo,
nei giornali, nei libri, negli archivi, nelle collezioni fotografiche. E colui, o ciò che è
fotografato, è il bersaglio, il referente, sorta di piccolo simulacro, di eidòlon emesso
dall’oggetto, che io chiamerei volentieri lo Spectrum della Fotografia, dato che attraverso la
radice questa parola mantiene un rapporto con lo ‘spettacolo’ aggiungendovi quella cosa
vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto. (R. Barthes, La
camera chiara)
• “si direbbe che la Fotografia porti sempre il suo referente con sé, tutti e due contrassegnati
dalla medesima immobilità amorosa e funebre” (R. Barthes, La camera chiara)
• Punctum: “puntura, piccolo buco, macchiolina, piccolo taglio, (...) fatalità che, in essa, mi
punge (ma anche mi ferisce, mi ghermisce)” (R. Barthes, La camera chiara)
• Studium: “il vastissimo campo del desiderio noncurante, dell’interesse diverso, del gusto
incoerente” (R. Barthes, La camera chiara)
• “ogni fotografia è un memento mori […] un rito sociale, una difesa dall’angoscia e uno
41
strumento di potere”(S. Sontag, Sulla fotografia, 1977)
• “guardando le immagini in esso contenute avevo e ho tuttora l’impressione che i morti
ritornino o che siamo noi in procinto di recarci da loro” (W.G. Sebald, Gli emigrati)
• le immagini sono al tempo stesso modelli, esempi e una sorta di dottrina. In esse si esprime
l’atteggiamento generale del gruppo; esse non riproducono soltanto la sua storia, ma
definiscono anche la sua natura, le sue qualità e le sue debolezze. (M.Halbwachs, La
memoria collettiva)
• “ri-conoscere per immagini significa ricollegare l’immagine (percepita o evocata) di un
oggetto ad altre immagini che con esse formano un insieme, come un quadro, è ritrovare i
legami di questo oggetto con altri oggetti che possono essere anche dei pensieri o dei
sentimenti” (M. Halbwachs La memoria collettiva)
• “È la realtà che viene esaminata e valutata secondo la sua fedeltà alle fotografie […]. Invece
di accontentarsi di registrare la realtà, le fotografie sono diventate il modello di come ci
appaiono le cose, modificando così il concetto stesso di realtà, e di realismo.” (S. Sontag,
Sulla fotografia)
• “la riproduzione infatti finisce per sostituirsi totalmente al ricordo che abbiamo di qualcosa,
anzi, si potrebbe addirittura dire che lo distrugge” (W.G. Sebald, Vertigini)
• "Non siamo davanti all’immagine come davanti a una cosa di cui possiamo tracciare le
frontiere esatte. Un’immagine, ogni immagine, è il risultato di movimenti provvisoriamente
sedimentati o cristallizzati al suo interno“ (Georges Didi-Huberman L’immagine insepolta.
Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell'arte, 2002)
• La Fotografia è inclassificabile perché non c'è nessuna ragione di contrassegnare tale o
talaltra delle sue occorrenze […] le fotografie sono segni che non si rapprendono bene, che
vanno a male, come il latte. Qualunque cosa essa dia da vedere e quale che sia la sua
maniera, una foto è sempre invisibile: ciò che noi vediamo non è lei. (Roland Barthes, La
camera chiara)
• La scritta "Arbeit mach frei" significa Auschwitz, Auschwitz significa la Shoah: e queste
sono le colonne d'Ercole oltre le quali l'umanità intera è entrata in una nuova storia, ha
scoperto il paesaggio devastato del mondo nuovo, ha saputo che Dio era morto. A chi voleva
continuare a vivere in un mondo dove si respirava un'aria densa delle ceneri di milioni di
morti, si impose un solo comandamento: ricordare. Uno solo: ma non fu facile accettarlo.
Adriano Prosperi, Le colonne d’Ercole del Novecento, in “La Repubblica”, 19/12/2009.
42
Scarica

La Shoah nella letteratura tedesca del secondo dopoguerra