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ottobre 2006
Codice rivista: E195977
Codice ISSN 1973-9443
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Indice della rivista
gennaio-marzo 2008, n. 6
STUDI E RICERCHE
Origini e sviluppi del federalismo europeo nella Resistenza italiana
di Luca Bellincioni
ATTI DEL CONVEGNO (parte II)
Il Manifesto di Ventotene. Radici filosofiche e fondamenti culturali
Istituto dellʹEnciclopedia Italiana - Roma, martedì 4 dicembre 2007
Presentazione
di Vittoria Saulle
Il contributo di Ernesto Rossi
all’elaborazione del Manifesto di Ventotene
di Antonella Braga
Spinelli uomo politico
di Piero Graglia
RESOCONTI E RECENSIONI
La Romania e la Spagna
di María Nogués
La Romania “europea”, dei partiti e della democrazia
di Antonello Biagini
Altiero Spinelli, il federalismo europeo e la Resistenza
di Rita Corsetti
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Origini e sviluppi del federalismo europeo nella Resistenza italiana
di Luca Bellincioni
Le radici storiche dell’europeismo italiano dal Risorgimento alla Seconda
Guerra mondiale
Le radici storiche più profonde dell’idea di unità europea in Italia, e dei suoi
particolari sviluppi negli anni della Resistenza, vanno senza dubbio ricercate
nell’epoca risorgimentale. Innanzitutto in Giuseppe Mazzini, il quale, sebbene
incarnasse un europeismo di natura ideale e sentimentale, con la Giovine
Europa e con una serie di celebri scritti ed espressioni (ad esempio “Amo la
Patria perché amo tutte le Patrie”) non cessò di affermare come i movimenti di
indipendenza nazionale dovessero congiungersi ad una concezione
universalistica e cosmopolitica (già patrimonio ideale della cultura classica e
cristiana europea, elaborata, nel campo della filosofia politica, da Immanuel
Kant nel suo saggio Per la pace perpetua), nella prospettiva di un’umanità
affratellata (“la Patria delle Patrie”). In secondo luogo, ed eminentemente, in
Carlo Cattaneo, il quale, per molti versi, segna la nascita, in Italia, del
federalismo europeo vero e proprio, sulla base della personale conoscenza del
funzionamento delle istituzioni federali svizzere e dell’insofferenza, maturata
già all’indomani del fallimento dell’insurrezione lombarda del 1948, nei
confronti di qualsiasi forma di potere centralizzato. Meritano di essere citati,
infine, personaggi come Camillo Benso conte di Cavour, esponente di un
liberalismo autentico e moderno, di vocazione cosmopolitica, e Giuseppe
Garibaldi, fautore ante litteram dell’internazionalismo, nonché Vincenzo
Gioberti, promotore di un progetto confederale, da attuarsi, in Italia ed in
Europa, sotto la guida del papa.
Tali posizioni, tutte di grande valore etico, per diversi aspetti e
rispettivamente gettano le fondamenta dell’europeismo degli anni della
Resistenza: Mazzini per i repubblicani, Cavour per i liberali, Garibaldi per i
socialisti, Gioberti per i democristiani.
L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
Ma, allo stesso tempo, fatta l’eccezione di Cattaneo, costituiscono
concezioni puramente ideali e prive di ben precisati contenuti programmatici,
soprattutto dal punto di vista istituzionale, il che, stando ad alcune autorevoli
interpretazioni, potrebbe riflettere una scarsa conoscenza, negli ambienti
intellettuali europei, del messaggio politico federalista.
Tale carenza si accentuò ulteriormente nel periodo successivo, compreso
tra il 1870 circa e la prima guerra mondiale, sia in Italia sia sul resto del
continente europeo, allorché si verificò un sensibile affievolimento del
sentimento europeista – tolte sporadiche e non meno ambigue anomalie, tra cui
le riflessioni di Teodoro Moneta -, offuscato dal roboante affermarsi della
cultura nazionalistica e militaristica, abilmente promossa dalle classi dirigenti
come freno alla questione sociale, nonché come pervertimento dell’idea di
nazione (e di sovranità) autentica, che era stata la molla di tutto il processo
storico di opposizione all’Antico Regime.
In quegli anni, l’unica corrente che continuava a nutrire e a sostenere una
qualche simpatia per l’europeismo rimaneva l’internazionalismo socialista, il
quale tuttavia, privo di un vero e proprio coordinamento e progressivamente
integrato nel sistema dello stato nazionale, rifluì inevitabilmente nel
nazionalismo dominante. Di fatto, di fronte alla Grande Guerra, molti socialisti
finirono con l’abbandonare l’ideale della fratellanza proletaria per imbracciare il
fucile nelle trincee, in difesa dei sacri interessi della patria. Tale fu l’esperienza
drammatica di quella generazione che, in molte delle sue componenti, sarebbe
confluita nella lotta resistenziale, portando con sé la consapevolezza della
necessità di superare il sistema delle sovranità nazionali.
Una consapevolezza, questa, che nell’immediato primo dopoguerra
maturò fra i liberali riuniti attorno all’elite industriale torinese. La portata del
contributo teorico che il liberalismo italiano offrì allora allo sviluppo dell’idea
dell’unità europea appare infatti chiarissima in opere quali Federazione europea o
Lega delle Nazioni? (1918) di Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati, e nei due articoli,
apparsi sul «Corriere della Sera» nello stesso anno, di Luigi Einaudi, La Società
delle Nazioni è un ideale possibile? e Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle
Nazioni, in cui era presente una limpida critica del progetto, in fieri, della Società
delle Nazioni e una decisa accusa del sistema delle sovranità assolute degli stati
nazionali, quale causa essenziale dell’anarchia internazionale e della guerra.
Se il lavoro dei primi risentiva di un’impostazione nettamente liberaldirigistica, ossia concernente una visione della federazione europea puramente
a-democratica, paternalistica, e incentrata più che altro sull’aspetto economico,
le considerazioni di Einaudi muovevano da un’analisi già più matura e più
profonda, contemplando anche l’aspetto politico della questione e
sottolineando come la sovranità rappresentasse, per la coeva classe al potere, un
L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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vero e proprio dogma. Il pensiero di Einaudi avrebbe peraltro rappresentato il
punto fermo principale da cui si sarebbe avviata la più matura riflessione dei
pensatori federalisti italiani durante la Resistenza.
Parimenti fondamentali ed influenti, in questo senso, furono gli sviluppi
che il federalismo europeo conobbe durante il ventennio fascista, esplicitati in
alcuni scritti degli esponenti più preparati del socialismo: Gli Stati Uniti
d’Europa e il Fascismo (1929) di Filippo Turati (oltre a vari altri articoli apparsi su
«Critica Sociale») e, soprattutto, Europeismo o Fascismo di Carlo Rosselli.
Quest’ultimo, in particolare, intessuto di internazionalismo (tra cui Socialismo
Liberale, del 1935, che diede il nome all’eresia socialista da lui concepita) e con
un aperto richiamo al volontarismo sia collettivo sia individuale (eredità, certo,
della sua formazione culturale mazziniana), in opposizione al determinismo
marxista, avrebbe senz’altro costituito un caposaldo non soltanto delle
riflessioni, ma anche dell’azione politica del Movimento Federalista Europeo
(Mfe) e del Partito d’Azione. Ernesto Rossi, in particolare, il quale, come è noto,
figurò tra i fondatori del suddetto movimento, sin dagli anni Trenta avrebbe
tratto insegnamento dalla preziosa esperienza politica e culturale di Giustizia e
Liberta, di cui Rosselli deteneva la leadership: del resto, già all’epoca, di fronte al
fallimento della Società delle Nazioni e allo sviluppo dei totalitarismi razzisti e
neoimperialisti (e ancor più alla crisi etiopica e alla Guerra di Spagna), un
gruppo di giellisti rinchiuso al Regina Coeli di Roma aveva avviato una
profonda critica del nazionalismo e dei limiti dello stato nazionale (oltre a
Rossi, tale critica veniva espressa da Riccardo Bauer e da alcuni giovani, fra cui
Vittorio Foa e Vindice Cavallera)1.
L’esperienza giellista di Rossi è tuttora piuttosto sottovalutata, ma risulta
essenziale a evidenziare come il futuro coautore del Manifesto fosse giunto ben
prima di Spinelli non tanto, forse, al rifiuto della retorica nazionalista quanto ad
un approccio concreto al federalismo. In una lettera alla madre del 30 aprile
1937, infatti, stilava addirittura un programma d’azione con l’obiettivo
dell’istituzione degli Stati Uniti d’Europa, in cui sono presenti argomenti ripresi
nello stesso Manifesto2, tra i quali la qualità politica e non ideale della
rivendicazione dell’unità europea e la sua priorità rispetto alla riforma interna
degli stati nazionali.
Accanto a Rosselli, a Rossi e a Giustizia e Libertà, si deve peraltro ricordare
il liberal-socialismo di Guido Calogero e dei giovani intellettuali toscani attivi
nello stesso periodo, corrente che seguiva un percorso teorico inverso rispetto a
quello di Rosselli, muovendo da istanze di libertà individuale e di giustizia
A. Braga, Un federalista giacobino. Ernesto Rossi pioniere degli Stati Uniti d’Europa, Il Mulino,
Bologna, 2007.
2 Ivi, pp. 146-147.
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L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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sociale, in una sintesi umanistica che teneva in grande considerazione l’aspetto
internazionale. A conferma di ciò, sarebbe stato proprio il Primo Manifesto del
liberal-socialismo del 1940 a contenere, di fatto, la primissima rivendicazione, nel
periodo bellico, di un nuovo assetto dei rapporti tra stati in Europa, di un
nuovo organismo, cioè, basato sull’ “estensione dei diritti di cittadinanza al di là
dei limiti delle singole nazioni”, e sull’esigenza di diffondere “liberalismo e
socialismo anche sul piano internazionale”.
È altresì inevitabile, in riferimento soprattutto al futuro contenuto storico e
ideologico del Manifesto di Ventotene, citare la scuola federalista inglese degli
anni Trenta. Gli scritti dei suoi più esimi esponenti, Lionel Robbins, Barbara
Wootton e Lord Lothian, avrebbero infatti assai influenzato Spinelli e Rossi (e
non solo), con particolare riferimento alle tematiche della crisi dello statonazione in Europa, del rapporto tra capitalismo e anarchia internazionale e
della necessità del superamento dell’internazionalismo. Emblematiche, in tal
senso, le riflessioni di Barbara Wootton sul problema dell’affermazione della
corrente nazionalista, negli anni a cavallo tra le due guerre,
sull’internazionalismo socialista, il quale, pur propugnando valori forti, quali la
solidarietà e la pace, non aveva saputo offrire una chiara e concreta prospettiva
di realizzazione politica.
In sintesi, in Italia, nel periodo tra le due guerre mondiali – e vieppiù
durante il ventennio fascista -, si era diffusa, pur nell’estrema varietà delle
posizioni ideologiche e comunque in una ristretta minoranza del mondo
intellettuale, una vocazione europeistica che conteneva, consapevolmente o
meno, elementi di una certa novità, giacché accanto al tradizionale elemento
ideale concernente una vacua “fratellanza di popoli”, si andava affermando una
concreta progettualità di carattere eminentemente politico. Questo europeismo
“protopolitico”, infatti, recuperava, da un lato, il carattere universale della
cultura risorgimentale italiana, seppure con diversa entità a seconda dei casi;
dall’altro affermava la qualità di necessità che la costruzione di un’Europa
federale aveva assunto all’indomani della Grande Guerra, allorché tale obiettivo
avrebbe dovuto configurarsi quale rivendicazione politica contingente, anziché
proposito da attuare in un futuro incerto e indefinito. Ciò anche al fine di
consentire un adeguato e verosimile sviluppo economico e sociale - percepito
da questi novelli europeisti come ormai inattuabile all’interno del logoro
sistema dello stato nazionale unitario -, nonché allo scopo di assicurare un
regime internazionale di pace, capace di scongiurare la catastrofe di un nuovo
conflitto. Preoccupazione, questa, divenuta sempre più viva a partire dagli anni
Trenta, causa il definitivo successo del fascismo in Italia, l’affermazione
progressiva e terribile del nazionalsocialismo in Germania e i drammatici eventi
spagnoli, cioè un insieme di circostanze che lasciavano presagire un ulteriore e
L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
gravissimo inasprimento delle relazioni internazionali, con il presumibile
sbocco in un’altra guerra mondiale. La percezione dell’unità europea quale fine
precipuo di una specifica militanza già poteva evincersi dalle righe del breve
saggio del ‘35 di Carlo Rosselli, Europeismo o Fascismo, in cui l’ideale degli Stati
uniti d’Europa diveniva obiettivo immediato, da perseguire tramite una
mobilitazione repentina e perentoria delle masse e degli intellettuali antifascisti.
Più in generale, nello scritto appare la volontà e la capacità culturale ed
intellettuale di superare la visione esclusivamente nazionale della storia e della
lotta politica e, quale logica conseguenza, di concepire un progetto di
federazione europea che ponesse come discriminante fondamentale la
limitazione delle sovranità degli stati membri.
Tale ricostruzione storica è indispensabile per interpretare correttamente
l’apparentemente inaspettato e improvviso incedere delle rivendicazioni
europeistiche e federalistiche entro la quasi totalità delle correnti politiche della
Resistenza italiana, le quali, come si è visto, facevano ampio riferimento alla già
matura riflessione federalista fiorita nel periodo tra le due guerre. Possiamo
insomma affermare che l’europeismo italiano dell’epoca fece da ponte tra
l’impostazione sentimentale e ideale del concetto di unità europea propria della
tradizione culturale italiana e dell’internazionalismo e l’impostazione politica
dell’europeismo resistenziale in generale - o ancora, più specificatamente,
quella direttamente ideologica e militante del Manifesto di Ventotene e del
Movimento Federalista Europeo -, pur senza ancora rigettare in toto la prima né
approdare definitivamente alla seconda.
Allo stesso tempo però, per sviluppare, nell’ambito della Resistenza
italiana, una coscienza e una rivendicazione europeistiche e federalistiche fu
essenziale non soltanto la diffusione dei totalitarismi e il conseguente acuirsi dei
conflitti tra stati, ma ancor più, nella maggioranza dei casi, la riflessione sulle
ricadute delle dittature progressivamente sviluppatasi all’interno dei singoli
paesi. A tale proposito, l’importanza crescente che andò assumendo il dibattito
sulle forme dello stato democratico nel periodo resistenziale è quanto mai
indicativa del prevalere sostanziale di una visione nazionale della questione,
per cui l’esigenza della federazione europea diveniva conseguenza logica di
una prioritaria riforma dello stato nazionale in senso federalistico, la quale
consentisse di contrapporre l’affermazione dell’autonomia e la difesa delle
identità regionali e locali (o addirittura professionali, in virtù di un originale
“corporativismo federalista” che accese non poche polemiche tra le varie
correnti del federalismo resistenziale) e la tutela dei diritti dell’individuo al
mostro burocratico e accentratore dello stato totalitario. Tale fu la prospettiva di
coloro i quali avevano ereditato la tradizione del federalismo integrale francese
o quella del regionalismo italiano (da Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari, a
L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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Gaetano Salvemini e Don Luigi Sturzo), tra cui meritano di essere ricordati
Silvio Trentin e Adriano Olivetti, nonché Emilio Lussu e Oliviero Zuccarini.
D’altra parte, per concludere, il nuovo fenomeno delle dittature
rappresentava la negazione e l’antitesi delle due principali ideologie
tradizionali della democrazia europea, quella liberale e quella socialista,
entrambe – sia pur con differenti interpretazioni - basate sul concetto di libertà.
Ragion per cui, per molti assertori di queste ideologie, la presa di
consapevolezza del fallimento del sistema nazionale determinò un volgersi ad
ipotesi politiche ed istituzionali diverse, capaci, in primis, di consentire
l’attuazione dell’ideale di libertà. In tal senso, l’idea di un’unità europea
iniziava a delinearsi come l’unica prospettiva razionale, la sola cioè che fosse
diametralmente opposta al sistema nazi-fascista o sovietico e che ne
scongiurasse intrinsecamente il successo; nonché, in ultima analisi, permettesse
il rinnovamento di ideologie che ormai apparivano praticamente morte, quanto
meno se pensate entro l’ormai superato sistema nazionale.
In particolare, nelle riflessioni di Rosselli, come in quelle di Guido
Calogero e Aldo Capitini, appariva indubbio che il mantenimento della stessa
indipendenza degli stati nazionali, peraltro entro un sistema di anarchia
internazionale strutturalmente generatore di rapporti impostati sulla forza
militare, fosse possibile soltanto a costo di sacrificare le libertà civiche
fondamentali al loro interno, e che, di conseguenza, da un lato le ideologie
tradizionali applicate al contesto nazionale stessero perdendo di senso e,
dall’altro, la nuova antitesi politica essenziale fosse divenuta quella tra libertà (e
democrazia) e sovranità assoluta dello stato nazionale.
La Resistenza italiana e l’idea dell’unità europea
Se non si può non rimarcare il peso che il fenomeno dei fascismi ebbe nella
diffusione delle teorie federalistiche all’interno della Resistenza italiana,
un’importanza almeno pari va conferita alla fisionomia e ad alcuni momenti
fondamentali della seconda guerra mondiale, almeno fino al 1943: da un lato il
carattere totale e razzistico della rinnovata guerra di egemonia tedesca,
dall’altro l’esempio costituito dalla celebre proposta federalistica anglo-francese
di Winston Churchill (giugno 1940), con il passaggio dei modelli di istituzioni
sovranazionali dall’ambito dell’utopia a quello del realismo politico. Tali
elementi portarono alla diffusione in pressoché tutti i partiti antifascisti d’Italia
e d’Europa delle idee europeiste e federaliste (fatta eccezione per i comunisti, a
causa della subordinazione politica e ideologica a Mosca, e per gli ultranazionalisti francesi di De Gaulle).
L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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Altresì, cosa assai interessante, in tutta Europa sia i movimenti
prettamente federalisti, sia i vari partiti che si avvicinarono all’idea dell’unità
del continente espressero concetti e assunti sostanzialmente simili, nonostante
essi fossero stati elaborati in maniera autonoma a causa dell’iniziale isolamento
(talvolta causato direttamente dalla prigionia e dal confino) degli stessi
pensatori: in primo luogo una critica integrale all’istituto dello stato nazionale
sovrano, visto ormai in netta contraddizione con la salvaguardia della pace e
della sicurezza internazionale e quindi con lo sviluppo e la conservazione della
civiltà europea. In secondo luogo, l’appellarsi all’istituzione di un governo
federale europeo con poteri reali, effettivi ed efficaci e la difesa delle autonomie
locali (aspetto che fu particolarmente forte nell’europeismo francese). In terzo
luogo, infine, si affermava la necessità di un mercato comune europeo
contrapposto alle autarchie, le quali avevano costituito una delle maggiori
cause delle tensioni internazionali prima e del conflitto in atto poi.
Si assistette così ad un proliferare di rivendicazioni europeistiche nei
documenti clandestini ufficiali dei partiti antifascisti di tutta Europa, e in
particolare a dichiarazioni e documenti europeisti e federalisti direttamente
internazionali: si pensi, a tal proposito, alla Dichiarazione dei rappresentanti delle
popolazioni alpine3, meglio nota come Carta di Chivasso, sottoscritta il 19 dicembre
1943 nella cittadina valdostana e firmata da Gustavo Malan, Émile Chanoux,
Ernesto Page, Giorgio Peyronel, Osvaldo Coisson, Mario Alberto Rollier, la
quale sanciva la piena autonomia amministrativa e alcune prerogative di
carattere legislativo delle popolazioni dell’arco alpino, insistendo altresì sulla
tutela del variegato patrimonio di identità etnico-culturali locali caratteristico di
quella regione del continente (sempre comunque nel più ampio quadro della
federazione europea); o alla Dichiarazione federalista degli antifascisti europei4,
redatta a Ginevra nella primavera 1944 da esponenti delle resistenze norvegese,
olandese, francese, jugoslava e italiana, e dai federalisti svizzeri.
Entro tale contesto va concepito il fenomeno della maturazione, nella
Resistenza italiana, degli elementi europeistici e federalistici precedentemente
citati, come testimonia, peraltro, un numero rilevante di documenti. Dai
federalisti di Ventotene ai partiti, risulta indubbio l’enorme apporto italiano alla
riflessione sulla federazione europea rispetto a quello prodotto dalle resistenze
degli altri paesi del continente coinvolti nella guerra.
Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine (o Carta di Chivasso), in «L’Unità Europea»,
n. 5, Milano, luglio-agosto 1944 e J.-P. Gouzy, Les pionniers de l’Europe communautaire, Centre de
Recherches Européennes, Lausanne, 1968.
4 Dichiarazione federalista degli antifascisti europei, in «L’Unità Europea», n. 5, Milano, luglioagosto 1944.
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L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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In proposito, peraltro, è singolare che l’idea dell’unità europea nella
Resistenza italiana non si diffuse e non fu propugnata in maniera specifica dal
Comitato di Liberazione Nazionale (Cln). Il Comitato, come organismo politico
unitario, non prese infatti una chiara posizione nei confronti del problema
europeo, bensì le elaborazioni teoriche sopra un futuro assetto federale del
continente rimasero prerogativa per così dire privata dei singoli partiti ad esso
facenti capo. La federazione europea non fu mai, insomma, uno scopo del Cln,
che rimase viceversa un organismo di carattere nazionale, con un unico e ben
preciso scopo, quello di liberare il paese dall’occupazione nazi-fascista. Stretto
nella morsa delle contingenti vicende storiche, l’elemento nazionale restò
dunque prioritario in seno alla dirigenza del Comitato5, a discapito delle pur
importanti e significative aperture in senso europeistico e federalistico.
Sulla base di ciò, sarebbe errato fare esclusivo e precipuo riferimento a tale
organo, che pure rappresentò il punto di riferimento essenziale della guerriglia
resistenziale dal’43 al ‘45, per analizzare e ricostruire storicamente il contributo
della Resistenza italiana all’idea dell’unità europea6. Del resto, occorre
ricordare, la maggior parte dei principali esponenti del CNL era pressoché
estranea all’istanza europeistica (eccezion fatta, forse, per Leo Valiani, mentre
Ugo La Malfa e Emilio Lussu erano sì federalisti, ma negavano in maniera
assoluta il carattere prioritario conferito alla creazione dell’unità europea dagli
esponenti del Mfe, ed in Ivanoe Bonomi sopravviveva, quale principium vitae, il
modello istituzionale dello stato nazionale sovrano) e soprattutto all’ideologia
federalistica in sé (si pensi al prevalere dei comunisti anti-trockijsti).
Infatti, al di là della periodizzazione ufficiale, il contributo federalista
nell’ambito dell’antifascismo italiano e della Resistenza era nato ben prima
dell’8 settembre del ’43: fiorito inizialmente nella letteratura europeistica tra le
due guerre (Einaudi, Turati e Rosselli), si era perfezionato nel Primo Manifesto
del liberal-socialismo di Calogero ed in Stato, nazione, federalismo di Trentin del
‘40, per giungere alla piena maturazione teorica nel ’41, con il Manifesto di
Ventotene.
Cfr. F. Catalano, La politica estera del C.N.L., in Istituto Affari Internazionali, La politica estera
della Repubblica italiana, a cura di M. Bonanni, vol. II, pp. 419-454.
6 Il Mfe, in un articolo su «L’Unità Europea» della primavera del ‘44, dal titolo La politica estera
italiana, avrebbe espresso un giudizio assai critico nei confronti del C.L.N., denunciandone la
completa sordità al tema euro-federalista, nonché l’ambiguo legame con la monarchia e con il
governo ultraconservatore di Badoglio. Un accenno polemico particolare si esprimeva verso
l’operato del conte Sforza, quale rappresentante del CLN alle Nazioni Unite (anch’esse
criticate), a causa della sua proposta di istituire una versione rinforzata della Società delle
Nazioni, il che, presumibilmente, avrebbe lasciato intendere che tale posizione fosse quella
ufficiale della Resistenza armata italiana rispetto ai problemi internazionali.
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L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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Il Manifesto di Ventotene e il Movimento Federalista Europeo
Il Manifesto di Ventotene costituisce un vero e proprio spartiacque per la
diffusione dell’idea dell’unità europea in Italia: un fondamentale capitolo nella
storia della cultura politica italiana che va letto e concepito a partire dalla
straordinaria statura intellettuale dei suoi protagonisti, i quali, in condizione di
confinati politici, seguirono percorsi formativi sostanzialmente solitari, e per
questo complessi e sofferti, giungendo ad interpretazioni storiche e politiche
assolutamente atipiche per l’epoca.
Gli autori del Manifesto, Altiero Spinelli7 ed Ernesto Rossi8 (con i quali
avrebbe collaborato, per la formulazione originale e per l’edizione del 1944, il
filosofo e matematico Eugenio Colorni9), ne elaborarono il testo dopo diversi
anni di confino in varie località ed infine nell’isola pontina di Ventotene, causa,
per il primo, la militanza giovanile nelle file del Partito Comunista, nell’ambito
del quale era divenuto segretario della federazione giovanile per l’Italia
Sulla vita ed il pensiero di Spinelli: E. Paolini, Altiero Spinelli. Dalla lotta antifascista alla battaglia
per la federazione europea, 1920-1948: documenti e testimonianze, Il Mulino, Bologna, 1996 e [Idem],
Altiero Spinelli. Appunti per una biografia, Il Mulino, Bologna, 1987; P. Graglia (a cura di), La
rivoluzione federalista: scritti 1944-1947, Il Mulino, Bologna, 1996 e [Idem], Machiavelli nel 20 secolo:
scritti dal confino e dalla clandestinità, Il Mulino, Bologna, 1993; e infine la sua stupenda
autobiografia A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio. Io, Ulisse, Il Mulino, Bologna, 1984.
Tra le opere di Spinelli del dopoguerra vanno ricordate soprattutto: Dagli stati sovrani agli Stati
Uniti d’Europa, La Nuova Italia, Firenze, 1950; Diario europeo, Il Mulino, Bologna, 1989-92, 4 voll.;
L’Europa non cade dal cielo, Il Mulino, Bologna, 1960; Storia e prospettive del Movimento federalista
europeo, in Sei lezioni federaliste, in «Quaderni del M.F.E.», n. 21, Roma, 1953; Discorsi al
Parlamento europeo, a cura di P. V. Dastoli, Il Mulino, Bologna, 1986.
8 Da G. Pecora, Biografia di Ernesto Rossi, in «Antifascismo», consultabile sul sito web
www.storiaXXIsecolo.it. Cfr. G. Armani, Ernesto Rossi, un democratico ribelle, Guanda, Parma, 1975;
E. Rossi, Miserie e splendori del confino di polizia. Lettere da Ventotene, 1939-1943, a cura di M.
Magini, Feltrinelli, Milano, 1981.
9
Da Biografia di Eugenio Colorni, in «Antifascismo», consultabile sul sito web
www.storiaXXIsecolo.it. Cfr. L. Solari, Eugenio Colorni, ieri e sempre, Marsilio, Venezia, 1980; S.
Gerbi, Tempi di malafede. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra. Guido Piovene ed Eugenio
Colorni, Einaudi, Torino, 1999 (in cui viene offerto un interessante profilo psichico ed
intellettuale di Colorni, il cui stretto legame tra pensiero e azione, appare – a differenza dei suoi
compagni - più ispirato alla ratio, che alla morale, o al senso del dovere); A. Levi, Eugenio
Colorni, in «Rivista di Filosofia», XXXVIII (1947), p. 146; E. Gencarelli, Profilo politico di Eugenio
Colorni, in «Mondo Operaio», n. 7, luglio 1974, pp. 49-54; G. Arfè, Eugenio Colorni, l’antifascista,
l’europeista, in AA. VV., Matteotti, Buozzi, Colorni. Perché vissero, perché vivono, Franco Angeli,
Milano, 1996, pp. 58-77. M. Orlandi, Il federalismo socialista di Eugenio Colorni, tesi di laurea
discussa nell’a. a. 1991-92, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di
Firenze (relatore prof. G. Arfè). Di Colorni si vedano gli Scritti (Firenze, 1975), con introduzione
di Norberto Bobbio, e Il coraggio dell’innocenza, a cura di L. Meldolesi, La Città del sole (Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici), Napoli, 1998.
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L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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Centrale, e per il secondo la partecipazione attiva al movimento Giustizia e
Libertà, a seguito dell’esperienza antifascista con «Non Mollare!», di cui era
stato uno dei fondatori. Se Rossi aveva una vasta preparazione nel settore
economico e proveniva dall’impegno politico nel campo liberaldemocratico,
Spinelli, invece, aveva sulle spalle una formazione culturale segnatamente
socialcomunista, sebbene progressivamente corretta e, infine, abbandonata del
tutto nel corso degli anni di prigionia e di confino, attraverso una profonda e
solitaria riflessione che lo fece approdare al rifiuto del dottrinarismo del partito
comunista e poi all’espulsione dal partito stesso10.
Egli, infatti, aveva portato avanti un attento studio ed un’intelligente
analisi critica dei teorici della ragion di Stato (tra cui Machiavelli, Bodin,
Hobbes, Spinoza, Weber, Hegel, Meinecke), nonché della filosofia marxista,
dalla quale aveva iniziato a prendere le distanze, poiché troppo legata al
concetto di attesa - per cui la rivoluzione socialista sarebbe inevitabilmente
giunta - viceversa accostandosi ad una visione in cui l’elaborazione
dell’intelletto e l’azione politica conseguente ricoprivano il ruolo di
protagonista della storia umana. Nella mente dell’ex-comunista, infatti, al
determinismo andava man mano sostituendosi il volontarismo. E fu proprio nel
periodo dell’approdo a questa nuova coscienza politica ed esistenziale, durante
il confino di Ventotene, che Spinelli conobbe Ernesto Rossi e si avvicinò al
liberalismo e al liberismo, iniziando a riflettere sui vantaggi dell’economia di
mercato e sulle contraddizioni delle politiche di nazionalizzazioni e di
statalizzazioni, e comunque collettiviste, propugnate dalle ideologie
socialcomuniste.
Insieme, Spinelli e Rossi, nonché Eugenio Colorni - il quale fu il primo ad
interessarsi al “non-conformismo” delle animate discussioni di carattere
politico, economico, sociale e filosofico che, sull’isola, intercorrevano tra i primi
due - giunsero infine, nella seconda metà del 194011, alla “scoperta del
federalismo”12 europeo: scoperta avvenuta, da un lato, grazie ad un’autonoma
riflessione sulle ragioni del fallimento della Società delle Nazioni e sulle
responsabilità che a quest’ultima, con la sua intrinseca debolezza, potevano
essere attribuite per lo scoppio della seconda guerra mondiale; dall’altro, e in
maniera determinante, grazie alla lettura degli articoli di Luigi Einaudi del 1918
(i già citati La Società delle Nazioni è un ideale possibile? e Il dogma della sovranità e
l’idea della Società delle Nazioni), in cui egli si era fatto ardito promotore dell’idea
degli Stati Uniti d’Europa, sulla base di una precisa critica alla struttura
Cfr. A. Spinelli, Come ho tentato …,cit., pp. 226-259.
Cfr. A. Braga, cit., pp. 164-198.
12 Cfr. A. Spinelli, Come ho tentato …, cit., pp. 307-311.
10
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confederale della SdN proposta da Wilson, la quale avrebbe mantenuto, di
fatto, il vecchio sistema europeo dell’equilibrio tra stati nazionali sovrani.
La scoperta iniziò in seguito una corrispondenza tra Rossi ed Einaudi, che
consentì ai neo-federalisti di accedere ad alcuni testi base della letteratura
federalistica inglese del gruppo Federal Union13, nato sul finire degli anni Trenta
(in particolare Lord Lothian14 e l’economista Lionel Robbins15), e allo stesso
tempo di avvicinarsi alla scuola classica del federalismo americano (il cui
caposaldo è The Federalist16 di Hamilton, Madison e Jay)17. In queste opere
Spinelli, Rossi e Colorni trovarono una concezione del federalismo più rigorosa
in termini strutturali ed istituzionali, con un’efficace formulazione dei concetti
di federazione e di confederazione. Gli autori del Manifesto si avvicinarono così
ad una cultura, quella del federalismo anglosassone, che in Italia (e in gran
parte dell’Europa) era al tempo ancora relativamente poco nota, finendo non
solo col negare l’attualità dell’antitesi fra le principali ideologie tradizionali,
quella liberale e quella socialista, ma anche e soprattutto col distaccarsi
definitivamente dall’europeismo di tipo mazziniano e proudhoniano.
Di conseguenza, i federalisti di Ventotene maturarono sin dall’inizio una
visione decisamente politica del federalismo europeo, volta a recidere ogni
legame con le tradizionali interpretazioni sentimentali e ideali tipiche
dell’internazionalismo.
Occorre inoltre notare come essi sarebbero giunti a proporre nel capitolo
della riforma sociale del Manifesto un programma politico (ed una concezione)
sotto molti aspetti sostanzialmente simile a quello elaborato da Carlo Rosselli in
Socialismo liberale: emergono, infatti, ad un tempo, la stessa attenzione
rosselliana per la tutela della libertà dell’individuo e delle sue facoltà originali e
per la giustizia sociale; lo stesso rigetto del collettivismo integrale sovietico (e in
particolare per il dogma della statalizzazione dei mezzi di produzione) e per la
negazione a priori della proprietà privata; e infine, è ovvio, il richiamo alla
federazione europea quale innovazione prioritaria al fine di salvare la civiltà
europea dalla catastrofe e, soprattutto, quale risultato da conseguire mediante
una mobilitazione dal basso (che nel pensiero di Spinelli spesso assume un
sapore leninista, lascito cosciente della sua formazione comunista), sia delle
masse popolari sia degli intellettuali, come forza rivoluzionaria.
Ibidem.
Lord Lothian, Il pacifismo non basta, Il Mulino, Bologna, 1986.
15 L. Robbins, Le cause economiche della guerra, Einaudi, Torino, 1944.
16 A. Hamilton, G. Jay, J. Madison, Il federalista, Nistri-Lischi, Pisa, 1955.
17 Cfr. N. Bobbio, Il federalismo nel dibattito politico e culturale della Resistenza, in A. Spinelli, Il
Manifesto di Ventotene e altri scritti, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 18 e L. Levi, Altiero Spinelli,
fondatore del movimento per l’unità europea, in A. Spinelli – E. Rossi, Il Manifesto di Ventotene,
Mondadori, Milano, 2006, pp. 191-195.
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Non a caso, a conclusione della lotta resistenziale, lo stesso Spinelli (in una
breve ma significativa parentesi rispetto al suo storico “indipendentismo”18)
avrebbe scelto il Partito d’Azione, il partito cioè che ereditava le tematiche di
Carlo Rosselli (e di Giustizia e Libertà), ponendosi, ambiguamente agli occhi dei
più, in una posizione trasversale rispetto alle ideologie dominanti, quella
socialista e quella liberale, e altresì rappresentando, nonostante le dialettiche
interne, il contributo più alto all’europeismo e al federalismo della Resistenza,
dopo quello specifico del Mfe. Tuttavia, mentre sopravviveva in Rosselli un
rispetto referenziale nei confronti dell’idea nazionale, stante la sua formazione
democratico-mazziniana, negli autori del Manifesto tale idea veniva messa in
discussione e posta sotto il “giudizio della ragione”, che, se ne riconosceva
l’importanza storica quale “lievito di progresso” (poiché nata insieme alla
moderna idea di libertà), ne decretava però il superamento imprescindibile sul
piano storico, poiché le contraddizioni insite in essa facevano sì che, nel nuovo
orizzonte dell’epoca contemporanea, tale prospettiva non potesse che rivelarsi
fallimentare ed incapace di costituire ancora una matrice di evoluzione politica
e sociale.
Il paragone tra il pensiero social-liberale e il contenuto del Manifesto di
Ventotene è utile a sottolineare come quest’ultimo si ponesse allora come la
punta più avanzata di tutto quel magma di creatività che contraddistinse i
movimenti e gli autori clandestini degli anni Trenta e del periodo resistenziale:
riallacciandosi ad una tradizione di critica culturale e filosofica allo Stato
nazionale e all’idea nazionale medesima (Proudhon, Frantz, Lord Lothian,
Wotton, Robbins, ecc.)19, gli europeisti di Ventotene approdavano alla proposta
federalistica come unica alternativa storica realistica e razionale, proponendo
un’interpretazione dei problemi dell’epoca assai originale rispetto alle tesi delle
ideologie tradizionali, che invece conservavano lo stato nazionale quale
paradigma privilegiato da cui partire per qualsivoglia sorta di analisi e di
programma politico. Anzi, nel Manifesto veniva concepita una nuova
discriminante tra progressisti e conservatori, in relazione rispettivamente
all’adesione convinta o meno alla lotta per la federazione europea: lo scontro
per il futuro della civiltà non era più fra capitalisti o socialisti, o liberali, ma fra
coloro i quali avrebbero lottato per il potere nell’ambito nazionale e quelli che
invece si sarebbero battuti per la costruzione di una nuova entità politica
federale, volta ad unificare il Vecchio Continente.
Si può così comprendere come l’opera suscitasse, sia tra i confinati sia
dopo la pubblicazione clandestina del ‘43, reazioni iniziali non certo esaltanti da
Cfr. A. Spinelli, Come ho tentato …, pp. 359-362.
Cfr. L. Levi, Altiero Spinelli, fondatore …, cit., p. 190 e A. Spinelli, Come ho tentato…, cit., pp. 307308.
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parte delle forze politiche italiane tradizionali. La negazione del principio della
sovranità illimitata della nazione risuonava nelle menti di molti liberali e
democratici come la negazione della base stessa dei principi del Risorgimento,
ossia l’indipendenza della nazione. Non solo, ma già al confino di Ventotene gli
stessi esponenti di Giustizia e Libertà - come scrive Antonella Braga accusarono “il Manifesto di eccessiva avventatezza e ‘utopismo antistorico’, per
l’ipotesi di un’azione rivoluzionaria promossa da una minoranza illuminata,
che non attendesse lo sviluppo autonomo di una coscienza popolare diffusa”20:
un’accusa, questa, che nel tardo ‘42 spinse Rossi alla rottura con i giellisti.
Quanto ai socialisti, essi rimanevano in gran parte legati al dettato
marxista, per cui la trasformazione dei singoli stati europei in regimi socialisti e
collettivizzati avrebbe condotto automaticamente ad un sistema internazionale
pacifico e più solidale: si trattava, del resto, del presupposto contraddittorio
dell’internazionalismo, ossia il primato della politica interna, il presupposto,
appunto, che ne aveva determinato il fallimento di fronte allo scoppio della
prima guerra mondiale, causa la scarsa attenzione prestata all’importanza del
sentimento nazionale nelle masse popolari.
È bene soffermarsi, infine, sul rapporto fra il Mfe e i comunisti21, i quali,
dal canto loro, opposero una chiusura tout court alle tesi del Manifesto,
interpretate semplicisticamente come assertrici di un nuovo modello di stato
conservatore, poiché, in primo luogo, non escludevano la proprietà privata dei
mezzi di produzione e anzi sostenevano la necessità di incentivare la libera
iniziativa; in secondo luogo, ripudiavano un’impostazione strettamente
classista, aprendosi al dialogo con le varie istanze sociali, economiche e
culturali. In terzo luogo, l’istituzione federale era guardata dai comunisti come
un rimando costante agli Stati Uniti, esempio che ovviamente condannavano
quale simbolo del capitalismo.
L. Levi, Altiero Spinelli, fondatore …, cit., p.198.
Sull’opposizione dei comunisti italiani (ed europei) al tema eurofederalista si vedano
innanzitutto le prese di posizione di Lenin e di Stalin contenute in: V. Lenin, Stato e rivoluzione
(1918), Editori riuniti, Roma, 1984 e G. V. Stalin, Contro il federalismo (1917), in Opere scelte,
Edizioni rinascita, Roma, 1951, vol. III. Sull’argomento in generale, cfr. R. Monteleone, Le ragioni
teoriche del rifiuto della parola d’ordine degli Stati uniti d’Europa nel movimento comunista
internazionale, in S. Pistone (a cura di), L’idea dell’unificazione europea dalla prima alla seconda guerra
mondiale, Fondazione Einaudi, Torino, 1975.
20
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L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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Last but not least, le proposte istituzionali dei federalisti di Ventotene cozzavano
con l’impostazione, affermata da Stalin, del “comunismo in un Paese solo”, che
rendeva più blanda la spinta internazionalistica del partito italiano (viva ancora
invece nei socialisti) e viceversa più vigoroso il ripiegamento nazionale
finalizzato alla conquista del potere e dell’instaurazione della dittatura del
proletariato in Italia, sotto l’egida, naturalmente, del governo di Mosca. Su tali
premesse, i comunisti italiani non potevano rinunciare al principio della
sovranità assoluta dello stato nazionale e al tempo stesso, coerentemente, non
potevano nemmeno tollerare le argomentazioni autonomistiche contro il
centralismo burocratico che trapelavano dal Manifesto e che erano in netta
contraddizione col modello totalitario russo, basato appunto su un rigidissimo
controllo delle periferie da parte del partito unico.
Nell’analizzare la diffusione del federalismo europeo nella Resistenza
italiana, è in definitiva ovvio partire dal Mfe, fondato a Milano nell’agosto del
’43, al quale va riconosciuto il merito sostanziale, come già ricordato, di aver
superato definitivamente l’internazionalismo socialista e le sue contraddizioni rifiutando il suo europeismo sentimentale e la predilezione per l’ambito
nazionale - e di aver posto la rivendicazione della federazione europea su un
piano esplicitamente politico, quale fine consapevole di una militanza specifica
e quale scopo prioritario di un’epoca, nonché di aver avviato un attivismo ed
una propaganda sopranazionali. Il Manifesto di Ventotene iniziò così a circolare
anche fuori dall’Italia, in Svizzera, in Francia e forse addirittura in Germania
(Ursula Hirschmann ne curò una traduzione in tedesco22). Tale diffusione
avrebbe portato nuove ed importanti adesioni al progetto descritto nell’opera,
spronando ad uscire allo scoperto i sostenitori delle varie tendenze
europeistiche e federalistiche presenti in Europa, i quali avevano evidentemente
bisogno di un documento e di una voce catalizzatori, funzione storica che
proprio lo scritto di Ventotene poté assolvere pienamente.
Guardata con sospetto in Italia, l’azione del Mfe raggiunse infatti risultati
sicuramente più apprezzabili e significativi sul piano internazionale, grazie
all’iniziativa personale di Altiero Spinelli e di Ernesto Rossi, i quali in un certo
senso, una volta passati in Svizzera nel settembre del ’43, finirono col dividersi i
compiti: il primo dedicandosi all’approfondimento teorico ed il secondo, grazie
anche alla sua maggiore notorietà, alla diffusione del federalismo europeo tra
gli antifascisti esiliati (del resto, come ha osservato Antonella Braga, «su Spinelli
[…] pesava ancora “l’ombra” della passata appartenenza al Partito comunista»),
anche se con gli esponenti delle varie Resistenze europee sarebbe stato Spinelli
ad intrattenere rapporti, causa la scarsa padronanza delle lingue straniere di
22
L. Levi, Altiero Spinelli, fondatore …, cit., pp. 175-177.
L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
14
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Rossi23. Colorni, dal canto suo, rientrava invece a Roma per riprendere il lavoro
politico con il ricostituito Partito Socialista di Unità Proletaria, propugnando
comunque al suo interno le tematiche europeistiche e federalistiche.
La propaganda della lotta per la federazione europea fu dapprima portata
avanti, come si è detto, in Svizzera, ove Spinelli venne in contatto con un
movimento europeista detto Europa Union, a carattere però più ideale che
politico. Il soggiorno svizzero fu in ogni caso determinante perché, in virtù del
libero accesso all’informazione sugli eventi bellici e politici in corso, Spinelli
venne a conoscenza della diffusione che stava avendo il tema della federazione
europea nella stampa clandestina delle Resistenze di mezza Europa: in Italia, in
Francia, in Belgio, tra gli esuli politici tedeschi nei paesi anglosassoni, e
addirittura in America (tra gli altri, Clarence Streit e Emery Reves avevano
proposto una suggestiva Federazione Atlantica che comprendesse anche gli
Stati Uniti). Comune a queste voci era, in particolare, l’affermazione secondo
cui a un plausibile crollo del regime nazista avrebbe dovuto succedere una
Conferenza di Pace, simile per alcuni versi al Congresso di Vienna, la quale,
sotto l’egida delle tre potenze vincitrici, avrebbe guidato la realizzazione di un
nuovo ordine di pace in Europa. Per parte sua, Spinelli continuava però a
spronare la Resistenza affinché assumesse un ruolo innovativo e trainante,
capace di annullare del tutto la ripresa delle antiche forze conservatrici24.
Sulla base di questo fermento culturale, la ricerca dei federalisti in Europa
iniziò lentamente a dare dei risultati, innanzitutto fra gli stessi italiani esiliati e
rifugiati svizzeri, la cui capitale era allora Lugano (e in generale il Canton
Ticino), ove nell’autunno-inverno del ’43 si trovavano esponenti di tutti i partiti
politici italiani, mentre il 29 marzo del 1944, sarebbe sorta la Delegazione
luganese del Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia (Clnai)25.
Furono così coinvolti nelle iniziative federaliste personaggi di grande prestigio
e statura intellettuale, come Luigi Einaudi – il quale già aveva favorito i contatti
con il Partito liberale in Italia- Egidio Reale, Ignazio Silone, e infine Adriano
Olivetti e Silvio Trentin, questi ultimi due già impegnati nella divulgazione
della dottrina federalista nell’accezione infranazionale (o autonomistica), ma
con una chiara impostazione europeistica, tramite movimenti del tutto propri:
rispettivamente il Movimento Comunità e Libérer et Fédérer.
Si creò presto, sotto le direttive del duo Rossi-Spinelli, un gruppo di
federalisti che avevano partecipato alla fondazione del Mfe ed erano divenuti
militanti veri e propri (benché risiedenti in diversi luoghi della Svizzera), fra cui
A. Braga, Un federalista giacobino …, cit., pp. 158-159.
Cfr. A. Spinelli, Come ho tentato…, cit., p. 338.
25 A. Braga, Un federalista giacobino …, cit., pp. 291-292. Cfr. anche E. Signori, La Svizzera e i
fuoriusciti italiani, Angeli, Milano, 1983.
23
24
L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
15
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spiccavano Alberto Damiani, Dino Roberto, Enrico Giussani (Lugano), Guido
Rollier (Neuchâtel), Guglielmo Usellini (Bellinzona, poi Lugano)26. Un cenno
particolare, nell’ambito della propaganda svizzera del Mfe va inoltre all’opera,
a tutt’oggi poco nota e celebrata, di Luciano Bolis27, il quale, internato a Zurigo,
aderì in seguito al Mfe. Dotato di una personalità complessa e a lungo
combattuto fra aspirazioni artistiche ed impegno politico, a Bolis spetta il
merito, come narrato da Cinzia Rognoni Vercelli, di aver avvicinato all’idea
dell’unità europea i giovani dei campi d’internamento della Svizzera tedesca.
Di provenienza azionista e culturalmente legato agli ideali risorgimentali
di Mazzini, Bolis (cui sarebbero succeduti, dopo la sua partenza per l’Italia,
Ignazio Silone, Bruno Engel ed Eugenio Carmi) è da considerarsi uno dei
personaggi chiave dell’azione eurofederalista in terra elvetica: indispensabili
furono le numerose copie dei documenti federalisti che egli redasse e diffuse tra
gli esiliati a Zurigo, spesso traducendo i testi in francese e tedesco, ma
altrettanto apprezzabili si rivelarono un paio di articoli di argomento federalista
che avrebbe pubblicato su «L’Italia Libera», fra il ’44 ed il ’45, a Genova.
Profondamente legato a Rossi, che lo introdusse al federalismo, e devoto al
suo spirito attivista, volontarista e “giacobino”28, di Bolis resta l’esempio di un
impegno costante e incondizionato nella lotta per la pace e per l’unificazione
dell’Europa, che avrebbe perseguito per tutta la vita29.
Merito di Vittorio Pons e Bruno Engel (e forse pure dello stesso Bolis) fu invece
quello di aver fatto convergere su istanze euro-federalistiche l’associazione
culturale Piero Gobetti (nata a Zurigo dopo l’8 settembre, e alla quale aderivano
esponenti di spicco dell’antifascismo liberal-democratico, quali Silone,
Ferdinando Schiavetti e Antonio Valeri), che nell’aprile del ‘44 fece pervenire la
propria adesione al Mfe30.
Fu grazie a Egidio Reale, comunque, che Spinelli e Rossi ottennero il primo
sostanziale successo nella propria azione di diffusione. Già vicino agli ambienti
del Mouvement populaire Suisse en faveur d’une Fédération des Peuples (Mspfp), un
gruppo intellettuale filofederalista sorto nel ’40 a Ginevra, egli mise in contatto
gli autori del Manifesto con Jean-Marie Soutou e Jean Laloy, esponenti di France
Libre, il movimento di Resistenza francese clandestino operante in Svizzera.
Questo incontro fu alla base di un evento essenziale per la diffusione della lotta
per l’unità europea nel continente, e cioè la costituzione a Lione, nel giugno del
Cfr. A. Braga, Un federalista giacobino..., cit., p. 271.
Su Bolis, cfr. L. Bolis, Il mio granello di sabbia, Einaudi, 1946 e C. Rognoni Vercelli, Luciano Bolis
dall’Italia all’Europa, Il Mulino, 2006.
28 Cfr. A. Braga, cit..
29 Cfr. C. Rognoni-Vercelli, Luciano Bolis …, cit., p. 196 e A. Spinelli, Come ho tentato…, cit., p. 391.
30 Cfr. C. Rognoni-Vercelli, Luciano Bolis …, cit., p. 158.
26
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‘44, del Comité français pour la Fédération Européenne, che adottò le Tesi politiche
federaliste del Mfe quale proprio documento programmatico. Il contatto
avvenuto tra i federalisti italiani e i resistenti francesi e la nascita del comitato
federalista francese fecero rispettivamente da preludio e da sfondo alle riunioni
di Ginevra. Ma alla sua organizzazione contribuirono anche altri personaggi
conosciuti da Spinelli durante il soggiorno svizzero, quali François Bondy, che
lo aiutò materialmente ad organizzare il convegno, e René Bertholet, che fece
entrare in contatto il piccolo gruppo federalista formatosi in Svizzera con
elementi della Resistenza austro-tedesca, e – sempre grazie a Reale – con il
pastore olandese Willem A. Visser’t Hooft, che mise a disposizione la propria
casa per le riunioni. La formazione di questo primo, cospicuo nucleo federalista
internazionale costituì la molla che portò ai diversi incontri e convegni tenutisi
a Ginevra tra il marzo e il luglio del 1944 e ai quali parteciparono illustri
studiosi (William Emmanuel Rappard e Wilhem Röpke) e, soprattutto,
rappresentanti delle Resistenze di mezza Europa: italiani, francesi, tedeschi, in
primis, ma anche danesi, olandesi, norvegesi, polacchi, cecoslovacchi e
jugoslavi (alcuni di essi erano ex diplomatici addetti alla Società delle Nazioni).
Prodotto delle riunioni di Ginevra fu un documento noto come la
Dichiarazione federalista degli antifascisti europei, che in Francia riscosse un
clamoroso successo e fu addirittura adottato quale progetto di programma del
Mouvement de Libération Nationale della Regione di Lione (in parte merito
dell’iniziativa personale dello stesso Spinelli, il quale aveva già
precedentemente iniziato a diffondere a Parigi le idee del Mfe31) La Dichiarazione
rappresentava il coronamento dell’azione del movimento, giacché proprio
l’impegno sul piano internazionale, assai più di quello interno di
sensibilizzazione dei partiti alla causa federalista, avrebbe dovuto
rappresentare l’elemento inedito, il carattere precipuo della nuova
rivendicazione dell’unità europea (lontana dalle vacuità dell’internazionalismo
e dell’europeismo sentimentale) che i federalisti italiani si erano, sin
dapprincipio, ripromessi di incarnare.
Il secondo grande successo nell’azione del Mfe in campo internazionale fu
costituito dall’organizzazione, grazie soprattutto al sostegno e all’iniziativa del
Comité dei federalisti francesi, della Conferenza federalista europea, che si
svolse legalmente a Parigi, la prima grande capitale liberata, dal 22 al 25 marzo
del 1945 e che vide convenire, oltre ai federalisti italiani, illustri personaggi
quali Albert Camus (esponente dello stesso Comitato federalista francese),
George Orwell, Emmanuel Mounier, André Philip, Jean Ferrat, Francis Gérard e
Cfr. P. Graglia, Unità europea e federalismo: da “Giustizia e Libertà” ad Altiero Spinelli, Il Mulino,
Bologna, 1996.
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altri importanti esponenti della Resistenza francese32. La Conferenza di Parigi,
assieme alle precedenti riunioni di Ginevra, ebbe peraltro, nell’ambito del
federalismo europeo, una risonanza e un valore aggregativi di fondamentale
importanza e, nei fatti, rappresentò la premessa indispensabile per la nascita,
nell’immediato dopoguerra, grazie all’impegno dei federalisti Hendrik
Brugmans, Denis de Rougemont e Alexandre Marc, dell’Unione Europea dei
Federalisti (Uef), un’organizzazione che avrebbe in seguito diretto e coordinato
le azioni degli euro-federalisti sul piano sovranazionale.
Tuttavia, da un punto di vista prettamente politico, la Conferenza di Parigi
si rivelò fin da subito un successo effimero. Nonostante il prestigio dei
partecipanti, le istanze ivi affermate si mostrarono immediatamente in netta
contraddizione con la tendenza dominante, che vedeva in Francia, come in
Italia e negli altri paesi europei, un deciso ripiegamento nazionale, con il
declino inesorabile e progressivo dell’elemento europeistico e, in particolare,
federalistico nelle varie forze politiche partitiche e governative. La previsione
espressa nel Manifesto, e riaffermata nella prima militanza del Movimento,
secondo la quale al crollo degli stati nazionali sarebbe succeduta una fase di
incertezza e di vuoto politico, si era rivelata del tutto errata anche per l’entrata
sulla scena delle potenze mondiali, che controllavano ormai l’intero continente.
Passando ai documenti ufficiali del Mfe, il testo fondamentale rimane
naturalmente il Manifesto di Ventotene (1941) di Altiero Spinelli e di Ernesto
Rossi, che rappresenta la nascita o, se vogliamo, la maturazione definitiva di un
eurofederalismo politico. Volendo aggiungere alcuni particolari, il Manifesto fu
edito a Milano nell’estate del ’43, subito dopo la liberazione dei suoi autori, col
titolo Manifesto del Movimento Federalista Europeo33. Un anno dopo, nel gennaio
1944, uscì clandestinamente a Roma una seconda edizione, a cura di Eugenio
Colorni, sotto il titolo A.S. E.R., Problemi della Federazione Europea34. In realtà, le
versioni del ‘43 e del ‘44 presentano significative differenze di contenuto, sia
rispetto alla stesura originale del ’41 - che tra l’altro conobbe una primissima
versione scritta su cartine di sigarette e parzialmente diversa da quella
definitiva - sia fra di esse, a causa dell’evoluzione delle vicende politiche e
storiche del tempo e dunque della ricerca di una formulazione che fosse
realistica ed attuale.
Cfr. Come ho tentato…, cit., p. 415.
Manifesto del Movimento Federalista Europeo, in «Quaderno del M. F. E. n. 1», Milano, 1943.
34 A. S.- E. R., Problemi della federazione europea, a cura e con introduzione di E. Colorni, Edizioni
del Movimento Italiano per la Federazione Europea, Roma, 1944. Riguardo questa edizione, cfr.
E. Paolini, Nota introduttiva, Lettera Federalista, n.67, maggio 1993, Roma.
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È interessante notare, innanzitutto, come tra le stesse versioni del ’41, del
giugno e dell’agosto35 vi fosse una sostanziale discrepanza nella valutazione dei
rapporti che l’Europa avrebbe dovuto intrattenere con l’URSS36. Di fatto, mentre
nella bozza originaria si evidenzia una forte sfiducia rispetto alla possibilità di
creare una federazione europea comprendente lo stato sovietico (stanti
l’enunciazione del principio staliniano del “comunismo in un paese solo” e la
firma del trattato Ribbentrop-Molotov), nella seconda versione si rileva un
atteggiamento più possibilista, favorito anche dalla svolta politico-militare
costituita dall’entrata in guerra della Russia contro la Germania (estate 1941)37.
Rispetto alle versioni successive, inoltre, nei testi del ‘41 non è ravvisabile la
percezione da parte degli autori del ruolo preponderante che avrebbero assunto
gli Usa, nonché del grado di declino politico che avrebbe raggiunto l’Europa
alla fine del conflitto38.
Non meno significative differenziazioni intercorrono pure tra le due
edizioni di Milano e di Roma39. In quella dell’agosto ’43, infatti, sono riportati,
nel capitolo intitolato La situazione rivoluzionaria: vecchie e nuove correnti, dei
brani in cui viene denunciata, quale “fallimento del rinnovamento europeo”,
l’ipotesi di un predominio comunista nel quadro della crisi temporanea dello
stato italiano, che gli autori auspicavano si verificasse nelle fasi finali della
guerra e, più specificamente, al momento del crollo del regime nazista. Non
solo. Si afferma che le forze comuniste (imputate di ambire, in quello speciale
frangente critico, all’instaurazione del “dispotismo burocratico”), nonché che le
“vecchie tendenze democratiche” (accusate di inefficienza), in quanto
rappresentanti “un ostacolo”, avrebbero dovuto “o radicalmente modificarsi o
sparire”. Tali espressioni critiche (cui se ne aggiungono nel testo altre
esplicitamente polemiche verso l’Urss) furono eliminate (ad opera di Colorni, il
meno avverso al modello sovietico40) nella versione successiva, poiché
incompatibili con la viva necessità del Mfe, nel ‘44 (venuto ormai meno
l’iniziale auspicio di avviare una militanza ed un processo rivoluzionario
federalisti del tutto autonomi), di creare una piattaforma di collaborazione per
la lotta eurofederalista che non escludesse alcuna tendenza antifascista,
nemmeno i comunisti, dai quali pure Spinelli e Rossi avevano nel ‘41 preso
fortemente le distanze. Stesso discorso vale, in sostanza, per l’atteggiamento
Cfr. E. Paolini, Altiero Spinelli. Dalla lotta antifascista alla battaglia per la Federazione europea. 19201948: documenti e testimonianze, Il Mulino, Bologna, 1996, capp. VII e VIII.
36 L. Levi, Altiero Spinelli, fondatore …, cit., pp. 177-180.
37 Cfr. E. Paolini, Nota introduttiva, cit..
38 Cfr. A. Spinelli, Come ho tentato …, cit., pp. 316-317.
39 Cfr. L. Levi, Altiero Spinelli, fondatore …, cit., p. 180.
40 M. Orlandi, Il socialismo federalista di Eugenio Colorni, cit., pp. 245-251. Cfr. S. Gerbi, Tempi di
malafede, cit., pp. 196-209 e P. Graglia, Unità europea e federalismo…, cit..
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tenuto con i cattolici della Democrazia Cristiana: infatti, se nel capitolo della
Riforma della Società della versione del ‘43 erano presenti accenni critici nei
confronti della Chiesa, in particolare con la negazione del ruolo da essa
tradizionalmente assunto nell’istruzione e nella famiglia, nel’44 questo brano
non era più presente, in rispetto anche alle prese di posizione pacifistiche ed
europeistiche del Papa, nonostante occorra però ricordare come rimanesse
l’appello all’abolizione del Concordato, sulla base del principio della completa
laicità delle istituzioni.
Oltre al Manifesto, altri documenti di fondamentale importanza sono: le
Tesi politiche federaliste di Spinelli (3 agosto 1943), che, riprendendo e in parte
modificando gli assunti dello scritto ventotenese, offrono un breve ma
essenziale tracciato, in sette punti, sulle finalità del movimento e sul carattere
della sua azione; lo Schema di costituzione dell’unione federale europea (gennaio
1944, in Stati Uniti d’Europa?) di Mario Alberto Rollier, che presenta, in virtù di
una profonda conoscenza della dottrina federalista da parte dell’autore ed in
particolare dell’esempio americano, una rigorosa formulazione di articoli da
applicarsi all’auspicata federazione europea; Carattere della federazione europea
(agosto 1943) e la Prefazione a Problemi della federazione europea di Eugenio
Colorni; L’Europa di domani (1944) di Rossi; Gli Stati Uniti d’Europa e le varie
tendenze politiche (risalente al 1941–1942 ma pubblicato nell’edizione romana del
Manifesto, assieme a Politica marxista e politica federalista, del ‘42-’43) e Le vie della
politica estera italiana (ottobre 1944) di Spinelli. Infine va citata la rivista «L’Unità
Europea», il grande contenitore dei testi del Mfe, la quale costituisce senz’altro
la testimonianza più importante dell’eurofederalismo nella Resistenza italiana.
In questa collana furono man mano raccolti pressoché tutti i contributi sul tema
dell’unità europea provenienti dai partiti o da singoli autori, sia italiani che
esteri.
Il contributo dei partiti italiani alla diffusione del federalismo europeo
Dopo il Mfe, il gruppo che ha offerto il contributo maggiore alla diffusione del
federalismo europeo è senza dubbio il Partito d’Azione (PdA), nato nel 1943
come bacino di raccolta della variegata e complessa esperienza di Giustizia e
Libertà. Nel quadro dei partiti, gli azionisti manifestarono le convinzioni
assolutamente più chiare, profonde e coerenti nei confronti dell’unità europea,
cosa che fu determinata dalla presenza in esso degli esponenti di spicco della
scuola ventotenese, Rossi, Spinelli e Rollier in primis. Tra i documenti più
importanti del PdA in chiave eurofederalista vanno ricordati almeno: i Sette
Punti (1942), pubblicati clandestinamente nel gennaio del ’43, su «L’Italia
L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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Libera», in cui viene affermato il ripudio dell’ “assoluta sovranità” degli stati
nazionali europei e la necessità di una nuova “comunità giuridica di Stati”,
esplicitamente federale; ed il Piano di lavoro del Partito d’Azione (agosto del ’44),
ove, dopo un vivace dibattito interno sulla natura della propria adesione alla
lotta per la federazione europea, tali assunti vengono riconfermati ed anzi
rafforzati; inoltre, gli opuscoli Poche parole sull’Unione federale europea (1944) e Il
partito d’Azione agli Italiani (22 settembre 1944).
Occorre citare, d’altro canto, alcuni importanti contributi di singoli autori
operanti nell’area azionista: il Progetto di costituzione confederale europea ed interna
(1942–1943) di Duccio Galimberti e Antonino Repaci, La conferenza di Mosca (11
novembre 1943) di Carlo Ginzburg, e la Lettera aperta del P.d.A. dell’A.I. al
Comitato esecutivo del P.d.A. dell’Italia centro–meridionale (ottobre 1944) di Spinelli,
allora segretario del Partito d’Azione dell’Alta Italia; infine, l’importante
documento internazionale promosso congiuntamente da membri del PdA e del
Mfe (come ad esempio Rollier), vale a dire la Carta di Chivasso (dicembre 1943),
che rappresenta la chiara rivendicazione di un riconoscimento, nella futura
Europa federata, dell’autonomia delle popolazioni alpine.
Un’adesione convinta al tema dell’unità europea venne anche dalla
Democrazia Cristiana (DC), sulla quale peraltro influì direttamente, senza
dubbio, il pensiero di Pio XII del periodo bellico. Nei documenti del partito
cattolico non solo è presente una definizione chiara della forma istituzionale che
avrebbe dovuto assumere lo stato europeo, ossia quella della federazione, ma
sono affrontati i temi inerenti le problematiche della rappresentanza
democratica in seno all’organismo federale stesso, i quali invece sfuggivano al
tempo alla trattazione sull’unità europea degli altri partiti. Il tema dell’unità
europea appare financo nel primo documento programmatico del partito (dei
primi mesi del ’43), Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana, nel quale,
tuttavia, l’accento è posto in misura più marcata sul federalismo infranazionale.
Ma la presa di posizione più efficace della DC è presente nel successivo
Programma di Milano (25 luglio 1943), ove al problema internazionale è
significativamente dedicato il primo punto, e confermata dall’articolo Unirsi o
dilaniarsi (estate del ’44), che presenta uno spunto assai interessante
nell’affermazione che la confederazione “deve essere aperta a tutte le nazioni
d’Europa che decideranno di entrarvi”.
Venendo al Partito Liberale (PLI), ci si confronta, in verità, con un
eurofederalismo assai vincolato e circoscritto all’aspetto economico, in cui il
risalto maggiore è dato all’esigenza di un libero mercato da contrapporre alle
autarchie nazionalistiche. Tale posizione è confermata nei documenti dei
liberali, tra cui l’articolo Avvenire dell’Europa (degli inizi del ’45) e, soprattutto,
gli Orientamenti programmatici (all’agosto del ’44), nei quali esplicito è il
L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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richiamo alla tradizione europeistica del liberalismo risorgimentale.
Nell’ambito di questo partito, ben altra consistenza e profondità ebbero
però le argomentazioni in tema di federazione europea espresse da Luigi
Einaudi, il quale, del resto, fu uno dei massimi esponenti del federalismo
resistenziale. Tra i suoi principali saggi vanno menzionati Per una federazione
economica europea (1943) e I problemi economici della federazione europea (1944), in
cui, oltre all’approfondimento delle tematiche economiche della federazione,
sono compresi ampi accenni al valore etico dell’integrazione tra i popoli
europei.
Per quanto riguarda il Partito Repubblicano (PRI), risalente storicamente al
partito ideato dal Mazzini della Giovine Italia e forte di una tradizionale
vocazione europeistica ed internazionalistica, esso si fece strenuo promotore,
durante la Resistenza, del tema dell’unità europea. Se tuttavia questo partito
rimaneva legato al contraddittorio europeismo risorgimentale, negando, d’altra
parte, il carattere di priorità della lotta per la federazione europea rispetto al
riformismo interno, occorre del pari dire che i repubblicani furono tra i primi a
dare sostegno diretto al progetto del Mfe, anche grazie alla comune
rivendicazione repubblicana per l’Italia e per i paesi della federazione. Molti
sono i documenti con i quali il PRI diede il proprio contributo: tra questi vanno
ricordati soprattutto la Risoluzione della Federazione piemontese del partito
clandestino (ottobre del ’44) e i vari articoli apparsi su «La Voce Repubblicana»,
tra cui Federazione europea (1943–1944) di Antonio Braccialarghe e Per la
riorganizzazione politica e per la ricostruzione economica dell’Europa (15 novembre
’44).
Il Partito Socialista d’Unità Proletaria (PSIdUP), rimanendo l’internazionalismo il metro di misura delle sue prese di posizione in favore dell’unità
europea anche nella lotta resistenziale, non seppe offrire un apporto sostanziale
allo sviluppo di una coscienza prioritariamente federalistica, all’interno
dell’antifascismo italiano, ma si limitò piuttosto a caldeggiare un indefinito
europeismo. La forma federale restò nella visione della maggioranza dei
socialisti (escluso evidentemente Colorni) un mezzo essenziale soltanto al fine
di una radicale trasformazione dei rapporti economici tra i popoli, ossia un
mero strumento della lotta al capitalismo. É del resto necessario riflettere sul
mantenimento della pregiudiziale classistica nel rimarcare le differenze tra
l’impostazione dei socialisti da un lato e quella del Mfe e degli azionisti
dall’altro. Ad ogni modo, sono spesso presenti, nelle prese di posizione del
PSIdUP., elementi originali come l’idea ambiziosa per cui il nuovo stato
europeo avrebbe dovuto rappresentare una sintesi tra il socialismo sovietico e la
più pura democrazia occidentale. Tra i documenti più importanti in cui è
presente l’adesione socialista all’eurofederalismo vanno citati almeno la
L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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Dichiarazione politica programmatica (26 agosto 1943), in cui sono affermati il
ripudio del nazionalismo e delle autarchie e parimenti l’esigenza di creare una
solidarietà internazionale dei partiti proletari che “avvii l’Europa verso una
libera federazione di Stati”; inoltre, la Mozione (1944), approvata dal Comitato
Centrale del PSIdUP per l’Alta Italia, che confermava l’approccio classista
nell’auspicare la convocazione di una conferenza operaia internazionale che
desse vita ad una sorta di federazione internazionale dei lavoratori; infine,
dall’«Avanti!», Unità Europea (3 settembre 1943), La ricostruzione europea (31
gennaio 1945) e La nostra politica estera (30 marzo 1945). Rispetto poi ai
contributi individuali entro il Partito socialista, debbono essere ricordati gli
scritti di Colorni, con il Progetto di Dichiarazione dei socialisti sulla federazione
europea (agosto 1943) e di Ignazio Silone (il quale collaborò anche agli ultimi
numeri de «L’Unità Europea», e il cui pensiero costituisce un’originale sintesi
tra valori socialisti, cristiani e liberali), con la Dichiarazione del Centro estero del
Partito socialista italiano (settembre 1942).
Sempre nel campo socialista, anche la «Democrazia del lavoro» di Ivanoe
Bonomi aderì al tema della federazione europea, seppur palesando, nei suoi
documenti, un non compiuto superamento del punto di vista nazionale. In
merito, citiamo l’articolo Organizzazione nazionale e sopranazionale (20 marzo del
1944). Infine, uno sguardo attento va dedicato anche alle opere di singoli autori,
non considerabili come documenti ufficiali di movimenti o di partiti, ma
piuttosto testimonianze personali, spesso di grande interesse intellettuale. In
quest’ambito, è indispensabile menzionare soprattutto due personaggi, Olivetti
e Trentin, il cui contributo, se ricade più sull’aspetto infranazionale del
federalismo, è però assai legato alla rivendicazione di un’unità europea in
prospettiva mondiale. Per quanto attiene al giurista Silvio Trentin, promotore di
un’idea autonomistica e socialistica assieme dello stato, egli fu autore
dell’importante saggio Stato nazione federalismo, uscito già nei primi mesi del
1940, il quale, sostanzialmente, consiste in una lunga analisi del processo storico
che vide l’affermazione definitiva, tra Otto–Novecento, dello stato moderno
unitario e della sua consacrazione più coerente nei totalitarismi.
In tale ambito, tuttavia, l’autore esprimeva una dura critica alle
inconcludenti ed insincere iniziative europeistiche governative, affermando, per
contro, la necessità di una rivoluzione finalizzata all’affermazione del principio
dell’autonomia in un’unica società federale europea. Relativamente
all’imprenditore di Ivrea Adriano Olivetti, fondatore del Movimento Comunità,
ne L’ordine politico delle comunità (1944–45) riprendeva le tematiche del
personalismo, del comunitarismo e del federalismo integrale francesi
(Alexandre Marc e Denis de Rougemont), elaborando una struttura istituzionale
federale di “ordini politici”, in una prospettiva ispirata ad una concezione della
L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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vita civile quale espressione di razionalità e libertà. Tali concezioni, tuttavia,
sembravano non superare il campo del federalismo utopistico e furono,
pertanto, osteggiate dallo stesso Spinelli, in quanto negatrici dell’assunto
fondamentale del Mfe, secondo cui la priorità era quella di sostituire al potere
degli stati nazionali sovrani un altro potere, quello della federazione europea,
piuttosto che attendere le trasformazioni sociali in ambito nazionale. Seguendo
un’opinione diffusa al tempo, i federalisti integrali temevano l’idea di creare un
nuovo stato senza aver prima risolto le problematiche culturali e sociali presenti
all’interno delle singole realtà nazionali. In realtà, come scrive Levi, “lo spirito
che animava l’impegno politico di Spinelli era insieme quello di Machiavelli e
di Kant […]. Il che comportava l’accettazione delle leggi della lotta per il potere,
ma nello stesso tempo, l’impegno per creare un potere più umano, che avrebbe
permesso di consolidare la libertà e di organizzare la pace”41.
Valori e limiti del federalismo europeo nella Resistenza italiana
Concludendo, pur mancando di una vera e propria direttiva dall’alto, incentrata
sulla specifica realizzazione della federazione europea, l’anima europeista e
federalista della Resistenza fece leva, in primo luogo, sull’iniziativa del Mfe e
dei suoi esponenti più e meno illustri; in secondo luogo sul dibattito, sollecitato
spesso dallo stesso Movimento federalista, animatosi all’ interno dei singoli
partiti. In quest’ultimo contesto, i diversi personaggi coinvolti giungevano alla
quasi unanime conclusione che la ricostruzione del continente europeo – e allo
stesso tempo l’istituzione di un regime di democrazia nei singoli paesi - non
potessero più prescindere dalla creazione di un organismo sopranazionale, il
quale, piuttosto che riproporre il labile esempio della vecchia Lega delle
Nazioni, tendesse essenzialmente a limitare le sovranità degli stati membri:
limitazione che era quindi avvertita quale “discriminante” tra un sistema
europeo (e, nel lungo periodo, mondiale) costantemente sull’orlo di conflitti
sempre più disastrosi e un sistema di sicurezza e di pace.
Sicché in Italia non trovarono accoglienza le istanze di tipo confederalistico
che invece, ad esempio, caratterizzarono, ancora in Francia, le posizioni dei
nazionalisti di De Gaulle, il che rende il contributo italiano al tema dell’unità
europea il più rigoroso e maturo in termini teorici. E furono sempre i federalisti
di Ventotene, una volta liberati dal confino, a diffondere le istanze europeistiche
e federalistiche in seno al CLN dell’Alta Italia, il quale, pertanto, risultò
l’organizzazione relativamente più aperta all’idea dell’unità europea, a
differenza del Comitato centrale romano e, più in generale, di quelli periferici
41
Cfr. L. Levi, Altiero Spinelli, fondatore…, cit., pp. 224-225.
L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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del Meridione. Grazie all’azione e all’opera di propaganda del Mfe (che peraltro
diede un precoce apporto rivendicativo alla stessa lotta di liberazione nazionale,
nonché, in particolare, promosse una propaganda ante litteram del
repubblicanesimo e dell’antimonarchismo42), infatti, l’idea dell’unità europea
non solo si diffuse nei partiti antifascisti italiani, bensì finì con l’influenzare
anche le rivendicazioni politiche dei movimenti di liberazione in altri paesi
occupati, tessendo una fitta rete di contatti e collaborazione tra i vari partigiani
che simpatizzavano con le loro istanze.
Allo stesso tempo vanno ravvisati, nelle prese di posizione europeistiche e
federalistiche dei partiti della Resistenza, limiti inconfutabili, soprattutto negli
aspetti realizzativi. Se è vero che, considerata nel suo complesso, la Resistenza
italiana seppe offrire in Europa il contributo teorico di maggiore portata all’idea
dell’unità del continente – con un’unanime tensione federalistica -, è del pari un
fatto che, alla fine della guerra e all’indomani della promulgazione della
Costituzione, tali rivendicazioni avessero subito, nella maggior parte dei partiti,
una sostanziale involuzione, per cui si sarebbero poste in primo piano le
problematiche relative alla ricostruzione nazionale (e alle emergenze concrete e
drammatiche dell’alimentazione, delle abitazioni e del lavoro), piuttosto che la
lotta per la realizzazione della federazione europea. Più precisamente, sarebbe
stato abbandonato il tema della priorità della federazione in favore di un
approccio più funzionalistico, il quale prevedeva un lento processo di
integrazione economica (in settori specifici) e, in una prospettiva più lontana, la
costruzione di un’unità politica dei vari paesi del continente, a partire da un
piccolo nucleo iniziale. Se, da un lato, le emergenze nazionali avrebbero
effettivamente pesato su questa involuzione del dibattito sull’unità europea nei
principali partiti italiani, dall’altro lato, tuttavia, essa esprimeva qualcosa di più
profondo - a conferma di quanto già affermato da Spinelli nei suoi scritti -, vale
a dire il fatto che l’ostacolo maggiore per la creazione della federazione europea
fosse costituito dalla strutturale reticenza delle classi dirigenti nazionali, ivi
comprese le forze dell’opposizione (in quanto anch’esse facenti parte e
legittimate dal sistema nazionale), di cedere il proprio potere, minacciato
dall’ipotesi federale e, viceversa, garantito dall’apparato dello stato-nazione
sovrano.
Si vedano a tal proposito rispettivamente due articoli pubblicati sul n. 3 (uscito a Bergamo) de
«L’Unità Europea», del settembre 1943, l’uno di Rossi, Guerra al Nazismo e l’altro (probabilmente
di Rollier) intitolato Intransigenza. Si deve comunque ricordare che una presa di posizione antimonarchica breve ma chiara è presente sin dal primo numero della collana, nell’articolo Il
Movimento federalista, in «L’Unità Europea», n. 3, Bergamo, settembre 1943, ove si legge: “Siamo
d’altra parte, gli avversari irriducibili di qualsiasi forma di reazione e quindi: siamo
antimonarchici, perché la monarchia e gli interessi che gravitano intorno ad essa sono uno
sgangherato fortino del nazionalismo”.
42
L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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Dalla volontà di staccarsi definitivamente dal sistema politico nazionale
era del resto derivato, di fatto - come già ricordato –, il rifiuto da parte del Mfe
della forma-partito, strutturalmente incapace di operare senza compromessi
nazionalisti per l’unità europea43. Ed è sintomatico di quanto appena esposto il
fatto che il Partito d’Azione, rappresentando il paradossale connubio tra la
forma-partito e la centralità, nel proprio programma, della lotta per la
federazione europea, e resistendo dapprima (invero con molteplici posizioni
interne al riguardo) alla completa integrazione nazionale a discapito
dell’impostazione europeistica e federalistica, finì poi coerentemente con lo
sciogliersi, subito dopo la politicamente effimera, ma significativa, esperienza
del governo Parri. E si sarebbero pure estinte, alla fine della guerra, le posizioni
più spiccatamente eurofederalistiche nell’ambito del Partito socialista, che erano
state proprie di Eugenio Colorni – al quale la morte prematura (1944) avrebbe
impedito di continuare una validissima opera di propaganda - e di Ignazio
Silone, che però rimase una voce assai solitaria all’interno del socialismo
italiano (anche sulla base della sua interpretazione del socialismo sensibile alle
tematiche proprie del cristianesimo) e anzi finì con l’essere emarginato.
I partiti italiani, dal canto loro, subito dopo la Liberazione, si affrancarono
dalle precedenti prese di posizione in favore della federazione europea,
affrettandosi piuttosto a creare ognuno un proprio bacino di consenso popolare,
al fine di accedere al nuovo sistema nazionale e di condividerne il potere. In
effetti, il tema dell’unità europea era stato, per i partiti in via di ricostituzione,
uno strumento di propaganda, funzionale allo speciale momento che stava
vivendo l’opinione pubblica italiana, sicché, venendo da una dittatura
ventennale e da una guerra rovinosa e totale, gli appelli all’antinazionalismo e
al pacifismo, presenti nei loro programmi, si configuravano idealmente quali
potenti elementi catalizzatori di consenso tra le masse popolari.
A tal proposito Rollier denunciò, in un articolo su «L’Unità europea» del
gennaio-febbraio ’45, Consuntivo: cosa ne è del federalismo nei partiti politici italiani
alla fine del 1944?, non senza una buona dose di cinismo, il progressivo e
frettoloso abbandono delle aspirazioni europeistiche da parte dei partiti, il che
lasciava pensare che l’avvicinamento al tema della federazione europea fosse
stato mosso sostanzialmente da mero opportunismo: “Il motivo federalista
compare in quasi tutti i programmi dei partiti politici italiani. […]
A tal proposito, cfr. G. Usellini, Movimento o partito? (agosto 1943), «L’Unità Europea», n. 2,
Roma, agosto 1943.
43
L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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Ma in realtà, poiché le forze politiche italiane si muovono su strade che
non sono precisamente le stesse nei confronti della costruzione dello stato
nazionale e federale, è ben legittimo il sospetto che, sotto l’identica
enunciazione federalistica, si nasconda la mancanza di coerenza fra
l’enunciazione programmatica e la politica effettualmente condotta […]: segno
evidente che si ritiene che il motivo federalista sia una delle attrattive più
rilevanti per l’opinione politica del nostro tempo”. Dopo la Liberazione, il
Movimento Federalista Europeo si ritrovò dunque completamente isolato nella
rivendicazione dell’unità dell’Europa. E nella stessa misura in cui era stato suo
merito l’aver avviato nel paese un dibattito politico sull’unità europea, così è
stato suo esclusivo merito l’aver conservato, e anzi sviluppato, il prezioso
contributo che alla divulgazione dell’idea della federazione europea ha dato
storicamente la Resistenza italiana.
L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
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L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
33
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
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A. Spinelli, E. Rossi, Per un’Europa libera e unita. Progetto di un manifesto, in A. S.E. R., Problemi della federazione europea, a cura e con introduzione di E. Colorni,
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L. Bellincioni, Origini e sviluppi del federalismo europeo
34
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
Presentazione
di Vittoria Saulle
Nel proseguire quanto pubblicato nel quinto numero di «Eurostudium3w»
presentiamo ai nostri lettori, come promesso, le rilevanti relazioni della
professoressa Antonella Braga e del professore Piero Graglia, tenutesi sempre in
occasione dell’evento culturale del 4 dicembre 2007, promosso dal Comitato
nazionale Altiero Spinelli presso l’Istituto dell’Enciclopedia italiana, a Roma,
con il titolo Il Manifesto di Ventotene. Radici filosofiche e fondamenti culturali.
Di notevole interesse si è rivelata la relazione della prof.ssa Braga, già
autrice di diversi saggi sul federalismo e libri come il recente Un federalista
giacobino. Ernesto Rossi pioniere degli Stati Uniti d’Europa, edito da Il Mulino.
Intento principale della dettagliata riflessione è di chiarire il contributo offerto
da Ernesto Rossi nella stesura del Manifesto di Ventotene e mettere così in risalto
l’influenza di Rossi nella formazione di Altiero, ma anche nella formulazione
del testo stesso. Ricorda la relatrice “Spinelli ha affermato che Rossi, col suo
«irriverente razionalismo» di matrice salveminiana e illuminista, lo aiutò a
sgombrare la mente dalle macerie dell’antica ideologia…”. Inoltre, rispetto a
coloro che attribuiscono ad “Esto” solo la terza parte del Manifesto, quella
relativa alla riforma del dopoguerra, la Braga sostiene che la presenza
dell’apporto di Rossi è percepibile lungo tutto il testo, al punto da rendere
praticamente impossibile ascrivere ad un autore o all’altro singoli brani e
concetti.
Assai innovativa risulta dunque essere la chiave interpretativa attraverso
la quale si svolge la riflessione, in quanto la Braga si sofferma dapprima sulla
fase di preparazione del Manifesto, in seguito sulle diverse redazioni ed edizioni
del documento e infine sul reale peso assunto nella sua elaborazione dalle
differenti culture e personalità di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio
Colorni, usufruendo dell’apporto notevole offerto dalle fonti disponibili presso
gli Archivi storici dell’Unione europea di Firenze.
Nel ripercorrere con profonda competenza la storia personale di Altiero
Spinelli, il suo biografo, Piero Graglia, docente di Storia dellʹintegrazione
europea all’Università Statale di Milano e autore di Altiero Spinelli, uscito
V. Saulle, Presentazione
35
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
recentissimamente per Il Mulino, mette in rilievo l’appassionato impegno
politico profuso da Ulisse nel corso della sua vita e che il professore definisce
“come qualcosa di assoluto, di kantiano, di totalmente pervasivo”.
Nella sua analisi, Graglia delinea un quadro esaustivo e preciso su come il
distacco definitivo dal comunismo - maturato nel periodo compreso tra la
detenzione negli istituti di Lucca e di Viterbo (1931-’32) e l’invio al confino nelle
isole di Ponza e Ventotene – avesse condotto Spinelli a riflettere e a realizzare
una nuova visione politica, elaborata compiutamente nel 1941, allorquando,
insieme ad Ernesto Rossi, stese il Manifesto, ponendo pertanto al centro della
loro visione politica la realizzazione della federazione europea”.
In conclusione, restava da presentare in questa sede la terza
comunicazione esposta al convegno del 4 dicembre, quella a cura dal prof.
Giovanni Falcetta, docente con un’esperienza di lettore di Lingua e Letteratura
Italiana, su nomina del Ministero degli Affari Esteri, presso la Facoltà di Lingue
Straniere dellʹUniversità degli Studi di Tirana, dal 1999 al 2002, e biografo di
Lazar Fundo. La sua comunicazione, dedicata proprio all’affascinante
intellettuale albanese, compagno di confino di Spinelli e Rossi, farà parte del
prossimo numero della rivista, che verrà riservato anche alla storia e alla
documentazione, spesso inedita, riguardante una personalità che Spinelli
stesso, nella sua autobiografia, invitava a non dimenticare. Fundo, rientrato in
Albania per combattere il nazismo, venne eliminato dai comunisti locali, che gli
rimproveravano la sua dissociazione dell’Internazionale stalinista.
V. Saulle, Presentazione
36
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
Il contributo di Ernesto Rossi
all’elaborazione del Manifesto di Ventotene
di Antonella Braga
Premessa
Nell’ambito della consolidata tradizione interpretativa sul Manifesto di
Ventotene, considerato uno dei contributi più originali nel panorama della
letteratura militante della Resistenza, nonché una svolta teorica nel pensiero
federalista ed europeista1, alcune questioni rimangono ancora aperte. In
particolare, poco si è parlato della fase di preparazione del Manifesto, delle
diverse redazioni ed edizioni del documento e dell’effettivo peso avuto nella
sua elaborazione dalle differenti culture e personalità di Altiero Spinelli,
Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni2.
Un’analisi attenta e non preconcetta delle fonti disponibili presso gli
Archivi storici dell’Unione europea a Firenze – dove sono stati depositati i fondi
privati di Spinelli e Rossi – consente di chiarire, almeno in parte, alcune di
queste questioni, modificando alcune delle ipotesi interpretative correnti e
gettando una luce su alcuni aspetti trascurati e poco noti della storia della carta
federalista di Ventotene e, più in generale, della storia del federalismo europeo,
di cui la diarchia Rossi-Spinelli rappresenta un pezzo importante. La loro
“simbiosi politica” – come la definì Spinelli3 – protrattasi per circa quindici
anni, consentì infatti l’elaborazione del Manifesto per un’Europa libera ed unita nel
Cfr. Norberto Bobbio, Il federalismo nel dibattito politico e culturale della Resistenza, in Altiero
Spinelli, Ernesto Rossi, Il Manifesto di Ventotene, Napoli, Guida, 1982, pp. 149-169.
2 Il ruolo di Rossi e Colorni all’elaborazione del Manifesto è in genere considerato secondario e
subordinato rispetto a quello di Spinelli, cui si è ascritta quasi totalmente la paternità
intellettuale del progetto federalista espresso nel Manifesto di Ventotene, prova ne sia che, ancora
oggi, circolano edizioni del testo che portano in copertina solo il nome di Spinelli. Si veda ad
esempio: Altiero Spinelli, Il Manifesto di Ventotene, Bologna, Il Mulino, 1991 e i giudizi espressi
nei saggi di Lucio Levi ed Edmondo Paolini in Ernesto Rossi economista, federalista, radicale, a cura
di Lorenzo Strik Lievers, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 101-125.
3 Cfr. Altiero Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio. Io, Ulisse, Bologna, Il Mulino, 1984, p.
315.
1
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
37
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
19414, la nascita del Movimento federalista europeo nel 19435, il varo dell’azione
internazionale durante l’esilio svizzero tra il 1943 e il 19456, il rilancio
dell’azione federalista nel 1947, all’indomani del Piano Marshall, e l’avvio di
un’intensa attività di stimolo nei confronti dei dirigenti politici italiani
(soprattutto verso Alcide De Gasperi7 e Luigi Einaudi8), nel corso della battaglia
per la Comunità europea di difesa (CED) che avrebbe dovuto condurre, grazie
all’art. 38, all’istituzione di una Comunità politica (CEP)9.
Rinviando ad altra sede un approfondimento di carattere più generale sul
manifesto federalista – ancora in attesa di un’edizione critica sul piano
Di recente, su iniziativa del Consiglio Regionale del Piemonte e della Consulta Regionale
europea è stata pubblicata, a cura di Sergio Pistone, un’edizione anastatica del Manifesto di
Ventotene, con la prefazione di Eugenio Colorni, Torino, Celid, 2001. Un’edizione del Manifesto,
a cura di Lucio Levi e con presentazione di Tommaso Padoa Schioppa, è stata pubblicata anche
nella collana degli Oscar Mondadori, nel 2006. Qui di seguito si fa riferimento all’edizione
pubblicata a Napoli, Guida, 1982.
5 Sulla nascita e lo sviluppo del Movimento federalista europeo cfr. Trent’anni di vita del Movimento
Federalista Europeo, a cura di Lucio Levi e Sergio Pistone, Milano, Franco Angeli, 1973; Mario
Albertini, Andrea Chiti-Batelli, Giuseppe Petrilli, Storia del federalismo europeo, Torino, ERI,
1973; Sergio Pistone, L’Italia e l’unità europea. Dalle premesse storiche all’elezione del
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Atti del Convegno internazionale di studi, Pavia, 19-20-21 ottobre 1989, a cura di Sergio Pistone,
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internazionale di studi, Genova, 5-6-7 novembre 1992, a cura di Sergio Pistone, Pavia, Pime,
1996; Luigi Vittorio Majocchi, La difficile costruzione dell’unità europea, Milano, Jaca Book,
1996; I movimenti per l’unità europea 1970-1986, a cura di Ariane Landuyt e Daniela Preda,
Bologna, Il Mulino, 2000; Idee d’Europa e integrazione europea, a cura di Ariane Landuyt,
Bologna, Il Mulino, 2004.
6 Cfr. Antonella Braga, Francesca Pozzoli, Il dibattito sulla federazione europea in Svizzera
(1943-1945): movimenti, progetti, incontri internazionali in Le Alpi e la guerra, funzioni e
immagini / Les Alpes et la guerre fonctions et images, a cura di / sous la direction de Nelly
Valsangiacomo, Lugano, Casagrande, 2007, pp. 79-130. Si veda anche: Francesca Pozzoli,
Svizzera e federalismo europeo durante la seconda guerra mondiale, in Storia e percorsi del
federalismo. L’eredità di Carlo Cattaneo, a cura di Daniela Preda e Cinzia Rognoni Vercelli,
Bologna, Il Mulino, 2005, tomo 1, pp. 465-517.
7 Sull’europeismo di De Gasperi cfr. Daniela Preda, Alcide De Gasperi. Dall’europeismo al
federalismo, Bologna, Il Mulino, 2004.
8 Sul federalismo di Luigi Einaudi si vedano: Umberto Morelli, Contro il mito dello Stato
sovrano. Luigi Einaudi e l’Unità Europea, Milano, Franco Angeli, 1990; Claudio Cressati,
L’Europa necessaria. Il federalismo liberale di Luigi Einaudi, Torino, Giappichelli, 1992; Roberto
Faucci, Einaudi, Torino, Utet, 1986. Sull’amicizia e la relazione politica tra Einaudi e Rossi, cfr.
Carteggio fra Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi (1925-1961), a cura di Giovanni Busino e Stefania
Martinotti Dorigo, «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», Torino, 1986, vol. XX. L’epistolario
è stato ripubblicato nel 1988; nel presente testo si fa però riferimento all’edizione del 1986.
9 Sulle vicende della Comunità europea di difesa cfr. Daniela Preda, Storia di una speranza. La
battaglia per la CED e la Federazione europea, Milano, Jaca Book, 1990.
4
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
38
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
filologico, che ne studi le diverse stesure e le varianti tra le edizioni note –, mi
concentrerò in particolare sui seguenti aspetti: l’influenza di Rossi nella
formazione politica di Spinelli; il riconoscimento del legame esistente fra il
contenuto del Manifesto e le riflessioni svolte da Rossi negli anni precedenti il
suo incontro con Spinelli a Ventotene; la questione delle fonti ispiratrici del
progetto federalista e delle diverse stesure del testo; l’incontro tra il
giacobinismo di Rossi e la formazione leninista di Spinelli nella definizione del
“partito rivoluzionario”.
1. L’influenza di Rossi nella formazione di Spinelli
Ernesto Rossi e Altiero Spinelli strinsero amicizia nell’estate del 1940,
sulla spiaggia di Ventotene, dove i confinati avevano il permesso di recarsi per
prendere bagni di sole e di mare, sempre sotto la stretta sorveglianza dei
militi10. Entrambi giunti a Ventotene tra la primavera e l’estate del 1939,
avevano alle spalle numerosi anni di carcere nelle galere fasciste. Il più anziano,
Rossi (classe 1897), volontario nella prima guerra mondiale, fraterno amico di
Gaetano Salvemini e dei fratelli Rosselli, proveniva dalle fila del movimento
“Giustizia e Libertà”11. Di dieci anni più giovane, Spinelli (classe 1907) faceva
parte dell’esiguo gruppo di “comunisti dissidenti” o “ex comunisti” che, a
Cfr. la lettera di Rossi alla moglie Ada datata 29 luglio 1940, in Ernesto Rossi, Miserie e
splendori dal confino di polizia. Lettere da Ventotene, a cura di Manlio Magini, Milano, Feltrinelli,
1981, p. 62.
11 Su Ernesto Rossi si vedano: Ernesto Rossi, Un democratico ribelle. Cospirazione antifascista,
carcere, confino. Scritti e testimonianze, a cura di Giuseppe Armani, Parma, Guanda, 1975 (riedito
da Kaos, Milano, 2001); Ernesto Rossi a dieci anni dalla scomparsa, a cura del Movimento Gaetano
Salvemini, «Quaderni del Salvemini», n. 25, 1977; Ernesto Rossi, Una utopia concreta, a cura di
Piero Ignazi, Milano, Edizioni di Comunità, 1991; Giuseppe Fiori, Una storia italiana. Vita di
Ernesto Rossi, Torino, Einaudi, 1997; Ernesto Rossi(1897-1967): la Democrazia, il Ticino, l’Europa,
Atti dell’incontro tenutosi a Lugano il 22 settembre 1997, «I Quaderni della Associazione Carlo
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forza di non mollare. Ernesto Rossi dalla grande guerra a Giustizia e Libertà, Milano, Franco Angeli,
2004; Simonetta Michelotti, «Stato e Chiesa»: Ernesto Rossi contro il clericalismo, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2006; Antonella Braga, Un federalista giacobino. Ernesto Rossi pioniere degli Stati Uniti
d’Europa, prefazione di Luigi V. Majocchi, Bologna, Il Mulino, 2007. Per ricostruire la vicenda
umana e politica di Rossi di grande utilità risultano anche i carteggi recentemente pubblicati a
cura di Mimmo Franzinelli: «Nove anni sono molti». Lettere dal carcere 1930-1939, Torino, Bollati
Boringhieri, 2001; Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini, Dall’esilio alla Repubblica. Lettere 19441957, Torino, Bollati Boringhieri, 2004; Ernesto Rossi, Epistolario 1943-1967. Dal Partito d’Azione al
Centro-sinistra, Roma-Bari, Laterza, 2007.
10
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
39
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
Ventotene, subivano l’ostracismo del partito ed erano guardati con diffidenza
anche dagli altri gruppi politici12.
Negli anni di prigionia, Spinelli aveva compiuto, per certi versi, un
percorso specularmente inverso a quello di Rossi. Mentre quest’ultimo era
venuto correggendo il suo liberalismo economico e politico in senso sempre più
radicale, fino a farsi sostenitore di istanze socialiste e giacobine13, Spinelli aveva
progressivamente abbandonando le originarie posizioni comuniste e
anticapitaliste, per avvicinarsi sempre di più, anche se non in modo acritico, alla
tradizione liberal-democratica14. I due finirono così con l’incontrarsi a metà d’un
percorso che li condusse insieme a mete comuni.
Nel caso di Rossi, tale evoluzione era omai in fase di avanzato sviluppo, se
non addirittura in via di conclusione. In campo economico, gli studi da lui
compiuti a Ventotene non fecero che consolidare i risultati già raggiunti negli
anni precedenti, attraverso l’assimilazione dell’insegnamento di Wicksteed,
Robbins e Pigou15. Anche in campo politico, le discussioni con Altiero Spinelli
ed Eugenio Colorni, in merito al progetto federalista, s’inserirono nel solco del
“progetto di studio”, da lui già chiaramente tracciato in una lettera dell’aprile
193716.
Su Altiero Spinelli si rinvia ai testi di: Edmondo Paolini, Altiero Spinelli. Appunti per una
biografia, Bologna, Il Mulino, 1988; Id., Altiero Spinelli. Dalla lotta antifascista alla battaglia per la
Federazione europea 1920-1948: documenti e testimonianze, Bologna, Il Mulino, 1996; Altiero
Spinelli, Machiavelli nel secolo XX. Scritti del confino e della clandestinità 1941-1944, a cura di Piero
S. Graglia, Bologna, Il Mulino, 1993; Altiero Spinelli, La rivoluzione federalista. Scritti 1994-1947, a
cura di Piero S. Graglia, Bologna, Il Mulino, 1996; Piero S. Graglia, Unità europea e federalismo. Da
«Giustizia e Libertà» ad Altiero Spinelli, Bologna, Il Mulino, 1996; Daniele Pasquinucci, Europeismo
e democrazia. Altiero Spinelli e la sinistra europea 1950-1986, Bologna, Il Mulino, 2000. È inoltre di
imminente uscita, presso la casa editrice Il Mulino, la biografia di Spinelli curata da Piero
Graglia.
13 Cfr. la lettera di Rossi, datata 24 marzo 1944, in Gaetano Salvemini, Lettere dall’America.
1944/1946, Bari, Laterza, 1967, p. 6.
14 Cfr. A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., pp. 261-343.
15 In carcere Rossi lesse: due opere di Arthur Cecil Pigou, Economics in Practice. Six Lectures on
Current Issues, London, Macmillan & Co., 1935 e The Economics of Welfare, 2nd. ed., London 1920
(trad. it. Economia del benessere, Torino, Utet, 1934); il volume di Philip Henry Wicksteed, The
Common Sense of Political Economy, Including a Study of the Human Basis of Economic Law, London,
Macmillan & Co., 1910, che ebbe grande influenza sul suo pensiero economico (cfr. la lettera a
Salvemini del 24 marzo 1944, cit.); e i due soli testi che riuscì a ricevere in prigione di Lionel
Robbins, An Essay on the Nature and Significance of Economic Science, London, Macmillan & Co.,
1932 ed Economic Planning and International Order, London, Macmillan & Co., 1937, che apprezzò
per l’impostazione federalista. Sul federalismo di Robbins cfr. Guido Montani, Introduzione a
Lionel Robbins, Il federalismo e l’ordine economico internazionale, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 923.
16 Cfr. la lettera di Rossi alla madre, Elide Verardi, del 30 aprile 1937, in E. Rossi, Nove anni sono
molti, cit., pp. 571-575.
12
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
40
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
La differenza rispetto al periodo precedente fu che, grazie alla possibilità
di scrivere e alla consonanza ideale con alcuni nuovi compagni, gli appunti
dispersi e frammentari di quegli anni poterono finalmente trovare espressione
in concreti progetti culturali e politici.
Nel caso di Spinelli, invece, l’evoluzione in direzione della “cittadella
democratica” non si era conclusa ed egli si agitava, ancora esitante, sulla sua
soglia. Furono proprio l’incontro con Rossi e l’influsso esercitato da
quest’ultimo a condurlo all’approdo finale. Lo stesso Spinelli riconobbe più
volte il ruolo di Rossi nella propria formazione intellettuale, mettendone in luce
particolarmente tre aspetti: l’insegnamento economico, la lezione di metodo e lo
spirito giacobino17.
In merito al primo punto, Spinelli sostenne che Rossi fece cadere “l’ultimo
bastione socialista” rimasto in piedi nella sua mente, “secondo il quale
comunque bisognava mettere fine al capitalismo e sostituirlo con il socialismo”.
Ciò non comportò tuttavia una rassegnata accettazione della società capitalista,
in quanto Rossi gli mostrò la possibilità di riformare tale società da un punto di
vista “diverso e migliore” rispetto a quello socialista e comunista18.
Per quanto riguarda la lezione di metodo, Spinelli ha affermato che Rossi,
col suo “irriverente razionalismo” di matrice salveminiana e illuminista, lo
aiutò a sgombrare la mente dalle macerie dell’antica ideologia, mostrandogli
come solo “l’illuminismo, col suo razionalismo radicale”, era in realtà “l’unico
vero pensiero rivoluzionario”, in quanto era capace di associare “alla condanna
di una cosa ingiusta la precisa proposta di una cosa migliore”19.
Il “giacobinismo” di Rossi non gli appariva quindi viziato dai difetti
ch’egli imputava all’ “astratto rivoluzionarismo” proprio di certa tradizione
giellista20. Grazie alla lezione di Pareto21, Rossi aveva ben chiara la funzione
Cfr. A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., pp. 301-306.
Ibidem.
19 Ibidem.
20 Sul «giacobinismo» di Rossi rinvio alle riflessioni contenute in A. Braga, Un federalista
giacobino. Ernesto Rossi pioniere degli Stati uniti d’Europa,cit., pp. 26-28, 128-133, 191-199. Si
vedano anche gli accenni contenuti in: Riccardo Bauer, Era un giacobino in un mondo di farisei,
«Resistenza», XXII, 1968, n. 2, p. 6; Alessandro Galante Garrone, Profilo di Ernesto Rossi, in E.
Rossi, Una utopia concreta, cit., pp. 18-19, e A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., pp.
303-304. Per comprendere le ragioni del suo giacobinismo si legga anche la lettera scritta da
Rossi a Luigi Einaudi il 30 settembre 1941, ora pubblicata in Carteggio fra Luigi Einaudi ed Ernesto
Rossi, cit., pp. 74-75.
21 Rossi si era laureato in giurisprudenza all’Università di Siena nel 1920 con una tesi su
L’evoluzione sociale in Vilfredo Pareto. Per la preparazione della tesi di laurea intrattenne anche un
breve scambio epistolare con Pareto (cfr. Ernesto Rossi, Lettere di Vilfredo Pareto. Irato a patri
numi, in «Il Mondo», 16 agosto 1960). Quest’autore restò un riferimento costante per la
riflessione politica di Rossi, anche quando egli ne avrebbe condannato l’involuzione
17
18
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
41
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
formatrice delle élites politiche e le sue riflessioni sul ruolo delle “minoranze
organizzate” durante i periodi rivoluzionari lo avevano condotto ai risultati cui
Spinelli era giunto, provenendo da un’esperienza intellettuale diversa. Accadde
così che l’originario leninismo di Spinelli – integrato dalle riflessioni sul
problema del “potere” e dalla lezione di Nietzsche sui “legislatori del futuro”22
– s’incontrasse con lo “spirito giacobino” di Rossi, dando vita a quel particolare
“stato d’animo”, da cui scaturì il Manifesto di Ventotene.
2. Divergenze filosofiche: la mediazione di Eugenio Colorni
Accanto a questa consonanza di vedute, c’erano però tra Rossi e Spinelli
differenze profonde sul piano filosofico, sulle quali vale la pena soffermarsi
perché non mancarono d’influenzare la loro successiva collaborazione politica.
Negli anni del carcere, Rossi si era sforzato di leggere i testi hegeliani e crociani,
con l’unico risultato di approfondire la sua avversione nei confronti
dell’idealismo23. Il linguaggio dei filosofi idealisti gli sembrava incomprensibile
e sfuggente perché non chiaramente definito e lʹinfluenza che la filosofia
crociana aveva sugli intellettuali della sua generazione gli una appariva come
una “malattia intellettuale”, in quanto allontanava dal difficile imperativo di
pensare con precisione ai problemi concreti24. La sua forma mentis lo spingeva
piuttosto verso un’altra tradizione filosofia, legata da un lato, alla miglior
tradizione empirista e positivista e, dall’altro, allo scetticismo25.
antidemocratica e filo-fascista, dando un severo giudizio sulla sua figura d’uomo (cfr. la lettera alla
moglie del 12 febbraio 1941, in E. Rossi, Un democratico ribelle, cit., pp. 325-328). Sull’influenza della
teoria paretiano delle élites si veda anche quanto scrive Eluggero Pii nella sua Premessa a Ernesto Rossi,
L’Europa di domani, Perugia, Guerra Edizioni, 1996, pp. 19-20.
22 Sulla riflessione politica di Spinelli negli anni di Ventotene cfr. quanto scrive Piero Graglia
nell’introduzione ad A. Spinelli, Machiavelli nel secolo XX., cit., pp. 58-64.
23 Cfr. Massimo Mila, Le loro prigioni: da Regina Coeli a Ventotene, L’ossessione dell’idealismo, ora in
E. Rossi, Un democratico ribelle, cit., pp. 311-317.
24 Cfr. la lettera di Rossi alla madre, Reclusorio di Piacenza, 22 luglio 1932, in Ernesto Rossi,
Elogio della galera, Lettere 1930/1943, a cura di Manlio Magini, Bari, Laterza, 1968, p. 121.
25 Pur riconoscendo i limiti del proprio empirismo e il valore relativo d’ogni conoscenza, Rossi
ribadì sempre la sua preferenza per la tradizione empirista e positivista e per pensatori, quali
Comte, Stuart Mill, Taine, Faguet, Cattaneo, Spencer, Poincaré e Pareto, di cui ammirava il
parlare limpido e il ragionare preciso (cfr. la lettera di Rossi alla madre, dicembre 1933, Ibidem,
p. 222). Fra i filosofi italiani contemporanei, si sentiva in particolare sintonia con lo scetticismo
di Giuseppe Rensi (1871-1941), “uno dei pochissimi che, non seguendo la moda corrente
dell’idealismo crociano e gentili ano”, gli sembrava di comprendere appieno (Ibidem, pp. 183,
199, 366, 408).
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
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Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
Per questo Rossi fu così felice quando conobbe Eugenio Colorni26 a
Ventotene. Crociano in gioventù, Colorni aveva infatti rifiutato l’indirizzo
filosofico di Croce, avendo scoperto, da un lato, la psicanalisi e, dall’altro, la
filosofia della scienza e le teorie di Einstein e del matematico Poincaré, la cui
lettura aveva affascinato anche Rossi durante la sua permanenza in carcere27. A
Ventotene, per la prima volta, Rossi ebbe così la possibilità di confrontarsi con
un uomo della sua generazione, dotato di una grande preparazione filosofica,
eppure immune dal “crocianesimo”. Questa consonanza di vedute s’espresse in
una serie di studi e riflessioni comuni, di cui rimane traccia in alcuni scritti di
Colorni, sotto forma di “dialoghi-filosofici”, in cui Rossi compare col nome di
“Ritroso” e Spinelli col nome di “Severo”28. Anche sotto questo profilo,
andrebbe dunque approfondito meglio il ruolo di “mediazione” svolto da
Colorni nell’ambito del dibattito, filosofico e politico, che animò il gruppetto di
confinati raccoltosi a Ventotene intorno a Rossi e Spinelli.
La figura di Hegel campeggia infatti imponente nella rievocazione degli
studi di Spinelli in carcere. Nella sua autobiografia, egli racconta d’aver letto la
Fenomenologia dello Spirito nel 1931, mentre si trovava nel penitenziario di
Viterbo ed era in preda a una crisi spirituale dovuta al distacco dall’ortodossia
marxista. Benché “irto di espressioni difficili, di giri di pensiero oscuri, gotico e
barocco nello stesso tempo”, il testo di Hegel lʹaveva affascinato, in quanto gli
aveva mostrato il “dramma della coscienza in formazione”, insegnandogli il
“senso ora chiaro, ora misterioso, sempre drammatico del moto dialettico delle
cose e dei pensieri” e “del processo della civiltà”. L’evoluzione del suo pensiero
Eugenio Colorni (1909-1944), arrestato nel 1938, fu confinato a Ventotene, dove restò sino
all’ottobre 1941, quando fu trasferito a Melfi. Sul contributo di Colorni al pensiero federalista
cfr.: Piero Graglia, Il socialismo federalista di Eugenio Colorni, in Storia e percorsi del federalismo.
L’eredità di Carlo Cattaneo, cit., tomo 2, pp. 861-891. Si vedano anche Eugenio Colorni, Scritti, con
introduzione di Norberto Bobbio, Firenze, La Nuova Italia, 1975 e Quali forze operano oggi nel
senso dell’unità europea?, in A. Spinelli, Machiavelli nel secolo XX, cit., pp. 189-217, che raccoglie
una breve corrispondenza fra Colorni e Spinelli nel 1943.
27 In carcere Rossi aveva letto in carcere due opere di Jules-Henri Poincaré, La valeur de la science
e La science et l’hypothèse, Paris, Flammarion, 1904 e 1908, traendone un giudizio molto positivo
sull’autore. Cfr. le lettere di Rossi alla moglie del 5 agosto 1932 e del 25 marzo 1938,
rispettivamente in E. Rossi, Elogio della galera, cit., p. 132 e in E. Rossi, Nove anni sono molti, cit., p.
672.
28 Cfr. E. Colorni, Scritti, cit., pp. 247-328. In questi scritti, si trova traccia delle conversazioni
dell’autore (“Commodo”) con Ernesto Rossi (“Ritroso”), Altiero Spinelli (“Severo”), Giuliana
Pozzi (“Genoveffa”), nipote di Dino Roberto, Ursula Hirschmann (“Ulpia”). Si tratta dei
dialoghi intitolati: Della lettura dei filosofi; Del finalismo nelle scienze; Dell’antropomorfismo nelle
scienze; Dello psicologismo in economia; Sull’azione; Del Successo e Sulla Morte.
26
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
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Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
negli anni del carcere era stata quindi fortemente influenzata dalla triade Kant,
Hegel e Croce, cui s’aggiunse in seguito Nietzsche29.
Favorevolmente disposto verso il pensiero hegeliano e crociano, Spinelli
riteneva che Rossi avesse, deliberatamente, “vomitato” i testi di filosofia
idealistica, subito dopo averli letti, “per incapacità anche solo di cominciare a
digerire quel che gli appariva un ragionare approssimativo, un ammassare
contraddizioni, pretendendo di superarle con quella logica da giocolieri che era
per lui la dialettica”30. Benché consapevole di quanto fragile fosse il mondo
luminoso della ragione che tanto amava, Rossi “si rifiutava di tentare di
ascoltare il caos, di comprenderlo” per poi ridurlo a “momento di nascita di un
nuovo ciclo di razionalità”. Per far ciò, servivano a poco le armi del pensare
“chiaro e distinto”, mentre occorreva “lo spirito dialettico per comprendere” e
“l’arte politica per far presa”, ma Rossi “aborriva dal primo e diffidava
istintivamente della seconda”31. “Un comportamento come il mio” – scrive
Spinelli nelle memorie – “gli appariva forse necessario, ma certamente poco
pulito, perché portava a convivere con ciò che egli preferiva esorcizzare,
quando gli si poneva dinanzi, con un ‘Vade retro Satana’ della ragione, per
potersene stare chiuso nella piccola città ideale della luce intellettuale”32.
Questo giudizio di Spinelli evidenzia differenze profonde fra la sua forma
mentis e quella di Rossi, che – come si è detto – non mancarono d’influenzare la
loro successiva collaborazione politica. Tuttavia, a Ventotene, come racconta lo
stesso Spinelli, le conversazioni con Rossi e Colorni contribuirono a destarlo dal
suo “stato quasi sognante”, facendogli sentire che non poteva più continuare a
“meditare su Mosé, Solone, Gesù, San Paolo, Marx”, ma doveva “decidere, qui
e ora, alla evidente vigilia del ritorno alla vita attiva, quali fossero i [suoi] ideali
di civiltà e preparar[si] ad essere ad essi fedele”33.
A sua volta, l’incontro con Spinelli offrì a Rossi l’opportunità di avere al
suo fianco quel compagno fidato e deciso di cui da tempo avvertiva la
mancanza. Come aveva confidato alla moglie poco prima di lasciare il carcere, il
suo spirito critico e il suo scetticismo gli impedivano di avere le qualità
necessarie ad un “uomo d’azione”34. Ma, poiché tutto ciò che pensava e faceva
tendeva a sfociare in atti politici, avvertiva il bisogno di avere accanto a sé una
persona “più salda” – “più sicura della convenienza di scegliere una strada
A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., pp. 143-145; 164-167; 206-208. In proposito si
veda anche quanto scrive Piero Graglia nella sua introduzione ad A. Spinelli, Machiavelli nel
secolo XX, cit., pp. 60-64.
30 Cfr. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., pp. 301-302.
31 Ibidem.
32 Ivi, pp. 302-303.
33 Ivi, p. 304.
34 Cfr. la lettera alla moglie del 26 agosto 1938, in E. Rossi, Elogio della galera, cit., p. 431.
29
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
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Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
piuttosto che un’altra” – che pensasse all’unisono con lui e con la quale potesse
completarsi. In passato, aveva riconosciuto un simile compagno in Salvemini,
Carlo Rosselli e Riccardo Bauer. In seguito, però, l’esilio di Salvemini, la morte
di Rosselli e gli screzi con Bauer (avvenuti proprio al confino e che si sarebbero
risolti solo tempo dopo) avevano spezzato questi rapporti, facendolo sentire
sempre più isolato e incompreso.
A Ventotene, Rossi si convinse così di avere trovato un nuovo compagno
in Spinelli, cui riconosceva le qualità intellettuali e politiche di un leader e con il
quale condivideva i medesimi ideali di civiltà35. Gli unici difetti che gli
imputava erano quelli di essere ancora un po’ “inquinato da idealismo
crociano” e di non sapere parlare in pubblico altrettanto bene di come
scriveva36. Mentre la loro amicizia durò fino alla morte, la loro “simbiosi
politica” si protrasse per circa quindici anni e il primo prodotto di questa
collaborazione fu il progetto federalista che s’incarnò nel Manifesto di Ventotene.
3. L’evoluzione del pensiero federalista di Rossi prima di Ventotene
Fra quelle “idee innovatrici” che, a detta di Spinelli, Rossi aveva portato
con sé a Ventotene e proposto alla comune discussione, c’era anche il suo
progetto di lavoro sugli Stati Uniti d’Europa. Le idee di Rossi in merito alla
federazione europea si erano infatti sviluppate ben prima dell’incontro con
Spinelli a Ventotene e risalivano al tempo della giovinezza.
Lʹanalisi delle fonti, risalenti agli anni della formazione politica di Rossi
nella Firenze del primo Novecento, ha consentito di verificare come il suo
federalismo affondasse le sue radici in un ideale di solidarietà internazionale
d’ascendenza risorgimentale, che, rifuggendo dai “cupi fanatismi nazionali”, si
rifaceva al Mazzini “propugnatore delle repubbliche sorelle”, al Garibaldi
“soldato d’ogni patria che s’affermasse”, al Cattaneo sostenitore degli Stati uniti
d’Europa e a quel “socialismo umanitario”, profondamente radicato nella
cultura italiana e per il quale “l’Internazionale appariva come un’espressione
più alta della stessa idea di patria”37.
L’ideale internazionalista e tendenzialmente federalista di Rossi si era in
seguito sviluppato già nel primo dopoguerra, grazie all’incontro con Gaetano
Salvemini e Luigi Einaudi, di cui lesse le Lettere politiche di Junius, pubblicate
Cfr. le lettere alla madre dell’11 agosto 1940 e alla moglie dell’8 settembre dello stesso anno, in
E. Rossi, Miserie e splendori dal confino di polizia, cit., pp. 65-66 e 73.
36 Cfr. la lettera di Rossi, datata 24 marzo 1944, a Salvemini, in G. Salvemini, Lettere dall’America.
1994/1946, cit., p. 7.
37 Cfr. la lettera alla madre del 22 settembre 1933, in E. Rossi, Elogio della galera, cit., pp. 201-202.
35
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
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Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
sul «Corriere della Sera» fra 1917 e 1919 e dedicate alla critica del dogma della
sovranità assoluta degli Stati nazionali38. Influenzato dalla lezione di Salvemini
ed Einaudi, il federalismo di Rossi si sviluppò da subito in una duplice
direzione, fondandosi su un’analisi, al tempo stesso, economica e politica. Per
questo, già durante il primo dopoguerra, nelle sue prime esperienze di
pubblicista su giornali locali e nazionali, Rossi già rifletteva sul federalismo
come strumento di riforma interna dello Stato (secondo la lezione di Cattaneo e
Salvemini) e come strumento di rinnovamento della vita politica internazionale,
per “superare gli angusti confini nazionali” e tenere dietro allo sviluppo
economico che aveva ormai assunto dimensioni sovranazionali39.
Fu però durante gli anni di forzata inattività del carcere, fra il 1930 e il
1939, che Rossi andò maturando il suo federalismo, attraverso una serrata
critica del nazionalismo e una riflessione sui temi della guerra e della pace,
della crisi della civiltà europea e del disordine economico internazionale40.
Nella seconda metà degli anni Trenta, di fronte alla crisi etiopica, al fallimento
della Società delle Nazioni e al diffondersi della propaganda razzista e
antisemita, la critica del nazionalismo si fece per Rossi sempre più urgente e
divenne oggetto di frequenti discussioni con gli altri compagni giellisti rinchiusi
a “Regina Coeli”, in particolare con Riccardo Bauer41 e i giovani torinesi
Massimo Mila42, Vittorio Foa43 e Vindice Cavallera44.
Cfr. Junius [Luigi Einaudi], Lettere politiche, Bari, Laterza, 1920. Il volume riproduceva
quattordici lettere inviate da Einaudi, sotto lo pseudonimo di Junius, al direttore del «Corriere
della Sera», Luigi Albertini, tra il 3 luglio 1917 e il 17 ottobre 1919. Particolarmente interessanti
dal punto di vista federalista sono le lettere del 5 gennaio e del 28 dicembre 1918, intitolate: La
Società della nazioni è un ideale possibile? e Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni.
Le lettere furono poi ripubblicate nel dopoguerra in Luigi Einaudi, La guerra e l’unità europea,
Milano, Edizioni Comunità, 1948 e, quindi, in un volume dallo stesso titolo edito a Bologna, Il
Mulino, 1986. In proposito si veda la lettera di Rossi alla madre del 2 luglio 1937 (ora pubblicata
in E. Rossi, Elogio della galera, cit., p 380) e la lettera a Luigi Einaudi del 2 giugno 1941 da
Ventotene, ora in Carteggio fra Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi, cit., p. 48.
39 Cfr. Antonella Braga, Nazionalismo, federalismo e autonomie nel pensiero politico di Ernesto Rossi,
in Storia e percorsi del federalismo. L’eredità di Carlo Cattaneo, cit., tomo 2, pp. 809-859.
40 Cfr. Antonella Braga, L’elaborazione europeista di Ernesto Rossi prima del Manifesto di Ventotene,
in Ernesto Rossi. Economista, federalista, radicale, cit., pp. 81-100.
41 Riccardo Bauer (1896-1982), laureato in scienze economiche, pluridecorato e invalido di
guerra, segretario del museo sociale dell’«Umanitaria» di Milano, collaborò al settimanale
«Rivoluzione liberale» di Piero Gobetti e fu redattore del periodico antifascista milanese «Il
Caffè» nel 1924-1925. Arrestato il 30 ottobre 1930 con Ernesto Rossi e altri aderenti a “Giustizia e
Libertà” (d’ora in avanti: GL). Condannato a venti anni di reclusione, il 29 ottobre 1939 fu
assegnato al confino di Ventotene. Riacquistata la libertà il 30 luglio 1943, aderì al Partito
d’Azione (d’ora in avanti: Pd’A) e partecipò al movimento resistenziale a Roma. Sulla figura di
Bauer cfr. Mario Melino, Riccardo Bauer, Milano, F. Angeli, 1985; Arturo Colombo, Il cristallo e la
roccia: a proposito di Bauer e Silone, Milano, Sciardelli, 1998; Il coraggio di cambiare: l’esempio di
38
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Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
Attraverso le discussioni con i compagni e le letture compiute in comune,
Rossi sottopose a una severa critica l’ideologia dell’indipendenza nazionale,
arrivando a concludere che tale principio, unendosi a quello della sovranità
assoluta dei singoli Stati, recava in sé i germi dell’imperialismo. In una lettera
alla moglie Ada del 2 ottobre 1938, affermava che il principio di nazionalità non
Riccardo Bauer. Scritti e testimonianze di Riccardo Bauer [et al.], a cura di Arturo Colombo, Milano, F.
Angeli, 2002. Si veda anche: Riccardo Bauer, Quello che ho fatto. Trent’anni di lotte e di ricordi, a cura
di Piero Malvezzi e Mario Melino, presentazione di Arturo Colombo, Milano, supplemento al n. 20 della
«Rivista milanese di economia», serie quaderni, n. 13, ottobre-dicembre 1986. L’opera è stata
ripubblicata a Milano-Bari, Cariplo-Laterza, 1987; nel presente lavoro si fa però riferimento all’edizione
del 1986.
42 Massimo Mila (1910-1988), musicologo, collaborò con Leone Ginzburg e Vittorio Foa alla
costituzione del gruppo di GL a Torino, tenendo i contatti con il gruppo di Parigi. Arrestato il
15 maggio 1935, fu processato dal Tribunale Speciale e condannato a sette anni di detenzione. Il
6 marzo 1940, per effetto di alcuni condoni, fu liberato e tornò a Torino. Nel 1942 aderì al Pd’A
e, nel settembre 1943, si occupò delle prime bande partigiane nel Canavese. Dall’estate 1944, fu
ispettore militare partigiano della VI Divisione Alpina di GL e terminò la guerra di liberazione
come Commissario di guerra della II zona (Canavese e Valle di Lanzo). Nel dopoguerra insegnò
storia della musica a Torino e fu critico musicale del giornale «La Stampa». Sul periodo da lui
trascorso a “Regina Coeli” con Bauer e Rossi, cfr. Massimo Mila, Le loro prigioni: da Regina Coeli a
Ventotene, in «Il Ponte», V, 1949, n. 3, pp. 272- 298, ora in E. Rossi, Un democratico ribelle, cit., pp.
286-317. L’epistolario di Mila dal carcere è stato pubblicato in: Massimo Mila, Argomenti
strettamente famigliari. Lettere dal carcere 1935-1940, a cura di Paolo Soddu, introduzione di
Claudio Pavone, Torino, Einaudi, 1999.
43 Vittorio Foa, nato a Torino nel 1910, avocato, partecipò al gruppo torinese di GL che faceva
capo a Leone Ginzburg. Nel maggio del 1935, per delazione dello scrittore Pitigrilli
(pseudonimo di Dino Segre), agente dell’OVRA, fu arrestato e condannato a 15 anni di
reclusione, alcuni dei quali trascorsi a “Regina Coeli”. Nel 1940 fu trasferito al carcere di
Civitavecchia e poi in quello di Castelfranco. Liberato dal carcere nell’estate 1943, Foa aderì al
Pd’a e partecipò al convegno di fondazione del Movimento Federalista Europeo a Milano.
Durante la Resistenza fece parte del gruppo dirigente del Pd’A per l’Alta Italia. Dopo essere
stato eletto deputato alla Costituente per il Partito d’azione, entrò successivamente nel partito
socialista con Riccardo Lombardi e lavorò nel movimento sindacale. Parlamentare per più
legislature, è attualmente senatore a vita. Cfr. Vittorio Foa, Il cavallo e la torre, Torino, Einaudi,
1991. L’epistolario di Foa dal carcere è stato pubblicato in in Vittorio Foa, Lettere della giovinezza.
Dal carcere 1935-1943, a cura di Federica Montevecchi, Torino, Einaudi, 1998.
44 Vindice Cavallera (1911-1998), laureatosi in legge a Torino, aderente a GL, fu arrestato una
prima volta nel 1932. Scarcerato dopo alcuni mesi, fu attivo a Roma nella rete clandestina di GL.
Nel 1935 fu condannato a otto anni di carcere, durante i quali strinse amicizia con Rossi e Bauer
a “Regina Coeli”. Liberato nel maggio del 1940 per effetto di alcuni condoni, fu arruolato
nell’esercito e inviato a Casale Monferrato e, in seguito, in Albania e in Grecia. Congedato nel
1942, riprese contatto con i vecchi compagni e aderì al Pd’A e alle tesi del Manifesto di
Ventotene, partecipando al convegno di fondazione del Movimento Federalista Europeo a
Milano. Durante la Resistenza divenne aiutante di Riccardo Bauer e capo militare delle
formazioni GL a Roma, ottenendo una medaglia di bronzo al valor militare. Sul periodo da lui
trascorso a “Regina Coeli” cfr. Quel lungo sodalizio con Bauer e Rossi. Intervista a Vindice Cavallera,
a cura di Mario Melino, in «Quaderni della Fondazione Riccardo Bauer», n. 4, 1992, pp. 41-70.
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
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aveva più per lui alcun significato, se non era “spiritualizzato in una concezione
superiore di solidarietà fra tutti i popoli”45.
La necessità di superare la dimensione nazionale, attraverso la creazione
di una vera autorità sopranazionale, fu la conclusione cui Rossi pervenne,
meditando su un altro tema che lo occupò nel periodo 1935-1939: quello della
guerra e della pace. A suo giudizio, finché i diversi Stati restavano sovrani –
cioè “indipendenti da un qualsiasi organo superiore, capace d’imporre con una
propria forza le risoluzioni riconosciute giuste da organi appositamente
costituiti” – la vera pace non era possibile e si avevano solo periodi di tregua
più o meno lunghi “fra un eccesso e l’altro per riprendere fiato e rimettersi in
piedi”46. “E chiamiamo pace questo stato di forza di tutti contro tutti”,
commentava Rossi, riprendendo una frase tolta da De l’esprit des lois di
Montesqieu47.
La “pace perpetua” poteva dunque divenire possibile solo sottoponendo
anche i rapporti internazionali al dominio del diritto e così consentendo ai
popoli di “disarmare”48. Benché non si facesse eccessive illusioni in proposito,
Rossi non riteneva che per questo si dovesse rinunciare a lavorare per tale
ideale. A suo avviso, “lavorare per la pace” significava “nel campo delle lettere,
combattere lo sciovinismo, la tracotanza e l’esclusivismo nazionalista,
propagandando i valori spirituali dell’umanesimo come fondamenti della
nostra civiltà; nel campo più propriamente politico significa[va] imporre il
controllo sui bilanci militari e sulla politica estera” e “federare gli stati così
diretti in unioni sempre più salde e più vaste”49.
Per realizzare questi ideali bisognava però riprendere il cammino della
civiltà moderna, interrotto dai totalitarismi. All’Europa immaginata da Hitler,
che avrebbe significato la vittoria di una reazionaria civiltà totalitaria,
bisognava opporre un’altra Europa, libera e solidale, che salvasse i valori
fondanti della civiltà moderna. Fu così che, nel momento di massimo
abbattimento morale, il richiamo all’Europa divenne sempre più forte. Come
ricorda Vittorio Foa, in quei momenti così dolorosi di spaccatura e violenza, il
gruppetto giellista di “Regina Coeli” si ritrovò “pieno di passione europeista”50.
In una lettera del 5 novembre 1937, Rossi scriveva alla moglie: “Non so più
pormi alcun problema politico se non dal punto di vista generale europeo, ed
E aggiungeva: “Accettato in senso naturalistico, quasi che le nazioni fossero organismi con
loro propri diritti di vita, questo principio dà l’anima al demone del nazionalismo, che non sarà
mai sazio di rovine e di stragi”. Cfr. E. Rossi, Elogio della galera, cit., pp. 438-439.
46 Ivi, p. 446. Si veda anche la lettera di Rossi alla madre del 25 marzo 1938, Ibidem, p. 416.
47 Ibidem.
48 Cfr. la lettera di Rossi alla madre del 14 maggio 1939, Ibidem, p. 491.
49 Cfr. la lettera di Rossi alla moglie del 10 aprile 1939, Ibidem, p. 485.
50 Cfr. V. Foa, Il cavallo e la torre, cit., pp. 104-105.
45
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
48
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
ogni mio giudizio sugli avvenimenti riferisco sempre specialmente all’avvenire
possibile degli Stati Uniti d’Europa”51.
Un elemento che differenziò, sin dall’inizio, la passione europeista di
Ernesto da quella degli altri compagni giellisti di “Regina Coeli” fu che, sin dal
1937, Rossi diede al problema dell’unità europea non un’astratta veste ideale,
ma un’impostazione fortemente pragmatica. Particolarmente interessante in
proposito, risulta una lettera del 30 aprile 1937, scritta alla madre dal carcere di
“Regina Coeli”52, la quale mostra come già in quella data, Rossi avesse tracciato
il sommario di uno studio sugli Stati Uniti d’Europa che avrebbe desiderato
scrivere, se solo avesse potuto avere libero accesso alla letteratura esistente
sull’argomento.
In questa lettera, Rossi sviluppa una “lista di argomenti” da approfondire
in otto punti che riassume efficacemente le riflessioni ch’egli andava svolgendo
in quegli anni sulla crisi della civiltà europea53. In particolare è da notare come
solo il primo e, in parte, il secondo punto di questo sommario siano dedicati ai
riferimenti ideali che dovevano sostenere la battaglia per la federazione
europea. Nei rimanenti sei punti sono, invece, delineati i termini generali di
uno specifico programma d’azione. Infine, nell’ultimo paragrafo della lettera,
Rossi rifletteva sulla lezione di metodo che si poteva trarre dall’unificazione
federale americana e dal Risorgimento italiano e, infine, affermava la necessità
di considerare la questione dell’unità europea prioritaria rispetto a tutte le altre
riforme tese a consolidare gli ordinamenti democratici nazionali.
Ciò che più conta è però rilevare come nel documento del 1937 fosse già
presente quell’elemento decisivo che differenzia il Manifesto di Ventotene da altri
progetti federalisti, precedenti o coevi, ossia quello di considerare l’unità
europea non più come un astratto ideale, ma come l’obiettivo prioritario di una
specifica azione politica. Se un progetto politico si distingue da un discorso
utopico per la definizione di una strategia che individui con chiarezza la
direzione di marcia, lo spazio concreto di azione, le forze su cui far leva per
Cfr. la lettera alla moglie del 5 novembre 1937, ora pubblicata in E. Rossi, Nove anni sono molti,
cit., pp. 632-634.
52 Cfr. la lettera di Rossi alla madre del 30 aprile 1937, Ibidem, pp. 572-575.
53 In successione, Rossi indicava come temi di riflessione: le condizioni che, nel contesto storico
del momento, rendevano necessaria l’unità europea (II punto); i risultati che la realizzazione,
«anche parziale», degli Stati Uniti d’Europa avrebbe consentito di ottenere (III punto); gli
ostacoli che si opponevano a tale costruzione (IV punto); le concrete prospettive d’azione che si
sarebbero aperte nel dopoguerra con la probabile sconfitta dei regimi nazifascisti (V punto); la
convenienza d’iniziare l’attuazione di un programma anche «minimo» non appena fosse
possibile (VI punto); la lezione di metodo che si poteva trarre dall’unificazione italiana (VII
punto) e la necessità di considerare la questione dell’unità europea prioritaria rispetto a tutte le
altre riforme tese a consolidare gli ordinamenti democratici nazionali (VIII punto).
51
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
49
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
cambiare i termini della situazione e gli ostacoli da vincere, è certo che gli
«appunti sugli Stati Uniti d’Europa» stilati da Rossi nel 1937 contengono,
almeno in linea generale, tutti questi elementi.
Inoltre, già nel 1937, Rossi riteneva che si dovesse puntare tutto sull’
“occasione favorevole” che avrebbe potuto presentarsi alla fine della guerra.
Era infatti sua opinione che, a causa degli straordinari strumenti di controllo a
disposizione degli Stati moderni, le uniche circostanze in cui si potesse attuare
una trasformazione radicale dell’ordine costituito fossero le crisi rivoluzionarie
successive ai grandi sconvolgimenti bellici54. Tale convinzione era rafforzata in
lui dal ricordo della rivoluzione russa cui aveva assistito nel primo dopoguerra.
Per questo, a suo avviso, bisognava prepararsi ad affrontare quel momento,
creando “uno stato d’animo diffuso di critica e di opposizione” verso “le
gelosie, i pregiudizi e gli interessi nazionali che s’opponevano ad ogni seria
costruzione” di un nuovo ordine europeo55.
Oltre alla chiarezza dell’impostazione, negli “appunti sugli Stati Uniti
d’Europa” del 1937 e in altre lettere di quegli anni, stupisce la capacità di Rossi
di giungere a tali risultati in una condizione di quasi completo isolamento
culturale e senza aver potuto attingere alla vasta letteratura già esistente
sull’argomento soprattutto in lingua inglese. In assenza di altre indicazioni56, le
fonti cui Rossi s’ispirò per il suo progetto di studio sugli Stati Uniti d’Europa
furono gli autori della tradizione liberal-democratica risorgimentale (Mazzini e
Cattaneo), cui si aggiunsero nel tempo gli studi di Tocqueville57 e Bryce sulla
repubblica americana58, le riflessioni politiche tratte dai libri di Harold Laski59,
Cfr. la lettera di Rossi alla madre del 23 luglio 1934, ora in E. Rossi, Elogio della galera, cit., pp.
245-246.
55 Cfr. la lettera del 30 aprile 1937, in E. Rossi, Nove anni sono molti, cit.
56 Per cercare di avere informazioni bibliografiche, Rossi aveva interpellato più volte, attraverso
i famigliari, Nello Rosselli e Luigi Einaudi, i quali si erano però rivelati di scarso aiuto (cfr. Ivi,
p. 574-575). Einaudi, in particolare, il 31 luglio 1936, in una lettera ad Ada Rossi, aveva
confessato di non conoscere nulla di serio sull’argomento e di aver sentito vagamente parlare di
un certo conte austriaco, chiamato Coudenhove-Kalergi, che se ne occupava (Cfr. il Carteggio fra
Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi, cit., pp. 27-28). Proprio su sollecitazione di Rossi, Einaudi cercò e
comunicò poi all’interessato indicazioni bibliografiche più precise in merito ai federalisti inglesi
e, in particolare, a Lionel Robbins.
57 Cfr. Alexis de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, Paris, Lévy, 1835-1840. Il testo di
Tocqueville fu oggetto di lettura comune con i compagni giellisti a “Regina Coeli”. Come
ricorda Vindice Cavallera, “il confronto con Tocqueville e con le soluzioni date dall’America”, li
“fece diventare esperti di democrazia” e li portò a meditare sui limiti dell’esperienza
democratica pre-fascista, ritenuta “del tutto insoddisfacente, per certi versi acerba, per altri
guasta”. Cfr. Quel lungo sodalizio con Bauer e Rossi, cit., pp. 51-52.
58 Rossi lesse in carcere due testi di James Bryce: Democrazie moderne. Commento critico e
conclusioni generali, edizione italiana a cura di L. Degli Occhi, Milano, 2 voll., Hoepli, 1932 e The
American Commonwealth, London, Macmillan & Co., 1889 (trad. it.: La Repubblica americana, a cura
54
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
50
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
la chiusa europeista della Storia d’Europa del Croce60, il ricordo delle Lettere di
Junius già lette nel primo dopoguerra61 e, nell’ultimo anno di prigionia, il libro
di Lionel Robbins, Economic planning and international order, in seguito da lui
tradotto al confino62. Tuttavia, più che porre l’accento su questo o quel
riferimento testuale, occorre interpretare il progetto federalista di Rossi come il
prodotto di una lunga e complessa rielaborazione culturale in cui
progressivamente si composero le diverse riflessioni da lui sviluppate negli
anni del carcere.
Fu sulla base di queste riflessioni e di questi studi che si sviluppò il
successivo incontro con Spinelli, che consentì a Rossi di uscire dall’isolamento
intellettuale in cui era vissuto per anni e rese possibile ipotizzare un’azione
politica concreta
di Attilio Brunialti, 2 voll., Torino, Utet, 1913-1916). Sulle riflessioni suscitate dalla lettura di
questi testi cfr. le lettere di Rossi alla madre del 7 aprile e del 23 giugno 1933 e alla moglie del 19
febbraio 1939, in E. Rossi, Elogio della galera, cit., pp. 165 e 179 e in Id., Nove anni sono molti, cit.,
pp. 770-772.
59 Di Harold J. Laski, Rossi lesse La libertà nello stato moderno, nella traduzione italiana pubblicata
a Bari, Laterza, 1931 e Grammar of politics, London, Allan & Unwin, 1925, in una traduzione
francese non meglio identificata. A parte alcuni utili spunti di riflessione, entrambi i libri non lo
soddisfecero molto come risulta dalla lettera del 10 febbraio 1933, ora in E. Rossi, Elogio della
galera, cit., pp. 152-153.
60 Cfr. Storia d’Europa nel secolo decimo nono, Bari, Laterza, 1932, pp. 313-315. In merito alla chiusa
del libro di Croce, Rossi scriveva alla moglie: “Non so bene come si ricolleghino a tutto il
sistema di filosofia crociano ma son tanto belle e vibrano di tanta passione che mi fan perdonare
al Croce parecchie cose”. Cfr. la lettera del 15 ottobre 1937, ora in E. Rossi, Elogio della galera, cit.,
p. 400.
61 Cfr. Junius [L. Einaudi], Lettere politiche, cit. In proposito si vedano le lettere di Rossi alla
madre del 2 luglio 1937 (ora in E. Rossi, Elogio della galera, cit., p. 380) e a Luigi Einaudi del 2
giugno 1941 da Ventotene, in Carteggio fra Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi, cit., p. 48. La lettura in
comune delle Lettere di Junius stimolò la riflessione del gruppo giellista rinchiuso a “Regina
Coeli” sulla crisi della Società delle Nazioni, sulle sue cause e sugli strumenti atti a porvi
rimedio. Cfr. la lettera del 7 maggio 1937, in V. Foa, Lettere della giovinezza, cit., pp. 228-230.
62 Il testo di Robbins giunse a Rossi, solo negli ultimi tempi della sua permanenza in carcere,
come risulta dalla lettera alla moglie del 9 ottobre 1938, ora in E. Rossi, Elogio della galera, cit., p.
441. L’opera di Robbins gli era stata consigliata da Einaudi attraverso la madre Elide (cfr. la
lettera di Rossi alla moglie del 6 maggio 1938, ora in E. Rossi, Nove anni sono molti, cit., pp. 684685).
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
51
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
4. Per un’Europa libera ed unita: genesi di un manifesto
Il 24 novembre 1940, Rossi chiese alla madre di inviargli in copia a
Ventotene la lettera del 193763. Questo dato è significativo in quanto è proprio
tra l’inverno 1940-1941 e l’estate dello stesso anno che il testo del Manifesto fu
elaborato sulla base di alcune conversazioni collettive cui parteciparono, oltre a
Rossi e Spinelli, i coniugi Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann64 e,
occasionalmente, anche altri rifugiati che avrebbero in seguito aderito al
progetto federalista: Enrico Giussani65, Dino Roberto66, Giorgio Braccialarghe67,
La lettera del 24 novembre 1940, inedita, è conservata in Archivi storici dell’Unione Europea
(d’ora in avanti: ASUE), Fondo Rossi, Lettere dal confino.
64 Nel 1938, quando Eugenio Colorni fu arrestato e inviato al confino, Ursula Hirschmann (19131991), sia perché moglie di un confinato, sia perché straniera, poté recarsi a Ventotene con una
discreta libertà. Ciò le consentì di partecipare alle discussioni sul progetto di Manifesto e di
divenire una preziosa “staffetta” dei federalisti. Nell’isola, Ursula conobbe Altiero Spinelli che,
dopo la morte di Colorni, sposò in Svizzera nel 1944. Cfr. A. Spinelli, Come ho tentato di diventare
saggio, cit., pp. 297-300 e 321-325 e Ursula Hirschmann, Noi senza patria, Bologna, Il Mulino,
1993.
65 Enrico Giussani, nato a Genova nel 1906, espatriò in Francia nel 1931, dove fu redattore a
Parigi del periodico “Giustizia e Libertà”, e combatté in Spagna accanto a Carlo Rosselli. Dopo
l’occupazione della Francia, fu arrestato a Modane nell’aprile del 1941, tradotto a Susa e Genova
e, infine, condannato a cinque anni di confino nell’isola di Ventotene. Qui conobbe Rossi e
Spinelli, aderendo al progetto federalista. Liberato il 10 agosto 1943, aderì al Partito d’Azione e
partecipò alla fondazione del Movimento federalista europeo (MFE) a Milano. Dopo
l’occupazione tedesca, espatriò in Svizzera il 14 settembre 1943, dove fece parte dell’Ufficio
stampa del Partito d’Azione e fu segretario organizzativo del Comitato MFE di Lugano su
incarico di Rossi e Spinelli. Usava come pseudonimo i nomi di “Ovidio” e “Hugo”. Tornato in
Italia nell’estate 1944, partecipò alla Resistenza.
66 Bernardino (Dino) Roberto (Milano 1886-1966), volontario nella prima guerra mondiale, aderì
al Partito socialista nel 1914. Attivo nel movimento combattentistico del primo dopoguerra si
schierò contro il nascente fascismo, aderendo al Partito repubblicano e partecipando alla
fondazione di GL. Condannato nel 1931 dal Tribunale speciale a dieci anni di reclusione, fu
compagno di carcere di Rossi a Regina Coeli. Scarcerato nel 1935, fu subito confinato a Ponza e
quindi a Ventotene, dove rimase per otto anni. Mazziniano di formazione, aderì da subito al
progetto federalista, sia perché rispondeva alle sue inclinazioni personali, sia per l’amicizia che
lo legava a Rossi, il quale ne apprezzava le doti di fedeltà e bontà d’animo. Dopo la liberazione
dal confino, aderì al Pd’A e partecipò a Milano al convegno di fondazione del Movimento
federalista europeo, dove fu nominato tesoriere. Espatriato con Rossi in Svizzera nel 1943, ne
divenne uno dei più stretti collaboratori. Nel dopoguerra, dopo la conclusione dell’esperienza
del Pd’A, si iscrisse al Partito repubblicano e fu per breve tempo sottosegretario alla difesa,
durante il dicastero retto da Cipriano Facchinetti. Successivamente abbandonò la politica attiva
e si dedicò alla professione di giornalista.
67 Giorgio Braccialarghe (1911-1993), originario di Pallanza (Verbania), espatriò nel 1930 per
evitare l’arresto per tentata ricostruzione del Partito repubblicano. Si trasferì in Argentina e a
Buenos Aires, dove divenne redattore di giornali antifascisti. Partecipò alla guerra di Spagna,
63
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
52
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
Arturo Buleghin68, lo slavo Lokar Milos69 e gli albanesi Lazar Fundo70 e Stavro
Skendi71. Tali conversazioni presero quindi avvio dalle riflessioni, sviluppate da
Rossi negli anni precedenti e, su questa base, si sviluppò il confronto con
Spinelli, che rese possibile immaginare un’azione politica concreta.
In effetti, molti degli argomenti di riflessione contenuti nella lettera di
Rossi dell’aprile 1937 tornano, in forma più organica, nel Manifesto del 1941. In
particolare, il primo paragrafo, dedicato alla “crisi della civiltà moderna” non fa
che sviluppare motivi già presenti nel primo e nel secondo punto del
come capo di stato maggiore della Brigata Garibaldi fino al 1938, quando rientrò in Argentina.
Alla vigilia della seconda guerra mondiale, ritornò in Europa per riprendere l’attività
antifascista clandestina in Italia, ma fu arrestato dalla polizia francese e internato in un campo
di prigionia. Dopo l’occupazione della Francia da parte delle truppe di Hitler, il governo Pétain
lo consegnò alla polizia italiana che lo confinò nell’isola di Ventotene. Durante la Resistenza,
comandò le Brigate mazziniane a Roma e fu membro della direzione del Partito Repubblicano.
Cfr. Giorgio Braccialarghe, Nelle spire di Urlavento. Il confino di Ventotene negli anni dell’agonia al
fascismo, Firenze, l’Autore Libri, 1970 (ora ripubblicato, con prefazione di Renzo Ronconi, a
Genova, Fratelli Frilli, 2005) e il suo intervento in L’idea d’Europa nel Movimento di liberazione
1940-1945, presentazione di Gaetano Arfé, Roma, Bonacci, 1986, pp. 117-127.
68 Arturo Buleghin, dopo aver combattuto in Spagna, era stato arrestato in Francia e consegnato
dal governo di Pétain ai tedeschi. Dopo diciotto mesi di «campo di riabilitazione» in Germania,
era stato tradotto in Italia e assegnato al confino per cinque anni. Cfr. Italiani nella guerra di
Spagna 1936-1938. Un contributo di libertà, in «Archivio Trimestrale», n. 1, 1982.
69 Su Milos Lokar giovane studente di Legge originario di Lubiana, cfr. A. Spinelli, Come ho
tentato di diventare saggio, cit., p. 293.
70 Zai (o Llazar e Lazar) Fundo nacque a Korcia (Albania) il 20 Marzo 1899. Completati gli studi
superiori al liceo francese di Salonicco (Grecia), si laureò in giurisprudenza a Parigi. In Albania,
all’inizio degli anni Venti, fu tra i promotori dell’associazione “Bashkimi” (L’Unità) di Avni
Rustemi. Durante i giorni della Rivoluzione democratica del vescovo Fan Noli (giugno 1924),
Fundo fu tra i suoi più stretti collaboratori. Dopo il fallimento del governo Noli, andò in esilio
in Unione Sovietica, dove rimase profondamente deluso dal regime staliniano. Fuggì quindi in
Francia e nel 1938 ruppe definitivamente con il Partito comunista albanese. Dopo l’invasione
fascista dell’Albania (1939), ritornò a Korcia e si dedicò alla propaganda antifascista. Arrestato
dalla polizia italiana di Tirana, fu deportato al confino di Ventotene, dove strinse amicizia con
Rossi e Spinelli. Dopo la caduta del fascismo, malgrado le pressioni dei socialisti italiani (tra i
quali Sandro Pertini ) che volevano convincerlo a restare in Italia, Fundo decise di ritornare in
Albania per battersi contro l’occupazione nazista. Nel settembre 1944, fu arrestato su ordine di
Enver Hoxa (sembra istigato da Tito, su pressioni di Mosca) nella località Kolesian di Kukes,
nella regione del Kossovo, mentre si trovava con una delegazione militare inglese, poi torturato
e fucilato, con l’accusa di essere troskista. Le notizie su Lazar Fundo sono state tratte da una
lunga nota biografica cortesemente fornitami da Giovanni Falcetta.
71 L’albanese Stavro Skendi (1907-1989), insegnante di lingua e letteratura albanese al liceo di
Koritza, era stato arrestato per antifascismo dalla polizia italiana e confinato a Ventotene, dove
divenne amico di Rossi e Spinelli. Liberato nel 1942, rimpatriò e prese parte alla Resistenza. Nel
dopoguerra, ostile al regime comunista, emigrò negli Stati Uniti, dove insegnò alla Columbia
University.
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
53
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
“sommario” del 1937: la degenerazione del principio di nazionalità in
nazionalismo; il convergere delle idee nazionaliste e del principio della
sovranità assoluta negli Stati totalitari; il tema della “guerra totale”;
l’accentramento statale per consentire la massima efficienza bellica; i costi
economici e sociali del militarismo; l’assurdità della politica autarchica.
Altrettanto si dica di alcuni concetti presenti nel secondo paragrafo del
Manifesto, dedicato all’unità europea come “compito del dopoguerra”, dove
ritornano, sostanzialmente immutate, le prospettive internazionali delineate da
Rossi nel terzo punto della lettera del 1937, insieme alle riflessioni sulla
necessità della soluzione federale, sugli ostacoli da abbattere, sull’insufficienza
organica della Società delle Nazioni e sul principio del “non intervento”
rispettivamente presenti nel quarto e nel sesto punto di quel documento. Ma,
come si è detto, ciò che più conta sottolineare è che il punto centrale del
Manifesto, ossia il riconoscimento dell’unità europea come obiettivo prioritario e
immediato d’azione, non fa che sviluppare le osservazioni tracciate da Rossi
nell’ultimo paragrafo del progetto di studio del 1937.
Dal confronto fra i due documenti si desume come il Manifesto rappresenti
anche il risultato finale delle riflessioni di Rossi precedenti l’incontro con
Spinelli a Ventotene. Appare pertanto infondata l’interpretazione, secondo cui il
Manifesto sarebbe sì il risultato della collaborazione di Rossi e Spinelli, ma in
realtà il prodotto quasi esclusivo della mente e della penna di quest’ultimo,
fatta eccezione per il terzo paragrafo, relativo alla “Riforma della società”. Tale
giudizio è basato sulla forzatura di alcune affermazioni di Spinelli che, in
alcune occasioni, ha ascritto a sé la paternità del documento, eccezion fatta per
il terzo paragrafo72. Spinelli ha però precisato di averne discusso insieme a Rossi
ogni singolo paragrafo, tanto da poter riconoscere “ancora giri di pensiero
caratteristici dell’uno e dell’altro”73. E, in effetti, un’attenta analisi stilistica
potrebbe ancor oggi individuare le parti scritte da Rossi e quelle stese da
Spinelli, distinguendo il periodare lungo, eppur efficace, il “gusto per l’elenco”
e per l’immagine arguta del primo e lo stile più asciutto e sentenzioso del
secondo.
Quest’operazione non avrebbe però alcun senso, se fosse mirata a una
separazione di ciò che nella realtà fu il frutto di una “simbiosi” intellettuale
raggiunta dopo lunghe discussioni. Parimenti assurda sarebbe un’operazione
finalizzata esclusivamente alla rivalutazione del contributo di Rossi alla stesura
del testo: tanto più assurda, se si considera l’insofferenza di Rossi verso quelle
Cfr. l’intervista rilasciata da Spinelli a Sonia Schmidt, in Altiero Spinelli, Il progetto europeo,
Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 204-205.
73 Ibidem e A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit, p. 311.
72
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
54
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
inutili “etichette”, che servono a distinguere, con un “nome”, il contributo
individuale allo sviluppo del pensiero collettivo74.
Il riconoscimento del legame esistente fra il contenuto del Manifesto e le
riflessioni svolte da Rossi negli anni precedenti risulta invece utile, in quanto
consente di comprendere meglio l’evoluzione successiva del pensiero
federalista di entrambi gli autori del testo. Non a caso, Rossi restò legato, più a
lungo di Spinelli, alla prospettiva rivoluzionaria e allo scenario politico
ipotizzato nel Manifesto, anche dopo averne riconosciuto le lacune e le parti che
potevano considerarsi superate. E quest’attaccamento alla carta ispiratrice del
federalismo degli anni di guerra fu, forse, un limite che gl’impedì di adattare il
proprio pensiero federalista alle mutate condizioni del dopoguerra. La
rivalutazione del contributo di Rossi all’elaborazione del documento consente
inoltre di chiarire meglio le questioni relative alla genesi e alle fonti
d’ispirazione del testo.
5. La questione delle fonti
L’analisi dell’epistolario di Rossi, oltre a evidenziare lo stretto legame
esistente fra il Manifesto e alcuni scritti precedenti dello stesso Rossi, consente di
precisare meglio le letture compiute al confino, correggendo le interpretazioni
che hanno ricondotto le riflessioni politiche dei federalisti di Ventotene alla
diretta influenza della letteratura anglosassone, sottovalutando – almeno in
parte – l’importanza del magistero di Luigi Einaudi75.
Forse il pensiero federalista einaudiano non influenzò particolarmente
Spinelli, il quale attribuì scarso rilievo alle Lettere politiche di Junius, da lui lette
a Ventotene76. Agli scritti di Einaudi, già letti nel primo dopoguerra, attinse
invece il pensiero federalista di Rossi, sviluppatosi negli anni della prigionia, di
fronte alla crisi della Società delle Nazioni77. Per di più, Rossi era legato a
Einaudi da una profonda intesa intellettuale che, al di là delle divergenze su
alcuni punti specifici, durava sin dai tempi precedenti il suo arresto e aveva
potuto rinnovarsi a Ventotene grazia alla possibilità di corrispondere con lui78.
Cfr. la lettera di Rossi alla moglie del 22 luglio 1938, ora in E. Rossi, Elogio della galera, cit., p.
422.
75 Si veda in proposito quanto scrive P. Graglia in A. Spinelli, Machiavelli nel secolo XX, cit., pp.
58-59.
76 Si veda il breve commento posto accanto al titolo dell’opera di Luigi Einaudi nell’elenco dei
“libri letti” da Spinelli a Ventotene, Ivi, p. 59 n. 53 e p. 522.
77 Cfr. la lettera di Rossi alla madre del 2 luglio 1937, in E. Rossi, Elogio della galera, cit., p. 380.
78 Cfr. Carteggio fra Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi, cit., p. 35 L’autorizzazione a corrispondere
direttamente con Luigi Einaudi arrivò nei primi mesi del 1940.
74
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
55
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
È quindi certo che, all’atto della stesura del Manifesto, la lucida critica di
Einaudi alla Società delle Nazioni sia stata chiaramente presente quantomeno
nell’animo di uno dei due estensori79.
Nel novembre del 1941, avendo trovato sulla «Rivista internazionale di
scienze sociali» la citazione di uno studio di Einaudi, pubblicato sulla rivista
«The Annales» del luglio 1940, col titolo The Nature of a world peace, Rossi ne
chiese un estratto all’autore, con la speranza che tale scritto fosse improntato
allo “stesso indirizzo delle Lettere politiche di Junius”80. Einaudi non poté
soddisfare la richiesta di Rossi, ma appena ne fu in grado, mandò a Ventotene
le scarse indicazioni bibliografiche recuperate sul tema della federazione
europea81. Einaudi fu dunque un tramite importante fra i confinati e la
letteratura federalista anglosassone, cui essi non poterono però attingere
direttamente durante gli anni del confino.
Rossi aveva con sé, all’arrivo a Ventotene, solo due libri di Lionel Robbins:
Essay on the Nature and Significance of Economic Science ed Economic Planning and
International Order82. Un terzo libro, The Economic Causes of the War, fu a lui
consigliato da Einaudi nel marzo 194083. Rossi cercò in ogni modo di entrare in
possesso del libro, mobilitando parenti, amici, conoscenti e case editrici, senza,
però, riuscirvi prima del 1° dicembre 1941, data in cui lo ricevette dal fratello
Paolo che l’aveva fatto giungere “appena in tempo dall’America, perché in
Svizzera non c’era”84. Per averlo in lettura, Rossi dovette però attendere ancora
qualche tempo per la necessaria autorizzazione ministeriale e poté leggerlo e
tradurlo solo nei primi mesi del 194285. Anche la lettura di questo testo,
Cfr. la lettera di Rossi a Einaudi del 1° luglio 1944, Ivi, p. 149. In una dedica, che Rossi appose
all’edizione svizzera del Manifesto, si legge: “A Junius che, nell’ormai lontano 1918, ha seminato
in Italia le prime idee federaliste per le quali oggi noi combattiamo”.
80 Si tratta dell’articolo di Luigi Einaudi, The Nature of a World Peace, in «Annals of the American
Academy of Political and Social Science», vol. 210, July 1940, pp. 66-67. Cfr. la lettera di Rossi a
Einaudi del 12 gennaio 1941, in Carteggio fra Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi, cit., p. 48, nota 1.
81 Cfr. la lettera di Einaudi a Rossi del 24 gennaio 1941, Ivi, p. 51.
82 Cfr. E. Rossi, Elogio della galera, cit., pp. 152, 248, 358, 441.
83 Lionel Robbins, The Economic Causes of the War, London, Jonathan Cape, 1940. Cfr. la lettera di
Rossi alla moglie del 29 marzo 1940, in ASUE, Fondo Rossi, Lettere dal confino.
84 Cfr. le lettere alla moglie e alla madre del 18 agosto 1940, 15 settembre 1940, 15 maggio 1941, 4
ottobre 1941 e del 5 dicembre 1941, in ASUE, Fondo Rossi, Lettere dal confino. Si veda anche la
lettera di Rossi a Einaudi del 6 gennaio 1942 in Carteggio fra Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi,
cit., p. 87.
85 Nella lettera alla madre del 4 aprile 1942, Rossi scriveva: “È un libretto di poche pagine, ma
che io reputo molto importante per chiarire le idee sui principali problemi economici. Critica,
dal punto di vista liberistico, la tesi socialista e comunista secondo la quale le guerre
imperialistiche sarebbero una conseguenza necessaria dell’ordinamento capitalistico, e dimostra
che esse sono invece il risultato della sovranità assoluta degli stati indipendenti europei, per cui
è necessario pensare a una organizzazione federale degli Stati Uniti d’Europa. È l’idea che ha
79
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
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Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
giudicato fondamentale per il successivo sviluppo del pensiero federalista fu
quindi successiva alla stesura del Manifesto di Ventotene. Sempre successiva
alla redazione di tale documento fu la lettura di un altro libro di Robbins, The
Economic Basis of Class Conflicts, contenente numerosi richiami al federalismo e
ottenuto in prestito nell’autunno del 1942 per il tramite della moglie, che
periodicamente si recava a visitarlo a Ventotene86. Dopo lo scoppio della guerra,
fu inoltre impossibile ottenere libri di autori stranieri, che già non circolassero
in Italia. Pur avendo avuto notizia dei libri di Clarence Streit e Lionel Curtis87,
Rossi e Spinelli non poterono quindi leggerli sino al loro arrivo in Svizzera
dopo il settembre del 194388.
Nelle lettere di Rossi è rimasta traccia anche di una ricerca compiuta in
altre direzioni, al di fuori della tradizione federalista anglosassone, che però
non condusse a risultati soddisfacenti. In questo senso vanno interpretate le
letture dell’opera di Charles Dawson, La formazione intellettuale dell’unità europea
dal secolo V al IX 89 e di quella di Paul Hazard, La crise de la conscience éuropénne,
consigliata a Rossi da Luigi Einaudi90. Parimenti inutili e fuorvianti furono
giudicate alcune pagine di Croce e Proudhon sulla guerra. In merito alle prime,
Rossi, che pure aveva apprezzato la chiusa europeista della Storia d’Europa,
scriveva: “Ho letto le Pagine sulla guerra di Croce. Mi son sempre più convinto
che Croce è il rovina-cervelli degli italiani. Fra lui e D’Annunzio non so chi
abbia avuto un’influenza più perniciosa. Nel libro che ho terminato, mentre
pretende demolire l’ideologia ‘massonica’ della libertà, della giustizia e della
avuto i suoi più validi sostenitori anche nel nostro paese fra gli scrittori politici di maggior
valore, da Carlo Cattaneo a Luigi Einaudi. Ma è presentata con nuovi argomenti e in modo
molto convincente”. Cfr. E. Rossi, Miserie e splendori dal confino di polizia, cit., p. 149.
86 Lionel C. Robbins, Economic Basis of Class Conflicts and other Essays in Political Economy,
London, Macmillan & Co., 1939. Cfr. la lettera di Rossi a Einaudi del settembre-dicembre 1942,
in Carteggio fra Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi, cit., p. 105.
87 Clarence K. Streit, Union Now. A Proposal for a Federal Union of the Democracies of the North
Atlantic, New York, Harper & Brothers, 1938; Curtis Lionel George, The Commonwealth of
Nations. An Inquiry into the Nature of Citizenship in the British Empire, London, Macmillan & Co.,
1916. Il primo è citato nella lettera inedita di Rossi alla moglie del 1° luglio 1942, in ASUE,
Fondo Rossi, Lettere dal confino. Il secondo è indicato nell’elenco di “libri utili”, in A. Spinelli,
Machiavelli nel secolo XX, cit., p. 516.
88 Sulle letture compiute nelle biblioteche federaliste svizzere cfr. L’approfondimento del pensiero
federalista, in A. Braga, Un federalista giacobino, cit., pp. 339-sgg.
89 Charles Dawson, La formazione dell’unità europea dal secolo V al XI, Torino, Einaudi, 1939. Cfr. la
lettera di Rossi alla moglie del 23 novembre 1941, in ASUE, Fondo Rossi, Lettere dal confino. Il
titolo dell’opera è indicato anche nell’elenco di “libri utili”, in A. Spinelli, Machiavelli nel secolo
XX, cit., p. 528.
90 Paul Hazard, La crise de la conscience européenne (1680-1715), Paris, Boivin et Cie Editeurs, 1935.
Cfr. Carteggio fra Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi, cit., p. 30. Il titolo dell’opera è indicato anche
nell’elenco di “libri utili”, in A. Spinelli, Machiavelli nel secolo XX, cit., p. 526.
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
57
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
fratellanza, vuol dare significato filosofico all’ideologia patriottica nella forma
più crudamente nazionalistica che si possa immaginare, asserendo che bisogna
‘tenersi sempre pronti’ a considerare qualsiasi popolo, anche quello che più
parla al nostro cuore o alla nostra fantasia, come avversario, se un giorno i
reggitori dello Stato ce lo additeranno come tale”91.
Anche su Proudhon il giudizio fu negativo: “Ho letto alcune pagine del
Proudhon raccolte da Jahier sulla guerra e la pace. Mi fa la stessa impressione di
Sorel: vivacità polemica, ma confusionario, da non prendere sul serio”92. Ciò
consente di confermare il giudizio, avvalorato anche dalle affermazioni di
Spinelli, secondo cui, alle origini del pensiero federalista che s’incarnò poi nel
Movimento italiano per la federazione europea, non ci fu il “fumoso”
federalismo proudhoniano, ma il federalismo costituzionalista d’ascendenza
anglosassone e l’esperienza costituzionale americana93. Uno studio cui Rossi e
Spinelli si dedicarono a Ventotene fu, infatti, quello della storia degli Stati Uniti
d’America, che servì loro per trarre da quell’esperienza numerosi insegnamenti
valevoli anche per il processo di costruzione europea94.
Altri studi destinati a influenzare l’impostazione del Manifesto furono
quelli compiuti nel solco del pensiero politico realistico che, attraverso i secoli,
risaliva sino a Machiavelli95. L’autore fiorentino era stato un punto di
riferimento costante nelle riflessioni storico-politiche di Rossi già negli anni di
carcere96. A Ventotene, attraverso una lettura mediata dalle discussioni con
Spinelli, egli conobbe anche l’opera di Meinecke e, attraverso di lui, il pensiero
dei teorici tedeschi della “ragion di Stato”97. Tale tradizione di pensiero non
Cfr. la lettera alla moglie del 31 gennaio 1943, in E. Rossi, Miserie e splendori dal confino di
polizia, cit., p. 179.
92 Lettera di Rossi alla madre del 13 agosto 1941, in ASUE, Fondo Rossi, Lettere dal confino.
93 Cfr. A. Spinelli, Il lungo monologo, Roma, Ateneo, 1968.
94 Cfr. le lettere del 10 e 17 settembre 1941, in E. Rossi, Miserie e splendori dal confino di polizia, cit.,
pp. 121-126.
95 Si veda quanto scrive in proposito N. Bobbio, Il federalismo nel dibattito politico e culturale della
resistenza, in A. Spinelli, E. Rossi, Il Manifesto di Ventotene, cit., p. 162.
96 Fra le opere di Machiavelli, Rossi lesse e rilesse in carcere Il Principe, nel commento di Luigi
Russo (Firenze, Le Monnier, 1931) e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. A suo giudizio,
Machiavelli poteva “insegnarci molte cose soprattutto riguardo alla conquista e al
consolidamento del potere nei periodi rivoluzionari” e, anche avendo “tendenze opposte” alle
sue, le caratteristiche psicologiche fondamentali dell’umanità restavano quelle da lui descritte
“nel modo più completo e più oggettivo”. Cfr. la lettera di Rossi alla madre, Reclusorio di
Piacenza, 7 aprile 1933, Ivi, pp. 166-167.
97 Occorre precisare, tuttavia, che negli scritti di Rossi e Spinelli non si trova una riflessione
teorica specifica sul concetto di ragion di Stato, che sarà invece sviluppata in seguito nelle opere
di Mario Albertini e di Sergio Pistone. Cfr. Mario Albertini, Il federalismo. Antologia e definizione,
Bologna, Il Mulino, 1979; Politica di potenza e imperialismo: l’analisi dell’imperialismo alla luce della
91
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
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Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
venne, però, accettata acriticamente da Rossi e Spinelli. Invece di seguire
l’interpretazione conservatrice della teoria dello Stato-potenza, essi affermarono
che la volontà d’espansione degli Stati sovrani non doveva essere “subita
passivamente, bensì corretta eliminando la causa stessa delle condizioni di
conflitto perenne, cioè la sovranità statuale assoluta”98. Da quest’affermazione e
dalle conseguenze che ne vennero tratte ebbe origine quel duplice aspetto,
insieme “realistico e idealistico”, che caratterizzò non solo il Manifesto di
Ventotene, ma anche il successivo pensiero federalista99.
6. Le diverse redazioni ed edizioni del testo
Vi è poi la questione delle diverse redazioni ed edizioni del documento.
Secondo quanto afferma Rossi nell’introduzione all’edizione svizzera da lui
curata tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944, il Manifesto fu completato nel
giugno del 1941 e di nuovo rielaborato in una seconda forma nell’agosto dello
stesso anno100. Questa seconda redazione non avrebbe contenuto variazioni di
sostanza, bensì “una migliore disposizione della materia e quelle modifiche
dettate dalla necessità di tener conto dell’ingresso dell’URSS in guerra”101.
Si sa, però, che, su richiesta del valdese Mario Alberto Rollier102, uno dei primi
aderenti al programma federalista, venne in parte modificata, fra una redazione
e l’altra del testo, anche una frase relativa ai rapporti fra Stato e Chiesa, che
recava forte l’impronta della formazione anticlericale di Rossi. Originariamente
la frase suonava così: “Lo stato non dovrà più avere un bilancio di culti, e dovrà
riprendere la sua opera educatrice per sviluppare lo spirito critico in modo da
liberare le coscienze da ogni residuo di trascendenza”. In seguito alle
ragion di Stato, a cura di Sergio Pistone, Milano, Franco Angeli, 1973 e Id., Federico Meinecke e la
crisi dello stato nazionale tedesco, Torino, Giappichelli, 1969.
98 Cfr. l’introduzione di P. Graglia in A. Spinelli, Machiavelli nel secolo XX, cit., p. 62.
99 Cfr. N. Bobbio, Il federalismo nel dibattito politico, in A. Spinelli, E. Rossi, Il Manifesto di
Ventotene, cit., pp. 163-164.
100 Cfr. l’introduzione a Il Manifesto – Programma di Ventotene. Elementi di discussione, «Quaderni
del Movimento per la Federazione Europea», n. 1, s.l., s.d., [ma: Lugano-Ginevra, inverno 1943 primavera del 1944].
101 Ibidem, p. 1.
102 Sulla figura e l’opera del valdese federalista Mario Alberto Rollier (1909-1980), cfr. Cinzia
Rognoni Vercelli, Mario Alberto Rollier. Un valdese federalista, Milano, Jaca Book, 1991 e Luciano
Bolis, Mario Alberto Rollier, in «Il pensiero mazziniano», XXXV, 1980, 1. Copia della lettera di
adesione del “Pessimista Attivo” [M. A. Rollier] al Manifesto federalista, datata marzo 1942 si
trova in ASUE, Fondo Rossi.
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
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Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
osservazioni di Rollier, fu eliminata tutta la parte “in modo da liberare le
coscienze da ogni residuo di trascendenza”103.
Secondo il racconto di Riccardo Bauer, le redazioni del documento sarebbero
state invece tre, una successiva all’altra nello spazio di breve tempo104. Vi
sarebbe stato dapprima un “abbozzo di programma di azione politica
conseguente alla caduta del fascismo”, che Bauer lesse “allibito”, in quanto vi si
sosteneva l’esigenza di una «dittatura rivoluzionaria» che, dopo l’avvento del
nuovo potere, si mantenesse in carica per un certo tempo per studiare e
preparare “un ordinamento democratico da octroyer, nei suoi perfetti
lineamenti, al popolo finalmente sovrano”105. Nella seconda redazione, avrebbe
invece prevalso la riflessione, non sul “metodo”, ma sul “contenuto” del
programma, identificato col problema della federazione europea. Il testo
sarebbe poi stato “radicalmente modificato” una terza volta, per iniziare così la
sua corsa per il mondo106.
Il racconto di Bauer, benché viziato dall’iniziale diffidenza verso il
progetto federalista di Rossi e Spinelli, consente di mettere in luce alcuni
elementi poco approfonditi dalla storiografia corrente. È infatti utile ricordare
che, come raccontò Rossi a Salvemini, la decisione di scrivere il Manifesto
nacque dall’esigenza di contrapporsi all’inerzia dei giellisti e degli altri gruppi
politici, formulando un programma d’azione da realizzare dopo la caduta del
fascismo, la cui crisi appariva ormai evidente nello svolgersi del conflitto
bellico107. Quest’esigenza determinò due conseguenze. Da una parte, il Manifesto
fu, originariamente, formulato come un vero “programma di partito”,
contenente, oltre all’appello per la federazione europea, una parte dedicata “alle
riforme economiche sociali”, opera pressoché interamente di Rossi108. Dall’altra,
nel documento si sostenne inizialmente la necessità di costituire un “partito”,
che si contrapponesse a quelli esistenti, avendo come obiettivo specifico la
battaglia per la federazione europea e come metodo di lotta quello
“rivoluzionario”. L’esigenza di mantenere quest’impostazione venne poi meno
quando, negli anni successivi, la costituzione di un nuovo soggetto politico, il
Cfr. C. Rognoni Vercelli, Mario Alberto Rollier, cit., pp. 73-74.
Cfr. R. Bauer, Quello che ho fatto, cit., pp. 120-124.
105 Cfr. Arturo Colombo, Da Giustizia e Libertà al Partito d’Azione attraverso i ricordi inediti di
Riccardo Bauer, in Federazione Italiana Associazioni Partigiane (FIAP) – Istituto Ugo La Malfa, Il
Partito d’Azione dalle origini all’inizio della Resistenza armata. Atti del Convegno (Bologna 23-25
marzo 1984), a cura di Lamberto Mercuri e Gianfranco Tartaglia, prefazione di Giuseppe
Galasso, Roma, Edizione di Archivio Trimestrale, 1985, pp. 284-286.
106 Cfr. R. Bauer, Quello che ho fatto, cit., pp. 122-123.
107 Cfr. G. Salvemini, Lettere dall’America. 1944/1946, cit., pp. 10-11.
108 Cfr. Compiti del dopoguerra. La riforma della società, in A. Spinelli, E. Rossi, Il Manifesto di
Ventotene, cit., pp. 38-45.
103
104
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
60
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
Partito d’azione, rese “inutile e finanche dannosa la nascita di un partito
federalista con un suo progetto di riforma sociale”, avente più o meno le stesse
caratteristiche di quello azionista. Sino ad allora, però, la scelta “partitica” e il
“metodo rivoluzionario” furono sostenuti con forza dagli estensori del
Manifesto, in contrapposizione polemica con le cautele e gli irrigidimenti
dottrinari delle altre correnti politiche109. In proposito, molto interessanti
appaiono le “lettere federaliste dal confino”110, che costituiscono la traccia del
primo dibattito sulla tematica federalista avviatosi tra il gruppo di Ventotene e
alcuni amici che agivano nella clandestinità sul continente, venuti a conoscenza
del progetto del Manifesto
attraverso l’opera di diffusione di Ursula
111
Hirschmann e Ada Rossi .
Per quanto riguarda, invece, le due prime edizioni note del Manifesto
datate 1944 – quella svizzera curata da Rossi e quella romana curata da
Colorni112 – la collazione tra i due testi consente di verificare alcune differenze
nell’organizzazione dei paragrafi, nonché la soppressione di alcune frasi che,
Cfr. Piero Graglia, Federalismo europeo nella stampa clandestina delle formazioni di G.L., in
Le formazioni Giustizia e Libertà nella Resistenza, Atti del Convegno, Milano 5-6 maggio 1995,
Roma, FIAP, 1995, pp. 76- 77.
110 Cfr. Lettere federaliste del confino, in A. Spinelli, Machiavelli nel secolo XX, cit., pp. 89-157.
Come scrive Piero Graglia, non è possibile identificare con certezza i mittenti delle lettere, anche
se si possono fare alcune ipotesi, considerando come possibili interlocutori dei federalisti
Riccardo Bauer, Manlio Rossi-Doria e Sandro Pertini. Nel Fondo Rossi è conservata un’altra
lettera, priva di data, ma risalente agli anni del confino, scritta da “Maurizio” [Ferruccio Parri]
come “commento” al Programma – manifesto di Ventotene. Rossi accenna a questo documento
nella lettera a Salvemini dell’11 marzo 1945, ora in G. Salvemini, Lettere dall’America.
1944/1946, cit., p. 126. Come risulta da questa lettera, l’iniziale atteggiamento di Parri verso il
progetto federalista fu di «completo scetticismo». Solo in seguito Parri mutò opinione e aderì
alla propaganda federalista, con una lettera a Rossi del 10 giugno 1944.
111 Il Manifesto, portato clandestinamente sul continente da Ada Rossi, moglie di Ernesto Rossi,
e da Ursula Hirschmann, aveva trovato diffusione soprattutto fra gli antifascisti di Milano e
Roma e fra i confinati di Melfi, dove, grazie alla presenza della famiglia Colorni ivi trasferita, fu
consegnato a Franco Venturi e a Manlio Rossi Doria. Cfr. A. Spinelli, Come ho tentato di
diventare saggio, cit., pp. 315-316. Sulla diffusione del Manifesto cfr. C. Rognoni Vercelli, Mario
Alberto Rollier, cit., p. 82, nota 44. Su Ada Rossi (1899-1987), compagna di vita e delle battaglie
politiche di Rossi, rinvio alla nota biografica da me curata in A. Braga, Un federalista
giacobino,cit., pp. 89-90.
112 Ci si riferisce qui alle due edizioni del Manifesto pubblicate nel 1944: 1) A.[ltiero] S.[pinelli],
E.[rnesto] R.[ossi], I problemi della federazione europea, Roma, Edizioni del Movimento
italiano per la federazione europea, 1944, a cura e con prefazione di Eugenio Colorni; 2) Il
Manifesto – Programma di Ventotene. Elementi di discussione, «Quaderni del Movimento per
la Federazione Europea», n. 1, s.l., s.d., [ma Lugano-Ginevra, inverno1943 - primavera del 1944],
con un’introduzione datata 29 agosto 1943. L’edizione svizzera, curata da Rossi, è conservata in
ASUE, Fondo Rossi, Esilio in Svizzera.
109
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
61
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
invece, determinano una certa variazione di tono, soprattutto per quanto
riguarda la polemica anti-comunista e laicista.
L’edizione svizzera si basò sulla seconda redazione del documento113,
mentre l’edizione romana fu il frutto di un intervento diretto di Colorni per
adeguare il testo alle mutate circostanze politiche114. Nell’edizione curata da
Colorni non sono infatti presenti alcune frasi che appaiono, invece,
nell’edizione svizzera curata da Rossi. In particolare, mancano due paragrafi:
uno, nella parte dedicata a I compiti del dopoguerra. La Riforma della Società e
riguardante la Chiesa cattolica, e l’altro, inserito nella parte dedicata a La
situazione rivoluzionaria: vecchie e nuove correnti e relativo alla polemica con i
comunisti115. Nell’introduzione all’edizione svizzera è inoltre presente un
riferimento – tutto rossiano e in contrapposizione alla linea di Spinelli116 –
Così è scritto, come si è detto, nell’introduzione a Il Manifesto – Programma di Ventotene.
Elementi di discussione, «Quaderni del Movimento per la Federazione Europea», cit.
114 L’edizione curata da Colorni è stata indicata da Spinelli come «il testo autentico e preciso».
Cfr. A. Spinelli, Il lungo monologo, cit.. Si veda quanto scrive in proposito anche Edmondo
Paolini, Rossi, Spinelli e il Movimento federalista europeo, in Rossi economista, federalista, radicale, cit.,
p. 118.
115 Nel primo paragrafo, si legge: “La Chiesa cattolica continua inflessibilmente a considerarsi
unica società perfetta, a cui lo stato dovrebbe sottomettersi, fornendo le armi temporali per
imporre il rispetto della sua ortodossia. Si presenta come naturale alleata di tutti i regimi
reazionari, di cui cerca approfittare per ottenere esenzioni e privilegi, per ricostruire il suo
patrimonio, per estendere di nuovo i suoi tentacoli sulla scuola e sull’ordinamento della
famiglia”. Nel secondo, si legge: “Con le maggiori probabilità i reazionari sarebbero coloro che
ne trarrebbero profitto. Ma anche i comunisti, nonostante le loro deficienze, potrebbero avere il
loro quarto d’ora, convogliare le masse stanche, deluse, assumere il potere e adoperarlo per
realizzare, come in Russia, il dispotismo burocratico su tutta la vita economica, politica e
spirituale del paese. Una situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante
significherebbe non uno sviluppo in senso rivoluzionario, ma già il fallimento del
rinnovamento europeo. Larghissime masse restano ancora influenzate o influenzabili dalle
vecchie tendenze democratiche e comuniste, perché non scorgono nessuna prospettiva di
metodi e di obiettivi nuovi. Tali tendenze sono però formazioni politiche del passato; da tutti gli
sviluppi storici recenti nulla hanno appreso, nulla dimenticato; incanalano le forze progressiste
lungo strade che non possono serbare che delusioni e sconfitte; di fronte alle esigenze più
profonde del domani costituiscono un ostacolo e debbono radicalmente modificarsi o perire”
Cfr. Il Manifesto – Programma di Ventotene, cit., pp. 13 e 16.
116 L’introduzione all’edizione svizzera del Manifesto è datata 29 agosto 1943. Edmondo Paolini
ipotizza che questo testo introduttivo sia stato scritto all’indomani del convegno federalista di
Milano forse da Enrico Giussani e non da Ernesto Rossi, in quanto quest’ultimo partì per
Bergamo subito dopo la conclusione del convegno. Lo stesso Paolini afferma però che qualche
elemento potrebbe “far attribuire il testo a Rossi, in particolare il riferimento – in
contrapposizione alla linea di Spinelli – alle Leagues”. Cfr. Edmondo Paolini, Nota introduttiva, in
«Lettera federalista», n. 67, maggio 1993. Qualche elemento di dubbio quindi permane circa
l’attribuzione (e, conseguentemente, circa la datazione) del testo.
113
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
62
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
all’esperienza delle Leagues inglesi, che non compare nell’edizione romana del
Manifesto117.
In tutte queste varianti appare evidente l’intervento diretto nell’edizione
svizzera di Rossi, che scelse di mantenere nel testo del Manifesto l’elemento
della polemica anticlericale e anti-comunista e, nell’introduzione, il riferimento
esplicito al modello anglosassone delle Leagues, che a suo giudizio costituivano
un’esperienza importante e un modello utile per la battaglia federalista118. Di
conseguenza, andrebbe meglio analizzata l’opposta e speculare scelta di
Colorni che, nel mutato clima politico e dall’interno della battaglia resistenziale,
decise di togliere quegli espliciti riferimenti dall’edizione romana – divenuta
poi l’edizione principe su cui si conformarono tutte le successive edizioni del
Manifesto – e di apporre una prefazione di suo pugno, datata 22 gennaio 1944,
che (insieme all’introduzione all’edizione svizzera) rappresenta anche la prima
ricostruzione storica e la prima analisi interpretativa del manifesto federalista.
In vista di un’edizione critica del Manifesto, dal punto di vista filologico,
resta da approfondire anche la questione relativa a precedenti edizioni risalenti
al 1943119 e, in particolare, all’edizione milanese del Manifesto, che sarebbe stata
stampata all’indomani del convegno di fondazione del Movimento federalista
europeo alla fine di agosto del 1943 a Milano e quindi precederebbe entrambe le
due edizioni del 1944120. L’argomento si può però solo accennare in questa sede,
La frase cui si fa riferimento è la seguente: “Questo carattere di movimento – analogo al
carattere delle Leagues, che sono state il più efficace strumento per l’abolizione della schiavitù e
per le più radicali riforme amministrative […]”. Cfr. Il Manifesto – Programma di Ventotene, cit., p.
3.
118 Secondo Rossi, il MFE avrebbe dovuto assumere i caratteri delle leagues anglosassoni che,
attraverso un’attività di propaganda e infiltrazione culturale, tanto successo avevano ottenuto
“permeando i diversi partiti per la risoluzione di particolari problemi: libero scambio, schiavitù,
suffragio universale, etc.”. (Cfr. la lettera di Rossi a Salvemini del 26 marzo 1944, G. Salvemini,
Lettere dall’America. 1944/1946, cit., p. 13). Spinelli, invece, che non aveva dimenticato la lezione
di metodo rivoluzionario appresa dai testi di Lenin, pensava piuttosto a un’avanguardia, agile e
spregiudicata, pronta a servirsi di tutte le forze che, sebbene incerte o persino “in malafede”,
fossero “costrette ad agire ‘complessivamente’ nella direzione” auspicata dai federalisti. Cfr. gli
interventi di Spinelli nel verbale della riunione di fondazione del Movimento federalista
europeo, conservato presso l’archivio di Mario Alberto Rollier. Si veda, anche, quanto scrive in
proposito P. Graglia nell’introduzione ad A. Spinelli, Machiavelli nel secolo XX, cit., p. 34, nota 19.
119 Cfr. Moris Frosio Roncalli, L’origine di un’idea: il nesso tra federalismo e unità europea nel
manifesto di Ventotene, pubblicato in http://www.storiadelmondo.com.
120 Di quest’edizione non esiste alcuna traccia presso l’archivio Rossi, mentre Edmondo Paolini
la identifica con una copia del testo, conservata presso il fondo Spinelli, che sul margine destro
del frontespizio riporta la seguente notazione manoscritta: “Prima edizione del Manifesto di
Ventotene, scritto nell’agosto 1941”. Cfr. Edmondo Paolini, Altiero Spinelli. Dalla lotta antifascista
alla battaglia per la federazione europea, cit., pp. 218-219. L’affermazione di Paolini, che descrive
questa copia come quella pubblicata sul n. 1 dei «Quaderni del Movimento Federalista
117
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
63
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
in quanto richiede un discorso più complesso, nonché un supplemento
d’indagine
Di maggior interesse per valutare il contributo di Rossi alla stesura del
Manifesto è invece l’analisi di una serie di documenti, ancora poco noti, che
fanno parte di una “polemica scritta”, in cui Rossi fu coinvolto con Bauer e
Fancello, successivamente alla stesura del Manifesto121. L’insistenza con cui Rossi
sostenne in tale dibattito le ragioni del movimento rivoluzionario induce a
credere che, anche per quanto riguarda l’ultima parte del Manifesto –
generalmente attribuita all’esclusiva impronta di Spinelli e alla sua formazione
leninista – l’intervento del “giacobino” Rossi sia stato più attivo e determinante
di quanto generalmente si creda.
7. Una polemica confinaria: giacobinismo e liberalismo
La reazione dei diversi gruppi politici presenti a Ventotene di fronte al
progetto federalista fu di diffidenza, quando non di aperto rifiuto122. Tale
Europeo», suscita però qualche legittimo dubbio, in quanto nel fondo Rossi esiste copiosa
documentazione che dimostra come il primo numero di tali quaderni fu pubblicato in Svizzera
tra la fine del 1943 e la primavera del 1944, a cura di Rossi, e non a Milano dopo il convegno
federalista dell’agosto del 1943. La questione è quindi ancora aperta.
121 Cfr. la “polemica scritta” fra Rossi e Fancello, Ventotene, [estate 1941], in ASUE, Fondo Rossi.
Il documento è una copia, scritta a mano da Rossi, del dibattito sviluppatosi a Ventotene,
all’interno del gruppo di GL, sulla forma e i compiti del partito “rivoluzionario” che avrebbe
dovuto gestire il passaggio dal regime fascista a una moderna democrazia. La polemica si
articola in “quattro puntate”, che raccolgono i contributi di Rossi al dibattito, e in “cinque
repliche” di Fancello. All’interno del documento, si accenna a un’altra “polemica scritta”
relativa agli Stati Uniti d’Europa che però non è stato possibile ritrovare. In parte, il documento
fu poi pubblicato da Rossi nel dopoguerra in una serie di articoli, intitolati Liberalismo e
giacobinismo nelle crisi rivoluzionarie, apparsi su «Lo Stato Moderno» il 5-20 novembre e 5
dicembre 1948 (parte 1), 5-20 gennaio 1949 (parte 2) e 20 febbraio-5 marzo 1949 (parte 3). Sulla
polemica fra Rossi e Fancello si vedano anche l’intervento di Manlio Rossi Doria, in Ernesto
Rossi a dieci anni dalla scomparsa, cit., pp. 11-13 e Luisa Calogero La Malfa, Intervista con Ernesto
Rossi, in «Quaderni dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza», a. I,
n. 1, 1969, p. 110.
122 Cfr. A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., pp. 312-315; G. Braccialarghe, Nelle
spire di Urlavento, cit. Si veda anche copia di uno scritto di Giorgio Braccialarghe, intitolato Il
manifesto federalista nei ricordi di un protagonista. I federalisti europei in quegli anni a Ventotene,
conservato in ASUE, Fondo Rossi. In questo scritto, Braccialarghe accenna anche alla reazione
degli anarchici, affermando: “Se l’idea di unire gli europei era completamente insufficiente per
essi che da sempre predicavano l’unione di tutta l’umanità, il progetto degli Stati Uniti
d’Europa li sbalordiva addirittura. Si domandavano e ci domandavano se non bastavano i
disordini, le distruzioni, i massacri provocati dagli Stati nazionali, da farci pretendere un
superstato continentale e, di conseguenze, catastrofi omeriche”.
A. Braga, Il contributo di Ernesto Rossi
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atteggiamento fu dovuto, in parte, a ragioni specifiche per ogni gruppo e, in
altra parte, a un elemento comune, in quanto tutti si sentirono minacciati da un
documento che, “andando a toccare il fondamento della legittimazione dello
Stato nazionale – la sovranità – colpiva di riflesso anche l’ambito privilegiato
dell’agire politico delle forze tradizionali”123. Dopo il secco rifiuto al dialogo
opposto dai comunisti e la ritrattazione dell’iniziale adesione dei socialisti data
da Sandro Pertini124, la reazione più dura, e più dolorosa per Rossi, fu quella del
gruppo giellista125. Soltanto Dino Roberto lo sostenne, “non tanto per raffinati
ragionamenti, ma quanto perché istintivamente simpatizzava con l’assai più
vigorosa umanità di Ernesto”126. Bauer, Calace, Fancello e Traquandi
giudicarono invece negativamente il Manifesto e accusarono Rossi di aver
imboccato una strada sbagliata, sotto la “nociva influenza” di Spinelli127.
I giellisti di Ventotene non rifiutavano la prospettiva di una federazione
europea, ma la collocavano in un avvenire indefinito, quando ogni paese avesse
consolidato il proprio regime interno di libertà e tutti gli Stati europei avessero
raggiunto un medesimo grado di civiltà. A loro giudizio, il progetto federalista
mancava di riferimenti concreti e minacciava “d’intralciare un più urgente
impegno di sensata e matura solidarietà”128. La federazione europea era ritenuta
un’ “idea mazziniana”, valevole come tendenza, ma non un quesito cruciale per
un programma politico serio: un corollario, piuttosto che un postulato129.
Ciò che più urtava i giellisti era però il “metodo giacobino” proposto dal
Manifesto per realizzare sia la federazione europea, sia le riforme sociali ed
economiche interne. Secondo Bauer, una federazione europea storicamente
vitale poteva nascere solo come “risultato in divenire di un consapevole
processo di liberazione”. Era quindi da rifiutare qualsiasi “piano costruttivo che
Cfr. P. Graglia, Federalismo europeo nella stampa clandestina di GL, cit., p. 78.
Il socialista Sandro Pertini all’inizio aveva dato la sua adesione al Manifesto federalista, poi,
secondo quanto lui stesso raccontò in seguito, fu costretto a ritirarla per le pressioni ricevute dai
compagni del suo partito. L’episodio è raccontato anche in A. Spinelli, Come ho tentato di
diventare saggio, cit., pp. 312-313.
125 Le divergenze fra giellisti e federalisti a Ventotene risalivano a una diversa impostazione
politico-filosofica. I giellisti non accettavano la critica allo Stato nazionale, che cozzava contro la
tradizione dell’interventismo democratico che aveva fortemente segnato la formazione di molti
di loro. Questa impostazione aveva a suo tempo impedito la comprensione anche delle
posizioni federaliste di Carlo Rosselli all’interno di “GL” e, dopo la sua morte, aveva provocato
la loro eliminazione dall’azione del movimento.
126 Cfr. A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., p. 313.
127 Ibidem, pp. 313-314.
128 Cfr. R. Bauer, Quello che ho fatto, cit., pp. 122-124.
129 Cfr. Considerazioni di un liberal-socialista, testo non firmato, in A. Spinelli, Machiavelli nel
secolo XX, cit., pp. 110-114.
123
124
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partisse da un’astratta premessa, tendente a ‘forzare le soluzioni’, suggerite più
che da realistica valutazione politica da geometrico spirito illuministico”130.
A giudizio dei giellisti, il Manifesto era viziato da un “illuminismo
antistorico” ed “ingenuo” che, per la smania di bruciare le tappe, anticipare i
tempi e trascurare gli ostacoli, pretendeva di risolvere la complessa situazione
del dopoguerra concependo la possibilità di un’azione interna e internazionale
che era invece assai più difficile, considerando la rovina materiale e morale in
cui l’Europa, nonché il mondo intero, erano precipitati. Ma, anche se tale ipotesi
si fosse verificata, consentendo a una minoranza lungimirante e bene
intenzionata di realizzare “un rapido corso di riforme, giuste ed utili in sé”, ma
non sentite e perciò imposte, i risultati sarebbero stati comunque precari perché
non fondati su una coscienza diffusa. L’unica strada era dunque quella di una
lentissima opera d’educazione delle masse, che facesse sorgere la nuova
costruzione sulla base del consenso131.
Su questi temi si sviluppò una “polemica scritta” – abitudine frequente
negli ambienti ristretti del confino – che coinvolse Fancello, Bauer e Rossi ed
ebbe pesanti strascichi all’interno del gruppo giellista. Rossi replicò alle accuse
di Fancello e Bauer, precisando il suo pensiero sul “partito rivoluzionario” e
sulla strategia politica da attuare nel dopoguerra, anche dal punto di vista
federalista132. Secondo Rossi, esistevano due metodi per modificare la realtà:
quello democratico, basato sul consenso e sulla persuasione, o quello giacobino,
basato sulla coazione. Nessuna “regola del gioco”, neppure quella democratica,
poteva avere, a suo giudizio, un valore assoluto per i sostenitori di una politica
liberale. Nei periodi d’emergenza, per costruire o difendere gli istituti
democratici, anche i sostenitori di una politica liberale dovevano saper usare la
coazione, laddove col consenso avrebbero rischiato di risultare solo una
“minoranza” ininfluente. Per affrontare in modo efficace la crisi del dopoguerra
e sfidare gli opposti schieramenti di reazionari e comunisti, era necessario che i
democratici si preparassero a divenire “dirigenti rivoluzionari”, alzando una
Cfr. R. Bauer, Quello che ho fatto, cit., p. 121-123. Si veda anche l’introduzione di Bauer a E.
Rossi, Miserie e splendori dal confino di polizia, cit., pp. 7-10. Dal confino, Bauer inviò
clandestinamente una nota sul programma federalista che fu però pubblicata solo in seguito su
«La Rassegna d’Italia», la rivista milanese diretta da Francesco Flora, nel 1946, n. 4, pp. 106-112.
Secondo quanto ha raccontato Ada Rossi a Mario Melino in un’intervista del giugno 1982, lo
scritto di Bauer, a lei affidato per portarlo sul continente, non fu diffuso per «evitare l’allargarsi
di una polemica che non avrebbe giovato a nessuno». Cfr. R. Bauer, Quello che ho fatto, cit., p.
122, nota 13. In proposito si veda anche la pubblicazione degli scritti di Bauer a Ventotene in
Riccardo Bauer, Il senso della libertà, Manduria, Lacaita, 1967, pp. 18-38.
131 Cfr. R. Bauer, Quello che ho fatto, cit. e la sua introduzione a E. Rossi, Miserie e splendori dal
confino di polizia, cit.
132 Cfr. la “polemica scritta” fra Rossi e Fancello, Ventotene, [estate 1941], in ASUE, Fondo Rossi.
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“bandiera” e raccogliendo intorno ad essa chiunque condividesse certi obiettivi
e fosse disposto a sostenerli con l’azione. Ciò implicava la costituzione di un
“partito rivoluzionario” – non su base classista, ma raccolto intorno a certi
comuni ideali di civiltà – che, una volta ottenuto il potere, fosse disposto a
mantenerlo, anche “contro la legittimità formale della maggioranza”, per tutto
il tempo necessario a dar vita al nuovo ordine133.
Sul piano interno, le conclusioni di Rossi comportavano la necessità di una
“rivoluzione giacobina” per portare l’Italia fuori del pantano dell’arretratezza e
della degenerazione prodotta dal fascismo e per gettare le basi della nuova
democrazia. Egli non condivideva il giudizio di Bauer e Fancello, secondo cui la
prima cosa da fare, dopo la caduta del fascismo, fosse l’indizione immediata di
libere elezioni e della costituente. Dati i guasti provocati da vent’anni di
dittatura nel tessuto morale e politico del paese, non era possibile costruire una
democrazia vitale senza profonde trasformazioni rivoluzionarie134.
Sul piano internazionale, il “liberalismo giacobino” consigliava di sfruttare
la congiuntura, potenzialmente rivoluzionaria, dell’immediato dopoguerra e la
condizione “magmatica” degli Stati europei – causata dall’effetto combinato del
«rullo compressore» di Hitler e della successiva sconfitta nazista – per sostenere
con forza la soluzione federale. Secondo Rossi, se, come volevano i giellisti, si
fosse attesa “la lenta, faticosa, ma convinta adesione di strati sempre più vasti
della popolazione” alla riforma europea, si sarebbe lasciata passare invano
un’occasione storica, che poteva consentire progressi immediati e decisi in tale
direzione, e, di conseguenza, si sarebbe caduti di nuovo nelle “vecchie
aporie”135. Evidenti in queste affermazioni sono le analogie con il testo del
Manifesto e, più specificamente, al secondo paragrafo, intitolato La crisi del
dopoguerra. Vecchie e nuove correnti, e all’ultima parte dedicata ai caratteri e alle
funzioni del partito rivoluzionario, in cui riecheggiano temi già sviluppati da
Rossi negli anni di prigionia e ulteriormente approfonditi al confino. Il
giacobinismo di Rossi s’incontrò, pertanto, con la formazione leninista di
Spinelli per dare al Manifesto quella carica rivoluzionaria e di rottura che tanto
spiaceva ai giellisti136.
D’altra parte, come ha affermato Giorgio Braccialarghe, le reazioni critiche
dei giellisti erano comprensibili: essi “non riuscivano a capire bene che in un
mondo sconvolto, rovinato dalle dittature, si potesse parlare del federalismo
Ibidem.
Ibidem.
135 Ibidem.
136 Per quanto riguarda la componente “giacobina” e “leninista” di Spinelli si veda quanto
scrivono Gaetano Arfé e Piero Graglia nella prefazione e nell’introduzione ad A. Spinelli,
Machiavelli nel secolo XX, cit.
133
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come di un’élite rivoluzionaria la cui ‘dittatura’ avrebbe formato il nuovo Stato
continentale, il quale, in un secondo tempo, sarebbe diventato democratico”137.
L’esperienza italiana, tedesca e sovietica erano lì a dimostrare che dalla
dittatura non scaturiva la democrazia, ma potenti interessi tesi al mantenimento
della dittatura stessa. Per questo Bauer e Fancello ritenevano invece che
“l’europeismo autoritario” di Rossi e Spinelli fosse inquinato da quei medesimi
germi che avevano portato ai regimi totalitari. Il tono della polemica scritta si
fece così sempre più duro e Fancello arrivò ad accusare Rossi di
“neofascismo”138.
Su tale giudizio pesava anche la pessima opinione che i giellisti avevano
di Spinelli. Diffidando del suo passato marxista, lo consideravano un “meteco
della democrazia” e, valutando la sua grande ambizione politica e il suo spirito
«nietzschiano e autoritario», lo giudicavano potenzialmente pericoloso139.
Temevano quindi ch’egli avesse traviato il loro “valoroso ma ingenuo”
compagno, trascinandolo in un’avventura sbagliata, in cui si sarebbe
“preconizzato come il capo carismatico della progettata generosa dittatura”140.
Fu per difendersi da queste accuse che, nell’ottobre del 1942, Spinelli scrisse a
Rossi una lunga nota autobiografica, in cui riandando alle origini della sua
formazione, tracciava l’itinerario seguito dalla sua evoluzione politica sino al
definitivo approdo federalista141. L’autodifesa di Spinelli non era però
necessaria, sia perché Rossi giudicava positivamente le qualità umane e
politiche di Spinelli, sia perché – come risulta chiaramente dalla polemica scritta
con Fancello e da altre affermazioni sparse in lettere inedite di quegli anni – ne
condivideva appieno gli ideali di civiltà e i metodi d’azione.
A suo giudizio, i giellisti scambiavano per velleità antidemocratiche ciò
che era solo una visione più realistica della democrazia o, com’egli diceva, il
“coraggio di chiamare le cose col loro nome”. Secondo Rossi, il crociano Bauer e
il soreliano Fancello erano ancora legati alla teoria comunemente accettata
secondo cui il liberalismo coincideva con il rispetto, in ogni circostanza, di una
regola “puramente formale” del gioco politico. A suo avviso, questa concezione
era “molto attraente”, ma “ingannatrice”, perché lasciava credere che il
liberalismo non fosse, come invece era, una concezione “particolare” del mondo
Cfr. G. Braccialarghe, Nelle spire di Urlavento, cit., pp. 18-20.
Cfr. le repliche di Fancello nella “polemica scritta” con Rossi, [estate 1941], cit.
139 Cfr. A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., pp. 314-315. Si veda anche, il severo
giudizio su Spinelli dato da R. Bauer in Quello che ho fatto, cit., pp. 120 e 125.
140 Cfr. A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit.
141 Cfr. [Altiero Spinelli], Nota autobiografica per Rossi dopo le maldicenze fatte presso di lui da varia
gente, in Id., Machiavelli nel secolo XX, cit., pp. 159-165.
137
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e che lo Stato liberale non fosse un ordinamento teso, come gli altri, a “forgiare”
gli uomini in una data direzione e secondo dati valori.142
Per quanto riguarda invece l’accusa di “illuminismo antistorico” mossa al
Manifesto, Rossi, riflettendo sull’opera di De Maistre, Saggio sul principio delle
costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane, tornava sulle ragioni del
contrasto con gli amici giellisti, esprimendo la propria avversione sia verso il
“rivoluzionarismo astratto”, sia verso il “conservatorismo storicistico”143. A suo
giudizio, i fautori del primo pretendevano di “costringere gli uomini entro
schemi giuridici diretti al conseguimento di un ordine ideale, senza tener alcun
conto dei loro valori tradizionali e delle circostanze in cui essi di fatto
viv[eva]no”. I sostenitori del “conservatorismo storicistico”, invece,
presentavano “tutte le istituzioni sociali come il prodotto spontaneo delle forze
che [erano] andate inconsapevolmente maturando nel corso della storia”,
negando “ogni valore costruttivo all’azione delle élites politiche”144. Secondo
Rossi, quest’ultimo atteggiamento mentale era proprio non solo dei
conservatori come Luigi Einaudi – per i quali “la tradizione era tutto e la
volontà umana era nulla” – ma anche degli idealisti crociani, come Bauer.
Costoro, attribuendosi “il monopolio del senso storico” e insistendo sulla
“esclusiva vitalità di ciò che è spontaneo”, scomunicavano come “astrattisti”
tutti gli illuministi e i giacobini che cercavano di “formulare in concreti istituti
giuridici» le proprie esigenze ideali, per avere degli «obiettivi chiari a cui
tendere con l’azione”. E, di seguito, aggiungeva: “Quando questi storicisti
devon pure riconoscere il successo di azioni come quelle dei Whigs inglesi con
la rivoluzione del 1688, o dei federalisti americani con la convenzione del 1787,
credono di aver detto tutto facendo rilevare che i precedenti storici e la
situazione esistente erano favorevoli al consolidamento di una dinastia
hannoveriana, rispettosa del Bill of Rights, in Inghilterra, ed allo sviluppo di una
federazione degli Stati Uniti d’America. Bella scoperta! È evidente che a
posteriori il successo dimostra sempre che erano presenti i fattori necessari per
il successo. ‘Tutto ciò che è reale è razionale’ [...] Ma, se qualsiasi istituzione per
riuscire vitale ha bisogno dell’humus in cui affondare le sue radici, nello stesso
humus può allignare la canna e la quercia, il grano e la gramigna. L’importante è
capire quale è stata la parte della volontà consapevole degli uomini nel
determinare quell’unica risoluzione che di fatto si è verificata fra le tante
risoluzioni possibili”145.
Cfr. la “polemica scritta” fra Rossi e Fancello, [estate 1941], cit.
Ibidem.
144 Cfr.. La lettera alla madre del 23 agosto 1941 è ora pubblicata in E. Rossi, Un democratico
ribelle, cit., pp. 343-347.
145 Ibidem.
142
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Come si può comprendere da queste affermazioni, l’impostazione
“insieme realistica e utopistica” che accomunava Rossi a Spinelli, benché non
cadesse né nell’antistoricismo, né in velleità antidemocratiche, alienava però al
progetto federalista molti sostegni necessari146. Da parte giellista si continuò ad
accusare il Manifesto di eccessiva avventatezza e “utopismo antistorico”, per
l’ipotesi di un’azione rivoluzionaria promossa da una minoranza illuminata,
che non attendesse lo sviluppo autonomo di una coscienza popolare diffusa. Da
parte socialista e comunista gli si rimproverò invece un’eccessiva moderazione
e un “falso realismo”, perché il progresso “formale” e istituzionale ipotizzato
dal Manifesto lasciava, a giudizio dei marxisti, intatti i problemi strutturali,
economici e sociali, da cui avevano origine sia i totalitarismi sia le guerre. Tali
obiezioni sarebbero ritornate, pressoché invariate, nel dibattito avviato fra i
federalisti e le altre forze politiche dopo la caduta di Mussolini e durante la lotta
resistenziale. In quella fase, tuttavia, la scelta dei federalisti di costituirsi in
“movimento” e non più in partito, unita a una più cauta analisi degli scenari
ipotizzabili per il dopoguerra, resero il confronto meno teso, soprattutto con gli
azionisti.
Negli anni di Ventotene, lo scontro arrivò invece sino alla rottura fra i
federalisti e gli altri gruppi politici presenti sull’isola e all’ostracismo dei
giellisti nei confronti di Rossi. La polemica scritta su giacobinismo e democrazia
si caricò di aspetti personalistici e malumori tipici degli ambienti ristretti del
confino. Tali contrasti di carattere personale sarebbero stati in seguiti superati,
consolidando l’amicizia fra Bauer e Rossi, se non quella di quest’ultimo con
Fancello147. Negli anni del confino, tuttavia, l’ostilità e l’ostracismo degli amici
giellisti colpì dolorosamente Rossi che, non aspettandosi nulla di simile da
parte dei vecchi compagni, ne soffrì moltissimo148. Nel luglio 1942, dopo aver
cercato inutilmente un’ultima mediazione, invitando Bauer a confrontarsi con
Spinelli sul tema della libertà, Rossi decise pertanto di abbandonare i vecchi
compagni e chiese di essere trasferito in una camera con Dino Roberto149,
rafforzando ulteriormente la sua collaborazione politica con Spinelli in
direzione della futura battaglia federalista.
Cfr. G. Braccialarghe, Nelle spire di Urlavento, cit., p. 121. Si veda anche quanto scrive N.
Bobbio, Il federalismo nel dibattito politico e culturale della resistenza, in A. Spinelli, E. Rossi, Il
Manifesto di Ventotene, cit., pp. 163-164.
147 I rapporti fra Rossi e Bauer ripresero amichevolmente già nel 1944, come dimostra la
corrispondenza conservata in ASUE, Fondo Rossi, Esilio in Svizzera, Corrispondenza con
compagni del Pd’A.
148 Cfr. la lettera di Rossi a Salvemini del 24 marzo 1944, in G. Salvemini, Lettere dall’America.
1944/1946, cit., p. 6.
149 Cfr. la lettera di Rossi alla madre dell’8 luglio 1942, in ASUE, Fondo Rossi, Lettere dal confino.
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8. Conclusioni provvisorie
Come s’è cercato di mostrare, l’analisi delle fonti consente di evidenziare,
valorizzandolo, il contributo personale di Rossi alla stesura del Manifesto,
complicando per molti versi il quadro interpretativo corrente sulla genesi del
progetto federalista. Da parte sua, Spinelli, nonostante la durezza di alcuni
giudizi espressi nei suoi diari150, riconobbe sempre il contributo di Rossi
all’elaborazione del progetto federalista, affermando: “Rossi da solo non
avrebbe promosso il federalismo, però senza Rossi il federalismo non avrebbe la
fisionomia che ha avuto”151. Secondo Spinelli, il merito principale di Rossi
consisteva nel «carattere comune di tutte le sue battaglie», ossia nell’ “impronta
radicale che vi portava”: “questo è accaduto anche per il federalismo –
aggiungeva Spinelli – che grazie soprattutto a lui acquistò e mantenne il
carattere di lotta intransigente contro le restaurazioni nazionali, dandosi come
obiettivo irrinunciabile, in un periodo in cui appariva possibile e realizzabile,
quello della convocazione di una costituente europea”152. Questa radicale
intransigenza impedì forse a Rossi di cogliere nel processo d’integrazione
europea, inaugurato col metodo funzionalista, quegli elementi di
contraddizione gravidi di future possibili evoluzioni anche nel senso da lui
auspicato153. Per questo, all’indomani della caduta del progetto di Comunità
europea di difesa nel 1954, Rossi abbandonò il suo ruolo direttivo nel
Movimento federalista europeo ritenendo ormai persa, almeno per lo spazio di
una generazione, la battaglia per gli Stati Uniti d’Europa.
Mentre Rossi aveva certamente l’impazienza dei giacobini, si può dire
che Spinelli – come ha scritto Mario Albertini – per l’intera vita ebbe invece la
pazienza di quei cacciatori che nel delta del Po rimangono nascosti in una sorta
di botti galleggianti in attesa che passi qualche folaga, attendendo
pazientemente l’occasione utile per agire154. Nell’impazienza di Rossi c’era però
un elemento essenziale che è forse utile riscoprire oggi e che fu, in definitiva,
anche il “collante” della sua collaborazione con Spinelli: la consapevolezza della
necessità storica della federazione europea, il senso dell’urgenza dell’ora, del
fattore tempo, dell’occasione che si presenta forse una volta sola, senza più
Cfr. i severi giudizi formulati sulla presupposta “superficialità” del federalismo di Rossi in A.
Spinelli, Diario europeo, vol. 1, cit., pp. 213-214 e 245.
151 Cfr. Gianfranco Spadaccia, Ernesto Rossi: la battaglia federalista (a colloquio con Altiero Spinelli),
in «L’Astrolabio», V, n. 9, 26 febbraio 1967, pp. 27- 29
152 Ibidem.
153 Sull’opposizione di Rossi alla logica funzionalista cfr. Ernesto Rossi, L’Europa a pezzettini, in
«La Stampa», 11 ottobre 1952, ora ripubblicato in E. Rossi, Aria fritta, Bari, Laterza, 1956, pp.
116-119.
154 Cfr. la prefazione di Luigi V. Majocchi ad A. Braga, Un federalista giacobino, cit., p. 16.
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ripresentarsi in futuro, e della «fortuna» che bisogna essere pronti a cogliere al
volo con le arti della “virtù” come insegnava Machiavelli.
Oggi più che mai sarebbe necessario avere un nuovo Rossi e un nuovo
Spinelli al nostro fianco, con la loro capacità d’indicare testardamente la meta,
denunciando tutte le strade che solo apparentemente sono più semplici e
realistiche, ma in realtà sono devianti “binari morti” o ridicoli tentativi di
risolvere i problemi con soluzioni posticce, come – secondo una bella metafora
di Rossi – faceva Charlot in un film, quando cercava di “tappare accuratamente
con un giornale un buco dell’asse di un tramezzo, dietro il quale si sdraiava per
dormire all’aperto”155. Servirebbe oggi la loro voce critica contro tutti gli
“europeisti bagoloni”, che, come scriveva Rossi, ci vogliono far credere che sia
2possibile fare la frittata senza rompere le uova, ossia arrivare a un’efficiente
unità europea senza toccare la sovranità degli Stati nazionali”156.
Non sembri quindi fuori luogo, mentre si rievoca la genesi storica del
pensiero federalista, lanciare uno sguardo allo state attuale di tale progetto,
ricordando le parole con cui Rossi concludeva la prefazione ad Aria fritta nel
1956, affermando sconsolatamente che la speranza di una federazione europea
era divenuta ai sui occhi sempre più lontana:
Proprio perché abbiamo dovuto con grandissima pena rinunciare a questa
speranza, una cosa almeno noi federalisti desidereremmo. Che i nostri uomini
politici non ci rintronassero più le orecchie col ‘rilancio europeo’. [...] Non
vogliamo essere trattati come babbei che l’imbonitore convince a entrare nel
baraccone delle meraviglie per ammirare le sirene del Mar dei Caraibi. La politica
nazionalistica può, in confronto ai suoi particolari obiettivi, risultare buona o
cattiva; ma deve essere giudicata per quello che veramente è; non possiamo
ammettere che venga camuffata come avviamento alla realizzazione degli ideali
per i quali abbiamo combattuto durante la Resistenza e per i quali sono morti
uomini come Guglielmo Jervis, Leone Ginzburg ed Eugenio Colorni157.
Questa lezione di serietà e severa intransigenza, che era propria di Rossi e
Spinelli insieme, è forse tanto più utile oggi e costituisce un patrimonio da
riscoprire e consegnare alle nuove generazioni.
Cfr. la lettera di Rossi dell’11 marzo 1945, in G. Salvemini, Lettere dall’America. 1944/1946, cit.,
p. 125.
156 Cfr. la lettera di Rossi a Jane Carey del 9 settembre 1954, in ASUE, Fondo Rossi, Carteggio
1945-1967.
157 Cfr. E. Rossi, Aria fritta, cit., pp. XVIII–XIX.
155
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Spinelli uomo politico
di Piero Graglia
Riesce sempre difficile collocare “politicamente” una figura complessa come
Altiero Spinelli nella storia del nostro Paese. Forse lui stesso porta una certa
responsabilità per questo: la sua statura politica – che senza esagerare non esito
a definire immensa – e la sua storia personale impediscono una collocazione
all’interno di una qualsiasi delle famiglie politiche tradizionali del panorama
italiano post bellico.
Prima di tutto, Spinelli è stato comunista; un’adesione giovanile sentita e
appassionata, che lo portò a ricoprire ruoli di una certa importanza all’interno
dell’organizzazione giovanile del Pcd’I. Quando viene arrestato, nel giugno
1927 a Milano, Spinelli è responsabile della gioventù comunista per le regioni di
Lombardia, Piemonte e Liguria, e non ha ancora ventuno anni. La sua maggiore
età la compirà in carcere, a Roma.
La sua adesione al comunismo era una conseguenza diretta dell’influsso
paterno, da un lato, e della smania di azione che lo prende di fronte
all’affermazione del fascismo. Spinelli intende l’impegno politico come
qualcosa di assoluto, di kantiano, di totalmente pervasivo. Le testimonianze
dell’epoca che lo restituiscono giovane infiammato e settario, preparatissimo,
compreso nel ruolo di chi, all’interno di una chiesa, non ci sta per essere
semplicemente un fedele, bensì per essere un capo.
In carcere matura con lo studio e con la conoscenza di autori per lui affatto
nuovi (Croce soprattutto, ma anche Kant, Hegel, Vico) un progressivo distacco
dal socialismo scientifico, pianta che – confesserà al padre in una serie di brevi
lettere alla fine del 1930 – in lui aveva cessato di germogliare. Il comunismo non
gli serve più a spiegare l’esistente, Spinelli si è reso conto che esiste
qualcos’altro sotto il cielo, anche se si tratta di un cielo che lui vede attraverso le
sbarre di una prigionia che dura ininterrottamente per dieci anni, nelle carceri
di Lucca, Viterbo, Civitavecchia.
Quando Spinelli viene liberato dal carcere per essere immediatamente
arrestato e inviato al confino nelle isole, ormai la sua fede comunista è incrinata,
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il fedele si è emancipato dai dogmi, il verbo più che ascoltarlo cerca di crearlo
lui.
L’eresia di Spinelli, maturata lentamente ma costantemente all’interno
delle celle delle sue carceri, diventa palese a Ponza, dove Spinelli viene
brutalmente confrontato con la richiesta di avallare i processi farsa di Stalin, di
confermare con la sua fede il dominio del comunismo staliniano, di aderire alla
ennesima svolta che il dittatore russo imponeva al movimento comunista
internazionale nei rapporti con le altre forze antifasciste, passando con
disinvoltura dall’anatema del socialfascismo al sostegno della sicurezza
collettiva e all’esaltazione della collaborazione con le odiate democrazie
capitaliste. Spinelli è un acuto interprete, a suo modo, di una purezza
rivoluzionaria: sostiene la doppiezza di un atteggiamento che abbracciava i
valori democratici solo perché lo ritiene giusto strumentalmente; per lui, che ha
imparato i valori liberali in carcere, è necessario che il Pci si faccia portatore di
una libertà proletaria fuori da ogni tatticismo e da ogni opportunismo. Spinelli
odia i voltafaccia, le repentine variazioni di linea politica fatte solo per
convenienza e la sua risposta è ferma: il comunismo ha fallito perché si è
consegnato anima e corpo al dogmatismo staliniano; ha fallito come scienza
economica, ha fallito come modello di vita democratico; ha fallito come
strumento di lotta antifascista.
Nella dialettica della coesistenza al confino l’espulsione di Spinelli,
proposta da Giovanni Amendola e sancita dal direttivo composto da Terracini,
Scoccimarro, Secchia, porta con sé anche l’espulsione di alcuni compagni
comunisti che non vogliono credere che il loro compagno comunista sia
veramente un pericoloso traditore “troschista”. Valiani, molti anni più tardi,
ricorderà lo Spinelli del carcere a Civitavecchia definendo la sua compagnia
come l’esperienza fondamentale della sua formazione politica; non
diversamente doveva essere per quel manipolo di militanti che si rifiutarono di
credere alle accuse contro Spinelli e vennero espulsi con lui.
È del tutto ininfluente, nell’economia della vicenda personale di Spinelli,
sottolineare che il contrasto con il partito era evidentemente giunto a un punto
tale che Spinelli forse sperava in un provvedimento di espulsione, di fronte a
una diversità di posizioni così marcata; le accuse che gli vennero rivolte, di
essere ormai fuori dal partito con il suo pensiero e con le sue azioni sono
effettivamente vere, e non poteva essere altrimenti. Spinelli a Ponza è come
un’enorme nave che è stata varata, è scivolata sui binari dal bacino di
carenaggio fino all’acqua e lì prende il mare aperto.
Da Ponza a Ventotene il viaggio per mare è breve, ma per Spinelli,
idealmente, fu grandissimo. A Ventotene Spinelli impostò una nuova idea
politica, e lì strinse alcune delle amicizie più importanti della sua vita, con
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Ernesto Rossi e con Eugenio Colorni. Infine, fu a Ventotene che conobbe la
donna che gli sarebbe stata compagna dal 1943 alla fine della sua vita, Ursula
Hirschmann.
Con la stesura del Manifesto di Ventotene, nel 1941, Spinelli e Rossi
pongono al centro della loro visione politica la realizzazione della federazione
europea, vero e proprio punto di riferimento necessario per ogni azione politica
successiva. Conta poco qui alambiccare – come ormai sembra sia diventato di
moda – sull’attualità o meno degli aspetti accessori del Manifesto. Conta poco
domandarsi se il modello di società nazionale che esso prova a disegnare sia
ancora attuabile o desiderabile. La risposta in questo senso può essere, senza
tanti problemi, negativa. Il Manifesto, come modello di rinnovamento della
società nazionale e dei sistemi economici statali può benissimo essere
considerato superato.
Allo stesso modo di come può essere considerato superato il programma
di Giustizia e Libertà del 1932, con il suo modello di economia a due settori, o
come può essere considerato superato i programmi coevi del Partito socialista,
del Pci, della Democrazia cristiana. Ma il Manifesto di Ventotene non può
essere ricordato come possibile modello di rinnovamento delle società
nazionali: sarebbe come ricordare l’aereo dei fratelli Wright per il colore delle
ali. Il Manifesto deve essere ricordato – ed esaltato – perché pose con forza e
con argomentazioni che ancora oggi risaltano come irresistibili l’argomento del
superamento degli stati nazionali come forma naturale dell’organizzazione
politica, sociale ed economica dell’Europa, perché indicò negli Stati uniti
d’Europa, nella federazione europea la prospettiva di ogni agire politico che
non si volesse condannare alla conservazione o al fallimento.
Sebbene tutti sappiano che la Comunità economica europea non sorse
dalle idee federaliste del Manifesto, sorprende l’ostinazione così presente oggi
di additare ad esso i limiti e gli affanni di un modello di integrazione economica
e non politica che non si rifà per nulla ad esso1.
Da Ventotene in poi Spinelli persegue con ostinazione e convinzione la
ricerca di un motore politico che gli permetta di dare corpo al suo ideale,
portando alla realizzazione della federazione europea. Questo spinse Spinelli,
sia durante la Resistenza che dopo la fine del conflitto, verso forze politiche
volta a volta diverse, alla ricerca di un «principe» che ascoltasse i suoi consigli.
Durante la Resistenza i suoi rapporti sono soprattutto con il Partito d’Azione,
Non si possono quindi condividere le argomentazioni di Piero Melograni, avanzate su «Il Sole
24 Ore» del 22 giugno 2008, soprattutto laddove sembra indicare nelle colpe dei “padri”
(Spinelli in testa) le mancanze dell’Unione europea odierna. Addirittura il titolista va oltre,
attribuendo a Spinelli la qualifica di sostenitore della Cee, che invece Spinelli sin dall’inizio
bollò come “una beffa”.
1
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formazione alla quale aderirà con Rossi durante il periodo di esilio in Svizzera,
dal 1943 alla fine del 1944.
Era evidente che l’esistenza del Partito d’Azione rendeva inutile, e
finanche dannosa, l’esistenza di un ‘partito’ federalista europeo con un suo
progetto di riforma sociale che aveva più o meno le stesse caratteristiche di
quello azionista, radici comuni che risalivano all’esperienza di «Giustizia e
Libertà». La scelta movimentista era quindi rafforzata dalla presenza di un
nuovo soggetto nel panorama antifascista, fondamentalmente europeista e
federalista, socialista liberale, che non sembrava viziato dai limiti e dai
pregiudizi delle «vecchie» correnti politiche. In più i federalisti erano così
liberati dall’imbarazzo di doversi presentare con vestiti vecchi (i programmi di
politica nazionale) accanto a quelli nuovi (il progetto di federazione europea). A
Spinelli spetterà poi, nel periodo estate-inverno 1944, il compito di legare
strettamente la politica azionista del gruppo dirigente dell’Alta Italia alla
strategia federalista, redigendo in prima persona alcuni dei documenti
fondamentali di quella componente.
La dicotomia tra l’impostazione partitica del Manifesto e quella
movimentista quale scaturì, sulla base delle “Tesi” e dell’esistenza di nuove
forze politiche, al convegno di fondazione del Mfe a Milano, si risolse quindi a
favore della seconda alternativa dando vita al “Movimento Federalista
Europeo”2.
Fu grazie a Spinelli se il Partito d’Azione presenta oggi, agli occhi dello
storico, la fisionomia più coerentemente federalista ed europeista tra tutte le
forze politiche antifasciste, soprattutto se del Partito della rivoluzione
democratica si considera la sua componente milanese, nella quale Spinelli fu
attivo per tutto il 1944. Documenti come il Piano di lavoro del Pda e i
documenti relativi alla discussione sul ruolo dei Comitati di liberazione
nazionale nella ricostruzione della democrazia nazionale recano netto il segno
del federalista.
Ma ben presto fu chiaro, nella situazione successiva alla liberazione, che
una seria politica federalista non poteva essere portata avanti da quella realtà
così tormentata e conflittuale che era il Partito d’Azione. È in questo scorcio del
1945 che il federalismo della Resistenza registra la sua sconfitta, se non ancora
culturale, certo politica. Sul piano della politica internazionale gli Alleati
Anche sul secondo numero del periodico del movimento, «L’Unità Europea», era comparso
nell’agosto 1943 un articolo del socialista Guglielmo Usellini, nel quale si propendeva per la
forma organizzativa del movimento. L’articolo, intitolato «Movimento o partito», è ora
disponibile nel reprint del periodico clandestino, «L’Unità Europea» 1943-1945, con Nota
introduttiva di Sergio Pistone, edito a cura della Fondazione Europea Luciano Bolis, Milano,
1983.
2
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anglosassoni non abbracciano del tutto la prospettiva dell’unità del continente
pur esprimendo una certa simpatia per l’idea, ma di fatto preferendo procedere
a indirizzare la ricostruzione degli stati europei lungo i binari usuali delle
sovranità separate e del sistema di sicurezza collettivo rappresentato
dall’Organizzazione delle Nazioni Unite3; l’Urss dal canto suo mantiene le
posizioni di forza e di espansione raggiunte con la sconfitta della Germania e
procede alla creazione del suo sistema satellitare di paesi «fratelli»; le forze
politiche europee uscite dalla Resistenza, moderati e partiti di sinistra, si
orientano di conseguenza a seconda dei rispettivi punti di riferimento.
In tali condizioni una scelta di campo si imponeva, anche per i federalisti
europei, e Spinelli la espose, assieme all’invito a modificare la strategia del
movimento, in un articolo che, non a caso, si intitolò Bilancio4. In tale scritto
Spinelli prendeva atto da un lato della nuova situazione europea al termine del
conflitto, così diversa da quella che i federalisti avevano immaginato nel 1941:
a) i paesi ed i popoli europei erano privati di qualsiasi potere di iniziativa nei
confronti delle politiche di ricostruzione internazionale (“Ciò non è detto per
recriminare o lamentarsi, ma solo per fissar bene come le cose effettivamente
stanno”);
b) visto che le tre potenze mancano di un criterio comune di ricostruzione
europea, le speranze di unità politica (“in una libera comunità”) vanno
rimandate a quando sarà possibile avere una situazione di equilibrio
diplomatico tra i vincitori che restituisca un minimo di libertà di movimento ai
paesi europei;
Anche negli ambienti laburisti inglesi che succedevano ai conservatori al governo – suscitando
nuove speranze nei federalisti europei – si passò dall’entusiasmo per l’idea di federazione
franco-britannica del 1940 e dall’ “Europe must federate or perish” di Attlee, affermato nel
pieno della guerra, a una politica di quasi neo-isolazionismo. Cfr. M. Newman, British Socialists
and the Question of European Unity 1939-1945, «European Studies Rewiev», 10, 1980, pp. 75-100.
4 A. Spinelli, Bilancio, «L’Unità Europea», n. 12, 17 giugno 1945. Ripubblicato in A. Spinelli, Dagli
stati sovrani agli Stati Uniti d’Europa, cit., pp. 173-78. Anche Ernesto Rossi aveva dal canto suo
maturato in Svizzera una sua revisione della strategia complessiva da adottare che si sarebbe
ora incontrata con quella scelta da Spinelli; tale revisione si caratterizzava sempre più per
l’acceso anticomunismo, per il crescente scetticismo nei confronti del ruolo decisivo della Gran
Bretagna per giungere all’unificazione europea, per il rifiuto di forme di propaganda sterili che
non “scendessero sui problemi concreti”: “Certo, anche parlando di federalismo si può servire
una gelatina incolore e insapore che non dispiaccia a nessuno: si avrebbe allora la soddisfazione
di andare d’accordo con Stalin, con Benes, con Layton, con S.S. il Pontefice. Ma si sarebbe più
sicuri di andare d’accordo con tutti contentandosi di parlare di solidarietà tra i popoli” (Lettera
a Spinelli del 12 novembre 1944, Archivi storici dell’Unione europea, Dep. AS-6). Con
l’approssimarsi della fine del conflitto e il sorgere dei blocchi, Spinelli e Rossi si sarebbero in
sostanza ritrovati nella linea di attendere tempi migliori per il federalismo “politico”, decidendo
di privilegiare l’attività di studio e abbandonando entrambi, momentaneamente, l’attività nel
movimento.
3
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c) stando così le cose i federalisti si devono prima di tutto impegnare affinché
vengano svelenite le relazioni tra paesi ex-nemici e non risorga il nazionalismo
latente in Europa. Un’attività di “dissodamento della coscienza politica
moderna tutta irrigidita dalle tradizioni nazionalistiche, in modo da abituarla a
comprendere gli avvenimenti ed a costruire su di essi con una visione
federalista”5.
Dopo la fase del federalismo rivoluzionario (1941-’42), dopo quella del
federalismo-movimento teso ad infiltrarsi nelle altre forze politiche italiane ed
europee, per indirizzarle e sensibilizzarle (1943-’45) si passava ora, nelle parole
di Spinelli, alla fase del “federalismo in attesa”, che doveva lavorare sulle
coscienze per la creazione di un comune sentire europeista, mettere in evidenza
e sottolineare le incrinature nelle coscienze degli uomini politici di ogni paese,
“incrinature ancora quasi invisibili e di cui non ci si rende molto conto”. Passata
la fase della lotta armata contro il fascismo, nemico visibile, ci si doveva ora
attrezzare per la lotta contro un nemico meno individuabile – il ritorno verso
forme di organizzazione statale basate sulla sovranità assoluta – e per tale lotta,
se si escludeva la scelta di tentare di incidere sulle Assemblee Costituenti dei
vari paesi in via di ricostruzione, mancavano in gran parte le armi e gli
strumenti.
Si trattava, a suo modo, di una “revisione angosciosa” di tutta la strategia
federalista, ma soprattutto essa costituiva una presa d’atto che gli appelli e i
suggerimenti rivolti nel passato a correnti del Psiup, del Pda, a esponenti della
resistenza francese, non potevano fare nulla, qualunque fosse stato il loro esito,
contro la realtà della divisione dell’Europa in sfere d’influenza. Una posizione
che Spinelli portò avanti, allontanandosi lentamente, con Rossi, dall’attività
federalista, per tutto il resto del 1945, continuando a sottolineare, per il Mfe, la
necessità di operare per il sorgere di una coscienza “nazionale” europea
piuttosto che logorarsi in una lotta politica persa in partenza e comunque molto
difficile da sviluppare con qualche possibilità di successo.
Spinelli esce quindi dalla lotta antifascista con un profondo senso di
delusione rispetto alle prospettive di attuabilità del disegno federalista;
delusione che la imminente formazione dei blocchi doveva in parte almeno
confermare. L’idea di una federazione continentale continuava tuttavia a
costituire elemento minoritario di discussione e di confronto anche nell’Italia
repubblicana. In questa discussione Spinelli si reinserì dal 1947 in poi, cercando
una costante difficile dialettica tra esponenti governativi, realizzazioni
funzionaliste e prospettive di un’azione costituente federalista.
5
A. Spinelli, Bilancio, cit.
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La strategia di Spinelli per gli Stati Uniti d’Europa mutò così negli anni a
seguire, mantenendo un filo coerente rispetto al fine ultimo da attuare, ma
diversificandosi – e di molto – a seconda dei ruoli ricoperti da Altiero: prima
leader monocratico del Mfe, poi Commissario europeo (1970-’76), infine
parlamentare nazionale ed europeo (1976-’86). Il periodo di apprendistato del
federalismo europeo, tra il 1943 e il 1945, lascerà il posto ad altri tentativi,
sempre giocati senza tenere troppo conto dei fallimenti precedenti, ma
capitalizzando utilmente i pochi, significativi, successi.
Spinelli sarà sempre presente, sia nelle file del socialismo riformista (con
Saragat nel 1948-49 e consigliere di Nenni ministro degli Esteri nel 1969) sia in
quelle, ritrovate, del Pci, realtà politica che Spinelli osserva con attenzione sin
dagli anni durante i quali svolge la funzione di Commissario europeo (dal 1970
al 1975).
Nel 1976, su suggerimento proprio dell’uomo che fu il principale autore
della sua espulsione dal Pci nel 1937, Giorgio Amendola, il Pci gli offre la
candidatura alla Camera. Spinelli accetterà, scrivendo una lunga lettera diretta
ad Amendola:
Ho accettato per quattro ragioni. La prima è che, essendo convinto che la
partecipazione comunista al governo è necessaria per salvare la democrazia in
Italia, sono pronto a far campagna in questa prospettiva. La seconda è che,
lusingandomi di avere esercitato una qualche influenza sulla maturazione del
pensiero politico comunista in materia europea, mi sorride l’idea di poter
contribuire a rafforzare questa politica con la mia presenza accanto a voi a
Montecitorio e, spero, a Strasburgo. La terza è che la notizia della mia accettazione
avrebbe avuto una grossa eco nella Comunità e nelle capitali europee – il che di
fatto è avvenuto – ed avrebbe costituito quindi un segnale chiaro, per chiunque
avesse voluto intendere, che fra poche settimane tutti i Paesi d’Europa si
troveranno dinnanzi ad una Italia nuova e dovranno decidere, non se i comunisti
al governo piacciono o non piacciono, ma se vorranno aiutare o no la repubblica
italiana nella sua volontà di ricostruzione. La quarta ragione è che all’origine di
questo invito ci sei tu e che credo che le ragioni che ti hanno mosso siano state
simili alle mie6.
Da notare che manca ogni riferimento in questa lettera a progetti concreti in
campo europeo che Spinelli vorrebbe attuare, o a problematiche comunitarie da
affrontare; il registro dominante è quello della politica interna, segno evidente
che Spinelli ha una sua strategia sulla riforma della Comunità che per il
momento non vuole comunicare, neppure informalmente, a chi gli ha proposto
la candidatura.
6
Lettera ad Amendola del 18 maggio 1976, Dep. AS-34.
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Come si era arrivati a questo punto? Come mai il partito che aveva espulso
Spinelli nel 1937, adesso – ovviamente profondamente cambiato e diverso
rispetto al partito di quegli anni – accetta Spinelli come indipendente nelle sue
fila?
I motivi sono diversi, ma nessuno può essere del tutto ricondotto alla
mitologia del “riavvicinamento” che Spinelli stesso, nelle sue memorie e nei
Diari, ha alimentato, raccontando di una evoluzione positiva del Pci verso le
sue posizioni, al punto da diventare “spinelliano”. Un riavvicinamento
ovviamente vi fu, ma esso era un portato di due evoluzioni diverse che avevano
poco in comune. Una era l’evoluzione del gruppo dirigente del Pci
berlingueriano, che cercava di inserirsi nel gioco democratico nazionale
attraverso la formula del “compromesso storico” con la Democrazia Cristiana e
non poteva disdegnare l’appoggio di un intellettuale di rilievo, in campo
europeo, quale era Spinelli. A proposito Daniele Pasquinucci ha scritto, con
ragione, del disegno del Pci di riproposizione della teoria gramsciana
dell’egemonia sulla società da attuare con la mediazione degli intellettuali7.
L’altra evoluzione era stata quella di Spinelli, che fin dagli anni della
Commissione aveva valutato con favore l’evoluzione del Pci di Berlinguer e
sosteneva un suo inserimento nel sistema democratico italiano; ma Spinelli
aveva nel contempo rivisto anche il suo giudizio sulla politica estera americana
nei confronti dell’Europa: essa con Nixon non era più la politica di apertura e di
sostegno all’integrazione europea praticata, con diversa intensità ma con
continuità, da Truman fino a Johnson. L’attuale presidente americano attuava
invece una politica egemonica fondata su una “concezione imperiale” dei
rapporti tra Europa e America8, che non poteva non essere giudicata
negativamente e contrastata abbandonando le contrapposizioni ideologiche
all’interno dei paesi europei.
A questo giudizio sostanzialmente negativo nei confronti della diplomazia
di Kissinger, Spinelli era sicuramente arrivato anche sulla base dell’esperienza
di commissario, quando aveva sperimentato con mano da un lato le pressioni
statunitensi sulla questione dei dazi agricoli europei imposti alle importazioni
extracomunitarie, dall’altro la tensione esistente anche sul versante della
concorrenza industriale nei settori dell’aeronautica e delle nuove tecnologie,
della quale vi sono diverse eco all’interno dei Diari.
7
8
D. Pasquinucci, Europeismo e democrazia..., Bologna, Il Mulino, 2000, p. 302.
Cfr. Per una prospettiva europea, intervista a cura di Alberto Jacoviello, «L’Unità», 3 giugno 1976.
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In sostanza, ciò che spingeva Spinelli a dare il suo sostegno al tentativo di
Berlinguer di portare il partito fuori dalla zona di quarantena, era la coscienza
che un’unione politica, una riforma sostanziale delle istituzioni comunitarie che
ponesse l’Europa in grado di giocare un ruolo nel mondo anche a fronte dei
tentativi egemonici kissingeriani, non poteva essere costruita senza il contributo
di tutte le componenti politiche e sociali dei diversi paesi europei, e sia in Italia
che in Francia che in Paesi di nuova democrazia, come il Portogallo e la Spagna,
i comunisti rappresentavano una presenza significativa e non eludibile.
A questo riguardo Spinelli avrebbe scritto, in un progetto di dichiarazione
sulla sua scelta di accettare la candidatura:
Fin dall’agosto 1974 ho scritto, e da allora non ho cessato di ripetere, che la
Comunità ha bisogno di un’Italia dotata di una politica economica aperta,
progressivamente liberata dalle innumerevoli, soffocanti strutture parassitarie,
progressivamente dotata di efficaci strumenti di giustizia sociale, con
un’amministrazione risanata, e che questo compito, implicante la distruzione di
non pochi privilegi ed un periodo di non facile austerità, non avrebbe potuto
essere affrontato escludendo dalle responsabilità governative una forza come
quella del Partito comunista9.
Tuttavia quando la decisione di Spinelli viene resa nota, le reazioni sulla
stampa italiana e internazionale sono abbastanza negative, tutte registrate nella
rassegna stampa che Altiero conservò con i ritagli degli articoli di giornali
europei che parlavano della sua decisione10. Ad esempio la notizia colpì molto i
tedeschi, e i francesi, che parlarono di un affaire Spinelli11 mentre i britannici
sentirono addirittura il bisogno di chiedersi, per bocca di un deputato
conservatore, se la Comunità non fosse un pericoloso ricettacolo di comunisti o
di “altri cappuccetti rossi”12.
Progetto di mia dichiarazione. Perché sono andato col Pci, 20 maggio 1976, Dep. AS-34.
Dep. AS-34. Altiero definiva il dossier della reazioni della stampa alla sua candidatura
“abbastanza interessante” (Diario europeo 1970-1976, p. 945).
11 Ph. L., La majorité des membres de la Commission européenne déplorent que M. Spinelli s’engage aux
cotés des communistes, «Le Monde», 19 mai 1976.
12 Fritz Wirth, Callaghan und Heath üben Kritik an Spinelli, «Die Welt», 29 maggio 1976, cit. da
Daniele Pasquinucci, Europeismo e democrazia…, cit., p. 296.
9
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I commissari accettarono a fatica la motivazione che Spinelli diede loro della
sua candidatura, durante l’ultima riunione della Commissione alla quale
Spinelli abbia partecipato, il 17 maggio:
Dico che ho accettato perché credo necessaria la partecipazione comunista al
governo, perché sono impegnati nella politica europea nel senso in cui io la vedo,
perché intendo quindi contribuire a che queste due politiche abbiano successo, e
perché l’opinione pubblica europea si renda conto fin da adesso che il problema di
avere ormai a che fare con un’Italia diversa deve essere affrontato senza indugi13.
Pur con questa chiara presa di posizione, i commissari non rinunciano a
esprimere perplessità; il tedesco Wilhelm Haferkamp ad esempio mette in
guardia Spinelli dalla concezione che Lenin e Stalin avevano degli
“indipendenti”; gli altri sono dubbiosi e silenziosi, con Ortoli che comunque
esorta Spinelli a non coinvolgere la Commissione nella sua campagna elettorale
e nelle sue dichiarazioni. Cautele e preoccupazioni inutili, soprattutto
considerando il carattere di Spinelli che non era certo persona manovrabile o
utilizzabile come gli “utili idioti” fiancheggiatori del Pci messi alla berlina dalla
propaganda democristiana nel 1953.
Qualche giorno dopo Ortoli telefona a Spinelli per informarlo che in
Commissione si è di nuovo parlato di lui su richiesta di alcuni commissari:
è stato chiesto perché non avevo dato le dimissioni, se prendevo ancora lo
stipendio, se ci si poteva fidare del mio gabinetto, se adoperavo ancora le facilities
di commissario per la mia campagna elettorale. Ortoli ha loro risposto
correttamente, ma mi ha raccomandato di essere prudentissimo, perché nella
Commissione ho dei nemici14.
Un’eco delle perplessità che la candidatura di Spinelli solleva in Europa,
soprattutto in Germania, la si ritrova anche nella stampa italiana15, ma certo la
notizia ha un rilievo inatteso negli Stati Uniti. Il «New York Times» citava
Spinelli come prova della cura che il partito comunista italiano metteva per
ampliare la rosa dei suoi candidati, anche se il nome di Spinelli era forse
impropriamente usato in un articolo che trattava soprattutto dei cattolici
candidati dal Pci16. Sempre il «NYT» affiancava poi il nome di Spinelli a quello
di Nino Pasti, generale in pensione che era stato un Deputy-SAC (Supreme
Allied Commander) della Nato per gli affari nucleari dal 1966 al 1968, ponendo
Diario europeo 1970-1976, p. 943.
Diario europeo 1976-1986, p. 12.
15 T.S., Bonn: clamore sul caso Spinelli, «La Stampa», 18 maggio 1976, V.B., Reazioni a Bonn alla
candidatura fra i comunisti di Altiero Spinelli, «Corriere della Sera», 17 maggio 1986.
16 Alvin Shuster, Vatican Steps up Campaign Urging Italian Voters to Shun Reds, «NYT», May
18, 1976.
13
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la questione se entrambi avrebbero poi divulgato “al nemico” “segreti” militari
o commerciali relativamente all’Alleanza Atlantica e all’Europa (ovviamente la
preoccupazione principale era per Pasti più che per Spinelli)17.
Con tutto questo, Spinelli fu realmente “indipendente” nei confronti delle
scelte ufficiali che il Pci assunse su alcune questioni, poiché la sua autonomia di
giudizio e la sua intraprendenza politica lo rendevano assolutamente
imprevedibile e del tutto autonomo. La prima avvisaglia di un comportamento
lontano dall’ossequio alle direttive di batteria si ebbe quando, l’11 agosto 1976,
il neo-deputato Spinelli prese la parola per esprimere la sua dichiarazione di
voto per la fiducia al governo Andreotti, parlando a titolo personale e non quale
presidente del gruppo parlamentare misto. Mentre il gruppo parlamentare
comunista si sarebbe astenuto, insieme a gran parte degli indipendenti, Spinelli
fu tra i 44 deputati che votarono apertamente contro. I motivi con i quali
Spinelli spiegava il suo dissenso erano riconducibili sia alla qualità del
programma sul piano interno, sia ai limiti della politica europea e sia infine
all’atteggiamento nei confronti dell’alleato d’oltreoceano. Riguardo al primo
punto, Spinelli contestava al governo Andreotti di non essere in grado di
interpretare correttamente il “responso elettorale del popolo italiano”:
Non vi è dubbio che il responso elettorale è stato nel senso di confermare alla
democrazia cristiana il diritto di formare il Governo, avendo la maggioranza
relativa. Ma per avere un Governo poggiante su una solida e reale maggioranza
nel paese e nel Parlamento, occorre una coalizione con i comunisti e con i socialisti.
In qualsiasi paese, con una pluralità di partiti e con abitudini democratiche serie, vi
sarebbe stato un lungo e duro negoziato allo scopo di concludere una coalizione
destinata a fare un Governo di legislatura. Ma protervia ed arroganza
(quell’arroganza che lʹonorevole Zaccagnini ha osato ribadire di non avere) hanno
impedito alla democrazia cristiana – abituata a fare Governi in cui, salvo
concessioni marginali ai cosiddetti alleati tradizionali, tutte le leve del potere
restano nelle sue mani – hanno impedito, dicevo, anche solo di sondare quella che
era l’unica possibilità di dare al paese un Governo solido18.
Per quanto riguardava invece la politica da tenere nei confronti dell’alleato
statunitense, Spinelli non lesinava critiche al governo che richiedeva la fiducia,
sottolineando come fosse necessario rendersi conto che non solo Breznev era
portatore della dottrina della sovranità limitata, sperimentata otto anni prima a
Praga, ma anche Kissinger aveva da anni impostato un suo disegno egemonico
Alvin Shuster, Ex-Nato Deputy Commander Runs on Communist Slate in Italian Election,
«NYT», May 21, 1976.
18 Camera dei Deputati, Atti parlamentari, VII legislatura, Discussioni, seduta dell’11 agosto
1976, pp. 535-537.
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nei confronti dell’Europa, e rivolto ad Andreotti gli contestava un vuoto di
proposte e di intenzioni riguardo alla politica estera:
Ella ha detto che i due pilastri della politica estera italiana, l’alleanza atlantica e
l’unificazione europea, sono oggi accettati praticamente da tutte le forze politiche;
ed è vero ed è bene che sia così. Ma ne ha tratto, stranamente, la conseguenza che
quindi è quasi inutile pensare seriamente a questi temi e che basta qualche frase
banale intorno ad essi. Ma, onorevole Andreotti, se è vero che nessuno contesta più
l’alleanza atlantica, è anche vero che nel seno di questa da tempo il segretario di
Stato americano va con energia sostenendo che in essa c’è un paese egemone, cioè
imperiale, con visioni globali, e paesi dipendenti, quelli europei, incapaci di darsi
una identità, di dubbia legittimità, tenuti a consultare il “grande fratello” prima di
decidere alcunché, tenuti persino ad avere Governi che piacciano a Washington.
C’è, insomma, non soltanto una teoria di Breznev della sovranità limitata, ma
anche una di Kissinger. Poiché l’America è un grande paese democratico, c’è per
fortuna anche una grande e forte opposizione contro questa politica; ma essa esiste
ed opera, e potrebbe avere conseguenze nefaste per noi come per la stessa
America19.
Infine l’accusa più motivata, per Spinelli, relativamente alla politica europea del
governo che egli definisce senza mezzi termini “schizofrenica”: da una parte la
politica europea mira a “prospettive federali” sostenendo le elezioni europee,
ma dall’altra punta a direttori ristretti, a modelli di Europa a due velocità che
Spinelli rigetta completamente, soprattutto in vista della richiesta di adesione
dei paesi mediterranei usciti dalle “dittature fasciste”:
I nostri Governi passati sono stati inerti di fronte a questo secondo tipo di sviluppo
della questione europea, che potrebbe uccidere il progetto federale democratico e
che restaurerebbe, solo in forme ridicolmente pretenziose e impotenti, l’antico
concerto delle grandi potenze europee. [...] Il suo Governo, onorevole Andreotti,
non ha trovato nulla da dire circa l’impegno a battersi contro questa prospettiva, in
nome non solo e non tanto della dignità, e sovranità nazionale, quanto, e
soprattutto, della dignità e sovranità del nascente popolo europeo20.
Il voto negativo di Spinelli durante il dibattito per la fiducia al governo
Andreotti non fu motivo di irritazione per i comunisti quanto lo fu invece il
voto positivo che nel dicembre 1978, appena due anni dopo, sempre nella sua
veste di parlamentare italiano, Spinelli dette sull’approvazione dello SME, il
Sistema monetario europeo che sarebbe stato implementato completamente
solo nel 1979. In quell’occasione il Pci si era allineato sulla valutazione dello
Sme che avevano dato i vertici della Banca d’Italia, intendendolo come un
limite significativo alla sovranità monetaria dell’Italia. Ma, ovviamente, Spinelli
19
20
Ibidem.
Ibidem.
P. Graglia, Spinelli uomo politico
84
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
vedeva tutti gli elementi positivi della scelta a favore dello Sme e si distaccò
significativamente dalla posizione del gruppo parlamentare comunista.
Riprendendo idealmente le fila di un discorso avviato quando era ancora
commissario all’industria e alla ricerca, Spinelli vedeva nella questione
dell’accettazione o meno dello Sme, cioè del potenziamento di strumenti di
controllo delle politiche economiche degli stati membri della Comunità, anche
un sistema per decidere verso quale tipo di sviluppo economico la Comunità
doveva muoversi. Non è che per Spinelli lo Sme rappresentasse il non plus ultra
del controllo delle politiche economiche e monetarie dei paesi membri, ma si
trattava tuttavia di un sistema di controllo e di stabilità monetaria che era
necessario al sistema europeo, sia che esso mantenesse un modello di sviluppo
basato sulla spinta dei consumi (“è in fondo questo che sta dietro alle continue
richieste alla Germania, agli Stati Uniti e al Giappone di consumare di più”), sia
che si puntasse a politiche di austerità e a programmi di investimento nei paesi
in via di sviluppo, un problema che per Spinelli “si pone[va] per tutta la
Comunità e per tutto il mondo”21.
Su questa sensibilità “terzomondista” Spinelli poteva sperare di incontrare
il Pci a mezza strada, anche a fronte dei contrasti sulla valutazione di iniziative,
come lo Sme, che il Pci era evidentemente incapace di valutare nella loro
portata “europea” leggendoli solo sul piano dei rapporti con istituzioni
economiche e finanziarie nazionali – quali la Banca d’Italia. Di fatto, la vicenda
del voto sullo Sme non guastò i rapporti tra Pci e Spinelli, ma certamente
rappresentò un chiaro messaggio che Spinelli portava avanti una “sua”
impostazione e una “sua” politica che non necessariamente coincidevano con le
posizioni del partito comunista italiano ma che neppure portavano a fratture
insanabili22. Del resto, il nome di Spinelli venne fatto nel marzo 1979 come
possibile ministro in quota al Pci all’interno del governo monocolore Andreotti,
una prospettiva che tramontò sia per i veti della Dc che per l’indisponibilità
dell’interessato. Ciò a cui puntava Spinelli non era un incarico ministeriale
nazionale, ma l’elezione al Parlamento europeo nelle successive elezioni a
suffragio universale e diretto, previste per il giugno 1979.
Camera dei deputati, Atti parlamentari, VII legislatura, Discussioni, seduta del 12 dicembre
1978, pp. 24911-24912.
22 Il nome di Spinelli compare anche in alcuni progetti di legge sostenuti dal Pci, il più famoso
dei quali è il progetto di legge sull’interruzione volontaria della gravidanza che, presentato con
la prima firma di Balzamo (altri firmatari Bozzi, Gorla, Mammì, Natta, Preti e Spinelli), avrebbe
portato dopo lunga discussione parlamentare all’approvazione della “legge 194”, votata alla
Camera il 13 aprile 1978.
21
P. Graglia, Spinelli uomo politico
85
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
La coesistenza tra mandato parlamentare nazionale e appartenenza alla
delegazione italiana al Parlamento europeo (della quale Spinelli fece parte dal
luglio 1976), sarebbe così scomparsa rendendo libero Spinelli di occuparsi solo
del tema che a lui stava più a cuore: la riforma delle istituzioni comunitarie e, in
essa, il ruolo costituente del Parlamento europeo. Il rapporto di Spinelli con il
Pci restò da allora sempre dialettico e mai caratterizzato dalla prevedibilità,
soprattutto nel momento in cui Spinelli si apprestava a cercare di creare ciò che
per lunghi anni, praticamente dagli anni Cinquanta, aveva predicato: una
costituente per un’Europa federale. Una prospettiva questa che rientrava
tendenzialmente nei favori del Pci di Berlinguer ma che non era – e non poteva
essere – una pietra angolare della politica ‘europea’ del partito, ancora in fase di
definizione e di consolidamento.
Dopo di allora, la prospettiva dell’approvazione da parte del Parlamento
europeo di un progetto di trattato istitutivo dell’Unione europea assorbì tutte le
restanti energie di Spinelli. Su quel progetto egli spese tutta la sua abilità
politica, tutta la sua influenza maturata durante gli anni da commissario, tutte
le sue capacità; sotto la sua guida la commissione istituzionale del Parlamento
europeo preparava un trattato che proponeva un modello di tipo federale per la
Comunità, trasformata in Unione europea. Un trattato che il Parlamento
europeo votava nel 1984, facendo presagire la nascita di una nuova stagione per
la storia europea.
Ignorare questi sviluppi, così vicini a noi, e ingessare Spinelli nell’icona di
Ventotene non può portare da nessuna parte, e men che meno può far capire
perché egli meriti, al pari di Monnet e con qualche merito in più rispetto a De
Gasperi, Adenauer e Schuman, l’appellattivo di “padre” dell’Europa. Un padre
che, a ragion veduta, di errori ne ha fatti pochini, sicuramente meno di quanti
gliene vengono attribuiti.
P. Graglia, Spinelli uomo politico
86
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
La Romania e la Spagna
di María Nogués
Giordano Altarozzi, La Romania e la guerra di Spagna, Periferia, Cosenza, 2007,
pp. 303.
Un volume che tratta della Romania e della Spagna apporta un contributo
d’approfondimento quanto mai attuale e utile alla comprensione della
convivenza che –di fatto– si è creata negli ultimi anni con la massiccia presenza
di lavoratori romeni nella società spagnola. La delicata lente attraverso cui
l’autore rappresenta queste due nazioni è quello della guerra civile spagnola:
un tema molto studiato, ma che non termina mai di sollevare drammatiche
domande e animati dibattiti (come avviene in questo periodo in Spagna con la
legge sulla memoria storica, che cerca di affrontare e approfondire aspetti gia
molto noti che continuano ad essere fonte di divisione e di scontro tra gli eredi
del bando nazionale e di quello repubblicano). La Romania e la guerra di Spagna,
di Giordano Altarozzi, affronta dunque due soggetti storiografici
particolarmente studiati, anche dalla storiografia italiana: la storia della Spagna
e della Romania nel periodo tra le due guerre mondiali e particolarmente nel
corso degli anni Trenta.
Il lavoro è il risultato di anni di studio effettuato nell’ambito del dottorato
di ricerca in “Storia d’Europa” della “Sapienza” Università di Roma, con
l’esperta guida di Antonello Biagini. Si fa ricorso in primis alle fonti a stampa,
come la stampa giornalistica spagnola e romena del periodo interbellico ma
anche di paesi “terzi” (Italia, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti), oltre che alle
principali fonti archivistiche (come l’Archivio del Ministero degli Affari Esteri e
gli Archivi Nazionali Storici Centrali di Bucarest). Attraverso tali fonti,
arricchite da una ricca bibliografia, si è tentato di fare luce su un periodo
estremamente interessante per lo sviluppo futuro della storia dell’intera
Europa. È infatti innegabile che il periodo interbellico abbia rivestito, per
l’intero continente ma soprattutto per la parte orientale d’Europa,
un’importanza straordinaria: soprattutto nel caso romeno, la rivalutazione e per
molti versi la riscoperta di tale epoca ha costituito la base della cosiddetta
transizione post-comunista. In questo periodo la guerra di Spagna, che ha
determinato gli equilibri internazionali della seconda metà degli anni Trenta,
M. Nogués, La Romania e la Spagna
87
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
riveste un ruolo assolutamente centrale: se infatti è ormai superata
l’interpretazione storiografica secondo cui essa costituì una sorta di
anticipazione del secondo conflitto mondiale, è tuttavia evidente come essa
giocò un ruolo primario nella costituzione dei due blocchi che di lì a poco si
sarebbero affrontati a livello globale.
Lo scontro provocò quindi una reazione emozionale senza precedenti
nell’opinione
pubblica
internazionale
testimoniata
dall’imponente
partecipazione di volontari stranieri, indipendentemente dall’orientamento
politico dei singoli, nonché dall’immenso numero di articoli e pamphlet
pubblicati, che contribuì alla radicalizzazione della vita politica. Il volume
conferma l’influenza che la guerra civile spagnola ebbe sull’opinione pubblica
mondiale attraverso le reazioni che si scatenarono in Romania, un paese
distante dal punto di vista geografico, economico, “spirituale”, ma che pure era
chiamato ad affrontare problemi simili. Nonostante le evidenti differenze
storiche, i due paesi presentavano un’evoluzione politica dello stesso tipo:
entrambi i paesi all’inizio degli anni Trenta mostravano infatti una società
basata sul predominio numerico – ma non anche politico – di piccoli contadini
che erano spesso proprietari solo della propria forza lavoro, una classe media
borghese che cercava di emergere scontrandosi con le forti resistenze da parte
dei ceti privilegiati tradizionali, un proletariato debole numericamente e
scarsamente rappresentato politicamente ma pur sempre in crescita.
Contemporaneamente sul fronte politico-culturale entrambi i paesi vivevano
quel più generalizzato processo di “brutalizzazione” della politica che
costituiva una caratteristica comune al panorama politico europeo nel periodo
interbellico e che qui, come anche altrove, portò all’affermazione quasi
contemporanea (Spagna 1936-1939, Romania 1938) di regimi dittatoriali e
autoritari.
Il giovane studioso, autore del corposo volume, presenta dunque con un
intelligente sforzo di schematizzazione il tema proposto dividendo la ricerca in
tre parti: i primi due sono di introduzione all’evoluzione della situazione storica
della Spagna dalla fine del regime primoriverista al colpo di stato del 17 luglio
1936 e quindi alle vicende militari, politiche, economiche e sociali degli anni
della guerra civile; la terza parte riguarda invece le condizioni storiche della
Romania degli anni Trenta – in costante paragone con la concomitante
evoluzione degli eventi spagnoli – e il ruolo giocato dalla guerra civile di
Spagna sullo sviluppo della situazione politico-economica e socio-culturale
romena. Corredato da una ricca bibliografia – resa necessaria dalla vastità dei
soggetti analizzati – il volume di Altarozzi risulta essere sicuramente uno
strumento di lavoro e di approfondimento molto utile per gli studiosi di storia
M. Nogués, La Romania e la Spagna
88
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
contemporanea della Spagna e della Romania, due paesi legati da un rapporto
di comune origine latina e oggi entrambi membri dell’Unione Europea.
M. Nogués, La Romania e la Spagna
89
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
La Romania “europea”, dei partiti e della democrazia
del prof. Antonello Biagini
Andrea Carteny, I partiti politici in Romania: 1989-2004, Cosenza, Edizioni
Periferia, 2007, pp.
L’interesse per la Romania, all’indomani del 1° gennaio 2007, è dato dalla
valenza storica che questo atto significa per il Paese danubiano. Nelle
prospettive di studio storico dell’Europa orientale, infatti, l’allargamento a
Romania e Bulgaria, i due Paesi che costituiscono i Balcani orientali, chiude la
stagione della riunificazione d’Europa dopo la guerra fredda, il bipolarismo e la
contrapposizione Est-Ovest. Di fatto, il mancato ingresso di questi Paesi
nell’allargamento dell’Unione nel 2004 è stato piuttosto il risultato più di una
scelta politica rispetto alla mera applicazione dei parametri europei; un’attenta
analisi di altre realtà dell’area ex socialista, dimostrerebbe che alcuni di quei
Paesi erano ben lungi dal soddisfare, all’atto dell’ingresso, tutti i parametri che
l’Europa richiede. Per la Romania, che qui ci interessa, hanno pesato
negativamente carenze strutturali di lungo e medio periodo che hanno
ritardato i processi di modernizzazione e di trasformazione nel campo giuridico
e in quello economico. Ai problemi reali si è affiancata, in taluni casi, anche
un’eccessiva enfatizzazione di alcuni scandali da parte della stampa
internazionale che ha veicolato sull’opinione pubblica europea un’immagine
negativa della complessa realtà romena reduce da uno dei regimi comunisti
dell’Est europeo – per unanime riconoscimento – tra più duri anche se non
esente da elementi peculiari che hanno consentito di individuare un “modello”
romeno sintetizzato come “nazional-comunismo”.
La ricostruzione del sistema pluripartitico che la Romania, caduto
Ceauşescu, ha dovuto affrontare è stata di rilevante complessità anche per la
mancata cesura (dirigenti ed élite politiche) con il recente passato comunista.
Risorgono le vecchie strutture e partiti del periodo tra le due guerre mondiali
(come il Partito Nazionale Contadino o il Nazionale Liberale) accanto a forze
nazionaliste, compagini che in molti casi tentano di riallacciarsi a tradizioni
precedenti l’avvento del “socialismo reale”; un fenomeno in qualche modo
comune a molte altre realtà dell’Europa che per mezzo secolo ha sopportato
l’egemonia di Mosca.
A. Biagini, La Romania “europea”, dei partiti e della democrazia
90
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
Uno degli elementi che ha meravigliato maggiormente l’opinione pubblica
internazionale dopo la fine dei regimi comunisti è stato quel nazionalismo
irrazionale ed estremista che i Paesi dell’Europa occidentale – attraverso i
meccanismi progressivi del processo di unificazione dell’area – credevano
ormai superato e dunque da condannare senza approfondire e capire l’entità
del fenomeno. La stessa cecità ha del resto caratterizzato politici ed intellettuali
pronti a condannare i limiti altrui senza accorgersi che gli stessi fenomeni si
stavano producendo anche all’interno delle società che avevano usufruito di un
cinquantennio ininterrotto di democrazia, benessere e crescita economica.
La crescita e il ruolo svolto da formazioni politiche dal messaggio
semplificato, spesso razzista, ne sono la prova oltre all’ingloriosa caduta del
Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, che avrebbe dovuto
rappresentare il primo atto per il passaggio dall’Europa come area di libero
scambio all’Europa “politica”. Senza entrare nel merito del metodo adottato
così poco democratico – una sorta di “costituzione” elaborata non già da una
costituente liberamente eletta – il rifiuto di alcuni Paesi rappresenta il rifiuto di
norme cogenti finalizzate alla progressiva limitazione/eliminazione della
sovranità nazionale peraltro già mal tollerata occupandosi spesso gli organismi
comunitari di problemi francamente irrilevanti (dai formaggi ai vini, dalla
frutta ad altre “amenità”) ma rispondenti ad interessi specifici di gruppi molto
spesso caratterizzati dall’appartenenza nazionale. Nel caso dei Paesi ex
comunisti si può almeno invocare come parziale giustificazione e spiegazione
che l’estremizzazione delle identità – pure nascosta e negata ufficialmente – ha
rappresentato negli anni dell’infelice esperienza comunista una forma di
opposizione/reazione all’omologazione “sovietica”.
Alla costruzione o ricostruzione di un sistema politico democratico,
parlamentare e pluripartitico si è necessariamente affiancata l’esigenza di un
sistema economico basato sulla logica della libera iniziativa e del mercato
esattamente opposto allo statalismo e al collettivismo marxista-leninista. Un
processo che tutti i Paesi dell’Europa orientale hanno dovuto affrontare – non
senza veri e propri drammi sociali – per l’assenza di un piano organico di aiuti
da parte, soprattutto, dei Paesi europei al fine di fornire, in un certo senso, quel
“capitale iniziale” assolutamente necessario per la costruzione dell’economia di
mercato. Di fatto vere e proprie scorribande si sono verificate – pure con
modalità ed esiti diversi – nei Paesi ex socialisti con la presenza di “investitori”
e di capitali, specialmente nella fase iniziale, di dubbia provenienza con l’esito
di allargare ancora di più il tasso di corruzione e di malavita. Situazioni che in
qualche modo sono state corrette, almeno parzialmente, nel corso del tempo e
quello che sembrava impossibile – “tornare dal brodo alla carne” – si è
A. Biagini, La Romania “europea”, dei partiti e della democrazia
91
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
realizzato con velocità diverse, a seconda anche delle tradizioni precedenti
l’instaurazione dei regimi comunisti.
In Romania, di fatto, è stato complicato e problematico stabilire la
restituzione delle proprietà o di un indennizzo a coloro che erano stati
espropriati per la dispersione o inesistenza dei catasti, per la difficile reperibilità
degli eredi al punto che ancora oggi il processo è ben lungi dall’essersi concluso
con la fin troppo facile previsione di un ricorso ai tribunali sul cui
funzionamento l’Unione Europea ha mosso appunti e critiche. Non si tratta di
un problema minore come potrebbe sembrare ad un osservatore superficiale. In
realtà, ai fini della ricostituzione di un’economia di mercato basata sul diritto
inalienabile della proprietà privata, è una delle questioni principali per il
passaggio alle liberalizzazioni: il riferimento principale è alla liberalizzazione
della gestione del sistema energetico, dell’elettricità, del sistema telefonico. Tali
passaggi hanno creato non solo difficoltà nei costi, ma anche una sorta di
rivoluzione culturale, se si considera che nel 1990 c’erano generazioni nate e
cresciute nella logica e nella cultura del sistema pianificato comunista: poco
lavoro, poco salario, basso tenore di vita.
Sulla transizione di una realtà di tale complessità sociale e politica, come
quella romena, ha avuto un ruolo di grande influenza il processo di
allargamento e di adesione alle strutture euro-atlantiche. Mentre, però, da parte
europea non si è stato messo in atto, come si è detto, un reale piano di sostegno
per il passaggio dalla pianificazione al sistema di mercato, gli Stati Uniti hanno
assunto un atteggiamento completamente diverso. Non è un caso che i Paesi ex
socialisti siano entrati prima nell’Alleanza Atlantica e poi nell’Unione Europea,
paradossalmente molto più lenta rispetto alla struttura politico militare NordAtlantica. Al sistema difensivo e al comando integrato NATO questi Paesi
hanno aderito con entusiasmo non per una sorta di militarismo pregresso, ma
semplicemente perché hanno visto in tale organizzazione una garanzia di fronte
ad un eventuale riproporsi del problema del rapporto con la Russia: un timore
che non è solo di carattere psicologico.
I Paesi della “vecchia” Europa intanto facevano poco, e sicuramente è
mancato quello che, dopo la seconda guerra mondiale, è stato il Piano Marshall
per la ricostruzione europea. In realtà, il crollo dei regimi socialisti ha di certo
creato alcuni problemi, ma ha altresì rappresentato un vantaggio oggettivo per
l’economia europea aprendo prospettive di investimenti e di lavoro. Non solo:
l’obiettivo di poter entrare a far parte dell’Unione Europea ha reso più stabili le
giovani democrazie evitando, nel contempo, l’esplosione di conflitti interetnici e
nazionali contrariamente a quanto avvenuto tra i Paesi della ex Jugoslavia.
A. Biagini, La Romania “europea”, dei partiti e della democrazia
92
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
Quanto detto vale anche per la Romania: anche con il persistere di partiti
estremisti (come la România Mare, il partito della “Grande Romania”), il
percorso verso la soluzione dei problemi per poter entrare in Europa non è stato
ostacolato. L’alternanza al governo – tra coloro che potremmo definire di
centro-destra e di centro-sinistra – non ha provocato nessuna modificazione
sostanziale nelle riforme che dovevano portare all’ingresso nell’Unione
Europea1. Al di là delle forti ed aspre contrapposizioni, la linea portante della
politica romena è stata comunque quella di progredire nell’adozione dell’acquis
communautaire.
Proprio su questo orizzonte politico, attraverso un excursus storico legato
alle principali formazioni partitiche che per quindici anni hanno caratterizzato
la vita interna ed internazionale della neo-democrazia romena, il presente
volume fornisce una chiave di lettura ricca di dati e di personaggi della
transizione dal comunismo al post-comunismo. I documenti di partito, fruiti
direttamente nella lingua originale insieme ad un’ampia bibliografia reperita in
loco, forniscono gli elementi necessari alla comprensione dell’evoluzione dei
partiti e, con essi, della giovane democrazia romena. Il lavoro di Andrea
Carteny risulta dunque essere un contributo prezioso alla conoscenza di un
nuovo membro dell’Unione Europea.
1
Cfr A. Biagini – A. Carteny, “Quindici anni di democrazia partitica post-comunista: il caso
della Romania”, in J.L. Rhi-Sausi – G. Vacca (a cura di), Perché l’Europa? Rapporto 2007
sull’integrazione europea, Bologna 2007.
A. Biagini, La Romania “europea”, dei partiti e della democrazia
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Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
Altiero Spinelli, il federalismo europeo e la Resistenza
di Rita Corsetti
In occasione della ricorrenza del 25 aprile e all’interno delle varie
manifestazioni organizzate per festeggiare i cento anni dalla nascita di uno dei
maggiori propulsori del federalismo europeo, Altiero Spinelli, l’Università di
Pavia, insieme con il Centro studi storico-politici Mario Albertini e il Comitato
nazionale per le celebrazioni del centenario della nascita di Altiero Spinelli, ha
organizzato il convegno internazionale Altiero Spinelli, il federalismo europeo e la
Resistenza.
Obiettivo del convegno, che ha avuto luogo il 23 e il 24 aprile nelle
splendide sale dell’antica Università di Pavia, è stato, da un lato, esaminare
l’azione federalista di Spinelli in Italia e in Europa, dall’altro analizzare il
rapporto tra federalismo europeo e Resistenza. L’esperienza della Resistenza,
difatti, ha giocato un ruolo di fondamentale importanza nella formazione di
quella volontà di unificare l’Europa che ha contraddistinto diversi gruppi
impegnati nella lotta al nazifascismo e che ha poi guidato, nel dopoguerra,
l’azione di personalità politiche, movimenti e partiti impegnati nella
costruzione di un’Europa unita. In un continente quasi completamente
sottoposto all’occupazione nazifascista, infatti, uomini e donne provenienti da
differenti Paesi europei e profondamente diversi tra loro per formazione
culturale, credo religioso e idee politiche, si ritrovarono a combattere una
battaglia comune per la liberazione dallo stesso oppressore. Figli di un’Europa
che in pochi anni era stata dilaniata da ben due guerre mondiali, molti di essi,
inoltre, individuarono nell’unità europea la soluzione al problema della
convivenza pacifica dei popoli europei: solo se gli Stati europei si fossero uniti
tra loro in modo stabile e duraturo, si sarebbe debellato per sempre il pericolo
di nuove guerre e ci sarebbe stato per l’Europa un futuro di pace e benessere.
Ripercorrendo il cammino federalista di Spinelli -gli anni del confino e
della fondazione del Movimento Federalista Europeo, l’azione internazionale in
Svizzera e in Francia- i diversi interventi sono stati articolati in quattro sessioni:
la prima dedicata all’Italia, la seconda alla Svizzera, la terza alla Francia e la
quarta agli altri Paesi europei. Nella parte dedicata all’Italia oltre alla genesi del
R. Corsetti, Altiero Spinelli, il federalismo europeo e la Resistenza
94
Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
pensiero federalista di Spinelli negli anni del carcere e del confino sono stati
presi in esame il federalismo dei cattolici, dei liberali, dei socialisti e degli
azionisti, le dichiarazioni europeiste contenute nelle carte del Comitato di
Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), la relazione tra federalismo
europeista ed autonomie locali ed il contributo dei protestanti valdesi al
federalismo. In quella dedicata alla Svizzera, invece, si è ricostruita l’azione di
Ernesto Rossi ed Altiero Spinelli nella Confederazione elvetica (la ricerca dei
federalisti esuli in Svizzera, la creazione di contatti tra i vari gruppi della
Resistenza europea, l’organizzazione di una conferenza federalista
internazionale a Ginevra), si è esaminato il contributo alla battaglia federalista
dei partiti ticinesi ed italiani e si è parlato, poi, di Anna Siemsen e di Hilda
Monte.
Gli interventi dedicati alla Francia e agli altri Paesi europei, infine, si sono
concentrati sia sulla Conferenza di Parigi organizzata da Altiero Spinelli e sua
moglie Ursula Hirschman, sia sul Comité français pour la fédération européenne, sia
sul federalismo di varie personalità e gruppi della Resistenza europea (tra gli
altri, Henry Frenay, Jean-Marie Soutou, i cristiani francesi, il Kreisauer Kreis di
Helmuth James von Moltke).
Nel corso del convegno, al quale hanno partecipato sia alcuni tra i
maggiori studiosi del federalismo europeo che giovani ricercatori, è stato
tracciato un quadro molto esauriente e completo del tema in oggetto. Molto
interessante, per esempio, è stata l’analisi delle posizioni federaliste di cattolici,
liberali ed azionisti, che ha portato in luce come il federalismo sia un fenomeno
complesso e variegato.
Secondo Alfredo Canavero, per esempio, all’interno del mondo cattolico il
federalismo venne dapprima inteso come federalismo (o meglio
confederalismo) infranazionale, collegato alla questione risorgimentale della
posizione che avrebbe dovuto occupare lo Stato pontificio all’interno di
un’Italia finalmente unita. In seguito alla terribile esperienza delle due guerre
mondiali, una nuova questione divenne però centrale nel dibattito politico
cattolico: quella della pace internazionale. Per molti esponenti del mondo
cattolico il rinnovamento spirituale di un’Europa al tramonto e l’unione
fraterna dei popoli europei divennero allora condizione indispensabile per
portare la pace tra gli Stati europei e nel mondo. Si ricordi, per esempio, il
pensiero di uno dei maggiori teorici cattolici, Luigi Sturzo, il quale, se alla fine
della prima guerra mondiale si era già pronunciato in favore di iniziative
europeiste quali Paneuropa, alla fine della seconda proclamò la necessità che
l’Europa si costituisse secondo un ordinamento federale.
Altri importanti esponenti del mondo cattolico che appoggiarono l’idea di
Europa unita furono poi Alcide De Gasperi e Pio XII. Il primo, condividendo,
R. Corsetti, Altiero Spinelli, il federalismo europeo e la Resistenza
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Eurostudium3w gennaio-marzo 2008
nel campo della politica estera, le posizioni degli Stati Uniti d’America, aderì
all’idea dell’Europa unita, di cui fu uno dei padri fondatori, e durante i lavori
per la creazione della Comunità Europea di Difesa (CED) fu un preziosissimo
interlocutore del Movimento federalista a livello istituzionale. Pio XII, invece,
temendo, da una parte, il pericolo comunista e rifiutando, dall’altra,
l’identificazione dell’Europa, portatrice dei valori cattolici, con gli Stati Uniti
d’America, supportò l’idea di un’Europa federata, terza forza tra Usa ed Urss.
Molto diversa fu l’interpretazione del federalismo elaborata all’interno
dello schieramento liberale. Come ha rilevato Umberto Morelli, nel pensiero
liberale l’idea di Europa venne associata al superamento del nazionalismo e al
libero scambio. Il maggiore esponente liberale del federalismo fu, come è noto,
Luigi Einaudi. Si ricordino, per esempio, le Lettere politiche pubblicate sotto lo
pseudonimo di Junius sul «Corriere della Sera» nel 1918, in cui egli criticò
aspramente la Società delle Nazioni, organizzazione internazionale priva di un
reale potere politico e di risorse economiche proprie, e il dogma della sovranità
assoluta degli Stati nazionali, causa dell’anarchia internazionale che aveva
portato alla guerra mondiale. Se indiscutibile è il valore delle opere di quella
che fu una delle menti più lucide del Novecento, nel corso convegno è rimasta
ancora aperta l’annosa questione dell’influenza esercitata da Einaudi su Ernesto
Rossi ed Altiero Spinelli. Se per alcuni -tra cui Antonella Braga- il rapporto tra
Einaudi e Rossi (esteso, poi, anche a Spinelli, che Rossi conobbe a Ventotene) fu
fondamentale nel percorso formativo dei due federalisti, per altri -tra cui Piero
Gragli-, esso fu invece di secondaria importanza.
Un ruolo di particolare rilievo all’interno della storia del federalismo è
stato giocato, infine, dal Partito d’Azione (PdA), oggetto dell’intervento di
Daniela Preda. Figlio del movimento antifascista ed europeista Giustizia e
Libertà, il PdA fu animato, soprattutto nel Nord Italia, in particolar modo in
Piemonte, Lombardia e Liguria, da un fervente europeismo, strettamente
intrecciato all’antifascismo. A testimonianza dell’europeismo degli azionisti si
può richiamare, per esempio, il settimo dei punti programmatici del partito, nel
quale venne espresso l’impegno a contribuire «alla formazione di una coscienza
unitaria europea, premessa indispensabile alla realizzazione auspicata di una
Federazione Europea di liberi paesi democratici, nel quadro di una più vasta
collaborazione mondiale»224. A due esponenti del PdA, inoltre, si deve la prima
elaborazione italiana di un programma di costituzione europea, il Progetto di
costituzione confederale europea ed interna di Tancredi Galimberti e Antonino
Repaci.
Cfr. I sette punti del Partito d’Azione, pubblicati su Eurostudium all’indirizzo:
http://www.eurostudium.uniroma1.it/documenti/federalismo/federalismo5/index.php
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Tra i suoi membri, infine, si possono ritrovare molti aderenti al
Movimento Federalista Europeo (MFE). Si pensi, tra gli altri, a Mario Alberto
Rollier, nella cui casa di Milano venne fondato proprio il MFE. Lo stesso
Spinelli, credendo nella possibilità di creare gli Stati Uniti d’Europa attraverso i
partiti, aderì al PdA, di cui fece parte, dapprima, della segreteria Alta Italia e,
successivamente, di quella nazionale. Troppo fedeli agli ideali di repubblica
unitaria e di democrazia appartenenti alla tradizione giacobina, gli azionisti
furono, però, restii ad accettare la limitazione della sovranità nazionale,
premessa indispensabile per la creazione di una federazione europea.
Sempre all’interno della sezione dedicata alla Resistenza italiana,
Pierangelo Lombardi ha invece analizzato le posizioni europeiste o federaliste
rintracciabili all’interno dei comitati di liberazione nazionale (CLN). Nelle carte
del CLNAI, il massimo organo direttivo della Resistenza italiana, scarsissimi
sono i riferimenti al federalismo europeo. Sono rintracciabili, però, diversi
richiami ad una riforma autonomistica dello Stato. L’adesione all’autonomismo
regionale fu particolarmente forte nei CLN regionali e provinciali, eredi di una
più antica tradizione autonomistica. Altiero Spinelli, allora membro del PdA e
autore, nel novembre 1944, di una lettera aperta indirizzata a tutti i partiti del
CLNAI nel quale chiedeva il riconoscimento dei CLN come effettivi organi di
governo, attribuì ad essi un ruolo di primaria importanza nell’avvento di quella
rivoluzione democratica, già annunciata nel Manifesto di Ventotene, che avrebbe
dovuto portare al definitivo superamento degli Stati nazionali e alla creazione
di un’Europa federata. Il mancato riconoscimento dell’autorità dei CLN fece,
però svanire ben presto le illusioni di Spinelli.
L’esame del federalismo infranazionale è stata poi ripreso e approfondito
da Fabio Zucca, che ha parlato della connessione tra federalismo europeista e
autonomista. Tra i primi sostenitori del federalismo spinelliano, vi furono,
infatti, alcuni convinti assertori dell’autonomismo locale, quali il già citato
Mario Alberto Rollier, Adriano Olivetti e Guglielmo Usellini, che estesero la
critica dello Stato nazionale al piano interno e proclamarono la necessità di un
cambiamento radicale del sistema politico non solo in ambito europeo, con la
costituzione di una federazione europea, bensì anche all’interno dei singoli
Stati, sulla base di una riforma federale infranazionale. Cresciuto nella
tradizione autonomista delle comunità valdesi, Rollier, per esempio, affiancò
alla condanna del nazionalismo quella dello Stato accentratore e sostenne l’idea
di autonomie locali all’interno della federazione europea.
Passando alla sezione internazionale, dato il cospicuo numero delle
adesioni al convegno e la varietà degli argomenti affrontati ci si limiterà qui a
riferire soltanto di tre interventi direttamente connessi ad Altiero Spinelli,
quello di Antonella Braga sull’azione federalista di Rossi e Spinelli in Svizzera,
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quello di Piero Graglia sulla Conferenza di Ginevra ed, infine, quello di Cinzia
Rognoni Vercelli sulla Conferenza di Parigi.
Stato neutrale nel cuore di un’Europa in guerra, per Rossi e Spinelli la
Svizzera non rappresentò soltanto un rifugio sicuro dalla rappresaglia nazista
seguita all’8 settembre. Oasi di libertà in cui trovarono asilo esuli appartenenti
ai movimenti resistenziali di tutta Europa ed unico esempio di federazione sul
Continente europeo, il piccolo Paese alpino, infatti, fu per loro anche l’occasione
di estendere l’azione federalista oltre i confini nazionali. Secondo Braga, quattro
furono i compiti che i due fondatori del MFE si prefissero in Svizzera: lanciare
l’azione internazionale, avere libero accesso alla letteratura federalista
anglosassone (di cui erano già parzialmente a conoscenza), creare un legame
con i vari gruppi della Resistenza e, infine, educare i giovani in senso europeo.
Durante il loro soggiorno oltralpe, Rossi e Spinelli riuscirono ad entrare in
contatto non solo con gli italiani esiliati in Svizzera, bensì anche con i
movimenti federalisti svizzeri ed europei e, soprattutto, con la Resistenza
francese. Nel corso del suo intervento Braga si è soffermata in particolare su
Ernesto Rossi, figura spesso trascurata dalla letteratura federalista. A differenza
di Spinelli, nei cui confronti molti esuli conservavano un atteggiamento
diffidente per il suo passato comunista, Rossi era una personalità che godeva di
un certo prestigio negli ambienti antifascisti. Egli fu quindi particolarmente
attivo nell’attività pubblicistica e di propaganda federalista.
Infine è stato sottolineato come Rossi, legato a Spinelli da una profonda
amicizia e dalla condivisione di obiettivi comuni, era in contrasto con il vecchio
compagno di confino su quale direzione dare all’azione federalista: se il primo
era convinto che la realizzazione della federazione europea fosse possibile in
tempi molto brevi, il secondo optava, invece, per tempi più lunghi. La rete di
conoscenze che Rossi e Spinelli riuscirono a tessere in Svizzera rese possibile
l’organizzazione della famosa Conferenza di Ginevra, oggetto dell’intervento di
Piero Graglia. Nonostante gli esuli non fossero autorizzati a condurre attività
politica in territorio elvetico, un gruppo piuttosto variegato di persone si
incontrò tra il marzo e il luglio 1944 nell’abitazione di W. A. Visser’t Hooft,
segretario generale del Concilio ecumenico delle Chiese, per redigere una
dichiarazione comune. La discussione, partita da un documento che Spinelli
aveva redatto dopo che un suo primo testo era stato criticato da Ernesto Rossi,
Ignazio Silone e François Bondy, portò ad un documento complesso, fatto a più
mani, che non soddisfò appieno Spinelli.
L’altra importante conferenza internazionale organizzata durante il
periodo della Resistenza fu quella di Parigi, analizzata da Cinzia Rognoni
Vercelli, a cui si deve, tra l’altro, l’impeccabile direzione del convegno stesso.
Dopo l’iniziativa ginevrina Rossi e Spinelli ricevettero ottime notizie dalla
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Resistenza francese: non solo si era costituto a Lione un Comité Français pour la
Fédération Européenne (CFFE), ma, inoltre, nel settembre 1944 Soutou li informò
che il programma internazionale del Mouvement de Libération Nationale (MLN)
conteneva dichiarazioni fermamente federaliste.
Sempre più urgente si faceva, quindi, la necessità di spostare l’azione
federalista internazionale dalla Svizzera alla Francia. Quando il CFFE e il MLN
decisero di convocare la prima conferenza federalista europea legale a Parigi, la
prima capitale europea liberata, i coniugi Spinelli partirono allora alla volta di
Parigi, dove, anche grazie alla determinazione di sua moglie, Spinelli riuscì a
realizzare il convegno, della cui organizzazione era stato incaricato da Jacques
Baumel, Segretario generale del MLN. Secondo quanto testimoniato dallo stesso
Spinelli e quanto riportato nei verbali della Conferenza, la riunione si svolse in
una sala della Maison de la Chimie dal 22 al 25 marzo 1945 e vi presero parte circa
30-35 persone, tra cui molti esponenti di spicco della Resistenza francese. Nel
corso della discussione si parlò principalmente del ruolo dell’Europa e della
Francia nel nuovo contesto internazionale e della questione tedesca. L’incontro
di Parigi, che si concluse con una Risoluzione redatta da Spinelli e con la
costituzione di un Comitato internazionale per la federazione europea (CIFE),
fu l’ultima fiammata del federalismo resistenziale. Ma anche se il dopoguerra
non vide la concreta realizzazione dell’idea federalista elaborata da differenti
personalità e movimenti della Resistenza europea, i due incontri internazionali
di Ginevra e Parigi furono la premessa indispensabile alla fondazione
dell’Unione europea dei federalisti (UEF), l’organizzazione che tuttora raccoglie
i diversi movimenti federalisti europei.
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