Arcidiocesi di Monreale
AZIONE CATTOLICA ITALIANA
Beata Pina Suriano
ASSEMBLEA DI INIZIO ANNO 2014-2015
Partinico, Salone “Lucia Gianì”, 11 ottobre 2014
“L’Azione Cattolica: scuola di santità e di vero umanesimo”
S.E. Mons. Mansueto Bianchi*
Quando questi due termini “santità” e “Azione Cattolica” si incontrano, si riconoscono e
si prendono per mano. Perché l’Azione Cattolica desidera essere, ed è stata, casa di santità,
scuola di santità. Questo è scritto nei suoi statuti – ma sarebbe facile dire così –, è scritto
soprattutto nella sua storia: circa un secolo e mezzo di storia con 200 nomi, di persone che la
Chiesa ha riconosciuto o sta riconoscendo come santi. Sono delle scintille di Vangelo sotto i
cieli grigi della nostra storia e della nostra vita. Quindi, un segno di speranza, un segno grande
di incoraggiamento.
L’Azione Cattolica casa di santità: sarebbe persino superfluo dirlo qui a Partinico, che ha
dato alla vita la persona della Beata Pina Suriano. Attraverso questa figura e la sua esistenza,
Dio vi ha visitato. Dio ha fatto Emmaus con voi, con la città di Partinico, con la Diocesi di
Monreale. Dio ha fatto Emmaus con voi: “si accostò e camminava accanto a loro”. Ed ancora,
attraverso la sua figura e la sua vita, Dio vi ha chiamato a fare esodo – ed un santo chiama a
questo – soprattutto a fare esodo dalla tiepidezza, dalla mediocrità personale e di chiesa. Un
santo nella vicenda di una Chiesa locale, di un popolo, è sempre in qualche modo un roveto
ardente che non si consuma. È una chiamata per tutti ad un “di più” di fede e di amore. Ad un
di più nella risposta che noi diamo al Signore, ad un di meno a quelle delusioni che a volte ci
infliggiamo reciprocamente.
Mi viene in mente un racconto dei padri del deserto, quando Abbà Giuseppe, il grande
saggio e vecchio, ricevette la visita di un suo discepolo, Abbà Lot, il quale gli chiese: Padre,
che cosa devo ancora fare nella mia vita? Io osservo la vita monastica, prego intensamente, mi
mortifico, digiuno; che cosa posso ancora fare per avanzare sulla via della santità? E dicono i
racconti dei padri del deserto che il vecchio Abbà Giuseppe si alzò in piedi, alzò le mani verso
l’alto, che sembravano dieci fiamme di fuoco, e guardando a Lot gli disse: Diventa tutto
fuoco! È questa la santità! Diventa tutto fuoco, brucia la tiepidezza e la mediocrità, fai
divampare quel fuoco che attraverso il dono dello Spirito, la fede e l’amore accendono dentro
di te!
La presenza di un santo, la presenza della beata Pina Suriano è questo: la possibilità posta
in mezzo a noi di accorgerci che possiamo diventare tutto fuoco. Non lo dico solo nella
vicenda di Pina Suriano; lo dico nella vicenda associativa e in quella ecclesiale.
Che cos’è questo fuoco? Che cos’è questa santità, soprattutto nella sua forma laicale?
Che cos’è la santità di un laico?
Cercando di approdare ad una descrizione esperienziale direi che la santità di un laico è la
capacità, il tentativo, il desiderio di tenere insieme la fede e la vita. Quando dico “vita”, la
*
Sbobinatura della relazione, non rivista dall’autore.
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Arcidiocesi di Monreale
scrivo a lettere minuscole: perché la vita vuol dire famiglia, lavoro, scuola, relazioni, tempo
libero... ma vuol dire anche preoccupazioni, sofferenza, gioia. La vita è casa. La vita è città.
La vita è strada.
Allora, tenere insieme la fede e la vita, vuol dire attraversare tutta questa geografia con il
Vangelo nel cuore. Cioè con tutta l’interiorità della persona, portando un Vangelo che cresce
di intensità dentro di te, fino a dilagare, fino ad affioranti nella mente – e sono i pensieri, i
progetti; ad affiorarti sulla bocca – e sono le relazioni, il dialogo, la proposta; ad affiorarti
nelle mani – e sono i comportamenti, le attuazioni. La santità di cui parliamo è tipicamente la
santità laicale.
La santità laicale, quella di un laico nella trama della sua vita normale, ha un fondamento,
una motivazione, un ambito, un ambiente di attuazione. Ha una strada, un percorso di
realizzazione. Traducendo, potremmo chiederci, la santità laicale: perché? dove? come?
1. La santità laicale: perché?
Innanzitutto perché un laico è un battezzato, perché siamo cristiani, in forza del nostro
battesimo. Battezzato vuol dire essere immersi in Gesù Cristo, vuol dire appartenere a lui, che
noi siamo suoi. L’immersione del Battesimo è una relazione, un incontro, in cui la vita entra
tutta. Una relazione alla quale tutta la vita si consegna. Il laico, allora, proprio perché è
immerso in lui, in forza del battesimo è un “consacrato”. È un consacrato per il Battesimo e
per la Confermazione.
Che vuol dire che siete dei “consacrati”? Vuol dire che il laico non è un profano, un
neutro, quasi sulla soglia tra Vangelo e mondo. Un laico è un consegnato, un dato alla
radicalità. In questo senso è un “consacrato”.
Voi non avete un Vangelo con lo sconto. Il Vangelo è tutto per voi, e tutto in voi è
chiamato a diventare Vangelo. Allora, la vostra vita, per usare una metafora di San Paolo, è
una vita in corsa per cercare di afferrare il Signore. Lui, secondo l’immagine evangelica, è il
tesoro, la perla della vostra vita: colui che amate di più, più di tutto, e nel quale amate tutto.
Per questo amare tutto e tutti nel Signore, non è amare di meno, non è un complicare l’amore,
ma è un amare di più. Con la vostra vita il Vangelo cammina accanto alla gente, e lentamente,
attraverso tante anse, trasfigura il mondo, attraverso il passaggio, spesso drammatico, della
vostra libertà e responsabilità. Così, la santità laicale, il modo tipico di essere discepolo del
Vangelo ha una connotazione di comunione, di comunità. Vale a dire: il vostro cammino a
diventare cristiani, ad essere discepoli del Signore, ad essere santi, non è una vicenda eroica,
solitaria, fuori delle righe, è una vicenda ecclesiale. È un camminare dentro la comunità
cristiana, insieme alla comunità cristiana; è un camminare dentro la parrocchia, dentro la
chiesa locale, dentro l’associazione. La santità che in questo nostro tempo risulta più
persuasiva per le persone, per la gente con cui viviamo, è una santità di popolo, di comunione
di persone.
Voi portate il peso, la responsabilità di questa appartenenza. Voi diventate discepoli del
Signore, cristiani dal di dentro di una chiesa, partecipando attivamente al suo cammino. E
quando dico “chiesa” penso all’immagine di una “chiesa in grigio”, per usare un’espressione
di un grande teologo del XX sec. Henri De Lubac. Una chiesa che non ha ancora il vestito
bianco della sposa, ma quello grigio, il vestito rattoppato della serva. Una chiesa che ha il
passo del pachiderma; una chiesa che non è il cavallino rosso scattante, ma è una vecchia
panda che arranca e ansima per la strada. Queste sono le nostre chiese!
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Voi costruite con una santità popolare, comunionale, non una chiesa di élite, ma di
popolo, di gente gente, senza specificazioni. Voi non costruite una chiesa dei giorni di festa,
ma una chiesa feriale. Questa chiesa amate, per questa chiesa vi spendete. Allora, la vostra
santità laicale dice che non vivete in parallelo rispetto alla vita di tutti, ma dentro la vita di
tutti. Stando dentro la vita di tutti mostrate, come persone e come popolo, che il Vangelo non
è la gabbia dell’essere uomo e donna, ma il Vangelo sono le ali della nostra umanità, della
vita. Ecco i santi! Ecco i cristiani! Ecco i discepoli del Signore, perché presenti alla vita del
mondo, dentro la vita e le vicende di un popolo.
2. La santità laicale: dove?
Il cristiano ha un luogo caratteristico, tipico che è tutto suo e non deve assolutamente
lasciarsi portare via né da tentazioni o tentativi che provengono dal di fuori della Chiesa, né
da tentazioni o tentativi che provengono dal di dentro della Chiesa.
Il dove dell’essere discepoli è la strada. La strada come parabola della vita, come simbolo
della vita di tutti, della vita di sempre, nella scansione tante volte monotona e pesante di ogni
giorno, e del gocciare dei giorni.
Ripenso ancora a Pina Suriano: continuamente in cerca di un convento, e continuamente
ricondotta da Dio a questa vita, alla strada, alla sua laicità. Laicità che voleva dire per lei
famiglia – e sappiamo tutti che famiglia; laicità che voleva dire per lei paese, che voleva dire
associazione. Ecco, il laico si realizza come cristiano, come discepolo del Signore e del
Vangelo, lì dove tutti gli altri vivono. Non ha un altro dove, un altro luogo, un altro habitat; il
laico vive insieme a tutti e come tutti.
La vicenda del cristiano laico attraversa tutta la geografia umana e quotidiana di cui
abbiamo parlato, non con l’andare baldanzoso del superuomo, ma con quello di “un più
uomo”. In forza della vostra fede, della vostra passione per il Vangelo, del vostro essere
battezzati, immersi e tuffati, fino a rimanere permeati, nel mistero dell’incontro con Gesù, voi
attraversate la vita di tutti come dei “più uomini”; e portate ad esponenza le dimensioni
autentiche della nostra umanità, del nostro essere persone. Il cristiano laico lo si riconosce non
perché fa cose diverse rispetto agli altri, ma perché le fa in un modo diverso. Le fa con più
umanità, con più cuore, con più passione, dedizione, lealtà, con più slancio per servire, per
amare e per donare. Un santo laico lo riconosci non perché si ferma ogni quarto d’ora e
interrompe la conversazione per recitare un Pater-Ave-Gloria, ma perché avverti in lui una
umanità autentica. E quando lo incontri dici: questa sì che è una donna! Questo sì che è un
uomo! Questa sì che è una famiglia! La santità di un laico si manifesta attraverso l’intensità
delle virtù umane, perché queste sono fatte volare, potenziate dal suo essere consacrato, dal
suo essere immerso nell’incontro con il Signore, dal suo essere intriso di Vangelo.
Il cristiano abita anche un’altra geografia, una geografia estrema del nostro essere
uomini. Il laico cristiano abita le frontiere della vita: il dolore, l’amore e lo stupore. Sono gli
ultimi tre scogli di fronte all’immensità del mare; e tante volte la vita ci colloca in uno di
questi scogli. Il laico cristiano li percorre e li abita con motivazioni originali nel cuore, con un
suo alfabeto per decifrare – anche se faticosamente di fronte a tanta oscurità – il valore e il
senso di queste vicende così esposte, così ultime, come l’amare, il dolore, lo stupore. E
suscita la curiosità in tutti coloro che transitano da quelle stesse tappe, riesce a smuovere
interrogativi dentro le altre persone e a infrangere la corazza della scontentezza e della
banalità.
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3. La santità laicale: come?
Su quali percorsi o itinerari il laico cristiano si incammina verso la santità, cioè verso la
pienezza del suo essere cristiano, discepolo del Signore? Vorrei rispondere citando i tre verbi
che Papa Francesco ci ha regalato nell’incontro del 3 maggio: Rimare, Uscire e Gioire. Ecco i
percorsi per realizzare la santità; ecco come un laico realizza la misura alta della vita
cristiana; ecco come esprime la sua testimonianza dentro la vita scritta in minuscolo.
Il primo verbo è rimanere. Una persona abita, rimane, dove è il suo cuore. Dove abiti?
Abito dove amo. Rimanere è l’abitare del cuore, l’abitare dell’amore. Rimanere è
l’ancoraggio del cuore, la stabilità, la gravitazione del cuore e della vita. Rimanere è l’atto
sorgivo e fontale che ti dà un volto, ti definisce, ti dà identità come discepolo del Signore. Il
cristiano è colui che rimane presso il Signore, perché è un ancorato nella fede e nell’amore
alla persona di Gesù e al suo Vangelo, che diventa, nell’esperienza quotidiana, nel modo di
amare e di vivere, la roccia sulla quale costruire e sostenere l’edificio della propria vita. Ma
rimanere non vuol dire rimanere fermi alla sorgente; vuol dire far in modo che la sorgente
rimanga in noi, che rimanga dentro e ci accompagni nel nostro andare. C’è un’immagine
molto bella di San Paolo in cui dice che la sorgente accompagnava il cammino del popolo nel
deserto. Questa sorgente ci deve accompagnare. Rimanere, allora, significa che non siamo
persone che rimangono lì fisse alla sorgente, ma che la portano dentro di sé, che la
custodiscono nel cammino della vita. Questa sorgente che il grande Ignazio d’Antiochia
intravedeva nell’azione dello Spirito Santo, dà senso al nostro agire; diventa strada con noi,
una fonte dove attingere, che irriga continuamente le nostra aridità, che ci evangelizza
continuamente, ci fa ridiventare ogni giorno cristiani. Non è un fatto che appartiene al
passato, ma “oggi” hai da rimanere presso la sorgente, che è la persona di Gesù, che ti
accompagna lungo la strada. Una sorgente che evangelizza le zone atee della nostra vita. Il
cardinal Martini e il teologo Ratzinger lo dicevano chiaramente: c’è un ateo che sonnecchia
sempre in ogni credente; come c’è un credente che sonnecchia sempre in ogni ateo.
Il secondo verbo è uscire. Il papa dà una lettura soprattutto ecclesiale, parlando di una
chiesa in uscita, una chiesa en salida. Il cristiano diventa discepolo del Signore, diventa santo
uscendo, vivendo dentro l’esperienza di una chiesa in uscita, una chiesa con la “c” minuscola.
Chiesa in uscita, vuol dire una chiesa che la smette di guardarsi allo specchio, che la
smette di contarsi ogni domenica per accorgersi che c’è qualcuno in meno e che siamo tutti
più vecchi di sette giorni. Una chiesa che reagisce al fenomeno della erosione. Purtroppo
sbaglierebbe tentando di reagire in questi due modi. Il primo atteggiamento è quello di
diventare una chiesa ringhiosa, ossia una chiesa che cerca di essere parallela al mondo, che ha
i suoi ambienti, che costruisce percorsi in parallelo; una chiesa che gioca in difesa, sentendosi
sempre minacciata e aggredita, che ha una sensibilità e una reazione alterata rispetto
all’interlocutore. La seconda tentazione contraria alla prima, ma altrettanto grave, è quella di
essere una chiesa scodinzolante, cioè che rincorre il padrone, che chiama e chiede l’attenzione
del padrone, che dice al mondo: “sarò come tu mi vuoi”; una chiesa di conformazione; una
chiesa che diventa citazione. È questo uno dei pericoli più grandi: dimenticare e diluire il
Vangelo fino a renderlo una citazione della sapienza e dell’esperienza di questo mondo, per
riscuotere il consenso, l’applauso e la clientela del mondo.
Per uscire, bisognerebbe ripensare – e lo scrive il Papa nell’Evangelii Gaudium – la
nostra pastorale ordinaria in chiave missionaria. Noi siamo chiese pensate e programmate per
rispondere a delle richieste: così sono pensate le nostre parrocchie, così sono attrezzate le
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nostre diocesi e le curia, così è anche l’azione cattolica. Ecco, il Papa ci chiede di fare un altro
passaggio per uscire da questo schema di Chiesa: passare dall’essere una chiesa che risponde
ad una domanda, ad una chiesa che suscita le domande. Perché la situazione verso la quale ci
muoviamo è una situazione in cui la domanda religiosa diminuisce, attivando un processo di
depressione. Trasformiamoci, allora, in una presenza che suscita domande, che porta le
persone a leggersi dentro, ad interrogarsi, a interpretarsi e decifrarsi.
Che futuro ha una chiesa che continua a rimanere aspettando chi viene? Va verso un
progressivo spegnimento. Ecco il cammino della chiesa in uscita, il cammino del laico
cristiano che esce verso il mondo per aiutare le persone a decifrare quelle attese che si portano
dentro e che tante volte ignorano, snobbano e denigrano. Ma le hanno dentro, perché il
Signore le firma le sue opere e ci crea come un’impronta, che chiede e attende colui che colmi
le attese.
Una chiesa in uscita, allora, ha meno scadenze, meno formule, più incontro, più
itinerario, più personalizzazione nell’interazione e nell’apporto. A quelle persone che
ritornano non si possono dare sussidi, opuscoli o libretti, ma bisogna offrire un popolo, una
comunità, persone che riconosci dal modo con cui si amano. Ed ancora, l’Evangelii Gaudium
ci dice che una chiesa in uscita, un laico in uscita, si accorge che la fedeltà non è nella
conservazione, ma nella conversione. Il Papa cita esplicitamente l’esempio, quando parla del
“si fa così, perché si è sempre fatto così”. Se questa è l’unica motivazione, non è vero che sei
fedele. È vero, invece, che in quel momento tradisci, perché fedeltà vuol dire cambiamento,
ricerca, tentativo.
Il cammino di un laico in uscita è un cammino leggero, senza pesi (cf. Mc 6; Mt 10; Lc
9). Ai dodici mandati in missione, Gesù disse di non portare nulla, se non solo un bastone in
mano e i sandali ai piedi: due oggetti che servono solo per camminare, i sandali ai piedi,
altrimenti la strada ti ferisce e non cammini; il bastone, per non affaticarti e lasciarti bloccare
dalla salita.
Il Vangelo è leggero! E il Vangelo, dice il Papa riprendendo il Concilio Vaticano II, è più
della morale, più del diritto, più della disciplina. Il Vangelo è più della dottrina. Non tutto ha
la stessa importanza: ci sono delle cose che sono prioritarie e ci sono delle cose secondarie
derivate dalle prime. Tutte sono importanti, ma non tutte hanno la stessa importanza, perché
esiste una gerarchia delle verità. Una chiesa in uscita, nel feriale, nel quotidiano, in mezzo alla
gente, è una chiesa ricca di misericordia.
La misericordia non abroga il giudizio, perché lo comprende e lo supera. La misericordia
non è contro la legge o la giustizia. L’amore non è contro la verità. Una chiesa di misericordia
non è una chiesa anarchica, una chiesa facilona, ma ha lo spazio e il riconoscimento per la
dottrina, per la disciplina. Sant’Agostino dice: se tu metti sulla bilancia le ali della rondine
pesano, ma se le metti al corpo della rondine diventano lo strumento della sua leggerezza e la
possibilità del suo volo. Questo è il rapporto tra la legge e l’amore. I precetti, come ali,
devono diventare l’espansione del corpo della rondine che è l’amore, l’agape, e la fanno
volare. Se la chiesa è chiamata ad essere missionaria, accanto alla gente, deve uscire
missionariamente. Ma a portare la chiesa in questi ambiti devono essere i laici, che in essi ci
vivono già. Chiedere che una chiesa diventi in uscita, significa pensare a voi laici come guide:
voi siete gli esploratori, voi abitate queste regioni, voi siete i cittadini di queste dimensioni
della vita.
La figura tipicamente missionaria del terzo millennio è quella del laico perché i nuovi
processi di evangelizzazione non sono più di uno a molti nelle piazze, ma sono rapporti
personali, capillari, dati dai contatti cuore a cuore con le persone. Questi sono i vostri
rapporti, le vostre relazioni, i vostri intrecci. Solo voi potete fare vedere agli altri che, pur
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stando sotto la stessa pioggia battente, avete dentro motivazioni che non diventano fradicie,
perché avete un alfabeto di lettura della vita che può suscitare l’adesione degli altri. Se la
prima evangelizzazione dell’Europa fu ad opera di monaci; se l’evangelizzazione del nuovo
mondo fu un opera soprattutto dei grandi ordini religiosi; la nuova evangelizzazione ha come
figura tipica il laico. Voi siete gli evangelizzatori di questo tempo, perché vivete l’esperienza
dell’incontro più disseminato e pervasivo nei capillari della vita.
Il terzo verbo è gioire. L’itinerario del gioire, tanto dimenticato e sottaciuto, è costitutivo
del cristiano; perché quando diciamo Vangelo, diciamo un annuncio che fa scrosciare,
dirompere la gioia dentro le persone e dentro coloro che lo accolgono. Certamente non è la
vanagloria, non è l’allegria, non è lo sballo, non è il piacere. È la gioia dei poveri, la gioia di
coloro che sanno che il loro tesoro più prezioso è il fatto di sentire che Dio li vuole bene.
Giustamente Sant’Agostino scriveva “gaudium est caritate”, la gioia nasce dall’amore,
dall’esperienza di essere amati. E questo non viene distrutto dalle fatiche, dalle difficoltà o
dalle sofferenze. Gli apostoli delle prime comunità furono frustati e liberati e se ne andarono
lieti, per aver patito in nome di Dio. Questa mistica del dolore, che Pina Suriano conosceva
bene; questa parola sconvolge chi non riesce a capire come possa esserci gioia dentro
l’esperienza della fatica, dietro la sofferenza. Chi ha la gioia dentro è una persona che suscita
l’attenzione e l’ammirazione della città; tuttavia, è una persona invidiata, perché seduce,
trascina, perché l’esperienza della gioia è per natura sua travolgente. Bisognerebbe che la
Chiesa diventasse il luogo della gioia, la casa della gioia.
Siamo partiti della Chiesa e dell’Azione Cattolica come casa della santità e siamo arrivati
a parlare del cammino del laico cristiano verso la santità, come casa della gioia. Per un
cammino di santità, allora, sentiamoci chiamati ad essere motivo di gioia l’uno l’altro, motivo
di risorsa, di sostegno e di incoraggiamento. Tante volte nella chiesa non è proprio così, ma la
potenza dell’amore del Signore, il dono dello Spirito, per voi la testimonianza di Pina
Suriano, che ho trovato tanto vicina a Santa Gemma Galgani, sia proprio un grande richiamo
ad essere una chiesa casa della gioia, che evangelizza in maniera persuasiva il mondo e la
gente accanto alla quale vive.
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