ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI. MODIGLIANA CAFFÈ MICHELANGIOLO R I V I S T A D I D I S C U S S I O N E fondatore e direttore Mario Graziano Parri Pagliai Polistampa In copertina: Rolando Monti, Ezra Pound, 1932 ca., olio su tela, cm. 100 x 73, per g.c. di Mary de Rachelwitz. Quadrimestrale - Anno X - n. 3 - Settembre-Dicembre 2005 Nella testata: Interno del Caffè Michelangiolo nell’acquerello eseguito da Adriano Cecioni verso il 1865. Direttore responsabile Mario Graziano Parri Direttore editoriale Natale Graziani In redazione Elena Frontaloni, Enrico Gatta, Antonio Imbò Amici del Caffè Luciano Alberti, Giorgio Bárberi Squarotti, Anna Maria Bartolini, Marino Biondi, Ennio Cavalli, Zeffiro Ciuffoletti, Franco Contorbia, Simona Costa, Maurizio Cucchi, Mario Di Napoli, Francesca Dini, Mario Domenichelli, Angelo Fabrizi, Giulio Ferroni, Franco Ferrucci, Alessandro Fo, Michele Framonti, Enrico Ghidetti, Emma Giammattei, Gianni Guastella, Giorgio Luti, Gloria Manghetti, Giancallisto Mazzolini, Michele Miniello, Piero Pacini, Emiliano Panconesi, Antonio Pane, Maria Carla Papini, Ilaria Parri, Ernestina Pellegrini, Anna Maria Piccinini, Eliana Princi, Eugenia Querci, Amedeo Quondam, Silvia Rizzo, Federico Roncoroni, Carlo Sisi, Jole Soldateschi, Antonio Tabucchi, Uta Treder, Carlo Vecce, Pier Francesco Venier, Daniel Vogelmann, Giorgio Weber Redazione 50142 Firenze - Via Livorno, 8/31 - Fax 055.7326110 E-mail: [email protected] Editore e stampatore Pagliai Polistampa, Firenze - Telefono 055.7326272 03 04 12 14 17 20 23 Amministrazione Edizioni Polistampa di Mauro Pagliai 50142 Firenze - Via Livorno 8/31 - Tel. 055.7326272 Accademia degli Incamminati 47015 Modigliana (Forlì) - Via dei Frati, 19 Tel. 0546.941227 - Fax 0546.940285 Spedizione in Abbonamento Postale 70% - DCB - Firenze 27 Alla rivista si collabora su invito. Per inderogabili esigenze editoriali, i contributi, redatti in conformità con le “Norme di editing” richiamate nella rivista, devono essere registrati in formato RTF (Rich Text Format) e pervenire tramite e-mail: [email protected], dischetto o CD. In caso diverso, non potranno venire accolti. 35 Registrato al Tribunale di Firenze n. 4612 del 9 agosto 1996. ABBONAMENTI, ORDINI, INFORMAZIONI Mario Miniatelli - Tel. 055.7328043 e-mail: [email protected] 3 numeri annuali: Italia e Unione Europea € 22,00 sul conto corrente postale 25986506 intestato Polistampa S.n.c. - Firenze Una copia: € 8,00 Numero arretrato: € 10,00 Il presente fascicolo è stato chiuso in tipografia il 15 Febbraio 2006 con una tiratura di 2.500 copie. Pubblicazione associata all’Unione Stampa Periodica Italiana Caffè Michelangiolo 28 38 41 46 50 LA TERZA PAGINA La lentezza dell’astronauta di Mario Graziano Parri LE BUONE ARTI Un poeta di regime? di Danilo Breschi LA POESIA Teologia familiare poesie di Fornaretto Vieri presentate da Alessandro Fo LA NARRATIVA Compleanno in famiglia racconto di Mario Graziano Parri Un anello per Katherine dal romanzo di Linda Lappin traduzione di Sandro Melani Di là dalla frontiera racconto di Antonio Imbò CRITICA E LETTERATURA Caro Maestro ti scrivo di Simona Costa I CAFFÈ LETTERARI Il Caffè Michelangiolo a Firenze di Gérard-Georges Lemaire LETTERATURA E CINEMA Un Pasolini (in)edito di Elena Frontaloni La femminilità del dolore di Costanza Melani LA VETRINA Il sogno, la vita di Michele Miniello LA BIBLIOTECA DEL VIAGGIATORE Un borghese in fuga di Loriano Gonfiantini LA BELLA ITALIA Vis-à-vis con Raffaello Ojetti di Eugenia Querci LE ARTI, GLI EVENTI Il mito del viandante di Piero Pacini 56 60 62 63 64 71 75 76 97 Le figure dell’amore di Anna Maria Piccinini Sei domande a Giancarlo Ossola conversazione di Alberto Pellegatta De Pisis a Brescia Ottocento italiano a Rieti Le grands débris a Torino Leonardo agli Uffizi L’IDEA E LA FORMA Lo scomodo innovatore di Elio Garzillo SCIENZA E FIGURAZIONE Fra Siena e Roma di Giorgio Weber BLOC-NOTES di Bartleby LE LETTURE L’insostenibile leggerezza della modernità, di Costanza Melani; Una voluttà secca e vertiginosa, di Elena Frontaloni; La penna del saggio, di Angelo Fabrizi; «Sono nato su un treno mentre la città bruciava», di Monica Venturini; Sulla scrittura aforistica di Alberto Caramella, di Claudio Mariotti; Note al testo, della Direzione; L’altra faccia della luna, di Costanza Melani; Viaggio in “terra di attese”, di Monica Venturini; Per Maria Fancelli, di Riccardo Donati; Creature dell’alto novembre, di Alfonso Lentini; Il trepido diario, di Monica Venturini; In una aureola di fumo, di Anna de Simone; Dalla Russia con amore, di Costanza Melani; Le piccole canaglie della poesia contemporanea, di Riccardo Donati; Il futuro già trascorso, di Monica Venturini. IL VINCASTRO Notizie dell’Accademia degli Incamminati 1 I collaboratori Danilo Breschi (Piatoia, 1970) si è laureato al Cesare Alfieri di Firenze in Storia del pensiero politico e ha poi conseguito all’Università di Siena il dottorato di ricerca in Teoria e storia della modernizzazione. Attualmente insegna Scienza politica all’Università San Pio V di Roma e a Roma collabora con la Fondazione Ugo Spirito. Ha pubblicato (con Gisella Longo) la biografia politico-intellettuale Camillo Pellizzi. La ricerca delle élites tra politica e sociologia (1896-1979), Rubettino 2003. È anche autore di due libri di poesia: Congiunzione carnale, astrale, relativa (Firenze Libri, 2003) e La cura del tempo (ivi, 2005). Piero Pacini è nato a Tuoro sul Trasimeno nel 1936 e risiede a Firenze. È autore di studi monografici su Gino Severini e sulla cultura figurativa tra ’800 e ’900; ha indagato aspetti della civiltà figurativa fiorentina tra il Manierismo e la tarda età barocca. Collaboratore di riviste a diffusione internazionale, è stato redattore di “Antichità viva”; ha curato mostre di artisti contemporanei in Italia e all’estero. Tra le ultime pubblicazioni: Le sedi dell’Accademia del Disegno (Firenze 2001) e Galileo Chini pittore e decoratore (Soncino, CR, 2002). Simona Costa, italianista, allieva a Firenze di Lanfranco Caretti e già Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia nell’Ateneo di Macerata, attualmente insegna Letteratura Contemporanea all’Università Roma Tre. I suoi studi si muovono principalmente nell’arco fra Settecento e Novecento, dedicati in gran parte a autori come Alfieri, d’Annunzio, Pirandello. Ha pubblicato antologie e saggi sul Racconto italiano del Novecento (Mondadori, 2000) e sulla Poesia italiana del Novecento (Mondadori, 2003), e sui contemporanei Banti, Bassani, Ferrero, Flaiano, Manzini, Morante, Morselli. (Foto Lucio Trizzino, 2004). Alberto Pellegatta è nato nel 1978 a Milano dove si è laureato in Filosofia. Sue poesie sono apparse su “Lo Specchio della Stampa”, “Nuovi Argomenti” ecc. e inserite nell’antologia di Mario Santagostini I poeti di vent’anni (Varese 2000). È autore della raccolta in versi Mattinata larga (Lietocolle, Faloppio 2002). È incluso nella Nuovissima poesia italiana (Mondadori) a cura di Cucchi e Riccardi. Traduce dallo spagnolo e scrive d’arte. Collabora come critico a “La Gazzetta di Parma”, “Nuovi Argomenti” e “La Provincia”. Elena Frontaloni è nata a Jesi nel 1980. Si è laureata in Lettere Classiche nel 2003, con una tesi sui Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. È attualmente iscritta al terzo anno di Dottorato in Italianistica presso l’Università di Macerata, con un progetto di ricerca sul modello sceneggiatura nel Pasolini degli anni Sessanta. Si occupa prevalentemente di rapporti fra parola e immagine, con particolare riguardo alle intersezioni fra cinema e letteratura, continuando però a coltivare l’interesse per le sopravvivenze del mito nel Novecento letterario italiano ed europeo. ANNA MARIA PICCININI (qui nel Ritratto di Gianni Cacciarini, part., 2004) è nata a Firenze, dove vive e dove si è laureata in lettere. Docente nella scuola superiore e poi giornalista culturale, si è occupata in particolare di argomenti storico-artistici con collaborazioni a varie riviste fra cui, e per lungo tempo, al “Giornale dell’Arte”. Ha lavorato al riordinamento del Fondo Enrico Vallecchi presso l’archivio contemporaneo del Gabinetto G.P. Vieusseux e ha contribuito al riordino tutt’ora in corso del Fondo Ugo Ojetti alla Biblioteca Nazionale di Firenze. Ha pubblicato saggi sull’incisore Pietro Parigi, su Ardengo Soffici, sulla casa editrice Vallecchi. Loriano Gonfiantini è nato a Pistoia nel 1931. Si è laureato in Lingua e Letteratura Spagnola con Oreste Macrì all’Università di Firenze ed è poi stato lettore di italiano all’Università di Granada. Per molti anni ha lavorato alla RAI, curando programmi culturali e ha pubblicato traduzioni dallo spagnolo per L’Obliquo e per i Quaderni di Via del Vento. Attualmente collabora a Rete Toscana Classica, un’emittente radiofonica regionale per la diffusione della musica classica. 2 Eugenia Querci è nata nel 1975 a Roma, dove si è laureata in Storia dell’Arte Contemporanea presso La Sapienza con Marisa Volpi e Antonella Sbrilli Eletti. Ha pubblicato per Allemandi una monografia sull’artista fiorentino Giorgio Kienerk (1869-1948), collaborando a diverse iniziative espositive e a riviste scientifiche. Si occupa della cultura artistica tra Ottocento e Novecento, con specifica attenzione al fenomeno degli scambi internazionali, del collezionismo, delle reciprocità d’influenza stilistica tra paesi. Dottoranda presso l’Universidad Complutense di Madrid, svolge attività di ricerca presso la Evergreen House Foundation-The Johns Hopkins University di Baltimora (USA). È professore a contratto di Storia dell’Arte Contemporanea presso la Sapienza. Costanza Melani è nata il 1° settembre 1978 a Firenze, dove vive. Qui si è laureata nell’aprile del 2003 in letteratura italiana discutendo una tesi sulla fortuna in Italia di Edgar Allan Poe con il professor Enrico Ghidetti, con il quale tuttora collabora. È iscritta al terzo anno del Dottorato di ricerca in Italianistica, presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Firenze. Monica Venturini è nata nel 1977 a Roma dove vive. Si è laureata nel 2002 in Letteratura Italiana moderna e contemporanea a La Sapienza con una tesi sull’opera poetica di Jolanda Insana con la professoressa Biancamaria Frabotta. Nello stesso anno ha vinto il concorso per il Dottorato di ricerca in Italianistica, coordinata dal professor Romano Luperini, presso l’Università di Siena. Attualmente sta ultimando la tesi di dottorato riguardante l’opera di Amelia Rosselli e svolge attività di cultore della materia presso l’Università degli studi Roma Tre di Roma con la professoressa Simona Costa. Michele Miniello, molisano del 1948, si è laureato a Torino in letteratura russa e a Firenze per vari anni è stato redattore letterario, collaborando con Geno Pampaloni. I suoi studi si sono poi orientati anche verso l’anglistica. Ha collaborato a “Poesia” e suoi scritti critici compaiono in varie riviste. È autore di quattro libri di poesia con prefazioni di Antonio Porta e di Maurizio Cucchi (il più recente, Forestieri, Varese 2001) e di due volumi di narrativa (Il volo, Firenze 1986 e Venditori di fumo, Milano 1995). Giorgio Weber, già aiuto all’Università di Firenze di Antonio Costa, dal 1968 al 1993 è stato professore ordinario e direttore dell’Istituto di anatomia e istologia patologica nell’Università di Siena. Medaglia d’Oro del Presidente della Repubblica, studioso dell’arteriosclerosi, al suo attivo ha oltre quattrocento pubblicazioni scientifiche. Attualmente coltiva la storia dell’anatomia patologica, pubblicando presso l’Accademia toscana di scienze e lettere “La Colombaria” studi su Antonio Benivieni, Areteo di Cappadocia, Antonio Cocchi, Lorenzo Bellini, Giovanni Targioni Tozzetti. Caffè Michelangiolo La terza pagina LA LENTEZZA DELL’ASTRONAUTA di Mario Graziano Parri Q uesto trentesimo fascicolo segna anche il decimo anno consecutivo di uscita del nostro quadrimestrale. Si presenta con illustrazioni a colori per dare risalto all’accadimento, e forse anche per quel punto di civetteria che fa dire alla servetta Despina (Così fan tutte): «In un momento – dar retta a cento; | colle pupille – parlar per mille». Ripromettendosi di far l’occhiolino, meglio adoprare un occhio come quello di Angiolina (Senilità), che non guardava ma crepitava. Perché non è più sufficiente “farla”, una rivista (e già è una gran fatica): occorre anche attirare su di essa un minimo di interesse. Se la cultura del primo Novecento è passata come tutti dicono attraverso le riviste «almeno fino all’altezza dei Gobetti e dei Gramsci quanto al risvolto politico, e di “Solaria” e “Circoli” ed altre ancora per la letteratura» (così Paolo Mauri su “La Repubblica” in occasione del convegno sul “Leonardo” in Palazzo Vecchio il 3 gennaio 2003), l’oltracotante sovrapporsi mediatico del secondo Novecento ha finito per mettere all’angolo questo foglio povero, la cui forza è riposta soltanto nella sua “fragilità”. Un caro amico scienziato che centellina con appartata discrezione l’appassionante stagione della saggezza (rara stagione che dipende unicamente dalla propria intelligenza), mi confidava qualche giorno fa: «A ottantaquattro anni mi sono messo a leggere l’Ifigenia. Euripide è nuovo, e niente è così vecchio come il giornale di oggi». È un po’ questo lo spirito di una rivista nell’attuale frangente. Un colpetto discreto sulla spalla: aspetta, guardati intorno, c’è qualcosa che vale il piacere di una scoperta, di un “riconoscimento”. Qualcosa che può essere rimesso in circolazione nei tuoi pensieri. La rivista può riabilitare ciò che era stato trasferito al reparto di lunga degenza ma non ancora era passato al di là. Perché le sue pagine costituiscono un promemoria per il domani; intendono segnalare, a coloro che avvertono nel presente qualcosa che non va, ciò che vale la pena di essere sottratto alla brutalità quotidiana. Dove tutto è di fretta. Anche il parlare (spazio alla sintesi, seppure la comunicazione risulti poi incomprensibile); anche lo scrivere, per cui sono un ingombro le pause e tutto quello che richiede magari l’avvedutezza di un congiuntivo. È un mezzo la rivista che non segue la corrente. Che non insegue il tempo. La cultura del terzo millennio ha preso altre strade, anche se nessuno è in grado di dire dove porteranno (da qui l’ansia che ci stritola, la depressione che ci occupa). Per questo non è facile imbattersi in qualcuno che conCaffè Michelangiolo servi il buon gusto di buttare del denaro in una impresa obsoleta e in perdita (almeno secondo il canone vigente). E scovare qualcuno che ancora coltivi la passione del pensiero e della scrittura. Devo perciò essere grato agli Incamminati che questa nostra rivista sostengono con concreta efficacia e tangibile convinzione (e mi sia qui consentita una esternazione di personale riconoscenza verso l’amico Natale Graziani, già presidente operativo e oggi presidente emerito dell’Accademia); nonché all’editore Mauro Pagliai che continua a farla uscire probabilmente come non lo consentirebbero «le volgari contingenze delle cose» (per citare una espressione del Discorso ai giovani del “Gruppo vinciano”, 26 novembre 1902, tuttora inedito). E soprattutto un grazie di cuore, anche da parte degli Incamminati e dell’amico Pagliai, deve essere indirizzato a tutti coloro che sulle pagine di questa nostra rivista scrivono, e con ciò la fanno esistere. Proprio in questi giorni, a una trasmissione radiofonica è intervenuto Umberto Guidoni. Si tratta di uno dei quattro astronauti italiani che compiono attualmente voli extraplanetari. È un fisico che ha pubblicazioni sul plasma e sulla elettricità, e che porta lo stesso cognome dello scienziato e sperimentatore caduto il 27 aprile 1928 sul Montecelio durante la prova di un paracadute. Umberto Guidoni rispondeva a domande di giovani di varie scuole d’Italia. Una ragazza gli ha chiesto come si vivesse lassù, chiusi in una solitaria navicella. E come da lassù si vedesse il nostro pianeta. E lui le ha risposto che il tempo da quelle parti è estremamente rallentato, così come lo sono i comportamenti motori. E loro, gli astronauti, il tempo non impiegato in procedure scientifiche lo passano con Schubert, con Albinoni, con Gabrieli, con Strauss, con Tchaikowsky, con Corelli, con Mahler, con Respighi, con Merulo. E il nostro pianeta, la Terra… da lassù la Terra appare loro come l’astro più luminoso. Intensamente azzurro. Un colore caldo, diceva Guidoni. Un meraviglioso corpo celeste adagiato nell’immensità, «bellissimo e fragile». Penso che debba servire proprio a questo, una rivista oggi. A far venire la voglia di alzare lo sguardo al cielo, seppur dovendo rimanere con i piedi sopra la fragile terra. Più quartetti per archi (La morte e la fanciulla), più Concerti grossi, più Fontane e più Pini di Roma, più Zarathustra. Più poesia, insomma. Più lentezza, caro Celentano. Non tutto quello che corre è rock. Trova chi non cerca e non ha fretta: perché il suo cuore è aperto e riesce a captare le cose e gli uomini; perché ha tutto il tempo per leggere le storie che il mondo continuamente racconta. ■ 3 Le buone arti Ezra Pound e il fascismo: un caso di studio su intellettuali e totalitarismo tra le due guerre UN POETA DI REGIME? di Danilo Breschi Non mi sono mai dato al fascismo più di quanto non mi sia dato a James Joyce… Come scrittore sono di tutti e di nessuno. Ezra Pound, “New English Weekly”, 26 dicembre 1935 L e pagine che seguono possono essere considerate in primo luogo come il parziale tentativo di dare una risposta all’interrogativo: «Ezra Pound fu un poeta del regime fascista?». In secondo luogo, si tratta di una riflessione sul rapporto tra intellettuali e fascismo, più in generale sul tipo di legame che si può instaurare tra l’uomo di lettere e il dittatore totalitario. In questo caso specifico, un caso particolare e ben definito di dittatore: Benito Mussolini. Sotto questo profilo, i testi dei discorsi radiofonici che Pound trasmise da “Radio Roma” dal 21 gennaio 1941 al 25 luglio 19431 sono letteralmente un ottimo pre-testo per svolgere alcune riflessioni sul rapporto tra il poeta americano e il dittatore, un rapporto che consente considerazioni di ordine generale sul rapporto tra cultura e politica nell’Europa delle dittature. Molto è stato scritto per quanto concerne il ruolo svolto da Pound nel fascismo, l’esistenza e la consistenza del suo sostegno a Mussolini e al suo regime. Alcuni risultati praticamente indiscutibili sono stati raggiunti da studi come quelli di Noel Stock, Niccolò Zapponi, Humprey Carpenter e Tim Redman, solo per citarne alcuni2. Un dato che possiamo dire acquisito da una così vasta letteratura è che Pound credette nella possibilità che Mussolini incarnasse quel tipo di uomo capace di tradurre in realtà un nuovo sistema creditizio vicino, se non identico, a quello elaborato dai teorici del Social Credit (in particolare, il maggiore Clifford Hugh Douglas) e da Silvio Gesell3. 4 Costante Costantini, Ezra Pound, 1971. Per Pound, l’Italia «resisteva contro la schiavitù assoluta, sin dai tempi del trattato di Versailles»4 e con l’avvento del fascismo «Dio sa che l’Italia voleva lavorare per guadagnarsi la libertà economica»5, impresa contro cui inglesi e americani si erano opposti scatenando loro stessi la seconda guerra mondiale, perché manovrati dalla “ragnatela usurocratica”6 e plutocratica londinese e statunitense. Queste frasi si trovano pronunciate in alcuni radiodiscorsi tra- Ezra Pound alla tomba di James Joyce a Zurigo (per gentile concessione di Horst Trappe). smessi tra la primavera e l’estate del 1943. A partire dal 1933, come testimoniato nel volume Jefferson and/or Mussolini, Pound pensò di aver trovato l’uomo dotato di quella qualità “volizionista” che avrebbe potuto invertire il senso della storia, contrapponendosi alla “usurocrazia” imperante in Europa e negli Stati Uniti7. Nel 1941, in un radiodiscorso in memoria di James Joyce, Pound disse: «Come scrittore io non mi sono dato a nessuno e mi offro a tutti gli uomini. Come critico è da 30 anni che tengo sotto osservazione uomini dall’ingegno insolito, e non parlo solo di scrittori. I geni esistono in tutti i campi dell’agire umano. Per quanto riguarda il genio di Mussolini e Hitler non sono l’unico a notarlo»8. E nell’aprile del 1942 dice che in Italia c’è un «cambiamento in atto: dal materialismo al volizionismo»9. La data del 1933 non è casuale. Pound scriveva il suo libro Jefferson and/or Mussolini nel mese successivo al primo e unico incontro avuto con Mussolini. Il 30 gennaio 1933 egli era stato infatti ricevuto dal duce, dopo reiterate richieste di un’udienza. Richieste che proseguiranno anche nel decennio successivo, e che avrebbero potuto avere soddisfazione nella primavera del 1943, in un secondo incontro che Mussolini aveva accettato, finalmente incuriosito dall’idea «del denaro dal valore transitorio» (cioè l’idea del denaro bollato ideato da Silvio Gesell10), ma l’incontro non ebbe luogo per un disguido postale11. Riflettendo sul caso particolare di Pound possono essere svolte alcune considerazioni generali sul tipo di rapporto che Mussolini ebbe con molti intellettuali (italiani, ma non solo) e, viceversa, sul rapporto che molti intellettuali ebbero con Mussolini. Su questo tema Giovanni Ansaldo (1895-1969) ha scritto pagine molto interessanti, tra le più acute prodotte nei sessant’anni successivi alla fine del faCaffè Michelangiolo Le buone arti scismo. Giornalista originariamente su posizioni antifasciste, dal 1919 il giovane Ansaldo fu collaboratore del quotidiano socialista genovese “Il Lavoro”. Sempre nel 1919 egli aveva conosciuto Piero Gobetti ed era così diventato collaboratore assiduo della “Rivoluzione liberale”. Nel maggio 1925 aveva addirittura firmato il manifesto degli intellettuali antifascisti che Benedetto Croce aveva promosso in contrapposizione al manifesto degli intellettuali fascisti voluto da Giovanni Gentile pochi giorni prima12. Nonostante questi precedenti e nonostante l’arresto, cui seguirono alcuni mesi di carcere e poi di confino nell’isola di Lipari, sempre per il suo antifascismo di matrice liberale, Ansaldo divenne negli anni Trenta un vero e proprio giornalista di regime. Suo mentore fu Galeazzo Ciano, genero del duce e dal 1936 ministro degli Esteri. Volontario nella guerra di Abissinia, il 19 settembre 1936 venne iscritto al partito fascista dietro ordine dello stesso Mussolini e il giorno dopo assunse la direzione del “Telegrafo”, il quotidiano livornese di proprietà della famiglia Ciano. Da quel momento Ansaldo diventò “il giornalista di Ciano”13. Da questa posizione privilegiata, Ansaldo ha potuto conoscere bene molti meccanismi insiti nella struttura del regime fascista e nella psicologia degli uomini “alla corte” del dittatore. Probabil- Komar e Melamid, The Origin of Socialism Realism, 1982-’83, New York, collezione privata. Caffè Michelangiolo mente anche lui, a suo tempo, ne rimase invischiato. Il 21 marzo 1948 pubblicava così su “L’Illustrazione Italiana” un penetrante articolo dal titolo Mussolini e gli intellettuali. Le riflessioni di Ansaldo riguardavano gli intellettuali italiani, ma crediamo che per alcuni aspetti possano aiutare a descrivere la vicenda di Pound. Anzitut- Ezra Pound in una foto di Henri Cartier-Bresson. to, il giornalista genovese osservava che «se riusciamo a metterci in quegli anni, troveremo strana, non già l’adesione di tanti intellettuali nostri a lui [Mussolini, ndr.], ma la resistenza di una nutrita minoranza, che nell’ora della sua massima fortuna osò esprimere il proprio dissenso da lui»14. In secondo luogo, Ansaldo affermava: «Gli intellettuali, è stato spiritosamente detto, sono come le donne: essi sognano i militari. Più propriamente detto, essi sognano spesso, confusamente, una vita diversa dalla loro, una vita “eroica”; e sono tratti a vederne l’estrinsecazione proprio nei regimi di dittatura, e nelle persone dei dittatori»15. Ansaldo proseguiva notando che una lettura delle pagine delle Memoires d’Outretombe di Chateaubriand, nelle quali si descrive cosa accade agli intellettuali francesi sotto Napoleone, poteva aiutare a comprendere quanto si trattasse, e si tratti, di un fenomeno universale. Ansaldo citava un personaggio storico assai caro anche a Pound: Sigismondo Malatesta. Scrive Ansaldo: «L’accusa a Mussolini, così frequente finché durò una certa libertà di stampa, di rassomigliare ai vecchi tiranni rinascimentali, di arieggiare a uno Sforza o a un Malatesta, lungi dal nuocere a Mussolini, gli procurò nel campo degli intellettuali molti seguaci. Perché c’era molta gente che, da quando aveva stampato il suo primo libro di versi, o esposto il suo primo quadro, proprio questo stava aspettando: qualcuno che volesse imitare vagamente Galeazzo o Sigismondo, e gli dicesse: “Bravo!”»16. Quella sugli intellettuali che sognano i militari è una affermazione forte, forse un po’ scomoda, ma che a noi pare tanto più vera se andiamo a studiare le biografie di molti intellettuali europei affascinati dalle dittature totalitarie (di destra e di sinistra) degli anni tra le due guerre mondiali. Si pensi, ad esempio, al caso di Pierre Drieu La Rochelle, infatuato prima dal nazismo poi, sul finire della guerra, da Stalin17. Una fascinazione per “il capo”, tipica degli scrittori ossessionati dall’idea della decadenza18. E potremmo citare Robert Brasillach, Lucien Rebatet, Alphonse de Châteaubriant, Louis-Ferdinand Céline, Wyndham Lewis, e credo anche Ezra Pound. Del resto, pure lui ammise in uno dei suoi radiodiscorsi di aver nutrito “simpatia” per “vari punti stalinisti del 1922” e di ritenere utile la lettura del volume di Stalin I fondamenti del leninismo (1926)19. Nel complesso, comunque, Sta- Piero della Francesca, Ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta, 1451 ca., dipinto su tavola, cm 44 x 34, Parigi, Louvre. 5 Le buone arti lin veniva criticato aspramente, e con lui il bolscevismo, con il medesimo capo d’accusa: hanno favorito gli usurai. Pound non mancava poi di sottolineare la natura schiavistica del regime sovietico. Nel suo radiodiscorso dell’11 maggio 1943 Pound scrive che già da tempo «Mosca stava schiavizzando impietosamente i suoi lavoratori, e vendeva sottocosto i risultati al resto del mondo, secondo i peggiori metodi plutocratici»20. Ma anche Hitler aveva imposto un regime analogo al popolo tedesco, eppure Pound non esitò in molte lettere a salutare con l’espressione “Heil Hitler!” (una provocazione, ma non solo) e ad elogiare nei radiodiscorsi alcune teorie contenute in Mein Kampf, come quando il 18 maggio 1942 egli richiamò i principali punti del programma nazionalsocialista: «Primo, salute, una razza sana… Generate bene e preservate la razza… […] Conservare gli elementi migliori. Ciò significa eugenetica: come opposta al suicidio di razza. Secondo… un sistema politico in cui non si possa scaricare le proprie responsabilità… Hitler, dopo aver visto il vomito degli ebrei nella democrazia tedesca, ha cercato di individuare i responsabili… E il terzo punto era lo studio della storia. Guardate alla storia»21. D’altronde, in quel discorso radiofonico dell’11 maggio 1943, Ezra Pound fotografato nel 1963 a Sant’Ambrogio (Rapallo) da Massimo Bacigalupo. egli affermava che «lo scopo del nazionalsocialismo tedesco», come del fascismo italiano, era quello di soddisfare il «desiderio dell’uomo comune di avere una casa per la sua famiglia»22. Alcuni di quegli intellettuali attratti dall’idea di farsi “esteti armati”23, come ad esempio Wyndham Lewis, abbandonarono le loro simpatie naziste o fasciste Giacomo Balla, La marcia su Roma, 1932-1935, olio su tela, cm 260 x 332, Torino, collezione privata. 6 prima della catastrofe finale, altri persistettero fino alla fine, soprattutto coloro che vissero e operarono entro i confini delle nazioni governate da quei due regimi (quindi, anche la Francia di Vichy). Pound non sognava i militari. Al contrario, il suo impegno e pieno coinvolgimento a sostegno del regime fascista, e cioè i radiodiscorsi che furono la causa dell’accusa di tradimento e quindi dell’internamento per tredici anni a St. Elizabeth, nasceva anche nell’ottica di impedire l’ingresso in guerra degli Stati Uniti. Pound cercò in quegli anni la pace, ma una pace che lui stesso riteneva impossibile fino a quando i banchieri, i finanzieri e gli altri esponenti del sistema usurocratico internazionale non fossero stati eliminati o impossibilitati nel continuare a provocare guerre, il cui vero scopo era quello di indebitare i popoli. L’autarchia fascista era apprezzata da Pound perché la interpretava come uno sforzo per non indebitarsi. «L’autarchia è la libertà di non indebitarsi», scrive sempre l’11 maggio del 1943, ripetendo uno slogan dell’avvocato Gioacchino Nicoletti, fascista che poi aderì alla Rsi e autore nel 1944 di un volume intitolato Modernità di Mazzini24. Se non amava i militari, Pound però ammirava il leader energico, deciso, che come il vero artista diventasse artifex della storia grazie ad un surplus di volontà, che gli altri individui non posseCaffè Michelangiolo Le buone arti devano. Era attratto dalla forza, magari nel senso di quella energia volitiva che nasceva da una grande disciplina e purezza interiore, secondo gli insegnamenti del suo amato Confucio. Comune poi a molti degli intellettuali menzionati in precedenza era l’odio per la borghesia. Il 2 maggio 1943 Pound diceva alla radio: «Non vedo perché dovrei avere difficoltà ad accettare un vero programma comunista. L’artista non ha mai fatto parte della borghesia. Ciò che critico è questo fittizio attacco al capitale, all’usurocrazia, che degenera in un attacco alla proprietà lasciando il prestatore di denaro, su pegno, indisturbato nella stanza dei bottoni del sistema di sfruttamento, mungendo il produttore»25. Tipicamente fascista (della “sinistra fascista”, se si vuole26) è l’anticapitalismo come critica di un sistema di vita materialistico, egoistico e antipopolare. Per questo, Pound come tanti altri “esteti armati” non esita a dichiarare: «Produttori di tutto il mondo unitevi. Per me è giusto. L’artista non ha bisogno della proprietà, non gli serve. Vuole possedere i suoi strumenti, no, neanche quelli, vuole il diritto di utilizzare gli strumenti della sua arte, e il comunismo non è contrario a questo per programma»27. È evidente che non possiamo associare in modo indistinto le biografie di intellettuali e artisti dalle personalità così diverse ed eccentriche l’una all’altra. Resta però vero che si verificò un fenomeno ampio e diffuso nell’intelligencija europea e americana degli anni Trenta: l’idea che la politica potesse diventare arte applicata. È un fenomeno che alcuni studiosi hanno chiamato “estetizzazione della politica”, e di cui Gabriele d’Annunzio è stato probabilmente il primo sperimentatore nel periodo compreso tra la prima guerra mondiale e l’impresa di Fiume28. L’artista poteva forse compiere la sua più grande opera d’arte, una repubblica che dai tempi di Platone era sempre rimasta lettera morta sopra carta stampata. Se d’Annunzio provò addirittura in prima persona, proponendosi come “venturoso” leader politico (e, in effetti, la sua Repubblica del Carnaro ebbe vita abbastanza breve), molti altri intellettuali affidarono le loro speranze ai dittatori emergenti nell’Europa post-bellica. Il primo cui si guardò con fervente entusiasmo fu Lenin, ben oltre i confini dell’appartenenza ideologica, ma in OcCaffè Michelangiolo Ezra Pound in un disegno di Rolando Monti, 1971. cidente l’attenzione fu presto catturata da Mussolini il quale, al pari di Lenin, si presentava quale strana figura di “politico-intellettuale”. E qui le pagine di Ansaldo sono ancora una volta illuminanti: «raramente il mondo vide uomo così foggiato da natura per sedurre la vanità degli uomini di lettere o di arti, quale fu Mussolini. Più che un politico puro, ed un asceta del potere, era un gran dilettante del potere stesso: un intellettuale impressionabile, dominato dalla fantasia […]. Gli intellettuali, Mussolini li seduceva, primamente per il fatto che egli li aveva, da tempo, conosciuti o, come si dice nel gergo, “seguiti”, e molto spesso sinceramente ammirati, sia pure con sproporzioni di misura e storture di gusto. […] Mussolini poi metteva, nel trattare con gli intellettuali, un impegno fervidissimo a “far colpo”. Dotatissimo dell’abilità, tutta giornalistica, di annusare, per così dire, un volume senza leggerlo, e di afferrare qualche tratto della maniera di un artista senza approfondirlo, Mussolini, nei venti anni del suo potere, licenziò dalle udienze sue centinaia di intellettuali che uscirono da Palazzo Venezia convinti di avere finalmente trovato un conoscitore e un amatore delle loro opere. Fu detto, essere egli stato uno degli uomini più adulati del mondo; ma fu taciuta la contropartita, essere cioè egli stato uno degli adulatori più instancabili di chiunque gli si fosse presentato davanti»29. Queste ultime considerazioni di Ansaldo sembrano scritte proprio per descrivere il primo e unico incontro che Pound ebbe con Mussolini. Mussolini sfogliò con interesse la copia di A Draft of XXX Cantos e disse che trovava il libro “divertente”. Un giudizio ambiguo, ma che il poeta prese come un complimento e un giudizio acuto sulla sua opera. E Pound restò così folgorato da quel bre- Flavio Costantini, Ezra Pound (Rapallo, Riviera di Levante), 1991. Collezione privata. 7 Le buone arti Romano Bilenchi in un disegno a matita (1931) di Mino Maccari. ve incontro, dal modo con cui Mussolini lo intrattenne, che riportò l’episodio in versi, nel canto 41: “Ma qvesto,” disse il Duce, “è divertente.” afferrando il punto prima degli esteti; Prosciugò i pantani di Vada Le paludi sotto il Circeo, ove nessuno ci proverebbe. Dopo duemila anni si mangiò grano dalle paludi; acqua potabile a dieci milioni di persone e un milione di “vani”. Anno xi dell’era nostra30. Come Redman ha sottolineato: «L’incontro ebbe un effetto decisivo su Pound. Secondo la maggior parte dei resoconti contemporanei, Benito Mussolini fu un uomo enormemente affascinante, ma il suo effetto su Pound va oltre la fascinazione. Egli fu sopraffatto dal dittatore italiano…»31. Sempre Redman ha scritto che l’incontro con Mussolini «mostra il grande bisogno che Pound ha di credere»32. Una simile inclinazione risulta particolarmente rischiosa per un intellettuale in tempi di dittatura: può tramutarsi nella tentazione irresistibile di abbracciare l’estremismo ideologico, che divide il mondo tra amici e nemici assoluti. Un mondo dilaniato da una lotta senza quartiere. Nelle lettere Pound ricorderà più volte l’episodio dell’incon- 8 tro a Palazzo Venezia. E da lì comincerà quel periodo in cui la politica diverrà l’interesse principale del poeta, assieme alla musica (ma in questo secondo ambito il ruolo di Olga Rudge è ovviamente essenziale). I radiodiscorsi, se letti tutti d’un fiato ma anche con attenzione, testimoniano il carattere quasi ossessivo che l’economia, soprattutto il tema del denaro, la sua natura, la sua emissione, il prestito, aveva assunto nella mente di Pound. Romano Bilenchi ha raccontato di un incontro a Rapallo con Pound, in cui il poeta gli disse: «Se lei si occupasse più di economia che di letteratura sarebbe rimasto senz’altro fascista. Anche Eliot è un fascista perché si è occupato di economia»33. La politica appariva forse l’unico strumento possibile per tentare una radicale riforma del sistema monetario internazionale. La politica da sempre offre all’uomo di cultura la chance di diventare il consulente, il consigliere del Principe: è questa una tentazione troppo forte per il novanta per cento degli intellettuali di ogni epoca, e in particolare di quelle epoche che sono vissute dal mondo della cultura come rivoluzionarie op- Piero Gobetti in una foto datata 1924 da Antonicelli. pure in disfacimento, in ogni caso contrassegnate da improvvise accelerazioni e cambiamenti radicali. Riteniamo sia storicamente corretto inscrivere Pound entro quel novanta per cento. Come spesso capita, anche Pound riteneva inetti o non all’altezza del capo coloro che facevano parte dell’entourage di Mussolini. Nel canto 80 Ezra dice infatti: e quanto a quel poveraccio di Benito uno aveva uno spillo di sicurezza uno aveva un pezzo di spago, uno aveva un bottone tutti tanto al di sotto di lui inesperti e dilettanti o veri mascalzoni34. La copertina del libro di Piero Sanavio, La gabbia di Pound. Uscito in tiratura limitata con Scheiwiller nel 1986, torna ora riscritto e arricchito in libreria per i tipo di Fazi editore. Ultima questione, sollevata all’inizio del nostro articolo: Pound fu poeta di regime? Questa definizione è stata riaffermata con forza da Marcello Simonetta su “Nuovi Argomenti”35. Il carteggio che Simonetta porta ulteriormente alla luce e che riguarda il periodo della Repubblica Sociale Italiana conferma e approfondisce quanto già Redman aveva chiaramente mostrato: Pound fu convintamente fascista. Lo dimostra più di ogni altra cosa l’adesione piena e attiva alla Repubblica di Salò, quando i trionfi del passato regime erano ormai un lontano Caffè Michelangiolo Le buone arti ricordo. Scrisse a proposito dei diciotto tario del Partito fascista repubblicano emotivi, ma bisogna che capiscano le punti del “Manifesto di Verona”, pro- (siamo quindi nel periodo della Repubragioni d’un conflitto40. mulgato il 14 novembre 1943 quale di- blica di Salò), Pound scrive il 2 dicembre Queste nostre sottolineature non hanchiarazione programmatica del neonato 1943: no certo l’intento di abbandonarsi al faPartito fascista repubblicano, riunito in quei giorni per il suo primo congresso: «i Chiedo vostro appoggio per una cile quanto sterile moralismo. L’obiettivo è, semmai, quello di avanzare nella ridiciotto punti sono stati fatti per distinproposta fatta tre giorni fa; forse il guersi come un documento storico, un flessione storica. E allora la biografia di miglior suggerimento che ho mai fatto. Pound ci dice che egli non fu il, e nemdocumento della storia del pensiero»36. Visto che è quasi impossibile soppriCertamente “fascista” meno, un poeta del regime fascista, perché nessun inPound lo fu nel senso che carico ufficiale gli venne abbiamo fin qui evidenziato, vale a dire che, come offerto, e tanto meno un mille altri intellettuali atriconoscimento o un qualtivi nell’Italia tra le due che premio. Non ebbe gli guerre, egli pensò che Musallori, come Marinetti, Pisolini fosse il veicolo politirandello, Bontempelli, Unco attraverso il quale reagaretti e tanti altri41. Come è ormai noto, ci furono lizzare le proprie idee sulla anzi malumori tra non posocietà, l’economia e la chi esponenti del mondo cultura, a prescindere da politico e culturale fasciquanto chiare o confuse sta, ad esempio Luigi Vilqueste idee possano oggi lari, dell’Istituto per i rapapparirci. D’altro canto, il porti culturali internaziosuo antisemitismo aveva nali, a causa delle sue tralontane origini37, cosicché smissioni radiofoniche. la svolta razzista del fasciCamillo Pellizzi, amico di smo italiano dopo il 1938 e Pound dai tempi della la recrudescenza del perioLondra anni Venti, ha rido 1943-’45 servirono solo cordato nel dopoguerra a consolidare vecchi precome in ambienti fascisti giudizi e a rinsaldare la circolasse addirittura il sosimpatia verso le camicie spetto che il poeta amerinere. Scriveva in uno dei cano fosse una spia al sersuoi primi testi trasmessi vizio del suo paese, gli Stada “Radio Roma”, nel 1941, che «le donne creti- Ezra Pound e la compagna Olga Rudge nel 1971 durante i funerali a Venezia di Igor ti Uniti, e i radiodiscorsi ne e i pivelli di Roosevelt Strawinskij. Saranno anche loro sepolti a Venezia, accanto al compositore russo. non altro che messaggi in […] sono diventati così codice a favore degli Alleggendo la stampa ebraica da 40 anni a leati42. Ma al di là di queste voci, la realtà mere il mercato nero dei libri, […] e questa parte. Sono diventati così ascolè che i radiodiscorsi passarono nella reche le librerie in gran parte nelle mani tando la radio ebraica, e propongo di lativa indifferenza degli alti vertici del degli ebrei sono state piuttosto impeusare la parola giudeo a prescindere dalregime, e in primo luogo di Mussolini. dimento che aiuto nel diffondere libri Soltanto durante la Rsi Pound fu oggetla razza. Usiamola per definire gli ebrei utili, chiedo una politica (una legge) to di maggiore attenzione, ma il motivo onorari. Ad eccezione degli ebrei onesti positiva invece di pseudo-restrittiva: principale risiedeva nell’improvviso scarche s’incontrano»38. “Ebreo” diventa così ch’ogni libraio avrà obbligo di tenere categoria etico-politica universale, quasi seggiare di intellettuali e artisti di primo in vetrina per tre mesi o in permanenmetafisica, e rappresenta il negativo dellivello disposti ad esporsi come sosteniza certi libri necessari allo sviluppo la storia, a parte le eccezioni dei singoli tori e collaboratori del nuovo regime sordel senso civico. individui. Pound fu antisemita non tanto nel nord Italia. Fra i più importanti: to in un senso razzista, à la nazista, ma Il fatto che Pound non fu un poeta di – I Protocolli di Sion; certo condivise in pieno quello che reregime non vuol dire che egli non aves– I Doveri dell’Uomo, di Mazzini; centemente Daniel Pipes ha chiamato se aspirato ad esserlo: addirittura il poe– La Politica di Aristotele; “cospirazionismo” e “mentalità da teoria ta, piuttosto che un poeta. Anche in que– Il Testamento di Confucio. cospiratoria”, cioè «il travolgente timore, sto i radiodiscorsi sono eloquenti, così L’arresto degli ebrei creerà un’onl’ossessione di cospirazioni inesistenti»39. come la corrispondenza di quegli anni. data di misericordia inservibile; quinCerte frasi riportate da Simonetta sono E il periodo della Repubblica sociale itadi la necessità di diffondere i Protosotto questo profilo inquietanti e inequiliana accentuerà questo aspetto, dandocolli. Gli intellettuali sono capaci d’uvocabili. Ad Alessandro Pavolini, segregli l’illusione di poter consigliare e sona passione più durevole che non gli Caffè Michelangiolo 9 Le buone arti RINGRAZIAMENTI Il presente saggio è la versione riveduta e ampliata di un paper presentato al xxi Ezra Pound International Conference, svoltosi a Rapallo dal 4 al 7 luglio 2005. Per avermi concesso l’autorizzazione a pubblicarlo, ringrazio gli organizzatori del convegno, i professori William Pratt e Massimo Bacigalupo. A quest’ultimo si devono anche alcune immagini di Pound qui riprodotte. NOTE Cartolina (da un olio di Italico Brass) per il Convegno “Pound, Brass e la pittura a Venezia nel 1908”, 31 gennaio 2004, organizzato da Ateneo Veneto e Comitato veneziano Società Dante Alighieri. stenere l’educazione dell’italiano ancora combattente al fianco di Mussolini con letture di scritti propri e altrui43. Fino al 1943 era ancora prevalente in Pound l’idea di “salvare” la propria patria. Egli scriveva infatti il 2 marzo del 1942: «Per quanto ne so il mio lavoro è salvare ciò che rimane dell’America, e mantenere in qualche modo una forma di civiltà. Mi rifiuto di essere complice dei distruttori»44. Di fronte alla mole imponente di studi dedicati alla vita e all’opera di Ezra Pound, queste poche pagine non vogliono né possono aggiungere niente attorno alla figura e all’opera del grande poeta americano. Hanno inteso però sottolineare le analogie che la vicenda di Pound e del suo fascismo ha con quella di innumerevoli intellettuali, italiani e stranieri. Leggere i Taccuini mussoliniani di Yvon de Begnac, usciti postumi nel 1990 per la cura di Renzo De Felice e Francesco Perfetti, offre moltissime conferme su come Mussolini “viziasse” gli intellettuali, li adulasse per esserne poi a sua volta adulato45. In molti casi, in buona fede e con profonda convinzione. Questo è il caso di Pound, di cui moltissimi studiosi sottolineano la ingenuità, mentre io credo si trattasse di quella fiducia tipica dell’intellettuale verso il dittatore-mecenate e artifex. Una fiducia che il poeta americano nutrì con forza e lucidità, sicuramente in 10 coerenza con le proprie idee economiche coltivate sin dagli anni Venti. Ne è conferma, tra le altre prove adducibili, una lettera all’amico Pellizzi, datata maggio 1936: “Ci sono due tipi di persone in Italia, quelle che hanno tollerato e/o sfruttato il fascismo e quelli di noi che necessitavano di una nuova Italia per potervi respirare”46. In conclusione, il fascismo di Pound non può essere studiato senza una più ampia riflessione su quel colossale fenomeno di fascinazione che fitte schiere di intellettuali europei subirono nei confronti di Mussolini (per non parlare di Hitler). Mussolini più di Hitler seppe capirli e blandirli, perché – come diceva Ansaldo – egli era uno di loro. Alastair Hamilton parlò nel 1971 di appeal a proposito del fascismo e dell’atteggiamento tenuto nei suoi confronti da ampi settori dell’intelligencija europea47. E il suo studio impostava un’analisi comparativa che passava in rassegna intellettuali italiani, tedeschi, francesi e inglesi. Altri studiosi si sono poi occupati del vastissimo mondo degli intellettuali dell’Europa centrale e orientale sotto le dittature di ascendenza fascista48. Ma sull’argomento c’è ancora molto da studiare e da scrivere. La vicenda di Ezra Pound costituisce un esemplare caso di studio, molto meno singolare di quel che si creda, nonostante l’assoluta singolarità dell’uomo e dell’artista. ■ 1 Cfr. E. Pound [E.P.], Radiodiscorsi, a c. di A. Colombo e P. Sanavio, Edizioni del Girasole, Ravenna, 1998. Il volume offre una selezione di 50 radiodiscorsi dei 120 disponibili in versione originale inglese. 2 Cfr. N. Stock, The Life of Ezra Pound, Routledge & K. Paul, London, 1970; N. Zapponi, L’Italia di Ezra Pound, Roma, Bulzoni, Roma, 1976; H. Carpenter, Ezra Pound. Il grande fabbro della poesia moderna (1988), tr. it. Rizzoli, Milano, 1997; T. Redman, Ezra Pound and Italian Fascism, Cambridge University Press, Cambridge-New York, 1991. 3 Si trattava di economisti eterodossi, convinti della necessità di riformare il sistema creditizio mondiale, incardinato su una logica di mera usura e quindi taglieggiamento dei popoli nei suoi strati più deboli economicamente e politicamente. Assieme a Douglas e Gesell, Pound “pensa che banchieri e finanzieri succhino denaro dal circuito economico al solo fine di tesaurizzarlo, provocando così la paralisi del commercio e l’immobilizzazione delle merci […], la centralizzazione del potere in poche mani, lo sfruttamento dei lavoratori, la fine dei governi indipendenti e l’avvento della finanza, nonché il ricorso alla guerra da parte dei paesi alla ricerca di sbocchi esterni per le proprie merci” (G. Lunghini, With usura contra natura: Pound moralista, intr. a E. Pound, L’ABC dell’economia e altri scritti, pref. di Mary de Rachewiltz, Bollati Boringhieri, Torino, 1994, p. 13). 4 E.P., Sumner Welles, 11 maggio 1943, ivi, p. 213. 5 Id., Ancora sul punto oscuro, 25 maggio 1943, ivi, p. 229. L’uso dello stampatello è nel testo, e ricorrente in Pound, come dimostrano le citazioni successive. 6 Id., Materialismo, 26 giugno 1943, ivi, p. 237. 7 Il volume Jefferson and/or Mussolini (sottotitolo: L’idea statale, Fascism as I Have Seen It) uscì nel 1935, ma fu redatto in poche settimane nel febbraio 1933, dopo l’incontro con Mussolini. Cfr. E.P., Jefferson e Mussolini, pref. di L. Gallesi, Terziaria, Milano, 1995 (si tratta della ripubblicazione dell’edizione italiana, riveduta, corretta e tradotta dallo stesso Pound nel 1944, anno in cui uscì per i tipi della Casa Editrice Edizioni Popolari di Venezia. Quasi tutte le copie andarono distrutte poco dopo). 8 Id., In memoria di James Joyce, 1941, ivi, p. 93. Caffè Michelangiolo Le buone arti 9 Id., Un problema di motivazione, aprile 1942, ivi, p. 128. 10 Per un breve ma efficace profilo di Gesell, cfr. G. Alvi, Uomini del Novecento, Adelphi, Milano, 1995, pp. 150-153. Gesell riteneva esistesse una grave e ingiusta disparità tra merci e denaro: mentre le prime non potevano accumularsi senza costo e deperimento, l’accumulazione di denaro dava profitti. Occorreva allora determinare anche il progressivo depauperamento della moneta. Come? Tramite un interesse negativo oppure un bollo allo scadere di ogni anno o ogni volta prima di spenderlo, così da segnarne la perdita d’acquisto. L’obiettivo era stimolare la circolazione di denaro e il consumo, impedendo tesaurizzazioni a scopo di lucro (usura, in primis). 11 Cfr. H. Carpenter, Ezra Pound, cit., pp. 723-724. 12 Cfr. E.R. Papa, Storia di due manifesti. Il fascismo e la cultura italiana, con un saggio di F. Flora, Feltrinelli, Milano, 1958. 13 U. Berti Arnoaldi, Ansaldo, Giovanni, in Dizionario del fascismo, a c. di V. de Grazia e S. Luzzatto, vol. I (A-K), Einaudi, Torino, 2002, pp. 57-59. Si veda anche G. Ansaldo, Il giornalista di Ciano. Diario 1932-1943, intr. di G. Marcenaro, il Mulino, Bologna, 2000. 14 G. Ansaldo, In viaggio con Ciano, pref. di F. Perfetti, Le Lettere, Firenze, 2005, p. 93. 15 Ivi, p. 94. 16 Ivi, pp. 94-95. 17 Cfr. D. Rocca, Drieu La Rochelle. Aristocrazia, eurofascismo e stalinismo, pref. di M. Brunazzi, Stylos, Aosta, 2000. 18 Cfr. M. Serra, Al di là della decadenza. La rivolta dei moderni contro l’idea della fine, il Mulino, Bologna, 1994. 19 E.P., L’essenza del tradimento, 2 maggio 1943, in Id., Radiodiscorsi, cit., p. 209. 20 Id., Sumner Welles, cit., p. 211. 21 Cfr. H. Carpenter, op. cit., p. 720. Si veda anche il testo originale nell’edizione inglese dei radiodiscorsi: “Ezra Pound Speaking”. Radio Speeches of World War II, a cura di L. Doob, Greenwood Press, Westport-London, 1978, p. 140. 22 E.P., Sumner Welles, cit., p. 212. 23 Cfr. M. Serra, L’esteta armato. Il PoetaCondottiero nell’Europa degli anni Trenta, il Mulino, Bologna, 1990. 24 E.P., Sumner Welles, p. 212. 25 E.P., L’essenza del tradimento, cit., p. 209. 26 Cfr. G. Parlato, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, il Mulino, Bologna, 2000. 27 E.P., L’essenza del tradimento, cit., p. 209. 28 Cfr. G.L. Mosse, Il poeta e l’esercizio del potere politico: Gabriele d’Annunzio, in Id., L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. 97-115. 29 G. Ansaldo, In viaggio con Ciano, cit., p. 96. 30 E.P., I Cantos, a cura di M. de Rachewiltz, Mondadori, Milano, 1985, p. 393 [“Ma qvesto,” | said the Boss, “è divertente.” | catching the point before the aesthetes had got there; | Having drained off the muck by Vada | From the marshes, by Circeo, where no one else wd. Have drained it. | Waited 2000 years, ate grain from Caffè Michelangiolo the marshes: | Water supply for ten million, another one million “vani” | that is rooms for people to live in. | XI of our era”]. 31 T. Redman, Ezra Pound and Italian Fascism, cit., p. 95 (la trad. è nostra). 32 Ivi, p. 96 (la trad. è nostra). 33 Cit. in G. Lunghini, op. cit., p. 11. 34 E.P., Canti Pisani, pref. di G. Raboni, tr. it. di A. Rizzardi, Garzanti, Milano, 2004, pp. 141 e 143 [“and as to poor old Benito | one had a safety-pin | one had a bit of string, one had a button | all of them so far beneath him | half-baked and amateur | or mere scoundrels”]. 35 M. Simonetta, Letteratura e propaganda: Pound poeta del regime, in “Nuovi Argomenti”, n. 11, aprile-giugno 1997, pp. 47-59. 36 Cit. in T. Redman, op. cit., p. 239 (la traduzione è nostra; lo stampatello è nel testo). 37 Cfr. L. Gallesi, Le origini del fascismo di Ezra Pound, intr. di G. Accame, Ares, Milano, 2005. L’A. ricostruisce l’ambiente di intellettuali riunito prima della Grande Guerra attorno al settimanale inglese “The New Age” di Alfred O. Orage, fondamentale, assieme all’insegnamento del filosofo T.E. Hulme, nella maturazione di molte delle convinzioni politiche e sociali che Pound svilupperà successivamente. 38 E.P., L’America era promesse,1941, in Id., Radiodiscorsi, cit., p. 46 (lo stampatello è nel testo). 39 Si veda l’intervista a Daniel Pipes di Susanna Nirenstein, in “la Repubblica”, 21 maggio 2005. All’inizio del 1943 Pound diceva alla radio: “non potrete capire la storia americana senza immergervi nei problemi del debito e dell’usura. Fino ad ora non è apparsa una storia dell’America che prendesse in seria considerazione la componente dell’ebraismo” (Filologia, in E. P., Radiodiscorsi, cit., p. 188). Di Pipes si veda Il lato oscuro della storia. L’ossessione del grande complotto (1997), Lindau, Torino, 2005. 40 M. Simonetta, art. cit., pp. 53-54. 41 Su Ungaretti e la sua adesione convinta al fascismo, e in particolare all’uomo e al mito Mussolini, si veda C. Auria, Ungaretti e il fascismo alla luce di un documento inedito, in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, XIV-XV, 2002-2003, pp. 253-260. 42 Cfr. C. Pellizzi, Ezra Pound uomo difficile, in “Il Tempo”, 20 marzo 1953. 43 Cfr. M. Simonetta, art. cit. 44 E.P., Napoleone, etc., 2 marzo 1942, in Id., Radiodiscorsi, cit., p. 117. 45 Cfr. Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, il Mulino, Bologna, 1990. 46 “There are two kinds of people in Italy, those who have tolerated and/or exploited fascism and those of us who needed the new Italy to breathe in” (E. P. a C. Pellizzi, 2 maggio 1936, in Archivio Camillo Pellizzi, b. 4, f. 13, sf. 13/1). 47 Cfr. A. Hamilton, L’illusione fascista, Mursia, Milano, 1972. L’edizione originale in lingua inglese, del 1971, recava il titolo The Appeal of Fascism. 48 Per una rassegna, sintetica ma efficace, dei movimenti e regimi para-fascisti nell’Europa centrale e orientale fra le due guerre, cfr. R.O. Paxton, Il fascismo in azione, Mondadori, Milano, 2005. EZRA POUND Nato nel 1885 a Haley nell’Idaho, Ezra Pound muore a Venezia nel 1972. Dopo gli studi alla Pennsylvania University e allo Hamilton College di Clinton (New York), e vinta a ventidue anni una cattedra alla Wabash University nell’Indiana, si trasferisce definitivamente in Europa nel 1908 (Gibilterra, Venezia, Parigi, Londra), stabilendosi nel 1925 a Rapallo dove rimane fino al 1945. In Italia lo spinge la convinzione che il regime mussoliniano abbia significativi punti in comune con il sistema sociale che lui vagheggiava, ispirato al «socialismo corporativo» di Douglas. Nel 1919 aveva cominciato a realizzare la sua opera maggiore, quei Cantos cui continuerà a lavorare fino alla morte (il penultimo dei Pisans Cantos chiude: «O let an old man rest»). Poeta, prosatore, critico, traduttore, impresario di cultura, pubblicista politico, fondatore di movimenti letterari e di riviste, scopritore di ingegni, durante la seconda Guerra mondiale fa propaganda per l’Asse e al termine del conflitto verrà prima imprigionato e quindi internato in un ospedale psichiatrico. Sarà liberato il 18 aprile 1958 dallo stesso giudice della Corte distrettuale di Washington, Bolitha Laws, che lo aveva spedito al St. Elizabeth il quale ritirerà l’accusa di alto tradimento. Decisive si riveleranno le pressioni di Eliot, Hemingway, Auden, Tate, Lowell, Aiken, Theodore Spencer, Thornton Wilder, Marianne Moore, Edith Hamilton, Williams Carlos Williams, Stephen Spender, Cummings, Anne Porter. Cui si aggiungeranno quelle di Robert Frost ascoltatissimo alla Casa Bianca. Gli anni del manicomio sono stati ricostruiti da Piero Sanavio nel libro La gabbia di Ezra Pound, uscito in tiratura limitata da Scheiwiller nel 1986, che ora riscritto e arricchito torna in libreria per i tipi dell’editore Fazi. In uno dei suoi famosi Incontri, sul “Corriere della Sera” di domenica 11 aprile 1971, Indro Montanelli conclude così l’elzeviro che dedica al poeta: «… mi tornano in mente quei soldati americani che rinchiusero Pound in una gabbia di metallo come una belva idrofoba, quei giudici americani che prendendo per deviazionismo ideologico le sue poetiche chimere lo condannarono a vivere per tredici anni da pazzo in un ospedale di pazzi, quegl’intellettuali italiani che applaudirono tanta mostruosità, e quelli che, come me, ne inorridirono, ma non osarono denunziarla». a cura della Redazione 11 La poesia TEOLOGIA FAMILIARE poesie di Fornaretto Vieri presentate da Alessandro Fo N el titolo Teologia familiare si scorge una sorta di stemma della poesia di Fornaretto Vieri, i cui temi fondanti sono appunto il ricordo intenerito dei molti doni d’affetto ricevuti in seno alla famiglia e quella ricerca di Dio che sembra configurarsi come un mai appagato desiderio di risalire alle sorgenti ultime di ogni amore e di ogni grazia, l’Archetipo da cui si sono ripetute nella sua vita le meraviglie di cui sono capaci le creature. Questa breve, organica silloge stringe in una sola campitura la capacità di ricondursi con singolare nitore agli stupori dell’alba della vita (V) e quella di distillarne le tracce di Bene, che poi si proiettano sull’arco di una riconoscenza aperta all’infinito, e organizzata in una climax che dall’«amore del padre e della madre» sale a perdersi «negli spazi stellari, nell’illimite/ superna vastità dell’universo» (III). «Luce» e «amore» (martellata, questa, in stile di sestina nel terzo componimento) sono le parole chiave di una prospettiva lirica che corre con impressionante, musicale naturalezza dal privatissimo all’universale, sulle ali di un verso limpido e fastoso, impreziosito da scelte lessicali che si fanno sovente luce esse stesse («l’azzurro, il verde, il libro smeraldino»: VIII). Del resto già nelle sue due raccolte edite da Polistampa, Vieri dà prova di una prestigiosa capacità di affrescare l’invisibile con parole sicure e maestose, spesso attinte a gamme verbali inconsuete, ma senza mai cadere nell’artificiale o nel macchinoso: si tratti di catalogare dalle sue più lontane origini il creato (da «falaschi, variofilli, vallisnerie» a «gazze, taccole, storni, scopetagnole | e passeri, luì e codibugnoli») o di «sperar nella superna stanza, | a cui il polso del mondo volge il remo», magari avvolti nella «chiara clamide di odori» con cui «l’ora dell’alba si rinnova» (ho citato da L’oltranza del vero, pp. 16 s. e 59: 12 Vieri con le vette teologiche coglie in questi inediti una gemma con la conclusiva vittoriosa scommessa di un inno cletico, “premio | ch’era follia sperar”. In appendice a Teologia familiare compare una ulteriore brevissima silloge manoscritta con il titolo La luce dell’essere. A.F. Teologia familiare i Fornaretto Vieri. Fornaretto Vieri è nato a Firenze, dove si è laureato con Lanfranco Caretti e dove insegna materie letterarie nelle scuole superiori. Si è occupato in particolare di poesia italiana ed europea tra fine Ottocento e inizio Novecento. Ha pubblicato due raccolte di versi, Tartaria (Firenze, Polistampa, 1999) e L’oltranza del vero (Firenze, Polistampa, 2003), il saggio di critica letteraria Intorno alle Fiale. Incunaboli del protonovecento govoniano (Firenze, Le Lettere, 2001) e Gli anni della storia. Un’antologia di date da Abramo alla caduta del muro di Berlino (Firenze, Libri Liberi, 2003). Coltiva anche interessi filosofici e teologici collaborando a varie testate (“Città di Vita”, “Rivista di Ascetica e Mistica”). su questo splendido libro si può leggere una lettera aperta di Stefano Carrai al poeta nel numero VIII.1 del “Caffè Michelangiolo”, Gennaio-Aprile 2003, p. 65). L’ormai lunga confidenza, tanto filosofica quanto lirica, di Fornaretto Il primo luogo, l’intimo, il profondo a conoscere il senso della vita, la bellezza dell’essere e dell’esserci, la meraviglia, il canto delle cose, è quello che – misura d’ogni vero che con nostra ragione poi si apprenda e col cuore e con tutta la persona – sorge come d’incanto dall’amore della madre e del padre, chiaro anticipo della felicità che ci è promessa di là dal tempo, un giorno, oltre la storia. ii Tu mamma mi insegnasti le più dolci, le più sante, le massime preghiere, brevi come le mie piccole mani giunte, come tu mi dicevi di tenere. Mi insegnasti il mistero dell’amore, in poche frasi, quando io ti chiedevo perché Lo crocifissero e dicesti di quella sua bontà che non ha fine. Tu mi insegnasti, mamma, quell’amore con lo sguardo con cui certo tu sola ogni volta sapevi starmi accanto, con un bacio od un gesto o una parola. iii Nell’amore del padre e della madre ci ha dato il Padre un segno del suo amore, di quell’amore che non chiede in cambio ma che rivela come tutto è amore: nella realtà più vera di ogni essere, Caffè Michelangiolo La poesia nell’essenza sottile della luce, nei palpiti di vita fra le piante, nel volo degli uccelli, dentro il turbine alto nei cieli, e negli oceani immensi, negli spazi stellari, nell’illimite, superna vastità dell’universo. iv Ci può essere poi nella famiglia una dolce presenza, del suo amore generosa soltanto, e che non vuole che il bene di quei cari a cui si dona, dimentica di sé, del suo gran cuore. Al nostro focolare il suo calore aggiunse allora – e il fuoco non vacilla mutando i tempi, ma si avviva ancora – la zia Franca, la nostra unica “Pilla”. v Era un evento allora ogni stagione e luce era ogni evento: il ritorno alla sera di mio padre, che ogni volta, abbassandosi, allargava verso di me le braccia ed io correndo gli balzavo su in collo, oppure quando con gli occhi spalancati i suoi racconti ascoltavo nel letto: i cavalieri m’eran dinanzi, gli elmi, le visiere e i nitriti fumanti dei cavalli, le battaglie dei venti per i cieli e i fatati castelli e il vasto incanto… vi Talvolta a notte alta o quando appena per le imposte accostate si schiudeva un poco di chiarore nella stanza mi svegliavo di colpo per un sogno di paura, ma stavo allora in mezzo a mia madre e a mio padre dentro il grande letto, appoggiato sopra il guancialino, da ogni parte sicuro, ero protetto dal loro amore: un brivido di gioia accompagnava il mio riaddormentarmi. viii La Pilla nelle mie convalescenze prendeva i grandi “libri delle fate”, l’azzurro, il verde, il libro smeraldino, e a lungo mi leggeva quelle fiabe che aprivano il mio cuore e la mia mente come al “gigante egoista” il suo giardino. Non chi le aveva scritte o chi le avesse regalate distratto, ma lei sola, partecipe con me, semplicemente, mi donava ora l’una or l’altra storia. ix Soccorrici Signore, tu che sai ascoltar le più povere preghiere, accoglilo quel poco di quel bene che nei nostri atti trovi posto mai, Signore onnipotente, Tu che hai pietà di noi e delle nostre miserie, che in groviglio di colpe sai vedere quello che resta delle tue creature, conservale, Tu lo puoi, per la tua pace, ci salvi, mio Signore, la tua Croce. x Sia lodato il Signore, per lo scandalo santo del suo perdono, per l’amore che dona agli operai dell’ultim’ora la stessa ricompensa che dà ai primi, la stessa pace e gioia del perdono e il prodigo festeggia più del giusto. Sia lodato da tutti noi che siamo ciascuno il figliol prodigo, seppure a volte ci credemmo l’altro, il giusto, e ci demmo così parte peggiore, la parte di colui che non si è accorto d’esser col Padre e non ne ha gioito, che festa non ne ha fatto con se stesso né con gli altri. Per sempre sia lodato l’Altissimo, il Signore, perché è buono, Lui soltanto, alla luce del cui amore nostra giustizia dice quanto è poca. xi vii Interrompeva le faccende mia madre e mi prendeva in collo sorridente: per la mia felicità, per la mia gioia, la sua guancia alla mia così vicina, la sua limpida voce, la luce del suo sguardo, leggeva attenta, senza alcuna noia… Mai altre storie furono più belle. Caffè Michelangiolo Tu luogo di ogni luogo, Tu l’Altrove, il dove di ogni essente, il Prima e l’Oltre, il senso, il fine, la promessa, il Nuovo, il non luogo che è ovunque, Tu il Vivente, Tu l’Eterno, il presente e il non ancora, il Dio-con-noi e che verrà, che viene, Tu il Signore del tempo e della storia, che rovesci i potenti e innalzi gli umili, Tu Padre e Figlio, Spirito d’amore, Tu santissima Luce, eterna gloria. 13 La narrativa «La madre non diceva niente. Cominciava a sentire tutti i suoi settantacinque anni, si sarebbe detto. E l’ingombro che dava. Almeno l’avessero lasciato a casa, nella sua cucina…» COMPLEANNO IN FAMIGLIA racconto di Mario Graziano Parri M amma. La figlia Maria stava tornando alla carica. Mamma, qualcosa di meno impegnativo. Che te ne fai da sola di tanto spazio? Ma certo, l’ospizio: la madre non aveva parlato, tuttavia quelle parole si sarebbero potute leggere sulle sue labbra, da tempo non più rosse però marcate come da un tratto di carboncino. Il fatto era che lo volevano per sé, l’appartamento. Un acquisto che lei aveva fatto con il gruzzolo lasciatole dai suoi genitori quando suo marito era stato trasferito: il più giovane capostazione cooptato come esperto dalla Direzione Materiali e Trazione. Che cosa credevano, non lo sapesse? Avevano in mente di comprarselo loro. Con un prestanome, una società di comodo. E occupato. Occupato da lei, e per questo alla metà del valore. Ce la faceva benissimo con la pensione di reversibilità: non era un condominio caro, e nel quartiere la conoscevano tutti. Il pane, il latte, la carne, glieli portavano fino in cucina. E il medico aveva lo studio al piano sotto il suo. Loro ce l’avevano, una casa. Dove lei si trovava ora, per il pranzo di compleanno. Ma la sua era più spaziosa: due terrazze, il garage in cui lei teneva quelle che suo genero chiamava carabattole, il bagno con la cabina della doccia separata. E due camere. In più il soggiorno. Grande. Anche se lo teneva chiuso perché adesso era vuoto. C’era poi il ripostiglio, con le scaffalature e la finestra: quasi una stanza. Suo marito ci teneva di tutto. Negli ultimi anni non ci vedeva quasi più: maculopatia. Una forma degenerativa. Lei però ci vedeva, e benissimo. Non le erano sfuggiti quei documenti lasciati sopra la borsa, sulla sedia nell’ingresso. Sua figlia li aveva subito fatti sparire, Sandro lascia tutto nel mezzo. Le sue cose di ufficio… benedett’uomo! Ma lei aveva avuto il tempo di imprimerseli: lo scatto di una foto. Per poi rivedersela mentalmente. La 14 Mario Graziano Parri (foto I. Iandelli). Mario Graziano Parri è autore di romanzi (La signora del gioco, Firenze 1984; Magenta Petrel, Milano 1990), di alcuni libri di poesia (si ricordano Se parla la spiga d’estate, 1981; Questa è la rosa e qui danza, 1982; Codice occidentale, 1983; La notte precedente il nostro futuro, 1985; Stella di guardia, 2001), di un saggio (Domenico Giuliotti, Roma 1971), di una pièce (Addio figliol prodigo, Radiodue 1983, 1985). Una raccolta di racconti, Santi all’Inferno, uscì nel 1960. Vive fra Firenze e Tirli, in Maremma. planimetria, la rendita catastale, il prezzo. E soprattutto il nome del venditore, il suo: Maddalena Ronsisvalle, nata a Catania il 17 aprile 1927. E dell’acquirente: la immobiliare Marisand. Mancavano solo le firme dal notaio. Il figlio Giovanni arrivò senza la moglie. Era indisposta, come la madre aveva previsto. Lui portava con sé la bambina, una gonfia bambola con i capelli stopposi. Il vaevieni di quei maldischiena, un tormento per la povera Cecilia, si scusò. Le piombavano addosso specialmente dopo che era di turno la notte, in ospedale una caposala non ha tregua. Per di più in casa si era guastato l’autoclave e di idraulici nemmeno a parlarne. La realtà era che lei non se la intendeva con i cognati. La faccenda di portarsi in casa la madre o di andarci loro in casa da lei… voleva dire prendersi tutto, pensione e deposito alla Posta compresi. E chi s’ è visto s’è visto. Giovanni diceva di no, è perché non stia sola. Ha settantacinque anni, tu poi non l’hai mai voluta con noi. A questo punto la collera di Cecilia passava il livello di guardia. Loro intanto si sono presi i mobili del soggiorno. Ti fai sempre fregare, il solito rinunciatario inetto. Sai solo sfogarti con la bicicletta e sarai anche impotente presto, è la compressione dei vasi sanguigni sul perineo provocata dal sellino. Ti porterò a leggere il “Journal of Sexual Medicine”: disfunzione erettile si chiama. Perché non li abbiamo presi noi? Perché? Giovanni era accomodante, con quella sua fronte aggrondata sotto cui gli occhi avevano uno sguardo spaesato. Ma cara, se li hai sempre trovati troppo pretenziosi quei mobili, troppo carichi. Con le finte zampe di leone. Quando lei si innervosiva il labbro di sopra si arricciava ancora di più e scopriva la gengiva. Potevamo averli noi, adesso. Ma tu ti lasci fregare. Sempre ti lasci fregare. Sempre. Non è forse così? Dalla brava sorellina. E non parliamo di tuo cognato, lo stronzetto. Se ci tieni tanto a passare da minchione, buon pro ti faccia. Io non sono quel tipo. E poi abbiamo una figlia, noi. La madre su quel matrimonio si era sempre astenuta dal dare un giudizio, non suo marito. L’ha presa per via delle tette: cos’altro ha, lei? La messinscena del prete e dei fiori non basta, è difficile stabilire da quando una persona diventi di famiglia. La madre taceva, suo marito invece non lo mandava a dire: quella, di famiglia, non lo diventerà mai. Lo mena per il naso. Eh, se la Caffè Michelangiolo La narrativa sa lunga… Suo marito aveva la passione della lettura, nel suo gabbiotto fra un treno e l’altro c’era sempre stato un libro a portata di mano. Una volta gli era capitato di leggere di un caminetto girevole, nella camera da letto di un gran signora di Parigi. L’appartamento della madre era da ristrutturare, difficile che tutto andasse a posto prima di un anno. E si doveva trovare una sistemazione per lei, un po’ fuori. La città costa un occhio. Un quartierino in periferia o anche in campagna… doveva rientraci con la pensione e rimanerci qualcosa. L’età, le medicine. Il pranzo di compleanno sanzionava Bisognava cominciare a pensarci. Ci sache erano già passati settantacinque rebbe stato bisogno di assistenza, più anni. Ancora non era stato apparecchiaprima che dopo come si dice. I settanto. La madre doveva per forza stare a catacinque c’erano tutti. Certo che a quel potavola; e i due figli, Giovanni alla sua punto la rottura era inevitabile. Non destra, Maria dall’altra parte. Poi c’era la tanto suo fratello, era un posapiano e nipote da sistemare… beh, alla destra di non voleva questioni. Ma quella strega suo padre. E il genero. Alla sinistra di di moglie che lo faceva rigare… e quelMaria non ci poteva stare: marito e mola orribile figlia gonfia come un Micheglie insieme, no. La madre non diceva lin… Come, vi siete presi la casa e mesniente. Cominciava a sentire tutti i suoi so lei all’ospizio?, Maria le fece il verso. settantacinque anni, si sarebbe detto. Le mancava di mettere i bicchieri, da E l’ingombro che dava. Almeno l’aves- Henri Rousseau, Bambina con bambola, 1908. parte aveva un paio di bottiglie di sansero lasciata a casa, nella sua cucina… Parigi, Musées Nationaux - Coll. Walter-Guillaume. giovese e in frigo un prosecco. Per il Bisogna che Cecilia venga, Maria cominbrindisi. L’aveva portato Giovanni, si ciava ad averne abbastanza. Che venga posate, i tovaglioli. Quelli di carta. Si sa- era voluto sciupare ad ogni costo. Per via dei posti. Ma non rebbe anche potuti andare tutti fuori. La madre non diceva niente. Stava sarebbe andata bene lo stesso. Accanto a Maria lo aveva messo in conto. Suo ma- lì, sulla sedia dove l’aveva fatta metteGiovanni, no. E accanto a Maria… due rito e lei, Giovanni e la figlia. E per la re la figlia. Un po’ scomoda, nel salotto donne insieme. E la piccola Maddalena. madre avrebbero fatto a metà. Lei e il arredato con i suoi antichi mobili e diDa sola a capotavola, di fronte a sua fratello. Se non si faceva in casa, proba- viso dalla zona pranzo dalla bassa linonna? La madre, era lei che doveva bilmente ci sarebbe stata anche Cecilia. breria con le colonnine panciute che suo spostarsi. Allora, capotavola suo marito, Però lei e lui, la cognata e il fratello, marito aveva fatto montare lungo una e lei, Maria, dalla parte opposta. Dopo- avrebbero preteso di pagare tutto a metà. parete del loro soggiorno. Suo marito tutto era la loro casa. A destra di suo E loro erano tre, così andava a finire che ci teneva i testi tecnici, ben ordinati con marito, la madre, accanto a Giovanni. per la madre avrebbero pagato solo loro i romanzi che erano stati la sua passioLa bambina… tutta sola dirimpetto. Con due, la figlia e il genero. ne. Sul ripiano comparivano le foto dei suo padre e la nonna matrimoni: quello di davanti. Nemmeno Maria e quello di Giocosì poteva andare. Ai vanni. E anche del due capi della tavola: loro, nel piazzaletto suo marito e suo fradi via Santa Maddatello. La madre, alla lena, con la chiesa di sinistra del figlio con Sant’Agata la Vetere accanto la nuora. alle spalle La madre E dall’altra parte, anfissò nello scaffale tistante la madre, la uno dei libri: al marifiglia, alla destra del to non era piaciuto, a fratello, e la nipote, lei invece era rimasto fra suo zio e lei. Se bene in mente. RacCecilia non veniva… contava di una vecse non veniva, la machia e del suo viaggio dre avrebbe occupato verso la montagna il lato lungo da sola. dove andava a laFra suo figlio e suo sciarsi morire chi era genero. Così forse si alla fine della vita. risolveva. Anzi, non Per non essere di peso c’era altra soluzione. ai figli. E adesso non le rimaOgni tanto baleneva che tirare fuori Marcello Fogolino, Banchetto, 1520 ca., affresco, cm 300 x 500, Ghisalba (Bergamo), Castello nava sulla madre lo la tovaglia. I piatti, le Malpaga. sguardo della figlia Caffè Michelangiolo 15 La narrativa affaccendata intorno alla tavola. Un’altra sistemazione. Provvisoria. Maria da tempo la meditava. Tanto per un primo periodo… proprio a ridosso della finestra un divanoletto ci andava giusto giusto, e nel disimpegno alcuni ripiani dell’armadio a muro li poteva liberare. Con qualche gruccia… antipasto. La cognata le rivolse quel suo lampo furente: possiamo anche andarcene. Abbiamo di che sfamarci, cosa credi. Se non fosse perché mamma fa i settantacinque e la prossima volta potrebbe non esserci. Finalmente giunse anche Sandro. Con quella permanente aria indaffarata e le florsheim con la spessa suola impunturata. Anche la grossa borsa che la partita. Sapete come sono i tifosi. Davanti a sé Giovanni aveva una barriera di palline di mollica, le produceva con meticoloso puntiglio fra l’indice e il pollice per occultare le macchie di vino. Sua moglie alla sinistra della madre sembrava deliziata dallo smalto delle proprie unghie. Darei qualunque cosa per farmi un idraulico, disse contiNella zona pranzo lei non aveva fininuando a guardarsele e senza curarsi to di apparecchiare che della figlia. È il solo uomo con irritante invadenza il di cui una donna non può campanello dell’ingresso fare a meno. Se non ci rieprese a gracchiare. Un sco, mi porterò a letto un suono snervante e acido. cinese: di quelli ce ne sono Sandro… avrà scordato le quanti se ne vuole. chiavi. Come al solito. Quando Maria portò in Però non è la sua scampatavola la sfogliata di ricotnellata. C’era la cognata ta neppure alla bamboccia alla porta: non potevo non era rimasto un residuo di venire. La madre se la appetito. Guardarono la vide arrivare troneggiante vecchia. Quella bocca che e popputa sulla gambe non aveva chiaccherato né magre, i capelli crespi e la riso e di malavoglia manvistosa Louis Vuitton atdato giù qualche boccone e taccata al braccio. Settanqualche sorso, quella bocca tacinque anni, signora con le labbra indurite e la Maddalena. Settantacinscura peluria sotto il naso que. Come avrei potuto un po’ ricurvo, adesso non venire. E si piegò verquella bocca avrebbe doso la suocera, ma lei vuto far uscire il fiato di cui schivò il bacio. E non disancora disponeva e conse niente, seduta rigida centrarlo sulla faticosa disulla scomoda sedia. Ma stesa di candeline: esibire probabilmente doveva torcosì l’atto definitivo di una narle davanti l’immagine volontà contrariata, che si di quel caminetto girevole era fin lì tirata indietro. e l’amante dalla casa viciFallo tu, piccola. Si lina che passava nella camitò a queste parole. mera della signora. E il Furono le uniche che la marito di lei era un po’ Erich Heckel, Fratello e sorella, 1911, olio su tela, cm 76 x 65. Karlsruhe, Staatliche madre avesse detto da come Giovanni. Che sor- Kunsthalle. quando era lì, nella casa prendendoli, si sarebbe lui della figlia e del genero, e sentito in colpa di fronte alla moglie: ti stringeva era americana, la posò e fece con l’altro suo figlio, e la nuora e la nisembra una cosa da fare? E se ti avesse il gesto di chinarsi a baciare la suocera, pote. Come i rintocchi di una pendola, scoperto qualcun altro? lei lo prevenne. Piegò la testa da una che definiscono il tempo ormai scaduto. La passività della madre esasperava parte e rimase così, chiusa nel suo vigi- Le guance della bambina avevano racla nuora, era la passività di un vetro ta- le mutismo. colto tutta l’aria che potevano. Gonfie e gliente. Maria ne approfittò. Posa pure la Mangiarono frettolosamente, la ni- tese la trattenevano a stento sopra la torborsa, è un regalo di tuo marito? Oh, pote sempre più gonfia e imbrattata di ta: e quando lei la lasciò uscire, tutta dici questa…? E Cecilia si volse verso la coca cola; Gualtiero del tutto estraneo, quell’aria, fu come se soffiasse sulla fiamcognata con uno scatto. Una donna deve lo chiamavano al cellulare o era lui a ma della vita. cogliere le sue opportunità, disse con chiamare. Ce n’erano due, accanto al uno sprezzante risolino. E vivere, ag- piatto: squillavano imperterriti, senza (dicembre 2005) ■ giunse. Tuo marito, Maria lo disse come riguardi per la ricorrenza familiare. Prise non avesse sentito e si era messa a ma del dolce lui si alzò, si passò sul completare l’apparecchiatura, tuo mari- mento sporgente il tovagliolo di carta. NOTA to è di là in cucina. E tua figlia si starà Scusate, disse. Devo portare delle perQuesto racconto è tratto dalla raccolta inedigià abbuffando di crocchette, così addio sone a vedere una casa e chi la vende ha ta intitolata Un caldo rifugio interiore. 16 Caffè Michelangiolo La narrativa «… quel giorno, 3 maggio 1918, avrebbe potuto cambiare non solo la sua vita e quella di Katherine, ma l’intero corso della letteratura inglese» UN ANELLO PER KATHERINE dal romanzo di Linda Lappin traduzione diSandro Melani Londra. Ufficio dello stato civile di Kensington. I l giudice era quasi calvo e aveva la pelle gialla. Sopra la gola spuntava un leggero gozzo che a Murry, al fianco di Katherine in attesa dell’inizio della cerimonia, servì da diversivo. Il suo sguardo continuava a posarsi su quel rigonfiamento carnoso, come se fosse un segno che bisognava ancora decifrare. Lui e Katherine, grazie a Dio, erano tuttora una bella coppia nel fiore degli anni, senza nessuna deturpazione visibile. In effetti, si rendeva ben conto di avere un aspetto distinto con il monocolo e i pantaloni sale e pepe, ma si sentiva leggermente impacciato e sperava che nessuno avesse notato che i gemelli erano stati ingegnosamente improvvisati attorcigliando due pezzetti di fil di ferro di una bottiglia di ginger ale. Quella mattina aveva perso l’unico paio che possedeva, due opali montati in oro che gli aveva regalato sua madre quando era andato a Oxford, e prima di raggiungere in bicicletta l’ufficio dello stato civile di Kensington, dove stava per sposarsi con Katherine, aveva dovuto inventare alla svelta qualcosa che li sostituisse. Fissò il calendario sulla parete dietro al banco del giudice e pensò che quel giorno, 3 maggio 1918, avrebbe potuto cambiare non solo la sua vita e quella di Katherine, ma l’intero corso della letteratura inglese. Si sentiva stranamente distaccato da se stesso. Che cos’era quel filtro tra lui e il suo io, tra l’intenzione e l’atto, tra la mente e il corpo che eseguiva i movimenti richiesti dall’occasione? Senza avvertire nessuna emozione pensò che il torpore delle sue reazioni dipendeva dall’incertezza sul passo che si accingeva a compiere. Oh, desiderava Katherine e al pensiero della sua palliCaffè Michelangiolo Linda Lappin. Linda Lappin ha conseguito un Master of Fine Arts in scrittura creativa nella University of Iowa Writers Workshop nel 1978. Nello stesso anno è giunta in Italia con una borsa di studio Fulbright per partecipare a un seminario di traduzione letteraria diretto da William Weaver. Lavora come lettrice nelle università italiane dal 1980, prima alla Sapienza di Roma e attualmente alla Università della Tuscia. Si occupa di scrittrici e artisti degli anni Venti. Katherine’s Wish è il suo secondo romanzo. Il primo, The Etruscan, è stato pubblicato nel 2004 a Galway (Irlanda) da Wynkin de Worde. da e luminosa nudità nel suo letto gli tremavano le ginocchia. Grazie a quel rito, sarebbe stata sua per sempre. La adorava. Per lui era tutto, come non lo era mai stata e come non lo sarebbe mai stata di nuovo nessun’altra donna. Era una tigre, guidata dall’ambizione, che lo incitava a seguire il suo galoppo. Era una bambina innocente che gli si stringeva al petto in cerca di protezione, e il pensiero della sua vulnerabilità gli fece gonfiare il torace come se volesse abbracciare l’intera stanza in cui si trovavano. Era una principessa con una sensibilità impareggiabile. Senza dubbio era la donna più intelligente dell’Inghilterra e uno dei più grandi talenti letterari della sua generazione. Ed era stato lui a scoprirla quando sulla sua rivista, “Rhythm”, le aveva pubblicato La donna dello spaccio, forse il più brillante racconto del decennio. La loro vita e la loro sorte non potevano che essere favorite dalla loro reciproca connessione. La storia della letteratura avrebbe reso onore al loro nome. Perché questo avvenisse, forse il matrimonio non era necessario, ma desideravano sposarsi da anni e finalmente il divorzio di Katherine si era concluso. Quel ridicolo pagliaccio di Bowden era uscito per sempre dalla loro vita. Non aveva mai ben capito perché Katherine avesse sposato George Bowden e poi lo avesse lasciato il giorno dopo senza consumare il matrimonio. Ne dava la colpa all’inesperienza della gioventù. Lui stesso era stato ed era tuttora molto più povero di esperienze di Katherine. Pensò per un attimo al suo primo amore a Parigi, con cui aveva perso la purezza. Supponeva che non fosse sconveniente che il giorno del suo matrimonio un uomo ricordasse le sue precedenti relazioni. Marguerite, la bella campagnola francese, con il petto florido compresso in un corsetto aderente con dozzine di piccoli ganci esasperanti che andavano slacciati e un antiquato cappello di velluto nero guarnito di ciliegie afflosciate che si intonavano alle sue fulgide labbra. Il ricordo più indelebile di Marguerite erano, cosa incredibile, quelle ciliegie sul cappello, che tremavano sopra il suo orecchio quando nel caffè rideva, con troppa solerzia, per le sue battute scadenti e dondolava una gamba avanti e indietro sotto il tavolo. Con qualche sforzo riusciva a rievocare alcuni particolari di quanto era successo 17 La narrativa dopo nella stanzetta di Marguerite: lo schiocco della giarrettiera mentre si sfilava una calza, il baleno di una gamba bianca e dei suoi fianchi pieni mentre scivolava nuda sotto le lenzuola, l’odore, dopo, della stanza con le imposte chiuse, una lampada che languiva sulla toeletta, la sua voce infantile che gli chiedeva: «Tu n’es pas triste?». Il coi- Katherine Mansfield nel 1913 con John Middleton Murry, sposato a Londra nel 1915 dopo quattro anni di convivenza e una volta ottenuto il divorzio da un precedente marito con il quale ebbe un brevissimo rapporto infelice. to in sé, immagine sfocata di un ardore ansimante, era stato troppo breve perché meritasse ricordarlo e si era sentito triste – non era stato affatto come se lo aspettava. Sì, allora credeva di amare Marguerite e avrebbe anche potuto sposarla. La sua serietà monellesca avrebbe affascinato sua madre. Insieme avrebbero dato vita a un’invincibile coalizione contro di lui e lo avrebbero inchiodato a uno scadente lavoro impiegatizio che lo avrebbe costretto a rinunciare a “Rhythm” e alla sua carriera letteraria. Non era successo, perché l’aveva crudelmente abbandonata. Rannicchiato nel treno che lo riportava a Calais, dopo il loro addio alla stazione aveva inghiottito i propri colpevoli singulti. Non le aveva detto che non sarebbe mai tornato. Le sue lettere in seguito erano arrivare a Oxford per mesi, ma i suoi errori di ortografia gli facevano venire un nodo alla gola e non era riuscito a risponderle. Poi, scendendo da un taxi a Hampstead in una sera nebbiosa di dicembre, era entrata nella sua vita Katherine Mansfield. 18 La cena in cui si erano conosciuti era stata organizzata dietro sua richiesta. Dopo aver pubblicato il suo racconto, aveva passato un pomeriggio in piedi davanti agli scaffali della libreria di Dan Rider in St. Martin’s Lane e – visto che non si poteva permettere di comprarne una copia per leggersela a casa – vi aveva divorato da cima a fondo la sua nuova raccolta di racconti, Una pensione tedesca. Un suo amico la conosceva e aveva promesso di presentarli l’uno all’altra invitandoli a cena. Mentre si recava di buon passo al suo appuntamento a Hampstead, non sapeva bene cosa aspettarsi. L’autrice di quei racconti possedeva un robusto vigore e un’ironia fulminante. Com’era possibile che quella sua severa intensità potesse incarnarsi nella pudica ragazzina vestita di grigio che quella sera era giunta in ritardo alla cena? Il suo abito, quasi monacale nella sua semplicità, era adornato da una sola rosa rossa, ma le calze nere e le scarpe color argento erano da civetta. Elfo, vagabonda, seduttrice – era impossibile precisare a quale specie di donna appartenesse. Cambiava sotto gli occhi altrui ed era sempre affascinante. Prima che avessero scolato i bicchieri di whisky del dopocena, sapeva che non doveva perderla di vista e, con sua grande gioia, mentre si salutavano giù nella strada, lei lo aveva invitato a prendere il tè, promettendogli pane integrale e marmellata di ciliegie. Il suo appartamento a Clovelly Mansions era sguarnito di mobilia e sul pavimento invece dei tappeti c’erano delle stuoie di giunco. In salotto c’era una sola poltrona, su cui era stato costretto a sedersi mentre lei, inginocchiata ai suoi piedi come una geisha su un cuscino di seta viola, versava il tè in coppette giapponesi e gli imburrava una fetta di pane. La conversazione era andata avanti per ore e ore e si era ritrovato a confessare i dubbi che nutriva sul suo futuro. Non era tagliato per Oxford o per il servizio civile, le due carriere che i suoi genitori avevano progettato per lui, e Katherine lo aveva incoraggiato a lasciare Oxford, intraprendere qualcosa da solo, continuare il suo lavoro critico ed editoriale. Una settimana dopo si era trasferito nella stanza libera del suo appartamento ed era cominciato il periodo più straordinario della sua vita. Per mesi lui e Katherine erano rimasti casti come fratello e sorella, eppure facevano tutto assieme. Ogni sera leggevano a voce alta i loro scritti, poi si davano la mano e si ritiravano nelle loro stanze separate. Katherine ben presto si era sentita insoddisfatta della situazione. «Perché non mi prendi per amante?» gli aveva chiesto una sera al termine Una immagine di Londra tratta dalla pellicola di Woody Allen, Match Point, 2005. della cena. Lei era rannicchiata in poltrona, lui disteso sul pavimento. Aveva riflettuto sulla domanda – l’idea non gli era mai passata per la testa nemmeno alla lontana, nonostante che lei lo attraesse maledettamente. Si era steso sul dorso, aveva agitato le gambe in aria e aveva esaminato i tacchi consumati delle scarpe. «Rovinerebbe tutto», aveva risposto alla fine, riportando le gambe a terra. Il sesso non aveva forse rovinato il suo amore per Marguerite facendole credere che in qualche modo poteva avanzare delle pretese su di lui e sul suo futuro? Perché un uomo e una donna non potevano essere solo davvero amici, amici intimi e affettuosi, come erano lui e Katherine, senza che ci si dovesse mettere di mezzo il sesso? Era questo quello che credeva di pensare, e per un po’ Katherine l’aveva accettato. Erano così poveri allora. Per risparmiare ogni sera per cena compravano pasticci di carne da un penny e poi dovevano andare a un pub per togliersi dalla bocca il sapore rancido del monCaffè Michelangiolo La narrativa tone avariato. Poi, una sera, al pub era successo qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la loro vita. C’era Lil, una vecchia prostituta che aveva messo le radici lì attorno, sempre seduta semiubriaca allo stesso tavolo, di fronte a uno specchio costellato di mosche che rifletteva una fila di bottiglie di whisky e di acqua di selz dietro il banco. Una sera l’avevano colta intenta a fissarsi nello specchio, ma lei non si rendeva conto che la stavano osservando. La tristezza e l’orrore di quel nudo autoscrutinio e l’espressione di quegli occhi erano stati una visione straziante. Per lui erano stati simili a un pugno nello stomaco. Negli occhi di Lil aveva visto il volto spaventoso della vita. La bassezza, la corruzione, la mancanza di qualsiasi conforto, la certezza della decadenza e della morte. Prima che distogliesse lo sguardo gli si era fissato nella testa un pensiero – Questa è la vita: Una vecchia puttana ubriaca e butterata con il petto cadente e i denti guasti. Era stato afferrato da un senso di gelo che non era riuscito a scacciare. Anche Katherine l’aveva avvertito e se ne erano andati entrambi turbati. L’unico rimedio a quella solitudine stava nel tenersi aggrappati l’uno all’altra. Ritornando in quello squallido appartamento, si era gettato tra le braccia di Katherine e aveva pianto senza ritegno. Lei aveva avvicinato la bocca alla sua e gli aveva infilato la lingua tra le labbra lasciandolo meravigliato della sua intraprendente curiosità. Si erano avviati incespicando verso la stanza di lei, rovesciando quasi una lampada mentre crollavano sul letto su cui si erano strappati a vicenda i vestiti di dosso. Dopo aver fatto l’amore, sapevano di aver creato un legame che niente avrebbe potuto distruggere. No, non era il sesso che aveva desiderato con Katherine, ma il destino li aveva uniti e adesso non poteva farne a meno. A volte era così disinibita, lo faceva arrossire – dove aveva imparato a dare tanto piacere a un uomo? Non osava nemmeno immaginare i nebulosi amanti che erano giaciuti al suo fianco. Eppure, non l’aveva mai soddisfatta. Non l’aveva mai posseduta veramente. Era semmai Katherine a possederlo e a soddisfarlo. Era importante? Un uomo come Lawrence avrebbe griCaffè Michelangiolo dato che era molto importante e avrebbe sbattuto il pugno sul tavolo, sbraitando che non avrebbe dovuto permettere che lei lo menasse per il naso. Katherine, fragile come una foglia, stava al suo fianco e gli afferrava il braccio. Era tornata dalla Francia con un profumo nuovo, come si chiamava? Al ritorno pesava anche quaranta chili Marie Laurencin, Katherine Mansfield, 1932, ritratto ricavato da una foto del 1913. e tossiva ogni cinque minuti nel fazzoletto. Era un’abitudine particolarmente preoccupante che gli faceva venire i brividi sul collo. Non l’aveva quasi riconosciuta quando al suo ritorno con Ida era andato a prenderla al treno. Era magra come un fuscello e pareva che fosse stata rilasciata da un’orribile prigione. Camminando ondeggiava, come un giglio troppo pesante per lo stelo gravato dalle gocce di pioggia di un acquazzone. Si frugò in tasca in cerca dell’anello, per assicurarsi che non fosse caduto mentre pedalava lungo la strada. Era sorprendentemente freddo, come se fosse stato immerso nell’acqua ghiacciata. Era l’anello del primo matrimonio di Frieda von Richtofen, che l’aveva regalato a Katherine il giorno che si era sposata con Lawrence, quando solo quattro anni prima loro due avevano fatto da testimoni al matrimonio. Lawrence avrebbe approvato quel che facevano adesso. Era convinto che il matrimonio fosse la chiave dell’esistenza umana e che nessun uomo valesse qualcosa senza una donna alle spalle. «La donna che amo mi tiene in diretto contatto con l’ignoto» – Lawrence la metteva così –. Con l’ignoto. Si sentiva attratto verso le inconsce profondità della vita, quelle caverne smisurate per l’uomo – abissi profondi penetrati grazie a bagliori ultraterreni. La figura esile, pallida e malaticcia di Lawrence nuotava nuda, gioiosa e impavida in quell’oscurità e li incitava – Frieda, Katherine e lui stesso – a seguirla nei misteri. Frieda non aveva bisogno di incoraggiamento. Si tuffava in quelle fertili acque scure, fendendo le onde con le sue braccia muscolose. Ma lui e Katherine rimanevano indietro sulla spiaggia, riluttanti a imitare quegli arditi nuotatori. Ma dove si era spinto con la mente? Il giudice aveva aperto la bocca per dire qualcosa, ma le sue parole lo raggiunsero con grande ritardo. Con sua grande sorpresa, aveva cominciato a sudare intorno al colletto. Il giudice aprì di nuovo la bocca, e questa volta ne colse i suoni. Questa volta sapeva cosa rispondere, Sì. Era fatta, una cosa semplicissima. Katherine mormorò la sua risposta con una voce sommessa e affannosa, simile a un fruscio di fiori. Al segnale indicato lui le infilò l’anello al dito. Era così largo che minacciò di scivolar via. Ma Katherine serrò il pugno per tenerlo ben stretto e le nocche assunsero uno strano pallore, simile a quello di un annegato. ■ NOTA Questo brano è una anticipazione del romanzo inedito della scrittrice americana Linda Lappin, intitolato Katherine’s Wish (Il desiderio di Katherine). Katherine’s Wish racconta gli ultimi cinque anni di vita di Katherine Mansfield, partendo dal momento in cui, durante un viaggio nel sud della Francia in piena guerra, scopre la gravità della sua malattia. Alternando tre punti di vista, quello della Mansfield, della sua compagna, Ida Baker, e di suo marito, John Middleton Murry, il romanzo segue le incessanti peregrinazioni della protagonista e la sua affannata ricerca per diventare “figlia del sole” (“a child of the sun”). 19 La narrativa «Angela rispose che veniva dal sud e che raggiungeva il suo ragazzo che si chiamava Giuseppe e faceva il copritetti a La Chaux-de-Fonds» DI LÀ DALLA FRONTIERA di Antonio Imbò Q uel giovane soldato, in divisa verde scuro con un fucile d’assalto a tracolla e un grosso zaino grigio, prese posto nello scompartimento di seconda classe sul percorso Brig-Berne appena varcato il confine. Poteva avere sui vent’anni. Si spostò il fucile sulla spalla e si sistemò sulle ginocchia una carta topografica gualcita che prese a consultare. Ogni tanto alzava lo sguardo in direzione del finestrino, come a comparare la mappa con la geografia del luogo, e prendeva nota su un quadernetto poggiato sul dorso di una Bibbia. Una di quelle volte aveva incrociato lo sguardo di Angela, in parte ancora insonnolita dal lungo viaggio, che allo specchio del sedile stava spazzolandosi i capelli. Dopo averla incontrata con gli occhi una seconda e una terza volta il giovane soldato prese coraggio, accennò a un sorriso e le rivolse la parola. Chiese se il pacco sul sedile fosse della ragazza e disse di chiamarsi Philippe com’era impresso, assieme all’indirizzo, sulla copertina gialla e spiegazzata del libretto d’appunti. Come a giustificare, poi, la sua indiscrezione spiegò che apparteneva alla Section de Renseignements dell’esercito svizzero. Un battaglione che aveva l’incarico di redigere rapporti su ogni cosa, oggetto o persona: «Raccogliere informazioni», disse, «è il presupposto d’ogni sicurezza, perché nulla sia lasciato all’imprevisto». Sollecitata dalle domande Angela rispose che veniva dal sud e precisò, semmai quello volesse saperne di più, che raggiungeva il suo ragazzo che si chiamava Giuseppe e faceva il copritetti a La Chaux-de-Fonds. «Ci sono molti italiani che lavorano da noi», disse il giovane soldato. Trasse fuori dallo zaino un altro taccuino, usato fino all’ultimo rigo disponibile, e gli diede una sbirciata. Si fermò con l’indice su una pagina: «La Chaux… 38.800 abitanti», disse, «il 6,6 20 Antonio Imbò. Antonio Imbò è nato a Morciano di Leuca (Lecce). Dopo aver seguito il corso di letteratura italiana all’Università di Firenze, allievo di Giorgio Luti, diventa collaboratore di riviste letterarie (scrive di narrativa contemporanea, italiana e francese) e di quotidiani (recensioni e note critiche), svolgendo nel contempo attività redazionale per Case editrici. Per il Dipartimento Scuola ed Educazione (D.S.E.) della Rai, ha curato alcuni documentari. Con questo ottavo racconto prosegue la sua “saga dell’esilio”. I precedenti sono comparsi su questa stessa rivista nel n. 3 del 1997 (Le nuvole ti portano via); nei nn. 1, 2 e 3 del 1998 (L’eccentrico signor Perret), (La signora Du Bois), (L’anniversario); nel n. 3 del 2003 (Nevica da giorni); nel n. 3 del 2004 (La signora dei tetti) e nel n. 1 del 2005 (La lettera). per cento è composto da italiani, su un totale del 10 per cento di stranieri. Venti anni fa nel ’40 eravate il 2,4 per cento, altri vent’anni di questo passo e da soli sarete il 10 per cento della popolazione. Siete destinati ad aumentare, c’est clair… Anche gli svizzeri in passato sono partiti in cerca di lavoro. Erano soldati, ma non fa differenza. Hanno composto la guardia del corpo del re di Francia, combattuto in Spagna, in Austria, fino in Russia… Sa cosa ha detto di loro Napoleone? Che tra gli uomini d’armi erano i migliori per coraggio e fedeltà. Erano molto richiesti all’estero e partivano per ogni dove. Alcuni tornavano, altri no… Quante esistenze spezzate. Gloria a loro, la meritano. E noi non dimentichiamo chi ha fatto grande il nostro paese. La memoria prima di tutto. Le loro imprese sono celebrate nel Musée des Suisses à l’étranger dalle parti di Ginevra, nello Château de Penthes. Non è il nostro percorso… e voi in Italia avete un museo?» «Un museo?» «Sicuro, una galleria qualcosa. Chi va all’estero merita un monumento. C’est les meilleurs qui partent. Noi della Section Renseignements lo sappiamo. Del territorio teniamo tutto sotto controllo, c’est clair… Ora stiamo ordinando la valle del Rodano. Dobbiamo proteggere il capoluogo del cantone del Vallese, in particolare la collina di Tourbillon: è quella che ci dà più pensiero. Una disattenzione, una leggerezza intorno a Tourbillon, potrebbe fare capitolare Sion…» Si tolse il berretto e lo tirò sulla reticella di fronte, e d’un sol colpo disserrò gli automatici del giaccone. Chiuse il carnet, come spazientito di raccogliere dati, mise da parte la Bibbia, fece scivolare dalla spalla la cinghia del fucile a tiro rapido, s’alzò e s’avvicinò al finestrino dove Angela era intenta a osservare il movimento di alcuni cavalli. Stavano abbandonando l’alpeggio e in ordine sparso, nel varco di una malferma recinzione di legno, s’infilavano al galoppo tra gli alberi del bosco. Dopo quel discorso, sulle milizie svizzere e il valore della manodopera all’estero, al giovane soldato era venuta, forse, la gola secca perché trasse fuori una fiaschetta e un piccolo bicchiere che AnCaffè Michelangiolo La narrativa gela aveva appena immaginato, sotto il non ha protezione. Eppure quella catena infine la gonna stretta sui fianchi, e i rigonfiamento del taschino della giacca, montuosa corre per duecentocinquanta bottoni della camicetta, guardandosi quando le si era avvicinato. Versò dello chilometri: sarebbe bastato che quel ca- nel finestrino come in uno specchio. schnaps e ingollò. «La sete non va tra- poluogo fosse di qua delle montagne…» In quel tratto di ferrovia la sua imscurata», disse, «non si può rimanere a Versò un altro bicchiere e lo offrì magine si confondeva, sul vetro chiuso, lungo senza bere, c’est clair.» E spiegò alla ragazza che dovette pensare a un con lo sfondo del paesaggio boscoso. che quello era il miglior modo per cac- corroborante, per alleviare la fatica del Così continuava ad ammirarla stupiciare la secchezza. «Per la sete l’acqua lungo percorso, se protese la mano to, per la bellezza, il soldato ancora non serve», commentò. «È una delle pri- e quasi senza volerlo accolse l’invito. disteso sul sedile, dove s’erano stretti me regole dell’aduno all’altra nello destramento». scompartimento Fece uno schiocvuoto. Rimasero soli co con la bocca in finché non raggiunsegno di assenso, sero la valle del Roper il sapore di dano. Alla stazione quell’acquavite di di Sion il giovane patate dal remoto soldato si caricò gusto di castagna, dello zaino e del fue riprese a ragiocile. Lasciò salire alnare: «Questo tercuni passeggeri prireno è il nostro ma di avvicinarsi al asso nella manipredellino, e al moca», osservò il solmento di salutare la dato. «È indiscuragazza, con la quatibile lo svantagle si era trattenuto, gio dello straniele disse soltanto: ro che varchi le «Salut», sfiorandonostre frontiere. la con un bacio. Il nostro paese è «Ciao», gli rispocircondato da inse Angela, portanvalicabili barriere dosi le dita sulla naturali. Chi probocca e girandosi vasse a oltrepasdall’altra parte per sare il confine do- Michael Leonard, Sul tetto, 1979, acrilico su tessuto di cotone, Londra, Fisher Fine Art. frenare l’emozione. vrebbe rinunciare Non ebbe il tempo ai mezzi corazzati. di consegnare al raLe truppe meccanizzate sarebbero ridot- Incoraggiato da quel riscontro il gio- gazzo il quaderno dimenticato sul sedile te all’immobilità, circondati come siamo vane soldato, nel recuperare il bicchie- che il treno ripartiva, e l’antica cittadina dai monti rocciosi e dall’acqua dei nostri re, s’avvicinò tanto alla ragazza da sfio- passava in fretta e scompariva. Su un laghi». S’avvicinò di più ad Angela e le rarle la bocca. A quel contatto lei di- fazzoletto di pianura, usciti dall’abitato, indicò il paesaggio che stava passando in schiuse, in modo insperato, le sue lab- abbassò il finestrino e respirò con tutta quel momento. «Le macchine che sem- bra umide che si fecero ancora più l’aria che aveva nel petto. Da lì a poco brano essere tutto qui sono nulla. Pren- umide sotto il vento caldo di ponente cambiò il paesaggio, e i monti le chiuseda gli elicotteri… i nostri cavalli volanti infilatosi furtivo dal finestrino rimasto ro l’orizzonte impedendole di vedere in sono i soli capaci di muoversi in questo socchiuso. lontananza. Fermò lo sguardo nella più spazio», e con il pollice e l’indice pizzicò vicina distesa di noci e ciliegi, prima di qua e là sulle spalle della ragazza, come * * * fare un altro tentativo di oltrepassare le a rimuovere qualche frammento di camontagne, ma dovette fermarsi davanti pello, forse, rimasto sulla giacchetta. Angela tutta rossa in viso stava ora alle cime innevate delle Alpi. «Del nostro cielo conosciamo la fitta tra- in piedi investita dall’aria che le scomLe tornò, forse, alla mente ciò che ma di cavi d’acciaio tesa in ogni dove… pigliava i capelli, bruni e ondulati, ap- aveva riferito il giovane soldato: quelle Ma gli altri? Anche i caccia. Solamente i puntati in modo frettoloso sopra la possenti montagne sono attraversate da nostri piloti sanno navigare, senza carta nuca. S’aggiustò la piccola lucertola una rete fittissima di sentieri a formare topografica, tra queste montagne. Grazie d’argento, un po’ annerita, che le pen- un infallibile labirinto. A volte neppure al nostro paesaggio», enunciò allargando deva sul seno in parte ancora scoperto. un soldato ben addestrato sa ritrovare le braccia, «la Svizzera si difende da sola. E prima che tirasse su il vetro, e ac- la strada, tanto che in una circostanza Ha un solo fianco esposto quello norde- cennasse a coprirsi col bavero della era accaduto anche a lui di smarrirsi. st: non poteva mancare un lato scoperto, giacca, il vento le carezzò ancora il col- L’avevano ritrovato che sparava contro c’est clair. Veda Basilea. Di là dal Giura lo per un lungo momento. Si sistemò la ragnatela dei fili dell’alta tensione, e Caffè Michelangiolo 21 La narrativa messo per tre giorni nell’arrestlokal, con «Davvero?», esclamò Angela tra- Non era nemmeno in casa. Lo trovò, la sola Bibbia, per punizione. felata. come le fu segnalato, nel bistrot dirimIl paesaggio passava, ora, dai monti Il controllore restituendole il bi- petto dove non mancava di fermarsi dal con ciuffi di abeti bianchi alle rocce glietto, come risentito che la ragazza ritorno del lavoro. Gli apparve attravernude e desolate, dai prati verdeggianti potesse dubitare della sua parola, sfo- so l’ampia vetriata seduto a un tavolo: alle gole profonde percorse da torrenti, gliò l’orario dei treni: «La Chaux-de- era solo, stravaccato e stanco. Ai piedi dalle ordinate file di vigneti alle geo- Fonds… La Chaux… 17,35 voilà», e della sedia giaceva avvolta una lunga e metrie di frutteti, che si potevano a trat- allungò il polso mostrando le lancette grossa canapa. Gli serviva per allacciarti solo immaginare persi nella nebbia dell’orologio. Osservò la valigia sulla si la vita a una estremità quand’era sul che compariva all’imtetto, mentre l’altro capo provviso. veniva fissato nel solaio Qui lo spazio si dilaper ogni evenienza, tava, là si riduceva e si come una volta le aveva dissolveva. Angela semspiegato. brò avere un sussulto, La cameriera attracome un tuffo al cuore, versò con impazienti quando l’occhio le cadde passi il locale con un sui tetti embricati e ripidi bicchiere di pastis nel di un villaggio. Il borgo le vassoio, sfiorato dai suoi dovette apparire sospeso, lunghi capelli biondi. malsicuro, aggrappato Ebbe il tempo di chialle falde di un monte narsi e poggiare la beche dava l’impressione di vanda sul tavolo d’abevolersi scrollare, da un te rosso, prima che Giumomento all’altro, di seppe le allungasse la quel pugno di case. Dinmano sul fianco. A quel nanzi a quello scenario tocco la cameriera gli così precario e incerto le gettò le braccia al collo, tremò la voce: «Giusepreclinò il capo e lui, pe», disse. E strinse i pucome si conoscessero da gni e le labbra come a tempo, le vibrò un batrattenere quel nome, a cio. Al secondo e terzo non volerlo più mollare. abbraccio Angela distolNel suono di quella pase lo sguardo. Quando rola parve d’improvviso rigirò il capo, inquieta, ritrovare se stessa e la il vetro cominciò ad apmeta del suo viaggio. pannarsi sotto il suo Cercò con la punta delle violento affanno. Il suo dita le due gemme verdi, fiato caldo formò un incastonate al posto degli alone sul cristallo che occhi, del piccolo rettile da lì a poco sfumò queld’argento che Giuseppe l’immagine, per lei non le aveva regalato l’anno più sostenibile, da farla prima per il loro fidanzascomparire del tutto. mento. Esausta alzò il ve- Scuola tedesca del XX secolo, Caffè notturno, 1925 ca., olio su tavola, cm 25 x 20. Smarrita attraversò la tro. S’accasciò sul sedile e strada, s’infilò precipichiuse gli occhi. reticella e con il braccio ancora teso tosa nel portone di fronte, e fece d’un fece cenno a un involto, come abban- soffio le difficili rampe di scale fino al * * * donato in fondo al sedile: terzo piano, dove si riprese la valigia «Quel pacco è suo?» che aveva poggiato davanti all’appar«Billet s’il vous plait», echeggiò la «Sì», rispose Angela. tamento di lui. Addossato alla porta lavoce del controllore, con un trasparen«Non lo dimentichi, la prossima fer- sciò il pacco, dalla forma di una scatote sorriso stampato sul viso. Le sue mata è la sua. Bien venue chez nous la di scarpe, legato a doppio giro con guance rosse, solcate da un fitto intrec- mademoiselle.» un esile filo di spago. ■ cio di vene, misero di buon umore Angela che porse il biglietto e domandò se * * * NOTA era arrivata a destinazione. «Siamo vicini», affermò il controlGiuseppe non sapeva del suo viagQuesto racconto è tratto dalla raccolta inedilore. gio e non era alla stazione ad aspettarla. ta intitolata Il copritetti e l’aragosta. 22 Caffè Michelangiolo Critica e letteratura Giorgio Luti o la storia e cronistoria di un appassionato viaggio nella letteratura CARO MAESTRO TI SCRIVO di Simona Costa L e passioni cui il sta nell’umile consapetitolo di quevolezza che «occuparsi st’ultimo suo lidi letteratura contembro rimanda (Le pasporanea è molto diffisioni di un letterato. cile, e quelli che vi tenScrittori e poeti del gono fede sono assai ’900, Firenze 2005) degni di considerazionon si limitano certo ai ne». E se da una parte nomi qui presenti a «la letteratura contemtracciare un profilo criporanea esige una fortico del Novecento. Ma ma di specialismo, sono, direi, le passioni come lo esige la lettestesse degli scrittori con ratura del ’200, del cui il critico si confron’300 o del ’500» per ta, con un processo a cui «non si può scrivespecchio che è stato re di Jacopone, di Sacuno dei modi di apchetti, di Machiavelli o proccio di Giorgio Luti di altri autori, e poi deai “suoi” autori. Basti, porre in biblioteca i per tutti, pensare al suo vecchi panni regali e rapporto con Italo Svecuriali, e rimettersi a vo, a quanto di autotu per tu coi nostri biografico – a comin- Giorgio Luti al Museo del Prado, in una immagine della metà degli anni Novanta. Alle spalle, contemporanei», dalciare dal più ovvio se- Maja vestida (1805 ca.) di Francisco Goya. Giorgio Luti, teorico e storico della letteratura ita- l’altra occorrerà stare gnale dell’irrinunciabi- liana, ma non solo, è stato sempre un appassionato e puntuale custode della memoria intel- in guardia a non lacon una ampiezza di sguardo che gli ha consentito di non mancare ad alcuno degli le e famigerata sigaret- lettuale, sciarsi «impeciare in appuntamenti cruciali sia della contemporaneità sia delle precedenti epoche della cultura. ta – il critico ha avvereterno nella letteratutito nell’autore da lui ra contemporanea». così tempestivamente scoperto, quello riproponendo nel 1950 il suo volume su Un difficile equilibrio, allora, questo Svevo a cui ha reso anche un indiretto I Narratori non è a caso ampiamente di mantenersi, come ha voluto Luti, sul omaggio, senza mai citarlo, nell’ironico riportata da Luti nel suo saggio, se pro- filo della corrente, nella volontà di riElogio del sigaro toscano nei ricordi di un prio in quelle righe sono ravvisabili al- vendicare a quel «povero Novecento» di letterato, ora in Ricordanze. cune profonde sintonie di percorso tra i cui Russo parlava come «disconosciuto, Così in questo libro, se apriamo il due. A cominciare, forse, dall’avvertita battuto, lacero, corso, infistolito dal disaggio su Luigi Russo e il Novecento, difficoltà a occuparsi in modo pervasivo spregio dei cattedratici» lo spessore di troviamo sì certo il riconoscimento di della letteratura contemporanea in un uno specialismo critico non impeciato, un magistero per cui al “saper leggere” ambiente accademico grave e solenne in appunto, di minuta cronistoria, ma affidi derobertisiana memoria si coniuga fe- cui tali predominanti interessi erano sog- dato a una prospettiva che spazi sia lunlicemente uno storicismo che sia, con le guardati «con muto orrore», nell’auspi- go i rami di una secolare tradizione sia parole stesse di Russo, «un metodo, una cio di vedere il deviante collega rivolgersi per le regioni di una contemporaneità intuizione di vita, e come tale […] tutta «ad argomenti più degni di storia». Oc- sovranazionale. E vorremmo allora riun’età e una civiltà mentale in fieri». cuparsi del Novecento, per Russo come cordare come per le sue Cronache letteMa troviamo anche una passione in co- poi per Luti, ha voluto dunque dire li- rarie tra le due guerre, pubblicate nel mune tra i due saggisti, dell’ieri e del- berarsi delle pastoie degli «interessi cro- 1966 da Laterza (poi, col titolo La letl’oggi: quella, appunto, per la militanza nistorici» e approdare a una prospettiva teratura nel ventennio fascista, riedite novecentesca, avvertita come il ricerca- contemporanea senza obliare il bagaglio da La Nuova Italia e più volte ristamto e consapevole approdo di un esercizio della tradizione. Dopo un «fortunoso pe- pate), Eugenio Montale sul “Corriere critico e di un itinerario maturati sui riplo» che lo aveva portato a misurarsi della Sera” gli riconobbe il merito di tempi lunghi dell’intera nostra storia let- col passato e ad attraversarlo, Russo ri- aver metamorfosato la cronaca in storia teraria. La prefazione che Russo stende torna alle sue origini di contemporanei- e in storia civile, più che letteraria. Caffè Michelangiolo 23 Critica e letteratura La copertina del libro Le passioni di un letterato. Scrittori e poeti del ’900, pubblicato da Nicomp (Firenze, 2005) dove Giorgio Luti raccoglie saggi di epoche diverse (alcuni erano comparsi in Passioni e inganni, Verona 1987) che «possono costituire un riferimento abbastanza attendibile» della sua attività letteraria. «Le figure e i problemi che sono venuto affrontando in queste pagine – aggiunge nella Introduzione – possono apparire al lettore come una sorta di riassunto di tutto il mio lavoro». La scommessa che Luigi Russo, classe 1892, lanciava nella sua prefazione datata 1950 era così coraggiosamente quanto felicemente raccolta da un critico della leva del 1926, destinato ad assicurare alla contemporaneistica uno statuto anche accademico e a formare un vivacissimo magistero e un’appassionata scuola che da subito si è riconosciuta nell’avventura critica da lui proposta. Tanti giovani che oggi lavorano, oltre che nelle scuole e nelle università, nelle istituzioni, nelle biblioteche e negli archivi specie – ma non solo – della Toscana sono una insostituibile ricchezza di cui dobbiamo essere grati alla passione e alla fiducia che Luti ha sempre messo nella sua docenza, svecchiando l’approccio al testo e la sua interpretazione e rivitalizzandolo con l’accantonamento di qualsiasi pregiudiziale ideologica. Il contesto socio-culturale in cui nasce e muove i primi passi un’opera letteraria è sempre stato da lui considerato e additato come un’incubatrice da cui non si può assolutamente prescindere, ma nel contempo anche come la culla che 24 quell’opera è destinata ad abbandonare per il suo lungo viaggio testuale, di mano in mano a più generazioni di lettori. Ed è stata proprio tale felice connessione tra corretta analisi socio-culturale e penetrante, investigativa lettura testuale che ha consentito a Luti di scompaginare le carte di un troppo assodato canone letterario, rivedendo gerarchie e aprendo nuovi sentieri di lettura, destinati ad essere sempre più battuti. Ce lo dicono, oltre al fondamentale spaccato datoci dalla sua indagine tutta di prima mano sulle riviste tra le due guerre, i nomi di Svevo e di Tozzi, di Mario Pratesi e di Remigio Zena, ma anche, ad esempio, la sua sensibilissima e innovativa rivisitazione dannunziana, in anni ancora gravati da inossidabili remore politiche. La lezione di Luti è stata certo quella di un grande contemporaneista, la cui grandezza deriva – e mi sembra giusto sottolinearlo – dall’ampiezza e profondità di prospettive con cui ha indagato i meccanismi del tempo presente. Giorgio Luti è uno studioso le cui radici sono fortemente ancorate alla propria terra e alla propria (molto amata) regione e, nello stesso tempo, il cui sguardo critico si sa allargare in una prospettiva nazionale e internazionale. Lo testimonia, ancora nel La copertina della prima edizione de I narratori di Luigi Russo uscita a Roma nel 1923. La copertina del libro di Giorgio Luti, Letteratura e rivoluzioni. Saggi su Alfieri, Foscolo, Leopardi, pubblicato nella “Biblioteca del Caffè” (Pagliai Polistampa, 2002). «Con molta probabilità questo è il mio ultimo libro», scriveva nella Premessa confermando, fortunatamente, quel che dice George Eliot in Middlemarch: «La profezia è la più grande forma di errore». Sotto quel titolo Luti raccoglieva cinque saggi con un denominatore comune, «e cioè il rapporto che lega il riferimento a scritture nate nell’ambito della nostra grande tradizione letteraria ad una più vasta prospettiva europea, o per dir meglio a grandi eventi storici e a momenti culturali che cambiarono il volto del mondo contemporaneo». suo ultimo libro, il saggio su Tozzi e la tradizione narrativa toscana e ce lo ridicono gli interventi su Palazzeschi, l’Ungaretti dalle origini lucchesi, Gianna Manzini, Sanminiatelli, Bonsanti, Bilenchi, Luzi e Parronchi. Risalire alle radici, alla tradizione, dunque, soffermandosi, in particolare, su snodi storico-culturali di forte valenza trasgressiva e generativa a un tempo, come nell’ampio e articolato saggio d’apertura di questo volume, dedicato a una topografia del romanzo italiano nel cruciale decennio 1880-1890. Ed è un connotato forte e caratterizzante la sua scrittura critica questo rilevato interesse per i crocevia intellettuali, come la transizione tra otto e novecento o quella fra sette e ottocento, quest’ultima tra l’altro documentata in un suo libro dal significativo titolo Letteratura e Rivoluzioni. Crocevia in cui tutto – parrebbe all’improvviso – si sommuove e traballa per produrre altro, Caffè Michelangiolo Critica e letteratura Giorgio Luti in una immagine della fine degli anni Sessanta durante una crociera nell’Adriatico. in cui tutto è messo in dubbio e in forse creando grandi speranze e rendendo per un attimo più vicine le utopie: ed è questa, per Luti, l’avventura letteraria. Non è un caso, mi sembra, la forte incidenza e la ricorrenza che proprio la parola avventura – con quello che comporta di rischio, di messa in gioco di sé e, perché no, di responsabilità umana e intellettuale – trova nei suoi scritti in unione a letteratura. E non si è forse ancora abbastanza sottolineato come proprio a Firenze, fra gli echi di quella cultura fiorentina che ha saputo inaugurare il Novecento con un incredibile fermento di inquietudini propulsive, si siano formati, entrambi alla scuola derobertisiana, due dei nostri maggiori critici contemporanei, come Giorgio Luti e Luigi Baldacci. Il libro oggi pubblicato dall’editrice Nicomp di Alberto Nicoletti è il segno di una passione, appunto, che travalica anche le difficoltà e le traversie dell’anima e del corpo e ci ritrasmette un messaggio non tanto relativo a una vetero eticità dell’impegno, ma piuttosto a una, volutamente modesta, responsabilità della parola: di quella parola, per citare lo Svevo della Coscienza, che è «essa stessa avvenimento che si riallaccia agli avvenimenti». Fare letteratura, così come fare critica, è anche un tentativo di decifrazione di se stessi e del mondo circoCaffè Michelangiolo stante. «Nella parola degli altri ciascuno cerca la ragione del proprio “corto viaggio sentimentale” […] e solo in essa trova una spiegazione plausibile […] Il nostro lavoro non sarà dunque che la ricerca di parole valide per noi, nel nostro tempo; e in questa indagine sarà sufficiente aver individuato una traccia di noi stessi, un profilo dei nostri interessi, delle nostre passioni nei giorni in cui siamo vissuti», ha scritto lo stesso Luti in una delle più belle prefazioni poste a un suo libro. Il libro di oggi, oltre a riproporre intatta la passione decifratoria del proprio tempo, ci conferma la fede in una poesia che, come è stato splendidamente detto per Alessandro Parronchi, identifica il suo destino «in un rifiuto dell’apparente per una conquista dell’invisibile». Al tempo stesso ci testimonia, con parole che Luti declina per Mario Luzi, «una fedeltà alla vita esaminata nei suoi molteplici caratteri di magmatica contraddittorietà» e ci restituisce la vivacità di una scrittura critica che le ombre esistenziali non sono riuscite ad appenare. Perché fiore all’occhiello del critico è certo la scrittura da cui trapelano le doti di creatività di uno scrittore che come tale non si è mai voluto apertamente palesare. Un’immagine, un paesaggio Giorgio Luti e Luigi Baldacci nel maggio del 2001. diventano, per interna forza irradiante, il centro luminoso e misteriosamente esplicativo di un intero saggio. Penso alle roselline di Palazzeschi, le roselline «d’ogni mese, quelle rustiche dei campi» da lui desiderate ai lati della propria tomba: un’immagine tratta dalle sue ultime volontà e che chiude con pudica quanto potente forza emotiva l’intervento di Luti che giusta- Giorgio Luti con il Sindaco di Firenze, Leonardo Domenici, al conferimento del Fiorino d’Oro, il 9 gennaio 2006, alla Biblioteca Comunale, nell’ambito del ciclo “Leggere per non dimenticare” a cura di Anna Benedetti. Fra loro la nipotina Valeria stretta al suo Nonno. 25 Critica e letteratura mente da loro prende nome. O penso, ancora, ai “grigi” di Parigi che ben avrebbero potuto titolare il saggio su Ungaretti e il ‘mito’ della Francia: quello spegnersi e accendersi di inenarrabili grigi, «non malinconici, mai», per cui passa la scoperta ungarettiana della metropoli francese e, insieme, della propria voce lirica. Un critico-scrittore, allora, Giorgio Luti che la sua “seconda” o “altra” vocazione ha tenuto (per understatement, per pudicizia estrema?) nel cassetto. Lasciandole solo a tratti voce au- Il 9 gennaio 2006 è stato conferito a Giorgio Luti, storico della cultura e professore emerito di Letteratura italiana all’Università di Firenze, il Fiorino d’Oro. Festeggiato nella sala della Biblioteca Comunale, sede dei fortunati cicli di lettura (“Leggere per non dimenticare”) organizzati e condotti da Anna Benedetti i quali richiamano autori da tutta Italia, hanno parlato del Maestro, del suo magistero, della sua opera Marino Biondi (Università di Firenze), Simona Costa (Università Roma Tre), Enrico Ghidetti (Università di Firenze). Ha portato la propria testimonianza Marco Marchi, altro suo allievo che insegna nell’Ateneo fiorentino. 26 tonoma, come in quel libro a due voci che tengo qui a ricordare anche nel nome di Dedy, Diario Bianco e altre prose di memoria, libro che già nel titolo richiama quello che è stato certo il motore esistenziale di una ricerca basata sul grande tema della memoria: memoria storica, civile, letteraria, autobiografica che sia, come suggeriscono ancora alcuni suoi ultimi titoli, Memoria del Novecento e Ricordanze. Quale sia il grumo di significati rappreso nel termine “memoria”, ce l’ha detto Luti stesso in una delle pagine più vibranti da lui scritte: quella pagina che, già in “Inventario”, appare poi in Ricordanze col titolo Quel glicine della Sinagoga e che, con scelta quanto mai significativa, torna quindi a suggello del Diario Bianco col mutato titolo Elogio della memoria. Se la memoria è coscienza, non c’è soluzione di continuità tra micro e macroeventi, tra ciò che avviene tra le mura di una casa e ciò che accade nelle strade cittadine, anch’esse del resto strette fra le loro mura, come ben ci suggerisce Giorgio Bassani che di questo turnover tra casa e strada è il cantore storico e civile. Sui piaceri della memoria molti hanno detto la loro, come quel Brancati che ammoniva come «se non potessimo di tanto in tanto coprirci di ricordi fino ai capelli, come il bagnante di sabbia calda, noi moriremmo di freddo». E al piacere della memoria tornava il quasi ottantenne Palazzeschi, sulle cui rievocazioni di una toponomastica fiorentina fine secolo Luti apre proprio il saggio a lui dedicato. Dopo una lunga parabola esistenziale di testimone e protagonista e dopo una lontananza che lo ha condotto per le strade di Roma, Parigi e Venezia, Aldo Giurlani recupera allora le prose autobiografiche già dedicate, in Stampe dell’800, alle proprie mai offuscate radici: «il cerchio della vita – annota Luti – si chiude entro la memoria che dilata ogni spazio, moltiplicandolo all’infinito, serrando in un’unica dimensione ideale il lungo percorso di un’arte che continuamente rinasce dalle sue ceneri». E sono, queste parole da Luti riferite a Palazzeschi, volentieri la cifra con cui chiudo questo mio intervento, nel segno di omaggio al letterato, all’uomo e al Maestro Giorgio Luti. ■ Caffè Michelangiolo I caffè letterari La fama di questo caffè artistico si sparse per tutta l’Italia, nessun’altra città poté vantarne uno simile, altrettanto attivo, altrettanto vivace IL CAFFÈ MICHELANGIOLO A FIRENZE di Gérard-Georges Lemaire La vita intellettuale borghese, molto più povera nella sua apparente sufficienza di quella umanistica, non ebbe più i due poli, religioso e civile. Stagnò nelle poche idee, senza grandi dibattiti spirituali, ed ebbe un sol punto di ritrovo, un unico luogo comune artistico, che a Firenze si chiamò Caffè Michelangiolo. Una seconda generazione arrivò nel 1855 e tagliò i ponti col romanticismo dei predecessori assumendo come motto: «Fate di piacere al popolo». Il sogno lasciava il posto al realismo del mondo rurale, alla descrizione della gente umile, di personaggi laboriosi, di scene campestri. «[…] col ritorno da Parigi del Tivoli e dell’Altamura, scrive uno di loro, Telemaco Signorini, coll’avvici- derno e antico deve essere pieno, assoluto, e assoluta deve essere l’ignoranza della storia». Come ha ricordato Signorini, questo impulso iconoclasta si applicò inizialmente – e involontariamente – agli affreschi e ai quadri del Caffè Michelangiolo: «Per l’eccessivo fumo dei sigari, diventarono Piero Bargellini, Caffè Michelangiolo così nere le pitture murali dipinte dai (Vallecchi, 1944) primi frequentatori della stanza, da esser credute vecchie di diversi seon si sa esattamente quando coli. Fu proposto una sera di pulirsia stato creato il Caffè Mile col pane, e fu fatto, ma ahimé! chelangiolo. Un bel giorno Persa colla patina la dignità che gli aprì i battenti, probabilmente fra il anni vi avevano impressa, venne 1848 e il 1850, in via Larga, a Fimeno a quelle il rispetto dei nuovi renze. Tanto il Greco (a Roma) era artisti che ne chiesero e ottennero affollato di stranieri, tanto il Mil’assoluta abolizione». Ma la veechelangiolo era italiano. Divenne inmenza verbale del loro portavoce fatti quasi subito il feudo degli artinon si spinse mai oltre l’atto sacristi toscani, che vi si recavano avvilego costituito da questo disgrazialuppati in grandi mantelli, con in to episodio. La loro ambizione era testa ampi cappelli alla calabra e essenzialmente quella di dipingere folte barbe libertarie. Questi cospi- La seconda sala del Caffè Michelangiolo nell’acquerello ese- dal vero. ratori dell’estetica disdegnavano la guito da Adriano Cecioni intorno al 1865. Collezione privata. Alla sera, dopo le lunghe gite prima sala, riservata ai clienti cosulle colline toscane si ritrovavano muni, ma avevano scelto la seconda, in narsi della prima esposizione italiana, al caffè spossati, cotti dal sole, e dicui il fumo era più denso e soffocante colla facilità con cui si incominciavano scutevano per ore: «Discussioni, cone che somiglia a un salotto borghese, a fare i viaggi in Italia e all’estero, nuo- fessa Signorini, che riuscendo sempre con tavolini dal ripiano di marmo e vi artisti vennero da noi […], gli amici troppo materialiste coi settentrionali, e sgabelli di legno. Aveva una sola fonte del caffè, restando sempre per la loro coi meridionali troppo metafisiche, fidi illuminazione, che consisteva in due tradizione, i cari matti di via Larga, nivano quasi ogni sera col far volare i becchi a gas appesi al soffitto. I pitto- burlarono meno e si appassionarono bicchieri e i vassoi come foglie secche ri che vi si riunivano con i loro amici molto più all’arte loro, insieme a quel- quando il turbo spira». avevano deciso di decorare le pareti li che, non avendo lasciata Firenze, si Il Caffè Michelangiolo chiuse i batannerite della stanza: «Di Gaetano erano fatti un’idea del movimento mo- tenti nel 1886. L’esposizione italiana Bianchi, racconta Piero Bargellini, derno dell’arte, visitando la galleria De- aveva avuto luogo a Firenze cinque campeggiava un grande ritratto di Mi- midoff a San Donato». anni prima. Cecioni e tutti gli altri chelangiolo; di Nicola Sanesi, due quaL’uomo che seppe galvanizzare e rappresentanti della «chiesuola deldri allegorici; di Ferdinando Buona- catalizzare queste giovani energie fu l’Arno», Felice d’Ancona, Serafino Timici, I Promessi Sposi; di Alessandro Adriano Cecioni, al contempo scultore, voli, Odoardo Bonani, Cristiano BanLafredini, ancora un Renzo e una Lu- pittore e critico, che li riunì nel circo- ti, Giuseppe De Nittis, Zandomenecia; di Giuseppe Moricci un Michelan- lo artistico più organizzato d’Italia, il ghi, erano ormai glorie e modelli artigiolo alle fortificazioni di San Miniato; primo del suo genere. I suoi amici di- stici della giovanissima nazione. di Carlo Ademollo, una Disfida di Bar- vennero celebri sotto il nome di «macLes Cafée littéraires, letta; di Stefano Ussi, Soldati all’as- chiaioli». Cecioni riassunse il suo pensalto di un castello medioevale. Anche siero in una formula: «Il pittore moHenry Veyrier, Paris 1987 Giovanni Fattori, quando giunse, tar- derno non deve avere né amori né sime Bibliotechne, Milano 1988 di, al caffè, vi lasciò un Trovatore». (traduzione di Margherita Botto) patie col passato. Il divorzio fra mo- N Caffè Michelangiolo 27 Letteratura e cinema Passato e futuro dei materiali preparatori per Accattone e Mamma Roma UN PASOLINI (IN)EDITO di Elena Frontaloni «P asolini aveva idee molto chiare per Accattone, che aveva studiato sin da quando abitava alla borgata Gordiani; conosceva tutti i posti, aveva tutte le inquadrature in mente, anzi, faceva dei disegni. Per ogni inquadratura, c’era un disegno. Pasolini era capace di cominciare la sequenza dall’ultima inquadratura. Non era come tanti altri registi che se non vanno in fila non sanno cosa fare. […] Aveva tutti gli schizzi delle inquadrature che doveva fare». La voce di Tonino Delli Colli – raccolta da Antonio Bertini alla fine degli anni Settanta (Teoria e tecnica del film in Pasolini, Bulzoni, Roma 1979, p. 202) – rivelava al grande pubblico come l’attività registica pasoliniana fosse sorretta fin dalla prima prova non solo da attenti sopralluoghi, ma anche da una puntuale preparazione grafica, che del resto precedeva il montaggio e si affidava totalmente alla capacità di tradurre in immagini stilizzate le parole e le intenzioni della sceneggiatura. All’affermazione di Delli Colli faceva eco, sempre nel testo di Bertini, quella di Carlo di Carlo, che, smentendo l’«ignoranza tecnica» spesso ostentata dal regista in erba, dichiarava senza mezzi termini: «problemi tecnici […] Pasolini non li ha mai avuti. Risolveva le inquadrature progettandole. Per Mamma Roma esistono disegni di ogni inquadratura (io stesso ne ho alcuni). Schematizzava le sequenze per avere la verifica visiva e tecnica (annotava obiettivi e movimenti) delle soluzioni narrative» (pp. 182-183). Per quanto riguarda Mamma Roma, non si può certo parlare di rivelazione inedita: l’aiuto regista aveva già affidato al Carnet di «Mamma Roma» (in «L’Europa letteraria», 17, ottobre 1962) il ritratto di un Pasolini implacabile nel suggerire toni e sfumature alla Magnani, armato di una «sceneggiatura rigorossissima» e nervosamente 28 Pier Paolo Pasolini. Diciannove sono i film che ha realizzato dal 1961 (Accattone) al 1975 (Salò o le 120 giornate di Sodoma). intento a disegnare «ogni inquadratura su dei fogli volanti con accanto il dettaglio tecnico e l’eventuale battuta». La testimonianza del Carnet era a sua volta immediatamente verificabile nella prima edizione della sceneggiatura di Mamma Roma (Rizzoli, 1962), che apriva l’apparato iconografico (32 tavole fuori testo) con l’ormai celeberrima foto del regista, impegnato – penna alla mano – a confrontare il dattiloscritto della sceneggiatura con il blocco dei materiali preparatori. Eloquente il commento posto sotto la foto: «Pasolini al lavoro: attraverso i disegni nascono le inquadrature. Alcuni disegni sono riprodotti nelle tavole seguenti». La galleria di ritratti raffiguranti gli interpreti, il produttore Alfredo Bini, Tonino Delli Colli e Carlo di Carlo, era difatti seguita da un ricca scelta delle foto di scena, accompagnate da didascalie e organizzate in modo da rendere puntualmente la trama del film. Di tanto in tanto, l’apparato fotografico prodotto da Angelo Novi s’attorniava di piccoli particolari grafici prelevati dai disegni preparatori e oggi reperibili, insieme al- l’intero corpus delle illustrazioni, nel volume Accattone, Mamma Roma, Ostia (Garzanti, 1993). Gli schizzi inseriti nell’edizione Rizzoli e riproposti in quella Garzanti sono quattro: il primo conclude la sezione dedicata alla scena dei “Carosielli” e raffigura la giostra che accoglie lo sguardo trepidante di Mamma Roma sul figlio ritrovato; il secondo traccia la prorompente silhouette della Magnani accanto alla sua «marcia inarrestabile» verso la libertà dal “Viale”; il terzo schematizza l’arrivo a Cecafumo di Ettore e Mamma Roma; l’ultimo, infine, abbozza le bancarelle nella scena finale del mercato e s’affianca allo scatto che immortala la funebre passeggiata di Ettore e dei suoi amici verso il banco della madre. Licenziati per la prima edizione della sceneggiatura da un Pasolini ancora vivente e tuttavia avulsi dal loro contesto originale, i materiali in questione non possono testimoniare l’abitudine di schematizzare i raccordi fra le sequenze, né illuminare sul tipo di «soluzioni narrative» adottate nel film, ma rendono tangibile la puntualità con cui il regista organizzava le singole inquadrature, già chiare nella sua mente ancora prima della ripresa e poi eseguite con un criterio di aderenza al progetto iniziale. Se il corpo di Anna Magnani e l’immagine della giostra rimandano all’osservazione di quella realtà successivamente eletta a materia linguistica del film, la disposizione dei personaggi nella sequenza dell’arrivo a Cecafumo – con il particolare evidentissimo del ragazzo intento a leggere il giornale un poco discosto dagli altri che fanno combriccola – è infatti rintracciabile puntualmente nel girato. È però curioso vedere come, nell’apparato del 1962, i disegni vengano collocati accanto a foto di scena precedenti o successive al momento in essi rappresentato, impedendo così un immediato confronto delle conCaffè Michelangiolo Letteratura e cinema tiguità e delle differenze rispetto alla sceneggiatura e alla pellicola. Una più rigorosa valutazione dei materiali per Mamma Roma è stata possibile solo dopo il 1987, anno in cui il Fondo Pasolini di Roma ha pubblicato il volume Une vie future, edizione francese (curata da Laura Betti e Sergio Vecchio) di un omaggio al cinema pa- Con questo ritratto si apriva l’appendice fotografica inserita nella prima edizione della sceneggiatura di Mamma Roma (Rizzoli, 1962). Sotto, la didascalia recitava: «Pasolini al lavoro: attraverso i disegni nascono le inquadrature. Alcuni disegni sono riprodotti nelle tavole seguenti». soliniano. In questa sede sono incluse sei tavole, che rendono organicamente ragione alla testimonianza pronunciata da Carlo di Carlo nel Carnet: la parte destra del foglio è infatti occupata dal disegno dell’inquadratura, mentre a sinistra si trovano brevi didascalie e sezioni della sceneggiatura (in prevalenza le prime e le ultime parole delle battute) precedute da notazioni tecniche inerenti il tipo di piano (P.P., primo piano; P.P.P, primissimo piano; F.I., figura intera; C.L., campo lungo) e il tipo di obiettivo (nei disegni pubblicati troviamo solo il 75). Pasolini numerava progressivamente le inquadrature, stabiliva i movimenti dei personaggi tramite frecce poste nel corpo del disegno, suggeriva spazi, ambientazioni e espressione degli attori con velocissimi tratti di penna. Le parole che accompagnano i disegni sopperiscono all’assenza di inCaffè Michelangiolo dicazioni tecniche riscontrabile nella sceneggiatura e – quando non si limitano semplicemente a riportare le battute – testimoniano un procedimento di efficace riduzione di quelle didascalie, che il risvolto di copertina poneva già nel 1962 all’interno di un orizzonte squisitamente letterario («In queste pagine “miste”, accanto al dialogato romanesco del Pasolini narratore […] è confluito il diverso stile del Pasolini saggista e poeta: le didascalie della sceneggiatura, scritte in italiano, molto “scritte”, hanno una chiarezza di definizione, una forza di rappresentazione senza precedenti nella sua prestigiosa carriera letteraria»). I documenti pubblicati in Une vie future hanno dunque restituito dignità alla sezione “scritta” dei materiali preparatori, a loro volta finalmente presentati come luoghi dove si consuma un pacato duetto tra parola e immagine, dove dettaglio tecnico, battuta e didascalia corrono paralleli al disegno, completandolo e precisandolo nella stessa misura in cui gli schizzi completano e precisano le sintetiche annotazioni riportate a lato. Le sei tavole che corredano il volume pongono tuttavia un problema particolarmente spinoso: non ci troviamo infatti davanti alla mera e integrale riproduzione degli autografi, bensì (il che vale almeno per cinque pagine su sei) davanti al montaggio di strisce prelevate da fogli diversi, oppure ritagliate dal medesimo foglio, con la conseguente esclusione di alcune inquadrature. È questo Pasolini a Venezia con Anna Magnani nel 1962. un fatto evidentissimo fin dalle prime due tavole, che riportano, in sequenza, le inquadrature numero 1, 3, 4, 5, 8 e 6, 7, 9, 10, 11 della «Scena 7», inerente l’incontro fra Mamma Roma e Carmine nell’appartamento di Casal Bertone. Visibile l’assenza dell’inquadratura che Pasolini doveva aver contrassegnato col numero 2, quest’ultima immediatamente Velocità del tratto, espressività ottenuta tramite linee rare, nervose, spezzate. Tutto questo già nel Ragazzo seduto per terra (inchiostro acquerellato su carta, mm 206x250), realizzato da Pasolini nel 1943. Sorprendente l’affinità con gli schizzi “funzionali” approntati per Mamma Roma. successiva al primo piano di Mamma Roma che apre porta sul doloroso ritorno del proprio destino. Nonostante ciò, i disegni mostrano in maniera lampante il serrato avvicendarsi di primi piani riscontrabile nel film e, contemporaneamente, l’abilità del regista nel descrivere con rarissimi tratti il cambiamento d’umore che vorrebbe rintracciare nel volto degli attori. Nella sceneggiatura, l’atteggiamento di Mamma Roma, reduce dal tango con Ettore e immediatamente risospinta verso un doloroso passato dall’apparizione di Carmine, è descritto in questi termini: «La faccia di Mamma Roma è un’altra, come fossero passati venti anni. Ma lo nasconde, e fa bene l’indifferente e quasi la divertita». «P.P. M.R. [abb. per Mamma Roma] che apre la porta “invecchiata”» si legge nella didascalia posta a commento del primo disegno, che 29 Letteratura e cinema abbozza un P.P. della Magnani coi capelli arruffati, gli occhi stretti in una morsa di stupefazione e dolore, le labbra serrate. Grazie alla collaborazione dell’immagine, la lunga perifrasi della sceneggiatura si comprime in un aggettivo, sintetico ma preciso, funzionale al tipo di indicazione proposta alla Magnani. L’ostentata indifferenza decisa nella sceneggiatura come tono fondamentale della battuta non viene riportata nella seconda annotazione (inq. 3) – che recita semplicemente «P.P. M.R. – Nun è passato…» – ma risulta ben visibile nello schizzo corrispondente: le labbra di Mamma Roma si assottigliano, gli occhi si allargano e cerchiano, l’intero primo piano traccia un’espressione di trattenuto disappunto. I disegni degli altri primi piani sono ugualmente privi di indicazioni attoriali e suggeriscono direttamente, tramite il ritratto del personaggio, l’oscillazione umorale prospettata nello script: allo smarrimento e all’ostentata indifferenza segue la stizza che fa aggrottare le sopracciglia (inq. 5), quindi la fiera reazione alle allusioni di Carmine riguardo l’età e le possibili inclinazioni di Ettore (inq. 9). Stessa sorte subisce il volto di Carmine: sfrontato e disteso mentre invita Mamma Roma a «nun fa la matta», al momento di recitare la propria disperazione «commuovendosi improvvisamente con agli occhi le lacrime della 30 Pasolini sul set di Accattone. vecchia commedia», verrà rappresentato nel disegno con le guance segnate dal rammarico e gli occhi socchiusi per il pianto. In questo caso, la commozione prevista in sceneggiatura troverà spazio nella battuta posta accanto allo schizzo, ma solo dopo aver subito il consueto ridimensionamento: «Un ragazzino, ero! (si commuove). Nun c’avevo… mi’madre!». Delle rimanenti quattro tavole, l’ultima propone l’epilogo dell’incontro tra Mamma Roma e Carmine. Si tratta dell’unica pagina presumibilmente immune all’operazione di collage: le inquadrature 22, 23 e 24 descrivono la mal trattenuta rabbia di Anna Magnani («P.P.P. (75) M.R. – Ancora nun te sei saziato»); lo strafottente recupero della scarpa da parte di Citti; il fischiettare canzonatorio, infine, del ragazzo seduto insieme ai suoi amici sulle scale («P.P. ragazzi che giocano a carte e uno che ricomincia a fischiettare furtiva lacrima»). Le terza tavola si apre su una sezione della sceneggiatura (Scena 23 nell’edizione Rizzoli) non rintracciabile nel girato: dopo aver subito il pestaggio da parte degli amici, Ettore incontra un «Uomo» (questa l’indicazione presente sia nello script, sia nei materiali preparatori) ambiguamente attento e carezzevole. Siamo di fronte alla scena dell’omosessuale, che, come indicato anche dai curatori dei Meridiani, venne espun- ta dal film, assieme al «tema degli elefanti come Leitmotiv dei sogni di Ettore» ( Cfr. W. Siti, F. Zabagli, Note e notizie sui testi, in P.P. Pasolini, Per il cinema, II, Mondadori, Milano 2001, p. 3051). Dopo averlo invitato ad andarsene (inq. 12-13), Ettore ricopre l’uomo di pugni e lo allontana con uno spintone («tira tre violenti cazzotti, una spinta», inq. 14). L’ultima inquadratura ci riporta alle prime battute della scena dei Carosielli: Mamma Roma, ansante, cerca di richiamare l’attenzione del figlio e lo chiama: «F.I M.R. che corre – ’A Ettore!». La quarta tavola riporta in alto l’indicazione: «Scena 52» e le prime due inquadrature mostrano il loro essere derivate da quella che, nella sceneggiatura, è la Scena 51: si tratta infatti della parte immediatamente precedente al finale del film, quando la Magnani, fra i banconi di un mercato, dovrà recitare il dolore di una madre resa afona dalla precoce, di fatto ingiusta e banale, morte del figlio. Il campo lungo accoglie il profilo di Mamma Roma, di Piero e della «gente» intorno, mentre due giovani «si avvicinano a M.R. e parlano». Seguiranno i primi piani di Bruna e della madre di Bruna, ma anche in questo caso l’opera di montaggio delle strisce interrompe la sequenza: le inquadrature 8 e 9 riguardano infatti il momento – assai precedente – dell’arrivo di Mamma Roma ed Ettore nella casa di Ceca- Caffè Michelangiolo Letteratura e cinema La prima di Mamma Roma. Pasolini viene insultato da un gruppo di neofascisti; ecco la sua reazione. La stampa di destra darà dell’avvenimento un’interpretazione distorta e lo scatto comparirà sulle pagine de “Lo Specchio” con la didascalia: «Schiaffoni per Pasolini. Hanno applaudito Mamma Roma sulla faccia del regista». Per queste referenze, si veda il testo di Franco Gattarola Pasolini una vita violentata (Coniglio editore, Roma 2005) e l’appendice fotografica al recente volume di Gianni D’Elia, L’eresia di Pasolini. L’avanguardia della tradizione dopo Leopardi (Effigie, Milano 2005). Pasolini, allievo di Giotto nel Decameron. fumo e il primo abboccamento tra il ra- danti il volto di Mamma Roma «invecgazzo e i suoi nuovi amici. Sulla quinta chiata», il primo piano di Carmine e il pagina, infine, s’accampano in maniera gruppo di ragazzi che giocano a carte, discontinua alcune inquadrature ri- l’avanzare di Mamma Roma verso il figuardanti la scena dei Caroselli: si par- glio durante l’incontro alle giostre, un te dall’inquadratura numero 16 per ar- suo primo piano in un altro momento rivare alla 23, passando per la numero del colloquio con Carmine, il primo 19 e la 22. piano di Bruna e di sua madre, il proIn sostanza, le riproduzioni di Une filo della Magnani seduta, mentre cervie future ruotano per lo più intorno al- ca di placare il dolore provocato dal l’episodio dei Caroselli e a quello del- “callo” e porge contemporaneamente l’incontro tra Carmine e Mamma Roma, il suo malinconico saluto al figlio: con inserimenti meno corposi tratti dal- «Quanto sei cresciuto…». la scena finale del mercato, dalla scena Una disposizione, dunque, di nuovo (espunta nel film) delle percosse ai dan- discontinua, così che la ricostruzione ni dell’«Uomo», dell’incontro tra Etto- del contesto è ancora una volta affidata re e i suoi nuovi compagni «per bene». – quando possibile – alla buona volontà Prelevati dalle tavole dall’edizione francese, sono quindi apparsi monconi dei fogli ne Le regole di un’illusione, ulteriore volume sul cinema pasoliniano curato dal Fondo nel 1991. Le affermazioni di Pasolini riguardo al film del 1962 sono, in questa sede, intervallate da strisce che ripropongono sia il disegno, sia la notazione scritta. Si rintracciano così nel volume i progetti delle inquadrature riguar- Lo schizzo della giostra nell’edizione Rizzoli. Caffè Michelangiolo di chi conosce le tavole pubblicate in Une vie future. Sembrerebbe difficile orientarsi in un così fitto e difforme utilizzo dei materiali, mai lasciati respirare nella loro integrità e sottratti a forbici spesso impietose solo in una delle sei tavole contenute nel volume francese. Sta di fatto che l’intero blocco del pubblicato appartiene esclusivamente all’esperienza di Mamma Roma e che, infine, ci troviamo di fronte ad un insieme relativamente esiguo di inquadrature, in cui – tolti gli schizzi d’ambiente riprodotti nell’edizione Rizzoli – troneggiano indiscussi il volto della Magnani, quello di Ettore e quello, meno rassicurante, di Carmine, immortalati da Pasolini in scene-cardine del film. Spetta a Hervé Joubert-Laurencin il merito di aver indagato sistematicamente il problema dei materiali preparatori, già cursoriamente affrontato da Francesco Galluzzi sia nel suo Pasolini e la pittura, Bulzoni, Roma, 1994), sia nella nota stesa per il catalogo dei disegni pasoliniani conservati presso L’Archivio Contemporaneo Bonsanti del Gabinetto 31 Letteratura e cinema Le riprese di Accattone nella stampa dell’epoca: «Pier Paolo Pasolini ha iniziato in questi giorni la lavorazione del suo film Accattone, di cui è soggettista e regista. In questo film, che viene girato coi mezzi di fortuna tipici della «nouvelle vague», lo scrittore di vita intende realizzare una complessa trasposizione cinematografica delle proprie esperienze tra i giovanotti delle borgate e delle marrane. A questo scopo, Pasolini ha arruolato un considerevole numero di “fusti” popolani, del tutto nuovi alle vicende cinematografiche, ed una sola attrice professionista, Adriana Asti, cui è stato proposto d’impersonare una mondana di periferia. […] (Nella foto: Pier Paolo Pasolini, al centro, col copione tra le mani, prepara un scena in un caffè paesano)». Questo uno stralcio del «malevolo pezzullo» – ricco di «sottese quanto insultati allusioni» – riportato nel rotocalco ultraconservatore “Lo Specchio” all’altezza del 16 aprile 1961 e preso in esame da Franco Gattarola, op. cit., pag. 95. Vieusseux (“Una delle cose più affascinanti del mondo”. Disegni e passione per le immagini in Pasolini, in Pier Paolo Pasolini, Dipinti e disegni dall’Archivio Contemporaneo del Gabinetto Vieusseux, Polistampa, Firenze 2000, pp. 14-15). Proprio l’interpretazione di Galluzzi guida il lavoro del critico francese, che rifiuta l’ingenuo e tutto sommato limitante inserimento dei disegni nel corpus dell’opera grafica pasoliniana e attribuisce a questi fogli l’importantissimo ruolo di «un regard vivant sur la création cinématographique pasolinienne, le stade intérmediaire en acte, consultable dans son mouvement, entre la scénarisation et le tournage» (Le lieu du scénario, in Théâtres au cinéma: Pier Paolo Pasolini, Alberto 32 Moravia, Collection Magic Cinéma, Paris 2000, p. 38). L’intervento di Hervé Joubert-Laurencin non ha solo indicato la validità di un approccio critico che guardasse ai materiali preparatori come momento intermedio fra la parola e l’immagine, come prima interpretazione visiva della sceneggiatura. Il contributo ha anche svelato al grande pubblico la consistenza del materiale conservato presso il Fondo Pasolini: si tratta di dieci fogli riguardanti Mamma Roma, da cui sono state prelevate le strisce montate nel volume francese («J’ai pu consulter – scrive il Joubert-Laurencin – en 1981 au Fonds Pasolini de Rome (Associazione Fondo Pasolini) 10 feuilles complets et dans l’ordre des plans, d’où on été extraits les montages poubliés en 1987 dans Une vie future»). Si nota, per inciso, come gli schizzi presentati nell’edizione Rizzoli del 1962 appartengono a molte scene contemplate nei montaggi di Une vie future; il che suggerisce la fortissima probabilità di una loro conservazione in questo stesso blocco di materiale. Ma la parte maggiore e il maggiore pregio del lavoro di Joubert-Laurencin stanno altrove: il critico ha infatti svelato la presenza di ben 152 tavole simili a quelle visionate presso il Fondo, negli archivi parigini della Bibliothèque du film (Bifi), al numero 100 di Rue du Faubourg Saint Antoine. Secondo l’ipotesi di Graziella Chiarcossi – che ha gentilmente fornito una breve ricostruzione dei fatti – i fogli furono donati da Pasolini a un cinefilo francese, Biette, che collaborò col regista per i sottotito- Franco Citti in Accattone. li francesi dei suoi film. Biette donò in seguito il materiale alla Bifi, che pure conserva una scheda del materiale orfana sia del nome del donatore, sia della data della consegna per custodia. Oltre a 92 autografi inerenti le scene di Mamma Roma, i locali di questa biblioteca accolgono 60 «demi-feuilles» legati alle riprese di Accattone e parimenti organizzati in due sezioni, con la parte destra della pagina occupata da velocissimi disegni dell’inquadratura e la parte sinistra ricoperta di annotazioni registiche, didascalie reinventate sulla base della sceneggiatura, parti di battute. Il tutto vergato sul verso di un Diario di lavorazione. Più veloci e schematici, sicuramente meno accurati di quelli approntati per Mamma Roma, gli schizzi stesi in L’arrivo a Cecafumo nell’edizione Rizzoli. Caffè Michelangiolo Letteratura e cinema vista di Accattone rispondono alla dichiarazione rilasciata da Delli Colli e testimoniano un trattamento della sceneggiatura riscontrabile nello scarso materiale già edito. Le brevi indicazioni poste a lato dei disegni esibiscono, ad esempio, il venire meno di tutte le figure dell’ornatus e delle perifrasi accampate nel “film sulla carta”; le azioni sono necessariamente frammentate in più inquadrature; urge spesso un aggettivo, a volte ripreso dal corsivo della sceneggiatura, a volte direttamente ricreato in base alle stesse opportunità espressive che condurranno Pasolini a definire “invecchiata” la Mamma Roma che s’imbatte inaspettatamente nei «baffetti omicidi» di Carmine. Se infatti l’Accattone della sceneggiatura, dopo il tuffo dal Ponte degli Angeli, mangiava «come un alluvionato», quello ritratto con i pochi ma espressivi tratti dei disegni è semplicemente «muto» durante il meritato pasto. L’accurata descrizione dei materiali fornita da Hervé Joubert-Laurencin, che dedica l’appendice del suo articolo alla numerazione e al riconoscimento delle scene schematizzate nelle tavole parigine, è stata infine recepita dai curatori dei Meridiani Mondadori. Le Note e notizie sui testi dei due volumi riservati al cinema di Pasolini segnalano infatti la presenza e la collocazione 1 Caffè Michelangiolo Pier Paolo Pasolini nella sua casa di Roma in una immagine del 1960. del materiale inedito, rimandando all’articolo e alla descrizione di JoubertLaurencin. Ovvi motivi di spazio e di statuto testuale non hanno permesso a Walter Siti e Franco Zabagli di inserire nel lavoro i documenti parigini, che naturalmente differiscono dalla sceneggiatura a fumetti de La terra vista dalla luna, sia per la qualità del disegno, sia perché, a differenza di quanto rapsodicamente previsto per quest’ultimo lavoro, Pasolini non ha mai dichiarato di voler pubblicare per intero i disegni preparatori. (Cfr. W. Siti, F. Zabagli, Per il cinema, I, Mondadori, Milano 2001, p. cxix). 2 I fogli conservati presso la Bifi rimangono dunque inediti, le dieci tavole consultate dallo stesso Joubert-Laurencin presso il Fondo Pasolini di Roma (ora trasferito a Bologna) non sono state ancora offerte al pubblico nella loro integrità. Perdura il sentimento di una grave perdita, legata all’assenza di un tassello non senza conseguenze sottratto a tutte le analisi critiche che, seguendo la proposta pasoliniana di una «filologia del cinema», si propongono un confronto puntuale fra «lo scritto» e «il girato». La divulgazione del materiale diventa allora un problema urgente, soprattutto se si pensa che i tagli e le addizioni riscontrabili nella pellicola rispetto alla sceneggiatura di partenza sono, per lo più, già strutturati e decisi nei materiali preparatori. Anzi, la presenza di scene come quella dell’omosessuale all’interno dei fogli approntati per Mamma Roma potrebbe venire in soccorso a chi volesse ricostruire il lavoro di montaggio operato da Pasolini sul già girato e sul «da girare», aprendo prospettive nuove (e soprattutto filologicamente sostenibili) sia per quanto riguarda i ripensamenti e le provocazioni dell’autore, sia rispetto all’influsso su di essi esercitato dagli spettri della censura e della pubblica opinione. Guardiamo poi ai momenti inventivi dei disegni: l’elaborazione filmica 3 33 Letteratura e cinema 4 del sogno di Accattone – forse uno dei casi di maggiore discontinuità fra la pagina scritta e la pellicola – è prospettata fedelmente nei fogli. In questa sede, ad esempio, Pasolini crea e inserisce le due inquadrature sui Napoletani sorridenti e quindi sui loro corpi esanimi, coperti dalle macerie. Sempre nei materiali preparatori, inoltre, si profila il volto di Sabino, il fratello “lavoratore”, come autorevole (e colpevole) partecipante alla processione funebre: «Un chierico è Sabino», si legge nella didascalia affiancata allo schizzo dell’inquadratura 29. Inutile cercare nella sceneggiatura di Mamma Roma il minimo e umanissimo particolare di Ettore che, svegliato dalla Magnani e misteriosamente da lei invitato a scendere in strada, dopo essersi vestito, «fa il buffoncello» davanti allo specchio, ostentando un’aria da grand’uomo. Ma la geniale tenerezza di questo piccolo squarcio non è frutto dell’improvvisazione, né di un ripensamento in fase di montaggio: l’inquadratura, così come verrà realizzata nel film, è già presente nei materiali preparatori. Nella speranza di non dover attendere il prossimo trentennale perché veda la luce un’edizione critica di questo voluminoso spaccato dell’opera di Pasolini, si potrebbe concludere sottolineando come la pratica di disegnare 34 5 le inquadrature non rimanga appannaggio dei primi due film, ma s’inserisca appieno e continuativamente nel metodo di lavoro pasoliniano, assumendo lo stesso valore filologico di una seconda stesura o di una variante e presentandosi al contempo come momento creativo dotato di un suo specifico profilo, intimamente collegato alla sceneggiatura e al film eppure in qualche modo autonomo, testimonianza di una fase di passaggio in cui parola e immagine riescono concretamente a collaborare. Nel suo Pasolini Requiem (Marsilio, Venezia 1995), Barth David Schwartz racconta le ultime ore del regista al “Pommidoro”. Pasolini è in compagnia della famiglia Davoli e intreccia un dialogo con Ninetto intorno al prossimo film, da intitolare o Ta kai ta o Pornotheo-kolossal. La ricostruzione di Schwartz si ferma su un’abitudine ormai largamente conosciuta ma non ancora del tutto esplorata, provocando in chi legge il desiderio di immergersi nei ricchi e parzialmente ancora incogniti archivi pasoliniani, fra le carte degli amici, a caccia di quei foglietti, forse irrimediabilmente dispersi, in cui lo scrittore, il critico, l’appassionato d’arte, il disegnatore e il regista non cessarono mai d’incontrarsi e colloquiare: «La sceneggiatura prevedeva che inizialmente si girasse a Stoccarda; nel 6 corso della conversazione venne fuori Istambul, ma fu rapidamente accantonata; Pasolini poi parlò di New York, di Napoli. Mostrò a Ninetto gli schizzi a matita di alcune scene; quella di buttar giù quanti più schizzi poteva, a formarsi uno «story-board» primitivo, era quasi un’abitudine. Il film gli scorreva già in testa e i disegni diventavano una specie di foto di scena, così che la realizzazione non era altro che un processo meccanico di trasformazione, di fronte alla cinepresa, delle sue nitide immagini in movimento». (p. 38). ■ RINGRAZIAMENTI I più vivi ringraziamenti a Robert Régis, documentaliste-coordinateur presso il Département des Archives della Bibliothèque du Film; a Graziella Chiarcossi; a Loris Lepri e Roberto Chiesi, curatori del Centro Studi - Archivio Pier Paolo Pasolini di Bologna. NOTA Sequenza 1, 2, 3: Il ritorno di Carmine nei montaggi riprodotti nel volume Une vie future (1987). Sequenza 4, 5, 6: Altri montaggi presenti nelle tavole di Une vie future: l’incontro con l’omosessuale (espunto in seguito dal girato) e l’inseguimento di Mamma Roma ai Carosielli; la «Scena 52» (Mamma Roma apprende la notizia della morte del figlio) e le nuove amicizie di Ettore; alcuni prelievi dalla sequenza dei Carosielli. Caffè Michelangiolo Letteratura e cinema Dal forte romanzo di Elena Ferrante alla pellicola mancata di Roberto Faenza LA FEMMINILITÀ DEL DOLORE di Costanza Melani I temi del tradimento e dell’abbandono hanno sempre attirato la mia attenzione, specie se considerati dal punto di vista psicologico e sociale, decisamente meno dal punto di vista economico. Deve pensarla come me anche Elena Ferrante, l’autrice de I giorni dell’abbandono, romanzo dal forte successo, giunto in tre anni alla tredicesima ristampa e alle centomila copie vendute. Leggendo questo romanzo doloroso ed emotivamente violento mi è venuto da interrogarmi a lungo sulla vicenda narrata. Olga, la protagonista, viene abbandonata dal marito Mario, che la lascia da sola a gestire una casa troppo grande, due figli piccoli e un cane che lei non ha mai amato per andare a vivere con Carla, una giovane ventenne conosciuta anni prima dando ripetizioni. Un pomeriggio d’aprile, subito dopo pranzo, mio marito mi annunciò che voleva lasciarmi. Lo fece mentre sparecchiavamo la tavola, i bambini litigavano come al solito nell’altra stanza, il cane sognava brontolando accanto al termosifone. Mi disse che era confuso, stava vivendo brutti momenti di stanchezza, di insoddisfazione, forse di viltà. Parlò a lungo dei nostri quindici anni di matrimonio, dei figli, e ammise che non aveva nulla da rimproverare né a loro né a me. Tenne un atteggiamento composto come sempre, a parte un gesto eccessivo della mano destra quando mi spiegò con una smorfia infantile che voci lievi, una specie di sussurro, lo stavano spingendo altrove. Poi si assunse la colpa di tutto quello che stava accadendo e si chiuse con cautela la porta di casa alle spalle lasciandomi impietrita accanto al lavandino1. Da questo momento inizia per Olga un lungo percorso che parte dalla presa di coscienza della serietà delle intenzioni del marito, passa attraverso la scoperta Caffè Michelangiolo di sé. La persona che per tanti anni ha creduto di essere non serve più a nessuno, tanto meno a lei stessa. Mario si è portato via la moglie, la madre, la quieta donna borghese che ha rinunciato alle proprie aspirazioni professionali (rappresentate nello specifico dal desiderio di scrivere), e che lo ha fedelmente assistito e aspettato per tanti anni, come continua a fare Otto, il cane lupo simbolo della fedeltà assoluta e incondizionata che Mario dimentica dietro di sé insieme ad una vita che non vuole più. In questa perdita di sé, Olga rischia di smarrire la ragione e si affaccia sul baratro della follia, ossessionata dal ricordo infantile di una povera vicina di casa che si suicidò in seguito all’abbandono del marito, in una Napoli molto femminile e molto più tormentata dell’algida Torino. Luca Zingaretti interpreta il personaggio di Mario nel film I giorni dell’abbandono che Roberto Faenza ha tratto dal romanzo omonimo di Elena Ferrante. Il sessantatreenne regista aveva portato sullo schermo in precedenza altri due testi di scrittori italiani: Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi (1995) e Marianna Ucrìa di Dacia Maraini (1997). dell’esistenza di un’amante, scivola lungo il conflitto con Ilaria e Gianni, i figli in cui si rispecchiano i tratti fisici e caratteriali dell’odiato traditore, per approdare infine ad una ricomposizione familiare diversa, in cui l’odio e la rabbia lasciano il posto ad una comprensione nuova degli eventi. Ma il viaggio che Olga compie veramente è quello dentro se stessa: Mario la lascia, ma quel che è peggio è che si porta via con sé la sua identità. Olga si trova improvvisamente sola, sprovvista Da allora la nostra vicina cominciò a piangere tutte le notti. Sentivo nel mio letto questo pianto rumoroso, una specie di rantolo, che sfondava ad ariete le pareti e mi atterriva. Mia madre ne parlava con le sue lavoranti, tagliavano, cucivano e parlavano, parlavano, cucivano e tagliavano, mentre giocavo sotto il tavolo con gli spilli, il gesso, e ripetevo tra me e me ciò che ascoltavo, parole tra mestizia e minaccia, quando non ti sai tenere un uomo perdi tutto, racconti femminili di sentimenti finiti, cosa succede quando colme d’amore si resta non più amate, senza niente. La donna perse tutto, anche il nome (forse si chiamava Emilia), diventò per tutti “la poverella”, cominciammo a parlarne chiamandola così2. In un processo di scomposizione e ricomposizione di sé, Olga affronterà da sola l’astio verso gli altri, l’ossessione delle fantasie erotiche sul marito e la sua amante, l’affiorare di un linguaggio scurrile e aggressivo, la depressione e la 35 Letteratura e cinema frustrazione di chi si trova improvvisamente in un «vuoto di senso» dell’esistenza. Cominciai a cambiare. Nel giro di un mese persi l’abitudine di truccarmi con cura, passai da un linguaggio elegante, attento a non urtare il prossimo, a un modo di esprimermi sempre sar- Margherita Buy in un fotogramma del film I giorni dell’abbandono, regista Roberto Faenza. castico, interrotto da risate un po’ sguaiate. Piano piano, malgrado la mia resistenza, cedetti anche al linguaggio osceno. L’oscenità mi veniva alle labbra con naturalezza, mi pareva che servisse a comunicare ai pochi conoscenti che ancora cercavano frigidamente di consolarmi che non ero una che si fa abbindolare con le belle parole. Appena aprivo la bocca sentivo la voglia di irridere, macchiare, insozzare Mario e la sua troia3. Proprio sul termine «vuoto di senso», più volte utilizzato dalla Ferrante, si sono appuntati il mio interesse e la mia riflessione. All’inizio del romanzo è infatti Mario ad usare quest’espressione, per definire la propria condizione di uomo in fuga dal matrimonio e dalla famiglia, mentre nelle pagine finali è Olga a riprendere quest’espressione, dandole un nuovo significato. Una sera comparve a casa senza preavviso, mi sembrò depresso, aveva voglia di chiacchiere. «Ho una cosa brutta da dirti» mi disse. «Dilla.» «Gianni mi è antipatico, Ilaria mi dà ai nervi.» «È successo anche a me.» 36 «Mi sento bene solo quando sto senza di loro.» «Sì, certe volte è così.» «Il rapporto con Carla si rovinerà se continueremo a vederli tanto spesso.» «Può essere.» «Tu stai bene?» «Io sì.» «È vero che non mi ami più?» «Sì.» «Perché? Perché ti ho mentito? Perché ti ho lasciata? Perché ti ho offesa?» «No. Proprio quando mi sono sentita ingannata, abbandonata, umiliata, ti ho amato moltissimo, ti ho desiderato più che in qualsiasi altro momento della nostra vita insieme.» «E allora?» «Non ti amo più perché, per giustificarti hai detto che eri caduto nel vuoto di senso, e non era vero.» «Lo era.» «No. Ora so cos’è un vuoto di senso e cosa succede se riesci a tornare in superficie. Tu no, non lo sai. Tu al massimo hai lanciato uno sguardo di sotto, ti sei spaventato e hai turato la falla col corpo di Carla.»4 E così alla fine di questo processo di separazione, si scopre che l’uomo e la donna hanno percorso due strade completamente diverse. Olga attraverso il dolore e la rabbia è morta per rinascere con una diversa conoscenza di sé e del mondo, ha attraversato faticosamente il vuoto di senso che a un certo punto la vita riserva a ciascuno di noi ed è tornata a vivere il quotidiano con una consapevolezza e una maturità nuove. Mario, al contrario è un personaggio che non ha sviluppo, che non cresce e non comprende niente di quello che avviene né attorno a sé, né dentro di sé. Affacciatosi sul vuoto non ha saputo fare niente di meglio che coprirlo con il corpo di una donna più giovane della moglie, che gli offrisse l’illusione di una nuova giovinezza, senza ricordargli ogni momento il trascorrere delle stagioni dell’esistenza. Personaggio asfittico e opaco, Mario è condannato a ri-ingrigire in poco tempo, superato l’entusiasmo iniziale di avere qualcuno di diverso al proprio fianco, specchio nuovo che ci rimanda un’altra immagine di noi, finta e artefatta perché non frutto di un’autentica e personale ricostruzione interiore. Presto feci anche l’abitudine a incontrare Mario, telefonargli per grane quotidiane, protestare se tardava a versare i soldi sul mio conto. A un certo punto mi accorsi che il suo corpo si stava di nuovo modificando. Ingrigiva, gli zigomi erano gonfi, i fianchi, il ventre, il torace tornavano ad appesantirsi. A volte provava a farsi crescere i Margherita Buy nella parte di Olga, in una sequenza del film che Roberto Faenza ha tratto dal romanzo di Elena Ferrante, I giorni dell’abbandono. baffi, a volte lasciava la barba lunga, a volte si radeva del tutto con molta cura5. I giorni dell’abbandono raccontati da Elena Ferrante sono la storia, femminista nel vero senso del termine, di una scoperta di se stesse: Olga compie un viaggio interiore, straziante e viscerale, da cui si rischia anche di non uscire vivi, ma che la porta ad essere, irrimediabilmente, più forte e consapevole del marito. Così quando sarà pronta ad accettare l’amore del suo vicino di casa, il timido ma sensibile violinista Carrano, Olga saprà esattamente cosa le è veramente successo e cosa è pronta ad affrontare nei giorni che verranno. «È stato molto brutto?» mi domandò in imbarazzo. «Sì.» «Cosa ti è successo quella notte?» «Ho avuto una reazione eccessiva che ha sfondato la superficie delle cose.» «E poi?» «Sono caduta.» «E dove sei finita?» Da nessuna parte. Non c’era profondità, non c’era precipizio. Non c’era niente.»6 Caffè Michelangiolo Letteratura e cinema Peccato che di tutto questo nella trasposizione cinematografica di Roberto Faenza, sceneggiatore e regista dell’omonima pellicola presentata alla 62° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia con scarsissimo successo, non rimanga praticamente nulla. Perché tanti slittamenti e tante banalizzazioni dal libro al film? Perché perdere di vista proprio il La copertina del romanzo di Elena Ferrante, I giorni dell’abbandono, pubblicato dalle edizioni E/O nel 2002 (copertina di Emanuele Ragnesco). senso reale di questa storia di abbandono, rendendola un semplice fatto di cronaca quotidiana, con un pessimo finale buonista che vede tutti ri-assortiti e borghesemente tranquilli? La pellicola di Faenza non riesce a sfruttare le potenzialità del testo o forse non le ha comprese. Per i 96 minuti del film lo spettatore rimane attonito, assolutamente distaccato dalla vicenda e a tratti un po’ infastidito dalla sur-realtà di alcune scene. Ci si chiede dove siano finite le pagine violenti, volgari, disperate e viscerali della Ferrante, quelle pagine che erano in grado di arrivare dritte allo stomaco del lettore come un pungo ben assestato, quelle pagine che ti facevano rialzare dolorante e impressionata dal divano, immedesimata in questa donna che per la prima volta nella vita sperimenta sulla sua pelle il dolore e la rabCaffè Michelangiolo bia di chi non sa più dare un senso alle cose, certe che anche noi saremmo cadute in quel delirio della ragione che porta all’isolamento più totale nei confronti del mondo e degli stessi propri figli. Dove sono tutta la cattiveria e l’odio, la paura di avere fallito come persona, di non essere stata in grado di dare l’amore necessario? Nell’Olga interpretata da Margherita Buy tutti questi sentimenti fanno capolino giusto in un paio di scene, sorrette dalla bravura istrionica di un’attrice di talento, cui non si può chiedere però di reggere un intero film, dalla trama piuttosto esile. E a nulla serve farle tracannare sguaiatamente e istericamente una bottiglia di whisky, perché il senso del personaggio non stava in grossi gesti plateali, quanto in un continuo scavo interiore in grado di aprire molte gallerie sotterranee, ancora in contatto con fobie e paure ancestrali. Come il personaggio di Olga, anche quello di Mario, interpretato da un Luca Zingaretti insolitamente monocorde, e quello ancora più esile di Carrano, interpretato da Goran Bregovic, non convincono e non coinvolgono. Vi sono poi una serie di personaggi di contorno assenti nel libro il cui ruolo non è ben delineato: prima tra tutti la figura della madre appassionata di astrologia, che si palesa in un insopportabile quanto inutile videotelefono e quella di una barbona che forse dovrebbe avere un senso simbolico che però mi è sfuggito. Per non parlare della trasformazione del cane lupo del libro, simbolo, questo sì, di una fedeltà che non ammette compromessi e che quindi è destinata a morire, come avviene al cane che rompe con i denti un velenoso insetticida, in una golden retriver alla moda, adatto alle patinate famiglie borghesi dei film di Gabriele Muccino. Obiettivamente portare sul grande schermo il libro di Elena Ferrante era un’impresa ardua: come creare un qualcosa che si basa su dialoghi e azioni sulla base di un libro in cui sono più numerose le parole non dette che quelle pronunciate, in cui la maggior parte delle frasi appartengono alla riflessione a posteriori della donna? La risposta non è facile, ma vorrei partire da una considerazione. I libri non sono semplici soggetti, non sono storie pronte per esser “consumate” dal cinema e dalla televisione. I libri hanno un tono, un’anima, una poesia, un senso, che non si trova quasi mai nel plot, ma nelle parole più intime che sono state utilizzate per raccontarlo. Inserire nella pellicola personaggi assolutamente fuori posto non arricchisce il senso della storia, che è quello di una donna che per la prima volta nella sua vita si centra su se stessa, guarda il mondo con i propri occhi e non Il cartellone del film che il regista Roberto Faenza ha tratto nel 2005 dal fortunato romanzo di Elena Ferrante, I giorni dell’abbandono (E/O, Roma 2002). attraverso quelli del marito, fa i conti con i retaggi di una cultura napoletana maschilista e svilente e raggiunge una nuova maturità, riprendendo anche in mano la penna per scrivere di sé e di tutte le donne del mondo. Meno attenzione formale al linguaggio delle immagini, belle e ben costruite, e più sensibility, come avrebbe scritto Jane Austen, avrebbero forse aiutato a trasporre sullo schermo un libro denso, viscido e angosciante, senza facili buonismi consolatori come quello scritto dalla napoletana Elena Ferrante. ■ NOTE 1 E. Ferrante, I giorni dell’abbandono, Edizioni e/o, Roma, 20052, p. 7. 2 Ivi, pp. 14-15. 3 Ivi, p. 27. 4 Ivi, p. 208. 5 Ivi, pp. 207-8. 37 La vetrina Una recente traduzione di poesie di Marina Cvetaeva (e di Arsenij Tarkovskij) offre l’occasione per riavvicinare una delle più alte e drammatiche personalità del Novecento russo IL SOGNO, LA VITA di Michele Miniello Davanti a me ho il libro di Boris Paternak Mia sorella la vita… Il mio primo movimento: … braccia spalancate, così che tutte le articolazioni scricchiolassero. Sono capitata sotto questo libro come sotto un acquazzone…2 Io non riesco a vivere, e cioè a durare, non so vivere nei giorni, e ogni giorno vivo fuori di me. È una malattia inguaribile e si chiama – anima. Marina Cvetaeva (lettera a O.E. Černova, gennaio 1925) M i capita tra le mani un libriccino dal titolo Sonno e Vita. Sogni e amore con poesie di Marina Cvetaeva e Arsenij Tarkovskij, scelte e tradotte da Irina Dvizova, lettrice di russo nell’università di Firenze, ed Emiliano Panconesi, professore emerito del medesimo ateneo e studioso a latere di letteratura russa, e subito lo sfoglio con curiosità e interesse. Con la fine del comunismo e la disgregazione dell’Urss, l’attenzione per alcuni autori – la stessa Cvetaeva, Mandel’štam, Esenin, Pasternak, Šklovskij ecc. – si è affievolita. E perciò questa breve raccolta di poesie, stampata dall’editore fiorentino Mauro Pagliai, merita il plauso di chi ama la letteratura russa. Marina Cvetaeva è senza dubbio una delle più grandi poetesse di tutti i tempi. E ben se ne accorse Pasternak che nella sua Autobiografia annotava: «Negli anni di questi nostri primi ardimenti soltanto due persone, Aseev e la Cvetaeva, possedevano una frase poetica matura, ormai perfettamente formata». E siamo nel primo decennio del Novecento. Per l’appunto Pasternak, che sarà il suo riferimento, fino alla fine tragica della sua vita, e destinatario di moltissime lettere, documenti preziosi per conoscere e capirne la personalità prorompente, si lamenterà, nella sua Autobiografia, di averla apprezzata pienamente solo parecchi anni dopo: La verità e che bisognava saperle leggere attentamente. Quando lo feci, 38 La copertina del libro Sonno e vita. Sogni e amore (sottotitolo, Un dialogo nel tempo) dove Irina Dvizova e Emiliano Panconesi hanno riunito e tradotto testi di Marina Cvetaeva e Arsenij Tarkovskij. Uscito nel giugno 2005 nelle edizioni Polistampa dell’editore Mauro Pagliai, è il secondo titolo della collana “La Fenice” diretta da Pier Francesco Venier e inaugurata da Alessandro Fo con la raccolta Piccole poesie per banconote. Il terzo volumetto, dell’ottobre 2005, è Madre cometa di Maria De Lorenzo, con prefazione di Franco Ferrucci. In preparazione, La corazza nuda di Gabriella Sobrino, con prefazione di Ariodante Marianni. restai senza respiro per quell’abisso di purezza e di forza che mi si spalancava dinanzi. […] Nella primavera del 1922 comprai a Mosca un suo libriccino, Verste. E subito mi conquistò la forte liricità della forma, vissuta intimamente, non fioca ed esile, ma potentemente stringata e concisa. […] Scoprii in quelle caratteristiche una sorta di affinità tra me e lei […]1 La folgorazione tardiva è reciproca, perché, nello stesso anno, la Cvetaeva scopre la grandezza della poesia di Pasternak: E così, in sei giorni, scrisse di getto e in modo appassionato il suo primo saggio su Pasternak. La corrispondenza con Pasternak, da Berlino, dalla Boemia, da Parigi, diventa febbrile. Anche lui, come Rilke, come ogni destinatario della sua passione, si trasforma in «eroe onnipotente e insieme fragile, bisognoso di affetto e cure materne. […] Il suo amore si alimentava dell’altrui bisogno. […] Stimava se stessa solo un movente per gli altri, […] e si annullava fino all’ultimo suo atomo; offriva l’incendio di sé come rogo da attraversare al principio di un lungo viaggio iniziatico. […] Anche per questo molte sue lettere hanno le cadenza della magia e dell’esorcismo»3. Le lettere della Cvetaeva diventano legna su cui brucia la sua passione per Pasternak: «Voi, in assoluta pienezza di cuore, siete il primo poeta della mia vita», «Andavo da voi come a casa, andavo come sul rogo», «Nella vostra opera c’è più Genio che poeta», «Il poeta è stato sconfitto dal Genio», «Voi volete l’impossibile, ciò che trascende le parole. Il fatto che siete un poeta è uno strafalcione (di Dio e – divino)». Nei rapporti con gli altri la Cvetaeva era spigolosa, esigente, altera. Molte memorie di contemporanei, al di là della devozione, del rispetto per la sua tragica vicenda umana e la grandezza della sua poesia, hanno alimentato anche una intricata leggenda (che comunque si nutre di testimonianze attendibili) sugli amori di Marina. Valga per tutte quella di Lossky: «Nei suoi rapporti con gli uomini c’era Caffè Michelangiolo La vetrina qualcosa di terribile, semplicemente patologico […] si gettava, in pratica, sugli uomini! […] Nei suoi rapporti con gli uomini c’era qualcosa di antigienico. […] Lei amava il marito e amava solo lui, ma lo tradiva in un modo terribile, gli portava i suoi amanti in casa»4. Le dicerie e i commenti maligni sicuramente arrivavano alle orecchie della poetessa, la quale, in una lettera da Mokropsy, in Boemia, il 10 febbraio 1923, sente il bisogno di mettere in guardia il suo divino Boris: scenti. […] Per tutti questi anni – sempre qualcuno accanto, ma un tale deserto!». Lo sconforto e l’amarezza per la sua condizione di solitudine non le impediscono, però, di cercare di nuovo, con testardaggine, altre persone su cui riversare il suo fuoco, la sua passione. Il racconto fatto all’amico E.L. Lann dell’incontro con il giovane rivoluzionario Boris Ivanovič Bessarabov e del- Non date mai ascolto a quello che di me dice la gente (gli amici!), ho offeso molti (me ne sono innamorata e disinnamorata, li ho cullati e poi lasciati cadere dalle braccia), per la gente i contrasti sono una questione di amor proprio, quell’amor proprio di cui io – in modo maschile, in modo divino – ho riguardo. Non stateli a sentire. Vi dirò io: peggio, certamente, ma – la verità. L a vita di Marina è stata tumultuosa e sempre lacerata dal contrasto tra realtà e sogno, necessità e desiderio. Lei era immersa nella vita e se ne considerava separata. Lottava con puntiglio per realizzare progetti e desideri, ma finiva quasi sempre per esserne sopraffatta. Il suo desiderio di libertà era sconfinato, ma poi si trovava rinchiusa in una cella. Agognava il sonno e si trovava vittima dell’insonnia (un tema ricorrente nella sua poesia). L’unica via di uscita, l’unica salvezza restava il sogno: «Riesco a vivere solo in sogno […] È la mia vera vita, senza eventi casuali, tutta fatale, dove tutto si avvera». E ancora a Pasternak scrive nel novembre del 1922: «Il tipo di rapporto che io preferisco è ultraterreno: il sogno: vedere in sogno. E il secondo: la corrispondenza. La lettera: una forma del rapporto ultraterreno, meno perfetta del sogno, ma le leggi sono le stesse». La voglia di vivere, di incontrare gente, di fare amicizia, è fortissima, ma, alla fine, si ritrova terribilmente sola. Nelle lettere, infatti, rimarca continuamente quel suo essere sola, a dispetto del fuoco che le brucia dentro. Nel dicembre del 1920 scrive da Mosca alla sorella Anastasija: «Sono molto sola anche se per tutta Mosca ho conoCaffè Michelangiolo Gustave Courbet, Femme blonde endormie, 1849 o 1857, olio su tela, cm 74 x 65, Parigi, collezione privata. l’amicizia e dell’amore scaturiti è assolutamente memorabile: «18 anni. Comunista. Odia gli ebrei […] Ha fama di stupido. Aspetto da Bogatyr. Rosso lampone sulle guance – è il sangue stesso che si arriccia – […] Entra una guardia rossa, un ragazzo alto. L’incendio color lampone delle guance […]». Meriterebbe di essere trascritto tutto. La conclusione è una frustata, l’orgogliosa ammissione del suo fallimento (?) nei rapporti con gli altri: «Lann, io evidentemente posso essere amata solo da ragazzi che hanno amato follemente la madre e si sono persi nel mondo – è il mio segno caratteristico». Un altro poeta (per ritornare al libriccino da cui eravamo partiti), quindici anni più giovane della Cvetaeva, fu folgorato, fin dal primo incontro, dalla poetessa e restò per tutta la vita devoto ammiratore di lei e della sua poesia. Fece proprie alcune sue tematiche con risultati eccellenti e, peraltro, originali. I testi scelti dalla Dvizova e da Panconesi sono del primo periodo della Cvetaeva, versi che già avevano, come ha scritto Pasternak: «una scioltezza e una leggiadria tecnica impareggiabili»5. In seguito, anche lei sedotta, come molti poeti contemporanei, dalla poesia di Chlebnikov, prenderà il volo e, come ha scritto P. Zveteremich, la sua poesia diventerà […] ellittica, tesa, concisa, che omette e sottintende i termini della proposizione, che non si costruisce sulla frase, né sul glossema, né sulla parola ma addirittura sulla sillaba, che è uno dei mezzi verbali in strenua funzione del significato; […] e tutto questo nell’ossatura di un ritmo che non viene mai meno, irruento, incalzante, precipitoso, spesso somigliante allo smozzicato parlare di una persona affannata ed emozionata, denso di rime serrate, dove i versi si impongono al lettore per il loro suono alto, energico, inteso anche come instradamento al senso, come un sistema di segnali acustici che avvertono dei significati6. I due traduttori, tuttavia, si accostano al testo consci dell’impossibilità di render le rime, le assonanze, il ritmo e l’intonazione della lingua russa (ma vale anche per le altre lingue). Come rendere, per esempio, i due versi Segodnija noč’ju ja celuju v grud’ vsju krugluju vojujušuju zemlju! Stanotte bacerò sul petto tutta la tonda terra in guerra se non traducendo alla lettera il testo, dandogli un minimo di cadenza, essendo impossibile trovare nella nostra lingua una serie di parole corrispondenti con quelle “u” e “ju”? Come può accedere alla bellezza di quei versi chi non conosce il russo e ha addirittura difficoltà a leggere correttamente la trascrizione dal cirillico? E non è forse vero che i versi di Verlaine «Les sanglots longs | des violons | de l’automne | blessent mon coeur | d’une langueur | monotone» perdono molto della loro magia quando sono tradotti in italiano, nonostante le affinità tra le due lingue? La traduzione è dunque lodevole e ancor più lodevole è l’aver fatto conoscere ai lettori che amano la poesia un autore di qualità con i toccanti versi dedicati all’amatissima maestra: 39 La vetrina Ja slyšu, ja ne splju, zoveš’, Marina, Poeš’, Marina, mne krylom groziš, Marina, Kak truby angelov nad gorodom pojut, I tol’ko goreč’ju svoei neiscelimoj Naš chleb otravlennyj vozmeš’ na Strašnyj sud. Insonnia 1. 1. Ha cinto i miei occhi con un cerchio d’ombra, l’insonnia. Gli occhi miei ha intrecciato l’insonnia con una corona d’ombra. Io ti sento, non dormo io, mi chiami, Marina, Canti, Marina a me e mi minacci con l’ala. Cantano sopra la città, simili a trombe d’angeli, e con la tua amarezza incurabile, porterai il pane nostro avvelenato al Giudizio universale. Vedi? Di notte gli idoli non li devi pregare! Il tuo segreto, l’ho svelato, adoratrice di idoli. Non basta, a te, il giorno, la fiamma del sole! Quella maestra che, come Mandel’štam, non aveva mai accettato la rivoluzione, farà la stessa fine di Esenin e Majakovskij, i quali, al contrario, l’avevano amata e cantata nei loro versi, si toglierà la vita. Ancora adesso, a rileggerla, ci sbalordisce e commuove la conclusione che ne trae Pasternak: Un paio dei miei anelli porta, pallida in viso! L’hai invocata e richiamata quella corona d’ombra. Non ti bastava chiamare me? Non ti bastava con me dormire? A dormire andrai così leggera in volto. La gente a te si inchinerà. Per te, io insonnia, reciterò: Secondo la mia impressione, Majakovksij si è sparato per orgoglio, […] Esenin si è impiccato senza aver riflettuto bene alle conseguenze, […] Marina Cvetaeva si difese con il lavoro, per tutta la vita, contro la quotidianeità, e quando ciò le parve che fosse un lusso inammissibile, che per amore del figlio dovesse temporaneamente sacrificare la passione da cui era attratta e guardarsi intorno a mente fredda, scorse il caos che non aveva mai lasciato penetrare nella sua creazione, un caos immobile, inconsueto, obliquo, ristette spaventata e, non sapendo sfuggire all’orrore, cercò rifugio, a caso, nella morte, infilando la testa in un cappio come sotto il guanciale7. ■ dormi, placata, dormi, onorata, dormi, incoronata, donna. Perché tu dorma più facilmente, canterò per te. Dormi, cara amica irrequieta dormi, piccola perla, dormi, insonne. A tanti abbiamo scritto lettere, a tanti abbiamo giurato… Dormi, ora. Ormai si sono separate le inseparabili. Le mani hanno lasciato cadere le tue manine. Finite sono le tue pene ormai, martire cara. NOTE 1 Boris Pasternak, Autobiografia (pagg. 9293), Feltrinelli, Milano 1967. 2 Svetovoj liven’ (L’acquazzone di luce), 1922. 3 Dall’introduzione di Serena Vitale a Il paese dell’anima, lettere di M.C. 1909-1925, Adelphi, Milano 1988. 4 Citazione di V. Lossky in Marina Cvetaeva. Souvenirs des contemporains, «Wiener Slawisticher Almanach», Sonderband 3, Wien 1981. 5 Pasternak, op. cit. 6 P. Zveteremich, dall’introduzione a Marina I. Cvetaeva, Poesie, Milano 1979. 7 Pasternak, op. cit. 40 Il sonno è sacro, dormono tutti, tolta è la corona. 8 aprile 1916 Marina Cvetaeva Trad. di Irina Dvizova e Emiliano Panconesi. Caffè Michelangiolo La biblioteca del viaggiatore Narratore, sceneggiatore, anglista, direttore di Istituti Italiani di Cultura a Stoccolma, Addis Abeba, Nuova Delhi, Tel Aviv, Tunisi, Mauro Curradi è una figura di spicco fra i grandi dimenticati del Novecento UN BORGHESE IN FUGA di Loriano Gonfiantini M auro Curradi se n’è andato il 23 agosto 2005 nel mese più dispersivo e silenzioso dell’anno: si è dovuto aspettare settembre e l’autunno per ricominciare a parlare di lui. Chiarificanti e utili soprattutto due interventi fondamentali: a Radiotre un pomeriggio di Fahrenheit, curato con attenta competenza da Roberto Saviano, che è stato vicino allo scrittore nell’ultimo faticoso periodo della sua vita; e la recensione di Massimo Raffaeli dell’ultimo romanzo, Junior (Meridiano zero, 2005), pubblicata sul “Manifesto”, il 6 settembre 2005, occasione questa di ripercorrere il cammino creativo dell’autore e fissarne la collocazione (o non-collocazione) nella narrativa italiana del Novecento. Era uno scrittore Mauro Curradi, ma non faceva lo scrittore, e la differenza non è trascurabile. Scrivere era per lui un gesto quotidiano naturale, come alzarsi, mangiare, dormire, anche durante la lunga malattia che alla fine gli aveva quasi tolto la possibilità di usare le mani e di vedere, ma, per metà della sua vita, Mauro Curradi ha fatto altro: lo sceneggiatore, il professore d’inglese, il direttore di vari Istituti di Cultura. Queste sue attività sono state molto spesso un confrontarsi faticoso con i problemi e talvolta le tragedie di luoghi e paesi difficili in cui è stato portato a vivere: Svezia, Etiopia, India, Israele, Tunisia…Roma. Pubblicare un libro non era la cosa che più gli stava a cuore: questo può spiegare il silenzio che ha circondato per anni, ma non sempre tuttavia, la sua figura di scrittore, silenzio aiutato anche da un temperamento schivo, ironico, poco incline a trattare con i compromessi di un’editoria spesso distratta o irraggiungibile, a cercare con ogni mezzo il consenso della critica, la diffusione del suo lavoro attraverso i media. Caffè Michelangiolo Mauro Curradi. Mauro Curradi è nato a Pisa nel 1925. Si è trasferito a Roma (dove è venuto a mancare nel 2005) alla fine degli anni Trenta, e vi si è laureato discutendo con Natalino Sapegno una tesi su Tozzi. Ha lavorato nel cinema come soggettista e sceneggiatore. A metà degli anni Sessanta, dopo aver pubblicato i primi romanzi e racconti – Gli ermellini (Carucci, 1954) e Schiaccia il serpente (Mondadori, 1964) –, ha lasciato Roma per seguire la carriera di direttore di Istituti Italiani di Cultura a Stoccolma, Addis Abeba, New Delhi, Tel Aviv e Tunisi. Gli ultimi romanzi includono Via da me (Mondadori, 1970), Persona non grata (L’Obliquo, 1997), Cera e oro (Meridiano Zero, 2002), Passato prossimo (L’Obliquo, 2003) e Junior (Meridiano Zero, 2005). Negli ultimi anni, finalmente letto con intelligente attenzione da studiosi come Raffaeli, Saviano, per citarne alcuni, ha trovato il giusto riconoscimento, anche se, coll’ironia e il distacco di sempre, confessava spesso di sentirsi più inseguito che appagato da un successo, che lui chiamava “postumo”. Comunque, Mauro Curradi non era uno sconosciuto. Il suo primo romanzo, Gli ermellini, pubblicato nel ’54 da un piccolo editore romano, Beniamino Carucci, aveva ricevuto il Premio Roma per inediti e ad assegnarglielo era stato Aldo Palazzeschi, proprio uno degli scrittori italiani che Curradi amava, insieme ad un altro grande solitario, Federico Tozzi, oggetto della sua tesi di laurea discussa con Natalino Sapegno. Eccettuata la parentesi mondadoriana (due romanzi in sei anni: Schiaccia il serpente, 1964, e Via da me, 1970) Mauro Curradi ha sempre cercato di affidare i suoi lavori a editori che al potere economico sostituiscono il coraggio delle scelte e la lettura diretta dei testi. Con Beniamino Carucci, dobbiamo ricordare L’Obliquo di Giorgio Bertelli, Sestante, Meridiano zero: editori con cui era forte un rapporto di stima e di amicizia alla pari. M auro Curradi non è uno scrittore facile, e non solo per la sua prosa ellittica, frutto di una propensione a togliere piuttosto che ad aggiungere, ma soprattutto per il bisogno, non sempre soddisfatto, di cancellarsi come personaggio-narratore. Non per niente il suo ideale assoluto non era uno scrittore ma un regista, Roberto Rossellini. Di lui diceva: «Rossellini è il regista che più amo. Molta mia letteratura deve al suo modo di girare i film». Sapeva quanto è duro risolvere il contrasto tra il narratore puro e il narratore-personaggio: da questo contrasto nasce la difficoltà di lettura dei suoi romanzi, ma anche il loro fascino unico. In Persona non grata (Meridiano zero, 2003), forse il libro più sofferto e più disperato della sua ultima stagione, sulla miseria morale, la fame, la morte, c’è una frase che colpisce. È riferita al protagonista, ancora una volta personaggio e narratore ( la prima e la terza 41 La biblioteca del viaggiatore persona nei romanzi di Curradi sono intercambiabili): «Immaginare la vita di un altro gli era più facile che dimenticare la propria». Schiaccia il serpente portava avanti il tema affrontato nel romanzo giovanile Gli ermellini. Una complessa relazione a tre, tra amicizia, sesso, amore, e un cinismo morale di sopravvivenza e di è una ferita mai rimarginata nello sopraffazione, si inseriva nel quadro di scrittore, personale se vista in rapuna Roma senza miti di comodo, seporto con la famiglia, la madre sopratgnata dall’ombra del Vaticano, in un tutto, ma ascrivibile anche a una classe periodo di pesante transizione, tra la sociale, quasi una casta, quella della morte di Pio XII e l’elezione di Giovanborghesia in cui era nato e vissuto, dalni XXIII, e dal discreto perpetuarsi di la quale ha sempre cercato di fuggire. un potere nobiliare, ormai logorato, ma E i titoli dei suoi libri hanno spesso il duro a cedere, conservatore di privilegi, valore di una sottolineatura dolorosa: riconoscibile nei suoi riti, inseriti in un Città dentro le mura, Schiaccia il serpaesaggio urbano solenne fino al ridipente, Via da me, Persona non grata. colo, vicino al gusto del grande PalazNell’intervista curata da Roberto Sazeschi di Roma. Così, almeno nella priviano, pubblicata su “Pulp Libri” ma stesura, quella su cui Curradi la(Maggio-Giugno 2004), a una domanvorò pazientemente a lungo con Nicda sulla sua particolare attenzione al colò Gallo. mondo borghese, rispondeva: «Nei miei Per questa stesura è lecito tentare romanzi descrivo la naturale disuma- Mauro Curradi in uno scatto degli anni Cinquanta. un paragone che può sembrare assurdo: nità della borghesia […] Odiavo la cruil romanzo era La dolce vita, registrata deltà della competizione borghese per a far male, anche se il personaggio vive dall’obbiettivo crudo di Rossellini, inraggiungere un certo livello di vita, di- in una piccola città industriale di antica vece che inventata e in qualche modo sprezzavo la loro idelogia religiosa che nobiltà, e non a Roma, dove Mauro Cur- sublimata dalla fantasia visionaria di confortava il loro agire». E aggiungeva radi, che era nato a Pisa nel 1925, si era Fellini. con la solita ironia, un po’ dandy, un po’ trasferito verso la fine degli anni Trenta. Nella stesura finale data alle stampe, cinica: «Sarà forse che io sono sempre assai più circoscritta, o meno dispersidue romanzi mondadoriani, il secon- va, forse anche sotto l’inconsapevole stato un pigro». do ripubblicato da L’Obliquo nel segno del cinema di Antonioni, allora in Massimo Raffaeli, recensendo sul “Manifesto” del 6 settembre 2005 l’ulti- 2000, ebbero due editors d’eccezione, grande ascesa, si perse qualcosa del ma fatica di Curradi, il romanzo Junior, legati all’autore da una lunga amiche- grande quadro, ma il romanzo acquistò finito di scrivere pochi mesi prima della vole frequentazione: Niccolò Gallo per il intensità nella storia a tre che ne costisua scomparsa, cita questa affermazione primo, Cesare Garboli per il secondo. tuiva l’ossatura. Più lieve, e forse più cauto, l’intervento di un personaggio: di Garboli su Via «In Italia la borghesia non esiste, borda me, anche perghesia vuol dire ché il libro non era un romanzo nella cultura: come in pura accezione del Francia o, in altri tempi, nell’Impero genere, o non era solo un romanzo, austro-ungarico. ma un unicum in Qui si tratta di una quegli anni di vari casta economica. sperimentalismi, in Nessuno vuol esser cui il racconto di definito borghese. un viaggio in MaAlla sola parola tutrocco e in Israele si ti scappano a gamtrasformava natube levate. I giovaralmente in un nissimi per iscriversaggio polivalente si al partito comusulla decolonizzanista. Altri si arzione e sulla neorampicano su albecolonizzazione, nel ri genealogici di tema, allora nuopura invenzione». vo, dei contrasti Tale affermazioetnici tra Palestina ne è il segno di una ferita che continua Mauro Curradi in un gruppo di amici all’Incontro Internazionale della Gioventù, tenuto a Praga nel 1948. e Israele, tra orien- C’ I 42 Caffè Michelangiolo La biblioteca del viaggiatore te e occidente, in quello della povertà e dell’incapacità di dare dell’uomo europeo, passante o velleitario o distratto sempre. Nella biografia, e di conseguenza nelle spinte creative di Mauro Curradi, ci sono alcune città particolarmente importanti, pur rimanendo Roma il centro di attrazione, e qualche volta di disagio, di tutta la sua vita. Copertina di Cera e oro (Meridiano Zero, Padova 2002), che riproduce un disegno di Giorgio Bertelli, editore dell’Obliquo. N ei primi anni del secondo dopoguerra, Praga fu per lui l’Incontro Internazionale della Gioventù e la sua prima uscita fuori della porta, fuori delle mura, nel segno di un Comunismo non ancora duramente istituzionalizzato, del confluire di una nobile globalità dell’intelligenza e dell’impegno giovanile, prima di ogni pericolosa deviazione, e delle conseguenti delusioni. E fu soprattutto la conoscenza di un mondo meno piccolo e meno egoista, di cui Curradi conservò sempre memoria e nostalgia, quindi il rimpianto per una giovinezza di speranze non destinate a durare. A Praga poté incontrare coetanei provenienti da ogni parte del mondo: Caffè Michelangiolo indiani, africani, arabi, europei, americani, e culture che avrebbe riconosciuto più tardi, a un improvviso cambio di vita, a metà degli anni Sessanta, dopo aver lasciato Roma e l’insegnamento della lingua inglese. Altra città cardine fu Al-Hoceima, piccola città dell’ex-protettorato spagnolo, sulla costa settentrionale del Marocco, di fronte a Màlaga: primo incontro coll’Africa attraverso il filtro di un’amicizia profonda, quella di una geniale figura di artista ispano-marocchino, Juan Romàn, che, col nome di Jaime Pi, è presente in molte pagine di Via da me. Il filtro culturale di Juan Romàn lo aiuterà a capire il Marocco, non più colonia (che altro era il cosiddetto Protettorato?), ma neo-colonia, in cui i coopérants francesi e spagnoli cercavano di imporre un diverso tipo di colonizzazione ancora più insidiosa, quella che uccide la lingua e la cultura, lasciando che la fame resti fame, la sottomissione sottomissione. Da solo, Mauro Curradi scoprì le vittime meno difese di questa neo-colonizzazione, i bambini e i giovani. Via da me: il titolo esprime un atto di volontà che non sempre trova risposta nei fatti. In ogni lavoro di Curradi il conflitto tra testimone e personaggio è drammatico. La chiarezza della visione, e quindi la forza della testimonianza, può essere oscurata da sentimenti individuali come l’amore, la pietà, il sesso, mezzi apparentemente efficienti per un avvicinamento all’ignoto, al differente, ma causa prima, anche, della difficoltà di capire l’ignoto oltre che leggerlo. Questa contrapposizione, è già stato notato, rende difficile la lettura del libro, ma è anche il motivo del suo grande fascino. Mauro Curradi non trovava giusto essere paragonato a Moravia. «Moravia – diceva – quando viaggia è un meraviglioso testimone. I miei viaggi sono uno sprofondare nelle parti più scure di me stesso e della mia educazione borghese». Una pienezza indiscutibile il libro la raggiunge, senza alcun dubbio, nello stile della scrittura, apparentemente un non-stile, tanto il discorso è semplificato e diretto rispetto alla complessità della storia: risultato cristallino di molte riscritture nell’impegno ostinato della riduzione necessaria. Eppure, anche Curradi, il Curradi degli anni Sessanta, ha avuto i suoi virus e le sue febbri: si chiamano Genet e il Durrell del Quartetto di Alessandria, per fare due esempi calzanti, ma non è rimasto niente, o è rimasto poco dell’uno e dell’altro nel suo lavoro. In Via da me, certe situazioni, certi personaggi, perfino certi snodi dell’intreccio, possono ricordare Genet, ma nella sostan- Copertina di Gli ermellini, il primo romanzo di Mauro Curradi, pubblicato da Carucci nel 1954. za e nella scrittura non c’è traccia del misticismo erotico genetiano e dei suoi melismi barocchi. U omo colto in maniera disordinata, e a volte perfino irrispettosa, sia dei canoni, sia della negazione dei canoni (erano gli anni del Gruppo 63), le sue fonti le riconosceva non sempre nei libri, coll’eccezione del Camus de Lo straniero, del Nizan di Aden-Arabia, e degli italiani Palazzeschi e Tozzi: ammetteva il portato determinante del cinema nella sua narrativa. Considerava Rossellini un creatore cinematografico assoluto, e non solo quello di Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero, ma soprattutto quello da lui prediletto, in tempi non ancora influenzati dalle mode della Nouvelle Vague, di Europa ’51, Viaggio in Italia, La paura. Accanto a Rossellini c’era il grande cinema americano, quello di un Howard 43 La biblioteca del viaggiatore L’editore Beniamino Carucci al telefono in uno schizzo di Mauro Curradi. Hawks, ugualmente capace di rendere insuperabile la commedia in Susanna (Bringing Up Baby), come il noir più cupo de Il grande sonno. Aveva, quindi, dei miti femminili, la cui bellezza e i gesti sono più volte citati nei suoi romanzi: Katharine Hepburn, Bette Davis, Carole Lombard. Quando Mondadori nel 1970 pubblica Via da me, Curradi ha appena lasciato il posto di vicedirettore all’Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma, iniziando un lungo pellegrinaggio fra università e istituti di cultura, in sedi lontanissime tra loro e in qualche modo contrapposte: dopo Stoccolma, Addis Abeba, Nuova Dehli, Tel Aviv, Tunisi. Apparentemente sembra interrotto il lavoro di scrittore, ma non è così. La realtà dell’Etiopia non può lasciarlo indifferente. Vive esperienze diverse, osserva, prende appunti, scrive lettere agli amici. Chi scrive, insieme a Juan Romàn, è stato il destinatario di una corrispondenza intensa e regolare: lettere in cui spesso c’è già l’anima di un nuovo lavoro. L’Etiopia di Mauro Curradi è un paese che vive, insieme a una orribile povertà e a una mancanza endemica di democrazia, un periodo di grande crisi politico-istituzionale: sono gli anni in cui si prepara la caduta dell’imperatore 44 Hāyla Sellāsē, delle rivolte studentesche e della conseguente presa del potere dei militari. Il punto di osservazione dell’autore è il campus universitario, in cui vive un gruppo di professori con le loro famiglie e le loro amicizie, di origine europea o americana, emarginati di lusso, se paragonati agli emarginati che popolano le strade della città, in un paese che la conquista e la breve colonizzazione italiana ha lasciato in mezzo a troppi problemi irrisolti. Cera e oro, il nuovo romanzo di Curradi è una delle poche testimonianze sul dopo della guerra d’Etiopia, ma è anche altro: ancora una volta è l’incontro-scontro di civiltà diverse, opposte, che sono costrette a convivere, seppellendosi nella miseria, o fingendo di vivere in una recita replicata fino a una tragica noia. L’evocazione di un gesto, disegnato da una star dei Trenta (Hepburn, o Davis, o Lombard) còlto a volo nella memoria, permette all’autore di dare vita a una figura femminile perduta in una giungla di lontananze subite. Il suo bisogno di un’eleganza più rituale che reale, in un mondo che non può offrire altro che ferite e miseria, è patetica quanto assurda, ma non ha il cinismo della borghesia. Anche la citazione di una musica ha lo stesso scopo, rivela lo stesso istinto di conservazione, che non può essere ottenuta dall’uso – la parola è quella – dell’amore e del sesso, il cui valore è negato dal rifiuto programmato di essere psicologicamente coinvolti. Gesti, dunque, cenere di vita, riferibili più alla colonia internazionale che al narratore, testimone di altro, che tuttavia non escludono le sue abdicazioni, le sue cadute. Cera e oro ha avuto, dopo tanti anni di assenza dell’autore dall’Italia, una serie di complesse vicissitudini editoriali, attribuibili anche al disinteresse del nostro paese, troppo spesso distratto e a volte ostile nei confronti del suo passato recente o meno. Pubblicato da Meridiano Zero nel 2002, con un’accurata e acuta presentazione di Sandro Lombardi, attore e scrittore, e da una nota di Giacomo Trinci, ottiene un notevole successo di critica. Non solo si torna a parlare di Mauro Curradi scrittore, ma si riconosce con argomenti sicuri che è un autore tra i più significativi della seconda metà del Novecento. Il riconoscimento e l’attenzione costante di studiosi e critici lo spinge a far pubblicare i suoi libri: nonostante il silenzio, non ha mai cessato di scrivere. Per la prima volta si lascia intervistare, parla di sé, del suo lavoro, delle sue preferenze. Ed è anche una compensazione, questa, a certe delusioni legate al ritorno definitivo a Roma, città che, dopo tanti anni, ha trovato svuotata di amici e interessi condivisibili. Cera e oro colpisce per l’impietosa rappresentazione di una miseria umana irrimediabile, di cui sono vittime soprattutto i bambini, per la forza polemica che nega l’illusione di un cambiamento dopo le lotte generose degli studenti e la detronizzazione dell’ Imperatore per mano dei militari; affascina per il ritratto grandioso e a tratti ironico di un Hāyla Sellāsē alla fine del suo lunghissimo cammino, per l’amara definizione dei cosiddetti Ferenhi, cioè gli Europei, gli Americani, l’Occidente salvifico in genere, che, in mezzo a una congerie di realtà molteplici e disperate, sopravvivono a sé stessi in un rituale, che li assolve per un gesto, per una parola, senza salvarli dalla giungla nella quale lentamente si lasciano soffocare, e Caffè Michelangiolo La biblioteca del viaggiatore tra questi injungled c’è anche Michele, il protagonista narratore. Ritroviamo Michele in un romanzo breve di qualche anno dopo, quasi un’appendice del precedente, Persona non grata (Edizioni L’Obliquo, 1997), resoconto in parte in terza persona in parte in prima persona – e questa oscillazione è sempre presente in Curradi, come già è stato detto – di un viaggio di Michele nello Yemen, con Brad, un collega americano dell’Università di Addis Abeba. L’uno ignora la realtà profonda dell’altro, pure intuendone i lati oscuri e pericolosi, il “cuore di tenebra”. Il viaggio diventa così una caccia alla verità che finisce con una scoperta di sé, dalla quale entrambi non potranno più retrocedere. Il romanzo ha una conclusione angosciosa. Michele, allontanando brutalmente un bambino affamato dalle attenzioni pedofile di Brad, vuole veramente salvarlo o, con un esclusione apparentemente giusta, vuole anche, o solo, vendicare una sua esclusione patita nell’infanzia e imposta dalla madre? N elle grandi città, per innato camaleontismo, la borghesia italiana perde la sua esatta connotazione, sfumandosi tra populismo e affettazione di un’idea astratta di nobiltà. Adotta linguaggi mimetici, con un naturale istinto istrionico, in sé negativo, ma inattaccabile in superficie. È per questi trasformismi che Curradi preferisce stanarla e coglierla nella provincia più realizzata e efficiente, in città dalla ricchezza codificata e remota, nata da un’antica laboriosità: provincia che, sebbente offuscata nella sua qualità originaria, sopravvive alle cadute nella forza di un intervento brutale contro l’agire degli altri. Piccolo modello, o modello in piccolo, di una spregiudicatezza oggi ovunque diffusa, anzi, con parola di uso attuale, globalizzata. I racconti giovanili di Città dentro le mura (Carucci, 1957) puntavano l’obbiettivo su Lucca; Junior, l’ultima fatica dello scrittore, sulla laboriosa e intraprendente Prato del secondo dopoguerra, tra exfascismo e nuovo comunismo, termini assolutamente privi di una autentica idealità, essendo il denaro e la sopraffazione nel suo nome l’ unica realtà valida, insieme alla costante paura di perderlo. L’amore, quando c’è, non è che un gioco aspro e vuoto di sentimenti, oppure una moneta in più da spendere. Così anche in Passato prossimo (Edizioni L’Obliquo, 2003), che è il precedente temporale di Junior, ma con una visione più varia e composita della borghesia italiana. Nei romanzi di ambiente borghese non ci sono bambini, o non hanno rappresentatività. Non esistono se non come fase di passaggio verso la realizzazione del borghese perfetto, affarista e spregiudicato. Certe volte, come in Junior, sono già pronti per la violenza e la sopraffazione, quindi non sono più bambini, sono la piccola copia esatta dei grandi. Nella trilogia africana diventano invece i portatori di un messaggio disperato di fame e emarginazione: ragione innegabile dei futuri naufraghi del Me- Mauro Curradi in uno scatto di Vittorio Bobbi per la copertina della edizione mondadoriana di Schiaccia il serpente. Caffè Michelangiolo diterraneo, ponte insidioso verso un’Europa di incerta salvezza. È giusto concludere con una citazione illuminante: la pagina finale di Via da me. L’asciutta evidenza della narrazione ci ricorda che Mauro Curradi è stato anche uno sceneggiatore e che il primo romanzo, Gli ermellini, è nato come soggetto per un film che non fu mai realizzato. Ore 21. Il ristorante di Tangeri. Dal posto in cui sono seduto vedo la strada, il via-vai delle macchine. Un bambino è venuto a graffiare la vetrina. Gesto delicato, supplichevole, i polpastrelli hanno lasciato sul vetro una tenera impronta. In uno dei suoi rari momenti d’allegria, Ramsis mi insegnò che chiudere il pugno e puntare il mignolo significa il rifiuto di parlare al compagno, significa escluderlo. A ripetere il gesto, il bambino raddrizza la faccia con la attonita brevità di un uccello. L’espressione si è chiusa. Fare uscire il pollice tra le dita serrate significa tregua. Il bambino è tornato a sorridere. Il gioco si ripete, si ingigantisce dentro di me. Un buio gioco. Significa che il mio bisogno di negare Ramsis, negare me stesso e seppellirmi con lui sono momenti di un rito. Il mio volto europeo ne acquista una pallida obbiettività: dovrei, in coerenza con esso, alzarmi da tavola, uscire, prendere a calci questo bambino e chiunque disturbi il mio pasto. Questo deve accadere: è il grido di un continente mostruosamente impantanato in sé stesso. Il bambino mi guarda mangiare. Aspetta. ■ Mauro Curradi in un altro scatto di Vittorio Bobbi per la prova di copertina del romanzo mondadoriano. 45 La bella Italia Una monografia di Sofia Crifò illumina una personalità dimenticata, architetto e uomo di profonda cultura, protagonista della vita artistica romana nell’epoca postunitaria VIS-À-VIS CON RAFFAELLO OJETTI di Eugenia Querci C hi era Raffaello Ojetti? Più di un lettore, forse, si porrà questa domanda. Il ricco e circostanziato volume di Sofia Crifò, Raffaello Ojetti architetto nei primi cinquant’anni di Roma capitale, recentemente pubblicato da Polistampa (2004) per Banca CR Firenze, permette di formulare una risposta esauriente che restituisce a questa figura il suo posto e il suo merito. Diremo mano a mano come e perché. Conosciamo il personaggio. Padre negletto del ben più noto Ugo, protagonista assoluto della vita culturale italiana nel primo cinquantennio del Novecento, Raffaello Ojetti (1845-1924) fu architetto e uomo di lettere al centro dell’intensa attività intellettuale e artistica di una fremente Roma postunitaria. Proprio la futura capitale del regno d’Italia gli aveva dato i natali nel febbraio 1845, accogliendo poi, nel 1871, le sue prime esperienze pubblicistiche come direttore di “Roma Artistica”, rivista mensile schierata dal lato del revivalismo neorinascimentale allora imperante. Ma l’impegno come critico e pubblicista sarà solo uno dei tanti aspetti della sua attività. Ojetti si forma come architetto sotto la guida di Luigi Poletti, pur occupandosi d’arte da ogni angolazione, pittura, scultura, incisione e arti decorative. Frequenta, infatti, gli architetti ma anche gli artisti della cerchia romana e in particolare dell’Associazione Artistica Internazionale, fortemente voluta da quel principe Baldassarre Odescalchi che tanta parte avrà nel futuro svolgimento della carriera e della personale vicenda di Ojetti. L’attività dell’Associazione, in cui Ojetti ricopre negli anni diversi incarichi, ha un orientamento preciso e per certi versi innovativo, ponendo al centro delle proprie iniziative il problema della tutela urbana e ambientale: dei monumenti, delle opere d’arte e perfino dei complessi paesaggistici, allora ancora riuniti nella categoria romantica del “pittoresco”. 46 La copertina del volume di Sofia Crifò Raffaello Ojetti architetto nei primi cinquant’anni di Roma capitale, pubblicato da Pagliai Polistampa nel 2004. Il frontespizio del catalogo Mostra della Città di Roma alla Esposizione di Torino nell’anno 1884. Dal denso incrocio di rimandi e richiami contenuti nel testo di Sofia Crifò, Raffaello Ojetti emerge come un uomo profondamente radicato nel suo tempo ma anche, in una prospettiva molto moderna, un consapevole ed appassionato difensore del bene artistico inteso come patrimonio comune, motivo di orgoglio e «fonte di perenne ricchezza pubblica». Nelle varie iniziative che lo vedono coinvolto, Ojetti si muove con piglio dirigenziale e innegabili doti di buon organizzatore, desideroso di valorizzare al meglio le risorse a disposizione delle istituzioni di cui si occupa negli anni. L’interesse costantemente rivolto alle questioni architettoniche trova un primo sbocco nella fondazione (di cui nel volume gli viene restituita la paternità) dell’Associazione Artistica fra i Cultori di Architettura (1890) che conta tra i promotori personaggi quali Ernesto Basile, Carlo Busiri Vici, Gaetano Koch, Manfredo Manfredi, Giuseppe Sacconi. Ojetti è impegnato su più fronti, e proprio la fitta e ramificata rete di amicizie che coltiva tra artisti e intellettuali dell’entourage romano gli consente di dare seguito e partecipare attivamente a diverse iniziative. Certamente va annoverata tra queste, e con particolare risalto, l’attività all’interno del Museo Artistico Industriale (mai), istituzione voluta e realizzata da Baldassarre Odescalchi che, nelle serrate pagine dell’autrice, si delinea parallelamente alla figura di Ojetti come un autorevole e decisivo protagonista della vita culturale della capitale. Noto alla società romana con il nomignolo di Don Balduccio, conoscitore d’arte e d’architettura con la passione per il teatro, ma anche imprenditore, Baldassarre Odescalchi era ricordato anche per avere sempre avuto «il ticchio di parere un originale». Il suo impressionante presenzialismo, a livello istituzionale e nell’ambito dell’associazionismo privato ai fini della tutela e dello sviluppo delle arti, ne fa un rimarchevole protagonista della vita roCaffè Michelangiolo La bella Italia mana, nel cui vorticoso attivismo s’accompagna costantemente all’altrettanto entusiasta Ojetti. Uomo colto, dal tratto elegante, sensibile alle questioni del restauro e della conservazione ma anche della buona gestione delle risorse, Raffaello Ojetti trova nell’attività del mai una delle migliori occasioni per mettersi in luce. Dopo lunghe e complesse vicessitudini, le storiche collezioni del mai attendano tutt’oggi una degna sistemazione. Ma negli anni cui ci riferiamo, la nascita di quest’istituto costituisce una novità importante nel panorama culturale italiano poiché risponde ad un impulso analogo a quello che aveva portato alla creazione, con alcuni anni di anticipo, dei «musei d’arte applicata all’industria», da quello di Londra (1852, oggi Victoria and Albert Museum) a quello di Vienna (1863). Non solo il mai offriva un vasto repertorio di oggetti d’arte che costituivano «storia vera del lavoro, nelle sue forme varie ed estetiche» ma, attraverso l’istituzione di scuole, permetteva la contestuale formazione di nuove schiere di artisti-artigiani che potevano vantare, tra i maestri, personaggi del calibro di Duilio Cambellotti e Adolfo De Carolis. Proprio all’organizzazione del mai e del suo settore didattico Raffaello Ojetti si dedicherà con passione, agendo in stretta collaborazione con Raffaele Erculei per la promozione di varie «esposizioni retrospettive e contemporanee di industrie artistiche». Anche al di fuori delle attività del mai Ojetti si muove con agio e lungimiranza nell’ambito delle iniziative espositive: una pietra miliare del- Raffaello Ojetti con Baldassarre Odescalchi (a destra), Civitavecchia, 1898, collezione Odescalchi. Caffè Michelangiolo La copertina del catalogo Primoli e gli Ojetti. Il conte, l’architetto, il letterato In occasione della presentazione a Roma, presso la Fondazione Primoli, del volume Raffaello Ojetti architetto nei primi cinquant’anni di Roma capitale pubblicato da Pagliai Polistampa (Firenze, novembre 2004) l’autrice, Sofia Crifò, ha ideato e allestito una mostra promossa dalla Fondazione stessa dal titolo Primoli e gli Ojetti: il conte, l’architetto, il letterato (13 ottobre 27 ottobre 2005). Il catalogo, realizzato con la collaborazione di Banca CR Firenze, a cura di Sofia Crifò e con due note di Massimo Colesanti, presidente della Fondazione Primoli, documenta la passione del conte Primoli per la fotografia ma offre anche una panoramica di interessanti materiali, in parte inediti, analizzati durante le ricerche dell’autrice sulla figura di Raffaello Ojetti, del figlio Ugo e delle loro frequentazioni incrociate nei salotti di Palazzo Primoli. la sua carriera è, come sottolinea la Crifò, l’ideazione e realizzazione della Mostra della Città di Roma all’interno dell’Esposizione di Torino del 1884, in cui si presentava (tramite piante, oggetti, documenti e ricerche spesso inediti) una ricostruzione della vita della città attraverso l’era antica, il medioevo e l’età contemporanea. In particolare, l’impegno di Ojetti si distingue per l’attenzione riservata alla riscoperta del trascurato volto medievale di Roma, in parte cancellato o oscurato dal perdurarvi, in ogni epoca, di quello che lui stesso riconosce come un radicato «culto del classicismo». I personaggi, i temi e le vicende legate alla figura di Ojetti e al ricco universo umano e intellettuale che gli ruota intorno, si in- seguono e si rincorrono nelle pagine della monografia, preparando gradualmente il lettore ad una conoscenza sempre più profonda degli attori, siano essi protagonisti o più defilate comparse. Si delinea progressivamente la fitta e varia rete di relazioni che garantisce ad Ojetti non solo la vivacità del suo instancabile attivismo culturale ma anche, contestualmente, una nutrita serie di commissioni in qualità di architetto ed esperto di restauro sensibile all’interpretazione storicista. “Dall’Umbria alle Canarie” recita il titolo di un capitolo, a delimitare la serie d’incarichi che lo vede coinvolto nel corso degli anni al di fuori del territorio romano: suo è il progetto di restauro (1881) per la torre nolare dell’abbazia di Fossanova, affidatogli da Giuseppe Fiorelli allora direttore generale per le Antichità e le Belle Arti; così come gli pertiene il restauro al campanile (1884) del duomo di Viterbo, il restauro e riadattamento del castello Odescalchi di Bracciano, e il bozzetto per il monumento commemorativo agli italiani morti nel naufragio del piroscafo Sud America a Las Palmas, nelle isole Canarie. Ma è certamente lo scenario romano a conferire maggior risalto alla figura di Ojetti-architetto. Lì, dove il suo nome si lega inscindibilmente a quello della famiglia Odescalchi. In particolare sono dettagliatamente ricostruite le vicende legate all’ampliamento e alla costruzione (in collaborazione, come molte altre vol- Raffaello Ojetti con il figlio Ugo. 47 La bella Italia te, con la ditta Borruso), della stioni tecnico-architettoniche, facciata su via del Corso di ma illumina anche, secondo palazzo Odescalchi (1885un carattere distintivo del suo 1889), il cui prospetto princistile serrato, la personalità e le pale, opera del Bernini alqualità umane del committenl’epoca della proprietà Chigi, te e unico abitante dell’edificio, apriva un tempo su piazza il conte Giuseppe Primoli. DiSS. Apostoli. Sempre dagli scendente dei Bonaparte, figuOdescalchi, inoltre, era stato ra stravagante dalle sfumature incaricato di portare a termine letterarie, parigino nell’animo la costruzione del palazzo di per inclinazione e consuetudifamiglia in via Vittoria Colonne di frequentazioni, il conte na, improntato, come sarà Primoli segue annoiato e quaquello sul Corso, ad una rigosi stizzito i lavori di ampliarosa affermazione dei principi mento e restauro del Palazzetdi linearità ed eleganza geo- Raffaello Ojetti. Palazzo Odescalchi, prospetto su via del Corso, inchiostro to all’Orso, commissione cui è metrica delle superfici, tratti bianco su carta azzurra preparata, scala 1:100. quasi obbligato in seguito aldal modello quattrocentesco l’esproprio comunale del giardi Palazzo Strozzi a Firenze. Se questa monumenti e al disperdimento delle me- dino del suo palazzetto e all’apertura di scelta conferma il saldo permanere del- morie che interessano l’arte, la storia e le via Zanardelli. Non mancano frizioni con l’ispirazione classicista per il “nuovo” industrie artistiche». lo stesso Ojetti, ma il risultato finale, convolto della Roma postunitaria, d’altro In più di un’occasione Ojetti inter- seguenza della compenetrazione tra veccanto si distingue per la scelta di uno verrà nelle fasi di ricomposizione e sutu- chio e nuovo edificio sulla falsariga del schema rinascimentale più leggiadro e ra del tessuto urbano lacerato da impor- modello adottato per il cinquecentesco raffinato di quello affermatosi nell’am- tanti interventi di pianificazione stradale, Palazzo Regis-Linotti ai Baullari, costibito della “febbre edilizia” che travolge come quello che disegna il nuovo asse di tuità una soluzione forse non strettamenla città alla fine dell’Ottocento e che farà comunicazione Stazione Termini-Stazio- te moderna (siamo in piena fioritura art sorgere la magniloquente, talvolta tron- ne di Trastevere attraverso il tracciato di nouveau), ma elegante e ben compenefia Roma borghese e ministeriale. Proprio Viale del Re (oggi Viale Trastevere) che trata nel contesto; in definitiva, nelle paseguendo le tracce delle attività e degli sacrifica alcune porzioni dell’antico con- role di Sofia Crifò, «una delle sue miglioincarichi di Ojetti, il testo di Sofia Crifò vento di San Crisogono. I radicali muta- ri opere». traccia efficacemente il ritmo delle tra- menti urbanistici (spesso aspramente criIl volume si chiude con un capitolo sformazioni edilizie e viarie subite dalla ticati) che si rendono necessari per la con- dedicato una volta di più al sodalizio tra città che, in molte zone, cambia volto. figurazione della nuova capitale del re- Baldassarre Odescalchi e Raffaello OjetÈ questa l’epoca di pesanti sventramen- gno, saranno all’origine di un’altra fon- ti, definitivamente cementato e configuti, della costruzione del monumento a damentale committenza per Raffaello rato attraverso l’attenta e gustosa ricoVittorio Emanuele e dei muraglioni sul Ojetti: la ridefinizione di Palazzo Primo- struzione della vicenda architettonica e Tevere, dei grandi investimenti specula- li (1904-1911) in via Zanardelli. L’au- imprenditoriale che portò alla costitutivi per nuove unità abitative, ma anche trice vi dedica un circostanziato inter- zione, in diverse fasi (1888-1924), della della nascita di teatri e musei, come Pa- vento che dà conto non solo delle que- stazione balneare di Santa Marinella, sul lazzo delle Esposizioni, della litorale laziale. L’impresa è vodefinizione del profilo ricettivo luta da Baldassarre, che acdella città per lo sfruttamento quista il terreno quasi disabidelle sue enormi possibilità tutato dall’Ospedale di Santo ristiche. Baldassarre OdescalSpirito e, senza bellicosità chi e il suo architetto di fiducia speculative, avvia attraverso Raffello Ojetti hanno una parOjetti il progetto di pianificate non marginale in questo zione di una cittadina dal caprocesso, di cui sono insieme rattere signorile e ameno. Tale attori e moderatori. Si consicarattere è ancora oggi parderi, ad esempio, il fatto che zialmente conservato, divernel 1891 l’Associazione Artisamente da insediamenti instica dei Cultori di Architettensivi quali Ladispoli, concetura, che in Ojetti aveva avupita in epoca coeva da Ladito un energico e fattivo proslao Odescalchi, fratello di motore, aveva instituito la Baldassarre. Per volere di BalCommissione speciale per lo dassarre e sotto la direzione di studio dei rioni, «incaricata di Ojetti, l’area di Santa Mariovviare alla distruzione dei Raffaello Ojetti. Palazzo Primoli su via Zanardelli in angolo con Piazza Umberto. nella, trascurata e pressoché 48 Caffè Michelangiolo La bella Italia UN INEDITO DI UGO OJETTI U Oscar Ghiglia, Ugo Ojetti nello studio, 1909-’10, olio su tela, cm 73,5 x 75,5, Firenze, coll. privata. deserta, viene bonificata in poco più di un anno e, con un tracciato urbanistico regolare, strade ampie, vegetazione rigogliosa e poche attrezzature di svago diviene un’apprezzata stazione curativa, refrattaria agli assalti dei primi turisti stagionali e riservata ad una società agiata nobile e altoborghese. Come l’autrice non nasconde, l’impianto stilistico adottato, la villa o villino, si mantiene su direttrici classiciste: una sorta di esportazione al mare di comodi modelli urbani di gusto antico. Pochi sono gli edifici di gusto liberty o in stile floreale, come villa Bettina (1906) o il villino Cerrano. Ma questa impostazione si accompagna alle intenzioni stesse su cui nasce la lo- Un articolo dedicato alla vita nella nuova stazione balneare di Santa Marinella sul litorale laziale, pubblicato sul “Giornale d’Italia”, 5 settembre 1913. Caffè Michelangiolo n inedito di Ugo Ojetti. La lettera è indirizzata a Emilio Macciò, figlio di Demostene e di Adelaide (Adele) Saladini Bezzuoli, nipote e erede di Giuseppe Bezzuoli. L’Ojetti si riferisce al ritratto che il pittore fece al Feldmaresciallo austriaco Julius Jakob von Haynau, figlio naturale di Guglielmo I, elettore d’Assia, il quale prese parte all’azione di Sommacampagna (25 luglio 1848) contribuendo alla vittoria del Radetzky e guadagnandosi poi l’appellativo di “jena di Brescia” per la crudeltà con cui ristabilì il potere austriaco in quella città e a Bergamo e Ferrara. Per quel Porträt von Haynau il Bezzuoli fu attaccato da liberali e irredentisti. Al Dupré che lo riferisce in Ricordi autobiografici (1896) il ritrattista di Elisa Baciocchi Bonaparte Giuseppe Bezzuoli (1784-1855), Ritratto di e di Maria Antonia di Niccolò Puccini, 1843. Pistoia, Museo Civico. calità, che «non fu “colonizzata” da un nuovo ceto sociale desideroso di affermare la propria immagine attraverso forme architettoniche autonome», come era avvenuto in alcuni quartieri romani. Terminata la lettura del volume, Raffaello Ojetti è ormai divenuto una figura familiare nella sua complessità: un intellettuale, un restauratore, uno storico, un architetto e l’ideatore di una messe notevolissima di iniziative culturali, siano esse esposizioni, imprese editoriali o pubblicistiche. Nonostante la grave dispersione del suo archivio personale, attraverso ricerche documentarie e bibliografiche accurate, l’autrice riannoda con intelligenza i fili della vicenda professionale e privata di Ojetti e della sua cerchia, riper- Borbone obiettò: «Un artista, quando fa un ritratto, non fa politica; se il ritrattato è un birbante, resta sempre un birbante con o senza il ritratto». L’articolo di Ugo Ojetti, intitolato Giuseppe Bezzuoli ritrattista, uscì su “Dedalo”, I, 1920. Del dipinto raffigurante l’Haynau (così come di buona parte della produzione bezzuoliana, in particolare dopo la dispersione della cospicua quadreria custodita nella villa di famiglia a Fiesole, nel 1964, dovuta all’ultimo erede) non si conosce l’attuale ubicazione. In altro scritto di Ugo Ojetti sulla pittura del Bezzuoli, si parla di un altro noto ritratto, allora non rintracciato: quello del pistoiese Niccolò Puccini, eseguito nel 1843, adesso visibile nel Museo Civico di Pistoia. m.g.p. correndola con una vena sempre vivace e uno stile limpido e risoluto. Nella sua innegabile vocazione specialistica, l’opera, raffinata anche nella confezione, fornisce una ricchissima collezione di materiali, analisi e considerazioni critiche utili alla definizione del clima culturale e dell’humus intellettuale post unitario romano e delle sue personalità. Ma allo stesso tempo il volume si concede, agile e gustoso, anche alle smanie del lettore occasionale che, balzando di paragrafo in paragrafo, si ritrova a percorrere tappe importanti di una storia relativamente recente, vivificate dall’intersecarsi di vicende, scelte e circostanze che hanno, come sempre dovrebbe essere, innanzi tutto un sapore umano. ■ 49 Le arti, gli eventi Convergenze elettive fra gli “ex-uomini” di Gor’kij e i “dimenticati da Dio” di Viani. I vagabondi della steppa, i vàgeri di Viareggio e i gueux di Parigi IL MITO DEL VIANDANTE di Piero Pacini L orenzo Viani ha la ventura di scoprire giovanissimo gli “ex uomini” di Gor’kij prima ancora di riflettere sulla sua opera, nell’esplorazione dell’ambiente viareggino fine secolo e nella precoce lettura degli opuscoli “libertari” che danno il filo da torcere ai garanti dell’ordine pubblico; successivamente, ha modo di verificare le sue impressioni e reazioni sulla letteratura europea più anticonformista, nonché alla scuola durissima della vita; ecco, pertanto, che il giovane pittore passa con piena consapevolezza dalla parte di coloro che «per insofferenza, per elezione o per sdegno, chiamano la rivolta, vogliono incenerire il mondo per rigenerarlo in un riscatto tragico» (I. Cardellini, L.V.,1978). Alla categoria degli “ex uomini” Viani associa d’impulso e a ragion veduta i lavoratori del mare scavati dalla fatica e dalla miseria, i rivieraschi che si aggirano come anime in pena sulla battigia per raccogliere i rifiuti del mare, i contadini sfruttati da proprietari avidi e impietosi, coloro che sono emarginati dalle istituzioni e dai benpensanti, i perseguitati dalla giustizia e dalla sfortuna: in una parola, tutti coloro che sono indicati come “i dimenticati da Dio”. Viani esemplifica questa visuale d’osservazione in una pittura caricata e funerea, ma anche soffusa di una struggente solitudine; e torna a trattare il mondo dell’emarginazione e della rivolta in prose a volte dirompenti, altre volte di maniera, altre volte ancora dolenti e cariche di un comunicante afflato umanitario. Storici e ricercatori di varia estrazione (dalla Cardellini al De Micheli e a Sereni, da Ciccuto allo scrivente, da Fornaciari a Rotelli) hanno indagato e precisato molti momenti di questa vicenda biografica e dell’evoluzione stilistica. Le prime opere, che sono commentate dalla critica militante e da qualche coraggioso esploratore degli eventi figurativi più eccentrici, portano i segni di una temperie disagiata e allarmata: nei disegni 50 Enrico Sacchetti, Ritratto di Maksim Gor’kij (da: “Avanti della Domenica”, n. VII, Anno III, 19 febbraio 1905). esposti alla Biennale di Venezia del 1907, l’amico anarco-socialista Luigi Campolonghi ravvisa la «tragedia di una turba innumerevole, disseminata per tutte le strade e per tutte le pianure del mondo […] pronta a sbucare con l’arma e col fuoco da tutti gli antri della crosta terrestre»: una lettura, questa, decisamente partitica, che però coincide con la visione apocalittica di redenzione sociale che Emile Zola sigla nel finale di Germinal, laddove i minatori sono paragonati a «un esercito nero vendicatore, che germoglia lentamente tra le zolle, crescendo per le raccolte del secolo futuro, e la cui germogliazione farà in breve scoppiare la terra». Campolonghi segnala Viani con la definizione a doppio taglio di “pittore della plebe italica”: una definizione, questa, che agli inizi non sembra dispiacere al viareggino puro sangue che si adopera per rivelare, giorno dopo giorno, una realtà trascurata o sommersa; e sulla stessa linea è anche l’amico Giulio Arcangioli che, a commento degli esiti pittorici più recenti, nel 1910 scrive: «i tipi che Viani dipinge o incide con segni rudi sulla carta, sono gli eroi della strada e della rissa, tosati dal vizio e arsi dall’alcool, quelli che conoscono i giacigli dei fossati di tutto il mondo, sono i vagabondi e gli insofferenti. Essi hanno nei loro occhi l’ardore di un fuoco che sembra e non sembra domato, par che l’anima vi si accenda e vi si spenga, mentre tutto il resto del corpo è in sfacelo […] essi sono quasi tutti viandanti, perché anche lui è un viandante; non come il Rousseau che andava per impieghi e per signore, ma come Gorki. La sua vita errante per elezione e per sdegno lo spinge tra i ritrovi dei vagabondi; è bevendo della loro vita che egli prova una gioia belluina e feroce a dipingere tutto ciò che si disgrega». Il riferimento a Gor’kij non è occasionale, ma acquista una peculiare valenza in quanto il nome di questo scrittore figura tra coloro che ringraziano per il dono dell’album antimilitarista Alla gloria della guerra!, edito dalla Camera del Lavoro di Parma nel febbraio del 1912; come è noto, gli autori di questa pubblicazione – Alceste De Ambris e Viani – sono processati dalla magistratura parmense e, a sostegno del loro operato, “l’Internazionale” pubblica i pareri espressi da autorevoli esponenti del mondo politico, tra i quali Gor’kij (sull’argomento v. E. Rotelli in: G. Bruno - E. Dei 2000). Il nome dello scrittore russo rimbalza ancora in una lettera che Viani invia nel 1913 all’amico Franco Ciarlantini per dissipare alcuni equivoci motivati dalla restrittiva definizione di “arte sociale” che taluni applicano alla sua opera: «Lo spirito della mia arte?! – scrive – Discesa la mia famiglia al piano, da una delle colline che circondano Lucca, credo sia restato in cuor mio un vago senso di pellegrinare, concepite le cose traverso un trauma psichico forse in esse rimane Caffè Michelangiolo Le arti, gli eventi sempre un’impronta mortale. Poi la conoscenza di forme di letteratura: Dostoieski, Gorki e Korolenko […] Credo che la fonte di ogni ispirazione sia la strada, chi non è stato vagabondo non può affermare l’intimità delle cose mie. Bisogna i viandanti averli veduti, accosciati sotto un pagliaio». Gli accenni al “pellegrinare”, alla “strada”, ai “viandanti” e al “vagabondo” confermano già di per se stessi che una delle fonti letterarie che hanno sostenuto Viani è sicuramente costituita dai Vagabondi di Aleksej Maksimovic Peškov – più conosciuto con lo pseudonimo di Gor’kij, vale a dire “l’amaro” –, lo scrittore di Novogord che ha rivestito un preciso ruolo culturale e politico all’interno della casa editrice Znanie denunciando i silenziosi drammi di tanti fratelli oppressi ed umiliati. Per questa presa di posizione l’autorità zarista lo tiene d’occhio: nel 1901, a seguito della pubblicazione del Canto della procellaria – in cui è prefigurata la rivoluzione –, lo scrittore è arrestato e confinato in Crimea; nel 1902 viene respinta la sua candidatura a membro dell’Accademia delle scienze; nel 1905, a seguito di una ennesima manifestazione antizarista, è di nuovo arrestato. Lo sdegno degli amici e della sua gente è grande, ma anche all’estero pun- La copertina (firmata R. Bideri) del romanzo I vagabondi di Maksim Gor’kij nella edizione italiana illustrata dalla Casa Editrice F. Bideri di Napoli, 1914. Caffè Michelangiolo Lorenzo Viani in un ritratto del 1908 ca. tuale e sentita è la reazione della stampa progressista. Il settimanale socialista “L’Avanti della Domenica” del 19 febbraio 1905 sottolinea prontamente «l’ingiustizia che oggi colpisce Massimo Gorki e l’incertezza del suo domani minacciato» e pubblica ben tre ritratti dello scrittore firmati da Sacchetti, da Maiani e da Biasi; quello del Sacchetti – insolitamente fiero e dolente – s’impone sugli altri per un’aurea di martirio che sembra precorrere la sintesi figurativa “pop” e il piglio accentrante delle immagini del Che Guevara dei nostri giorni. Nonostante il largo plebiscito di solidarietà, lo scrittore è costretto a prendere la via dell’esilio: intraprende un lungo viaggio, ma solo nell’isola di Capri, circondato dall’affettuoso sostegno di un numero sempre più grande di estimatori, trova finalmente un po’ di pace ed organizza un centro di propaganda rivoluzionaria. Il ricordato settimanale romano pubblica diverse sue novelle; di pari passo il nome di questo scrittore costituisce il fiore all’occhiello di due popolari editori napoletani. Entro il 1905 la Società Editrice Partenopea stampa due testi fondamentali di Gor’kij, Rivoluzione e forzati, e Amor di proletario; queste pubblicazioni rappresentano dei veri e propri eventi editoriali in quanto l’autore fonde felicemente l’elemento autobiografico con quello sociale fornendo notizie di prima mano sul- le fredde crudeltà operate sui deportati in Siberia, e portando alla ribalta i silenziosi drammi dei ceti più bassi. Un ulteriore interesse per questi volumetti, stampati in dignitose vesti editoriali, è conferito dalle buone traduzioni di Federico Verdinois e – cosa inusitata per l’Italia del tempo – per l’esposizione delle idee sociali dell’autore, esponente di spicco del dissenso politico in Russia. Anche l’editore napoletano F. Bideri opera una oculata scelta dei testi stampati dalla casa editrice moscovita Znanie, e li diffonde in agili volumetti corredati di buone illustrazioni e distribuiti a prezzo contenuto. Nel 1914, nella “Biblioteca varia” di questo stampatore figurano non solo i ricordati Vagabondi – oggetto di numerose e ravvicinate ristampe – ma tutta una lunga lista delle opere di Gor’kij: I Tre, I Decaduti, Vania, Racconti della steppa, Angoscia, Teatro (Piccola Borghesia, Bassi Fondi, Asilo dei Poveri), Fascino, L’albergo dei poveri, L’Ambasciatore e Tempesta. Nella stessa collana figura anche un altro scrittore umanitario citato da Viani, Korolenko con L’America. Nonostante che l’informazione sia alquanto frenata dalla censura ufficiale oltre che dalle convenzioni e dai messaggi tranquillizzanti del ceto borghese, l’edi- Illustrazione (non firmata) tratta da I vagabondi edito dalla Casa Editrice F. Bideri di Napoli nel 1914. 51 Le arti, gli eventi toria italiana è alquanto attenta alle esplorazioni sociali dei francesi, come alle indagini psicologiche e ai messaggi umanitari dei russi: il feuilleton di Sue va a ruba, ma si vendono bene anche i romanzi di Zola, di Tolstoi, di Turgenieff e di Gor’kij; ed ecco che tutti questi nomi entrano nelle collane più diverse, senza alcuna questione di diritti, con copertine Lorenzo Viani, Tipi di Parigi, 1908-1909, acquerello e carboncino su carta applicata su tela, cm 99 x 69. Collezione privata. improntate al gusto decorativo più avanzato e con traduzioni più o meno fedeli: basterà ricordare, oltre agli editori ricordati, le edizioni G. Laterza di Bari, Lombardi, Muletti e C. di Milano, la Nerbini di Firenze – che, tra il 1903 e il 1906, pubblica Nei bassi fondi, Piccoli borghesi e Un anno di rivoluzione in Russia –, la Società editrice Milanese, Madella e C., Editrice Bietti di Milano ecc. Libri come I vagabondi o La steppa sono riproposti, a breve distanza, da questo o quell’editore. La distribuzione capillare e a prezzi popolari dei libri di Gor’kij permette anche a Viani, notoriamente alla fame, di precisare la sua cultura umanitaria; ma si presume anche, dati i contenuti prevalentemente sociali di questi romanzi, che egli ne sia venuto a conoscenza attraverso la Camera del Lavoro – quanto mai sensibile alle voci della protesta e del dis- 52 senso – o saccheggiando le biblioteche degli amici più fortunati (non ultimo il figlio del suo maestro, che gli accende la mente con il resoconto della “Comune” e che gli parla di Parigi come della “città degli uomini liberi”). Giulio Arcangioli (1910) informa che, in una lettera di solidarietà inviata a Viani, Gor’kij confessava di aver provato davanti ai suoi disegni «una grande e dolorosa gioia nostalgica»: questo documento epistolare non è stato rintracciato, ma, data la sconsiderata dispersione dell’archivio dell’artista, non è da escludersi che possa essere stato occultato da qualche fanatico collezionista di autografi; è comunque un dato di fatto che tra Gor’kij e Viani correva più di un’assonanza di sentimento e più di una convergenza d’intenti. Sulla scia dell’Arcangioli, la Cardellini ha sottolineato come il motivo del viandante (o del vagabondo che dir si voglia), sviluppato da Viani nel corso della sua intensa stagione figurativa, sia già presente nel “mito” del vagabondo coltivato da Gor’kij fin dagli inizi della dissidenza politica e negli anni dell’esilio; e, a dimostrazione di questa tesi, riporta alcune frasi significative delle raccolte I vagabondi e Nella steppa, alle quali se ne possono aggiungere tante altre: «Così bisogna vivere… andare, andare; qui è tutto. Non restare a lungo nello stesso posto… Come il giorno e la notte corrono eternamente inseguendosi intorno alla terra, corri, evadi dalla vita quotidiana e non cessare di amarla»; « Si va e si vede sempre qualcosa di nuovo e non si pensa a niente… Il vento ti soffia incontro e si direbbe cancelli ogni polvere della tua anima. Ci si sente liberi e leggeri»; oppure: «La mia libertà io non la darei per qualsiasi donna, per qualsiasi capanna. Io sono nato sotto un portico, e sotto un portico morirò, questo è il mio destino». Accorata è anche la confessione di un soldato affamato che trova un po’ di consolazione ai suoi guai contemplando le stelle: «…Amo questa vita vagabonda, amico mio. – dichiara – Si soffre il freddo, la fame, ma si è liberi… non si hanno padroni!… le stelle mi ammiccano come per dirmi: non scoraggiarti, amico Sakontine, va sempre più lontano e non temere chicchessia. Si, si, ciò fa bene al cuore!». Il protagonista di questa novella è uno dei tanti randagi che percorrono in lungo ed in largo le distese sconfinate della steppa desolata con poche speranze di sopravvivenza, ma che conservano intatto, in fondo al loro essere, il sentimento di una terra più generosa della solidarietà dell’uomo. I brani riportati – anche se enucleati dal loro contesto – sono già sufficienti per stabilire che, pur militando in ambienti diversi, sia Gor’kij che Viani sono Lorenzo Viani, Cieco, 1913, pastello su cartone, cm 99 x 69. Collezione privata. affratellati dagli stessi sentimenti e comportamenti dell’eterno adolescente, dal rifiuto delle convenzioni e delle costrizioni, e dalla simpatia istintiva e viscerale per i miserabili e per gli indifesi. Uno stretto fil rosso sembra unire le loro esperienze parallele. Le fila aggrovigliate di queste due tribolate esistenze si dipanano in una durissima esperienza di vita. Gor’kij s’incarna nel “vagabondo” per antonomasia: prima di raccogliere le sue idee nell’esilio caprese, si è spostato in cento luoghi adattandosi ad un’infinità di mestieri (è stato, via via, pittore di santi, sguattero in un piroscafo, aiutante cuoco, garzone di un giardiniere, fornaio, scaricatore e spaccalegna; e poi ancora guardarobiere, venditore di mele cotte, segretario di uno studio notarile, operaio in un’officina, giornalista e tante altre cose ancora; ma, in ogni tempo, è stato compagno e sodaCaffè Michelangiolo Le arti, gli eventi le dei mendicanti e della gente senza fis- Giulia, ridimensionerà alquanto queste apparenza, senza speranza. Viani ritorna sa dimora). Viani, a sua volta, dopo es- posizioni incendiarie). con insistenza sugli stessi motivi: indaga sere stato uno studente decisamente svoIn effetti, per tanti anni il messaggio i volti segnati dal lavoro più duro e dalla gliato e un precoce fiancheggiatore dei anarchico lo fa sentire più vicino alla miseria; con un segno aggressivo scava i randagi e degli “sgalerati” più incalliti, gente più umile del suo ambiente, ai di- corpi degli sfaccendati e dei vagabondi è stato anche un anonimo raccoglitore sadattati, agli emarginati che ha modo di che si aggirano senza meta sul litorale e ai di straccàli e dei rifiuti del mare, garzone incontrare tra il molo ed il Casone di tri- margini dell’abitato; il suo occhio rapace di un barbiere acceso di idee anarchiche, ste memoria, e ai gueux che dormono coglie in profondità il significato di uno una “testa calda” da inviare alla Torre sotto i ponti della Senna o che si aggira- sguardo o di un gesto subitaneo; il suo raMatilde, un pittore dicato umanitariautodidatta e un smo riscatta la recalcitrante alliequerula appariziovo alla Libera ne di un mendicanScuola del Nudo; te e il fatale deamma le cose che bulare di un cieco. l’hanno tenuto in In questa progresvita ed acceso la siva esplorazione sua mente sono dei soggetti rifiutastate soprattutto le tati tanto dalla culletture dei testi tura ufficiale quanumanitari e libertato dal gusto borri che i casi della ghese, Viani è semvita e gli uomini pre più vicino ai hanno messo sulla compagni di strada sua strada, le tante (dichiara di sentirore in cui ha bevuli “nel sangue”). to avidamente le Ma la fratellanidee degli anarchici za elettiva di Viani e la protesta incencon Gor’kij è favodiaria dei frequenrita ancora dal raptatori della Cameporto che questi ra del lavoro. stabiliscono con le Nel Figlio del manifestazioni bepastore – che costinefiche del creato tuisce la sua testiin quanto, nei momonianza autobio- Lorenzo Viani, Viandanti, 1907-1908 ca., pastello su cartone applicato su tela, cm 68 x 83. Collezione privata. menti in cui sono grafica più veritiepiù attanagliati ra – dichiara esplicitamente: «Il mio no nei pressi dello squallido dormitorio dalle necessità o si scoprono più indifesi, mondo era quello degli infelici, verso di della Ruche. entrambi sentono il bisogno di appartarloro mi sentivo portato da un sentimenViani giovinetto fa disperare la madre, si e di cogliere il significato dei “segnali” to di fraternità e di ribellione»; la testi- che cerca di correggerlo con grandi tira- dell’ambiente naturale. In siffatte condimonianza postuma Il Romito di Aquileia te d’orecchie e che lo minaccia di «ap- zioni entrambi riscoprono le stelle che rafforza questa confessione: «L’anarchi- penderlo al gancio» o di farne “tonnina” pulsano nel blu profondo della volta cesmo coronato di fiamme riscaldò la mia (espressione viareggina probabilmente leste o che s’impongono ai loro occhi anima. Compresi subito, senza leggere riferita alla mattanza dei tonni); spesso è come freddi chiodi dorati; avvertono i tanti libri, che l’individuo può affermare uccel di bosco e la sera non rientra a casa flussi benefici del vento e delle stagioni, il proprio io, imporlo, anche a colpi di pi- (nelle memorie racconta di aver dormito scoprono la vastità sconfinata delle piastola […] Cosa sarei stato io, da 15 a 25 molte notti sul pietrame del molo o sul nure e degli orizzonti, respirano l’alito anni, senza l’entusiasmo della rivolta e fondo di un barcone): la sua sete di li- salso della marina e ne ascoltano il redella distruzione? Una barca senza ti- bertà è, talvolta, più grande dello svisce- spiro ora disteso ed ora profondo; colgomone a discrezione del vento […] Le dif- rato amore che porta al padre che, dopo no lo sciabordio dell’onda che si frange ficoltà erano per me il superare tutte le il licenziamento, è sempre più l’ombra sull’arenile. leggi borghesi, distruggere, rinnovarle»: di se stesso, e alla madre che, per effetto Nel breve romanzo La steppa Gor’kij ovviamente, Viani rilascia una dichiara- della miseria, da opulenta ed “oceanica” colora il mare e i fiumi di una voce prozione di fede legata alla mutevole “tem- che era, si è “spolpata” ed è divenuta pria, profonde negli elementi le tante peratura” degli avvenimenti del tempo secca e “gialla” (l’aggettivazione è, ov- sensazioni degli uomini: nella seconda (il confronto con il più equilibrato dis- viamente, quella significante di Viani). novella si legge del «dolce mormorio delsenso di Ceccardo Roccatagliata CeccarIl suo mondo figurativo si nutre degli le onde sulla sabbia», nella terza noveldi e con lo spirito realistico della moglie “incontri” di questa stagione sofferta e, in la di un fiume che «si frangeva con fraCaffè Michelangiolo 53 Le arti, gli eventi casso sulla riva come se volesse soffocapre, folli e sussurranti […]; “Il mare si re i singhiozzi del vecchio, colla sua voce era svegliato. Scherzava ora con le sue profonda»; la terza novella prende l’avpiccole onde; le faceva nascere, le orlava vio dal mare che sonnecchia («immenso, d’una frangia spumeggiante, le spingeva sospirando pigramente lungo la spiagl’una sull’altra e le faceva sprizzare in un gia, s’è addormentato, tranquillo nella pulviscolo acqueo. La schiuma, svanensua vasta distesa, bagnata dai raggi azdo, crepitava e sospirava, e tutto intorno zurri della luna. Nero e dolce come il era pieno d’un ritmo musicalmente gorvelluto trasparente delle nuvole immobigogliante. L’oscurità pareva animarsi». li dall’aspetto di bambagia, si confonde Per i vagabondi e i mendicanti di col cielo azzurro del sud […] Sembra Gor’kij anche la steppa acquista, per efche il cielo si pieghi sempre più in basso fetto del vento che l’accarezza e che la sul mare, come se desiderasse comprenflagella, aspetti imprevedibili fino a r vedere ciò che mormorano fra di loro le lare voci e suggestioni indefinibili (in alonde infaticabili che, con un aspetto adtre parole, è l’immagine stessa della lidormentato, si arrampicano una dopo bertà cui aspirano gli oppressi e i persel’altra sulla riva»); ed ancora: «Il mare guitati); il mare è poi una presenza deciaccarezza la spiaggia e le onde fanno un samente amica in quanto, nel solipsismo rumore così dolce e melanconico, che delle frequenti e prolungate contemplasembra chiedere il permesso di venirsi a zioni, prospetta al vagabondo e al perseriscaldare al braciere […] Raghim conguitato orizzonti più lontani, terre e monfronta già le onde alle donne e suppone il di in cui è possibile sopravvivere ed asloro desiderio di abbracciarsi», «…le saporare la libertà. onde minacciose si urtavano sulla riva. Lorenzo Viani, Moglie del marinaio, 1912-’15 ca., Dalle opere di Gor’kij, l’artista viaolio su cartone, cm 96 x 68. Collezione privata. Nei loro ruggiti echeggiava la canzone reggino assorbe questo sentimento lirico del fiero uccello; le onde tremavano sote panteistico dell’ambiente naturale, ma to l’urto e al suono di quel selvaggio con- labbra argentee e lucenti […] Il cielo era di volta in volta lo riprova sugli eventi e certo, il cielo si caricava d’uragano». La felice d’essere radioso, il mare felice di ri- sulle attese che più coinvolgono la sua settima si avvia con questa immagine: flettere quella gloria di luce»; più avan- gente; per le tante creature umiliate che «Un vento umido e freddo soffiava dal ti: «e il mare rideva, scherzando coi ri- frequenta il mare continua ad essere il mare portando nella steppa la melodia flessi del sole, e innumerevoli onde rina- loro unico sostegno ed anche una presognante delle onde […]»; e si chiude scevano per correre verso la riva, la- senza consolante. Viani ha presto nel con l’immagine del mare che «cantava sciarvi la schiuma delle loro creste e ri- sangue anche questo mare che culla le una litania funebre» per i protagonisti tornare al mare, dove sparivano»; ed an- barche e che palpita di luci smeraldine di un amore disperato. Nell’ultima no- cora: «Le onde sorridevano come sem- (è «la meraviglia del Creato» scrive a vella il rumoreggiare Soffici del ’14). del mare sembra esseTalvolta accade, re un tutt’uno con i però, che anche sulla mormorii, i sospiri e i steppa si addensino baci degli umani; altre nubi di piombo e che volte è evocato menil viandante si ritrovi tre rumoreggia «sordo sperduto e scoraggiato e lamentoso». al centro di una natuIl mare assume la ra ostile e funerea; valenza di deuteragocosì pure capita, a nista anche nei ricorViareggio, che il canto dati Vagabondi, se ne suadente e benefico rileva qualche esemdel mare si tramuti in pio nella novella d’atun lamento e in una tacco: «Il mare era minaccia ineluttabile: tutto un sorriso. Al talvolta si impone soffio caldo e leggero «torbo come ceneracdel vento, palpitava, cio» e foriero di svensi copriva di pieghe ture; Viani lo sente sottili, che riflettevarombare, sibilare e reno il sole con vividi ed spirare con affanno; la abbaglianti riflessi, e spuma che si riversa rideva al cielo azzurri- Lorenzo Viani, Cortile della Ruche, 1925 ca., pastello, tempera e olio su cartone, cm 70,5 x 105. sulla spiaggia, gli no con le sue mille Collezione privata. sembra una «trina in- 54 Caffè Michelangiolo Le arti, gli eventi tignata» (si rileggano, che, nel largo respiro a questo proposito, le proprio della pittura pagine più ispirate del murale, ripropongoFiglio del pastore e di no tante impressioni Angiò uomo d’acqua). di quella lontana Le più recenti moesperienza. stre sull’artista hanno La felice collazioriservato ampio spazio ne pittorica di questi alla rappresentazioframmenti di memone del mare nei suoi ria lascia intendere aspetti più consolatori che alla rabbia e alod allarmati: anche il l’analisi spietata degli visitatore più distratto anni giovanili è suserba memoria delle bentrata una visualizmarine siglate da una zazione più distaccata solarità mediterranea degli avvenimenti, e e da una ventata toniche il pathos pittorico ficante di colore (Visiopuò avviarsi anche ni vagabonde, Vele dalla rappresentaziorosse e gialle, …) ne di tanti modi di escome di quelle sorrette sere, piuttosto che da un sentimento pie- Lorenzo Viani, Effetto grigio (veliero), 1930, olio su tavola, cm 35 x 50. Collezione privata dall’esasperazione dei no e disteso dell’esicaratteri fisionomici. stenza (Georgica, Buoi in riva al in ambito nazionale ed internazionale dei Sopravvissuto all’incubo del conflitto mare, …); e così pure ha presente le dar- modi vianeschi (problema, questo, avan- mondiale, Viani dimostra di aver fatto sene fangose o impregnate di catrame, gli zato dalla Cardellini – 1978, p. 305 – e tesoro della ricchezza di sentimento che effluvi sulfurei e le tinte irrespirabili del- ripreso, con qualche esito positivo, da gli ha rivelato la poesia dell’amico Cecle tempeste. Claudio Giorgetti nel 1994, in un con- cardo Roccatagliata, come della doloroA Viani, come a Gor’kij, il mare s’im- fronto tra la grafica del nostro pittore e sa umanità dei silenziosi ed umiliati “ex pone indipendentemente dalle caratteri- quella di Kähte Kollwitz). uomini” di Gor’kij: ed ecco che dal coastiche ambientali, talvolta come un emMa la ricchezza di sentimento che cervo delle impressioni depositate nel blema di benessere e di libertà ed altra Gor’kij ha trasfuso nei romanzi e nelle fondo della memoria riemergono, provcome un’atavica condanna o come un’u- novelle di maggior successo continua ad videnziali, le immagini di un altro albertopia irrinunciabile: gli “ex-uomini” del- agire nel profondo di Viani anche a di- go dei poveri, di cui ha letto in gioventù le sconfinate lande russe e i “vàgeri” e i stanza di tempo: nel 1926, sfruttando le nel romanzo I bassifondi di Gor’kij. Quedisadattati del litorale viareggino sono emozioni ridestate dalla stesura del ro- sto meditato affresco dell’umanità più accomunati dalla stessa, inesplicabile manzo Parigi e rivisitando alcuni disegni indifesa lo ha colpito profondamente per sorte; la casistica è sterminata. eseguiti durante il soggiorno terribile – le analisi estreme dei personaggi; ed ecco Si segnala infine un’ulteriore conver- ma sempre presente – alla Ruche, il pit- che, per effetto del sentimento nutrito e genza di intenti tra gli illustratori di tore mette mano al grande quadro L’al- regolato dall’esperienza, il convegno dei Gor’kij e la grafica di Viani: lo spirito bergo dei poveri e Nel cortile della Ruche tanti “dimenticati da Dio” nel cortile del sombre e la tavola provvisorio asilo, al tratto “Tescelkaperde quel sapore sce” dell’edizione sulfureo che, sulla Bideri dei Vagascia del Doré, artibondi ripropongosti come Delacroix no, ad esempio, le e van Gogh hanno atmosfere e il ducespresso nelle rontus grafico di certi de dei carcerati, e disegni che il viasi configura più reggino esegue tra propriamente coil 1907 e il 1909; me un emblema si avanza, a questo della solitudine più proposito, il procosciente e di quelblema di una cola solidarietà che mune matrice gratarda a spegnersi fica o quello, più persino nelle creaprobante, di un rature più umiliate e pido accoglimento Lorenzo Viani, Vele rosse e gialle, 1913-’14 ca., tempera su tela, cm 188 x 380. Collezione privata. provate. ■ Caffè Michelangiolo 55 Le arti, gli eventi Dalle rappresentazioni letterarie alle restituzioni figurative erotismo e bellezza al Museo degli Argenti di Palazzo Pitti a Firenze LE FIGURE DELL’AMORE di Anna Maria Piccinini D ue stipetti in legno con calchi in ceralacca e gesso bianco, impronte di cammei e intagli erotici (in tutto più di centoventi pezzi), conservati al Museo degli Argenti di Palazzo Pitti e pochissimo noti se non ai conservatori e agli studiosi, hanno dato l’idea ad Ornella Casazza con Riccardo Gennaioli di valorizzare questo e altro materiale, di specifico uso privato, audacemente ed elegantemente scabroso, per una piacevolissima e pur erudita mostra; mostra che è venuta via via allargandosi a oggetti, incisioni e pitture di altre provenienze, connesse a un tema che affonda le sue radici, come sottolinea il titolo: Mythologica et erotica, nella classicità greco romana. L’autore, in effetti un po’ galeotto, di questi calchi e impronte, fu Cristiano Dehn (Yssedom 1696-Roma 1770): un tedesco naturalizzatosi romano che ebbe bottega nella città dei Papi, specializzato nella produzione di spintrie su ampia scala (cioè soggetti osceni raffigurati in calchi o su medaglie di bronzo). Codice normalizzante di tutte queste rappresentazioni è il Mito che – come afferma Antonio Paolucci nell’introduzione al catalogo – definisce un confine all’interno del tema erotico, di per sé suscettibile di variazioni e interpreta- Annibale Carracci, Venere e Cupido, 1591-1592, olio su tela, cm 110 x 130, Modena, Galleria Estense. 56 La copertina (particolare di Amore e Psiche, II sec. d.C., marmo lunense, h. cm. 100, Firenze, Uffizi) del catalogo a cura di Ornella Casazza e Riccardo Gennaioli, Mythologica et Erotica, allestito per la mostra al Museo degli Argenti (ottobre 2005-maggio 2006) a Pitti, pubblicato da “sillabe”. zioni le più diverse e complesse, a seconda di tempi e luoghi, da Oriente a Occidente, da quelle religiose a quelle psicanalitiche. Il Mito è il velo aulico che permette di raffigurare, anche nell’ambito culturale post classico, gli eterni turbamenti dell’eros in maniera spesso cruda e sessualmente esplicita, altrimenti inaccettabili nella società colta ed elegante cui erano destinati. Testo ispiratore di quasi tutta la glittica antica e neoantica sul tema furono le Metamorfosi di Ovidio che raccolsero gran parte della ricchissima tradizione mitologica precedente, specie di età ellenistica e tolemaica, quando, anche il romano Antonio amò farsi ritrarre nelle vesti di Dioniso o di Ares, con Cleopatra nel ruolo di Afrodite. I cammei di allora furono preziosissimi, incisi su pietre rare da maestri famosi e giunti a noi fortunosamente, dopo la caduta dei Tolomei, dalle raccolte imperiali romane attraverso il collezionismo mediceo: basti pensare alla Afro- dite su ippocampo del Museo archeologico di Napoli, siglata come ex gemmis di Lorenzo il Magnifico. Àncora di salvezza di questi piccoli gioielli, nella perigliosa navigazione attraverso i secoli, fu certo la loro preziosità e segregazione nel privato. Nei momenti più difficili, dominati dalla morale cristiana dei primi secoli, molte gemme furono riciclate per usi sacri e, nel Medioevo, si attribuirono loro poteri taumaturgici e protettivi che in parte le preservarono. Comunque, proprio dalle rimostranze di alcuni Padri della Chiesa contro l’usanza di portare anelli con incisi soggetti erotici, possiamo dedurre che la tradizione fu pervicace. C he cosa significò nel mondo antico il ricorso alla narrazione e alla rappresentazione delle avventure amorose degli dei, dalle più patetiche alle più sessualmente manifeste? In primis viene forse il piacere del racconto, come nell’viii libro dell’Odissea, dove al banchetto di Alcinoo, re dei Feaci, si narra degli amori clandestini di Afrodite ed Ares e dell’inganno loro teso dal tradi- Artista della metà del secolo XVI, Ganimede nell’Olimpo, con Venere, Giove e l’aquila, metà del secolo XVI, cammeo in agata calcedonio, contorno d’oro con due maglie, lunghezza cm 5,4 x 4,1. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Caffè Michelangiolo Le arti, gli eventi lo rapì che aveva il fiore seducente dell’adolescenza e lo trasportò sull’Olimpo, dove ne fece un dio. Dunque non ti stupire, o Simonide, se anch’io sono apparso vinto da passione per un bel giovinetto. Quindi, se anche gli dei s’innamorano – dice a sua volta Properzio – «se non c’è stato nessuno che abbia vinto le armi del fanciullo alato – perché mai solo me si ritiene colpevole di una colpa comune?». La communis culpa, insomma, umana e divina, assolve quasi del tutto. M Bartholomäus Spranger (Anversa 1546-Praga 1611), Venere nella fucina di Vulcano, dopo 1607, olio su tela, cm 140 x 95. Provenienza probabile dalla Kunstkammer dell’Imperatore Rodolfo II a Praga. Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldgalerie. a non è questo l’unico senso da ricercare nelle favole mitologiche a sfondo erotico: il mito adombra anche il tragico destino dell’uomo e i tentativi per sfuggirgli con compensazioni to Efesto, che costiuirà un topos per i secoli avvenire: Efesto, abilissimo fabbro, tende catene «sottili come tele di ragno» intorno al letto degli adulteri i quali, dopo il piacere, cadono addormentati restando in trappola e costituendo, perciò, motivo di riso per tutto l’Olimpo. I dulcia furta sono fra i temi prescelti della poesia d’amore che rivendica – Catullo in testa – i diritti del sentimento e la libertà degli amanti. Del resto, fin da Esiodo (Theog. 120-122), Eros è forza primordiale e generatrice: Ancor oltre si spinge Teognide, (v-vi sec. a.C.) che proclama la sua assoluta libertà in fatto di amori: Caffè Michelangiolo che, almeno in Ovidio, sembrano consolatorie: il voler narrare le mutatas formas sottintende le infinite possibilità della natura di trasformarsi sia per salvezza, sia per una punizione che, in qualche modo, “scarta” la morte in quanto nulla assoluto. Altrettanto si presta, la mitologia, all’esaltazione del potere, tema assai caro all’età rinascimentale. Emblematica, in questo senso, è la storia di Apollo e Dafne. La volontà della ninfa di non accedere al desiderio del dio comporta una fuga atterrita che si conclude nella metamorfosi: è vittoria o sconfitta? Il poeta non lo lascia intendere, eludendo il problema e concentrandosi sulla leggiadria della trasformazione, ma certo la fanciulla deve rinunciare a se stessa: da ninfa diviene pianta. Non si deve dimenticare l’arroganza del dio: Ma sappi a chi piaci […] […] Non sai impudente, non sai a chi fuggi, e per questo fuggi… Io regno sulla terra di Delfi […] Giove è mio padre. Io sono colui che rivela futuro, passato e presente […]. […] La medicina l’ho inventata io e in tutto il mondo guaritore mi chiamano, perché in mano mia è il potere delle erbe. … Eros, il più bello fra gli dei immortali, che rompe le membra, e di tutti gli dei e di tutti gli uomini doma nel petto il cuore e il saggio consiglio. È dolce amare giovinetti, se una volta di Ganimede s’innamorò anche il figlio di Crono, il re degli immortali: Specchio in bronzo con scena erotica e cornice con segni zodiacali, fine del I secolo d.C., bronzo a fusione e a sbalzo, diam. cm 16,7. Roma, Antiquarium Comunale. Marcantonio Raimondi, Figura femminile in atto di eccitarsi, Stoccolma, National Museum. Anche se poi la conclusione è patetica e di resa a Cupido. 57 Le arti, gli eventi Ma, ahimé, non c’è erba che guarisca l’amore, e l’arte che giova a tutti non giova al suo signore. Sarà Lucrezio a trasmetterci, nel iv libro del De rerum naturae, l’immagine della forza travolgente dell’Eros come autentica tragedia per la sua inafferabilità: Infatti proprio nel momento del pieno possesso […]. Premono stretta la creatura che desiderano, infliggono dolore al suo corpo […]. Quando infine con le membra avvinte godono del fiore della giovinezza […] comprimono avidamente i petti […] e ansimano mordendosi a vicenda le labbra; invano, perché nulla possono distaccare dalla persona amata, né penetrarla e perdersi con tutte le membra nell’altro corpo. P er quanto in genere più sorridenti e venate di sottile umorismo, è innegabile che le favole erotiche portino in sé tale forza destabilizzante: si potrebbe dire che la riduzione a immagini fantastiche fra umano e sovrumano abbia funzione scaramantica nella con- Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino, Satiro che rapisce una ninfa nuda, 1635-1640 ca., olio su tavola, cm 25 x 20, Milano, collezione privata. sapevolezza che eros è un incendio difficilmente domabile, se si scatena. Del resto anche là dove i soggetti mitologici sono improntati ad un Eros più quieto, come ad esempio in alcune pitture di Pompei che vediamo in mostra, non è facile individuare i significati attribuiti a certi miti nell’antichità. Si può trattare di dipinti augurali per la fertilità e benessere della famiglia o di esibizione di un raggiunto stato sociale. Nel Rinascimento i soggetti mitologici furono ricercatissimi sia nella sta- Giuseppe Cades, Ratto di Proserpina (part.), Firenze, coll. privata. Non in mostra. 58 tuaria che nella glittica. I princìpi italiani avevano preziose dattiloteche di gemme incise, che venivano usate anche come spille da cappello, quando si affermò questa moda. Per influsso della stampa, poi, si diffusero esemplari di incisioni licenziose in cui si impegnarono artisti di primo piano quali il Parmigianino e Agostino Carracci o incisori specializzati nel genere erotico come il bolognese Marcantonio Raimondi e il veronese Giangiacomo Caraglio, confortati anche da certa letteratura che aveva nell’Aretino il suo capofila. La più conosciuta e scandalosa raccolta di questo genere di stampe furono I Modi del Raimondi, su disegni di Giulio Romano che, decisamente pornografici, lo condussero in galera per un certo tempo. Le incisioni sono,ovviamente, di ottima qualità (Raimondi era stato anche alla scuola di Raffaello), di libera invenzione, pur ispirandosi a modelli classici, come il famoso Pannychis, il sarcofago del museo nazionale di Napoli, che rappresenta una festa in onore di Priapo, da cui Marcantonio ricava l’idea per la Figura femminile in atto di eccitarsi. Naturalmente questo tipo di “carte”, erano destinate a una circolo ritretto di collezionisti, sia per i prezzi, sia per l’occhiuta censura della Chiesa. Il veronese Gian Giacomo Caroglio, nello stesso torno di anni e con altrettanta libertà, esegue la serie degli Amo- Arte romana, Gruppo di Satiro e Ermafrodito, I secolo d.C., marmo bianco, h. cm 100, base cm 91 x 58, Oplontis, Villa di Poppea. Caffè Michelangiolo Le arti, gli eventi Giuseppe Bezzuoli, Amore che vince la Forza, già nella collezione eredi Parri, Fiesole. Non in mostra. ri degli Dei su disegni di Rosso Fiorentino e Pierin del Vaga, con intento pur sempre erotico anche se, nel caso di amori divini seguiti da metamorfosi o ascese al cielo, come nella vicenda di Ganimede o di Callisto trasformata nella costellazione dell’Orsa, si vollero ricercare simbologie platoniche o cristiane: Danae investita dalla pioggia d’oro di Giove parve simboleggiare l’annunciazione e il concepimento di Maria. Più tardi, in epoca post tridentina, e quindi in tempi difficili per certo tipo di stampa, sarà Agostino Carracci, con le sue Lascivie, a scansare la censura, a difendere l’indipendenza dell’artista e gli interessi degli editori che, certamente, da questo genere di “fogli”, allora come sempre, ricavavano lauti guadagni. Oltre agli straordinari tesori di glittica e grafica di cui sopra, la mostra espone molti oggetti decisamente erotici, spesso con significati apotropaici, nonché dipinti o sculture che colgono il significato allegorico dei miti di sog- getto amoroso. Rientra nel primo caso il marmo del Fallo leonino, alto 140 cm e risalente al i-ii sec. d.C., acquistato dal Cardinal Leopoldo de’ Medici nella seconda metà del Cinquecento ed esposto agli Uffizi coperto, per lungo tempo, da una testa di leone in cartapesta per la crudità del soggetto. In antico era stato probabilmente dedicato al culto di Priapo, come sembrano suggerire anche i piccoli amuleti fallici che lo circondano a corona. Altrettanto dicasi per le piccole lucerne in bronzo con statuette itifalliche, ritrovate sull’architrave di due botteghe a Pompei: sono piccole sculture, ingegnosamente costruite in modo da sfruttare la forma itifallica sia come lampada sia a scopo scaramantico. Fra i dipinti, che sono pur sempre la parte più appariscente della mostra, troviamo lo splendido Amor sacro che punisce l’amor profano di Giovanni Baglione, che riporta alle aspre contese fra Baglione, Orazio Gentileschi e Caravaggio: contese che, aguzzando l’ingegno del Baglione, gli fecero creare una delle figure alate più fulgide del secolo. Lo stesso soggetto fu trattato da Guido Reni, con risultati altrettanto mirabili: la figura di Amore, un nudo maschile casto quanto incredibilmente bello, brucia le frecce di Cupido volendo significare che la Virtù vince l’amore sensuale. Con maggiori implicazioni filosofiche e allegoriche Pontormo dipinse una Venere e Cupido, su cartone di Michelangiolo, quadro straordinario non solo per il sorprendente effetto dei colori pontormeschi sul tratto buonarrotiano, ma per la figura androgina di Venere che reca in sè complesse problematiche, rese esplicite dall’Aretino in una sua lettera: Guido Reni, Amor sacro e Amor profano, prima metà del secondo terzo del secolo XVII, olio su tela, cm 132 x 163. Genova, Palazzo Spinola. nico e presente in mostra in varie versioni: su cammeo, realizzato da un disegno di Michelangiolo (già collezione Farnese), in sculture, in disegni (Tiepolo). A quadri famosi dette origine anche la favola del rapimento di Europa da parte del toro-Giove, rappresentata dal Cavalier d’Arpino per il cardinale Scipione Borghese, in un piccolo delizioso formato, certo oggetto di godimento estetico più che di lezione moralizzante. In ogni caso la mostra offre l’occasione di ammirare una seducente serie di dipinti, tutta centrata sul tema che il titolo richiama, da Annibale Carracci a Luca Giordano; artisti, questi, felicemente abbandonati – specialmente il primo – nel ritrarre la bellezza sensuale dei corpi, tanto da farci dimenticare ogni significato che non sia quello della grande virtù della pittura. ■ Il prudente uomo […] ha fatto nel corpo di femmina muscoli di maschio [poiché la figura è] “mossa da sentimenti virili e donneschi” [e] diffonde le proprietà sue nel desiderio dei due sessi. Luca Giordano, Bacco e Arianna, olio su tela, cm 203 x 246. Verona, Museo di Castelvecchio. Caffè Michelangiolo Molto diffuse, nel Cinquecento e oltre, furono, come accenavamo, le rappresentazioni degli episodi di rapimenti, primo fra tutti quello di Ganimede, assurto a simbolo di elevazione dell’anima all’empireo in senso neoplato- Paolo Fiammingo, L’Età dell’Oro, olio su tela, cm 160 x 260. Vienna, Kunsthistorisches Museum. 59 Le arti, gli eventi Per i suoi settant’anni, età che traccia una nuova inquietudine sulla tela, «in attesa del dramma» come scrisse il suo amico Giovanni Raboni SEI DOMANDE A GIANCARLO OSSOLA conversazione di Alberto Pellegatta I n occasione della sua ultima mostra a Milano, presso lo Studio d’Arte del Lauro, abbiamo incontrato il maestro Giancarlo Ossola, pittore che ha attraversato da protagonista il secondo Novecento, amico di Vittorio Sereni e prefatto, nel 1996, da Giovanni Raboni. L’occasione coincide con i settant’anni dell’artista e ci invita a raccogliere, con questa conversazione, una testimonianza importante. Giancarlo Ossola non cerca il consenso, lavora nel silenzio di via Pastrengo, a Milano, di notte, alla luce dei neon, quando i grandi finestroni dello studio si accendono e il pittore applica per prime le categorie prospettiche, creando la sintassi dell’opera, per poi dissolvere nel gesto “riscaldato” l’intenzione, focalizzando lividi e luci riflesse su oggetti incantati. È un progresso nel chiaro, come se la Giancarlo Ossola, L’Angelo notturno, 2005, olio su tela, cm 70 x 50. 60 Giancarlo Ossola. Giancarlo Ossola è nato a Milano, dove vive, nel 1935. Ha frequentato l’Accademia di Brera e la Scuola di Pittura del Castello Sforzesco. Dopo la precoce suggestione di Sironi, Morandi e de Pisis, di Soutine e Van Gogh, il contatto coi pittori del Realismo Esistenziale, nonché una prima conoscenza dell’Espressionismo e dell’Informale, segnano una svolta verso opere di segno forte e concitato. Tiene la prima mostra personale nel 1961 al Salone dell’Annunciata di Milano, presentata da Mario De Micheli e, nel 1963, vince il Premio San Fedele. Nella sua attività espositiva partecipa, tra l’altro, dal 1963 al 1984, alle Biennali di Milano alla Permanente e a “L’Opera dipinta”, curata da Arturo Carlo Quintavalle presso il CSAC dell’Università di Parma e la Rotonda della Befana di Milano. Ha svolto attività di critico per i giornali e per la Radio Svizzera. luce fosse la materia stessa del tempo, granulare, come se le particelle accelerassero il loro movimento in corrispondenza dei suoi settant’anni, età che traccia una nuova inquietudine sulla tela, provocando una continua suspense, come Simenon o Hitchkock, in una geometria definita e raggelata, dove anche la luce ricorda Kubrick. Anche in un interno “talcato” (Tolusso) il segno si fa via via nervoso e depistante. Una ricerca costante, quella di Ossola, sulle possibilità stesse del mezzo pittorico, e non come squisito esercizio di stile ma come indagine sui significati intravisti nelle cose: gli oggetti compongono la scena, ma è lo sguardo ciò che il pittore ci propone, non le cose. L’angelo della notte benedice il tavolo e le sue bottiglie diventano, finalmente, una luna sconsacrata. Sulle scrivanie si depositano “gli strumenti umani” e le sedie conservano residui di chi se ne è già andato. I pavimenti sprofondano in altre storie, in paesaggi sognati tra corpuscoli di luce, briciole, polveri, descritte come presenze lampeggianti. Simboli sospesi e lirici di un lampo che Giancarlo Ossola, Testa-città, 2001, olio su tela, cm 40 x 30. Caffè Michelangiolo Le arti, gli eventi sembra entrare dalle finestre ma che è già dentro le cose. E i panorami che si allargano improvvisi sulle pareti, come muffe e macchie enigmatiche, contengono fascinazioni fiabesche, come le cornici che sono interfacce su altri mondi. I laboratori, le fabbriche, le officine non sono le tristi retoriche dell’abbandono, dell’archeologia, ma si riaccendono di colori che farebbero la gioia dei bambini. Ossola sta indagando una geometria non euclidea, in cui i piani stessi della prospettiva, le tante porte, gli angoli, i mobili diventano schermi su altre visioni, partecipando però compatte alla struttura complessiva. Negli anni Settanta Giancarlo Ossola lasciava che la materia stessa rifondasse il paesaggio, e che il lato misterioso degli oggetti popolasse la tela per descrivere le stanze, riaffiorando dai freddi siderali della mente per sovrapposizione, stratificazione di colore su colore, fino alla luce frontale di certe città assiderate. Oggi compie settant’anni e il tempo trascorso ha permesso al pittore di indagare profondamente sia i luoghi che i linguaggi, ritrovando antiche ossessioni. Ma è come se la temperatura fosse cambiata, da quegli anni nervosi a questa grazia potente ma inquieta. Nell’immagine degli interni sembra Giancarlo Ossola, Spiaggia, 2003, tempera su c arta a mano, cm 50 x 70. che Ossola sia interessato a mostrare la caduta, il lento ma inesorabile precipitare delle cose sui pavimenti, in una specie di deposizione laica. Ossola ci depista, è più che mai estraniante, nascondendo dietro alla quiescenza il delirio che disorienta, il thriller. Descrive l’ansia e l’opacità contemporanea con grande efficacia. Gli oggetti non sono didascalie di un ricordo sentimentale, ma trasfigurano conservando qualcosa di chi li ha usati e magari non ne è neppure sopravvissuto. La pittura è il luogo del miracolo e indaga le possibilità dell’immagine, lasciandola emergere dalla caverna dell’incontrollabile, del mistero, quando ancora è una forma paleolitica per l’intelligenza, ma potentissima per intensità evocativa, e così la afferra nell’intenzione del momento, sapendo controllare quel magma che affiora dall’interno. ri fuoco, ai depositi degli interni, alla nascita degli oggetti, fino ai grandi cieli assiderati dell’hinterland. Raccontaci però come li hai vissuti quegli anni, quale ricordo hai dell’ambiente culturale. Ricordo Valsecchi e l’Annunciata, la mia galleria, la Bergamini. Lo stimolo a dipingere era continuo e vio- Sei domande Giancarlo Ossola, Luce-sentimenti, 2006, olio su tela, cm 90 x 60. Caffè Michelangiolo Il tuo compleanno evoca un’assonanza inevitabile: i tuoi anni ’70. Quel periodo è stato vivacissimo, nel tuo percorso di rifondazione della scena, per la potenza del gesto come per la fragile precarietà lirica dei tuoi fondi tesi. Dagli omaggi a Seghers, alle teste al centro del panorama e insieme fuo- Giancarlo Ossola, Inverno, 2004, olio su tela, cm 70 x 50. 61 Le arti, gli eventi Brera, ero socialmente “escluso”, studiavo in solitudine. Certo conoscevo i maestri, visitavo le gallerie, ho conosciuto pittori e critici di valore. Milano era un interno. Per quanto riguarda l’aspetto mondano, io allora uscivo con le impiegate. Si andava a mangiare nelle latterie del centro o si veniva all’Isola, dove suonavano e c’era un famoso cantastorie. In parte mi hai già risposto ma che cosa è cambiato oggi, oltre trent’anni dopo? Mi riferisco anche alla riproducibilità dell’arte, al pubblico della pittura, al mercato, alle gallerie, alla critica. DE PISIS A BRESCIA Filippo de Pisis (Luigi Filippo Tibertelli de Pisis), nato a Ferrara nel 1986, laureato in lettere a Bologna, è morto a Milano nel 1956. Per il 50° anniversario il Museo di Santa Giulia di Brescia ha ottenuto il prestito delle trenta opere della collezione Mario Rimoldi, l’albergatore di Cortina d’Ampezzo che fu uno dei grandi amici dell’artista. Prima poeta e poi pittore dalle sottigliezze coloristiche di tipo nordico in particolare nei paesaggi londinesi del ’35 e del ’38, a Parigi dove rimase per una quindicina di anni derivò dagli impressionisti e dai fauves (ma in questo senso già era stato grandemente influenzato dallo studio del Guardi) una sorprendente sensibilità all’immediatezza e alla liquidità del tocco, rapido e acceso. La esposizione bresciana si chiuderà a fine marzo. Fra le opere figurano tre pezzi forti: il Soldatino francese (sopra), il Moro di Harlem, la (celebre) Chiesa di Cortina. a cura della Redazione lento. A vederle oggi quelle tele… i paesaggi che dialogavano con le profondità del mio cervello, quella era ricerca viva. Le teste attraversate dalla città! La pittura è usare un linguaggio antichissimo per far lampeggiare visioni del nostro tempo. Occorre di nuovo un po’ di lucida follia. La pittura è anche storia dell’uomo per immagini. L’inquietudine di allora, il fermento intellettuale erano qualcosa di evidente. Ricordo soprattutto i quadri. Io dovevo lavorare e non avevo molto tempo per frequentare i caffè di 62 Le cose sono peggiorate, la quantità ha decisamente prevaricato sulla qualità. C’è un problema di identità specifiche: i critici si sono sostituiti ai pittori. Comunque non sarà certo LES GRANDS DÉBRIS A TORINO Tra Sei e Settecento si cimentano nella figurazione paesaggistica alcuni fra gli artisti che tengono il grido: da Poussin a Guercino, a Pannini, a Vanvitelli. E compaiono anche quelle rovine classiche che diventeranno subito un genere di successo. Insieme a quelle di vedutisti quali Bellotto e Canaletto, le loro opere si possono ammirare a Torino fino al 14 maggio 2006, presso la Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli. (Sopra, un olio – Il canale, 1754 ca. – di Hubert Robert, 1733-1808, parigino di Roma dove venne al seguito dell’ambasciatore di Francia, conte di Stainville). a cura della Redazione OTTOCENTO ITALIANO A RIETI A Rieti, a Palazzo Potenziani, è in corso fino a tutto febbraio una rassegna delle opere di artisti italiani dell’Ottocento presenti nelle collezioni private e pubbliche della città: da Fattori a De Nittis, a Boldini, Guardi, Zandomenighi. Punto di forza, ecco la novità, i quadri del “non noto” (oltre la cerchia degli addetti) reatino Antonio Calcagnadora (sopra, un suo olio), morto nel 1925. a cura della Redazione un’epoca debole come la nostra a cancellare secoli di storia dell’Umanità per immagini. Oggi siamo costretti a registrare una crisi, si può solo immaginare che i tempi di recupero saranno piuttosto lunghi. I pittori ci sono ma sono messi nelle condizioni peggiori per lavorare. Ora tutti, scrittori e artisti, sono sulla stessa barca. Gli occhi devono vedere direttamente la pittura, e i giovani non possono pensare di studiare su delle foto, la riproduzione grafica non è in grado di riconoscere neppure i colori. Una buona critica, competente e di alto profilo, migliorerebbe senza dubbio Caffè Michelangiolo Le arti, gli eventi il mercato e la qualità del pubblico. Il mercato però spinge nella direzione pubblicitaria, da vetrinista. Torno alle tue immagini. Ci sono alcuni luoghi che sembrano ricaricarsi, che rivisiti periodicamente, come per esempio questo Angelo della notte. Cosa hanno questi temi di particolare? Sono luoghi, come quel cortile, che godono di una vitalità prolungata, che ritornano ciclicamente, sono la somma di diversi elementi che si riaccendono ogni tanto, vengono dall’inconscio, sono spazi profondamente vissuti, forse condanne. Sono serbatoi del fantastico e del reale insieme. La fotografia è più appropriata al tuo temperamento di un modello in carne e ossa? Per vent’anni ho dipinto senza foto, senza neanche guardare, “a occhi chiusi”, creavo degli impianti spaziali per dare la prospettiva e solo più tardi mi sono accorto che si era strutturato uno spazio tutto mio, spesso circolare. Quando il colore di fondo era ricettivo inserivo degli oggetti “automatici”, che stavano dentro e fuori la scena. La mia personale metamorfosi mi ha poi portato all’uso della fotografia. I pittori si dividono tra chi ha usato la fotografia come studio, per esempio Bacon con Muybridge, e chi non lo ha mai fatto. Poi c’è anche chi l’ha praticata, come Balla, Wols, Munch, Kirchner e Delacroix. L’uso della fotografia sostituisce lo studio dal vero del pittore, anche se i primi telai quadrettati sono già del Cinquecento, e Canaletto usava una camera oscura primordiale. Seguo il lavoro di alcuni fotografi, come Mimmo Jodice, ma anche fotografie scattate dai pittori, come quelle di Wols. In ogni caso sono io che scelgo e taglio, che centro un particolare o metto a fuoco un’immagine. L’utilizzo della fotografia non implica l’ibrido, la libertà è diventata licenza. La fotografia mi ha permesso di completare interi cicli sui luoghi, come per Villa Arconti o le fabbriche abbandonate che fotografiamo con un amico scavalcando le recinzioni. Purtroppo anche la stampa non è più la stessa, certa carta e certe macchine non venCaffè Michelangiolo LEONARDO AGLI UFFIZI dal 28 marzo 2006 N el corso degli ultimi cinquant’anni si è assistito non solo a un numero crescente di mostre su Leonardo, ma anche all’inaugurazione di una serie di musei (Vinci, Milano, Amboise) dedicati a illustrare le sue più sensazionali invenzioni. Tranne rare eccezioni, le esposizioni su Leonardo si sono sempre concentrate su uno, o pochi, dei molteplici ambiti a cui Leonardo ha rivolto con successo la propria attenzione: l’arte, l’anatomia, le scienze, la tecnologia, ecc. Queste esposizioni sono state inoltre corredate da ricostruzioni in modello di dubbia attendibilità e di scarso valore educativo, perché concepite unicamente allo scopo di suscitare scalpore, esaltando il carattere precorritore delle scoperte di Leonardo. Per superare queste visioni limitative e correggere la tradizionale tendenza a frammentare la personalità di Leonardo nei diversi campi con i quali si misurò, l’Istituto e Museo di Storia della Scienza, la Soprintendenza per il Polo Museale e la Galleria degli Uffizi di Firenze, hanno promosso una mostra di tipo innovativo dal titolo gono neanche più prodotte. C’è un impoverimento dell’immagine, e l’ipertrofia tecnica certo non aiuta. I nuovi macchinari di stampa vengono cambiati ancora prima che qualcuno sappia usarli. Sembrano esistere due categorie di quadri nella tua produzione recente, quelli misurati che solo nel particolare sprofondano nei regni del sogno, e quelli più istintivi e violenti. Ce ne parli? Non ci sono due canoni, è la stessa opera, per ogni quadro disegno prima le geometrie e le architetture sullo sfondo, prendo le misure per riscaldarmi. La mente di Leonardo. La mostra si propone, innanzitutto, di focalizzare l’attenzione sul fatto che l’intera produzione di Leonardo, pur nella sua infinita varietà di argomenti e direzioni di ricerca, è caratterizzata dall’unitarietà dei criteri di concettualizzazione e dei metodi d’analisi. Questo rappresenta senz’altro l’aspetto più originale e affascinante del suo contributo e spiega in maniera eloquente il fondamento oggettivo della definizione largamente acquisita di Leonardo come “genio universale”. Nella mostra è esposta una serie di documenti e di opere originali: disegni, pitture e manoscritti di Leonardo; opere di artisti e scienziati contemporanei. L’esposizione degli originali è integrata da efficaci strumenti didattici: riproduzioni ad alta definizione, modelli funzionanti costruiti con rigore e con tecniche e materiali storicamente plausibili, stazioni digitali che danno accesso a contenuti interattivi, visualizzazioni virtuali di opere perdute di Leonardo. a cura della Redazione Poi qualcosa si muove, dopo la calma assopita mi viene fretta. Ciò che mi interessa è riuscire a andare in profondità col gesto, per pescare in un serbatoio misterioso. In questo Tiziano Vecchio è decisamente gigantesco. L’altra parte – proprio come quella di Kubin – completa le misure, è parte del congiunto. Concludo chiedendoti se la pittura può sopravvivere in una società dove la cultura è spettacolarizzata? La pittura continua e, forse proprio per la crisi che attraversa, è anche un’interprete privilegiata del nostro tempo. ■ 63 L’idea e la forma Ingegnere e urbanista, allievo di Michelucci e sodale di Zevi, Luciano Ravaglia ha ideato e costruito in Italia, Somalia, Finlandia, Argentina, Marocco, Svezia, Austria LO SCOMODO INNOVATORE di Elio Garzillo Solness Tutto quello che ho potuto fare, costruire, creare… di bello, di intimo, di raccolto… e anche di nobile… (Stringe i pugni) Oh, è un pensiero spaventoso…! con la volontà di sfuggire alla quotidianità, riuscendo a godere di preziose pause spirituali, pur all’interno di un’attività altrimenti davvero frenetica (come se il talento avesse bisogno di essere sostenuto dall’allenamento…). Ibsen, Il costruttore Solness P iù che un profilo biografico – che rischia di ridursi ad un (nel nostro caso lunghissimo) elenco di dati ed esperienze – è opportuno delineare un ritratto del tecnico e dell’artista Luciano Ravaglia, così da coglierne anzitutto lo spessore intellettuale e culturale, mettendone in evidenza i risvolti più personali, le frequentazioni, gli intendimenti e le riflessioni, gli incontri decisivi. Ci si muove, in tal modo, fra capi di Stato e ambasciatori, filosofi e vescovi, ministri e tecnici, percorrendo il mondo intero lungo entrambi gli emisferi (davvero una vita in movimento). Tutte frequentazioni importanti per la sua complessa personalità, per l’uomo di idee, per l’uomo di azione, per il fine diplomatico. Un progettista, filosofo ed artista, capace di ampliare la nostra concezione di città e civiltà in un lavoro che oscilla fra il pensiero astratto e il fango dei cantieri, fra laboratori di prove sperimentali e pragmatiche conferenze dei servizi, firmando ogni disegno, ogni dettaglio, assumendo anche responsabilità che i committenti esitano a delegare. In Ravaglia, l’originario senso di aggregazione di cose e persone, di manufatti e contesto, diventa come un magma perennemente attivo: dal profondo del pensiero, il senso dello spazio risale ed esige di farsi realtà e concretezza, mentre le forme si precisano man mano senza perdere nulla dell’essenzialità del segno che, per primo, si era posto il concreto obiettivo della formazione di princìpi logici in grado di essere sviluppati e applicati. Schivo, geniale, e comunque estraneo ad ogni forma di star system, Lu- 64 L Una delle vedute ad acquarello allegate alle tavole di progetto del gruppo Bartoli, Gamberini, Focacci (cfr. Adriana Toti, “I Ciompi”, in Firenze 1945 1947, Alinea 1995) presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze. Dopo la non felice sortita (“grottesca” l’ha definita Cesare de Seta) di alcuni architetti italiani avversa alla irruzione di omologhi stranieri, non immotivata apparirebbe una retrospettiva (una “rilettura”, come già la sollecitava Alessandro Gioli in uno scritto del ’95 nel ricordare Michelucci e le vicende della ricostruzione post bellica) di quelle idee e di quelle forme che nel secondo Novecento hanno reso celebre nel mondo la progettualità italiana, da Milano a Osaka, da Nervi a Piano. In tale temperie creativa la quale ha determinato quella svolta che è stata chiamata Italiana Style, si inserisce l’attività di Luciano Ravaglia, sviluppatasi per un cinquantennio in Italia e in buona parte del mondo. ciano Ravaglia ha prodotto progetti e idee che raccontano come la semplicità e i segni possano essere enigmatici e sapienti, rispettosi della natura e dell’uomo, da decifrare con la dovuta attenzione, e in ogni caso senza la pesantezza dei sempre in agguato astrattismi teorici. Per ritrovare regole in un’epoca in cui tutto sembra possibile, per creare architettura come spazio utile a facilitare le relazioni fra le persone, per una città come luogo di socializzazione e di affetti, contro la città-merce. Un innamorato del passato che rifiuta ogni passatismo, ogni culto del ricordo, spesso o stile della sua architettura nasce da un articolato tessuto fatto di ragione e passione, lungo un filo progettuale continuo e coerente, fin dagli ormai lontani esordi, frequentando il luogo arduo e inospitale della decisione etica e anche dell’azione politica, su una via senza stazioni conclusive, nel labirinto della memoria ma senza penalizzare il desiderio di immaginare e plasmare l’avvenire. Provando a muoversi fra tutto ciò che quest’uomo ha pensato e fatto in quasi cinquant’ anni di lavoro, si comprende cosa vuol dire il tempo necessario a una complessa progettualità: che non è semplice questione di date, ma è soprattutto il costante equilibrio fra la capacità di accennare al futuro e quella di diventare storia. Contribuendo molto, in tal modo, al lavoro di altri architetti, anche con le esemplari partecipazioni a concorsi, i cui esiti – peraltro – spesso esemplari non sono stati. Architettura è progetto puro, con voglia di realizzarsi e desiderio di reinventare il mondo: per Ravaglia l’architettura può dare orgoglio e stimoli nuovi a una società in cui città e territori sono sempre più densi di nodi irrisolti; può far intravedere la speranza di un futuro migliore, realizzando opere eleganti e belle, armoniche per colori e linee. L’architettura non è più ex-machina, ma audacemente e micheluccianamente ex-natura, superando in scioltezza (anzi: con impazienza) attriti e resistenze impliciti nei processi di innovazione o cambiamento. Ingegnere, ama come pochi architetti quell’esercizio salutare che è l’operare su scale diverse, facendo sposare architettura e arte (archiscultura, secondo Caffè Michelangiolo L’idea e la forma la dizione di Maurizio Fagiolo: si veda anche La forma delle idee in “Caffè Michelangiolo”, a. ix, n. 2, maggio-agosto 2004, pag. 38). Se architettura e arti visive sono attività sorelle (con i relativi odi familiari), che si sono influenzate, intrecciate e sovente sovrapposte, Ravaglia adotta spesso forme e strutture proprie di entrambe, facendo saltare Luciano Ravaglia con Raúl Alfonsín (a sinistra), presidente della Repubblica argentina. Luciano Ravaglia, romagnolo, opera nel campo dell’architettura, della pianificazione territoriale e delle metodologie di sviluppo sulle grandi aree. In Lombardia è stato consulente della Presidenza per il Piano territoriale regionale; presidente della Commissione per la Cartografia Regionale, Centri Storici, grandi progetti. Rappresenta la Regione per quattro anni nella Commissione grandi infrastrutture a Innsbruk, in Canada al Congresso onu (1975) sugli insediamenti umani. Capo progetto e supervisore scientifico del più grande piano europeo di sviluppo integrato (territorio di 1000 kmq. dei 75 comuni dell’Oltrepò Pavese). Incaricato dal Governo somalo del Piano della capitale Mogadiscio (1979). Inviato dal Ministero esteri italiano in Argentina (1987) per il piano di trasferimento della Capitale e per la catalogazione del patrimonio culturale di origine italiana. Altre progettazioni esecutive particolari: l’interporto di Parma Ce.P.I.M., l’Aeroporto intercontinentale di Agadir in Marocco. In Argentina per Raúl Alfonsín ha eseguito gli studi di progetto per il recupero ed il restauro della “Galerias Pacifico”, uno dei più grandi edifici dell’800 al centro di Buenos Aires. Allievo di Michelucci, per quasi vent’anni è stato stretto collaboratore di Bruno Zevi. Caffè Michelangiolo ogni (ipotetico) confine fra i due generi. In un intreccio evidente, perché l’architettura – nella sua opera – è diventata una forma plastica, in piena contiguità con la materia e la creatività, riuscendo comunque a evitare interventi autocelebrativi o architetture impossibili che tendano a imporsi solo per il loro clamore e la loro condizione estrema. Provando una forma di naturale ritrosia di fronte a opere che più che simboli tendono a essere logotipi realizzati con un fine pubblicitario o a città che, consegnate alla pura economia, sono il riflesso degli interessi degli imprenditori: una naturale avversione, insomma, verso l’architettura schiava dei media o del capitale o, peggio, di entrambi. Schivo, scontroso, a volte col piacere della solitudine, ha la segreta dolcezza di chi apprezza ogni istante della professione e della vita, modi sbrigativi che gli consentono di formulare le critiche con spietata franchezza, ma anche di allentare ogni tensione con fulminanti forme di ironia. Con Ravaglia, ingegnere, è possibile confrontarsi su architettura e urbanistica, mentre quasi sempre, parlando di architettura, si finisce col parlare d’altro: di sociologia, speculazione, inquinamento, utopia, etc. Troppo spesso i Comuni, mentre promuovono un’architettura di qualità, programmano un’ urbanistica di rapina: nell’opera di Ravaglia, architettura e urbanistica hanno invece lo stesso nitore (a fianco o contro le pubbliche amministrazioni), senza frammentazioni o incertezze sulla propria identità, e i vocaboli oggi ricorrenti di contaminazione o confusione non possono trovarvi cittadinanza alcuna. Pur operando su un territorio vastissimo, Ravaglia riesce anche a raccontare localmente le cose, a rendere lo spazio locale un sensore in cui passano le ispirazioni e le motivazioni più diverse (quasi la complessità e mutevolezza delle nuove cosmologie). Non senza forte valorizzazione dei rapporti, più intensi di quanto ordinariamente si supponga, fra filosofia ed architettura (come propongono Aristotele che nella Politica inserisce quasi un trattatello di urbanistica; Vitruvio, secondo cui la filosofia costituisce parte integrante della formazione dell’architetto; Wittgenstein il quale riuscì ad essere insieme filosofo ed archi- Bruno Zevi, urbanista, teorico e critico della storia dell’architettura. Elio Garzillo. Elio Garzillo (1946) è architetto e specialista in restauro dei monumenti. Soprintendente per i Beni Architettonici e il Paesaggio in Campania e in Emilia, è stato – fino al 2004 – Soprintendente Regionale per i Beni e le Attività Culturali dell’Emilia-Romagna. Docente di Restauro all’Università di Parma, è autore di numerosi saggi, articoli e monografie sul restauro dei monumenti, sulla tutela del paesaggio, sulla cultura storia e tecniche della conservazione. Ricopre oggi il ruolo di Dirigente Generale presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Dipartimento per la Ricerca, l’Innovazione e l’Organizzazione. 65 L’idea e la forma Guscio del tetto in lamellare per la Chiesa di San Cristoforo a Forlì. Complesso di San Francesco a Imola: studio urbanistico delle piazze pubbliche. Il guscio lamellare giunge a 30 metri di altezza e poggia su una piattaforma d’acqua collegata alle fontane della piazza del Comune (durante l’inverno sono alimentate dall’acqua calda della centrale di cogenerazione per consentire la sosta delle anatre selvatiche). tetto): lo si evince anche da diversi importanti “scritti non tecnici” di Ravaglia (fra i tanti: Uno sguardo alle origini, 1985, o Un uomo, una terra, 1990). Quanto mai significativo, in questo contesto, il rapporto con Giovanni Michelucci (altro anti-maestro), da cui Ravaglia ha mutuato lo spirito rigoroso di ricerca nel linguaggio architettonico, l’entusiamo e l’infaticabilità nel pro- muovere iniziative culturali, la concezione demiurgica dell’urbanistica (ben altro rispetto alle recenti preoccupanti e diffuse forme di urbanistica creativa e/o consensuale). E quello, diverso, che, per quasi vent’anni lo ha legato alla figura di Bruno Zevi: un riferimento anche morale, nelle sue forme di assoluta linearità e chiarezza di comportamenti, nel “firmare” le sue giornate ben più Modelli per studi strutturali di torsione del guscio lamellare. 66 delle sue opere, nella certezza che dopo la spettacolarità ci sarà in architettura un ritorno alla continuità, alla storia delle città, perché la presenza della storia non è aggirabile né eliminabile. In alcuni vividi esempi di lettera di Zevi (1983-1999) a Ravaglia, si parla, non a caso, di «battaglie intrise di ideali», di storie personali «gremite di amarezze, delusioni, sconfitte», di «lavoro Elaborazione tridimensionale del guscio superiore della Chiesa di Imola. Caffè Michelangiolo L’idea e la forma missionario, con vita defatigante, spesso insopportabile, snervante, dell’architetto e dell’intellettuale». In una lettera del 1997, con ironia, Zevi si chiede: «quand’è che Le Corbusier diventò Le Corbusier?», per subito rispondersi «quando perse il concorso per la sede della Lega delle Nazioni a Ginevra: se avesse vinto non sarebbe stato nessuno». Amarezze e voglia di lottare quotidianamente «contro la sorda e inetta burocrazia» che venivano, per via epistolare, riferite a Ravaglia per assisterne (se mai ce ne fosse stato bisogno…) «la vitalità, la gioventù, la creatività». S correndo il curriculum professionale – una sorta di abaco del lavoro svolto e di fotografia dell’evoluzione professionale di Luciano Ravaglia –, quello che colpisce è non solo il numero, davvero sterminato, delle prove maturate, quanto la loro complessità e diversificazione e, soprattutto, la loro qualità e importanza. Non è facile trovare personalità in grado di spaziare con tanta naturalezza dall’urbanistica alla pubblicistica, dalla progettazione al restauro, dal design alla modellistica sperimentale e alla pianificazione delle risorse: ma è davvero improbabile trovare altre personalità che riescano a fare tutto questo con tecniche e logiche innovative, riuscendo ad accentuare e “segnare” aspetti dell’esperienza storica contemporanea quali il contesto storico-sociale, le teorie estetiche e le ricerche morfologiche, tipologiche, tecniche. I luoghi delle attività vanno da Forlì – alla quale è evidentemente legato da un rapporto di affettuosa consuetudine – all’Emilia-Romagna e alla Lombardia fino ad arrivare a S. Marino, alla Somalia e alla Finlandia, Argentina, Marocco, Svezia, Austria: tutti luoghi in cui Ravaglia ha portato il moderno (architettura, urbanistica) e la modernità (idee, concetti-guida, artifici), operando con serenità proprio sulla scorta della formazione acquisita in patria. Ha portato, in altre parole, il fare progettuale, il cui compito è per definizione quello di prefigurare il nuovo, risorsa cui attingere, fra eterogeneità e diversità: di luogo, programmi e materiali, ma anche di forme architettoniche e particolari appropriati a ciascuna situazione. Caffè Michelangiolo Luciano Ravaglia mentre illustra a Syad Barre (seduto di fronte, con il posacenere davanti) il piano urbanistico per la capitale della Somalia, Mogadiscio. Dal 1958, anno della sua prima opera (l’Asilo Montessori e Istituto Femminile in Forlimpopoli), Luciano Ravaglia ha progettato oltre duecento edifici, complessi, interventi di sistemazione urbanistica, in una ricerca “impaziente”, aperta ancor oggi a nuovi orizzonti da esplorare e posta, con instancabile energia, al servizio degli altri. Le iniziative sono state vaste e articolate, in un intreccio di posizioni, frequentazioni, rifiuti, intuizioni: avrebbero necessitato, forse, di maggiori forme di autopromozione, che rendessero più espliciti e comunicabili i meccanismi del loro riconoscimento. Motivi contingenti, uniti alla ritrosia dell’uomo, Casa di Corzano a Bagno di Romagna (1968). Intervento di restauro condotto anticipando di 15 anni le teorie della Cop. Himmelblau a Vienna. 67 L’idea e la forma non hanno consentito, fra l’altro, la pubblicazione, più volte sollecitata dallo stesso Zevi, dell’opera di Ravaglia su L’architettura, cronache e storia. E mai come oggi appare laborioso ricostruire, in un mare immenso di documenti atti progetti modelli relazioni, la storia, le teorie, i criteri, i sentimenti, le ragioni e tutto quanto contribuisce alla completa comprensione tanto delle opere costruite quanto di quelle in corso di progettazione o di esecuzione. Anche se, nell’opera di Ravaglia, non vi è traccia del tanto diffuso odierno divario fra architettura e società: la sua linea della continuità e della coerenza, forte ed evidente, è, e resta, motivo di chiarezza e riconoscibilità. Il materiale conservato consente già oggi allo studioso di mettere l’accento sia sul prodotto finito sia sul “disegno”, sull’iter progettuale, sugli schizzi e le varianti che precedono o affiancano l’opera vera e propria: ma di più e meglio lo consentirà con una idonea ricatalogazione, basilare per una visione completa e quasi antropologica della raccolta (che possiede più di quanto esibisca), con possibile parallela – e pressocchè senza precedenti – lettura degli eventi storici e delle loro conseguenze nell’ambito della progettazione. Nell’ambito delle ricerche di pianificazione territoriale un giovane ing. Ravaglia mostra all’allora Ministro dei Lavori pubblici, Benigno Zaccagnini, il plastico del fondo marino prima delle alluvioni che hanno formato l’attuale pianura romagnola. Investigazioni sul territorio di una intera Provincia condotti dal 1958 al 1962 per la prima volta in Europa. stazioni di cultura, bisogno d’incontro e di rappresentanza e la costruzione di spazi fisici (città) dove poter realizzare queste attività. La città come luogo della celebrazione dell’incontro tra le genti, della globalizzazione delle culture e del localismo delle esperienze, dove possono trovare diritto di espressione tutte le realtà in grado di dar vita a nuove forme di aggregazione, mantenendosi lontani da ogni rischio di omologazione e specializzazione. In Argentina, Ravaglia opera sulle ipotesi di piano di supporto allo spostamento della capitale e sulle conseguenze indotte e, quasi contemporaneamente, sul restauro dell’architettura italiana nel periodo di più forte immigrazione dall’Italia. Propone l’ancoraggio del progetto della nuova capitale a un piano generale di trasformazione del Paese (identificazione, uso e gestione delle risorse ai fini dello sviluppo in una concezione di riequilibrio generale) in un quadro economico nuovo, basato sulla trasformazione delle strutture e sull’ipotesi del rinnovo infrastrutturale e delle capacità imprenditoriali. Idee modernissime (la città mobile; la città per tutti; il rispetto per le risorse), quelle stesse che Zevi propo- S Restauro Palazzo Serughi (XVI sec.). Complesso marmoreo bianco inserito su elementi in granito rosso di Svezia con funzione di cerniera architettonica fra parte antica e parte moderna del Complesso. 68 i può già provare a tracciare una prima presentazione dell’opera e della figura di Luciano Ravaglia anche attraverso pochi suoi interventi, emblematici e paradigmatici (quasi un’indicazione di metodo), tuttavia sufficienti a rappresentarne i modi, le esperienze, le aspettative, le esigenze. Fra questi: le strutture lamellari a guscio (la Chiesa di S. Cristoforo a Forlì; la Chiesa del nuovo complesso di S. Francesco a Imola); le opere “di scultura” (interno Camera di Commercio e memoriale in cor-ten a Forlì; monumento funerario della famiglia Graziani a Cusercoli); le opere razionaliste – quasi reinterpretazioni del new brutalism – in calcestruzzo armato (Cesenatico, residence; complesso Iacp a Forlimpopoli; Cassa dei Risparmi a Forlì); gli studi ed i grandi piani territoriali (Argentina, Somalia, Marocco, Italia). E si può iniziare proprio dai complessi studi e progetti per Buenos Aires (delocalizzazione capitale), inquadrabili come analisi per nuovi spazi pubblici e immaginari simbolici della contemporaneità, in un intreccio di modi di vita, manife- Il monumento funerario per la famiglia di Natale Graziani in marmo nero dello Zimbawe e granito rosso di Svezia, nel cimitero di Civitella di Romagna. Caffè Michelangiolo L’idea e la forma neva di trasferire anche in (architettura e sacro, due chiave europea sotto forma di mondi da sempre in sintonia). possibile integrazione (proCome nel caso della Chiesa prio la capitale europea, osParrocchiale di S. Cristoforo a servava Zevi in una lettera Forlimpopoli (dalla tormendel 1989 a Ravaglia, oggi tata cronistoria, dal 1979 al spezzettata fra Strasburgo, 1987 e oltre), caratterizzata Lussemburgo e Bruxelles, che dal senso pieno e concluso richiederebbe la costituzione della forma in quanto entità di un distretto politico euroassoluta e definitiva articolapeo, da formare definendo ta su un grande guscio in leanzitutto l’area e ”l’immagigno lamellare di 1000 mq, ne” del complesso). con centine a doppia curvatuQualche anno prima ra che salgono da 4 a 17 me(1985), Ravaglia aveva lavotri di altezza. Il modello di rato in Somalia, per commisprogetto prevede un guscio, a sioni e consulenze, “chiamato forma pressocchè di barca rocome un medico” per il Piano vesciata, incernierato sulla di Mogadiscio. Quel piano che cresta dorsale, con sistema a ha fatto esclamare, sempre a più cerniere, ancorato a una Bruno Zevi (04.07.1985): piattaforma di base ricurva in «Mentre impazza la moda del calcestruzzo bianco, che pogpentitismo, non meraviglia gia, a sua volta, alla base, su l’assoluzione per il piano di Edificio della Cassa dei Risparmi a Forlì in fase di costruzione. una piattaforma d’acqua. Mogadiscio. Il tutto è molto L’illuminazione naturale vi cattolico: c’è il morto – o, nel caso, il anche da altri), osservava Ravaglia in viene ottenuta, in via diretta, attraverdanneggiato – ma siccome l’assassino fa uno scritto del 1990, ciascuno studio è so una lama di luce che proviene dalla atto di contrizione, sia pur tardiva, l’Or- stato visto con frequente sospetto e dorsale della copertura e, in maniera dine lo benedice. Ma Lei, ingegner Ra- spesso relegato a ipotesi di settore aven- indiretta, all’intradosso, con luce (rivaglia, deve vincere la battaglia, anche a te solo valore teorico, anziché concreta flessa dall’acqua) che attraversa la fibcosto di una strage». applicazione nel campo delle metodo- bia vetrata posta sul contorno del borDue piani, questi, due interventi fra logie interdisciplinari di intervento. do inferiore della copertura. L’effetto i numerosi incarichi internazionali, a Particolare attenzione viene riserva- di luce radente è conservato anche con fianco di altre esperienze in Argentina o ta da Ravaglia all’architettura sacra la luce artificiale. in Marocco – l’aeÈ un’architetturoporto internaziora quanto mai sinnale di Agadir – e golare e significatinazionali (da Imova (l’edificio si rafla a Rimini – danfigura come una do valore unitario grande arca posta a urbanistica e tersull’acqua), priva ritorio, coinvolgendi reali possibili do economia, risorconfronti (con sforse fisiche e problezo, possono trovarmi di sviluppo –, si riferimenti a dal piano territoScharoun o allo riale per l’Oltrepò stesso Michelucci), a quello per un sispazio unitario al stema di informaquale può partecizione territoriale e pare una intera cartografica della collettività, trovanLombardia, dalla dovisi a proprio pianificazione teragio: uno spazio ritoriale al piano dalla completa liglobale di assetto bertà basata sul delle acque superfipercorso dell’uociali e sotterranee). mo, sulle funzioni, Dai non speciasulla partecipaziolizzati (e, a volte, Plastico per un edificio della Cassa dei Risparmi a Forlì in cemento armato bianco e giardini pensili, 1972. ne all’evento sacro, Caffè Michelangiolo 69 L’idea e la forma sullo stare insieme. La struttura, chiara e serena, dà la sensazione di un luogo che viaggia, nel tempo, verso qualcosa di superiore; pochi spazi si presentano più ferreamente conclusi, e più aperti, dell’interno di S. Cristoforo, quasi anelito di libertà entro una struttura inflessibile. Il sagrato è composto da un ampio spazio a conchiglia che, partendo da una piccola fontana poggiante su una vasca circolare, posta in alto all’ingresso della chiesa, si snoda da essa “come l’ideale coda di una cometa”, rappresentando l’ideale collegamento dell’interno – fonte battesimale – verso l’esterno, fonte sul sagrato, nonché l’origine e la guida della barca. L a Chiesa di Forlimpopoli (da cui discenderà l’esempio assai avanzato di Imola, tuttora in costruzione) è una sorta di architettura-scultura, legata anche all’esperienza dell’informale: il plastico e gli schizzi sono le prime verifiche per quello spazio, che non era facile da rappresentare in altro modo, e che non sarebbe stato afferente rappresentare subito in modo convenzionale, con le proiezioni ortogonali, le sezioni etc. Coerentemente, le opere che possiamo definire di scultura non appaiono come un fatto inaspettato: dalla progettualità e dal modo di operare di Luciano Ravaglia emerge infatti, con grande frequenza, una forte e caratterizzata valenza creativa. Molti particolari e i modelli delle sue opere possono essere considerati sculture: anzi, sculture sono le stesse opere, se prese singolarmente e private della loro funzionalità, nel loro rivelare particolare cura per la tridimensionalità, per la volumetria plastica o rituale, per i volumi sfalsati e le profondità contrapposte, per l’uso non convenzionale dei materiali. In Ravaglia, la scultura raggiunge complessità e sintesi. A volte, lo spazio si scompone in ventagli di segni slanciati, guizzanti, purissimi e anche inquietanti, rendendo plasticamente come un’ansia e una vertigine (così nel memoriale in cor-ten a Forlì). Altre volte è una sorta di avventura sul peso e la leggerezza della materia, geometrie sospese, dialettica fra conflitti, il pieno e il vuoto, non senza la percezione della fuga del tempo che con- 70 Scala in cemento armato bianco prefabbricata. Residence turistico, 1971. sente la convivenza degli opposti (come nel monumento a Cusercoli). Altre volte ancora, si afferma la forza della forma e della materia attraverso operazioni di addizione e sottrazione di volumi e superfici, in uno stretto dialogo, basato sulla cristallina purezza geometrica, con lo spazio e l’architettura (come all’interno della Camera di Commercio di Forlì, ove il fram- Studi sulle membrane asimmetriche. Soluzioni analogiche tridimensionali fuori dagli schemi ufficiali di calcolo, 1972. mento è parte dell’unità e modo per evidenziarla), intreccio di materia e suggestioni. Alcune, meno recenti opere di architettura di Ravaglia, appaiono invece riferirsi alla “tecnica” (dall’antica nozione di techne) del razionalismo e al suo rigore logico, con leggibile rapporto con l’avanguardia, sia figurativa sia specificamente architettonica. La “concezione necessaria” dal punto di vista delle strutture, dello spazio e dell’organizzazione dei materiali parte dal new brutalism di matrice anglosassone ma si evolve verso un rinnovato interesse per i motivi delle facciate (come in P. Rudolph), verso i macrosegni, verso involucri esterni che non sono più l’insieme di tante facce bidimensionali, ma organismi spaziali includenti ulteriori invasi tridimensionali. Con una costante: l’esigenza di qualità, individualità, fantasia e “dell’inedito architettonico”. Come nei casi sopracitati di Forlimpopoli, Cesenatico, Forlì, dove la complessità, ben leggibile, non è solo rete interconnessa di molte variabili, ma anche interpretazione colta della disciplina del fare. Ravaglia è uno sperimentatore inesauribile, che non lascia intentati né materiali né forme né approcci e continua a misurarsi con sempre nuovi modelli, perfezionando il proprio linguaggio e imboccando strade sempre rinnovate di riflessione scientifica e approccio di metodo (con l’impiego di nuove tecnologie, ma puntando contemporaneamente alla riduzione dei costi). Pensa e riprogetta, con potenza e disinvoltura, tempo e spazio: vanifica la geometria tradizionale per creare armonia con il suo stile. Nella sua insofferenza c’è il valore del tempo: non c’è da perderne, mai. Luciano Ravaglia continua a lavorare con irruente sincerità, straordinaria determinatezza e incessante fiducia: ed è la stessa visione della professione – rigorosa ed essenziale – che viene modellata sui modi della vita di un master builder, e viceversa. Convivono, insomma, agire sociale e fare tecnico, razionalità ed emozioni, che non possono considerarsi in contrapposizione, visto che le emozioni, con la loro valenza cognitiva, sono essenziali per ogni forma di razionalità. ■ Caffè Michelangiolo Scienza e figurazione Un enigma tra Barocco e Rococò: la scomparsa dei quadri di patologia nell’arte del ’700 FRA SIENA E ROMA di Giorgio Weber N on si esclude affatto, oggi, una esplicita e intenzionale rappresentazione di malattie nelle opere d’arte. A Londra, dal 15 settembre 2005, è esposta a Trafalgar Square la statua marmorea di una donna focomelica gravida; di essa si conosce anche il nome, come per l’adiacente statua che è dell’Ammiraglio Nelson. Nelle sue pitture, Fernando Botero predilige quadri di obesità, molteplici casi diversi d’intento dal nudo squallore della donna obesa del 1994 (Benefits Supervisor Resting) di Lucien Freud, dove prevale il dolore dell’essere. Dopo la prima guerra mondiale, l’arte tedesca raffigura intensi aspetti di mutilazioni quali il Venditore di fiammiferi di Otto Dix, il Pensionato (senza un braccio) di George Grosz. Si giunge poi, con Jean Arp, al confine con l’informale (in Mutilato e Apolide), al dramma della perdita di ogni identità personale (corpo e patria). In Italia, Alberto Savinio amava raffigurare quadri di gi- Raffaello, Guarigione dello storpio, part. (da un cartone, gessetto nero e tempera, per gli Arazzi delle pareti della Sistina). Victoria and Albert Museum, Londra. Coeli, i ciechi immortali, ancora del Bruegel, a Capodimonte. Arti piagati sono intensi in Luca Giordano o nel Cerano e si ripetono, con varia efficacia, bubboni e piaghe degli appestati: del Tintoretto nella chiesa di San Rocco a Venezia le raffigurazioni più eccelse. È stato con stupore che, avendo di recente avuta occasione di ammirare a Siena, al Santa Maria della Scala, il bell’affresco di Sebastiano Conca, da poco restaurato, avente per oggetto la biblica Piscina probatica, dipinto nel 1732, ho constatato la scomparsa di segni concreti di malattia nelle persone intorno alla piscina stessa: proprio dove si dovevano trovare «ciechi, storpi e paralitici» come dice esplicitamente il Vangelo di Giovanni. Mi sono domandato allora per quale motivo il Conca non raffiguri precisi quadri di malattia. Di fronte a questo volatilizzarsi e svanire delle attese immagini di patologia, mi sono rivolto alla storia dell’arte figurativa e letteraria dell’epoca ed alla storia Luca Giordano, L’elemosina di San Tommaso da Villanova: particolare dello storpio dalle ulcere alla gamba fasciata, Museo di Capodimonte, Napoli. gantismi metamorfosici e Mario Sironi, sia in grandi figure che in nudi di donna, dipinge gozzi tiroidei vistosi. Nell’arte antica, studiata per anni e anni da M.D. Grmek (1998), compaiono sculture con le più varia patologie; sono effigi di ciechi e di storpi, o gambe in preda a elefantiasi o con enormi vene varicose, o teste di talassemici e mongoloidi, ecc. Nel Museo di Agrigento si trova, ricostruito nell’Ottocento, uno dei Telamoni, giganti di sette metri di altezza di arte greco-sicula costruiti dai prigionieri Cartaginesi dopo la battaglia di Himera; e, sempre da lì, ci fanno sberleffi nani deformi di arte cartaginese. Nell’arte rinascimentale, troviamo elefantiasi nelle gambe di un putto della tomba di Ilaria del Carretto a Lucca, gli storpi celeberrimi di Masaccio al Carmine, quelli non meno celebri di Peter Bruegel a Vienna o al Louvre, un moncherino atrofico nel Funerale di San Bernardino del Pinturicchio all’Ara Tintoretto, Gli appestati curati da San Rocco (part.), Chiesa di San Rocco, Venezia. Caffè Michelangiolo 71 Scienza e figurazione della sanità e dei cotrovava a portare). Se stumi. arieggiano le prime Dalla storia delnote di una rivoluziol’arte apprendiamo ne, come è nel Don che, nel Settecento, il Giovanni di Mozart, è dramma tende a trapur sempre ancora dursi in una rappre(1787) Masetto il basentazione scenica, stonato. teatrale; a divenire un E cambia la commelodramma. Dalla mittenza: sempre più storia dei costumi e incline all’edonismo, della sanità, risulta al libertinismo, è quepoi una “resistenza” sta, nel ’700, comunalle novità che, in que poco incline a vocampo medico, erano ler raffigurate malatgià assai copiose o che tie nei quadri: e quesi andavano raccosti sono ormai destigliendo dai “tecnici” nati più ai “bou(botanici, anatomici, doirs” o alle sale da chirurghi). Queste poricevimento che alle trebbero stimolare I resti odierni della biblica piscina probatica a Gerusalemme, adibita all’abbeveraggio delle cappelle gentilizie o allo studio di innova- pecore. Fin dai tempi più antichi era reputata salvifica per «ciechi, storpi e paralitici». alle chiese. Si finisce, zioni nella pratica teanche in una scena di rapeutica (come per vero ac“miracoli” che presuppone cadrà con la novità della vacraffigurazione di ammalati, a cinazione per il vaiolo): ma non volersi impegnare troppo emerge nell’insieme uno «iato in una sorta di emozione, a di classe», per dirla con G. non volersi vedere coinvolti, Cosmacini, iato che blocca se non in superficie: come per l’accoglimento delle novità cercare un distacco da «ciò scientifiche da parte dei meche fa paura» (vedi U. Eco, dici, ben spesso aristocratici 2004). Ciò che si chiede aluniversitari, ed i chirurghi l’arte è uno svago. Malattia e (cerusici), barbieri, botanici e povertà, tranne in pochi casi, anatomisti dall’altro, questi sono ignorate dai committenultimi più vicini ai malati e ti o semmai ci si volge talora aperti al progresso. piuttosto ad una ridicolizzaQuanto alla cultura relizione dei “diversi” di cui sono giosa dei committenti essa è esempi le Repubbliche di più condizionata da prediche Nani dell’Albrici o i lubrichi a intonazione moralistica che nani di Bernardino Deho. attinta dalle pagine della BibUna vera e durevole emobia. Questa nei paesi come zione è stata per me l’accorl’Italia e la Francia era scritta germi che quanto mi è accain latino (anche se qualche duto avvicinandomi, da paBibbia in volgare veniva editologo, alla ricerca di segni di ta, come ad esempio quella di malattia in un affresco tipico Nicolò Malarmè pubblicata a del barocchetto romano, del Venezia nel 1502); poco acRococò, la Piscina probatica cessibile comunque non solo di Siena del Conca, mi era in ai ricchi committenti ma anrealtà già accaduto quando, che ai loro artisti, pittori e ancor giovane anatomopatomusicisti: questi tutti ancora, logo, constatavo, con l’arrivo del resto, più vicini alla condegli antibiotici, prima le modizione di servi che a una indificazioni, poi la scompara al dipendenza economica di cultavolo anatomico dei segni di tura e di giudizio (si pensi per una malattia classica, dalla dirne solo una alla livrea degli L’affresco (restaurato) di Sebastiano Conca (1860-1764) nell’abside della chie- morfologia tipicamente ripeEsterhazy, che un Haydn si sa della SS. Annunziata nel Santa Maria della Scala, Siena. tuta nei millenni, e ben spes- 72 Caffè Michelangiolo Scienza e figurazione so letale, la polmonite dro in cui son poste». franca lobare (cfr. G. È un mondo di maWeber e F. Nozzoli, schere cui si è avvi1950). Fenomeno che cinato ai tempi nostri si è poi esteso ad altre anche Roberto Rosmalattie, oggi perfino sellini, nel suo film alle metastasi canceLa presa del potere rose, con gli enormi da parte di Luigi XIV. Il Re già mette in progressi di chemio- e radio-terapia. opera, appunto anche attraverso l’imL’affresco di Siena posizione di una fu eseguito da Sebamoda di Corte, una stiano Conca (1680gran mascherata a 1744) nel 1732. Egli cui tutti devono atteera una delle persone nersi, il Re per pridi primo piano del cosiddetto Rococò (o mo, che la impone, e Barocchetto romano) che in essa esprime il come dice Anthony suo dominio assoluM. Clark (cit. sec. G. to. Ma queste traspaBriganti, 2004). Querenze, questi colori sta di Siena è l’impretenui e ariosi, queste sa di maggior mole e mascherate di Corte prestigio da lui af- Un particolare dell’affresco. Si noti l’effigie di un falso storpio con le stampelle. e di salotto si incrifrontata: essa fu porneranno ad esempio tata a termine con un lavoro di nove questo può però apparire già nel Boz- nel Mozart del Don Giovanni ove rimesi. L’affresco appare dunque come zetto Saracini, si fa ancora più eviden- suona, come sopra dicevamo, lieve ma un «capriccio a soggetto religioso, a im- te nell’Affresco ora restaurato nell’ab- tragica, come un’eco della Rivoluzione postazione teatrale, che si tiene su un side della chiesa della SS. Annunziata. francese. «Arcadia e Barocco», dice vero palcoscenico architettonico in cui i «Sembra di essere in una sala da ballo» R. Luperini (2003), «coincidono con personaggi sono attori tra le quinte»; e, pare che dicesse il Papa Benedetto xiv, la crisi della coscienza europea e le traper il Clark, è «one of the most hand- a Roma, di fronte a un dipinto del Fuga sformazioni dell’immaginario». some rococò stage-set known». Vi si tro- in S. Maria Maggiore. «Le figure», d ecco dunque le figure che vediava, come già in Luca Giordano, anche come dirà il Cochin, «sono preoccupamo, intorno alla Piscina probatica, una «soffusa soavità sentimentale e me- te di avere un atteggiamento piacevole lodrammatica», con le scene profane più che di compiere l’azione del qua- in questa sorta di melodramma, «viste attraverso un vetro»: ambientate «nelle silun’aria sembra pervestri e pastorali elecorrere tutta la scena gie dell’Arcadia». in cui son tutti attori Le opere del Roche giocano un loro cocò (che era nato, ruolo: dal Cristo, che com’è noto, in Fransembra precorrere cia e che evolverà poi quello un po’ “vaniverso il Neoclassicitoso” su cui ironizza smo) si affidano ad il Buñuel de La Via una «labile fluidità di Lattea, al Paralitico capriccio» in cui vieguarito che ha però ne ad esprimersi, vouna (retorica?) collelatilizzandosi quasi, ra nell’andarsene col il dramma, sia esso suo lettuccio e semsacro o mitologico o bra quasi un baritono storico. Si trova già, in una scena romanin questo Rococò, la tica che esprime rilieve eleganza delle sentimento (o è forse “ariette” del meloinvece l’unica persodramma con “imna vera, con quel provvisi” di pennellate nervose, rapide, Giovan Battista Paggi (1554-1627), La piscina probatica (part.). Si noti un astante (con il cap- rancore per il male che lo ha bloccato per brillanti. Se tutto pello) cieco. Museo Comunale di Castiglion Fiorentino (Arezzo). Dipinto finora ignorato. E Caffè Michelangiolo 73 Scienza e figurazione trentotto anni?). A parte lui tutto nella scena è svaporato e gelato. Forse al biancore estremo che contrassegna i malati (quasi fantasmi che preparano alle astrazioni “metafisiche” del ’900, presentimenti del moderno, come dice Longhi) si giunge invogliati anche per l’uso, insistito nel Rococò, dei colori chiari che dominano sempre la scena. E forse non deve stupirci che anche la malattia di tutti questi sventurati che si affollano ai bordi della Piscina probatica (che non si possono curare, che non possono far altro che attendere un moto dell’acqua che non si sa quando mai avverrà, nè si sa se essi potranno, in quel decisivo momento, essere lesti per avvantaggiarsi a entrare nell’acqua appena smossa) si esprima con quel pallore delle carni. Vari gradi di questo pallore (in alcuni quasi già di morte) ci dicono di uno svuotamento, anergico, se così posso dire, di ogni sostanza: la malattia è espressa in un concetto, un simbolo, è soltanto un’apparenza scenica, non un fatto reale, ove gli attori sono impegnati, sì, ma quasi soltanto in qualità di personaggi di un coro, di un melodramma: essi devono solo star lì, disposti in posa, per essere dipinti, come per una cerimonia, che non li coinvolge. E anche la figura del Cristo, dicevamo, Tintoretto, La piscina probatica, nella Scuola di San Rocco a Venezia. Sono raffigurate cortigiane che ostendono lesioni probabilmente luetiche alle gambe. ha qualcosa di scenico, come quella di un tenore che si accinga a cantare la sua aria. Il lontanissimo paesaggio, le decorative colonne che non “reggono” alcunchè, fan solo da sfondo “recitante” al quadro, in lungimirante prospettiva. Ci appare dunque quasi ovvio e naturale (come si diceva poco sopra) che in questo Settecento «sublime e pre-romantico» (secondo Mina Gregori, 2000) non si trovino precisi segni di malattia nel “melodramma” dell’affresco. Pensiamo al Metastasio e a quanto poi accadrà nell’800: alla Traviata e alla Bohème, con le eroine, morenti, che gorgheggiano come usignoli all’alba. E abbiamo già veduto le diverse possibilità di renderci ragione di questa scomparsa di segni di malattia (presenti invece ancora per tutto il ’600 e di nuovo nei secoli successivi) nel secolo dell’Illuminismo: e quindi anche nel Conca senese del grande e bellissimo affresco. A questo punto il Patologo non può che ritirarsi e lasciare che l’opera d’arte prevalga con il suo fascino su altri pensieri e curiosità. ■ AA.VV., Santa Maria della Scala, Protagon Ed. Tosc., Siena, 2003. F. Bisogni, Mattias de’ Medici Governatore di Siena, in: Il Palazzo della Provincia a Siena, Roma, 1990. E. Brambilla, La Medicina del ’700 dal monopolio dogmatico alla professione scientifica, in: Storia d’Italia, “Annali”, Einaudi, Torino, 7/1984, pp. 5-147. G. Briganti, La pittura in Italia. Il Settecento, Electa, Milano, 2004. G. Cosmacini, Storia della Medicina e della Sanità in Italia, 6a ed., Ed. Laterza, Bari, 1994. D. Gallavotti Cavallero, Lo Spedale di Santa Maria della Scala in Siena, Pacini Ed., Pisa, 1985. R. Luperini, P. Cataldi, L. Marchiani, F. Marchese, La scrittura e l’interpretazione, Palumbo Ed., Palermo, 2000. G. Weber, Aspetti poco noti della storia dell’Anatomia patologica tra ’600 e ’700, “Studi” CLXI, Acc. La Colombaria, Olschki, Firenze, 1997. G. Weber, Autopsie, edite e inedite, di Giovanni Targioni Tozzetti, “Studi” clxxxv, Acc. La Colombaria, Olschki, Firenze, 1999. G. Weber, F. Nozzoli, Studio statistico sul profilo anatomo-patologico e sulle variazioni della polmonite franca nel Settorato fiorentino in oltre un sessantennio, “Arch. De Vecchi”, 15/1950, pp. 12111238. BIBLIOGRAFIA L’autoritratto di Sebastiano Conca, disegnato per illustrare le Vite di Nicola Pio. Stoccolma, Museo Nazionale. 74 AA.VV., Luca Giordano (1634-1705). Catalogo della Mostra, Electa, Napoli, 2001. AA.VV., Sebastiano Conca (1680-1764). Catalogo della Mostra, G. Sestieri e A. Griseri, La Poligrafica, Gaeta, 1981. Sebastiano Conca, Lo storpio risanato, particolare dell’affresco nell’abside della chiesa della SS. Annunziata nel Santa Maria della Scala a Siena. Caffè Michelangiolo BLOC-NOTES di Bartleby Premio Latini. C’era una volta. È la immancabile (e provvidenziale) parabola cui sono soggette le umane cose. Qualcuno pensa alla respirazione bocca a bocca. Fiato sprecato, è il caso di dire. Era nato da una costola, e come la donna della Dodicesima notte ha preso a declinare nel punto della massima fioritura. Corre il 1981, a settembre Spadolini ha appena messo in piedi il primo governo “laico” e in quello stesso mese (ma non si cerchi il nesso) un gruppetto di amici fiorentini è a Verona al Premio Dodici Apostoli che si celebra nel rinomato ristorante omonimo. Perché non anche da noi? Ci sarà pure a Firenze una locanda, una osteria, una taverna che strizzi l’occhio alla cultura. L’amico Cesati che dirigeva all’epoca la memorabile Seeber in via Tornabuoni (con Montenapoleone e via Veneto la strada allora del gotha mondano) bussò a vari restaurant, collezionando calorosi no. La sanno lunga gli osti, guelfi o ghibellini che siano: “Carmina non dant panem”, la loro insegna. Finché non si imbatté in una frotta di turisti, baedeker alla mano, i quali domandavano a destra e a sinistra: Where is the David? where is Latini’s? E gli si accese la lampadina. Come non averci pensato prima…?, da il Latini: la minestra di farro di Narciso, la solita ribollita, le penne strascicate, il gran carré di ròsbiffe, il gelato di Certaldo. In cucina il la lo dava la Signora Maria, la moglie di Narciso; in sala, i grands commis erano i figli Giovanni e Torello. E Narciso non se lo fa dire due volte, apparecchia la tavola per la giuria di un Premio consistente in un prosciutto dei suoi. La congrega si forma con il passaparola. Nessun conciliabolo. Nessuna graziosa elargizione. Nessun calcolo. Con Augusto Cesati, si siedono a cena Breddo, Griffo, Listri, Luti, Luzi, Macrì, Pampaloni, Parri, Ricchi, Saviane, Vannucci. E il pendolare Cesare Marchi, il tredicesimo, trait d’union con i Dodici di Verona. Un direttore di Accademia di Belle Arti, un narratore, un giornalista cul- Caffè Michelangiolo turale, un italianista, un poeta, uno storico della letteratura, un critico militante, un direttore di testata radiofonica, un inviato Rai, un romanziere, un pubblicista. E il tredicesimo, una firma del “Corriere”. L’antesignano dei premiati, nel maggio dell’82 (un lunedì, giorno di chiusura al pubblico del Latini), è Montanelli. Che sulle prime si mostra interdetto: Firenze che dà un riconoscimento a un suo figliolo?, ci dev’essere qualcosa sotto! Poi il pro- Narciso Latini. sciutto se lo vengono a prendere anno dopo anno Sanminiatelli, Maria Bellonci, Bo, Soldati, Spadolini, Sciascia, Tobino, Gina Lagorio, Zanzotto, Maria Corti, Garin, Biagi, Coccioli, Lidia Storoni Mazzolani, Rigoni Stern, Afeltra, Garboli, Luzi (uscito l’anno prima dal consesso, per poi rientrarvi), Franco Cardini. Scorrendo l’albo d’oro si può individuare con sufficiente approssimazione lo zenit della parabola, l’inizio della sfioritura. Alcuni dei giurati si ritirano (la prima frizione, il rinvio del premio a Pratolini, finché la morte nel ’91 non toglie la castagna dal fuoco); altri vengono introdotti e non sempre con criteri di congenialità; certe candidature femminili non sono accolte (la inafferrabile “irrazionalità” della donna mai si concilia con l’irrinunciabile gigionismo maschile). E poi ci si metterà anche l’interdetto anagrafico. Il Premio Latini fu per vari anni l’“evento” letterario più affollato. Non c’erano posti assegnati ai tavoli, spesso restava in piedi perfino qualcuno della giuria, per non dire di mogli e ninfe egerie trasclocate altrove per l’incauto arrivo del prefetto, del sindaco, del sottosegretario, del rettore. Spadolini c’era sempre (scortato da Ceccuti), fosse capo del Governo o presidente del Senato. Per lui una sedia era tenuta in serbo ma non ci si metteva: solo una apparizione, sovrastante e benedicente. Ancora più di un riconoscimento (generazionale) il “Latini” era una rimpatriata, una festa al figliol prodigo di turno. Una sagra di aneddoti, di citazioni, di memorie. Una girandola di battute, come disse Indro. Per esserci si ricorreva alle raccomandazioni. Ci si imbucava. Sale, salette, angoli rigurgitavano: c’erano buone probabilità di farla franca. Lo speaker del simposio, l’adnuntiator, era il figlio di Augusto: Franco. Nessuno lo aveva eletto ma a tutti era apparso scontato il suo ruolo. Quando prese il microfono per la prima volta era un giovanissimo laureando di Bigongiari. Aveva un «approach» (direbbero gli inglesi) mordente, eterodosso, piccante (oggi si direbbe “alternativo”) che fugava da quei tavoli l’insidia dell’enfasi autoreferenziale: e del resto l’odor di cucina copriva gli incensi umani e distraeva dal vaniloquio di sé. Ora in quei locali Torello ci ha dislocato politezza e lustro, ambisce a incrementare la dinastica virtù-peccato (per dirla con Camporesi) della largitas conviviale e della affabile ospitalità. Frotte transoceaniche si accalcano, where is Latin’s?, una volta adempiuta la processione al David (la cui vista in altri tempi procurò un allarmante orgasmo alla frigida Daphne du Maurier). Il Premio Latini resta l’emblema di una stagione non invasa dai fast food, il cibo svelto che non fa sognare (Camporesi). E di una letteratura non da best seller la quale riusciva ancora a far sognare. Oggi che i Premi (letterari) hanno statuti, presidenti, vicepresidenti, segretarie votanti (sono già quattro voti, quello del presidente vale per due), un prosciutto sarebbe il solo riconoscimento che non disonorerebbe chi lo vincesse. Ma l’onore, lo si sa, dipende dall’ora che segna l’orologio. I Premi vivono finché rimangono al di sopra della loro inutilità. Stava in ciò l’astuzia (e il vanto) del “Latini”. Il resto è chiacchiera. ■ 75 LE LETTURE di Riccardo Concetti, Anna de Simone, Riccardo Donati, Angelo Fabrizi, Elena Frontaloni, Alfonso Lentini, Claudio Mariotti, Costanza Melani, Monica Venturini Federico Zandomeneghi, La lettrice. Silvestro Lega, La lettura. L’insostenibile leggerezza della modernità della volgarità e dell’invadenza della televisione, chiamata a riprendere in diretta i festeggiamenti per la nascita del figlio di Manlio e Tiziana. Ma mentre Manlio tenta di ricreare la “gran machina di fuoco artificiale” che fu disposta dal Cardinale di Polignac a piazza Navona nel Settecento per festeggiare la nascita di Luigi, delfino del re di Francia Luigi xv, e Tiziana cerca di ritrovare il chiasso colorato dei riflettori, il loro tanto atteso primogenito si rifiuta di nascere in un mondo sbagliato, in cui ancora una volta spiccano poche figure positive, ma perdenti, come Umberta e Samir, moderni Romeo e Giulietta, capri espiatori di un nuovo dramma elisabettiano. I l baobab cominciava a convivere con gli agi del mondo capitalista. Anche se sempre più intossicato dal cibo chimico, si stava rinvigorendo. Le radici erano tornate d’acciaio, i rami sondavano il cielo a cercare il sole, il panorama stava diventando un’immagine consueta. Rassegnato da sempre all’immobilità, non si immaginava di andare a cercare o desiderare altri orizzonti. Ma non era felice. La villa gli sembrava una montagna strana, di quelle che non aveva mai visto in vita sua, abitata da uomini e donne pallide, svenevoli, profumate. Il tramonto nel suo massimo splendore sembrava un uovo in camicia, l’aria appiccicava sciapa, e poi nessun animale si fermava su di lui. Si sentì solo. Esule un po’1. Patire la nostalgia di un mondo in cui non c’è libertà. Questo sembra pensare il gigantesco baobab trapiantato dal Senegal nei giardini di Villa Carobbi, magico totem e simbolo dell’imprigionamento in una realtà inadatta a farci vivere felici. Nel terzo romanzo di Franco Matteucci, Festa al blu di Prussia, edito da Fazi, tutti i personaggi cedono e rinunciano ad una parte di sé: Tiziana ai riflettori delle passerelle di moda, Manlio alla sua privacy aristocratica e snob; Beatrice alla libera e sfrenata esibizione del proprio corpo; Samir alla propria vita e Ruggeri alla propria libertà. Perfino Umberta, il personaggio più positivo ed equilibrato del romanzo, non è completamente libera, vittima della propria timidezza e della propria educazione che la portano ad avere un eccessivo rispetto per gli altri e che non la faranno imporre al momento giusto della storia, consentendole di salvare in extremis la situazione. Tutti i personaggi vivono imprigionati nelle loro stesse gabbie mentali, come Samir, intrappolato nel doloroso ricordo della propria infanzia di pove- 76 ro ragazzo arabo, o l’architetto Ruggeri, chiuso in una solitudine inattaccabile. Tutti in questo libro vorrebbero vivere in un modo che non sembra loro consentito, cercano disperatamente una via di fuga Franco Matteucci. dallo stato in cui si trovano, ma a quel punto lo scrittore non lascia scampo: un’uscita c’è, ma è tragica. La sete di vendetta di Ruggeri, abbandonato dal giovane assistente e amante arabo che s’innamora di Umberta, innescherà una serie di reazioni a catena che portano tutti sull’orlo di un precipizio troppo a lungo schivato. Il limbo in cui sembra scorrere la vita tra le stanze di Villa Carobbi, che tanto Manlio ha cercato di difendere dall’assalto del mondo esterno, rumoroso e vacuo, è infatti destinato ad essere tragicamente, ma inevitabilmente, infranto. L’irrompere del caos all’interno della famiglia Carobbi prende le forme Beatrice trovò Umberta nel salotto, illuminata da una piccola abatjour. Le sembrò d’entrare nella pancia della balena di Pinocchio. Depressa, su un divano di raso rosa, senza più voglia di combattere, intrappolata da una giornata di paura. Samir non stava bene, l’aveva seguito con premura per tutto il giorno ma lui sembrava senza vita, pallido, accusava disturbi di stomaco con nausea e diarrea. Era riuscita con difficoltà a infilarlo nel profumo bianco delle lenzuola. Mentre lui dormiva, si era accesa un’inquietudine che non riusciva più a scrollarsi di dosso. Quasi nemmeno guardò Beatrice, ogni tentativi che lei faceva per rassicurarla accresceva lo scoraggiamento. Stava per piangere. Mostrava più della sua età, come se il dolore l’avesse resa vecchia2. Anche il baobab, che sembra raccogliere su di sé i destini dell’intera famiglia, sarà costretto ad arrendersi di fronte alla gratuità del dolore di vivere, che tanto aveva cercato di contrastare, riuscendo a produrre con grande sforzo un’unica gemma in cima ad un ramo, poi rubata da uno scoiattolo. Molti critici hanno paragonato questo romanzo ad una fiaba moderna Caffè Michelangiolo Le letture dall’esito infausto. Forse. O forse, meglio, si potrebbe parlare di un’allegoria che ci restituisce, con l’amarezza del disincanto, il volto del degradato quotidiano in cui faticosamente consumiamo la nostra sopravvivenza. Una sopravvivenza i cui sforzi, eroici quanto frustrati, sono tutti concentrati nella persona – che tale narrativamente possiamo dirla – del baobab, gigante buono che soffre, per noi tutti, il senso di uno spaesamento non solo geografico ma esistenziale. Di fiabesco, allora, in questo romanzo scritto con la penna leggera ma incisiva di un moralista, non c’è proprio nulla, anche se alcuni toni surreali e grotteschi potrebbero trarre in inganno. C’è anzi molto realismo, se i registri volutamente eccessivi ricordano più il colorato e caricato mondo della televisione, che Matteucci ben conosce, piuttosto che quello delle fiabe. Testimonianza di questo realismo è anche la rarefazione dei dialoghi, che ben riflette l’incomunicabilità di personaggi legati tutti a doppio e triplo filo da rapporti d’amore e di parentela. Ma nonostante questi legami, tra loro non corrono parole. Non si dicono niente di rilevante, non si comunicano mai sentimenti o desideri profondi e se devono parlare lo fanno solo per discutere di cose vane e prive d’importanza. L’unica possibilità che hanno di capirsi profondamente è il silenzio, come se ormai l’intimità vera, per essere recuperata, dovesse, nel mondo per eccellenza della “chiacchiera”, evitare accuratamente tutte le parole, ormai troppo logore e banalizzate. Così quando Manlio scopre che Barbara, nella sua paradossale naturalezza corporea, è diventata un’attrice di b-movie pornografici con il nome d’arte di Kristina, la andrà a prendere al commissariato di polizia, troverà tutti i vhs e li farà incenerire. Senza dire una parola a nessuno. In fondo il mondo fatuo della televisione non è il colpevole, ma solo il tragico specchio della mancanza di vita dell’esistenza contemporanea. La sua vocazione scenografica, che lo scrittore sa trascriverci con sapiente gusto del divertissement, si intromette nel nostro banale quotidiano che scorre amorfo non tanto a deformarlo e a falsarlo, quanto a imprimervi gli illusori colori Caffè Michelangiolo di una inesistente realtà. Non c’è lieto fine in questa storia, perché nessuno dei personaggi che la compongono è in grado di contrastare il suo peggior nemico: se stesso. E così, sembra dolorosamente dirci Matteucci, a contrastare il male non basta il blu di Prussia degli occhi di Umberta, protagonista assoluto della Notte stellata di van Gogh che Samir ha dipinto sulla scenografia di una festa che non si farà. Costanza Melani NOTE 1 F. Matteucci, Festa al blu di Prussia, Fazi editore, Roma, 2005. 2 Ivi, p. 167. Franco Matteucci Festa al blu di Prussia Fazi Editore, Roma 2005 pp. 208. € 14,50 Una voluttà secca e vertiginosa D ifficile non lottare col manierismo, quando si scrive di Trieste. Con alle spalle Svevo, Slataper, Saba; i cieli del mitteleuropa che stillano autoanalisi e sconfitte sul volto sofferente o inconclusivamente disteso di impiegati, passeggiatori, burocrati. Docili prede di ossessioni e schizofrenie (le «piccole voci» di Longo), di donne-madriamanti (infermiere, per essere brevi), che si trasformano pian piano in città, sedativi e montagne. Quindi in geografie e anatomie immaginarie di Trieste stessa, da percorrere in sogno, a capo chino, o da ingoiare dentro l’ostia del disincanto come una medicina efficace e amara. Esiste però (e fortunatamente), un’onestà della maniera, un suo interno movimento raziocinante, che – senza entrare in questioni fin troppo dibattute – può essere misurato col piacere donato al lettore da una penna robusta, consapevole. Convinta, soprattutto, che non sempre è necessario dire qualcosa di nuovo, ma piuttosto esprimere (il meglio possibile) qualcosa di urgente. Così il nuovo volume di rac- conti di Giuseppe O. Longo, dove chi vuole potrà trovare tutti i temi cari alla migliore tradizione mitteleuropea e triestina (anche gli odori sensuali e asettici di un sanatorio; la carnalità malata, desiderante, che si raggela e quindi esplode in tripudi colpevoli d’amore e morte) e chiunque potrà godere ottime, dense pagine di narrativa. Prodotte da un autore triestino solo d’adozione – Longo è nato a Forlì – che, nel racconto autobiografico Signora Enzi, segue l’incespicante svelarsi della città sotto i suoi occhi di studente trapiantato, alle prese con la Canzone all’Italia di Petrarca da imparare a memoria. C’è anche questa macerata ironia, nelle pagine di Longo, oltre al motivo di un’impossibile mappatura di strade e sussulti respirati in una città inafferrabile eppure paradossalmente eletta a tópos: della nostalgia, dello sradicamento, della ricerca poco zelante e sempre fallimentare di un significato e di un’appartenenza. E questo non solo nella lunga tradizione di cui si diceva, ma anche in Longo, fin dalle precedenti prove narrative (Di alcune orme sopra la neve, 1990; L’acrobata, 1994; soprattutto La gerarchia di Ackermann, 1998). Per cui Fulvio Senardi 77 Le letture può ben commentare, nella sua quarta di copertina: «È proprio questa Trieste, o essa vien fatta vibrare dei fertili miraggi di una fantasia incline ad angosciosi stupori? Poco importa: un altro tassello va comunque ad aggiungersi al suo mito, consacrandola, nel segno di una provocatoria alterità, a icona di una collettiva condizione esistenziale». Un’icona – lo dice il titolo – in cui s’inseriscono figure simili a quella chiamata ad illustrare il volume: la trasparenza di Alberto Zannoni, omaggio a Magritte e perfetta istantanea del destino entro cui si muovono i personaggi dei sette racconti. Tutti maltrattati e corrosi dalla bora di Trieste, «inquieta e tormentosa», tutti variamente votati – come Riccardo, il cerebrale amante della Signora Moltrè – a divenire un «involucro fragile e leggero, come il guscio di certi insetti morti che il vento muove qua e là e che possono essere sbriciolati con una pressione minima, trasformandosi in una polvere bruna, lucida e impalpabile prima di sparire definitivamente nella variegata immensità delle cose». Lo svaporare della vita, del senso, della ricerca, dunque, declinato nelle spire del desiderio sfinente e sfinito (Lezioni di lingua tedesca), nel rifugio della patologia mentale (Precoci inverni, Le piccole voci), negli svuotamenti della vecchiaia («un procedere nel giorno senza procedere», Signora Enzi) e, in maniera ancor più didascalica e terribile, nel concretissimo resistere dei mattoni di san Sabba, di quella Risiera convertita a forno crematorio, che invade la materia epistolare del racconto Il reddito della vergogna: «Caro signor Pliska […] i campi di sterminio non si possono concepire se non in certi luoghi e paesaggi, non si può immaginare un campo di sterminio in Sicilia o in Romagna o in genere in Italia se non appunto a Trieste […] perché in fondo Trieste fa già parte dell’Europa Centrale, anzi dell’Europa Orientale» a cui è legata ormai «da una robusta corda di follia, da un’eco riverberante di omicidi e stupri e mazzate sulla nuca e di camere a gas e di camion col motore acceso rombante nella notte per coprire le urla e l’ansito continuo basso ruggente del forno che andava a tutto vapore, il fumo che si dissolveva acre e pesante nell’aria grigia, vicino alle case addormentate, o 78 forse in veglia atterrita nella notte gelata, tra le folate di bora cattiva dagli altipiani del Carso». Una scrittura intensamente carnale, quella di Longo. Sia quando è calata nelle movenze del racconto tradizionale (ma si consuma un giallo volutamente blando e irrisolto in Da un paese lontano, come nelle Lezioni di lingua tedesca si celebra un ménage à trois tutto mentale), sia quando approda al monologo e al frammento, liberando la punteggiatura e la stessa veste grafica del testo. Soprattutto nel racconto finale, Trieste: ritratto con figure, che dà il titolo alla raccolta e passa in rassegna i temi forti non solo del volume, ma dell’intera produzione di Longo. Si tratta dell’unico testo inedito, dalla lunghissima gestazione (maggio 1990 – luglio 2003); storia di un appuntamento inventato e mancato, in cui ogni parola è una scheggia, una trafittura: «lei cammina più in fretta i mariani svogliati parlando ridendo la lasciano andare incontrarono quattro ragazze giovani ridenti parlanti le teste vicine scotevano i capelli seguirono quelle lei con la borsa da bagno di fronte al bar potrebbe mangiare qualcosa potrebbe sedere anche nella sera di fronte alla chiesa ai lampioni decise di andare». Quanto questa lei, automa e bambola imprevedibile, venga fatta coincidere con la Trieste che incanta, s’addolora e sferza lo dice però chiaramente un altro racconto: in Precoci inverni, la voce narrante – un uomo rinchiuso in sanatorio – finisce per ammettere di aver commissionato un manichino con le sembianze della moglie, come già Kokoshka aveva fatto per amore di Alma Mahler. Lo scopo? «Avrei avuto sempre davanti ciò che era per me, penetrandola avrei penetrato me stesso e ne avrei avuto una voluttà secca e vertiginosa, come quando rientrando la sera nell’appartamento di via Geppa mi fermavo nell’anticamera oscura, aspettando di udire una voce, la sua voce». Quella gelida, lontana e irrinunciabile di Trieste. Elena Frontaloni La penna del saggio L a verità: questo sembra essere l’imperativo che muove la scrittura di questi aforismi di Antonio La Penna. A leggerli si prova la medesima soddisfazione che danno le sue pagine saggistiche, così ricche di sostanza, così materiate di vastissime letture e conoscenze e riferimenti al mondo antico e moderno. Ma nessuna arroganza intellettuale, nessuna presunzione di possedere la verità, nessuna volontà di farci la lezione di morale: anzi, La Penna prova una certa compassione per la vita e la sorte di «noi poveri intellettuali», che non viviamo nel presente ma per lasciare ai posteri opere che essi magari non leggeranno nemmeno. Forse, aggiunge, tanti di noi faranno la stessa fine di Mario Rapisardi, famigerato versificatore ottocentesco, che scrisse vaste opere oggi illeggibili. Non interessa al lettore sapere a quale ideologia La Penna sia vicino per capirne le prese di posizione. Non c’è che da abbandonarsi al piacere dell’incontro con le sue appuntite riflessioni. Ed ecco il sacrosanto sdegno per il vile assassinio di Lumumba (che l’Europa consentì, se non volle), la desolata constatazione dell’impotenza dell’intellettuale engagé, la constatazione della stupidità di espressione delle donne della pittura senese Giuseppe O. Longo Trieste: ritratto con figure Mobydick, Faenza 2004 pp. 204. € 13,00 Caffè Michelangiolo Le letture medievale, lo stupore dinanzi all’ambiguità di Togliatti e alle elucubrazioni della teologia cattolica e dell’idealismo tedesco, lo sgomento dinanzi all’eterno conflitto israeliano-palestinese, la disapprovazione per «l’invadenza televisiva straripante della Chiesa cattolica» e per la «diffusa insensibilità verso la sofferenza degli umili». Per alcuni aspetti l’Italia di oggi è sempre quella descritta da La Penna nel 1967: in quell’anno la TV gli appare forgiata come se l’Italia tutta fosse un asilo infantile. Poi ne condannerà il turpiloquio e il fatto che la TV rispecchia esattamente le divinità dominanti: Sesso e Profitto. Presto si fa strada una vena di scetticismo: sappiamo vedere i mali della società, ma non sappiamo indicare il rimedio. Il premio Oscar Adrien Brody sulla spalla di Bryce Dallas Howard. Gustosa l’intolleranza per quelli che giudica «filibustieri della cultura» (Curzio Malaparte, Indro Montanelli, Pasolini «giullare nato» e «buffone», Carlo Bo, del quale Cesare Questa è «buffone» di corte), per l’ultimo Montale rifugiatosi, sia pure a malincuore, tra le «forze più retrive della società italiana» (si allude ovviamente al suo lavoro presso il “Corriere della Sera”; del resto aggiungerà poi che anche i più ribelli dei nostri letterati, come Pasolini, «approdano tranquillamente al “Corriere della Sera”), per la «banalità» dei «gazzettieri». Tra questi pone Biagi (ma non siamo tenuti a condividere), Montanelli di nuovo (ma va riconosciuto il valore civile delle sue ultime posizioni politiche), Baget Bozzo, detto «prete da salotto» (e qui è più facile essere d’accordo). Tuttavia la definizione, pur tagliente, mi appare indulgente verso, direbbe Foscolo, uno dei Caffè Michelangiolo Eugenio Montale. «Protei famosi» della attuale vita politica italiana. Il personaggio, cambiacasacca di professione, non ha fatto che saltare sempre sul carro del vincitore del momento: antifascista e cattolico di sinistra da giovane, presto attaccò la Resistenza e divenne democristiano tambroniano. Negli anni sessanta si schiera su posizioni anticonciliari e lefebvriane. Dopo il ’68 si schiera col Concilio, si avvicina di nuovo alla sinistra, diventa collaboratore fisso di “Repubblica”, è folgorato da Craxi e dal craxismo imperante. Infine approda alla corte di Berlusconi e diventa l’ideologo ufficiale di Forza Italia. Di Berlusconi Baget Bozzo ha scritto che è «un evento spirituale», «energia liberata per sfidare l’impossibile», «grande intuizione religiosa», in un crescendo di visionarietà. Di questa nei suoi molti libri dà esemplicazione abbondante. Ma, al di là dello stile involuto, risaltano chiare le sue posizioni, ispirategli, sue parole, da una “Voce” divina: rivaluta il fascismo e Salò, deride la Resistenza, inneggia ad Haider, inserisce addirittura l’Olocausto e Berlusconi in un disegno della Provvidenza, scrive pagine di fuoco contro il «giudaismo», contro il comunismo, contro l’Islam detto il «demoniaco». Chi voglia avere maggiori informazioni al riguardo legga di Simon Levis Sullam L’eterno ritorno di Baget Bozzo (“Belfagor”, a. lx, n. 1, 31 gennaio 2005, pp. 100-104). La Penna non risparmia Asor Rosa, definito critico «brillante, paradossale, abituato da tempo ai pasticci teorici e ideologici», simulante una falsa «autonomia da eretico». Frecciate anche per il mondo accademico, per la sua «fregola» di pubblicare opere che meglio sarebbe rimanessero inedite. Fulminanti alcuni aforismi. Nel 1973 scrive: «La storia è fatta dai gangster, è scritta dai conformisti». Più avanti è esplicito al riguardo: «Che gli Stati Uniti siano governati da un pugno di gangster, non è rivelazione che possa stupire molta gente». Erano gli anni della guerra statunitense-vietnamita. I devastanti bombardamenti al napalm americani suscitavano proteste popolari e diplomatiche in tutto il mondo. Sempre nel 1973 in Cile il presidente Allende è ucciso dai militari di Pinochet il quale instaura una dittatura san- Il premio Oscar Roberto Beningni sulla spalla di Nicoletta Braschi. guinaria con l’appoggio economico degli Stati Uniti. Soccorrono riflessioni apparse su alcuni autorevoli giornali statunitensi dopo l’11 settembre e in occasione del successivo attacco all’Iraq. La politica estera americana dal 1960 in poi ha sperperato il patrimonio di guida politico-morale acquisito con la vittoria sul nazifascismo, ha sostenuto e sostiene regimi non democratici o apertamente dittatoriali, ha lasciato incancrenire la situazione israeliana-palestinese (dove le vittime di un tempo, chiosa La Penna, sono diventate i carnefici di oggi, come accadde nelle rivoluzioni francese e russa), è riuscita a inimicarsi una parte del mondo e, sorda alle esortazioni in senso contrario, se non d’altri, dei papi, ha creduto di risolvere i problemi internazionali con guerre infinite. Qual è la differenza morale, si chiede La Penna, tra il terrorismo e i 79 Le letture Pier Paolo Pasolini. bombardamenti aerei? Non sembra che la storia insegni molto ai politici. Noi purtroppo, dice ancora La Penna, si vive nella storia come «immersi in una palude»; non possiamo far nulla. Ma questo non vuol dire però che bisogna per forza «piegarsi, umiliarsi, scendere al servilismo», abdicare alla propria intelligenza. Attuali trovo le considerazioni sul sorgere e risorgere di movimenti di protesta che si collocano a sinistra della sinistra ufficiale. L’emarginazione economica e la disperazione sociale, che né i cosiddetti “moderati” né la sinistra sanno eliminare, spiegano quei movimenti. Fate una legge, dice ironicamente La Penna, che proibisca la disperazione e mandate in manicomio i disperati. Ma è così che si curano i mali della società? Recisa la professione di materialismo: «L’uomo è tutto materia sin dalle origini e non si libererà mai dalla materia: non c’è redenzione». Dura la condanna del cinico «conformismo» di attori come Tognazzi e Sordi o del «buffone medievale» Benigni. È manifestata stima per Dario Fo. Non male la definizione dello stato sovietico prima di Gorbaciov come «impero bizantino» (non che oggi la Russia sia una democrazia vera o che abbia rinunciato a una politica imperiale: vedi Cecenia). Nessuna indulgenza insomma per regimi autoritari di qualsiasi colore. Non poche le riflessioni dedicate agli studi che La Penna coltiva, ovvero agli autori classici e al mondo antico, ma anche agli autori moderni. Ricca la serie di considerazioni filosofiche o di filosofia della storia. 80 Con gli anni si fa sempre più forte in La Penna la convinzione di vivere come intrappolato in una realtà ripugnante, una vera e propria «fogna» o «melma», in cui trionfa la «gregalità» e la «volgarità» di massa. L’Italia scoperchiata da Mani Pulite gli appare «un paese corrotto e carnevalesco». Assai scarsa la fiducia negli italiani, che si lasciano dominare da Ballon de suif (Spadolini), da Andreotti, da Craxi, o che tengono a galla «un buffone come Pannella» (col corredo dei suoi radicali istrioneschi e servili). Senza attenuanti la condanna dell’attuale governo. Non meno severa la critica ad alcuni leaders della sinistra (D’Alema, Amato, Domenici; ma stima è espressa per Rosy Bindi e Rosa Russo Iervolino), al centrosinistra («un alveare impazzito») e allo stesso presidente della repubblica, punzecchiato per la sua «banalità» e prevedibilità. Il futuro immediato «è buio». È venuta meno inoltre «la certezza di un senso complessivo della realtà» come «totalità organica». Ammira senza riserve chi sacrifica la sua vita per aiutare il prossimo, come l’eroica crocerossina italiana uccisa in Somalia. L’impressione finale e complessiva che lascia questo denso volume è ben racchiusa dalle parole di Massimo Mugnai, che ne firma la presentazione: esso dà «un forte stimolo a non rassegnarsi al conformismo, di qualunque tipo esso sia: accademico, culturale o politico» e ci esorta a non perdere mai la lucidità critica necessaria a capire e giudicare la realtà. Siamo dinanzi, scrive giustamente Carlo Carena (Istruzioni per sopravvivere, “Il Sole 24 Ore”, 5.6.2005, p. 30) a un «raro libro» che fa «profondamente riflettere» e induce ad «ammirare questi studiosi di un passato remoto che prendono posizioni impavide nelle vicende del proprio tempo». «Sono nato su un treno mentre la città bruciava» S hulim Vogelmann, nato a Firenze nel 1978 e laureatosi in Storia all’Università Ebraica di Gerusalemme, ha tradotto dall’israeliano all’italiano molti autori, tra cui Dan Benaja Seri, Haim Be’er e Nathan Shaham e creato la nuova collana «Israeliana» per la casa editrice La Giuntina. Mentre la città bruciava è il suo primo libro. Questo romanzo, insieme diario e storia di una formazione individuale e collettiva, attraverso le vicende e i pensieri di un giovane ebreo italiano alla ricerca delle proprie radici e della propria identità, ci offre uno spaccato storico sulla realtà israeliana degli ultimi anni, illuminandone snodi e contraddizioni. Shulim lascia Firenze e la sua famiglia il 3 agosto 1997, subito dopo la maturità, per una vacanza-studio con l’obiettivo di imparare l’ebraico e di conoscere un paese, Israele, e una città, Gerusalemme, tante volte immaginati, ma mai realmente conosciuti. Il viaggio di Shulim ha inizio sotto il segno dell’entusiasmo e di una certa leggerezza e inconsapevolezza, che gradualmente, però, si trasformeranno in una visione problematica e appassionata Angelo Fabrizi Antonio La Penna Aforismi e autoschediasmi. Riflessioni sparse su cultura e politica degli ultimi cinquant’anni (1958-2004) Presentazione di Massimo Mugnai, Biblioteca di Letteratura diretta da Gino Tellini Società Editrice Fiorentina, Firenze 2005 pp. 302. € 18,00 Caffè Michelangiolo Le letture di quella stessa realtà, in seguito ad un’iniziazione sentimentale (il rapporto con Tali) e politica (l’incontro con amici con i quali condividere la stessa ansia di porre domande e di cercare risposte non definitive, il lavoro come segretario di Fiamma Nirenstein, la decisione di laurearsi in Storia e di rimanere in Israele) che sfocerà nella scelta di diventare cittadino israeliano. La storia di un ragazzo, dunque, in cerca della propria indipendenza e identità si intreccia con quella dello Stato d’Israele, segnata dal fallimento di Camp David e dall’inizio della seconda intifada palestinese, da attentati, kamikaze, rappresaglie e tensioni fortissime. La storia, sempre presente, ma vista attraverso gli occhi di ragazzi israeliani, pronti al confronto e affamati di comprensione, si manifesta con le sue contraddizioni e la sue ingiustizie, senza illusioni o tentativi consolatori. La guerra in Irak, il terrorismo internazionale, l’attentato alle Torri Gemelle, i problemi legati agli integralismi religiosi nel mondo e quelli legati all’integrazione e alla convivenza di diverse culture convergono nel racconto di Shulim non come una semplice cornice bensì quale contesto necessario e ineliminabile di riferimento. In questo percorso di maturazione e di acquisizione di una chiara identità, la memoria ha naturalmente un ruolo fondamentale e costituisce il filo rosso che dal passato si rivela in grado di dare significato al presente, il presupposto senza ripercorrere il quale nessuna vita può trovare la sua realizzazione, tanto meno quella di un intero popolo. Il titolo di quest’opera ne è la prova: «Sono nato su un treno mentre la città bruciava» è la frase pronunciata dal nonno di Shulim, miracolosamente sopravvissuto, dopo essere stato ad Auschwitz, dopo aver vissuto sulla propria pelle la tragedia di un popolo perseguitato e devastato. Shulim, attraverso il recupero di questo passato comune, costruisce la sua esistenza presente e pone le basi di quella futura: Mio nonno […] con l’enfasi di un grande attore che si appresta a recitare la storia dell’umanità rivela: «Sono nato su un treno mentre la città bruciava»[…]. Mi ripeto quella frase, Caffè Michelangiolo commovente, perfetta. «Sono nato su un treno mentre la città bruciava» continuo a sussurrarmi. «Una frase così ebraica,» mi dico «triste e ironica al tempo stesso»1. Il libro si chiude con il ritorno di Shulim in Italia nel dicembre del 2002. Ora Shulim è in grado di spiegare all’amica italiana Irene, ma soprattutto a se stesso, le ragioni che lo hanno portato a rimanere in Israele e a chiedere la cittadinanza israeliana e cosa vuol dire per lui essere israeliano: «Ecco! Essere israeliano per me significa essere libero, normale, questo è il sionismo per gli ebrei: essere liberi, normali»2. Monica Venturini NOTE 1 S. Vogelmann, Mentre la città bruciava, Editrice La Giuntina, Firenze, 2004, pp. 95-96. 2 Ibid., p. 253 Shulim Vogelmann Mentre la città bruciava Editrice La Giuntina, Firenze 2004 pp. 256. € 12,00 Sulla scrittura aforistica di Alberto Caramella L a seguente indagine prenderà in considerazione soltanto una parte dell’ultimo robusto volume caramelliano intitolato Il libro liberato1; si soffermerà, infatti, solo sulla sezione Emistichi. Questo perché voler indagare un così vasto corpus in poche righe sarebbe tentativo vano e pretenzioso. D’altra parte una lettura parziale è autorizzata dallo stesso poeta che divide il volume in itinerari, in molteplici percorsi di liberazione. Ciò non vuol dire, tuttavia, che quel che ne uscirà non possa esser utile mappa a coloro che si inoltreranno per sentieri diversi. Nell’aprire queste pagine vorrei prima di tutto esaminare il titolo del nuovo lavoro: Il libro liberato. In esergo figura una prosa (accompagnata da una poesia che però, si badi bene, non è una sua semplice trascrizione, poiché ne completa il senso), che è una specie di segnavia per il lettore che volesse inoltrarsi nella selva dei significati. Il tema è presente in tutta la produzione caramelliana e potrebbe essere sintetizzato nella seguente domanda: il libro liberato è stato liberato fruttuosamente o vanamente2? Il poeta (come ogni poeta, come ogni uomo) si chiede, cioè, se la sua opera avrà un seguito, se altri sapranno cogliere la sua eredità. La scrittura, dice l’autore, è costruzione di sé stessi, è ritrovare il proprio luogo originario (o sito, parola cara a Caramella), così come fa il salmone che risale le acque avverse3 o come fanno certe popolazioni del nord America che ripercorrono a ritroso le proprie orme lasciate sulla terra. Ma se il salmone e le popolazioni del nord America ritornano, lo fanno per due fini differenti: l’uno per generare e rinascere, gli altri per sparire. Quale il destino caramelliano? La domanda, che qui non trova risposta, una sua risposta l’aveva invece trovata nella prosa Libertus: «La parola fine, qualsiasi cosa voglia dire contestualmente annulla e distrugge, mentre mostra di accogliere e conservare nel limite ormai definito. Dunque fine perché non è fine. Qualcosa, dopo, accade: anche niente. Allora vale la pena di ammetterlo: il libro liberato è un libro senza fine»4. Sia quel che sia, il poeta (l’uomo) un’eredità la lascia sempre perché anche il non lasciar nulla è un’eredità. 81 Le letture Ben poca cosa forse, ma, come scrisse Benjamin, proprio perché è poca cosa deve essere custodita gelosamente. Dunque ad una stessa domanda, in tempi diversi, due risposte differenti. In questo è tutto Caramella: nella sua volontà di sempre interrogarsi, di sempre affannarsi a capire|capirsi, Ebreo Errante del pensiero, sempre in cammino, senza mai riposo. Veniamo, dopo questa doverosa premessa, a Emistichi. Arturo Onofri, in “La Voce” bianca di De Robertis, annotava con l’abituale tono polemico: «Tre righe valgono tre pagine; tre pagine valgono tre volumi. Lo spazio è una cretina illusione; e perciò s’impone la svalutazione del grande, del mastodontico; che è inevitabilmente imbottito di stoppa discorsiva, logica, letteraria, impoetica»5. Il Libro liberato, ancor più degli altri volumi editi precedentemente, mostra pienamente la vocazione aforistica di Caramella, nel senso di una precisa scelta stilistica di brevità ed essenzialità. Se è vero, infatti, che la sua produzione lirica è vasta (Maurizio Cucchi, nella prefazione a Lunares Murales, ha parlato di «generosità» e di «disposizione espansiva della sua poesia»)6, è anche vero che è difficile trovare nell’intero corpus poetico componimenti che superano i venti versi. Anzi, dirò di più: molti sono costituiti da due-tre versi soltanto. La sezione Emistichi è paradigmatica di tutto questo ed il titolo stesso (l’emistichio è ‘uno dei due versi brevi, detti anche versicoli, che concorrono alla formazione di un verso lungo’) sottolinea questa brevità. Si tratta di ottantuno componimenti che raramente superano i cinque versi «brevi, asciugati come gli ossi delle seppie e rosicchiati altrettanto dalla sabbia del tempo e dell’esperienza» (per citare le parole di Caramella stesso riferite alla poesia di un amico|collega, Alfredo Lucifero)7, ogni parola è soppesata, isolata ed esaltata. Ogni vocabolo, nudo, essenziale, emerge da un assoluto silenzio. Non per questo si creda che Caramella sia un poeta naïf: lo scopriamo, infatti, un virtuoso dell’endecasillabo che si esprime con una mirabile strumentazione verbale fatta di giochi ritmici, di consonanze, assonanze, omofonie, allitterazioni, metafore, similitudini, chiasmi, anafore, con l’esplicito richiamo e con l’altrettanto esplicita infrazione alla tradizione poetica. È una brevità 82 Alberto Caramella in uno scatto di Carlo Delli. che stilisticamente rimanda senz’altro agli amati Ungaretti e Penna, ma che nasce anche da una precisa visione del mondo. Difatti l’aforisma è la forma più perfetta di opposizione ad un pensiero sistematico. Il pensiero sistematico è esaustivo e totalizzante (perché vuole potere); l’aforisma, invece, è pensiero frammentario, nasce dall’incertezza. L’aforisma, a differenza della scrittura sistematica, è complexio oppositorum non virtus unitiva e l’aforista è un artigiano che procede, con cura attenta, per dettagli, senza la pretesa di creare un mondo. Inoltre, come ho già avuto modo di scrivere8, l’ironia, costante in Caramella, ha proprio lo scopo di combattere il pericolo di un pensiero che riconduca tutto ad una compiutezza, ad un’organica unità. Ma certa scrittura caramelliana si può definire aforistica anche per la facoltà di sorprendere, per il capovolgimento che viene attuato. Quella di spaesare il lettore è sempre stata una caratteristica dell’autore, sin dalle sue prime composizioni. Si prenda la prima strofa di Murales: «Sei alto? | Sarai uno scheletro lungo. | Corri? | Ti fermerai. | Sei fermo? | Cadrai. | Credi? | Il buon Dio ti aiuti. | Vedi? | Sarà più compatto il buio»9 o ancora Iconografia: «Getti il tuo seme al vento | nasce lontano un figlio»10 e infine Congedo I: «Nessuno lascerà | traccia sulla terra | non siamo numerosi abbastanza nemmeno | per il petrolio»11. Si tratta di rovesciamenti comici che ricordano quelli effettuati da Jacques Tati12 in molti suoi film. Un esempio: in Les Vacances un bambino porta su per le scale due coni gelati che ci si aspetta cadano da un momento all’altro, mentre in realtà ciò non avviene. Il riso – o soprattutto il sorriso – apre la strada alla riflessione tragica dell’essere gettato nel mondo. Leopardianamente, la leggerezza nella tragicità, il sorriso sulla bocca della disperazione, nel dolore della caducità l’amore per il vivente: «Questo libro è dedicato | ad un muscolo facciale; | ad un’ombra di sorriso»13. Un sorriso pietoso, nonostante il tragico destino dell’uomo, e che pone le premesse per quella necessaria accettazione della vita per ciò che essa è14. Non sarà un caso che in copertina figurino questi versi: Nella Ferrari, azzurra folgore, è morto fuori strada. Che sognava nel buio e nei fanali. E feroce sotto il sedile scoppiava cantava il Silber Vogel l’uccello d’argento: (Coupé Fiat 2300). Se la proviamo c’è Pietà nel Tuo creato. Veniamo adesso all’analisi di alcuni emistichi dove le tematiche che sono andato esponendo trovano la loro piena attuazione. Si prenda l’aforisma a p. 156: Il padre muoia per vivere il padre. Quello dell’uccisione paterna è tema freudiano sin troppo noto: uccidere il padre è, simbolicamente, divenire adulti. Ma, in ultima analisi, vuol anche dire identificarsi con il padre, per ereditarne la legge. L’essere adulti, con la rinuncia ai sogni dell’infanzia, è stato sempre un tema sofferto per Caramella; si veda, ad esempio Mompracem, 5-9: «L’isola della libertà | l’isola della fantasia | era caduta. | Era finita | l’adolescenza mia»15 o, con altre parole … E per terra, 43-44: «il sogno è finito | finito il piacere»16. Ancora a p. 153 si legge: Siamo tutti fedeli plurali. L’aforisma può essere interpretato variamente17: siamo tutti fedeli alla pluCaffè Michelangiolo Le letture ralità (viene cioè ribadito il concetto novecentesco della pluralità dell’Io caro a Pessoa e a Pirandello, per citarne alcuni) oppure, in chiave decisamente ironica, siamo tutti poligami con fedeltà: fedeli, dunque, a più donne e non ad una sola. Da p. 151: Per amore o per forza la forza forza. È una riflessione per l’Altro, contro ogni sua possibile appropriazione. La forza (che sia bruta o ammantata d’amore) resta sempre forza, volontà di possesso, di limitazione. L’Altro, invece, deve restare differenza irriducibile. Un tema, questo, che ricorre ossessivamente in tutta l’opera caramelliana e che è fatto di continue variazioni che ricordano quelle di Claude Monet sulla cattedrale di Rouen, quelle superfici materiche ispirate dai diversi effetti di luce durante il giorno sulla facciata della cattedrale. Soffuso di leggera malinconia l’emistichio a p. 149: Specchio di bella gioventù scrivono riscuotere col qu. che ricorda una nota poesia di Penna: «Felice dono | la vita mia| lieto abbandono | l’ortografia». I giovani non hanno tempo per scrivere la vita (per questo ogni tanto fanno errori di ortografia): la riscuotono|vivono. Di un’amorevolezza sconcertante i due versicoli di p. 157: Piacere di vederti Amico mi piacquero persino le tue rughe. L’Amico (altre volte chiamato Domenico Barberis), sorta di alter-ego dell’autore, accompagna la poesia caramelliana sin dagli esordi. L’Amico è colui che detta, sorta di Musa. Il piacere di rivedere l’Amico consiste nella gioia di aver ritrovato la vena artistica, di aver dato alla luce una nuova opera, nuove righe18 ormai invecchiate (perciò dette rughe) perché lunga è stata la frequentazione con la poesia (dal 1945 a stare a quanto si dice in esergo a Mille scuse per esistere). Ironicamente amaro l’emistichio a p. 151: Perché chiamare ideal-ismo il semplice ego-ismo? Caffè Michelangiolo La battuta deve leggersi tenendo presente la filosofia dell’idealismo che, secondo Fichte, è quella posizione filosofica che consiste nel partire dall’Io e dal soggetto per poi spiegare la cosa o l’oggetto. D’altra parte, asserisce Caramella, l’ideale non è anch’esso una proiezione della nostra egoità? Chiudo l’analisi con un emistichio pieno d’umorismo, quello a p. 158: Difficile è pensar concretamente al mondo quando sei morto cessato il mondo prosciutto cotto gran biscotto. Se il morire è cessazione del pensiero che angustia, è tuttavia anche privazione della gioia di vivere, del suo ricco sapore, del prosciutto cotto gran biscotto come asseriva un noto slogan pubblicitario. Caramella gioca con la réclame sia perché essa dipinge sempre il mondo come tutto fatto di odori e sapori appetibili (più dolente sarà, allora, il morire) sia perché il prodotto reclamizzato richiama per la sua forma ovoidale la Terra. 14 Così lo stesso Caramella in Cur properes …, cit., p. 71: «Bisogna vivere ed amare senza perché. Bisogna abbandonarsi all’onda bisogna essere parte dell’universo con fiducia e senza domande. O, almeno, senza troppe domande». 15 Id., Mille…, cit., p. 29. 16 Id., I viaggi del Nautilus, postf. di C. Mezzasalma, Le Lettere, Firenze, 1997, p. 166. 17 Ciò coerentemente con la poetica caramelliana, per cui cfr. Ego ed alter ego, in Id., Festa di Vivere i Mostri del Moto, intr. di M. Cucchi, Editrice Artichaut, Firenze, 2001, pp. 111-120, a p. 120: «L’Amico si sforza di raggiungere la leggerezza senza perdere il contatto rassicurante col peso della parola polisemica e vaga». 18 Non si scordi che il poeta chiama le sue poesie righe: «Il vizio di scrivere righe (così Domenico le chiamava, con se stesso e con me: per ragioni sue tra le quali non ultime umiltà ed incertezza)», in Milleuna, in Id., Festa…, cit., p. 219 e ancora: «La compagnia che le mie “righe” (così chiamo la mia poesia)…», in La felice scommessa. Dialogo con Alberto Caramella, in “Feeria”, 11 Giugno 1997, pp. 47-50, a p. 47. Alberto Caramella Il libro liberato Prefazione di Dante Maffìa Passigli Editori, Città 2005 pp. 370. € 28,00 Claudio Mariotti Note al testo NOTE A. Caramella, Il libro liberato, pref. di D. Maffia, Passigli, Firenze, 2005. 2 Noto di passaggio che libro liberato allude evidentemente alla pratica in uso nell’antica Roma, di affrancare gli schiavi meritevoli. 3 Analogo concetto in L’ultimo capo, in Id., Mille scuse per esistere, intr. di G. Luti, lettera di M. Luzi all’autore, Le Lettere, Firenze, 1995, p. 149. 4 Libertus, in Id., Pulizia (o del percezionismo), pref. di A. Noferi, Passigli, Firenze, 2004, pp. 104-105, a p. 105. 5 “La Voce”, 16 Giugno 1915. 6 M. Cucchi, Libro azzurro e lunare, in A. Caramella, Lunares Murales, prefazione di M. Cucchi, postf. di C. Cavalleri, Le Lettere, Firenze, 1999, pp. vii-xiii, a p. viii. 7 A. Caramella, Cur properes amando?, postfazione a A. Lucifero, Epigrammi per Lesbia, Foggia, Bastogi, 2003, pp. 69-71, a p. 70. 8 C. Mariotti, Alberto Caramella o del sapere tragico, in A. Caramella, Poesie, a c. di C. Mariotti, Polistampa, Firenze, 2003, pp. 11-21, a p. 19. 9 A. Caramella, Lunares…, cit., p. 251. 10 Id., Mille …, cit., p. 55. 11 Id., Cartella di vacanza (sur le Lac Léman), Polistampa, Firenze, 2000, p. 56. 12 Autore così amato da Caramella da esser esplicitamente citato nella lirica Il passaggio di Hulot, in Id., Mille…, cit., p. 6. 13 Id., Mille…, cit., p. 228, poi in Id., Interrogazione di poesia, Crocetti, Milano, 2000, p. 38. 1 C arissimo Francesco, ti ringrazio dell’attenzione che ha voluto dedicare al libro La ferita di Garibaldi ad Aspromonte. Documenti e lettere inedite a Ferdinando Zannetti, a cura di Gabriele Paolini, pubblicato nelle edizioni Polistampa di Mauro Pagliai (giugno 2004). Nella tua stimolante recensione apparsa nel fascicolo di “Caffè Michelangiolo”, anno x, n. 2, pp. 61-62, colgo tuttavia un qui pro quo che desidero segnalarti e che vale la pena chiarire al lettore. In una pagina del libro si parla sia della palla estratta sia del provvidenziale specillo che consentì di appurare la sussistenza di solfuro di piombo nella ferita al piede destro di Garibaldi, e per conseguenza del proiettile. Del quale una specifica Nota alla pagina 31 precisa: «Fino a pochi anni fa, era conservato presso il Centro di Documentazione di Storia della Sanità e dell’Assistenza a Firenze, in Borgognissanti, ma attualmente non risulta più essere presente». È dunque lo specillo del chi- 83 Le letture Renato Guttuso, Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio (part.), Firenze, Uffizi. rurgo francese che non si sa quale fine abbia fatto, non la palla la quale – è cosa nota – si trova tuttova presso il Museo del Risorgimento a Roma, donata una trentina di anni fa a Emilia Morello, a quel tempo la direttrice, da un appassionato cultore siciliano, Salvatore Tringoli. Mi preme mettere a fuoco questo punto per due ragioni. La prima, per rimarcare che in nessuna parte del libro si dà per “scomparsa” la famigerata «palla di fucile» (prof. Partridge); al contrario, ne viene documentata l’attuale collocazione. Ne consegue che «l’errore da matita blu» non sussiste. La seconda, per segnalare la contemporanea “assenza” dello specillo, nell’auspicio che una volenterosa ricerca ne possa permettere il ritrovamento. Con un cordiale saluto Cosimo Ceccuti Firenze, 20 novembre 2005 Il nostro collaboratore e amico Francesco Ghidetti ci gira la lettera che sopra pubblichiamo, pregandoci di renderla nota. Lo facciamo volentieri, an- 84 che per il garbo con cui è scritta: e non poteva che essere così, conoscendo l’amabilità del firmatario che ci onora della sua amicizia. Cosimo Ceccuti è l’autore degli scritti che fanno da introibo al libro richiamato nella lettera, che è un prezioso e inedito contributo alla sterminata storiografia garibaldina: scritti che hanno anche il merito di tratteggiare con efficacia e chiarezza (qualità sempre più infrequenti) sia l’“infausto” episodio del monte calabrese (non tornano forse in mente a questo proposito le eloquenti pagine del Gattopardo là dove il colonnello Pallavicini al famoso ballo dei Ponteleone dice a Don Fabrizio: «Bisognava vederlo quel povero grand’uomo steso per terra sotto il castagno…»?) e sia la obliata figura di quel Ferdinando Zannetti la cui lapide nella via de’ Conti a Firenze ne sanciva finora l’oblio entro quella che è la più estesa amnesia della nazione: un paese, come osservava Renzo De Felice già nel 1987, «le cui radici sono ignorate dai più». Leggendo il libro, istigati proprio dal commento ghidettiano, nella medesima pagina 31 ci siamo imbattuti in un Auguste Nèlaton (non nella disattesa nota bensì nel testo) con la “e” del cognome accentata grave. Quando ci ricordavamo, a proposito appunto della provvidenziale sonda metallica, la battuta di Spiga, nel Giuoco delle parti (scena prima): «Ho portato questi altri strumenti qua… per l’estrazione… Esploratore… specillo di Nélaton… tirapalle a forbice», dove è acuta la “e” dell’autore di Traité des tumeurs de la mamelle e di Éléments de pathologie chirurgicale. Un qui pro quo tipico del «sentimento di contrarietà» pirandelliano? Leggendo più avanti, nella rigorosa ed esaustiva Introduzione di Gabriele Paolini abbiamo constatato che la “e” dell’eminente cognome ritorna con sollievo al segno pirandelliano (nonché dei repertori biografici). Ci si passi il divertissement sulla “e”, che va preso quale innocua metafora dell’azzardato scambio di una palla con l’arnese che è servito a scovarla. Il non-prendersi-sul-serio è forse il solo antidoto alla aggressiva supponenza che avanza, in un clima da mulinobianco. Per cui la temperie che questo libro reintroduce giunge come una boccata d’alta quota, con quelle espressioni ormai desuete da parte degli allievi all’«Onorandissimo Maestro»; con quell’ossequio di professionale distinzione («Monsieur et confrere, honorable Docteur») da parte del collègue éminent, del professeur émérite. Chiudiamo con un ringraziamento a Francesco Ghidetti e, cogliamo l’occasione, a tutti gli altri amici, collaboratrici e collaboratori, per l’impegno generoso che dedicano alla lettura e allo studio di quei libri che poi recensiscono. La gran parte degli autori si aspetta che la recensione sia qualcosa di molto vicino all’annuncio pubblicitario, da dare l’impressione che i capolavori si fabbrichino al medesimo ritmo dei nuovi modelli di automobile o di telefonino. Li ha abituati così la macchina editoriale e il do-ut-des in atto nella media cultura, quella che Pasolini aborriva. Il “New York Times” ha inflitto una stroncatura a una delle sue firme più brillanti, la editorialista politica Maureen Dowd, premio Pulitzer nel ’99. Il suo recentissimo libro (una raccolta di saggi dal titolo Are Men Necessary?) è stato liquidato con una parola: painful. Più indelebile di una matita blu. La Direzione Maureen Dowd, firma del “New York Times” e Premio Pulitzer nel 1999. Caffè Michelangiolo Le letture L’altra faccia della luna dio del Palazzeschi narratore,:riflessi, messo a confronto con un testo di due anni precedente, Une nuit de Luxembourg di Remy de Gourmont, del 1906. Altri saggi sono dedicati all’interesse che Anna Banti nutrì per Virginia Woolf (Artemisia e Orlando: Anna Banti e Virginia Woolf), al d’Annunzio dell’Innocente (D’Annunzio tra Dostoevskij e Wilde: L’innocente), e ancora a Giorgio Manganelli, Paolo Volponi, Guido Gozzano, Giovanni Papini, Girolamo Comi, Bartolo Cattafi e altri scrittori otto e novecenteschi, sempre messi a fuoco con grande finezza. Una derivazione, quella tra i testi esaminati, mai puramente imitativa, ma sempre frutto di una distillazione della cultura letteraria che fa di ogni grande scrittore prima di tutto un grande lettore. E così paragonando Artemisia e Orlando, Papini può citare le parole di Emilio Cecchi: D ietro a un libro si nasconde sempre un altro libro. E dentro a questo un altro e poi un altro e poi un altro. In uno sconfinato gioco di scatole cinesi, in cui i rimandi, i ricordi, i sostrati si svelano lentamente nasce la Letteratura. Questo pensa Maria Carla Papini, italianista dell’ateneo fiorentino, autrice della raccolta di saggi La scrittura e il suo doppio. Studi di letteratura contemporanea, pubblicata da Bulzoni. Quindici saggi scritti in diversi periodi di tempo, ma accomunati tutti dal filo rosso della definizione che Gérard Genette diede nei suoi Palimpsestes a proposito del legame che unisce un testo letterario ad un altro testo ad esso anteriore: l’«hypertextualité» tra un testo B e un testo A, ad esso precedente, è una relazione di trasformazione semplice o indiretta del primo testo nel secondo. Scrive Maria Carla Papini nella sua nota finale al volume: L’intenzione prevalente e originaria di questo lavoro è stata, dunque, quella di mettere a confronto e – in rapporto – non solo testi, e dunque autori, ma anche culture, identità letterarie diverse allo scopo di evidenziarne le modalità dell’interazione […]1. E così Cancroregina di Tommaso Landolfi svela a un’attenta e paziente lettura tutti i suoi legami «ipertestuali» con altre opere letterarie come prime fra tutte, Eve future di Villiers de l’IsleAdam, per l’immagine stessa della macchina-donna, e Horla di Guy de Maupassant, per l’andamento soggettivo, diaristico e paranoide della schizofrenica voce narrante: Essere vivente e cosa, donna e macchina a un tempo Cancroregina partecipa della stessa ibrida natura non solo dell’Hadaly di Villiers o del Golem di Gustav Meyrink, ma anche dei manichini metafisici, delle inquietanti marionette dal cuore palpitante negli Chants de la mi-mort di Alberto Savinio, di quel Gurdulù che attrae l’attenzione e l’affetto della protagonista della bontempelliana Eva ultima, e perfino di tutti quegli uomini, donne, animali che suscitano l’ango- Caffè Michelangiolo sciante sospetto della candida Minni e che, nell’ipotetico mistero della loro superficiale apparenza, anticipano l’inquietante presenza degli androidi nel racconto di Philip Dick e in Blade Runner il film di Ridley Scott che ne deriva, in Aliens di James Cameron o in A.I (Intelligenze Artificiali) di Spielberg2. E sul tema dell’illogicità di ogni guerra e di ogni aggressione dell’uomo contro l’uomo, il Palazzeschi de Il codice di Perelà e dei Due imperi… mancati incontra le pagine dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, senza dimenticare la levitas filosofica del Candide voltairiano: Questo Gulliver di fumo, questo incorporeo Candide, questo novecentesco figlio del fuoco, erede diretto dell’Incendiario che l’aveva immediatamente preceduto nella genesi artistica palazzeschiana, capisce alfine la sua intrinseca, connaturata diversità da una terra la cui gravosa insopportabile concretezza ora lo opprime e respinge3. Sempre ad Aldo Palazzeschi, scrittore di cui Maria Carla Papini è esperta, è dedicato il saggio Un gioco di riflessi: Aldo Palazeschi e Remy de Gourmont, dedicato allo studio del romanzo d’esor- Esclusa qualsiasi dipendenza imitativa, cui non è nemmeno da alludere, per una scrittura pervenuta ad un tale scintillamento, il richiamo all’Orlando s’impone per la inesauribilità d’un dono ch’è potenziato dalla più squisita cultura. E se il romanzo della Woolf si sente che nacque a due passi dalle colonne, dalle scansie dei libri e dalle raccolte di stampe e miniature del Museo Britannico; in Artemisia si sono distillate una esperienza d’arte figurativa, una dottrina filologica ed una pratica verbale che scorrono da fonti almeno altrettanto illustri4. In tempi di reality televisivi, in cui circola l’idea distorta che essere unicamente se stessi, senza “stanislavskiani” lavori d’attore su di sé, è sufficiente per fare televisione, in tempi in cui a vendere migliaia di copie sono ragazzine che sanno solamente scrivere di surreali esperienze erotiche, osservate anche quelle in televisione, la raccolta di saggi di Maria Carla Papini corre provvidenzialmente in nostro aiuto per ricordarci che la Letteratura, quella con la “elle” maiuscola per intendersi, non è immediata improvvisazione di sé, ma è prima di tutto un altissimo gioco di rimandi testuali, visivi, stilistici. In una parola è Cultura. Costanza Melani 85 Le letture NOTE M.C. Papini, Nota a Id., La scrittura e il suo doppio. Studi di letteratura italiana contemporanea, Bulzoni, Roma, 2005, p. 371. 2 M.C. Papini, Cancroregina: Landolfi tra Maupassant e Villiers de l’Isle-Adam, in Id., La scrittura e il suo doppio. Studi di letteratura italiana contemporanea, cit., pp. 183-4. 3 M.C. Papini, Palazzeschi tra Swift e Voltaire: Il codice di Perelà, in Id., La scrittura e il suo doppio. Studi di letteratura italiana contemporanea, cit., p. 107. 4 E. Cecchi, Anna Banti, in E. Cecchi e N. Sapegno (a cura di), Storia della Letteratura italiana. Il Novecento, vol. II, Garzanti, Milano, 1987, p. 382. La citazione è di M.C. Papini, Artemisia e Orlando: Anna Banti e Virginia Woolf, in Id., La scrittura e il suo doppio. Studi di letteratura italiana contemporanea 1 Maria Carla Papini La scrittura e il suo doppio. Studi di letteratura italiana contemporanea Bulzoni, Roma 2005 pp. 384. € 13,00 Viaggio in “terra di attese” P oeta e traduttore, direttore della casa editrice Book Editore, già vincitore di premi letterari di prestigio tra i quali il “Flaiano” e il “San Pellegrino” e finalista al “Viareggio”, Massimo Scrignòli giunge con Lesa maestà ad una nuova tappa del suo intenso percorso poetico, dopo opere importanti tra cui Notiziario tendenzioso, Qualcosa di illune, Le linee del fuoco, Libro dell’acqua e Buio bianco. Ha curato, inoltre, la versione e l’introduzione critica dei racconti di Kafka contenuti in Relazione per un’accademia e altri racconti e studiato autori italiani come Angelo Maria Ripellino. Lesa maestà è dedicata, come scrive lo stesso autore nelle note finali, al ricordo dell’amico Roberto Sanesi, anch’egli poeta, traduttore e critico. Divisa in quattro distinte sezioni, l’opera appare fin dai primi versi attraversata da molteplici voci e suggestioni e da un linguaggio terso che colpisce per il suo carattere tagliente e privo di allusioni o sfumature sentimentali. Ad una lettura più approfondita, poi, se ne comprende la natura complessa e la tecnica di sottili citazioni e rimandi che attraversa e struttura i testi della raccolta. 86 La prima sezione, Lapsus?, dal tono apertamente interrogativo, dopo le parole di Pascal Quignard citate in francese, è composta da diciassette poesie. L’andamento è a tratti narrativo e lentamente si distingue nel procedere delle poesie un colloquio (in ogni poesia è da notare il particolare uso delle parentesi, come ad indicare una voce sullo sfondo, un alter ego del soggetto poetico) che sempre più si rivela essere rivolto ad una donna, come in questi versi: E io ti dico, cara che niente corrode più dell’arrendersi e non vedere l’appagamento del vincitore. E rimanere appesi all’intenzione di toccare soltanto chi ci sfiora, chi si consuma e ci consuma gli anni1 La seconda sezione, Uguale desiderio di diventare un indiano, è introdotta da una citazione tratta da Desiderio di diventare un indiano di Kafka e conduce il lettore attraverso paesaggi lontani, dati sensoriali e continue sovrapposizioni di immagini, secondo lo schema tipico del viaggio, che è insieme reale e metaforico e dominato dalla seducente figura femminile, quasi un’apparizione in sogno, di «Jennifer rosa». Nella sezione successiva, Voci esposte a nord, le poesie hanno un titolo, sono più articolate e riprendono il tono scabro e trasparente dei primi versi. Il tempo diventa qui «resoconto di schegge | un delta di parole | disperse nel tramonto del mattino»2, e lo spazio quel- lo del limine tra silenzio e parola, tra ricordo e oblio. L’ultima sezione, che si intitola come l’intera opera, è la più ampia e si apre con l’immagine, dominante poi nell’intera sezione, della neve e con quella significativa del «dizionario dei sensi»3. Ricordiamo le poesie Poteva essere Montale, nella quale con ironia viene rievocato l’incontro con un uomo straordinariamente e quasi magicamente somigliante al grande poeta; Lesa maestà scritta in ricordo di Roberto Sanesi nei giorni tra la sua morte e il suo funerale, tra il 2 e il 4 gennaio 2001, in una Milano soffocata dal silenzio e dalla neve, e infine Maestà di violini, in cui traspare il riferimento a Gustav Mahler e al luogo dove compose tra il 1894 e il 1896 due delle Sinfonie, la seconda e la terza. Ma le suggestioni presenti in questa ultima parte dell’opera sono molto più numerose di quelle indicate: Heidegger, Thomas Mann, Dante. Il viaggio non si conclude, può giungere solo ad una «terra di attese»: Ritornano, e davvero tutto potrebbe accadere in questa terra che è terra di attese, qui dove una vita basta appena e aspettarti è un modo di pensare4. Monica Venturini NOTE 1 M. Scrignòli, Lesa maestà, Marsilio, Venezia, 2005, p. 23, vv. 11-16. 2 Ivi, p. 71, vv. 17-19. 3 Ivi, p. 79, v. 9. 4 Ivi, p. 101, vv. 16-20. Massimo Scrignòli Lesa maestà Marsilio, Venezia 2005 pp. 116. € 11,50 Per Maria Fancelli U n vecchio con il volto solcato di rughe, cadente e farfugliante, la cui sembianza, riflessa sull’acqua stagnante e melmosa, è quella di un «relitto di albero», irriconoscibile metamorfosi del fiore cui dà il nome: questa è l’epifania Caffè Michelangiolo Le letture moderna di Narciso secondo la fantasia di Friederike Mayröcker, che, nel radiodramma das zu sehende das zu hörende (1997), rompe con la finzione di immutabilità delle figure mitiche, mostrando come il tempo e, soprattutto, le corrosive incrostazioni della modernità abbiano aderito al volto dell’ex fanciullo, invecchiandolo e deformandolo. Se la ripetitività è uno dei caratteri essenziali del mito1, colpisce che Mayröcker abbia scelto di scardinare, nella sua riattivazione mitologica, il principio che a essa fa da corollario e che esige che dèi semidei ed eroi rimangano, lungo l’arco delle innumerevoli reiterazioni, sempre uguali a sé, eterni giovani. Distorcendo l’icona mitologica, la poetessa sembra voler suggerire che sia proprio la rappresentazione dell’inattualità del mito a garantirne, paradossalmente, la sopravvivenza nella letteratura europea. In tal guisa, il radiodramma dimostra di snodarsi su di una dicotomia che percorre la storia della cultura europea e che il volume curato da Dorowin, Svandrlik e Treder sul Mito nel teatro tedesco, in vari modi, riesce a cogliere. Parlo dell’opposizione creatasi, verso la fine del Settecento, fra le istanze mitocritiche dell’illuminismo, per così dire voltairiano, e la nuova sensibilità romantica, portatrice di un appello al ringiovanimento del mito attraverso una nuova poesia nazionale. Ed è principalmente in Germania, a cavallo fra il secolo xviii e xix, che la partita aperta sull’attualizzazione del mito si è giocata: nella terra che, politicamente lontana dalla rivoluzione francese eppure intimamente scossa da essa, ha ospitato la parabola dei dioscuri classici Goethe e Schiller e, allo stesso tempo, ha fatto da culla alla generazione romantica. In questi anni, a opera di F. Schlegel, Hegel e Schelling, e lungo una direttiva aperta prima di loro da Herder, venne formulato il programma della «nuova mitologia», in risposta al crollo metafisico generato dalla autolimitazione della ragione analitica e ancor più dal «deficit di legittimazione»2 da cui essa stessa si era trovata investita. Tale programma – la paradossale proposta di rendere attuale l’inattuabile, di richiamare, parafrasando Heine, gli dèi dall’esilio al posto di una religione cristiana ormai deontologizzata e ridotta a morale – era un’operazione eminentemente estetica, ma anche politica in senso lato. Si trattava Caffè Michelangiolo del tentativo idealistico e romantico di costituire una «simbologia comune»3 (Schelling), intesa non come museo di topoi letterari, ma come «nuovo alveo e vaso per l’antica eterna fonte originaria della poesia»4: una simbologia che risultasse in storie condivise, messe a servizio dell’Idea, resa così capace di «parlare per tutti, di sostenere o di preparare una nuova comunità sociale, cioè di essere mito»5. Questo ultimo passaggio è di fondamentale importanza per valutare la portata di tale poetologia, di più, per coglierne la stretta connessione con la storia del teatro tedesco: è evidente infatti che «evocare gli dei significa evocare la comunità che celebra il loro culto»6. Così, quasi a voler saldare la richiesta romantica di una «nuova mitologia» con la tradizione schilleriana del teatro come «istituzione morale», nella Germania di fine Settecento il dramma pretese di divenire il luogo in cui la nazione, nella celebrazione dei nuovi riti, potesse riconoscersi e fondarsi. Non è un caso, dunque, che almeno un terzo dei saggi che compongono la miscellanea curata da Dorowin, Svandrlik e Treder – scritta in onore e dedicata a Maria Fancelli, una delle più fini conoscitrici italiane della letteratura tedesca nell’era goethiana – si concentrino proprio su opere scritte attorno agli anni in cui i romantici si dedicavano alla loro rievocazione neo-mitologica. Pur nella disparatezza degli approcci interpretativi, non è difficile riconoscere all’opera una certa coesione interna, garantita non soltanto dal semplice legame tematico – la reiterazione del patrimonio mitologico nella tradizione teatrale dal Seicento a oggi – quanto dal fatto che il ricco materiale mitografico rintracciato nei testi presi in esame è per lo più valutato in relazione alla propria efficacia estetica e culturale-politica (la Bedeutsamkeit di Blumenberg7), in altre parole in relazione alla propria giovinezza o vetustà. I vari contributi sono allineati secondo una logica storiografica, ovvero in base alla successione cronologica delle opere e degli autori trattati. Quella che è forse una scelta di comodo, rivela a un lettore attento vari pregi. Il principale è che i diversi saggi sembrano ricostruire e rimodellare il “mito del mito” dell’età moderna: la narrazione del ritorno degli dèi e della graduale ma inesorabile esautorazione del Dio vero che per mille e più anni li aveva banditi – sempre a detta di Heine – a una sopravvivenza demonica. Significativo è il saggio di Harald Steinhagen, in cui viene mostrato, contro la critica lessinghiana di non-teatralità del Trauerspiel cristiano, che i drammi di Andreas Gryphius anticipano la tragedia tedesca moderna, portando in scena vicende umane completamente emancipate dalla volontà divina. È come dire che la separazione della storia dalla Provvidenza, lungi dal liberarla e consegnarla alla sola ragione, la fa diventare un «mitico intreccio di violenze»8, che come tale diventa pienamente teatrale. Da questa angolatura ha un senso che le rimitizzazioni letterarie cui questa pubblicazione è dedicata non siano sempre e solo riprese dalla mitologia greca. Essenzialmente, invece, quello che gli autori hanno cercato sono trame mitiche che per la loro pregnanza possono – secondo la lettura che di Nietzsche dà Aldo Venturelli – evocare (ma anche negare, aggiungerei) una dimensione propizia al lavoro collettivo della coscienza, su di un asse che non è più quello socratico della filosofia, ma quello dionisiaco del teatro. Un esempio lo propone Maria Chiara Mocali che ripercorre, nel lessinghiano Mellefont, da Miß Sara Sampson, non solo le evidenti tracce che il tipo settecentesco del libertino ha lasciato sul personaggio, ma evidenzia quelle «figurazioni mitiche», riverberi di Don Gio- 87 Le letture vanni, Tristano e Amleto, che gli danno profondità. Di impostazione diversa è il lavoro di Emilio Bonfatti, in cui viene messo in luce, sempre partendo da Lessing, l’interessante caso del mito “debole” di Meleagro, che per la sua non-teatralità ha faticato a imporsi nella tradizione teatrale ottocentesca. Giuseppe Bevilacqua, da parte sua, incentra la sua attenzione sul mito di Prometeo, scoperto dal giovane Goethe quasi come riscrittura spinoziana del racconto della genesi, eppure mai ricondotto a una forma letteraria compiuta e rifluito, infine, nel Faust. Mitografico è anche il metodo di Leonardo Tofi, che, rintracciando le complesse varianti della figura di Elena, tra Euripide e Hofmannsthal, ne evidenzia la moderna attualizzazione come individuo esemplare. Ugualmente concentrato su di un preciso mitologema, Fabrizio Cambi mostra come il ricorso al mito di Odisseo abbia dato corpo, nella letteratura della ddr, a una scrittura che, contro le disposizioni del partito, ritrova così la sua originalità e incisività. Del dopoguerra bundesrepubblicano si occupa invece Eva Banchelli, che, ricostruendo la ricezione del sartriano Les mouches, osserva come, nel mito di Oreste recuperato in chiave esistenzialista, la letteratura degli anni ’50 abbia colto la sua occasione di rinnovamento. Se la storia della letteratura annuncia che gli dèi sono tornati, non bisogna tuttavia credere che l’accoglienza che la modernità ha riservato loro sia stata tale da averli lasciati regnare incontrastati. Al contrario, un testo come il dramma lirico Der Tod des Tizian di Hofmannsthal, di cui parla Vivetta Vivarelli, dà prova che l’epifania del dio – qui, e non a caso, Dioniso – non si può più dare nell’indecoroso irrompere di un baccanale, ma solo come vaga reminiscenza, attraverso la mediazione estetica, per di più minacciata dalla malattia e dalla morte. Il mito di Alcmena dall’Anphitryon di Kleist dà di ciò indiretta riprova; qui infatti, quando il dio si palesa, finisce per gettare in radicale scompiglio la coscienza umana. Al denso e ineguale dramma kleistiano, di cui si occupa Lucia Borghese, va assegnata, dall’angolatura della nuova mitologia, una posizione di assoluta centralità, come esempio di un testo che, nella radicalità dell’approfondimento filosofico, non 88 teme di incrinare – stando al giudizio goethiano, secondo cui, qui, l’antico e il moderno, invece di congiungersi, si separano – il delicato gioco teatrale di ricomposizione di mito e modernità. Con tutto ciò, ancora non si è detto del tratto di vera novità che questo libro rappresenta. Se per l’Hölderlin di Pane e vino il nome del «dio a venire» è quello di Dioniso – il dio più perturbante della religione olimpica, ma anche l’unico deputato a sostituirsi al Cristo –sono le rifrangenze mitiche del goethiano «eterno femmineo» (il tema è introdotto da Willi Hirdt) a rappresentare, nel canone qui propostoci, la nuova frontiera della significatività neomitica: quasi a riagganciarsi, nell’ambiguità del dio dalle movenze femminili, all’eredità di un culto matriarcale. Da questo punto di vista non stupisce, dunque, come questi germanisti riscoprano – andando oltre Nietzsche – la sostanziale predominanza, nel teatro, del logos femminile. Anche se per Rita Svandrlik, nel suo close reading della Libussa di Grillparzer, il mito di fondazione di Praga coincide con l’esautoramento della donna, gli altri studi qui proposti portano a vedere come – nei testi-chiave della tradizione teatrale tedesca, come già nella Ifigenia di Goethe – figure di eroine abbiano dato corpo, voce e soprattutto un cuore all’utopia di un’umanità nuova. Centrale è l’interpretazione che Uta Treder dà della Jungfrau von Orleans di Schiller, in cui proprio la metafora del cuore fa da chiave di lettura di una drammaturgia che, sottraendo l’icona di Giovanna d’Arco all’agiografia cristiana e sostanziandola di un animo di sibilla e amazzone, si pone al centro di quel lavoro collettivo della coscienza di cui si è detto sopra: quale attesa utopica di un senso non più già-dato ma “a venire”: drammaturgia dunque pienamente «romantica», come dice lo stesso sottotitolo della tragedia. Più concretamente calata nella storia è la Giovanna di Anna Seghers, dal radiodramma Der Prozeß der Jeanne d’Arc, cui si dedica Rita Calabrese; anche qui, la prospettiva religiosa viene azzerata, stavolta però per rendere il personaggio funzionale alla codificazione di una lingua cifrata che inciti alla resistenza contro il nazifascismo. Politica è anche l’Antigone di Anna Chiarloni, che in Brecht ritrova la freschezza e la profondità morale della sofoclea oppositrice della tirannide. E se Lia Secci recupera la Pentesilea di Ilse Langner, che, anche se modernizzata, rimane comunque scomoda ai nazisti, Matteo Galli ritrova il potente profilo dell’amazzone in Ulrike Meinhof, la cui figura però, già presente nella Hamletmaschine di Müller, rischia di diventare, nella cultura pop che se ne è appropriata, un mito vecchio, sempre più svuotato del suo «potenziale rivoluzionario». Alla problematica dell’inevitabile saturazione del mito – anche del nuovo mito – hanno trovato una risposta gli autori che hanno fatto un utilizzo, direi, non-winckelmanniano del mito. Infatti, se Giorgio Cusatelli mostra come l’approccio di Winckelmann al mito sia quello della ekphrasis, della trasformazione dell’immagine in racconto, altri sottolineano le potenzialità di un approccio metamorfotico d’altro genere, ironico e carnascialesco. Marco Meli chiama questo tipo di «lavoro sul mito» 9 , con Goethe, «repubblicano» e legge la Klassische Walpurgisnacht – attraverso un’accurata disamina dei modelli letterari – a partire da quando Venere si ritira dal tempio e fa così iniziare il carnevale, la desacralizzazione e dissacrazione dell’aurea letteraria. Come dire che la buona letteratura non si dà quando ricerca significati reconditi, ma quando invece erode quelli fasulli: un po’ come fa il Dantons Tod di Büchner di cui parla Patrizio Collini, che, alla Rivoluzione travestita da repubblica romana, toglie la maschera, rivelandola per quello che davvero è, Terrore. Un altro caso di mitizzazione in chiave farsesca (e quindi di implicita demitizzazione) è rappresentato dall’austriaco HerzmanowskyOrlando, con la sua drammaturgia intertestuale e avanguardista malgré lui, gustosamente propostaci da Hermann Dorowin; qui, la bizzarra esaltazione del culto di Venere è sciolta in un eros ludico di matrice tutta linguistica che, nella migliore tradizione austriaca, rappresenta il vero antidoto contro qualsiasi eccesso di teorizzazione. In questi autori, come già per Mayröcker – presentataci da Sara Barni – è la distorsione la garanzia della permanenza del mito nella modernità – distorsione che è, narcisisticamente, rispecchiamento, serio o burlesco che sia, gioco di autocompiacimento. Ma il mito, abbiamo visto, non è monologante: è teatro, e dunque anche a Narciso è necessaria un’Eco, l’Altra che, sepCaffè Michelangiolo Le letture pur respinta, è, con lui, immagine e custode del cuore mitico della letteratura moderna: «quel fare della scrittura un protocollo di vita e della propria immagine un’icona»10. Così accade anche, infine, per la breve prosa che Claudio Magris ha regalato a Maria Fancelli e che è stata raccolta in questo libro. Qui, l’amore per il mare e l’amore per l’«eterno femmineo», riflesso nelle vecchie polene, si fa passione di descrivere e raccontare, diventa diario di viaggio, studiata rarità o aneddoto letterario: quasi a redigere un catalogo di (deboli) miti moderni che, a ben vedere, parlano di sé, ma magari non rinunciano, se possono, a toccare il cuore. Riccardo Concetti NOTE 1 Hans Blumenberg, Arbeit am Mythos, Suhrkamp, Frankfurt a. M., p. 70. 2 Manfred Frank, Der kommende Gott. Vorlesungen über die Neue Mythologie, Suhrkamp, Frankfurt a. M., p. 194. 3 Frank, op. cit., p. 198. 4 Friedrich Schlegel, «Rede über die Mythologie», citato in: Roberto Calasso, La letteratura e gli dèi, Adelphi, Milano 2001, p. 57. 5 Manfred Frank, «Mitologie della ragione. Due secoli di critica della razionalità e la nostalgia di una “nuova mitologia”». In: Michele Cometa, Mitologie della ragione. Letterature e miti dal Romanticismo al Moderno, Studio Tesi, Pordenone 1989, p. 21. 6 Calasso, op. cit., p. 59. 7 Blumenberg, op. cit, p. 68-126. 8 Hermann Dorowin, Rita Svandrlik, Uta Treder (a cura di), Il mito nel teatro tedesco. Studi in onore di Maria Fancelli, Morlacchi, Perugia 2004, p. 23. 9 Blumenberg, loc. cit. 10 Dorowin, op. cit., p. 376. Hermann Dorowin, Rita Svandrlik, Uta Treder (a cura di) Il mito nel teatro tedesco. Studi in onore di Maria Fancelli Morlacchi, Perugia 2004 pp. 430. € 20,00 Creature dell’alto novembre L assù, in certe località di montagna, con le lastre d’ardesia ci fanno i tetti delle case. Questa pietra è dunque una specie di interfaccia, una “pelle del Caffè Michelangiolo mondo” che lega alla terra e guarda verso il cielo, un plesso che partecipa di una doppia natura, come le creature umane, come la poesia. Nella “pelle d’ardesia” persino vita e morte possono azzardare un filo di congiunzione. Lassù in Alpago, ai bordi delle Dolomiti, due ragazzi come tanti son morti di morte innaturale e insieme naturalissima (come “naturalissima” è del resto ogni morte). E Serena Dal Borgo, poetessa di piume e di lune, ha tessuto su questa triste storia un suo canto notturno che ha preso la forma di un poemetto (Con pelle di ardesia, Book Editore, Bologna 2005). Dato l’argomento, ci si aspetterebbe un’opera a forte tasso di luttuosità, invece succede che grazie ad alcune misteriose alchimie qui la connotazione cupa della morte viene in un certo qual modo ribaltata. Il poemetto si sostiene certo su un’altissima tensione angosciosa, non nega l’insostenibile dolore che accompagna qualsiasi morte (e tanto più quella di due adolescenti) ed anzi mostra le situazioni e in specie il terribile momento del distacco chiamando le cose per nome, senza eufemismi, con parole chiare e crude; eppure sullo sfondo non la morte risalta, ma la vita. È stato detto (lo dice anzi Bianca Garavelli nella breve nota che chiude il volume) che fra queste pagine scorre un’eco della cristallina poesia rinascimentale, un sentore di Poliziano: vi si intuisce insomma una sorta di “sublimazione” della morte («resa sublime nel senso letterale del termine») che tende a sovrapporsi all’idea del volo. Come le sostanze materiali, che evaporando tendono verso l’alto: «un alzarsi non so verso cosa». E questa sorta di miracolo emozionale, questo rischiosissimo muovere verso la levitas, si manifesta nella poesia di Serena Dal Borgo attraverso due strade: quella dei versi e quella della natura. Nei versi le parole scorrono allineate su un filo di seta che si assottiglia e si tende sino a spezzarsi, sono cioè sussurrate come in controluce sul territorio di confine che separa la vita dalla morte: «mi lascio morire | mi lascio lasciare | ti lascio settembre, | tra fili taglienti». Sono dunque parole sospese, filiformi, e scorrono armoniche verso l’alto, dotate di una tensione canora che le salva dal rischio della cupezza luttuosa e verso la fine le trasforma addirittura in “inni”. Parlano i due giovani Marzia e Daniele sul punto di morire; parlano i vivi, le madri in specie, parlano Marzia e Daniele ben vivi prima di morire oppure, come le creature del mito, ancora ben vivi dopo il morire. Parlano parole che costeggiano il mistero e ne raccontano l’odore. Il ritmo a tratti si fa cangiante, sinuoso come un assolo di sax, dodecafonico quasi, ma altre volte replica i laudari medievali (risuona «l’amoroso giglio» di Jacopone) ed è scandito dalla cantilena ipnotica di delicatissimi senari come questi: «Mi vesto di piume. | leggère. leggera. | mi vesto di sole. | mi vesto di luna.». Chi conosce la poesia di Serena Dal Borgo sa che spesso le sue composizioni hanno assunto natura unicellulare, segnate da un andamento giovane e frammentario che ha fatto pensare addirittura agli haiku giapponesi («un ciclo di piccole pitture zen», le ha definite Paolo Ruffilli). Qui vediamo invece un salto netto verso il continuum poematico, eppure il canto che prende forma non è una matassa compatta, un racconto compiuto. La frammentarietà, le sfilacciature, le sospensioni che caratterizzavano i testi meno recenti le ritroviamo anche in questo poemetto, buchi semantici attraverso cui soffia la brezza della levitas. Ma l’altra strada attraverso la quale, dicevamo, si manifesta il miracolo emozionale, va individuata ai bordi del con- 89 Le letture tenuto: nella presenza costante e amica di un paesaggio naturale evocato (dall’alto?) con innocente sensualità. Attraverso tale manifestazione attiva della natura il lamento notturno si muta in dimensione solare e in esaltazione della vita. Specchio del lussureggiante paesaggio dolomitico, lune soli piume acque canneti libellule pioppi foglie farfalle filtrano dalle varie voci poetanti sino a convergere in chiusura dell’opera in una serie di “inni” fra cui spicca un solarissimo Inno ai girasoli: «I girasoli così solari. | così gialli, così alti. | così impazziti di luce.». In tal modo Daniele e Marzia finiscono per somigliare a creature mitiche che si aggirano fra i boschi come soffi di vento. E a somiglianza dei miti più antichi anche le voci umane, per infiltrarsi oltre la vita nella vita, si fanno paesaggio e natura. Alfonso Lentini Serena dal Borgo Con pelle d’ardesia poemetto con una nota di Bianca Garavelli Book Editore, Bologna 2005 pp. 80. € 10,50 Il trepido diario «S piaggia dei desideri | Spiaggia delle attese | […] Rischio irrinunciabile»1: in questi versi che introducono alla nuova raccolta poetica di Patrizia Fazzi emerge, con la tempestività di un’immediata epifania, il tema che dà vita all’opera: la scrittura. Insegnante, studiosa di Ottone Rosai e autrice di vari saggi sull’attività letteraria di questo artista, Patrizia Fazzi ha già partecipato a numerosi premi letterari, ottenendo importanti riconoscimenti, soprattutto in seguito alla pubblicazione nel 2000 della raccolta poetica d’esordio Ci vestiremo di versi2, con introduzione di Giorgio Luti. Luti, a proposito di quell’opera, parla di un «trepido diario», che attraverso i temi dell’amore e del dolore, una poetica di stampo leopardiano (Luti fa riferimento, in particolare, alla teoria del piacere presente nello Zibaldone) e una qualità comunicativa della scrittura, 90 giunge ad indicare nella poesia una «forza salvifica che batte montalianamente nelle “vene del mondo”, surrogato ineliminabile di quella eternità che fortunatamente ci è negata»3 e a trasmettere con essa un messaggio che è insieme intimo e pubblico. In Dal Fondo dei Fati Patrizia Fazzi, in continuità con l’opera precedente, si propone un’indagine appassionata della scrittura poetica e delle sue interne motivazioni, come sottolinea anche Giovanna Vizzari nella prefazione dell’opera. La raccolta si apre con due significative citazioni, che danno inizio alla riflessione metapoetica: la prima tratta da Per il battesimo dei nostri frammenti di Mario Luzi, la seconda da Book with no back cover di Richard Burns. Divisa in otto sezioni, l’opera si sviluppa facendo della poesia strumento di lettura e interpretazione della vita stessa: ricordi familiari, evocazioni paesaggistiche (i luoghi amati della Toscana, da Siena a San Vincenzo, a Lerici, ad Arezzo, città natale dell’autrice) e il fluire naturale del tempo non sono disgiunti da una costante riflessione sui nodi irrisolti del presente (come nella poesia La croce impazzita dedicata all’attentato terroristico di New York dell’11 settembre 2001). Nella prima sezione, intitolata Per l’anima che è in te, si definiscono con chiarezza, secondo uno schema dialetti- co che implica la presenza di un interlocutore, il carattere intimo e pubblico dell’opera e alcune preliminari dichiarazioni di poetica, soprattutto nei testi finali di Parole cometa e Risorgeranno parole. Nella seconda sezione, quasi un elogio alla vita di classica memoria, dal titolo latino Vita vivenda, domina il tema del tempo e il suo carattere imprevedibile di “gioco dell’oca”, ma al carattere di sfuggente “meteora” della vita viene ora con decisione contrapposto quello durevole e resistente della poesia. Alla sezione intitolata Il vero viaggio, itinerario attraverso paesaggi cha da esteriori diventano interiori, secondo quel meccanismo caro a tanta parte della tradizione poetica per cui «gli occhi | filtrano l’anima»4, segue Cambio di stagione, parte dell’opera dedicata a quella speranza indefinita di futuro, che trova nella natura e nel susseguirsi delle stagioni la sua piena rappresentazione. Dai toni più interiori e dall’andamento più autobiografico si presenta la sezione che dà il titolo all’opera e che si conclude con un’intensa invocazione alla speranza, che ricorda le invocatio di certa poesia classica latina. In L’anima sul foglio e Filo siderale dominano la dimensione memoriale e quella metapoetica, che si combinano l’una in funzione dell’altra, in poesie come La casa inghiottita e Piante cresciute, dedicata ai suoi alunni. In Vento di poesia, ultima sezione della raccolta, è il potere salvifico della poesia a dominare, il suo dare frutti «nella terra di tutti»: Vorrei piantare parole, come piantine grasse innestarle in vasetti e accomodarle piano nella terra di tutti, vederle germogliare accanto al muro dei sogni con ogni giorno una lacrima e una stilla di sole5. Monica Venturini NOTE 1 P. Fazzi, Dal Fondo dei Fati, pref. di G. Vizzari, Edizioni del Leone, Venezia, 2005, p. 11, vv. 1-2 e 12. 2 P. Fazzi, Ci vestiremo di versi, intr. di G. Luti, Edizioni Helicon, Arezzo, 2000. Caffè Michelangiolo Le letture 3 Giorgio Luti, Perché la poesia?, introduzione a Ci vestiremo di versi di Patrizia Fazzi, Arezzo, Edizioni Helicon, 2000, p. 7. 4 P. Fazzi, Dal Fondo dei Fati, cit., p. 41, vv. 18-19. 5 Ivi, p. 119, vv. 1-9. Patrizia Fazzi Dal Fondo dei Fati Edizioni del Leone, Venezia 2005 pp. 128. € 8,00 In una aureola di fumo Q raccoglie qui, tra i versi, echi di quelle voci, di quelle implorazioni soffocate, di quel dolore troppo grande, come «Memoria che cola nella memoria | di generazione in generazione» (p. 13), e li trasforma in corone di versi, in distici lievi come una preghiera: «Tutti trasparenti, | senza accorgersene. || Così giovani, | in una aureola di fumo. || Al patibolo insieme, | senza saperlo» (p. 26). La cifra del volume, che ripercorre, sezione dopo sezione, frammenti di vita e brandelli insanguinati di storia, mi pare si possa rintracciare nei versi che evocano i tempi della scuola così come li ha restituiti all’io narrante suo padre(«dai li- uesto libro di esordio di Alessandro Rivali (Genova 1977), composto da cinque sezioni, una delle quali era già apparsa nel volume miscellaneo Quattro poeti (Edizioni Ares, Milano 2003), contiene non pochi spunti di riflessione per il lettore, centrato com’è su memorie della guerra partigiana nell’entroterra ligure durante il secondo conflitto mondiale. L’autore, fin dal titolo, ci fa entrare in quell’inferno di ferro e fuoco che è stata la sua terra in anni in cui l’odio accendeva falò in ogni sentiero, collina, anfratto della Liguria. Sulla scorta di vicende narrategli da suo padre, la cui presenza discreta si avverte di continuo nei versi di Alessandro Rivali. questa raccolta, e in particolare nella sezione Ianua, l’io lirico ripercorre bri sfrangiati del liceo | raccontavi di Etuna sua «riviera del sangue», e procede tore, del suo corpo | rivoltato nella polcon coraggio «lungo la proda del bollor vere», p. 32). Qui, come in Una lettura vermiglio», attorno alla «Benedicta, un di Pierluigi Cappello (La misura dell’erantico convento trasformato in comando ba, 1998), l’eroe vinto è «il vincitore partigiano. Il territorio che la circondava vero», capace di sopravvivere, foscoliafu teatro di un rastrellamento, iniziato namente, alle torture, alla polvere, ai alle quattro del mattino del giovedì san- suoi carnefici, al tempo e all’oblìo. to del 1944». Laggiù i dannati hanno La tematica centrale del volume è mani e polsi ancora in croce tra il fo- dunque la guerra partigiana che si comgliame, e ancora implorano pietà dai loro batté tra Genova e Portofino, tra il mare carnefici, i quali forse «sapevano del pae- e l’entroterra. E il colore del sangue è saggio dantesco». O forse il male si riaf- molto più di un semplice sfondo e si rifaccia sempre uguale a se stesso sulla versa di continuo sulle parole: « Un treterra. Voci di ombre si confondono nel- molare sanguigno su campo nero | come l’aria, come nei versi di un altro poeta li- la luce del cero sull’altare»(p. 23). gure, Paolo Bertolani, con quelle del Questa Genova insolita è la città del mare e delle colline. Chiedono pace in cuore di chi negli occhi di suo padre l’ha questo angolo di una Liguria disperata- vista come «una conca di fiamme | oltre mente amata dall’io, che con pietas filiale il bosco coronato dalle montagne» Caffè Michelangiolo (p. 37). Dov’era la via di fuga dal fuoco e dal sangue? Forse solo nel Passaggio d’Enea di Caproni, dove, come ricorda Alessandro Fo «l’eroe incarna, oltre alla pietas e alla proiezione al futuro, la disperata solitudine dei sopravvissuti alla grande guerra, di cui diviene sublime araldo e emblema» (A. Fo, Virgilio nei poeti e nel racconto, in Atti del Convegno «Il classico nella Roma contemporanea. Mito, modelli, memoria», Istituto Nazionale di Studi Romani, Roma, 18-20 ottobre 2000, p. 204). Nell’antologia tematica Genova di tutta la vita, (1983, 1997), Caproni lega in un unico nodo l’esule antico, la seconda guerra mondiale e la sua città colpita dalle bombe: «Non avrei mai scritto Il passaggio d’Enea, se non avessi incontrato, in piazza Bandiera, Enea in persona. Credo che Genova sia l’unica città del mondo ad avere eretto un monumento a Enea. A Enea secondo la figurazione più scolastica, col vecchio Anchise in spalla e il figlioletto Ascanio per la mano. Nulla d’eccezionale dal punto di vista artistico… Ma eccezionale è il fatto che giustappunto Enea, scampato dall’incendio di Troia, sia andato a finire proprio in una delle piazze più bombardate d’Italia. In quel povero Enea vidi chiaro il simbolo dell’uomo della mia generazione, solo in piena guerra a cercar di sostenere sulle spalle un passato (una tradizione) crollante da tutte le parti, e a cercar di portare a salvamento un futuro ancora così incerto da non reggersi ritto, più bisognoso di guida che capace di far da guida…». Echi di quella rivisitazione caproniana di Enea si affacciano anche qui, tra il fogliame che protegge la memoria dei partigiani e sul quale si sofferma con sgomento lo sguardo di questo giovane poeta, che cerca, vuole sapere, vuole scrutare dentro la storia, attraverso i racconti del padre: vicende di torture inflitte da uomini ad altri uomini e ancora mescolate alle radici, alla terra, alla “Riviera del sangue”. Leggendo queste poesie viene in mente, per contrasto, o forse per una forma di difesa contro le tragedie della storia e di quel suo colpire brutale, “alla cieca”, la Genova di luce apparsa improvvisa 91 Le letture come un miraggio al protagonista di quel meraviglioso poema che è il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini di Luzi. Una Genova ossimorica rispetto alla povera città bombardata e violentata dalla guerra, una «Genova meraviglie | che a una a una sciorina – | festoso saliscendi, | sfolgorante mattino – | …| oh posta | da chi sul mio cammino, | scala, scala continua… »). Del poeta fiorentino traspaiono di tanto in tanto, nei versi di Rivali, talune suggestioni, una fiamma segreta che dà bagliori ai versi, a quel «nostro viaggio di marmo e ardesia | e quel roseto | e quegli spalti sul mare» (p. 46), a una pagina di storia del Novecento, ancora grondante di sangue. Ma quello dell’io è anche un viaggio nei luoghi fondanti della sua vita: Genova innanzitutto e poi una Milano «d’inferno e di sale» e i giorni lungo i «viali ghiacciati di Lambrate » che fanno pensare a certi versi di Milo De Angelis, innamorato da sempre di questa città, e che nel ricordo – o forse nel desiderio – si fondono con la «scogliera che da S. Rocco | a vertigine cade su Camogli» (p. 52). Luoghi diversi, diversamente amati: «…Penso alla storia. || Al succedersi delle catene, | alle arche arroventate | fiorite in un battito | e rimaste» (p. 65). Scorrono sotto gli occhi del lettore grandi figure e personaggi anonimi, come il soldato della «guerra bianca» protetto da un’urna di ghiaccio, spezzato, forse, «dal delirio dell’assideramento». Il sigillo di questo volumetto di versi, così ricco di spunti, di fermenti e di passione civile, è un mosaico misterioso, disegnato da un prete nel xii secolo, che sembra racchiudere in sé il destino di Otranto, quando – ci dice lo stesso autore in una nota – la città fu assediata dai Turchi nel 1480 e venne presa dopo due settimane. Il vescovo secondo la tradizione, fu segato in due e gli ottocento sopravvissuti all’eccidio vennero decapitati. Quel mosaico è, oggi come ieri, testimonianza e simbolo della divina pietà dell’arte. Che non dimentica mai il dolore dell’uomo. «Resta pietra firmata, viva». Anna de Simone Alessandro Rivali La riviera del sangue Associazione Culturale Mimesis, Milano 2005 pp. 96. € 11,00 92 Dalla Russia con amore N el 1961 Tommaso Landolfi affrontava per la terza volta nella sua vita la traduzione di alcune opere di Aleksandr Puškin. Dopo aver tradotto nel 1948 La dama di picche, Il fabbricante di bare e Il mastro di posta e nel 1960 i Poemi e liriche, era infatti la volta del Teatro e favole, ripubblicato oggi da Adelphi con un’appendice di quattro saggi di Landolfi su Puškin, di cui tre scritti nel 1937 e uno alla fine del ’53. In Puškin, comparso per la prima volta in “Meridiano di Roma”, anno II, n. 35, 29 agosto 1937, Landolfi scrive a proposito della traduzione che Ettore Lo Gatto aveva appena compiuto del pûskiniano Eugenio Onegin per la casa editrice Bompiani: Tradurre propriamente un poeta significa renderne non soltanto, anzi non tanto la lettera, quanto le articolazioni e inflessioni metriche, il piglio, le impostazioni, e minutamente le fasi, musicali e via dicendo. Significa non tanto riprodurre un contesto, quanto un contesto armonico1. Con questo spirito armonico e con un grande amore per il poeta russo, amore di lettore più che di esegeta, Landolfi tradusse le opere teatrali e le favole di Puškin, di cui amava narrare la vita malinconica, ma avventurosa, drammaticamente conclusasi con un duello d’onore con il barone Giorgio d’Anthès, ufficiale francese in servizio alla corte russa e frequentatore poco gradito del salotto di Madame Puškin, al secolo la bellissima e giovanissima Natalia Nicolaevna2. Teatro e favole contiene opere scritte in diversi momenti della vita di Puškin. Prima tra tutte il Boris Godunov, la tragedia storica che il poeta compose tra il 1824 e il 1825 nell’isolamento della proprietà materna di Michajlovskoe, dove lo zar Alessandro I lo aveva confinato a causa delle idee liberali espresse nelle sue poesie e nei suoi epigrammi. La tragedia, sotto forma di trilogia, trae ispirazione dalla gigantesca Storia dello stato russo dello studioso Nicolaj Michajlovic Karamzin, il primo storico professionista della Russia, direttamente conosciuto da Puškin du- rante gli anni del Liceo Tzarskoe Selo, e segna l’inizio della letteratura romantica e nazionale russa. I quattro atti unici, o “piccole tragedie” (Mozart e Salieri, Il convitato di pietra, Il cavaliere avaro, Festino in tempo di peste), furono composti nel 1830 nella tenuta paterna di Boldino e indagano i nuclei psicologici di altrettanti vizi umani come l’invidia, la lussuria, l’avarizia e l’empietà. Recita il personaggio di Salieri verso la fine del suo monologo iniziale: Sono invidioso. Invidio; con tormento, Profondamente, invidio. – O Cielo! Dunque Dov’è giustizia, quando il sacro dono, Quando il genio immortale non compenso D’amore ardente, non di dedizione, Di sudori, di zelo, è, di preghiere – Ma illumina la testa d’un ozioso Vagabondo, d’un folle?… O Mozart, Mozart3! L’acume psicologico e l’ampiezza degli interessi umani, uniti alla compostezza classica di Puškin, colpiscono inevitabilmente un lettore cui Landolfi raccomandava fortemente di non interporre schermi critici alla lettura delle opere puskiniane, andando fiducioso incontro all’opera di un vero umanista. Infine il volume raccoglie anche le meno Caffè Michelangiolo Le letture note, ma non meno belle, favole in versi, scritte nell’ultimo periodo della vita di Puškin, e ottenute mescolando le tradizioni del folklore russo con i ricordi delle fiabe che la sua njanja (balia) Arina Rodionova era solita raccontargli nei lunghi periodi della vita in cui si trovò al suo fianco. In tutte queste opere, in bilico tra influssi letterari, specie francesi, lingua che fu insegnata al poeta sin da bambino, e forti istanze culturali nazionali, si ritrova un Puškin allo stesso tempo classico e romantico, serio e scapestrato, maturo e infantile, liberale e curioso. Il primo grande poeta della moderna letteratura russa, in cui Landolfi scopriva i tratti di un genio, folle e capriccioso, in cui andrebbero ricercati i germi di molte delle ricognizioni letterarie successive, russe e non solo, merita ancora una volta piena attenzione. Costanza Melani NOTE 1 T. Landolfi, Puškin in appendice a A. Pûskin, Teatro e favole, Adelphi, Milano, 2005, p. 381. 2 La storia di questo duello Landolfi la racconta in Morte di Puškin, apparso in «Omnibus», anno I, n. 6, 8 maggio 1937 e ora in appendice al volume A. Pûskin, Teatro e favole, cit. pp. 369-79. 3 A. Pûskin, Mozart e Salieri, in Id., Teatro e favole. Aleksandr Puškin Teatro e favole. Traduzione di Tommaso Landolfi Adelphi, Milano 2005 pp. 400. € 30,00 Le piccole canaglie della poesia contemporanea T rova finalmente forma – ma non, si può sin d’ora scommettere, compimento – nelle severe gabbie della scansione tipografica l’ormai più che decennale ricerca fono-visiva dei Rapsodi, una delle esperienze artistiche più stimolanti e innovative tra quelle che animano l’attuale panorama nazionale. Sotto un’unica sigla, due personalità diverse e apparentemente lontane: Luca Bombardieri, rabdomante wittgenstei- Caffè Michelangiolo niano del rapporto tra realtà e linguaggio, esploratore palmo a palmo dei territori dell’assurdo e del crudele, e Tommaso Pippucci, logo-equilibrista che cammina sul filo di una sagacia sorniona e velata di elegia. Arrembante il primo, felpato il secondo: pronti però a scambiarsi le parti quando occorre – cioè sempre. Un formidabile ensemble la cui “potenza di fuoco” conosce un pieno dispiegamento – come sottolinea Paolo Maccari nell’acuta e affettuosa introduzione al volume – nella dimensione scenica, sapientemente supportata dalla sensibilità musicale del “maestro” Duccio Ancillotti, che «gira i dischi» durante le loro esibizioni dal vivo. Da bravi saltimbanchi o meglio illusionisti della parola, anche in volume i Rapsodi non perdono un colpo, grazie a un’agile guerriglia percettiva che trova nella scrupolosa – ma ingannevole – rispondenza tra parola e immagine una testa di ponte per ardite e irriverenti incursioni espressive, a un tempo spassose e folgoranti. Colpisce l’alta qualità di una scrittura raffinata e cultivée, debitrice delle esperienze meno addomesticate del nostro Novecento, da Landolfi a Flaiano. Ma c’è, a mio avviso, di più: ed è un fatto propriamente anagrafico. La generazione di Bombardieri e Pippucci, quella nata alla fine degli anni Settanta, tirata su a pane e tv private, è cresciuta masticando una serie di consuetudini relazionali che sono divenute nel tempo veri e propri tic, e si potrebbe persino dire una sorta di griglia kantiana del pensiero, un a priori della propria sociabilità in formazione. Penso, in primis, al calembour elevato a codice comunicativo standard, meccanismo parassita che, perduta ogni carica eversiva, vive sulle macerie dei nobili e severi codici del passato e finisce per imporsi, in forme ad alto tasso di deperibilità, come il medium per eccellenza di ogni scambio con i coetanei. Queste armi spuntate di un’epoca tele-narcotizzata i Rapsodi hanno saputo, con operazione davvero geniale, ribatterle sull’incudine della propria vivacità intellettuale e forgiarle a loro talento per le necessità della battaglia. Il jeu de mots non di rado sublime che sorregge la loro scrittura – ma forse, un giorno, sarà necessario sciogliere questi loro e distinguere meglio i singoli apporti – imprime ai clichés verbali di quella generazione un moto centrifugo che a un tempo consacra e dissacra le istituzioni linguistiche ereditate, facendone miccia per una nuova detonazione creativa. Un’esplosione di senso che taglia le linee di comunicazione ordinarie e investe con inaudita potenza anamorfica l’œil e l’oreille del lettore/spettatore: basti prendere in considerazione la sezione che chiude il volume, Poeti che contano, sorta di performance fotografica dove una ventina di personaggi sono immortalati in pose legate ai vari significati del verbo contare. Anche in questo caso l’immagine, imbrigliata da un gioco di parole che la ri-semantizza, perde la propria autonomia segnica e viene per così dire trascinata in ceppi verso un ambiguo destino, di omaggio e sberleffo, dell’istituzione-poesia. Un ordigno perverso, insomma, quello congegnato dai Rapsodi, una morsa che tanto più stritola e demistifica il soggetto ritratto quanto più questi si illude di sottrarsi all’operazione cercando rifugio nella “credibilità” della propria condizione di “poeta”. Analogamente, sul piano lessicale, Bombardieri e Pippucci non concedono niente all’approssimazione né alla ricerca forzata dell’effetto: prevale un uso esatto, finanche chirurgico, di una terminologia ampia ma sempre pronta all’approfondimento settoriale – non di rado estremamente tecnica: esemplare in questo senso Biancaneve e i settenari – la cui collocazione è tuttavia total- 93 Le letture mente inappropriata, dico rispetto al proprio ambito di utilizzo. Un processo di spaesamento e deformazione della lingua che giunge sino allo sminuzzamento, al balbettio indistinto di Barbarein, testo – purtroppo irriproducibile in volume – in cui le millenarie pretese dell’etimologia, da Varrone a Sant’Isidoro fino a noi, si frantumano dapprima in una scienza della lallazione e finiscono poi per polverizzarsi in un liberatorio sfogo canzonettistico, che in nome di una delirante koiné da party liceale salda la Grecia classica al rock’n’roll dei Sixties. Ne consegue ancora una volta un parossistico gioco di rilanci, irresistibilmente esibizionista, in cui l’aspetto ludico e quello inquietante, straniante, riescono a mantenersi in perfetto, ancorché bizzarro, equilibrio. Anzi, di più: finiscono per accennare, come capita sovente durante le performances live dei Rapsodi, qualche passo di danza, sottobraccio, con la lucida e scanzonata follia dei migliori Laurel & Hardy. Proprio non si riesce a tenerli zitti e fermi, con la lingua e con i piedi, questi incorreggibili brats della poesia italiana contemporanea. Riccardo Donati Luca Bombardieri - Tommaso Pippucci Trompe l’œil, trompe l’oreille prefazione di Paolo Maccari Zona, Arezzo 2005 pp. 84. € 15,00 Il futuro già trascorso I l poemetto di Anna Maria Guidi si apre, sin dalla citazione iniziale, con l’immagine borgesiana di un tempo sospeso tra passato e futuro, tra origini e orizzonti, tra memoria e slancio verso l’ignoto. Allo stesso modo questa nuova opera della poetessa, cardine centrale del suo percorso poetico, prende corpo dalla ricerca iniziata nelle opere precedenti. Da Esercizi (1998, a cura di Giorgio Luti), a Incontri (2000, a cura di Carmelo Mezzasalma), a Tenacia d’ombra (2002, a cura di G. Panella) e Certezze (2002, a cura di Mozzanti) la Guidi ha 94 elaborato una personale poetica, nella quale il tema ricorrente del tempo e della memoria, il senso di un percorso esistenziale da costruire passo dopo passo e un linguaggio che fa propri i modelli classici (Dante e Petrarca), così come i molti riferimenti alla poesia moderna (Leopardi, Pascoli e Montale) si combinano secondo una rigorosa e ben calcolata tecnica. Le raccolte poetiche citate hanno in passato conseguito diversi premi letterari e suscitato un notevole interesse critico intorno alla produzione dell’autrice con interventi e recensioni (ricordiamo, in particolare, quelli di Luti, Manescalchi e Mezzasalma); ora con il viaggio poetico ed esistenziale di In transito la Guidi ri-attraversa l’esperienza alle spalle e, nello stesso tempo, dà prova di una profonda maturazione e di una nuova elaborazione formale della sua poetica. Come scrive Giorgio Luti nell’ Invito alla lettura posto ad introduzione dell’opera, il transito è per la Guidi «attraversamento di uno spazio ideale e reale»1, che dalle inquietudini della giovinezza attraverso incontri e spazi conquistati a caro prezzo, giunge all’accettazione del tempo trascorso e ad una sorta di lucida e attenta osservazione. Dio è il punto d’arrivo di questo percorso, l’obiettivo verso cui tende l’inte- ro poemetto, l’approdo a partire dal qual riprendere il cammino e dare senso a quello alle spalle. L’opera, divisa in tredici “passaggi”, ognuno dei quali introdotti da un breve esergo in corsivo, ha inizio con il tono diaristico e autobiografico della poesia intitolata Ambita alterità, dove si pongono le premesse dell’andare e si snoda attraverso un ritmo ascensionale e un uso calibrato di citazioni esibite (Pasolini, passi del Qohèlet, Pascal, Villon, Milosz, Larkin, Petrarca, Cvetaeva, Sereni) a testimoniare un’idea della tradizione in quanto continuum, viaggio, allegoria della vita come possibilità di incontri e riflessione continua. Così, con la stessa chiarezza e volontà di “testimonianza”, emergono, soprattutto nella seconda metà dell’opera, riferimenti alla contemporaneità, come nella poesia Doveroso silenzio dedicata ai bambini di Beslan. Manescalchi definisce in modo illuminante questo percorso «quasi un’allegoria dell’umano transitare nel mistero della vita»2. È così. Anna Maria Guidi fa della propria esperienza personale parabola esistenziale disegnata nel tempo, viaggio e “canzoniere”, nel senso petrarchesco del termine, teso verso la conquista di senso, il quale culmina nell’invocazione finale a Dio dell’ultima poesia, dove l’«azzardo del volo»3 della scrittura genera l’infinito interrogare e interrogarsi della vita: Interrogami, Dio. Domandami se, ubriaca, nella vigna dei giorni ho marinato la fede per una vendemmia di dubbi Persisti a chiedere4. Monica Venturini NOTE 1 G. Luti, Invito alla lettura in A.M. Guidi, In transito, Edizioni Polistampa, Firenze, 2005, p. 8. 2 F. Manescalchi, retro di copertina di A.M. Guidi, In transito, cit. 3 A.M. Guidi, In transito, cit., p. 15, v. 6. 4 Ivi, p. 165, vv. 1-5. Anna Maria Guidi In transito Edizioni Polistampa, Firenze 2005 pp. 172. € 8,00 ■ Caffè Michelangiolo ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI DI ARTI LETTERE SCIENZE FONDATA NEL 1660 MODIGLIANA ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI DI MODIGLIANA NOTIZIE STORICHE L’Accademia degli Incamminati venne fondata nel 1660 dal letterato Bartolomeo Campi col nome di Accademia dei Pastori del Marzeno e con sede in Modigliana, città della Romagna appenninica allora compresa nel Granducato di Toscana. Entrata in crisi dopo il 1720, fu ricostituita il 27 ottobre 1755 ad iniziativa dello storico Gabriele Sacchini, che le impose la denominazione attuale e le diede nuove norme statutarie. Con rescritto 24 aprile 1795 del Granduca di Toscana Ferdinando I, confermato poi da Leopoldo II il 17 agosto 1825, l’istituzione ottenne la «sovrana protezione» assumendo il titolo di Imperiale e Reale Accademia degli Incamminati. Successivamente, per la ribellione patriottico-risorgimentale degli Incamminati, con risoluzione granducale 19 agosto 1857, resa esecutiva in data 24 agosto, venne imposta la sospensione dell’attività accademica. Ritiratosi da Firenze Leopoldo II, il subentrato Governo Provvisorio della Toscana, per «debito di giustizia», il 13 dicembre 1859 riabilitò l’antica Accademia «al libero esercizio dei suoi diritti e delle sue funzioni» e, dopo l’avvento del Regno d’Italia, come da nota 18 luglio 1861 della Delegazione del Governo di Modigliana, essa assunse la denominazione di Regia Accademia degli Incamminati. Nel 1925, precluso il libero esercizio alle associazioni culturali non appartenenti al partito fascista, l’Accademia dovette cessare l’attività. Questa riprese nel 1946 ad avvenuta proclamazione della Repubblica Italiana. Nel 1961 fu eletto Presidente il dott. Gilberto Bernabei, alto dirigente ministeriale, poi Consigliere di Stato e Sindaco di Modigliana. Questi assunse importanti iniziative fra cui quella di chiamare nell’Accademia eminenti personalità della letteratura, delle scienze, delle arti, delle istituzioni, dell’imprenditoria e del lavoro. L’attività degli Incamminati ricevette così un notevole impulso, accentuatosi ulteriormente con l’On. Pier Ferdinando Casini, presidente effettivo dal 1990 al 1997, e oggi presidente d’Onore, e con l’Avv. Natale Graziani, presidente dal 1997 al 31 dicembre 2005. Dal 1 gennaio 2006 il nuovo presidente dell’Accademia degli Incamminati è l’On. Antonio Patuelli. Organo ufficiale dell’Accademia è “Caffè Michelangiolo”, rivista di discussione edita in Firenze con periodicità quadrimestrale, fondata e diretta da Mario Graziano Parri. FINI E COMPITI ISTITUZIONALI L’Accademia degli Incamminati, di Arti Lettere Scienze, sorta nel 1660 e munita di personalità giuridica (D.P.R. 27 luglio 1970 n. 753), ha lo scopo di promuovere e diffondere le conoscenze umanistiche e scientifiche nel quadro dell’universalità e unità della cultura; di studiare e dibattere i temi nazionali, dell’Europa, dei doveri e dei diritti dei cittadini; di svolgere nei territori della Romagna e della Toscana fiorentina – fascia appenninica in particolare – attività di studio, ricerca e valorizzazione della storia e della civiltà dei luoghi. 96 Caffè Michelangiolo IL VINCASTRO Informazioni e notizie dell’Accademia degli Incamminati Nel bicentenario della nascita di Mazzini Convegno di Studi a Faenza su “Potere e circolazione delle idee: stampa, accademie e censura nel Risorgimento Italiano (1814-1861)” cale Associazione Mazziniana. Al tavolo della Presidenza, oltre al Ministro per le Politiche Comunitarie On. Giorgio La Malfa, sedevano il presidente dell’Accademia Natale Graziani, il Sindaco Glauco Casadio, il Professor Zeffiro Ciuffoletti dell’Università di Firenze, il Presidente della l 24 e 25 settembre 2005 si è tenuto Faenza il convegno Provincia Francesco Giangrandi e il rappresentante deldi studi forse più importante fra quelli svolti in occasio- l’Ordine Nazionale dei Giornalisti Claudio Santini. ne della celebrazione del bicentenario mazziniano. Il tema: I lavori sono iniziati con la lettura da parte del PresiPotere e circolazione delle idee: stampa, accademie e cen- dente Graziani del messaggio del Presidente della Repubsura nel Risorgimento italiano (1814-1861). blica Carlo Azeglio Ciampi, nonché del messaggio del preIndetto e organizzato dall’Accademia degli Incammi- sidente d’Onore degli Incamminati Pier Ferdinando Casinati, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubbli- ni, Presidente della Camera dei Deputati, rammaricato ca, il convegno aveva ricevuto il Patrocinio del Comitato dell’involontaria assenza perché trattenuto da un impegno Nazionale per le celebrazioni del Bicentenario della nasci- istituzionale in Libano. ta di Giuseppe Mazzini e dell’Ordine Nazionale dei GiorHa preso quindi la parola il Sindaco Claudio Casadio il nalisti, nonché la sponsorizzazione della Fondazione della quale si è detto lieto che Faenza accogliesse un convegno di Cassa di Risparmio di Ravenna e di Romagna Acque, So- alto valore scientifico, che copre “una lacuna” negli studi sul cietà delle Fonti. Risorgimento e nel contempo «celebri degnamente una perL’importante convegno è stato originato dalla ricerca, sonalità come Giuseppe Mazzini. Il quale anche nel moprima e unica in Itamento attuale è di lia, che l’Accademia monito e insegnamendegli Incamminati ha to nelle scelte dei citpromosso, mobilitantadini per la democrado una serie di stuzia, i cui valori unidiosi e di ricercatori, versali sono più durasull’attività della centuri dei partiti e dei sura governativa dugoverni. Il convegno rante il periodo risordunque non solo come gimentale nei singoli recupero filologico, stati preunitari. ma anche come proieLuogo del convezione verso il futuro». gno è stato l’ottocenÈ seguito l’intertesco Teatro Angelo vento del presidente Masini, che si presendell’Ordine dei Giortava con un magnifinalisti dell’Emilia Roco colpo d’occhio: magna in rappresengremito nella platea e tanza dell’Ordine Nain ogni ordine di palzionale. Questi si è richi e con molti giovafatto a Mazzini giorni presenti; all’organalista, ma anche al nizzazione avevano Cavour del 1854, e, collaborato il Comu- Il tavolo dei Relatori per il Convegno a Faenza del 24 e 25 settembre 2005 su “Potere e cir- sottolineando che la ne di Faenza e la lo- colazione delle idee: stampa, accademie e censura nel Risorgimento”. libertà di stampa vige I Caffè Michelangiolo 97 Il Vincastro Il lungo cammino dell’affermazione del principio della libertà di stampa si è intrecciato con la storia della democrazia occidentale: dalle settecentesche dichiarazioni dei diritti negli Stati Uniti alle lotte della Rivoluzione Francese, alle idee che hanno infiammato il nostro Risorgimento. Periodici come la Giovine Italia, di Giuseppe Mazzini hanno svolto un ruolo essenziale per la maturazione della coscienza collettiva nazionale, consolidata nei valori di libertà, pluralismo e imparzialità, fondamento della costituzione Repubblicana e della carta europea dei diritti. Con questa consapevolezza mi rivolgo a Lei, egregio Presidente, agli illustri Accademici e Relatori un cordiale augurio di buon lavoro. Carlo Azeglio Ciampi Messaggio del Presidente della Camera dei Deputati Il Ministro per le politiche comunitarie, on. Giorgio La Malfa, al suo arrivo al Convegno di Faenza, dove terrà la prolusione. solo in trenta Stati dei centonovantuno rappresentati all’onu, ha concluso annunciando il recupero dell’antica agenzia Stefani scomparsa con la caduta del fascismo e il suicidio del suo direttore. Infine Francesco Giangrandi, presidente della Provincia di Ravenna, nel suo saluto si è soffermato sul valore della circolazione delle idee per il pluralismo di una stampa che sia libera di difendere le proprie idee e quelle degli altri. Il presidente Graziani, ringraziando gli intervenuti, ha ricordato che il primo giornale a Faenza vide la luce nel 1860 e aveva per titolo “La voce del popolo”. Quindi è passato alla consegna del “Vincastro d’Argento Premio ad una Vita” al professor Salvo Mastellone dell’università di Firenze che ha studi fondamentali su Mazzini e gli scritti da questi pubblicati nella stampa inglese. Il “Vincastro d’argento”, come è noto, è la speciale distinzione attribuita fra gli Accademici Incamminati a coloro che conferiscono nobiltà e valore particolare alla vita con l’eccellenza e la continuità delle opere o con l’esempio di singolare virtù civile. La motivazione del Premio, riportata in proseguo, è stata letta dalla dottoressa Matilde Balbi Bertazzoni del Consiglio di Presidenza dell’Accademia. Q uesto il testo che il Presidente della Camera dei deputati Pier Ferdinando Casini ha indirizzato al Sindaco di Faenza, Ing. Claudio Casadio, e che è stato letto al convegno dal dott. Giancarlo Aulizio del Consiglio di Presidenza dell’Accademia. Gentile Sindaco, cari amici Incamminati, è vivo il rammarico per non essere presente oggi tra voi in ragione di sopravvenuti, inderogabili impegni istituzionali. Messaggio del Presidente Carlo Azeglio Ciampi Q uesto il testo del messaggio telegrafico del Presidente della Repubblica pervenuto all’avv. Natale Graziani, presidente dell’Accademia degli Incamminati, e che questi ha letto al Convegno di Faenza. In occasione del convegno di studi “Potere e circolazione delle idee: stampa, accademie e censura nel Risorgimento italiano”, indetto nell’anno bicentenario della nascita di Giuseppe Mazzini, esprimo apprezzamento all’Accademia degli Incamminati di Modigliana per il valore storico e culturale dell’iniziativa. 98 Lo storico Franco Della Peruta (università di Milano). Caffè Michelangiolo Il Vincastro Nel porgervi comunque tutions, Salvo Mastellone è tuttora Direttore reil mio più caloroso sasponsabile della rivista “Il luto quale Presidente Pensiero Politico”. d’Onore dell’accademia È autore, inoltre, di degli Incamminati, denumerose pubblicazioni sidero innanzitutto rinimportanti per la storia graziare per l’ospitalità del pensiero politico, della città di Faenza, che le ideologie e della deconferma in tal modo la mocrazia in Europa, sua vocazione storica e nonché di dettagliati ed culturale. originali saggi sullo sviApprezzo sinceraluppo del pensiero politimente l’iniziativa di co da Savanarola ad commemorare la figura Adamo Smith (Due vodi Giuseppe Mazzini nel lumi), da Sieyés a Marx bicentenario della sua (Tre volumi), da John nascita L’Italia di oggi Stuart Mill a Lenin. ritrova in lui non solo Infine, consultando i l’ispiratore dell’unificagiornali originali del pezione nazionale, ma anche il precursore del- Gli storici: da sinistra Zeffiro Ciuffoletti (università di Firenze) e Arturo Colombo (uni- riodo, ha condotto una lunga e meticolosa indal’integrazione europea e versità di Pavia). gine, seguita da sapiente della fratellanza univere acuta analisi, anche comparativa, sugli articoli e i saggi sale tra i popoli. scritti da Giuseppe Mazzini in lingua inglese e pubblicati sulCome è noto, Mazzini ha rintracciato le radici della nala stampa londinese fra il 1845 e il 1847, mercé i quali l’ezione italiana nella sua tradizione culturale. Bene ha fatto sule italiano s’inserì con autorevolezza, forza e originalità d’iperciò l’Accademia degli Incamminati a ricordarne la fidee nel dibattito sulla democrazia politica e sociale, allora in gura, promuovendo una riflessione originale sulla circolacorso fra i grandi pensatori politici nell’Europa di quel temzione delle idee nell’Italia della prima metà dell’Ottocento, po. Frutto dell’inedita e fondamentale ricerca londinese sono affidata a studiosi illustri cui sono veramente grato per la le opere che poi Salvo Mastellone ha dedicato a Mazzini, fra loro partecipazione. cui: La Democrazia etica di Mazzini; Mazzini scrittore poliNel formulare infine a tutti i presenti i miei migliori autico in inglese; Giuseppe Mazzini: pensieri sulla democrazia guri di buon lavoro, sotto l’alta direzione dell’amico Natain Europa; e infine il libro – che l’Autore ha scritto e puble Graziani, sono certo che il convegno faentino contribuirà blicato in lingua inglese – intitolato: Mazzini and Marx. ad arricchire la storiografia risorgimentale ed inviterà le gioThoughts upon Demovani generazioni ad cracy in Europe, edito apprezzare quanto sianel 2004. no preziosi i beni quaL’Accademia degli li la libertà di pensiero, Incamminati, che nell’Idi stampa e di associatalia preunitaria fu culzione, in cui si riverbela e ritrovo di liberaldera l’essenza stessa delmocratici, nonchè fucila democrazia. Pier Ferdinando Casini Motivazione del “Vincastro d’Argento” a Salvo Mastellone P rofessore emerito di Storia delle dottrine politiche nell’Università di Firenze e già Presidente della International Commission for the History of Representative and Parlamentary InstiCaffè Michelangiolo Salvo Mastellone, professore emerito di Storia delle dottrine politiche alla università di Firenze, Accademico degli Incamminati, riceve dal presidente Natale Graziani il “Vincastro d’Argento”. La cerimonia si è svolta il 24 settembre 2005 al Teatro Angelo Masini a Faenza. na di patriottismo, è fiera di avere fra gli iscritti nel Catalogo dei Soci il Professor Salvo Mastellone, punto di riferimento imprescindibile negli studi mazziniani e sulla democrazia. Per tali motivi, in occasione del convegno celebrativo del bicentenario della nascita di Mazzini, il Consiglio di Presidenza gli assegna il Vincastro d’Argento Premio a una vita. 99 Il Vincastro Le relazioni al Convegno del professor Arturo Colombo, docente emerito dell’università di Pavia e vvenuta la lettura dei collaboratore ordinario messaggi ed esaurita del “Corriere della Sera”, la cerimonia della conseil quale con molta efficagna del Vincastro d’Arcia ha illustrato il tema gento al professor Ma“Mazzini giornalista”. stellone, questi, ringraLa terza relazione su ziando ha poi brevemen“Mazzini e la formaziote illustrato gli scritti ne dell’opinione demomazziniani sulla stampa cratica nel Risorgimeninglese. Il presidente to”, è stata svolta dal Graziani ha invitato l’oProf. Franco Della Perunorevole Giorgio La Malta, emerito dell’Univerfa, Ministro per le Politisità di Milano, uno degli che Comunitarie e coorstudiosi più insigni del dinatore nazionale per la pensiero democratico strategia di Lisbona dell’Ottocento e di Giu2005, a tenere la Prolu- Il pubblico nella Sala Consigliare di Modigliana per la cerimonia della cittadinanza seppe Mazzini. sione. Deputato italiano onoraria a Pier Ferdinando Casini e a Natale Graziani, il 12 novembre 2005. Il presidente dell’As(ma anche europeo), già sociazione Mazziniana ministro del Bilancio e della programmazione economica, Italiana (AMI), ordinario di Storia dell’università di Bologià presidente della Commissione finanze della Camera e gna, Roberto Balzani, ha trattato il tema “Mazzini e la ordinario di economia politica nell’università di Catania, stampa democratica”, mentre Romano Coppini docente Giorgio La Malfa – dimostrando un’approfondita cono- nel Dipartimento di Scienze della politica nell’Università di scenza del pensiero mazziniano e traendo spunto dal mes- Pisa, ha svolto il tema “Mazzini e d’Azeglio”: spunti di risaggio di capodanno del Presidente della Repubblica Ciam- flessione sulla stampa moderata. pi – ha ampiamente dissertato sul valore universale e atInfine “Il mondo delle accademie fra localismo, politica tuale dell’insegnamento mazziniano, con particolare rife- e censura” è stato oggetto della relazione della professoressa rimento all’Europa, concepita dal genovese in tempi lontani Renata De Lorenzo, docente di Storia contemporanea nelcon senso che potrebbe dirsi profetico, ispiratore di un l’Università Federico II di Napoli e presidente del Comitaprogetto solo oggi avviato a realizzazione. to Napoletano dell’Istituto della storia per il Risorgimento Sono seguite le relazioni della prima giornata dedicata italiano. a: Stampa e accademia nel Risorgimento, coordinata dalLa giornata si è conclusa con le relazioni del dottor lo stesso presidente Natale Graziani. Sauro Mattarelli su “La tradizione mazziniana in RomaPrimo dei relatori è stato Zeffiro Ciuffoletti. Ordinario gna”, nonché del dottor Alessandro Buda e dell’avvocato di storia contemporanea Natale Graziani su “La nell’Università di Firenze stampa e le accademie in (insegna Storia del RiRomagna nell’età del Risorgimento a Lettere e sorgimento”. Storia sociale della coPrima che Alessandro municazione a Scienze Buda leggesse la relazioPolitiche) è autore di stune, il presidente Graziani di fondamentali su Carlo ha voluto ricordare che il e Nello Rosselli. Con il 20 luglio 1856 alla torpresidente Graziani, nata dell’Accademia degli Ciuffoletti ha progettato Incamminati, il socio Steil convegno faentino, di fano Galli, poeta modicui nella relazione dal tiglianese e insegnante di tolo “Stampa e circolaosservanza mazziniana, zione delle idee nel Ritenne una coraggiosa resorgimento” ha tracciato lazione di forte contenuto le linee guida soffermancritico sull’insegnamento dosi soprattutto sulla della storia patria negli stampa democratica e su Stati preunitari, sottoliquella moderata nel peneando i doveri di interriodo risorgimentale. Ha Pier Ferdinando Casini e Natale Graziani, neoconcittadini di Modigliana, si compli- vento di un’Accademia fatto seguito la relazione mentano vicendevolmente. Fra loro il Sindaco di Modigliana, Claudio Samorì. letteraria. La relazione A 100 Caffè Michelangiolo Il Vincastro fece tale scalpore che di Verona) ha riferito fruttò al suo autore il sulla censura nel Redomicilio coatto e la gno di Sardegna; pretesa del Governo – il Prof. GianpieGranducale di Toscatro Berti (Università na della sua espulsiodi Padova) ha riferito ne dall’Accademia, sulla censura nel Renonché di reinstauragno lombardo-veneto; re la censura preven– la Prof.ssa Alba tiva sulle relazioni alle Mora (Università di tornate accademiche. Parma) e il dott. MarIl Corpo Accademico zio Dell’Acqua (Diretdegli Incamminati tore dell’Archivio di sdegnosamente e alStato di Parma) hanl’unanimità respinse no riferito sulla cenogni richiesta. Ne sura nel Ducato di conseguì che il 9 agoParma; sto 1857 il governo – il Prof. Giordano granducale fece chiuBertuzzi (Presidente dere l’Accademia di Pier Ferdinando Casini e Natale Graziani mostrano la riproduzione settecentesca della Città di della deputazione di Modigliana. C’è, dun- Modigliana. Al centro il Sindaco, professor Claudio Samorì. Storia Patria per le que, un conto in soantiche Provincie Mospeso fra Accademia degli Incamminati e censura nel pe- denesi) ha riferito sulla censura nel Ducato di Modena; riodo risorgimentale, ha concluso in tono ironico l’Avv. Gra– il Dott. Domenico Maria Bruni (Università di Firenze) ziani, e ciò potrebbe spiegare il motivo ispiratore della ri- ha riferito sulla censura nel Granducato di Toscana; cerca sulla censura da cui trae origine il presente convegno – il dott. Giorgio Tori (Direttore dell’Archivio di Stato di di studi. Lucca) ha riferito sulla censura nel Ducato di Lucca; – il Prof. Giuseppe Monsagrati (Università “La Sapienza”) ha riferito sulla censura nello Stato Pontificio; La censura negli Stati preunitari – il dott. Andrea Casadio (Università di Bologna) ha riferito sulla censura nelle Legazioni Pontificie; l convegno faentino, come già detto, si è protratto anche – il dott. Luigi Di Stadio (Accademia degli Incamminanella giornata del 25 settembre, che è stata dedicata a La ti) ha riferito sulla censura nel Regno delle due Sicilie (recensura negli stati preunitari. Coordinatore della giornata gione continentale); è stato il citato professor Ciuffoletti. – il Prof. Salvatore Bottari (Università di Messina) ha riLe relazioni sono state tenute da coloro che, per due ferito sulla censura nel Regno delle due Sicilie (Regione Inanni circa, rispettivamente negli archivi delle capitali degli sulare). scomparsi Stati preuDopo la conclusionitari (nonché nelle ne del professor Legazioni pontificie di Ciuffoletti, il presiRomagna e nella pardente Graziani ha rinte insulare del Regno graziato i relatori e i delle due Sicilie) hannumerosi accademici, no condotto le ricercittadini, docenti e che concernenti l’eserstudenti presenti nelle cizio in ogni singolo due giornate di studio stato della censura e, chiudendo il convedurante il periodo rigno, ha voluto ricorsorgimentale. Ognuno dare Mazzini con le ha portato a conoparole di Bolton King, scenza dei convegnisti che nel 1903 scriveva: il risultato delle ricerL’officio suo più che svolte per incarico alto e prezioso fu di dell’Accademia degli sollevare gli uomini Incamminati. Alla tridalla greve atmosfebuna si sono così sucra della vita comune ceduti undici Relatori. – Il Prof. Paolo Ro- Il tavolo della Presidenza e dei Relatori alla Tornata del 12 novembre 2005 a Modigliana. Da alle altezze dove il magnani (Università sinistra: Riccardo Gualdo, Antonio Patuelli, Pier Ferdinando Casini, Natale Graziani, Stefano Folli. pensiero è più vasto I Caffè Michelangiolo 101 Il Vincastro e la vita scorre con più vigore, e le grandi verità appaiono non offuscate da alcun egoismo, da alcun cavillo. l’idealista è ancora il migliore amico dell’umanità: colui più giova alla razza, che ne purifica la visione spirituale e, spirando il proprio soffio nel dovere freddo ed austero, giunge a farne cosa viva, calda di passione, vibrante di forza. Più grande ancora è colui che, non idealista soltanto, ma santo ed eroe, attesta con tutta la sua vita la verità che insegna. Tale santo, tale eroe, tale idealista fu Giuseppe Mazzini: e fino a quando vivranno uomini e donne fedeli a se stessi e alla propria missione, capaci di apprezzare il sacrificio e il dovere più della potenza e della fortuna, ci sarà sempre chi l’ami e chi lo prenda a maestro. Cittadinanza onoraria di Modigliana a Pier Ferdinando Casini e a Natale Graziani I l 12 novembre 2005 la Città di Modigliana ha conferito la cittadinanza onoraria all’Onorevole Pier Ferdinando Casini, Presidente della Camera dei Deputati e Presidente d’onore degli Incamminati, e all’Avvocato Natale Graziani, Presidente dell’Accademia degli Incamminati. Nel salone consigliare del Palazzo municipale si è svolta la pubblica seduta del Consiglio Comunale. Numerose erano le autorità presenti, dal vescovo di Faenza e Modigliana Monsignor Stagni al prefetto di Forlì Cesena Salvatore Montanaro, dal presidente della Provincia a vari senaGli Atti del convetori e deputati nonché gno di studi (grazie ana diversi sindaci e che al concorso financonsiglieri comunali ziario del Comitato Nadella Romagna, dagli zionale per le celebraaccademici Incammizioni del bicentenario nati provenienti da della nascita di Giusepogni parte d’Italia ai pe Mazzini) saranno cittadini di Modigliapubblicati quanto prina, in primo piano ma dall’Editore Fran- Giancarlo Mazzuca con il “Vincastro d’Argento” attorniato da Antonio Patuelli, Pier Ferdinan- quelli insigniti della co Angeli di Milano do Casini e Natale Graziani, rispettivamente nuovo Presidente, Presidente d’onore e Presidente Fascia Biancoazzurra nella collana storica emerito dell’Accademia degli Incamminati. La cerimonia si è svolta a Modigliana il 12 novemLa dott.ssa Carla diretta da Franco Del- bre nel Tempio-Auditorium San Bernardo. Casadei, segretaria la Peruta. del Comune, ha fatto l’appello e tutti i consiglieri sono risultati presenti. Il Sindaco, Claudio Samorì, ha proceduto al conferimento delle Concerto di musiche risorgimentali cittadinanze onorarie già deliberate all’unanimità e ne ha spiegato la motivazione dichiarando: «Un preciso tratto n occasione del convegno di studi faentino, la sera del 24 d’unione lega l’amicizia per Modigliana dei nostri due nuosettembre, nello stesso teatro Angelo Masini, si è tenuto un vi cittadini d’onore all’impegno che hanno profuso per la concerto di musiche risorgimentali eseguito dalla Banda Città cultura – e intendo la cultura nella sua più alta accezione di Modigliana diretta dal maestro Massimo Biserni. Sono sta- –, diffusa e vissuta attraverso la valorizzazione dell’attività ti eseguiti pezzi di Rossini, Verdi, Novaro-Mameli, Francesco dell’Accademia degli Incamminati di Modigliana». Fanelli, Brahms, Olivieri-Mercantini, Johann Strauss Jr., RoRivolto ai due neocittadini, il Sindaco ha concluso: «Con mualdo Marengo, Anonimo (memoria di Francesco Nullo) il Vostro impegno nell’Accademia degli Incamminati avete Beethoven. Il pubblico presente, costituito in gran parte da arricchito Modigliana e l’intero paese. Avete illustrato Moconvegnisti ha applaudito le esecuzioni presentate di volta in digliana portando l’Accademia a primeggiare nel panoravolta da Clara Samorì, su testo di Maria Grazia Nannini. ma culturale accademico italiano e di ciò vi siamo profonLa Banda città di Modigliana, fondata, per merito del- damente riconoscenti. Questa città si onora di accogliervi l’Accademia degli Incamminati nel lontano 1812, può consi- nel novero dei suoi cittadini d’onore e unisce i vostri nomi derarsi una delle prime bande non militari del Centro Italia. a quelli di altre prestigiose personalità. Solo per citarne alAncor oggi molto amata dai modiglianesi, è animata da uno cune: Gilberto Bernabei, nostro indimenticabile Sindaco, stuolo di valorosi giovani. Dal xix secolo ad oggi, sempre ha Franco Modigliani premio Nobel per l’economia, e più loncontrassegnato gli eventi gioiosi o tristi della città di Modi- tano nel tempo, Giuseppe Garibaldi, eroe dei Due Mondi e gliana e della Patria. Vivo successo riscosse a Firenze nel dell’unità d’Italia. Benvenuti di cuore. Benvenuti!». 2003 in occasione della presentazione dell’opera storica “RoÈ forse il caso di ricordare che dopo la scomparsa di Gilmagna Toscana” in Palazzo Vecchio. L’Accademia degli In- berto Bernabei, restauratore dell’Accademia degli Incamcamminati ha raccolto i pezzi eseguiti a Faenza in un dvd, di- minati, questa ebbe come Presidente dal 1990 al 1997 stribuito gratuitamente ai Soci. l’Onorevole Pier Ferdinando Casini, che la guidò e le die- I 102 Caffè Michelangiolo Il Vincastro de nuovo impulso superando la difficile transizione. Dal 1997 al 2006 subentrò nella carica l’Avv. Natale Graziani che qualificò sul piano scientifico l’antica istituzione conferendogli il prestigio nazionale che oggi la circonda. proprio padre poi da parte sua, vi è sempre stata in casa per l’antica Accademia modiglianese, onore e orgoglio della Romagna. Affrontando il tema della giornata, il Presidente Graziani ha fatto presente che il ciclo dedicato alla Lingua italiana era stato da lui immaginato per una serie di tornate Tornata d’autunno a Modigliana sul tema: che avrebbero dovuto occuparsi della lingua italiana nel “Politici loquaci melodramma, nella canzone, nella critica d’arte, nel teatro, la lingua italiana nella seconda Repubblica” nella politica, nel cinema, nella stampa, nella televisione, nella pubblicità e, inl 12 novembre fine, affrontare il 2005 si è svolta nel rapporto «uso della Tempio-Auditorium lingua italiana e uso San Bernardo di Modell’inglese come lindigliana la tornata gua veicolare», per autunnale dell’Accachiudere con un’anademia degli Incamlisi sui dialetti in Itaminati sul tema: Polia, il loro apporto litici loquaci: la linalla ricchezza dell’igua italiana nella sedioma nazionale, la conda repubblica. loro possibilità e opUna manifestazione portunità di sopravche per gli Incammivivenza. Di questi nati aveva un partitemi, il tempo ha colare valore in consentito di trattarquanto sarebbe stata ne solo una parte. l’ultima indetta dal «Colui che mi succepresidente Graziani. derà alla presidenza Il quale nella lettera – ha concluso – vadi convocazione ave- Il Presidente emerito Natale Graziani mostra il “Vincastro d’Oro” appena ricevuto dagli onorevoli luterà se e come prova concluso: «infine, Pier Ferdinando Casini e Antonio Patuelli, rispettivamente Presidente d’onore e neo Presidente cedere. Certamente a chiusura, alcune dell’Accademia degli Incamminati. non trascurerà che mie parole di congequesta Accademia ha do dalla Presidenza dell’Accademia. Lascio unicamente ormai assunto il ruolo di valorizzazione e divulgazione delper… superati limiti d’età. Non vorrei che colà dove si la lingua italiana a livello di popolare così come lo stesso puote ciò che si vuole l’accettazione di un nuovo mandato ruolo è assolto dall’Accademia della Crusca a livello d’eliquadriennale alla mia tarda età fosse interprtata come una tes scientifiche». sfida al Padre Eterno!… E credetemi, con Quello di Lassù Introducendo il tema specifico, il Presidente Graziani ha è meglio essere prudenti! tanto più che dopo gli ottanta si sottolineato che «la lingua della politica in Italia negli ulvive di giorni prestati…». timi anni è stata condizionata da fattori extra linguistici che In apertura di seduta il Presidente ha ringraziato Pier hanno portato ad un certo abbandono del cosiddetto poliFerdinando Casini presente di persona e si è rallegrato con tichese, e all’adozione di nuove forme di linguaggio politilui per la elezione, il 18 ottobre, alla Presidenza del- co, le quali, per l’appunto, distinguono la seconda republ’Unione Interparlamentare. Altri saluti sono stati rivolti al blica (ammesso che sia seconda). Con ciò non si vuole dire Sindaco della città Claudio Samorì, al Vescovo, al Prefet- che i cambiamenti storico-istituzionali (frutto di molteplito, ai parlamentari e alle altre autorità presenti. ci fattori fra cui quelli giudiziari, elettorali, di trasformaHa avuto poi luogo la consegna del “Vincastro d’argen- zione, fine e nascita di movimenti e partiti) hanno autoto Premio ad una vita” all’accademico Giancarlo Mazzuca, maticamente influenzato le abitudini dei politici protagodirettore del “Quotidiano Nazionale”, che cura la pagina nisti del cambiamento o che in seguito a questo, scesi nelnazionale del “Resto del Carlino” de “La Nazione” e del l’arena politica. Modificandosi le condizioni e le premesse “Giorno”. Ricordando che il “Vincastro d’Argento” è ri- su cui la comunicazione politica era costruita, inevitabilservato agli Incamminati che hanno conferito particolare mente il linguaggio della politica ha preso una diversa connobiltà e valore alla vita, con l’eccellenza degli studi, del- notazione. La quale è stata accellerata dal venire meno le ricerche, del sapere e delle opere, o con l’esempio di sin- della fase in cui la televisione non era come ora il principale golare virtù civile, il Presidente ha invitato l’On. Casini a e più incisivo mezzo di comunicazione politica. Nessuno più consegnare il premio. Ascoltata la motivazione, letta dal di me, che per ragioni anagrafiche purtroppo, proviene dott. Giancarlo Aulizio, e ricevuto il “Vincastro d’argento”, dall’era lontana dominata dai grandi comizi di piazza e dai il dott. Mazzuca dopo i ringraziamenti di rito ha anche ri- partiti di massa fortemente ideologizzati e organizzati, avcordato la considerazione e la stima che, prima da parte del verte l’abissale differenza fra allora ed oggi nella comuni- I Caffè Michelangiolo 103 Il Vincastro cazione politica. Dopo il 1994, col declino dell’elettorato di Intervento dell’On. Pier Ferdinando Casini appartenenza partitica e il lento ma progressivo emergere Presidente d’onore dell’Accademia di un elettorato d’opinione (talvolta plagiata) la televisioopo la relazione del dottor Stefano Folli sulla lingua delne è diventata lo strumento principe della comunicazione la politica nel giornalismo, ha preso la parola il Presipolitica e spesso il tempio stesso della ritualità politica accentuando quel carattere di spettacolarizzazione e di per- dente d’Onore dell’Accademia, On. Pier Ferdinando Casini. sonalizzazione, quindi di leaderismo, verso cui anche le leggi elettorali del 1993, col sistema maggioritario, avevaNel rivolgere a tutti gli Accademici Incamminati presenti il mio più caloroso saluto, mi rallegro del fatto che questa no sospinto il sistema». Primo relatornata segni un’ulteriore tore è stato il tappa della feprofessor Ricconda riflessiocardo Gualdo, ne sulla lingua ordinario nelnazionale sel’Università delguita alla difla Tuscia (Vifusione del forterbo), dove insegna linguistitunato Manifesto agli italiani ca e si occupa per l’italiano. di didattica delIl successo l’italiano scritdell’iniziativa, to, il quale ha cui hanno contrattato il tema: tribuito tanti il“I linguaggi lustri studiosi, della politica ha confermato italiana”. la felice intuiPer l’esorzione del presidio, Riccordo dente uscente, Gualdo si è ril’avvocato Nafatto all’ormai tale Graziani, celebre pezzo di che ringrazio comunicazione ancora una volpolitica che il Il pubblico alla Tornata del 12 ottobre 2005, a Modigliana, nel Tempio-Auditorium San Bernardo. ta per lo straor26 gennaio 1994 segnò la discesa in campo di Silvio Berlusconi e, dopo dinario impulso intellettuale e la dedizione profusa al seruna veloce analisi, ha reso evidente la ventata di novità vizio della nostra Accademia. che essa conteneva rispetto al vecchio politichese della parIl tema odierno mi chiama direttamente in causa, in ratitocrazia, delle convergenze parallele, degli equilibri più gione del mio impegno politico, che si è realizzato in una ormai più che ventennale vita parlamentare. Ho quindi avanzati, ecc. L’analisi tocca anche il linguaggio di altri politici (Bos- impiegato ed impiego quotidianamente la lingua italiana si, Di Pietro, Fini, Rutelli, ecc.) convalidando la tesi che le nell’ambito politico e quindi mi sottometto e i rimetto, in un formule vincenti della nuova comunicazione politica sono certo senso, all’esame che ne hanno fatto gli esperti relatori rappresentate dalla semplificazione e dalla personalizza- qui convenuti. Mi preme, tuttavia, condividere con tutti zione, condizionate da un uso inedito e generalizzato dei voi qualche osservazione ispirata dall’esperienza persomezzi di comunicazione di massa, in primo luogo la televi- nale, innanzitutto sull’evoluzione della lingua della politisione. Da qui il leaderismo e il soggettivismo che distingue ca nell’arco della storia repubblicana. la nuova fase della politica sempre più loquace e litigiosa. A me sembra che in una prima fase, quando i partiti poÈ seguita la relazione di Stefano Folli. Il quale, laureato litici rappresentavano solidi riferimenti dell’organizzazioin storia con Renzo De Felice, ha esordito nel giornlismo con ne del consenso e della mobilitazione civica, i destinatari “La voce repubblicana”: giornale che poi ha diretto negli della comunicazione politica fossero principalmente i milianni Ottanta. Portavoce del Governo Spadolini dal 1981 al tanti e quindi il linguaggio privilegiasse la retorica ed 1982, nel 1991 è entrato nella redazione del “Corriere del- avesse come obbiettivo la conferma della scelta ideologica la Sera” come notista politico assumendone la direzione compiuta, più che la ricerca di nuove adesioni. per il biennio 2004-2005. Attualmente è notista del “Sole Successivamente, con la crisi del sistema dei partiti, la 24 Ore”. Il tema de “La lingua della politica nell’intervista” comunicazione politica si è come racchiusa all’interno delha consentito all’oratore di spaziare dalla cultura all’episo- la cerchia degli addetti ai lavori, determinando la nascita dica giornalistica dando del linguaggio politico nel giorna- del cosidetto “politichese”, una lingua gergale a carattere lismo un’immagine forse meno innovativa, rispetto al pas- autoreferenziale, buona soltanto per scambiarsi messaggi sato, di quella che emerge dai discorsi in pubblico. in codice nel quadro di una democrazia bloccata. D 104 Caffè Michelangiolo Il Vincastro Oggi ho l’impressione che si viva finalmente una fase più libera, che impone ai politici di rivolgersi direttamente ai cittadini senza la comoda mediazione dell’ideologia. L’esistenza di una crescente fascia fluttuante dell’elettorato ha infatti ampliato la funzione persuasiva del linguaggio politico, che deve trasmettere contenuto e non più slogan. Dall’uomo politico, insomma, non si pretende più solamente lo sfoggio del bel dire, ma piuttosto la spiegazione della realtà e la testimonianza dell’impegno personale. La lingua della politica deve perciò aspirare ad essere concreta e colloquiale, anche nella trasmissione dei valori. Parallelamente si è anche evoluta la forma della comunicazione politica. Ad esempio: il comizio elettorale – ma anche gli interventi ai congressi dei partiti – non rivestono più il ruolo di una volta: Oggi prevale la comunicazione televisiva, che però ha superato il modello delle vecchie “tribune politiche”, in cui ciascun rappresentante illustra la propria posizione indipendentemente da quelle altrui, La televisione contemporanea punta piuttosto sui confronti che evidenziano la contrapposizione delle idee e dei progetti: un metodo che, in teoria, dovrebbe risultare senz’altro più efficace, ma che – stando agli scontri verbali cui non di rado capita di assistere – meriterebbe una maggiore dose di autocontrollo ed un più accen- Stefano Folli, notista politico de tuato senso di responsabilità da intervento. parte di tutti i protagonisti Una significativa continuità mi sembra invece che si possa verificare in sede parlamentare. Gli interventi in Aula in occasione dei principali dibattiti politici, spesso trasmessi in diretta televisiva, mantengono la loro pregnanza. È vero che non è più il tempo dell’oratoria parlamentare classica, che faceva grande mostra di citazioni latine e greche: gli stessi regolamenti parlamentari, del resto, impediscono ormai di tenere discorsi- fiume. Ma l’aula parlamentare esercita ancora il suo fascino e gli esponenti di tutti gli schieramenti continuano ogni giorno ad impegnarsi ad alto livello quando sono chiamati ad esprimere pubblicamente le rispettive posizioni. Quel che più conta è comunque la consapevolezza della sede della sovranità popolare e del diritto di tribuna che vi è correlato. Si tratta di capisaldi della democrazia parlamentare, che è indispensabile tenere fermi e perseverare quanto più possibile da ogni degenerazione, che oggi può arrecare pregiudizi gravissimi all’immagine del lavoro parlamentare, alla luce della straordinaria vastità della platea degli Caffè Michelangiolo utenti, raggiunti certamente dalla radio e dalla televisione, ma anche da internet. Infine, vorrei sottolineare come la politica sia uno degli ambiti che di norma maggiormente testimonia la vitalità di una lingua e contribuisce ad arricchirla. Termini di nuovo conio, prestiti da lingue straniere, reimpieghi verbali sono all’ordine del giorno nello svolgimento di un linguaggio che è chiamato ad interpretare situazioni sempre diverse e dinamiche. Succede allora di frequente che espressioni nate all’interno della comunicazione politica si trasferiscano nella lingua quotidiana e vengano impiegate in contesti assolutamente indipendenti da essa Penso all’esempio dell’espressione par condicio, un latinismo un tempo relegato al ristretto codice linguistico del diritto fallimentare che è stato poi adottato dalla politica per definire le regole della propaganda elettorale e che oggi è rientrato nell’uso collettivo. Esiste, dunque, una circolazione linguistica virtuosa di cui la politica è parte integrante. Fattore determinante, a questo proposito, è la maturazione dei cittadini che – a differenza di quanto ogni tanto si afferma con una buona dose di qualunquismo – sono assai meno influenzabili di un tempo, perché hanno acquisito maggiore co“Il Sole 24 Ore”, durante il suo scienza critica. Ben vengano dunque gli studi sulla lingua della politica e sulla loro valenza civile, che si affianca a quella scientifica. Grazie allora agli Incamminati per questa occasione, con il fervido augurio di buon lavoro a tutti i presenti. Motivazione del “Vincastro d’Argento a Giancarlo Mazzuca C onseguita nel 1972 la laurea cum laude all’Università di Bologna in Scienze Politiche, e perfezionatosi in politica diplomatica nell’americana Università Johns Hopkins, Giancarlo Mazzuca, nativo di Forlì, nel 1973 entra nella redazione de “Il Resto del Carlino”, quindi nel 1979 passa alla redazione economica del “Corriere della Sera” di cui sarà Caposervizio e Inviato speciale. Nel 1986 Caporedattore a “Il Giorno” per la parte economica, tre anni dopo è Vicedirettore della edizione italiana della rivista “Fortune” quando, nel 1991, Indro Montanelli lo chiama a “Il Giornale” per affidargli le funzioni di Caporedattore della sezione economica. Al fianco di 105 Il Vincastro Montanelli, Maestro ed Amico, e come suo Vice, vivrà inoltre tutta l’esaltante avventura de “La Voce” fino alla sua conclusione nel 1995. Dopo di che fa ritorno a Bologna rientrando nella redazione de “Il Resto del Carlino” con l’incarico di Caporedattore per l’economia, poi di Vicedirettore vicario. Nell’ambito del Gruppo Poligrafici Editoriale, dal 1997 ad oggi, dapprima è Vicedirettore e poi Direttore del “Quotidiano Nazionale”, che cura le pagine nazionali de “Il Resto del Carlino”, di cui è anche Direttore responsabile, de “La Nazione” e de “Il Giorno”; infine, dal 2002, vi associa l’incarico di Direttore editoriale dell’anzidetto Gruppo Poligrafici. L’intenso impegno giornalistico è stato sempre accompagnato dall’attività di scrittore di saggi pregevoli su temi di natura economica e sociale e autobiografici. I quali danno ulteriore testimonianza del valore dell’uomo e della sua fedeltà all’amicizia, nonché della cultura e della professionalità che lo distinguono. Per tali motivi, in occasione della Tornata Accademica d’Autunno 2005, il Consiglio di Presidenza, ad unanimità di voti, assegna all’Incamminato Giancarlo Mazzuca il Vincastro d’Argento Premio a una vita. cazione: cioè che lui, mentre ringraziava della fiducia unanime testimoniatagli e delle affettuose ripetute insistenze, non intendeva – stante la tarda età – riproporre, né ora riproponeva, la propria candidatura alla presidenza dell’Accademia. Considerava, quindi, chiuso il proprio impegno con la fine del mandato al 31 dicembre 2005, e – riservandosi d’inviare a tutti i soci, appena il tempo glielo avesse concesso, una doverosa, sintetica relazione scritta sul lavoro svolto da lui e dal Consiglio di Presidenza per tutto il mandato – assicurava che appena possibile avrebbe portato a termine quanto restava nella sua competenza e nei suoi obblighi da completare (compresi gli Atti delle pregresse tornate e la storia di Modigliana). Passava quindi a trattare il primo comma all’ordine del giorno, relativo all’elezione del Presidente dell’Accademia. A questo punto il Presidente d’Onore, On. Casini, data la personalità del candidato e la previsione ammessa dallo statuto vigente, proponeva la elezione per acclamazione a Presidente dell’Accademia del Socio ordinario On. Dott. Antonio Patuelli. Un generale applauso accoglieva la proposta. Il Presidente dell’Assemblea Graziani, datto atto che nessuno si è dichiarato contrario alla proposta di elezione per acclaAssemblea elettorale mazione, né alcun dissenso è eletti il nuovo Presidente stato manifestato durante l’ace gli Organi Sociali clamazione, visto l’at. 15 dello Il professor Riccardo Gualdo, ordinario di Linguistica e didattica della lingua italiana all’università della Tuscia, Viterbo, durante il Convegno. Statuto ha dichiarato l’On. Dott. ome da convocazione scritAntonio Patuelli eletto alla carita inviata al domicilio dei singoli Soci a mezzo posta, il ca di Presidente dell’Accademia degli Incamminati per il 12 novembre 2005 alle ore 15,30 ha avuto inizio e si è te- quadriennio 1 gennaio 2006 - 31 dicembre 2009. nuta in Modigliana presso il Tempio-Auditorium San BerChiesta ed ottenuta la parola, il neo Presidente ha pronardo, Corso Garibaldi, in seconda convocazione (essendo nunciato il breve discorso che qui viene riportato a parte, andata deserta la prima convocazione fissata per le ore 8 mentre insieme all’On. Casini ha proposto all’Assemblea di dell’11 novembre 2005, stesso luogo), l’Assemblea del Cor- proclamare l’Avv. Natale Graziani – che tanto ha benemepo Accademico dell’Accademia degli Incamminati di Mo- ritato dell’Accademia – Presidente Emerito. L’Assemblea ha digliana, per deliberare l’elezione del Presidente dell’Ac- approvato con un’ovazione. cademia e degli altri organi sociali (Collegio di Presidenza, Passando alla trattazione del secondo comma all’ordine Collegio dei Sindaci, Collegio dei Probiviri) per il qua- del giorno, il Presidente dell’Assemblea ha disposto che si driennio 1 gennaio 2006 - 31 dicembre 2009 come da vi- procedesse alla elezione degli altri organi sociali. gente statuto. Nell’ordine, sono risultati eletti i Soci accademici: Ha presieduto l’Assemblea il Presidente effettivo uscen- – Consiglio di Presidenza: Giancallisto Mazzolini, Giute, Avv. Natale Graziani, che aveva al proprio fianco il seppe Mercatali, Simona Costa, Dino Mengozzi, Paolo Presidente d’Onore, On. Pier Ferdinando Casini. Casadio Pirazzoli, Matilde Balbi, Fiorvante Montanari, Il Presidente Graziani ha dichiarato aperta e validaGiancarlo Aulizio. mente costituita l’Assemblea e, ad avvenuta distribuzione – Collegio Sindacale: Gianluca Galletti, Presidente; Giandelle schede elettorali ai soci presenti, ha confermato quanluca Bandini e Franco Scaccini, Sindaci effettivi; Vito to già aveva comunicato per scritto nella lettera di convoBarboni e Vittorio Lenzi, Sindaci supplenti. C 106 Caffè Michelangiolo Il Vincastro – Collegio dei Probiviri: Domenico Landi, Presidente; Roberto Budassi e Luciano Ravaglia, Probiviri effettivi; Franco Ferro e Loris Lolli, Sindaci supplenti. Il nuovo Presidente Antonio Patuelli I scuno, a cominciare da Natale Graziani che come Presidente Emerito rimarrà con noi e che coinvolgerò personalmente, innanzitutto concordando con lui le attività e le riunioni. Sono convinto che tutto il lavoro svolto in questi anni dall’Accademia innanzitutto sulla lingua italiana sia talmente importante da essere anche una premessa delle riflessioni e delle iniziative che potremo assumere per incamminarci e per sollecitare e promuovere le più adeguate iniziative (anche con una legge speciale) verso il settimo centenario della morte di Dante. A testimonianza di sincera gratitudine da parte di tutti noi, permettetemi di consegnare a Natale Graziani il “Vincastro d’Oro”, con la più sincera stima ed amicizia. l nuovo Presidente dell’Accademia degli Incamminati, Antonio Patuelli, è nato a Bologna il 10 febbraio 1951 e risiede a Ravenna dove ha sede l’azienda agricola di famiglia e, dal 1995, è Presidente della locale Cassa di Risparmio: il maggiore istituto bancario della Romagna che egli ha ulteriormente ampliato e potenziato. Prima su designazione del Presidente della Repubblica, poi in rappresentanza dell’A.B.I. (di cui è stato Vice Presidente), fa parte del Consiglio Nazionale dell’EVincastro d’Oro conomia e del Lavoro (CNEL) Congedo di Natale Graziani di cui è anche Presidente del dalla presidenza Collegio Sindacale. l Presidente d’Onore, Pier Eletto deputato per due legiFerdinando Casini, e il nuovo slature, sottosegretario di Stato Presidente effettivo, Antonio alla difesa nel Governo Ciampi, Patuelli, a nome e per conto di ha fatto parte di varie Commistutti gli Accademici Incammisioni parlamentari e ha presinati hanno consegnato al Presiduto il Comitato per Garanzie dente Emerito Natale Graziani Custituzionali nella Commisuna targa d’argento da cui sione Bicamerale. Dapprima emerge l’altorilievo di un vinSegretario della Gioventù Libecastro in oro. Il destinatario, rale, dagli anni ’70 ai primi evidentemente sorpreso e comanni ’90 ha ricoperto la carica mosso, ha ringraziato abbracdi Vice Segretario Nazionale del ciando sia l’On. Casini, sia l’On. Partito Liberale Italiano. Giornalista pubblicista, è L’onorevole Antonio Patuelli, nuovo Presidente dell’Accademia degli Patuelli. Al termine della Assemblea editorialista dei quotidiani “il Incamminati. elettorale (e contemporanea Resto del Carlino”, “la Nazione”, “il Giorno” e “la Gazzetta del Sud”. Sposato, ha una tornata), Natale Graziani ha tenuto il breve discorso che ha segnato la conclusione dei lavori accademici del 12 nofiglia. Subito dopo la elezione a Presidente degli Incammina- vembre scorso: ti, ricevuti i complimenti e gli applausi dei tanti accademici presenti, il Dott. Antonio Patuelli ha pronunciato il seari amici e colleghi Incamminati, guente breve discorso. nella mia lettera di convocazione all’Assemblea e alla Ringrazio sinceramente il Presidente Natale Graziani, Tornata odierne vi scrivevo, un po’ per celia e un po’ per l’amico di sempre Pier Ferdinando Casini e tutti gli In- autoironia (lo dico riecheggiando la Butterfly), che avrei camminati per l’alto onore che mi hanno così ampiamen- lasciato la presidenza dell’Accademia … per superati limiti d’età. La tarda età: è questa la ragione unica e vera. Rite attribuito. Non nascondo l’emozione, in questo momento, innanzi- flettete con me un momento! A Natale, ormai prossimo, tutto nel ricordare quando venni le prime volte agli In- compirò 83 anni. Un nuovo mandato di presidenza accacamminati con mio Padre che era Accademico, nei primis- demica sarà, per statuto, di quattro anni. Fate voi il conto, tirate le somme e avrete la conclusione… ammesso che simi anno Ottanta. Ricordo nitidamente Gilberto Bernabei, la sua merita- il buon Dio sia disposto con me a largheggiare nel numeta autorevolezza, le sue capacità di coinvolgimento e di ro degli anni!… Vi ho anche scritto – ricordate? – che dopo realizzazione. Sono a disposizione di quest’antica e glo- gli Ottanta ogni anno è prestato. E Deo gratias se gli anni riosa istituzione e conto sulla collaborazione di tutti e di ci- che verranno saranno per me uguali a questo giorno! I C Caffè Michelangiolo 107 Il Vincastro Ora, diciamocelo francamente: alla mia età l’accettazio- camminati, rispettivamente Ortolani, Framonti e Morresi ne di un nuovo mandato quadriennale, potrebbe anche ave- coi loro collaboratori. re tutta l’aria di una sfida al padrone del tempo, cioè al PaInfine, a tutti Voi, colleghi ed amici Incamminati, il mio dreterno. Con costui, credetemi, è sempre meglio essere pru- cuore si apre con l’immensa riconoscenza di cui è dotato. denti! Solo io posso sapere quanto mi costi interrompere il colloquio Vedo in sala alcuni accademici, miei vecchi compagni col popolo degli Incamminati! Persona per persona, viso per del classico a Forlì: Ferro, Lolli, Savorani… Vi ricordate, viso, nome per nome,tutti porto con me. Nel mio cuore. compagni di anni lontani, quello che il Prof. Schiassi di laCerto mi mancherà il dolce compito della lettera di contino e greco spesso ci ripeteva di Seneca? vocazione alle tornate che, anche se collettiva, mi sembrava Seneca ammonisce che non di scrivere ad uno ad uno di voi, semper saturnalia erunt! Non individualmente (non per casempre sarà carnevale, amici Inpriccio pretendevo in calce la fircamminati! Per il rispetto che ma autografa)! E mi mancherà devo a Voi e alla istituzione momolto l’osmosi dei sentimenti, il diglianese, alla mia età anche vostro e il mio, che avvertivo questo ‘dettaglio’ (che non è da quando alle nostre riunioni si poco) va tenuto presente! Non discuteva dei grandi temi della dubito, quindi, della Vostra cultura, a cominciare dalla lincomprensione e perciò spero che gua italiana che è stata – come sarà apprezzata la ragione del dire? – il mio cavallo di battamio ritiro. Il che nulla toglie alla glia. Tutti insieme sentivamo gratitudine che sento e vi devo nella partecipazione all’Accadeper le pressanti e premurose inmia il collante che faceva di noi sistenze scritte e verbali da voi un unico “essere” a servizio delricevute! la cultura, del sapere, del bene e Non spetta a me dare un giudel bello. dizio sugli otto anni di mia preVi ringrazio che siete oggi sidenza nell’Accademia degli Inqui, che foste presenti ieri ai camminati, ma certamente spettanti nostri incontri, sempre ta a me ringraziare, e lo faccio animati da quel vivo ’interesse e molto volentieri, non soltanto da quell’entusiasmo traboccanper dovere, ma per spontaneo e te di cui gl’illustri relatori, giunsincero moto del cuore. Ringrati da fuori, restavano ammirati zio anzitutto il Presidente d’Oe spesso contagiati, mentre io nore, On. Pier Ferdinando Casiricevevo una carica tale di ferni, che mi è stato sempre vicino, vore da rendere lieve la fatica che ha sempre condiviso le nononostante gli anni e fecondo il stre scelte e le ha autorevolmen- L’avvocato Natale Graziani, Presidente Emerito dell’Accademia degli lavoro. te patrocinate, che, infine, Incamminati. Come mio dovere, conto d’inquando gli è stato possibile, ha viarvi – appena mi sarà possibipartecipato di persona alle tornate e, con discrezione ma au- le – una succinta relazione sull’attività svolta nel corso del torevolmente, ha contribuito all’odierno notevole successo di mandato. Un mandato che, se è stato proficuo di risultati, si questa nostra istituzione. Con affetto gli esterno, quindi, deve anche – ripeto – alla preziosa collaborazione del mio l’immensa gratitudine mia, del Consiglio di Presidenza, e vo- predecessore. A mia volta spero, anzi m’impegno di fare alstra, Incamminati che mi ascoltate. trettanto col mio successore. Un ringraziamento particolare serbo al mio Vice PresiL’amico Patuelli, quindi, ha la mia parola, mentre gli rindente, Avv. Giancallisto Mazzolini, amico carissimo, mio novo il ringraziamento per le lusinghiere espressioni serbabraccio destro in ogni senso, collaboratore indispensabile cui temi e, in particolare gli sono grato della bellissima sorpredebbo fin’anche la costante cortesia dei miei frequenti viag- sa del “Vincastro d’Oro”. A lui, al suo impegno come Presigi da Firenze a Modigliana e viceversa. dente degli Incamminati, ai nuovi organi sociali (Consiglio La riconoscenza, naturalmente, si estende ai singoli mem- di Presidenza in primo luogo) l’augurio di buon lavoro e di bri del Consiglio di Presidenza, che ringrazio non solo per la più alti traguardi. A me intatta resta la volontà e la gioia di collaborazione, ma anche per i buoni suggerimenti ricevuti continuare, da semplice gregario, ad operare per le fortune e per la fiducia accordata ad ogni mia iniziativa, mentre mi di quell’Accademia che l’indimenticabile Gilberto Bernabei è caro fra costoro citare per tutti il Consigliere Segretario affidò all’impegno e all’amore dei suoi amici. Giuseppe Mercatali, attivissimo, generoso e disponibile semDichiaro ora, in questa serata per me memorabile, chiupre. Inoltre, grazie ai Sindaci Revisori Ridolfi e Scaccini, si i lavori dell’Assemblea e della Tornata d’Autunno 2005. nonché ai Presidenti delle due Sezioni specialistiche (del E a tutti voi, amici e colleghi Incamminati, un fraterno ab■ Patrimonio e delle Esposizione d’Arte) e del Campus degli In- braccio! 108 Caffè Michelangiolo NOVITÀ Pagliai Polistampa Finalista PREMIO VIAREGGIO 2005 Opera Prima Mario Domenichelli, anglista e comparatista, docente all’Università di Firenze, esordisce come romanziere inaugurando la nuovissima collana di narrativa italiana e straniera “I coloniali” per i tipi di Pagliai Polistampa. Ambientata nella Somalia del 1989, poco prima che la caduta di Siad Barre trascinasse il paese nel caos del tribalismo e alla mercé dei signori della guerra, è la storia densa e avvincente di Tomas, un bizzarro e elusivo professore che nell’ambito della Cooperazione italiana insegna nell’Università di Magadiscio. E con lui, di una generazione e di un mondo crudelmente ingannati. 11,5 x 21 cm., 272 pagine, € 14,00 Edizioni Polistampa Via Livorno 8/31 - 50142 Firenze - Tel. 055.7326272 - Fax 055.7377428 e-mail: [email protected] - http://www.polistampa.com Caffè Michelangiolo 109 I fascicoli pubblicati ANNO I - N. 1 - GENNAIO-APRILE 1996 ANNO II - N. 1 - GENNAIO-APRILE 1997 ANNO III - N. 1 - GENNAIO-APRILE 1998 ANNO IV - N. 1 - GENNAIO-APRILE 1999 ANNO V - N. 1 - GENNAIO-APRILE 2000 CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO I - N. 1 GENNAIO-APRILE 1996 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO II - N. 1 GENNAIO-APRILE 1997 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO III - N. 1 GENNAIO-APRILE 1998 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO IV - N. 1 GENNAIO-APRILE 1999 QUADRIMESTRALE SPEDIZIONE ABBONAMENTO POSTALE 50% LIRE 15.000 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE LIRE 15.000 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE LIRE 15.000 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE LIRE 15.000 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE LIRE 15.000 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO V - N. 1 GENNAIO-APRILE 2000 EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE EDIZIONI POLISTAMPA In copertina: Gianna Manzini In copertina: Marino Moretti In copertina: Carlos Drummond de Andrade In copertina: Vittorio Alfieri In copertina: Simone Ciani ANNO I - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 1996 ANNO II - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 1997 ANNO III - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 1998 ANNO IV - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 1999 ANNO V - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 2000 CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO I - N. 2 MAGGIO-AGOSTO 1996 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO II - N. 2 MAGGIO-AGOSTO 1997 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO III - N. 2 MAGGIO-AGOSTO 1998 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO IV - N. 2 MAGGIO-AGOSTO 1999 QUADRIMESTRALE SPEDIZIONE ABBONAMENTO POSTALE COMMA 26 ART. 2 LEGGE 549/95 FIRENZE LIRE 15.000 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE LIRE 15.000 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE LIRE 15.000 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE LIRE 15.000 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE LIRE 15.000 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO V - N. 2 MAGGIO-AGOSTO 2000 EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE EDIZIONI POLISTAMPA In copertina: Diego Martelli In copertina: Curzio Malaparte In copertina: Piero Camporesi In copertina: Ángel González In copertina: Vittorio e Andrea Gassman ANNO I - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 1996 ANNO II - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 1997 ANNO III - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 1998 ANNO IV - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 1999 ANNO V - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2000 CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO I - N. 3 SETTEMBRE-DICEMBRE 1996 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO II - N. 3 SETTEMBRE-DICEMBRE 1997 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO III - N. 3 SETTEMBRE-DICEMBRE 1998 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO IV - N. 3 SETTEMBRE-DICEMBRE 1999 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO V - N. 3 SETTEMBRE-DICEMBRE 2000 QUADRIMESTRALE SPEDIZIONE ABBONAMENTO POSTALE COMMA 26 ART. 2 LEGGE 549/95 FIRENZE LIRE 15.000 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE LIRE 15.000 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE LIRE 15.000 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FIRENZE LIRE 15.000 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FIRENZE LIRE 15.000 EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE EDIZIONI POLISTAMPA In copertina: Giuseppe Tomasi di Lampedusa In copertina: Renzo Grazzini In copertina: Mario Benedetti In copertina: Luigi Gioli In copertina: Enrico Vallecchi “Caffè Michelangiolo” è in vetrina a: Milano, Libreria Pecorini, Foro Buonaparte 48 Firenze, Libreria Martelli, via Martelli, 22r Roma, Libreria Rinascita, via delle Botteghe Oscure 2 I numeri arretrati sono tutti disponibili presso l’editore Polistampa S.n.c. di Mauro Pagliai, via Livorno 8/31 - 50142 Firenze Tel. 055.7326101 - Fax 055.7326110 - http://www.polistampa.com al prezzo di € 10,00 ciascuno La rivista va di diritto ai membri dell’Accademia degli Incamminati 110 Caffè Michelangiolo I fascicoli pubblicati ANNO VI - N. 1 - GENNAIO-APRILE 2001 ANNO VII - N. 1 - GENNAIO-APRILE 2002 ANNO VIII - N. 1 - GENNAIO-APRILE 2003 ANNO IX - N. 1 - GENNAIO-APRILE 2004 ANNO X - N. 1 - GENNAIO-APRILE 2005 CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FIRENZE € 7,75 (LIRE 15.000) RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO VI - N. 1 GENNAIO-APRILE 2001 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FIRENZE € 8,00 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO VII - N. 1 GENNAIO-APRILE 2002 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FIRENZE € 8,00 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO VIII - N. 1 GENNAIO-APRILE 2003 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FIRENZE € 8,00 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO IX - N. 1 GENNAIO-APRILE 2004 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FIRENZE € 8,00 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO X - N. 1 GENNAIO-APRILE 2005 PAGLIAI POLISTAMPA PAGLIAI POLISTAMPA PAGLIAI POLISTAMPA PAGLIAI POLISTAMPA PAGLIAI POLISTAMPA In copertina: Mauro Bolognini In copertina: Dino Campana In copertina: Leo Ferrero In copertina: Federico Fellini In copertina: Giacomo Puccini ANNO VI - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 2001 ANNO VII - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 2002 ANNO VIII - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 2003 ANNO IX - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 2004 ANNO X - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 2005 CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO ISSN 1826-2546 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FIRENZE € 7,75 (LIRE 15.000) RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO VI - N. 2 MAGGIO-AGOSTO 2001 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FIRENZE € 8,00 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO VII - N. 2 MAGGIO-AGOSTO 2002 QUADRIMESTRALE SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE 70% - DCB - FIRENZE € 8,00 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO VIII - N. 2 MAGGIO-AGOSTO 2003 QUADRIMESTRALE SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE 70% - DCB - FIRENZE € 8,00 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO IX - N. 2 MAGGIO-AGOSTO 2004 QUADRIMESTRALE SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE 70% - DCB - FIRENZE € 8,00 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO X - N. 2 MAGGIO-AGOSTO 2003 PAGLIAI POLISTAMPA PAGLIAI POLISTAMPA PAGLIAI POLISTAMPA PAGLIAI POLISTAMPA PAGLIAI POLISTAMPA In copertina: Marcel Duchamp In copertina: Carlo Levi In copertina: Lalla Romano In copertina: Luigi Dallapiccola In copertina: Luigi Bertelli (Vamba) ANNO VI - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2001 ANNO VII - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2002 ANNO VIII - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2003 ANNO IX - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2004 ANNO X - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2005 CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO CAFFÈ MICHELANGIOLO ISSN 1826-2546 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FIRENZE € 7,75 (LIRE 15.000) RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO VI - N. 3 SETTEMBRE-DICEMBRE 2001 QUADRIMESTRALE SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B LEGGE 662/96 - FIRENZE € 8,00 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO VII - N. 3 SETTEMBRE-DICEMBRE 2002 QUADRIMESTRALE SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE 70% - DCB - FIRENZE € 8,00 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO VIII - N. 3 SETTEMBRE-DICEMBRE 2003 QUADRIMESTRALE SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE 70% - DCB - FIRENZE € 8,00 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO IX - N. 3 SETTEMBRE-DICEMBRE 2004 QUADRIMESTRALE SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE 70% - DCB - FIRENZE € 8,00 RIVISTA DI DISCUSSIONE ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI ANNO X - N. 3 SETTEMBRE-DICEMBRE 2005 PAGLIAI POLISTAMPA PAGLIAI POLISTAMPA PAGLIAI POLISTAMPA PAGLIAI POLISTAMPA PAGLIAI POLISTAMPA In copertina: Sean Connery (James Bond) In copertina: Anton Čechov In copertina: Elémire Zolla In copertina: Giovanni Boldini In copertina: Ezra Pound “Caffè Michelangiolo” Quadrimestrale di discussione viene distribuito anche nelle edicole della provincia di Firenze La collaborazione è esclusivamente su invito. I contributi devono essere redatti secondo le “Norme di editing” pubblicate sulla rivista e pervenire tramite e-mail: [email protected]; oppure tramite supporto elettronico. In caso diverso, non saranno accolti. Eventuali immagini di corredo, se scansionate dall’autore, devono essere ad alta risoluzione. Caffè Michelangiolo 111 Biblioteca del Caffè Mario Benedetti Difesa dell’Allegria Ángel González Nel nido del cuore M.G. Parri - Stella di guardia Luis García Montero Primo giorno di vacanza Carlos Bousoño Antologia poetica Franciso Brines Antologia poetica Ioan Vieru La luce nella stanza dell’ospite Luis Antonio de Villena Via dall’inverno Antonio Cisners Le immense domande celesti Ruy Belo Poesie scelte Felipe Benítez Reyes Poesie scelte Claudio Rodrígues Poesie scelte Eloy Sánchez Rosillo Il fulgore del lampo Jaime Gil de Biedma Antologia poetica Giorgio Luti Letteratura e rivoluzioni Marino Biondi Scrittori e identità italiana Marino Biondi La cultura di Prezzolini La poesia contemporanea nella voce degli autori più significativi del panorama italiano e internazionale. Preziosi e raffinati volumi che formano una piccola indispensabile biblioteca per ritrovare la strada della più autentica voce lirica del nostro tempo. Volumi rilegati con coperta a colori