ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI. MODIGLIANA
CAFFÈ MICHELANGIOLO
R I V I S T A D I D I S C U S S I O N E
fondatore e direttore Mario Graziano Parri
Pagliai Polistampa
In copertina: Rolando Monti, Ezra Pound, 1932 ca.,
olio su tela, cm. 100 x 73, per g.c. di Mary de Rachelwitz.
Quadrimestrale - Anno X - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005
Nella testata: Interno del Caffè Michelangiolo nell’acquerello eseguito da Adriano Cecioni verso il 1865.
Direttore responsabile
Mario Graziano Parri
Direttore editoriale
Natale Graziani
In redazione
Elena Frontaloni, Enrico Gatta, Antonio Imbò
Amici del Caffè
Luciano Alberti, Giorgio Bárberi Squarotti,
Anna Maria Bartolini, Marino Biondi, Ennio Cavalli,
Zeffiro Ciuffoletti, Franco Contorbia, Simona Costa,
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Mario Domenichelli, Angelo Fabrizi, Giulio Ferroni,
Franco Ferrucci, Alessandro Fo, Michele Framonti,
Enrico Ghidetti, Emma Giammattei, Gianni Guastella,
Giorgio Luti, Gloria Manghetti, Giancallisto Mazzolini,
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Pier Francesco Venier, Daniel Vogelmann, Giorgio Weber
Redazione
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Editore e stampatore
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Edizioni Polistampa di Mauro Pagliai
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Alla rivista si collabora su invito. Per inderogabili esigenze editoriali, i contributi, redatti in conformità con le “Norme di editing”
richiamate nella rivista, devono essere registrati in formato RTF
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35
Registrato al Tribunale di Firenze n. 4612
del 9 agosto 1996.
ABBONAMENTI, ORDINI, INFORMAZIONI
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3 numeri annuali: Italia e Unione Europea € 22,00
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Una copia: € 8,00
Numero arretrato: € 10,00
Il presente fascicolo è stato chiuso in tipografia
il 15 Febbraio 2006 con una tiratura di 2.500 copie.
Pubblicazione associata
all’Unione Stampa Periodica Italiana
Caffè Michelangiolo
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LA TERZA PAGINA
La lentezza dell’astronauta
di Mario Graziano Parri
LE BUONE ARTI
Un poeta di regime?
di Danilo Breschi
LA POESIA
Teologia familiare
poesie di Fornaretto Vieri
presentate da Alessandro Fo
LA NARRATIVA
Compleanno in famiglia
racconto di Mario Graziano Parri
Un anello per Katherine
dal romanzo di Linda Lappin
traduzione di Sandro Melani
Di là dalla frontiera
racconto di Antonio Imbò
CRITICA E LETTERATURA
Caro Maestro ti scrivo
di Simona Costa
I CAFFÈ LETTERARI
Il Caffè Michelangiolo a Firenze
di Gérard-Georges Lemaire
LETTERATURA E CINEMA
Un Pasolini (in)edito
di Elena Frontaloni
La femminilità del dolore
di Costanza Melani
LA VETRINA
Il sogno, la vita
di Michele Miniello
LA BIBLIOTECA DEL VIAGGIATORE
Un borghese in fuga
di Loriano Gonfiantini
LA BELLA ITALIA
Vis-à-vis con Raffaello Ojetti
di Eugenia Querci
LE ARTI, GLI EVENTI
Il mito del viandante
di Piero Pacini
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Le figure dell’amore
di Anna Maria Piccinini
Sei domande a Giancarlo Ossola
conversazione di Alberto Pellegatta
De Pisis a Brescia
Ottocento italiano a Rieti
Le grands débris a Torino
Leonardo agli Uffizi
L’IDEA E LA FORMA
Lo scomodo innovatore
di Elio Garzillo
SCIENZA E FIGURAZIONE
Fra Siena e Roma
di Giorgio Weber
BLOC-NOTES
di Bartleby
LE LETTURE
L’insostenibile leggerezza della modernità, di Costanza Melani; Una
voluttà secca e vertiginosa, di Elena
Frontaloni; La penna del saggio, di
Angelo Fabrizi; «Sono nato su un
treno mentre la città bruciava», di
Monica Venturini; Sulla scrittura
aforistica di Alberto Caramella, di
Claudio Mariotti; Note al testo, della Direzione; L’altra faccia della luna, di Costanza Melani; Viaggio in
“terra di attese”, di Monica Venturini; Per Maria Fancelli, di Riccardo Donati; Creature dell’alto novembre, di Alfonso Lentini; Il trepido diario, di Monica Venturini; In
una aureola di fumo, di Anna de
Simone; Dalla Russia con amore, di
Costanza Melani; Le piccole canaglie della poesia contemporanea, di
Riccardo Donati; Il futuro già trascorso, di Monica Venturini.
IL VINCASTRO
Notizie
dell’Accademia degli Incamminati
1
I collaboratori
Danilo Breschi (Piatoia, 1970) si è laureato al Cesare
Alfieri di Firenze in Storia del pensiero politico e ha poi
conseguito all’Università di Siena il dottorato di ricerca in
Teoria e storia della modernizzazione. Attualmente insegna Scienza politica all’Università San Pio V di Roma e a
Roma collabora con la Fondazione Ugo Spirito. Ha pubblicato (con Gisella Longo) la biografia politico-intellettuale Camillo Pellizzi. La ricerca delle élites tra politica e
sociologia (1896-1979), Rubettino 2003. È anche autore di
due libri di poesia: Congiunzione carnale, astrale, relativa (Firenze Libri, 2003) e La cura del tempo (ivi, 2005).
Piero Pacini è nato a Tuoro sul Trasimeno nel 1936 e
risiede a Firenze. È autore di studi monografici su Gino
Severini e sulla cultura figurativa tra ’800 e ’900; ha indagato aspetti della civiltà figurativa fiorentina tra il Manierismo e la tarda età barocca. Collaboratore di riviste a
diffusione internazionale, è stato redattore di “Antichità
viva”; ha curato mostre di artisti contemporanei in Italia
e all’estero. Tra le ultime pubblicazioni: Le sedi dell’Accademia del Disegno (Firenze 2001) e Galileo Chini pittore e decoratore (Soncino, CR, 2002).
Simona Costa, italianista, allieva a Firenze di Lanfranco
Caretti e già Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia
nell’Ateneo di Macerata, attualmente insegna Letteratura Contemporanea all’Università Roma Tre. I suoi studi si
muovono principalmente nell’arco fra Settecento e Novecento, dedicati in gran parte a autori come Alfieri,
d’Annunzio, Pirandello. Ha pubblicato antologie e saggi
sul Racconto italiano del Novecento (Mondadori, 2000) e
sulla Poesia italiana del Novecento (Mondadori, 2003), e
sui contemporanei Banti, Bassani, Ferrero, Flaiano, Manzini, Morante, Morselli. (Foto Lucio Trizzino, 2004).
Alberto Pellegatta è nato nel 1978 a Milano dove si è
laureato in Filosofia. Sue poesie sono apparse su “Lo
Specchio della Stampa”, “Nuovi Argomenti” ecc. e inserite nell’antologia di Mario Santagostini I poeti di vent’anni (Varese 2000). È autore della raccolta in versi Mattinata
larga (Lietocolle, Faloppio 2002). È incluso nella Nuovissima poesia italiana (Mondadori) a cura di Cucchi e Riccardi. Traduce dallo spagnolo e scrive d’arte. Collabora
come critico a “La Gazzetta di Parma”, “Nuovi Argomenti” e “La Provincia”.
Elena Frontaloni è nata a Jesi nel 1980. Si è laureata in
Lettere Classiche nel 2003, con una tesi sui Dialoghi
con Leucò di Cesare Pavese. È attualmente iscritta al terzo anno di Dottorato in Italianistica presso l’Università di
Macerata, con un progetto di ricerca sul modello sceneggiatura nel Pasolini degli anni Sessanta. Si occupa
prevalentemente di rapporti fra parola e immagine, con
particolare riguardo alle intersezioni fra cinema e letteratura, continuando però a coltivare l’interesse per le sopravvivenze del mito nel Novecento letterario italiano ed
europeo.
ANNA MARIA PICCININI (qui nel Ritratto di Gianni Cacciarini,
part., 2004) è nata a Firenze, dove vive e dove si è
laureata in lettere. Docente nella scuola superiore e poi
giornalista culturale, si è occupata in particolare di argomenti storico-artistici con collaborazioni a varie riviste fra
cui, e per lungo tempo, al “Giornale dell’Arte”. Ha lavorato al riordinamento del Fondo Enrico Vallecchi presso
l’archivio contemporaneo del Gabinetto G.P. Vieusseux e
ha contribuito al riordino tutt’ora in corso del Fondo
Ugo Ojetti alla Biblioteca Nazionale di Firenze. Ha pubblicato saggi sull’incisore Pietro Parigi, su Ardengo Soffici, sulla casa editrice Vallecchi.
Loriano Gonfiantini è nato a Pistoia nel 1931. Si è laureato in Lingua e Letteratura Spagnola con Oreste Macrì
all’Università di Firenze ed è poi stato lettore di italiano
all’Università di Granada. Per molti anni ha lavorato alla
RAI, curando programmi culturali e ha pubblicato traduzioni dallo spagnolo per L’Obliquo e per i Quaderni di Via
del Vento. Attualmente collabora a Rete Toscana Classica, un’emittente radiofonica regionale per la diffusione
della musica classica.
2
Eugenia Querci è nata nel 1975 a Roma, dove si è laureata in Storia dell’Arte Contemporanea presso La Sapienza con
Marisa Volpi e Antonella Sbrilli Eletti. Ha pubblicato per Allemandi una monografia sull’artista fiorentino Giorgio Kienerk (1869-1948), collaborando a diverse iniziative espositive e a riviste scientifiche. Si occupa della cultura artistica tra
Ottocento e Novecento, con specifica attenzione al fenomeno degli scambi internazionali, del collezionismo, delle reciprocità d’influenza stilistica tra paesi. Dottoranda presso
l’Universidad Complutense di Madrid, svolge attività di ricerca presso la Evergreen House Foundation-The Johns
Hopkins University di Baltimora (USA). È professore a contratto di Storia dell’Arte Contemporanea presso la Sapienza.
Costanza Melani è nata il 1° settembre 1978 a Firenze,
dove vive. Qui si è laureata nell’aprile del 2003 in letteratura italiana discutendo una tesi sulla fortuna in Italia
di Edgar Allan Poe con il professor Enrico Ghidetti, con il
quale tuttora collabora. È iscritta al terzo anno del Dottorato di ricerca in Italianistica, presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Firenze.
Monica Venturini è nata nel 1977 a Roma dove vive. Si è
laureata nel 2002 in Letteratura Italiana moderna e contemporanea a La Sapienza con una tesi sull’opera poetica di Jolanda Insana con la professoressa Biancamaria
Frabotta. Nello stesso anno ha vinto il concorso per il
Dottorato di ricerca in Italianistica, coordinata dal professor Romano Luperini, presso l’Università di Siena. Attualmente sta ultimando la tesi di dottorato riguardante l’opera di Amelia Rosselli e svolge attività di cultore della materia presso l’Università degli studi Roma Tre di Roma
con la professoressa Simona Costa.
Michele Miniello, molisano del 1948, si è laureato a
Torino in letteratura russa e a Firenze per vari anni è
stato redattore letterario, collaborando con Geno Pampaloni. I suoi studi si sono poi orientati anche verso
l’anglistica. Ha collaborato a “Poesia” e suoi scritti critici
compaiono in varie riviste. È autore di quattro libri di
poesia con prefazioni di Antonio Porta e di Maurizio Cucchi (il più recente, Forestieri, Varese 2001) e di due volumi di narrativa (Il volo, Firenze 1986 e Venditori di fumo,
Milano 1995).
Giorgio Weber, già aiuto all’Università di Firenze di Antonio Costa, dal 1968 al 1993 è stato professore ordinario e direttore dell’Istituto di anatomia e istologia patologica nell’Università di Siena. Medaglia d’Oro del Presidente della Repubblica, studioso dell’arteriosclerosi, al
suo attivo ha oltre quattrocento pubblicazioni scientifiche.
Attualmente coltiva la storia dell’anatomia patologica,
pubblicando presso l’Accademia toscana di scienze e lettere “La Colombaria” studi su Antonio Benivieni, Areteo di
Cappadocia, Antonio Cocchi, Lorenzo Bellini, Giovanni
Targioni Tozzetti.
Caffè Michelangiolo
La terza pagina
LA LENTEZZA
DELL’ASTRONAUTA
di Mario Graziano Parri
Q
uesto trentesimo fascicolo segna anche
il decimo anno consecutivo di uscita
del nostro quadrimestrale. Si presenta
con illustrazioni a colori per dare risalto all’accadimento, e forse anche per quel punto di
civetteria che fa dire alla servetta Despina
(Così fan tutte): «In un momento – dar retta
a cento; | colle pupille – parlar per mille».
Ripromettendosi di far l’occhiolino, meglio
adoprare un occhio come quello di Angiolina
(Senilità), che non guardava ma crepitava.
Perché non è più sufficiente “farla”, una rivista (e già è una gran fatica): occorre anche attirare su di essa
un minimo di interesse. Se la cultura del primo Novecento è
passata come tutti dicono attraverso le riviste «almeno fino
all’altezza dei Gobetti e dei Gramsci quanto al risvolto politico, e di “Solaria” e “Circoli” ed altre ancora per la letteratura» (così Paolo Mauri su “La Repubblica” in occasione del
convegno sul “Leonardo” in Palazzo Vecchio il 3 gennaio
2003), l’oltracotante sovrapporsi mediatico del secondo Novecento ha finito per mettere all’angolo questo foglio povero, la cui forza è riposta soltanto nella sua “fragilità”.
Un caro amico scienziato che centellina con appartata discrezione l’appassionante stagione della saggezza (rara stagione che dipende unicamente dalla propria intelligenza),
mi confidava qualche giorno fa: «A ottantaquattro anni mi
sono messo a leggere l’Ifigenia. Euripide è nuovo, e niente
è così vecchio come il giornale di oggi». È un po’ questo lo
spirito di una rivista nell’attuale frangente. Un colpetto discreto sulla spalla: aspetta, guardati intorno, c’è qualcosa
che vale il piacere di una scoperta, di un “riconoscimento”.
Qualcosa che può essere rimesso in circolazione nei tuoi
pensieri.
La rivista può riabilitare ciò che era stato trasferito al reparto di lunga degenza ma non ancora era passato al di là.
Perché le sue pagine costituiscono un promemoria per il domani; intendono segnalare, a coloro che avvertono nel presente qualcosa che non va, ciò che vale la pena di essere sottratto alla brutalità quotidiana. Dove tutto è di fretta. Anche
il parlare (spazio alla sintesi, seppure la comunicazione risulti
poi incomprensibile); anche lo scrivere, per cui sono un ingombro le pause e tutto quello che richiede magari l’avvedutezza di un congiuntivo.
È un mezzo la rivista che non segue la corrente. Che non
insegue il tempo. La cultura del terzo millennio ha preso altre strade, anche se nessuno è in grado di dire dove porteranno (da qui l’ansia che ci stritola, la depressione che ci occupa). Per questo non è facile imbattersi in qualcuno che conCaffè Michelangiolo
servi il buon gusto di buttare del denaro in
una impresa obsoleta e in perdita (almeno secondo il canone vigente). E scovare qualcuno
che ancora coltivi la passione del pensiero e
della scrittura. Devo perciò essere grato agli
Incamminati che questa nostra rivista sostengono con concreta efficacia e tangibile convinzione (e mi sia qui consentita una esternazione di personale riconoscenza verso l’amico
Natale Graziani, già presidente operativo e
oggi presidente emerito dell’Accademia); nonché all’editore Mauro Pagliai che continua a
farla uscire probabilmente come non lo consentirebbero «le
volgari contingenze delle cose» (per citare una espressione del
Discorso ai giovani del “Gruppo vinciano”, 26 novembre
1902, tuttora inedito). E soprattutto un grazie di cuore, anche da parte degli Incamminati e dell’amico Pagliai, deve essere indirizzato a tutti coloro che sulle pagine di questa nostra
rivista scrivono, e con ciò la fanno esistere.
Proprio in questi giorni, a una trasmissione radiofonica è
intervenuto Umberto Guidoni. Si tratta di uno dei quattro
astronauti italiani che compiono attualmente voli extraplanetari. È un fisico che ha pubblicazioni sul plasma e sulla elettricità, e che porta lo stesso cognome dello scienziato e sperimentatore caduto il 27 aprile 1928 sul Montecelio durante la
prova di un paracadute. Umberto Guidoni rispondeva a domande di giovani di varie scuole d’Italia. Una ragazza gli ha
chiesto come si vivesse lassù, chiusi in una solitaria navicella.
E come da lassù si vedesse il nostro pianeta. E lui le ha risposto che il tempo da quelle parti è estremamente rallentato, così
come lo sono i comportamenti motori. E loro, gli astronauti, il
tempo non impiegato in procedure scientifiche lo passano con
Schubert, con Albinoni, con Gabrieli, con Strauss, con
Tchaikowsky, con Corelli, con Mahler, con Respighi, con Merulo. E il nostro pianeta, la Terra… da lassù la Terra appare
loro come l’astro più luminoso. Intensamente azzurro. Un colore caldo, diceva Guidoni. Un meraviglioso corpo celeste adagiato nell’immensità, «bellissimo e fragile».
Penso che debba servire proprio a questo, una rivista oggi.
A far venire la voglia di alzare lo sguardo al cielo, seppur dovendo rimanere con i piedi sopra la fragile terra. Più quartetti
per archi (La morte e la fanciulla), più Concerti grossi, più
Fontane e più Pini di Roma, più Zarathustra. Più poesia, insomma. Più lentezza, caro Celentano. Non tutto quello che
corre è rock. Trova chi non cerca e non ha fretta: perché il suo
cuore è aperto e riesce a captare le cose e gli uomini; perché
ha tutto il tempo per leggere le storie che il mondo continuamente racconta.
■
3
Le buone arti
Ezra Pound e il fascismo: un caso di studio su intellettuali
e totalitarismo tra le due guerre
UN POETA DI REGIME?
di Danilo Breschi
Non mi sono mai dato al fascismo più di quanto non mi sia dato a
James Joyce… Come scrittore sono di
tutti e di nessuno.
Ezra Pound, “New English Weekly”,
26 dicembre 1935
L
e pagine che seguono possono essere considerate in primo luogo
come il parziale tentativo di dare
una risposta all’interrogativo: «Ezra
Pound fu un poeta del regime fascista?». In secondo luogo, si tratta di una
riflessione sul rapporto tra intellettuali e
fascismo, più in generale sul tipo di legame che si può instaurare tra l’uomo
di lettere e il dittatore totalitario. In
questo caso specifico, un caso particolare e ben definito di dittatore: Benito
Mussolini.
Sotto questo profilo, i testi dei discorsi radiofonici che Pound trasmise
da “Radio Roma” dal 21 gennaio 1941
al 25 luglio 19431 sono letteralmente
un ottimo pre-testo per svolgere alcune
riflessioni sul rapporto tra il poeta americano e il dittatore, un rapporto che
consente considerazioni di ordine generale sul rapporto tra cultura e politica
nell’Europa delle dittature.
Molto è stato scritto per quanto concerne il ruolo svolto da Pound nel fascismo, l’esistenza e la consistenza del
suo sostegno a Mussolini e al suo regime. Alcuni risultati praticamente indiscutibili sono stati raggiunti da studi
come quelli di Noel Stock, Niccolò Zapponi, Humprey Carpenter e Tim Redman, solo per citarne alcuni2. Un dato
che possiamo dire acquisito da una così
vasta letteratura è che Pound credette
nella possibilità che Mussolini incarnasse quel tipo di uomo capace di tradurre in realtà un nuovo sistema creditizio vicino, se non identico, a quello
elaborato dai teorici del Social Credit
(in particolare, il maggiore Clifford
Hugh Douglas) e da Silvio Gesell3.
4
Costante Costantini, Ezra Pound, 1971.
Per Pound, l’Italia «resisteva contro
la schiavitù assoluta, sin dai tempi del
trattato di Versailles»4 e con l’avvento
del fascismo «Dio sa che l’Italia voleva
lavorare per guadagnarsi la libertà economica»5, impresa contro cui inglesi e
americani si erano opposti scatenando
loro stessi la seconda guerra mondiale,
perché manovrati dalla “ragnatela usurocratica”6 e plutocratica londinese e
statunitense. Queste frasi si trovano
pronunciate in alcuni radiodiscorsi tra-
Ezra Pound alla tomba di James Joyce a Zurigo
(per gentile concessione di Horst Trappe).
smessi tra la primavera e l’estate del
1943.
A partire dal 1933, come testimoniato nel volume Jefferson and/or Mussolini,
Pound pensò di aver trovato l’uomo dotato di quella qualità “volizionista” che
avrebbe potuto invertire il senso della
storia, contrapponendosi alla “usurocrazia” imperante in Europa e negli Stati
Uniti7. Nel 1941, in un radiodiscorso in
memoria di James Joyce, Pound disse:
«Come scrittore io non mi sono dato a
nessuno e mi offro a tutti gli uomini.
Come critico è da 30 anni che tengo sotto osservazione uomini dall’ingegno insolito, e non parlo solo di scrittori. I geni
esistono in tutti i campi dell’agire umano. Per quanto riguarda il genio di Mussolini e Hitler non sono l’unico a notarlo»8. E nell’aprile del 1942 dice che in
Italia c’è un «cambiamento in atto: dal
materialismo al volizionismo»9.
La data del 1933 non è casuale.
Pound scriveva il suo libro Jefferson
and/or Mussolini nel mese successivo al
primo e unico incontro avuto con Mussolini. Il 30 gennaio 1933 egli era stato
infatti ricevuto dal duce, dopo reiterate
richieste di un’udienza. Richieste che
proseguiranno anche nel decennio successivo, e che avrebbero potuto avere
soddisfazione nella primavera del 1943,
in un secondo incontro che Mussolini
aveva accettato, finalmente incuriosito
dall’idea «del denaro dal valore transitorio» (cioè l’idea del denaro bollato
ideato da Silvio Gesell10), ma l’incontro
non ebbe luogo per un disguido postale11.
Riflettendo sul caso particolare di
Pound possono essere svolte alcune considerazioni generali sul tipo di rapporto
che Mussolini ebbe con molti intellettuali (italiani, ma non solo) e, viceversa, sul rapporto che molti intellettuali
ebbero con Mussolini.
Su questo tema Giovanni Ansaldo
(1895-1969) ha scritto pagine molto interessanti, tra le più acute prodotte nei
sessant’anni successivi alla fine del faCaffè Michelangiolo
Le buone arti
scismo. Giornalista originariamente su
posizioni antifasciste, dal 1919 il giovane Ansaldo fu collaboratore del quotidiano socialista genovese “Il Lavoro”.
Sempre nel 1919 egli aveva conosciuto
Piero Gobetti ed era così diventato collaboratore assiduo della “Rivoluzione liberale”. Nel maggio 1925 aveva addirittura firmato il manifesto degli intellettuali antifascisti che Benedetto Croce
aveva promosso in contrapposizione al
manifesto degli intellettuali fascisti voluto da Giovanni Gentile pochi giorni
prima12. Nonostante questi precedenti e
nonostante l’arresto, cui seguirono alcuni mesi di carcere e poi di confino nell’isola di Lipari, sempre per il suo antifascismo di matrice liberale, Ansaldo divenne negli anni Trenta un vero e proprio giornalista di regime. Suo mentore
fu Galeazzo Ciano, genero del duce e
dal 1936 ministro degli Esteri. Volontario nella guerra di Abissinia, il 19 settembre 1936 venne iscritto al partito fascista dietro ordine dello stesso Mussolini e il giorno dopo assunse la direzione
del “Telegrafo”, il quotidiano livornese
di proprietà della famiglia Ciano. Da
quel momento Ansaldo diventò “il giornalista di Ciano”13.
Da questa posizione privilegiata, Ansaldo ha potuto conoscere bene molti
meccanismi insiti nella struttura del regime fascista e nella psicologia degli uomini “alla corte” del dittatore. Probabil-
Komar e Melamid, The Origin of Socialism Realism, 1982-’83, New York, collezione privata.
Caffè Michelangiolo
mente anche lui, a suo tempo, ne rimase
invischiato. Il 21 marzo 1948 pubblicava così su “L’Illustrazione Italiana” un
penetrante articolo dal titolo Mussolini e
gli intellettuali.
Le riflessioni di Ansaldo riguardavano gli intellettuali italiani, ma crediamo
che per alcuni aspetti possano aiutare a
descrivere la vicenda di Pound. Anzitut-
Ezra Pound in una foto di Henri Cartier-Bresson.
to, il giornalista genovese osservava che
«se riusciamo a metterci in quegli anni,
troveremo strana, non già l’adesione di
tanti intellettuali nostri a lui [Mussolini,
ndr.], ma la resistenza di una nutrita minoranza, che nell’ora della sua massima
fortuna osò esprimere il proprio dissenso
da lui»14. In secondo luogo, Ansaldo affermava: «Gli intellettuali, è stato spiritosamente detto, sono come le donne:
essi sognano i militari. Più propriamente detto, essi sognano spesso, confusamente, una vita diversa dalla loro, una
vita “eroica”; e sono tratti a vederne
l’estrinsecazione proprio nei regimi di
dittatura, e nelle persone dei dittatori»15.
Ansaldo proseguiva notando che una
lettura delle pagine delle Memoires d’Outretombe di Chateaubriand, nelle quali si
descrive cosa accade agli intellettuali
francesi sotto Napoleone, poteva aiutare
a comprendere quanto si trattasse, e si
tratti, di un fenomeno universale. Ansaldo citava un personaggio storico assai
caro anche a Pound: Sigismondo Malatesta. Scrive Ansaldo: «L’accusa a Mussolini, così frequente finché durò una
certa libertà di stampa, di rassomigliare
ai vecchi tiranni rinascimentali, di arieggiare a uno Sforza o a un Malatesta, lungi dal nuocere a Mussolini, gli procurò
nel campo degli intellettuali molti seguaci. Perché c’era molta gente che, da
quando aveva stampato il suo primo libro di versi, o esposto il suo primo quadro, proprio questo stava aspettando:
qualcuno che volesse imitare vagamente
Galeazzo o Sigismondo, e gli dicesse:
“Bravo!”»16.
Quella sugli intellettuali che sognano
i militari è una affermazione forte, forse
un po’ scomoda, ma che a noi pare tanto più vera se andiamo a studiare le biografie di molti intellettuali europei affascinati dalle dittature totalitarie (di destra e di sinistra) degli anni tra le due
guerre mondiali. Si pensi, ad esempio, al
caso di Pierre Drieu La Rochelle, infatuato prima dal nazismo poi, sul finire
della guerra, da Stalin17. Una fascinazione per “il capo”, tipica degli scrittori
ossessionati dall’idea della decadenza18.
E potremmo citare Robert Brasillach,
Lucien Rebatet, Alphonse de Châteaubriant, Louis-Ferdinand Céline, Wyndham Lewis, e credo anche Ezra Pound.
Del resto, pure lui ammise in uno dei
suoi radiodiscorsi di aver nutrito “simpatia” per “vari punti stalinisti del 1922”
e di ritenere utile la lettura del volume
di Stalin I fondamenti del leninismo
(1926)19. Nel complesso, comunque, Sta-
Piero della Francesca, Ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta, 1451 ca., dipinto su tavola, cm 44
x 34, Parigi, Louvre.
5
Le buone arti
lin veniva criticato aspramente, e con lui
il bolscevismo, con il medesimo capo
d’accusa: hanno favorito gli usurai.
Pound non mancava poi di sottolineare
la natura schiavistica del regime sovietico. Nel suo radiodiscorso dell’11 maggio
1943 Pound scrive che già da tempo
«Mosca stava schiavizzando impietosamente i suoi lavoratori, e vendeva sottocosto i risultati al resto del mondo, secondo i peggiori metodi plutocratici»20.
Ma anche Hitler aveva imposto un regime analogo al popolo tedesco, eppure
Pound non esitò in molte lettere a salutare con l’espressione “Heil Hitler!” (una
provocazione, ma non solo) e ad elogiare nei radiodiscorsi alcune teorie contenute in Mein Kampf, come quando il
18 maggio 1942 egli richiamò i principali punti del programma nazionalsocialista: «Primo, salute, una razza
sana… Generate bene e preservate la razza… […] Conservare gli elementi migliori. Ciò significa eugenetica: come opposta al suicidio di razza. Secondo… un
sistema politico in cui non si possa scaricare le proprie responsabilità… Hitler,
dopo aver visto il vomito degli ebrei nella democrazia tedesca, ha cercato di individuare i responsabili… E il terzo
punto era lo studio della storia. Guardate alla storia»21. D’altronde, in quel discorso radiofonico dell’11 maggio 1943,
Ezra Pound fotografato nel 1963 a Sant’Ambrogio (Rapallo) da Massimo Bacigalupo.
egli affermava che «lo scopo del nazionalsocialismo tedesco», come del fascismo italiano, era quello di soddisfare il
«desiderio dell’uomo comune di avere
una casa per la sua famiglia»22.
Alcuni di quegli intellettuali attratti
dall’idea di farsi “esteti armati”23, come
ad esempio Wyndham Lewis, abbandonarono le loro simpatie naziste o fasciste
Giacomo Balla, La marcia su Roma, 1932-1935, olio su tela, cm 260 x 332, Torino, collezione privata.
6
prima della catastrofe finale, altri persistettero fino alla fine, soprattutto coloro
che vissero e operarono entro i confini
delle nazioni governate da quei due regimi (quindi, anche la Francia di Vichy).
Pound non sognava i militari. Al contrario, il suo impegno e pieno coinvolgimento a sostegno del regime fascista, e
cioè i radiodiscorsi che furono la causa
dell’accusa di tradimento e quindi dell’internamento per tredici anni a St. Elizabeth, nasceva anche nell’ottica di impedire l’ingresso in guerra degli Stati
Uniti. Pound cercò in quegli anni la pace,
ma una pace che lui stesso riteneva impossibile fino a quando i banchieri, i finanzieri e gli altri esponenti del sistema
usurocratico internazionale non fossero
stati eliminati o impossibilitati nel continuare a provocare guerre, il cui vero scopo era quello di indebitare i popoli. L’autarchia fascista era apprezzata da Pound
perché la interpretava come uno sforzo
per non indebitarsi. «L’autarchia è la libertà di non indebitarsi», scrive sempre
l’11 maggio del 1943, ripetendo uno slogan dell’avvocato Gioacchino Nicoletti,
fascista che poi aderì alla Rsi e autore nel
1944 di un volume intitolato Modernità
di Mazzini24.
Se non amava i militari, Pound però
ammirava il leader energico, deciso, che
come il vero artista diventasse artifex
della storia grazie ad un surplus di volontà, che gli altri individui non posseCaffè Michelangiolo
Le buone arti
devano. Era attratto dalla forza, magari
nel senso di quella energia volitiva che
nasceva da una grande disciplina e purezza interiore, secondo gli insegnamenti del suo amato Confucio. Comune poi a
molti degli intellettuali menzionati in
precedenza era l’odio per la borghesia.
Il 2 maggio 1943 Pound diceva alla radio: «Non vedo perché dovrei avere difficoltà ad accettare un vero programma
comunista. L’artista non ha mai fatto
parte della borghesia. Ciò che critico è
questo fittizio attacco al capitale, all’usurocrazia, che degenera in un attacco
alla proprietà lasciando il prestatore di
denaro, su pegno, indisturbato nella
stanza dei bottoni del sistema di sfruttamento, mungendo il produttore»25. Tipicamente fascista (della “sinistra fascista”, se si vuole26) è l’anticapitalismo
come critica di un sistema di vita materialistico, egoistico e antipopolare. Per
questo, Pound come tanti altri “esteti armati” non esita a dichiarare: «Produttori di tutto il mondo unitevi. Per me è
giusto. L’artista non ha bisogno della
proprietà, non gli serve. Vuole possedere
i suoi strumenti, no, neanche quelli, vuole il diritto di utilizzare gli strumenti
della sua arte, e il comunismo non è contrario a questo per programma»27.
È evidente che non possiamo associare in modo indistinto le biografie di intellettuali e artisti dalle personalità così
diverse ed eccentriche l’una all’altra. Resta però vero che si verificò un fenomeno
ampio e diffuso nell’intelligencija europea e americana degli anni Trenta: l’idea
che la politica potesse diventare arte applicata. È un fenomeno che alcuni studiosi hanno chiamato “estetizzazione
della politica”, e di cui Gabriele d’Annunzio è stato probabilmente il primo
sperimentatore nel periodo compreso tra
la prima guerra mondiale e l’impresa di
Fiume28. L’artista poteva forse compiere
la sua più grande opera d’arte, una repubblica che dai tempi di Platone era
sempre rimasta lettera morta sopra carta stampata. Se d’Annunzio provò addirittura in prima persona, proponendosi
come “venturoso” leader politico (e, in
effetti, la sua Repubblica del Carnaro
ebbe vita abbastanza breve), molti altri
intellettuali affidarono le loro speranze ai
dittatori emergenti nell’Europa post-bellica. Il primo cui si guardò con fervente
entusiasmo fu Lenin, ben oltre i confini
dell’appartenenza ideologica, ma in OcCaffè Michelangiolo
Ezra Pound in un disegno di Rolando Monti, 1971.
cidente l’attenzione fu presto catturata
da Mussolini il quale, al pari di Lenin, si
presentava quale strana figura di “politico-intellettuale”. E qui le pagine di Ansaldo sono ancora una volta illuminanti:
«raramente il mondo vide uomo così foggiato da natura per sedurre la vanità degli uomini di lettere o di arti, quale fu
Mussolini. Più che un politico puro, ed
un asceta del potere, era un gran dilettante del potere stesso: un intellettuale
impressionabile, dominato dalla fantasia
[…]. Gli intellettuali, Mussolini li seduceva, primamente per il fatto che egli li
aveva, da tempo, conosciuti o, come si
dice nel gergo, “seguiti”, e molto spesso
sinceramente ammirati, sia pure con
sproporzioni di misura e storture di gusto. […] Mussolini poi metteva, nel trattare con gli intellettuali, un impegno fervidissimo a “far colpo”. Dotatissimo dell’abilità, tutta giornalistica, di annusare,
per così dire, un volume senza leggerlo, e
di afferrare qualche tratto della maniera
di un artista senza approfondirlo, Mussolini, nei venti anni del suo potere, licenziò dalle udienze sue centinaia di intellettuali che uscirono da Palazzo Venezia convinti di avere finalmente trovato
un conoscitore e un amatore delle loro
opere. Fu detto, essere egli stato uno degli uomini più adulati del mondo; ma fu
taciuta la contropartita, essere cioè egli
stato uno degli adulatori più instancabili di chiunque gli si fosse presentato
davanti»29.
Queste ultime considerazioni di Ansaldo sembrano scritte proprio per descrivere il primo e unico incontro che
Pound ebbe con Mussolini. Mussolini
sfogliò con interesse la copia di A Draft of
XXX Cantos e disse che trovava il libro
“divertente”. Un giudizio ambiguo, ma
che il poeta prese come un complimento
e un giudizio acuto sulla sua opera.
E Pound restò così folgorato da quel bre-
Flavio Costantini, Ezra Pound (Rapallo, Riviera di Levante), 1991. Collezione privata.
7
Le buone arti
Romano Bilenchi in un disegno a matita (1931) di
Mino Maccari.
ve incontro, dal modo con cui Mussolini
lo intrattenne, che riportò l’episodio in
versi, nel canto 41:
“Ma qvesto,”
disse il Duce, “è divertente.”
afferrando il punto prima degli esteti;
Prosciugò i pantani di Vada
Le paludi sotto il Circeo, ove nessuno
ci proverebbe.
Dopo duemila anni si mangiò grano
dalle paludi;
acqua potabile a dieci milioni
di persone
e un milione di “vani”.
Anno xi dell’era nostra30.
Come Redman ha sottolineato: «L’incontro ebbe un effetto decisivo su Pound.
Secondo la maggior parte dei resoconti
contemporanei, Benito Mussolini fu un
uomo enormemente affascinante, ma il
suo effetto su Pound va oltre la fascinazione. Egli fu sopraffatto dal dittatore
italiano…»31. Sempre Redman ha scritto che l’incontro con Mussolini «mostra il
grande bisogno che Pound ha di credere»32. Una simile inclinazione risulta particolarmente rischiosa per un intellettuale in tempi di dittatura: può tramutarsi nella tentazione irresistibile di abbracciare l’estremismo ideologico, che
divide il mondo tra amici e nemici assoluti. Un mondo dilaniato da una lotta
senza quartiere. Nelle lettere Pound ricorderà più volte l’episodio dell’incon-
8
tro a Palazzo Venezia. E da lì comincerà
quel periodo in cui la politica diverrà
l’interesse principale del poeta, assieme
alla musica (ma in questo secondo ambito il ruolo di Olga Rudge è ovviamente essenziale). I radiodiscorsi, se letti tutti d’un fiato ma anche con attenzione, testimoniano il carattere quasi ossessivo
che l’economia, soprattutto il tema del
denaro, la sua natura, la sua emissione,
il prestito, aveva assunto nella mente di
Pound. Romano Bilenchi ha raccontato
di un incontro a Rapallo con Pound, in
cui il poeta gli disse: «Se lei si occupasse
più di economia che di letteratura sarebbe rimasto senz’altro fascista. Anche
Eliot è un fascista perché si è occupato di
economia»33.
La politica appariva forse l’unico
strumento possibile per tentare una radicale riforma del sistema monetario internazionale. La politica da sempre offre
all’uomo di cultura la chance di diventare il consulente, il consigliere del Principe: è questa una tentazione troppo forte per il novanta per cento degli intellettuali di ogni epoca, e in particolare di
quelle epoche che sono vissute dal mondo della cultura come rivoluzionarie op-
Piero Gobetti in una foto datata 1924 da Antonicelli.
pure in disfacimento, in ogni caso contrassegnate da improvvise accelerazioni e
cambiamenti radicali. Riteniamo sia storicamente corretto inscrivere Pound entro quel novanta per cento.
Come spesso capita, anche Pound riteneva inetti o non all’altezza del capo
coloro che facevano parte dell’entourage
di Mussolini. Nel canto 80 Ezra dice infatti:
e quanto a quel poveraccio di Benito
uno aveva uno spillo di sicurezza
uno aveva un pezzo di spago, uno
aveva un bottone
tutti tanto al di sotto di lui
inesperti e dilettanti
o veri mascalzoni34.
La copertina del libro di Piero Sanavio, La gabbia
di Pound. Uscito in tiratura limitata con Scheiwiller nel 1986, torna ora riscritto e arricchito in
libreria per i tipo di Fazi editore.
Ultima questione, sollevata all’inizio
del nostro articolo: Pound fu poeta di
regime?
Questa definizione è stata riaffermata con forza da Marcello Simonetta su
“Nuovi Argomenti”35. Il carteggio che
Simonetta porta ulteriormente alla luce e
che riguarda il periodo della Repubblica
Sociale Italiana conferma e approfondisce quanto già Redman aveva chiaramente mostrato: Pound fu convintamente fascista. Lo dimostra più di ogni
altra cosa l’adesione piena e attiva alla
Repubblica di Salò, quando i trionfi del
passato regime erano ormai un lontano
Caffè Michelangiolo
Le buone arti
ricordo. Scrisse a proposito dei diciotto tario del Partito fascista repubblicano
emotivi, ma bisogna che capiscano le
punti del “Manifesto di Verona”, pro- (siamo quindi nel periodo della Repubragioni d’un conflitto40.
mulgato il 14 novembre 1943 quale di- blica di Salò), Pound scrive il 2 dicembre
Queste nostre sottolineature non hanchiarazione programmatica del neonato 1943:
no certo l’intento di abbandonarsi al faPartito fascista repubblicano, riunito in
quei giorni per il suo primo congresso: «i
Chiedo vostro appoggio per una
cile quanto sterile moralismo. L’obiettivo
è, semmai, quello di avanzare nella ridiciotto punti sono stati fatti per distinproposta fatta tre giorni fa; forse il
guersi come un documento storico, un
flessione storica. E allora la biografia di
miglior suggerimento che ho mai fatto.
Pound ci dice che egli non fu il, e nemdocumento della storia del pensiero»36.
Visto che è quasi impossibile soppriCertamente “fascista”
meno, un poeta del regime
fascista, perché nessun inPound lo fu nel senso che
carico ufficiale gli venne
abbiamo fin qui evidenziato, vale a dire che, come
offerto, e tanto meno un
mille altri intellettuali atriconoscimento o un qualtivi nell’Italia tra le due
che premio. Non ebbe gli
guerre, egli pensò che Musallori, come Marinetti, Pisolini fosse il veicolo politirandello, Bontempelli, Unco attraverso il quale reagaretti e tanti altri41. Come
è ormai noto, ci furono
lizzare le proprie idee sulla
anzi malumori tra non posocietà, l’economia e la
chi esponenti del mondo
cultura, a prescindere da
politico e culturale fasciquanto chiare o confuse
sta, ad esempio Luigi Vilqueste idee possano oggi
lari, dell’Istituto per i rapapparirci. D’altro canto, il
porti culturali internaziosuo antisemitismo aveva
nali, a causa delle sue tralontane origini37, cosicché
smissioni radiofoniche.
la svolta razzista del fasciCamillo Pellizzi, amico di
smo italiano dopo il 1938 e
Pound dai tempi della
la recrudescenza del perioLondra anni Venti, ha rido 1943-’45 servirono solo
cordato nel dopoguerra
a consolidare vecchi precome in ambienti fascisti
giudizi e a rinsaldare la
circolasse addirittura il sosimpatia verso le camicie
spetto che il poeta amerinere. Scriveva in uno dei
cano fosse una spia al sersuoi primi testi trasmessi
vizio del suo paese, gli Stada “Radio Roma”, nel
1941, che «le donne creti- Ezra Pound e la compagna Olga Rudge nel 1971 durante i funerali a Venezia di Igor ti Uniti, e i radiodiscorsi
ne e i pivelli di Roosevelt Strawinskij. Saranno anche loro sepolti a Venezia, accanto al compositore russo.
non altro che messaggi in
[…] sono diventati così
codice a favore degli Alleggendo la stampa ebraica da 40 anni a
leati42. Ma al di là di queste voci, la realtà
mere il mercato nero dei libri, […] e
questa parte. Sono diventati così ascolè che i radiodiscorsi passarono nella reche le librerie in gran parte nelle mani
tando la radio ebraica, e propongo di
lativa indifferenza degli alti vertici del
degli ebrei sono state piuttosto impeusare la parola giudeo a prescindere dalregime, e in primo luogo di Mussolini.
dimento che aiuto nel diffondere libri
Soltanto durante la Rsi Pound fu oggetla razza. Usiamola per definire gli ebrei
utili, chiedo una politica (una legge)
to di maggiore attenzione, ma il motivo
onorari. Ad eccezione degli ebrei onesti
positiva invece di pseudo-restrittiva:
principale risiedeva nell’improvviso scarche s’incontrano»38. “Ebreo” diventa così
ch’ogni libraio avrà obbligo di tenere
categoria etico-politica universale, quasi
seggiare di intellettuali e artisti di primo
in vetrina per tre mesi o in permanenmetafisica, e rappresenta il negativo dellivello disposti ad esporsi come sosteniza certi libri necessari allo sviluppo
la storia, a parte le eccezioni dei singoli
tori e collaboratori del nuovo regime sordel senso civico.
individui. Pound fu antisemita non tanto nel nord Italia.
Fra i più importanti:
to in un senso razzista, à la nazista, ma
Il fatto che Pound non fu un poeta di
– I Protocolli di Sion;
certo condivise in pieno quello che reregime non vuol dire che egli non aves– I Doveri dell’Uomo, di Mazzini;
centemente Daniel Pipes ha chiamato
se aspirato ad esserlo: addirittura il poe– La Politica di Aristotele;
“cospirazionismo” e “mentalità da teoria
ta, piuttosto che un poeta. Anche in que– Il Testamento di Confucio.
cospiratoria”, cioè «il travolgente timore,
sto i radiodiscorsi sono eloquenti, così
L’arresto degli ebrei creerà un’onl’ossessione di cospirazioni inesistenti»39.
come la corrispondenza di quegli anni.
data di misericordia inservibile; quinCerte frasi riportate da Simonetta sono
E il periodo della Repubblica sociale itadi la necessità di diffondere i Protosotto questo profilo inquietanti e inequiliana accentuerà questo aspetto, dandocolli. Gli intellettuali sono capaci d’uvocabili. Ad Alessandro Pavolini, segregli l’illusione di poter consigliare e sona passione più durevole che non gli
Caffè Michelangiolo
9
Le buone arti
RINGRAZIAMENTI
Il presente saggio è la versione riveduta e
ampliata di un paper presentato al xxi Ezra
Pound International Conference, svoltosi a
Rapallo dal 4 al 7 luglio 2005. Per avermi
concesso l’autorizzazione a pubblicarlo, ringrazio gli organizzatori del convegno, i professori William Pratt e Massimo Bacigalupo.
A quest’ultimo si devono anche alcune immagini di Pound qui riprodotte.
NOTE
Cartolina (da un olio di Italico Brass) per il Convegno “Pound, Brass e la pittura a Venezia nel
1908”, 31 gennaio 2004, organizzato da Ateneo Veneto e Comitato veneziano Società Dante Alighieri.
stenere l’educazione dell’italiano ancora
combattente al fianco di Mussolini con
letture di scritti propri e altrui43. Fino al
1943 era ancora prevalente in Pound
l’idea di “salvare” la propria patria. Egli
scriveva infatti il 2 marzo del 1942: «Per
quanto ne so il mio lavoro è salvare ciò
che rimane dell’America, e mantenere
in qualche modo una forma di civiltà.
Mi rifiuto di essere complice dei distruttori»44.
Di fronte alla mole imponente di studi dedicati alla vita e all’opera di Ezra
Pound, queste poche pagine non vogliono né possono aggiungere niente attorno
alla figura e all’opera del grande poeta
americano. Hanno inteso però sottolineare le analogie che la vicenda di
Pound e del suo fascismo ha con quella
di innumerevoli intellettuali, italiani e
stranieri. Leggere i Taccuini mussoliniani di Yvon de Begnac, usciti postumi
nel 1990 per la cura di Renzo De Felice
e Francesco Perfetti, offre moltissime
conferme su come Mussolini “viziasse”
gli intellettuali, li adulasse per esserne
poi a sua volta adulato45. In molti casi,
in buona fede e con profonda convinzione. Questo è il caso di Pound, di cui
moltissimi studiosi sottolineano la ingenuità, mentre io credo si trattasse di
quella fiducia tipica dell’intellettuale
verso il dittatore-mecenate e artifex.
Una fiducia che il poeta americano nutrì con forza e lucidità, sicuramente in
10
coerenza con le proprie idee economiche
coltivate sin dagli anni Venti. Ne è conferma, tra le altre prove adducibili, una
lettera all’amico Pellizzi, datata maggio
1936: “Ci sono due tipi di persone in
Italia, quelle che hanno tollerato e/o
sfruttato il fascismo e quelli di noi che
necessitavano di una nuova Italia per
potervi respirare”46.
In conclusione, il fascismo di Pound
non può essere studiato senza una più
ampia riflessione su quel colossale fenomeno di fascinazione che fitte schiere di
intellettuali europei subirono nei confronti di Mussolini (per non parlare di
Hitler). Mussolini più di Hitler seppe
capirli e blandirli, perché – come diceva
Ansaldo – egli era uno di loro. Alastair
Hamilton parlò nel 1971 di appeal a
proposito del fascismo e dell’atteggiamento tenuto nei suoi confronti da ampi
settori dell’intelligencija europea47. E il
suo studio impostava un’analisi comparativa che passava in rassegna intellettuali italiani, tedeschi, francesi e inglesi.
Altri studiosi si sono poi occupati del
vastissimo mondo degli intellettuali dell’Europa centrale e orientale sotto le dittature di ascendenza fascista48. Ma sull’argomento c’è ancora molto da studiare e da scrivere. La vicenda di Ezra
Pound costituisce un esemplare caso di
studio, molto meno singolare di quel che
si creda, nonostante l’assoluta singolarità dell’uomo e dell’artista.
■
1 Cfr. E. Pound [E.P.], Radiodiscorsi, a c. di
A. Colombo e P. Sanavio, Edizioni del Girasole,
Ravenna, 1998. Il volume offre una selezione di
50 radiodiscorsi dei 120 disponibili in versione
originale inglese.
2 Cfr. N. Stock, The Life of Ezra Pound, Routledge & K. Paul, London, 1970; N. Zapponi,
L’Italia di Ezra Pound, Roma, Bulzoni, Roma,
1976; H. Carpenter, Ezra Pound. Il grande fabbro della poesia moderna (1988), tr. it. Rizzoli,
Milano, 1997; T. Redman, Ezra Pound and Italian Fascism, Cambridge University Press, Cambridge-New York, 1991.
3 Si trattava di economisti eterodossi, convinti della necessità di riformare il sistema creditizio mondiale, incardinato su una logica di
mera usura e quindi taglieggiamento dei popoli nei suoi strati più deboli economicamente e
politicamente. Assieme a Douglas e Gesell,
Pound “pensa che banchieri e finanzieri succhino denaro dal circuito economico al solo fine
di tesaurizzarlo, provocando così la paralisi del
commercio e l’immobilizzazione delle merci
[…], la centralizzazione del potere in poche
mani, lo sfruttamento dei lavoratori, la fine dei
governi indipendenti e l’avvento della finanza,
nonché il ricorso alla guerra da parte dei paesi
alla ricerca di sbocchi esterni per le proprie
merci” (G. Lunghini, With usura contra natura:
Pound moralista, intr. a E. Pound, L’ABC dell’economia e altri scritti, pref. di Mary de Rachewiltz, Bollati Boringhieri, Torino, 1994,
p. 13).
4 E.P., Sumner Welles, 11 maggio 1943, ivi,
p. 213.
5 Id., Ancora sul punto oscuro, 25 maggio
1943, ivi, p. 229. L’uso dello stampatello è nel
testo, e ricorrente in Pound, come dimostrano le
citazioni successive.
6 Id., Materialismo, 26 giugno 1943, ivi,
p. 237.
7 Il volume Jefferson and/or Mussolini (sottotitolo: L’idea statale, Fascism as I Have Seen It)
uscì nel 1935, ma fu redatto in poche settimane
nel febbraio 1933, dopo l’incontro con Mussolini. Cfr. E.P., Jefferson e Mussolini, pref. di
L. Gallesi, Terziaria, Milano, 1995 (si tratta della ripubblicazione dell’edizione italiana, riveduta, corretta e tradotta dallo stesso Pound nel
1944, anno in cui uscì per i tipi della Casa Editrice Edizioni Popolari di Venezia. Quasi tutte le
copie andarono distrutte poco dopo).
8 Id., In memoria di James Joyce, 1941, ivi,
p. 93.
Caffè Michelangiolo
Le buone arti
9 Id., Un problema di motivazione, aprile
1942, ivi, p. 128.
10 Per un breve ma efficace profilo di Gesell,
cfr. G. Alvi, Uomini del Novecento, Adelphi, Milano, 1995, pp. 150-153. Gesell riteneva esistesse una grave e ingiusta disparità tra merci e
denaro: mentre le prime non potevano accumularsi senza costo e deperimento, l’accumulazione di denaro dava profitti. Occorreva allora determinare anche il progressivo depauperamento
della moneta. Come? Tramite un interesse negativo oppure un bollo allo scadere di ogni anno
o ogni volta prima di spenderlo, così da segnarne la perdita d’acquisto. L’obiettivo era stimolare la circolazione di denaro e il consumo, impedendo tesaurizzazioni a scopo di lucro (usura, in
primis).
11 Cfr. H. Carpenter, Ezra Pound, cit., pp.
723-724.
12 Cfr. E.R. Papa, Storia di due manifesti.
Il fascismo e la cultura italiana, con un saggio di
F. Flora, Feltrinelli, Milano, 1958.
13 U. Berti Arnoaldi, Ansaldo, Giovanni, in
Dizionario del fascismo, a c. di V. de Grazia e
S. Luzzatto, vol. I (A-K), Einaudi, Torino, 2002,
pp. 57-59. Si veda anche G. Ansaldo, Il giornalista di Ciano. Diario 1932-1943, intr. di
G. Marcenaro, il Mulino, Bologna, 2000.
14 G. Ansaldo, In viaggio con Ciano, pref. di
F. Perfetti, Le Lettere, Firenze, 2005, p. 93.
15 Ivi, p. 94.
16 Ivi, pp. 94-95.
17 Cfr. D. Rocca, Drieu La Rochelle. Aristocrazia, eurofascismo e stalinismo, pref. di
M. Brunazzi, Stylos, Aosta, 2000.
18 Cfr. M. Serra, Al di là della decadenza. La
rivolta dei moderni contro l’idea della fine, il
Mulino, Bologna, 1994.
19 E.P., L’essenza del tradimento, 2 maggio
1943, in Id., Radiodiscorsi, cit., p. 209.
20 Id., Sumner Welles, cit., p. 211.
21 Cfr. H. Carpenter, op. cit., p. 720. Si veda
anche il testo originale nell’edizione inglese dei
radiodiscorsi: “Ezra Pound Speaking”. Radio
Speeches of World War II, a cura di L. Doob,
Greenwood Press, Westport-London, 1978,
p. 140.
22 E.P., Sumner Welles, cit., p. 212.
23 Cfr. M. Serra, L’esteta armato. Il PoetaCondottiero nell’Europa degli anni Trenta, il
Mulino, Bologna, 1990.
24 E.P., Sumner Welles, p. 212.
25 E.P., L’essenza del tradimento, cit., p. 209.
26 Cfr. G. Parlato, La sinistra fascista. Storia
di un progetto mancato, il Mulino, Bologna,
2000.
27 E.P., L’essenza del tradimento, cit., p. 209.
28 Cfr. G.L. Mosse, Il poeta e l’esercizio del
potere politico: Gabriele d’Annunzio, in Id., L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. 97-115.
29 G. Ansaldo, In viaggio con Ciano, cit., p. 96.
30 E.P., I Cantos, a cura di M. de Rachewiltz,
Mondadori, Milano, 1985, p. 393 [“Ma qvesto,” | said the Boss, “è divertente.” | catching the
point before the aesthetes had got there; | Having
drained off the muck by Vada | From the marshes, by Circeo, where no one else wd. Have
drained it. | Waited 2000 years, ate grain from
Caffè Michelangiolo
the marshes: | Water supply for ten million,
another one million “vani” | that is rooms for
people to live in. | XI of our era”].
31 T. Redman, Ezra Pound and Italian Fascism, cit., p. 95 (la trad. è nostra).
32 Ivi, p. 96 (la trad. è nostra).
33 Cit. in G. Lunghini, op. cit., p. 11.
34 E.P., Canti Pisani, pref. di G. Raboni, tr. it.
di A. Rizzardi, Garzanti, Milano, 2004, pp. 141
e 143 [“and as to poor old Benito | one had a safety-pin | one had a bit of string, one had a button | all of them so far beneath him | half-baked
and amateur | or mere scoundrels”].
35 M. Simonetta, Letteratura e propaganda:
Pound poeta del regime, in “Nuovi Argomenti”,
n. 11, aprile-giugno 1997, pp. 47-59.
36 Cit. in T. Redman, op. cit., p. 239 (la traduzione è nostra; lo stampatello è nel testo).
37 Cfr. L. Gallesi, Le origini del fascismo di
Ezra Pound, intr. di G. Accame, Ares, Milano,
2005. L’A. ricostruisce l’ambiente di intellettuali riunito prima della Grande Guerra attorno
al settimanale inglese “The New Age” di Alfred
O. Orage, fondamentale, assieme all’insegnamento del filosofo T.E. Hulme, nella maturazione di molte delle convinzioni politiche e sociali
che Pound svilupperà successivamente.
38 E.P., L’America era promesse,1941, in
Id., Radiodiscorsi, cit., p. 46 (lo stampatello è
nel testo).
39 Si veda l’intervista a Daniel Pipes di Susanna Nirenstein, in “la Repubblica”, 21 maggio
2005. All’inizio del 1943 Pound diceva alla radio: “non potrete capire la storia americana senza immergervi nei problemi del debito e dell’usura. Fino ad ora non è apparsa una storia dell’America che prendesse in seria considerazione
la componente dell’ebraismo” (Filologia, in E. P.,
Radiodiscorsi, cit., p. 188). Di Pipes si veda
Il lato oscuro della storia. L’ossessione del grande complotto (1997), Lindau, Torino, 2005.
40 M. Simonetta, art. cit., pp. 53-54.
41 Su Ungaretti e la sua adesione convinta al
fascismo, e in particolare all’uomo e al mito
Mussolini, si veda C. Auria, Ungaretti e il fascismo alla luce di un documento inedito, in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, XIV-XV,
2002-2003, pp. 253-260.
42 Cfr. C. Pellizzi, Ezra Pound uomo difficile, in “Il Tempo”, 20 marzo 1953.
43 Cfr. M. Simonetta, art. cit.
44 E.P., Napoleone, etc., 2 marzo 1942, in Id.,
Radiodiscorsi, cit., p. 117.
45 Cfr. Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani,
il Mulino, Bologna, 1990.
46 “There are two kinds of people in Italy,
those who have tolerated and/or exploited fascism and those of us who needed the new Italy to
breathe in” (E. P. a C. Pellizzi, 2 maggio 1936,
in Archivio Camillo Pellizzi, b. 4, f. 13, sf. 13/1).
47 Cfr. A. Hamilton, L’illusione fascista, Mursia, Milano, 1972. L’edizione originale in lingua
inglese, del 1971, recava il titolo The Appeal of
Fascism.
48 Per una rassegna, sintetica ma efficace,
dei movimenti e regimi para-fascisti nell’Europa
centrale e orientale fra le due guerre, cfr. R.O.
Paxton, Il fascismo in azione, Mondadori, Milano, 2005.
EZRA POUND
Nato nel 1885 a Haley nell’Idaho,
Ezra Pound muore a Venezia nel 1972.
Dopo gli studi alla Pennsylvania University e allo Hamilton College di Clinton (New York), e vinta a ventidue anni
una cattedra alla Wabash University nell’Indiana, si trasferisce definitivamente
in Europa nel 1908 (Gibilterra, Venezia,
Parigi, Londra), stabilendosi nel 1925 a
Rapallo dove rimane fino al 1945. In
Italia lo spinge la convinzione che il regime mussoliniano abbia significativi
punti in comune con il sistema sociale
che lui vagheggiava, ispirato al «socialismo corporativo» di Douglas. Nel 1919
aveva cominciato a realizzare la sua opera maggiore, quei Cantos cui continuerà
a lavorare fino alla morte (il penultimo
dei Pisans Cantos chiude: «O let an old
man rest»). Poeta, prosatore, critico, traduttore, impresario di cultura, pubblicista politico, fondatore di movimenti letterari e di riviste, scopritore di ingegni,
durante la seconda Guerra mondiale fa
propaganda per l’Asse e al termine del
conflitto verrà prima imprigionato e
quindi internato in un ospedale psichiatrico. Sarà liberato il 18 aprile 1958 dallo stesso giudice della Corte distrettuale
di Washington, Bolitha Laws, che lo aveva spedito al St. Elizabeth il quale ritirerà l’accusa di alto tradimento. Decisive si riveleranno le pressioni di Eliot,
Hemingway, Auden, Tate, Lowell,
Aiken, Theodore Spencer, Thornton Wilder, Marianne Moore, Edith Hamilton,
Williams Carlos Williams, Stephen Spender, Cummings, Anne Porter. Cui si aggiungeranno quelle di Robert Frost
ascoltatissimo alla Casa Bianca. Gli anni
del manicomio sono stati ricostruiti da
Piero Sanavio nel libro La gabbia di
Ezra Pound, uscito in tiratura limitata
da Scheiwiller nel 1986, che ora riscritto e arricchito torna in libreria per i tipi
dell’editore Fazi. In uno dei suoi famosi
Incontri, sul “Corriere della Sera” di domenica 11 aprile 1971, Indro Montanelli conclude così l’elzeviro che dedica
al poeta: «… mi tornano in mente quei
soldati americani che rinchiusero Pound
in una gabbia di metallo come una belva idrofoba, quei giudici americani che
prendendo per deviazionismo ideologico
le sue poetiche chimere lo condannarono a vivere per tredici anni da pazzo in
un ospedale di pazzi, quegl’intellettuali
italiani che applaudirono tanta mostruosità, e quelli che, come me, ne inorridirono, ma non osarono denunziarla».
a cura della Redazione
11
La poesia
TEOLOGIA FAMILIARE
poesie di Fornaretto Vieri
presentate da Alessandro Fo
N
el titolo Teologia familiare si
scorge una sorta di stemma della poesia di Fornaretto Vieri, i
cui temi fondanti sono appunto il ricordo intenerito dei molti doni d’affetto ricevuti in seno alla famiglia e quella ricerca di Dio che sembra configurarsi come un mai appagato desiderio
di risalire alle sorgenti ultime di ogni
amore e di ogni grazia, l’Archetipo da
cui si sono ripetute nella sua vita le
meraviglie di cui sono capaci le creature. Questa breve, organica silloge
stringe in una sola campitura la capacità di ricondursi con singolare nitore
agli stupori dell’alba della vita (V) e
quella di distillarne le tracce di Bene,
che poi si proiettano sull’arco di una riconoscenza aperta all’infinito, e organizzata in una climax che dall’«amore
del padre e della madre» sale a perdersi
«negli spazi stellari, nell’illimite/ superna vastità dell’universo» (III). «Luce»
e «amore» (martellata, questa, in stile
di sestina nel terzo componimento)
sono le parole chiave di una prospettiva lirica che corre con impressionante,
musicale naturalezza dal privatissimo
all’universale, sulle ali di un verso limpido e fastoso, impreziosito da scelte
lessicali che si fanno sovente luce esse
stesse («l’azzurro, il verde, il libro smeraldino»: VIII).
Del resto già nelle sue due raccolte
edite da Polistampa, Vieri dà prova
di una prestigiosa capacità di affrescare l’invisibile con parole sicure e
maestose, spesso attinte a gamme verbali inconsuete, ma senza mai cadere
nell’artificiale o nel macchinoso: si
tratti di catalogare dalle sue più lontane origini il creato (da «falaschi, variofilli, vallisnerie» a «gazze, taccole,
storni, scopetagnole | e passeri, luì e
codibugnoli») o di «sperar nella superna stanza, | a cui il polso del mondo volge il remo», magari avvolti nella «chiara clamide di odori» con cui
«l’ora dell’alba si rinnova» (ho citato
da L’oltranza del vero, pp. 16 s. e 59:
12
Vieri con le vette teologiche coglie in
questi inediti una gemma con la conclusiva vittoriosa scommessa di un inno
cletico, “premio | ch’era follia sperar”.
In appendice a Teologia familiare
compare una ulteriore brevissima silloge manoscritta con il titolo La luce dell’essere.
A.F.
Teologia familiare
i
Fornaretto Vieri.
Fornaretto Vieri è nato a Firenze,
dove si è laureato con Lanfranco Caretti e dove insegna materie letterarie
nelle scuole superiori. Si è occupato in
particolare di poesia italiana ed europea tra fine Ottocento e inizio Novecento. Ha pubblicato due raccolte di
versi, Tartaria (Firenze, Polistampa,
1999) e L’oltranza del vero (Firenze,
Polistampa, 2003), il saggio di critica
letteraria Intorno alle Fiale. Incunaboli del protonovecento govoniano
(Firenze, Le Lettere, 2001) e Gli anni
della storia. Un’antologia di date da
Abramo alla caduta del muro di Berlino (Firenze, Libri Liberi, 2003).
Coltiva anche interessi filosofici e teologici collaborando a varie testate
(“Città di Vita”, “Rivista di Ascetica e
Mistica”).
su questo splendido libro si può leggere una lettera aperta di Stefano
Carrai al poeta nel numero VIII.1 del
“Caffè Michelangiolo”, Gennaio-Aprile 2003, p. 65).
L’ormai lunga confidenza, tanto filosofica quanto lirica, di Fornaretto
Il primo luogo, l’intimo, il profondo
a conoscere il senso della vita,
la bellezza dell’essere e dell’esserci,
la meraviglia, il canto delle cose,
è quello che – misura d’ogni vero
che con nostra ragione poi si apprenda
e col cuore e con tutta la persona –
sorge come d’incanto dall’amore
della madre e del padre, chiaro anticipo
della felicità che ci è promessa
di là dal tempo, un giorno, oltre la storia.
ii
Tu mamma mi insegnasti le più dolci,
le più sante, le massime preghiere,
brevi come le mie piccole mani
giunte, come tu mi dicevi di tenere.
Mi insegnasti il mistero dell’amore,
in poche frasi, quando io ti chiedevo
perché Lo crocifissero e dicesti
di quella sua bontà che non ha fine.
Tu mi insegnasti, mamma, quell’amore
con lo sguardo con cui certo tu sola
ogni volta sapevi starmi accanto,
con un bacio od un gesto o una parola.
iii
Nell’amore del padre e della madre
ci ha dato il Padre un segno del suo amore,
di quell’amore che non chiede in cambio
ma che rivela come tutto è amore:
nella realtà più vera di ogni essere,
Caffè Michelangiolo
La poesia
nell’essenza sottile della luce,
nei palpiti di vita fra le piante,
nel volo degli uccelli, dentro il turbine
alto nei cieli, e negli oceani immensi,
negli spazi stellari, nell’illimite,
superna vastità dell’universo.
iv
Ci può essere poi nella famiglia
una dolce presenza, del suo amore
generosa soltanto, e che non vuole
che il bene di quei cari a cui si dona,
dimentica di sé, del suo gran cuore.
Al nostro focolare il suo calore
aggiunse allora – e il fuoco non vacilla
mutando i tempi, ma si avviva ancora –
la zia Franca, la nostra unica “Pilla”.
v
Era un evento allora ogni stagione
e luce era ogni evento:
il ritorno alla sera di mio padre,
che ogni volta, abbassandosi, allargava
verso di me le braccia ed io correndo
gli balzavo su in collo, oppure quando
con gli occhi spalancati i suoi racconti
ascoltavo nel letto: i cavalieri
m’eran dinanzi, gli elmi, le visiere
e i nitriti fumanti dei cavalli,
le battaglie dei venti per i cieli
e i fatati castelli e il vasto incanto…
vi
Talvolta a notte alta o quando appena
per le imposte accostate si schiudeva
un poco di chiarore nella stanza
mi svegliavo di colpo per un sogno
di paura, ma stavo allora in mezzo
a mia madre e a mio padre dentro il grande
letto, appoggiato sopra il guancialino,
da ogni parte sicuro, ero protetto
dal loro amore: un brivido di gioia
accompagnava il mio riaddormentarmi.
viii
La Pilla nelle mie convalescenze
prendeva i grandi “libri delle fate”,
l’azzurro, il verde, il libro smeraldino,
e a lungo mi leggeva quelle fiabe
che aprivano il mio cuore e la mia mente
come al “gigante egoista” il suo giardino.
Non chi le aveva scritte o chi le avesse
regalate distratto, ma lei sola,
partecipe con me, semplicemente,
mi donava ora l’una or l’altra storia.
ix
Soccorrici Signore, tu che sai
ascoltar le più povere preghiere,
accoglilo quel poco di quel bene
che nei nostri atti trovi posto mai,
Signore onnipotente, Tu che hai
pietà di noi e delle nostre miserie,
che in groviglio di colpe sai vedere
quello che resta delle tue creature,
conservale, Tu lo puoi, per la tua pace,
ci salvi, mio Signore, la tua Croce.
x
Sia lodato il Signore, per lo scandalo
santo del suo perdono, per l’amore
che dona agli operai dell’ultim’ora
la stessa ricompensa che dà ai primi,
la stessa pace e gioia del perdono
e il prodigo festeggia più del giusto.
Sia lodato da tutti noi che siamo
ciascuno il figliol prodigo, seppure
a volte ci credemmo l’altro, il giusto,
e ci demmo così parte peggiore,
la parte di colui che non si è accorto
d’esser col Padre e non ne ha gioito,
che festa non ne ha fatto con se stesso
né con gli altri. Per sempre sia lodato
l’Altissimo, il Signore, perché è buono,
Lui soltanto, alla luce del cui amore
nostra giustizia dice quanto è poca.
xi
vii
Interrompeva le faccende mia madre
e mi prendeva in collo sorridente:
per la mia felicità, per la mia gioia,
la sua guancia alla mia così vicina,
la sua limpida voce, la luce
del suo sguardo, leggeva
attenta, senza alcuna noia…
Mai altre storie furono più belle.
Caffè Michelangiolo
Tu luogo di ogni luogo, Tu l’Altrove,
il dove di ogni essente, il Prima e l’Oltre,
il senso, il fine, la promessa, il Nuovo,
il non luogo che è ovunque, Tu il Vivente,
Tu l’Eterno, il presente e il non ancora,
il Dio-con-noi e che verrà, che viene,
Tu il Signore del tempo e della storia,
che rovesci i potenti e innalzi gli umili,
Tu Padre e Figlio, Spirito d’amore,
Tu santissima Luce, eterna gloria.
13
La narrativa
«La madre non diceva niente. Cominciava a sentire tutti i suoi
settantacinque anni, si sarebbe detto. E l’ingombro che dava.
Almeno l’avessero lasciato a casa, nella sua cucina…»
COMPLEANNO IN FAMIGLIA
racconto di Mario Graziano Parri
M
amma. La figlia Maria stava
tornando alla carica. Mamma,
qualcosa di meno impegnativo.
Che te ne fai da sola di tanto spazio?
Ma certo, l’ospizio: la madre non aveva
parlato, tuttavia quelle parole si sarebbero potute leggere sulle sue labbra, da
tempo non più rosse però marcate come
da un tratto di carboncino. Il fatto era
che lo volevano per sé, l’appartamento.
Un acquisto che lei aveva fatto con il
gruzzolo lasciatole dai suoi genitori
quando suo marito era stato trasferito:
il più giovane capostazione cooptato
come esperto dalla Direzione Materiali e
Trazione. Che cosa credevano, non lo
sapesse? Avevano in mente di comprarselo loro. Con un prestanome, una società di comodo. E occupato. Occupato
da lei, e per questo alla metà del valore.
Ce la faceva benissimo con la pensione
di reversibilità: non era un condominio
caro, e nel quartiere la conoscevano tutti. Il pane, il latte, la carne, glieli portavano fino in cucina. E il medico aveva lo
studio al piano sotto il suo. Loro ce l’avevano, una casa. Dove lei si trovava
ora, per il pranzo di compleanno. Ma la
sua era più spaziosa: due terrazze, il
garage in cui lei teneva quelle che suo
genero chiamava carabattole, il bagno
con la cabina della doccia separata.
E due camere. In più il soggiorno.
Grande. Anche se lo teneva chiuso perché adesso era vuoto. C’era poi il ripostiglio, con le scaffalature e la finestra:
quasi una stanza. Suo marito ci teneva
di tutto. Negli ultimi anni non ci vedeva quasi più: maculopatia. Una forma
degenerativa. Lei però ci vedeva, e benissimo. Non le erano sfuggiti quei documenti lasciati sopra la borsa, sulla
sedia nell’ingresso. Sua figlia li aveva
subito fatti sparire, Sandro lascia tutto
nel mezzo. Le sue cose di ufficio… benedett’uomo! Ma lei aveva avuto il tempo di imprimerseli: lo scatto di una foto.
Per poi rivedersela mentalmente. La
14
Mario Graziano Parri (foto I. Iandelli).
Mario Graziano Parri è autore di
romanzi (La signora del gioco, Firenze 1984; Magenta Petrel, Milano
1990), di alcuni libri di poesia (si ricordano Se parla la spiga d’estate,
1981; Questa è la rosa e qui danza,
1982; Codice occidentale, 1983; La
notte precedente il nostro futuro,
1985; Stella di guardia, 2001), di un
saggio (Domenico Giuliotti, Roma
1971), di una pièce (Addio figliol prodigo, Radiodue 1983, 1985). Una raccolta di racconti, Santi all’Inferno,
uscì nel 1960. Vive fra Firenze e Tirli, in Maremma.
planimetria, la rendita catastale, il prezzo. E soprattutto il nome del venditore,
il suo: Maddalena Ronsisvalle, nata a
Catania il 17 aprile 1927. E dell’acquirente: la immobiliare Marisand. Mancavano solo le firme dal notaio.
Il figlio Giovanni arrivò senza la moglie. Era indisposta, come la madre aveva previsto. Lui portava con sé la bambina, una gonfia bambola con i capelli
stopposi. Il vaevieni di quei maldischiena, un tormento per la povera Cecilia, si
scusò. Le piombavano addosso specialmente dopo che era di turno la notte, in
ospedale una caposala non ha tregua.
Per di più in casa si era guastato l’autoclave e di idraulici nemmeno a parlarne.
La realtà era che lei non se la intendeva con i cognati. La faccenda di portarsi in casa la madre o di andarci loro
in casa da lei… voleva dire prendersi
tutto, pensione e deposito alla Posta
compresi. E chi s’ è visto s’è visto. Giovanni diceva di no, è perché non stia
sola. Ha settantacinque anni, tu poi non
l’hai mai voluta con noi. A questo punto la collera di Cecilia passava il livello
di guardia. Loro intanto si sono presi i
mobili del soggiorno. Ti fai sempre fregare, il solito rinunciatario inetto. Sai
solo sfogarti con la bicicletta e sarai anche impotente presto, è la compressione
dei vasi sanguigni sul perineo provocata dal sellino. Ti porterò a leggere il
“Journal of Sexual Medicine”: disfunzione erettile si chiama. Perché non li
abbiamo presi noi? Perché?
Giovanni era accomodante, con quella sua fronte aggrondata sotto cui gli
occhi avevano uno sguardo spaesato. Ma
cara, se li hai sempre trovati troppo pretenziosi quei mobili, troppo carichi. Con
le finte zampe di leone. Quando lei si
innervosiva il labbro di sopra si arricciava ancora di più e scopriva la gengiva. Potevamo averli noi, adesso. Ma tu ti
lasci fregare.
Sempre ti lasci fregare. Sempre. Non
è forse così? Dalla brava sorellina. E non
parliamo di tuo cognato, lo stronzetto.
Se ci tieni tanto a passare da minchione,
buon pro ti faccia. Io non sono quel tipo.
E poi abbiamo una figlia, noi.
La madre su quel matrimonio si era
sempre astenuta dal dare un giudizio,
non suo marito. L’ha presa per via delle tette: cos’altro ha, lei? La messinscena del prete e dei fiori non basta, è difficile stabilire da quando una persona
diventi di famiglia. La madre taceva,
suo marito invece non lo mandava a
dire: quella, di famiglia, non lo diventerà mai. Lo mena per il naso. Eh, se la
Caffè Michelangiolo
La narrativa
sa lunga… Suo marito aveva la passione della lettura, nel suo gabbiotto fra un
treno e l’altro c’era sempre stato un libro a portata di mano. Una volta gli
era capitato di leggere di un caminetto
girevole, nella camera da letto di un
gran signora di Parigi.
L’appartamento della madre era da
ristrutturare, difficile che tutto andasse
a posto prima di un anno. E si doveva
trovare una sistemazione per lei, un po’
fuori. La città costa un occhio. Un quartierino in periferia o anche in campagna… doveva rientraci con la pensione
e rimanerci qualcosa. L’età, le medicine.
Il pranzo di compleanno sanzionava
Bisognava cominciare a pensarci. Ci sache erano già passati settantacinque
rebbe stato bisogno di assistenza, più
anni. Ancora non era stato apparecchiaprima che dopo come si dice. I settanto. La madre doveva per forza stare a catacinque c’erano tutti. Certo che a quel
potavola; e i due figli, Giovanni alla sua
punto la rottura era inevitabile. Non
destra, Maria dall’altra parte. Poi c’era la
tanto suo fratello, era un posapiano e
nipote da sistemare… beh, alla destra di
non voleva questioni. Ma quella strega
suo padre. E il genero. Alla sinistra di
di moglie che lo faceva rigare… e quelMaria non ci poteva stare: marito e mola orribile figlia gonfia come un Micheglie insieme, no. La madre non diceva
lin… Come, vi siete presi la casa e mesniente. Cominciava a sentire tutti i suoi
so lei all’ospizio?, Maria le fece il verso.
settantacinque anni, si sarebbe detto.
Le mancava di mettere i bicchieri, da
E l’ingombro che dava. Almeno l’aves- Henri Rousseau, Bambina con bambola, 1908. parte aveva un paio di bottiglie di sansero lasciata a casa, nella sua cucina… Parigi, Musées Nationaux - Coll. Walter-Guillaume. giovese e in frigo un prosecco. Per il
Bisogna che Cecilia venga, Maria cominbrindisi. L’aveva portato Giovanni, si
ciava ad averne abbastanza. Che venga posate, i tovaglioli. Quelli di carta. Si sa- era voluto sciupare
ad ogni costo. Per via dei posti. Ma non rebbe anche potuti andare tutti fuori.
La madre non diceva niente. Stava
sarebbe andata bene lo stesso. Accanto a Maria lo aveva messo in conto. Suo ma- lì, sulla sedia dove l’aveva fatta metteGiovanni, no. E accanto a Maria… due rito e lei, Giovanni e la figlia. E per la re la figlia. Un po’ scomoda, nel salotto
donne insieme. E la piccola Maddalena. madre avrebbero fatto a metà. Lei e il arredato con i suoi antichi mobili e diDa sola a capotavola, di fronte a sua fratello. Se non si faceva in casa, proba- viso dalla zona pranzo dalla bassa linonna? La madre, era lei che doveva bilmente ci sarebbe stata anche Cecilia. breria con le colonnine panciute che suo
spostarsi. Allora, capotavola suo marito, Però lei e lui, la cognata e il fratello, marito aveva fatto montare lungo una
e lei, Maria, dalla parte opposta. Dopo- avrebbero preteso di pagare tutto a metà. parete del loro soggiorno. Suo marito
tutto era la loro casa. A destra di suo E loro erano tre, così andava a finire che ci teneva i testi tecnici, ben ordinati con
marito, la madre, accanto a Giovanni. per la madre avrebbero pagato solo loro i romanzi che erano stati la sua passioLa bambina… tutta sola dirimpetto. Con due, la figlia e il genero.
ne. Sul ripiano comparivano le foto dei
suo padre e la nonna
matrimoni: quello di
davanti. Nemmeno
Maria e quello di Giocosì poteva andare. Ai
vanni. E anche del
due capi della tavola:
loro, nel piazzaletto
suo marito e suo fradi via Santa Maddatello. La madre, alla
lena, con la chiesa di
sinistra del figlio con
Sant’Agata la Vetere
accanto la nuora.
alle spalle La madre
E dall’altra parte, anfissò nello scaffale
tistante la madre, la
uno dei libri: al marifiglia, alla destra del
to non era piaciuto, a
fratello, e la nipote,
lei invece era rimasto
fra suo zio e lei. Se
bene in mente. RacCecilia non veniva…
contava di una vecse non veniva, la machia e del suo viaggio
dre avrebbe occupato
verso la montagna
il lato lungo da sola.
dove andava a laFra suo figlio e suo
sciarsi morire chi era
genero. Così forse si
alla fine della vita.
risolveva. Anzi, non
Per non essere di peso
c’era altra soluzione.
ai figli.
E adesso non le rimaOgni tanto baleneva che tirare fuori Marcello Fogolino, Banchetto, 1520 ca., affresco, cm 300 x 500, Ghisalba (Bergamo), Castello nava sulla madre lo
la tovaglia. I piatti, le Malpaga.
sguardo della figlia
Caffè Michelangiolo
15
La narrativa
affaccendata intorno alla tavola. Un’altra sistemazione. Provvisoria. Maria da
tempo la meditava. Tanto per un primo
periodo… proprio a ridosso della finestra un divanoletto ci andava giusto
giusto, e nel disimpegno alcuni ripiani
dell’armadio a muro li poteva liberare.
Con qualche gruccia…
antipasto. La cognata le rivolse quel suo
lampo furente: possiamo anche andarcene. Abbiamo di che sfamarci, cosa credi. Se non fosse perché mamma fa i settantacinque e la prossima volta potrebbe non esserci.
Finalmente giunse anche Sandro.
Con quella permanente aria indaffarata
e le florsheim con la spessa suola impunturata. Anche la grossa borsa che
la partita. Sapete come sono i tifosi. Davanti a sé Giovanni aveva una barriera
di palline di mollica, le produceva con
meticoloso puntiglio fra l’indice e il pollice per occultare le macchie di vino.
Sua moglie alla sinistra della madre
sembrava deliziata dallo smalto delle
proprie unghie. Darei qualunque cosa
per farmi un idraulico, disse contiNella zona pranzo lei non aveva fininuando a guardarsele e senza curarsi
to di apparecchiare che
della figlia. È il solo uomo
con irritante invadenza il
di cui una donna non può
campanello dell’ingresso
fare a meno. Se non ci rieprese a gracchiare. Un
sco, mi porterò a letto un
suono snervante e acido.
cinese: di quelli ce ne sono
Sandro… avrà scordato le
quanti se ne vuole.
chiavi. Come al solito.
Quando Maria portò in
Però non è la sua scampatavola la sfogliata di ricotnellata. C’era la cognata
ta neppure alla bamboccia
alla porta: non potevo non
era rimasto un residuo di
venire. La madre se la
appetito. Guardarono la
vide arrivare troneggiante
vecchia. Quella bocca che
e popputa sulla gambe
non aveva chiaccherato né
magre, i capelli crespi e la
riso e di malavoglia manvistosa Louis Vuitton atdato giù qualche boccone e
taccata al braccio. Settanqualche sorso, quella bocca
tacinque anni, signora
con le labbra indurite e la
Maddalena. Settantacinscura peluria sotto il naso
que. Come avrei potuto
un po’ ricurvo, adesso
non venire. E si piegò verquella bocca avrebbe doso la suocera, ma lei
vuto far uscire il fiato di cui
schivò il bacio. E non disancora disponeva e conse niente, seduta rigida
centrarlo sulla faticosa disulla scomoda sedia. Ma
stesa di candeline: esibire
probabilmente doveva torcosì l’atto definitivo di una
narle davanti l’immagine
volontà contrariata, che si
di quel caminetto girevole
era fin lì tirata indietro.
e l’amante dalla casa viciFallo tu, piccola. Si lina che passava nella camitò a queste parole.
mera della signora. E il
Furono le uniche che la
marito di lei era un po’ Erich Heckel, Fratello e sorella, 1911, olio su tela, cm 76 x 65. Karlsruhe, Staatliche madre avesse detto da
come Giovanni. Che sor- Kunsthalle.
quando era lì, nella casa
prendendoli, si sarebbe lui
della figlia e del genero, e
sentito in colpa di fronte alla moglie: ti stringeva era americana, la posò e fece con l’altro suo figlio, e la nuora e la nisembra una cosa da fare? E se ti avesse il gesto di chinarsi a baciare la suocera, pote. Come i rintocchi di una pendola,
scoperto qualcun altro?
lei lo prevenne. Piegò la testa da una che definiscono il tempo ormai scaduto.
La passività della madre esasperava parte e rimase così, chiusa nel suo vigi- Le guance della bambina avevano racla nuora, era la passività di un vetro ta- le mutismo.
colto tutta l’aria che potevano. Gonfie e
gliente. Maria ne approfittò. Posa pure la
Mangiarono frettolosamente, la ni- tese la trattenevano a stento sopra la torborsa, è un regalo di tuo marito? Oh, pote sempre più gonfia e imbrattata di ta: e quando lei la lasciò uscire, tutta
dici questa…? E Cecilia si volse verso la coca cola; Gualtiero del tutto estraneo, quell’aria, fu come se soffiasse sulla fiamcognata con uno scatto. Una donna deve lo chiamavano al cellulare o era lui a ma della vita.
cogliere le sue opportunità, disse con chiamare. Ce n’erano due, accanto al
uno sprezzante risolino. E vivere, ag- piatto: squillavano imperterriti, senza
(dicembre 2005) ■
giunse. Tuo marito, Maria lo disse come riguardi per la ricorrenza familiare. Prise non avesse sentito e si era messa a ma del dolce lui si alzò, si passò sul
completare l’apparecchiatura, tuo mari- mento sporgente il tovagliolo di carta. NOTA
to è di là in cucina. E tua figlia si starà Scusate, disse. Devo portare delle perQuesto racconto è tratto dalla raccolta inedigià abbuffando di crocchette, così addio sone a vedere una casa e chi la vende ha ta intitolata Un caldo rifugio interiore.
16
Caffè Michelangiolo
La narrativa
«… quel giorno, 3 maggio 1918, avrebbe potuto cambiare non solo la sua vita
e quella di Katherine, ma l’intero corso della letteratura inglese»
UN ANELLO PER KATHERINE
dal romanzo di Linda Lappin
traduzione diSandro Melani
Londra. Ufficio dello stato civile di
Kensington.
I
l giudice era quasi calvo e aveva la
pelle gialla. Sopra la gola spuntava
un leggero gozzo che a Murry, al
fianco di Katherine in attesa dell’inizio della cerimonia, servì da diversivo.
Il suo sguardo continuava a posarsi su
quel rigonfiamento carnoso, come se
fosse un segno che bisognava ancora
decifrare. Lui e Katherine, grazie a
Dio, erano tuttora una bella coppia nel
fiore degli anni, senza nessuna deturpazione visibile.
In effetti, si rendeva ben conto di
avere un aspetto distinto con il monocolo e i pantaloni sale e pepe, ma si
sentiva leggermente impacciato e sperava che nessuno avesse notato che i
gemelli erano stati ingegnosamente improvvisati attorcigliando due pezzetti
di fil di ferro di una bottiglia di ginger
ale. Quella mattina aveva perso l’unico paio che possedeva, due opali montati in oro che gli aveva regalato sua
madre quando era andato a Oxford, e
prima di raggiungere in bicicletta l’ufficio dello stato civile di Kensington,
dove stava per sposarsi con Katherine,
aveva dovuto inventare alla svelta
qualcosa che li sostituisse. Fissò il calendario sulla parete dietro al banco
del giudice e pensò che quel giorno,
3 maggio 1918, avrebbe potuto cambiare non solo la sua vita e quella di
Katherine, ma l’intero corso della letteratura inglese.
Si sentiva stranamente distaccato da
se stesso. Che cos’era quel filtro tra lui
e il suo io, tra l’intenzione e l’atto, tra la
mente e il corpo che eseguiva i movimenti richiesti dall’occasione? Senza
avvertire nessuna emozione pensò che il
torpore delle sue reazioni dipendeva
dall’incertezza sul passo che si accingeva a compiere. Oh, desiderava
Katherine e al pensiero della sua palliCaffè Michelangiolo
Linda Lappin.
Linda Lappin ha conseguito un
Master of Fine Arts in scrittura creativa
nella University of Iowa Writers Workshop nel 1978. Nello stesso anno è giunta in Italia con una borsa di studio Fulbright per partecipare a un seminario
di traduzione letteraria diretto da William Weaver. Lavora come lettrice nelle
università italiane dal 1980, prima alla
Sapienza di Roma e attualmente alla
Università della Tuscia. Si occupa di
scrittrici e artisti degli anni Venti. Katherine’s Wish è il suo secondo romanzo.
Il primo, The Etruscan, è stato pubblicato nel 2004 a Galway (Irlanda) da
Wynkin de Worde.
da e luminosa nudità nel suo letto gli
tremavano le ginocchia. Grazie a quel
rito, sarebbe stata sua per sempre. La
adorava. Per lui era tutto, come non lo
era mai stata e come non lo sarebbe
mai stata di nuovo nessun’altra donna.
Era una tigre, guidata dall’ambizione,
che lo incitava a seguire il suo galoppo.
Era una bambina innocente che gli si
stringeva al petto in cerca di protezione, e il pensiero della sua vulnerabilità
gli fece gonfiare il torace come se volesse abbracciare l’intera stanza in cui
si trovavano. Era una principessa con
una sensibilità impareggiabile. Senza
dubbio era la donna più intelligente
dell’Inghilterra e uno dei più grandi talenti letterari della sua generazione. Ed
era stato lui a scoprirla quando sulla
sua rivista, “Rhythm”, le aveva pubblicato La donna dello spaccio, forse il
più brillante racconto del decennio. La
loro vita e la loro sorte non potevano
che essere favorite dalla loro reciproca
connessione. La storia della letteratura
avrebbe reso onore al loro nome. Perché questo avvenisse, forse il matrimonio non era necessario, ma desideravano sposarsi da anni e finalmente il divorzio di Katherine si era concluso.
Quel ridicolo pagliaccio di Bowden era
uscito per sempre dalla loro vita.
Non aveva mai ben capito perché
Katherine avesse sposato George Bowden e poi lo avesse lasciato il giorno
dopo senza consumare il matrimonio.
Ne dava la colpa all’inesperienza della
gioventù. Lui stesso era stato ed era
tuttora molto più povero di esperienze
di Katherine. Pensò per un attimo al
suo primo amore a Parigi, con cui aveva perso la purezza. Supponeva che
non fosse sconveniente che il giorno
del suo matrimonio un uomo ricordasse le sue precedenti relazioni. Marguerite, la bella campagnola francese, con
il petto florido compresso in un corsetto aderente con dozzine di piccoli ganci esasperanti che andavano slacciati e
un antiquato cappello di velluto nero
guarnito di ciliegie afflosciate che si
intonavano alle sue fulgide labbra.
Il ricordo più indelebile di Marguerite erano, cosa incredibile, quelle ciliegie sul cappello, che tremavano sopra il suo orecchio quando nel caffè
rideva, con troppa solerzia, per le sue
battute scadenti e dondolava una gamba avanti e indietro sotto il tavolo. Con
qualche sforzo riusciva a rievocare alcuni particolari di quanto era successo
17
La narrativa
dopo nella stanzetta di Marguerite: lo
schiocco della giarrettiera mentre si sfilava una calza, il baleno di una gamba
bianca e dei suoi fianchi pieni mentre
scivolava nuda sotto le lenzuola, l’odore, dopo, della stanza con le imposte
chiuse, una lampada che languiva sulla toeletta, la sua voce infantile che gli
chiedeva: «Tu n’es pas triste?». Il coi-
Katherine Mansfield nel 1913 con John Middleton
Murry, sposato a Londra nel 1915 dopo quattro
anni di convivenza e una volta ottenuto il divorzio da un precedente marito con il quale ebbe
un brevissimo rapporto infelice.
to in sé, immagine sfocata di un ardore ansimante, era stato troppo breve
perché meritasse ricordarlo e si era sentito triste – non era stato affatto come
se lo aspettava. Sì, allora credeva di
amare Marguerite e avrebbe anche potuto sposarla. La sua serietà monellesca avrebbe affascinato sua madre. Insieme avrebbero dato vita a un’invincibile coalizione contro di lui e lo
avrebbero inchiodato a uno scadente
lavoro impiegatizio che lo avrebbe costretto a rinunciare a “Rhythm” e alla
sua carriera letteraria. Non era successo, perché l’aveva crudelmente abbandonata. Rannicchiato nel treno che lo
riportava a Calais, dopo il loro addio
alla stazione aveva inghiottito i propri
colpevoli singulti. Non le aveva detto
che non sarebbe mai tornato. Le sue
lettere in seguito erano arrivare a
Oxford per mesi, ma i suoi errori di
ortografia gli facevano venire un nodo
alla gola e non era riuscito a risponderle. Poi, scendendo da un taxi a
Hampstead in una sera nebbiosa di dicembre, era entrata nella sua vita
Katherine Mansfield.
18
La cena in cui si erano conosciuti
era stata organizzata dietro sua richiesta. Dopo aver pubblicato il suo racconto, aveva passato un pomeriggio in
piedi davanti agli scaffali della libreria
di Dan Rider in St. Martin’s Lane e – visto che non si poteva permettere di
comprarne una copia per leggersela a
casa – vi aveva divorato da cima a fondo la sua nuova raccolta di racconti,
Una pensione tedesca. Un suo amico la
conosceva e aveva promesso di presentarli l’uno all’altra invitandoli a cena.
Mentre si recava di buon passo al suo
appuntamento a Hampstead, non sapeva bene cosa aspettarsi. L’autrice di
quei racconti possedeva un robusto vigore e un’ironia fulminante. Com’era
possibile che quella sua severa intensità potesse incarnarsi nella pudica ragazzina vestita di grigio che quella sera
era giunta in ritardo alla cena? Il suo
abito, quasi monacale nella sua semplicità, era adornato da una sola rosa
rossa, ma le calze nere e le scarpe color
argento erano da civetta. Elfo, vagabonda, seduttrice – era impossibile precisare a quale specie di donna appartenesse. Cambiava sotto gli occhi altrui ed
era sempre affascinante. Prima che
avessero scolato i bicchieri di whisky
del dopocena, sapeva che non doveva
perderla di vista e, con sua grande gioia,
mentre si salutavano giù nella strada, lei
lo aveva invitato a prendere il tè, promettendogli pane integrale e marmellata di ciliegie.
Il suo appartamento a Clovelly Mansions era sguarnito di mobilia e sul pavimento invece dei tappeti c’erano delle stuoie di giunco. In salotto c’era una
sola poltrona, su cui era stato costretto
a sedersi mentre lei, inginocchiata ai
suoi piedi come una geisha su un cuscino di seta viola, versava il tè in coppette giapponesi e gli imburrava una fetta
di pane. La conversazione era andata
avanti per ore e ore e si era ritrovato a
confessare i dubbi che nutriva sul suo
futuro. Non era tagliato per Oxford o
per il servizio civile, le due carriere che
i suoi genitori avevano progettato per
lui, e Katherine lo aveva incoraggiato a
lasciare Oxford, intraprendere qualcosa
da solo, continuare il suo lavoro critico
ed editoriale. Una settimana dopo si era
trasferito nella stanza libera del suo appartamento ed era cominciato il periodo più straordinario della sua vita.
Per mesi lui e Katherine erano rimasti casti come fratello e sorella, eppure
facevano tutto assieme. Ogni sera leggevano a voce alta i loro scritti, poi si davano la mano e si ritiravano nelle loro
stanze separate. Katherine ben presto si
era sentita insoddisfatta della situazione.
«Perché non mi prendi per amante?»
gli aveva chiesto una sera al termine
Una immagine di Londra tratta dalla pellicola di
Woody Allen, Match Point, 2005.
della cena. Lei era rannicchiata in poltrona, lui disteso sul pavimento. Aveva
riflettuto sulla domanda – l’idea non gli
era mai passata per la testa nemmeno
alla lontana, nonostante che lei lo attraesse maledettamente. Si era steso sul
dorso, aveva agitato le gambe in aria e
aveva esaminato i tacchi consumati delle scarpe. «Rovinerebbe tutto», aveva
risposto alla fine, riportando le gambe a
terra. Il sesso non aveva forse rovinato il
suo amore per Marguerite facendole credere che in qualche modo poteva avanzare delle pretese su di lui e sul suo futuro? Perché un uomo e una donna non
potevano essere solo davvero amici, amici intimi e affettuosi, come erano lui e
Katherine, senza che ci si dovesse mettere di mezzo il sesso? Era questo quello che credeva di pensare, e per un po’
Katherine l’aveva accettato.
Erano così poveri allora. Per risparmiare ogni sera per cena compravano
pasticci di carne da un penny e poi dovevano andare a un pub per togliersi
dalla bocca il sapore rancido del monCaffè Michelangiolo
La narrativa
tone avariato. Poi, una sera, al pub era
successo qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la loro vita. C’era Lil,
una vecchia prostituta che aveva messo le radici lì attorno, sempre seduta
semiubriaca allo stesso tavolo, di fronte a uno specchio costellato di mosche
che rifletteva una fila di bottiglie di
whisky e di acqua di selz dietro il banco. Una sera l’avevano colta intenta a
fissarsi nello specchio, ma lei non si
rendeva conto che la stavano osservando. La tristezza e l’orrore di quel
nudo autoscrutinio e l’espressione di
quegli occhi erano stati una visione
straziante. Per lui erano stati simili a
un pugno nello stomaco. Negli occhi
di Lil aveva visto il volto spaventoso
della vita. La bassezza, la corruzione,
la mancanza di qualsiasi conforto, la
certezza della decadenza e della morte.
Prima che distogliesse lo sguardo gli si
era fissato nella testa un pensiero –
Questa è la vita: Una vecchia puttana
ubriaca e butterata con il petto cadente e i denti guasti. Era stato afferrato
da un senso di gelo che non era riuscito a scacciare. Anche Katherine l’aveva avvertito e se ne erano andati entrambi turbati. L’unico rimedio a quella solitudine stava nel tenersi aggrappati l’uno all’altra. Ritornando in quello squallido appartamento, si era gettato tra le braccia di Katherine e aveva
pianto senza ritegno. Lei aveva avvicinato la bocca alla sua e gli aveva infilato la lingua tra le labbra lasciandolo
meravigliato della sua intraprendente
curiosità. Si erano avviati incespicando
verso la stanza di lei, rovesciando quasi una lampada mentre crollavano sul
letto su cui si erano strappati a vicenda i vestiti di dosso. Dopo aver fatto
l’amore, sapevano di aver creato un legame che niente avrebbe potuto distruggere.
No, non era il sesso che aveva desiderato con Katherine, ma il destino li
aveva uniti e adesso non poteva farne a
meno. A volte era così disinibita, lo faceva arrossire – dove aveva imparato a
dare tanto piacere a un uomo? Non
osava nemmeno immaginare i nebulosi amanti che erano giaciuti al suo fianco. Eppure, non l’aveva mai soddisfatta. Non l’aveva mai posseduta veramente. Era semmai Katherine a possederlo e a soddisfarlo. Era importante?
Un uomo come Lawrence avrebbe griCaffè Michelangiolo
dato che era molto importante e avrebbe sbattuto il pugno sul tavolo, sbraitando che non avrebbe dovuto permettere che lei lo menasse per il naso.
Katherine, fragile come una foglia,
stava al suo fianco e gli afferrava il
braccio. Era tornata dalla Francia con
un profumo nuovo, come si chiamava?
Al ritorno pesava anche quaranta chili
Marie Laurencin, Katherine Mansfield, 1932, ritratto ricavato da una foto del 1913.
e tossiva ogni cinque minuti nel fazzoletto. Era un’abitudine particolarmente preoccupante che gli faceva venire i
brividi sul collo. Non l’aveva quasi riconosciuta quando al suo ritorno con
Ida era andato a prenderla al treno.
Era magra come un fuscello e pareva
che fosse stata rilasciata da un’orribile
prigione. Camminando ondeggiava,
come un giglio troppo pesante per lo
stelo gravato dalle gocce di pioggia di
un acquazzone.
Si frugò in tasca in cerca dell’anello,
per assicurarsi che non fosse caduto
mentre pedalava lungo la strada. Era
sorprendentemente freddo, come se fosse stato immerso nell’acqua ghiacciata.
Era l’anello del primo matrimonio di
Frieda von Richtofen, che l’aveva regalato a Katherine il giorno che si era
sposata con Lawrence, quando solo
quattro anni prima loro due avevano
fatto da testimoni al matrimonio. Lawrence avrebbe approvato quel che facevano adesso. Era convinto che il matrimonio fosse la chiave dell’esistenza
umana e che nessun uomo valesse qualcosa senza una donna alle spalle. «La
donna che amo mi tiene in diretto contatto con l’ignoto» – Lawrence la metteva così –. Con l’ignoto. Si sentiva attratto verso le inconsce profondità della vita, quelle caverne smisurate per
l’uomo – abissi profondi penetrati grazie a bagliori ultraterreni. La figura esile, pallida e malaticcia di Lawrence
nuotava nuda, gioiosa e impavida in
quell’oscurità e li incitava – Frieda,
Katherine e lui stesso – a seguirla nei
misteri. Frieda non aveva bisogno di
incoraggiamento. Si tuffava in quelle
fertili acque scure, fendendo le onde
con le sue braccia muscolose. Ma lui e
Katherine rimanevano indietro sulla
spiaggia, riluttanti a imitare quegli arditi nuotatori.
Ma dove si era spinto con la mente?
Il giudice aveva aperto la bocca per
dire qualcosa, ma le sue parole lo raggiunsero con grande ritardo. Con sua
grande sorpresa, aveva cominciato a
sudare intorno al colletto. Il giudice
aprì di nuovo la bocca, e questa volta
ne colse i suoni. Questa volta sapeva
cosa rispondere, Sì. Era fatta, una cosa
semplicissima. Katherine mormorò la
sua risposta con una voce sommessa e
affannosa, simile a un fruscio di fiori.
Al segnale indicato lui le infilò l’anello
al dito. Era così largo che minacciò di
scivolar via. Ma Katherine serrò il pugno per tenerlo ben stretto e le nocche
assunsero uno strano pallore, simile a
quello di un annegato.
■
NOTA
Questo brano è una anticipazione del romanzo inedito della scrittrice americana Linda
Lappin, intitolato Katherine’s Wish (Il desiderio
di Katherine). Katherine’s Wish racconta gli ultimi cinque anni di vita di Katherine Mansfield,
partendo dal momento in cui, durante un viaggio
nel sud della Francia in piena guerra, scopre la
gravità della sua malattia. Alternando tre punti
di vista, quello della Mansfield, della sua compagna, Ida Baker, e di suo marito, John Middleton Murry, il romanzo segue le incessanti peregrinazioni della protagonista e la sua affannata
ricerca per diventare “figlia del sole” (“a child of
the sun”).
19
La narrativa
«Angela rispose che veniva dal sud e che raggiungeva il suo ragazzo che si chiamava
Giuseppe e faceva il copritetti a La Chaux-de-Fonds»
DI LÀ DALLA FRONTIERA
di Antonio Imbò
Q
uel giovane soldato, in divisa
verde scuro con un fucile d’assalto a tracolla e un grosso zaino
grigio, prese posto nello scompartimento di seconda classe sul percorso
Brig-Berne appena varcato il confine.
Poteva avere sui vent’anni. Si spostò
il fucile sulla spalla e si sistemò sulle ginocchia una carta topografica gualcita
che prese a consultare. Ogni tanto alzava lo sguardo in direzione del finestrino, come a comparare la mappa con
la geografia del luogo, e prendeva nota
su un quadernetto poggiato sul dorso di
una Bibbia. Una di quelle volte aveva
incrociato lo sguardo di Angela, in parte ancora insonnolita dal lungo viaggio,
che allo specchio del sedile stava spazzolandosi i capelli. Dopo averla incontrata con gli occhi una seconda e una
terza volta il giovane soldato prese coraggio, accennò a un sorriso e le rivolse la parola. Chiese se il pacco sul sedile fosse della ragazza e disse di chiamarsi Philippe com’era impresso, assieme all’indirizzo, sulla copertina gialla e spiegazzata del libretto d’appunti.
Come a giustificare, poi, la sua indiscrezione spiegò che apparteneva alla
Section de Renseignements dell’esercito svizzero. Un battaglione che aveva
l’incarico di redigere rapporti su ogni
cosa, oggetto o persona: «Raccogliere
informazioni», disse, «è il presupposto
d’ogni sicurezza, perché nulla sia lasciato all’imprevisto».
Sollecitata dalle domande Angela rispose che veniva dal sud e precisò, semmai quello volesse saperne di più, che
raggiungeva il suo ragazzo che si chiamava Giuseppe e faceva il copritetti a
La Chaux-de-Fonds. «Ci sono molti
italiani che lavorano da noi», disse il
giovane soldato.
Trasse fuori dallo zaino un altro taccuino, usato fino all’ultimo rigo disponibile, e gli diede una sbirciata. Si fermò
con l’indice su una pagina: «La
Chaux… 38.800 abitanti», disse, «il 6,6
20
Antonio Imbò.
Antonio Imbò è nato a Morciano di
Leuca (Lecce). Dopo aver seguito il
corso di letteratura italiana all’Università di Firenze, allievo di Giorgio Luti,
diventa collaboratore di riviste letterarie (scrive di narrativa contemporanea,
italiana e francese) e di quotidiani (recensioni e note critiche), svolgendo nel
contempo attività redazionale per Case
editrici. Per il Dipartimento Scuola ed
Educazione (D.S.E.) della Rai, ha curato alcuni documentari. Con questo
ottavo racconto prosegue la sua “saga
dell’esilio”. I precedenti sono comparsi
su questa stessa rivista nel n. 3 del
1997 (Le nuvole ti portano via); nei
nn. 1, 2 e 3 del 1998 (L’eccentrico signor Perret), (La signora Du Bois),
(L’anniversario); nel n. 3 del 2003 (Nevica da giorni); nel n. 3 del 2004 (La
signora dei tetti) e nel n. 1 del 2005
(La lettera).
per cento è composto da italiani, su un
totale del 10 per cento di stranieri. Venti anni fa nel ’40 eravate il 2,4 per cento, altri vent’anni di questo passo e da
soli sarete il 10 per cento della popolazione. Siete destinati ad aumentare, c’est clair… Anche gli svizzeri in passato
sono partiti in cerca di lavoro. Erano
soldati, ma non fa differenza. Hanno
composto la guardia del corpo del re di
Francia, combattuto in Spagna, in Austria, fino in Russia… Sa cosa ha detto
di loro Napoleone? Che tra gli uomini
d’armi erano i migliori per coraggio e fedeltà. Erano molto richiesti all’estero e
partivano per ogni dove. Alcuni tornavano, altri no… Quante esistenze spezzate. Gloria a loro, la meritano. E noi
non dimentichiamo chi ha fatto grande
il nostro paese. La memoria prima di
tutto. Le loro imprese sono celebrate nel
Musée des Suisses à l’étranger dalle parti di Ginevra, nello Château de Penthes.
Non è il nostro percorso… e voi in Italia
avete un museo?»
«Un museo?»
«Sicuro, una galleria qualcosa. Chi
va all’estero merita un monumento.
C’est les meilleurs qui partent. Noi della Section Renseignements lo sappiamo. Del territorio teniamo tutto sotto
controllo, c’est clair… Ora stiamo ordinando la valle del Rodano. Dobbiamo
proteggere il capoluogo del cantone del
Vallese, in particolare la collina di
Tourbillon: è quella che ci dà più pensiero. Una disattenzione, una leggerezza intorno a Tourbillon, potrebbe fare
capitolare Sion…»
Si tolse il berretto e lo tirò sulla reticella di fronte, e d’un sol colpo disserrò gli automatici del giaccone. Chiuse il carnet, come spazientito di raccogliere dati, mise da parte la Bibbia, fece
scivolare dalla spalla la cinghia del fucile a tiro rapido, s’alzò e s’avvicinò al
finestrino dove Angela era intenta a osservare il movimento di alcuni cavalli.
Stavano abbandonando l’alpeggio e in
ordine sparso, nel varco di una malferma recinzione di legno, s’infilavano
al galoppo tra gli alberi del bosco.
Dopo quel discorso, sulle milizie svizzere e il valore della manodopera all’estero, al giovane soldato era venuta, forse, la gola secca perché trasse fuori una
fiaschetta e un piccolo bicchiere che AnCaffè Michelangiolo
La narrativa
gela aveva appena immaginato, sotto il non ha protezione. Eppure quella catena infine la gonna stretta sui fianchi, e i
rigonfiamento del taschino della giacca, montuosa corre per duecentocinquanta bottoni della camicetta, guardandosi
quando le si era avvicinato. Versò dello chilometri: sarebbe bastato che quel ca- nel finestrino come in uno specchio.
schnaps e ingollò. «La sete non va tra- poluogo fosse di qua delle montagne…»
In quel tratto di ferrovia la sua imscurata», disse, «non si può rimanere a
Versò un altro bicchiere e lo offrì magine si confondeva, sul vetro chiuso,
lungo senza bere, c’est clair.» E spiegò alla ragazza che dovette pensare a un con lo sfondo del paesaggio boscoso.
che quello era il miglior modo per cac- corroborante, per alleviare la fatica del Così continuava ad ammirarla stupiciare la secchezza. «Per la sete l’acqua lungo percorso, se protese la mano to, per la bellezza, il soldato ancora
non serve», commentò. «È una delle pri- e quasi senza volerlo accolse l’invito. disteso sul sedile, dove s’erano stretti
me regole dell’aduno all’altra nello
destramento».
scompartimento
Fece uno schiocvuoto. Rimasero soli
co con la bocca in
finché non raggiunsegno di assenso,
sero la valle del Roper il sapore di
dano. Alla stazione
quell’acquavite di
di Sion il giovane
patate dal remoto
soldato si caricò
gusto di castagna,
dello zaino e del fue riprese a ragiocile. Lasciò salire alnare: «Questo tercuni passeggeri prireno è il nostro
ma di avvicinarsi al
asso nella manipredellino, e al moca», osservò il solmento di salutare la
dato. «È indiscuragazza, con la quatibile lo svantagle si era trattenuto,
gio dello straniele disse soltanto:
ro che varchi le
«Salut», sfiorandonostre frontiere.
la con un bacio.
Il nostro paese è
«Ciao», gli rispocircondato da inse Angela, portanvalicabili barriere
dosi le dita sulla
naturali. Chi probocca e girandosi
vasse a oltrepasdall’altra parte per
sare il confine do- Michael Leonard, Sul tetto, 1979, acrilico su tessuto di cotone, Londra, Fisher Fine Art.
frenare l’emozione.
vrebbe rinunciare
Non ebbe il tempo
ai mezzi corazzati.
di consegnare al raLe truppe meccanizzate sarebbero ridot- Incoraggiato da quel riscontro il gio- gazzo il quaderno dimenticato sul sedile
te all’immobilità, circondati come siamo vane soldato, nel recuperare il bicchie- che il treno ripartiva, e l’antica cittadina
dai monti rocciosi e dall’acqua dei nostri re, s’avvicinò tanto alla ragazza da sfio- passava in fretta e scompariva. Su un
laghi». S’avvicinò di più ad Angela e le rarle la bocca. A quel contatto lei di- fazzoletto di pianura, usciti dall’abitato,
indicò il paesaggio che stava passando in schiuse, in modo insperato, le sue lab- abbassò il finestrino e respirò con tutta
quel momento. «Le macchine che sem- bra umide che si fecero ancora più l’aria che aveva nel petto. Da lì a poco
brano essere tutto qui sono nulla. Pren- umide sotto il vento caldo di ponente cambiò il paesaggio, e i monti le chiuseda gli elicotteri… i nostri cavalli volanti infilatosi furtivo dal finestrino rimasto ro l’orizzonte impedendole di vedere in
sono i soli capaci di muoversi in questo socchiuso.
lontananza. Fermò lo sguardo nella più
spazio», e con il pollice e l’indice pizzicò
vicina distesa di noci e ciliegi, prima di
qua e là sulle spalle della ragazza, come
* * *
fare un altro tentativo di oltrepassare le
a rimuovere qualche frammento di camontagne, ma dovette fermarsi davanti
pello, forse, rimasto sulla giacchetta.
Angela tutta rossa in viso stava ora alle cime innevate delle Alpi.
«Del nostro cielo conosciamo la fitta tra- in piedi investita dall’aria che le scomLe tornò, forse, alla mente ciò che
ma di cavi d’acciaio tesa in ogni dove… pigliava i capelli, bruni e ondulati, ap- aveva riferito il giovane soldato: quelle
Ma gli altri? Anche i caccia. Solamente i puntati in modo frettoloso sopra la possenti montagne sono attraversate da
nostri piloti sanno navigare, senza carta nuca. S’aggiustò la piccola lucertola una rete fittissima di sentieri a formare
topografica, tra queste montagne. Grazie d’argento, un po’ annerita, che le pen- un infallibile labirinto. A volte neppure
al nostro paesaggio», enunciò allargando deva sul seno in parte ancora scoperto. un soldato ben addestrato sa ritrovare
le braccia, «la Svizzera si difende da sola. E prima che tirasse su il vetro, e ac- la strada, tanto che in una circostanza
Ha un solo fianco esposto quello norde- cennasse a coprirsi col bavero della era accaduto anche a lui di smarrirsi.
st: non poteva mancare un lato scoperto, giacca, il vento le carezzò ancora il col- L’avevano ritrovato che sparava contro
c’est clair. Veda Basilea. Di là dal Giura lo per un lungo momento. Si sistemò la ragnatela dei fili dell’alta tensione, e
Caffè Michelangiolo
21
La narrativa
messo per tre giorni nell’arrestlokal, con
«Davvero?», esclamò Angela tra- Non era nemmeno in casa. Lo trovò,
la sola Bibbia, per punizione.
felata.
come le fu segnalato, nel bistrot dirimIl paesaggio passava, ora, dai monti
Il controllore restituendole il bi- petto dove non mancava di fermarsi dal
con ciuffi di abeti bianchi alle rocce glietto, come risentito che la ragazza ritorno del lavoro. Gli apparve attravernude e desolate, dai prati verdeggianti potesse dubitare della sua parola, sfo- so l’ampia vetriata seduto a un tavolo:
alle gole profonde percorse da torrenti, gliò l’orario dei treni: «La Chaux-de- era solo, stravaccato e stanco. Ai piedi
dalle ordinate file di vigneti alle geo- Fonds… La Chaux… 17,35 voilà», e della sedia giaceva avvolta una lunga e
metrie di frutteti, che si potevano a trat- allungò il polso mostrando le lancette grossa canapa. Gli serviva per allacciarti solo immaginare persi nella nebbia dell’orologio. Osservò la valigia sulla si la vita a una estremità quand’era sul
che compariva all’imtetto, mentre l’altro capo
provviso.
veniva fissato nel solaio
Qui lo spazio si dilaper ogni evenienza,
tava, là si riduceva e si
come una volta le aveva
dissolveva. Angela semspiegato.
brò avere un sussulto,
La cameriera attracome un tuffo al cuore,
versò con impazienti
quando l’occhio le cadde
passi il locale con un
sui tetti embricati e ripidi
bicchiere di pastis nel
di un villaggio. Il borgo le
vassoio, sfiorato dai suoi
dovette apparire sospeso,
lunghi capelli biondi.
malsicuro, aggrappato
Ebbe il tempo di chialle falde di un monte
narsi e poggiare la beche dava l’impressione di
vanda sul tavolo d’abevolersi scrollare, da un
te rosso, prima che Giumomento all’altro, di
seppe le allungasse la
quel pugno di case. Dinmano sul fianco. A quel
nanzi a quello scenario
tocco la cameriera gli
così precario e incerto le
gettò le braccia al collo,
tremò la voce: «Giusepreclinò il capo e lui,
pe», disse. E strinse i pucome si conoscessero da
gni e le labbra come a
tempo, le vibrò un batrattenere quel nome, a
cio. Al secondo e terzo
non volerlo più mollare.
abbraccio Angela distolNel suono di quella pase lo sguardo. Quando
rola parve d’improvviso
rigirò il capo, inquieta,
ritrovare se stessa e la
il vetro cominciò ad apmeta del suo viaggio.
pannarsi sotto il suo
Cercò con la punta delle
violento affanno. Il suo
dita le due gemme verdi,
fiato caldo formò un
incastonate al posto degli
alone sul cristallo che
occhi, del piccolo rettile
da lì a poco sfumò queld’argento che Giuseppe
l’immagine, per lei non
le aveva regalato l’anno
più sostenibile, da farla
prima per il loro fidanzascomparire del tutto.
mento. Esausta alzò il ve- Scuola tedesca del XX secolo, Caffè notturno, 1925 ca., olio su tavola, cm 25 x 20.
Smarrita attraversò la
tro. S’accasciò sul sedile e
strada, s’infilò precipichiuse gli occhi.
reticella e con il braccio ancora teso tosa nel portone di fronte, e fece d’un
fece cenno a un involto, come abban- soffio le difficili rampe di scale fino al
* * *
donato in fondo al sedile:
terzo piano, dove si riprese la valigia
«Quel pacco è suo?»
che aveva poggiato davanti all’appar«Billet s’il vous plait», echeggiò la
«Sì», rispose Angela.
tamento di lui. Addossato alla porta lavoce del controllore, con un trasparen«Non lo dimentichi, la prossima fer- sciò il pacco, dalla forma di una scatote sorriso stampato sul viso. Le sue mata è la sua. Bien venue chez nous la di scarpe, legato a doppio giro con
guance rosse, solcate da un fitto intrec- mademoiselle.»
un esile filo di spago.
■
cio di vene, misero di buon umore Angela che porse il biglietto e domandò se
* * *
NOTA
era arrivata a destinazione.
«Siamo vicini», affermò il controlGiuseppe non sapeva del suo viagQuesto racconto è tratto dalla raccolta inedilore.
gio e non era alla stazione ad aspettarla. ta intitolata Il copritetti e l’aragosta.
22
Caffè Michelangiolo
Critica e letteratura
Giorgio Luti o la storia e cronistoria
di un appassionato viaggio nella letteratura
CARO MAESTRO TI SCRIVO
di Simona Costa
L
e passioni cui il
sta nell’umile consapetitolo di quevolezza che «occuparsi
st’ultimo suo lidi letteratura contembro rimanda (Le pasporanea è molto diffisioni di un letterato.
cile, e quelli che vi tenScrittori e poeti del
gono fede sono assai
’900, Firenze 2005)
degni di considerazionon si limitano certo ai
ne». E se da una parte
nomi qui presenti a
«la letteratura contemtracciare un profilo criporanea esige una fortico del Novecento. Ma
ma di specialismo,
sono, direi, le passioni
come lo esige la lettestesse degli scrittori con
ratura del ’200, del
cui il critico si confron’300 o del ’500» per
ta, con un processo a
cui «non si può scrivespecchio che è stato
re di Jacopone, di Sacuno dei modi di apchetti, di Machiavelli o
proccio di Giorgio Luti
di altri autori, e poi deai “suoi” autori. Basti,
porre in biblioteca i
per tutti, pensare al suo
vecchi panni regali e
rapporto con Italo Svecuriali, e rimettersi a
vo, a quanto di autotu per tu coi nostri
biografico – a comin- Giorgio Luti al Museo del Prado, in una immagine della metà degli anni Novanta. Alle spalle, contemporanei», dalciare dal più ovvio se- Maja vestida (1805 ca.) di Francisco Goya. Giorgio Luti, teorico e storico della letteratura ita- l’altra occorrerà stare
gnale dell’irrinunciabi- liana, ma non solo, è stato sempre un appassionato e puntuale custode della memoria intel- in guardia a non lacon una ampiezza di sguardo che gli ha consentito di non mancare ad alcuno degli
le e famigerata sigaret- lettuale,
sciarsi «impeciare in
appuntamenti cruciali sia della contemporaneità sia delle precedenti epoche della cultura.
ta – il critico ha avvereterno nella letteratutito nell’autore da lui
ra contemporanea».
così tempestivamente scoperto, quello riproponendo nel 1950 il suo volume su
Un difficile equilibrio, allora, questo
Svevo a cui ha reso anche un indiretto I Narratori non è a caso ampiamente di mantenersi, come ha voluto Luti, sul
omaggio, senza mai citarlo, nell’ironico riportata da Luti nel suo saggio, se pro- filo della corrente, nella volontà di riElogio del sigaro toscano nei ricordi di un prio in quelle righe sono ravvisabili al- vendicare a quel «povero Novecento» di
letterato, ora in Ricordanze.
cune profonde sintonie di percorso tra i cui Russo parlava come «disconosciuto,
Così in questo libro, se apriamo il due. A cominciare, forse, dall’avvertita battuto, lacero, corso, infistolito dal disaggio su Luigi Russo e il Novecento, difficoltà a occuparsi in modo pervasivo spregio dei cattedratici» lo spessore di
troviamo sì certo il riconoscimento di della letteratura contemporanea in un uno specialismo critico non impeciato,
un magistero per cui al “saper leggere” ambiente accademico grave e solenne in appunto, di minuta cronistoria, ma affidi derobertisiana memoria si coniuga fe- cui tali predominanti interessi erano sog- dato a una prospettiva che spazi sia lunlicemente uno storicismo che sia, con le guardati «con muto orrore», nell’auspi- go i rami di una secolare tradizione sia
parole stesse di Russo, «un metodo, una cio di vedere il deviante collega rivolgersi per le regioni di una contemporaneità
intuizione di vita, e come tale […] tutta «ad argomenti più degni di storia». Oc- sovranazionale. E vorremmo allora riun’età e una civiltà mentale in fieri». cuparsi del Novecento, per Russo come cordare come per le sue Cronache letteMa troviamo anche una passione in co- poi per Luti, ha voluto dunque dire li- rarie tra le due guerre, pubblicate nel
mune tra i due saggisti, dell’ieri e del- berarsi delle pastoie degli «interessi cro- 1966 da Laterza (poi, col titolo La letl’oggi: quella, appunto, per la militanza nistorici» e approdare a una prospettiva teratura nel ventennio fascista, riedite
novecentesca, avvertita come il ricerca- contemporanea senza obliare il bagaglio da La Nuova Italia e più volte ristamto e consapevole approdo di un esercizio della tradizione. Dopo un «fortunoso pe- pate), Eugenio Montale sul “Corriere
critico e di un itinerario maturati sui riplo» che lo aveva portato a misurarsi della Sera” gli riconobbe il merito di
tempi lunghi dell’intera nostra storia let- col passato e ad attraversarlo, Russo ri- aver metamorfosato la cronaca in storia
teraria. La prefazione che Russo stende torna alle sue origini di contemporanei- e in storia civile, più che letteraria.
Caffè Michelangiolo
23
Critica e letteratura
La copertina del libro Le passioni di un letterato.
Scrittori e poeti del ’900, pubblicato da Nicomp
(Firenze, 2005) dove Giorgio Luti raccoglie saggi di
epoche diverse (alcuni erano comparsi in Passioni
e inganni, Verona 1987) che «possono costituire un
riferimento abbastanza attendibile» della sua attività letteraria. «Le figure e i problemi che sono
venuto affrontando in queste pagine – aggiunge
nella Introduzione – possono apparire al lettore
come una sorta di riassunto di tutto il mio lavoro».
La scommessa che Luigi Russo,
classe 1892, lanciava nella sua prefazione datata 1950 era così coraggiosamente quanto felicemente raccolta da
un critico della leva del 1926, destinato ad assicurare alla contemporaneistica uno statuto anche accademico e a
formare un vivacissimo magistero e
un’appassionata scuola che da subito si
è riconosciuta nell’avventura critica da
lui proposta. Tanti giovani che oggi lavorano, oltre che nelle scuole e nelle
università, nelle istituzioni, nelle biblioteche e negli archivi specie – ma
non solo – della Toscana sono una insostituibile ricchezza di cui dobbiamo
essere grati alla passione e alla fiducia
che Luti ha sempre messo nella sua
docenza, svecchiando l’approccio al testo e la sua interpretazione e rivitalizzandolo con l’accantonamento di qualsiasi pregiudiziale ideologica. Il contesto socio-culturale in cui nasce e muove i primi passi un’opera letteraria è
sempre stato da lui considerato e additato come un’incubatrice da cui non
si può assolutamente prescindere, ma
nel contempo anche come la culla che
24
quell’opera è destinata ad abbandonare per il suo lungo viaggio testuale, di
mano in mano a più generazioni di lettori. Ed è stata proprio tale felice connessione tra corretta analisi socio-culturale e penetrante, investigativa lettura testuale che ha consentito a Luti
di scompaginare le carte di un troppo
assodato canone letterario, rivedendo
gerarchie e aprendo nuovi sentieri di
lettura, destinati ad essere sempre più
battuti. Ce lo dicono, oltre al fondamentale spaccato datoci dalla sua indagine tutta di prima mano sulle riviste tra le due guerre, i nomi di Svevo e
di Tozzi, di Mario Pratesi e di Remigio
Zena, ma anche, ad esempio, la sua
sensibilissima e innovativa rivisitazione dannunziana, in anni ancora gravati da inossidabili remore politiche.
La lezione di Luti è stata certo
quella di un grande contemporaneista,
la cui grandezza deriva – e mi sembra
giusto sottolinearlo – dall’ampiezza e
profondità di prospettive con cui ha
indagato i meccanismi del tempo presente. Giorgio Luti è uno studioso le
cui radici sono fortemente ancorate
alla propria terra e alla propria (molto amata) regione e, nello stesso tempo, il cui sguardo critico si sa allargare in una prospettiva nazionale e internazionale. Lo testimonia, ancora nel
La copertina della prima edizione de I narratori
di Luigi Russo uscita a Roma nel 1923.
La copertina del libro di Giorgio Luti, Letteratura
e rivoluzioni. Saggi su Alfieri, Foscolo, Leopardi,
pubblicato nella “Biblioteca del Caffè” (Pagliai
Polistampa, 2002). «Con molta probabilità questo
è il mio ultimo libro», scriveva nella Premessa
confermando, fortunatamente, quel che dice
George Eliot in Middlemarch: «La profezia è la
più grande forma di errore». Sotto quel titolo
Luti raccoglieva cinque saggi con un denominatore comune, «e cioè il rapporto che lega il riferimento a scritture nate nell’ambito della nostra
grande tradizione letteraria ad una più vasta prospettiva europea, o per dir meglio a grandi eventi storici e a momenti culturali che cambiarono il
volto del mondo contemporaneo».
suo ultimo libro, il saggio su Tozzi e la
tradizione narrativa toscana e ce lo
ridicono gli interventi su Palazzeschi,
l’Ungaretti dalle origini lucchesi, Gianna Manzini, Sanminiatelli, Bonsanti,
Bilenchi, Luzi e Parronchi. Risalire alle
radici, alla tradizione, dunque, soffermandosi, in particolare, su snodi storico-culturali di forte valenza trasgressiva e generativa a un tempo, come nell’ampio e articolato saggio d’apertura
di questo volume, dedicato a una topografia del romanzo italiano nel cruciale decennio 1880-1890. Ed è un
connotato forte e caratterizzante la sua
scrittura critica questo rilevato interesse per i crocevia intellettuali, come
la transizione tra otto e novecento o
quella fra sette e ottocento, quest’ultima tra l’altro documentata in un suo
libro dal significativo titolo Letteratura e Rivoluzioni. Crocevia in cui tutto
– parrebbe all’improvviso – si sommuove e traballa per produrre altro,
Caffè Michelangiolo
Critica e letteratura
Giorgio Luti in una immagine della fine degli anni
Sessanta durante una crociera nell’Adriatico.
in cui tutto è messo in dubbio e in forse creando grandi speranze e rendendo
per un attimo più vicine le utopie: ed è
questa, per Luti, l’avventura letteraria.
Non è un caso, mi sembra, la forte incidenza e la ricorrenza che proprio la
parola avventura – con quello che
comporta di rischio, di messa in gioco
di sé e, perché no, di responsabilità
umana e intellettuale – trova nei suoi
scritti in unione a letteratura.
E non si è forse ancora abbastanza
sottolineato come proprio a Firenze,
fra gli echi di quella cultura fiorentina
che ha saputo inaugurare il Novecento con un incredibile fermento di inquietudini propulsive, si siano formati, entrambi alla scuola derobertisiana,
due dei nostri maggiori critici contemporanei, come Giorgio Luti e Luigi Baldacci.
Il libro oggi pubblicato dall’editrice
Nicomp di Alberto Nicoletti è il segno
di una passione, appunto, che travalica anche le difficoltà e le traversie dell’anima e del corpo e ci ritrasmette un
messaggio non tanto relativo a una vetero eticità dell’impegno, ma piuttosto
a una, volutamente modesta, responsabilità della parola: di quella parola,
per citare lo Svevo della Coscienza,
che è «essa stessa avvenimento che si
riallaccia agli avvenimenti».
Fare letteratura, così come fare critica, è anche un tentativo di decifrazione di se stessi e del mondo circoCaffè Michelangiolo
stante. «Nella parola degli altri ciascuno cerca la ragione del proprio “corto
viaggio sentimentale” […] e solo in
essa trova una spiegazione plausibile
[…] Il nostro lavoro non sarà dunque
che la ricerca di parole valide per noi,
nel nostro tempo; e in questa indagine
sarà sufficiente aver individuato una
traccia di noi stessi, un profilo dei nostri interessi, delle nostre passioni nei
giorni in cui siamo vissuti», ha scritto
lo stesso Luti in una delle più belle
prefazioni poste a un suo libro.
Il libro di oggi, oltre a riproporre
intatta la passione decifratoria del proprio tempo, ci conferma la fede in una
poesia che, come è stato splendidamente detto per Alessandro Parronchi,
identifica il suo destino «in un rifiuto
dell’apparente per una conquista dell’invisibile». Al tempo stesso ci testimonia, con parole che Luti declina per
Mario Luzi, «una fedeltà alla vita esaminata nei suoi molteplici caratteri di
magmatica contraddittorietà» e ci restituisce la vivacità di una scrittura
critica che le ombre esistenziali non
sono riuscite ad appenare. Perché fiore all’occhiello del critico è certo la
scrittura da cui trapelano le doti di
creatività di uno scrittore che come
tale non si è mai voluto apertamente
palesare. Un’immagine, un paesaggio
Giorgio Luti e Luigi Baldacci nel maggio del 2001.
diventano, per interna forza irradiante, il centro luminoso e misteriosamente esplicativo di un intero saggio.
Penso alle roselline di Palazzeschi, le
roselline «d’ogni mese, quelle rustiche
dei campi» da lui desiderate ai lati della propria tomba: un’immagine tratta
dalle sue ultime volontà e che chiude
con pudica quanto potente forza emotiva l’intervento di Luti che giusta-
Giorgio Luti con il Sindaco di Firenze, Leonardo Domenici, al conferimento del Fiorino d’Oro, il 9 gennaio 2006, alla Biblioteca Comunale, nell’ambito del ciclo “Leggere per non dimenticare” a cura di
Anna Benedetti. Fra loro la nipotina Valeria stretta al suo Nonno.
25
Critica e letteratura
mente da loro prende nome. O penso,
ancora, ai “grigi” di Parigi che ben
avrebbero potuto titolare il saggio su
Ungaretti e il ‘mito’ della Francia:
quello spegnersi e accendersi di inenarrabili grigi, «non malinconici, mai»,
per cui passa la scoperta ungarettiana
della metropoli francese e, insieme,
della propria voce lirica.
Un critico-scrittore, allora, Giorgio
Luti che la sua “seconda” o “altra”
vocazione ha tenuto (per understatement, per pudicizia estrema?) nel cassetto. Lasciandole solo a tratti voce au-
Il 9 gennaio 2006 è stato conferito a Giorgio Luti, storico della cultura e professore emerito di Letteratura
italiana all’Università di Firenze, il Fiorino d’Oro. Festeggiato nella sala della Biblioteca Comunale, sede dei
fortunati cicli di lettura (“Leggere per non dimenticare”) organizzati e condotti da Anna Benedetti i quali
richiamano autori da tutta Italia, hanno parlato del Maestro, del suo magistero, della sua opera Marino
Biondi (Università di Firenze), Simona Costa (Università Roma Tre), Enrico Ghidetti (Università di Firenze).
Ha portato la propria testimonianza Marco Marchi, altro suo allievo che insegna nell’Ateneo fiorentino.
26
tonoma, come in quel libro a due voci
che tengo qui a ricordare anche nel
nome di Dedy, Diario Bianco e altre
prose di memoria, libro che già nel titolo richiama quello che è stato certo il
motore esistenziale di una ricerca basata sul grande tema della memoria:
memoria storica, civile, letteraria, autobiografica che sia, come suggeriscono ancora alcuni suoi ultimi titoli, Memoria del Novecento e Ricordanze.
Quale sia il grumo di significati rappreso nel termine “memoria”, ce l’ha
detto Luti stesso in una delle pagine
più vibranti da lui scritte: quella pagina che, già in “Inventario”, appare poi
in Ricordanze col titolo Quel glicine
della Sinagoga e che, con scelta quanto mai significativa, torna quindi a
suggello del Diario Bianco col mutato
titolo Elogio della memoria. Se la memoria è coscienza, non c’è soluzione
di continuità tra micro e macroeventi,
tra ciò che avviene tra le mura di una
casa e ciò che accade nelle strade cittadine, anch’esse del resto strette fra le
loro mura, come ben ci suggerisce
Giorgio Bassani che di questo turnover
tra casa e strada è il cantore storico e
civile.
Sui piaceri della memoria molti
hanno detto la loro, come quel Brancati che ammoniva come «se non potessimo di tanto in tanto coprirci di ricordi fino ai capelli, come il bagnante
di sabbia calda, noi moriremmo di
freddo». E al piacere della memoria
tornava il quasi ottantenne Palazzeschi, sulle cui rievocazioni di una toponomastica fiorentina fine secolo Luti
apre proprio il saggio a lui dedicato.
Dopo una lunga parabola esistenziale
di testimone e protagonista e dopo una
lontananza che lo ha condotto per le
strade di Roma, Parigi e Venezia, Aldo
Giurlani recupera allora le prose autobiografiche già dedicate, in Stampe
dell’800, alle proprie mai offuscate radici: «il cerchio della vita – annota
Luti – si chiude entro la memoria che
dilata ogni spazio, moltiplicandolo all’infinito, serrando in un’unica dimensione ideale il lungo percorso di un’arte che continuamente rinasce dalle sue
ceneri». E sono, queste parole da Luti
riferite a Palazzeschi, volentieri la cifra
con cui chiudo questo mio intervento,
nel segno di omaggio al letterato, all’uomo e al Maestro Giorgio Luti. ■
Caffè Michelangiolo
I caffè letterari
La fama di questo caffè artistico si sparse per tutta l’Italia,
nessun’altra città poté vantarne uno simile, altrettanto attivo, altrettanto vivace
IL CAFFÈ MICHELANGIOLO A FIRENZE
di Gérard-Georges Lemaire
La vita intellettuale borghese, molto
più povera nella sua apparente sufficienza
di quella umanistica, non ebbe più i due
poli, religioso e civile. Stagnò nelle poche
idee, senza grandi dibattiti spirituali, ed
ebbe un sol punto di ritrovo, un unico luogo comune artistico, che a Firenze si
chiamò Caffè Michelangiolo.
Una seconda generazione arrivò nel
1855 e tagliò i ponti col romanticismo
dei predecessori assumendo come motto: «Fate di piacere al popolo». Il sogno
lasciava il posto al realismo del mondo
rurale, alla descrizione della gente umile, di personaggi laboriosi, di scene
campestri. «[…] col ritorno da Parigi
del Tivoli e dell’Altamura, scrive uno di
loro, Telemaco Signorini, coll’avvici-
derno e antico deve essere pieno, assoluto, e assoluta deve essere l’ignoranza della storia». Come ha ricordato Signorini, questo impulso iconoclasta si applicò inizialmente – e involontariamente – agli affreschi e ai quadri del Caffè Michelangiolo: «Per l’eccessivo fumo dei sigari, diventarono
Piero Bargellini, Caffè Michelangiolo
così nere le pitture murali dipinte dai
(Vallecchi, 1944)
primi frequentatori della stanza, da
esser credute vecchie di diversi seon si sa esattamente quando
coli. Fu proposto una sera di pulirsia stato creato il Caffè Mile col pane, e fu fatto, ma ahimé!
chelangiolo. Un bel giorno
Persa colla patina la dignità che gli
aprì i battenti, probabilmente fra il
anni vi avevano impressa, venne
1848 e il 1850, in via Larga, a Fimeno a quelle il rispetto dei nuovi
renze. Tanto il Greco (a Roma) era
artisti che ne chiesero e ottennero
affollato di stranieri, tanto il Mil’assoluta abolizione». Ma la veechelangiolo era italiano. Divenne inmenza verbale del loro portavoce
fatti quasi subito il feudo degli artinon si spinse mai oltre l’atto sacristi toscani, che vi si recavano avvilego costituito da questo disgrazialuppati in grandi mantelli, con in
to episodio. La loro ambizione era
testa ampi cappelli alla calabra e
essenzialmente quella di dipingere
folte barbe libertarie. Questi cospi- La seconda sala del Caffè Michelangiolo nell’acquerello ese- dal vero.
ratori dell’estetica disdegnavano la guito da Adriano Cecioni intorno al 1865. Collezione privata.
Alla sera, dopo le lunghe gite
prima sala, riservata ai clienti cosulle colline toscane si ritrovavano
muni, ma avevano scelto la seconda, in narsi della prima esposizione italiana, al caffè spossati, cotti dal sole, e dicui il fumo era più denso e soffocante colla facilità con cui si incominciavano scutevano per ore: «Discussioni, cone che somiglia a un salotto borghese, a fare i viaggi in Italia e all’estero, nuo- fessa Signorini, che riuscendo sempre
con tavolini dal ripiano di marmo e vi artisti vennero da noi […], gli amici troppo materialiste coi settentrionali, e
sgabelli di legno. Aveva una sola fonte del caffè, restando sempre per la loro coi meridionali troppo metafisiche, fidi illuminazione, che consisteva in due tradizione, i cari matti di via Larga, nivano quasi ogni sera col far volare i
becchi a gas appesi al soffitto. I pitto- burlarono meno e si appassionarono bicchieri e i vassoi come foglie secche
ri che vi si riunivano con i loro amici molto più all’arte loro, insieme a quel- quando il turbo spira».
avevano deciso di decorare le pareti li che, non avendo lasciata Firenze, si
Il Caffè Michelangiolo chiuse i batannerite della stanza: «Di Gaetano erano fatti un’idea del movimento mo- tenti nel 1886. L’esposizione italiana
Bianchi, racconta Piero Bargellini, derno dell’arte, visitando la galleria De- aveva avuto luogo a Firenze cinque
campeggiava un grande ritratto di Mi- midoff a San Donato».
anni prima. Cecioni e tutti gli altri
chelangiolo; di Nicola Sanesi, due quaL’uomo che seppe galvanizzare e rappresentanti della «chiesuola deldri allegorici; di Ferdinando Buona- catalizzare queste giovani energie fu l’Arno», Felice d’Ancona, Serafino Timici, I Promessi Sposi; di Alessandro Adriano Cecioni, al contempo scultore, voli, Odoardo Bonani, Cristiano BanLafredini, ancora un Renzo e una Lu- pittore e critico, che li riunì nel circo- ti, Giuseppe De Nittis, Zandomenecia; di Giuseppe Moricci un Michelan- lo artistico più organizzato d’Italia, il ghi, erano ormai glorie e modelli artigiolo alle fortificazioni di San Miniato; primo del suo genere. I suoi amici di- stici della giovanissima nazione.
di Carlo Ademollo, una Disfida di Bar- vennero celebri sotto il nome di «macLes Cafée littéraires,
letta; di Stefano Ussi, Soldati all’as- chiaioli». Cecioni riassunse il suo pensalto di un castello medioevale. Anche siero in una formula: «Il pittore moHenry Veyrier, Paris 1987
Giovanni Fattori, quando giunse, tar- derno non deve avere né amori né sime Bibliotechne, Milano 1988
di, al caffè, vi lasciò un Trovatore».
(traduzione di Margherita Botto)
patie col passato. Il divorzio fra mo-
N
Caffè Michelangiolo
27
Letteratura e cinema
Passato e futuro dei materiali preparatori per Accattone e Mamma Roma
UN PASOLINI (IN)EDITO
di Elena Frontaloni
«P
asolini aveva idee molto
chiare per Accattone, che
aveva studiato sin da quando abitava alla borgata Gordiani; conosceva tutti i posti, aveva tutte le inquadrature in mente, anzi, faceva dei
disegni. Per ogni inquadratura, c’era
un disegno. Pasolini era capace di cominciare la sequenza dall’ultima inquadratura. Non era come tanti altri
registi che se non vanno in fila non sanno cosa fare. […] Aveva tutti gli schizzi delle inquadrature che doveva fare».
La voce di Tonino Delli Colli – raccolta
da Antonio Bertini alla fine degli anni
Settanta (Teoria e tecnica del film in
Pasolini, Bulzoni, Roma 1979, p. 202)
– rivelava al grande pubblico come l’attività registica pasoliniana fosse sorretta fin dalla prima prova non solo da attenti sopralluoghi, ma anche da una
puntuale preparazione grafica, che del
resto precedeva il montaggio e si affidava totalmente alla capacità di tradurre in immagini stilizzate le parole
e le intenzioni della sceneggiatura.
All’affermazione di Delli Colli faceva
eco, sempre nel testo di Bertini, quella
di Carlo di Carlo, che, smentendo
l’«ignoranza tecnica» spesso ostentata
dal regista in erba, dichiarava senza
mezzi termini: «problemi tecnici […]
Pasolini non li ha mai avuti. Risolveva
le inquadrature progettandole. Per
Mamma Roma esistono disegni di ogni
inquadratura (io stesso ne ho alcuni).
Schematizzava le sequenze per avere la
verifica visiva e tecnica (annotava obiettivi e movimenti) delle soluzioni narrative» (pp. 182-183).
Per quanto riguarda Mamma Roma,
non si può certo parlare di rivelazione
inedita: l’aiuto regista aveva già affidato al Carnet di «Mamma Roma» (in
«L’Europa letteraria», 17, ottobre
1962) il ritratto di un Pasolini implacabile nel suggerire toni e sfumature
alla Magnani, armato di una «sceneggiatura rigorossissima» e nervosamente
28
Pier Paolo Pasolini. Diciannove sono i film che ha
realizzato dal 1961 (Accattone) al 1975 (Salò o le
120 giornate di Sodoma).
intento a disegnare «ogni inquadratura
su dei fogli volanti con accanto il dettaglio tecnico e l’eventuale battuta». La
testimonianza del Carnet era a sua volta immediatamente verificabile nella
prima edizione della sceneggiatura di
Mamma Roma (Rizzoli, 1962), che
apriva l’apparato iconografico (32 tavole fuori testo) con l’ormai celeberrima
foto del regista, impegnato – penna alla
mano – a confrontare il dattiloscritto
della sceneggiatura con il blocco dei
materiali preparatori. Eloquente il commento posto sotto la foto: «Pasolini al
lavoro: attraverso i disegni nascono le
inquadrature. Alcuni disegni sono riprodotti nelle tavole seguenti». La galleria di ritratti raffiguranti gli interpreti, il produttore Alfredo Bini, Tonino
Delli Colli e Carlo di Carlo, era difatti
seguita da un ricca scelta delle foto di
scena, accompagnate da didascalie e organizzate in modo da rendere puntualmente la trama del film. Di tanto in
tanto, l’apparato fotografico prodotto
da Angelo Novi s’attorniava di piccoli
particolari grafici prelevati dai disegni
preparatori e oggi reperibili, insieme al-
l’intero corpus delle illustrazioni, nel
volume Accattone, Mamma Roma,
Ostia (Garzanti, 1993).
Gli schizzi inseriti nell’edizione Rizzoli e riproposti in quella Garzanti sono
quattro: il primo conclude la sezione
dedicata alla scena dei “Carosielli” e
raffigura la giostra che accoglie lo
sguardo trepidante di Mamma Roma
sul figlio ritrovato; il secondo traccia la
prorompente silhouette della Magnani
accanto alla sua «marcia inarrestabile»
verso la libertà dal “Viale”; il terzo
schematizza l’arrivo a Cecafumo di
Ettore e Mamma Roma; l’ultimo, infine,
abbozza le bancarelle nella scena finale
del mercato e s’affianca allo scatto che
immortala la funebre passeggiata di
Ettore e dei suoi amici verso il banco
della madre. Licenziati per la prima
edizione della sceneggiatura da un Pasolini ancora vivente e tuttavia avulsi
dal loro contesto originale, i materiali in
questione non possono testimoniare
l’abitudine di schematizzare i raccordi
fra le sequenze, né illuminare sul tipo di
«soluzioni narrative» adottate nel film,
ma rendono tangibile la puntualità con
cui il regista organizzava le singole inquadrature, già chiare nella sua mente
ancora prima della ripresa e poi eseguite con un criterio di aderenza al progetto iniziale.
Se il corpo di Anna Magnani e l’immagine della giostra rimandano all’osservazione di quella realtà successivamente eletta a materia linguistica del
film, la disposizione dei personaggi nella sequenza dell’arrivo a Cecafumo
– con il particolare evidentissimo del
ragazzo intento a leggere il giornale un
poco discosto dagli altri che fanno combriccola – è infatti rintracciabile puntualmente nel girato. È però curioso vedere come, nell’apparato del 1962, i disegni vengano collocati accanto a foto di
scena precedenti o successive al momento in essi rappresentato, impedendo
così un immediato confronto delle conCaffè Michelangiolo
Letteratura e cinema
tiguità e delle differenze rispetto alla
sceneggiatura e alla pellicola.
Una più rigorosa valutazione dei
materiali per Mamma Roma è stata
possibile solo dopo il 1987, anno in cui
il Fondo Pasolini di Roma ha pubblicato il volume Une vie future, edizione
francese (curata da Laura Betti e Sergio
Vecchio) di un omaggio al cinema pa-
Con questo ritratto si apriva l’appendice fotografica inserita nella prima edizione della sceneggiatura di Mamma Roma (Rizzoli, 1962). Sotto, la
didascalia recitava: «Pasolini al lavoro: attraverso i disegni nascono le inquadrature. Alcuni disegni sono riprodotti nelle tavole seguenti».
soliniano. In questa sede sono incluse
sei tavole, che rendono organicamente
ragione alla testimonianza pronunciata
da Carlo di Carlo nel Carnet: la parte
destra del foglio è infatti occupata dal
disegno dell’inquadratura, mentre a sinistra si trovano brevi didascalie e sezioni della sceneggiatura (in prevalenza le prime e le ultime parole delle battute) precedute da notazioni tecniche
inerenti il tipo di piano (P.P., primo piano; P.P.P, primissimo piano; F.I., figura
intera; C.L., campo lungo) e il tipo di
obiettivo (nei disegni pubblicati troviamo solo il 75). Pasolini numerava progressivamente le inquadrature, stabiliva i movimenti dei personaggi tramite
frecce poste nel corpo del disegno, suggeriva spazi, ambientazioni e espressione degli attori con velocissimi tratti
di penna. Le parole che accompagnano
i disegni sopperiscono all’assenza di inCaffè Michelangiolo
dicazioni tecniche riscontrabile nella
sceneggiatura e – quando non si limitano semplicemente a riportare le battute – testimoniano un procedimento
di efficace riduzione di quelle didascalie, che il risvolto di copertina poneva
già nel 1962 all’interno di un orizzonte squisitamente letterario («In queste
pagine “miste”, accanto al dialogato
romanesco del Pasolini narratore […] è
confluito il diverso stile del Pasolini saggista e poeta: le didascalie della sceneggiatura, scritte in italiano, molto
“scritte”, hanno una chiarezza di definizione, una forza di rappresentazione
senza precedenti nella sua prestigiosa
carriera letteraria»).
I documenti pubblicati in Une vie
future hanno dunque restituito dignità
alla sezione “scritta” dei materiali preparatori, a loro volta finalmente presentati come luoghi dove si consuma un
pacato duetto tra parola e immagine,
dove dettaglio tecnico, battuta e didascalia corrono paralleli al disegno, completandolo e precisandolo nella stessa
misura in cui gli schizzi completano e
precisano le sintetiche annotazioni riportate a lato.
Le sei tavole che corredano il volume
pongono tuttavia un problema particolarmente spinoso: non ci troviamo infatti davanti alla mera e integrale riproduzione degli autografi, bensì (il che vale
almeno per cinque pagine su sei) davanti al montaggio di strisce prelevate da
fogli diversi, oppure ritagliate dal medesimo foglio, con la conseguente esclusione di alcune inquadrature. È questo
Pasolini a Venezia con Anna Magnani nel 1962.
un fatto evidentissimo fin dalle prime
due tavole, che riportano, in sequenza, le
inquadrature numero 1, 3, 4, 5, 8 e 6, 7,
9, 10, 11 della «Scena 7», inerente l’incontro fra Mamma Roma e Carmine nell’appartamento di Casal Bertone. Visibile l’assenza dell’inquadratura che Pasolini doveva aver contrassegnato col numero 2, quest’ultima immediatamente
Velocità del tratto, espressività ottenuta tramite linee rare, nervose, spezzate. Tutto questo già nel
Ragazzo seduto per terra (inchiostro acquerellato su carta, mm 206x250), realizzato da Pasolini
nel 1943. Sorprendente l’affinità con gli schizzi
“funzionali” approntati per Mamma Roma.
successiva al primo piano di Mamma
Roma che apre porta sul doloroso ritorno del proprio destino. Nonostante ciò, i
disegni mostrano in maniera lampante il
serrato avvicendarsi di primi piani riscontrabile nel film e, contemporaneamente, l’abilità del regista nel descrivere
con rarissimi tratti il cambiamento d’umore che vorrebbe rintracciare nel volto
degli attori.
Nella sceneggiatura, l’atteggiamento
di Mamma Roma, reduce dal tango con
Ettore e immediatamente risospinta verso un doloroso passato dall’apparizione
di Carmine, è descritto in questi termini: «La faccia di Mamma Roma è un’altra, come fossero passati venti anni. Ma
lo nasconde, e fa bene l’indifferente e
quasi la divertita». «P.P. M.R. [abb. per
Mamma Roma] che apre la porta “invecchiata”» si legge nella didascalia posta a commento del primo disegno, che
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Letteratura e cinema
abbozza un P.P. della Magnani coi capelli arruffati, gli occhi stretti in una
morsa di stupefazione e dolore, le labbra
serrate.
Grazie alla collaborazione dell’immagine, la lunga perifrasi della sceneggiatura si comprime in un aggettivo,
sintetico ma preciso, funzionale al tipo
di indicazione proposta alla Magnani.
L’ostentata indifferenza decisa nella
sceneggiatura come tono fondamentale della battuta non viene riportata nella seconda annotazione (inq. 3) – che
recita semplicemente «P.P. M.R. – Nun
è passato…» – ma risulta ben visibile
nello schizzo corrispondente: le labbra
di Mamma Roma si assottigliano, gli
occhi si allargano e cerchiano, l’intero
primo piano traccia un’espressione di
trattenuto disappunto. I disegni degli
altri primi piani sono ugualmente privi di indicazioni attoriali e suggeriscono direttamente, tramite il ritratto del
personaggio, l’oscillazione umorale prospettata nello script: allo smarrimento
e all’ostentata indifferenza segue la
stizza che fa aggrottare le sopracciglia
(inq. 5), quindi la fiera reazione alle
allusioni di Carmine riguardo l’età e le
possibili inclinazioni di Ettore (inq. 9).
Stessa sorte subisce il volto di Carmine:
sfrontato e disteso mentre invita Mamma Roma a «nun fa la matta», al momento di recitare la propria disperazione «commuovendosi improvvisamente con agli occhi le lacrime della
30
Pasolini sul set di Accattone.
vecchia commedia», verrà rappresentato nel disegno con le guance segnate
dal rammarico e gli occhi socchiusi per
il pianto. In questo caso, la commozione prevista in sceneggiatura troverà
spazio nella battuta posta accanto allo
schizzo, ma solo dopo aver subito il
consueto ridimensionamento: «Un ragazzino, ero! (si commuove). Nun c’avevo… mi’madre!».
Delle rimanenti quattro tavole, l’ultima propone l’epilogo dell’incontro tra
Mamma Roma e Carmine. Si tratta dell’unica pagina presumibilmente immune all’operazione di collage: le inquadrature 22, 23 e 24 descrivono la mal
trattenuta rabbia di Anna Magnani
(«P.P.P. (75) M.R. – Ancora nun te sei
saziato»); lo strafottente recupero della scarpa da parte di Citti; il fischiettare canzonatorio, infine, del ragazzo
seduto insieme ai suoi amici sulle scale («P.P. ragazzi che giocano a carte e
uno che ricomincia a fischiettare furtiva lacrima»).
Le terza tavola si apre su una sezione della sceneggiatura (Scena 23 nell’edizione Rizzoli) non rintracciabile nel
girato: dopo aver subito il pestaggio da
parte degli amici, Ettore incontra un
«Uomo» (questa l’indicazione presente
sia nello script, sia nei materiali preparatori) ambiguamente attento e carezzevole. Siamo di fronte alla scena dell’omosessuale, che, come indicato anche
dai curatori dei Meridiani, venne espun-
ta dal film, assieme al «tema degli elefanti come Leitmotiv dei sogni di Ettore» ( Cfr. W. Siti, F. Zabagli, Note e notizie sui testi, in P.P. Pasolini, Per il cinema, II, Mondadori, Milano 2001,
p. 3051). Dopo averlo invitato ad andarsene (inq. 12-13), Ettore ricopre
l’uomo di pugni e lo allontana con uno
spintone («tira tre violenti cazzotti, una
spinta», inq. 14). L’ultima inquadratura ci riporta alle prime battute della
scena dei Carosielli: Mamma Roma,
ansante, cerca di richiamare l’attenzione del figlio e lo chiama: «F.I M.R. che
corre – ’A Ettore!».
La quarta tavola riporta in alto l’indicazione: «Scena 52» e le prime due
inquadrature mostrano il loro essere derivate da quella che, nella sceneggiatura, è la Scena 51: si tratta infatti della
parte immediatamente precedente al finale del film, quando la Magnani, fra i
banconi di un mercato, dovrà recitare il
dolore di una madre resa afona dalla
precoce, di fatto ingiusta e banale, morte del figlio. Il campo lungo accoglie il
profilo di Mamma Roma, di Piero e della «gente» intorno, mentre due giovani
«si avvicinano a M.R. e parlano». Seguiranno i primi piani di Bruna e della
madre di Bruna, ma anche in questo
caso l’opera di montaggio delle strisce
interrompe la sequenza: le inquadrature 8 e 9 riguardano infatti il momento
– assai precedente – dell’arrivo di Mamma Roma ed Ettore nella casa di Ceca-
Caffè Michelangiolo
Letteratura e cinema
La prima di Mamma Roma. Pasolini viene insultato da un gruppo di neofascisti; ecco la sua reazione. La stampa di destra darà dell’avvenimento un’interpretazione distorta e lo scatto comparirà sulle pagine de “Lo Specchio” con la
didascalia: «Schiaffoni per Pasolini. Hanno applaudito Mamma Roma sulla faccia del regista». Per queste referenze, si veda il testo di Franco Gattarola Pasolini una vita violentata (Coniglio editore, Roma 2005) e l’appendice fotografica al recente volume di Gianni D’Elia, L’eresia di Pasolini. L’avanguardia della tradizione dopo Leopardi (Effigie, Milano 2005).
Pasolini, allievo di Giotto nel Decameron.
fumo e il primo abboccamento tra il ra- danti il volto di Mamma Roma «invecgazzo e i suoi nuovi amici. Sulla quinta chiata», il primo piano di Carmine e il
pagina, infine, s’accampano in maniera gruppo di ragazzi che giocano a carte,
discontinua alcune inquadrature ri- l’avanzare di Mamma Roma verso il figuardanti la scena dei Caroselli: si par- glio durante l’incontro alle giostre, un
te dall’inquadratura numero 16 per ar- suo primo piano in un altro momento
rivare alla 23, passando per la numero del colloquio con Carmine, il primo
19 e la 22.
piano di Bruna e di sua madre, il proIn sostanza, le riproduzioni di Une filo della Magnani seduta, mentre cervie future ruotano per lo più intorno al- ca di placare il dolore provocato dal
l’episodio dei Caroselli e a quello del- “callo” e porge contemporaneamente
l’incontro tra Carmine e Mamma Roma, il suo malinconico saluto al figlio:
con inserimenti meno corposi tratti dal- «Quanto sei cresciuto…».
la scena finale del mercato, dalla scena
Una disposizione, dunque, di nuovo
(espunta nel film) delle percosse ai dan- discontinua, così che la ricostruzione
ni dell’«Uomo», dell’incontro tra Etto- del contesto è ancora una volta affidata
re e i suoi nuovi compagni «per bene».
– quando possibile – alla buona volontà
Prelevati dalle tavole dall’edizione
francese, sono quindi apparsi monconi
dei fogli ne Le regole
di un’illusione, ulteriore volume sul cinema pasoliniano curato dal Fondo nel
1991. Le affermazioni di Pasolini riguardo al film del 1962
sono, in questa sede,
intervallate da strisce
che ripropongono sia
il disegno, sia la notazione scritta. Si rintracciano così nel volume i progetti delle
inquadrature riguar- Lo schizzo della giostra nell’edizione Rizzoli.
Caffè Michelangiolo
di chi conosce le tavole pubblicate in
Une vie future.
Sembrerebbe difficile orientarsi in
un così fitto e difforme utilizzo dei materiali, mai lasciati respirare nella loro
integrità e sottratti a forbici spesso impietose solo in una delle sei tavole contenute nel volume francese. Sta di fatto
che l’intero blocco del pubblicato appartiene esclusivamente all’esperienza
di Mamma Roma e che, infine, ci troviamo di fronte ad un insieme relativamente esiguo di inquadrature, in cui
– tolti gli schizzi d’ambiente riprodotti
nell’edizione Rizzoli – troneggiano indiscussi il volto della Magnani, quello di
Ettore e quello, meno rassicurante, di
Carmine, immortalati da Pasolini in scene-cardine del film.
Spetta a Hervé
Joubert-Laurencin il
merito di aver indagato sistematicamente il
problema dei materiali preparatori, già cursoriamente affrontato
da Francesco Galluzzi
sia nel suo Pasolini e
la pittura, Bulzoni,
Roma, 1994), sia nella nota stesa per il catalogo dei disegni pasoliniani conservati presso L’Archivio
Contemporaneo Bonsanti del Gabinetto
31
Letteratura e cinema
Le riprese di Accattone nella stampa dell’epoca:
«Pier Paolo Pasolini ha iniziato in questi giorni la
lavorazione del suo film Accattone, di cui è soggettista e regista. In questo film, che viene girato coi mezzi di fortuna tipici della «nouvelle vague», lo scrittore di vita intende realizzare una
complessa trasposizione cinematografica delle
proprie esperienze tra i giovanotti delle borgate
e delle marrane. A questo scopo, Pasolini ha arruolato un considerevole numero di “fusti” popolani, del tutto nuovi alle vicende cinematografiche, ed una sola attrice professionista, Adriana
Asti, cui è stato proposto d’impersonare una
mondana di periferia. […] (Nella foto: Pier Paolo
Pasolini, al centro, col copione tra le mani, prepara un scena in un caffè paesano)». Questo uno
stralcio del «malevolo pezzullo» – ricco di «sottese quanto insultati allusioni» – riportato nel rotocalco ultraconservatore “Lo Specchio” all’altezza del 16 aprile 1961 e preso in esame da Franco
Gattarola, op. cit., pag. 95.
Vieusseux (“Una delle cose più affascinanti del mondo”. Disegni e passione
per le immagini in Pasolini, in Pier Paolo Pasolini, Dipinti e disegni dall’Archivio Contemporaneo del Gabinetto
Vieusseux, Polistampa, Firenze 2000,
pp. 14-15). Proprio l’interpretazione di
Galluzzi guida il lavoro del critico francese, che rifiuta l’ingenuo e tutto sommato limitante inserimento dei disegni
nel corpus dell’opera grafica pasoliniana e attribuisce a questi fogli l’importantissimo ruolo di «un regard vivant
sur la création cinématographique pasolinienne, le stade intérmediaire en
acte, consultable dans son mouvement,
entre la scénarisation et le tournage»
(Le lieu du scénario, in Théâtres au
cinéma: Pier Paolo Pasolini, Alberto
32
Moravia, Collection Magic Cinéma, Paris 2000, p. 38).
L’intervento di Hervé Joubert-Laurencin non ha solo indicato la validità
di un approccio critico che guardasse ai
materiali preparatori come momento
intermedio fra la parola e l’immagine,
come prima interpretazione visiva della sceneggiatura. Il contributo ha anche
svelato al grande pubblico la consistenza del materiale conservato presso
il Fondo Pasolini: si tratta di dieci fogli
riguardanti Mamma Roma, da cui sono
state prelevate le strisce montate nel
volume francese («J’ai pu consulter –
scrive il Joubert-Laurencin – en 1981
au Fonds Pasolini de Rome (Associazione Fondo Pasolini) 10 feuilles complets et dans l’ordre des plans, d’où on
été extraits les montages poubliés en
1987 dans Une vie future»). Si nota,
per inciso, come gli schizzi presentati
nell’edizione Rizzoli del 1962 appartengono a molte scene contemplate nei
montaggi di Une vie future; il che suggerisce la fortissima probabilità di una
loro conservazione in questo stesso
blocco di materiale.
Ma la parte maggiore e il maggiore
pregio del lavoro di Joubert-Laurencin
stanno altrove: il critico ha infatti svelato la presenza di ben 152 tavole simili
a quelle visionate presso il Fondo, negli
archivi parigini della Bibliothèque du
film (Bifi), al numero 100 di Rue du
Faubourg Saint Antoine. Secondo
l’ipotesi di Graziella Chiarcossi – che ha
gentilmente fornito una breve ricostruzione dei fatti – i fogli furono donati da
Pasolini a un cinefilo francese, Biette,
che collaborò col regista per i sottotito-
Franco Citti in Accattone.
li francesi dei suoi film. Biette donò in
seguito il materiale alla Bifi, che pure
conserva una scheda del materiale orfana sia del nome del donatore, sia della data della consegna per custodia.
Oltre a 92 autografi inerenti le scene di Mamma Roma, i locali di questa
biblioteca accolgono 60 «demi-feuilles» legati alle riprese di Accattone e
parimenti organizzati in due sezioni,
con la parte destra della pagina occupata da velocissimi disegni dell’inquadratura e la parte sinistra ricoperta di
annotazioni registiche, didascalie reinventate sulla base della sceneggiatura,
parti di battute. Il tutto vergato sul verso di un Diario di lavorazione.
Più veloci e schematici, sicuramente meno accurati di quelli approntati
per Mamma Roma, gli schizzi stesi in
L’arrivo a Cecafumo nell’edizione Rizzoli.
Caffè Michelangiolo
Letteratura e cinema
vista di Accattone rispondono alla dichiarazione rilasciata da Delli Colli e
testimoniano un trattamento della sceneggiatura riscontrabile nello scarso
materiale già edito. Le brevi indicazioni poste a lato dei disegni esibiscono, ad esempio, il venire meno di tutte le figure dell’ornatus e delle perifrasi accampate nel “film sulla carta”;
le azioni sono necessariamente frammentate in più inquadrature; urge
spesso un aggettivo, a volte ripreso dal
corsivo della sceneggiatura, a volte direttamente ricreato in base alle stesse
opportunità espressive che condurranno Pasolini a definire “invecchiata” la
Mamma Roma che s’imbatte inaspettatamente nei «baffetti omicidi» di
Carmine. Se infatti l’Accattone della
sceneggiatura, dopo il tuffo dal Ponte
degli Angeli, mangiava «come un alluvionato», quello ritratto con i pochi
ma espressivi tratti dei disegni è semplicemente «muto» durante il meritato
pasto.
L’accurata descrizione dei materiali fornita da Hervé Joubert-Laurencin,
che dedica l’appendice del suo articolo
alla numerazione e al riconoscimento
delle scene schematizzate nelle tavole
parigine, è stata infine recepita dai curatori dei Meridiani Mondadori. Le
Note e notizie sui testi dei due volumi
riservati al cinema di Pasolini segnalano infatti la presenza e la collocazione
1
Caffè Michelangiolo
Pier Paolo Pasolini nella sua casa di Roma in una
immagine del 1960.
del materiale inedito, rimandando all’articolo e alla descrizione di JoubertLaurencin. Ovvi motivi di spazio e di
statuto testuale non hanno permesso a
Walter Siti e Franco Zabagli di inserire nel lavoro i documenti parigini, che
naturalmente differiscono dalla sceneggiatura a fumetti de La terra vista
dalla luna, sia per la qualità del disegno, sia perché, a differenza di quanto
rapsodicamente previsto per quest’ultimo lavoro, Pasolini non ha mai dichiarato di voler pubblicare per intero i disegni preparatori. (Cfr. W. Siti, F. Zabagli, Per il cinema, I, Mondadori, Milano 2001, p. cxix).
2
I fogli conservati presso la Bifi rimangono dunque inediti, le dieci tavole consultate dallo stesso Joubert-Laurencin presso il Fondo Pasolini di Roma
(ora trasferito a Bologna) non sono state ancora offerte al pubblico nella loro
integrità. Perdura il sentimento di una
grave perdita, legata all’assenza di un
tassello non senza conseguenze sottratto a tutte le analisi critiche che, seguendo la proposta pasoliniana di una
«filologia del cinema», si propongono
un confronto puntuale fra «lo scritto» e
«il girato».
La divulgazione del materiale diventa allora un problema urgente, soprattutto se si pensa che i tagli e le addizioni riscontrabili nella pellicola rispetto alla sceneggiatura di partenza
sono, per lo più, già strutturati e decisi
nei materiali preparatori. Anzi, la presenza di scene come quella dell’omosessuale all’interno dei fogli approntati
per Mamma Roma potrebbe venire in
soccorso a chi volesse ricostruire il lavoro di montaggio operato da Pasolini
sul già girato e sul «da girare», aprendo
prospettive nuove (e soprattutto filologicamente sostenibili) sia per quanto riguarda i ripensamenti e le provocazioni
dell’autore, sia rispetto all’influsso su
di essi esercitato dagli spettri della censura e della pubblica opinione.
Guardiamo poi ai momenti inventivi dei disegni: l’elaborazione filmica
3
33
Letteratura e cinema
4
del sogno di Accattone – forse uno dei
casi di maggiore discontinuità fra la
pagina scritta e la pellicola – è prospettata fedelmente nei fogli. In questa
sede, ad esempio, Pasolini crea e inserisce le due inquadrature sui Napoletani sorridenti e quindi sui loro corpi
esanimi, coperti dalle macerie. Sempre
nei materiali preparatori, inoltre, si
profila il volto di Sabino, il fratello “lavoratore”, come autorevole (e colpevole) partecipante alla processione funebre: «Un chierico è Sabino», si legge
nella didascalia affiancata allo schizzo
dell’inquadratura 29.
Inutile cercare nella sceneggiatura
di Mamma Roma il minimo e umanissimo particolare di Ettore che, svegliato dalla Magnani e misteriosamente da
lei invitato a scendere in strada, dopo
essersi vestito, «fa il buffoncello» davanti allo specchio, ostentando un’aria
da grand’uomo. Ma la geniale tenerezza di questo piccolo squarcio non è
frutto dell’improvvisazione, né di un
ripensamento in fase di montaggio:
l’inquadratura, così come verrà realizzata nel film, è già presente nei materiali preparatori.
Nella speranza di non dover attendere il prossimo trentennale perché
veda la luce un’edizione critica di questo voluminoso spaccato dell’opera di
Pasolini, si potrebbe concludere sottolineando come la pratica di disegnare
34
5
le inquadrature non rimanga appannaggio dei primi due film, ma s’inserisca appieno e continuativamente nel
metodo di lavoro pasoliniano, assumendo lo stesso valore filologico di una
seconda stesura o di una variante e
presentandosi al contempo come momento creativo dotato di un suo specifico profilo, intimamente collegato alla
sceneggiatura e al film eppure in qualche modo autonomo, testimonianza di
una fase di passaggio in cui parola e
immagine riescono concretamente a
collaborare.
Nel suo Pasolini Requiem (Marsilio,
Venezia 1995), Barth David Schwartz
racconta le ultime ore del regista al
“Pommidoro”. Pasolini è in compagnia
della famiglia Davoli e intreccia un dialogo con Ninetto intorno al prossimo
film, da intitolare o Ta kai ta o Pornotheo-kolossal. La ricostruzione di
Schwartz si ferma su un’abitudine ormai largamente conosciuta ma non ancora del tutto esplorata, provocando in
chi legge il desiderio di immergersi nei
ricchi e parzialmente ancora incogniti
archivi pasoliniani, fra le carte degli
amici, a caccia di quei foglietti, forse irrimediabilmente dispersi, in cui lo
scrittore, il critico, l’appassionato d’arte, il disegnatore e il regista non cessarono mai d’incontrarsi e colloquiare:
«La sceneggiatura prevedeva che inizialmente si girasse a Stoccarda; nel
6
corso della conversazione venne fuori
Istambul, ma fu rapidamente accantonata; Pasolini poi parlò di New York, di
Napoli. Mostrò a Ninetto gli schizzi a
matita di alcune scene; quella di buttar
giù quanti più schizzi poteva, a formarsi uno «story-board» primitivo, era
quasi un’abitudine. Il film gli scorreva
già in testa e i disegni diventavano una
specie di foto di scena, così che la realizzazione non era altro che un processo meccanico di trasformazione, di
fronte alla cinepresa, delle sue nitide
immagini in movimento». (p. 38). ■
RINGRAZIAMENTI
I più vivi ringraziamenti a Robert Régis, documentaliste-coordinateur presso il Département
des Archives della Bibliothèque du Film; a Graziella Chiarcossi; a Loris Lepri e Roberto Chiesi,
curatori del Centro Studi - Archivio Pier Paolo
Pasolini di Bologna.
NOTA
Sequenza 1, 2, 3: Il ritorno di Carmine nei
montaggi riprodotti nel volume Une vie future
(1987).
Sequenza 4, 5, 6: Altri montaggi presenti nelle tavole di Une vie future: l’incontro con l’omosessuale (espunto in seguito dal girato) e l’inseguimento di Mamma Roma ai Carosielli; la «Scena 52» (Mamma Roma apprende la notizia della
morte del figlio) e le nuove amicizie di Ettore; alcuni prelievi dalla sequenza dei Carosielli.
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Letteratura e cinema
Dal forte romanzo di Elena Ferrante alla pellicola mancata di Roberto Faenza
LA FEMMINILITÀ DEL DOLORE
di Costanza Melani
I
temi del tradimento e dell’abbandono
hanno sempre attirato la mia attenzione, specie se considerati dal punto
di vista psicologico e sociale, decisamente meno dal punto di vista economico.
Deve pensarla come me anche Elena Ferrante, l’autrice de I giorni dell’abbandono, romanzo dal forte successo, giunto in
tre anni alla tredicesima ristampa e alle
centomila copie vendute. Leggendo questo romanzo doloroso ed emotivamente
violento mi è venuto da interrogarmi a
lungo sulla vicenda narrata. Olga, la protagonista, viene abbandonata dal marito
Mario, che la lascia da sola a gestire una
casa troppo grande, due figli piccoli e un
cane che lei non ha mai amato per andare a vivere con Carla, una giovane ventenne conosciuta anni prima dando ripetizioni.
Un pomeriggio d’aprile, subito
dopo pranzo, mio marito mi annunciò
che voleva lasciarmi. Lo fece mentre
sparecchiavamo la tavola, i bambini
litigavano come al solito nell’altra
stanza, il cane sognava brontolando
accanto al termosifone. Mi disse che
era confuso, stava vivendo brutti momenti di stanchezza, di insoddisfazione, forse di viltà. Parlò a lungo dei
nostri quindici anni di matrimonio,
dei figli, e ammise che non aveva nulla da rimproverare né a loro né a me.
Tenne un atteggiamento composto
come sempre, a parte un gesto eccessivo della mano destra quando mi
spiegò con una smorfia infantile che
voci lievi, una specie di sussurro, lo
stavano spingendo altrove. Poi si assunse la colpa di tutto quello che stava accadendo e si chiuse con cautela la
porta di casa alle spalle lasciandomi
impietrita accanto al lavandino1.
Da questo momento inizia per Olga
un lungo percorso che parte dalla presa
di coscienza della serietà delle intenzioni
del marito, passa attraverso la scoperta
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di sé. La persona che per tanti anni ha
creduto di essere non serve più a nessuno, tanto meno a lei stessa. Mario si è
portato via la moglie, la madre, la quieta donna borghese che ha rinunciato alle
proprie aspirazioni professionali (rappresentate nello specifico dal desiderio
di scrivere), e che lo ha fedelmente assistito e aspettato per tanti anni, come
continua a fare Otto, il cane lupo simbolo della fedeltà assoluta e incondizionata
che Mario dimentica dietro di sé insieme
ad una vita che non vuole più.
In questa perdita di sé, Olga rischia di
smarrire la ragione e si affaccia sul baratro della follia, ossessionata dal ricordo infantile di una povera vicina di casa
che si suicidò in seguito all’abbandono
del marito, in una Napoli molto femminile e molto più tormentata dell’algida
Torino.
Luca Zingaretti interpreta il personaggio di Mario
nel film I giorni dell’abbandono che Roberto Faenza ha tratto dal romanzo omonimo di Elena Ferrante. Il sessantatreenne regista aveva portato sullo schermo in precedenza altri due testi di scrittori italiani: Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi
(1995) e Marianna Ucrìa di Dacia Maraini (1997).
dell’esistenza di un’amante, scivola lungo il conflitto con Ilaria e Gianni, i figli in
cui si rispecchiano i tratti fisici e caratteriali dell’odiato traditore, per approdare
infine ad una ricomposizione familiare
diversa, in cui l’odio e la rabbia lasciano
il posto ad una comprensione nuova degli eventi. Ma il viaggio che Olga compie
veramente è quello dentro se stessa: Mario la lascia, ma quel che è peggio è che
si porta via con sé la sua identità. Olga si
trova improvvisamente sola, sprovvista
Da allora la nostra vicina cominciò
a piangere tutte le notti. Sentivo nel
mio letto questo pianto rumoroso, una
specie di rantolo, che sfondava ad
ariete le pareti e mi atterriva. Mia madre ne parlava con le sue lavoranti,
tagliavano, cucivano e parlavano, parlavano, cucivano e tagliavano, mentre
giocavo sotto il tavolo con gli spilli, il
gesso, e ripetevo tra me e me ciò che
ascoltavo, parole tra mestizia e minaccia, quando non ti sai tenere un
uomo perdi tutto, racconti femminili
di sentimenti finiti, cosa succede quando colme d’amore si resta non più
amate, senza niente. La donna perse
tutto, anche il nome (forse si chiamava Emilia), diventò per tutti “la poverella”, cominciammo a parlarne chiamandola così2.
In un processo di scomposizione e ricomposizione di sé, Olga affronterà da
sola l’astio verso gli altri, l’ossessione
delle fantasie erotiche sul marito e la
sua amante, l’affiorare di un linguaggio
scurrile e aggressivo, la depressione e la
35
Letteratura e cinema
frustrazione di chi si trova improvvisamente in un «vuoto di senso» dell’esistenza.
Cominciai a cambiare. Nel giro di
un mese persi l’abitudine di truccarmi
con cura, passai da un linguaggio elegante, attento a non urtare il prossimo,
a un modo di esprimermi sempre sar-
Margherita Buy in un fotogramma del film I giorni dell’abbandono, regista Roberto Faenza.
castico, interrotto da risate un po’
sguaiate. Piano piano, malgrado la
mia resistenza, cedetti anche al linguaggio osceno. L’oscenità mi veniva
alle labbra con naturalezza, mi pareva che servisse a comunicare ai pochi
conoscenti che ancora cercavano frigidamente di consolarmi che non ero
una che si fa abbindolare con le belle
parole. Appena aprivo la bocca sentivo la voglia di irridere, macchiare, insozzare Mario e la sua troia3.
Proprio sul termine «vuoto di senso»,
più volte utilizzato dalla Ferrante, si sono
appuntati il mio interesse e la mia riflessione. All’inizio del romanzo è infatti Mario ad usare quest’espressione, per definire la propria condizione di uomo in
fuga dal matrimonio e dalla famiglia,
mentre nelle pagine finali è Olga a riprendere quest’espressione, dandole un
nuovo significato.
Una sera comparve a casa senza
preavviso, mi sembrò depresso, aveva
voglia di chiacchiere.
«Ho una cosa brutta da dirti» mi
disse.
«Dilla.»
«Gianni mi è antipatico, Ilaria mi
dà ai nervi.»
«È successo anche a me.»
36
«Mi sento bene solo quando sto
senza di loro.»
«Sì, certe volte è così.»
«Il rapporto con Carla si rovinerà se
continueremo a vederli tanto spesso.»
«Può essere.»
«Tu stai bene?»
«Io sì.»
«È vero che non mi ami più?»
«Sì.»
«Perché? Perché ti ho mentito?
Perché ti ho lasciata? Perché ti ho offesa?»
«No. Proprio quando mi sono sentita ingannata, abbandonata, umiliata,
ti ho amato moltissimo, ti ho desiderato più che in qualsiasi altro momento
della nostra vita insieme.»
«E allora?»
«Non ti amo più perché, per giustificarti hai detto che eri caduto nel
vuoto di senso, e non era vero.»
«Lo era.»
«No. Ora so cos’è un vuoto di senso e cosa succede se riesci a tornare in
superficie. Tu no, non lo sai. Tu al
massimo hai lanciato uno sguardo di
sotto, ti sei spaventato e hai turato la
falla col corpo di Carla.»4
E così alla fine di questo processo di
separazione, si scopre che l’uomo e la
donna hanno percorso due strade completamente diverse. Olga attraverso il
dolore e la rabbia è morta per rinascere
con una diversa conoscenza di sé e del
mondo, ha attraversato faticosamente il
vuoto di senso che a un certo punto la
vita riserva a ciascuno di noi ed è tornata a vivere il quotidiano con una consapevolezza e una maturità nuove. Mario,
al contrario è un personaggio che non
ha sviluppo, che non cresce e non comprende niente di quello che avviene né
attorno a sé, né dentro di sé. Affacciatosi sul vuoto non ha saputo fare niente di
meglio che coprirlo con il corpo di una
donna più giovane della moglie, che gli
offrisse l’illusione di una nuova giovinezza, senza ricordargli ogni momento il
trascorrere delle stagioni dell’esistenza.
Personaggio asfittico e opaco, Mario è
condannato a ri-ingrigire in poco tempo,
superato l’entusiasmo iniziale di avere
qualcuno di diverso al proprio fianco,
specchio nuovo che ci rimanda un’altra
immagine di noi, finta e artefatta perché
non frutto di un’autentica e personale
ricostruzione interiore.
Presto feci anche l’abitudine a incontrare Mario, telefonargli per grane
quotidiane, protestare se tardava a
versare i soldi sul mio conto. A un certo punto mi accorsi che il suo corpo si
stava di nuovo modificando. Ingrigiva,
gli zigomi erano gonfi, i fianchi, il ventre, il torace tornavano ad appesantirsi. A volte provava a farsi crescere i
Margherita Buy nella parte di Olga, in una sequenza del film che Roberto Faenza ha tratto dal romanzo di Elena Ferrante, I giorni dell’abbandono.
baffi, a volte lasciava la barba lunga,
a volte si radeva del tutto con molta
cura5.
I giorni dell’abbandono raccontati da
Elena Ferrante sono la storia, femminista nel vero senso del termine, di una
scoperta di se stesse: Olga compie un
viaggio interiore, straziante e viscerale,
da cui si rischia anche di non uscire vivi,
ma che la porta ad essere, irrimediabilmente, più forte e consapevole del marito. Così quando sarà pronta ad accettare l’amore del suo vicino di casa, il timido ma sensibile violinista Carrano, Olga
saprà esattamente cosa le è veramente
successo e cosa è pronta ad affrontare
nei giorni che verranno.
«È stato molto brutto?» mi domandò in imbarazzo.
«Sì.»
«Cosa ti è successo quella notte?»
«Ho avuto una reazione eccessiva
che ha sfondato la superficie delle
cose.»
«E poi?»
«Sono caduta.»
«E dove sei finita?»
Da nessuna parte. Non c’era
profondità, non c’era precipizio. Non
c’era niente.»6
Caffè Michelangiolo
Letteratura e cinema
Peccato che di tutto questo nella trasposizione cinematografica di Roberto
Faenza, sceneggiatore e regista dell’omonima pellicola presentata alla 62°
Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia
con scarsissimo successo, non rimanga
praticamente nulla. Perché tanti slittamenti e tante banalizzazioni dal libro al
film? Perché perdere di vista proprio il
La copertina del romanzo di Elena Ferrante, I giorni dell’abbandono, pubblicato dalle edizioni E/O
nel 2002 (copertina di Emanuele Ragnesco).
senso reale di questa storia di abbandono,
rendendola un semplice fatto di cronaca
quotidiana, con un pessimo finale buonista che vede tutti ri-assortiti e borghesemente tranquilli? La pellicola di Faenza
non riesce a sfruttare le potenzialità del
testo o forse non le ha comprese. Per i 96
minuti del film lo spettatore rimane attonito, assolutamente distaccato dalla vicenda e a tratti un po’ infastidito dalla
sur-realtà di alcune scene.
Ci si chiede dove siano finite le pagine violenti, volgari, disperate e viscerali della Ferrante, quelle pagine che erano in grado di arrivare dritte allo stomaco del lettore come un pungo ben assestato, quelle pagine che ti facevano
rialzare dolorante e impressionata dal
divano, immedesimata in questa donna
che per la prima volta nella vita sperimenta sulla sua pelle il dolore e la rabCaffè Michelangiolo
bia di chi non sa più dare un senso alle
cose, certe che anche noi saremmo cadute in quel delirio della ragione che
porta all’isolamento più totale nei confronti del mondo e degli stessi propri figli. Dove sono tutta la cattiveria e l’odio,
la paura di avere fallito come persona, di
non essere stata in grado di dare l’amore necessario? Nell’Olga interpretata da
Margherita Buy tutti questi sentimenti
fanno capolino giusto in un paio di scene, sorrette dalla bravura istrionica di
un’attrice di talento, cui non si può chiedere però di reggere un intero film, dalla trama piuttosto esile. E a nulla serve
farle tracannare sguaiatamente e istericamente una bottiglia di whisky, perché
il senso del personaggio non stava in
grossi gesti plateali, quanto in un continuo scavo interiore in grado di aprire
molte gallerie sotterranee, ancora in contatto con fobie e paure ancestrali. Come
il personaggio di Olga, anche quello di
Mario, interpretato da un Luca Zingaretti insolitamente monocorde, e quello
ancora più esile di Carrano, interpretato da Goran Bregovic, non convincono e
non coinvolgono.
Vi sono poi una serie di personaggi di
contorno assenti nel libro il cui ruolo
non è ben delineato: prima tra tutti la figura della madre appassionata di astrologia, che si palesa in un insopportabile
quanto inutile videotelefono e quella di
una barbona che forse dovrebbe avere
un senso simbolico che però mi è sfuggito. Per non parlare della trasformazione del cane lupo del libro, simbolo,
questo sì, di una fedeltà che non ammette compromessi e che quindi è destinata a morire, come avviene al cane che
rompe con i denti un velenoso insetticida, in una golden retriver alla moda,
adatto alle patinate famiglie borghesi
dei film di Gabriele Muccino.
Obiettivamente portare sul grande
schermo il libro di Elena Ferrante era
un’impresa ardua: come creare un qualcosa che si basa su dialoghi e azioni sulla base di un libro in cui sono più numerose le parole non dette che quelle
pronunciate, in cui la maggior parte delle frasi appartengono alla riflessione a
posteriori della donna?
La risposta non è facile, ma vorrei
partire da una considerazione. I libri non
sono semplici soggetti, non sono storie
pronte per esser “consumate” dal cinema
e dalla televisione. I libri hanno un tono,
un’anima, una poesia, un senso, che non
si trova quasi mai nel plot, ma nelle parole più intime che sono state utilizzate
per raccontarlo. Inserire nella pellicola
personaggi assolutamente fuori posto
non arricchisce il senso della storia, che
è quello di una donna che per la prima
volta nella sua vita si centra su se stessa,
guarda il mondo con i propri occhi e non
Il cartellone del film che il regista Roberto Faenza
ha tratto nel 2005 dal fortunato romanzo di Elena
Ferrante, I giorni dell’abbandono (E/O, Roma 2002).
attraverso quelli del marito, fa i conti
con i retaggi di una cultura napoletana
maschilista e svilente e raggiunge una
nuova maturità, riprendendo anche in
mano la penna per scrivere di sé e di tutte le donne del mondo. Meno attenzione
formale al linguaggio delle immagini,
belle e ben costruite, e più sensibility,
come avrebbe scritto Jane Austen, avrebbero forse aiutato a trasporre sullo schermo un libro denso, viscido e angosciante, senza facili buonismi consolatori come
quello scritto dalla napoletana Elena
Ferrante.
■
NOTE
1 E. Ferrante, I giorni dell’abbandono, Edizioni e/o, Roma, 20052, p. 7.
2 Ivi, pp. 14-15.
3 Ivi, p. 27.
4 Ivi, p. 208.
5 Ivi, pp. 207-8.
37
La vetrina
Una recente traduzione di poesie di Marina Cvetaeva
(e di Arsenij Tarkovskij) offre l’occasione per riavvicinare
una delle più alte e drammatiche personalità del Novecento russo
IL SOGNO, LA VITA
di Michele Miniello
Davanti a me ho il libro di Boris
Paternak Mia sorella la vita… Il mio
primo movimento: … braccia spalancate, così che tutte le articolazioni scricchiolassero. Sono capitata sotto questo
libro come sotto un acquazzone…2
Io non riesco a vivere, e cioè a durare,
non so vivere nei giorni,
e ogni giorno vivo fuori di me.
È una malattia inguaribile e si chiama – anima.
Marina Cvetaeva (lettera a O.E. Černova, gennaio 1925)
M
i capita tra le mani un libriccino
dal titolo Sonno e Vita. Sogni e
amore con poesie di Marina
Cvetaeva e Arsenij Tarkovskij, scelte e
tradotte da Irina Dvizova, lettrice di russo nell’università di Firenze, ed Emiliano Panconesi, professore emerito del
medesimo ateneo e studioso a latere di
letteratura russa, e subito lo sfoglio con
curiosità e interesse.
Con la fine del comunismo e la disgregazione dell’Urss, l’attenzione per
alcuni autori – la stessa Cvetaeva, Mandel’štam, Esenin, Pasternak, Šklovskij
ecc. – si è affievolita. E perciò questa
breve raccolta di poesie, stampata dall’editore fiorentino Mauro Pagliai, merita il plauso di chi ama la letteratura
russa.
Marina Cvetaeva è senza dubbio
una delle più grandi poetesse di tutti i
tempi. E ben se ne accorse Pasternak
che nella sua Autobiografia annotava:
«Negli anni di questi nostri primi ardimenti soltanto due persone, Aseev e la
Cvetaeva, possedevano una frase poetica matura, ormai perfettamente formata».
E siamo nel primo decennio del Novecento.
Per l’appunto Pasternak, che sarà il
suo riferimento, fino alla fine tragica
della sua vita, e destinatario di moltissime lettere, documenti preziosi per conoscere e capirne la personalità prorompente, si lamenterà, nella sua Autobiografia, di averla apprezzata pienamente solo parecchi anni dopo:
La verità e che bisognava saperle
leggere attentamente. Quando lo feci,
38
La copertina del libro Sonno e vita. Sogni e amore (sottotitolo, Un dialogo nel tempo) dove Irina
Dvizova e Emiliano Panconesi hanno riunito e tradotto testi di Marina Cvetaeva e Arsenij Tarkovskij.
Uscito nel giugno 2005 nelle edizioni Polistampa
dell’editore Mauro Pagliai, è il secondo titolo della collana “La Fenice” diretta da Pier Francesco Venier e inaugurata da Alessandro Fo con la raccolta Piccole poesie per banconote. Il terzo volumetto, dell’ottobre 2005, è Madre cometa di Maria De Lorenzo, con prefazione di Franco Ferrucci.
In preparazione, La corazza nuda di Gabriella Sobrino, con prefazione di Ariodante Marianni.
restai senza respiro per quell’abisso di
purezza e di forza che mi si spalancava dinanzi. […] Nella primavera
del 1922 comprai a Mosca un suo libriccino, Verste. E subito mi conquistò la forte liricità della forma, vissuta intimamente, non fioca ed esile,
ma potentemente stringata e concisa.
[…] Scoprii in quelle caratteristiche
una sorta di affinità tra me e lei […]1
La folgorazione tardiva è reciproca,
perché, nello stesso anno, la Cvetaeva
scopre la grandezza della poesia di Pasternak:
E così, in sei giorni, scrisse di getto
e in modo appassionato il suo primo
saggio su Pasternak.
La corrispondenza con Pasternak,
da Berlino, dalla Boemia, da Parigi,
diventa febbrile.
Anche lui, come Rilke, come ogni
destinatario della sua passione, si trasforma in «eroe onnipotente e insieme
fragile, bisognoso di affetto e cure materne. […] Il suo amore si alimentava
dell’altrui bisogno. […] Stimava se
stessa solo un movente per gli altri,
[…] e si annullava fino all’ultimo suo
atomo; offriva l’incendio di sé come
rogo da attraversare al principio di un
lungo viaggio iniziatico. […] Anche
per questo molte sue lettere hanno le
cadenza della magia e dell’esorcismo»3.
Le lettere della Cvetaeva diventano
legna su cui brucia la sua passione per
Pasternak: «Voi, in assoluta pienezza
di cuore, siete il primo poeta della mia
vita», «Andavo da voi come a casa, andavo come sul rogo», «Nella vostra
opera c’è più Genio che poeta», «Il poeta è stato sconfitto dal Genio», «Voi volete l’impossibile, ciò che trascende le
parole. Il fatto che siete un poeta è uno
strafalcione (di Dio e – divino)».
Nei rapporti con gli altri la Cvetaeva era spigolosa, esigente, altera.
Molte memorie di contemporanei, al
di là della devozione, del rispetto per la
sua tragica vicenda umana e la grandezza della sua poesia, hanno alimentato anche una intricata leggenda (che
comunque si nutre di testimonianze attendibili) sugli amori di Marina.
Valga per tutte quella di Lossky:
«Nei suoi rapporti con gli uomini c’era
Caffè Michelangiolo
La vetrina
qualcosa di terribile, semplicemente patologico […] si gettava, in pratica, sugli
uomini! […] Nei suoi rapporti con gli
uomini c’era qualcosa di antigienico.
[…] Lei amava il marito e amava solo
lui, ma lo tradiva in un modo terribile,
gli portava i suoi amanti in casa»4.
Le dicerie e i commenti maligni sicuramente arrivavano alle orecchie della poetessa, la quale, in una lettera da
Mokropsy, in Boemia, il 10 febbraio
1923, sente il bisogno di mettere in
guardia il suo divino Boris:
scenti. […] Per tutti questi anni – sempre
qualcuno accanto, ma un tale deserto!».
Lo sconforto e l’amarezza per la sua
condizione di solitudine non le impediscono, però, di cercare di nuovo, con
testardaggine, altre persone su cui riversare il suo fuoco, la sua passione.
Il racconto fatto all’amico E.L. Lann
dell’incontro con il giovane rivoluzionario Boris Ivanovič Bessarabov e del-
Non date mai ascolto a quello che
di me dice la gente (gli amici!), ho offeso molti (me ne sono innamorata e
disinnamorata, li ho cullati e poi lasciati cadere dalle braccia), per la
gente i contrasti sono una questione
di amor proprio, quell’amor proprio
di cui io – in modo maschile, in modo
divino – ho riguardo. Non stateli a
sentire. Vi dirò io: peggio, certamente, ma – la verità.
L
a vita di Marina è stata tumultuosa
e sempre lacerata dal contrasto tra
realtà e sogno, necessità e desiderio. Lei
era immersa nella vita e se ne considerava separata. Lottava con puntiglio per
realizzare progetti e desideri, ma finiva
quasi sempre per esserne sopraffatta.
Il suo desiderio di libertà era sconfinato, ma poi si trovava rinchiusa in una
cella. Agognava il sonno e si trovava
vittima dell’insonnia (un tema ricorrente nella sua poesia).
L’unica via di uscita, l’unica salvezza restava il sogno: «Riesco a vivere solo
in sogno […] È la mia vera vita, senza
eventi casuali, tutta fatale, dove tutto si
avvera».
E ancora a Pasternak scrive nel novembre del 1922: «Il tipo di rapporto
che io preferisco è ultraterreno: il sogno: vedere in sogno. E il secondo: la
corrispondenza. La lettera: una forma
del rapporto ultraterreno, meno perfetta del sogno, ma le leggi sono le stesse».
La voglia di vivere, di incontrare
gente, di fare amicizia, è fortissima, ma,
alla fine, si ritrova terribilmente sola.
Nelle lettere, infatti, rimarca continuamente quel suo essere sola, a dispetto del fuoco che le brucia dentro.
Nel dicembre del 1920 scrive da Mosca alla sorella Anastasija: «Sono molto
sola anche se per tutta Mosca ho conoCaffè Michelangiolo
Gustave Courbet, Femme blonde endormie, 1849
o 1857, olio su tela, cm 74 x 65, Parigi, collezione privata.
l’amicizia e dell’amore scaturiti è assolutamente memorabile: «18 anni. Comunista. Odia gli ebrei […] Ha fama
di stupido. Aspetto da Bogatyr. Rosso
lampone sulle guance – è il sangue stesso che si arriccia – […] Entra una guardia rossa, un ragazzo alto. L’incendio
color lampone delle guance […]».
Meriterebbe di essere trascritto tutto.
La conclusione è una frustata, l’orgogliosa ammissione del suo fallimento
(?) nei rapporti con gli altri: «Lann, io
evidentemente posso essere amata solo
da ragazzi che hanno amato follemente
la madre e si sono persi nel mondo – è il
mio segno caratteristico».
Un altro poeta (per ritornare al libriccino da cui eravamo partiti), quindici anni più giovane della Cvetaeva, fu
folgorato, fin dal primo incontro, dalla
poetessa e restò per tutta la vita devoto
ammiratore di lei e della sua poesia.
Fece proprie alcune sue tematiche con
risultati eccellenti e, peraltro, originali.
I testi scelti dalla Dvizova e da Panconesi sono del primo periodo della
Cvetaeva, versi che già avevano, come
ha scritto Pasternak: «una scioltezza e
una leggiadria tecnica impareggiabili»5.
In seguito, anche lei sedotta, come
molti poeti contemporanei, dalla poesia
di Chlebnikov, prenderà il volo e, come
ha scritto P. Zveteremich, la sua poesia
diventerà
[…] ellittica, tesa, concisa, che omette e sottintende i termini della proposizione, che non si costruisce sulla frase, né sul glossema, né sulla parola
ma addirittura sulla sillaba, che è uno
dei mezzi verbali in strenua funzione
del significato; […] e tutto questo nell’ossatura di un ritmo che non viene
mai meno, irruento, incalzante, precipitoso, spesso somigliante allo smozzicato parlare di una persona affannata ed emozionata, denso di rime
serrate, dove i versi si impongono al
lettore per il loro suono alto, energico,
inteso anche come instradamento al
senso, come un sistema di segnali acustici che avvertono dei significati6.
I due traduttori, tuttavia, si accostano al testo consci dell’impossibilità di
render le rime, le assonanze, il ritmo e
l’intonazione della lingua russa (ma
vale anche per le altre lingue).
Come rendere, per esempio, i due
versi
Segodnija noč’ju ja celuju v grud’
vsju krugluju vojujušuju zemlju!
Stanotte bacerò sul petto
tutta la tonda terra in guerra
se non traducendo alla lettera il testo,
dandogli un minimo di cadenza, essendo impossibile trovare nella nostra lingua una serie di parole corrispondenti
con quelle “u” e “ju”? Come può accedere alla bellezza di quei versi chi non
conosce il russo e ha addirittura difficoltà a leggere correttamente la trascrizione dal cirillico? E non è forse vero
che i versi di Verlaine «Les sanglots
longs | des violons | de l’automne | blessent mon coeur | d’une langueur | monotone» perdono molto della loro magia
quando sono tradotti in italiano, nonostante le affinità tra le due lingue?
La traduzione è dunque lodevole e
ancor più lodevole è l’aver fatto conoscere ai lettori che amano la poesia un
autore di qualità con i toccanti versi dedicati all’amatissima maestra:
39
La vetrina
Ja slyšu, ja ne splju, zoveš’, Marina,
Poeš’, Marina, mne
krylom groziš, Marina,
Kak truby angelov nad gorodom pojut,
I tol’ko goreč’ju svoei neiscelimoj
Naš chleb otravlennyj vozmeš’ na
Strašnyj sud.
Insonnia
1.
1.
Ha cinto i miei occhi
con un cerchio d’ombra,
l’insonnia.
Gli occhi miei ha intrecciato
l’insonnia
con una corona d’ombra.
Io ti sento, non dormo io, mi chiami,
Marina,
Canti, Marina a me
e mi minacci con l’ala.
Cantano sopra la città, simili a trombe
d’angeli,
e con la tua amarezza incurabile,
porterai il pane nostro avvelenato al
Giudizio universale.
Vedi? Di notte
gli idoli non li devi pregare!
Il tuo segreto, l’ho svelato,
adoratrice di idoli.
Non basta, a te, il giorno,
la fiamma del sole!
Quella maestra che, come Mandel’štam, non aveva mai accettato la rivoluzione, farà la stessa fine di Esenin e
Majakovskij, i quali, al contrario, l’avevano amata e cantata nei loro versi, si
toglierà la vita.
Ancora adesso, a rileggerla, ci sbalordisce e commuove la conclusione che
ne trae Pasternak:
Un paio dei miei anelli
porta, pallida in viso!
L’hai invocata e richiamata
quella corona d’ombra.
Non ti bastava chiamare me?
Non ti bastava con me dormire?
A dormire andrai
così leggera in volto.
La gente a te si inchinerà.
Per te, io insonnia,
reciterò:
Secondo la mia impressione, Majakovksij si è sparato per orgoglio, […]
Esenin si è impiccato senza aver riflettuto bene alle conseguenze, […] Marina Cvetaeva si difese con il lavoro, per
tutta la vita, contro la quotidianeità, e
quando ciò le parve che fosse un lusso
inammissibile, che per amore del figlio dovesse temporaneamente sacrificare la passione da cui era attratta e
guardarsi intorno a mente fredda, scorse il caos che non aveva mai lasciato
penetrare nella sua creazione, un caos
immobile, inconsueto, obliquo, ristette
spaventata e, non sapendo sfuggire all’orrore, cercò rifugio, a caso, nella
morte, infilando la testa in un cappio
come sotto il guanciale7.
■
dormi, placata,
dormi, onorata,
dormi, incoronata,
donna.
Perché tu dorma più facilmente,
canterò per te.
Dormi, cara amica
irrequieta
dormi, piccola perla,
dormi, insonne.
A tanti abbiamo scritto lettere,
a tanti abbiamo giurato…
Dormi, ora.
Ormai si sono separate
le inseparabili.
Le mani hanno lasciato cadere
le tue manine.
Finite sono le tue pene ormai,
martire cara.
NOTE
1 Boris Pasternak, Autobiografia (pagg. 9293), Feltrinelli, Milano 1967.
2 Svetovoj liven’ (L’acquazzone di luce), 1922.
3 Dall’introduzione di Serena Vitale a Il paese dell’anima, lettere di M.C. 1909-1925,
Adelphi, Milano 1988.
4 Citazione di V. Lossky in Marina Cvetaeva.
Souvenirs des contemporains, «Wiener Slawisticher Almanach», Sonderband 3, Wien 1981.
5 Pasternak, op. cit.
6 P. Zveteremich, dall’introduzione a Marina
I. Cvetaeva, Poesie, Milano 1979.
7 Pasternak, op. cit.
40
Il sonno è sacro,
dormono tutti,
tolta è la corona.
8 aprile 1916
Marina Cvetaeva
Trad. di Irina Dvizova e Emiliano Panconesi.
Caffè Michelangiolo
La biblioteca del viaggiatore
Narratore, sceneggiatore, anglista, direttore di Istituti Italiani di Cultura a Stoccolma,
Addis Abeba, Nuova Delhi, Tel Aviv, Tunisi, Mauro Curradi è una figura di spicco
fra i grandi dimenticati del Novecento
UN BORGHESE IN FUGA
di Loriano Gonfiantini
M
auro Curradi se n’è andato il 23
agosto 2005 nel mese più dispersivo e silenzioso dell’anno: si
è dovuto aspettare settembre e l’autunno per ricominciare a parlare di lui.
Chiarificanti e utili soprattutto due
interventi fondamentali: a Radiotre un
pomeriggio di Fahrenheit, curato con
attenta competenza da Roberto Saviano, che è stato vicino allo scrittore nell’ultimo faticoso periodo della sua vita;
e la recensione di Massimo Raffaeli dell’ultimo romanzo, Junior (Meridiano
zero, 2005), pubblicata sul “Manifesto”, il 6 settembre 2005, occasione
questa di ripercorrere il cammino creativo dell’autore e fissarne la collocazione (o non-collocazione) nella narrativa
italiana del Novecento.
Era uno scrittore Mauro Curradi,
ma non faceva lo scrittore, e la differenza non è trascurabile. Scrivere era
per lui un gesto quotidiano naturale,
come alzarsi, mangiare, dormire, anche durante la lunga malattia che alla
fine gli aveva quasi tolto la possibilità
di usare le mani e di vedere, ma, per
metà della sua vita, Mauro Curradi ha
fatto altro: lo sceneggiatore, il professore d’inglese, il direttore di vari Istituti
di Cultura. Queste sue attività sono state molto spesso un confrontarsi faticoso con i problemi e talvolta le tragedie
di luoghi e paesi difficili in cui è stato
portato a vivere: Svezia, Etiopia, India, Israele, Tunisia…Roma.
Pubblicare un libro non era la cosa
che più gli stava a cuore: questo può
spiegare il silenzio che ha circondato
per anni, ma non sempre tuttavia, la
sua figura di scrittore, silenzio aiutato
anche da un temperamento schivo,
ironico, poco incline a trattare con i
compromessi di un’editoria spesso distratta o irraggiungibile, a cercare con
ogni mezzo il consenso della critica,
la diffusione del suo lavoro attraverso
i media.
Caffè Michelangiolo
Mauro Curradi.
Mauro Curradi è nato a Pisa nel
1925. Si è trasferito a Roma (dove è
venuto a mancare nel 2005) alla fine
degli anni Trenta, e vi si è laureato discutendo con Natalino Sapegno una
tesi su Tozzi. Ha lavorato nel cinema
come soggettista e sceneggiatore.
A metà degli anni Sessanta, dopo aver
pubblicato i primi romanzi e racconti
– Gli ermellini (Carucci, 1954) e
Schiaccia il serpente (Mondadori,
1964) –, ha lasciato Roma per seguire
la carriera di direttore di Istituti Italiani di Cultura a Stoccolma, Addis
Abeba, New Delhi, Tel Aviv e Tunisi.
Gli ultimi romanzi includono Via da
me (Mondadori, 1970), Persona non
grata (L’Obliquo, 1997), Cera e oro
(Meridiano Zero, 2002), Passato prossimo (L’Obliquo, 2003) e Junior (Meridiano Zero, 2005).
Negli ultimi anni, finalmente letto
con intelligente attenzione da studiosi
come Raffaeli, Saviano, per citarne alcuni, ha trovato il giusto riconoscimento, anche se, coll’ironia e il distacco di
sempre, confessava spesso di sentirsi
più inseguito che appagato da un successo, che lui chiamava “postumo”.
Comunque, Mauro Curradi non era
uno sconosciuto. Il suo primo romanzo,
Gli ermellini, pubblicato nel ’54 da un
piccolo editore romano, Beniamino Carucci, aveva ricevuto il Premio Roma
per inediti e ad assegnarglielo era stato
Aldo Palazzeschi, proprio uno degli
scrittori italiani che Curradi amava, insieme ad un altro grande solitario, Federico Tozzi, oggetto della sua tesi di
laurea discussa con Natalino Sapegno.
Eccettuata la parentesi mondadoriana (due romanzi in sei anni: Schiaccia
il serpente, 1964, e Via da me, 1970)
Mauro Curradi ha sempre cercato di affidare i suoi lavori a editori che al potere economico sostituiscono il coraggio
delle scelte e la lettura diretta dei testi.
Con Beniamino Carucci, dobbiamo ricordare L’Obliquo di Giorgio Bertelli,
Sestante, Meridiano zero: editori con
cui era forte un rapporto di stima e di
amicizia alla pari.
M
auro Curradi non è uno scrittore
facile, e non solo per la sua prosa
ellittica, frutto di una propensione a togliere piuttosto che ad aggiungere, ma
soprattutto per il bisogno, non sempre
soddisfatto, di cancellarsi come personaggio-narratore. Non per niente il suo
ideale assoluto non era uno scrittore
ma un regista, Roberto Rossellini. Di lui
diceva: «Rossellini è il regista che più
amo. Molta mia letteratura deve al suo
modo di girare i film».
Sapeva quanto è duro risolvere il
contrasto tra il narratore puro e il narratore-personaggio: da questo contrasto nasce la difficoltà di lettura dei suoi
romanzi, ma anche il loro fascino unico.
In Persona non grata (Meridiano
zero, 2003), forse il libro più sofferto e
più disperato della sua ultima stagione,
sulla miseria morale, la fame, la morte,
c’è una frase che colpisce. È riferita al
protagonista, ancora una volta personaggio e narratore ( la prima e la terza
41
La biblioteca del viaggiatore
persona nei romanzi di Curradi sono
intercambiabili): «Immaginare la vita
di un altro gli era più facile che dimenticare la propria».
Schiaccia il serpente portava avanti
il tema affrontato nel romanzo giovanile Gli ermellini. Una complessa relazione a tre, tra amicizia, sesso, amore, e un
cinismo morale di sopravvivenza e di
è una ferita mai rimarginata nello
sopraffazione, si inseriva nel quadro di
scrittore, personale se vista in rapuna Roma senza miti di comodo, seporto con la famiglia, la madre sopratgnata dall’ombra del Vaticano, in un
tutto, ma ascrivibile anche a una classe
periodo di pesante transizione, tra la
sociale, quasi una casta, quella della
morte di Pio XII e l’elezione di Giovanborghesia in cui era nato e vissuto, dalni XXIII, e dal discreto perpetuarsi di
la quale ha sempre cercato di fuggire.
un potere nobiliare, ormai logorato, ma
E i titoli dei suoi libri hanno spesso il
duro a cedere, conservatore di privilegi,
valore di una sottolineatura dolorosa:
riconoscibile nei suoi riti, inseriti in un
Città dentro le mura, Schiaccia il serpaesaggio urbano solenne fino al ridipente, Via da me, Persona non grata.
colo, vicino al gusto del grande PalazNell’intervista curata da Roberto Sazeschi di Roma. Così, almeno nella priviano, pubblicata su “Pulp Libri”
ma stesura, quella su cui Curradi la(Maggio-Giugno 2004), a una domanvorò pazientemente a lungo con Nicda sulla sua particolare attenzione al
colò Gallo.
mondo borghese, rispondeva: «Nei miei
Per questa stesura è lecito tentare
romanzi descrivo la naturale disuma- Mauro Curradi in uno scatto degli anni Cinquanta. un paragone che può sembrare assurdo:
nità della borghesia […] Odiavo la cruil romanzo era La dolce vita, registrata
deltà della competizione borghese per a far male, anche se il personaggio vive dall’obbiettivo crudo di Rossellini, inraggiungere un certo livello di vita, di- in una piccola città industriale di antica vece che inventata e in qualche modo
sprezzavo la loro idelogia religiosa che nobiltà, e non a Roma, dove Mauro Cur- sublimata dalla fantasia visionaria di
confortava il loro agire». E aggiungeva radi, che era nato a Pisa nel 1925, si era Fellini.
con la solita ironia, un po’ dandy, un po’ trasferito verso la fine degli anni Trenta.
Nella stesura finale data alle stampe,
cinica: «Sarà forse che io sono sempre
assai più circoscritta, o meno dispersidue romanzi mondadoriani, il secon- va, forse anche sotto l’inconsapevole
stato un pigro».
do ripubblicato da L’Obliquo nel segno del cinema di Antonioni, allora in
Massimo Raffaeli, recensendo sul
“Manifesto” del 6 settembre 2005 l’ulti- 2000, ebbero due editors d’eccezione, grande ascesa, si perse qualcosa del
ma fatica di Curradi, il romanzo Junior, legati all’autore da una lunga amiche- grande quadro, ma il romanzo acquistò
finito di scrivere pochi mesi prima della vole frequentazione: Niccolò Gallo per il intensità nella storia a tre che ne costisua scomparsa, cita questa affermazione primo, Cesare Garboli per il secondo.
tuiva l’ossatura. Più lieve, e forse più
cauto, l’intervento
di un personaggio:
di Garboli su Via
«In Italia la borghesia non esiste, borda me, anche perghesia vuol dire
ché il libro non era
un romanzo nella
cultura: come in
pura accezione del
Francia o, in altri
tempi, nell’Impero
genere, o non era
solo un romanzo,
austro-ungarico.
ma un unicum in
Qui si tratta di una
quegli anni di vari
casta economica.
sperimentalismi, in
Nessuno vuol esser
cui il racconto di
definito borghese.
un viaggio in MaAlla sola parola tutrocco e in Israele si
ti scappano a gamtrasformava natube levate. I giovaralmente in un
nissimi per iscriversaggio polivalente
si al partito comusulla decolonizzanista. Altri si arzione e sulla neorampicano su albecolonizzazione, nel
ri genealogici di
tema, allora nuopura invenzione».
vo, dei contrasti
Tale affermazioetnici tra Palestina
ne è il segno di una
ferita che continua Mauro Curradi in un gruppo di amici all’Incontro Internazionale della Gioventù, tenuto a Praga nel 1948. e Israele, tra orien-
C’
I
42
Caffè Michelangiolo
La biblioteca del viaggiatore
te e occidente, in quello della povertà e
dell’incapacità di dare dell’uomo europeo, passante o velleitario o distratto
sempre.
Nella biografia, e di conseguenza
nelle spinte creative di Mauro Curradi,
ci sono alcune città particolarmente importanti, pur rimanendo Roma il centro
di attrazione, e qualche volta di disagio,
di tutta la sua vita.
Copertina di Cera e oro (Meridiano Zero, Padova
2002), che riproduce un disegno di Giorgio Bertelli, editore dell’Obliquo.
N
ei primi anni del secondo dopoguerra, Praga fu per lui l’Incontro Internazionale della Gioventù e la sua prima
uscita fuori della porta, fuori delle mura,
nel segno di un Comunismo non ancora
duramente istituzionalizzato, del confluire di una nobile globalità dell’intelligenza e dell’impegno giovanile, prima di
ogni pericolosa deviazione, e delle conseguenti delusioni. E fu soprattutto la
conoscenza di un mondo meno piccolo e
meno egoista, di cui Curradi conservò
sempre memoria e nostalgia, quindi il
rimpianto per una giovinezza di speranze non destinate a durare.
A Praga poté incontrare coetanei
provenienti da ogni parte del mondo:
Caffè Michelangiolo
indiani, africani, arabi, europei, americani, e culture che avrebbe riconosciuto più tardi, a un improvviso cambio di
vita, a metà degli anni Sessanta, dopo
aver lasciato Roma e l’insegnamento
della lingua inglese.
Altra città cardine fu Al-Hoceima,
piccola città dell’ex-protettorato spagnolo, sulla costa settentrionale del Marocco, di fronte a Màlaga: primo incontro coll’Africa attraverso il filtro di
un’amicizia profonda, quella di una geniale figura di artista ispano-marocchino, Juan Romàn, che, col nome di Jaime Pi, è presente in molte pagine di
Via da me.
Il filtro culturale di Juan Romàn lo
aiuterà a capire il Marocco, non più colonia (che altro era il cosiddetto Protettorato?), ma neo-colonia, in cui i
coopérants francesi e spagnoli cercavano di imporre un diverso tipo di colonizzazione ancora più insidiosa, quella
che uccide la lingua e la cultura, lasciando che la fame resti fame, la sottomissione sottomissione. Da solo, Mauro Curradi scoprì le vittime meno difese di questa neo-colonizzazione, i bambini e i giovani.
Via da me: il titolo esprime un atto di
volontà che non sempre trova risposta
nei fatti. In ogni lavoro di Curradi il
conflitto tra testimone e personaggio è
drammatico. La chiarezza della visione,
e quindi la forza della testimonianza,
può essere oscurata da sentimenti individuali come l’amore, la pietà, il sesso,
mezzi apparentemente efficienti per un
avvicinamento all’ignoto, al differente,
ma causa prima, anche, della difficoltà
di capire l’ignoto oltre che leggerlo.
Questa contrapposizione, è già stato notato, rende difficile la lettura del libro,
ma è anche il motivo del suo grande fascino.
Mauro Curradi non trovava giusto
essere paragonato a Moravia. «Moravia
– diceva – quando viaggia è un meraviglioso testimone. I miei viaggi sono uno
sprofondare nelle parti più scure di me
stesso e della mia educazione borghese».
Una pienezza indiscutibile il libro la
raggiunge, senza alcun dubbio, nello
stile della scrittura, apparentemente un
non-stile, tanto il discorso è semplificato e diretto rispetto alla complessità della storia: risultato cristallino di molte
riscritture nell’impegno ostinato della
riduzione necessaria.
Eppure, anche Curradi, il Curradi
degli anni Sessanta, ha avuto i suoi virus e le sue febbri: si chiamano Genet e
il Durrell del Quartetto di Alessandria,
per fare due esempi calzanti, ma non è
rimasto niente, o è rimasto poco dell’uno e dell’altro nel suo lavoro. In Via da
me, certe situazioni, certi personaggi,
perfino certi snodi dell’intreccio, possono ricordare Genet, ma nella sostan-
Copertina di Gli ermellini, il primo romanzo di
Mauro Curradi, pubblicato da Carucci nel 1954.
za e nella scrittura non c’è traccia del
misticismo erotico genetiano e dei suoi
melismi barocchi.
U
omo colto in maniera disordinata, e
a volte perfino irrispettosa, sia dei
canoni, sia della negazione dei canoni
(erano gli anni del Gruppo 63), le sue
fonti le riconosceva non sempre nei libri,
coll’eccezione del Camus de Lo straniero, del Nizan di Aden-Arabia, e degli
italiani Palazzeschi e Tozzi: ammetteva
il portato determinante del cinema nella sua narrativa. Considerava Rossellini
un creatore cinematografico assoluto, e
non solo quello di Roma città aperta,
Paisà, Germania anno zero, ma soprattutto quello da lui prediletto, in tempi
non ancora influenzati dalle mode della
Nouvelle Vague, di Europa ’51, Viaggio
in Italia, La paura.
Accanto a Rossellini c’era il grande cinema americano, quello di un Howard
43
La biblioteca del viaggiatore
L’editore Beniamino Carucci al telefono in uno schizzo di Mauro Curradi.
Hawks, ugualmente capace di rendere insuperabile la commedia in Susanna
(Bringing Up Baby), come il noir più
cupo de Il grande sonno. Aveva, quindi,
dei miti femminili, la cui bellezza e i gesti sono più volte citati nei suoi romanzi:
Katharine Hepburn, Bette Davis, Carole
Lombard.
Quando Mondadori nel 1970 pubblica Via da me, Curradi ha appena lasciato il posto di vicedirettore all’Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma, iniziando
un lungo pellegrinaggio fra università e
istituti di cultura, in sedi lontanissime
tra loro e in qualche modo contrapposte:
dopo Stoccolma, Addis Abeba, Nuova
Dehli, Tel Aviv, Tunisi. Apparentemente
sembra interrotto il lavoro di scrittore,
ma non è così. La realtà dell’Etiopia non
può lasciarlo indifferente. Vive esperienze diverse, osserva, prende appunti, scrive lettere agli amici. Chi scrive, insieme
a Juan Romàn, è stato il destinatario di
una corrispondenza intensa e regolare:
lettere in cui spesso c’è già l’anima di un
nuovo lavoro.
L’Etiopia di Mauro Curradi è un
paese che vive, insieme a una orribile
povertà e a una mancanza endemica di
democrazia, un periodo di grande crisi
politico-istituzionale: sono gli anni in
cui si prepara la caduta dell’imperatore
44
Hāyla Sellāsē, delle rivolte studentesche
e della conseguente presa del potere dei
militari.
Il punto di osservazione dell’autore è
il campus universitario, in cui vive un
gruppo di professori con le loro famiglie
e le loro amicizie, di origine europea o
americana, emarginati di lusso, se paragonati agli emarginati che popolano le
strade della città, in un paese che la
conquista e la breve colonizzazione italiana ha lasciato in mezzo a troppi problemi irrisolti.
Cera e oro, il nuovo romanzo di Curradi è una delle poche testimonianze sul
dopo della guerra d’Etiopia, ma è anche
altro: ancora una volta è l’incontro-scontro di civiltà diverse, opposte, che sono
costrette a convivere, seppellendosi nella miseria, o fingendo di vivere in una
recita replicata fino a una tragica noia.
L’evocazione di un gesto, disegnato
da una star dei Trenta (Hepburn, o Davis, o Lombard) còlto a volo nella memoria, permette all’autore di dare vita a
una figura femminile perduta in una
giungla di lontananze subite. Il suo bisogno di un’eleganza più rituale che reale, in un mondo che non può offrire altro che ferite e miseria, è patetica quanto assurda, ma non ha il cinismo della
borghesia.
Anche la citazione di una musica ha
lo stesso scopo, rivela lo stesso istinto di
conservazione, che non può essere ottenuta dall’uso – la parola è quella –
dell’amore e del sesso, il cui valore è
negato dal rifiuto programmato di essere psicologicamente coinvolti. Gesti,
dunque, cenere di vita, riferibili più
alla colonia internazionale che al narratore, testimone di altro, che tuttavia
non escludono le sue abdicazioni, le
sue cadute.
Cera e oro ha avuto, dopo tanti anni
di assenza dell’autore dall’Italia, una
serie di complesse vicissitudini editoriali, attribuibili anche al disinteresse
del nostro paese, troppo spesso distratto e a volte ostile nei confronti del suo
passato recente o meno. Pubblicato da
Meridiano Zero nel 2002, con un’accurata e acuta presentazione di Sandro
Lombardi, attore e scrittore, e da una
nota di Giacomo Trinci, ottiene un notevole successo di critica.
Non solo si torna a parlare di Mauro
Curradi scrittore, ma si riconosce con
argomenti sicuri che è un autore tra i
più significativi della seconda metà del
Novecento.
Il riconoscimento e l’attenzione costante di studiosi e critici lo spinge a
far pubblicare i suoi libri: nonostante il
silenzio, non ha mai cessato di scrivere.
Per la prima volta si lascia intervistare,
parla di sé, del suo lavoro, delle sue preferenze. Ed è anche una compensazione, questa, a certe delusioni legate al
ritorno definitivo a Roma, città che,
dopo tanti anni, ha trovato svuotata di
amici e interessi condivisibili.
Cera e oro colpisce per l’impietosa
rappresentazione di una miseria umana
irrimediabile, di cui sono vittime soprattutto i bambini, per la forza polemica che nega l’illusione di un cambiamento dopo le lotte generose degli studenti e la detronizzazione dell’ Imperatore per mano dei militari; affascina
per il ritratto grandioso e a tratti ironico di un Hāyla Sellāsē alla fine del suo
lunghissimo cammino, per l’amara definizione dei cosiddetti Ferenhi, cioè gli
Europei, gli Americani, l’Occidente salvifico in genere, che, in mezzo a una
congerie di realtà molteplici e disperate,
sopravvivono a sé stessi in un rituale,
che li assolve per un gesto, per una parola, senza salvarli dalla giungla nella
quale lentamente si lasciano soffocare, e
Caffè Michelangiolo
La biblioteca del viaggiatore
tra questi injungled c’è anche Michele, il
protagonista narratore.
Ritroviamo Michele in un romanzo
breve di qualche anno dopo, quasi
un’appendice del precedente, Persona
non grata (Edizioni L’Obliquo, 1997),
resoconto in parte in terza persona in
parte in prima persona – e questa oscillazione è sempre presente in Curradi,
come già è stato detto – di un viaggio di
Michele nello Yemen, con Brad, un collega americano dell’Università di Addis Abeba. L’uno ignora la realtà
profonda dell’altro, pure intuendone i
lati oscuri e pericolosi, il “cuore di tenebra”. Il viaggio diventa così una caccia alla verità che finisce con una scoperta di sé, dalla quale entrambi non
potranno più retrocedere. Il romanzo
ha una conclusione angosciosa. Michele, allontanando brutalmente un bambino affamato dalle attenzioni pedofile
di Brad, vuole veramente salvarlo o, con
un esclusione apparentemente giusta,
vuole anche, o solo, vendicare una sua
esclusione patita nell’infanzia e imposta
dalla madre?
N
elle grandi città, per innato camaleontismo, la borghesia italiana
perde la sua esatta connotazione, sfumandosi tra populismo e affettazione
di un’idea astratta di nobiltà. Adotta
linguaggi mimetici, con un naturale
istinto istrionico, in sé negativo, ma
inattaccabile in superficie. È per questi
trasformismi che Curradi preferisce stanarla e coglierla nella provincia più realizzata e efficiente, in città dalla ricchezza codificata e remota, nata da
un’antica laboriosità: provincia che,
sebbente offuscata nella sua qualità originaria, sopravvive alle cadute nella forza di un intervento brutale contro l’agire degli altri. Piccolo modello, o modello in piccolo, di una spregiudicatezza
oggi ovunque diffusa, anzi, con parola
di uso attuale, globalizzata. I racconti
giovanili di Città dentro le mura (Carucci, 1957) puntavano l’obbiettivo su
Lucca; Junior, l’ultima fatica dello scrittore, sulla laboriosa e intraprendente
Prato del secondo dopoguerra, tra exfascismo e nuovo comunismo, termini
assolutamente privi di una autentica
idealità, essendo il denaro e la sopraffazione nel suo nome l’ unica realtà valida, insieme alla costante paura di perderlo. L’amore, quando c’è, non è che
un gioco aspro e vuoto di sentimenti,
oppure una moneta in più da spendere.
Così anche in Passato prossimo (Edizioni L’Obliquo, 2003), che è il precedente temporale di Junior, ma con una
visione più varia e composita della borghesia italiana.
Nei romanzi di ambiente borghese
non ci sono bambini, o non hanno rappresentatività. Non esistono se non
come fase di passaggio verso la realizzazione del borghese perfetto, affarista
e spregiudicato.
Certe volte, come in Junior, sono già
pronti per la violenza e la sopraffazione,
quindi non sono più bambini, sono la
piccola copia esatta dei grandi.
Nella trilogia africana diventano invece i portatori di un messaggio disperato di fame e emarginazione: ragione
innegabile dei futuri naufraghi del Me-
Mauro Curradi in uno scatto di Vittorio Bobbi per la copertina della edizione
mondadoriana di Schiaccia il serpente.
Caffè Michelangiolo
diterraneo, ponte insidioso verso un’Europa di incerta salvezza.
È giusto concludere con una citazione illuminante: la pagina finale di Via
da me. L’asciutta evidenza della narrazione ci ricorda che Mauro Curradi è
stato anche uno sceneggiatore e che il
primo romanzo, Gli ermellini, è nato
come soggetto per un film che non fu
mai realizzato.
Ore 21. Il ristorante di Tangeri.
Dal posto in cui sono seduto vedo la
strada, il via-vai delle macchine. Un
bambino è venuto a graffiare la vetrina. Gesto delicato, supplichevole,
i polpastrelli hanno lasciato sul vetro
una tenera impronta. In uno dei suoi
rari momenti d’allegria, Ramsis mi
insegnò che chiudere il pugno e puntare il mignolo significa il rifiuto di
parlare al compagno, significa escluderlo. A ripetere il gesto, il bambino
raddrizza la faccia con la attonita
brevità di un uccello. L’espressione si
è chiusa. Fare uscire il pollice tra le
dita serrate significa tregua. Il bambino è tornato a sorridere. Il gioco si
ripete, si ingigantisce dentro di me.
Un buio gioco. Significa che il mio
bisogno di negare Ramsis, negare me
stesso e seppellirmi con lui sono momenti di un rito. Il mio volto europeo
ne acquista una pallida obbiettività:
dovrei, in coerenza con esso, alzarmi
da tavola, uscire, prendere a calci
questo bambino e chiunque disturbi
il mio pasto. Questo deve accadere: è
il grido di un continente mostruosamente impantanato in sé stesso.
Il bambino mi guarda mangiare.
Aspetta.
■
Mauro Curradi in un altro scatto di Vittorio Bobbi per la prova di copertina
del romanzo mondadoriano.
45
La bella Italia
Una monografia di Sofia Crifò illumina una personalità dimenticata, architetto e uomo di
profonda cultura, protagonista della vita artistica romana nell’epoca postunitaria
VIS-À-VIS CON RAFFAELLO OJETTI
di Eugenia Querci
C
hi era Raffaello Ojetti? Più di un
lettore, forse, si porrà questa domanda. Il ricco e circostanziato volume di Sofia Crifò, Raffaello Ojetti architetto nei primi cinquant’anni di Roma
capitale, recentemente pubblicato da Polistampa (2004) per Banca CR Firenze,
permette di formulare una risposta esauriente che restituisce a questa figura il
suo posto e il suo merito. Diremo mano a
mano come e perché. Conosciamo il personaggio.
Padre negletto del ben più noto Ugo,
protagonista assoluto della vita culturale
italiana nel primo cinquantennio del Novecento, Raffaello Ojetti (1845-1924) fu
architetto e uomo di lettere al centro dell’intensa attività intellettuale e artistica di
una fremente Roma postunitaria. Proprio la futura capitale del regno d’Italia
gli aveva dato i natali nel febbraio 1845,
accogliendo poi, nel 1871, le sue prime
esperienze pubblicistiche come direttore di “Roma Artistica”, rivista mensile
schierata dal lato del revivalismo neorinascimentale allora imperante. Ma l’impegno come critico e pubblicista sarà solo
uno dei tanti aspetti della sua attività.
Ojetti si forma come architetto sotto
la guida di Luigi Poletti, pur occupandosi d’arte da ogni angolazione, pittura,
scultura, incisione e arti decorative. Frequenta, infatti, gli architetti ma anche
gli artisti della cerchia romana e in particolare dell’Associazione Artistica Internazionale, fortemente voluta da quel
principe Baldassarre Odescalchi che tanta parte avrà nel futuro svolgimento della carriera e della personale vicenda di
Ojetti. L’attività dell’Associazione, in cui
Ojetti ricopre negli anni diversi incarichi,
ha un orientamento preciso e per certi
versi innovativo, ponendo al centro delle proprie iniziative il problema della tutela urbana e ambientale: dei monumenti, delle opere d’arte e perfino dei
complessi paesaggistici, allora ancora
riuniti nella categoria romantica del “pittoresco”.
46
La copertina del volume di Sofia Crifò Raffaello
Ojetti architetto nei primi cinquant’anni di Roma capitale, pubblicato da Pagliai Polistampa nel 2004.
Il frontespizio del catalogo Mostra della Città di
Roma alla Esposizione di Torino nell’anno 1884.
Dal denso incrocio di rimandi e richiami contenuti nel testo di Sofia Crifò,
Raffaello Ojetti emerge come un uomo
profondamente radicato nel suo tempo
ma anche, in una prospettiva molto moderna, un consapevole ed appassionato
difensore del bene artistico inteso come
patrimonio comune, motivo di orgoglio e
«fonte di perenne ricchezza pubblica».
Nelle varie iniziative che lo vedono coinvolto, Ojetti si muove con piglio dirigenziale e innegabili doti di buon organizzatore, desideroso di valorizzare al meglio le risorse a disposizione delle istituzioni di cui si occupa negli anni. L’interesse costantemente rivolto alle questioni architettoniche trova un primo sbocco
nella fondazione (di cui nel volume gli
viene restituita la paternità) dell’Associazione Artistica fra i Cultori di Architettura (1890) che conta tra i promotori
personaggi quali Ernesto Basile, Carlo
Busiri Vici, Gaetano Koch, Manfredo
Manfredi, Giuseppe Sacconi. Ojetti è impegnato su più fronti, e proprio la fitta e
ramificata rete di amicizie che coltiva tra
artisti e intellettuali dell’entourage romano gli consente di dare seguito e partecipare attivamente a diverse iniziative. Certamente va annoverata tra queste,
e con particolare risalto, l’attività all’interno del Museo Artistico Industriale
(mai), istituzione voluta e realizzata da
Baldassarre Odescalchi che, nelle serrate pagine dell’autrice, si delinea parallelamente alla figura di Ojetti come un autorevole e decisivo protagonista della vita
culturale della capitale. Noto alla società
romana con il nomignolo di Don Balduccio, conoscitore d’arte e d’architettura con la passione per il teatro, ma anche imprenditore, Baldassarre Odescalchi
era ricordato anche per avere sempre
avuto «il ticchio di parere un originale».
Il suo impressionante presenzialismo, a
livello istituzionale e nell’ambito dell’associazionismo privato ai fini della tutela
e dello sviluppo delle arti, ne fa un rimarchevole protagonista della vita roCaffè Michelangiolo
La bella Italia
mana, nel cui vorticoso attivismo s’accompagna costantemente all’altrettanto
entusiasta Ojetti.
Uomo colto, dal tratto elegante, sensibile alle questioni del restauro e della
conservazione ma anche della buona gestione delle risorse, Raffaello Ojetti trova
nell’attività del mai una delle migliori occasioni per mettersi in luce. Dopo lunghe
e complesse vicessitudini, le storiche collezioni del mai attendano tutt’oggi una
degna sistemazione. Ma negli anni cui ci
riferiamo, la nascita di quest’istituto costituisce una novità importante nel panorama culturale italiano poiché risponde ad un impulso analogo a quello che
aveva portato alla creazione, con alcuni
anni di anticipo, dei «musei d’arte applicata all’industria», da quello di Londra
(1852, oggi Victoria and Albert Museum)
a quello di Vienna (1863). Non solo il mai
offriva un vasto repertorio di oggetti d’arte che costituivano «storia vera del lavoro, nelle sue forme varie ed estetiche»
ma, attraverso l’istituzione di scuole, permetteva la contestuale formazione di
nuove schiere di artisti-artigiani che potevano vantare, tra i maestri, personaggi
del calibro di Duilio Cambellotti e Adolfo
De Carolis. Proprio all’organizzazione del
mai e del suo settore didattico Raffaello
Ojetti si dedicherà con passione, agendo
in stretta collaborazione con Raffaele Erculei per la promozione di varie «esposizioni retrospettive e contemporanee di
industrie artistiche». Anche al di fuori
delle attività del mai Ojetti si muove con
agio e lungimiranza nell’ambito delle iniziative espositive: una pietra miliare del-
Raffaello Ojetti con Baldassarre Odescalchi (a destra), Civitavecchia, 1898, collezione Odescalchi.
Caffè Michelangiolo
La copertina del catalogo Primoli e gli Ojetti.
Il conte, l’architetto, il letterato
In occasione della presentazione a
Roma, presso la Fondazione Primoli,
del volume Raffaello Ojetti architetto
nei primi cinquant’anni di Roma capitale pubblicato da Pagliai Polistampa
(Firenze, novembre 2004) l’autrice, Sofia Crifò, ha ideato e allestito una mostra promossa dalla Fondazione stessa
dal titolo Primoli e gli Ojetti: il conte,
l’architetto, il letterato (13 ottobre 27 ottobre 2005). Il catalogo, realizzato con la collaborazione di Banca CR
Firenze, a cura di Sofia Crifò e con due
note di Massimo Colesanti, presidente
della Fondazione Primoli, documenta
la passione del conte Primoli per la fotografia ma offre anche una panoramica di interessanti materiali, in parte
inediti, analizzati durante le ricerche
dell’autrice sulla figura di Raffaello
Ojetti, del figlio Ugo e delle loro frequentazioni incrociate nei salotti di Palazzo Primoli.
la sua carriera è, come sottolinea la Crifò,
l’ideazione e realizzazione della Mostra
della Città di Roma all’interno dell’Esposizione di Torino del 1884, in cui si
presentava (tramite piante, oggetti, documenti e ricerche spesso inediti) una ricostruzione della vita della città attraverso l’era antica, il medioevo e l’età contemporanea. In particolare, l’impegno di
Ojetti si distingue per l’attenzione riservata alla riscoperta del trascurato volto
medievale di Roma, in parte cancellato o
oscurato dal perdurarvi, in ogni epoca, di
quello che lui stesso riconosce come un
radicato «culto del classicismo». I personaggi, i temi e le vicende legate alla figura di Ojetti e al ricco universo umano e
intellettuale che gli ruota intorno, si in-
seguono e si rincorrono nelle pagine della monografia, preparando gradualmente il lettore ad una conoscenza sempre
più profonda degli attori, siano essi protagonisti o più defilate comparse. Si delinea progressivamente la fitta e varia rete
di relazioni che garantisce ad Ojetti non
solo la vivacità del suo instancabile attivismo culturale ma anche, contestualmente, una nutrita serie di commissioni
in qualità di architetto ed esperto di
restauro sensibile all’interpretazione storicista.
“Dall’Umbria alle Canarie” recita il
titolo di un capitolo, a delimitare la serie
d’incarichi che lo vede coinvolto nel corso degli anni al di fuori del territorio
romano: suo è il progetto di restauro
(1881) per la torre nolare dell’abbazia di
Fossanova, affidatogli da Giuseppe Fiorelli allora direttore generale per le Antichità e le Belle Arti; così come gli pertiene il restauro al campanile (1884) del
duomo di Viterbo, il restauro e riadattamento del castello Odescalchi di Bracciano, e il bozzetto per il monumento
commemorativo agli italiani morti nel
naufragio del piroscafo Sud America a
Las Palmas, nelle isole Canarie.
Ma è certamente lo scenario romano a
conferire maggior risalto alla figura di
Ojetti-architetto. Lì, dove il suo nome si
lega inscindibilmente a quello della famiglia Odescalchi. In particolare sono
dettagliatamente ricostruite le vicende
legate all’ampliamento e alla costruzione
(in collaborazione, come molte altre vol-
Raffaello Ojetti con il figlio Ugo.
47
La bella Italia
te, con la ditta Borruso), della
stioni tecnico-architettoniche,
facciata su via del Corso di
ma illumina anche, secondo
palazzo Odescalchi (1885un carattere distintivo del suo
1889), il cui prospetto princistile serrato, la personalità e le
pale, opera del Bernini alqualità umane del committenl’epoca della proprietà Chigi,
te e unico abitante dell’edificio,
apriva un tempo su piazza
il conte Giuseppe Primoli. DiSS. Apostoli. Sempre dagli
scendente dei Bonaparte, figuOdescalchi, inoltre, era stato
ra stravagante dalle sfumature
incaricato di portare a termine
letterarie, parigino nell’animo
la costruzione del palazzo di
per inclinazione e consuetudifamiglia in via Vittoria Colonne di frequentazioni, il conte
na, improntato, come sarà
Primoli segue annoiato e quaquello sul Corso, ad una rigosi stizzito i lavori di ampliarosa affermazione dei principi
mento e restauro del Palazzetdi linearità ed eleganza geo- Raffaello Ojetti. Palazzo Odescalchi, prospetto su via del Corso, inchiostro to all’Orso, commissione cui è
metrica delle superfici, tratti bianco su carta azzurra preparata, scala 1:100.
quasi obbligato in seguito aldal modello quattrocentesco
l’esproprio comunale del giardi Palazzo Strozzi a Firenze. Se questa monumenti e al disperdimento delle me- dino del suo palazzetto e all’apertura di
scelta conferma il saldo permanere del- morie che interessano l’arte, la storia e le via Zanardelli. Non mancano frizioni con
l’ispirazione classicista per il “nuovo” industrie artistiche».
lo stesso Ojetti, ma il risultato finale, convolto della Roma postunitaria, d’altro
In più di un’occasione Ojetti inter- seguenza della compenetrazione tra veccanto si distingue per la scelta di uno verrà nelle fasi di ricomposizione e sutu- chio e nuovo edificio sulla falsariga del
schema rinascimentale più leggiadro e ra del tessuto urbano lacerato da impor- modello adottato per il cinquecentesco
raffinato di quello affermatosi nell’am- tanti interventi di pianificazione stradale, Palazzo Regis-Linotti ai Baullari, costibito della “febbre edilizia” che travolge come quello che disegna il nuovo asse di tuità una soluzione forse non strettamenla città alla fine dell’Ottocento e che farà comunicazione Stazione Termini-Stazio- te moderna (siamo in piena fioritura art
sorgere la magniloquente, talvolta tron- ne di Trastevere attraverso il tracciato di nouveau), ma elegante e ben compenefia Roma borghese e ministeriale. Proprio Viale del Re (oggi Viale Trastevere) che trata nel contesto; in definitiva, nelle paseguendo le tracce delle attività e degli sacrifica alcune porzioni dell’antico con- role di Sofia Crifò, «una delle sue miglioincarichi di Ojetti, il testo di Sofia Crifò vento di San Crisogono. I radicali muta- ri opere».
traccia efficacemente il ritmo delle tra- menti urbanistici (spesso aspramente criIl volume si chiude con un capitolo
sformazioni edilizie e viarie subite dalla ticati) che si rendono necessari per la con- dedicato una volta di più al sodalizio tra
città che, in molte zone, cambia volto. figurazione della nuova capitale del re- Baldassarre Odescalchi e Raffaello OjetÈ questa l’epoca di pesanti sventramen- gno, saranno all’origine di un’altra fon- ti, definitivamente cementato e configuti, della costruzione del monumento a damentale committenza per Raffaello rato attraverso l’attenta e gustosa ricoVittorio Emanuele e dei muraglioni sul Ojetti: la ridefinizione di Palazzo Primo- struzione della vicenda architettonica e
Tevere, dei grandi investimenti specula- li (1904-1911) in via Zanardelli. L’au- imprenditoriale che portò alla costitutivi per nuove unità abitative, ma anche trice vi dedica un circostanziato inter- zione, in diverse fasi (1888-1924), della
della nascita di teatri e musei, come Pa- vento che dà conto non solo delle que- stazione balneare di Santa Marinella, sul
lazzo delle Esposizioni, della
litorale laziale. L’impresa è vodefinizione del profilo ricettivo
luta da Baldassarre, che acdella città per lo sfruttamento
quista il terreno quasi disabidelle sue enormi possibilità tutato dall’Ospedale di Santo
ristiche. Baldassarre OdescalSpirito e, senza bellicosità
chi e il suo architetto di fiducia
speculative, avvia attraverso
Raffello Ojetti hanno una parOjetti il progetto di pianificate non marginale in questo
zione di una cittadina dal caprocesso, di cui sono insieme
rattere signorile e ameno. Tale
attori e moderatori. Si consicarattere è ancora oggi parderi, ad esempio, il fatto che
zialmente conservato, divernel 1891 l’Associazione Artisamente da insediamenti instica dei Cultori di Architettensivi quali Ladispoli, concetura, che in Ojetti aveva avupita in epoca coeva da Ladito un energico e fattivo proslao Odescalchi, fratello di
motore, aveva instituito la
Baldassarre. Per volere di BalCommissione speciale per lo
dassarre e sotto la direzione di
studio dei rioni, «incaricata di
Ojetti, l’area di Santa Mariovviare alla distruzione dei Raffaello Ojetti. Palazzo Primoli su via Zanardelli in angolo con Piazza Umberto. nella, trascurata e pressoché
48
Caffè Michelangiolo
La bella Italia
UN INEDITO DI UGO OJETTI
U
Oscar Ghiglia, Ugo Ojetti nello studio, 1909-’10,
olio su tela, cm 73,5 x 75,5, Firenze, coll. privata.
deserta, viene bonificata in poco più di
un anno e, con un tracciato urbanistico
regolare, strade ampie, vegetazione rigogliosa e poche attrezzature di svago
diviene un’apprezzata stazione curativa,
refrattaria agli assalti dei primi turisti
stagionali e riservata ad una società agiata nobile e altoborghese. Come l’autrice
non nasconde, l’impianto stilistico adottato, la villa o villino, si mantiene su direttrici classiciste: una sorta di esportazione al mare di comodi modelli urbani
di gusto antico. Pochi sono gli edifici di
gusto liberty o in stile floreale, come villa Bettina (1906) o il villino Cerrano.
Ma questa impostazione si accompagna
alle intenzioni stesse su cui nasce la lo-
Un articolo dedicato alla vita nella nuova stazione
balneare di Santa Marinella sul litorale laziale,
pubblicato sul “Giornale d’Italia”, 5 settembre 1913.
Caffè Michelangiolo
n inedito di Ugo
Ojetti. La lettera
è indirizzata a Emilio Macciò, figlio di
Demostene e di Adelaide (Adele) Saladini Bezzuoli, nipote e
erede di Giuseppe
Bezzuoli. L’Ojetti si
riferisce al ritratto
che il pittore fece al
Feldmaresciallo austriaco Julius Jakob
von Haynau, figlio
naturale di Guglielmo I, elettore d’Assia, il quale prese
parte all’azione di
Sommacampagna
(25 luglio 1848)
contribuendo alla
vittoria del Radetzky
e guadagnandosi poi
l’appellativo di “jena
di Brescia” per la
crudeltà con cui ristabilì il potere austriaco in quella città
e a Bergamo e Ferrara. Per quel Porträt
von Haynau il Bezzuoli fu attaccato da
liberali e irredentisti.
Al Dupré che lo riferisce in Ricordi autobiografici (1896) il
ritrattista di Elisa
Baciocchi Bonaparte Giuseppe Bezzuoli (1784-1855), Ritratto di
e di Maria Antonia di Niccolò Puccini, 1843. Pistoia, Museo Civico.
calità, che «non fu “colonizzata” da un
nuovo ceto sociale desideroso di affermare la propria immagine attraverso forme architettoniche autonome», come era
avvenuto in alcuni quartieri romani.
Terminata la lettura del volume, Raffaello Ojetti è ormai divenuto una figura
familiare nella sua complessità: un intellettuale, un restauratore, uno storico, un
architetto e l’ideatore di una messe notevolissima di iniziative culturali, siano esse
esposizioni, imprese editoriali o pubblicistiche. Nonostante la grave dispersione
del suo archivio personale, attraverso ricerche documentarie e bibliografiche accurate, l’autrice riannoda con intelligenza i fili della vicenda professionale e privata di Ojetti e della sua cerchia, riper-
Borbone obiettò:
«Un artista, quando
fa un ritratto, non fa
politica; se il ritrattato è un birbante,
resta sempre un birbante con o senza il
ritratto». L’articolo
di Ugo Ojetti, intitolato Giuseppe Bezzuoli ritrattista, uscì
su “Dedalo”, I,
1920. Del dipinto
raffigurante l’Haynau (così come di
buona parte della
produzione bezzuoliana, in particolare
dopo la dispersione
della cospicua quadreria custodita nella
villa di famiglia a
Fiesole, nel 1964,
dovuta all’ultimo
erede) non si conosce
l’attuale ubicazione.
In altro scritto di
Ugo Ojetti sulla pittura del Bezzuoli, si
parla di un altro
noto ritratto, allora
non rintracciato:
quello del pistoiese
Niccolò Puccini, eseguito nel 1843, adesso visibile nel Museo
Civico di Pistoia.
m.g.p.
correndola con una vena sempre vivace e
uno stile limpido e risoluto. Nella sua innegabile vocazione specialistica, l’opera,
raffinata anche nella confezione, fornisce una ricchissima collezione di materiali, analisi e considerazioni critiche utili alla definizione del clima culturale e
dell’humus intellettuale post unitario romano e delle sue personalità. Ma allo stesso tempo il volume si concede, agile e gustoso, anche alle smanie del lettore occasionale che, balzando di paragrafo in paragrafo, si ritrova a percorrere tappe importanti di una storia relativamente recente, vivificate dall’intersecarsi di vicende, scelte e circostanze che hanno, come
sempre dovrebbe essere, innanzi tutto un
sapore umano.
■
49
Le arti, gli eventi
Convergenze elettive fra gli “ex-uomini” di Gor’kij e i “dimenticati da Dio” di Viani.
I vagabondi della steppa, i vàgeri di Viareggio e i gueux di Parigi
IL MITO DEL VIANDANTE
di Piero Pacini
L
orenzo Viani ha la ventura di scoprire giovanissimo gli “ex uomini” di Gor’kij prima ancora di riflettere sulla sua opera, nell’esplorazione
dell’ambiente viareggino fine secolo e nella precoce lettura degli opuscoli “libertari” che danno il filo da torcere ai garanti
dell’ordine pubblico; successivamente,
ha modo di verificare le sue impressioni e
reazioni sulla letteratura europea più anticonformista, nonché alla scuola durissima della vita; ecco, pertanto, che il giovane pittore passa con piena consapevolezza dalla parte di coloro che «per insofferenza, per elezione o per sdegno,
chiamano la rivolta, vogliono incenerire il
mondo per rigenerarlo in un riscatto tragico» (I. Cardellini, L.V.,1978).
Alla categoria degli “ex uomini” Viani associa d’impulso e a ragion veduta i
lavoratori del mare scavati dalla fatica e
dalla miseria, i rivieraschi che si aggirano come anime in pena sulla battigia per
raccogliere i rifiuti del mare, i contadini
sfruttati da proprietari avidi e impietosi,
coloro che sono emarginati dalle istituzioni e dai benpensanti, i perseguitati
dalla giustizia e dalla sfortuna: in una
parola, tutti coloro che sono indicati
come “i dimenticati da Dio”. Viani esemplifica questa visuale d’osservazione in
una pittura caricata e funerea, ma anche
soffusa di una struggente solitudine; e
torna a trattare il mondo dell’emarginazione e della rivolta in prose a volte dirompenti, altre volte di maniera, altre
volte ancora dolenti e cariche di un comunicante afflato umanitario. Storici e
ricercatori di varia estrazione (dalla Cardellini al De Micheli e a Sereni, da Ciccuto allo scrivente, da Fornaciari a Rotelli) hanno indagato e precisato molti
momenti di questa vicenda biografica e
dell’evoluzione stilistica.
Le prime opere, che sono commentate dalla critica militante e da qualche coraggioso esploratore degli eventi figurativi
più eccentrici, portano i segni di una temperie disagiata e allarmata: nei disegni
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Enrico Sacchetti, Ritratto di Maksim Gor’kij (da:
“Avanti della Domenica”, n. VII, Anno III, 19 febbraio 1905).
esposti alla Biennale di Venezia del 1907,
l’amico anarco-socialista Luigi Campolonghi ravvisa la «tragedia di una turba
innumerevole, disseminata per tutte le
strade e per tutte le pianure del mondo
[…] pronta a sbucare con l’arma e col
fuoco da tutti gli antri della crosta terrestre»: una lettura, questa, decisamente
partitica, che però coincide con la visione apocalittica di redenzione sociale che
Emile Zola sigla nel finale di Germinal,
laddove i minatori sono paragonati a «un
esercito nero vendicatore, che germoglia
lentamente tra le zolle, crescendo per le
raccolte del secolo futuro, e la cui germogliazione farà in breve scoppiare la
terra».
Campolonghi segnala Viani con la definizione a doppio taglio di “pittore della plebe italica”: una definizione, questa, che agli inizi non sembra dispiacere
al viareggino puro sangue che si adopera
per rivelare, giorno dopo giorno, una
realtà trascurata o sommersa; e sulla stessa linea è anche l’amico Giulio Arcangioli che, a commento degli esiti pittorici più recenti, nel 1910 scrive: «i tipi che
Viani dipinge o incide con segni rudi sulla carta, sono gli eroi della strada e della
rissa, tosati dal vizio e arsi dall’alcool,
quelli che conoscono i giacigli dei fossati
di tutto il mondo, sono i vagabondi e gli
insofferenti. Essi hanno nei loro occhi
l’ardore di un fuoco che sembra e non
sembra domato, par che l’anima vi si accenda e vi si spenga, mentre tutto il resto
del corpo è in sfacelo […] essi sono quasi tutti viandanti, perché anche lui è un
viandante; non come il Rousseau che andava per impieghi e per signore, ma
come Gorki. La sua vita errante per elezione e per sdegno lo spinge tra i ritrovi
dei vagabondi; è bevendo della loro vita
che egli prova una gioia belluina e feroce a dipingere tutto ciò che si disgrega».
Il riferimento a Gor’kij non è occasionale, ma acquista una peculiare valenza in quanto il nome di questo scrittore figura tra coloro che ringraziano per
il dono dell’album antimilitarista Alla
gloria della guerra!, edito dalla Camera
del Lavoro di Parma nel febbraio del
1912; come è noto, gli autori di questa
pubblicazione – Alceste De Ambris e Viani – sono processati dalla magistratura
parmense e, a sostegno del loro operato,
“l’Internazionale” pubblica i pareri
espressi da autorevoli esponenti del mondo politico, tra i quali Gor’kij (sull’argomento v. E. Rotelli in: G. Bruno - E. Dei
2000). Il nome dello scrittore russo rimbalza ancora in una lettera che Viani invia nel 1913 all’amico Franco Ciarlantini per dissipare alcuni equivoci motivati
dalla restrittiva definizione di “arte sociale” che taluni applicano alla sua opera: «Lo spirito della mia arte?! – scrive –
Discesa la mia famiglia al piano, da una
delle colline che circondano Lucca, credo
sia restato in cuor mio un vago senso di
pellegrinare, concepite le cose traverso
un trauma psichico forse in esse rimane
Caffè Michelangiolo
Le arti, gli eventi
sempre un’impronta mortale. Poi la conoscenza di forme di letteratura: Dostoieski, Gorki e Korolenko […] Credo
che la fonte di ogni ispirazione sia la strada, chi non è stato vagabondo non può
affermare l’intimità delle cose mie. Bisogna i viandanti averli veduti, accosciati sotto un pagliaio».
Gli accenni al “pellegrinare”, alla
“strada”, ai “viandanti” e al “vagabondo” confermano già di per se stessi che
una delle fonti letterarie che hanno sostenuto Viani è sicuramente costituita dai
Vagabondi di Aleksej Maksimovic Peškov
– più conosciuto con lo pseudonimo di
Gor’kij, vale a dire “l’amaro” –, lo scrittore di Novogord che ha rivestito un preciso ruolo culturale e politico all’interno
della casa editrice Znanie denunciando i
silenziosi drammi di tanti fratelli oppressi ed umiliati. Per questa presa di posizione l’autorità zarista lo tiene d’occhio:
nel 1901, a seguito della pubblicazione
del Canto della procellaria – in cui è prefigurata la rivoluzione –, lo scrittore è arrestato e confinato in Crimea; nel 1902
viene respinta la sua candidatura a membro dell’Accademia delle scienze; nel
1905, a seguito di una ennesima manifestazione antizarista, è di nuovo arrestato. Lo sdegno degli amici e della sua
gente è grande, ma anche all’estero pun-
La copertina (firmata R. Bideri) del romanzo I vagabondi di Maksim Gor’kij nella edizione italiana illustrata dalla Casa Editrice F. Bideri di Napoli, 1914.
Caffè Michelangiolo
Lorenzo Viani in un ritratto del 1908 ca.
tuale e sentita è la reazione della stampa
progressista. Il settimanale socialista
“L’Avanti della Domenica” del 19 febbraio 1905 sottolinea prontamente «l’ingiustizia che oggi colpisce Massimo Gorki
e l’incertezza del suo domani minacciato»
e pubblica ben tre ritratti dello scrittore
firmati da Sacchetti, da Maiani e da Biasi; quello del Sacchetti – insolitamente
fiero e dolente – s’impone sugli altri per
un’aurea di martirio che sembra precorrere la sintesi figurativa “pop” e il piglio
accentrante delle immagini del Che Guevara dei nostri giorni.
Nonostante il largo plebiscito di solidarietà, lo scrittore è costretto a prendere la via dell’esilio: intraprende un lungo
viaggio, ma solo nell’isola di Capri, circondato dall’affettuoso sostegno di un
numero sempre più grande di estimatori,
trova finalmente un po’ di pace ed organizza un centro di propaganda rivoluzionaria. Il ricordato settimanale romano
pubblica diverse sue novelle; di pari passo il nome di questo scrittore costituisce il
fiore all’occhiello di due popolari editori
napoletani.
Entro il 1905 la Società Editrice Partenopea stampa due testi fondamentali di
Gor’kij, Rivoluzione e forzati, e Amor di
proletario; queste pubblicazioni rappresentano dei veri e propri eventi editoriali in quanto l’autore fonde felicemente
l’elemento autobiografico con quello sociale fornendo notizie di prima mano sul-
le fredde crudeltà operate sui deportati in
Siberia, e portando alla ribalta i silenziosi drammi dei ceti più bassi. Un ulteriore interesse per questi volumetti, stampati
in dignitose vesti editoriali, è conferito
dalle buone traduzioni di Federico Verdinois e – cosa inusitata per l’Italia del
tempo – per l’esposizione delle idee sociali dell’autore, esponente di spicco del
dissenso politico in Russia.
Anche l’editore napoletano F. Bideri
opera una oculata scelta dei testi stampati dalla casa editrice moscovita Znanie,
e li diffonde in agili volumetti corredati di
buone illustrazioni e distribuiti a prezzo
contenuto. Nel 1914, nella “Biblioteca
varia” di questo stampatore figurano non
solo i ricordati Vagabondi – oggetto di
numerose e ravvicinate ristampe – ma
tutta una lunga lista delle opere di
Gor’kij: I Tre, I Decaduti, Vania, Racconti della steppa, Angoscia, Teatro (Piccola Borghesia, Bassi Fondi, Asilo dei
Poveri), Fascino, L’albergo dei poveri,
L’Ambasciatore e Tempesta. Nella stessa
collana figura anche un altro scrittore
umanitario citato da Viani, Korolenko
con L’America.
Nonostante che l’informazione sia alquanto frenata dalla censura ufficiale oltre che dalle convenzioni e dai messaggi
tranquillizzanti del ceto borghese, l’edi-
Illustrazione (non firmata) tratta da I vagabondi
edito dalla Casa Editrice F. Bideri di Napoli nel 1914.
51
Le arti, gli eventi
toria italiana è alquanto attenta alle
esplorazioni sociali dei francesi, come
alle indagini psicologiche e ai messaggi
umanitari dei russi: il feuilleton di Sue va
a ruba, ma si vendono bene anche i romanzi di Zola, di Tolstoi, di Turgenieff e
di Gor’kij; ed ecco che tutti questi nomi
entrano nelle collane più diverse, senza
alcuna questione di diritti, con copertine
Lorenzo Viani, Tipi di Parigi, 1908-1909, acquerello e carboncino su carta applicata su tela,
cm 99 x 69. Collezione privata.
improntate al gusto decorativo più avanzato e con traduzioni più o meno fedeli:
basterà ricordare, oltre agli editori ricordati, le edizioni G. Laterza di Bari,
Lombardi, Muletti e C. di Milano, la
Nerbini di Firenze – che, tra il 1903 e il
1906, pubblica Nei bassi fondi, Piccoli
borghesi e Un anno di rivoluzione in
Russia –, la Società editrice Milanese,
Madella e C., Editrice Bietti di Milano
ecc. Libri come I vagabondi o La steppa
sono riproposti, a breve distanza, da
questo o quell’editore.
La distribuzione capillare e a prezzi
popolari dei libri di Gor’kij permette anche a Viani, notoriamente alla fame, di
precisare la sua cultura umanitaria; ma si
presume anche, dati i contenuti prevalentemente sociali di questi romanzi, che
egli ne sia venuto a conoscenza attraverso la Camera del Lavoro – quanto mai
sensibile alle voci della protesta e del dis-
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senso – o saccheggiando le biblioteche
degli amici più fortunati (non ultimo il figlio del suo maestro, che gli accende la
mente con il resoconto della “Comune” e
che gli parla di Parigi come della “città
degli uomini liberi”).
Giulio Arcangioli (1910) informa che,
in una lettera di solidarietà inviata a Viani, Gor’kij confessava di aver provato
davanti ai suoi disegni «una grande e dolorosa gioia nostalgica»: questo documento epistolare non è stato rintracciato,
ma, data la sconsiderata dispersione dell’archivio dell’artista, non è da escludersi che possa essere stato occultato da
qualche fanatico collezionista di autografi; è comunque un dato di fatto che tra
Gor’kij e Viani correva più di un’assonanza di sentimento e più di una convergenza d’intenti.
Sulla scia dell’Arcangioli, la Cardellini ha sottolineato come il motivo del
viandante (o del vagabondo che dir si
voglia), sviluppato da Viani nel corso della sua intensa stagione figurativa, sia già
presente nel “mito” del vagabondo coltivato da Gor’kij fin dagli inizi della dissidenza politica e negli anni dell’esilio; e, a
dimostrazione di questa tesi, riporta alcune frasi significative delle raccolte I vagabondi e Nella steppa, alle quali se ne
possono aggiungere tante altre: «Così bisogna vivere… andare, andare; qui è tutto. Non restare a lungo nello stesso posto… Come il giorno e la notte corrono
eternamente inseguendosi intorno alla
terra, corri, evadi dalla vita quotidiana e
non cessare di amarla»; « Si va e si vede
sempre qualcosa di nuovo e non si pensa
a niente… Il vento ti soffia incontro e si
direbbe cancelli ogni polvere della tua
anima. Ci si sente liberi e leggeri»; oppure: «La mia libertà io non la darei per
qualsiasi donna, per qualsiasi capanna.
Io sono nato sotto un portico, e sotto un
portico morirò, questo è il mio destino».
Accorata è anche la confessione di un
soldato affamato che trova un po’ di consolazione ai suoi guai contemplando le
stelle: «…Amo questa vita vagabonda,
amico mio. – dichiara – Si soffre il freddo, la fame, ma si è liberi… non si hanno padroni!… le stelle mi ammiccano
come per dirmi: non scoraggiarti, amico
Sakontine, va sempre più lontano e non
temere chicchessia. Si, si, ciò fa bene al
cuore!». Il protagonista di questa novella è uno dei tanti randagi che percorrono
in lungo ed in largo le distese sconfinate
della steppa desolata con poche speranze di sopravvivenza, ma che conservano
intatto, in fondo al loro essere, il sentimento di una terra più generosa della
solidarietà dell’uomo.
I brani riportati – anche se enucleati
dal loro contesto – sono già sufficienti
per stabilire che, pur militando in ambienti diversi, sia Gor’kij che Viani sono
Lorenzo Viani, Cieco, 1913, pastello su cartone,
cm 99 x 69. Collezione privata.
affratellati dagli stessi sentimenti e comportamenti dell’eterno adolescente, dal
rifiuto delle convenzioni e delle costrizioni, e dalla simpatia istintiva e viscerale per i miserabili e per gli indifesi. Uno
stretto fil rosso sembra unire le loro esperienze parallele.
Le fila aggrovigliate di queste due tribolate esistenze si dipanano in una durissima esperienza di vita. Gor’kij s’incarna nel “vagabondo” per antonomasia:
prima di raccogliere le sue idee nell’esilio
caprese, si è spostato in cento luoghi
adattandosi ad un’infinità di mestieri
(è stato, via via, pittore di santi, sguattero in un piroscafo, aiutante cuoco, garzone di un giardiniere, fornaio, scaricatore
e spaccalegna; e poi ancora guardarobiere, venditore di mele cotte, segretario di
uno studio notarile, operaio in un’officina,
giornalista e tante altre cose ancora; ma,
in ogni tempo, è stato compagno e sodaCaffè Michelangiolo
Le arti, gli eventi
le dei mendicanti e della gente senza fis- Giulia, ridimensionerà alquanto queste apparenza, senza speranza. Viani ritorna
sa dimora). Viani, a sua volta, dopo es- posizioni incendiarie).
con insistenza sugli stessi motivi: indaga
sere stato uno studente decisamente svoIn effetti, per tanti anni il messaggio i volti segnati dal lavoro più duro e dalla
gliato e un precoce fiancheggiatore dei anarchico lo fa sentire più vicino alla miseria; con un segno aggressivo scava i
randagi e degli “sgalerati” più incalliti, gente più umile del suo ambiente, ai di- corpi degli sfaccendati e dei vagabondi
è stato anche un anonimo raccoglitore sadattati, agli emarginati che ha modo di che si aggirano senza meta sul litorale e ai
di straccàli e dei rifiuti del mare, garzone incontrare tra il molo ed il Casone di tri- margini dell’abitato; il suo occhio rapace
di un barbiere acceso di idee anarchiche, ste memoria, e ai gueux che dormono coglie in profondità il significato di uno
una “testa calda” da inviare alla Torre sotto i ponti della Senna o che si aggira- sguardo o di un gesto subitaneo; il suo raMatilde, un pittore
dicato umanitariautodidatta e un
smo riscatta la
recalcitrante alliequerula appariziovo alla Libera
ne di un mendicanScuola del Nudo;
te e il fatale deamma le cose che
bulare di un cieco.
l’hanno tenuto in
In questa progresvita ed acceso la
siva esplorazione
sua mente sono
dei soggetti rifiutastate soprattutto le
tati tanto dalla culletture dei testi
tura ufficiale quanumanitari e libertato dal gusto borri che i casi della
ghese, Viani è semvita e gli uomini
pre più vicino ai
hanno messo sulla
compagni di strada
sua strada, le tante
(dichiara di sentirore in cui ha bevuli “nel sangue”).
to avidamente le
Ma la fratellanidee degli anarchici
za elettiva di Viani
e la protesta incencon Gor’kij è favodiaria dei frequenrita ancora dal raptatori della Cameporto che questi
ra del lavoro.
stabiliscono con le
Nel Figlio del
manifestazioni bepastore – che costinefiche del creato
tuisce la sua testiin quanto, nei momonianza autobio- Lorenzo Viani, Viandanti, 1907-1908 ca., pastello su cartone applicato su tela, cm 68 x 83. Collezione privata. menti in cui sono
grafica più veritiepiù attanagliati
ra – dichiara esplicitamente: «Il mio no nei pressi dello squallido dormitorio dalle necessità o si scoprono più indifesi,
mondo era quello degli infelici, verso di della Ruche.
entrambi sentono il bisogno di appartarloro mi sentivo portato da un sentimenViani giovinetto fa disperare la madre, si e di cogliere il significato dei “segnali”
to di fraternità e di ribellione»; la testi- che cerca di correggerlo con grandi tira- dell’ambiente naturale. In siffatte condimonianza postuma Il Romito di Aquileia te d’orecchie e che lo minaccia di «ap- zioni entrambi riscoprono le stelle che
rafforza questa confessione: «L’anarchi- penderlo al gancio» o di farne “tonnina” pulsano nel blu profondo della volta cesmo coronato di fiamme riscaldò la mia (espressione viareggina probabilmente leste o che s’impongono ai loro occhi
anima. Compresi subito, senza leggere riferita alla mattanza dei tonni); spesso è come freddi chiodi dorati; avvertono i
tanti libri, che l’individuo può affermare uccel di bosco e la sera non rientra a casa flussi benefici del vento e delle stagioni,
il proprio io, imporlo, anche a colpi di pi- (nelle memorie racconta di aver dormito scoprono la vastità sconfinata delle piastola […] Cosa sarei stato io, da 15 a 25 molte notti sul pietrame del molo o sul nure e degli orizzonti, respirano l’alito
anni, senza l’entusiasmo della rivolta e fondo di un barcone): la sua sete di li- salso della marina e ne ascoltano il redella distruzione? Una barca senza ti- bertà è, talvolta, più grande dello svisce- spiro ora disteso ed ora profondo; colgomone a discrezione del vento […] Le dif- rato amore che porta al padre che, dopo no lo sciabordio dell’onda che si frange
ficoltà erano per me il superare tutte le il licenziamento, è sempre più l’ombra sull’arenile.
leggi borghesi, distruggere, rinnovarle»: di se stesso, e alla madre che, per effetto
Nel breve romanzo La steppa Gor’kij
ovviamente, Viani rilascia una dichiara- della miseria, da opulenta ed “oceanica” colora il mare e i fiumi di una voce prozione di fede legata alla mutevole “tem- che era, si è “spolpata” ed è divenuta pria, profonde negli elementi le tante
peratura” degli avvenimenti del tempo secca e “gialla” (l’aggettivazione è, ov- sensazioni degli uomini: nella seconda
(il confronto con il più equilibrato dis- viamente, quella significante di Viani).
novella si legge del «dolce mormorio delsenso di Ceccardo Roccatagliata CeccarIl suo mondo figurativo si nutre degli le onde sulla sabbia», nella terza noveldi e con lo spirito realistico della moglie “incontri” di questa stagione sofferta e, in la di un fiume che «si frangeva con fraCaffè Michelangiolo
53
Le arti, gli eventi
casso sulla riva come se volesse soffocapre, folli e sussurranti […]; “Il mare si
re i singhiozzi del vecchio, colla sua voce
era svegliato. Scherzava ora con le sue
profonda»; la terza novella prende l’avpiccole onde; le faceva nascere, le orlava
vio dal mare che sonnecchia («immenso,
d’una frangia spumeggiante, le spingeva
sospirando pigramente lungo la spiagl’una sull’altra e le faceva sprizzare in un
gia, s’è addormentato, tranquillo nella
pulviscolo acqueo. La schiuma, svanensua vasta distesa, bagnata dai raggi azdo, crepitava e sospirava, e tutto intorno
zurri della luna. Nero e dolce come il
era pieno d’un ritmo musicalmente gorvelluto trasparente delle nuvole immobigogliante. L’oscurità pareva animarsi».
li dall’aspetto di bambagia, si confonde
Per i vagabondi e i mendicanti di
col cielo azzurro del sud […] Sembra
Gor’kij anche la steppa acquista, per efche il cielo si pieghi sempre più in basso
fetto del vento che l’accarezza e che la
sul mare, come se desiderasse comprenflagella, aspetti imprevedibili fino a r vedere ciò che mormorano fra di loro le
lare voci e suggestioni indefinibili (in alonde infaticabili che, con un aspetto adtre parole, è l’immagine stessa della lidormentato, si arrampicano una dopo
bertà cui aspirano gli oppressi e i persel’altra sulla riva»); ed ancora: «Il mare
guitati); il mare è poi una presenza deciaccarezza la spiaggia e le onde fanno un
samente amica in quanto, nel solipsismo
rumore così dolce e melanconico, che
delle frequenti e prolungate contemplasembra chiedere il permesso di venirsi a
zioni, prospetta al vagabondo e al perseriscaldare al braciere […] Raghim conguitato orizzonti più lontani, terre e monfronta già le onde alle donne e suppone il
di in cui è possibile sopravvivere ed asloro desiderio di abbracciarsi», «…le
saporare la libertà.
onde minacciose si urtavano sulla riva. Lorenzo Viani, Moglie del marinaio, 1912-’15 ca.,
Dalle opere di Gor’kij, l’artista viaolio su cartone, cm 96 x 68. Collezione privata.
Nei loro ruggiti echeggiava la canzone
reggino assorbe questo sentimento lirico
del fiero uccello; le onde tremavano sote panteistico dell’ambiente naturale, ma
to l’urto e al suono di quel selvaggio con- labbra argentee e lucenti […] Il cielo era di volta in volta lo riprova sugli eventi e
certo, il cielo si caricava d’uragano». La felice d’essere radioso, il mare felice di ri- sulle attese che più coinvolgono la sua
settima si avvia con questa immagine: flettere quella gloria di luce»; più avan- gente; per le tante creature umiliate che
«Un vento umido e freddo soffiava dal ti: «e il mare rideva, scherzando coi ri- frequenta il mare continua ad essere il
mare portando nella steppa la melodia flessi del sole, e innumerevoli onde rina- loro unico sostegno ed anche una presognante delle onde […]»; e si chiude scevano per correre verso la riva, la- senza consolante. Viani ha presto nel
con l’immagine del mare che «cantava sciarvi la schiuma delle loro creste e ri- sangue anche questo mare che culla le
una litania funebre» per i protagonisti tornare al mare, dove sparivano»; ed an- barche e che palpita di luci smeraldine
di un amore disperato. Nell’ultima no- cora: «Le onde sorridevano come sem- (è «la meraviglia del Creato» scrive a
vella il rumoreggiare
Soffici del ’14).
del mare sembra esseTalvolta accade,
re un tutt’uno con i
però, che anche sulla
mormorii, i sospiri e i
steppa si addensino
baci degli umani; altre
nubi di piombo e che
volte è evocato menil viandante si ritrovi
tre rumoreggia «sordo
sperduto e scoraggiato
e lamentoso».
al centro di una natuIl mare assume la
ra ostile e funerea;
valenza di deuteragocosì pure capita, a
nista anche nei ricorViareggio, che il canto
dati Vagabondi, se ne
suadente e benefico
rileva qualche esemdel mare si tramuti in
pio nella novella d’atun lamento e in una
tacco: «Il mare era
minaccia ineluttabile:
tutto un sorriso. Al
talvolta si impone
soffio caldo e leggero
«torbo come ceneracdel vento, palpitava,
cio» e foriero di svensi copriva di pieghe
ture; Viani lo sente
sottili, che riflettevarombare, sibilare e reno il sole con vividi ed
spirare con affanno; la
abbaglianti riflessi, e
spuma che si riversa
rideva al cielo azzurri- Lorenzo Viani, Cortile della Ruche, 1925 ca., pastello, tempera e olio su cartone, cm 70,5 x 105. sulla spiaggia, gli
no con le sue mille Collezione privata.
sembra una «trina in-
54
Caffè Michelangiolo
Le arti, gli eventi
tignata» (si rileggano,
che, nel largo respiro
a questo proposito, le
proprio della pittura
pagine più ispirate del
murale, ripropongoFiglio del pastore e di
no tante impressioni
Angiò uomo d’acqua).
di quella lontana
Le più recenti moesperienza.
stre sull’artista hanno
La felice collazioriservato ampio spazio
ne pittorica di questi
alla rappresentazioframmenti di memone del mare nei suoi
ria lascia intendere
aspetti più consolatori
che alla rabbia e alod allarmati: anche il
l’analisi spietata degli
visitatore più distratto
anni giovanili è suserba memoria delle
bentrata una visualizmarine siglate da una
zazione più distaccata
solarità mediterranea
degli avvenimenti, e
e da una ventata toniche il pathos pittorico
ficante di colore (Visiopuò avviarsi anche
ni vagabonde, Vele
dalla rappresentaziorosse e gialle, …)
ne di tanti modi di escome di quelle sorrette
sere, piuttosto che
da un sentimento pie- Lorenzo Viani, Effetto grigio (veliero), 1930, olio su tavola, cm 35 x 50. Collezione privata
dall’esasperazione dei
no e disteso dell’esicaratteri fisionomici.
stenza (Georgica, Buoi in riva al in ambito nazionale ed internazionale dei Sopravvissuto all’incubo del conflitto
mare, …); e così pure ha presente le dar- modi vianeschi (problema, questo, avan- mondiale, Viani dimostra di aver fatto
sene fangose o impregnate di catrame, gli zato dalla Cardellini – 1978, p. 305 – e tesoro della ricchezza di sentimento che
effluvi sulfurei e le tinte irrespirabili del- ripreso, con qualche esito positivo, da gli ha rivelato la poesia dell’amico Cecle tempeste.
Claudio Giorgetti nel 1994, in un con- cardo Roccatagliata, come della doloroA Viani, come a Gor’kij, il mare s’im- fronto tra la grafica del nostro pittore e sa umanità dei silenziosi ed umiliati “ex
pone indipendentemente dalle caratteri- quella di Kähte Kollwitz).
uomini” di Gor’kij: ed ecco che dal coastiche ambientali, talvolta come un emMa la ricchezza di sentimento che cervo delle impressioni depositate nel
blema di benessere e di libertà ed altra Gor’kij ha trasfuso nei romanzi e nelle fondo della memoria riemergono, provcome un’atavica condanna o come un’u- novelle di maggior successo continua ad videnziali, le immagini di un altro albertopia irrinunciabile: gli “ex-uomini” del- agire nel profondo di Viani anche a di- go dei poveri, di cui ha letto in gioventù
le sconfinate lande russe e i “vàgeri” e i stanza di tempo: nel 1926, sfruttando le nel romanzo I bassifondi di Gor’kij. Quedisadattati del litorale viareggino sono emozioni ridestate dalla stesura del ro- sto meditato affresco dell’umanità più
accomunati dalla stessa, inesplicabile manzo Parigi e rivisitando alcuni disegni indifesa lo ha colpito profondamente per
sorte; la casistica è sterminata.
eseguiti durante il soggiorno terribile – le analisi estreme dei personaggi; ed ecco
Si segnala infine un’ulteriore conver- ma sempre presente – alla Ruche, il pit- che, per effetto del sentimento nutrito e
genza di intenti tra gli illustratori di tore mette mano al grande quadro L’al- regolato dall’esperienza, il convegno dei
Gor’kij e la grafica di Viani: lo spirito bergo dei poveri e Nel cortile della Ruche tanti “dimenticati da Dio” nel cortile del
sombre e la tavola
provvisorio asilo,
al tratto “Tescelkaperde quel sapore
sce” dell’edizione
sulfureo che, sulla
Bideri dei Vagascia del Doré, artibondi ripropongosti come Delacroix
no, ad esempio, le
e van Gogh hanno
atmosfere e il ducespresso nelle rontus grafico di certi
de dei carcerati, e
disegni che il viasi configura più
reggino esegue tra
propriamente coil 1907 e il 1909;
me un emblema
si avanza, a questo
della solitudine più
proposito, il procosciente e di quelblema di una cola solidarietà che
mune matrice gratarda a spegnersi
fica o quello, più
persino nelle creaprobante, di un rature più umiliate e
pido accoglimento Lorenzo Viani, Vele rosse e gialle, 1913-’14 ca., tempera su tela, cm 188 x 380. Collezione privata.
provate.
■
Caffè Michelangiolo
55
Le arti, gli eventi
Dalle rappresentazioni letterarie alle restituzioni figurative
erotismo e bellezza al Museo degli Argenti di Palazzo Pitti a Firenze
LE FIGURE DELL’AMORE
di Anna Maria Piccinini
D
ue stipetti in legno con calchi in
ceralacca e gesso bianco, impronte di cammei e intagli erotici (in tutto più di centoventi pezzi),
conservati al Museo degli Argenti di
Palazzo Pitti e pochissimo noti se non
ai conservatori e agli studiosi, hanno
dato l’idea ad Ornella Casazza con Riccardo Gennaioli di valorizzare questo e
altro materiale, di specifico uso privato,
audacemente ed elegantemente scabroso, per una piacevolissima e pur erudita mostra; mostra che è venuta via via
allargandosi a oggetti, incisioni e pitture di altre provenienze, connesse a
un tema che affonda le sue radici, come
sottolinea il titolo: Mythologica et erotica, nella classicità greco romana.
L’autore, in effetti un po’ galeotto, di
questi calchi e impronte, fu Cristiano
Dehn (Yssedom 1696-Roma 1770): un
tedesco naturalizzatosi romano che ebbe
bottega nella città dei Papi, specializzato nella produzione di spintrie su ampia scala (cioè soggetti osceni raffigurati in calchi o su medaglie di bronzo).
Codice normalizzante di tutte queste
rappresentazioni è il Mito che – come
afferma Antonio Paolucci nell’introduzione al catalogo – definisce un confine
all’interno del tema erotico, di per sé
suscettibile di variazioni e interpreta-
Annibale Carracci, Venere e Cupido, 1591-1592, olio
su tela, cm 110 x 130, Modena, Galleria Estense.
56
La copertina (particolare di Amore e Psiche, II sec.
d.C., marmo lunense, h. cm. 100, Firenze, Uffizi)
del catalogo a cura di Ornella Casazza e Riccardo
Gennaioli, Mythologica et Erotica, allestito per la
mostra al Museo degli Argenti (ottobre 2005-maggio 2006) a Pitti, pubblicato da “sillabe”.
zioni le più diverse e complesse, a seconda di tempi e luoghi, da Oriente a
Occidente, da quelle religiose a quelle
psicanalitiche. Il Mito è il velo aulico
che permette di raffigurare, anche nell’ambito culturale post classico, gli eterni turbamenti dell’eros in maniera
spesso cruda e sessualmente esplicita,
altrimenti inaccettabili nella società
colta ed elegante cui erano destinati.
Testo ispiratore di quasi tutta la glittica antica e neoantica sul tema furono
le Metamorfosi di Ovidio che raccolsero gran parte della ricchissima tradizione mitologica precedente, specie di
età ellenistica e tolemaica, quando, anche il romano Antonio amò farsi ritrarre nelle vesti di Dioniso o di Ares, con
Cleopatra nel ruolo di Afrodite. I cammei di allora furono preziosissimi, incisi su pietre rare da maestri famosi e
giunti a noi fortunosamente, dopo la
caduta dei Tolomei, dalle raccolte imperiali romane attraverso il collezionismo mediceo: basti pensare alla Afro-
dite su ippocampo del Museo archeologico di Napoli, siglata come ex gemmis
di Lorenzo il Magnifico.
Àncora di salvezza di questi piccoli
gioielli, nella perigliosa navigazione attraverso i secoli, fu certo la loro preziosità e segregazione nel privato. Nei
momenti più difficili, dominati dalla
morale cristiana dei primi secoli, molte gemme furono riciclate per usi sacri
e, nel Medioevo, si attribuirono loro poteri taumaturgici e protettivi che in
parte le preservarono. Comunque, proprio dalle rimostranze di alcuni Padri
della Chiesa contro l’usanza di portare
anelli con incisi soggetti erotici, possiamo dedurre che la tradizione fu pervicace.
C
he cosa significò nel mondo antico
il ricorso alla narrazione e alla rappresentazione delle avventure amorose
degli dei, dalle più patetiche alle più
sessualmente manifeste? In primis viene forse il piacere del racconto, come
nell’viii libro dell’Odissea, dove al banchetto di Alcinoo, re dei Feaci, si narra
degli amori clandestini di Afrodite ed
Ares e dell’inganno loro teso dal tradi-
Artista della metà del secolo XVI, Ganimede nell’Olimpo, con Venere, Giove e l’aquila, metà del
secolo XVI, cammeo in agata calcedonio, contorno d’oro con due maglie, lunghezza cm 5,4 x 4,1.
Firenze, Museo Archeologico Nazionale.
Caffè Michelangiolo
Le arti, gli eventi
lo rapì che aveva il fiore
seducente dell’adolescenza
e lo trasportò sull’Olimpo, dove
ne fece un dio.
Dunque non ti stupire, o Simonide,
se anch’io
sono apparso vinto da passione
per un bel giovinetto.
Quindi, se anche gli dei s’innamorano – dice a sua volta Properzio – «se
non c’è stato nessuno che abbia vinto le
armi del fanciullo alato – perché mai
solo me si ritiene colpevole di una colpa comune?».
La communis culpa, insomma, umana e divina, assolve quasi del tutto.
M
Bartholomäus Spranger (Anversa 1546-Praga
1611), Venere nella fucina di Vulcano, dopo 1607,
olio su tela, cm 140 x 95. Provenienza probabile dalla Kunstkammer dell’Imperatore Rodolfo II
a Praga. Vienna, Kunsthistorisches Museum,
Gemäldgalerie.
a non è questo l’unico senso da ricercare nelle favole mitologiche a
sfondo erotico: il mito adombra anche
il tragico destino dell’uomo e i tentativi per sfuggirgli con compensazioni
to Efesto, che costiuirà un topos per i
secoli avvenire: Efesto, abilissimo fabbro, tende catene «sottili come tele di
ragno» intorno al letto degli adulteri i
quali, dopo il piacere, cadono addormentati restando in trappola e costituendo, perciò, motivo di riso per tutto
l’Olimpo.
I dulcia furta sono fra i temi prescelti della poesia d’amore che rivendica – Catullo in testa – i diritti del sentimento e la libertà degli amanti. Del
resto, fin da Esiodo (Theog. 120-122),
Eros è forza primordiale e generatrice:
Ancor oltre si spinge Teognide, (v-vi
sec. a.C.) che proclama la sua assoluta
libertà in fatto di amori:
Caffè Michelangiolo
che, almeno in Ovidio, sembrano consolatorie: il voler narrare le mutatas
formas sottintende le infinite possibilità
della natura di trasformarsi sia per salvezza, sia per una punizione che, in
qualche modo, “scarta” la morte in
quanto nulla assoluto.
Altrettanto si presta, la mitologia,
all’esaltazione del potere, tema assai
caro all’età rinascimentale. Emblematica, in questo senso, è la storia di Apollo e Dafne.
La volontà della ninfa di non accedere al desiderio del dio comporta una
fuga atterrita che si conclude nella metamorfosi: è vittoria o sconfitta? Il poeta non lo lascia intendere, eludendo il
problema e concentrandosi sulla leggiadria della trasformazione, ma certo
la fanciulla deve rinunciare a se stessa:
da ninfa diviene pianta. Non si deve
dimenticare l’arroganza del dio:
Ma sappi a chi piaci […]
[…] Non sai impudente, non sai
a chi fuggi, e per questo fuggi…
Io regno sulla terra di Delfi
[…]
Giove è mio padre. Io sono colui
che rivela futuro, passato
e presente […].
[…]
La medicina l’ho inventata io
e in tutto il mondo guaritore
mi chiamano, perché in mano
mia è il potere delle erbe.
… Eros, il più bello fra gli dei
immortali,
che rompe le membra, e di tutti
gli dei e di tutti gli uomini
doma nel petto il cuore e il saggio
consiglio.
È dolce amare giovinetti, se
una volta di Ganimede
s’innamorò anche il figlio di Crono,
il re degli immortali:
Specchio in bronzo con scena erotica e
cornice con segni zodiacali, fine del I secolo d.C.,
bronzo a fusione e a sbalzo,
diam. cm 16,7. Roma, Antiquarium Comunale.
Marcantonio Raimondi, Figura femminile in atto
di eccitarsi, Stoccolma, National Museum.
Anche se poi la conclusione è patetica e di resa a Cupido.
57
Le arti, gli eventi
Ma, ahimé, non c’è erba che guarisca
l’amore,
e l’arte che giova a tutti
non giova al suo signore.
Sarà Lucrezio a trasmetterci, nel iv
libro del De rerum naturae, l’immagine della forza travolgente dell’Eros
come autentica tragedia per la sua inafferabilità:
Infatti proprio nel momento
del pieno possesso
[…].
Premono stretta la creatura che
desiderano, infliggono dolore
al suo corpo […].
Quando infine con le membra
avvinte godono del fiore
della giovinezza […]
comprimono avidamente i petti […]
e ansimano mordendosi a vicenda
le labbra;
invano, perché nulla possono
distaccare dalla persona amata,
né penetrarla e perdersi con tutte
le membra nell’altro corpo.
P
er quanto in genere più sorridenti e
venate di sottile umorismo, è innegabile che le favole erotiche portino in
sé tale forza destabilizzante: si potrebbe dire che la riduzione a immagini
fantastiche fra umano e sovrumano abbia funzione scaramantica nella con-
Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino, Satiro
che rapisce una ninfa nuda, 1635-1640 ca., olio
su tavola, cm 25 x 20, Milano, collezione privata.
sapevolezza che eros è un incendio difficilmente domabile, se si scatena.
Del resto anche là dove i soggetti
mitologici sono improntati ad un Eros
più quieto, come ad esempio in alcune
pitture di Pompei che vediamo in mostra, non è facile individuare i significati attribuiti a certi miti nell’antichità.
Si può trattare di dipinti augurali per la
fertilità e benessere della famiglia o di
esibizione di un raggiunto stato sociale.
Nel Rinascimento i soggetti mitologici furono ricercatissimi sia nella sta-
Giuseppe Cades, Ratto di Proserpina (part.), Firenze, coll. privata. Non in mostra.
58
tuaria che nella glittica. I princìpi italiani avevano preziose dattiloteche di
gemme incise, che venivano usate anche come spille da cappello, quando si
affermò questa moda. Per influsso della stampa, poi, si diffusero esemplari di
incisioni licenziose in cui si impegnarono artisti di primo piano quali il Parmigianino e Agostino Carracci o incisori specializzati nel genere erotico
come il bolognese Marcantonio Raimondi e il veronese Giangiacomo Caraglio, confortati anche da certa letteratura che aveva nell’Aretino il suo capofila.
La più conosciuta e scandalosa raccolta di questo genere di stampe furono
I Modi del Raimondi, su disegni di Giulio Romano che, decisamente pornografici, lo condussero in galera per un
certo tempo. Le incisioni sono,ovviamente, di ottima qualità (Raimondi era
stato anche alla scuola di Raffaello), di
libera invenzione, pur ispirandosi a
modelli classici, come il famoso Pannychis, il sarcofago del museo nazionale
di Napoli, che rappresenta una festa in
onore di Priapo, da cui Marcantonio
ricava l’idea per la Figura femminile in
atto di eccitarsi. Naturalmente questo
tipo di “carte”, erano destinate a una
circolo ritretto di collezionisti, sia per i
prezzi, sia per l’occhiuta censura della
Chiesa.
Il veronese Gian Giacomo Caroglio,
nello stesso torno di anni e con altrettanta libertà, esegue la serie degli Amo-
Arte romana, Gruppo di Satiro e Ermafrodito, I secolo d.C., marmo bianco,
h. cm 100, base cm 91 x 58, Oplontis, Villa di Poppea.
Caffè Michelangiolo
Le arti, gli eventi
Giuseppe Bezzuoli, Amore che vince la Forza, già
nella collezione eredi Parri, Fiesole. Non in mostra.
ri degli Dei su disegni di Rosso Fiorentino e Pierin del Vaga, con intento
pur sempre erotico anche se, nel caso
di amori divini seguiti da metamorfosi o ascese al cielo, come nella vicenda
di Ganimede o di Callisto trasformata
nella costellazione dell’Orsa, si vollero
ricercare simbologie platoniche o cristiane: Danae investita dalla pioggia
d’oro di Giove parve simboleggiare
l’annunciazione e il concepimento di
Maria.
Più tardi, in epoca post tridentina, e
quindi in tempi difficili per certo tipo di
stampa, sarà Agostino Carracci, con le
sue Lascivie, a scansare la censura, a
difendere l’indipendenza dell’artista e
gli interessi degli editori che, certamente, da questo genere di “fogli”, allora come sempre, ricavavano lauti
guadagni.
Oltre agli straordinari tesori di glittica e grafica di cui sopra, la mostra
espone molti oggetti decisamente erotici, spesso con significati apotropaici,
nonché dipinti o sculture che colgono il
significato allegorico dei miti di sog-
getto amoroso. Rientra nel primo caso
il marmo del Fallo leonino, alto 140
cm e risalente al i-ii sec. d.C., acquistato dal Cardinal Leopoldo de’ Medici nella seconda metà del Cinquecento
ed esposto agli Uffizi coperto, per lungo tempo, da una testa di leone in cartapesta per la crudità del soggetto. In
antico era stato probabilmente dedicato al culto di Priapo, come sembrano
suggerire anche i piccoli amuleti fallici
che lo circondano a corona. Altrettanto
dicasi per le piccole lucerne in bronzo
con statuette itifalliche, ritrovate sull’architrave di due botteghe a Pompei:
sono piccole sculture, ingegnosamente
costruite in modo da sfruttare la forma
itifallica sia come lampada sia a scopo
scaramantico.
Fra i dipinti, che sono pur sempre la
parte più appariscente della mostra,
troviamo lo splendido Amor sacro che
punisce l’amor profano di Giovanni Baglione, che riporta alle aspre contese
fra Baglione, Orazio Gentileschi e Caravaggio: contese che, aguzzando l’ingegno del Baglione, gli fecero creare
una delle figure alate più fulgide del
secolo. Lo stesso soggetto fu trattato
da Guido Reni, con risultati altrettanto
mirabili: la figura di Amore, un nudo
maschile casto quanto incredibilmente
bello, brucia le frecce di Cupido volendo significare che la Virtù vince l’amore sensuale.
Con maggiori implicazioni filosofiche e allegoriche Pontormo dipinse una
Venere e Cupido, su cartone di Michelangiolo, quadro straordinario non solo
per il sorprendente effetto dei colori
pontormeschi sul tratto buonarrotiano,
ma per la figura androgina di Venere
che reca in sè complesse problematiche, rese esplicite dall’Aretino in una
sua lettera:
Guido Reni, Amor sacro e Amor profano, prima
metà del secondo terzo del secolo XVII, olio su
tela, cm 132 x 163. Genova, Palazzo Spinola.
nico e presente in mostra in varie versioni: su cammeo, realizzato da un disegno di Michelangiolo (già collezione
Farnese), in sculture, in disegni (Tiepolo). A quadri famosi dette origine
anche la favola del rapimento di Europa da parte del toro-Giove, rappresentata dal Cavalier d’Arpino per il cardinale Scipione Borghese, in un piccolo
delizioso formato, certo oggetto di godimento estetico più che di lezione moralizzante.
In ogni caso la mostra offre l’occasione di ammirare una seducente serie
di dipinti, tutta centrata sul tema che il
titolo richiama, da Annibale Carracci a
Luca Giordano; artisti, questi, felicemente abbandonati – specialmente il
primo – nel ritrarre la bellezza sensuale dei corpi, tanto da farci dimenticare
ogni significato che non sia quello della grande virtù della pittura.
■
Il prudente uomo […] ha fatto
nel corpo di femmina muscoli di maschio [poiché la figura è] “mossa da
sentimenti virili e donneschi” [e] diffonde le proprietà sue nel desiderio
dei due sessi.
Luca Giordano, Bacco e Arianna, olio su tela,
cm 203 x 246. Verona, Museo di Castelvecchio.
Caffè Michelangiolo
Molto diffuse, nel Cinquecento e oltre, furono, come accenavamo, le rappresentazioni degli episodi di rapimenti, primo fra tutti quello di Ganimede,
assurto a simbolo di elevazione dell’anima all’empireo in senso neoplato-
Paolo Fiammingo, L’Età dell’Oro, olio su tela, cm
160 x 260. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
59
Le arti, gli eventi
Per i suoi settant’anni,
età che traccia una nuova inquietudine sulla tela,
«in attesa del dramma» come scrisse il suo amico Giovanni Raboni
SEI DOMANDE A GIANCARLO OSSOLA
conversazione di Alberto Pellegatta
I
n occasione della sua ultima mostra a Milano, presso lo Studio
d’Arte del Lauro, abbiamo incontrato il maestro Giancarlo Ossola, pittore che ha attraversato da protagonista il secondo Novecento, amico di Vittorio Sereni e prefatto, nel 1996, da
Giovanni Raboni. L’occasione coincide
con i settant’anni dell’artista e ci invita a raccogliere, con questa conversazione, una testimonianza importante.
Giancarlo Ossola non cerca il consenso, lavora nel silenzio di via Pastrengo, a Milano, di notte, alla luce
dei neon, quando i grandi finestroni
dello studio si accendono e il pittore
applica per prime le categorie prospettiche, creando la sintassi dell’opera, per poi dissolvere nel gesto “riscaldato” l’intenzione, focalizzando lividi e luci riflesse su oggetti incantati.
È un progresso nel chiaro, come se la
Giancarlo Ossola, L’Angelo notturno, 2005, olio
su tela, cm 70 x 50.
60
Giancarlo Ossola.
Giancarlo Ossola è nato a Milano,
dove vive, nel 1935. Ha frequentato
l’Accademia di Brera e la Scuola di Pittura del Castello Sforzesco. Dopo la
precoce suggestione di Sironi, Morandi
e de Pisis, di Soutine e Van Gogh, il
contatto coi pittori del Realismo Esistenziale, nonché una prima conoscenza dell’Espressionismo e dell’Informale,
segnano una svolta verso opere di segno
forte e concitato. Tiene la prima mostra
personale nel 1961 al Salone dell’Annunciata di Milano, presentata da Mario De Micheli e, nel 1963, vince il Premio San Fedele. Nella sua attività espositiva partecipa, tra l’altro, dal 1963 al
1984, alle Biennali di Milano alla Permanente e a “L’Opera dipinta”, curata
da Arturo Carlo Quintavalle presso il
CSAC dell’Università di Parma e la Rotonda della Befana di Milano. Ha svolto attività di critico per i giornali e per
la Radio Svizzera.
luce fosse la materia stessa del tempo,
granulare, come se le particelle accelerassero il loro movimento in corrispondenza dei suoi settant’anni, età
che traccia una nuova inquietudine
sulla tela, provocando una continua
suspense, come Simenon o Hitchkock,
in una geometria definita e raggelata,
dove anche la luce ricorda Kubrick.
Anche in un interno “talcato” (Tolusso) il segno si fa via via nervoso e depistante. Una ricerca costante, quella
di Ossola, sulle possibilità stesse del
mezzo pittorico, e non come squisito
esercizio di stile ma come indagine sui
significati intravisti nelle cose: gli oggetti compongono la scena, ma è lo
sguardo ciò che il pittore ci propone,
non le cose. L’angelo della notte benedice il tavolo e le sue bottiglie diventano, finalmente, una luna sconsacrata. Sulle scrivanie si depositano
“gli strumenti umani” e le sedie conservano residui di chi se ne è già andato. I pavimenti sprofondano in altre
storie, in paesaggi sognati tra corpuscoli di luce, briciole, polveri, descritte come presenze lampeggianti. Simboli sospesi e lirici di un lampo che
Giancarlo Ossola, Testa-città, 2001, olio su tela,
cm 40 x 30.
Caffè Michelangiolo
Le arti, gli eventi
sembra entrare dalle finestre ma che è
già dentro le cose. E i panorami che si
allargano improvvisi sulle pareti, come
muffe e macchie enigmatiche, contengono fascinazioni fiabesche, come le
cornici che sono interfacce su altri
mondi. I laboratori, le fabbriche, le
officine non sono le tristi retoriche dell’abbandono, dell’archeologia, ma si
riaccendono di colori che farebbero la
gioia dei bambini. Ossola sta indagando una geometria non euclidea, in
cui i piani stessi della prospettiva, le
tante porte, gli angoli, i mobili diventano schermi su altre visioni, partecipando però compatte alla struttura
complessiva.
Negli anni Settanta Giancarlo Ossola lasciava che la materia stessa
rifondasse il paesaggio, e che il lato
misterioso degli oggetti popolasse la
tela per descrivere le stanze, riaffiorando dai freddi siderali della mente
per sovrapposizione, stratificazione di
colore su colore, fino alla luce frontale di certe città assiderate. Oggi compie settant’anni e il tempo trascorso
ha permesso al pittore di indagare
profondamente sia i luoghi che i linguaggi, ritrovando antiche ossessioni.
Ma è come se la temperatura fosse
cambiata, da quegli anni nervosi a
questa grazia potente ma inquieta.
Nell’immagine degli interni sembra
Giancarlo Ossola, Spiaggia, 2003, tempera su c arta a mano, cm 50 x 70.
che Ossola sia interessato a mostrare
la caduta, il lento ma inesorabile precipitare delle cose sui pavimenti, in
una specie di deposizione laica. Ossola ci depista, è più che mai estraniante, nascondendo dietro alla quiescenza
il delirio che disorienta, il thriller. Descrive l’ansia e l’opacità contemporanea con grande efficacia. Gli oggetti
non sono didascalie di un ricordo sentimentale, ma trasfigurano conservando qualcosa di chi li ha usati e magari non ne è neppure sopravvissuto. La
pittura è il luogo del miracolo e indaga le possibilità dell’immagine, lasciandola emergere dalla caverna dell’incontrollabile, del mistero, quando
ancora è una forma paleolitica per
l’intelligenza, ma potentissima per intensità evocativa, e così la afferra nell’intenzione del momento, sapendo
controllare quel magma che affiora
dall’interno.
ri fuoco, ai depositi degli interni, alla
nascita degli oggetti, fino ai grandi cieli assiderati dell’hinterland. Raccontaci però come li hai vissuti quegli anni,
quale ricordo hai dell’ambiente culturale.
Ricordo Valsecchi e l’Annunciata,
la mia galleria, la Bergamini. Lo stimolo a dipingere era continuo e vio-
Sei domande
Giancarlo Ossola, Luce-sentimenti, 2006, olio su
tela, cm 90 x 60.
Caffè Michelangiolo
Il tuo compleanno evoca un’assonanza inevitabile: i tuoi anni ’70. Quel
periodo è stato vivacissimo, nel tuo
percorso di rifondazione della scena,
per la potenza del gesto come per la
fragile precarietà lirica dei tuoi fondi
tesi. Dagli omaggi a Seghers, alle teste
al centro del panorama e insieme fuo-
Giancarlo Ossola, Inverno, 2004, olio su tela, cm
70 x 50.
61
Le arti, gli eventi
Brera, ero socialmente “escluso”, studiavo in solitudine. Certo conoscevo i
maestri, visitavo le gallerie, ho conosciuto pittori e critici di valore. Milano
era un interno. Per quanto riguarda
l’aspetto mondano, io allora uscivo con
le impiegate. Si andava a mangiare
nelle latterie del centro o si veniva all’Isola, dove suonavano e c’era un famoso cantastorie.
In parte mi hai già risposto ma che
cosa è cambiato oggi, oltre trent’anni
dopo? Mi riferisco anche alla riproducibilità dell’arte, al pubblico della
pittura, al mercato, alle gallerie, alla
critica.
DE PISIS A BRESCIA
Filippo de Pisis (Luigi Filippo Tibertelli de Pisis), nato a Ferrara nel
1986, laureato in lettere a Bologna, è
morto a Milano nel 1956. Per il 50°
anniversario il Museo di Santa Giulia di
Brescia ha ottenuto il prestito delle
trenta opere della collezione Mario Rimoldi, l’albergatore di Cortina d’Ampezzo che fu uno dei grandi amici dell’artista. Prima poeta e poi pittore dalle sottigliezze coloristiche di tipo nordico in particolare nei paesaggi londinesi del ’35 e del ’38, a Parigi dove rimase per una quindicina di anni derivò dagli impressionisti e dai fauves
(ma in questo senso già era stato grandemente influenzato dallo studio del
Guardi) una sorprendente sensibilità
all’immediatezza e alla liquidità del
tocco, rapido e acceso.
La esposizione bresciana si chiuderà
a fine marzo. Fra le opere figurano tre
pezzi forti: il Soldatino francese (sopra),
il Moro di Harlem, la (celebre) Chiesa di
Cortina.
a cura della Redazione
lento. A vederle oggi quelle tele… i
paesaggi che dialogavano con le
profondità del mio cervello, quella era
ricerca viva. Le teste attraversate dalla città! La pittura è usare un linguaggio antichissimo per far lampeggiare visioni del nostro tempo. Occorre di nuovo un po’ di lucida follia. La
pittura è anche storia dell’uomo per
immagini. L’inquietudine di allora, il
fermento intellettuale erano qualcosa
di evidente. Ricordo soprattutto i quadri. Io dovevo lavorare e non avevo
molto tempo per frequentare i caffè di
62
Le cose sono peggiorate, la quantità ha decisamente prevaricato sulla
qualità. C’è un problema di identità
specifiche: i critici si sono sostituiti ai
pittori. Comunque non sarà certo
LES GRANDS DÉBRIS A TORINO
Tra Sei e Settecento si cimentano
nella figurazione paesaggistica alcuni
fra gli artisti che tengono il grido: da
Poussin a Guercino, a Pannini, a Vanvitelli. E compaiono anche quelle rovine classiche che diventeranno subito
un genere di successo. Insieme a quelle
di vedutisti quali Bellotto e Canaletto,
le loro opere si possono ammirare a Torino fino al 14 maggio 2006, presso la
Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli.
(Sopra, un olio – Il canale, 1754 ca. –
di Hubert Robert, 1733-1808, parigino
di Roma dove venne al seguito dell’ambasciatore di Francia, conte di
Stainville).
a cura della Redazione
OTTOCENTO ITALIANO A RIETI
A Rieti, a Palazzo Potenziani, è in
corso fino a tutto febbraio una rassegna
delle opere di artisti italiani dell’Ottocento presenti nelle collezioni private e
pubbliche della città: da Fattori a De
Nittis, a Boldini, Guardi, Zandomenighi. Punto di forza, ecco la novità, i
quadri del “non noto” (oltre la cerchia
degli addetti) reatino Antonio Calcagnadora (sopra, un suo olio), morto nel
1925.
a cura della Redazione
un’epoca debole come la nostra a cancellare secoli di storia dell’Umanità
per immagini. Oggi siamo costretti a
registrare una crisi, si può solo immaginare che i tempi di recupero saranno piuttosto lunghi. I pittori ci sono
ma sono messi nelle condizioni peggiori per lavorare. Ora tutti, scrittori e
artisti, sono sulla stessa barca.
Gli occhi devono vedere direttamente la pittura, e i giovani non possono pensare di studiare su delle foto,
la riproduzione grafica non è in grado
di riconoscere neppure i colori. Una
buona critica, competente e di alto
profilo, migliorerebbe senza dubbio
Caffè Michelangiolo
Le arti, gli eventi
il mercato e la qualità del pubblico.
Il mercato però spinge nella direzione
pubblicitaria, da vetrinista.
Torno alle tue immagini. Ci sono
alcuni luoghi che sembrano ricaricarsi,
che rivisiti periodicamente, come per
esempio questo Angelo della notte.
Cosa hanno questi temi di particolare?
Sono luoghi, come quel cortile, che
godono di una vitalità prolungata, che
ritornano ciclicamente, sono la somma di diversi elementi che si riaccendono ogni tanto, vengono dall’inconscio, sono spazi profondamente vissuti, forse condanne. Sono serbatoi del
fantastico e del reale insieme.
La fotografia è più appropriata al
tuo temperamento di un modello in
carne e ossa?
Per vent’anni ho dipinto senza foto,
senza neanche guardare, “a occhi
chiusi”, creavo degli impianti spaziali
per dare la prospettiva e solo più tardi mi sono accorto che si era strutturato uno spazio tutto mio, spesso circolare. Quando il colore di fondo era
ricettivo inserivo degli oggetti “automatici”, che stavano dentro e fuori la
scena. La mia personale metamorfosi
mi ha poi portato all’uso della fotografia. I pittori si dividono tra chi ha
usato la fotografia come studio, per
esempio Bacon con Muybridge, e chi
non lo ha mai fatto. Poi c’è anche chi
l’ha praticata, come Balla, Wols, Munch, Kirchner e Delacroix. L’uso della
fotografia sostituisce lo studio dal vero
del pittore, anche se i primi telai quadrettati sono già del Cinquecento, e
Canaletto usava una camera oscura
primordiale. Seguo il lavoro di alcuni
fotografi, come Mimmo Jodice, ma anche fotografie scattate dai pittori, come
quelle di Wols. In ogni caso sono io
che scelgo e taglio, che centro un particolare o metto a fuoco un’immagine.
L’utilizzo della fotografia non implica
l’ibrido, la libertà è diventata licenza.
La fotografia mi ha permesso di completare interi cicli sui luoghi, come per
Villa Arconti o le fabbriche abbandonate che fotografiamo con un amico
scavalcando le recinzioni. Purtroppo
anche la stampa non è più la stessa,
certa carta e certe macchine non venCaffè Michelangiolo
LEONARDO AGLI UFFIZI
dal 28 marzo 2006
N
el corso degli ultimi cinquant’anni si è
assistito non solo a un numero crescente di mostre su Leonardo, ma anche
all’inaugurazione di una serie di musei
(Vinci, Milano, Amboise) dedicati a illustrare le sue più sensazionali invenzioni.
Tranne rare eccezioni, le esposizioni su
Leonardo si sono
sempre concentrate
su uno, o pochi, dei
molteplici ambiti a
cui Leonardo ha rivolto con successo la
propria attenzione:
l’arte, l’anatomia, le
scienze, la tecnologia, ecc. Queste
esposizioni sono state inoltre corredate
da ricostruzioni in
modello di dubbia
attendibilità e di
scarso valore educativo, perché concepite unicamente allo
scopo di suscitare
scalpore, esaltando il carattere precorritore
delle scoperte di Leonardo.
Per superare queste visioni limitative e
correggere la tradizionale tendenza a frammentare la personalità di Leonardo nei diversi campi con i quali si misurò, l’Istituto
e Museo di Storia della Scienza, la Soprintendenza per il Polo Museale e la Galleria
degli Uffizi di Firenze, hanno promosso
una mostra di tipo innovativo dal titolo
gono neanche più prodotte. C’è un impoverimento dell’immagine, e l’ipertrofia tecnica certo non aiuta. I nuovi
macchinari di stampa vengono cambiati ancora prima che qualcuno sappia usarli.
Sembrano esistere due categorie di
quadri nella tua produzione recente,
quelli misurati che solo nel particolare sprofondano nei regni del sogno, e
quelli più istintivi e violenti. Ce ne
parli?
Non ci sono due canoni, è la stessa
opera, per ogni quadro disegno prima
le geometrie e le architetture sullo sfondo, prendo le misure per riscaldarmi.
La mente di Leonardo. La mostra si propone, innanzitutto, di focalizzare l’attenzione sul fatto che l’intera produzione di
Leonardo, pur nella sua infinita varietà di
argomenti e direzioni di ricerca, è caratterizzata dall’unitarietà dei criteri di
concettualizzazione
e dei metodi d’analisi. Questo rappresenta senz’altro l’aspetto più originale
e affascinante del
suo contributo e
spiega in maniera
eloquente il fondamento oggettivo
della definizione largamente acquisita
di Leonardo come
“genio universale”.
Nella mostra è
esposta una serie di
documenti e di opere originali: disegni,
pitture e manoscritti di Leonardo; opere di artisti e scienziati contemporanei. L’esposizione degli originali è integrata da efficaci strumenti didattici: riproduzioni ad alta definizione,
modelli funzionanti costruiti con rigore e
con tecniche e materiali storicamente plausibili, stazioni digitali che danno accesso a
contenuti interattivi, visualizzazioni virtuali
di opere perdute di Leonardo.
a cura della Redazione
Poi qualcosa si muove, dopo la calma
assopita mi viene fretta. Ciò che mi interessa è riuscire a andare in profondità col gesto, per pescare in un serbatoio misterioso. In questo Tiziano
Vecchio è decisamente gigantesco. L’altra parte – proprio come quella di Kubin – completa le misure, è parte del
congiunto.
Concludo chiedendoti se la pittura
può sopravvivere in una società dove la
cultura è spettacolarizzata?
La pittura continua e, forse proprio
per la crisi che attraversa, è anche
un’interprete privilegiata del nostro
tempo.
■
63
L’idea e la forma
Ingegnere e urbanista, allievo di Michelucci e sodale di Zevi, Luciano Ravaglia
ha ideato e costruito in Italia, Somalia, Finlandia, Argentina, Marocco, Svezia, Austria
LO SCOMODO INNOVATORE
di Elio Garzillo
Solness
Tutto quello che ho potuto fare,
costruire, creare… di bello, di intimo,
di raccolto… e anche di nobile…
(Stringe i pugni) Oh, è un pensiero
spaventoso…!
con la volontà di sfuggire alla quotidianità, riuscendo a godere di preziose
pause spirituali, pur all’interno di un’attività altrimenti davvero frenetica
(come se il talento avesse bisogno di essere sostenuto dall’allenamento…).
Ibsen, Il costruttore Solness
P
iù che un profilo biografico – che
rischia di ridursi ad un (nel nostro
caso lunghissimo) elenco di dati ed
esperienze – è opportuno delineare un
ritratto del tecnico e dell’artista Luciano
Ravaglia, così da coglierne anzitutto lo
spessore intellettuale e culturale, mettendone in evidenza i risvolti più personali, le frequentazioni, gli intendimenti e
le riflessioni, gli incontri decisivi. Ci si
muove, in tal modo, fra capi di Stato e
ambasciatori, filosofi e vescovi, ministri e
tecnici, percorrendo il mondo intero lungo entrambi gli emisferi (davvero una
vita in movimento). Tutte frequentazioni
importanti per la sua complessa personalità, per l’uomo di idee, per l’uomo di
azione, per il fine diplomatico. Un progettista, filosofo ed artista, capace di ampliare la nostra concezione di città e civiltà in un lavoro che oscilla fra il pensiero astratto e il fango dei cantieri, fra
laboratori di prove sperimentali e pragmatiche conferenze dei servizi, firmando
ogni disegno, ogni dettaglio, assumendo
anche responsabilità che i committenti
esitano a delegare. In Ravaglia, l’originario senso di aggregazione di cose e persone, di manufatti e contesto, diventa
come un magma perennemente attivo:
dal profondo del pensiero, il senso dello
spazio risale ed esige di farsi realtà e
concretezza, mentre le forme si precisano man mano senza perdere nulla dell’essenzialità del segno che, per primo, si
era posto il concreto obiettivo della formazione di princìpi logici in grado di essere sviluppati e applicati.
Schivo, geniale, e comunque estraneo ad ogni forma di star system, Lu-
64
L
Una delle vedute ad acquarello allegate alle
tavole di progetto del gruppo Bartoli, Gamberini, Focacci (cfr. Adriana Toti, “I Ciompi”,
in Firenze 1945 1947, Alinea 1995) presso
l’Archivio Storico del Comune di Firenze.
Dopo la non felice sortita (“grottesca” l’ha definita Cesare de Seta) di alcuni architetti italiani avversa alla irruzione di omologhi stranieri, non immotivata apparirebbe una retrospettiva
(una “rilettura”, come già la sollecitava
Alessandro Gioli in uno scritto del ’95
nel ricordare Michelucci e le vicende della ricostruzione post bellica) di quelle
idee e di quelle forme che nel secondo
Novecento hanno reso celebre nel mondo
la progettualità italiana, da Milano a
Osaka, da Nervi a Piano. In tale temperie creativa la quale ha determinato quella svolta che è stata chiamata Italiana
Style, si inserisce l’attività di Luciano Ravaglia, sviluppatasi per un cinquantennio
in Italia e in buona parte del mondo.
ciano Ravaglia ha prodotto progetti e
idee che raccontano come la semplicità
e i segni possano essere enigmatici e sapienti, rispettosi della natura e dell’uomo, da decifrare con la dovuta attenzione, e in ogni caso senza la pesantezza dei sempre in agguato astrattismi
teorici. Per ritrovare regole in un’epoca
in cui tutto sembra possibile, per creare architettura come spazio utile a facilitare le relazioni fra le persone, per una
città come luogo di socializzazione e di
affetti, contro la città-merce. Un innamorato del passato che rifiuta ogni passatismo, ogni culto del ricordo, spesso
o stile della sua architettura nasce
da un articolato tessuto fatto di ragione e passione, lungo un filo progettuale continuo e coerente, fin dagli ormai
lontani esordi, frequentando il luogo arduo e inospitale della decisione etica e
anche dell’azione politica, su una via
senza stazioni conclusive, nel labirinto
della memoria ma senza penalizzare il
desiderio di immaginare e plasmare l’avvenire. Provando a muoversi fra tutto
ciò che quest’uomo ha pensato e fatto in
quasi cinquant’ anni di lavoro, si comprende cosa vuol dire il tempo necessario a una complessa progettualità: che
non è semplice questione di date, ma è
soprattutto il costante equilibrio fra la
capacità di accennare al futuro e quella
di diventare storia. Contribuendo molto,
in tal modo, al lavoro di altri architetti,
anche con le esemplari partecipazioni a
concorsi, i cui esiti – peraltro – spesso
esemplari non sono stati.
Architettura è progetto puro, con voglia di realizzarsi e desiderio di reinventare il mondo: per Ravaglia l’architettura può dare orgoglio e stimoli nuovi a una società in cui città e territori
sono sempre più densi di nodi irrisolti;
può far intravedere la speranza di un
futuro migliore, realizzando opere eleganti e belle, armoniche per colori e linee. L’architettura non è più ex-machina, ma audacemente e micheluccianamente ex-natura, superando in scioltezza (anzi: con impazienza) attriti e
resistenze impliciti nei processi di innovazione o cambiamento.
Ingegnere, ama come pochi architetti
quell’esercizio salutare che è l’operare
su scale diverse, facendo sposare architettura e arte (archiscultura, secondo
Caffè Michelangiolo
L’idea e la forma
la dizione di Maurizio Fagiolo: si veda
anche La forma delle idee in “Caffè Michelangiolo”, a. ix, n. 2, maggio-agosto
2004, pag. 38). Se architettura e arti visive sono attività sorelle (con i relativi
odi familiari), che si sono influenzate,
intrecciate e sovente sovrapposte, Ravaglia adotta spesso forme e strutture
proprie di entrambe, facendo saltare
Luciano Ravaglia con Raúl Alfonsín (a sinistra), presidente della Repubblica argentina.
Luciano Ravaglia, romagnolo, opera
nel campo dell’architettura, della pianificazione territoriale e delle metodologie
di sviluppo sulle grandi aree. In Lombardia è stato consulente della Presidenza per il Piano territoriale regionale;
presidente della Commissione per la
Cartografia Regionale, Centri Storici,
grandi progetti. Rappresenta la Regione
per quattro anni nella Commissione
grandi infrastrutture a Innsbruk, in Canada al Congresso onu (1975) sugli insediamenti umani. Capo progetto e supervisore scientifico del più grande piano europeo di sviluppo integrato (territorio di 1000 kmq. dei 75 comuni dell’Oltrepò Pavese). Incaricato dal Governo somalo del Piano della capitale Mogadiscio (1979). Inviato dal Ministero
esteri italiano in Argentina (1987) per il
piano di trasferimento della Capitale e
per la catalogazione del patrimonio culturale di origine italiana. Altre progettazioni esecutive particolari: l’interporto
di Parma Ce.P.I.M., l’Aeroporto intercontinentale di Agadir in Marocco. In
Argentina per Raúl Alfonsín ha eseguito
gli studi di progetto per il recupero ed il
restauro della “Galerias Pacifico”, uno
dei più grandi edifici dell’800 al centro
di Buenos Aires. Allievo di Michelucci,
per quasi vent’anni è stato stretto collaboratore di Bruno Zevi.
Caffè Michelangiolo
ogni (ipotetico) confine fra i due generi. In un intreccio evidente, perché l’architettura – nella sua opera – è diventata una forma plastica, in piena contiguità con la materia e la creatività, riuscendo comunque a evitare interventi
autocelebrativi o architetture impossibili che tendano a imporsi solo per il
loro clamore e la loro condizione estrema. Provando una forma di naturale
ritrosia di fronte a opere che più che
simboli tendono a essere logotipi realizzati con un fine pubblicitario o a città
che, consegnate alla pura economia,
sono il riflesso degli interessi degli imprenditori: una naturale avversione,
insomma, verso l’architettura schiava
dei media o del capitale o, peggio, di
entrambi.
Schivo, scontroso, a volte col piacere della solitudine, ha la segreta dolcezza di chi apprezza ogni istante della
professione e della vita, modi sbrigativi
che gli consentono di formulare le critiche con spietata franchezza, ma anche
di allentare ogni tensione con fulminanti forme di ironia. Con Ravaglia, ingegnere, è possibile confrontarsi su architettura e urbanistica, mentre quasi
sempre, parlando di architettura, si finisce col parlare d’altro: di sociologia,
speculazione, inquinamento, utopia,
etc. Troppo spesso i Comuni, mentre
promuovono un’architettura di qualità,
programmano un’ urbanistica di rapina: nell’opera di Ravaglia, architettura
e urbanistica hanno invece lo stesso nitore (a fianco o contro le pubbliche amministrazioni), senza frammentazioni o
incertezze sulla propria identità, e i vocaboli oggi ricorrenti di contaminazione o confusione non possono trovarvi
cittadinanza alcuna. Pur operando su
un territorio vastissimo, Ravaglia riesce anche a raccontare localmente le
cose, a rendere lo spazio locale un sensore in cui passano le ispirazioni e le
motivazioni più diverse (quasi la complessità e mutevolezza delle nuove cosmologie). Non senza forte valorizzazione dei rapporti, più intensi di quanto ordinariamente si supponga, fra filosofia ed architettura (come propongono
Aristotele che nella Politica inserisce
quasi un trattatello di urbanistica; Vitruvio, secondo cui la filosofia costituisce parte integrante della formazione
dell’architetto; Wittgenstein il quale riuscì ad essere insieme filosofo ed archi-
Bruno Zevi, urbanista, teorico e critico della storia dell’architettura.
Elio Garzillo.
Elio Garzillo (1946) è architetto
e specialista in restauro dei monumenti. Soprintendente per i Beni Architettonici e il Paesaggio in Campania e in
Emilia, è stato – fino al 2004 – Soprintendente Regionale per i Beni e le Attività Culturali dell’Emilia-Romagna.
Docente di Restauro all’Università di
Parma, è autore di numerosi saggi, articoli e monografie sul restauro dei monumenti, sulla tutela del paesaggio, sulla cultura storia e tecniche della conservazione. Ricopre oggi il ruolo di Dirigente Generale presso il Ministero per
i Beni e le Attività Culturali, Dipartimento per la Ricerca, l’Innovazione e
l’Organizzazione.
65
L’idea e la forma
Guscio del tetto in lamellare per la Chiesa di San
Cristoforo a Forlì.
Complesso di San Francesco a Imola: studio urbanistico delle piazze pubbliche. Il guscio lamellare giunge a 30 metri di altezza e poggia su una piattaforma d’acqua collegata alle fontane della piazza del
Comune (durante l’inverno sono alimentate dall’acqua calda della centrale di cogenerazione per consentire la sosta delle anatre selvatiche).
tetto): lo si evince anche da diversi importanti “scritti non tecnici” di Ravaglia
(fra i tanti: Uno sguardo alle origini,
1985, o Un uomo, una terra, 1990).
Quanto mai significativo, in questo
contesto, il rapporto con Giovanni Michelucci (altro anti-maestro), da cui
Ravaglia ha mutuato lo spirito rigoroso
di ricerca nel linguaggio architettonico,
l’entusiamo e l’infaticabilità nel pro-
muovere iniziative culturali, la concezione demiurgica dell’urbanistica (ben
altro rispetto alle recenti preoccupanti e
diffuse forme di urbanistica creativa
e/o consensuale). E quello, diverso, che,
per quasi vent’anni lo ha legato alla figura di Bruno Zevi: un riferimento anche morale, nelle sue forme di assoluta
linearità e chiarezza di comportamenti,
nel “firmare” le sue giornate ben più
Modelli per studi strutturali di torsione del guscio lamellare.
66
delle sue opere, nella certezza che dopo
la spettacolarità ci sarà in architettura
un ritorno alla continuità, alla storia
delle città, perché la presenza della storia non è aggirabile né eliminabile.
In alcuni vividi esempi di lettera di
Zevi (1983-1999) a Ravaglia, si parla,
non a caso, di «battaglie intrise di ideali», di storie personali «gremite di amarezze, delusioni, sconfitte», di «lavoro
Elaborazione tridimensionale del guscio superiore della Chiesa di Imola.
Caffè Michelangiolo
L’idea e la forma
missionario, con vita defatigante, spesso insopportabile, snervante, dell’architetto e dell’intellettuale». In una lettera
del 1997, con ironia, Zevi si chiede:
«quand’è che Le Corbusier diventò Le
Corbusier?», per subito rispondersi
«quando perse il concorso per la sede
della Lega delle Nazioni a Ginevra: se
avesse vinto non sarebbe stato nessuno». Amarezze e voglia di lottare quotidianamente «contro la sorda e inetta
burocrazia» che venivano, per via epistolare, riferite a Ravaglia per assisterne (se mai ce ne fosse stato bisogno…)
«la vitalità, la gioventù, la creatività».
S
correndo il curriculum professionale – una sorta di abaco del lavoro
svolto e di fotografia dell’evoluzione
professionale di Luciano Ravaglia –,
quello che colpisce è non solo il numero, davvero sterminato, delle prove
maturate, quanto la loro complessità e
diversificazione e, soprattutto, la loro
qualità e importanza. Non è facile trovare personalità in grado di spaziare
con tanta naturalezza dall’urbanistica
alla pubblicistica, dalla progettazione
al restauro, dal design alla modellistica sperimentale e alla pianificazione
delle risorse: ma è davvero improbabile trovare altre personalità che riescano a fare tutto questo con tecniche e
logiche innovative, riuscendo ad accentuare e “segnare” aspetti dell’esperienza storica contemporanea quali il
contesto storico-sociale, le teorie estetiche e le ricerche morfologiche, tipologiche, tecniche.
I luoghi delle attività vanno da Forlì
– alla quale è evidentemente legato da
un rapporto di affettuosa consuetudine – all’Emilia-Romagna e alla Lombardia fino ad arrivare a S. Marino, alla
Somalia e alla Finlandia, Argentina,
Marocco, Svezia, Austria: tutti luoghi
in cui Ravaglia ha portato il moderno
(architettura, urbanistica) e la modernità (idee, concetti-guida, artifici), operando con serenità proprio sulla scorta
della formazione acquisita in patria. Ha
portato, in altre parole, il fare progettuale, il cui compito è per definizione
quello di prefigurare il nuovo, risorsa
cui attingere, fra eterogeneità e diversità: di luogo, programmi e materiali,
ma anche di forme architettoniche e
particolari appropriati a ciascuna situazione.
Caffè Michelangiolo
Luciano Ravaglia mentre illustra a Syad Barre (seduto di fronte, con il posacenere davanti) il piano
urbanistico per la capitale della Somalia, Mogadiscio.
Dal 1958, anno della sua prima opera (l’Asilo Montessori e Istituto Femminile in Forlimpopoli), Luciano Ravaglia
ha progettato oltre duecento edifici, complessi, interventi di sistemazione urbanistica, in una ricerca “impaziente”, aperta ancor oggi a nuovi orizzonti da esplorare e posta, con instancabile energia, al
servizio degli altri. Le iniziative sono state vaste e articolate, in un intreccio di posizioni, frequentazioni, rifiuti, intuizioni: avrebbero necessitato, forse, di maggiori forme di autopromozione, che rendessero più espliciti e comunicabili i meccanismi del loro riconoscimento. Motivi
contingenti, uniti alla ritrosia dell’uomo,
Casa di Corzano a Bagno di Romagna (1968). Intervento di restauro condotto anticipando di 15 anni
le teorie della Cop. Himmelblau a Vienna.
67
L’idea e la forma
non hanno consentito, fra l’altro, la pubblicazione, più volte sollecitata dallo stesso Zevi, dell’opera di Ravaglia su L’architettura, cronache e storia. E mai
come oggi appare laborioso ricostruire, in
un mare immenso di documenti atti progetti modelli relazioni, la storia, le teorie,
i criteri, i sentimenti, le ragioni e tutto
quanto contribuisce alla completa comprensione tanto delle opere costruite
quanto di quelle in corso di progettazione o di esecuzione. Anche se, nell’opera
di Ravaglia, non vi è traccia del tanto
diffuso odierno divario fra architettura e
società: la sua linea della continuità e
della coerenza, forte ed evidente, è, e resta, motivo di chiarezza e riconoscibilità. Il materiale conservato consente già
oggi allo studioso di mettere l’accento
sia sul prodotto finito sia sul “disegno”,
sull’iter progettuale, sugli schizzi e le varianti che precedono o affiancano l’opera vera e propria: ma di più e meglio lo
consentirà con una idonea ricatalogazione, basilare per una visione completa e
quasi antropologica della raccolta (che
possiede più di quanto esibisca), con possibile parallela – e pressocchè senza precedenti – lettura degli eventi storici e delle loro conseguenze nell’ambito della
progettazione.
Nell’ambito delle ricerche di pianificazione territoriale un giovane ing. Ravaglia mostra all’allora Ministro dei Lavori pubblici, Benigno Zaccagnini, il plastico del fondo marino prima delle alluvioni che
hanno formato l’attuale pianura romagnola. Investigazioni sul territorio di una intera Provincia condotti dal 1958 al 1962 per la prima volta in Europa.
stazioni di cultura, bisogno d’incontro e
di rappresentanza e la costruzione di
spazi fisici (città) dove poter realizzare
queste attività. La città come luogo della celebrazione dell’incontro tra le genti, della globalizzazione delle culture e
del localismo delle esperienze, dove
possono trovare diritto di espressione
tutte le realtà in grado di dar vita a
nuove forme di aggregazione, mantenendosi lontani da ogni rischio di omologazione e specializzazione.
In Argentina, Ravaglia opera sulle
ipotesi di piano di supporto allo spostamento della capitale e sulle conseguenze indotte e, quasi contemporaneamente, sul restauro dell’architettura italiana nel periodo di più forte immigrazione dall’Italia. Propone l’ancoraggio del progetto della nuova capitale a un piano generale di trasformazione del Paese (identificazione, uso e gestione delle risorse ai fini dello sviluppo
in una concezione di riequilibrio generale) in un quadro economico nuovo,
basato sulla trasformazione delle strutture e sull’ipotesi del rinnovo infrastrutturale e delle capacità imprenditoriali. Idee modernissime (la città mobile; la città per tutti; il rispetto per le
risorse), quelle stesse che Zevi propo-
S
Restauro Palazzo Serughi (XVI sec.). Complesso
marmoreo bianco inserito su elementi in granito
rosso di Svezia con funzione di cerniera architettonica fra parte antica e parte moderna del
Complesso.
68
i può già provare a tracciare una
prima presentazione dell’opera e
della figura di Luciano Ravaglia anche
attraverso pochi suoi interventi, emblematici e paradigmatici (quasi un’indicazione di metodo), tuttavia sufficienti a rappresentarne i modi, le esperienze, le aspettative, le esigenze. Fra
questi: le strutture lamellari a guscio
(la Chiesa di S. Cristoforo a Forlì; la
Chiesa del nuovo complesso di S. Francesco a Imola); le opere “di scultura”
(interno Camera di Commercio e memoriale in cor-ten a Forlì; monumento
funerario della famiglia Graziani a Cusercoli); le opere razionaliste – quasi
reinterpretazioni del new brutalism – in
calcestruzzo armato (Cesenatico, residence; complesso Iacp a Forlimpopoli;
Cassa dei Risparmi a Forlì); gli studi ed
i grandi piani territoriali (Argentina,
Somalia, Marocco, Italia). E si può iniziare proprio dai complessi studi e progetti per Buenos Aires (delocalizzazione capitale), inquadrabili come analisi per nuovi spazi pubblici e immaginari simbolici della contemporaneità,
in un intreccio di modi di vita, manife-
Il monumento funerario per la famiglia di Natale
Graziani in marmo nero dello Zimbawe e granito rosso di Svezia, nel cimitero di Civitella di Romagna.
Caffè Michelangiolo
L’idea e la forma
neva di trasferire anche in
(architettura e sacro, due
chiave europea sotto forma di
mondi da sempre in sintonia).
possibile integrazione (proCome nel caso della Chiesa
prio la capitale europea, osParrocchiale di S. Cristoforo a
servava Zevi in una lettera
Forlimpopoli (dalla tormendel 1989 a Ravaglia, oggi
tata cronistoria, dal 1979 al
spezzettata fra Strasburgo,
1987 e oltre), caratterizzata
Lussemburgo e Bruxelles, che
dal senso pieno e concluso
richiederebbe la costituzione
della forma in quanto entità
di un distretto politico euroassoluta e definitiva articolapeo, da formare definendo
ta su un grande guscio in leanzitutto l’area e ”l’immagigno lamellare di 1000 mq,
ne” del complesso).
con centine a doppia curvatuQualche anno prima
ra che salgono da 4 a 17 me(1985), Ravaglia aveva lavotri di altezza. Il modello di
rato in Somalia, per commisprogetto prevede un guscio, a
sioni e consulenze, “chiamato
forma pressocchè di barca rocome un medico” per il Piano
vesciata, incernierato sulla
di Mogadiscio. Quel piano che
cresta dorsale, con sistema a
ha fatto esclamare, sempre a
più cerniere, ancorato a una
Bruno Zevi (04.07.1985):
piattaforma di base ricurva in
«Mentre impazza la moda del
calcestruzzo bianco, che pogpentitismo, non meraviglia
gia, a sua volta, alla base, su
l’assoluzione per il piano di Edificio della Cassa dei Risparmi a Forlì in fase di costruzione.
una piattaforma d’acqua.
Mogadiscio. Il tutto è molto
L’illuminazione naturale vi
cattolico: c’è il morto – o, nel caso, il anche da altri), osservava Ravaglia in viene ottenuta, in via diretta, attraverdanneggiato – ma siccome l’assassino fa uno scritto del 1990, ciascuno studio è so una lama di luce che proviene dalla
atto di contrizione, sia pur tardiva, l’Or- stato visto con frequente sospetto e dorsale della copertura e, in maniera
dine lo benedice. Ma Lei, ingegner Ra- spesso relegato a ipotesi di settore aven- indiretta, all’intradosso, con luce (rivaglia, deve vincere la battaglia, anche a te solo valore teorico, anziché concreta flessa dall’acqua) che attraversa la fibcosto di una strage».
applicazione nel campo delle metodo- bia vetrata posta sul contorno del borDue piani, questi, due interventi fra logie interdisciplinari di intervento.
do inferiore della copertura. L’effetto
i numerosi incarichi internazionali, a
Particolare attenzione viene riserva- di luce radente è conservato anche con
fianco di altre esperienze in Argentina o ta da Ravaglia all’architettura sacra la luce artificiale.
in Marocco – l’aeÈ un’architetturoporto internaziora quanto mai sinnale di Agadir – e
golare e significatinazionali (da Imova (l’edificio si rafla a Rimini – danfigura come una
do valore unitario
grande arca posta
a urbanistica e tersull’acqua), priva
ritorio, coinvolgendi reali possibili
do economia, risorconfronti (con sforse fisiche e problezo, possono trovarmi di sviluppo –,
si riferimenti a
dal piano territoScharoun o allo
riale per l’Oltrepò
stesso Michelucci),
a quello per un sispazio unitario al
stema di informaquale può partecizione territoriale e
pare una intera
cartografica della
collettività, trovanLombardia, dalla
dovisi a proprio
pianificazione teragio: uno spazio
ritoriale al piano
dalla completa liglobale di assetto
bertà basata sul
delle acque superfipercorso dell’uociali e sotterranee).
mo, sulle funzioni,
Dai non speciasulla partecipaziolizzati (e, a volte, Plastico per un edificio della Cassa dei Risparmi a Forlì in cemento armato bianco e giardini pensili, 1972. ne all’evento sacro,
Caffè Michelangiolo
69
L’idea e la forma
sullo stare insieme. La struttura, chiara e serena, dà la sensazione di un luogo che viaggia, nel tempo, verso qualcosa di superiore; pochi spazi si presentano più ferreamente conclusi, e più
aperti, dell’interno di S. Cristoforo,
quasi anelito di libertà entro una struttura inflessibile.
Il sagrato è composto da un ampio
spazio a conchiglia che, partendo da
una piccola fontana poggiante su una
vasca circolare, posta in alto all’ingresso della chiesa, si snoda da essa “come
l’ideale coda di una cometa”, rappresentando l’ideale collegamento dell’interno – fonte battesimale – verso l’esterno, fonte sul sagrato, nonché l’origine e la guida della barca.
L
a Chiesa di Forlimpopoli (da cui
discenderà l’esempio assai avanzato di Imola, tuttora in costruzione) è
una sorta di architettura-scultura, legata anche all’esperienza dell’informale: il plastico e gli schizzi sono le
prime verifiche per quello spazio, che
non era facile da rappresentare in altro modo, e che non sarebbe stato afferente rappresentare subito in modo
convenzionale, con le proiezioni ortogonali, le sezioni etc. Coerentemente,
le opere che possiamo definire di scultura non appaiono come un fatto inaspettato: dalla progettualità e dal
modo di operare di Luciano Ravaglia
emerge infatti, con grande frequenza,
una forte e caratterizzata valenza
creativa. Molti particolari e i modelli
delle sue opere possono essere considerati sculture: anzi, sculture sono le
stesse opere, se prese singolarmente e
private della loro funzionalità, nel loro
rivelare particolare cura per la tridimensionalità, per la volumetria plastica o rituale, per i volumi sfalsati e le
profondità contrapposte, per l’uso non
convenzionale dei materiali. In Ravaglia, la scultura raggiunge complessità e sintesi. A volte, lo spazio si
scompone in ventagli di segni slanciati, guizzanti, purissimi e anche inquietanti, rendendo plasticamente
come un’ansia e una vertigine (così
nel memoriale in cor-ten a Forlì). Altre volte è una sorta di avventura sul
peso e la leggerezza della materia, geometrie sospese, dialettica fra conflitti,
il pieno e il vuoto, non senza la percezione della fuga del tempo che con-
70
Scala in cemento armato bianco prefabbricata.
Residence turistico, 1971.
sente la convivenza degli opposti
(come nel monumento a Cusercoli).
Altre volte ancora, si afferma la forza
della forma e della materia attraverso
operazioni di addizione e sottrazione
di volumi e superfici, in uno stretto
dialogo, basato sulla cristallina purezza geometrica, con lo spazio e l’architettura (come all’interno della Camera di Commercio di Forlì, ove il fram-
Studi sulle membrane asimmetriche. Soluzioni
analogiche tridimensionali fuori dagli schemi ufficiali di calcolo, 1972.
mento è parte dell’unità e modo per
evidenziarla), intreccio di materia e
suggestioni.
Alcune, meno recenti opere di architettura di Ravaglia, appaiono invece riferirsi alla “tecnica” (dall’antica nozione di techne) del razionalismo
e al suo rigore logico, con leggibile
rapporto con l’avanguardia, sia figurativa sia specificamente architettonica. La “concezione necessaria” dal
punto di vista delle strutture, dello
spazio e dell’organizzazione dei materiali parte dal new brutalism di matrice anglosassone ma si evolve verso
un rinnovato interesse per i motivi delle facciate (come in P. Rudolph), verso i macrosegni, verso involucri esterni che non sono più l’insieme di tante
facce bidimensionali, ma organismi
spaziali includenti ulteriori invasi tridimensionali. Con una costante: l’esigenza di qualità, individualità, fantasia e “dell’inedito architettonico”.
Come nei casi sopracitati di Forlimpopoli, Cesenatico, Forlì, dove la complessità, ben leggibile, non è solo rete
interconnessa di molte variabili, ma
anche interpretazione colta della disciplina del fare.
Ravaglia è uno sperimentatore inesauribile, che non lascia intentati né
materiali né forme né approcci e continua a misurarsi con sempre nuovi
modelli, perfezionando il proprio linguaggio e imboccando strade sempre
rinnovate di riflessione scientifica e
approccio di metodo (con l’impiego di
nuove tecnologie, ma puntando contemporaneamente alla riduzione dei
costi). Pensa e riprogetta, con potenza
e disinvoltura, tempo e spazio: vanifica la geometria tradizionale per creare
armonia con il suo stile.
Nella sua insofferenza c’è il valore
del tempo: non c’è da perderne, mai.
Luciano Ravaglia continua a lavorare
con irruente sincerità, straordinaria
determinatezza e incessante fiducia: ed
è la stessa visione della professione
– rigorosa ed essenziale – che viene
modellata sui modi della vita di un
master builder, e viceversa. Convivono,
insomma, agire sociale e fare tecnico,
razionalità ed emozioni, che non possono considerarsi in contrapposizione,
visto che le emozioni, con la loro valenza cognitiva, sono essenziali per
ogni forma di razionalità.
■
Caffè Michelangiolo
Scienza e figurazione
Un enigma tra Barocco e Rococò:
la scomparsa dei quadri di patologia nell’arte del ’700
FRA SIENA E ROMA
di Giorgio Weber
N
on si esclude affatto, oggi, una
esplicita e intenzionale rappresentazione di malattie nelle opere d’arte. A Londra, dal 15 settembre
2005, è esposta a Trafalgar Square la
statua marmorea di una donna focomelica gravida; di essa si conosce anche
il nome, come per l’adiacente statua che
è dell’Ammiraglio Nelson. Nelle sue pitture, Fernando Botero predilige quadri
di obesità, molteplici casi diversi d’intento dal nudo squallore della donna
obesa del 1994 (Benefits Supervisor Resting) di Lucien Freud, dove prevale il
dolore dell’essere.
Dopo la prima guerra mondiale, l’arte tedesca raffigura intensi aspetti di
mutilazioni quali il Venditore di fiammiferi di Otto Dix, il Pensionato (senza
un braccio) di George Grosz. Si giunge
poi, con Jean Arp, al confine con l’informale (in Mutilato e Apolide), al dramma della perdita di ogni identità personale (corpo e patria). In Italia, Alberto
Savinio amava raffigurare quadri di gi-
Raffaello, Guarigione dello storpio, part. (da un
cartone, gessetto nero e tempera, per gli Arazzi
delle pareti della Sistina). Victoria and Albert Museum, Londra.
Coeli, i ciechi immortali, ancora del
Bruegel, a Capodimonte. Arti piagati
sono intensi in Luca Giordano o nel Cerano e si ripetono, con varia efficacia,
bubboni e piaghe degli appestati: del
Tintoretto nella chiesa di San Rocco a
Venezia le raffigurazioni più eccelse.
È stato con stupore che, avendo di
recente avuta occasione di ammirare a
Siena, al Santa Maria della Scala, il bell’affresco di Sebastiano Conca, da poco
restaurato, avente per oggetto la biblica
Piscina probatica, dipinto nel 1732, ho
constatato la scomparsa di segni concreti di malattia nelle persone intorno
alla piscina stessa: proprio dove si dovevano trovare «ciechi, storpi e paralitici» come dice esplicitamente il Vangelo di Giovanni. Mi sono domandato allora per quale motivo il Conca non raffiguri precisi quadri di malattia. Di
fronte a questo volatilizzarsi e svanire
delle attese immagini di patologia, mi
sono rivolto alla storia dell’arte figurativa e letteraria dell’epoca ed alla storia
Luca Giordano, L’elemosina di San Tommaso da
Villanova: particolare dello storpio dalle ulcere alla
gamba fasciata, Museo di Capodimonte, Napoli.
gantismi metamorfosici e Mario Sironi,
sia in grandi figure che in nudi di donna, dipinge gozzi tiroidei vistosi.
Nell’arte antica, studiata per anni e
anni da M.D. Grmek (1998), compaiono
sculture con le più varia patologie; sono
effigi di ciechi e di storpi, o gambe in
preda a elefantiasi o con enormi vene
varicose, o teste di talassemici e mongoloidi, ecc. Nel Museo di Agrigento si trova, ricostruito nell’Ottocento, uno dei
Telamoni, giganti di sette metri di altezza di arte greco-sicula costruiti dai prigionieri Cartaginesi dopo la battaglia di
Himera; e, sempre da lì, ci fanno sberleffi
nani deformi di arte cartaginese.
Nell’arte rinascimentale, troviamo
elefantiasi nelle gambe di un putto della tomba di Ilaria del Carretto a Lucca,
gli storpi celeberrimi di Masaccio al
Carmine, quelli non meno celebri di Peter Bruegel a Vienna o al Louvre, un
moncherino atrofico nel Funerale di San
Bernardino del Pinturicchio all’Ara
Tintoretto, Gli appestati curati da San Rocco
(part.), Chiesa di San Rocco, Venezia.
Caffè Michelangiolo
71
Scienza e figurazione
della sanità e dei cotrovava a portare). Se
stumi.
arieggiano le prime
Dalla storia delnote di una rivoluziol’arte apprendiamo
ne, come è nel Don
che, nel Settecento, il
Giovanni di Mozart, è
dramma tende a trapur sempre ancora
dursi in una rappre(1787) Masetto il basentazione scenica,
stonato.
teatrale; a divenire un
E cambia la commelodramma. Dalla
mittenza: sempre più
storia dei costumi e
incline all’edonismo,
della sanità, risulta
al libertinismo, è quepoi una “resistenza”
sta, nel ’700, comunalle novità che, in
que poco incline a vocampo medico, erano
ler raffigurate malatgià assai copiose o che
tie nei quadri: e quesi andavano raccosti sono ormai destigliendo dai “tecnici”
nati più ai “bou(botanici, anatomici,
doirs” o alle sale da
chirurghi). Queste poricevimento che alle
trebbero stimolare I resti odierni della biblica piscina probatica a Gerusalemme, adibita all’abbeveraggio delle cappelle gentilizie o
allo studio di innova- pecore. Fin dai tempi più antichi era reputata salvifica per «ciechi, storpi e paralitici».
alle chiese. Si finisce,
zioni nella pratica teanche in una scena di
rapeutica (come per vero ac“miracoli” che presuppone
cadrà con la novità della vacraffigurazione di ammalati, a
cinazione per il vaiolo): ma
non volersi impegnare troppo
emerge nell’insieme uno «iato
in una sorta di emozione, a
di classe», per dirla con G.
non volersi vedere coinvolti,
Cosmacini, iato che blocca
se non in superficie: come per
l’accoglimento delle novità
cercare un distacco da «ciò
scientifiche da parte dei meche fa paura» (vedi U. Eco,
dici, ben spesso aristocratici
2004). Ciò che si chiede aluniversitari, ed i chirurghi
l’arte è uno svago. Malattia e
(cerusici), barbieri, botanici e
povertà, tranne in pochi casi,
anatomisti dall’altro, questi
sono ignorate dai committenultimi più vicini ai malati e
ti o semmai ci si volge talora
aperti al progresso.
piuttosto ad una ridicolizzaQuanto alla cultura relizione dei “diversi” di cui sono
giosa dei committenti essa è
esempi le Repubbliche di
più condizionata da prediche
Nani dell’Albrici o i lubrichi
a intonazione moralistica che
nani di Bernardino Deho.
attinta dalle pagine della BibUna vera e durevole emobia. Questa nei paesi come
zione è stata per me l’accorl’Italia e la Francia era scritta
germi che quanto mi è accain latino (anche se qualche
duto avvicinandomi, da paBibbia in volgare veniva editologo, alla ricerca di segni di
ta, come ad esempio quella di
malattia in un affresco tipico
Nicolò Malarmè pubblicata a
del barocchetto romano, del
Venezia nel 1502); poco acRococò, la Piscina probatica
cessibile comunque non solo
di Siena del Conca, mi era in
ai ricchi committenti ma anrealtà già accaduto quando,
che ai loro artisti, pittori e
ancor giovane anatomopatomusicisti: questi tutti ancora,
logo, constatavo, con l’arrivo
del resto, più vicini alla condegli antibiotici, prima le modizione di servi che a una indificazioni, poi la scompara al
dipendenza economica di cultavolo anatomico dei segni di
tura e di giudizio (si pensi per
una malattia classica, dalla
dirne solo una alla livrea degli L’affresco (restaurato) di Sebastiano Conca (1860-1764) nell’abside della chie- morfologia tipicamente ripeEsterhazy, che un Haydn si sa della SS. Annunziata nel Santa Maria della Scala, Siena.
tuta nei millenni, e ben spes-
72
Caffè Michelangiolo
Scienza e figurazione
so letale, la polmonite
dro in cui son poste».
franca lobare (cfr. G.
È un mondo di maWeber e F. Nozzoli,
schere cui si è avvi1950). Fenomeno che
cinato ai tempi nostri
si è poi esteso ad altre
anche Roberto Rosmalattie, oggi perfino
sellini, nel suo film
alle metastasi canceLa presa del potere
rose, con gli enormi
da parte di Luigi XIV.
Il Re già mette in
progressi di chemio- e
radio-terapia.
opera, appunto anche attraverso l’imL’affresco di Siena
posizione di una
fu eseguito da Sebamoda di Corte, una
stiano Conca (1680gran mascherata a
1744) nel 1732. Egli
cui tutti devono atteera una delle persone
nersi, il Re per pridi primo piano del
cosiddetto Rococò (o
mo, che la impone, e
Barocchetto romano)
che in essa esprime il
come dice Anthony
suo dominio assoluM. Clark (cit. sec. G.
to. Ma queste traspaBriganti, 2004). Querenze, questi colori
sta di Siena è l’impretenui e ariosi, queste
sa di maggior mole e
mascherate di Corte
prestigio da lui af- Un particolare dell’affresco. Si noti l’effigie di un falso storpio con le stampelle.
e di salotto si incrifrontata: essa fu porneranno ad esempio
tata a termine con un lavoro di nove questo può però apparire già nel Boz- nel Mozart del Don Giovanni ove rimesi. L’affresco appare dunque come zetto Saracini, si fa ancora più eviden- suona, come sopra dicevamo, lieve ma
un «capriccio a soggetto religioso, a im- te nell’Affresco ora restaurato nell’ab- tragica, come un’eco della Rivoluzione
postazione teatrale, che si tiene su un side della chiesa della SS. Annunziata. francese. «Arcadia e Barocco», dice
vero palcoscenico architettonico in cui i «Sembra di essere in una sala da ballo» R. Luperini (2003), «coincidono con
personaggi sono attori tra le quinte»; e, pare che dicesse il Papa Benedetto xiv, la crisi della coscienza europea e le traper il Clark, è «one of the most hand- a Roma, di fronte a un dipinto del Fuga sformazioni dell’immaginario».
some rococò stage-set known». Vi si tro- in S. Maria Maggiore. «Le figure»,
d ecco dunque le figure che vediava, come già in Luca Giordano, anche come dirà il Cochin, «sono preoccupamo, intorno alla Piscina probatica,
una «soffusa soavità sentimentale e me- te di avere un atteggiamento piacevole
lodrammatica», con le scene profane più che di compiere l’azione del qua- in questa sorta di melodramma, «viste
attraverso un vetro»:
ambientate «nelle silun’aria sembra pervestri e pastorali elecorrere tutta la scena
gie dell’Arcadia».
in cui son tutti attori
Le opere del Roche giocano un loro
cocò (che era nato,
ruolo: dal Cristo, che
com’è noto, in Fransembra precorrere
cia e che evolverà poi
quello un po’ “vaniverso il Neoclassicitoso” su cui ironizza
smo) si affidano ad
il Buñuel de La Via
una «labile fluidità di
Lattea, al Paralitico
capriccio» in cui vieguarito che ha però
ne ad esprimersi, vouna (retorica?) collelatilizzandosi quasi,
ra nell’andarsene col
il dramma, sia esso
suo lettuccio e semsacro o mitologico o
bra quasi un baritono
storico. Si trova già,
in una scena romanin questo Rococò, la
tica che esprime rilieve eleganza delle
sentimento (o è forse
“ariette” del meloinvece l’unica persodramma con “imna vera, con quel
provvisi” di pennellate nervose, rapide, Giovan Battista Paggi (1554-1627), La piscina probatica (part.). Si noti un astante (con il cap- rancore per il male
che lo ha bloccato per
brillanti. Se tutto pello) cieco. Museo Comunale di Castiglion Fiorentino (Arezzo). Dipinto finora ignorato.
E
Caffè Michelangiolo
73
Scienza e figurazione
trentotto anni?). A parte lui tutto nella
scena è svaporato e gelato.
Forse al biancore estremo che contrassegna i malati (quasi fantasmi che
preparano alle astrazioni “metafisiche”
del ’900, presentimenti del moderno,
come dice Longhi) si giunge invogliati
anche per l’uso, insistito nel Rococò, dei
colori chiari che dominano sempre la
scena. E forse non deve stupirci che anche la malattia di tutti questi sventurati che si affollano ai bordi della Piscina
probatica (che non si possono curare,
che non possono far altro che attendere
un moto dell’acqua che non si sa quando mai avverrà, nè si sa se essi potranno, in quel decisivo momento, essere lesti per avvantaggiarsi a entrare nell’acqua appena smossa) si esprima con quel
pallore delle carni. Vari gradi di questo
pallore (in alcuni quasi già di morte) ci
dicono di uno svuotamento, anergico, se
così posso dire, di ogni sostanza: la malattia è espressa in un concetto, un simbolo, è soltanto un’apparenza scenica,
non un fatto reale, ove gli attori sono
impegnati, sì, ma quasi soltanto in qualità di personaggi di un coro, di un melodramma: essi devono solo star lì, disposti in posa, per essere dipinti, come
per una cerimonia, che non li coinvolge.
E anche la figura del Cristo, dicevamo,
Tintoretto, La piscina probatica, nella Scuola di
San Rocco a Venezia. Sono raffigurate cortigiane
che ostendono lesioni probabilmente luetiche
alle gambe.
ha qualcosa di scenico, come quella di
un tenore che si accinga a cantare la
sua aria. Il lontanissimo paesaggio, le
decorative colonne che non “reggono”
alcunchè, fan solo da sfondo “recitante”
al quadro, in lungimirante prospettiva.
Ci appare dunque quasi ovvio e naturale (come si diceva poco sopra) che
in questo Settecento «sublime e pre-romantico» (secondo Mina Gregori, 2000)
non si trovino precisi segni di malattia
nel “melodramma” dell’affresco. Pensiamo al Metastasio e a quanto poi accadrà nell’800: alla Traviata e alla
Bohème, con le eroine, morenti, che
gorgheggiano come usignoli all’alba.
E abbiamo già veduto le diverse possibilità di renderci ragione di questa
scomparsa di segni di malattia (presenti invece ancora per tutto il ’600 e di
nuovo nei secoli successivi) nel secolo
dell’Illuminismo: e quindi anche nel
Conca senese del grande e bellissimo
affresco.
A questo punto il Patologo non può
che ritirarsi e lasciare che l’opera d’arte prevalga con il suo fascino su altri
pensieri e curiosità.
■
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74
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Caffè Michelangiolo
BLOC-NOTES
di Bartleby
Premio Latini. C’era una volta. È la
immancabile (e provvidenziale) parabola cui sono soggette le umane cose.
Qualcuno pensa alla respirazione bocca a bocca. Fiato sprecato, è il caso di
dire. Era nato da una costola, e come
la donna della Dodicesima notte ha
preso a declinare nel punto della massima fioritura. Corre il 1981, a settembre Spadolini ha appena messo in
piedi il primo governo “laico” e in
quello stesso mese (ma non si cerchi il
nesso) un gruppetto di amici fiorentini è a Verona al Premio Dodici Apostoli che si celebra nel rinomato ristorante omonimo. Perché non anche da
noi? Ci sarà pure a Firenze una locanda, una osteria, una taverna che
strizzi l’occhio alla cultura. L’amico
Cesati che dirigeva all’epoca la memorabile Seeber in via Tornabuoni
(con Montenapoleone e via Veneto la
strada allora del gotha mondano) bussò a vari restaurant, collezionando calorosi no. La sanno lunga gli osti, guelfi o ghibellini che siano: “Carmina non
dant panem”, la loro insegna. Finché
non si imbatté in una frotta di turisti,
baedeker alla mano, i quali domandavano a destra e a sinistra: Where is
the David? where is Latini’s? E gli si
accese la lampadina. Come non averci pensato prima…?, da il Latini: la
minestra di farro di Narciso, la solita
ribollita, le penne strascicate, il gran
carré di ròsbiffe, il gelato di Certaldo.
In cucina il la lo dava la Signora Maria, la moglie di Narciso; in sala, i
grands commis erano i figli Giovanni e
Torello. E Narciso non se lo fa dire due
volte, apparecchia la tavola per la giuria di un Premio consistente in un prosciutto dei suoi. La congrega si forma
con il passaparola. Nessun conciliabolo. Nessuna graziosa elargizione. Nessun calcolo. Con Augusto Cesati, si siedono a cena Breddo, Griffo, Listri,
Luti, Luzi, Macrì, Pampaloni, Parri,
Ricchi, Saviane, Vannucci. E il pendolare Cesare Marchi, il tredicesimo,
trait d’union con i Dodici di Verona.
Un direttore di Accademia di Belle
Arti, un narratore, un giornalista cul-
Caffè Michelangiolo
turale, un italianista, un poeta, uno
storico della letteratura, un critico militante, un direttore di testata radiofonica, un inviato Rai, un romanziere,
un pubblicista. E il tredicesimo, una
firma del “Corriere”. L’antesignano dei
premiati, nel maggio dell’82 (un lunedì, giorno di chiusura al pubblico
del Latini), è Montanelli. Che sulle prime si mostra interdetto: Firenze che dà
un riconoscimento a un suo figliolo?, ci
dev’essere qualcosa sotto! Poi il pro-
Narciso Latini.
sciutto se lo vengono a prendere anno
dopo anno Sanminiatelli, Maria Bellonci, Bo, Soldati, Spadolini, Sciascia,
Tobino, Gina Lagorio, Zanzotto, Maria
Corti, Garin, Biagi, Coccioli, Lidia Storoni Mazzolani, Rigoni Stern, Afeltra,
Garboli, Luzi (uscito l’anno prima dal
consesso, per poi rientrarvi), Franco
Cardini. Scorrendo l’albo d’oro si può
individuare con sufficiente approssimazione lo zenit della parabola, l’inizio della sfioritura. Alcuni dei giurati si
ritirano (la prima frizione, il rinvio del
premio a Pratolini, finché la morte nel
’91 non toglie la castagna dal fuoco);
altri vengono introdotti e non sempre
con criteri di congenialità; certe candidature femminili non sono accolte
(la inafferrabile “irrazionalità” della
donna mai si concilia con l’irrinunciabile gigionismo maschile). E poi ci si
metterà anche l’interdetto anagrafico.
Il Premio Latini fu per vari anni
l’“evento” letterario più affollato. Non
c’erano posti assegnati ai tavoli, spesso restava in piedi perfino qualcuno
della giuria, per non dire di mogli e
ninfe egerie trasclocate altrove per l’incauto arrivo del prefetto, del sindaco,
del sottosegretario, del rettore. Spadolini c’era sempre (scortato da Ceccuti),
fosse capo del Governo o presidente
del Senato. Per lui una sedia era tenuta in serbo ma non ci si metteva: solo
una apparizione, sovrastante e benedicente. Ancora più di un riconoscimento (generazionale) il “Latini” era
una rimpatriata, una festa al figliol
prodigo di turno. Una sagra di aneddoti, di citazioni, di memorie. Una girandola di battute, come disse Indro.
Per esserci si ricorreva alle raccomandazioni. Ci si imbucava. Sale, salette,
angoli rigurgitavano: c’erano buone
probabilità di farla franca. Lo speaker
del simposio, l’adnuntiator, era il figlio
di Augusto: Franco. Nessuno lo aveva
eletto ma a tutti era apparso scontato
il suo ruolo. Quando prese il microfono per la prima volta era un giovanissimo laureando di Bigongiari. Aveva
un «approach» (direbbero gli inglesi)
mordente, eterodosso, piccante (oggi si
direbbe “alternativo”) che fugava da
quei tavoli l’insidia dell’enfasi autoreferenziale: e del resto l’odor di cucina
copriva gli incensi umani e distraeva
dal vaniloquio di sé.
Ora in quei locali Torello ci ha dislocato politezza e lustro, ambisce a
incrementare la dinastica virtù-peccato (per dirla con Camporesi) della largitas conviviale e della affabile ospitalità. Frotte transoceaniche si accalcano, where is Latin’s?, una volta adempiuta la processione al David (la cui vista in altri tempi procurò un allarmante orgasmo alla frigida Daphne
du Maurier). Il Premio Latini resta
l’emblema di una stagione non invasa
dai fast food, il cibo svelto che non fa
sognare (Camporesi). E di una letteratura non da best seller la quale riusciva ancora a far sognare. Oggi che i
Premi (letterari) hanno statuti, presidenti, vicepresidenti, segretarie votanti (sono già quattro voti, quello del
presidente vale per due), un prosciutto sarebbe il solo riconoscimento che
non disonorerebbe chi lo vincesse. Ma
l’onore, lo si sa, dipende dall’ora che
segna l’orologio.
I Premi vivono finché rimangono
al di sopra della loro inutilità. Stava in
ciò l’astuzia (e il vanto) del “Latini”.
Il resto è chiacchiera.
■
75
LE LETTURE
di Riccardo Concetti, Anna de Simone, Riccardo Donati,
Angelo Fabrizi, Elena Frontaloni, Alfonso Lentini,
Claudio Mariotti, Costanza Melani, Monica Venturini
Federico Zandomeneghi, La lettrice.
Silvestro Lega, La lettura.
L’insostenibile leggerezza
della modernità
della volgarità e dell’invadenza della
televisione, chiamata a riprendere in
diretta i festeggiamenti per la nascita
del figlio di Manlio e Tiziana. Ma mentre Manlio tenta di ricreare la “gran
machina di fuoco artificiale” che fu disposta dal Cardinale di Polignac a piazza Navona nel Settecento per festeggiare la nascita di Luigi, delfino del re
di Francia Luigi xv, e Tiziana cerca di
ritrovare il chiasso colorato dei riflettori, il loro tanto atteso primogenito si
rifiuta di nascere in un mondo sbagliato, in cui ancora una volta spiccano poche figure positive, ma perdenti, come
Umberta e Samir, moderni Romeo e
Giulietta, capri espiatori di un nuovo
dramma elisabettiano.
I
l baobab cominciava a convivere
con gli agi del mondo capitalista.
Anche se sempre più intossicato dal
cibo chimico, si stava rinvigorendo.
Le radici erano tornate d’acciaio, i
rami sondavano il cielo a cercare il
sole, il panorama stava diventando
un’immagine consueta. Rassegnato
da sempre all’immobilità, non si immaginava di andare a cercare o desiderare altri orizzonti. Ma non era felice. La villa gli sembrava una montagna strana, di quelle che non aveva mai visto in vita sua, abitata da
uomini e donne pallide, svenevoli,
profumate. Il tramonto nel suo massimo splendore sembrava un uovo in
camicia, l’aria appiccicava sciapa, e
poi nessun animale si fermava su di
lui. Si sentì solo. Esule un po’1.
Patire la nostalgia di un mondo in
cui non c’è libertà. Questo sembra pensare il gigantesco baobab trapiantato
dal Senegal nei giardini di Villa Carobbi, magico totem e simbolo dell’imprigionamento in una realtà inadatta a farci vivere felici. Nel terzo romanzo di
Franco Matteucci, Festa al blu di Prussia, edito da Fazi, tutti i personaggi cedono e rinunciano ad una parte di sé:
Tiziana ai riflettori delle passerelle di
moda, Manlio alla sua privacy aristocratica e snob; Beatrice alla libera e
sfrenata esibizione del proprio corpo;
Samir alla propria vita e Ruggeri alla
propria libertà. Perfino Umberta, il personaggio più positivo ed equilibrato del
romanzo, non è completamente libera,
vittima della propria timidezza e della
propria educazione che la portano ad
avere un eccessivo rispetto per gli altri e
che non la faranno imporre al momento giusto della storia, consentendole di
salvare in extremis la situazione.
Tutti i personaggi vivono imprigionati nelle loro stesse gabbie mentali,
come Samir, intrappolato nel doloroso
ricordo della propria infanzia di pove-
76
ro ragazzo arabo, o
l’architetto Ruggeri, chiuso in una solitudine inattaccabile. Tutti in questo
libro vorrebbero vivere in un modo
che non sembra
loro consentito, cercano disperatamente una via di fuga
Franco Matteucci.
dallo stato in cui si
trovano, ma a quel punto lo scrittore
non lascia scampo: un’uscita c’è, ma è
tragica. La sete di vendetta di Ruggeri,
abbandonato dal giovane assistente e
amante arabo che s’innamora di Umberta, innescherà una serie di reazioni
a catena che portano tutti sull’orlo di
un precipizio troppo a lungo schivato.
Il limbo in cui sembra scorrere la vita
tra le stanze di Villa Carobbi, che tanto Manlio ha cercato di difendere dall’assalto del mondo esterno, rumoroso e
vacuo, è infatti destinato ad essere tragicamente, ma inevitabilmente, infranto. L’irrompere del caos all’interno della famiglia Carobbi prende le forme
Beatrice trovò Umberta nel salotto, illuminata da una piccola abatjour. Le sembrò d’entrare nella pancia della balena di Pinocchio. Depressa, su un divano di raso rosa,
senza più voglia di combattere, intrappolata da una giornata di paura.
Samir non stava bene, l’aveva seguito con premura per tutto il giorno
ma lui sembrava senza vita, pallido,
accusava disturbi di stomaco con
nausea e diarrea. Era riuscita con
difficoltà a infilarlo nel profumo
bianco delle lenzuola. Mentre lui
dormiva, si era accesa un’inquietudine che non riusciva più a scrollarsi di dosso. Quasi nemmeno guardò
Beatrice, ogni tentativi che lei faceva
per rassicurarla accresceva lo scoraggiamento. Stava per piangere.
Mostrava più della sua età, come se il
dolore l’avesse resa vecchia2.
Anche il baobab, che sembra raccogliere su di sé i destini dell’intera famiglia, sarà costretto ad arrendersi di
fronte alla gratuità del dolore di vivere,
che tanto aveva cercato di contrastare,
riuscendo a produrre con grande sforzo un’unica gemma in cima ad un
ramo, poi rubata da uno scoiattolo.
Molti critici hanno paragonato questo romanzo ad una fiaba moderna
Caffè Michelangiolo
Le letture
dall’esito infausto. Forse. O forse, meglio, si potrebbe parlare di un’allegoria
che ci restituisce, con l’amarezza del
disincanto, il volto del degradato quotidiano in cui faticosamente consumiamo la nostra sopravvivenza. Una
sopravvivenza i cui sforzi, eroici quanto frustrati, sono tutti concentrati nella persona – che tale narrativamente
possiamo dirla – del baobab, gigante
buono che soffre, per noi tutti, il senso
di uno spaesamento non solo geografico ma esistenziale.
Di fiabesco, allora, in questo romanzo scritto con la penna leggera ma
incisiva di un moralista, non c’è proprio nulla, anche se alcuni toni surreali e grotteschi potrebbero trarre in
inganno. C’è anzi molto realismo, se i
registri volutamente eccessivi ricordano più il colorato e caricato mondo
della televisione, che Matteucci ben conosce, piuttosto che quello delle fiabe.
Testimonianza di questo realismo è anche la rarefazione dei dialoghi, che ben
riflette l’incomunicabilità di personaggi legati tutti a doppio e triplo filo da
rapporti d’amore e di parentela. Ma
nonostante questi legami, tra loro non
corrono parole. Non si dicono niente di
rilevante, non si comunicano mai sentimenti o desideri profondi e se devono
parlare lo fanno solo per discutere di
cose vane e prive d’importanza. L’unica possibilità che hanno di capirsi
profondamente è il silenzio, come se
ormai l’intimità vera, per essere recuperata, dovesse, nel mondo per eccellenza della “chiacchiera”, evitare accuratamente tutte le parole, ormai
troppo logore e banalizzate. Così quando Manlio scopre che Barbara, nella
sua paradossale naturalezza corporea,
è diventata un’attrice di b-movie pornografici con il nome d’arte di Kristina, la andrà a prendere al commissariato di polizia, troverà tutti i vhs e li
farà incenerire. Senza dire una parola
a nessuno.
In fondo il mondo fatuo della televisione non è il colpevole, ma solo il
tragico specchio della mancanza di vita
dell’esistenza contemporanea. La sua
vocazione scenografica, che lo scrittore
sa trascriverci con sapiente gusto del
divertissement, si intromette nel nostro
banale quotidiano che scorre amorfo
non tanto a deformarlo e a falsarlo,
quanto a imprimervi gli illusori colori
Caffè Michelangiolo
di una inesistente realtà. Non c’è lieto
fine in questa storia, perché nessuno
dei personaggi che la compongono è in
grado di contrastare il suo peggior nemico: se stesso. E così, sembra dolorosamente dirci Matteucci, a contrastare
il male non basta il blu di Prussia degli
occhi di Umberta, protagonista assoluto della Notte stellata di van Gogh
che Samir ha dipinto sulla scenografia
di una festa che non si farà.
Costanza Melani
NOTE
1 F. Matteucci, Festa al blu di Prussia, Fazi
editore, Roma, 2005.
2 Ivi, p. 167.
Franco Matteucci
Festa al blu di Prussia
Fazi Editore, Roma 2005
pp. 208. € 14,50
Una voluttà secca
e vertiginosa
D
ifficile non lottare col manierismo,
quando si scrive di Trieste. Con
alle spalle Svevo, Slataper, Saba; i cieli del mitteleuropa che stillano autoanalisi e sconfitte sul volto sofferente o
inconclusivamente disteso di impiegati,
passeggiatori, burocrati. Docili prede
di ossessioni e schizofrenie (le «piccole
voci» di Longo), di donne-madriamanti (infermiere, per essere brevi),
che si trasformano pian piano in città,
sedativi e montagne. Quindi in geografie e anatomie immaginarie di Trieste
stessa, da percorrere in sogno, a capo
chino, o da ingoiare dentro l’ostia del
disincanto come una medicina efficace
e amara.
Esiste però (e fortunatamente),
un’onestà della maniera, un suo interno movimento raziocinante, che – senza entrare in questioni fin troppo dibattute – può essere misurato col piacere donato al lettore da una penna robusta, consapevole. Convinta, soprattutto, che non sempre è necessario dire
qualcosa di nuovo, ma piuttosto esprimere (il meglio possibile) qualcosa di
urgente. Così il nuovo volume di rac-
conti di Giuseppe O. Longo, dove chi
vuole potrà trovare tutti i temi cari alla
migliore tradizione mitteleuropea e
triestina (anche gli odori sensuali e
asettici di un sanatorio; la carnalità
malata, desiderante, che si raggela e
quindi esplode in tripudi colpevoli d’amore e morte) e chiunque potrà godere ottime, dense pagine di narrativa.
Prodotte da un autore triestino solo
d’adozione – Longo è nato a Forlì –
che, nel racconto autobiografico Signora Enzi, segue l’incespicante svelarsi
della città sotto i suoi occhi di studente trapiantato, alle prese con la Canzone all’Italia di Petrarca da imparare a
memoria.
C’è anche questa macerata ironia,
nelle pagine di Longo, oltre al motivo
di un’impossibile mappatura di strade
e sussulti respirati in una città inafferrabile eppure paradossalmente eletta a
tópos: della nostalgia, dello sradicamento, della ricerca poco zelante e
sempre fallimentare di un significato e
di un’appartenenza. E questo non solo
nella lunga tradizione di cui si diceva,
ma anche in Longo, fin dalle precedenti prove narrative (Di alcune orme sopra la neve, 1990; L’acrobata, 1994;
soprattutto La gerarchia di Ackermann, 1998). Per cui Fulvio Senardi
77
Le letture
può ben commentare, nella sua quarta
di copertina: «È proprio questa Trieste,
o essa vien fatta vibrare dei fertili miraggi di una fantasia incline ad angosciosi stupori? Poco importa: un altro
tassello va comunque ad aggiungersi
al suo mito, consacrandola, nel segno di
una provocatoria alterità, a icona di
una collettiva condizione esistenziale».
Un’icona – lo dice il titolo – in cui
s’inseriscono figure simili a quella chiamata ad illustrare il volume: la trasparenza di Alberto Zannoni, omaggio a
Magritte e perfetta istantanea del destino entro cui si muovono i personaggi dei sette racconti. Tutti maltrattati e
corrosi dalla bora di Trieste, «inquieta
e tormentosa», tutti variamente votati –
come Riccardo, il cerebrale amante della Signora Moltrè – a divenire un «involucro fragile e leggero, come il guscio
di certi insetti morti che il vento muove qua e là e che possono essere sbriciolati con una pressione minima, trasformandosi in una polvere bruna, lucida e impalpabile prima di sparire definitivamente nella variegata immensità delle cose». Lo svaporare della vita,
del senso, della ricerca, dunque, declinato nelle spire del desiderio sfinente e
sfinito (Lezioni di lingua tedesca), nel
rifugio della patologia mentale (Precoci inverni, Le piccole voci), negli svuotamenti della vecchiaia («un procedere
nel giorno senza procedere», Signora
Enzi) e, in maniera ancor più didascalica e terribile, nel concretissimo resistere dei mattoni di san Sabba, di quella Risiera convertita a forno crematorio, che invade la materia epistolare del
racconto Il reddito della vergogna:
«Caro signor Pliska […] i campi di
sterminio non si possono concepire se
non in certi luoghi e paesaggi, non si
può immaginare un campo di sterminio
in Sicilia o in Romagna o in genere in
Italia se non appunto a Trieste […]
perché in fondo Trieste fa già parte dell’Europa Centrale, anzi dell’Europa
Orientale» a cui è legata ormai «da una
robusta corda di follia, da un’eco riverberante di omicidi e stupri e mazzate sulla nuca e di camere a gas e di
camion col motore acceso rombante
nella notte per coprire le urla e l’ansito
continuo basso ruggente del forno che
andava a tutto vapore, il fumo che si
dissolveva acre e pesante nell’aria grigia, vicino alle case addormentate, o
78
forse in veglia atterrita nella notte gelata, tra le folate di bora cattiva dagli
altipiani del Carso».
Una scrittura intensamente carnale,
quella di Longo. Sia quando è calata
nelle movenze del racconto tradizionale (ma si consuma un giallo volutamente blando e irrisolto in Da un paese lontano, come nelle Lezioni di lingua
tedesca si celebra un ménage à trois
tutto mentale), sia quando approda al
monologo e al frammento, liberando la
punteggiatura e la stessa veste grafica
del testo. Soprattutto nel racconto finale, Trieste: ritratto con figure, che dà
il titolo alla raccolta e passa in rassegna
i temi forti non solo del volume, ma
dell’intera produzione di Longo. Si
tratta dell’unico testo inedito, dalla lunghissima gestazione (maggio 1990 –
luglio 2003); storia di un appuntamento inventato e mancato, in cui ogni
parola è una scheggia, una trafittura:
«lei cammina più in fretta i mariani
svogliati parlando ridendo la lasciano
andare incontrarono quattro ragazze
giovani ridenti parlanti le teste vicine
scotevano i capelli seguirono quelle lei
con la borsa da bagno di fronte al bar
potrebbe mangiare qualcosa potrebbe
sedere anche nella sera di fronte alla
chiesa ai lampioni decise di andare».
Quanto questa lei, automa e bambola
imprevedibile, venga fatta coincidere
con la Trieste che incanta, s’addolora e
sferza lo dice però chiaramente un altro
racconto: in Precoci inverni, la voce
narrante – un uomo rinchiuso in sanatorio – finisce per ammettere di aver
commissionato un manichino con le
sembianze della moglie, come già
Kokoshka aveva fatto per amore di
Alma Mahler. Lo scopo? «Avrei avuto
sempre davanti ciò che era per me, penetrandola avrei penetrato me stesso e
ne avrei avuto una voluttà secca e vertiginosa, come quando rientrando la
sera nell’appartamento di via Geppa
mi fermavo nell’anticamera oscura,
aspettando di udire una voce, la sua
voce». Quella gelida, lontana e irrinunciabile di Trieste.
Elena Frontaloni
La penna del saggio
L
a verità: questo sembra essere l’imperativo che muove la scrittura di
questi aforismi di Antonio La Penna.
A leggerli si prova la medesima soddisfazione che danno le sue pagine saggistiche, così ricche di sostanza, così materiate di vastissime letture e conoscenze e riferimenti al mondo antico e moderno. Ma nessuna arroganza intellettuale, nessuna presunzione di possedere
la verità, nessuna volontà di farci la lezione di morale: anzi, La Penna prova
una certa compassione per la vita e la
sorte di «noi poveri intellettuali», che
non viviamo nel presente ma per lasciare ai posteri opere che essi magari non
leggeranno nemmeno. Forse, aggiunge,
tanti di noi faranno la stessa fine di Mario Rapisardi, famigerato versificatore
ottocentesco, che scrisse vaste opere oggi
illeggibili.
Non interessa al lettore sapere a quale ideologia La Penna sia vicino per capirne le prese di posizione. Non c’è che
da abbandonarsi al piacere dell’incontro
con le sue appuntite riflessioni. Ed ecco
il sacrosanto sdegno per il vile assassinio
di Lumumba (che l’Europa consentì, se
non volle), la desolata constatazione dell’impotenza dell’intellettuale engagé, la
constatazione della stupidità di espressione delle donne della pittura senese
Giuseppe O. Longo
Trieste: ritratto con figure
Mobydick, Faenza 2004
pp. 204. € 13,00
Caffè Michelangiolo
Le letture
medievale, lo stupore dinanzi all’ambiguità di Togliatti e alle elucubrazioni
della teologia cattolica e dell’idealismo
tedesco, lo sgomento dinanzi all’eterno
conflitto israeliano-palestinese, la disapprovazione per «l’invadenza televisiva straripante della Chiesa cattolica» e
per la «diffusa insensibilità verso la sofferenza degli umili».
Per alcuni aspetti l’Italia di oggi è
sempre quella descritta da La Penna nel
1967: in quell’anno la TV gli appare
forgiata come se l’Italia tutta fosse un
asilo infantile. Poi ne condannerà il turpiloquio e il fatto che la TV rispecchia
esattamente le divinità dominanti: Sesso e Profitto.
Presto si fa strada una vena di scetticismo: sappiamo vedere i mali della società, ma non sappiamo indicare il rimedio.
Il premio Oscar Adrien Brody sulla spalla di Bryce
Dallas Howard.
Gustosa l’intolleranza per quelli che
giudica «filibustieri della cultura» (Curzio Malaparte, Indro Montanelli, Pasolini «giullare nato» e «buffone», Carlo Bo,
del quale Cesare Questa è «buffone» di
corte), per l’ultimo Montale rifugiatosi,
sia pure a malincuore, tra le «forze più
retrive della società italiana» (si allude
ovviamente al suo lavoro presso il “Corriere della Sera”; del resto aggiungerà
poi che anche i più ribelli dei nostri letterati, come Pasolini, «approdano tranquillamente al “Corriere della Sera”),
per la «banalità» dei «gazzettieri». Tra
questi pone Biagi (ma non siamo tenuti
a condividere), Montanelli di nuovo (ma
va riconosciuto il valore civile delle sue
ultime posizioni politiche), Baget Bozzo, detto «prete da salotto» (e qui è più
facile essere d’accordo). Tuttavia la definizione, pur tagliente, mi appare indulgente verso, direbbe Foscolo, uno dei
Caffè Michelangiolo
Eugenio Montale.
«Protei famosi» della attuale vita politica italiana. Il personaggio, cambiacasacca di professione, non ha fatto che
saltare sempre sul carro del vincitore del
momento: antifascista e cattolico di sinistra da giovane, presto attaccò la Resistenza e divenne democristiano tambroniano. Negli anni sessanta si schiera
su posizioni anticonciliari e lefebvriane.
Dopo il ’68 si schiera col Concilio, si avvicina di nuovo alla sinistra, diventa collaboratore fisso di “Repubblica”, è folgorato da Craxi e dal craxismo imperante. Infine approda alla corte di Berlusconi e diventa l’ideologo ufficiale di
Forza Italia. Di Berlusconi Baget Bozzo
ha scritto che è «un evento spirituale»,
«energia liberata per sfidare l’impossibile», «grande intuizione religiosa», in un
crescendo di visionarietà. Di questa nei
suoi molti libri dà esemplicazione abbondante. Ma, al di là dello stile involuto, risaltano chiare le sue posizioni, ispirategli, sue parole, da una “Voce” divina:
rivaluta il fascismo e Salò, deride la Resistenza, inneggia ad Haider, inserisce
addirittura l’Olocausto e Berlusconi in
un disegno della Provvidenza, scrive pagine di fuoco contro il «giudaismo», contro il comunismo, contro l’Islam detto il
«demoniaco». Chi voglia avere maggiori informazioni al riguardo legga di Simon Levis Sullam L’eterno ritorno di
Baget Bozzo (“Belfagor”, a. lx, n. 1, 31
gennaio 2005, pp. 100-104).
La Penna non risparmia Asor Rosa,
definito critico «brillante, paradossale,
abituato da tempo ai pasticci teorici e
ideologici», simulante una falsa «autonomia da eretico».
Frecciate anche per il mondo accademico, per la sua «fregola» di pubblicare opere che meglio sarebbe rimanessero inedite.
Fulminanti alcuni aforismi. Nel
1973 scrive: «La storia è fatta dai gangster, è scritta dai conformisti». Più
avanti è esplicito al riguardo: «Che gli
Stati Uniti siano governati da un pugno
di gangster, non è rivelazione che possa
stupire molta gente». Erano gli anni
della guerra statunitense-vietnamita. I
devastanti bombardamenti al napalm
americani suscitavano proteste popolari e diplomatiche in tutto il mondo.
Sempre nel 1973 in Cile il presidente
Allende è ucciso dai militari di Pinochet il quale instaura una dittatura san-
Il premio Oscar Roberto Beningni sulla spalla di
Nicoletta Braschi.
guinaria con l’appoggio economico degli Stati Uniti. Soccorrono riflessioni apparse su alcuni autorevoli giornali statunitensi dopo l’11 settembre e in occasione del successivo attacco all’Iraq. La
politica estera americana dal 1960 in
poi ha sperperato il patrimonio di guida politico-morale acquisito con la vittoria sul nazifascismo, ha sostenuto e
sostiene regimi non democratici o apertamente dittatoriali, ha lasciato incancrenire la situazione israeliana-palestinese (dove le vittime di un tempo, chiosa La Penna, sono diventate i carnefici
di oggi, come accadde nelle rivoluzioni
francese e russa), è riuscita a inimicarsi una parte del mondo e, sorda alle
esortazioni in senso contrario, se non
d’altri, dei papi, ha creduto di risolvere
i problemi internazionali con guerre infinite. Qual è la differenza morale, si
chiede La Penna, tra il terrorismo e i
79
Le letture
Pier Paolo Pasolini.
bombardamenti aerei? Non sembra che
la storia insegni molto ai politici.
Noi purtroppo, dice ancora La Penna, si vive nella storia come «immersi in
una palude»; non possiamo far nulla.
Ma questo non vuol dire però che bisogna per forza «piegarsi, umiliarsi, scendere al servilismo», abdicare alla propria intelligenza.
Attuali trovo le considerazioni sul
sorgere e risorgere di movimenti di protesta che si collocano a sinistra della sinistra ufficiale. L’emarginazione economica e la disperazione sociale, che né i
cosiddetti “moderati” né la sinistra sanno eliminare, spiegano quei movimenti.
Fate una legge, dice ironicamente La
Penna, che proibisca la disperazione e
mandate in manicomio i disperati. Ma è
così che si curano i mali della società?
Recisa la professione di materialismo: «L’uomo è tutto materia sin dalle
origini e non si libererà mai dalla materia: non c’è redenzione».
Dura la condanna del cinico «conformismo» di attori come Tognazzi e Sordi
o del «buffone medievale» Benigni.
È manifestata stima per Dario Fo.
Non male la definizione dello stato
sovietico prima di Gorbaciov come «impero bizantino» (non che oggi la Russia
sia una democrazia vera o che abbia rinunciato a una politica imperiale: vedi
Cecenia). Nessuna indulgenza insomma
per regimi autoritari di qualsiasi colore.
Non poche le riflessioni dedicate agli
studi che La Penna coltiva, ovvero agli
autori classici e al mondo antico, ma
anche agli autori moderni. Ricca la serie di considerazioni filosofiche o di filosofia della storia.
80
Con gli anni si fa sempre più forte in
La Penna la convinzione di vivere come
intrappolato in una realtà ripugnante,
una vera e propria «fogna» o «melma»,
in cui trionfa la «gregalità» e la «volgarità» di massa. L’Italia scoperchiata da
Mani Pulite gli appare «un paese corrotto e carnevalesco». Assai scarsa la fiducia negli italiani, che si lasciano dominare da Ballon de suif (Spadolini), da
Andreotti, da Craxi, o che tengono a
galla «un buffone come Pannella» (col
corredo dei suoi radicali istrioneschi e
servili). Senza attenuanti la condanna
dell’attuale governo. Non meno severa
la critica ad alcuni leaders della sinistra
(D’Alema, Amato, Domenici; ma stima
è espressa per Rosy Bindi e Rosa Russo
Iervolino), al centrosinistra («un alveare impazzito») e allo stesso presidente
della repubblica, punzecchiato per la
sua «banalità» e prevedibilità. Il futuro
immediato «è buio». È venuta meno
inoltre «la certezza di un senso complessivo della realtà» come «totalità organica». Ammira senza riserve chi sacrifica la sua vita per aiutare il prossimo, come l’eroica crocerossina italiana
uccisa in Somalia.
L’impressione finale e complessiva
che lascia questo denso volume è ben
racchiusa dalle parole di Massimo Mugnai, che ne firma la presentazione: esso
dà «un forte stimolo a non rassegnarsi
al conformismo, di qualunque tipo esso
sia: accademico, culturale o politico» e
ci esorta a non perdere mai la lucidità
critica necessaria a capire e giudicare la
realtà. Siamo dinanzi, scrive giustamente Carlo Carena (Istruzioni per sopravvivere, “Il Sole 24 Ore”, 5.6.2005,
p. 30) a un «raro libro» che fa «profondamente riflettere» e induce ad «ammirare questi studiosi di un passato remoto che prendono posizioni impavide
nelle vicende del proprio tempo».
«Sono nato su un treno
mentre la città bruciava»
S
hulim Vogelmann, nato a Firenze nel
1978 e laureatosi in Storia all’Università Ebraica di Gerusalemme, ha tradotto dall’israeliano all’italiano molti
autori, tra cui Dan Benaja Seri, Haim
Be’er e Nathan Shaham e creato la nuova collana «Israeliana» per la casa editrice La Giuntina.
Mentre la città bruciava è il suo primo
libro.
Questo romanzo, insieme diario e storia di una formazione individuale e collettiva, attraverso le vicende e i pensieri
di un giovane ebreo italiano alla ricerca
delle proprie radici e della propria identità, ci offre uno spaccato storico sulla
realtà israeliana degli ultimi anni, illuminandone snodi e contraddizioni.
Shulim lascia Firenze e la sua famiglia il 3 agosto 1997, subito dopo la maturità, per una vacanza-studio con l’obiettivo di imparare l’ebraico e di conoscere un paese, Israele, e una città, Gerusalemme, tante volte immaginati, ma
mai realmente conosciuti.
Il viaggio di Shulim ha inizio sotto il
segno dell’entusiasmo e di una certa leggerezza e inconsapevolezza, che gradualmente, però, si trasformeranno in
una visione problematica e appassionata
Angelo Fabrizi
Antonio La Penna
Aforismi e autoschediasmi.
Riflessioni sparse su cultura e politica
degli ultimi cinquant’anni (1958-2004)
Presentazione di Massimo Mugnai,
Biblioteca di Letteratura
diretta da Gino Tellini
Società Editrice Fiorentina, Firenze 2005
pp. 302. € 18,00
Caffè Michelangiolo
Le letture
di quella stessa realtà, in seguito ad un’iniziazione sentimentale (il rapporto con
Tali) e politica (l’incontro con amici con
i quali condividere la stessa ansia di porre domande e di cercare risposte non definitive, il lavoro come segretario di
Fiamma Nirenstein, la decisione di laurearsi in Storia e di rimanere in Israele)
che sfocerà nella scelta di diventare cittadino israeliano.
La storia di un ragazzo, dunque, in
cerca della propria indipendenza e identità si intreccia con quella dello Stato
d’Israele, segnata dal fallimento di Camp
David e dall’inizio della seconda intifada
palestinese, da attentati, kamikaze, rappresaglie e tensioni fortissime.
La storia, sempre presente, ma vista
attraverso gli occhi di ragazzi israeliani,
pronti al confronto e affamati di comprensione, si manifesta con le sue contraddizioni e la sue ingiustizie, senza illusioni o tentativi consolatori.
La guerra in Irak, il terrorismo internazionale, l’attentato alle Torri Gemelle,
i problemi legati agli integralismi religiosi nel mondo e quelli legati all’integrazione e alla convivenza di diverse culture convergono nel racconto di Shulim
non come una semplice cornice bensì
quale contesto necessario e ineliminabile di riferimento.
In questo percorso di maturazione e
di acquisizione di una chiara identità, la
memoria ha naturalmente un ruolo fondamentale e costituisce il filo rosso che
dal passato si rivela in grado di dare significato al presente, il presupposto senza ripercorrere il quale nessuna vita può
trovare la sua realizzazione, tanto meno
quella di un intero popolo.
Il titolo di quest’opera ne è la prova:
«Sono nato su un treno mentre la città
bruciava» è la frase pronunciata dal nonno di Shulim, miracolosamente sopravvissuto, dopo essere stato ad Auschwitz,
dopo aver vissuto sulla propria pelle la
tragedia di un popolo perseguitato e devastato.
Shulim, attraverso il recupero di questo passato comune, costruisce la sua esistenza presente e pone le basi di quella
futura:
Mio nonno […] con l’enfasi di un
grande attore che si appresta a recitare la storia dell’umanità rivela: «Sono
nato su un treno mentre la città bruciava»[…]. Mi ripeto quella frase,
Caffè Michelangiolo
commovente, perfetta. «Sono nato su
un treno mentre la città bruciava»
continuo a sussurrarmi. «Una frase
così ebraica,» mi dico «triste e ironica
al tempo stesso»1.
Il libro si chiude con il ritorno di Shulim in Italia nel dicembre del 2002. Ora
Shulim è in grado di spiegare all’amica
italiana Irene, ma soprattutto a se stesso,
le ragioni che lo hanno portato a rimanere in Israele e a chiedere la cittadinanza israeliana e cosa vuol dire per lui essere israeliano: «Ecco! Essere israeliano
per me significa essere libero, normale,
questo è il sionismo per gli ebrei: essere
liberi, normali»2.
Monica Venturini
NOTE
1 S. Vogelmann, Mentre la città bruciava,
Editrice La Giuntina, Firenze, 2004, pp. 95-96.
2 Ibid., p. 253
Shulim Vogelmann
Mentre la città bruciava
Editrice La Giuntina, Firenze 2004
pp. 256. € 12,00
Sulla scrittura aforistica
di Alberto Caramella
L
a seguente indagine prenderà in
considerazione soltanto una parte
dell’ultimo robusto volume caramelliano intitolato Il libro liberato1; si soffermerà, infatti, solo sulla sezione Emistichi. Questo perché voler indagare un
così vasto corpus in poche righe sarebbe tentativo vano e pretenzioso. D’altra
parte una lettura parziale è autorizzata
dallo stesso poeta che divide il volume
in itinerari, in molteplici percorsi di liberazione. Ciò non vuol dire, tuttavia,
che quel che ne uscirà non possa esser
utile mappa a coloro che si inoltreranno
per sentieri diversi.
Nell’aprire queste pagine vorrei prima di tutto esaminare il titolo del nuovo lavoro: Il libro liberato. In esergo figura una prosa (accompagnata da una
poesia che però, si badi bene, non è una
sua semplice trascrizione, poiché ne
completa il senso), che è una specie di
segnavia per il lettore che volesse inoltrarsi nella selva dei significati. Il tema
è presente in tutta la produzione caramelliana e potrebbe essere sintetizzato
nella seguente domanda: il libro liberato è stato liberato fruttuosamente o vanamente2? Il poeta (come ogni poeta,
come ogni uomo) si chiede, cioè, se la
sua opera avrà un seguito, se altri sapranno cogliere la sua eredità. La scrittura, dice l’autore, è costruzione di sé
stessi, è ritrovare il proprio luogo originario (o sito, parola cara a Caramella),
così come fa il salmone che risale le acque avverse3 o come fanno certe popolazioni del nord America che ripercorrono a ritroso le proprie orme lasciate
sulla terra. Ma se il salmone e le popolazioni del nord America ritornano, lo
fanno per due fini differenti: l’uno per
generare e rinascere, gli altri per sparire. Quale il destino caramelliano? La
domanda, che qui non trova risposta,
una sua risposta l’aveva invece trovata
nella prosa Libertus: «La parola fine,
qualsiasi cosa voglia dire contestualmente annulla e distrugge, mentre mostra di accogliere e conservare nel limite ormai definito. Dunque fine perché
non è fine. Qualcosa, dopo, accade: anche niente. Allora vale la pena di ammetterlo: il libro liberato è un libro senza fine»4. Sia quel che sia, il poeta (l’uomo) un’eredità la lascia sempre perché
anche il non lasciar nulla è un’eredità.
81
Le letture
Ben poca cosa forse, ma, come scrisse
Benjamin, proprio perché è poca cosa
deve essere custodita gelosamente. Dunque ad una stessa domanda, in tempi
diversi, due risposte differenti. In questo
è tutto Caramella: nella sua volontà di
sempre interrogarsi, di sempre affannarsi a capire|capirsi, Ebreo Errante del
pensiero, sempre in cammino, senza
mai riposo.
Veniamo, dopo questa doverosa premessa, a Emistichi. Arturo Onofri, in
“La Voce” bianca di De Robertis, annotava con l’abituale tono polemico: «Tre
righe valgono tre pagine; tre pagine valgono tre volumi. Lo spazio è una cretina
illusione; e perciò s’impone la svalutazione del grande, del mastodontico; che
è inevitabilmente imbottito di stoppa discorsiva, logica, letteraria, impoetica»5.
Il Libro liberato, ancor più degli altri
volumi editi precedentemente, mostra
pienamente la vocazione aforistica di
Caramella, nel senso di una precisa scelta stilistica di brevità ed essenzialità. Se
è vero, infatti, che la sua produzione lirica è vasta (Maurizio Cucchi, nella prefazione a Lunares Murales, ha parlato di
«generosità» e di «disposizione espansiva della sua poesia»)6, è anche vero che
è difficile trovare nell’intero corpus poetico componimenti che superano i venti
versi. Anzi, dirò di più: molti sono costituiti da due-tre versi soltanto. La sezione Emistichi è paradigmatica di tutto
questo ed il titolo stesso (l’emistichio è
‘uno dei due versi brevi, detti anche versicoli, che concorrono alla formazione
di un verso lungo’) sottolinea questa
brevità. Si tratta di ottantuno componimenti che raramente superano i cinque
versi «brevi, asciugati come gli ossi delle seppie e rosicchiati altrettanto dalla
sabbia del tempo e dell’esperienza» (per
citare le parole di Caramella stesso riferite alla poesia di un amico|collega, Alfredo Lucifero)7, ogni parola è soppesata, isolata ed esaltata. Ogni vocabolo,
nudo, essenziale, emerge da un assoluto
silenzio. Non per questo si creda che Caramella sia un poeta naïf: lo scopriamo,
infatti, un virtuoso dell’endecasillabo
che si esprime con una mirabile strumentazione verbale fatta di giochi ritmici, di consonanze, assonanze, omofonie, allitterazioni, metafore, similitudini,
chiasmi, anafore, con l’esplicito richiamo
e con l’altrettanto esplicita infrazione
alla tradizione poetica. È una brevità
82
Alberto Caramella in uno scatto di Carlo Delli.
che stilisticamente rimanda senz’altro
agli amati Ungaretti e Penna, ma che
nasce anche da una precisa visione del
mondo. Difatti l’aforisma è la forma più
perfetta di opposizione ad un pensiero
sistematico. Il pensiero sistematico è
esaustivo e totalizzante (perché vuole
potere); l’aforisma, invece, è pensiero
frammentario, nasce dall’incertezza.
L’aforisma, a differenza della scrittura
sistematica, è complexio oppositorum
non virtus unitiva e l’aforista è un artigiano che procede, con cura attenta, per
dettagli, senza la pretesa di creare un
mondo. Inoltre, come ho già avuto modo
di scrivere8, l’ironia, costante in Caramella, ha proprio lo scopo di combattere il pericolo di un pensiero che riconduca tutto ad una compiutezza, ad
un’organica unità.
Ma certa scrittura caramelliana si
può definire aforistica anche per la facoltà di sorprendere, per il capovolgimento che viene attuato. Quella di spaesare il lettore è sempre stata una caratteristica dell’autore, sin dalle sue prime
composizioni. Si prenda la prima strofa
di Murales: «Sei alto? | Sarai uno scheletro lungo. | Corri? | Ti fermerai. | Sei
fermo? | Cadrai. | Credi? | Il buon Dio ti
aiuti. | Vedi? | Sarà più compatto il
buio»9 o ancora Iconografia: «Getti il
tuo seme al vento | nasce lontano un figlio»10 e infine Congedo I: «Nessuno lascerà | traccia sulla terra | non siamo
numerosi abbastanza nemmeno | per il
petrolio»11. Si tratta di rovesciamenti comici che ricordano quelli effettuati da
Jacques Tati12 in molti suoi film. Un
esempio: in Les Vacances un bambino
porta su per le scale due coni gelati che
ci si aspetta cadano da un momento all’altro, mentre in realtà ciò non avviene.
Il riso – o soprattutto il sorriso – apre la
strada alla riflessione tragica dell’essere
gettato nel mondo. Leopardianamente,
la leggerezza nella tragicità, il sorriso
sulla bocca della disperazione, nel dolore della caducità l’amore per il vivente:
«Questo libro è dedicato | ad un muscolo facciale; | ad un’ombra di sorriso»13.
Un sorriso pietoso, nonostante il tragico
destino dell’uomo, e che pone le premesse per quella necessaria accettazione
della vita per ciò che essa è14. Non sarà
un caso che in copertina figurino questi
versi:
Nella Ferrari, azzurra folgore,
è morto fuori strada. Che sognava
nel buio e nei fanali. E feroce
sotto il sedile scoppiava
cantava il Silber Vogel
l’uccello d’argento: (Coupé Fiat 2300).
Se la proviamo c’è
Pietà nel Tuo creato.
Veniamo adesso all’analisi di alcuni
emistichi dove le tematiche che sono andato esponendo trovano la loro piena attuazione. Si prenda l’aforisma a p. 156:
Il padre muoia per vivere
il padre.
Quello dell’uccisione paterna è tema
freudiano sin troppo noto: uccidere il
padre è, simbolicamente, divenire adulti. Ma, in ultima analisi, vuol anche dire
identificarsi con il padre, per ereditarne
la legge. L’essere adulti, con la rinuncia
ai sogni dell’infanzia, è stato sempre un
tema sofferto per Caramella; si veda, ad
esempio Mompracem, 5-9: «L’isola della libertà | l’isola della fantasia | era caduta. | Era finita | l’adolescenza mia»15
o, con altre parole … E per terra, 43-44:
«il sogno è finito | finito il piacere»16.
Ancora a p. 153 si legge:
Siamo tutti fedeli plurali.
L’aforisma può essere interpretato
variamente17: siamo tutti fedeli alla pluCaffè Michelangiolo
Le letture
ralità (viene cioè ribadito il concetto novecentesco della pluralità dell’Io caro a
Pessoa e a Pirandello, per citarne alcuni) oppure, in chiave decisamente ironica, siamo tutti poligami con fedeltà: fedeli, dunque, a più donne e non ad una
sola. Da p. 151:
Per amore o per forza
la forza forza.
È una riflessione per l’Altro, contro
ogni sua possibile appropriazione. La
forza (che sia bruta o ammantata d’amore) resta sempre forza, volontà di
possesso, di limitazione. L’Altro, invece, deve restare differenza irriducibile.
Un tema, questo, che ricorre ossessivamente in tutta l’opera caramelliana e
che è fatto di continue variazioni che ricordano quelle di Claude Monet sulla
cattedrale di Rouen, quelle superfici materiche ispirate dai diversi effetti di luce
durante il giorno sulla facciata della cattedrale. Soffuso di leggera malinconia
l’emistichio a p. 149:
Specchio di bella gioventù
scrivono riscuotere col qu.
che ricorda una nota poesia di Penna:
«Felice dono | la vita mia| lieto abbandono | l’ortografia». I giovani non hanno
tempo per scrivere la vita (per questo
ogni tanto fanno errori di ortografia): la
riscuotono|vivono. Di un’amorevolezza
sconcertante i due versicoli di p. 157:
Piacere di vederti Amico
mi piacquero persino le tue rughe.
L’Amico (altre volte chiamato Domenico Barberis), sorta di alter-ego dell’autore, accompagna la poesia caramelliana sin dagli esordi. L’Amico è colui che detta, sorta di Musa. Il piacere di
rivedere l’Amico consiste nella gioia di
aver ritrovato la vena artistica, di aver
dato alla luce una nuova opera, nuove
righe18 ormai invecchiate (perciò dette
rughe) perché lunga è stata la frequentazione con la poesia (dal 1945 a stare a
quanto si dice in esergo a Mille scuse
per esistere). Ironicamente amaro l’emistichio a p. 151:
Perché chiamare ideal-ismo
il semplice ego-ismo?
Caffè Michelangiolo
La battuta deve leggersi tenendo presente la filosofia dell’idealismo che, secondo Fichte, è quella posizione filosofica che consiste nel partire dall’Io e dal
soggetto per poi spiegare la cosa o l’oggetto. D’altra parte, asserisce Caramella, l’ideale non è anch’esso una proiezione della nostra egoità? Chiudo l’analisi con un emistichio pieno d’umorismo, quello a p. 158:
Difficile è pensar concretamente al mondo
quando sei morto
cessato il mondo prosciutto cotto
gran biscotto.
Se il morire è cessazione del pensiero che angustia, è tuttavia anche privazione della gioia di vivere, del suo
ricco sapore, del prosciutto cotto gran
biscotto come asseriva un noto slogan
pubblicitario. Caramella gioca con la
réclame sia perché essa dipinge sempre
il mondo come tutto fatto di odori e
sapori appetibili (più dolente sarà, allora, il morire) sia perché il prodotto reclamizzato richiama per la sua forma
ovoidale la Terra.
14 Così lo stesso Caramella in Cur properes
…, cit., p. 71: «Bisogna vivere ed amare senza
perché. Bisogna abbandonarsi all’onda bisogna
essere parte dell’universo con fiducia e senza domande. O, almeno, senza troppe domande».
15 Id., Mille…, cit., p. 29.
16 Id., I viaggi del Nautilus, postf. di C. Mezzasalma, Le Lettere, Firenze, 1997, p. 166.
17 Ciò coerentemente con la poetica caramelliana, per cui cfr. Ego ed alter ego, in Id., Festa di
Vivere i Mostri del Moto, intr. di M. Cucchi, Editrice Artichaut, Firenze, 2001, pp. 111-120, a
p. 120: «L’Amico si sforza di raggiungere la leggerezza senza perdere il contatto rassicurante col
peso della parola polisemica e vaga».
18 Non si scordi che il poeta chiama le sue poesie righe: «Il vizio di scrivere righe (così Domenico le chiamava, con se stesso e con me: per ragioni sue tra le quali non ultime umiltà ed incertezza)», in Milleuna, in Id., Festa…, cit., p. 219 e ancora: «La compagnia che le mie “righe” (così chiamo la mia poesia)…», in La felice scommessa.
Dialogo con Alberto Caramella, in “Feeria”, 11
Giugno 1997, pp. 47-50, a p. 47.
Alberto Caramella
Il libro liberato
Prefazione di Dante Maffìa
Passigli Editori, Città 2005
pp. 370. € 28,00
Claudio Mariotti
Note al testo
NOTE
A. Caramella, Il libro liberato, pref. di
D. Maffia, Passigli, Firenze, 2005.
2 Noto di passaggio che libro liberato allude
evidentemente alla pratica in uso nell’antica
Roma, di affrancare gli schiavi meritevoli.
3 Analogo concetto in L’ultimo capo, in Id.,
Mille scuse per esistere, intr. di G. Luti, lettera di
M. Luzi all’autore, Le Lettere, Firenze, 1995,
p. 149.
4 Libertus, in Id., Pulizia (o del percezionismo), pref. di A. Noferi, Passigli, Firenze, 2004,
pp. 104-105, a p. 105.
5 “La Voce”, 16 Giugno 1915.
6 M. Cucchi, Libro azzurro e lunare, in A. Caramella, Lunares Murales, prefazione di M. Cucchi, postf. di C. Cavalleri, Le Lettere, Firenze,
1999, pp. vii-xiii, a p. viii.
7 A. Caramella, Cur properes amando?, postfazione a A. Lucifero, Epigrammi per Lesbia, Foggia, Bastogi, 2003, pp. 69-71, a p. 70.
8 C. Mariotti, Alberto Caramella o del sapere
tragico, in A. Caramella, Poesie, a c. di C. Mariotti,
Polistampa, Firenze, 2003, pp. 11-21, a p. 19.
9 A. Caramella, Lunares…, cit., p. 251.
10 Id., Mille …, cit., p. 55.
11 Id., Cartella di vacanza (sur le Lac Léman),
Polistampa, Firenze, 2000, p. 56.
12 Autore così amato da Caramella da esser
esplicitamente citato nella lirica Il passaggio di
Hulot, in Id., Mille…, cit., p. 6.
13 Id., Mille…, cit., p. 228, poi in Id., Interrogazione di poesia, Crocetti, Milano, 2000, p. 38.
1
C
arissimo Francesco,
ti ringrazio dell’attenzione che ha
voluto dedicare al libro La ferita di Garibaldi ad Aspromonte. Documenti e
lettere inedite a Ferdinando Zannetti, a
cura di Gabriele Paolini, pubblicato nelle edizioni Polistampa di Mauro Pagliai
(giugno 2004).
Nella tua stimolante recensione apparsa nel fascicolo di “Caffè Michelangiolo”, anno x, n. 2, pp. 61-62, colgo
tuttavia un qui pro quo che desidero
segnalarti e che vale la pena chiarire al
lettore.
In una pagina del libro si parla sia
della palla estratta sia del provvidenziale specillo che consentì di appurare
la sussistenza di solfuro di piombo nella ferita al piede destro di Garibaldi, e
per conseguenza del proiettile. Del quale una specifica Nota alla pagina 31
precisa: «Fino a pochi anni fa, era conservato presso il Centro di Documentazione di Storia della Sanità e dell’Assistenza a Firenze, in Borgognissanti, ma
attualmente non risulta più essere presente». È dunque lo specillo del chi-
83
Le letture
Renato Guttuso, Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio (part.), Firenze, Uffizi.
rurgo francese che non si sa quale fine
abbia fatto, non la palla la quale – è
cosa nota – si trova tuttova presso il
Museo del Risorgimento a Roma, donata una trentina di anni fa a Emilia
Morello, a quel tempo la direttrice, da
un appassionato cultore siciliano, Salvatore Tringoli.
Mi preme mettere a fuoco questo
punto per due ragioni. La prima, per
rimarcare che in nessuna parte del libro
si dà per “scomparsa” la famigerata
«palla di fucile» (prof. Partridge); al
contrario, ne viene documentata l’attuale collocazione. Ne consegue che
«l’errore da matita blu» non sussiste.
La seconda, per segnalare la contemporanea “assenza” dello specillo, nell’auspicio che una volenterosa ricerca
ne possa permettere il ritrovamento.
Con un cordiale saluto
Cosimo Ceccuti
Firenze, 20 novembre 2005
Il nostro collaboratore e amico Francesco Ghidetti ci gira la lettera che sopra pubblichiamo, pregandoci di renderla nota. Lo facciamo volentieri, an-
84
che per il garbo con cui è scritta: e non
poteva che essere così, conoscendo l’amabilità del firmatario che ci onora della sua amicizia. Cosimo Ceccuti è l’autore degli scritti che fanno da introibo al
libro richiamato nella lettera, che è un
prezioso e inedito contributo alla sterminata storiografia garibaldina: scritti
che hanno anche il merito di tratteggiare con efficacia e chiarezza (qualità
sempre più infrequenti) sia l’“infausto”
episodio del monte calabrese (non tornano forse in mente a questo proposito le
eloquenti pagine del Gattopardo là dove
il colonnello Pallavicini al famoso ballo
dei Ponteleone dice a Don Fabrizio: «Bisognava vederlo quel povero grand’uomo
steso per terra sotto il castagno…»?) e
sia la obliata figura di quel Ferdinando
Zannetti la cui lapide nella via de’ Conti a Firenze ne sanciva finora l’oblio entro quella che è la più estesa amnesia
della nazione: un paese, come osservava
Renzo De Felice già nel 1987, «le cui radici sono ignorate dai più».
Leggendo il libro, istigati proprio dal
commento ghidettiano, nella medesima
pagina 31 ci siamo imbattuti in un Auguste Nèlaton (non nella disattesa nota
bensì nel testo) con la “e” del cognome
accentata grave. Quando ci ricordavamo, a proposito appunto della provvidenziale sonda metallica, la battuta di
Spiga, nel Giuoco delle parti (scena prima): «Ho portato questi altri strumenti
qua… per l’estrazione… Esploratore…
specillo di Nélaton… tirapalle a forbice»,
dove è acuta la “e” dell’autore di Traité
des tumeurs de la mamelle e di Éléments
de pathologie chirurgicale. Un qui pro
quo tipico del «sentimento di contrarietà»
pirandelliano? Leggendo più avanti, nella rigorosa ed esaustiva Introduzione di
Gabriele Paolini abbiamo constatato che
la “e” dell’eminente cognome ritorna con
sollievo al segno pirandelliano (nonché
dei repertori biografici).
Ci si passi il divertissement sulla “e”,
che va preso quale innocua metafora
dell’azzardato scambio di una palla
con l’arnese che è servito a scovarla.
Il non-prendersi-sul-serio è forse il solo
antidoto alla aggressiva supponenza che
avanza, in un clima da mulinobianco.
Per cui la temperie che questo libro reintroduce giunge come una boccata d’alta quota, con quelle espressioni ormai
desuete da parte degli allievi all’«Onorandissimo Maestro»; con quell’ossequio
di professionale distinzione («Monsieur
et confrere, honorable Docteur») da parte del collègue éminent, del professeur
émérite.
Chiudiamo con un ringraziamento a
Francesco Ghidetti e, cogliamo l’occasione, a tutti gli altri amici, collaboratrici e collaboratori, per l’impegno generoso che dedicano alla lettura e allo
studio di quei libri che poi recensiscono.
La gran parte degli autori si aspetta
che la recensione sia qualcosa di molto
vicino all’annuncio pubblicitario, da
dare l’impressione che i capolavori si
fabbrichino al medesimo ritmo dei nuovi modelli di automobile o di telefonino.
Li ha abituati così la macchina editoriale e il do-ut-des in atto nella media
cultura, quella che Pasolini aborriva.
Il “New York Times” ha inflitto una
stroncatura a una delle sue firme più
brillanti, la editorialista politica Maureen Dowd, premio Pulitzer nel ’99.
Il suo recentissimo libro (una raccolta di
saggi dal titolo Are Men Necessary?) è
stato liquidato con una parola: painful. Più indelebile di una matita blu.
La Direzione
Maureen Dowd, firma del “New York Times” e
Premio Pulitzer nel 1999.
Caffè Michelangiolo
Le letture
L’altra faccia della luna
dio del Palazzeschi narratore,:riflessi,
messo a confronto con un testo di due
anni precedente, Une nuit de Luxembourg di Remy de Gourmont, del 1906.
Altri saggi sono dedicati all’interesse
che Anna Banti nutrì per Virginia Woolf
(Artemisia e Orlando: Anna Banti e Virginia Woolf), al d’Annunzio dell’Innocente (D’Annunzio tra Dostoevskij e Wilde: L’innocente), e ancora a Giorgio
Manganelli, Paolo Volponi, Guido Gozzano, Giovanni Papini, Girolamo Comi,
Bartolo Cattafi e altri scrittori otto e novecenteschi, sempre messi a fuoco con
grande finezza. Una derivazione, quella
tra i testi esaminati, mai puramente imitativa, ma sempre frutto di una distillazione della cultura letteraria che fa di
ogni grande scrittore prima di tutto un
grande lettore.
E così paragonando Artemisia e Orlando, Papini può citare le parole di
Emilio Cecchi:
D
ietro a un libro si nasconde sempre
un altro libro. E dentro a questo un
altro e poi un altro e poi un altro. In uno
sconfinato gioco di scatole cinesi, in cui i
rimandi, i ricordi, i sostrati si svelano
lentamente nasce la Letteratura. Questo
pensa Maria Carla Papini, italianista dell’ateneo fiorentino, autrice della raccolta
di saggi La scrittura e il suo doppio. Studi di letteratura contemporanea, pubblicata da Bulzoni. Quindici saggi scritti in diversi periodi di tempo, ma accomunati tutti dal filo rosso della definizione che Gérard Genette diede nei suoi
Palimpsestes a proposito del legame che
unisce un testo letterario ad un altro testo ad esso anteriore: l’«hypertextualité»
tra un testo B e un testo A, ad esso precedente, è una relazione di trasformazione semplice o indiretta del primo testo
nel secondo.
Scrive Maria Carla Papini nella sua
nota finale al volume:
L’intenzione prevalente e originaria di questo lavoro è stata, dunque,
quella di mettere a confronto e – in
rapporto – non solo testi, e dunque
autori, ma anche culture, identità letterarie diverse allo scopo di evidenziarne le modalità dell’interazione
[…]1.
E così Cancroregina di Tommaso
Landolfi svela a un’attenta e paziente
lettura tutti i suoi legami «ipertestuali»
con altre opere letterarie come prime fra
tutte, Eve future di Villiers de l’IsleAdam, per l’immagine stessa della macchina-donna, e Horla di Guy de Maupassant, per l’andamento soggettivo, diaristico e paranoide della schizofrenica
voce narrante:
Essere vivente e cosa, donna e
macchina a un tempo Cancroregina
partecipa della stessa ibrida natura
non solo dell’Hadaly di Villiers o del
Golem di Gustav Meyrink, ma anche
dei manichini metafisici, delle inquietanti marionette dal cuore palpitante
negli Chants de la mi-mort di Alberto
Savinio, di quel Gurdulù che attrae
l’attenzione e l’affetto della protagonista della bontempelliana Eva ultima, e perfino di tutti quegli uomini,
donne, animali che suscitano l’ango-
Caffè Michelangiolo
sciante sospetto della candida Minni e
che, nell’ipotetico mistero della loro
superficiale apparenza, anticipano
l’inquietante presenza degli androidi
nel racconto di Philip Dick e in Blade
Runner il film di Ridley Scott che ne
deriva, in Aliens di James Cameron o
in A.I (Intelligenze Artificiali) di Spielberg2.
E sul tema dell’illogicità di ogni guerra e di ogni aggressione dell’uomo contro
l’uomo, il Palazzeschi de Il codice di Perelà e dei Due imperi… mancati incontra
le pagine dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, senza dimenticare la levitas filosofica del Candide voltairiano:
Questo Gulliver di fumo, questo
incorporeo Candide, questo novecentesco figlio del fuoco, erede diretto dell’Incendiario che l’aveva immediatamente preceduto nella genesi artistica
palazzeschiana, capisce alfine la sua
intrinseca, connaturata diversità da
una terra la cui gravosa insopportabile concretezza ora lo opprime e respinge3.
Sempre ad Aldo Palazzeschi, scrittore di cui Maria Carla Papini è esperta, è
dedicato il saggio Un gioco di riflessi:
Aldo Palazeschi e Remy de Gourmont,
dedicato allo studio del romanzo d’esor-
Esclusa qualsiasi dipendenza imitativa, cui non è nemmeno da alludere, per una scrittura pervenuta ad un
tale scintillamento, il richiamo all’Orlando s’impone per la inesauribilità
d’un dono ch’è potenziato dalla più
squisita cultura. E se il romanzo della
Woolf si sente che nacque a due passi
dalle colonne, dalle scansie dei libri e
dalle raccolte di stampe e miniature
del Museo Britannico; in Artemisia si
sono distillate una esperienza d’arte
figurativa, una dottrina filologica ed
una pratica verbale che scorrono da
fonti almeno altrettanto illustri4.
In tempi di reality televisivi, in cui
circola l’idea distorta che essere unicamente se stessi, senza “stanislavskiani”
lavori d’attore su di sé, è sufficiente per
fare televisione, in tempi in cui a vendere migliaia di copie sono ragazzine che
sanno solamente scrivere di surreali esperienze erotiche, osservate anche quelle
in televisione, la raccolta di saggi di Maria Carla Papini corre provvidenzialmente in nostro aiuto per ricordarci che
la Letteratura, quella con la “elle” maiuscola per intendersi, non è immediata
improvvisazione di sé, ma è prima di
tutto un altissimo gioco di rimandi testuali, visivi, stilistici. In una parola è
Cultura.
Costanza Melani
85
Le letture
NOTE
M.C. Papini, Nota a Id., La scrittura e il suo
doppio. Studi di letteratura italiana contemporanea, Bulzoni, Roma, 2005, p. 371.
2 M.C. Papini, Cancroregina: Landolfi tra Maupassant e Villiers de l’Isle-Adam, in Id., La scrittura e il suo doppio. Studi di letteratura italiana
contemporanea, cit., pp. 183-4.
3 M.C. Papini, Palazzeschi tra Swift e Voltaire:
Il codice di Perelà, in Id., La scrittura e il suo
doppio. Studi di letteratura italiana contemporanea, cit., p. 107.
4 E. Cecchi, Anna Banti, in E. Cecchi e N. Sapegno (a cura di), Storia della Letteratura italiana. Il Novecento, vol. II, Garzanti, Milano, 1987,
p. 382. La citazione è di M.C. Papini, Artemisia e
Orlando: Anna Banti e Virginia Woolf, in Id., La
scrittura e il suo doppio. Studi di letteratura italiana contemporanea
1
Maria Carla Papini
La scrittura e il suo doppio.
Studi di letteratura italiana
contemporanea
Bulzoni, Roma 2005
pp. 384. € 13,00
Viaggio in “terra di attese”
P
oeta e traduttore, direttore della casa
editrice Book Editore, già vincitore di
premi letterari di prestigio tra i quali il
“Flaiano” e il “San Pellegrino” e finalista
al “Viareggio”, Massimo Scrignòli giunge con Lesa maestà ad una nuova tappa
del suo intenso percorso poetico, dopo
opere importanti tra cui Notiziario tendenzioso, Qualcosa di illune, Le linee del
fuoco, Libro dell’acqua e Buio bianco.
Ha curato, inoltre, la versione e l’introduzione critica dei racconti di Kafka
contenuti in Relazione per un’accademia e altri racconti e studiato autori italiani come Angelo Maria Ripellino.
Lesa maestà è dedicata, come scrive
lo stesso autore nelle note finali, al ricordo dell’amico Roberto Sanesi, anch’egli poeta, traduttore e critico.
Divisa in quattro distinte sezioni, l’opera appare fin dai primi versi attraversata da molteplici voci e suggestioni e da
un linguaggio terso che colpisce per il
suo carattere tagliente e privo di allusioni o sfumature sentimentali.
Ad una lettura più approfondita, poi,
se ne comprende la natura complessa e
la tecnica di sottili citazioni e rimandi
che attraversa e struttura i testi della
raccolta.
86
La prima sezione, Lapsus?, dal tono
apertamente interrogativo, dopo le parole di Pascal Quignard citate in francese, è composta da diciassette poesie.
L’andamento è a tratti narrativo e lentamente si distingue nel procedere delle
poesie un colloquio (in ogni poesia è da
notare il particolare uso delle parentesi,
come ad indicare una voce sullo sfondo,
un alter ego del soggetto poetico) che
sempre più si rivela essere rivolto ad una
donna, come in questi versi:
E io ti dico, cara
che niente corrode più dell’arrendersi
e non vedere l’appagamento del vincitore.
E rimanere appesi all’intenzione
di toccare
soltanto chi ci sfiora, chi si consuma
e ci consuma gli anni1
La seconda sezione, Uguale desiderio
di diventare un indiano, è introdotta da
una citazione tratta da Desiderio di diventare un indiano di Kafka e conduce
il lettore attraverso paesaggi lontani, dati
sensoriali e continue sovrapposizioni di
immagini, secondo lo schema tipico del
viaggio, che è insieme reale e metaforico e dominato dalla seducente figura
femminile, quasi un’apparizione in sogno, di «Jennifer rosa».
Nella sezione successiva, Voci esposte
a nord, le poesie hanno un titolo, sono
più articolate e riprendono il tono scabro
e trasparente dei primi versi.
Il tempo diventa qui «resoconto di
schegge | un delta di parole | disperse nel
tramonto del mattino»2, e lo spazio quel-
lo del limine tra silenzio e parola, tra ricordo e oblio.
L’ultima sezione, che si intitola come
l’intera opera, è la più ampia e si apre
con l’immagine, dominante poi nell’intera sezione, della neve e con quella significativa del «dizionario dei sensi»3.
Ricordiamo le poesie Poteva essere
Montale, nella quale con ironia viene
rievocato l’incontro con un uomo straordinariamente e quasi magicamente somigliante al grande poeta; Lesa maestà
scritta in ricordo di Roberto Sanesi nei
giorni tra la sua morte e il suo funerale,
tra il 2 e il 4 gennaio 2001, in una Milano soffocata dal silenzio e dalla neve,
e infine Maestà di violini, in cui traspare il riferimento a Gustav Mahler e al
luogo dove compose tra il 1894 e il 1896
due delle Sinfonie, la seconda e la terza.
Ma le suggestioni presenti in questa
ultima parte dell’opera sono molto più
numerose di quelle indicate: Heidegger,
Thomas Mann, Dante.
Il viaggio non si conclude, può giungere solo ad una «terra di attese»:
Ritornano, e davvero
tutto potrebbe accadere
in questa terra che è terra di attese, qui
dove una vita basta appena
e aspettarti è un modo di pensare4.
Monica Venturini
NOTE
1 M. Scrignòli, Lesa maestà, Marsilio, Venezia,
2005, p. 23, vv. 11-16.
2 Ivi, p. 71, vv. 17-19.
3 Ivi, p. 79, v. 9.
4 Ivi, p. 101, vv. 16-20.
Massimo Scrignòli
Lesa maestà
Marsilio, Venezia 2005
pp. 116. € 11,50
Per Maria Fancelli
U
n vecchio con il volto solcato di rughe, cadente e farfugliante, la cui
sembianza, riflessa sull’acqua stagnante
e melmosa, è quella di un «relitto di albero», irriconoscibile metamorfosi del
fiore cui dà il nome: questa è l’epifania
Caffè Michelangiolo
Le letture
moderna di Narciso secondo la fantasia
di Friederike Mayröcker, che, nel radiodramma das zu sehende das zu hörende
(1997), rompe con la finzione di immutabilità delle figure mitiche, mostrando
come il tempo e, soprattutto, le corrosive incrostazioni della modernità abbiano
aderito al volto dell’ex fanciullo, invecchiandolo e deformandolo. Se la ripetitività è uno dei caratteri essenziali del
mito1, colpisce che Mayröcker abbia scelto di scardinare, nella sua riattivazione
mitologica, il principio che a essa fa da
corollario e che esige che dèi semidei ed
eroi rimangano, lungo l’arco delle innumerevoli reiterazioni, sempre uguali a
sé, eterni giovani.
Distorcendo l’icona mitologica, la poetessa sembra voler suggerire che sia proprio la rappresentazione dell’inattualità
del mito a garantirne, paradossalmente,
la sopravvivenza nella letteratura europea. In tal guisa, il radiodramma dimostra di snodarsi su di una dicotomia che
percorre la storia della cultura europea e
che il volume curato da Dorowin, Svandrlik e Treder sul Mito nel teatro tedesco,
in vari modi, riesce a cogliere. Parlo dell’opposizione creatasi, verso la fine del
Settecento, fra le istanze mitocritiche dell’illuminismo, per così dire voltairiano, e
la nuova sensibilità romantica, portatrice di un appello al ringiovanimento del
mito attraverso una nuova poesia nazionale. Ed è principalmente in Germania, a
cavallo fra il secolo xviii e xix, che la partita aperta sull’attualizzazione del mito si
è giocata: nella terra che, politicamente
lontana dalla rivoluzione francese eppure intimamente scossa da essa, ha ospitato la parabola dei dioscuri classici
Goethe e Schiller e, allo stesso tempo, ha
fatto da culla alla generazione romantica.
In questi anni, a opera di F. Schlegel,
Hegel e Schelling, e lungo una direttiva
aperta prima di loro da Herder, venne
formulato il programma della «nuova
mitologia», in risposta al crollo metafisico generato dalla autolimitazione della
ragione analitica e ancor più dal «deficit
di legittimazione»2 da cui essa stessa si
era trovata investita. Tale programma –
la paradossale proposta di rendere attuale l’inattuabile, di richiamare, parafrasando Heine, gli dèi dall’esilio al posto
di una religione cristiana ormai deontologizzata e ridotta a morale – era un’operazione eminentemente estetica, ma
anche politica in senso lato. Si trattava
Caffè Michelangiolo
del tentativo idealistico e romantico di
costituire una «simbologia comune»3
(Schelling), intesa non come museo di
topoi letterari, ma come «nuovo alveo e
vaso per l’antica eterna fonte originaria
della poesia»4: una simbologia che risultasse in storie condivise, messe a servizio
dell’Idea, resa così capace di «parlare per
tutti, di sostenere o di preparare una nuova comunità sociale, cioè di essere mito»5.
Questo ultimo passaggio è di fondamentale importanza per valutare la portata di
tale poetologia, di più, per coglierne la
stretta connessione con la storia del teatro tedesco: è evidente infatti che «evocare gli dei significa evocare la comunità
che celebra il loro culto»6. Così, quasi a
voler saldare la richiesta romantica di
una «nuova mitologia» con la tradizione
schilleriana del teatro come «istituzione
morale», nella Germania di fine Settecento il dramma pretese di divenire il
luogo in cui la nazione, nella celebrazione dei nuovi riti, potesse riconoscersi e
fondarsi.
Non è un caso, dunque, che almeno
un terzo dei saggi che compongono la
miscellanea curata da Dorowin, Svandrlik e Treder – scritta in onore e dedicata a Maria Fancelli, una delle più fini
conoscitrici italiane della letteratura tedesca nell’era goethiana – si concentrino
proprio su opere scritte attorno agli anni
in cui i romantici si dedicavano alla loro
rievocazione neo-mitologica. Pur nella
disparatezza degli approcci interpretativi, non è difficile riconoscere all’opera
una certa coesione interna, garantita non
soltanto dal semplice legame tematico –
la reiterazione del patrimonio mitologico
nella tradizione teatrale dal Seicento a
oggi – quanto dal fatto che il ricco materiale mitografico rintracciato nei testi
presi in esame è per lo più valutato in relazione alla propria efficacia estetica e
culturale-politica (la Bedeutsamkeit di
Blumenberg7), in altre parole in relazione alla propria giovinezza o vetustà.
I vari contributi sono allineati secondo una logica storiografica, ovvero in
base alla successione cronologica delle
opere e degli autori trattati. Quella che è
forse una scelta di comodo, rivela a un
lettore attento vari pregi. Il principale è
che i diversi saggi sembrano ricostruire e
rimodellare il “mito del mito” dell’età
moderna: la narrazione del ritorno degli
dèi e della graduale ma inesorabile esautorazione del Dio vero che per mille e
più anni li aveva banditi – sempre a detta di Heine – a una sopravvivenza demonica. Significativo è il saggio di Harald Steinhagen, in cui viene mostrato,
contro la critica lessinghiana di non-teatralità del Trauerspiel cristiano, che i
drammi di Andreas Gryphius anticipano
la tragedia tedesca moderna, portando in
scena vicende umane completamente
emancipate dalla volontà divina. È come
dire che la separazione della storia dalla
Provvidenza, lungi dal liberarla e consegnarla alla sola ragione, la fa diventare
un «mitico intreccio di violenze»8, che
come tale diventa pienamente teatrale.
Da questa angolatura ha un senso che le
rimitizzazioni letterarie cui questa pubblicazione è dedicata non siano sempre e
solo riprese dalla mitologia greca. Essenzialmente, invece, quello che gli autori hanno cercato sono trame mitiche
che per la loro pregnanza possono – secondo la lettura che di Nietzsche dà Aldo
Venturelli – evocare (ma anche negare,
aggiungerei) una dimensione propizia al
lavoro collettivo della coscienza, su di
un asse che non è più quello socratico
della filosofia, ma quello dionisiaco del
teatro. Un esempio lo propone Maria
Chiara Mocali che ripercorre, nel lessinghiano Mellefont, da Miß Sara Sampson,
non solo le evidenti tracce che il tipo settecentesco del libertino ha lasciato sul
personaggio, ma evidenzia quelle «figurazioni mitiche», riverberi di Don Gio-
87
Le letture
vanni, Tristano e Amleto, che gli danno
profondità.
Di impostazione diversa è il lavoro di
Emilio Bonfatti, in cui viene messo in
luce, sempre partendo da Lessing, l’interessante caso del mito “debole” di Meleagro, che per la sua non-teatralità ha
faticato a imporsi nella tradizione teatrale ottocentesca. Giuseppe Bevilacqua,
da parte sua, incentra la sua attenzione
sul mito di Prometeo, scoperto dal giovane Goethe quasi come riscrittura spinoziana del racconto della genesi, eppure mai ricondotto a una forma letteraria
compiuta e rifluito, infine, nel Faust. Mitografico è anche il metodo di Leonardo
Tofi, che, rintracciando le complesse varianti della figura di Elena, tra Euripide
e Hofmannsthal, ne evidenzia la moderna attualizzazione come individuo esemplare. Ugualmente concentrato su di un
preciso mitologema, Fabrizio Cambi mostra come il ricorso al mito di Odisseo abbia dato corpo, nella letteratura della
ddr, a una scrittura che, contro le disposizioni del partito, ritrova così la sua originalità e incisività. Del dopoguerra bundesrepubblicano si occupa invece Eva
Banchelli, che, ricostruendo la ricezione
del sartriano Les mouches, osserva come,
nel mito di Oreste recuperato in chiave
esistenzialista, la letteratura degli anni
’50 abbia colto la sua occasione di rinnovamento.
Se la storia della letteratura annuncia
che gli dèi sono tornati, non bisogna tuttavia credere che l’accoglienza che la
modernità ha riservato loro sia stata tale
da averli lasciati regnare incontrastati.
Al contrario, un testo come il dramma lirico Der Tod des Tizian di Hofmannsthal, di cui parla Vivetta Vivarelli, dà
prova che l’epifania del dio – qui, e non
a caso, Dioniso – non si può più dare
nell’indecoroso irrompere di un baccanale, ma solo come vaga reminiscenza,
attraverso la mediazione estetica, per di
più minacciata dalla malattia e dalla
morte. Il mito di Alcmena dall’Anphitryon di Kleist dà di ciò indiretta riprova; qui infatti, quando il dio si palesa, finisce per gettare in radicale scompiglio
la coscienza umana. Al denso e ineguale dramma kleistiano, di cui si occupa
Lucia Borghese, va assegnata, dall’angolatura della nuova mitologia, una posizione di assoluta centralità, come
esempio di un testo che, nella radicalità
dell’approfondimento filosofico, non
88
teme di incrinare – stando al giudizio
goethiano, secondo cui, qui, l’antico e il
moderno, invece di congiungersi, si separano – il delicato gioco teatrale di ricomposizione di mito e modernità.
Con tutto ciò, ancora non si è detto
del tratto di vera novità che questo libro
rappresenta. Se per l’Hölderlin di Pane e
vino il nome del «dio a venire» è quello di
Dioniso – il dio più perturbante della religione olimpica, ma anche l’unico deputato a sostituirsi al Cristo –sono le rifrangenze mitiche del goethiano «eterno
femmineo» (il tema è introdotto da Willi Hirdt) a rappresentare, nel canone qui
propostoci, la nuova frontiera della significatività neomitica: quasi a riagganciarsi, nell’ambiguità del dio dalle movenze femminili, all’eredità di un culto
matriarcale. Da questo punto di vista
non stupisce, dunque, come questi germanisti riscoprano – andando oltre
Nietzsche – la sostanziale predominanza,
nel teatro, del logos femminile. Anche se
per Rita Svandrlik, nel suo close reading
della Libussa di Grillparzer, il mito di
fondazione di Praga coincide con l’esautoramento della donna, gli altri studi qui
proposti portano a vedere come – nei testi-chiave della tradizione teatrale tedesca, come già nella Ifigenia di Goethe –
figure di eroine abbiano dato corpo, voce
e soprattutto un cuore all’utopia di un’umanità nuova. Centrale è l’interpretazione che Uta Treder dà della Jungfrau
von Orleans di Schiller, in cui proprio la
metafora del cuore fa da chiave di lettura di una drammaturgia che, sottraendo
l’icona di Giovanna d’Arco all’agiografia
cristiana e sostanziandola di un animo di
sibilla e amazzone, si pone al centro di
quel lavoro collettivo della coscienza di
cui si è detto sopra: quale attesa utopica
di un senso non più già-dato ma “a venire”: drammaturgia dunque pienamente «romantica», come dice lo stesso sottotitolo della tragedia. Più concretamente calata nella storia è la Giovanna di
Anna Seghers, dal radiodramma Der
Prozeß der Jeanne d’Arc, cui si dedica
Rita Calabrese; anche qui, la prospettiva
religiosa viene azzerata, stavolta però per
rendere il personaggio funzionale alla
codificazione di una lingua cifrata che
inciti alla resistenza contro il nazifascismo. Politica è anche l’Antigone di Anna
Chiarloni, che in Brecht ritrova la freschezza e la profondità morale della sofoclea oppositrice della tirannide. E se Lia
Secci recupera la Pentesilea di Ilse Langner, che, anche se modernizzata, rimane comunque scomoda ai nazisti, Matteo
Galli ritrova il potente profilo dell’amazzone in Ulrike Meinhof, la cui figura
però, già presente nella Hamletmaschine
di Müller, rischia di diventare, nella cultura pop che se ne è appropriata, un mito
vecchio, sempre più svuotato del suo
«potenziale rivoluzionario».
Alla problematica dell’inevitabile saturazione del mito – anche del nuovo
mito – hanno trovato una risposta gli
autori che hanno fatto un utilizzo, direi,
non-winckelmanniano del mito. Infatti,
se Giorgio Cusatelli mostra come l’approccio di Winckelmann al mito sia quello della ekphrasis, della trasformazione
dell’immagine in racconto, altri sottolineano le potenzialità di un approccio
metamorfotico d’altro genere, ironico e
carnascialesco. Marco Meli chiama questo tipo di «lavoro sul mito» 9 , con
Goethe, «repubblicano» e legge la Klassische Walpurgisnacht – attraverso
un’accurata disamina dei modelli letterari – a partire da quando Venere si ritira dal tempio e fa così iniziare il carnevale, la desacralizzazione e dissacrazione
dell’aurea letteraria. Come dire che la
buona letteratura non si dà quando ricerca significati reconditi, ma quando
invece erode quelli fasulli: un po’ come fa
il Dantons Tod di Büchner di cui parla
Patrizio Collini, che, alla Rivoluzione travestita da repubblica romana, toglie la
maschera, rivelandola per quello che
davvero è, Terrore. Un altro caso di mitizzazione in chiave farsesca (e quindi
di implicita demitizzazione) è rappresentato dall’austriaco HerzmanowskyOrlando, con la sua drammaturgia intertestuale e avanguardista malgré lui,
gustosamente propostaci da Hermann
Dorowin; qui, la bizzarra esaltazione del
culto di Venere è sciolta in un eros ludico di matrice tutta linguistica che, nella
migliore tradizione austriaca, rappresenta il vero antidoto contro qualsiasi
eccesso di teorizzazione. In questi autori,
come già per Mayröcker – presentataci
da Sara Barni – è la distorsione la garanzia della permanenza del mito nella
modernità – distorsione che è, narcisisticamente, rispecchiamento, serio o burlesco che sia, gioco di autocompiacimento.
Ma il mito, abbiamo visto, non è monologante: è teatro, e dunque anche a Narciso è necessaria un’Eco, l’Altra che, sepCaffè Michelangiolo
Le letture
pur respinta, è, con lui, immagine e custode del cuore mitico della letteratura
moderna: «quel fare della scrittura un
protocollo di vita e della propria immagine un’icona»10. Così accade anche, infine, per la breve prosa che Claudio Magris ha regalato a Maria Fancelli e che è
stata raccolta in questo libro. Qui, l’amore per il mare e l’amore per l’«eterno
femmineo», riflesso nelle vecchie polene, si fa passione di descrivere e raccontare, diventa diario di viaggio, studiata
rarità o aneddoto letterario: quasi a redigere un catalogo di (deboli) miti moderni che, a ben vedere, parlano di sé,
ma magari non rinunciano, se possono, a
toccare il cuore.
Riccardo Concetti
NOTE
1 Hans Blumenberg, Arbeit am Mythos,
Suhrkamp, Frankfurt a. M., p. 70.
2 Manfred Frank, Der kommende Gott. Vorlesungen über die Neue Mythologie, Suhrkamp,
Frankfurt a. M., p. 194.
3 Frank, op. cit., p. 198.
4 Friedrich Schlegel, «Rede über die Mythologie», citato in: Roberto Calasso, La letteratura e
gli dèi, Adelphi, Milano 2001, p. 57.
5 Manfred Frank, «Mitologie della ragione.
Due secoli di critica della razionalità e la nostalgia
di una “nuova mitologia”». In: Michele Cometa,
Mitologie della ragione. Letterature e miti dal Romanticismo al Moderno, Studio Tesi, Pordenone
1989, p. 21.
6 Calasso, op. cit., p. 59.
7 Blumenberg, op. cit, p. 68-126.
8 Hermann Dorowin, Rita Svandrlik, Uta Treder (a cura di), Il mito nel teatro tedesco. Studi in
onore di Maria Fancelli, Morlacchi, Perugia 2004,
p. 23.
9 Blumenberg, loc. cit.
10 Dorowin, op. cit., p. 376.
Hermann Dorowin, Rita Svandrlik, Uta
Treder (a cura di)
Il mito nel teatro tedesco.
Studi in onore di Maria Fancelli
Morlacchi, Perugia 2004
pp. 430. € 20,00
Creature dell’alto novembre
L
assù, in certe località di montagna,
con le lastre d’ardesia ci fanno i tetti delle case. Questa pietra è dunque una
specie di interfaccia, una “pelle del
Caffè Michelangiolo
mondo” che lega alla terra e guarda verso il cielo, un plesso che partecipa di
una doppia natura, come le creature
umane, come la poesia. Nella “pelle
d’ardesia” persino vita e morte possono
azzardare un filo di congiunzione.
Lassù in Alpago, ai bordi delle Dolomiti, due ragazzi come tanti son morti di
morte innaturale e insieme naturalissima
(come “naturalissima” è del resto ogni
morte). E Serena Dal Borgo, poetessa
di piume e di lune, ha tessuto su questa
triste storia un suo canto notturno che
ha preso la forma di un poemetto (Con
pelle di ardesia, Book Editore, Bologna
2005).
Dato l’argomento, ci si aspetterebbe
un’opera a forte tasso di luttuosità, invece succede che grazie ad alcune misteriose alchimie qui la connotazione
cupa della morte viene in un certo qual
modo ribaltata. Il poemetto si sostiene
certo su un’altissima tensione angosciosa, non nega l’insostenibile dolore che
accompagna qualsiasi morte (e tanto
più quella di due adolescenti) ed anzi
mostra le situazioni e in specie il terribile
momento del distacco chiamando le cose
per nome, senza eufemismi, con parole
chiare e crude; eppure sullo sfondo non
la morte risalta, ma la vita.
È stato detto (lo dice anzi Bianca Garavelli nella breve nota che chiude il volume) che fra queste pagine scorre un’eco della cristallina poesia rinascimentale, un sentore di Poliziano: vi si intuisce
insomma una sorta di “sublimazione”
della morte («resa sublime nel senso letterale del termine») che tende a sovrapporsi all’idea del volo. Come le sostanze
materiali, che evaporando tendono verso l’alto: «un alzarsi non so verso cosa».
E questa sorta di miracolo emozionale,
questo rischiosissimo muovere verso la
levitas, si manifesta nella poesia di Serena Dal Borgo attraverso due strade:
quella dei versi e quella della natura.
Nei versi le parole scorrono allineate
su un filo di seta che si assottiglia e si
tende sino a spezzarsi, sono cioè sussurrate come in controluce sul territorio di
confine che separa la vita dalla morte:
«mi lascio morire | mi lascio lasciare | ti
lascio settembre, | tra fili taglienti». Sono
dunque parole sospese, filiformi, e scorrono armoniche verso l’alto, dotate di
una tensione canora che le salva dal rischio della cupezza luttuosa e verso la
fine le trasforma addirittura in “inni”.
Parlano i due giovani Marzia e Daniele
sul punto di morire; parlano i vivi, le
madri in specie, parlano Marzia e Daniele ben vivi prima di morire oppure,
come le creature del mito, ancora ben
vivi dopo il morire. Parlano parole che
costeggiano il mistero e ne raccontano
l’odore. Il ritmo a tratti si fa cangiante,
sinuoso come un assolo di sax, dodecafonico quasi, ma altre volte replica i
laudari medievali (risuona «l’amoroso
giglio» di Jacopone) ed è scandito dalla
cantilena ipnotica di delicatissimi senari come questi: «Mi vesto di piume. |
leggère. leggera. | mi vesto di sole. | mi
vesto di luna.».
Chi conosce la poesia di Serena Dal
Borgo sa che spesso le sue composizioni
hanno assunto natura unicellulare, segnate da un andamento giovane e frammentario che ha fatto pensare addirittura agli haiku giapponesi («un ciclo di
piccole pitture zen», le ha definite Paolo Ruffilli). Qui vediamo invece un salto
netto verso il continuum poematico, eppure il canto che prende forma non è
una matassa compatta, un racconto
compiuto. La frammentarietà, le sfilacciature, le sospensioni che caratterizzavano i testi meno recenti le ritroviamo
anche in questo poemetto, buchi semantici attraverso cui soffia la brezza
della levitas.
Ma l’altra strada attraverso la quale,
dicevamo, si manifesta il miracolo emozionale, va individuata ai bordi del con-
89
Le letture
tenuto: nella presenza costante e amica
di un paesaggio naturale evocato (dall’alto?) con innocente sensualità. Attraverso tale manifestazione attiva della
natura il lamento notturno si muta in dimensione solare e in esaltazione della
vita. Specchio del lussureggiante paesaggio dolomitico, lune soli piume acque
canneti libellule pioppi foglie farfalle filtrano dalle varie voci poetanti sino a
convergere in chiusura dell’opera in una
serie di “inni” fra cui spicca un solarissimo Inno ai girasoli: «I girasoli così solari. | così gialli, così alti. | così impazziti di luce.».
In tal modo Daniele e Marzia finiscono per somigliare a creature mitiche
che si aggirano fra i boschi come soffi di
vento. E a somiglianza dei miti più antichi anche le voci umane, per infiltrarsi oltre la vita nella vita, si fanno paesaggio e natura.
Alfonso Lentini
Serena dal Borgo
Con pelle d’ardesia
poemetto
con una nota di Bianca Garavelli
Book Editore, Bologna 2005
pp. 80. € 10,50
Il trepido diario
«S
piaggia dei desideri | Spiaggia delle attese | […] Rischio irrinunciabile»1: in questi versi che introducono
alla nuova raccolta poetica di Patrizia
Fazzi emerge, con la tempestività di
un’immediata epifania, il tema che dà
vita all’opera: la scrittura.
Insegnante, studiosa di Ottone Rosai
e autrice di vari saggi sull’attività letteraria di questo artista, Patrizia Fazzi ha
già partecipato a numerosi premi letterari, ottenendo importanti riconoscimenti, soprattutto in seguito alla pubblicazione nel 2000 della raccolta poetica d’esordio Ci vestiremo di versi2, con
introduzione di Giorgio Luti.
Luti, a proposito di quell’opera, parla di un «trepido diario», che attraverso
i temi dell’amore e del dolore, una poetica di stampo leopardiano (Luti fa riferimento, in particolare, alla teoria del
piacere presente nello Zibaldone) e una
qualità comunicativa della scrittura,
90
giunge ad indicare nella poesia una «forza salvifica che batte montalianamente
nelle “vene del mondo”, surrogato ineliminabile di quella eternità che fortunatamente ci è negata»3 e a trasmettere
con essa un messaggio che è insieme intimo e pubblico.
In Dal Fondo dei Fati Patrizia Fazzi, in continuità con l’opera precedente, si propone un’indagine appassionata della scrittura poetica e delle sue interne motivazioni, come sottolinea anche Giovanna Vizzari nella prefazione
dell’opera.
La raccolta si apre con due significative citazioni, che danno inizio alla riflessione metapoetica: la prima tratta da
Per il battesimo dei nostri frammenti di
Mario Luzi, la seconda da Book with no
back cover di Richard Burns.
Divisa in otto sezioni, l’opera si sviluppa facendo della poesia strumento di
lettura e interpretazione della vita stessa: ricordi familiari, evocazioni paesaggistiche (i luoghi amati della Toscana,
da Siena a San Vincenzo, a Lerici, ad
Arezzo, città natale dell’autrice) e il fluire naturale del tempo non sono disgiunti da una costante riflessione sui nodi
irrisolti del presente (come nella poesia
La croce impazzita dedicata all’attentato terroristico di New York dell’11 settembre 2001).
Nella prima sezione, intitolata Per
l’anima che è in te, si definiscono con
chiarezza, secondo uno schema dialetti-
co che implica la presenza di un interlocutore, il carattere intimo e pubblico
dell’opera e alcune preliminari dichiarazioni di poetica, soprattutto nei testi finali di Parole cometa e Risorgeranno
parole.
Nella seconda sezione, quasi un elogio alla vita di classica memoria, dal titolo latino Vita vivenda, domina il tema
del tempo e il suo carattere imprevedibile di “gioco dell’oca”, ma al carattere
di sfuggente “meteora” della vita viene
ora con decisione contrapposto quello
durevole e resistente della poesia.
Alla sezione intitolata Il vero viaggio, itinerario attraverso paesaggi cha
da esteriori diventano interiori, secondo
quel meccanismo caro a tanta parte della tradizione poetica per cui «gli occhi |
filtrano l’anima»4, segue Cambio di stagione, parte dell’opera dedicata a quella speranza indefinita di futuro, che trova nella natura e nel susseguirsi delle
stagioni la sua piena rappresentazione.
Dai toni più interiori e dall’andamento più autobiografico si presenta la
sezione che dà il titolo all’opera e che si
conclude con un’intensa invocazione alla
speranza, che ricorda le invocatio di certa poesia classica latina.
In L’anima sul foglio e Filo siderale
dominano la dimensione memoriale e
quella metapoetica, che si combinano
l’una in funzione dell’altra, in poesie
come La casa inghiottita e Piante cresciute, dedicata ai suoi alunni.
In Vento di poesia, ultima sezione
della raccolta, è il potere salvifico della
poesia a dominare, il suo dare frutti
«nella terra di tutti»:
Vorrei piantare parole,
come piantine grasse innestarle
in vasetti
e accomodarle piano
nella terra di tutti,
vederle germogliare
accanto al muro dei sogni
con ogni giorno una lacrima
e una stilla di sole5.
Monica Venturini
NOTE
1 P. Fazzi, Dal Fondo dei Fati, pref. di G. Vizzari, Edizioni del Leone, Venezia, 2005, p. 11,
vv. 1-2 e 12.
2 P. Fazzi, Ci vestiremo di versi, intr. di G. Luti,
Edizioni Helicon, Arezzo, 2000.
Caffè Michelangiolo
Le letture
3 Giorgio Luti, Perché la poesia?, introduzione a Ci vestiremo di versi di Patrizia Fazzi, Arezzo, Edizioni Helicon, 2000, p. 7.
4 P. Fazzi, Dal Fondo dei Fati, cit., p. 41,
vv. 18-19.
5 Ivi, p. 119, vv. 1-9.
Patrizia Fazzi
Dal Fondo dei Fati
Edizioni del Leone, Venezia 2005
pp. 128. € 8,00
In una aureola di fumo
Q
raccoglie qui, tra i versi, echi di quelle
voci, di quelle implorazioni soffocate, di
quel dolore troppo grande, come «Memoria che cola nella memoria | di generazione in generazione» (p. 13), e li trasforma in corone di versi, in distici lievi
come una preghiera: «Tutti trasparenti, |
senza accorgersene. || Così giovani, | in
una aureola di fumo. || Al patibolo insieme, | senza saperlo» (p. 26).
La cifra del volume, che ripercorre,
sezione dopo sezione, frammenti di vita
e brandelli insanguinati di storia, mi pare
si possa rintracciare nei versi che evocano i tempi della scuola così come li ha restituiti all’io narrante suo padre(«dai li-
uesto libro di esordio di
Alessandro Rivali (Genova
1977), composto da cinque sezioni, una delle quali era già apparsa nel volume miscellaneo
Quattro poeti (Edizioni Ares,
Milano 2003), contiene non pochi spunti di riflessione per il
lettore, centrato com’è su memorie della guerra partigiana
nell’entroterra ligure durante il
secondo conflitto mondiale.
L’autore, fin dal titolo, ci fa entrare in quell’inferno di ferro e
fuoco che è stata la sua terra in
anni in cui l’odio accendeva falò
in ogni sentiero, collina, anfratto della Liguria. Sulla scorta di
vicende narrategli da suo padre,
la cui presenza discreta si avverte di continuo nei versi di Alessandro Rivali.
questa raccolta, e in particolare
nella sezione Ianua, l’io lirico ripercorre bri sfrangiati del liceo | raccontavi di Etuna sua «riviera del sangue», e procede tore, del suo corpo | rivoltato nella polcon coraggio «lungo la proda del bollor vere», p. 32). Qui, come in Una lettura
vermiglio», attorno alla «Benedicta, un di Pierluigi Cappello (La misura dell’erantico convento trasformato in comando ba, 1998), l’eroe vinto è «il vincitore
partigiano. Il territorio che la circondava vero», capace di sopravvivere, foscoliafu teatro di un rastrellamento, iniziato namente, alle torture, alla polvere, ai
alle quattro del mattino del giovedì san- suoi carnefici, al tempo e all’oblìo.
to del 1944». Laggiù i dannati hanno
La tematica centrale del volume è
mani e polsi ancora in croce tra il fo- dunque la guerra partigiana che si comgliame, e ancora implorano pietà dai loro batté tra Genova e Portofino, tra il mare
carnefici, i quali forse «sapevano del pae- e l’entroterra. E il colore del sangue è
saggio dantesco». O forse il male si riaf- molto più di un semplice sfondo e si rifaccia sempre uguale a se stesso sulla versa di continuo sulle parole: « Un treterra. Voci di ombre si confondono nel- molare sanguigno su campo nero | come
l’aria, come nei versi di un altro poeta li- la luce del cero sull’altare»(p. 23).
gure, Paolo Bertolani, con quelle del
Questa Genova insolita è la città del
mare e delle colline. Chiedono pace in cuore di chi negli occhi di suo padre l’ha
questo angolo di una Liguria disperata- vista come «una conca di fiamme | oltre
mente amata dall’io, che con pietas filiale il bosco coronato dalle montagne»
Caffè Michelangiolo
(p. 37). Dov’era la via di fuga dal fuoco
e dal sangue? Forse solo nel Passaggio
d’Enea di Caproni, dove, come ricorda
Alessandro Fo «l’eroe incarna, oltre alla
pietas e alla proiezione al futuro, la disperata solitudine dei sopravvissuti alla
grande guerra, di cui diviene sublime
araldo e emblema» (A. Fo, Virgilio nei
poeti e nel racconto, in Atti del Convegno
«Il classico nella Roma contemporanea.
Mito, modelli, memoria», Istituto Nazionale di Studi Romani, Roma, 18-20 ottobre 2000, p. 204). Nell’antologia tematica Genova di tutta la vita, (1983,
1997), Caproni lega in un unico nodo
l’esule antico, la seconda guerra mondiale e la sua città colpita dalle
bombe: «Non avrei mai scritto
Il passaggio d’Enea, se non
avessi incontrato, in piazza Bandiera, Enea in persona. Credo
che Genova sia l’unica città del
mondo ad avere eretto un monumento a Enea. A Enea secondo la figurazione più scolastica, col vecchio Anchise in
spalla e il figlioletto Ascanio per
la mano. Nulla d’eccezionale dal
punto di vista artistico… Ma eccezionale è il fatto che giustappunto Enea, scampato dall’incendio di Troia, sia andato a finire proprio in una delle piazze
più bombardate d’Italia. In quel
povero Enea vidi chiaro il simbolo dell’uomo della mia generazione, solo in piena guerra a
cercar di sostenere sulle spalle
un passato (una tradizione)
crollante da tutte le parti, e a cercar di
portare a salvamento un futuro ancora
così incerto da non reggersi ritto, più bisognoso di guida che capace di far da
guida…». Echi di quella rivisitazione caproniana di Enea si affacciano anche
qui, tra il fogliame che protegge la memoria dei partigiani e sul quale si sofferma con sgomento lo sguardo di questo
giovane poeta, che cerca, vuole sapere,
vuole scrutare dentro la storia, attraverso i racconti del padre: vicende di torture inflitte da uomini ad altri uomini e
ancora mescolate alle radici, alla terra,
alla “Riviera del sangue”.
Leggendo queste poesie viene in mente, per contrasto, o forse per una forma
di difesa contro le tragedie della storia e
di quel suo colpire brutale, “alla cieca”,
la Genova di luce apparsa improvvisa
91
Le letture
come un miraggio al protagonista di quel
meraviglioso poema che è il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini di Luzi.
Una Genova ossimorica rispetto alla povera città bombardata e violentata dalla
guerra, una «Genova meraviglie | che a
una a una sciorina – | festoso saliscendi,
| sfolgorante mattino – | …| oh posta | da
chi sul mio cammino, | scala, scala continua… »). Del poeta fiorentino traspaiono di tanto in tanto, nei versi di Rivali, talune suggestioni, una fiamma segreta che dà bagliori ai versi, a quel «nostro viaggio di marmo e ardesia | e quel
roseto | e quegli spalti sul mare» (p. 46),
a una pagina di storia del Novecento,
ancora grondante di sangue. Ma quello
dell’io è anche un viaggio nei luoghi fondanti della sua vita: Genova innanzitutto e poi una Milano «d’inferno e di sale»
e i giorni lungo i «viali ghiacciati di Lambrate » che fanno pensare a certi versi di
Milo De Angelis, innamorato da sempre
di questa città, e che nel ricordo – o forse nel desiderio – si fondono con la «scogliera che da S. Rocco | a vertigine cade
su Camogli» (p. 52).
Luoghi diversi, diversamente amati:
«…Penso alla storia. || Al succedersi delle catene, | alle arche arroventate | fiorite
in un battito | e rimaste» (p. 65). Scorrono sotto gli occhi del lettore grandi figure e personaggi anonimi, come il soldato
della «guerra bianca» protetto da un’urna di ghiaccio, spezzato, forse, «dal delirio dell’assideramento». Il sigillo di questo volumetto di versi, così ricco di spunti, di fermenti e di passione civile, è un
mosaico misterioso, disegnato da un prete nel xii secolo, che sembra racchiudere
in sé il destino di Otranto, quando – ci
dice lo stesso autore in una nota – la città
fu assediata dai Turchi nel 1480 e venne
presa dopo due settimane. Il vescovo secondo la tradizione, fu segato in due e gli
ottocento sopravvissuti all’eccidio vennero decapitati. Quel mosaico è, oggi come
ieri, testimonianza e simbolo della divina
pietà dell’arte. Che non dimentica mai il
dolore dell’uomo. «Resta pietra firmata,
viva».
Anna de Simone
Alessandro Rivali
La riviera del sangue
Associazione Culturale Mimesis,
Milano 2005
pp. 96. € 11,00
92
Dalla Russia con amore
N
el 1961 Tommaso Landolfi affrontava per la terza volta nella sua vita
la traduzione di alcune opere di Aleksandr Puškin. Dopo aver tradotto nel
1948 La dama di picche, Il fabbricante di bare e Il mastro di posta e nel
1960 i Poemi e liriche, era infatti la volta del Teatro e favole, ripubblicato oggi
da Adelphi con un’appendice di quattro
saggi di Landolfi su Puškin, di cui tre
scritti nel 1937 e uno alla fine del ’53.
In Puškin, comparso per la prima volta
in “Meridiano di Roma”, anno II, n. 35,
29 agosto 1937, Landolfi scrive a proposito della traduzione che Ettore Lo
Gatto aveva appena compiuto del pûskiniano Eugenio Onegin per la casa
editrice Bompiani:
Tradurre propriamente un poeta
significa renderne non soltanto, anzi
non tanto la lettera, quanto le articolazioni e inflessioni metriche, il piglio, le impostazioni, e minutamente
le fasi, musicali e via dicendo. Significa non tanto riprodurre un contesto,
quanto un contesto armonico1.
Con questo spirito armonico e con
un grande amore per il poeta russo,
amore di lettore più che di esegeta, Landolfi tradusse le opere teatrali e le favole di Puškin, di cui amava narrare la
vita malinconica, ma avventurosa,
drammaticamente conclusasi con un
duello d’onore con il barone Giorgio
d’Anthès, ufficiale francese in servizio
alla corte russa e frequentatore poco
gradito del salotto di Madame Puškin, al
secolo la bellissima e giovanissima Natalia Nicolaevna2.
Teatro e favole contiene opere scritte in diversi momenti della vita di
Puškin. Prima tra tutte il Boris Godunov, la tragedia storica che il poeta compose tra il 1824 e il 1825 nell’isolamento della proprietà materna di Michajlovskoe, dove lo zar Alessandro I lo
aveva confinato a causa delle idee liberali espresse nelle sue poesie e nei suoi
epigrammi. La tragedia, sotto forma di
trilogia, trae ispirazione dalla gigantesca
Storia dello stato russo dello studioso
Nicolaj Michajlovic Karamzin, il primo
storico professionista della Russia, direttamente conosciuto da Puškin du-
rante gli anni del Liceo Tzarskoe Selo, e
segna l’inizio della letteratura romantica e nazionale russa.
I quattro atti unici, o “piccole tragedie” (Mozart e Salieri, Il convitato di
pietra, Il cavaliere avaro, Festino in
tempo di peste), furono composti nel
1830 nella tenuta paterna di Boldino e
indagano i nuclei psicologici di altrettanti vizi umani come l’invidia, la lussuria, l’avarizia e l’empietà.
Recita il personaggio di Salieri verso
la fine del suo monologo iniziale:
Sono invidioso. Invidio; con tormento,
Profondamente, invidio. – O Cielo!
Dunque
Dov’è giustizia, quando il sacro dono,
Quando il genio immortale non compenso
D’amore ardente, non di dedizione,
Di sudori, di zelo, è, di preghiere –
Ma illumina la testa d’un ozioso
Vagabondo, d’un folle?… O Mozart,
Mozart3!
L’acume psicologico e l’ampiezza degli interessi umani, uniti alla compostezza classica di Puškin, colpiscono inevitabilmente un lettore cui Landolfi raccomandava fortemente di non interporre schermi critici alla lettura delle opere puskiniane, andando fiducioso incontro all’opera di un vero umanista.
Infine il volume raccoglie anche le meno
Caffè Michelangiolo
Le letture
note, ma non meno belle, favole in versi, scritte nell’ultimo periodo della vita
di Puškin, e ottenute mescolando le tradizioni del folklore russo con i ricordi
delle fiabe che la sua njanja (balia) Arina Rodionova era solita raccontargli nei
lunghi periodi della vita in cui si trovò
al suo fianco. In tutte queste opere, in
bilico tra influssi letterari, specie francesi, lingua che fu insegnata al poeta
sin da bambino, e forti istanze culturali nazionali, si ritrova un Puškin allo
stesso tempo classico e romantico, serio
e scapestrato, maturo e infantile, liberale e curioso. Il primo grande poeta
della moderna letteratura russa, in cui
Landolfi scopriva i tratti di un genio,
folle e capriccioso, in cui andrebbero
ricercati i germi di molte delle ricognizioni letterarie successive, russe e non
solo, merita ancora una volta piena attenzione.
Costanza Melani
NOTE
1 T. Landolfi, Puškin in appendice a A. Pûskin, Teatro e favole, Adelphi, Milano, 2005,
p. 381.
2 La storia di questo duello Landolfi la racconta in Morte di Puškin, apparso in «Omnibus»,
anno I, n. 6, 8 maggio 1937 e ora in appendice al
volume A. Pûskin, Teatro e favole, cit. pp. 369-79.
3 A. Pûskin, Mozart e Salieri, in Id., Teatro e
favole.
Aleksandr Puškin
Teatro e favole.
Traduzione di Tommaso Landolfi
Adelphi, Milano 2005
pp. 400. € 30,00
Le piccole canaglie
della poesia contemporanea
T
rova finalmente forma – ma non, si
può sin d’ora scommettere, compimento – nelle severe gabbie della scansione tipografica l’ormai più che decennale ricerca fono-visiva dei Rapsodi,
una delle esperienze artistiche più stimolanti e innovative tra quelle che animano l’attuale panorama nazionale.
Sotto un’unica sigla, due personalità diverse e apparentemente lontane: Luca
Bombardieri, rabdomante wittgenstei-
Caffè Michelangiolo
niano del rapporto tra realtà e linguaggio, esploratore palmo a palmo dei territori dell’assurdo e del crudele, e Tommaso Pippucci, logo-equilibrista che
cammina sul filo di una sagacia sorniona e velata di elegia. Arrembante il primo, felpato il secondo: pronti però a
scambiarsi le parti quando occorre –
cioè sempre. Un formidabile ensemble la
cui “potenza di fuoco” conosce un pieno dispiegamento – come sottolinea
Paolo Maccari nell’acuta e affettuosa
introduzione al volume – nella dimensione scenica, sapientemente supportata dalla sensibilità musicale del “maestro” Duccio Ancillotti, che «gira i dischi» durante le loro esibizioni dal vivo.
Da bravi saltimbanchi o meglio illusionisti della parola, anche in volume i
Rapsodi non perdono un colpo, grazie a
un’agile guerriglia percettiva che trova
nella scrupolosa – ma ingannevole – rispondenza tra parola e immagine una
testa di ponte per ardite e irriverenti incursioni espressive, a un tempo spassose e folgoranti. Colpisce l’alta qualità di
una scrittura raffinata e cultivée, debitrice delle esperienze meno addomesticate del nostro Novecento, da Landolfi a
Flaiano. Ma c’è, a mio avviso, di più: ed
è un fatto propriamente anagrafico. La
generazione di Bombardieri e Pippucci,
quella nata alla fine degli anni Settanta,
tirata su a pane e tv private, è cresciuta
masticando una serie di consuetudini
relazionali che sono divenute nel tempo
veri e propri tic, e si potrebbe persino
dire una sorta di griglia kantiana del
pensiero, un a priori della propria sociabilità in formazione. Penso, in primis, al calembour elevato a codice comunicativo standard, meccanismo parassita che, perduta ogni carica eversiva,
vive sulle macerie dei nobili e severi codici del passato e finisce per imporsi, in
forme ad alto tasso di deperibilità, come
il medium per eccellenza di ogni scambio con i coetanei.
Queste armi spuntate di un’epoca
tele-narcotizzata i Rapsodi hanno saputo, con operazione davvero geniale,
ribatterle sull’incudine della propria vivacità intellettuale e forgiarle a loro talento per le necessità della battaglia.
Il jeu de mots non di rado sublime che
sorregge la loro scrittura – ma forse, un
giorno, sarà necessario sciogliere questi
loro e distinguere meglio i singoli apporti – imprime ai clichés verbali di
quella generazione un moto centrifugo
che a un tempo consacra e dissacra le
istituzioni linguistiche ereditate, facendone miccia per una nuova detonazione
creativa. Un’esplosione di senso che taglia le linee di comunicazione ordinarie
e investe con inaudita potenza anamorfica l’œil e l’oreille del lettore/spettatore:
basti prendere in considerazione la sezione che chiude il volume, Poeti che
contano, sorta di performance fotografica dove una ventina di personaggi sono
immortalati in pose legate ai vari significati del verbo contare. Anche in questo
caso l’immagine, imbrigliata da un gioco di parole che la ri-semantizza, perde
la propria autonomia segnica e viene
per così dire trascinata in ceppi verso un
ambiguo destino, di omaggio e sberleffo,
dell’istituzione-poesia. Un ordigno perverso, insomma, quello congegnato dai
Rapsodi, una morsa che tanto più stritola e demistifica il soggetto ritratto
quanto più questi si illude di sottrarsi all’operazione cercando rifugio nella “credibilità” della propria condizione di
“poeta”.
Analogamente, sul piano lessicale,
Bombardieri e Pippucci non concedono
niente all’approssimazione né alla ricerca forzata dell’effetto: prevale un uso
esatto, finanche chirurgico, di una terminologia ampia ma sempre pronta all’approfondimento settoriale – non di
rado estremamente tecnica: esemplare
in questo senso Biancaneve e i settenari – la cui collocazione è tuttavia total-
93
Le letture
mente inappropriata, dico rispetto al
proprio ambito di utilizzo. Un processo
di spaesamento e deformazione della
lingua che giunge sino allo sminuzzamento, al balbettio indistinto di Barbarein, testo – purtroppo irriproducibile
in volume – in cui le millenarie pretese
dell’etimologia, da Varrone a Sant’Isidoro fino a noi, si frantumano dapprima
in una scienza della lallazione e finiscono poi per polverizzarsi in un liberatorio
sfogo canzonettistico, che in nome di
una delirante koiné da party liceale salda la Grecia classica al rock’n’roll dei
Sixties. Ne consegue ancora una volta
un parossistico gioco di rilanci, irresistibilmente esibizionista, in cui l’aspetto
ludico e quello inquietante, straniante,
riescono a mantenersi in perfetto, ancorché bizzarro, equilibrio. Anzi, di più:
finiscono per accennare, come capita sovente durante le performances live dei
Rapsodi, qualche passo di danza, sottobraccio, con la lucida e scanzonata follia dei migliori Laurel & Hardy. Proprio non si riesce a tenerli zitti e fermi,
con la lingua e con i piedi, questi incorreggibili brats della poesia italiana contemporanea.
Riccardo Donati
Luca Bombardieri - Tommaso Pippucci
Trompe l’œil, trompe l’oreille
prefazione di Paolo Maccari
Zona, Arezzo 2005
pp. 84. € 15,00
Il futuro già trascorso
I
l poemetto di Anna Maria Guidi si
apre, sin dalla citazione iniziale, con
l’immagine borgesiana di un tempo sospeso tra passato e futuro, tra origini e
orizzonti, tra memoria e slancio verso
l’ignoto.
Allo stesso modo questa nuova opera
della poetessa, cardine centrale del suo
percorso poetico, prende corpo dalla ricerca iniziata nelle opere precedenti.
Da Esercizi (1998, a cura di Giorgio
Luti), a Incontri (2000, a cura di Carmelo Mezzasalma), a Tenacia d’ombra
(2002, a cura di G. Panella) e Certezze
(2002, a cura di Mozzanti) la Guidi ha
94
elaborato una personale poetica, nella
quale il tema ricorrente del tempo e della memoria, il senso di un percorso esistenziale da costruire passo dopo passo
e un linguaggio che fa propri i modelli
classici (Dante e Petrarca), così come i
molti riferimenti alla poesia moderna
(Leopardi, Pascoli e Montale) si combinano secondo una rigorosa e ben calcolata tecnica.
Le raccolte poetiche citate hanno in
passato conseguito diversi premi letterari e suscitato un notevole interesse critico intorno alla produzione dell’autrice
con interventi e recensioni (ricordiamo,
in particolare, quelli di Luti, Manescalchi e Mezzasalma); ora con il viaggio
poetico ed esistenziale di In transito la
Guidi ri-attraversa l’esperienza alle
spalle e, nello stesso tempo, dà prova di
una profonda maturazione e di una
nuova elaborazione formale della sua
poetica.
Come scrive Giorgio Luti nell’ Invito
alla lettura posto ad introduzione dell’opera, il transito è per la Guidi «attraversamento di uno spazio ideale e reale»1, che dalle inquietudini della giovinezza attraverso incontri e spazi conquistati a caro prezzo, giunge all’accettazione del tempo trascorso e ad una
sorta di lucida e attenta osservazione.
Dio è il punto d’arrivo di questo percorso, l’obiettivo verso cui tende l’inte-
ro poemetto, l’approdo a partire dal
qual riprendere il cammino e dare senso a quello alle spalle.
L’opera, divisa in tredici “passaggi”,
ognuno dei quali introdotti da un breve
esergo in corsivo, ha inizio con il tono
diaristico e autobiografico della poesia
intitolata Ambita alterità, dove si pongono le premesse dell’andare e si snoda
attraverso un ritmo ascensionale e un
uso calibrato di citazioni esibite (Pasolini, passi del Qohèlet, Pascal, Villon,
Milosz, Larkin, Petrarca, Cvetaeva, Sereni) a testimoniare un’idea della tradizione in quanto continuum, viaggio, allegoria della vita come possibilità di incontri e riflessione continua.
Così, con la stessa chiarezza e volontà di “testimonianza”, emergono, soprattutto nella seconda metà dell’opera,
riferimenti alla contemporaneità, come
nella poesia Doveroso silenzio dedicata
ai bambini di Beslan.
Manescalchi definisce in modo illuminante questo percorso «quasi un’allegoria dell’umano transitare nel mistero della vita»2.
È così. Anna Maria Guidi fa della
propria esperienza personale parabola
esistenziale disegnata nel tempo, viaggio
e “canzoniere”, nel senso petrarchesco
del termine, teso verso la conquista di
senso, il quale culmina nell’invocazione
finale a Dio dell’ultima poesia, dove
l’«azzardo del volo»3 della scrittura genera l’infinito interrogare e interrogarsi
della vita:
Interrogami, Dio. Domandami
se, ubriaca, nella vigna dei giorni
ho marinato la fede
per una vendemmia di dubbi
Persisti a chiedere4.
Monica Venturini
NOTE
1 G. Luti, Invito alla lettura in A.M. Guidi, In
transito, Edizioni Polistampa, Firenze, 2005, p. 8.
2 F. Manescalchi, retro di copertina di A.M.
Guidi, In transito, cit.
3 A.M. Guidi, In transito, cit., p. 15, v. 6.
4 Ivi, p. 165, vv. 1-5.
Anna Maria Guidi
In transito
Edizioni Polistampa, Firenze 2005
pp. 172. € 8,00
■
Caffè Michelangiolo
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
DI ARTI LETTERE SCIENZE
FONDATA NEL
1660
MODIGLIANA
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
DI MODIGLIANA
NOTIZIE STORICHE
L’Accademia degli Incamminati venne fondata nel 1660 dal letterato Bartolomeo Campi
col nome di Accademia dei Pastori del Marzeno e con sede in Modigliana, città della Romagna appenninica allora compresa nel Granducato di Toscana. Entrata in crisi dopo il 1720,
fu ricostituita il 27 ottobre 1755 ad iniziativa dello storico Gabriele Sacchini, che le impose
la denominazione attuale e le diede nuove norme statutarie.
Con rescritto 24 aprile 1795 del Granduca di Toscana Ferdinando I, confermato poi da Leopoldo II il 17 agosto 1825, l’istituzione ottenne la «sovrana protezione» assumendo il titolo di
Imperiale e Reale Accademia degli Incamminati. Successivamente, per la ribellione patriottico-risorgimentale degli Incamminati, con risoluzione granducale 19 agosto 1857, resa esecutiva in data 24 agosto, venne imposta la sospensione dell’attività accademica.
Ritiratosi da Firenze Leopoldo II, il subentrato Governo Provvisorio della Toscana, per
«debito di giustizia», il 13 dicembre 1859 riabilitò l’antica Accademia «al libero esercizio dei
suoi diritti e delle sue funzioni» e, dopo l’avvento del Regno d’Italia, come da nota 18 luglio
1861 della Delegazione del Governo di Modigliana, essa assunse la denominazione di Regia
Accademia degli Incamminati.
Nel 1925, precluso il libero esercizio alle associazioni culturali non appartenenti al partito fascista, l’Accademia dovette cessare l’attività. Questa riprese nel 1946 ad avvenuta proclamazione della Repubblica Italiana.
Nel 1961 fu eletto Presidente il dott. Gilberto Bernabei, alto dirigente ministeriale, poi Consigliere di Stato e Sindaco di Modigliana. Questi assunse importanti iniziative fra cui quella
di chiamare nell’Accademia eminenti personalità della letteratura, delle scienze, delle arti, delle istituzioni, dell’imprenditoria e del lavoro. L’attività degli Incamminati ricevette così un notevole impulso, accentuatosi ulteriormente con l’On. Pier Ferdinando Casini, presidente effettivo dal 1990 al 1997, e oggi presidente d’Onore, e con l’Avv. Natale Graziani, presidente dal 1997 al 31 dicembre 2005. Dal 1 gennaio 2006 il nuovo presidente dell’Accademia degli Incamminati è l’On. Antonio Patuelli.
Organo ufficiale dell’Accademia è “Caffè Michelangiolo”, rivista di discussione edita in
Firenze con periodicità quadrimestrale, fondata e diretta da Mario Graziano Parri.
FINI E COMPITI ISTITUZIONALI
L’Accademia degli Incamminati, di Arti Lettere Scienze, sorta nel 1660 e munita di personalità giuridica (D.P.R. 27 luglio 1970 n. 753), ha lo scopo di promuovere e diffondere le
conoscenze umanistiche e scientifiche nel quadro dell’universalità e unità della cultura; di
studiare e dibattere i temi nazionali, dell’Europa, dei doveri e dei diritti dei cittadini; di svolgere nei territori della Romagna e della Toscana fiorentina – fascia appenninica in particolare – attività di studio, ricerca e valorizzazione della storia e della civiltà dei luoghi.
96
Caffè Michelangiolo
IL
VINCASTRO
Informazioni e notizie
dell’Accademia degli Incamminati
Nel bicentenario della nascita di Mazzini
Convegno di Studi a Faenza su
“Potere e circolazione delle idee: stampa, accademie
e censura nel Risorgimento Italiano (1814-1861)”
cale Associazione Mazziniana. Al tavolo della Presidenza,
oltre al Ministro per le Politiche Comunitarie On. Giorgio
La Malfa, sedevano il presidente dell’Accademia Natale
Graziani, il Sindaco Glauco Casadio, il Professor Zeffiro
Ciuffoletti dell’Università di Firenze, il Presidente della
l 24 e 25 settembre 2005 si è tenuto Faenza il convegno Provincia Francesco Giangrandi e il rappresentante deldi studi forse più importante fra quelli svolti in occasio- l’Ordine Nazionale dei Giornalisti Claudio Santini.
ne della celebrazione del bicentenario mazziniano. Il tema:
I lavori sono iniziati con la lettura da parte del PresiPotere e circolazione delle idee: stampa, accademie e cen- dente Graziani del messaggio del Presidente della Repubsura nel Risorgimento italiano (1814-1861).
blica Carlo Azeglio Ciampi, nonché del messaggio del preIndetto e organizzato dall’Accademia degli Incammi- sidente d’Onore degli Incamminati Pier Ferdinando Casinati, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubbli- ni, Presidente della Camera dei Deputati, rammaricato
ca, il convegno aveva ricevuto il Patrocinio del Comitato dell’involontaria assenza perché trattenuto da un impegno
Nazionale per le celebrazioni del Bicentenario della nasci- istituzionale in Libano.
ta di Giuseppe Mazzini e dell’Ordine Nazionale dei GiorHa preso quindi la parola il Sindaco Claudio Casadio il
nalisti, nonché la sponsorizzazione della Fondazione della quale si è detto lieto che Faenza accogliesse un convegno di
Cassa di Risparmio di Ravenna e di Romagna Acque, So- alto valore scientifico, che copre “una lacuna” negli studi sul
cietà delle Fonti.
Risorgimento e nel contempo «celebri degnamente una perL’importante convegno è stato originato dalla ricerca, sonalità come Giuseppe Mazzini. Il quale anche nel moprima e unica in Itamento attuale è di
lia, che l’Accademia
monito e insegnamendegli Incamminati ha
to nelle scelte dei citpromosso, mobilitantadini per la democrado una serie di stuzia, i cui valori unidiosi e di ricercatori,
versali sono più durasull’attività della centuri dei partiti e dei
sura governativa dugoverni. Il convegno
rante il periodo risordunque non solo come
gimentale nei singoli
recupero filologico,
stati preunitari.
ma anche come proieLuogo del convezione verso il futuro».
gno è stato l’ottocenÈ seguito l’intertesco Teatro Angelo
vento del presidente
Masini, che si presendell’Ordine dei Giortava con un magnifinalisti dell’Emilia Roco colpo d’occhio:
magna in rappresengremito nella platea e
tanza dell’Ordine Nain ogni ordine di palzionale. Questi si è richi e con molti giovafatto a Mazzini giorni presenti; all’organalista, ma anche al
nizzazione avevano
Cavour del 1854, e,
collaborato il Comu- Il tavolo dei Relatori per il Convegno a Faenza del 24 e 25 settembre 2005 su “Potere e cir- sottolineando che la
ne di Faenza e la lo- colazione delle idee: stampa, accademie e censura nel Risorgimento”.
libertà di stampa vige
I
Caffè Michelangiolo
97
Il Vincastro
Il lungo cammino dell’affermazione del principio della
libertà di stampa si è intrecciato con la storia della democrazia occidentale: dalle settecentesche dichiarazioni dei diritti negli Stati Uniti alle lotte della Rivoluzione Francese,
alle idee che hanno infiammato il nostro Risorgimento.
Periodici come la Giovine Italia, di Giuseppe Mazzini
hanno svolto un ruolo essenziale per la maturazione della
coscienza collettiva nazionale, consolidata nei valori di libertà, pluralismo e imparzialità, fondamento della costituzione Repubblicana e della carta europea dei diritti.
Con questa consapevolezza mi rivolgo a Lei, egregio
Presidente, agli illustri Accademici e Relatori un cordiale
augurio di buon lavoro.
Carlo Azeglio Ciampi
Messaggio del Presidente
della Camera dei Deputati
Il Ministro per le politiche comunitarie, on. Giorgio La Malfa, al suo arrivo al Convegno di Faenza, dove terrà la prolusione.
solo in trenta Stati dei centonovantuno rappresentati all’onu, ha concluso annunciando il recupero dell’antica
agenzia Stefani scomparsa con la caduta del fascismo e il
suicidio del suo direttore.
Infine Francesco Giangrandi, presidente della Provincia
di Ravenna, nel suo saluto si è soffermato sul valore della
circolazione delle idee per il pluralismo di una stampa che
sia libera di difendere le proprie idee e quelle degli altri.
Il presidente Graziani, ringraziando gli intervenuti, ha
ricordato che il primo giornale a Faenza vide la luce nel
1860 e aveva per titolo “La voce del popolo”. Quindi è passato alla consegna del “Vincastro d’Argento Premio ad una
Vita” al professor Salvo Mastellone dell’università di Firenze che ha studi fondamentali su Mazzini e gli scritti da
questi pubblicati nella stampa inglese. Il “Vincastro d’argento”, come è noto, è la speciale distinzione attribuita
fra gli Accademici Incamminati a coloro che conferiscono
nobiltà e valore particolare alla vita con l’eccellenza e la
continuità delle opere o con l’esempio di singolare virtù civile. La motivazione del Premio, riportata in proseguo, è
stata letta dalla dottoressa Matilde Balbi Bertazzoni del
Consiglio di Presidenza dell’Accademia.
Q
uesto il testo che il Presidente della Camera dei deputati Pier Ferdinando Casini ha indirizzato al Sindaco di Faenza, Ing. Claudio Casadio, e che è stato letto al
convegno dal dott. Giancarlo Aulizio del Consiglio di Presidenza dell’Accademia.
Gentile Sindaco, cari amici Incamminati,
è vivo il rammarico per non essere presente oggi tra voi in
ragione di sopravvenuti, inderogabili impegni istituzionali.
Messaggio del Presidente
Carlo Azeglio Ciampi
Q
uesto il testo del messaggio telegrafico del Presidente
della Repubblica pervenuto all’avv. Natale Graziani,
presidente dell’Accademia degli Incamminati, e che questi
ha letto al Convegno di Faenza.
In occasione del convegno di studi “Potere e circolazione delle idee: stampa, accademie e censura nel Risorgimento italiano”, indetto nell’anno bicentenario della nascita di Giuseppe Mazzini, esprimo apprezzamento all’Accademia degli Incamminati di Modigliana per il valore storico e culturale dell’iniziativa.
98
Lo storico Franco Della Peruta (università di Milano).
Caffè Michelangiolo
Il Vincastro
Nel porgervi comunque
tutions, Salvo Mastellone
è tuttora Direttore reil mio più caloroso sasponsabile della rivista “Il
luto quale Presidente
Pensiero Politico”.
d’Onore dell’accademia
È autore, inoltre, di
degli Incamminati, denumerose pubblicazioni
sidero innanzitutto rinimportanti per la storia
graziare per l’ospitalità
del pensiero politico, della città di Faenza, che
le ideologie e della deconferma in tal modo la
mocrazia in Europa,
sua vocazione storica e
nonché di dettagliati ed
culturale.
originali saggi sullo sviApprezzo sinceraluppo del pensiero politimente l’iniziativa di
co da Savanarola ad
commemorare la figura
Adamo Smith (Due vodi Giuseppe Mazzini nel
lumi), da Sieyés a Marx
bicentenario della sua
(Tre volumi), da John
nascita L’Italia di oggi
Stuart Mill a Lenin.
ritrova in lui non solo
Infine, consultando i
l’ispiratore dell’unificagiornali originali del pezione nazionale, ma anche il precursore del- Gli storici: da sinistra Zeffiro Ciuffoletti (università di Firenze) e Arturo Colombo (uni- riodo, ha condotto una
lunga e meticolosa indal’integrazione europea e versità di Pavia).
gine, seguita da sapiente
della fratellanza univere acuta analisi, anche comparativa, sugli articoli e i saggi
sale tra i popoli.
scritti da Giuseppe Mazzini in lingua inglese e pubblicati sulCome è noto, Mazzini ha rintracciato le radici della nala stampa londinese fra il 1845 e il 1847, mercé i quali l’ezione italiana nella sua tradizione culturale. Bene ha fatto
sule italiano s’inserì con autorevolezza, forza e originalità d’iperciò l’Accademia degli Incamminati a ricordarne la fidee nel dibattito sulla democrazia politica e sociale, allora in
gura, promuovendo una riflessione originale sulla circolacorso fra i grandi pensatori politici nell’Europa di quel temzione delle idee nell’Italia della prima metà dell’Ottocento,
po. Frutto dell’inedita e fondamentale ricerca londinese sono
affidata a studiosi illustri cui sono veramente grato per la
le opere che poi Salvo Mastellone ha dedicato a Mazzini, fra
loro partecipazione.
cui: La Democrazia etica di Mazzini; Mazzini scrittore poliNel formulare infine a tutti i presenti i miei migliori autico in inglese; Giuseppe Mazzini: pensieri sulla democrazia
guri di buon lavoro, sotto l’alta direzione dell’amico Natain Europa; e infine il libro – che l’Autore ha scritto e puble Graziani, sono certo che il convegno faentino contribuirà
blicato in lingua inglese – intitolato: Mazzini and Marx.
ad arricchire la storiografia risorgimentale ed inviterà le gioThoughts upon Demovani generazioni ad
cracy in Europe, edito
apprezzare quanto sianel 2004.
no preziosi i beni quaL’Accademia degli
li la libertà di pensiero,
Incamminati, che nell’Idi stampa e di associatalia preunitaria fu culzione, in cui si riverbela e ritrovo di liberaldera l’essenza stessa delmocratici, nonchè fucila democrazia.
Pier Ferdinando Casini
Motivazione del
“Vincastro d’Argento”
a Salvo Mastellone
P
rofessore emerito di
Storia delle dottrine
politiche nell’Università
di Firenze e già Presidente della International
Commission for the History of Representative
and Parlamentary InstiCaffè Michelangiolo
Salvo Mastellone, professore emerito di Storia delle dottrine politiche alla università di Firenze, Accademico degli Incamminati, riceve dal presidente Natale Graziani il “Vincastro d’Argento”. La cerimonia si è svolta il 24 settembre 2005 al Teatro Angelo Masini a Faenza.
na di patriottismo, è fiera di avere fra gli iscritti nel Catalogo dei Soci
il Professor Salvo Mastellone, punto di riferimento imprescindibile
negli studi mazziniani e
sulla democrazia.
Per tali motivi, in occasione del convegno celebrativo del bicentenario della nascita di Mazzini, il Consiglio di Presidenza gli assegna il
Vincastro d’Argento Premio a una vita.
99
Il Vincastro
Le relazioni
al Convegno
del professor Arturo Colombo, docente emerito
dell’università di Pavia e
vvenuta la lettura dei
collaboratore ordinario
messaggi ed esaurita
del “Corriere della Sera”,
la cerimonia della conseil quale con molta efficagna del Vincastro d’Arcia ha illustrato il tema
gento al professor Ma“Mazzini giornalista”.
stellone, questi, ringraLa terza relazione su
ziando ha poi brevemen“Mazzini e la formaziote illustrato gli scritti
ne dell’opinione demomazziniani sulla stampa
cratica nel Risorgimeninglese. Il presidente
to”, è stata svolta dal
Graziani ha invitato l’oProf. Franco Della Perunorevole Giorgio La Malta, emerito dell’Univerfa, Ministro per le Politisità di Milano, uno degli
che Comunitarie e coorstudiosi più insigni del
dinatore nazionale per la
pensiero democratico
strategia di Lisbona
dell’Ottocento e di Giu2005, a tenere la Prolu- Il pubblico nella Sala Consigliare di Modigliana per la cerimonia della cittadinanza seppe Mazzini.
sione. Deputato italiano onoraria a Pier Ferdinando Casini e a Natale Graziani, il 12 novembre 2005.
Il presidente dell’As(ma anche europeo), già
sociazione Mazziniana
ministro del Bilancio e della programmazione economica, Italiana (AMI), ordinario di Storia dell’università di Bologià presidente della Commissione finanze della Camera e gna, Roberto Balzani, ha trattato il tema “Mazzini e la
ordinario di economia politica nell’università di Catania, stampa democratica”, mentre Romano Coppini docente
Giorgio La Malfa – dimostrando un’approfondita cono- nel Dipartimento di Scienze della politica nell’Università di
scenza del pensiero mazziniano e traendo spunto dal mes- Pisa, ha svolto il tema “Mazzini e d’Azeglio”: spunti di risaggio di capodanno del Presidente della Repubblica Ciam- flessione sulla stampa moderata.
pi – ha ampiamente dissertato sul valore universale e atInfine “Il mondo delle accademie fra localismo, politica
tuale dell’insegnamento mazziniano, con particolare rife- e censura” è stato oggetto della relazione della professoressa
rimento all’Europa, concepita dal genovese in tempi lontani Renata De Lorenzo, docente di Storia contemporanea nelcon senso che potrebbe dirsi profetico, ispiratore di un l’Università Federico II di Napoli e presidente del Comitaprogetto solo oggi avviato a realizzazione.
to Napoletano dell’Istituto della storia per il Risorgimento
Sono seguite le relazioni della prima giornata dedicata italiano.
a: Stampa e accademia nel Risorgimento, coordinata dalLa giornata si è conclusa con le relazioni del dottor
lo stesso presidente Natale Graziani.
Sauro Mattarelli su “La tradizione mazziniana in RomaPrimo dei relatori è stato Zeffiro Ciuffoletti. Ordinario gna”, nonché del dottor Alessandro Buda e dell’avvocato
di storia contemporanea
Natale Graziani su “La
nell’Università di Firenze
stampa e le accademie in
(insegna Storia del RiRomagna nell’età del Risorgimento a Lettere e
sorgimento”.
Storia sociale della coPrima che Alessandro
municazione a Scienze
Buda leggesse la relazioPolitiche) è autore di stune, il presidente Graziani
di fondamentali su Carlo
ha voluto ricordare che il
e Nello Rosselli. Con il
20 luglio 1856 alla torpresidente Graziani,
nata dell’Accademia degli
Ciuffoletti ha progettato
Incamminati, il socio Steil convegno faentino, di
fano Galli, poeta modicui nella relazione dal tiglianese e insegnante di
tolo “Stampa e circolaosservanza mazziniana,
zione delle idee nel Ritenne una coraggiosa resorgimento” ha tracciato
lazione di forte contenuto
le linee guida soffermancritico sull’insegnamento
dosi soprattutto sulla
della storia patria negli
stampa democratica e su
Stati preunitari, sottoliquella moderata nel peneando i doveri di interriodo risorgimentale. Ha Pier Ferdinando Casini e Natale Graziani, neoconcittadini di Modigliana, si compli- vento di un’Accademia
fatto seguito la relazione mentano vicendevolmente. Fra loro il Sindaco di Modigliana, Claudio Samorì.
letteraria. La relazione
A
100
Caffè Michelangiolo
Il Vincastro
fece tale scalpore che
di Verona) ha riferito
fruttò al suo autore il
sulla censura nel Redomicilio coatto e la
gno di Sardegna;
pretesa del Governo
– il Prof. GianpieGranducale di Toscatro Berti (Università
na della sua espulsiodi Padova) ha riferito
ne dall’Accademia,
sulla censura nel Renonché di reinstauragno lombardo-veneto;
re la censura preven– la Prof.ssa Alba
tiva sulle relazioni alle
Mora (Università di
tornate accademiche.
Parma) e il dott. MarIl Corpo Accademico
zio Dell’Acqua (Diretdegli Incamminati
tore dell’Archivio di
sdegnosamente e alStato di Parma) hanl’unanimità respinse
no riferito sulla cenogni richiesta. Ne
sura nel Ducato di
conseguì che il 9 agoParma;
sto 1857 il governo
– il Prof. Giordano
granducale fece chiuBertuzzi (Presidente
dere l’Accademia di Pier Ferdinando Casini e Natale Graziani mostrano la riproduzione settecentesca della Città di della deputazione di
Modigliana. C’è, dun- Modigliana. Al centro il Sindaco, professor Claudio Samorì.
Storia Patria per le
que, un conto in soantiche Provincie Mospeso fra Accademia degli Incamminati e censura nel pe- denesi) ha riferito sulla censura nel Ducato di Modena;
riodo risorgimentale, ha concluso in tono ironico l’Avv. Gra– il Dott. Domenico Maria Bruni (Università di Firenze)
ziani, e ciò potrebbe spiegare il motivo ispiratore della ri- ha riferito sulla censura nel Granducato di Toscana;
cerca sulla censura da cui trae origine il presente convegno
– il dott. Giorgio Tori (Direttore dell’Archivio di Stato di
di studi.
Lucca) ha riferito sulla censura nel Ducato di Lucca;
– il Prof. Giuseppe Monsagrati (Università “La Sapienza”) ha riferito sulla censura nello Stato Pontificio;
La censura negli Stati preunitari
– il dott. Andrea Casadio (Università di Bologna) ha riferito sulla censura nelle Legazioni Pontificie;
l convegno faentino, come già detto, si è protratto anche
– il dott. Luigi Di Stadio (Accademia degli Incamminanella giornata del 25 settembre, che è stata dedicata a La ti) ha riferito sulla censura nel Regno delle due Sicilie (recensura negli stati preunitari. Coordinatore della giornata gione continentale);
è stato il citato professor Ciuffoletti.
– il Prof. Salvatore Bottari (Università di Messina) ha riLe relazioni sono state tenute da coloro che, per due ferito sulla censura nel Regno delle due Sicilie (Regione Inanni circa, rispettivamente negli archivi delle capitali degli sulare).
scomparsi Stati preuDopo la conclusionitari (nonché nelle
ne del professor
Legazioni pontificie di
Ciuffoletti, il presiRomagna e nella pardente Graziani ha rinte insulare del Regno
graziato i relatori e i
delle due Sicilie) hannumerosi accademici,
no condotto le ricercittadini, docenti e
che concernenti l’eserstudenti presenti nelle
cizio in ogni singolo
due giornate di studio
stato della censura
e, chiudendo il convedurante il periodo rigno, ha voluto ricorsorgimentale. Ognuno
dare Mazzini con le
ha portato a conoparole di Bolton King,
scenza dei convegnisti
che nel 1903 scriveva:
il risultato delle ricerL’officio suo più
che svolte per incarico
alto e prezioso fu di
dell’Accademia degli
sollevare gli uomini
Incamminati. Alla tridalla greve atmosfebuna si sono così sucra della vita comune
ceduti undici Relatori.
– Il Prof. Paolo Ro- Il tavolo della Presidenza e dei Relatori alla Tornata del 12 novembre 2005 a Modigliana. Da alle altezze dove il
magnani (Università sinistra: Riccardo Gualdo, Antonio Patuelli, Pier Ferdinando Casini, Natale Graziani, Stefano Folli. pensiero è più vasto
I
Caffè Michelangiolo
101
Il Vincastro
e la vita scorre con più vigore, e le grandi verità appaiono
non offuscate da alcun egoismo, da alcun cavillo. l’idealista
è ancora il migliore amico dell’umanità: colui più giova alla
razza, che ne purifica la visione spirituale e, spirando il proprio soffio nel dovere freddo ed austero, giunge a farne cosa
viva, calda di passione, vibrante di forza. Più grande ancora è colui che, non idealista soltanto, ma santo ed eroe, attesta con tutta la sua vita la verità che insegna. Tale santo,
tale eroe, tale idealista fu Giuseppe Mazzini: e fino a quando vivranno uomini e
donne fedeli a se stessi e alla propria missione, capaci di apprezzare il sacrificio
e il dovere più della
potenza e della fortuna, ci sarà sempre chi
l’ami e chi lo prenda
a maestro.
Cittadinanza onoraria di Modigliana
a Pier Ferdinando Casini e a Natale Graziani
I
l 12 novembre 2005 la Città di Modigliana ha conferito
la cittadinanza onoraria all’Onorevole Pier Ferdinando
Casini, Presidente della Camera dei Deputati e Presidente
d’onore degli Incamminati, e all’Avvocato Natale Graziani,
Presidente dell’Accademia degli Incamminati. Nel salone
consigliare del Palazzo municipale si è svolta la pubblica
seduta del Consiglio
Comunale.
Numerose erano le
autorità presenti, dal
vescovo di Faenza e
Modigliana Monsignor Stagni al prefetto di Forlì Cesena
Salvatore Montanaro,
dal presidente della
Provincia a vari senaGli Atti del convetori e deputati nonché
gno di studi (grazie ana diversi sindaci e
che al concorso financonsiglieri comunali
ziario del Comitato Nadella Romagna, dagli
zionale per le celebraaccademici Incammizioni del bicentenario
nati provenienti da
della nascita di Giusepogni parte d’Italia ai
pe Mazzini) saranno
cittadini di Modigliapubblicati quanto prina, in primo piano
ma dall’Editore Fran- Giancarlo Mazzuca con il “Vincastro d’Argento” attorniato da Antonio Patuelli, Pier Ferdinan- quelli insigniti della
co Angeli di Milano do Casini e Natale Graziani, rispettivamente nuovo Presidente, Presidente d’onore e Presidente Fascia Biancoazzurra
nella collana storica emerito dell’Accademia degli Incamminati. La cerimonia si è svolta a Modigliana il 12 novemLa dott.ssa Carla
diretta da Franco Del- bre nel Tempio-Auditorium San Bernardo.
Casadei, segretaria
la Peruta.
del Comune, ha fatto
l’appello e tutti i consiglieri sono risultati presenti. Il Sindaco, Claudio Samorì, ha proceduto al conferimento delle
Concerto di musiche risorgimentali
cittadinanze onorarie già deliberate all’unanimità e ne ha
spiegato la motivazione dichiarando: «Un preciso tratto
n occasione del convegno di studi faentino, la sera del 24 d’unione lega l’amicizia per Modigliana dei nostri due nuosettembre, nello stesso teatro Angelo Masini, si è tenuto un vi cittadini d’onore all’impegno che hanno profuso per la
concerto di musiche risorgimentali eseguito dalla Banda Città cultura – e intendo la cultura nella sua più alta accezione
di Modigliana diretta dal maestro Massimo Biserni. Sono sta- –, diffusa e vissuta attraverso la valorizzazione dell’attività
ti eseguiti pezzi di Rossini, Verdi, Novaro-Mameli, Francesco dell’Accademia degli Incamminati di Modigliana».
Fanelli, Brahms, Olivieri-Mercantini, Johann Strauss Jr., RoRivolto ai due neocittadini, il Sindaco ha concluso: «Con
mualdo Marengo, Anonimo (memoria di Francesco Nullo) il Vostro impegno nell’Accademia degli Incamminati avete
Beethoven. Il pubblico presente, costituito in gran parte da arricchito Modigliana e l’intero paese. Avete illustrato Moconvegnisti ha applaudito le esecuzioni presentate di volta in digliana portando l’Accademia a primeggiare nel panoravolta da Clara Samorì, su testo di Maria Grazia Nannini.
ma culturale accademico italiano e di ciò vi siamo profonLa Banda città di Modigliana, fondata, per merito del- damente riconoscenti. Questa città si onora di accogliervi
l’Accademia degli Incamminati nel lontano 1812, può consi- nel novero dei suoi cittadini d’onore e unisce i vostri nomi
derarsi una delle prime bande non militari del Centro Italia. a quelli di altre prestigiose personalità. Solo per citarne alAncor oggi molto amata dai modiglianesi, è animata da uno cune: Gilberto Bernabei, nostro indimenticabile Sindaco,
stuolo di valorosi giovani. Dal xix secolo ad oggi, sempre ha Franco Modigliani premio Nobel per l’economia, e più loncontrassegnato gli eventi gioiosi o tristi della città di Modi- tano nel tempo, Giuseppe Garibaldi, eroe dei Due Mondi e
gliana e della Patria. Vivo successo riscosse a Firenze nel dell’unità d’Italia. Benvenuti di cuore. Benvenuti!».
2003 in occasione della presentazione dell’opera storica “RoÈ forse il caso di ricordare che dopo la scomparsa di Gilmagna Toscana” in Palazzo Vecchio. L’Accademia degli In- berto Bernabei, restauratore dell’Accademia degli Incamcamminati ha raccolto i pezzi eseguiti a Faenza in un dvd, di- minati, questa ebbe come Presidente dal 1990 al 1997
stribuito gratuitamente ai Soci.
l’Onorevole Pier Ferdinando Casini, che la guidò e le die-
I
102
Caffè Michelangiolo
Il Vincastro
de nuovo impulso superando la difficile transizione. Dal
1997 al 2006 subentrò nella carica l’Avv. Natale Graziani
che qualificò sul piano scientifico l’antica istituzione conferendogli il prestigio nazionale che oggi la circonda.
proprio padre poi da parte sua, vi è sempre stata in casa per
l’antica Accademia modiglianese, onore e orgoglio della
Romagna.
Affrontando il tema della giornata, il Presidente Graziani ha fatto presente che il ciclo dedicato alla Lingua
italiana era stato da lui immaginato per una serie di tornate
Tornata d’autunno a Modigliana sul tema:
che avrebbero dovuto occuparsi della lingua italiana nel
“Politici loquaci
melodramma, nella canzone, nella critica d’arte, nel teatro,
la lingua italiana nella seconda Repubblica”
nella politica, nel cinema, nella stampa, nella televisione,
nella pubblicità e, inl 12 novembre
fine, affrontare il
2005 si è svolta nel
rapporto «uso della
Tempio-Auditorium
lingua italiana e uso
San Bernardo di Modell’inglese come lindigliana la tornata
gua veicolare», per
autunnale dell’Accachiudere con un’anademia degli Incamlisi sui dialetti in Itaminati sul tema: Polia, il loro apporto
litici loquaci: la linalla ricchezza dell’igua italiana nella sedioma nazionale, la
conda repubblica.
loro possibilità e opUna manifestazione
portunità di sopravche per gli Incammivivenza. Di questi
nati aveva un partitemi, il tempo ha
colare valore in
consentito di trattarquanto sarebbe stata
ne solo una parte.
l’ultima indetta dal
«Colui che mi succepresidente Graziani.
derà alla presidenza
Il quale nella lettera
– ha concluso – vadi convocazione ave- Il Presidente emerito Natale Graziani mostra il “Vincastro d’Oro” appena ricevuto dagli onorevoli luterà se e come prova concluso: «infine, Pier Ferdinando Casini e Antonio Patuelli, rispettivamente Presidente d’onore e neo Presidente cedere. Certamente
a chiusura, alcune dell’Accademia degli Incamminati.
non trascurerà che
mie parole di congequesta Accademia ha
do dalla Presidenza dell’Accademia. Lascio unicamente ormai assunto il ruolo di valorizzazione e divulgazione delper… superati limiti d’età. Non vorrei che colà dove si la lingua italiana a livello di popolare così come lo stesso
puote ciò che si vuole l’accettazione di un nuovo mandato ruolo è assolto dall’Accademia della Crusca a livello d’eliquadriennale alla mia tarda età fosse interprtata come una tes scientifiche».
sfida al Padre Eterno!… E credetemi, con Quello di Lassù
Introducendo il tema specifico, il Presidente Graziani ha
è meglio essere prudenti! tanto più che dopo gli ottanta si sottolineato che «la lingua della politica in Italia negli ulvive di giorni prestati…».
timi anni è stata condizionata da fattori extra linguistici che
In apertura di seduta il Presidente ha ringraziato Pier hanno portato ad un certo abbandono del cosiddetto poliFerdinando Casini presente di persona e si è rallegrato con tichese, e all’adozione di nuove forme di linguaggio politilui per la elezione, il 18 ottobre, alla Presidenza del- co, le quali, per l’appunto, distinguono la seconda republ’Unione Interparlamentare. Altri saluti sono stati rivolti al blica (ammesso che sia seconda). Con ciò non si vuole dire
Sindaco della città Claudio Samorì, al Vescovo, al Prefet- che i cambiamenti storico-istituzionali (frutto di molteplito, ai parlamentari e alle altre autorità presenti.
ci fattori fra cui quelli giudiziari, elettorali, di trasformaHa avuto poi luogo la consegna del “Vincastro d’argen- zione, fine e nascita di movimenti e partiti) hanno autoto Premio ad una vita” all’accademico Giancarlo Mazzuca, maticamente influenzato le abitudini dei politici protagodirettore del “Quotidiano Nazionale”, che cura la pagina nisti del cambiamento o che in seguito a questo, scesi nelnazionale del “Resto del Carlino” de “La Nazione” e del l’arena politica. Modificandosi le condizioni e le premesse
“Giorno”. Ricordando che il “Vincastro d’Argento” è ri- su cui la comunicazione politica era costruita, inevitabilservato agli Incamminati che hanno conferito particolare mente il linguaggio della politica ha preso una diversa connobiltà e valore alla vita, con l’eccellenza degli studi, del- notazione. La quale è stata accellerata dal venire meno
le ricerche, del sapere e delle opere, o con l’esempio di sin- della fase in cui la televisione non era come ora il principale
golare virtù civile, il Presidente ha invitato l’On. Casini a e più incisivo mezzo di comunicazione politica. Nessuno più
consegnare il premio. Ascoltata la motivazione, letta dal di me, che per ragioni anagrafiche purtroppo, proviene
dott. Giancarlo Aulizio, e ricevuto il “Vincastro d’argento”, dall’era lontana dominata dai grandi comizi di piazza e dai
il dott. Mazzuca dopo i ringraziamenti di rito ha anche ri- partiti di massa fortemente ideologizzati e organizzati, avcordato la considerazione e la stima che, prima da parte del verte l’abissale differenza fra allora ed oggi nella comuni-
I
Caffè Michelangiolo
103
Il Vincastro
cazione politica. Dopo il 1994, col declino dell’elettorato di
Intervento dell’On. Pier Ferdinando Casini
appartenenza partitica e il lento ma progressivo emergere
Presidente d’onore dell’Accademia
di un elettorato d’opinione (talvolta plagiata) la televisioopo la relazione del dottor Stefano Folli sulla lingua delne è diventata lo strumento principe della comunicazione
la politica nel giornalismo, ha preso la parola il Presipolitica e spesso il tempio stesso della ritualità politica accentuando quel carattere di spettacolarizzazione e di per- dente d’Onore dell’Accademia, On. Pier Ferdinando Casini.
sonalizzazione, quindi di leaderismo, verso cui anche le
leggi elettorali del 1993, col sistema maggioritario, avevaNel rivolgere a tutti gli Accademici Incamminati presenti
il mio più caloroso saluto, mi rallegro del fatto che questa
no sospinto il sistema».
Primo relatornata segni
un’ulteriore
tore è stato il
tappa della feprofessor Ricconda riflessiocardo Gualdo,
ne sulla lingua
ordinario nelnazionale sel’Università delguita alla difla Tuscia (Vifusione del forterbo), dove insegna linguistitunato Manifesto agli italiani
ca e si occupa
per l’italiano.
di didattica delIl successo
l’italiano scritdell’iniziativa,
to, il quale ha
cui hanno contrattato il tema:
tribuito tanti il“I linguaggi
lustri studiosi,
della politica
ha confermato
italiana”.
la felice intuiPer l’esorzione del presidio, Riccordo
dente uscente,
Gualdo si è ril’avvocato Nafatto all’ormai
tale Graziani,
celebre pezzo di
che ringrazio
comunicazione
ancora una volpolitica che il Il pubblico alla Tornata del 12 ottobre 2005, a Modigliana, nel Tempio-Auditorium San Bernardo.
ta per lo straor26
gennaio
1994 segnò la discesa in campo di Silvio Berlusconi e, dopo dinario impulso intellettuale e la dedizione profusa al seruna veloce analisi, ha reso evidente la ventata di novità vizio della nostra Accademia.
che essa conteneva rispetto al vecchio politichese della parIl tema odierno mi chiama direttamente in causa, in ratitocrazia, delle convergenze parallele, degli equilibri più gione del mio impegno politico, che si è realizzato in una
ormai più che ventennale vita parlamentare. Ho quindi
avanzati, ecc.
L’analisi tocca anche il linguaggio di altri politici (Bos- impiegato ed impiego quotidianamente la lingua italiana
si, Di Pietro, Fini, Rutelli, ecc.) convalidando la tesi che le nell’ambito politico e quindi mi sottometto e i rimetto, in un
formule vincenti della nuova comunicazione politica sono certo senso, all’esame che ne hanno fatto gli esperti relatori
rappresentate dalla semplificazione e dalla personalizza- qui convenuti. Mi preme, tuttavia, condividere con tutti
zione, condizionate da un uso inedito e generalizzato dei voi qualche osservazione ispirata dall’esperienza persomezzi di comunicazione di massa, in primo luogo la televi- nale, innanzitutto sull’evoluzione della lingua della politisione. Da qui il leaderismo e il soggettivismo che distingue ca nell’arco della storia repubblicana.
la nuova fase della politica sempre più loquace e litigiosa.
A me sembra che in una prima fase, quando i partiti poÈ seguita la relazione di Stefano Folli. Il quale, laureato litici rappresentavano solidi riferimenti dell’organizzazioin storia con Renzo De Felice, ha esordito nel giornlismo con ne del consenso e della mobilitazione civica, i destinatari
“La voce repubblicana”: giornale che poi ha diretto negli della comunicazione politica fossero principalmente i milianni Ottanta. Portavoce del Governo Spadolini dal 1981 al tanti e quindi il linguaggio privilegiasse la retorica ed
1982, nel 1991 è entrato nella redazione del “Corriere del- avesse come obbiettivo la conferma della scelta ideologica
la Sera” come notista politico assumendone la direzione compiuta, più che la ricerca di nuove adesioni.
per il biennio 2004-2005. Attualmente è notista del “Sole
Successivamente, con la crisi del sistema dei partiti, la
24 Ore”. Il tema de “La lingua della politica nell’intervista” comunicazione politica si è come racchiusa all’interno delha consentito all’oratore di spaziare dalla cultura all’episo- la cerchia degli addetti ai lavori, determinando la nascita
dica giornalistica dando del linguaggio politico nel giorna- del cosidetto “politichese”, una lingua gergale a carattere
lismo un’immagine forse meno innovativa, rispetto al pas- autoreferenziale, buona soltanto per scambiarsi messaggi
sato, di quella che emerge dai discorsi in pubblico.
in codice nel quadro di una democrazia bloccata.
D
104
Caffè Michelangiolo
Il Vincastro
Oggi ho l’impressione che si viva finalmente una fase più
libera, che impone ai politici di rivolgersi direttamente ai
cittadini senza la comoda mediazione dell’ideologia. L’esistenza di una crescente fascia fluttuante dell’elettorato ha
infatti ampliato la funzione persuasiva del linguaggio politico, che deve trasmettere contenuto e non più slogan.
Dall’uomo politico, insomma, non si pretende più solamente lo sfoggio del bel dire, ma piuttosto la spiegazione
della realtà e la testimonianza dell’impegno personale. La
lingua della politica deve perciò
aspirare ad essere concreta e
colloquiale, anche nella trasmissione dei valori. Parallelamente si è anche evoluta la forma della comunicazione politica. Ad esempio: il comizio elettorale – ma anche gli interventi ai congressi dei partiti – non
rivestono più il ruolo di una
volta: Oggi prevale la comunicazione televisiva, che però ha
superato il modello delle vecchie “tribune politiche”, in cui
ciascun rappresentante illustra
la propria posizione indipendentemente da quelle altrui,
La televisione contemporanea punta piuttosto sui confronti che evidenziano la contrapposizione delle idee e dei
progetti: un metodo che, in teoria, dovrebbe risultare senz’altro più efficace, ma che – stando agli scontri verbali cui non di
rado capita di assistere – meriterebbe una maggiore dose di
autocontrollo ed un più accen- Stefano Folli, notista politico de
tuato senso di responsabilità da intervento.
parte di tutti i protagonisti
Una significativa continuità mi sembra invece che si
possa verificare in sede parlamentare. Gli interventi in
Aula in occasione dei principali dibattiti politici, spesso
trasmessi in diretta televisiva, mantengono la loro pregnanza. È vero che non è più il tempo dell’oratoria parlamentare classica, che faceva grande mostra di citazioni latine e greche: gli stessi regolamenti parlamentari, del resto,
impediscono ormai di tenere discorsi- fiume.
Ma l’aula parlamentare esercita ancora il suo fascino
e gli esponenti di tutti gli schieramenti continuano ogni
giorno ad impegnarsi ad alto livello quando sono chiamati
ad esprimere pubblicamente le rispettive posizioni. Quel
che più conta è comunque la consapevolezza della sede
della sovranità popolare e del diritto di tribuna che vi è
correlato.
Si tratta di capisaldi della democrazia parlamentare,
che è indispensabile tenere fermi e perseverare quanto più
possibile da ogni degenerazione, che oggi può arrecare
pregiudizi gravissimi all’immagine del lavoro parlamentare, alla luce della straordinaria vastità della platea degli
Caffè Michelangiolo
utenti, raggiunti certamente dalla radio e dalla televisione,
ma anche da internet.
Infine, vorrei sottolineare come la politica sia uno degli
ambiti che di norma maggiormente testimonia la vitalità di
una lingua e contribuisce ad arricchirla. Termini di nuovo
conio, prestiti da lingue straniere, reimpieghi verbali sono
all’ordine del giorno nello svolgimento di un linguaggio
che è chiamato ad interpretare situazioni sempre diverse e
dinamiche.
Succede allora di frequente
che espressioni nate all’interno
della comunicazione politica si
trasferiscano nella lingua quotidiana e vengano impiegate in
contesti assolutamente indipendenti da essa
Penso all’esempio dell’espressione par condicio, un latinismo un tempo relegato al ristretto codice linguistico del diritto fallimentare che è stato poi
adottato dalla politica per definire le regole della propaganda elettorale e che oggi è rientrato nell’uso collettivo.
Esiste, dunque, una circolazione linguistica virtuosa di cui
la politica è parte integrante.
Fattore determinante, a questo
proposito, è la maturazione dei
cittadini che – a differenza di
quanto ogni tanto si afferma
con una buona dose di qualunquismo – sono assai meno influenzabili di un tempo, perché
hanno acquisito maggiore co“Il Sole 24 Ore”, durante il suo scienza critica.
Ben vengano dunque gli studi sulla lingua della politica e
sulla loro valenza civile, che si affianca a quella scientifica. Grazie allora agli Incamminati per questa occasione,
con il fervido augurio di buon lavoro a tutti i presenti.
Motivazione del “Vincastro d’Argento
a Giancarlo Mazzuca
C
onseguita nel 1972 la laurea cum laude all’Università
di Bologna in Scienze Politiche, e perfezionatosi in politica diplomatica nell’americana Università Johns Hopkins,
Giancarlo Mazzuca, nativo di Forlì, nel 1973 entra nella redazione de “Il Resto del Carlino”, quindi nel 1979 passa
alla redazione economica del “Corriere della Sera” di cui
sarà Caposervizio e Inviato speciale.
Nel 1986 Caporedattore a “Il Giorno” per la parte economica, tre anni dopo è Vicedirettore della edizione italiana della rivista “Fortune” quando, nel 1991, Indro Montanelli lo chiama a “Il Giornale” per affidargli le funzioni
di Caporedattore della sezione economica. Al fianco di
105
Il Vincastro
Montanelli, Maestro ed Amico, e come suo Vice, vivrà inoltre tutta l’esaltante avventura de “La Voce” fino alla sua
conclusione nel 1995. Dopo di che fa ritorno a Bologna
rientrando nella redazione de “Il Resto del Carlino” con
l’incarico di Caporedattore per l’economia, poi di Vicedirettore vicario.
Nell’ambito del Gruppo Poligrafici Editoriale, dal 1997
ad oggi, dapprima è Vicedirettore e poi Direttore del “Quotidiano Nazionale”, che cura le pagine nazionali de “Il Resto del Carlino”, di cui è anche
Direttore responsabile, de “La
Nazione” e de “Il Giorno”; infine, dal 2002, vi associa l’incarico di Direttore editoriale dell’anzidetto Gruppo Poligrafici.
L’intenso impegno giornalistico è stato sempre accompagnato dall’attività di scrittore
di saggi pregevoli su temi di natura economica e sociale e autobiografici. I quali danno ulteriore testimonianza del valore
dell’uomo e della sua fedeltà all’amicizia, nonché della cultura
e della professionalità che lo distinguono.
Per tali motivi, in occasione
della Tornata Accademica
d’Autunno 2005, il Consiglio di
Presidenza, ad unanimità di
voti, assegna all’Incamminato
Giancarlo Mazzuca il Vincastro
d’Argento Premio a una vita.
cazione: cioè che lui, mentre ringraziava della fiducia unanime testimoniatagli e delle affettuose ripetute insistenze,
non intendeva – stante la tarda età – riproporre, né ora riproponeva, la propria candidatura alla presidenza dell’Accademia. Considerava, quindi, chiuso il proprio impegno con la fine del mandato al 31 dicembre 2005, e – riservandosi d’inviare a tutti i soci, appena il tempo glielo
avesse concesso, una doverosa, sintetica relazione scritta sul
lavoro svolto da lui e dal Consiglio di Presidenza per tutto
il mandato – assicurava che appena possibile avrebbe portato
a termine quanto restava nella
sua competenza e nei suoi obblighi da completare (compresi
gli Atti delle pregresse tornate e
la storia di Modigliana).
Passava quindi a trattare il
primo comma all’ordine del
giorno, relativo all’elezione del
Presidente dell’Accademia.
A questo punto il Presidente
d’Onore, On. Casini, data la
personalità del candidato e la
previsione ammessa dallo statuto vigente, proponeva la elezione per acclamazione a Presidente dell’Accademia del Socio
ordinario On. Dott. Antonio Patuelli.
Un generale applauso accoglieva la proposta.
Il Presidente dell’Assemblea
Graziani, datto atto che nessuno
si è dichiarato contrario alla
proposta di elezione per acclaAssemblea elettorale
mazione, né alcun dissenso è
eletti il nuovo Presidente
stato manifestato durante l’ace gli Organi Sociali
clamazione, visto l’at. 15 dello
Il professor Riccardo Gualdo, ordinario di Linguistica e didattica della
lingua italiana all’università della Tuscia, Viterbo, durante il Convegno.
Statuto ha dichiarato l’On. Dott.
ome da convocazione scritAntonio Patuelli eletto alla carita inviata al domicilio dei singoli Soci a mezzo posta, il ca di Presidente dell’Accademia degli Incamminati per il
12 novembre 2005 alle ore 15,30 ha avuto inizio e si è te- quadriennio 1 gennaio 2006 - 31 dicembre 2009.
nuta in Modigliana presso il Tempio-Auditorium San BerChiesta ed ottenuta la parola, il neo Presidente ha pronardo, Corso Garibaldi, in seconda convocazione (essendo nunciato il breve discorso che qui viene riportato a parte,
andata deserta la prima convocazione fissata per le ore 8 mentre insieme all’On. Casini ha proposto all’Assemblea di
dell’11 novembre 2005, stesso luogo), l’Assemblea del Cor- proclamare l’Avv. Natale Graziani – che tanto ha benemepo Accademico dell’Accademia degli Incamminati di Mo- ritato dell’Accademia – Presidente Emerito. L’Assemblea ha
digliana, per deliberare l’elezione del Presidente dell’Ac- approvato con un’ovazione.
cademia e degli altri organi sociali (Collegio di Presidenza,
Passando alla trattazione del secondo comma all’ordine
Collegio dei Sindaci, Collegio dei Probiviri) per il qua- del giorno, il Presidente dell’Assemblea ha disposto che si
driennio 1 gennaio 2006 - 31 dicembre 2009 come da vi- procedesse alla elezione degli altri organi sociali.
gente statuto.
Nell’ordine, sono risultati eletti i Soci accademici:
Ha presieduto l’Assemblea il Presidente effettivo uscen- – Consiglio di Presidenza: Giancallisto Mazzolini, Giute, Avv. Natale Graziani, che aveva al proprio fianco il
seppe Mercatali, Simona Costa, Dino Mengozzi, Paolo
Presidente d’Onore, On. Pier Ferdinando Casini.
Casadio Pirazzoli, Matilde Balbi, Fiorvante Montanari,
Il Presidente Graziani ha dichiarato aperta e validaGiancarlo Aulizio.
mente costituita l’Assemblea e, ad avvenuta distribuzione – Collegio Sindacale: Gianluca Galletti, Presidente; Giandelle schede elettorali ai soci presenti, ha confermato quanluca Bandini e Franco Scaccini, Sindaci effettivi; Vito
to già aveva comunicato per scritto nella lettera di convoBarboni e Vittorio Lenzi, Sindaci supplenti.
C
106
Caffè Michelangiolo
Il Vincastro
– Collegio dei Probiviri: Domenico Landi, Presidente; Roberto Budassi e Luciano Ravaglia, Probiviri effettivi;
Franco Ferro e Loris Lolli, Sindaci supplenti.
Il nuovo Presidente Antonio Patuelli
I
scuno, a cominciare da Natale Graziani che come Presidente Emerito rimarrà con noi e che coinvolgerò personalmente, innanzitutto concordando con lui le attività e le
riunioni.
Sono convinto che tutto il lavoro svolto in questi anni
dall’Accademia innanzitutto sulla lingua italiana sia talmente importante da essere anche una premessa delle riflessioni e delle iniziative che potremo assumere per incamminarci e per sollecitare e promuovere le più adeguate iniziative (anche con una legge speciale) verso il settimo centenario della morte di Dante.
A testimonianza di sincera
gratitudine da parte di tutti
noi, permettetemi di consegnare a Natale Graziani il “Vincastro d’Oro”, con la più sincera
stima ed amicizia.
l nuovo Presidente dell’Accademia degli Incamminati,
Antonio Patuelli, è nato a Bologna il 10 febbraio 1951 e
risiede a Ravenna dove ha sede
l’azienda agricola di famiglia e,
dal 1995, è Presidente della locale Cassa di Risparmio: il maggiore istituto bancario della Romagna che egli ha ulteriormente ampliato e potenziato. Prima
su designazione del Presidente
della Repubblica, poi in rappresentanza dell’A.B.I. (di cui è
stato Vice Presidente), fa parte
del Consiglio Nazionale dell’EVincastro d’Oro
conomia e del Lavoro (CNEL)
Congedo di Natale Graziani
di cui è anche Presidente del
dalla presidenza
Collegio Sindacale.
l Presidente d’Onore, Pier
Eletto deputato per due legiFerdinando Casini, e il nuovo
slature, sottosegretario di Stato
Presidente effettivo, Antonio
alla difesa nel Governo Ciampi,
Patuelli, a nome e per conto di
ha fatto parte di varie Commistutti gli Accademici Incammisioni parlamentari e ha presinati hanno consegnato al Presiduto il Comitato per Garanzie
dente Emerito Natale Graziani
Custituzionali nella Commisuna targa d’argento da cui
sione Bicamerale. Dapprima
emerge l’altorilievo di un vinSegretario della Gioventù Libecastro in oro. Il destinatario,
rale, dagli anni ’70 ai primi
evidentemente sorpreso e comanni ’90 ha ricoperto la carica
mosso, ha ringraziato abbracdi Vice Segretario Nazionale del
ciando sia l’On. Casini, sia l’On.
Partito Liberale Italiano.
Giornalista pubblicista, è L’onorevole Antonio Patuelli, nuovo Presidente dell’Accademia degli Patuelli.
Al termine della Assemblea
editorialista dei quotidiani “il Incamminati.
elettorale (e contemporanea
Resto del Carlino”, “la Nazione”, “il Giorno” e “la Gazzetta del Sud”. Sposato, ha una tornata), Natale Graziani ha tenuto il breve discorso che ha
segnato la conclusione dei lavori accademici del 12 nofiglia.
Subito dopo la elezione a Presidente degli Incammina- vembre scorso:
ti, ricevuti i complimenti e gli applausi dei tanti accademici
presenti, il Dott. Antonio Patuelli ha pronunciato il seari amici e colleghi Incamminati,
guente breve discorso.
nella mia lettera di convocazione all’Assemblea e alla
Ringrazio sinceramente il Presidente Natale Graziani, Tornata odierne vi scrivevo, un po’ per celia e un po’ per
l’amico di sempre Pier Ferdinando Casini e tutti gli In- autoironia (lo dico riecheggiando la Butterfly), che avrei
camminati per l’alto onore che mi hanno così ampiamen- lasciato la presidenza dell’Accademia … per superati limiti
d’età. La tarda età: è questa la ragione unica e vera. Rite attribuito.
Non nascondo l’emozione, in questo momento, innanzi- flettete con me un momento! A Natale, ormai prossimo,
tutto nel ricordare quando venni le prime volte agli In- compirò 83 anni. Un nuovo mandato di presidenza accacamminati con mio Padre che era Accademico, nei primis- demica sarà, per statuto, di quattro anni. Fate voi il conto, tirate le somme e avrete la conclusione… ammesso che
simi anno Ottanta.
Ricordo nitidamente Gilberto Bernabei, la sua merita- il buon Dio sia disposto con me a largheggiare nel numeta autorevolezza, le sue capacità di coinvolgimento e di ro degli anni!… Vi ho anche scritto – ricordate? – che dopo
realizzazione. Sono a disposizione di quest’antica e glo- gli Ottanta ogni anno è prestato. E Deo gratias se gli anni
riosa istituzione e conto sulla collaborazione di tutti e di ci- che verranno saranno per me uguali a questo giorno!
I
C
Caffè Michelangiolo
107
Il Vincastro
Ora, diciamocelo francamente: alla mia età l’accettazio- camminati, rispettivamente Ortolani, Framonti e Morresi
ne di un nuovo mandato quadriennale, potrebbe anche ave- coi loro collaboratori.
re tutta l’aria di una sfida al padrone del tempo, cioè al PaInfine, a tutti Voi, colleghi ed amici Incamminati, il mio
dreterno. Con costui, credetemi, è sempre meglio essere pru- cuore si apre con l’immensa riconoscenza di cui è dotato.
denti!
Solo io posso sapere quanto mi costi interrompere il colloquio
Vedo in sala alcuni accademici, miei vecchi compagni col popolo degli Incamminati! Persona per persona, viso per
del classico a Forlì: Ferro, Lolli, Savorani… Vi ricordate, viso, nome per nome,tutti porto con me. Nel mio cuore.
compagni di anni lontani, quello che il Prof. Schiassi di laCerto mi mancherà il dolce compito della lettera di contino e greco spesso ci ripeteva di Seneca?
vocazione alle tornate che, anche se collettiva, mi sembrava
Seneca ammonisce che non
di scrivere ad uno ad uno di voi,
semper saturnalia erunt! Non
individualmente (non per casempre sarà carnevale, amici Inpriccio pretendevo in calce la fircamminati! Per il rispetto che
ma autografa)! E mi mancherà
devo a Voi e alla istituzione momolto l’osmosi dei sentimenti, il
diglianese, alla mia età anche
vostro e il mio, che avvertivo
questo ‘dettaglio’ (che non è da
quando alle nostre riunioni si
poco) va tenuto presente! Non
discuteva dei grandi temi della
dubito, quindi, della Vostra
cultura, a cominciare dalla lincomprensione e perciò spero che
gua italiana che è stata – come
sarà apprezzata la ragione del
dire? – il mio cavallo di battamio ritiro. Il che nulla toglie alla
glia. Tutti insieme sentivamo
gratitudine che sento e vi devo
nella partecipazione all’Accadeper le pressanti e premurose inmia il collante che faceva di noi
sistenze scritte e verbali da voi
un unico “essere” a servizio delricevute!
la cultura, del sapere, del bene e
Non spetta a me dare un giudel bello.
dizio sugli otto anni di mia preVi ringrazio che siete oggi
sidenza nell’Accademia degli Inqui, che foste presenti ieri ai
camminati, ma certamente spettanti nostri incontri, sempre
ta a me ringraziare, e lo faccio
animati da quel vivo ’interesse e
molto volentieri, non soltanto
da quell’entusiasmo traboccanper dovere, ma per spontaneo e
te di cui gl’illustri relatori, giunsincero moto del cuore. Ringrati da fuori, restavano ammirati
zio anzitutto il Presidente d’Oe spesso contagiati, mentre io
nore, On. Pier Ferdinando Casiricevevo una carica tale di ferni, che mi è stato sempre vicino,
vore da rendere lieve la fatica
che ha sempre condiviso le nononostante gli anni e fecondo il
stre scelte e le ha autorevolmen- L’avvocato Natale Graziani, Presidente Emerito dell’Accademia degli lavoro.
te patrocinate, che, infine, Incamminati.
Come mio dovere, conto d’inquando gli è stato possibile, ha
viarvi – appena mi sarà possibipartecipato di persona alle tornate e, con discrezione ma au- le – una succinta relazione sull’attività svolta nel corso del
torevolmente, ha contribuito all’odierno notevole successo di mandato. Un mandato che, se è stato proficuo di risultati, si
questa nostra istituzione. Con affetto gli esterno, quindi, deve anche – ripeto – alla preziosa collaborazione del mio
l’immensa gratitudine mia, del Consiglio di Presidenza, e vo- predecessore. A mia volta spero, anzi m’impegno di fare alstra, Incamminati che mi ascoltate.
trettanto col mio successore.
Un ringraziamento particolare serbo al mio Vice PresiL’amico Patuelli, quindi, ha la mia parola, mentre gli rindente, Avv. Giancallisto Mazzolini, amico carissimo, mio novo il ringraziamento per le lusinghiere espressioni serbabraccio destro in ogni senso, collaboratore indispensabile cui temi e, in particolare gli sono grato della bellissima sorpredebbo fin’anche la costante cortesia dei miei frequenti viag- sa del “Vincastro d’Oro”. A lui, al suo impegno come Presigi da Firenze a Modigliana e viceversa.
dente degli Incamminati, ai nuovi organi sociali (Consiglio
La riconoscenza, naturalmente, si estende ai singoli mem- di Presidenza in primo luogo) l’augurio di buon lavoro e di
bri del Consiglio di Presidenza, che ringrazio non solo per la più alti traguardi. A me intatta resta la volontà e la gioia di
collaborazione, ma anche per i buoni suggerimenti ricevuti continuare, da semplice gregario, ad operare per le fortune
e per la fiducia accordata ad ogni mia iniziativa, mentre mi di quell’Accademia che l’indimenticabile Gilberto Bernabei
è caro fra costoro citare per tutti il Consigliere Segretario affidò all’impegno e all’amore dei suoi amici.
Giuseppe Mercatali, attivissimo, generoso e disponibile semDichiaro ora, in questa serata per me memorabile, chiupre. Inoltre, grazie ai Sindaci Revisori Ridolfi e Scaccini, si i lavori dell’Assemblea e della Tornata d’Autunno 2005.
nonché ai Presidenti delle due Sezioni specialistiche (del E a tutti voi, amici e colleghi Incamminati, un fraterno ab■
Patrimonio e delle Esposizione d’Arte) e del Campus degli In- braccio!
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NOVITÀ
Pagliai Polistampa
Finalista
PREMIO VIAREGGIO 2005
Opera Prima
Mario Domenichelli, anglista e comparatista, docente all’Università di Firenze,
esordisce come romanziere inaugurando la nuovissima collana
di narrativa italiana e straniera “I coloniali” per i tipi di Pagliai Polistampa.
Ambientata nella Somalia del 1989, poco prima che la caduta di Siad Barre
trascinasse il paese nel caos del tribalismo e alla mercé dei signori della guerra,
è la storia densa e avvincente di Tomas, un bizzarro e elusivo professore che nell’ambito
della Cooperazione italiana insegna nell’Università di Magadiscio.
E con lui, di una generazione e di un mondo crudelmente ingannati.
11,5 x 21 cm., 272 pagine, € 14,00
Edizioni Polistampa
Via Livorno 8/31 - 50142 Firenze - Tel. 055.7326272 - Fax 055.7377428
e-mail: [email protected] - http://www.polistampa.com
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I fascicoli pubblicati
ANNO I - N. 1 - GENNAIO-APRILE 1996
ANNO II - N. 1 - GENNAIO-APRILE 1997
ANNO III - N. 1 - GENNAIO-APRILE 1998
ANNO IV - N. 1 - GENNAIO-APRILE 1999
ANNO V - N. 1 - GENNAIO-APRILE 2000
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In copertina: Marino Moretti
In copertina: Carlos Drummond de Andrade
In copertina: Vittorio Alfieri
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ANNO II - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 1997
ANNO III - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 1998
ANNO IV - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 1999
ANNO V - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 2000
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In copertina: Curzio Malaparte
In copertina: Piero Camporesi
In copertina: Ángel González
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ANNO II - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 1997
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I fascicoli pubblicati
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ANNO VII - N. 1 - GENNAIO-APRILE 2002
ANNO VIII - N. 1 - GENNAIO-APRILE 2003
ANNO IX - N. 1 - GENNAIO-APRILE 2004
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MAGGIO-AGOSTO 2004
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In copertina: Marcel Duchamp
In copertina: Carlo Levi
In copertina: Lalla Romano
In copertina: Luigi Dallapiccola
In copertina: Luigi Bertelli (Vamba)
ANNO VI - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2001
ANNO VII - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2002
ANNO VIII - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2003
ANNO IX - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2004
ANNO X - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2005
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
ISSN 1826-2546
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B
LEGGE 662/96 - FIRENZE
€ 7,75 (LIRE 15.000)
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO VI - N. 3
SETTEMBRE-DICEMBRE 2001
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B
LEGGE 662/96 - FIRENZE
€ 8,00
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO VII - N. 3
SETTEMBRE-DICEMBRE 2002
QUADRIMESTRALE
SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE
70% - DCB - FIRENZE
€ 8,00
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO VIII - N. 3
SETTEMBRE-DICEMBRE 2003
QUADRIMESTRALE
SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE
70% - DCB - FIRENZE
€ 8,00
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO IX - N. 3
SETTEMBRE-DICEMBRE 2004
QUADRIMESTRALE
SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE
70% - DCB - FIRENZE
€ 8,00
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO X - N. 3
SETTEMBRE-DICEMBRE 2005
PAGLIAI POLISTAMPA
PAGLIAI POLISTAMPA
PAGLIAI POLISTAMPA
PAGLIAI POLISTAMPA
PAGLIAI POLISTAMPA
In copertina: Sean Connery (James Bond)
In copertina: Anton Čechov
In copertina: Elémire Zolla
In copertina: Giovanni Boldini
In copertina: Ezra Pound
“Caffè Michelangiolo”
Quadrimestrale di discussione
viene distribuito anche nelle edicole
della provincia di Firenze
La collaborazione è esclusivamente su invito.
I contributi devono essere redatti secondo le “Norme di editing” pubblicate sulla rivista
e pervenire tramite e-mail: [email protected]; oppure tramite supporto elettronico.
In caso diverso, non saranno accolti.
Eventuali immagini di corredo, se scansionate dall’autore, devono essere ad alta risoluzione.
Caffè Michelangiolo
111
Biblioteca del Caffè
Mario Benedetti
Difesa dell’Allegria
Ángel González
Nel nido del cuore
M.G. Parri - Stella di guardia
Luis García Montero
Primo giorno di vacanza
Carlos Bousoño
Antologia poetica
Franciso Brines
Antologia poetica
Ioan Vieru
La luce nella stanza dell’ospite
Luis Antonio de Villena
Via dall’inverno
Antonio Cisners
Le immense domande celesti
Ruy Belo
Poesie scelte
Felipe Benítez Reyes
Poesie scelte
Claudio Rodrígues
Poesie scelte
Eloy Sánchez Rosillo
Il fulgore del lampo
Jaime Gil de Biedma
Antologia poetica
Giorgio Luti
Letteratura e rivoluzioni
Marino Biondi
Scrittori e identità italiana
Marino Biondi
La cultura di Prezzolini
La poesia contemporanea nella voce degli autori
più significativi del panorama italiano e internazionale.
Preziosi e raffinati volumi che formano
una piccola indispensabile biblioteca per ritrovare
la strada della più autentica voce lirica del nostro tempo.
Volumi rilegati con coperta a colori
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caffè michelangiolo