POLISCRITTURE Rivista di ricerca e cultura critica Numero prova Aprile 2005 Indice - L’editoriale: Cos’è POLISCRITTURE?...................................................................................................... pag. 4 1 Samizdat - Piero Del Giudice: Lettera di fine anno (2004) + Poliscritture discute ......................................................pag. 6 - Giulio Stocchi: Due sorelle: Giuliana e Mithal ..........................................................................................pag. 8 2 Luoghi/non luoghi - Marina Massenz: Luoghi e non luoghi .....................................................................................................pag. 11 - Donato Salzarulo: Noi del Forum cittadino e quelli del collettivo del Quartiere Stella a Cologno Monzese.....................................................................pag. 12 - Giulio Stocchi: La strada verso casa .........................................................................................................pag. 14 - FrancoTagliafierro: Veloci impressioni da una visita a Berlino nel 2005 ...............................................pag. 20 - Pier Paride Vidari: Memorie berlinesi......................................................................................................pag. 23 3 Esodi - Ennio Abate: Intervista a Michele Ranchetti su «Non c’è più religione» + Nota ...................................pag. 25 - Luca Ferrieri: La politica è sempre una poetica. Un dia-tria-logo su guerra e pace ..............................pag. 32 4 Storia adesso - Daniele Santoro: Dalla silloge «Diario del disertore alla battaglia delle Termopili» .............................pag. 38 5 Zibaldone - Luciano De Feo: Scritto nelle stelle ..........................................................................................................pag. 40 - Ornella Garbin : Pace come dolce miele; Fiore bianco; Vento freddo + Per una critica dialogante 1...pag. 43 - Mario Mastrangelo: Na stella ..................................................................................................................pag. 44 6 Letture d’autore - Ennio Abate: Due conversazioni con Giampiero Neri + Nota..................................................................pag. 45 - Andrea Boeri: Secolarizzazione e legittimità dell’età moderna. Considerazioni sulla critica di Blumenberg alla filosofia della storia di Löwith ..............................................................................................................pag. 53 - Mariella De Santis: Un io crudele e molteplice. Individualità e soggetto in Janet Winterson, Ingeborg Bachmann e Agota Kkristof + Per una critica dialogante 2 .............................................................................pag. 55 -Marco Gaetani: Sartre fuori moda ............................................................................................................pag. 58 -Loredana Magazzeni: Alda Merini e l’erotismo polimorfo del materno + Per una critica dialogante 3 pag. 63 -Mario Mastrangelo: Sentimento dolente ed aura di magia nella poesia dialettale di Lilia Slomp ..........pag. 66 -Fabrizio Podda: Porte, cesure e il dolore della mente. Una lettura di «Donna di dolori» di Patrizia Valduga Per una critica dialogante 4..........................................................................................................................pag. 69 -Sergio Rotino: Lo spettacolo deve andare avanti. Intervista a Nicola Lagioia..........................................pag. 74 7 Sulla giostra delle riviste DeriveApprodi n. 23 giugno 2003 a cura di Spartacus .................................................................................pag. 79 Poliscritture 1 L’editoriale Cos’è POLISCRITTURE? Questa è una rivista che: 1. pur memore della sconfitta delle esperienze di emancipazione o rivoluzione del Novecento e del fallimento delle dissidenze nei paesi del fu «socialismo reale», non rinuncia a costruire samizdat di critica elementare contro le menzogne dei potenti, anche quelle travestite da «senso comune»; 2. sarà attenta al mutare non neutro delle relazioni tra tempi e spazi globali e tempi e spazi locali e ai modi soggettivi con cui ne percepiamo i segni nei tanti luoghi/non luoghi dove ci ritroviamo ad abitare o a viaggiare; 3. incoraggerà gli esodi sia come fughe e evasioni fisiche alla ricerca di libertà e sopravvivenza (quelli, ad esempio, dei migranti) sia come diserzioni mentali da valori comunitari condivisi per conformismo e non più verificati sui bisogni reali dei viventi; 4. si misurerà con la storia adesso, ripensando cioè anche contro il presente, mai di per sé migliore del passato, gli eventi, massimi o minimi, sovente rimossi dagli stessi dominati o accomodati dagli storici di professione per compiacere la vanità dei dominatori di turno; 5. nel suo zibaldone accoglierà una molteplicità di scritture “creative” (poesie, diari, appunti, racconti, ecc.), oggi in crescita tumultuosa, le farà dialogare criticamente tra loro e con quelle saggistiche e scientifiche, in modo che possano sottrarsi sia all’ipnosi dei modelli commerciali o accademico-specialistici sia al solipsismo, poiché - come ha scritto Augé - «la scrittura porta sempre con sé un distanziamento dalla solitudine in funzione di nuovi legami e nessuno scrive senza pensare a chi lo leggerà». 6. con le sue letture d’autore proporrà esempi di come dei lettori attenti e curiosi interrogano alla luce delle proprie suggestioni, emozioni e convinzioni opere di ogni tipo (dal romanzo al saggio, dal film al brano musicale, al trattato scientifico) in vista di un sentire e un agire in comune; 7. Per sondare vicinanze e distanze e confrontarsi con altri problemi e idee, salirà e scenderà sulla giostra delle riviste (cartacee o on line, specialistiche o divulgative), che sono in genere ancora laboratori di ricerca immuni dalla comunicazione-spettacolo; Questa è, dunque, una rivista di scritture plurali, come dice il titolo stesso. Ma in esso abbiamo inserito una ‘S’ in rosso, che evoca in sottofondo la polis, la città, fonte antica e più o meno mitica della politica e della democrazia. Vogliamo così segnalare ai lettori non una patetica nostalgia dell’antico ma l’intenzione di ristabilire in nuovi modi tra scritture e politica una tensione costruttiva che oggi si è perduta. E intendiamo farlo innanzitutto promuovendo il dialogo critico tra una parte almeno dei molti scriventi di massa, che oggi, digiuni o quasi di studi umanistici o vagamente acculturati su quelli scientifici, producono testi di ogni genere, e quanti, ancora critici e memori della lezione universalizzante dei “classici” (compresi quelli del Novecento), scrivono di filosofia, letteratura, arte, scienze e storia. POLISCRITTURE comincia a uscire nel 2005, in una situazione – antropologica e non solo culturale - molto mutata anche rispetto a un passato recente; e ha alle spalle un pezzo di storia diciamo il Novecento – che appare concluso nelle sue speranze di rivoluzione o di progresso e orrendamente inconcluso nella realtà della «guerra permanente». La consapevolezza di tale drammatico trapasso d’epoca ci induce, in fatto di scritture plurali, a non aggregarci, ingenui e plaudenti, allo sciame imponente della produzione corrente; e, in fatto di politica, a non chiudere gli occhi, malgrado troviamo repellente la politica odierna ridotta a spettacolo. In entrambi i campi - nelle scritture e nella politica - sentiamo il bisogno di misurare i concetti - per loro natura astratti e oggi più evanescenti e problematici che in passato ma comunque necessari - con le pratiche concrete; e di confrontare queste - spesso limitate, rituali e di sopravvivenza - con nuovi concetti che possano riscattarle e farle respirare verso il futuro. Poliscritture/Editoriale 2 E perciò intendiamo non trascurare, nel primo caso, le difficoltà di fare nuova cultura quando si è immersi in esperienze di vita e di lavoro che mal si conciliano non solo con la biblioteca o il laboratorio ma con la semplice lettura, la discussione seria e lo scambio fecondo; e, nel secondo, i limiti del dibattito non entusiasmante sulle due sinistre, la rifondazione e gli esodi svoltosi negli ultimi decenni. Vogliamo cioè verificare con rigore se e dove le scritture plurali diventino costruttive; e se e dove il riformismo, la rifondazione e gli esodi – per ora figure pallide, equivoche e troppo simboliche della politica postmoderna – mordano la realtà e si fanno più concrete e corporee. Fondare una rivista significa aggiungere a quelli esistenti un altro luogo di riflessione e di dibattito - speriamo ventilato – e al contempo rifiutare di confluire in qualcuna delle tante iniziative già esistenti e meglio attrezzate in denaro, strutture e saperi. Non lo facciamo per individualismo o provincialismo, ma per un profondo e ragionato rifiuto delle pose elitarie, iperspecialistiche o avanguardistiche - eticamente e spesso politicamente accomodanti verso i Poteri forti - che purtroppo ancora prevalgono in molte riviste, centri studi, fondazioni, circoli culturali. Preferiamo partire - pur in tempi difficili di guerre, di transnazionali, di oligopoli, di torture e di menzogna digitalizzata - da una precaria rete amicale di intellettuali senza notorietà accademica o massmediale, come se ne incontrano nelle scuole, nelle università, nelle case editrici, nelle biblioteche civiche, negli uffici, nei laboratori di ricerca. Noi che di questi lavoratori della mente facciamo parte, sappiamo sia i “vizi” (un certo snobismo di massa, il disincanto, il nomadismo: atteggiamenti spesso ideologizzati che decorano le nuove esche gettate dalle università, dai grandi giornali, dalla TV, dall’editoria e dalla stessa Internet e fanno sopportare condizioni contrattuali capestro) sia quanta ribellione e insoddifazione striscia sotto la crosta del consenso o del rifiuto a parole della «società dello spettacolo». E sappiamo pure che la conoscenza dei problemi reali potrebbe contribuire a costruire un modello positivo, più dinamico e antielitario, evitando a questa nuova intellettualità i rischi sia di epigonismo che di avanguardismo politico e artistico. Vogliamo perciò che POLISCRITTURE sia una rivista di riflessione proprio per quei lavoratori della mente che - stufi di modelli esibizionistici e divaganti o di fare solo soldi - vogliano operare al di sotto (se al di fuori non è più possibile...) dell’universo simbolico postmodernizzato e collaborare producendo atti scritti, individuali e collettivi, di resistenza, di comprensione del reale, di dialogo politico sui problemi dei molti, quelli che come noi lavorano o semplicemente vivono o sopravvivono in un mondo, che ha cancellato un secolo e mezzo di lotte emancipative e rivoluzionarie e si ritrova sconvolto dalle nuove guerre, dai disastri ecologici e da nuove forme di servitù. È il nostro un progetto troppo ambizioso, perché vuole raccogliere esigenze molteplici e muoversi in tanti campi, rischiando l’eclettismo, il vociare dissonante di Babele? A salvaguardarci da questi pericoli sarà la nostra capacità di dialogare, correggerci e cooperare nel nuovo spazio che qui apriamo. È una scommessa. Ma basta per partire. In questo numero prova gli intenti qui sopra dichiarati iniziamo a praticarli. I temi (guerra e pace, politica e politica italiana, percezione di luoghi e loro legami con la memoria individuale o collettiva, scritture d’autori noti meno noti o sconosciuti o “al femminile”o dialettali,ecc.) s’intrecciano e inseguono nelle varie rubriche. La pluralità dei punti di vista, degli accenti e degli stili è evidente. E invece di censurarla o mascherarla abbiamo cominciato i primi esperimenti di una critica dialogante che potrebbe rimettere in contatto vari livelli di ricerca separati e spesso stagnanti nell’ iperspecialismo o nell’immediatezza. Note e commenti non sono punzecchiature o provocazioni per esibire più sapere o bravura, ma inizi (a volte faticosi) di dialogo, che speriamo di consolidare nelle pagine e sul sito della rivista. Samizdat voce russa, “autoedizione”, opuscoli o riviste di controinformazione nell’ex-URSS. Poliscritture/Editoriale 3 1 Samizdat - Piero Del Giudice: Lettera di fine anno (2004) Care amiche, cari amici Per l’inizio dell’anno nuovo, voglio scriverVi una lettera, sapendo e sperando di non abusare di Voi. a) il direttore dell’Unità Furio Colombo ha aperto un dibattito: gli italiani sono o meno sottoposti a un regime? La mia risposta è “sì”. Per queste ragioni: 1) la violazione sistematica della legge fondante la Repubblica, la Costituzione. Nella guerra dispiegata all’Iraq, nelle violazioni dei diritti umani consumate in questa guerra, nelle pratiche di riduzione della autonomia della magistratura, nella legiferazione ad personam, nell’attacco al diritto di sciopero (prima di tutto nei servizi pubblici), nella violazione dei diritti della persona e dei diritti umani verso la popolazione immigrata, nelle pratiche e nelle manifestazioni di razzismo 2) il monopolio della informazione, la manipolazione radicale della informazione e dei dati della realtà 3) il conflitto di interessi, dal premier al ministro Lunardi, dall’avvocato Pecorella ai 94 tra deputati e senatori definitivamente condannati per reati vari 4) la violenza di piazza del governo – dal luglio di Genova in poi 5) la sovrapposizione del ministero degli interni alla magistratura: nella espulsione di lavoratori immigrati, di predicatori islamici, di islamici sospetti etc. L’elenco può continuare, ma la manifestazione più chiara della condizione di regime in cui viviamo è la scomparsa di una opposizione. E’ questo – la fine di una opposizione – il segno di un regime in atto. Nell’estate delle contraddizioni all’interno della destra, Berlusconi ha sfidato il segretario Udc Follini a lasciare la compagine affermando che “metà partito è nelle mie mani”. Detto a nuora perché suocera intenda il discorso vale per tutti. Quanta parte del centro-sinistra è nelle mani di Berlusconi? Dai singoli sul libro paga del signore delle televisioni, a gruppi, a correnti, a formazioni. Dell’inerzia della opposizione o della identificazione della opposizione con gli interessi di Berlusconi e della destra sociale, non si può dare una spiega- Poliscritture/Samizdat zione solo in termini di corruzione e di trasformismo parlamentare. Sono certo questioni esistenti, palpabili, ricche di episodi saporiti e venali, ma ciò che tiene salde e indistinte maggioranza e opposizione è una analoga visione del mondo. (consigliere DS di circoscrizione a Milano, brava persona e anche giovane: “Siamo moderatamente liberisti in economia, ma divisi – rispetto alla maggioranza - in politica internazionale”). Tutto chiaro. Ma, mentre il centro-sinistra manca di una base sociale coerente, la destra ha raccolto attorno a sé un blocco sociale consapevole e coerente, nonchè un elettorato sedotto e incoerente rispetto ai propri interessi – in libera uscita dalla sinistra. Il voto operaio e del lavoro indipendente è in libera uscita dalla sinistra da qualche lustro, sedotto sia dalle chimere localistiche, sia dalla demagogia della destra. Sedotto o meno, questo voto ha anche repulsione per una sinistra o un centro-sinistra o sindacati di riferimento che – senza progetto e senza annunci di futuro - guadagnano ruolo e funzioni, qui ed ora, dalla mediazione tra potere e società civile, tra operai e padroni. Vale per tutti la riforma della scuola iniziata dalla sinistra e finita dalla destra, il dilagare del lavoro precario impostato dalle leggi della sinistra e da larghissime quote dei sindacati confederali, sostanzialmente dedite a servizi appaltati dallo stato e a cogestire ristrutturazioni e atomizzazioni. (a Como, per dire una città, la Cisl ha istituto una cooperativa che fornisce autisti pro tempore alla azienda municipale. Durata dei contratti: quattro mesi) Il movimento operaio e del lavoro dipendente hanno dimostrato - storia passata e recente - che è la loro presenza, il loro materiale e ideale fondamento, che producono la nascita della democrazia e la vita della democrazia, innovandola di continuo con le loro lotte – dato che essa è mutante come tutte le cose vive. Chi ha fondato la democrazia è il movimento operaio che, con la Resistenza armata, ha imposto il patto transitorio/fondante della Costituzione repubblicana. Chi ha innovato la nostra democrazia è nel ‘68-70 - il movimento operaio – quello delle assemblee, dei delegati. Naturalmente con alleati e nuovi proletari, con nuove culture e nuove ricchezze. Un blocco sociale, appunto. Oggi solo con un movimento diffuso democratico che segue e si innova sugli itinerari complessi e frattali del lavoro precario si può avere un allarga- 4 mento vitale della democrazia. Oggi solo con un movimento che si basa sul lavoro diffuso, sullo sfruttamento globale del proletariato mondiale, sulle nuove culture del movimento no-global e del movimento interno degli immigrati si può rifondare e innovare sviluppo e democrazia. Questa esigenza di rifondazione e innovazione dei rapporti, della politica e della democrazia si riflette su ognuno di noi, nella nostra quotidianità: si pensa, si scrive, ci si relaziona, si presta la propria professionalità. Non c’è iato tra consapevolezza della dimensione globale dello scontro e della multiculturalità delle presenze, con la nostra quotidianità. E’ una fase di “responsabilità” esaltante che ci investe. Ed è dunque un problema di coscienza, coscienza di classe, storica, e dato il momento epocale che viviamo, coscienza di “specie”. E’ questa complessiva coscienza che si mette di fronte al “terrorismo”, evocazione indistinta della destra e della sinistra unite. Di fronte alla disperazione-e-lotta - degli uomini e delle donne che in Palestina o in Iraq scelgono di uccidersi uccidendo. Di fronte ai corpi e alle menti incatenate nelle sentine di Abu Ghraib, di Guantanamo e affossate negli altri lupanari sparsi, delegati alla tortura per la maggior potenza. Di fronte al fatto che distruggono intere città e la chiamano “pace”, sterminano centinaia di migliaia di persone e la chiamano “democrazia”, affermano che “Dio è con noi” occupando con le armi interi paesi per organizzare sul luogo la rapina delle materie prime. Se non possiamo stare dalla “parte degli infedeli” – e non possiamo – dobbiamo da qui pensare e praticare una via di uscita. La tragedia immane che colpisce il sud-est asiatico è tragico effetto di dominio, è il genocidio di una classe, di classi, su altre, di un quota sociale di abitanti della Terra “messa al sicuro” e di una stragrande parte del mondo tenuta sotto sfruttamento e soggezione. (Con un banale investimento in allarmi costieri gli abitanti dei paradisi pro tempore del turismo internazionale si sarebbero salvati. Ma il capitale e le multinazionali del turismo che investono nei paradisi dell’oceano indiano non vedono e fanno profitti proprio sulla mancanza di sicurezza delle popolazioni che lo stesso capitale chiama sulle coste. Sarebbe bastato un vantaggio di pochi minuti, quanti nel occorrono qui da dove scrivo a Monterosso per salire dal mare al convento dei Cappuccini. Il peggio deve ancora venire, le periferie delle nostre città, le condizioni di salute e di servizi nelle periferie delle grandi metropoli occidenta- Poliscritture/Samizdat li, non sono che una pallida metafora di quello che è accaduto e accadrà nel sud-est asiatico.) La democrazia ha un fondamento di classe e dentro lo scontro di classe. Il blocco sociale della destra ha un’idea del potere, delle gerarchie, del dominio sociale e della gestione verticale della società. Recente e a suo modo clamoroso il dispiegamento, la prova, di questa conduzione di potere. Una sorta di luglio di Genova senza morti e scontri di piazza. Una plateale affermazione di dominio. Il 7 dicembre si è inaugurato a Milano il nuovo teatro alla Scala. Demolito l’antico manufatto artigianale senza alcuna ragione e distrutti gli antichi equilibri (acustica etc.). Spesa: 180 miliardi di vecchie lire. Si sarebbe potuta aggiornare gran parte della rete ferroviaria lombarda che affligge e stordisce con disfunzioni continue, ritardi e incidenti i fiumi di lavoratori dipendenti pendolari. Ma quella delle condizioni di lavoro non è una priorità nella città del lavoro precario e del lavoro nero. Il 70% dei cantieri edili è clandestino. I mazzieri della Lega e di An reclutano e vigilano, dei iure e de facto, sul proletariato immigrato. En cas de malheur, i resti vengono gettati fuori dai cantieri sulla strada, poco lontano Si è fatta la nuova Scala. Una “eccellenza” senza senso. Si è distribuita la grandezza della “festa” attraverso giganteschi schermi in tre punti della città: l’ottagono della galleria, il teatro Dal Verme solo per i vecchi e le vecchie, il carcere di San Vittore. Già affrontare l’Europa riconosciuta di Salieri in condizioni normali è una impresa, per i detenuti (la cui gran parte è costituita da stranieri e che vivono quattro/sei per cella) un afflizione ulteriore, per gli anziani – separati anche in questa occasione dal resto della popolazione – un polpettone soporifero. Un dispiegato populismo degenerato e sapore di Brazil. Troppo parlare di Brazil? Il fuoco millenario ed eversivo del Natale (coppia instabile con una maternità extraconiugale, profughi erano, sovversivi, perseguitati e in fuga e sulla scia della fuga il sangue della strage dei bambini,), sopra le folle sbandate, vaganti, dei consumi natalizi, non è Annuncio, non è Brazil? Qui ed ora nella città delle “eccellenze”, dello spettacolare, il ghigno irrisorio del potere. Negli spazi preposti hanno potuto manifestare rappresentanze dell’Alfa Romeo e dei precari. Metropolis è nella mani dei gangsters, le loro riunioni dei convegni di mafia. Su tutto – dalla peste della guerra alla peste del lavoro precario, dalla riforma della scuola alle libertà individuali e di coppia, dalla condizione di vita e di lavoro del lavoro dipendente italiano e immigrato, dalla responsabilità individuale alla responsabilità storica, alla coscienza “di specie” – la sinistra riflette pallidamente e da vertiginose distanze le condi- 5 zioni del presente. Chiacchiere di mediatori senza ruolo. Penso a un fenomeno come la Caritas – apprezzabile in alcune città - cui i sindacati e la sinistra hanno delegato la tutela dei “poveri”, – dunque – irredimibili; a tutte le pappe delle assistenze apprezzabili ma inerti (alle Sant’Egidio e altri santi) senza sviluppo politico, di organizzazione e di lotta, alle decine di migliaia di associazioni – la stragrande parte inutili e caselle di “tempo libero” e clientele, ma anche utilissime -, alle nuove organizzazioni di base sul lavoro (i Cub, i Cobas etc.), alle organizzazioni che stanno nascendo nei quartieri popolari (di palazzo), alla spinta crescente di relazionarci, incontrarci, a partire dai posti di lavoro e dalle contraddizioni sul lavoro, rimetterci a pensare a come modificare la realtà e il mondo, al desiderio crescente di lotta e liberazione. Dobbiamo tornare a organizzarci e lottare. Per un nuovo anno, Vostro Piero Del Giudice Monterosso 31.12.04 - Giulio Stocchi: Due sorelle: Giuliana e Mithal Quanto vi apprestate a leggere è composto di parole scritte tutte da Giuliana Sgrena, tratte dal suo appello e da un articolo dell’1 luglio 2004, su Mithal, una detenuta di Abu Graib. Si tratta dunque della storia di due prigioniere, vittime, se non della stessa mano, certo della stessa ingiustizia. la storia è lunga i particolari dolorosi giorni di inferno Dalla fine di gennaio ero qui per testimoniare La situazione di questo popolo Che muore ogni giorno alla fine mi hanno portato in una cella un metro per un metro e mezzo con una bottiglia d'acqua e mi hanno lasciata lì per sei notti Bambini vecchi le donne Sono violentate E la gente muore ovunque Per strada l'abbiamo rincorsa per mezza giornata e poi un nuovo appuntamento a casa sua Poliscritture/Samizdat LA LETTERA DI PIERO DEL GIUDICE Non ha più niente da mangiare Poliscritture discute Non ha più elettricità Non ha acqua Subito dopo aver ricevuto la Lettera di fine d’anno di Piero interviene nella mailing list della rivista Luciano De Feo. “È stato come ricevere una scudisciata in pieno viso! Finalmente a volte facevano mettere un centinaio una persona che ha il coraggio di dire a chiare lettere una di prigionieri terraricorda e poi“le bombe della pace”, la verità scomoda”. per De Feo vi passavano sopra politica imbelle della opposizione, le “mene consociative” che a Salerno hanno partorito il “mostro a più teste delle società miste”, il comportamento della Caritas che “sottrae i Vi prego generi più appetibili” e riserva ai diseredati i pacchi di pasta Mettete fine all’occupazione scaduti. L’invito di Luciano è a tener desta, come fa Del Giudice, la capacità critica e anche quella di indignazione, eravamo spesso costrette a che bereverranno. entrambe indispensabili nei tempi Non d’accordo, invece, con parte delle argomentazioni di l'acqua del cesso Del Giudice, si dichiara Luca Ferrieri, innanzitutto perché “non si può dimostrare l’esistenza del regime con Lo chiedo al governo italiano l’inesistenza dell’opposizione”. Poi perché è anche frettolosa chiedo aldell’opposizione popolo italiano laLo liquidazione politico-sociale, che è forse Perché faccia sul fasi governo entrata in una dellepressione sue ricorrenti di latenza ma non è in uno stadio terminale. Anche Ferrieri condivide comunque la necessità di massaggia un aggiornamento del dibattito sul “regime”, mithal si le mani perché sicuramente si è di fronte a una forte riduzione degli ricordando il laccio troppo stretto di vita e spazi di libertà,che a unper peggioramento delle condizioni eranoadiventate tutte nere dilelavoro, un aumento della censura, del razzismo, della violenza. Condivisibili le affermazioni di Piero non riusciva più a muoverle sull’inefficienza dolosa della macchina dei soccorsi in Asia, molto meno quelle sulla Caritas e sull’associazionismo, ritePier ti prego aiutami nute da Ferrieri “ingenerose e non documentate”. Per piacere fai mettere le foto dei bambini Per Pier Paride Vidari viviamo in un regime se pensiamo Colpiti dalle cluster bomb allo strapotere manipolatorio di media e tv, ma certamente no se intendiamo assimilare il berlusconismo a una dittatura e al fascismo. prese il potere con la violenza, uccidenl'ombraMussolini nera di kajal dofaerisaltare confinando, Berlusconi compra tutti e tutto e pensa ad il color grigio-verde arricchirsi con qualsiasi metodo. Berlusconi è il prototipo dei dei suoi grandi “furbi” e anche per occhi questo è ammirato e votato da molti italiani. Ciò che ci difetta di più è il “senso etico collettivo”. In questo senso i tempi e saranno sempre più brutti. Chiedo alla mia sono famiglia Ennio Abate propende per la tesi del regime, soprattutto Di aiutarmi quando pensa al quadro mondiale, ma, precisa, per un’inclinazione “emotiva”. Non lo convince, invece, ciò che una soldatessa Piero fa discendere dalla sua “certezza del regime”. Intanto slegate per permetterle legliele molte aveva connivenze tra Destra e Sinistra non hanno ancora di andare in bagno “aperto gli occhi alla gente”, che permane in stato di grande confusione. C’è ancora iato, quindi, tra “consapevolezza dellaEdimensione a tutti voiglobale dello scontro” e quotidianità. Non si può, inoltre, parlare di “regime” sulla base di un’analogia col Che avete lottato con me fascismo, senza cogliere le caratteristiche di novità di questo nuovo regime che conserva invece “l’involucro democratico” e allora ottieneioprobabilmente stessi risultati con altri mezzi. le ho dato igli miei orecchini Diversamente da Luca, Ennio però ritiene che lo stato delle sinistre e dell’opposizione sia ormai devastato, e pensa che Contro la guerra mai più coscienza di classe e coscienza di specie, destra e sinistra torneranno ad avere “il ruolo di grandi spartiacque” iopassato. non ho fatto nulla di male del Donato ritiene paura? che il processo di formazione di un perchéSalzarulo dovrei avere regime sia “abbondantemente in corso” e il regime è quello “democratico maggioritario”. La “dittatura della maggioranContro l’occupazione za” ha fatto ormai a pezzi la democrazia rappresentativa. Il berlusconismo è un aspetto (non il motore) di questa crisi. E dalle accantol’opposizione arrivavanoistituzionale, le urla see èpoi vero che celle è scomparsa ciò non si può dire di quella sociale: negli ultimi degli uomini torturati pianti e grida anni le piazze si sono piùregistrate volte e su eunritrasmesse programma di resistenza e che riempite venivano difesa dello stato sociale. Il problema è che tra le due oppotutta la notte ad alto volume szioni, quella politica e quella sociale non c’è più saldatura: queso è l’aspetto più pericoloso e questa la china da rimontaVi prego re. 6 Aiutatemi insieme ad altri suoni di passi sulla ghiaia che si avvicinavano ma lì c'era solo sabbia Questo popolo Non deve più soffrire Così ho riconosciuto alcuni detenuti, come Abdul Mudud al quale erano state rotte le mascelle e tolto un occhio Ritirate le truppe dall’Irak Nessuno deve più venire in Irak la destinazione era Abu Ghraib. un'irachena venuta da fuori, mi dava qualche banana Perché tutti gli stranieri Tutti gli italiani Sono considerati nemici in una stanza grande c'era un dottore che voleva che mi spogliassi minacciava di tagliarmi i vestiti addosso Sui bambini colpiti dalle cluster bomb Sulle donne una delle prigioniere costretta a camminare a quattro zampe aveva ginocchia e gomiti completamente rovinati Ti prego aiutami a un'altra hanno fatto separare la merda dall'urina con le mani Aiutami a chiedere Il ritiro delle truppe così è arrivata la soldatessa nera che mi urlava in continuazione Aiutami ma visto che non mi spaventava alla fine si è scusata sei coraggiosa mi ha detto Lo chiedo a mio marito Lo chiedo a Pier Aiutami aiutami tu una donna di sessant'anni che aveva detto di essere vergine veniva sempre minacciata di stupro Per favore Fate qualcosa per me Tu solo Mi puoi aiutare fino in fondo alla fine gli ho chiesto di poter almeno tenere la biancheria intima e lui ha accettato un'altra aveva il corpo rovinato perché veniva sbattuta contro il muro Pier Aiutami tu Sei sempre stato con me In tutte le mie battaglie gli Stati Uniti hanno occupato il nostro paese abbiamo il diritto di difenderci Ti prego aiutami A chiedere il ritiro Delle truppe un'altra è stata rinchiusa in una piccola gabbia per sei giorni non poteva nemmeno muoversi Io conto su di te La mia speranza È solo in te mi hanno portata in uno stanzone gelato, io battevo i denti in bella mostra c'erano tutti gli strumenti della tortura a volte alzavano il riscaldamento al massimo e per dormire dovevo buttarmi addosso Fai vedere tutte le foto Che ho fatto sugli irakeni quella poca acqua che mi davano a volte non mi davano né acqua né cibo Poliscritture/Samizdat Tu devi aiutarmi a chiedere Il ritiro delle truppe 7 Tutto il popolo italiano Deve aiutarmi i bambini li sentivamo urlare anche loro venivano torturati Tutti quelli che sono stati con me In queste lotte soprattutto venivano fatti assalire dai cani Mi devono aiutare un giorno mi hanno fatta appoggiare al muro con le mani alzate ma io non ce la facevo a restare così La mia vita Dipende da voi alla fine ho chiesto di poter scrivere qualcosa ai miei figli perché mi sarei suicidata Fate pressione sul governo Aiutatemi sono stata rilasciata dopo ottanta giorni e mi hanno anche restituito gli orecchini Questo popolo Non vuole occupazione gli Stati Uniti hanno occupato il nostro paese abbiamo il diritto di difenderci Non vuole le truppe abbiamo il diritto di difenderci Non vuole stranieri io non ho fatto nulla di male perché dovrei avere paura? Aiutatemi io non ho fatto nulla di male Ho sempre lottato con voi Poliscritture/Samizdat 8 2 Luoghi /non luoghi - Marina Massenz: Luoghi non luoghi e Luoghi delle ombre LUOGHI NON LUOGHI Venivo a fare la spesa con mia madre al “MERCATO RIONALE”. L’edificio in muratura racchiudeva piccoli negozi rannicchiati, ognuno con la sua specialità. Il mio preferito era la “drogheria”, perché sinonimo di biscotti, cioccolato e altre delizie. All’esterno invece stavano le bancarelle della frutta e della verdura. Si faceva la coda ai due lati, corrispondenti a due commessi e a due bilance. Era un quartiere come un altro, allora semiperiferico, della mia città. Perché adesso sopra c’è scritto BINGO in rosa, hanno rifatto la costruzione, che rimane sempre tarchiatella e un po’ sformata. Entrano ed escono persone, non si sa bene cosa facciano lì. Io non entro, e quindi non dispongo il mio corpo in alcun modo; ci passo davanti in automobile, mi fisso sul semaforo, impongo al mio collo di non girarsi a destra. Non voglio vedere la scritta in rosa, con i suoi caratteri grassocci. Me la immagino simile ad un elefante addestrato, ricoperto di drappi molto colorati, con nastri e campanellini penzolanti, di quelli che con la proboscide chiedono l’obolo. I non luoghi si distinguono dagli altri perché tutto ciò che è lì potrebbe anche non esserci. Non si tratta però di precarietà o naturale incertezza della vita, ma di pura bruttezza e disordine casuale. Non quindi della versione colorata e creativa di un artista arruffato e un po’ eccentrico, ma di quella trasandata, un po’ sciatta e maleodorante di colui che lascia i suoi oggetti, e con questi i suoi rifiuti, un po’ dove capita. Senza pensarci. Questa sventatezza li disegna; così i luoghi trasudano questa dimenticanza, questa stoltezza del passo, che non vede e non guarda. Il luogo diventa non luogo, perché inabitabile dall’uomo, ostile alla fantasia, senza orizzonte. Semicupo. Distogliere lo sguardo permette di scivolare oltre, illudendosi di non aver visto. Non c’è SGUARDO, perché non c’è CORNICE. Poliscritture/Luoghi non luoghi LUOGHI DELLE OMBRE Le ombre scendono da massi enormi allineati, giganti con forme diverse, e strisce più scure le tagliano trasversalmente. In mezzo, il laghetto mostra una superficie color verde chiaro, un colore d’erba. Uno strato compattissimo, un panno di stratificazioni di minuscole alghe, così denso e omogeneo che, per convincersi della sottostante presenza d’acqua, si deve gettare un sasso. Affonda, c’é. La zona, bisogna salire un po’ per trovarla, è nascosta tra cespugli folti di lentisco, rocce laviche scarnificate (uteri…fauci…occhi…) e perfette palme nane, dai tronchi larghi e pelosi, cariche di grappoli di bacche arancioni, sferiche, che paiono di cera, per quanto sono lisce, scivolose al tatto. Qui, nell’ora del tramonto, le ombre si allungano sul lago; e sono ombre fisse, come sulla terra… ci si potrebbe camminare sopra senza incertezze, se si scorporasse questa piccola zona dal resto del paesaggio intorno (gli indizi delle rive, un po’ fangose, che scendono, darebbero indicazioni diverse, e sicuramente ci si chiederebbe, esitando, terra o acqua?). Sotto c’è l’acqua, ma l’ombra non vibra, non palpita al passaggio del vento, non si preoccupa e non dà segni, come solitamente fa, quando poggia sul liquido anziché sul solido. I luoghi delle ombre sono pericolosi, perché si incontrano paesaggi che contorcono i confini della realtà, modificando senza preavviso i noti rapporti tra l’ombra e la terra, l’ombra e l’acqua. Consentono sconfinamenti. Calpestare la propria ombra potrebbe indurre a confondersi con lei. Lo SGUARDO perde di vista la CORNICE, si fissa su un punto metamorfico e lì si incanta. Come ipnotizzato, visione focalizzata, penetra nella densità della materia, perché questa si trova in quel luogo camuffata. È cosa diversa da ciò che pare. Per questo ci inganna, e insieme ci seduce. Ci porta con sé, ad esplorare questo punto misterioso, per mille divaganti sentieri. Il ritorno non è garantito. Infatti lo sguardo, privo di cornice, da solo non conosce le strade dell’andare e del venire. 9 - Donato Salzarulo: Noi del Forum cittadino e quelli del collettivo del Quartiere Stella a Cologno Monzese A Milano, alla fine di Via Palmanova, a NordEst, si trova Cologno Monzese, oggi città di 48.262 abitanti. Ci si arriva comodamente anche in metropolitana (linea verde). E dalla periferia di Milano, come per tanti altri ex-paesi della cintura (tutti in aperta campagna fino agli anni Cinquanta), quasi non si distingue più: un ammasso di edifici e un intrico di strade e stradine solo qua e là punteggiati da piccoli parchi. La trasformazione di Cologno Monzese - da paese a città in quegli anni e poi da territorio industrializzato con piccole e medie fabbriche (metalmeccaniche, della plastica, della carta) fino agli anni Settanta a nodo del terziario (sul suo territorio ci sono gli studi televisivi Mediaset) - è avvenuta tutta nel solco della storia dell’immigrazione meridionale e veneta dell’Italia del “boom”. Con le sue lotte operaie prima e con le sue resistenze quotidiane, che continuano ancora oggi sotterranee, senza riflettori, dimenticate dai solerti piazzisti di menzogne postmoderne. Il Forum cittadino e il Quartiere Stella di cui qui di seguito si parla sono oggi due fucine di cultura e di resistenza politica indipendente. Hanno a che fare con la postmodernità o con il postfordismo? Nascono da un bisogno collettivo di fare luogo anche dove lo squallore della vita di periferia sembra immane? Contrastano con efficacia l’avidità di chi i luoghi li vuole azzerare e sostituire con i nonluoghi o semplici ghetti dove ficcare gli scarti del nuovo lavoro flessibile? Non abbiamo risposte sicure. Ma la realtà in trasformazione e queste nuove forme di resistenza intendiamo guardarle da vicino e con attenzione. Occhio perciò al Quartiere Stella, edificato nei primi anni Sessanta e che ai tempi della Grande Immigrazione fu già centro di lotta sicuramente proletaria attorno al ’68-’69. Oggi vi risiedono 1650 abitanti, di cui circa il 20% schegge della Nuova Grande Immigrazione Planetaria e – fuori dalle mode – sembra che continui a tessere il suo filo rosso in un tessuto sociale trasformato. Vado all’incontro col Collettivo del Quartiere Stella. Parla Gilberto, vecchio amico. In un quarto di secolo ne hanno fatte di cose: un bel Centro spazioso e accogliente, ove Poliscritture/Luoghi non luoghi danno lezioni di scuola popolare ai figli dei proletari. Gilberto fa una pausa. Usa con vago imbarazzo la parola proletari, scomparsa dagli scenari discorsivi. Come si chiamavano nei primi anni Settanta, precisa. Ora hanno per alunni i figli degli immigrati “extracomunitari”. Nel Quartiere, infatti, si sono insediati molti peruviani e filippini. E non soltanto. Sono stati bravi gli amici del Collettivo: per conservare autonomia hanno investito parte dei loro risparmi in locali indispensabili per incontrarsi, comunicare, rifornirsi di socialità e identità. Noi siamo coloro che oggettivamente siamo, ma siamo anche come ci raccontiamo. Gilberto ha letto Aristotele e Wittgenstein. Siamo un organismo di avanguardia…che fa lavoro di massa…un intervento culturale nel movimento operaio nel quartiere. La lingua indugia ancora su parole e concetti come avanguardia, massa, movimento operaio. Suppone che appaiano spettrali alle orecchie degli interlocutori. Quando il primo giovane del Quartiere si laureò, gli organizzarono una bella festa. Obiettivo raggiunto: di appartenenza, di orgoglio sociale. Al Collettivo continuano, non a torto, a pensare che vi siano correlazioni tra condizione sociale e livello d’istruzione: gli operai, anche se sono scomparsi dai discorsi, aggiunge, ci sono ancora e hanno un minor numero di figli laureati. E correlazioni vi sono pure tra condizione sociale e salute: se gli ospedali e le visite mediche si continueranno a privatizzare e, prima di ricoverarti, dovrai tirar fuori il cartellino dell’Assicurazione, a pagar più di tutti saranno i poveri. Cristianamente, gli ultimi. La cultura del Collettivo è un composto stabilizzatosi di tradizioni: c’è Don Milani e la storia socialista e comunista del Movimento Operaio. Sempre tremolante la voce di Gilberto. Pure non si tratta di seduta spiritica. È un incontro civile, sereno; un colloquio solidale fra persone che si ascoltano volentieri e reciprocamente. Noi abbiamo chiesto di vederli, noi, voglio dire, quelli del Forum perché intendiamo riorganizzare la nostra esperienza. Vogliamo che non muoia quell’embrione di democrazia partecipativa vissuta in piazza, 10 durante la campagna elettorale del Duemilaquattro In quell’occasione abbiamo sostenuto il candidato sindaco Vittorio Beretta, un lavoratore sindacalizzato cattocomunista, lettore di Raniero La Valle e di Don Tonino Bello, che oggi si augura l’elezione a Papa del Cardinale Martini. Spero nel soffio dello Spirito Santo. L’abbiamo sostenuto perché stanchi e insofferenti di questa sinistra televisiva ufficiale, specialmente diessina disposta a dimenticare tutto: il lavoro, il comunismo democratico, i diritti e lo stato sociale…. fino a Fassino che, all’ultimo congresso, mandando in soffitta la berlingueriana questione morale, sdogana come riformista e modernizzatore Craxi. Riformista, parola pessima. Oggi più di ieri. E modernizzatore? E Centro? Le parole della politica massmediale sono olio di ricino. Impossibile assumerle. Il Collettivo giustamente rivendica autonomia anche dalle istituzioni. Confronto sì. Se necessario anche coprogettazione, com’è successo per la realizzazione del Centro, ma niente trappole. Chi siamo lo diciamo quotidianamente coi nostri bisogni e le nostre azioni. Sappiamo chi può davvero rappresentarci nelle istituzioni. Sicuramente non quelli che, fin dall’inizio, si mettono contro i nostri bisogni. Qui, dove s’erge la Torre di Mediaset che ognuno potrà vedere dalla Tangenziale Est, qui c’è stata una campagna elettorale davvero entusiasmante. Comunisti italiani, Rifondazione, militanti politici diessini che mai avrebbero ‘tradito’ il loro partito, partecipanti ad associazioni culturali, di volontariato, religiosi, insegnanti, intere famiglie, persone solitamente indifferenti o apatiche, una moltitudine si è incontrata e attivata per affermare il diritto ad una democrazia partecipata e realizzata, per quanto possibile, da subito. E questo contro chi, per accordi di vertice, vuole imporre alla città, ad ogni città, questo o quel candidato, questa o quella formuletta programmatica. Fu un momento di gioia. Cortocircuiti, scintille, illuminazioni. Per Cologno soffiò il vento collettivo dell’autonomia, dell’altra libertà non quella promessa dai proprietari liberisti, dell’autentica solidarietà. Fare società, farne un’altra. Persino il premio Nobel Dario Fo trovò il tempo per venire a sostenere l’esperienza. Poliscritture/Luoghi non luoghi Non passammo il primo turno per poco. Ci riversammo, a questo punto, sul secondo candidato del Centrosinistra: Mario Soldano, uno degli architetti del Piano Regolatore Generale, un diessino tutto partito, cresciuto tra frazioni e, guai a a chi rompe gli equilibri di potere. Persona onesta. Come Sindaco e come tecnico che ha progettato il territorio e lo conosce, quindi, palmo a palmo, vedremo quali risultati d’interesse generale riuscirà a portare nell’impalpabile Casa Comune dei colognesi attraverso gli interventi strategici di riqualificazione. Previsti su un territorio denso, già abbondantemente regalato al cemento. Ma qui c’è chi sogna sopraelevate, cunicoli e mondi sotterranei con negozi e centri commerciali frequentati da abitanti pieni di visioni. C’è chi sogna Ipercoop, cilindri multipiani, disneyland, non-luoghi, meraviglie tecnologiche. Gli amici del Collettivo vorrebbero, invece, l’interramento della Tangenziale Est nel tratto che, da Cologno Centro a Cologno Nord, divide in due la città. Un scempio d’altri tempi che ha regalato agli abitanti del Quartiere Stella, e non soltanto a loro, altissime soglie d’inquinamento. Noi siamo qui, infatti, per organizzare la prossima serata del Forum. Quella che darà avvio ai “contratti di quartiere”, un punto previsto nel nostro programma elettorale e che vogliamo costringere l’Amministrazione, comunque, a realizzare.. Venite, diciamo, venite e raccontate la vostra esperienza. Dite quel che di buono avete fatto e come, così che anche altri possano farlo. E poi indicate quali sono i problemi aperti, quelli su cui vi impegnerete nei prossimi mesi. Gilberto, è sempre lui a tirare le fila, legge il Foglio di sintesi dei contenuti e delle scadenze. Ah, quelli del Collettivo sono precisi! Preparano a puntino ogni incontro. Quando arrivi da loro, ti salutano, si presentano e ti danno il Foglio intestato col logo del Quartiere e la sintesi: A) Di quanto ci siamo detti la volta scorsa; B) Di quel che ci stiamo dicendo oggi pomeriggio; C) Degli accordi che prenderemo… Una perfetta macchina organizzativa. Noi del Forum siamo più fluidi. Loro lavorano e rispettano una metrica, noi seguiamo un ritmo. Loro hanno trovato un luogo, una nicchia dal- 11 la quale osservano Cologno e il mondo. Noi vorremmo afferrare i ritmi della città e scaraventare i suoi bisogni e le sue esigenze contro la burocrazia politica locale e non. Vorremmo, perlomeno, un po’ più di ascolto in una democrazia che si limita a perforarci e sondarci. E ,di cinque anni in cinque anni, ci abbandona alla solitudine del tubo catodico. Parliamo per quasi due ore. Tranquillamente e rispettando i turni. Non siamo in un salotto televisivo. Non pensiamo che sbaragli l’avversario chi parla di più o chi più alza la voce. Ci accordiamo sulla gestione della prossima serata. Ci ripeteranno chi sono, cosa fanno e su quali problemi si impegneranno: da quello del degrado interno del Quartiere a quello della gestione del vicino parco, dall’uso degli spazi sociali del Centro alla questione del traffico e all’interramento del mostro Tangenziale. A questo punto, una visita al loro gioiello, al Centro sociale è d’obbligo. E’ una costruzione di circa 200 metri quadri col tetto spiovente, edificata di fronte al Quartiere, nel piccolo parco (un tempo discarica). Sulla porta la targhetta della Cooperativa Don Milani con l’elenco di alcuni sottoscrittori. Entrando, si è immessi sul corridoio; subito a destra il piccolo ufficio, poi la prima grande aula e poi la seconda; in fondo i servizi igienici. Soffitto alto e arioso con le travi di legno come in certe chiesette di montagna. Arredo adatto all’attività educativa e sociale che vi si svolge. Sulla grande lavagna le parole e le date di prossime riunioni. no col confondersi per trasformarsi nel grido corale degli oppressi di ogni dove. - Giulio Stocchi: La strada verso casa Chi mi ringrazia, cantando dal ramo dell’albero in cortile, è Mister, che è già venuto due o tre volte a mangiare in cucina. Mister è l’ultimo di una generazione di merli Rambo, Smart, Drin Drin, Caruso e le loro compagne, Cina, Natalina, Chellallà, Chellallì - che da tredici anni mi onorano della loro fiducia e della loro amicizia. Chissà come fanno i merli a sopravvivere - mi dico guardando il cielo avvelenato di questa città. Eppure tanti anni fa, quand’ero ragazzo e uscivo da questo stesso portone, l’aria mi pareva così tersa, così profumata…Sto proprio cominciando ad invecchiare, se ho di questi rimpianti, mi rimprovero avviandomi Poi, finalmente, esco. La bocca impastata di fumo, gli occhi che bruciano, e nella testa il ritornello - Due sorelle: Giuliana e Mithal… Two sisters… Dos hermanas… Zwei scwestern - che da ormai più di due settimane mi inchioda al computer, da quando ho deciso di far risuonare in tutto il mondo, tramite la rete internazionale Indymedia e innumerevoli altri siti Internet, l’implorazione di Giuliana Sgrena e la denuncia di Mithal al Hassan, due voci che finisco- Poliscritture/Luoghi non luoghi “Volgiti a me ed abbi pietà di me…”, diceva già più di tremila ani fa il Salmista. Già, e qualcuno dovrebbe avere pietà di me – sospiro mentre mi infilo in ascensore- o quanto meno dirmi grazie. E invece un silenzio sconcertante… Forse ha proprio ragione Ennio Abate, che un giorno mi ha scritto: “Finirai col diventare matto, da solo, nell’indifferenza e nella sordità della sinistra”. E poi il suo dubbio maiuscolo sull’efficacia della poesia e sull’atteggiamento intimamente tenero da cui la poesia nasce. Strano, lui che è un poeta, e un poeta tanto tenero –“Na file e piccirille/votte pe terre/cerase e nucellle.//Na file e guagliuncelle/se mange e cerase/e ammacche e nucelle.”- nel dialetto sonoro della Salerno della sua infanzia. E’ proprio vero: “gli uomini lo fanno, e non lo sanno”, come diceva il vecchio Marx. E tuttavia Ennio, un mio critico così severo, così puntiglioso e a volte persino esasperante, ha accettato immediatamente di pubblicare la poesia su Poliscritture, l’ultima delle innumerevoli riviste su cui conduce la sua assidua, attenta e intransigente battaglia culturale. Forse persino lui la ritiene utile… Io, comunque, sono convinto, e per questo mi sono messo al computer, che quella poesia su Giuliana, composta con le sue parole, potrebbe avere una sua efficacia, soprattutto se raggiungesse l’opinione pubblica araba. Già, ma debbo trovare qualcuno che, oltre a dirmi grazie, si prendesse la briga di tradurre in arabo la poesia e di inoltrarla ai media di laggiù. E invece, nonostante tutti i miei appelli, il silenzio, e non dico un grazie, ma neanche un crepa…. 12 verso le Grazie, nel consueto giro attorno all’isolato, per scaricare tensione e stanchezza e che ho battezzato “il giro dei disperati”. E l’occhio mi cade sulla facciata sontuosa dell’84 che, per una bizzarria della toponomastica cittadina segue, in Corso Magenta, l’88 di casa mia. Mattoni rossi, portone rinascimentale e un ricamo di bifore e trifore che impreziosiscono l’edificio: il palazzo dei Cabassi, i padroni del vapore di una volta, e oggi sede di non so quale finanziaria o multinazionale del gioiello. Davanti ragazze dall’avvenenza rapace, tutte in tailleurs rigorosamente gessati, e giovani dai capelli impomatati e dall’abito altrettanto rigorosamente blu, fanno crocchio, parlando e ridendo in attesa di entrare. Una delle ragazze mi guarda, forse per via del vistoso orecchino navajo che porto e che uso, insieme a medaglioni, braccialetti e anelli vari, per marcare la mia differenza da quegli elegantissimi greggi in regimental e vuitton. E qualcosa nel suo sguardo, o forse l’onda dei capelli biondoramati che segue il movimento del suo capo verso il mio pendente, mi fa ripiombare lontano negli anni quando, sugli inizi degli Ottanta, dal portone dei Cabassi, compariva, come da una quinta incantata, una splendida creatura, giovane, delicata e spaurita, tenuta per le spalle, in un gesto più di possesso che di affetto, da un bellimbusto, camicia aperta, petto villoso, catena d’oro, che l’esibiva come un trofeo. Era Terry Broom, la reginetta di bellezza dello Iowa, la ragazzina picchiata e violentata dal padre, sergente dei marines che cercava nella bottiglia di dimenticare il Vietnam, la poco più che adolescente che per fuggire quella violenza e inseguire il sogno che gioventù e grazia le promettevano, era approdata alle sponde della Milano da bere, nel giro delle discoteche e delle modelle. Ambienti fumosi, mani sudate, girandola di coca, fiumi di banconote e “vieni qui, Terry”, “fai vedere le tette, Terry”, “muovi il culo, Terry”, “dai ciuccialo al mio amico, Terry”… Così che una sera, nel palazzo dei Cabassi, Terry aveva preso una pistola e sparato in testa a D’Alessio, l’ultimo dei bulli che ne avevano tracannato sogni, dignità e giovinezza. Mi auguro abbiano destino migliore le fanciulle indossatrici che entrano ed escono nella giostra della loro bellezza dal portone del 78 che permette l’accesso al cortile dove è ubi- Poliscritture/Luoghi non luoghi cata nientemeno che “L’antica locanda Leonardo”, l’“hotel de charme”, come recita un altro cartello, e dove ero entrato accompagnando due ragazzoni del Texas che mi avevano chiesto informazioni e che, sotto lo sguardo divertito della bella thailandese, la moglie del bettoliere, faccia scanzonata da avventuriero, mi avevano offerto una mancia per le mie premure. Mi avevano scambiato evidentemente per un indigeno, anzi per un “local” molto servizievole. L’inguaribile anglofilia del nostro paese - non parla forse il torvo nano che ci governa di “Election day”, di “No tax day”, mentre noi attendiamo fiduciosi il “Fuck-off day”?- ha ribattezzato con un pomposo “Hair stylist” il bugigattolo di parrucchiere dove un tempo mostrava i suoi tesori di passamaneria una merciaia quasi centenaria che magnificava in dialetto meneghino i suoi articoli e dalle cui vetrine oggi, per tacita consuetudine e complicità, la graziosa lavorante sorride al mio passaggio. Risputata da chissà quale guerra, seduta sui gradini del “Max Market” - ma è proprio una mania, questa dell’inglese - mi aspetta la mia vecchietta. Vecchietta? In realtà, dovrebbe essere molto più giovane di me a stare alla scritta sul pezzo di cartone che fa da insegna all’improvvisato appello del suo commercio sono povera e ho tre bambini piccoli - e le monetine che le sono ogni giorno destinate scivolano tintinnando nella sua mano tesa mentre un sorriso stento e un ciao biascicato a mezza voce si perdono dietro i miei passi che si allontanano. “Con questo il mondo non cambia/le relazioni fra gli uomini non migliorano/l’epoca dello sfruttamento non è per questo più vicina alla fine”, mi ammoniscono i versi di Brecht che imparavo a recitare a diciott’anni - e ne sono passati quarantatre! - sotto gli occhi di cristalllo di Dora Setti, la mia insegnante di dizione, una gran signora di quella borghesia colta e intelligente, oggi scomparsa di fronte ai piazzisti che ci affliggono. E svoltando l’angolo per entrare nella piazza delle Grazie, me la rivedo per un attimo nera di folla, e le chiazze colorate delle bandiere, e i pennacchi dei carabinieri in alta uniforme e le divise bianche e blu delle crocerossine, e la testa bionda di Paolo Setti, - il nipote di Dora, che ai tempi dell’Accademia dei Filodrammatici non conoscevo e che poi è diventato mio grande amico -, china singhiozzante 13 in quel settembre sulla piccola bara della sorella, Emanuela, massacrata insieme al marito, il generale Dalla Chiesa, da mani che altri avevano armato nelle segrete stanze del potere. Sotto la facciata a capanno di quel gioiello architettonico che ha sempre il potere di rasserenarmi man mano che ne percorro la superficie fino al trionfo della cupola del Bramante, è tutta una raffica di flash delle macchine fotografiche dei giapponesi che come tante formichine sciamano di qua e di là, prima di mettersi ordinatamente in fila all’ingresso del Cenacolo. Ed ecco, immancabile come ogni giorno, all’appuntamento, un vecchio in bicicletta, vigoroso, un berretto di lana a incorniciarne il viso su cui spiccano occhi vivi e ridenti, il quale, legato con cura il suo velocipede al palo del cartello giallo che dà cenni storici sull’edificio, si avvicina a una giapponesina e, come l’ho visto fare da anni, comincia a parlare nell’idioma del sol levante, suscitando prima la sorpresa, poi tutto un portarsi la mano alla bocca per nascondere i risolini di compiacimento dell’esotica fanciulla. Così, ogni giorno. Tanto che un mattino mi ero risolto a chiedergli dove mai avesse imparato il giapponese. E lui, molto gentile, e con la fierezza del vecchio soldato, mi aveva detto che durante la guerra aveva fatto il marinaio sui sommergibili che spesso attraccavano a Tokyo, dove sostavano in rada anche parecchi mesi prima di riprendere il mare, e lì aveva imparato la lingua. Oggi il vecchio deve essere in gran forma, perché attacca discorso non con una, ma con un’intera frotta di leggiadre butterfly, e me lo vedo sparire nel bar di fronte alla chiesa, seguito dagli arigatò squillanti di quelle nipposirenette sulla scia dell’antico navigatore. Con meno perizia del vecchio, ma con altrettanta determinazione nel conquistare quel pubblico dagli occhi a mandorla, il venditore di cartoline sul portone del Cenacolo comincia a lanciare delle urla, che suonano al mio orecchio incomprensibili e gutturali, esaltando in giapponese, da perfetto imbonitore, la sua merce. Altrettanto gutturale e incomprensibile dovette suonare l’idioma di quegli esseri fieri e variopinti che comparvero fra gli alberi sotto gli occhi sbalorditi di Colombo e dei suoi marinai il mattino di quel dodici ottobre 1492 nell’isola Guanahani che il genovese, forse Poliscritture/Luoghi non luoghi ricordando chiese come questa, si affrettò a ribattezzare San Salvador. E del resto, come proclama il cartello sotto cui riposa la bicicletta del vecchio, la prima pietra dell’ambone di Santa Maria delle Grazie venne posata proprio nel 1492. E mentre qui, pietra dopo pietra, andava edificandosi questa perfezione di architettura, in quelle terre all’altro capo del mondo cominciava una lunga storia di sangue, di incendi, di rovine. Intere civiltà sbriciolate, uomini, donne, bambini a giacere sventrati e a braccia larghe sulla terra, e i prigionieri incatenati, legati alla ruota dei supplizi, dileggiati, sputati, frustati, generazioni di popoli considerati bestie da soma e nient’altro. E chissà se avrà avuto la faccia cordiale come quella del frate domenicano che esce dalle Grazie e che quando incontro saluto sempre, lui che l’anno della cometa che splendeva in Via Ruffini aveva fatto schermo ridendo con la sua tonaca agli occhi miei e di Deborah, la mia compagna, perché la vedessimo meglio, chissà se aveva quel sorriso, quell’altro domenicano, frate Bartolomeo de Las Casas, il difensore di quegli ultimi fra gli ultimi che erano gli indios. “Tu eri realtà in mezzo ai fantasmi/inferociti tu eri/l’eternità della tenerezza/sopra la raffica del castigo”, come scrive Neruda di quel buon frate. Una lunga storia che non si è mai interrotta – “uno pensa a questo risorgere camuffato/astuto, umiliato/del carceriere, della catena”, come dice sempre Neruda, con parole che potrebbero essere le nostre quando assistiamo ogni giorno in televisione alla lucida barbarie che, nutrendosi di petrolio, sta distruggendo in Irak un popolo e che ha messo in pericolo la vita di Giuliana Sgrena. Con Giuliana venivamo spesso a passeggiare davanti alla chiesa nei tempi in cui più ci frequentavamo, sarà stato il 1975. Giuliana era allora la ragazza di un poeta spagnolo, un giovane che si faceva chiamare Juan e che interveniva con un passamontagna alle assemblee del Movimento studentesco per non farsi riconoscere: apparteneva infatti al FRAP, il Fronte Rivoluzionario Armato Popolare, o qualcosa del genere e i servizi di Franco gli stavano alle costole. Del FRAP raccontava Giuliana sul giornale per cui allora lavorava, Fronte Popolare, diretto in quegli anni da Michele Cucuzza. E mentre Giuliana ha continuato a fare la giornalista, con la passione, l’onestà e la partecipazione che tut- 14 ti abbiamo conosciuto, Michele Cucuzza si è trasformato nell’azzimato coglione che presenta tutti i giorni nientepopo’dimenoche La vita in diretta, la trasmissione televisiva dove i nipotini di D’Alessio e di Terry Broom hanno modo di sfoggiare tutta la loro miseria e vacuità. Ecco, Michele e Giuliana sono i due volti che incarnano da una parte il disastro e dall’altra l’onore della mia generazione. “Non solo di te stesso/ma di tutta una generazione/ridente e disperata…”, scrivevo nelle notti piene di fumo sui fogli di un poema che negli anni avrebbero fatto mucchio, proprio nel dicembre di quel 1969 in cui, a pochi giorni dalla strage di Piazza Fontana, il 15 dicembre, mentre Pinelli precipitava dalle finestre della nostra democratica questura, ero venuto ad abitare in Corso Magenta 88. Quel riso e quella disperazione sul volto invecchiato dei ragazzi di allora si sono trasformati nella piega dura e nel lampo freddo del calcolo e della convenienza. Così, uno di quegli incappucciati spagnoli di cui parlavo, oggi professore universitario di estetica, critico d’arte di fama, quando gli ho chiesto se mi poteva tradurre Due sorelle, mi ha risposto, “mah, sai, non ho tempo, debbo andare in Uruguay per un congresso…comunque Giuliana è una mia grande amica, un abbraccio” e via… Lui che, ai tempi, di Giuliana era stato ospite. E pensare che Josephine Piccolo, la dolce poetessa italoamericana, e Hans Jessen, il giornalista satirico dello Zeit, me l’avevano tradotta in inglese e in tedesco senza che neppure avessi bisogno di chieder nulla. E così mi sono rivolto a Magda Castel, la pittrice catalana per la quale la parola amicizia vuol dire ancora qualcosa, e che ha spesso collaborato con me, facendomi, ad esempio, dono della bellissima copertina del disco della mia Cantata rossa per Tall el Zaatar. Chissà che fine avrà fatto Abu Ali, il feddayn che dormiva a casa mia, quando erano venuti in una trentina per lo spettacolo di Fo, nebbia del ‘73, e che avevo conosciuto due anni prima nella luce accecante del sud libanese, con una kefiah sul viso e il mitra in mano. “I palestinesi? Il loro torto è di non aver vinto”, m’ha detto una volta Claudio, un altro di quelli che volevano cambiare il mondo, un ex di Lotta continua… “Que sont mes amis devenus/que je les avais de si près tenus/et tant aimés?”, mi sorprendo a canticchiare i versi di Ruteboeuf sull’aria Poliscritture/Luoghi non luoghi di Léo Ferré, mentre, per concedere tregua all’amarezza mi avvio verso la chiesa. Quello che invariabilmente ha il potere di riconfortarmi ogni volta che entro alle Grazie è quel raggio di sole che, penetrando dalla lanterna del tiburio, danza sul pavimento al centro della navata e che induce ad alzare gli occhi che così si perdono nella vertigine geometrica di quella straordinaria cupola, seguendone le cinconvoluzioni, più su, più su, “oltre la spera che più alta gira”, fino a rimanere abbagliati da quel punto luminoso dove pare concentrarsi l’intero fuoco del firmamento. È la traduzione visiva, così immediata da togliere il respiro, di quello che noi poeti chiamiamo l’ispirazione, quando un pensiero, un rumore, un odore, un volto possono catturare tutta la luce dell’universo per restituirla in quel punto splendente da cui irradierà il futuro poema, parole cioè che, come le volute della cupola, iniziano a ruotare, a danzare, nella perfezione matematica del ritmo che le incatena. Il profumo dell’incenso ha su di me l’effetto che aveva su Proust la fragranza delle madeleines e convoca al mio fianco Pippo, il signor Nador, la Lea, la Nonnona, la Vido, il signor Sussich, lo zio Trojsi, la mamma e il papà, quando da Corso Genova, dove allora abitavamo, ci muovevamo verso le Grazie per incontrare alla messa di Natale, Pippo, l’amico dei miei quindici anni e la sua famiglia. Il chilometro o poco più che percorrevamo, mia madre e mio padre davanti, io e lo zio Trojsi dietro, segnava il passaggio da un mondo all’altro. Uscivamo dall’intrico di viuzze dietro Corso Genova, - la “casbah” di Milano, quando in Via Marco d’Oggiono c’era ancora l’Albergo dei poveri, ed era tutto un brulichio di traffici, come quando andavo a comprare le mie prime Turmac rosse dalla contrabbandiera, una profuga giuliana dagli occhi di maiolica e dalla scollatura che mi prometteva paradisi ignoti - e attraverso Via De Amicis e Via San Vittore varcavamo l’invisibile frontiera che divide gli esseri umani in classi. I Nador abitavano in Corso di Porta Vercellina, in una casa straordinariamente simile a quella dove abito adesso e che, in un certo senso, mi era predestinata, date le mie frequentazioni adolescenziali e i desideri che quei palazzi avevano suscitato in mia madre. Così che, quando nel 69 mia madre - che stava per risposarsi - e io - che avevo quindi 15 bisogno di una casa - avevamo scoperto che quel cartello “vendesi”, che avevamo guardato col sospiro di chi non potrà mai permetterselo, richiedeva una somma che i pochi soldi lasciati da mio padre bastavano a coprire, io mi ritrovavo, almeno toponomasticamente, al di là di quella frontiera che, del resto, con gli anni si era quasi dissolta, e mia madre realizzava un sogno. Casa di Pippo, dopo la messa di Natale, era il teatro di ben più laiche cerimonie: al tavolo verde un bel campionario di umanità seguiva con occhi attenti la chiamata dei punti allo scopone o le alterne fortune del poker: il signor Nador, un piccolo ebreo, commerciante in preziosi, dagli occhi furbi e dalle mani frenetiche, che aveva passato la guerra nascosto nell’intercapedine di un muro; mio padre, che conservava ancora la tessera del fascio e una foto che lo ritraeva in orbace e stivaloni quando lavorava da ragioniere all’Opera Balilla e con quell’ombra di tristezzza che ne appannava lo sguardo; Vidosava Sussich, la mamma di Pippo, una donna sontuosa, dagli zigomi alti, che sembrava una delle maliarde uscita da un film di Lubitsch; il signor Sussich, suo fratello e zio di Pippo, per consenso generale e considerate le sue misteriose e prolungate assenze, agente segreto, diceria che la piega amara del labbro in qualche modo giustificava; la Nonnona, lungo bocchino, novant’anni di vitalità e la voce roca addolcita dalla cadenza triestina; lo zio Trojsi, amico di famiglia e forse qualcosa di più per via della mamma, il Conte Alfredo Trojsi di Caterbi Ratti, anello con stemma, monocolo a causa dell’iprite respirata in trincea, che aveva dissipato una fortuna, eroe di guerra, la prima, e che mi incantava da bambino raccontandomi di quando era rimasto tre giorni a tenere a bada con una mitragliatrice gli austriaci e la cavalleria bulgara; mia madre, la mia dolce, la mia complice, la mia amica. Io e Pippo ci chiudevamo in camera sua ad ascoltare il sassofono di Jerry Mulligan e confidandoci i nostri segreti, i nostri sogni, i nostri primi, timidi amori, e cercando di indovinare le carte del nostro destino che ancora non ci erano state distribuite. Io mi alzavo spesso per andare in bagno e approfittavo del tragitto per sbirciare, passando davanti a camera sua, Lea che si stava cambiando. Lea… pelle d’ambra, piccoli seni sodi, occhi di gazzella, una sulamita nello splendore dei suoi diciott’anni… Poliscritture/Luoghi non luoghi “Sei bella, amica mia, come sei bella!/Le tue trecce si spargono sul petto/come greggi di capre/I tuoi denti balenano/come agnelle che salgono dal bagno/Le tue labbra son porpora che scocca/l’indicibile fiore del sorriso”…. E così, seguendo sull’orma del Cantico dei cantici il passo della bella Lea che si allontana negli anni, mi ritrovo, senza quasi accorgermene, nel chiostro della chiesa. Un posto incantato, dove da secoli si specchiano le quattro rane di bronzo nel lago della fontana che esse stesse contribuiscono ad alimentare con il chioccolìo dell’acqua che sgorga dalla loro bocca; dove quattro piccoli mandorli segnano i quattro punti cardinali del minuscolo giardino all’italiana che circonda la fonte canterina; e dove, quest’estate, nelle dolci sere di settembre, mi sedevo per ascoltare la voce che giungeva attutita dalla piazza di Vittorio Sermonti che recitava il Paradiso di Dante. Una dizione, quella di Sermonti, così precisa nella sua esattezza filologica e tanto diversa dalla voce straziante e straziata di Carmelo Bene dalle torri di Piazza Maggiore, una voce straziata come straziata era Bologna nel primo anniversario della strage che l’aveva ferita a morte. Lo sguardo segue il ritmo delle sottili colonnine tanto simili a quelle dei chiostri del Filarete, all’Università, dove spesso incontravo Giuliana, mentre entrambi correvamo trafelati a Fronte Popolare, io per portare una mia poesia e lei per consegnare un articolo su qualche guerra dimenticata. Già, Giuliana, mi dico, guardando l’orologio. E’ ora di tornare. Ma prima, uscendo dal chiostro in Via Caradosso, mi concedo una sosta in quello che, secondo me, è l’angolo più bello delle Grazie, dove la chiesa si rivela in tutta la sua eleganza e la sua grazia che, per essere più nascoste ed appartate, risaltano allo sguardo come tanti anni fa la curva dolce del seno della Lea che carpivo passando in corridoio. E anche qui è un gioco di curve, di proporzioni, di forme e di colori: il rettangolo bianco del chiostro con la cornice di cotto delle finestre che vanno a perdersi nei mattoni rossi della prima cinta muraria del corpo poligonale della cupola che svetta trionfante in una sinfonia di neve e di autunno e che, scandita dal rincorrersi sapientemente alternato di finestre, ogive, aggetti, gallerie e balconate, trova pace e culmine nel diapason del cristallo dell’ultima 16 torre e si slancia, quasi trascinata dalla banderuola segnavento che la sovrasta, a baciare il cielo. E quasi che la natura avesse voluto ricambiare il dono che la mano dell’uomo le aveva porto edificando sui suoi prati quella magia di pietra, ai piedi della chiesa, e come accarezzandola coi suoi rami, un immenso acero rosso, che da trentasei anni mi ha visto passare e cambiare, solo o accompagnato: cingendo Carole, il sorriso dei miei giorni di gioventù, e con una catena in tasca per difenderci dai fascisti; o quando passavo correndo coi miei fogli verso il metro di Cadorna che mi avrebbe ributtato in Duomo per recitare ai miei compagni; con Donato in tuta dell’Innocenti verso la fabbrica - “la cosa è lunga”, mi pare di risentirlo, “ci vuole pazienza” -; o cantando Lo cuatros generales con Giuliana e con Juan quasi che quella canzone potesse giungere all’orecchio del tiranno cui era destinata; o quando discutevo le sorti del mondo con Enzo, Ettore, Umbertino; e quella volta che accompagnavo Veronica spaurita all’ospedale perché il crollo degli anticorpi della sua malattia rischiava di ucciderla; o la sera di quel dicembre - “me ne vado!”, “te ne pentirai” - che divenne l’acero pietra di confine perché quelli che s’erano amati si allontanavano uno da una parte e l’Ornella scomparendo nella nebbia; e oggi che il passo è più lento, ma più sicuro, con Deborah a spiare se troviamo i nostri merli fra le foglie…. Rimango un po’ incerto se proseguire il “giro dei disperati” per Piazza Virgilio e Vincenzo Monti, ma poi decido di rientrare tornando sui miei passi. E dall’altra parte del marciapiede, incastonata fra la facciata settecentesca delle Stellline e i loggiati del palazzo accanto, piccola, elegante, con la facciata in cotto ricamata da due trifore rotonde, la casa di Leonardo. Di lì usciva il pittore per recarsi al cenacolo dei frati. Chissà com’era Milano allora? Certo casa mia era già campagna e alle spalle verso Sant’Ambrogio forse passava lento qualche barcone sui Navigli di cui Leonardo l’ingegnere aveva progettato il sistema di chiuse che ne permettono ancor oggi la navigazione. Senz’altro una città incantata, sospesa fra acque e brume, come mi racconta mia madre la quale a undici anni già lavorava consegnando pacchi di lavanderia e stireria. E il padre, mio nonno, un toscano gran cuoco che non ho conosciuto, forse per compensar- Poliscritture/Luoghi non luoghi la delle umiliazioni del suo lavoro di “piccinina” - come quella volta che il principale era entrato in un caffè lasciandola sola al freddo coi suoi pacchi e senza neppure offrirle una caramella - la portava la domenica a fare il giro di Milano in barca sui canali di quell’antico ingegnere. Un altro ingegnere ha abitato qui fino al 1972, anno in cui è morto a 101 anni. E ho avuto modo di vederlo per Corso Magenta, diritto, elegantissimo col panama e la canna di bambù: era Ettore Conti, il fondatore dell’industria elettrica italiana che i padellai al potere stanno smantellando, un altro, come Dora Setti, di quei borghesi colti e illuminati di cui si sta perdendo traccia nella volgarità arraffa-arraffa che ci circonda con quei fuoristrada da contractors che sfrecciano per il Corso e sono il simbolo della villania e dello spreco. E forse proprio per evitare il traffico ammorbante, o più probabilmente per concedere una dilazione a ciò che mi attende a casa, svolto per via Ruffini. In fondo, i pullmann vomitano a ritmo industriale i giapponesi che vanno al Cenacolo. Buona giornata per il vecchio. Mentre, davanti alle scuole elementari, un gruppo di scatenati bambinetti, con casco, ginocchiera e qualche altro milione addosso, sfrecciano su quegli infernali aggeggi che sono quei monopattini di acciaio che possono essere allungati o accorciati secondo la statura di quei diavoletti che rischiano a ogni momento di travolgermi. Noi, i “figli della guerra”, i monopattini da bambini ce li costruivamo con due assi e quattro cuscinetti a sfera. Ma i nostri giochi si svolgevano allora in “buca”, come chiamavamo l’enorme cratere scavato fra Via San Vincenzo e Via San Calocero dalle bombe dell’agosto quarantatre, quando mia madre incinta di me a piedi era scappata verso Viale Certosa che bruciava in cerca di un fortunoso veicolo che la portasse sfollata in Veneto, dove qualche mese dopo sono nato, prematuro, io, un chilo e mezzo, “un pollo”, diceva il dottore che non avrebbe scommesso un soldo sulla mia sopravvivenza. Ebbene, fra le macerie della guerra noi giocavamo alla guerra di ogni epoca e latitudine: con spade di legno, coperchi di padella per scudo e pentolini in testa come elmo, con gli archi e le frecce dei pellerossa, con le cerbottane indie dei bussolotti, con le pistole ad acqua dei gangsters, con quelle a tamburo e assordanti di spari dei cow-boys, con le cara- 17 bine coi gommini e con i piombini dei rangers, e infine con le fionde sotto i cui colpi cadevano i gatti e le lucertole martiri del nostro Eldorado senza che ci fosse neppure un Frate Bartolomeo a rimproverarci. stagione dopo stagione “Buon giorno, signor Stocchi”, “Buongiorno, contessa”, rispondo sul portone alla nobildonna del terzo piano che oggi mi saluta e viene persino alle presentazioni dei miei libri, ma che allora, trentasei anni fa e per molto tempo, quando mi incontrava inarcava aristocraticamente le sopracciglia e girava la testa dall’altra parte. “Un sessantottino, pensi!”, sibilava alla portinaia, paventando chissà quali pericoli, avendo forse saputo che un paio di anni prima avevo tirato un uovo niente meno che al vicepresidente degli Stati Uniti, Humphrey. Del resto non erano molti gli inquilini di Magenta 88 che mi salutavano. Uno faceva eccezione, che chissà perché incontravo sempre nella bussola della portineria. E lì era tutto un minuetto, “Prego, si accomodi”, “No, passi lei”, “Ma si figuri”, “Ma le pare” e certo sarebbe apparso ben strano e bizzarro l’incontro, a chi l’avesse osservato, fra quel ragazzo in eskimo, capelli lunghi, barbetta incolta e occhiali di metallo, e quel giovane, poco più anziano di me, alto, col suo blazer blu con lo stemma del Rotary sul taschino. Era un avvocato che aveva lo studio sull’altra scala, la “Parte nuova” come la chiamano i condomini perché era stata ricostruita dopo i bombardamenti degli aerei che insieme al Cenacolo quasi sbriciolato dovevano averla ritenuta un obiettivo, un target, strategicamente essenziale. Solo quando i sicari di Sindona l’hanno ammazzato sul portone di casa sua a cento metri da qui, ho scoperto che quel giovane cortese era l’avvocato Ambrosoli, “l’eroe borghese”, come l’avrebbe chiamato nel suo bel libro Corrado Stajano, il maieuta sapiente del mio Compagno poeta. Ecco, la vita è un po’ così: ci si incontra, ci si sfiora, senza spesso neppure sospettare chi sia quello che ci sta di fronte. Un cenno di saluto. E passiamo. Fuori, la chiesa e l’albero restano. Continuano a conversare: con la perfezione dietro la chiesa delle grazie a milano Poliscritture/Luoghi non luoghi dialoga il miracolo Il miracolo che dovrebbe essere la vita di ognuno, in un mondo compiutamente umano, che non sia il mattatoio che è oggi e che in fondo è sempre stato, ma che sia la casa che ci siamo costruiti e dove tutti possano abitare in pace. Noi passiamo, e l’albero e la chiesa rimangono lì. Restano. A indicare la strada verso casa a quelli che passeranno dopo di noi. Forse questo intendeva il folle rinchiuso nella torre sulla Neckar, lo sventurato mio compagno Hölderlin, quando parlava di “abitare poeticamente il mondo”: realizzare quell’armonia che l’albero e la chiesa non si stancano di additare. Ricordare, e far ricordare questo, sono la funzione, il valore e l’onore della poesia. “M’arricorde, m’arricorde”, sussurra maliziosa e un po’ scettica la voce di Ennio Abate… Ma è tardi, bisogna rimettersi al lavoro. Fuori, Mister, beato lui, se la canta e se la suona. Certo, penso sedendomi alla scrivania, meglio Majakovskij alla Bovisa - come aveva intitolato con benevola ironia Nico Orengo un suo articolo che raccontava di quando andavo in carne ed ossa nelle piazze vere a recitare fra i miei compagni - che Majakovskij al Web… Ma tant’è… Ricominciamo la giaculatoria: Dos hermanas… Zwei scwestern… Two sisters… chissà come suonerà in arabo… Due sorelle: Giuliana e Mithal… - Franco Tagliafierro: Veloci impressioni da una visita a Berlino nel 2005 Nei quartieri periferici della zona Est i muri delle case sono imbrattati più densamente di quelli dei quartieri periferici della zona Ovest. Ciò significa che la gioventù berlinese ex prigioniera del Muro è affetta da nevrosi più devastanti (dovute alla mancanza di identità, di ideali, di futuro ecc., come in Italia) di quella nata e cresciuta al riparo del Muro. Nell’Est lo sfogo imbrattatorio a base di scarabocchi chiamati tag, ossia firme, cominciò - ovvia- 18 mente - subito dopo il passaggio dalla intransigente vigilanza civica di ispirazione marxista-leninista alla sparizione dei Vopos. Nell’Ovest era cominciato verso la fine degli anni Ottanta, come in Italia Francia Gran Bretagna ecc, quando i giovani si accorsero che non c’era più niente da cavare dai vecchi depositi ideologici del Sessantotto. Entrambe le zone risultano indenni da vandalismi spray là dove erano i rispettivi centri, cioè le aree protette dalla medio-alta borghesia o dalla ex nomenklatura. Non si sa se siano stati in prevalenza i ragazzi dell’Est o quelli dell’Ovest a graffiare i vetri di tram, autobus e metropolitane, visto che ormai da anni alcuni mezzi pubblici hanno percorsi da Est a Ovest e viceversa. Evidentemente i ragazzi non escono di casa se non hanno in tasca un punteruolo. I graffi consistono in scarabocchi simili a quelli sui muri, o in grafismi cubitali in cui sono leggibili nomi di persona o le sole iniziali. I mezzi pubblici sono così nuovi, così puliti e puntuali che fa male al cuore vedere i loro vetri rovinati. Nei tram e negli autobus, i graffi quasi ti impediscono di guardare fuori. Nei vagoni della metropolitana non risuona mai la voce querula dei mendicanti, e neppure accade che si venga deliziati o infastiditi dai suonatori ambulanti. Rimane la curiosità di sapere se l’astenersi dal lavoro in metropolitana sia una loro scelta di vita o venga loro vietato l’accesso. Davanti a qualcuno dei palazzi monumentali a volte si piazza qualche violinista diplomato dell’Europa dell’Est. In nessuna delle due zone si ha occasione di vedere mendicanti seduti o inginocchiati sul marciapiede. Solo davanti ai grandi magazzini (mai davanti a negozi o supermercati) se ne può trovare qualcuno. In genere sta in piedi ed è una persona anziana. Le periferie delle due zone sono molto simili, checché ne dicano i rintracciatori delle differenze fra le ideologie urbanistiche e architettoniche dei due regimi vigenti in città fino al 1989. Non resta quindi che confrontare le qualità strutturali e il grado di conservazione degli edifici delle due zone. Ormai le differenze non sono molto appariscenti, perché nella zona Est si è provveduto a imbiancare le facciate di molti palazzi che rivelavano povertà di materiali o decenni di incuria, in qualche caso sono state coperte con pannelli di plastica che non differiscono molto da un normale intonaco. Poliscritture/Luoghi non luoghi Anche le aree burocratico-commerciali delle due zone sono molto simili, dato il razionalismo, o meglio, la sobrietà e la fretta della ricostruzione postbellica, alle quali non si può non riferirsi allorché si vede quanto strida, in un contesto di palazzi privi di qualunque grazia architettonica, l’innesto di uno di quegli edifici-monumento costruiti negli ultimi dieci anni allo scopo di dotare la città di bellezza e arte. Alcune vie della Berlino degli anni VentiTrenta, così come appaiono nelle foto esposte nei musei o in qualche negozio, danno l’idea di una bella città. Nessuna via di oggi la dà. L’illuminazione pubblica è scarsa ovunque. Nella zona Est, il responsabile della scarsità, logicamente, è il comunismo. Nella zona Ovest, i radi e fiochi lampioni sono la dimostrazione di una politica di risparmio energetico. Di notte diventano visibilissimi i gabbiotti dei City toilet, che rimangono aperti quando nessuno li usa. Sono illuminatissimi (oltre che bianchissimi, pulitissimi, disinfettatissimi) tanto che lo spazio antistante se ne giova. Ma sono rari e collocati in punti più o meno turisticamente strategici, per cui solo in minima parte contribuiscono a diradare l’oscurità notturna della città. Le vie non sono disseminate di escrementi di cane o di rifiuti vari né in zona Est né in zona Ovest. Chi proviene da Milano riflette sulla differenza fra il senso civico dei berlinesi e quello dei milanesi. Il periodo della mia visita è quello prenatalizio (dal tre all’otto dicembre), quindi suppongo che dipenda dalla vicinanza del Natale il notevole affollamento delle chiese. Sono gremite soprattutto il pomeriggio e la sera. Dovunque musiche, letture dei vangeli e prediche. Si ha l’impressione che la gente usi la chiesa come una specie di dopolavoro, che ci si rilassi. Nei tempi morti, tra la predica e la musica, oppure tra due brani musicali, nessuno ha niente da dire al proprio coniuge, ai propri figli, alla zia o allo zio, non si riesce a captare nemmeno un bisbiglio. Non si notano bimbi irrequieti, quelli che non dormono si annoiano, ma con espressioni da adulti mai viste da nessun’altra parte. La profusione di luminarie natalizie nelle vie dove ci sono molti negozi è più accentuata nella zona Ovest. Non ci sono, invece, sostanziali differenze fra i mercatini dislocati in vari punti delle due ex zone centro, mercatini che ogni anno vengono montati appositamente per anticipare e prolungare la festa del Na- 19 tale. Sono costituiti da una fila di casette di legno tutte uguali, se l’area assegnata è una via, oppure da varie file di casette se l’area è una piazza. Esteriormente le casette somigliano agli chalet svizzeri di alta collina, con pareti e tetto foderati con liste di legno laccato. Ogni casetta consiste in un unico vano, la cui superficie calpestabile può variare dai dodici ai venti metri quadrati. Nelle casette più piccole, la facciata è a scomparsa, quindi ci si trova immediatamente di fronte al bancone. Nelle più grandi (che si trovano nel Gendarmernmarkt, un mercatino recintato, per entrare nel recinto si paga un euro) la facciata è dotata di una porta a vetri, quindi si può accedere all’interno, la merce è disposta sugli scaffali lungo le pareti. Salvo poche eccezioni, la merce esposta nelle casette è assolutamente natalizia. Ossia è costituita da palle di plastica o vetro o carta o alluminio di varia grandezza (fino a trenta centimetri di diametro) e di tutti i colori compreso il nero; da candele di tutti i colori salvo il nero, che hanno forme cilindriche sia sottili che tozze, oppure variamente poliedriche con prevalenza del cubo e del parallelepipedo; da oggettini in legno o in plastica che non significano niente ma funzionano come ornamenti se appesi a un albero di Natale; da oggetti in legno o in plastica o in metallo che possono fungere da soprammobili o da giocattoli (quelli dotati di un meccanismo) e che significano qualcosa solo se collocati nei pressi di un albero di Natale… insomma, per farla corta, la merce consiste in tutte quelle cianfrusaglie variopinte che nel periodo natalizio si trovano in vendita anche nelle nostre cartolerie, nei nostri supermercati, nei nostri grandi magazzini e nei nostri centri commerciali. A Berlino quelle cianfrusaglie provocano in chi le guarda un effetto diverso. O meglio, non lo provocano le cianfrusaglie in sé e per sé, bensì la loro ripetitività, il fatto che ogni casetta sia piena delle stesse palle, delle stesse candele, degli stessi ornamenti. Ciò che differisce è la disposizione degli oggetti: qui le candele stanno davanti e le palle dietro, là è il contrario; qui i soprammobilini stanno sul bancone, là sui ripiani di uno scaffale ecc. Che tipo di effetto provocano queste merci che sono le stesse in ogni casetta? Un effetto di saturazione? Di asfissia? Sì, anche. Ma soprattutto un effetto di inappartenenza all’hic et nunc, ossia di collocazione in uno di quei non-luoghi denunciati da Marc Augé. Poliscritture/Luoghi non luoghi Ohibò! Ma questo è un paradosso! Ebbene sì, non c’è scampo. Il mercatino dovrebbe essere l’antidoto ai veleni della estraniazione inoculati nella nostra psiche da non-luoghi come gli aeroporti, i centri commerciali, le stazioni di servizio ecc. - tutti strutturati nello stesso modo, operanti allo stesso modo, con lo stesso comfort tecnologico, calcolati per ospitare l’uomo generico, impersonale - e invece ecco che il mercatino diventa anche esso un luogo estraniante come gli altri, ecco che psicologicamente nuoce più degli altri perché è un elemento della tradizione che si è assimilato agli stereotipi della modernità, e soprattutto perché è una delusione. Da che mondo è mondo nessun mercatino ha mai deluso le aspettative, eppure quelli natalizi di Berlino le deludono. Non perché sprovvisti della merce che ci si aspettava di trovare, ma perché tutte le casette, una appiccicata all’altra, mettono in mostra la stessa merce, le stesse identiche cose. Deludono le aspettative. Le aspettative di chi? Ma le mie, naturalmente, un uomo già abbondantemente vissuto nel secolo scorso, un passatista. Domanda: forse che gli utenti si dolgono che gli aeroporti siano strutturati tutti più o meno allo stesso modo, con check-in, duty free, spazi di attesa ecc.? Risposta: no, anzi apprezzano che l’uno sia uguale all’altro, tanti problemi di percorso risparmiati. Si preoccupano forse che i centri commerciali siano tutti simili fra loro? Tutt’altro. Infatti apprezzano la comodità di sapere in anticipo quali prodotti e quali servizi verranno loro offerti, e così via. E allora, forse che dispiace ai berlinesi che tutte le casette del mercatino natalizio offrano in vendita gli stessi prodotti? No, niente affatto. È così rassicurante sapere che ogni casetta è provvista della stessa merce, che ogni mercatino è uguale all’altro, che è un non-luogo come ogni altro. 20 - Pier Paride Vidari: Memorie berlinesi Non riesco a sconnettere la mia mente dalla tragicità di Berlino. Forse perché ricordo ancora perfettamente quei giorni quando il cielo si copriva d’aerei, con quel vasto, cupo e pauroso rombo che lo avvolgeva interamente per un tempo che pareva eterno. Il cielo - e noi con lui - era un cumulo d’angoscia. Tutti a guardare in alto. Ricordo anche le frasi dei grandi. Bombardano ormai la Germania, dicevano. Ricordo, meno lucidamente, le paure delle battaglie o dei tanti nemici, fra i quali ci furono anche i tedeschi, e parevano fossero come attesi, specialmente dai vecchi. Io ero molto piccolo, ed anche meravigliato da quelle vastità che sapevano di paure polverose. La prima volta, perciò, che mi recai a Berlino, pur preso dal lavoro che dovevo compiere, non staccavo la mente da quei frammenti. Non era certamente la mia prima visita in Germania, anzi: vi ero stato ancora piuttosto giovane, e via via avevo visitato molte città tedesche, come Monaco ancora distrutta, Francoforte americanizzata (soprannominata, infatti, Frankfurt-am-Manhattan), Hannover, Solingen, Amburgo. A volte vi avevo lavorato, o v’ero solo transitato e così via. Sempre v’avevo cercato inconsciamente ciò che quegli aerei avevano compiuto. Nel 1965 circa, forse per liberarmi da quelle paure, avevo scritto una sorta di poemetto, quasi un testo adatto ad un canto corale, che non a caso parlava di Berlin Brandenburg (nome inventato ed allusivo) e di certi soldati, poveretti, a nome Karl e Jean-Baptiste. Nella mia ingenuità li vedevo come vittime dei loro generali e del potere che li mandò a morire. Berlino però, più d’ogni altra città, aveva subito una doppia guerra fra le sue vie e le sue case: quella mondiale e quella fredda. Il muro correva con spietata durezza fra le vie e le abitazioni. Ero a Berlino quando la parte Ovest era ormai stata riunita - da tripartita che era - ma non ancora unita all’Est. Pensavo anche a mio padre, che era fuggito da Vienna poco prima dell’annessione, e che aveva voluto rivisitarla con la famiglia poco dopo che si era definitivamente riunificata (fu l’anno seguente, mi pare, dell’uscita dell’ultimo carro armato russo, e l’anno prima del tentativo, Poliscritture/Luoghi non luoghi anche da parte degli Ungheresi, di ribellarsi ugualmente al pesante dominio). Alla sera passavo spesso da Europa Center, percorrendo, a volte con fastidio, la Ku’damm, con le luci deludenti di quella che era detta la Montenapoleone di Berlino, o anche la vetrina dell’Ovest. Nuovamente sentivo i sottili filamenti della tragedia, richiamata, ostentata, dallo spezzone della KaiserWilhelm-Gedächtniskirche, che fu sbriciolata il 22 novembre 1943 e tenuta a ricordo del bombardamento. Pareva un monumento eretto alla distruzione, come del resto Gerdarmenmarkt o la Franzosisch e la Deutscherkirke. Accanto, s’aggrega gelidamente e domina la piazza la chiesa-torre eretta fra il 1959 e il 1961 su progetto d’Egon Eiermann, uno degli ultimi architetti legati alla vecchia Bauhaus. Ero ancora a Berlino durante un inverno, molto freddo, quando mia moglie, che m’aveva accompagnato e anche aiutato con il suo splendido tedesco, esclamò, piano: “Hanno la mia età”. Guardai nella stessa direzione e vidi gli alberi che ricrescevano a decorare l’ottocentesca Platz der Republik di fronte al Reichstag. Allora esso era ancora privo della cupola trasparente di Foster, anzi era come scardinato dalla presenza del muro, che tagliava l’ingresso (ovest) dal corpo principale dell’edificio (est). Tutti quegli alberi erano stati ripiantati appunto nel 1945. Quell’anno un settimo degli edifici della Germania erano distrutti, e un’accumulo terribile di macerie dominava il paesaggio berlinese. Era la conseguenze di quel rombo vissuto da bambino. Quello stesso inverno del 1985, andammo a visitare le desolate torri di legno, nere e spoglie, che stavano di fronte alla porta di Brandeburgo. Permettevano ai parenti di parlarsi sopra il muro, che in quel punto scendeva per permettere al monumento d’emergere: quale sensibilità! In mezzo alla parte più bassa del muro, la Brandenburger Tor era stata coronata ai lati da nidi di mitragliatrici dei Vopos, che s’intravedevano nell’incipiente oscurità dell’inverno berlinese. A causa di ciò, mi chiedevo del tributo da pagare per le colpe, in questo caso certamente pesanti della Germania hitleriana, che furono pagate ancora una volta, e in modo speciale, dalla popolazione. Il popolo che non aveva deciso, non aveva capito o non aveva voluto capire. Insomma: il dilemma era se la sinistra, 21 per definizione anti-nazista, potesse condividere i roghi vendicativi, per esempio di Berlino, d’Amburgo, di Colonia, d’Ulm e soprattutto di Dresda. Mi chiedevo anche se la gente di sinistra condividesse la ripartizione delle città. Non trovai mai una risposta convincente. Tornato a Milano, scrissi quasi per caso un paginone su Sole 24 Ore contro quella divisione. Fu anzi l’ultimo mio scritto su quel giornale, perché in qualche modo ciò che scrissi mi precluse ogni altra attività con la redazione. Allora ciò mi rattristò e oggi, invece, considero quell’avvenimento ovvio e naturale. L’inizio dell’articolo diceva: nessuna città è una semplice sommatoria di case o di strade. grande cantiere d’Europa di Postdamer Platz (con quella sua grandezza estranea), sentii che le novità non facevano altro che ricordare il passato. Perciò non mi stupii della presenza lacerante del Jüdische Abteilung, capolavoro di Liebeskind. Per quanto si faccia, e si operi a volte con coraggio, io credo che queste memorie non si scoloreranno mai. Sento sempre, infatti, e non solo a Berlino, quel rombo, lassù, tragico, vasto ed implacabile. Intanto Berlino rifaceva la storia: guten Morgen, Deutschland! Il 9 novembre 1989 cadde il muro. Nel 1991, poco tempo dopo, ebbi da realizzare un lavoro presso il Martin-Gropius Bau, a Kreuzberg. L’edificio era appena stato liberato dal muro che lo serrava. Nella Kochstrasse si potevano scorgere ancora le piastre di cemento, ormai spezzate e distese a terra, fra i calcinacci che sono sempre l’epilogo dei crolli. Il lavoro mi occupò molto, ma avvertii tensioni piuttosto esplicite anche con i colleghi. Il muro era caduto: ed ora? Negli ultimi anni sono tornato a Berlino. Fra l’altro per andare a trovare mio figlio, e fu emozionante. Federico, infatti, mi ricevette a casa sua, e per la prima volta, io e mia moglie, fummo ospiti. Non era dunque più un ragazzo, era un uomo, ed eravamo a Berlino! Egli m’obbligò a trascurare i miei amati musei (ancora dubito che abbia visitate tutte le meravigliose collezioni di Berlino). Pensando però di sorprendermi, mi portò a visitare gli edifici restaurati. Vidi la vecchia fabbrica della AEG, progettata da Beherens nel 1909 e ripulita, rifatta, addirittura con l’alberello esattamente uguale com’è annotato in nei disegni che tutti gli architetti della mia generazione conoscono, e tanto altro. Rividi le strade della città “comunista” e Alexander Platz. Nuovamente pensai alla tragedia del popolo tedesco. Non valse a nulla visitare l’Unité d’habitation di Le Corbusier (quella berlinese: non amata dall’architetto franco-svizzero), oppure la Neu Nationalgalerie di Mies, o l’edificio residenziale sulla Kochstrasse del mio maestro Aldo Rossi, o la Filarmonica di Scharoun. Perché proprio lì, nel vedere il Poliscritture/Luoghi non luoghi 22 3 Esodi - Ennio Abate: Intervista a Michele Ranchetti su «Non c’è più religione» Il tuo libro ripercorre «storicamente» gli elementi della dottrina cattolica e contesta in modo rigoroso il magistero della Chiesa cattolica. Resta – mi pare - nella dimensione religiosa e ripropone però con attenuazioni e problematicamente il recupero di «un senso religioso della vita», lasciando in sospeso la questione della necessità o meno di un tale recupero. Come mai questa sospensione? Cosa t’impedisce di affermarne decisamente la necessità? Sono nato, cresciuto e vissuto a lungo - ho ormai 80 anni - in questa dimensione religiosa, che per me è stata di carattere naturale. Adesso mi pare di vivere una certa crisi, nel senso che, assistendo ad una forma di presenza dell’istituzione cattolica così mastodontica, così dichiarata e accettata e ritenendola così aberrante rispetto al corso degli eventi e alle ragioni o non ragioni per cui si svolgono, contrapponendo ad essi una struttura assolutamente non significativa e che non corrisponde a nessun bisogno e a nessuna vera motivazione religiosa, mi chiedo se proprio l’istituzione cattolica prima di tutto, e anche la professione di fede religiosa non siano ormai da buttare a mare. Ho sentito formulare solo da Ivan Illich, un amico morto recentemente, in un suo testo che sto per rileggere e pubblicare questa domanda: c’è all’interno della professione di fede cattolica, cioè nella vita e nella dottrina del cristianesimo, qualcosa che imponga il suo pervertimento? Sono di fronte a questa interrogazione. Non so se avrà mai risposta, ma è quella che adesso io mi pongo. Ossia, mi chiedo se quello che fino a qualche tempo fa costituiva per me una perversione da parte dell’istituzione del messaggio cristiano non sia invece da intendere come l’unica forma possibile, per cui il messaggio cristiano non può essere che pervertito. E l’istituzione cattolica è una delle forme, non la più visibile forse, non la meno rilevante di tale pervertimento. Come virtù per un eventuale recupero del senso religioso della vita indichi paradossalmente la disobbedienza «cieca e assoluta» perinde ac Poliscritture/Esodi cadaver, criticando così le figure degli «ultimi preti», che – dici - «non erano dei dissidenti, tanto meno degli eretici», ma appunto «obbedienti». Mi chiedo: tale disobbedienza non rischia di essere “irrazionale”, “luciferina”, valore in sé e non strumento per raggiungere “qualcos’altro” che la ragione, il cui uso rivendichi con passione, abbia davvero afferrato (e questo sia che ci si ponga su un piano religioso sia che ci si attesti su quello civile e storico)? Nella prospettiva di una corruzione da parte dell’istituzione religiosa del messaggio cristiano, la disobbedienza ha un senso, perché corrisponde a un progetto religioso o a un’appartenenza religiosa non rappresentata. Di fronte alla presenza di un magistero così aberrante e di fronte a manifestazioni di idolatria nei confronti di un pontefice idolatrato che ha contribuito largamente alla struttura di potere della chiesa, la cosa che si poteva fare o si poteva auspicare è che i credenti, coloro che si ritenevano ancora all’interno dell’espressione di fede cristiana, si ribellassero. Se però io mi domando se l’istituzione che si sostituisce alla predicazione, che si è dispersa nel mondo sia la unica forma possibile, allora la disobbedienza ha meno rilievo. Ripropongo perciò la stessa domanda di prima: per contrapporsi occorre pensare che dalla professione di fede cristiana e in particolare dalla lettura o rilettura del Vangelo emerga una possibilità di comportamento anche civile? Questa interrogazione per me rimane in sospeso. Allora, si può sempre disobbedire, perché il comportamento dell’istituzione è certamente aberrante anche rispetto alla pace, alla guerra e alla giustizia. Questo però non so se debba essere o se possa iscriversi in una professione di fede. Ma anche se nel momento in cui si disobbedisce manca una proposta positiva? Insisto: la disobbedienza non dovrebbe accompagnarsi alla proposta di qualcosa di diverso, altrimenti... Altrimenti, no! Io non so cosa succede. Però, se in nome di una professione di fede religiosa uno agisce da criminale questo si può e si deve fare, auspicare che questa persona venga incriminata. Si può incriminare come pervertimento del messaggio cristiano nella sua elementarità, che è l’amore, il volersi bene, la giustizia, la verità. Si può incriminare per una diversa intelligenza del Vangelo, che io non ho. Pensi che l’abbiano altri? Insisto nel porti il problema della disobbedienza in termini che considero politici e non solo etici: quasi sempre 23 a rifiutare la dottrina della chiesa cattolica sono individui arrivati alla consapevolezza della inconsistenza religiosa dell’istituzione e/o della sua connivenza con poteri oppressivi, ma tale consapevolezza manca agli altri. Si può costruire un movimento - io dico di lotta - soltanto sulla disobbedienza individuale o di pochi? Mi ripeto: la disobbedienza non dovrebbe essere “costruttiva”, accompagnarsi ad altro, al ”sogno” almeno di qualcos’altro? Certo. Forse diciamo la stessa cosa. L’istituzione cattolica che si riferisce al Vangelo è evidentemente una perversione del Vangelo. Si può, quindi, e si deve disobbedire ad essa, perché ti dice di votare per Berlusconi in quanto uomo di fede, e non è vero. Fin qui è tutto legittimo, è tutto giusto; e non hai da fare un riferimento a qualcosa d’altro. Se ad un certo punto l’istituzione viene riconosciuta per quello che è, e cioè una struttura di potere, hai già fatto un passo avanti. Sì, ma quanti la riconoscono per quella che è? Lo so, molto pochi. E, se quei pochi, che pur hanno afferrato questa verità, non la riescono a trasmettere agli altri, ai tanti, e finiscono isolati? Certo, è preferibile questa condizione all’appartenenza a una comunità falsa. Sì, finiamo così. Ma non ho nulla da eccepire al finire diseredati dalla tradizione, respinti da un vivere civile o da un vivere cosiddetto comunitariamente religioso, però abbiamo fatto un passo avanti verso la distruzione di una falsa verità. Cominciamo a fare questo. Ci sono quelli che all’interno della chiesa, anche con responsabilità molto maggiori di quelle che abbia io (io ce l’ho, perché sono un uomo vivo e basta; non ho nessuna struttura di riferimento che mi autorizzi a parlare in modo diverso dagli altri), più obbedienti di me in un primo tempo o più disobbedienti di me in un secondo tempo, che hanno riconosciuto questo pervertimento e si sono posti in una direzione diversa? Non li conosco! Quei preti a cui faccio riferimento - gli ultimi preti: Turoldo, Balducci ed altri – hanno fatto un passo in avanti? No, non mi sembra. Sono rimasti nella delusione di una struttura che non corrisponde al loro ideale. Hanno cercato di migliorarla dov’era possibile. Hanno cercato di avere delle forme di convivenza religiosa con i loro confratelli, di predicare in modo diverso, di non fare riferimento a falsi valori o a false verità. L’hanno fatto e sono benemeriti. Si sono posti al di fuori? No! Si sono posti contro? No! Sono rimasti, come ho detto tante Poliscritture/Esodi volte, gli ultimi preti. C’è bisogno di ultimi preti? Sì, più che di preti consenzienti, certo. Bastano? No! A pag. 67 del tuo libro scrivi: «si poteva cercare nuovi maestri «atei», ma dove trovarli?». Capisco la difficoltà di tale ricerca per un giovane profondamente cattolico e in un tempo di alleanza piena fra chiesa e fascismo. Ma furono da te cercati davvero questi nuovi maestri atei? Ho l’impressione che tu non abbia mai voluto spingerti con decisione fuori dalla problematica cattolica e riconvertire la tua ricerca religiosa in direzioni più “rischiose”, che so verso la critica illuminista o del materialismo marxiano (mentre so che hai avuto un’attenzione partecipe al pensiero di Freud e alla psicoanalisi). Vorrei che approfondissi questa che a me è parsa una tua ritrosia a misurarti con determinate tendenze del pensiero moderno. Hai ragione. Descrivi molto bene il mio itinerario, sia che l’abbia esposto io sia che l’abbia riconosciuto tu nei miei scritti. In realtà, ci sono due maestri che io ho cercato al di fuori della professione di fede e di appartenenza religiosa: il primo è Wittgenstein, il secondo Freud. Perché? Perché Wittgenstein ha posto se stesso e il mondo in un’interrogazione senza presupposti, cercando di sapere come stanno le cose, non facendole dipendere da un precedente già detto, già pensato. Questa totale disponibilità verso un’interrogazione assoluta l’ho trovata solo in lui. Per questo sono rimasto affascinato dal suo pensiero e ho cercato di farne tesoro, per così dire. La seconda possibilità mi fu offerta dalla psicanalisi. Perché? Perché, secondo me (e non siamo molti a pensare così), la ricerca di Freud è il tentativo più radicalmente antireligioso che io abbia incontrato nella mia vita. È un’interrogazione precisa di tutti i presupposti religiosi nella ipotesi di ricondurli ad altre fonti, che non sono la presenza di una divinità religiosa incarnata in Gesù Cristo o incarnata in qualche altra cosa. E quindi una riduzione dell’interrogazione a interrogazione che riguarda il singolo così com’è nel momento in cui egli vive. Ogni struttura causale, che è stata introdotta nella giustificazione dell’esistenza, viene sottoposta a un’interrogazione radicale. Nell’ipotesi (che è riuscita solo in parte) di sostituire ad essa i veri nessi, che sono diversi da quelli accettati nella tradizione filosofica o religiosa o in altre tradizioni, compresa quella scientifica. Quindi una interrogazione sui vari statuti disciplinari, per sostituire ad essi altri statuti, che sono quelli che la psicanalisi ha cercato di costruire. Non ce l’ha fatta. 24 Però la domanda radicale che lui si è posta è analoga a quella di Wittgenstein. Questi due radicalismi sono quelli che ho trovato nella mia strada. Non li ho percorsi e non ho seguito il loro esempio fino in fondo, ma è quello che, finché vivo, cercherò di fare. Quelli che io ritengo altri radicalismi – quello degli illuministi, quello di Marx - tu non li consideri? Non li considero non perché non li ritenga tali. Non li considero perché non li ho incontrati sulla mia strada. Scusami, ma perché avresti dovuto incontrarli proprio ed esclusivamente sulla tua strada? Certe strade non s’incrociano necessariamente con quella che abbiamo imboccato. Io sono arrivato alla lettura di Freud e di Wittgenstein per caso, nel senso concreto del termine, perché una persona (un ebreo), che ha voluto convertirsi alla fede cattolica e ha scelto me come padrino, mi ha portato il libro di Wittgenstein di cui era stato allievo. Allora l’ho preso e l’ho letto. Secondo esempio: Freud. Non avendo nessuna fonte di lavoro, mi sono rivolto a Boringhieri, che stava iniziando la pubblicazione delle sue opere, e mi sono offerto come traduttore dal tedesco. E così ho cominciato a leggere Freud. Queste due occasioni concrete mi hanno posto di fronte a un libro, alla persona che l’ha scritto e all’universo che ha cercato di produrre ed io le ho colte. Non è avvenuta la stessa cosa per Marx. Queste due letture – di Wittgenstein e di Freud – sono state in un certo senso imposte a me per esigenze concrete: una di lavoro e l’altra dall’offerta di una persona che mi è apparsa subito “nuova” rispetto alla mia cultura. Non mi è capitato invece che qualcuno, con la stessa necessità di proposta, mi offrisse la lettura di Marx. Neppure nel confronto che avesti con esponenti della Resistenza di cui parli in quel tuo scritto intitolato Sopra una qualsiasi rivoluzione [in Scritti diversi II, p. 215]? La persona che mi ha introdotto a questa dinamica, a questi incontri, e cioè Delfino Insolera, aveva già proceduto ad interrogare Marx e a lasciarlo da parte. Ma in quegli anni il PCI di Togliatti un certo discorso su Marx lo sventolava a destra e a manca. Non ti ha per lo meno incuriosito? Io ho sempre proceduto nella mia vita per fatti concreti. Ho avuto sempre delle occasioni molto Poliscritture/Esodi precise per cui sono andato da una situazione a un’altra. Nel caso di Marx, e quindi della filosofia marxista, e quindi del Partito Comunista, alcuni accadimenti sono stati per me determinanti. All’università avevo come insegnante Banfi, che allora era sia insegnante di filosofia sia anche membro attivo e eminente della struttura di potere marxista del PCI. Io ho avuto uno scontro molto violento con Banfi. Facevo l’università e ho sempre saputo di non essere per nulla una testa filosofica, caso mai una testa artistica. Andavo alle sue lezioni e Banfi le faceva nel modo in cui le ha sempre fatte negli ultimi tempi, quindi passeggiando, in modo salottiero, in modo molto intelligente, ma pochissimo marxista; e quindi mi dava molto fastidio. Era venerato da tutti ma io non pensavo di doverlo venerare. È capitato poi che una mia zia, dopo varie crisi e traversie anche religiose, è diventata medico. Durante la guerra, molto più di mia madre, si è impegnata politicamente e ha tenuto rapporti piuttosto stretti con gli ebrei. Ne ha fatti scappare ed è stata per questo incarcerata a San Vittore. Poi ne è uscita e ha continuato la sua vita fino ad ottantacinque anni. In quegli anni, data la sua appartenenza a questi ambienti politici di carcerati, lei era venuta in contatto con alcuni esponenti sia della Resistenza sia dei fascisti incarcerati subito dopo il ’45. Uno di questi fascisti era stato imputato della uccisione di Curiel. Lei l’ha conosciuto in carcere. E mi ha detto: - Senti, tu conosci Banfi? Siccome lui è un pezzo grosso...Tizio non è colpevole di questo crimine. Sarà fucilato. Se tu vedi Banfi, prova a dirglielo. Banfi era molto connesso con Curiel e quindi per mia zia doveva essere interessato a fare giustizia. Allora io sono andato da Banfi. Fortunatamente allora, come anche adesso, non ho nessun rispetto umano, come si dice. Ho chiesto di parlargli. Era in biblioteca e gli ho detto questo. Ha cominciato a gridare in modo tremendo, in un modo drammatico e teatrale: quello è un porco fascista! Adesso si mettono a salvare anche i fascisti! E questo mi ha fatto piangere. Ho pianto per l’assurdità di questo tipo di reazione di allora (ma lo penso anche adesso). Secondo fatto traumatico: io durante la guerra non ho fatto nulla. Ero sul lago di Como in una situazione molto privilegiata. Ero abbastanza giovane. Mi sono fatto esentare dal servizio militare, mentre mio fratello era in guerra. Facevo solo il lavoro materiale di traversare il lago con gli ebrei che dovevano scappare di là. Quindi la guerra non l’ho vissuta in nessun modo. Non ho fatto 25 il partigiano. Non ho fatto il basista e così via. Ma nei giorni della Liberazione io ero presente a Milano. E - anche questo fu un fatto relativamente drammatico per una mentalità niente affatto politica come la mia - ho assistito al farsi dei partigiani: il giorno prima seduti tranquilli, a bere, a fumare e a fare l’amore, si sono travestiti da partigiani e hanno partecipato alla vita politica in quanto partigiani, che non era vero. Altro elemento: partecipavano tutti attivamente al Fronte della Gioventù diretto da Banfi; ed erano quasi tutti fascisti e si comportavano come fascisti. Io mi sono iscritto nelle liste degli indipendenti di sinistra per le prime elezioni all’Università. Ho avuto il massimo dei voti. Ho partecipato alle riunioni. Ho fatto qualche proposta. Passiamo al tema del rapporto cattolicesimocomunismo. Giudicasti positivamente, se non sbaglio, l’ipotesi di Rodano di «un’alleanza storicamente e religiosamente necessaria fra cattolicesimo e comunismo». Essa rappresentò di fatto la base teorica del «compromesso storico». E questo mi pare, allo stesso tempo, il punto in cui massima è stata la vicinanza tra te e il comunismo e il punto maggiore di distanza fra te e la mia generazione, che secondo Rodano si sarebbe abbandonata agli «estremismi» del ’68» o si sarebbe lasciata attrarre - anche tramite Fortini o la Masi - dalle chimere del «terzo mondo». Puoi precisarmi la tua collocazione rispetto a quelle che una volta si chiamavano «sinistra storica» e «nuova sinistra»? Tutto vero. Con alcuni elementi in più, anche questi di carattere geografico. La mia vicinanza al partito della sinistra cristiana deriva anche dal fatto che ho conosciuto e amato Felice Balbo. Felice Balbo non lo conosce più nessuno. Era un uomo straordinario, amico di Pavese e Giaime Pintor e collaboratore della Einaudi. Egli è poi uscito dalla cerchia degli intellettuali organici al PCI e all’istituzione einaudiana ed è entrato all’IRI. Poi si è un po’ stancato ed è rientrato nei ranghi universitari. Insegnava Filosofia morale all’università di Roma. È morto giovanissimo. In quei tempi lui era il filosofo di un gruppo composto anche da Rodano e Napoleoni. Questi erano i tre che avrebbero voluto e forse sarebbero anche riusciti a comporre economia, politica e filosofia. La testa maggiore era Balbo. Costituivano una «scuola», termine inventato dallo stesso Balbo, il cui obiettivo era la formazione di quadri per un futuro civile. Quando Balbo è morto, al suo posto hanno preso me. E quindi c’è stata la «scuola di Ro- Poliscritture/Esodi ma», in cui insegnavamo: io filosofia, Rodano politica e Napoleoni economia. È durata pochissimo e poi è stata interrotta dal ’68, che ha determinato prese di posizione piuttosto precise da parte di noi tre: Rodano di rifiuto radicale, Napoleoni di attenzione relativa e partecipazione modesta, io di partecipazione assoluta. Quindi la scuola si è interrotta. Anche perché, mentre gli altri due avevano una struttura disciplinare precisa, io non sono riuscito a immettervi, ma dopo parecchio tempo, negli ultimi anni Settanta, né Wittgenstein né Freud, diciamo così, né un’alternativa a questi due. Come ho detto la partecipazione al marxismo da parte mia era modestissima e non ero in grado di elaborare le idee che Balbo aveva già tracciato coi suoi scritti sul marxismo. Ero l’”aspirante filosofo” all’interno di questo gruppo. L’esperienza si è interrotta, però l’ipotesi che Rodano sempre sosteneva di recuperare il senso religioso del cristianesimo al marxismo nella convivenza istituzionale tra il cattolicesimo e il Partito comunista, un po’ l’ho condivisa. Qui mi pare di cogliere una sorta di contraddizione. Che legame ci può essere tra la tua rigorosa critica al magistero cattolico per avere sempre difeso inesorabilmente la divisione gerarchica fra ceto sacerdotale e laici e la tua adesione o simpatia per le posizioni di Rodano e per il ruolo del PCI, la cui burocrazia, secondo me, ha seguito proprio quel modello di pratica del potere della chiesa? La dannosa differenza tra laicato e chiesa per me c’era anche tra intellettuali-burocrati del PCI e militanti di base della classe operaia. Sì, certo. Probabilmente hai ragione. Non ho nulla da obbiettare. La mia però tu l’hai giustamente definita una «simpatia». Questa era molto motivata dall’ipotesi che dall’iniziativa di Balbo si riuscisse a fondere Rodano con Napoleoni e lo stesso Balbo, ossia la politica di Rodano con l’economia di Napoleoni e la filosofia in largo senso “religiosa”. Ma essa si è interrotta. Io non l’ho più seguita, non ero in grado di sviluppare quella prospettiva. Io ho avuto simpatia, ma questa simpatia l’ho interrotta al momento in cui Rodano è andato per la sua strada e Napoleoni è andato per una strada di economia che io non potevo seguire, anche se ho mantenuto un grande affetto e una grande stima per lui. Il pensiero di Balbo è rimasto interrotto per la sua morte e anche perché io non me ne sono più occupato, anche perché – questo è un fatto contingente – le sue carte sono state tenute segrete dalla sua vedova. Quasi nessuno poteva leggerle e solo adesso sono riaffiorate alla luce. Però era 26 una simpatia. Anzi negli anni successivi è cresciuta la mia ostilità a questa ipotesi che tu giustamente rilevi come un’alleanza tra burocrazie. In effetti,nella tua critica alle scelte del magistero della chiesa dall’Ottocento ad oggi ho colto una profonda analogia (non so quanto legittima e fondata storicamente) con la polemica contro la burocratizzazione del comunismo ad opera delle dirigenze di partito. E perciò ritengo perciò prezioso il tuo libro non solo per i credenti, ma anche per quanti non si sono pentiti di aver lottato per il comunismo. Cosa ne pensi? Il problerma, che poi è stato affrontato da molti, per me è sempre questo: esiste la predicazione ed esiste l’istituzione che si costruisce sulla predicazione. Evidentemente il nesso che si istituisce è sempre sbagliato. Quando la predicazione diventa istituzione, diventa partito, diventa chiesa, la predicazione scompare e prevalgono motivazioni interne alla struttura. Esse impediscono che la predicazione rimanga quella che è, rimanga “pura”, diciamo così. Questo è un fenomeno che si verifica sempre. Nell’ambito dei partiti lo vediamo. Nell’ambito della chiesa non si è visto abbastanza. Però l’ipotesi del ritorno alle origini, che è stata spesso affacciata, per contrastarlo è assurda, perché al momento delle origini trovi la predicazione e pensi che tutto quello che si è costruito sopra sia un errore, mentre esiste una necessità; e non può che esistere una necessità del passaggio dalla predicazione all’istituzione. Dovrebbe avvenire in un modo diverso da quello in cui è avvenuto. In termini politici è il cosiddetto problema del passaggio dalla spontaneità all’organizzazione. E quello non è stato risolto mai. È irrisolubile? Non lo so. della fede». Alludi forse alla distanza insuperata fra senso religioso e senso mondano, politico del comunismo? Sarebbe come dire che il comunismo rimane una cosa ancora ”troppo umana”? La cosa che non si ricorda e che fa parte dei principi elementari della dottrina cristiana, di cui tutti fan finta di sapere (parlo del magistero), è la definizione di chiesa. Cambiano i secoli, ma non è stata mai riconosciuta una definizione unica. Definendo una cosa devi dire anche ciò che non è. Però tra le definizioni correnti, che non sono definitive, non autenticate da nulla, c’è quella della chiesa docente e della chiesa discente, c’è quella della chiesa come società perfetta e quella della chiesa come popolo di Dio. E poi c’è la chiesa non visibile, che è l’appartenenza di tutti a un mondo che è qui sulla terra ma che ha anche la sua prosecuzione nel cielo. Non c’è nulla di morto nella chiesa. I morti non esistono, sono risorti. Quindi c’è una presenza di cose non visibili che costituisce l’essere della chiesa anche nella visibilità. Questo fa sì che la sfera della chiesa non è fissabile entro il traguardo terreno, ma va anche oltre. E il potere della chiesa deriva dalla disponibilità di questo oltre sul qui. La sfera politica ha sempre una prosecuzione non visibile che è di competenza della chiesa. L’aldilà ha sempre la meglio sull’al di qua... Ha la meglio perché lo contiene. Perché contiene l’al di qua diventato eterno. Per Bloch l’aldilà deve diventare al di qua, perché è l’altra faccia (sublimata) di quella che diciamo “realtà”. Sì questo come progetto. Ma la chiesa non ha mai detto che questo è un progetto. Ha detto che è la sua essenza. 4 gen 2005 Un nodo grosso. Si ripresenta di fronte ad ogni movimento, anche adesso coi no global. Sì, finché i no global passeggiano per Roma, per Firenze e dicono delle cose giuste, va benissimo. Al momento in cui dicono facciamo qualcosa di diverso, è finita. È quel momento lì... È possibile che non possa essere che così? Concludo chiedendoti una precisazione. Nel punto in cui parli della chiesa che riconosce le colpe di ieri, chiede perdono a non si sa chi e in fin dei conti si assolve, affermi che essa non ha solo «caratteri umani» e appartiene «per sua precisa dichiarazione...a qualcosa d’altro, e che non è, semplicemente, il campo e il dominio Poliscritture/Esodi Nota di E.A. L’intervista appena letta ha una lunga gestazione e alcune motivazioni personali e politiche che è giusto esplicitare. Non c’è più religione è uscito da Garzanti nel 2003 e il filo conduttore del colloquio con Ranchetti parte da una mia istintiva reazione alla lettura del libro. Potrei riassumerla così: bisognerebbe scrivere, a completamento, un Non c’è più comunismo altrettanto rigoroso e appassionato. Ovviamente un libro del genere oggi per me non c’è. Oltre il Novecento di Revelli si limita - credo - a esorcizzare la parte sanguinolenta di quel fantasma storico e Impero o Moltitudine di Hardt e Negri anticipano fin 27 troppo, teleologicamente, un miraggio gioioso e moltitudinario di neocomunismo, sottovalutando la morsa presente di guerre, precariati permanenti, tsunami e altri disastri umani e ambientali. Ho voluto perciò confrontarmi a fondo con questo libro e poi porre direttamente al suo autore delle domande legate ad esperienze che credo siano state comuni alla generazione cresciuta nell’immediato dopoguerra. Sono, infatti, uno dei tanti - suppongo che, segnato nella sua infanzia e prima adolescenza dal cattolicesimo (certo con differenze di età, di ceto e di formazione rilevanti rispetto a Ranchetti, ma non tali da impedirmi di cogliere la sostanziale continuità dell’ideologia e della pratica dell’Azione Cattolica dei suoi tempi con quelle a me riproposte tra anni Quaranta e Cinquanta, in parrocchia, a Salerno), se ne è poi staccato; e ha preso parte a esperienze di vita e di lotta sociale e politica non solo in contrasto con l’insegnamento cattolico, ma decisamente spostate in partibus infidelium e nutrite di idee illuministe e marxiane, circolate ampiamente da noi attorno al ’68 e per buona parte degli anni Settanta e tendenti ad oltrepassare il terreno religioso o a “materializzarlo” in senso più o meno blochiano. La lettura di questo e di altri libri di Ranchetti mi ha dato, a distanza di tanti anni, la percezione dell’esistenza di una possibilità nella mia giovinezza del tutto insospettata: quella di una critica radicale al cattolicesimo restando cristiani. Nel mio ambiente e in quel periodo, infatti, ogni ipotesi “protestante” o di dissidenza fu per me inesistente. Adesso la ritrovo nell’esperienza di Ranchetti, che ha fatto diventare la sua insofferenza per l’istituzione cattolica rigorosa critica intellettuale. In me invece ha portato a una rottura soprattutto fisica con quel mondo e a deviare o a trasformare quel «senso religioso della vita» in direzioni non so se più “estremiste” delle sue ma comunque non coincidenti. Questo mi permette di guardare oggi il suo percorso e il mio con uno sguardo che direi strabico. Da qui la mia tendenza ad incalzarlo su aspetti che a me paiono “limiti” o sono forse solo problemi che sento con più forza; e l’insistenza di alcune domande, che - come mi ha fatto notare Ranchetti stesso - non corrispondono alle sue domande e forse non trovano del tutto risposta da parte sua. L’ipotesi, ad esempio, della relazione fra crisi del comunismo e crisi del cristianesimo non so quanto sia interessante dal punto di vi- Poliscritture/Esodi sta della sua vasta e lunga ricerca o alla luce dell’interrogativo di Illich che oggi l’assilla. Non so neppure quanto possa suscitare interesse in altri. Tuttavia mi è piaciuto sondare il suo pensiero su questioni “mie” o fino a tempi recenti anche “nostre”, e cioè di una certa area culturale e politica di “sinistra”, che ha parlato o in qualche sua residua componente ancora parla di comunismo. Nella fase di preparazione dell’intervista mi sono chiesto anche se non sia un paradosso pretendere che un libro lucido e spietato su «istituzione e verità nel cattolicesimo italiano del Novecento», argomenti che parrebbero rivolti esclusivamente a cattolici o a credenti nell’aldilà, interessi “a sinistra”. Eppure, al di là delle intenzioni o opinioni di Ranchetti e contro altre obiezioni che ho messo in preventivo, credo che valga la pena tentare di riportare l’attenzione almeno di una certa intelligenza “di sinistra” su questo libro, sollecitando prese di posizione. Affaccio a sostegno alcune mie convinzioni: 1) il tentativo di Ranchetti di «ripristinare un’interrogazione religiosa nel senso più ampio del termine», offrendo alla discussione una serie di tesi fin dal primo numero de L’ospite ingrato del 1998, mi pare andare incontro a quelli compiuti per tutto il Novecento da minoranze comuniste e socialiste dissidenti dai partiti, che hanno anch’esse cercato di ripristinare un’interrogazione – politica certo nel senso più ampio del termine; 2) il libro, pur restando dentro la dimensione religiosa cristiana, contesta coraggiosamente e con solidissime argomentazioni teologiche e storiche l’autorità della chiesa cattolica, la cui secolare struttura gerarchica è matrice della pur laica «forma partito»; e la separazione fra sacerdozio e laicato, su cui Ranchetti tanto insiste, è il modello profondo di ogni separazione fra Stato e società civile, fra intellettuali e classe, fra politici (e rivoluzionari) di professione e movimenti; 3) se non è peregrina l’analogia tra cristianesimo e comunismo (e poi tra tentativi di riforma religiosa e tentativi “antirevisionisti” di Marx), va considerato anche il parallelismo tra crisi del cristianesimo, divenuto nell’Ottocento come Ranchetti documenta istituzione “totalitaria”, e crisi del comunismo, tradottosi nel Novecento prima in stalinismo e poi imploso; 4) per contrastare lo sfacelo teorico e ideologico nell’ultimo trentennio che ha colpito tutte le aree della sinistra (“storica” o “nuova” 28 si diceva una volta) può essere utile affrontare la centralità indiscussa del modello-chiesa, così accanitamente e lucidamente al centro degli studi di Ranchetti, specie in questo momento in cui gran parte della sinistra - come ha ricordato Massimo Cappitti in una delle pochissime recensioni che Non c’è più religione abbia ricevuto (in L’ospite ingrato 2 2003) - sembra allinearsi ossequiosamente alla chiesa, fino ritenerla l’«unica istanza etica universale capace di parlare autorevolmente al mondo “globalizzato”»; 5) chi viene dalla storia della sinistra comunista più radicale si potrebbe però chiedere se abbia senso partire dalla critica della chiesa fatta da Ranchetti invece che dalle tante critiche anarchiche fatte fin dall’inizio del movimento operaio alla forma-partito (da Bakunin a Rosa Luxemburg alla rivoluzione culturale cinese). Mi sono risposto: a queste critiche, sovente troppo fiduciosamente illuministiche, è sfuggito quasi sempre la presa dell’aspetto sacrale del potere sull’immaginario sociale. Ed è stata, invece, proprio la chiesa – come fa notare Ranchetti nella coda dell’intervista - che per lunghi secoli, sottraendo il suo e l’altrui potere ad ogni interrogazione o intromissione dei suoi laici e dei cosiddetti “eretici”, ha monopolizzato le risposte a dubbi fondamentali dell’esistenza nostra, riverberando sugli altri poteri con cui mano mano si è alleata - dagli imperatori ai fascismi – l’aura della sua sacralità; 6) se forse c’interrogassimo seriamente sul perché la “chiesa comunista” sia crollata e quella cattolica invece mantenga una sua presenza pervasiva (sia pur pervertita), sa perdonarsi e assolversi dei propri “errori” o esibire in modi spettacolari fascinosi le dichiarazioni e le imprese dei suoi capi carismatici e può presentarsi oggi come «l’unico soggetto monopolista della storia e della verità» (Cappitti), dovremmo rispondere che l’amministrazione oculata del suo Sacro le ha permesso di avere rapporti privilegiati di connivenza e di adattamento con altri gestori di un sacro degradato (fascismo e nazismo); e oggi anche col Capitale finanziario trionfante, dalla chiesa criticato per i suoi “eccessi materialistici”, ma mai disconosciuto e tantomeno scomunicato, come capitò al comunismo da parte di Pio XII. Mentre il comunismo staliniano non seppe andare oltre un certo rozzo culto della personalità. Poliscritture/Esodi Aggiungo infine almeno altre tre domande che la lettura di Non c’è più religione mi ha suscitato: 1) perché è stata possibile una connivenza quasi logica, come dimostra Ranchetti, fra Chiesa cattolica e fascismo o, altrimenti, è stata sempre più facile l’«alleanza tra trono ed altare» e così ardua quella fra cristianesimo e comunismo? 2) la critica al cattolicesimo di Ranchetti verrebbe rafforzata o indebolita da quella al Capitale, il grande innominato del suo libro? (Marx, se non sbaglio, è citato una sola volta, a pag. 79, parlando del tentativo di interpretazione fatto da parte dei cattolici di sinistra e nell’intervista Ranchetti chiarisce bene anche alcune ragioni biografiche dell’assenza nella sua riflessione di questo autore); 3) da chi e come si potrà spezzare questo monopolio totalitario della Chiesa, se tutta la memoria del tentativo del comunismo novecentesco è diventata oggi tabù? (Ricordo en passant che Giovanni Paolo II, oltre che «incarnazione di un “primato che non riconosce errore”» è stato presentato anche come il “vincitore del comunismo”, e cioè di un’esperienza storica nella quale si era affacciata l’ipotesi che forse un senso religioso alla vita poteva anche non essere più necessario). 29 Luca Ferrieri: La politica è sempre una poetica. Un dia-tria-logo su guerra e pace Il tema… Note ai fianchi… di LUCA FERRIERI Ripresa e contrappunto… di ENNIO ABATE e MARCO GAETANI di LUCA FERRIERI e ALTRI Lavorare ai fianchi Lavorare ai fianchi ovverosia sfiancare il senso comune, le certezze nostre e altrui. Lavorare ai fianchi, ossia affiancare, praticare la nobile e dismessa scelta di schierarsi, di stare al fianco, di prendere parte e partito. Lavorare ai fianchi, ossia colpire nella parti non vitali, ma anche nei punti deboli, cercando l’anello che permette di smontare e rimontare la catena. Lavorare ai fianchi: marginali che non hanno smarrito l’intero e che si propongono di accerchiarlo per via periferica. Lavorare ai fianchi, dunque sapere e sperare che gutta cavat lapidem, che il battito di una farfalla a Cologno Monzese può produrre una tempesta in Florida. Scavando nella pietra ma anche circuendola, preferendo la mossa del cavallo all’attacco frontale della torre. Lavorare ai fianchi, cioè di scarti, di scartamenti, di balzi. Lavorare nella prossimità, nella vicinanza, partendo da ciò che ci tocca, da ciò che si tocca. E poiché lavorare stanca, portare la nostra stanchezza con noi, fianco a fianco, così che stringendo lo sguardo possa mettere a fuoco i dettagli e chiudendo gli occhi, invece, possa far posto al campolungo dei sogni. Odiare il nemico In un suo acuto (ancorché e perché non sempre condivisibile) intervento1, Sergio Benvenuto osserva che mentre gli uomini di destra non odiano il nemico, in quanto nella mitologia guerriera simile a loro e quindi segretamente ammirato, gli uomini di sinistra lo odiano perché li trascina alla guerra, li rende simili a lui. La dicotomia mi pare contraddetta innanzitutto dalla storia. Falangi, ustascia, ss e altre truppe scelte della destra si sono macchiate di tali e tante crudeltà che questo codice d’onore pare esistere solo, forse, in qualche storia di samurai. Non che le corrispettive milizie “sinistre” siano state da meno, ma proprio la radice rousseauiana che Benvenuto pone alla base di ogni visione “di sinistra” (anche se così non è: esistono sinistre hobbesiane, mandevilliane, sadiane, smithiane, nietzschiane…) dovrebbe mettere in guardia da questo esito. A meno di sposare le posizioni oltranziste della nuova destra secondo cui è proprio Rousseau a portare dritto nel gulag. In realtà a me pare che, almeno su questo terreno, sinistra e destra siano categorie quasi ininfluenti (salvo sperare che il pacifismo abbia in realtà operato recenti e non effimere modificazioni positive). Ci sono uomini che odiano e uomini che non odiano. Tra i primi e i tra i secondi ci sono uomini che si rassegnano e uomini che combattono. Molti di questi combattono anche contro l’odio e hanno imparato, dopo aver attraversato tutti gli 1 [mg] Credo che nessuno che abbia mai giocato a scacchi rinuncerebbe ad una torre neppure per due cavalli. [lf] Ma su un’altra scacchiera? Con le torri (anche d’avorio) mi ci arrocco, mi ci chiudo, vado dritto, vado addosso, picchio contro. Col cavallo salto, zigzagheggio, scavalco gli ostacoli, volo sopra il nemico. Sul passo del cavallo cfr.: V. FOA, Il cavallo e la torre, Einaudi, 1991. [ea] Ma l’odio innanzitutto esiste: è un sentimento di base assieme all’amore. Non voglio improvvisare sulla definizione e la spiegazione di entrambi. Ne constato prima l’esistenza e poi un altro dato che mi pare incontrovertibile: la rielaborazione che ciascuno fa dei sentimenti di base che si ritrova (rielaborazione che mai prescinde dalle spinte della collettività d’appartenenza e accentua ora l’uno ora l’altro) solo in alcuni (spiriti religiosi? o più spinti al dovere...tu ne dai un esempio quando affermi: «non si può odiare neppure il nemico proprio perché non si deve mai assomigliargli») raggiunge il rifiuto dell’odio stesso. Rifiuto che a me pare, comunque, di qualcosa di astratto, poco rinvenibile soprattutto in politica. L’impossibilità di [lf] Certo che l’odio esiste. Certo che bisogna farci i conti. Non propongo di negarne l’esistenza (sarebbe irenico) ma di combatterla. Se l’alternativa fosse: accettazione dell’esistente / riscossa a prezzo dell’odio, potremmo a lungo dubitare ed oscillare, come è stato tante volte in passato, e poi quasi sempre finire prigionieri di una sorta di alternanza tra le due vie (non si vive di solo odio, mai). Ma forse oggi non è più questa l’unica possibilità: ci può essere una via di riscossa che non passa attraverso l’odio del nemico, così come c’è una rassegnazione all’esistente che si nutre d’odio (anche verso l’amico). SERGIO BENVENUTO, Paradosso del pacifismo, “Aut aut”, (1999), 293-4, p. 81-107. Poliscritture/Esodi 30 Il tema… Note ai fianchi… di LUCA FERRIERI orrori del Novecento, che non si può odiare se il nemico è l’odio, non si può odiare neppure il nemico proprio perché non si deve mai assomigliargli. [mg] Sarei comunque prudente nel considerare l’odio "un sentimento di base". Intanto – un discorso di psicologia, anche collettiva, andrebbe fatto: non mi ci avventuro – ritengo necessario distinguere tra l’odio come sentimento individuale e l’odio come sentimento dei gruppi. Siamo sicuri che quando parliamo di Tizio che odia Caio (perché, mettiamo, Caio gli ha fatto del male) e di – banalizzo! – un certo Islam che odia l’Occidente (e sia pure un certo Occidente) si stia parlando della stesso fenomeno, di un medesimo sentire, solo considerato su diversa scala? Quanto siamo distanti – in un caso o nell’altro - da un uso metaforico del termine "odio"? Forse poi l’odio non è propriamente un sentimento, ma una categoria storico-esistenziale. Ritengo inoltre che si possa, durante la vita individuale, anche non conoscere odio, mai (senza essere un santo, o simili!); personalmente ad esempio – per quel che può valere il caso personale, l’osservazione interna… – credo proprio di non avere mai sperimentato in me stesso alcun odio verso chicchessia. Ho per contro conosciuto persone – unanimemente riconosciute "normali", col metro corrente – che non erano così sicure di avere mai amato qualcuno/qualcosa. Non conosco l’odio: il "negativo" lo incanalo in quel certo "non so che" che in realtà però so benissimo che sia, perché lo riconosco in me quando mi si dà, e che dovendo descrivere collocherei all’incirca tra il disprezzo e il disgusto. L’odio come lo vedo dall’esterno è furiacieca-orientata, non paia contraddittorio: questa ambivalenza è esattamente ciò che può renderlo cortese. Non è casuale che l’odio abbia sempre a che fare, secondo me, con qualche forma di fanatismo, sia pure latu sensu. Se l’odio è storico, è fatalmente politico: alligna sempre dove c’è fazione. Inoltre: a rigore, un nemico che non sia odiato è piuttosto un avversario (rischi: parlamentarismo, concezione sportiva della lotta di classe). E: si può non odiare senza in qualche misura anche rispettare? Poliscritture/Esodi Ripresa e contrappunto… di ENNIO ABATE e MARCO GAETANI far diventare endemico, in un tempo circoscritto e nei luoghi dove il conflitto è più acceso, il «combattimento contro l’odio» (l’odio dell’odio, si dovrebbe dire, perché cos’è il combattimento se non una mobilitazione anche dell’odio a fin di bene?), rende debole questa prospettiva. Ardua alternativa: invece di neutralizzare l’odio in sé e abbandonarne la gestione agli avversari o ai nemici, perché non “sporcarsi di odio” ma convogliarlo a fini benefici. Sì, so che non è una novità. Siamo a Machiavelli. Ma mi pare prospettiva più realistica. di LUCA FERRIERI [lf] L’odio dell’odio mi sembra come la guerra alla guerra: un’illusione tragica, nel migliore dei casi, come quella della violenza levatrice (e lavatrice?) della storia. [ea] Piccolo approfondimento: Prendo in mano Ruwen Ogien, Ritratto [lf] L’utilizzo dell’odio a fini logico e morale dell’odio, manifesto benefici è ampiamente pratilibri 1994. Cerco appoggio al mio cato e utilizzato. La psicanatentantivo di non rimuovere l’odio, lisi stessa è un tentativo di di salvarne quella che mi pare la indirizzamento di certe pulspinta propulsiva. Le prime pagine sioni verso altri oggetti. Può sembrano smentirmi. Ogien mi riessere una via percorribile, corda Spinoza: «L’odio non può come strategia di riduzione mai essere buono». (8). Beh, io non del danno, ma a condizione di dico che l’odio sia buono. L’odio dominare e incanalare l’odio, sarà anche «costitutivamente cattinon di finirne schiavi, come vo» (14). Ma io azzardo, dico che molto spesso invece è accabisogna rischiare: l’odio va cavalcaduto. to come una tigre. È vero che è indifendibile, ripugnante, scandaloso (9). Ma resta qualcosa di irrisolto. Lo stesso Ogien riconosce che sul tema c’è tensione: quella ad esempio presente nelle posizioni di Descartes e dello stesso Spinoza. Essi oscillano fra attribuire all’odio una funzione positiva (inclinazione a separarsi da cose dannose) e una negativa («L’odio non può mai essere buono», Spinoza). (53) Ogien rianalizza varie posizioni sull’odio e confuta tutta una serie di «difese dell’odio» più o meno provocatorie: da chi lo approva per il piacere che comunque procura a chi lo vede socialmente utile come «pungolo delle condotte di legittima rivolta davanti a certe forme di oppressione, a chi lo rivolge a cose categoricamente cattive (menzogna, ingiustizia), a chi lo vede come principio dei meccanismi d’individuazione (senza odio non vi sarebbe né l’io né l’altro... senza odio non ci sarebbe l’amore, ecc.), a chi lo usa per distruggere le illusioni buoniste farisaiche. (18-19) La confutazione è tutta filosofica, acuta ma senza sguardo alla storia. Da logico si disperde in sottili argomentazioni filosofiche che non mi attraggono. Non mira a considerazioni storico-politiche, ma soprattutto a dimostrare che odiare «possiede le stesse caratteristiche intenzionali di ‘credere’ o di ‘desiderare’» (8), che odiare non può essere considerato irrazionale, incoerente, cieco. Forse è poco, ma è uno spiraglio: c’infilo subito un pezzo di Fortini sul luglio 1960: L’odio tra noi e loro faceva tremare le foglie dei platani!, in Disobbedienze II, p.110. 31 Il tema… Note ai fianchi… di LUCA FERRIERI Ripresa e contrappunto… di ENNIO ABATE e MARCO GAETANI di LUCA FERRIERI e ALTRI Disastri della guerra Durante una guerra le bombe piovono dritte dritte nel cervello della gente; ed è una delle devastazioni più tragiche. Lo si vede subito quando si apre il sipario sulla vecchia commedia dell’interventismo: chi si oppone è codardo, disfattista, eccetera. Così i favorevoli alla guerra dicono ai pacifisti: se avete del fegato andate da Saddam (o chi per lui) a fare le vostre manifestazioni non violente. Ridicolo e tragico (proprio per il suo infimo profilo) argomento; che però rischia di trascinare sul suo terreno anche taluni pacifisti, quando li sento ritorcere: i nostri guerrafondai pantofolai sono buoni a tuonare per la guerra qua, perché non sono in prima linea là. Il primo sintomo dell’intossicazione bellicista è questo mito dei muscoli, del coraggio acefalo. Ha ragione Adriana Zarri: la paura è in certi casi molto più sana e salutare del suo opposto. [mg] Bombe: esigenza di non cadere nella facile analogia, nella coloritura di tipo (pur nobilmente) giornalistico: non è un caso che un simile "stile" discorsivo proliferi nell’alienazione della chiacchiera massmediale (gli "appigli" sul significante sono le centine di ogni castello sabbiolino). Il fatto che tra noi poi ci si intenda non autorizza ad allentare la vigilanza: "come saremo letti"? Uso solo poetico-espressivo della metafora, direi. Quando è necessaria, quando è catacresi nel senso originario (quando insomma mancherebbe altro termine per far da sponda al senso costituente la situazione). [ea] Prima sui corpi di alcuni, di certa gente... Non è secondario! Nel cervello della gente (noi), quella non colpita dalle bombe ma che assiste o ha notizia più o meno attendibili dell’effetto avuto dalle bombe sui corpi altrui, piove altro. Direi gli effetti della guerra psicologica che tu qui sotto esemplifichi: menzogna, propaganda, paura, incertezza, magari persino soddisfazione: ben gli sta a quei bastardi! [ea] Ah, io starei attento ad insistere sempre o soprattutto sull’«infimo profilo» intellettuale o morale di Hitler, Saddam, Bush ecc! Il massimo pericolo viene proprio da questi bassi profili! Tragico sì, perché non c’è contrapposizione reale ma solo simbolica ai loro fatti. Ridicolo no. [ea] … sana, salutare, ma inefficace politicamente. La paura spinge a ritrarsi dal conflitto non ad operarvi. Può essere anche buona consigliera di fronte ad un nemico strapotente, ma in sé non è risposta adeguata. Può preservare le forze per combattere. Ma al combattimento non si arriva solo per paura. [mg] Paura: mi pare sia sempre e comunque pericolosa. Non confonderla con la prudenza, che è bensì una virtù. Nei fatti umani la paura è un sintomo di qualcosa che è andata fuori controllo e non doveva. Rimane ben poco, se ci si deve aggrappare alla paura. "Se tu potessi udire, a ogni sussulto, il sangue gargarizzare dai polmoni corrotti dalla bava, Osceni come il cancro, amari come il bolo Di vili piaghe incurabili sulle lingue degli innocenti,– Amico mio, tu non diresti con tale acceso zelo Ai figli anelanti qualche gloria disperata La vecchia menzogna: Dulce et decorum est Pro patri mori." WILFRED OWEN, Poesie di guerra, Einaudi, 1985 [sr] Poliscritture/Esodi [lf] Vero. Differenza da non dimenticare mai. Pure, a parlare della guerra sono molto più spesso quelli che le bombe le vedono a distanza. Agli altri è stata tolta definitivamente la parola. Io non cerco di parlare al posto loro. Mi sarebbe impossibile e non sarebbe neanche giusto. Parlo di (con) quelli che la guerra la vedono sui (tele)giornali. Ma penso che non si debba mai sottovalutare il fronte “interno”, anticamera e incubatrice di tutte le guerre. [lf] Gli infimi profili sono pericolosissimi anche e soprattutto perché infimi. [lf] Inefficace politicamente? Sempre con i metri della politica come volontà di potenza. Ma anche con questi, qualche dubbio dovrebbe sorgerci. Forse non abbiamo ancora provato a tradurre politicamente il desiderio e la paura. Forse non abbiamo mai pensato alle conseguenze politiche di una grande paura, ad esempio la paura che i nostri figli o nipoti non abbiano più un pianeta. Non abbiamo pensato alle immani conseguenze politiche dell’atto di rendere tabù la guerra, come diceva Fornari. La guerra è anche un prodotto della mancanza di immaginazione. [lf] Il più bel film di guerra? Mediterraneo di Gabriele Salvatores: “dedicato a tutti quelli che stanno scappando”. 32 Il tema Note ai fianchi di LUCA FERRIERI Guerra e pace Si può convenire con Clausewitz che la guerra è la prosecuzione della politica senza per questo condividerne l’atteggiamento bellicistico. La guerra infatti, è proprio la prosecuzione della miseria della politica: una politica fondata sulla costruzione di nemici/mostri, sull’esibizione di potenza, sul disprezzo della vita, della natura e dei sentimenti; non c’è che dire, questa è la politica che ci circonda. Si vuol dire con ciò che la scelta della pace è una scelta irenistica, di espunzione del conflitto? No, assolutamente; la pace per cui si combatte non è il nirvana - anche se non criminalizzo chi nutre desiderio della sua vertiginosa indifferenza. La pace per cui si combatte uso non a caso questa parola - è una presa di posizione conflittuale. Solo che: a) non rinuncia mai ad indicare e a incarnare l’utopia della fraternità; b) non fa sua la politica schmittiana dell’amico/nemico. Indicare l’avversario, schierarsi, scegliere (Fortini), essere “partigiani”, questo sì; ma l’avversario non è il nemico da distruggere; non è il male assoluto; la sua rimozione è un obiettivo parziale, provvisorio, quello vero e finale essendo l’assunzione del diverso, l’esperienza dell’altro, la pace ricca di fantasia e gioco. Ripresa e contrappunto di ENNIO ABATE e MARCO GAETANI [ea] Più allarmante, ma non facilmente aggirabile è l’aggiornamento della formula di Clausewitz fatta da Foucault in Bisogna difendere la società e ripresa da Negri e Hardt nel loro ultimo libro Moltitudine: «Quando lo stato di eccezione diviene la regola e lo stato di guerra si trasforma in una condizione di durata interminabile, la distinzione tradizionale tra guerra e politica si fa sempre più incerta. La tradizione drammaturgica occidentale, da Eschilo a Shakesperare, ha sempre sottolineato la natura interminabile e proliferante della guerra. Oggi però la guerra tende ad ampliarsi ancora di più, trasformandosi in una relazione sociale permanente. Alcuni autori contemporanei [Foucault citato più sotto] hanno espresso questa innovazione rovesciando la formula di Clausewitz: può darsi che la guerra sia la continuazione della politica con altri mezzi, ma è certo che la politica sta diventando sempre di più una guerra condotta con altri mezzi. In altri termini, la guerra sta diventando il principio organizzativo fondamentale della società, e la politica costituisce semplicemente uno dei suoi strumenti, dei modi in cui si attua. La pace civile è solo apparente dal momento che, in realtà, mentre decreta la fine di una forma di guerra ne inizia un’altra», pag, 29. Esagerati? Discutiamone... [ea] Concordo. Ma il desiderio di pace deve affrontare questo contesto. Non possiamo rimanere solo con una fede (o desiderio) incrollabile di pace. Fortini: bisogna “uscire dalla morale verso la politica”, sostituire alla morale dell’intenzione una morale del risultato, scegliere di “combattere politicamente l’impero del mondo”. di LUCA FERRIERI e ALTRI [lf] Che il rapporto tra guerra e politica si sia in qualche modo invertito è verissimo. La politica è diventata la prosecuzione della guerra. Ciò deve condurci a denunciare quanto poco sia fatta di pace vera la pace che è semplice assenza di guerre conclamate, così come un tempo si denunciava la pace sociale lastricata di morti sul lavoro, di sfruttamento, di violenza. Ma non implica un abbassamento della guardia verso l’infiltrazione della guerra in ogni piega quotidiana, e la proposta della pace come prospettiva e bene irrinunciabile, dentro cui vanno ricollocati e ricompresi i conflitti di ogni natura e specie. [lf] Concordo. Ma il combattimento politico deve saper esprimere il desiderio di pace… Tutte le guerre sono nere Quasi una prova del nove, se non fosse che poi i conti non tornano mai. I giornali di oggi danno notizia che nella Kraina serba sottoposta a massicci attacchi di croati si stanno concentrando gli estremisti serbi, fascisti. Fascisti, dunque, come i loro avversari, gli estremisti croati ustascia. Sembrerebbe una dimostrazione che la guerra, una guerra così bestialmente priva di ragioni e piena di violenza, può essere invocata, da ambo le parti, solo dai settori più fascisti dello schieramento politico. I conti non tornano però, perché la storia non si ripete che in farsa, ovvero in diverse, immani tragedie. E i fascisti sono ora gli utili idioti di una classe politica ed economica che li manovra. Intorno al riattizzarsi di nazionalismi e di spinte alla guerra, ci sono interessi e calcoli ben più raffinati delle volgari truculenze revanscistiche dei nostalgici. I fascisti sono solo gli addetti alla macelleria. Poliscritture/Esodi 33 Il tema… Note ai fianchi… di LUCA FERRIERI di ENNIO ABATE Ripresa e contrappunto… di LUCA FERRIERI Figli del Novecento Sono figlio del Novecento, di questo secolo bello e tremendo che non vuole (che non sa) morire. E come potrebbe morire: come potrebbero morire le mani appese a un reticolato, le dita spezzate di Victor Jara, il titanic inclinato su un fianco, le grida degli operai che giungono al cielo, i mille fuochi delle parole impronunciabili che ancora covano sotto la cenere. Quando leggo Sefarad di Muñoz Molina2, e vi leggo che l’orrore stava da tutte e due le parti (il che non vuol dire che le parti fossero equivalenti), che Osip Mandel’stam in un gulag fece la stessa fine di Milena Jesenska in un lager, non mi sale l’adrenalina patriottica di quelli che hanno gridato allo scandalo, che hanno accusato Muñoz Molina di fare del revisionismo storico, di mettere sullo stesso piano Hitler e Stalin, lui, che è un cantore della libertà e della fuga e denuncia dalla prima riga all’ultima l’intollerabilità dell’orrore nazista e antisemita. Perché il Novecento non ha seminato solo l’orrore ma ha anche partorito il gesto di chi lo ha combattuto, anche quando lo ha riconosciuto nelle proprie fila. Arrendersi alla TV Tra le cose più stomachevoli della (prima) guerra del Golfo c’è la risata, amplificata dai media e riecheggiante in ogni bar dell’isolato, di fronte alla notizia che un battaglione iracheno si era arreso davanti ai microfoni della TV. Prescindiamo dal fatto che questi sono, e si sono rivelati tali anche in questo conflitto, degli ordigni micidiali: chiunque li abbia puntati addosso fa bene ad arrendersi. Ma ciò che la nostra cronaca cortigiana stracciona non sa neanche rilevare è la condizione di disperazione, follia, terrore e insieme di gioia e speranza per la fine di un incubo, che stava dietro quel gesto. L’obiettivo militare americano, scientificamente perseguito con lo studio dei ritmi di bombardamento, di progressione della loro intensità, ecc., era proprio quello di far uscire pazzi i soldati e i civili iracheni. L’episodio della resa alla troupe della TV italiana non fa che confermare il “successo” di tale strategia. Quando cominciò l’offensiva di terra, i cannoni dei carri armati irakeni, puntati verso il mare, non sono stati neanche girati verso terra: non c’era più nessuno che lo potesse fare. Fucilarli alle spalle [ea] complicità sotterranea fra professionisti di un medesimo sistema, forse... La guerra esercita da sempre il suo povero fascino sui poveri di spirito agitando l’alone dello straordinario, dell’irripetibile, del rischio assoluto. Quasi che altro modo l’uomo non conosca di immaginare il gioco, l’azzardo, il bilico tra vita e morte, la vertigine del vuoto (non hanno mai sentito parlare di amore, i signori della guerra?). Provate ad andare in un pronto soccorso, alla sera. Questi qui (infermieri, medici, portantini) che dovrebbero sentirsi in guerra, contro la morte, contro il tempo, contro la burocrazia (ed eccola qui, quella che non esiste: la guerra giusta), che dovrebbero sentirsi in gioco fino all’ultima terminazione nervosa contro il nemico, imprevedibile, traditore, furbissimo, questi qui timbrano il cartellino, scavalcano le barelle senza uno sguardo e tirano mattina. Poi magari plaudono alla guerra del Golfo. Se dovessimo applicare il codice militare sarebbero da fucilare alle spalle. 2 [lf] Ma se noi abbiamo perso ogni speranza che il generale Schwarkopf possa un giorno fermarsi prima di dare quell’ordine, insomma possa un giorno rompere la maledetta catena del comando, e dire: Signorno, mi dimetto dall’ordine, forse abbiamo già perso la (guerra per la) pace. Eppure di storie così ce ne sono tante. Di uomini che erano stati ben selezionati per dare l’ordine e non [ea] Direi che ne hanno solo sentito parla- l’hanno dato. Che erano re . Di più: magari l’hanno anche provato, stati messi al posto giusto, ma ora è seppellito da “cose più importan- e nel momento giusto hanti”. Di più ancora: magari mentre fanno la no evitato di schiacciare il guerra trovano anche qualche occasione bottone. Lo diceva anche per amare qualcuno/a o qualcosa. Ricorda Brecht: il carrista ha un gli aguzzini di Auschwitz buoni padri di difetto, può pensare. famiglia, ecc? Ma scavare nel profondo Quando faremo la storia di dell’anima di un guerriero o di un potente, questi eroi che hanno avuto che ha bloccato consapevolmente o incon- il coraggio di tradire? sapevolmente, le pulsioni d’amore con la professionalità rendendole inoperanti, non serve a noi che dovremmo trovare la via per fermarli. Un lampo da Fortini: «Quando il generale Schwarkopf ordina di sventrare diecimila irakeni non lo fa perché da piccolo la mamma gli negava il seno o il padre lo minacciava di busse; tanto più che egli è probabilmente un uomo di buon cuore, pronto magari ad adottare un orfano di quegli irakeni e amante della musica popolare, dell’Arkansas o della lirica trovadorica o dell’allevamento dei criceti. Lo fa perché non sarebbe a quel posto ove non fosse stato selezionato ai suoi compiti da un sistema complesso di cui fanno parte industriali, economisti, storici, psicologi, sociologi, uomini politici, insomma tutta una cultura» ( p.168, Disobbedienze II). ANTONIO MUÑOZ MOLINA, Sefarad, Milano, Mondadori, 2002. Poliscritture/Esodi 34 Il tema… Note ai fianchi… di LUCA FERRIERI Ripresa e contrappunto… di ENNIO ABATE di LUCA FERRIERI Ho perso la guerra C’è nella guerra, qualunque guerra, qualcosa che mi disgusta fino al rifiuto della vita, al deperimento organico. Quando i rapporti tra le persone - ora parliamo di questi - si tendono fino a sprizzare scintille, io sento le mie forze scemare al minimo vitale. Altri si gettano nella mischia come pacieri o come parte in causa: la guerra li eccita, e questo vale anche per certi pacifisti, con tutto il rispetto. Io sono fatto diversamente, e non credo sia una virtù. Quando si incrociano le spade, riesco al massimo ad articolare una strategia difensiva; ma internamente non cesso di interrogarmi: come è possibile? Perché si è arrivati a questo? Qual è l’errore? e perdo veemenza. Non si può combattere senza qualche certezza; a me succede che le certezze, solide in pace, vacillino al momento della guerra. Il contrario di ciò che accade nella quasi generalità dei casi. Forse io sono un traditore congenito; eppure sono anche capace di lunghe fedeltà. Forse sono un pauroso; eppure potrei anche, in condizioni disperate, compiere qualche atto di modesto coraggio (ma non garantisco). In proposito penso che siano più coraggiosi quelli che convivono con la paura di quelli che ne sono privi. Probabilmente la necessità di agire con rapidità e approssimazione, tipica della guerra, mi mette a disagio; contiene una dose di ingiustizia e di semplificazione che mi è inaccettabile. Nella guerra ciò che mi scoraggia è la possibilità di vincere, che non è mai esclusa del tutto; io faccio in modo di perdere preventivamente tutte le mie guerre. [ea] Ipotesi: questa reazione che tu consideri personale (e probabilmente lo è, ma non credo che tu sia il solo...) si spiega (magari in parte) col fatto che noi tutti non abbiamo avuto, come generazione, esperienza diretta, fisica di uno stato di guerra. Siamo testimoni, più o meno informati, delle guerre avvenute fuori dal nostro habitat vitale, esistenziale. Siamo costretti a fare supposizioni su cosa faremmo se, come ci comporteremmo se. Costretti all’immaginario, credo. sarò ideologico: ma che pace c’è stata nel periodo che abbiamo vissuto? [ea] O tipica dei poveretti che si vedono precipitare addosso una guerra? Questi le guerre le programmano! Hanno tutto il tempo per programmarle nei minimi particolari, tranne poi fallire sempre in qualche cosa nelle loro operazioni lampo, intelligenti, ecc. Ma non si tratta di accettare ingiustizia o semplificazione, si tratta di riconoscere questa realtà per provare a contrastarla... [lf] Mettendo insieme queste due ipotesi ne avanzo una terza: forse abbiamo vissuto in uno stato di guerra lontana o di conflitto a bassa intensità, qualcosa che ci toccava solo ideologicamente. In questo senso oggi qualcosa è davvero cambiato, sarà un effetto, uno dei tanti, della globalizzazione: la guerra lontana la sentiamo vicina, perché sappiamo che può scoppiare qui e ora, gli scenari sono intercambiabili, nessuno è mai davvero al sicuro. [lf] Sì, tipica dei poveretti che che la guerra la subiscono, e tipica anche della ideologia di quelli che la fanno. In entrambi i casi l’esitazione è esiziale. “Sparagli Piero, sparagli ora…”, prima che il nemico faccia lo stesso. Chi è abituato a perdere non si accontenta di vincere Succede proprio così: chi ha combattuto le sue battaglie di minoranza (facendosi magari un puntiglio dell’etsi omnes, non ego), si è trovato spesso da solo, ha pagato di persona, improvvisamente vede il nemico in rotta, si rovescia la fortuna, si aprono le porte, piccoli drappelli di cortigiani si fanno incontro solleciti. La crisi in cui precipitano a questo punto i combattenti delle cause perdute è terribile. Non possono abiurare, né passare dalla parte del vecchio nemico, perché hanno forgiato nella lotta una coerenza cui non sanno più rinunciare. Ma sono sopraffatti dal fastidio e dalla rabbia contro le banalizzazioni, le semplificazioni, gli effetti farseschi dovuti all’amplificazione e alla ripetizione delle idee in cui hanno creduto, dalla pietà verso chi ora è sconfitto. Allora dovrebbero capire che non possono accontentarsi di vincere, perché vincere non era nei loro programmi. Quel che vogliono è di più, molto di più, è qualcosa che non è misurabile in vittorie e sconfitte. Molto presto torneranno a combattere da soli contro i nuovi nemici che si annidano tra gli amici, ossia contro i vecchi nemici che hanno cambiato pelle. Di nuovo conosceranno l’incomprensione, la vendetta, l’emarginazione. L’agonismo che sfibra tutti i donchisciotte del mondo è l’altra faccia della loro inaffidabilità militare, della loro vocazione di perdenti. E tuttavia essi, che tanto hanno agognato la pace, si condannano a perderla quando sta per scoppiare nel mondo intero, per disgusto della folla e per amore dei propri sogni. Poliscritture/Esodi 35 4 Storia adesso - Daniele Santoro Dalla silloge «Diario del disertore alla battaglia delle Termopili» [...] Leonida, re di Sparta che ha lasciato di virtù grande ornamento e gloria! (Simonide di Ceo) I eccoli i popoli del terzo mondo, i barbari, quelli che ignorano le nostre leggi, accampano di là del valico che siamo qui venuti (anzi ci hanno mandati) a presidiare. sono a migliaia quelli del re serse noi appena quattro gatti che aspettiamo in massa rinforzi di alleati. II con oggi sono già però tre giorni e non un segno dalle retrovie: qualcosa che si muova, una vedetta che a squarciagola annunci il loro arrivo. qui al fronte tutto è immobile. nessuno osa lasciare le sue postazioni: non attacca il nemico (per fortuna) noi non suoniamo (che sarebbe meglio) la ritirata. ci si sta in cagnesco, ci si fa la guardia, ci si studia: non sono poi così da noi diversi questi barbari, come in città filosofi del cazzo hanno voluto farci credere, ma li sentiamo spesso nella notte mormorare un canto, anche la loro preghiera è simile alla nostra “proteggi, dio, i tuoi figli che i Padroni mandano a morte dacché il mondo è mondo” III è da poco spuntato il quarto giorno. nessuna novità, ci fronteggiamo, quelli dall’altra parte credono che l’intenzione nostra è di sfidarli o che stiamo tramando qualcosa che gli sfugge. mandano spie, sono circospetti, è reticente serse: onde evitare inutile ecatombe, spera, che prima o poi dalla paura lasceremo il muro romperemo in disordine le linee Poliscritture/Storia adesso IV improvviso un clangore ci sveglia, rompe ogni remora il persiano intenzionato a chiudere nel sangue la faccenda: lancia all’assalto un primo contingente con l’ordine di catturarci vivi (ma niente da fare, li bastoniamo come cani), e dunque tocca a idarne e ai suoi immortali (peggio di andar di notte - non c’è storia), manteniamo serrate le file dello schieramento fingendo di arretrare diamo loro il culo: insomma li invitiamo addentro il valico dove le nostre lance hanno la meglio, arretrano gli invasori, non guadagnano di un solo metro il passo che ci onora, che difendiamo a denti stretti - e vorrei tanto dirlo a quel magnaccia che si fa bello del nostro sacrificio: qui caro mio non c’entra l’eroismo che non sia solo un Disperato istinto a vivere V benché equivalga ad una strepitosa vittoria questo averli respinti per due giorni, c’è poco da far festa al campo: ci si sta in silenzio - il morale a pezzi piangiamo pure noi qualche compagno. qualcuno sottovoce impreca, altri contempla l’Olimpo che ci sta di fronte ove banchetta il dio, altri non fa mistero della sua baldanza sguaina la spada, è in preda alla follia, parla da solo e ride VI leonida è pensieroso, si consulta con gli altri duci sul da farsi. attende lui pure che improvviso sbuchi dal sentiero un nunzio che preceda nuove truppe: con loro sì potremo dare filo da torcere al persiano cacciarlo al mare ove la flotta, stanziata all’artemisio, farà il resto. VII sono mille gli opliti messi a guardia della montagna, controllano la scesa il vico stretto di anopàia il cui segreto un tale della zona - dicono - la notte scorsa abbia venduto a serse (che l’abbiano inventato apposta un traditore per riparare all’onta dell’aggiramento?) Intanto vero o falso poco importa: passa il nemico e chi è di vigilanza dorme o 36 non s’accorge che qualche foglia scricchiola sotto il felpato passo, che frana qualche ciottolo per la scarpata. spunta l’aurora, sono quasi in cima ma quando se ne accorgono i focesi, di stanza sul pendio, è già ormai tardi: sono in balia del panico, disorientati confusamente imbracciano le lance - fortuna che i persiani non si curano di quelli che già tengono nel pugno e quindi ridiscendono la valle, marciano avverso noi lungo la costa … che siamo i più temuti. IX leonida ha sessant’anni. se ne fotte di quanti manda a morte, vuole farsi onore. ligio più alla sua gloria che alla polis, pur compierla dovrà un’impresa degna di Eracle da cui discende che resti negli annali: d’altronde, lo sa bene che rammenteranno i posteri il suo nome e ad uno ad uno quello dei Vigliacchi non certo il nostro (i poveracci) XV difendono accaniti il corpo di leonida, conteso quattro volte all’ira del persiano, lo abbracciano, ne fanno scudo (la reliquia) ma in guerra la pietà non si conosce con gli archi li finiscono i nemici e li sotterra lento un piovere di frecce XVII Finale giunge voce che serse ha perso due fratelli e circa ventimila dei suoi uomini (trovo che il numero sia esagerato - ciò non toglie che Duro è stato il colpo infertogli dalla battaglia. sta il fatto invece che precipita verso la grecia interna (la minaccia), reca come un vessillo affisso a un palo la glorïosa testa del Re straziata ché tutti la vedano e sciolgano con noi alleanze per timore X ma leonida è buono, è generoso e nel precipitare degli eventi (ha decretato) manderà a casa quelli che non vogliono (pur se da usarli in prima fila tratterrà i tebani, che non si fida affatto) e poi la gloria va spartita in pochi d’altronde chi ritorna morirà lo stesso perché dei traditori il popolo non ha pietà XI oggi avverrà lo scontro leonida con altri appronta l’armi, la spada sguaina ripetutamente, la lancia lucida che abbaglia il sole dà le sue estreme indicazioni: ad un suo rispettabile comando usciranno di corsa dal valico e attenderanno il nemico al centro della piana - poi sarà la fine XII è una follia, combatterli, è una follia vi dico, amici, ritornate - ma loro non si importano imbevuti che sono già di gloria forsennati esultano viva la libertà viva la grecia XIII chiamatemi codardo vile e vigliacco premieranno i posteri la mia viltà d’amare più la Vita che l’onore e guerra Poliscritture/Storia adesso 37 5 Zibaldone - Luciano De Feo: Scritto nelle stelle Ghirigori di china, corvi spauriti che svolazzano sul fondotinta anemico di un volto di donna. E io che mordevo già, a piccoli sorsi, l’ultimo bicchierino e una pillola rossa, occhio di tigre incastonato nel durissimo granito della notte. Il mare del Nord, che il vento rimbocca come una coperta damascata di stelle spumeggianti sugli aspri fianchi frastagliati della costa scandinava, scava abissi di solitudine tra l’orrore che si cela dietro il sipario tenebroso chiazzato di pallide nuvole gonfie di tempesta e le povere marionette che si agitano a scatti, rispondendo al muto comando del più perfido dei burattinai. E già, perché non è che un mangiafuoco in età pensionabile, questo Destino che ci ha fatti ritrovare in questo posto dimenticato da tutti, Dio in testa – e non potrebbe essere altrimenti, di questi tempi. Il destino non conosce soste, ha scarsa dimestichezza con la pietà e quando va in ferie è perché è la morte a chiedergli strada, per provare il filo del suo arnese ricurvo. Che strano! L’allegoria della morte mette subito all’erta i miei sensi. Penso alle scimitarre e mi viene in mente Dubai, con le sue strade polverose di giorno e silenziose di antichi misteri di notte. Quelle notti, io non le ho ancora dimenticate: notti di agguati e di peccato, di dolore e di dolcissima rassegnazione. A Teheran si è fermato il mio tempo, prima che le bombe benedette, incartate di stelle e di sangue, piovessero sull’innocenza come tragiche uova pasquali! Shadrak im Shakì, il vecchio usuraio poliglotta, che io sappia giace ancora abbandonato in un sudicio campo alla periferia di Ramallah, la testa da una parte e ciò che resta del corpo sparso tra i ciuffi d’erba bruciati, come spiccioli di un’esistenza gettata sul banco dove un tempo uomini dalle armature d’argento tirarono la sorte sulle Santissime Spoglie. Ben misero crociato, sono, se ripenso a quelle notti persiane che nulla hanno delle antiche fiabe. Ma sto divagando, come al solito mi sembra di sentirti dire. A Beirut fu la tua voce a deviare la pallottola indirizzata al mio cuore, e adesso mi chiedo se sia stato un bene … Voglio dire, quello Poliscritture/Storia adesso della pallottola finita nella vetrina illuminata di un bar, saltato in aria l’indomani perché situato in un punto definito strategico dagli analisti. Per quanto mi riguarda quel bar è uno dei tanti posti sbagliati al momento sbagliato, l’incrociarsi di forze ostili nel grande labirinto del fuoco e dell’orrore. Un sacrificio! Come se non se ne celebrassero anche troppi in nome di questa Causa di merda, quella con l’iniziale maiuscola. L’eterna schermaglia che solo gli sciocchi vestono di leggenda sta tingendosi troppo di catastrofe, perché si possa continuare a far finta di niente. Io non so più distinguere i colori della vita, sarà per via di questo rosso fuoco che accende la bestia che è in me. Quale causa può mai definirsi giusta, se a rimetterci sono tanti innocenti: bambini sventrati dalle mine, donne violate, vecchi sgozzati, povere case rase al suolo dal più infame degli angeli vendicatori? E’ forse lo stesso oscuro movente che ha fatto di me un assassino a raccogliere, come un ceppo, l’ultima goccia di sangue che scherza con l’orlo del tuo fazzoletto, quello che raccolsi presso un bazar di Istambul, or sono tre anni. E’ vero, non ho perso l’abitudine di esprimermi come uno di quei personaggi che sembrano evasi da un feuilleton ottocentesco, che a te fanno venire i brividi, e che a me hanno invece insegnato più cose sulla vita che non i tuoi Manuali Catodici, infarciti di uomini di pezza, di punti luminosi gettati a casaccio in mezzo a grappoli di merci pronte per il consumo e quesiti venuti a galla nel bel mezzo di un quiz a premi. Mi fa un male pazzesco, questa dannata ferita che scava tra le mie costole come nel Mar Rosso la Gloria del Signore, al passaggio del popolo eletto. Adesso sono seduto su di una bitta divorata dalla ruggine. Non faccio che fissare da ore lo stesso cabinato scuro che rulla, beccheggia, quasi volteggia sulle acque grigie di questo fazzoletto di mare gettato a mo’ di rete in mezzo a peste scogliere incredibilmente cristalline alla pallida, eppure per me così abbagliante, luce della remota luna d’inverno, in un posto qualunque tra Solna e il tuo esilio. Ti sogno ogni notte, dacché ho ricevuto quel semplice foglio a quadretti su cui, un giorno rubato a caso nel mazzo dicembrino del più tragico dei miei anni, hai scritto: “Ti penso sempre. Appena arrivo ti faccio uno squillo”. Ecco, proprio così c’era scritto, non si è trattato di uno scherzo della mia immaginazione. Ero al bar “dei reduci”, come chiamano il Lazarus Inn questi sciocchi marcantoni dagli occhi di ghiaccio, unico scampolo di umanità in quest’anfratto sperduto. 38 E’ il posto frequentato anche dai marinai yankee di stanza da queste parti, oltre che dal personale della vicina base Nato. Sai, un vecchio, Yarnik mi pare che si chiami, mi ha confidato di averli visti coi suoi occhi, i famigerati missili a lunga gittata, quelli che i governi dell’Asse vorrebbero farci passare per l’ultima invenzione della propaganda neo-bolscevica. Pensa che per un attimo ci ho creduto anch’io, alla favola del complotto arabo! Ogni volta che occorre coprire le nostre vergogne, ecco che gli specialisti in abito scuro rispolverano dalle mille e una notte la favoletta del terrorismo islamico. Mi fanno ridere, questi fanfaroni mal vestiti con i loro cappelloni stile Bonanza schiacciato sullo scopettone scolpito in punta di forbice del cranio da nazista in incognito. Shadrak in Shakì era arabo, un usuraio della peggiore specie, ma certamente non c’entrava un cazzo con le autobombe e gli aerei kamikaze. Lui, che era abilissimo a tramutare lo sterco in denaro sonante, era altresì incapace di far del male e, ti assicuro, non ho mai conosciuto persona più devota, e sì che ne ho girati, di luoghi “santi”. Tu sai com’è morto, quel povero cristo! Lo hanno assalito in cinque – io ero là! In due gli tenevano immobilizzate le gracili braccia di vecchio, mentre gli altri lo massacravano, colpendolo con spranghe di ferro, bastoni, oltre che col calcio dei fucili. Quei vigliacchi non potevano certo immaginare che c’era qualcuno, nello stambugio in fondo al giardino che fungeva da latrina. Non ho perduto un fotogramma di quell’atrocità, eppure non ho mosso un dito per salvarlo. Ero andato a trovarlo per chiedergli dell’oscuro messaggio inciso sulle tavolette che qualcuno aveva nascosto fra le saponette profumate nel cesto del mio albergo. Io li ho visti bene in faccia: erano americani. Gente addestrata al combattimento, esperta in torture, pronta ad uccidere, e tu sai che me ne intendo. Ed io, là, testimone della più vile e spaventosa esecuzione, eppure impossibilitato ad intervenire, per non tradirmi. E tutto questo in nome della Causa! Quando se ne sono andati, scomparendo letteralmente nel buio oltre il giardino, mi sono avvicinato a quel povero ammasso di carni maciullate che mani abiette avevano trasformato in concime per la zizzania. La testa di Shadrak era là, a un niente dalla punta del mio stivaletto e, giuro che non ti sto raccontando stronzate, ad un certo punto gli occhi del vecchio si sono veramente mossi, e dalla bocca impastata di sangue e di terriccio, è uscito un solo, misero suono gorgogliante, che mi ha fatto fuggire come impazzito. Poliscritture/Storia adesso E’ stato terribile, credimi, ma adesso finalmente so chi ha “lanciato” quegli aerei contro i simboli fallocratici della grande prostituta d’oltreoceano. Su uno di essi viaggiava la mia famiglia, e pensa che si trattava del loro primo volo. Al momento della partenza, mio padre mi ha abbracciato forte, ringraziandomi per l’occasione che gli si presentava di vedere un po’ il mondo, prima di andare in pensione. Non potrò mai dimenticare gli occhi di mia madre, quel giorno all’aeroporto, e l’espressione felice di Angela, la mia povera sorella … Sai, doveva sposarsi in primavera, nei suoi piani per l’avvenire esplosi su quel maledetto aereo trasformato in missile, un viaggio in Canada con il futuro vedovo, e i preparativi per il Natale che avremmo dovuto trascorrere tutti insieme sull’altopiano. Lo Sceicco della Tenebra non ha niente a che vedere con quest’olocausto deliberato a tavolino dai “nostri” Grandi riuniti attorno allo stesso tavolo. Ora ne ho le prove. Ti amo, Antoinette, come non ho mai amato nessuno, prima di incontrarti. Là dove il tempo continuerà a sgranare rosai di greve lentezza, lascio il mio ricordo più bello, quel bacio più leggero di un soffio, tocco d’ala di un insetto tintosi del tuo rossetto alla mela. Ringrazio il Signore per averti messa sul mio cammino, regalandomi i momenti più belli della mia ignobile esistenza. Soprattutto ti adoro perché hai aperto, col mio cuore, anche la mia mente ottenebrata da anni di propaganda consumistica. Quando ti seguii fino a Gerusalemme, per quel servizio sull’Intifada, pensai di aver fatto una cazzata, la più grande da che ero al mondo. Poi accadde il miracolo. Fu il sasso scagliato da una fionda senza identità a salvarci la vita, visto che gli Israeliani sono infallibili con le armi da fuoco: ne sa qualcosa il povero Benoit, della BBC. Facemmo l’amore per la prima volta quella stessa notte, all’aperto, sotto una fredda trapunta da favola, mentre una nenia dalla cadenza ossessivamente ipnotica mi faceva da guida nelle più segrete profondità del tuo mistero di giovane donna. Non ho più avuto una vita mia, da che te ne sei andata per aiutare i Combattenti della Fede ovunque, a tuo dire, ci fosse un torto da raddrizzare. Il mio cuore impazzito mi tradì proprio all’ombra del campanile che, come una grossa meridiana, domina la piazza principale di questo piccolo borgo nascosto in mezzo ai fiordi. Era la vigilia di Pasqua, l’Angelo del Signore si manifestò in tutto il suo splendore tra i tubicini e gli aghi che mi tenevano sospeso sull’abisso d’argento, fragile ponte sospeso tra il mio sembiante anagrafico e l’anima inviolata pronta a magnificare l’Eterno sulle spiagge assolate dell’empireo. 39 *** Ed ora eccomi qua, giusto un anno più tardi, mentre sto uscendo dal ritrovo degli yankee, confuso tra marines ubriachi e fatalone che mi riportano per un istante al paradiso artificiale dei bordelli di Bangkok – solo che queste qui sono bionde e alte due metri, con un’espressione negli occhi glauchi che ti fa sentire una nullità. Col passo lieve, retaggio di anni di duro addestramento, scivolo ombra tra le ombre rispondendo a qualche distratto saluto. Eccomi oltre l’abitato fatiscente che fa da corona di spine al quartiere dei maggiorenti. La casa a due piani dove dimora il potere si trova sulla mia destra, e quello laggiù è il mio campanile. Da qualche parte, tempo fa, ho addirittura inciso uno di quegli sciocchi messaggi sentimentali che gli adolescenti affidano al legno dei banchi scolastici, ad un muro screpolato o ad una corteccia grondante di umori. Come mi fa sorridere, adesso, quest’urgenza di eternità di cui l’oblio si fa beffa, come la più assurda delle memorie. Mi faccio il segno della croce, e penso a Bernard de Clairvaux, il Consacrato. Un brivido prolungato, acutissimo, mi fa capire che non è il freddo a scuotermi. Ma io ti amo, come è scritto persino su questa pietra coperta di licheni, sembrano smeraldi, tanto brillano in questa notte silenziosa. Tace il vento. Ogni rumore sembra affievolirsi al mio passaggio, addirittura ammutoliscono i mostri in agguato dietro i cortinaggi scuri che danno ricetto agli assassini. Mentre l’umido della notte si insinua fin dentro gli anfibi risalendo lungo le cosce, ripenso alla tua lingua rovente e ai nostri giochi al chiaro di luna o davanti al fuoco, mentre fuori impazzava la tempesta. Fu a Glasgow, se non ricordo male, che per la prima e unica volta venimmo in simultanea, e tu mi chiamasti: - Tesoro! Ecco, finalmente sono arrivato … No, stavolta il sesso non c’entra! Avverto una stretta in petto che mi affretto a reprimere. Thorbjorn ed Arne mi hanno tatuato sull’avambraccio lo schema cui dovrò attenermi, semplice semplice come la tabellina dell’uno. Vorrei solo che tu sapessi che non ti ho mai dimenticata, durante questi tre interminabili anni, prima che un misero pezzettino di carta a quadretti venisse a sconvolgere per sempre la nostra vita. Ascoltami, io … Ma, già, tu non sei qui con me! Eppure lascia che mi illuda, per l’ultima volta, che sia sufficiente lo spettro della persona amata, quest’esile golem di nebbia ricamata dalla nuda fantasia, perché un soliloquio si trasformi Poliscritture/Storia adesso d’incanto nella più felice delle sceneggiature a lieto fine. E vorrei sottolinearlo questo concetto: lieto fine. Perché anche il più efferato dei crimini abbia un senso, e l’intera umanità torni a respirare aria pulita, e un bel giorno i nostri figli possano uscire in strada a giocare, salire su un autobus, o passeggiare mano nella mano senza saltare in aria, perché così vogliono nei salotti del potere, è necessario elevarlo, questo sacrificio al cielo. Però voglio che tu sappia, Antoinette, che sei stata la mia sola ragione di vita, ed è per questo che sono qui, stanotte. Quanto scandisce il mio respiro, mentre saluto l’uomo in uniforme che mi viene incontro, sta tutto scritto sui fogliettini di carta di cui è riempito il cuscino che riceverai, insieme ai fiori secchi e al ritratto nella vecchia cornice d’argento. Quando tornerai nella torre di cristallo fremente d’attività come un alveare, ricordati anche di lei, della mia povera mamma, che sognava per noi due un grande avvenire. Eccoli, i missili. Mi sembra di scorgerne altri due alla mia sinistra, coperti da spessi teloni, mentre in compagnia degli altri ufficiali varco la zona rossa e mi inoltro al di là dei fabbricati segnati con l’enorme X. Rammentalo, Antoinette, è l’uomo che ti ama a fungere da estremo officiante, perciò non ascoltarli, i bastardi, quando cercheranno di farti credere che ero un terrorista. Quegli aerei di linea scagliati come proiettili contro i ciclopi di vetro ed acciaio, e i tanti morti di quel lontano settembre più nero della notte che sta per porgermi il suo ultimo saluto, non sono soltanto uno dei tanti capitoli mandati a memoria durante questi anni di follia di massa. Ancora pochi metri. Guarda un po’, c’è anche il Vecchio, l’Asso dalle cento stelle che propiziò il mio reclutamento. E’ anche grazie a canaglie del suo stampo, se finalmente posso sentirmi libero per la prima volta. Riassaporo per un istante il gusto dolce amaro di un sì pronunciato a fior di labbra, su una piattaforma petrolifera abbandonata. Là m’incontrai con i Confratelli, ad essi votai il mio cuore, ecco perché sono qui, tra quella che un tempo fu la mia gente. Quando leggerai di questa notte, amore mio, ricordati delle mie mani, di queste dita piccole e agili che sapevano sfiorarti, strappandoti gemiti di piacere e che, da qualche minuto, indugiano sul minuscolo detonatore che farà di me, del tuo uomo, non un Kamikaze da gettare in pasto all’opinione pubblica, ma il martire del mare del nord. 40 - Ornella Garbin : Tre poesie Pace come dolce miele E sia la pace almeno nel nostro intimo alveare in modo che ne possiamo suggere in ogni momento il dolce nettare. E se pace non abbiamo, come piccola ape ronzare bisogna intorno a ogni cosa buona e bella assorbendo portando trasformando tutto in alimento prezioso per farne scorta nel freddo inverno. Vento freddo Freddo vento autunnale la pioggia batte contro i vetri della mia finestra. Presto partiranno i soldati anche dal mio Paese…. La parola “Paese” deriva dalla stessa radice della parola “Pace”. Perché un paese si costruisce solo in tempo di pace. Ma loro, i soldati sulle loro macchine di guerra si sentono portatori di pace e vanno senza sapere bene dove. Troveranno molto, molto più freddo in quel paese che ha perso la propria radice . Uccideranno senza sapere bene chi. Ma questo, come sempre i soldati. Fiore bianco Come un grande profumato fiore bianco, coltiviamo la pace nel nostro intimo giardino, se l’aria intorno è tersa e tranquilla immobile nemmeno un granello di polvere sporcherà questo fiore. Dal Dizionario etimologico di Giacomo Devoto PAESE lat.volg. pagensis, deriv. di pagus, villaggio, con leniz. Totale di –g- dav. A voc. palat.: dalla radice PAG, variante di PAK, v. PACE PACE lat. pax pacis, nome d’azione dalla radice PAK “l’atto di pattuire”. Forme alternanti con la cons. sonora del tipo PAG consentono confronti fra i lat. E le aree greca e germanica. Poliscritture/Storia adesso 41 - Mario Mastrangelo: Na stella Rint’ â fuschia-trasparenza r’ ‘a sera na stella ca se vere e nun se vere, e ‘o penziero ca saglie e quase avvista ncielo nu Dio ch’esiste e nun esiste. Nu bisbiglio ca se distingue a stiento, ca forse è voce o forse è sulo viento, ‘o spireto culpisce e l’addummanna si mesto se raccoglie o radioso se spanne. L’ombra ca vene l’ànema custerna cu na prumessa ‘e fine, cu nu senzo r’eterno, mentre n’urdema luce ‘e quiete avvampa nu munno addó se campa e nun se campa. Per una critica dialogante 1 Quale poesia in Poliscritture? Il problema si è posto fin da questo numero prova in modo concreto a partire da queste tre poesie di Ornella Garbin, accolte con imbarazzo o riserve (non saranno versi deboli, semplicistici, naif, adolescenziali?) da alcuni di noi. Ne è nata una piccola e nervosa discussione, dove si è oscillato fra adesione, rifiuto o individuazione di un’emozione o di un senso con dubbi sotterranei forse sul valore della poesia in generale. Essa ha anche evocato due continenti forse da riesplorare con calma, se vogliamo rispondere in modi non improvvisati alla domanda posta all’inizio: quello delle poetiche e quello delle enciclopedie di pensiero - implicite o esplicite, tradizionali o in costruzione – a cui ciascuno di noi pur ricorre quando si trova di fronte a testi che si vogliono poetici. «Poetica zen», «bisogno di una parola “pesante”», necessità di una nuova estetica «esodante o moltitudinaria», lode della «leggerezza» e della poesia come «arte del levare», indicazioni di «metodo» calvinian-fortiniano: queste le formule che si sono affacciate a sprazzi e ingorgato l’inizio di discussione. Essa dovrà proseguire e approfondirsi. Per ora ci pare di poter concordare provvisoriamente su questi tre punti: 1) nessuna censura, ma «critica dialogante». La criticata ha risposto e motivato. Altri sono intervenuti dicendo la loro, suggerendo, puntualizzando, ecc. Ornella ne trarrà indicazioni per proseguire la sua ricerca. Come rivista pensiamo che oggi sia una buona cosa, in assenza di canoni certi, far interagire varie pratiche e vari giudizi e visioni della poesia; 2) lo Zibaldone non sarà un posticino in cui far accomodare i testi poetici (o “creativi”) e tenerli buoni lì. Questi testi (prima o poi) dovranno interloquire con gli altri testi (saggistici, di storia, ecc.) presenti nelle altre rubriche. La «critica dialogante» vale come indicazione di massima anche per loro; 3) ancora più bisogna che tornino a interagire e magari a entrare in conflitto le enciclopedie di pensiero - revisionate o meno – che comunque consultiamo di fronte alle sfide della realtà e alla sfida dei testi che la simboleggiano o a volte pretendono di sostituirla. Poliscritture/Storia adesso E se va appriesso a na felicità ca ce sta e nun ce sta. Una stella – Nella foschia-trasparenza della sera / una stella che si vede e non si vede, / e il pensiero che sale e quasi avvista / in cielo un Dio ch’esiste e non esiste. // Un bisbiglio che si distingue a stento / che forse è voce o forse è solo vento, / lo spirito colpisce e gli domanda / se mesto si raccoglie o radioso si spande. // L’ombra che viene l’anima costerna / con una promessa di fine, / con un senso di eterno, / mentre un’ultima luce di quiete avvampa / un mondo dove si vive e non si vive. // E si insegue una felicità / che ci sta e non ci sta. 42 6 Letture d’autore - Ennio Abate: Due conversazioni con Giampiero Neri + Nota 25 ag. 2004 Un’indole contemplativa Da quando ti ho conosciuto – saranno un quattro anni – ti ho sempre pensato come un uomo di indole contemplativa. Sì, sono sempre stato un contemplativo, un uomo poco portato all’azione e molto di più alla meditazione. Riassuntivamente potrei dire un pigro. E come s’è costruita questa tua indole? Sulla scorta di letture meditative. Per esempio, di pensatori orientali come Lao Tse e Milarepa. Ma le letture hanno solo consolidato l’indole preesistente poco portata al dinamismo, piuttosto casalinga e introspettiva. E nella tua infanzia ? Suppongo che ci siano state anche lì delle spinte in questa direzione. Prima di amare i libri ho amato soprattutto gli animali. Ne ho avuti anche in regalo. Una volta mi è stata regalata una tartaruga. Sono stati regali importanti nella mia vita d’allora e successiva. Sì, di questa mia indole c’è una radice nell’infanzia: l’osservazione degli animali non prevede di correre ma piuttosto di riflettere. E poi il bambino possiede grande forza d’immedesimazione e vivacità di sensazioni. Certo. Mio padre aveva dei conigli. E anche dei piccioni viaggiatori, che non ho mai amato, per la verità. I gatti sì. Purtroppo non ho avuto la possibilità di tenere un gatto in casa che mi sarebbe piaciuto enormemente. Avrei voluto, ma mia madre era contraria e non ha favorito questa mia passione. Una poesia “di poche parole” Nella tua poesia in genere e anche nel tuo ultimo libro, Armi e mestieri, mi ha sempre colpito la resa concisa del processo che precede la Poliscritture/Letture d’autore scrittura e che suppongo complesso. Pochi versi, a volte ridotti ad un titolo. Prendiamo Natura a pag. 11: Da un camminamento / sotto la volta degli alberi / si arrivava a un recinto. / Si erano rialzati due vitelli / dal loro letto di paglia / una strana luce / passava tra le foglie. Di solito concentri un tema che potrebbe occupare capitoli e capitoli, occultando il suo complesso spessore emotivo, esistenziale e storico. Posso dire questo: intanto parlo di cose che mi hanno molto colpito. Nella poesia che citi, per quanto possa sembrare poca cosa vedere due vitelli che si erano alzati dalla loro posizione di riposo, per me è stata un’emozione. L’emozione era data dal fatto che dal colore del mantello di questi vitelli, che era di un bel marrone caldo e da una luce strana, dorata, che filtrava attraverso gli alberi in quel momento, ho avuto l’idea di un’apparizione, come di una vita che sorgesse in mezzo agli alberi. Insomma, io questi vitelli li ho ammirati nella loro bellezza. Sono anche animali belli. Noi siamo abituati a vederli e li consideriamo forse poco dal punto di vista estetico, però un vitello è un bell’animale. Sicché in questa piccola radura nel bosco, dove questo tale teneva i vitelli per farli crescere, io ho avuto un’emozione estetica. Certo nel renderla in poesia sono sempre attirato dalla sintesi. Frammento e catena d’eventi Questo fatto e questa emozione, che tu esprimi in poesia con poche parole, fanno parte però di una catena di eventi, che precedono e seguono. Tu, magari a distanza di tempo, ritorni su quest’insieme o solo sull’emozione? T’interessa tutta la catena oppure solo il frammento? M’interessa la catena, ma la mia non è un’osservazione fine a se stessa. S’innesta in quella più generale dei rapporti conflittuali che ci sono nella vita. Noi siamo immersi in una conflittualità permanente. È una conflittualità tra le specie ed è una conflittualità nella stessa specie, tra i soggetti della stessa specie. Quella tra le diverse specie è più evidente nei contesti naturali. In effetti, in città è difficile essere sbranati da un leone. Ma l’uomo tende a nascondere questa verità. La rimuove, come se non ci fosse. In realtà questo buonismo è assolutamente falso. Non c’è una pace universale, ma c’è una guerra universale. Mi sembra di capire che la catena tu la riconduca esclusivamente alla natura, alla legge della natura che presiede agli eventi che tu osservi. Ma non vorrei spostare il discorso sul piano filosofico e allora preciso la mia domanda: a te 43 interessa la catena degli eventi in quanto possibile base di una narrazione? Non mi pare. Tu non tendi a fare “romanzo” anche se nelle 5 sezioni di Armi e mestieri s’intravvede una storia per frammenti e che - se tu volessi - potrebbe essere distesa anche in ampi capitoli. E allora, secondo me, si vedrebbe dell’altro. Ma non mi pare che ti sia mai venuto in mente di fare un poema o di narrare una “storia”. No, di fare il narratore proprio no. Anzi, per quanto mi abbiano dato l’etichetta di «poeta architettonico» (è la tesi di Raffaeli), mi manca la capacità di strutturare una storia vera e propria. Io sono colpito dall’attimo, dal momento, dal gesto. Il gesto è uno, è un momento. La mia storia si concentra su quel momento. Anche in pittura mi è sempre piaciuto un ritratto non finito. Ad esempio, quei ritratti che magari comiciano a penna e finiscono a matita e che lasciano parti inconcluse. Ne sono sempre stato incantato. I romanzi, le storie t’attirano di meno. Mi attirano per frammenti. Non tanto l’opera complessiva. Allora, rispetto a tuo fratello, che è stato invece un narratore, hai avuto anche una differente sensibilità artistica? Certamente. Mio fratello m’ha detto una volta: Sai qual è la differenza fra noi due? Tu t’entusiasmi per quello che non capisci. Sottintendendo che lui s’entusiasmava per quello che capiva. Effettivamente è così, non ho niente da obiettare. Io sono portato per la zona misterica, più enigmatica, in cui la ragione non ce la fa, non basta e ci vuole chissà. Armi e mestieri: una parafrasi di Guerra e pace In questa tua ultima raccolta poetica il titolo di una sezione è diventato quello complessivo? Perché? Armi e mestieri è un titolo importante per me, perché si rifà al motivo per cui io scrivo; e cioè alla presenza di questa conflittualità vitale. Anche perché io sono segnato dalla violenza, che da una parte mi attrae e dall’altra mi fa vedere il suo aspetto orrido. Su di me agiscono entrambe queste cose. Da una parte due persone che litigano mi attraggono...In fin dei conti penso che questa violenza riproduca in estrema sintesi il principio del mondo della vita, che è di violenza. Niente succede senza violenza. Neanche l’insalata riccia cresce senza violenza. Deve farsi largo tra altri tipi di insalata che vorrebbero sostituirsi ad essa. Il polemos è la legge più importante della vita. Quindi Poliscritture/Letture d’autore Armi e mestieri è per me importante per questo. In fondo può essere una parafrasi di Guerra e pace di Tolstoj. Ma a me è venuto in mente semplicemente per una deformazione del titolo ‘Arti e mestieri’. I mestieri sono le attività che si fanno in tempi di pace, per vivere. Anche se pure la guerra si fa per vivere. Distruggendo una parte della vita, quella di altri. E anche la nostra. Se no che guerra sarebbe? Purtroppo...Pensando ai mestieri o alle attività economiche in generale, bisognerebbe poi capire quanta “guerra” vi sia già implicita. ‘Mestieri’ è però un termine di epoca preindustriale. Ma sono anch’io preindustriale. Il secolo in cui mi riconosco non è certo il 2000. È il Novecento e anche più indietro. A parte il fatto che sono nato nel primo quarto del Novecento, come esperienze lavorative ho in mente proprio il mestiere del maniscalco, del calzolaio, del sarto, del barbiere. Erano tutti lavori individuali, mestieri appunto. Quelli io conoscevo davvero. Quando ero ragazzo, c’era il maniscalco, che sollevava nuvole di vapore, di acqua bollente, perché, per raffreddare il ferro di cavallo che, appena uscito dalla forgia, era ardente, lo immergeva nell’acqua. E ho ancora in mente l’odore dello zoccolo bruciato del cavallo, che tra l’altro a me piaceva. Enigma e Dio Hai detto prima che sei portato per la parte più misteriosa della vita. Prendiamo allora Intermezzo a pag.9 di Armi e mestieri: Quello stormo di uccelli / si abbatteva vociante / sui rami di un albero / come a un traguardo. / Ma era un’altra la posta in gioco, / a dirigere il volo impetuoso. Quale l’altra «posta in gioco» che il dettato immediato della poesia sottace? È la vita. Me lo sono chiesto io stesso, vedendo questo stormo di uccelli. Si precipitava sugli alberi con grande strepito. Pi, pi, pi!... Mi sono chiesto: ma perché devono correre come disperati? Ebbene, correndo così tanto, loro riducono al minimo la possibilità di essere presi da cacciatori di qualunque tipo. Quindi la posta in gioco è la vita. Loro corrono come correvano i soldati di Cesare, come i legionari di Alessandor Magno. Devono correre per vincere. E così gli animali. Gli animali hanno la velocità che hanno i bambini, che agiscono con grandissima rapidità. Tant’è che vanno nei pericoli anche per quello. Perché lo fanno gli animali? Perché la velocità li sottrae al cacciatore. 44 Tanto è dunque netta, per semplicità di linguaggio e d’immagini, la tua poesia, tanto rimanda a una concezione della Natura coi suoi misteri e le sue vastità inesplorate e metafisiche. Un tuo critico, Pusterla, ha parlato nel tuio caso di «poesia in forma di voragine dissimulata». E molti altri insistono su mistero e enigmaticità. Diffido di quanti ti tirano fin troppo in questa direzione, ma devo riconoscere che tu e l’hai detto prima - non ti sottrai. Sì, concordo con queste interpretazioni. In effetti nel mio lavoro ci sono molte immagini che le confermano. È vero. La tua mente contemplativa seleziona immagini ora aurorali (...ha luogo una mutazione/ come di vita nascosta che venga alla luce, p.13) ora segni – comunque incerti - della divinità nella natura (Ad es. in Mimesi p. 14 : Delle figure e dei fregi / si osservano sulle ali delle farfalle /.../ sono una varietà di mimetismo / l’immaginario occhio di Dio che guarda.). Sì, in questi passi c’è un distacco dall’osservazione naturalistica. Parlo appunto dell’immaginario occhio di Dio che guarda ma non interviene e lascia che le cose vadano così. Purtroppo abbiamo un Dio che si disinteressa delle cose umane, come pensavano i Greci. E come li rappresentò il «maestro di Olimpia» nel frontone dove Apollo guarda impassibile mentre sotto di lui si svolge una battaglia di centauri. È un esempio della grande arte dei Greci conservato al museo di Olimpia. Ma quest’impassibilità della divinità non ti turba? Certo, però devo accettarla. Non mi piace. Non mi convince, però l’idea di una divinità che intervenga per salvare me e non un altro. Mi va ancora di meno. Quando ero un bambino, mia madre mi diceva: - Ringrazia Dio che tu non sei così. Ed io pensavo: - E quell’altro, chi deve ringraziare? Allora Dio sarebbe ingiusto. Abbiamo un Dio che non interviene nelle cose umane. Quindi, sì, noi possiamo pregarlo perché ciò può dar sollievo a noi. Ma i miracoli, quelle cose lì, non mi appartengono. Non appartengono all’idea che io ho di Dio. Io professo un vago teismo. Non penso che il mondo si sia fatto da solo. Penso che ci sia questo Mistero abissale della creazione, perché d’altra parte c’è un sistema di ordine. Anche la violenza, anche il male ha una sua ragion d’essere, una sua necessità. Per esempio, per dirne una, sono stati fatti degli esperimenti: in un‘isola hanno tirato via i lupi, per cui la popolazione erbivora, i cervi che Poliscritture/Letture d’autore erano lì, si sono moltiplicati. E poi cos’è successo? Che morivano di fame, perché ce n’erano così tanti che mangiavano tutto; e dopo non c’era più niente da mangiare. Anche una legge del più forte ha una sua ragion d’essere, è vitale. Ma solo all’interno di un’economia naturale, sulla quale il lavoro dell’uomo stenta ancora a intervenire. Certo, all’interno di un’economia in cui l’uomo non interviene o interviene poco, perché l’uomo è capace di scompaginare la natura. La storia in Armi e mestieri Passiamo dal tema della Natura a quello della Storia. Quale possibile storia è contenuta in Armi e mestieri? È la storia del mio paese, che prende i personaggi del mio paese. Di tutta la storia del paese scegli alcuni personaggi e alcune vicende? Dei frammenti, appunto. L’anziano assicuratore è solo uno dei personaggi. Un altro personaggio è la casa, che era passata indenne / dalla guerra e dopoguerra /come la salamandra nel fuoco (p.32). Un altro era l’amico del padre. Un altro la donna che esce come figura danzante fra gli sparuti autocarri dei Tedeschi in ritirata (p. 60). È un episodio che ricordo benissimo. Lei era uscita pensando che fossero arrivati gli Americani. Aveva in mano un fiore, un gambo lungo, una rosa. Ha fatto così: è uscita come una furia, ha roteato un po’ il fiore e poi l’ha lanciato sul camion. Questa è stata la scena che io ho visto dalla mia finestra, perché lei aveva il negozio proprio di fianco alla mia casa. Era un camion di tedeschi impolverati. Uno di loro ha preso il fiore e l’ha lasciato cadere fuori dal camion. Senza cambiare faccia. È stata una cosa molto drammatica. Non ha detto niente. Lei, mentre ha lanciato il fiore, ha capito. È un episodio di fine aprile del 1945. Si tratta di microstorie più che di storia o no? Sì, sono quelle microstorie a cui guardo con attenzione. In fin dei conti, per fare un esempio, come ci viene raffigurato Confucio? Non mentre è lì sulla cattedra che spiega, ma nella vita quotidiana. Confucio entra in un tempio e si rivolge al custode del tempio e vuole da lui spiegazioni. Quando escono, uno dei discepoli gli dice: - Ma, maestro, tu sei un esperto dei riti, come mai ti sei rivolto al custode per sapere qual è il rito di questo tempio? E lui risponde: – È questo il rito. Voglio dire che dalle cose minime vengono fuori quelle interes- 45 santi e anche grandi. Non certo dagli eventi più ufficiali. È molto più interessante il cavallo del Missori [la statua di bronzo al garibaldino Giuseppe Missori ora nella omonima piazza a Milano], quel ronzino con la testa abbassata, che il cavallo impettito di Vittorio Emanuele II [in piazza Cairoli sempre a Milano]. Reticenza o saggezza? La poesia sulla donna «venuta fuori dal negozio» mi pare una critica sotterranea alla Liberazione e alle sue mitologie. La critica non è esplicita e mi pare inserita come un dettaglio minimo nell’ultimo verso: ma erano Tedeschi in ritirata. Tu dai in poesia il frammento e tieni per te nella memoria il “resto”: la tragedia storica che hai vissuto da giovane e sulla quale la tua memoria continua tuttora a lavorare. Solo forzandoti, aggiungi qualcosa di più a “commento”, come è avvenuto adesso nel nostro colloquio. Ma il lettore di oggi, specie giovane, non solo fatica ad entrare nel sostrato storico della tua poesia, ma rischia di ignorarlo. Posso permettermi di dire che mi pare un modo di non andare fino in fondo, di essere reticente sulla storia? Forse c’è per te – credo quasi un’impossibilità a narrarla in maniera distesa. Perché? È vero, perché in fin dei conti sai... Preferisci mantenerla così, alludervi soltanto? Proprio alcuni giorni fa Rossanda su il manifesto scriveva che «non tutto quel che si è vissuto si può riprodurre». Lo diceva a proposito di Auschwitz, ma mi pare che potrebbe valere anche nel tuo caso. Sì, appunto. I motivi del mio silenzio sono molteplici. In ogni caso sono convinto che non si viene a capo di niente, che narrare in modi più espliciti non serve. O si centra il fatto emotivo anche nel suo mistero... Ma così lo accentui questo mistero. Sì, lo assecondo. Descrivere senza giudicare? Non insisto. Ma allora che compito affidi alla scrittura? Il compito di oggettivare la mia esperienza, di descriverla senza giudicarla, di riportarla. Poi giudicheranno gli altri. Avranno delle sensazioni. È importante che la poesia abbia come modello Omero, che non dice se i Greci avevano ragione o meno. La poesia dev’essere il più possibile ogget- Poliscritture/Letture d’autore tiva. Deve essere tale, come dice Dante, sì che dal fatto il dir non sia diverso [Inferno, 32, 12] o seguire il consiglio di Puškin: Descrivi e non fare il furbo. Giudicare sarebbe fare il furbo, perché o sei dentro nel momento oppure, se giudichi col senno del poi, fai ridere. Col senno del poi sono piene le fosse. Cosa m’interessa che hanno avuto ragione i cesaricidi o Cesare? Conta poco chi aveva ragione. Anzi importa niente. Importano i fatti. Poi giudicherà Dio. Non certo gli storici. I grandi storici devono vedere i movimenti come se fossero un fiume, come se fosse un mare. Non giudicare. Giudicare lo fa il parroco. Io non rivendico niente. Anzi mi chiedo: «eravamo colpevoli?». Non rispondo: - No. E non per niente. Perché penso che eravamo colpevoli. Però sono colpevoli anche quelli che vincono. A me interessava dire questo. A differenza di molti che a mio parere “coccolano” l’enigmaticità della tua poesia, penso che in essa gli eventi storici dell’Italia nel corso del Novecento abbiano una presenza fondante, anche se non li metti in primo piano. E mi meraviglia che i tuoi critici non scavino questo aspetto e i tuoi estimatori lo sorvolino come fosse secondario. Questa storia è tragica e dura ma bisognerebbe guardarla in faccia più di quanto si è fatto finora. E penso a quanto è avvenuto di recente in Sudafrica, dopo la conclusione del regime di apartheid. Lì hanno tentato di far emergere l’esperienza di odio e di sopraffazione, la parte più oscura e violenta del conflitto che ha contrapposto bianchi colonialisti europei e neri. Hanno imboccato con coraggio la via dellla ricerca della verità, del dirsi le verità storiche possibili. Mi chiedo se il nostro passato – quello di un fascista o quello di un comunista non debba essere scavato ancora con più rigore. Secondo me sì. E sono convinto che l’unico motivo per cui io scrivo è la storia. In me prende le forme della natura, ma è sempre la storia che m’interessa. Volevo osservare però due cose a proposito del rapporto fra storia e natura che mi pare presente nelle tue figure di animali emblematici. Quando parli dell’allocco che «si adatta naturalmente / alle necessità», della civetta che riscatta il «suo dimesso destino» di notte, del lavarello che «si adatta alla profondità», noto innanzitutto uno slittamento dal naturale all’umano (storico), perché tu dici che l’allocco «nel suo lavoro paziente / si riconosce» o che la civetta «ha smesso la sua parte di zimbello» o 46 che il lavarello «ha la testa piccola come di chi deve pensare poco». E a me pare che tale slittamento riduca in primo luogo l’«oggettività» della descrizione (come accadeva agli autori dei bestiari del Medioevo). Ma in secondo luogo poi mi chiedo cosa succederebbe se questi animali-emblemi invece di prendere - come tu dici - «le forme della natura», prendessero (o riprendessero) le forme della storia? È vero che in queste figure l’oggettività si riduce. Esse sono infatti metafore del nostro vivere. Qualche critico ha pensato a degli autoritratti in maschera. Io concordo. Memoria e verbo imperfetto Per ultimo una curiosità filologica, che pure ha un suo significato profondo: l’uso del verbo all’imperfetto, che in questa raccolta ricorre tantissimo. Sì, è vero. Ma l’imperfetto è il tempo per eccellenza della parlata lombarda. Non ho mai sentito un mio familiare dire ‘cadde’ ma sempre ‘è caduto’. Uso il passato remoto solo in alcuni momenti. Ad es. a proposito di Corso Donati: e un altro colpo nel fianco e cadde in terra (Teatro naturale, p. 25). Però, subito dopo, torno all’imperfetto: e in immensum cadendo messer Corso / prese la forma di un nome / stavo pr dire un vuoto torricelliano / mi aveva preso guardandolo / tra numerose iscrizioni. L’imperfetto è anche il tempo della durata. È un tempo malinconico, che non taglia, che trattiene, come un basso continuo. È il tempo fisso della memoria. Certo. 31 gen 2005 Sull’infanzia Ripartiamo dall’infanzia e dagli anni della tua formazione. Sono nato ad Erba nel 1927. Sono stato figlio unico per sette anni, fino a quando è nato mio fratello Giuseppe (Peppo). Poi c’è un altro fratello, che aveva un anno meno di me, ma è morto a un anno. Come tutti i figli unici mi sono sentito avvolto dall’affetto, dalle cure dei miei; e anche dalla predilezione di mia nonna, a cui penso spesso, perché è stata per me una presenza importante nella mia infanzia. Mio padre parlava poco, per cui non ho avuto un dialogo con lui. Parlavo di più con mia madre. Ho cominciato ad avere degli a- Poliscritture/Letture d’autore mici all’età di nove, dieci anni. Alle elementari ne avevo avuto pochi. Frequentavo una scuola privata di suore, che non era molto distante da casa mia, per cui rientravo subito a casa. Avevamo una grande terrazza, di cui ho parlato anche nei miei scritti, un giardino. Un mio cugino, Sandro Frigerio, è stato una presenza molto viva. I miei ricordi di questi primi anni sono però piuttosto confusi e non significativi. Prime letture E le tue prime letture? Mio padre era un lettore e un collezionista di libri di storia e di letteratura. Questa sua passione l’ha ereditata soprattutto mio fratello. Mia madre mi leggeva qualche giornaletto per ragazzi. Ho letto i fumetti: Gordon, Mandrake. Mi piacevano molto. Mi colpiva soprattutto Gordon. I disegni erano molto belli e le storie erano fantastiche. Appena ho potuto leggere autonomamente – questo è capitato nelle medie, che allora erano le magistrali, divise in quattro anni di «magistrali inferiori» e quattro di «magistrali superiori», quindi un ciclo di otto anni come credo ancora oggi - ho approfittato della libreria di mio padre. E proprio nella sua libreria ho trovato i Ricordi entomologici del Fabre. Potrà sembrare strano - avevo 12-13 anni – che un ragazzo li leggesse. Sta di fatto che Fabre è un grande narratore e non per niente Erasmo Darwin il vecchio, il padre di Carlo, l’aveva soprannominato l’Omero degli insetti. Era una lettura attraente, piacevole. Nel frattempo frequentavo la scuola. A scuola come ti andava? Ero uno studente piuttosto scarso. Con una buona memoria, ma con grandi difficoltà di carattere settoriale. Ad esempio, il disegno per me era una vera ossessione. Non riuscivo a tenere in mano la matita. Disegno geometrico: peggio che andar di notte per me. La matematica: altra bestia nera dei miei primi anni di scuola. Un insegnante influente Tra gli insegnanti c’è stato qualcuno che ti ha influenzato più degli altri? In questo periodo ho avuto la fortuna di avere come professore d’italiano un intellettuale come Luigi Fumagalli, che abitava a pochi chilometri da Erba, a Arosio (Inverigo) e aveva propensione per l’arte. Scriveva anche, con poco successo purtroppo. In ogni caso era impegnato sul fronte della letteratura. E lui mi ha dato anche l’idea dello scrittore. L’ammiravo molto per la sua eloquenza, 47 e anche per le sue stranezze d’artista. Qualche volta ci faceva lezione all’aperto, nei giardini pubblici, cosa insolita allora. Non era certo un conformista, per cui mi ha fortemente influenzato. Era anche un uomo di grande apertura mentale, assolutamente non fazioso. Poi è arrivata la guerra. Durante la guerra, verso la fine del ’43, lui ha partecipato alla Resistenza nel Partito d’Azione, pur essendo stato prima fascista fino a quando la guerra non ha assunto le caratteristiche del disastro. Mi ricordo una sua frase: Sono stato fascista finché il fascismo non è diventato hitlerismo. Un’altra sua frase, ad es., era che rispetto alla guerra civile bisognasse essere o di qui o di là, o da una parte o dall’altra, ma non agnostici. Bisognava prendere posizione. Come membro del CLN era stato anche messo in prigione a Como. Cosa che allora era pericolosa, non tanto perché lui avesse delle responsabilità precise, ma perché potevano esserci attentati fatti da altri e possibilità di rappresaglie prendendo i detenuti dalle carceri. Ecco, questo è stato per me il personaggio più importante nella mia adolescenza. Il nostro rapporto si è poi trasformato in amicizia, quando ormai io ero impiegato in banca e mi ero sposato. Lui è morto nel 1980, a settant’anni. Era del ‘10. C’erano 17 anni di differenza fra me e lui. Quando si è giovani sembrano tanti. In un ambiente “naturalmente” fascista Parlando del tuo insegnante di riferimento, hai già introdotto nel discorso dei fatti storici. Tu sei nato e vissuto in modo per così dire “naturale” in un ambiente fascista. I tuoi amici e coetanei erano fascisti, no? Ma allora non si parlava di politica. E poi a me pare di poter dire che il fascismo ha avuto parecchie anime, a seconda di dove si è radicato. Se nella campagna, a sud di Milano, ha avuto una connotazione di tipo agrario coi contadini che stanno sotto e gli agrari sopra, da noi, non essendoci latifondo, il fascismo era piuttosto borghese. Quindi non si verificarono quegli attriti, lotte di classe... Dalle tue parti non accaddero mai episodi che fecero nascere qualche critica nei confronti del regime? No. La vita era tranquilla. C’erano gli aderenti al Fascio o i consenzienti. I dissidenti si contavano sulla punta delle dita e venivano considerati per lo più degli eccentrici. Per quanto possa ricordare io, non ci furono episodi di violenza. E poi ero nato nel ’27. Ero giovane. Fino alla campagna d’Africa del ’35 c’era un vasto consenso. Mi ri- Poliscritture/Letture d’autore cordo vagamente la raccolta delle fedi, che è avvenuta in chiesa. Ed io, anche dopo la guerra, ho continuato nelle mie convinzioni. Semmai, la critica che ho fatto è stata di carattere generale, sulla libertà di parola principalmente Ma da studente non raccoglievi notizie sull’andamento della guerra? A scuola non se ne parlava? Non c’erano voci contrarie? Facevo il liceo a Como. E ricordo che una volta sul tram c’era un mio amico, un certo Tomaso Grossi, che mi diceva genericamente: – Eh vedi, gli uomini vogliono la libertà. Non capivo bene a cosa si riferisse, ma credo che mi abbia dato un primo segno di un modo di pensare diverso su certe questioni. Allora le mie idee coincidevano con quelle del governo. Non c’era nessun attrito. E poi io allora non avevo idee politiche precise. Mi limitavo ad una certa stima, un’ammirazione per Mussolini. L’uccisione del padre Allora il trauma dell’uccisione di tuo padre in un agguato di partigiani dev’essere stato per te ancora più traumatico? I due partigiani che hanno ferito mio padre - lui è morto dopo cinque giorni all’ospedale - non lo conoscevano. Non erano della zona. Non ricordo cosa ho provato allora. Soprattutto dolore. Avevo sedici anni. Sentivo mia madre che piangeva. Ricordo queste sue lamentazioni ad alta voce. Io non riuscivo a provare odio. Si odia chi può essere individuato. Né loro, credo, odiassero particolarmente mio padre. Sì, odiavano l’emblema, quello che lui rappresentava politicamente. Si è poi capito perché avessero scelto come bersaglio tuo padre? C’erano dei motivi? Mio padre era un notabile della zona e in quel periodo era stato nominato commissario prefettizio a Bosisio Parini, per esempio, e in un altro posto vicino, a Monguzzo. Lui ci andava in bicicletta, finito il lavoro in banca (era procuratore di banca), quando doveva partecipare a qualche decisione riguardante il Comune. Tu non hai mai sentito il bisogno di indagare su questa vicenda? No. Personalmente non ho mai voluto. Nella mia disgrazia sono stato preservato dal ridurre la guerra fra due campi opposti a una cosa personale, a un fatto privato. L’ho vista come uno scontro cruento fra due fazioni. Nella mia mente da una parte c’erano i partigiani e dall’altra i fascisti. Essi non si conoscevano. 48 E quando si è profilata la sconfitta? Come hai reagito di fronte alla caduta del fascismo? Non so dire cosa ho provato. Uno stordimento. Una sorpresa. Credevamo alle famose armi segrete. E poi pensavamo ai Tedeschi come se avessero una forza quasi illimitata. In effetti li hanno fermati soltanto Tito e i russi a Stalingrado. Sì, allora ho provato uno stordimento. E poi c’era la paura di essere uccisi. Non avevo neanche il tempo di pensare a quello che succedeva. Mi ricordo che proprio il 26 aprile, uscendo di casa, ho visto una scritta che diceva «Mancia competente a chi vede un fascista sorridere». Questo era il clima drammatico di quei momenti. Poteva succedere che ti uccidessero per strada. Comunque alla fine della guerra la mia famiglia si è trasferita a Varese. Lì ho fatto l’ultimo anno di liceo e a giugno sono stato promosso. Eravamo nel ’47. Ti eri posto il problema di pubblicare? All’inizio avevo dato a mio fratello alcune poesie che a lui piacevano. Le ha fatte vedere a Porta, il quale non era tanto convinto. Poi le ha date a Alfredo Giuliani che abitava a Roma. Lui ha detto: No, le poesie di Pontiggia non mi piacciono. Ma quanti anni ha questo Pontiggia? Comunque lasciamolo lavorare. Queste ultime parole mi sono rimaste impresse. Pensavo a un successo rapido e, visto che a Peppo piacevano queste mie prime poesie, pensavo che avrebbe potuto pubblicarle sul Verri. Invece ero stato bocciato. Un poeta estraneo ai cenacoli letterari Come hai reagito? Ero molto contristato, però ho pensato: ora mi concentro, lasciamo perdere la pubblicazione. Lavoro e basta. E infatti mi sono concentrato sulla scrittura. Per un certo periodo di tempo ho avuto come interlocutore sempre il Peppo, che d’altra parte si rivolgeva a me per verifiche, correzioni, ecc. Poi sono andato avanti da solo. E dopo il liceo? C’è stata una forte svalutazione della lira. Non si poteva vivere, per cui s’era imposta la necessità per me di lavorare. Il lavoro l’abbiamo trovato nella stessa banca di mio padre, che mi ha subito assunto. Sono entrato in banca nel ’47, a vent’anni, e sono uscito nel ’95. E quando sei arrivato alla pubblicazione? Il primo libro, che è L’aspetto occidentale del vestito, l’ho pubblicato a 49 anni. Ma il mio primo editore è stato Giancarlo Majorino, che mi ha pubblicato sulla rivista Il corpo nel ’64. Avevo 37 anni. Quindi dopo sette anni di lavoro, di solitudine. Hai lavorato sempre nella stessa banca? No. Ho cambiato quattro banche per motivi di carriera. Nei primi vent’anni come impiegato d’ordine. Nei secondi vent’anni come addetto alle pubbliche relazioni. In quel periodo di lavoro solitario seguivi il dibattito letterario? No. Ero completamente fuori dagli ambienti letterari milanesi e nazionali. Addirittura, quando è uscito il libro che ha avuto successo – intanto me l’aveva chiesto addirittura Raboni e io non pensavo di pubblicarlo perché non era ancora finito e ne ha parlato Giudici sul Corriere della sera e poi ho avuto molte altre recensioni - io ero in banca a lavorare. Non facevo nessuna vita di relazione. Degli scrittori conoscevo solo Majorino. Poi il Peppo aveva fatto vedere il mio lavoro a Sereni, il quale l’ha fatto uscire sul primo numero de L’Almanacco dello specchio. Però io Sereni non l’ho mai frequentato. E quando hai cominciato a scrivere? Verso i trent’anni, dopo un periodo in cui mi sono interessato di musica (suonavo la chitarra, ho studiato anche alla Scuola musicale di Milano). Mio fratello aveva già cominciato a scrivere per suo conto e frequentava l’ambiente del Verri, in cui era diventato segretario. Anch’io, che avevo avuto sempre passione letteraria, ho cominciato a scrivere. Per imitazione di tuo fratello? No. Certo c’era uno stimolo in più. Però lui scriveva prosa. Aveva cominciato anche con qualche poesia che m’aveva fatto leggere e che per la verità mi piaceva, ma non aveva quelle caratteristiche di novità, di forza e di originalità che sono importanti per scrivere poesia. Era perciò passato alla prosa, più consona alle sue possibilità. Io invece ho cominciato subito con la poesia. Poliscritture/Letture d’autore E come mai non ti facevi vivo neppure con Sereni? Non avevo curiosità per il mondo dei letterati. E cosa t’incuriosiva invece? Da cosa eri occupato? Dalla vita in generale. Ma allora in cosa consisteva la vita per te? 49 Consisteva nel vivere con mia moglie, coi miei figli. Sono sempre stato fuori da questi ambienti di letterati. E anche le mie letture mi spingevano a rimanere fuori. Ho sempre avuto una diffidenza delle riunioni. Poi, quando sono uscito dal lavoro in banca e ho comiciato a partecipare a qualche lettura e poi anche alla vita pubblica, mi sono reso conto che davvero sono più le spine che le rose. Invidie e meschinerie non mancano. A partire da una certa epoca il primo che si è interessato molto al mio lavoro e nel ’72 sul Ragguaglio librario ha scritto una critica e poi è venuto a trovarmi ed è diventato mio amico è stato Cucchi. Anceschi ne aveva parlato nel ’70, Raboni nel ’71. Ti hanno giovato queste critiche? Mi hanno aiutato psicologicamente. intorno all’ Hôtel de Ville e moriva senza lamenti la fronte sul marciapiede. Quel fascista a Torino che sparò per due ore e poi scese per strada con la camicia candida i modi distinti e disse andiamo pure asciugando il sudore con un foulard di seta. ..... [da F. Fortini, Una volta per sempre. Poesie 1938-1973, Einaudi 1978] Anche Fenoglio, uno scrittore che ammiro molto, ha saputo rendere omaggio ai combattenti delle opposte fazioni. Nell’attrito tra due epoche Da quanto mi dici devo pensare che mai, e soprattutto da quando hai cominciato a lavorare in banca, ti sei interessato di politica? In un certo senso di politica non mi sono mai interessato. Ma in un altro senso io di politica vivo, perché continuamente polemizzo contro le false informazioni e la faziosità. Ma questo più che vivere di politica a me pare vivere una contraddizione interiore. È come se tu fossi ancora immerso emotivamente in quel periodo della tua giovinezza, nel suo mito e ti ritrovassi poi disarmato in un’epoca che ti sembra la sua completa negazione. La tua esperienza di uomo maturo, sconfitto dalla storia («soccombente» come dici) è in attrito col tempo in cui vivi. Come ti gestisci questo attrito fra due epoche storiche che a me pare tremendo? Sì, sono stato per molto tempo in attrito con la storia successiva di questo Paese. Mi fai venire in mente una poesia di Fortini che ha colto questo dramma dello scontro tragico tra due epoche e due modi contrapposti di sentirle, riconoscendo però la comune sostanza umana dei contendenti. Senti: Quel giovane tedesco Quel giovane tedesco ferito sul Lungosenna ai piedi d’una casa durante l’insurrezione che moriva solo mentre Parigi era urla Poliscritture/Letture d’autore Nota di E.A. Queste due conversazioni con Giampiero Neri sono tappe del mio avvicinamento critico a una figura umana affabile e ferma e alla sua poesia, limpida ma complessa e inquieta. Come si capisce dall’andamento del colloquio, entrambi concordiamo sull’importanza nella sua poesia della storia tragica (in particolare per l’Italia) del Novecento, che a me pare anzi la fonte reale decisiva. Ma ad essa guardiamo attraverso il filtro di dissimili esperienze di vita e di concezioni del mondo. Neri - sulla scorta di Darwin, della saggezza antica e di quello che definisce un «vago teismo» - tende a mantenerla sullo sfondo, a sentirla come inenarrabile ferita, a pensarla come teatro naturale o fiume vorticoso d’eventi, che gli uomini possono vivere o da vincitori o da vinti ma non giudicare e tantomeno orientare in senso razionale. Io - sinteticamente - da un’ottica segnata soprattutto dalle lotte sociali del ’68-’69 e che non abbandona la lezione cristiana e quella marxiana. Da qui forse la postura rispettosamente “duellante” di entrambi. Che non scalfisce un’amicizia in apparenza insolita, ma paradossalmente fertile e che si va consolidando anche nella condirezione assieme ad altri de Il Monte Analogo, una «rivista di poesia e ricerca» da Neri ispirata. Spero che queste conversazioni possano continuare a lungo e confluire, assieme ad altri miei appunti sui suoi scritti, da me tardivamente scoperti, in un saggio che ho in mente di scrivere. 50 - Andrea Boeri: Secolarizzazione e legittimità dell’età moderna. Considerazioni sulla critica di Blumenberg alla filosofia della storia di Löwith In Significato e fine della storia, Karl Löwith, affrontando più esplicitamente presupposti peraltro già contenuti in una delle sue opere più conosciute, Da Hegel a Nietzsche, delinea quello che Blumenberg definisce il teorema della secolarizzazione: un tentativo di delegittimazione della modernità, attuato mediante l’analisi dei motivi teologici peculiari della moderna filosofia della storia. Questo, nel tentativo di dimostrare come le differenti formulazioni dottrinali da esse ricevute nel corso dello sviluppo del pensiero europeo sino a Hegel, Comte e Marx, siano riconducibili alla visione storica biblico-cristiana. Se infatti, da un lato, l’opera di Löwith intende evidenziare la sostanziale derivazione della filosofia della storia dalla teologia della salvezza, dall’altro, cerca anche di mettere in luce l’inevitabile fallimento in cui essa sarebbe incorsa, in quanto, pur sostituendo alla fede nella provvidenza divina la fede nel progresso umano, oppure quella nella realizzazione dello “spirito del mondo” o nell’avvento della società senza classi, rimanendo vincolata alla prospettiva teologica, avrebbe conservato un’impronta teologica. Per Löwith, “… sembra che le due concezioni dell’antichità e del cristianesimo – il movimento ciclico e l’orientamento escatologico – abbiano esaurito la possibilità della comprensione della storia “ (1), in modo tale che le interpretazioni più recenti non sarebbero altro che variazioni di questi due principi. Ciò in cui la concezione ciclica si differenzierebbe inequivocabilmente da quella giudaico-cristiana sarebbe l’abdicazione rispetto allo sforzo di conoscere il senso ultimo della storia, poiché, in base alla concezione classica del mondo, tutto si muoverebbe in un eterno ricorso determinato dalla coincidenza di principio e fine. Non s’intende in questa sede affrontare la pur rilevante questione relativa alla legittimità di una così ampia schematizzazione della concezione storica classica, sebbene essa costituisca uno dei fondamenti teorici essenziali del pensiero di Löwith che non a caso, in Nietzsche e l’eterno ritorno, presenta la cosmologia nietzscheana come la visione della storia più prossima a quella pagana e come l’autentica alternativa alla crisi filosofica seguita alla crisi dell’idealismo hegeliano. Quello che invece risulta importante evidenziare è come la considerazione del tradimento che l’interpretazione teologica della storia avrebbe operato dell’autenticità originaria di quella pagana si rifletta, in un secondo momento, nella denuncia Poliscritture/Letture d’autore della illegittimità della concezione storica moderna, che, volendo “ … rappresentare la storia come un progresso significativo anche se indefinito, verso un compimento immanente “ ( 2), rimarrebbe vincolata all’attesa escatologica. La modernità, pur cercando di liberarsi dalla fede cristiana, concependo ancora il passato come preparazione ed il futuro come compimento, ne conserverebbe i presupposti, tanto che la storia della salvezza non diverrebbe altro che una teologia dello sviluppo progressivo: la filosofia della storia e la sua ricerca del senso dello sviluppo storico “ … sono scaturite dalla fede escatologica in un fine ultimo della salvezza “ (3). Perciò, la scoperta da parte della modernità del significato che spieghi il divenire storico e ciò verso cui si orienta non sarebbe altro che la secolarizzazione della speranza teologica nell’avvento del regno dei cieli. In essa sarebbe da ricercarsi la ragione del fallimento del progetto moderno di una fondazione scientifica della dimensione dell’attesa, dato che il senso del mondo e della storia si sottraggono alla conoscenza: “ Ricercare seriamente il senso ultimo della storia supera ogni possibilità conoscitiva “ (4). Questo è il motivo inoltre per cui Löwith si domanda: “ Chi non sarebbe disposto a considerare saggia e oggettiva la concezione antica “ - per la quale il problema della conoscenza del significato ultimo della storia neppure si pone, poiché tutto si muove in un eterno ricorso che nega il principio del senso storico-universale di un singolo evento – “ … mentre la fede ebraica “ – quindi anche la sua secolarizzazione, - “ che eleva la speranza a virtù morale e a dovere religioso sembra essere tanto folle quanto esaltata ? “. La critica che Blumenberg, in Legittimità dell’età moderna, muove nei confronti del “ teorema della secolarizzazione “ intende primariamente affermare il rifiuto della riduzione della moderna filosofia della storia alla teologia giudaico-cristiana. Se il teorema della secolarizzazione è il corollario dell’idea di una continuità che regolerebbe il divenire storico – nel caso di Löwith la regolarità della concezione ciclica classica della storia – egli, cercando di mostrare l’autentica novità che caratterizzerebbe l’età moderna, evidenzia come la storia non sia una totalità in cui è possibile riscontrare unicamente delle continuità, ma anche delle sostanziali discontinuità. Pur riconoscendo l’intima connessione tra passato e presente, Blumenberg considera fortemente riduttiva la tesi secondo cui il mondo sarebbe una “ … costante la cui affidabilità permetterebbe di attendersi che nel processo storico una situazione originaria debba ripresentarsi in modo palese “ (6). Se si considera la secolarizzazione come il recupero mondanizzato di un’originarietà perduta 51 con il cristianesimo se ne compromette la comprensione storica. La questione non è da porsi nei termini di un dualismo interpretativo assoluto, per cui la secolarizzazione diverrebbe espressione di uno smarrimento più apparente che reale di presupposti originariamente dati, oppure momento di assoluta frattura emancipativa rispetto al mondo della trascendenza. Se nel primo caso viene postulato un sostanzialismo storico incapace di cogliere le discontinuità della storia, nell’altro, si sottrae alla comprensione la possibilità d’individuare anche le identità in esse presenti: “ Non va dunque il concetto di secolarizzazione al di là di ciò che può essere ottenuto nella comprensione di strutture e processi storici, proprio perché implica non solo una dipendenza ma anche … una discontinuità radicale delle appartenenze senza che al tempo stesso se ne muti l’identità ? “ (7) Affermare la presenza di una discontinuità radicale nell’identità significa, in primo luogo, rilevare come nella sua funzione ermeneutica “ … il concetto di mondanizzazione non consente al risultato della secolarizzazione di separarsi dal proprio processo e di diventare autonomo “ (8). Questo perché, in particolar modo nella sua accezione gadameriana, esso sarebbe, nell’ambito del divenuto, più la conseguenza di ciò che nei processi storici resta celato che non di ciò che si manifesta. In tal modo, l’applicabilità del concetto di secolarizzazione acquisterebbe un’estensione quasi illimitata: la questione della certezza teoretica nella gnoseologia moderna come secolarizzazione del problema cristiano fondamentale della certezza della salvezza, la moderna etica del lavoro come secolarizzazione della santità, le attese politiche del Manifesto del partito comunista come secolarizzazione del paradiso biblico, l’idea di progresso come trasfigurazione di una concezione provvidenzialistica della storia. Viceversa, ammettere la correlazione tra discontinuità ed identità comporta, per Blumenberg, il riconoscimento di come i processi di trasformazione e dissolvimento siano da intendersi non come il riproporsi della medesima sostanza originaria dissimulata, ma come “… il trasferimento in nuove funzioni, permanendo identica una sostanza costante “. (9) Tale permanenza, tuttavia, non ha nulla a che vedere con il sostanzialismo storico, nella misura in cui il concetto di “ rioccupazione” costituisce il perno sul quale si edifica un modello storico funzionale: “ Ciò che è accaduto, finora con poche eccezioni specifiche, nel processo interpretato come secolarizzazione può essere descritto non come trasposizione di contenuti assolutamente teologici nella loro autoalienazione secolare, ma come nuova occupazione di posizioni divenute vacanti, da parte di risposte Poliscritture/Letture d’autore le cui relative domande non poterono essere eliminate” (10) . Quella che Blumenberg propone non è dunque un’identità di contenuti, come nel caso di Löwith, ma di funzioni: “ In determinati luoghi del sistema di interpretazione del mondo e di sé da parte dell’uomo, contenuti del tutto eterogenei possono assumere funzioni identiche. Nella nostra storia questo sistema è stato determinato in modo decisivo dalla teologia cristiana “ (11). Ciò significa che nel caso in cui all’interno di una determinata concezione della realtà emergono delle infondatezze, essa lascia in eredità le questioni irrisolte perché, inserite all’interno di un nuovo contesto, possano trovare differenti risposte. Sulla base di tale presupposto emergerebbe, a parere di Blumenberg, un nuovo assestamento concettuale che, considerando le certezze del passato come puro dogmatismo, rappresenterebbe una svolta epocale e, quindi, la legittimità dell’età moderna, la cui singolarità troverebbe espressione nel fatto che essa “ … non ricorre tanto a ciò che le preesiste, anzi vi si oppone e ne raccoglie la sfida “ (12). Al contrario, nel teorema della secolarizzazione si deve riscontrare un’utilizzo indirettamente teologico di quelle difficoltà che sono sorte storicamente nel tentativo filosofico dell’inizio dell’età moderna. Nel capitolo dell’opera citata, Il progresso nel suo disvelamento quale destino, Blumenberg polemizza esplicitamente con le tesi di Significato e fine della storia di Löwith, per il quale “ … la mondanizzazione del cristianesimo e il suo passaggio alla modernità diviene una differenziazione quasi insignificante, non appena egli abbia colto l’unica frattura epocale che avesse prodotto in un solo atto la decisione per il Medioevo e l’età moderna: l’allontanamento dal “cosmos” pagano e dalla sua concezione ciclica e l’adesione all’azione temporale unica di tipo biblico-cristiana “ (13). Di conseguenza, come rilevato precedentemente, Löwith perveniva alla conclusione della sostanziale impossibilità di una filosofia della storia autonoma, dopo aver mostrato la derivazione di essa dalla teologia della salvezza. In tal modo, anche l’idea di progresso su cui è imperniata la moderna concezione della storia non assumerebbe altra funzione che quella della provvidenza: “ Le interpretazioni della storia in termini di progresso e di decadenza, da Voltaire e Rousseau fino a Marx e Sorel, sono il tardo ma ancora valido prodotto della teoria biblica della salvezza e della perdizione. “. (14) L’idea di progresso diviene il motivo determinante della comprensione storica moderna solo entro “ … l’orizzonte del futuro quale fu determinato dalla fede ebraica e cristiana contro la visione ciclica, e quindi priva di speranza, del paganesimo 52 classico”. Nonostante lo sforzo di emancipazione dalla teologia, “ l’irreligione del progresso rimane una sorta di religione “ derivata dalla fede cristiana in un fine ultimo. Blumenberg, pur non negando l’influenza del Cristianesimo sulla modernità, ritiene tuttavia che vi sia una differenza formale per cui sarebbe ingiustificata una netta trasposizione dell’idea di progresso nell’escatologia cristiana: “ … un’escatologia parla di un evento che fa irruzione nella storia ma che le è eterogeneo e la trascende, mentre l’idea di progresso estrapola da una struttura esistente in ogni presente un futuro immanente nella storia “. Questo sganciamento dalla prospettiva di una trascendenza che orienta teleologicamente il divenire storico costituisce, per Blumenberg, la premessa dell’autoaffermazione umana nella storia all’interno del cui sviluppo l’idea di progresso “… è l’autogiustificazione permanente del presente attraverso il futuro “. (17) Questo presuppone che l’uomo cominci ad essere “ colui che fa la storia “ e non colui che in essa agisce solo conformemente ad un ordine temporale predeterminato ed estraneo alla sua volontà. Per Löwith, ciò che accomuna cristianesimo e paganesimo, nonostante essi fondino la loro comprensione della storia su due opposte concezioni del tempo, è la negazione della possibilità umana di autogiustificare il senso storico del mondo: “ … se destino significa un potere superiore di cui non possiamo disporre, ma che dirige la nostra storia, allora il fato è paragonabile alla provvidenza divina “. Ovviamente, rispetto a tale “ profonda venerazione del destino ovvero della provvidenza, la moderna fede secolare nella progressiva possibilità di dominare il mondo sarebbe apparsa una bestemmia ad entrambi “ (18). Quest’ultima affermazione potrebbe apparire un implicito riconoscimento del carattere emancipativo ed innovativo della modernità. In realtà, se l’autentica concezione della storia è da far risalire alla visione fatalistica classica, e se la temporalità escatologica biblico-cristiana rappresenta il tradimento di essa, allora l’illegittimità di quest’ultima non può che riflettersi anche sull’idea moderna di progresso, secolarizzazione della fede nella salvezza. Perciò l’autofondazione umana del senso della storia non può che essere un’illusione creata dalla mistificazione della verità destinale che governa il mondo. Se, heideggerianamente, la verità è velamento e disvelamento, allora l’idea di progresso non è altro che una manifestazione del destino di cui l’uomo si ritiene illusoriamente artefice. In questo modo, Löwith, sottrae alla volontà umana proprio ciò in cui essa aveva creduto di poter confidare per determinare laicamente il proprio futuro, poiché, sostiene Poliscritture/Letture d’autore Blumenberg, “ … una tale visione della storia si priva della possibilità di ammettere e rappresentare l’autocoscienza dell’età moderna come epoca estrema e singolare “. (19) E’ necessario partire dal fatto che l’uomo fa la storia “, anche se questo “ … non significa affatto che ciò che è fatto sia dipendente soltanto dalle intenzioni e dalle regole a partire dalle quali esso è sorto “. (20) Questo, in quanto ogni singola azione si situa all’interno di un più vasto orizzonte delle possibilità storiche in cui sussiste “ un’interazione dell’interdipendenza integrante e disgregante “: ciò implica che “ l’affermazione per cui la storia si fa vale nel senso di una facoltà non univoca di correlare azioni e risultati “.(21) NOTE 1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) 8) 9) 10) 11) 12) 13) 14) 15) 16) 17) K. Löwith, Significato e fine della storia, trad. it. di F.T. Negri, Il Saggiatore, Milano, 1989, p.40 Ibidem, p. 39 Ibidem, p 25 Ibidem, p24 Ibidem p.234 Hans Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, trad. it di C. Marelli, Marietti, Genova, 1992, p. 73 Ibidem, p16 Ibidem p.22 Ibidem, p. 502 Ibidem p.71 Ibidem, p.70 Ibidem, p. 201 Ibidem, p. 34 K.Löwith, op cit. p. 83 Ibidem, p. 106 H. Blumenberg, op. cit. p. 37 Ibidem, p. 39 - Mariella De Santis: Un io crudele e molteplice. Individualità e soggetto in Janet Winterson, Ingeborg Bachmann e Agota Kkristof. Non so se ho titolo per esprimermi genericamente sulla questione della scrittura femminile. Se esista, se sia un genere, se sia espressione di una scrittura di genere. E non so soprattutto quanto quello che io possa dire sia utile a volgere sguardi obliqui rispetto alla ricerca di nuove prospettive. È infatti di ostacoli, di pensieri traversi che abbiamo bisogno per poter avanzare in spazi altrimenti ignoti. Quello che mi pare di sapere è che soggettività e storicità del soggetto in comunità, sono elementi inalienabili dell’esistenza, anche quando, accidentalmente, esse esercitano una presenza attraverso la scrittura. Da qui mi viene una riflessione sul concetto de ”il silenzio e la presenza”. 53 In un recente volume antologico sulla poesia francese dal medioevo ai nostri giorni, pubblicato, all’interno di un progetto editoriale sulla poesia straniera, dal quotidiano italiano La Repubblica , trovo solo una presenza femminile, quella di Marie de France (seconda metà del secolo XII) e mi piacerebbe essere stata solo una lettrice distratta dell’indice. Non offendo la cultura e l’amore per la poesia di nessuno facendo nomi che avrebbero potuto/dovuto trovare presenza nel volume e mi chiedo quali i motivi di questa scelta. Eppure sono questi per ora ignoti motivi che convincono sulla opportunità del porre in questione un tema quale quello della scrittura delle donne (accezione, sicuramente, da me prediletta). Silenzio e presenza, dicevo. In un suo scritto sull’arte, Susan Sontang scrive che “Il silenzio mantiene le cose aperte”. E se al lavoro letterario e poetico delle donne guardiamo dall’angolo in cui più netto si percepisce il silenzio, non si può non giungere all’intuizione di un esercizio di presenza prima, apertura poi, che attraverso la scrittura le donne hanno tentato. Apertura alla visibile presenza? Sì anche, ma non solo. Apertura anche all’emersione di una lingua, di un linguaggio, di un molteplice che attraversa l’unidimensionalità con cui si tende a ridurre la visione del mondo, sotto la pretesa di una esemplificazione paritetica. Il soggetto che in maniera spudorata si assume un compito di ostentazione, è l’Io. Ma se nella letteratura prodotta dalle donne, sino alla modernità (la poesia, in questo scritto, sia dia - con tutti le distinzioni nobili che potrebbero essere avanzate – compresa nel letterario) questo Io rivelativo assumeva su di sé un valore di testimoniale indagine o presenza, nella letteratura contemporanea assistiamo all’emersione di un Io dilatato, crudele e in sé molteplice. Ci viene dichiarata l’insorgenza di un soggetto scrivente che ha assorbito il tempo senza lasciarsene assorbire. In questa nota breve, che ha il valore di un indizio, di una traccia ancora incerta, propongo con la rapinosità della sintesi un accostamento a tre autrici in cui l’Io crudele e molteplice si definisce tra individualità e soggettività. Esse sono Janet Winterson, Ingeborg Bachmann e Agota Kristof. Per ognuna scelgo quale portolano uno dei loro libri, nell’ordine: Arte e menzogne, Malina e Trilogia della città di K.. Romanzi dalle complesse e azzardate strutture narrative e inesorabili nella loro spietatezza, ovvero nella mancan- Poliscritture/Letture d’autore za di qualsivoglia compiacenza verso le vicende narrate. Di Arte e menzogne sono protagonisti Handel, un prete e chirurgo con un nascostissimo segreto, Picasso, pittrice in fuga dall’orrido domestico e familiare e Saffo, poetessa girovaga del tempo. Omicidi o suicidi tentati, sono incontri non inusuali della vicenda, accanto a padri reali o putativi castranti. Malina è il compagno/doppio della protagonista – chiamata semplicemente Io – che ha una parallela relazione sentimentale con Ivan, l’uomo che può rifondare Vocali e Consonanti. Sullo sfondo l’assassinio di Io, la presenza ossessiva di un padre, l’incapacità di ogni relazione di essere capiente per la forte densità di Io. Trilogia della città di K. narra di due gemelli affidati dalla madre alla terribile nonna. Senza più un padre, i due legano se stessi agli altri attraverso una catena di crudeltà di cui ci si rende conto lentamente e angosciosamente. Parlano al plurale e all’unisono come fossero un’unica coscienza. In nessuno di questi libri però la narrazione è affidata sempre allo stesso soggetto. La prima persona singolare di Handel, Picasso, Saffo, diviene terza o la prima plurale dei gemelli della Trilogia assume la prima singolare inaspettatamente quanto la terza; e solo apparentemente l’Io di Malina mantiene una stabilità poiché essendo egli un doppio, continuamente la responsabilità del dichiarato oscilla tra i tre soggetti del romanzo. Cosa sta a dire quest’avventura pronominale? Molto che possa qui esaurirsi o anche soddisfacentemente approssimarsi. Ma senz’altro sta a rivelare una violenta appropriazione della soggettività storica ed umana delle scriventi. Tutte le narrazioni sono designate dentro spazi di conflitto a ridosso della Storia (la guerra, il nazismo, il potere temporale della Chiesa) ed è come se questi sdoppiamenti dell’Io stiano ad attestare quanto non possa più essere riconducibile all’unidimensionalità la presenza dello scrittore donna. Non casualmente, peraltro, in questi tre libri incontriamo sempre il padre quale figura deprecabilmente insufficiente – se non avvilitoria - alla costruzione dell’ordine o ad un suo mantenimento. Laddove l’ordine del padre generando disperazione e invisibilità, costringeva all’individuazione di postazioni strategicamente sopravvivenziali quali il ritiro nell’ombra protettiva di un convento 54 (Juana Ines de la Cruz), la sofferta e letale perseveranza (Isabella Morra), o del matrimonio talora funesto,talaltra intelligentemente beffardo, come quello in cui riuscivano le poetesse cortigiane del Cinquecento, si assiste nella contemporaneità alla messa in stato d’accusa di quel potere maschile che ha tentato sia la riduzione sepolcrale del femminile, quanto la guerra, la distruzione entro cui le donne hanno dovuto e potuto trovare motivi di emersione. Una ribellione al padre che talvolta può parere senza mèta e che comporta paurosi salti nel vuoto. Il vuoto è la dimensione angosciosa che attraversa i tre romanzi di cui parliamo. Il vuoto volo suicida di Picasso (Winterson),delle stanze della casa di Io (Bachmann), dei confini vigilati dai militari (Kristof) in cui questi Io devono continuamente moltiplicarsi per non esserne assorbiti, occupare spazi di vuoto e addensarli. Di angoscia, di paura ma essendoci. Il vuoto sta anche a rappresentare quella dimensione sottrattiva che pare precedere la scrittura. Infatti, narrativamente spazio dell’azione diviene la scrittura non solo come atto dell’autore, ma quale elemento che a vario titolo è presente nelle vicende dei protagonisti qui presentati. In questi tre romanzi c’è sempre qualcuno che scrive. Scrivere è azione del pensiero. E ogni azione segna l’impossibilità di tornare indietro. Per quanto possa essere incerto e incostante il divenire, non si rinuncia più ad esserne parti consapevoli. Non interessa più tentare varchi di presenza dalla periferia, ma arrogarsi attraverso la crudeltà di questa individualità moltiplicata, la riduzione al silenzio attraverso cui mantenere aperte le cose. Il silenzio però qui non è più quello della marginalità subalterna ma quello dello shock che segue sempre una irrimediabile rivelazione. L’umano appartiene alla storia e questa appartiene al soggetto femminile nel rischio dell’ordine quanto del disordine. Del rumore e dell’afonia. Il linguaggio, in questi romanzi, è preciso sino al dolore, ma non definitivo se non nel momento della manifestazione. Esso, piuttosto, è perentorio. Nulla può più essere definitivo poiché queste tre autrici si collocano nello spazio del conflitto, un conflitto che non è antagonismo di genere ma esuberanza di vigore. La crudeltà inferta, subita, rappresentata dall’Io moltiplicato appartiene alla Storia quanto il loro essere donne scrittrici. L’autobiografia è arte e menzogna, scrive la Winterson con paradossale intelligenza, dichiarando così il primato dell’invenzione a partire proprio dal soggetto. Poliscritture/Letture d’autore Era assassinio, sono le parole che chiudono Malina. L’imperfetto denuncia continuità nel tempo di un’azione che per la sua natura, l’assassinio, dovrebbe essere impossibilmente dichiarata dall ’Io che la subisce. Ma qui l’Io è attore e spettatore ( moltiplicazione, ancora) della storia da cui non permette più estromissioni, neanche tramite la morte. Ahimè, la vita calma e tranquilla che mi ero immaginato si è molto rapidamente trasformata in un inferno, dice uno degli enigmatici protagonisti della Kristof. Alienato lui come chiunque altro dall’illusione ideologica, esistenziale a cui si sopravvive solo moltiplicando gli orizzonti visivi, osando azioni spregiudicate. Scritture esemplari, dunque di un’emersione di soggettività consapevole, cosciente e storica. Crudeli tanto quanto il tempo da cui hanno preteso ascolto, benevole tanto quanto l’immenso movimento d’intelligenza ed emozione che procurano. Per una critica dialogante 2 Cara Mariella, meno di te, in teoria, avrei titolo di esprimermi sulla questione della scrittura al femminile, ma, visto che dal femminismo siamo stati attraversati, dico qualcosa sul tuo saggio, premettendo che non ho letto le opere che tu commenti e che quindi le mie osservazioni- obiezioni scaturiscono unicamente da quanto tu dici in esso e dal modo in cui lo dici. “Il silenzio mantiene le cose aperte”(Sontag). Tanti i dubbi. Decenni fa, una scrittrice (francese mi pare, non ricordo se si chiamasse Marie Cardinal...) aveva scritto Le parole per dirlo. Cosa, invece, induce oggi a tornare a privilegiare il silenzio? E quale silenzio (Vedi dopo)? E poi il silenzio è, forse, solo delle donne? Esiste o no un’ambiguità del silenzio, per cui non è detto che esso mantenga con certezza «le cose aperte»? Nel silenzio presente nel lavoro letterario e poetico delle donne - mi pare di capire - tu vedi «un esercizio di presenza», e cioè – sempre azzardando – la possibilità per le donne di far emergere «una lingua, [...] un linguaggio, [...] un molteplice che attraversa l’unidimensionalità con cui si tende a ridurre la visione del mondo, sotto la pretesa di una esemplificazione paritetica». La cosa avverrebbe oggi attraverso «un Io dilatato, crudele e in sé molteplice», che esemplifichi nei testi prescelti delle tre autrici esaminate. In nessuno di questi libri affermi - la narrazione è affidata sempre allo stesso soggetto; e in questa «avventura pronominale» scorgi «una violenta appropriazione della soggettività storica ed umana delle scriventi». Le quali si muoverebbero «a ridosso [attenzione: «a ridosso» non equivale a «dentro», nota mia] della Storia (la guerra, il nazismo, il potere temporale della Chiesa)» e contro «il padre quale figura deprecabilmente insufficiente - se non avvilitoria - alla costruzione dell’ordine o ad un suo man- 55 tenimento»; e, per estensione, contro «quel potere maschile che ha tentato sia la riduzione sepolcrale del femminile, quanto la guerra, la distruzione entro cui le donne hanno dovuto e potuto trovare motivi di emersione». Siamo alla classica critica femminista - e devo aggiungere - astorica (antropologica, se vogliamo) al patriarcato. Ora vada per la «ribellione al padre» (dal ’68 in poi non si è parlato d’altro, in termini spesso approssimativi...), ma il fatto che essa «può parere senza meta e che comporta paurosi salti nel vuoto» è un fatto su cui non si dovrebbe sorvolare o fermarsi alle impressioni. Sono state individuate delle mete (da queste scrittrici o da altre)? Sono stati limitati i «salti nel vuoto»? Se «il vuoto è la dimensione angosciosa che attraversa i tre romanzi», se questi Io femminili - come dici - «devono continuamente moltiplicarsi per non esserne assorbiti» (in sostanza non trovano pace, non maturano direi con qualche malizia...) o devono - heideggerianamente - «esserci», ma solo nell’angoscia e nella paura, o trovano spazio (o azione) solo nella scrittura, a me pare che qualcosa non funzioni. «Scrivere è azione del pensiero»? Ma perché un pensiero deve/dovrebbe vedere solo nella scrittura le sue possibilità di azione? E perché ogni azione (=scrittura) dovrebbe comportare «l’impossibilità di tornare indietro»? Questi io mi appaiono condannati ad un universo claustrofobico, all’incertezza del divenire, ad una consapevolezza irrinunciabile sì - come scrivi - ma impotente rispetto alla realtà, che non può ridursi alla scrittura. E che conquista umana o femminile sarebbe quest’«arrogarsi attraverso la crudeltà di questa individualità moltiplicata, la riduzione al silenzio attraverso cui mantenere aperte le cose»? Moltiplicarsi non è necessariamente liberarsi. Altrettanto non lo è diventare crudeli. Questa enfasi sul silenzio - ripeto -, che «però qui non è più quello della marginalità subalterna ma quello dello shock che segue sempre una irrimediabile rivelazione», finisce per presentarsi come puro dogma o spostare appunto il discorso sul piano inverificabile della «rivelazione», che posso anche rispettare ma, come sai, difficilmente è comunicabile o moltiplicabile. E poi come si fa a dire che la storia «appartiene al soggetto femminile nel rischio dell’ordine quanto del disordine» oggi che si parla di «fine della storia» ed è tutto un pullulare osceno di revisionismi storici? Cos’è qui, per te, «la storia» o la «Storia»? E cos’è questo «conflitto che non è antagonismo di genere ma esuberanza di vigore», se esso (il conflitto) ha questo seguito di angosce, indefinitezze, ecc..? Cioè è senza meta identificabile. E cos’è - aggiungerei - quel «padre», di cui parlavi prima, se non l’assente Storia (o «storia») che resta - mi pare di capire da tutto quello che dici sulle tre scrittrici - comunque sullo sfondo? Sei davvero convinta che questi io crudeli vogliano guardare in faccia la Storia (o la «storia»)? Se lo facessero o l’avessero fatto, mi metterei volentieri ad ascoltare la loro lezione. Scusa le rigidità che ti potranno parere parapatriarcali delle mie obiezioni Un caro saluto Ennio Poliscritture/Letture d’autore - Marco Gaetani: Sartre fuori moda Il 2005 è anno sartriano: l’uomo che scelse di essere Jean-Paul Sartre nacque infatti a Parigi il 21 giugno del 1905. Il sistema delle ineluttabili recursività su cui si fonda ormai l’industria mediatico-istituzionale dell’”evento culturale”, quel meccanismo combinatorio brillantemente descritto qualche anno fa da Maurizio Bettini, può forse offrire – la ricorrenza scattando “oggettivamente” – se non altro un’occasione per tornare a riflettere in maniera non solitaria (ed evitando, nell’unanimismo dominante, ogni accusa di estemporanea gratuità) sulla figura del “celebrando secondo il turno calendariale” (Contini). Certo non è facile in questi casi sottrarsi alla chiacchiera, sfuggire al turbinio effimero di cui s’ingrossano le pagine degli inserti culturali. Si tratta tuttavia, per quanto possibile, di volgere a profitto l’incremento di pubblicazioni a stampa, la temporaneamente benevola disposizione dell’udienza, ed ogni altra circostanza virtualmente favorevole; di cogliere infine il pretesto dell’anniversario per qualche considerazione meno genericamente apologetica, oziosa, vacua o scandalistica. Al clima delle celebrazioni sartriane deve probabilmente qualcosa anche un recente volume, uscito negli ultimi mesi dell’anno scorso (e dunque in tempestivo anticipo sulla scadenza centenaria) per le cure di un valente studioso italiano di Sartre, Giovanni Invitto3. Il libro costituisce la “trasposizione integrale della colonna sonora” di un film biografico realizzato nei primi anni settanta e uscito in Francia nel 1976; la struttura dialogata conferisce al testo un andamento fluido e divagante, da conversazione: la “voce” di Sartre si alterna con quelle dei suoi interlocutori (Simone De Beauvoir, Michel Contat, Alexandre Astruc, André Gorz, Jacques-Laurent Bost, Jacques Pouillon) e con quella “recitante” che inframmezza al dibattito passi tratti dalle opere del filosofo; l’interazione dialogica riportata mantiene così qualcosa della oralità originaria, attrae il lettore riuscendo varia eppure sostenuta, nel toccare tanto problematiche di carattere schiettamente filosofico quanto argomenti tratti dall’attualità politica dell’epoca (Cuba, la tensione tra U. S. A. e U. R. S. S., l’Algeria, il Vietnam), con le note del curatore italiano che soccorrono puntualmente a precisare, informare, fornire dettagli su quei personaggi 3 J.-P. Sartre, La mia autobiografia in un film. Una confessione, Christian Marinotti edizioni, Milano 2004. Si tratta della prima traduzione italiana del volume edito da Gallimard nel 1977 e intitolato semplicemente Sartre. 56 e quelle situazioni al lettore odierno non più trasparenti; didascalie a margine del testo riferiscono infine delle immagini e dei suoni che nella pellicola costituiscono o integrano la testura audiovisiva. Non mancano, nel corso della conversazione, la rievocazione autobiografica (con alcuni aneddoti sapidi ma ad una lettura non superficiale provvisti di una loro più significativa valenza: si veda per tutti il ricordo dell’incontro con Lukács) e alcune estemporanee boutades del protagonista, degne di essere ricordate a testimonianza della vitalità di un esprit che a dispetto delle interpretazioni virate al nero dell’Esistenzialismo non si sottrae al buonumore ed alla franca risata (così càpita di raccogliere una perla di misoginia dalle labbra del niente affatto misogino Sartre: “amo molto essere con una donna perché non amo la conversazione di idee”). Il testo - collocandosi all’incrocio tra narrativa, saggio, dialogato teatrale - offre insomma un esempio di assai alta divulgazione, con l’opportunità di ripercorrere l’esperienza umana e intellettuale del pensatore parigino senza immergersi in testi dall’argomentazione teoricamente più impegnativa. Anche sulla scorta di questo salutare promemoria è così possibile procedere ad una rapida ricognizione dell’attualità del pensiero sartriano. Cercando di evitare i due opposti rischi: non si tratta di stabilire – tribunale dei posteri - ciò che vivo e ciò che è morto della filosofia di Sartre, e neppure di aderire ad una prospettiva invece frettolosamente totalizzante, del genere “tutto o niente”. Sartre è del resto, sicuramente, pensatore problematico e controverso per definizione, propenso ai continui rimaneggiamenti delle proprie posizioni (espressioni del tipo “oggi ritengo che…”, a lui consuete, sono molto più che una divisa di prudente saggezza, e nient’affatto riconducibili a qualsivoglia forma di scetticismo relativistico); resta tuttavia vero ciò che anche la critica a lui maggiormente avversa non manca di riconoscergli, vale a dire che alcuni nuclei di fondo della sua concezione sostanzialmente non mutarono mai (prima tra tutte le costanti, quella verità – davvero “incondizionata” - per cui vale sempre il “contatto della coscienza con se stessa”4). Ragione per la quale non risulta possibile isolare nel pensiero di Sartre singoli aspetti ancora vitali e fecondi e prescindere da altri invece ritenuti “invecchiati”, trascegliendo indiscriminatamente e a piacimento entro le coordinate di una teorizzazione che ha una sua forma di sistematicità5. Non è meno vero, d’altra parte, che l’oggetto-Sartre non si può probabilmente assumere all’ordine del giorno nella sua interezza senza un complessivo ripensamento critico che valga se non altro a riacclimatarlo rispetto ad una situazione storica, quella contemporanea, tanto differente da quella in cui esso venne a originarsi e maturò. Egualmente, non va taciuto che la cultura occidentale – non si pensa qui soltanto alle aristocrazie intellettuali della più diversa estrazione ideologica - sembra aver risolto il dilemma volentieri rimuovendo in blocco un pensatore oggi sovente considerato inattuale, e comunque ingombrante. Sartre è davvero più che mai fuori moda, e come per l’Adorno di Fortini6 ci si può però chiedere se almeno in Italia la voga sartriana sia stata mai davvero tale, al di là delle pose di alcuni e dell’impegno ermeneutico di un ristrettissimo numero di frequentatori in servizio effettivo e permanente. E comunque oggi, inequivocabilmente, il continente-Sartre non stimola viaggi d’esplorazione che non siano solitari; lo stesso Sartre-personaggio risulta facilmente antipatico, le sue scelte private, pubbliche, intellettuali sovente respingono; il pensiero sartriano (indubbiamente, malinconicamente “forte”) appare per sovrappiù inutilmente ostico, non concede all’interprete facili gratificazioni. Il volume curato da Invitto (del quale si raccomanda anche la bella “Nota in premessa”, che assume come titolo un lapsus “cartesiano” – “Sono dunque penso” - proferito in conversazione dal filosofo, e giustamente considerato dal curatore come altamente significativo della personalità e della concezione filosofica sartriane) permette di ricapitolare i tanti Sartre che si sono succeduti dagli anni trenta ai settanta: dal punto di vista filosofico, ecco allora il passaggio dal fenomenologo dell’immaginario e dall’indagatore della trascendenza dell’Ego all’autore del libro capitale non solo del sartrismo ma di tutto l’orientamento esistenzialistico novecentesco: con L’Etre et le Néant, in effetti, l’Esistenzialismo dimostra di potersi sottrarre nettamente ad ogni tentazione di carattere mistico-religioso, che si tratti di una prospettiva à la Jaspers o di soluzioni di matrice heideggeriana. E poi la tappa successiva al lavoro sulla ontologia fenomenologica, quella Critique de la raison dialectique che ci consegna un Sartre definitivamente affrancato dal solipsismo, e un individuo “in situazione”; senza che l’itinerario si 6 4 Ivi, pp. 104-5. 5 Sull’”unità” del pensiero sartriano cfr. ivi, p. 94. Poliscritture/Letture d’autore Il riferimento è ovviamente all’articolo pubblicato su “il manifesto” del 24 settembre 1989, ora nel secondo volume di Disobbedienze (Gli anni della sconfitta, scritti sul Manifesto 1985-1994), Roma 1996 pp. 51-5. 57 esaurisca: il lavoro speculativo successivo alla Critique presenta un autore ancora capace di imprimere al proprio pensiero correzioni originali e sostanziali7. Il mutamento ideologico di Sartre viaggia ovviamente di conserva rispetto alla sua evoluzione filosofica: basterebbe la menzione dei suoi rapporti con il marxismo, proverbialmente problematici e controversi, a restituirci l’immagine di un intellettuale che “non ha mai accettato niente senza contestare” e che “ha sempre voluto ricercare le cose per conto suo”8. E molto lunghi discorsi meriterebbe certo anche la produzione romanzesca e teatrale, dal celeberrimo La Nausée fino all’adattamento di Le Troiane euripidee: una produzione vasta, sicuramente diseguale ma per molti aspetti anch’essa coerente, e sulla quale il tempo (i gusti del pubblico non meno che le valutazioni dei critici) sembra avere in effetti depositato una patina difficilmente rimovibile; produzione tuttavia cui non si potrà negare il potere, oggimai raro, di restituire in profondità il clima di un’intera epoca, di rappresentarne le questioni vitali, di dare espressione ai problemi nevralgici (materiali e spirituali) per essa fronteggiati dalle coscienze individuali e politiche. Dire in breve dell’attualità di Sartre, senza aver modo di problematizzare, non è impresa possibile. Si cercherà qui di focalizzare soltanto tre aspetti rispetto ai quali il lascito sartriano può essere considerato ancor oggi prezioso. Va da sé che si tratta di tre questioni fortemente interrelate. Tornare all’esperienza, alla parola, al pensiero di Sartre tentando di farli reagire col tempo presente significa per prima cosa e soprattutto imbattersi in una figura di intellettuale che fa il suo mestiere con una estrema lucidità e coerenza. Sartre è senz’altro, lo si usa dire, una delle ultime incarnazioni dell’intellettuale classico. Ma egli dimostra di essere continuamente ben consapevole della circostanza, e delle sue conseguenze. L’intellettuale, nella interpretazione sartriana, è per definizione nodo di contraddizioni che si riconosce come tale, (auto)coscienza infelice perpe7 Se ne cerchi la testimonianza nei saggi raccolti in L’universale singolare. Saggi filosofici e politici dopo la “Critique”, a c. di F. Fergnani e P. A. Rovatti, Il Saggiatore, Milano 1980. 8 La mia autobiografia…, cit., pp. 60 e 104. Non andrebbe neppure dimenticato il rapporto – anch’esso abbastanza problematico - del sartrismo con le scienze umane, e con lo Strutturalismo in particolare (memorabile a questo proposito – e nel secondo Novecento forse accostabile soltanto, per la qualità degli ingegni contrapposti e la valenza nevralgica delle problematiche affrontate, alla ben nota controversia tra Popper e Adorno - la polemica con Lévi-Strauss su pensiero analitico e dialettico). Poliscritture/Letture d’autore tuamente in guerra con se stessa. Comunque la si pensi in proposito, fa ancora impressione constatare come il borghese Sartre resti a tutt’oggi l’unico scrittore ad essersi rifiutato di indossare la marsina per ricevere dalle mani di un re scandinavo il riconoscimento borghese per eccellenza9. Giova rammentare che almeno un paio di sedicenti comunisti, nell’ultimo decennio, si son guardati bene dal compiere un gesto analogo: gesto forse inutile, ma sicuramente paradigmatico di un modo tradizionale nel senso alto di interpretare la funzione storica dell’intellettuale. Gesto esemplare. Sartre ci si presenta così - con il carico delle sue contraddizioni ma soprattutto per il buon uso che seppe farne - come probabilmente l’ultimo dei maîtres à penser occidentali, testimonianza individuale della perdurante possibilità di esercitare la funzione critica pur entro gli scenari storicamente più asfittici – incarnazione della libertà umana così come ebbe egli stesso a teorizzarla, prova vivente di quella ineludibile apertura per cui l’individuo può sempre proiettarsi oltre la situazione che lo stringe e condiziona frustrandone lo slancio teleologico. Se Sartre vivente lo si vede soprattutto, com’è fatale, in un atteggiamento militante che non ha paura, negli anni, di fiancheggiare tutte le esperienze radicali ponendosi sempre al fianco delle istanze storiche più avanzate, nel filosofo che ormai celebre non depone la convinzione per cui “ribellarsi è giusto” (e che trova pertanto “notevole”, ad esempio, una rivoluzione, quella cubana, che è anche una festa); se ciò è certamente vero, non meno vero è che la passione civile e l’engagement sartriani si compongono coerentemente rispetto alla valenza di un ben preciso dettato speculativo. Perché avere paura di entrare nel merito di un pensiero che ha suscitato – indizio importante – le ire dei comunisti come dei reazionari? Il gusto per la verità è infatti alla base di entrambe, militanza e speculazione. Proprio nella peculiarità del suo pensiero - o forse meglio di uno stile di pensiero - risiede dunque il secondo dei lasciti di Sartre di cui riaffermare l’attualità, pur anche soltanto virtuale, “seminale”. Perché, ci si può chiedere, questo idealista che seppe riconoscere l’importanza determinante dei condizionamenti storico-materiali batte in breccia i più rigorosi adepti dello scientismo marxista, e si dimostra alla lunga migliore dei tanti dogmatici che si condannano, prima o poi, a una crucciata esistenza fuori dal presente – quando non si votano inconsapevoli, fin dal principio, al destino di transfughi? Perché accade che l’“incoerenza” del borghe9 Sull’episodio, ivi p. 135. 58 se Sartre finisca per essere la forma più costante di fedeltà alla causa degli oppressi di tutto il mondo? Si può rispondere: perché, soprattutto, il suo pensiero respinge ogni forma di coscienza che sia astratta dalle forme di esistenza individuali. Esso riafferma, in un’epoca in cui i diversi orientamenti di pensiero sembrarono accordarsi soltanto sulla avvenuta eclissi del soggetto, la costitutiva irriducibilità della esperienza della singola coscienza, la centralità dell’esistenza in quanto ineliminabile fondamento della conoscenza come della prassi. La verità, in Sartre, è sempre in rima profonda con la più concreta realtà: “non si comprende che quando si mette la cosa in rapporto al mondo”10. Riaffermare l’importanza del vissuto e del soggetto, la intransitività paradossale di un Ego che pure fonda il proprio orizzonte esperienziale aprendosi al mondo, rapportandosi storicamente agli oggetti ed agli altri, costituisce di per sé - nell’epoca della mediazione universale, dei simulacri, dello spettacolare dilagante - una specie di scandalosa provocazione. Il pensiero di Sartre invita oggi più di ieri a far propria questa prospettiva “fuori moda”, e ritrovare negli interstizi di una realtà integralmente alienata i residui margini per un pensiero e per una prassi liberi di autodeterminarsi, di scegliere senza timore il senso del mondo. L’ultima considerazione riguarda il ruolo centrale che nella concezione del pensatore francese riveste la letteratura, letteratura cui Sartre dedica notoriamente una serie di riflessioni che certo resteranno, per profondità e finezza: da Qu’est-ce que la littérature?, al Saint-Genet, al monumentale studio su Flaubert (senza trascurare il prodigioso Baudelaire), Sartre dimostra in una innumerevole sequenza di scritti una capacità di comprendere la parola letteraria che prescinde dalla pur importante teorizzazione del metodo regressivoprogressivo (e che chiama forse maggiormente in causa l’altra dicotomia egualmente celebre, quella tra intellezione e comprensione)11. Una capacità che gli deriva forse dalla infantile “nevrosi di letteratura”, da quell’equivoco tra le parole e le cose che per il fatto di essere stato dissipato con l’adolescenza (“quando ho conosciuto la contingenza, la violenza, le cose come sono”12) non pare tuttavia immune dall’essere molto fecondamente attivato a volontà, per essere nuovamente distanziato. La parola letteraria ha una specificità che oggi si tende facilmente a perdere di vista – quando anche i suoi più lucidi assertori tendono ad appiattirne i tratti peculiari su quelli della parola scritta/letta tout court, su questioni di mero alfabetismo percettivo-cognitivo: attestandosi su di un fronte, quello della contrapposizione tra civiltà tipografica e civiltà audiovisiva, che non è probabilmente il fronte storico principale. La parola letteraria ha infatti una valenza storico-antropologica non surrogabile, è probabilmente invenzione senza ritorno; concerne la sempre più precisa coscienza della capacità umana di conferire senso alla realtà, e di assumersi pienamente la responsabilità di tale senso: è “appello alla libertà”. Per questo “la funzione dello scrittore è di far sì che nessuno possa ignorare il mondo o possa dirsene innocente”. Lungi da ogni istanza di risarcimento, senza nostalgie per la perduta aureola, si tratta, per lo scrittore, di assumere il ruolo di portavoce di un “pubblico” di cui occorre interpretare ed esprimere pensieri ed istanze che in esso sono già presenti13. E del resto: “Noi consideriamo da lungo tempo che la letteratura è un fenomeno doppio, duale come si dice, cioè autore (che ora si chiama scriittore) e poi lettore. I due, messi insieme, fanno l’opera, ma occorre che il lettore faccia la sua parte”14. Luogo privilegiato del senso, dell’universale singolare, dell’”universale concreto”, la letterarietà assume così una rilevanza cruciale per un autore che “pensa che non ci sia nulla che non possa essere detto”15 e che il silenzio (pare lecito aggiungere: anche quello derivante dall’eccesso di rumorosità) sia di per sé “reazionario”, in quanto degradazione e reificazione del “per sé”16. Ci sono autori la cui opera si lega tanto fortemente alla realtà profonda della propria epoca da correre il rischio che essa vada fuori corso non appena i caratteri di quell’epoca paiano tramontare o sbiadire: è il rischio di chi non esita a compremettersi con un presente che ha per definizione il destino della transitorietà. Sartre paga oggi con l’impopolarità anche la scelta di “prendere sulle spalle” la situazione propria e dei suoi contemporanei, nel momento in cui essa probabilmente giungeva ad un grado di incandescenza preludio 10 Ivi, p. 120. Sulla riflessione sartriana intorno alla letteratura e alle arti figurative cfr. S. Briosi, Sartre critico, Zanichelli, Bologna 1981. Il volume di Briosi si segnala, oltre che per l’acutezza dell’analisi e dell’interpretazione, per la presenza di una perspicua scelta di brani d’autore. 12 La mia autobiografia…, cit., p. 46. 11 Poliscritture/Letture d’autore 13 Ivi, p. 99. 14 Ivi, p. 79. Lo scrittore e la sua lingua, in L’universale singolare, cit., pp. 102 e 108. 16 La mia autobiografia…, cit., p. 78. 15 59 di uno sprofondamento. E in effetti sono molti gli aspetti della esperienza e del pensiero di Sartre che sembrano rimandare ad una temperie paradigmaticamente moderna: il suo lavoro si incunea nel pieno del Novecento, ne recepisce le tendenze più tipiche, si rispecchia in (ed alimenta di) un tempo in cui la Modernità ci si presenta nelle sue forme già mature per il tramonto. C’è però un ulteriore aspetto, oltre ai tre già ricordati, che autorizza a far valere la lezione sartriana al di fuori della cappa plumbea della tarda modernità, e a farla reagire dentro l’attuale caleidoscopica epoca postmoderna. Si tratta precisamente della classicità di questo pensatore, di quella dimensione per cui Sartre si affianca ad autori “eterni” la cui riflessione non teme il tempo che la sopravanza, ma sempre vi s’attaglia. La tradizione francese ritrova in lui l’intellettuale di battaglia, dalla vocazione voltairiana; ma nella sua riflessione riaffiora anche quell’attitudine analitico-introspettiva che ne fa un erede nobile dei Montaigne e dei Pascal, dei Proust. Senza che i due tratti – l’engagement e l’introversione – vadano peraltro a detrimento di un rigore filosofico che pone il non accademico Sartre (il quale raccoglie così pure l’eredità di Descartes) nella tradizione più alta del pensiero speculativo europeo: suoi eterni interlocutori restano Hegel, Marx, Husserl, Bergson, Kierkegaard... Non si tratta, tuttavia, di sostenere in tal modo il valore metastorico del contributo di Sartre, magari all’insegna di un equivoco umanesimo di recupero (c’è effettivamente, come noto, anche un umanesimo sartriano, esistenzialistico: che quando non sia malinteso è forse l’unica forma ancora percorribile di umanesimo, nell’epoca del nichilismo); Sartre è un “classico” allo stesso modo in cui può esserlo un Brecht: egli attraversa il tempo viaggiando sulla cresta d’onda del (proprio) tempo. E ci raggiunge. - Loredana Magazzeni: Alda Merini e l’erotismo polimorfo del materno Testimone vivente dell’inespresso Ad Alda Merini è toccato inaspettatamente in sorte di essere una delle voci femminili più intense del Novecento e di vedersi riconosciuta in vita questa grandezza. Ciò accade raramente ai poeti e ancora più raramente alle donne poete, specie se anticonformiste e dirompenti come Alda. Oggi molti forse sorridono riferendosi a lei, ne parlano ormai come di una diva della poesia, madrina e protagonista di innumerevoli manifesta- Poliscritture/Letture d’autore zioni e ammiccano alla sua vecchiaia di poeta povera, insonne, circondata di gatti e di disordine nella sua modesta casa sul Naviglio. Ma pochi oggi sanno ancora pienamente cos’è e cos’è stata la poesia di Alda Merini, quale cammino di autocoscienza, come si diceva negli anni ’70, le ha fatto attraversare la follia senza tradire, anzi potenziando l’alta poesia che la contraddistingue. Alda Merini non è stata una studiosa, una accademica in senso stretto. Ha compiuto pochi studi regolari, si è diplomata come stenodattilografa, in compenso ha avuto alle spalle una famiglia che l’ha sempre incoraggiata a leggere, ad amare la letteratura e la poesia, come lei stessa ricorda in Reato di vita1, libro paradigmatico che assembla scritti autobiografici e interviste amorevolmente raccolte da Luisella Veroli, studiosa di matristica, archeologa e autrice di prima di eva, viaggio alle origini dell’eros, pubblicato dall’Associazione Melusine di Milano. A sedici anni viene scoperta da Giacinto Spagnoletti che riconosce la grandezza dei suoi versi. La prima raccolta, La presenza di Orfeo, è del 1953. Salvatore Quasimodo e Maria Corti, oltre allo stesso Spagnoletti, la includono in tre importanti antologie di poesia degli anni ‘50 e ‘80: Poesia italiana contemporanea, Poesia italiana del dopoguerra e Viaggio nel ‘900. Dagli anni Sessanta agli anni Ottanta si aprono per Alda Merini i cosiddetti “anni dell’inferno psichiatrico”, che ripercorrerà in tutte le opere successive e che conferiscono un’impronta definitiva alla sua poetica, anni che rievoca in libri come Vuoto d’amore, La terra santa, Testamento e in scritti autobiografici come il già citato Reato di vita o ne L’altra verità. Diario di una diversa. Cammino pulsionale spirituale Per i critici è molto difficile tentare una catalogazione esauriente dell’intera opera poetica di Alda Merini che è enorme e annovera ancora moltissimi inediti, raccolti in parte nel Fondo Manoscritti di Pavia ad opera di Maria Corti, oltre a una miriade di testi sparsi e varianti d’autore regalate ad amici e conoscenti. Per quanto riguarda più espressamente le tematiche, si è tentati di avvicinare la scrittura profondamente autobiografica e passionale, quasi pulsionale di Alda Merini, alla poesia confessional di matrice anglosassone, riconoscervi una parentela con scrittrici come Sylvia Plath o Anne Sexton, a loro volta eredi di grandi universi di poesia emozionale e dell’esperienza disegnati a cavallo fra ‘800 e ‘900 da Emily Dickinson, Emily Bronte o Elisabeth Barret Browning. 60 In particolare Sylvia Plath e Anne Sexton hanno avuto in comune con Merini l’esperienza della sofferenza mentale e del rapporto con il manicomio. Ma, a differenza da loro, Alda Merini non è stata toccata dal tema del suicidio. La sua resurrezione, di cui parla più volte, passa per la Gerico manicomiale, attraversa la terra santa del ricovero, ma riesce a superarli per dirsi, per divenire racconto, mentre le due americane vi precipitano dentro, portandosi dietro un universo allucinatorio di bellezza infinita ma senza salvezza. Forse il cammino cosiddetto confessional di Alda Merini ha radici intuitive, radici di sapienza interiore che avvicinano la sua ricerca a una matrice evangelica, forse dovuta a un’influenza familiare, che le ha permesso di trovare sostegno e linfa nel divenire racconto, confessione, sulla traccia delle Confessioni di Sant’Agostino o delle invocazioni di Giovanni della Croce. Oppure, è più giusto dire che c’è, nella poetica confessional di molte donne poete, qualcosa che le accomuna alla mistica, quella traccia erotica di un dolore di partenza, di fondo, che permea tutta la vita e la scrittura come la traccia di una assenza mai colmata e che attraversa sia la scrittura di Alda Merini sia quella delle due poetesse americane. La condizione tragica del ‘900 Scrive la filosofa spagnola Marìa Zambrano in La confessione come genere letterario, che esiste una condizione tragica, che è poi quella del Novecento, in cui agiscono “ uomini che hanno più contatto profondo con la realtà hanno perso il centro interiore”. “La Confessione sembra essere un metodo” per non annichilire e disperdersi, ma conseguire uno “stato quasi di invulnerabilità”, uno stato che, scrive la filosofa, “ha a che vedere con l’unità pura, con il centro interiore”. Tutta la poesia di Alda Merini è alla ricerca di questa unità interiore invulnerabile, condizione sentita come postuma, la quotidiana essendo frantumazione, dualismo e dispersione di sé. E’ l’amore, per Alda, a realizzare questa conciliazione degli opposti, proprio come postula la Zambrano quando afferma essere l’amore “l’intermediario tra vita sensibile e contemplazione del vero”, mentre la natura della nostra vita è “dispersività, passività e passionalità” e la verità non può avere la meglio sulla vita se non “innamorandola”, rendendola “resa senza rancore”. Solo nell’amore “le viscere dolenti e rancorose finiscono per diventare di qualcuno”. Nella condizione dell’amore e nella mistica “Essa (l’anima) desidera riunirsi ad un qualcosa che ha la sua stessa natura; è come se non fosse nata intera, come se cercasse quel che le manca e che, non ri- Poliscritture/Letture d’autore trovato, le nega ogni analogia nel mondo stesso in cui cerca”. E ancora: “La condizione del mistico è una condizione di solitudine che anima “il suo smisurato amore per il tutto”. Il mistico fa il vuoto dentro di sé “affinché in questo deserto, in questo vuoto, venga ad abitare un altro”. In lui “vive una voracità”, voracità che, trasposta sul piano umano, è amore, fame irresistibile di esistere, di avere “presenza e figura”. Chi ha consuetudine con il lessico di Alda Merini sa quante volte vi ricorrano termini come fuoco, viscere, voracità, amore, corpo, anima, dismisura, frattura. Come Giobbe, citato dalla Zambrano, “è un viscere che grida dal suo deserto”, così per Alda Merini “Gli inguini sono la forza dell’anima” e i paralleli che lei disegna fra cammino di salvezza attraverso il manicomio e cammino di salvezza attraverso l’amore vedono nei riferimenti alla passione e alla terra santa la metafora principe della sua scrittura. L’attraversamento della follia va nella direzione del riconoscimento del sacro nel corpo addolorato, colpito, ferito, corpo santificato perché unico suggello al ricongiungimento fra le parti frantumate e divise attraverso la mediazione del linguaggio. Anche la nuzialità, le nozze reiterate e ripercorse, i congiungimenti dolorosi o irraggiungibili con gli amanti sono per Alda Merini metafora del ricongiungimento mistico con l’Assente, con l’altro da sé e dentro sé. E infatti scrive: “basta un sorriso o un’assenza e/ la mia mente concepisce un amore”. E mentre il manicomio è il monte Sinai, la terra promessa da attraversare, la sua religione è la follia, un cammino mariano e misterico, un mistero doloroso, verso il ricongiungimento con la parte di sé che si è persa. La madre, in molte poesie e nell’autobiografia Reato di vita è il luogo originario della gioia, l’alba di un destino di viandanza. Il destino della poeta Merini è di incontrare, toccare e riconoscere con le parole i simili, i mèntori e infine la propria madre. La sua poesia è per questo popolata di nomi e presenze vive. L’attraversamento del buio si fa così comunione e pietà verso gli inermi, coloro che condividono il suo destino di dolore e dentro i quali alberga la vera sapienza. Che il cammino verso la sapienza sia tortuoso e ambivalente è testimoniato da una figura ricorrente che è quella del gobbo, un essere rozzo e deforme che è minaccioso ma anche facilitatore di “metamorfosi e passaggi”: “Ma viene a volte un gobbo sfaccendato/ un simbolo presago di allegrezza/ che ha il dono di una strana profezia/ e perché vada incontro a una promessa/ lui mi tra- 61 ghetta sulle proprie spalle”(Testamento, Crocetti, pag.16). Il dissidio fra corpo e anima Il dissidio fra corpo e anima, che pure è il tema conduttore di molti suoi testi poetici, vede lo scontro tra il corpo come prigione, “ludibrio grigio/ con le tue scarlatte voglie” e l’anima “circonflessa, circonfusa e incapace”. La psichiatria è la madre-matrigna, quella che fa funzionare la “macchina del binomio anima-corpo”, mentre la parola, la poesia è l’unica madre vera, il porto verso cui tornare. E mentre Alda Merini vede rotolare, con una delle sue forti immagini metaforiche, le teste degli psichiatri come palline da bigliardo, la mente le appare un passero libero ma tremante e il poeta un insetto che la poesia può schiacciare da un momento all’altro con la sua possanza. In questo dualismo, e nel potere taumaturgico assegnato alla parola, è stato visto l’orfismo di Alda Merini, la sua capacità tragica alla Dostoevskij e alla Baudelaire di affermare un “sentire-sapere della soglia”, di possedere quello sguardo per cui ardono “Gli occhi del mio amato che porto disegnati nelle mie viscere”, come scrive San Giovanni della Croce. Il mito di Orfeo rispecchia la metafora dell’anima che va a cercare il corpo. Alda Merini stessa parla di una schizofrenìa: “L’anima è andata da una parte, il corpo dall’altra. Allora l’amore è il processo simbolico che va a riunire il dualismo corpo-anima e il sogno d’amore crea così una seconda realtà, una realtà vera a livello di linguaggio:” Il sogno bisogna renderlo parola e allora nasce la poesia”. L’ossessione d’amore, come la chiama spesso Alda Merini, diventa “nutrimento terrestre”, ricerca di fede nella bellezza, energia che è, secondo le sue stesse parole un fuoco, uno zolfo per cui “tutte le parole buttate per aria si riuniscono e diventano un verbo unico, un’unica spiegazione letteraria possibile”. E ancora “Ecco perché la passione incendia. Il fuoco che brucia le scorie porta alla purezza e ne fa in un attimo il risultato di una grande folgorazione di conoscenza. Di qui i profeti e, in tono minore, gli scrittori.” Orfeo è Alda stessa: “io sono la vera cetra/ che ti colpisce nel petto/ e ti dà larga resa”. La follia è stata il lievito che ha fatto gonfiare il linguaggio fino a un livello due, un livello che supera il linguaggio della cultura, quel linguaggio che è pura “masticazione culturale”, mentre il linguaggio della poesia è “pane, nutrimento celeste”. Ma all’opposto della visione crociana della poesia, essa non è, per Alda Merini, nutrimento individuale ma qualcosa che assomiglia al “Duomo di Poliscritture/Letture d’autore Milano”, cioè una costruzione complessa dovuta al lavoro silenzioso e nascosto di mille mani, mille destini individuali: “la Poesia è fatta pietra su pietra, è un edificio vero e proprio”. La follia e l’esperienza del manicomio sono state il percorso di conoscenza che hanno nutrito la poesia. Il manicomio in particolare è stato, scrive Alda Merini, come la sabbia che, se entra nelle valve di un’ostrica, genera perle. E’ stato anche un “formidabile e privilegiato punto di osservazione”, un evento che ha conferito alla vita una specie di santificazione e di profondità abissale, punto di vista sul mondo e dentro di sé che l’ha salvata dall’annichilimento “con la capacità dello stupore”. D’altra parte il dolore è quasi sempre alla base del suo fare poesia e lei stessa scrive .”Non c’è nessun poeta che possa scegliere, di per sé, di stare bene”. L’interpretazione psicanalitica Alda Merini ha spesso utilizzato le chiavi interpretative della psichiatria e in particolare dell’analisi junghiana per spiegare la genesi e gli esiti del suo fare arte. In particolare fa suoi termini come scissione, schizofrenia, ossessione, erotismo, anima. E’ profondamente convinta dell’importanza dei primi anni della vita nella costruzione dell’identità e, quando parla della sua infanzia, si riferisce ad un periodo mitico e portentoso. E’ molto interessante notare quello che scrive a proposito: “La nascita è l’evento migliore della nostra vita. Nel corpo naturale dell’essere c’è tutto lo svolgimento di ciò che egli sarà domani, degli amori che incontrerà, dei sudori, dei suoi personali cinismi, fino alla sua morte.[...] L’infanzia è il periodo più gioioso della vita, un periodo siderale.. Certamente il bambino non è responsabile dei suoi “ragionamenti d’amore”, ma è senz’altro un portentoso concentrato d’amore, un amore che accolto, educato, articolato dalla madre, diventa appetito di conoscenza”. Questa affermazione di Alda Merini è di grande attualità perché proprio gli studi più recenti di una nuova branca della psichiatria, chiamata metapsichiatria, concentrano la loro attenzione nella sessualità infantile polimorfa, sessualità che viene conservata dall’individuo per tutta la vita e che lo aiuta a strutturarsi in individuo intero e sessuato. Questa sessualità “di tutto l’essere” è appunto, dice la metapsichiatria, alla base della conoscenza. Forse è proprio questa sessualità infantile polimorfa e totalizzante quella che spinge Alda Merini e molte donne-poete a cercare nel linguaggio quel ricongiungimento con un corpo inizialmente materno che mira a superare la frammentazione e il dolore e a ritrovare l’interezza perduta. 62 Per una critica dialogante 3 Ennio Abate, Alcune osservazioni sul testo di Loredana Magazzeni Il testo di Loredana Magazzeni mi spinge alle obiezioni qui rapidamente sintetizzate: a) Anche se può parere atto inopportuno, astioso o dettato da incomprensione verso lettori e lettrici che stabiliscono con dei testi poetici un rapporto emotivo, mi pare giusto sollevare la questione tra successo letterario di un autore o di un’autrice (nel caso quello tardivo di Alda Merini) e condizioni culturali e politiche che l’hanno agevolato: e valutarne anche l’effetto distorcente sulla comprensione della sua opera. Non si può sorvolare, infatti, che, in misura ridotta rispetto a calciatori, attori del cinema, firme giornalistiche, esiste in piccolo un divismo anche dei poeti e delle poetesse, un culto che è prodotto di corporazione e poco ha a che vedere con una seria conoscenza delle loro opere. Non vorrei che le femministe serie sorvolassero sugli aspetti negativi del fenomeno solo perché Alda Merini è stata accolta nel simbolico massmediale e da cenerentola è diventata principessa, risarcendo il dannoso silenzio su tante poetesse viventi o defunte; b) «Resurrezione», «Gerico manicomiale», «terra santa del ricovero» sono metafore di matrice biblica con cui la Merini esprime la sua esperienza del manicomio. E capisco che una poetessa, cresciuta nell’immaginario cattolico, possa ricorrervi spontaneamente. Ma l’uso di richiami religiosi e biblici, nobilitati da una secolare tradizione, non rischia di infiorare le catene della sofferenza psichica e quel luogo orribile che è stato ed è il manicomio? Posso anche riconoscere che, attingendo al serbatoio della sua educazione cattolica, la Merini abbia trovato un aiuto per non soccombere al dolore mentale e alla violenza manicomiale. Ma solo parziale. Insomma la poesia e la religione sono solo in minima parte terapeutiche. Accentuare questo aspetto porta autori e lettori fuori strada nel tentativo ricorrente (forse vano, ma utile) di chiedersi: cos’è la poesia? da dove nasce? Loredana scrive in un punto Come Giobbe, citato dalla Zambrano, “è un viscere che grida dal suo deserto”, così per Alda Merini “Gli inguini sono la forza dell’anima” e i paralleli che lei disegna fra cammino di salvezza attraverso il manicomio e cammino di salvezza attraverso l’amore vedono nei riferimenti alla passione e alla terra santa la metafora principe della sua scrittura». Non posso fare a meno di notare l’ambiguità di queste affermazioni (quella della Merini in particolare) che sono paradossali per il senso comune cattolico, ma che sostituiscono per me con un cortocircuito verbale l’oscillazione cattolica fra materialismo e idealismo (sotterranea e irrisolta, anche perché mantenuta dalla dottrina della chiesa nell’oscurità del piano interiore (dei desideri inconsci) e continua a creare – senza che mai si capisca bene come e perché – vite di “santi” e vite di “demoni”. Che la «salvezza» possa avvenire sia attraverso il manicomio che attraverso l’amore (più in generale sia attraverso il Male che il Bene) sposta il discorso umano sul piano del Mistero. Diffido di que- Poliscritture/Letture d’autore sto spostamento. Non per orgoglio luciferino, non perché affermi che di misteri non abbondi la vita umana, ma semplicemente perché i gestori istituzionali e secolari del Mistero (chiesa cattolica innanzitutto) se ne servono per dar copertura alle varie forme di «manicomio» proliferanti nel pianeta. Essi con un discorso pseudoreligioso sul Mistero (Cfr. anche intervista a Michele Ranchetti), altri con un discorso pseudoscientifico sull’Oggettività non fanno che confermare il dominio di parti dell’umanità “sane”, “normali” sulle altre “matte”, “anormali”, “devianti”. In un altro passo insiste ancora: «L’attraversamento della follia va nella direzione del riconoscimento del sacro nel corpo addolorato, colpito, ferito, corpo santificato perché unico suggello al ricongiungimento fra le parti frantumate e divise attraverso la mediazione del linguaggio». Ma perché il sacro dovrebbe coincidere in particolare col dolore del corpo e non con la gioia o il piacere? E cosa comporta una santificazione del corpo «colpito, ferito»? E in un altro ancora: «Il manicomio in particolare è stato, scrive Alda Merini, come la sabbia che, se entra nelle valve di un’ostrica, genera perle. E’ stato anche un “formidabile e privilegiato punto di osservazione”, un evento che ha conferito alla vita una specie di santificazione e di profondità abissale, punto di vista sul mondo e dentro di sé che l’ha salvata dall’annichilimento “con la capacità dello stupore”. D’altra parte il dolore è quasi sempre alla base del suo fare poesia e lei stessa scrive .”Non c’è nessun poeta che possa scegliere, di per sé, di stare bene”». Mi chiedo: è il manicomio che crea la perla Merini? che è un punto di osservazione privilegiato? che santifica e permette di guardare gli Abissi? è il dolore la base della poesia? E non posso che ricordarmi di Adorno, che contro l’equiparazione romantica di genio e follia diceva che la poesia non è mai frutto della follia ma della resistenza del poeta alla follia. Si è tanto spesso discusso se la forza poetica di Leopardi derivasse dalla sua gobba o dalla sua infelice esperienza personale di malaticcio, solitario e senza donne. Lui lo escludeva contro il cattolico Tommaseo. I critici più seri hanno dimostrato a sufficienza che quel determinismo non c’è. E io penso che la Merini si sbagli di grosso nell’indicare la causa della sua poesia nella sua esperienza manicomiale. c) Nel suo testo Loredana collega le considerazioni mistiche della Zambrano alla «condizione tragica» del Novecento. Conosco ben poco la Zambrano. Mi pare però di poter obiettare che in lei la storia del Novecento perda le sue particolarità e si confonda con un Male oggetto secolare di meditazione da parte di una tradizione filosofica che può risalire fino a Platone e che prescinde dagli eventi di questo o quel secolo, di questa o quella civiltà, fondandosi su un contrasto assoluto e originario di Male/Bene, anima/corpo, Cielo/Terra. Da riconciliare secondo alcuni. Inconciliabile per altri. E la poesia della Merini, in particolare, mi pare iscriversi in pieno in questa tradizione. d) «La follia è stata il lievito che ha fatto gonfiare il linguaggio fino a un livello due, un livello che supera il linguaggio della cultura, quel linguaggio che è pura “masticazione culturale”, mentre il linguaggio della poesia è “pane, nutrimento celeste”»? Ovvia per Merini questa riduzione del linguaggio della cultura a ruminazione. Ma quanta sottovalutazione del linguaggio come comunicazione sociale! e) Sul rapporto letteratura e psicoanalisi. Non mi convince il modo come Merini utilizza «le chiavi interpretative della psichiatria e in particolare dell’analisi junghiana per spiegare 63 la genesi e gli esiti del suo fare arte». Anche uno psicanalista a lungo junghiano come Vincenzo Loriga, che ho conosciuto, distingueva nettamente la ricerca psicanalitica dalla ricerca letteraria. Pur attigendo entrambe all’inconscio, portano potrei dire - quell’acqua a mulini diversi e vengono fuori cose diverse. La letteratura, la poesia si servono di quell’acqua per impastare in modi tutti propri la farina del linguaggio, che ha una sua storia, dei suoi codici, delle sue regole da rispettare e trasgredire, ecc. L’acqua della psicanalisi (magari i sogni fatti in analisi) può anche mescolarsi con l’altra attinta dal letterato, dal poeta (e perché no dallo scienziato, dal politico, ecc.), ma poi finisce pur essa nella farina del linguaggio. È insomma una delle tante materie prime ( con la storia, le scienze, magari la musica, ecc.) che entrano nell’impasto. Quando un poeta espone idee psicanalitiche, come fa qui sopra la Merini, o ci parla del fanciullino che è in noi tutti, come faceva Pascoli, tace su tante altre cose. Ad es. non si capisce perché quel fanciullino dovette aspettare che il suo padrone che lo portava in sé diventasse un letterato esperto prima di farlo scorazzare nei suoi versi. Oppure, come nel caso della Merini, che peso ebbero i contatti o gli incoraggiamenti di Spagnoletti. E forse tante altre cose che, se fossi un suo biografo, andrei attentamente a spulciare (collegandoli ai suoi testi). Comunque, il discorso dei rapporti tra psicanalisi e letteratura è stato macinato da un secolo ed è interessantissimo. Di recente in un numero del 5 febbraio 2005 di Alias (supplemento de il manifesto) è uscita una interessante intervista a Mario Lavagetto, uno degli studiosi più attenti alla questione e che ha curato una monumentale edizione critica di Italo Svevo. Mi pare che dica cose utilissime (anche alla Merini, se lo leggesse). valenti a quelli della più accreditata poesia in lingua, viva e qualificata è stata la presenza di poeti che hanno scritto e scrivono in dialetto trentino. Se qualche antologia è stata poco generosa verso i poeti che si esprimono nelle parlate delle diverse valli della provincia trentina 2, gli studiosi più documentati e sensibili hanno incluso in anni recenti diversi poeti dialettali trentini nelle loro scelte antologiche 3. Fra questi c’è una poetessa la cui scrittura ha un particolare smalto linguistico ed un suo stile di inconfondibile fascino, nel quale esprime, con esiti poetici di suadente bellezza tutto il lavoro di scavo della sua interiorità, assieme ad un’accorata meditazione esistenziale: Lilia Slomp. Nata nel 1945, la Slomp si è imposta all’attenzione dei critici con la sua prima raccolta edita in dialetto che risale al 1987, En zerca de aquiloni (In cerca di aquiloni) Reverdito Editore, Trento, con presentazione di Elio Fox. Ad essa è seguito, nel 1990, il volume Schiramèle (Capriole), Editrice La Grafica, Mori (TN), sempre con la presentazione di Elio Fox e poi altri due più mature raccolte, Amor porét (Amore mendicante), 1995, Editrice La Grafica, con prefazione di Renzo Francescotti e Stiarìa (Malia), 2002, Editrice La Grafica, con Prefazione di Tavo Burat. Intervallate a queste opere dialettali, tre raccolte – pregevoli – di poesie in lingua4. Già nella presentazione del suo secondo libro, Schiramèle, l’illustre critico e storico della letteratura dialettale trentina, Elio Fox, scriveva di… Un libro che va letto attentamente, perché offre aspetti della poesia dialettale che non sono consueti nel panorama della poesia contemporanea. - Mario Mastrangelo: Sentimento dolente ed aura di magia nella poesia dialettale di Lilia Slomp Nel quadro del diffuso rinnovamento della poesia dialettale italiana compiutosi nell’ultimo trentennio1, che ha portato ad esiti letterari del tutto equi- Poliscritture/Letture d’autore E di consueto c’è veramente poco nei versi di Lilia Slomp . Essi sono infatti contraddistinti da un linguaggio ricco di seducenti metafore che spesso attingono al mondo della natura e del paesaggio. Sono invenzioni linguistiche che affollano lo scorrere armonico dei versi di una serie fitta di immagini pittoriche e vivificanti, che trasportano il lettore in colorite realtà parallele, in ovattate visioni oniriche, in squarci di panorami dell’anima, dove riverberano tutte le gamme e le antinomie del sentimento: il dolore e la gioiosità sensuale, la meditazione e la nostalgia, la rabbia e la speranza, l’abbandono nel grembo della natura e l’indignazione per le ingiustizie del mondo. Si legga ad esempio Striarìa (Malìa), dalla raccolta omonima del 2002: 64 L’è na sera de mus’cio questa, umida come i to làori a la tompesta che ne sgrifa. No gh’è paze per le fade inozènti. Le strìe le gà òci de foch, cavéi che fila ‘n encantesim stròf. La me vesta enrapolata la bina la rosada per cavarte la sé. E ti pèrs en la striarìa te sassìni penséri fiordaliso brusàndoli ai falò. L’è ‘n sgrisolón el mus’cio a svoltolón enté le scavezzàie del ziél. E mi me desgàrtio i cavéi en pèteni de tramontana quando el lóv el zerca la so tana per l’ultima schiramèla de vita. Zita, zita, ‘mbastìsso i fiori, i colori, la me storia lontana. * [È una sera di muschio questa, umida come le tue labbra alla tempesta che ci graffia. Non c’è pace per le fate innocenti. Le streghe hanno occhi di fuoco, capelli che filano un incantesimo buio. La mia veste stropicciata raccoglie la rugiada per dissetarti. E tu, perso nella malìa, assassini pensieri fiordaliso bruciandoli ai falò. È un brivido il muschio a rotoloni nelle capezzagne del cielo. E io mi dipano i capelli in pettini di tramontana quando il lupo cerca la sua tana per l’ultima capriola di vita. Zitta, zitta, imbastisco i fiori, i colori, la mia storia lontana]. Appare evidente la felicità espressiva con la quale viene rappresentata, o meglio evocata, una sorta di simbiosi magica col mondo della natura. La raccolta infatti intende celebrare la striarìa, la malia, la fascinazione del bosco, con la sua fata Vivana, coi suoi folletti, i suoi muschi e le sue betulle, i suoi prati alti e le sue rugiade. Ma una lettura più profonda ci fa intendere che il bosco è anche emblema del nostro vivere5, della nostra condizione di fate innocenti e di streghe Poliscritture/Letture d’autore dagli occhi di fuoco, dove c’è spazio per le tenerezze (la mia veste stropicciata raccoglie / la rugiada per dissetarti…), per la sofferenza (e mi dipano i capelli / in pettini di tramontana / quando il lupo cerca la sua tana / per l’ultima capriola di vita), ma anche per la speranza rasserenante (Zitta, zitta, imbastisco i fiori, / i colori, la mia storia lontana.). Evidenti sono pure, dall’esempio fatto, le caratteristiche formali delle composizioni della Slomp. I suoi testi poetici sono in genere brevi, esili, con versi anch’essi brevi (spesso settenari). Vi è presente quasi sempre un sapiente gioco di rime. La poetessa, che talvolta si cimenta anche con le forme classiche del sonetto (bello il Sonetto 3 di Amor porét), o con le quartine di endecasillabi a rima alterna (Per ti mama, Per te mamma, sempre da Amor porét)), il più delle volte predilige versi più liberi e di vario metro, con rime più rade e irregolari, che però si infittiscono nel finale di ogni composizione, rendendo più musicale ed incisiva, talvolta di lapidaria bellezza, la conclusione della lirica. (... el spègio da la cornis d’argent / e deventar de preda e mus’cio / senza un lament…lo specchio dalla cornice d’argento / e diventare di pietra e muschio / senza un lamento. ). Qualche volta, come nella poesia su riportata il gioco delle rime è più complesso. C’è una rima ripetuta ( tramontana, tana, lontana), qualche rima interna (colori che riprende fiori, enrapoladarosada, vita-zita), nonché l’assonanza foch-strof. E in pochi versi la poetessa (pur restando fedele ad una sostanziale semplicità di linguaggio) riesce a creare tante immagini, cariche di altrettante risonanze emotive, che si fa quasi fatica a ‘star dietro’ al fluire dei suoi versi. Facciamo un gioco. Lasciamo per un momento gli strumenti dell’analisi letteraria, chiudiamo gli occhi: comincia la visione-sogno-film-videoclip della poesia. Appare una sera umida e il muschio, emergono labbra umide (desiderio? effetto di un bacio?). Entrano ora in scena le fate innocenti e le streghe dagli occhi di fuoco. I loro capelli filano un incantesimo che è scuro come la notte che avvolge tutto. Ecco una veste (di donna, di fata?) che raccoglie rugiada per togliere la sete. A chi? Non c’è tempo per rispondere, incalza un’altra scena: i pensieri fiordaliso sono assassinati, bruciati in un falò. L’avete visto? Rischiara la notte, illumina la scena. Ritorna il muschio, ritorna l’autricedonna-fata, che scioglie i capelli in pettini di 65 tramontana (bella e originale questa immagine!). La tramontana vi fa sentire il suo ululato (siamo in un bosco, tra le montagne) ed ecco che appare il lupo che cerca la sua tana per l’ultima schiramèla di vita. E non è finita. La donna-fata ritorna per un’ultima pennellata di luce e di memoria, imbastisce i colori e la sua storia lontana e quel lontana riverbera con tana (e col suo senso di morte: l’ultima capriola di vita), fa eco alla tramontana e con essa viene riportata nel buio, nel silenzio. E tutto questo affresco, di senso e di colore, in soli diciannove versi, in trenta secondi, per chi ascolta la lettura. Non è magia? Ora che abbiamo imparato a giocare con i versi della Slomp, ecco quest’altra poesia, Ombrìe, Ombre, da Amor porét: Ombrìe, ombrìe, quante ombrìe su la me strada. Ghe coro drìo descólza, sgólo per no pestolàrle. L’è m’à gargà le spale de tute le so zèrle piene de ‘nsògni, stramberìe, pecadi, cros. Ombrìe. Ombrìe da le face segnade. Figure de silenzi zigadi a testa bassa, quando anca la rabia la se sfanta al sgrisolón de na vita che vòl la so canzon. (Ombre – Ombre, ombre, quante / ombre sulla mia strada. / Le rincorro scalza, / volo per non calpestarle. / Mi hanno caricato le spalle / di tutte le loro gerle piene / di sogni, stranezze, / peccati, croci. Ombre. / Ombre dalle facce segnate. / Figure di silenzi urlati / a testa bassa, quando / anche la rabbia svanisce / al brivido di una vita / che vuole la sua canzone.). Poesia indubbiamente più dolente. Le ombre sulla strada sono cariche di pene, ci danno sgomento perché sono tante, perché vuotano sulle nostre spalle sogni, stranezze, peccati e (soprattutto) croci. Un quadro questo, che esemplifica mirabilmente un sentimento doloroso, presente in tutta l’opera della poetessa trentina. Ad esso fa da controcanto, però, una gioiosa vitalità, una femminile, sottile sensualità di cui questa rarefatta poesia dialettale è imbevuta. ( Ò slargà la gàida / per ciapar l’ultim ragio / de sol, el più sfrizènt, Ho allargato il grembo per afferrare l’ultimo raggio / di sole, il più frizzante…senza gnanca na sbrìndola / de seda su la pèl: Poliscritture/Letture d’autore brasa / per i to dedi che sgòla. ..senza nemmeno un brandello / di seta sulla pelle: brace / per le tue dita che volano…). Sarebbe però riduttivo confinare nelle due polarità del dolore e della gioia di vivere il ricco mondo poetico della Slomp. Se parecchie sue poesie si soffermano sull’evocazione del peso del vivere, che – come si è detto - sovente si discioglie nella forza vitale del suo essere donna, non mancano i testi poetici che celebrano la sua sete d’affetto, una sorta di bramosia di sentimento ( non a caso uno dei suoi libri più densi si intitola Amor porét, Amore mendicante: L’è la me pèl che brusa / entrà le ombrìe / per el me amor porét / che ‘l gira nut… È la mia pelle che brucia / tra le ombre / per il mio amore mendicante / che gira nudo.. ). Talvolta le sue poesie si colorano dello strugimento della nostalgia, della tristezza per le cose perdute: O’ smigolà el me pan / sui scòrtoi scondùdi / de la me zoventù…Ho sbriciolato il mio pane / sui sentieri nascosti / della mia gioventù…e ancora… Nissun pù m’à piturada / soto l’arbol de la mél / con dedi de poesia…Nessuno più mi ha pitturata / sotto l’albero del miele / con dita di poesia. Varie composizioni, poi, contengono una trasfigurazione del quotidiano operato dalle effusioni di una fantasia levitante. E non mancano i testi che esprimono una partecipazione dell’autrice ai problemi della nostra società contemporanea (Emigranti, E i sbara, i sbara, E sparano sparano: …entél vert dei pradi / pòpe dai òci fiordaliso / per campi di formént / enmaciadi de ross…nel verde dei prati, / bimbe dagli occhi fiordaliso / per campi di frumento / macchiati di rosso…) Se a questi temi e motivi aggiungiamo la costante presenza di una tensione verso l’assoluto ( Elio Fox parla di un suo bisogno di eccelso, di vocazione al sublime ) capiamo che la Slomp è una poetessa di valore, che la sua poesia in dialetto (tra le più intense nel panorama dei poeti dialettali italiani contemporanei) è da conoscere e da studiare, per il suo spessore letterario, e per la magia di emozioni che dà il fluire dei suoi versi. Facciamo un gioco. Chiudiamo gli occhi… Note 1 Franco Brevini, uno dei più autorevoli studiosi di poesia dialettale italiana, fa risalire ai primi anni settanta la data di nascita della stagione neodialettale (F.Brevini, Le parole perdute, Einaudi, 1990, pag. 40). 66 2 L’antologia Il pensiero dominante, poesia Italiana 19702000, Garzanti 2000, di Franco Loi e Davide Rondoni, include solo due poeti trentini, Renzo Francescotti e Fabrizio Da Trieste. 3 Vittoriano Esposito, studioso della poesia dialettale, con specifici interessi per quella trentina, nella sua antologia, L’altro Novecento, vol VI (Panorama della poesia dialettale), Bastogi, Foggia, 2001, include cinque poeti trentini su settanta. Luigi Bonaffini e Achille Serrao nella loro Dialct Poetry of Northern & Central Italy, AGMV, Legas New York, 2001, ne antologizzano sei. In entrambe le opere è presente Lilia Slomp. 4 Nonostante tutto, Edizioni U.C.T. Trento, 1991; Controcanto, Edizioni U.C.T. Trento, 1993; Leggenda, Edizioni U.C.T. Trento, 1998. Di imminente pubblicazione un’altra raccolta di poesie in lingua. Per la sua poesia in italiano la Slomp è inclusa nell’antologia di V.Esposito L’altro Novecento, vol II (La poesia femminile in Italia) e vol. III (La poesia etico-civile in Italia) Bastogi Editrice Foggia, 1997. 5 Ermellino Mazzoleni, analizzando la raccolta Striarìa della Slomp, parla di un libro che va letto a due livelli, realistico ed allegorico ed afferma che un filo sottilissimo, e tuttavia visibile, attraversa l’intero volume poetico, si tratta di una presenza importante che amalgama e dà senso alle liriche, quello dell’esistenza. (E. Mazzoleni, La magia dell’esistenza in Striarìa di Lilia Slomp Ferrari, Ciàcere en trentin, n° 65, sett. 2002,p. 20). - Fabrizio Podda: Porte, cesure e il dolore della mente. Una lettura di «Donna di dolori» di Patrizia Valduga Nelle pagine che seguono ricorrerà spesso l’espressione “struttura iconica” in riferimento alle modalità che il testo, non solo quello poetico, mette in atto al fine di integrare tra loro le sue diverse componenti e rafforzare il proprio significato, la propria semantica profonda, consegnandosi in immagini esemplari (più o meno allegoriche). L’iconicità va intesa non solo nei termini del rapporto di similarità, motivatezza o arbitrarietà tra i segni e le cose del mondo (si pensi al Ceci n'est pas une pipe di Magritte), ma anche come insieme di strategie discorsive volte alla strutturazione del senso e all’apprendimento del reale.17 Tali strate17 Da questo punto di vista, gli approcci al problema vengono da ambiti disciplinari molto differenti: dal cognitivismo alla semiotica alla filosofia del linguaggio (ben riassunti in U. Eco, Kant e l’ornitorinco, Milano, Bompiani, 1997), dalla critica letteraria (A. Asor Rosa, I fondamenti epistemologici della letteratura italiana del novecento, in ID. (a cura di), Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, Torino, Einaudi, 2000 e C. Segre, La pelle di San Bartolomeo, Torino, Einaudi, 2003) alla linguistica (R. Solarino, Fra iconicità e paraipotassi: il gerundio nell’italiano contemporaneo, in SLI, Linee di tendenza dell’italiano contemporaneo, Roma, Bulzoni, 1992). Poliscritture/Letture d’autore gie sono più evidenti in quei testi nei quali l’aspetto figurativo è privilegiato, quei testi appartenenti ad un genere di scrittura, la lirica, che per statuto formale implica e mette in gioco tutta una serie di fattori inseparabili dalle modalità percettive, dalle immagini del mondo e dal soggetto responsabile della loro presa e ricostruzione (dall’hic et nunc, si potrebbe dire). Da questo punto di vista, il caso della poesia di Patrizia Valduga, almeno all’altezza dei testi su cui mi soffermo, è singolare ed utile in sede critica anche per la ridefinizione del problematico posizionamento dell’interprete verso il testo e verso il metodo della lettura/interpretazione. Per quanto quella poesia, infatti, si caratterizzi per un lavoro ed un controllo molto attenti a tutti livelli delle strutture significanti della sintassi e della semantica, per quanto essa sia immediatamente comunicativa, c’è un livello del testo, quello metricoritmico, che conduce al di là, e al di sotto, della lettera dei versi. C’è un luogo del testo in cui, per altro, l’interprete può avvertire un mancato effetto di iconicità, a partire dal quale si definisce una chiave di lettura che illumina sulle modalità di funzionamento di questa poesia e, allo stesso tempo, sul doveroso rischio che ogni pratica di lettura implica in quanto azione nel mondo. *** Farò riferimento, in particolare, alla seconda raccolta della poetessa, Donna di dolori.18 Le chiavi di lettura che interagiscono sono due, una più appariscente ed una più nascosta: si tratta, rispettivamente, della figura della morte19 - inscritta sin dall’epigrafe20 e dal cartello inaugurale (in senso brechtiano, teatrale) “Monologo” 21- e del rapporto spaziale tra narratore e testo, un rapporto corporale con la scrittura tale che al movimento ortografico della parola verso est equivale figuralmente il discioglimento del corpo e il progressivo assopi18 P. Valduga, Donna di dolori, Milano, Mondadori, 1991. In precedenza era uscita La tentazione (Crocetti, Firenze, 1985). 19 La semantica della morte è ricorrente nella poesia della Valduga, si pensi solo ai titoli di altre sue raccolte: Requiem, Bologna, Marsilio, 1994; Corsia degli incurabili, Milano, Garzanti, 1996 ma lo stesso Medicamenta ed altri medicamenta, Torino, Einaudi, 1989 ruota in quella medesima area semantica. 20 L’epigrafe è tratta da G. M. Hopkins: “But man – we, scaffold of score brittle bones; | Who breathe from groundlong babyhood to hoary |Age gasp; whose breath is our memento mori - | What bass is our viol for tragic tones” [La poesia citata è The sheperd’s brow, fronting forked lighted, owns]. 21 Il cartello del monologo recita: “La donna è una morta sotterrata allo stato colliquativo. | È stesa su un invisibile catafalco a destra. | A sinistra uno schermo proietta lei viva a grandezza naturale. | Nient’altro. Nessuna Musica. | La faccia della donna non si deve mai vedere completamente”. 67 mento della vis intellettiva, come mostrano emblematicamente questi versi: Migrazioni di vermi…verso est… migrano in linea retta…Nihil est in intellectu…quod prius! non pria… Il mio latino che se ne va via insieme con la testa…verso est… Ma se finis et bonum idem est questa volta sarà la volta buona.22 La scrittura è come il corpo allo stato “colliquativo”: ormai disciolti carne e parole migrano “verso est”. L’est (che assomma, con l’anafora in rima baciata, la contraddittoria simultaneità di dissoluzione ed essenza) è il procedere verso destra della scrittura, è la frontiera che delimita la pagina.23 Quanto traspare è evidentemente il fatto che alla dissoluzione del corpo, al suo ritorno ad una dinamis biologica eppure legata ad un centro (all’“intellectu”),24 corrisponde a tutti gli effetti il dissolversi del linguaggio, un dissolversi ordinato, ritmato, che della dissoluzione del corpo è cifra. Bene ha notato uno dei primi e più attenti lettori della Valduga, Luigi Baldacci: «Problema retorico e problema esistenziale si fondono perfettamente: anzi il piano della retorica è la metafora di quello dell’esistenza. La poesia non può estorcere al poeta la sua confessione; bensì gli sigilla la bocca; così il poeta parla per bocca altrui, e proprio allora si confessa».25 Il testo è infatti il medium, l’io testuale è l’interposta persona (per dirla con un’espressione di Enrico Testa) che veicola l’istanza di significanza che muove il poeta. Ma può accadere che quest’ultimo trovi altri luoghi per “confessarsi”, per depistare, avvelenare i pozzi, o ancora per dare indicazioni di lettura.26 Così 22 P. Valduga, Prima antologia, Torino, Einaudi, 1998, p. 26 (raccoglie Donna di dolori, Requiem e l’inedito Carteggio. Citerò sempre da questa edizione). 23 Poco dopo, nella stessa poesia, si dice: “da ovest verso est …dentro la fossa…| sì…guarirò da te…cura omeopatica…|dai vermi verso est… ”. Certo sarebbe interessare mettere a confronto questo sentimento del testo con quanto sosteneva Amelia Rosselli in Spazi metrici. 24 Alla ripetizione di quel verso “Nihil est in intellectu…” è legata a mio avviso una conferma delle precedenti notazioni circa l’abbandono della logica temporale. In una precedente poesia di Donna di dolori (p.17) leggiamo: “Nihil est in intellectu quod pria | quod pria…e dopo?”. La risposta è molte pagine dopo, nei versi citati: “Nihil est | in intellectu…quod prius! non pria…”. Alla logica temporale se ne sostituisce una quantitativa. 25 L. Baldacci, La parola immedicata, Introduzione a P. Valduga, Medicamenta e altri medicamenta, cit. p. VI. 26 Resta memorabile, ad esempio, la pratica zanzottiana e fortiniana di corredare di Note i propri volumi di versi. Si pensi a Fortini e alla Poesia delle rose, o a Zanzotto e la collaborazione con Stefano Dal Bianco nella Poliscritture/Letture d’autore ecco una vera e propria indicazione di poetica della stessa Valduga, in parole tratte dal terzo atto (intitolato sintomaticamente Le parole, il desiderio, la morte) della sua ultima raccolta, Lezione d’amore: Alle parole, le stesse che mi hanno fatto compagnia per proteggermi dalla morte e darmi un senso salvaguardando la mia identità, chiedo di liberarmi da questa identità irrigidita e immobile dopo lo scacco del desiderio. Ho scritto una volta che scrivere è “esposizione rituale alla morte” per vincere, per un istante, la paura della morte. No. “La paura della morte non è che la sensazione precisa di essere morti, perché il mio io si è strutturato, perché ho conseguito un’identità” (P. Cantalupo). Scrivere è tutt’al più un esercizio di resurrezione. O meglio, un’autopsia…27 Torna qui il parallelo tra corpo del testo, scrittura e corpo del poeta (e dell’io monologante28): tutti tendono al discioglimento e alla ricomposizione, al senso. C’è una valenza apotropaica della scrittura, c’è una sensibilità fisica per il testo e la parola, sospesa tra “desiderio” e “morte”.29 Nella raccolta Donna di dolori c’è un punto esatto in cui tutto ciò si manifesta, in cui morte e corpi (della donna e della scrittura) si toccano e producono l’entrata in scena di una sensorialità differente - nella fattispecie quella uditiva rispetto a quella visiva.30 Questo clinamen cade sul finire della prima poesia: Io qui come una bestia da macello scuoiata, squartata appesa a scolare, come potrei ancora camminare se la porta è inchiodata? Ah per pietà, compilazione del Commento al Meridiano Mondadori (ma cfr. a proposito A. Cortellessa, Je est un autre. Autobiografia e autocommento per interposta persona, in “L’immaginazione”, 175, Febbraio-Marzo 2001). Per uno studio più ampio sull’autocommento, cfr. G. Peron (a cura di), L’autocommento (Atti del XVIII Convegno Interuniversitario, Bressanone, 1990), Padova, Esedra Editrice, 1994. 27 P. Valduga, Lezione d’amore, Torino, Einaudi, 2004, p. 53. 28 Quello di Donna di dolori è un monologo molto particolare, infarcito di citazioni e di riuso linguistico. Sarebbe più corretto parlare evidentemente di plurivocità messa in monologo. E si vedano le considerazioni di Luigi Baldacci nell’Introduzione a Medicamenta e altri medicamenta, cit. 29 Si pensi a questi versi, incipit di Medicamenta e altri medicamenta: “Sa sedurre la carne la parola, | prepara il gesto, produce destini.” 30 Non sarà cosa vana citare questi versi: “Io voglio che mi avvolga la tua voce. | Ora lo sai, ho bisogno di parole, | devi imparare a amarmi a modo mio. | È la mente malata che lo vuole. | Ho fantasie auditive, non visive.| Vero, non voglio più chi non mi vuole. | Né chi mi vuole troppo: è un oppressore. | Voglio semplicemente le parole. | Sono loro il mio solo grande amore”. 68 perché non mi si veda, che chissà, può venire un collasso a chi mi guarda. Non ne so niente, non mi riguarda, ma i miei occhi, oh i miei occhi, le cose che hanno visto i miei occhi, o se paurose! Poi il buio, e la porta si interpose. Quest’ultimo verso sancisce l’abbandono dell’ordine logico-razionale retto dall’intelletto che posiziona gli eventi nel tempo. Quell’ordine risulta palesemente invertito: è la porta che chiudendosi delimita il buio, entità del tutto simbolica che sta in figura della morte. La temporalità viene, da questo momento in poi, abolita: nel tempo dilatato dell’osmosi di vita e morte (una “piccola eternità”, come si dirà, conclusa dai limiti tipografici della scrittura), nel tempo non-misurabile del passaggio la sola dimensione possibile è la spazialità del buio. Le possibilità iconiche del testo sono utilizzate qui all’ennesima potenza: l’elemento gerarchicamente più importante ai fini del senso e della “narrazione” è anteposto sintatticamente all’evento che lo produce: “Poi il buio, e la porta si interpose”. Il passaggio, oltre che dalla vita alla morte, è da una logica temporale-lineare ad una spaziale cogentemente materiale: dal basso verso l’alto incontriamo il corpo di “io”, il buio, la porta che si interpone come un vero e proprio operatore sintattico, un attivatore (shifter) della percettività,31 infine l’oltreporta mondano: ma cosa è questo oltre, la vita che rimane, quella vissuta, l’esterno, la realtà, la luce? È la dimensione temporale per intero?, il nostro tempo di lettori? La porta sancisce l’entrata in un’altra dimensione sensoriale (dalla vista all’udito), e qui troviamo il clinamen di cui dicevo poc’anzi. Si noti, oltretutto, che la porta “si interpose”: la marca temporale del perfetto (tempo concluso per eccellenza, ma anche tempo lontanissimo, “fuori del tempo”; è l’unico perfetto dell’intera raccolta, mentre è frequente il passato prossimo), inverte simmetricamente interno (presente) ed esterno (passato prossimo).32 Quello che segue è una storia dal buio,33 31 Relativamente alla valenza simbolica della porta rimando a G. P. Caprettini, La porta: valenze mitiche e funzioni narrative. Saggio di analisi semiologica, Torino, Giappichelli, 197a5 poi ripreso nel più recente G. P. Caprettini, Simboli al bivio, Palermo, Sellerio, 1992. 32 Altrove, nella poesia della Valduga, questa inversione ha come operatore sintattico, come fulcro, il corpo senziente, il corpo del desiderio: “Via da me…no, verso me: mi entro dentro…|«Che cosa hai detto?» Non ho detto niente…| come verso il rovescio del mio centro, | come uno svenimento della mente” (quartina 37 di P. Valduga, Cento quartine e altre storie d’amore, Torino, Einaudi, 1997, p. 41). Poliscritture/Letture d’autore ma una storia in corso. La porta conchiude il tempo finito, tenendolo fuori e segnando allo stesso tempo la spazialità pronta per una nuova percettività. Lo fa con vigore, con una cesura: è una porta inchiodata, ce lo dice il testo, è la porta del feretro. *** Chiuso dentro il buio del feretro, il corpo in discioglimento emette solo una frequenza vitale, prodotto della ragione in assopimento, eppure resistente: 5 10 Poi goccia a goccia misuro le ore. Nel tutto buio, sotto il mio dolore, più giù del buio della notte affondo. Scena muta di sogno, ombra di mondo, un niente di due tutti e di due vite, piccola eternità, e ore infinite, pienissima di me, viva di un cuore che mi sgocciola via senza rumore, in me ringorgo sotto il mio dolore. Dolore della mente è il mio dolore… per il mio mondo…e per l’altro maggiore…34 Si tratta di undici endecasillabi a rima baciata, con la sola ultima rima iterata ulteriormente nel verso finale (così tutta la raccolta), a mo’ di chiusa. La struttura binaria è presente a tutti i livelli in questa poesia, in questa raccolta e probabilmente in tutta l’opera della Valduga35 e si ripercuote dalla verticalità della scansione dei versi all’orizzontalità (“verso est”) del singolo verso. Si noti che i versi sono per lo più monolitici, mancano le inarcature ed anzi la tendenza è a far coincidere fine di verso e punteggiatura (con la sola eccezione del v. 7). Ma il legame tra verticalità e orizzontalità si ripercuote anche ad altri livelli, ed innanzitutto a quello semantico e sintattico. La verticalità è il luogo deputato ad accogliere la semantica profonda: gli avverbi “sotto” (v. 2), “più giù del buio”(v. 3) e ancora “sotto” (v. 9); i verbi “affondo”(v. 3), “sgocciola” (v. 8), rafforzano l’isotopia del “discendere” che è componente dell’isotopia “morte”. Dal punto di vista della semantica, la verticalità appare come il correlativo 33 Non è un caso che Donna di dolori termini con questi versi: “Do all’aria due manciate del mio sangue | per il suo chiaro…E sarà il nero ancora. | Oh notte solo mia! Niente più aurora | adesso, triste da me fino ai cani, | e niente sangue e niente più domani, | come se il sogno fosse cosa vera, | e come se l’aurora fosse sera, | e come se una nera notte. Nera” (P. Valduga, Prima antologia, cit. p. 29). 34 P. Valduga, Prima antologia, cit. p. 10. 35 Rifacendosi a Ignacio Matte Blanco, la Valduga chiama “bilogica” questa struttura binaria (Cfr. Le parole, il desiderio, la morte, in P. Valduga Lezione d’amore, cit. p. 150 sgg.). 69 iconico del progressivo decomporsi del corpo, o, circostanziando, come il progressivo separarsi di corpo ed intelletto, fino ai versi finali “Dolore della mente è il mio dolore | per il mio mondo… e per l’altro maggiore…” che sanciscono quella separazione e la natura totalmente mentale della pena (mentre il corpo, che è la scrittura, è forse luogo della salvazione). L’orizzontalità è, invece, innanzitutto il luogo della sintassi: sintassi della parola e del corpo nel nuovo stato (“colliquativo”). L’endecasillabo non è solo il metro di scansione della parola e della musicalità del verso, ma anche il ritmo della dissoluzione del corpo, del suo affondare. Sarebbe interessante studiare le modalità di posizionamento delle cesure all’interno dell’endecasillabo,36 la sua funzione in questa poesia. Certo è che la cesura è una pausa secondaria rispetto a quella di fine verso, e che l’endecasillabo non ha cesura fissa ma mobile. In questo testo si può vedere molto chiaramente: i vv. 1, 5, 6, 7, 8, 10 hanno accento in sesta (e talvolta ottava) sillaba e per lo più un settenario iniziale (ci sono diversi endecasillabi a maiore), dopo il quale la cesura è piuttosto blanda (tranne ai vv. 6-7, dove è marcata dalla punteggiatura). I vv. 2, 3, 4, 9 e 11 hanno accenti in quarta e sesta, e in questo senso sono piuttosto classici. Non fosse che hanno delle cesure molto forti tra le due sillabe accentate (tranne il v. 3. piuttosto fluido), ed in specie cesure sintattiche affidate alla virgola che a tutti gli effetti scinde i versi in due emistichi autonomi ed impedisce in due casi la sinalefe (vv. 4 e 11). Il v. 9 non ha la virgola ma la cesura rispetta la stessa scansione del v. 2, del quale è isomorfo: questo isomorfismo può essere una spia importante. Se difatti al v. 2 “sotto il mio dolore” c’è un tutto buio e indistinto, in questo caso a sopportare il peso del dolore è un io presente a se stesso, ancora mentalmente resistente, come dicono i due versi successivi. Il discendere della morte ha come controparte, nell’orizzontalità, una progressiva acquisizione di presenza a sé dell’io monologante, una resistenza della vita mentale alla morte del corpo: letteralmente, allo sgocciolio (v. 8) di quello si oppone il ringorgo della mente (v. 9). 36 Quella della presenza o meno della cesura nell’endecasillabo è a dire il vero questione molto controversa e dibattuta dai metricisti. Cfr. I. Baldelli, Endecasillabo, in Enciclopedia Dantesca,I, pp. 672-676, 1970; Elwert, Versificazione italiana dalle origini ai giorni nostri (1968), Firenze, Le Monnier, 1973; G. L. Beccaria, L’autonomia del significante. Figure del ritmo e della sintassi, Torino, Einaudi, 1975; C. Di Girolamo, Teoria e prassi della versificazione, Bologna, Il Mulino, 1976 e Dal verso metrico al verso libero, in A. Pietropaoli, Materiali per lo studio del verso libero in Italia, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 1994. Poliscritture/Letture d’autore Se dovessimo trovare un corrispettivo sintattico al “ringorgare” della mente in questo testo, esso starebbe certo nelle cesure. Le cesure infatti marcano il rallentamento del flatus voci in maniera mobile, non stabile (non dimentichiamo l’attenzione della Valduga per la pratica performativa dell’oralità); marcano l’alternanza di fluidità (in particolare i vv.1, 3, 5, 8 ), progressiva dissoluzione verso est da una parte, e resistenza, anche se oramai solo mentale, “in intellectu”, dall’altra. In modo non dissimile, il sistema di rime baciate è sia un modo di far scivolare compattamente (a blocchi, come a gradini) il testo verso la chiusa, sia un modo di opporre, per via della medesima compattezza, una sorta di resistenza allo scivolamento. In questo senso, esse, più che avere una funzione eufonica, hanno una funzione strutturale “strofica” ed insieme strutturale “versale” giacché stabiliscono un limite alla nostra percezione dello spazio orizzontale (versale) del testo, ed insieme il senso del passaggio verso il basso, del discendere (strofico). Non è forse azzardato sostenere che cesure e rime siano il corrispettivo sintattico della porta che “si interpose” marcando uno spazio sempre più ristretto (il testo), che solo se simmetricamente riversato dal mondo nel buio dolore della mente può accogliere il tempo della storia (come se, capovolgendo la clessidra, cambiasse la materia del tempo). In un certo senso cesure e rime disegnano spazialmente il luogo della clausura e del dibattimento del corpo e della mente dell’io monologante: solo al lettore è offerta, e meglio consegnata, la possibilità di fare di quelle clausure, dolori e dibattimenti il momento di ri-inizio dell’azione nella Storia. *** C’è, dicevo, un punto del testo che solo ad una ripetuta lettura, una lettura mirata, fa problema. Lo faccio presente nella forma di un’esperienza personale di lettura, per mettere in evidenza come la percezione di un testo - in quanto iconicamente strutturato - chiama in causa per certi versi una competenza di tipo strutturale, per altro la proiezione sul testo di attese latamente estetiche a partire dalle quali la ricostruzione del senso operata dal lettore interprete – nell’iterazione degli approcci, delle letture, nella verifica degli strumenti – può incorrere nell’auto-inganno. Ciò non significa affatto, però, che non stia proprio in questo il nodo dei nodi: può trattarsi, paradossalmente, di un lauto inganno. Il punto in questione è relativo al primo verso: “Poi goccia a goccia misuro le ore”. In particolare, nella mia memoria di quel verso il sintagma avverbiale “goccia a goccia” rimuginava al punto 70 che mi sembrava rivestisse un’importanza decisiva (inizialmente avevo avuto l’impressione che insinuasse la misura temporale del senso: lo sgocciolio). E pensando ad una temporalità protratta, dilatata dall’intensità del dolore, mi è occorso fortuitamente ed erroneamente di scindere i due membri del sintagma e allontanarli nell’orizzontalità del verso (memore del celebre esempio di Quinto Ennio: “cere comminuit brum”). Nella memoria risuonava qualcosa come “Poi goccia misuro a goccia le ore” o addirittura un più estremo “Poi goccia misuro le ore a goccia” (che però non avrebbe rispettato il sistema delle rime). Era certo un caso di interferenza della soggettività percipiente rispetto alla temporalità del testo, era certo il segno di una proiezione sull’asse del discorso di una tra le componenti dell’isotopia testuale profonda (la “morte”): la componente della separazione, della divisione dei tempi, dello spazio mi sembrava potessero invadere il testo. Ad operare quella scissione era – in quella prima e ripetuta lettura forzata l’orizzontalità del corpo riverso del cadaverenarratore. D’altra parte, quella della scissione era un’isotopia inaugurata poco prima nel testo dalla cesura della porta, che “si interpose” decretando il buio, la prevalenza dell’udito sulla vista e, con la clausura dello spazio, la forclusione invasiva della temporalità interiore - come se si girasse una clessidra. Ma, evidentemente, il testo parla diversamente, ed è col testo, e non con la propria memoria, che bisogna fare i conti. Il sintagma “goccia a goccia” rimanda allora, innanzitutto, all’altra dimensione fondamentale, quella sensoriale dell’udito, e solo in seconda istanza alla dimensione temporale: il goccia a goccia è pur sempre misura delle ore, seppur misura riparametrata su scale sinestetiche e isocronie mentali. Il gocciolio è gocciolio dall’esterno, un gocciolio rapido (il testo, invertendo l’impressione iniziale, rimanda a questa inesorabile rapidità): è infiltrazione del mondo e non ancora gocciolio del corpo in dissoluzione. È il tempo del fuori, dell’oltre-porta, che si insinua poco a poco in forma di suono nello spazio buio. Il corpo, immerso nel buio, non è più misura delle cose del mondo reale né di quello della memoria, la mente sì. Ed è proprio nella mente, e non più nel corpo, che la nostalgia di quel doppio mondo produce infine dolore. Dolore che è anche e soprattutto resistenza, ingorgo: resistenza alla storia, al mondo, e non al biologico. Il solo corpo che porta i segni della clausura e dell’incapacità, ormai, di avvertire il mondo è, infine, il corpo del testo. *** Poliscritture/Letture d’autore Il corpo del testo è il punto di partenza, potenzialmente iterabile, di ogni pratica di lettura e di interpretazione. Ripercorso, ricostruito, abbandonato o amato, sterilizzato o adempiuto, il senso che avanza dopo l’attraversamento del testo, dopo il corpo a corpo con esso, ci informa che è in noi, ineluttabilmente, che resiste la possibilità di incidere la storia: meglio, è a partire da noi che quella possibilità può e deve insistere. Per una critica dialogante 4 Caro Fabrizio, il tuo scritto si mantiene ad un livello di astrazione e specialismo abbastanza alto. Non ne metto in discussione il valore. Né mi viene in mente di porre qualsiasi ostacolo alla sua pubblicazione così com’è. Pongo però un problema a tutti per il prossimo futuro: a quale linguaggio deve tendere il redattore o il collaboratore di POLISCRITTURE? Io direi a un linguaggio non gergale né specialistico. Oppure, nel caso la presenza di gerghi o specialismi fosse necessaria o inevitabile, questi lessici dovrebbero essere in qualche modo accompagnati da una traduzione (‘cioè’ esplicativi, magari con rapidi richiami da glossario). Lo stile discorsivo, poi, dovrebbe essere in altro grado colloquiale e dialogante (con qualcuno: un lettore ideale o concreto va tenuto presente se non al momento dell’ideazione del testo almeno in quello della sua stesura). Non voglio fare discorsi generali sulla comunicazione. Mi limito a dire che, finché filosofi, meccanici, chirurghi o manager si rivolgono a filosofi, meccanici, chirurghi o manager, il lessico speciale della loro professione o le formule, i fraseggi tipici già circolanti mell’ambiente, i moduli sintattici in uso nella loro comunità professionale vanno benissimo. Ma quando - come ricordava Fortini - il proverbiale filosofo o metricista o scienziato deve/vuole comunicare con il proverbiale uomo della strada (che speriamo apra anche POLISCRITTURE o visiterà il nostro sito) si pongono tanti altri problemi. Certo non si tratta solo di una questione di lessico o di stile discorsivo. Non puoi dare per scontato, ad esempio, che i lettori di POLISCRITTURE sappiano chi sia la Valduga o siano in partenza interessati alla questione di ridefinire «la problematica del posizionamento dell’interprete verso il testo». Devi dimostrargli che tale questione è importante anche per loro. Passando alle mie reazioni di lettore pur volente- 71 roso, tengo a sottolinearti solo due punti: 1) benissimo soffermarsi su un’indicazione di poetica della Valduga, ma quella poetica (parallelo tra corpo del testo e corpo del poeta, valenza apotropaica della scrittura, sensibilità fisica per il testo e la parola) tu la condividi, che opinione ne hai? Io lettore sarei curioso di saperlo, perché un testo critico non è la semplice parafrasi dei testi della poetessa esaminata; 2) ho seguito quasi con invidia la tua performance da metricista; ma la tua tesi («che cesure e rime siano il corrispettivo sintattico della porta che si interpone, marcando uno spazio sempre più ristretto che solo simmetricamente riversato nel buio dolore della mente può dilatarsi ed accogliere il tempo. In un certo senso cesure e rime disegnano spazialmente il luogo della clausura e del dibattimento del corpo e della mente dell’io monologante ») mi pare non si colleghi ad altri piani di discorso che permettano di capire quanto questi problemi siano centrali nella poesia della Valduga, e cosa pensare del significato di questa sua poesia oggi. Un caro saluto Ennio - Sergio Rotino: Lo spettacolo deve andare avanti. Intervista a Nicola Lagioia Ti abbiamo conosciuto nel 2001 con Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj, pura esplosione della forma romanzo. Nel 2004 esce Occidente per principianti, che mi piacerebbe definire “implosione” del romanzo, se non fosse per la sua compostezza nel dispiegarsi della storia. È bastato un lasso di tempo così breve per operare un salto che scollega il tuo esordio dall’essere il narratore di oggi? Ma guarda che in questi tre anni mi sono successe un mucchio di cose: ho fatto tre traslochi, letto qualche libro, scritto un romanzo che poi ho buttato, chiuso un paio di storie d’amore, ho iniziato a curare “nichel” per minimum fax e me ne sono andato (quando potevo, o quando venivo temporanemente scaraventato fuori dal grande ventre di Roma) un po’ alla deriva per le citta europee. Insomma, Occidente per principianti è venuto fuori da un’incubatrice che ha contenuto un po’ di tutto, un manicomio interessante al quale mi sono poi sforzato di dare una dignità letteraria. Per Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj volevi dire “esplosione” della forma-romanzo, vero? Sì, per me rappresenta la frantumazione della forma-romanzo, la sua estrema atomizzazione. Vedi, per come la vedo io, Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj era un romanzo imploso, quasi aforismatico, più vicino a un haiku che a un quarto di bue. Occidente per principianti è un quarto di bue a cui spero che gli strumenti dello stile non abbiano tolto un po’ di bella sanguinolenza. A parte questo, è possibile ascrivere un simile salto nella scrittura al tuo lavoro in casa editrice, quindi al tuo contatto con l’establishment culturale (autori, editori, critici)? Oppure è dettato da un ripensamento? Non il contatto con l’establishment culturale (frequento di solito personaggi abbastanza scassati che solo accidentalmente, e solo in certi casi, hanno la sventura supplementare di essere uno scrittore o un critico), e nemmeno il frutto di un serio e meditato ripensamento. Piuttosto una cosa spontanea nel suo sorgere, un movimento liberatorio che nasce dall’intestino e poi, quando la frittata è fatta, viene raccolto e messo in piedi con la tecnica narrativa, il mestiere e tutto quanto il resto. Era comunque una trasformazione annunciata. A Reggio Emilia, nel 2001, durante “Ricercare” avevi letto l’inizio di quel romanzo poi abbandonato, e già la tua scrittura si spostava su Poliscritture/Letture d’autore 72 altri fronti. La stessa cosa si percepiva dai racconti che hai pubblicato su giornali e antologie, dal “Corriere del Mezzogiorno” a Patrie impure a La qualità dell’aria, curata da te e da Christian Raimo. Eppure, in tutto questo non è ancora chiaro il perché di una simile conversione a “U” stilistica, a parte la naturale evoluzione di ogni scrittore ecc. Francamente non è chiara nemmeno a me. Ma all’epoca del mio primo romanzo non avevo probabilmente ancora gli strumenti per mettermi a scrivere una cosa come Occidente per principianti. Ed è importante che io non li abbia acquisiti del tutto neanche oggi. Il fatto è questo: ogni volta che provo a scrivere un romanzo, non devo sapere di essere in grado di portarlo a termine. Devo provare a spingermi per territori mai frequentati prima, con la possibilità del fallimento che mi alita sul collo promettendomi, a capitolo chiuso, che con il prossimo capitolo tutto crollerà, la lingua non terrà, la struttura salterà, tutto il romanzo se ne andrà a puttane. Ci deve stare questo continuo conto aperto, tra me e il Fallimento. Un’apertura di credito reciproca. Scrivere Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj parte II, insomma, mi avrebbe annoiato parecchio. Il 2001 è stato per te, in quanto persona e in quanto autore, un “anno mirabile”: ti ha portato all’abbandono del lavoro sommerso, alla pubblicazione del primo romanzo, alla cura di “nichel”, la collana di minimum fax rivolta agli autori italiani. Sei partito da questi elementi autobiografici per organizzare il materiale che sta alla base di Occidente per principianti? Guarda che nonostante il “Supercorallo” e la cura di una collana letteraria, la mia continua a essere la vita di un precario. È solo finito (grazie a Dio) il lavoro sommerso. Ma per il resto continuo a coltivare, di tanto in tanto, la nobile arte di farmi invitare a cena a spese altrui. Comunque, sì, una parte degli elementi utilizzati per Occidente per principianti è stato preso dalla mia esperienza di precario intellettuale e dalla frequentazione di precari che stavano peggio di me: registi itineranti senza soldi per comprarsi la pellicola, reduci di Castelporziano con le transaminasi alle stelle, grafici col vizio dello spaccio, intellettuali per scelta che però erano anche truffatori per necessità. Il libro è dedicato a loro. Quando hai iniziato a scrivere Occidente per principianti e quanto ci hai messo per completare la prima stesura? La leggibilità delle pagine – logico sia un fattore personale – farebbe Poliscritture/Letture d’autore pensare a qualcosa di vicino a un “buona la prima”. Ma non è così, vero? Diciamo “buona la centodiciottesima”. La cartella Occidente per principianti presente ancora sul desktop del mio pc contiene centodiciotto file, tra appunti, scritture, riscritture, capitoli tagliati, aborti di ogni genere. Tra l’altro il buon Fenoglio diceva: «la più limpida e semplice delle mie pagine è il frutto di penosi e lunghissimi tentativi di riscrittura». Ecco. Siamo quindi davanti a un romanzo dall’elaborazione, per così dire, lenta… Sono stati due anni di lavoro molto duro. Quattro o cinque ore al giorno, inchiodato alla sedia davanti al monitor, saltando pochissimi giorni, e rifugiandomi di tanto in tanto da amici che squattavano in posti molto strani di Siviglia e di Parigi. E dopo due anni lo hai consegnato a Einaudi? Paola Gallo, l’editor di Einaudi che ha lavorato con me, aveva letto le prime cento pagine del romanzo. Sulla base di quelle di mi hanno preparato un contratto. E abbiamo trovato una bella sintonia soprattutto quando da Torino mi hanno detto: “Questo ci sembra un romanzo importante. Non fissiamo una data di consegna. Prenditi tutto il tempo che ti serve. Sarà finito quando sarà finito”. Ma lo hai consegnato? Ti faccio questa domanda balzana, perché l’ottica dell’industria culturale non dà più la possibilità (pensa invece all’Arbasino di Fratelli d’Italia) di riscrivere un proprio testo, di apportarvi modifiche successive e aggiunte. In altre parole, di ripubblicarlo. Non lo so. Per adesso ho solo voglia di buttarmi su storie e avventure completamente diverse. Spero che l’ideale prosecuzione o l’aggiornamento di Occidente per principianti, se mai ci sarà, vedrà la luce fra molti anni e avrà un titolo diverso. Insomma, un romanzo nuovo. Fermandosi sulla prima soglia del romanzo, al titolo, vengono in mente i manuali della Apogeo, quelli “for dummies”: manuali di consultazione per principianti che vogliono apprendere i rudimenti di una data materia. È come se per te l’Occidente, soprattutto il nostro Occidente italiano, andasse spiegato per step successivi, perché troppo complesso, impossibile da gestire in un blocco unico… L’Occidente è un eye wide shut. Nel gioco di parole, “un occhio chiuso completamente spalancato”. Una dilatazione dello sguardo talmente abnorme e mostruosa da non permetterci di vedere 73 più un bel niente. Il nostro approccio al problema, non può non essere quello di una matricola. Nella prima parte del romanzo sembra di rileggere alcune pagine, per me attualissime, del Diario Notturno di Flaiano o della Vita agra e del Lavoro editoriale di Bianciardi. Ma come stile e come finalità mi sembra che questi due autori ti siano lontanissimi… La vita agra l’ho amata moltissimo. Luciano Bianciardi l’ho amato moltissimo. Se qualche cosa è passata, ne sono felice. In fondo, col suo romanzo più importante, Bianciardi faceva vedere il “dark side” della Dolce Vita, il risvolto della medaglia. Io ho cercato di fare la stessa cosa in un’epoca che non è più quella della via Veneto sfavillante e delle cantine dei teatri off, ma qualche cosa – nelle apparenze – di molto più mostruoso, più grottesco, più disperato. La diversità di stile, credo, nasce anche da questo. Proprio ne “Il contesto”, la prima parte di Occidente per principianti, si ritrovano molte delle indicazioni politiche, e anche sociali e antropoligiche, di questi due scrittori sulla e contro la fauna “artistica” che popolava Roma ai loro tempi e che ancora la popola… Sì, è vero. Come dicevo prima, Roma è un grande ventre pronto a inghiottire di tutto. Una città meravigliosamente appesantita dall’abbacchio, dal traffico e dal Bernini, il vero simbolo di questo luogo che nei secoli ha macinato e metabolizzato e confuso e conservato (!) di tutto: imperatori e flagellanti, sante e mignotte, miracolati e scalognati, yin e yang. È un maschile che non avrebbe scrupoli a giustiziare il proprio avversario se solo non fosse fiaccato da un femminile ninfomane. Ma la critica alla spettacolarizzazione della Storia e dell’informazione, che è alla base del tuo romanzo, l’hai tratta dalle tesi di Debord sulla società dello spettacolo, da un loro scavalcamento? Più che le tesi (confesso di non aver mai letto neanche una pagina della Società dello spettacolo) mi ha influenzato l’inveramento delle tesi stesse: il mondo che abitiamo. Nel libro di Alain Joxe, L’impero del caos, si citano le parole del generale Peters sulla Storia che non è più ricerca di informazioni, ma gestione dell’informazione. Il protagonista del tuo romanzo sembra ancora poggiarsi sulla ricerca, anche se involontariamente, mentre Michela Renzi della Lucilla, sua “datrice di lavoro”, è platealmente tutta spostata sulla gestione… Poliscritture/Letture d’autore Al protagonista rimane ancora qualche traccia di umanità, che prova a difendere attraverso una ricerca che, purtroppo per lui, non sfocia né su epifanie né su crescite interiori à la Renzo Tramaglino e nemmeno su vere occasioni di fuga. Ma è ancora vivo, e vivo resterà fino alla fine del libro. È già qualcosa, perché Michela Renzi della Lucilla invece, “tutta spostata sulla gestione” come dici tu, non è quasi più un essere umano: è una macchina celibe. Perciò il personaggio senza nome del giornalista ghost writer racchiude, ancora più di Zelda, l’aspetto romantico e “positivo” del romanzo, la possibilità di un riscatto e di un ravvedimento? Sì. La mancanza del nome del protagonista testimonia la sua attuale impotenza, ma apre anche spiragli per un riscatto futuro. Riscatto che esiste a livello potenziale (è nello spirito più intimo del protagonista, secondo me) ma nel romanzo non c’è. Esiste nelle pagine non scritte. Forse esiste nelle pagine di un romanzo futuro. Però nel “Contesto”, quando descrive la società culturale romana e quel che ne deriva, il ghost writer non sembra particolarmente arrabbiato, piuttosto ironicamente schifato. Ancora meglio: catatonicamente adagiato sull’orrore di quella società. Che poi è, compiacentemente, non solo la società della comunicazione, ma anche e soprattutto la società nel suo complesso. Non è una forte indicazione di complicità e di accettazione da parte sua? Passi l’eroe non proprio positivo, ma qui sembra una aperta dichiarazione di fiancheggiamento. Volevo un personaggio quasi completamente schiacciato dal mondo in cui aveva avuto la ventura di nascere e crescere: il mondo in cui esistiamo ci schiaccia e ci comprime con guanti di velluto che però sempre appartengono alle mani dei carcerieri. L’eroe del romanzo non è il protagonista, ma quella piccola sacca di umanità che nel protagonista riesce a salvarsi. Il mio giudizio su di lui è più che altro, come dicevo, un giudizio sospeso perché è la nostra generazione – a cui il ghost writer appartiene – a non essersi ancora riscattata. Voglio verificare, su di me e su chi mi circonda, se abbiamo veramente i numeri (e le occasioni) per farlo. Curioso il passaggio in cui descrivi la riunione di responsabili ufficio stampa, capaci di farsi venire degli scrupoli sulla veridicità di alcuni documenti. Curioso perché l’ufficio stampa di solito non ha queste remore. In Occidente per 74 principianti, invece, è la macchina informativa a non farsi scrupoli, a pompare con tutti i mezzi, a montare l’albume dello scoop. Hai scelto un ribaltamento come questo per spingere sul grottesco la critica all’informazione? Sì, credo ci sia molto di grottesco: una versione allucinata del futuro prossimo, forse. Gli uffici stampa di Occidente per principianti sono l’upgrading dell’ufficio stampa come lo conosciamo noi. Hanno capito, definitivamente, che si può veicolare qualunque cazzata, la verità, il suo contrario, quello che si vuole. L’importante è come lo si fa. L’importante è veicolare una notizia (qualunque essa sia), vederla gonfiarsi e poi esplodere nel firmamento mediatico. È un amore (perverso) che investe la dinamica più che la notizia in sé. Insomma, è un po’ la degenerazione estrema della vecchia faccenda del mezzo che è il messaggio. All’interno di Occidente per principianti, la Storia riprende a correre, e a ritorcere la spettacolarizzazione dell’informazione contro chi l’ha assunta come valore assoluto. Ecco allora scorrere i fatti dell’estate 2001 (che sembrano descrivere anche la parte per te patita come orribile di quell’anno): da Genova-G8 all’11/09 di NY DC. Sono però accadimenti marginali per i protagonisti, come se le loro percezioni del reale fossero oramai talmente distorte, con pochissime possibilità di recupero… Questa cosa degli eventi storici importanti (il G8, le Torri Gemelle) sepolti in un mare di frivolezza nasce però anche da un’esigenza poetica. La frivolezza sull’orlo del collasso, insomma, mi ha sempre affascinato (le serate danzanti sul Titanic; i pigionanti della Montagna incantata che continuano a mangiare torte Sacher a quattromila metri di altitudine mentre ai loro piedi si sta per scatenare la Prima Guerra Mondiale; Liza Minelli che balla nei locali di Cabaret mentre il nazismo si sta per impadronire di mezza Europa). Vanno letti in questa direzione i riferimenti diretti e indiretti (comprese le citazioni da Noi non ci saremo e da Cronache marziane), ma sempre pessimistici, alla bomba sganciata su Hiroshima? Hiroshima è la maledizione che il mondo libero si è portato dietro per cinquant’anni di relativa pace e resta il mito fondante della nostra epoca. I miti fondanti sono quasi sempre eventi traumatici, cataclismi che arrivano a stabilire un ordine o a creare una civiltà. Spesso sono anche azioni infami, vergognose (come nel caso di Hiroshima) che però proprio per questo vengono a dirci che il nuovo Poliscritture/Letture d’autore ordine non sarà retto da creature angeliche ma da uomini, esseri fallaci, armati contemporaneamente di infamia e di begli ideali. I paesi anglosassoni hanno come mito fondante l’assassinio/tradimento del re, l’uccisione del Padre (pensa a Shakespeare). Il nostro mito fondante (e questo viene a dirci molto sul carattere degli italiani) è imperniato invece sulla lotta fratricida tra Romolo e Remo. L’Occidente novecentesco si fonda sul cataclisma atomico, una situazione in cui i “buoni” sono costretti a macchiarsi di un crimine orrendo. Questo perché, evidentemente, anche i “buoni” covano in sé un qualche tipo di male, di malattia. Pensa alle ultime, splendide pagine della Coscienza di Zeno. Questa risorgenza della Storia non più come branca dello showbiz, ma come vero collante di quanto avviene nelle nostre vite, è la tua controtesi? È questo identificarla come possibile àncora di salvezza la chiave di volta di tutto il romanzo? Sì, credo di sì. La Storia, per quanto traumatica, ci rimette di fronte a noi stessi, alle nostre debolezze, alle nostre responsabilità. I personaggi che hai tratteggiato in Occidente per principianti sembrano le versioni inconcludenti (viste oggi) di quelle già proposte da Bianciardi, e scusa se ricito questo autore. Lo spaccato che dai della precariarizzazione a vita di una fascia di popolazione “intellettuale” (ma è giusta questa definizione? non ti sembra troppo restrittiva?) che si posiziona anagraficamente fra i trenta e i quarant’anni è più o meno la stessa. Quindi i personaggi, se trasportati nella realtà, sono anche figure sclerotizzate all’interno di una macchina perfettamente collaudata, e che gattopardescamente cambia per non cambiare mai? Voglio dire, di questo stato nessuno ha colpe: i figli ripercorrono le orme dei padri, e così i figli dei figli… Una cancrena inarrestabile… Purtroppo c’è una differenza, e non va a lustro dei miei personaggi. Il protagonista della Vitta agra va a Milano perlomeno con l’idea di fare la rivoluzione anche se poi rimane invischiato – e poi sconfitto – dalla macchina del “lavoro culturale” e del conformismo, dai rigurgiti del boom economico insomma. I protagonisti di Occidente per principianti nascono già in un mondo apparentemente immodificabile. Ma, dal punto di vista squisitamente letterario, la catena inarrestabile di cui tu parli scorre in parallelo con l’esigenza dei romanzi scritti negli ultimi due secoli che più ho amato. Questi romanzi si domandano: come reagisce l’uomo calato in un determinato contesto storico e 75 sociale? Come difende la propria umanità e la propria dignità? Che chances ha un curato dal cuore pavido nella Milano del XVII secolo? E la moglie velleitaria di un medico nella provincia francese dell’Ottocento? Abbiamo la rara capacità, decennio dopo decennio, di costruirci intorno un modo che di per sé è repressivo e castrante. Questa cosa (questa catena inarrestabile) deve essere indagata dalla letteratura. Il vero epicentro di una simile situazione, a mio parere resta però il dottor Bardamu. Il protagonista del Viaggio al termine della notte, sballottato da una parte all’altra del mondo senza capire perché, da una guerra a una catena di montaggio ai sobborghi di Parigi, preso in qualche cosa di mostruoso molto più grande di lui. Passando alla struttura, Occidente per principianti sembra ripercorrere la Leggenda del Graal: una preparazione al mistero e poi una cerca “epica” del sangue di Cristo, rivisitate in chiave contemporanea. Ovvero mettendo una delle icone moderne per eccellenza, Rodolfo Valentino, al posto dell’icona religiosa, e la sua presunta prima amante al posto della coppa contenente il sangue di Cristo… Sì, una versione un po’ eretica della Leggenda del Graal, se si vuole, ma probabilmente adatta ai nostri tempi. Siamo passati negli ultimi secoli attraverso varie forme di trascendenza: l’ordo ad unum medioevale, la gnosi, lo spirito mercantile settecentesco, le ideologie del XX secolo. Adesso sembra arrivato il turno della “Teocrazia audiovisiva”. La seconda parte del romanzo, “Il viaggio”, più che ai vari “viaggi in Italia”, sembra il necessario sviluppo della tesi proposta nel “Contesto”: non è più solo Roma a essere allo sfascio morale e culturale, ma tutto il Paese. E chi vi abita non se ne accorge, oppure ne va fiero… Torniamo alla faccenda dell’eye wide shut. Se sei al centro del ciclone è difficile riuscire a capire anche di che sostanza sei fatto. Andiamo marzullescamente sul personale. Perché da Bari, dopo vari giri per il Nord dell’Italia, decidere di stabilirsi a Roma? Cosa ti ha fatto propendere per la capitale (immorale) d’Italia e cosa ti ha portato a lavorare come ghost writer, a parte il semplice guadagnarsi la quotidiana sussistenza? In altre parole, scrivevi prima di laurearti in giurisprudenza, quindi hai soltanto scelto di appendere la laurea al chiodo e una città valeva un’altra? Poliscritture/Letture d’autore Boh, questioni di semplice sussistenza per quanto riguarda il ghost writing. E sempre questioni di lavoro per ciò che riguarda Roma: a una fiera del libro di Torino di otto anni fa, incontrai l’editore Castelvecchi che mi disse: “abbiamo bisogno di un redattore. Perché non ti trasferisci a Roma?” Fatto. Entrato nel gran bordello. Ma un bordello offre parecchi spunti e suggestioni, no? Ho iniziato a scrivere mentre facevo l’università, e non ho mai pensato di intraprendere la carriera forense. Anche se studiare le materie giuridiche mi piaceva molto. Tutte quelle ore passate sui manuali. Un po’ mi mancano. Era quasi una condizione monastica. Marzullo bis. Vedendo la linea editoriale di minimum fax e della collana che dirigi, non si capisce perché Occidente per principianti sia stato pubblicato altrove. È un fatto di correttezza morale? Di “non si può fare, perché scorretto”? No, no, nessuna correttezza morale. In queste cose la concepisco poco, la correttezza morale. Tanto è vero che il prossimo romanzo uscirà per minimum fax, e il prossimo ancora magari per Einaudi, chi lo sa? All’Einaudi ho trovato una editor meravigliosa (Paola Gallo, appunto) che credeva moltissimo in questo progetto, e con minimum fax la storia d’amore continua. Il fatto è che, da scrittore, mi sento libero di fare un po’ come mi pare, tenendo conto delle proposte che volta per volta mi vengono fatte. Sono tutti fidanzamenti, però. Sono tresche. Amour fou. Nessun matrimonio. In un matrimonio di questo tipo, l’editore dovrebbe fare la parte del maschio (offrirti una vera sistemazione) e lo scrittore portare in dote le sue opere d’ingegno. Vedi, quello tra D’Arrigo e la Mondadori fu un matrimonio serio (ti passiamo un mensile finché morte non ci separi, e tu nel frattempo scrivi quello che ti pare). A me, una proposta del genere non me l’ha fatta mai nessuno né probabilmente accadrà mai. Quindi, da questo punto di vista resto una simpatica cocotte perennemente sulla piazza, molto tollerante nei confronti di chi saltuariamente mi mantiere a patto però che la tolleranza sia reciproca. Speriamo solo di non trasformarci in vecchie zitelle acide. 76 7 Sulla giostra delle riviste DeriveApprodi n. 23 giugno 2003 a cura di Spartacus Fino agli anni Settanta del Novecento ci sono state grandi lotte di liberazione dei popoli del cosiddetto Terzo Mondo. Esse hanno mutato la situazione che, alla conclusione della Prima guerra mondiale, vedeva Europa e Stati Uniti possessori dell’85 per cento del mondo intero sotto forma di colonie, dipendenze, mandati e domini diretti. Questa verità storica è oggi appannata a causa dei risultati ambigui e spesso deludenti della decolonizzazione e dell’attuale impetuosa mondializzazione del Capitale, che ha reso obsoleto il termine stesso di Terzo Mondo. Se, sostengono dunque alcuni, ogni indipendenza dei paesi del Terzo Mondo si è sciolta come neve al sole, persiste il «sottosviluppo» e la matrice coloniale è ben visibile in tanti conflitti odierni (da quello israelo-palestinese alle cosiddette guerre «etniche» in Ruanda, Timor Est, Sri Lanka, Sierra Leone), non è opportuno parlare di un «neocolonialismo», incardinato oggi sulla politica degli Stati Uniti e in continuità col vecchio modello imperialistico? Non la pensa così un filone di ricerche, in espansione soprattutto nel mondo culturale anglosassone, che va sotto il nome di «studi postcoloniali» o Subaltern Studies. Alla lettura «neocolonialista» del presente, cui abbiamo appena accennato, viene contrapposta una lettura che usa i concetti di «postcolonialismo» o di «condizione postcoloniale», indicanti alla lettera l’epoca che viene «dopo» il colonialismo (in analogia con altre denominazioni “post”: «postmodernismo, «postfordismo», «postcomunismo», ecc.). Gli studiosi «postocoloniali» affermano che il tempo e la realtà geopolitica d’oggi rappresentano una cesura epocale rispetto a quattro secoli di colonialismo. Tuttavia la loro schiera è variegata: in essa troviamo sia i sostenitori di un presente «postcoloniale» inteso come «fine della storia» (Fukujama) e dell’attuale mondializzazione come processo che supera ogni triste eredità del colonialismo sia quanti ritengono invece che, sotto la sua superficie omogeneizzante (o «americanizzazione» o «occidentalizzazione»), la mondializzazione lasci affiorare in forme carsiche (ad es. attraverso le migrazioni o in molte cosiddette guerre «etniche») la spinta all’eguaglianza delle antiche lotte anticoloniali. Per i primi, cioè, la discontinuità tra colonialismo e «postcolonialismo» è assoluta: i discendenti dei colonizzati vivono ormai dappertutto in una sorta di «ibridità» o «meticciato» con gli ex colonizzatori, senza differenze di potere o di cultura. I secondi, invece, Poliscritture/Sulla giostra delle riviste ricordano sia l’ambiguità della decolonizzazione sia le diseguaglianze e i plateali squilibri, che la mondializzazione va distribuendo ovunque: nelle grandi «città globali» come nei villaggi agricoli, in un mondo ormai irrimediabilmente uno e non più a scomparti netti (Nord e Sud del Mondo, metropoli e periferie), com’era ai tempi del «terzomondismo» e della Conferenza di Bandung (1957). Diverse e spesso contrapposte, dunque, sono le risposte che vengono date alle questioni tipiche degli studi postcoloniali e che potremmo così riassumere: i mutamenti culturali nati dall’incontro fra colonialisti europei o occidentali e popoli colonizzati sono stati di dominio, strumentali o di emancipazione? la storia dei colonizzati ha il giusto rilievo nella storiografia moderna di origine europea? il colonialismo ha liberato le donne di colore contrastando i poteri patriarcali incontrati sul suo cammino? «ibridità» o «meticciato» - termini oggi di moda - hanno un significato univoco e positivo o velano nuovi e vecchi antagonismi? Se volessimo indicare poi dei nomi (molti non sempre noti in Italia e che spesso si fa ancora fatica a pronunciare) dei protagonisti di questo filone di ricerca, potremmo fare quelli di romanzieri, come Salman Rushdie, Garcia Marquez, George Lamming, Sergio Ramirez, Ngugi Wa Thiongo, di poeti come Faiz Ahmad Faiz, Mahmud Darwish, Aimé Césaire, di teorici e filosofi della politica come Fanon, Cabral, Syed Hussein Alatas, C.L.R. James, Ali Shariati, Eqbal Ahmad, Abdullah Laroui, Omar Cabezas; e un gran numero di altre figure. Tra i più noti a livello internazionale abbiamo Edward Said, di recente scomparso. Palestinese di origini, in una sua importante opera, Orientalismo, pubblicata nel 1978, Said ha documentato come la conoscenza coloniale dell’Oriente (il Medio oriente attuale), alimentata da varie discipline (filologia, storia, antropologia, filosofia, archeologia e letteratura) e circolata in Europa per secoli, non sia stata neutra o oggettiva come pretendeva, ma un’ideologia che ha fatto da supporto ideale alla violenza materiale del colonialismo moderno. Ma vanno ricordati anche gli studi di Valentine Mudimbe sull’impronta lasciata dal colonialismo nei concetti di «Oriente» e «Africa»; di Jean Loup Amselle e Elikia M’Bokolo, che sempre all’esperienza colonialista e non alla naturalità, come di solito si crede, fanno risalire la categoria di «etnia»; di Arjun Appadurai, che ha studiato il legame tra procedure di classificazione e dispositivi di sfruttamento risalenti al partage coloniale [spartizione territoriale] e la loro influenza sul calendario e l’organizzazione sociale del tempo; e delle femministe Chandra Talpade Mohanti, Ania Loomba e altre che analizzano le interazioni tra differenze «razziali», culturali e di genere. Si tratta di ricerche eterogenee: «un attraversamento dei confini, una sorta di contrabbando incontrollato di idee» tra le specializzazioni accademiche, l’ha definite lo stesso Said. Nate dalla confluenza di 77 correnti di pensiero fino ad anni recenti separate o in contrasto tra loro (marxismo, femminismo, decostruzionismo filosofico, antropologia culturale), spaziano dalla letteratura alla storia, alla psicanalisi, all’economia. Ad esse collaborano reti di studiosi europei e occidentali, ma anche asiatici, caraibici, latino americani o africani. Tutti influenzati in vari modi da Marx, da Gramsci, dallo strutturalismo e dal poststrutturalismo dei francesi Derrida, Foucault, Barthes, Althusser; ma anche da Martin Bernal, autore di Atena nera, un libro importante del 1991 sulla centralità della storia dell’Egitto nero per la civiltà della Grecia antica, che gli studi accademici nell’Ottocento avevano cancellato per dare all’Europa un’eredità bianca ellenistica e – per il progetto dei Subaltern Studies - dagli storici britannici come E. P. Thompson e E. Hobsbawm. Sulla scia di questi autori, gli studiosi postcoloniali hanno criticato gli aspetti eurocentrici dell’Illuminismo; e insistito sul fatto che il soggetto conoscente dei popoli “altri” è stato colonialista, bianco e maschio, ha incorporato idee indigene per rafforzare il proprio dominio (gli ingegneri britannici in India poterono realizzare ponti e dighe consultando gli esperti locali), elaborato immagini di africani, turchi, musulmani o «abitanti dell’India» in modo da rafforzare il cliché di un’Europa e di un Occidente differenti e più civili del “resto del mondo”. Hanno anche documentato che, intrecciando fatti e finzioni, la vasta letteratura di viaggio prodotta dagli scrittori “imperiali” e la stessa scienza moderna hanno edificato una visione razzista dell’umanità di stampo eurocentrico fin dal Settecento; e che la stessa teoria dell’evoluzione di Darwin ha fatto da base a varie ideologie di supremazia razziale dalla fine dell’Ottocento ad oggi. Questa indispensabile e ampia premessa sul «postcolonialismo» dovrebbe invogliare alla lettura del n. 23 della rivista DeriveApprodi, uscito nell’ormai lontano giugno 2003. Il numero contiene articoli d’inchiesta a carattere regionale e di taglio militante (dalla Kabylia alla Nigeria, al Sudafrica post-apartheid, all’Argentina delle «fabbriche sociali», ecc.) proprio sugli attuali «movimenti postocolinali». Ma per un preliminare inquadramento teorico dell’argomento appaiono utili soprattutto sette saggi e un’intervista. Li elenco indicando la pagina: Sandro Mezzadra, Federico Rahola, La condizione postcoloniale, p. 7; Nirman Puwar, Parole situate e politica globale, p.13 ; François Cusset, Il dominio è di ogni colore, intervista a Gayatry Chakravorty Spivak, p. 20; 25, Dipesh Chakrabarty, Dopo i Subaltern Studies: globalizzazione, democrazia e futuri anteriori, p. 25; Marcello Tarì, Gli Studi Subalterni (e postcoloniali) ci riguardano?, p. 32; 37, Robert J.C. Young, Germinazioni postcoloniali: da Bandung a L’Avana, p. 37; Yann Moulier Boutang, Ragione meticcia, p. 50; Miguel Mellino, L’ora delle diaspore. Genealogia di un soggetto postcoloniale, p. 54. Due unici appunti critici: 1) la rivista per ciascuno degli autori si limita a indicare solo l’università in cui opera e una lista non ragionata di riferimenti bibliografici, senza andare incontro alle difficoltà o alla curiosità di lettori non specialisti, che per un tema in Poliscritture/Sulla giostra delle riviste Italia trascurato avrebbero bisogno di un apparato di note necessariamente puntiglioso e non essere immessi quasi di botto nel dibattito dei piani alti della cultura transnazionale; 2) la grafica, che privilegia la fotografia, risulta alquanto disordinata, priva di didascalie e sembra riempire dei vuoti o in alcuni casi poco coerente con il contenuto dei testi. Il mio “giro di giostra” è stato necessariamente selettivo e, nel renderne qui conto, mi soffermo su due questioni: 1) la ricerca storica dei Subaltern Studies e 2) la problematica legata al concetto di differenza, in particolare quella di genere, per concludere con 3) un sunto critico del saggio introduttivo di Mezzadra e Rahola: 1) I Subaltern Studies prendono di petto il carattere astrattamente universale della storiografia moderna, europea e occidentale. Questi ricercatori, rileggendo al di fuori dell’ideologia del «terzomondismo» degli anni ’50-’60 i classici dell’anticolonialismo (Fanon, Césaire, Senghor, ecc.), vogliono riportare in superficie la «molteplicità di storie» che il colonialismo ha travolto o disposto in una successione per «stadi» (popoli primitivi-popoli civilizzati; paesi sottosviluppati-paesi sviluppati) allo scopo di ricondurle a un’unica Storia, quella regolata dall’idea astratta di Progresso. Fondatore dei Subaltern Studies è stato Ranajit Guha, storico ed economista indiano. Egli ha analizzato le insurrezioni e le forme di resistenza delle masse contadine e dei poveri nell’India coloniale dal Settecento al Novecento. E ha contrapposto le altre storie dei gruppi ritenuti marginali (donne, minoranze, rifugiati, esiliati, ecc.) non solo a quella scritta dal punto di vista dei colonizzatori inglesi, ma anche a quella dell’élite indiana che ad essi si contrappose (Gandhi, Nehru, Jinnah). Mosso da grande passione politica e convinto – come scrive Said - che «riscrivere la storia indiana oggi sia una prosecuzione con altri mezzi della lotta tra le masse indiane e il Raj [sovrano, sovranità, dominio coloniale] britannico», per riportare alla luce tali storie alternative, ignorate o soppresse dalla storiografia ufficiale, Guha è ricorso a fonti diverse, come la raccolta di memorie popolari (storia orale), o ha reinterpretato i documenti dell’amministrazione coloniale, le testimonianze pubbliche e private, le lettere, i documenti commerciali. È sorprendente, come fa presente Marcello Tarì nel suo articolo, l’inconsapevole parentela tra questo metodo d’indagine storica e le ricerche sviluppatesi dopo il 1945, soprattutto nel Meridione d’Italia e a partire dai lavori di Ernesto De Martino e poi di Cirese, Di Nola e Bosio. Né si deve trascurare che lo stesso termine ‘subalterni’ emblema di questi studi, oggi quasi scomparso dal nostro lessico politico, sia stato ripreso da Gramsci, che l’aveva coniato al posto di ‘proletario’ per sfuggire alla censura dei suoi carcerieri fascisti. Ed è anche da notare che il termine era un ampliamento del più ristretto concetto marxiano di ‘classe’, di solito riferito esclusivamente alla classe operaia industriale e quindi metropolitana, cioè dei paesi colonizzatori e che era implicitamente opposto al termine ‘dominante’ (o 78 ‘élite’), riferibile ai gruppi di potere in genere (nazionali o internazionali o oggi transnazionali). Ranajit Guha, da parte sua, l’ha ridefinito e attualizzato, intendendo per ‘subalterno’ un gruppo che si trova escluso dai diversi flussi di mobilità sociale e che per questo non risponde più di niente. Un altro studioso importante è Dipesh Chakrabarty, che nel suo Provincializing Europe (La provincializzazione dell’Europa), ha criticato lo «storicismo» di origine europea e la sua pretesa di ordinare cronologicamente per stadi il tempo storico. Per lui l’esperienza del capitalismo europeo e occidentale non è riuscita a diventare sistema-mondo (Wallerstein) e non ha cancellato le «forme difformi» del lavoro riducendole tutte al lavoro salariato. (Su tale questione - tra l’altro - fondamentale è la ricerca di Yann Moulier Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato, pubblicato da manifestolibri nel 2002). Chakrabarty sostiene che, proprio nel momento in cui Europa e Occidente continuano a pensarsi come «centro» del mondo e pare realizzarsi la sua «occidentalizzazione», il loro destinao sarà quello di diventare definitivamente una «provincia». La crisi del loro dubbio e ambiguo universalismo è di fatto riscontrabile nel fatto che i loro confini diventino sempre più «porosi» e non fermano più i codici «coloniali» che filtrano all’interno dei loro territori una volta «metropolitani». Sono dunque proprio i tempi storici, che il moderno capitalismo ha incontrato sulla sua strada e ha creduto di poter relegare al passato, a riemergere oggi disordinatamente in una specie di «esposizione universale», ibridandosi e coesistendo. E al posto del mitico Progresso, fondato su presunte leggi storiche necessarie, Chakrabarty vede la possibilità di costruire un nuovo linguaggio dell’universale, ibrido e meticcio stavolta, e sgravato dalle ipoteche del dominio coloniale o postcoloniale solo in una prassi di uomini e donne che abitano il pianeta con la loro irriducibile molteplicità. 2) Il secondo fondamentale filone degli «studi postocoloniali» utilizza il concetto di differenza (materiale, politica, culturale) per sottolineare tutte quelle differenze occultate, appannate o deviate, forse in modi irrecuperabili, dal colonialismo. Richiamandosi al metodo «genealogico» di Foucault in rotta col progressismo storicista, gli studi postcoloniali ritengono la modernità impensabile «senza riferirsi alla violenza costitutiva, originaria delle colonie». Era una tesi sostenuta negli anni Sessanta da Fanon e Malcom X, che oggi viene ripresa accentuando l’immediato carattere politico che le differenze assumono sulla scena globale contemporanea e mettendo in discussione «ogni logica binaria e ogni discorso potenzialmente assoluto o assolutizzante». Su questa base si muovono le studiose femministe postcoloniali come Spivak, Chandra Talpade Mohanti, Ania Loomba e altre. Esse hanno messo in luce come il colonialismo, ora in competizione ora in complicità con il patriarcato presente nei paesi conquistati, ha occultato le differenze di genere, di cui riaffermano con forza il valore, arrivando a criticare persino alcuni Poliscritture/Sulla giostra delle riviste canoni del femminismo occidentale, accusato di presentare la «donna del Terzo mondo» o in modi mitici o secondo il paradigma statico della donna vittima. In particolare Gayatri Chakravorty Spivak, indiana di nascita ma trasferitasi negli Usa, analizzando la figura della vedova indiana che s’immolava sulla pira del marito morto nel rito del sati [*], mostra come il colonialismo, che ha prima stigmatizzato culturalmente quella pratica e poi l’ha abolita per legge, ha solo ottenuto che uomini bianchi si potessero presentare come salvatori di «donne scure da uomini scuri». E afferma che la «donna di colore» è stata oppressa sia dal colonialismo che dall’anticolonialismo entrambi patriarcali. A riprova del fervido dibattito presente all’interno stesso degli studiosi postcoloniali possiamo considerare un saggio della stessa Spivak, Can the Subaltern speak? [Può il subalterno parlare?] del 1985. Esso sottolinea alcuni limiti delle ricerche di Said e Guha. Per Spivak, infatti, è vano interrogare i testi scritti di narratori “imperiali” (come, ad esempio, Conrad) o i documenti delle amministrazioni coloniali per trovarvi indizi della resistenza dei subalterni. Per lei non è più possibile ascoltare la voce dei subalterni, irrimediabilmente alterata o occultata dal dominio coloniale. E, pur non svalutando l’impegno politico di quanti rendono visibile la posizione dei marginalizzati, la studiosa si mostra ostile a quanti tendono a «romanticizzare le culture indigene» e critica la nostalgia delle origini perdute, che alimenta tanti risorgenti nazionalismi. Per Spivak sono le donne proletarizzate del Sud del mondo la figura emblematica del «nuovo sulbaterno» nel mondo globalizzato. Per lei e le altre femministe, dunque, nel «postcolonialismo» le differenze razziali, culturali e di genere producono «forme nuove e incomparabili di segregazione e assoggettamento» rispetto ai paesi occidentali, ma anche inedite «pratiche di differenza e di resistenza al patriarcato, al razzismo e allo sfruttamento». Da questa prospettiva, esse criticano duramente anche le forme odierne di «imperialismo benevolo», come quello delle occidentali che cercano di attenuare le sofferenze dei bambini e delle donne povere o di raccogliere storie di sofferenze dei bambini, dei sex workers [lavoratori del sesso a disposizione dei turisti] o delle donne che lavorano nelle zone di libero scambio. E citano come esempio di eurocentrismo duro a morire l’episodio di quel gruppo di ministre del governo laburista inglese che, dopo la guerra in Afghanistan seguita all’attentato alla Torri gemelle, hanno sollevato la questione del burkha [velo delle donne afghane], in nome della «solidarietà con le loro sorelle afgane», ma senza mai aver consultato le donne musulmane. 3) Per ultimo, il saggio introduttivo di Mezzadra e Rahola offre utili chiavi interpretative per districarsi nel calderone confuso degli «studi postcoloniali». Essi definiscono il nostro come «tempo postcoloniale», caratterizzato soprattutto dalla trasformazione del rapporto una volta univoco tra metropoli e colonie. E danno merito ai classici 79 dell’anticolonialismo di aver evidenziato la cesura irreversibile che le lotte anticoloniali, con la loro dimensione immediatamente globale e nonostante lo scacco subito da tutti i regimi politici a cui hanno dato vita, hanno portato nella storia contemporanea, mettendo in crisi per sempre l’idea che il tempo e lo spazio delle colonie fossero altri da quelli della metropoli. Mezzadra e Rahola valorizzano l’intuizione di Aimé Césaire, che nel 1955 «invitava a cogliere nel fascismo una forma di colonialismo abbattutati sull’Europa nel momento in cui sembravano esauriti i territori oltremare da conquistare». I due studiosi portano anche altri esempi che dimostrano la compenetrazione crescente fra periferie coloniali e metropoli: le origini bengalesi delle impronte digitali studiate da Carlo Ginzburg in un suo saggio del 1979; la mitragliatrice, usata la prima volta nella guerra civile americana, bandita poi dalle guerre che si svolsero in Occidente e che ebbe un ruolo decisivo nella conquista dell’Africa, nelle ultime campagne contro gli indiani d’America o contro gli scioperi operai di fine Ottocento, prima di essere utilizzata nei campi di battaglia della Grande guerra. E lo stesso, aggiungono, «vale per un altro dispositivo di dominio tipicamente coloniale, il campo di concentramento». Le simpatie di Mezzadra e Rahola vanno a Lumumba, alla tradizione del black marxism e a quel Fanon, che nel 1961 nei Dannati della terra parlava della «scoperta dell’uguaglianza» come di un motore dell’insurrezione anticoloniale che poteva scardinare il «mondo a scomparti» tipico dell’epoca del colonialismo e che considerava l’Europa «letteralmente una creazione del Terzo Mondo», nel senso che la ricchezza materiale e la forza lavoro delle colonie, «il sudore e i cadaveri dei neri, degli arabi, degli indiani e delle razze gialle» avevano sostenuto per secoli la sua «opulenza». Essi contestano perciò la tesi «neocolonialista» a cui abbiamo sopra fatto cenno. A loro avviso essa riaffermerebbe la «soggettività imperiale» come unica e assoluta protagonista della storia del Novecento e ridurre le fondamentali lotte anticoloniali a qualcosa di inconsistente che non ha scalfito la «trama lineare di una storia di dominio e di sfruttamento ininterrotti», come se i «subalterni» siano inevitabilmente un soggetto fuori della storia e - come pensavano i teorici della Socialdemocrazia tedesca di fine Ottocento - ogni atto rivoluzionario non possa che nascere dall’Occidente. Restando nella dimensione del «neocolonialismo» e dei suoi concetti di «sviluppo», «sottosviluppo», «dipendenza», si rischia per loro di accettare le devastanti politiche «neoliberiste», come fanno certi governi, compreso quello del Sudafrica post-apartheid, che puntano sulla ineluttabilità e positività dello «sviluppo», o di ritenere «reazionarie» le nuove lotte politiche, come quelle narrate ad esempio da Aswin Desai in We are poors. Il discorso sul «postcolonialismo» si distanzia perciò da quella che essi definiscono «la lamentosa retorica della occidentalizzazione o della cocacolonizzazione» ed è da essi inteso come un «sintomo che insiste» nel presente (Santner), impedendo di ricu- Poliscritture/Sulla giostra delle riviste cire la discontinuità introdotta dalle lotte anticoloniali nella storia del Novecento. Mezzadra e Rahola si soffermano anche sulle critiche che hanno suscitato gli studi postcoloniali e danno particolare rilievo a quelle di Zizek, Fardt e Negri, i quali hanno parlato appunto di romanticismo nell’insistenza dei Subaltern Studies su storie multiple e frammentate e del rischio che la comprensione della mondializzazione come fatto unitario e con una sua strategia globale verrebbe indiebolita Tuttavia per i due autori «l’insistenza postcoloniale su categorie come meticciato, sincretismo e ibridità costituisce una salutare boccata d’aria fresca» e si può concordare con loro che le critiche mosse ai postcolonialisti anche quando non immotivate, spesso ripropongono in modi mascherati i vecchi pregiudizi eurocentrici che questi studiosi hanno giustamente contestato. In conclusione, tranne per i due limiti sopra indicati, il lavoro di questo numero di DeriveApprodi è pionieristico e degno di grande attenzione. *sati È l’usanza indiana del sacrificio rituale delle vedove. Esse venivano arse o si facevano ardere vive sulla pira funebre del marito alla morte di lui. Il termine indica sia l’uso indiano del sacrificio delle vedove sia il loro corpo sulla pira Redazione: Ennio Abate, Luca Ferrieri, Ornella Garbin, Donato Salzarulo, Antonio Tagliaferri, Pier Paride Vidari ,i Hanno collaborato al numero prova: Andrea Boeri, Luciano De Feo, Mariella De Santis, Marco Gaetani, Marcello Guerra, Loredana Magazzini, Marina Massenz, Mario Mastrangelo, Fabrizio Podda, Daniele Santoro, Sergio Rotino, Giulio Stocchi, Franco Tagliafierro Impaginazione grafica: Ornella Garbin, Luca Ferrieri 80